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Richard Overy - Sangue e Rovine. La Grande Guerra Imperiale, 1931-1945 (Einaudi Biblioteca 2022-11)

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Vicente GAIL GIL
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Table of Contents

Copertina
Frontespizio
Didascalie e fonti iconografiche
Elenco delle tabelle e delle cartine
Ringraziamenti
Prefazione
Nota sulla terminologia
Abbreviazioni
Sangue e rovine
Prologo. «Sangue e rovine»: l’impero e le origini della guerra
I. Imperi-nazione e crisi globale, 1931-40
II. Fantasie e realtà imperiali, 1940-43
III. La morte dell’impero-nazione, 1942-45
IV. La mobilitazione per una guerra totale
V. La guerra combattuta
VI. Economie di guerra – economie in guerra
VII. Guerre giuste? Guerre ingiuste?
VIII. Le guerre dei civili
IX. La geografia emotiva della guerra
X. Crimini e atrocità
XI. Da imperi a nazioni: un’era globale diversa
Note
Indice analitico
Il libro
L’autore
Copyright
Indice
Copertina
Frontespizio
Didascalie e fonti iconografiche
Elenco delle tabelle e delle cartine
Ringraziamenti
Prefazione
Nota sulla terminologia
Abbreviazioni
Sangue e rovine
Prologo. «Sangue e rovine»: l’impero e le origini della guerra
I. Imperi-nazione e crisi globale, 1931-40
II. Fantasie e realtà imperiali, 1940-43
III. La morte dell’impero-nazione, 1942-45
IV. La mobilitazione per una guerra totale
V. La guerra combattuta
VI. Economie di guerra – economie in guerra
VII. Guerre giuste? Guerre ingiuste?
VIII. Le guerre dei civili
IX. La geografia emotiva della guerra
X. Crimini e atrocità
XI. Da imperi a nazioni: un’era globale diversa
Note
Indice analitico
Il libro
L’autore
Copyright
Richard Overy

Sangue e rovine
La Grande guerra imperiale, 1931-1945
Traduzione di Luigi Giacone
Didascalie e fonti iconografiche.
Prefazione. Il 27 settembre 1940, il ministro degli Esteri tedesco Joachim von Ribbentrop legge
il suo intervento nella Cancelleria del Reich in occasione della firma del Patto Tripartito tra
Germania, Italia e Giappone. Il Patto confermava le ambizioni imperiali dei tre stati in Europa,
Africa e Asia, dove intendevano fondare un nuovo ordine geopolitico.
(Foto Interfoto / Alamy).
Prologo. L’artiglieria francese apre il fuoco durante la guerra del Rif contro gli insorti berberi in
Marocco, 1925. In una delle piú grandi guerre coloniali del XX secolo, gli uomini delle tribú
berbere combatterono contro le forze spagnole e francesi dal 1921 al 1927 per mantenere la loro
indipendenza.
(Foto 12 Collection / Alamy).
Capitolo I . I soldati giapponesi si riparano dietro sacchi di sabbia nella battaglia di Shanghai.
Sopra di loro è visibile la pubblicità della Coca-Cola. La città, senza dubbio la piú cosmopolita
dei principali porti cinesi, rappresentava un obiettivo importante per gli invasori giapponesi. Fu
conquistata nel novembre del 1937 dopo pesanti combattimenti con l’esercito nazionalista
cinese.
(Foto CPA Media Pte Ltd / Alamy).
Capitolo II . I soldati esausti della Wehrmacht riposano sul ciglio della strada in qualche località
dell’Ucraina sovietica dopo l’inizio dell’operazione «Barbarossa», il 22 giugno 1941. La
maggior parte dei soldati tedeschi attraversò le distese della campagna russa a piedi o in
bicicletta.
(Foto World of Triss / Alamy).
Capitolo III . Il comandante in capo degli Alleati in Occidente, il generale Dwight D. Eisenhower,
passa accanto a un Panzer VI Tiger tedesco rovesciato durante la battaglia di Mortain, nel corso
dell’avanzata in Francia di agosto del 1944.
(Foto Pictorial Press Ltd / Alamy).
Capitolo IV. Nel 1941, una colonna di giovani donne sovietiche di Leningrado marcia per unirsi a
una delle tante milizie popolari organizzate per opporsi al nemico fascista subito dopo
l’invasione tedesca.
(Foto Sputnik / Alamy).
Capitolo V. I soldati britannici raggiungono a fatica la spiaggia durante l’invasione alleata della
Sicilia il 12 luglio 1943 (operazione Husky). Il momento dello sbarco dai mezzi anfibi era
oltremodo impegnativo. I soldati dovevano scendere lungo una rete (visibile sul lato della nave
da sbarco) e trasportare a terra attrezzature pesanti.
(Foto Shawshots / Alamy).
Capitolo VI . Una lavoratrice controlla le pinne dorsali del bombardiere americano Boeing B-29
Superfortress, prodotto in massa negli ultimi due anni di guerra per bombardare il Giappone da
lunghe distanze. Nel 1944, le donne costituivano negli stabilimenti aeronautici statunitensi fino a
un terzo della forza lavoro.
(Foto Granger Historical Picture Archive / Alamy).
Capitolo VII . Un soldato tedesco in piedi tra i cadaveri in decomposizione degli ufficiali e
intellettuali polacchi assassinati nell’aprile-maggio del 1940 nei pressi della foresta di Katyn’
dalle forze di sicurezza dell’NKVD. Le fosse comuni furono scoperte nell’aprile del 1943 dagli
occupanti tedeschi e i corpi vennero riesumati. Il regime sovietico ha sostenuto fino al 1990 che
si era trattato di un’atrocità commessa dai tedeschi.
(Foto World History Archive / Alamy).
Capitolo VIII . Il battaglione Zośka dell’Armia Krajowa nel 1944, una delle molte unità di
combattenti che presero parte alla fallita insurrezione di Varsavia tra agosto e ottobre del 1944,
repressa con estrema barbarie dalle truppe e dalle forze di sicurezza tedesche.
(Foto UtCon Collection / Alamy).
Capitolo IX. Due giovani soldati sovietici durante la battaglia di Kursk di luglio del 1943. Uno
stringe una croce mentre aspetta il combattimento. Le truppe si affidavano ovunque a piccoli
oggetti portafortuna o talismani per affrontare la paura della battaglia.
(Foto Albatross / Alamy).
Capitolo X. Bambini ebrei arrivano in fila nel campo di sterminio polacco di Chełmno, dove
verranno uccisi con il monossido di carbonio nei Gaswagen. Gli organizzatori dell’Olocausto
avevano deciso di eliminare i bambini per assicurarsi che la razza ebraica non sarebbe mai
risuscitata come una minaccia per il Reich.
(Foto Prisma / Schultz Reinhard / Alamy).
Capitolo XI. Ad aprile del 1955 Jawaharlal Nehru si rivolge ai delegati della Conferenza
afroasiatica di Bandung, in Indonesia – la prima grande conferenza internazionale di paesi
asiatici e africani, molti dei quali liberati da poco o in procinto di essere liberati dalla morsa
dell’imperialismo europeo e giapponese. Accanto a Nehru vi sono Kwame Nkrumah,
rappresentante del Ghana (Costa d’Oro), Julius Nyerere (in rappresentanza del Tanganica) e
Gamal Abdel Nasser, leader dell’Egitto indipendente.
(Foto UtCon Collection / Alamy).
Elenco delle cartine.
1. Conquiste giapponesi in Cina, 1931-41.
2. Edificazione dell’impero italiano, 1935-41.
3. Espansione territoriale tedesca, dal 1936 a giugno del 1941.
4. Il Mediterraneo e il Medio Oriente, 1940-42.
5. Impero tedesco in Oriente, 1941-43.
6. L’avanzata meridionale del Giappone, 1941-44.
7. Guerra tra l’Unione Sovietica e la Germania, 1943-45.
8. Ritirata degli Alleati nel Pacifico, 1942-45.
9. La guerra in Occidente, 1943-45.
Elenco delle tabelle.
4.1 Totale delle forze armate delle maggiori potenze, 1939-1945 (.000).
4.2 Statistiche comparative dei morti tra i militari tedeschi e sovietici, 1939-45.
4.3 La proporzione delle donne nella forza lavoro nazionale, 1939-44 (dati percentuali).
6.1 La produzione militare delle maggiori potenze belligeranti, 1939-44.
6.2 Forniture americane di attrezzature militari in base al contratto di Lend-Lease, 1941-45.
6.3 Navi mercantili giapponesi e commercio di materie prime, 1941-45 (1000 milioni di
tonnellate).
Ringraziamenti
Moltissimi colleghi, accademici e studiosi hanno contribuito in un modo o nell’altro all’esito di
questo libro, in anni di discussioni e consigli. Vorrei ringraziare individualmente una parte di
loro, ma a tutti gli altri va la mia piú sincera gratitudine per essersi dedicati in maniera utile e
critica a questo mio lavoro sulla guerra. Un ringraziamento particolare va al mio collega di
Exeter Martin Thomas, che mi ha incoraggiato piú di chiunque altro a perseverare in una storia
della guerra vista secondo l’approccio imperiale. Il dipartimento di Exeter è stato un porto sicuro
per chiunque sperasse di correlare la storia della guerra e i suoi eccessi di violenza con la storia
dell’imperialismo.
Sono grato alle seguenti persone per l’assistenza, i consigli e le conversazioni avute durante la
stesura di questo libro: Evan Mawdsley, Matthew Heaslip, Laura Rowe, Richard Toye, Roy
Irons, Richard Hammond, Olivier Wieviorka, il compianto Sir Michael Howard, Hans Van de
Ven, Rana Mitter, Paul Clemence, Lucy Noakes, Zoe Waxman, Andrew Buchanan, Stephen Lee,
Joe Maiolo, Klaus Schmider, Sönke Neitzel e Robert Gerwarth. Desidero ringraziare
sinceramente tutti quegli autori i cui lavori sono stati un prezioso contributo alle pagine da me
scritte. Ho cercato di fare in modo che tale contributo fosse riconosciuto in tutto il volume nelle
note a fondo testo. Ho un considerevole debito di riconoscenza verso il mio meraviglioso editor
presso la Penguin, Simon Winder, che ha atteso pazientemente questo libro piú a lungo di quanto
qualsiasi redazione dovrebbe attendere e ha letto con profonda attenzione critica tutto ciò che ho
scritto. Sono particolarmente grato ai miei agenti Gill Coleridge e Cara Jones per il loro sostegno
incondizionato durante la lunga gestazione di quest’opera. Desidero infine ringraziare il team che
ha lavorato alla produzione del libro: Richard Duguid, Eva Hodgkin e Charlotte Ridings.
Prefazione
Nel dicembre del 1945, l’ex segretario di Stato americano Cordell Hull venne insignito del
premio Nobel per la pace. Troppo malato per partecipare alla cerimonia, scrisse un breve
messaggio in cui perorava la ricerca della pace dopo «lo sconvolgente calvario della guerra piú
estesa e cruenta di ogni epoca» . Anche se Hull era famoso per la sua pomposa retorica, in questo
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caso le sue parole suonano perfettamente calzanti oggi come settantacinque anni fa. L’era vissuta
da Hull aveva conosciuto una guerra globale di entità fino ad allora inimmaginabile; i tanti
conflitti inclusi nella categoria onnicomprensiva di «guerra mondiale» generarono sofferenze,
privazioni e morte in dimensioni quasi illimitate. Non vi fu nessuna guerra simile né prima né
dopo, nemmeno la Grande Guerra. Potranno esservi in futuro altre guerre mondiali, capaci, come
aveva rimarcato Hull nel 1945, di «cancellare la nostra civiltà», ma esse non sono ancora
esplose.
Un conflitto tanto esteso e cruento pone allo storico una vera sfida, sotto molteplici aspetti. Con
il passare del tempo, dopo gli anni Quaranta, si è fatto progressivamente piú difficile immaginare
un mondo in cui piú di 100 milioni di uomini (e un numero molto inferiore di donne)
indossarono l’uniforme e andarono a combattere equipaggiati di armi la cui forza distruttiva era
stata perfezionata nella Prima guerra mondiale e si era drammaticamente accresciuta negli anni
successivi. Risulta altrettanto difficile immaginare grandi stati in grado di persuadere le rispettive
popolazioni ad acconsentire che fino a due terzi del prodotto nazionale fosse destinato a fini
bellici, che centinaia di milioni di esseri umani dovessero accettare la miseria e la fame generate
dalla guerra, o che le ricchezze e i risparmi del tempo di pace dovessero essere requisiti e
spazzati via dalle insaziabili esigenze del conflitto. Risulta altrettanto difficile comprendere
l’enorme portata di privazioni, spoliazioni e perdite subite durante bombardamenti, deportazioni,
requisizioni e ladrocini. La guerra sfida la nostra sensibilità odierna soprattutto quando
cerchiamo di comprendere come atti diffusi di atrocità, terrorismo e criminalità siano stati
commessi da centinaia di migliaia di persone che, nella maggior parte dei casi, corrispondevano
a quelli che lo storico Christopher Browning ha memorabilmente descritto come «uomini
normali», né sadici né psicopatici . Per quanto le atrocità siano all’ordine del giorno nelle guerre
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civili e nelle insurrezioni del presente, gli anni della Seconda guerra mondiale conobbero
un’ondata abnorme di coercizione violenta, imprigionamento, tortura, deportazione e uccisioni
genocide di massa, compiute da militari in uniforme, forze di sicurezza o di polizia, oppure
partigiani e combattenti civili irregolari, di ambo i sessi.
Un tempo bastava spiegare la guerra come la reazione armata di nazioni amanti della pace che si
erano trovate dinanzi alle ambizioni imperiali di Hitler e Mussolini in Europa e dell’esercito
giapponese nell’Asia orientale. Le storiografie occidentali standardizzate, insieme con le storie
ufficiali della guerra da parte sovietica, si sono concentrate sulla narrazione del conflitto militare
tra gli Alleati e gli stati dell’Asse. La storia del conflitto armato è ora nota nel modo piú
completo e documentata in numerosi resoconti di ottima qualità, per cui in questa sede non verrà
ripetuta integralmente . L’attenzione al risultato militare, per quanto importante, tralascia troppi
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interrogativi sulla crisi piú ampia che portò alla guerra, sulla diversa natura dei numerosi conflitti
armati, sugli aspetti politici, sul contesto economico, sociale e culturale della guerra e sulla
violenta instabilità che persistette a lungo dopo la fine formale delle ostilità nel 1945.
Soprattutto, la visione convenzionale della guerra considera Hitler, Mussolini e l’esercito
giapponese le cause della crisi piuttosto che i suoi effetti – come in realtà furono. Non si può
dare un senso ragionato alle origini, all’andamento e alle conseguenze della guerra se non si
comprendono le piú ampie forze storiche che avevano generato a livello internazionale, in tutto il
mondo, anni di instabilità sociale e politica sin dai primi decenni del XX secolo, e che alla fine
spinsero gli stati dell’Asse a intraprendere programmi reazionari di conquiste territoriali
imperialiste. La sconfitta di tali ambizioni, a sua volta, aprí lentamente la strada a una relativa
stabilizzazione globale e agli anni conclusivi della crisi degli imperi territoriali.
Questa nuova storia della Seconda guerra mondiale si basa su quattro presupposti principali. In
primo luogo, viene a perdere di qualsiasi utilità la tradizionale cronologia del conflitto. Le ostilità
iniziarono infatti nei primi anni Trenta in Cina e si conclusero nello stesso paese, nel Sud-est
asiatico, in Europa orientale e Medio Oriente solo nel decennio successivo al 1945. Le azioni
militari avvenute tra il 1939 e il 1945 possono pertanto rappresentare il nucleo della narrazione,
ma la storia del conflitto risale almeno all’occupazione giapponese della Manciuria nel 1931 e si
spinge fino alle ultime insurrezioni e guerre civili provocate dalla guerra mondiale ma ancora
irrisolte nel 1945. La Grande Guerra, inoltre, e le violenze che l’avevano preceduta e seguita,
avevano profondamente influenzato il mondo degli anni Venti e Trenta, a comprova della tesi
secondo cui non otterremo grandi risultati storiografici se vediamo come momenti distinti questi
due giganteschi conflitti. Entrambi si possono considerare come le fasi di una seconda guerra dei
Trent’anni destinata a riportare ordine nel sistema mondiale nel periodo conclusivo della crisi
degli imperi. La struttura del libro rispecchia pertanto queste prospettive temporali meno
convenzionali. Parleremo molto, infatti, degli anni Venti e Trenta, senza i quali risulta
impossibile spiegare adeguatamente la natura della guerra globale e il modo in cui fu combattuta
e interpretata all’epoca.
In secondo luogo, la guerra dovrebbe essere intesa come un fenomeno globale, anziché come un
evento riducibile alla sconfitta degli stati europei dell’Asse, di cui la guerra nel Pacifico
risulterebbe in tal modo una semplice appendice. Le regioni instabili dell’Europa centrale, del
Mediterraneo, del Medio Oriente e dell’Asia orientale alimentarono tutte la piú ampia crisi della
stabilità globale, il che spiega perché la guerra coinvolse non solo gli stati piú grandi ma anche
aree remote come le isole Aleutine nel Pacifico settentrionale, il Madagascar nell’Oceano
Indiano meridionale o le basi insulari dei Caraibi. Per la nascita del mondo postbellico, il
conflitto in Asia e le sue conseguenze furono importanti quanto la sconfitta della Germania in
Europa, forse perfino di piú. Nell’era delle guerre mondiali, la creazione della Cina moderna e il
disfacimento degli imperi coloniali andarono di pari passo.
In terzo luogo, occorre ridefinire il conflitto come una serie di guerre di tipo diverso. La forma
principale rimane la ben nota guerra tra stati, vuoi di aggressione o di difesa, giacché solo
un’entità statale è in grado di mobilitare risorse sufficienti e sostenere un conflitto armato su
vasta scala. Vi furono tuttavia anche delle guerre civili, combattute parallelamente al grande
scontro militare – in Cina, Ucraina, Italia, Grecia –, e delle «guerre interne», combattute sia
come guerre di liberazione contro una potenza occupante (inclusi gli Alleati) sia come guerre di
autodifesa civica, principalmente per far fronte all’impatto dei bombardamenti. Anche se a volte
queste diverse forme di conflitto si sovrapposero o confluirono nella guerra dei grandi stati – i
partigiani in Russia o i combattenti della Resistenza in Francia –, le guerre partigiane, le guerre
civili e le insurrezioni rappresentano piccoli conflitti paralleli, combattuti principalmente da
civili per garantire la propria protezione o liberazione. La mobilitazione civile contribuí a
conferire alla Seconda guerra mondiale il suo carattere «totale» e assume un ruolo di primo piano
nella trattazione che segue.
Tutti e tre questi fattori – cronologia, area geografica e definizione – sono infine strettamente
legati alla tesi qui presentata, ovvero che la lunga Seconda guerra mondiale fu l’ultima guerra
imperiale. La maggior parte delle storiografie generali si concentra sul conflitto tra «grandi
potenze» e sul ruolo dell’ideologia, ma perde di vista o finisce per glissare sull’importanza
dell’impero territoriale nel definire la vera natura del lungo periodo di belligeranza iniziato nel
1931 fino al caotico dopoguerra del 1945. Questo non significa vedere la guerra attraverso una
ristretta lente leninista, ma semplicemente riconoscere che ciò che lega insieme tutte le diverse
aree geografiche e forme del conflitto è l’esistenza di un ordine imperiale globale, dominato
principalmente dagli inglesi e dai francesi, che plasmò e stimolò le fantasiose ambizioni di
Giappone, Italia e Germania – le cosiddette nazioni deprivate –, desiderose di assicurarsi la
sopravvivenza nazionale ed esprimere la loro identità di nazione conquistando ulteriori zone di
dominio imperiale. Solo di recente gli storici hanno iniziato a sostenere che gli imperi dell’Asse
crearono il loro «nesso» globale per imitare i vecchi imperi che intendevano soppiantare . Dalla
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Grande Guerra in poi, o perfino da prima, progetti e crisi imperiali determinarono l’origine e
l’andamento del secondo conflitto, cosí come l’esito conclusivo della guerra pose fine a mezzo
millennio di colonialismo e favorí il consolidamento dello stato-nazione . I secoli della spietata
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espansione europea lasciarono il posto a una contrazione dell’Europa. Ciò che restava del
tradizionale dominio coloniale crollò rapidamente nei decenni successivi al 1945, quando le due
superpotenze, Stati Uniti e Unione Sovietica, vennero a dominare la creazione di un nuovo
ordine globale.
Il contenuto di quanto segue è dettato da questi quattro percorsi metodologici. Vi sono cinque
capitoli ampiamente narrativi (Prologo, capp. I-III e XI ) e sette capitoli tematici (capp. IV-X ). I
primi capitoli esplorano i fattori a lungo termine che plasmarono la crisi degli anni Trenta e lo
scoppio della guerra – fattori radicati nella competizione imperiale e nazionale alla fine
dell’Ottocento e nel periodo della Prima guerra mondiale. Un secondo conflitto non era
inevitabile, ma la frattura del sistema globale del commercio e della finanza negli anni Venti,
coincisa con la crescente insicurezza dei sistemi imperiali mondiali e con l’ascesa del
nazionalismo di massa, creò tensioni e generò ambizioni difficili da soddisfare attraverso una
qualche cooperazione. Una commistione di ideologie ultranazionaliste, crisi economica e
repentine opportunità incoraggiò il Giappone, l’Italia e la Germania a perseguire il «Nuovo
ordine» imperialista, provocando un autentico disastro per gli imperi storici – britannico,
francese, olandese e perfino belga – con l’inaspettata serie di sconfitte subite tra il 1940 e il
1942. Anche se gli stati del «Nuovo ordine» avrebbero preferito edificare i loro imperi regionali
senza affrontare immediatamente l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti, scoprirono presto che le
loro ambizioni, in definitiva, non avrebbero potuto realizzarsi senza sconfiggere o neutralizzare
quelle potenze: nacquero quindi l’Unternehmen Barbarossa (operazione «Barbarossa») e la
guerra nel Pacifico, come anche il momento a sé stante della guerra genocida contro gli ebrei,
accusati dal regime di Hitler di orchestrare il conflitto globale e frustrare l’affermazione
nazionale della Germania. Questa parte del volume descrive un mondo di incertezza politica a
livello internazionale, in cui i nuovi imperi sembrarono pronti a un possibile trionfo prima che si
potesse mobilitare la potenziale forza degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica.
I capitoli successivi descrivono una guerra globale in cui vennero infrante le ambizioni
territoriali dei nuovi imperi e si crearono le condizioni per un ordine mondiale diverso e piú
stabile, fondato sul principio di nazionalità, a spese dell’impero, e sulla restaurazione di quel
sistema commerciale e finanziario globale crollato negli anni Trenta. A spiegare tale transizione
è essenzialmente la potenza economica e militare americana e sovietica. È significativo che per
motivi ideologici – liberismo o comunismo – gli Usa e l’Urss fossero entrambi ostili alla
sopravvivenza dei tradizionali imperi coloniali – come del resto era la Cina, l’altro grande alleato
–, contribuendo a plasmare alla fine degli anni Quaranta e Cinquanta un mondo di stati nazionali,
dominati in molti casi dalle superpotenze della guerra fredda ma non governati come regioni di
imperi territoriali. Anche la Germania e il Giappone, che combatterono a oltranza per paura di
vedere cancellata la loro identità nazionale, conobbero una nuova esistenza dopo che furono
sconfitte le forze interne che perseguivano una politica imperiale. In quel frangente, la disfatta
degli stati del Nuovo ordine non lasciò dubbi, pur non essendo del tutto già scritta. Per entrambi i
contendenti, i sacrifici piú grandi di uomini e risorse avvennero negli ultimi due anni di guerra,
prima che si potesse dare per scontata una vittoria o una sconfitta. La violenza, inoltre, perdurò,
seppur su scala molto ridotta, negli anni successivi al 1945, in cui i residui conflitti politici e
ideologici del tempo di guerra furono risolti, anche se non in tutti i casi, sotto la stella ormai
morente dell’impero e delle ambizioni di superpotenza. È questo l’argomento del capitolo
conclusivo: il momento in cui gli imperi tradizionali furono finalmente smantellati per creare
l’attuale mondo degli stati-nazione.
La cornice dell’ultima guerra imperiale fornisce l’impalcatura dei capitoli tematici, in cui
vengono affrontati gli interrogativi fondamentali concernenti la piú ampia esperienza del
conflitto da parte sia dei milioni di militari impegnati nei combattimenti sia delle società civili
chiamate a sostenere l’impegno di una guerra totale . In che modo e con quali risultati gli stati
6

mobilitarono quella colossale forza lavoro e le risorse materiali di cui avevano bisogno? In che
modo e con quali effetti le forze armate coinvolte organizzarono e impiegarono quelle risorse? In
che modo stati, partiti o singoli individui giustificarono le guerre che stavano combattendo e
mantennero vivo l’impegno popolare in campagne militari costose, spesso barbare, perfino
nell’imminenza della sconfitta? Perché si svilupparono parallelamente conflitti civili o guerre
interne, e con quali conseguenze sociali o politiche? Vi sono infine i capitoli dedicati ai danni
che la guerra arrecò a tutte le popolazioni che la vissero. Quella che definisco in questa sede
come «geografia emotiva della guerra» rappresenta un tentativo di mappare ciò che la guerra
comportò, sul piano emotivo e psicologico, per tutti coloro che furono risucchiati nella sua
orbita, in particolare gli oltre 100 milioni di uomini e donne mobilitati negli scontri armati. Con
la guerra, mutarono comportamenti e aspettative, sotto lo stimolo di una vasta gamma di
sentimenti umani: paura, odio, risentimento o rabbia da un lato, coraggio, abnegazione, ansia e
compassione dall’altro. Questo è un elemento dell’esperienza bellica difficile da descrivere
storicamente, e tuttavia centrale per qualsiasi spiegazione di ciò che la guerra fece agli individui
che si trovarono sotto la costante pressione di circostanze belliche del tutto eccezionali, tanto sul
campo di battaglia quanto fuori di esso. Il tema finale del volume esplora gli eccessi di violenza e
criminalità provocati dalla guerra e causa di atrocità diffuse e di decine di milioni di morti, per la
maggior parte civili. Si pongono quindi due domande fondamentali: perché vi fu un cosí alto
tributo di vittime sia tra i militari sia tra i civili – con un numero di morti circa cinque volte
superiore a quello della Prima guerra mondiale – e perché i perpetratori di quelle atrocità si
rivelarono cosí disposti a compierle e capaci di indulgere nelle piú cruente violenze di ogni
genere in tutti i teatri di guerra? Queste due domande sono chiaramente correlate ma non sono la
stessa cosa; la morte sopraggiungeva sotto molte forme e per molte ragioni, come una compagna
spietata del conflitto.
Le fonti oggi disponibili per qualsiasi nuova storia della Seconda guerra mondiale abbondano a
tal punto che si rende impossibile garantire a tutte il dovuto riconoscimento. Quarant’anni fa,
quando ho iniziato a scrivere sulla guerra, si poteva leggere la maggior parte di ciò che era stato
scritto di interessante sul conflitto. Gli ultimi quattro decenni hanno conosciuto tuttavia a livello
mondiale una deflagrazione di testi storiografici dedicati a tutti gli aspetti della Seconda guerra
mondiale e degli anni immediatamente precedenti e successivi. Ciò ha reso impossibile
contemplare qualcosa di piú di una semplice porzione della letteratura esistente, per cui ho
preferito concentrarmi in questa sede sul materiale storico che conferma la tesi centrale del libro
anziché simulare una qualche completezza enciclopedica. Un solo volume, e forse neppure molti,
non può offrire una storia definitiva della guerra. La recente pubblicazione della Cambridge
History of the Second World War ha richiesto tre corposi volumi, e nemmeno in questo caso è
stato possibile includere tutto. Ho seguito come criterio di massima l’uso di materiali apparsi
negli ultimi anni, dato che in molti casi includono il corpo delle conoscenze già disponibili in
particolari campi, pur esistendo numerosi studi essenziali che risalgono a parecchio tempo prima
e che ho cercato di non trascurare. Ho avuto in particolare la fortuna di beneficiare di un
abbondante numero di nuovi studi relativi agli imperi e alla storia bellica dell’Asia – entrambi
aspetti della storiografia a lungo tralasciati. Nei casi in cui ho potuto avvantaggiarmi di archivi in
aree che ho studiato attentamente, ne ho fatto grande uso. Gli storici godono ormai di un
autentico tripudio di memorie personali, disponibili sotto forma di libro o di archivi orali e in
grado di illuminare, o in certi casi di contraddire, quanto gli studiosi hanno da dire
sull’esperienza del tempo di guerra. Ho attinto anche da questo catalogo di ricordi, seppure con
maggiore parsimonia rispetto a molte recenti narrazioni storiche del conflitto. Come i lettori
vedranno, rimane inevitabilmente escluso, o trattato troppo sommariamente, un certo numero di
argomenti; scopriranno anche che alcuni punti ormai ben noti vengono frammentati per adattarsi
alle diverse prospettive dei capitoli tematici – bombardamenti, Olocausto e capacità bellica sono
gli esempi piú ovvi –, ma spero che il nucleo di ciò che la guerra ha rappresentato storicamente
risulti abbastanza chiaro. Questo lavoro è da intendersi come una storia che pone domande di
ampio respiro sugli anni del conflitto, nella speranza che le esperienze individuali acquistino un
senso piú completo una volta chiarito il quadro in cui le persone si trovarono costrette a operare.
È altresí una storia di morte, terrore, distruzione, impoverimento e di quello «sconvolgente
calvario» di cui parlava Cordell Hull e il cui amaro prezzo fu sangue e rovine.
Richard Overy, novembre 2020.
Nota sulla terminologia
Nell’intero volume ricorrono i termini «Alleati» e «Asse», essendo di uso cosí comune che è
difficile evitarli senza incappare in complicazioni. Vale tuttavia la pena sottolineare che i tre
principali alleati non avevano stretto alcuna alleanza formale, a eccezione di quella firmata tra la
Gran Bretagna e l’Unione Sovietica nel 1942. Neppure gli stati dell’Asse erano legati in realtà da
un’alleanza coerente. Il termine era stato originariamente coniato da Mussolini e attribuito ai
rapporti tra Germania e Italia. Il Giappone divenne alleato di entrambi i paesi con il Patto
tripartito del settembre 1940, cosí come fecero molti altri stati europei aderenti alla guerra contro
l’Unione Sovietica, esclusa la Finlandia che mantenne lo status di paese cobelligerante. Fino al
settembre 1940, il Giappone non ebbe alcun legame ufficiale con l’Asse europeo. Dopo tale data,
l’opinione pubblica mondiale iniziò a parlare dovunque dei «tre stati dell’Asse», tra cui il
Giappone. Ho mantenuto tale definizione, rimasta in quasi tutta la storiografia moderna, cosí
come la usavano i contemporanei, pur essendo consapevole delle sue lacune.
È altresí importante evidenziare alcuni problemi connessi con il gran numero di statistiche e dati
riportati nel libro. Conosciamo purtroppo le imprecisioni legate a molte battaglie, sia grandi sia
di minori dimensioni, soprattutto per quanto riguarda il numero dei combattenti e del loro
equipaggiamento di armi; altrettanto si può dire del calcolo esatto dei caduti e delle attrezzature
distrutte, che può dipendere da come le diverse narrazioni nazionali consideravano la durata
dello scontro o l’ampiezza del campo di battaglia. Ho cercato di riportare quelle che sembrano
essere le statistiche piú affidabili, ma so bene che in molti casi vi sono stime che divergono da
tali cifre. Nel caso di altre valutazioni quantitative sono stato meno preciso. Nell’uso del termine
«tonnellata», che ricorre nelle statistiche relative a spedizioni, o a quante bombe furono sganciate
o a quante risorse furono prodotte, non ho differenziato tra tonnellata britannica, tonnellata
metrica e tonnellata americana. Benché si tratti in ciascun caso di un peso diverso, risulta
estremamente faticoso dover dare ogni volta l’esatta spiegazione, tanto piú che la differenza tra
le diverse unità non è tale da rendere inaccettabile il semplice uso di «tonnellata». Il short ton
americano è pari a 2000 libbre, il long ton britannico a 2240 libbre e la tonnellata metrica (1000
chilogrammi) corrisponde a 2204 libbre. Come misura di lunghezza ho generalmente usato i
chilometri, utilizzati in tutto il mondo, anziché le miglia. Ricordo che un miglio equivale a 1,6
chilometri.
Sulla questione della traslitterazione dei nomi propri e dei toponimi cinesi, arabi e indiani, ho
cercato in genere di attenermi all’uso corrente, tranne nei casi in cui un nome è tuttora
comunemente noto nella sua forma tradizionale (per esempio: Calcutta e non Kolkata; Chiang
Kai-shek anziché Jiang Jieshi). I toponimi cinesi presentano particolari difficoltà nei casi in cui
la traslitterazione in uso ha ben poca somiglianza con il comune utilizzo occidentale (per
esempio Guangzhou anziché Canton), per cui ho cercato di inserire tra parentesi il nome
originale alla sua prima occorrenza, anche se nel caso di Beijing ho evitato sia Pechino sia
Beiping. I nomi trascritti dall’arabo possono assumere varie forme, e anche in questo caso ho
scelto quello che sembra essere l’uso accademico piú ricorrente.
Abbreviazioni

AI
AM
ASV
AWPD
BBC
BEF
BMW
CLN
CLNAI
DCR
DKG
DLM
DP
ELAS
FFI
FLN
FM
FUSAG
GCCS
GKO
HF/DF
HMS
IFF
IMT
LCVP
LMF
LST
LVT
MPVO
NKVD
NSDAP
OKW
OSS
OUN
PKW
POW
PPU
PWE
RAF

RKFDV
RSHA
RuSHA
SA
SCR
SD
SHAEF
SIGINT
SO
SOE
SS
Stavka
UNRRA
USS
USSR
VHF
V1 e V2
Waffen-SS
WASP
WAVES
WVHA
ŻOB
Z-Plan
ŻZW
1. Conquiste giapponesi in Cina, 1931-41.
2. Edificazione dell’impero italiano, 1935-41.
3. Espansione territoriale tedesca, dal 1936 a giugno del 1941.
4. Il Mediterraneo e il Medio Oriente, 1940-42.
5. Impero tedesco in Oriente, 1941-43.
6. L’avanzata meridionale del Giappone, 1941-44.
7. Guerra tra l’Unione Sovietica e la Germania, 1943-45.
8. Ritirata degli Alleati nel Pacifico, 1942-45.
9. La guerra in Occidente, 1943-45.
Sangue e rovine
Ora possono succedersi un paio di secoli bellicosi di cui non esiste l’uguale nella storia, insomma il nostro avvenuto ingresso
nell’età classica della guerra, della guerra dotta e al tempo stesso popolare nella piú vasta scala (di mezzi, di attitudini, di
disciplina), verso la quale tutti i secoli venturi si volgeranno a guardare invidiosi e veneranti, quasi fosse un frammento di
perfezione.
Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, 1977.
Prologo
«Sangue e rovine»: l’impero e le origini della guerra
L’imperialismo, quale era conosciuto nel XIX secolo, non è piú possibile, e l’unica domanda da porci è se sarà sepolto
pacificamente o nel sangue e nella rovina.
Leonard Woolf1.
La citazione che dà il titolo a questa storia della Seconda guerra mondiale è tratta da Imperialism
and Civilization (Imperialismo e civiltà), scritto dall’economista politico Leonard Woolf allo
scopo di dimostrare l’importanza del moderno imperialismo per definire la civiltà del primo
Novecento. Nel corso di cento anni, fino agli anni Venti, il mondo occidentale, affermava Woolf,
aveva attraversato una straordinaria rivoluzione, durante la quale l’industria, la politica di massa
e il declino dell’aristocrazia avevano trasformato la società. Era stata una metamorfosi da cui era
nato il moderno concetto di stato-nazione, accompagnato però fin da subito da un’impressionante
ondata di conquiste imperiali, proseguita sino agli anni in cui Woolf scriveva il suo saggio.
L’economista riteneva che questa nuova civiltà fosse per sua natura «belligerante, fatta di
crociate, conquiste, sfruttamento e proselitismo», e molta della recente storiografia sull’impero
ha confermato tale giudizio. Il dominio del globo da parte di una manciata di nazioni
colonizzatrici ha rappresentato un momento unico nella storia del mondo . Per Woolf, 2

l’espansionismo imperiale era una pericolosa forza esplosiva ed era probabile che, se fosse
crollato, lo avrebbe fatto in modo violento. Questo era il contesto in cui era avvenuta la Grande
Guerra e che vent’anni dopo avrebbe dato origine a un conflitto ancora piú globale e distruttivo.
Woolf era senza dubbio nel giusto quando affermava che le profonde radici della violenza
globale, terminata negli anni Quaranta e Cinquanta con il collasso degli imperi territoriali,
andavano ricercate negli ultimi decenni del XIX secolo, allorché il ritmo della modernizzazione
economica e politica aveva subito un’accelerazione in tutto il mondo in via di sviluppo. In
Europa, Nord America e Giappone, l’industrializzazione e l’urbanizzazione su larga scala si
erano affiancate a un maggiore senso della nazionalità, che esse stesse avevano contribuito a
promuovere. Due delle potenze in via di modernizzazione, l’Italia e la Germania, erano nazioni
giovani; la prima fondata solo nel 1861, la seconda un decennio piú tardi. Anche il Giappone,
unico stato asiatico ad avviare una modernizzazione in stile europeo, era in realtà una nazione
«nuova», rifondata con la «Restaurazione Meiji» del 1868 che aveva rovesciato il tradizionale
shogunato Tokugawa, favorendo una nuova élite di riformatori economici e militari sotto
l’imperatore Mutsuhito. La modernizzazione economica, insieme con l’aumento dell’istruzione,
una rapida mobilità sociale e l’evoluzione di un apparato di stato accentratore, erano elementi
che legavano insieme la nazione. Tali processi crearono, anche in nazioni con una storia molto
piú antica, un nuovo senso di identità nazionale e una politica piú genuinamente improntata al
nazionalismo. Il cambiamento sociale portò con sé organizzazioni politiche di massa e richieste
di riforme liberali e di una rappresentanza piú popolare. Verso il 1900, fatta eccezione per
l’impero russo, tutti gli stati in via di modernizzazione avevano dei parlamenti (seppure con
diritti limitati) e rispettavano lo stato di diritto nei confronti di coloro che venivano definiti
cittadini. Per l’élite politica ed economica ormai consolidata questi cambiamenti minavano la
tradizionale distribuzione del potere sociale e dell’autorità politica. Fu in quest’atmosfera di
mutamenti rapidi e imprevedibili che le potenze industriali in via di sviluppo diedero vita a una
nuova ondata di imperialismo territoriale per dividere o dominare quelle regioni del globo ancora
al di fuori della rete degli imperi coloniali esistenti, ed è appunto attraverso il prisma di
quest’ultimo impulso dinamico verso l’impero che si possono meglio individuare nel lungo
periodo le origini della Seconda guerra mondiale.
Quello che Woolf considerava il nuovo imperialismo dei quarant’anni antecedenti allo scoppio
della guerra nel 1914 era per molti versi un’estensione delle esistenti strutture imperiali. Gran
Bretagna, Francia, Spagna, Portogallo e Paesi Bassi possedevano nel mondo un’accozzaglia di
territori – colonie, protettorati, sfere di influenza, depositi commerciali, regioni con concessioni
privilegiate stabilite da trattati –, e questo ben prima del «nuovo» imperialismo. Eppure, quella
nuova ondata di imprese imperiali era diversa e derivava da un crescente senso di competizione
tra le nazioni in fase di modernizzazione, in parte perché erano alla ricerca di nuove fonti di
materie prime e prodotti alimentari e di nuovi mercati, in parte perché l’«impero» era divenuto
un modo per attribuire allo stato-nazione di fine secolo l’identità di un agente progressista e
«civilizzatore» nei confronti del resto del mondo, nonché il simbolo del prestigio nazionale.
Quest’ultimo elemento riguardava in modo particolare le nazioni piú giovani, la cui identità
appariva ancora fragile, divisa da lealtà regionali e conflitti sociali. Nel dicembre del 1894, il
cancelliere tedesco, il principe Chlodwig zu Hohenlohe-Schillingsfürst, aveva annunciato che il
«mantenimento dei nostri possedimenti coloniali è una questione di onore nazionale e un segno
della nostra reputazione nazionale» . In Italia, il giornale del ministero degli Affari Esteri
3

dichiarava nel 1885 che «in mezzo alla frenesia […] di acquisti coloniali in tutte le parti del
mondo» l’Italia doveva stare attenta, poiché «il 1885 deciderà delle sue sorti come grande
potenza» , ovvero doveva impegnarsi a creare le proprie colonie. Per i riformatori giapponesi del
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nuovo stato Meiji, una qualche forma di imperialismo era considerata una dimostrazione
essenziale della nuova «sovranità nazionale» (kokutai), e nel 1870 l’occupazione delle isole
Curili e Ryūkyū e dell’arcipelago Ogasawara (isole Bonin) rappresentò il primo passo
nell’edificazione di quello che veniva ora chiamato il Grande Impero del Giappone (Dai Nippon
Teikoku) . Nei cinquant’anni che seguirono, sarebbe stato il desiderio di questi tre stati di creare
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un grande impero a sfociare nel conflitto mondiale degli anni Quaranta.


Negli anni precedenti il 1914, il legame tra la creazione di una moderna identità nazionale e
l’acquisizione, o l’ampliamento territoriale, di un impero divenne un luogo comune, perfino per i
tradizionali imperi dinastici dell’Europa orientale – dei Romanov e degli Asburgo –, le cui
aspirazioni espansionistiche nei Balcani avrebbero condotto alla Grande Guerra. Per quelle
nazioni intente a consolidare o costruire un impero oltremare, il rapporto tra edificazione
nazionale e imperialismo era esplicito. Il termine «impero-nazione», anziché semplicemente
«nazione», definisce appunto quegli stati che presero parte alla corsa delle conquiste territoriali.
Quella che è stata descritta come la «nazionalizzazione dell’imperialismo» mantenne
un’importanza fondamentale fino agli anni Trenta e all’inizio dell’ultima ondata di violente
acquisizioni di nuovi territori . L’impero ebbe un ruolo nel definire piú chiaramente il potere
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della madrepatria evidenziando le presunte contrapposizioni tra cittadino e suddito, uomo


civilizzato e primitivo, moderno e arcaico – polarità che esprimevano il modo in cui gli stati
imperiali vedevano i popoli e i territori di cui avevano assunto il controllo, come continueranno a
farlo fino agli anni Quaranta. Tale visione del mondo era condivisa da tutte le potenze imperiali e
si basava su un disprezzo quasi assoluto verso le culture e i valori esistenti nei territori occupati.
Nella maggior parte dei casi, le speranze di ciò che l’impero poteva fornire – da nuovi
consumatori a convertiti religiosi – erano fortemente esagerate. Quelle che Birthe Kundrus ha
definito «fantasie imperiali» svolsero un ruolo determinante nello stimolare la competizione tra
stati, perfino quando era evidente che i costi dell’impero avrebbero potuto facilmente superare i
benefici, spesso limitati, offerti dal fatto di possederlo . Si trattava di potenti fantasie su
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insediamenti in selvagge zone di frontiera, o sulla prospettiva di un Eldorado di ricchezze, su


un’esaltata «missione civilizzatrice», o sul compimento di un destino manifesto che avrebbe
infuso nuovo vigore alla nazione. Esse plasmarono il modo in cui si sarebbe considerato
l’«impero» nei cinquant’anni a venire.
Le fantasie che sostennero l’ondata di un nuovo imperialismo non erano nate nel vuoto assoluto.
Esse attingevano, ed erano a loro volta di stimolo, a un ambiente intellettuale e scientifico
impegnato in una visione dell’impero condivisa tra i tanti stati imperialisti. Il concetto di
competizione nazionale doveva molto all’applicazione di un paradigma darwiniano sulla
sopravvivenza del piú adatto e al carattere naturale della gara tra stati moderni. L’argomento era
stato ampiamente dibattuto negli anni antecedenti al 1914, ma era presente una linea di pensiero
dominante, associata ad alcuni dei piú illustri successori di Darwin, secondo cui le nazioni
«sane» erano destinate per natura ad assoggettare al loro dominio i popoli inferiori. In una
conferenza del 1900 dal titolo National Life from the Standpoint of Science (La vita nazionale dal
punto di vista della scienza), lo studioso di statistica britannico Karl Pearson aveva sostenuto
dinanzi al suo uditorio che la nazione doveva essere mantenuta a un elevato livello di efficienza
«principalmente dalla guerra con le razze inferiori e dal confronto con quelle di pari dignità per il
dominio delle rotte commerciali e delle fonti di materie prime e approvvigionamento alimentare.
Questa è la visione della storia naturale dell’umanità» . Nel suo libro Deutschland und der
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nächste Krieg (La Germania e la prossima guerra), pubblicato nel 1912 e ampiamente tradotto, il
generale tedesco Friedrich von Bernhardi spiegava la competizione tra le nazioni in termini che
molti dovevano considerare un dato di fatto: «Sopravvivono quelle forme che sono in grado di
realizzare le condizioni piú favorevoli di vita e di affermarsi nell’economia universale della
natura. Le piú deboli soccombono» . Un elemento fondamentale dell’applicazione della teoria
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darwiniana era la lotta per le risorse, per le quali si dava ampiamente per scontata la necessità di
piú vasti territori sottomessi all’impero. Nel 1897, il geografo tedesco Friedrich Ratzel coniò
l’espressione, ormai tristemente famosa, di «spazio vitale» (Lebensraum), sostenendo che le
moderne culture superiori avevano bisogno di espandersi territorialmente per garantire cibo e
risorse materiali a una popolazione in crescita e che questo sarebbe avvenuto soltanto a scapito
delle culture «inferiori». Negli anni Venti, le conclusioni della Politische Geographie (Geografia
politica) di Ratzel, scritta quando il giovane Adolf Hitler era uno scolaro in Austria, erano state
discusse dal futuro Führer con il suo grande compagno Rudolf Hess . 10

Il senso di superiorità culturale che avvolgeva l’imperialismo europeo attingeva inoltre alla teoria
scientifica contemporanea che suggeriva l’esistenza di una gerarchia naturale tra le razze, basata,
cosí si diceva, su differenze genetiche. Benché a riguardo vi fossero scarse prove scientifiche
convincenti, lo stato di primitiva arretratezza o di palese barbarie in cui si presumeva fosse
immerso il mondo colonizzato significava che le risorse materiali e la terra sarebbero state
semplicemente sprecate se non fossero state affidate a nazioni piú avanzate, il cui compito era
quello di portare i frutti della civiltà a popoli esotici e decadenti. Tale contrapposizione era data
per scontata e veniva utilizzata per giustificare strategie di discriminazione razziale e uno stato
permanente di dominio. Nel 1900, Lord Curzon, il viceré britannico dell’India, affermò: «Tutti i
milioni [di indiani] che devo amministrare sono meno che scolaretti». In Germania, questa
visione coinvolgeva perfino i popoli del vicino Est europeo sottomessi all’impero, una regione
che poteva considerarsi, come scriveva nel 1914 la «Leipziger Volkszeitung», «il regno della
barbarie» . Presupposti di superiorità, sia biologica sia etica, erano usati in modo ben piú
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pericoloso per giustificare i livelli di estrema violenza che erano di fatto alla base dell’ondata del
nuovo imperialismo.
In quasi tutti i casi in cui il territorio veniva sottratto alle comunità politiche esistenti, si assisteva
a un maggiore o minore grado di brutalità o minacce. Già prima del 1914, il destino dei nativi
nordamericani o degli aborigeni australiani era stato ritenuto una deplorevole ma inevitabile
conseguenza della conquista dei bianchi. La violenza di massa che accompagnò l’espansione in
Africa e in Asia a partire dagli anni settanta del XIX secolo era stata considerata allo stesso modo,
una violenza necessaria se si voleva esportare la civiltà a beneficio di chi subiva tale violenza –
che in ogni caso non sollevava alcuno scrupolo morale tra i contemporanei. Nel 1904, nell’Africa
sud-occidentale tedesca, un medico poteva tranquillamente scrivere che «la soluzione finale
[Endlösung] della questione dei nativi non può che essere quella di spezzare del tutto e per
sempre il potere degli indigeni». La soluzione finale, come lo spazio vitale, non fu un’invenzione
del nazionalsocialismo, per quanto gli storici possano dirsi sospettosi in merito a un qualche
probabile nesso causale tra le due epoche . Negli anni precedenti il 1914, tali espressioni
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linguistiche non possedevano neppure un distinto tratto tedesco. I concetti gemelli di «razza e
spazio», che avrebbero poi dominato l’imperialismo degli anni Trenta e Quaranta, erano stati
elaborati in un fertile periodo di riflessioni sulle funzioni e gli imperativi dell’impero già prima
della Grande Guerra . Allo stesso tempo, si edificarono degli universi morali contrapposti per il
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trattamento dei cittadini della madrepatria e dei popoli assoggettati, i primi considerati come
agenti privilegiati dell’impero, i secondi come sudditi a cui si poteva riservare un livello di
coercizione e di giustizia arbitraria ben distinto da quello esistente nel centro metropolitano.
Questa «mappa mentale» del rapporto tra la moderna nazione e il suo impero territoriale,
tuttavia, difficilmente corrispondeva alla realtà storica degli anni di edificazione del nuovo
impero. Per tutto il periodo, infatti, fino al completo disfacimento degli imperi territoriali dopo il
1945, esistette un abisso tra l’impero come «comunità immaginata» e i costi e i rischi effettivi
che ricadevano sulle comunità nazionali che avrebbero dovuto trovare la loro moderna identità
nell’impero-nazione. Questo valeva anche per le due maggiori potenze imperiali – Gran
Bretagna e Francia –, costrette a incanalare risorse per la conquista e la difesa di territori sempre
piú vasti. Nel 1911, la Gran Bretagna dominava un impero di 31 milioni di chilometri quadrati,
abitato da 400 milioni di persone; la Francia, a sua volta, controllava un territorio di 12,5 milioni
di chilometri quadrati e una popolazione di 100 milioni di persone – un’area venti volte piú
grande della madrepatria . Per le giovani nazioni che intraprendevano per la prima volta la via
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dell’impero si rivelava piú difficile creare tra il popolo l’entusiasmo per colonie d’oltremare, che
risultavano piú piccole e meno ricche di quelle dei vecchi imperi e attiravano pochi coloni e
scarsi investimenti. La fallita invasione italiana dell’Abissinia nel 1895 aveva lasciato al nuovo
impero dell’Italia nient’altro che qualche zona della Somalia e dell’Eritrea, oltre a una chiara
ostilità interna verso ulteriori avventure imperiali. Se gli italiani presenti nel minuscolo impero
erano solo poche migliaia, erano ben 16 milioni quelli emigrati verso altre destinazioni. Prima
che l’Italia entrasse in guerra con l’impero ottomano nel 1911 per assumere il controllo della
Tripolitania e della Cirenaica (l’odierna Libia), un giovane giornalista radicale, Benito
Mussolini, ammoniva che qualsiasi governo chiedesse sangue e denaro per alimentare le
conquiste sarebbe andato incontro a uno sciopero generale: «La guerra fra le nazioni diventerà
pertanto una guerra fra classi», sosteneva, secondo una visione che avrebbe caratterizzato il suo
successivo imperialismo con la distinzione tra nazioni «proletarie» come l’Italia e le ricche
potenze plutocratiche . Prima del 1914, si avevano atteggiamenti analoghi verso l’impero
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d’oltremare anche in Germania. A dimostrare entusiasmo per le colonie oltreoceano erano gli
ambienti prevalentemente borghesi di uomini d’affari, uomini di chiesa ed educatori, tanto che
nel 1914 si stimava che la Deutsche Kolonialgesellschaft (DKG, Società coloniale tedesca)
contasse circa 40 000 membri – che rappresentavano comunque il doppio dei coloni tedeschi
stabilitisi nei territori d’oltremare . Prima del 1914, l’istruzione e la cultura popolare avevano
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contribuito a creare un certo interesse per gli aspetti esotici e romantici della colonizzazione
oltreoceano, anche se vi era un’attenzione molto maggiore verso un immaginario impero
continentale a «oriente», destinato a diventare una sorta di persistente leitmotiv
nell’atteggiamento germanico verso l’espansione territoriale, fino all’attiva concretizzazione di
un impero europeo negli anni Trenta e Quaranta – argomento che vale la pena esaminare in
dettaglio.
La creazione della Germania nel 1871 aveva incluso aree della Prussia orientale abitate da grandi
popolazioni polacche – risultato della precedente spartizione della Polonia tra Russia e Austria
avvenuta nel XVIII secolo. Alla fine, la regione era stata considerata un frangiflutti di vitale
importanza contro il minaccioso oceano degli slavi a est, e nel 1886 il cancelliere tedesco Otto
von Bismarck aveva inaugurato la Königlich Preußische Ansiedlungskommission in den
Provinzen Westpreußen und Posen (Commissione reale per gli insediamenti nella Prussia
orientale e nella provincia di Posen), il cui scopo era quello di trasferire la popolazione polacca,
se possibile, oltre la frontiera della Polonia russa e popolare il territorio con coloni tedeschi che
avrebbero sradicato quelle che erano considerate forme primitive di agricoltura (la tanto
disprezzata «economia polacca») e creato una stabile forza di confine contro ogni ulteriore
minaccia. Questa «colonizzazione interna», come venne chiamata, fu ampiamente pubblicizzata.
Nel 1894, nacque l’organizzazione dell’Ostmarkverein, istituita per favorire il processo di
colonizzazione. I concetti di «razza e spazio» erano facilmente applicabili ai territori orientali, e
ben prima del 1914 si svilupparono fantasie sulla diffusione dell’imperialismo tedesco piú a est,
in una terra considerata ormai matura per la colonizzazione, affinché la civiltà moderna portasse
ordine e cultura in un territorio a quel tempo «sprofondato nella peggiore barbarie e miseria» . Si
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sviluppò una vera letteratura di frontiera, definita Ostromanen (romanzi d’Oriente), che permise
ai tedeschi di abbandonare l’imperialismo d’oltremare e concentrarsi sulla colonizzazione della
frontiera orientale. L’elemento polacco in questi romanzi era presentato in modo fuorviante
come «scuro»: pelle scura, occhi scuri, capelli scuri, al fine di esaltare l’aspetto coloniale
definendo il polacco come «altro da sé», in pieno contrasto con il tedesco piú acculturato. In uno
dei piú famosi romanzi d’Oriente, Das schlafende Heer (L’esercito che dorme, 1904) di Clara
Viebig, un contadino polacco con la pelle color rame depreca gli «invasori bianchi dai capelli
gialli» . Poco prima dello scoppio della guerra nel 1914, fu fondata una società per la
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colonizzazione interna il cui organo di stampa paragonava l’impero africano all’oriente polacco e
sosteneva la necessità di espandersi in entrambe le direzioni per trovare lo spazio vitale alla sana
razza germanica .
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Tra gli elementi determinanti che caratterizzarono lo sviluppo del nuovo imperialismo vi erano la
sua intrinseca instabilità e diffusa violenza – elementi che segnarono l’espansione imperiale dagli
anni settanta del XIX secolo fino agli anni Quaranta. Tra la fine del XIX secolo e il decennio
precedente la Prima guerra mondiale, gli argomenti a favore dell’impero si basavano in buona
parte su una necessità strategica imposta da quello che veniva ampiamente considerato un
contesto naturale e instabile tra i tanti imperi-nazione; essi si basavano tuttavia anche sulla
necessità di garantire la sicurezza nelle zone di influenza o di interesse economico, dove la
pressione imperiale aveva innescato la reazione violenta delle comunità locali. L’idea
dell’Europa prebellica come la belle époque è una costruzione eurocentrica. Nel periodo
precedente la guerra, infatti, l’Europa esportò la violenza in tutto il mondo. L’ascesa degli stati in
via di modernizzazione fu il risultato di un’improvvisa accelerazione nello sviluppo dei trasporti
e di armamenti piú avanzati, che, insieme con le risorse finanziarie e l’addestramento,
garantivano di solito un chiaro vantaggio militare alla potenza imperiale. Dopo il 1868, il
Giappone imitò rapidamente l’organizzazione europea del moderno servizio militare e adottò la
tecnologia piú avanzata, anche se fu l’unico stato asiatico o africano a farlo in modo efficace. La
conquista delle società tradizionali era ormai completa: nell’Africa meridionale, dopo gli scontri
con gli Zulu o i Matabele; nelle Indie orientali olandesi, in seguito alla violenta occupazione del
sultanato di Aceh; nella regione dell’odierno Vietnam, dove i francesi conquistarono le regioni
dell’Annam e del Tonchino. La violenza fu una caratteristica esplicita di tutti i rapporti
imperialisti, sino all’eclissi finale dell’impero dopo il 1945.
Piú significativi per la successiva storia delle guerre mondiali furono i conflitti combattuti per
l’impero tra contendenti piú paritari e stati piú sviluppati. Vedere nel 1914 la fine della pace è del
tutto fuorviante. Il mondo sempre piú globalizzato che era emerso prima della guerra era
regolarmente destabilizzato da conflitti su larga scala (e momenti di crisi acuta) che
influenzavano profondamente i rapporti tra le maggiori potenze europee e quella futura
dell’Asia. Gli attacchi piú significativi furono quelli lanciati dal Giappone, in primo luogo contro
la Cina nel 1894, allorché il Giappone iniziò a invadere la Corea, stato tributario dell’impero
cinese. Si trattò di un grande conflitto, vinto dall’esercito e dalla marina militare giapponese
appena riorganizzati; la Corea divenne un protettorato e la grande isola di Formosa (oggi
Taiwan) fu ridotta a colonia, trasformando cosí da un giorno all’altro l’impero del Sol Levante in
uno dei principali attori sull’arena coloniale. La seconda guerra fu condotta contro l’impero
russo, il cui governo aveva impedito al Giappone di annettere parte della provincia cinese
settentrionale della Manciuria dopo la sconfitta della Cina e aveva cercato in ogni modo di
consolidare gli interessi russi nella regione. Nel 1904-905, un grande esercito russo e quasi
l’intera flotta imperiale, mandata dal Baltico al Mare del Giappone in una folle missione di 30
000 chilometri, subirono una totale disfatta, in seguito alla quale il Giappone acquisí i vasti
interessi economici russi in Manciuria. Il Giappone perse nella guerra 81 500 soldati e contò 381
000 feriti su circa due milioni di mobilitati, il che fece della guerra contro l’impero russo il piú
grande conflitto mai combattuto dal Giappone e trasformò il suo ruolo nell’intera regione . 20

La guerra tra Spagna e Stati Uniti del 1898-99 non si era presentata inizialmente come una
guerra per l’impero, ma la sconfitta della Spagna lasciò temporaneamente all’America i
possedimenti delle Filippine, Puerto Rico, Guam e di un certo numero di isole minori del
Pacifico. Circolò per breve tempo l’idea di creare una «Grande America», ma quando la Corte
suprema stabilí che i nuovi territori non facevano parte degli Stati Uniti, l’interesse per una
qualche forma di «impero americano» svaní rapidamente. Le basi del Pacifico erano
strategicamente utili, anche se i territori sottratti alla Spagna appartenevano a una specie di limbo
che non rientrava in nessun impero formale ma dipendeva dalle forze di occupazione americane . 21

Nel 1899, inoltre, era esploso un grave conflitto tra la Gran Bretagna e le due repubbliche
indipendenti dei Boeri in Sudafrica – la Zuid-Afrikaansche Republiek del Transvaal e l’Oranje
Vrystaat, lo Stato libero di Orange. La guerra combattuta in Sudafrica tra il 1899 e il 1902 rimase
per cinquant’anni il piú grande conflitto della Gran Bretagna, con circa 750 000 mobilitati e 22
000 caduti; la Gran Bretagna, che in questo caso affrontava dei coloni europei bianchi, venne
ampiamente condannata da altri stati europei, ma alla fine vinse la guerra e aggiunse al suo
impero africano territori e risorse sostanziali, rafforzando l’idea neo-darwiniana che si potevano
espandere i possedimenti imperiali solo con la forza delle armi . 22

Le questioni coloniali furono un catalizzatore decisivo di quelle che si sarebbero rivelate le


decisioni sostanziali che portarono allo scoppio della guerra nel 1914. I blocchi di alleanze
formatisi a partire dagli anni ottanta del XIX secolo erano alimentati principalmente dalle ansie di
carattere strategico per il potere e la capacità militare in crescita di stati politicamente instabili e
in via di rapida modernizzazione. Quelle stesse ansie, tuttavia, trovavano alimento anche nella
pura rivalità imperiale. L’umiliazione subita da parte del Giappone deviò gli interessi
dell’impero russo verso l’Europa sud-orientale e i rapporti con l’impero ottomano; situazioni di
espansione imperiale potenzialmente conflittuali tra Francia e Gran Bretagna portarono nel 1904
all’Entente cordiale franco-britannica; analoghe preoccupazioni favorirono tre anni dopo
un’alleanza russo-britannica – una collaborazione che preparò il terreno alla successiva guerra in
Europa. La necessità di tutelare interessi globali, anziché puramente europei, alimentò altresí una
crescente concorrenza nell’espansione delle forze armate; la gara alla flotta piú grande tra Gran
Bretagna e Germania, in particolare, non avrebbe avuto senso se distinta dalla piú ampia
globalizzazione dei rispettivi interessi. Dalla natura delle ambizioni imperiali germaniche, basate
sulla convinzione che una nuova nazione avesse bisogno di un impero come simbolo della sua
posizione di potenza mondiale, derivò per esempio il contributo della Germania ai piú gravi
incidenti internazionali avvenuti prima del 1914 e, soprattutto, alle crisi marocchine del 1905 e
del 1908, in cui la Germania cercò di contestare gli accordi raggiunti tra Gran Bretagna, Francia
e Spagna in merito all’assegnazione dei diritti di protettorato.
Importante quanto il Marocco, tuttavia, fu la decisione del governo italiano di Giovanni Giolitti,
presa nel 1911 sotto le pressioni delle frange nazionaliste interne, di dichiarare guerra alla
Turchia e occupare ciò che ancora rimaneva dell’impero ottomano in Nordafrica. Gli ambienti
nazionalisti e colonialisti sostenevano che, dopo l’umiliazione subita in Abissinia, il
consolidamento della nuova nazione italiana aveva bisogno dell’espansione imperiale per
confermare lo status di grande potenza. Uno dei loro maggiori portavoce, Enrico Corradini,
definí un’Italia priva della sua quota di impero una mera «nazione proletaria» – l’esatta
espressione usata in seguito da Mussolini per giustificare il nuovo imperialismo italiano degli
anni Trenta . L’obiettivo principale della guerra coloniale era tanto il prestigio come nazione
23

quanto la possibilità di ampliamento commerciale o territoriale, visto che la campagna militare


coincideva con il cinquantesimo anniversario della nascita della nuova nazione italiana. Il
governo italiano, che vedeva con apprensione la presenza tedesca in Marocco e la possibilità che
Francia e Gran Bretagna bloccassero ogni ulteriore tentativo di edificare un impero in Africa,
corse un rischio considerevole, anche se alla fine le due maggiori potenze imperiali non
trattennero l’Italia. Il risultato non fu la breve guerra coloniale auspicata dai governanti italiani,
dato che le truppe, com’era avvenuto per quelle russe nel 1904, si trovarono a combattere
un’altra grande potenza . La guerra durò un anno, da ottobre del 1911 a ottobre del 1912, e in
24

conclusione la Turchia cedette la Tripolitania e la Cirenaica solo perché il conflitto in Nordafrica


aveva spronato gli stati balcanici indipendenti ad approfittare dell’impegno militare ottomano per
lanciare un attacco ai restanti territori europei della Sublime Porta. Gli italiani chiamarono la
colonia «Libia», in omaggio al nome dato alla regione sotto l’impero romano e cominciarono a
formulare nuove richieste e fare pressione su inglesi e francesi per ottenere concessioni
nell’Africa orientale . Nell’Egeo, l’Italia occupò per ripicca le isole del Dodecaneso, esercitando
25
a quel punto un dominio semi-coloniale su dei sudditi europei. La conquista della Libia, come la
sconfitta di Cina e Russia da parte dei giapponesi, fece brillare dinanzi agli occhi di una
generazione l’idea che gli ultimi arrivati potevano creare il proprio impero solo impugnando le
armi, non importa quanto grande fosse l’avversario da combattere.
Vi sono buone ragioni, di solito non prese in esame, per affermare che la tracotanza italiana nel
Nordafrica fu la vera spoletta di innesco che scatenò la Grande Guerra. Le successive vittorie nei
Balcani espulsero la Turchia dalla maggior parte dei suoi territori europei e offrirono alla Serbia
la prospettiva di diventare la vera protagonista della regione. Nessuno degli imperi dinastici
coinvolti – Russia e Austria-Ungheria –, posti entrambi di fronte a crescenti crisi politiche
interne, era pronto ad abbandonare i propri interessi strategici nella penisola balcanica. Poiché
dal 1882 l’Italia era alleata della Germania e dell’Austria, l’occupazione italiana delle isole del
Dodecaneso nel 1912 lasciava emergere la possibilità che la Russia avrebbe potuto incontrare
ulteriori ostacoli nel tentativo di aprirsi un efficace accesso al Mediterraneo – un mare che non
gelava mai – ottenuto con un attivo intervento militare nei Balcani. Anche se le cause della
guerra scoppiata in Europa tra la fine di luglio e l’inizio dell’agosto 1914 vengono solitamente
attribuite alla rivalità tra le grandi potenze, sostenuta da profondi sentimenti nazionalisti e da un
misto di arroganza e insicurezza tra gli attori principali, il ruolo dell’edificazione imperiale e la
definizione degli stati moderni come imperi-nazione ebbero un peso enorme, e spiegano perché
gli stati che avevano molto da perdere consideravano inevitabile una guerra europea. Se nel
luglio del 1914 la Serbia avesse tuttavia accettato l’ultimatum austriaco, gli storici starebbero ora
scrivendo di un’altra breve crisi imperiale da aggiungere al lungo elenco iniziato negli anni
novanta del XIX secolo .
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È piú che ovvio che la Grande Guerra fu un conflitto imperiale: tutti gli stati che entrarono in
guerra nel 1914-15 erano imperi, sia di tipo dinastico tradizionale sia nazioni che possedevano
territori oltremare. Non appena il conflitto divenne una lunga guerra di logoramento, la posta in
gioco si alzò, tanto che a definire la natura dello scontro era ormai la stessa sopravvivenza
dell’impero-nazione. L’attenzione riservata dagli storici al lungo e sanguinoso stallo sul fronte
occidentale presentò il conflitto in termini strettamente nazionalisti, ma la guerra venne
combattuta in tutto il mondo e con chiare ambizioni imperiali . La Russia sperava di estendere la
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sua sfera d’influenza nel Mediterraneo orientale e in Medio Oriente a spese dell’impero
ottomano; nell’ottobre del 1914, la Sublime Porta, a sua volta, travolta da una rivoluzione di
matrice nazionalista, dichiarò guerra alle potenze alleate – ovvero gli imperi di Gran Bretagna,
Francia e Russia –, nella speranza di invertire il processo di erosione del proprio impero in
Medio Oriente e Nordafrica. Nel 1914, l’Italia, pur essendo formalmente legata alle cosiddette
«Potenze centrali» – l’impero tedesco e quello austro-ungarico – in virtú della Triplice Alleanza
stipulata nel 1882, scelse di non entrare in guerra. Dopo aver negoziato un vago accordo a
Londra nella primavera del 1915, in cui si lasciava intendere che l’Italia sarebbe stata
compensata con territori imperiali nei Balcani e nel bacino del Mediterraneo, il governo italiano
si uní invece alle potenze alleate. Anche se la grande speranza era che l’impero austriaco sarebbe
stato sconfitto, in modo da poter finalmente liberare le terre rivendicate come italiane nel nord-
est della penisola, l’Italia aveva altresí ambizioni imperiali. A partire dal 1912, le forze italiane
avevano affrontato in Libia una vasta ribellione incoraggiata dalla Turchia. Mentre il governo di
Roma discuteva su un possibile intervento nella guerra, due grandi sconfitte subite in Libia
lasciarono sul campo 3000 morti italiani. Una forza di circa 40 000 soldati venne mantenuta nella
colonia per difenderla da un jihād dichiarato da Istanbul nel novembre del 1914. Nel 1918,
l’Italia era riuscita ad assicurarsi il controllo del litorale libico, ma Tripoli, la capitale, restava di
fatto sotto assedio .
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Anche lo sforzo bellico britannico e francese ebbe una portata globale. Fin dall’inizio dei
combattimenti su suolo europeo, gli imperi alleati attaccarono e occuparono i territori coloniali
tedeschi in Africa e nel Pacifico. Il Togo cadde nell’agosto del 1914, l’Africa sud-occidentale nel
maggio del 1915 e il Camerun nel febbraio del 1916; l’Africa orientale tedesca, seppure mai
conquistata completamente, passò in gran parte sotto il controllo alleato nel 1916. Nel Pacifico,
la Gran Bretagna esortò il Giappone, con cui aveva negoziato un trattato nel 1902, a occupare le
isole del Pacifico settentrionale (conosciute dai giapponesi come Nan’yō) che la Germania aveva
acquistato dalla Spagna trent’anni prima, e a impadronirsi della penisola cinese dello Shandong,
appartenente all’impero tedesco d’oltremare. Il Giappone dichiarò guerra alla Germania e ne
conquistò le colonie alla fine del 1914, estendendo ulteriormente in Cina la propria sfera
d’influenza imperiale e aprendo per la prima volta un’ampia zona di frontiera nel Pacifico . Nel 29

1915, il governo nipponico presentò alla Cina le Taika nijūikkajō yōkyū, ovvero le «Ventuno
richieste» con cui il Giappone esigeva concessioni in Mongolia, nella provincia del Fujian e in
Manciuria, sulla falsariga dei «trattati iniqui» imposti dalle potenze imperiali prima del 1914 . Al 30

governo nipponico era chiaro che c’era ben poco che le altre potenze belligeranti, trovandosi cosí
invischiate nella guerra in Europa, potessero fare di fronte all’ampliamento dell’influenza
giapponese. Le Ventuno richieste, pertanto, imponevano alla Cina di non concedere altri porti o
isole alle potenze imperiali europee, stabilendo un primo esempio dell’ulteriore penetrazione in
Cina dell’impero giapponese nei decenni successivi.
La situazione in Medio Oriente rappresentò il terreno di scontro extra-europeo di gran lunga piú
significativo. L’Egitto (occupato dagli inglesi nel 1884 come base delle operazioni e dichiarato
protettorato nel 1914) fu il terreno di scontro di una guerra lunga e complessa che venne
combattuta contro l’impero ottomano per il controllo della regione che andava dal Mediterraneo
orientale alla Persia (l’attuale Iran). La strategia imperiale britannica era concentrata soprattutto
sui pericoli che potevano derivare per il suo dominio globale se qualche altra potenza avesse
conquistato l’egemonia sulla regione, per cui la Gran Bretagna si dimostrò ben decisa durante la
guerra a trovare un modo per controllare, in un modo o nell’altro, l’intero arco territoriale che
andava dall’Asia meridionale al mondo arabo, dalla Palestina all’Afghanistan . Il piano iniziale,
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che sarebbe stato formalizzato nell’accordo Sykes-Picot del 1916, era quello di suddividere
l’impero ottomano in sfere di influenza: alla Russia zarista spettavano Costantinopoli e
l’Anatolia, il cuore della Turchia; alla Francia, una grande Siria dai confini vagamente definiti;
alla Gran Bretagna, l’intero territorio dalla Palestina alla Persia. Prima che tutto questo potesse
essere realizzato, si dovevano respingere gli attacchi degli Ottomani al Canale di Suez,
considerato l’arteria principale dell’impero britannico. Quando le forze inglesi ricacciarono
finalmente i turchi in Siria e nel nord dell’Iraq, la Russia aveva ormai abbandonato la guerra in
seguito alla rivoluzione bolscevica, lasciando Gran Bretagna e Francia come unici legatari
imperiali di tutto il Medio Oriente. La Germania, alleata con gli Ottomani, aveva sostenuto lo
sforzo bellico dei turchi non solo con equipaggiamento e consiglieri militari, ma anche
fomentando contro la Gran Bretagna e la Francia ribellioni di carattere religioso o nazionalista
nei territori e nelle sfere di influenza dei loro imperi, in particolare in India, Afghanistan,
Nordafrica e Persia . Nel 1918, dopo il fallimento di tutti questi sforzi, era ormai chiaro che
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l’intero Medio Oriente sarebbe stato dominato, e probabilmente spartito, da Gran Bretagna e
Francia, che si sarebbero cosí procurate l’ennesima regione di importanza strategica per
estendere e consolidare la loro egemonia imperiale . 33

Per la Germania, la perdita delle colonie e il blocco marittimo alleato costrinsero gli imperialisti
tedeschi ad accettare, volenti o nolenti, l’idea di un impero piú vasto in Europa e, in particolare,
di un’ampia sfera di dominio tedesco a oriente. Questa non era affatto l’ennesima fantasia
imperiale. Nel 1915, le forze tedesche erano penetrate in profondità nella Polonia russa e
avevano occupato gli Stati baltici russi, spingendo cosí in avanti la frontiera con la «Slavia», che
aveva già suggestionato l’idea prebellica della necessità di una forma di colonialismo a est. Nelle
regioni orientali sotto l’occupazione militare tedesca furono instaurati modelli di controllo che
riecheggiavano le pratiche coloniali nei territori d’oltremare europei, e soprattutto entrò in vigore
la distinzione tra cittadini e sudditi. Le popolazioni occupate erano governate da differenti regimi
che potevano vantare una qualche legittimità ed erano costrette a riverire e inchinarsi al
passaggio dei funzionari tedeschi e a fornire una forza lavoro coatta . Dopo la fondazione del
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Deutsche Vaterlandspartei (Partito della patria tedesca) nel 1917, le idee sulla creazione di una
vasta area di terre colonizzate nell’Est europeo guadagnarono crescente popolarità: «Vedo la mia
patria al culmine della sua potenza come l’impero dell’Europa» , affermava l’eroe di una storia
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patriottica destinata alla gioventú tedesca. La presenza dei soldati tedeschi sul territorio
dell’impero russo rafforzò i pregiudizi popolari sul primitivo sistema politico della Russia, ormai
maturo per la colonizzazione, mentre nel linguaggio usato dagli occupanti risuonava il lessico
coloniale degli imperi d’oltremare. Non c’erano parole, riferiva nel 1914 un rapporto dal fronte
orientale, per descrivere la «volgarità e bestialità» della popolazione insediata lungo il lato russo
della frontiera .
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Durante la guerra, le ambizioni imperiali tedesche toccarono il loro apogeo con il trattato di
Brest-Litovsk, firmato forzatamente dal governo rivoluzionario bolscevico nel marzo del 1918. Il
trattato spalancò di fatto all’occupazione tedesca un territorio che comprendeva l’intero impero
russo occidentale e includeva la Bielorussia, gli Stati baltici, la Polonia russa, l’Ucraina e la costa
caucasica del Mar Nero – piú lontano, in effetti, di quanto l’esercito di Hitler sarebbe mai
arrivato venticinque anni dopo. Tale prospettiva significava per gli inglesi un vero incubo
imperiale: un solido blocco tedesco-asburgico-ottomano che dominava il cuore dell’Eurasia e il
Medio Oriente. La situazione si aggravò nel marzo del 1918 con l’inizio dell’ultima avventura
militare della Germania sul fronte occidentale, che respinse gli eserciti alleati e minacciò una
loro catastrofica sconfitta: «Siamo prossimi a un disastro», ammoniva Sir Henry Wilson,
consigliere militare del governo britannico. Lord Milner, uno dei cosiddetti proconsoli
dell’impero, riferí al primo ministro David Lloyd George che ormai sembrava probabile che gli
imperi centrali sarebbero stati i «padroni di tutta l’Europa e dell’Asia settentrionale e centrale». I
timori popolari degli inglesi immaginavano anche un’Africa tedesca che andava dall’Atlantico
all’Oceano Indiano, con l’annessione del Congo belga da parte della Germania . Questa crisi
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illustra in tutta la loro gravità le dimensioni imperiali e globali di una guerra che veniva
combattuta tanto per il futuro dell’impero quanto per la sopravvivenza della nazione.
L’incubo imperiale della Gran Bretagna non si materializzò mai. Durante il 1918, gli alleati piú
deboli della Germania si sgretolarono, mentre la Frühjahrsoffensive, l’«Offensiva di primavera»,
fallí. Gli Alleati occidentali, supportati dalle truppe americane dopo la dichiarazione di guerra
degli Stati Uniti agli imperi centrali, pronunciata un anno prima nell’aprile del 1917, riuscirono
finalmente a respingere gli eserciti tedeschi verso la frontiera della Germania. L’11 novembre la
guerra europea si concluse con il crollo di tre grandi imperi: quello tedesco, l’austro-ungarico e
l’ottomano, a cui si era aggiunto nel 1917 il collasso dell’impero russo. La Gran Bretagna e la
Francia videro nel loro trionfo la vittoria dei rispettivi imperi. Il governo britannico aveva
assicurato un impressionante numero di combattenti, oltre al denaro e alle risorse necessarie alla
madrepatria per affrontare lo scontro su un campo di battaglia globale. I coloni bianchi
d’oltremare avevano fornito 1,3 milioni di uomini, mentre dall’India ne erano stati mobilitati 1,2
milioni; le colonie africane avevano sacrificato una forza lavoro di centinaia di migliaia di
operai, di cui circa 200 000 morirono . L’impero francese aveva fornito 500 000 soldati
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(provenienti per la maggior parte dall’Africa francese occidentale e settentrionale) e arruolato piú
di 200 000 lavoratori, oltre a garantire contributi in denaro pari a 1,6 miliardi di franchi e 5,5
milioni di tonnellate di rifornimenti . Durante il conflitto, la solidarietà tra gli imperi divenne un
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motivo centrale della propaganda, ed entrambe le grandi potenze imperiali si aspettavano che una
guerra combattuta per assicurare al mondo la democrazia avrebbe garantito, paradossalmente,
anche la sopravvivenza dell’istituzione imperiale antidemocratica. Tale paradosso risulta
fondamentale per comprendere i dilemmi che tutti gli imperi dovettero affrontare dopo il 1918 e
contribuisce altresí a spiegare il ruolo dell’imperialismo nel generare un secondo grande conflitto
vent’anni dopo.
Il problema determinante per gli imperi sopravvissuti dopo la guerra risiedeva nella difficoltà di
conciliare il principio di nazionalità con il concetto di impero – una sfida tradizionalmente
associata al presidente democratico americano Woodrow Wilson, il cui discorso, pronunciato l’8
gennaio 1918 al Congresso degli Stati Uniti, aveva stabilito quelli che divennero noti come i
«Quattordici punti» per definire un nuovo ordine mondiale internazionalista. Il discorso divenne
famoso da un giorno all’altro in tutto il mondo perché al quattordicesimo punto Wilson garantiva
«a tutti gli stati, grandi e piccoli indistintamente, mutue garanzie d’indipendenza e di integrità
territoriale»; alla fine del discorso, il presidente ribadiva la sua opinione che tutti i popoli e
nazionalità avevano il «diritto a vivere in uguali termini di libertà e sicurezza gli uni con gli altri,
siano essi forti o deboli». Anche se Wilson non usò mai la parola «autodeterminazione», le
ambiguità del suo discorso consentivano tale interpretazione, tanto che da quel momento il
presidente americano venne sommerso di petizioni, dichiarazioni di gruppi di pressione e
delegazioni di coloni che avevano erroneamente visto nella sua affermazione un’opportunità per
realizzare la loro emancipazione . In verità, un’idea di «autodeterminazione» che rispettava il
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modello della dichiarazione di Wilson era nata nel 1917 tra i rivoluzionari russi dopo il
rovesciamento del regime zarista avvenuto a marzo. Deciso a continuare la guerra, il Vremennoe
pravitel’stvo, il «governo provvisorio rivoluzionario», aveva annunciato il 9 aprile 1917 che il
suo scopo principale nel conflitto era «instaurare una pace duratura sulla base
dell’autodeterminazione dei popoli». Un anno piú tardi, dopo la presa del potere nel novembre
del 1917 da parte dei bolscevichi, ovvero l’ala comunista radicale del movimento socialista
russo, Lenin, presidente del nuovo governo, chiedeva a gran voce «la liberazione di tutte le
colonie; la liberazione di tutti i popoli sottomessi, oppressi e privi di sovranità» . L’appello dei
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comunisti russi, presto istituzionalizzato con la creazione dell’Internazionale comunista


(Comintern) nel 1919, allarmò a tal punto le potenze imperialiste che nel 1918-19 intervennero
con le armi in aiuto delle armate dei russi «bianchi» antibolscevichi. Il Giappone, che aveva
vissuto non molto tempo prima il conflitto con la Russia, nel 1918 inviò 70 000 soldati in
Siberia, accarezzando per breve tempo l’idea di creare una provincia siberiana dipendente e
sostenuta da 250 000 soldati giapponesi, allo scopo di estendere verso nord l’impero nipponico. I
successi militari dei bolscevichi e l’instabilità interna giapponese portarono infine al ritiro delle
truppe nel 1920 .
42

I primi segnali di un’imminente crisi dell’istituzione imperiale, innescata dall’idea


dell’autodeterminazione, apparvero con l’inizio della pace, quando un certo numero di popoli
sottomessi cominciò ad attendersi che al loro contributo alla vittoria degli Alleati
corrispondessero concessioni politiche da parte delle potenze coloniali che avevano ricevuto
aiuto nello sforzo bellico, mentre altri popoli si aspettavano che la retorica wilsoniana avrebbe
contribuito a spezzare le odiate catene imperiali, imposte in alcuni casi in tempi molto recenti.
Nella primavera del 1919, durante la Conferenza di pace a Parigi, Wilson e i suoi collaboratori
furono bombardati da richieste o petizioni che chiedevano la piena sovranità e la fine della
presunzione imperiale che i popoli sottomessi non fossero in grado di autogovernarsi. Tra i
firmatari vi erano rappresentanti di Persia, Yemen, Libano, Siria, Tunisia, Indocina francese
(oggi Vietnam, Laos e Cambogia), Egitto e Corea. Il nazionalista indiano Lala Lajpat Rai, co-
fondatore dell’India Home Rule League of America, inviò un telegramma a Wilson
ringraziandolo di aver stilato una nuova carta per la libertà «di tutte le nazionalità del mondo,
piccole e sottomesse». L’intervento americano, ribadiva Rai, aveva messo «in ombra le potenze
imperiali dell’Europa» . Nessuna delle petizioni venne soddisfatta, e nell’anno successivo alla
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fine della guerra si ebbero diffuse proteste, spesso violente, contro il dominio imperiale. In
Corea, le manifestazioni del marzo 1919 furono soffocate senza pietà; in India, le dimostrazioni
nella città di Amritsar furono accolte con una grandinata di proiettili che lasciarono sul terreno
379 manifestanti; in Egitto, vari leader nazionalisti furono esiliati e 800 persone rimasero uccise
nei disordini. «Questo non è forse il peggiore dei tradimenti?» scrisse uno dei delegati egiziani a
Parigi. «Non è forse la piú profonda abiura dei principî?» . Solo i nazionalisti irlandesi riuscirono
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a opporsi ai 110 000 soldati britannici dispiegati nel paese e a ottenere una forma di
indipendenza nel 1922 come Saorstát Éireann (Stato libero d’Irlanda).
In definitiva, la vera priorità della Conferenza di pace era la creazione di stati sovrani
nell’Europa centro-orientale in sostituzione degli imperi dinastici scomparsi: nacquero cosí
Polonia, Jugoslavia, Cecoslovacchia, Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania e un abbozzo di
Austria. Il principio dell’autodeterminazione non venne applicato in nessun’altra regione del
globo. Alla fine, le delegazioni della Gran Bretagna e della Francia riuscirono a persuadere
Wilson a eliminare il termine «autodeterminazione» dalla bozza di progetto per l’organizzazione
della Società delle Nazioni, che avrebbe dovuto essere l’attore principale nel mantenimento
dell’ordine internazionalizzato, e sostituirlo invece con un impegno a rispettare l’integrità
territoriale e l’indipendenza politica degli stati già esistenti . Questo segnò nel 1919 l’inizio di un
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processo politico in cui le pressioni anglo-francesi riuscirono a limitare sostanzialmente le


ambizioni liberali di Wilson e dei loro stessi critici dell’impero. Al Reich sconfitto fu riservato
un trattamento punitivo in base al quale perdeva tutti i suoi territori d’oltremare, l’Alsazia-
Lorena, un «corridoio» polacco attraverso la Prussia orientale, parte della Slesia e aree piú
piccole che passavano al Belgio e alla Danimarca; la Germania era inoltre costretta a un disarmo
quasi completo e ad accettare il pagamento di riparazioni di guerra per 132 miliardi di marchi
d’oro come prezzo per aver innanzitutto scatenato il conflitto. Tale accusa ebbe un ruolo
fondamentale nell’alienare dall’accordo di pace l’intero spettro politico della società tedesca. A
questo, inoltre, contribuí la decisione di privare la Germania delle sue colonie, adducendo come
motivo il fatto che il colonialismo tedesco, in particolare, si era macchiato di eccessiva brutalità e
sfruttamento per permettere ai tedeschi di condividere la «missione civilizzatrice» dell’impero –
un’affermazione che alle menti tedesche suonò come mera ipocrisia da parte di inglesi e francesi.
Non sorprende che i beneficiari fossero sostanzialmente i principali stati imperiali. Uno dei primi
atti concordati quando gli Alleati si incontrarono a Parigi, nel gennaio del 1919, fu quello di
confermare l’occupazione dei territori imperiali tedeschi e ottomani da parte delle truppe
britanniche e francesi. Anziché una definitiva annessione di tali territori, i vincitori si
accordarono su un sistema di mandati che rendeva le due grandi potenze amministratori fiduciari
di popoli «non ancora in grado di reggersi con le loro gambe» nelle «difficili condizioni del
mondo moderno». Il sistema dei mandati venne formalizzato con l’istituzione nel 1921 di una
Commissione permanente per i mandati in seno alla Società delle Nazioni, i cui membri, sotto la
guida dell’accademico svizzero William Rappard, avrebbero dovuto sovrintendere all’attività
delle due potenze mandatarie in modo da garantire che stessero effettivamente preparando al
futuro autogoverno i popoli dei territori loro affidati, anche se le potenze mandatarie trattavano
in realtà i nuovi territori acquisiti come semplici aggiunte alla mappa dei loro imperi o, com’ebbe
a dire piú tardi il politico conservatore britannico Neville Chamberlain, come un impero in
«senso colloquiale». I mandati in Medio Oriente, risultato di un’aspra trattativa tra Gran
Bretagna e Francia, interessavano l’intera regione – Libano e Siria alla Francia; Transgiordania,
Iraq e Palestina alla Gran Bretagna –, indipendentemente dalle promesse fatte in precedenza ai
leader arabi che avevano sostenuto la campagna militare contro i turchi. I mandati relativi alle ex
colonie tedesche in Africa vennero suddivisi ancora una volta tra Gran Bretagna e Francia, che
concessero tuttavia al Belgio il mandato nel Rwanda e Burundi, nel bacino orientale del fiume
Congo . Il Giappone divenne la potenza mandataria nelle isole del Pacifico settentrionale un
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tempo tedesche; all’Australia e alla Nuova Zelanda toccarono invece le ex colonie tedesche della
Nuova Guinea e delle Samoa occidentali. Le popolazioni si opposero a un simile trattamento. «Il
governo francese», scriveva Joseph Bell nell’ottobre del 1919 dal Camerun, ex colonia tedesca,
«ci costringe a vivere sotto la sua amministrazione, ma il nostro paese non vuole un governo
francese». Le petizioni si moltiplicarono nuovamente a Ginevra, sede della Commissione
permanente, ma le nuove potenze mandatarie, che avevano una posizione di dominio all’interno
della Società delle Nazioni, si limitarono a ignorarle. Dei nove membri della Commissione, la
maggior parte era costituita da diplomatici o funzionari coloniali, otto dei quali rappresentavano
gli stati imperialisti, tra cui quattro appartenenti alle stesse potenze mandatarie .
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Alla fine, negli anni immediatamente successivi alla Grande Guerra, l’impero sopravvisse alle
pressioni sia internazionaliste sia nazionaliste grazie alla precisa volontà di rispondere alle
minacce con la violenza. In realtà, per tutte le potenze imperiali, poste di fronte a un mondo
instabile e politicamente pericoloso, l’istituzione imperiale divenne ancora piú importante,
poiché contribuiva a definire e rafforzare l’impero-nazione e sopprimeva al tempo stesso ogni
diritto alla piena indipendenza nazionale in Africa, Medio Oriente e Asia. Woodrow Wilson,
nonostante la sua popolarità in tutto il mondo, non aveva mai pensato che i suoi principî
avrebbero eliminato il mondo dei grandi imperi. A suo avviso, le potenze imperiali dovevano
operare come amministratori fiduciari, portando i benefici della civiltà a popoli troppo primitivi
per gestire un vero e proprio stato, esattamente come stavano facendo gli Stati Uniti nelle
Filippine e negli altri territori sottratti alla Spagna. Anche se il comportamento di Wilson a Parigi
nel 1919, quando aveva reagito negativamente alle petizioni che giungevano dai paesi non
europei, confermava chiaramente le sue preferenze, gran parte dell’opinione pubblica americana
interpretò come pura ipocrisia la rinuncia a porre un freno all’imperialismo europeo e giapponese
e nel 1919 il Senato degli Stati Uniti respinse sia le risoluzioni approvate a Parigi sia la Società
delle Nazioni come agente incaricato della loro implementazione . La decisione del Senato non
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disimpegnò del tutto gli Stati Uniti dagli affari mondiali, come si è talvolta ipotizzato, ma lasciò
la Società delle Nazioni saldamente nelle mani delle grandi potenze direttamente interessate a
sostenere l’impero.
Le realtà imperiali di maggiore importanza in quegli anni erano la Gran Bretagna e la Francia.
Dopo la guerra, l’impero francese svolse un ruolo di particolare rilievo nella cultura della
madrepatria e garantí un grado superiore di benefici economici. Grazie all’aggiunta dei territori
sottoposti a mandato, l’impero francese raggiunse la sua massima estensione geografica – la
Grande Francia (la plus grande France), come venne chiamato. Il contributo dato durante il
conflitto mondiale animò l’idea – associata principalmente al ministro delle Colonie, Albert
Sarraut – che per ricavare il massimo dall’impero esso dovesse essere centralizzato e
consolidato. Nel 1923, il suo libro La mise en valeur des colonies françaises (La valorizzazione
delle colonie francesi), divenuto presto popolare, esponeva lo scopo piú ampio dell’impero:
«L’accresciuta forza e ricchezza dell’insieme dei francesi d’oltremare» avrebbe garantito «la
futura potenza e prosperità della madrepatria». Con un impero, osservò un uomo d’affari, la
Francia era «una nazione di importanza mondiale» . I successivi governi francesi crearono un
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impero piú strettamente legato all’economia della madrepatria, tutelata in certa misura dopo il
1928 dalla nuova normativa delle tariffe kircheriane e basata su un blocco monetario comune.
Nel 1939, l’impero assorbiva il 40 per cento delle esportazioni francesi e forniva il 37 per cento
delle importazioni; nello stesso anno, oltre il 40 per cento degli investimenti francesi all’estero
avveniva all’interno dell’impero .
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La realtà, ovviamente, non era del tutto coerente con l’immagine popolare, visto che la storia
dell’imperialismo francese venne scandita negli anni Venti e Trenta da violenti conflitti. Tra i piú
brutali vi furono la guerra del Rif in Marocco, la repressione di una rivolta in Siria, entrambe nel
1925-26, e la cruenta reazione a un’insurrezione comunista in Indocina nel 1930-31. In
quest’ultimo caso, secondo stime di quel tempo, circa 1000 manifestanti erano stati uccisi a
fucilate o con bombe, 6000 imprigionati, torturati o giustiziati e 1300 villaggi distrutti. I
lavoratori delle piantagioni, che si erano uniti agli insorti, lavoravano da quindici a sedici ore al
giorno, sorvegliati da guardie armate e confinati nei loro villaggi . Nel Sud-est asiatico, come in
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tutto l’impero, il governo francese e le autorità coloniali erano assai meno disposti degli inglesi a
superficiali concessioni politiche al nazionalismo coloniale. In patria, in compenso, l’impero
attirava un grande interesse popolare. Verso la fine degli anni Venti esistevano piú di settanta
testate e altre pubblicazioni dedicate alle questioni coloniali. Nel 1931, al culmine della
recessione mondiale, si tenne nel sobborgo parigino di Vincennes una grandiosa Exposition
coloniale internationale, in un maestoso palazzo in stile coloniale costruito ad hoc e decorato
con pitture murali e simboli esotici dei territori sparsi per l’impero. In cinque mesi furono
venduti circa 35,5 milioni di biglietti. La mostra, pur giocando sull’idea di un impero unitario,
presentava il mondo coloniale come «altro», rafforzando le gerarchie che operavano realmente
nell’impero .
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L’impero britannico rimaneva in ogni caso il piú vasto del globo, e con un margine
considerevole. Non c’era dubbio che l’impero contribuisse a fare della Gran Bretagna una
potenza economica mondiale. Mentre altri mercati subivano forti contrazioni o venivano chiusi,
le esportazioni britanniche verso l’impero aumentarono da un terzo a quasi il 50 per cento di
tutto il commercio tra il 1910 e il 1938, anno in cui le regioni dell’impero coprirono il 42 per
cento delle importazioni; nel 1930, quasi il 60 per cento degli investimenti esteri veniva
incanalato nelle terre dell’impero, in cui, pur non essendo ancora un blocco commerciale chiuso,
si praticavano chiare preferenze di natura imperiale. Come nel caso francese, il relativo declino
dei settori dell’industria britannica era mascherato dalla possibilità di esportare nelle colonie
prodotti a prezzi esagerati, mentre gli investimenti britannici oltremare – nelle forniture di
stagno, gomma, olio, rame e un’intera gamma di altre materie prime – permettevano alle ditte
commerciali e alle industrie britanniche di mantenere una presenza importante sul mercato
mondiale. L’impero venne incorporato nella cultura popolare britannica, anche se per molti esso
rimaneva una realtà remota, una sorta di comunità immaginata che affondava le sue radici in una
propaganda di unità e paternalismo che, come per i francesi, ignorava lo stato di emergenza quasi
permanente e le azioni coercitive che anno dopo anno si ripetevano nelle varie regioni
dell’impero. Nel Regno Unito, la data piú importante del calendario imperiale era l’Empire Day,
istituito nel 1903 il giorno del compleanno della regina Vittoria e celebrato a partire dagli anni
Venti in quasi tutte le scuole del regno. Nel 1924-25 fu allestita a Wembley una grande Empire
Exhibition, che attirò 27 milioni di visitatori su un terreno espositivo di quasi 90 ettari che
ospitava le diverse «razze nel loro ambiente», esposte come animali in uno zoo . 53

Gli stessi benefici economici non erano tuttavia condivisi dai tre nuovi protagonisti della corsa
all’impero di fine Ottocento: Italia, Giappone e Germania. Non a caso negli anni Trenta, quando
crollò sia l’economia globale sia l’internazionalismo, furono queste tre potenze a lanciare una
nuova ondata di violento imperialismo territoriale, basandosi sui concetti prebellici di «impero-
nazione». La loro visione dell’ordine mondiale dopo il 1919 risentiva, per diverse ragioni, di un
profondo malcontento per l’esito del conflitto appena concluso e per il ruolo egemone assunto
dalle grandi potenze occidentali, soprattutto al momento di dare forma all’ordinamento mondiale
del dopoguerra e alla conseguente arena politica internazionale. Questo valeva anche per l’Italia
e il Giappone, potenze alleate ed entrambe vittoriose nel 1919 e, a differenza della Germania,
ancora in possesso di imperi coloniali. Agli ambienti nazionalisti di tutti e tre i paesi era chiaro
che la Grande Guerra aveva permesso ai maggiori imperi mondiali – Gran Bretagna e Francia –
di raggiungere la massima espansione territoriale. Il loro potere globale, sostenuto dalla Società
delle Nazioni e dalla retorica dell’internazionalismo, era utilizzato per frenare altri stati da
ulteriori avventure imperialiste, consentendo allo stesso tempo a entrambe le potenze di sfruttare
appieno lo status di «imperi-nazione». In realtà, quanto piú vigorosamente gli inglesi e i francesi
propagavano la fantasia di un impero unito come fonte di forza e prosperità nazionale, tanto piú
gli stati svantaggiati immaginavano che accrescere il loro territorio fosse l’unico modo per
migliorare il proprio status e proteggere i rispettivi popoli dai rischi economici. Si dava inoltre
per scontato che ulteriori acquisizioni territoriali fossero possibili solo con il conflitto armato.
Del resto, la storia piú recente lo aveva appena confermato: la guerra ispano-americana del 1898,
la guerra boera, la guerra russo-giapponese, la conquista ventennale della Libia e, negli anni
Venti, i grandi conflitti imperiali in Marocco, Siria e Iraq avevano dimostrato questa evidente
verità. Il risentimento verso quella che era considerata una mancanza di autonomia decisionale
riguardo al futuro nazionale aumentò fino a originare un crescente rifiuto dei valori «occidentali»
o «liberali», fondati sulla collaborazione pacifica e la politica democratica. Non è difficile capire
perché i sentimenti nazionalisti in questi tre stati finirono per favorire soluzioni territoriali che
avrebbero potuto porre fine a quella che consideravano una permanente subordinazione ai grandi
imperi di Gran Bretagna e Francia, che abbondavano di territori e risorse, e agli Stati Uniti.
Il risentimento giapponese affondava le sue radici nella storia dell’espansione nipponica, che alla
fine della Grande Guerra aveva catapultato il paese tra i principali attori della politica di potere
regionale del Sud-est asiatico e del Pacifico – uno status per altro non ancora pienamente
riconosciuto dagli Alleati. Anche se il Giappone era stato invitato alla Conferenza di pace a
Parigi come membro del Consiglio dei Dieci, composto dai rappresentanti dei maggiori stati
alleati, le decisioni fondamentali venivano negoziate dalle grandi potenze occidentali. La
richiesta giapponese che nel progetto della Società delle Nazioni fosse inclusa una clausola di
«uguaglianza razziale» venne rifiutata dalle grandi potenze, impreparate a promuovere tale
principio. Nella visione nipponica, la Società delle Nazioni rimaneva una costruzione
occidentale, inadeguata a realizzare «misure per l’autoaiuto nazionale»; verso la metà degli anni
Venti, venne avanzata senza successo l’idea che il Giappone istituisse una sezione asiatica della
Società delle Nazioni per meglio rappresentare gli interessi di Tokyo. Le speranze in un
determinato esito della guerra – ovvero «una posizione di rilievo in Oriente», secondo le parole
del ministro degli Esteri Motono Ichirō – furono gradualmente disattese . Le potenze occidentali
54

riconquistarono quote di mercato in Cina. Il Giappone dovette accettare di restituire alla


sovranità cinese la concessione tedesca dello Shandong, ottenuta nel 1914 con grande clamore
nazionalista; il riconoscimento da parte americana dei particolari interessi del Giappone in Cina,
in base all’accordo Lansing-Ishii del 1917, fu respinto nel 1922; l’alleanza anglo-giapponese
firmata nel 1902 venne abrogata nel 1923. «Ovunque nel mondo», osservò il delegato del
Giappone alla Conferenza di pace, «viene portato avanti il cosiddetto americanismo» . Alla 55

Conferenza sul disarmo di Washington, nel 1921-22, il Giappone dovette accettare un rapporto
di forza navale di 5:5:3 a favore della Gran Bretagna e degli Stati Uniti – confermato poi nel
1930 alla Conferenza navale di Londra . Fu soprattutto il sostegno occidentale alla nuova Cina
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nazionalista, che stava lentamente emergendo dai conflitti dei signori della guerra seguiti alla
caduta dell’impero nel 1912, ad alienare il Giappone, che considerava la propria posizione in
Cina un elemento essenziale per i suoi futuri interessi nazional-imperiali. Il trattato delle nove
potenze, concluso a Washington nel 1922 e firmato anche dal Giappone, ribadiva la necessità di
mantenere con la Cina una politica commerciale «delle porte aperte» e rigettava implicitamente
l’idea che il Giappone potesse godere in Asia di una posizione privilegiata. I critici giapponesi
del sistema internazionale parlavano di un nuovo ordine asiatico basato sul «pensiero orientale»,
che rifiutava i modelli occidentali di pacificazione, capitalismo e democrazia liberale come
intrinsecamente incompatibili con la strategia e gli interessi politici del Giappone .
57

Una delle questioni centrali per i nazionalisti giapponesi – a che cosa erano valsi i «sacrifici di
sangue» compiuti nelle guerre contro la Cina e la Russia? – rappresentava un problema
fondamentale anche per l’Italia. All’inizio degli anni Venti, la propaganda nazionalista insisteva
sul tema della costruzione di una nuova Italia «in nome dei caduti», il cui sacrificio, cosí si
diceva, era stato messo in ridicolo dell’accordo di pace del 1919. Anche se nella guerra l’Italia
aveva avuto 1 900 000 vittime tra morti e feriti, la delegazione italiana venne trattata durante
tutta la Conferenza di pace come una potenza alleata il cui contributo non le dava titolo a una
pari considerazione. Nel corso del conflitto, i nazionalisti italiani avevano sperato di poter
annettere nel dopoguerra possedimenti territoriali in Dalmazia e perfino in Turchia; funzionari
del ministero delle Colonie parlavano della possibile creazione di un’Africa italiana dalla Libia
al golfo di Guinea . Nel gennaio del 1919, a un congresso indetto dall’Istituto agricolo coloniale
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italiano (IACI) per esaminare l’accordo di pace, un delegato ribadí che l’Italia «deve conseguire
oltremare l’uguaglianza territoriale» con inglesi e francesi. Come minimo, il governo italiano si
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aspettava che la Gran Bretagna e la Francia avrebbero onorato gli impegni territoriali segreti del
trattato di Londra, firmato nel 1915 per convincere l’Italia a entrare in guerra. Essi includevano
la promessa di territori in Dalmazia, il controllo dell’Albania, il riconoscimento degli interessi
italiani nel Mediterraneo e la possibilità che l’Italia avrebbe condiviso le spoglie dell’impero
tedesco e di quello ottomano come «giusto risarcimento» . 60

Sfortunatamente per la delegazione italiana, Wilson era ostile al trattato e rifiutò di sentirsi
vincolato a esso, mentre Gran Bretagna e Francia sfruttarono l’intransigenza del presidente
americano per mascherare la propria volontà di non fare concessioni all’Italia. Le divisioni
politiche italiane in merito a quella che sarebbe stata una pace giusta resero difficile coordinare
un programma d’azione per costringere Londra a rispettare pienamente le clausole del trattato . 61

Ad aprile, il primo ministro italiano, Vittorio Orlando, abbandonò per protesta la Conferenza di
Parigi, ma a maggio, quando prese nuovamente parte ai colloqui, era piú chiaro che mai che
all’Italia non sarebbero state riconosciute ulteriori concessioni oltre all’ex territorio austriaco nel
nord-est della penisola, né tantomeno l’Italia sarebbe stata autorizzata ad amministrare un
territorio soggetto a mandato. Fu da quel momento che si iniziò a parlare della «vittoria
mutilata». Orlando scrisse nelle sue memorie che «mai una pace ha lasciato dietro di sé una tale
scia di risentimento e odio, non solo da parte dei vinti verso i vincitori, ma anche da parte dei
vincitori nei confronti dei loro alleati altrettanto vittoriosi» . Fu quel lascito di acredine a
62

caratterizzare le ambizioni del governo nazionalista radicale nominato nell’ottobre del 1922 sotto
la guida di Benito Mussolini e del Partito fascista italiano di recente fondazione. Benché animato
da una profonda ostilità verso quella che Mussolini definiva «l’alleanza plutocratica e borghese»
tra Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti, anche un regime fascista aveva dei limiti in ciò che
poteva ottenere da una situazione in cui l’Italia dipendeva pesantemente dai crediti esteri e
doveva lottare per mantenere il controllo delle sue poche colonie, in Libia e Africa orientale. Per
la maggior parte degli anni Venti, l’Italia, al pari del Giappone, rimase priva di autonomia
sull’arena internazionale, irritata nell’attesa di potersi permettere di perseguire una politica piú
diretta nei Balcani, nel bacino del Mediterraneo e in Africa, ma esitante nelle sue azioni per i
rischi legati a fantasie imperiali che Versailles aveva scoraggiato senza mezzi termini . 63

Il caso tedesco differiva sia da quello italiano sia da quello giapponese. La Germania era un
impero sconfitto, spogliato delle sue colonie d’oltremare e dei territori polacchi della
colonizzazione interna. Il risentimento alimentato dalla sconfitta era condiviso da una base
sociale molto piú ampia che in Italia o in Giappone e la sua articolazione politica e culturale era
assai piú pericolosa. L’iniziale esperienza degli anni del dopoguerra, segnati da fame,
disoccupazione, iperinflazione e violenza politica (inclusa quella lungo la frontiera orientale con
la Polonia), lasciò il segno su un’intera generazione e impose alla Germania difficoltà e
umiliazioni che negli anni Venti nessuna delle potenze imperiali dovette subire in uguale misura.
I sacrifici compiuti dalla nazione durante la guerra creavano un senso immediato di vittimismo
condiviso . La responsabilità di tale crisi esistenziale era attribuita principalmente alle potenze
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occidentali vittoriose che avevano imposto l’accordo di pace. L’intero spettro politico si diceva
indignato dell’accusa che la Germania fosse l’unica colpevole della guerra, che si dovessero
ridurre i suoi territori, che il paese dovesse essere disarmato e che i tedeschi si fossero rivelati dei
colonizzatori disumani e inefficienti. Quest’ultima affermazione, pronunciata alla Conferenza di
Parigi e definita negli anni Venti la Koloniallüge (menzogna coloniale), era un oltraggio studiato
ad hoc e usato per giustificare l’acquisizione delle colonie tedesche e costringere in futuro la
Germania in una posizione subordinata all’interno del continente europeo. Quando i termini del
trattato redatto dalle potenze alleate furono discussi nel marzo del 1919 alla Deutsche
Nationalversammlung, l’«Assemblea nazionale di Weimar», i delegati, prevalentemente
socialisti e liberali, respinsero le proposte riguardanti le colonie con 414 voti contro 7 e chiesero
«il ripristino dei diritti coloniali della Germania» . Dieci anni dopo, Adolf Hitler, ora leader di un
65

Partito nazionalsocialista in fulminea crescita, avrebbe asserito durante la campagna elettorale di


respingere «come uno sfrontato attacco al nostro onore nazionale l’affermazione mostruosa e
menzognera che il popolo tedesco non possiede la capacità di amministrare delle colonie». Negli
anni Venti, la destra nazionalista interpretò le restrizioni imposte alla Germania come una forma
di colonialismo inverso, in cui il futuro della Germania era tenuto in ostaggio degli interessi
politici ed economici delle potenze imperiali – una «colonia tributaria da sfruttare», come la
definí Hitler . Non essendo in grado di sfidare il monopolio occidentale del potere, i nazionalisti
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radicali rivolsero il loro risentimento all’interno, contro gli ebrei e i marxisti tedeschi che, si
diceva, avevano «pugnalato la Germania alle spalle» nel 1918, aprendo la strada alla
colonizzazione occidentale del cuore della Germania.
Negli anni Venti, il diritto di essere considerata a pieno titolo una «nazione di grande civiltà»
(Kulturnation), capace di condividere con altri imperi la missione di civilizzazione e
modernizzazione, fu un tema ricorrente. Nel 1926, il ministero degli Esteri tedesco sponsorizzò
un film d’informazione intitolato Die Weltgeschichte als Kolonialgeschichte (La storia del
mondo come storia coloniale), che illustrava non solo il sostegno economico che le colonie
potevano offrire ma contestava anche l’affermazione che la Germania fosse incapace di
governare dei popoli sottomessi . Pur essendo ormai uno stato «postcoloniale», la Germania
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manteneva vivi i legami con il passato coloniale attraverso organizzazioni e forme di propaganda
volte a ricostituire a un certo punto un impero d’oltremare. La DKG comprendeva una serie di
piccole associazioni istituite per condurre una campagna per i diritti coloniali; la Società contava
30 000 membri, sparsi in 260 filiali locali, e sosteneva una vasta gamma di riviste coloniali che
diffondevano ampie notizie sulle ex colonie tedesche e su quelle degli altri grandi imperi.
Crebbero quantitativamente i sussidi e gli investimenti nelle aziende tedesche che operavano
nelle ex colonie, che passarono da 73 nel 1914 a 85 nel 1933. La Deutsche Kolonialschule
(Scuola coloniale tedesca) di epoca prebellica continuava a funzionare, e nel 1926 fu istituita la
Koloniale Frauenschule (Scuola coloniale femminile), entrambe progettate per formare
amministratori ed esperti per un presunto impero futuro. Nel 1925, venne allestita a Berlino, in
modo alquanto incongruo, una Deutsche Kolonial-Ausstellung (Esposizione coloniale tedesca). Il
ministro degli Esteri Gustav Stresemann colse l’occasione per evidenziare il contrasto tra tutti gli
altri imperi europei, compresi quelli della Spagna, Portogallo e Danimarca, e i tedeschi, che,
unico caso in Europa, erano un «popolo senza spazio» (Raum) . 68

La maggiore fonte di risentimento dopo il 1919, come Stresemann aveva capito, nasceva
dall’idea che i tedeschi – un popolo vigoroso, progressista e colto – non disponevano di un
territorio sufficiente per poter esibire le loro qualità e nutrire una popolazione in crescita. Tra i
circoli nazionalisti della Germania, e non solo al loro interno, l’idea che l’espansione territoriale
definisse in qualche modo una nazione moderna e le permettesse di esercitare il dominio su una
serie gerarchizzata di popoli sottomessi divenne un tropo comune della riflessione sul passato
imperiale della Germania e un possibile impero futuro. L’elemento chiave era lo «spazio». Negli
anni Venti, trovarono larga diffusione in Germania le idee lanciate da Ratzel sul naturale bisogno
del Lebensraum, una necessità creata prima di tutto dai limiti territoriali imposti dal trattato di
pace di Parigi – quella «mutilazione ingiustificata, infondata e insensata del nostro spazio
vitale», come disse un geografo tedesco nel 1931 . La popolarità della nuova scienza della
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geopolitica, introdotta tra gli altri in Germania negli anni Venti da Karl Haushofer, derivava non
tanto dalla materia in sé, troppo astrusa per molti, ma dal vocabolario dello spazio vitale e dalle
sue implicazioni per la situazione tedesca. Il romanzo dall’ex colono Hans Grimm, Volk ohne
Raum (Un popolo senza spazio), che vendette 315 000 copie dopo la sua pubblicazione nel 1926,
doveva la sua fama al titolo stesso, scelto dall’editore come grido di battaglia per le
rivendicazioni tedesche. Il concetto di Raum era semanticamente piú ricco dell’equivalente
inglese space: esso indicava un territorio su cui il Volk, ovvero il popolo (un altro termine non
reso adeguatamente dall’inglese people), avrebbe impiantato le proprie particolari qualità
culturali e biologiche – caratteristiche razziali che andavano a scapito, se necessario, di popoli
sottomessi o estranei, in particolare, secondo l’ala nazionalista radicale, quello degli ebrei,
considerati l’archetipo dell’«anti-nazione» cosmopolita . 70

L’idea di assicurarsi un territorio supplementare, governato o dominato da un popolo definito in


termini di omogeneità razziale e superiorità culturale, veniva considerata un risarcimento, come
affermava Haushofer, per i «grandi e sanguinosi sacrifici» della guerra . Tali aspirazioni,
71

ampiamente condivise dalla società tedesca, ponevano tuttavia la domanda da dove dovesse
arrivare quel risarcimento per il presunto maltrattamento subito dalla Germania. La lobby
coloniale, benché numerosa e ben organizzata, capiva che assicurarsi delle colonie oltremare
nella situazione degli anni Venti era un sogno chimerico, benché vi fosse la speranza che, in un
qualche futuro, le potenze occidentali avrebbero potuto consentire alla Germania di avviare un
progetto coloniale di tipo collaborativo. La maggior parte dei circoli nazionalisti che sollevavano
la questione di «razza e spazio» si atteneva al pensiero imperiale d’anteguerra, rafforzato per
breve tempo dall’impero istituito nel 1918 in Ucraina, secondo cui solo un’espansione verso est
poteva promettere un Raum in un senso autentico e plausibile. In tal modo, infatti, sarebbe stato
possibile, come suggerí piú tardi negli anni Trenta il filosofo giurista Carl Schmitt, realizzare un
«grande spazio» (Grossraum) nell’Europa centro-orientale e tenere a distanza le altre potenze.
L’«Est», benché mai definito molto chiaramente, compariva regolarmente nelle discussioni sullo
«spazio vitale». Gli studiosi di geopolitica, in particolare, rimarcavano che ben al di là dei
confini ora limitati della Germania vi erano regioni che vantavano storicamente un’influenza
tedesca – vuoi di tipo linguistico, di pratiche agricole, tradizioni giuridiche o perfino forme di
abitazione – che giustificava il fatto di considerare l’Est come uno «spazio germanico». Questo
concetto di un «territorio [tedesco] omogeneo per razza e cultura» veniva ribadito in numerose
cartine dei libri di testo scolastici o nella propaganda politica. Una mappa di questa regione
culturale e razziale, prodotta da Albrecht Penck e Hans Fischer nel 1925 e ampiamente imitata e
diffusa, mostrava uno spazio tedesco che si estendeva fino all’Ucraina e alla Russia, dal lago
Ladoga nel nord fino a Cherson nell’estremo sud ucraino, incluso il territorio dei «tedeschi del
Volga», che erano giunti nella regione nel XVIII secolo e i cui discendenti vivevano ora sotto il
dominio sovietico . Nel 1921, dopo aver assistito a una conferenza sui futuri obiettivi territoriali
72

della Germania, un giovane Heinrich Himmler, in seguito capo delle SS (Schutz Staffel,
Organizzazione paramilitare dello NSDAP per la sicurezza) e responsabile del feroce
imperialismo tedesco in Polonia e in Unione Sovietica, annotava nel suo diario: «L’Oriente è ciò
che è piú importante per noi. L’Occidente muore facilmente. Dobbiamo combattere e insediarci
nell’Est» . Negli anni Venti, pertanto, in questa visione non c’era nulla che potesse attribuirsi
73

specificamente ai nazionalsocialisti.
Negli anni Venti, il sogno tedesco di ribaltare il verdetto della Grande Guerra e dell’accordo di
pace – cosí come le fantasie dell’Italia su un impero nel Mediterraneo o le ambizioni giapponesi
di un dominio esclusivo sull’Asia – rimase un pio desiderio, alimentando tuttavia aspirazioni
nazionali che risalivano a decenni prima della guerra. In realtà, non fu quel sogno a rendere
inevitabile un secondo conflitto globale. Il risentimento che fomentava quelle fantasie non era
universale in nessuno dei tre stati, e quando verso la metà degli anni Venti l’ordine mondiale si
normalizzò attorno alla ripresa economica americana e alla soppressione dei nazionalismi non
europei, per tutti e tre gli stati si rese possibile trovare il modo di cooperare, seppure con
riluttanza, all’interno delle strutture prevalenti di collaborazione politica ed economica
internazionale. Per buona parte della popolazione di Germania e Giappone, a differenza dei
rispettivi circoli nazionalisti, la brama di altri territori non rappresentava una preoccupazione
degna di nota. In Italia, dove la democrazia era crollata in seguito agli aspri conflitti tra il
nazionalismo radicale, il centro e la sinistra, le fondamentali priorità politiche di Mussolini erano
il consolidamento del suo governo e il controllo della ripresa economica del paese. Negli anni
Venti, tutti e tre gli stati dipendevano dal contributo delle potenze occidentali alla lenta rinascita
del commercio e dell’economia degli investimenti a livello mondiale, aderendo almeno a parole
allo spirito internazionalista incarnato nella Società delle Nazioni, a cui la Germania ebbe il
permesso di accedere nel 1926. Nel 1927, invitata nonostante la forte opposizione francese e
belga a sedere nella Commissione permanente per i mandati che doveva coordinare la nuova
sistemazione delle ex colonie del Reich, la Germania raccomandò come proprio commissario il
direttore della Bundesverband der Deutschen Industrie (Federazione dell’industria tedesca)
Ludwig Kastl, anziché uno dei leader della chiassosa lobby colonialista. La Germania insistette
affinché fossero rispettati i termini dei mandati, incluso l’impegno a preparare le ex colonie a una
successiva indipendenza, e fu proprio un tedesco a coniare per primo nel 1932 il termine
«decolonizzazione» (Dekolonisierung) per descrivere un processo che sembrava già in atto . 74

Si trattava, in definitiva, di un tentativo di accomodamento sullo sfondo di un mondo postbellico


la cui stabilità era probabilmente considerata temporanea e sicuramente imprevedibile. Gustav
Stresemann ideò una politica estera tedesca di «adempimento agli obblighi» nella speranza che,
dimostrando la buona fede della Germania, si potesse trovare una via migliore per depennare
alcuni elementi dell’accordo di pace, pur non escludendo la possibilità di un cambiamento di
maggiore portata. In Giappone, il Partito liberale Minseitō, al potere per gran parte degli ultimi
anni Venti, lanciò una campagna per il disarmo e la cooperazione con l’Occidente, ritenendola il
percorso piú sensato per raggiungere gli obiettivi giapponesi e incentivare lo sviluppo
economico . La metà degli anni Venti fu un momento in cui il Giappone attuò perfino una
75

strategia di rapporti amichevoli con la Cina dopo un decennio di duro confronto. Anche in Italia,
dove Mussolini si appellava nervosamente all’idea di una «nuova Italia» come sfida ai valori e
agli interessi dell’Occidente, si dimostrò indispensabile almeno un certo «pacifismo a parole»,
come lo definí il Duce, anziché correre il rischio di un ennesimo conflitto. Perché le nuove
ambizioni imperiali dell’Italia fossero soddisfatte, si doveva aspettare, cosí pensava Mussolini, il
«caos in Europa» . Esistevano comunque abbastanza problemi nelle colonie italiane già create.
76

La Somalia e l’Eritrea attendevano ancora una pacificazione, e anche se le guarnigioni erano


state portate da 2500 a 12 000 uomini, ci vollero dieci anni prima che le insurrezioni regionali
fossero soppresse. In Libia i costi furono ancora piú elevati. A partire dal 1922, quando
Mussolini non era ancora salito al potere, era stata combattuta una violenta guerra contro le tribú
arabe per il controllo della maggior parte dell’entroterra desertico del paese – scontri terminati
solamente nel 1931 dopo anni di feroce repressione. La possibilità di cercare nuovi territori
prima che l’impero già esistente fosse consolidato comportava troppi rischi, ma la campagna
militare manteneva comunque salda l’idea che un possedimento imperiale poteva essere
acquisito solo attraverso la conquista armata .
77

Il periodo di normalizzazione terminò bruscamente con l’inizio della recessione economica


globale nel 1928-29, destinata ad avere conseguenze catastrofiche nel decennio successivo. Gli
storici concordano generalmente sul fatto che la crisi economica rivestí il ruolo principale nel
vanificare gli sforzi per ricostruire un ordine globale dopo il 1919 e sostenere un qualsivoglia
impegno utile all’internazionalismo. Per molti aspetti, il crollo dell’economia mondiale
rappresentò un punto di svolta piú decisivo del 1914 o del 1919 nell’innescare la crisi che negli
anni Quaranta sarebbe sfociata in una guerra globale . Anche se oggi conosciamo bene la storia
78

della crisi, vale la pena ricordare la portata del disastro che colpí un’economia mondiale che
aveva palesato continue debolezze per tutti gli anni Venti, nonostante il breve boom di scambi
commerciali e investimenti registrato verso la metà del decennio. Nel 1932, il settore
dell’industria contava piú di 40 milioni di disoccupati e altre decine di milioni sarebbero
comparse di lí a poco, come anche lavoratori licenziati a causa di un precipitoso calo dei prezzi e
della produzione. Durante la recessione dal 1929 al 1932, il commercio mondiale subí una
spettacolare contrazione di due terzi. Le aree piú povere del mondo, che dipendevano da non piú
di uno o due prodotti da esportazione, sprofondarono in una disperata miseria. La chiusura delle
linee di credito portò a una catena di fallimenti e nel 1932 generò quasi la bancarotta nazionale
della Germania. Si era propagato il panico che la crisi potesse segnare niente di meno che la fine
del capitalismo, come i comunisti avevano allegramente previsto. I nazionalisti tedeschi
vedevano con pari soddisfazione la crisi come il «crepuscolo dell’economia mondiale» e
dell’odiato sistema occidentale che l’aveva sostenuta .
79

La sensazione che il modello occidentale di collaborazione economica e internazionalismo fosse


ormai condannato trovava linfa in un decennio di scritti di Cassandre dell’ultima ora, tra cui il
piú famoso era Der Untergang des Abendlandes (Il tramonto dell’Occidente) di Oswald
Spengler. Nell’estate del 1932, il presidente dell’assemblea della Società delle Nazioni esortò gli
stati membri a collaborare o a prepararsi al peggio: «Il mondo intero sta soffrendo di una terribile
crisi e di mancanza di fiducia. Le ultime speranze del mondo sono adesso nelle nostre mani» . La
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Società delle Nazioni, tuttavia, nonostante i suoi sforzi per definire che cosa fosse necessario per
alleviare la crisi, si rivelò impotente a fermare la corsa verso un’economia nazionalista. Con
l’aggravarsi della crisi, la cooperazione iniziò a sembrare ben piú rischiosa di una protezione
dell’economia nazionale. Nel giugno del 1930, gli Stati Uniti introdussero una politica
protezionista con l’Hawley-Smoot Tariff, tagliando fuori il mercato americano dalle
importazioni estere; nel novembre del 1931, dopo un lungo dibattito politico, la Gran Bretagna
abbandonò il commercio liberista e impose una serie di tariffe, seguite nell’agosto dell’anno
seguente da un sistema di preferenze imperiali che garantivano un accesso privilegiato al
mercato alle importazioni provenienti dalle regioni dell’impero; in Francia, le tariffe kircheriane
ridussero i dazi sui prodotti coloniali a spese del resto del mondo . La crisi portò alla nascita di
81

particolari blocchi commerciali e valutari: per il dollaro, la sterlina e il franco. Le economie piú
forti del mondo avrebbero potuto avere un ruolo determinante nel proteggere il sistema da cui
avevano a lungo tratto profitto, ma scelsero di non farlo, a scapito degli altri paesi del mondo.
Per gli stati che si trovarono penalizzati dai nuovi programmi di nazionalismo economico, le
conseguenze politiche furono profonde. In Giappone, la recessione si rivelò una vera calamità: le
esportazioni, in particolare di seta grezza, crollarono del 53 per cento, le importazioni del 55 per
cento; il grande settore agricolo del paese, stagnante per gran parte degli anni Venti, conobbe un
ulteriore declino disastroso, con un dimezzamento dei redditi agricoli che lasciò milioni di
contadini in una miseria paralizzante . Lo sforzo di cooperare all’interno del sistema occidentale
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si rivelò infruttuoso e un’ondata di sentimenti antioccidentali condusse alla caduta del governo
Minseitō, di tendenze moderate. La marea montante della rivolta nazionalista contro il sistema
globale portò i militari in una posizione dominante nel governo giapponese e alla fine degli
esperimenti democratici degli anni Venti . In Italia, colpita dalla recessione meno gravemente di
83

altre economie, la crisi fu interpretata dal regime come un’opportunità per riaccendere in patria
la rivoluzione fascista intraprendendo una piú attiva politica imperiale all’estero, visto che
ciascuna delle grandi potenze si era ritirata nel proprio guscio protettivo. In Germania, la
recessione fu interpretata da gran parte della popolazione come l’ennesima punizione inflitta
dalle potenze vincitrici. Nel 1931, quando si cercò di realizzare con l’Austria un accordo
tariffario, la Francia non esitò a porre il veto. Durante la recessione, che lasciò senza lavoro due
tedeschi su cinque e portò la produzione industriale a un decremento del 40 per cento e a un calo
di oltre la metà delle esportazioni tedesche, la Germania avrebbe dovuto anche pagare le
riparazioni di guerra e sanare il cospicuo debito internazionale contratto negli anni Venti. Con la
crisi, le recriminazioni sul fatto che la Germania fosse poco piú di una colonia cominciarono ad
acquisire maggiore senso. Nel 1930, i nazionalsocialisti di Hitler, il partito nazionalista piú
radicale e profondamente ostile all’economia globalizzata e alla tutela occidentale, divennero una
forza politica a tutti gli effetti; nel 1932, erano diventati il piú grande partito e nel gennaio del
1933 salirono al governo allorché fu offerto a Hitler il cancellierato. Anche in questo caso, come
in Italia e in Giappone, i nazionalisti che negli anni Venti avevano sfruttato le fantasie imperiali
di «razza e spazio» potevano ora sostenere che erano nel giusto. Il mondo si era pericolosamente
ribaltato a loro favore.
Era questo il contesto in cui prima il Giappone, poi l’Italia e infine la Germania hitleriana
cercarono negli anni Trenta di estinguere il loro risentimento ormai in suppurazione,
imbarcandosi in una nuova ondata di conquiste territoriali imperialiste. Sotto la spinta della crisi,
si rafforzò l’idea che si rendeva necessario un rinnovato ordine economico e politico globale,
non piú basato sul defunto internazionalismo dei decenni precedenti ma fondato invece su un
sistema di blocchi economici imperiali chiusi, dominati – al pari dei territori degli imperi
britannico e francese – dal potere assoluto della madrepatria . Allora piú che mai, il potere
84

dell’impero era considerato indispensabile alla sopravvivenza nazionale, rilanciando cosí il


paradigma imperiale stabilito alla fine del XIX secolo. Questa opzione, nelle parole del ministro
degli Esteri giapponese Arita Hachirō, era inevitabile: «I piccoli paesi non hanno altra scelta che
impegnarsi come meglio possono a creare dei propri blocchi economici o fondare stati potenti,
nel timore che sia messa a repentaglio la loro stessa esistenza» . La battaglia per conquistare
85

nuovi territori e assicurarsi risorse, se necessario con la guerra, riportò l’orologio a un’età
imperiale ormai passata. Il dittatore sovietico Iosif Stalin, osservando la crisi del capitalismo
dall’unico stato del mondo in cui lo sviluppo economico aveva risentito poco della recessione
mondiale, si rese conto che la guerra commerciale, quella valutaria, «la strenua lotta per i
mercati» e un nazionalismo economico estremo avevano «posto all’ordine del giorno la guerra
come mezzo per una nuova spartizione del mondo e delle sfere di influenza a profitto degli stati
piú forti». Per una volta, il giudizio di Stalin, non sempre ben visto dagli storici, fu confermato
dagli eventi .
86
Capitolo primo
Imperi-nazione e crisi globale, 1931-40
In un atto di vergognosa violenza, i soldati cinesi hanno fatto esplodere un tratto del binario Mantetsu situato a nord-ovest di
Beitaying [base militare] e hanno attaccato le nostre guardie ferroviarie, che hanno immediatamente risposto al fuoco e
mobilitato l’artiglieria per bombardare Beitaying. Le nostre forze ora occupano una sezione della base...
«Asahi», Osaka, 19 settembre 19311.
Questo articolo di prima pagina del popolare quotidiano giapponese «Asahi» offriva ai suoi
lettori un resoconto della perfidia cinese, allo scopo di imprimere nella percezione popolare chi
fosse veramente da biasimare per l’inizio di quella che sarà l’invasione e l’occupazione
giapponese dell’intera provincia settentrionale cinese della Manciuria. Si trattò di una parodia
della verità. La mattina del 18 settembre 1931, alle prime luci dell’alba, un gruppo di ingegneri
giapponesi del Kantō-gun, l’Armata del Kwantung di stanza in Manciuria con il compito di
proteggere gli interessi economici dell’impero nella regione, aveva piazzato l’esplosivo per avere
il pretesto di avviare un programma di espansione militare in Cina che si sarebbe concluso
soltanto nel 1945. In termini globali, si trattava di un piccolo incidente, ma le sue conseguenze
ebbero dimensioni molto maggiori. Quel primo passo per creare con la violenza un nuovo ordine
imperiale ed economico fu infatti il punto di svolta che segnò il precipitare della crisi economica
mondiale. Lo scontro armato alla base di Beitaying rappresentò l’inizio di quella che negli anni
Trenta sarebbe poi diventata una nuova era imperiale.
Le circostanze in cui avvenne quello che il governo giapponese chiamò in seguito «incidente di
Mukden» erano strettamente connesse alla piú ampia crisi globale e ai disperati sforzi del
Giappone di trovare una qualche soluzione alla crescente povertà del paese e al suo isolamento
economico. L’Armata del Kwantung, che prendeva il nome dalla zona di concessione giapponese
sulla costa cinese della Manciuria, nota come Kantō-shū (Concessione del Kwantung), tramava
da alcuni anni per estendere l’impero giapponese fino alla Cina continentale. Sollecitati dalla
portata della crisi economica e consapevoli della persistente minaccia del nazionalismo cinese, i
comandanti dell’armata avevano infine deciso di agire indipendentemente da Tokyo. Dopo aver
fatto esplodere il breve tratto del Mantetsu (ferrovia della Manciuria meridionale), di proprietà
giapponese, i soldati del Kwantung avevano preso d’assalto la guarnigione cinese di stanza nel
porto di Mukden. Avevano occupato il resto della cittadina e, in un attacco accuratamente
pianificato, avevano varcato i confini della Concessione, conquistando prima le aree attorno alla
rete ferroviaria principale e cacciando poi dalle regioni meridionali e centrali della Manciuria i
330 000 soldati mal equipaggiati del locale signore della guerra cinese, Zhang Xueliang,
completando l’occupazione della provincia agli inizi del 1932. L’armata dispiegò 150 000
uomini e, con la perdita di circa 3000 soldati, conquistò un’area grande quasi quanto l’Europa.
Benché l’Armata del Kwantung avesse palesemente violato la disciplina militare, due giorni
dopo l’imperatore giapponese Showā, Hirohito, approvò l’azione. Da un giorno all’altro,
l’impero giapponese aveva subito una metamorfosi in termini di dimensioni e ricchezza . 2

L’incidente di Mukden non causò direttamente la guerra mondiale che esploderà otto anni dopo,
ma inaugurò un decennio di rinnovata espansione imperiale, legata al nuovo imperialismo del
mondo antecedente al 1914 e all’assetto imperiale instaurato alla fine della Grande Guerra.
Nessuno dei tre stati che delinearono il nuovo imperialismo – Italia, Germania e Giappone –
iniziò con un piano ben definito o un progetto di espansione vero e proprio, ma ciascuno agí in
maniera opportunistica in alcune precise sfere di interesse. Non operarono di concerto in questo
tipo di imperialismo, anche se osservavano attentamente le altrui conquiste e traevano coraggio
dai rispettivi successi. Benché i governanti di tutti e tre gli stati sperassero nella possibilità di
evitare, perlomeno al momento, una guerra piú generale, rimandandola a quando sarebbero stati
portati a compimento i loro piani imperiali, l’instabilità provocata da quei tre programmi separati
alimentò la spinta al conflitto globale che si scatenò tra il 1939 e il 1941.
Una nuova età imperiale.
Il territorio restava un fattore critico per Giappone, Italia e Germania. Il controllo territoriale,
esercitato in vari modi, sia ufficiali sia informali, rappresentava il vero fulcro dell’impero. A
fornire il modello di tale principio di «territorialità» era stato il quarantennio di violenta
espansione e pacificazione che aveva preceduto gli anni Trenta e che, in alcuni casi, era ancora in
corso. In effetti, le decisioni prese a Tokyo, Roma o Berlino allo scopo di scatenare guerre di
aggressione regionali assumono un senso storico solo se consideriamo questo contesto
pluriennale. Per la generazione salita al potere negli anni Trenta, la retorica di «razza e spazio»
che aveva sostenuto l’impero dalla fine del XIX secolo non aveva affatto perso la sua forza.
Anche se a posteriori questa forma di imperialismo appare anacronistica, persino delirante, in
quel momento il paradigma dell’impero sembrava cosa ovvia e tutt’altro che remota. Il risultato
della redistribuzione territoriale del 1919-23, come pure le conseguenze della catastrofe
economica seguita al 1929, serví solo a rafforzare, anziché indebolire, la convinzione che la
conquista di altri territori e risorse fosse un mezzo indispensabile per salvare la nazione, costruire
un’economia piú forte e soddisfare i bisogni di una cultura superiore.
I leader giapponesi, italiani e tedeschi non erano affatto i soli a credere che l’età imperiale non
fosse ancora finita, benché fosse evidente che le ambizioni nazionaliste, i crescenti costi
economici e la persistente insicurezza stessero portando al graduale tramonto del progetto
imperiale globale. Anziché giungere all’ovvia conclusione che l’imperialismo tradizionale era
ormai un’impresa destinata a spegnersi, quei leader sostenevano invece la necessità di
realizzarne uno ancora piú vasto, seppure con proprie caratteristiche specifiche. Gli altri fattori
solitamente presi in considerazione analizzando le origini della Seconda guerra mondiale – la
corsa agli armamenti, le crisi diplomatiche, il conflitto ideologico – furono effetti, e non cause,
della nuova ondata di edificazione imperiale. Seppure con una certa riluttanza, i principali stati
della Società delle Nazioni avrebbero potuto benissimo convivere con le differenze ideologiche o
con un incremento delle spese militari, se tutto questo fosse stato però l’unico motivo di
divisione; quello che i grandi stati imperiali non riuscivano ad accettare era che la rinnovata
spinta all’edificazione di un impero, in puro senso territoriale, era ora incompatibile con la loro
visione della realtà imperiale e con il nuovo linguaggio internazionalista di cui l’avevano
circondata.
La prima domanda da porsi è perché questi tre stati, nonostante gli evidenti svantaggi legati alla
gestione di un impero, i sostanziali rischi per la sicurezza che esso comportava e la crescente
forza dei sentimenti nazionalisti, avessero stabilito negli anni Trenta di fare della «territorialità»
il principio alla base della loro sfida all’ordine esistente. Queste decisioni appaiono ancora piú
sorprendenti perché, a differenza delle guerre che avevano preceduto il 1914, nelle quali un
territorio poteva essere conquistato con un conflitto su larga scala senza provocare alcun
intervento esterno – la guerra boera o quella italo-turca ne sono validi esempi –, a essere oggetto
negli anni Trenta dell’aggressione imperiale furono tutti stati sovrani e membri della Società
delle Nazioni, protetti, almeno sulla carta, dal principio della sicurezza collettiva. Non c’è una
risposta semplice a questa domanda né vi erano chiare analogie tra le situazioni dei tre stati, ma
si riscontrano comunque somiglianze impressionanti per quanto riguarda le giustificazioni e le
spiegazioni offerte sul perché fosse necessario avere il controllo di altri territori. Si potrebbe
aggiungere che la generazione salita negli anni Trenta al potere sia politico sia militare si era
formata nel mondo delle fantasie imperiali, circondata da una cultura che esaltava la superiorità
degli stati modernizzatori e «avanzati», visti come leader nella marcia verso la civiltà rispetto ai
popoli meno sviluppati o primitivi che essi conquistavano, una generazione profondamente
influenzata dall’esperienza delle guerre e dall’asserzione violenta della moderna idea di nazione.
L’impero, sosteneva il leader fascista italiano Giuseppe Bottai, governatore per breve tempo nel
1936 della capitale etiope Addis Abeba, aveva «suscitato nel profondo della mia coscienza il
desiderio di vivere la guerra [...]. Venti anni e piú della mia vita dentro la guerra» .
3

Il punto di partenza per spiegare l’ambizione di possedere un impero territoriale è,


paradossalmente, la nazione. In tutti e tre gli stati, il conseguimento di un impero era legato
all’obiettivo di raggiungere un’autonomia nazionale, il che significava in effetti liberare la
nazione da una situazione di sviluppo apparentemente limitato o condizionato dall’ordine
internazionale esistente – «l’intervento e l’oppressione delle grandi potenze», come affermava un
opuscolo giapponese . I nazionalisti giapponesi, spiegava un funzionario del Mantetsu, vedevano
4

la Manciuria come «un’ancora di salvezza [...] dalla quale è impossibile staccarsi se la nazione
intende continuare a esistere» . Sotto questo aspetto, quello che fu poi chiamato «nazionalismo
5

catastrofico» temeva la possibile scomparsa della piú pura espressione della nazione e invocava
un’urgente riaffermazione della missione nazionale . Mussolini insisteva regolarmente sull’idea
6

che lo sviluppo dell’Italia era strangolato dai possedimenti britannici nel Mediterraneo, che
permettevano alla Gran Bretagna di «accerchiare e imprigionare l’Italia» . Si rendeva necessario
7

rivendicare l’interesse nazionale per proteggere la popolazione, garantendone il futuro


economico e lo sviluppo demografico e fornendo, grazie al fatto di essere uno dei piú importanti
imperi-nazione e non una potenza subalterna, un piú sicuro senso di identità nazionale.
«Vogliamo un impero», disse Hermann Göring nel 1937 discutendo con un conoscente inglese
su ciò che era di ostacolo al futuro della nazione germanica .8

In ciascuno dei vari casi, la narrativa nazionalista descriveva la nazione come una realtà speciale,
destinata a dominare e a guidare il territorio circostante: «In Europa una sola nazione deve
affermare la sua autorità sulle altre», scrisse il commentatore politico tedesco Wilhelm Stapel.
«Soltanto la nazione tedesca può essere il motore di questo nuovo imperialismo» . La 9

popolazione, a sua volta, doveva dimostrarsi degna di partecipare alla rinascita nazionale:
«Stiamo diventando e diventeremo sempre piú una nazione militare», dichiarò Mussolini nel
1933 . In Germania, il «risveglio nazionale» del 1933, con la rivoluzione nazionalsocialista, era
10

legato all’idea che il corpo nazionale poteva ora affermare la sua vera forza, senza essere corrotto
dalle presunte minacce internazionaliste e cosmopolite di ebrei, marxisti e liberali che avrebbero
potuto trasformare la Germania, come temeva Hitler, in una «seconda Svizzera» . In Giappone,
11

dove dal 1931 la leadership militare dominava ormai la politica nazionale, venne lanciata una
vasta campagna per accrescere la consapevolezza nazionale e l’entusiasmo per l’espansione
territoriale – la cosiddetta campagna di «difesa nazionale» –, basata sui temi dell’onore della
nazione e del sacrificio per essa. Come anche in Italia e in Germania, le critiche al nuovo corso
furono soffocate dalla polizia segreta e dalla censura. Qui, come in Europa, le aspirazioni
all’autonomia nazionale giustificavano il nuovo imperialismo, creando a loro volta un legame tra
stato e popolo nella costruzione di un nuovo ordine . L’impero veniva visto come un segno
12

essenziale di virilità nazionale e di valore razziale, nonché come un’arena in cui le convenzionali
norme morali potevano essere messe da parte, come era avvenuto nel XIX secolo.
Il secondo elemento era di natura piú pratica. Il nuovo imperialismo nasceva infatti da piú
profonde ambizioni in campo economico. L’edificazione imperiale era progettata per trascendere
le limitazioni imposte dalle esistenti strutture economiche e territoriali globali, sia acquisendo
ulteriore «spazio vitale», e far fronte cosí alla pressione demografica e alla scarsità di terra, sia
procurandosi l’accesso alle risorse di materie prime e cibo, nonché istituendo un blocco
economico in cui gli scambi e gli investimenti sarebbero stati controllati dal centro imperiale
anziché dalla comunità economica. I tre stati erano accomunati da un crescente impegno a favore
della pianificazione statale e dall’ostilità verso il modello occidentale di capitalismo liberale e il
sistema assiologico che lo sosteneva. Il capitalismo, disse Hitler a una delle prime adunate del
partito, «deve diventare il servo dello stato e non il suo padrone»; un’«economia del popolo»
doveva servire la comunità piuttosto che gli interessi del commercio internazionale . 13

L’imperialismo economico doveva inoltre soddisfare i bisogni del popolo. Il fascino del
tornaconto economico era evidente in tutti e tre i casi. Per l’Italia, la conquista della Libia e
dell’Etiopia avrebbe dovuto fornire nuovi terreni agricoli a un numero di contadini italiani
compreso tra 1,5 e 6,5 milioni, i quali avrebbero potuto stabilirsi nell’impero anziché emigrare
nel Nuovo Mondo. L’Albania, annessa nel 1939, era apparentemente cosí sottopopolata da poter
assorbire due milioni di coloni italiani . Ecco dove si poteva trovare lo spazio vitale, un termine
14

comune tanto in Italia quanto in Germania. L’Etiopia veniva presentata come la terra delle grandi
opportunità, una sorta di Eldorado pullulante di risorse minerarie da sfruttare. I resoconti
sull’Albania menzionavano invece giacimenti di petrolio non ancora scoperti . Quanto al15

Giappone, l’aspirazione al controllo della Manciuria era radicata nella speranza che almeno
cinque milioni di contadini giapponesi colpiti dalla povertà potessero stabilirvisi entro gli anni
Cinquanta, mentre l’abbondanza di risorse industriali e di materie prime della regione, già
fortemente sfruttate prima dell’invasione grazie agli investimenti giapponesi, era considerata
essenziale per il futuro del paese in un mondo in cui lo sviluppo del commercio e l’accesso alle
materie prime sembravano pericolosamente incerti. Tra il 1926 e il 1931, circa il 90 per cento
degli investimenti giapponesi all’estero venne destinato a progetti in Manciuria. Senza un
controllo sicuro di quegli assetti, si sosteneva, il Giappone non avrebbe potuto continuare la
propria modernizzazione economica, né sviluppare le risorse necessarie per difendere l’impero . 16

Il caso tedesco non era diverso. L’idea di assicurarsi un ulteriore Lebensraum, fondamentale per
la visione che Hitler aveva dello sviluppo della Germania, ebbe ampia diffusione quando le
battute d’arresto a livello economico negli anni Venti e Trenta furono attribuite alla mancanza di
risorse adeguate e di un accesso sicuro ai mercati. La propaganda popolare evidenziava negli
altri imperi europei le enormi disparità tra le dimensioni della madrepatria e l’area complessiva
dell’impero: il territorio della Francia era ingrandito di 22 volte; quello dei Paesi Bassi di 60
volte; quello del Belgio addirittura di 80. Si calcolava che il territorio dell’impero della Gran
Bretagna fosse 105 volte piú grande dell’arcipelago britannico. La Germania, al contrario, dopo
la perdita nel 1919 di territorio a livello sia nazionale sia coloniale, era ora piú piccola di quanto
fosse stata un tempo . La creazione e il dominio di un blocco economico nell’Europa centro-
17

orientale, con il controllo del commercio e la piena autosufficienza di risorse fondamentali e


cibo, divennero un elemento centrale della politica economica del regime di Hitler, anche se tale
visione era ampiamente condivisa in tutta la Germania. «Lo spazio economico [Raum]», affermò
Göring nella stessa conversazione del 1937, «deve essere contemporaneamente anche il nostro
spazio politico» . Lo stesso Hitler aveva un’idea meramente economica dell’impero. Nel 1928,
18

riflettendo sull’imperialismo britannico nel suo secondo libro (inedito), egli concludeva che,
nonostante tutta la retorica sull’esportazione di cultura e civiltà, «l’Inghilterra aveva bisogno di
mercati e fonti di materie prime per le sue merci. E si è assicurata tali mercati attraverso il potere
politico». In definitiva, la prosperità nazionale significava azione di conquista, al fine di
garantirsi «il pane della libertà con le angustie della guerra» .
19

Il terzo fattore era rappresentato dall’opportunità. Le esitazioni e le frustrazioni degli anni Venti
avevano lasciato il posto alla sensazione che la crisi dell’assetto postbellico degli anni Trenta
potesse permettere di procedere autonomamente alla costruzione di un nuovo ordine, senza
grandi rischi di provocare una crisi di portata ancora piú ampia. Tali considerazioni furono
cruciali per spiegare la tempistica della nuova ondata imperialistica. L’incapacità della comunità
internazionale di far fronte agli effetti della recessione globale accelerò la deriva verso soluzioni
nazionali della crisi e verso una rottura della collaborazione, espressa molto chiaramente nel
fallimento della Conferenza economica mondiale di Londra nel giugno del 1933 . Una delle20

conseguenze della crisi globale fu la riluttanza dei maggiori stati della Società delle Nazioni a
correre dei rischi, in un momento in cui non potevano permettersi i costi di una vigilanza
internazionale. Il fatto che la Società delle Nazioni non seppe andare oltre una semplice censura
nei confronti del Giappone dopo l’occupazione della Manciuria fu interpretato come un chiaro
messaggio che il sistema di sicurezza collettiva non funzionava con i principali stati membri
della Società. I governanti giapponesi si vantarono in seguito del fatto che il Giappone era stato
«il messaggero della caduta della Società delle Nazioni» e che senza l’iniziativa nipponica, che
aveva denunciato apertamente «l’incapacità e l’inutilità» della Società delle Nazioni, né la
Germania né l’Italia avrebbero avuto l’opportunità di perseguire le loro politiche di aggressione . 21

È anche vero che neppure l’invasione dell’Etiopia, avvenuta quattro anni dopo, venne contrastata
con vigore, né lo fu la violazione da parte della Germania dell’accordo di Versailles nel 1935,
allorché il paese annunciò pubblicamente il riarmo – e nemmeno nel marzo del 1936, quando fu
rimilitarizzata la zona di confine della Renania. Ogni azione di successo invogliava a credere che
la Gran Bretagna e la Francia, in quanto imperi e stati principali della Società delle Nazioni, non
avrebbero ostacolato il cammino verso un’ulteriore edificazione imperiale. «Pensiamo che
Ginevra sia solo una riunione di vecchie signore», disse un giornalista italiano a un collega
britannico ad Addis Abeba nel 1936. «Lo pensiamo tutti, e lo abbiamo sempre pensato» . Tutti e
22

tre gli stati lasciarono la Società delle Nazioni: il Giappone nel marzo del 1933, la Germania nel
settembre dello stesso anno e l’Italia nel dicembre del 1937.
L’ulteriore fallimento di Gran Bretagna e Francia sia nell’impedire il sostegno armato tedesco e
italiano alla rivolta nazionalista del generale Francisco Franco in Spagna tra il 1936 e il 1939 sia
nell’opporsi all’occupazione tedesca dell’Austria nel 1938, o alla divisione della Cecoslovacchia
da parte della Germania nello stesso anno, rafforzò quella convinzione e, soprattutto, convinse
Hitler che Gran Bretagna e Francia avrebbero fatto sí «gesti estremamente teatrali» di fronte a
un’invasione tedesca della Polonia ma, ancora una volta, non sarebbero intervenute
militarmente . Per tutti e tre gli stati, comunque, era fondamentale passare all’azione prima che
23

l’Unione Sovietica o gli Stati Uniti fossero in grado di, o disposti a, ricoprire un ruolo maggiore
negli affari mondiali. Il Giappone e la Germania erano ben consapevoli che l’Unione Sovietica,
impegnata negli anni Trenta a realizzare un’importante presenza industriale e militare
nell’ambito dei Piani quinquennali, costituiva un potenziale pericolo per qualsiasi imperialismo
futuro. Uno dei fattori che determinarono l’occupazione della Manciuria, nonostante la lunga
frontiera con l’Unione Sovietica che ne sarebbe risultata, fu la necessità di difendersi dal rischio
di una mossa sovietica contro l’impero giapponese e di salvaguardarne le risorse strategiche . 24
Hitler, nell’unico grande documento strategico che scrisse durante la sua dittatura, il cosiddetto
Vierjahresplan (Piano quadriennale), redatto nell’agosto del 1936, metteva in chiara evidenza
quale minaccia avrebbe rappresentato nel giro di quindici anni l’Armata Rossa, e la necessità che
la Germania risolvesse pertanto i problemi del proprio spazio vitale ben prima di quel momento . 25

Sotto questo aspetto, gli Stati Uniti rappresentavano una specie di incognita. Costretti a un
relativo isolamento dagli effetti catastrofici della depressione economica e confidando
principalmente nella propria forza navale per difendere l’emisfero, costituivano chiaramente
soltanto una minaccia futura, ma pur sempre una minaccia. Per tutto il tempo, gli Stati Uniti
mantennero una posizione critica nei confronti dell’imperialismo di qualsiasi tipo, anche se
l’opinione pubblica americana non era ancora disposta ad abbracciare l’idea di un intervento
armato per scongiurarlo . Per il mondo degli imperi, sia vecchio sia nuovo, le ombre di Lenin e
26

Wilson incombevano sulle ambizioni di conquista: l’impero doveva essere costruito prima
piuttosto che dopo.
La sensazione che la realizzazione di un nuovo ordine mondiale attorno a una rinnovata ondata
di imperialismo territoriale fosse davvero possibile non rese comunque facile la decisione di
concretizzarlo. I retroscena dell’occupazione della Manciuria, o dell’invasione dell’Etiopia, o
dell’occupazione della Cecoslovacchia e della Polonia, rivelano una buona dose di esitazione e
circospezione da parte dei leader politici di tutti e tre i paesi, nonostante l’opinione, emersa nel
dopoguerra, che tutto facesse parte di un grande piano per dominare il mondo. Che piacesse o
meno, persisteva ancora l’idea della necessità di un «permesso» da parte delle grandi potenze
della Società delle Nazioni. Alla fine, Mussolini vinse le ansie dei suoi comandanti militari e di
alcuni dei suoi colleghi fascisti in merito all’invasione dell’Etiopia, sostenendo – erroneamente,
come venne poi rivelato – di essersi assicurato un accordo verbale da parte di Francia e Gran
Bretagna, in base al quale i due paesi non lo avrebbero ostacolato. Prima dell’occupazione
dell’Albania, tergiversò pensando a ciò che le altre potenze avrebbero potuto fare (anche se in
questo caso la Società delle Nazioni prese semplicemente atto della protesta albanese e non fece
assolutamente nulla) . L’occupazione tedesca delle aree di lingua tedesca della Cecoslovacchia
27

dopo l’accordo di Monaco del 30 settembre 1938 è solitamente vista come un trionfo della
diplomazia arrogante di Hitler, mentre in realtà fece infuriare il Führer perché gli era stata
negata, su insistenza delle potenze occidentali, una guerra lampo contro i cechi. Prima della
guerra dell’anno successivo contro la Polonia, Hitler ribadí ai suoi collaboratori che non vi
sarebbe stata una seconda Monaco . 28

Tra le ragioni che negli anni Trenta inducevano a una maggiore cautela vi era una maggiore
visibilità dei conflitti imperiali, anche di quelli condotti dagli imperi ormai consolidati. Ciò era
dovuto principalmente allo sviluppo dei moderni mezzi di comunicazione – reportage sui
giornali di tutto il mondo, cinegiornali molto popolari e trasmissioni radio – ma anche all’opera
della Società delle Nazioni, che, nonostante tutta la sua presunta soggezione, forniva una
piattaforma internazionale in cui discutere le violazioni della sovranità nazionale, compresa una
discussione aperta all’opinione pubblica sull’occupazione illegittima della Manciuria da parte del
Giappone e sull’attacco di Mussolini all’Etiopia . In tutti e tre i casi, gli aggressori, costretti dal
29

dibattito internazionale a giustificare le loro azioni, sostennero speciosamente che l’invasione era
stata compiuta per proteggere i propri interessi da stati in bancarotta. Nel dibattimento alla
Società delle Nazioni sulla Manciuria, la delegazione giapponese insistette sul fatto che la Cina,
se intesa come «singola entità statale organizzata», era una «finzione», ribadendo inoltre che la
Manciuria non era una colonia in senso formale ma era stata costituita come stato «indipendente»
del Manchukuo, sotto il deposto imperatore manciú Pu Yi . Mussolini giustificò l’attacco
30

all’Etiopia adducendo come pretesto il fatto che il paese non era che «una congerie di tribú
barbare», un «non stato» . Hitler cercò a sua volta di legittimare l’estensione di un protettorato
31

tedesco sulle terre ceche di Boemia e Moravia asserendo che lo stato nazionale aveva cessato di
funzionare efficacemente, e questo benché la Cecoslovacchia fosse sotto ogni aspetto una
moderna nazione europea piuttosto che una potenziale colonia. Anche in questo caso, al
cosiddetto protettorato, termine a lungo associato all’imperialismo europeo come escamotage per
nascondere il controllo effettivo di un paese, venne attribuito il beneficio di una certa autonomia
politica . La mattina del 1° settembre 1939, annunciando la guerra contro la Polonia, Hitler
32

sostenne che nemmeno i polacchi erano un popolo in grado di edificare uno stato e che senza il
dominio tedesco «avrebbe prevalso la peggiore barbarie», facendo inconsciamente eco allo
sprezzante giudizio di Mussolini sugli etiopi nel 1935 . 33

Una certa cautela era dettata non solo dalla situazione internazionale, ma anche dalla difficoltà di
sviluppare un certo consenso in patria tra le élite politiche e militari in merito alla futura condotta
politica. Questo era senza dubbio il caso del Giappone, dove la politica interna era plasmata dal
conflitto tra i partiti politici civili e le forze armate, tra l’esercito e la flotta e tra le diverse fazioni
presenti all’interno dello stesso apparato militare. I comandanti dell’esercito che nel settembre
del 1931 avevano lanciato l’invasione nella penisola di Kwantung lo avevano fatto sfidando
apertamente le direttive del governo civile. Il successivo scontro tra esercito ed establishment
politico aveva portato alle dimissioni del gabinetto Minseitō e alla fine, di fatto, di una vigilanza
della società civile sull’imperialismo dei militari, anche se la faziosità all’interno dell’esercito
persistette fino alla metà degli anni Trenta . Le polemiche tra la marina e l’esercito erano invece
34

imperniate sulle opposte tattiche di un’avanzata verso nord o verso sud: per la flotta erano di
prioritaria importanza la difesa del Pacifico e una possibile occupazione delle colonie europee
ricche di risorse nel Sud-est asiatico – scelta che si sarebbe rivelata disastrosa –; l’esercito
puntava verso nord alla minaccia sovietica e intendeva consolidare prima la propria strategia
continentale nella Cina settentrionale, costruendo un blocco industriale e commerciale forte e
autosufficiente, tale da rendere possibile l’ulteriore espansione della potenza militare giapponese
e un’adeguata difesa dell’impero. Tali argomentazioni finirono per essere accantonate, piuttosto
che risolte, con la pubblicazione il 7 agosto 1936 di Kokutai no Hongi (Principî cardine della
politica nazionale), in cui si sosteneva la necessità sia di una forte difesa dell’impero sul
continente asiatico sia della preparazione della flotta per l’espansione verso sud . 35

A dispetto degli argomenti in favore di una prudenza strategica, l’espansione giapponese nella
Cina continentale continuò senza sosta per tutti gli anni Trenta. L’invasione della Manciuria
rimase un fatto compiuto, divenendo anzi il trampolino di lancio per ulteriori aggressioni
territoriali nipponiche, in parte per stabilizzare la frontiera con la Cina nazionalista, in parte per
assicurarsi ulteriori risorse e snodi di comunicazione e in parte perché l’esercito giapponese e i
suoi sostenitori politici a Tokyo avevano sviluppato un inatteso appetito per un eventuale
espansione dell’impero. Negli anni Trenta, la diffusione del controllo territoriale giapponese non
attirò mai la stessa attenzione internazionale (e neppure quella di molti storici moderni) che
aveva invece avuto la Manciuria. Il 17 febbraio 1933, 20 000 soldati invasero e occuparono la
provincia di Rehe, a sud della Manciuria, e parte della Mongolia Interna. L’invasione portò
l’Armata del Kwantung a breve distanza dalla capitale cinese Beijing. Tra marzo e maggio dello
stesso anno, l’esercito combatté quella che divenne famosa come la «campagna della Grande
Muraglia», conquistando altri territori a sud fino alla Grande Muraglia e occupando la città
cinese di Tanggu, che divenne successivamente un importante porto controllato dal Giappone, il
piú grande della Cina. Nel 1935, le forze giapponesi si spinsero in altre province della Mongolia
Interna e a giugno imposero al comandante cinese locale un accordo affinché evacuasse la
provincia di Hebei, ovvero l’area circostante Beijing. L’occupazione di diverse zone della
Mongolia Interna permise ai giapponesi di dare vita a un secondo stato «indipendente» – il
Mengkukuo –, una regione mongola governata formalmente dal principe Demchugdongrub ma
interamente controllata, come il Manchukuo, dall’esercito giapponese. Nel gennaio del 1936, il
governo di Tokyo approvò finalmente una strategia volta a stabilire il controllo sul resto della
Cina settentrionale, dove l’esercito poteva impedire del tutto alle forze nazionaliste cinesi
l’accesso alle regioni piú ricche della Cina e alla principale fonte di entrate. Nel volgere di
quattro anni dall’occupazione della Manciuria, il dominio giapponese si era esteso su una vasta
area dell’Asia continentale, trasformando parallelamente la natura stessa dell’economia
imperiale .
36

L’acquisizione della Manciuria e di altre regioni della Cina settentrionale permise infine al
Giappone di sfidare, con qualche prospettiva di successo, l’ordine economico esistente in Asia.
L’obiettivo era quello di ridurre la presenza delle altre grandi potenze commerciali nell’intera
regione e reindirizzare le risorse a sostegno dell’industria nipponica. Era fondamentale in tal
senso lo sviluppo economico delle risorse del Manchukuo e della Cina settentrionale. La
Manciuria era stata il perno industriale della Cina, alla quale forniva il 90 per cento del petrolio,
il 70 per cento del ferro, il 55 per cento dell’oro e via dicendo . Tra il 1932 e il 1938, il Giappone
37

investí nella regione 1,9 miliardi di yen. Al fine di raggiungere i loro obiettivi, l’esercito e il
governo insistettero per la pianificazione e direzione economica statale. Dopo la pubblicazione
nel marzo del 1933 del Manshūkoku keizai kensetsu kōyō (Piano di costruzione economica del
Manchukuo), furono alla fine istituite ventisei corporazioni destinate a singole produzioni. Le
banche cinesi furono rilevate o compartecipate da banche giapponesi, fu stabilito un blocco
valutario in yen e la rete ferroviaria raddoppiò la propria estensione. Nel 1937 venne creata la
North China Development Company, a garanzia che la regione fosse al servizio degli interessi
giapponesi programmati. Anche la Cina settentrionale fu incorporata nel blocco dello yen . Con 38

le risorse ora disponibili nel nuovo territorio, la produzione di acciaio giapponese passò da due
milioni di tonnellate nel 1930 a 5,6 milioni di tonnellate nel 1938; il carbone aumentò nello
stesso periodo da 31 a 49 milioni di tonnellate. La crescita economica fu tuttavia fagocitata dalle
esigenze militari. Con il Piano strategico di massima del 1937, le forze armate alzarono il tiro,
fino a diventare nei primi anni Quaranta un esercito di 55 divisioni; se nel 1934 le spese per la
difesa ammontavano al 14 per cento della spesa statale, nel 1938 toccavano il 41 per cento. Nel
1934 il nuovo blocco economico fu dichiarato zona di interesse speciale del solo Giappone – la
cosiddetta dottrina Amau – e nel 1938 il primo ministro, principe Konoe Fumimaro, asserí che
nell’Asia orientale era nato un nuovo ordine economico da cui i paesi terzi erano esclusi.
Secondo il Piano strategico di massima, il boom industriale avrebbe dovuto garantire entro il
1941 tutte le risorse necessarie alla difesa dell’impero e «rafforzare la nostra capacità di guidare
l’Asia orientale» .
39

La strategia militare giapponese in Cina era comunque mal definita. L’instabile confine con la
Cina nazionalista di Chiang Kai-shek e i signori della guerra suoi alleati nel nord imponevano
ulteriori sconfinamenti militari, ma sarebbe stato difficile controllare un territorio piú esteso con
forze relativamente limitate, né si sarebbe risolto il problema di creare un contesto stabile per lo
sfruttamento delle terre già acquisite. La priorità era quella di controllare politicamente e
militarmente il Nord della Cina, piuttosto che imbarcarsi in una grande guerra contro il Sud
nazionalista, né era stato elaborato un piano vero e proprio per la guerra sino-giapponese che
infine scoppiò tra luglio e agosto del 1937. Una volta tanto, l’iniziativa venne presa dai cinesi.
Alla fine del 1936, la strategia di Chiang di creare un’unità nazionale prima di affrontare
l’invasione giapponese – il che avrebbe significato in effetti distruggere il comunismo cinese – si
era scontrata con una crescente opposizione. Durante una visita alla città di Xi’an, nella
provincia settentrionale dello Shaanxi, Chiang fu rapito dal generale Zhang Xueliang, un
precedente signore della guerra che voleva che Chiang guidasse una campagna nazionale contro i
giapponesi in cooperazione con i comunisti. Dopo le forti pressioni nazionali e internazionali per
il suo rilascio, soprattutto da parte di Stalin, Chiang tornò nella sua capitale, Nanchino, dove
affermò di aver avuto una visione durante la prigionia: il suo destino era quello di salvare la Cina
dal Giappone .40

La possibilità di adottare una nuova linea d’azione si realizzò inaspettatamente grazie a un banale
incidente avvenuto nei pressi di Beijing tra soldati giapponesi e cinesi, uno dei tanti momenti di
attrito in cui Chiang vide che era tempo di affrontare finalmente la persistente violazione della
sovranità cinese da parte del Giappone. L’incidente del ponte Marco Polo (Lugouqiao, un antico
ponte alla periferia di Beijing) avvenne la notte del 7 luglio 1937, quando una compagnia della
Shina Chūtongun (guarnigione nipponica della Cina) iniziò delle esercitazioni notturne vicino al
ponte. I giapponesi si trovarono sotto tiro, persero i contatti con uno dei soldati della loro unità e
pretesero di poter perlustrare la piccola città fortificata di Wanping per recuperarlo. Quando
l’accesso fu rifiutato, le truppe giapponesi presero d’assalto la città, uccidendo duecento soldati
cinesi. Dopo un incidente che difficilmente avrebbe potuto rappresentare un casus belli, i
comandanti di entrambe le parti cercarono di arrivare rapidamente a un cessate il fuoco . La crisi
41

subí tuttavia una rapida escalation, a dimostrazione delle problematiche ben piú profonde
esistenti negli anni Trenta tra Cina e Giappone. A Tokyo, il ministro dell’Esercito Sugiyama
Hajime non prese neanche in considerazione il piú cauto atteggiamento del gabinetto di Konoe e
ordinò il trasferimento di altre tre divisioni per assumere completamente il controllo della
regione. Il 16 luglio, la stessa Beijing venne accerchiata; l’esercito giapponese iniziò l’attacco il
giorno 26 dello stesso mese e occupò nel giro di due giorni l’ex capitale. La vicina città portuale
di Tianjin cadde il giorno 30. I piani nipponici prevedevano ora una soluzione finale del
cosiddetto Hokushi jihen (incidente della Cina del Nord), con la distruzione delle principali
armate di Chiang e, dove possibile, il rovesciamento del suo regime. Questo non avrebbe portato
di per sé a una grande guerra, se Chiang non avesse scelto di conferire all’«incidente del ponte
Marco Polo» un significato nazionale, considerandolo una minaccia alla stessa sopravvivenza
della nazione cinese. Poco dopo il 7 luglio annotò nel suo diario: «La Cina ha il dovere di
rafforzarsi». «Soltanto se ci prepariamo psicologicamente all’inevitabilità della guerra possiamo,
forse, evitarla», aggiungendo di lí a qualche giorno: «Siamo al bivio tra esistenza e
annientamento» . Il 7 agosto, dopo la caduta di Beijing, convocò a una «riunione congiunta per
42

la difesa nazionale» tutte le principali figure politiche e militari della Cina nazionalista, a cui
chiese il pieno sostegno in una grande guerra contro il nemico giapponese. I presenti
acconsentirono all’unanimità. Chiang trasmise la notizia della guerra – «l’espansione
incontrollata del Giappone impone alla Cina, non concedendole altra scelta, di passare all’azione
di autodifesa» – e inviò le migliori unità dell’esercito a Shanghai, dove riteneva che potesse
avere luogo il primo scontro decisivo .43
Le forze armate giapponesi speravano in una campagna fulminea, con «una rapida vittoria dopo
una breve guerra», prima con la distruzione delle principali risorse militari di Chiang poi con
l’occupazione della Cina fino al basso corso del fiume Yangtze. I comandanti dell’esercito
intendevano raggiungere gli obiettivi prefissati entro un mese; altri prevedevano in tre mesi al
massimo. I loro piani avevano molto in comune con la futura operazione «Barbarossa» dei
tedeschi, in cui l’arroganza militare prevalse ancora una volta sulla realtà geografica e sulla
fattibilità tattica. Anche se l’esercito giapponese era numericamente inferiore ma molto meglio
armato, meglio addestrato e dotato di maggiore mobilità rispetto all’avversario cinese, i piani
dell’avanzata non avevano tenuto nella giusta considerazione gli spazi sconfinati e la variegata
topografia delle regioni prese di mira. L’avanzata rallentò quasi subito; le forze giapponesi non
furono in grado di infliggere una vittoria decisiva a un nemico che poteva ritirarsi e
riorganizzarsi nelle sterminate zone piú interne della Cina. Da poche divisioni presenti nell’estate
del 1937, l’esercito giapponese dovette espandersi fino a ventuno divisioni entro la fine
dell’anno, trentaquattro divisioni l’anno seguente e cinquantuno divisioni nel 1941 . Piú le forze
44

giapponesi venivano attirate nei territori della Cina centrale, piú diventava difficile
l’approvvigionamento logistico; piú era grande il territorio da controllare, piú l’esercito
giapponese era costretto a frammentarsi. La fama di Chiang crebbe con quella che egli definí una
«guerra di resistenza». Le atrocità della maggior parte delle azioni belliche giapponesi in Cina,
compreso l’uso di gas tossici e di guerra batteriologica (antrace, peste, colera), non fecero che
infiammare l’odio dei cinesi verso l’invasore e consolidare quel senso di unità nazionale che
Chiang aveva cercato invano di creare all’inizio degli anni Trenta. Chiang stesso divenne piú
determinato, a dispetto delle speranze giapponesi che prevedevano una sua resa di fronte alla
realtà militare. Solo nel 1938 vi furono undici tentativi di fargli accettare i termini di pace, tutti
respinti.
La resistenza cinese, dove venne messa alla prova, si dimostrò tuttavia fragile. Dopo la conquista
di Beijing, le forze armate giapponesi, ribattezzate nell’agosto del 1937 Kita Shina hōmen gun
(Esercito della Cina del Nord), si erano mosse a raggiera in direzione ovest e sud lungo le
principali arterie ferroviarie, il cui possesso era essenziale per mantenere la mobilità delle truppe
e i rifornimenti. Insieme a una sezione dell’Armata del Kwantung in Manciuria, l’esercito
giapponese avanzò verso le province di Chahar e Shanxi a ovest e si impadroní presto del vitale
nodo ferroviario di Nankou, sottraendolo alle forze nazionaliste del generale Tang Enbo, inviato
lí da Chiang all’inizio di agosto . Poiché lungo il fronte settentrionale il regime nazionalista
45

dipendeva dall’alleanza con i signori della guerra locali, tra cui Song Zheyuan, le cui forze
avevano presto abbandonato a luglio la battaglia per Beijing e Tianjin, Chiang decise che dal
punto di vista strategico sarebbe stato meglio attaccare i giapponesi in un’area piú vulnerabile e
piú vicina alle sue forze armate, il Guómín Gémíng Jūn (Armata rivoluzionaria del Kuomintang).
La scelta di Shanghai come principale terreno di scontro avrebbe eliminato la minaccia posta dai
giapponesi a una delle principali fonti di entrate e avrebbe costituito una risposta adeguata alla
presa di Beijing; quella scelta, inoltre, avrebbe potuto coinvolgere l’intervento di potenze esterne
in aiuto dei nazionalisti, anche se l’obiettivo principale, disse Chiang ai capi dell’esercito, era
quello di condurre una lunga guerra di logoramento – l’esatto contrario di ciò che voleva il
Giappone. Mentre le forze di Chiang convergevano su Shanghai, l’esercito e la flotta giapponese
portarono la loro potenza militare a cinque divisioni e trentadue navi da guerra che stazionavano
nel porto. Il 14 agosto, l’aviazione cinese, di modeste dimensioni, iniziò la campagna militare
con un disastroso raid aereo che avrebbe dovuto colpire la nave ammiraglia giapponese e che
invece distrusse gli alberghi del luogo e una sala da gioco, uccidendo e ferendo piú di 1300
civili. La grande forza di terra cinese respinse inizialmente i giapponesi verso la costa, ma
l’assalto si bloccò. Il Giappone aggiunse altre truppe e la flotta allestí un blocco navale lungo la
costa cinese; il 15 agosto, l’aviazione giapponese iniziò quella che sarebbe diventata una
prolungata offensiva di bombardamenti contro le basi, i porti e le città cinesi.
Nell’ultima settimana di agosto, i giapponesi, fortemente sostenuti dal fuoco delle navi,
intrapresero un’ambiziosa operazione anfibia per far sbarcare alcune divisioni nei pressi di
Shanghai. Il 13 settembre le forze giapponesi erano pronte alla controffensiva su un terreno
difficile, attraversato da zone paludose che rallentavano l’avanzata e da improvvisate linee di
difesa cinesi. La vittoria arrivò solo il 12 novembre, con perdite elevate da entrambe le parti: 40
300 giapponesi e 187 000 cinesi (tra cui tre quarti del giovane corpo ufficiali di Chiang) . Il 46

quartier generale giapponese voleva la conquista dell’intera regione, inclusa Nanjing (Nanchino),
la capitale di Chiang, nella speranza di mettere cosí fine alla guerra. A Shanghai, i vincitori
avanzarono lungo la strada che portava alla capitale inseguendo un nemico demoralizzato e
disorganizzato, bruciando villaggi e massacrando gli abitanti. Chiang aveva già ordinato al
governo di ritirarsi a Chongqing, molto piú a ovest, mentre egli avrebbe trasferito il proprio
quartier generale a Wuhan, piú a sud. A difesa di Nanjing fu lasciata una forza simbolica, presto
spazzata via da un’ondata di violenza giapponese contro soldati e civili. Il 13 dicembre, la
capitale cadde nelle mani del generale Matsui Iwane e del suo diretto sottoposto, il principe
Asaka. Per giorni e giorni le truppe giapponesi si abbandonarono a saccheggi, stupri e omicidi . 47

Alla fine del 1937, gli occupanti si erano assicurati – a caro prezzo – una vasta area della Cina
centro-orientale, ma erano ancora lontani dalla rapida vittoria che era stata prevista a luglio. Il 16
gennaio 1938, il principe Konoe annunciò che il Giappone non avrebbe piú avuto alcun contatto
con il regime di Chiang – in sostanza una formale dichiarazione di guerra, anche se tardiva.
Nonostante le enormi perdite militari e la grave carenza di armamenti adeguati, Chiang e i suoi
generali, ora supportati da forze fedeli alla «Nuova cricca del Guangxi», nell’estremo sud del
paese, si prepararono per altre grandi campagne. La prima, una delle piú grandi della guerra,
ebbe luogo intorno al principale nodo ferroviario di Xuzhou, a nord di Nanjing, e coinvolse piú
di 600 000 soldati. Le forze giapponesi si avvicinarono con un movimento a tenaglia da nord e
da sud. Le armate vittoriose a Shanghai erano ora organizzate nel Nakashina hakengun (Forza di
spedizione della Cina centrale) e, insieme con l’Esercito della Cina del Nord, conquistarono
Xuzhou nel maggio del 1938, senza riuscire tuttavia a intrappolare quaranta divisioni cinesi, i cui
soldati fuggirono in piccoli gruppi, coperti da una tempesta di polvere e dalla nebbia. All’inizio
di aprile, durante l’avvicinamento a Xuzhou, le armate cinesi erano riuscite a infliggere ai
giapponesi una delle poche sconfitte tattiche, allorché la loro armata numericamente inferiore
nella città di Taierzhuang, a nord di Xuzhou, era stata respinta dalle truppe sotto il comando dei
leader del Guangxi, i generali Li Zongren e Bai Chongxi. Neppure questo fu tuttavia sufficiente
ad arrestare la marea nipponica. La caduta di Xuzhou rappresentò una grande sconfitta e aprí ai
giapponesi la strada per Wuhan e il controllo di tutta la pianura centrale cinese lungo il fiume
Yangtze. Gli strateghi giapponesi speravano che la presa di Wuhan e il consolidamento del
controllo sulla Cina centro-settentrionale avrebbero «messo fine alla guerra», portato
all’instaurazione di un nuovo governo filogiapponese e permesso al Giappone di «controllare la
Cina». La vittoria avrebbe altresí consentito di affrontare nell’estremo nord la piú seria minaccia
dell’Unione Sovietica, che ora riforniva di armi moderne gli eserciti e le forze aeree di Chiang . 48

Quest’ultimo reagí alla minaccia con un atto di straordinaria durezza: ordinò di aprire le dighe
del Fiume Giallo allo scopo di inondare una vasta area e tenere cosí i giapponesi lontani da
Wuhan e dalle regioni del sud. Le sue motivazioni erano brutalmente strategiche – «usare
l’acqua al posto dei soldati» –, ma il costo pagato dalla popolazione cinese fu spaventoso, cosí
come quello della consueta pratica dei nazionalisti di fare terra bruciata al fine di privare i
giapponesi di qualsiasi risorsa. Senza alcun avvertimento, 54 000 chilometri quadrati di terreni
agricoli pianeggianti vennero inondati; le stime postbelliche riportano 800-900 000 morti
(ricerche recenti suggeriscono che la cifra fosse di circa mezzo milione). Piú di quattro milioni di
persone fuggirono dalla pianura inondata .49

Senza dubbio, l’inondazione del Fiume Giallo impedí una rapida occupazione di Wuhan, ma la
piena del fiume poté essere usata dalla marina giapponese per spostare uomini verso l’interno e
fornire fuoco di copertura. Ad agosto, il Dai-jyū-ichi gun (XI armata giapponese) ricevette
l’ordine di avanzare su Wuhan e la sua fanteria, nel caldo intenso, afflitta da malaria e dissenteria
e a corto di cibo e provviste, si trascinò a fatica verso la città, in parte a piedi e in parte su
imbarcazioni. La battaglia, che coinvolse quasi due milioni di uomini, si concluse il 21 ottobre
1938 con l’occupazione giapponese; Chiang spostò definitivamente il centro del potere a
Chongqing, una zona protetta, grazie alle montagne, dalle aree ora sotto il controllo giapponese.
Piú a sud, dopo il successo dello sbarco anfibio, le forze giapponesi occuparono il 26 ottobre
l’importante porto di Guangzhou (Canton), mentre la marina conquistò l’isola meridionale di
Hainan nel febbraio dell’anno seguente, dominando cosí il golfo del Tonchino e la colonia
francese dell’Indocina. L’ondata delle forze occupanti del 1938 completò la conquista delle aree
industriali piú ricche della Cina – Manciuria, Beijing, Shanghai, Wuhan e Guangzhou – e privò
Chiang dell’87 per cento circa della capacità produttiva della nazione . Il Giappone dominava
50

ora una vasta area della Cina centro-orientale, e il ritmo dell’avanzata rallentò inevitabilmente.
Durante il 1939 furono messe sotto pressione le province della nuova frontiera di Hubei e Hunan,
eppure, dopo due anni di grandi operazioni militari, con la conquista delle regioni produttive
della Cina e la distruzione uno dopo l’altro degli eserciti cinesi, il Giappone non era ancora cosí
vicino a concludere quanto iniziato con l’incidente del ponte Marco Polo e a consolidare la sua
presenza imperiale sul continente asiatico.
La guerra sino-giapponese si distinse per il fatto che nessuno dei due contendenti era in grado di
vincere, e piú il conflitto andava avanti, minori erano le probabilità di una vittoria definitiva di
uno dei due schieramenti. La decisione di Chiang di condurre una guerra che avrebbe sfinito il
nemico con un costante logoramento poteva avere senso solo se l’esercito e il governo
giapponese avessero deciso di rinunciare tout court a un loro impero in Cina, e di questo non vi
era alcuna speranza. Le forze cinesi combattevano in condizioni di forte svantaggio: a corto di
armi moderne, con scarso addestramento, prive di ufficiali esperti in prima linea, con una forza
aerea residua interamente dipendente dagli aiuti stranieri e una marina quasi inesistente. Il
Giappone, d’altro canto, benché per gli standard degli anni Trenta potesse vantare un esercito
moderno, con una consistente forza aerea e militare, una delle flotte piú grandi del mondo, un
considerevole complesso bellico-industriale in patria e un corpo di ufficiali con una solida
esperienza sul campo di battaglia, non riusciva ad avvalersi di quei punti di forza per ottenere
qualcosa di piú di limitate vittorie locali. Ad allontanare un trionfo sempre sfuggente erano
l’estensione stessa e la diversificazione geografica delle regioni occupate dalle forze giapponesi;
anche le aree rurali temporaneamente conquistate venivano perse non appena le truppe si
allontanavano. A causa dei fondamentali problemi di logistica, i giapponesi speravano che le
truppe potessero sostenersi grazie ai prodotti della terra, ma gli abitanti dei villaggi divennero
presto abili a nascondere il loro grano in depositi sotterranei, rendendo la lotta per gli
approvvigionamenti una battaglia a sé stante. Avvertiti tempestivamente dell’avanzata
giapponese, interi villaggi scomparivano nei boschi o sulle montagne vicine con le loro scorte di
cibo: «Uscivano dalle mura e svuotavano i campi», riferivano i giapponesi nei loro rapporti . 51

Durante i pattugliamenti giapponesi nelle aree delle retrovie, i combattenti cinesi avevano ampie
opportunità di attaccare il nemico dalle loro basi, sia i comunisti nelle regioni di nord-ovest sia i
guerriglieri inviati da Chiang attraverso la permeabile linea del fronte che divideva i due
avversari. Nel 1939, gran parte dello spiegamento militare del Giappone fu impegnato a
combattere le varie insurrezioni, anziché cercare di sconfiggere gli eserciti regolari cinesi, e
durante i mesi estivi si rese necessario mandare altre truppe in Manciuria per una grande
battaglia lungo la frontiera con le forze sovietiche sulle alture di Nomonhan, scontro che si
concluse con un armistizio concordato a settembre. Nel dicembre del 1939, Chiang radunò
settanta divisioni a ranghi ridotti per lanciare un’inaspettata controffensiva nel nord, nella valle
dello Yangtze e intorno a Guangzhou, ma i combattimenti si rivelarono ancora una volta
inconcludenti. Nel 1940, entrambe le parti si trovarono in una situazione di stallo. Nel marzo
dello stesso anno, per dare l’impressione che Chiang potesse davvero essere rimpiazzato, i
giapponesi instaurarono a Nanjing un «governo nazionale della Repubblica cinese», un governo
fantoccio guidato dal nazionalista ribelle Wang Jingwei, il quale avrebbe preferito un accordo
con il Giappone piuttosto che continuare la guerra ma che non si dimostrò in grado di offrire
l’assetto che i giapponesi volevano, se non confermare quello che gli invasori avevano già
ottenuto . Il governo di Tokyo non si aspettava, né tantomeno voleva, una guerra prolungata, con
52

i suoi enormi costi economici e umani, ma la natura dinamica del conflitto per instaurare in Asia
un nuovo ordine rendeva impossibile ammettere che la strategia fosse fallita. Nel 1941, la guerra
in Cina aveva già causato tra i giapponesi 180 000 morti e 324 000 feriti. Piú difficile risulta
calcolare con precisione i numeri delle perdite cinesi, che furono molto piú alte.
Sotto Mussolini, le mire imperiali italiane apparivano piú modeste di quelle del Giappone, ma
anche in questo caso l’elemento fondamentale era dato dalle conquiste territoriali. Già nel 1919
Mussolini aveva dichiarato che l’imperialismo era «una legge di vita eterna e immutabile» e
durante la sua dittatura non si discostò mai dal desiderio di fare della nuova nazione italiana il
nucleo di un impero mediterraneo e africano, una versione moderna dell’antica Roma . Le 53

speranze iniziali del Duce erano di espandere il territorio italiano in Europa, acquisire in quella
che era la Jugoslavia le zone promesse nel trattato di Londra del 1915 e poi negate all’Italia alla
Conferenza di pace a Parigi. La leadership militare, sostenuta dal re Vittorio Emanuele III, frenò
tuttavia Mussolini a causa dei gravi rischi connessi a una grande guerra. Mentre all’inizio degli
anni Trenta l’ordine internazionale sprofondava nella crisi economica, Mussolini e i militanti del
Partito fascista decisero di perseguire un programma di imperialismo attivo, senza tener conto
dell’opposizione politica. L’area di espansione piú ovvia era l’Africa orientale, dove da anni
l’Italia cercava di estendere la sua influenza al di là delle colonie italiane di Eritrea e Somalia,
fino allo stato ancora indipendente dell’Etiopia (Abissinia) – anche se Mussolini accarezzò
brevemente la pericolosa idea di strappare la Corsica ai francesi. Il conflitto con l’Etiopia era
difficile da conciliare con la cautela manifestata da alcuni importanti gerarchi del Partito fascista,
dall’esercito e dalla casa reale, senza contare la stessa ansia di Mussolini di non mettere a
repentaglio la propria posizione politica. La decisione del Duce prevalse infine su tutte le
obiezioni relative ai rischi connessi e, rifacendosi al successo del Giappone nella sfida lanciata
alla Società delle Nazioni dopo gli eventi in Manciuria, ordinò che venissero elaborati i piani per
la conquista dell’Etiopia nell’autunno del 1935. Seguirono grandi preparativi, e nel frattempo si
facevano arrivare in Eritrea e Somalia truppe e rifornimenti; i movimenti venivano attentamente
monitorati dagli inglesi, mentre le navi italiane, cariche di truppe e veicoli, si creavano un varco
attraverso il Canale di Suez . Per Mussolini l’Etiopia era solo l’inizio. Nel 1934 sostenne in una
54

conversazione privata che l’Italia doveva conquistare l’Egitto, allora sotto il dominio britannico
(«saremo grandi solo se riusciremo a prendere l’Egitto»), poi, nel marzo del 1935, aggiunse alla
lista una prossima conquista del Sudan; ordinò a due stazioni radio, Radio Bari e Radio Roma, di
iniziare trasmissioni di propaganda antibritannica in tutto il mondo arabo e sfruttò un trattato
decennale di commercio e amicizia con lo Yemen per mettere in imbarazzo gli inglesi nel loro
vicino protettorato di Aden . A Malta, i fascisti italiani del posto chiesero a gran voce di
55

riconoscere che l’isola era a tutti gli effetti un territorio italiano sotto il giogo dei colonialisti
britannici e che prima o poi sarebbe dovuta tornare alla madrepatria italiana, mentre la marina
italiana preparava piani di emergenza per impadronirsi dell’isola . La visione imperiale di
56

Mussolini vedeva il Mediterraneo orientale e l’Africa nord-orientale come trampolini di lancio


per un nuovo impero di Roma.
L’invasione dell’Etiopia fu preparata come si trattasse di una campagna militare di breve durata,
una sorta di Blitzkrieg (guerra lampo) italiana, ma furono fatti pochi piani per il periodo
successivo alla conquista e non ci si sforzò a sufficienza di comprendere la natura del popolo che
Mussolini voleva sottomettere al dominio italiano. Allo stesso tempo, il Duce era messo sotto
pressione da inglesi e francesi, che proponevano vari progetti per riconoscere all’Italia maggiore
voce in capitolo negli affari etiopici, non ultimo una limitata amministrazione mandataria da
parte della Società delle Nazioni su una porzione di territorio etiope, all’unico scopo di
scongiurare la guerra. Mussolini aveva tuttavia intrapreso l’edificazione del suo impero proprio
per sfuggire a una situazione in cui l’Italia poteva essere compensata solo per volontà delle
grandi potenze della Società delle Nazioni, per cui il 22 settembre 1935, nonostante le perplessità
del re e del ministero delle Colonie, il Duce rifiutò le proposte del consesso internazionale.
Ormai era troppo tardi per optare per una soluzione limitata, vista la presenza di 560 000 uomini
e tre milioni di tonnellate di rifornimenti stipati nell’angusto territorio coloniale italiano del
Corno d’Africa . Il 3 ottobre, denunciando una provocazione da parte etiope, l’esercito e
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l’aviazione italiana, sotto il comando del generale Emilio De Bono, avanzarono sui fronti nord e
sud. L’imperatore Hailé Selassié ordinò di suonare il tradizionale tamburo di guerra dell’impero
etiope davanti al suo palazzo nella capitale Addis Abeba e chiamò il popolo a combattere. Si
trattava di un conflitto impari, che Mussolini voleva concludere rapidamente per evitare ulteriori
complicazioni internazionali o interferenze della Società delle Nazioni, ma che raggiunse presto
una situazione di stallo. Hailé Selassié, consapevole dell’equilibrio disomogeneo delle forze in
campo, ordinò al suo esercito di condurre una vera e propria guerriglia approfittando della
topografia e del disorientamento italiano: «Nascondetevi, colpite all’improvviso, combattete la
guerra dei nomadi, rubate, prendete la mira e uccideteli uno dopo l’altro» . 58

Fu la piú grande guerra coloniale dai tempi della seconda guerra boera di circa trent’anni prima.
L’esito era prevedibile, ma sotto il comando di De Bono gli italiani facevano lenti progressi. A
dicembre, Mussolini fu costretto a prendere in considerazione la possibilità di doversi
accontentare di limitate conquiste territoriali. I politici britannici e francesi fecero pressione
affinché accettasse tale risultato a spese della sovranità etiope. Quando il cosiddetto Patto Hoare-
Laval (dal nome dei due ministri che idearono la proposta) fu però reso pubblico, vi furono
proteste e l’accordo dovette essere sconfessato. A novembre, De Bono fu sostituito dal generale
Pietro Badoglio; a dicembre, il generale Rodolfo Graziani, attaccando verso nord dalla Somalia,
vinse una battaglia a Dolo, usando per la prima volta il gas tossico su ordine diretto di Mussolini.
Incuranti dei consigli del loro imperatore, i comandanti etiopi optarono per una battaglia in
campo aperto. Dopo due scontri a Tembien e la sconfitta di 50 000 etiopi ad Amba Aradam, la
resistenza militare etiope fu distrutta da una combinazione di bombe antiuomo e gas velenosi
(iprite e fosgene) che minò la coesione delle unità militari e abbatté diffusamente il morale delle
truppe . Mussolini considerava ancora la possibilità di imporre un protettorato o uno stato
59

fantoccio sotto Hailé Selassié, analogo a quello del Manchukuo, ma con la caduta della capitale
etiope nel maggio del 1936 decise per una vera e propria annessione. Il 9 maggio, davanti a una
folla esultante in Piazza Venezia, annunciò: «L’Italia ha finalmente il suo impero» . 60

La rivendicazione si rivelò prematura. Non era ancora stata conquistata tutta l’Etiopia e l’anno
successivo venne combattuta una feroce guerra per pacificare il territorio. Le forze italiane
pagarono un costo altissimo: 15 000 morti e 200 000 feriti. Piú di 800 000 soldati e aviatori
prestarono servizio nella guerra per creare quella che ora si chiamava Africa orientale italiana. Si
stima che tra le forze etiopi sparse sul territorio e i civili coinvolti nel fuoco incrociato vi furono
275 000 caduti . Altre morti fecero seguito alla vittoria italiana. Mussolini ordinò l’esecuzione di
61

tutti i nobili etiopi che si fossero rifiutati di riconoscere e collaborare con la nuova
amministrazione italiana, come pure l’eliminazione dei capi religiosi, di presunti stregoni e
streghe e dei tradizionali «menestrelli» che viaggiavano attraverso l’Etiopia diffondendo tra la
popolazione notizie e voci. Nel febbraio del 1937, al fallito attentato al governatore italiano
Graziani seguí ad Addis Abeba una terribile rappresaglia che provocò tra gli etiopi almeno 3000
morti, stupri e case saccheggiate . Il nuovo regime diede ben presto forma istituzionale alle
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differenze razziali: gli etiopi non potevano diventare cittadini ma rimanevano sudditi; i
matrimoni misti furono vietati nel dicembre del 1937; nei cinema, negozi e trasporti pubblici
venne introdotta la segregazione. Nel 1939 fu emanato un decreto che prevedeva sanzioni per
chiunque violasse il principio della differenza razziale, con la dicitura «Sanzioni penali per la
difesa del prestigio di razza di fronte ai nativi dell’Africa italiana» . Quella che nelle speranze di
63

Mussolini doveva essere una rapida vittoria si trasformò in un lungo ed estenuante conflitto. Fu
necessario mantenere e pagare una grande guarnigione, tanto che nel 1939 erano ancora presenti
nell’Africa orientale 280 000 soldati. Le perdite aumentarono man mano che la resistenza degli
etiopi iniziò a sfidare la sovranità italiana; la dura campagna di pacificazione, protrattasi per tre
anni, causò tra gli italiani 9555 morti, 140 000 malati e feriti e molte migliaia di vittime tra gli
etiopi . In Italia, nel 1932-33 la spesa per la difesa era stata di cinque miliardi di lire (pari al 22
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per cento della spesa pubblica), ma nel 1936-37 ammontava già a 13,1 miliardi (33 per cento) e
nel 1939-40 raggiunse 24,7 miliardi (45 per cento). La guerra in Etiopia costò circa 57 miliardi di
lire, pagati con prestiti e tasse; il successivo intervento in Spagna costò altri otto miliardi . Lo
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sforzo di costruire 2000 chilometri di strade moderne per facilitare il pattugliamento della nuova
colonia portò il bilancio coloniale quasi sull’orlo della bancarotta .
66

I crescenti livelli delle spese militari non potevano essere compensati da eventuali vantaggi
economici derivanti dall’ampliamento dell’impero. A differenza dall’esperienza giapponese in
Manciuria, il commercio con l’Etiopia rimase a senso unico. Le esportazioni verso i territori
dell’impero aumentarono da 248 milioni di lire nel 1931 a 2,5 miliardi nel 1937, ma erano
destinate principalmente a soddisfare le forti richieste militari. L’idea che l’Etiopia avrebbe
fornito il cibo per sfamare gli italiani presenti nell’impero ed esportato le eccedenze in Italia si
rivelò una chimera: nel 1939, 100 000 tonnellate di grano dovettero essere importate in Etiopia a
causa del calo dei raccolti e nel 1940 solo il 35 per cento del fabbisogno della regione poté essere
prodotto in loco. Benché lo scopo fosse quello di modernizzare l’agricoltura etiope facendo
entrare nel paese milioni di migranti italiani, nel 1940 erano arrivati appena 400 contadini, 150
dei quali abbastanza coraggiosi da portare con sé le proprie famiglie . C’erano piú operai che
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contadini, ma le 4000 imprese italiane attive nell’Africa orientale lavoravano perlopiú per
soddisfare le esigenze dell’enorme presenza militare, oppure cercavano profitti rapidi e a breve
termine anziché impegnarsi nella trasformazione economica del nuovo impero africano. Vi fu
qualche iniziativa indirizzata alla ricerca di petrolio e minerali, ma senza successo. Il governatore
italiano della provincia etiopica di Harrar deplorò la corruzione e l’egoismo indotto dalla «febbre
dell’oro», ma in verità erano ben poche le ricchezze di cui gli italiani potevano godere nel cuore
del nuovo impero . Il bisogno di ulteriori generi alimentari per la popolazione italiana, che la
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conquista non era riuscita a soddisfare, dovette infine essere risolto con una rigorosa politica di
autosufficienza nazionale, o «autarchia». Tra il 1930 e il 1940, le importazioni di grano scesero
di due terzi, mentre la produzione cerealicola interna aumentò di quasi un terzo. Gli investimenti
nell’industria per sostenere il nuovo impegno verso l’impero e la sua difesa si espansero in
maniera sostanziale, ma dovettero essere reperiti da risorse interne e richiesero, come in
Giappone, un maggiore intervento statale nella pianificazione dello sviluppo industriale .69

In definitiva, il nuovo impero portò una breve ondata di entusiastico fervore nazionalista ma
poco altro, cosa che non impedí a Mussolini di capitalizzare quello che egli considerava il suo
nuovo status di leader di un impero-nazione autonomo. In aperta sfida alle potenze occidentali,
impegnò nei quasi tre anni di combattimenti della guerra civile spagnola forze aeree e di terra per
sostenere la ribellione di Franco. Nell’agosto del 1937, il Corpo truppe volontarie presente in
Spagna contava 30 000 unità e, alla fine, piú di 76 000 uomini, tra soldati, aviatori e militanti
fascisti italiani, prestarono servizio a fianco dei nazionalisti, combattendo in alcuni casi contro
gli esuli italiani antifascisti che sostenevano la Repubblica spagnola. Altri 3266 italiani morirono
durante la campagna, portando il totale dei caduti nelle guerre degli anni Trenta a oltre 25 000
morti . In Spagna, la collaborazione con i «volontari» tedeschi avvicinò piú che mai Mussolini
70

alla Germania di Hitler, anche se i dirigenti italiani intendevano garantire che la visione di un
impero italiano in espansione rimanesse indipendente da qualsiasi cosa intendesse fare il Reich.
Mussolini, in particolare, ipotizzò ben presto la possibilità di prefiggersi nuovi obiettivi
imperiali. In una conversazione privata del 1938, egli diede voce alla sua aspirazione di
dominare i Balcani meridionali fino a Istanbul, di sottrarre la Tunisia e la Corsica alla Francia e
di annettere le colonie somale inglesi e francesi nel Corno d’Africa; nel febbraio del 1939
ipotizzò di espellere l’impero britannico dal bacino del Mediterraneo prendendo il Canale di
Suez, Gibilterra, Malta e Cipro . In quel momento, per quanto fantasiose possano apparire oggi
71

quelle ambizioni, il relativo successo riportato in Etiopia e la crescente convinzione del Duce di
poter sostituire le «forze indebolite dall’età» dei vecchi imperi le facevano sembrare meno
campate in aria. La fase fascista, come ebbe a dire nel 1938 l’antisemita italiano Telesio
Interlandi, era caratterizzata dalla «volontà imperiale» .
72

Quella stessa volontà trovò nuova espressione nella conquista italiana dell’Albania. Come
l’Etiopia, l’Albania era comunemente considerata un obiettivo naturale per l’annessione. Un
breve protettorato esercitato dall’Italia tra il 1917 e il 1920 era stato forzatamente abbandonato in
seguito alle pressioni internazionali, e l’Albania era divenuta membro della Società delle
Nazioni. Nel 1926, un’alleanza difensiva aveva riconosciuto all’Italia la responsabilità effettiva
della difesa dell’Albania, mentre al sovrano albanese Ahmet Zogu (meglio conosciuto come re
Zog) venivano imposti stretti rapporti economici con l’Italia. Zog e i suoi alleati politici
desideravano tuttavia mantenere l’indipendenza e, nonostante la speranza italiana che negli anni
Trenta si potesse ristabilire sul paese una sorta di protettorato, non era stato possibile ottenere
altri risultati . Alla fine degli anni Trenta, quando il nuovo imperialismo italiano era ormai
73

consolidato, Mussolini e il suo ministro degli Affari Esteri (nonché genero) Galeazzo Ciano si
mossero per trasformare l’influenza informale dell’Italia in un governo diretto. Non mancavano
vantaggi strategici, dato che il controllo dell’Albania significava dominare su entrambe le sponde
del Mare Adriatico. Il paese rappresentava altresí un potenziale punto d’appoggio per conferire
all’impero una dimensione europea, cosa nella quale Mussolini aveva sperato fin dagli anni
Venti. L’Italia governava ancora sulle lontane isole del Dodecaneso, sottratte alla Turchia nel
1912 e riconosciute come possedimento italiano nel trattato di Losanna del 1923. Il Dodecaneso,
rafforzato da una guarnigione dell’esercito e da campi d’aviazione poco lontani dal Canale di
Suez, retto da un governatore generale dotato di pieni poteri, era stato il primo piccolo passo
dell’Italia verso un piú grande impero in Europa e nel Levante, nonché un modello per la
conquista dell’Albania .74

L’acquisizione del territorio albanese come parte dell’impero offriva l’invitante prospettiva di
poter riunire in seguito sotto il dominio italiano l’intera regione dall’Adriatico all’Egeo.
All’inizio del 1939 erano ormai pronti i piani per annettere l’Albania avviati nel maggio del 1938
e sostenuti da affermazioni fittizie, secondo cui il paese era ricco di petrolio e cromo
indispensabili per alimentare l’economia di guerra dell’Italia. Dopo l’occupazione tedesca di
Praga nel marzo del 1939, che non aveva provocato alcun intervento da parte delle potenze
occidentali, Ciano avrebbe preferito agire immediatamente. Mussolini, invece, appariva ancora
una volta esitante; sia il re sia l’esercito non erano entusiasti del piano e temevano che l’Italia,
già impantanata in Etiopia e in Spagna, non avesse la capacità militare di assumersi altri
impegni. Sempre nel marzo del 1939, quando la divisione italiana Littorio conquistò l’ultimo
avamposto repubblicano di Alicante, la guerra civile spagnola si concluse e liberò risorse
militari. Il 5 aprile fu presentato a re Zog un ultimatum affinché trasformasse l’Albania in un
protettorato italiano e, dopo il prevedibile rifiuto del sovrano, 22 000 soldati italiani, affiancati da
400 aerei e 300 piccoli carri armati, invasero il paese all’alba del 7 aprile. L’operazione era stata
messa insieme frettolosamente ed era mal organizzata: furono date delle motociclette a soldati
che non sapevano guidarle; le unità di segnalazione reclutarono personale che non conosceva il
codice Morse; le foto delle spiagge invase ritraevano una fanteria che entrava in battaglia in
bicicletta, in un impressionante contrasto con le immagini delle truppe tedesche che marciavano
attraverso Praga .75

Le carenze furono tenute nascoste dalla propaganda italiana, che osannò l’invasione come un
trionfo delle armi moderne (in realtà, essa aveva avuto successo solo perché non vi era stata
quasi nessuna opposizione armata). I dati delle perdite italiane rimangono controversi.
Ufficialmente, i caduti erano stati 12, ma le stime albanesi sembrano indicare un numero di morti
italiani compreso tra 200 e 700. Re Zog fuggí dalla capitale e il 13 aprile il monarca italiano fu
dichiarato re d’Albania. Anche se il paese, come il Manchukuo, non era formalmente una colonia
ma uno stato fantoccio, venne amministrato secondo le regole delle colonie. Fu nominato un
luogotenente generale e l’amministrazione albanese fu posta sotto il controllo di consiglieri
italiani; l’economia venne subordinata agli interessi italiani; gli albanesi divennero sudditi del re
d’Italia; nella vita pubblica, la lingua albanese fu relegata in secondo piano rispetto a quella
italiana; la resistenza fu schiacciata grazie alla presenza di implacabili forze di polizia. Perfino
Ciano, che beneficiò ampiamente, e non senza corruzione, del suo ruolo in Albania, lamentò il
fatto che i nuovi amministratori italiani trattavano «male i nativi» e che avevano «una mentalità
coloniale», ma si trattava di una conseguenza inevitabile per uno stato autoritario che conosceva
soltanto rozzi metodi di espansione territoriale .
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L’imperialismo intrapreso dal Giappone e dall’Italia comportò, alla fine, una mobilitazione
militare su larga scala e un impegno bellico per la maggior parte degli anni Trenta. In entrambi i
casi, pertanto, centinaia di migliaia di giovani giapponesi e italiani conobbero per anni e anni la
guerra molto prima dell’inizio del conflitto mondiale: le forze armate giapponesi dal 1931 in poi;
l’esercito e l’aviazione italiana quasi ininterrottamente dalla pacificazione della Libia nel 1930-
31 fino all’invasione dell’Albania nel 1939. La Germania di Hitler, al contrario, avviò piú tardi il
suo programma di espansione e, per la maggior parte del decennio, acquisí ulteriori territori
attraverso una serie di colpi di stato incruenti. I soldati tedeschi combatterono una guerra
imperiale delle dimensioni di quella sino-giapponese o di quella in Africa orientale soltanto nel
1939, con l’invasione della Polonia. Per la Germania, in quanto potenza disarmata e impoverita,
l’asserzione di un’autonomia nazionale significava qualcosa di molto diverso. I primi anni di
governo di Hitler furono spesi nel rifiuto della strategia di «conformità» a Versailles, perseguita
brevemente negli anni Venti. Nell’ottobre del 1933, la delegazione tedesca abbandonò la
Conferenza sul disarmo di Ginevra in segno di protesta per il mancato disarmo degli altri stati.
Nello stesso anno, il regime non pagò i principali debiti internazionali della Germania e ripudiò
formalmente le riparazioni di guerra. Nel 1936, la Renania venne rimilitarizzata e l’accordo di
Locarno del 1925 venne stracciato. Benché la contestazione degli accordi di Versailles e Locarno
godesse di grande popolarità, i dirigenti tedeschi perseguirono tuttavia una strategia prudente, in
un momento in cui la Germania era ancora scarsamente armata. Quando la Renania fu
rioccupata, il 7 marzo 1936, Hitler sembrò entrare in uno stato di grande ansia per il timore di
essersi spinto troppo in là con le sue iniziali ambizioni. Il giovane architetto Albert Speer, che
quel giorno viaggiava sul treno di Hitler diretto a Monaco, ricordò in seguito «l’atmosfera tesa
che emanava dalla carrozza del Führer». Hitler, a detta di Speer, guardò sempre alla
rimilitarizzazione come alla «piú temeraria» delle sue imprese .
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Prima di pensare alla costruzione di uno spazio vitale imperiale, Hitler aveva due grandi priorità:
la ripresa economica dalla disastrosa situazione causata dalla crisi e la rimilitarizzazione della
Germania, che avrebbe restituito al paese lo status di grande potenza e fornito quindi la
possibilità di manovrare in qualsiasi direzione il regime desiderasse. Il riarmo, iniziato nel 1933,
fu ampliato nel 1934 con un programma quinquennale e reso pubblico, in flagrante violazione
degli accordi di pace, nel marzo del 1935. Le spese militari aumentarono da 1,2 miliardi di
Reichsmark nel 1933-34 a 10,2 miliardi nel 1936-37, periodo entro il quale venne ripristinata
gran parte dell’infrastruttura militare. La produzione di armi e l’addestramento delle reclute
rientravano in un programma a lungo termine. Gli elevati livelli di spesa per la difesa, come in
Giappone e in Italia, richiedevano una stretta supervisione da parte dello stato sul resto
dell’economia, al fine di evitare una crisi economica, nonché il controllo sui consumi di una
popolazione che aveva vissuto anni di povertà e disoccupazione e che ora voleva ricominciare a
spendere. Furono elaborati dei piani per rendere il paese piú autosufficiente nel settore
alimentare e nell’approvvigionamento delle materie prime e meno dipendente da un mercato
mondiale potenzialmente ostile, creando allo stesso tempo nell’Europa centrale e sud-orientale
un blocco commerciale dominato dalla Germania e tale da fungere da rete di sicurezza in caso di
crisi internazionale. Tra il 1934 e il 1939, vari accordi commerciali con Romania, Jugoslavia e
Ungheria spostarono l’equilibrio degli scambi nell’Europa orientale fortemente a favore della
Germania. Tra il 1933 e il 1938, l’acquisto di petrolio e prodotti alimentari portò le esportazioni
della Romania in Germania dal 18 al 37 per cento del commercio romeno . Allo scoppio della
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guerra civile spagnola, la Germania usò gli aiuti a Franco quale leva per assicurarsi accordi
commerciali vantaggiosi in un’ulteriore estensione dell’impero economico «informale» tedesco.
Come quota dell’export spagnolo, il commercio con la Germania passò dall’11 per cento alla
fine del 1936 a quasi il 40 per cento due anni dopo, procurando all’industria militare tedesca i
metalli tanto necessari . Hitler era ossessionato dal ruolo avuto dall’embargo nella Grande
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Guerra e voleva a tutti i costi che in un conflitto futuro la Germania potesse controllare risorse
sufficienti all’interno del proprio blocco commerciale europeo, analogo a quello dello yen
giapponese, allo scopo di proteggere la Germania da ogni pressione economica esterna.
Già nel 1936, le tensioni create dall’elevata spesa per la difesa e dalla lenta ripresa del
commercio internazionale portarono a una crisi. Lo stato maggiore e il ministro dell’Economia
Hjalmar Schacht, che aveva guidato per buona parte la ripresa del paese, proponevano di ridurre
maggiormente le spese militari e incentivare il commercio. Hitler era ostile all’idea di limitare la
crescita della potenza bellica tedesca, a maggior ragione in un momento in cui si sentiva
finalmente sicuro di poter perseguire una piú attiva politica di espansione imperiale. Nell’agosto
del 1936 stilò un memorandum strategico con le sue opinioni sul futuro economico e militare
della Germania. Consapevole della crescente minaccia sovietica, Hitler voleva che i preparativi
militari tedeschi fossero quanto piú vasti possibile, unitamente a un programma piú rapido di
autosufficienza economica. Se la Germania non fosse stata in grado di disinnescare la minaccia
bolscevica, sosteneva Hitler, questo avrebbe portato alla «distruzione finale, persino allo
sterminio del popolo tedesco». Il reperimento delle risorse necessarie a sfamare la popolazione e
la fornitura delle materie prime indispensabili alla futura lotta potevano realizzarsi soltanto
«espandendo lo spazio vitale, in particolare la base di approvvigionamento di materie prime e
prodotti alimentari per il popolo tedesco» . La diretta conseguenza del memorandum fu,
80

nell’ottobre del 1936, il pubblico annuncio di un secondo Piano quadriennale (il primo
Vierjahresplan era stato volto essenzialmente al reinserimento della manodopera tedesca nel
mondo del lavoro) sotto la direzione di Göring, leader del Partito nazionalsocialista e
comandante in capo dell’Aviazione. Il piano segnò una brusca rottura nella politica tedesca. Lo
stato, infatti, controllava ora i prezzi, i livelli salariali, l’attività di import-export, le transazioni in
valuta estera e gli investimenti. La cosiddetta «economia controllata» ( gelenkte Wirtschaft), al
pari della pianificazione economica statale del Giappone e dell’Italia, era essenziale per
bilanciare le esigenze di un veloce riarmo con la stabilità economica interna . In base al piano, fu
81

stabilito un programma di investimenti su larga scala in materiali sintetici sostitutivi (petrolio,


tessuti, prodotti chimici, gomma) allo scopo di garantire le basi economiche necessarie a una
produzione militare della piú ampia portata. Nel 1939, due terzi di tutti gli investimenti
industriali furono destinati a materiali strategici, mentre la spesa militare assorbí il 17 per cento
del prodotto nazionale (rispetto al 3 per cento del 1914) e il 50 per cento della spesa pubblica . 82

Oltre a tutto questo, si sarebbero procurate ulteriori risorse estendendo lo spazio vitale tedesco in
un nuovo impero europeo.
Detto ciò, non vi è molta chiarezza su che cosa Hitler intendesse fare esattamente per realizzare
quello «spazio vitale a Est e la spietata germanizzazione» che egli aveva indicato per la prima
volta come obiettivo a lungo termine ai capi dell’esercito nel febbraio del 1933 . Nonostante gli
83

sforzi degli storici per scoprire quali fossero le reali intenzioni di Hitler attraverso gli appunti
sparsi lasciati dalla stesura del Mein Kampf in poi, vi sono poche prove di una pianificazione
programmatica da parte sua, se non il desiderio di espandere il futuro spazio vitale tedesco
nell’Eurasia. Hitler stesso era chiaramente influenzato dalla retorica su «razza e spazio» da lui
scoperta nei primi anni Venti e di cui risentí gran parte del suo pensiero successivo. Hitler mutuò
l’idea di una vittoria su un metaforico «Est» direttamente dal pensiero imperiale tedesco di
quarant’anni prima, ma negli anni Trenta, a parte il suo forte anticomunismo e le periodiche
affermazioni che il futuro del popolo tedesco si trovava «a Est», vi è ben poco che suggerisca
quali fossero i suoi obiettivi precisi o come egli definisse l’«Est» nella sua mente. L’idea che egli
aspirasse a un conclusivo «dominio mondiale» rimane una congettura, anche se era chiara la sua
volontà di gettare attraverso l’espansionismo tedesco le basi di un impero che avrebbe uguagliato
potenze globali come Gran Bretagna o Francia, o perfino gli Stati Uniti . Per Hitler, la visione di
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ciò che era possibile nella pratica era di tipo reattivo piuttosto che programmatico, la sua
strategia era opportunistica e a breve termine, anche se la sua ossessione di assicurarsi uno spazio
vitale rimaneva immutata.
Dalla metà degli anni Trenta, divenne piú facile capire chi fossero gli amici di Hitler che non
prevedere quali sarebbero stati i suoi avversari – fatta eccezione per gli ebrei, che nella visione
del Führer rimasero sempre il principale nemico del popolo tedesco nella sua lotta per
l’affermazione nazionale. Nel corso del 1936, gli aggressori imperiali, Giappone e Italia, si
avvicinarono alla Germania. Nel novembre di quell’anno, Giappone e Germania siglarono
l’Antikominternpakt, volto a coordinare la resistenza al comunismo internazionale (a cui si uní un
anno dopo anche l’Italia). Nel 1938, Germania e Italia avevano ormai riconosciuto ufficialmente
lo stato fantoccio giapponese del Manchukuo. Nell’ottobre del 1936, Italia e Germania
raggiunsero un accordo informale, poi denominato Patto dell’Asse in base all’affermazione di
Mussolini che l’Europa avrebbe dovuto ora ruotare intorno all’«asse» Roma-Berlino. Nel corso
dei colloqui, Hitler confermò che, a suo giudizio, il Mediterraneo era «un mare italiano» e
assicurò la dirigenza italiana del fatto che le ambizioni tedesche erano ormai volte «a est e verso
il Baltico» . La conquista italiana dell’Etiopia, compiuta in aperta sfida alle grandi potenze della
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Società delle Nazioni, colpí l’opinione pubblica tedesca. Nel 1937, il numero di libri pubblicati
in Germania che approvavano la colonizzazione italiana in Libia ed Etiopia era pari a quello dei
testi che criticavano l’impero britannico, definito «uno stato pirata […] che rapina mezzo
mondo». In un libro di Hans Bauer, Kolonien im Dritten Reich (Colonie nel Terzo Reich), la
conquista italiana dell’Etiopia veniva acclamata come un esempio che la Germania avrebbe
dovuto emulare, stracciando l’accordo di pace di Parigi e acquisendo il proprio spazio vitale
coloniale .
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In Germania, le diverse ipotesi sulla direzione strategica assunta da Hitler emergevano


chiaramente nella rinnovata popolarità della lobby a favore delle colonie d’oltremare. Mentre il
trattato di Versailles veniva rapidamente sconfessato, la vociferante minoranza di entusiasti delle
colonie degli anni Venti sperava che Hitler potesse trovare i mezzi per riprendere i territori
perduti in Africa e nel Pacifico, oppure escogitarne di nuovi. Il Partito nazionalsocialista, che nel
1934 aveva istituito il Kolonialpolitisches Amt der NSDAP, ovvero un Ufficio politico coloniale
diretto dall’ex amministratore delle colonie (nonché figura di spicco del partito) generale Franz
Ritter von Epp, decise nel 1936 di «raggruppare» le organizzazioni coloniali esistenti in una
nuova Reichskolonialbund (Lega coloniale del Reich) con a capo lo stesso Von Epp. Se nel 1933
si contavano appena 30 000 sostenitori della lobby coloniale, nel 1938 la nuova Lega aveva un
milione di membri, oltre due milioni nel 1943 . Le pubblicazioni di propaganda riguardanti le
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colonie proliferarono, passando da non piú di una manciata di opuscoli all’inizio degli anni
Trenta a quarantacinque o cinquanta all’anno nel corso del decennio. I giovani tedeschi furono
bersagliati da storie e film di eroiche avventure coloniali e venne perfino prodotto un «Manuale
per la formazione della Gioventú hitleriana nelle colonie» al fine di preparare la Hitlerjugend a
un futuro nei territori colonizzati . Su pressione di Schacht, si discusse ampiamente sul fatto che i
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territori africani avrebbero in qualche modo sopperito alle carenze di metalli rari o di generi
alimentari piú esotici: «È piú chiaro che mai», annunciò il ministro dell’Economia in un discorso
a Lipsia, «che a uno stato industriale è indispensabile possedere aree coloniali ricche di materie
prime allo scopo di espandere l’economia nazionale» . Alla fine, tuttavia, l’entusiasmo popolare
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per le colonie d’oltremare, seppure abilmente manipolato dal regime hitleriano nel 1936-37 nel
tentativo di creare una frattura tra Gran Bretagna e Francia, non attraeva piú di tanto la nuova
classe dirigente tedesca, i cui appetiti territoriali e industriali erano di tipo continentale piuttosto
che coloniale: «Vogliamo mano libera nell’Europa orientale», disse Göring al suo contatto
britannico nel febbraio del 1937; in cambio, la Germania avrebbe rispettato gli interessi imperiali
della Gran Bretagna . L’idea di un impero in Africa riemerse solo piú tardi, dopo la sconfitta dei
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vecchi imperi nell’estate del 1940.


La prima volta che Hitler indicò un preciso programma di espansione fu nel corso di una
riunione tenuta alla Cancelleria del Reich il 5 novembre 1937, divenuta poi tristemente famosa
grazie agli appunti presi dal suo aiutante di campo Fritz Hossbach. Il Führer convocò i
comandanti in capo delle forze armate e il ministro degli Affari Esteri, conte Konstantin von
Neurath, e spiegò loro la strategia che aveva elaborato per risolvere il problema tedesco dello
«spazio» e il futuro della comunità razziale. Le dimensioni e la solidità della razza tedesca
conferivano a quest’ultima «il diritto a un maggiore spazio vitale». Il futuro della nazione era
«interamente condizionato dalla necessità di risolvere il bisogno di spazio». Le colonie
d’oltremare, a suo giudizio, non erano una soluzione sufficiente: «Le regioni ricche di materie
prime possono essere cercate assai piú proficuamente in Europa, nelle immediate vicinanze del
Reich». L’impero britannico era indebolito ed era improbabile che intervenisse, e in assenza
della Gran Bretagna, anche la Francia si sarebbe astenuta da qualsiasi azione. Hitler riferí al suo
uditorio che l’Austria e la Cecoslovacchia, che insieme potevano sfamare cinque o sei milioni di
tedeschi, avrebbero fornito quello spazio, possibilmente al piú presto, già nel 1938, qualora le
circostanze internazionali lo avessero permesso. L’esercito e il ministero degli Affari Esteri non
dimostrarono particolare entusiasmo, vista la loro preoccupazione di mettere a repentaglio i frutti
della rinascita economica e militare . La tiepida risposta dello stato maggiore e di Von Neurath
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provocò una significativa rivoluzione politica: nel febbraio del 1938 i vertici dell’esercito furono
sostituiti e il Reichskriegsministerium (ministero della Guerra del Reich) venne abolito. Hitler
assunse il ruolo di comandante in capo delle forze armate e creò un’istituzione speciale,
l’Oberkommando der Wehrmacht (OKW, Comando supremo della Wehrmacht), per consolidare
il suo nuovo ruolo. Il ministro degli Affari Esteri Von Neurath fu congedato a favore del
portavoce del partito sulla politica estera, Joachim von Ribbentrop. Schacht, ancora critico sui
rischi di un ulteriore riarmo e poco propenso a rinunciare alla sua campagna di conquiste in
Africa, fu sostituito dall’addetto stampa del partito Walther Funk, uomo dedito al bere nonché
personalità inconcludente, del tutto dominata ora da Göring . 92

Anche quella nuova prospettiva strategica era tuttavia densa di incertezze. Hitler era consapevole
che la tempistica dell’espansione tedesca dipendeva dall’atteggiamento delle altre grandi potenze
e da quanto le apprensioni per la minaccia giapponese e italiana, o per la velata minaccia della
crescente potenza sovietica, potessero contribuire a distrarre la loro attenzione. Alla fine, però,
quella che era la possibile data del 1938 divenne definitiva. Un mese dopo la «riunione di
Hossbach», venne ordinato all’esercito di approntare piani di emergenza per l’occupazione
dell’Austria e della Cecoslovacchia. Nel marzo del 1938 Hitler giudicò che le circostanze fossero
abbastanza favorevoli per compiere il primo passo. Le conseguenze erano tuttavia imprevedibili,
e il Führer esitò, come già aveva fatto con la Renania. Alla fine, Göring prese l’iniziativa e
costrinse l’Austria a sottomettersi e permettere l’ingresso delle truppe tedesche sul suo territorio
il 12 marzo. L’assenza di serie proteste internazionali aprí la strada alla decisione successiva. Il
28 maggio, Hitler convocò una riunione dei vertici militari e confermò che i piani provvisori per
il Fall Grün (Operazione Verde), nome in codice dell’invasione e conquista della
Cecoslovacchia, sarebbero andati avanti. Il capo di stato maggiore dell’esercito, il generale
Ludwig Beck, annotò brevemente il pensiero di Hitler sull’opportunità di tale azione: «Russia:
non interverrà, non essendo pronta a una guerra di aggressione. Polonia e Romania: per timore
dell’aiuto russo, non agiranno contro la Germania. Asia orientale: è il motivo principale per cui
l’Inghilterra sarà cauta». Hitler concluse che era giunto il momento di agire: «Il momento
propizio deve essere colto. [...] Una marcia lampo in Cecoslovacchia». Un’azione decisiva e
coercitiva nell’Europa centrale, come era stata l’invasione italiana dell’Etiopia, sarebbe stata
anche il segnale che la Germania ora disconosceva il vecchio ordine internazionale e intendeva
unilateralmente costruirne uno nuovo.
La successiva storia dell’intervento britannico e francese e l’accordo di Monaco del 30
settembre, che permetteva alla Germania di occupare le aree a maggioranza tedesca della
Cecoslovacchia, sono ben noti. Nonostante Hitler volesse una guerra imperiale il piú rapida
possibile – anche solo per uguagliare l’azione già intrapresa da Giappone e Italia –, una crisi
europea poteva provocare molta piú preoccupazione a livello internazionale che non le remote
regioni della Manciuria e dell’Etiopia. Il 28 settembre, dopo gli incontri del giorno prima con un
delegato britannico, Sir Horace Wilson, inviato da Neville Chamberlain per mettere in chiaro che
un’invasione della Cecoslovacchia avrebbe portato alla guerra, Hitler, seppure con una certa
riluttanza, venne convinto da Göring e Von Neurath a sottomettere gradualmente la popolazione
ceca. Alcuni dei comandanti piú anziani erano cosí preoccupati dei rischi che Hitler stava
correndo che nell’autunno del 1938 iniziarono a prendere in considerazione l’ipotesi di un colpo
di stato contro il dittatore, ma ci sarebbero voluti altri sei anni e svariate sconfitte di un certo
peso prima che si materializzasse un vero golpe. Alla fine, Hitler indietreggiò dalla sua piccola
guerra e accettò un compromesso che riconosceva alla Germania un accesso quasi immediato
alla regione cecoslovacca dei Sudeti e alle sue ricche risorse di materie prime. In pratica, i cechi
dovettero accettare che solo la metà slovacca dello stato avrebbe mantenuto la propria autonomia
e che si sarebbero conclusi accordi economici favorevoli unicamente alla Germania. Sei mesi piú
tardi, il 15 marzo 1939, dopo che il presidente ceco Emil Hácha era stato convocato a Berlino e
sottoposto a pesanti pressioni dai dirigenti tedeschi, le truppe del Reich marciavano su Praga. Il
giorno seguente, Hitler proclamò il protettorato tedesco delle province di Boemia e Moravia. La
Slovacchia fu ridotta a un regime fantoccio.
Il carattere imperiale di queste annessioni è evidente, pur trattandosi di un tipo di imperialismo
diverso da quello dei tradizionali imperi dinastici che solo vent’anni prima governavano ancora
la regione e piú simile al modello di impero realizzato fuori dall’Europa. Anche il caso
dell’Austria, incorporata in una Grande Germania con l’appoggio di un plebiscito quasi unanime,
rientrava in tale processo. Gli austriaci si trovarono sottoposti a un sistema giuridico non
richiesto, mentre il nome scelto per la regione, Ostmark, riecheggiava il termine coniato per la
zona di colonizzazione interna antecedente al 1914. Il passato austriaco fu cancellato a favore di
un presente germanico. Analogamente, l’area dei Sudeti, ottenuta grazie agli accordi di Monaco,
venne incorporata nella Grande Germania, disconoscendo in pieno le ambizioni dei nazionalisti
locali di lingua tedesca che volevano un Sudetenland autonomo. Nei territori cechi, il
protettorato assomigliava al sistema imposto nel Manchukuo: il Protektor del Reich rivestiva i
panni di viceré della regione ed era responsabile degli affari esteri e della difesa, mentre un
sistema di Oberlandräte (governatori locali) sovrintendeva alle forze di polizia,
all’amministrazione locale e all’applicazione di leggi e ordinanze emanate sostanzialmente dal
governo di Berlino. Venne inoltre mantenuto un apparato amministrativo ceco diretto da Hácha
per organizzare la gestione quotidiana del protettorato, anche se ogni sua attività, secondo il
decreto del 16 marzo, avrebbe dovuto essere svolta «in armonia con le esigenze politiche,
militari ed economiche del Reich». Circa 10 000 funzionari tedeschi supervisionavano il lavoro
di 400 000 cechi . Le forze armate esercitavano un livello a sé stante di supervisione militare
93

sulle risorse strategiche chiave, sulla difesa civile, sulla stampa e la propaganda e
sull’arruolamento dei cittadini tedeschi della Cechia. In tutte le aree annesse e nel protettorato, la
cittadinanza divenne un fattore determinante per separare cittadini e sudditi in base alla razza,
esattamente come in Etiopia. In Austria e nei territori del Sudetenland la cittadinanza era
riservata a quanti erano classificati come appartenenti all’etnia tedesca, mentre gli ebrei e i non
tedeschi diventavano semplici sudditi; nel protettorato, i tedeschi di origine ceca potevano
richiedere la cittadinanza del Reich (anche se molti non lo fecero), mentre i cechi rimanevano
soggetti al Protektor del Reich (gli ebrei persero anche quel limitato privilegio). I tedeschi che
sposavano cechi perdevano il diritto alla cittadinanza, incoraggiando cosí nel protettorato un vero
apartheid razziale. Cittadini e sudditi erano sottoposti a due diversi regimi legali: i cittadini erano
soggetti alle leggi del Reich, i cechi alle ordinanze e ai decreti applicati dal viceré. La resistenza
ceca fu soffocata selvaggiamente, senza indugio e con gli stessi eccessi violenti dell’Italia in
Etiopia o del Giappone in Cina .94

In tutta l’Austria, nel territorio dei Sudeti e nel protettorato, le risorse economiche chiave furono
rilevate da corporazioni statali o da banche tedesche, mentre le riserve auree e le risorse in valuta
estera, sia che appartenessero allo stato sia che fossero di proprietà privata delle popolazioni
ebraiche locali, furono sequestrate con la forza e riassegnate alla banca centrale tedesca . 95

L’istituzione fondamentale era la Reichswerke Hermann Göring, un conglomerato industriale


finanziato dallo stato e fondato nel giugno del 1937 per acquisire il controllo statale delle
forniture di ferro alla Germania. La Reichswerke acquisí rapidamente il controllo dei principali
settori minerari e siderurgici austriaci, costringendo i privati a vendere le loro quote di capitale
allo stato. Nei Sudeti, in cui l’organizzazione del Piano quadriennale aveva già localizzato una
serie di importanti risorse minerarie ben prima della loro annessione, la Reichswerke si mosse
prontamente per ottenere il controllo delle forniture di lignite, utilizzata poi a Brüx per
sviluppare la produzione locale di olio sintetico . Il protettorato garantiva l’accesso non solo a
96

ulteriori risorse minerarie e a vasti impianti siderurgici, ma anche ai maggiori produttori europei
di armi, la Škoda e la Československá státní zbrojovka di Brno (Waffenwerke Brünn), aziende in
cui alla fine del 1939 l’organizzazione Reichswerke possedeva fondamentali quote di
partecipazione. Le imprese di proprietà totale o parziale di ebrei austriaci o cechi furono
espropriate per legge allo scopo di «arianizzare» gli interessi commerciali ebraici, un processo
già iniziato in Germania all’inizio della dittatura. Louis Rothschild fu tenuto in ostaggio dagli
invasori tedeschi fino a quando non cedette al Reich le sue enormi proprietà presenti nel
protettorato. Alla fine, il patrimonio della Reichswerke ammontava a oltre cinque miliardi di
Reichsmark, cinque volte maggiore di quello della compagnia tedesca che piú le si avvicinava, il
gigante chimico I. G. Farben. Le risorse a disposizione del Reich, come quelle della Manciuria
sotto il controllo statale del Giappone, contribuirono a sostenere gli alti livelli di produzione
militare all’interno di un blocco economico chiuso, interamente controllato da Berlino che
forniva il capitale necessario allo sfruttamento coloniale .
97

Non si trattava di un vero e proprio spazio vitale nel senso inteso da Hitler. Anche se il Führer
aveva annunciato alla riunione di Hossbach di voler espellere un milione di persone dall’Austria
e due milioni dalla Cecoslovacchia, i trasferimenti di popolazione si tradussero soprattutto
nell’emigrazione di circa mezzo milione di ebrei tedeschi, austriaci e cechi, che cercarono rifugio
all’estero dalla ristrutturazione su base razziale evidente nei piani tedeschi riguardanti i territori
conquistati. Tra i funzionari tedeschi responsabili dei nuovi territori si discusse molto sulla linea
politica futura, soprattutto se dovesse basarsi sull’assimilazione o sulla segregazione razziale.
Solamente in seguito, durante la guerra, il regime prese in considerazione la prospettiva di
espellere tutti i cechi che non potevano essere «germanizzati» – si stima che fossero la metà della
popolazione – e trattare il protettorato come un’area di insediamento tedesco . Venne dato inizio
98

a un programma su piccola scala – successivamente incrementato – per espropriare i contadini


cechi e colonizzarne le terre con tedeschi: nel 1945 erano state confiscate 16 000 fattorie per un
totale di 550 000 ettari .
99

Non è chiaro in che momento Hitler decise che a est si poteva trovare piú proficuamente spazio
vitale in Polonia. Fino alla fine del 1938, i polacchi furono considerati come potenziali alleati in
un blocco antisovietico dominato dal Reich, con la restituzione delle terre tedesche concesse a
Versailles e la volontaria trasformazione del paese in un satellite della Germania. Solo quando il
governo polacco rifiutò ripetutamente la richiesta tedesca di un collegamento ferroviario e
stradale extraterritoriale attraverso il corridoio polacco e l’integrazione nella Germania della
Città Libera di Danzica, amministrata dalla Società delle Nazioni, Hitler decise di scatenare
contro i polacchi la guerra lampo che gli era stata negata nel 1938 e di impadronirsi delle risorse
polacche con la forza. La Polonia includeva all’epoca la vasta regione della Slesia, un tempo
tedesca e ricca di carbone e acciaio, ma vantava anche ampie aree adatte all’insediamento di
coloni e alla produzione di eccedenze agricole destinate a nutrire la popolazione tedesca. Alla
riunione del 23 maggio 1939, in cui illustrò ai comandi militari le sue intenzioni nei confronti
della Polonia, Hitler affermò che «in questo caso, l’obiettivo non è Danzica. Per noi si tratta di
reperire il necessario spazio vitale a Est e garantirci l’approvvigionamento alimentare». Tale
vettovagliamento, continuò Hitler, poteva provenire solo dall’Est, ricco di territori scarsamente
popolati. L’efficienza agricola tedesca avrebbe incrementato di molto la produttività della
regione .
100

Una guerra imperiale contro la Polonia comportava tuttavia il rischio di un intervento da parte
delle altre potenze europee, come già era avvenuto durante la crisi ceca dell’anno precedente.
Hitler avrebbe forse accettato come soluzione un secondo protettorato se i polacchi avessero
abbassato in silenzio la testa di fronte alle minacce tedesche, ma alla fine del marzo 1939, contro
ogni aspettativa del Führer, la Gran Bretagna e poi la Francia si dichiararono pubblicamente
garanti della sovranità polacca. Nei mesi estivi, mentre la Germania si preparava accuratamente
alla campagna militare, la diplomazia tedesca cercò, senza successo, di creare una divisione tra i
polacchi e i loro garanti e tra i due garanti stessi. Si fece ricorso alla propaganda per stimolare il
sostegno interno a una guerra che avrebbe dovuto proteggere i tedeschi che vivevano in Polonia
da presunte atrocità polacche e fornire al tempo stesso un pretesto per l’invasione. Poiché la Gran
Bretagna e la Francia non intendevano rinunciare a sostenere la Polonia, Hitler cercò un accordo
con l’Unione Sovietica per assicurarsi che un eventuale blocco congiunto sovietico, britannico e
francese non avrebbe ostacolato la sua guerra lampo. Il Patto di non aggressione Molotov-
Ribbentrop, firmato il 23 agosto 1939, fu usato da Hitler per chiarire a tutti coloro che lo
circondavano che le potenze occidentali non avrebbero piú osato intervenire. Benché si sia
spesso sostenuto che nel 1939 Hitler stesse tentando di scatenare una guerra generale perché i
costi del riarmo a carico di un’economia fragile e fin troppo oberata di difficoltà lo avevano
costretto a cercare il conflitto con l’Occidente prima che fosse troppo tardi, quasi tutte le
testimonianze dimostrano che Hitler voleva piuttosto una guerra ben localizzata allo scopo di
sostenere l’espansione dello spazio vitale a Est, anziché un grande conflitto con gli imperi
britannico e francese – ponendo cosí fine a un decennio passato a costruire imperi piuttosto che
annunciare il prologo di una guerra mondiale . Vi erano senza dubbio pressanti motivi
101

economici che lo spingevano a conquistare piú terre e risorse, ma non certo a scatenare una
guerra mondiale, che quando – o se – fosse avvenuta avrebbe fagocitato quelle risorse
supplementari. Era opinione di Hitler che una guerra vera e propria potesse prevedersi soltanto
verso il 1942-43, quando fossero stati completati i piani di riarmo . Il 21 agosto, Hitler autorizzò
102

esclusivamente una mobilitazione economica limitata, progettata per affrontare un conflitto


locale e temporaneo; l’ordine di iniziare una mobilitazione totale dell’economia fu dato solo
dopo che Gran Bretagna e Francia ebbero dichiarato la guerra . 103

Con l’avvicinarsi della data prevista per l’invasione, tuttavia, i rischi si moltiplicarono. Ancora
una volta, Hitler esitò. L’invasione programmata per il 26 agosto fu rimandata quando giunse la
notizia di un’alleanza anglo-polacca, oltre alla comunicazione che l’Italia non avrebbe onorato il
Patto d’Acciaio né avrebbe affiancato la Germania in una guerra generale. Le informazioni
provenienti da Londra suggerivano che questa volta la Gran Bretagna non stava bluffando . 104

Hitler superò i suoi dubbi e il 28 agosto diede ordine alle truppe di cominciare a marciare, in
vista di una campagna militare che sarebbe iniziata la mattina del 1° settembre. La forte
convinzione che l’impero francese e quello britannico stessero vivendo il loro declino definitivo,
paralizzati dai timori per le ambizioni italiane nel Mediterraneo e per quelle giapponesi in Asia
orientale, alimentava nel Führer la fissazione che l’Occidente, in un modo o nell’altro, avrebbe
finito per abbandonare la Polonia al suo destino una volta assodato che i polacchi erano
militarmente indifendibili. Uno dei collaboratori militari ribadí che Hitler aveva chiarito di
volere la guerra con i polacchi, ma «di non volere nessuna guerra con gli altri». In seguito,
durante gli interrogatori avvenuti dopo il conflitto, Göring ribadí che Hitler era sicuro di
raggiungere un accordo con l’Occidente riguardo alla Polonia, cosí come aveva fatto con la
Cecoslovacchia. «Per come la vedevamo noi», affermò Göring, «si atteneva troppo rigidamente a
quell’idea» . Il Führer rifiutò i consigli di chi cercava di dissuaderlo, fortemente intenzionato a
105

evitare che una dimostrazione di leadership incoerente e di ansia ingiustificata potesse privarlo
della sua prima guerra imperiale. «Ho finalmente deciso», riferí il 1° settembre al suo ministro
degli Affari Esteri Von Ribbentrop, «di fare a meno delle opinioni di persone che mi hanno male
informato in una dozzina di occasioni e mi affiderò al mio giudizio, che in tutti questi casi [dalla
Renania a Praga] mi ha dato consigli migliori di quelli di competenti esperti» .
106

L’improvvisa quanto audace decisione, questa volta irremovibile, aveva molto in comune con il
rifiuto opposto da Mussolini ai cauti consigli ricevuti nel 1935 di non rischiare una guerra per il
suo progetto di invasione dell’Etiopia. Come nell’avventura africana, la profonda
riorganizzazione delle forze armate avvenuta prima del conflitto rendeva difficile anche solo
prendere in considerazione l’abbandono della campagna militare. Per molti comandanti tedeschi,
la guerra con la Polonia appariva come la tanto auspicata ripresa sia della spinta verso est durante
la Grande Guerra, in cui molti di loro avevano combattuto, sia dei conflitti postbellici del 1919-
20 lungo la nuova frontiera tedesco-polacca, quando i soldati smobilitati si erano uniti ai
volontari dei Freikorps per combattere i polacchi. La Polonia era considerata un semplice
Saisonstaat (stato stagionale), il figlio illegittimo del trattato di pace di Versailles e un territorio
ormai maturo per un futuro insediamento tedesco . Nella primavera del 1939, il capo di stato
107

maggiore dell’esercito, generale Franz Halder, aveva espresso in un discorso alla Kriegsschule,
l’Accademia delle forze armate, il proprio «senso di sollievo» all’idea che la guerra con la
Polonia fosse ora all’ordine del giorno: «La Polonia», aveva detto, «non deve essere solo colpita,
ma liquidata il piú rapidamente possibile» . Nell’estate del 1939 venne comunicato ai soldati che
108

il nemico che avrebbero dovuto affrontare era «crudele e scaltro»; un rapporto delle forze armate
sui polacchi affermava che la popolazione contadina si distingueva per «crudeltà, brutalità,
tradimento e bugie». Halder considerava i soldati polacchi «i piú stupidi d’Europa». Gli ufficiali
tedeschi non esitarono a fare propri i pregiudizi antipolacchi e la sensazione che la Polonia
meritasse il suo destino perché intendeva bloccare l’espansione tedesca nell’«antica terra
germanica», come si era espresso il comandante di una divisione di fanteria alla vigilia
dell’invasione. «Questo», aveva detto, «è lo spazio vitale del popolo tedesco» . Hitler non
109

considerava la guerra imminente un conflitto convenzionale tra grandi potenze bensí una guerra
contro un nemico barbaro e minaccioso verso il quale non si doveva mostrare alcuna
misericordia, una guerra da condurre, disse ai suoi comandanti il 22 agosto, con «la massima
brutalità e senza pietà». Piú tardi, lo stesso giorno, il Führer parlò della necessità di eliminare
fisicamente il popolo polacco da una terra che doveva essere «svuotata e colonizzata da
tedeschi» .
110

Alle sedici del 31 agosto, Hitler ordinò l’inizio dell’invasione per il mattino seguente,
assicurando Halder che «Francia e Inghilterra non si metteranno in marcia». Joseph Goebbels,
capo del Reichsministerium für Volksaufklärung und Propaganda (RMVP, ministero del Reich
per l’Istruzione Pubblica e la Propaganda), annotò nel suo diario: «Il Führer non crede che
l’Inghilterra interverrà» . Nella notte, fu organizzata un’operazione con il nome in codice
111

Himmler per simulare un attacco polacco ai posti di frontiera tedeschi: gli uomini delle SS
lasciarono sei prigionieri morti nei campi di concentramento presso la stazione di confine di
Hochlinden, vestiti con uniformi polacche, mentre alla stazione radio di Gleiwitz venne
trasmesso un brutale messaggio in polacco e un prigioniero polacco venne lasciato a terra senza
vita come prova della violazione territoriale e come giustificazione della guerra. Si trattò di uno
stratagemma tanto rozzo quanto il sabotaggio della ferrovia della Manciuria da parte dell’esercito
giapponese nel 1931. Poco prima delle cinque del mattino del 1° settembre, il primo aereo
tedesco attaccò la piccola cittadina polacca di Wieluń mentre la nave da addestramento tedesca
Schleswig-Holstein, ancorata a Danzica per un’esercitazione, aprí il fuoco dei suoi cannoni sul
forte polacco del porto. La campagna militare che seguí era stata programmata per essere cosí
rapida che le potenze occidentali non poterono far altro che trovarsi di fronte al fatto compiuto. Il
Fall Weiß (Operazione Bianco) era in preparazione fin da aprile, tanto che il 1° settembre vi
erano un milione e mezzo di soldati tedeschi di stanza nella Prussia orientale, Germania orientale
e Slovacchia, affiancati da 1929 aerei e 3600 veicoli corazzati, la maggior parte dei quali
raggruppati in dieci divisioni motorizzate e cinque Panzerdivision di nuova creazione. Si trattava
di unità combinate, dotate di alta mobilità e con un gran numero di carri armati, affiancate da
ondate di bombardieri e caccia in picchiata sul territorio polacco, e progettate come la punta di
diamante di un esercito piú convenzionale, formato da fanteria e uomini a cavallo, pronto a
sfruttare i danni fatti dai corpi corazzati.
La mobilitazione generale dell’esercito polacco venne dichiarata solo in tarda serata, per evitare
uno scontro diretto con i tedeschi. Sulla carta, le forze armate della Polonia non erano molto piú
piccole di quelle tedesche e contavano 1,3 milioni di soldati, affiancati però da 900 aerei perlopiú
obsoleti e soltanto 750 mezzi corazzati . I polacchi si erano preparati in base a un’esperienza
112

operativa piú tradizionale, nella speranza che le loro armate, mentre veniva completata la
mobilitazione, riuscissero a reggere l’attacco lungo i confini per poi ritirarsi in buon ordine
attorno a capisaldi prestabiliti per opporre resistenza. L’aviazione polacca fu presto sopraffatta;
metà venne distrutta nella prima settimana di combattimenti e un centinaio dei restanti aerei
ricevette l’ordine di volare verso le basi della vicina Romania per evitare il completo
annientamento . Le forze tedesche avanzarono a dispetto di una forte resistenza locale e dopo
113

una settimana si trovarono a soli 65 chilometri da Varsavia. Non si trattò di un confronto


interamente squilibrato, come viene spesso presentato; tra il 13 e il 16 settembre infuriò un’aspra
battaglia lungo il fiume Bzura, di fronte alla capitale polacca. Da parte tedesca, le perdite di
mezzi corazzati e aerei aumentarono costantemente, poi, il 17 settembre, sollecitate dal quartier
generale del Reich, le truppe sovietiche, con circa un milione di soldati, iniziarono l’invasione da
est, con lo scopo di occupare una zona della Polonia che in base ai termini del protocollo segreto
del Patto di non aggressione era stata lasciata a disposizione degli interessi dell’Urss. Per i
polacchi, che ora combattevano su due fronti, non vi erano grandi probabilità di vittoria, anzi, la
loro sconfitta era soltanto questione di tempo. L’intento di non fare di Varsavia una città aperta
risultò chiaro dalle pesanti distruzioni causate dall’artiglieria e dai bombardamenti aerei iniziati il
22 settembre. Varsavia capitolò cinque giorni dopo; il 29 fu la volta di Modlin, l’ultima ridotta
polacca. Combattimenti di minore portata proseguirono fino all’inizio di ottobre. Circa 694 000
militari polacchi caddero prigionieri dei tedeschi e 230 000 dei sovietici, anche se si stima che un
numero di uomini compreso tra 85 000 e 100 000 fosse fuggito in Romania e Ungheria. I militari
polacchi caduti in combattimento furono 66 300, con 133 700 feriti; i tedeschi persero 13 981
uomini tra morti e dispersi, con 30 322 feriti, quasi le stesse perdite subite dagli italiani in
Etiopia; l’Armata Rossa, che si era trovata ad affrontare una difesa polacca ormai fragile e
demoralizzata, contò 996 morti e 2000 feriti . Nonostante l’ampio divario numerico e
114

qualitativo, le perdite di aerei tedeschi furono consistenti, con 285 velivoli distrutti e 279
danneggiati, circa il 29 per cento della forza aerea impiegata . Il 28 settembre, i rappresentanti
115

sovietici e tedeschi si incontrarono per firmare un secondo accordo, il Deutsch-Sowjetische


Grenz-und Freundschaftsvertrag (Trattato tedesco-sovietico di amicizia e territorialità), che
doveva tracciare la linea di demarcazione delle rispettive sfere di influenza. Nel giro di quattro
settimane la Polonia aveva cessato di esistere come stato moderno.
La breve campagna militare non sembrò quasi risentire della notizia del 3 settembre, secondo cui
la Gran Bretagna e la Francia avrebbero onorato la promessa fatta alla Polonia con una
dichiarazione di guerra alla Germania, anche se quanto accadeva quel giorno nelle strade
tedesche sembrava indicare piú timore e sconforto che l’esplosione di quel fervore nazionale
evidente nel 1914. Per settimane, Hitler rimase fiducioso che la dichiarazione di guerra delle due
potenze fosse soltanto pro forma e che esse avrebbero cercato il modo di liberarsi dall’impegno
preso non appena la Polonia fosse stata spartita tra le due dittature. Quasi nessun aiuto militare o
materiale venne offerto ai polacchi dalle potenze occidentali, che in privato avevano liquidato la
Polonia come un territorio da ricostituire soltanto successivamente, quando la guerra fosse stata
vinta.
Con lo spauracchio di una guerra piú estesa che Hitler non aveva voluto, il progetto imperiale già
avviato nelle terre ceche venne realizzato in maniera ancora piú spietata in Polonia, dove fu
resuscitata una forma di colonizzazione del passato, comunemente in uso prima del 1914 e atta a
definire e giustificare l’assoggettamento della popolazione prigioniera. Nonostante il mutato
carattere del conflitto dopo la dichiarazione di guerra da parte dell’Occidente, gli strateghi
tedeschi, le forze di sicurezza e i funzionari dell’apparato economico del Reich decisero di
avviare nella regione un insediamento imperiale a lungo termine, oltre a soddisfare le esigenze di
quella frettolosa azione bellica. L’obiettivo, come disse uno stratega tedesco nella Prussia
orientale il giorno dell’invasione, era «un atto di colonizzazione totale» . Hans Frank, capo del
116

Bund Nationalsozialistischer Deutscher Juristen (Associazione degli avvocati nazionalsocialisti)


e governatore del territorio polacco non annesso direttamente al Reich, noto come
Generalgouvernement für die besetzten polnischen Gebiete (Governatorato generale delle aree
occupate della Polonia), vedeva il suo feudo come un «laboratorio di amministrazione coloniale»
e, benché Berlino preferisse evitare il termine «colonie», il ministro dell’Economia di Frank,
Walter Emmerich, riteneva che il dominio tedesco fosse invero una «speciale variante europea di
politica coloniale» .
117

Il definitivo assetto costituzionale delle aree annesse fu oggetto di molte discussioni. Le


conquiste tedesche furono provvisoriamente divise in un certo numero di unità distinte: la
provincia di Posen (Poznań), rilevata dallo stato polacco con l’accordo di pace del 1919, fu
trasformata nel nuovo distretto tedesco del Wartheland; l’ex regione prussiana piú a nord, sul
Mar Baltico, divenne la provincia Reichsgau Danzig-Westpreußen; il resto del territorio,
compresa Varsavia, divenne parte del Governatorato generale, con capitale Cracovia. L’Alta
Slesia, trasferita alla Germania con un plebiscito del 1921, fu reincorporata nel Reich. Le sue
risorse industriali passarono sotto l’amministrazione fiduciaria tedesca e molte furono assegnate
alla supervisione della Reichswerke Göring. Un totale di 206 000 imprese industriali e
commerciali polacche furono rilevate e distribuite a proprietari tedeschi o a corporazioni statali . 118

Il distretto Wartheland e la provincia Reichsgau-Danzig erano detti «territori orientali annessi»,


separati dal resto della Germania da una speciale frontiera sorvegliata da guardie della polizia per
prevenire la libera circolazione dei polacchi nel Reich. Nel caso del Wartheland, la stragrande
maggioranza della popolazione, fino all’85 per cento, era polacca. Solo il 6,6 per cento era
tedesco, e soltanto il 2,2 per cento nella città di Posen . La nuova classe dirigente delle diverse
119

regioni, tuttavia, era tedesca. Ai «tedeschi etnici» fu ordinato di indossare un distintivo di


identificazione (dato che il colore della pelle non era un indicatore di etnia). I polacchi venivano
trattati come un popolo colonizzato, che doveva salutare i tedeschi alzando il cappello e cedere
loro il passo su marciapiedi e sentieri; erano inoltre banditi da teatri ed edifici pubblici, riservati
ai soli tedeschi. Un certo numero di donne tedesche, addestrate alla Koloniale Frauenschule
Rendsburg (Scuola coloniale femminile della città di Rendsburg), nella Germania settentrionale,
in vista di un loro ruolo in un futuro impero d’oltremare, venne ora utilizzato nell’Est
(Osteinsatz) per mettere in pratica le stesse pratiche coloniali un tempo destinate agli africani . I
120

polacchi erano sudditi, non cittadini, posti sotto governatori responsabili dell’amministrazione
regionale che fungevano da collegamento tra il governo locale e i ministeri a Berlino nonché con
l’apparato di sicurezza gestito da Heinrich Himmler.
Il primo obiettivo della politica imperiale tedesca fu quello di distruggere qualsiasi possibile
vestigio della vita nazionale e culturale polacca e ristrutturare l’intera area dal punto di vista
della razza. Prima dell’invasione, il secondo in comando di Himmler, Reinhard Heydrich, aveva
creato cinque unità di azione speciale, le Einsatzgruppen, composte da circa 4250 uomini della
polizia e delle forze di sicurezza, il cui compito non era solo quello di sorvegliare le retrovie del
fronte, ma anche catturare e passare per le armi i rappresentanti dell’élite politica, culturale e
nazionalista polacca, come era stato fatto in Etiopia dall’esercito e dalla polizia italiana . Lo
121

scopo era quello di decapitare la classe dirigente del paese al fine di ridurre la società polacca a
un livello confacente all’immaginario coloniale dell’«Est», in linea con quanto Hitler aveva
intimato ad agosto ai comandanti dell’esercito, a cui aveva detto di volere «la distruzione della
Polonia» . Non sapremo mai il numero esatto di uomini e donne uccisi durante l’operazione
122

denominata Unternehmen Tannenberg, ma di certo si trattò di decine di migliaia di persone,


forse addirittura 60 000. Alcune delle vittime appartenevano alla comunità ebraica, ma l’azione
fu diretta principalmente contro l’élite polacca. Dopo un incontro con Heydrich, Franz Halder
annotò: «Pulizia territoriale: ebrei, intellettuali, clero, nobiltà» . Gli ebrei furono comunque
123

perseguitati in altri modi, picchiati, umiliati e talora assassinati; le loro proprietà vennero
confiscate dai funzionari tedeschi o saccheggiate dai soldati. A ottobre, molti erano stati
ammassati nei primi grandi ghetti o deportati dai territori annessi al Governatorato generale,
anche se non era ancora in atto uno sterminio sistematico .124

Nella visione ideale dell’impero, in definitiva, si intendeva «ripulire» l’intera zona coloniale
dagli ebrei e dai polacchi che non potevano essere «germanizzati» e andavano rimpiazzati da
coloni tedeschi; nel frattempo, tuttavia, i nuovi padroni imperiali, che si autodefinivano
«portatori di cultura», imposero la segregazione e la sottomissione razziale . Il 7 ottobre 1939,
125

Hitler nominò Himmler Reichskommissar für die Festigung deutschen Volkstums (RKFDV,
Commissario del Reich per il rafforzamento del carattere nazionale germanico), con l’incarico di
organizzare i «nuovi territori colonizzati attraverso spostamenti di popolazione» . Himmler
126

sosteneva da lungo tempo l’idea di un impero orientale colonizzato da tedeschi. Egli stesso aveva
scelto il nome della sua nuova carica e avviato all’istante un piano programmatico per insediare i
coloni tedeschi ed espellere i polacchi dai terreni agricoli orientali. Venne approntato un registro
razziale per identificare quei polacchi le cui caratteristiche fisiche suggerivano qualche traccia di
sangue tedesco. Nel dicembre del 1939, Himmler dichiarò di volere «un paese dai capelli
biondi», in cui «nell’Est appena colonizzato» sarebbe stato impedito con la forza lo «sviluppo di
tipi mongoli» . Per enfatizzare il ruolo delle differenze, o «alterità», si sfruttarono i classici
127

antonimi della politica imperiale – civilizzato/barbaro, familiare/esotico, colto/ignorante – in uso


prima del 1914.
La guerra contro la Polonia può essere meglio compresa non tanto nella prospettiva
convenzionale che la considera il primo scontro armato della Seconda guerra mondiale quanto
come fase finale di un movimento tipico degli anni Trenta, poco coordinato e volto a fondare
nuovi imperi territoriali. Visto da questa piú ampia angolazione, lo sforzo di fondare nuovi
ordinamenti imperiali accomunò il destino di Giappone, Italia e Germania nelle diverse regioni
in cui avevano scelto di edificare l’impero. In tutti e tre i paesi, dopo anni di risentimento
popolare e frustrazione nazionale, era emerso un consenso nazionalista a favore dell’impero,
un’opinione questa che apparteneva alla stessa dirigenza politica, che non l’aveva tuttavia
generata interamente. Limitando sempre piú le possibili opzioni strategiche e mettendo al bando,
spesso con la violenza, quegli elementi interni che si dimostravano ostili o critici nei confronti
del nuovo imperialismo, i tre nuovi stati imperiali corsero parecchi rischi per ottenere ciò che
volevano, eppure, piú ottenevano, piú sembrava loro possibile realizzare quell’obiettivo a lungo
termine che consisteva nel frammentare l’ordine globale – con un nuovo impero romano, la
leadership dell’Asia e un impero germanizzato nell’Europa orientale. Dal punto di vista
strategico, tuttavia, il risultato conduceva in un vicolo cieco. L’ironia è che i progetti imperiali
che avrebbero dovuto aumentare la sicurezza, proteggere l’interesse nazionale e, infine,
arricchire le popolazioni della madrepatria, crearono invece una crescente insicurezza e imposero
costi elevati, come avvenne per la maggior parte delle azioni imperialiste. I rischi venivano
considerati accettabili perché il vecchio ordine internazionale sembrava in procinto di crollare,
ed è probabile che se le altre grandi potenze avessero avuto a che fare solo con l’occupazione
della Manciuria, dell’Etiopia e delle terre ceche, alla fine avrebbero accettato di convivere con
quella mutata realtà geopolitica.
Il problema stava nella natura dinamica di tutta l’espansione imperiale. Le nuove conquiste si
dimostrarono improvvisazioni irreversibili, come gran parte dell’edificazione imperiale prima del
1914, e aprirono la strada a ulteriori conflitti. La conquista giapponese della Manciuria risucchiò
il Giappone nella difesa dei suoi interessi strategici nella Cina settentrionale e, alla fine, in una
vera e propria guerra con il regime nazionalista di Chiang Kai-shek; l’occupazione italiana
dell’Etiopia stuzzicò ulteriormente l’appetito di Mussolini verso la conquista di una grande
colonia a costi relativamente bassi; la ricerca di spazio vitale di Hitler si rivelò un concetto
elastico, che poteva estendersi ulteriormente a seconda delle opportunità, ma finí con una guerra
internazionale per una Polonia che non aveva voluto. Sia il Giappone sia la Germania,
nonostante le preoccupazioni per la futura minaccia sovietica, si trovarono, senza averlo mai
previsto, con una lunga frontiera in comune con l’Urss. Per il Giappone, il risultato furono due
grandi conflitti di confine con l’Armata Rossa: nel 1938 e nuovamente nell’estate del 1939.
Anche se nel 1939 l’esercito giapponese era stato annientato dai sovietici nella battaglia di
Nomonhan, il 15 settembre era stato firmato un cessate il fuoco perché nessuna delle due parti
voleva rischiare una guerra totale con una situazione europea cosí incerta . Hitler aveva
128

rimandato un potenziale conflitto con l’Unione Sovietica grazie al Patto di non aggressione, ma
sapeva benissimo che la nuova frontiera condivisa con l’Urss sul territorio della Polonia
occupata non sarebbe stata permanente. Sullo sfondo rimaneva l’imprevedibile atteggiamento
degli Stati Uniti, che sembravano limitarsi a osservare l’espansione dei nuovi imperi. A legare tra
loro Italia, Germania e Giappone era la determinazione a non rinunciare a ciò che era stato
conquistato; in tutti e tre i casi, si trattava di acquisizioni territoriali ottenute con l’occupazione
armata, con un «sacrificio di sangue» che non doveva essere dimenticato, come era invece
avvenuto, si diceva, dopo la Grande Guerra. Le altre potenze non avevano modo di espellere i
nuovi imperialisti dai territori appena conquistati se non con una guerra su larga scala. La
questione della territorialità era un’arma a doppio taglio.
La strada tortuosa verso la guerra mondiale.
La Seconda guerra mondiale fu il risultato di decisioni prese a Londra e Parigi, non a Berlino.
Hitler avrebbe preferito consolidare la conquista della Polonia e completare il dominio tedesco
sull’Europa centro-orientale evitando un grande scontro con i due imperi occidentali. Se nel 1939
questo non accadde, fu in buona parte dovuto sia alla crescente certezza che la forza militare ed
economica franco-britannica sarebbe stata piú che in grado, nel lungo periodo, di sconfiggere la
Germania, sia alla convinzione sempre piú diffusa nell’opinione pubblica francese e britannica
che la minaccia di una grande crisi internazionale, con cui avevano convissuto per quasi un
decennio, poteva essere risolta soltanto riprendendo le fila del 1918 e combattendo ancora una
volta contro la Germania. Per Gran Bretagna e Francia, una dichiarazione di guerra era una
questione di ben altro peso rispetto alle piccole guerre combattute dai tre stati aggressori, poiché
sapevano che si sarebbe trattato di un conflitto globale che avrebbe coinvolto i loro interessi
imperiali nei vari continenti e comportato minacce armate non in un solo teatro di guerra ma in
tre. La scelta di affrontare la Germania fu in parte dettata, in primo luogo, dalla situazione
contingente determinata dalla crisi polacca, ma soprattutto dal fatto che le due potenze vincitrici
della Grande Guerra erano giunte alla conclusione che i risultati insoddisfacenti dell’accordo di
pace del 1919 rendevano inevitabile un secondo conflitto europeo, dopo il quale speravano di
fondare un ordine internazionale piú stabile in cui fosse possibile garantire in modo permanente
la pace sul continente e un pacifico mantenimento dell’impero.
Fu una decisione presa dopo anni di instabilità, ma fu comunque una decisione fatidica e difficile
da prendere dopo la sconvolgente esperienza della Prima guerra mondiale. Anche se i dirigenti
tedeschi, italiani e giapponesi non potevano non immaginare che a un certo punto avrebbero
dovuto affrontare un grande conflitto con gli stati che ostacolavano i loro nuovi imperi regionali,
non era certo quello che volevano negli anni Trenta, né se lo aspettavano. Per gli statisti
britannici e francesi, d’altra parte, sembrava assodato che un’eventuale nuova guerra avrebbe
comportato un nuovo «scontro totale», piú mortale e costoso in ragione dei nuovi armamenti,
nonché una profonda minaccia alla stabilità economica. L’ipotesi di una guerra sarebbe stata
giustificata solo nel caso in cui la minaccia alla sicurezza dell’impero e alla sopravvivenza
nazionale fosse da ritenersi sufficientemente pericolosa e irreversibile. Piú che credere alla
visione piú operativa dei governanti tedeschi, italiani e giapponesi, secondo cui la guerra non era
che il mezzo necessario per assicurarsi il dominio su un impero regionale, inglesi e francesi
presumevano che la crescente bellicosità e la forza militare dei tre regimi dell’Asse fossero
dirette principalmente contro di loro e rappresentassero la continuazione della lotta per
l’egemonia di grande potenza iniziata nel 1914. Dei tre stati con velleità imperiali, la Germania
era quello piú temuto, non solo per la sua potenziale forza militare ed economica ma anche
perché Hitler sembrava incarnare l’ostilità verso la visione occidentale della civiltà e dei suoi
valori. Per tutti gli anni Trenta, le principali democrazie occidentali sperarono di aver giudicato
male la crisi e che la nuova generazione di statisti autoritari a cui esse si opponevano avrebbe
condiviso la loro repulsione alla prospettiva di veder rinnovato il terribile spargimento di sangue
della Grande Guerra e non si sarebbe impegnata in quello che i politici britannici amavano
definire «l’azione di un cane rabbioso» . Queste profonde preoccupazioni spiegano sia la cautela
129

con cui entrambi gli stati affrontarono le crisi internazionali degli anni Trenta sia la decisione
finale, presa nel 1939, che fosse ormai necessario affrontare il cataclisma, a qualunque costo.
La riluttanza del governo britannico e di quello francese a prendere in considerazione una
seconda grande guerra nel giro di una generazione si rispecchiava nella pubblica opinione. Negli
anni tra le due guerre, una larga parte della società civile di ambo i paesi si era dimostrata ostile
all’idea della guerra come soluzione a qualsiasi crisi futura ed era spaventata da ciò che un nuovo
conflitto poteva significare. Quell’ansia popolare interessava tanto gli ex militari, che avevano
sperimentato le trincee e non volevano un’altra guerra, quanto i giovani socialisti e comunisti
degli anni Trenta, per i quali la pace era un impegno politico. Se il pacifismo assoluto (o
pacifismo «integrale», come veniva chiamato in Francia) apparteneva a una minoranza del
movimento contro la guerra, il rifiuto dell’idea di un nuovo conflitto si estendeva a una cerchia
ben piú ampia. Il principale movimento contro la guerra, The British League of Nations Union,
aveva un milione di membri nominali e conduceva campagne nazionali sulle virtú della pace
contrapposte alle minacce della guerra. Nel 1936, un grande congresso pacifista a Bruxelles
fondò l’International Peace Campaign, che doveva unire le lobby pacifiste e antimilitariste di
tutta l’Europa occidentale; la sezione britannica era presieduta da Lord Cecil, capo della British
League of Nations Union, nonché figura di spicco dell’establishment . Fino al 1939, la lobby
130

contraria alla guerra si batté per soluzioni pacifiche. Alla fine del 1938, il British National Peace
Council aveva organizzato una petizione a favore di una «Nuova conferenza di pace», che
quando venne presentata al primo ministro, pochi giorni prima che Chamberlain promettesse il
suo storico impegno in difesa della Polonia, aveva già raccolto oltre un milione di firme . Il 131

movimento contro la guerra trovava forza nella diffusa convinzione che un futuro conflitto
avrebbe comportato necessariamente attacchi alla popolazione civile con armi di distruzione di
massa – bombe, gas o perfino guerra batteriologica. La paura dei bombardamenti era cosí
radicata che i politici, sia in Gran Bretagna sia in Francia, si convinsero che andava fatto ogni
sforzo per evitare una guerra generale, in particolare contro la Germania, per il timore che le
conseguenze immediate fossero attacchi aerei in grado di annientare le loro città cosí
vulnerabili . Il primo ministro francese Édouard Daladier, in carica dall’aprile 1938, considerava
132

i bombardamenti «un attacco alla civiltà stessa», mentre il suo ministro degli Esteri, il pacifista
Georges Bonnet, si era detto convinto appena prima della Conferenza di Monaco del 1938 che
«la guerra con le bombe» avrebbe portato a una rivoluzione . Alla vigilia della crisi ceca,
133

Chamberlain riferí al gabinetto di aver sorvolato Londra provenendo dalla Germania e di aver
immaginato la pioggia di gas ed esplosivi tedeschi sulla capitale: «Non dobbiamo perdere di
vista il fatto che oggi la guerra è una minaccia diretta per ogni casa di questo paese» .
134

Negli imperi mondiali di Gran Bretagna e Francia esistevano altresí profonde questioni di
sicurezza che impedivano di abbracciare con leggerezza la prospettiva di una nuova guerra, visti
tutti i suoi pericoli e i suoi costi esorbitanti. È importante ricordare che Gran Bretagna e Francia,
nonostante la loro posizione egemone all’interno della Lega delle Nazioni e benché fino alla
metà degli anni Trenta fossero le potenze piú massicciamente armate, non erano certo come gli
Stati Uniti degli anni Novanta: la loro era una potenza relativamente in declino, con grandi
responsabilità nel mondo intero, un elettorato critico e tutt’altro che disposto ad avallare a cuor
leggero la guerra e con economie in ripresa dopo gli effetti della depressione, per cui la decisione
di deviare risorse verso spese militari su larga scala doveva essere valutata con un occhio ai
bisogni sociali e alle aspettative economiche di popolazioni democratiche. In tali circostanze,
l’impegno a mantenere l’integrità dell’ordine internazionale esistente e la sicurezza dell’impero,
evitando quindi una grande guerra, richiedeva un complesso gioco di equilibri. A differenza
degli stati aggressori, la Gran Bretagna e la Francia traevano molti vantaggi dalla situazione
mondiale allora esistente, e sarebbe stato davvero sorprendente se le due potenze si fossero
impegnate fin da subito in una guerra contro la nuova ondata di imperialismo, per quanto i
commentatori critici di allora e di oggi potessero o possano desiderare che l’avessero fatto. Per i
due imperi globali, in quel mondo in rapido cambiamento c’era troppo in gioco per rinunciare
alla pace in favore della guerra: «Abbiamo già la maggior parte del mondo, o comunque una
buona parte di esso», sosteneva il primo lord del Mare nel 1934, «e vogliamo solo conservare ciò
che abbiamo e impedire che altri ce lo portino via» . Quando nel 1936 venne sollevata in
135

parlamento l’idea di restituire alla Germania il mandato sul Tanganica, Anthony Eden, allora
segretario per le colonie, obiettò che esistevano «gravi ostacoli morali e legali a qualsiasi
trasferimento di territorio» . Nei sondaggi d’opinione condotti nel 1938 per testare l’opinione di
136

britannici e francesi in merito alla concessione di territori d’oltremare, si registrarono sostanziali


maggioranze contrarie. Circa il 78 per cento degli intervistati britannici preferiva la guerra
piuttosto che abbandonare le ex colonie tedesche passate sotto Mandato britannico. In risposta
alle rivendicazioni italiane su Tunisia e Corsica, Daladier annunciò pubblicamente nel novembre
del 1938 che la Francia non avrebbe ceduto «un solo centimetro di territorio» . Solamente nel
137

maggio del 1940 i due imperi presero in considerazione la possibilità di cedere parti di territorio,
nel disperato tentativo di comprare la neutralità italiana durante la Westfeldzug, la battaglia di
Francia. Quando tuttavia il gabinetto di guerra britannico prese in esame la consegna di Malta a
Mussolini, la maggioranza si oppose nuovamente, anche se per un solo voto . 138

Nonostante gli sforzi compiuti negli anni Trenta dalla Gran Bretagna e dalla Francia per ribadire
l’importanza dell’unità imperiale e i vantaggi che derivavano dall’impero, in tutte le sue
molteplici forme, le regioni d’oltremare rimanevano una fonte di persistente insicurezza, sia
interna sia esterna. La protesta araba continuò nelle terre sotto mandato del Medio Oriente e nel
Nordafrica francese. Nel 1932 la Gran Bretagna concesse l’autogoverno all’Iraq sotto mandato
(anche se il controllo britannico continuò, seppure in modo informale); nel 1936 venne firmato
un trattato anglo-egiziano che confermava l’indipendenza de facto del paese e riconosceva il
controllo congiunto del Canale di Suez; i britannici mantenevano inoltre due divisioni in
Palestina per far fronte all’insurrezione araba e agli scoppi di violenza tra la popolazione araba e
quella ebraica. Il conflitto in Palestina fu la piú grande impresa militare delle forze britanniche
tra le due guerre, e la dura repressione della rivolta si tradusse in almeno 5700 morti e 21 700
feriti gravi tra gli arabi, in carcerazioni senza processo e torture da parte delle forze di
sicurezza . In India, dopo un’ondata di sommosse e assassinii, gli inglesi imposero la «legge
139

marziale civile» per poter imprigionare gli oppositori nazionalisti e comunisti durante i periodi di
maggiore tensione – con un totale di 80 000 prigionieri politici tra il 1930 e il 1934. Scioperi e
proteste venivano accolti a raffiche di fucile. A Cawnpore, nel marzo del 1931, furono uccisi 141
rivoltosi; a Karachi, nel marzo del 1935, altri 47 . Nel 1935, fu concesso all’India un limitato
140

grado di autogoverno che dava diritto di voto solo al 15 per cento della popolazione e non poteva
certo soddisfare la richiesta di piena indipendenza da parte della maggioranza del Bhāratīya
Rāṣtrīya K gres (Indian National Congress Party; Partito del Congresso). Scioperi e proteste
sindacali si susseguivano altresí nelle colonie africane e caraibiche – in Tanganica, Rhodesia
settentrionale, Costa d’Oro e Trinidad –, gravemente colpite dalla crisi economica; verso la metà
del decennio, durante un’ondata di scioperi nella cintura africana del rame venne aperto il fuoco
sui lavoratori delle miniere, mentre nel 1937, a Barbados, la protesta popolare per le difficoltà
economiche causò la morte di quattordici persone uccise a colpi di pistola e baionetta . 141

Se gran parte delle proteste degli operai e dei contadini piú poveri veniva attribuita ai movimenti
comunisti locali, combattuti da tutte le potenze imperiali con duri programmi di esilio,
carcerazioni e repressione poliziesca, non dobbiamo tuttavia trascurare i movimenti politici che
rappresentavano aspirazioni nazionaliste emerse nel 1919, alcuni placati con la concessione di
una sovranità limitata – come in Iraq o in Egitto – e altri contrastati con arresti, giustizia
sommaria, soppressione di organizzazioni e pubblicazioni antimperiali e, nel caso francese, con
lo stato di assedio dichiarato nel 1939 in tutto l’impero . Come movimento internazionale, il
142

comunismo era ideologicamente impegnato a porre fine all’impero coloniale, il che spiega le
ansie britanniche e francesi. Quando a metà degli anni Trenta il ministero dell’Aeronautica
britannico iniziò a progettare il bombardiere a lunga autonomia Ideal, il suo raggio d’azione non
venne basato sulla minaccia proveniente dalla Germania ma su una possibile guerra con l’Unione
Sovietica, le cui città e industrie avrebbero potuto essere colpite decollando dalle basi aeree
dell’impero. La lunga autonomia del velivolo avrebbe inoltre contribuito a quello che veniva
chiamato «rafforzamento dell’impero» contro la minaccia sovietica . La paura del comunismo
143

spiega anche l’atteggiamento ambivalente assunto nei confronti della guerra civile spagnola,
allorché Gran Bretagna e Francia perseguirono una politica ufficiale di non intervento anziché
sostenere il governo democratico repubblicano. Negli anni Trenta, data la diffusa paura popolare
di una guerra generale e le molteplici difficoltà per tenere insieme imperi globali quasi
impossibili da difendere adeguatamente da minacce esterne e proteste politiche interne, il
contenimento del rischio era divenuto una componente essenziale della strategia britannica e
francese.
Questo tentativo di evitare il rischio viene solitamente definito con il termine inglese
appeasement, «acquiescenza», ma è un termine infelice, come ebbe a osservare in seguito uno
dei suoi sostenitori, il primo ministro britannico Neville Chamberlain. L’appeasement è
diventato il parafulmine di tutta una serie di analisi critiche e ostili del comportamento
occidentale nei confronti di regimi dittatoriali, nonché un termine usato per ogni moderna
incapacità di agire con fermezza in caso di minacce alla sicurezza dell’Occidente . Se usato per
144

descrivere l’atteggiamento britannico e francese negli anni Trenta, il termine risulta tuttavia
altamente fuorviante. In primo luogo, esso implicherebbe una comunanza di interessi sia tra i due
stati sia tra i funzionari, i politici e i militari chiamati a prendere decisioni strategiche. In realtà,
la linea politica non fu mai monolitica, ma rifletteva piuttosto una varietà di presupposti,
speranze e aspettative che cambiavano a seconda delle circostanze, mentre i politici ricorrevano a
una vasta gamma di opzioni possibili al fine di preservare gli elementi chiave della strategia
anglo-francese: sicurezza dell’impero, forza economica e pace interna. Per molti aspetti, è piú
utile descrivere tale strategia nei termini divenuti piú familiari vent’anni piú tardi durante l’era
della guerra fredda: contenimento e deterrenza . Il modo in cui negli anni Trenta i due stati
145

affrontarono i problemi internazionali non fu mai semplicemente una smidollata rinuncia alle
proprie responsabilità, bensí uno sforzo prolungato, benché talvolta incoerente, per far quadrare
il cerchio tra la crescente instabilità internazionale e il desiderio di proteggere lo status quo
dell’impero.
Il contenimento come espressione di quello che oggi viene chiamato soft power assunse molte
forme, dagli sforzi francesi per mantenere un sistema di alleanze nell’Europa orientale
all’accordo navale anglo-tedesco del 1935, in cui si definirono i limiti del riarmo navale che la
Germania poteva intraprendere. Anche le concessioni o gli accordi economici furono un
elemento importante della strategia, e si riteneva che i trattati commerciali o i prestiti potessero
attenuare la condotta bellicosa dei potenziali nemici o permettere di trascinare nuovi amici dalla
propria parte. In Gran Bretagna, in particolare, l’idea che un accordo generale – un Grand
Settlement, come lo chiamò Chamberlain – potesse essere raggiunto facendo sedere intorno a un
tavolo le maggiori potenze al fine di rivedere il trattato di Versailles e le sue conseguenze –
anche se tale possibilità non fu mai messa seriamente alla prova – era indice della volontà di
impegnarsi in modo flessibile in un ordine postbellico, a patto che esso si poggiasse su basi
negoziate e reciprocamente accettabili. Negli Stati Uniti, il presidente Roosevelt fece eco all’idea
con un «New Deal per il mondo», da implementare con mezzi pacifici una volta che gli stati
aggressori fossero stati messi in quarantena. Negli anni Trenta, gli sforzi per contenere la crisi si
rivelarono alla fine illusori, ma il risentimento provato da Giappone, Germania e Italia nei
confronti degli incessanti tentativi delle potenze occidentali di limitare i danni che essi avrebbero
potuto causare indica che la teoria dell’appeasement difficilmente riesce a descrivere la realtà del
deterioramento delle relazioni tra gli stati coinvolti .
146

Sotto Roosevelt, anche l’amministrazione americana attuò strategie per arginare i nuovi
imperialisti, benché la vera priorità fosse quella di limitare qualsiasi minaccia all’emisfero
occidentale. Roosevelt prese piú seriamente del dovuto l’idea che i giapponesi o i tedeschi
avrebbero trovato modi sovversivi per minacciare gli Stati Uniti dall’America centrale e
meridionale. La difesa dell’emisfero era la linea strategica che riscuoteva maggiori favori, in
quanto non comportava alcun impegno attivo in una guerra all’estero e risultava gradita
all’opinione pubblica isolazionista. Le leggi sulla neutralità approvate al Congresso dai politici
isolazionisti nel 1935, e nuovamente nel 1937, limitarono l’azione del presidente ma non
frenarono gli sforzi per contenere le minacce all’emisfero occidentale, grazie soprattutto
all’approvazione del Vinson Act del 1938, che permetteva di espandere la flotta degli Stati Uniti
pur rispettando sempre i limiti stabiliti dal trattato navale di Londra del 1930 . Il timore che il
147

Canale di Panama potesse essere bombardato da aerei tedeschi partiti dal Sud America oppure
conquistato dai giapponesi portò all’ampliamento in loco delle basi statunitensi, che arrivarono a
contare 134 postazioni dell’esercito, della marina e dell’aviazione . Si cercò di contrastare in
148

tutto l’emisfero la propaganda e gli interessi economici del Giappone e della Germania,
finanziando giornali filoamericani e affrettandosi ad acquistare le scarse materie prime di cui gli
stati aggressori avevano bisogno. In Brasile, dove voci incontrollate suggerivano un possibile
Anschluss delle comunità tedesche che vivevano nel paese, il governo di Washington negoziò un
accordo sulle armi, seguito nel 1941 da un impegno a difendere il Brasile da qualsiasi minaccia
straniera . Nulla di ciò comportava tuttavia un intervento in conflitti mondiali piú ampi, per i
149

quali Roosevelt non aveva alcun mandato. Secondo uno dei primi sondaggi d’opinione, condotto
in maniera sperimentale nel 1936, il 95 per cento degli intervistati voleva che gli Stati Uniti si
tenessero fuori da ogni guerra; nel settembre del 1939, solo il 5 per cento degli intervistati si
dichiarava favorevole ad aiutare gli inglesi e i francesi .
150

L’altra faccia della medaglia del contenimento era la deterrenza, parola molto usata negli anni
Trenta ben prima dello stallo nucleare. Il suo scopo è riassunto in un commento fatto da
Chamberlain alla sorella nel 1939, alla vigilia della crisi polacca: «Non servono forze offensive
adeguate a ottenere una vittoria schiacciante. Ciò di cui si ha bisogno sono forze difensive
sufficientemente forti da rendere impossibile la vittoria all’altra parte, se non a un costo tale che
non ne vale la pena» . Nel corso degli anni Trenta, sia la Gran Bretagna sia la Francia scelsero di
151

passare da una condizione di spese militari limitate a una costosa pianificazione bellica su larga
scala. Il riarmo non fu una reazione repentina alle azioni tedesche contro la Cecoslovacchia e la
Polonia, bensí una politica spesso perseguita con notevoli proteste interne almeno dal 1934, con
un’ulteriore accelerazione dal 1936 in poi. Verso la metà degli anni Trenta, il governo britannico
aveva ammesso che le molteplici minacce potenziali imponevano un ampio programma di
rimilitarizzazione. Il Defence Requirements Committee (Comitato per i requisiti di difesa),
istituito alla fine del 1933, raccomandava tre anni dopo un sostanziale aumento delle spese
militari per la difesa dell’impero, in particolare a favore della Royal Navy e per la costruzione di
una potente forza aerea difensiva e offensiva. Fu elaborato un Piano quadriennale di massima
che vide la spesa aumentare da 185 milioni di sterline nel 1936 a 719 milioni di sterline nel 1939.
Secondo le valutazioni dell’intelligence britannica, una guerra con la Germania sarebbe stata
possibile non prima della fine del decennio, per cui la spesa militare britannica e quella tedesca
seguirono piú o meno la stessa traiettoria, tranne per il fatto che nel 1934 la Gran Bretagna era
già armata, a differenza della Germania .152

La difesa dell’arcipelago britannico fu affiancata da preparativi difensivi oltremare. Forze inglesi


vennero dislocate in tutto il Medio Oriente, in Iraq, Giordania, Egitto, Cipro e Palestina. Se
l’Egitto assumeva particolare importanza, il Canale di Suez era considerato addirittura «il fulcro
dell’impero», in quanto collegamento marittimo fondamentale tra l’Europa e i territori asiatici. Il
trattato con l’Egitto del 1936 permise alla Gran Bretagna di distaccare lungo il Canale una
guarnigione di 10 000 uomini, mentre Alessandria rimaneva una base navale britannica di vitale
importanza. Per difendere l’impero britannico a est di Suez – circa 5/7 dei territori imperiali della
Gran Bretagna –, fu approvata nel 1933 la costruzione di una grande base navale a Singapore,
completata cinque anni dopo al costo di sessanta milioni di sterline . Anche se la crescente
153

penetrazione giapponese creava in Cina una situazione piú complessa, tanto piú che la difesa di
Hong Kong da un assalto giapponese in grande stile era considerata impraticabile, i prestiti e i
materiali forniti alle forze cinesi dalla Gran Bretagna consentirono agli inglesi di combattere
quella che venne poi definita una «guerra per procura», volta a difendere sia gli interessi
britannici sia quelli cinesi . Tutto questo contribuí ben poco a placare le ansie di Australia e
154

Nuova Zelanda, che ora si trovavano del tutto isolate ad affrontare la minaccia giapponese; la
Gran Bretagna, data la portata degli impegni assunti nel suo impero, aveva però poca scelta, se
non quella di distribuire i suoi crescenti sforzi difensivi nei vari territori in modo sempre piú
diluito.
Anche la Francia partiva da una base consolidata negli anni Trenta, con un esercito molto piú
grande di quello britannico e una flotta consistente. La crisi economica della metà degli anni
Trenta aveva tenuto basso il livello delle spese militari, ma nel 1936, sollecitato dalle manovre
tedesche di rimilitarizzazione della Renania, il neoeletto governo del Fronte Popolare, che
riuniva partiti di sinistra e centro-sinistra, si imbarcò in un ampio programma di riarmo, che,
come i piani britannici e tedeschi, era progettato per raggiungere il livello massimo nel 1940. Le
spese militari passarono da 15,1 milioni di franchi nel 1936 a 93,6 milioni nel 1939. Per la
Francia, la priorità era rappresentata dalla costruzione delle difese della Linea Maginot, da
armare ed equipaggiare: cosa necessaria nella regione, cosí si credeva, a causa del divario
demografico tra le popolazioni francese e tedesca. Per quella parte dell’esercito che non era posta
a difesa della frontiera, l’alto comando francese sviluppò una dottrina fondata sul successo della
campagna militare che aveva sconfitto i tedeschi nel 1918. La dottrina si basava su un massiccio
impiego della potenza di fuoco come mezzo per sostenere un attacco o neutralizzare il nemico,
permettendo cosí alla fanteria, ancora considerata come la «regina della battaglia», di occupare il
terreno passo dopo passo, seppure con una mobilità limitata. Lo sfruttamento della potenza di
fuoco richiedeva una «battaglia metodica» altamente centralizzata e ben gestita, in cui le armi
ausiliarie come i carri armati e gli aerei avrebbero svolto un ruolo di supporto, anziché aprire la
strada a una guerra di manovra. L’artiglieria e le mitragliatrici erano fondamentali e la fanteria si
sarebbe mossa solo al ritmo di quella «cortina di fuoco» di supporto . L’importanza data a un
155

possibile terreno di scontro in Francia lascia pensare che gli strateghi francesi prestassero meno
attenzione all’impero. In realtà, le colonie furono costrette a pagare le proprie spese per la difesa:
gli algerini dovettero trovare 289 milioni di franchi per modernizzare la base navale francese di
Mers-el-Kébir; in Indocina non fu costruita nessuna grande base navale dopo che i progetti per
un’unità sottomarina a baia di Cam Ranh vennero bloccati dal comandante in capo della flotta
francese, l’ammiraglio Darlan, secondo il quale, in caso di guerra, l’impero francese in Asia
risultava semplicemente indifendibile .156

Il contesto di una politica di deterrenza fu piú che evidente durante la crisi di Monaco nel
settembre del 1938, e ancora di piú un anno dopo. Il duplice approccio di contenimento e
deterrenza serviva a sostenere strategie progettate per aiutare la Gran Bretagna e la Francia a
scongiurare la guerra, pur rimanendo a tutti gli effetti potenze in grado di proteggere i propri
interessi economici e territoriali globali. Ciò detto, è importante ricordare che anche prima dello
scoppio della guerra nel settembre del 1939 almeno una delle grandi democrazie aveva sfiorato il
conflitto aperto con i nuovi stati imperialisti. Nella Cina meridionale, per esempio, vigeva una
fragile tregua armata tra le forze giapponesi e quelle britanniche, che minacciava costantemente
di sfociare in una guerra dichiarata. Il conflitto con l’Italia era stato certamente preparato già nel
1935-36 durante la crisi etiope, al fine di limitare la minaccia agli interessi imperiali britannici in
Medio Oriente e Africa. Nell’agosto del 1935, ventotto navi da guerra e la portaerei HMS
Courageous furono inviati ad Alessandria per lanciare un monito agli italiani; le unità della
Royal Air Force (RAF) in Medio Oriente furono rafforzate e vennero mandati rinforzi alle truppe
di terra. Il comandante in capo della flotta ancorata in loco era favorevole a un attacco
preventivo, ma i capi di stato maggiore britannici e il governo francese volevano entrambi
evitare una guerra che, in pratica, avrebbe potuto scardinare gli interessi imperiali in tutta la
regione . Nel 1938-39 fu la marina francese a dimostrarsi a sua volta impaziente di cogliere
157

l’opportunità di infliggere una sconfitta improvvisa alla flotta italiana, ma fu frenata questa volta
dalle speranze della Gran Bretagna che Mussolini potesse ancora essere separato da Hitler con
una cauta azione diplomatica.
L’esempio piú lampante di «politica del rischio calcolato» (brinkmanship) lo si ebbe con la crisi
cecoslovacca del 1938. La vicenda delle minacce tedesche e del tradimento britannico e francese
alla Conferenza di Monaco, quando il governo ceco fu costretto a consentire che i tedeschi
occupassero le aree di lingua tedesca dei Sudeti, viene di solito presentata come il punto piú alto
di un appeasement illusorio e fragile. Eppure, in realtà, Monaco fu il momento in cui Hitler si
vide costretto ad abbandonare la guerra tanto agognata per ottenere lo spazio vitale tedesco,
considerando che in quella fase il rischio di affrontare Gran Bretagna e Francia in un grande
conflitto era considerato troppo spericolato. Secondo la visione dell’epoca, l’impressione era che
Hitler fosse stato costretto ad accettare l’ampliamento territoriale che gli inglesi e i francesi erano
disposti a concedere, un risultato ottenuto grazie al contenimento, pur trattandosi di un risultato
che andava a tutto svantaggio dei cechi. Nella settimana che precedette la Conferenza di
Monaco, sia le forze armate britanniche sia quelle francesi furono messe in stato di allerta. La
Royal Navy ricevette l’ordine di mobilitazione e nei parchi pubblici di Londra furono scavate
frettolosamente delle trincee come rifugi antiaerei improvvisati. In Francia, l’ordine di
mobilitazione fu inviato il 24 settembre, con un milione di uomini sotto le armi, benché tanto il
capo di stato maggiore francese quanto quello britannico nutrissero scarse speranze di poter
frenare la Germania con una guerra, dato che i programmi di riarmo erano ancora in corso e la
Linea Maginot non era stata ancora completata . 158

Proprio la mobilitazione, in ogni caso, era stata il fattore scatenante che nel 1914 aveva fatto
precipitare l’Europa nella guerra. Hitler non se ne curò e fino a pochi giorni prima della prevista
invasione della Cecoslovacchia continuò a insistere con i suoi preoccupati comandanti militari
che la Gran Bretagna e la Francia non sarebbero intervenute. Nonostante la preoccupazione di
inglesi e francesi di doversi trovare nella posizione di combattere una guerra che sapevano di non
poter vincere, nessuno dei due governi si sentí disposto alla fine a lasciare alla Germania carta
bianca per invadere e conquistare i territori cechi. Il 25 settembre 1938, a Berlino, era opinione
comune che Hitler «stesse facendo marcia indietro di fronte alla posizione risoluta di
Chamberlain», una percezione quindi molto diversa dello statista britannico . Due giorni dopo,
159

quando Hitler sperava ormai di ordinare la mobilitazione, Sir Horace Wilson, emissario
personale di Chamberlain, consegnò al Führer un messaggio che venne ripetuto due volte
all’interprete per accertarsi che Hitler capisse esattamente: se la Germania avesse attaccato la
Cecoslovacchia, la Francia sarebbe stata tenuta, per trattato, a combattere la Germania. In questo
caso, proseguí Wilson, «l’Inghilterra si sarebbe sentita in dovere di offrire assistenza alla
Francia» . Hitler rispose con rabbia che, se si fosse arrivati a tanto, entro una settimana la guerra
160

sarebbe scoppiata in Europa. L’incontro, tuttavia, non aveva mancato di innervosirlo. La mattina
seguente, l’ambasciatore francese confermò le intenzioni di Parigi di opporsi a un’invasione
tedesca. Quando poco dopo una delegazione guidata da Hermann Göring chiese a Hitler se
volesse la guerra totale in tutti i casi, egli rispose: «Cosa vorresti dire? In ogni caso? Ovviamente
no!» . Di cattivo umore, accettò la proposta di Mussolini, suggerita dagli inglesi, di convocare
161

una conferenza. Il suo aiutante di campo annotò nel suo diario: «Il F.[ührer] non vuole la guerra»
e «il F.[ührer] non pensa innanzitutto a una guerra con l’Inghilterra». A Berlino, il ripiegamento
fu evidente. «Il Führer ha ceduto, completamente», annotò un altro aiutante il 27 settembre,
aggiungendo due giorni dopo: «Forti concessioni da parte del Führer» . 162

Nel 1938, una guerra europea fu evitata non solo perché i governi britannico e francese la
temevano, ma perché Hitler fu scoraggiato dal fare un passo oltre quella soglia. È significativo
che Chamberlain, quando percorse in auto le strade di Monaco dopo la conferenza, fosse
acclamato dalla folla tedesca, sinceramente sollevata dal fatto che la guerra era stata scongiurata.
In Gran Bretagna e Francia la reazione fu di immediato sollievo perché la pace era stata
salvaguardata. Le donne francesi lavorarono a maglia dei guanti da mandare a Chamberlain nel
caso avesse avuto freddo sull’aereo che lo trasportava avanti e indietro dalla Germania; una
strada di Parigi fu frettolosamente ribattezzata «rue de Trente Septembre»; fu perfino inventato
un nuovo ballo, Le Chamberlain, anche se con un intento forse ironico . Il giorno dopo Monaco,
163

«Le Temps» arrivò alla conclusione che la Francia, con le sue responsabilità imperiali globali,
aveva un bisogno «profondo e assoluto» di pace . Resta da chiedersi se nel 1938 i due stati
164

avrebbero effettivamente dato battaglia, anche se alla fine nessuno dei due dovette farlo perché,
per questa volta, Hitler aveva giudicato il rischio troppo elevato. Un anno dopo, con la crisi
innescata dalla minaccia tedesca alla sovranità polacca, entrambi gli stati valutarono la
probabilità di una guerra, pur sperando che Hitler potesse essere nuovamente dissuaso. Fino
all’ultimo momento prima dell’invasione tedesca della Polonia, il 1° settembre, Gran Bretagna e
Francia nutrirono la convinzione che, se avessero manifestato in modo inequivocabile la loro
intenzione di combattere, il Führer, ancora una volta, non avrebbe corso il rischio.
Tra settembre del 1938 e il settembre successivo intervennero numerosi cambiamenti che resero
il governo britannico e quello francese piú fiduciosi di poter perseguire una linea dura nei
confronti delle minacce tedesche rivolte alla Polonia. Pur sollevati dal fatto che la crisi ceca non
fosse sfociata in una guerra, sia Chamberlain sia Daladier si facevano poche illusioni sul fatto
che se Hitler avesse continuato la propria espansione nell’Europa orientale avrebbero dovuto
usare la forza per fermarlo. Questo non escludeva che soluzioni diplomatiche o accordi
economici potessero rendere improbabile un’ulteriore avanzata del Reich, ed entrambe le opzioni
furono perseguite nel 1939. Il 15 marzo di quell’anno, quando le forze della Germania
occuparono lo stato ceco e stabilirono il protettorato, le democrazie europee non ebbero dubbi
che la prossima mossa avrebbe significato la guerra. Il 30 marzo, informato dai servizi segreti
che la Germania avrebbe attaccato la Polonia, Chamberlain garantí immediatamente la sovranità
polacca alla Camera dei Comuni. Pochi giorni piú tardi gli fece eco la Francia, a cui si
aggiunsero anche Romania e Grecia. La Polonia non era di per sé molto importante né per la
Gran Bretagna né per la Francia, ma rappresentava, quasi per caso, non tanto la causa quanto la
giusta occasione per una definitiva resa dei conti tra le due parti. All’insaputa delle potenze
occidentali, il rifiuto della Polonia nei primi mesi del 1939 di acconsentire a qualsivoglia
concessione alla Germania in merito allo status di Città Libera di Danzica, o al «corridoio»
polacco attraverso l’ex territorio prussiano, spinse Hitler a ordinare nell’aprile di quell’anno i
preparativi di una campagna militare destinata a distruggere la Polonia alla fine di agosto. Se le
minacce tedesche alla Polonia si fossero materializzate, Gran Bretagna e Francia si sarebbero
trovate ora intrappolate in un inevitabile conflitto. Nell’anno intercorso fra la crisi ceca e quella
polacca, i due stati avevano finalmente concordato di concertare le loro azioni. Per tutti gli anni
Trenta, la Francia era stata frenata dal dubbio che la Gran Bretagna intendesse realmente
sostenere militarmente le forze francesi nel caso di un conflitto europeo. Nel febbraio del 1939
furono concordati dei colloqui con gli alti gradi militari e il mese successivo fu redatto un «piano
di guerra» che riprendeva la strategia che aveva portato alla vittoria nel 1918: una campagna di
tre anni in cui la Germania sarebbe rimasta imbottigliata tra le fortificazioni francesi, il blocco
economico e le operazioni aeree fino a quando Hitler avesse capitolato o fosse rimasto privo dei
mezzi per resistere a un’invasione anglo-francese. «Una volta che saremo in grado di sviluppare
appieno la capacità di combattimento dell’impero britannico e di quello francese», concludeva il
piano, «potremo guardare con ottimismo all’esito della guerra» . 165

Entrambi gli stati consideravano come assoluta priorità il fatto di garantire che nel 1939, qualora
si fosse arrivati alla guerra, i rispettivi imperi si sarebbero effettivamente mobilitati per la causa.
Per la Gran Bretagna, questo appariva tutt’altro che certo dopo la decisione dei principali
dominion di non sostenere l’idea di una guerra in occasione della crisi ceca. Nella primavera del
1939, tuttavia, il premier canadese Mackenzie King aveva ottenuto il necessario sostegno interno
per potersi schierare con la Gran Bretagna in un eventuale conflitto europeo; l’esempio fu
seguito dai governi dell’Australia e della Nuova Zelanda, sostenuti dall’idea di un
Commonwealth «con una sola voce» e rassicurati dalla realizzazione nel 1938 della base navale
di Singapore. In Sudafrica, la forte ostilità della comunità Afrikaaner all’idea di entrare in guerra
divise la popolazione bianca fino allo scoppio del conflitto, quando il nuovo primo ministro Jan
Smuts convinse il parlamento della necessità di dichiarare guerra al fine di proteggere gli
interessi del Sudafrica dalla minaccia del neocolonialismo tedesco. Quando si arrivò alla guerra,
il viceré britannico in India, Lord Linlithgow, annunciò semplicemente che l’India avrebbe fatto
altrettanto, indipendentemente dall’opinione pubblica indiana . Per la Francia, ansiosa di
166

sostenere la propria strategia continentale, l’impero rivestí un’importanza perfino maggiore nel
preparare la guerra europea del 1939. Questo rifletteva in parte la propaganda ufficiale della
salut par l’empire (la salvezza attraverso l’impero), evidente in tutti i mesi precedenti la guerra.
Mentre Daladier ordinava una ferrea repressione degli oppositori politici in tutto l’impero
coloniale, la retorica pubblica giocava sull’idea che «forti di cento milioni di uomini, non
possiamo essere sconfitti». Furono elaborati piani sia per arruolare nelle colonie un numero
considerevole di soldati, che avrebbero prestato servizio in Francia, sia per sollevare i soldati
francesi dal servizio nelle terre d’oltremare, incluse cinque divisioni di stanza nell’Africa
occidentale, una divisione nell’Indocina e una mezza dozzina di divisioni nel Nordafrica, per un
totale di 520 000 soldati entro il 1939 . I tentativi di stimolare l’economia imperiale affinché
167

aumentasse la produzione di materiale bellico fallirono miseramente, ma si consolidò in


compenso la fornitura di materie prime e cibo per lo sforzo militare francese. Nel bene e nel
male, la dipendenza dall’impero veniva vista come un vantaggio concreto nei confronti di un
nemico il cui accesso ai rifornimenti oltremare poteva essere interrotto a piacimento dalle flotte
inglesi e francesi.
Il mutato umore popolare dopo il sollievo seguito all’accordo di Monaco accompagnò i
cambiamenti nel quadro militare e strategico. I sondaggi d’opinione rilevarono che un’ampia
maggioranza era contraria a ulteriori concessioni alla Germania, tanto piú in quel momento,
quando l’inchiostro dell’accordo aveva appena fatto in tempo ad asciugarsi. Nell’ottobre del
1938, un sondaggio rilevò in Francia che il 70 per cento della popolazione non voleva ulteriori
concessioni; i sondaggi dell’anno seguente mostrarono che il 76 per cento degli intervistati in
Francia e il 75 per cento in Gran Bretagna erano favorevoli all’uso della forza per preservare lo
status di Danzica . Piú significativo fu il sommovimento tellurico nell’atteggiamento della lobby
168

antibellica di entrambi i paesi. La risposta popolare alla crisi europea, in ogni caso, era ben
diversa dagli entusiasmi nazionalisti del 1914. Essa era infatti fortemente radicata nella
convinzione che il fallimento del progetto internazionalista e l’ascesa della dittatura militarista
rappresentassero una sfida cosí profonda alla civiltà occidentale che non poteva piú essere
ignorata. Nonostante un chiaro sentimento di rassegnazione, visto che la guerra non era certo ben
accetta, lo stato d’animo generale era alimentato da un crescente senso di responsabilità nei
confronti dei valori democratici e dal rifiuto di ciò che molti scrittori vedevano tragicamente
come un’imminente età oscura. Nel 1939, Leonard Woolf scrisse Barbarians at the Gate (I
barbari alle porte), un chiaro monito ai suoi connazionali sulla fragilità del mondo moderno che
essi davano per scontato . 169

Le trasformazioni del 1939 non resero la guerra inevitabile, ma resero difficile evitarla allorché
la Polonia divenne oggetto dell’aggressione tedesca. Il governo francese avrebbe preferito una
situazione in cui fosse stato possibile raggiungere un qualche accordo con l’Unione Sovietica per
circoscrivere la Germania e ottenere una maggiore collaborazione da parte degli Stati Uniti, a cui
nel 1938 e 1939 furono fatte ingenti ordinazioni di aerei e motori aeronautici. Nonostante un
profondo senso di sfiducia dei conservatori nei confronti dell’ipotesi sovietica, nella tarda estate
del 1939 si cercò di raggiungere un accordo militare, impedito tuttavia dall’impossibilità di
convincere il governo e l’alto comando della Polonia a permettere a truppe sovietiche di entrare
in territorio polacco. Né gli alti comandi britannici né quelli francesi consideravano l’Armata
Rossa un utile alleato militare, e tutti sopravvalutavano la forza potenziale dell’esercito polacco,
una percezione errata dovuta alla precedente vittoria della Polonia sull’Armata Rossa nel 1920.
Quando il 24 agosto fu annunciato il patto tedesco-sovietico, Chamberlain sbuffò per il
«tradimento russo», anche se non era mai stato un entusiastico sostenitore della collaborazione
militare con l’Urss, e né per il governo inglese né per quello francese il Patto di non aggressione
fece alcuna differenza in merito al loro impegno di onorare le promesse fatte alla Polonia in caso
di invasione tedesca . Che Stalin potesse entrare in buona fede nel consesso degli Alleati rimane
170

ancora oggetto di congetture piuttosto che un dato di fatto. In fondo, un patto con la Germania
giovava molto di piú agli interessi di Stalin e dei sovietici e ben si adattava a quella preferenza
ideologica per una guerra tra stati capitalisti-imperialisti, in seguito alla quale il comunismo
sovietico si sarebbe infine impadronito dei pezzi di un’Europa in rovina.
Il calcolo che Hitler sarebbe stato dissuaso dinanzi al rapido riarmo dell’impero britannico e di
quello francese o all’ondata di sentimenti antifascisti che attraversava le democrazie europee non
era completamente campato in aria. Dopotutto, nel 1938, una mano addirittura piú debole aveva
indotto il Führer a rinunciare alla guerra. Fonti di intelligence indicavano una grave crisi
economica in Germania e perfino la possibilità di un colpo di stato contro Hitler. Anche dopo
l’invasione tedesca della Polonia il 1° settembre, Chamberlain offrí al Führer l’opportunità di
ritirare le sue forze anziché affrontare una guerra mondiale. Il 2 settembre fu brevemente
ventilata dalla leadership italiana l’idea di una conferenza di pace, una sorta di eco all’intervento
di Mussolini nel settembre del 1938, ma gli inglesi, come il ministro degli Esteri Lord Halifax
riferí al suo omologo italiano Ciano, ponevano come condizione «il ritiro delle truppe tedesche
dal suolo polacco», il che pose fine a qualsiasi prospettiva di soluzione pacifica . Gli storici
171

hanno cercato prove convincenti che Chamberlain volesse sottrarsi al suo impegno anche in
questa fase avanzata della crisi, senza tuttavia trovarne. Solamente una completa capitolazione
tedesca alle richieste britanniche e francesi di porre fine alla violenza avrebbe potuto evitare la
guerra mondiale e, al 1° settembre, tale risultato era il meno probabile. In questo caso, né il
contenimento né la deterrenza avevano funzionato. Chamberlain annunciò lo stato di guerra alla
radio alle 11.15 della mattina del 3 settembre; Daladier fece lo stesso annuncio alle diciassette di
quel pomeriggio. Un’alleanza provvisoria tra le élite imperiali e i democratici antifascisti aveva
reso possibile una nuova guerra mondiale. «Non possiamo perdere», scrisse nel suo diario il capo
di stato maggiore dell’esercito britannico .
172
Una battaglia tra imperi: la guerra in Occidente.
La dichiarazione di guerra del settembre 1939 alterò completamente la natura degli scontri degli
anni Trenta. Hitler vedeva il conflitto con la Polonia come una guerra limitata per la conquista
dello spazio vitale tedesco, giustificata, ai suoi occhi, dal precedente dei grandi imperi europei,
edificati non molto tempo prima proprio con le armi. Il 6 ottobre, una settimana dopo la resa
polacca, presentò un’«offerta di pace» alle democrazie, criticando gli stati che lo accusavano di
volere il potere mondiale per il solo fatto di aver occupato appena poche centinaia di migliaia di
chilometri quadrati di territorio, quando essi stessi ne dominavano quaranta milioni in tutto il
mondo . Gran Bretagna e Francia, dal canto loro, vedevano il conflitto come una lotta contro la
173

nuova ondata di edificazione imperiale ottenuta con la violenza e, pur non essendo ancora in
guerra con l’Italia e il Giappone, la loro visione della crisi aveva una chiara natura globale.
Inglesi e francesi speravano che la guerra con la Germania non incoraggiasse nessuno degli altri
due stati aggressori ad approfittare delle difficoltà sorte in Europa, cosí come speravano che
l’Unione Sovietica non avrebbe approfittato del suo patto con la Germania per esercitare la
propria pressione sui loro imperi stremati. Allo stesso tempo, cercavano sia l’appoggio morale
degli Stati Uniti sia la disponibilità attiva di uomini, denaro e rifornimenti da parte delle loro
colonie. La direzione che avrebbe preso la Seconda guerra mondiale fu determinata non dalle
ambizioni tedesche nell’Europa orientale, che avevano scatenato il conflitto, ma dalla
dichiarazione anglo-francese del 3 settembre. Dal punto di vista del Reich, la guerra era stata
imposta alla Germania da forze esterne. In una trasmissione rivolta al popolo tedesco il giorno
seguente, Hitler incolpò dello stato di guerra che la Germania si trovava ora ad affrontare non già
le democrazie, bensí il «nemico internazionale ebreo-democratico» che le aveva spinte a dare
battaglia . Per Hitler, la guerra doveva ora essere duplice: una contro i nemici imperiali del
174

Reich, una contro gli ebrei.


Quello che seguí alle dichiarazioni di guerra di Gran Bretagna e Francia fu completamente
diverso da ciò che era accaduto nel 1914, quando milioni di uomini si trovarono a combattere,
con un alto numero di vittime, fin dai primi giorni del conflitto. Inglesi e francesi sapevano che
la Germania era troppo coinvolta nella campagna polacca per lanciare un attacco a ovest, ma
nessuno dei due stati aveva alcun interesse a sostenere in maniera attiva la resistenza dei
polacchi. I due alleati avevano già concordato privatamente che la Polonia era ormai condannata;
il comandante in capo dell’esercito francese, generale Maurice Gamelin, aveva fatto ai polacchi
la parziale promessa che la Francia avrebbe attaccato quindici giorni dopo la mobilitazione. Il 10
settembre, Gamelin riferí all’addetto militare polacco che metà delle armate francesi era in
azione contro i tedeschi della Saar, ma non era vero. Un manipolo di unità francesi si era
semplicemente inoltrato nel territorio per 8 chilometri, aveva ucciso 196 tedeschi e poi si era
ritirato . Gamelin disse allo scrittore André Maurois che «non avrebbe iniziato la guerra con
175

un’altra battaglia di Verdun», lanciando cioè la fanteria contro le fortificazioni tedesche, bensí
pianificando quella che egli definí una «guerra scientifica», coerente con la dottrina dell’esercito
francese . La quasi completa inattività militare in Occidente (il primo soldato britannico rimase
176

ucciso in azione il 9 dicembre dopo aver calpestato una mina francese) alimentò la speranza che
Hitler aveva nutrito prima della guerra, ovvero che la dichiarazione degli Alleati fosse «solo una
farsa» e che l’Occidente fosse davvero, come ricordò Albert Speer nelle sue memorie, «troppo
debole, marcio e decadente per intraprendere seriamente una guerra» . Nelle prime settimane
177

della guerra polacca, il Führer ordinò estrema moderazione sul fronte occidentale, nella
convinzione di poter giungere a una rapida conclusione delle operazioni in Polonia e mettere
Gran Bretagna e Francia davanti al fatto compiuto.
Hitler era comunque preoccupato che le forze tedesche non rimanessero semplicemente sulla
difensiva una volta ottenuta la vittoria sulla Polonia, tanto che l’8 settembre aveva proposto per
la prima volta l’idea di un’offensiva autunnale verso ovest. Alla vigilia della capitolazione
polacca, il 26 settembre, il Führer ospitò una riunione dei comandanti dell’esercito e
dell’aviazione in cui sottolineò che gli Alleati avevano in quel momento propizio la possibilità di
rafforzare le loro forze in Francia entro l’estate del 1940 e che un tempestivo attacco alla Francia
attraverso i Paesi Bassi avrebbe scardinato il nemico mal preparato, assicurato basi aeree e navali
per colpire la Gran Bretagna e protetto la vulnerabile regione industriale della Ruhr da incursioni
e bombardamenti alleati. Il piano venne presentato il 9 ottobre come Führererlass n. 6 (Direttiva
di guerra n. 6) con il nome in codice Fall Gelb (Operazione Giallo), mentre Hitler, nel frattempo,
aveva tentato tre giorni prima di fare accettare agli Alleati la realtà della Polonia, ormai in una
situazione senza speranza, spartita tra la dittatura nazista e quella sovietica . Il suo discorso del 6
178

ottobre fu accolto in Occidente in maniera discordante, data la presenza di una lobby ancora a
favore di un compromesso realistico. Anche se Daladier disse a Chamberlain di ignorare le
parole del Führer – «sorvolate su Herr Hitler in silenzio» –, gli inglesi passarono giorni a
elaborare una risposta. Winston Churchill, ora primo lord dell’Ammiragliato, voleva abbozzare
un documento che lasciasse la porta aperta a «qualsiasi offerta genuina», e la versione finale del
comunicato, pur respingendo qualsiasi idea che l’aggressione potesse essere condonata, offriva
in effetti a Hitler l’impensabile opzione che le sue conquiste rimanessero senza sanzioni . Agli
179

occhi della leadership tedesca, la replica di Londra trasformava la Gran Bretagna nel nemico
principale, deciso, come Hitler riferí al comandante in capo della flotta, «a sterminare la
Germania». Goebbels ordinò alla stampa tedesca di smettere di ritrarre Chamberlain come una
figura impotente e risibile e presentarlo invece come un «vecchio malvagio» . 180

Non appena Hitler decise che una fulminea offensiva in Occidente sarebbe stata l’opzione piú
sicura, i comandanti dell’esercito fecero del loro meglio per dissuaderlo. La campagna polacca
aveva dimostrato che prima di rischiare un confronto con l’esercito francese erano necessari un
maggiore addestramento, un equipaggiamento migliore e una seria riflessione sulle tattiche di
combattimento, oltre al bisogno di riprendere fiato e riorganizzarsi. Uno studio condotto dal
vicecapo di stato maggiore dell’esercito, Carl Heinrich von Stülpnagel, suggeriva di rimandare
una grande campagna militare al 1942 . Hitler mantenne ostinatamente le sue posizioni e fissò la
181

data dell’offensiva tra il 20 e il 25 ottobre. Le condizioni meteorologiche giocarono a favore dei


capi dell’esercito. L’inverno del 1939-40 sarebbe stato infatti il peggiore del secolo. La data
dell’invasione fu rinviata prima al 12 novembre, quindi al 12 dicembre e nuovamente al 1°
gennaio 1940, per poi essere infine rimandata alla primavera a data da destinarsi. Nel frattempo,
il piano originario subí dei cambiamenti. A ottobre, infatti, Hitler aveva avuto dei ripensamenti
in merito a un attacco diretto, lanciato attraverso le pianure dell’Europa settentrionale, decidendo
invece di concentrare l’assalto delle sue divisioni corazzate da un punto piú a sud, anche se non
venne definito alcun nuovo piano strategico, a conferma delle incertezze dello stesso Hitler.
Anche il capo di stato maggiore della Heeresgruppe A (Gruppo d’armata A), il colonnello Erich
von Manstein, condivideva l’idea che si potesse sferrare un colpo decisivo concentrando i mezzi
corazzati tedeschi piú a sud, in modo da poter aprire un varco per accerchiare le forze nemiche
nella loro avanzata in Belgio – il cosiddetto Sichelschnittplan, «Piano del taglio della falce», o
Piano Manstein. Le sue idee furono ignorate dai superiori e lo stesso Von Manstein fu
riassegnato ai territori orientali come comandante di un corpo d’armata ancora in fase di
formazione, al solo scopo di tenerlo tranquillo. Quando i dettagli segreti del piano originario, il
Fall Gelb, caddero nelle mani degli Alleati in seguito all’atterraggio forzato in Belgio di un aereo
corriere tedesco il 10 gennaio, Hitler e l’alto comando dell’esercito si trovarono ad affrontare
ulteriori incertezze sulla direzione dell’attacco. Per puro caso, le opinioni di Von Manstein
furono rese note a Hitler dal suo aiutante militare e il 17 febbraio il colonnello fu invitato a
presentare personalmente il suo piano a Berlino. Hitler ne fu affascinato e ordinò una nuova
direttiva; quando la campagna fu pronta, nel maggio del 1940, si mise in atto il Piano del taglio
della falce .
182

Tra gli Alleati, l’unico fatto certo era che la guerra era stata dichiarata. Ogni altro dettaglio era
contornato dall’incertezza. La speranza che la resistenza polacca durasse mesi anziché settimane
era sfumata, ma poiché il programma strategico anglo-francese si basava su una guerra di
logoramento, in cui la Germania – com’era avvenuto nel 1918 – sarebbe stata portata alla fine a
una sconfitta dalle ristrettezze economiche, la disaffezione popolare e un confronto militare
decisivo, non si avvertiva in modo pressante il bisogno di un’azione tempestiva, nonostante
l’esercito tedesco fosse ora libero di dirigersi a ovest. L’intelligence e il buon senso degli Alleati
sembravano indicare che la Germania sarebbe stata pronta a lanciare un’offensiva non prima del
1940, se non piú tardi, anche se nel tardo autunno del 1939 permanevano continui timori. L’alto
comando francese pensava che un’offensiva di quel genere corrispondesse perfettamente al piano
originario tedesco. La Linea Maginot avrebbe costretto il nemico a procedere all’invasione
muovendo da qualche punto del Belgio lungo un fronte stretto e difendibile, dove le forze
tedesche sarebbero state sconfitte o intrappolate. Era convinzione degli Alleati che il fattore
tempo fosse dalla loro parte, mentre organizzavano lentamente le loro forze militari e le risorse
economiche necessarie . All’inizio di settembre, fu istituito un Consiglio supremo di guerra,
183

composto da capi militari e civili, per formalizzare la collaborazione franco-britannica, come già
era avvenuto nel 1918. L’esperienza della Grande Guerra influenzava chiaramente l’opinione
degli Alleati sul modo migliore di condurre un nuovo conflitto. A novembre, «facendo pieno uso
dell’esperienza acquisita negli anni 1914-18», gli Alleati annunciarono che avrebbero coordinato
le comunicazioni, il rifornimento di munizioni e petrolio, i vettovagliamenti, le spedizioni e la
guerra economica contro la Germania . 184

La collaborazione militare si rivelò una questione piú spinosa, ma dopo diversi mesi di
incertezza, Gamelin insistette che le unità britanniche in Francia dovessero essere poste sotto il
comando del generale Alphonse Georges, comandante in capo del fronte nord-orientale in
Francia. A novembre, Gamelin stilò il piano operativo alleato, che consisteva in un’avanzata in
Belgio per creare una linea di difesa lungo il fiume Escaut o lungo il Dyle. Gamelin optò alla
fine per il fiume Dyle perché prometteva di proteggere la principale regione industriale della
Francia nord-orientale, nonostante il rischio che sarebbero occorsi otto giorni per raggiungere il
fiume e poter erigere poi una solida linea difensiva. La piccola British Expeditionary Force
(BEF, Forza di spedizione britannica) sarebbe stata tra gli eserciti da spostare in Belgio.
L’ostacolo era costituito dalla neutralità belga, poiché il governo del Belgio, che nel 1936 aveva
abrogato un trattato di difesa franco-belga, si rifiutò ostinatamente, fino al momento in cui le
truppe tedesche varcarono la frontiera, di tenere colloqui congiunti tra i comandanti in capo o
permettere agli Alleati di entrare sul suolo belga per evitare che la propria neutralità potesse
essere compromessa . Ne conseguí che il piano del fiume Dyle doveva essere attivato il piú
185

rapidamente possibile. Gamelin vi si attenne comunque, convinto che una linea strategica
offensiva/difensiva portata avanti con metodo nel Belgio neutrale rimanesse la migliore opzione
per la Francia. I piani tedeschi caduti nelle mani degli Alleati nel gennaio del 1940 non
sembravano suggerire la necessità di ripensare al piano, rafforzando invece l’opinione che la
creazione di un fronte belga fosse la scelta giusta .
186

Il lungo periodo di relativa inattività, noto ora come Phoney War (Finta guerra), non fu certo
privo di problemi. Per sostenere quella che era stata una temporanea alleanza nazionale in favore
di una ferma dichiarazione di guerra l’opinione pubblica richiedeva una riprova del successo
militare. Al contrario, come lamentava la rivista francese «Revue des Deux Mondes», la Paix-
Guerre era stata semplicemente sostituita dalla Guerre-Paix; nell’ottobre del 1939, il «New York
Times» uscí con il titolo 38 War Reporters Search for War (38 reporter di guerra in cerca della
guerra) . La sconfitta della Polonia e l’offerta di pace avanzata da Hitler nel mese di ottobre
187

avevano rafforzato quei circoli – appartenenti prevalentemente alla destra filofascista o alla
sinistra pacifista – che si dichiaravano in favore di una pace di compromesso, ma si notavano
altresí i segni di una sempre piú diffusa disillusione nei confronti della guerra. I sondaggi
condotti dalla Gallup britannica nell’ottobre del 1939 e nel febbraio del 1940 rilevarono che una
percentuale crescente di intervistati era a favore dei colloqui di pace: il 29 per cento contro il
precedente 17 per cento . Anche le considerevoli forze alleate mobilitate nell’inverno del 1939-
188

40, e ora di stanza lungo la frontiera francese a temperature abbondantemente sotto lo zero,
avevano difficoltà a mantenere vivo l’entusiasmo per una guerra che sembrava lontana dalla loro
tetra e demoralizzante routine quotidiana. Il filosofo francese e soldato di prima linea Jean-Paul
Sartre denunciò che tutto ciò che lui e i suoi compagni facevano era mangiare, dormire ed evitare
il freddo: «Tutto qui [...] facciamo esattamente come gli animali». Una recluta britannica,
abbandonata in un gelido alloggiamento, disse di sentirsi come se «il dramma avesse ceduto il
passo alla farsa» .
189

Nonostante gli sforzi per recuperare quanto restava della collaborazione creatasi nel precedente
conflitto, tra i due alleati permaneva un margine di sfiducia, se non altro perché il governo e
l’alto comando francese si chiedevano se la Gran Bretagna fosse sufficientemente intenzionata a
condurre una guerra di terra in difesa della Francia. La decisione britannica di mantenere truppe
ed equipaggiamenti nelle zone chiave dell’impero contrastava con l’intenzione francese di
reclutare nelle colonie un numero sostanziale di soldati da impiegare nella madrepatria. Fin
dall’inizio dei colloqui anglo-francesi era stato chiaro che i ritmi a cui si poteva creare una forza
di spedizione britannica erano troppo lenti per affrontare un attacco tedesco nel 1940. I francesi
avevano mobilitato ottantaquattro divisioni, con ventitre divisioni-fortezza per presidiare la
Linea Maginot. Poiché l’intelligence francese aveva calcolato (erroneamente) che i tedeschi
erano in grado di schierare 175 divisioni, il divario da colmare appariva notevole . Il contributo
190

britannico era falsato dalla priorità data negli anni Trenta all’aviazione e alla marina e dall’aver
relativamente trascurato le forze di terra. Dopo quasi quattro mesi di guerra, l’esercito britannico
aveva inviato in Francia solo cinque divisioni; altre otto divisioni della Territorial Army, male
equipaggiate, erano arrivate in concomitanza dell’invasione tedesca. La prima, e unica, British
Armoured Division (Divisione corazzata britannica) si era unita alla battaglia dopo che questa era
già iniziata. Il massimo che i capi di stato maggiore britannici potevano offrire era un esercito di
32 divisioni entro la fine del 1941, non prima . Altrettanto limitato fu il supporto aereo alla
191

campagna militare in Francia. Alla fine degli anni Trenta, il potenziamento degli aerei da
combattimento e da bombardamento era stato progettato per difendere le isole britanniche e
creare una forza di bombardieri in grado di rispondere agli attacchi tedeschi. La RAF era
riluttante ad abbandonare questo profilo strategico, con il risultato che la grande maggioranza dei
velivoli britannici rimase in Gran Bretagna. Nel maggio del 1940 vi erano in Francia circa 250
aerei operativi della RAF, poco piú dei 184 velivoli dell’aviazione belga .
192

Anche se i preparativi per un effettivo scontro armato presupponevano che a un certo punto la
Germania sarebbe stata il nemico principale, non vi era alcuna certezza in merito a quanto
sarebbe successo nel mondo una volta dichiarato lo stato di guerra. La posizione dell’Italia
risultava difficile da valutare, avendo chiarito che la «non belligeranza» annunciata da Mussolini
nel settembre del 1939 (termine scelto perché sembrava meno avvilente di «neutralità» nei
confronti dell’Asse) era una cosa seria. La marina francese aveva iniziato la guerra imponendo
un blocco al commercio italiano che fu tuttavia tolto il 15 settembre, in cambio di accordi
economici che prevedevano la fornitura alle forze armate francesi di aerei, motori aeronautici e
camion Fiat italiani in cambio di valuta estera e materie prime (anche se Mussolini rifiutò di
fornire aerei al Regno Unito). Il conte Ciano disse all’ambasciatore francese: «Ottenete qualche
vittoria e saremo dalla vostra parte» . Gli inglesi rinforzarono la guarnigione di Suez e
193

accumularono scorte per un possibile secondo teatro di guerra. Gli Alleati trattarono Mussolini
come un opportunista, per il quale la situazione non era ancora sufficientemente invitante . 194

Anche la posizione del Giappone rimaneva in sospeso. Durante l’estate del 1939 le forze
giapponesi presenti nel sud della Cina avevano esercitato una crescente pressione sull’impero
francese e quello britannico affinché chiudessero tutti i commerci con la Cina meridionale, e
dopo lo scoppio della guerra in Europa il cappio si strinse ulteriormente. Le forze francesi e
britanniche furono ritirate dall’enclave di Tianjin e la Royal Navy China Squadron si trasferí a
Singapore. Hong Kong fu isolata dai giapponesi e le imbarcazioni cinesi che cercavano di
lasciare la colonia venivano periodicamente bombardate e affondate dalla flotta nipponica. Gli
inglesi non avevano alcun desiderio di una guerra totale con il Giappone, ma nell’inverno del
1939-40 gli interessi degli Alleati in Cina sopravvivevano solo grazie alla continua resistenza
cinese .
195

Piú incerto e pericoloso appariva l’atteggiamento dell’Unione Sovietica. Dalla firma del Patto di
non aggressione nell’agosto del 1939, le due potenze alleate avevano iniziato a trattare l’Urss da
potenziale nemico, attribuendo al patto lo stesso valore di un’alleanza con la Germania nazista.
Stalin, com’è ora risaputo, sperava che il patto avrebbe creato in Europa un nuovo «equilibrio»
intorno a un asse nazi-sovietico. «Questa collaborazione», aveva detto a Ribbentrop,
«rappresenta una forza dinanzi alla quale ogni altra opzione deve cedere il passo» . Gli Alleati
196

temettero il peggio dopo l’invasione e l’occupazione sovietica della Polonia orientale e le


successive pressioni sugli Stati baltici affinché permettessero all’Armata Rossa di entrare nel
loro territorio come forza di protezione. Chamberlain e Daladier erano entrambi profondamente
ostili al comunismo e preoccupati che la guerra contro la Germania potesse indurre l’Unione
Sovietica a puntare sul Medio Oriente o sull’Asia imperiale. A ottobre, l’ambasciata britannica a
Mosca inviò un lungo rapporto che valutava la possibilità di una guerra con l’Unione Sovietica, e
anche se i capi di stato maggiore britannici si mantenevano contrari a correre il rischio di un
conflitto piú ampio, un eventuale scontro rimaneva per gli Alleati nel campo delle possibilità . 197

Quando il 30 novembre l’Urss attaccò la Finlandia, dopo che il governo finlandese aveva
rifiutato di cedere delle basi alle forze militari sovietiche, in Gran Bretagna e Francia vi fu
un’ondata di indignate proteste. I rispettivi ambasciatori furono richiamati da Mosca e il 14
dicembre i due stati presero l’iniziativa di espellere l’Unione Sovietica dalla Società delle
Nazioni. A Londra, bersagliato da una feroce campagna di stampa antisovietica, l’ambasciatore
Ivan Majskij si poneva la domanda: «Chi è il nemico numero uno? La Germania o l’Urss?» . 198

La «guerra d’inverno» tra l’Urss e la Finlandia trascinò inaspettatamente la Scandinavia nel


secondo conflitto mondiale e, soprattutto, allertò gli Alleati sull’importanza strategica della
regione nel caso in cui l’Unione Sovietica o la Germania l’avessero sottomessa o occupata. La
Scandinavia era infatti fonte di importanti materie prime di valore strategico – minerale di ferro
di alta qualità in primis –, mentre la costa norvegese offriva potenziali basi aeree e navali da cui
sferrare attacchi alla Gran Bretagna. Ai finlandesi fu inviato un limitato aiuto militare (circa 175
aerei tra velivoli inglesi e francesi e 500 pezzi di artiglieria), mentre gli strateghi britannici
elaborarono due possibili operazioni dal nome in codice Avonmouth e Stratford, entrambe
approvate dal Consiglio supremo di guerra nel febbraio del 1940. La prima prevedeva l’invio nel
porto norvegese di Narvik di una piccola forza anglo-francese che sarebbe poi entrata in
territorio svedese e avrebbe assunto il controllo delle miniere di ferro; con la seconda operazione
si doveva mandare una forza supplementare di tre divisioni che avrebbero stabilito una linea
difensiva nella Svezia meridionale. Né la Norvegia né la Svezia acconsentirono e a marzo il
gabinetto di guerra britannico pose il veto all’intero piano strategico, nonostante le forti pressioni
francesi per un piú deciso impegno militare . Il 13 marzo, infine, prima che si potesse mettere in
199

atto qualsiasi piano alleato, i finlandesi chiesero un armistizio – una sconfitta che provocò tra gli
Alleati la prima di due grandi crisi politiche legate alla questione scandinava. Durante la
primavera crebbe l’ostilità politica nei confronti di Daladier, soprattutto quando gli anticomunisti
gli rimproverarono di non avere agito in modo piú assertivo contro l’Unione Sovietica, mentre il
centro e la sinistra non apprezzavano il fatto che non fosse riuscito a bloccare la Germania. Il 20
marzo, Daladier, ormai famoso per la sua irresolutezza, fu costretto a lasciare l’incarico, pur
restando ministro della Difesa. Fu sostituito dal suo ministro delle Finanze, Paul Reynaud, la cui
reputazione era nettamente opposta, aveva la fama di essere un uomo impulsivo, attivo e
bellicoso. Egli scrisse quasi immediatamente a Chamberlain che per contrastare l’impatto
psicologico e morale della sconfitta in Finlandia erano ora necessarie delle azioni «audaci e
rapide» .
200

Ciò nonostante, Reynaud privilegiava un intervento lontano dalla linea del fronte davanti alla
Germania, come era già stato suggerito sotto Daladier. Voleva che gli inglesi prendessero
l’iniziativa in Scandinavia, minando le vie utilizzate per rifornire la Germania di minerale di
ferro, e che si creasse una forza aerea congiunta anglo-francese in Iraq e Siria per bombardare i
campi petroliferi sovietici nel Caucaso e tagliare cosí parte delle forniture di petrolio alla
Germania. Il piano del Caucaso ricevette piú attenzione di quanto meritasse. Un rapporto
britannico sosteneva che tre squadroni di bombardieri avrebbero potuto mettere fuori uso i campi
petroliferi e «paralizzare la macchina da guerra sovietica», un’affermazione per la quale non
esisteva uno straccio di prova. Solo l’opposizione del gabinetto di guerra britannico, messo di
fronte all’inevitabile rischio di una guerra totale con l’Unione Sovietica, impedí che l’operazione
andasse avanti . Quanto alla Norvegia, Reynaud fu piú insistente, ma i britannici volevano
201

concentrarsi soprattutto sulla minaccia nel cuore del continente, mettendo mine lungo il Reno per
rallentare lo spiegamento tedesco. Il gabinetto francese respinse a sua volta la proposta britannica
per paura che i fiumi francesi potessero essere minati per rappresaglia. L’impasse si risolse infine
quando gli inglesi accettarono di minare le acque norvegesi se i francesi si fossero impegnati nel
corso dell’anno a minare il Reno. La data dell’operazione delle mine al largo della costa
norvegese, denominata in codice Wilfred, fu fissata per l’8 aprile 1940 .202
L’operazione norvegese ebbe termine un mese dopo con le dimissioni di Chamberlain, che, come
Daladier, fu vittima dell’incompetenza della strategia alleata in Scandinavia. Sia l’intelligence
britannica sia quella francese non riuscirono a fornire alcun serio preavviso sull’invasione
tedesca della Danimarca e della Norvegia, che ebbe inizio la mattina del 9 aprile. A comunicare
la notizia che una flotta tedesca si stava muovendo attraverso il Mare del Nord fu l’agenzia di
stampa Reuters la sera dell’8 aprile. I piani tedeschi relativi a una possibile operazione in
Scandinavia risalivano a molti mesi prima. Il 12 dicembre era stato commissionato uno studio
per valutare la possibilità, viste le limitate risorse navali della Germania, di occupare la Norvegia
e salvaguardare cosí il flusso di minerale di ferro. Hitler si preoccupava che la Norvegia non
venisse occupata dagli inglesi, ma era altresí in apprensione che l’Unione Sovietica potesse usare
la sua presenza aggressiva nella regione per impadronirsi delle regioni norvegesi settentrionali. A
gennaio, il generale Nikolaus von Falkenhorst fu nominato comandante generale di
un’operazione congiunta navale, aerea e militare dal nome in codice Weserübung (Esercitazione
del Weser) . La dirigenza tedesca sperava che un rovesciamento politico in Norvegia, provocato
203

dal nazionalsocialista norvegese Vidkun Quisling, potesse rendere superflua un’azione militare,
ma l’influenza di Quisling, in realtà, era stata ampiamente sopravvalutata. Il 1° marzo, vedendo
aumentare l’interesse degli Alleati per la Scandinavia, Hitler emanò la direttiva riguardante la
Weserübung . Pur trattandosi di un’operazione complicata e rischiosa, intrapresa in un momento
204

in cui l’asse principale dei preparativi militari tedeschi era a ovest, Hitler aveva valutato che il
rischio di un affiancamento degli Alleati a nord fosse troppo grande.
Il 2 aprile, il Führer ordinò che l’operazione avesse inizio di lí a una settimana e l’8 aprile,
mentre gli inglesi piazzavano le prime mine, i sottomarini, le navi da trasporto e le navi da guerra
tedesche erano pronte a sostenere gli sbarchi a Trondheim e Narvik, e i paracadutisti preparavano
la prima operazione di quel tipo contro la capitale norvegese, Oslo. La mattina del 9 aprile, le
truppe tedesche varcarono la frontiera danese, e dopo un breve scambio di colpi, che lasciò sul
terreno sedici soldati danesi, il governo di Copenhagen capitolò. I paracadutisti tedeschi e la
fanteria aviotrasportata si impossessarono dei principali campi d’aviazione nel sud della
Norvegia, mentre le navi da trasporto sbarcavano truppe e rifornimenti lungo la costa
meridionale. Nei due mesi successivi, arrivarono per via aerea e per mare 107 000 soldati, 20
339 veicoli e 101 000 tonnellate di rifornimenti per sostenere l’invasione. All’inizio di maggio,
piú di 700 aerei venivano impegnate nelle operazioni militari tedesche . Ben presto, le truppe del
205

Reich conquistarono la maggior parte della Norvegia meridionale e centrale, pur incontrando una
resistenza piú strenua del previsto. Tra il 15 e il 19 aprile, una forza congiunta britannica,
francese e polacca venne fatta sbarcare in tre punti della costa e prese rapidamente il controllo di
Narvik, dove i tedeschi erano in minoranza. Anche se i nazisti subirono in mare perdite
proporzionalmente alte (3 incrociatori, 10 cacciatorpediniere, 4 sottomarini e 18 navi da
trasporto), la campagna evidenziò comunque gli evidenti punti di forza delle forze armate
tedesche in quella che sarebbe poi risultata la loro unica grande operazione militare coordinata.
L’attivo supporto aereo, l’uso efficace dell’artiglieria e della fanteria operanti congiuntamente e
l’efficienza delle comunicazioni amplificarono la potenza militare tedesca e demoralizzarono i
soldati alleati, la maggior parte dei quali non aveva mai visto prima un terreno cosí aspro e
montuoso, e tantomeno vi aveva mai combattuto. Il 26 aprile, gli inglesi abbandonarono
Trondheim; i soldati alleati resistettero a Narvik fino all’8 giugno, quando i restanti 24 500
uomini furono riportati in Gran Bretagna; la vittoria tedesca in Norvegia, in ogni caso, era già
data per scontata all’inizio di maggio, con un totale di 3692 soldati morti o dispersi e 3761 caduti
tra gli Alleati .
206

Il fallimento in Norvegia fece infuriare Reynaud, che aveva basato la sua nuova premiership
sulla promessa di una vittoria. Alla fine di aprile, lamentò che gli inglesi erano dei «vecchi che
non sanno rischiare». Non appena arrivò la notizia della débâcle, l’opinione pubblica britannica
si scagliò contro Chamberlain. Anche se gran parte della responsabilità per la scarsa
preparazione ed efficacia dell’intervento alleato ricadeva su Churchill, in quanto primo lord
dell’Ammiragliato, la campagna di stampa dei primi di maggio venne diretta contro il primo
ministro. La crisi politica raggiunse l’apice l’8 maggio, quando la Camera dei Comuni cominciò
il dibattito sulla Norvegia. Secondo un testimone oculare, Chamberlain apparve «con il cuore
spezzato e allo stremo delle forze» mentre difendeva il suo operato a suon di scambi di repliche
rabbiose, ma quando l’opposizione laburista richiese che l’azione del primo ministro fosse messa
ai voti, un numero considerevole dei suoi stessi sostenitori si pronunciò a sfavore. Il giorno dopo,
Chamberlain decise di dimettersi . L’unico politico conservatore con cui i partiti di opposizione
207

avrebbero accettato di lavorare era Winston Churchill, che il 10 maggio divenne il capo del
nuovo governo. Nel giro di sei settimane, entrambe le democrazie europee avevano vissuto una
grave crisi politica legata alla questione scandinava. Ancora piú sorprendente appare il fatto che
l’unica convinzione comune che riusciva a tenere uniti i due alleati era la certezza che la guerra
si sarebbe conclusa con una vittoria anglo-francese e che la strategia per contenere militarmente
la Germania, per quanto gravi fossero stati i fallimenti in Scandinavia, potesse ancora funzionare.
Nulla fa pensare che i due governi prevedessero gli sconvolgimenti che si sarebbero
materializzati nei due mesi successivi.
La stessa mattina in cui Churchill fu nominato primo ministro, le forze tedesche diedero inizio
alla campagna verso ovest. Anche se in quel caso l’intelligence alleata era piú preparata di
quanto non fosse stata in merito alla campagna norvegese, dato che la strategia alleata si basava
sulla resistenza a un assalto tedesco piuttosto che sull’inizio di una propria offensiva, i servizi di
spionaggio non erano riusciti nemmeno lontanamente a prevedere i contorni della campagna
militare tedesca, che finí in breve per sconvolgere tutti i preparativi degli Alleati. Il suo
straordinario successo sorprese perfino gli stessi comandanti tedeschi. Molti di loro, come le loro
controparti alleate, immaginavano che alla fine, se l’operazione fosse fallita, si sarebbe ripetuto
qualcosa di simile al fronte occidentale della Grande Guerra. Invece, a fronte di una perdita di 27
000 uomini, l’Olanda, il Belgio e la Francia caddero sotto il controllo tedesco – nulla quindi a
che vedere con la guerra vissuta venticinque anni prima dai comandanti di entrambi gli
schieramenti. Sia durante la guerra sia per molto tempo dopo, gli Alleati sconfitti cercarono di
spiegare l’umiliazione subita adducendo come giustificazione le schiaccianti forze tedesche,
sostenute da anni di frenetico riarmo, in triste contrasto con gli sforzi tardivi e scoordinati
dell’Occidente. Gli storici hanno ora sfatato tale rappresentazione, dimostrando che le risorse
totali a disposizione delle due parti erano in realtà in favore degli Alleati, in alcuni casi perfino
con un ampio margine. Sul fronte nord-orientale della Francia, gli eserciti di Belgio, Olanda,
Gran Bretagna e Francia contavano 151 divisioni, contro 135 dei tedeschi, di cui 42 di riserva;
l’artiglieria alleata ammontava a 14 000 pezzi contro 7378 tedeschi; i carri armati alleati, molti
dei quali superiori per potenza di fuoco e blindatura rispetto ai loro omologhi tedeschi, erano
3874 contro 2439 tedeschi. Perfino nell’aviazione, dove si è sempre supposto che alla fine degli
anni Trenta la Germania fosse di gran lunga in vantaggio, la bilancia pendeva a favore degli
Alleati; le stime oscillano tra 4400 e 5400 velivoli (incluso un considerevole numero di aerei
tenuti come riserva) contro 3578 aerei operativi a disposizione delle forze aeree tedesche il 10
maggio nella 2. e nella 3. Luftflotte .
208

Nonostante la sostanziale correttezza di questi dati, essi risultano fuorvianti sotto diversi aspetti
di una certa importanza. I numeri relativi alle truppe di terra e all’aviazione includono infatti le
forze belghe e olandesi, ma nessuno dei due piccoli eserciti aveva concertato dei piani con i
francesi; le due modeste forze aeree non avevano coordinato alcun piano di difesa con francesi e
inglesi e furono tutte spazzate via dagli attacchi alle basi aeree condotti nel primo giorno della
campagna. Anche la parità di potenza aerea tra Gran Bretagna e Francia era un’illusione
statistica. Al 10 maggio, l’alto comando francese disponeva soltanto di 879 aerei utilizzabili
contro i tedeschi, mentre i 416 velivoli del contingente britannico rappresentavano una minima
parte dei 1702 aerei di prima linea a disposizione della RAF e tenuti a terra in Gran Bretagna per
la difesa dell’isola. I rimanenti aerei francesi, di cui parecchi ormai obsoleti nel 1940, si
trovavano in depositi o in basi sparse nel resto della Francia, mentre 465 si trovavano nel
Nordafrica per fronteggiare un’eventuale offensiva italiana. I velivoli disponibili sul fronte
principale furono assegnati ai singoli eserciti anziché essere raggruppati insieme, rendendo cosí
ancora piú marcata la disparità con la forza aerea tedesca, centralizzata e concentrata. In realtà, i
due alleati occidentali possedevano soltanto circa 1300 aerei a fronte dei 3578 della Germania.
Anche nell’artiglieria il divario era meno significativo di quanto lascino intendere i numeri
grezzi. I francesi facevano molto affidamento sui pezzi di artiglieria del 1918, tanto che nel
maggio del 1940 erano pochi i moderni fucili anticarro da 47 mm con relativi fucilieri addestrati
al loro uso; molte divisioni utilizzavano pertanto i fucili da 37 mm della Prima guerra mondiale,
inefficaci contro i moderni carri armati. Anche i cannoni antiaerei scarseggiavano: 3800 contro i
9300 dei tedeschi . Nonostante i migliori carri armati francesi e britannici fossero dotati di
209

cannoni di calibro maggiore e blindatura piú spessa rispetto ai migliori carri armati tedeschi, essi
costituivano una piccola parte della forza corazzata complessiva, e quelli francesi erano inoltre
lenti e consumavano troppo carburante. Ancora piú determinante fu il modo in cui furono
dispiegati i carri armati. Le forze tedesche avevano riunito tutti i mezzi corazzati in dieci
divisioni Panzer ad armi combinate e in sei divisioni motorizzate, con una concentrazione di
forza concepita come l’avanguardia di un esercito in gran parte composto da fanteria e mezzi
trainati da cavalli e in grado di sfondare e scompaginare le linee nemiche; i carri armati francesi,
inclusi quelli delle tre unità della Division légère mécanique (DLM, Divisione leggera
meccanizzata) o delle tre unità della Division cuirassée de réserve (DCR, Divisione corazzata
della riserva), erano invece progettati per operare nel contesto di una battaglia di fanteria e
prevenire lo sfondamento da parte del nemico, anziché essere utilizzati come unità offensive
indipendenti. Dei 2900 carri armati impiegati dalla Francia, solo 960 si trovavano in queste unità
meccanizzate; il resto era sparso tra le divisioni regolari. Nessuna di quelle unità, naturalmente,
aveva già visto o sperimentato, a differenza dell’esercito tedesco, il moderno combattimento con
i carri armati . La conclusione decisiva da trarre riguardo all’equilibrio delle forze è che lo
210

schieramento tedesco godeva di una superiorità proprio negli elementi che piú contavano.
Tali differenze furono amplificate dalla strategia scelta dalle due parti. Poiché la sconfitta della
Francia fu il punto critico di svolta della guerra, vale la pena esaminare il conflitto in qualche
dettaglio. Le discussioni tedesche riguardo all’organizzazione del Fall Gelb furono
completamente risolte entro marzo. Le forze armate tedesche erano state organizzate in tre
gruppi di armate: la Heeresgruppe B (Gruppo d’armata B), con tre divisioni Panzer, doveva
penetrare nei Paesi Bassi e in Belgio in direzione della Francia per attirare il grosso delle forze
francesi e britanniche in una controffensiva su territorio belga; la Heeresgruppe C (Gruppo
d’armata C) si trovava invece dietro le difese tedesche del Westwall (Linea Sigfrido) per bloccare
le trentasei divisioni francesi che presidiavano la Linea Maginot; la forza maggiore era
rappresentata dalla Heeresgruppe A (Gruppo d’armata A) sotto il generale Gerd von Rundstedt,
con sette divisioni corazzate spiegate di fronte alle foreste delle Ardenne meridionali belghe e del
Lussemburgo. Muovendo rapidamente attraverso le foreste, avrebbe dovuto superare il fiume
Mosa entro il terzo giorno della campagna per poi attaccare a nord-est verso la costa della
Manica, mantenendo uno scudo difensivo lungo il fianco sinistro, piú esposto, e al tempo stesso
accerchiare le forze alleate e annientarne la resistenza. Poiché il successo del piano dipendeva
dal fatto che l’esercito francese abboccasse all’esca dell’offensiva nel nord del Belgio, fu
realizzato un elaborato piano diversivo per far sembrare che quello fosse davvero l’asse
principale dell’attacco tedesco.
Lo stratagemma alla fine non fu neppure necessario, dal momento che Gamelin e l’alto comando
francese avevano deciso da tempo di avanzare in Belgio. A marzo, Gamelin scelse di aumentare
ulteriormente il rischio che correvano gli Alleati con la «variante Breda», che prevedeva un
rapido dispiegamento attraverso il Belgio della Settima Armata (precedentemente una
formazione di riserva e ora forza elitaria dell’esercito), appoggiata dalla BEF, per poi riunirsi con
il Koninklijke Landmacht, l’esercito olandese, al fine di creare un ininterrotto fronte difensivo.
Breda era ancora piú lontana dalla frontiera francese di quanto fosse il fiume Dyle, ma Gamelin
scommise che trenta divisioni alleate avrebbero potuto raggiungere il fronte olandese in tempo
per prevenire uno sfondamento tedesco. Il bilancio complessivo nei territori settentrionali doveva
essere di 60 divisioni alleate contro 29 tedesche; nel settore meridionale, gli equilibri erano
invece invertiti, con 18 divisioni contro 45. I francesi davano da anni per scontato che le foreste
delle Ardenne fossero praticamente intransitabili dagli eserciti moderni ed erano pertanto
sorvegliate da una modesta forza di copertura belga e da sette divisioni di riserva poco
equipaggiate . I rischi erano enormi per entrambe le parti, ma ognuna era imprigionata a modo
211

suo nell’eredità del 1918: Gamelin, sostenuto dai comandanti britannici, voleva ripristinare la
linea di continuità e lo scontro metodico che alla fine aveva logorato i tedeschi nella Prima
guerra mondiale ed era fiducioso di ottenere ancora una volta quel risultato; i comandanti
tedeschi, preoccupati in effetti che quello potesse essere realmente l’esito finale, scommisero
tutto su una rapida operazione di sfondamento e accerchiamento che non aveva avuto successo
nel 1914.
Quando le forze armate tedesche iniziarono l’assalto a ovest, effettuando devastanti incursioni
sui campi d’aviazione nemici e impossessandosi con un audace attacco di paracadutisti del forte
belga di Eben-Emael, di fondamentale importanza, Gamelin riferí che quella era «esattamente
l’opportunità che stava aspettando» . La I e la VII Armée, insieme alla BEF, furono finalmente
212 e e

ammesse sul suolo belga in modo da potersi spingere verso la linea del Dyle e verso Breda. La
IX e la II Armée erano a nord e a sud di Sedan e costituivano l’unico ostacolo a un’eventuale
e e

avanzata tedesca da sud. In realtà, quasi nulla andò secondo i piani. Le forze alleate si diressero
verso Breda solo per scoprire che l’esercito olandese aveva abbandonato la zona e si era spostato
piú a nord. Il 14 maggio, Rotterdam fu bombardata dalla Luftwaffe per sostenere l’avanzata
dell’esercito tedesco nella città; il giorno seguente, il comandante in capo olandese annunciò che
«questa lotta impari deve cessare» e si arrese subito. La difesa belga lungo il Canale Alberto, piú
a est, crollò presto sotto il peso dell’assalto tedesco e le unità belghe si ritirarono in direzione
dell’avanzata francese. Fu stabilito una sorta di fronte lungo il fiume Dyle contro le divisioni
tedesche in inferiorità numerica, ma mancò una linea difensiva ben preparata e lo schieramento
alleato fu ostacolato dalla marea di profughi (stimati alla fine tra otto e dieci milioni di civili
francesi e belgi) che intasavano le strade di vitale importanza per le forze in avanzata e in
ritirata . Il 16 maggio, il generale Georges, comandante del fronte, disse ai difensori della linea
213

del Dyle di ritirarsi il piú rapidamente possibile verso la frontiera francese poiché piú a sud,
attraverso le Ardenne ritenute invalicabili, l’intera linea francese era stata scardinata.
Come i comandanti tedeschi avevano sperato, il loro piano operativo aveva avuto successo grazie
all’avanzata alleata nella trappola belga. Hitler stabilí il suo quartier generale in un vecchio
bunker antiaereo di Münstereifel. Pensava che la Francia sarebbe stata sconfitta in sei settimane,
il che avrebbe aperto la strada a un accordo con la Gran Bretagna, i cui governanti non avrebbero
certo voluto «rischiare di perdere l’impero» . Fu qui che il 10 maggio iniziarono ad arrivare
214

notizie sull’assalto della Heeresgruppe A attraverso il Lussemburgo e le Ardenne. Le unità


Panzer erano organizzate su tre assi: uno verso Sedan, sotto il comando del Generaloberst Heinz
Guderian, il principale esponente tedesco della guerra corazzata; il secondo verso Monthermé, a
nord di Sedan, sotto il comando del tenente generale Hans Reinhardt; un terzo verso la città
belga di Dinant, sotto il comando del generale Hermann Hoth, concepito per garantire una difesa
sui fianchi agli altri due affondi delle forze tedesche. L’avanzata incontrò presto delle difficoltà
perché le divisioni corazzate si trovarono a competere con quelle di fanteria nel loro transito su
strade strette. 41 140 veicoli e 140 000 uomini crearono un ingorgo di 250 chilometri che i
comandanti faticarono a sciogliere. La crisi fu moderata in qualche misura da un’attenta
pianificazione logistica. Lungo il percorso erano stati allestiti depositi di carburante, mentre tre
battaglioni di trasporto su camion fornivano benzina, munizioni e rifornimenti alle divisioni
corazzate durante la loro avanzata. Quando fu finalmente possibile muoversi, l’organizzazione
logistica risultò fondamentale per consentire una rapida mobilità. Le taniche di benzina venivano
distribuite ai carri armati in movimento come fossero acqua per maratoneti assetati . 215

Il momento piú critico della campagna sopraggiunse tra l’11 e il 13 maggio, quando lo slancio
dei mezzi corazzati praticamente si bloccò, rendendoli un facile bersaglio per la forza aerea del
nemico. Su questa zona vulnerabile volavano tuttavia pochi aerei alleati, poiché l’aviazione
tedesca manteneva un ombrello di protezione sull’avanzata e il grosso delle forze aeree degli
Alleati era impegnato a contrastare l’attacco piú a nord; oltre a tutto questo, quei pochi piloti
francesi che segnalarono ininterrotti movimenti di veicoli e carri armati non furono
semplicemente creduti. Attraversando il Lussemburgo e le Ardenne meridionali, le colonne
tedesche si scontrarono con le forze di frontiera belghe e la cavalleria francese, ma né a Georges
né a Gamelin pervennero segnalazioni sul fatto che si potesse trattare della grande offensiva
tedesca, anche perché il piano francese si basava sull’idea di una grossa battaglia nella pianura
delle Fiandre piú a nord. Il 13 maggio, nonostante l’incubo dello schieramento congestionato
attraverso le Ardenne, tutte e tre le offensive dei Panzer tedeschi avevano raggiunto il fiume
Mosa. L’attraversamento del fiume fu un momento senza dubbio drammatico. I ponti erano stati
distrutti e i francesi si erano trincerati sulla riva opposta. Al grosso delle forze aeree tedesche fu
dato ordine di colpire le postazioni nemiche e 850 tra bombardieri e caccia in picchiata
lasciarono lungo la sponda una coltre di fumo e detriti. La LV Divisione francese, che era venuta
a trovarsi di fronte alle forze di Guderian presso Sedan, aveva solo una mitragliatrice antiaerea.
Anche se in seguito si scoprí che i danni erano stati molto inferiori al previsto, l’impatto
psicologico del pesante bombardamento lasciò i difensori francesi impauriti e demoralizzati . Le216

tre divisioni di Guderian si scontrarono con il fuoco dell’artiglieria pesante e delle mitragliatrici,
ma alle undici di sera avevano conquistato uno spazio sufficiente per permettere la costruzione
del primo ponte e il passaggio dei primi carri armati. Piú a nord, il generale Erwin Rommel
guidò personalmente la sua 7. Panzerdivision attraverso il fiume all’altezza di Houx, vicino a
Dinant, e nonostante la feroce resistenza francese realizzò entro sera una testa di ponte di tre
chilometri; le due divisioni Panzer di Reinhardt a Monthermé incontrarono maggiore resistenza a
causa della difficile topografia e impiegarono due giorni per sopraffare i difensori e uscire dalla
sacca sulla riva occidentale della Mosa. L’attraversamento del fiume creò il panico tra le
divisioni di riserva piú deboli e mise finalmente in allarme l’alto comando francese sulla gravità
di una situazione che aveva ritenuto impensabile.
Nel cuore della notte tra il 13 e 14 maggio, al quartier generale di Georges giunsero notizie
dettagliate. È risaputo che il generale stesso scoppiò in lacrime: «Il nostro fronte è crollato a
Sedan! Abbiamo subito un tracollo!» . Quello che seguí fu l’esatto contrario dello scontro
217

metodico pianificato da Gamelin. Le divisioni di riserva della II Armée del generale Charles
e

Huntziger sembrarono svanire nel nulla; a nord, la IX Armée del generale André Corap si trovò
e

ad affrontare una crisi analoga. I tentativi di contrattacco fallirono perché l’alto comando
francese non si aspettava una rapida battaglia di manovra. Le comunicazioni lasciavano a
desiderare e i rifornimenti di carburante per i carri armati e i camion francesi erano difficili da
organizzare, cosicché centinaia di veicoli si trovarono immobilizzate sulla strada percorsa dalle
divisioni Panzer nella loro avanzata. Le varie unità, costrette a marciare su lunghe distanze il piú
rapidamente possibile, arrivavano esauste o senza equipaggiamento. In Belgio, l’avanzata si
trasformò in una ritirata difensiva che lasciò dietro di sé preziosi rifornimenti e riserve di
carburante. Quella dei tedeschi, in ogni caso, non fu affatto una passeggiata, come si sente
talvolta dire, poiché incontrarono una resistenza locale spesso accanita; la risposta francese fu
comunque disorganizzata e improvvisata, l’esatto contrario di quanto pianificato dall’alto
comando. Il 16 maggio, Churchill affermò a Londra che era «semplicemente ridicolo pensare che
la Francia potesse essere conquistata da 160 carri armati», e quando il giorno seguente volò a
Parigi per incontrare Gamelin al ministero degli Esteri, trovò il personale impegnato a bruciare
documenti. Allorché domandò a Gamelin dove fosse la riserva francese, ricevette la laconica
risposta: «Il n’y en a pas» – «Non c’è» .
218

La portata della crisi si rivelò solo lentamente, man mano che i comandanti e i politici francesi
cominciarono a rendersi conto dell’accaduto. L’incertezza e le pessime comunicazioni non
avevano fatto che accelerare la disfatta. Anche se gli invasori avrebbero dovuto rallentare e
consolidare il passaggio attraverso la Mosa per far fronte a un eventuale contrattacco, la risposta
francese fu cosí disorganizzata e frammentaria che tutte e tre le divisioni Panzer fecero
dietrofront e si diressero verso i porti di Calais, Boulogne e Dunkerque sulla Manica, come
previsto dal piano Manstein. Ciò provocò un panico momentaneo nel quartier generale tedesco.
Dopo una settimana di notevoli successi, Hitler temeva ora che i fianchi estesi ed esposti delle
divisioni Panzer in avanzata potessero incoraggiare una potente risposta da parte francese. Il 17
maggio, discusse con lo stato maggiore se fosse opportuno rallentare l’intera operazione. «Il
Führer è terribilmente nervoso», osservò Franz Halder. «È spaventato dal suo stesso successo e
non vuole correre alcun rischio, per cui preferirebbe che ci fermassimo» . Il giorno dopo venne
219

lanciata contro la Linea Maginot la forza della Heeresgruppe C, per assicurarsi che le trentasei
divisioni francesi di frontiera rimanessero dove erano. Due brevi contrattacchi, uno da nord da
parte dei carri armati della BEF ad Arras il 18 maggio e un altro a Moncornet il 17 maggio,
lanciato dalla 4 Division cuirassée francese di recente formazione, guidata dal colonnello
e
Charles de Gaulle, crearono nel Führer ulteriori ansie. La realtà, in effetti, era ben diversa. Lo
shock dell’avanzata tedesca e l’assoluta inconsistenza della risposta alleata avevano giocato a
favore della guerra lampo di Hitler. Anche se le divisioni Panzer subirono per due volte dei
rallentamenti a causa degli interventi di Hitler dettati dal panico – la prima volta dopo Moncornet
e la seconda dopo Arras –, in appena una settimana avevano coperto una notevole estensione di
terreno e i comandanti delle divisioni erano ansiosi di proseguire verso la costa e accerchiare
l’intero corpo della VII e I Armée, la BEF e l’esercito belga, tutti intrappolati nella sacca delle
e re

Fiandre. L’attacco decisivo fu fermato non da un «ordine di arresto» di Hitler, come viene spesso
ipotizzato, bensí dal nervoso comandante della Heeresgruppe A, Von Rundstedt, che ordinò alle
divisioni Panzer di radunarsi, rifornirsi e riposare; ad alcune disse di muoversi verso sud per
intraprendere la seconda fase dell’operazione, il Fall Rot (Operazione Rosso), destinata a
sconfiggere le forze francesi nel resto del paese; ad altre diede ordine di dirigersi verso
Dunkerque. Hitler approvò gli ordini di Von Rundstedt, affidandogli il compito di decidere
quando dovesse essere ripresa l’avanzata. Il 28 maggio, le ventuno divisioni belghe intrappolate
non vennero nemmeno piú considerate in seguito alla resa del sovrano del Belgio. Due giorni
prima, l’esercito tedesco aveva finalmente ricevuto l’autorizzazione a completare
l’annientamento delle venticinque divisioni francesi e delle dieci britanniche rimaste nella sacca
a ridosso di una sottile linea difensiva.
La temporanea perdita di baldanza del quartier generale di Hitler non fu nulla rispetto alla crisi
che travolse gli Alleati. Man mano che le notizie filtravano, il governo francese si trovò di fronte
a una realtà che giudicava assurda. Alle 7.30 del 15 maggio, Reynaud telefonò a Churchill,
concludendo tristemente: «Siamo sconfitti, abbiamo perso la battaglia» . Il 20 dello stesso mese,
220

Gamelin, i cui rapporti con Reynaud non erano mai stati buoni, fu sollevato dal suo incarico e
sostituito da Maxime Weygand, comandante in capo delle forze francesi in Siria, generale
veterano della Grande Guerra e alleato di Reynaud. Il maresciallo Philippe Pétain, che aveva
trionfato a Verdun nel 1916, fu richiamato dall’ambasciata di Madrid e nominato vicepremier nel
tentativo di infondere nuova forza nel popolo francese demoralizzato. Le loro nomine
contribuirono a recuperare brevemente la fiducia a Londra e Parigi: Weygand elaborò (o
piuttosto ereditò da Gamelin) un piano per attaccare da nord e da sud i lunghi fianchi delle forze
tedesche – un piano che non aveva tuttavia alcuna attinenza con la realtà sul campo; piú
realisticamente, egli si preparò per una ritirata verso la linea dei fiumi Somme e Aisne, esortando
le malandate forze a retrocedere esibendo una «costante aggressività» . Le dimensioni del
221

disastro non potevano tuttavia essere tenute nascoste. Lungo la nuova linea del fronte
rimanevano solo quaranta divisioni francesi, con tre gruppi motorizzati di riserva che avrebbero
cercato di riempire tutti i varchi lasciati aperti dai tedeschi. Il gabinetto di guerra britannico e i
capi di stato maggiore trassero le ovvie conclusioni. Il 25 maggio, una commissione istituita
sotto l’ex segretario di gabinetto Maurice Hankey presentò un rapporto sulla «Strategia
britannica in una certa eventualità», in cui concludeva che una guerra globale non sarebbe stata
decisa dagli eventi in Francia e che con l’aiuto dell’America e dell’impero, nonché la protezione
dell’aviazione e della marina, la Gran Bretagna era in grado di continuare da sola . 222

Il 18 maggio, poco piú di una settimana dopo l’inizio della campagna, gli inglesi e i francesi
cominciarono a pensare a un’evacuazione. Grazie a una breve tregua dovuta allo stallo tedesco,
che permise al maggiore generale John Gort, comandante della BEF, di istituire un perimetro a
nord e a sud della sacca, difeso principalmente dai resti della VII e I Armée, il 26 maggio fu
e re

avviata da Calais e Boulogne l’operazione Dynamo. I soldati sotto attacco ebbero finalmente una
maggiore protezione aerea dagli Spitfire e dagli Hurricane della RAF, alzatisi in volo dalle basi
nel sud dell’Inghilterra. Mentre tutto intorno infuriava la battaglia per eliminare la sacca, una
moltitudine di soldati britannici (247 000) e francesi (123 000) fu imbarcata a Dunkerque su una
ressa quanto mai eterogenea di imbarcazioni che comprendeva 861 navi. A Dunkerque vi fu
anche un’evacuazione di truppe della Francia, ampiamente ignorata dalla storiografia britannica.
L’Ammiragliato francese trasferí 45 000 soldati in Gran Bretagna, 4000 a Le Havre, piú altri 100
000 nei porti settentrionali di Cherbourg e Brest, dove avrebbero dovuto riprendere i
combattimenti lungo la Somme . L’operazione degli inglesi si concluse il 4 giugno con la perdita
223

di 272 navi, tra cui 13 cacciatorpediniere, e l’abbandono di tutto l’equipaggiamento pesante: 63


000 veicoli, 20 000 motociclette, 475 carri armati e veicoli corazzati e 2400 cannoni . Come 224

venne scritto in seguito, i soldati lasciarono dietro di sé «una distruzione infinita [...] la scena di
un totale sfacelo militare». Anche se nel giugno del 1940 non vi fu alcuna resa da parte
dell’esercito britannico, la battaglia in Belgio e Francia deve essere comunque considerata una
vera disfatta piú che un’eroica evacuazione. In quel mese, l’esercito rimasto a difendere la Gran
Bretagna disponeva solamente di 54 cannoni anticarro e 583 pezzi d’artiglieria. Per il momento,
come autentica forza di combattimento, l’esercito regolare era stato reso del tutto impotente . 225

Mentre alla fine di maggio proseguiva il crollo della resistenza sul fronte nord-orientale, i due
principali Alleati iniziarono a prendere in considerazione la terribile ipotesi di una capitolazione,
impensabile fino a due settimane prima. Il 25 maggio, Weygand, nonostante le sue apparenti doti
di resilienza ed energia, riferí al gabinetto francese che stava pensando di abbandonare la
battaglia, mentre Reynaud pronunciò per primo la parola «armistizio», un termine di per sé
ambiguo, come i tedeschi avevano constatato nel novembre del 1918. Tale armistizio si sarebbe
dovuto concordare con gli inglesi in base all’impegno preso il 25 marzo 1940, secondo cui
nessuno dei due alleati avrebbe concluso una pace separata. Il 26 maggio, Reynaud volò a
Londra per spiegare a Churchill che la Francia avrebbe potuto prendere in considerazione una
resa. A sua insaputa, quella mattina il gabinetto di guerra britannico aveva iniziato a discutere
una proposta presentata al ministro degli Esteri Halifax dall’ambasciatore italiano per
un’eventuale conferenza di pace sotto gli auspici di Mussolini. Le motivazioni italiane
rimangono poco chiare, visto che ormai anche il Duce si stava preparando a dichiarare guerra per
poter approfittare di quella che al governo fascista sembrava l’occasione perfetta per sfruttare
l’imminente conquista della Francia. Dopo tre giorni di dibattito, gli inglesi decisero di non
prendere alcuna iniziativa. Sebbene quel momento sia spesso visto come un punto di svolta, in
cui i fautori dell’appeasement avrebbero potuto quasi trionfare, non si poterono evitare
discussioni sulle conseguenze di una sconfitta globale, tanto piú che nemmeno Halifax avrebbe
favorito un accordo che potesse compromettere gli interessi primari della Gran Bretagna.
Ottenendo alla fine il sostegno di Chamberlain, che aveva mantenuto un posto nel gabinetto di
guerra, Churchill guidò il dibattito verso il rifiuto di qualsiasi avvicinamento a Mussolini. I
leader britannici, di fatto, stavano già prendendo in considerazione una guerra senza la Francia:
«Se la Francia non poteva difendersi», disse Churchill ai suoi colleghi, «la cosa migliore era
tirarsi fuori dalla guerra» .
226

La Francia continuò a combattere per altre tre settimane in condizioni di rapido deterioramento.
Un armistizio rimaneva l’opzione piú probabile, ma furono esplorate anche altre possibili
alternative. Alla fine di maggio, fu avanzata l’idea di una «ridotta bretone» in cui le forze
francesi, possibilmente rinforzate da un nuovo contingente britannico, avrebbero potuto creare e
reggere una linea difensiva intorno alla Bretagna e al porto di Cherbourg. Fu quindi
commissionato uno studio per verificarne la fattibilità . Si continuava a riporre la speranza
227

nell’idea che la Francia potesse continuare a resistere nel suo impero nordafricano, dove erano
già posizionate forze considerevoli per contrastare un attacco preventivo degli italiani dalla Libia
e in cui migliaia di soldati francesi potevano essere facilmente trasportati dal continente.
All’inizio di giugno, Reynaud mise in moto un piano per evacuare 80 000 uomini verso il
Marocco francese; il 12 giugno, De Gaulle, allora giovane ministro della Guerra dopo il suo
successo a Moncornet, chiese all’Ammiragliato francese di spostare in Africa 870 000 uomini in
sole tre settimane. Soltanto la marina britannica aveva questo tipo di capacità, ma gli sforzi
inglesi erano concentrati a rimuovere tutte le truppe britanniche che ancora rimanevano nella
Francia occidentale (oltre a 19 000 soldati polacchi) in aggiunta ai soldati già salvati a
Dunkerque. Il 14 giugno fu ordinato di dare il via all’operazione Aerial, ovvero l’abbandono
della Francia, completato dieci giorni dopo. Altri 185 000 uomini tornarono in Inghilterra,
perdendo questa volta soltanto sei cacciatorpediniere e il 3 per cento dei trasporti per mare . Il 22
228

giugno, Weygand chiese al generale Charles Noguès, comandante in capo delle forze francesi nel
Nordafrica, quali fossero le prospettive di una resistenza nordafricana con le truppe a
disposizione. A quel punto, gran parte della flotta francese e circa 850 aerei erano ormai di
stanza nell’impero africano, ma solo 169 carri armati moderni e 7 divisioni delle 14 disponibili
erano pronti al combattimento. Anche se Noguès possedeva una forza sufficiente a tenere a bada
un’invasione, Weygand non considerava realistico perseguire l’opzione imperiale, non piú di
quanto lo fosse una ridotta in Francia. Il 26 giugno, Noguès accettò, con «la morte nell’anima», il
fatto che la resistenza dell’impero era conclusa .229

Parecchi giorni prima, il destino della Francia era stato segnato da una schiacciante vittoria
tedesca. Il 5 giugno, le forze armate del Reich erano pronte per la seconda fase della campagna –
il Fall Rot – che avrebbe sconfitto e costretto alla resa quanto rimaneva delle forze francesi. La
linea di difesa frettolosamente creata lungo i fiumi Somme, Aisne e Oise dispiegava solo 40
divisioni, contro le 118 a disposizione dei tedeschi. A quel punto, la grande retroguardia delle
forze di fanteria si era unita all’avanguardia tedesca, rifornendo cosí la linea del fronte di forze
relativamente nuove. Il generale Georges commentò con Weygand che stavano combattendo solo
per l’onore, dato che era rimasto poco altro: «Nessuna riserva, nessuna forza di soccorso, nessun
rinforzo [...] senza cavalleria, senza carri armati. Una condizione tragica [...] una lotta senza
speranza, una situazione senza scampo» . Nonostante l’enorme disparità di forze, le unità
230

francesi rivelarono una migliore organizzazione e determinazione rispetto a quanto era avvenuto
nelle prime settimane del crollo, ma l’esito fu inevitabile. Il 9 giugno, la Heeresgruppe A aveva
raggiunto Rouen e il giorno 12 le armate tedesche erano ormai vicine a Parigi e avevano respinto
le forze francesi a nord e a sud. Il 10 giugno, Weygand annunciò a Reynaud l’imminenza di una
«rottura definitiva» del fronte.
Il governo francese abbandonò la capitale e si diresse prima verso la valle della Loira e infine
verso Bordeaux. Parigi, dove le basi aeree erano state bombardate il 3 giugno, fu dichiarata città
aperta e il giorno 14 l’esercito tedesco vi entrò in trionfo. In un incontro dei ministri del 12
giugno, Weygand aveva detto al suo uditorio che era arrivato il momento dell’armistizio;
Reynaud era ancora indeciso, ma quando il 15 giugno Georges tenne una riunione con i
comandanti francesi, questi furono tutti d’accordo che la battaglia doveva essere fermata . 231

Reynaud, esausto e frustrato, si piegò alla realtà dei fatti e si dimise il giorno dopo, per essere
sostituito dal principale sostenitore dell’armistizio, il maresciallo Pétain. Neppure adesso,
tuttavia, la questione poteva dirsi risolta, dal momento che Weygand aveva concepito
l’armistizio come «una sospensione delle ostilità» che avrebbe potuto permettere alle forze
francesi di riorganizzarsi. Pétain, per contro, nell’annunciare la decisione alla radio alle dodici
del 17 giugno, disse al popolo francese: «Dobbiamo cessare i combattimenti». Weygand suggerí
allora a Georges di annunciare di aver deciso unicamente di «tentare di porre fine ai
combattimenti» e ordinare a tutti i comandanti di continuare a combattere . La battaglia di
232

Francia non terminò dunque con l’annuncio di Pétain, bensí otto giorni dopo. Anche se i
combattimenti erano chiaramente terminati e migliaia di soldati avevano ormai abbandonato le
loro unità per tornare a casa, le forze ancora intatte nella Francia occidentale e centrale
continuavano a combattere, benché esauste e a corto di equipaggiamento. I 120 000 uomini della
VII Armée del generale Frère furono dispiegati per tutta la valle della Loira e cercarono di
e

bloccare ogni tratto del sistema fluviale man mano che i tedeschi si avvicinavano. Cessarono di
combattere solo il 25 giugno .233

A complicare gli accordi per l’armistizio intervenne la decisione presa a maggio dal Duce di
intervenire a fianco di Hitler contro le democrazie. Mussolini non aveva gradito lo stato di «non
belligeranza» che era stato costretto a dichiarare nel settembre del 1939 solo perché l’Italia, dopo
un decennio di guerre, non era preparata né economicamente né militarmente a un confronto con
la Gran Bretagna e la Francia. Non a caso a dicembre aveva fatto a Hitler l’ambigua promessa
che avrebbe onorato il proprio impegno con l’Asse. Nel marzo del 1940 aveva scritto che l’Italia
non avrebbe potuto rimanere neutrale per tutta la guerra senza diventare «una Svizzera
moltiplicata per dieci» . L’opposizione della casa reale e dei quadri militari aveva tuttavia
234

frenato Mussolini dal rischiare un conflitto per il quale l’Italia non era chiaramente pronta. Il
comandante in capo, il maresciallo Badoglio, riferí a Mussolini che i preparativi non sarebbero
stati completati fino al 1942, al piú presto, il che risultava, nel migliore dei casi, una valutazione
ottimistica. È difficile giudicare quanto Mussolini rispettò quel punto di vista, poiché, seppure
intrappolato nella sua visione retorica del potenziale militare dell’Italia, era altresí dubbioso sul
fatto che la Germania avrebbe effettivamente attaccato a ovest e, anche se fosse successo, quanto
rapidamente il Führer avrebbe deciso in favore della campagna . Quando Hitler aveva chiesto se
235

l’Italia fosse in grado di fornire da venti a trenta divisioni che combattessero a fianco delle forze
tedesche nella valle del Rodano, il comando dell’esercito italiano aveva respinto l’idea senza
esitazione. Ciò a cui puntavano Mussolini e la sua cerchia era quella che essi chiamavano una
«guerra parallela», «non “per” o “con” la Germania», come ebbe a dire il viceministro della
Guerra Ubaldo Soddu, «ma per noi stessi» . Non appena cominciarono tuttavia ad arrivare le
236

notizie dei successi tedeschi, Mussolini decise che l’Italia non poteva piú stare a guardare. Il 13
maggio annunciò che avrebbe dichiarato guerra entro un mese. Il 28 maggio, dopo aver saputo
della resa del Belgio, fissò la data del 5 giugno, per non perdere l’occasione e rischiare quindi di
non poter rivendicare «alcun titolo per partecipare alla spartizione del bottino». La dichiarazione
fu rimandata al 10 giugno, quando Mussolini annunciò infine la guerra dal balcone di Palazzo
Venezia davanti alla folla che gremiva la piazza . 237

La dichiarazione non significava di per sé che l’Italia fosse pronta a partecipare immediatamente
alle ostilità, ma sollecitò comunque l’istantanea ritorsione dei bombardieri inglesi e francesi, che
due giorni dopo sganciarono i loro ordigni su Torino e Genova. Mussolini era stato spinto
all’azione solo dalla notizia che Pétain aveva chiesto l’armistizio. Trascorsi tre giorni, ordinò
all’esercito italiano di iniziare un’offensiva contro la Francia lungo la frontiera occidentale. Si
precipitò poi a Monaco per incontrare Hitler e discutere i possibili termini di un armistizio; sul
treno per la Germania, disse che bisognava ottenere il massimo dall’accordo: occupazione di
tutta la Francia, sequestro della flotta francese, occupazione della Tunisia, del Somaliland
francese e della Corsica. Al suo arrivo a Monaco, tuttavia, come riferí poi a Ciano, aveva capito
all’istante che il suo ruolo era «di seconda categoria» . Hitler voleva un armistizio meno duro, in
238

modo che i tedeschi non avessero le mani legate in un eventuale futuro accordo di pace, oltre a
evitare di spingere nuovamente i francesi nelle braccia della Gran Bretagna. Secondo Von
Ribbentrop, ora che la Francia era stata sconfitta, l’armistizio contemplava altresí l’opportunità
di relegare gli ebrei europei nella colonia francese del Madagascar . Hitler rifiutò tra l’altro di
239

concedere un accordo di armistizio. Il 19 giugno, l’alto comando francese fu informato attraverso


l’ambasciata tedesca in Spagna che Hitler era pronto a prendere in considerazione le condizioni
per un armistizio e il giorno seguente la delegazione francese attraversò la linea del fronte fino ad
arrivare a Compiègne, dove i tedeschi erano stati costretti a firmare l’armistizio ventitre anni
prima. Il 22 giugno, una breve cerimonia sulla stessa carrozza ferroviaria del 1918 sancí
l’armistizio, che poteva tuttavia entrare in vigore solo quando l’Italia avesse acconsentito a
cessare le ostilità .
240

Poiché le forze italiane avevano iniziato a combattere solo il giorno 20, Mussolini fu costretto ad
aspettare alcuni giorni, in modo da poter dire che l’operazione aveva raggiunto un qualche
risultato effettivo. Circa ventidue divisioni, sottodimensionate e mal equipaggiate, attaccarono la
frontiera francese sud-orientale, senza quasi avanzare neppure di un passo a causa della
resistenza, ben trincerata e risoluta. Fu occupata la città di Mentone, ma in ogni caso la parte
italiana registrò 1258 caduti e 2151 casi di congelamento come risultato di tre giorni di
combattimenti inconcludenti . L’armistizio, sebbene a malincuore, fu comunque accettato e il 23
241

giugno una delegazione francese arrivò a Roma per firmare un accordo a Villa Incisa. Seppure
consapevole di avere poca scelta, la delegazione francese non poteva certo accettare che
l’armistizio nascesse da una sconfitta militare della Francia per mano italiana. Mussolini
mantenne la promessa fatta a Hitler e i termini dell’armistizio furono molto piú modesti rispetto
alle ambizioni estreme che egli aveva coltivato; sia nel caso tedesco sia in quello italiano, i
termini non differivano molto da quelli dell’accordo di Versailles imposto alla Germania – anzi,
erano forse perfino piú pesanti. La Francia perdeva effettivamente la propria sovranità con
l’occupazione delle sue regioni settentrionali e occidentali; le sue forze armate dovevano essere
ridotte al numero ridicolo di 100 000 soldati, anche se la Francia avrebbero potuto mantenere
esigue forze coloniali per impedire che la Gran Bretagna potesse facilmente occupare territori
imperiali francesi; le basi navali e le fortificazioni avrebbero dovuto essere smilitarizzate, le armi
consegnate e la flotta immobilizzata. I negoziatori italiani insistettero anche sul fatto che la
Commissione d’armistizio italiana avesse giurisdizione sulla Corsica, Nordafrica francese,
Somaliland francese e Siria . La Francia di Pétain, il cui centro si trovava nella città termale di
242

Vichy, governava con un’indipendenza limitata su un tratto di territorio non occupato che
includeva le regioni centrali e meridionali del paese.
La sconfitta subita dagli alleati nel 1940 trasformò la natura della guerra, incoraggiando
l’aggressività italiana e giapponese ad approfittare di una finestra di opportunità sempre piú
ampia e paventare la minaccia di una crisi definitiva degli imperi europei. Stalin, che si aspettava
una campagna militare molto piú lunga, rimase scioccato dalla disfatta, ma nel luglio del 1940
riferí comunque a Stafford Cripps, ambasciatore britannico a Mosca, che l’esito dello scontro
significava che non era piú possibile tornare al «vecchio equilibrio» . Per rimarcare tale
243

posizione, l’Unione Sovietica iniziò a invadere il territorio dell’Europa orientale, annettendo gli
Stati baltici e le province romene della Bucovina settentrionale e della Moldavia. La sconfitta
degli Alleati accelerò il programma di riarmo degli Stati Uniti e mise in piena allerta l’opinione
pubblica americana sulla minaccia rappresentata dagli stati dell’Asse. Per Hitler, tuttavia, la
maggiore conseguenza fu la constatazione che l’asse europeo poteva ora creare un «Nuovo
ordine» in tutta Europa, cosí come il governo giapponese si preparava a cogliere l’improvvisa
opportunità offertagli in Asia dalla sconfitta degli alleati europei. Non era questo il piano
previsto negli anni Trenta: si era trattato piuttosto di una conseguenza inattesa della decisione di
Gran Bretagna e Francia di dichiarare guerra, offrendo alla leadership dell’Asse un’eccezionale
opportunità strategica. Il principale ostacolo alla solidità di un «Nuovo ordine» rimaneva la
resistenza britannica. Il 18 giugno, nell’incontro con Mussolini a Monaco, Hitler aveva insistito
di non avere alcun desiderio di distruggere l’impero britannico, che considerava ancora «un
fattore di rilievo negli equilibri mondiali», tuttavia, se nel 1940 non si fosse giunti a un accordo
di pace con l’Occidente, vi sarebbe stata una guerra «totale, assoluta e spietata» .
244

Una catena di disastri.


Quando il 20 agosto 1940 Winston Churchill si alzò davanti alla Camera dei Comuni per
pronunciare il suo discorso – passato alla storia per il breve accenno al fatto che «Mai cosí tanti
dovettero cosí tanto a cosí pochi», riferito ai piloti del Comando caccia della RAF –, egli dedicò
la maggior parte del suo trascinato resoconto a riassumere la catastrofe che aveva colpito le
potenze occidentali nell’estate di quell’anno. «Che catena di disastri», disse ai colleghi
parlamentari. «I fidati olandesi travolti [...]. Il Belgio invaso e sconfitto; la nostra eccellente
Forza di spedizione tagliata fuori e quasi catturata [...] il nostro alleato, la Francia, fuori
combattimento; l’Italia contro di noi [...]». Solo tre mesi prima, concluse Churchill, un quadro
simile «sarebbe stato impensabile» . Sebbene contenesse anche un travolgente appello alla
245

resistenza permanente, la Camera non accolse il suo discorso con particolare calore. Il segretario
di Churchill, Jock Colville, che ascoltava dalla tribuna dei Comuni, trovò che la seduta era stata
fiacca. Non ricordava nemmeno, in seguito, di aver sentito la memorabile frase su «i pochi»
[piloti della RAF] . Anche Ivan Majskij, l’ambasciatore sovietico a Londra, era in tribuna. Pur
246

ritenendo il discorso limitato dal punto di vista dell’oratoria – «[Churchill] non [era] al suo
meglio oggi» –, egli trovò le lobby parlamentari piene di una «ritrovata fiducia», nonostante la
«catena di disastri» . Qualche settimana prima, il figlio di Churchill, Randolph, aveva spiegato a
247

Majskij che, dopo il crollo della Francia, la belligeranza britannica era essenziale per preservare
l’impero: «Se perdiamo il nostro impero, diventeremo una potenza non di secondo rango, ma di
decimo. Non abbiamo nulla. Moriremo tutti di fame. Quindi, non c’è altro da fare che combattere
fino alla fine». Tale padre, tale figlio, pensò forse Majskij .
248

L’elenco dei disastri, insistette Churchill, non era certo ciò che ci si aspettava da una
dichiarazione di guerra alla Germania. Il segretario militare del primo ministro, Hastings Ismay,
scrisse in seguito che se nell’agosto del 1939 i capi di stato maggiore britannici avessero anche
lontanamente immaginato che quello sarebbe stato il risultato, «avrebbero informato senza
esitazione il gabinetto che andare in guerra avrebbe avuto come esito un immane disastro»; al
contrario, concludeva Ismay, avrebbero raccomandato di acconsentire a «umilianti
concessioni» . Ora, invece, l’impero britannico si trovava ad affrontare da solo la prospettiva di
249

una guerra mondiale. Dopo la sconfitta francese e l’espulsione delle forze britanniche che
combattevano sul continente europeo, il futuro dell’impero divenne improvvisamente esposto a
ogni genere di congettura a livello internazionale. La cosa non era certo sorprendente, viste la
portata della sconfitta e le evidenti difficoltà della Gran Bretagna a difendere gli avamposti
dell’impero quando a essere minacciato era lo stesso arcipelago britannico. «Che cosa può
riservarci ora, personalmente, il futuro?» scrisse sul suo diario, nel luglio del 1940, il deputato
britannico Henry «Chips» Channon. «Che gran pasticcio [...]. Il nostro regno sta lentamente
finendo; rimpiangerò la sua scomparsa» . In India, secondo i dati sull’opinione pubblica del
250

subcontinente, la notizia era stata accolta con «sconcerto» e «depressione», anche se gli
antimperialisti vi videro un inevitabile destino che segnava la fine dell’intera istituzione del Raj.
«Andrà a pezzi», scrisse il leader del Partito del Congresso Jawaharlal Nehru, «e tutti i cavalli
del re e tutti gli uomini del re non saranno in grado di rimetterla insieme» . Fuori dall’impero, si
251

dava ormai per scontato un probabile collasso britannico. I commentatori sovietici ipotizzavano
che la Germania avrebbe invaso e occupato la Gran Bretagna con relativa facilità, mentre
l’opinione pubblica americana, pure quando simpatizzava per gli inglesi, si mostrò
improvvisamente dubbiosa sulla sopravvivenza britannica. Anche la Francia, recente alleata della
Gran Bretagna, sperimentò un’ondata di anglofobia a causa dello scarso contributo che gli inglesi
avevano dato alla campagna e del totale sfacelo dell’ordine mondiale britannico. Tra i nuovi
ministri del governo francese riuniti a Vichy vi erano voci critiche e ostili, tra cui quella del
nuovo primo ministro Pierre Laval e del suo successore l’ammiraglio Darlan, entrambi convinti
che le rivendicazioni dell’impero britannico non fossero che la vuota eco di un’epoca ormai
perduta. «I giorni dell’Inghilterra sono passati», scrisse Laval nel luglio del 1940. «Non importa
cosa succederà ora, perderà il suo impero» .252

La fragilità della posizione britannica non venne certo presa alla leggera dal nuovo governo di
Churchill. Mentre il primo ministro sperava da un lato di ispirare il popolo britannico a
combattere per il bene dell’impero e gli ideali che esso rappresentava, dall’altro deplorava in
privato «la nostra debolezza, la lentezza, la mancanza di presa e di grinta» . La sconfitta della
253

Francia, tuttavia, si trasformò rapidamente per l’impero in un risultato piú positivo di quanto i
fatti in sé non meritassero. Chamberlain era dell’idea che i francesi non fossero stati «nient’altro
che un peso» e che la Gran Bretagna stesse meglio da sola – un’opinione che Churchill aveva già
espresso privatamente mentre era a capo dell’Ammiragliato . Quando l’opinione pubblica
254

britannica fu interrogata sulla prospettiva di condurre la guerra da soli, i sondaggi mostrarono


che tre quarti degli intervistati si aspettavano di continuare la guerra, mentre un piú modesto 50
per cento si diceva fiducioso del risultato finale» . L’idea di combattere «da soli» era il grido di
255

battaglia di un paese che ora vedeva se stesso come un Davide dei tempi moderni in lotta contro
il Golia fascista, anche se per Churchill e i suoi sostenitori politici il concetto di «soli»
comprendeva non solo l’arcipelago britannico ma l’intero impero. Nei confronti dell’istituto
imperiale, Churchill era un sentimentale, tanto da riempire il suo gabinetto, come osservò
all’epoca lo storico Lewis Namier, di una schiera di «imperialisti alla Kipling» che 256

condividevano quello stesso attaccamento sentimentale. Per Churchill, la sopravvivenza


dell’impero restava una priorità assoluta: «Il mio ideale», aveva dichiarato nel 1938, «è ristretto e
limitato. Voglio vedere l’impero britannico sopravvivere in tutta la sua forza e il suo splendore
per qualche altra generazione» .
257

Dopo la sconfitta della Francia, in ogni caso, le opzioni strategiche della Gran Bretagna
rimanevano ristrette. La vera priorità restava la sopravvivenza, il che significava evitare la
distruzione o la sconfitta per mano di un nemico le cui forze ora spaziavano dal nord della
Norvegia alla costa atlantica della Francia. Nell’estate del 1940 esisteva ancora la possibilità di
perseguire una pace di compromesso con i tedeschi – bastava riconoscere che non vi era alcun
modo efficace per sconfiggere l’Asse. Questa era l’opinione di una minoranza, che non si sa con
certezza quanto fosse estesa ma che aveva una rappresentanza politica. Il maggior portavoce di
quanti auspicavano una soluzione negoziata era David Lloyd George, l’ex primo ministro
durante la Prima guerra mondiale. Pur continuando a sostenere che il paese doveva condurre la
guerra in modo piú efficace di quanto si fosse fatto sotto Chamberlain, avrebbe preferito un
qualche tipo di accordo con la Germania, cosa che rese nota chiaramente a mezzo stampa e in
parlamento. Se Chamberlain pensava che Lloyd George fosse un potenziale maresciallo Pétain,
in attesa dietro le quinte di ribaltare un governo a pezzi, Churchill, in seguito, avrebbe ripetuto
quella battuta nel maggio del 1941 durante la sua replica in parlamento a un discorso di Lloyd
George, l’ultimo intervento importante da lui fatto . Lloyd George trovò offensivo il paragone,
258

ma non è improbabile che, come Pétain, si sentisse schiacciato dai tremendi costi del precedente
conflitto e sperasse che la pace avrebbe permesso alla Gran Bretagna di liberarsi degli anni
prebellici di deriva sociale ed economica e ritrovare una rinvigorita identità nazionale sotto
l’occhio vigile della Germania. Se Churchill era pienamente convinto che non aveva accettato la
premiership a maggio per terminare poi ignobilmente la guerra qualche settimana dopo, fu
tuttavia il tanto denigrato Chamberlain che, alla fine di giugno, ribadí in un discorso radiofonico
trasmesso in tutto il mondo che la Gran Bretagna «avrebbe preferito ridursi in rovina piuttosto
che accettare il dominio nazista» .
259

Nell’estate del 1940, la Gran Bretagna non era indifesa, anche se dopo Dunkerque l’intero
esercito britannico era stato temporaneamente ridotto al rango di una forza minore. La Royal
Navy era ancora la piú grande del mondo, sebbene le sue risorse dovessero ora essere distribuite
tra quattro teatri di guerra: le acque nazionali, l’Atlantico, il Mediterraneo e l’impero asiatico. La
RAF stava incrementando la propria forza difensiva, in termini sia numerici sia di sistemi
integrati di controllo e comunicazione, progettati per garantire che i caccia fossero utilizzati con
parsimonia ed efficacia contro qualsiasi aereo nemico in arrivo. Grazie all’economia mercantile e
finanziaria della Gran Bretagna a livello globale e alla grande flotta commerciale si potevano ora
importare risorse da luoghi lontani e alimentare cosí un’economia di guerra che stava già
superando quella tedesca nella produzione delle armi piú diverse. Le ingenti ordinazioni piazzate
negli Stati Uniti nell’agosto del 1940 impegnavano la loro industria – nonostante le leggi sulla
neutralità approvate negli anni Trenta – a fornire 20 000 aerei americani, 42 000 motori
aeronautici e una regolare fornitura di carburante a 100 ottani, che avrebbe permesso ai caccia
britannici di migliorare le prestazioni rispetto a quelle dei rivali tedeschi . A luglio fu deciso che
260

la Gran Bretagna, se intendeva proseguire la guerra contro la Germania e l’Italia e sfruttare le


possibilità del momento, avrebbe dovuto elaborare una strategia su tre fronti. La prima strategia
consisteva nel blocco commerciale e nella guerra economica – un elemento chiave nella
pianificazione anglo-francese del 1939 in vista del conflitto; la seconda prevedeva la guerra
politica contro l’Europa occupata dall’Asse, da condursi attraverso un misto di propaganda
politica e sabotaggio («incendiare l’Europa» fu la frase usata da Churchill); la terza consisteva in
bombardamenti «strategici» a lunga distanza su Germania e Italia, diretti principalmente contro i
centri industriali che si trovavano nel raggio d’azione degli ordigni.
Nessuna di queste campagne poteva essere portata avanti con qualche reale speranza di successo.
Il blocco commerciale era vanificato dal fatto, imprevisto, che la Germania e l’Italia dominavano
ora la maggior parte dell’Europa continentale e avevano accesso a una ricca gamma di materie
prime e risorse alimentari, il cui uso era stato quasi immediatamente coordinato dalle imprese e
forze armate tedesche in vista dello sforzo bellico. La guerra politica e il sabotaggio non erano
altro che una semplice ipotesi. La propaganda radio e i volantini erano difficili da coordinare tra
diverse organizzazioni in conflitto tra loro, ognuna con la propria priorità. Anche se fonti di
intelligence suggerivano che nell’Europa occupata esisteva un sentimento popolare ricettivo, la
possibilità di fomentare una resistenza diffusa o una ribellione locale era quasi inesistente,
mentre le squadre di agenti organizzate sotto la Special Operations Executive (SOE, Esecutivo
operazioni speciali), incomprensibilmente controllate dal ministro dell’Economia Bellica Hugh
Dalton, richiedevano tempo per essere addestrate adeguatamente prima di poter anche solo
pensare di mettere in atto una pur limitata infiltrazione. Nell’estate del 1940, le speranze
venivano riposte soprattutto nei bombardamenti sulla Germania. In una famosa lettera inviata a
luglio a Lord Beaverbrook, ministro della Produzione Aerea, Churchill concludeva che solo «un
attacco assolutamente devastante e distruttivo con grandi bombardieri» avrebbe fatto capitolare il
regime di Hitler. I bombardamenti contro obiettivi della regione industriale della Ruhr-Renania
iniziarono la notte tra l’11 e il 12 maggio 1940 e, condizioni meteorologiche permettendo,
continuarono quasi ogni notte per tutto il resto dell’anno. L’impatto sulla Germania fu
trascurabile, anche se le incursioni costrinsero migliaia di tedeschi a rimanere nei rifugi antiaerei
durante le notti estive e provocarono tra i civili una diffusa richiesta di rappresaglie da parte della
Luftwaffe. Inizialmente, le informazioni dell’intelligence dipinsero un quadro ottimistico dei
danni provocati agli impianti industriali e al morale popolare, ma la situazione apparve presto piú
fosca allorché fu chiaro che solo un piccolo numero di bombardieri era riuscito a individuare
esattamente i bersagli e solo pochi ordigni li avevano effettivamente colpiti . Anche se i racconti
261

successivi misero in luce il fatto che i bombardamenti avevano addirittura rialzato il morale
britannico, le prime incursioni, in realtà, avevano suscitato nella gente un’attenzione molto
modesta.
Al di là di questi sforzi, il governo britannico cercava un sostegno oltreoceano. Negli Stati Uniti,
l’opinione pubblica era divisa non solo riguardo alla possibilità che la Gran Bretagna
sopravvivesse, ma anche in merito alla questione di un piú attivo intervento americano nella
guerra europea. Sollecitare un’azione degli Stati Uniti era della massima priorità per Churchill,
anche se non voleva lasciarlo intendere. Quando in estate si parlò di far salpare la flotta
britannica per il Nuovo Mondo nel caso di un’invasione, egli ammoní l’ambasciatore britannico
a Washington, Lord Lothian, di «scoraggiare qualsiasi compiacimento da parte degli Stati Uniti
nel pensare di poter essere lí a raccogliere le macerie dell’impero britannico» . Era possibile che
262

i politici americani fossero indispettiti dalla costante reiterazione del tema dell’impero, verso cui
esisteva scarso sostegno nei partiti statunitensi. «Andremmo tutti molto piú d’accordo», disse il
senatore Arthur Vandenberg a Lord Halifax, «se voi inglesi la smetteste di parlare dell’impero
britannico» . Gli aiuti da parte delle colonie, del resto, potevano essere dati per scontati, anche se
263

dopo la sconfitta alleata nell’estate del 1940 il ruolo dell’impero appariva piú ambiguo di quanto
volesse far credere la retorica inebriante di Londra. Ci sarebbe voluto del tempo prima che la
forza lavoro e le risorse industriali dell’impero potessero essere pienamente mobilitate, senza
contare che molte delle sue risorse dovevano essere utilizzate per la difesa locale anziché essere
mandate in Gran Bretagna. Nei primi quindici mesi del conflitto, il Regno Unito provvide al 90
per cento del fabbisogno militare dell’impero .264

La mobilitazione della forza lavoro dei territori dell’impero presentò parecchie varianti.
All’inizio, l’istinto dei dominion bianchi fu di rifiutare l’idea di dover inviare nuovamente le loro
forze oltremare, come era accaduto nella Prima guerra mondiale, e impiegare invece i propri
eserciti per la difesa interna. Alla fine, il governo australiano accettò seppure con riluttanza di
mandare delle forze in Medio Oriente; in Canada, la mobilitazione fu possibile solo perché ai
canadesi francofoni venne concesso di non arruolarsi e di non inviare risorse all’estero. In
Sudafrica, dove esistevano tensioni simili tra la comunità britannica e gli Afrikaaner, i volontari
sudafricani disposti a combattere fuori dal paese indossavano una caratteristica targhetta
arancione, essa stessa un ricordo della dominante presenza olandese. Il sostegno dei dominion
alla guerra continuò per tutta l’estate del 1940, anche se il primo ministro australiano Robert
Menzies si sentí presto attratto dall’idea di una pace negoziata (anche se poi cambiò idea),
mentre in Canada si susseguivano aspre discussioni su come creare strutture di addestramento
della RAF nel dominion e forti lamentele sulle condizioni che le prime truppe canadesi erano
state costrette ad accettare nei campi in Gran Bretagna . Nella Repubblica d’Irlanda, che era
265

ancora un dominion pur essendo uno stato indipendente dal 1937, il primo ministro Éamon de
Valera rifiutò di abbandonare la neutralità irlandese anche quando gli fu offerta la possibilità di
un’Irlanda unita, per la quale aveva combattuto vent’anni prima: «Noi, piú di tutti i popoli»,
disse al parlamento irlandese il 2 settembre 1939, «sappiamo che cosa significhi l’uso della forza
da parte di una nazione piú forte contro una piú debole». Churchill brontolò sul fatto che gli
irlandesi erano «in guerra, ma imboscati», tuttavia, il governo irlandese rimase irremovibile per
tutto il conflitto .
266

Nel resto dell’impero si ebbero reazioni contrastanti. In India la situazione era particolarmente
delicata, perché tra i politici indiani, provenienti da una serie di ambienti molto diversi, era
implicita l’idea che un eventuale appoggio alla guerra sarebbe stato ricompensato con immediate
promesse di riforme politiche o addirittura di indipendenza. Truppe indiane vennero inviate a
sostegno del lembo asiatico dell’impero, in Iraq, Kenya, Aden, Egitto e Singapore e furono
raccolti internamente fondi consistenti per sostenere la difesa del subcontinente. Anche se i
principali partiti indiani erano contrari al fascismo, per combatterlo chiedevano che gli inglesi
pagassero un prezzo politico commisurato. Il 29 giugno 1940, Gandhi rivendicò la piena
indipendenza. Il governo di Churchill non era disposto a fare alcuna concessione importante, se
non quella di permettere l’istituzione a Delhi di un Consiglio consultivo di guerra composto da
indiani, oltre a un Comitato esecutivo allargato, a condizione però che restassero saldamente in
mani britanniche i dicasteri chiave della Difesa, delle Finanze e degli Affari Interni. A ottobre, il
Partito del Congresso iniziò una campagna di disobbedienza civile e 700 leader del Congresso
raggiunsero in prigione i 500 leader del Bhāratīya Kamyunisṭ Pārṭī (Partito comunista dell’India)
già precedentemente arrestati. Venne quindi emanata un’Ordinanza sul movimento
rivoluzionario che permetteva al governo indiano di mettere fuori legge il Partito del Congresso e
schiacciarne l’organizzazione, ma il gabinetto di Londra esitò a ricorrervi. Ciò nonostante, nella
primavera del 1941 furono condannati 7000 membri del Congresso e 4400 finirono in carcere. A
causa delle esigenze della difesa interna, la Gran Bretagna fu in grado di fornire solo risorse
molto limitate perfino agli indiani favorevoli a una partecipazione alla guerra. Alla fine, l’India
contribuí con oltre due milioni di volontari, ma nei primi anni del conflitto le condizioni delle
truppe indiane, dal punto di vista militare, rimasero penose. Allo scoppio della guerra, l’intero
subcontinente indiano non aveva aerei da combattimento moderni e disponeva di una sola
batteria antiaerea; quasi due anni dopo, alla vigilia dell’invasione giapponese del Sud-est
asiatico, le truppe dell’India non possedevano ancora aerei da combattimento, carri armati o
autoblindo moderni e avevano solo venti batterie antiaeree e venti cannoni anticarro . Quando si
267

spostavano verso altri teatri di guerra, dovevano essere approvvigionate quasi interamente dagli
inglesi. La posizione britannica era cosí debole che all’inizio del luglio 1940, quando i
giapponesi insistettero affinché la Gran Bretagna chiudesse la via dei rifornimenti – la cosiddetta
Burma Road (via della Birmania) –, alle forze nazionaliste cinesi di Chiang Kai-shek, Churchill
fu costretto ad adeguarsi alla richiesta, incapace di esporsi a «tutti gli inconvenienti di una guerra
con il Giappone» .268

L’altro serio problema era costituito dall’Egitto. Anche se dopo il trattato del 1936 il paese era
nominalmente indipendente, i britannici vi mantenevano un’importante presenza politica e
militare e godevano di privilegi speciali per la difesa del Canale di Suez, arteria vitale verso
l’impero asiatico. Nel maggio e giugno del 1940, mentre le forze britanniche fronteggiavano la
sconfitta in Europa, il governo egiziano di Ali Maher non solo rifiutò di essere coinvolto nella
guerra, ma cercò attivamente di mettere fine alla presenza inglese. Si pensò di imporre ancora
una volta il protettorato istituito nella Prima guerra mondiale, o di dichiarare la legge marziale,
anche se alla fine furono sufficienti le pesanti minacce a far sí che re Faruk rimuovesse Maher e
lo sostituisse con Hassan Sabry, uomo politico anglofilo. Sebbene piú accomodante nei confronti
delle richieste britanniche, neppure Sabry accettò di coinvolgere l’Egitto nella guerra; il governo
egiziano dichiarerà guerra a quanto rimaneva dell’Asse solo il 25 febbraio 1945, al fine di
assicurarsi un posto nella nuova organizzazione delle Nazioni Unite. Gli inglesi consideravano la
loro presenza in Egitto una componente vitale della loro strategia globale e non esitarono a
rafforzare con artiglieria pesante i porti situati alle due estremità del Canale di Suez, in flagrante
violazione del trattato del Canale del 1888 . Durante la guerra, fu negato l’accesso al Canale alle
269

navi tedesche e italiane, ma la difesa di Suez contro un nemico tanto risoluto era difficile da
conciliare con le priorità britanniche in Europa, per cui il Canale rimase sotto una reale minaccia
anche nei due anni successivi. A est di Suez, finché il grande pericolo rimase quello di
un’invasione tedesca, fu impossibile tener fede alla promessa che l’unità dell’impero sarebbe
stata la migliore protezione della Gran Bretagna. Nel novembre del 1940, l’intelligence tedesca
passò ai giapponesi un documento segreto, recuperato da una nave affondata nell’Oceano
Indiano, secondo cui risultava chiaramente che gli inglesi erano convinti che, se fosse successo il
peggio, si sarebbe potuto fare ben poco per salvare la realtà imperiale nel Sud-est asiatico. Nel
1940, l’impero costituiva ancora una risorsa limitata per la Gran Bretagna, cosí come
quest’ultima rappresentava per ora una risorsa limitata per l’impero e i suoi numerosi avamposti.
Queste questioni di non facile soluzione furono ulteriormente evidenziate dalla situazione che i
tre imperi Alleati – olandese, belga e francese – dovevano ora affrontare dopo la conquista
tedesca. Le colonie del Belgio e dell’Olanda, per esempio, erano state tagliate completamente
fuori dalle rispettive madrepatria. L’armistizio con la Francia permetteva alle autorità di Vichy di
mantenere, per quanto possibile, un certo controllo sull’impero francese, ma il corso della guerra
pregiudicò quasi interamente il progetto imperiale, finché i territori finirono in mani altrui. Alla
fine, nel 1942, il ministro delle Colonie di Vichy, Jules Brérié, rassegnò le dimissioni: «Il mio
ruolo è terminato, perché non abbiamo piú un impero» . Per tutti e tre gli stati imperiali vi erano
270

molte variabili da considerare. I progetti dell’Asse per un Nuovo ordine europeo erano incerti e il
destino dei territori d’oltremare ignoto. Alla metà di giugno 1940, durante l’incontro tra
Mussolini e Hitler, i rispettivi ministri degli Esteri, Ciano e Von Ribbentrop, vennero visti
esaminare una mappa dell’Africa per spartirsi i resti dell’impero: l’Africa settentrionale e
occidentale andava all’Italia, l’Africa subsahariana ai tedeschi. Tutti questi grandiosi piani erano
naturalmente subordinati alla sconfitta della Gran Bretagna, ma nell’estate del 1940 l’idea di un
impero tedesco in Africa, riemersa come una delle possibilità, era perseguita con entusiasmo
dalla lobby coloniale all’interno del ministero degli Esteri, dalla Kriegsmarine (Marina militare
del Reich) e dai colonialisti del Reichskolonialbund, il cui esponente di maggiore spicco, Ritter
von Epp, venne nominato a giugno ministro provvisorio delle Colonie . La prima ipotesi
271
progettuale prevedeva un blocco imperiale tedesco formato da ex colonie francesi, dal Congo
belga, dalla Nigeria e perfino da Sudafrica e Rhodesia, oltre all’utilizzo dell’isola francese del
Madagascar per creare un’entità statale semi-autonoma in cui trasferire la popolazione ebraica
europea . La decisione di permettere alla Francia di mantenere l’impero non era definitiva, in
272

quanto rifletteva semplicemente il desiderio di impedire ai francesi un qualsiasi possibile


riavvicinamento con la Gran Bretagna, anche se alla fine fu lo stesso Regno Unito a fare sí che
ciò non accadesse trattando la Francia di Vichy come un nemico a tutti gli effetti.
Nessuna delle tre ex potenze imperiali poteva essere certa che la Gran Bretagna non avrebbe
approfittato della loro sconfitta per estendere la propria influenza sui loro territori coloniali, vuoi
a breve termine, per necessità strategiche, vuoi con qualche piano nel piú lungo periodo. Nel
maggio del 1940, gli inglesi occuparono il dominio danese dell’Islanda con l’intento di prevenire
i tedeschi, iniziando immediatamente a trattare gli isolani in maniera tipicamente coloniale,
arrestando e deportando il piccolo numero di comunisti islandesi e controllando il commercio del
paese . Nemmeno la posizione degli Stati Uniti era incoraggiante. La lobby anticoloniale
273

americana sosteneva attivamente l’idea che in futuro gli imperi dovessero essere affidati a un
organismo internazionale, sul modello dei mandati del 1919; gli antimperialisti piú radicali
vedevano la guerra europea come un’opportunità per portare l’indipendenza a tutte le ex colonie.
Nel giugno del 1941, quando la Gran Bretagna dovette affrontare in Islanda una crescente
opposizione al controllo inglese, le truppe degli Stati Uniti intervennero e, due anni dopo, l’isola
venne dichiarata repubblica indipendente. Nel 1942, il segretario di Stato americano Cordell Hull
richiese una carta internazionale che nel dopoguerra garantisse ai popoli colonizzati l’eventuale
indipendenza, regolata da un sistema di amministrazione fiduciaria internazionale . La sconfitta
274

degli stati metropolitani fece naufragare le loro pretese di mantenere il dominio imperiale. Il
1940, pertanto, rappresentò realmente un punto di svolta cruciale nella crisi finale del progetto
imperiale globale.
In Belgio e Paesi Bassi, l’esito della campagna militare del 1940 creò una situazione politica
complessa. Entrambi gli stati erano ora tagliati fuori dai loro imperi e si trovavano nell’insolita
posizione di essere loro stessi soggetti occupati, sudditi piuttosto che governanti. La decisione
del re del Belgio di rimanere a Bruxelles venne inoltre a minare le posizioni dei ministri fuggiti
all’estero per dare vita a un governo in esilio e abbandonò il Congo belga in una sorta di limbo
costituzionale. A causa delle ricche risorse minerarie del Congo, che possedeva i piú grandi
depositi di uranio del mondo, tutte le maggiori potenze si mostrarono interessate al suo destino.
Si parlò di un possibile accordo franco-tedesco per assumere il controllo della colonia; a
Bruxelles, le autorità tedesche sperarono di arrogarsi i diritti sulle società minerarie coloniali del
Belgio; nel maggio del 1940, il governo britannico rifiutò di riconoscere la neutralità del Congo,
nella speranza di utilizzarne le ricche risorse per lo sforzo bellico degli Alleati. Nel tentativo di
assicurare la sopravvivenza della sovranità belga, il re decretò che al ministro delle Colonie in
esilio, Albert De Vleeschauwer, doveva spettare ogni potere esecutivo sul Congo e sul Rwanda-
Burundi, al fine di preservarne la neutralità; dopo le pressioni dei britannici, tuttavia, nel luglio
del 1940 De Vleeschauwer accettò che le risorse del Congo fossero utilizzate per lo sforzo
bellico alleato. Un anno dopo, la valuta e il commercio del Congo vennero integrati nel circuito
economico britannico . Gli Stati Uniti, altrettanto interessati al Congo, vi trasferirono nell’agosto
275

del 1941 1200 uomini, inclusi soldati di colore, che furono rimossi su insistenza del governo
belga in esilio, al fine di evitare che la popolazione della colonia vedesse nei neri americani il
simbolo di una possibile liberazione futura. De Vleeschauwer fece di tutto per mantenere la
sovranità belga di fronte all’intervento britannico e americano, ma già nel 1943 esistevano ormai
tutte le premesse perché nel dopoguerra gli Stati Uniti insistessero sull’internazionalizzazione
delle ex colonie come preludio alla loro indipendenza . 276

I Paesi Bassi si trovavano in una situazione altrettanto cupa. La regina Guglielmina si era
rifugiata a Londra dove aveva formato un governo in esilio, ma vi era ben poco che esso potesse
fare per tenere insieme l’impero. Le colonie caraibiche di Curaçao e Suriname passarono sotto
l’amministrazione fiduciaria britannica e americana, il che lasciò in sospeso il loro futuro
destino . I progetti tedeschi riguardanti l’economia coloniale furono frustrati dal blocco navale
277

britannico e dall’ostilità dell’amministrazione coloniale olandese. Il governo olandese nelle Indie


internò 2800 tedeschi e 500 membri del Nationaal-Socialistische Beweging (Movimento
nazionalsocialista olandese) residenti nella colonia; per rappresaglia, le autorità tedesche nei
Paesi Bassi arrestarono 500 cittadini olandesi di spicco e li mandarono nel campo di
concentramento di Buchenwald. Il crescente interesse popolare per il futuro delle colonie quale
elemento chiave dell’identità nazionale olandese fu interpretato dai tedeschi come una minaccia
politica e la Nederlandse Unie, il principale movimento politico, fu infine bandita . Le Indie
278

orientali olandesi furono immediatamente sottoposte alle pressioni del governo nipponico
affinché garantissero un sostanziale incremento delle forniture di petrolio, gomma, stagno e altre
materie prime essenziali per lo sforzo bellico giapponese. Le Indie furono minacciate di un
intervento militare se avessero permesso ad altre potenze di danneggiare gli interessi
commerciali del Giappone; anche se il governo di Batavia (l’odierna Giacarta) riuscí a
interrompere fino al 1941 i colloqui con gli emissari giapponesi, la leadership di Tokyo, che dava
già per scontato che le Indie fossero ormai parte del loro nuovo ordine economico in Asia,
all’inizio del 1942 si impadroní dell’intera colonia, ponendo temporaneamente fine all’impero
olandese . 279

Il caso dell’impero francese fu completamente diverso, anche se la sua sorte finale durante la
guerra finí per assimilarlo all’esperienza olandese e belga. L’atteggiamento dei tedeschi verso il
nuovo regime di Vichy incoraggiò le speranze che l’impero potesse essere salvato dalle macerie
della Francia metropolitana. Le richieste economiche tedesche nei confronti delle colonie
africane dovevano avere la priorità assoluta, ma esse si rivelarono in genere meno pesanti del
previsto e alle forze francesi fu permesso di rimanere nell’impero per mantenere la pace interna .
280

Per il maresciallo Pétain la realtà imperiale rappresentava un elemento essenziale della creazione
di un nuovo ordine in Francia. La propaganda di Vichy giocava sull’idea dell’unità tra
madrepatria e colonie e raffigurava Pétain come il «salvatore dell’impero»; durante la guerra, la
Ligue maritime et coloniale française triplicò i suoi iscritti, che arrivarono a piú di 700 000; fu
elaborato un grandioso piano decennale per lo sviluppo economico dell’impero, inclusa una
nuova ferrovia trans-sahariana, parte della quale venne costruita utilizzando il lavoro forzato di
manodopera ebraica; i progetti costituzionali prevedevano un possibile parlamento e una
cittadinanza imperiale. L’impero divenne, per usare il termine di Charles-Robert Ageron, un
«mito compensativo» per far fronte all’umiliazione della sconfitta . La realtà imperiale, tuttavia,
281

era meno rosea. Le rivendicazioni territoriali italiane furono tenute a bada solo con l’aiuto
tedesco, ma era chiaro che a un certo punto Mussolini sperava di ottenere importanti concessioni
territoriali a spese della Francia. In Indocina, le pressioni dell’esercito giapponese per poter
schierare truppe e aerei nel nord del Vietnam si dimostrarono impossibili da respingere: nel
settembre del 1940 si contavano infatti seimila soldati giapponesi e cinque basi aeree, ovvero
l’inizio di un’invasione che non si sarebbe fermata . Nel 1940, tuttavia, la principale minaccia
282
all’integrità dell’impero francese proveniva paradossalmente non dagli stati dell’Asse bensí
dall’ex alleato britannico. Se le pretese dell’Asse erano per il momento tenute a bada, non c’era
modo di frenare la Gran Bretagna.
Nel giugno del 1940, la politica britannica nei confronti del suo recente alleato era animata dalla
speranza che il governo francese potesse continuare la lotta a fianco della Gran Bretagna con gli
aerei, le truppe e le navi disponibili nell’impero. Il 19 giugno, Lord Lloyd, ministro delle
Colonie, fu inviato a Bordeaux per cercare di strappare la promessa che la resistenza francese
sarebbe stata portata avanti dal Nordafrica, dove la flotta francese nel Mediterraneo si sarebbe
recata in appoggio. La promessa venne pronunciata sommariamente e poi rinnegata . Alla firma
283

dell’armistizio, anche l’impero abbandonò la lotta. Tutto ciò che rimaneva agli inglesi era un
esiguo numero di soldati francesi trasportati in Inghilterra insieme al viceministro della Guerra
Charles de Gaulle, a cui fu concesso il 18 giugno di trasmettere da Londra un appello ai francesi
affinché continuassero la lotta. Dieci giorni dopo, De Gaulle fu riconosciuto dal governo
Churchill come leader indiscusso dei «francesi combattenti». I soldati trasferiti in Gran Bretagna
non si dimostrarono entusiasti. Su 11 000 marinai, tutti tranne 1500 optarono per il rientro in
Francia e solo 2000 soldati risposero all’appello di De Gaulle. Benché i suoi sostenitori fossero
pochi, la decisione britannica di fingere che esistesse ancora un alleato francese provocò l’ostilità
del nuovo regime di Vichy, che condannò De Gaulle a morte in contumacia come traditore . 284

Lo scontro tra le autorità britanniche e il governo di Vichy coinvolgeva ora il destino della flotta
francese. I capi di stato maggiore britannici non volevano che la flotta cadesse in mani tedesche,
cosa che avrebbe fatto pendere fortemente a loro svantaggio la bilancia della potenza navale nel
Mediterraneo. Seppure con una certa riluttanza, il gabinetto di guerra decise che la flotta doveva
essere catturata o distrutta preventivamente. Il 3 luglio, la Royal Navy lanciò contro la marina
francese l’operazione Catapult. Circa 200 navi furono abbordate e sequestrate nei porti
britannici; le navi militari all’ancora nel porto egiziano di Alessandria furono disarmate e un
incrociatore fermo nel porto di Dakar, nell’Africa occidentale, venne silurato. Nella grande base
di Mers-el-Kébir, vicino alla città algerina di Orano, uno squadrone britannico comandato
dall’ammiraglio James Somerville bloccò il porto e presentò un ultimatum al comandante
francese, l’ammiraglio Marcel-Bruno Gensoul: affondare le sue navi, oppure navigare verso un
porto britannico, americano o caraibico o accettare le conseguenze del combattimento. Gensoul
pensò che fosse un bluff e si rifiutò di rispondere all’ultimatum. Dopo undici ore di attesa, le
navi britanniche aprirono infine il fuoco, affondando la corazzata Bretagne e danneggiandone
altre due. Il 6 luglio, la corazzata Dunkerque fu colpita da un siluro e gravemente danneggiata.
La marina francese contò 1297 morti e 351 feriti. Pochi giorni dopo, Vichy ruppe tutte le
relazioni diplomatiche e mandò dei bombardieri a sganciare bombe sulla base navale britannica
di Gibilterra .
285

L’attacco alla flotta sconvolse l’opinione pubblica francese, ma esso fu solo una parte della
strategia navale britannica diretta contro l’impero francese. A quel punto, infatti, il blocco venne
esteso alla Francia e alle sue colonie africane, troncando cosí il commercio dal Maghreb e
riducendo le importazioni fondamentali di cibo e petrolio nelle colonie francesi. Le forniture di
petrolio all’Algeria si ridussero ad appena il 5 per cento dei livelli prebellici. I convogli di Vichy
venivano regolarmente attaccati dalle navi britanniche. Le conseguenze generarono localmente
vere e proprie crisi alimentari e rafforzarono il risentimento del regime di Vichy e dei coloni
collaborazionisti contro l’intervento britannico . Dopo Mers-el-Kébir, l’ammiraglio Darlan
286

aveva preso rapidamente in considerazione la possibilità di un attacco navale congiunto italo-


francese contro Alessandria, proposta a cui fu tuttavia posto il veto da Mussolini . Gli inglesi,
287

inoltre, facevano anche pressioni sulle colonie francesi affinché si schierassero con De Gaulle.
All’inizio risposero all’appello solo le Nuove Ebridi del Pacifico, seguite piú tardi nel 1940 da
Gabon, Camerun, Ciad e Tahiti, con la conseguente divisione dell’impero in due schieramenti
armati . Ad agosto, gli inglesi sperarono di portare il Senegal dalla parte della Francia Libera e,
288

con la cooperazione di De Gaulle, intrapresero una seconda operazione, denominata in codice


Menace, contro la capitale Dakar, dove era ormeggiata la corazzata Richelieu e dove erano state
nascoste per sicurezza le riserve auree nazionali della Polonia e del Belgio. Il risultato questa
volta fu un fiasco clamoroso, con pesanti danni alle navi della Royal Navy coinvolte e una forte
resistenza da parte della guarnigione di Vichy. L’operazione fu sospesa, ma fu di avvertimento
per ogni impero europeo che la Gran Bretagna era pronta a imporre spietatamente i propri
interessi bellici sulle colonie di paesi terzi. In autunno, circolarono voci che la Francia stesse per
concludere una pace separata o intendesse portare l’impero in un blocco paneuropeo contro la
Gran Bretagna. Churchill si scagliò contro i francesi e minacciò di bombardare Vichy se il
regime avesse unito le sue forze allo sforzo bellico tedesco . Dai Paesi Bassi, il leader fascista
289

olandese Anton Mussert dichiarò che il vero nemico dell’Europa era rappresentato da 300 anni di
imperialismo britannico e invitò i coloni olandesi in Sudafrica a riprendere la guerra boera . 290

Per gli stati europei dell’Asse, l’impero britannico rimaneva l’unico ostacolo alla
riorganizzazione politica dell’Europa continentale e del bacino del Mediterraneo, ma furono fatti
pochi sforzi per coordinare le strategie al fine di portare la Gran Bretagna alla sconfitta o alla
capitolazione. L’improvvisa opportunità offerta dalla vittoria in Francia aveva posto in chiara
evidenza quanto poco si fosse pensato in anticipo alla strategia futura, ma né Roma né Berlino
erano granché entusiaste di elaborare insieme tale strategia. Mussolini, che insisteva che la sua
era una guerra parallela, non una guerra congiunta con quella di Hitler, accettò con grande
disappunto le argomentazioni sulla limitazione delle rivendicazioni territoriali contro la Francia e
disapprovò la decisione tedesca di permettere a Vichy di mantenere forze di difesa in Nordafrica
contro gli inglesi, dal momento che potevano essere usate anche contro l’Italia . I due regimi
291

avevano un concetto diverso del futuro Nuovo ordine; per Mussolini era imperativo che l’Italia
stabilisse una presenza imperiale europea, come Hitler aveva ormai fatto in tutto il nord del
continente, e che non fosse confinata a un impero in Africa o nel Medio Oriente. Hitler, a cui non
dispiaceva che Mussolini riuscisse a sviluppare una sfera d’influenza mediterranea, diede tuttavia
istruzioni alle sue forze armate di non svelare alcun segreto agli italiani. Quando alla fine di
giugno Mussolini si offrí di inviare un corpo di spedizione italiano per prendere parte a qualsiasi
campagna militare che Hitler stesse pianificando contro la Gran Bretagna, il Führer rifiutò
educatamente ma con fermezza. Mussolini, a sua volta, rifiutò l’offerta di Hitler di aerei tedeschi
per bombardare il Canale di Suez. «Evidentemente», scrisse Ciano nel suo diario, «la fiducia in
noi e nelle nostre possibilità non è eccessiva!» . Il «Patto d’Acciaio», in base al quale si pensava
292

che l’alleanza italo-tedesca fosse stata presumibilmente concordata nel maggio del 1939, rimase
poco piú di un gesto. Fino alla primavera del 1941, i due alleati presero in realtà strade diverse.
Le opzioni strategiche che Hitler e la sua leadership militare avevano a disposizione nell’estate
del 1940 per porre fine alla guerra in Occidente erano riconducibili a due: trovare una soluzione
politica che gli inglesi avrebbero accettato oppure trovare un mezzo militare per porre fine alla
resistenza britannica. Nessuna delle due possibilità appariva cosí semplice: in primo luogo,
perché non era chiaro se in Gran Bretagna il partito della pace possedesse davvero il peso
politico per raggiungere un accordo di compromesso; in secondo luogo, perché non era certo che
qualcuna delle possibili opzioni militari, dal blocco totale all’invasione, avrebbe avuto successo.
Alla fine, Hitler tentò tutte le opzioni strategiche, nella speranza che almeno una funzionasse. La
soluzione politica sembrò meno probabile dopo il discorso di Churchill del 18 giugno, che
assicurava che la Gran Bretagna avrebbe continuato a combattere da sola, anche se Hitler disse in
privato di non riuscire a capire perché gli inglesi volessero persistere a battersi. Il 13 luglio,
Franz Halder, capo di stato maggiore dell’esercito, registrò un incontro con Hitler: «L’attenzione
del Führer è tutta concentrata sulla domanda: perché l’Inghilterra non vuole prendere la via della
pace?» . La confusione di Hitler nasceva dai messaggi contrastanti provenienti dalla Gran
293

Bretagna sulla possibilità di raggiungere un accordo. Nel 1940, dietro le quinte, una serie di
contatti di mediazione aveva mantenuto viva l’idea che in Gran Bretagna vi fossero circoli
influenti in grado di condurre a una negoziazione. Nel Regno Unito, annotò Goebbels nel suo
diario alla fine di giugno, «ci sono due partiti: un potente partito della guerra e uno della pace»;
pochi giorni dopo osservava: «Si intensificano dall’Inghilterra voci di pace» .
294

All’inizio di luglio, Hitler decise di lanciare pubblicamente un ultimo appello alla Gran Bretagna
per farla ragionare. Nei giorni che precedettero il discorso in programma al Reichstag il 19
luglio, il Führer spiegò al suo staff che non intendeva essere lo strumento di distruzione
dell’impero britannico, perché in questo caso il sangue tedesco sarebbe stato versato solo a
beneficio degli americani e dei giapponesi . Gli storici, comprensibilmente, si sono dimostrati
295

scettici in merito a tale affermazione, anche se Hitler condivideva con Churchill un’ammirazione
sentimentale per ciò che l’impero britannico aveva realizzato. Negli anni Trenta, e poi di nuovo
durante la guerra, Hitler era tornato sul fatto che la Gran Bretagna imperiale costituiva un
modello per i piani coloniali della Germania – come lo era per altri imperialisti tedeschi . Questa
296

visione schizofrenica del nemico britannico trovò un chiaro riflesso nel discorso tenuto infine il
19 luglio. Già nella sua introduzione, Hitler profetizzava la distruzione di un impero «che non è
mai stato mia intenzione distruggere o anche solo danneggiare»; proseguiva poi con un breve
appello alla ragionevolezza: «Non vedo alcun motivo per cui la lotta debba continuare» . 297

L’appello, riferí a Goebbels, doveva essere un’«offerta breve e concisa» senza alcun impegno
preciso, ma doveva essere la sua «ultimissima parola» . Churchill si rifiutò di rispondere.
298

Quando Robert Vansittart, consigliere diplomatico del gabinetto, gli chiese perché non avesse
dato alcuna risposta, Churchill replicò che non aveva nulla da dire a Hitler, «non essendoci buoni
rapporti» . Lord Halifax rifiutò l’offerta pochi giorni dopo e Hitler ammise con riluttanza che
299

quel gesto rappresentava «un rifiuto definitivo» . 300

Il Führer aveva previsto quel rifiuto, anche se vi sono pochi dubbi che una richiesta di armistizio
da parte di Londra sarebbe stata la sua opzione preferita, anche considerando che la salvaguardia
dell’impero britannico andava contro gli interessi dei suoi alleati italiani, giapponesi e sovietici.
Già prima del discorso, in ogni caso, aveva emanato una seconda volta la direttiva del novembre
1939 riguardante un blocco aeronavale della Gran Bretagna e autorizzato la pianificazione
militare di una possibile invasione dell’Inghilterra meridionale. La direttiva sull’invasione, con
l’operazione Seelöwe (Leone marino), era stata emessa il 16 luglio e prevedeva uno sbarco sulla
costa inglese sud-orientale. Prerequisito dell’invasione era riuscire a danneggiare la RAF a un
livello tale che non avrebbe piú avuto «alcuna capacità reale di attaccare le forze tedesche
durante l’attraversamento della Manica» . Nelle discussioni avute con il suo staff qualche giorno
301

prima, Hitler aveva altresí ipotizzato per la prima volta una soluzione militare piú radicale al
problema della resistenza inglese. Nel tentativo di cogliere le ragioni dell’intransigenza
britannica, cominciò a sospettare che la Gran Bretagna contasse di raggiungere un accordo con
l’Unione Sovietica. Due giorni dopo la sua offerta di pace, Hitler incontrò i comandanti in capo
ed elaborò il suo pensiero su una possibile campagna militare: «La Russia deve essere
sorvegliata molto da vicino», riportò il suo assistente di volo. «Bisogna pianificare un attacco
alla Russia, e nella massima segretezza». Hitler si fece portare i cinegiornali sulla guerra
d’inverno per poter conoscere meglio la sua futura vittima . Il 31 luglio, il Führer spiegò
302

finalmente la propria strategia finale agli alti gradi dei comandi militari. Visto che la Gran
Bretagna non si sarebbe arresa, bisognava prepararsi a un possibile attacco preventivo contro
l’Unione Sovietica, in modo da eliminare negli inglesi qualsiasi speranza di poter fomentare una
guerra su due fronti. Per il momento, era solo un’eventualità, non ancora una ferma direttiva per
allargare la guerra, ma fece da cornice alla successiva convinzione di Hitler che la soluzione per
sconfiggere l’impero britannico si trovasse a est.
Quella decisione è stata comunemente vista alla base della massiccia operazione intrapresa un
anno dopo contro l’Armata Rossa – una chiara indicazione che Hitler non era piú interessato a
invadere o sottomettere la Gran Bretagna. Questo significa falsare la realtà. L’alto comando
tedesco accarezzava l’idea che in qualche modo, attraverso il blocco, l’invasione o iniziative
politiche, si sarebbe potuti arrivare a una capitolazione britannica e Hitler, come egli stesso
aveva detto ai suoi comandanti il 21 luglio, non voleva che la Gran Bretagna «gli togliesse
l’iniziativa dalle mani» . Le indicazioni su una possibile alternativa sovietica derivarono
303

inizialmente non tanto da una scelta intenzionale quanto da una reazione all’intransigenza
britannica. Nell’estate del 1940, la priorità di Hitler era ancora quella di porre fine alla resistenza
inglese, non ancora quella di ritagliarsi un impero in Russia. Le strategie riguardanti la Gran
Bretagna o l’Unione Sovietica erano complementari, non delle alternative contrapposte. Ciò
nonostante, vi erano solidi motivi per cui Hitler non poteva non preoccuparsi delle ambizioni
sovietiche. Stalin aveva sfruttato l’opportunità offerta dalla guerra della Germania contro
l’Occidente per portare avanti le rivendicazioni sovietiche concordate in segreto nel patto
dell’agosto 1939. Passo dopo passo, l’Unione Sovietica stava sconfinando verso la nuova sfera
imperiale tedesca a est. Quando nel giugno del 1940 Churchill inviò il politico socialista radicale
Sir Stafford Cripps a Mosca in qualità di ambasciatore («un pazzo in un paese di pazzi»,
commentò piú tardi Churchill), questo risvegliò a Berlino la netta idea che lo scopo potesse
essere un riavvicinamento tra Regno Unito e Urss . «Non è chiaro», disse Hitler al suo staff
304

militare il 21 luglio, «cosa stia succedendo in Inghilterra»; pochi giorni dopo, Goebbels notò che
sarebbe stato necessario assestare alcuni colpi pesanti «per riportare [l’Inghilterra] alla
ragione» .
305

I piani tedeschi per un’azione militare rivolta contro la Gran Bretagna erano abbastanza seri.
Nonostante le preoccupazioni per la minaccia sovietica, le forze tedesche trascorsero quasi un
anno in continui scontri con gli inglesi, per mare, per aria e, nella primavera del 1941, anche via
terra. Nessuno di questi considerevoli sforzi avrebbe avuto senso se lo sguardo di Hitler fosse
stato allora rivolto unicamente sull’Unione Sovietica. Nell’estate del 1940 era stata
ridimensionata la fornitura di armamenti terrestri in favore di una ridistribuzione delle risorse
nella produzione aeronautica e navale, mentre l’alto comando preparava le direttive e il materiale
necessario per un’invasione anfibia. Si trattava di una pianificazione ampia e dettagliata che,
ancora una volta, avrebbe avuto poco senso se l’intento fosse stato di abbozzare semplicemente
lo spauracchio di un’invasione per mettere sotto pressione psicologica la leadership britannica
affinché abbandonasse la lotta. Per le forze armate tedesche si trattava comunque di una
campagna non preventivata, che riversava sulla marina e l’aviazione l’onere di creare le
condizioni migliori per attraversare la Manica. Prima della guerra, nessuno dei due corpi militari
– flotta e aviazione – aveva avuto la possibilità di condurre importanti operazioni anfibie né una
guerra aerea su lunghe distanze. La marina aveva subito gravi perdite durante la campagna in
Norvegia e i sottomarini erano ancora troppo pochi per costituire una minaccia di rilievo a un
intervento navale britannico. Si faceva affidamento soprattutto sulla capacità delle forze aeree
tedesche di proteggere le rotte dell’invasione e distruggere la potenza aerea britannica. Il
problema era che fino ad allora la flotta aerea tedesca era stata utilizzata al meglio come supporto
alle offensive di terra in Polonia nel 1939 e in Scandinavia e nell’Europa occidentale nel 1940;
l’aviazione aveva poca esperienza di operazioni a sé stanti su lunghe distanze. Il nuovo
orientamento verso una grande campagna d’oltremare e la costruzione di campi d’aviazione
adeguati richiedeva tempo. Alla fine, le forze aeree tedesche si prepararono per una versione
allargata di ciò che era stato fatto in Polonia e in Francia, ovvero distruggere la potenza aerea
nemica e indebolire l’infrastruttura militare dell’avversario prima dell’invasione, in modo da
assicurare poi alle forze d’invasione un ombrello protettivo contro la potenza navale nemica e
offrire al tempo stesso un supporto aereo tattico alle operazioni di terra . 306

Nell’estate del 1940, era chiaro ad ambo le parti che il vero elemento critico era l’aviazione. A
luglio, i capi di stato maggiore britannici osservarono che «il nocciolo della questione è la
superiorità nei cieli» . Quello che seguí nei tardi mesi estivi fu il primo grande scontro aria-aria
307

della guerra. Le due forze aeree erano organizzate in modo molto diverso; quella tedesca era
composta da grandi flotte, ciascuna delle quali riuniva insieme bombardieri, caccia, arei da
bombardamento in picchiata e velivoli da ricognizione; la RAF era strutturata in comandi
separati, definiti a seconda della funzione – Fighter Command, Bomber Command, Coastal
Command –, ma senza una forza congiunta atta a sostenere le operazioni dell’esercito o della
marina. In Francia, l’aviazione tedesca aveva lasciato la 2. e la 3. Luftflotte con il grosso della
loro forza aerea, per un totale di settantasette squadroni da combattimento; in Norvegia, la 5.
Luftflotte, molto piú piccola (sei squadroni), doveva attaccare obiettivi sulla costa orientale e
nord-orientale. All’inizio di agosto, alla vigilia della campagna aerea tedesca, erano in servizio
878 caccia monoposto Messerschmitt Me109; 310 caccia bimotore Messerschmitt 110; 949
bombardieri e 280 aerei da bombardamento in picchiata. All’inizio di agosto, la RAF possedeva
715 caccia operativi (19 squadroni di Supermarine Spitfire e 29 squadroni di Hawker Hurricane)
piú altri 424 aerei disponibili con un giorno di preavviso. Il Bomber Command era molto piú
piccolo del suo equivalente tedesco e contava nel luglio del 1940 appena 667 bombardieri, che
durante l’estate effettuarono circa l’85 per cento delle sortite contro obiettivi in Germania
piuttosto che contro basi aeree, depositi e navi d’invasione tedesche . La RAF poteva contare su
308

un bacino di piloti da caccia piú ampio rispetto a quello delle forze aeree tedesche, e in tutto il
periodo di combattimenti aerei diurni le fabbriche britanniche produssero 2091 nuovi aerei da
caccia, contro appena 988 da parte tedesca. L’elemento critico della battaglia era il
combattimento tra i caccia, e fu esso a risultare decisivo in merito a una battaglia nell’Inghilterra
meridionale. Il comandante in capo delle forze britanniche, il generale Alan Brooke, diede alla
RAF un semplice ordine: «Impedire al nemico di stabilire la superiorità aerea» . 309

I tedeschi iniziarono la campagna per il dominio dei cieli con un gemito piuttosto che con un
botto. Tra la fine di giugno e il mese di luglio furono effettuati alcuni attacchi di prova diurni e
notturni – gli Störangriffe – con un esiguo numero di aerei allo scopo di testare le difese del
nemico e dare agli equipaggi la possibilità di adattarsi alle condizioni di volo sul suolo
britannico. Gli attacchi non riuscirono comunque a rilevare la natura organizzativa del Fighter
Command, che dipendeva da una complessa rete di comunicazioni che avvisava delle incursioni
in arrivo e coordinava la risposta dei caccia. L’elemento cruciale era l’uso del radar (radio
direction finding), sviluppato a partire dalla metà degli anni Trenta. Una rete di trenta stazioni
radar con il compito di rilevare aerei ad alta quota e di altre trentuno per quelli a bassa quota si
estendeva dalla Cornovaglia nell’estremo ovest fino al nord della Scozia; con le stazioni
collaborava un corpo di 30 000 osservatori a terra, organizzato in 1000 punti di osservazione. I
radar e i posti di osservazione erano collegati da una rete di linee telefoniche con il quartier
generale del Fighter Command e con le numerose stazioni dei caccia, in modo che l’allarme
potesse essere dato in pochi minuti e gli aerei da combattimento potessero entrare in azione.
Anche se il comandante in capo del Fighter Command, il maresciallo in capo dell’Aviazione
Hugh Dowding, si lamentò in seguito che il sistema aveva spesso fornito «informazioni
imprecise e insufficienti», ne furono comunque comunicate un numero tale da garantire che
quasi tutti i raid nemici incontrarono una decisa resistenza da parte dei caccia e non fu perso
tempo prezioso in inutili pattugliamenti . Dopo piú di un mese di preparazioni e ricognizioni,
310

Göring, comandante in capo dell’Aviazione tedesca, volle testare la resistenza della RAF con
una raffica di attacchi contro obiettivi del Fighter Command che sarebbero iniziati con il nome in
codice Adlertag, il «Giorno dell’aquila», e si sarebbero conclusi quattro giorni dopo, cosí sperava
Göring, con la distruzione delle difese aeree britanniche. Il 1° agosto, il quartier generale di
Hitler emise l’ordine di cominciare la campagna per la superiorità aerea e il Giorno dell’aquila fu
fissato per il 5 agosto . Le cattive condizioni meteorologiche ritardarono tuttavia l’inizio della
311

campagna per piú di una settimana. Il Giorno dell’aquila fu quindi fissato per il 13 agosto, ma le
nuvole permisero solo un attacco a metà e quel giorno non fu colpita una singola stazione del
Fighter Command. Le perdite tedesche furono di quarantacinque aerei, quelle della RAF solo di
tredici.
L’avvio disordinato di quella che diverrà la battaglia d’Inghilterra non si smentí neppure nelle
settimane seguenti. La promessa che la RAF sarebbe stata azzoppata dopo soli quattro giorni,
sebbene basata sui successi ottenuti in precedenza nel 1939 e nel 1940, si dimostrò impossibile
da mantenere. Nelle tre settimane della fase iniziale della battaglia furono effettuate cinquantatre
incursioni su postazioni della RAF, con un’intensità crescente negli ultimi dieci giorni di agosto,
quando il tempo migliorò. Di queste, trentadue incursioni furono dirette su postazioni dei caccia,
tutte concentrate, tranne due, sull’11 Group nell’Inghilterra sud-orientale, ma solo tre di esse
furono temporaneamente messe fuori uso, tutte appartenenti all’avanguardia vicino alla costa. I
campi d’aviazione satelliti permisero agli aerei di levarsi in volo nonostante i danni alla
postazione principale, mentre un’accurata mimetizzazione nascondeva i velivoli sparsi qua e là.
Le stazioni radar avevano subito brevi bombardamenti all’inizio di agosto, ma, poiché la
Germania non le considerava importanti, la struttura era rimasta relativamente illesa. Anche se
molto è stato detto riguardo a quanto fosse esiguo il margine tra successo e sconfitta – una
considerazione nata dalla famosa frase di Churchill sui «pochi» ed eroici piloti dei caccia –,
durante le ultime settimane di agosto e l’inizio di settembre il Fighter Command non fu mai
significativamente ridotto di dimensioni né si trovò con un numero insufficiente di piloti. Il 6
settembre, il Fighter Command aveva in servizio 738 aerei, mentre le forze aeree tedesche ne
contavano una media di 500 . A quel punto, l’aereo da bombardamento in picchiata Junkers
312

Ju87 e il bimotore Me110 erano stati quasi tutti ritirati in quanto troppo vulnerabili per essere
esposti al rischio dei caccia monomotore ad alte prestazioni. Entrambi gli schieramenti
riportarono perdite elevate. Fu un confronto duro e drammatico, ma d’altronde era a questo che
servivano le difese aeree della Gran Bretagna.
Anche il nemico tedesco considerava la RAF come i «pochi». Alla fine di agosto, l’intelligence
del Reich riportò che 18 postazioni di caccia erano state messe fuori uso e che il Fighter
Command era sceso a circa 300 aerei al massimo. La radio tedesca annunciò che il «dominio
dell’aria» era stato conquistato . Per i piloti che riferivano di aver visto edifici in fiamme e piste
313

dissestate e che regolarmente esageravano di molto il numero di aerei abbattuti, quell’annuncio


sembrò inizialmente coincidere con la loro esperienza. Si spiega cosí la decisione di passare, alla
fine di agosto, a una serie di attacchi contro obiettivi militari ed economici, allo scopo di
indebolire lo sforzo difensivo britannico immediatamente prima dell’invasione. Le notizie che
arrivavano al quartier generale di Hitler dal fronte aereo lasciavano presagire che la supremazia
aerea fosse quasi del tutto assicurata: «La difesa dei caccia inglesi è fortemente colpita», scriveva
il 3 settembre il diarista ufficiale dell’OKW. «La questione è se l’Inghilterra può quindi
continuare la battaglia» . La fase finale del piano aereo pre-invasione consisteva nel lanciare su
314

Londra una serie di pesanti incursioni per disorientare la capitale nel momento di massima
minaccia. Il 2 settembre, fu dato ordine all’aviazione di organizzare gli attacchi su Londra e tre
giorni dopo Hitler ne ordinò l’inizio, sperando ancora che le notizie sulla supremazia aerea
fossero vere. Nella notte tra il 5 e il 6 settembre, le bombe caddero su trenta quartieri di Londra,
da Croydon nel sud a Enfield nel nord, concentrate su obiettivi militari, trasporti e servizi
pubblici .
315

Si è creato il mito che Hitler avesse spostato su Londra gli attacchi aerei del 7 settembre come
vendetta per i raid compiuti dalla RAF su Berlino alla fine di agosto e che fosse stato questo
cambio di obiettivo a salvare il Fighter Command. In realtà, il bombardamento di Londra e di
altri obiettivi militari e industriali era coerente con la pianificazione pre-invasione e le bombe
erano piovute su zone della capitale per piú di una settimana, incluse le grandi incursioni del 5/6
settembre . Quel cambio di obiettivo offrí a Hitler l’opportunità di placare le critiche da parte
316

delle comunità tedesche della Germania occidentale che da quattro mesi subivano i
bombardamenti della RAF. Il 4 settembre, in un discorso ampiamente propagandato, aveva
promesso ai cittadini tedeschi di radere al suolo le città britanniche, ma quella dichiarazione era
pura retorica. Agli attacchi devastanti su Londra sarebbe dovuta seguire, all’incirca una
settimana dopo, l’invasione vera e propria. Hitler ne aveva fissato la data per il 15 settembre,
quando le maree sarebbero state favorevoli e il bel tempo non impossibile. Il giorno 3 aveva poi
spostato la data al 20/21 settembre. Göring continuava a insistere che la RAF era allo stremo
delle forze. La guerra contro la Gran Bretagna, disse a Goebbels, sarebbe finita in tre settimane .317

Da mesi i britannici si stavano preparando all’invasione, anzi, la dirigenza politica e militare si


aspettava che essa avvenisse entro poche settimane dalla sconfitta francese e che sarebbe stata
disastrosa. A luglio Brooke osservò che la carenza di uomini addestrati e di attrezzature era
«spaventosa». A Dunkerque l’esercito aveva perso l’88 per cento dell’artiglieria e il 93 per cento
dei veicoli . Tra giugno e agosto del 1940 furono richiamati altri 324 000 uomini, ma era troppo
318

tardi per addestrarli ed equipaggiarli. 300 000 fucili della Prima guerra mondiale erano stati
messi a disposizione delle 22 divisioni dell’esercito, di cui solo la metà poteva considerarsi
adatta alla mobilità di combattimento dei tedeschi . La situazione sembrava cosí disperata che a
319

Cripps fu ordinato, una volta giunto a Mosca, di cercare di comprare aerei e carri armati
sovietici, una richiesta che fu cortesemente respinta . Non vi era modo di sapere quando
320

l’invasione avrebbe avuto luogo esattamente, e anche se gli storici si sono mostrati in genere
scettici riguardo alle vere intenzioni tedesche, gli inglesi la ritenevano sicuramente imminente.
Secondo i rapporti dell’Home Intelligence, una divisione del ministero dell’Informazione, la
popolazione rimaneva in attesa ma appariva meno ansiosa che all’inizio dell’estate, rinfrancata
dalle notizie delle battaglie aeree che, analogamente ai rapporti tedeschi, esageravano
notevolmente le perdite inflitte al nemico. All’inizio di settembre, il ministero dell’Informazione
riferí che il morale della popolazione sembrava «straordinariamente buono», il che si rifletteva
anche nel fatto che l’ubriachezza sembrava essere diminuita . Sempre all’inizio del mese, le
321

ricognizioni fotografiche e la decifrazione dei messaggi dell’aviazione tedesca inviati con le


macchine Enigma o Ultra e decriptati per la prima volta nel maggio del 1940 suggerivano
un’imminente invasione e il 7 settembre fu diramata la parola in codice Cromwell per mettere
l’intero sistema militare in stato di massima allerta, prevedendo un’invasione entro dodici ore.
Non accadde nulla, ma il fine settimana successivo, 14-15 settembre, fu generalmente
considerato come il «fine settimana dell’invasione» a causa delle maree e della luna propizie alla
traversata della Manica. Agli uomini fu ordinato di dormire in uniforme per essere pronti a
combattere in modo tempestivo non appena avessero sentito il rintocco delle campane delle
chiese locali .
322

Per puro caso, il 14 settembre fu la data in cui Hitler incontrò i suoi comandanti in capo per
rivedere le previsioni relative all’operazione Seelöwe. Per tutto il mese aveva ricevuto messaggi
contrastanti sulla fattibilità di un’invasione. Il capo delle operazioni, Alfred Jodl, propendeva per
la via piú indiretta suggerita in estate, ovvero «fare il giro attraverso la Russia» . Il comandante
323

in capo della Marina militare del Reich, il Großadmiral Erich Raeder, si era detto inizialmente
favorevole, ma a settembre riteneva che i rischi fossero troppo alti. Göring continuò a insistere
che la sua forza aveva rispettato gli ordini e la tabella di marcia. Hitler sapeva bene che
l’invasione avrebbe dovuto avere successo al primo tentativo, poiché le ricadute politiche di un
fallimento avrebbero minato i successi di un intero anno, ma il 14 settembre, secondo il suo
assistente di volo, vedeva ancora «in un buon risultato del “Leone marino” la migliore soluzione
per la vittoria contro l’Inghilterra» . Il problema principale restava la guerra aerea. Il piano
324

d’invasione si era sempre basato sul raggiungimento della piena padronanza dei cieli. Nonostante
le rassicurazioni di Göring, l’OKW si rese conto a metà settembre che la resistenza aerea
britannica non era stata spezzata; l’invasione dipendeva essenzialmente dalla forza dell’aviazione
per impedire che le truppe che attraversavano la Manica fossero intercettate dalle navi
britanniche e fornire supporto aereo alle teste di ponte iniziali. Il 17 settembre, Hitler decise di
rivedere le proprie posizioni, ma a quel punto le forze aeree tedesche erano già state gravemente
danneggiate durante le incursioni diurne su Londra di due giorni prima e avevano perso quasi un
quarto dei velivoli lanciati all’attacco in quello che divenne per gli inglesi il Battle of Britain
Day, il «Giorno della battaglia d’Inghilterra». L’operazione Seelöwe fu nuovamente rimandata e
poi abbandonata il 12 ottobre, in attesa di essere ripresa, se necessario, la primavera successiva.
Nel 1940, l’impero britannico non era crollato né aveva accettato la sconfitta, ma l’anno aveva
segnato un punto di svolta nella lunga storia dell’imperialismo europeo. La disfatta e
l’occupazione in Europa minarono irrimediabilmente le pretese delle altre potenze imperiali –
Francia, Belgio e Paesi Bassi – di esercitare il proprio dominio su territori lontani. Per l’impero
britannico, la crisi sollevò imbarazzanti domande sul suo futuro. Il governo di Londra rifiutò
tuttavia di affrontare il vero paradosso: si enfatizzava il ruolo dell’impero nello sforzo bellico
della Gran Bretagna e si ricorreva al tempo stesso alla forza bruta per soffocare le richieste di
maggiore autonomia politica in India, oppure dichiarando la legge marziale in Egitto. La priorità
era la sopravvivenza delle isole britanniche. Nessuna delle due parti, né i tedeschi né gli inglesi,
riuscí a trovare una strategia capace di minare la volontà bellica dell’altra né a raggiungere un
risultato militare decisivo, ma sembra quasi certo che, con un esercito di 180 divisioni e le
spoglie di gran parte dell’Europa continentale, nel 1941 la Germania avrebbe avuto modo alla
fine di concludere la guerra in Occidente – questo se Hitler non si fosse rivolto verso est. Il
Regno Unito, al contrario, non aveva possibilità di riportare la vittoria sulla Germania. La Gran
Bretagna, cacciata dall’Europa per ben due volte, in Norvegia e Francia, alle prese con la crisi in
Africa, economicamente indebolita e disperatamente impegnata a difendere il proprio accesso
alla piú ampia economia mondiale, si trovava ormai di fronte a una bancarotta strategica. La
guerra condotta per un anno dopo la caduta della Francia era quella preparata negli anni Trenta:
difesa aerea, flotta potente e ridotti conflitti nei territori dell’impero. Questa era la guerra
preparata da Chamberlain, ma che era toccato a Churchill dover condurre.
Capitolo secondo
Fantasie e realtà imperiali, 1940-43
I Governi dell’Italia, della Germania e del Giappone, considerando come condizione pregiudiziale per una pace duratura il fatto
che tutte le nazioni del mondo debbano avere il posto che a ciascuna spetta […] ove è loro principale scopo quello di stabilire e
di mantenere un nuovo ordine di cose…
Patto tripartito, settembre 19401.
All’una del pomeriggio del 27 settembre 1940, i ministri degli Affari Esteri di Germania e Italia,
insieme con l’ambasciatore giapponese a Berlino, si sedettero a un tavolo sontuosamente
intarsiato nel salone di gala della Reichskanzlei, circondati da un mare di uniformi sfarzose, per
apporre ufficialmente la firma al Patto tripartito concluso tra i loro tre imperi. All’esterno, folle
di scolari sventolavano bandiere giapponesi e italiane, anche se, a detta del conte Ciano, ministro
degli Affari Esteri italiano, lo facevano «senza grande convinzione». Ciano trovò l’atmosfera
nella sala piú gelida di quanto si aspettasse, ma attribuí il malumore e la cattiva salute dei
berlinesi alle lunghe notti passate nei rifugi antiaerei sotto le bombe inglesi . Una volta apposte le
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firme sul documento, che su richiesta giapponese era stato redatto in inglese per accelerare le
formalità, si udirono tre forti colpi sulla grande porta di ingresso, dalla quale, appena spalancata,
fece irruzione Hitler con esagerata teatralità. Il Führer si sedette in silenzio al tavolo e aspettò
che i tre firmatari pronunciassero i discorsi preparati per la stampa mondiale. Dall’altra parte del
globo, a Tokyo, ebbe luogo una cerimonia meno pomposa. L’imperatore aveva approvato il patto
solo una settimana prima, il che spiega la frettolosa stesura in inglese per evitare errori di
traduzione. Il ministro degli Affari Esteri giapponese, Matsuoka Yōsuke, appose il suo nome a
un accordo ideato, come ebbe a dire in seguito, per inaugurare «la costruzione, non la distruzione
della pace mondiale» . Il patto, della durata di dieci anni, impegnava i tre stati a fornire reciproca
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assistenza militare nel caso in cui una qualsiasi nuova potenza fosse entrata in guerra contro di
loro – una minaccia esplicitamente rivolta agli Stati Uniti. Soprattutto, il patto divideva quello
che si considerava il Vecchio Mondo tra le tre potenze imperiali: la Germania nell’Europa
continentale; l’Italia nel bacino del Mediterraneo e in Africa; il Giappone nell’Asia orientale.
Ciascuna potenza avrebbe dovuto consolidare ed estendere nei propri territori un «Nuovo
ordine». Sotto il profilo geopolitico, il patto sancí davanti a tutto il mondo il momento in cui le
tre potenze si sentirono abbastanza sicure da dichiarare che il vecchio ordine imperiale, dominato
per secoli da inglesi e francesi, era finalmente giunto alla fine.
La questione britannica.
La solenne dichiarazione di un nuovo ordine politico lasciava ancora in sospeso la questione di
che cosa fare di un impero britannico che non aveva ammesso alcuna sconfitta. La «questione
britannica» aveva un duplice aspetto: la Gran Bretagna, per quanto fragile sembrasse,
rappresentava un ostacolo al consolidamento del nuovo ordine; per il Regno Unito, tuttavia, il
problema era in che modo frenare quelle ambizioni senza consumare troppe risorse e rischiare
ulteriori fallimenti, perfino la perdita dell’impero.
Il rinvio dell’operazione Seelöwe aveva messo in luce le incertezze ancora presenti nel piano
tedesco riguardo alla fine della guerra con la Gran Bretagna. La cerchia politica e militare di
Hitler proponeva due strade: la prima prevedeva la creazione di un «blocco continentale» per
convincere gli inglesi che non esisteva alcuna alternativa politica a una pace di compromesso; la
seconda, una strategia periferica volta a eliminare militarmente la Gran Bretagna dal
Mediterraneo, dove le forze britanniche erano state indebolite dall’esigenza di truppe per la
difesa del territorio nazionale. La prima strategia era già stata avviata dopo la sconfitta della
Francia, quando era divenuto chiaro che Berlino avrebbe potuto dominare l’economia europea.
Gli economisti e i funzionari tedeschi cominciarono a parlare di una «grande area economica»
che ora abbracciava l’intera Europa, non solo le sue regioni orientali; furono messi in atto piani
per realizzare mercati integrati, un blocco valutario condiviso basato sul Reichsmark, un sistema
di compensazione monetaria comune e la penetrazione economica della Germania nell’industria
e nelle banche europee . La ricostruzione dell’economia, che sarebbe avvenuta trasformando
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Berlino nella capitale finanziaria e commerciale d’Europa, aveva lo scopo di sfidare apertamente
la precedente egemonia della City di Londra. Si trattava di un primo passo volto a isolare
politicamente la Gran Bretagna e rifletteva il pensiero prebellico su un nuovo ordine globale di
zone economiche, popolare anche tra i leader giapponesi. L’idea di un «blocco continentale»
richiedeva, per quanto possibile, il coinvolgimento della Francia di Vichy e della Spagna di
Franco nel campo dell’Asse, cosí come il consolidamento dei rapporti con l’Unione Sovietica,
fondati sul Patto Molotov-Ribbentrop. In autunno, poiché la Gran Bretagna non era stata
sconfitta, l’idea di saldare «una potente ed efficace alleanza contro la Gran Bretagna» sembrò
attrarre temporaneamente anche Hitler .5

Alla fine dell’ottobre 1940, il Führer intraprese un viaggio per lui insolito, dato che di norma
tendeva a incontrare i politici europei durante le loro visite a Berlino. Egli salí invece sul suo
treno personale, intenzionato a condurre una serie di colloqui al vertice, prima con il generale
Franco, poi con il maresciallo Pétain e infine con il suo collega dittatore Mussolini. L’obiettivo
era quello di valutare l’idea di un blocco continentale e di un’opzione mediterranea ai danni
dell’impero britannico. Non risulta che da quel viaggio nutrisse molte aspettative, ma il quartier
generale dell’OKW, sostenuto dai comandanti in capo delle forze aeree e della marina, riteneva
da qualche tempo che la maniera migliore per arrivare alla Gran Bretagna fosse occupare
Gibilterra, minacciare la navigazione mercantile britannica dalle basi aeree in Africa e
impadronirsi del Canale di Suez, non solo isolando in tal modo la Gran Bretagna dal suo impero
asiatico, ma aprendo anche la strada verso il petrolio del Medio Oriente. Gli strateghi militari
avevano già elaborato una direttiva per l’operazione Felix: la presa di Gibilterra. Sebbene le
forze di Mussolini si travassero allora in territorio egiziano con un grande esercito, l’intero
progetto dipendeva dal raggiungimento di un accordo politico tra Spagna, Francia e Italia per
isolare la Gran Bretagna e coordinare la campagna militare. L’iniziativa era destinata a fallire
proprio per la questione dell’impero. Franco stabilí come prezzo per la sua collaborazione una
quota dell’impero francese in Africa nonché ingenti sussidi, ma neppure cosí era chiaro se tali
condizioni fossero sufficienti a garantire la sua partecipazione allo sforzo bellico. Quando i due
dittatori si incontrarono il 23 ottobre a Hendaye, sul confine franco-spagnolo, a Hitler fu presto
chiaro che non c’era nulla da aspettarsi dal generalissimo; le concessioni di parte dell’impero
africano francese avrebbero infatti alienato la Francia di Vichy e reso il «blocco» irrealizzabile.
Il giorno seguente, a Montoire, Pétain fece eco alla riluttanza di Franco, preoccupato della
minaccia spagnola e italiana ai possedimenti francesi; Mussolini, incontrato a Firenze il giorno
28, si disse fermamente contrario a qualsiasi blocco che comportasse l’accettazione dello status
quo dell’impero francese o concessioni alla Spagna . Lo stesso giorno, ordinò l’invasione della
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Grecia senza informare Hitler in anticipo – un rifiuto simbolico di qualsiasi idea di


coordinamento politico.
Restava la prospettiva di un blocco antibritannico con l’Unione Sovietica, che già all’inizio
dell’estate aveva avuto un riavvicinamento separato con Mussolini . Il 10 novembre, il ministro
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degli Esteri sovietico, Vjačeslav Molotov, arrivò a Berlino per prolungare gli accordi raggiunti
l’anno precedente sulla spartizione della Polonia. La speranza di Von Ribbentrop era di potersi
avvalere del buon esito dei suoi precedenti negoziati per convincere l’Unione Sovietica che la
sua vera sfera d’influenza doveva estendersi nei territori imperiali britannici in Asia e in Medio
Oriente, una regione ora esposta a forti pressioni politiche e a rischio di essere presto tagliata
fuori dalla via di comunicazione di Suez. Correva voce che Stalin avrebbe potuto essere persuaso
ad aderire al Patto tripartito contro la Gran Bretagna, ma quando Von Ribbentrop ventilò l’idea,
Molotov disse che questo sarebbe stato possibile solo a fronte di importanti concessioni da parte
della Germania. Hitler, come ricordò in seguito lo stesso Von Ribbentrop, era reticente all’idea e
piú propenso a credere che blandire ulteriormente Stalin fosse un «pericolo mostruoso» . La 8

soluzione politica precipitò quando fu chiaro che Molotov e Stalin erano essenzialmente
interessati a espandere gli interessi sovietici nell’Europa sud-orientale e in Turchia, aree di
interesse tedesco e italiano. Il risultato finale fu che nessuno dei supposti membri di un’alleanza
paneuropea si dimostrò interessato a combattere contro l’impero britannico, fatta eccezione per
l’Italia. Al termine dei tre giorni di incontri, l’opinione di Hitler sul rapporto che poteva
intercorrere tra un attacco all’Unione Sovietica e un’eventuale sconfitta della Gran Bretagna
divenne ancora piú forte, benché fosse già stata rinvigorita dal fallimento politico dei colloqui
con Spagna e Francia. Tornando in treno da Montoire, Hitler aveva detto ai suoi collaboratori
dell’OKW che non esisteva alcuna vera alternativa al mettere fuori combattimento l’Unione
Sovietica nell’estate del 1941, per poi avere la certezza di sconfiggere la Gran Bretagna. Il
Führer si trovava a disagio con la diplomazia e confidava maggiormente nella violenza . 9

Durante l’autunno, la strategia tedesca raggiunse una sorta di impasse. Rimaneva in vigore la
direttiva del blocco navale, riaffermata il 1° agosto 1940 prima dell’inizio delle battaglie aeree e,
di riflesso, un blocco aeronavale diveniva ora il mezzo principale per esercitare una pressione
diretta sul nemico. L’obiettivo era di dare inizio a una guerra economica contro i rifornimenti
britannici di cibo e materie prime, tale da sfiancare l’economia di guerra della Gran Bretagna e
minare la volontà popolare di continuare la guerra. Il 16 settembre, Göring ordinò alle forze
aeree di passare alla modalità di bombardamento notturno contro le installazioni portuali, i
depositi di cibo e petrolio, gli obiettivi di stoccaggio, le industrie alimentari e i servizi essenziali
di pubblica utilità; da novembre, furono autorizzate operazioni militari contro l’industria
aeronautica britannica e, in particolare, contro il settore dei motori per l’aviazione. Anche se una
campagna navale contro la navigazione mercantile britannica era stata avviata fin dall’inizio
della guerra, Hitler ne ordinò ora l’intensificazione. Il coordinamento tra aviazione e marina era
scarso, in gran parte a causa della riluttanza di Göring a fornire aerei tedeschi per la guerra in
mare, per cui la flotta aveva dovuto accontentarsi di pochi velivoli a supporto delle navi di
superficie e dei sottomarini. Tra agosto del 1940 e giugno del 1941, gli aerei rilasciarono 5704
mine attorno alle coste britanniche, mentre a partire dal giugno 1940 un esiguo numero di aerei a
lungo raggio del tipo Focke-Wulf 200 Condor contribuí ad affondare nel corso dell’anno 119
navi mercantili, per un totale di 345 000 tonnellate. Si sperava di ottenere maggiore successo dal
blocco navale. L’idea era di affondare una media mensile di 750 000 tonnellate dei 22 milioni di
tonnellate dei cargo britannici, un tasso di distruzione che si pensava avrebbe costretto il governo
britannico ad abbandonare le ostilità .
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Il blocco navale includeva ben di piú dell’uso della flotta di sottomarini che pattugliavano gli
accessi all’Atlantico partendo dalle basi a disposizione sulla costa atlantica francese.
Consapevole della propria carenza di navi ammiraglie, la marina tedesca usò invece tattiche del
genere «mordi e fuggi», utilizzando una serie di mercantili convertiti in incursori (le cosiddette
navi fantasma) e singole navi da guerra che la Royal Navy aveva difficoltà a localizzare nella
vastità dell’oceano. Alla fine del 1941, le «navi fantasma» avevano affondato mezzo milione di
tonnellate; le navi Scheer, Hipper, Scharnhorst e Gneisenau altre 265 000 . La nuova corazzata
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Bismarck, varata nel maggio del 1941, distrusse l’incrociatore britannico Hood nel suo viaggio
inaugurale, ma fu affondata di lí a pochi giorni, prima che potesse causare ulteriori danni. Lo
strumento chiave del blocco navale, tuttavia, restava il sottomarino tedesco (Unterseeboot o U-
boot). Il comandante tedesco, l’ammiraglio Karl Dönitz, ne aveva a disposizione relativamente
pochi. Anche se all’inizio del 1941 vi erano quasi duecento U-boot, in mare ne circolavano in
media solo ventidue, e nel gennaio del 1941 appena otto . Ciò nonostante, quando furono
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disponibili basi sicure nella Francia occidentale, riuscirono a causare sempre piú danni. In
autunno, Dönitz ordinò ai suoi sottomarini di adottare la Wolfsrudeltaktik, la tattica dei «branchi
di lupi». A causa della minaccia aerea che pesava sulla navigazione commerciale intorno alle
coste meridionali della Gran Bretagna, il commercio transoceanico britannico venne trasferito
sulla costa occidentale e nord-occidentale, senza sapere che negli accessi piú settentrionali si
erano concentrati gli U-boot tedeschi. Da settembre in poi, i sommergibilisti tedeschi godettero
di quelli che chiamarono «tempi felici», affondando nell’ottobre del 1940 350 000 tonnellate e
raggiungendo nell’aprile dell’anno seguente il livello record di 687 000 tonnellate .13

Benché il governo britannico avesse previsto da tempo che la guerra sottomarina si sarebbe
ripetuta come nel primo conflitto mondiale, tuttavia non si aspettava ciò che si trovò di fronte
nell’estate del 1940, quando la Germania assunse il controllo della maggior parte del litorale
nordeuropeo. Anche se fin dall’inizio delle ostilità le navi mercantili viaggiavano in convogli
(dal 6 settembre 1939 la navigazione sotto costa, due giorni piú tardi quella oceanica),
nell’autunno del 1940 la minaccia di un’invasione costrinse molte piccole navi di scorta a
rimanere a difesa della costa sud-orientale della Gran Bretagna. Da ottobre, quando cessò il
pericolo di un’invasione, il numero delle navi di scorta poté essere incrementato e i marinai
furono meglio addestrati alla protezione dei convogli e alla guerra antisommergibile, con un
numero maggiore di aerei di supporto. Durante l’inverno, gli aerei del Coastal Command, tra cui
gli idrovolanti a lungo raggio Sunderland, respinsero i sottomarini tedeschi al largo
dell’Atlantico, lontano dalle acque sotto costa e dagli accessi settentrionali. Nuove tecnologie
aiutarono a migliorare le prestazioni delle navi scorta e degli aerei: l’uso dell’illuminazione ad
alta potenza; l’introduzione di radar con una lunghezza d’onda di un metro (chiamati ASV Mk I
e II per gli aerei e Type 286 per le navi di scorta) e di migliori bombe di profondità . Dal 14

febbraio 1941 le difese antisommergibile furono riorganizzate grazie all’istituzione del Western
Approaches Command con sede a Liverpool, che dirigeva tutta la campagna antisommergibili
con il relativo potenziamento della scorta navale e della forza aerea, anche se l’elemento chiave
della strategia, grazie all’intelligence della flotta, era cercare di evitare del tutto i sottomarini.
Nel corso del 1940 e 1941, le perdite subite dai convogli mercantili rimasero basse; nei due anni,
di 8722 navi che percorrevano la rotta principale del Nord Atlantico, ne andarono perse 256,
alcune a causa dei sottomarini, altre per cause legate alla stessa navigazione transoceanica. I
bersagli piú comuni erano le navi che navigavano autonomamente o che rimanevano distanziate
dalle altre, anche se individuare un convoglio e romperne la formazione restava un’impresa
comunque ardua . 15

Complessivamente, tuttavia, le perdite subite su tutti i mari rappresentavano ugualmente un


pericolo notevole per lo sforzo bellico britannico. Il volume delle importazioni scese
bruscamente e fu soggetto a severi controlli (nel novembre del 1940 fu sospeso in modo
permanente il commercio delle banane). Nel marzo del 1941, Churchill definí la guerra sui mari
la «battaglia dell’Atlantico» che, come la battaglia d’Inghilterra, avrebbe assunto uno status
iconico nella memoria storica della guerra britannica. Egli presiedeva il comitato della battaglia
dell’Atlantico, istituito ad hoc, che richiese tempi piú rapidi di entrata e uscita dai porti,
riparazioni piú celeri delle navi mercantili e ulteriori restrizioni sulle importazioni. Venne fatto
ogni sforzo per produrre piú navi di scorta. L’effetto complessivo, all’inizio dell’estate del 1941,
fu di limitare il raggio d’azione degli U-boot e infliggere perdite crescenti ai sommergibili. A
marzo, tre autentici «assi» degli U-boot furono uccisi mentre attaccavano dei convogli protetti da
una forte scorta; nel maggio del 1941, un altro «asso», Otto Kretschmer, fu catturato insieme con
i tabulati cifrati relativi ai codici navali tedeschi di Enigma, il che permise ai decriptatori di
Bletchley Park di iniziare a leggere regolarmente i messaggi navali dall’estate in avanti. Se tra
gennaio e maggio del 1941 gli U-boot erano venuti in contatto con il 23 per cento di tutti i
convogli, tra giugno e agosto dello stesso anno il dato calò al 4 per cento . Dopo un anno di
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sforzi, il logoramento della flotta mercantile britannica non era stato tale da intaccare la capacità
o la volontà della Gran Bretagna di proseguire la guerra.
Lo stesso accadde nella guerra aerea, condotta principalmente contro i porti e gli obiettivi
commerciali britannici da settembre del 1940 a giugno del 1941. Anche se oggi la memoria
popolare di quello che i britannici presto battezzarono Blitz considera il bombardamento tedesco
un indiscriminato atto terroristico, Hitler, interrogato dai comandanti del suo quartier generale,
aveva ribadito per ben due volte di non avere ancora intenzione di autorizzare una campagna di
terrore, ma che si riservava il diritto di iniziarla come ritorsione per i bombardamenti della RAF,
la cui totale imprecisione durante i mesi autunnali e invernali era interpretata dalla Germania
come un’azione deliberatamente indiscriminata, in quanto le bombe colpivano obiettivi civili
anziché militari . Nel corso dei nove mesi della campagna aerea tedesca, gli obiettivi principali
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furono le città portuali, tra cui Londra e il porto interno di Manchester. Di 171 incursioni
principali, 141 furono dirette contro i porti e le loro strutture di stoccaggio e lavorazione, su cui
fu sganciato l’86 per cento di tutte le bombe incendiarie lanciate e l’85 per cento di tutti gli
ordigni ad alto potenziale . I comandanti tedeschi speravano che i regolari bombardamenti
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notturni avrebbero demoralizzato la popolazione e provocato proteste sociali e politiche che


sarebbero andate ad aggiungersi alle preoccupazioni per i rifornimenti e il commercio. A
novembre venne dato l’ordine di attaccare l’industria aeronautica con una campagna che nella
notte tra il 14 e il 15 novembre incluse il bombardamento di Coventry (con l’operazione
Mondscheinsonate [Sonata al chiaro di luna]), durante il quale venne incendiato gran parte del
centro della città anche se i bombardieri avrebbero invece dovuto colpire trenta fabbriche di
motori e componenti aerei, alcune delle quali subirono comunque gravi danni. Verso la fine del
mese, le incursioni aeree continuarono su Birmingham, ma da dicembre del 1940 a giugno del
1941 gli attacchi prioritari riguardarono le aree portuali e gli obiettivi commerciali, alcuni dei
quali, come Glasgow, Belfast e Bristol, ospitavano anche obiettivi collegati all’industria
aeronautica. Il 6 febbraio, Hitler confermò tale priorità, ribadendo ancora una volta l’importanza
di attaccare obiettivi economico-militari piuttosto che le aree residenziali .
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Tra le tante campagne condotte dal comando tedesco durante la guerra, i nove mesi di blocco
navale rappresentarono un’anomalia. Si trattava infatti di una strategia basata su un tasso di
logoramento incerto anziché su una battaglia decisiva. Mancava in realtà una seria valutazione di
quanto la Gran Bretagna dipendesse effettivamente dalle forniture d’oltremare ed era quasi
impossibile ricavare dai rapporti sui danni inferti un’informazione precisa su quali fossero gli
effetti economici dei bombardamenti. Per gli equipaggi e i comandanti si trattò di una campagna
lunga e sempre piú demoralizzante, in quanto si subivano perdite elevate senza alcun ovvio
vantaggio strategico. Come nella battaglia d’Inghilterra, si ingigantivano i successi per
giustificare la campagna, ma tutto questo non bastò ad accelerare la capitolazione della Gran
Bretagna. Hitler perse interesse nei bombardamenti quale arma per vincere la guerra e, nel
dicembre del 1940, cominciò a dubitare di un qualsiasi effetto decisivo sull’industria britannica;
due mesi dopo espresse la stessa opinione riguardo al morale dei britannici, e in questo caso il
suo giudizio si rivelò corretto. I bombardamenti crearono senza dubbio crisi diffuse e temporanee
tra la popolazione bombardata, ma non forzarono certo la mano al governo. Gli effetti del blocco
sul commercio e sulla produzione britannica, inoltre, si rivelarono a dir poco modesti. Nel 1941,
secondo l’intelligence dell’aviazione tedesca, la produzione britannica di aerei, dopo i danni
apparentemente inflitti alle infrastrutture, sarebbe stata di 7200 unità, quando invece la
produzione effettiva risultò di ben 20 094 velivoli . In base ai dati britannici calcolati in un
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secondo tempo nel 1941, era andato perso a causa dei bombardamenti soltanto il 5 per cento
circa del crescente volume della produzione .21

In realtà, le prospettive economiche della Gran Bretagna subirono danni di molto maggiori dalla
diminuzione di risorse finanziarie d’oltremare a causa dell’eccezionale livello di mobilitazione
economica degli anni 1939-40. Verso dicembre del 1940 era stata spesa piú della metà delle
riserve prebelliche in oro e dollari Usa e il resto si sarebbe esaurito entro marzo del 1941,
lasciando la Gran Bretagna a tutti gli effetti in bancarotta, sostenuta soltanto dalla moneta
americana per quanto riguarda le importazioni essenziali. Si erano anche creati notevoli squilibri
con il blocco della sterlina, che alla fine della guerra ammontava a 3355 milioni di sterline –
squilibri che si poterono tuttavia congelare per tutta la durata del conflitto . Era fondamentale
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poter fare affidamento sulle forniture dal Nuovo Mondo, tanto che nel dicembre del 1940
Churchill si appellò personalmente al presidente Roosevelt affinché facesse qualcosa per
prevenire una catastrofe economica. Benché i leader americani rimanessero scettici sul fatto che
la Gran Bretagna avesse davvero esaurito la propria capacità di essere solvibile, Roosevelt, in un
discorso pronunciato alla fine di dicembre, si impegnò con la sua amministrazione a diventare
«l’arsenale della democrazia», presentando il mese successivo al Congresso quello che sarebbe
diventato il Lend-Lease Act (Legge affitti e prestiti) e promettendo di inviare beni all’impero
britannico senza esigere alcun pagamento immediato. Prima che la legge diventasse effettiva l’11
marzo, la United States Reconstruction Finance Corporation erogò un prestito di emergenza di
425 milioni di dollari per evitare il default della Gran Bretagna. «Senza questo aiuto», commentò
in privato Churchill, «non sarebbe stato possibile sperare di sconfiggere Hitler» . 23

In definitiva, la campagna tedesca contro l’arcipelago britannico venne continuata per il solo
fatto che sarebbe stato difficile abbandonarla senza doverne ammettere il fallimento. A parte
inviare un messaggio di speranza alle zone occupate e agli Stati Uniti, infatti, la fine del Blitz non
sarebbe stata compresa dalla popolazione tedesca della Germania occidentale, che ogni notte,
quando le condizioni meteorologiche lo permettevano, era ancora soggetta ai raid della RAF.
Anche un’offensiva senza successo, in qualsiasi caso, presentava comunque dei vantaggi. Il
proseguimento dei combattimenti nell’Europa occidentale aveva infatti lo scopo di placare i
timori di Mosca che Hitler potesse rischiare una guerra su due fronti sferrando un attacco alle
regioni orientali, una convinzione a cui Stalin si aggrappò fino al momento dell’invasione
tedesca nel giugno del 1941. Le forze armate britanniche, inoltre, erano obbligate a mantenere
una forte presenza militare in patria nel timore di un’invasione in primavera, che il governo si
aspettava ampiamente. «Nelle parole e nei pensieri di tutti noi», scrisse a febbraio il deputato
Harold Nicolson nel suo diario mentre osservava l’evacuazione della popolazione civile dalle
zone del Kent, «l’invasione di questo paese appare inevitabile» . La conseguenza immediata
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dello sforzo bellico britannico fu l’impossibilità di garantire ampi rinforzi alle regioni
dell’impero – una crisi che aprí all’alleato italiano di Hitler la prospettiva di una guerra parallela
nel Mediterraneo e in Africa contro un avversario indebolito.
Effettivamente, nell’estate e nell’autunno del 1940, le ambizioni italiane erano state accresciute
dalla prospettiva che la vittoria tedesca sulla Gran Bretagna fosse molto probabile e dalla
convinzione che l’eventuale vantaggio offerto dal conflitto nell’Europa settentrionale potesse
non durare a lungo. Il Patto tripartito infuse nei leader italiani la rinnovata sensazione che l’Italia
godesse ora del ruolo di grande potenza, invitata a partecipare a una nuova spartizione del
mondo, anche se occorrevano prove concrete che tale status potenziato avesse una sua
giustificazione. Mussolini, osservò il giornalista italiano Orio Vergani, «voleva arrivare al tavolo
di un’ipotetica pace con una vittoria interamente italiana» . Le conseguenze della sconfitta della
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Francia, che avevano visto sorgere le esagerate pretese italiane su territori, colonie e risorse
militari francesi – richieste per altro respinte dalla leadership tedesca –, avevano portato a una
crescente ostilità nei confronti dell’alleato tedesco e a seri dubbi sul fatto che in un nuovo ordine
europeo l’Italia sarebbe stata qualcosa di piú di un mero «fortunato profittatore» o «mite
collaboratore» all’ombra della vittoria tedesca . Il risultato paradossale fu che l’Italia, il piú
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debole dei tre firmatari del patto del settembre 1940, fu la prima a intraprendere un ulteriore
programma di edificazione imperiale.
Erano già pronti diversi piani di emergenza, in gran parte non realistici – come l’invasione di
Malta, l’occupazione di territori dell’impero francese, attacchi contro Aden, Egitto o Suez,
l’invasione della Svizzera, della valle del Rodano, della Jugoslavia o, con la cosiddetta
Emergenza G, l’occupazione della Grecia. Il criterio principale della politica italiana, confessò il
generale Quirino Armellini nel suo diario, era l’azione: «Intanto facciamo la guerra, poi vedremo
cosa succede» . A Mussolini fu lasciata la difficile scelta se continuare la guerra in Africa contro
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il tradizionale nemico britannico o iniziare una guerra nell’Europa meridionale per prevenire un
alleato tedesco potenzialmente ostile. Gli storici hanno giustamente evidenziato la natura
idiosincratica della pianificazione strategica italiana e l’irrazionale perseguimento, seppure da
parte di un Mussolini esitante, di ambizioni militari che andavano ben oltre le capacità dell’Italia.
Il Duce, del resto, si trovava intrappolato in una situazione che lui stesso aveva creato, e in cui,
viste le nuove ambizioni imperiali dell’Italia, l’inazione poteva risultare altrettanto pericolosa
quanto l’azione. Mussolini poteva anche sostenere di essere sempre uscito vincitore fin
dall’inizio della sua politica imperiale attiva – nella violenta pacificazione della Libia, in Etiopia,
Spagna, Albania, perfino nel breve e inglorioso assalto alla Francia –, prova piú che sufficiente,
come ebbe a dire un osservatore, «della sua infallibilità» . Erano manie di grandezza che nessuno
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dei suoi comandanti trovava il coraggio di smontare.


Nei primi mesi dello sforzo bellico italiano contro l’impero britannico, la fortuna di Mussolini
resistette. Il protettorato britannico del Somaliland, confinante con il nuovo impero italiano in
Etiopia, era relativamente indifeso. Nell’agosto del 1940, una forza mista di soldati italiani e
truppe locali (askari) attaccò la guarnigione britannica e ne forzò l’evacuazione attraverso il Mar
Rosso in un altro protettorato britannico, Aden (l’attuale Yemen). Le forze dell’impero
britannico persero 206 uomini, gli italiani 2052. In mare, sia la Royal Navy sia la marina italiana
pensavano soprattutto a preservare le rispettive forze navali, il cui obiettivo primario era quello
di proteggere le rotte dei convogli attraverso il Mediterraneo. Le flotte si scontrarono senza
molta convinzione il 9 luglio a Punta Stilo, al largo della costa calabrese, dove le navi
britanniche si salvarono grazie alla scarsa capacità di ricognizione aerea degli italiani e al fatto
che i loro bombardieri arrivarono in ritardo e attaccarono le loro stesse navi. Anche se nessuna
delle due parti riportò gravi danni, Mussolini dichiarò pochi giorni dopo al popolo italiano che il
50 per cento della forza navale britannica nel Mediterraneo era stata annientata . Quanto al
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Nordafrica, era impaziente di dare inizio all’invasione dell’Egitto, con lo scopo ultimo di tagliare
la via del Canale di Suez, di importanza vitale per l’impero britannico. Il comandante italiano, il
maresciallo Rodolfo Graziani, era riluttante a rischiare un assalto in grande stile a causa delle
condizioni del deserto, delle possibili minacce alle linee di rifornimento e dei trasporti
inadeguati. Mussolini gli assicurò che l’avanzata in Egitto sarebbe iniziata solo nel momento in
cui il primo soldato tedesco avesse messo piede sul suolo britannico, ma, a causa del lungo rinvio
dell’operazione Seelöwe, il Duce divenne ansioso di procedere in qualsiasi modo pur di poter
vantare un trionfo. Il 13 settembre, Graziani cedette finalmente alle pressioni di Roma e spostò
sette divisioni di fanteria oltre il confine libico verso il piccolo insediamento di Sidi Barrani,
circa 80 chilometri all’interno del deserto egiziano occidentale, dove si fermò e allestí una
complessa rete di accampamenti. Le forze dell’impero britannico si ritirarono su posizioni
difensive migliori dopo una scaramuccia che causò 120 morti tra gli italiani e 50 tra i nemici.
Questa volta, Mussolini annunciò al popolo italiano il piú grande trionfo delle armi da 300 anni;
attraverso le dune di sabbia, venne immediatamente costruita una strada – la «Via della Vittoria»
– fino a Sidi Barrani .
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Mussolini intuí che nella ripartizione dell’Europa un conflitto coloniale non sarebbe bastato a
conquistare all’Italia un posto paritario accanto alla Germania. La strada piú sicura per rafforzare
l’idea di una guerra parallela rimaneva l’iniziativa nell’Europa continentale. Nei mesi di agosto e
settembre, procedette verso una possibile guerra con la Jugoslavia o con la Grecia, ben sapendo
che a un conflitto con l’una o l’altra era stato posto il veto dalla leadership tedesca allorché i due
alleati si erano incontrati alla metà di agosto. La guerra con la Jugoslavia veniva considerata
come la guerra tedesca contro la Polonia – una sorta di rettifica dell’accordo post-1918, che
aveva negato all’Italia qualsiasi rivendicazione territoriale al di là dell’Adriatico. Venne
organizzata una forza d’invasione di trentasette divisioni che avrebbero dovuto attaccare
attraverso la Slovenia, ma l’incertezza sulle possibili reazioni da parte della Germania spinse
Mussolini a cancellare i preparativi alla fine di settembre . L’unica opzione rimaneva la guerra
31

contro la Grecia, in base a un calcolo cinico per una potenziale posizione di potere italiana in
un’Europa dominata dall’Asse che veniva comprata a prezzo dell’indipendenza greca. Il
comandante italiano in Albania, Sebastiano Visconti Prasca, pensava che la Grecia fosse matura
per essere conquistata, una sorta di «passeggiata militare» che avrebbe elevato la sua reputazione
nell’esercito. Il conte Ciano vi vedeva dal canto suo un’opportunità per espandere in territorio
greco la propria satrapia coloniale in Albania; il governatore delle isole italiane dell’Egeo,
Cesare De Vecchi, coltivava invece l’idea di un ponte di terra che collegasse l’impero in Albania
con quello dell’Egeo orientale attraverso la conquista della Grecia. Per provocare una rottura
delle relazioni italo-greche, il 15 agosto 1940 De Vecchi arrivò addirittura a inviare da Rodi un
sottomarino italiano per silurare l’obsolescente incrociatore greco Helli. Nonostante tutte le
provocazioni, i leader militari e politici greci si impegnarono in uno sforzo comune per tentare
una conciliazione con il loro vicino bellicoso, tanto piú che non vi era ancora alcuna certezza che
Mussolini avrebbe dato la sua approvazione a una guerra . 32
Per il Duce, ancora esitante, il punto di svolta sembrò arrivare il 12 ottobre con la notizia che le
forze tedesche erano entrate in Romania per proteggere le raffinerie di Ploieşti. L’invasione
tedesca nell’Europa meridionale, considerata dai leader italiani come la «sfera politico-
economica» dell’Italia, richiedeva una reazione. In una riunione del 15 ottobre con i gerarchi
fascisti, Mussolini annunciò che la guerra contro la Grecia avrebbe avuto inizio undici giorni
dopo. Il cattivo tempo fece poi slittare l’inizio al 28 ottobre. Il Duce avvertí Prasca che il
successo dipendeva soprattutto dalla rapidità dell’operazione. Non aveva intenzione di dirlo a
Hitler: «Apprenderà dai giornali che ho occupato la Grecia» . La decisione finale, presa di tardo
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pomeriggio, gettò i preparativi italiani in totale confusione, a causa, come ebbe a dire un
testimone, dell’«inguaribile improvvisazione» di Mussolini . Si era già dato inizio a un limitato
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rafforzamento militare, ma, dopo la revoca del piano jugoslavo, Mussolini aveva ordinato la
smobilitazione di metà degli 1,1 milioni di soldati in attesa nell’Italia continentale. Il piano
originario della campagna di Grecia prevedeva di utilizzare solo otto divisioni per un assalto che
doveva limitarsi all’Epiro e alle isole Ionie; a ottobre, mentre metà delle divisioni in Italia
venivano smobilitate, Mussolini decise di portare a venti divisioni la forza d’assalto con l’intento
di conquistare l’intera Grecia, possibilmente con la cooperazione bulgara. Le divisioni arrivarono
in Albania a corto di equipaggiamenti, uomini e rifornimenti; i campi d’aviazione scadenti fecero
sí che gran parte delle forze aeree italiane destinate alla campagna dovettero operare dalle basi
dell’Italia meridionale. Le scarse informazioni pervenute sul potenziale militare e sugli
schieramenti dei greci aggravarono le difficoltà. L’offensiva era destinata a iniziare con appena
60 000 soldati, 270 aerei da combattimento e 160 carri armati leggeri del tipo L/3, in un clima
già invernale e attraverso un terreno non certo idoneo al combattimento .35

I greci compresero quale fosse la minaccia che avrebbero dovuto affrontare e attivarono il piano
di mobilitazione 1B con unità stazionate alla frontiera albanese e in Tracia, nel caso in cui la
Bulgaria avesse concertato un attacco con l’Italia. Poiché già a ottobre le informazioni dei servizi
segreti indicavano che il pericolo principale era rappresentato dall’esercito italiano in Albania,
venne allestito un fronte difensivo trincerato, con batterie di artiglieria e postazioni di
mitragliatrici nascoste nella regione montuosa in cui le truppe italiane si sarebbero trovate a
combattere. L’assalto italiano ebbe inizio la mattina del 28 ottobre, senza alcuna dichiarazione di
guerra, giusto in tempo perché Mussolini informasse Hitler, appena arrivato in Italia per
l’incontro al vertice di Firenze, che le forze italiane erano di nuovo vittoriosamente in
movimento. La guerra fu un prevedibile disastro. Le forze greche avevano pochi armamenti o
aerei moderni e rifornimenti limitati, ma godevano del vantaggio di un morale alto a difesa della
loro patria e di una profonda conoscenza della zona di combattimento. Le unità italiane subirono
immediatamente pesanti perdite; le comunicazioni radio e quelle telefoniche erano cosí scadenti
che l’esercito dovette affidarsi alle staffette come in passato («Senza un solo operatore telefonico
efficiente», si lamentò il comandante della campagna a dicembre); l’esercito necessitava di 10
000 tonnellate di rifornimenti al giorno, ma le strutture portuali in Albania, piccole e
congestionate, permettevano di consegnarne solo 3500 . Gli aerei potevano essere usati solo
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saltuariamente a causa del cattivo tempo, mentre i voli dal Sud Italia a sostegno delle truppe
richiedevano troppo tempo per essere di qualche utilità in caso di crisi nei combattimenti di terra.
In pochi giorni, l’esercito greco aprí un ampio varco nella linea del fronte italiano.
A metà novembre, il comandante in capo greco, Alexandros Papagos, lanciò una controffensiva
che portò l’esercito 80 chilometri all’interno del territorio albanese, dove il 22 novembre venne
presa la città di Koritsa. Le campane suonarono in tutta la Grecia – era la prima vittoria alleata
dall’inizio della guerra, osservò un giornalista americano ad Atene. Nelle strade della capitale i
greci esultanti cantavano «Vogliamo Tirana!» . La «guerra lampo» di Mussolini minacciava di
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porre bruscamente fine all’impero italiano in Europa. Invece della rapida e trionfale avanzata
verso Atene, l’esercito fu costretto a richiamare migliaia di uomini al solo scopo di salvare
almeno l’Albania. Tra novembre del 1940 e aprile del 1941, furono impiegate nella guerra greca
altre ventuno divisioni, piú di mezzo milione di uomini con 87 000 animali da tiro e 16 000
veicoli . Nel marzo del 1941, quando entrambi gli schieramenti erano ormai sfiancati e i
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comandanti italiani destituiti e rimpiazzati, gli italiani lanciarono una grande offensiva, destinata
a fermarsi anch’essa dopo quattro giorni. In condizioni che sembravano ironicamente ricordare il
duro fronte alpino in cui Mussolini aveva combattuto nella Prima guerra mondiale, le perdite
furono enormi. Il totale delle vittime italiane nella campagna arrivò a 154 172 (tra cui 13 755
morti), circa un quarto dei soldati, male equipaggiati e costretti a combattere a temperature sotto
lo zero con scarse scorte di cibo e medicinali. L’esercito ellenico contò circa 60 000 vittime, 14
000 caduti e migliaia di mutilati per congelamento, che si aggiravano con le membra gonfie e
annerite e poi amputate in primitivi ospedali da campo allestiti sulle montagne greche . 39

Il clamoroso fallimento in Grecia ebbe pericolose ripercussioni sul resto dell’impero italiano
d’oltremare, poiché gli sforzi frenetici per rafforzare l’Albania avevano privato sia Graziani in
Egitto sia le forze italiane in Etiopia di qualsiasi prospettiva di aiuto e obbligato la marina a
sostenere una missione di rifornimento su larga scala attraverso il Mare Adriatico. La Royal
Navy approfittò immediatamente delle nuove priorità italiane. Il 12 novembre 1940, mentre
scortava un convoglio da Malta ad Alessandria, la flotta del Mediterraneo orientale, sotto il
comando dell’ammiraglio Cunningham e rafforzata dall’arrivo della portaerei Illustrious
attraverso il Canale di Suez, lanciò un devastante attacco contro il principale porto navale
italiano di Taranto usando biplani Fairey Swordfish, armati di razzi, bombe e siluri. La missione
inglese trasse vantaggio dalle scadenti capacità di ricognizione aeronavali dell’aviazione italiana,
ma soprattutto dallo straordinario elemento tattico costituito dai nuovi siluri aerei britannici, in
grado di viaggiare sotto la rete di protezione del porto (che in questo caso era incompleta) e poi,
grazie a un innovativo innesco magnetico, esplodere sotto la chiglia delle navi da guerra ignare
del pericolo. Il fuoco delle batterie antiaeree era poco efficace; illuminate dai razzi degli aerei di
testa, due ondate di aerosiluranti colpirono il porto. La corazzata Conte di Cavour fu colpita e
affondata, mentre altre due corazzate, la Caio Duilio e la Littorio, furono seriamente
danneggiate, sebbene riparabili . Anche se la distruzione non era stata cosí estesa come la Royal
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Navy si attendeva all’inizio, la principale flotta italiana si ritirò frettolosamente a Napoli e pochi
mesi dopo, in seguito a un rovinoso assalto al largo di Capo Matapan in Grecia il 28 marzo 1941,
quando la flotta britannica di stanza ad Alessandria d’Egitto affondò tre incrociatori e due
cacciatorpediniere e danneggiò la corazzata Vittorio Veneto, decise che nessuna nave da battaglia
italiana avrebbe dovuto navigare oltre il raggio di protezione dei caccia, mettendo cosí fine a
qualsiasi minaccia che la principale flotta da guerra italiana poteva ancora rappresentare . 41

Dopo il disastro greco, l’impero d’Africa, suggellato solo cinque anni prima con la conquista
dell’Etiopia, si sgretolò in pochi mesi. Anche se le forze britanniche in Medio Oriente e in Africa
erano state indebolite dalla richiesta di manodopera e risorse militari necessarie per difendere la
madrepatria, restavano comunque meglio organizzate e tecnicamente piú avanzate di quelle
italiane. Churchill, impaziente di ottenere una qualche vittoria quanto lo era Mussolini, fece
pressioni sul comandante in capo britannico al Cairo, il generale Archibald Wavell, affinché
reagisse all’incursione di Graziani in Egitto. Pur potendo contare in Africa su truppe in grande
inferiorità numerica (in Libia e Africa orientale erano schierati 298 500 soldati italiani e 228 400
indigeni, contro un totale di 60 000 effettivi dell’impero britannico), Wavell preparò il
contrattacco approfittando della situazione italiana in Grecia. Il 9 dicembre, gli inglesi lanciarono
attraverso il deserto l’operazione Compass, con 30 000 soldati della Seventh Armoured Division,
una divisione indiana e parte di una divisione australiana che si stava lentamente formando. Le
forze dell’impero britannico si mossero rapidamente su due assi, infiltrandosi nelle statiche linee
italiane e attaccandole dalle retrovie. Sorpresa e panico travolsero la prima linea della X Armata
italiana del generale Italo Gariboldi. A corto di equipaggiamento, con poche armi anticarro e
scarsa esperienza nella guerra con mezzi corazzati, la resistenza italiana si disintegrò. Il 4
gennaio, le forze inglesi raggiunsero Bardia, dove 45 000 italiani si arresero; il 23 gennaio cadde
Tobruk, con altri 22 000 prigionieri. La Seventh Armoured Division attraversò il deserto per
bloccare le unità italiane in ritirata a Beda Fomm e il 7 febbraio 1941 la battaglia era già
conclusa, con gran parte della Libia orientale in mani britanniche, insieme con 133 000
prigionieri, 1290 cannoni, 400 carri armati e migliaia di veicoli. Solo 8500 soldati italiani
riuscirono con estrema difficoltà a raggiungere un temporaneo rifugio nella Libia occidentale.
Nei due mesi della campagna, gli inglesi avevano perso 500 uomini. A quel punto, Wavell
avrebbe potuto spingersi fino a Tripoli, l’ultimo porto nordafricano in mano all’Asse, ponendo
cosí fine a qualsiasi prospettiva di ulteriore resistenza italiana nel deserto, ma era sotto pressione
a causa delle esigenze di altre zone di guerra . Il suo prossimo obiettivo era infatti l’Africa
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orientale italiana, dove il governatore italiano, Amedeo di Savoia, duca d’Aosta, si trovò ad
affrontare un’impresa impossibile. Tagliato fuori da tutti i rifornimenti dal blocco navale
britannico, di fronte alla diffusa insurrezione della popolazione etiope, a corto di veicoli,
carburante e munizioni (la maggior parte delle quali risaliva al 1918), poteva ormai sperare
soltanto di rimandare il peggio. Per rovesciare l’impero italiano bastarono solo cinque divisioni
inglesi, due divisioni indiane che attaccarono dal Sudan, una sudafricana e due divisioni africane
dell’impero britannico dal Kenya. Iniziata il 21 gennaio, la campagna si concluse di fatto il 6
aprile con la caduta di Addis Abeba. L’imperatore Hailé Selassié fu rimesso sul trono etiope
sotto la supervisione britannica nel maggio del 1941. Nel giro di poche settimane, quasi tutto
l’impero italiano in Africa era giunto alla fine.
Le sconfitte in Africa e in Grecia non fecero uscire l’Italia dalla guerra ma misero in luce fino a
che punto il regime fascista non fosse riuscito a sviluppare una macchina militare moderna e un
apparato di comando e controllo capace di far corrispondere le ambizioni imperiali con le risorse
disponibili. Benché molte tesi recenti suggeriscano che l’esercito italiano fosse una forza di
combattimento sul campo piú efficiente di quanto lasci pensare l’immagine popolare del
dopoguerra, si tratta di un argomento ancora difficile da dimostrare in modo convincente.
Esistono meno dubbi sul fatto che i soldati italiani, se guidati in maniera sensata e dotati di
risorse adeguate, avrebbero combattuto con maggiore efficienza, e piú tardi nella guerra,
effettivamente, questo si dimostrò vero man mano che vennero lentamente apportati i necessari
cambiamenti. Né si può dubitare del coraggio di uomini che affrontarono condizioni difficili con
un equipaggiamento obsoleto e combatterono al meglio delle loro possibilità. Le truppe sconfitte
nel 1940-41, tuttavia, non erano né ben guidate né dotate di risorse efficaci e, di conseguenza,
l’effetto sul morale non poteva che essere debilitante. Il problema principale era la struttura
messa in atto per gestire lo sforzo bellico italiano. Mussolini aveva concentrato il processo
decisionale nelle sue mani, ma in campo militare le sue decisioni erano quelle di un dilettante,
incline a intervenire arbitrariamente e riluttante a seguire i consigli dei suoi comandanti. La
collaborazione tra i diversi corpi delle forze armate, inoltre, lasciava molto a desiderare . Nel 43

migliore dei casi, nel 1940 l’esercito italiano era equipaggiato per una guerra coloniale di portata
limitata, ma del tutto impreparato alla guerra mobile moderna: vi erano pochissimi cannoni
anticarro, l’artiglieria era antiquata (nel deserto, su 7970 cannoni da campo solo 246 erano stati
fabbricati dopo il 1930) e i carri armati erano leggeri, poco corazzati e poco potenti . Per quanto
44

Mussolini desiderasse delle forze armate in grado di condurre una guerra lampo, lo stato fascista
si rivelò un ostacolo permanente all’efficienza militare.
Dinanzi a una sconfitta su tutti i fronti, il Duce fu infine costretto a chiedere assistenza militare a
Hitler. Il 17 dicembre ne venne fatta formale richiesta, a cui il Führer acconsentí dopo qualche
esitazione. A quel punto, gli effetti dell’attacco improvvisato di Mussolini alla Grecia
minacciavano di destabilizzare l’intera regione balcanica, un’area in cui la Germania aveva
importanti interessi legati alla fornitura di materie prime e petrolio. La prospettiva di un
intervento britannico (il 2 novembre una missione della Royal Navy era arrivata ad Atene,
seguita poche settimane dopo dalle prime unità della RAF) lasciava presagire una replica della
precedente crisi scandinava, con una minaccia sul fianco tedesco proprio mentre fervevano i
preparativi della grande campagna contro l’Unione Sovietica . La sconfitta italiana, che già
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sembrava probabile nel dicembre del 1940, ebbe ripercussioni negative anche sulla reputazione
dell’Asse, le cui rivendicazioni politiche erano state pubblicamente enunciate nel Patto tripartito
solo tre mesi prima. La leadership tedesca accettò di aiutare gli italiani non per simpatia nei loro
confronti ma perché questo serviva gli interessi del Reich. Gli aiuti, come disse un ufficiale dello
staff di pianificazione dell’OKW, furono «concessi controvoglia e controvoglia accettati» . Il 13
46

dicembre, all’insaputa di Mussolini, Hitler aveva già ordinato alle sue forze armate di preparare
l’intervento in Grecia con il nome in codice Unternehmen Marita. Nei primi mesi del 1941,
previo consenso dei bulgari, le forze tedesche vennero spostate verso la frontiera bulgaro-greca.
Alla fine di marzo, la XII Armata, sotto l’Oberbefehlshaber Wilhelm List, con cinque corpi
d’armata e il supporto dell’VIII Fliegerkorps dell’aviazione, era schierata sul posto e
intenzionata a far cominciare l’invasione all’inizio di aprile. Ben poco di tutto questo era stato
concordato con gli italiani, che rimasero bloccati sul fronte albanese fino all’attacco tedesco.
Mentre procedevano i preparativi per dare stabilità ai Balcani, Hitler autorizzò il trasferimento di
risorse aeree e corazzate in Nordafrica per assistere gli italiani. Il X Fliegerkorps dell’aviazione,
comandato dal generale Hans Geisler, esperto in operazioni antinave, arrivò in Sicilia nel
dicembre del 1940 con 350 aerei e cominciò ad allestire le basi da cui neutralizzare la minaccia
alle operazioni di rifornimento italiane da parte degli aerei e dei sottomarini inglesi che partivano
da Malta. Il 16 gennaio, la portaerei Illustrious, che aveva effettuato le incursioni a Taranto, fu
danneggiata da aerei tedeschi. Anche se Malta non fu completamente neutralizzata, i ripetuti
attacchi aerei nella primavera del 1941 bloccarono l’attività navale britannica contro i convogli
italiani diretti verso la zona di guerra nordafricana, fino a quando gli aerei tedeschi non furono
richiamati nell’estate. A gennaio e febbraio del 1941, la 15. Panzerdivision e la 5. leichte
Division, che faceva parte della 21. Panzerdivision, furono spostate in Libia sotto il comando del
generale Erwin Rommel, uno dei grandi protagonisti della guerra dei carri armati in Francia.
L’Afrika Korps tedesco forní un nuovo slancio a un esercito italiano demoralizzato. Nel febbraio
del 1941, nella Libia occidentale erano rimaste solo sei divisioni italiane e un centinaio di aerei.
Graziani, comandante in capo in Nordafrica, ebbe un crollo nervoso e fu sostituito da Italo
Gariboldi. Insieme con i corpi d’armata tedeschi arrivarono altri mezzi corazzati italiani, e
Rommel si attivò subito per mettere alla prova le potenzialità dell’impero britannico.
L’operazione Sonnenblume (Girasole) era stata progettata dal quartier generale di Hitler con
l’intento di procedere con un’avanzata limitata verso una linea a est di Tripoli, maggiormente
difendibile, ma Rommel intuí che le forze nemiche di fronte a lui, esaurite da settimane di
inseguimenti nel deserto, non erano in grado di ostacolarlo. Le forze dell’impero britannico
erano sparpagliate qua e là e il numero dei loro carri armati pesantemente ridotto dopo
l’operazione Compass. Rommel respinse gli inglesi attraverso il deserto, e gli sforzi per tenerlo a
freno da parte dell’alto comando di Hitler e del comandante italiano in Libia fallirono
completamente. Gariboldi, seppure di fatto superiore di grado a Rommel, non riuscí a far sí che il
comandante tedesco seguisse il piano italiano. Rommel, al contrario, si spinse verso Tobruk, che
assediò l’8 aprile 1941. Anche se Rommel era generalmente sprezzante nei confronti dei suoi
alleati italiani – oltre a dirsi scioccato dal livello scadente del loro equipaggiamento –, la
controffensiva nel deserto fu senza dubbio uno sforzo congiunto tedesco-italiano e offrí per la
prima volta agli italiani la prospettiva di una vera vittoria.
Il brusco rovesciamento delle sorti della guerra nel deserto libico fu essenzialmente il risultato di
una decisione politica raggiunta a Londra, in base alla quale la Gran Bretagna avrebbe dovuto
inviare una forza di spedizione in aiuto dei greci contro le forze dell’Asse. Nella primavera del
1939, gli inglesi si erano fatti garanti dell’indipendenza greca, insieme con quella della Polonia.
L’intervento in Grecia aveva tuttavia indebolito una già fragile presenza militare in Nordafrica,
lasciando l’Egitto e il Canale di Suez vulnerabili e senza nessuna prospettiva reale che la Grecia
potesse essere salvata una volta che le forze tedesche si fossero seriamente impegnate nella
guerra. Churchill, come Mussolini, desiderava fortemente una vittoria in Europa e, come
Mussolini, era incapace di far combaciare le ambizioni politiche con la realtà militare. Il 9
gennaio, dopo varie discussioni con i capi di stato maggiore e il gabinetto di guerra, Churchill
ottenne il suo scopo. Wavell, seppure fortemente contrario all’idea, fu incaricato di stornare le
forze dal fronte africano per aiutare i greci. «Quello di cui avreste bisogno voi altri», reagí
infuriato Churchill, «è una corte marziale e un plotone d’esecuzione» . Nonostante l’insistenza di
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Churchill, il dittatore greco Ioannis Metaxas era riluttante ad accettare gli aiuti britannici per il
timore di provocare cosí un’immediata invasione tedesca. Dopo la sua morte nel gennaio del
1941, il 2 marzo di quell’anno il nuovo primo ministro Alexandros Koryzis firmò tuttavia un
formale accordo militare con la Gran Bretagna, mentre incombeva la minaccia tedesca.
L’accordo rientrava nell’idea di un ampio fronte contro le potenze dell’Asse e Anthony Eden,
ministro degli esteri di Churchill, fu inviato nel Mediterraneo per negoziarlo. Arrivato ad Atene
il 19 febbraio, Eden intraprese un inutile giro della Turchia e della Jugoslavia per convincere i
due paesi a unirsi alla causa alleata. Nessuno dei due cadde nella rete, dato che era chiaro che la
Germania, per il momento, era la parte vincente – una realtà resa ancora piú evidente dal fatto
che in quel momento le forze britanniche erano in piena ritirata attraverso la Libia. Soldati
neozelandesi e australiani, sotto il comando del maggiore generale Bernard Freyberg, formarono
la W Force e sbarcarono nella Grecia continentale il 7 marzo. Come nell’intervento in Norvegia,
a cui quella campagna assomigliava molto, le forze britanniche furono ricacciate dopo sei
settimane di sforzi infruttuosi per sostenere un alleato ormai al collasso.
Quando il 6 aprile le forze tedesche si scatenarono contro la Grecia (un’operazione di cui
l’intelligence britannica era già a conoscenza grazie alle intercettazioni di Ultra), la situazione
politica era di nuovo cambiata. Il 25 marzo, il governo jugoslavo, che aveva respinto le proposte
di Eden, si era unito al Patto tripartito ma era stato immediatamente rovesciato da un colpo di
stato militare antitedesco. Eden sperò brevemente che Belgrado si sarebbe unita all’alleanza
greco-britannica, ma il nuovo regime jugoslavo era altrettanto diffidente nei confronti di un
impegno che avrebbe potuto provocare un’invasione tedesca. Il colpo di stato, tuttavia, era
riuscito a mandare su tutte le furie Hitler, e in pochi giorni la campagna contro la Grecia incluse
un’operazione per distruggere la Jugoslavia – operazione che ebbe inizio con un feroce
bombardamento su Belgrado. Con la sua direttiva Führerbefehl 25, Hitler spostò la XII Armata
di List in modo che si potesse mettere sotto attacco anche la Jugoslavia meridionale, creando al
tempo stesso nuove unità in Ungheria e Austria per un’offensiva da nord. Circa 900 aerei
vennero sottratti alla guerra contro la Gran Bretagna per far fronte alla nuova campagna militare.
In netto contrasto con il frettoloso e improvvisato dispiegamento delle forze italiane contro la
Grecia nell’ottobre del 1940, gli strateghi tedeschi realizzarono l’impossibile nel giro di due
settimane. Il 6 aprile 1941, l’offensiva ebbe inizio con trentatre divisioni, undici delle quali
corazzate. Quello che seguí fu un vero modello di guerra lampo. Pur combattendo su un terreno
montuoso difficile e in un paesaggio sconosciuto, le truppe tedesche spazzarono via le forze
jugoslave e greche. Il 17 aprile la Jugoslavia si arrese; il giorno 20 seguí un armistizio con la
Grecia, firmato dal comandante tedesco di un’unità locale. La resa incondizionata della Grecia
arrivò il giorno successivo, mentre la XII Armata di List presidiava il confine greco-albanese per
impedire l’ingresso alle forze italiane. Mussolini protestò, asserendo che quella era a tutti gli
effetti una vittoria italiana, dato che era la sua guerra. Il 23 aprile, con grande riluttanza, Hitler
permise agli italiani di presenziare a una seconda cerimonia di resa a Salonicco, dove il
comandante greco, il generale Georgios Tsolakoglou, fu costretto a riconoscere le rivendicazioni
italiane. La realtà dei fatti, in ogni caso, era ben presente agli italiani. Quando piú tardi, nel mese
di aprile, venne discussa a Vienna la distribuzione delle spoglie, fu evidente che il ruolo
dell’Italia era ormai quello di un mero satellite della potenza tedesca. La strategia confusa,
bellicosa e mal organizzata condotta nel 1940 da Mussolini aveva portato, sei mesi dopo, alla
definitiva estinzione di un impero italiano indipendente. «Il destino di noi alleati», si
rammaricava Ciano, «può essere tragico: il destino di una colonia» . 48

Per l’impero britannico gli esiti furono quasi altrettanto tragici. Il 14 aprile divenne chiaro che si
era resa necessaria una Dunkirk mediterranea. Pochi giorni dopo iniziò l’imbarco e 50 000
soldati, sia dell’impero sia greci, furono mandati sull’isola di Creta o in Egitto. Poiché una forte
presenza britannica a Creta rappresentava una costante minaccia alla sicurezza tedesca, fu
pianificata un’audace operazione con le truppe aviotrasportate d’élite del generale Kurt Student.
Il 20 maggio, i paracadutisti tedeschi toccarono terra e, nonostante perdite estremamente pesanti,
conquistarono la principale base aerea di Maleme. Aspri combattimenti per il dominio dell’isola
proseguirono nei dieci giorni successivi, ma i capi di stato maggiore britannici non avevano
alcuna intenzione di subire l’ennesima disfatta, e il 31 maggio la guarnigione britannica iniziò
l’evacuazione verso l’Egitto dopo aver perso 3700 uomini, 2000 dei quali tra gli equipaggi delle
navi da guerra della Royal Navy attaccate e bombardate dagli aerei tedeschi. Le sconfitte in
Grecia e a Creta confermarono l’impossibilità di mantenere una presenza britannica nell’Europa
continentale e, di conseguenza, il fatto che le ormai esigue forze presenti in Egitto erano ora
esposte a una minaccia ancora piú grave. Il gabinetto di guerra elaborò un piano di emergenza
nel caso in cui si fosse verificato il «peggior scenario possibile», ovvero abbandonare l’Egitto,
ritirarsi nel Sudan o addirittura retrocedere fino all’Africa meridionale. Il 24 aprile, Wavell, che
aveva contrastato quello che si era rivelato il fallimento della Gran Bretagna in Grecia, informò il
gabinetto di guerra a Londra di non avere a sua disposizione neanche una sola formazione che
potesse dirsi completa quanto a capacità organizzative ed equipaggiamento. «Stiamo
combattendo, come abbiamo fatto dall’inizio della guerra», aggiungeva Wavell, «con
improvvisazione e carenze di ogni tipo» . In Gran Bretagna circolava ormai la battuta che
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l’acronimo BEF (British Expeditionary Force) stesse ora per Back Every Fortnight («una ritirata
ogni 15 giorni»). I servizi d’informazione rivelarono la domanda che piú assillava l’opinione
pubblica: «I tedeschi ci batteranno sempre ogni volta che li incontreremo sulla terraferma?» . 50

Mentre era in corso la crisi in Grecia e a Creta, gli inglesi si trovarono ad affrontare un’ulteriore
minaccia alla loro posizione in Medio Oriente quando i nazionalisti iracheni organizzarono il 1°
aprile un colpo di stato volto a limitare l’influenza britannica e collaborare con le forze
dell’Asse. La crisi in Iraq era in fermento dal 1940, dal momento in cui era divenuto primo
ministro il nazionalista radicale Rashid Ali al-Kailani, un docente della facoltà di Legge di
Baghdad. Era sostenuto da una combriccola di ufficiali iracheni – conosciuta come al-Murabbaʿ
al-dhahabī (il «Quadrato d’Oro») – che vedeva nella sconfitta degli Alleati in Europa
un’opportunità per liberare l’Iraq dal residuo legame coloniale con la Gran Bretagna. Al-Kailani,
destituito il 31 gennaio 1941 dopo le forti pressioni del governo britannico, aveva fatto
comunque a tempo a stabilire contatti con tedeschi e italiani in previsione di un sostegno da parte
dell’Asse. Il suo colpo di stato militare ai primi di aprile costrinse il reggente, il principe Abd al-
Ilah, a fuggire nella Palestina sotto Mandato britannico. Rashid formò un «governo di difesa
nazionale» che fu quasi subito riconosciuto dalla Germania e dall’Unione Sovietica, le due
potenze che la Gran Bretagna paventava maggiormente come una seria minaccia alla regione . 51

Non è chiaro se Rashid volesse davvero un conflitto armato con le sfiancate forze inglesi ancora
presenti in Iraq, ma i capi dello stato maggiore britannico, temendo un’improvvisa calata della
Wehrmacht in Iraq dopo la penetrazione nei Balcani, approvarono l’operazione Sabine, che
prevedeva il trasferimento di migliaia di soldati inglesi e indiani nel porto meridionale iracheno
di Bassora, al fine di difendere le importanti concessioni petrolifere britanniche e la rotta di terra
verso il teatro di guerra nel Mediterraneo. Quando il governo di Rashid chiese che quelle truppe
fossero sgomberate, gli inglesi non solo rifiutarono, ma aggiunsero altri soldati, in violazione
dell’accordo anglo-iracheno sulla difesa. L’esercito dell’Iraq si preparò alla guerra. Il gran muftí
filotedesco di Gerusalemme, Amin al-Husayni, che si trovava a Baghdad dopo essere stato
esiliato dalla Palestina dai britannici, proclamò un jihād contro il nemico imperiale, chiamando i
musulmani alla guerra santa . Dopo che il 25 aprile fu concluso un trattato con l’Italia per la
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fornitura di armi, in cambio della promessa di concedere a Mussolini l’accesso al petrolio e alle
strutture portuali, gli armamenti iniziarono ad arrivare in Iraq attraverso la Siria controllata dal
governo di Vichy. Una volta chiuso l’oleodotto britannico verso Haifa, sulla costa orientale del
Mediterraneo, l’esercito iracheno si preparò a circondare e catturare la principale base aerea
britannica di Habbaniya, a 90 chilometri da Baghdad, sulle rive del fiume Eufrate. Il 1° maggio,
9000 soldati iracheni, sostenuti dall’artiglieria e da un certo numero di carri armati leggeri, si
trincerarono su un basso altopiano che dominava il campo d’aviazione e si prepararono alla
battaglia.
Apparentemente, le truppe erano distribuite in modo disomogeneo. A Habbaniya c’erano solo
1400 uomini dell’aviazione e dell’esercito, affiancati da 1250 soldati appartenenti agli Iraqi
Levies e reclutati dai britannici per sostenere la propria presenza militare nella regione. La base
ospitava un’unità di addestramento della RAF, con un eterogeneo assortimento di aerei obsoleti
per addestramento e nove caccia biplano Gloster Gladiator. Alle forze concentrate a Bassora fu
impedito di portare rinforzi immediati dopo che gli iracheni decisero di inondare la zona che
conduceva a Baghdad. Con grande riluttanza, data la debolezza delle posizioni britanniche in
Egitto, Wavell fu costretto a mettere insieme la Habforce, una colonna di soccorso mobile e
alquanto raffazzonata che partí dalla Palestina e dalla Transgiordania con lo scopo di salvare
l’Iraq. Habbaniya, in realtà, riuscí a salvarsi con le proprie forze. Per un’intera giornata, un
gruppo di istruttori e allievi piloti lanciò contro le posizioni irachene gli aerei da addestramento
carichi di bombe. Demoralizzato, a corto di acqua e di cibo e costantemente bombardato e
mitragliato, l’esercito iracheno si disgregò. Il 6 maggio, battendo in ritirata sulla strada per
Fallujah, si imbatté nelle riserve irachene in arrivo dall’altra parte. Nel caos che seguí, la RAF
inflisse un bombardamento mortale sugli uomini e sui veicoli rimasti privi di qualsiasi copertura.
L’esercito venne inseguito fino a Fallujah, che il 20 maggio, dopo una feroce battaglia, cadde in
mani britanniche. La completa distruzione causata dall’artiglieria e dalle bombe ricordò a un
soldato britannico le immagini «delle città martoriate nelle Fiandre durante la Grande Guerra» . 53

Nella settimana successiva, 1400 soldati della Habforce, saldamente spalleggiati da aerei
provenienti da Habbaniya e Bassora, mossero su Baghdad, e il 30 maggio Rashid al-Kailani, il
gran muftí al-Husayni e gli ufficiali del Quadrato d’Oro fuggirono in Iran e Turchia, lasciando
che il sindaco della città negoziasse un armistizio. Pur avendo subito perdite modeste, l’esercito e
l’aviazione dell’Iraq erano stati sbaragliati e la rivolta repressa. La natura del conflitto era ben
nota ai britannici: si trattava di utilizzare soldati del posto e truppe indiane per sostenere una
piccola forza britannica, partendo dal presupposto che il nemico, pur essendo numeroso, era
inadeguato dal punto di vista militare. «Per noi», scrisse Somerset de Chair, un ufficiale dei
servizi segreti a Habbaniya, «non fu che un’altra campagna lungo le rotte orientali del nostro
impero» .
54

Ad attribuire alla campagna irachena un’ulteriore urgenza era stato il timore che le forze
dell’Asse, ora arroccate nei Balcani e nell’Egeo, potessero cogliere l’occasione per dare manforte
alla rivolta e scardinare le già fragili posizioni della Gran Bretagna a cavallo del Medio Oriente.
Rashid cercò di usare i propri contatti con i tedeschi per convincerli ad appoggiare la causa
irachena, ma gli sforzi della Wehrmacht erano assorbiti dalla crisi nei Balcani, senza contare che
Hitler considerava la regione strettamente di competenza dell’Italia e della Francia di Vichy.
Solo quando la rivolta fu in atto sembrò possibile scalzare i britannici, ma il sostegno tedesco si
limitò a piccole spedizioni di armi, a una missione militare a Baghdad e a due squadriglie di
aerei, una di caccia pesanti Messerschmitt Me110 e una di obsoleti bombardieri Heinkel He111;
gli italiani inviarono una squadriglia di biplani Fiat CR-42. Una volta ottenuto dalle autorità
francesi di Vichy il permesso a utilizzare la base aerea di Aleppo in Siria, atterrarono a Mosul,
nel nord dell’Iraq, e vennero impegnati in sporadiche incursioni, anche se alla fine di maggio
avevano già perso il 95 per cento del contingente iniziale. Come gli italiani, i tedeschi erano
interessati soprattutto al petrolio dell’Iraq. Nel maggio del 1941 arrivò una missione petrolifera
tedesca per valutare lo stato dell’industria e vedere quali possibilità vi fossero di rilevarla una
volta che i britannici fossero stati espulsi, chiarendo cosí che il successo dell’Asse avrebbe
sostituito un padrone imperiale con un altro . L’intervento tedesco arrivò tuttavia troppo tardi e
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con una forza troppo limitata per riuscire a influenzare l’esito dello scontro. La direttiva di Hitler
Führerbefehl 30, pubblicata il 23 maggio, prometteva aiuti alla rivolta di Rashid, ma a quel
punto il conflitto era ormai praticamente concluso; una seconda direttiva, il Führerbefehl 32,
pubblicata l’11 giugno, chiariva che l’eliminazione degli inglesi dal Medio Oriente sarebbe
avvenuta solo dopo la fine dell’imminente campagna contro l’Unione Sovietica . Per Hitler, il
56

Medio Oriente era ancora un elemento secondario, al di fuori della sua visione strategica.
Per tutto il resto della guerra, lo sforzo tedesco, teso a sfruttare il sentimento antibritannico degli
arabi e provocare ulteriori rivolte armate, si limitò agli attacchi politici. La campagna di
propaganda rivolta al mondo arabo fu la piú grande offensiva politica lanciata dall’Asse. Il
ministero degli Affari Esteri tedesco gestiva già nell’aprile del 1939 una stazione radio in lingua
araba da Zeesen, a sud di Berlino, attraverso la quale, nel 1941, venne ripetuto 24 ore su 24 il
fondamentale messaggio che l’imperialismo britannico e gli ebrei erano i nemici principali del
mondo arabo e dell’islam e che i musulmani, ovunque fossero, dovevano sollevarsi contro di
loro . Le trasmissioni erano integrate da un flusso costante di volantini e opuscoli distribuiti per
57

via aerea in tutto il Medio Oriente, al punto da raggiungere nella primavera del 1942 un totale di
otto milioni di pubblicazioni. I tedeschi utilizzavano citazioni del Corano per sostenere la causa
della liberazione degli arabi dalla Gran Bretagna, definita «il criminale ingiusto e violento». Si
giocava con l’idea di una cospirazione mondiale ebraica che voleva rendere schiavi i popoli
arabi. Le SS pubblicarono in un milione di copie un opuscolo in cui si sosteneva che il Dajjal, il
malvagio re ebreo dell’escatologia islamica predetto nel Corano, sarebbe stato ucciso dal servo di
Dio, Hitler: «Egli ucciderà il Dajjal, come è scritto, distruggerà i suoi palazzi e getterà i suoi
alleati all’inferno» . La campagna non riscosse grande successo; la rivolta irachena fu l’unico
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momento in cui l’ostilità araba nei confronti delle ambizioni imperiali della Gran Bretagna sfociò
in aperta violenza. La propaganda radiofonica, inoltre, era ostacolata dalla carenza di apparecchi
radio – in Arabia Saudita ve n’erano solo 26 in tutto il paese, mentre le 55 000 presenti in Egitto
appartenevano perlopiú ai residenti europei –, senza contare che la strumentalizzazione del
Corano a sostegno di una palese motivazione politica suscitò il risentimento dei religiosi
musulmani. Il mullah iraniano Ruhullah Musavi, meglio conosciuto in seguito come Ayatollah
Khomeini, condannò la propaganda nazionalsocialista come «il prodotto piú velenoso e odioso
della mente umana» . Le dichiarazioni di antimperialismo da parte tedesca e italiana risultavano
59

difficili da sostenere dopo la brutale repressione delle popolazioni libiche arabe e berbere;
benché tenuti a rispettare le genti arabe del luogo, i soldati tedeschi in Nordafrica, secondo un
rapporto, riservavano loro il trattamento di razze inferiori, chiamandole «colorate», «negre» e,
nel massimo della confusione, «ebree» . 60

Dopo la rivolta irachena i britannici continuarono comunque a sentirsi pessimisti riguardo alle
continue minacce alla sicurezza della regione. Appena due settimane dopo la resa di Baghdad, il
capo dello stato maggiore imperiale, generale John Dill, disse al suo direttore delle operazioni:
«Suppongo che si renda conto che perderemo il Medio Oriente» . Il sostegno dato in Siria alle
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unità aeree dell’Asse dalle autorità di Vichy dimostrò ancora una volta che la Gran Bretagna non
poteva aspettarsi alcuna simpatia dall’ex alleato. In Siria e Libano vi erano consistenti forze
francesi, con almeno 35 000 soldati, provenienti sia dalla Francia sia dalle colonie, e 90 carri
armati. A Wavell venne ordinato di rimuovere tale minaccia, sicché l’8 giugno una forza
congiunta di truppe britanniche, australiane, indiane e soldati della Francia Libera si spostò
dall’Iraq verso ovest, in direzione di Damasco, e dalla Palestina verso nord, in direzione di
Beirut. Dopo aspri combattimenti, il comandante francese, il generale Henri Dentz, chiese un
armistizio. La Gran Bretagna assunse il controllo militare del territorio sotto mandato francese
mentre i soldati della Francia Libera cercarono di riaffermare, con alterne fortune, il loro
controllo sul governo civile . Le truppe e i funzionari britannici occupavano ora tutto il Medio
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Oriente, dall’Egitto alla frontiera iraniana, ovvero la massima estensione dell’influenza


britannica nella regione. Per mascherare la portata di tale controllo, si cercò di organizzare una
campagna per propagandare le virtú della democrazia britannica. Come i tedeschi, gli uffici
pubblicitari inglesi sfruttarono il Corano a sostegno della loro propaganda. Un manifesto a colori
vivaci distribuito in Iraq proclamava: «La religione dell’islam è lo spirito della democrazia […].
La democrazia è l’essenza del Corano» . La campagna peccava dell’evidente consuetudine
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britannica di usare le tradizionali pratiche imperiali per mantenere il controllo – con censura
della stampa, arresti sommari, deportazioni, consiglieri inseriti nel governo centrale e locale –,
pur predicando le virtú della politica liberale. La delegazione americana a Baghdad riferí a
Washington quanto profonda fosse la penetrazione degli inglesi negli apparati governativi ed
economici, tutti pensati «per servire il benessere dell’impero britannico» . Per gli inglesi
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rimaneva prioritaria la sicurezza delle linee di comunicazione e delle forniture di petrolio, anche
se alla fine del giugno 1941 emerse una nuova minaccia con l’invasione tedesca dell’Unione
Sovietica. Era ora possibile che le forze tedesche riuscissero a spingersi in Medio Oriente dal
Caucaso e avanzare parallelamente in Egitto; un incubo ancora peggiore era rappresentato
dall’eventualità che Giappone e Germania potessero unire le loro forze per cacciare
completamente i britannici e i loro alleati dall’Eurasia.
Il fenomeno Mackinder.
Il geografo inglese Halford Mackinder è famoso per aver sostenuto l’idea che lo spazio
continentale eurasiatico, dall’Europa centrale all’Oceano Pacifico, fosse il «cuore» geopolitico
del mondo. Il controllo delle risorse di questa vasta massa terrestre, l’«Isola mondiale», avrebbe
portato con sé il dominio della «periferia esterna» degli stati che si affacciavano sul mare. «Chi
comanda il Cuore della Terra comanda l’Isola mondiale» , scrisse nel 1919. Mackinder fu il
65

primo a proporre tale concetto in un articolo del 1904, The Geographical Pivot of History (Il
perno geografico della storia), mettendo in guardia gli inglesi sulla possibilità che la loro
potenza globale potesse essere ribaltata grazie alle moderne comunicazioni, che rendevano ora
possibile lo sfruttamento delle vaste risorse materiali del Cuore. Nel 1919 ipotizzò perfino che la
Germania e il Giappone avrebbero potuto dominare insieme l’Eurasia a spese della Russia e della
Cina: la Germania, con i piedi ben piantati nell’Europa centro-orientale; il Giappone, con il
vantaggio di «un fronte oceanico» . L’idea ebbe poca presa in Gran Bretagna e sarebbe potuta
66

rimanere nell’oscurità se non fosse stato per il geografo tedesco Karl Haushofer, che aveva letto
il lavoro di Mackinder e si stava dedicando allo studio del «perno» geografico già negli anni
immediatamente successivi alla Grande Guerra. Fu Haushofer a divulgare il termine
«geopolitica» per descrivere la stretta correlazione tra elementi geografici e potenza di una
nazione. Uno degli studenti di Haushofer, all’istituto di Monaco dove lavorava, era il giovane
Rudolf Hess, futuro vice di Hitler nonché uno dei primi membri del Partito nazionalsocialista.
Hess presentò Hitler a Haushofer, che forní al futuro Führer vari testi su argomenti geopolitici da
leggere durante la sua incarcerazione nella prigione di Landsberg dopo il suo fallito colpo di
stato del 1923 .
67

Anche se è difficile risalire al legame preciso con Mackinder, non è improbabile che Haushofer
abbia fornito a Hitler un resoconto indiretto del «perno» geografico. All’epoca in cui Hitler
dettava il Mein Kampf al suo compagno di prigionia Hess, egli aveva già chiaramente assimilato
l’idea che il destino tedesco era da ricercare nel Cuore della Terra: «Solo uno spazio vasto e
adeguato in questa zona centrale», scriveva Hitler, «può assicurare alla nazione la libertà di
esistere», e tale spazio si collocava in un immaginario «Est» . Haushofer, in seguito, lodò la
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«maestria geopolitica» di Hitler, che rispecchiava la sua visione di quelle che definiva «potenze
conquistatrici di spazio», un’idea tratta dai suoi viaggi nell’impero britannico di cui ammirava
anche l’abilità geopolitica. Haushofer sperava che la Germania avrebbe contribuito a costruire
una potenza terrestre eurasiatica che avrebbe relegato in un angolo e sovrastato la potenza
marittima anglosassone. Il suo primo studio sulla colonizzazione giapponese in Corea e
Manciuria lo convinse che anche il Giappone avrebbe potuto prendere parte al progetto in veste
di «partner di una politica continentale mondiale dotato di una precisa veduta continentale» . Nel
69

1913 pubblicò un importante studio sulla posizione del Giappone nel mondo e sul suo futuro
geopolitico come «Grande Giappone». Nel Sol Levante la geopolitica divenne popolare negli
anni Trenta in quanto sembrava confermare scientificamente la validità dell’espansione
territoriale nipponica come mezzo per scalzare l’egemonia occidentale. In Nippon chiseigaku
sengen (Manifesto della geopolitica giapponese), scritto nel 1940, lo studioso Tsunekichi
Komaki auspicava il primato del Giappone in tutta l’Asia orientale . Il Cuore della Terra di
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Mackinder, apparso come ipotesi astratta sulla futura struttura di potere nel mondo, finí per
divenire una descrizione del modo in cui gli imperialisti tedeschi e giapponesi cercavano
l’Eldorado del dominio eurasiatico. La fantasia che l’ordine geopolitico mondiale potesse essere
ribaltato da una conquista territoriale su larga scala fu la piú estrema delle ambizioni
espansionistiche perseguite da Germania e Giappone negli anni Trenta e Quaranta. Eppure, l’area
che ora cercavano di occupare era una vasta estensione geografica che si aggiungeva a quella già
acquisita e avrebbe dovuto essere conquistata a spese di tre degli stati piú potenti del mondo. Il
divario tra l’immaginazione e la realtà geopolitica poteva essere colmato solo dal connubio di
arroganza razziale e deliberato disinteresse per le reali condizioni militari e geografiche.
Mackinder non si era mai aspettato che il Cuore della Terra fosse conquistato interamente
dall’esterno; nel corso della storia nessuno stato esterno all’Eurasia vi aveva mai stabilito una
sovranità permanente.
La fantasia geopolitica non è tuttavia sufficiente a spiegare la tempistica delle decisioni in merito
alla conquista: in entrambi i paesi, in realtà, esistevano forti fattori economici, strategici e
ideologici che sostenevano e completavano nel breve periodo una visione piú ampia del potere
eurasiatico. Nel caso di Hitler, la decisione di colpire l’Unione Sovietica si sviluppò in modo
progressivo, in risposta a una serie di circostanze mutevoli, nelle quali le fantasiose ambizioni
imperiali potevano essere considerate necessarie e ineluttabili dallo stesso Führer, dalle sue forze
armate e da ampia parte dell’opinione pubblica tedesca. La decisione spettava comunque a
Hitler. Come era accaduto nel 1939 durante i preparativi della guerra contro la Polonia, il Führer,
una volta presa finalmente una decisione, non permise piú che gli facessero cambiare idea, anche
se Göring e Von Ribbentrop, due tra i suoi piú stretti collaboratori, cercarono per mesi di
persuaderlo che la strategia piú sensata sarebbe stata quella di eliminare prima la Gran Bretagna.
Era una decisione avvolta dall’incertezza. Nel dicembre del 1940, quando il comandante in capo
della Wehrmacht, il feldmaresciallo Walther von Brauchitsch, chiese all’aiutante di campo di
Hitler se il dittatore stesse solo bluffando in merito ai piani di invasione dell’Unione Sovietica,
gli fu assicurato che il Führer era piú che mai deciso a procedere. Un mese dopo, lo stato
maggiore dell’OKW era ancora cosí scettico sul fatto che Hitler fosse «fermo nelle sue
intenzioni» da aver bisogno di essere nuovamente rassicurato del fatto che la decisione era ormai
irrevocabile e non sarebbe piú stata messa in discussione .
71

Fino a quel momento, il piano della campagna militare si era sviluppato in una sorta di vuoto. In
Hitler esistevano motivazioni contrastanti, poiché lottava ancora con il problema di sconfiggere
l’impero britannico, affrontare la minaccia «giudaico-bolscevica» a est e soddisfare il suo
desiderio di conquistare un vero spazio vitale per il popolo tedesco. La causa scatenante fu il
rifiuto del governo di Churchill di arrivare alla pace. Alla fine del luglio 1940, convocando i capi
delle forze armate per discutere la strategia futura, Hitler annunciò di voler annientare lo stato
sovietico in un unico grande scontro militare nella primavera dell’anno seguente, anche se lo
scopo reale era privare la Gran Bretagna dell’ultima speranza in un’alleanza paneuropea. Nei
dieci mesi compresi tra agosto del 1940 e giugno del 1941, il leitmotiv antibritannico venne
ripetuto come un mantra strategico e ricomparve la mattina del 22 giugno 1941 nello
sconclusionato discorso alla nazione in cui il Führer annunciò l’inizio dell’operazione
«Barbarossa»: «È venuto il momento di contrastare questo complotto di guerrafondai giudaico-
bolscevichi e di governanti ebrei nella tana bolscevica di Mosca» . La volontà di distruggere
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l’Unione Sovietica per costringere la Gran Bretagna a un accordo suscitò scetticismo tra gli
strateghi militari, in particolare nel capo di stato maggiore Franz Halder, che nel gennaio del
1941 commentava cosí l’invasione: «Essa non incide sull’Inghilterra […] non dobbiamo
sottovalutare i rischi che stiamo correndo in Occidente» . Per Hitler, il pretesto britannico
73

mascherava una guerra di pura aggressione, occultata sotto forma di attacco preventivo causato
dalle azioni di altri – un ribaltamento della realtà identico a quello della precedente guerra contro
la Polonia.
In verità, la campagna militare contro l’Unione Sovietica non era solo un modo indiretto per
sconfiggere la Gran Bretagna. La potenza dell’Urss rappresentava un vero e proprio obiettivo di
guerra, non solo perché costituiva una grande minaccia all’edificazione dell’impero tedesco
nell’Europa orientale ma perché si collocava sul territorio del grande impero eurasiatico che
Berlino avrebbe governato. Nel 1940, l’idea iniziale di una campagna militare contro l’Armata
Rossa era stata suggerita ai primi di luglio dai vertici della Wehrmacht, ansiosi di sferrare un
duro attacco al fine di tenere l’Unione Sovietica a distanza e salvaguardare il confine orientale.
Era stato lo stesso Hitler a trasformare quel suggerimento in un piano piú grandioso, annunciato
il 31 luglio ai capi militari, con lo scopo di annientare lo stato sovietico prima che fosse troppo
tardi. Le manovre sovietiche negli stati del Baltico e in Romania costituivano una chiara
minaccia. L’intelligence tedesca riusciva a rilevare gli spostamenti di truppe sovietiche condotti
per rafforzare e presidiare la nuova frontiera occidentale con la Polonia occupata dai tedeschi –
la «Linea Molotov» –, mentre le basi aeree dell’Urss si facevano sempre piú vicine al confine,
poco distante da Berlino. Dopo la visita di Molotov nel novembre del 1940, Hitler dichiarò che
l’Unione Sovietica doveva essere distrutta il piú presto possibile, poiché l’appetito di Stalin
sembrava insaziabile. Lo scenario piú pericoloso, inoltre, sarebbe stato un attacco simultaneo
dell’alleanza anglo-americana a ovest e dei sovietici a est: «La grande preoccupazione del
Führer», ricordava Von Ribbentrop nelle sue memorie, era che la Germania venisse trascinata in
«una gigantesca guerra su due fronti, che avrebbe causato enormi distruzioni di vite umane e
proprietà» . La natura imponderabile dell’attuale situazione strategica faceva presagire come
74

militarmente razionale una rapida sconfitta dell’Unione Sovietica. Il 30 marzo 1941, in un


discorso di due ore e mezza rivolto a tutti i comandanti coinvolti nell’imminente campagna,
Hitler dichiarò che la distruzione dello stato sovietico avrebbe liberato la Germania dalla
«minaccia russo-asiatica per sempre» . Era un conflitto in cui i comandanti tedeschi si
75

identificarono di buon grado, nonostante i dubbi sulla sua fattibilità: «L’affermazione di Hitler
che i russi avrebbero colto il primo momento favorevole per attaccarci», ricordava Albert
Kesselring, comandante della 2. Luftflotte durante l’invasione, «mi sembrava indiscutibilmente
corretta». Era della massima importanza, proseguiva Kesselring, «tenere il comunismo lontano
dall’Europa occidentale» – un atteggiamento che sarà possibile ritrovare dieci anni dopo, al
culmine della guerra fredda .
76
Pur accettando che una guerra tedesco-sovietica fosse strategicamente necessaria, i comandanti
militari del Reich non si chiedevano la cosa piú importante, ovvero a che cosa servisse in
definitiva la conquista dello sterminato territorio eurasiatico. Alla base di tutte le motivazioni di
Hitler, secondo le quali era costretto dalle circostanze a fare la guerra, restava la sua convinzione
che la conquista avrebbe creato un impero tedesco indistruttibile, di dimensioni sterminate e
potenzialmente inattaccabile dalle grandi potenze marittime. Benché riluttante a rivedere una
strategia di puro imperialismo, a meno che non fosse necessario per la conquista di un ulteriore
Lebensraum, il 9 gennaio 1941, durante una lunga riunione con i suoi generali, aveva
rammentato loro le «incommensurabili ricchezze» di materie prime e terre che sarebbero cadute
in mano tedesca. Una volta che l’impero si fosse esteso fino in Russia, continuò Hitler, la
Germania avrebbe avuto «tutti i mezzi possibili per condurre guerre contro interi continenti» . La 77

conquista territoriale che Hitler aveva indicato nell’agosto dell’anno precedente, ovvero da
Archangel’sk nel nord fino ad Astrachan’ nell’estremo sud, avrebbe fornito ai tedeschi le terre
che meritavano, ricavate dall’«Isola mondiale» di Mackinder. «Questo spazio in Russia», disse
Hitler alla sua cerchia pochi mesi dopo, «dovrà essere sempre dominato dai tedeschi» . Era 78

l’apoteosi della decennale fantasia tedesca sull’«Est», inteso come spazio imperiale.
Tutte queste motivazioni si rafforzavano a vicenda, offrendo a Hitler un cocktail micidiale per
giustificare le sue azioni, ma il premio in palio sarebbe stato un impero tedesco eurasiatico
difficilmente immaginabile solo due anni prima. Mentre la sua decisione si consolidava
lentamente tra luglio e dicembre del 1940, le forze armate procedettero a definire
dettagliatamente il piano. Il documento finale che Hitler avrebbe dovuto approvare o correggere
a metà dicembre si basava su due grandi studi condotti dalla Wehrmacht e dal quartier generale
del Führer. Il primo studio, intrapreso dal generale maggiore Erich Marcks, era stato completato
ad agosto e proponeva due assi d’assalto, uno verso Leningrado e uno finalizzato a impadronirsi
dell’industria ucraina, prima di spostarsi poi da sud e da nord per accerchiare Mosca. In privato,
Marcks si diceva pessimista nei riguardi di una campagna i cui obiettivi ultimi si estendevano da
Archangel’sk al Volga e che avrebbe potuto provocare una guerra ancora piú grande contro gli
Stati Uniti, ma i suoi timori non arrivarono mai a Hitler . Il secondo studio era stato predisposto
79

dal tenente colonnello Bernhard von Lossberg su indicazione del quartier generale di Hitler.
Completato a metà settembre, il piano Lossberg prevedeva tre azioni separate: una a nord per
occupare i porti del Baltico, necessari per i rifornimenti; una al centro, con il grosso delle
divisioni corazzate e motorizzate, destinata a prendere Mosca; una a sud, che si sarebbe estesa a
ventaglio per occupare Odessa e la costa del Mar Nero e accaparrarsi le ricche risorse
dell’Ucraina; tutte e tre avrebbero dovuto essere completate in un’unica tornata di campagne
militari .
80

La bozza finale, che attingeva a elementi di entrambi i piani, fu presentata a Hitler il 5 dicembre,
dopo che aveva sfruttato la visita di Molotov come conferma del fatto che il destino lo chiamava
a eliminare la Russia, «che sempre, ogni volta che sarà possibile, si metterà sulla strada della
Germania». L’attacco su tre fronti fu l’opzione preferita, anche se Hitler intendeva concentrarsi
sulla presa di Leningrado e sulle risorse dell’Ucraina prima di muovere su Mosca. Jodl, il suo
capo delle operazioni, modificò di conseguenza la bozza della direttiva, anche se Halder e i
vertici della Wehrmacht speravano segretamente che Mosca fosse mantenuta come asse
principale dell’attacco. Il 18 dicembre, Hitler firmò il Führerbefehl 21, la direttiva di guerra su
un’operazione che aveva deciso di chiamare «Barbarossa», come l’imperatore del Sacro Romano
Impero che nel XII secolo aveva guidato la Terza crociata in Terra Santa. La direttiva era
enormemente ambiziosa e ignorava buona parte di altre considerazioni che mettevano in dubbio
il fatto che le forze armate tedesche potessero davvero sperare di conquistare e occupare un
territorio di tali dimensioni. Nell’agosto del 1940, il reparto di geografia militare dello stato
maggiore aveva presentato un dettagliato rapporto che evidenziava tutte le grandi risorse
industriali già insediate dai sovietici in Siberia nonché i semplici fattori topografici e climatici
che limitavano fortemente le possibilità di successo . Ancora al momento dell’invasione, il
81

generale Georg Thomas, capo dell’Ufficio economico delle forze armate, cercò senza successo di
dimostrare a Hitler che le forniture di petrolio erano assolutamente insufficienti. Sembra che nel
giugno del 1941 la risposta di Hitler fosse stata: «Quello di cui manchiamo, ma di cui abbiamo
bisogno, lo dobbiamo conquistare» . 82

I lunghi mesi dedicati alla discussione e alla pianificazione avevano avuto alla base una serie di
presupposti che non erano mai stati messi seriamente in dubbio ai massimi livelli. Si dava per
scontata la capacità delle forze armate tedesche di sconfiggere l’Armata Rossa. Il «piano
Marcks» prevedeva una campagna compresa tra le otto e le undici settimane, una sorta di
versione ampliata della sconfitta della Francia; Von Lossberg riteneva invece che le tappe
principali, necessarie per raggiungere il traguardo, potessero richiedere dalle nove alle diciassette
settimane. Le convinzioni sulla fragilità dello stato comunista, sull’incompetenza e il basso
morale dei comandanti e dei ranghi dell’Armata Rossa si traducevano in giudizi sistematici,
casuali e imprecisi. «Il colosso russo», sosteneva il capo delle operazioni di Hitler, «si rivelerà
una vescica di maiale; basterà pungerla, e scoppierà» . Le forze armate continuarono a essere
83

notevolmente disinformate sullo stato reale dell’industria e della macchina militare sovietica. Un
«Manuale sulle forze militari dell’Urss», distribuito dall’intelligence della Wehrmacht nel
gennaio del 1941, sosteneva, sulla base di prove inconsistenti, che l’Armata Rossa fosse
«inadatta alla guerra moderna e incapace di opporre un’efficace resistenza». I generali tedeschi
descrivevano regolarmente il nemico con termini razziali dispregiativi come «mongoli» o
«asiatici», come «orde» piuttosto che eserciti, in una chiara rievocazione delle guerre coloniali.
A maggio, il generale Günther Blumentritt immaginò una campagna militare lunga da otto a
quattordici giorni contro un esercito di soldati «poco istruiti e mezzi asiatici», per di piú guidati
da ufficiali incompetenti. Brauchitsch ipotizzava una campagna della durata massima di quattro
settimane, con pesanti combattimenti vicino alla frontiera tedesco-sovietica e poi una serie di
operazioni di rastrellamento . Hitler avvertí i suoi comandanti che i russi si sarebbero dimostrati
84

un «avversario tenace», pur essendo una massa «priva di una leadership». Alla vigilia
dell’operazione «Barbarossa», predisse che ci sarebbero voluti quattro mesi per la vittoria, una
stima piú cauta rispetto alle ipotesi della maggior parte dei suoi comandanti .85

La fiduciosa convinzione che le forze armate tedesche fossero di gran lunga superiori al nemico
sovietico era alla base della strategia di una rapida vittoria, essenziale per liberare la Germania da
ogni intoppo per impossessarsi delle risorse necessarie in vista del confronto con la Gran
Bretagna e gli Stati Uniti. La pianificazione tattica, tuttavia, non aveva considerato a sufficienza
il problema legato all’approvvigionamento di truppe sparpagliate su un’area geografica
sterminata, in cui il terreno e il clima erano completamente diversi da quelli delle precedenti
operazioni condotte in Europa. Fin dall’inizio, si poteva dubitare della capacità dell’esercito
tedesco di condurre una guerra mobile e prolungata su un territorio dove solo il 5 per cento delle
strade aveva una pavimentazione compatta. Il rifiuto di prendere sul serio tali difficoltà appare
ancora piú sorprendente se si considera che molti comandanti esperti, tra cui Halder, avevano
servito sul fronte russo durante la Grande Guerra. Ciò nonostante, fu proprio Halder a concludere
che «tutto deve essere realizzato con il motore. Aumentare la motorizzazione» . Per l’operazione
86

«Barbarossa», la Wehrmacht aveva a disposizione 600 000 veicoli, ma molti erano camion e
furgoni precedentemente sequestrati e di difficile manutenzione, o per i quali non era facile
trovare pezzi di ricambio. La campagna iniziò con piú di 2000 tipi diversi di veicoli. La difficoltà
di reperire ulteriori mezzi di trasporto motorizzati significò dover fare affidamento su ben 750
000 cavalli, molti dei quali dovevano essere condotti o cavalcati fino al fronte perché avrebbero
occupato troppo spazio sui trasporti su rotaia, senza contare che nessuno di quegli animali era
abituato alle temperature estreme della Russia, dalla soffocante calura dell’estate al freddo
dell’inverno . I rifornimenti su strada ferrata, su cui le forze tedesche contavano fin dal 1939,
87

non erano garantiti durante la campagna in Unione Sovietica, dato che le locomotive e il
materiale rotabile tedesco non potevano essere utilizzati sui binari sovietici a largo scartamento,
che avrebbero dovuto essere quindi sostituiti dai tecnici tedeschi in tutta la Russia europea. Per
alleviare le probabili impasse nei rifornimenti, si ricorse all’improvvisazione. I carri armati
trasportavano il doppio del carico abituale di carburante e munizioni e trainavano rimorchi con
200 litri di benzina, in modo da risultare mobili piú a lungo . Il terreno dissestato, tuttavia, non
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poteva che aumentare il consumo di carburante, esacerbando una situazione già critica per
quanto riguardava le scorte di petrolio. Rimaneva comunque la convinzione che la campagna si
sarebbe conclusa cosí rapidamente da poter soprassedere su una potenziale crisi logistica . 89

Da novembre del 1940 a maggio del 1941 i preparativi si intensificarono. A metà novembre,
Hitler autorizzò Fritz Todt, generale plenipotenziario per l’edilizia, a iniziare i lavori per un
nuovo quartier generale a est, su un’area di 250 ettari di bosco vicino alla città di Rastenburg,
nella Prussia orientale. Dissimulando i cantieri come quelli di una nuova fabbrica chimica,
l’Askania Nord, venne costruita una vasta rete di bunker, fortini e uffici, circondati in seguito da
filo spinato, bastioni di cemento e campi minati, da cui Hitler avrebbe condotto la sua piú grande
campagna militare. Al sito venne dato il nome Wolfsschanze (Tana del lupo). Mentre gli Alleati
gestivano lo sforzo bellico dalle loro capitali, Hitler scelse di condurre la campagna isolandosi
dagli apparati ministeriali e militari di Berlino e costringendo i visitatori a viaggiare con un treno
navetta che faceva la spola tra la capitale tedesca e il nuovo quartier generale . Si continuò con
90

una pianificazione dettagliata, ma era necessaria la segretezza assoluta per evitare che Stalin e
l’Armata Rossa capissero che cosa stava per travolgerli. Man mano che i soldati e gli aviatori
venivano gradualmente spostati verso est, si continuava a fingere che fossero lí per riposare e
prepararsi cosí all’azione militare contro la Gran Bretagna. Le informazioni erano cosí riservate
che gli stessi militari tedeschi furono messi al corrente dell’operazione che stavano per
intraprendere solo poche ore prima del suo inizio. Correvano diffusamente voci secondo cui i
russi avevano concesso l’autorizzazione ad avanzare verso il Medio Oriente attraverso il suolo
sovietico, cosí da poter circondare le forze dell’impero britannico – una strategia che avrebbe
avuto un profondo effetto sul futuro corso della guerra . Quando finalmente partí, l’operazione
91

«Barbarossa» fu una sorpresa per le truppe di entrambe le parti.


La guerra per il Lebensraum, come era avvenuto nel conflitto con la Polonia, richiedeva, oltre ai
preparativi militari, i mezzi per poter trasformare l’Eurasia in uno spazio coloniale. Hitler affidò
ancora una volta a Himmler e all’apparato di sicurezza alcuni «compiti speciali» che avrebbero
dovuto essere eseguiti da quattro Einsatzgruppen, composti complessivamente da circa 3000
effettivi, tra guardie della polizia di sicurezza e uomini delle SS e del Sicherheitsdienst (Servizio
di sicurezza). Essi avrebbero dovuto seguire le armate in Unione Sovietica con l’ordine di
decapitare il sistema comunista uccidendo i funzionari del partito, gli intellettuali, i commissari
militari e tutti gli ebrei al servizio dello stato. Il 30 marzo, Hitler aveva dedicato gran parte del
suo lungo discorso ai generali per spiegare loro che stavano partecipando a una guerra di
annientamento del nemico bolscevico e che erano autorizzati a usare i metodi piú brutali, liberi
dai vincoli delle convenzionali leggi di guerra. Uno dei presenti ricordò in seguito che i 250
ufficiali militari che avevano sentito quell’incitamento ad agire in maniera irregolare e illegale
avevano ascoltato senza battere ciglio o proferire parola. Non tutti erano d’accordo ad attenersi
alle condizioni stabilite da Hitler, ma molti sí. L’operazione «Barbarossa» doveva presentarsi fin
da subito come un tipo di guerra diverso. Mentre organizzava le squadre della morte, Himmler
inaugurò anche la pianificazione della nuova area coloniale sul modello della pulizia etnica già
implementata in Polonia in veste di Reichskommissar für die Festigung deutschen Volkstums
(RKFDV), ovvero commissario del Reich per il rafforzamento del carattere nazionale germanico.
L’iniziale Generalplan Ost, il Piano generale per l’Est elaborato nel 1940 dal vice di Himmler,
Konrad Meyer-Heitling, si estendeva solo fino alla frontiera tedesco-sovietica nell’ex territorio
polacco. Il 21 giugno, alla vigilia dell’operazione «Barbarossa», venne ordinato di stilare un
nuovo piano, che fu pronto dopo sole tre settimane ed estendeva la pianificazione territoriale fino
alle vaste regioni dell’Eurasia in cui slavi ed ebrei avrebbero dovuto fare spazio a insediamenti
tedeschi a lungo termine, in «zone di colonizzazione» da sviluppare nel giro di un trentennio . 92

Furono fatti anche preparativi per impadronirsi o sfruttare sistematicamente le risorse


economiche della regione, come previsto da Hitler. A febbraio e marzo venne attivato il
Wirtschaftsführungsstab Ost, una sorta di stato maggiore per l’economia dei territori orientali
posto sotto l’autorità di Hermann Göring e approvato ufficialmente dal responsabile del Piano
quadriennale il 19 marzo. Il suo personale contava piú di 6000 persone – il doppio che negli
Einsatzgruppen – e avrebbe avuto la responsabilità di confiscare le scorte di materie prime,
petrolio e derrate alimentari, nonché di amministrare le imprese industriali sovietiche destinate a
servire l’economia di guerra tedesca. I quattro ispettorati economici previsti avrebbero dovuto
operare in tutta la presunta zona di conquista, da Archangel’sk a nord e l’intera area circostante
Mosca fino a Baku e la frontiera iraniana a sud . Su istruzioni di Göring, lo sfruttamento
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pianificato dell’agricoltura fu affidato a Herbert Backe, segretario di Stato del ministero


dell’Agricoltura, che con estremo cinismo presentò la stupefacente statistica che, affinché il
grano potesse arrivare alla Germania e alle sue forze armate, nelle zone dei territori occupati
rimaste senza scorte di cereali sarebbero morti di fame circa trenta milioni di persone. Un decreto
segreto dell’aprile 1941, firmato da Paul Körner, il vice di Göring, autorizzava Backe ad agire in
maniera spietata. L’annuncio di quello che diverrà lo Hungerplan, il «Piano della fame», venne
fatto in una riunione di segretari di Stato il 2 maggio, un mese prima dell’invasione, senza che
venisse sollevata alcuna obiezione, né morale né di altro tipo. «I russi sopportano da secoli
povertà, fame e frugalità», sosteneva Backe. «Hanno lo stomaco elastico, quindi, nessuna falsa
pietà» .
94

Nel giugno del 1941, la piú grande forza d’invasione della storia era pronta. L’esercito contava
oltre tre milioni di uomini, 3600 carri armati e 7000 pezzi d’artiglieria organizzati in tre gruppi
d’armata, Nord, Centro e Sud, e affiancati da 2500 aerei. Il numero di mezzi corazzati e velivoli
non era sensibilmente diverso da quello usato un anno prima nella battaglia di Francia. Vi erano
però diciotto Panzerdivision e tredici divisioni motorizzate – un incremento rispetto alla
campagna precedente reso possibile dall’assegnazione a ciascuna divisione di un minor numero
di carri armati e veicoli. Le Panzerdivision impegnate nell’invasione della Francia avevano circa
300 carri armati ciascuna, mentre per l’operazione «Barbarossa» il numero fu di circa 150, a
eccezione della Heeresgruppe Mitte che ne aveva in media 210. Di questi, solo il 41 per cento
apparteneva ai migliori modelli Mark IV e Mark III, il resto era un insieme di carri armati leggeri
e di equipaggiamento catturato a cechi e francesi . Le settantotto divisioni di fanteria facevano
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principalmente affidamento su cavalli e carri e procedevano a piedi su lunghi tratti di campagna


desolata. L’esercito tedesco, in ogni caso, non era solo. Alla campagna si erano unite infatti le
truppe di Finlandia, Romania e Slovacchia e presto anche piccoli contingenti italiani e ungheresi,
che portarono il numero complessivo della forza d’invasione a 3,7 milioni di uomini, organizzati
in 153 divisioni.
Dato che la priorità di Hitler era quella di servire esclusivamente gli interessi della Germania, la
decisione degli altri stati di partecipare all’operazione «Barbarossa» richiede una spiegazione.
Nel caso della Finlandia e della Romania vi era il desiderio di riconquistare i territori persi contro
l’Unione Sovietica nel 1940, insieme con la prospettiva di conquistarne altri con l’obiettivo di
creare una «Grande Finlandia» e una «Grande Romania». Nonostante tutte le cautele del regime
finlandese nei confronti del legame con Hitler, la tentazione di ribaltare quanto accaduto nel
1940 andando contro l’aggressore sovietico aveva vinto ogni remora. Per resistere alla potenza
sovietica, come aveva affermato il portavoce del parlamento di Helsinki, «la Finlandia si
alleerebbe anche con il diavolo» . La campagna militare finlandese venne presentata come una
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crociata contro il comunismo ateo e all’esercito vennero assegnati 480 pastori luterani per
rafforzare il messaggio cristiano di quella che venne chiamata Jatkosota, o «guerra di
continuazione», per enfatizzare il legame con la guerra d’inverno del 1939-40 . La Finlandia era
97

stata resa partecipe dell’operazione segreta «Barbarossa» perché una parte delle forze tedesche
avrebbe dovuto schierarsi nell’estremo nord del paese, a difesa degli interessi minerari tedeschi
in Scandinavia. In Finlandia venne addirittura istituito un piccolo Einsatzgruppe, che fu poi
responsabile dell’uccisione di circa 1000 persone tra ebrei e comunisti. Il governo finlandese non
si sarebbe comunque spinto oltre. Una volta riconquistati i territori perduti, le forze finlandesi si
fermarono prima di prendere parte all’assedio di Leningrado e non aiutarono i tedeschi nella loro
avanzata verso Murmansk. Dal novembre 1941, per usare le parole del presidente Risto Ryti, la
Finlandia avrebbe combattuto una «guerra separata» . 98

La Romania era l’unico altro grande alleato pronto a dare inizio all’invasione. Con l’esercito
tedesco già impegnato a proteggere il petrolio romeno, la campagna contro l’Unione Sovietica
non poté essere tenuta nascosta. Pur ammirando il dittatore romeno, il maresciallo Ion
Antonescu, che aveva saldamente stabilito il suo dominio come Conducător nella primavera del
1941, Hitler aveva nel complesso una cattiva opinione dei romeni e delle loro forze armate. Il
regime romeno si era rivelato infatti piuttosto cauto a unirsi all’invasione tedesca dopo che
nell’agosto del 1940 il Führer aveva insistito nel Secondo Arbitrato di Vienna affinché la
Romania restituisse parte della Transilvania all’Ungheria; si pensava tuttavia che solamente
insieme con la Germania sarebbe stato possibile impedire all’Unione Sovietica di minacciare
quanto rimaneva dell’integrità territoriale dello stato, e forse anche ribaltare i termini
dell’accordo di Vienna. Ugualmente al caso dei finlandesi, la guerra veniva vista come una
crociata – Războiul sfânt contra bolşevismului, la «grande guerra santa contro il bolscevismo»,
per dirla con le parole del vicepresidente Mihai Antonescu . Il regime mobilitò il gruppo
99

d’armata di Antonescu, composto da 325 685 uomini della III e IV Armata romena. Nonostante
formalmente fossero comandate da Antonescu, le unità furono integrate nella Heeresgruppe Süd
in vista della marcia verso Odessa. Anche se alcuni politici romeni avrebbero voluto fermarsi
alla frontiera della Bessarabia e della Bucovina settentrionale, non appena fossero state
riconquistate, Antonescu si rese conto che, una volta assunto l’impegno, la Romania avrebbe
dovuto combattere fino alla sconfitta dell’Unione Sovietica o subire una severa rappresaglia . 100

La Slovacchia e l’Ungheria si associarono all’operazione «Barbarossa» con minor entusiasmo. Il


governo slovacco, spinto a collaborare dal fatto che le forze tedesche avrebbero lanciato verso
sud l’invasione muovendo in parte dal territorio slovacco, contribuí soltanto con due divisioni a
difesa delle retrovie e con un piccolo gruppo mobile collegato alla Heeresgruppe Süd, sgominato
poi nel luglio successivo da un contrattacco sovietico. Neppure il governo ungherese, con il
reggente Miklós Horthy, era entusiasta di unirsi alla campagna, anche se qualche generale
magiaro sperava di poter ricostituire in tal modo i piú vasti confini dell’«Ungheria storica».
Horthy e il suo gabinetto autorizzarono infine la partecipazione alla campagna di Russia solo
dopo che tre bombardieri, presumibilmente sovietici, attaccarono la città di Kassa il 26 giugno,
fornendo un corpo mobile di circa 45 000 uomini che, a detta di un comandante ungherese,
partirono senza «nessun grande entusiasmo» per una guerra di cui non riuscivano a capire lo
scopo . L’idea di una «crociata» europea contro il bolscevismo non ebbe un grande impatto e fu
101

usata dalla propaganda tedesca solo per fornire una superficiale giustificazione morale
all’aggressione. Due giorni prima dell’inizio dell’operazione «Barbarossa», Alfred Rosenberg, il
futuro capo del Reichsministerium für die besetzten Ostgebiete, cioè il ministero per i Territori
Orientali occupati, disse ai suoi collaboratori che non si trattava di una crociata per far piazza
pulita del bolscevismo, ma «per perseguire la politica mondiale tedesca e salvaguardare l’impero
germanico» .102

Questa cruda realtà dei fatti rende difficile spiegare perché Mussolini, le cui forze armate erano
già stremate in Nordafrica e nel Mediterraneo, si fosse offerto di inviare un corpo d’armata come
contributo italiano all’invasione. Anche se Hitler voleva che l’operazione «Barbarossa» fosse
tenuta completamente segreta all’alleato, fonti di intelligence italiane comunicavano con
regolarità i dettagli dell’imminente campagna. Il 30 maggio, senza informare Hitler, Mussolini
ordinò che venissero allestite tre divisioni – due di fanteria e una corazzata – da inviare verso est
una volta iniziata l’invasione . Hitler, seppure niente affatto contento di ricevere l’offerta italiana
103

due giorni prima dell’inizio dell’operazione «Barbarossa», ebbe difficoltà a rifiutarla. Gli italiani,
disse al suo assistente della Luftwaffe Nicolaus von Below, «non possiedono una forza di
combattimento degna di questo nome» . Con quel gesto, Mussolini cercava di cancellare
104

l’umiliante richiesta di aiuto che era stato costretto a rivolgere alla Germania alla fine del 1940.
Inoltre, cosí facendo, com’era avvenuto nella campagna di Francia, l’Italia avrebbe avuto un
piede nella porta di qualsiasi successivo accordo di pace europeo, anche se in questo caso l’Italia
restava un partner minore . Nell’agosto del 1941 Mussolini si recò personalmente sul fronte
105

orientale per esaminare con Hitler il contingente italiano appena arrivato in Ucraina. L’alleato
tedesco rivelò di avere piani ancora piú grandiosi per la primavera del 1942, visto che intendeva
proseguire oltre gli Urali, fino alla Persia e al Mar Caspio. «E dopo?» rispose Mussolini, irritato
una volta tanto dalle fantasie geopolitiche del suo collega dittatore, «piangeremo per avere anche
la luna come Alessandro Magno?» Secondo il racconto del suo interprete, Hitler rimase
«silenzioso, ma furibondo» .106

Dall’altra parte della frontiera tedesco-sovietica era difficile valutare esattamente quali fossero le
intenzioni del Reich. La leadership sovietica non ignorava la minaccia tedesca e Semën
Timošenko, commissario del popolo per la Difesa, aveva annunciato dopo la caduta della Francia
che la Germania era ora «il nemico piú importante e piú forte» . Stalin era consapevole che la
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sua iniziale speranza in una guerra logorante tra potenze capitaliste, da cui il mondo comunista
avrebbe tratto vantaggio, era stata vanificata dalla sconfitta francese, ma fino al giorno
dell’invasione cercò di evitare di provocare la Germania perché le forze sovietiche non erano
ancora pronte per una guerra di vasta portata. Nel gennaio del 1941, era stato negoziato un nuovo
accordo commerciale, e il fine settimana precedente l’attacco tedesco i treni sovietici, carichi di
preziose risorse, viaggiavano ancora verso la Germania. Il piano, in caso di guerra, prevedeva
che piccole unità di frontiera, al riparo di difese fisse, potessero reggere un attacco nemico
abbastanza a lungo da permettere la mobilitazione completa dell’Armata Rossa e ricacciare cosí
il nemico sul suo territorio. Nell’estate del 1941, tuttavia, quelle misure preventive non erano
state ancora completate: i nuovi corpi meccanizzati erano ancora in una fase organizzativa, le
fortificazioni sulla nuova frontiera erano ancora in costruzione e lo scoppio della guerra trovò un
piano di mobilitazione del tutto incompleto. Alla fine di aprile, il capo di stato maggiore
dell’esercito, generale Georgij Žukov, messo di fronte a un evidente incremento delle forze
tedesche, ordinò una mobilitazione a tappeto e il 13 maggio furono inviate nei territori
occidentali dell’Unione Sovietica trentatre divisioni, di cui solamente poche riuscirono a essere
equipaggiate entro giugno, mentre la fondamentale opera di mimetizzazione delle basi aeree
venne ordinata solo tre giorni prima che gli aerei tedeschi bombardassero e mitragliassero le file
di aerei sovietici ancora ben visibili sui campi d’aviazione . A ostacolare il procedere delle
108

operazioni era lo stesso Stalin, convinto che ogni notizia di intelligence, soprattutto se
proveniente da fonti occidentali, fosse una deliberata provocazione per innescare una guerra
tedesco-sovietica. Le ricognizioni aeree indicavano che i preparativi tedeschi erano ormai in una
fase avanzata, senza contare che 236 presunti agenti tedeschi erano stati catturati lungo la zona di
frontiera. Mosca ricevette piú di ottanta segnalazioni di intelligence, tra cui la data precisa
dell’attacco tedesco, tuttavia Stalin fu irremovibile . A metà maggio si valutò un possibile
109

attacco di disturbo per interrompere i preparativi tedeschi, ma non se ne fece poi nulla. La tesi
che tutto ciò facesse parte di un piano sovietico piú generale per invadere la Germania
quell’estate rimane incerta, se non altro per la nota preoccupazione dello stesso Stalin di evitare a
tutti i costi qualsiasi conflitto . Il 14 giugno, Žukov cercò di convincerlo a ordinare la
110

mobilitazione, ma Stalin rispose: «Questo vorrebbe dire guerra», e rifiutò . Fu solo nella notte
111

del 21 giugno che Timošenko e Žukov riuscirono finalmente a strappare a Stalin l’ordine di
innalzare lo stato di allerta, ma per i difensori ormai disorientati era troppo tardi; le bombe e le
granate tedesche cominciarono a cadere su di loro nelle prime ore del mattino seguente, mentre
ancora si decifravano i telegrammi di avvertimento .112

Hitler attese che la sua storica decisione prendesse forma in uno stato di evidente agitazione. Era
«nervoso e agitato», come ricordava il suo assistente della Luftwaffe. «Era garrulo, camminava
su e giú continuamente e sembrava attendere una qualche notizia» . Nikita Chruščëv scrisse in
113

seguito che anche Stalin, nei giorni precedenti il 22 giugno, sembrava un uomo «in stato di
confusione, ansia, demoralizzazione, perfino paralisi» . Quando la notte del 21 giugno inviò a
114

Mussolini la notizia dell’imminente invasione, Hitler ammise di aver passato «mesi di ansiosa
riflessione» riguardo alla «decisione piú difficile della mia vita», e questa volta stava dicendo
quasi certamente la verità. Alle 3.30 del mattino seguente le forze dell’Asse attaccarono lungo
tutto il fronte. Mentre i primi colpi venivano sparati, Hitler dettò il suo proclama al popolo
tedesco e con gli occhi gonfi dopo solo tre ore di sonno annunciò al Reichstag lo stato di guerra
con l’Unione Sovietica. Poi partí per la Tana del lupo. Hitler non era mai stato in Russia e sapeva
poco del popolo che si proponeva di conquistare. I suoi timori, come disse a Von Ribbentrop,
riguardavano «la forza che ci troveremo davanti quando avremo davvero aperto la porta
sull’Est» . Quando Stalin riuní il Politbjuro, a Mosca aumentò ulteriormente l’incertezza. Il
115

dittatore voleva «contattare urgentemente Berlino» per essere rassicurato che l’attacco non era
stato autorizzato da Hitler. Molotov si recò dall’ambasciatore tedesco per chiedere cosa stesse
succedendo, solo per sentirsi dire ufficialmente che i due paesi erano in guerra. «Che cosa
abbiamo fatto per meritarci questo?» fu la replica di Molotov. Una volta chiarita la situazione,
alle 7.15 del mattino, Stalin ordinò alle forze sovietiche di «annientare» l’invasore; la sera ordinò
all’Armata Rossa di portare la battaglia sul suolo tedesco .
116

Al fronte, la realtà era ben diversa. L’elemento sorpresa e i caotici preparativi sul lato sovietico
della frontiera incoraggiarono le forze dell’Asse ad avanzare senza sosta. I tre principali gruppi
d’armata operarono all’inizio con offensive autonome, progettate per intrappolare e annientare il
grosso dell’Armata Rossa prima che questa potesse ritirarsi al di là dei fiumi Dvina e Dnepr. La
Heeresgruppe Nord, incaricata di conquistare gli Stati baltici e Leningrado, attraversò la Lituania
il 26 giugno e si spinse in profondità in territorio lettone, per poi fermarsi ad attendere le
divisioni di fanteria. Riga cadde il 1° luglio e a metà mese i tedeschi si erano già spinti a soli 96
chilometri da Leningrado. La Heeresgruppe Mitte, sotto il comando del feldmaresciallo Fedor
von Bock e con il grosso dei mezzi corazzati, si mosse rapidamente in Bielorussia, catturando
Minsk con una manovra a tenaglia il 28 giugno e facendo 324 000 prigionieri. Bock marciò poi
su Smolensk, che cadde il 16 luglio dopo un aspro scontro sui lunghi fianchi delle divisioni
Panzer, organizzato da Timošenko nel disperato tentativo di arginare l’ondata tedesca. I
combattimenti piú duri si svolsero di fronte alla Heeresgruppe Süd, comandata dal
feldmaresciallo Gerd von Rundstedt, in quanto l’intelligence tedesca non aveva intercettato la
decisione sovietica di concentrare le forze lungo l’asse meridionale e proteggere cosí le risorse
industriali dell’Ucraina. Il Kievskij osobyj voennyj okrug (Distretto militare speciale di Kiev) fu
rinforzato con corpi meccanizzati che disponevano della maggior parte dei moderni carri armati
disponibili. Le zone di confine furono difese con feroce accanimento, e durante l’avvicinamento
a Dubno e Ostrog proseguí per una settimana una grande battaglia con mezzi corazzati che cercò
di impedire alla Wehrmacht di avanzare rapidamente verso Kiev ma in cui venne distrutta la
maggior parte dei carri armati sovietici. L’vov, situata sul percorso del fianco destro di Von
Rundstedt, fu infine occupata il 30 giugno. Il 2 luglio la V e la VI Armata dei sovietici erano in
piena ritirata . Le forze romene e tedesche dispiegate a sud riuscirono a occupare i «territori
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perduti» della Bucovina e Bessarabia solo alla fine di luglio e all’inizio di agosto iniziarono ad
attraversare il fiume Dnestr dirette verso Odessa. Le strade dissestate, le forti piogge e una
resistenza ostinata bloccarono il piano che prevedeva un attacco a tenaglia intorno a Kiev per
bloccare le forze dell’Armata Rossa a ovest dello Dnepr, per cui la marcia della Heeresgruppe
Süd si fermò prima di raggiungere gli obiettivi iniziali. L’avanguardia delle unità corazzate di
Von Rundstedt arrivò a distanza di tiro da Kiev solo a metà luglio. Il feldmaresciallo riferí
all’assistente della Luftwaffe di Hitler di «non essersi mai imbattuto in un avversario cosí valido
in nessun altro momento della guerra» .118

La rapida avanzata tedesca a nord e al centro del fronte scardinò i piani sovietici di difesa
preventiva. Nel giugno del 1941, erano disponibili forze consistenti lungo e dietro la frontiera –
forze che sulla carta superavano come equipaggiamento militare le truppe all’attacco: 186
divisioni con tre milioni di uomini, 19 800 pezzi d’artiglieria, 11 000 carri armati e 9500 aerei da
combattimento . La potenza aerea sovietica venne tuttavia neutralizzata nel giro di pochi giorni
119

dagli attacchi alle basi aeree, con la conseguente distruzione di circa 2000 velivoli; all’inizio di
luglio, le perdite totali erano arrivate a 3990 aerei, ma molti di quelli solo danneggiati non
potevano comunque essere facilmente riparati in quella che era ormai una zona di
combattimento. La maggior parte degli aerei sovietici erano obsoleti e tutti privi di radio, il che
rendeva quasi impossibile un loro controllo centralizzato. Il parco carri armati era composto
principalmente da vecchi modelli, male armati e mal corazzati, soprattutto il carro armato
leggero T-26; un esiguo numero di T-34, carri armati medi piú moderni e meglio equipaggiati, e
di pesanti KV-1 costituiva solo l’8 per cento del parco ed era suddiviso tra poche unità corazzate.
Seppure in grado di avere la meglio su tutti i carri armati tedeschi, erano comunque troppo pochi
per essere efficaci, e furono sopraffatti, ancora una volta, perché privi di radio . Ovunque sul
120

campo, l’esercito era a corto di munizioni e carburante, a causa del caos generato dai
bombardamenti 24 ore su 24; dei 340 principali depositi di rifornimenti militari, 200 furono
colpiti nelle prime settimane di combattimento, cosa che esacerbò il problema degli
approvvigionamenti. Le comunicazioni erano approssimative e si interruppero rapidamente con
l’avanzata tedesca, cosicché i comandanti non riuscivano a gestire i movimenti delle truppe sul
campo e nemmeno a sapere che cosa stava succedendo alle divisioni vicine. Delle 319 unità
militari – fanteria, truppe meccanizzate e cavalleria – immesse nella battaglia nel primo mese
dell’operazione «Barbarossa», quasi tutte furono distrutte o ridotte in pessime condizioni . Le
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massicce perdite dei sovietici erano dovute in gran parte alle rozze tattiche ereditate dalla Grande
Guerra, quando si ordinava semplicemente alla fanteria di avanzare a ondate successive contro il
fuoco delle mitragliatrici. Un rapporto tedesco, redatto sul fronte davanti a Kiev, descrisse quel
massacro, riportando che la fanteria sovietica era stata lanciata in avanti per quattro volte sotto
l’incessante fuoco nemico, fino a quando le mitragliatrici tedesche erano divenute troppo calde
per essere manovrate: «La furia degli attacchi», continuava il rapporto, «ci aveva esaurito e
paralizzato completamente. [...] Quella in cui ora eravamo impegnati sarebbe stata una guerra
lunga, amara e molto sofferta» . Laddove si rese possibile una difesa o una controffensiva
122

organizzata, grazie a una migliore leadership e ad adeguati rifornimenti, le forze sovietiche


dimostrarono di poter infliggere pesanti danni al nemico, ma la marea della Wehrmacht
continuava sempre ad avanzare in un’unica direzione. Alla fine di settembre del 1941, le
incredibili perdite di soldati sovietici (morti, dispersi o fatti prigionieri) ammontavano a ben 2
067 301 combattenti .123

I successi dell’inizio portarono un senso di euforia nello schieramento tedesco e sembrarono


confermare le previsioni prebelliche sulla fragilità sovietica. I piani di espansione previsti per
l’intera campagna sembravano finalmente realizzabili. Sono famose le parole che Halder annotò
nel suo diario il 3 luglio, quando era arrivato a constatare che «la campagna di Russia si è
conclusa con una vittoria in sole due settimane». L’euforia regnava ovunque: «La ragione per cui
non mi preoccupo della lotta sul fronte orientale», disse Hitler ai suoi ospiti a cena il 27 luglio,
«è che tutto ciò che là sta accadendo avviene esattamente come mi auspicavo avvenisse. Ho
sempre pensato che avere il sole a est fosse essenziale per noi». Due settimane dopo poteva
affermare riguardo ai territori della Russia: «Questo terreno è saldamente nelle nostre mani» . Il 124

23 luglio Halder ipotizzò che Mosca e Leningrado sarebbero cadute entro un mese, che l’esercito
avrebbe raggiunto il Volga entro ottobre e che infine sarebbe arrivato alle città petrolifere di
Baku e Batumi entro dicembre . Per mesi, i comandanti tedeschi ritennero che ai sovietici non
125

potessero essere rimaste consistenti riserve di forza lavoro ed equipaggiamenti dopo che la
Wehrmacht e la Luftwaffe avevano distrutto la maggior parte della potenza aerea e corazzata
presente al fronte e dopo aver visto quale fosse la realtà delle perdite sovietiche in termini di
prigionieri e di caduti. Si presumeva che uno stato che aveva subito perdite di tale entità, ben piú
grandi di quelle sofferte dalla Francia nel 1940, avrebbe chiesto la pace e portato l’operazione
«Barbarossa» a una rapida e vittoriosa conclusione. Le stime dell’intelligence britannica e
americana condividevano l’opinione che l’Unione Sovietica sarebbe stata presto sconfitta e che
le forze tedesche avrebbero raggiunto il Volga, confermando le pessimistiche valutazioni
prebelliche sulla capacità di resistenza dell’Urss. Anche se Gran Bretagna e Stati Uniti si
mossero per offrire all’Unione Sovietica costanti forniture militari, la convinzione che la
sconfitta sovietica fosse imminente comportò un’iniziale cautela, dettata dal timore che le
spedizioni potessero cadere in mani tedesche . 126

La convinzione che l’Armata Rossa fosse ormai sconfitta era, in verità, un’illusione ottica. Le
forze tedesche avevano dimostrato la loro abilità professionale nell’avanzare velocemente contro
una difesa disgregata, ma la campagna aveva anche messo in luce molti degli inconvenienti e
delle carenze che i pronostici prebellici piú pessimisti avevano ipotizzato. La previsione che i
soldati sovietici si sarebbero dimostrati un duro avversario venne confermata dalla loro
resistenza, al limite del suicidio, mostrata da diverse divisioni anche quando si trovavano
completamente tagliate fuori da ogni prospettiva di salvezza. Numerosi soldati russi, superati
dall’avanzata nemica, si erano ritirati nelle foreste e nelle paludi per tendere imboscate ai
tedeschi, rallentando le loro truppe e impegnandole a setacciare la zona per sradicarli. Il feroce
trattamento riservato ai tedeschi prigionieri innescò un orrendo ciclo di rappresaglie: l’esercito
tedesco e le unità di sicurezza uccidevano i presunti partigiani e soldati allo sbando e bruciavano
i villaggi che si pensava dessero loro ospitalità. I prigionieri venivano regolarmente eliminati da
entrambe le parti. Il generale Gotthard Heinrici descrisse in una lettera inviata alla moglie
all’inizio di luglio la triste realtà che gli uomini della sua divisione di fanteria dovevano
affrontare:
I russi che erano proprio di fronte a noi ora sono sgominati. L’intero evento è stato incredibilmente cruento. In alcuni casi non
abbiamo dato loro alcuna tregua. I russi si comportavano come bestie verso i nostri soldati feriti. A loro volta, i nostri uomini
fucilavano e picchiavano a morte chiunque indossasse un’uniforme marrone. Le vaste foreste sono ancora piene di soldati e
fuggitivi disseminati in giro, alcuni disarmati, altri armati ed estremamente pericolosi. Anche quando mandiamo intere divisioni
in queste foreste, decine di migliaia di loro riescono a evitare la cattura su questo terreno impraticabile 127.
Qualche settimana dopo, informava cosí la moglie: «Abbiamo tutti sottovalutato i russi», e due
giorni dopo aggiungeva: «La nostra rapida avanzata si è trasformata in un lento incespicare». Piú
tardi, lo stesso mese, rischiò addirittura la censura: «La guerra qui ha costi altissimi. Era proprio
necessaria?» . 128

La topografia e il clima contribuirono a creare ulteriori difficoltà. Sulle strade sterrate, la fanteria
e i veicoli sollevavano una polvere densa e soffocante mentre la pioggia improvvisa trasformava
quelle strade in fiumi di fango. Per tutti e tre i gruppi d’armata, le zone coperte di fitte foreste o
paludi erano difficili da percorrere, mentre le distanze apparentemente infinite, man mano che il
fronte si allargava, ponevano problemi ben diversi da quelli incontrati in Polonia o in Francia. La
fanteria era esausta per le lunghe marce forzate, la minaccia di imboscate improvvise e il caldo
soffocante. Un soldato scrisse a casa descrivendo la natura di quel paesaggio sconfinato: «Un
panorama infinito, in cui non si riesce mai a raggiungere l’obiettivo […] ed è sempre uguale» . 129

Un altro si lamentò delle «maledette foreste russe! Rendono impossibile capire chi è amico e chi
è nemico. Fatto sta che ci stiamo sparando addosso» . Gli effetti sulle migliaia di cavalli furono
130

ancora piú gravi, in particolare sui cavalli da tiro necessari per trainare l’artiglieria. A causa delle
lunghe distanze, delle strade inadeguate e del caldo intenso, i cavalli si sfiancavano nel giro di
pochi giorni, ma poiché le divisioni di fanteria dovevano cercare di raggiungere i mezzi blindati
che li precedevano, gli animali venivano spinti al limite e a volte morivano di sfinimento durante
il traino. I danni riportati da migliaia di veicoli aumentarono ulteriormente la dipendenza dai
cavalli, ma a novembre ne sopravviveva solo un 65 per cento, che ora avrebbe dovuto anche
affrontare il duro clima invernale con insufficienti riserve di foraggio . Le previsioni sulle
131

difficoltà di approvvigionamento si erano avverate quasi subito. Verso la metà di luglio erano
state convertite soltanto poche centinaia di chilometri di binari, accrescendo cosí la dipendenza
dai cavalli e dai veicoli. La Heeresgruppe Mitte aveva bisogno di ventiquattro treni di
rifornimenti al giorno, ma era tanto se ne riceveva la metà. Lungo tutta la linea del fronte, il
carburante scarseggiava in modo critico, tanto piú che le strade sconnesse e la polvere
rallentavano i carri armati e aumentavano il consumo di carburante, mentre i ponti mal costruiti
sulla rete fluviale russa erano spesso troppo fragili per sostenere veicoli corazzati e pesanti,
costringendo quindi a deviazioni che facevano consumare ancora piú carburante. Il problema dei
camion, che già di per sé costituiva una crisi logistica a causa dei tanti modelli diversi, era
aggravato dalle piste sabbiose che logoravano gli pneumatici e dalla polvere che intasava i
motori. «Stiamo combattendo su una massa di polvere rappresa», osservava un soldato a metà
luglio. Nelle prime quattro settimane, l’esercito tedesco perse un quarto della sua capacità di
trasporto; dopo altri mesi in cui merci e uomini vennero trasportati su binari inadeguati e in
situazioni metereologiche pesanti, le forze armate tedesche si ritrovarono a novembre con appena
il 15 per cento dei loro veicoli ancora funzionanti .
132

Quella vittoria fulminea era una scommessa basata su una lettura completamente errata delle
reali forze sovietiche e della natura della zona di combattimento, esattamente come era accaduto
quattro anni prima ai giapponesi, che non avevano ben capito quanto sarebbe stato difficile
infliggere una rapida sconfitta alle forze cinesi nelle vaste distese della Cina centrale. Le truppe
tedesche, impegnate a tenere a bada le persistenti azioni controffensive di un nemico
evidentemente non disposto ad accettare la sconfitta, anche se al momento troppo indebolito per
ottenere qualche successo determinante, avevano bisogno di riposare e rifornirsi lungo tutta la
linea del fronte. La situazione era resa ulteriormente complessa da nuove discussioni di natura
strategica, che erano state sospese anziché risolte nel dicembre precedente. Il 19 luglio, Hitler
ordinò con il Führerbefehl 33 di fermare l’avanzata della Heeresgruppe Mitte verso Mosca.
Alcune risorse furono dirottate a nord, per dare manforte all’accerchiamento di Leningrado, altre
a sud, in aiuto di Von Rundstedt, impegnato ad accerchiare intorno a Kiev un cospicuo gruppo di
truppe sovietiche per poi dirigersi verso il bacino carbonifero del Donbass (Doneckij Bassejn) e i
campi petroliferi del Caucaso. L’avanzata su Mosca avrebbe dovuto riprendere solo all’inizio di
settembre, una volta superata la crisi dei rifornimenti. I comandanti della Wehrmacht obiettarono
con forza, asserendo che una sconfitta dell’Armata Rossa intorno a Mosca avrebbe portato al
decisivo risultato finale, e tra la fine di luglio e l’inizio di agosto non vi fu alcuna iniziativa
strategica, mentre proseguivano le discussioni su quali dovessero essere le priorità. Hitler
riteneva che le risorse economiche dell’Ucraina fossero fondamentali e avessero un significato
strategico solo se fosse stato possibile estrarle e utilizzarle rapidamente, cosa di cui non esisteva
alcuna garanzia. Secondo il Führer, Mosca, al confronto, era un obiettivo «insignificante»: «I
miei generali non capiscono un bel niente degli aspetti economici di una guerra», si lamentò il 24
agosto con il generale Guderian, comandante della II Armata Panzer, che insisteva affinché le
sue forze si dirigessero verso Mosca anziché spostarsi a sud in Ucraina . Hitler, frustrato dopo
133

un mese di discussioni e combattimenti inconcludenti, ottenne tuttavia ciò che voleva. Guderian
guidò le sue truppe verso sud con meno della metà del contingente di carri armati necessario e,
dopo aspri combattimenti in condizioni meteorologiche avverse, si riuní alla fine con l’ala nord
di Von Rundstedt nella città di Lochvica, a est di Kiev, intrappolando cinque armate sovietiche
che Stalin aveva insistito dovessero rimanere a combattere in difesa della capitale ucraina. Il 19
settembre, la città cadde, mentre le armate sovietiche accerchiate combatterono accanitamente
per altri sei giorni prima di capitolare. Durante la campagna di Kiev vennero fatti 665 000
prigionieri, un risultato che fece pensare che la vittoria finale fosse davvero vicina.
Mentre la Heeresgruppe Süd, numericamente impoverita e prossima allo sfinimento, si spostava
oltre Kiev nella regione industriale del Donbass e in Crimea, le unità della Heeresgruppe Mitte,
inviate verso nord, aiutarono il gruppo d’armata del feldmaresciallo Ritter von Leeb ad
attraversare l’Estonia alla fine di agosto e raggiungere la periferia di Leningrado l’8 settembre.
Con la presa di Schlüsselburg venne tagliato l’ultimo collegamento via terra di Leningrado verso
l’interno. Aspri combattimenti lungo le linee di difesa improvvisate da migliaia di civili
continuarono fino al 25 settembre, quando Hitler riportò le unità nella Heeresgruppe Mitte. La
città fu posta sotto assedio, quotidianamente bombardata e colpita, inducendo Hitler a sperare
che gli abitanti morissero di fame, senza dover quindi costringere l’esercito a una costosa
campagna di guerra urbana. Il desiderio del Führer era che la città scomparisse del tutto: «È stata
concepita da slavi asiatici come porta d’ingresso in Europa. Quella porta d’ingresso deve essere
sbarrata» . A partire da ottobre, la città poté essere rifornita, benché solo sporadicamente,
134

attraverso il lago Ladoga, sul quale, quando gelò a metà novembre, fu costruita una precaria
«strada del ghiaccio» divenuta per i russi la doroga žizni, la «strada della vita». Nei rifornimenti
di cibo era stata data la priorità ai lavoratori e ai soldati, ma a dicembre anche loro ricevevano
solo 225 grammi di pane comune al giorno – appena 140 per il resto degli abitanti. Nei mesi
invernali, ben 900 000 abitanti di Leningrado morirono di fame e malattia in condizioni di stenti
spaventosi, finché a gennaio la «strada del ghiaccio» cominciò a rifornire la città con una media
di 2000 tonnellate di approvvigionamenti al giorno, che permisero ai sopravvissuti di superare un
assedio che finí solo nel 1943 .
135

Con la speranza di un successo a nord e a sud, Hitler permise finalmente alla Heeresgruppe Mitte
di ricostituire le proprie forze ed eliminare definitivamente quelle che riteneva fossero le ultime
riserve dell’Armata Rossa davanti a Mosca, radunate dal fronte occidentale e dalla Riserva
sovietica. Il Führerbefehl 35, emesso il 6 settembre, si concentrava principalmente sulla sconfitta
delle armate comandate da Timošenko (e da metà settembre dal colonnello generale Ivan Konev)
a ovest di Mosca, anziché sulla conquista della stessa Mosca, che avrebbe dovuto essere
accerchiata piú a est, anche se i comandanti e i soldati della Wehrmacht pensavano che proprio la
città dovesse essere il loro obiettivo, dopo le interminabili campagne militari attraverso terreni
martoriati e abbandonati. L’inizio della nuova operazione fu ritardato di alcune settimane, mentre
venivano fatti sforzi disperati per ricostituire le unità ormai svuotate. A settembre, la
Heeresgruppe Mitte aveva un terzo dei carri armati, mentre quelli da riparare dovevano essere
rimandati in Germania. La manodopera finí per costituire un ulteriore freno. Sempre nello stesso
mese, la Heeresgruppe Mitte aveva perso 220 000 uomini, sostituiti soltanto da altri 150 000
soldati e con scarse prospettive di averne di nuovi. La nuova operazione, denominata senza una
briciola di ironia con il nome in codice Taifun (Tifone), ricevette rifornimenti di carburante e
cibo per le truppe solo per poche settimane a causa di un sistema di approvvigionamenti
completamente collassato. La marcia su Mosca, tuttavia, aveva riacceso l’ottimismo tedesco. Il 5
ottobre, persino il generale quartiermastro Eduard Wagner, che sapeva quanto fosse precaria la
situazione dei rifornimenti per qualsiasi operazione importante, scrisse che «l’ultimo rovinoso
crollo si trova immediatamente davanti a noi... A est di Mosca. Poi, ritengo che la guerra sarà
finita» . Il 2 ottobre, data di inizio dell’Unternehmen Taifun, Hitler tornò a Berlino per rivolgersi
136

il giorno dopo al popolo tedesco nello Sportpalast di Berlino. Era tornato, disse al suo uditorio,
da «una lotta di importanza determinante per il mondo» – una dichiarazione senza dubbio
veritiera. Il bolscevismo, «l’orrendo nemico, bestiale, animalesco», proseguí il Führer, era stato
ucciso e «non sarebbe mai piú risorto» – dichiarazione questa che si sarebbe rivelata invece ben
poco veritiera .
137

L’operazione Taifun, come le precedenti offensive, iniziò bene. Il piano seguí uno schema noto:
le città di Vjazma e Brjansk avrebbero dovuto essere accerchiate da tre armate di Panzer e la rete
si sarebbe chiusa saldamente con l’arrivo della fanteria per impedire ogni fuga, dopodiché la
strada per Mosca sarebbe stata quasi priva di difese. I comandanti sovietici si resero conto che
stava per iniziare una grande operazione e che l’esercito tedesco, benché indebolito, sarebbe
stato in grado di portarla a termine soltanto dopo aver ricevuto un messaggio d’allarme due
giorni prima che la II Armata Panzer di Guderian irrompesse a Orël e Brjansk. Il 2 ottobre, l’ala
nord della Heeresgruppe Mitte si spinse fino a Vjazma incontrando una forte resistenza. Orël
cadde il giorno 3, mentre Vjazma e Brjansk furono accerchiate quattro giorni dopo. Una parte
delle truppe sovietiche riuscí a fuggire da Vjazma solo perché la 3. Panzergruppe, rimasta
letteralmente senza carburante, non era riuscita a completare l’accerchiamento per un intero
giorno, ma il risultato finale, come per Kiev, fu la cattura o la morte di un milione di soldati
sovietici, un successo che, una volta eliminate le sacche sotto assedio, sembrò finalmente
spianare la strada per Mosca. Quell’assedio sarebbe costato caro, poiché chiudere le sacche
comportò giorni di estenuanti e cruenti combattimenti ravvicinati, proprio nel momento in cui
iniziavano le forti piogge autunnali, il periodo della rasputica, in cui le strade divenivano
impraticabili per il fango. Mosca sfumava in lontananza mentre soldati, cavalli e veicoli erano
impegnati a lottare con sacche di persistente resistenza sovietica, rifornimenti in calo e strade
fangose che rallentavano la marcia fino a ridurla a un lento trascinarsi. La mobilità era già
ostacolata da un sistema stradale completamente inadeguato, con ingorghi regolari su percorsi
stretti, ponti demoliti e mine sovietiche ad azione ritardata che aprivano crateri larghi 30 metri
sulle poche strade asfaltate. Sulla via per Brjansk, utilizzata per rifornire la II Armata Panzer di
Guderian, vi erano trentatre strutture sovietiche demolite, tra cui undici ponti importanti; le
deviazioni richiedevano tempo e carburante extra e portavano i veicoli su terreni paludosi e
sentieri sterrati . Il fango non fece che aggravare una situazione già precaria, in cui carburante e
138

munizioni non potevano essere riforniti in quantità adeguate da sostenere un’offensiva già molto
prima che arrivassero le piogge. A soli due giorni dall’inizio dell’operazione, la 3. Panzergruppe
era rimasta senza carburante e dovette essere rifornita per via aerea; due settimane dopo, il
gruppo rimase senza munizioni, che dovettero essere fatte arrivare da Varsavia . In quelle
139

condizioni, la capacità di combattimento della Heeresgruppe Mitte non poteva che ridursi. Il 1°
novembre, Von Bock annunciò che «ogni ulteriore avanzata avrebbe dovuto essere
temporaneamente sospesa» . 140

Per tutto il mese dall’inizio dell’operazione Taifun la resistenza sovietica era comunque riuscita a
rallentare l’impeto dell’attacco, ma alla metà di novembre, quando il terreno cominciò a gelare,
fu comunque chiesto alle esauste e ormai scarne unità tedesche di impegnarsi in un ultimo sforzo
per prendere la capitale sovietica. Hitler oscillava tra la convinzione che fosse ancora possibile
spingersi fino al massimo obiettivo ben oltre Mosca e la consapevolezza che la sconfitta
definitiva dell’Armata Rossa avrebbe dovuto essere rimandata al 1942. Il 19 novembre, il Führer
comunicò perfino a Halder che, dopotutto, poteva essere necessaria una pace negoziata, giacché
«i due gruppi opposti non potevano distruggersi a vicenda». Il giorno seguente, Fritz Todt, a
capo del Reichsministerium für Bewaffnung und Munition (ministero degli Armamenti e
Munizioni), riferí senza mezzi termini a Hitler che «questa guerra non può piú essere vinta con
mezzi militari» . I generali avevano già chiesto un ritiro controllato verso le linee occupate a
141

ottobre al fine di prevenire ulteriori perdite, ma Hitler decise che l’offensiva sarebbe comunque
dovuta continuare. In realtà, la capacità di combattimento dei gruppi d’armata, dopo piú di
quattro mesi di scontri continui ed estenuanti, era ormai esaurita. Il 21 novembre, l’operazione
Taifun si fermò quasi del tutto; all’inizio di dicembre, alcune unità riuscirono a spingersi a
ridosso della capitale sovietica, ma si trattò solo di atti disperati. Le truppe erano in grave
difficoltà nel freddo pungente, senza abiti adeguati, a corto di razioni, con carri armati e cannoni
che non potevano piú funzionare efficacemente a quelle temperature ben al di sotto dello zero.
«Siamo tutti cosí stanchi della Russia, stanchi della guerra», scriveva un soldato rispecchiando
chiaramente una diffusa demoralizzazione . La Heeresgruppe Mitte era ridotta a metà della sua
142

forza originaria, aveva subito 350 000 perdite dall’inizio della guerra e combatteva con armi
usurate che non potevano essere sostituite poiché i trasporti si erano bloccati quasi
completamente. Quando la II Armata Panzer di Guderian si arrestò infine vicino a Tula, sulla via
di Mosca, erano rimasti solo quaranta carri armati.
I continui ritardi nel condurre l’operazione Taifun per accerchiare Mosca offrirono ai sovietici la
pausa di cui Stalin aveva bisogno. A metà ottobre, il panico dilagava nella capitale e gli uffici
governativi erano stati frettolosamente evacuati piú a est, nella cittadina di Kujbyšev. Il 18
ottobre, Stalin decise di rimanere nella sua capitale minacciata e mobilitò la popolazione affinché
scavasse linee difensive esterne sotto la pioggia e in mezzo la neve. Nominò poi Žukov
comandante del fronte occidentale per la difesa di Mosca. Gli 80 000-90 000 soldati inizialmente
disponibili vennero presto integrati da unità di fortuna, prive sia di ufficiali e uomini addestrati
sia di equipaggiamento e concentrate lungo la Linea di Možajsk; quando quest’ultima però finí
per sgretolarsi, Žukov ritirò le truppe all’interno di una cintura difensiva a 16 chilometri dal
centro di Mosca. Il 19 novembre, mentre gli uomini esausti di Von Bock procedevano di nuovo a
fatica, Stalin chiese al generale: «Lei è sicuro che possiamo difendere Mosca? […] Mi dica la
verità, da comunista». Žukov non aveva alcuna sicurezza, ma rispose ugualmente al dittatore:
«Terremo Mosca senza alcun dubbio» . Nelle ultime settimane di novembre, non appena si ebbe
143

la certezza inequivocabile che il Giappone intendeva rivolgere i suoi attacchi a sud, verso i
possedimenti britannici, olandesi e americani, furono create grandi riserve da immettere nella
difesa, molte delle quali prelevate dall’Estremo Oriente sovietico e dall’Asia centrale. Il 1°
dicembre, Von Brauchitsch riferí che all’Armata Rossa non erano rimaste «grandi formazioni di
riserva». In realtà, Žukov era ora al comando di 33 divisioni di fanteria e 7 di cavalleria, 30
brigate di fanteria e due brigate corazzate, per un totale di un milione di uomini, 700 carri armati
e 1100 aerei .
144

L’Armata Rossa pianificò un’operazione circoscritta per respingere la tenaglia tedesca che si
stava avvicinando e stabilire una solida linea difensiva a ovest della capitale. Alle tre del mattino
del 5 dicembre, nella neve alta, l’esercito sovietico avanzò lungo due assi principali, uno a nord e
uno a sud di Mosca. Le truppe e i comandanti tedeschi furono colti di sorpresa e faticarono ad
assumere posizioni difensive, non previste dalla strategia offensiva adottata. La città
settentrionale di Klin fu riconquistata il 15 dicembre, mentre a sud le truppe di Guderian
indietreggiavano di 130 chilometri da Tula a Kaluga, dove i due schieramenti combatterono una
feroce battaglia casa per casa finché i tedeschi furono costretti a ritirarsi. Mentre le truppe
assediate dal gelo e denutrite cominciavano a farsi prendere dal panico, i comandanti tedeschi
faticavano a gestire l’inevitabile ritirata e prevenire il completo collasso della Heeresgruppe
Mitte. Nell’estremo nord, l’Armata Rossa riconquistò la città di Tichvin, mentre a sud fu ripresa
Rostov, sottratta alla Heeresgruppe Süd, che aveva dato comunque battaglia fino allo stremo
delle forze. Per la prima volta, l’esercito tedesco era in ritirata, e continuò a retrocedere fino a
quando le piogge di marzo non posero fine a una controffensiva estenuante per entrambi gli
eserciti. Circa 80 000 tedeschi perirono nella ritirata, ma l’Armata Rossa, per molti aspetti ancora
tatticamente maldestra e guidata da ufficiali inesperti, perse altri 440 000 soldati . Il 26 145

dicembre, per porre fine a quella che minacciava di essere una disfatta totale, Hitler emise un
Haltebefehl, un «ordine di arresto» che intimava alle truppe di rimanere dov’erano e difendere il
fronte; una settimana prima, Hitler aveva destituito Von Brauchitsch e assunto egli stesso il
comando diretto dell’esercito, in modo da poter controllare piú da vicino i suoi comandanti e
prevenire ogni loro impulso alla ritirata.
Il fallimento dell’operazione «Barbarossa» divenne evidente ben prima di dicembre. La
scommessa che l’Unione Sovietica potesse essere decisamente sconfitta in quattro mesi, se non
addirittura in minor tempo, si era dimostrata azzardata fin dall’inizio, data la carenza di
attrezzature e di uomini addestrati nonché la mancanza di informazioni adeguate sulle effettive
capacità sovietiche. «Siamo stati puniti», scrisse un ufficiale dello stato maggiore nel dicembre
del 1941, «per aver sopravvalutato le nostre forze e per la nostra arroganza» . Il fallimento aveva
146

tuttavia anche valide spiegazioni strategiche. L’oggetto principale dell’invasione non era mai
stato chiaramente definito, cosicché si era creata una palese tensione tra il desiderio dell’esercito
di eliminare la controparte sovietica e l’ossessione di Hitler di poter avere un territorio da
sfruttare. Tale tensione aveva portato innanzitutto ai ritardi dell’invasione a luglio e agosto,
intanto che si vagliavano le priorità, e, in seguito, a continui interventi da parte del Führer,
disposto a dividere le forze tedesche per ottenere le massime conquiste territoriali. La
straordinaria incapacità di considerare con sufficiente serietà i problemi logistici connessi a
operazioni avviate in tre importanti teatri di guerra, molto distanti tra loro e su un territorio tra i
piú inospitali e con infrastrutture tra le piú sottosviluppate d’Europa, evidenziava semplicemente
una piú generale incapacità di immaginare che cosa fosse esattamente l’«Est». Per le forze
armate tedesche, le campagne di Polonia e di Francia si erano svolte su distanze relativamente
brevi e avevano potuto avvalersi della rete ferroviaria esistente. In territorio sovietico, la costante
insistenza con cui si erano costrette le diverse unità a spostarsi tra i vari gruppi d’armata aveva
significato lunghe e faticose marce di 450-650 chilometri, con scarso supporto ferroviario, su
strade dissestate e sotto la costante minaccia del nemico. Ci si chiede di solito come abbia fatto la
macchina militare sovietica a sopravvivere all’assalto tedesco senza crollare. Considerando
tuttavia i molti ostacoli che le forze armate tedesche dovettero affrontare, in particolare negli
ultimi mesi del 1941, potremmo altresí domandarci come avesse fatto la macchina militare
tedesca a occupare un’area cosí vasta e mantenerne la maggior parte fino al 1942. Esisteva un
abisso permanente tra le aspettative di Hitler e dello stato maggiore e l’effettiva realtà delle
condizioni al fronte, un divario colmato unicamente dall’eccezionale resistenza e competenza
professionale delle forze armate, chiamate a fare piú di quanto fosse operativamente fattibile in
condizioni di crescente deterioramento. I soldati tedeschi continuarono a combattere con un
crescente senso di fatalismo. Il 2 gennaio, di fronte all’accerchiamento a Juchnov, il generale
Heinrici scrisse nuovamente alla moglie: «È cosí frustrante sapere cosa sta arrivando, cosa è
inevitabile, eppure, qualsiasi cosa io dica è come parlare a un muro. Il destino, quindi, farà il suo
corso senza pietà. Lo stesso accadrà anche su larga scala. Non mi faccio piú illusioni sull’intero
corso della guerra» .
147

Sullo sfondo delle prime sconfitte tedesche a est, la guerra globale si trasformò in maniera
radicale. La mattina del 7 dicembre 1941 (8 dicembre in Giappone), gli aerei levatisi in volo
dalle portaerei giapponesi bombardarono nel Pacifico la base navale americana di Pearl Harbor,
mentre le unità dell’esercito giapponese iniziavano l’offensiva nel Sud-est asiatico e nelle
Filippine contro la presenza britannica, olandese e americana. L’operazione era stata tenuta
segreta perfino all’ambasciatore giapponese a Berlino, il generale Ōshima Hiroshi, che
dall’estate del 1941 faceva pressioni affinché Tokyo si unisse alla guerra contro l’Unione
Sovietica allo scopo di «distruggere il comunismo alla sua fonte». Se questo fosse accaduto, si
sarebbe verificato il «fenomeno Mackinder», e forse l’intera Eurasia sarebbe passata sotto il
dominio nippo-tedesco; i leader giapponesi, al contrario, erano riluttanti ad approfittare dei
successi tedeschi anche se l’operazione «Barbarossa», come il ministro degli Affari Esteri
Toyoda Teijirō aveva scritto a Ōshima alla fine di luglio, offriva all’esercito giapponese
«un’eccellente opportunità di risolvere la questione settentrionale» . Il 25 luglio, il capo di stato
148

maggiore dell’OKW, feldmaresciallo Wilhelm Keitel, riferí a Von Bock che «la speranza del
Führer che il Giappone capisca che vista la situazione in Russia è arrivato il suo momento
sembra essere del tutto vana» .
149

In verità, nel luglio del 1941, i leader giapponesi avevano già deciso che un’avanzata a sud,
verso il petrolio e le risorse del Sud-est asiatico, aveva un maggiore senso strategico, e si erano
attenuti pertanto al Patto di neutralità stipulato nell’aprile del 1941 con l’Unione Sovietica da
Matsuoka Yōsuke, predecessore di Toyada. Il Giappone avrebbe preferito una pace tedesco-
sovietica, in modo che Stalin potesse unirsi al Patto tripartito in una campagna eurasiatica contro
le potenze marittime occidentali – un risultato questo che sarebbe stato piú in linea con le ipotesi
geostrategiche di Mackinder. Di conseguenza, i leader giapponesi si mostrarono tiepidi quando i
tedeschi li esortarono a unirsi a loro nella sconfitta dell’Unione Sovietica, e il Giappone non
diede alcun sostegno diretto alla campagna tedesca . I comandanti giapponesi speravano invece
150

che la Germania potesse offrire aiuto in caso di guerra con gli Stati Uniti, anche se, secondo i
termini del Patto tripartito, la Germania non era tenuta a farlo in quanto l’aggressore era il
Giappone stesso. Hitler aveva voluto evitare la guerra con gli Stati Uniti perché la sua priorità,
esposta in una direttiva del marzo 1941 sulla «Cooperazione con il Giappone», era quella di
sconfiggere la Gran Bretagna, ancora vista come il nemico principale della Germania; alla
notizia di Pearl Harbor, tuttavia, il Führer ipotizzò che il Giappone avrebbe ora tenuto l’America
lontana dall’Europa e distratto nel frattempo gli inglesi. Contrariamente alla riluttanza
giapponese a offrire aiuto nella campagna contro l’Unione Sovietica, Hitler optò per unire le
proprie forze a quelle giapponesi nella guerra contro gli Stati Uniti .
151

Nei quattro giorni seguiti a Pearl Harbor, gli Stati Uniti non erano ancora in guerra con l’Asse
europeo, ma Chiang Kai-shek, felice dell’ingresso forzato dell’America nel conflitto asiatico,
dichiarò subito guerra all’Asse. L’11 dicembre, Hitler lasciò la crisi in territorio sovietico per
rivolgersi al Reichstag con una dichiarazione di guerra agli Stati Uniti, cui seguirà lo stesso
giorno quella di Mussolini. Per mostrare la sua solidarietà, Hitler disse a Von Ribbentrop di
firmare un accordo tedesco-giapponese su una «Strategia di guerra congiunta», che rimase in
pratica una vuota dichiarazione di intenti. La Germania non forní infatti quasi nessuna assistenza
strategica o militare alla guerra giapponese in Asia. In Germania e in Giappone, tuttavia, la
notizia di Pearl Harbor – e la successiva serie di vittorie durante l’avanzata giapponese verso sud
– suscitò un immediato entusiasmo generale, nonostante gli evidenti rischi che l’azione
comportava. Le folle si radunarono fuori dal palazzo imperiale di Tokyo per ringraziare
l’imperatore della sua guida divina . I rapporti della Gestapo indicavano che la popolazione
152

tedesca accettava la guerra con gli Stati Uniti – come fosse «l’unica risposta possibile» – e
riteneva che le vittorie giapponesi avrebbero deviato l’attenzione dell’America verso il Pacifico,
ridotto gli aiuti in modalità Lend-Lease alla Gran Bretagna, indebolito lo sforzo bellico inglese e
sovietico e abbreviato la guerra. Man mano che le vittorie aumentavano, in contrasto con le
terribili notizie provenienti dalla Russia, Goebbels decise di far precedere ogni annuncio
radiofonico da una fanfara in onore del Giappone . Anche la marina tedesca accolse con favore
153

la guerra contro uno stato che vantava la flotta piú grande del mondo. In un incontro con Hitler
avvenuto il giorno dopo la dichiarazione di guerra, il grande ammiraglio Raeder assicurò al
Führer che gli Stati Uniti avrebbero lasciato a piedi gli inglesi e che avrebbero deviato tutti i loro
sforzi nella guerra del Pacifico .
154

Non ci sono mai stati molti dubbi sul fatto che la dichiarazione di guerra agli Stati Uniti sia stato
un errore strategico di proporzioni fatali. Per tutti e tre gli stati, già impegnati in estenuanti e
costose campagne contro Cina, Unione Sovietica e impero britannico, l’entrata in guerra con la
piú grande economia del mondo non fu certo una scelta razionale, non a caso sia i leader
giapponesi sia quelli tedeschi avevano sperato di evitarla. La decisione fu accompagnata da
giudizi sprezzanti sulla capacità e volontà degli Stati Uniti di intraprendere una grande guerra,
vista la loro relativa impreparazione militare e la lunga storia di isolazionismo. Il giorno della
dichiarazione, Hitler disse ai suoi ospiti a pranzo che gli ufficiali americani erano solo «uomini
d’affari in uniforme» e non veri soldati, per affermare pochi giorni dopo che l’industria
americana era «terribilmente sopravvalutata» . Un colosso dormiente, tuttavia, è pur sempre un
155

colosso. Le dichiarazioni di guerra devono essere interpretate in termini tutt’altro che razionali.
Per i leader giapponesi, il conflitto era giustificato in quanto si trattava di un’inevitabile guerra di
autodifesa contro l’accerchiamento delle potenze occidentali e includeva altresí la guerra contro
la Gran Bretagna e i Paesi Bassi. A detta del generale Tōjō, l’Occidente stava tramando di
trasformare la nazione nipponica nel «piccolo Giappone» di prima, ponendo cosí fine a 2600
anni di gloria imperiale. I comandanti giapponesi vedevano la guerra come una missione sacra,
volta a espellere la cultura individualista e materialista dell’Occidente e costruire una famiglia di
nazioni asiatiche sotto il «padre-imperatore» – secondo lo storico obiettivo dello hakko ichiu
(«gli otto angoli del mondo sotto lo stesso tetto»). Al calcolo razionale delle probabilità si
contrapponeva la convinzione che gli spiriti degli imperatori morti e dei soldati caduti avrebbero
salvaguardato un impero che non aveva mai subito sconfitte. Le prime vittorie furono attribuite
al «potere spirituale» del Giappone e alla protezione degli «antenati imperiali»; le sconfitte
successive alla «mancanza di vero patriottismo». In questi termini, la dichiarazione di guerra
giapponese non fu solo il prodotto di un rischioso calcolo geopolitico, ma il riflesso di una
visione culturale profondamente diversa da quella del nemico occidentale . 156

Per Hitler, la guerra con l’America rendeva esplicita quella che a suo parere era una guerra non
dichiarata e già perseguita da Washington attraverso la legge Lend-Lease sugli aiuti a Gran
Bretagna e Unione Sovietica, l’assistenza nel conflitto sui mari e il congelamento di tutti i beni
economici tedeschi. Hitler aveva comunque previsto da tempo che il nuovo impero tedesco si
sarebbe trovato un giorno in guerra con gli Stati Uniti. L’apertura ufficiale delle ostilità
semplificava notevolmente la battaglia dell’Atlantico, poiché i comandanti dei sottomarini non
avrebbero piú dovuto subire la «fatica psicologica di cercare di distinguere tra le navi americane
e quelle britanniche», come il Führer aveva detto all’ambasciatore giapponese . Nelle settimane
157

successive alla dichiarazione, gli U-boot tedeschi furono inviati a ovest per l’operazione
Paukenschlag (Colpo di tamburo), aggirandosi lungo la costa americana e affondando le navi che
non navigavano ancora in convoglio o erano prive di protezione aerea. Nei primi quattro mesi del
1942, furono affondate navi alleate per un tonnellaggio di 2,6 milioni di tonnellate, piú che in
tutto il 1941 . Dietro la tesi secondo cui lo stato di guerra conferiva semplicemente uno status
158

formale a un conflitto fino ad allora non dichiarato, si nascondeva tuttavia una ben piú
minacciosa teoria della cospirazione. Nella visione distorta della realtà di Hitler, infatti, l’ostilità
americana verso la Germania era provocata dall’«ebraismo mondiale». Uno degli interpreti di
Hitler annotò il suo punto di vista: «L’America è sinonimo di ebrei ovunque, ebrei nella
letteratura, ebrei nella politica, ebrei nel commercio e nell’industria e un’amministrazione
presidenziale completamente giudaizzata al vertice» . Nella visione nazionalsocialista del
159

mondo, Roosevelt era un lacchè ebreo che spingeva gli ebrei di Londra e Mosca a continuare la
guerra. Il 12 dicembre, Hitler convocò una riunione segreta con i leader del partito per spiegare
che la guerra con gli Stati Uniti era stata architettata dagli ebrei e che si sarebbe ora realizzata la
profezia da lui fatta nel gennaio del 1939: se la Germania fosse stata trascinata in una guerra
globale, gli ebrei sarebbero stati annientati. Il giorno seguente, Joseph Goebbels, presente come
Gauleiter di Berlino, annotò nel suo diario: «La guerra mondiale è qui, lo sterminio degli ebrei
deve essere la conseguenza necessaria» . Anche se gli storici hanno esitato a considerare quella
160

riunione come il punto di partenza categorico del genocidio (considerando che le forze di
sicurezza e dell’esercito avevano già ucciso centinaia di migliaia di persone nei territori orientali
occupati), il legame creato da Hitler tra il conflitto mondiale e la complicità ebraica non faceva
che rendere la dichiarazione di guerra una ragionevole conclusione, anziché la scommessa
irrazionale che invece appare essere a tutti gli effetti.
Ai leader giapponesi era ben chiaro che un conflitto con gli Stati Uniti era tutt’altro che la
soluzione ideale, ma esso poneva fine a un’altra fase confusa di guerra non dichiarata in cui gli
Stati Uniti limitavano l’accesso giapponese a risorse industriali fondamentali, tra cui il petrolio, e
fornivano aiuti e finanziamenti al nemico cinese. La decisione aveva molto in comune con
l’affermazione di Hitler che il nemico britannico poteva essere sconfitto solo attaccando un
avversario piú grande e potenzialmente piú forte: combattere gli Stati Uniti (e l’impero
britannico), si sosteneva, avrebbe aiutato in qualche modo a risolvere il conflitto cinese. In
entrambi i casi, era evidente che un’altra guerra non avrebbe potuto essere condotta con successo
senza l’accesso a ulteriori risorse materiali, vuoi in Ucraina o nel Sud-est asiatico. Dopo dieci
anni di espansione imperiale, il Giappone vedeva l’Asia orientale piú o meno nel modo in cui gli
Stati Uniti vedevano l’emisfero occidentale: una loro naturale zona di egemonia che le altre
potenze avrebbero dovuto rispettare. I leader giapponesi avevano difficoltà a capire perché la
situazione attuale non dovesse essere accettata come un fatto compiuto, tanto che i negoziati con
gli Stati Uniti non erano certo iniziati con la percezione che l’espansione nipponica
rappresentasse una violazione delle norme internazionali, bensí sulla base di una legittima
rivendicazione del Giappone a essere la potenza leader di un nuovo ordine asiatico. Nel gennaio
del 1941, il ministro degli Affari Esteri Matsuoka Yōsuke aveva pubblicamente rimproverato gli
Stati Uniti di non aver compiuto alcuno sforzo per comprendere la natura del ruolo del Giappone
in Asia, ovvero quello di «prevenire la distruzione della civiltà» e stabilire una giusta pace . 161

L’intransigenza americana era stata interpretata come parte di una cospirazione internazionale
per soffocare e quindi cancellare l’esistenza stessa della nazione giapponese. Non sorprende che
tra le due parti non ci fosse quasi nessun terreno comune quando nel 1941 i giapponesi avevano
cercato di trovare un modus vivendi con gli Stati Uniti che permettesse loro di risolvere la guerra
in Cina alle loro condizioni e, allo stesso tempo, ottenere un accesso sicuro alle risorse
strategiche necessarie a sostenere l’impero.
Appare quasi ironico che la preoccupazione di Roosevelt e dei suoi capi militari fosse
concentrata molto piú sul conflitto europeo che su quello del Pacifico. Nei suoi discorsi del 1941,
il presidente si era riferito a Hitler e alla Germania 152 volte: al Giappone solo 5 . Si presumeva
162

che il Giappone potesse essere dissuaso dalla dimostrazione di forza della potenza navale
americana (nel maggio del 1940 Roosevelt aveva ordinato alla flotta del Pacifico di rimanere
permanentemente a Pearl Harbor per manovre nell’oceano) e dalle pressioni economiche su uno
stato fortemente dipendente dalle forniture americane di metalli e petrolio. Già nel 1938,
Roosevelt aveva chiesto un embargo per ragioni morali delle forniture al Giappone di petrolio,
acciaio, aerei e finanziamenti, mettendo contemporaneamente a disposizione dei fondi per
acquisti di natura preventiva di materie prime necessarie all’industria giapponese . Nel gennaio
163

del 1940 era stato abrogato il trattato commerciale nippo-americano del 1911. Dopo l’ingresso
dei giapponesi nell’Indocina settentrionale francese nell’estate del 1940, l’Export Control Act
aveva introdotto restrizioni formali all’accesso del Giappone a una serie di beni strategici, tra cui
carburante per l’aviazione, rottami di ferro e acciaio, minerali ferrosi, rame e attrezzature per la
raffinazione del petrolio. Un anno dopo, in seguito all’occupazione dell’Indocina meridionale, i
beni giapponesi erano stati congelati e il 1° agosto Roosevelt aveva disposto che il Giappone
avrebbe dovuto richiedere licenze federali per ogni prodotto petrolifero, anche se non intendeva
respingere tutte le richieste per evitare di mettere troppo alle strette la potenza nipponica. L’idea
era che il Giappone si sarebbe lasciato intimidire dalla crisi economica incombente provocata
dalla determinazione americana, anche se l’ambasciatore americano a Tokyo, Joseph Grew,
aveva ammonito Washington che «minacciare i giapponesi non fa che aumentare la loro grande
determinazione» . Il completo sconvolgimento della situazione economica giapponese accelerò
164

in effetti il ricorso a soluzioni piú radicali.


Nel corso del 1941, la leadership politica e militare di Tokyo discusse sia i vantaggi di
un’eventuale risoluzione diplomatica della crisi cinese sia quelli derivanti invece da una guerra
contro la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, una situazione questa che speravano di evitare. Come
nel caso della decisione di Hitler di attaccare l’Unione Sovietica, la dirigenza giapponese arrivò
gradualmente a pensare che la guerra appariva necessaria e inevitabile. I politici americani non
riuscirono a cogliere l’impatto che i quattro anni di guerra in Cina avevano avuto sul Giappone.
La società nipponica era ormai predisposta alla guerra totale, con ridotte forniture di beni e cibo
per la popolazione civile, pesanti obblighi finanziari e una cultura popolare improntata al
sacrificio e all’austerità . Anche se negli Stati Uniti non si avvertiva alcuna disperazione di
165

fronte al disastro imminente, il fallimento in Cina e gli effetti paralizzanti dell’embargo stavano
invece obbligando i leader giapponesi ad abbracciare soluzioni che altrimenti avrebbero
razionalmente evitato. Nell’estate e autunno del 1941, la natura ancora incerta della risposta
giapponese alla crisi si concretizzò nell’espulsione di Matsuoka dal ministero degli Affari Esteri
e nel crollo del governo del principe Konoe. I due principali architetti del Nuovo ordine
nipponico furono sostituiti dal generale Tōjō Hideki, un burocrate militare che incarnava
l’ambivalenza che regnava nell’élite giapponese in merito alle scelte da fare nel paese. In qualità
di ministro della Guerra nel luglio del 1941, Tōjō convocò la prima riunione in cui fu concordato
che si sarebbe data la priorità all’avanzata militare verso sud al fine di eliminare gli aiuti a
Chiang Kai-shek e impadronirsi del petrolio e delle materie prime del Sud-est asiatico. L’esercito
e la marina, fino ad allora divisi sulla strategia da seguire, condivisero temporaneamente i
rispettivi piani. La guerra tedesco-sovietica rimuoveva la minaccia dell’Urss in Manciuria, ma
anche se durante l’estate l’esercito aveva raddoppiato la consistenza della guarnigione del
Kwantung, nel caso si fosse presentata l’opportunità di approfittare rapidamente dell’imminente
sconfitta sovietica, l’avanzata verso sud per isolare la Cina aveva un significato strategico piú
immediato . Alla fine di luglio, l’esercito occupò l’Indocina meridionale per tagliare la
166

principale via di approvvigionamento di aiuti a Chiang (che nel 1940 corrispondevano a circa il
70 per cento di tutti i rifornimenti). Il risultato accelerò la deriva verso la guerra. Il 9 agosto, in
seguito alle restrizioni petrolifere americane che minacciavano di tagliare tre quarti delle
importazioni di petrolio del Giappone, vennero approvati i piani dell’esercito per una guerra da
iniziare a novembre. La marina avrebbe preferito invece anticipare la data a ottobre. La
campagna militare fu approvata alla Conferenza imperiale del 6 settembre e giustificata nelle
parole del principe Konoe come una guerra di «autodifesa» . 167

Il 16 ottobre, tuttavia, Tōjō, succeduto a Konoe alla carica di primo ministro, aveva promesso per
prima cosa che si sarebbero fatti nuovi sforzi per raggiungere una soluzione diplomatica, in
grado di aprire la strada a una pace asiatica sotto la tutela giapponese, anziché, come aveva detto
Konoe, «farci precipitare all’istante in una guerra». La data ultima per decidere la guerra o la
pace fu spostata a fine novembre. Dopo giorni di discussioni di gabinetto, in cui furono
esaminate in maniera approfondita le prospettive di entrambe le opzioni, fu approvato un
ulteriore sforzo diplomatico. Alla Conferenza imperiale del 5 novembre, l’imperatore venne
informato che se quell’ultima mossa fosse fallita, la guerra sarebbe stata inevitabile. Il gabinetto
e lo stato maggiore vedevano la guerra come un’imposizione, non come una loro scelta. Tōjō
approvò due piani da presentare a Washington: il piano A prometteva il ritiro immediato
dall’Indocina e dalla Cina entro due anni (fatta eccezione per la provincia di Hainan, dei territori
settentrionali e del Manchukuo), ma il Giappone si aspettava in cambio una serie di concessioni
sul ripristino del commercio, sulla chiusura degli aiuti alla Cina e un accordo americano di non
intervento nelle relazioni sino-nipponiche; il piano B conteneva una proposta piú modesta, che
prometteva la fine delle aggressioni se gli Stati Uniti si fossero impegnati a porre fine
all’embargo commerciale e a rinunciare a qualsiasi ruolo in Cina . Entrambi i piani furono
168

presentati a Washington dall’ambasciatore Nomura Kichisaburō e da un veterano della


diplomazia quale Kurusu Saburō. Nel novembre del 1941, i piani rimanevano poco piú che un
pio desiderio, ma la parte giapponese li considerava ugualmente una seria offerta di
compromesso. Il 22 novembre, le intercettazioni radio del traffico diplomatico giapponese da
parte degli americani (con il nome in codice Magic) riferirono di un messaggio inviato ai
negoziatori giapponesi in cui si ribadiva che il 29 novembre era la data ultima per un accordo
politico: «Questa volta facciamo sul serio, la scadenza non può essere assolutamente modificata.
Dopodiché, le cose andranno avanti automaticamente» . In tutta la regione del Pacifico, i militari
169

americani rimasero in piena allerta dalla fine di novembre, anche se non era ancora chiaro da
dove sarebbe arrivato l’attacco giapponese.
Roosevelt non era contrario a una qualche forma di compromesso, se questo avesse mantenuto la
pace nel Pacifico e soddisfatto gli interessi americani, ma il suo segretario di Stato Cordell Hull,
che conduceva i negoziati con il Giappone, era risolutamente contrario a un accordo che
lasciasse una qualunque parte della Cina in mani nipponiche. Il 26 novembre, contro il parere dei
vertici militari e la volontà del presidente, consegnò una nota ai negoziatori giapponesi,
chiarendo che a lungo termine l’accordo poteva basarsi solamente sul ripristino dello status ante
l’occupazione della Manciuria, una chiara richiesta che per i leader giapponesi non era nemmeno
lontanamente negoziabile . Considerando la richiesta di Hull come un ultimatum, il governo
170

giapponese discusse tre giorni dopo le proprie opzioni. Allorché Tōjō concluse che «non vi era
alcuna speranza di trattative diplomatiche», prevalse l’opzione della guerra. Sembra che pochi
leader giapponesi fossero attivamente in favore della guerra con gli Stati Uniti e l’impero
britannico. La decisione fu presa con l’accettazione fatalistica che lo scontro armato era
preferibile all’umiliazione e al disonore. Intervenendo alla Conferenza imperiale del 5 novembre,
Tōjō aveva detto che, se il Giappone avesse accettato le condizioni dell’America, sarebbe
diventato una nazione di terza classe: «L’America può fare la voce grossa per un po’, ma poi
capirà» . Una volta che il Giappone avesse preso il controllo del petrolio e delle risorse di cui
171

aveva bisogno, si sperava che lo shock dell’opinione pubblica americana avrebbe aperto la strada
a un accordo in grado di soddisfare gli obiettivi nazionali del Giappone. Sul tavolo restava
ancora l’opzione, rilanciata a novembre, che il Giappone potesse mediare un accordo di pace tra
Germania e Unione Sovietica, lasciando cosí gli Stati Uniti isolati, ma nessuno dei due
belligeranti fu interessato .
172

Il giorno in cui la nota di Hull fu consegnata all’ambasciatore Nomura, la Dai-ni Kantai, la II


Flotta della marina imperiale giapponese al comando dell’ammiraglio Nagumo Chūichi, stava
salpando dalla sua base nelle isole Curili, pronta ad attaccare, se fosse arrivato l’ordine, la flotta
americana del Pacifico a Pearl Harbor. Il 2 dicembre, l’ammiraglio Chūichi ricevette il
messaggio in codice Niitakayama Nobore 0812, «Scalare il monte Niitaka 0812», che
autorizzava a procedere con l’attacco l’8 dicembre, ora giapponese. Convogli di truppe erano
anche in movimento verso sud dalla Cina e dall’Indocina verso Filippine e Malesia. Quest’ultima
notizia fu riferita a Washington, dove si ipotizzò che le forze giapponesi mirassero a occupare la
Malesia e le Indie orientali olandesi; lo spostamento della flotta di Nagumo, tuttavia, rimase
avvolto nell’assoluta segretezza fino al momento dell’attacco. Il piano di lanciare un’incursione a
sorpresa su Pearl Harbor, risalente alla fine del 1940, quando i capi della marina avevano iniziato
seri preparativi per un’avanzata verso sud, era stato un argomento di discussione nei circoli
navali giapponesi fin dagli anni Venti . I dettagli dell’operazione erano stati definiti da
173

Kuroshima Kameto, l’eccentrico ufficiale dello staff dell’ammiraglio Yamamoto Isoroku,


comandante della flotta, che si era chiuso nudo in una stanza buia per giorni per pensare alle
varie soluzioni del piano militare . Un attacco aereo di questa portata, per di piú partito dal mare,
174

era una novità. Un primo modello era stato l’attacco britannico a Taranto nel novembre del 1940;
i funzionari dell’ambasciata giapponese si erano presentati a Taranto il giorno dopo per osservare
da vicino gli effetti del raid. Una notevole influenza l’aveva esercitata anche il successo tedesco
in Norvegia nell’uso della forza aerea per neutralizzare una presenza navale britannica molto piú
imponente. Nella primavera del 1941, le portaerei giapponesi furono messe sotto un unico
comandante, al fine di massimizzare il loro potere d’attacco. I siluri degli aerei giapponesi erano
stati modificati per consentire loro di operare nelle acque relativamente poco profonde delle
banchine di Pearl Harbor senza affondare sul fondo del mare e i piloti della marina erano stati
rigorosamente addestrati nel siluramento a bassa quota e nel bombardamento in picchiata. Pur
essendo uno degli alti ufficiali giapponesi ansiosi di evitare uno scontro frontale con l’America,
Yamamoto capí che l’attacco a Pearl Harbor era un primo passo essenziale per evitare che la
flotta del Pacifico potesse costituire una minaccia alle operazioni nel Sud-est asiatico e al
controllo di petrolio e risorse, obiettivo prioritario dell’avanzata verso sud. Quando fu presentato
allo stato maggiore della marina, tuttavia, il piano fu rifiutato perché concentrava un’eccessiva
potenza navale giapponese lontano dalla campagna asiatica e metteva a rischio la forza delle
portaerei. Solo la minaccia di dimissioni da parte di Yamamoto forzò la mano della marina, e il
20 ottobre il piano era stato approvato, seppure con riluttanza. La Daiichi Kōkū Kantai, la I
Flotta aerea di Nagumo, fu incaricata di distruggere almeno quattro delle corazzate americane
ormeggiate, insieme con le strutture portuali e i depositi di petrolio. La forza consisteva in 6
portaerei con 432 aerei, 2 corazzate, 2 incrociatori e 9 cacciatorpediniere; l’elemento navale era
addirittura modesto per un’operazione tanto rischiosa, ma da anni gli strateghi navali giapponesi
consideravano la potenza aerea come il vero elemento cruciale della guerra in mare.
Il 7 dicembre, la sorpresa fu totale, anche se Nagumo aveva ricevuto l’ordine di attaccare
comunque, perfino nel caso in cui la sua forza fosse stata individuata mentre si avvicinava a
O’ahu. Per gli americani fu il disastro che conosciamo tutti: gli aerei erano ammassati a terra
perché il comandante locale, l’ammiraglio Husband Kimmel, era stato avvertito di possibili atti
di sabotaggio; il sistema radar, già ridotto di per sé, era stato chiuso alle sette del mattino (l’unico
avvistamento avvenuto si pensò riguardasse un’esercitazione di B-17) e l’Aircraft Information
Center (modellato sul sistema della RAF) non era ancora operativo; non c’erano reti antisiluro;
nelle prime ore del mattino del giorno dell’attacco fu avvistato un piccolo gruppo di mini-
sottomarini giapponesi che avrebbero dovuto penetrare le difese del porto; uno fu distrutto, anche
se non seguí alcun allarme generale; cosa piú importante, l’intelligence americana aveva
avvertito che il Giappone stava per passare all’azione, ma, in base a ogni logica, si pensava che
l’attacco sarebbe avvenuto nel Sud-est asiatico . In verità, Yamamoto aveva davvero sfidato la
175

sorte lanciando un’operazione a cui egli stesso attribuiva soltanto il cinquanta per cento di
probabilità di successo.
Alle prime luci dell’alba, due ondate di caccia Mitsubishi Zero, bombardieri B5N Kate e
bombardieri in picchiata D3 Val decollarono dalle portaerei, per un totale di 183 velivoli nella
prima fase e 167 nella seconda . Nonostante l’intenso addestramento, l’operazione era irta di
176

difficoltà. Il momento di maggior gloria fu la distruzione di quasi tutti gli aerei americani
presenti alle Hawai’i: 180 furono completamente distrutti, altri 129 seriamente danneggiati.
L’attacco alle navi ammiraglie americane ebbe meno successo. Su quaranta aerosiluranti, solo
tredici colpi andarono a segno; i bombardieri in picchiata ebbero difficoltà a distinguere gli
obiettivi e riuscirono a danneggiare solo due degli otto incrociatori ormeggiati; nella seconda
fase gli obiettivi erano ormai nascosti dal denso fumo. Non solo la percentuale di successo fu
scarsa, ma molti ordigni giapponesi rimasero inesplosi. La spettacolare esplosione e
l’affondamento della USS Arizona, un’immagine iconica della battaglia, furono dovuti a una
fortunata bomba che era penetrata nei magazzini di prua. I piloti rientravano riferendo danni
devastanti, ma, come per il raid britannico su Taranto, l’esito risultò meno spettacolare una volta
che il fumo si fu diradato. Durante l’incursione, infatti, le portaerei americane erano tutte in
mare. Quattro corazzate furono affondate e una spiaggiata; danni minori furono inflitti ad altre
tre; due incrociatori e tre cacciatorpediniere furono seriamente danneggiati, e due navi ausiliarie
affondate. I ventisette sottomarini inviati dalla flotta giapponese per intercettare qualsiasi
tentativo di fuga e creare un blocco alle Hawai’i riuscirono ad affondare solo una petroliera e a
danneggiare una nave da guerra in due mesi . L’attacco, in ogni caso, aveva dato piú di quanto
177

Yamamoto avesse sperato, anche se l’incursione avrebbe potuto ottenere risultati migliori con
piú esperienza e tattiche migliori.
Quello che l’attacco riuscí invece a fare fu uccidere o mutilare gli americani presenti nel porto,
con un totale di 2403 morti e 1178 feriti. A quel punto, Roosevelt fu sollevato dal problema di
persuadere a entrare in guerra un’opinione pubblica divisa. Solo pochi giorni prima di Pearl
Harbor, aveva detto al suo confidente Harry Hopkins che non se la sentiva di dichiarare guerra:
«Siamo una democrazia e un popolo pacifico, ma abbiamo un buon primato» . L’attacco 178

giapponese galvanizzò l’opinione pubblica americana e pose fine ad anni di dibattito tra
isolazionisti e interventisti. La volontà di sconfiggere il Giappone a tutti i costi uní gli americani
di ogni opinione. Per l’impero britannico, anch’esso minacciato ora dall’aggressione giapponese,
la furia americana contro il Giappone rischiò di pregiudicare la possibilità di un impegno
statunitense a unirsi alla guerra in Europa, fino a quando le azioni della Germania e dell’Italia
sollevarono ancora una volta Roosevelt dalla necessità di convincere i suoi concittadini a
combattere anche contro l’Asse europeo. Il 22 dicembre, al fine di garantire una strategia
comune, Churchill guidò una delegazione a Washington dove, in tre settimane di colloqui
denominati in codice Arcadia, i delegati britannici cercarono di assicurarsi l’impegno americano
rispettando la loro visione della guerra. Nel marzo del 1941 era già stato raggiunto un accordo
provvisorio nei colloqui informali tra gli alti gradi delle forze armate, che riconoscevano
nell’Europa una priorità comune. Nell’agosto di quell’anno, in un primo incontro tra Churchill e
Roosevelt a Placentia Bay, sull’isola di Terranova, era stata redatta la «Carta Atlantica», in cui la
sconfitta della «Germania nazista» veniva definita come la chiave per un nuovo ordine mondiale.
Al summit di dicembre, nonostante le forti riserve della marina americana, Churchill ricevette
rassicurazioni da parte di Roosevelt sul fatto che l’Europa rimaneva la priorità. Le due parti
fecero altresí l’insolito passo (anzi, l’unico nel suo genere) di accomunare le loro discussioni
strategiche nel forum dei Combined Chiefs of Staff (Comandanti dello stato maggiore congiunto),
insieme con consigli comuni su spedizioni, produzione di munizioni e intelligence . Ciò 179

nonostante, rimanevano divergenze significative. Roosevelt e il suo stato maggiore non erano
attratti dall’idea di seguire semplicemente i piani britannici in quella che i molti anglofobi
intorno al presidente vedevano come una «guerra dell’impero». La priorità iniziale era quella di
scongiurare una sconfitta sovietica. «Non c’è niente di peggio che lasciare crollare la Russia»,
disse Roosevelt al suo segretario del Tesoro. «Preferirei perdere la Nuova Zelanda, l’Australia,
qualsiasi altra cosa piuttosto che far crollare la Russia» – un punto di vista che non si conciliava
con gli interessi dell’impero britannico . Roosevelt e il suo comandante in capo dell’esercito, il
180

generale George Marshall, presumevano che nel 1942 si sarebbe reso necessario un assalto
frontale all’Europa di Hitler allo scopo di portare aiuto allo sforzo bellico sovietico, mentre gli
inglesi erano fermamente contrari a correre quel rischio – un dissenso che si risolse solo piú tardi
nel 1942, quando l’operazione divenne palesemente irrealizzabile. Per dimostrare che pensava in
termini di strategia globale americana, Roosevelt utilizzò i colloqui di Arcadia per pronunciare il
1° gennaio 1942, a sole tre settimane dall’attacco a Pearl Harbor, una dichiarazione in favore di
quelle che egli chiamò Nazioni Unite, composte da tutti gli stati in guerra con l’Asse. Come la
Carta Atlantica, la dichiarazione dei principî chiave dell’autodeterminazione e della libertà
economica segnò il momento in cui i valori del vecchio ordine imperiale furono sostituiti da
quelli dell’internazionalismo americano, un cambiamento che divenne esplicito con il proseguire
della guerra.
Nelle settimane di colloqui anglo-americani, aleggiò un curioso senso di irrealtà. In tutto il Sud-
est asiatico e il Pacifico occidentale l’esercito e la marina giapponese si muovevano rapidamente
e con decisione per completare l’avanzata verso sud. La portata di quella campagna era molto
diversa da quella dell’operazione «Barbarossa». Essendo impegnato in Cina e nella missione
contro Pearl Harbor, l’esercito giapponese poteva mettere insieme solo forze limitate: 11
divisioni dell’esercito su 51 disponibili e 700 aerei; la marina poteva fornire circa la metà dei
suoi 1000 aerei e disponeva di 2 portaerei, 10 corazzate e 18 incrociatori pesanti per sostenere le
operazioni anfibie dell’esercito . Era una campagna ancora piú rischiosa della missione di Pearl
181

Harbor perché comportava una distribuzione delle forze molto frammentata e suddivisa in
quattro grandi operazioni: l’invasione delle Filippine, l’occupazione della Tailandia, la presa
della Malesia e della base navale di Singapore e la conquista delle Indie orientali olandesi.
Rappresentava in ogni caso un eccezionale momento di trionfo nella lunga guerra che il
Giappone conduceva dal 1937. Le difese occidentali erano deboli, soprattutto perché gli inglesi
avevano poco da sacrificare a causa della guerra in Europa e in Medio Oriente e i rinforzi
americani avevano appena iniziato ad arrivare. Dopo l’occupazione tedesca dei Paesi Bassi, le
forze olandesi consistevano in truppe coloniali locali. La maggior parte delle forze dell’impero
britannico presenti nella regione era formata da divisioni di soldati indiani inesperti. A Londra e
a Washington arrivavano resoconti quotidiani di disastri, a cominciare dall’affondamento di due
navi ammiraglie britanniche, inviate originariamente nell’area su insistenza di Churchill per
scoraggiare i giapponesi. Mentre navigavano nel Mar Cinese meridionale, la nave da battaglia
Prince of Wales e l’incrociatore Repulse, sicuri di essere fuori dalla portata di qualsiasi aereo
giapponese ma scarsamente informati sulle capacità giapponesi, vennero affondati il 10 dicembre
da aerosiluranti decollati da basi in Indocina. Nel giro di poche ore, la potenza navale britannica
in Oriente era stata annientata. Solo i giapponesi diedero un nome a quell’evento: «La Grande
battaglia della costa malese» .
182

Le due grandi campagne contro la Malesia britannica e il protettorato americano delle Filippine
iniziarono l’8 dicembre. Piloti con addestramento specializzato per lunghi voli oltreoceano
attaccarono le Filippine decollando dalle basi imperiali di Taiwan; come a O’ahu, gli attaccanti
trovarono gli aerei americani allineati sulla pista di Clark Field, distruggendo metà dei B-17 e un
terzo dei caccia. Gli sbarchi anfibi iniziarono il giorno 10 sull’isola principale di Luzon con una
rapida avanzata verso la capitale Manila, che si arrese il 3 gennaio. Il comandante in capo degli
Stati Uniti, generale Douglas MacArthur, nominato all’inizio dell’anno, fece ritirare la sua forza
mista americana e filippina verso sud, nella penisola di Bataan. Priva di copertura aerea e con
solo 1000 tonnellate di rifornimenti arrivati con un sottomarino americano, la flotta non aveva
scampo. MacArthur fu evacuato in Australia il 12 marzo. Il 9 aprile si arrese Bataan e il 6
maggio, dopo un’estenuante e risoluta difesa dell’isola fortificata di Corregidor, il comandante
americano, generale Jonathan Wainwright, si arrese. La XIV Armata giapponese fece prigionieri
quasi 70 000 soldati, 10 000 dei quali americani, fatti marciare lungo la penisola di Bataan verso
un campo di prigionia improvvisato; malati, esausti e affamati, subirono pestaggi, uccisioni e
umiliazioni da parte delle truppe imperiali giapponesi, a cui era stato inculcato il disprezzo verso
chi si arrendeva ma che erano altrettanto sofferenti per scarsità di forniture mediche e cibo .
183

Nel nord della Malesia, la XXV Armata del generale Yamashita Tomoyuki iniziò un assalto
anfibio l’8 dicembre, schierando all’inizio solo poche migliaia di uomini a causa della difficoltà
di trovare navi sufficienti. L’armata si scontrò con difensori male organizzati che crollarono in
pochi giorni e si ritirarono allo sbando percorrendo passo dopo passo l’intera penisola, finché il
28 gennaio anche Johore, piú a sud, fu abbandonata su ordine del comandante in capo britannico
in Malesia, tenente generale Arthur Percival, che fece evacuare la grande forza imperiale
sull’isola di Singapore. Yamashita ebbe sotto il suo comando circa 30 000 uomini per dare
l’assalto all’isola, considerata dal quartier generale imperiale come un obiettivo cruciale per
qualsiasi ulteriore avanzata nelle Indie orientali olandesi. Yamashita schierò una forza di gran
lunga inferiore numericamente ai circa 85 000 soldati inglesi, indiani e australiani (numero che
con l’arrivo dei rinforzi raggiunse un totale di circa 120 000 uomini), ora accalcati in una base
insulare che non era stata preparata alla difesa da un’invasione via terra . L’8 febbraio,
184

Yamashita ordinò a due divisioni e ai soldati della Guardia imperiale di dare inizio a un assalto
notturno. Churchill fece sapere ai difensori che dovevano combattere e morire fino all’ultimo
uomo, ma questa era roba da storie avventurose dell’impero. Dopo settimane di demoralizzanti
ritirate, combattendo un nemico spesso invisibile e immancabilmente brutale, i difensori furono
colti dal panico. Mentre i soldati facevano quasi a botte per salire a bordo delle poche navi
ancora ancorate nel porto di Singapore, Percival prese accordi con Yamashita per la resa. La
cattura di 120 000 prigionieri di guerra rappresentò la piú grande e umiliante sconfitta della
storia imperiale britannica . Altri avamposti inglesi caddero rapidamente. Il 25 dicembre, Hong
185

Kong si arrese alla XVI Armata giapponese dopo aver resistito per diciotto giorni all’ineluttabile
occupazione; il Borneo britannico si arrese il 19 gennaio, dopo che le forze in ritirata ebbero
sabotato i campi petroliferi. Molto presto, si trovò minacciata anche la Birmania britannica.
La campagna per la conquista della Birmania non rientrava nelle intenzioni originarie
dell’esercito giapponese. Inizialmente, la forza d’invasione era stata progettata per eliminare i
vicini campi d’aviazione inglesi che avrebbero potuto minacciare la sicurezza della campagna in
Malesia. Vista l’evidente debolezza delle truppe britanniche, tuttavia, i comandanti giapponesi
furono tentati di spingersi oltre, occupare la Birmania e minacciare la stessa India. L’esercito
nipponico sperava che un’ulteriore espansione avrebbe forse potuto «costringere la Gran
Bretagna a sottomettersi e gli Stati Uniti a rinunciare a combattere» . Piú realisticamente, la
186

conquista avrebbe tagliato le linee di rifornimento che dall’India arrivavano alle armate di
Chiang nella Cina sud-occidentale, permettendo ai giapponesi di occupare le ricche regioni
produttrici di riso e i campi petroliferi di Yenangyaung, che producevano quattro milioni di barili
l’anno. I britannici disponevano di truppe miste e male armate, con circa 10 000 soldati tra
inglesi, indiani e birmani, e 16 caccia ormai obsoleti del tipo Brewster Buffalo . Gli inglesi si
187

ritirarono in disordine a Rangoon mentre la VI Armata giapponese, forte di quattro divisioni con
35 000 uomini sotto il comando del generale Shōjirō Iida, dava inizio il 22 gennaio alla grande
campagna di Birmania. Poiché la via birmana dei rifornimenti era essenziale per la Cina, Chiang
aveva offerto a dicembre agli inglesi la possibilità di schierare truppe cinesi contro un possibile
attacco giapponese, ma il generale Wavell, ora comandante in capo in India, non solo aveva
rifiutato bruscamente l’offerta ma anche sabotato lo sforzo di Chiang di istituire un Consiglio
militare congiunto a Chongqing per supervisionare un grande piano strategico per la guerra in
Asia . Quando gli inglesi si appropriarono con un’iniziativa unilaterale delle forniture di aiuti in
188

Lend-Lease destinati alla Cina e depositati a Rangoon, la tensione tra i due alleati venne a
esacerbarsi, anche perché quei rifornimenti facevano poca differenza per le forze britanniche. Le
forze inglesi abbandonarono Rangoon il 7 marzo e si ritirarono frettolosamente verso nord.
Chiang si risentí profondamente per l’atteggiamento paternalistico dei britannici, descritto da un
testimone oculare americano come il «complesso di una razza superiore» . «Lei e il suo popolo
189

non avete idea di come combattere i giapponesi», aveva detto Chiang a Wavell a dicembre,
ancora prima che il fatto fosse chiaramente evidente. «Resistere ai giapponesi non è […] come le
guerre coloniali. […] In questo tipo di lavoro voi inglesi siete degli incompetenti» . 190
Chiang non si aspettava molto di piú neppure dagli Stati Uniti, ora alleati di guerra, ma voleva
comunque il loro aiuto. Roosevelt accettò di inviare da Chiang un alto ufficiale dello stato
maggiore, e la scelta cadde sull’ex attaché militare in Cina, il generale Joseph «Vinegar Joe»
Stilwell, famoso per le pungenti critiche che rivolgeva quasi a tutti tranne che a se stesso.
Stilwell, che in privato definiva Chiang un «despota testardo, ignorante, prevenuto e
presuntuoso», arrivò comunque a Chongqing all’inizio del marzo 1942 per assumere un incarico
accettato con riluttanza . La sua prima iniziativa fu quella di convincere Chiang a lasciargli il
191

comando di due delle migliori armate cinesi rimaste, la V e la VI, e usarle per riprendere
Rangoon e mantenere aperta la via dei rifornimenti del piano Lend-Lease. Chiang lo avvertí che
la maggior parte delle divisioni cinesi era composta da poco piú di 3000 fucilieri, con scarse
mitragliatrici, qualche camion e nessuna artiglieria pesante . Imperterrito, Stilwell, nonostante la
192

sua scarsa esperienza di combattimento e con poca o alcuna informazione sul nemico, si mosse
per bloccare i giapponesi nella Birmania centrale. Il risultato, com’era prevedibile, fu disastroso.
Con quasi nessuna copertura aerea e una scarsa considerazione degli ufficiali cinesi che avrebbe
dovuto comandare, Stilwell fu costretto a ritirarsi dinanzi all’efficienza della campagna
giapponese. Lashio, nel nord della Birmania, cadde il 29 aprile, e a maggio l’esercito nipponico
controllava quasi tutta la Birmania. Il 5 maggio Stilwell fuggí verso ovest con una piccola
truppa, lasciando migliaia di soldati cinesi al loro destino. La VI Armata fu quasi annientata,
mentre piú tardi, nel corso di quell’anno, quanto restava della V si trovò a combattere in
condizioni spaventose per raggiungere la città di frontiera indiana di Imphal, dove Stilwell era
già arrivato il 20 maggio, incolpando Chiang, i generali cinesi e gli inglesi di tutto ciò che era
andato storto.
La lunga ritirata britannica verso l’India fu ostacolata da un massiccio esodo di rifugiati, in
seguito stimato intorno a 600 000 persone, perlopiú indiani e anglo-birmani. Era difficile
assicurare che le forze del generale maggiore William Slim, sparpagliate qua e là, ricevessero i
necessari rifornimenti o dei rinforzi, tanto che i soldati superstiti, arrivati in India laceri ed
esausti, avevano perso quasi tutto il loro equipaggiamento militare. « NON SANNO fare il loro
lavoro», si lamentò il comandante britannico, il generale Harold Alexander, «come pure i
giapponesi, e questo è tutto» . Dei 25 000 soldati che avevano combattuto in Birmania, l’impero
193

britannico ne perse 10 036, ma morirono anche almeno 25 000 soldati cinesi, mentre le perdite
giapponesi ammontarono a soli 4500 caduti nell’intera campagna . Un numero imprecisato di
194

rifugiati morí in condizioni spaventose mentre tentava di attraversare gli unici due passi
praticabili per raggiungere l’Assam. Forse ben 90 000 di loro perirono di fame e malattie, e solo
il fango pressoché insuperabile causato dai monsoni riuscí, ironicamente, a salvare l’India
dall’invasione giapponese . Stilwell tornò a Chongqing in veste di comandante generale dei
195

militari americani in Cina, non certo numerosi, ma la Birmania e la strada di vitale importanza
per i rifornimenti destinati ai cinesi erano andate perse, insieme alla speranza di Chiang che la
Cina potesse essere considerata seriamente una potenza alleata. Il fatto che Chiang avesse
riaccolto Stilwell era dovuto al suo costante desiderio di ottenere il sostegno americano, pur
ritenendo ormai che «l’alleanza non è altro che parole vuote, […] e ci metto dentro anche
l’America» .
196

Piú a sud, dopo la perdita di Singapore, la conquista delle Indie orientali olandesi era ormai
scontata. Il 18 marzo gli Alleati cedettero l’arcipelago, lasciando le ricche risorse della regione
nelle mani dei giapponesi. A completamento dell’intera campagna, fu occupata una serie di isole
del Pacifico, dalle americane Wake e Guam a nord, alle britanniche Gilbert ed Ellice all’estremo
sud. In soli quattro mesi, le forze giapponesi avevano conquistato quasi l’intera regione coloniale
del Sud-est asiatico e del Pacifico. L’esercito fece 250 000 prigionieri di guerra, affondò o
danneggiò 196 navi e distrusse quasi tutti gli aerei alleati presenti nella zona, e tutto questo al
prezzo di 7000 morti, 14 000 feriti, 562 aerei e 27 navi di piccolo tonnellaggio . Si trattò di una
197

«guerra lampo» (dengekisen), del genere che i capi militari giapponesi avevano ammirato nelle
campagne tedesche del 1940 e speravano di poter replicare con successo contro le potenze
anglosassoni . La Blitzkrieg giapponese fu vinta facilmente, proprio nel momento in cui la
198

versione tedesca falliva. Le ragioni del successo giapponese non sono difficili da trovare. A
differenza dei problemi logistici che avevano afflitto la campagna tedesca, la potente marina e la
grande flotta mercantile del Giappone erano riuscite a fornire uomini ed equipaggiamento. La
dottrina e la pratica della guerra anfibia erano state perfezionate da anni con evidente successo.
Gli stati occidentali, d’altra parte, erano effettivamente male informati sullo stato delle forze
armate giapponesi, a causa non solo dello scarso impegno nel raccogliere informazioni
aggiornate, ma anche di un compiaciuto razzismo che aveva sottovalutato la capacità militare del
Giappone. Restano memorabili le parole dette dal governatore della Malesia a Percival:
«Insomma, spero bene che metterete alla porta quei piccoletti!» . Le informazioni
199

dell’intelligence giapponese, al contrario, erano approfondite, ottenute da agenti che si


mescolavano con i tanti giapponesi che vivevano o lavoravano nel Sud-est asiatico e sapevano
sfruttare l’ostilità asiatica verso il dominio coloniale europeo. Le forze nipponiche erano ben
consapevoli di quanto potessero essere deboli le difese dell’impero; l’esercito di Tokyo, oltre
tutto, poteva mettere in campo truppe e piloti accuratamente addestrati, tanti dei quali avevano
combattuto a lungo in Cina in condizioni molto difficili . In tutto il Sud-est asiatico, le forze a
200

disposizione per respingere l’invasione giapponese ammontavano a pochi soldati, se non


addirittura nessuno, che avessero una qualche esperienza di combattimento. Scarsamente armati,
con un addestramento spesso limitato, sempre piú in preda della demoralizzante paura che i
soldati giapponesi fossero inarrestabili, quelle forze non erano generalmente all’altezza del
nemico. La conquista di Hong Kong ne fu un’ottima epitome. Centro finanziario e commerciale
dell’impero britannico in Cina, la colonia era difesa da due vecchi cacciatorpediniere, poche
motosiluranti, cinque aerei obsoleti e truppe afflitte da malattie veneree e di altro tipo. Era stata
formata un’unità di difesa volontaria di espatriati locali che includeva uomini dai
cinquantacinque ai settant’anni. Le brigate canadesi, inviate poco prima della caduta di Hong
Kong, non avevano avuto quasi nessun addestramento in battaglia . Da anni, le forze imperiali
201

europee erano abituate a un facile dominio. Ora si trovavano ad affrontare un impero rivale,
desideroso di spazzare via il dominio bianco, e pienamente in grado di riuscirci.
Il crollo dell’impero britannico in Asia e nel Pacifico fu totale. La regione conquistata dai
giapponesi si estendeva dalla frontiera dell’India nord-orientale alle lontane isole Gilbert ed
Ellice nel Pacifico meridionale. L’alto comando nipponico, che non aveva in programma
l’invasione dell’India, accantonò anche la proposta della marina di invadere la costa
settentrionale e orientale dell’Australia in quanto l’esercito non poteva privarsi di altri uomini .
202

Ciò nonostante, il 19 febbraio fu bombardato il porto australiano di Darwin, mentre un tentativo


di occupare Port Moresby in Nuova Guinea, vicino agli obiettivi australiani, venne respinto solo
dopo che il 7 e 8 maggio una portaerei giapponese fu affondata e un’altra danneggiata da due
portaerei americane nella battaglia del Mare dei Coralli. Come se non bastasse, in aprile Nagumo
portò le sue portaerei nell’Oceano Indiano per bombardare le basi navali britanniche di Colombo
e Trincomalee a Ceylon (Sri Lanka), affondando tre navi da guerra britanniche e costringendo
ciò che restava della flotta orientale della Royal Navy a ritirarsi a Bombay (Mumbai) per evitare
ulteriori danni . I capi dello stato maggiore britannico erano cosí spaventati dalla minaccia
203

giapponese nell’Oceano Indiano che il 5 maggio organizzarono l’invasione della colonia


francese del Madagascar (con l’operazione Ironclad), allo scopo di impedirvi qualsiasi sbarco
giapponese, ma ci vollero sei mesi di combattimento per obbligare alla resa il presidio malgascio
di Vichy . 204

In poche settimane, la trasformazione geopolitica della regione produsse un cambiamento


fondamentale nelle relazioni tra gli Stati Uniti e il loro alleato imperiale. La resa di Singapore,
dopo solo qualche giorno di combattimenti, fu contrapposta in modo poco lusinghiero alla
coraggiosa difesa della penisola di Bataan. Il rapido tracollo delle difese britanniche in Asia si
sommò ai molti fallimenti dello sforzo bellico della Gran Bretagna, giustificando agli occhi dei
militari americani e di gran parte dell’opinione pubblica statunitense il desiderio di non farsi
trascinare in una strategia di salvataggio di un impero che in due anni non era riuscito a
difendersi . Roosevelt e i suoi consiglieri si mossero rapidamente per articolare una strategia
205

globale al fine di bilanciare il ruolo ormai deteriorato della Gran Bretagna a livello mondiale,
secondo gli orientamenti già ampiamente discussi a Washington. Il geografo della Johns
Hopkins, Isaiah Bowman, che esercitò un’influenza determinante sull’atteggiamento negativo di
Roosevelt nei confronti dell’impero, ipotizzò che per gli Stati Uniti fosse giunto il momento di
«effettuare un passaggio repentino a un nuovo ordine mondiale» dopo anni in cui il paese si era
dimostrato «esitante, timido e dubbioso». Nel maggio del 1942, Norman Davis, presidente del
Council on Foreign Relations degli Stati Uniti, concluse che «l’impero britannico, come esisteva
in passato, non riapparirà piú», aggiungendo che «gli Stati Uniti potrebbero doverne prendere il
posto» . L’Advisory Committee on Problems of Foreign Relations, istituito nel 1939 come
206

organo consultivo del presidente, aveva già delineato come caratteristiche del nuovo ordine
l’impegno verso l’autodeterminazione dei paesi colonizzati, il libero commercio e la parità di
accesso alle materie prime . 207

Niente divideva l’opinione americana e britannica quanto la crescente crisi politica in India.
Roosevelt aveva posto la questione dell’indipendenza indiana durante i colloqui di Arcadia, a cui
Churchill, secondo le sue stesse parole, aveva risposto «in modo cosí deciso e cosí articolato»
che Roosevelt preferí non sollevarla nelle future discussioni con i delegati inglesi (consiglio che
trasmise anche a Stalin) . L’amministrazione americana considerava comunque di estrema
208

importanza la questione indiana e, visto che il Giappone era pronto a una possibile invasione,
nell’aprile del 1942 fu inviato a Churchill un messaggio in cui lo si esortava a garantire
l’autogoverno dell’India in cambio della partecipazione degli indiani alla guerra. Harry Hopkins,
presente all’arrivo del telegramma, dovette subire una filippica notturna di Churchill
sull’ingerenza del presidente americano. Un mese prima, Churchill aveva inviato in India
Stafford Cripps, ex ambasciatore a Mosca, per offrire agli indiani una complessa costituzione
federale in cui la Gran Bretagna avrebbe mantenuto la responsabilità della difesa del paese, ma il
Partito del Congresso l’aveva respinta in quanto provvedimento incompleto e progettato per
«balcanizzare» l’India. Di conseguenza, la situazione indiana era rimasta bloccata. Per la
maggior parte dei leader britannici, tuttavia, la questione del futuro dell’impero doveva essere
decisa in ogni caso dalla Gran Bretagna, non dagli Stati Uniti . Nel corso del 1942, dopo il
209

fallimento di Cripps, l’opinione americana si irrigidí maggiormente nei riguardi


dell’imperialismo britannico. A luglio, Gandhi scrisse a Roosevelt esortando gli Alleati a
riconoscere il fatto che rendere il mondo un luogo «sicuro per la libertà» significava ben poco
per l’India e l’impero. Il movimento nazionalista indiano voleva che la Carta Atlantica e la
Dichiarazione delle Nazioni Unite adempissero alla promessa che i Quattordici punti di
Woodrow Wilson non erano riusciti a mantenere alla fine della Prima guerra mondiale. Il
rappresentante personale di Roosevelt in India, William Phillips, inviava a Washington resoconti
periodici sull’apatia e l’ostilità di gran parte della popolazione indiana («frustrazione,
scoramento e impotenza») . 210

Fu un giornalista americano a coniare nell’estate del 1942 lo slogan Quit India, «Lasciate
l’India», ma la parola d’ordine fu presto ripresa dal Partito del Congresso quando i suoi leader si
riunirono all’inizio di agosto per redigere una risoluzione che richiedeva una dichiarazione
immediata sul fatto che l’India sarebbe diventata indipendente. Ciò che seguí, per dirla con le
parole del viceré Lord Linlithgow, fu «di gran lunga la piú grave ribellione dai tempi di quella
del 1857» . Il 9 agosto, tutti i leader del Congresso furono arrestati, tra cui Gandhi, e incarcerati
211

per il resto della guerra; alla fine del 1942 erano detenuti 66 000 indiani; alla fine del 1943, erano
diventati quasi 92 000, molti rinchiusi in prigioni insalubri e sovraffollate, incatenati e legati. I
primi arresti provocarono sommosse e violenze che si diffusero in tutta l’India centrale e nord-
occidentale. Le autorità tennero un rendiconto scrupoloso delle devastazioni o dei danni arrecati
a 208 stazioni di polizia, 332 stazioni ferroviarie, 749 edifici governativi e 945 uffici postali. Vi
furono 664 attentati dinamitardi da parte dei manifestanti arrabbiati, principalmente giovani . Gli 212

inglesi, che contavano su poliziotti e unità dell’esercito indiano, eliminarono tutte le restrizioni
sull’uso della forza con l’Armed Forces (Special Powers) Ordinance, che autorizzava le forze
dell’ordine e l’esercito a usare pistole e bastoni e infine anche l’uso di mortai, gas e perfino
attacchi aerei per disperdere la folla. La polizia aprí il fuoco in almeno 538 occasioni, uccidendo,
secondo le statistiche ufficiali, 1060 indiani, ma quasi certamente la cifra era piú alta. Venne
persino autorizzata la fustigazione come deterrente. Un ufficiale distrettuale, dopo aver ordinato
che ventotto uomini fossero fustigati in pubblico con una frusta per cani, scrisse: «Illegale, senza
dubbio. Crudele? Forse. Ma non abbiamo piú avuto altri problemi in tutto il distretto» . L’India
213

Office di Londra si prodigò in ogni modo per impedire che la notizia delle fustigazioni e delle
violenze della polizia arrivasse al grande pubblico, ma le lobby antimperialiste di Gran Bretagna
e Stati Uniti non mancarono di darle risalto. Il deliberato ricorso alla violenza imperiale nella sua
forma piú spietata fu avallato da Churchill, che detestava Gandhi e temeva che la crisi potesse
indebolire completamente il Raj. L’ordine fu ristabilito, ma il risentimento che aveva alimentato
la ribellione sarebbe riaffiorato dopo il 1945, con la fine dell’emergenza bellica.
Nell’estate del 1942, Roosevelt sviluppò le sue idee sul futuro degli imperi coloniali senza
rischiare altre consultazioni con l’alleato britannico. A giugno, il ministro degli Esteri sovietico,
Molotov, si recò in visita a Washington, dove Roosevelt colse il momento per testare
l’atteggiamento sovietico nei confronti dell’idea di un’amministrazione fiduciaria come percorso
verso un’eventuale indipendenza. Molotov approvò, poiché a Mosca l’anticolonialismo era un
pensiero radicato. Roosevelt concluse motivando la sua opinione secondo cui «le nazioni bianche
non potevano sperare di mantenere quei territori come colonie». Tali concetti segnarono una
differenza fondamentale tra l’approccio americano e quello britannico a un probabile ordine
postbellico. Piú tardi, nel corso dell’anno, in una discussione con uno degli stretti consiglieri di
Roosevelt in merito a un’amministrazione fiduciaria nei Caraibi, Churchill spiegò che, finché
fosse stato primo ministro, la Gran Bretagna si sarebbe tenuta ben stretta il proprio impero: «Non
lasceremo che con il voto popolare gli Ottentotti gettino i bianchi a mare» . Nell’anno 214

successivo all’avanzata giapponese verso sud, la pianificazione strategica americana fu inasprita


dalle differenze di opinione con gli inglesi. Nel maggio del 1942, il brigadiere Vivian Dykes,
segretario britannico dei capi dello stato maggiore congiunto, il massimo organo dell’alto
comando militare alleato, lamentò che gli Stati Uniti erano intenzionati a ridurre la Gran
Bretagna a «un satellite dell’America» . Le tensioni generate dalle diverse opinioni sul futuro
215

dell’impero britannico e sull’ordinamento internazionale postbellico non scemarono, anche se


questo non inibí la collaborazione. Gli Stati Uniti si erano ormai uniti all’Unione Sovietica e alla
Cina nella lotta per eliminare ogni imperialismo, vecchio e nuovo.
Razza e spazio: gli imperi dominanti al tempo della guerra.
Gli imperi territoriali creati dagli stati dell’Asse erano atipici per tutta una serie di ragioni. A
differenza degli imperi di piú antica data, cresciuti in maniera disordinata nel corso di molti
decenni, essi furono creati in meno di dieci anni, anzi, appena tre nel caso tedesco, per essere poi
rapidamente e completamente distrutti dal fallimento della guerra. Eppure, nonostante l’impegno
della guerra, che metteva innanzi a gravi sfide il centro imperiale, tutti e tre gli stati dell’Asse
iniziarono a porre le basi istituzionali, politiche ed economiche dei nuovi imperi anche mentre i
combattimenti erano in corso. L’illusione che gli imperi edificati durante la guerra fossero ormai
permanenti, qualunque fosse l’esito del conflitto in generale, sembra ora difficile da spiegare, a
maggior ragione dopo che Unione Sovietica e Stati Uniti erano divenuti i principali alleati
belligeranti. Poiché le guerre dell’Asse erano incentrate sulla costruzione di imperi, la natura
fragile e improvvisata di questi ultimi venne deliberatamente ignorata, in favore delle fantasie di
un lungo futuro imperiale.
La realtà pratica delle nuove regioni conquistate aveva caratteristiche comuni. I leader di tutti e
tre gli stati dell’Asse condividevano un linguaggio in cui era dominante l’idea di «spazio vitale»
e approvarono rigide misure per difenderlo una volta occupato. Piú che rappresentare un insieme
coerente, gli imperi costituivano un insieme di diverse istituzioni amministrative e politiche ed
erano privi di strutture comuni di controllo (al pari dei vecchi imperi coloniali). L’assetto politico
finale delle nuove regioni fu tenuto in sospeso fino alla fine delle ostilità, ma, comunque fosse, la
potenza dominante non doveva essere frenata da tradizionali concezioni di sovranità e diritto
internazionale. Nel corso della guerra, gran parte dei territori conquistati vennero gestiti da un
governo o da un’amministrazione militare; le risorse materiali delle regioni conquistate furono
messe al servizio delle esigenze belliche della madrepatria che erano considerate la massima
priorità. Che l’amministrazione fosse militare o civile, si cercavano comunque dei
collaborazionisti che aiutassero a gestire i servizi locali, come anche per le forze di polizia e
milizie necessarie a dare manforte all’esercito dei colonizzatori per mantenere la sicurezza e
l’ordine. I giapponesi ereditarono dagli imperi sconfitti il sistema di governo coloniale
preesistente; i tedeschi e gli italiani acquisirono invece delle strutture statali che potevano essere
sfruttate dove necessario, perfino nell’odiato sistema sovietico, al fine di garantire la stabilità a
livello locale. In nessuno dei nuovi imperi si favorivano i sentimenti nazionali locali qualora
questi minacciassero l’unità del nuovo ordine o minassero gli interessi degli invasori. Qualsiasi
atto ritenuto ostile a tali interessi era di fatto criminalizzato. Per imporre l’autorità furono
introdotti livelli estremi di terrore che, pur imitando altri contesti coloniali, li superavano per
dimensioni e orrore, con deportazioni, detenzioni senza processo, normale ricorso alle torture,
distruzioni di villaggi, esecuzioni di massa e, nel caso degli ebrei europei, sterminio. Nel loro
insieme, i nuovi imperi costarono la vita, direttamente o indirettamente, a piú di 35 milioni di
esseri umani. Volendo indicare una differenza fondamentale tra l’esperienza asiatica e quella
europea, essa risiedeva nel modo in cui la politica razziale modellò la struttura dell’impero.
Anche se i soldati e i funzionari giapponesi consideravano indubbiamente superiore la loro razza
e provavano una particolare avversione per i cinesi, l’ideologia dell’impero mirava all’idea di
«fratellanza» asiatica, in cui il Giappone rivestiva il ruolo di fratello maggiore. In Europa, e in
Germania in particolare, la struttura del nuovo ordine era basata invece interamente sulla razza,
con i «tedeschi» o gli «italiani» ai vertici di un impero gerarchico che condannava milioni di
nuovi esseri umani sottomessi allo sfollamento, alla fame e allo sterminio di massa.
I nuovi territori giapponesi delle «regioni del sud» (Nampō) furono considerati inizialmente
come un’area in cui sarebbe stato possibile evitare gli errori commessi durante il tentativo di
sottomettere e pacificare gran parte della Cina. Erano aree coloniali dove era possibile atteggiarsi
a liberatori dell’Asia dal giogo occidentale. In Cina, al contrario, l’impero venne imposto a un
popolo che non vedeva affatto il nemico come un liberatore bensí come un invasore, pronto a
usare l’esercito e la polizia militare (Kempeitai) per imporre la sottomissione totale. I territori
cinesi occupati negli anni Trenta erano stati di fatto governati da regimi fantoccio, uno con sede
nel Manchukuo, uno nella Mongolia Interna, un altro, il Chūkaminkoku Ishin Seifu, ovvero il
«governo riformato» a Beijing, sotto Wang Kemin, uno nella Municipalità Speciale di Shanghai,
la città piú importante della Cina, nonché un governo provvisorio nella capitale nazionalista
Nanjing, prima sotto Liang Hongzhi, poi, dal marzo 1940, sotto l’ex nazionalista cinese Wang
Jingwei. Nel dicembre del 1939, Wang aveva siglato un accordo formale che permetteva al
Giappone di far stazionare truppe e «consiglieri» (i cui consigli non dovevano però essere
ignorati) in tutta l’area della Cina centrale e meridionale occupata nel 1937 all’inizio della
guerra . In nessuna di queste aree la sovranità cinese era una realtà: la Cina settentrionale era a
216

tutti gli effetti gestita dalla Kita Chūgoku Seifu Iinkai (Commissione per gli Affari Politici della
Cina settentrionale); il Manchukuo era una colonia in tutti i sensi ma non di nome. Il regime di
Wang, pur sostenendo da un lato di essere il legittimo governo nazionalista, fu strumentalizzato
dal comando supremo giapponese per fare pressione su Chiang Kai-shek affinché concordasse
una pace e, quando tale possibilità fallí, Wang fu utilizzato per dare manforte alla lotta contro la
resistenza comunista del «Movimento di pacificazione rurale», mobilitando le scarse forze
militari consentite dai giapponesi. Wang e il suo successore nel 1944, Chen Gongbo, furono per
tutto il tempo sottoposti al controllo del Consiglio della forza di spedizione giapponese in Cina,
con sede a Nanjing .
217

In tutta l’area che sotto Wang divenne la Cina «nazionale», i giapponesi intrapresero programmi
di «pacificazione» su larga scala, volti a creare a livello locale un ordine che fosse congeniale
agli interessi del Sol Levante. Secondo le direttive espresse nel documento del marzo 1938 sulle
«Linee guida per l’opera di pacificazione», gli agenti dei «servizi speciali» – dei civili con le
caratteristiche camicie bianche che riportavano il motto senbu-xuanfu («annuncio del conforto»)
– venivano istruiti a «sbarazzarsi del pensiero antinipponico […] e rendere [i cinesi] consapevoli
di dover contare sul Giappone». I cinesi avrebbero dovuto essere incoraggiati a rispettare «la
graziosa benevolenza dell’esercito imperiale» – cosa alquanto difficile dopo i massacri di pochi
mesi prima a Nanjing e dintorni; si trattava di uno dei tanti paradossi che i giovani idealisti dei
«servizi speciali» dovevano affrontare cercando di conciliare la violenza giapponese con la
retorica di pace e cooperazione reciproca che era stato detto loro di trasmettere . Nei villaggi, i
218

«comitati per il mantenimento della pace», composti da cinesi del posto, avevano il compito di
ristabilire l’ordine e di educare gli abitanti alla consuetudine di inchinarsi davanti a qualsiasi
soldato giapponese che incrociassero per strada (oppure correre il rischio di violenze gratuite).
Seguendo il modello dell’associazione di massa Manshū-koku Kyōwakai, la «Lega della
Concordia» fondata nel Manchukuo per imporre alla popolazione la fedeltà all’imperatore e ai
suoi rappresentanti, furono usate le associazioni di quartiere cinesi al fine di dare voce al
sentimento filogiapponese nonché isolare e punire quanti si rifiutavano di aderire. Gli individui
che obbedivano venivano ricompensati con un «Certificato di suddito fedele» . Per i cinesi
219

comuni, l’accettazione era un modo per sopravvivere, mentre il dissenso era una strada sicura
verso l’arresto, la tortura e la morte.
Molti degli strumenti utilizzati per imporre «l’ordine» furono trasposti nelle regioni meridionali
dopo la rapida occupazione militare. La pianificazione di una possibile avanzata verso sud era
iniziata nel 1940 e nel marzo dell’anno seguente l’esercito giapponese aveva pubblicato un
documento che delineava i «Principî per l’amministrazione e la sicurezza delle regioni
meridionali occupate» – linee guida riaffermate a novembre, due settimane prima di Pearl
Harbor, al Daihon’ei seifu renraku kaigi, il «Consiglio di collegamento del quartier generale
imperiale» a Tokyo . Le linee politiche fondamentali, perseguite in tutte le diverse aree
220

occupate, erano tre: costruzione della pace e dell’ordine; acquisizione delle risorse necessarie
alle forze militari e navali giapponesi; organizzazione, dove possibile, di forme di
autosufficienza nei territori occupati. Questi ultimi erano stati inoltre suddivisi, come la Cina, in
un mosaico di diverse unità satelliti e dipendenti, prive di ogni possibilità di prendere alcuna
decisione autonoma sul loro destino. Nella riunione di novembre si era stabilito che «un’azione
da evitare è il prematuro incoraggiamento di movimenti indipendentisti indigeni». Dopo
l’invasione, i territori occupati furono suddivisi ( gunsei) tra esercito e marina per essere
governati secondo le rispettive priorità strategiche. L’esercito amministrava la Birmania, Hong
Kong, le Filippine, la Malesia, il Borneo settentrionale britannico, Sumatra e Giava; dalla marina
dipendevano invece il Borneo olandese, Celebes (Sulawesi), le Molucche, la Nuova Guinea,
l’arcipelago delle Bismarck e di Guam. Malesia e Sumatra furono riunite in un’unica «Area di
difesa speciale» che costituiva il nucleo della nuova regione meridionale; a Singapore,
ribattezzata Syanan-to (Luce del Sud), fu concesso uno statuto speciale con una propria
amministrazione militare e, nell’aprile del 1943, divenne il quartier generale del Nanpō gun,
l’Armata del Sud, allorché il comando fu spostato dalla capitale indocinese di Saigon . 221

Facevano eccezione la Tailandia e l’Indocina francese, entrambe invase dai giapponesi pur non
essendo stati nemici. I tailandesi furono convinti a permettere alle truppe e agli aerei giapponesi
l’accesso ai fronti della Malesia e della Birmania, ma il risultato finale fu una vera e propria
forma di occupazione. L’11 dicembre 1941, il governo tailandese del feldmaresciallo Plaek
Phibunsongkhram firmò un’alleanza con il Giappone e il 25 gennaio, in seguito ai
bombardamenti aerei degli Alleati, dichiarò guerra, presumendo di unirsi allo schieramento
prossimo alla vittoria. Vi era inoltre la promessa da parte nipponica che il territorio della
Malesia, considerato parte della Tailandia, sarebbe ritornato in seno alla sua patria storica. Il 18
ottobre 1943, le province malesi settentrionali di Perlis, Kedah, Kelantan e Trengannu passarono
a tutti gli effetti sotto il dominio tailandese . L’Indocina francese, sotto il regime coloniale di
222

Vichy, era stata costretta nell’estate del 1940 ad accettare la presenza delle truppe giapponesi nel
nord e successivamente, nel luglio dell’anno seguente, una piena occupazione quando Saigon
divenne il quartier generale del Nanpō gun. Il 9 dicembre 1941, un Patto di difesa franco-
giapponese confermò il diritto del Giappone a operare dal territorio indocinese con l’assistenza
dei francesi e la nomina del feldmaresciallo Yoshizawa Kenkichi ad ambasciatore
plenipotenziario incaricato di sovrintendere agli interessi nipponici. Il comandante del Nanpō
gun, il feldmaresciallo Terauchi Hisaichi, trattò di fatto l’Indocina come un territorio occupato .
223
La conquista delle regioni meridionali stimolò l’istituzione in Giappone di una struttura per la
supervisione del nuovo progetto imperiale in quella che era ora chiamata Dai Tōa Sensō, la
grande guerra dell’Asia orientale. Nel febbraio del 1942 fu istituito un Consiglio per la
costruzione della Grande Asia orientale e il 1° novembre fu istituito ufficialmente il Daitōashō, il
ministero per la Grande Asia orientale, benché il suo mandato non si estendesse all’Area di
difesa speciale della Malesia e di Sumatra, che, insieme al resto delle Indie orientali olandesi, fu
dichiarata nel maggio del 1943 «appartenente al Giappone per tutta l’eternità», in quanto
elemento integrante dell’impero coloniale nipponico . Anche il sud entrava ora a far parte del
224

Dai Tōa Kyōeiken, la Grande sfera di co-prosperità dell’Asia orientale, un concetto alquanto
informe di collaborazione asiatica sotto la guida del Kōdō-ha, la via imperiale giapponese, cosí
chiamata per la prima volta da Matsuoka il 1° agosto 1940 in un’intervista al giornale. La «sfera
di co-prosperità» avrebbe dovuto unire i popoli dell’Asia orientale e del Pacifico una volta
liberati dalla dominazione occidentale, in modo che potessero marciare insieme verso un futuro
pacifico e prospero. Essa divenne rapidamente la pietra di paragone della pianificazione di
Tokyo per le aree occupate, inserita nel discorso politico e mediatico come mezzo per legittimare
l’occupazione e vista come qualcosa di diverso dal semplice colonialismo. All’ideologia
dell’armonia e dell’unità, pensata per un piú ampio impero, si accompagnò una trasformazione
politica all’interno dello stesso Giappone, soprattutto quando nell’agosto del 1940 i partiti
politici si erano sciolti per dare vita a un’«Associazione per la promozione di un Nuovo ordine»,
rifiutando il parlamentarismo liberale a favore di un impegno comune sotto l’imperatore al fine
di promuovere il Kōdō-ha e le relative conquiste territoriali. La popolazione venne unita nel
Taisei Yokusankai, un’unica Associazione per l’assistenza alla via imperiale. L’armonia politica,
secondo l’allora primo ministro principe Konoe, era il presupposto affinché il Giappone
assumesse «il ruolo guida nella creazione di un nuovo ordine mondiale» . In tal modo, nazione e
225

impero divennero culturalmente e politicamente inseparabili.


Il fondamento ideologico del Nuovo ordine giapponese era essenziale per motivare le migliaia di
funzionari, addetti alla propaganda e strateghi che avevano lasciato il Giappone per contribuire
ad amministrare i nuovi territori. Animati da una visione idealistica di ciò che il Giappone poteva
ora realizzare in tutta l’area dell’Asia orientale e del Pacifico, furono inizialmente ben accolti nei
territori occupati da quella parte di popolazione che sperava che la retorica della «sfera di co-
prosperità» potesse effettivamente realizzarsi. Il problema degli intellettuali e scrittori giapponesi
mobilitati per promuovere l’ideologia era rappresentato dalla contraddizione tra l’idea che il
Giappone si presentasse come la nazione che avrebbe messo fine al colonialismo europeo e
americano e il bisogno di dover considerare necessariamente il Giappone come «nucleo» o
«perno» del nuovo ordine. A Giava, gli addetti alla propaganda che accompagnavano
l’amministrazione militare divulgavano l’idea che il Giappone stesse solo riconquistando la
posizione centrale che aveva avuto migliaia di anni prima, ovvero quella di leader culturale di
un’area che andava dal Medio Oriente alla costa americana del Pacifico. «In sintesi», sosteneva
la rivista giapponese «Unabara» (Grande Oceano), «il Giappone è il sole dell’Asia, la sua
origine, la sua ultima e definitiva potenza». Gli occupanti istituirono il Tiga-A, o «Movimento
delle tre A», volto a inculcare negli indonesiani che nel loro futuro vi era «Asia, la cui luce è il
Giappone; Asia, la cui madre è il Giappone; Asia, il cui leader è il Giappone» . La nuova «sfera
226

di co-prosperità», in definitiva, era stata ideata per creare una forma di impero coerente con
l’eredità culturale del Giappone e distinta da quella dell’Occidente. Secondo una pubblicazione
curata all’inizio del 1942 dal Sōryokusen Kenkyūjō, l’Istituto per la guerra totale, tutti i popoli
inclusi nella «sfera di co-prosperità» avrebbero avuto la loro «giusta collocazione» e tutti gli
abitanti avrebbero condiviso un’«unità di pensiero tra i popoli», anche se la sfera avrebbe avuto
al suo centro l’impero giapponese . 227

Tra coloro che erano stati inizialmente entusiasti dell’idea di un’Asia diversa, la realtà
dell’intervento giapponese e del governo militare creò presto un amaro disincanto. Il giornalista
indonesiano H. B. Jassin, scrivendo su una rivista d’arte nell’aprile del 1942, si rammaricava che
il popolo avesse «assorbito tutto ciò che è occidentale e denigrato tutto ciò che è orientale», ma
per contro pensava che «i giapponesi sono grandi perché hanno saputo assorbire il nuovo pur
mantenendo ciò che da sempre era loro». Nelle sue memorie del dopoguerra, tuttavia, Jassin non
riusciva a scordare la crudele ironia dell’entusiasmo per la retorica della cooperazione e
dell’armonia «che poi si rivelò nient’altro che qualche bel palloncino, ognuno piú grande e piú
vivacemente colorato del precedente, ma al loro interno vi era soltanto aria» . Perfino il capo
228

della propaganda giapponese a Giava, Machida Keiji, riconobbe in seguito quanto fosse stato
futile lo sforzo ideologico, data la realtà del governo militare e l’ostilità di gran parte della
leadership dell’esercito nei confronti di idee che avrebbero risvegliato le ambizioni indonesiane:
«Il grande vessillo della “Grande sfera di co-prosperità dell’Asia orientale” significava soltanto
un nuovo sfruttamento coloniale giapponese, un cartellone che pubblicizzava carne di manzo ma
che in verità era carne di cane» .
229

L’occupazione militare si rivelò in generale piú pragmatica e piú concentrata su se stessa di ogni
ideologia civile. Il tono minaccioso che rappresentava il nucleo del dominio giapponese fu subito
evidente fin dall’arrivo delle truppe nipponiche. In Indonesia, l’amministrazione militare interdí
immediatamente i simboli nazionalisti del paese, impose la censura, vietò tutte le riunioni, proibí
il possesso di armi e decretò il coprifuoco. Chi era sospettato di saccheggio veniva decapitato
pubblicamente o lasciato a morire sotto il sole legato mani e piedi. I giavanesi dovevano
inchinarsi davanti a ogni soldato giapponese e, se non lo facevano, ricevevano uno scappellotto
sulla testa, o molto peggio. L’abuso di potere era cosí diffuso che i cinesi del luogo chiamarono
l’inizio dell’occupazione «il periodo delle persone colpite da mani sempre in movimento» . In 230

Malesia, alla vittoria seguí un’ondata di esecuzioni e pestaggi, che si abbattevano su chiunque
fosse ritenuto antigiapponese o conservasse sentimenti filo-britannici. Lo scopo, secondo il
linguaggio eufemistico dell’amministrazione militare, era quello di «indicare la strada giusta per
eliminare i possibili errori». Le teste mozzate venivano lasciate su pali messi nelle strade come
avvertimento per gli altri. A Singapore, la Kempeitai, ospitata nell’edificio della Young Men’s
Christian Association, intraprese quella che venne chiamata una «purificazione per
eliminazione» (sook ching), un’espressione che le SS avrebbero sicuramente capito. Il bersaglio
principale era la comunità cinese (anche se non esclusivamente) e includeva insegnanti, avvocati,
funzionari e giovani legati alle forze politiche della Cina nazionalista. Le stime del numero dei
giustiziati variano di molto, da 5000 a 10 000 persone. La «purificazione» della Malesia
continentale potrebbe averne causati altri 20 000 .
231

In tutte le zone occupate, le tre linee di condotta concordate nel novembre del 1941 furono
applicate con risultati contrastanti. La ricerca dell’ordine prevedeva sia minacce o punizioni
draconiane sia strategie di pacificazione e comitati di autogoverno nei villaggi, analoghi a quelli
già sperimentati in Cina. In Malesia furono istituiti comitati della pace per ristabilire l’ordine
utilizzando un gran numero di funzionari malesi ereditati dall’amministrazione coloniale
britannica. Ogni lagnanza o lavoro scadente veniva giudicato antigiapponese e comportava il
rischio di un severo castigo. Col tempo, furono introdotte associazioni di quartiere, simili a
quelle esistenti in Giappone e nella Cina settentrionale, mentre agenti della polizia locale e
volontari furono arruolati in milizie paramilitari e altre forze dell’ordine ausiliarie. Alla fine,
nella maggior parte dei territori, vennero inaugurati dei «consigli consultivi» locali, che non
avevano tuttavia alcuna autorità e permettevano ai funzionari e militari giapponesi di vagliare
l’opinione della gente del posto senza avere alcun incarico di vera responsabilità. Furono altresí
creati dei movimenti di solidarietà di massa come forma di disciplina sociale, sul modello del
Taisei Yokusankai. Nelle Filippine, i partiti politici furono sciolti e fu istituita un’unica
Kapisanan ng Paglilingkod sa Bagong Pilipinas, l’Associazione per il sostegno alle Nuove
Filippine, sostituita nel gennaio del 1944 da una «Associazione per la lealtà del popolo». A
sorvegliarne la condotta erano gli agenti della Kempeitai, assegnati a ogni unità dell’esercito e 232

incaricati di pattugliare i territori, cosa possibile solo reclutando in loco un gran numero di agenti
e spie disposti a denunciare i propri compatrioti. La polizia militare era in numero limitato,
sparsa su un vasto territorio. In Malesia, nel momento di maggior attività, erano in servizio
appena 194 agenti della Kempeitai . Il loro comportamento era del tutto arbitrario e, se
233

volevano, potevano addirittura imporre la disciplina ai soldati giapponesi, perfino agli ufficiali di
grado elevato. I resoconti registrano molti casi in cui vennero mosse accuse del tutto infondate:
se la vittima era fortunata, riusciva a sopravvivere alle orribili torture fino a quando la sua
innocenza veniva dimostrata; in caso contrario, confessava anche crimini improbabili e veniva
giustiziata.
Sul territorio, il carattere coloniale del dominio giapponese impose senza dubbio una prudente
acquiescenza da parte delle popolazioni occupate, ma innescò altresí una resistenza, armata e non
armata, trattata con una severità eccezionale. La resistenza era resa possibile dalla mera
estensione geografica del territorio controllato dai giapponesi, in cui le forze delle guarnigioni e
della polizia erano confinate alle città e alle linee ferroviarie che le collegavano. Il terreno
montuoso, le foreste e la giungla offrivano alle forze della guerriglia l’opportunità di condurre
azioni imprevedibili e rapide. Al momento dell’occupazione delle regioni meridionali, le forze
giapponesi avevano già fatto parecchia esperienza con il movimento di resistenza nel
Manchukuo e in Cina, capeggiato principalmente dai comunisti cinesi. Nel Manchukuo,
l’esercito giapponese aveva istituito un rozzo sistema di reinsediamento rurale in «villaggi
collettivi» allo scopo di tagliare fuori i guerriglieri dai centri isolati e dalle fattorie che aiutavano
a rifornirli. Nel 1937, almeno 5,5 milioni di persone erano già state trasferite in circa 10 000
villaggi. Nel 1939 e 1940, dopo un programma di costruzioni stradali volto a facilitare le
comunicazioni, fu lanciata una grande operazione per liberare il Manchukuo da ogni resistenza
armata. Furono mobilitati circa 6000-7000 soldati giapponesi, 15 000-20 000 ausiliari manciú e
1000 unità di combattimento della polizia. I villaggi sospettati di dare aiuto alla resistenza furono
bruciati e i loro abitanti, uomini, donne e bambini, massacrati. Le unità di sicurezza erano solite
adottare quella che i giapponesi chiamavano la «strategia della zecca», ovvero attaccarsi a un
gruppo di guerriglieri ben identificato e seguirlo senza tregua finché non fosse stato messo
all’angolo e distrutto. Anche se migliaia di nascondigli della guerriglia furono scoperti ed
eliminati, nel marzo del 1941 l’opposizione era tutt’altro che sconfitta . 234

A condurre buona parte della resistenza nelle regioni meridionali erano pure i comunisti,
considerati dalle autorità giapponesi una minaccia particolarmente seria. Anche i cinesi che
vivevano oltremare giocavano un ruolo importante, sentendosi coinvolti nella piú vasta guerra
che si combatteva in Cina. Nel 1941, in tutto il Sud-est asiatico si contavano 702 gruppi del
Movimento per la salvezza, che forniva aiuto e supporto morale allo sforzo bellico cinese, sia
nazionalista sia comunista . In Malesia, la resistenza comunista iniziò quasi subito con la
235

fondazione del Tentera Anti-Jepun Penduduk Tanah Melayu, l’«Esercito antigiapponese del
popolo della Malesia», sostenuto da una piú grande Unione antigiapponese del popolo malese.
Nel 1945 si stimava che l’esercito contasse tra i 6500 e i 10 000 combattenti, suddivisi in 8
reggimenti provinciali, con il supporto di forse 100 000 uomini organizzati nell’Unione . A quel
236

punto, la resistenza poteva contare sul sostegno degli infiltrati alleati, organizzati dalla SOE
britannica. Tra il 1942 e la fine della guerra, la resistenza conobbe fortune alterne. Le forze
antinsurrezionali giapponesi avevano l’appoggio di spie e agenti, tra cui nientemeno che il
segretario generale del Partito comunista malese, Lai Tek, che nel settembre del 1942 tradí i
convenuti a una riunione di guerriglieri di alto livello nelle Grotte di Batu a Selangor,
permettendo ai giapponesi di tendere varie imboscate e uccidere importanti leader comunisti.
Durante il 1943, vaste operazioni di sicurezza devastarono i ranghi della guerriglia, e per lungo
tempo la priorità dei partigiani fu la mera sopravvivenza nella fitta giungla e sulle montagne. Il
movimento si impegnò in atti isolati di sabotaggio e nell’uccisione di coloro che collaboravano
con le autorità degli occupanti, ma le costanti sollecitazioni dei giapponesi ad accettare tangenti
o godere di un’amnistia ridussero il numero delle azioni. Coloro che militavano nell’Unione
rischiavano di piú, dato che non avevano la stessa mobilità dei guerriglieri. Furono attuati dei
programmi di reinsediamento per evitare che i villaggi delle zone piú remote aiutassero i
rivoltosi, ma le misure non ebbero proporzioni simili a quelle prese nel Manchukuo o nella
successiva dislocazione di milioni di persone durante l’insurrezione antibritannica degli anni
Cinquanta. Che l’affermazione dell’Esercito antigiapponese sull’uccisione di 5500 soldati
giapponesi e 2500 «traditori» corrispondesse alla realtà o meno, la resistenza rimase una costante
fonte di irritazione per le forze di occupazione e un memento che nel nuovo impero la «pace» e
l’«armonia» erano decisamente relative .237

Nelle Filippine – che al di fuori della Malesia erano l’unico altro principale luogo di prolungata
resistenza – giocarono un ruolo pure i residenti cinesi, sia comunisti sia nazionalisti, anche se in
quel caso la loro popolazione costituiva solo l’1 per cento degli abitanti, mentre ammontava a piú
di un terzo di quelli della Malesia. Poiché molti erano giovani immigrati di sesso maschile,
sfuggirono alle operazioni di «pulizia» dei giapponesi e si unirono ai piccoli movimenti della
resistenza cinese di sinistra nati all’inizio del 1942, come il Wa-chi (Forze filippino-cinesi di
guerriglia antigiapponese) e il Kang-chu (Corpo volontario filippino-cinese antigiapponese).
Nelle città, la resistenza era guidata dal Kang-fan (Lega filippino-cinese antigiapponese e contro
il governo fantoccio). I cinesi di destra, legati ai nazionalisti del continente, organizzarono altri
quattro piccoli gruppi, frammentando ulteriormente lo sforzo cinese . Il principale gruppo della
238

resistenza comunista, lo Hukbalahap (Esercito popolare antigiapponese), era filippino ed era


sorto nel marzo del 1942 sotto la guida di Luis Taruc. A comandare il primo scontro con 500
soldati giapponesi, avvenuto in quello stesso mese, era stata la temibile Felipa Culala (conosciuta
come Dayang-Dayang), una delle tante donne che si erano unite alla resistenza armata. Si stima
che all’inizio del 1943 lo Hukbalahap contasse 10 000 combattenti – anno in cui una truppa di
5000 giapponesi schierata a marzo sull’isola principale di Luzon inflisse all’esercito una grave
sconfitta, costringendo i suoi combattenti a concentrarsi sulla pura sopravvivenza e su un
ulteriore reclutamento, com’era avvenuto in Malesia . Nel 1944, lo Hukbalahap contava ancora
239

forse 12 000 combattenti tra uomini e donne, aiutati ora dagli Stati Uniti con armamenti e
un’efficiente rete radio che si dimostrò preziosa, in particolare sulla piccola isola di Mindanao .240
Alla fine, l’Esercito popolare antigiapponese si uní alla guerriglia guidata dagli americani per
sostenere la successiva invasione degli Stati Uniti nell’autunno 1944.
Il secondo elemento della politica di occupazione giapponese, cioè il rifornimento di risorse alle
truppe e allo sforzo bellico nazionale, si rivelò piú complesso di quanto gli strateghi del 1941
avessero potuto prevedere. In ognuno dei territori occupati, le direttive chiarivano che le
esigenze giapponesi dovevano avere l’assoluta priorità. L’intenzione era di garantire la
sopravvivenza delle forze giapponesi grazie ai prodotti della terra, dato che i rifornimenti su
distanze cosí grandi erano considerati irrealizzabili. Questo significava esercitare sulle
popolazioni occupate «enormi pressioni sui loro mezzi di sostentamento [...] fino al limite della
sopportazione» . Lo stesso avvenne anche in Indocina, benché ancora sotto un limitato dominio
241

della Francia di Vichy. La logica principale che aveva spinto l’avanzata verso sud era quella di
prendere il controllo delle risorse fondamentali che mancavano in altre parti della «Grande sfera
di co-prosperità dell’Asia orientale», ovvero, in primo luogo, la bauxite e il minerale di ferro
della Malesia e il petrolio e la bauxite delle Indie orientali olandesi. Se gli Alleati occidentali
pativano il crollo delle forniture di gomma e stagno provenienti dalla Malesia e dalla Tailandia,
nessuna di esse rappresentava invece una necessità urgente per il Giappone. A essere piú
necessaria per le truppe d’occupazione, come anche per i rifornimenti dell’arcipelago della
madrepatria, era la fornitura di riso e altri generi alimentari. Una vasta gamma di ulteriori
prodotti fu requisita o acquistata per il consumo degli occupanti, e non era possibile rifiutarsi.
Nell’agosto del 1943, l’amministrazione militare pubblicò in Malesia un’ordinanza «sul
controllo di cose e materiali importanti», che riconosceva ai giapponesi il diritto di requisire
qualsiasi prodotto o merce fossero necessari. Per far fronte alla difficoltà di organizzare in
Malesia un’economia decentralizzata, nel maggio del 1943 fu pubblicato un Piano quinquennale
di produzione, seguito il mese successivo da un Piano industriale quinquennale. Al fine di
garantire i rifornimenti furono istituite associazioni di monopolio, insieme con agenzie centrali
per il controllo dei prezzi e delle licenze commerciali, anche se la diminuzione dei mezzi di
trasporto e la diffusa corruzione rendevano difficile trasformare quei progetti in realtà .
242

In alcuni casi, i rifornimenti all’economia della madrepatria erano attuati con successo, in altri
no, ma i risultati complessivi non erano comunque all’altezza delle aspettative ottimistiche del
comando supremo. Nel 1943, le esportazioni di bauxite dalla Malesia e dall’isola indonesiana di
Bintan, indispensabili per alimentare l’industria dell’alluminio, raggiunsero le 733 000
tonnellate, mentre la produzione di minerale di manganese della Malesia, colpita dalle distruzioni
britanniche, passò da 90 780 tonnellate nel 1942 ad appena 10 450 tonnellate nel 1944. Le
importazioni di minerale di ferro dalle regioni meridionali raggiunsero 3,2 milioni di tonnellate
nel 1940, ma scesero a 271 000 tonnellate nel 1943 e a 27 000 tonnellate nel 1945. E pensare che
negli anni Trenta il minerale di ferro di alta qualità della Malesia veniva lavorato nelle imprese
giapponesi, tanto da fornire nel 1939 ben 1,9 milioni di tonnellate di metallo all’economia
interna; durante gli anni della guerra, al contrario, coprí soltanto una piccola quota di quella
quantità. I rifornimenti erano garantiti unicamente dall’espansione della produzione nella Cina
settentrionale occupata . I due principali settori delle esportazioni dal Sud-est asiatico, la gomma
243

e lo stagno, furono abbandonati a loro stessi, causando una diffusa disoccupazione e povertà tra
la forza lavoro malese. Il Giappone aveva soltanto bisogno di circa 80 000 tonnellate di gomma
all’anno (ma si era impadronito di scorte per 150 000 tonnellate), per cui nel 1943 la produzione
era scesa a meno di un quarto di quella prebellica; anche di stagno erano necessarie solo 10 000
tonnellate, determinando quindi un decremento produttivo dalle 83 000 tonnellate del 1940 ad
appena 9400 tonnellate nel 1944 . La risorsa fondamentale, nonché la vera causa che aveva
244

portato all’invasione delle regioni del sud, era il petrolio. I preziosi giacimenti del Borneo, di
Sumatra, Giava e Birmania producevano ogni anno una quantità di petrolio piú che sufficiente a
coprire il fabbisogno delle forze armate giapponesi. Il tentativo degli inglesi e degli olandesi di
rendere inutilizzabili i pozzi era ampiamente fallito. Anche se secondo le previsioni delle forze
giapponesi ci sarebbero voluti quasi due anni per riportare il flusso di petrolio ai livelli prebellici,
alcuni impianti ripresero a funzionare nel giro di pochi giorni, in particolare quelli del
giacimento piú importante di Palembang a Sumatra, che produceva quasi due terzi del petrolio
della regione. Per gestire lo sfruttamento, il Giappone inviò circa il 70 per cento del personale
impiegato nell’industria petrolifera, lasciando cosí il settore nazionale a corto di uomini
qualificati. Nel 1943, la produzione di petrolio delle regioni meridionali raggiunse i 136 000
barili al giorno, di cui quasi tre quarti venivano consumati nella zona di guerra nel sud, lasciando
alla madrepatria solo una porzione esigua di quella ricchezza . Nel 1944, il Giappone importava
245

solo una settima parte del petrolio a disposizione prima dell’embargo americano: 4,9 milioni di
barili anziché 37 milioni, una situazione che andò peggiorando a causa del blocco aereo e
marittimo degli Stati Uniti, che i capi militari giapponesi non erano riusciti a prevedere . Se il
246

petrolio aveva fatto sí che la guerra sembrasse necessaria, ora la guerra stava consumando le
riserve petrolifere.
Il vero obiettivo politico – rendere autosufficienti le regioni meridionali e quindi ridurre la
necessità di esportazioni o trasferimenti di merci dalle isole giapponesi – fu raggiunto solamente
a costo di un generale impoverimento e miseria delle popolazioni indigene. Era difficile imporre
a breve termine l’autosufficienza in aree che erano state colonie la cui economia si basava
principalmente sulle esportazioni verso il mercato mondiale. Erano state le vendite all’Occidente
a rendere a loro volta possibili le importazioni di prodotti alimentari e beni di consumo necessari
alla popolazione autoctona. Con il crollo del commercio multilaterale, le aree occupate furono
costrette a fare affidamento su ciò che poteva essere prodotto localmente o barattato. Il Sud-est
asiatico, inoltre, non era integrato nel blocco monetario dello yen instaurato in Cina, nel
Manchukuo e in Giappone. In seguito al collasso delle banche coloniali, il sistema finanziario si
era frantumato nella maggior parte della regione, tranne che in Indocina e Tailandia; poiché non
vi erano mercati obbligazionari locali e la tassazione era compromessa dal crollo delle
esportazioni, le amministrazioni militari giapponesi stamparono semplicemente denaro in valuta
dell’esercito e la dichiararono moneta di corso legale . L’autosufficienza finanziaria fu imposta
247

punendo duramente chiunque si rifiutasse di accettare le banconote giapponesi rozzamente


stampate o conservasse scorte della vecchia valuta. «Tremate e obbedite a questo avviso»,
recitavano i manifesti affissi in Malesia per annunciare che solo le banconote militari –
soprannominate in malese duit pisang, cioè banana money per il banano riprodotto sulle
banconote – erano una valuta valida. Le violazioni erano punite con la tortura e l’esecuzione. I
tentativi di ridurre l’offerta di denaro al fine di prevenire un’iperinflazione inclusero la vendita di
biglietti della lotteria su larga scala e tasse sui caffè, parchi di divertimento, gioco d’azzardo e
prostituzione (le cosiddette taxi hostesses) .
248

L’inflazione fu tuttavia inevitabile a causa della concorrenza tra le guarnigioni giapponesi per
procurarsi cibo e prodotti, nonostante si fosse cercato di imporre un controllo forzoso sui prezzi.
Le difficoltà nel controllare l’economia di un’area cosí vasta portarono a una diffusa corruzione,
a fenomeni di accaparramento e speculazione, solitamente a spese della popolazione urbana piú
povera. Il collasso delle reti di trasporto, inoltre, rese difficoltoso trasferire il riso dalle zone di
sovrapproduzione a quelle in cui era carente, mentre i sistemi di irrigazione danneggiati e la
perdita di animali da tiro, a causa di malattie e requisizioni, portarono a un calo dei raccolti . 249

Con l’aumento della domanda giapponese, il tenore di vita della maggior parte della popolazione
si deteriorò. In Malesia, poco adatta alla produzione di riso su larga scala, la popolazione iniziò a
consumare maggiormente ortaggi e banane, che fornivano tuttavia una media di appena 520
calorie al giorno. I lavoratori comuni non avevano possibilità di integrare la dieta ricorrendo al
mercato nero. Durante la guerra, a Singapore, l’indice del costo della vita salí vertiginosamente
da un valore indicizzato di 100 nel dicembre del 1941 a 762 nel dicembre del 1943 e a 10 980 nel
maggio del 1945. Nello stato malese di Kedah, un sarong costava 1,80 dollari nel 1940, ma ben
1000 dollari all’inizio del 1945 . Gli abitanti della Malesia lavoravano scalzi e quasi nudi, con
250

stracci al posto dei vestiti. A Giava, nel 1944, il razionamento forniva solo 100-250 grammi di
riso al giorno, troppo poco per sostenere una vita normale. Le stime suggeriscono che sotto
l’occupazione giapponese tre milioni di giavanesi morirono di fame, nonostante l’isola fosse
inizialmente autosufficiente sotto il profilo alimentare. Nelle strade di Batavia comparvero dei
cartelli: Nippon mesti mati, kita lapar!, «I giapponesi devono morire, abbiamo fame!» . In 251

Indocina, l’accordo francese del 1944 che permetteva ai giapponesi di riscuotere maggiori
imposte sul raccolto di riso lasciò i contadini del Tonchino disperatamente a corto di cibo. Anche
qui, si stima che 2,5-3 milioni di persone siano morte di fame nell’inverno 1944-45.
Oltre al grave decremento del tenore di vita, le popolazioni occupate dovevano far fronte al fatto
che gli occupanti richiedevano incessantemente ore di lavoro obbligatorio, che imponevano un
duro regime a una manodopera già debilitata. Il modello era stato elaborato nel Manchukuo,
dove le autorità giapponesi avevano ordinato che tutti gli uomini di età compresa tra i sedici e i
sessant’anni dovevano svolgere ogni anno quattro mesi di lavoro forzato (rōmusha) per
l’esercito; nelle famiglie con tre o piú maschi, uno era obbligato a effettuare un anno di servizio
lavorativo. Si stima che cinque milioni di manciú lavorassero per i giapponesi, aiutati da 2,3
milioni di lavoratori deportati tra il 1942 e il 1945 dalle regioni della Cina settentrionale . Nel
252

Sud-est asiatico, la carenza di manodopera necessaria per costruire strade, ferrovie, basi aeree e
fortificazioni portò all’imposizione di battaglioni di manodopera soggetti al rōmusha, soprattutto
durante la realizzazione della ferrovia birmana che collegava Bangkok a Rangoon e lungo la
quale morirono di malattia, esaurimento e malnutrizione circa 100 000 esseri umani tra malesi,
indonesiani, indiani tamil e birmani – un numero di morti corrispondente a un terzo degli uomini
reclutati. Per soddisfare le richieste giapponesi, ai capi villaggio di Giava venne assegnato il
compito poco piacevole di fornire regolari quote di lavoratori, di fatto con la coercizione. Alla
fine del 1944, vi erano 2,6 milioni di operai soggetti al rōmusha e impiegati nella costruzione di
opere di difesa, ma si stima che la maggior parte dei 12,5 milioni di lavoratori reclutati fosse
utilizzata nel lavoro forzato. La mano d’opera trasferita nei progetti d’oltremare, come i 12 000
giavanesi portati nel Borneo alla fine del 1943, era maltrattata e affamata . La forza lavoro era
253

considerata sacrificabile e il suo trattamento confermava lo status coloniale di guerra delle


regioni occupate.
La retorica della liberazione sfruttata dai giapponesi per segnare la fine dell’imperialismo
europeo e americano era comunque abbastanza reale. I commentatori giapponesi
contrapponevano la nuova concezione di un ordine asiatico all’«egoismo, all’ingiustizia e
all’iniquità» del dominio occidentale, in particolare quello inglese. Tōjō sosteneva che lo scopo
del Giappone era ora «seguire il sentiero della giustizia, per liberare la Grande Asia orientale dal
giogo dell’America e della Gran Bretagna» . Tutto questo non era tuttavia inteso come un
254
«momento wilsoniano», in cui il Giappone avrebbe concesso un’indipendenza incondizionata,
tanto piú che le promesse fatte dal presidente americano nel 1918 erano considerate dai leader
giapponesi quale semplice ipocrisia. Come affermava il Sōryokusen Kenkyūjō nella stessa analisi
del 1942, l’indipendenza non doveva «essere basata sull’idea di liberalismo e
autodeterminazione», bensí riferirsi alla cooperazione di ciascun membro all’interno della sfera
giapponese . Né si può dire che la visione di tale sfera fosse un prodotto del panasiatismo, come
255

credevano all’inizio molti nazionalisti anticoloniali basandosi sulla precedente preferenza del
Giappone per questo concetto, giacché il panasiatismo presupponeva un’uguaglianza tra i popoli
dell’Asia. L’Esercito per l’indipendenza della Birmania, collaborazionista dei giapponesi nelle
regioni meridionali, chiarí candidamente il rapporto che molti conquistatori avevano in mente:
ogni nuovo regime «avrà in superficie l’aspetto dell’indipendenza, ma in realtà […] sarà
costretto a portare avanti le linee politiche giapponesi». Nei circoli governativi e militari
nipponici, l’indipendenza era di solito vista, anche se non sempre, come un’opportunità per fare
accettare lo status speciale del Giappone quale centro imperiale. In che modo tutto questo
avrebbe potuto funzionare nel caso dell’India – grande «fratello» asiatico del Giappone – non
venne mai detto, ma doveva essere qualcosa a cui i leader giapponesi avevano pensato molto.
Anche prima dell’avanzata verso sud, infatti, erano stati presi contatti con l’Indian Independence
League, che aveva la sua base a Bangkok ed era guidata da Rash Behari Bose. Una volta
consolidata l’occupazione della Malesia, con un gran numero di prigionieri di guerra indiani
disposti a sottrarsi alla loro condizione di cattività, i giapponesi crearono l’Azad Hind Fauj,
l’Esercito nazionale indiano, comandato dal sikh Mohar Singh e destinato a cooperare con
l’Indian Independence League. Le tensioni portarono all’arresto di Singh e al quasi collasso
dell’Esercito nazionale, riorganizzato tuttavia nel marzo del 1943 sotto l’ex politico del Partito
del Congresso Subhas Chandra Bose, che il 21 ottobre 1943, con il consenso di Tōjō, proclamò
l’Arzi Hukumat-e-Azad Hind, il governo provvisorio dell’India libera di cui egli stesso era al
tempo stesso capo dello stato, primo ministro, ministro della Guerra e ministro degli Esteri. Nel
1944, una divisione dell’Esercito nazionale combatté nella fallita invasione dell’India nord-
orientale subendo perdite catastrofiche, sicché un’India libera sotto l’occhio vigile dei giapponesi
non si materializzò mai .
256

Nel gennaio del 1942, Tōjō annunciò alla Dieta giapponese che sia la Birmania sia le Filippine
avrebbero potuto a un certo punto ottenere l’indipendenza se si fossero dimostrate fedeli al
Giappone e ai suoi interessi. Prima dell’invasione, i nazionalisti birmani e filippini si erano recati
in Giappone in quanto potenziale sostenitore delle campagne anticoloniali. Nel dicembre del
1941, l’esercito giapponese aveva accettato di creare un Esercito per l’indipendenza della
Birmania, composto inizialmente da un gruppo di trenta thakin nazionalisti, tra cui Aung San, il
futuro leader nazionalista. I giapponesi non avevano fatto alcuna promessa e quando le forze per
l’indipendenza birmana crebbero rapidamente fino a 200 000 unità, l’Esercito per l’indipendenza
della Birmania fu sciolto e fu creata al suo posto una Forza di difesa della Birmania, guidata e
addestrata dai giapponesi. Nel 1943, alla Birmania fu finalmente promessa l’indipendenza e il 1°
agosto fu dichiarato il nuovo stato, con a capo il nazionalista Ba Maw, tornato dall’esilio
britannico nell’Africa orientale. Anche se a parole riconoscevano la sovranità birmana, i
giapponesi mantenevano in realtà uno stretto controllo. «Questa indipendenza che abbiamo»,
lamentava Aung San nel giugno del 1944, «è solo di nome. Non è che la versione giapponese
dell’home rule, cioè di un governo coloniale» . Lo stesso accadde piú o meno nelle Filippine
257

dopo le promesse di Tōjō. Nel gennaio del 1942, l’amministrazione militare permise
l’installazione di un regime fantoccio, guidato dal politico filippino Jorge Vargas. Esercitava un
ruolo meramente consultivo e il provvisorio consiglio di stato esprimeva chiaramente la volontà
di sostenere l’amministrazione militare e impegnarsi per l’inclusione nella «Grande sfera di co-
prosperità dell’Asia orientale». Nell’estate del 1943 fu adottata una nuova costituzione senza
partiti politici né suffragio popolare e al posto di Vargas fu nominato capo dello stato Salvador
Laurel. A differenza della Birmania, l’élite filippina concluse la pace con i giapponesi e accettò
che il nuovo stato avesse una sovranità limitata per tutto il tempo della presenza militare
giapponese .
258

Inizialmente, non vi era alcuna intenzione di offrire l’«indipendenza» al resto della regione
conquistata, che avrebbe dovuto essere invece integrata nel Giappone. Quando il Daitōashō
organizzò a Tokyo nel novembre del 1943 un Dai Tōa Kaigi (Summit della Grande Asia
orientale) tra i paesi delle regioni meridionali, furono invitate soltanto la Birmania e le Filippine.
Le mutate circostanze, dovute all’incombere della sconfitta, aprivano la possibilità di
un’ulteriore «indipendenza». Il 7 settembre 1944, il successore di Tōjō, Koiso Kuniaki, annunciò
che l’Indonesia avrebbe potuto ottenere l’indipendenza «in una data successiva» e permise che
fosse esposta la bandiera nazionalista a patto che sventolasse accanto a quella giapponese . Pur
259

autorizzando l’integrazione di indonesiani nell’amministrazione giapponese, seppure con ruoli


secondari, un’indipendenza fittizia venne offerta solo negli ultimi giorni che precedettero la resa
del Giappone. Il solo altro caso fu quello dell’anomalo possedimento francese dell’Indocina. La
crescente irritazione dei giapponesi per l’atteggiamento assunto dai funzionari e uomini d’affari
francesi nel 1944, dopo la liberazione della Francia e la fine del governo di Vichy, fece sí che il
1° febbraio 1945 la Saikō-sensō Shidōsha-kaigi, la Conferenza della guida suprema della guerra
organizzata a Tokyo, proponesse che i militari prendessero il completo controllo dell’Indocina
con l’obiettivo di creare regimi indipendenti filogiapponesi. Il 9 marzo, le truppe giapponesi
lanciarono l’operazione Meigo Sakusen (Azione luna luminosa) e iniziarono a disarmare le forze
coloniali francesi; combattimenti discontinui continuarono fino a maggio. Anche se il Giappone
non concesse formalmente l’indipendenza, l’11 marzo l’ex imperatore della Cocincina, Bao Dai,
dichiarò la nascita di un Vietnam indipendente. La Cambogia dichiarò l’indipendenza due giorni
dopo e il Luang Prabang (Laos) l’8 aprile. Ogni stato, oltre ad avere un «comitato consultivo»
giapponese e dover collaborare con le forze di Tokyo, era soggetto a un governatore generale e a
un segretario generale giapponesi, il che limitava fortemente qualsiasi idea di reale
indipendenza . Nelle regioni meridionali, le concessioni conclusive furono dovute in parte alla
260

necessità di guadagnarsi un certo sostegno popolare in vista dell’imminente azione militare


contro gli alleati invasori, ma sembra probabile che il Giappone volesse anche creare delle
aspettative di indipendenza in modo da rendere difficile alle vecchie potenze coloniali
riaffermare la loro autorità, cosa che effettivamente accadde. Come si sarebbe evoluta la Grande
Asia orientale giapponese se il Giappone avesse vinto la guerra o avesse raggiunto una pace di
compromesso rimane oggetto di congettura. La «Sfera di co-prosperità» del tempo di guerra era
stata una costruzione imperiale, realizzata grazie al conflitto e dal conflitto distrutta.
Il Nuovo ordine costruito dall’Asse europeo si trovava di fronte a una realtà geopolitica
completamente diversa, benché anch’esso fosse stato realizzato, e poi distrutto, dalla guerra, in
maniera perfino piú radicale dell’impero giapponese. I paesi invasi e occupati nel 1940 e 1941
non erano colonie ma stati sovrani indipendenti, dotati di proprie strutture politiche, giuridiche
ed economiche. Il principale aggressore – la Germania di Hitler – aveva dovuto salvare il
fallimentare imperialismo di Mussolini in Europa e Nordafrica e, di conseguenza, la struttura del
Nuovo ordine venne determinata in gran parte da Berlino e negli interessi tedeschi. Alla base di
un Grossraum (letteralmente «grande spazio») dominato dalla Germania vi era una concezione
non dissimile da quella della «Sfera di co-prosperità», in cui le tradizionali idee occidentali di
sovranità venivano accantonate a vantaggio di una serie di stati e territori disposti a riconoscere il
ruolo di un’unica direzione del centro imperiale. Nel 1939, il teorico giuridico tedesco Carl
Schmitt pubblicò l’influente studio Völkerrechtliche Großraumordnung (Il concetto d’impero nel
diritto internazionale) in cui difendeva l’idea che in futuro gli stati egemoni si sarebbero espansi
in un «grande spazio» ben definito, in cui sarebbe esistita una struttura gerarchica con al centro
uno stato in espansione attorno al quale avrebbero gravitato altri stati sottomessi, seppure
formalmente «indipendenti». Secondo Schmitt, il tradizionale diritto internazionale alla sovranità
assoluta del moderno stato-nazione era inadeguato a una nuova era geopolitica di «grandi aree».
L’«obsoleto diritto internazionale interstatale», proseguiva, era in maggior parte una costruzione
ebraica . Schmitt fu solo uno dei tanti teorici che legittimavano l’aggressione di Hitler nella
261

convinzione che la realizzazione del Grossraum fosse il segno distintivo di una nuova era, in cui
ogni componente del Nuovo ordine, al pari dei territori dipendenti del Giappone, avrebbe avuto
la propria funzione e il proprio posto in base alle valutazioni tedesche dei suoi meriti.
Nel 1939, pochi tedeschi, tra cui lo stesso Hitler, avrebbero potuto immaginare che alla fine del
1941 il Grossraum tedesco si sarebbe esteso dalla frontiera con la Spagna alla Russia centrale,
dalla Grecia alla Norvegia artica. L’area non veniva trattata in modo uniforme, ma si presentava,
analogamente all’impero giapponese, come un mosaico di diverse forme di governo. Hitler
insistette sempre che le decisioni finali sulla forma geopolitica del Nuovo ordine sarebbero state
riservate al periodo successivo alla vittoria in guerra, anche se già durante il conflitto esisteva
una distinzione fondamentale tra i territori occupati nell’Europa occidentale, settentrionale e sud-
orientale e la percezione tedesca dell’intera area orientale. L’Est era destinato a diventare il cuore
del nuovo impero territoriale, che prevedeva la distruzione degli stati esistenti e l’adozione di un
modello di sfruttamento coloniale – un processo già in corso nelle terre ceche e in Polonia ancora
prima delle vittorie nell’Europa occidentale. Nel resto del Vecchio Continente, gli stati esistenti
sarebbero stati mantenuti sotto la supervisione tedesca, utilizzando i sistemi istituzionali e
amministrativi ormai consolidati.
La priorità assoluta era il completamento di quella che veniva chiamata «Grande Germania».
Oltre alle terre annesse al Reich in Cecoslovacchia e Polonia, l’Alsazia-Lorena e il Lussemburgo
furono dichiarati de facto territori tedeschi, soggetti a un’amministrazione civile, mentre
rientrarono in seno alla Germania le piccole zone cedute a Danimarca e Belgio in base
all’accordo del 1919. Fuori dalla Grande Germania, i territori occupati che erano considerati in
prima linea – Francia settentrionale e occidentale e Belgio – passarono sotto il governo militare,
mentre due amministrazioni formalmente indipendenti continuarono a funzionare accanto a
quella militare, una nella città termale di Vichy e l’altra a Bruxelles. I Paesi Bassi erano
amministrati dal Reichskommissar Arthur Seyss-Inquart; la Norvegia dal Reichskommissar Josef
Terboven, nonostante la presenza di un «governo» collaborazionista guidato dal
nazionalsocialista norvegese Vidkun Quisling . Nella zona occupata risultava unica in sé la
262

situazione della Danimarca. Poiché i danesi non avevano opposto resistenza all’occupazione, i
tedeschi avevano attuato la cosiddetta occupatio mixta, un concetto del diritto internazionale
usato per definire una situazione in cui una potenza neutrale è occupata da una potenza
belligerante ma non entra successivamente in guerra contro la forza occupante. Ai danesi fu
pertanto permesso di preservare intatto il loro sistema politico e, fino al 1943, mantennero la
piena giurisdizione. I giuristi internazionali danesi definirono lo scenario un’«occupazione
pacifica», in cui si presumeva che la Danimarca conservasse la propria sovranità permettendo
però ai tedeschi di assumerne tutte le funzioni. Il rapporto si deteriorò solo nel novembre del
1942 dopo la nomina del comandante delle SS, Werner Best, come Alto rappresentante del
Reich; il 29 agosto 1943 il governo e il re Cristiano X si rifiutarono di continuare a gestire lo
stato. I tedeschi dichiararono allora la legge marziale e fino al 1945 governarono la Danimarca
attraverso un consiglio di segretari ministeriali permanenti. Seppure giuridicamente discutibile,
nel giugno del 1944 gli Alleati annunciarono che la Danimarca, grazie alla presenza di un
movimento di resistenza, poteva essere considerata una delle Nazioni Unite in guerra con la
Germania .263

La situazione dell’Europa sud-orientale, dove Hitler non aveva previsto un intervento militare,
era molto piú complessa. I leader italiani consideravano la regione come parte integrante della
«sfera d’influenza» italiana concordata nel Patto tripartito, il che spiegava la decisione di
attaccare la Grecia; il completo insuccesso delle forze italiane, tuttavia, aveva fatto sí che la
Germania, assistita dai suoi alleati Bulgaria e Ungheria, sconfiggesse e occupasse sia la Grecia
sia la Jugoslavia. Quando la Grecia capitolò, l’impero italiano in Africa era già a brandelli.
L’Eritrea, la Somalia e l’Etiopia erano state conquistate dalle forze britanniche e la Libia era
diventata un campo di battaglia, dove la presenza coloniale dell’Italia era minacciata non solo
dalle truppe alleate ma anche dai ribelli libici, pronti a sfruttare la guerra come opportunità per
rovesciare il dominio italiano. Gli inglesi utilizzarono 40 000 ausiliari libici per ruoli non
operativi in combattimento e promisero al re Idris, in esilio al Cairo, il governo della Libia dopo
la sconfitta italiana. L’esercito italiano, la polizia militare e i residenti locali iniziarono allora una
violenta campagna di pacificazione contro i villaggi arabi e berberi che faceva eco alla feroce
contro-insurrezione condotta nei primi anni Trenta. Ogni volta che le forze dell’impero
britannico venivano ricacciate verso l’Egitto, la violenza aumentava. I presunti colpevoli di
ostilità nei confronti dell’Italia venivano impiccati in pubblico in modi macabri, a volte con un
gancio da macellaio conficcato nella mascella, lasciati a morire dissanguati come animali in un
mattatoio. Lo spasmo finale della violenza coloniale segnò la squallida conclusione
dell’imperialismo italiano in Africa .264

La perdita dell’Africa rese ancora piú importante che l’impero italiano ottenesse il successo in
Europa, ma la dipendenza dalle armi tedesche costrinse l’Italia a praticare quello che Davide
Rodogno ha definito «imperialismo dipendente», un ossimoro che metteva a nudo la posizione
subordinata dell’Italia nella nuova Europa. In caso di vittoria dell’Asse, lamentava nel luglio del
1941 uno dei commissari italiani, «l’Europa rimarrà sotto l’egemonia tedesca per alcuni secoli» . 265

L’Italia dovette spartire il bottino dell’Europa sud-orientale con la Germania e la Bulgaria e, di


conseguenza, si trovò a controllare un insieme disordinato di territori anziché una sfera
omogenea. Del territorio jugoslavo l’Italia occupò la Slovenia meridionale, la Croazia sud-
occidentale, un breve tratto della costa dalmata, il Montenegro, parte del Kosovo e la Macedonia
occidentale. Il resto della Croazia e della Slovenia rimase una sfera di competenza tedesca,
mentre venne creato uno stato serbo alquanto sbrindellato con un governo fantoccio sottomesso
all’esercito tedesco. In Grecia, l’Italia prese le isole Ionie, la maggior parte delle isole dell’Egeo
e gran parte della Grecia continentale, tranne la Macedonia orientale e la Tracia, annesse alla
Bulgaria, e la Macedonia ellenica, occupata dalla Germania. Fino al 1943 permase una difficile
convivenza tra l’amministrazione militare italiana e quella tedesca.
I territori furono inglobati nell’Italia in modi diversi. La Slovenia fu annessa come provincia
italiana di Lubiana; il Montenegro divenne un protettorato, posto sotto un alto commissario e un
governatore militare; la costa dalmata fu annessa nel giugno del 1941 come governatorato
italiano; il territorio greco era gestito di fatto come un territorio annesso, ma il rifiuto tedesco di
accettare un accordo territoriale definitivo nell’armistizio firmato con la Grecia significò che
l’annessione restava solo de facto, mentre le forze tedesche rivendicarono il controllo di
importanti enclave tra cui il porto principale del Pireo. Durante l’occupazione italiana la
situazione in Croazia rimase confusa. I nazionalisti croati speravano di creare uno stato nazionale
indipendente, nonostante la presenza di due eserciti di occupazione. Mussolini valutò l’idea di
restaurare la monarchia storica della Croazia e trovò un potenziale candidato italiano, che
avrebbe portato il nome di Tomislav II (dal re croato Tomislav del X secolo) ma che rifiutò
l’offerta, ritenendola probabilmente un calice avvelenato . La Germania voleva una forma di
266

protettorato sotto Vladko Maček, leader della Hrvatska seljačka stranka (Partito contadino
croato), ma Mussolini premeva per un governo sotto il leader dello Hrvatski revolucionarni
pokret (Movimento rivoluzionario croato degli Ustaša), Ante Pavelić, un fascista che aveva
trovato rifugio in Italia prima della guerra. Anche se la leadership italiana valutava l’idea di
annettere una parte o tutta la Croazia, la presenza tedesca era onnipresente. Un plenipotenziario
tedesco, il generale Edmund Glaise von Horstenau, era di base a Zagabria mentre altri consiglieri
tedeschi erano inseriti nel regime croato. Nel settembre del 1943, dopo la resa italiana, la
Germania assunse il governo dell’intera Croazia e ne fece uno stato satellite gestito da un regime
fantoccio .
267

Anche se nessuno dei territori era formalmente una colonia, l’Italia si ispirò alla pratica coloniale
africana per organizzare il controllo dell’impero europeo. Le decisioni riguardanti i territori
venivano prese a Roma oppure da delegati nominati in ogni regione (governatori militari, alti
commissari, luogotenenti governatori, ecc.). A livello locale vennero nominati dei funzionari
collaborazionisti (podestà). Non vi era alcuna intenzione di concedere un qualche grado di
autonomia, né l’eventuale sviluppo di un nazionalismo popolare. Dove possibile, la polizia locale
o le forze della milizia venivano utilizzate per mantenere l’ordine sotto la supervisione italiana.
Coloro che minacciavano direttamente il dominio civile o militare degli italiani divennero
vittime di una diffusa repressione guidata dalla polizia militare, spesso con episodi di estrema
violenza com’era avvenuto precedentemente in Libia e in Etiopia. I funzionari e i soldati italiani,
distribuiti in modo irregolare in tutto l’impero europeo, erano generalmente privi di risorse (si
stima che a Creta il 40 per cento dei militi non avesse stivali e fosse costretto a indossare zoccoli
di produzione locale). La paura e la frustrazione avevano una parte importante nella vita di
uomini a cui si richiedeva di essere i rappresentanti di una razza imperiale. Sempre piú in sfacelo
e soggette a malattie croniche, come era avvenuto alle guarnigioni dell’esercito giapponese, le
truppe italiane sfogavano la loro frustrazione sui membri della resistenza. In tutti i territori
sorsero campi di concentramento in cui i prigionieri vivevano in condizioni disumane a causa
dell’incuria, della fame e della mancanza di assistenza medica. Come in Etiopia, si cercò di
decapitare l’élite locale, composta da insegnanti, accademici, medici, avvocati e studenti che
avrebbero potuto sfidare la dominazione italiana. Altri prigionieri furono catturati perché attivi
nel movimento della Resistenza o semplicemente perché sospetti; alcuni finirono vittime della
pulizia etnica in Slovenia e Dalmazia. Il numero dei campi e delle persone incarcerate non è noto
con certezza, ma un rapporto redatto dopo la guerra dagli jugoslavi che indagavano sui crimini di
guerra ipotizzava la cifra precisa di 149 488 internati civili. Ricerche successive hanno indicato
109 000 detenuti, ma in entrambi i casi i numeri delle vittime dell’esperienza imperiale italiana
furono alti . Quando nel 1943 lo sforzo bellico italiano affrontò la fase terminale della crisi, i
268

funzionari del ministero degli Esteri italiano, in occasione di un incontro al vertice tra Mussolini
e Hitler nell’aprile di quell’anno, si affrettarono a proporre quella che definivano «Carta
d’Europa», che presentava ora un ordinamento postbellico che avrebbe permesso nella nuova
Europa il libero sviluppo delle nazionalità. Analoga in parte alla decisione giapponese di favorire
l’indipendenza di alcuni popoli di fronte alla sconfitta degli imperi occidentali, l’iniziativa
italiana giungeva di fatto nel momento conclusivo dell’esperimento imperiale ed era forse
destinata a uso e consumo degli Alleati . I negoziatori tedeschi insistettero affinché non venisse
269

preso alcun impegno in tal senso, e l’impero italiano in Europa rimase provvisorio fino a
scomparire del tutto nel corso dell’anno con la resa dell’Italia.
Nell’occupazione dell’Europa continentale, il fattore chiave sia per la Germania sia per l’Italia
era l’acquisizione e l’accesso a risorse materiali e generi alimentari che potessero sostenere
l’occupazione e dare impulso all’economia di guerra nazionale, e in questo gli italiani si
trovarono perennemente in svantaggio di fronte alla concorrenza tedesca. Come disse un
generale tedesco nel marzo del 1941, «nel rapporto con noi, gli italiani devono gradualmente
abituarsi a non essere trattati da pari a pari» . Il destino delle risorse balcaniche illustrò
270

chiaramente tale condizione di disuguaglianza. Anche se la regione rientrava formalmente nella


sfera d’influenza italiana, la Germania era penetrata ampiamente nell’economia balcanica già
prima del 1940 e dominava, in particolare, l’accesso al petrolio romeno, di importanza critica per
entrambi gli stati. A differenza del controllo giapponese sul petrolio delle Indie olandesi, i
tedeschi non potevano impadronirsi dei giacimenti del loro alleato romeno, che utilizzava il
petrolio per il proprio sviluppo industriale e lo sfruttava come un’esportazione fondamentale
verso l’estero. Dall’estate del 1940, tuttavia, la Germania era divenuta il principale acquirente del
petrolio romeno, riducendo le possibilità di accesso da parte italiana. Lo sfruttamento della
produzione romena venne assicurato con la confisca delle proprietà petrolifere di stati nemici, in
particolare della grande compagnia olandese Shell «Astra», e con la creazione nel marzo del
1941 di un’unica holding tedesca, la Kontinental-Öl, che supervisionava le acquisizioni di
petrolio tedesco . Nella seconda metà del 1941, la Germania assorbí piú della metà di tutta la
271

produzione romena, ma non era ancora sufficiente. Nel 1943, le esportazioni romene raggiunsero
il livello piú basso di tutta la guerra. La quota della Germania scese al 45 per cento, solo 2,4
milioni di tonnellate degli 11,3 milioni di tonnellate di petrolio a disposizione della Germania,
gran parte del quale era ormai di produzione nazionale sintetica .
272

Altre risorse dei Balcani caddero sotto il controllo tedesco a spese dell’Italia poiché le autorità
del Reich, in particolare l’organizzazione della Vierjahresplanbehörde dominata da Göring,
erano meglio preparate e piú implacabili nel proteggere gli interessi tedeschi. In Croazia, i
rappresentanti del Reich, senza informare gli italiani, firmarono nel maggio del 1941 accordi che
riconoscevano alla Germania priorità di accesso alla produzione di metalli e a qualsiasi nuovo
giacimento che si fosse cominciato a sfruttare durante la guerra. Nell’aprile dello stesso anno, i
negoziatori tedeschi si erano assicurati l’accesso privilegiato alle riserve di bauxite
dell’Erzegovina, benché essa si trovasse nella zona di occupazione italiana, insistendo affinché le
miniere di piombo e zinco del Kosovo venissero collegate alla Serbia, controllata dalle truppe
della Wehrmacht, anziché all’Albania italiana. Solo nel giugno del 1941 l’Italia istituí una
Commissione economica italo-croata, ma ormai era troppo tardi. I leader croati si erano
impegnati a sostenere la penetrazione tedesca e rifiutarono una maggiore presenza italiana . In 273
Grecia si verificò lo stesso scenario. La Germania scelse di occupare la Macedonia, dove si
trovavano i minerali piú importanti, e si appropriò di circa tre quarti delle merci esportate. Nel
1942, la Germania assorbiva il 47 per cento di tutta la produzione greca mentre all’Italia andava
solo il 6 per cento, nonostante occupasse una porzione di territorio greco di gran lunga maggiore.
Trasporti scadenti, scarsità di carburante e mancanza di una pianificazione coordinata
ostacolarono i tentativi italiani di estrarre anche solo una minima quantità delle risorse del loro
«grande spazio» . 274

Gli interessi tedeschi prevalsero completamente nel resto della metà occidentale del Grossraum.
Nell’estate del 1940, Göring, nella sua veste di plenipotenziario della Vierjahresplanbehörde,
annunciò che l’economia del nuovo ordine doveva essere supervisionata e coordinata dallo stato
tedesco, giacché ad avere la priorità era il sostegno a breve termine dello sforzo bellico e non la
costruzione di un’economia europea integrata. Alle imprese private tedesche fu concessa la
partecipazione, ma solo sulla base di un’amministrazione fiduciaria anziché di proprietà. Le
miniere di ferro dell’Alsazia-Lorena furono poste sotto Karl Raabe, un fiduciario nominato dalla
holding Reichswerke, e rimasero in mano allo stato tedesco fino alla fine della guerra. Anche le
industrie minerarie della Lorena furono prese in consegna dalla Reichswerke, garantendo una
produzione siderurgica di 1,4 milioni di tonnellate. Le rimanenti imprese furono distribuite
principalmente a piccole società siderurgiche tedesche, le cui ambizioni potevano essere piú
facilmente contenute . In Belgio, nonostante una minore partecipazione diretta dei tedeschi
275

nell’industria occupata, ci si aspettava comunque che i settori belgi del carbone, del ferro,
dell’acciaio e dell’ingegneristica sostenessero lo sforzo bellico della Germania. Le esportazioni
di carbone rimasero limitate, in quanto la Germania non aveva bisogno di maggiori quantità di
carbone, ma poiché la produzione di acciaio era indispensabile alle esigenze militari del Reich e
aveva subito un rallentamento nell’inverno 1941-42, il magnate tedesco dell’acciaio Hermann
Röchling, a capo della Reichsvereinigung Eisen, l’Unione del Reich per la produzione del ferro
creata dallo stato, presiedette a una razionalizzazione della produzione belga che portò la
percentuale di acciaio per uso tedesco dal 56 per cento nel 1941-42 al 72 per cento nei primi
mesi del 1944 . Le risorse olandesi e norvegesi dovettero adeguarsi in modo simile alle esigenze
276

degli occupanti per quanto riguardava la produzione alimentare, le materie prime,


l’ingegneristica e le strutture per riparazioni. Gli uomini d’affari di tutto il Grossraum
collaboravano per una serie di motivi diversi, ma principalmente per mantenere intatte le loro
attività e prevenire il trasferimento forzato dei loro lavoratori in Germania. A differenza di
quanto era avvenuto con la strategia delle confische ed espropri praticata nell’Europa centro-
orientale occupata, le imprese private generalmente sopravvissero, fatta eccezione per quelle di
proprietà ebraica. Queste ultime furono infatti sottoposte alla politica centrale tedesca di
«arianizzazione» attraverso una serie di misure che andavano dalla confisca vera e propria alla
vendita coatta, anche se i regimi locali iniziarono una loro versione di espropriazione ebraica al
fine di prevenire i tentativi tedeschi di acquisire tutte le proprietà degli ebrei.
Pur essendo una sfera di dominazione tedesca, esattamente come quella giapponese, il
Grossraum occidentale non era uno spazio imperiale abitativo, situato invece a est, prima nelle
zone occupate nel 1939-40 e poi, soprattutto, nei fantastici orizzonti aperti dall’invasione
dell’Unione Sovietica: un’area sterminata adatta a insediamenti coloniali, pulizia etnica e
sfruttamento spietato. L’Oriente era diventato un impero nel senso piú letterale e brutale, piú
vicino in realtà all’esperienza nipponica che alla dominazione degli stati situati piú a ovest.
Come nel caso italiano, il termine formale «colonia» non godeva di approvazione, anche se il
linguaggio usato nei nuovi territori eurasiatici rifletteva, come in Polonia, un immaginario
spaziale di tipo coloniale. Nel corso dell’invasione, Hitler stesso, descrivendo il futuro dei
territori orientali, si ispirò liberamente al modello coloniale. Nelle sue conversazioni (soprattutto
le cosiddette Tischgespräche im Führerhauptquartier, le «chiacchierate conviviali al quartier
generale del Führer») registrate nelle settimane successive all’operazione «Barbarossa», Hitler
ribadiva regolarmente che la Russia sarebbe stata l’equivalente germanico dell’India britannica,
in cui una vasta popolazione era gestita da appena 250 000 funzionari e soldati del Raj. «Quello
che l’India è stata per l’Inghilterra», aveva affermato nell’agosto del 1941, «lo saranno per noi
gli spazi in Oriente». Per la gestione del nuovo impero, la Germania avrebbe prodotto «un nuovo
tipo di uomini, dei governanti per natura […] dei viceré». Il colonizzatore tedesco «dovrebbe
avere la sua abitazione in insediamenti di straordinaria bellezza». Il 17 settembre, quando la
vittoria finale sembrava ancora in vista, il Führer cosí rifletteva: «I tedeschi devono imparare ad
amare i grandi spazi aperti. […] Il popolo germanico si ergerà al livello del suo impero». Un
mese dopo, quando l’operazione «Barbarossa» era ormai entrata in una situazione di stallo,
Hitler meditava sul fatto che l’Est «ci sembra un deserto. […] Abbiamo un solo dovere:
germanizzare questo paese con l’immigrazione di tedeschi e guardare i nativi come fossero dei
pellerossa» . Il riferimento a quello che era stato quasi il genocidio dei nativi americani era
277

un’analogia che non si adattava all’immagine del Raj britannico in India, ma entrambi i paragoni
storici furono sfruttati da Hitler per confermare il paradigma coloniale. In un modo o nell’altro,
come aveva detto il 16 luglio al suo stretto collaboratore Martin Bormann, l’obiettivo riguardo
all’Oriente era «dominarlo, amministrarlo e sfruttarlo» .
278

Il costante richiamo allo «spazio» nelle descrizioni dell’Est, comune a un’intera generazione di
accademici tedeschi che studiavano la regione, era intenzionale e intendeva sottolineare il fatto
che si trattava di uno spazio che poteva essere colonizzato, anziché di un territorio già occupato
da una grande popolazione urbana e rurale, organizzata in un grande stato e dotata di strutture
sociali e amministrative consolidate. Alfred Rosenberg, nominato ministro per i Territori
Orientali occupati il 20 luglio 1941, riportò nel suo diario la sua visione della terra russa: «L’Est
è fondamentalmente diverso dall’Ovest, con le sue città, le industrie, la disciplina […] la gente
dovrà capire che qui la desolazione è peggiore di quanto si possa immaginare» . Quando le
279

truppe della Wehrmacht, i funzionari e le forze di polizia iniziarono a occupare il territorio


sovietico, le loro impressioni non fecero che confermare la predisposizione a vedere
quell’immensità come uno spazio da colonizzare. Un ufficiale dei servizi segreti dell’esercito
registrò la cruda impressione che ebbe dei russi con cui era entrato in contatto: «La gente qui
sputa e si soffia il naso direttamente sul pavimento. Qui gli odori corporei non sono tenuti sotto
controllo, la pulizia dei denti è rara […] Gli incontri, anche con persone colte e di alto livello,
possono diventare un calvario per un europeo occidentale» . Per i soldati semplici, l’esperienza
280

della Russia e dei russi divenne un persistente monito di quanto fosse diversa la guerra in
Oriente. Quando i soldati della VI Armata di Von Reichenau si lamentarono del clima e della
mancanza di cibo decente, il generale disse ai suoi ufficiali che «il soldato deve sopportare le
privazioni come in una guerra coloniale» . Il combattimento erratico dei soldati sovietici, con
281

imboscate, attacchi notturni, uccisioni e mutilazioni dei prigionieri, sembrava riportare a una
guerra contro una resistenza indigena e «barbara»: «La lotta che stiamo conducendo contro i
partigiani», affermò Hitler, «assomiglia molto alla lotta in Nord America contro i pellerossa» . I
282

tedeschi distaccati a Est trovavano che le condizioni fossero sgradevoli quanto quelle di un
distaccamento in una colonia remota e inospitale. Le donne che facevano le guardie al campo di
concentramento di Majdanek in Polonia si lamentavano del freddo pungente in inverno, del caldo
eccessivo in un’estate infestata dalle zanzare, delle baracche squallide e delle condizioni
antigieniche, dei prigionieri la cui lingua non riuscivano neanche lontanamente a capire e della
costante paura di essere aggredite. Come già era successo nelle colonie, la soluzione fu una
rigida pratica dell’apartheid tra tedeschi e slavi, il che permise al colonizzatore di avere la meglio
e contribuí a creare un solido senso di superiorità nell’invasore civilizzato .
283

Come già nella Polonia conquistata, gli occupanti tedeschi riservarono alla gente dell’Unione
Sovietica il trattamento di un popolo coloniale, capace solo di essere suddito e privo di una
propria cittadinanza. Per molti sovietici, quel trattamento si era tradotto in una cocente delusione.
Nelle prime settimane dell’occupazione, infatti, molti avevano pensato che con la fine del regime
stalinista la vita sarebbe migliorata: «Voi ci avete liberato dalla miseria e dal comunismo»,
diceva una lettera inviata nel luglio del 1941; una famiglia volle addirittura «augurare al signor
Adolf Hitler buona fortuna nel suo futuro lavoro». Nel giro di pochi mesi, però, le confische di
cibo e le numerose uccisioni indussero la gente a pensare che lo stalinismo potesse addirittura
essere il minore dei due mali . Gli occupanti e gli occupati erano soggetti a un diverso regime
284

giuridico. La popolazione sovietica doveva regolarmente dimostrarsi rispettosa con ogni tedesco
che incontrava, il che voleva dire togliersi ossequiosamente il cappello o il berretto, altrimenti, in
caso contrario, si rischiava un pestaggio o anche peggio. Cartelli con la scritta Nur für Deutsche,
«Solo per tedeschi», tenevano separati gli occupanti dagli occupati. La concezione generale che i
tedeschi avevano dei sudditi era quella di individui semplici, pigri, sciatti, incapaci di capire
granché, afflitti da «un’infantile inettitudine a esprimersi», obbedienti solo alla frusta – uno
strumento utilizzato da molti amministratori tedeschi nonostante gli sforzi di Rosenberg per
vietare le fustigazioni . Restò famosa la frase detta da Hitler per incoraggiare la popolazione
285

occupata a una maggiore collaborazione: «Forniremo agli ucraini sciarpe, perline di vetro e tutto
ciò che fa impazzire i popoli coloniali» . Non mancarono alcuni tentativi di assicurarsi la
286

simpatia della gente con iniziative a favore del popolo colonizzato, tra cui l’organizzazione di
giornate di carnevale, in particolare il 1° maggio o il 22 giugno (festeggiato, ironicamente, come
«Giornata della liberazione»). A Orël, il 1° maggio 1943, venne radunata la popolazione e gli
abitanti ricevettero due pacchetti di tabacco russo ciascuno, le donne invece un totale di 4625
gioielli; per pochi lavoratori selezionati furono messi a disposizione sacchi di sale
supplementari . In generale, comunque, la riconciliazione con la popolazione locale fu dura ed
287

estenuante, incluse le zone dove esisteva un certo desiderio popolare di collaborare. Le autorità
tedesche istituirono una polizia locale e unità ausiliarie, le Schutzmannschaften, dotate di bastoni
e fruste e occasionalmente di armi da fuoco e usate come prima forma di organo disciplinare
contro eventuali infrazioni commesse dalla popolazione. Come i giapponesi nel Sud-est asiatico,
i tedeschi facevano grande affidamento su informatori e agenti, pronti a continuare la prassi della
delazione ereditata dai sovietici. In molti casi, le vittime erano famiglie di partigiani o ebrei, del
cui destino parleremo nei capitoli successivi, anche se venivano uccisi frequentemente e
regolarmente tutti coloro che, secondo l’espressione di Hitler, «ci guardano storto». Per tutto il
1942, nel distretto ucraino di Poltava, le unità della polizia paramilitare locale sparavano in
media ogni singolo giorno a un numero di persone compreso tra due e sette . Le esecuzioni di
288

routine caratterizzavano quella che era un’espressione estrema di dominio coloniale, seppure non
ancora abbastanza riconoscibile come tale.
Non vi erano state molte riflessioni circa il modo in cui amministrare i nuovi territori una volta
occupati. Dalle discussioni avute con Hitler e altri capi nazisti prima dell’operazione
«Barbarossa», Rosenberg aveva presunto che si intendesse creare un insieme di piccoli stati
indipendenti, oltre ad annessioni e protettorati in tutta la zona, dal Baltico a Baku. Dopo la sua
nomina ufficiale a ministro per i Territori Orientali occupati, tuttavia, Hitler aveva cominciato a
cambiare idea su qualsiasi impegno assunto circa l’organizzazione postbellica del nuovo impero.
Il Führer aveva quindi comunicato a Rosenberg che non sarebbero state prese «premature
decisioni politiche di carattere definitivo». Quando i nazionalisti proclamarono per esempio un
libero governo della Lituania, esso venne rapidamente stroncato. Il 30 giugno 1941, i sostenitori
ucraini dell’Organizacija Ukraïns’kich Nacionalistiv (OUN), l’Organizzazione dei nazionalisti
ucraini guidata da Stepan Bandera, annunciarono un nuovo governo ucraino a L’vov (L’viv) con
Bandera come providaik (leader), per esercitare «l’autorità sovrana ucraina». Il 5 luglio Bandera
fu catturato e messo agli arresti domiciliari a Berlino. L’OUN si aspettava in Ucraina una
soluzione «croata», ma fu detto ai suoi militanti che gli ucraini non erano «alleati» della
Germania .289

In linea generale, Rosenberg non era contrario a istituire un qualche tipo di soggetto politico
ucraino sottoposto alle condizioni tedesche, ma il suo nuovo ministero, come quello della Grande
Asia orientale, era un’organizzazione in gran parte impotente. «Non ho ricevuto la totale
autorità», lamentò il nuovo ministro nel suo diario allorché divenne chiaro che tutta la
responsabilità di organizzare l’economia delle regioni occupate ricadeva su Göring e il suo
Wirtschaftsstab Ost (Quartier generale per l’economia dell’Est), mentre Himmler, come capo
delle SS e della polizia tedesca, insisteva che la sicurezza, il reinsediamento etnico e la soluzione
della «questione ebraica» nell’area conquistata fossero di competenza delle sue organizzazioni,
di cui esistevano almeno cinque filoni distinti . Poiché l’Est era ancora una zona di
290

combattimento, le zone immediatamente dietro la linea del fronte rimasero sotto amministrazione
militare, gestite da una struttura di comandanti di campo, di distretto e di guarnigioni piú piccole.
Al pari dei governi militari giapponesi, la struttura tedesca aveva la responsabilità di una vasta
gamma di compiti, tra cui la pacificazione e la sorveglianza della popolazione, assicurare i
rifornimenti per lo sforzo bellico, sorvegliare l’area a livello locale, mobilitare la manodopera del
luogo, come anche la responsabilità di un dipartimento degli Affari Ebraici incaricato di
identificare e registrare gli ebrei e liquidare le loro proprietà . La struttura si affidava a
291

collaborazionisti scelti tra la popolazione locale, nominati come sindaci e funzionari rurali, in
una sorta di replica dell’amministrazione civile. Le forze armate mantenevano in ogni caso una
presenza organizzativa e stabilivano le priorità anche nelle zone amministrate da civili. La
struttura di controllo della zona sotto occupazione era cosí disorganica che il ministero di
Rosenberg si guadagnò il soprannome di Cha-ost-ministerium, «ministero del Caos a Est».
Man mano che il fronte avanzava, furono istituite aree di occupazione amministrate da istituzioni
civili come il Reichskommissariat, ciascuno gestito da un commissario nominato direttamente da
Hitler. Inizialmente erano due: il Reichskommissariat Ostland, che incorporava gli stati del
Baltico e la maggior parte della Bielorussia sotto il leader del Partito nazionalsocialista Hinrich
Lohse, e il Reichskommissariat Ukraine, che nel 1941 comprendeva parte della Bielorussia e
gran parte dell’Ucraina e in seguito, nel 1942, una sua porzione maggiore ed era controllato dal
Gauleiter della Prussia orientale Erich Koch. All’interno di queste zone, Hitler e Himmler
volevano che la zona dell’Ostland fino a Białystok fosse annessa alla Germania, che la Galizia
venisse unita al Governatorato generale polacco, che la Crimea divenisse una colonia tedesca con
il nome arcaico di Gottengau e che un’area di insediamento tedesco al di là di Leningrado
prendesse il nome di Ingermanland. Non appena le forze tedesche avessero catturato la regione
meridionale, erano previsti altri due Reichskommissariat, uno intorno alla regione di Mosca e
uno nella zona del Caucaso. Hitler accettò inoltre che il prezzo da pagare per la partecipazione
romena all’operazione «Barbarossa» fosse una striscia di territorio nel sud-ovest dell’Ucraina,
battezzata Transnistria, che avrebbe fatto parte di una Grande Romania. Antonescu vi istituí
tredici governatori militari (pretorii) che amministravano una struttura di contee e utilizzavano la
polizia e gli ufficiali ucraini per mantenere l’ordine .
292

La gestione amministrativa dei Reichskommissariat era definita nella cosiddetta Braune Mappe
(il «faldone marrone») e abbozzata dal ministero di Rosenberg. Esistevano circa 24
commissariati generali a livello regionale (di cui il piú importante era quello della Bielorussia,
con capitale Minsk) e, in subordine, commissariati di distretto e di città, 80 per le aree urbane e
900 per le zone rurali . La presenza tedesca era distribuita in modo molto diradato. I commissari
293

generali disponevano di un centinaio di collaboratori, mentre quelli di città e di campagna non ne


avevano piú di due o tre, coadiuvati dalla polizia e dalla milizia del posto. Nel distretto
bielorusso di Glubokoe, per esempio, appena 79 funzionari tedeschi supervisionavano 400 000
persone. In tutta l’area occupata, con una popolazione stimata di 55 milioni di abitanti, erano
presenti solamente 30 000 funzionari del Reich che svolgevano tutte le funzioni, dall’agronomia
all’estrazione mineraria . Gli abitanti delle campagne vedevano raramente i tedeschi, se non
294

nelle numerose spedizioni punitive alla ricerca dei partigiani e dei loro complici. Nelle campagne
fu mantenuto a livello amministrativo il rajon (distretto), gestito da un sindaco del posto o da un
capo villaggio. Ai sensi di un decreto militare emesso nel luglio del 1941, alla popolazione
assoggettata era negato il diritto di esercitare qualsiasi tipo di autorità oltre il livello del rajon. Il
potere apparteneva interamente ai dirigenti tedeschi, aiutati da una vasta gamma di
collaborazionisti, consenzienti, rassegnati o costretti. Accanto all’organizzazione civile, Himmler
costituí una rete di dirigenti delle SS e della polizia di livello piú elevato, di solito collegati in
modo molto flessibile a un commissariato generale, nonché di dirigenti delle SS e della polizia a
livello distrettuale. Seppure nominalmente soggetti all’autorità dei commissari, Himmler permise
ai suoi uomini di ignorare ciò che volevano i civili – definiti «un branco di burocrati strapagati»
– e di prendere ordini direttamente da lui . Rosenberg visse con profondo risentimento la nascita
295

dell’apparato di sicurezza di Himmler, anche se era grazie a esso che veniva brutalmente
esercitata la routine quotidiana dell’ordinamento «coloniale».
Per quasi tutta la popolazione dei territori occupati, il fattore fondamentale non era come veniva
amministrata, bensí il modo in cui l’economia locale poteva garantire cibo e lavoro, ora che il
sistema sovietico era scomparso. «La vita economica», commentava nell’estate del 1941 un
funzionario tedesco, «si è completamente estinta nella vecchia Russia». La sistematica strategia
della terra bruciata, attuata dall’Armata Rossa per distruggere tutto ciò che potesse rivelarsi utile
all’invasore, aveva lasciato in Ucraina, a detta di un altro osservatore tedesco, uno scenario di
«totale devastazione e desolazione» . Nelle zone in cui le truppe tedesche erano arrivate
296

abbastanza rapidamente non tutto era stato distrutto, anche se migliaia di fabbriche e la relativa
forza lavoro erano già state trasferite in tutta fretta nelle regioni piú interne della Russia,
privando l’area conquistata di un’utile capacità industriale. La strategia economica tedesca,
delineata nella cosiddetta Grüne Mappe, ricalcava esattamente quella del Giappone: le truppe
dovevano alimentarsi sfruttando la terra; la priorità assoluta andava alle forniture di materiali e
attrezzature per l’economia di guerra e le forze armate; la popolazione locale doveva essere
rifornita solo nella misura in cui ciò rispondeva agli interessi tedeschi, il resto avrebbe subito il
destino previsto dallo Hungerplan, il «Piano della fame». Il 28 giugno 1941, Hitler confermò che
Göring avrebbe goduto di «poteri decisionali assoluti» su tutti gli aspetti economici
dell’occupazione, esercitati attraverso il Wirtschaftsführungsstab Ost, istituito prima
dell’invasione . Scorte di materiali e macchinari furono sequestrate dalle «brigate del bottino» e
297

spediti in Germania. Vi erano consistenti scorte di metalli, materie prime, pelli e pellicce, ma il
trasporto del bottino si rivelò difficile e una buona parte andò persa o danneggiata durante il
viaggio, tanto che su diciotto milioni di tonnellate di materie prime sequestrate (soprattutto ferro
e carbone) solo 5,5 milioni di tonnellate arrivarono nel Reich . Göring approvò la creazione di
298

società di monopolio statale per rilevare quanto rimaneva dell’industria sovietica e sfruttarlo per
lo sforzo bellico solamente a settembre, quando le forze tedesche si accingevano a occupare le
regioni industriali dell’Ucraina meridionale. Un monopolio tessile, la Ostfasergesellschaft,
coordinava la produzione per le forze armate; l’industria pesante e le miniere erano state
interamente inglobate in una filiale della Reichswerke, la Berg-und Hüttenwerkgesellschaft Ost
(BHO); il petrolio, considerato da Göring «il principale obiettivo economico dell’invasione»,
sarebbe stato gestito dal monopolio della società per azioni Kontinentale Öl-Aktiengesellschaft
una volta conquistato il Caucaso. Per il momento, come spiegava Paul Pleiger, vice di Göring per
l’industria pesante, l’obiettivo non era «lo sfruttamento economico-coloniale», bensí soddisfare
le necessità a breve termine per vincere la guerra .299

Come già avevano riscontrato i giapponesi nel Sud-est asiatico, il ripristino della produzione fu
molto piú difficile di quanto la pianificazione prebellica avesse ipotizzato. L’unico grande
successo fu la ripresa della produzione di minerale di manganese a Nikopol’ – una priorità
assoluta per produrre acciaio di alta qualità. Dopo un avvio piuttosto lento, il segretario di
Göring presso il ministero dell’Aria, Erhard Milch, fu incaricato di riavviare la produzione. Nel
giugno del 1942, le miniere tornarono a produrre 50 000 tonnellate di metalli al mese come
prima della guerra, superando a settembre l’intera produzione sovietica; prima che le miniere
fossero riconquistate, erano stati spediti verso ovest 1,8 milioni di tonnellate di minerali. Altrove
si rivelò invece difficile rimediare ai danni causati dalla guerra. Nella principale regione
industriale del Donbass, su 26 400 motori industriali antecedenti all’invasione ne erano rimasti in
tutto 2550; i sovietici li avevano fatti esplodere con le mine, gli impianti che non potevano essere
evacuati erano stati sabotati e i trasporti erano ovunque lenti e inaffidabili. La diga di Zaporož’e
sullo Dnepr, che alimentava il piú grande impianto idroelettrico dell’Unione Sovietica, era stata
fatta esplodere, lasciando l’intera zona industriale senza energia. Gli operai costretti ai lavori
forzati la ricostruirono nel 1943, poco prima che i tedeschi, costretti a ritirarsi, la facessero
esplodere di nuovo. Le ricche miniere di carbone e di minerali del Donbass non poterono essere
ripristinate. Tra il 1941 e il 1943, gli ingegneri tedeschi e i minatori sovietici riuscirono a estrarre
quattro milioni di tonnellate di carbone, solamente il 5 per cento della produzione prebellica; le
380 000 tonnellate di minerale di ferro e le 750 000 tonnellate di lignite estratte in due anni non
erano che una goccia nell’oceano delle forniture necessarie ai tedeschi . Gli sforzi per riportare
300

in vita la produzione di ferro e acciaio si rivelarono modesti, perfino quando le aziende private
della Ruhr furono invitate a partecipare come «padrini» – ma non come proprietari – degli
impianti danneggiati – un invito accettato con particolare riluttanza da aziende che già dovevano
fare i conti con le pressioni esercitate sulla produzione interna. Il petrolio fu la piú grande
delusione. Quando nell’autunno del 1942 l’esercito tedesco arrivò finalmente a Majkop, la città
petrolifera del Caucaso, le cinquanta trivelle necessarie per riprendere la produzione erano
ancora bloccate nel Reich in attesa di essere trasportate. Si erano dovuti inviare nei territori
orientali ingegneri petroliferi e attrezzature provenienti dai piccoli giacimenti naturali della
Germania, privando cosí l’industria nazionale di indispensabili competenze; quando gli ingegneri
arrivarono a Majkop, tuttavia, scoprirono che i pozzi erano stati completamente distrutti dai
sovietici. Dal dicembre 1942 al 17 gennaio 1943, quando l’area fu abbandonata, gli ingegneri
estrassero poco piú di 1500 tonnellate di petrolio da un giacimento che nel 1940 ne forniva 3,4
milioni . Nonostante tutta la retorica sull’urgenza di sfruttare il petrolio sovietico per alimentare
301

lo sforzo bellico, la necessità di ripristinare le strutture danneggiate e trovare un modo per


convogliare il petrolio, o trasportare i prodotti petroliferi sulla piccola flotta di petroliere della
Germania, avrebbe richiesto altri anni di sforzi benché il Caucaso fosse stato ora conquistato.
Niente illustrò piú chiaramente l’elemento di pura fantasia che albergava nel cuore della strategia
di Hitler.
Mentre la guerra nell’Est si trasformava in una lunga battaglia di logoramento, le forze armate
vollero aumentare la produzione locale di armamenti e attrezzature per alleviare la pressione sul
sistema dei trasporti, ma soltanto nel 1942 fu intrapreso un reale tentativo di rilanciare la
produzione di munizioni attraverso quello che fu chiamato Ivan Programme, un piano per
produrre oltre un milione di proiettili al mese. Dopo aver razziato macchinari e materiali dagli
impianti danneggiati e aver trasferito ulteriori risorse dalla Germania, nel maggio del 1943 la
produzione finalmente ripartí, ma con solo 880 dei 9300 lavoratori necessari. Pochi mesi dopo,
con l’avvicinarsi dell’Armata Rossa, il programma fu abbandonato. Complessivamente, nella
primavera del 1943, la forza lavoro impiegata nelle fabbriche riattivate della regione contava
solo 86 000 unità; i lavoratori sovietici che erano riusciti a evitare di essere deportati in
Germania come manodopera forzata si dimostravano difficili da disciplinare e sempre pronti a
darsi alla fuga . In termini di risorse materiali, il risultato netto della guerra fu completamente
302

negativo. L’enorme prezzo pagato per lo sforzo bellico nell’Est annullò quanto ottenuto dalle
limitate forniture di materie prime e prodotti finiti, provenienti dalle fabbriche o dalle confische.
Un’indagine condotta nel marzo del 1944 dall’Ufficio ricerche per l’economia di guerra calcolò
che i territori orientali occupati avevano fornito allo sforzo bellico tedesco merci per un valore di
appena 4,5 miliardi di marchi, su un totale di 77,7 miliardi per l’intero Grossraum, a
testimonianza di quanto impoverita e danneggiata fosse diventata l’ex economia sovietica. Il
valore del bottino sequestrato in tutto l’Est occupato fu calcolato in soli 59 milioni di marchi; il
bottino proveniente dal resto dell’Europa ne valeva 237. Anche tenendo conto della reale
difficoltà di calcolare il valore delle forniture di guerra, le statistiche mostrano che la
fantasticheria sulle ricchezze dell’Est altro non era che questo: una fantasticheria .
303

Piú o meno lo stesso si verificò con le forniture alimentari provenienti da un’area che era
destinata, nella visione di Hitler, a essere il granaio d’Europa. Il cibo prodotto nelle zone
occupate avrebbe dovuto essere consumato prima dalle forze armate, dopodiché ogni eventuale
eccedenza doveva essere spedita in Germania per integrare le razioni della popolazione tedesca.
Secondo lo Hungerplan di Backe, le vettovaglie destinate alla popolazione sovietica non erano
una priorità, soprattutto in quelle zone dove era prevedibile ottenere ben poco in termini di
risorse economiche. Si trattava di «grandi territori che devono essere trascurati (ridotti alla
fame)», come notava nel luglio del 1941 il generale Thomas, capo del Wehrwirtschafts-und
Rüstungsamt (Ufficio delle forze armate per l’economia di guerra). La Grüne Mappe stabiliva
che le aree boschive e urbane non avrebbero dovuto ricevere alimenti. Perfino nella stessa
Ucraina, che produceva eccedenze, la difficoltà di trovare cibo per le forze armate ad appena un
mese dall’inizio della campagna portò a una direttiva che invitava a «esercitare una pressione
ancora piú forte sulla popolazione», sequestrando tutto ciò che poteva essere consumato senza
preoccuparsi della sopravvivenza di coloro che lo producevano. Kiev avrebbe dovuto morire di
fame, e quando le truppe tedesche la occuparono a settembre si cercò di vietare ogni tentativo di
portare merci in città dalle zone interne contadine, cosí da poter sostenere il piano prebellico di
esportazione di cibo in Germania . La strategia fallí non solo perché il 50 per cento del cibo
304

stimato per l’esercito (compresa la metà del foraggio per le centinaia di migliaia di cavalli)
dovette restare nei territori orientali anziché essere mandato in Germania, ma anche perché una
politica che mirava intenzionalmente ad affamare la popolazione avrebbe privato le forze armate
della manodopera locale, pregiudicato l’approvvigionamento alimentare per l’anno successivo e
provocato rivolte per mancanza di cibo nelle aree piú interne.
Göring ordinò infine che coloro che lavoravano per gli occupanti tedeschi «non dovevano patire
la fame in maniera estrema», ma le famiglie e quanti non lavoravano ricevevano ben poco . Le 305

razioni erano cosí scarse che non permettevano il lavoro attivo o la vita comunitaria: 1200
calorie al giorno per il «lavoro utile», 850 calorie per il lavoro non direttamente utile agli
occupanti, 420 calorie per i bambini sotto i 14 anni e per gli ebrei di tutte le età. Fu evitata la
morte di massa per fame, ma solo perché molte famiglie di città fuggirono nelle campagne, dove
si presumeva che il cibo fosse piú abbondante. Anche in queste zone, tuttavia, le regolari
requisizioni del raccolto, le elevate tasse da pagare in natura e il razionamento forzato lasciarono
molti abitanti dei villaggi a corto di cibo, a cui sopperirono coltivando verdure in piccoli
appezzamenti di terreno e scavando cantine segrete dove potevano tenere nascoste le scorte
alimentari durante le costanti perquisizioni. Anche cosí, però, nel migliore dei casi, la dieta era
ridotta all’osso . Le requisizioni tedesche furono tanto capillari che per 150 chilometri dalla
306

prima linea venne a crearsi una «zona morta», priva di prodotti vegetali o animali. Nelle città
russe di Kursk e Char’kov, proprio lungo il fronte, le razioni furono fissate a 100 grammi di pane
al giorno . Nelle città si riusciva a sopravvivere solo in presenza di un grande mercato nero
307

gestito principalmente attraverso il baratto. La dislocazione dei tedeschi su un territorio


sterminato rendeva impossibile tenere sotto controllo l’aumento dei prezzi. Nell’estate del 1942,
in un comando bielorusso, il costo ufficiale di un chilogrammo di pane era di 1,20 rubli, ma il
prezzo non ufficiale saliva a 150; un litro di olio di girasole veniva scambiato ufficialmente a
14,5 rubli, ma sul mercato nero ne costava 280 . In tali condizioni, la fame di massa era una
308

realtà quotidiana e il risentimento verso la politica alimentare tedesca fu un elemento


fondamentale nell’alienare una popolazione che aveva sperato di ottenere dal Reich qualcosa di
meglio. Nemmeno il «granaio d’Europa» si era dunque rivelato all’altezza delle aspettative
tedesche. La Germania era riuscita ad avere piú cibo dall’Unione Sovietica con il patto tedesco-
sovietico degli anni di pace dal 1939 al 1941 che durante la guerra. La maggior parte del cibo
ottenuto veniva consumato nelle zone occupate, non in Germania. Circa sette milioni di
tonnellate di grano andavano ogni anno alle forze armate tedesche e agli occupanti civili, per cui
nel 1941-42 furono inviati in Germania soltanto 2 milioni di tonnellate, 2,9 milioni di tonnellate
nel 1942-43 e 1,7 milioni di tonnellate nel 1943-44. Tale quantità rappresentò il 10 per cento del
consumo tedesco di grano nel primo e nell’ultimo anno di guerra e un piú sostanziale 19 per
cento nel 1942-43, in seguito all’insistenza di Hitler e Göring che si doveva strappare al territorio
sovietico fino all’ultimo grammo di cibo, senza preoccuparsi di ciò che questo avrebbe causato
alla popolazione locale .
309

Una delle principali ragioni per cui fu difficile ricreare nell’Est stabili condizioni economiche fu
il gigantesco programma bellico di ristrutturazione bio-politica messo in atto mentre era ancora
in corso la guerra. In un importante discorso del 6 ottobre 1939, dopo la sconfitta della Polonia,
Hitler aveva dichiarato di volere nel nuovo impero tedesco un «nuovo ordine etnografico». Il
conflitto, aveva detto a Himmler dieci giorni dopo, era «una guerra razziale, senza limiti di
ordine legale» . Himmler e lo stuolo di esperti dell’accademia riuniti dalle SS nel
310

Reichssicherheitshauptamt (RSHA, Ufficio centrale per la sicurezza del Reich), nel


Reichskommissar für die Festigung deutschen Volkstums (RKFDV, commissario del Reich per il
rafforzamento del carattere nazionale germanico), e nel Rasse-und Siedlungshauptamt der SS
(RuSHA, Ufficio centrale delle SS per la razza e il reinsediamento) si imbarcarono in una
complessa impresa di germanizzazione di determinate regioni dei territori occupati allo scopo di
eliminare ogni surplus di abitanti dal resto dell’area colonizzata ed estirpare, in un modo o
nell’altro, la grande popolazione ebraica presente in tutta la regione. I primi progetti a breve
termine, i Nahpläne I-III, ottennero risultati discordanti. Alla fine del 1940, solo 249 000
polacchi ed ebrei erano stati deportati dai territori polacchi annessi, anziché i 600 000 previsti dai
Planungsgrundlagen der besetzten Ostgebiete (Principî di pianificazione per i territori orientali
occupati), presentati a Himmler nel gennaio del 1940 dal vicedirettore dello RKFDV Konrad
Meyer-Heitling, o gli 800 000 previsti dal Nahplan II nell’aprile del 1940. Approfittando dei
costanti imbottigliamenti dei trasporti ferroviari, molti polacchi avevano evitato la deportazione
o erano tornati di nascosto nelle loro terre. Dalla Polonia, un gran numero di lavoratori fu
deportato a ovest invece che a est per sopperire alla carenza cronica di manodopera della
Germania, benché tutto questo significasse l’opposto della pulizia etnica. Per assicurarsi che non
contaminassero la razza tedesca, i polacchi inviati in Germania venivano esaminati dal personale
del RuSHA, che doveva escludere quelli ritenuti indesiderabili sotto il profilo razziale. Hans
Frank, a capo del Governatorato generale polacco, rifiutò alla fine di lasciare che il suo feudo
diventasse una discarica di polacchi ed ebrei trasferiti dai territori annessi in Polonia. Gli ebrei
vennero allora ammassati nei ghetti o costretti a lavorare nelle fortificazioni dell’Ostwall –
divenute ben presto superflue dopo l’operazione «Barbarossa» – lungo la frontiera con l’Unione
Sovietica. Il Nahplan III, approntato nel dicembre del 1940, prevedeva l’espulsione di 771 000
polacchi ed ebrei che non abitavano nei ghetti, anche se questa nuova ondata di pulizia etnica si
fermò nel marzo del 1941 a causa della precedenza riservata ai trasporti militari. A Himmler, e al
suo fallimentare apparato per il reinsediamento razziale, la guerra contro l’Unione Sovietica offrí
infine la possibilità di risolvere la situazione di stallo, dato che tutti coloro che risultavano
inaccettabili per motivi razziali venivano spediti nelle lontane distese russe, dove sarebbero morti
a milioni di fame e di freddo.
L’operazione «Barbarossa» era tuttavia sia una minaccia sia una promessa di utopia razziale.
Nella zona occupata vivevano milioni di slavi ed ebrei che avrebbero potuto sommergere la
piccola presenza tedesca e vanificare l’obiettivo di conquistare spazio vitale per la razza
germanica. Una soluzione fu la diretta eliminazione di gran parte della popolazione esistente, un
risultato già anticipato nello Hungerplan di Backe e confermato dal Generalplan Ost nel luglio
del 1941. Una seconda soluzione consisteva nel tentare direttamente di germanizzare le zone piú
importanti dell’Est, insediandovi coloni tedeschi e deportando i non tedeschi. Pur essendo a
lungo termine, questi progetti furono messi in moto già nei primi anni dell’occupazione. Il
Governatorato generale polacco, l’Estonia, la Lettonia, la Galizia e la Crimea avrebbero dovuto
essere completamente germanizzate grazie all’insediamento di tedeschi provenienti dall’Ovest,
di altri già residenti nell’Est e di parte della popolazione orientale con evidenti caratteristiche
tedesche o sangue tedesco che avrebbe potuto attuare, nel bizzarro linguaggio della
pianificazione razziale, la cosiddetta Wiedereindeutschung, ovvero una «rigermanizzazione». Si
stima che in Polonia, Alsazia-Lorena e nei territori sovietici occupati circa quattro milioni di
persone furono sottoposte in loco al vaglio delle SS e del personale responsabile del
reinsediamento e collocate in una delle tre categorie principali: Categoria O, adatta per
l’insediamento nell’Est; Categoria A, da rimandare nei campi di rieducazione del Reich per
imparare a essere veri tedeschi; Categoria S, persone inadatte per motivi razziali, da rimandare al
luogo d’origine o, in pochi casi, da inviare in un campo di lavoro . Nell’area sovietica si
311

cercarono tracce di una sopravvissuta presenza biologica e culturale tedesca, al fine di dimostrare
che i coloni tedeschi arrivati in passato non erano stati completamente assorbiti dall’elemento
slavo. Il ministero di Rosenberg affidò all’etnografo Karl Stumpp, a capo del «Commando
Stumpp», l’incarico di condurre un censimento dei villaggi ucraini che sembravano ancora
presentare un carattere «tedesco», benché gli ufficiali delle SS, responsabili della pulizia etnica,
considerassero molti dei tedeschi di Stumpp non accettabili dal punto di vista della razza e molti
degli stessi abitanti dei villaggi facessero resistenza a essere riclassificati come potenziali
membri del Volk .312

Contemporaneamente, iniziarono i lavori di ricostruzione materiale della regione per assicurare


la colonizzazione a lungo termine di uno spazio che avrebbe potuto estendersi fino agli Urali o
addirittura oltre. L’obiettivo era quello di creare arterie di sangue tedesco attraverso il grande
corpo slavo con la costruzione ogni 100 chilometri circa di «punti di insediamento e sicurezza»
(Siedlungs-und Stützpunkte), con una guarnigione di SS e una piccola popolazione di coloni.
Questi «punti di sicurezza» avrebbero salvaguardato l’area locale di insediamento tedesco,
rendendo possibile al tempo stesso la pacificazione e il controllo delle regioni piú interne a
maggioranza slava. Le città non avrebbero avuto piú di 20 000 abitanti e sarebbero state
circondate da una cerchia di villaggi popolati da robusti agricoltori tedeschi, per evitare cosí i
pericoli sociali del grande agglomerato urbano e ancorare saldamente i colonizzatori al suolo
della nuova terra. Tali colonie, osservò Himmler in un discorso alla fine del 1942, «sono come
fili di perle che estenderemo fino al Don e al Volga, e speriamo fino agli Urali» . Su insistenza
313

di Hitler, le grandi città avrebbero dovuto essere eliminate o germanizzate. Mosca e Leningrado
sarebbero state «spianate», mentre Varsavia sarebbe stata ridotta a una città di 40 000 tedeschi al
fine di rimuovere un elemento fondamentale dell’identità nazionale polacca . 314

La responsabilità del programma di ricostruzione fu affidata all’esperto di economia delle SS


Hans Kammler, sotto la direzione generale di un altro degli apparati di Himmler, lo SS-
Wirtschafts-und Verwaltungshauptamt (WVHA, Ufficio centrale economico e amministrativo).
Kammler elaborò un «Programma provvisorio di costruzione in tempo di pace» che fu
inaugurato nel febbraio del 1942, anche se la pace era ancora una prospettiva remota. La prima
serie di Stützpunkte era stata iniziata ancora prima, nel luglio del 1941, quando Himmler aveva
affidato la responsabilità dei presidi a Odilo Lotario Globočnik, capo della sicurezza delle SS e
della polizia nella zona di Lublino. La carenza di manodopera, in particolare quella ebraica in
seguito alle uccisioni di massa, rallentò il programma, fino a quando la ricostruzione non fu
quasi abbandonata nell’autunno del 1942 . Venne data infatti la precedenza alle priorità di
315

carattere militare, tra cui le grandi arterie che dovevano attraversare la Polonia e l’Ucraina e
alleviare cosí i problemi logistici dell’esercito. L’Organisation Todt, incaricata delle costruzioni
militari, lavorò su non meno di 24 993 chilometri di strade e centinaia di ponti danneggiati. Fu
progettata allora la Durchgangsstrasse IV, che con i suoi 2175 chilometri doveva arrivare in
Crimea e nel Caucaso e i cui lavori iniziarono in Galizia nel 1941 in collaborazione con il leader
locale delle SS Friedrich Katzmann, che decise di risparmiare gli ebrei che vivevano nel
corridoio attraverso il quale sarebbe passata la grande strada affinché potessero lavorare alla sua
costruzione fino a morire per gli stenti e la stanchezza: «Non è un problema», sosteneva
Katzmann, «se mille o diecimila ebrei muoiono per ogni chilometro». Gli operai ebrei
ricevevano poco cibo, erano soggetti a percosse arbitrarie e, se rallentavano o cadevano a terra,
venivano fucilati sul posto, non dalle SS ma dalle guardie dei cantieri che lavoravano per
l’Organisation Todt. Si stima che prima della chiusura dei campi di lavoro nel 1943 morirono o
furono uccise 25 000 persone . 316

Il vero problema era trovare i coloni che avrebbero popolato le nuove terre. Migliaia di tedeschi
provenienti dagli stati del Baltico, dalla Romania e dalle zone della Polonia sovietica ora
occupata furono infine insediati nei territori annessi e in quelli invasi nell’Est, per un totale di
544 296 coloni alla fine del 1942 secondo il rapporto ufficiale dello RKFDV . Per quanto317

riguardava le colonie nei territori sovietici conquistati, il compito di trovare dei tedeschi
ineccepibili dal punto di vista razziale e disposti a trasferirsi si rivelò invece piú difficile. Erhard
Wetzel, responsabile del ministero per il Reinsediamento guidato da Rosenberg, osservò che la
popolazione tedesca dell’Ovest «rifiuta di essere insediata nell’Est [...], semplicemente perché
vede i territori orientali come lande troppo monotone o deprimenti, o troppo fredde e
primitive» . Su ordine di Himmler, fu istituito un insediamento tedesco modello nella città di
318

Zamość e nei suoi dintorni, all’interno del Governatorato generale, da dove nel novembre del
1942 piú di 50 000 polacchi di 300 villaggi furono deportati dalle loro fattorie e case per fare
posto ai tedeschi. Quando pochi mesi dopo il progetto fu bloccato, vi erano tuttavia solo 10 000
tedeschi anziché i 60 000 previsti, provenienti per la maggior dalla Bessarabia e dalla Romania e
alcuni reinsediati per la seconda volta . Le SA e le SS cercavano di persuadere i loro membri a
319

offrirsi volontari per i nuovi insediamenti nell’Est, ma nel gennaio del 1943 le SA avevano
ricevuto solamente 1304 domande (anziché le 50 000 inizialmente previste), delle quali solo 422
erano effettivamente per l’Est; nel giugno dell’anno prima, le SS avevano ricevuto a loro volta
appena 4500 domande, nonostante la grande ambizione di Himmler di riempire le colonie con i
propri uomini . Per contribuire a riempire gli spazi, furono offerte agli ex coloni dell’Africa
320

orientale tedesca delle fattorie polacche, in modo che nella ricostruzione dell’Est, secondo il
resoconto di un giornale nell’autunno del 1943, essi «potessero ancora svolgere un lavoro
veramente pionieristico in ogni settore» . Già nel giugno del 1941 era stato lanciato agli
321

olandesi, in quanto fratelli di stirpe «germanica», l’invito a «guardare all’Est!», ma, al posto
delle migliaia di coloni sperati, dei 6000 olandesi disposti a lavorare per i tedeschi solo poche
centinaia di volontari accettarono di stabilirsi nelle nuove terre, presto delusi, tra l’altro, dal
trattamento paternalistico delle autorità tedesche e dall’ambiente loro estraneo. Le speranze
olandesi di ottenere un territorio permanente sotto forma di colonia vennero disattese. Le
lamentele da parte tedesca sul fatto che gli olandesi fossero regolarmente ubriachi e poco
disciplinati incoraggiarono molti ad andarsene, e perfino la Commissie tot Uitzending van
Landbouwers naar Oost-Europa (Commissione per il trasferimento degli agricoltori nell’Europa
orientale) denunciò che la maggior parte dei volontari olandesi non era che un «branco di
avventurieri» . 322

In ogni caso, l’utopistica progettazione degli insediamenti proseguí, nonostante l’assenza di un


potenziale gruppo di coloni tedeschi. Nella loro forma piú estrema, i progetti prevedevano una
massiccia Entvolkung, uno spopolamento dell’Est occupato. Una versione del Generalplan Ost,
elaborata da Wetzel, prevedeva un programma di colonizzazione trentennale, durante il quale 31
milioni di persone avrebbero dovuto essere espulse, lasciandone 14 milioni a lavorare per il
potere imperiale del Reich. Sia la stesura finale del Generalplan Ost, presentata a Himmler il 23
dicembre 1942, sia il definitivo Generalsiedlungsplan, il Piano generale degli insediamenti
redatto da Hans Ehlich alla fine del 1942, proponevano progetti grandiosi in un momento in cui
lo sforzo bellico tedesco era già in profonda crisi. Tra i popoli dell’Est occupato, i progetti
calcolavano che l’85 per cento dei polacchi, il 50 per cento dei cechi, il 50 per cento degli
abitanti degli stati del Baltico, il 75 per cento dei bielorussi e il 65 per cento degli ucraini fossero
«sacrificabili», per un totale complessivo di 47 925 000 elementi estranei dal punto di vista
razziale da espellere o eliminare, tutto questo senza calcolare gli ebrei, la maggior parte dei quali
era già stata sterminata . Il leader visionario era lo stesso Himmler, che già nell’autunno del
323

1942 immaginava una presenza imperiale tedesca che sarebbe durata 400-500 anni e un impero
popolato da seicento milioni di tedeschi, destinato a proseguire, come affermò piú tardi, la
«battaglia per la vita contro l’Asia» .
324

Un impero «epurato dagli ebrei».


L’organizzazione di un’espulsione di massa o dell’eliminazione di decine di milioni di esseri
umani non avvenne secondo le indicazioni suggerite dalle molteplici versioni del Generalplan
Ost, anche se milioni di persone morirono per le conseguenze della guerra e altre centinaia di
migliaia furono sradicate o deportate dalle loro case. Fece eccezione in tutta la regione il destino
della popolazione ebraica. La tragedia degli ebrei europei fu di vivere ancora in grande
maggioranza in quella che era stata la Čerta osedlosti zarista, ovvero la «Zona di residenza» in
cui erano costretti a vivere gli ebrei dell’impero russo e che andava dagli stati del Baltico fino
all’Ucraina sud-occidentale; ad aggravare quella tragedia fu il fatto che tutti i piú spietati
antisemiti della Germania erano concentrati nell’apparato di sicurezza che occupava quelle stesse
regioni e intendeva trasformarle in un paradiso della razza germanica. Su undici milioni di ebrei
residenti in Europa, calcolati dalla Reichszentrale für jüdische Auswanderung, il dipartimento
centrale del Reich per gli affari ebraici che Adolf Eichmann dirigeva nella sede centrale della
Gestapo, 6,6 milioni vivevano nei territori orientali occupati e altri 1,5 milioni nel resto
dell’Unione Sovietica . Di conseguenza, la grande maggioranza degli ebrei uccisi nel genocidio
325

del 1941-43 provenivano dall’Est, ma non tutti. Il loro fu un destino completamente separato da
quello di altri milioni lasciati morire di fame o deportati per fare posto ai coloni tedeschi o
reclutati per i lavori forzati, e questo perché gli ebrei, individuati come il principale nemico della
razza germanica, dovevano innanzitutto, in un modo o nell’altro, essere eliminati dal territorio
della Germania, quindi dall’Est conquistato e infine dall’intero Grossraum tedesco. Queste zone,
nel linguaggio razziale del regime, dovevano essere «ripulite dagli ebrei» ( judenrein). Quello
che dopo il 1945 sarà conosciuto come l’Olocausto, o Shoah, riguardò gli ebrei ovunque
vivessero, tanto nei territori occupati quanto in quelli dell’Asse. L’Est divenne importante perché
rappresentava l’ultima destinazione di tutti gli ebrei nelle mani della Germania, che vi furono
uccisi in modi che divennero gradualmente sempre piú sistematici.
La guerra contro gli ebrei risultava strettamente connessa ai grandiosi piani di ristrutturazione
etnica, anche se questo rappresentava solo uno degli elementi con cui si spiegava l’eufemistica
«soluzione finale» alla questione ebraica – che veniva definita una «questione» solo perché
l’immaginazione di Hitler e dell’élite nazionalsocialista aveva dipinto gli ebrei come un
problema. Fondamentalmente, il Führer e gli antisemiti a lui vicini coltivavano una visione
manichea del mondo, in cui il popolo tedesco, che rappresentava una forza a difesa del bene della
razza, veniva contrapposto agli «ebrei», fonte di tutto il male del mondo. Nella bizzarra
escatologia hitleriana, la sopravvivenza del popolo tedesco era subordinata all’eliminazione degli
ebrei. Il popolo ebraico rappresentava l’«anti-nazione», intenzionata a mettere in pericolo
l’«autoconservazione delle razze» . Nel 1936, in uno dei pochi documenti che egli stesso scrisse
326

e mostrò solo a pochissimi suoi stretti collaboratori, Hitler aveva sviluppato l’idea che la
mancata distruzione della minaccia ebraica sarebbe stata «la piú orribile catastrofe razziale» dal
crollo dell’impero romano, con la conseguente «completa distruzione» del Volk tedesco . I 327

termini dello scontro previsto da Hitler erano chiari: o l’annientamento tedesco o quello ebraico.
Il suo primo esplicito riferimento pubblico allo sterminio risaliva al 30 gennaio 1939, quando
aveva profetizzato in un discorso al Reichstag che «l’annientamento» (Vernichtung) era il
destino che attendeva gli ebrei se avessero fatto precipitare nuovamente la Germania in una
guerra mondiale.
Per Hitler, la guerra e i successivi passi verso lo sterminio degli ebrei erano inseparabili. Piú
tardi, infatti, riferendosi alla sua profezia, egli la datava al 1° settembre 1939, il primo giorno di
guerra. Quando nel dicembre del 1941 la Germania si trovò infine ad affrontare un conflitto
globale, la profezia fu ripresa nella fatidica riunione del 12 dicembre come giustificazione per
l’indiscriminata eliminazione degli ebrei in tutto il Grossraum. Pochi giorni dopo un incontro
con Hitler, Himmler annotò nel suo diario: «Questione ebraica: da sradicare come i partigiani» . 328

Il 30 gennaio 1942, nell’effettivo anniversario della sua profezia, Hitler annunciò che sarebbe
«scoccata l’ora in cui il nemico mondiale piú malvagio di tutti i tempi esaurirà il suo ruolo per i
prossimi mille anni» . Due settimane dopo, riferí a Goebbels che «con l’annientamento dei nostri
329

nemici, [gli ebrei] sperimenteranno anche il loro stesso annientamento», collegando ancora una
volta il genocidio alla guerra. In un discorso al Reichstag pronunciato alla fine di aprile 1942 e
volto a giustificare la decisione dello sterminio ebraico, Hitler precisò infine chiaramente la
colpa del mondo ebraico per le sofferenze e i pericoli che la Germania aveva affrontato, dallo
scoppio della Prima guerra mondiale in poi:
Le forze nascoste che già nel 1914 portarono l’Inghilterra alla Prima guerra mondiale furono gli ebrei. Le forze che allora ci
indebolirono e che con la diceria che la Germania non avrebbe piú potuto portare vittoriosamente i suoi vessilli in patria ci
costrinsero alla resa furono gli ebrei. Gli ebrei hanno fomentato la rivoluzione nel nostro popolo e ci hanno depredato di ogni
ulteriore possibilità di resistenza. Dal 1939, gli ebrei hanno ulteriormente pilotato l’impero britannico verso la sua crisi piú
pericolosa. Gli ebrei sono stati i portatori di quell’infezione bolscevica che un tempo minacciò di distruggere l’Europa. Allo
stesso tempo, sono stati anche i guerrafondai nelle file dei plutocrati. Una cerchia di ebrei ha persino spinto l’America alla guerra
contro gli interessi stessi del paese, semplicemente e unicamente in una prospettiva ebraico-capitalistica 330.
Questa tossica miscela di risentimento delirante e di manipolazione storica dipingeva l’ebreo
come la nemesi tedesca da combattere fino alla morte. Per Hitler, queste opinioni non erano il
frutto della ragione, che avrebbe presto messo a nudo la loro natura fantasiosa, ma la
conseguenza di una profonda convinzione. Hitler non visitò mai un campo né uccise un ebreo di
persona, ma la sua metaforica equazione dell’ebreo con il male storico regolò il modo in cui
negli anni centrali della guerra avvenne il reale sterminio, creando una legittima narrazione di
vendetta.
L’inizio delle uccisioni di massa degli ebrei nel 1941 fu dapprima un fenomeno scoordinato e
mutevole, comprensibile solo sullo sfondo di un regime che dal 1933 aveva isolato e messo alla
gogna la popolazione ebraica. Fino al 1940, l’intenzione rimase quella di espropriare le ricchezze
ebraiche e costringere gli ebrei a emigrare, cosa che fecero in centinaia di migliaia. La retorica
della minaccia storica degli ebrei in patria e all’estero era molto diffusa, ma il nucleo della
visione paranoica di Hitler apparteneva strettamente all’educazione politica di un’intera schiera
di SS, polizia e forze di sicurezza, cosí com’era stata abbracciata dal circuito accademico
impegnato a trovare una risposta alla «questione ebraica» di Hitler. Fu grazie a quei i circoli che
la metaforica visione hitleriana dell’«ebreo» venne tradotta nella linea politica che perseguitò e
uccise gli ebrei reali. Le circostanze cambiarono poi con la guerra, allorché milioni di ebrei
polacchi passarono sotto il controllo tedesco. Il 21 settembre 1939, Reinhard Heydrich, capo
dello RSHA, ordinò che tutti gli ebrei venissero concentrati nel Governatorato generale e
distribuiti in ghetti o campi di lavoro . Gli ebrei che vivevano nella regione del Warthegau,
331

annessa al Reich, avrebbero dovuto essere deportati nel Governatorato generale, ma il loro
spostamento si dimostrò difficile e si dovettero istituire grandi ghetti in quello che era ora
territorio tedesco. In un caso, nell’autunno 1940, venne istituito un ghetto/campo di lavoro nella
cittadina di Kalisch (Kalisz), ma tutti gli ebrei che erano troppo deboli, vecchi o malati furono
portati nella vicina foresta e fucilati – un primo esempio di genocidio a livello strettamente
locale332

Nel Governatorato generale, dove si trovava già concentrata la maggior parte degli ebrei
polacchi, Hans Frank impose il lavoro obbligatorio a tutti gli ebrei di sesso maschile con un’età
compresa tra i diciotto e i sessant’anni, costretti a lavorare in condizioni durissime a vari progetti
per lo sforzo bellico. A Lublino, Odilo Globočnik organizzò 76 campi di lavoro per circa 50-70
000 ebrei, che dovevano costruire fortificazioni, strade o canalizzazioni, dove erano costretti a
faticare giorno dopo giorno con l’acqua che arrivava alle ginocchia. Coloro che si trovavano ai
lavori forzati erano già esposti a una violenza letale: se cercavano di sottrarsi al lavoro o se erano
sospettati di pigrizia potevano essere fucilati o impiccati. La dieta era molto debilitante, per cui i
lavoratori morivano o venivano passati per le armi se non riuscivano piú a lavorare. Nel 1941,
molti dei 700 000 lavoratori ebrei erano ridotti in schiavitú, coperti di stracci e senza calzature .
333

Il resto della popolazione ebraica fu costretto a entrare in uno dei circa 400 ghetti, grandi e
piccoli. Man mano che i ghetti si riempivano, le autorità tedesche avvertivano una crescente
preoccupazione per la minaccia di malattie o per i costi da sostenere per nutrire gli ebrei, mentre
la lentezza della deportazione creava costanti discussioni tra autorità civili, apparato di sicurezza
dello RSHA, polizia e forze armate. La domanda di manodopera per lo sforzo bellico entrò in
conflitto con il desiderio di isolare e impoverire le comunità ebraiche, e presto anche con le
ambizioni dell’apparato di sicurezza di Himmler, che voleva liberare del tutto i territori dagli
ebrei o lasciare che morissero di fame o di malattia. La sconfitta della Francia aveva dato spazio
all’idea di mandare tutti gli ebrei nella colonia francese del Madagascar. Nel maggio del 1940,
Himmler aveva esposto tale possibilità a Hitler e aveva trovato il Führer «molto favorevole» . 334

L’isola sarebbe diventata un protettorato tedesco, con un governatore tedesco a supervisionare


una colonia inospitale in cui gli ebrei sarebbero stati lo sfortunato popolo colonizzato. Il piano si
rivelò alquanto irrealistico, considerando il controllo dei mari da parte britannica, e piú tardi, nel
maggio del 1942, furono proprio gli inglesi a occupare l’isola al fine di prevenire una possibile
occupazione giapponese. L’avvicinarsi dell’operazione «Barbarossa» rafforzò l’idea che gli ebrei
potessero ora essere spinti lontano verso est, e sembra che ancora nell’estate del 1941 fosse
questa la soluzione preferita da Hitler. «Non fa differenza», aveva detto il Führer al ministro
della Difesa croato a luglio, «che gli ebrei siano mandati in Madagascar o in Siberia» . 335

L’abitudine a maltrattare, depredare o uccidere gli ebrei in quanto nemici della razza era
comunque già sufficientemente diffusa che non risulta molto difficile spiegare in che modo si
passò nell’estate del 1941 dall’«evacuazione» alle uccisioni di massa nell’ex territorio sovietico.
Lo sterminio degli ebrei iniziò quasi subito dopo il 22 giugno 1941 in quello che Wendy Lower
ha definito un «mosaico di storie di Olocausto locali» in cui ogni uccisione di massa aveva una
propria storia, ma il mosaico ebbe molte tessere piú piccole che aiutano a costruire l’immagine di
un genocidio di proporzioni ben piú vaste . Hitler aveva ordinato agli Einsatzgruppen di
336

uccidere gli ebrei che lavoravano per lo stato sovietico, gli ebrei membri del Partito comunista e
qualsiasi altro ebreo che detenesse cariche ufficiali; le condizioni del conflitto, tuttavia, aprirono
ben presto le dighe di una violenza diretta indiscriminatamente contro tutti gli ebrei, in parte
perché erano facilmente identificabili e concentrati nei villaggi e nelle città conquistate in
precedenza. Le unità di sicurezza erano assistite dalle forze armate, i cui membri non esitavano
ad aiutare gli Einsatzgruppen a radunare e sorvegliare gli ebrei, e occasionalmente anche a
ucciderli. Il 21 giugno, tutte le truppe, fino al livello di compagnia, ricevettero l’ordine di
intraprendere azioni spietate e aggressive contro «agitatori bolscevichi, cecchini, sabotatori ed
ebrei». A settembre, l’OKW emise una direttiva sugli «Ebrei nei territori sovietici recentemente
occupati» che ribadiva la necessità di compiere interventi «indiscriminati ed energici […] in
particolar modo contro la popolazione ebraica» . Nelle prime settimane del conflitto,
337

l’insinuazione che all’arrivo delle truppe tedesche i veri responsabili di saccheggi, incendi dolosi
o scontri a fuoco fossero gli ebrei divenne parte integrante della retorica ufficiale. Poco
importava se la maggior parte delle accuse era un prodotto di pura fantasia: la colpa degli ebrei
era data per scontata. Nel dicembre del 1941, il rapporto dell’Einsatzgruppe A asseriva che gli
ebrei «erano estremamente attivi come sabotatori e incendiari»; alla fine di ottobre dello stesso
anno ne erano stati uccisi 30 000 sulla base di tale accusa pretestuosa .
338

In molti casi, la reazione dei comandanti militari era influenzata dal loro stesso antisemitismo e
dall’odio per il comunismo, per cui erano propensi ad accettare l’ipotesi che molti dei presunti
«partigiani» impegnati in operazioni di disturbo lungo i fianchi dell’esercito tedesco fossero
ebrei. Anche le comunità rom presenti sul territorio sovietico furono incluse tra le potenziali spie
e sabotatori, divenendo cosí vittime abituali delle uccisioni insieme con il principale obiettivo
ebraico. Le unità militari delle SS non avevano bisogno di essere spronate. Già nel luglio del
1941 la SS-Kavallerie-Brigade aveva ricevuto l’ordine di uccidere indiscriminatamente tutti gli
ebrei di sesso maschile, a cui era seguito poco dopo quello di eliminare anche le loro famiglie.
All’inizio di agosto, in una carneficina durata due settimane, si stima che furono uccisi 25 000
ebrei . La facilità con cui le parole «partigiano» ed «ebreo» potevano essere affiancate dava alle
339

unità militari e alle guardie di sicurezza ampia licenza di uccidere a piacimento, anche nel caso
della Serbia occupata, dove lo sterminio di massa degli ebrei di sesso maschile divenne un fatto
compiuto nel novembre del 1941, con la motivazione che erano tutti potenziali partigiani o
sabotatori. Centinaia erano già stati uccisi come ostaggi in base all’ordine dell’OKW che
prevedeva di eliminarne 100 per ogni soldato tedesco ucciso dai partigiani. Altri 8000 furono
liquidati su ordine del regime militare di Belgrado, quando fu chiaro che non c’era modo di
deportarli nell’Est. Pochi mesi dopo, fu la volta di donne, bambini e rom, di cui 7500 finirono
nelle camere a gas nel giro di due mesi: ogni giorno veniva promesso a un certo numero di donne
e bambini che sarebbero stati reinsediati altrove, mentre in realtà venivano portati via rinchiusi in
un camion in cui era immesso il gas che li avrebbe uccisi. Ai bambini venivano perfino
distribuite delle caramelle per rassicurarli che tutto andava bene. Il 9 giugno 1942, fu trasmesso a
Berlino un laconico messaggio: «Serbien ist judenfrei» («In Serbia non c’è piú un solo ebreo») . 340

I principali istigatori degli omicidi di massa erano gli Einsatzgruppen A, B, C e D, aiutati, una
volta divenuta evidente l’entità dello sterminio, dalla polizia «d’ordine» reclutata nel Reich e da
ausiliari locali ucraini, baltici e bielorussi. Entro dicembre del 1941 erano state uccise circa 700
000 persone, di cui 509 000 vittime nelle zone civili e militari dell’Ucraina (incluse 96 000
sterminate da unità dell’esercito e della sicurezza romena in Transnistria) . In alcuni casi, i
341

comandanti militari del posto ordinavano la costruzione di ghetti, che spesso si rivelavano solo
strutture temporanee perché le unità delle SS e della polizia, sollecitate da Himmler, arrivavano
con l’ordine di sterminarne gli abitanti. In Bielorussia, a ottobre, le uccisioni raggiunsero uno dei
loro apici, con il massacro di 2000 persone a Mogilëv il 1° e 2 ottobre, fino alle 8000 vittime di
Vitebsk e alle 7000-8000 di Borisov dieci giorni dopo. A Minsk, dove era stato costruito un
grande ghetto, all’inizio di novembre furono uccise 10 000 persone per fare spazio ad alcuni dei
primi convogli di deportati in arrivo dalla Germania. Alla fine di settembre, gli alti ufficiali della
Heeresgruppe Mitte avevano avuto una riunione a Mogilëv in cui Arthur Nebe, comandante
dell’Einsatzgruppe B, aveva tenuto una sorta di conferenza sulla questione ebraica e sulla guerra
antipartigiana allo scopo di incoraggiare la cooperazione tra le varie divisioni. A ottobre, le
truppe della Wehrmacht si sparpagliarono nelle campagne a caccia di «banditi», uccidendo
invece un gran numero di ebrei. Il comandante in capo in Bielorussia, il generale Gustav von
Mauchenheim, decise che «gli ebrei devono sparire dalle campagne, cosí come devono essere
sterminati anche gli zingari [rom]». La sua 707. Infanterie-Division uccise circa 10 000 ebrei
nelle zone attorno a Minsk, a cui si aggiunsero quelli sterminati nel ghetto della città .
342

L’attività di sterminio non fu tuttavia uniforme, per cui alcuni ebrei sopravvissero grazie alle loro
competenze utili all’esercito, o perché erano sfuggiti ai primi rastrellamenti oppure erano stati
ammassati nei ghetti, dove la sopravvivenza era solo una questione di fortuna. In Lettonia e
Lituania, dove nel giugno successivo all’arrivo dei tedeschi i pogrom avevano contribuito al
lavoro delle SS locali, i ghetti furono costruiti solo dopo la prima ondata di uccisioni. A Riga,
benché metà della popolazione ebraica fosse già morta prima che il ghetto venisse costruito
nell’ottobre del 1941, all’inizio di dicembre 27 000 abitanti del ghetto furono uccisi nella vicina
foresta di Rumbula per far posto, ancora una volta, agli ebrei tedeschi. In Ucraina, al contrario, il
ghetto sorto a Žitomir venne svuotato di 3145 ebrei poco dopo la sua costruzione; il ghetto di
Jalta fu istituito il 5 dicembre, ma dodici giorni dopo i suoi abitanti furono massacrati . 343

L’Ucraina conobbe altresí il piú orrendo massacro di tutto il genocidio, avvenuto nel burrone di
Babij Jar appena fuori Kiev, presumibilmente come rappresaglia per atti di terrorismo «ebraico»
avvenuti nella città. Il 29 settembre, gran parte della popolazione ebraica, di cui una buona
maggioranza sperava di essere deportata, fu fatta marciare attraverso la città fino al burrone,
dove per tutto il giorno gruppi di persone furono picchiati, spogliati ed eliminati dalle raffiche
delle mitragliatrici, con un totale di 33 771 vittime in soli due giorni. In tutta la provincia di
Kiev, nel mese di settembre furono uccise 137 000 persone, perfino mentre i combattimenti si
stavano spostando piú a est . Una testimone oculare, Irina Chorošunova, espresse nel suo diario
344

un’intuizione considerata oggi un’affermazione di valore universale: «So solo una cosa: sta
succedendo qualcosa di terribile, orribile, qualcosa di inconcepibile, che non può essere
compreso, afferrato o spiegato» . 345

Le divergenze d’opinione esistenti tra gli storici circa il momento in cui Hitler forse ordinò lo
sterminio degli ebrei non significano altro che ignorare la realtà dei fatti, ovvero che il genocidio
avvenne dal giugno 1941 in poi senza che da parte della massima autorità vi fosse stato alcun
ordine diretto di eliminare gli ebrei. A Berlino, d’altro canto, nessuno avrebbe disapprovato le
uccisioni, tantomeno Hitler, a cui venivano mostrati regolarmente i rapporti degli
Einsatzgruppen, o Himmler, che nei mesi estivi del 1941 esortò le unità di sicurezza a essere
ancora piú spietate. L’intervento del Führer si rese necessario solo in alcuni frangenti chiave.
L’identificazione degli ebrei tedeschi con la stella gialla, per esempio, era nata da un ordine
diretto di Hitler dopo la pubblicazione della Carta Atlantica ad agosto; il 18 settembre, il Führer
aveva infine ordinato la deportazione di tutti gli ebrei tedeschi, austriaci e cechi nei ghetti
dell’Est, cosa che ebbe inizio alla fine di ottobre. A quel punto, allo RSHA si stava già parlando
di deportare nell’Est tutti gli ebrei del Grossraum occupato, in conformità con l’ordine di
deportazione di Hitler riguardo all’Europa centrale. Sembra che Hitler, particolarmente irritato
alla notizia che Stalin aveva ordinato la deportazione in Siberia dei «tedeschi del Volga», ovvero
quelle migliaia di persone di madrelingua tedesca che discendevano dai coloni stabilitisi nella
Russia meridionale nel XVIII secolo, avesse condiviso l’affermazione di Rosenberg che «gli ebrei
dell’Europa centrale» avrebbero dovuto subire lo stesso destino se i tedeschi presenti sul
territorio sovietico fossero stati uccisi . Nel dicembre del 1941 e nel gennaio del 1942, infine,
346

coloro che erano coinvolti nella gestione della politica di sterminio degli ebrei presero spunto
dalle dichiarazioni di Hitler in merito alla distruzione delle comunità ebraiche, ritenendo che una
piú estesa eliminazione degli ebrei a livello europeo, sia attraverso uccisioni deliberate sia
attraverso il lavoro forzato fino alla morte, fosse ormai divenuta il vero obiettivo da raggiungere.
Hans Frank, impossibilitato a spostare la numerosa popolazione ebraica del Governatorato
generale ma desideroso di germanizzare il suo territorio, tornò dalla riunione del 12 dicembre e
riferí ai suoi collaboratori che era ora possibile procedere con qualsiasi mezzo all’eliminazione di
oltre un milione di ebrei residenti nel Governatorato. Non esiste un ordine di Hitler su tale
radicalizzazione del genocidio, ma nessuna delle persone coinvolte aveva alcun dubbio che a un
certo punto avrebbero dovuto essere spediti nei campi di sterminio dell’Est non solo gli ebrei
dell’Unione Sovietica e della Polonia orientale, già uccisi in gran numero, ma tutti gli ebrei
residenti all’interno dei domini della Germania. Fu questa la principale conclusione della
famigerata Conferenza di Wannsee, convocata il 20 gennaio 1942 (dopo essere stata rimandata
da dicembre), in cui Heydrich espose il programma di evacuazione verso est come soluzione
finale alla questione ebraica in Europa, ovviamente previa approvazione da parte di Hitler. Se
Heydrich e Himmler ragionavano ancora nei termini di un massimo sfruttamento della forza
lavoro ebraica, facendo cioè lavorare sempre piú i deportati nei territori orientali fino alla morte
per sfinimento, gli altri presenti a Wannsee davano tuttavia per scontato che quelli che non erano
in grado di lavorare sarebbero stati comunque eliminati. Alla fine, in un modo o nell’altro, il
termine evacuazione venne a significare sterminio .347

A Wannsee non fu sviluppato alcun piano generale in merito al trattamento degli ebrei. Le
ondate di uccisioni del 1942 dipesero, come quelle del 1941, da iniziative locali di SS, autorità
militari e civili nonché da costanti suggerimenti di Himmler e Heydrich, almeno fino al suo
assassinio nel giugno del 1942. La piú significativa di quelle iniziative fu il passaggio dalle
uccisioni dirette, faccia a faccia (in cui morí circa la metà di tutte le vittime dell’Olocausto),
all’eliminazione in strutture a gas, sia mobili, come furgoni e camion adattati alle necessità, sia
permanenti, come stanze o camere a gas. L’uso di tali strutture era stato sviluppato per la prima
volta nell’ottobre e novembre del 1941 quale soluzione all’urgente bisogno di fare spazio nei
ghetti agli ebrei tedeschi e cechi deportati. Dopo il fallimento dei piani di deportazione, Arthur
Greiser, Gauleiter del Warthegau, aveva chiesto l’autorizzazione a uccidere fino a 100 000 ebrei
ancora residenti nella regione. Venne scelto a tale scopo un piccolo maniero nei pressi del
villaggio di Chełmno e a partire da novembre si usarono i Gaswagen per uccidere gli ebrei.
Contemporaneamente, Odilo Globočnik aveva proposto, e Heydrich aveva accettato, un impianto
a gas fisso nell’ex campo di lavoro di Bełżec, vicino a Lublino, dove sarebbero stati uccisi gli
ebrei inabili . Per il passaggio alle camere a gas si utilizzò un metodo già noto dalla cosiddetta
348
Aktion T4 (dall’indirizzo di Berlino, Tiergarten 4), ovvero il programma per eliminare con il gas
i disabili mentali di Germania e Austria e successivamente della Polonia occupata. Globočnik
fece trasferire a Lublino 120 membri del personale dell’Aktion T4, mentre altri prestavano
assistenza in diversi siti di sterminio . A Bełżec iniziarono a uccidere gli ebrei nelle camere a gas
349

dal marzo 1942, intanto che si procedeva alla costruzione di altre due strutture analoghe in
territorio polacco, a Sobibór e Treblinka. A Sobibór cominciarono a utilizzare il gas nel maggio
del 1942, a Treblinka nel mese di luglio. Questi campi – in cui si svolse quella che fu chiamata
Aktion Reinhard – divennero un luogo in cui gli ebrei venivano mandati solo per essere
sterminati. Anche se quelli ritenuti ancora capaci di lavorare venivano trattenuti, nella prima
ondata di uccisioni nel Governatorato generale ne vennero uccisi con il gas 160 000. Dopo
l’assassinio di Heydrich, Himmler comunicò agli alti ufficiali delle SS: «Di qui a un anno
avremo finito con la grande migrazione degli ebrei; allora nessuno si sposterà piú. Bisogna fare
tabula rasa» .
350

Seguí poi la «seconda ondata» di uccisioni, iniziata a partire dall’estate 1942. Fu il periodo piú
letale del genocidio. Nella seconda metà dell’anno furono uccisi nel Governatorato generale
circa 1,2 milioni di persone. In Ucraina, dove gran parte delle uccisioni avveniva ancora
frontalmente, ne furono uccise altre 773 000, svuotando quasi completamente degli ebrei il
Reichskommissariat Ukraine (Commissariato del Reich per l’Ucraina). «Ebrei: la pulizia del
territorio è nelle sue fasi finali», recitava un rapporto stilato il 31 dicembre 1942. Le poche
migliaia di ebrei sopravvissuti furono eliminate nei mesi successivi . Le uccisioni senza sosta
351

mascheravano comunque le continue discussioni e incertezze a proposito della forza lavoro che
gli ebrei potevano fornire e della sopravvivenza di sacche di ebrei nei ghetti e nei campi di
lavoro. Nell’aprile del 1942, sotto la pressione delle forze armate e degli imprenditori dell’est,
Himmler ordinò che gli uomini dai sedici ai trentacinque anni venissero destinati al lavoro in
fabbrica e nei cantieri edili. Dall’estate dello stesso anno, tuttavia, il suo orientamento cambiò.
Piuttosto che accettare la sopravvivenza di quelle che considerava isole di impurità razziale nelle
aree da colonizzare, chiese che tutti i progetti che utilizzavano ebrei fossero chiusi e che gli ebrei
fossero uccisi anziché essere impiegati nello sforzo bellico; le forze armate e gli amministratori
civili continuarono tuttavia a disobbedire agli ordini. All’inizio del 1943, nei campi di lavoro
della Polonia si trovavano ancora 120 000 ebrei e Himmler fu in grado di esigere che tutti i
campi fossero chiusi solo nell’estate di quell’anno, in modo tale da poterne eliminare la
popolazione insieme con tutti gli altri ebrei rimanenti . In Galizia, nei primi sei mesi del 1943
352

furono uccisi 140 000 ebrei che erano riusciti a sfuggire alle precedenti ondate di uccisioni.
Nell’Ucraina occupata dai tedeschi, 150 000 sopravvissuti furono eliminati nello stesso anno.
Rimasero alcuni campi di lavoro per la costruzione della Durchgangsstrasse IV, ma l’ultimo fu
eliminato nel dicembre del 1943 e tutti gli ebrei rimasti furono uccisi. A quel punto, erano già
stati costruiti due grandi campi di lavoro e di sterminio ad Auschwitz-Birkenau e Majdanek,
nelle cui camere a gas fu mandato piú di un milione di ebrei dell’Europa centrale, occidentale e
meridionale, tra cui anche l’ultimo gruppo di lavoratori ebrei del Governatorato generale e del
grande ghetto di Łódź, eliminati nell’agosto del 1944 all’avvicinarsi dell’Armata Rossa, e piú
della metà degli ebrei ungheresi, deportati solo durante l’estate. Ad Auschwitz-Birkenau
morirono 965 000 degli 1,1 milioni di ebrei deportati, tra cui 216 000 bambini e adolescenti . I 353

centri di sterminio organizzati allo scopo furono allora chiusi: il loro lavoro era finito.
Per quanto il programma di sterminio nell’Est fosse male coordinato e caratterizzato da attriti,
per gli ebrei il risultato finale fu inevitabilmente lo stesso: morire rapidamente o lentamente, ma
morire. Per quanto riguarda la situazione degli ebrei del Grossraum, la situazione risultò piú
complessa, poiché le deportazioni non potevano essere facilmente portate a termine senza la
collaborazione delle amministrazioni dei paesi occupati o alleati. Nelle zone occupate, l’apparato
di sicurezza tedesco non disponeva né della manodopera né della necessaria conoscenza del
posto per poter agire autonomamente; negli stati alleati o satelliti si doveva inoltre essere cauti e
fare in modo che la politica tedesca non fosse vista come un’ingerenza negli interessi e nelle
abitudini locali. La necessità di affidarsi alle forze di polizia e ai funzionari dei vari luoghi
condizionò il successo dei piani tedeschi. Per molto tempo dopo il 1945 si pensò che l’estensione
del genocidio al resto dell’Europa fosse avvenuta per le pressioni e con le risorse tedesche, ma
questo spiega solo metà della storia. L’esistenza dell’antisemitismo in tutta Europa, in una forma
o in un’altra, svolse un ruolo cruciale nella decisione di appoggiare le deportazioni, anche se
nella maggioranza dei casi richiese certamente una qualche pressione da parte del Reich, tanto
che soltanto in Romania e Croazia lo sterminio degli ebrei venne deciso in modo autonomo.
Vista sotto questa angolazione, l’estensione delle persecuzioni degli ebrei ebbe un carattere
paneuropeo e non direttamente tedesco. La Germania di Hitler aveva la sua importanza perché
offriva ad altri stati, qualora decidessero di farlo, l’opportunità di risolvere la loro «questione
ebraica», dando in pasto al Moloch tedesco la loro popolazione di ebrei. Per sottolineare tale
opportunità, il dipartimento degli Affari Ebraici di Eichmann all’interno della Gestapo, il
ministero degli Affari Esteri del Reich e le SS inviavano immancabilmente dei delegati nelle
zone occupate e alleate per gestire la diplomazia del genocidio, anche se la loro presenza non
sempre garantiva che i progetti fossero accettati.
Nel resto dell’Europa non vi fu una modalità comune nella gestione della questione ebraica,
bensí una varietà di risposte legate alle circostanze locali, al calcolo politico e all’atteggiamento
della società nei confronti del problema degli ebrei. L’antisemitismo stesso assunse forme
diverse: in alcuni casi veniva a basarsi sul pregiudizio razziale o sulla paura che gli ebrei
avrebbero minato l’identità nazionale; in altri casi si trattava di un forte elemento religioso
connesso all’accusa rivolta dai cristiani agli ebrei in quanto «assassini di Cristo»; in altri
prevalevano forti motivazioni economiche che spingevano a impossessarsi delle ricchezze
ebraiche per esigenze nazionali; talvolta si trattava di una combinazione di tutti questi diversi
elementi, com’è evidente nella persecuzione e nella successiva espulsione degli ebrei da
Slovacchia, Ungheria e Romania. Questi tre stati dell’Asse non ebbero alcun bisogno di prendere
in prestito l’antisemitismo tedesco, sviluppando ciascuno un proprio pregiudizio e
discriminazione, che, nel caso dell’Ungheria e della Romania, risalivano a decenni prima. Negli
stati occidentali occupati, per persuadere le comunità ebraiche a collaborare fu usata la fandonia
che gli ebrei sarebbero stati reinsediati altrove, che serví tuttavia anche a far sí che i
collaborazionisti del luogo prendessero le distanze da una loro partecipazione diretta al
genocidio. Quali che fossero le motivazioni e le circostanze in questi diversi casi, molti europei
capirono che esisteva una questione ebraica a cui anche loro potevano dare una risposta.
In Romania, il regime dittatoriale di re Carol II aveva approvato all’inizio del 1938 durissime
leggi antisemite che avevano privato 225 000 ebrei della cittadinanza, fatto chiudere i giornali
ebraici e licenziato gli impiegati statali ebrei. Le leggi antisemite erano rimaste in vigore fino al
1943 sotto il maresciallo Antonescu. Anche se i fascisti romeni perpetravano regolarmente atti
casuali di violenza e di distruzione di proprietà ebraiche, per gli ebrei della Romania la vera
minaccia arrivò con l’operazione «Barbarossa» e la riconquista della Bucovina e della
Bessarabia, in cui vivevano 800 000 ebrei, molti dei quali «apolidi» in base alle leggi romene su
residenza e cittadinanza . In quelle regioni, l’esercito, i contadini romeni del posto e i residenti
354

di etnia tedesca incolparono le grandi comunità ebraiche di aver favorito per un anno
l’occupazione sovietica e nel luglio e agosto del 1941 diedero inizio a un’ondata di massacri e
pogrom in cui probabilmente rimasero uccisi fino a 60 000 ebrei. L’Einsatzgruppe D delle SS
collaborò alle uccisioni, anche se l’azione partí soprattutto dai romeni. Antonescu, volendo
perseguire un’aperta politica di pulizia etnica (che colpiva non solo gli ebrei, ma anche rom,
ungheresi e russi), ordinò la deportazione dei restanti ebrei, di cui circa 147 000 furono trasferiti
in Transnistria, alloggiati in insalubri campi di fortuna, privati dei loro beni, affamati, malati e
vittime di ulteriori atrocità omicide. Tra i deportati, piú di 100 000 morirono o furono uccisi.
Inoltre, poiché la Transnistria doveva essere il cuore della Grande Romania, furono presi di mira
anche gli ebrei sovietici, destinati a essere eliminati o a condurre una vita quanto mai precaria in
quegli stessi campi improvvisati. Si stima che perirono tra i 130 000 e i 170 000 ebrei sovietici .355

Nell’autunno del 1942, per ragioni che rimangono poco chiare, Antonescu cambiò idea sulla
deportazione e oppose un rifiuto alla richiesta tedesca di mandare nei campi di sterminio in
Polonia anche gli ebrei del resto della Romania. In effetti, l’argomento della deportazione era
stato discusso dopo un accordo con il rappresentante delle SS Gustav Richter, ma alla fine di
settembre ogni progetto era stato accantonato. Anche se Antonescu si era trovato sottoposto alle
pressioni internazionali affinché non accettasse di rendersi complice dei tedeschi, la migliore
spiegazione del suo rifiuto sta nella minaccia alla sovranità romena che un’eventuale adesione
sembrava implicare: essa sarebbe stata «uno schiaffo al paese», come disse il leader del Partito
liberale in un discorso quello stesso mese. Gli ebrei già deportati in Transnistria rischiavano la
morte se cercavano di fuggire, ma nel marzo del 1944, quando la maggior parte di loro era già
morta, Antonescu consegnò la regione alle forze tedesche e rimpatriò i 10 700 sopravvissuti.
Anche se in quell’occasione furono posti chiari limiti alla volontà tedesca di annientare tutti gli
ebrei, le azioni della Romania avevano comunque causato la morte per incuria, malattia e
uccisione di piú di 250 000 esseri umani .
356

La Slovacchia si dimostrò molto piú accomodante. Soggetto alla «protezione» informale del
Reich dal marzo 1939, il nuovo stato era animato da un radicale antisemitismo, anche se solo il 4
per cento della popolazione aveva origini ebraiche. Esisteva infatti un profondo risentimento
verso una minoranza che dominava il mondo degli affari e la finanza e la cui identità separata era
sottolineata dal fatto di parlare tedesco, ungherese o yiddish piuttosto che slovacco. In
Slovacchia, le riflessioni sulla questione ebraica erano iniziate seriamente nel 1939, anche se
inizialmente l’obiettivo principale era l’espropriazione delle proprietà degli ebrei. Già nel
settembre del 1941, l’85 per cento delle imprese ebraiche era stato chiuso o rilevato da non ebrei
(inclusi i tedeschi). Un anno prima, il parlamento slovacco aveva approvato un decreto secondo
cui la questione ebraica avrebbe dovuto essere risolta entro un anno. Allo scadere dell’anno, fu
introdotto il Židovský kódex, una serie di leggi sulla questione ebraica che limitavano
severamente la vita degli ebrei. Il governo di Jozef Tiso chiese allora al rappresentante delle SS
Dieter Wisliceny se la Germania fosse disposta ad accollarsi gli ebrei ormai in miseria,
sollevando cosí la Slovacchia dalle spese e dalla responsabilità. Il 15 maggio 1942 fu approvata
una legge costituzionale che legalizzava la deportazione e, dopo un accordo in base al quale la
Slovacchia avrebbe pagato 500 marchi per ogni deportato a copertura dei «costi della sicurezza»
garantita dai tedeschi, 58 000 ebrei furono deportati su treni slovacchi in campi di detenzione, da
dove le SS li avrebbero trasferiti nei centri di sterminio. Gli ebrei idonei al lavoro o con
esenzioni speciali rimasero in Slovacchia, ma quando la Germania occupò lo stato satellite
nell’agosto del 1944, altri 13 500 furono mandati a morire ad Auschwitz-Birkenau, tra gli ultimi
a essere uccisi. Le proprietà dei deportati furono prese in consegna dallo stato e distribuite a
scuole e altre istituzioni slovacche. Su 89 000 ebrei slovacchi ne sopravvissero circa 9000,
nascosti da amici, camuffati da cittadini di etnia slovacca o fuggiti in Ungheria, dove gli ebrei
riuscirono a sopravvivere ai primi anni di guerra nonostante il violento antisemitismo magiaro . 357

La società ungherese, infatti, era se mai ancora piú antisemita di quella slovacca e romena, e di
certo, per buona parte degli anni tra le due guerre, lo era stata perfino di piú della stessa
Germania. Il risentimento di natura economica per il ruolo degli ebrei negli affari e nelle
professioni vi ebbe un ruolo importante. I tentativi di limitare il numero di ebrei nella vita
professionale e negli affari risalivano addirittura ai primi anni Venti. Nel 1938 e nel 1939 erano
state emanate la Első zsidótörvény e la Második zsidótörvény, la Prima e la Seconda legge sugli
ebrei, che ne limitavano l’accesso alle professioni e li privavano del diritto all’impiego statale.
Nel 1940 erano state poi introdotte altre norme per espropriare gli ebrei e usare la loro ricchezza
per finanziare la ridistribuzione delle terre; a migliaia di ebrei fu negato il diritto a condurre
attività commerciali. All’inizio degli anni Quaranta, il dibattito tra i politici e gli economisti
antisemiti si concentrò sulla necessità di procedere all’emigrazione forzata degli 835 000 ebrei
ungheresi. Durante la sua visita a Hitler nel 1940, il premier Pál Teleki chiese al Führer una
soluzione europea alla questione ebraica, cosa che nemmeno Hitler aveva ancora considerato
possibile. Nel luglio del 1941, circa 14 000 ebrei apolidi e profughi furono spinti oltre il confine
con la Galizia occupata dai tedeschi, dove le forze di sicurezza, poco propense a riceverli, li
uccisero quasi tutti nella città di Kam’janec’-Podil’s’kyj, in quello che fu di gran lunga il piú
grande sterminio di massa nelle prime settimane dell’operazione «Barbarossa» . All’interno
358

dell’Ungheria, gli ebrei furono ammassati nei ghetti e gli uomini abili furono condotti nei campi
di lavoro. La richiesta di mandare gli ebrei nei campi allestiti dai tedeschi in Polonia fu respinta
dal reggente, l’ammiraglio Horthy, e dai circoli conservatori a lui vicini, fino a quando il suo
mandato fu spazzato via dall’occupazione militare della Wehrmacht il 19 marzo 1944. Non piú
ostacolati, Eichmann e una sessantina di funzionari tedeschi che lo accompagnavano rimasero
addirittura stupiti dalla velocità e dalla sistematicità con cui gli ungheresi registravano,
mandavano nei ghetti e deportavano i loro ebrei – sforzi che talora minacciarono perfino di
superare la metodicità dell’apparato di sterminio tedesco. Le deportazioni iniziarono il 15
maggio 1944, appena due mesi dopo l’occupazione, e in otto settimane 430 000 ebrei vennero
espulsi, tre quarti dei quali mandati a morte immediata ad Auschwitz. In tutto, ne furono
deportati circa mezzo milione, anche se i tentativi dell’élite conservatrice di proteggere gli ebrei
di Budapest, insieme con la richiesta di manodopera ebraica da parte delle forze armate
ungheresi, impedirono l’annientamento totale e circa 120 000 ebrei sopravvissero alla minaccia
della deportazione .
359

Le eccezioni nell’ambito dell’Asse furono la Bulgaria e l’Italia (quest’ultima fino


all’occupazione tedesca di due terzi della penisola nel settembre del 1943). L’antisemitismo era
certamente presente in entrambi i paesi, ma, come nel caso dell’Ungheria di Horthy, vi erano
forti remore interne a eseguire semplicemente gli ordini della Germania. In Bulgaria, nel
novembre del 1940 era stata promulgata un’importante legislazione antisemita – Zakon za
zaščita na nacijata (Legge per la difesa della Nazione) –, approvata soltanto dopo un acceso
dibattito tra le élite bulgare riguardo alla sua legittimità. Nel 1941, entrarono in vigore misure per
acquisire una quota delle ricchezze ebraiche e il 26 agosto 1942, dopo discussioni con lo RSHA
a Berlino su come realizzare una piú radicale politica antiebraica in Bulgaria, un decreto del
gabinetto autorizzò l’istituzione di un Komisarstvo po evrejskie v’prosi (Commissariato per gli
affari ebraici), il reinsediamento degli ebrei della capitale Sofia, la confisca delle proprietà
ebraiche e una definizione di «ebreo» piú ampia di quella tedesca. Seguirono i preparativi per la
deportazione degli ebrei bulgari, ma nel marzo del 1943 i membri del governo, analogamente a
quanto aveva fatto il regime romeno, protestarono contro l’idea che fosse la Germania a
determinare il loro destino. A partire da marzo, gli ebrei vennero deportati dalle zone occupate
dalla Bulgaria nel 1941 – la Tracia in Grecia e la Macedonia orientale in Jugoslavia –, ma lo zar
Boris, ostile ad accogliere le richieste tedesche, approvò la protesta del governo, finché nel
maggio del 1943, in seguito alle pressioni internazionali e interne, decise di porre fine al
programma di deportazione, che lui stesso non aveva mai gradito. Piú a sud, in Grecia,
l’amministrazione militare tedesca e le SS iniziarono le deportazioni nel marzo del 1943,
trovando scarsa opposizione, per cui 60 000 ebrei vennero mandati ad Auschwitz. Nell’autunno
dello stesso anno, tuttavia, lo RSHA cessò di esercitare ulteriori pressioni sul governo bulgaro e
51 000 ebrei, nonostante la severità della legislazione discriminatoria, sopravvissero alla guerra . 360

L’atteggiamento degli ideatori dell’impero italiano nei confronti della questione ebraica risentiva
analogamente dell’antisemitismo di una forte corrente interna di una minoranza fascista, ma
anche dell’idea che si dovesse resistere al diktat della Germania in merito a ciò che l’Italia
avrebbe dovuto fare dei propri ebrei. Nel 1938, le pressioni provenienti dall’interno del
movimento fascista, piú che la volontà di seguire l’esempio tedesco, avevano portato alla
pubblicazione di una serie di leggi razziali che si attenevano al modello europeo
dell’allontanamento degli ebrei dal servizio statale, l’espulsione di molti dalle professioni e
l’introduzione di un regime di lavoro forzato, anche se non furono creati campi di
concentramento come avrebbe voluto Mussolini. Nel 1942, il Duce approvò l’istituzione di
«Centri per lo studio del problema ebraico» in sei grandi città italiane, al fine di propagandare
l’urgente necessità di risolvere in modo piú radicale la questione ebraica. L’iniziativa non portò
tuttavia a nessuna azione di rilievo prima della resa italiana e dell’occupazione tedesca . Anche
361

nelle zone occupate dagli italiani, i comandanti militari locali e i funzionari di Roma resistettero
ai tentativi tedeschi di farsi consegnare ebrei residenti e rifugiati, «per ovvi motivi di prestigio
politico e umanità», come disse uno dei funzionari. Nell’ottobre del 1942 l’esperto in materia di
ebrei del ministero degli Affari Esteri del Reich si rammaricò che sulla soluzione finale l’Asse
non vantasse «alcuna politica unitaria in queste questioni» . Tutto questo mutò
362

drammaticamente nel settembre del 1943, quando le forze tedesche occuparono la penisola e
quanto rimaneva dell’impero italiano. Il mese seguente, la polizia di sicurezza tedesca e la
Gestapo iniziarono a rastrellare gli ebrei italiani a Roma e piú a nord un mese dopo, in
particolare quelli di recente immigrazione, che, come in Francia, furono presi di mira per primi.
Il 30 novembre, il ministro degli Interni del governo fantoccio di Salò, Guido Guidi, ordinò che
la polizia italiana arrestasse e internasse tutti gli ebrei, anche se la maggior parte degli arresti fu
effettuata dai tedeschi, che allestirono centri di detenzione prima della successiva deportazione a
Fossoli e piú tardi a Bologna. Dei 32 802 ebrei registrati dal regime di Salò, soltanto 6806
vennero infine deportati, 322 morirono in Italia e di 950 si perse ogni traccia dopo la guerra . Per
363

gli apparati tedeschi del genocidio fu un risultato deludente, ma coerente con la loro idea degli
italiani come alleati inaffidabili. L’individuazione e l’arresto degli ebrei dipese da iniziative
locali piuttosto che da misure piú sistematiche. Molti ebrei, forse addirittura 6000, riuscirono a
fuggire in Svizzera, altri raggiunsero le linee alleate mentre migliaia furono nascosti in istituzioni
cattoliche o semplicemente si confusero tra la popolazione, ovviamente come non ebrei. Coloro
che venivano sorpresi a dare rifugio agli ebrei potevano subire qualche giorno di prigionia, ma
non venivano sistematicamente fucilati o impiccati, come accadeva invece nell’Est . 364

Anche il destino degli ebrei nei territori occupati dell’Europa occidentale e in Scandinavia variò
da zona a zona, anche se le autorità tedesche vi assunsero una responsabilità nel fare rispettare la
politica antisemita maggiore di quella che avevano tra gli alleati dell’Asse. Pure in questo caso, il
compito di identificare, registrare e perfino arrestare gli ebrei da deportare dipese pesantemente
dalla cooperazione della popolazione non tedesca, che non fu mai uniforme. In Belgio, la polizia
locale arrestò solo il 17 per cento degli ebrei prelevati dai servizi di sicurezza tedeschi; nei Paesi
Bassi, circa il 24 per cento, mentre in Francia furono le forze di polizia del luogo a effettuare il
61 per cento degli arresti prima della deportazione, nonostante la propensione a collaborare con
l’invasore fosse diminuita con la prospettiva di una liberazione sempre piú vicina . Volendo365

individuare un denominatore comune nelle diverse zone occupate, questo fu dapprima la


disponibilità nel 1942 a collaborare ai rastrellamenti tedeschi degli ebrei, quando dall’Ovest fu
deportato il maggior numero di persone, e un successivo rallentamento, man mano che le sorti
della guerra si manifestavano in tutta la loro gravità. In Francia, esisteva da tempo una questione
ebraica, sollecitata dalla politica della destra nazionalista, e l’antisemitismo della popolazione si
era fatto piú prepotente con l’approssimarsi del conflitto. «Pace! Pace! I francesi non vogliono
andare in guerra per gli ebrei», fu uno degli slogan con cui la popolazione francese aveva
risposto alla crisi ceca del 1938. L’anno seguente furono prese misure per limitare la
partecipazione dei profughi ebrei alle libere professioni, mentre quanti erano definiti apolidi (tra
cui lo scrittore Arthur Koestler) vennero radunati e rinchiusi in uno dei molti campi di
concentramento sorti in Francia nel 1939 e 1940 – non molto diversi da quelli tedeschi per il
grado di incuria nel fornire cibo o alloggi adeguati e per il duro regime di lavoro imposto agli
internati. Nel settembre del 1940, la razione di cibo era di 350 grammi di pane al giorno piú 125
grammi di carne. In molti casi, però, non veniva data neppure questa razione. Nel campo di Gurs,
i detenuti cercavano di sopravvivere con 800 calorie al giorno. I decessi per malattia e
malnutrizione erano all’ordine del giorno. Nella primavera del 1940, i campi ospitavano 5000
profughi ebrei, ma nel febbraio dell’anno dopo, momento culminante, ve n’erano ben 40 000 . 366

Nessuno di questi programmi era stato suggerito dai tedeschi e quasi tutti i campi erano gestiti
direttamente dalle autorità francesi. Il campo principale di Drancy, fuori Parigi, fu preso in
consegna dai tedeschi per le deportazioni solo nel giugno del 1943.
Un’ondata di leggi antisemite fece seguito all’instaurazione del regime di Vichy nel giugno del
1940. Nel luglio seguente, dopo un colloquio con il primo ministro Pierre Laval, l’ambasciatore
tedesco riferí a Berlino che «le tendenze antisemite del popolo francese sono cosí forti che non
hanno bisogno di alcun ulteriore sostegno da parte nostra» . Il 3 ottobre 1940 fu pubblicato Le
367

Statut des Juifs, che bandiva gli ebrei dal servizio statale e da altre professioni e definiva «ebreo»
chiunque avesse due nonni ebrei, anziché tre come nel caso tedesco. Gli immigrati ebrei che
erano stati naturalizzati dopo il 1927 videro il loro stato civile revocato, il che permise di
internarli per essere inviati nei campi di concentramento. Mentre i tedeschi preparavano i piani
per dare in amministrazione fiduciaria le imprese ebraiche, il governo di Vichy emanò
rapidamente una legge preventiva che permetteva la confisca delle proprietà. Se nel 1942 erano
ben 42 227 i francesi che detenevano il controllo fiduciario dei beni ebraici, i tedeschi erano
soltanto 45 . Il governo di Vichy dispose un registro di censimento di tutti gli ebrei, le cui liste
368

avrebbero aiutato la Gestapo a rastrellare gli ebrei già segnalati allorché la zona di Vichy fu
occupata nel novembre del 1942. Si è sostenuto talora che il regime di Vichy cercò di prevenire i
tedeschi al fine di evitare che accadesse qualcosa di peggio, ma di questo non esistono prove
valide. Furono molte le cose che non erano stati i tedeschi a imporre, come la stella gialla,
obbligatoria dal giugno 1942, o la parola juif impressa sulle carte d’identità e sulle tessere del
razionamento, o il durissimo regime dei campi di internamento, dove forse 3000 ebrei morirono
mentre si trovavano sotto la custodia francese . Nella zona occupata, la prima ondata di arresti
369

tedeschi avvenne nel maggio del 1941, quando gli ebrei furono rinchiusi in altri quattro campi, di
cui tre gestiti direttamente dai francesi; gli arresti e le successive deportazioni nei campi in
Polonia iniziarono solo nell’estate del 1942, dopo che Theodor Dannecker, il vice di Eichmann
in Francia, aveva insistito che, come minimo, venissero deportati tutti i profughi ebrei e quelli
che avevano perso lo status di naturalizzati francesi. Vichy collaborò fino al punto di inviare
dalla zona meridionale circa 11 000 ebrei non francesi, tra cui 4500 internati; nel 1942 ne furono
deportati circa 41 951, a cui seguirono altri 17 069 l’anno successivo e 14 833 nel 1944 – un
numero ben al di sotto dei 100 000 che Eichmann e Dannecker avevano richiesto nel 1942. Di
questi, il 68 per cento erano ebrei stranieri e il 32 per cento francesi . Benché Vichy non
370

approvasse lo sterminio di massa, le condizioni imposte agli ebrei e la caccia data loro dalla
polizia e dai funzionari francesi fecero comunque il gioco tedesco.
L’esperienza delle comunità ebraiche in Belgio e nei Paesi Bassi variò considerevolmente. In
Belgio, il 95 per cento dei 75 000 ebrei residenti era di nazionalità straniera, non belga.
Nonostante il loro evidente stato di precarietà, solo 29 906 furono deportati, soprattutto nel 1942,
mentre migliaia vennero nascosti da civili belgi o sfuggirono all’arresto. Nei Paesi Bassi, al
contrario, esisteva una popolazione ebraica numerosa e storicamente radicata di circa 185 000
persone, delle quali piú del 75 per cento – 140 000 – furono deportate nei campi e la maggior
parte uccisa. Migliaia furono nascoste dalle famiglie olandesi e di questi almeno 16 100
sopravvissero, ma altre migliaia furono individuate o denunciate alla polizia olandese e tedesca,
nel quadro di un’opinione pubblica che in parte non disapprovava il tentativo tedesco di risolvere
la questione ebraica. Nei Paesi Bassi, dopo l’ordine di registrare tutti gli ebrei dato dal
Reichskommissar Seyss-Inquart nel gennaio del 1941, le autorità tedesche fecero affidamento
sulla risposta dei funzionari olandesi e delle comunità ebraiche. Non vi fu quasi nessuna
obiezione, anche se in quel momento pochi potevano immaginare a che scopo sarebbero stati
usati i registri. La polizia olandese si dimostrò particolarmente collaborativa, poiché la linea
ufficiale era quella di non opporsi indebitamente ai tedeschi, pur limitandosi solamente a
catturare gli ebrei e consegnarli alla polizia tedesca, anziché arrestarli formalmente. Nell’anno di
punta delle persecuzioni, dal luglio 1942 al luglio 1943, nelle piccole città e nei villaggi erano i
poliziotti olandesi a prelevare gli ebrei e a consegnarli per la deportazione. Successivamente,
come in Francia, la prospettiva di una sconfitta tedesca e di un’eventuale liberazione portò a un
rallentamento della collaborazione, ma a quel punto la maggior parte dei 140 000 ebrei era già
morta. In Belgio, la comunità ebraica era piccola e poco influente dal punto di vista sociale, il
che può spiegare perché nel paese sopravvisse un numero molto maggiore di persone.
L’antisemitismo dei belgi non era un elemento cosí rilevante nemmeno tra i partiti di estrema
destra e fu certamente meno importante che nei Paesi Bassi e in Francia; nell’ottobre del 1942, al
culmine delle deportazioni, circa 20 000 ebrei vennero nascosti da non ebrei. Il sistema
burocratico belga per registrare gli ebrei era meno sviluppato di quello olandese, mentre la
popolazione ebraica, formata in gran parte da immigrati, era già esperta nell’arte di sottrarsi agli
obblighi. Ciò nonostante, anche i funzionari e i poliziotti del Belgio collaborarono il piú possibile
nel rintracciare gli ebrei, né i belgi si dimostrarono piú restii dei francesi o degli olandesi quando
si trattò di appropriarsi di beni, ricchezze e abitazioni degli ebrei dopo che i tedeschi si furono
presi la loro parte.
Solo in due paesi scandinavi fu possibile salvare quasi tutta la popolazione ebraica. Sul governo
danese non fu esercitata alcuna pressione affinché consegnasse la piccola popolazione di ebrei
fino alle dimissioni del gabinetto nell’agosto del 1943 e all’ondata di scioperi e proteste che
seguí. Nel settembre dello stesso anno, ritenendo che gli ebrei avessero un ruolo importante nel
movimento della Resistenza, Hitler e Von Ribbentrop sollecitarono il plenipotenziario del Reich,
Werner Best, affinché deportasse tutti gli ebrei danesi. Sembra che Best considerasse le
deportazioni un errore che avrebbe alienato ulteriormente la società danese, tanto che quando
ebbe inizio un’operazione di salvataggio per portare via mare gli ebrei in Svezia, Best e la polizia
tedesca fecero pochi tentativi per fermarla . In Finlandia, la piccola comunità ebraica di circa
371

2200 persone non dovette affrontare alcuna minaccia di antisemitismo interno e nessuna
pressione fu esercitata sul governo finlandese affinché consegnasse la popolazione ebraica, salvo
per otto profughi ebrei che furono rimandati in Germania. Solo nel 1944, quando si temeva che
la Germania potesse occupare la Finlandia per impedire il suo eventuale ritiro dalla guerra, si
pensò di mandare gli ebrei finlandesi in Svezia. Un gruppo di bambini e mamme fu mandato nel
paese vicino nei mesi estivi, anche se il governo finlandese era riluttante a lasciar partire gli
ebrei, nel timore che la loro assenza potesse indurre gli Alleati a pensare che la Finlandia aveva
preso parte al genocidio su larga scala. Alla fine, le forze di sicurezza e di polizia tedesche
risultarono troppo sparpagliate sul territorio per intervenire, sicché gli ebrei sopravvissero fino al
momento in cui le forze finlandesi si arresero all’Armata Rossa, con la fortuna di essere sfuggiti
alla rete tedesca che si chiudeva sempre piú sugli ebrei sopravvissuti, perfino di fronte
all’imminente disfatta . Nel mese di aprile 1945, Hitler, coerente fino all’ultimo, avrebbe
372

affermato poco prima del suicidio che «il nazionalsocialismo può giustamente rivendicare
l’eterna gratitudine del popolo per aver eliminato gli ebrei dalla Germania e dall’Europa
centrale» .
373

La fosca narrativa della collaborazione europea alla realizzazione di un’Europa «ripulita dagli
ebrei», come volevano i tedeschi, fu legata alla creazione dell’impero germanico nell’Est solo
perché Hitler, come Himmler o Eichmann, non riusciva di fatto a immaginare né un impero
territoriale né un Grossraum piú vasto che fosse abitato da milioni di ebrei, definiti il nemico
mondiale dei tentativi tedeschi di costruire un ordine imperiale incentrato sulla Germania.
L’ambizione di creare un ordine di questo tipo, espressa con non celata disinvoltura nel Patto
tripartito del settembre 1940, portò a un totale fallimento, ma non prima che la violenta
costruzione dell’impero travolgesse l’Eurasia e le sue regioni periferiche con piani di
deportazione, espropriazione e sterminio in un tempo ristretto e ben definito, in contrasto con la
storia delle precedenti edificazioni imperiali, perfino con i loro diversi aspetti di politica
genocida, sviluppatisi per decenni o anche piú a lungo. I nuovi imperi avrebbero certamente
potuto essere costruiti con costi umani inferiori, ma la costante tensione tra quella che era la
fantasia e quella che era la realtà dell’impero provocò uno spasmo di violenza incontrollata che
trasformò l’impero da utopia immaginata in un incubo distopico di frustrazione, punizione e
distruzione.
Capitolo terzo
La morte dell’impero-nazione, 1942-45
Se vinciamo, dobbiamo vincere sia in Oriente sia in Occidente, e se perdiamo, dovrà essere lo stesso.
Ōshima Hiroshi, novembre 19421.
Alla fine del novembre 1942, l’ambasciatore giapponese a Berlino convocò i diplomatici di
Tokyo presenti nei paesi europei per esporre loro una disamina dell’attuale andamento del
conflitto. Il suo discorso evidenziò tre battaglie significative in ciascuno dei principali teatri di
guerra: a Stalingrado, nella Russia meridionale, dove gli eserciti tedeschi e sovietici erano
impegnati in una lotta titanica per la città; sull’isola di Guadalcanal nelle isole Salomone
britanniche, dove un numero piú modesto di soldati giapponesi e marine americani combattevano
lungo il perimetro estremo dell’avanzata giapponese; e nel nord della Libia, dove un’armata
dell’impero britannico era all’inseguimento lungo la costa nordafricana di una forza italo-tedesca
che si stava ritirando disordinatamente dopo la (seconda) battaglia di El Alamein. Ōshima riferí
ai colleghi che era giunto il momento che Giappone, Italia e Germania cercassero di coordinare i
rispettivi piani strategici, nella speranza che questo avrebbe portato a operazioni contro l’India e
a un possibile collegamento con le forze tedesche in Medio Oriente. Mesi prima era giunto alla
conclusione che «per la Germania sarà praticamente impossibile rovesciare il regime di Stalin» e
ora era uno dei numerosi alti diplomatici giapponesi che speravano ancora che la Germania
concludesse con l’Unione Sovietica una pace forse mediata da Tokyo, in modo che un piú ampio
«Patto quadripartito» potesse mettere l’intera Eurasia contro le potenze anglosassoni.
L’idea che le guerre di aggressione si potessero concludere con accordi di pace vantaggiosi era
una delle persistenti illusioni giapponesi. Nella primavera del 1943, era arrivata a Berlino una
delegazione nipponica per cercare di persuadere Hitler ad abbandonare la campagna sovietica a
favore di una strategia mediterranea che avrebbe posto fine alla presenza britannica e americana
nella regione. Poche settimane dopo, a Tokyo, un incontro ai vertici tra esercito e governo diede
per scontato che una pace tedesco-sovietica fosse la chiave della guerra; a quel punto, infatti, gli
Alleati occidentali, nel timore di un’invasione comunista, avrebbero dovuto arrivare a un accordo
in Europa, in seguito al quale anche Chiang non avrebbe avuto altra scelta che accettare delle
condizioni in Cina, aprendo cosí la strada a un trattato di pace globale e favorevole con gli
Alleati . Hitler, tuttavia, non ne avrebbe ottenuto nulla (e nemmeno Stalin). A ogni suggerimento
2

dei giapponesi, il Führer ribadí che la sconfitta dell’Unione Sovietica aveva l’assoluta priorità e
che non avrebbe mai potuto accettare quella pace. Nel luglio del 1943, mentre lo sforzo bellico
dell’Asse era ormai in crisi, Hitler assicurò a Ōshima che tedeschi e giapponesi, insieme,
avrebbero superato ogni ostacolo . 3

Solo con il senno di poi è forse possibile vedere quanto fossero illusi i leader dell’Asse nel 1942-
43, vale a dire al vero punto di svolta della guerra. Le battaglie combattute mentre Ōshima
meditava su una futura strategia globale dell’Asse non significavano con certezza l’eventuale
vittoria degli Alleati, ancora lontana, ma di certo ponevano definitivamente un limite
all’espansione territoriale dell’Asse, considerando che Stalingrado, Guadalcanal ed El Alamein
rappresentavano i punti estremi dell’avanzata. Sarebbe seguita poi una lunga ritirata, contrastata
con accanimento, attraverso i territori appena conquistati, tranne nel caso dell’Italia di Mussolini,
dove lo sforzo bellico subí un crollo molto prima. Il fatto che fosse occorso cosí tanto tempo per
strappare alle restanti forze dell’Asse le loro conquiste rifletteva chiaramente sia il rifiuto di
qualsiasi soluzione politica a favore della sfida militare sia l’impossibilità, almeno per coloro
che, come Ōshima, speravano di evitare la sconfitta con una pace di compromesso, di deviare la
leadership dalla linea politica scelta, ovvero il confronto a tuti i costi piuttosto che la resa. Vi
trovava altresí un riflesso il deliberato disprezzo per i costi che quella guerra senza fine
imponeva alle popolazioni dell’Asse, che, come ci si aspettava, avrebbero sostenuto lo sforzo
bellico fino al momento della resa. Come e perché quei popoli continuarono a combattere anche
di fronte all’imminente e totale disfatta rimane tuttora una domanda a cui è difficile rispondere.
Vicoli ciechi dell’impero: El Alamein, Stalingrado, Guadalcanal.
Per gran parte del 1942, i leader dell’Asse potevano ancora immaginare un esito positivo. Perfino
nel novembre di quell’anno, quando le sorti militari italiane erano già in declino, Mussolini
poteva vantarsi che le «cosiddette Nazioni Unite» non avevano mostrato «nient’altro che
fallimenti e catastrofi» . Nell’estate del 1942, l’esercito tedesco e i suoi alleati erano ancora
4

sprofondati nelle regioni interne della Russia e dell’Egitto, mentre le forze giapponesi cercavano
di proteggere il perimetro esterno della vasta area di terre e oceano conquistata all’inizio
dell’anno e consolidare la conquista nipponica sul territorio cinese. Erano tutte regioni in cui «i
fallimenti e catastrofi» degli Alleati erano stati molto evidenti nella prima metà dell’anno.
Per i capi militari giapponesi, il repentino successo nell’occupazione delle vaste regioni
meridionali aveva aperto l’inebriante visione di ulteriori conquiste: «Da qui dove andiamo?»
scriveva nel suo diario il capo di stato maggiore della flotta imperiale combinata. «Avanzeremo
verso l’Australia? L’India? Invaderemo le Hawai’i?» Lo staff di pianificazione della marina
militare aveva elaborato nuove proposte, tra cui il piano del contrammiraglio Yamaguchi Tamon
per conquistare l’Australia e la Nuova Zelanda e poi invadere la costa della California . Il 18
5

aprile 1942, prima che potesse essere presa qualsiasi decisione, un’incursione simbolica su
Tokyo da parte di una piccola forza di bombardieri partiti da una portaerei al comando del
tenente colonnello James Doolittle costrinse i giapponesi a rivalutare la loro strategia. Invece che
nel Pacifico, l’esercito nipponico tornò in Cina. Il raid di Doolittle sollevò certamente il morale
americano ma, come temeva Chiang, spinse la forza di spedizione giapponese a lanciare
un’operazione volta a conquistare le zone in cui i cinesi avevano basi aeree che gli americani
potevano sfruttare. Due colonne di 50 000 soldati si allargarono a ventaglio da Hangzhou
(Hankow) e Nanchang verso le province di Zhejiang e Jiangxi, aprendo un ampio corridoio
ferroviario e devastando l’area attorno alle basi. A quel rapido successo sarebbe seguito a
settembre un colpo decisivo contro Chongqing, la capitale di Chiang, con l’impiego di ben sedici
divisioni, anche se la campagna fu poi abbandonata a causa della richiesta di effettivi per
proteggere il lungo perimetro oceanico dei nuovi territori – un primo indicatore di quanto
sarebbe stato difficile per il Giappone combattere due guerre contemporaneamente . L’incursione
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di Doolittle spinse inoltre la marina giapponese a elaborare un piano per impadronirsi dell’isola
di Midway nel Pacifico centrale e farne una base da cui impedire ulteriori sortite americane e
interrompere le comunicazioni oceaniche tra le Hawai’i e l’Australia. L’ammiraglio Yamamoto
avviò un piano complesso per attirare la flotta di portaerei americane, ridotta a quel punto ad
appena tre navi – le USS Enterprise, Hornet e Yorktown, quest’ultima recentemente riparata –, a
difendere Midway, cosí da poterle distruggere e assicurare il dominio giapponese nel Pacifico
centrale. Oltre a una forza di invasione e a un gruppo di supporto per attaccare Midway, una task
force secondaria fu incaricata di occupare nell’estremo nord del Pacifico due delle isole Aleutine
al largo dell’Alaska, Attu e Kiska, come basi per proteggere il perimetro settentrionale. La forza
nipponica comprendeva quattro delle sei portaerei della flotta giapponese – Kaga, Akagi, Hiryū e
Sōryū – sotto il comando del viceammiraglio Nagumo Chūichi, che avrebbero dovuto
neutralizzare gli aerei di Midway e impegnare le portaerei americane che rispondevano alla
minaccia.
La battaglia che seguí vide una modesta e vulnerabile forza di portaerei americane battersi contro
buona parte della flotta imperiale combinata. I comandanti americani, l’ammiraglio Chester
Nimitz alle Hawai’i e il contrammiraglio Raymond «Electric Brain» Spruance a capo delle
portaerei, godettero di un vantaggio imprevisto: il 3 giugno, infatti, pochi giorni prima che la task
force giapponese arrivasse al largo di Midway, l’intelligence della flotta alle Hawai’i, guidata dal
capitano Joseph Rochefort, aveva violato buona parte dei codici navali giapponesi, tanto da avere
la certezza che Midway fosse la destinazione del nemico e che la forza d’attacco delle portaerei
giapponesi si stesse avvicinando all’isola da nord-ovest, a differenza della forza di invasione
minore che si muoveva verso est . Spruance e il suo collega al comando della task force, il
7

contrammiraglio Frank Fletcher, posizionarono le tre portaerei americane a nord del gruppo di
Nagumo, pronte all’attacco. Alle sette del mattino del 4 giugno 1942, una volta individuate le
portaerei giapponesi, gli aerei furono fatti decollare ma a metà mattinata gli attacchi degli
aerosiluranti delle portaerei e dei bombardieri medi partiti da Midway non avevano avuto alcun
effetto, al punto che, avendo perso quasi tutti i novantaquattro velivoli decollati, neanche una
bomba o un siluro aveva colpito le portaerei giapponesi.
L’ultima scommessa per gli americani era l’intervento degli squadroni di cinquantaquattro
bombardieri Dauntless che, grazie all’assenza di radar sulle navi giapponesi, furono avvistati
solo quando erano già in picchiata – una «splendida cascata d’argento», ricordava un testimone
oculare. Dieci bombe in totale colpirono tre delle portaerei giapponesi, divenute a quel punto
particolarmente vulnerabili poiché l’equipaggio riforniva di carburante gli aerei, circondato dagli
ordigni in attesa di essere caricati. In pochi minuti, la Kaga fu ridotta a un relitto in fiamme;
l’ammiraglia di Nagumo, l’Akagi, colpita da una bomba che aveva fatto esplodere i bombardieri
già carichi di carburante e bombe, divenne un altro inferno; pochi minuti dopo, venne colpita la
Sōryū, con lo stesso risultato. Anche se la Yorktown era stata danneggiata e in seguito affondata
dai siluri giapponesi, erano rimasti abbastanza bombardieri in picchiata per distruggere nel tardo
pomeriggio la Hiryū, la quarta portaerei giapponese. Un terzo dei piloti dei velivoli delle
portaerei, altamente addestrati, rimase ucciso nell’inferno dello scontro . La battaglia di Midway
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(la marina giapponese rifiutò di darle un nome) è stata sempre considerata come un fondamentale
punto di svolta, anche se, nonostante tutto l’intenso dramma della giornata e le gravi perdite
giapponesi, fu meno di questo. Di fronte alla lunga guerra che lo attendeva, il Giappone aveva
ancora una formidabile flotta di superficie e sottomarina, mentre agli Stati Uniti erano rimaste al
momento solo due portaerei, e dopo i danni inflitti alla Saratoga e all’Enterprise e
l’affondamento della Wasp a settembre e della Hornet nell’ottobre del 1942, presto non ne
sarebbe rimasta nessuna . La mancata conquista di Midway e il precedente abbandono
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dell’operazione per impadronirsi di Port Moresby furono rapidamente compensati dalla piena
occupazione nel maggio e giugno del 1942 delle isole Salomone, sotto protettorato britannico,
molto piú a sud del perimetro, nel luogo in cui era prevista la costruzione di un aeroporto
sull’isola piú meridionale di Guadalcanal, da dove gli aerei giapponesi avrebbero potuto tagliare
le linee di rifornimento tra l’Australia, gli Stati Uniti occidentali e le Hawai’i.
Mentre il Giappone stava conquistando ulteriori territori in Asia e nel Pacifico, le forze dell’Asse
in Nordafrica si spingevano attraverso la frontiera egiziana fino ad arrivare a soli 96 chilometri
dalla principale base navale britannica di Alessandria e dal Canale di Suez. Fu questa la terza
oscillazione del pendolo, durante la quale le forze britanniche impegnarono l’esercito italiano,
sostenuto solo da tre divisioni degli Afrika Korps, in una campagna che si muoveva avanti e
indietro attraverso la Cirenaica fino allo sfinimento di uno schieramento o dell’altro. Per la
maggior parte del conflitto, dopo la disastrosa sconfitta nell’estate del 1941, le forze dell’impero
britannico superarono numericamente, spesso con un margine significativo, le forze aeree e
terrestri a disposizione dell’Asse. Nel novembre del 1941, l’operazione Crusader, lanciata per
alleggerire l’assedio di Tobruk e sostituire Wavell con il generale Claude Auchinleck, provocò
una caotica battaglia di logoramento, finché il problema dei rifornimenti costrinse Rommel e i
suoi alleati italiani a disimpegnarsi e ritirarsi a El Agheila, da dove Rommel era partito con le sue
truppe all’inizio dell’anno. Nel gennaio del 1942, un improvviso miglioramento nella fornitura di
equipaggiamenti permise a Rommel di riprendere l’offensiva contro un nemico allo stremo. Le
forze britanniche furono respinte fino ad Ain el Gazala, appena a ovest di Tobruk, da poco
liberata. Il capo di stato maggiore italiano, generale Ugo Cavallero, pianificò l’operazione
Venezia con Rommel e il comandante tedesco piú a sud, il feldmaresciallo Albert Kesselring, con
lo scopo di riconquistare Tobruk e spingersi fino alla frontiera egiziana. Il 26 maggio, Rommel,
che trattava i colleghi italiani come subordinati piuttosto che alleati, ordinò l’assalto alla linea di
Ain el Gazala. L’Asse poteva contare su 90 000 uomini organizzati in 3 divisioni tedesche, la 15.
e 21. Panzerdivision e la 90. leichte Afrika-Division – le uniche unità della Wehrmacht che
combatterono durante tutta la campagna nordafricana – e in 6 divisioni italiane
sottodimensionate, tutte sostenute da 600 aerei e 520 carri armati (220 erano modelli italiani,
meno efficaci) . L’VIII Armata britannica, ora comandata dopo diversi rimpiazzi dal
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luogotenente generale Neil Ritchie, aveva 100 000 uomini, 849 carri armati e 604 aerei, inclusi i
bombardieri medi Wellington che si alzavano in volo dalle basi in Egitto. Dietro la trincea di Ain
al Gazala, fronteggiata da ampi campi minati, cosí come nella ridotta meridionale di Bir
Hacheim, presidiata da un’unità della Francia Libera, la posizione di Ritchie sembrava sulla carta
troppo forte per gli eserciti dell’Asse, già esausti per gli sforzi precedenti .
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Se l’offensiva dell’Asse si dimostrò rischiosa, con alti costi umani, la risposta da parte britannica
evidenziò in compenso le proprie carenze già esposte in precedenza – invio di unità frammentate,
fanteria non difesa dai carri armati, incapacità di coordinare efficacemente una battaglia di
manovra – e permise a Rommel di prendere l’iniziativa. Bir Hacheim cadde il 10 giugno dopo
aspri scontri, il che gli consentí di deviare verso nord e attaccare i mezzi corazzati britannici in
una feroce battaglia di carri armati che si concluse con l’annientamento quasi completo delle
forze alleate. L’VIII Armata impegnò nel combattimento ben 1142 carri armati e ne perse 1009.
Il 13 giugno, le consistenti forze corazzate erano ridotte a soli settanta carri armati ancora
operativi . L’VIII Armata si ritirò in disordine a Mersa Matruh sul confine egiziano, e questa
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volta Rommel prese d’assalto Tobruk e in un solo giorno, il 20/21 giugno, si impadroní non solo
delle forniture essenziali di petrolio e cibo, ma fece prigionieri 33 000 soldati britannici,
sudafricani e indiani, inclusi 6 generali. Benché anche l’esercito di Rommel, ormai esausto, fosse
ridotto alla fine di giugno a soli cento carri armati (quaranta dei quali italiani), esso si lanciò
all’inseguimento dell’VIII Armata entrando in profondità in territorio egiziano, fino a una linea
di 65 chilometri tra la piccola fermata ferroviaria di El Alamein e l’invalicabile depressione di
Qattara. Il 26 giugno Mussolini volò in Libia con un grande seguito, pronto a entrare trionfante al
Cairo in un futuro molto prossimo. La notizia della caduta di Tobruk raggiunse Churchill mentre
sedeva alla Casa Bianca in conferenza con Roosevelt. Lo shock era visibile. Gli Alleati si
impegnarono a inviare carri armati e aerei, persino a mandare immediatamente la Second
Armoured Division americana (cosa a cui però Roosevelt pose il veto) o a istituire un’armata
americana che coprisse la regione dall’Egitto a Teheran (a questo fu Churchill a porre il veto,
non volendo portare gli americani in una zona chiave dell’impero britannico). Se l’ambasciatore
americano al Cairo, Alex Kirk, riferiva in privato di «maldestre iniziative da parte inglese» a
causa di «strategie difettose e metodi dilatori», lo stesso Auchinleck confessò in un suo rapporto
a Londra: «Siamo ancora in gran parte un esercito di dilettanti che combatte dei professionisti» . 13

Il 3 luglio, dopo aver chiarito che la sconfitta in Nordafrica avrebbe ridotto la possibilità di aprire
un «secondo fronte» in Europa nel 1942, Churchill si confidò cupamente con Ivan Majskij: «I
tedeschi fanno la guerra meglio di noi. […] Ci manca inoltre lo “spirito russo”: morire ma non
arrendersi» .
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Quello stesso spirito russo si manifestò con evidenza durante la conquista tedesca di altri vasti
territori nell’estate e autunno del 1942, dopo le dure battaglie difensive dell’inverno del 1941.
Hitler sperava di completare l’annientamento dell’Armata Rossa che non gli era riuscito nel
1941, ma erano emerse le stesse divergenze strategiche che avevano minato la campagna
dell’anno precedente. L’alto comando della Wehrmacht era infatti ancora favorevole alla presa di
Mosca come operazione decisiva, mentre Hitler preferiva continuare la campagna interrotta in
direzione sud, verso il Volga e il Caucaso, forse ora con la concreta prospettiva di unire le forze
con quelle di Rommel, che spingevano verso il Canale di Suez e le riserve del petrolio
mediorientale. Anche se i critici parlavano di «piani offensivi utopici», Hitler chiarí che non si
sarebbe lasciato deviare nuovamente da esperti e comandanti pronti solamente a dire «non è
possibile, non funzionerà». I problemi, continuava il Führer, «devono essere risolti
incondizionatamente» da una solida leadership . Hitler era mentalmente vincolato all’idea che il
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blocco economico – in questo caso tagliare fuori completamente l’Armata Rossa dall’industria
pesante e dal petrolio di cui aveva bisogno – fosse una componente vitale della guerra moderna.
Quasi a conferma del suo giudizio, le fonti di intelligence sottovalutarono fortemente il
potenziale dell’Armata Rossa e la capacità dell’industria sovietica, ignorando al tempo stesso la
crescente debolezza delle forze tedesche. Nel marzo del 1942, la Wehrmacht aveva subito oltre
un milione di vittime, non tutte sostituibili, oltre alla perdita di grandi quantità di
equipaggiamenti, dagli aerei alle armi leggere, di cui l’economia di guerra tedesca era
attualmente in grado di compensare solo una piccola parte. Delle 162 divisioni presenti sul fronte
orientale, solo 8 potevano classificarsi completamente pronte al combattimento nelle battaglie a
venire.
Il 5 aprile, Hitler emanò la direttiva Weisung 41, che ingiungeva di «eliminare l’intero potenziale
di difesa rimasto ai sovietici» al fine di tagliare fuori l’Armata Rossa dai rifornimenti essenziali e
conquistare cosí Leningrado. La campagna tedesca fu chiamata in codice Fall Blau (Operazione
Blu). Era un piano complesso in quattro fasi tra loro collegate e da eseguire in successione. Le
armate tedesche dovevano avvicinarsi lungo tre assi: a nord, dalla regione di Orël verso Voronež;
piú a sud, dalla zona intorno a Char’kov (ora Char’kiv); infine dalla Crimea verso Rostov. Si
sarebbero incontrate alla grande ansa del fiume Don, dove la Heeresgruppe Süd si sarebbe
divisa: la Heeresgruppe B doveva tenere il territorio tra Rostov e Stalingrado per proteggere la
Heeresgruppe A, che si sarebbe spostata nel Caucaso per impadronirsi dei giacimenti petroliferi.
Cosí facendo, si presumeva che, ancora una volta, brevi accerchiamenti sarebbero stati sufficienti
a intrappolare vaste formazioni dell’Armata Rossa e porre fine alla sua capacità di opporre
resistenza. A quel punto, Stalingrado non era al centro della scena. Hitler sperava che la città
sarebbe stata neutralizzata anziché conquistata. L’elemento chiave non era la presa della città,
bensí impedire la via dei rifornimenti del Volga alla Russia centrale.
Nella sua direttiva, Hitler aveva ordinato alla Heeresgruppe Mitte di mantenersi sulla difensiva,
ma Stalin era arrivato alla conclusione opposta, pensando che la linea del fronte dinanzi a Mosca,
alla fine del 1941, fosse la minaccia peggiore e, di conseguenza, aveva lasciato il sud
relativamente piú debole. Hitler non era l’unico responsabile di un’utopistica pianificazione
offensiva, visto che anche Stalin sperava di poter accrescere i successi riportati nell’inverno
lanciando una serie di offensive contro la linea di un fronte lungo 1600 chilometri per cacciare
completamente i tedeschi dal territorio sovietico . Tali campagne dovevano iniziare con le
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offensive a sud, che l’intelligence sovietica riteneva erroneamente fosse la parte piú debole della
linea difensiva tedesca, per riconquistare prima la città di Char’kov, un vitale nodo ferroviario
ucraino per le forze armate tedesche, e riprendere poi la Crimea. A partire dal 12 maggio, il
maresciallo Semën Timošenko lanciò verso Char’kov e anche oltre due grandi gruppi
dell’esercito, tanto piú che le difese tedesche stavano perdendo temporaneamente vigore di
fronte a un nemico molto piú organizzato e piú pesantemente armato rispetto al 1941; in realtà,
questo rese possibile alla Heeresgruppe Süd di attirare le forze sovietiche in una trappola, mentre
Timošenko spingeva i mezzi corazzati troppo velocemente oltre la fanteria. In una classica
battaglia di accerchiamento, l’operazione Fredericus tagliò le vulnerabili retrovie delle armate
sovietiche e dopo dieci giorni la trappola si chiuse con uno scatto. Il 28 maggio, l’Armata Rossa
perse 240 000 soldati, 1200 carri armati e 2600 cannoni, una disfatta che parve sollecitare
l’ottimismo di Hitler nei confronti del Fall Blau . Una seconda offensiva sovietica, che mirava a
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riconquistare la Crimea, fu respinta e altri tre gruppi d’armata, XLIV, XLVII e LI, furono
annientati e ben 170 000 soldati furono fatti prigionieri. A giugno, fu affidato a Von Manstein il
compito di conquistare Sebastopoli sul Mar Nero, con l’aiuto della 4. Luftflotte di Von
Richthofen. La città si arrese dopo un feroce bombardamento solo il 4 luglio, con altri 95 000
prigionieri di guerra, facendo guadagnare a Von Manstein il grado di feldmaresciallo ma
ritardando l’inizio dell’operazione principale .
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La nuova campagna iniziò il 28 giugno e in pochi giorni l’avanzata raggiunse lo stesso ritmo
dell’anno precedente, e con lo stesso livello di sorpresa. Anche dopo che Churchill aveva
avvertito Stalin dei piani tedeschi tramite le intercettazioni di Ultra, e perfino dopo che il 19
giugno un aereo tedesco si era schiantato dietro le linee sovietiche ed era stato scoperto il piano
di battaglia, il dittatore sovietico rimase convinto che si trattasse di una deliberata
disinformazione, com’era avvenuto nel giugno del 1941 . Voronež cadde il 9 luglio, ma i
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progressi furono ostacolati da furiosi attacchi lungo i fianchi delle armate tedesche, che dovettero
respingerli prima che l’ala settentrionale potesse dirigersi a sud, inseguendo quello che sembrava
un nemico demoralizzato e disorganizzato. Il 25 luglio fu presa Rostov, questa volta dopo una
forte resistenza che finí poi per disperdersi nelle pianure che portavano a Stalingrado. Dopo i
grandi accerchiamenti del 1941, i soldati dell’Armata Rossa non avevano alcun desiderio di
cadere in una nuova trappola tedesca, ma la loro prudenza impedí comunque all’esercito tedesco
di realizzare il suo vero obiettivo, ovvero «spazzare via» ogni capacità del nemico di combattere
ulteriormente. «L’alto comando dell’esercito», si lamentò Von Bock, ora a capo della
Heeresgruppe Süd, «vorrebbe accerchiare un nemico che non c’è piú» . I mezzi corazzati
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tedeschi si riunirono all’ansa del Don senza riuscire a intrappolare le forze nemiche nella
quantità prevista, e ora si trovavano a soli 120 chilometri da Stalingrado. Il Fall Blau non era
andato secondo i piani o non aveva raggiunto i suoi obiettivi massimi, ma Hitler, nonostante il
crescente pessimismo dei comandanti che occupavano ampi tratti di territorio russo in gran parte
indifeso, credeva che «i russi sono finiti» e il 23 luglio emanò una nuova direttiva per quella che
venne chiamata operazione Braunschweig (Brunswick). Sotto il nome in codice Edelweiss, la
Heeresgruppe A, comandata dal feldmaresciallo Wilhelm von List, doveva ripulire l’area a sud
del Don per poi muovere verso la regione del Caucaso, dove l’esercito si sarebbe diviso in tre:
una parte per conquistare la costa del Mar Nero fino a Baku, un’altra per occupare i passi sul
Caucaso e una parte per occupare la città petrolifera di Groznyj; la Heeresgruppe B, agli ordini
dal generale colonnello Maximilian von Weichs dopo che Hitler aveva dato per la seconda volta
il benservito a Von Bock, doveva attraversare il fiume Don per impadronirsi di Stalingrado,
assicurarsi il controllo del basso Volga e passare poi alla conquista di Astrachan’, con
un’operazione dal nome in codice Fischreiher (Airone) . La contraddizione tattica non sfuggí a
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molti comandanti di Hitler: stavano occupando un territorio sempre piú esteso con sempre meno
truppe.
Tra le forze dell’Armata Rossa fu evidente un crescente panico dinanzi all’inarrestabile avanzata
tedesca: i soldati abbandonavano le linee difensive costruite in tutta fretta e le loro armi pesanti,
ignorando le minacce degli ufficiali e dei commissari militari. Il 28 luglio, Stalin emanò il suo
Prikaz n. 227, l’ordine con cui intimava alle truppe Ni šagu nazad! («Non un passo indietro!») e
insisteva sul fatto che «ogni metro di suolo sovietico deve essere difeso a tutti i costi, fino
all’ultima goccia di sangue» . I zagrjaditel’nye otrjady, i «reparti di blocco» del servizio di
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sicurezza creati nel 1941 per frenare il panico e prevenire le diserzioni, iniziarono a catturare tutti
i presunti codardi e fannulloni, che rischiavano la fucilazione o venivano riassegnati a battaglioni
punitivi, anche se per la maggior parte venivano semplicemente riportati alle loro unità. Il Prikaz
n. 227 non impedí tuttavia un’ulteriore ritirata ufficialmente autorizzata, poiché neppure Stalin
voleva andare incontro alle perdite di prigionieri dell’estate precedente. Ordinò quindi ai
comandanti di sottrarsi in ogni modo alle ormai famigerate tenaglie della Wehrmacht.
La Heeresgruppe B si spinse verso il fiume Don, avendo i lunghi fianchi protetti dalle forze
dell’Asse provenienti da Romania, Italia e Ungheria e notevolmente rafforzati in seguito alle
pressioni dei tedeschi: cinque divisioni romene, dieci ungheresi e cinque italiane. I mezzi
corazzati tedeschi trovarono nella steppa piatta il loro terreno ideale, ma non c’era molto da
combattere. «Probabilmente», come ricordava un soldato tedesco, «era la regione piú desolata e
triste dell’Est che si presentava ai miei occhi. Una steppa sterile, nuda, senza vita, senza un
cespuglio, senza un albero, miglia e miglia senza un villaggio» . Sarebbero stati dunque quelli i
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nuovi territori da colonizzare una volta che Stalingrado, divenute ora l’obiettivo principe della VI
Armata del generale Friedrich von Paulus, fosse stata catturata con un rapido coup de main?
Sulla mappa, quella nuova estensione di terre era impressionante. Piú a sud, la città petrolifera di
Majkop fu occupata dalla Heeresgruppe A all’inizio di agosto, e il giorno 21 dello stesso mese le
truppe alpine tedesche issarono la bandiera sulla vetta del monte Elbrus, la cima piú alta del
massiccio del Caucaso (un risultato che fece infuriare Hitler che lo considerò una perdita di
tempo per un’impresa di puro alpinismo). Quello fu il momento in cui la vittoria conclusiva in
tutti e tre i teatri di guerra dell’Asse sembrò davvero possibile, seppure fuggevolmente.
L’estate del 1942 rappresentò per gli Alleati il punto piú basso della guerra, costretti a
combattere tre guerre separate in Russia, Nordafrica e Asia, con pochi collegamenti tra loro
tranne la fornitura di beni in base al Lend-Lease – limitata anch’essa nel 1942 poiché la struttura
logistica interalleata era diventata operativa con parecchio ritardo a causa delle continue minacce
di attacchi sottomarini nell’Atlantico (una campagna di cui parleremo nel sesto capitolo).
All’inizio, il fatto che gli Stati Uniti fossero entrati in guerra fece poca differenza per lo sforzo
bellico complessivo degli Alleati, nonostante l’enorme potenziale economico ora a loro
disposizione e nonostante il breve trionfo a Midway. Roosevelt si rivolse piú volte agli
americani, nonché ai nemici dell’Asse, rammentando la vastità della produzione militare
americana, ma l’opinione pubblica avrebbe potuto benissimo domandargli cosa stessero facendo
i 47 826 aerei e i 24 997 carri armati prodotti nel 1942. Fino a gennaio del 1943, infatti, nessuna
bomba americana fu sganciata sul suolo tedesco; fino al luglio di quello stesso anno nessuna
unità di terra americana fu in azione nell’Europa continentale; la prima battaglia di terra nella
regione del Pacifico iniziò nell’agosto del 1942 con una sola divisione. Prima di Pearl Harbor
Roosevelt era preoccupato dal fatto che il popolo americano non volesse quel conflitto, ora,
invece, era preoccupato che non ci fosse abbastanza guerra per soddisfare quello stesso popolo.
Per i pianificatori americani, di fronte alla crisi dell’impero britannico e dell’Unione Sovietica,
era essenziale inquadrare la strategia degli Stati Uniti in termini americani. Il collasso della
posizione britannica nel Sud-est asiatico pose fine a un breve periodo in cui le forze americane,
australiane, olandesi e inglesi furono unite sotto il comando del generale britannico Wavell. Nel
teatro di guerra del Pacifico, l’esercito degli Stati Uniti istituí due comandi: il Pacific Ocean
Command, sotto l’ammiraglio Chester Nimitz, e il Southwest Pacific Command, sotto il generale
MacArthur. Le forze australiane furono ora integrate nella struttura di comando degli Stati Uniti
sotto MacArthur, un passo che i leader australiani accolsero con favore, visto il fallimento
britannico in Asia e l’improvvisa minaccia di una possibile invasione giapponese; fin quasi agli
inizi del 1944, gli australiani costituirono la maggior parte delle forze di terra impegnate nel
Pacifico sud-occidentale . Da quel momento, il teatro di guerra del Pacifico rimase di
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competenza americana fino a guerra inoltrata, cioè al 1945, quando la Gran Bretagna fu
finalmente in grado di offrire la propria partecipazione. Alla Conferenza Arcadia del dicembre
1941 era stato concordato che la vera priorità era l’Europa, ma Churchill e i suoi capi di stato
maggiore preferivano concentrarsi sul Mediterraneo prima di tentare un rientro sul continente
europeo. In accordo con Roosevelt, elaborarono un piano con il nome in codice Gymnast che
prevedeva un’operazione contro il Nordafrica francese progettata per alleviare la pressione
sull’Egitto, ma gli alti gradi militari americani la consideravano un malcelato aiuto all’impero
britannico e preferivano alleggerire la pressione sull’Unione Sovietica con uno sbarco anticipato
nell’Europa settentrionale . Il generale di brigata Dwight D. Eisenhower, direttore dei piani del
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generale Marshall, si scagliò contro gli «strateghi dilettanti», quali erano del resto Churchill e
Roosevelt, e pianificò una prima operazione in Europa, con il nome in codice Sledgehammer
(Mazza), a cui seguí nel 1943 una grande offensiva con quarantotto divisioni, con il nome in
codice Roundup (Regolamento di conti). Si trattava di una strategia piú coerente con la dottrina
militare americana che preferiva una concentrazione delle forze – un chiaro rifiuto della strategia
periferica favorita da Londra. A Roosevelt fu detto che il piano Gymnast non era possibile e la
notizia fu trasmessa a Churchill il 9 marzo .
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L’approccio diretto nel confronto con la Germania aveva una serie di motivazioni che andavano
al di là del semplice desiderio di non dare alcuna impressione che gli Stati Uniti stessero
combattendo la guerra per la Gran Bretagna. All’indomani di Pearl Harbor, l’opinione pubblica
americana si era sentita colpita da un senso di impotenza di fronte all’attacco giapponese e da
una crescente disillusione verso la leadership di Roosevelt dopo la sua prima ondata di rabbioso
entusiasmo per la guerra. Se i leader isolazionisti abbandonarono la loro campagna, i gregari del
movimento preferivano ancora una strategia incentrata innanzitutto sul Giappone e nutrivano
sfiducia nei confronti di un coinvolgimento nella guerra europea. I sondaggi condotti nei primi
mesi del 1942 registrarono consistenti maggioranze a favore della concentrazione di forze nel
Pacifico . La speranza di Marshall in un primo sbarco nell’Europa occupata, da effettuarsi piú
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tardi nel 1942, fu un modo per fermare le critiche e riaccendere l’impegno sul fronte europeo. A
marzo, Roosevelt riferí a Churchill che gli Stati Uniti volevano iniziare una campagna in Europa
«già quest’estate» . L’altra preoccupazione era la sopravvivenza dell’Unione Sovietica. La paura
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di un possibile armistizio sovietico-tedesco spiega l’insistenza di Marshall sulla necessità di


aprire un fronte nell’Europa occidentale per dirottare lontano dall’Est le forze tedesche. Fu
sempre la paura a sostenere a marzo la decisione di Roosevelt di appoggiare l’idea
dell’operazione Sledgehammer. Nel giugno del 1942, durante la visita di Molotov a Washington,
Roosevelt gli assicurò che Stalin poteva «aspettarsi la nascita di un secondo fronte quest’anno»,
un impegno che perfino Marshall considerava troppo prematuro . Benché Roosevelt conoscesse
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le realtà geopolitiche, la sua comprensione strategica e operativa era limitata. La promessa agli
inglesi di sostenere il piano Gymnast, come l’incondizionata promessa fatta a Molotov di un
«secondo fronte», nascevano piuttosto da calcoli politici, progettati per garantire che Gran
Bretagna e Unione Sovietica continuassero a combattere, anziché da sobri impegni di natura
militare.
Il progetto di Marshall aprí un’altra grave breccia nell’alleanza anglo-americana. I tristi
fallimenti in Libia non avevano fatto che confermare i pregiudizi americani nei confronti di
un’avventura nordafricana. Marshall fu mandato due volte a Londra per discutere la sua proposta
e, benché gli inglesi sostenessero a parole l’idea delle operazioni Sledgehammer e Roundup,
soprattutto per timore che altrimenti il governo americano si sarebbe concentrato sulla guerra al
Giappone, la visione privata di Churchill e dei capi di stato maggiore era del tutto negativa . 30

Dopo la visita di Molotov, Churchill e il generale Alan Brooke, capo del quartier generale
imperiale, si recarono a Washington per cercare di far cambiar parere a Roosevelt. L’operazione
nordafricana, sosteneva Churchill, era «il vero secondo fronte in Europa», anche se piú tardi,
quello stesso anno, cercò di convincere Stalin che il «secondo fronte» era ora rappresentato dai
bombardamenti sulla Germania . Il presidente americano fu evasivo e consentí che si continuasse
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a pianificare sia l’operazione Sledgehammer sia il piano Gymnast, ma Churchill, tornato a


Londra, telegrafò l’8 luglio per confermare che gli inglesi rifiutavano assolutamente l’idea di
un’invasione di terra in Europa nel 1942. Il timore che questo avrebbe influito sulla strategia che
metteva al «primo posto l’Europa» non era ingiustificato. Due giorni dopo, Marshall riferí a
Roosevelt che se gli inglesi insistevano sulle loro posizioni, si sarebbe rivolto al Pacifico «e
avrebbe fatto di tutto per una decisione antigiapponese» . In privato, Churchill deplorò la
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minaccia di Marshall – «Solo perché non possono fare un massacro in Francia quest’anno, gli
americani tengono il broncio e vogliono combattere nel Pacifico» –, ma la cosa era seria . 33

Marshall, infatti, ottenne l’appoggio sia degli altri comandanti dello stato maggiore congiunto sia
del segretario alla Guerra Henry Stimson e del segretario della Marina per fare pressioni su
Roosevelt affinché le priorità riflettessero adeguatamente gli interessi americani. La rivolta
contro la strategia britannica si concluse solo quando Roosevelt, per il quale l’impegno atlantico
era sempre stato piú importante, ordinò infine a Marshall il 25 luglio di abbandonare l’idea di
invadere l’Europa e prepararsi al piano Gymnast (ora ribattezzato Torch), in modo che le forze
americane fossero operative prima della fine dell’anno, anzi, se possibile, prima delle elezioni di
medio termine del Congresso a novembre. Quella del luglio 1942 fu l’unica volta che Roosevelt
invocò il suo ruolo ufficiale di comandante in capo delle forze armate, titolo con cui firmò i
mandati al fine di costringere il suo stato maggiore all’obbedienza. Eisenhower, architetto
dell’operazione Sledgehammer, pensò che quella decisione appartenesse al «giorno piú nero
della storia» . I capi militari americani si trovarono costretti a prepararsi a un’operazione
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indesiderata, da condursi in una regione in cui a essere in gioco erano evidentemente gli interessi
britannici.
L’opinione degli inglesi secondo cui Sledgehammer sarebbe stata un disastroso fallimento non
era sbagliata. Il piano americano, approntato da Eisenhower e dalla sua squadra, di attraversare la
Manica con un numero di divisioni da cinque a dieci e occupare Cherbourg e la penisola del
Cotentin come preludio a una piú completa invasione nella primavera successiva, non aveva
alcun rapporto con la realtà. Quando il 19 agosto fu organizzata un’incursione anglo-canadese
(con l’operazione Jubilee) contro Dieppe, allo scopo di valutarne le difese e offrire un qualche
aiuto all’Unione Sovietica, l’attacco fu neutralizzato in poche ore dai difensori tedeschi, che non
poterono fare a meno di arrovellarsi su quale potesse essere il significato strategico di
quell’azione. Le preoccupazioni americane riguardo all’operazione Sledgehammer derivavano
tanto dalla volontà di imporre una strategia americana su un alleato recalcitrante, la cui apparente
ossessione per la difesa dell’Egitto sembrava lontana dalla vera guerra per l’Europa, quanto dal
desiderio di portare aiuto all’Armata Rossa. Il disappunto e la frustrazione di Marshall erano
pienamente condivisi dal comando sovietico. Per Molotov una promessa era una promessa e
Stalin aveva preso per buona l’assicurazione di un prossimo «secondo fronte». Il comando
militare sovietico condivideva la dottrina strategica americana dell’approccio diretto, ed
entrambi i paesi sospettavano che le preferenze britanniche tradissero una maggiore
preoccupazione per gli interessi imperiali di lungo termine piuttosto che l’impegno di
sconfiggere insieme la Germania.
«Il 1942 fu un anno di straordinari contrasti», scrisse nelle sue memorie il capo di stato maggiore
di Churchill, Hastings Ismay. «Si aprí con lo scenario di un’orrenda calamità», per finire però
con «un completo rovescio di fortuna» . Mentre gli Alleati litigavano sulle priorità tattiche, si
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stava preparando il terreno per tre battaglie che, separatamente ma simultaneamente,


trasformarono le prospettive strategiche nel Pacifico, in Russia e nel Nordafrica, favorendo
l’iniziativa alleata. A Guadalcanal, El Alamein e Stalingrado fu raggiunto un punto di svolta, per
cui tutti e tre gli eventi meritano di essere esplorati in dettaglio, definendo le profonde differenze
di scala e di contesto esistenti tra essi. Guadalcanal aveva coinvolto un numero esiguo di
divisioni e un buon numero di navi e aerei della marina che avevano dato battaglia per il
controllo di una pista di atterraggio sull’isola; anche El Alamein aveva avuto dimensioni di
minor conto rispetto alla guerra sul fronte orientale, ma, a differenza di Guadalcanal, la battaglia
era stata condotta come un grande scontro di aerei e forze corazzate su distanze considerevoli; la
campagna di Stalingrado fu una lotta titanica che interessò buona parte della Russia meridionale
e coinvolse centinaia di migliaia di uomini, intere flotte aeree e migliaia di carri armati. Anche i
tre ambienti su cui avvennero gli scontri non avrebbero potuto essere piú diversi. Guadalcanal
era una piccola isola, lunga 145 chilometri e larga 40, ricoperta per la maggior parte da una fitta
giungla dove enormi vespe, scorpioni, serpenti, coccodrilli giganti e sanguisughe (che cadevano
sugli uomini dagli alberi sovrastanti) si sommavano ai pericoli creati dal nemico; malaria,
dissenteria, dengue e tifo fluviale del Giappone erano patologie endemiche . Quasi tutti i soldati
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di entrambi gli schieramenti che combatterono a Guadalcanal si ammalarono di una di queste


malattie. La battaglia di El Alamein fu invece combattuta in un deserto arido, a centinaia di
chilometri di distanza dalle basi di rifornimento (Rommel, nel luglio del 1942, era lontano piú di
1450 chilometri dal porto principale di Tripoli), dove i soldati affrontarono il caldo estremo, la
piaga delle mosche, tempeste di sabbia che potevano cambiare la conformazione del terreno
durante la notte, una polvere soffocante e accecante che rendeva il combattimento un gioco a
mosca cieca e la minaccia regolare di ulcere cutanee, dissenteria e grave disidratazione. Nelle sue
settimane piú critiche, la battaglia di Stalingrado fu combattuta tra le rovine di un grande
agglomerato urbano, largo circa 65 chilometri, prima con un caldo intenso, poi nel freddo
pungente. Dissenteria, febbre tifoide e congelamento colpirono probabilmente piú le truppe degli
attaccanti, ma il campo di battaglia presentava comunque difficoltà condivise da entrambi i
contendenti. Le tre battaglie, però, avevano in comune un aspetto: nessuna di esse fu uno scontro
che si decise in pochi giorni, anzi, ciascuna durò mesi prima di arrivare a una conclusione in cui
la vittoria fosse inequivocabilmente chiara.
Le isole Salomone era state occupate nel maggio del 1942, quando la capitale Tulagi era stata
strappata agli inglesi in ritirata. A giugno, lavoratori coreani e ingegneri giapponesi, oltre a un
piccolo presidio di circa 1700 soldati, erano stati mandati a Guadalcanal, l’isola piú grande, per
costruire una base aerea strategica, da terminare entro la metà di agosto. Non sarebbe stata solo
una minaccia per la navigazione alleata, ma avrebbe protetto la base principale della marina
giapponese a Rabaul, nella Nuova Britannia, piú a nord. L’esercito giapponese non prevedeva un
intervento alleato almeno fino al 1943, ma il comandante in capo della Marina degli Stati Uniti,
l’ammiraglio Ernest King, esortò la flotta del Pacifico a intraprendere il prima possibile una
controffensiva nei mesi estivi. Anche se la conoscenza del potenziale pericolo rappresentato
dalla pista di atterraggio di Guadalcanal rendeva l’isola un obiettivo scontato, l’operazione
Watchtower (Torre di guardia) fu autorizzata da Nimitz solo all’inizio di luglio, impiegando la
First Marine Division . I preparativi furono frettolosi e inadeguati per un’operazione anfibia
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cosí importante, per di piú su un terreno di cui si sapeva cosí poco che l’intelligence della marina
dovette costruirsi un’immagine dell’isola basandosi su vecchie copie del «National Geographic»
e su una manciata di colloqui con missionari. Furono scattate fotografie aeree, ma arrivarono ai
marine solo a sbarco avvenuto . Sia MacArthur sia il comandante della flotta del Pacifico
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meridionale, il viceammiraglio Robert Ghormley, ritenevano che i rischi fossero troppo alti e
sollecitarono l’annullamento dell’operazione, ma King insistette sul fatto che da qualche parte si
doveva pur sferrare il colpo. Nonostante l’addestramento limitato e la carenza di rifornimenti per
una campagna dalla durata imprevedibile, la First Marine Division del generale maggiore
Alexander Vandegrift fu imbarcata dalla Nuova Zelanda su venticinque trasporti comandati dal
contrammiraglio Richmond Turner, protetta da una task force navale guidata dal viceammiraglio
Frank Fletcher che comprendeva le uniche portaerei disponibili.
Le settantasei navi arrivarono inosservate al largo della costa settentrionale di Guadalcanal la
notte tra il 6 e il 7 agosto 1942 e i 23 000 marine si arrampicarono sui mezzi da sbarco, la
maggior parte era destinata alla costa, con distaccamenti piú piccoli impegnati nella conquista di
Tulagi e di altre due isole minori. Furono fortunati perché l’attacco risultò una completa
sorpresa, grazie anche alle forti piogge e alla nebbia che aveva nascosto il convoglio in
avvicinamento. In ogni caso, la guarnigione giapponese avrebbe avuto poche possibilità date
quelle circostanze schiaccianti. I lavoratori e i soldati coreani fuggirono nella giungla circostante,
abbandonando intatti magazzini e attrezzature. A Tulagi e nelle isole minori la resistenza fu piú
forte, ma finí l’8 agosto. Negli scontri iniziali, i marine ebbero il primo assaggio del
comportamento giapponese sul campo di battaglia, dove i soldati si rifiutavano di arrendersi
anche quando era palesemente inutile continuare a combattere. Sulle due isole piú piccole, i
caduti furono 886 e solamente 23 i prigionieri di guerra, un rapporto che si sarebbe mantenuto in
tutto il Pacifico . I marine stabilirono un solido perimetro difensivo attorno alla pista d’aviazione,
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che chiamarono Henderson Field in onore di un maggiore dei marine ucciso a Midway. La pista
subí regolari attacchi aerei dai bombardieri a lungo raggio inviati dalle basi giapponesi piú a
nord, il che spinse Fletcher a ritirare le navi da trasporto dopo due giorni e Turner ad allontanare
pochi giorni dopo i vettori piú vulnerabili, alcuni ancora da scaricare, lasciando rifornimenti di
munizioni per soli quattro giorni. Le poche grandi navi di superficie rimaste furono quasi
completamente distrutte nella notte tra l’8 e il 9 dall’attacco di una task force giapponese
penetrata nei canali intorno all’isola di Savo, a nord dell’aeroporto. I marine ebbero nuovamente
la fortuna dalla loro parte, dato che a Rabaul l’esercito giapponese aveva calcolato erroneamente
la minaccia da affrontare, presumendo che fossero sbarcati solo 2000 marine invece che piú di 20
000, un errore in cui l’intelligence persistette per settimane. Il 18 agosto, una piccola forza di
soccorso di 2000 uomini, guidata dal colonnello Ichiki Kiyonao, i cui soldati avevano scatenato
l’incidente del Ponte Marco Polo nel 1937, atterrò nei pressi della base aerea con l’ordine di
riconquistarla. Senza aspettare lo sbarco della seconda metà dei suoi soldati, Ichiki si lanciò
all’attacco del perimetro dei marine. La sua unità fu annientata quasi fino all’ultimo uomo e
Ichiki, gravemente ferito, compí il suicidio rituale prima della cattura .
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Il fallito attacco coincise con l’arrivo del primo aereo della marina sulla pista di atterraggio
ormai completata. Da quel momento in poi, fatta eccezione per alcune occasioni in cui pesanti
attacchi di artiglieria dalle navi resero temporaneamente inutilizzabile la pista, o danneggiarono i
velivoli a terra, il rinforzo regolare di quella che venne chiamata la Cactus Air Force («Cactus»
era il nome in codice di Guadalcanal) garantí alla guarnigione americana un importante
moltiplicatore di forza. Gli aerei, soprattutto, potevano essere usati per attaccare le navi da
trasporto che facevano la spola tra Rabaul e Guadalcanal, dopo che l’alto comando giapponese si
era reso conto che la testa di ponte americana rappresentava una vera minaccia e una sfida al
prestigio dell’esercito nipponico dopo mesi di facili conquiste. Il 28 agosto, il generale
Yamamoto ordinò l’operazione Ka, con un grande convoglio che trasportava i 5600 soldati
distaccati a Midway e ora sostenuti da una possente forza navale che comprendeva tre delle
restanti portaerei di Nagumo. Seguí lo scontro tra portaerei in quella che divenne la battaglia
delle Salomone orientali e in cui Nagumo si vide costretto a disimpegnarsi dopo la perdita di
trentatre preziosi velivoli; abbandonate a loro stesse, le truppe trasportate subirono un attacco
aereo e furono costrette a invertire la rotta . Nei mesi successivi, migliaia di soldati giapponesi
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sbarcarono di notte, unità dopo unità: erano 20 000 a ottobre, 43 000 alla fine della campagna. Le
loro azioni contro i sistemi difensivi integrati e un Corpo dei marine professionisti erano tuttavia
ben lontane da quelle mostrate in battaglia durante l’invasione delle regioni meridionali. Un
secondo grande assalto, pianificato per settembre sotto il comando del generale maggiore
Kawaguchi Kiyotake, ebbe la stessa sorte di quello di Ichiki. La forza d’assalto era stata divisa
per attaccare a est, ovest e sud della pista di atterraggio, ma la carenza di comunicazioni aveva
portato a operazioni scoordinate, distribuite su tre giorni e prive di immaginazione tattica.
L’operazione principale del 12 settembre, che aveva per obiettivo una bassa cresta a sud della
base aerea – presto soprannominata Bloody Ridge –, consistette in ripetute cariche contro la linea
difensiva, finché i soldati di Kawaguchi finirono in gran parte uccisi, formando mucchi di
cadaveri in rapida decomposizione. I giapponesi chiamarono Guadalcanal l’«Isola della morte».
Il 18 settembre, l’alto comando giapponese diede a Guadalcanal la priorità su tutte le altre
operazioni, interrompendo improvvisamente il piano per avanzare su Chongqing e indebolendo
le azioni militari in Papua Nuova Guinea. Al luogotenente generale Hyakutake Harukichi fu
ordinato di usare la XVII Armata per eliminare la testa di ponte americana, ma mentre la marina
giapponese continuava a duellare con buoni risultati con la task force della flotta statunitense
ormai indebolita e a bombardare regolarmente la base aerea, le operazioni di terra reiterarono lo
stesso schema contro una forza americana dotata di una notevole artiglieria pesante e di carri
armati concentrati in una piccola enclave. Un assalto di tre giorni, tra il 23 e il 25 ottobre, fu
nuovamente respinto con pesanti perdite tra i giapponesi. Venne poi fatto un ulteriore tentativo,
inviando una grande forza anfibia il cui sbarco era previsto per il 14 novembre, con 11 navi per
trasporto truppe stipate con 30 000 uomini e scortate da un grande convoglio di navi da guerra
guidato dalle corazzate Hiei e Kirishima. Un piccolo squadrone americano al comando del
contrammiraglio Daniel Callaghan, inviato a nord dopo aver protetto con successo il trasporto di
6000 uomini a Henderson Field, si scontrò con la forza della corazzata al comando del
viceammiraglio Abe Hiroaki. Callaghan fu ucciso, ma la nave ammiraglia di Abe, la Hiei, fu
gravemente danneggiata e lo stesso Abe rimase ferito. La corazzata giapponese fu affondata il
giorno seguente da un attacco aereo mentre cercava di allontanarsi con non poche difficoltà.
Yamamoto ordinò al viceammiraglio Kondō Nobutake di mettersi al comando della corazzata
danneggiata Kirishima e di bombardare la base aerea, in modo che il convoglio di truppe potesse
passare. La Kirishima trovò tuttavia ad attenderla due corazzate schierate dal sostituto di
Fletcher, il viceammiraglio William Halsey, una delle quali, la Washington, aveva un
comandante che sapeva interpretare il radar di puntamento recentemente introdotto. La corazzata
giapponese fu gravemente danneggiata già dai primi colpi di cannone estremamente precisi e
affondò il 15 novembre . Il convoglio delle truppe rimase bloccato mentre si faceva giorno,
42

aspettandosi che l’aviazione nemica fosse stata neutralizzata. Fu invece accolto da una grandine
di bombe che affondò sei mezzi di trasporto. Altri quattro riuscirono a raggiungere la spiaggia
ma furono distrutti dai bombardamenti aerei e dell’artiglieria.
La First Marine Division venne infine disimpegnata tra novembre e dicembre, e Vandegrift
affidò la responsabilità al comandante dell’esercito generale maggiore Alexander Patch, con i 50
000 uomini del XIV Corpo. A quel punto, la battaglia di Guadalcanal era quasi finita. Quanto
rimaneva della guarnigione giapponese cercò di trincerarsi, ma Tokyo decise di abbandonare la
lotta per una base insulare che non poteva piú essere rifornita in modo affidabile e che era costata
molte piú navi e piloti di Midway. Il 31 dicembre, l’imperatore Hirohito approvò il ritiro delle
truppe e il 20 gennaio 1943 iniziò l’operazione Ke per evacuare i soldati ancora in grado di
camminare . 10 642 uomini partirono da Guadalcanal su convogli notturni, lasciandosi alle spalle
43

i soldati feriti e debilitati e destinati a tentare un’ultima tenue difesa. Rimasti ormai quasi senza
cibo o provviste adeguate, i soldati evacuati erano scheletrici, quasi tutti malati, e molti inabili a
nuovi combattimenti. Durante i cinque mesi della battaglia, l’esercito giapponese e le forze di
terra della marina avevano perso 32 000 uomini, la maggior parte per fame e malattie mentre le
scorte di cibo diminuivano; si stima inoltre che trovarono la morte anche 12 000 marinai e oltre
2000 membri degli equipaggi degli aerei, tra cui centinaia dei piloti piú esperti . La First Marine
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Division, che aveva condotto la maggior parte della campagna, contò 1242 caduti, appena una
frazione delle perdite che si sarebbero avute nelle successive battaglie del Pacifico; la flotta degli
Stati Uniti perse 4911 membri di equipaggi, le forze aeree 420 . Per le forze armate giapponesi,
45

Guadalcanal fu un disastro che assorbí un enorme sforzo militare, con pesanti perdite di uomini,
navi e aerei, e tutto per un’unica base aerea molto lontana. Se la sproporzione tra le forze
impiegate e la modesta importanza dell’obiettivo rivelava una volontà paranoica di difendere il
perimetro delle nuove terre conquistate, la battaglia di Guadalcanal venne altresí a
simboleggiare, al pari di Stalingrado, il momento della verità per un regime le cui forze armate
avevano già raggiunto il massimo di quanto potevano dare.
La lunga battaglia sul fronte di El Alamein si sviluppò contemporaneamente allo scontro per
l’isola di Guadalcanal. Nella battaglia nel deserto, tuttavia, c’era molto di piú in gioco che nel
Pacifico, poiché al di là del paesaggio arido in cui fu combattuta vi era la tenue possibilità di una
conquista dell’Egitto da parte dell’Asse, della presa del Canale di Suez e dell’acquisizione del
petrolio mediorientale. Ad agosto, discutendo in privato del Medio Oriente con il suo ministro
degli Armamenti, Albert Speer, Hitler si disse ottimista riguardo alle prospettive: «Gli inglesi
dovranno guardare impotenti il loro impero coloniale cadere a pezzi […] entro la fine del 1943
pianteremo le nostre tende a Teheran, a Baghdad e nel Golfo Persico» . Churchill definí
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l’imminente scontro la «battaglia d’Egitto» e chiese ad Auchinleck di difendere il territorio come


se stesse resistendo all’invasione del Kent. Sull’esito, tuttavia, era pessimista: «Niente sembra
aiutarli», si rammaricò con il capo delle operazioni dell’esercito, «dubito dello spirito offensivo
di quell’esercito». Anche Roosevelt dubitava dei risultati di un’armata i cui comandanti avevano
commesso «tutti gli errori immaginabili» . Si percepiva una minaccia cosí reale che il personale
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dell’ambasciata al Cairo trascorse i primi giorni del luglio 1942 a bruciare documenti segreti, i
cui fogli carbonizzati si diffondevano al vento nelle strade vicine, mentre a Londra i capi di stato
maggiore si preparavano alla «peggiore evenienza possibile», ovvero un’evacuazione nella
regione sudanese dell’Alto Nilo e la creazione di un’ultima linea difensiva in Siria e in
Palestina .
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In realtà, il successo dell’Asse a Gazala e Tobruk aveva indebolito una forza già lontana dalle
sue basi di rifornimento. Un’offensiva fortunata era pura fantasia con solo 10 000 soldati ormai
esausti. Alla fine di giugno, quando Rommel sperava che il suo avversario fosse troppo
malconcio e demoralizzato per resistere a un attacco finale, l’Afrika Korps contava appena 55
carri armati ancora operativi, mentre le divisioni corazzate italiane ne avevano 15. La divisione
Ariete aveva solo otto carri armati e quaranta cannoni, di cui ne perse trentasei già il primo
giorno di battaglia . Non c’è dubbio che le forze dell’VIII Armata britannica fossero ormai
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disilluse dopo mesi di sconfitte e ritirate, tanto che i censori rilevavano nelle lettere dei soldati un
aumento di «discorsi avventati e disfattisti» . Sul fronte di El Alamein era tangibile la generale
50

aspettativa di un’ennesima ritirata verso il Delta del Nilo. Per arginare la crisi, Auchinleck compí
l’insolito passo di lasciare al suo vice il Middle East Command al Cairo e assumere
personalmente il comando dell’VIII Armata, aprendo un vuoto proprio al centro della macchina
militare mediorientale. Con grandi sforzi, Auchinleck organizzò una serie di postazioni
difensive, distanti tra loro, che sperava avrebbero avuto una potenza di fuoco concentrata,
sufficiente per reggere l’attacco nemico. Il 1° luglio ebbe inizio quella che gli storici chiamano
solitamente la «prima battaglia di El Alamein», la prima tappa di una gara che si sarebbe
protratta fino ai primi di novembre. L’esordio sul campo si trasformò rapidamente in una serie di
scontri minori, mentre Rommel cercava di abbattere le postazioni difensive e colpire ancora una
volta le retrovie nemiche come aveva fatto a Gazala. Oltre alle pessime condizioni del campo di
battaglia, sommerso dalla sabbia che si alzava con la consueta polvere del combattimento,
Rommel disponeva anche di scarse notizie sul nemico, non ultimo perché erano state finalmente
scoperte ed eliminate le intercettazioni delle informazioni segrete inviate dall’addetto militare
americano al Cairo, su cui l’Asse aveva fatto affidamento fino a giugno. Il carro armato di
Rommel fu subito bloccato dal fuoco di una postazione nascosta a Deir el Shein e ci volle quasi
l’intera giornata per sconfiggere e cacciare la brigata indiana che la difendeva. Quando gli
italiani e la 90. leichte Afrika-Division tentarono di spingersi piú a nord verso il mare, allo scopo
di circondare e isolare la postazione principale dell’VIII Armata, il fuoco concentrato
dell’artiglieria pesante fermò l’avanzata e provocò un panico temporaneo, bloccando ulteriori
movimenti. Le divisioni tedesche e italiane furono bombardate incessantemente dal cielo dalla
Western Desert Air Force, che a un certo punto arrivò a organizzare quasi una sortita operativa al
minuto. Il 2 e il 3 luglio, Rommel costrinse i suoi uomini a tornare all’attacco, ma le perdite
elevate, la carenza di carburante e veicoli e lo sfinimento totale dei soldati posero fine a un
viaggio verso il Delta e il Canale di Suez destinato al fallimento. La fortuna avrebbe potuto
aiutare Rommel, ma l’operazione era stata comunque una scommessa se consideriamo in quali
condizioni era l’Afrika Korps. Il feldmaresciallo ordinò di fermarsi e si preparò a scavare le
trincee di fronte alle difese di El Alamein.
Contando sui crescenti rinforzi, Auchinleck scelse di non rimanere sulla difensiva ma di cercare
di sconfiggere un nemico ormai notevolmente indebolito. A luglio lanciò quattro attacchi,
nessuno dei quali riuscí a rompere le linee del nemico. Dal primo attacco di Rommel, l’VIII
Armata aveva avuto nel corso del mese 13 000 caduti, senza ottenere quasi alcun vantaggio.
All’inizio di agosto, Churchill e il generale Brooke arrivarono in Egitto per incontrare Stalin.
Churchill, infuriato per quella che vedeva come una mancanza di determinazione, licenziò
Auchinleck e nominò al suo posto il generale Harold Alexander, capo del Middle East
Command; uno degli alti ufficiali dell’VIII Corpo d’armata, il tenente generale William Gott, fu
nominato comandante dell’intero esercito il 6 agosto. Dopo la sua morte in un incidente aereo
avvenuto il giorno seguente, Churchill si convinse finalmente a mettere al suo posto il
luogotenente generale Bernard Montgomery, che il 13 agosto arrivò dall’Inghilterra al quartier
generale dell’VIII Armata. Come gli amici riferirono al comandante della New Zealand Second
Division, la fama di Montgomery era quella «di essere un pazzo». Di certo era ritenuto un
eccentrico egoista, desideroso di imprimere il segno su ogni comando. Il dossier tedesco su
Montgomery, piú vicino alla verità, lo descriveva come un «uomo duro», piuttosto spietato nel
portare a termine ciò che voleva . Al suo arrivo, per chiarire una volta per tutte che ogni discorso
51

su un’ulteriore ritirata doveva cessare, si rivolse all’esercito con queste parole: «Qui resteremo e
combatteremo; non ci saranno altre ritirate. […] Se qui non riusciremo a restare vivi, allora vi
resteremo morti». Ben presto, grazie all’intelligence di Ultra, si trovò di fronte alla prospettiva di
una nuova offensiva dell’Asse, che gli lasciò poco tempo per imporre un nuovo inizio. Eppure, il
suo primo impatto sui soldati si rivelò estremamente salutare. Nel giro di una settimana, i
rapporti della censura indicavano che «una ventata di aria fresca e tonificante si è diffusa tra le
truppe britanniche in Egitto» .
52

Alla fine di agosto, entrambi gli schieramenti avevano sfruttato quella pausa per ricostituire le
rispettive forze ormai a pezzi. Anche se il flusso di nuovi rinforzi verso gli eserciti dell’Asse era
stato impressionante, considerando i problemi logistici, le divisioni tedesche e italiane
rimanevano a corto di carburante e munizioni, le cui spedizioni venivano intercettate e affondate
dai sottomarini e dagli aerei alleati. A settembre e ottobre, andò perso tra un terzo e la metà del
petrolio e dei veicoli spediti in Libia, ponendo cosí alla strategia dell’Asse nel deserto un freno
che non poteva essere superato, visto che la potenza aerea tedesca era impegnata sul fronte russo
e la flotta mercantile italiana subiva una continua erosione . I trasporti che portavano il
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carburante disponibile verso un fronte distante centinaia di chilometri consumavano fino a tre
quarti delle scorte prima ancora di arrivare a destinazione. La presa di Tobruk aveva portato
scarso sollievo, visto che dal suo porto si potevano inviare solo 10 000 tonnellate di carico al
mese – e questo anche se non vi fossero stati i continui bombardamenti degli Alleati –, mentre
agli eserciti dell’Asse ne occorrevano 100 000 . Sia Cavallero sia Kesselring promisero a
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Rommel che sarebbero state prese misure di emergenza per rifornire le sue truppe del carburante
e delle munizioni indispensabili, ma quando il feldmaresciallo fu pronto a riprendere l’offensiva,
il carburante era appena sufficiente per otto giorni di campagna. L’equilibrio delle forze in
campo era meno disastroso: 84 000 soldati tedeschi e 44 000 italiani fronteggiavano ora 135 000
soldati dell’impero britannico; 234 carri armati tedeschi e 281 italiani avrebbero invece
affrontato 693 mezzi corazzati nemici . Per quanto riguardava l’aviazione, vi era invece una
55

differenza fondamentale, in quanto Rommel era ormai lontano dalle basi aeree che potevano
supportarlo, mentre la Western Desert Air Force era a breve distanza di volo dal fronte e dalle
linee di rifornimento dell’Asse.
Rommel aveva progettato quello che per i tedeschi era ormai un piano di battaglia
convenzionale: penetrare nel fronte alleato attraverso i campi minati a sud e poi piegare verso
nord-est per tagliare fuori le forze principali arroccate su una delle creste piatte di Alam el-Halfa,
dove la fanteria alleata, con artiglieria e cannoni anticarro, era al riparo nelle trincee. La difesa di
Montgomery si basava essenzialmente sui piani già elaborati dagli ufficiali di Auchinleck, ma
dipendeva dalla forza aerea per distruggere i mezzi corazzati dell’Asse che attraversavano i
campi minati e concentrare il fuoco dell’artiglieria in uno sbarramento difensivo lungo la cresta
di Alam el-Halfa. Nel nuovo equipaggiamento si intravedeva la promessa di una differenza
significativa: le forze corazzate alleate disponevano ora di un numero sempre maggiore di carri
armati americani Grant e Sherman, che offrivano un notevole vantaggio rispetto ai mezzi
corazzati inglesi perché potevano sparare proiettili sia perforanti sia ad alto potenziale esplosivo
– i primi per mettere fuori gioco i carri armati nemici, i secondi per eliminare le batterie anticarro
e l’artiglieria. Montgomery poteva altresí disporre di un numero crescente di cannoni anticarro
piú pesanti, capaci finalmente di tenere testa ai modelli tedeschi esistenti. Ciò che Montgomery
aggiunse al piano era l’insistenza sul fatto che si stava combattendo una battaglia difensiva in
gran parte statica, basata sull’artiglieria e la forza aerea, e che si doveva evitare una guerra di
manovra mobile, che l’VIII Armata non avrebbe potuto dominare del tutto.
Dei due piani di battaglia, funzionò solo quello britannico. Quella che avrebbe potuto diventare
la «seconda battaglia di El Alamein» prese invece il nome dalla cresta di Alam el-Halfa, poiché
lo scontro si limitò complessivamente al fallito tentativo tedesco di conquistarla. La notte del 30
agosto, le Panzerdivision avevano iniziato a muoversi attraverso i campi minati per arrivare in
aperto deserto alle prime luci dell’alba. Il fitto ammasso di uomini e veicoli si trovò invece
esposto per tutta la notte a implacabili bombardamenti pesanti su un campo di battaglia
illuminato a giorno dai razzi. Quel ritardo comportò un consumo di carburante pericolosamente
alto, per cui al mattino Rommel dovette abbandonare l’idea di un ampio colpo di falce attorno
all’esercito nemico in favore di un assalto piú limitato alla cresta di Alam el-Halfa, dove le sue
forze furono tuttavia immobilizzate da un micidiale fuoco di sbarramento dell’artiglieria e delle
batterie anticarro nascoste nelle trincee. Per due giorni, le truppe di Rommel tentarono senza
successo di prendere la cresta, quasi sprovviste di carburante e sotto un martellamento
dell’aviazione e dell’artiglieria che minò il morale tedesco e italiano – un fuoco di sbarramento
«come non ho mai sperimentato», scrisse una delle vittime dopo sette ore di bombardamenti . Il 56

2 settembre, Rommel fu costretto a ordinare la ritirata fino alle linee di partenza, ma le divisioni
motorizzate italiane, senza carburante o con mezzi semidistrutti, abbandonarono due terzi dei
loro uomini e un terzo dei cannoni. Questa fu l’ultima avventura di quella forza limitata e priva
di rifornimenti adeguati. Non fu tuttavia decisiva. Rommel e i comandanti italiani si trincerarono
infatti dietro una fitta cintura di 445 000 mine, pur consapevoli che il nemico sarebbe diventato
piú forte di giorno in giorno . Alam el-Halfa, cosí come la conclusiva «seconda battaglia di El
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Alamein», pose fine alle speranze che l’inettitudine britannica sul campo di battaglia avrebbe
consegnato il Medio Oriente all’Asse.
Per la battaglia finale, Montgomery ebbe effettivamente l’opportunità di lasciare il segno
sull’esercito di cui era al comando. Optò per una battaglia accuratamente programmata – quasi
certamente l’unica opzione su un fronte cosí stretto e difeso in profondità –, in quanto aveva
compreso i limiti delle forze ai suoi ordini: «Limito la portata delle operazioni a ciò che è
possibile», affermò, «e uso la forza necessaria per raggiungere il successo» . Date le debolezze
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già manifestate, Montgomery decise di elaborare per l’imminente operazione un piano chiaro e
dettagliato, guardando in faccia la realtà, nonostante i frequenti rimproveri di eccessiva cautela.
Lo schema di quella che sarebbe stata conosciuta come operazione Lightfoot (Piede leggero) fu
abbozzato il 6 ottobre e poi modificato di lí a quattro giorni dopo una discussione con i suoi
comandanti. Montgomery voleva che la battaglia fosse uno sforzo di squadra, seppure
riservandosi a pieno titolo il ruolo di comandante in capo. Le precedenti sconfitte avevano messo
in luce la difficoltà di organizzare l’esercito di un impero multinazionale sotto degli ufficiali
britannici . Montgomery trascorse buona parte del suo tempo a rinsaldare rapporti, e, avendo
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capito quanto fosse importante integrare l’attacco di terra e quello dall’aria, sviluppò uno stretto
legame con la Western Desert Air Force del vicemaresciallo Arthur Coningham. Le sedi tattiche
delle forze di aria e di terra dovevano ora essere vicine tra loro. Insistette inoltre sull’integrazione
di mezzi corazzati e fanteria ricorrendo al semplice metodo di mescolare insieme i comandanti
per discutere su come avrebbero potuto cooperare. La mancata presenza di una copertura
adeguata per la fanteria era stata a lungo oggetto di diverbi. L’artiglieria doveva infine essere
concentrata, al fine di garantire un fuoco di sbarramento letale, un chiaro ricordo del 1918.
Per essere certo che il piano fosse ben compreso e si adottasse correttamente il concetto di forze
combinate, Montgomery introdusse un mese di addestramento intensivo in cui incluse momenti
di autentica battaglia, con esercitazioni che utilizzavano vere munizioni e mine . Dietro a tutti
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quei cambiamenti vi era una grande quantità di nuovi equipaggiamenti, molti dei quali
provenienti dagli Stati Uniti, che fornirono il 21 per cento delle forze corazzate e quasi la metà
degli squadroni della Western Desert Air Force. L’aviazione dell’esercito americano creò in
Egitto la Tenth Air Force, armata di bombardieri B-24 e B-17 che colpivano i porti libici che
rifornivano l’Asse e i convogli che percorrevano le pericolose rotte attraverso il Mediterraneo . 61

A metà ottobre, la potenza di uomini e mezzi alleati che fronteggiavano il nemico era
teoricamente schiacciante: 12 divisioni dell’Asse (4 tedesche e 8 italiane) con 80 000 uomini, ma
sottodimensionate, avevano davanti 10 divisioni alleate con 230 000 uomini; 548 carri armati (di
cui 280 modelli italiani, piú deboli, e appena 123 carri armati tedeschi, piú efficaci) contro 1060
mezzi corazzati delle forze alleate; 350 aerei ne affrontavano 530, con altri velivoli alleati
disponibili nelle basi aeree piú a est . Quanto ai pezzi di artiglieria e alle armi anticarro piú
62

importanti, la disparità numerica era molto piú ristretta, ma le divisioni italiane erano seriamente
a corto di uomini e con pochi cannoni moderni. La divisione paracadutisti Folgore, che si
distinse nella battaglia finale, era tuttavia priva di quasi ogni equipaggiamento pesante . 63

Il piano degli alleati per El Alamein prevedeva di attaccare con le truppe di terra la fanteria
nemica, principalmente italiana, a nord del fronte e proseguire poi con i mezzi corazzati per
prevenire il previsto contrattacco. Il fronte dell’Asse sarebbe stato «frantumato» da un
logoramento quotidiano. Grazie a un elaborato piano di disinformazione, su cui Montgomery
aveva insistito, risultava una massa di mezzi corazzati a sud, il che aveva costretto Rommel a
tenere la 21. Panzerdivision e la divisione italiana Ariete di fronte a quella che era in effetti una
minaccia fantasma . L’operazione era prevista per la notte del 23 ottobre, mentre Rommel si
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trovava in Germania per rimettere in sesto la salute. Un massiccio fuoco di sbarramento


dell’artiglieria precedette l’assalto iniziale della fanteria e interruppe le linee di comunicazione
tedesche. Il sostituto di Rommel, il generale Georg Stumme, non avendo idea di che cosa stesse
succedendo, si diresse al fronte ma, quando il suo veicolo fu mitragliato, ebbe un attacco di cuore
che gli fu fatale. All’arrivo di Rommel la sera del 25, la spinta delle truppe inglesi a nord
minacciava uno sfondamento critico, sostenuto dall’implacabile fuoco di artiglieria e dagli
attacchi aerei. Il piano di Montgomery non funzionò perfettamente, ma i cambiamenti apportati
diedero i loro frutti. I mezzi corazzati e le forze anticarro dell’Asse tennero a bada i carri armati
britannici per due giorni, ma il 26 ottobre la 15. Panzerdivision era rimasta con appena 39 carri
armati, contro i 754 di cui disponeva ancora l’VIII Armata . Le forze dell’Asse, di fatto, si
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«frantumarono» in una guerra di logoramento che non potevano vincere.


A quel punto, Rommel si era ormai reso conto di essere stato ingannato a sud e spostò verso nord
la 21. Panzerdivision e metà della divisione Ariete nel tentativo di fermare lo sfondamento.
Avvertí l’OKW di non poter vincere quella battaglia, e il 1° novembre, quando Montgomery
modificò il proprio piano organizzando l’operazione Supercharge (Sovraccarico) – un assalto
combinato di fanteria e mezzi corazzati a nord del fronte –, lo sfondamento non poté essere
contenuto oltre. Rommel informò Hitler e l’alto comando italiano dell’imminente ritirata. Il 3
novembre, nonostante l’ennesimo Haltebefehl intimato dal Führer – «non c’è altra via che la
vittoria o la morte» –, il fronte dell’Asse si stava davvero dissolvendo. Il 2 novembre,
rimanevano a Rommel solo 35 carri armati, oltre ad aver perso metà della fanteria e
dell’artiglieria, compresi tutti i cannoni antiaerei pesanti da 88 mm usati per distruggere i mezzi
corazzati nemici . Hitler cedette e permise una ritirata limitata, ma il generale Antonio Gandin, al
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quartier generale degli italiani, continuò a insistere di mantenere la linea. Il risultato fu che sei
divisioni italiane vennero quasi del tutto distrutte e che quelle schierate a sud finirono
abbandonate con poche munizioni, scarso cibo e acqua e senza veicoli. Gli Alleati fecero 7429
prigionieri di guerra tra i tedeschi e 21 521 tra gli italiani, che andarono ad aggiungersi ai 7000
uomini dell’Asse morti o feriti; l’VIII Armata contò 13 560 perdite, tra cui 2350 caduti . 67

Montgomery aveva sviluppato solo un piano limitato per l’inseguimento del nemico in ritirata, e
anche se le forze alleate inseguirono Rommel lungo la costa libica, raggiungendo Tripoli a
gennaio, non furono in grado di intrappolare quanto restava degli eserciti malconci dell’Asse.
Ciò nonostante, la sconfitta fu comunque totale. Lo sforzo bellico italiano si era praticamente
esaurito, mentre le forze armate del Reich avevano sacrificato un’enorme quantità di uomini e
mezzi in una campagna militare che – con risorse palesemente inadeguate e una strategia confusa
– avrebbe dovuto garantire la conquista del Medio Oriente e del suo petrolio. In ultima analisi,
Hitler aveva sprecato preziose risorse militari combattendo su lunghe distese di deserto. Anche
se la «seconda battaglia di El Alamein» viene spesso presentata come un’operazione non priva di
rischi, non va dimenticato che Rommel non ricevette mai da Hitler il sufficiente sostegno per
rendere possibile la vittoria. Il feldmaresciallo avrebbe combattuto ancora un altro giorno mentre
le sue forze si ritiravano nella Tunisia francese, ma l’8 novembre 65 000 soldati americani e
britannici erano sbarcati nell’Africa nord-occidentale nell’ambito dell’operazione Torch,
destinata a schiacciare le forze dell’Asse da ovest e da est. Solo allora, il 15 novembre, per la
prima volta dall’inizio della guerra, Churchill autorizzò le chiese di tutta la Gran Bretagna a
suonare le campane .68

Gli scontri armati di Guadalcanal ed El Alamein furono importanti punti di svolta in entrambi i
teatri di guerra, seppure sminuiti dal gigantesco conflitto innescato dal tentativo tedesco di
tagliare la via di comunicazione del Volga e impadronirsi del petrolio sovietico. Le battaglie
travolsero milioni di soldati e provocarono perdite maggiori di quelle subite dalla Gran Bretagna
o dagli Stati Uniti durante l’intera guerra. Mentre 22 divisioni combattevano nel deserto, 310
divisioni tedesche e sovietiche erano bloccate nei combattimenti a Stalingrado e nei dintorni, con
il dispiegamento di una forza di oltre due milioni di uomini . Come per El Alamein, la data
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d’inizio della battaglia di Stalingrado non è chiara. Per la storia sovietica fu il 17 luglio 1942,
quando la LXII e la LXIV Armata si scontrarono con la VI Armata tedesca lungo il fiume Čir, a
soli 96 chilometri da Stalingrado, ma fu solo piú avanti nel mese di luglio che Hitler decise che
voleva conquistare la città piuttosto che assediarla. La Heeresgruppe B rimase immobilizzata per
qualche tempo a luglio e di nuovo all’inizio di agosto, in attesa di carburante e munizioni, e fu
possibile attraversare il Don e iniziare una seria avanzata su Stalingrado solo quando il 10 agosto
Von Paulus, comandante della VI Armata, riuscí a liberare l’ansa del Don dopo settimane di
feroci combattimenti, intrappolando alla fine 100 000 soldati dell’Armata Rossa a Kalač-na-
Donu. A quel punto, Von Paulus aveva perso metà dei mezzi corazzati e poteva contare soltanto
su 200 carri armati a fronte di piú di 1200 carri sovietici, senza contare che le unità tedesche
avevano subito ad agosto la perdita di 200 000 uomini . Per accelerare la presa di Stalingrado,
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che aveva ormai assunto per Hitler un significato simbolico in quanto «Città di Stalin», Von
Paulus mobilitò per l’attacco a Stalingrado la 4. Panzerarmee del generale Hermann Hoth,
trasferendola dalla Heeresgruppe A, dov’era essenziale per la conquista del Caucaso. Il
cambiamento si rivelò disastroso, poiché indebolí l’avanzata verso i giacimenti petroliferi senza
offrire alla Heeresgruppe B un vantaggio decisivo nella conquista della città. Hoth fu costretto a
combattere attraverso la steppa dei Calmucchi dove incontrò una dura resistenza, finendo a 20
chilometri dal centro urbano con solo 150 carri armati.
Il cambio di priorità era stato una decisione di Hitler. Come nel 1941, il confuso tentativo di
ottenere tutto con forze ormai indebolite e con linee di comunicazione lunghe e vulnerabili
palesava gli ovvi limiti della leadership militare del Führer. Quanto piú la crisi si sviluppava,
tanto piú egli diventava intollerante verso i suoi comandanti. A settembre assunse per due mesi il
comando diretto della Heeresgruppe A per assicurarsi che i comandanti eseguissero i suoi ordini.
Il generale Halder annotò nel suo diario che la strategia di Hitler era «un’assurdità, e lo sa anche
lui» . Il 24 settembre, dopo mesi di gelide discussioni, Hitler licenziò il capo di stato maggiore
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dell’esercito e lo sostituí con il tenente generale Kurt Zeitzler, un comandante piú giovane e piú
arrendevole, ma soprattutto un nazionalsocialista piú entusiasta di qualsiasi altro candidato. Il
rimpiazzo era nato dalla chiara volontà di Hitler di avere una leadership ideologicamente piú
impegnata, che presumeva avrebbe seguito piú volentieri i suoi dettami strategici . La campagna
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del Caucaso, di cui Hitler aveva assunto temporaneamente il comando, era strettamente legata a
Stalingrado, dal momento che il lungo fianco esposto delle armate tedesche che avanzavano
attraverso la piana del Kuban’ e lungo la costa del Mar Nero doveva essere protetto dalla
Heeresgruppe B. La 4. Panzerarmee, sotto il comando del feldmaresciallo Ewald von Kleist, si
trovava ora a svolgere il suo intero compito a sud, per di piú con un limitato sostegno di fanteria.
Con truppe esauste, scorte limitate e infrastrutture di trasporto deboli, i mezzi corazzati non
erano l’arma ideale per combattere attraverso una distesa di foreste e burroni. Nonostante
l’inesperienza dei soldati e dei comandanti sovietici inviati nella regione – nessuno dei quali era
stato addestrato per battaglie di montagna, privi di sci, ramponi, corde e scarponi da ghiaccio –,
le forze di Kleist non riuscirono a raggiungere e conquistare né Groznyj né Baku. La forza
fondamentale dell’operazione Braunschweig venne fermata a novembre da una fiera resistenza,
come anche, piú a nord, il contemporaneo tentativo di conquistare Stalingrado . 73

La reazione di Stalin all’avanzata tedesca fu tutt’altro che lineare, in quanto considerava ancora
reale la minaccia per Mosca e insisteva affinché l’esercito sovietico continuasse a contrattaccare
sul fronte centrale, a Ržev e Vjazma, benché la vera crisi si stesse sviluppando piú a sud. In
compenso, le stime tedesche riguardo alle forze dei russi si rivelarono estremamente imprecise,
visto che tra luglio e settembre, mentre si ampliava la minaccia contro Stalingrado e i giacimenti
petroliferi dell’Urss, la Stavka, ovvero l’alto comando sovietico, disponeva di riserve sufficienti
per muovere verso i fronti meridionali cinquanta divisioni e trentatre unità di brigata. Nel 1942,
inoltre, la produzione sovietica di carri armati e aerei era molto piú avanti di quella tedesca,
senza contare che le fabbriche russe producevano tre volte piú pezzi di artiglieria, un elemento
vitale per migliorare le prestazioni dell’Armata Rossa. Mentre gli eserciti tedeschi si
avvicinavano sempre di piú al Volga e alla stessa Stalingrado, Stalin, sempre piú inquieto al
pensiero che la campagna tedesca potesse effettivamente avere successo, si infuriò per quella che
considerava la doppiezza degli Alleati, che non avevano saputo dirottare le truppe tedesche verso
un «secondo fronte»: «D’ora in poi», comunicò a Majskij a ottobre, «sapremo con che tipo di
alleati abbiamo a che fare» . Il 26 agosto, tre giorni dopo che il primo corpo corazzato di Von
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Paulus aveva raggiunto il Volga a nord di Stalingrado, Stalin nominò Žukov come suo
vicecomandante supremo, un riconoscimento implicito dei propri limiti, che erano costati
all’Armata Rossa infinite perdite e avevano causato vere crisi strategiche . Ancor piú radicale fu
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la decisione del 9 ottobre di ridimensionare il ruolo dei commissari militari, privandoli del diritto
al doppio comando e restituendo agli ufficiali dell’esercito la responsabilità assoluta – di fatto,
Stalin cercò di ridurre l’importanza della dimensione ideologica della guerra nel momento stesso
in cui Hitler muoveva nella direzione opposta. I cambiamenti non diminuirono per altro
l’interferenza regolare e diretta di Stalin come capo del Gosudarstvennyj komitet oborony (GKO,
Comitato statale di difesa), ma alla fine consentirono ai comandanti di dare ordini senza
preoccuparsi della linea del partito, mentre i comandanti tedeschi erano limitati dalla capricciosa
ingerenza di Hitler in tutto ciò che facevano.
La lotta per Stalingrado era solo una parte di un campo di battaglia molto piú ampio, dato che le
forze del Reich e degli altri stati dell’Asse dovevano respingere gli attacchi sovietici lungo un
ampio perimetro di zone agricole a nord e a sud. Molti dei rinforzi inviati al fronte da entrambe
le parti finirono per combattere nei dintorni di Stalingrado, non nell’area urbana vera e propria.
Pur non riuscendo a rompere il perimetro – il 19 ottobre, la grande offensiva delle truppe del
Donskoj front guidate dal generale Konstantin Rokossovskij a nord di Stalingrado era stata un
grave fallimento con enormi costi umani –, gli attacchi sovietici vincolarono le forze dell’Asse,
riducendone costantemente gli effettivi e gli equipaggiamenti nella prima fase della battaglia . La
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vastità del terreno di scontro costrinse Von Paulus, la cui VI Armata si era infine riunita il 3
settembre alla 4. Panzerarmee di Hoth, a impegnare nella conquista di Stalingrado solo una
piccola parte delle sue forze – appena otto divisioni sottodimensionate su venti –, mentre quelle
che combattevano nei dintorni della città raramente erano piú pronte allo scontro delle truppe
malridotte all’interno dell’agglomerato urbano . A diventare il fulcro della storia di Stalingrado,
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tuttavia, fu la feroce contesa per la città. Sembra che Von Paulus avesse poca fiducia nella
possibilità della conquista, ma Von Weichs, comandante della Heeresgruppe B, aveva promesso
a Hitler l’11 settembre che la conquista sarebbe avvenuta entro dieci giorni . Il 24-25 agosto,
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Stalingrado subí il devastante attacco della 4. Luftflotte di Werner von Richthofen, che ebbe
tuttavia scarsi effetti sulla battaglia, tranne che le macerie della città impedivano una facile
penetrazione dei mezzi corazzati e fornivano invece un’eccellente copertura ai difensori, nascosti
in mezzo a travi contorte e muri sbriciolati. Dopo aver conquistato parte della città vecchia ed
essere arrivato fino al Volga a sud, Von Paulus pianificò una grande offensiva per il 13
settembre, con la quale impadronirsi dell’intera sponda occidentale del fiume. Von Paulus aveva
di fronte un temibile avversario, il generale Vasilij Čujkov, nominato comandante della LXII
Armata il 12 settembre, dopo che il suo predecessore, il generale Aleksandr Lopatin, aveva
cercato di ritirarsi sull’altra sponda del Volga.
In tre giorni di feroci combattimenti, isolato dopo isolato, i tedeschi avanzarono fino a occupare
gran parte della zona centrale della città. Di giorno, una superiore potenza di fuoco di cannoni e
aerei consentiva a Von Paulus di avanzare; di notte, i «gruppi d’assalto» dell’Armata Rossa,
armati di mitra, coltelli e baionette, si infiltravano nelle zone conquistate, terrorizzavano i soldati
tedeschi e riconquistavano ciò che era stato perso durante il giorno . «I barbari», si lamentava un
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soldato tedesco nel suo diario, «usano metodi da gangster, Stalingrado è un inferno» . 80

La battaglia per la città, in effetti, fu una straordinaria prova di resistenza per entrambi gli
eserciti, costretti a combattere con perdite sempre piú numerose, a corto di equipaggiamenti e
cibo, minacciati da ogni parte da tiratori scelti e gruppi d’assalto. Čujkov si mantenne il piú
vicino possibile alla linea del fronte per impedire all’artiglieria tedesca di sparare i suoi colpi
sulla città, ma la LXII Armata era anche protetta dal fuoco dell’artiglieria pesante proveniente
dall’altra sponda del fiume e dalle numerose batterie dei temuti razzi Katjuša, che pesavano
quattro tonnellate e deflagravano su una superficie di circa 4 ettari. I difensori della città erano
anche supportati da piú di 1500 aerei della 8-ja Vozdušnaja armija (Ottava armata aerea),
anziché dai soli 300 velivoli con cui Čujkov aveva iniziato; grazie al miglioramento delle tattiche
e delle comunicazioni radio sovietiche, la superiorità aerea della Luftwaffe, data per scontata
dalle truppe tedesche dall’inizio dell’operazione «Barbarossa», poteva ora essere sfidata in modo
piú efficace. A ottobre, fu lasciato a Von Paulus il compito di impadronirsi delle aree del molo,
utilizzate per rifornire Čujkov dalla sponda opposta del Volga, e della vasta zona industriale a
nord. Dei 334 000 effettivi inizialmente sotto il suo comando, il generale poteva ora contare
solamente su 66 569 soldati, disposti a combattere nella disperata speranza che un’ultima spinta
finale non avrebbe lasciato alle forze di Čujkov altra scelta che arrendersi. Impaziente di vedere
un successo, Stalin spronò i difensori. Il 5 ottobre riferí al generale Andrej Erëmenko,
comandante delle forze dello Stalingradskij front: «Non sono contento del vostro lavoro […]
trasformate ogni strada e ogni edificio di Stalingrado in una fortezza». In effetti, quella era già la
realtà . Il 9 novembre, con sette divisioni malridotte, Von Paulus intraprese l’operazione
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Hubertus per forzare un saliente verso il Volga largo 500 metri, ma i contrattacchi e il fuoco
dell’artiglieria pesante fermarono l’offensiva mentre la LXII Armata di Čujkov era ancora
aggrappata a pochi chilometri di argine. Zeitzler cercò allora di persuadere Hitler ad abbandonare
la città e ridurre il fronte, ma il Führer si limitò a replicare: «Non intendo lasciare il Volga!» . A
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quel punto, l’esercito di Von Paulus era probabilmente troppo debole per disimpegnarsi senza
correre gravi pericoli. I mezzi ancora funzionanti erano pochi e quasi tutti i cavalli erano stati
mandati via a novembre per evitare ulteriori perdite . Il 18 novembre, Čujkov ricevette un
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messaggio criptico che lo informava di attendere un «ordine speciale». A mezzanotte gli fu detto
che gli eserciti tedeschi dentro e intorno alla città stavano per essere accerchiati.
Nonostante tutta l’attenzione fosse concentrata sulla città, l’operazione piú difficile si rivelò
Uran, ovvero il piano sovietico per accerchiare e tagliare fuori i tedeschi nell’area di Stalingrado.
Anche se Žukov affermò dopo la guerra di aver suggerito il piano a Stalin in un drammatico
incontro al Cremlino a metà settembre, nel diario degli appuntamenti di Stalin non c’è traccia
dell’incontro. La discussione su un possibile accerchiamento coinvolse una vasta cerchia dello
stato maggiore guidata dal generale colonnello Aleksandr Vasil’evskij, che con Žukov presentò a
Stalin lo schema dell’operazione Uran il 13 ottobre . Il piano era semplice: dovevano crearsi
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grandi forze di riserva a nord e a sud-est del lungo saliente tedesco che portava a Stalingrado ed
era difeso dagli alleati piú deboli della Germania – romeni, ungheresi e italiani –, lí schierati per
liberare le divisioni tedesche da impegnarsi nell’assalto principale. Il corridoio doveva essere
sufficientemente ampio – piú di 150 chilometri – allo scopo di evitare un’irruzione delle forze di
Von Paulus e impedire un contrattacco per riaprire il saliente. Questa sarebbe stata tuttavia solo
una parte del piano, perché Stalin e il suo staff erano come sempre desiderosi di scardinare
definitivamente l’intero fronte tedesco. L’operazione Mars (Marte) fu pianificata su una scala
non molto diversa da Uran per respingere contemporaneamente la Heeresgruppe Mitte. A quel
punto, se si fosse raggiunto il risultato sperato, sarebbero partite operazioni di maggiori
dimensioni, sempre chiamate in codice con il nome di pianeti – Saturn (Saturno) a sud, Jupiter
(Giove) a nord – e destinate a portare alla distruzione delle Heeresgruppe Süd e Heeresgruppe
Mitte.
Per l’operazione Uran l’Armata Rossa radunò nella massima segretezza e con elaborati piani di
disinformazione una forza di oltre un milione di uomini, 14 000 cannoni pesanti, 979 carri armati
e 1350 aerei . All’intelligence tedesca sfuggí quasi del tutto quell’enorme accumulo di truppe, a
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causa, ancora una volta, di un’avventata sottovalutazione delle forze sovietiche. Uran ebbe inizio
il 19 novembre a nord e il giorno dopo a sud. Come previsto, i deboli fianchi dell’esercito
tedesco crollarono e il 23 novembre le due tenaglie si serrarono nei pressi del villaggio di
Soveckij, pochi chilometri a sud di Kalač-na-Donu, teatro del precedente disastro di agosto.
Nell’ampio corridoio, rapidamente rinforzato con 60 divisioni e 1000 carri armati, rimasero
intrappolati fino a 330 000 uomini della 6. e della 4. Panzerarmee (oltre a un certo numero di
unità romene e croate). Il notevole successo dell’operazione dimostrò quanto l’Armata Rossa
avesse imparato dai numerosi errori commessi in passato, evidenziando al tempo stesso
l’incoerenza strategica della leadership militare di Hitler. Qualunque cosa avesse pensato Von
Paulus per uscire dalla trappola aveva dovuto essere abbandonata il 20 novembre, quando Hitler
gli aveva ordinato di non muovere un passo dalla città. La promessa di rifornimenti aerei si
rivelò impossibile da mantenere a causa del maltempo invernale e degli interventi sempre piú
frequenti della rinvigorita aviazione russa; nel tentativo di rifornire l’armata di Von Paulus i
tedeschi persero 488 aerei da trasporto e 1000 membri degli equipaggi . Quando Von Manstein,
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comandante della nuova Heeresgruppe Don, tentò di sfondare l’accerchiamento con l’operazione
Wintergewitter (Tempesta invernale), le sue unità furono respinte dalle riserve corazzate
sovietiche. Von Paulus venne abbandonato a se stesso.
La campagna per ridurre la sacca di Stalingrado iniziò solo il 10 gennaio, con l’operazione dal
nome in codice Kol’co (Anello). Nel frattempo, le truppe sovietiche avevano tentato un secondo
accerchiamento della Heeresgruppe Don di Von Manstein con l’operazione Malyj Saturn
(Piccolo Saturno). Le forze di copertura italiane furono distrutte, ma Von Manstein sfuggí alla
trappola. Il 27 dicembre, la Heeresgruppe A, ancora in difficoltà nel Caucaso, ricevette l’ordine
di ritirarsi rapidamente verso Rostov per evitare di essere anch’essa tagliata fuori. Zeitzler, che
era riuscito a strappare a Hitler l’ordine di ritirarsi, aveva telefonato immediatamente al fronte
dall’anticamera del quartier generale privato del Führer, presumendo, giustamente, che questi
avrebbe cercato ben presto di revocare l’ordine . La Heeresgruppe A riuscí a stento a passare
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attraverso la breccia che si stava ormai chiudendo e a riorganizzarsi sotto il comando di Von
Manstein piú o meno nelle stesse posizioni occupate prima dell’inizio del Fall Blau.
L’operazione Kol’co chiuse definitivamente la tenaglia. L’Armata Rossa presumeva che fossero
rimasti intrappolati circa 80 000 uomini, ma il totale era piú di 250 000. Circa 280 000 soldati,
250 carri armati, 10 000 pezzi di artiglieria e 350 aerei circondavano la sacca; Von Paulus poteva
contare su non piú di 25 000 soldati in grado di combattere, 95 carri armati e 310 cannoni
anticarro . Cibo e munizioni stavano per finire completamente. Nella prima settimana, tuttavia, i
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tedeschi opposero una resistenza sorprendentemente tenace. I sovietici liberarono rapidamente le


aree rurali piú esterne e il 17 gennaio rimaneva solo metà della sacca. Il 22 gennaio, l’Armata
Rossa si preparò all’urto finale dopo essersi riunita con i veterani di Čujkov quattro giorni dopo.
Hitler intimò a Von Paulus di non cercare né accettare condizioni, e questo mentre gli uomini
morivano di fame intorno a lui, senza nemmeno poter sparare con i fucili perché non erano
rimaste munizioni. «Quali ordini dovrei dare», chiese via radio dalla sacca, «a dei soldati che non
hanno piú pallottole da sparare?» . Il 19 gennaio un soldato scriveva: «Il mio morale è di nuovo a
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terra […]. Qui non ci sono che distese bianche, bunker, miseria, nessuna vera casa. Questo
rovinerà lo spirito, lentamente ma inesorabilmente» . I soldati iniziarono ad arrendersi il 31
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gennaio, ancor prima che il quartier generale di Von Paulus, allestito nei grandi magazzini
Univermag, venisse preso d’assalto e la sua resa fosse accettata. La resistenza continuò nel nord
della città fino al 2 febbraio. L’intera campagna aveva richiesto da entrambi gli schieramenti un
tributo di vite umane senza precedenti. Se per quanto riguarda Stalingrado le cifre esatte
rimangono poco chiare, i tedeschi caduti sul fronte orientale tra luglio e dicembre del 1942
furono 280 000; 84 000 gli italiani morti o dispersi; a Stalingrado furono fatti prigionieri 110 000
soldati dell’Asse, la maggior parte dei quali destinata a morire. Le perdite sovietiche (tra morti e
dispersi) durante le campagne nella Russia meridionale ammontarono a 612 000 uomini . 91

In realtà, piani piú ambiziosi previsti dalle operazioni Saturn e Jupiter non si erano realizzati.
L’operazione Mars, progettata per scardinare la Heeresgruppe Mitte, e diretta personalmente da
Žukov e considerata da Stalin piú essenziale di Uran, fu un disastroso fallimento, con pochi
risultati e con la perdita di quasi 500 000 uomini e 1700 carri armati, sebbene l’insuccesso venga
mascherato dalla vittoria a Stalingrado . Anche se Stalin e l’alto comando sovietico erano rimasti
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delusi dal fatto che l’accerchiamento a sud non avesse dato maggiori risultati, Stalingrado restava
comunque una straordinaria vittoria, addirittura grandiosa se paragonata ai piú modesti successi
di Guadalcanal ed El Alamein. L’attenzione dell’opinione mondiale era puntata sul conflitto.
«STALINGRADO », titolava il 4 febbraio la rivista francese «La Semaine», « LA PIÚ GRANDE
BATTAGLIA DI TUTTI I TEMPI » . Tra il pubblico tedesco, una vittoria o una sconfitta a Stalingrado
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sembravano avere un significato piú profondo di una semplice battaglia vinta o persa. La
sconfitta significò di fatto la fine dell’ambizioso piano di utilizzare le risorse sovietiche per
combattere la lotta contro l’Ovest, lanciando una possibile sfida fatale all’intero progetto
imperiale germanico. Dal punto di vista strategico, essa salvò l’Unione Sovietica dalle infinite
crisi affrontate nei primi quindici mesi di guerra, anche se non pose fine del tutto alla minaccia
tedesca. Tutte e tre le battaglie dimostrarono i pericoli corsi da realtà imperiali eccessivamente
dilatate nello spazio, evidenti in tanti esempi di edificazione di imperi territoriali – una
tentazione a cui era difficile resistere quando la sicurezza dell’impero poteva essere garantita
solo con ulteriori combattimenti. Tutte e tre le battaglie, in ogni caso, non potevano che essere
vinte dagli Alleati, chiamati a combattere contro un nemico la cui sola fama era già di per sé
scoraggiante. Quelle sconfitte non avvennero semplicemente a causa di clamorosi errori
strategici e tattici da parte di giapponesi, tedeschi e italiani, o per una loro maggiore scarsità di
risorse, ma perché gli Alleati avevano imparato a combattere in modo piú efficace. Quel risultato
avrebbe cambiato il corso della guerra.
«La guerra è una lotteria».
Gli storici concordano sul momento in cui Adolf Hitler si rese conto che la Germania aveva
perso la guerra e che il suo progetto imperiale era stato rovesciato. Quando una delegazione
militare turca in visita a Berlino nell’estate del 1943 aveva chiesto al Führer se si aspettava di
vincere, egli aveva semplicemente risposto: «La guerra è una lotteria» . Non c’è dubbio, tuttavia,
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che Hitler non volesse essere quello costretto ad ammettere la sconfitta. Al raduno annuale di
Monaco nel novembre del 1942, che doveva celebrare l’anniversario del colpo di stato hitleriano
del 1923, lo si sentí dire: «Non restituirò mai la terra che un soldato tedesco ha calpestato».
Meno di tre mesi dopo, gli occupanti tedeschi avevano già perso Stalingrado e la steppa del Don.
Hitler reagí con rabbioso abbattimento, ma insistette con l’ordine di mantenere ogni metro di
terreno, nonostante il fatto che la Wehrmacht continuasse a ritirarsi dai territori conquistati
nell’Est. Secondo una testimonianza resa nel dopoguerra, sembra che dopo ogni riunione
informativa con i suoi generali ribadisse che la guerra «terminerà infine con la vittoria tedesca».
Rifiutava di sostenere l’idea di una pace di compromesso con un alleato o l’altro, contando
invece su una rottura dell’alleanza nemica. Solo nel febbraio del 1944, in una discussione sulla
lunga ritirata tedesca attraverso l’Ucraina, lo si udí ammettere che si trattava innegabilmente di
un momento in cui quel ritiro delle truppe avrebbe portato alla catastrofe. Qualsiasi ulteriore
ritirata, infatti, «significava in definitiva una sconfitta della Germania». I comandanti che
cedevano terreno senza ordini dovevano essere licenziati o fucilati, anche se alla maggior parte
di loro non accadde nulla del genere . Per Hitler, non c’era dubbio che la guerra dovesse
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continuare fino alla triste conclusione di quella che divenne, a tutti gli effetti, una lunga ritirata.
Anche i governanti di Giappone e Italia erano in bilico tra un ottimismo illusorio e la
consapevolezza della triste verità che la guerra non poteva essere vinta, benché sembrasse ancora
possibile una soluzione che non contemplasse una totale disfatta. Guadalcanal, El Alamein e
Stalingrado si trovavano a migliaia di chilometri dal suolo patrio, e in effetti ci sarebbero voluti
quasi tre anni prima che gli Alleati riuscissero a infliggere una completa sconfitta a tutti i loro
nemici dopo le vittorie riportate nell’inverno del 1942-43. Quel punto di svolta, tuttavia, pose
fine a due anni in cui il nuovo ordine imperiale, annunciato nel settembre del 1940 nel Patto
tripartito, avrebbe dovuto creare legami strategici piú stretti tra i nuovi imperi, basandosi sui
successi militari per stabilire una realtà imperiale piú genuinamente globale, che sostituiva e
insieme imitava il vecchio mondo coloniale europeo, ormai del tutto disarticolato. Di fatto, il
grado di collaborazione tra i tre imperi dell’Asse non fu mai molto esteso, anche se una postilla
aggiunta al Patto e firmata il 21 dicembre 1940 prevedeva la costituzione di tre commissioni
tecniche in ciascuna delle capitali dell’Asse: una «commissione generale», una «commissione
economica» e una «commissione militare». Composte da un insieme di politici, funzionari e
rappresentanti militari, avrebbero dovuto essere sedi di discussione e scambio di informazioni su
strategia, affari militari, tecnologia e intelligence. Iniziarono a lavorare solo nell’estate del 1941,
e i collegamenti tra le tre capitali si rivelarono nel migliore dei casi esigui. I giapponesi persero
presto interesse per la commissione italiana, poiché consideravano l’Italia poco piú di un satellite
della Germania, mentre i negoziatori italiani si rifiutarono di permettere che i dettagli della loro
tecnologia militare fossero rivelati ai delegati giapponesi. La cooperazione tra i diversi servizi di
intelligence era limitata dalla necessità di proteggere i propri interessi imperiali. Nella primavera
del 1942, la funzione delle commissioni militari fu declassata – ridotta ad «agire ai margini» –,
visto che la strategia militare era comunque decisa al di fuori dell’ambito del Patto tripartito . Si
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sarebbe potuto realizzare di piú se l’esercito tedesco si fosse spinto verso l’Iran e l’Iraq dal
Caucaso e gli italiani da Suez. Il 18 gennaio 1942, i leader giapponesi, non contrari di per sé a un
collegamento con l’Oceano Indiano una volta che la Gran Bretagna fosse stata respinta dal
Medio Oriente, avevano siglato con la Germania un accordo che divideva le sfere di interesse
imperiale nell’Oceano Indiano a 70 gradi di longitudine est. L’accordo portò a regolari
controversie circa la presunta violazione della linea di demarcazione, finché alla fine del 1942
non fu piú possibile nell’Oceano Indiano alcuna strategia comune . Tutto ciò che rimase fu una
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limitata collaborazione ai danni dei mercantili dell’impero britannico, grazie a un esiguo gruppo
di sottomarini tedeschi che operavano da una base controllata dai giapponesi in Malesia. Quelle
azioni, tuttavia, contribuivano ben poco ad aiutare il Giappone. Dopo Stalingrado, sia alla
Germania sia al Giappone divenne chiaro che ora combattevano guerre separate per la salvezza
dei rispettivi imperi .
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In quella fase, la collaborazione tra gli Alleati era certamente piú stretta che nell’Asse, anche se
permanevano ancora notevoli differenze e diverbi che inasprivano il rapporto. Quando Churchill
e Roosevelt si incontrarono nella città di Casablanca nel gennaio del 1943, recentemente sottratta
alle forze francesi di Vichy nei primi giorni dell’operazione Torch del novembre precedente, la
questione centrale verteva comunque sul modo in cui causare una definitiva sconfitta dell’Asse.
In effetti, dal 1943 in poi, la strategia alleata si limitò, nella sua forma piú semplice, a espellere le
potenze dell’Asse dai territori appena conquistati, a cui sarebbero seguite, se necessario,
l’invasione e l’occupazione della madrepatria dei nuovi imperi. Una strategia di quel tipo
risultava piú semplice da seguire per Stalin e le forze armate sovietiche, poiché si trovavano ad
affrontare un solo grande nemico in uno spazio chiaramente definibile, laddove gli Alleati
occidentali affrontavano tre grandi avversari in distinti teatri operativi, nei quali l’unico modo
per portare il nemico in battaglia era un grande assalto anfibio. L’accordo tra gli Alleati era
altrettanto labile per quanto riguardava il modo piú efficace per perseguire la vittoria, e molto si
discuteva su ciò che era strategicamente possibile o desiderabile. Stalin aveva declinato l’invito a
presenziare a Casablanca perché troppo coinvolto nelle ultime fasi della campagna di Stalingrado
(il che era vero), ma con la sua assenza egli intendeva altresí ribadire la delusione nei confronti
degli Alleati occidentali, che nel 1942 non avevano saputo aprire un «secondo fronte» né
mantenere la promessa di crearne uno all’inizio del 1943. L’assenza di Stalin lasciò Roosevelt,
Churchill e i loro comandanti liberi di discutere le loro opinioni su come sfidare i tre nemici
dell’Asse, pur rimanendo costantemente consapevoli della necessità di offrire un qualche
sollievo all’alleato sovietico, su cui ricadeva ancora il pesante fardello dei combattimenti.
L’incontro in Marocco, dall’appropriato nome in codice Symbol, evidenziò fino a che punto
Roosevelt e i suoi collaboratori fossero stati portati a sostenere la preferenza degli inglesi per
un’azione in Africa anziché in Europa, nonostante il parere contrario di tutti gli alti ufficiali
dell’esercito americano. L’incontro a Casablanca era stato possibile solo perché Roosevelt aveva
insistito su un’operazione che vedesse le truppe americane in azione in «Europa» (cosa che non
era) piuttosto che dirottare risorse ancora piú numerose nella guerra contro il Giappone, per la
quale erano già state dislocate oltreoceano nove delle diciassette divisioni americane . 99

L’operazione Torch era stata difficile da realizzare a causa delle lunghe traversate oceaniche
dalla costa orientale americana e dalla Scozia di truppe non ancora del tutto pronte a un assalto
anfibio contro le forze francesi di Vichy, di cui rimaneva incerta la volontà di opporre
un’effettiva resistenza. Il comandante in capo dell’operazione Torch, il generale Eisenhower,
valutava che le probabilità di successo non fossero superiori al 50 per cento. Due task force, una
americana diretta a Casablanca e Orano e una anglo-americana per prendere Algeri, sbarcarono
l’8 novembre 1942. L’opposizione fu piú forte in Marocco che in Algeria, ma in pochi giorni
tutti e tre i porti caddero in mani alleate e il 13 novembre fu negoziato un cessate il fuoco con
l’ammiraglio Darlan, ex primo ministro di Vichy, che si trovava per caso in Algeria per visitare il
figlio malato. Con l’approvazione di Roosevelt, egli fu presto insediato da Eisenhower –
nonostante le diffuse proteste della stampa americana e britannica – come alto commissario
imperiale per l’Africa settentrionale e occidentale francese, con il beneplacito del Conseil de
défense de l’Empire della Francia Libera . Per ribattere alle obiezioni, Eisenhower insistette sul
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fatto che si trattava di un espediente temporaneo, benché non fosse chiaro fino a che punto
«temporaneo». Il confidente di Churchill, Brendan Bracken, avvertí il primo ministro britannico:
«Dobbiamo porre un limite al ruolo di questo fantoccio collaborazionista», ma Eisenhower e
Roosevelt preferivano la stabilità che Darlan sembrava offrire a una campagna militare già in
difficoltà .
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Il piano prevedeva che il tenente generale Kenneth Anderson, comandante delle truppe inglesi,
formasse una I Armata per un rapido spostamento a est, al fine di occupare Tunisi prima che i
tedeschi e gli italiani potessero rinforzarla; l’avanzata delle truppe, ancora inesperte, rimase
tuttavia bloccata dalle forti piogge, e per di piú a tiro dei feroci contrattacchi di una guarnigione
tedesca che era stata rapidamente ampliata per ordine di Hitler. Eisenhower rinviò l’avanzata di
due mesi, fino a dicembre, con l’intento di migliorare le linee di rifornimento e aggiungere armi
pesanti. Un primo assaggio di quanto si sarebbero rivelati complessi i rapporti tra i militari alleati
si palesò nel giudizio del generale Brooke: «Come generale, Eisenhower è un caso disperato»; il
giudizio di Montgomery, che avrebbe combattuto sotto Eisenhower fino alla fine della guerra in
Europa, non si discostava di molto: «La sua conoscenza di come si fa una guerra e di come si
combattono le battaglie è decisamente zero» . Eisenhower, in effetti, a differenza dei suoi
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omologhi inglesi, non aveva esperienze di combattimento. Le sue abilità, quando emersero,
furono quelle di un dirigente militare – una vera necessità nel corso dei regolari e profondi
disaccordi strategici e politici che si ripeterono nei due anni seguenti. Eisenhower passò
effettivamente buona parte dei suoi primi mesi in Nordafrica cercando di navigare nella politica
dell’impero francese, che giustamente interpretava come un «pericoloso mare politico» . La 103

tempesta seguita alla nomina di Darlan si placò dopo il suo assassinio ad Algeri, avvenuto la
vigilia di Natale per mano di un giovane monarchico francese, anche se la sua morte lasciava
comunque irrisolto il problema di come amministrare il territorio imperiale e comandare le forze
francesi, ora passate ipso facto dalla parte degli Alleati. L’11 dicembre, in risposta all’operazione
Torch, le forze tedesche e italiane avevano occupato tutta la Francia di Vichy, annullandone cosí
ogni autorità politica in Nordafrica. Gli americani avrebbero preferito come successore di Darlan
il generale Henri Giraud, fuggito da una prigione tedesca, mentre gli inglesi volevano un ruolo
per De Gaulle – che Roosevelt detestava – per via del sostegno popolare di cui godeva sia in
Francia sia nelle colonie libere. Eisenhower negoziò un compromesso solo nel giugno del 1943,
quando fu istituito un Comité français de libération nationale con Giraud e De Gaulle come
copresidenti. Rimaneva in ogni caso paradossale che Roosevelt, altrimenti desideroso di esibire
in patria le sue credenziali democratiche con la Carta Atlantica, avesse approvato
un’amministrazione imperiale in Nordafrica priva di un vero mandato popolare. Eisenhower
diede come spiegazione la «necessità militare» di nascondere sotto il tappeto le contraddizioni
della politica americana e le controversie con gli inglesi .
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La Conferenza di Casablanca si riuní il 14 gennaio, trasformandosi in un campo di battaglia


interalleato sulla futura direzione della strategia da adottare. Roosevelt si rese conto che gli stessi
capi dello stato maggiore congiunto erano divisi sulla priorità di un teatro di guerra europeo
rispetto a quello del Pacifico, dove le truppe americane stavano combattendo giorno dopo giorno
una vera guerra contro l’Asse. Marshall e la leadership dell’esercito americano volevano
combattere una guerra analoga contro i tedeschi invadendo la Francia non appena possibile, ma
trovarono gli inglesi poco entusiasti. Le motivazioni che spingevano l’amministrazione
americana a fare accettare l’operazione Torch e un inevitabile coinvolgimento nel teatro di
guerra mediterraneo erano tanto politiche quanto militari. Il presidente e la maggior parte dei
suoi consiglieri e comandanti presumevano che la preoccupazione degli inglesi per il Nordafrica
riflettesse i loro interessi imperiali. Eisenhower, per esempio, aveva ben chiaro che «gli inglesi
affrontano istintivamente qualsiasi problema militare dal punto di vista dell’impero»; per gli
inglesi, come spiegava un funzionario del servizio estero americano, «la riacquisizione e forse
l’espansione dell’impero è un’impresa essenziale» . Una delle ragioni dell’interesse di Roosevelt
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per la regione nordafricana era garantire che né la Gran Bretagna né la Francia riacquistassero un
ruolo imperiale dominante nel Mediterraneo e nel Medio Oriente, come avevano fatto nel 1919.
Era inoltre consapevole della necessità di proiettare nella regione gli interessi petroliferi
americani, che era desideroso di espandere. Una presenza americana aveva dunque lo scopo di
temperare le ambizioni britanniche e promuovere una strategia globale degli Stati Uniti. In
genere, i negoziatori britannici non esprimevano apertamente le loro motivazioni politiche, ma
Churchill non aveva dubbi che mantenere il ruolo della Gran Bretagna nella regione fosse parte
della grande strategia imperiale britannica. Allorché piú avanti nell’anno Roosevelt si trovò a
discutere con Stalin un programma di amministrazione fiduciaria nelle colonie, Churchill
borbottò che «senza una guerra non sarebbe stato tolto nulla all’impero britannico» . 106

A Casablanca i delegati britannici si opposero fermamente a una grande invasione dell’Europa


nel 1943 e rifiutarono di essere coinvolti in un piano preciso che prevedesse l’apertura di un
«secondo fronte». Volevano invece sfruttare l’imminente conquista del Nordafrica per avviare
ulteriori operazioni contro l’Italia. Tra novembre del 1940 e ottobre del 1941 gli inglesi avevano
elaborato almeno quattro piani di possibili invasioni della Sicilia o della Sardegna, e la
convinzione che la dittatura italiana fosse troppo fragile per resistere a ulteriori disfatte militari
continuò a influenzare il pensiero britannico riguardo alla fase successiva a Torch . La parte
107

britannica, aspettandosi entro due mesi una sconfitta delle forze dell’Asse in Tunisia, voleva un
impegno americano per invadere una delle isole maggiori dell’Italia e, dopo molte discussioni, fu
concordata l’operazione Husky per conquistare la Sicilia, con l’implicazione che essa avrebbe
potuto aprire la strada a un’invasione dell’Italia continentale. I delegati americani ottennero la
garanzia che a un certo punto vi sarebbe stata un’invasione dell’Europa nord-occidentale,
sostenuta da un accordo tra la RAF e le forze aeree dell’esercito degli Stati Uniti, che avrebbero
condotto 24 ore su 24 un’offensiva combinata di bombardieri contro la Germania per preparare
la strada a un’invasione piú grande. Fu considerata un elemento preliminare dell’invasione
(trattata in dettaglio nel sesto capitolo) anche la campagna per mantenere aperte le rotte
marittime dell’Atlantico. I britannici accettarono l’impegno americano nel Pacifico, purché non
incidesse sulla priorità del fronte europeo. L’ultimo giorno della conferenza, Roosevelt annunciò
che gli Alleati avrebbero accettato esclusivamente una resa incondizionata di tutti gli stati
dell’Asse.
La delegazione americana era arrivata poco preparata ai dibattiti, mentre gli inglesi avevano
allestito un quartier generale sulla nave HMS Bulolo, ancorata nel porto di Casablanca, con un
ampio personale di supporto . I comandanti americani lasciarono la conferenza convinti che
108

Roosevelt avesse rivelato troppo. Quando gli Alleati si incontrarono di nuovo a maggio per la
Conferenza di Washington, denominata in codice Trident, la parte americana era meglio
preparata e l’equilibrio tra i due alleati si spostò a favore degli Stati Uniti. Le campagne nel
Pacifico, in ogni caso, sarebbero rimaste una priorità degli Stati Uniti. Marshall voleva liquidare
definitivamente le operazioni nel Mediterraneo in modo da disporre di forze sufficienti per quella
che si sarebbe chiamata operazione Overlord – lanciata contro la costa della Francia
settentrionale –, una posizione negoziale che costrinse la parte britannica a scendere a
compromessi. Furono concordati dei piani limitati contro l’Italia, sempre che non risucchiassero
troppe risorse alleate mentre si procedeva ai preparativi per uno sbarco in forze in Normandia o
in Bretagna previsto per il 1° maggio 1944 – una decisione che avrebbe plasmato la strategia
degli Alleati per il resto della guerra.
La campagna nel Mediterraneo, come temeva la parte americana, divenne in effetti piú grande e
piú costosa di quanto gli Alleati avrebbero voluto. Le operazioni in Tunisia, che dovevano essere
completate in meno di due mesi, ne richiesero sette. Le forze italiane e tedesche piú a est
abbandonarono Tripoli il 23 gennaio 1943 e si mossero rapidamente per difendere la linea di
fortificazioni del Mareth, costruita dai francesi prima della guerra nel sud della Tunisia per
tagliare fuori gli italiani. Fu qui che arrivò l’VIII Armata di Montgomery per prepararsi a
sfondare la linea e unirsi alle forze anglo-americane in arrivo dall’Algeria. Le fortificazioni
tunisine furono rinforzate su insistenza di Hitler, benché vi fossero poche possibilità di
un’evacuazione qualora gli eserciti dell’Asse fossero stati sconfitti. A nord, Rommel comandava
le forze tedesche; piú a sud, la I Armata italiana era comandata dal generale Giovanni Messe. Pur
essendo in notevole inferiorità numerica rispetto alle forze alleate – a marzo, per la battaglia sulla
Linea del Mareth, Messe aveva a disposizione 94 carri armati contro 620 –, i difensori erano
favoriti dal terreno montuoso . Rommel ordinò attacchi devastanti contro le forze in arrivo
109

dall’Algeria e il 14 febbraio, al passo di Kasserine, inflisse una grave sconfitta all’American II


Corps finché non fu costretto a ritirarsi. Il generale Alexander, nominato comandante in capo
delle forze di terra sotto la supervisione di Eisenhower, riteneva le truppe americane «molli,
giovani e del tutto non addestrate», e tale pregiudizio britannico influenzò i piani conclusivi per
porre fine alla resistenza dell’Asse, nei quali venne riconosciuto alle divisioni americane un
semplice ruolo sussidiario . Per Rommel, tagliato fuori da rifornimenti adeguati dal blocco aereo
110

e marittimo alleato, l’esito era pressoché scontato, anche se le linee di difesa dell’Asse, seppure
improvvisate, si rivelarono difficili da penetrare. Il 9 marzo, il feldmaresciallo, in cattive
condizioni di salute, fu sollevato dal comando e sostituito dal comandante della 5. Panzerarmee,
generale colonnello Hans-Jürgen von Arnim. Una settimana dopo, la Linea del Mareth fu invasa
e Messe dovette ritirarsi a nord. I due eserciti alleati unirono le forze e respinsero il nemico in
una piccola enclave intorno a Tunisi e Biserta. Tunisi fu presa dagli inglesi il 7 maggio, Biserta
dagli americani. Al momento della resa, l’Afrika Korps, un tempo formidabile, era rimasto con
due carri armati e senza munizioni. Anche se la maggior parte delle truppe tedesche si era arresa
il 12 maggio, Messe continuò a combattere un giorno in piú. Alla fine, furono fatti circa 275 000
prigionieri di guerra, in questo caso perlopiú tedeschi, con perdite maggiori rispetto a quelle di
Stalingrado a febbraio. Anche le perdite degli Alleati furono pesanti, dovute a una genuina
inesperienza. La I Armata di Anderson registrò 27 742 caduti in quella che avrebbe dovuto
essere una semplice campagna di rastrellamento . 111

A quel punto, la pianificazione per l’invasione della Sicilia era ormai avanzata. Eisenhower vi
ebbe una scarsa partecipazione, dato che Alexander manteneva il comando generale delle truppe
di terra, assistito da una squadra di comandanti britannici: Montgomery, l’ammiraglio Andrew
Cunningham e il maresciallo capo delle Forze Aeree Arthur Tedder. L’invasione doveva essere
la prima vera prova di un attacco anfibio in Europa e richiese l’assemblaggio del formidabile
numero di 2509 navi per trasportare 160 000 uomini della VII Armata americana, l’VIII Armata
britannica e la Prima divisione canadese, oltre a 14 000 veicoli e 600 carri armati . Il piano
112

iniziale prevedeva sbarchi degli americani sulla costa nord-occidentale e degli inglesi sull’angolo
sud-orientale, ma fu ben presto chiaro che cosí si sarebbero disperse eccessivamente le forze. Ai
primi di maggio, in seguito al vigoroso intervento di Montgomery, che definí il piano un
«pastone per cani», l’invasione definitiva fu concentrata in un triangolo della costa sud e sud-est
della Sicilia . La VII Armata del generale George Patton doveva sbarcare sulla costa meridionale
113

intorno a Gela, l’VIII Armata di Montgomery intorno ad Avola, nel sud-est, e i canadesi in
mezzo, vicino a Pachino. L’alto comando italiano non aveva alcuna certezza su dove sarebbe
stato sferrato il colpo, per cui quanto restava della forza di combattimento venne sparso in piccoli
gruppi tra Sicilia, Sardegna, Corsica e Italia continentale. Il comandante in capo dell’isola,
generale Alfredo Guzzoni, disponeva di sei divisioni, due tedesche (inclusa la Fallschirm-
Panzerdivision 1 «Hermann Göring») e quattro italiane, di cui solo una effettivamente pronta al
combattimento. In tutto si potevano contare 249 carri armati e poco piú di 1000 aerei contro i
2510 che gli Alleati avevano in campo. Le difese costiere erano in gran parte assenti. Un
comandante della flotta si lamentò che «tutto era un fiasco assoluto», ma la marina italiana, con
solo tre piccole corazzate e dieci cacciatorpediniere ancora intatti, si rifiutò di lasciare la base di
La Spezia per affrontare gli sbarchi alleati . Il morale delle truppe italiane, di fronte alla
114

prospettiva di difendere la patria con armi inadeguate e a fianco di un alleato tedesco di cui
diffidavano, non poteva che essere basso, ma Mussolini era ottimista e a giugno garantí ai
gerarchi fascisti che gli Alleati erano troppo lenti e incompetenti per assicurarsi un saldo punto
d’appoggio sul territorio italiano. Ogni eventuale dubbio su quale fosse il vero obiettivo degli
Alleati venne rimosso dal feroce bombardamento marittimo e aereo delle due isole di Pantelleria
e Lampedusa, entrambe sulla rotta per la Sicilia, che si arresero rispettivamente l’11 e il 12
giugno. Eisenhower stabilí il suo quartier generale in uno scomodo tunnel a prova di bomba a
Malta. «[La mia] principale ambizione in questa guerra», aveva scritto a Marshall poche
settimane prima, «è arrivare alla fine in un luogo in cui la prossima operazione non debba essere
anfibia» .
115

I convogli alleati comparvero al largo della costa siciliana la mattina dell’11 luglio, trovando
sulle spiagge scarsa resistenza. Dopo il bombardamento delle piste d’aviazione, la presenza aerea
dell’Asse era stata ridotta a soli 298 velivoli tedeschi e 198 italiani, ma dopo altri quattro giorni
di duelli nei cieli rimanevano appena 161 aerei. Alla fine del mese, l’aviazione italiana era
rimasta con soli 41 caccia moderni e 83 bombardieri . Il massiccio sforzo aereo alleato era
116

integrato da un efficace fuoco di sbarramento da parte delle task force navali, in grado di ridurre i
contrattacchi tedeschi e italiani contro le piccole teste di sbarco create il primo giorno. La
Fallschirm-Panzerdivision 1 «Hermann Göring» attaccò gli americani sbarcati a Gela, arrivando
a tre chilometri dalla spiaggia prima che i cannoni delle navi respingessero i carri armati; la
divisione italiana Livorno, una delle poche ancora in grado di combattere efficacemente, attaccò
lo stesso giorno piú a ovest con una lunga colonna di mezzi corazzati, che furono tuttavia quasi
cancellati da piú di mille colpi di cannone partiti da due cacciatorpediniere e due incrociatori che
si trovavano al largo . Ancora una volta, il bombardamento navale avrebbe dato un contributo
117

essenziale alle operazioni di sbarco alleate. Le armate anglo-americane iniziarono quindi a


penetrare nell’entroterra, ma Montgomery era fermamente deciso a far sí che fossero i suoi
uomini a sgominare il nemico e impadronirsi del porto nord-orientale di Messina, mentre gli
americani lo proteggevano sul fianco sinistro. Il generale Patton, già risentito per il
comportamento degli inglesi in Tunisia e fermo sostenitore dell’idea che «questa guerra viene
combattuta a beneficio dell’impero britannico» , ignorò Montgomery e avanzò in un territorio
118

quasi indifeso attorno alla costa occidentale per conquistare Palermo il 22 luglio e proseguire poi
verso Messina, determinato a sottrarre a Montgomery la conquista della città. Il 14 luglio, l’VIII
Armata occupò Catania senza combattere e due giorni dopo Agrigento. Vedendo che i soldati del
Duce si stavano arrendendo a migliaia, Kesselring abbandonò l’alleato italiano e assunse il
comando assoluto delle forze tedesche. Montgomery venne bloccato attorno all’Etna da
un’efficace difesa della Wehrmacht, anche se a quel punto l’esercito tedesco stava ormai
pianificando l’evacuazione delle proprie truppe. L’VIII Armata raggiunse Messina il 16 agosto,
subito dopo Patton, ma nessuno dei due generali riuscí a tagliare fuori il nemico, la cui fuga, in
pieno giorno attraverso lo stretto, non era certo prevedibile. I tedeschi evacuarono 39 569
uomini, 9000 veicoli e 47 carri armati; le forze italiane avevano 62 000 uomini, ma solo 227
veicoli e 12 muli. Gli Alleati fecero 122 204 prigionieri, ma gli eserciti dell’Asse contarono
comunque 49 700 uomini morti o dispersi contro un totale di 4299 tra gli Alleati – un rapporto
piú comune nelle battaglie del Pacifico .
119

La fantasia mussoliniana di resistere per salvare quanto restava di un impero ridotto ai minimi
termini illustrava fino a che punto il Duce avesse perso nel 1943 il senso delle proporzioni.
L’invasione della Sicilia pose fine bruscamente ai suoi ventun anni al potere. Le condizioni
dell’Italia avevano già messo a dura prova il sostegno su cui il regime fascista poteva contare. La
scarsità di viveri e l’inizio di pesanti bombardamenti, incluso quello su Roma del 19 luglio,
avvenuto dopo molte discussioni tra gli Alleati, non facevano che confermare all’opinione
pubblica che la guerra era persa, almeno per l’Italia. La disillusione popolare minò la presa della
dittatura sulla gente, anche se non innescò una vera rivoluzione. Mussolini, al contrario, fu
spodestato da un colpo di stato di palazzo, organizzato dai suoi stessi comandanti e colleghi del
Partito fascista, molti dei quali non avevano mai sostenuto la guerra senza limiti in cui il Duce si
era lanciato o l’alleanza evidentemente unilaterale con la Germania. A marzo, il comandante in
capo delle forze armate italiane, generale Vittorio Ambrosio, riferí al re che Mussolini avrebbe
dovuto essere sostituito, forse dal maresciallo Badoglio, e a giugno aveva preparato i piani per
l’arresto del Duce. Quando Mussolini incontrò Hitler a Villa Gaggia ai piedi delle Dolomiti il 19
luglio, lo stesso giorno in cui Roma fu bombardata, i suoi comandanti gli chiesero di discutere
con il Führer un modo che permettesse all’Italia di uscire dal conflitto, ma il Duce rifiutò. Al suo
ritorno a Roma, senza alcuna garanzia di un aiuto da parte tedesca, convocò il Gran Consiglio,
che non si riuniva dal 1940, nella speranza di riuscire a riaffermare la sua autorità riguardo a uno
sforzo bellico ormai in crisi.
Per i suoi avversari di partito, principalmente l’ex ambasciatore a Londra Dino Grandi, si
presentò l’opportunità di porre fine alla dittatura. Grandi preparò una mozione con la quale il
Consiglio rifiutava il governo personale di Mussolini, ripristinava le prerogative della Corona e
stabiliva un governo collegiale basato su un esecutivo e un parlamento. Grandi informò il re dei
suoi piani, che prevedevano la fine dell’alleanza dell’Asse e l’adesione alla causa alleata.
L’ordine del giorno fu presentato al Gran Consiglio il 24 luglio nel corso di una seduta di nove
ore proseguita fino alle prime ore del giorno seguente, quando venne infine votata la mozione di
Grandi. Diciannove dei presenti votarono a favore, sette contro . Mussolini lasciò la sala ignaro
120

di che cosa significasse esattamente quella decisione. Piú tardi, il giorno 25, partecipò a una
regolare riunione per ragguagliare il re, che lo informò di essere stato sollevato dalla carica di
primo ministro e sostituito da Badoglio. Non appena lasciò l’udienza con il sovrano, Mussolini
fu arrestato e portato in una caserma di polizia. Non aveva minimamente pensato alla propria
sicurezza, presumendo di poter semplicemente sconfiggere il voto del Gran Consiglio. Il Duce,
disse sua moglie all’interprete di Hitler, considerava la possibilità di un colpo di stato con la
connivenza della Corona «con incomprensibile apatia» . La dittatura che aveva condotto l’Italia
121

al breve trionfo imperiale e al disastro finale si concluse senza colpo ferire.


A differenza di Mussolini, Hitler e la dirigenza tedesca avevano già anticipato una possibile crisi
in Italia. La notizia della caduta del Duce mandò il Führer su tutte le furie, che inveí contro «gli
ebrei e la plebaglia» di Roma . Il suo primo istinto fu di ordinare alle forze tedesche di arrestare
122

il re, Badoglio e gli altri cospiratori e reintegrare il suo socio dittatore, ma l’impulso si esaurí.
Dopotutto, il re e il nuovo governo insistevano entrambi di sostenere ancora lo sforzo bellico a
fianco della Germania. L’OKW aveva comunque iniziato a spostare in Italia consistenti forze
tedesche, un ridispiegamento già iniziato dal fronte orientale alla notizia dell’invasione della
Sicilia. Nel giro di due settimane, l’operazione Alarich portò al trasferimento di otto divisioni
nell’Italia settentrionale, e all’inizio di settembre erano presenti nella penisola, o in rotta verso
l’Italia, diciannove divisioni tedesche. Fu altresí avviata l’operazione Konstantin per rafforzare i
Balcani, nel caso in cui gli Alleati si fossero spostati successivamente verso est . L’obiettivo era
123

solo in parte quello di fermare l’avanzata alleata; lo scopo piú ampio era quello di prepararsi al
«tradimento» italiano, come disse Hitler, se il governo Badoglio, com’era probabile, avesse
chiesto la pace. La decisione di Badoglio di arrivare a un armistizio, entrato in vigore l’8
settembre, aprí la strada a uno scontro diretto con le forze armate tedesche che si muovevano
rapidamente per trasformare dall’oggi al domani l’Italia da paese alleato a territorio occupato. I
soldati italiani furono disarmati, internati e mandati per la maggior parte in Germania ai lavori
forzati. Sull’isola greca di Cefalonia, i comandanti italiani resistettero alla richiesta di disarmo e
il 15 settembre scoppiarono i combattimenti con la guarnigione dell’esercito tedesco. Hitler
aveva dato ordine di non fare prigionieri, e circa 2000 italiani morirono o furono uccisi nel breve
conflitto e nelle vendette che seguirono .
124

Hitler era incerto sul trattamento da riservare all’ex alleato. I capi militari preferivano l’idea di
occupare direttamente l’Italia, ma il Führer temeva l’effetto che un’azione del genere avrebbe
avuto sugli altri alleati dell'Asse. Il suo istinto gli suggeriva piuttosto di creare un nuovo governo
fascista, con o senza Mussolini, per dare l’impressione che l’Italia fosse di piú di un paese
semplicemente occupato. Il 12 settembre, tuttavia, i paracadutisti tedeschi effettuarono
un’audace incursione nell’albergo sul massiccio del Gran Sasso in cui era imprigionato
Mussolini e lo condussero a Monaco, dove i due dittatori si incontrarono due giorni dopo tra
stravaganti gesti di amicizia. Mussolini scoprí presto che sarebbe ritornato al potere solo per
volontà del suo alleato tedesco, che avrebbe in realtà dominato la penisola. Fu nominato subito
un plenipotenziario del Reich, Rudolf Rahn; i comandanti della Wehrmacht insistettero per
stabilire zone operative in cui organizzare un’amministrazione militare; i prefetti italiani furono
lasciati al loro posto per gestire gli affari quotidiani, ma erano seguiti da «consiglieri» tedeschi,
anzi, erano soggetti alla loro costante supervisione, in una situazione simile per molti versi al
governo del Manchukuo . Mussolini si scagliò contro l’idea di trovarsi a capo di un «governo
125

fantasma», ma non aveva scelta. Dopo aver escluso Roma come sede del nuovo regime e
respinta la preferenza di Mussolini per Bolzano o Merano, nell’estremo nord-est della penisola, i
tedeschi installarono il Duce nella cittadina di Salò sul lago di Garda, disseminando nelle
cittadine della Pianura Padana i ministeri di quella che ora era divenuta la Repubblica sociale
italiana . I tedeschi vedevano ormai l’Italia come un «alleato occupato», un ossimoro che non
126

lasciava dubbi sul fatto che il paese fosse ormai una dipendenza del Reich. Gli italiani che
avevano acclamato la caduta di Mussolini si trovavano ora soggetti a una nuova versione della
dittatura.
Agli Alleati il cambio di regime parve suggerire che il desiderio di Churchill di mettere fuori
combattimento l’Italia sostenendo le operazioni nel teatro di guerra del Mediterraneo avesse dato
i suoi frutti. Alla riunione Quadrant, tenuta a Québec nel mese di agosto, Churchill scoprí
tuttavia che la parte americana era ancora determinata a porre dei limiti alla campagna nel
Mediterraneo. Mentre Henry Stimson deplorava quella che definiva «guerra a puntura di spillo»,
alla delegazione americana fu consegnato prima della conferenza un documento redatto dalla
divisione operativa del dipartimento della Guerra che chiariva in che modo qualsiasi ulteriore
impegno nella regione sarebbe equivalso a un uso «antieconomico» delle risorse, il cui risultato
avrebbe consentito alla Germania uno «stallo strategico» in Europa – una visione che avrebbe
trovato la sua giustificazione negli eventi . Anche se Churchill cominciava ora a pensare a
127

possibili operazioni nel Mediterraneo orientale e a un’invasione dell’Italia, le pressioni


americane per un impegno nel piano Overlord ridimensionarono le sue ambizioni. Tutti
concordavano che la priorità era una rapida conquista di Roma (che Eisenhower sperava di
ottenere già a ottobre) mentre le forze dell’Asse erano disorganizzate, anche se il piano non
teneva conto dei preparativi messi in atto dalla Wehrmacht. Kesselring, comandante in capo nel
Sud, persuase Hitler che agli alleati si sarebbe potuto opporre un’efficace resistenza a sud di
Roma, grazie anche alle numerose forze presenti nel Nord e ora sotto il comando di Rommel.
La scelta dell’Italia come fronte prioritario può risultare, con il senno di poi, difficile da capire.
Nulla raccomandava quel paese come possibile campo di battaglia, e con un semplice sguardo a
una mappa sarebbe stato chiaro sin da subito che le catene montuose e i numerosi fiumi da
attraversare avrebbero reso del tutto inverosimile la rapida avanzata di un esercito in movimento
contro un nemico competente. I leader alleati sottovalutarono l’entità della resistenza che
avrebbero incontrato, o la velocità con cui le forze armate tedesche avrebbero potuto trasformare
l’Italia in un fronte pesantemente fortificato. L’invasione dell’Italia non presentava neppure
vantaggi strategici palesemente convincenti, se non fare in modo che l’armistizio fosse
effettivamente rispettato. Montgomery non era certo contento di un’invasione «senza alcuna
chiara idea – o piano – di come sviluppare le operazioni. […] Non c’era nessun obiettivo
chiaramente stabilito» . Sia l’VIII Armata sia la V Armata del generale Mark Clark, destinate
128

alla campagna in Italia e stremate dai lunghi combattimenti, affrontavano l’arduo compito di
spostarsi nel clima autunnale e incontravano una topografia ostile ovunque si muovessero attorno
a Roma. La campagna, inoltre, era stata ordinata con l’intesa che almeno sette divisioni e un gran
numero di mezzi da sbarco sarebbero stati presto ritirati per preparare l’operazione Overlord –
un’altra decisione che aveva poco senso strategico se si doveva considerare seriamente l’Italia
come teatro delle operazioni.
In effetti, l’invasione dell’Italia meridionale determinò uno stallo strategico, come avevano
previsto gli analisti americani. Il 3 settembre 1943, con l’operazione Baytown, Montgomery
trasferí l’VIII Armata nella punta dello stivale italiano e attraversò la Calabria incontrando solo
una leggera resistenza. L’operazione chiave, con il nome in codice Avalanche, fu lanciata dalla V
Armata di Clark nel golfo di Salerno, appena a sud di Napoli. Il piano non era privo di rischi,
poiché prevedeva lo sbarco di sole tre divisioni su 50 chilometri di baia, attraversati da un fiume.
Clark rinunciò a bombardare il litorale prima dello sbarco perché l’intelligence indicava solo la
presenza di deboli forze tedesche e la possibilità di una completa sorpresa. Il 9 settembre, un
corpo britannico e uno americano sbarcarono su spiagge tra loro molto distanti. La X Armata
tedesca li stava aspettando. Kesselring si attivò con un’azione denominata ironicamente Achse,
cioè «Asse», e spostò rapidamente le proprie riserve per distruggere la testa di ponte alleata. Ne
seguí una feroce battaglia in cui sembrò probabile un fallimento dello sbarco . Clark fu salvato
129

dal pesante cannoneggiamento navale e dalla superiorità aerea degli Alleati. Dopo piú di una
settimana da quando Eisenhower aveva informato i comandanti dello stato maggiore congiunto
che il risultato restava «incerto», Kesselring riportò le sue forze malridotte su una serie di
formidabili linee di difesa che correvano da costa a costa attraversando Montecassino con sezioni
denominate in codice Gustav, Hitler e Bernhardt.
Gli alleati entrarono a Napoli il 1° ottobre, a seguito di una sollevazione popolare contro gli
occupanti tedeschi, mentre piú a est i campi d’aviazione di Foggia caddero in mano all’VIII
Armata e vennero utilizzati come basi per il bombardamento strategico da parte della XV Air
Force dei giacimenti petroliferi romeni e di altri obiettivi in Austria e nel sud della Germania.
Alla fine di ottobre, tuttavia, il desiderio di Eisenhower di una rapida conquista di Roma svaní, e
a novembre gli Alleati si fermarono sulla Linea Gustav, impegnati in una dispendiosa guerra di
logoramento. Il generale Alexander difendeva ora la campagna perché costringeva le forze
tedesche all’immobilità. Anche le truppe alleate erano tuttavia ferme, e con scarsi risultati.
L’altro fronte alleato, nel Pacifico, si trovava ad affrontare un problema analogo nel tentativo di
cacciare dalle basi insulari un difensore particolarmente tenace, la cui disfatta sembrava
allontanare ancor di piú il problema ben piú ampio di come sconfiggere il Giappone. Dopo la
vittoria di Guadalcanal, MacArthur e Nimitz avevano convocato una conferenza il 10 marzo
1943 per progettare una strategia futura contro il Giappone. Data l’estrema varietà e il numero di
guarnigioni e aeroporti giapponesi sparsi lungo il perimetro meridionale, non c’era altra scelta
che avanzare lentamente per eliminarli con forze navali e aeree, perlopiú americane, in attesa di
un secondo momento, in cui sarebbe stato possibile minacciare direttamente il Giappone. La
prima fase fu chiamata operazione Cartwheel (Ruota di carro), comandata da MacArthur ma con
l’assistenza della III Flotta di portaerei e corazzate di Halsey, assegnata temporaneamente dal
Central Pacific Command di Nimitz. Cartwheel comprendeva una serie di tredici operazioni
anfibie nelle isole Salomone e lungo la costa della Nuova Guinea, allo scopo di isolare e
neutralizzare la principale base militare e navale giapponese di Rabaul, nella Nuova Britannia,
che faceva parte del territorio australiano della Nuova Guinea conquistato nel febbraio del
1942 . L’operazione fu pianificata presso il quartier generale di MacArthur in Nuova Guinea dal
130

contrammiraglio Daniel Barbey, responsabile generale del programma di sbarco anfibio, e dal
contrammiraglio Richmond Turner, al comando della forza anfibia come a Guadalcanal. A
Nimitz rimaneva poco da fare, almeno finché non fossero state disponibili forze navali fresche. I
comandanti dello stato maggiore congiunto gli ordinarono in seguito nel novembre del 1943 di
invadere le isole Gilbert ed Ellice (ora due nazioni separate, Kiribati e Tuvalu), mentre alle isole
Marshall sarebbe toccato solo nel giugno del 1944, il che lasciava ancora la campagna nel
Pacifico centrale a piú di 3800 chilometri di distanza dall’arcipelago giapponese. Quando a
novembre organizzò l’occupazione di Tarawa e Makin nelle Gilbert, Nimitz disponeva di 17
nuove portaerei e 13 corazzate, una formidabile forza di superficie che ora eclissava
completamente la marina imperiale giapponese. Nel 1943, i cantieri navali americani fornirono
in totale 419 nuove navi da guerra, tra cui 40 nuove portaerei, da schierare in tutto il mondo .
131

Per la marina giapponese, a cui spettava la responsabilità principale della difesa del cerchio di
isole occupate, il mantenimento dell’anello esterno rimaneva, in base al Daikaishi Dai
Nihyakujusan-go, la direttiva 213 della Marina emanata il 25 marzo 1943, «una questione di
vitale importanza per la difesa nazionale della nostra patria imperiale» . Secondo la «Nuova
132

linea operativa», si doveva mantenere ogni punto di forza fino all’ultimo uomo per logorare lo
sforzo bellico americano, trasformando di fatto ogni base insulare in una fortezza che bloccava
l’avanzata alleata, con l’ambizioso slogan di una «guerra dei cent’anni» . Per gran parte del
133

1943, le guarnigioni giapponesi rimasero in attesa, con le linee di rifornimento sempre piú
minacciate dall’espansione dell’esercito americano e dalla potenza aerea della marina. Cartwheel
iniziò con un assalto alla catena delle isole Salomone guidato dalla III Flotta di Halsey, con
un’operazione dal bizzarro nome in codice Toenails (Unghie dei piedi). L’attacco, ordinato il 3
giugno, iniziò due settimane dopo con dei raid preliminari sulla Nuova Georgia. L’obiettivo
principale era l’isola di Munda, conquistata alla fine di luglio. Anche se la maggior parte delle
truppe giapponesi era di stanza sulle isole maggiori di Kolombangara e Bougainville, gli
americani decisero che quelle guarnigioni potevano essere aggirate, isolate e lasciate morire di
fame, anziché affrontarle con dispendiosi sbarchi – una strategia adottata negli ultimi due anni di
guerra durante le cosiddette campagne del «salto dell’isola». Vella Lavella, un’isola di minori
dimensioni, fu occupata facilmente il 15 agosto e trasformata in trampolino di lancio per
l’attacco a Bougainville, mentre i giapponesi evacuavano Kolombangara piuttosto che rischiarne
l’isolamento. A Bougainville, che rappresentava di gran lunga la maggiore sfida per liberare le
isole Salomone, erano presenti circa 35 000 soldati giapponesi a difesa di piste d’aviazione e
spiagge, con un totale di 65 000 uomini appartenenti alla XVII Armata, comandata dal generale
Hyakutake. Gli americani decisero di non occupare l’intera isola ma solo un’enclave sulla costa
occidentale, intorno a Capo Torokina, dove si potevano creare piste di atterraggio e costruire una
solida linea difensiva per rispondere ai contrattacchi giapponesi da nord e sud, regioni
pesantemente presidiate . Persistenti incursioni aeree ridussero la potenza dell’aviazione
134

giapponese sull’isola e a Rabaul, mentre il 27 ottobre, prima dell’assalto principale, le truppe


americane e neozelandesi (queste ultime rientrate dalla campagna nel Nordafrica) occuparono
senza quasi incontrare resistenza le isole del Tesoro, a circa 120 chilometri da Bougainville,
utilizzate in seguito come scalo e postazione radar avanzata per lo sbarco principale. L’assalto a
Bougainville, con l’operazione Dipper, ebbe inizio il 1° novembre; a metà dicembre erano già
sbarcati e avevano preso possesso della spiaggia 44 000 soldati americani. I combattimenti
continuarono spasmodicamente fino al 18 dicembre, quando l’enclave fu finalmente sicura. Nel
marzo del 1944, il generale Hyakutake lanciò una serie di assalti frontali con soldati debilitati da
malattie e fame, ripetendo cosí gli errori tattici commessi a Guadalcanal. Dopo un banzai
notturno, la mattina seguente si contarono tra i giapponesi 3000 morti, che giacevano in cumuli
di cadaveri distorti, là dove erano stati abbattuti dall’artiglieria e dal fuoco delle mitragliatrici.
Hyakutake ritirò le sue forze nella giungla . Nell’agosto del 1945, quando la guerra finí, era
135

ancora vivo solo un terzo dei suoi uomini. L’operazione Cartwheel aveva completato la tenaglia
che serrava le isole Salomone.
MacArthur iniziò a stringere la seconda tenaglia nel settembre del 1943, avanzando lungo la
costa settentrionale della Nuova Guinea dopo aver atteso il successo dell’operazione Toenails. Il
4 settembre, il porto di Lae fu conquistato dalla IX Divisione di fanteria australiana senza trovare
resistenza, a eccezione di qualche attacco aereo; il giorno 22 cadde il porto di Finschhafen,
difeso ma non pesantemente. Il 2 ottobre, una seconda forza australiana mise in sicurezza la testa
di ponte e poi il porto. Uno sbarco giapponese, compiuto due settimane dopo per riconquistare la
base, fu sconfitto e respinto. I primi successi furono consolidati, ma passarono altri sette mesi
prima che riprendesse l’assalto contro le restanti guarnigioni giapponesi lungo la costa
settentrionale. A quel punto, dopo l’operazione Cartwheel, la base navale di Rabaul era troppo
vulnerabile alle portaerei e all’esercito americano, per cui nel febbraio del 1944 la flotta
giapponese si spostò a Truk, nelle isole Caroline piú a nord, lasciando isolati per il resto della
guerra i 95 000 soldati ancora di stanza a Rabaul. Con le isole Salomone prossime a essere
neutralizzate, Nimitz iniziò la parte del piano concordato con MacArthur che riguardava il
Pacifico centrale, sottraendo quindi il supporto navale alla campagna dell’esercito. Scelse due
isole da attaccare nel gruppo delle Gilbert ed Ellice: l’isola di Betio, nell’atollo di Tarawa, e
Makin. Le operazioni dovevano essere dirette dall’ammiraglio Spruance in qualità di
comandante di una V Flotta di nuova costituzione, mentre Richmond Turner, comandante a
Guadalcanal, era responsabile della V Forza anfibia e Holland Smith del V Corpo anfibio dei
marine. Su due delle isole Ellice, Funafuti e Nanumea, occupate già a ottobre, erano state
costruite delle piste d’aviazione di supporto agli sbarchi successivi . Makin era difesa solo da
136

300 soldati giapponesi coadiuvati da 271 lavoratori coreani. Furono affrontati il 21 novembre da
una forza d’assalto di 6000 uomini, perlopiú appartenenti alla XXVII Divisione di fanteria e
privi di esperienza. Nonostante la disparità numerica, l’isola fu dichiarata sicura soltanto nel
pomeriggio del giorno dopo, con 56 morti e 131 uomini malati e feriti da parte americana . 137

Questo non fu niente in confronto all’attacco sferrato contro Betio dalla II Divisione marine,
iniziato lo stesso giorno dell’assalto all’isola di Makin. Avendo imparato dalle precedenti
esperienze, la Kaigun tokubetsu rikusentai (Forza speciale da sbarco della marina) aveva creato
un’isola fortificata in cui ogni linea di possibile avanzata del nemico era difesa da cannoni
nascosti in casematte e bunker. La piccola isola offriva scarso riparo ai difensori e fu sottoposta
per giorni a pesanti cannoneggiamenti e bombardamenti. I giapponesi avevano tuttavia scavato
trincee abbastanza efficienti da evitare i danni peggiori, anche se furono distrutte le
comunicazioni, ostacolando cosí il coordinamento della difesa. Furono necessari quasi tre giorni
dei piú duri combattimenti mai sperimentati per mettere in sicurezza l’isola e il suo grande
aeroporto. Fedeli alla «Nuova linea operativa», i soldati giapponesi difesero il caposaldo quasi
fino all’ultimo uomo, con circa 4000 caduti e appena 146 sopravvissuti, perlopiú lavoratori
coreani arruolati. I marine americani contarono 984 morti e 2072 feriti . Il loro comandante,
138

Holland Smith, commentò dopo un’ispezione dell’isola in rovina: «Guardate bene queste difese.
Quei bastardi erano dei veri maestri. […] Potevamo averla vinta su una ridotta, ma ogni ridotta
era coperta a sua volta da altre due» . I costi umani subiti per conquistare una piccola isola
139

sconvolsero l’opinione pubblica americana, anche perché le perdite erano state inizialmente
esagerate. Gli strateghi della marina e le forze anfibie concertarono un piano per garantire che
l’attacco alle isole Marshall, originariamente previsto per l’estate del 1944 ma ora accelerato
dopo la presa dell’atollo di Tarawa, fosse gestito in modo piú efficace e risultasse meno
dispendioso in vite americane, benché fosse un’operazione che avrebbe potuto benissimo essere
abbandonata. Nel gennaio del 1944, Nimitz si accordò con MacArthur per concentrare le forze
nel Pacifico sud-occidentale e sulla via per le Filippine, fino a quando l’ammiraglio King,
esprimendo il proprio «indignato sgomento» per «l’assurdo» piano di MacArthur, convinse i
comandanti dello stato maggiore congiunto a dettagliare un attacco alle isole Marshall, con
l’operazione denominata in codice Flintlock (Pietra focaia) . Nimitz decise di evitare le isole
140

Wotje e Maloelap, piú fortemente difese all’estremità orientale dell’arcipelago, che secondo
l’intelligence erano state pesantemente rinforzate, al pari di Betio. L’ammiraglio scelse invece
come bersaglio due isole a ovest, Kwajalein ed Eniwetok, da dove sarebbe stato possibile
bombardare la principale base navale giapponese di Truk.
Kwajalein fu invasa il 1° febbraio 1944, dopo che altri quattro isolotti erano stati occupati per
montare l’artiglieria necessaria a un fuoco di sbarramento contro i difensori. Anche se la IV
Divisione marine e la VII Divisione di fanteria impiegarono quattro giorni per mettere in
sicurezza l’isola, le sue difese in realtà erano state costruite frettolosamente con trincee e buche,
anziché con rifugi scavati in profondità come a Betio. Circa 8000 difensori furono uccisi contro
313 marine. Nimitz, abbastanza soddisfatto del risultato, ordinò una rapida invasione di
Eniwetok, originariamente prevista per il 1° maggio. Anche in questo caso venne messo prima in
sicurezza un certo numero di isole piú piccole, per poi iniziare l’invasione vera e propria di
Eniwetok quattro giorni dopo, il 21 febbraio. Nonostante le piú forti difese, l’isola fu conquistata
in due giorni, con 348 caduti americani contro 4500 soldati giapponesi e coreani che avevano
combattuto quasi tutti fino alla morte. Le isole orientali, seppure tagliate via mare e aria da ogni
speranza di azione, rimasero in mani giapponesi fino alla resa nel 1945 . Nimitz e Spruance
141

avevano ora la strada aperta per puntare alle isole Marianne, 2150 chilometri piú vicine al
Giappone.
Le dimensioni delle battaglie avvenute nel 1943 nel Pacifico e nel Mediterraneo erano ben poca
cosa rispetto alla guerra combattuta da sovietici e tedeschi nei mesi successivi al crollo tedesco a
Stalingrado, dove l’Armata Rossa si trovava ancora ad affrontare oltre 200 divisioni dell’Asse
distribuite su un fronte di oltre 1500 chilometri. Stalin e l’alto comando sovietico speravano che
la Conferenza di Casablanca confermasse l’intenzione anglo-americana di invadere la Francia
nel 1943, ora che il Nordafrica era quasi conquistato. A Casablanca, invece, l’incapacità di
offrire qualcosa di concreto oltre a una possibile invasione della Sicilia lasciò Stalin «deluso e
furioso», come aveva temuto Churchill. Stalin comunicò a Roosevelt che la Sicilia non poteva di
certo sostituire «un secondo fronte in Francia» . L’alleanza raggiunse forse il suo punto piú
142

basso quando furono comunicati a Stalin i risultati dell’incontro Trident di maggio, da cui
emergeva chiaramente che gli Alleati occidentali non avrebbero aperto il «secondo fronte» fino
alla primavera del 1944, continuando invece a combattere nel Mediterraneo. Churchill aggiunse
al danno la beffa suggerendo che i suoi piani circa il Mediterraneo avrebbero potuto impedire
una nuova offensiva tedesca contro l’Armata Rossa, e questo mentre Stalin sapeva benissimo che
i tedeschi stavano per lanciare nel 1943 la loro principale operazione, che, con il nome in codice
Zitadelle (Cittadella), avrebbe generato una delle piú grandi battaglie di tutto il conflitto. Il 24
giugno Stalin inviò una risposta fulminante, ribadendo tutte le promesse e gli impegni assunti
dagli Alleati occidentali nell’anno precedente: «Qui non si tratta semplicemente di una delusione
[…] qui è messa a dura prova la fiducia [del governo sovietico] negli Alleati» . Stalin si rifiutò
143
poi di rispondere a ulteriori lettere per sei settimane, provocando a Washington e Londra l’ansia
che l’Urss potesse essere in procinto di negoziare una pace separata – un’idea del tutto infondata,
infarcita di voci persistenti e sostenuta in alcune storiografie del dopoguerra . Stalin continuò a
144

definire qualsiasi piano riguardante il Mediterraneo una «diversione tattica» e rimase scettico nei
confronti degli Alleati perfino nel corso dell’anno, quando i piani dell’operazione Overlord
erano ormai a buon punto. Alla fine di novembre, sulla strada per Teheran – il primo vero vertice
tra i tre leader alleati –, lo si sentí affermare che «la questione principale che si sta decidendo ora
è se ci aiuteranno o meno». A quel punto, grazie alle vittorie riportate dai sovietici nel 1943, un
aiuto da parte alleata poteva sembrare meno necessario a Stalin: «Avremo forza a sufficienza»,
gli aveva detto Žukov, «per finire da soli la Germania di Hitler» . L’affermazione di Žukov non
145

fu mai messa alla prova dei fatti, ma rimane fuori da ogni dubbio che l’Unione Sovietica
sopportò l’urto della lotta contro l’Asse per quasi tre anni: con «sacrifici colossali», ricordò
Stalin a Churchill, a fronte delle «modeste» perdite anglo-americane . 146

Alla fine del 1943, il corso della guerra sul fronte orientale incoraggiò il crescente ottimismo di
Stalin, dopo un anno in cui la bilancia aveva iniziato finalmente a pendere in favore dell’Armata
Rossa. Che il fronte fosse tuttavia ancora in bilico dopo Stalingrado divenne evidente nel destino
della città ucraina di Char’kov, che passò di mano due volte in un mese, tra febbraio e marzo.
Dopo le operazioni per liberare dai tedeschi la steppa del Don, Stalin aveva insistito affinché
l’Armata Rossa continuasse l’offensiva su quel fronte sterminato, nonostante mesi e mesi di
estenuanti combattimenti. Nell’estremo nord, il 12 gennaio ebbe inizio l’operazione Iskra
(Scintilla), che nel giro di una settimana aprí uno stretto corridoio verso Leningrado e creò per
breve tempo una breccia nel lungo assedio; una seconda operazione destinata ad accerchiare la
Heeresgruppe Nord dovette tuttavia essere abbandonata dopo che il comandante tedesco, il
feldmaresciallo Georg von Küchler, accorciò e rafforzò la linea difensiva. Ulteriori piani per
accerchiare e distruggere la Heeresgruppe Mitte con le forze del Central’nyj front del generale
Rokossovskij non ebbero seguito – le «bramosie», si lamentò Rokossovskij, «hanno prevalso
sulle possibilità» –, mentre piú a sud l’operazione Zvezda (Stella), lanciata all’inizio di febbraio
per riprendere Kursk e Char’kov, ebbe piú successo. Kursk fu riconquistata l’8 febbraio,
Belgorod lo stesso giorno, e il 16 febbraio, quando un SS Panzerkorps abbandonò la città, le
forze sovietiche rioccuparono quanto restava di Char’kov, ritagliando un grande saliente nelle
linee del fronte tedesco . La Stavka commise tuttavia lo stesso errore di un anno prima,
147

spingendo truppe ormai esauste verso piani sempre piú ambiziosi, per esempio cercare di tagliare
fuori la Heeresgruppe Süd e puntare nel contempo a occupare le regioni industriali dell’Ucraina
meridionale. Von Manstein persuase Hitler a consentirgli di organizzare un contrattacco
difensivo. Il 19 febbraio, i suoi eserciti rinforzati si spinsero a ovest di Char’kov per affrontare
un’Armata Rossa che aveva dispiegato le proprie forze su un fronte troppo ampio. Mentre
l’avanzata sovietica si disintegrava rapidamente, Von Manstein riprese Char’kov il 15 marzo e
Belgorod pochi giorni dopo, dove si fermò per creare il balcone meridionale di un grande
saliente, largo 185 chilometri e profondo 128, che ancora si incuneava nelle linee tedesche
attorno a Kursk.
Il saliente di Kursk divenne il teatro di una delle battaglie piú importanti della guerra. Il crollo
dopo Stalingrado aveva reso Hitler incerto su come rispondere alla nuova situazione. Nel
dicembre del 1942 gli strateghi dell’OKW avevano suggerito di provare ancora una volta a
conquistare il petrolio del Caucaso e riprendere l’iniziativa, ma a febbraio Hitler si era reso conto
che si trattava di una pura fantasia militare . Il 18 febbraio aveva comunicato chiaramente ai suoi
148
comandanti che «non avrebbe intrapreso nessuna grande operazione durante l’anno», ma dopo il
successo di Von Manstein a Char’kov aveva accettato il suo suggerimento che le Heeresgruppe
Mitte e Süd isolassero il saliente di Kursk in modo da accorciare le linee tedesche, infliggere una
dannosa sconfitta all’Armata Rossa ora circondata e riacquistare almeno parte del prestigio perso
dopo Stalingrado . L’offensiva, che non aveva la portata di quelle del 1941 o 1942, era stata
149

progettata per bloccare ulteriori operazioni sovietiche nel 1943 e infliggere gravi danni locali.
Benché altre operazioni minori – con i nomi in codice Habicht (Falco) e Panther – fossero
previste a sud di Char’kov per sostenere Kursk, a metà aprile Hitler emanò il Führerbefehl 6 in
cui optava per l’operazione Zitadelle, ovvero un assalto al collo del saliente di Kursk, a nord
della zona intorno a Orël e a sud della città di Belgorod, appena riconquistata . In quel momento,
150

l’alto comando sovietico aveva già deciso che il saliente di Kursk sarebbe stato l’obiettivo
tedesco non appena si fosse rappreso il fango del disgelo primaverile, un giudizio presto
confermato da regolari ricognizioni. Il 12 aprile, Stalin incontrò Žukov e il capo di stato
maggiore dell’esercito, generale Aleksandr Vasil’evskij, per concordare una risposta
all’eventuale attacco. Stalin non vedeva affatto con piacere l’idea di una battaglia difensiva, ma
venne convinto che una solida difesa intorno a Kursk non solo avrebbe smorzato l’assalto
tedesco ma avrebbe potuto precedere rapidamente un deciso contrattacco delle forze di riserva
nelle retrovie, in modo da respingere nuovamente il fronte tedesco verso il fiume Dnepr. Al
Central’nyj front del generale Rokossovskij e al Voronežskij front del generale Nikolaj Vatutin
fu comunicato di attendersi un’offensiva tedesca almeno dal 10 maggio, e alla fine di aprile
entrambi i comandanti confermarono di essere in grado di attuare una buona difesa . All’inizio
151

di maggio, gran parte dell’equipaggiamento necessario e della manodopera ausiliaria era pronta e
grazie alla mobilitazione di 300 000 civili residenti nella sacca si costruirono 8 anelli difensivi,
con 4800 chilometri di trincee e fossati anticarro e il supporto di migliaia di postazioni di
cannoni fatte di terra e legno e circondate da spessi strati di filo spinato e da 942 000 mine
anticarro e antiuomo . 152

Il piano operativo tedesco seguiva uno schema prevedibile, con un movimento a tenaglia mirato
a isolare e circondare il folto numero di gruppi d’armata che stavano arrivando in massa per
rafforzare il saliente. A nord, la 9. Armee del generale colonnello Walter Model formava uno dei
bracci della tenaglia, mentre a sud la 4. Panzerarmee sotto Hoth, supportata dall’Armeeabteilung
Kempf (il distaccamento d’armata che portava il nome del comandante, generale Werner Kempf),
formava l’altro braccio. Il problema di Hitler era decidere quando colpire. Mentre Von Manstein
e il feldmaresciallo Günther von Kluge, comandanti delle Heeresgruppe Süd e Mitte,
presumevano che la parte sovietica fosse impreparata ed erano pertanto ansiosi di iniziare il
prima possibile, Model insisteva che le sue truppe, dopo i duri combattimenti dell’inverno e della
primavera, avevano bisogno del tempo necessario per rinforzare la fanteria e i mezzi corazzati. Il
4 maggio, Hitler rinviò l’operazione Zitadelle al 12 giugno, ma le azioni dei partigiani attivi
nell’area della Heeresgruppe Mitte ridussero i rinforzi a tal punto che Model fu costretto a
condurre un’operazione punitiva, denominata in codice Zigeunerbaron (Lo Zingaro barone),
volta a rendere piú sicure le linee di approvvigionamento. L’inizio dell’offensiva fu pertanto
rinviato ulteriormente al 19 giugno. A quel punto, Hitler era ansioso di assicurarsi che dopo la
Tunisia l’Italia sarebbe rimasta in guerra, e una volta chiarito che Mussolini avrebbe continuato a
combattere, l’operazione Zitadelle gli parve meno rischiosa. L’esito, tuttavia, non era certo
scontato, tanto che sia il generale Guderian, ispettore generale delle forze corazzate, sia Reinhard
Gehlen, capo dell’intelligence della Wehrmacht nell’Est, consigliarono di annullarla . Hitler153
procrastinò ancora una volta l’operazione, in questo caso per consentire che un maggior numero
di Panzer V Panther e Panzer VI Tiger, gli ultimi modelli di carri armati pesanti, raggiungessero
le unità in prima linea, anche se alla fine, quando il Führer ordinò l’inizio dell’operazione la
mattina del 5 luglio, ne erano arrivati solo 328, di cui 251 con la forza d’attacco. La maggior
parte dei carri armati era costituita da Panzer III (309) e Panzer IV (245), piú deboli, mentre il
numero medio di mezzi corazzati per ogni divisione corazzata era ora di appena 73, ovvero metà
della forza che avrebbero dovuto possedere .154

Per la parte sovietica, l’esito dell’imminente operazione era tutt’altro che prevedibile. Era la
prima volta che l’Armata Rossa si impegnava in una battaglia difensiva e sfidava la speranza di
Stalin in un’«offensiva preventiva» . Le azioni di difesa in profondità non erano esattamente
155

nella natura di un esercito addestrato all’offensiva, e la mancanza di familiarità con un nuovo


campo tattico spiega alcuni dei problemi incontrati al momento della battaglia. Il lungo ritardo
dei tedeschi, inaspettato, aveva provocato incertezza, pur offrendo l’opportunità di rinforzare le
armate sovietiche, che a giugno potevano contare nella zona di difesa sul 40 per cento delle forze
dell’Armata Rossa e il 75 per cento dei mezzi corazzati. Stalin, sempre piú impaziente, a giugno
pensò nuovamente di passare prima all’offensiva, ma prevalse l’opinione di Žukov. Le truppe
venivano regolarmente allertate, anche se poi non seguiva nessun attacco. A fine giugno, le
intercettazioni radio e gli interrogatori dei soldati tedeschi fatti prigionieri dalle pattuglie
sovietiche indicavano immancabilmente un attacco imminente, per cui il 2 luglio l’Armata Rossa
entrò in piena allerta. Il giorno 4 un soldato catturato confermò che l’operazione Zitadelle
sarebbe iniziata la mattina seguente. Dopo la mezzanotte, Žukov ordinò un fuoco di contro-
sbarramento con artiglieria, razzi e bombardieri che convinse temporaneamente i comandanti
tedeschi, presi di sorpresa, di essere caduti in un’offensiva sovietica che non erano riusciti a
rilevare . Alle 4.30 del mattino, una volta che fu chiaro che quel fuoco di sbarramento era
156

un’azione di disturbo, le forze tedesche passarono all’offensiva. La battaglia vide lo spiegamento


su entrambi i lati di forze considerevoli. L’esercito e l’aviazione dell’Urss avevano schierato 1
336 000 uomini (oltre ad alcune donne), 3444 carri armati e cannoni semoventi, 19 000 pezzi
d’artiglieria e mortai e 2650 aerei (3700 se si considerano le forze di riserva a lunga distanza);
dietro la sacca si trovava lo Stepnoj front, l’unità comandata dal generale Ivan Konev, con 573
000 uomini, 1551 carri armati e cannoni semoventi e 7401 cannoni e mortai . I gruppi d’armata
157

della Wehrmacht avevano radunato 900 000 uomini (anche se solo 625 271 di loro
appartenevano a truppe da combattimento), 2699 veicoli corazzati da battaglia, 9467 pezzi di
artiglieria e 1372 aerei . La parte tedesca godeva di un vantaggio nella qualità dei carri armati,
158

dei cannoni semoventi e dei bombardieri; la parte sovietica poteva invece vantare un sostanziale
vantaggio numerico.
La successiva battaglia, che durò poco piú di dieci giorni all’interno della sacca di Kursk, fu un
fallimento per l’esercito tedesco, una conclusione che merita di essere sottolineata. Nonostante
tutta l’abilità tattica delle forze aeree e terrestri tedesche, l’operazione Zitadelle non fu la
«vittoria persa» di cui Von Manstein si rammaricò nelle sue memorie del dopoguerra, bensí una
chiara conferma del piano originario di Žukov. A nord, la 9. Armee di Model avanzò nei primi
due giorni di 11 chilometri verso il villaggio di Ponyri, ma dovette affrontare feroci raffiche di
fuoco che costrinsero la fanteria tedesca a lottare per ogni caposaldo difensivo. L’attacco si
fermò il 7 luglio di fronte alla cresta di Ol’chovatka fortemente difesa, dove gli aerei sovietici da
attacco al suolo, grazie a un migliore coordinamento, sostenevano la difesa della XIII Armata
sovietica. Model fallí in un’altra azione di sfondamento e il giorno 9 l’assalto si fermò. Žukov
segnalò a Stalin che era giunto il momento di sferrare il primo colpo della controffensiva e il 12
luglio i gruppi d’armata degli Zapadnyj, Brjanskij e Central’nyj front lanciarono l’operazione
Kutuzov, che spezzò rapidamente il fronte tedesco e minacciò di accerchiare la 2. Panzerarmee,
che nonostante il nome non aveva carri armati. Model fece ritirare la 9. Armee attraverso la
campagna martoriata per tentare di chiudere la breccia, ma quella parte dell’offensiva tedesca si
era ormai conclusa. A sud, le forze tedesche fecero maggiori progressi, in parte perché
l’intelligence sovietica, avendo erroneamente supposto che la tenaglia settentrionale fosse la piú
forte, aveva fornito a Rokossovskij maggiori risorse. Nell’ala sud, Hoth poteva schierare nove
divisioni corazzate, con due divisioni piú deboli nel 24. Panzerkorps di riserva. In due giorni di
combattimento, il fronte di Vatutin cedette di 30 chilometri verso la grande arteria di
comunicazione Obojan-Kursk, ma il 7 luglio i mezzi corazzati tedeschi si scontrarono con la
prima delle principali linee difensive, tenuta dalla 1-ja Gvardejskaja tankovaja
Krasnoznamennaja armija (Prima armata corazzata della Guardia). Feroci combattimenti
permisero alle divisioni Panzer di attraversare il fiume Psël, l’ultima barriera naturale prima di
Kursk, ma la testa di ponte conquistata dalla 3. SS Panzerdivision «Totenkopf» rimase il punto
piú lontano raggiunto nell’avanzata . Hoth spostò allora il 2. SS Panzerkorps verso il piccolo
159

nodo ferroviario di Prochorovka.


Per anni, la successiva battaglia di carri armati a Prochorovka fu descritta come il piú grande
scontro di carri armati della guerra, conclusosi con la vittoria sovietica e la distruzione di
centinaia di mezzi corazzati. La verità si rivelò piú banale. Il 12 luglio, per fermare l’avanzata di
due divisioni del 2. SS Panzerkorps, una delle unità corazzate della riserva, la 5-ja Gvardejskaja
tankovaja armija (Quinta armata corazzata della Guardia) comandata dal generale Pavel
Rotmistrov, a cui era stato ordinato di avanzare il piú rapidamente possibile, si trovò in battaglia
senza aver attuato una ricognizione o una pianificazione sufficiente. Sembra che Rotmistrov,
credendo erroneamente di far parte della controffensiva di Belgorod, avesse spostato in massa i
mezzi corazzati verso due divisioni delle SS, la Leibstandarte e la Das Reich, schierando 500
carri armati contro i 204 delle unità tedesche. Le forze di Rotmistrov si imbatterono in un fossato
anticarro nascosto e vennero sottoposte alla superiore potenza di fuoco dei carri armati tedeschi,
soprattutto il Panzer IV, dotato di un cannone migliorato. In due giorni la 5-ja Gvardejskaja
perse 359 carri armati e cannoni semoventi (208 totalmente distrutti); le due divisioni del 2. SS
Panzerkorps ne persero solo 3 il 12 luglio . Pur trattandosi di una grande vittoria tattica, essa
160

non avvicinò l’operazione Zitadelle al successo, come aveva sperato Von Manstein. Il fronte
sovietico meridionale non crollò ma continuò a contrattaccare; il giorno 16, perfino la 5-ja
Gvardejskaja, precedentemente massacrata, aveva di nuovo 419 carri armati e 25 cannoni
semoventi . L’inizio dell’operazione Kutuzov costrinse Von Manstein a inviare a nord divisioni e
161

aerei in aiuto di Von Kluge, benché a sud il supporto aereo della Luftwaffe fosse già stato
pesantemente eroso dai continui combattimenti, mentre le perdite della fanteria rendevano
difficile tenere una posizione perfino quando i mezzi corazzati avevano successo. In effetti,
l’eccessiva enfasi sulla battaglia di Kursk come uno scontro di carri armati ignora la realtà: si
trattò infatti di una battaglia di fanteria, artiglieria e aerei, esattamente come le ultime battaglie
della Prima guerra mondiale. Seppure con un senso di sicurezza sempre piú labile, Hoth sferrò
ulteriori attacchi a sud di Prochorovka per cercare di spezzare la resistenza dei russi.
L’operazione Roland, iniziata il 14 luglio, non riuscí tuttavia a penetrare le linee sovietiche con
truppe ormai esauste e senza riserve. «Ho visto dei soldati ormai distrutti commettere ogni sorta
di errori fondamentali», ricordava un milite tedesco, «perché non riuscivano piú a concentrarsi
sull’azione» . Alla fine, il 23 luglio, la tenaglia meridionale dovette essere abbandonata, poiché
162

piú a sud altre offensive sovietiche verso i fiumi Mius e Donec avevano costretto Von Manstein
a distaccare una parte maggiore delle sue forze lontano dall’obiettivo originario dell’operazione
Zitadelle .
163

Il 13 luglio, Hitler aveva già conferito con Von Kluge e Von Manstein per annunciare che
l’operazione doveva essere sospesa – e non, come spesso si afferma, a causa degli sbarchi alleati
in Sicilia, anche se vennero di certo presi in considerazione, ma soprattutto per l’improvvisa crisi
provocata dallo sfondamento del fronte di Model. La risposta di Hitler alla crisi in Italia fu lenta
ad arrivare, e solo una delle tre divisioni del 2. Panzerkorps, la Leibstandarte, fu effettivamente
inviata nel teatro di guerra del Mediterraneo il 17 luglio. L’operazione Zitadelle si era conclusa
perché aveva fallito nei suoi obiettivi iniziali; la controffensiva sovietica, imprevista da parte
tedesca, aveva poi aggravato il fallimento. Nelle battaglie di logoramento di luglio e agosto i
tedeschi persero 203 000 uomini, quasi un terzo della forza iniziale, e 1030 aerei. Su tutto il
fronte orientale andarono distrutti 1331 carri armati e cannoni semoventi. Anche se le perdite
sovietiche erano state molto piú alte – soltanto a Kursk vi furono 70 000 caduti tra morti o
dispersi e andarono distrutti 1600 carri armati e 400 aerei –, nell’estate del 1943 il materiale
bellico dell’Urss poteva essere sostituito piú facilmente di quello tedesco, dato che le fabbriche
sovietiche si concentravano sulla produzione di massa grezza . A causa della maggiore durata
164

dello sforzo compiuto per contenere la tenaglia meridionale, l’operazione Rumjancev, vale a dire
la controffensiva nel sud, poté iniziare solo il 3 agosto, quando le riserve dello Stepnoj front e del
Voronežskij front di Vatutin furono dirottate verso Belgorod. A quel punto, dopo settimane di
logoramento, il gruppo d’armata di Von Manstein poteva soltanto contare su 237 veicoli
corazzati da combattimento e 175 000 uomini (numero che alla fine di agosto era sceso a 133
000). Belgorod cadde rapidamente in mano all’Armata Rossa il 5 agosto, e Stalin ordinò per la
prima volta a Mosca la celebrazione della guerra con salve di artiglieria da 120 cannoni e un
cielo pieno di fuochi d’artificio. Nonostante l’ennesimo tentativo di Von Manstein di bloccare la
corsa in avanti dell’Armata Rossa, Char’kov fu presa il 23 agosto, cambiando di mano per
l’ultima volta.
Dopo Kursk, la marea avanzò sempre in un’unica direzione. A luglio, le operazioni a sud di
Char’kov, volte a distogliere Von Manstein da Kursk, progredivano con lentezza, ma a metà
agosto la Stavka ordinò alle unità dello Južnyj e del Zapadnyj front di riconquistare il Donbass
occidentale – un passo essenziale per riprendere le regioni industriali dell’Ucraina e aprire una
breccia nella regione del fiume Dnepr piú a ovest. Il 30 agosto cadde la cittadina di Taganrog; l’8
settembre fu la volta di Stalino (oggi Doneck); il 22 settembre l’Armata Rossa raggiunse lo
Dnepr a sud della città di Dnepropetrovsk. Il 7 agosto, coerentemente con la strategia di Stalin
che voleva un attacco su tutto il fronte, cosí da impedire all’esercito tedesco di fermarsi, lo
Zapadnyj front, comandato dal generale Vasilij Sokolovskij, lanciò l’operazione Suvorov verso
Smolensk, teatro di alcune delle piú pesanti battaglie nel 1941. La città venne ripresa il 25
settembre dopo aspri combattimenti lungo un fronte di 240 chilometri. Mentre le linee tedesche
crollavano, Hitler ordinò la creazione dell’Ostwall (il «vallo orientale»), dietro il quale le truppe
della Wehrmacht potevano resistere per trattenere la marea sovietica. La parte meridionale,
denominata in codice Wotan, andava da Melitopol’ sul Mar d’Azov a Zaporož’e e difendeva le
materie prime e le industrie di Nikopol’ e Krivoj Rog, che Hitler (con una certa esagerazione)
considerava vitali per il futuro proseguimento della guerra. La zona settentrionale dell’Ostwall,
la Panther-Stellung, correva verso nord lungo i fiumi Dnepr e Desna fino a Narva, sulla costa
baltica. L’enorme estensione rendeva impossibile un’efficace linea fortificata, per cui le truppe
trovarono all’arrivo non già una solida posizione difensiva bensí una linea tracciata su una
mappa. Le forze tedesche riuscirono a ritirarsi senza una vera e propria disfatta, ma alla fine di
settembre Von Manstein aveva riportato al di là dello Dnepr la Heeresgruppe Süd, forte di 60
divisioni con una media di 1000 uomini ciascuna e appena 300 carri armati per l’intero gruppo
d’armata . Durante il percorso fu ordinato alle unità di adottare la spietata strategia della terra
165

bruciata, facendo esplodere tutto quello che potevano, radendo al suolo interi villaggi e
costringendo uomini e donne a marciare con loro come lavoratori forzati. Nell’estremo nord, la
Heeresgruppe Nord, privata di uomini ed equipaggiamenti per offrire aiuto alle truppe piú a sud,
affrontò un grande attacco dei sovietici con solo 360 000 uomini e 7 carri armati, ma riuscí a
mantenere un perimetro di difesa in cui si aprí una breccia solo nel gennaio del 1944, quando
Model, inviato per sostituire Von Küchler, si ritirò lungo la Panther-Stellung, lasciando
finalmente Leningrado libera da un assedio durato due anni e mezzo.
Dall’agosto 1943 all’aprile 1944, l’Armata Rossa combatté quasi senza sosta in tutta l’Ucraina e
nella Bielorussia orientale, anche se l’insistenza di Hitler sul fatto che Nikopol’ e Krivoj Rog
dovevano resistere a tutti i costi, pur essendo ormai isolate dall’avanzata dell’Armata Rossa a
sud e a nord, fece sí che fino al febbraio 1944 una parte della regione industriale ucraina
rimanesse in mano tedesca. Alla fine di settembre, con le forze sovietiche schierate lungo lo
Dnepr, Žukov propose un attacco aereo per accelerare la conquista del territorio sull’altra sponda
del fiume. Il risultato fu un completo fallimento, come per molte operazioni aeree intraprese in
tempo di guerra, anche se furono create fino a quaranta piccole teste di ponte da soldati a cui era
stato detto che i primi ad attraversare il fiume sarebbero stati insigniti dell’ambito titolo di «Eroe
dell’Unione Sovietica». Furono assegnati non meno di 2438 titoli, di cui 47 a generali . La 166

Heeresgruppe Süd si rivelò abbastanza forte da circondare le teste di ponte a sud di Kiev a
ottobre. Il Voronežskij front di Vatutin – ora ribattezzato Pervyj ukrainskij front (Primo fronte
ucraino) in considerazione della mutata geografia della battaglia – aveva inviato una divisione
attraverso il fiume a nord di Kiev, vicino al villaggio di Liutež, in una zona di paludi e acquitrini
che i tedeschi non consideravano per nulla pericolosa. La 3-ja Tankovaja armija (Terza armata
corazzata) fu trasferita in assoluta segretezza fino alla testa di ponte; il maltempo impediva le
ricognizioni aeree della Luftwaffe, mentre a sud di Kiev si progettavano azioni di
disinformazione per far credere a Von Manstein che da lí sarebbe arrivato un attacco. Il 3
novembre, le difese tedesche furono colte di sorpresa quando due intere armate si riversarono su
di loro dal terreno paludoso.
Kiev fu presa tre giorni dopo, alla vigilia del 7 novembre, giorno della celebrazione annuale della
rivoluzione bolscevica. Nel suo discorso commemorativo Stalin annunciò «l’anno della grande
svolta»; Molotov diede un sontuoso ricevimento con fiumi di alcol, al punto che l’ambasciatore
britannico crollò a faccia in giú sul tavolo . Kiev, come Stalingrado, fu una vittoria simbolica,
167

ma fu solo un momento di una grande avanzata in tutto il resto dell’Ucraina. A sud, lo Stepnoj
front di Konev, ora ridenominato Vtoroj ukrainskij front (Secondo fronte ucraino), irruppe
attraverso lo Dnepr minacciando Nikopol’, mentre nell’estremo sud la 17. Armee veniva isolata
in Crimea senza alcuna prospettiva di salvataggio. Dopo cinque estenuanti mesi di
combattimento, l’offensiva sovietica si fermò: le truppe erano ormai stremate dallo sforzo, a
corto di rifornimenti e perfino di calzature. All’inizio della primavera del 1944, tuttavia, il resto
dell’Ucraina meridionale fu finalmente riconquistato; Nikopol’ cadde l’8 febbraio; Krivoj Rog
due settimane dopo. A metà marzo, Konev raggiunse il fiume Dnestr e il confine con la
Moldavia e il 7 aprile entrò a Botoşani, in territorio romeno. A nord, Žukov e Vatutin
conquistarono Rovno (l’ex capitale del Reichskommissariat Ukraine) e Luck, teatro delle
principali battaglie di carri armati dell’estate 1941, prima di dirigersi a sud verso il confine dei
Carpazi e il passo di Jabłonica, che portava in Ungheria. Furono i primi di quelli che furono
chiamati i Desjat’ stalinskich udarov, i «Dieci colpi schiaccianti di Stalin» inferti nel 1944 .
168

L’offensiva sovietica del 1943 fu massiccia, dal fronte di Leningrado fino al Mar d’Azov a sud, e
fu combattuta con alti costi umani e materiali. I sei milioni di soldati dell’Armata Rossa
combatterono quasi ininterrottamente da luglio a dicembre. Dopo l’apertura degli archivi
dell’Urss, si è parlato molto delle carenze delle forze sovietiche che respinsero l’esercito tedesco:
scarso addestramento a tutti i livelli, azioni inadeguate agli alti livelli di comando, scarsa raccolta
di informazioni, tattiche maldestre, produzione militare difettosa e cosí via. Da questo punto di
vista, è difficile capire come l’Armata Rossa, respinta inesorabilmente nel 1941 e 1942, abbia
potuto ribaltare le sorti della guerra in modo cosí drastico. La visione odierna piú convenzionale,
come ha affermato Boris Sokolov, ritiene che l’esercito tedesco sia stato semplicemente «sepolto
di cadaveri», sopraffatto dall’enorme numero di corpi umani che l’Armata Rossa poteva lanciare
contro di esso . Si tratta di un profondo fraintendimento della realtà. Nel 1943, infatti, le unità
169

dell’Armata Rossa, come quelle della Wehrmacht, erano a corto di uomini dopo le colossali
perdite del 1941-42. Dopo la privazione di considerevoli fette di territorio, la popolazione
disponibile per lo sforzo bellico sovietico era poco piú grande del bacino disponibile per l’Asse,
ovvero circa 120 milioni di anime. Le forze tedesche, per necessità, erano ampiamente schierate
nell’Europa occupata, ma la maggior parte delle migliori unità combattenti si trovavano sul
fronte orientale, mentre l’Armata Rossa doveva mantenere forze considerevoli nell’Estremo
Oriente contro una possibile minaccia giapponese. La mobilitazione sovietica fu piú spietata:
furono reclutati uomini giovani e anziani, e un numero consistente di donne; i soldati feriti erano
riportati rapidamente alle unità di combattimento, mentre il numero delle truppe ausiliarie di
supporto era inferiore a quello delle forze tedesche. Tuttavia, neppure numeri anche maggiori
sarebbero significativi, se non fosse stato per il continuo sforzo compiuto dal 1942 in poi per
imparare dagli errori commessi, migliorare l’addestramento e modificare le tattiche per cercare
di ridurre le perdite. A novembre, fu istituita ufficialmente la Sekcija po analizu voenno-boevogo
opyta (Sezione dell’Armata Rossa per l’analisi dell’esperienza di guerra e combattimento), allo
scopo di elaborare e diffondere tutte le lezioni necessarie per rendere piú efficaci i combattimenti
dell’Armata Rossa e delle forze aeree . Allo stesso tempo, fu data la priorità alla produzione di
170

massa di armi, in modo che la carenza di fanteria addestrata potesse essere mitigata da una
maggiore potenza di fuoco, supporto aereo e mobilità, utilizzando armi che erano ormai uguali a
quelle tedesche, tra cui il La-5, i caccia Jak-1b e Jak-7b e i massicci cannoni semoventi ML-20 e
ISU-152. Le forniture ricevute con il programma Lend-Lease resero possibile soddisfare tale
priorità, benché all’epoca di Kursk la quantità degli aiuti fosse ancora relativamente modesta.
Malgrado le carenze ancora presenti, il miglioramento incrementale fu sufficiente per
trasformare le forze sovietiche dall’entità maldestra e incapace del 1941 in una formidabile
macchina da guerra, che le forze armate tedesche, nonostante tutta la loro ovvia esperienza
operativa e ingegnosità tattica, non poterono sconfiggere.
Nel novembre del 1943, Stalin accettò finalmente la richiesta degli Alleati di un incontro al
vertice, perseguito da Churchill e Roosevelt fin dall’estate. Fino a quel moemnto, Stalin aveva
insistito dicendo di essere troppo impegnato a visitare la linea del fronte per incontrarli (in realtà,
durante tutta la guerra, si recò un’unica volta, il 1° agosto 1943, al quartier generale dello
Zapadnyj front), né aveva alcun desiderio di un vertice a Scapa Flow, come aveva suggerito
Churchill. I tre leader si accordarono invece sulla capitale iraniana, Teheran, in un paese
occupato congiuntamente nel 1941 dalle truppe britanniche e sovietiche. Il vertice aveva un
unico scopo principale, come capirono sia Stalin sia Roosevelt: cementare un saldo accordo in
modo che gli Alleati occidentali potessero finalmente organizzare una grande campagna in
Francia nel 1944 per alleviare il fronte sovietico. In una riunione dei ministri degli Esteri a
Mosca a ottobre, preludio alla Conferenza di Teheran, Cordell Hull aveva informato Molotov sui
dettagli dell’operazione Overlord, in modo da rassicurare la parte sovietica che i suoi alleati non
l’avrebbero delusa. A dimostrazione della buona fede, dalla fine di ottobre la missione militare
degli Stati Uniti a Mosca iniziò a fornire alla dirigenza sovietica dei briefing giornalieri sui
preparativi dell’invasione . Pur costretto a confermare Overlord quando aveva incontrato di
171

nuovo Roosevelt a Québec ad agosto, Churchill nutriva ancora profondi dubbi circa il fatto che
dei fronti simultanei in Italia e Francia sarebbero stati «abbastanza forti per i compiti loro
assegnati», mentre i capi del quartier generale britannico si mantenevano cauti nel definire
l’operazione Overlord «il perno della nostra strategia su cui ruota tutto il resto». Prima di partire
per il vertice di novembre, Stimson avvertí il presidente americano che Churchill «intendeva
pugnalare alle spalle Overlord» . Per Roosevelt e Hopkins, entrambi in cattive condizioni di
172

salute, il viaggio a Teheran fu una grande sfida fisica, ma la scelta di un viaggio per mare sulla
corazzata Iowa offrí ai capi dello stato maggiore congiunto che accompagnavano il presidente
una preziosa opportunità per raggiungere un accordo assoluto sul fatto che Overlord avrebbe
rappresentato nel 1944 il «principale sforzo terrestre e aereo anglo-americano contro la
Germania»; una volta che la campagna in Italia fosse andata oltre la linea da Pisa a Rimini, si
potevano liberare dal teatro di guerra italiano le risorse necessarie a un’invasione simultanea
della Francia meridionale, operazione dal nome in codice Anvil (Incudine). Un documento
operativo, che godeva del sostegno di Churchill, sollecitava che non ci fossero distrazioni nei
Balcani o nell’Egeo. «Amen!» scrisse Roosevelt sul testo . 173

I due leader occidentali si incontrarono prima al Cairo, al summit denominato Sextant (Sestante),
a cui invitarono Chiang Kai-shek per discutere della guerra in Cina. Chiang fu lusingato di
quell’attenzione nei suoi confronti, tanto piú che nella riunione di ottobre a Mosca i leader
sovietici erano stati persuasi, seppure a malincuore, a includere la Cina tra i firmatari di una
Dichiarazione delle Quattro Potenze sugli obiettivi di guerra, riconoscendo finalmente alla Cina
lo status di parità con alleati molto piú potenti e aprendo la strada alla sua conclusiva adesione al
Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite . Roosevelt, ansioso di mantenere la Cina
174

belligerante, promise a Chiang una campagna in Birmania per aprire la rotta dei rifornimenti
qualora gli inglesi avessero intrapreso un’operazione anfibia nel golfo del Bengala, dal nome in
codice Buccaneer (Bucaniere), volta a distogliere le forze giapponesi. I due leader discussero
altresí la fine del colonialismo e convennero che dopo la guerra l’impero britannico avrebbe
dovuto essere liquidato . Roosevelt arrivò a rifiutare un incontro privato con Churchill nel
175

timore che Stalin sospettasse la creazione di un «blocco» anglo-americano in funzione


antisovietica. Il gruppo volò poi a Teheran il 27 novembre, dove Stalin, nonostante la sua paura
di volare, era arrivato in aereo da Baku. Il giorno seguente incontrò Roosevelt da solo, senza
Churchill, e gli fu assicurato che nel 1944 sarebbe avvenuta un’invasione su larga scala; la
conversazione era volta a contrastare ogni tentativo di Churchill di scardinare l’impegno.
Quando il giorno 29 Stalin chiese senza mezze parole a Churchill se volesse Overlord, il primo
ministro fu costretto ad assentire, consapevole di essere ormai in inferiorità numerica.
Nonostante i suoi dubbi, Churchill aveva poco spazio di manovra. Il giorno seguente, Roosevelt
annunciò che era stato raggiunto un accordo sulla questione principale del secondo fronte: «Sono
felice di questa decisione», osservò laconicamente Stalin . Egli approvò inoltre la proposta
176

americana di un’invasione simultanea nella Francia meridionale e liquidò come «non risolutivi»,
quali in effetti erano, i consigli britannici di ulteriori azioni nei Balcani e nel Mediterraneo
orientale. Su altre questioni, Roosevelt ottenne ancora una volta da Stalin ciò che voleva in base
all’incontro di ottobre. Fu concordato in linea provvisoria per il dopoguerra un ordine
internazionale dominato da quelli che Roosevelt definí i «quattro poliziotti» (Stati Uniti, Unione
Sovietica, Gran Bretagna e Cina), oltre a un’occupazione militare congiunta e allo
smembramento della Germania sconfitta. Stalin accennò per la prima volta che si sarebbe unito
alla guerra contro il Giappone dopo la sconfitta di Hitler. Una volta prese le decisioni, la
celebrazione del compleanno di Churchill presso l’ambasciata britannica offrí spazio a
espressioni di amicizia. Stalin, ubriaco, brindò al «mio amico combattente Roosevelt» e «al mio
amico combattente Churchill», mentre quest’ultimo ribatté con «Roosevelt, il presidente, amico
mio», ma con «il potente Stalin» – un contrasto che non aveva bisogno di spiegazioni . 177

Il grande sentimento di amicizia risultò tuttavia meno evidente quando Roosevelt e Churchill
tornarono al Cairo per continuare le discussioni su Cina e Mediterraneo. La promessa di fornire
aiuti a Chiang (rientrato in patria dal Cairo pochi giorni prima solo per scoprire che era stato
appena sventato un complotto ordito contro di lui dai «giovani generali») divenne per gli inglesi
il principale pomo della discordia. Per quasi un anno, si era discusso tra gli Alleati riguardo a
un’operazione militare, dal nome in codice Anakim, per aprire la «strada della Birmania» –
operazione che gli inglesi avevano rifiutato con insistenza . Roosevelt era determinato a portare
178

avanti l’impegno di una campagna in Birmania per mantenere la Cina in guerra, ma dopo tre
giorni di discussioni con la parte britannica, che non intendeva portare a termine né Buccaneer
né Anakim senza un sostanziale aiuto da parte americana, Roosevelt abbandonò l’idea. Il 7
dicembre, Chiang fu informato che l’operazione in Birmania doveva essere rinviata alla fine del
1944, decisione che non lo sorprese . Allo stesso tempo, erano sorte divergenze su una nuova
179

ossessione di Churchill, deciso a strappare agli occupanti tedeschi l’ex colonia italiana di Rodi (a
ottobre Brooke la definí con sguardo critico «la follia di Rodi»), per la quale aveva continuato a
sollecitare l’alleato americano al Cairo . La posizione di Washington era quella di evitare
180

ulteriori ingaggi nel Mediterraneo orientale. Churchill sperò di persuadere il governo turco a
unirsi alla guerra, visto che un’operazione di successo nel Dodecaneso poteva costituire una
facile esca, ma quando il presidente turco İsmet İnönü arrivò al Cairo per incontrare i leader
alleati, non si impegnò a mutare in alcun modo la posizione neutrale della Turchia. Il Cairo,
come Teheran, mise in luce le fratture esistenti nel pensiero anglo-americano sulla futura
strategia dell’alleanza, anche se Churchill non riuscí a ottenere alcuna modifica al fermo
impegno di un’invasione della Francia. Quando Roosevelt tornò a Washington, disse a Stimson:
«Ho portato a casa Overlord sano e salvo» . 181

Le Conferenze di Teheran e del Cairo plasmarono il successivo anno di operazioni. I leader


alleati compresero che i successi del 1943, che avevano eliminato l’impero italiano come
nemico, rendevano probabile la sconfitta degli altri imperi dell’Asse, anche se non c’era modo di
prevedere i tempi e i costi per realizzarla. La primavera e l’estate del 1944 confermarono la
capacità degli Alleati di minare ulteriormente la resistenza dell’Asse in una serie di grandi e
complesse battaglie e in autunno non vi furono dubbi sulla certezza della vittoria, benché una
sconfitta definitiva di Germania e Giappone si dimostrasse ancora spiacevolmente sfuggente.
Anche se le forze armate delle due potenze dell’Asse avevano dovuto abbandonare ogni azione
offensiva, le loro difese erano ampiamente in grado di rallentare e danneggiare un nemico dotato
di risorse materiali di gran lunga maggiori, grazie innanzitutto alla tecnologia disponibile e a una
topografia favorevole che permetteva quel tipo di difesa attiva in cui limitati contrattacchi e
azioni di sabotaggio potevano riuscire ad accrescere le capacità dei difensori, che avevano in tal
modo non pochi vantaggi. Quando non disponevano di sufficiente carburante per una guerra
mobile, potevano scavare profondi fossati in cui nascondere l’artiglieria e perfino i carri armati.
Nascosti alla vista, i cannoni delle postazioni difensive erano difficili da individuare o da colpire.
La creazione di sbarramenti di fuoco, con casematte o ridotte tra loro collegate e dotate di
mitragliatrici e mortai, come nella difesa di Betio, rendeva estremamente pericolosa l’avanzata
della fanteria e dei carri armati nemici. Il fuoco dei mortai, che non faceva fumo, era
particolarmente difficile da localizzare (spesso proveniva addirittura dal versante opposto) e
poteva risultare letale. I moderni mortai erano leggeri, facilmente trasportabili da un solo uomo e
in grado di sganciare da 25 a 30 bombe al minuto con una traiettoria alta a breve gittata, ideali
per difendersi da un nemico in avanzata. L’esercito britannico era cosí demoralizzato
dall’implacabile fuoco dei mortai tedeschi che nell’agosto del 1944 fu istituito un Counter-
Mortar Committee per avere dei consigli scientifici su come neutralizzarli. Fu studiato un radar
con lunghezza d’onda a banda stretta e nell’autunno divennero disponibili, seppure in numero
limitato, apparecchiature progettate per localizzare le posizioni dei mortai, anche se la loro
minaccia non fu mai del tutto eliminata .182

Oltre ai mortai, vi era un’intera varietà di armi anticarro che potevano essere ben nascoste per
un’imboscata. Il Panzerfaust, un’arma anticarro tedesca a un solo colpo, di facile impiego e
portatile, imponeva perdite elevate ai mezzi corazzati alleati. Anche le mine e il filo spinato, cosí
comuni nella Prima guerra mondiale, erano ampiamente utilizzati per fornire un’ulteriore
protezione. Quanto potesse essere difficile creare un campo difensivo moderno ed efficiente può
essere illustrato da due esempi. Sulla piccola isola di Peleliu, nel gruppo di Palau, i giapponesi
risposero all’assalto del settembre 1944 con una battaglia sotterranea, condotta in 500 grotte e
cunicoli scavati nel corallo, molti dotati di porte d’acciaio, coperti con massi e travi di ferro e
quasi tutti abilmente mimetizzati. Le caverne scavate nel corallo erano state poi sigillate con
l’artiglieria all’interno, che sparava attraverso piccole feritoie. I cannoni e le casematte erano
stati predisposti per garantire un fuoco di sbarramento da ogni direzione, sfruttando al massimo
tutti i vantaggi offerti dalla natura del terreno. I combattimenti per conquistare completamente
l’isola durarono dal 15 settembre al 25 novembre. L’operazione si rivelò cosí impegnativa che la
I Divisione marine non poté piú intraprendere altre azioni per sei mesi . Un secondo esempio,
183

tratto dalla campagna in Italia, mostra lo stesso grado di preparazione difensiva. Prima
dell’operazione Olive, organizzata dall’VIII Armata contro l’estremità adriatica della Linea
Gotica, gli ingegneri tedeschi avevano creato una formidabile posizione di difesa, con 8944 metri
di fossati per carri armati, 72 517 mine anticarro, 23 172 mine antiuomo, 117 370 metri di filo
spinato, 3604 trincee, 2375 postazioni per mitragliatrici e 479 unità di cannoni anticarro . La 184

cosa sorprendente non è quanto sia stata lenta l’avanzata alleata in Italia, nel Pacifico o nelle
campagne della Normandia, ma come si potessero superare difese cosí profonde e con tali effetti
letali. Durante le campagne del 1944, principalmente contro un nemico in ritirata e in difesa, le
forze alleate dovettero imparare a far fronte a ciò che le attendeva sviluppando tattiche e
tecnologie progettate per neutralizzare i vantaggi di cui godeva il difensore e trarre vantaggio
dalla loro crescente supremazia in fatto di equipaggiamenti.
Nella guerra in Asia, le postazioni difensive furono addirittura abbandonate per breve tempo
allorché l’esercito giapponese riprese l’offensiva in Birmania e in Cina pur di evitare una
catastrofe strategica. Una nuova campagna in Cina, dopo un anno in cui gli eserciti di
occupazione giapponesi si erano pressoché limitati a qualche incursione punitiva contro le forze
dei guerriglieri cinesi, era stata un’idea del colonnello Hattori Takushirō, appartenente alla
sezione operativa dell’esercito nipponico. Il «piano strategico a lungo raggio» prevedeva la
conquista di un corridoio ferroviario che collegasse all’Indocina l’area occupata dai giapponesi
nella Cina centrale, al fine di creare una nuova linea di rifornimento che andava dai territori
conquistati del Sud-est asiatico fino all’arcipelago giapponese, soprattutto ora che le rotte
marittime erano soggette a un blocco americano sempre piú intensificato. Hattori sperava che in
tal modo la guerra si sarebbe stabilizzata e si sarebbero rese possibili entro il 1946 nuove
offensive nella regione del Pacifico. L’obiettivo immediato fu dunque una campagna denominata
in codice Ichigō-sakusen (operazione Numero Uno) e iniziata nell’estate del 1944 per
impadronirsi delle principali vie ferroviarie attraverso le province di Henan, Hebei e Hunan per
arrivare fino al confine indocinese. Tōjō aveva approvato il piano a dicembre, insistendo tuttavia
affinché le ambizioni militari fossero ridimensionate e limitate alla conquista delle basi aeree
americane nella regione, una strategia quindi difensiva piuttosto che offensiva. Hattori e i
comandanti presenti in Cina volevano tuttavia di piú e alla metà di aprile 1944, a dispetto di
quanto voleva Tokyo, ebbe inizio una campagna in due momenti: Kogō doveva segnare la prima
fase del consolidamento del collegamento ferroviario Beijing-Hankou; Shōkei, la seconda fase,
era diretta a sud verso Changsha e Hengyang per collegarsi con le forze giapponesi che si
muovevano a nord dall’Indocina. Il Kita Shina hōmen gun (Esercito della Cina del Nord) e lo
Shina hakengun (Corpo di spedizione cinese) impegnarono nelle operazioni 500 000 dei 620 000
soldati presenti in Cina, la piú grande campagna nella storia del Giappone . Le forze nazionaliste
185

cinesi che la affrontarono erano cronicamente a corto di rifornimenti, di uomini addestrati, di


strutture mediche, perfino di uniformi, e con poche prospettive di ricevere aiuti da parte delle
altre armate di Chiang, impegnate nel nuovo tentativo del generale Stilwell di aprire una strada
per i rifornimenti dall’India alla Cina.
La Ichigō-sakusen ebbe successo in tutte le sue fasi contro un nemico indebolito e demoralizzato,
nonostante le lunghe linee logistiche verso le forze di prima linea e la qualità inferiore delle
reclute di fanteria, dato che le divisioni piú esperte nella guerra erano state trasferite nel Pacifico.
Una volta assunto il totale controllo della ferrovia Beijing-Hankou, il 26 maggio, 150 000 soldati
giapponesi si riversarono nella provincia di Hunan e il 18 giugno occuparono la città di
Changsha, che non erano stati in grado di prendere all’inizio della guerra. Il comandante cinese,
generale Xue Yue, aveva solo 10 000 uomini da contrapporre a una forza d’assedio di 30 000
soldati. L’obiettivo seguente, Hengyang, difeso per quarantasette giorni da Xue e dal generale
Fang Xianjue, cadde l’8 agosto. Il comandante dell’aviazione americana in Cina, generale Claire
Chennault, era alla disperata ricerca di ulteriori rifornimenti per gli eserciti cinesi a Hengyang,
ma Stilwell gli disse: «Lasciamoli cuocere nel loro brodo» . La durata della campagna e la crisi
186

che si stava sviluppando in Birmania e nel Pacifico portarono a nuovi tentativi da parte dello
stato maggiore giapponese di porre fine all’operazione, ma Hattori insistette affinché essa
continuasse anche dopo la cattura di sei basi aeree americane. Le forze in movimento
dall’enclave giapponese di Guangzhou e dall’Indocina completarono la conquista di un tratto
ferroviario da sud a nord senza interruzioni. Le campagne costarono all’esercito giapponese 23
000 uomini, ma le forze cinesi di Chiang, ormai stremate, persero 750 000 combattenti . 187
Una campagna altrettanto ambiziosa contro gli Alleati fu pianificata in Birmania dalla Dai-jyūgo
gun, la XV Armata giapponese sotto il comando del tenente generale Mutaguchi Renya, che,
come Hattori, considerava l’occupazione giapponese del nord-est dell’India un mezzo non solo
per sradicare le basi aeree in Assam, che in quel momento rifornivano di merci in Lend-Lease i
cinesi oltre le montagne, ma forse anche per innescare una rivolta antibritannica in India e
forzare gli Alleati a scendere a patti. Nel gennaio del 1944, Tōjō approvò l’operazione Ugō, una
campagna piú cauta volta a occupare una «zona strategica nell’India nord-orientale intorno a
Imphal», e questo benché una forza anglo-indiana si stesse spingendo piú a sud nella regione
birmana dell’Arakan, dove la guarnigione giapponese subí una pesante sconfitta alla fine di
febbraio. L’attacco alle città di Imphal e Kohima fu lanciato il 7-8 marzo da una forza di 3
divisioni di fanteria e 20 000 volontari dell’Esercito nazionale indiano, il cui comandante Subhas
Chandra Bose voleva contribuire a «liberare» la sua patria. In mancanza di mezzi di trasporto a
motore, l’esercito giapponese portò con sé 12 000 cavalli e muli e piú di 1000 elefanti. Il
comandante britannico, tenente generale William Slim, fu avvertito in anticipo dell’operazione e
preparò una difesa nella piana di Imphal. I 155 000 difensori, sostenuti da vaste forze aeree,
superavano in numero gli 85 000 uomini di Mutaguchi, che erano a corto di rifornimenti, non
avevano carri armati e potevano contare su uno scarso sostegno aereo. I combattimenti furono
feroci da entrambe le parti. Slim ricordò in seguito che «la lotta fu senza quartiere, nessuno
concesse né chiese pietà» . Benché Kohima fosse circondata e assediata, i rifornimenti aerei
188

mantennero la sua guarnigione in grado di combattere, come anche quella di Imphal, fino a
quando l’esercito giapponese, debilitato dalla fame, dalle malattie e da mesi di logorio, si ritirò,
dopo aver perso circa il 70 per cento delle sue forze. Il 4 luglio 1944, all’operazione Ugō fu
posto termine per ordine del quartier generale imperiale .
189

Piú a nord in Birmania, Stilwell, nonostante le conclusioni del vertice del Cairo, aveva convinto
Chiang a lasciarlo provare ancora una volta ad aprire la via della Birmania utilizzando le truppe
cinesi della X Force, addestrate e armate in India, con il supporto della Y Force, con base nella
provincia dello Yunnan. A Chiang, riluttante a ripetere il disastro di due anni prima, Roosevelt
inviò un secco messaggio, in cui gli rammentava che, se non avesse rifiutato, «gli Stati Uniti e la
Cina avrebbero avuto limitate opportunità di ulteriore cooperazione». Chiang pensò cupamente
che a quel punto la Cina avrebbe «combattuto questa guerra da sola», ma si arrese all’insistenza
di Stilwell , che a metà maggio raggiunse la città di Myitkyina, ormai disastrata, ma venne
190

fermato ancora una volta dall’ostinata difesa giapponese. Allorché ad agosto le truppe
britanniche, indiane e cinesi costrinsero finalmente la XXXIII Armata giapponese a ritirarsi
verso sud, le forze di Stilwell avevano subito perdite dell’80 per cento. William Slim continuò
l’inseguimento dei giapponesi in ritirata attraverso la pianura dell’Irrawaddy; Mandalay fu presa
il 20 marzo 1945 e alla fine di aprile cadde Rangoon, una città ormai in rovina a seguito dei
bombardamenti alleati, ma solo dopo che l’esercito nazionale birmano di Aung San era passato
dalla parte degli Alleati. Le restanti truppe giapponesi si ritirarono in Malesia. Nel nord, la X
Force e la Y Force cinesi riaprirono finalmente la via della Birmania nel febbraio del 1945 (ora
chiamata, con scarso senso di giustizia, Stilwell Road ); i primi rifornimenti impiegarono tuttavia
mesi per raggiungere la Cina . Per i giapponesi, la difesa della Birmania rappresentò uno scontro
191

mortale. Dei 303 501 soldati impegnati per tre anni, 185 149 morirono in combattimento, di
malattia o di fame – un lugubre memento del fatto che l’esercito nipponico non era riuscito a
rifornire le frontiere dell’impero. Da parte britannica, i morti durante l’intera campagna furono
4037; le truppe indiane e quelle dell’Africa occidentale, che parteciparono a gran parte dei
combattimenti, persero 6599 uomini . 192

Entrambe le operazioni Ichigō e Ugō erano dirette in primo luogo contro lo sforzo bellico
americano, soprattutto per impedire alle forze aeree degli Stati Uniti di sostenere Chiang e
bombardare l’arcipelago giapponese. Per lo sforzo bellico nipponico, tuttavia, un pericolo ben
piú grande si trovava nel Pacifico, dove l’ammiraglio Nimitz, dopo il successo dell’occupazione
delle basi nelle isole Marshall, aveva iniziato a prendere di mira tre isole delle Marianne –
Saipan, Tinian e Guam –, sufficientemente vicine al Giappone per interrompere il traffico
marittimo rimanente e bombardare le isole dell’arcipelago nipponico. La V Flotta di Spruance
disponeva ora di formidabili risorse navali. Il contrammiraglio Marc Mitscher ricevette il
comando della Task Force 58, che comprendeva quindici portaerei e sette nuove corazzate a
protezione della forza di invasione delle isole. Con la direttiva del 12 marzo 1944, lo stato
maggiore congiunto ordinò a Nimitz di iniziare le operazioni il 15 giugno, mentre il generale
MacArthur completava nel Pacifico sud-occidentale la conquista della Nuova Guinea
settentrionale – vero trampolino di lancio per una possibile invasione delle Filippine meridionali.
Per accelerare tale operazione, MacArthur ordinò alle sue forze anfibie e aeree di oltrepassare
semplicemente le guarnigioni giapponesi, che avrebbero potuto essere neutralizzate o distrutte in
seguito. Grazie alla protezione della VII Flotta del viceammiraglio Thomas Kinkaid, e con le
forze anfibie combinate australiano-americane sotto il contrammiraglio Barbey, fu lanciata una
serie di cinque sbarchi anfibi, a iniziare dalle isole dell’Ammiragliato, il cui porto di Seeadler fu
in seguito utilizzato come base di sosta verso le Filippine. Seguirono le operazioni Persecution e
Reckless, che il 22 aprile 1944 assicurarono le teste di ponte circostanti il porto di Hollandia. I tre
sbarchi non incontrarono una seria resistenza, mentre le intercettazioni delle comunicazioni
giapponesi, decifrate presso una base australiana allestita nell’ippodromo di Brisbane,
garantivano alle forze di MacArthur l’opportunità di anticipare gli attacchi giapponesi o i loro
piani di rinforzo . Dopo il consolidamento delle posizioni a Hollandia, furono lanciate altre
193

operazioni per occupare l’isola di Wakde, resa finalmente sicura il 25 giugno dopo pesanti
combattimenti, e successivamente quella di Biak, invasa il 27 maggio. La forza della guarnigione
era stata purtroppo mal calcolata, tanto che le sue piste d’aviazione furono in mani alleate solo
dopo un mese di aspri combattimenti; l’isola fu infine pacificata solamente ad agosto, con la
perdita di un quinto della fanteria alleata e di quasi tutti i difensori giapponesi. Nella Nuova
Guinea occidentale, sgomberata dalle forze australiane, furono costruite basi aeree per la
successiva avanzata a nord. Il perimetro sud-occidentale dell’impero giapponese era stato ormai
completamente violato . 194

La marina giapponese capí chiaramente che le Marianne sarebbero state il successivo obiettivo
americano e iniziò a rinforzare le isole a giugno, poco prima dell’invasione pianificata. Il tenente
generale Saitō Yoshitsugu aveva 31 629 uomini su Saipan, una guarnigione molto piú grande di
quanto stimato dall’intelligence americana, che indicava la presenza di appena 11 000 soldati
pronti al combattimento. Seppure ancora non completate, le difese erano sufficientemente
attrezzate da infliggere ingenti danni. Le tre divisioni di marine e le due dell’esercito assegnate
all’operazione Forager (Raccolta) passarono ancora una volta sotto il comando di Richmond
Turner e Holland Smith, con un totale di 127 000 uomini trasportati sulle isole da una task force
che contava 535 navi, in grado di assicurare l’enorme quantità di 320 000 tonnellate di
rifornimenti . Saipan doveva essere invasa il 15 giugno; Guam, l’ex base americana, il giorno
195

18; Tinian il 15 luglio. La violenta resistenza di Saipan rese tuttavia impraticabile il programma
originario. La forza di invasione della II e IV Divisione marine sbarcò su otto spiagge il 15
giugno, subendo tuttavia pesanti perdite a causa del fuoco d’artiglieria che proveniva da una
serie di colline prospicienti il mare. Il pesante sbarramento dei cannoni delle navi aveva fatto ben
poco per distruggere le posizioni dell’artiglieria nascosta, e i marine finirono rastrellati da
raffiche di mitragliatrici, mortai e artiglieria pesante. Il 18 giugno, Mitscher spostò la Task Force
58 lontano da Saipan per proteggere lo sbarco dall’arrivo della flotta mobile giapponese del Dai-
Ichi Kidō Kantai, guidata dal viceammiraglio Ozawa Jisaburō. Se Spruance presumeva che la
flotta nemica volesse distruggere le navi da trasporto truppe e interrompere l’operazione anfibia,
Ozawa vedeva invece l’opportunità di impegnare le navi al suo comando per distruggere la Task
Force 58 «in un soffio».
L’equilibrio delle forze favorí notevolmente Mitscher, anche se Ozawa portò con sé nove
portaerei e cinque corazzate, il cuore di ciò che restava del Dai-Ichi Kidō Kantai. Le portaerei di
Mitscher trasportavano 900 aerei, appartenenti ai piú moderni modelli, come il Grumman
Hellcat, il Curtiss Helldiver e il Grumman aerosilurante Avenger, con equipaggi meglio
addestrati dei loro omologhi giapponesi. Oltre a essere il doppio degli aerei a disposizione di
Ozawa, la prospettiva di ricevere rinforzi dagli aerei delle basi a terra era stata erosa da quasi una
settimana di continui bombardamenti e mitragliamenti da parte dei velivoli americani . Per il196

Dai-Ichi Kidō Kantai, l’esito di quella che divenne nota come la «battaglia del Mare delle
Filippine» fu un disastro. La mattina del 19 giugno, Ozawa inviò due stormi di aerei all’attacco
della flotta di Mitscher, che aveva preso posizione per sfruttare al massimo le informazioni dei
radar. Su 197 aerei inviati, solo 58 tornarono. Da una terza ondata, quella stessa mattina,
rientrarono 27 aerei su 47; la quarta e ultima ondata, con 82 velivoli, non riuscendo a localizzare
la flotta americana si diresse su Guam, dove furono abbattuti 30 aerei, mentre la maggior parte
degli altri si schiantò sulla pista danneggiata. Solo nove riuscirono a tornare alle loro portaerei.
Benché il numero esatto si sia rivelato difficile da stabilire, almeno 330 velivoli giapponesi, tra i
caccia delle portaerei e gli aerei a terra, furono abbattuti in quello che gli aviatori americani
soprannominarono il Great Marianas Turkey Shoot, il «grande tiro al piccione delle Marianne».
Il giorno seguente, furono persi altri sessantacinque aerei partiti dalle navi giapponesi, mentre le
portaerei Shokaku e Taiho venivano affondate dai sottomarini. La flotta tornò in Giappone con
appena trentacinque velivoli operativi in tutto .
197

Nell’assenza quasi totale di possibili minacce dalla potenza navale o aerea dei giapponesi, la
battaglia per Saipan divenne un’azione di logoramento quotidiano delle forze di Saitō, intente a
tornare verso il nord dell’isola attraverso le cinture difensive. Il 30 giugno, a corto di cibo e
acqua e imbottigliati dall’implacabile fuoco delle navi americane, i difensori si prepararono
all’ultimo atto. Saitō si suicidò, lasciando che dietro di lui piú di 4000 soldati, generosamente
riforniti di sakè, si lanciassero in un banzai di massa, con le poche armi che potevano ancora
trovare o addirittura con armi improvvisate. Dietro la prima ondata, avanzavano i feriti e i malati,
con bende e stampelle, che avevano scelto di morire con i loro compagni. Nella notte tra il 7 e l’8
luglio, si scagliarono contro il nemico in una massa urlante. La prima unità americana fu
sopraffatta e perse 918 uomini, uccisi o feriti, su un totale di 1107. Dopo ore di combattimento,
spesso corpo a corpo, i giapponesi morti erano 4300. Ci vollero due giorni per fare in modo che
l’isola fosse dichiarata sicura, ma non prima che centinaia di civili si affollassero sulle scogliere
della costa settentrionale, dove si suicidarono in massa, accoltellando o strangolando i figli per
poi lanciarsi dalle falesie . Quasi tutti i difensori giapponesi morirono, ma gli americani persero
198

14 111 uomini, un quinto delle truppe da combattimento . 199


L’operazione contro Guam iniziò il 21 luglio dopo tredici giorni di bombardamenti, i piú lunghi
della guerra del Pacifico. Essendo la difesa piú preparata, ci volle una settimana per stabilire una
grande testa di ponte e l’isola fu dichiarata sicura solo l’11 agosto, dopo tre settimane di aspri
combattimenti in cui morirono altri 1744 americani. Si stima che circa 3000 soldati giapponesi
siano fuggiti nella giungla, dove alcuni rimasero fino alla fine della guerra. La terza isola, Tinian,
fu invasa il 24 luglio, ma fu messa al sicuro il 1° agosto con minori difficoltà rispetto a quelle
incontrate a Saipan e Guam. La perdita della Nuova Guinea e poi delle Marianne si dimostrò un
fallimento troppo grave da perdonare agli alti statisti giapponesi, sicché Tōjō fu costretto a
dimettersi da primo ministro il 18 luglio, vedendo frustrate le sue speranze che una vittoria in
Birmania, Cina e Marianne avrebbe spinto gli Stati Uniti a negoziare una pace di compromesso.
A quel punto, era ormai chiaro al governo giapponese che anche l’avventura imperiale della
Germania era segnata. All’inizio del giugno 1944, l’ambasciatore Ōshima aveva avvertito il
ministero degli Esteri di Tokyo che «d’ora in poi sarà molto difficile per la Germania fare la
guerra» – una visione che suscitò una crescente ansia, visto che presto il Giappone sarebbe stato
l’unica potenza dell’Asse rimasta a combattere gli Alleati . Nelle due settimane successive al
200

messaggio di Ōshima, sia nell’Ovest sia nell’Est europeo si rivelarono decisive alcune importanti
operazioni. La mattina del 6 giugno 1944, l’inizio di Overlord realizzò finalmente la promessa di
Roosevelt, confermata a Stalin durante la Conferenza di Teheran. Due settimane dopo, il 23
giugno, l’Armata Rossa lanciò l’operazione Bagration, dal nome del famoso generale che aveva
combattuto Napoleone nel 1812, volta a liberare la Bielorussia dall’esercito tedesco. Le battaglie
successive non misero fine alla guerra, ma segnarono il destino della Germania.
L’invasione da occidente era sembrata piú certa dopo la Conferenza di Teheran, pur rimanendo
una questione controversa rispetto ai rischi e per i persistenti dubbi di Churchill sulla sua reale
fattibilità. La pianificazione dell’assalto, iniziata nell’aprile del 1943 e diretta dal tenente
generale britannico Frederick Morgan, aveva portato a ulteriori diverbi tra gli Alleati. Erano stati
esplorati due possibili siti: uno era il Pas de Calais, attraverso la parte piú stretta del Canale della
Manica, l’altro andava dalla foce della Senna alla penisola del Cotentin in Normandia; i
pianificatori americani preferivano la Normandia, gli inglesi il Pas de Calais. Dopo due giorni di
discussioni al quartier generale di Lord Louis Mountbatten, capo delle Combined Operations,
prevalse l’opzione della Normandia. Durante l’incontro Quadrant a Québec, nell’agosto del
1943, Morgan aveva presentato il piano di un assalto limitato a tre divisioni, da effettuarsi nel
maggio del 1944 . Solo all’indomani di Teheran era stata intrapresa una seria pianificazione,
201

dopo che Roosevelt ebbe concordato un comandante supremo alla guida dell’impresa. George
Marshall avrebbe gradito la possibilità di comandare sul campo, ma Roosevelt, esitante all’idea
di perderlo come consigliere a Washington, gli preferí Eisenhower, che nel gennaio del 1944
lasciò il comando del Mediterraneo al generale britannico Henry Maitland Wilson e portò
Montgomery con sé, nonostante i loro rapporti spinosi, in qualità di comandante generale delle
forze alleate di terra, designate in seguito come XXI Gruppo d’armata. Il 21 gennaio, la nuova
squadra di comando si riuní per ispezionare il piano. Uno sbarco di tre sole divisioni fu
considerato troppo debole per qualsiasi possibilità di successo, per cui si passò a cinque e poi a
sei. Il porto di Cherbourg venne considerato un obiettivo primario, cosí come la città di Caen,
intorno alla quale potevano porre la loro base le forze aeree alleate. Venne previsto il
consolidamento di una forza di trentasette divisioni nella testa di ponte sulla spiaggia prima di
respingere l’esercito tedesco attraverso la Francia. Per la buona riuscita dell’impresa apparivano
critici altri due fattori: in primo luogo, l’offensiva combinata dei bombardieri, concordata a
Casablanca, avrebbe dovuto indebolire l’aviazione e la produzione bellica tedesca tanto da
ridurre i rischi dell’operazione Overlord; in secondo luogo, il fronte italiano doveva essere
stabilizzato, affinché truppe e navi potessero essere trasferite in Gran Bretagna per l’invasione.
Solo nell’estate del 1943 i capi dello stato maggiore congiunto presero a insistere affinché
l’offensiva dei bombardieri si concentrasse sulla Germania al fine di causare danni che sarebbero
stati di aiuto a Overlord. I pianificatori dell’aviazione americana stilarono un elenco di
settantasei obiettivi chiave, dando la priorità all’industria aeronautica tedesca e incorporando tale
obiettivo nella Pointblank Directive, emanata il 10 giugno 1943 al Bomber Command e all’VIII
Air Force. Alle due forze aeree fu chiesto di fornire allo stato maggiore congiunto rapporti
regolari sull’andamento dell’azione dei bombardamenti, in modo da valutare il momento piú
opportuno per l’invasione. A settembre, lo stato maggiore congiunto riconobbe la priorità
assoluta della forza dei bombardieri come indispensabile sostegno a Overlord . I risultati furono
202

contrastanti. Il maresciallo dell’Aria Arthur Harris, responsabile del Bomber Command, insistette
affinché continuasse la strategia degli attacchi notturni alle città industriali, da lui ritenuti il
modo migliore per minare l’economia bellica tedesca. Con l’operazione Gomorra, lanciata tra la
fine di luglio e l’inizio di agosto 1943, venne intrapresa una spettacolare serie di incursioni su
Amburgo, che provocarono la morte di 34 000 civili ma colpirono solo leggermente il complesso
bellico-industriale. La VIII Air Force, che aveva raggiunto la sua forza effettiva solo alla fine del
1943, prese di mira le industrie tedesche dei cuscinetti a sfera e dell’aeronautica, ma con perdite
cosí alte che a novembre la campagna diurna era quasi terminata, per essere ripresa in profondità
in Germania solo nel febbraio del 1944. Dopo Amburgo, Harris colpí Berlino con un prolungato
bombardamento durante l’inverno del 1943-44. Anche quei raid comportarono tuttavia perdite
elevate senza effetti chiaramente decisivi sulla potenza aerea tedesca. Harris, che aveva dirottato
circa il 2 per cento dei suoi bombardamenti sugli impianti di assemblaggio degli aerei da
combattimento, ricevette l’ordine di fare di piú . Dinanzi alle prove che la forza dei caccia
203

tedeschi era in costante aumento, malgrado i bombardamenti, venne comunicato al generale Ira
Eaker, comandante dell’VIII Air Force, e al generale di brigata James Doolittle, che gli era
subentrato nel gennaio del 1944, che Pointblank doveva «essere portata all’estremo» se si voleva
sufficientemente degradare la potenza aerea tedesca . Lo stesso mese, il generale Carl Spaatz fu
204

nominato comandante in capo delle forze aeree strategiche americane in Europa – un militare
fortemente legato all’idea che l’aeronautica tedesca poteva essere minata fatalmente non solo
distruggendo la produzione aeronautica, ma anche logorando la Luftwaffe che cercava di fermare
il flusso dei bombardieri alleati.
L’elemento chiave per eliminare la forza aerea tedesca erano i caccia su lunghe distanze. Se fino
agli ultimi mesi del 1943 non era stato fatto alcuno sforzo per fornire una scorta diurna di caccia
ai bombardieri americani che sorvolavano il suolo tedesco, la consapevolezza che non esisteva
altro modo per invertire gli alti tassi di perdite spinse a elaborare urgentemente un progetto per
montare serbatoi di carburante extra su tre aerei, il Lockheed P-38 Lightning, il Republic P-47
Thunderbolt e il North American P-51 Mustang. Dei tre, il Mustang fu quello di maggior
successo, essendo in grado di volare ben oltre Berlino o addirittura fino a Vienna. L’VIII Fighter
Command degli Stati Uniti, sotto il comando del generale maggiore William Kepner, era ben
deciso a impiegare i caccia a lungo raggio per dare battaglia all’aeronautica tedesca, permettendo
ai suoi numerosi aerei, piú di 1200 all’inizio del 1944, di volare «in piena autonomia», affrontare
i caccia nemici mentre si mettevano in formazione o salivano per intercettare il nemico e
spingerli fino alle basi dove venivano colpiti dalle mitragliatrici a terra . L’obiettivo era non
205
concedere alcuna tregua al braccio combattente nemico. Anche se i flussi di bombardieri
dell’VIII Air Force, ora diretti in via prioritaria sulle industrie aeronautiche tedesche, subirono le
perdite percentuali piú elevate durante le incursioni della primavera del 1944, in cui si
scontrarono con una Luftwaffe riorganizzata e comandata dal generale colonnello Hans-Jürgen
Stumpff, l’emorragia dei caccia tedeschi si rivelò irreversibile. A febbraio, un terzo dei caccia
del Reich erano andati perduti; ad aprile, ne era stato abbattuto il 43 per cento. Poiché quasi i
quattro quinti di tutti i caccia tedeschi erano ora impegnati nella difesa del Reich, il risultato fu
che vennero lasciati sguarniti di aerei sostitutivi gli altri fronti di combattimento. Tra gennaio e
giugno del 1944, l’aviazione tedesca perse negli scontri aerei 6259 velivoli e altri 3626 a causa di
incidenti – il riflesso di un chiaro declino dell’addestramento dei piloti . Piú che i206

bombardamenti furono le battaglie aeree sulla Germania a garantire che Overlord, quando fosse
venuto il momento, avrebbe goduto della completa supremazia aerea. Il 6 giugno, data di inizio
dell’operazione, la 3. Luftflotte, di stanza nel nord della Francia, aveva solo 520 aerei operativi e
appena 125 caccia; gli Alleati ne radunarono in totale 12 837, inclusi 5400 aerei da
combattimento . «In cielo ci sono piú cacciabombardieri e bombardieri americani che uccelli»,
207

scrisse un soldato tedesco nei primi giorni dell’invasione, «non si vedono mai aerei tedeschi» . 208

Anche se la situazione in Italia non era cosí importante quanto la distruzione della potenza aerea
tedesca, lo stato maggiore congiunto si era posto come obiettivo che la campagna italiana
raggiungesse la linea «Pisa-Rimini» a nord di Roma ben prima dell’inizio di Overlord, in modo
da garantire che il teatro di guerra mediterraneo non avrebbe interferito nell’impresa ben piú
grande vincolando risorse di forze umane e mezzi di trasporto. Alla fine del 1943 sarebbe stata
accettabile anche la situazione di stallo sulla Linea Gustav, dal momento che le forze tedesche
erano comunque bloccate; Kesselring aveva tredici divisioni nel sud dell’Italia e altre otto nel
nord. Dopo Teheran era stato soprattutto Churchill a insistere nel considerare «la stagnazione in
Italia» come una sorta di macchia della storia britannica, sollecitando ancora una volta di
raggiungere Roma con un ultimo sforzo entro febbraio, ben prima quindi dell’invasione della
Francia . Una soluzione possibile, già suggerita dal generale Clark, era uno sbarco anfibio dietro
209

la Linea Gustav, in modo da interrompere le comunicazioni tedesche e forse spostarsi verso


Roma attraverso i Colli Albani mentre le truppe del Reich si ritiravano. Benché Eisenhower
fosse contrario all’idea, il parere di Churchill prevalse, con la speranza di uno sbarco ancora piú
ambizioso alla foce del Tevere, vicinissima alla capitale anche se troppo lontana dalla Linea
Gustav. Churchill dovette persuadere Roosevelt a consentire che un numero sufficiente di mezzi
da sbarco rimanesse nel Mediterraneo ancora qualche settimana, in modo da effettuare
l’operazione Shingle (Spiaggia di ciottoli), ma Alexander e Clark insistettero per uno sbarco piú
modesto sulle spiagge di Anzio con due sole divisioni – abbastanza vicino alle linee tedesche da
costituire una minaccia ma anche in prossimità delle colline che portavano a Roma . 210

L’operazione fu pianificata troppo rapidamente e quasi senza alcuna riflessione sul suo
successivo sviluppo a sbarco avvenuto. Il comandante prescelto per il VI Corpo americano, il
general maggiore John Lucas, era visibilmente preoccupato della prospettiva e temeva una
seconda Gallipoli, con «lo stesso dilettante […] ancora seduto sulla panchina dell’allenatore» . 211

Le prove dell’operazione anfibia furono considerate da Lucas «un fiasco», visto che erano andati
persi in mare 43 veicoli anfibi e 19 pezzi di artiglieria pesante. Lo sbarco avvenne il 22 gennaio,
in un settore del litorale dove c’erano pochissimi soldati tedeschi. Al secondo giorno, le forze
alleate si erano ritagliate un fronte di 40 chilometri, ma a quel punto Lucas preferí trincerarsi
anziché rischiare un’avanzata piú aggressiva verso le retrovie tedesche. Kesselring scelse la
parola in codice Richard per lanciare l’allarme di un attacco costiero e radunò le poche forze che
poteva da Roma e tre divisioni dal nord. Il 2 febbraio, con Lucas ancora immobile, la 14. Armee
del generale Eberhard von Mackensen aveva circondato la testa di ponte, imbottigliando gli
americani fino a maggio . Lucas fu rimpiazzato da uno dei suoi comandanti di divisione, il
212

generale maggiore Lucian Truscott, ma tale sostituzione, a parte sollevare il morale delle truppe,
fece ben poca differenza per forzare il blocco.
Lo sbarco di Anzio fu un fallimento strategico, e tra i suoi critici sollevò ulteriori dubbi che
l’operazione Overlord potesse avere successo. A causa delle pessime condizioni meteorologiche
fallí anche un tentativo simultaneo di sfondare la Linea Gustav, con l’obiettivo di riunirsi alle
forze della testa di ponte e cacciare i difensori tedeschi, trincerati in un terreno montano
strategicamente favorevole. Il punto nodale del fronte erano la città di Cassino e le alture
sovrastanti, sormontate dall’abbazia benedettina di Montecassino. I costi per liberare la città e
dare l’assalto alle zone montuose superavano di gran lunga il vantaggio di avanzare
ulteriormente verso il nord della penisola. A febbraio e marzo, un corpo della Nuova Zelanda,
che includeva anche la IV Indian Division, tentò due volte di assaltare la città senza successo, in
parte a causa dello stesso bombardamento distruttivo che aveva preceduto l’attacco e bloccato di
macerie tutte le strade. Il 15 febbraio, i bombardieri della XV Air Force americana sganciarono
sull’abbazia 351 tonnellate di bombe, presupponendo, erroneamente, che i tedeschi la stessero
usando come fortilizio di difesa e uccidendo i 230 civili italiani che vi si erano rifugiati . La 1.
213

Fallschirmjäger-Division (Prima divisione paracadutisti) tedesca occupò poi le rovine


dell’abbazia, che tenne fino a maggio. Alexander fu costretto a ripensare all’intera campagna.
Dalla costa adriatica venne avviata con l’VIII Armata l’operazione Diadem allo scopo di
sbloccare la situazione: mentre le alture di Cassino venivano prese d’assalto, la V Armata di
Clark avrebbe dovuto risalire lungo la costa occidentale mentre l’VIII Armata avrebbe aperto la
valle del Liri e aggirato le linee tedesche per circondare le forze di Kesselring. Erano in campo
oltre 300 000 soldati alleati, inclusi Il Corps expéditionnaire français en Italie comandato dal
generale Alphonse Juin, e il Drugi korpus wojska Polskiego (Secondo corpo polacco) guidato dal
tenente generale Władysłav Anders. Una vittoria nella regione, si pensava, avrebbe impedito alla
Wehrmacht di trasferire divisioni per opporsi all’operazione Overlord . 214

La campagna fu finalmente lanciata l’11 maggio, solo tre settimane prima dell’invasione della
Francia. Nel giro di una settimana, il XIII Corpo britannico aveva aperto la valle del Liri, a ovest
di Cassino, mentre Truscott era finalmente riuscito a sfondare l’accerchiamento attraverso la
testa di ponte di Anzio. Per le forze tedesche, logorate da mesi di duri combattimenti in
montagna, la sorpresa fu totale; quattro dei principali comandanti tedeschi erano lontani dalla
battaglia, altri due stavano per essere decorati da Hitler in persona. I combattimenti piú duri
furono per conquistare le alture che sovrastavano le rovine di Cassino. L’esercito di Anders
riuscí ad avanzare, affrontando una resistenza tedesca quasi suicida e subendo pesanti perdite. Il
17 maggio, le unità polacche erano proprio sotto l’abbazia, ma i difensori tedeschi, stremati ed
esausti, iniziarono a ritirarsi. Il giorno seguente, i ricognitori polacchi trovarono l’abbazia
occupata solo da feriti. Una bandiera polacca fu spiegata sull’edificio semidistrutto e un
trombettiere polacco suonò il Kraków Hejnał, uno degli inni nazionali polacchi piú famosi della
Seconda guerra mondiale. Fu il momento piú simbolico della lunga lotta dei polacchi contro il
nemico tedesco. Poche ore dopo, gli ufficiali britannici insistettero perché fosse fatta sventolare
anche la Union Jack . Consapevole di non essere in grado di sopportare il peso dell’operazione
215

alleata, Kesselring iniziò a ritirarsi per evitare l’accerchiamento. Anziché chiudere il cerchio,
Clark ordinò a Truscott, che stava ora avanzando da Anzio, di spostarsi invece a nord, verso
Roma, per assicurarsi che la capitale cadesse in mano alle forze americane. La 10. e la 14. Armee
della Wehrmacht riuscirono a passare attraverso la falla rimasta aperta tra le forze alleate e, come
avevano fatto i tedeschi a Messina, si spostarono a nord di Roma. Le forze di Clark entrarono
nella capitale il 5 giugno, il giorno prima dell’invasione della Normandia, con grande irritazione
di Churchill perché una chiara vittoria britannica era stata preceduta da quella americana . 216

L’esercito tedesco in Italia non era stato del tutto annientato, come invece avrebbe potuto essere.
La tesi secondo cui la situazione sul fronte italiano sarebbe stata d’aiuto a Overlord è oggetto di
discussione. Alexander aveva piú di 25 divisioni in Italia, che nella campagna per raggiungere
Roma registrarono 42 000 morti. Almeno una parte di questa forza avrebbe potuto contribuire a
un piú rapido successo in Normandia, riportando quasi sicuramente perdite inferiori.
L’interesse di Londra per la campagna italiana era limitato unicamente al fatto che non
assorbisse altre navi necessarie allo sbarco di Overlord. Alla fine, la Gran Bretagna ne cedette un
numero sufficiente a soddisfare Eisenhower. Lo sbarco congiunto concordato a gennaio
comportò ulteriori ritardi, man mano che venivano approntate risorse e rifornimenti. A febbraio
era stata concordata per l’operazione la data del 31 maggio, ma le condizioni ideali di luce lunare
e bassa marea, indispensabili per facilitare la traversata e lo sbarco, si presentarono la prima
settimana di giugno. A maggio, Eisenhower decretò finalmente che il D-Day sarebbe stato il 5
giugno. Per garantirne il successo, era necessario trovare un modo per proteggere le navi mentre
i rifornimenti venivano portati a terra, poiché la conquista e la ricostruzione di un porto
importante avrebbero quasi certamente richiesto tempo. Si decise allora di allestire due pontili
artificiali in cemento e metallo, o Mulberries, che sarebbero stati costruiti nei primi giorni al
largo delle spiagge della Normandia; furono poi rimorchiati a pezzi durante il D-Day per essere
assemblati da una task force di 10 000 operai . Era altrettanto essenziale trovare il modo di
217

limitare la capacità tedesca di rafforzare rapidamente l’esercito in difesa della Normandia. A


gennaio, il facente funzioni di Eisenhower in Gran Bretagna, il maresciallo capo dell’Aria
Tedder, reclutò lo scienziato del governo britannico Solly Zuckerman per pianificare il
bombardamento di 100 punti nodali della rete ferroviaria francese, allo scopo di ostacolare i
movimenti delle truppe tedesche. Il piano, approvato da Eisenhower, suscitò una profonda
opposizione. Ad aprile, Churchill riferí al gabinetto di guerra che il bombardamento di obiettivi e
l’uccisione di civili francesi avrebbero aperto una «breccia insanabile» tra la Francia e gli Alleati
occidentali. Entrambi i comandanti dei bombardieri strategici, Spaatz e Harris, affermarono che
bombardare piccoli bersagli ferroviari con bombardieri pesanti era un uso «del tutto inefficace» e
«antieconomico» delle loro forze aeree . Il loro rifiuto di approvare le azioni di bombardamento
218

fece infuriare Eisenhower, che minacciò di dimettersi piuttosto che combattere con delle
«primedonne». Gli stessi ufficiali si rifiutarono altresí di cedere il comando al comandante
dell’Aeronautica tattica di Eisenhower, il maresciallo dell’Aria Trafford Leigh-Mallory.
Disperato, Eisenhower comunicò a Churchill che se ne sarebbe «tornato a casa» se non avesse
ottenuto ciò che voleva . Fu quindi raggiunto un accordo di compromesso che poneva le forze
219

dei bombardieri sotto il comando diretto di Eisenhower, ma permetteva a Spaatz di continuare a


bombardare obiettivi aerei e petroliferi tedeschi ogni qual volta ne avesse avuto l’opportunità.
Roosevelt intervenne insistendo sul fatto che non si dovevano avere scrupoli sull’operazione,
sicché la campagna di cinque settimane di bombardamenti, stando ai funzionari francesi, ridusse
il traffico ferroviario nel nord e nell’ovest del paese al 15 e 10 per cento del dato relativo al mese
di gennaio, ma quei preparativi dell’invasione costarono la vita a piú di 25 000 civili francesi . 220
Alla fine, i bombardieri pesanti si rivelarono meno utili dei cacciabombardieri e dei bombardieri
leggeri di Leigh-Mallory, che in pochi giorni, prima dell’invasione, distrussero 74 ponti e
gallerie con attacchi precisi, isolando con successo il nord-ovest della Francia .
221

Il terzo elemento indispensabile al successo dell’operazione Overlord era fino a che punto
sarebbe stato possibile ingannare la parte tedesca circa la direzione e i tempi dello sbarco. Si
trattava di un’impresa scoraggiante, considerando la vastità della forza che si stava ora
radunando nel sud dell’Inghilterra e che alla fine avrebbe raggiunto quasi tre milioni di uomini.
A gennaio fu approvato un piano di disinformazione con il nome in codice Bodyguard (Guardia
del corpo) che aveva lo scopo di persuadere i tedeschi che il vero obiettivo dell’invasione era il
Pas de Calais. L’elemento cardine fu la creazione di un First Army Group completamente fittizio
nel sud-est dell’Inghilterra, posto ostentatamente sotto il comando del generale Patton,
temporaneamente emarginato per aver colpito un ferito affetto da disturbi psichiatrici. Finti
campi ed equipaggiamenti, false stazioni radio e ingannevoli informazioni divulgate da agenti
doppiogiochisti contribuirono a creare l’immagine di una forza molto maggiore concentrata di
fronte a Calais. Nel giugno del 1944, l’intelligence militare tedesca presumeva che vi fossero
ottanta divisioni in attesa di invadere la Francia, mentre in realtà erano solo trentotto . L’inganno
222

raggiunse il suo scopo in quanto confermava le ipotesi tedesche. Hitler e il comando militare
presumevano infatti che il luogo piú ovvio per l’invasione dovesse corrispondere alla rotta piú
veloce attraverso la Manica e piú vicina alla vulnerabile regione industriale Reno-Ruhr. L’uomo
scelto per organizzare la difesa in Francia, il feldmaresciallo Rommel, era convinto che il Pas de
Calais fosse l’obiettivo primario, ma le testimonianze di una concentrazione di forze nel sud-
ovest dell’Inghilterra lo indussero a considerare nella tarda primavera la possibilità di uno sbarco
diversivo o secondario in Normandia al solo scopo di testare le difese tedesche, mentre sarebbe
seguito piú tardi un piú vasto attacco al Pas de Calais. Il risultato fu che le forze tedesche della
Heeresgruppe B in Francia furono divise tra la 15. Armee sotto il generale colonnello Hans von
Salmuth, che disponeva di venti divisioni, incluse quasi tutte le unità motorizzate e corazzate, a
difesa della regione dalla Senna ai Paesi Bassi, e la 7. Armee in Bretagna e Normandia agli ordini
del generale colonnello Friedrich Dollmann, che disponeva di quattordici divisioni ma solo della
21. Panzerdivision. L’inganno fu cosí efficace che solo ad agosto Hitler autorizzò il
trasferimento della 15. Armee per arginare la marea alleata a ovest.
Il Führer attendeva da tempo l’invasione, convinto che la sconfitta degli Alleati occidentali fosse
la «battaglia decisiva». Nel Führerbefehl 51 del 3 novembre 1943 Hitler aveva sostenuto che
l’invasione a ovest rappresentava un pericolo maggiore di quello a est e che avrebbe dovuto
essere affrontata con decisione per porre fine una volta per tutte alla minaccia anglo-americana.
Nel marzo del 1944, a detta di Rommel, si era rivolto ai comandanti tedeschi spiegando con
«meravigliosa chiarezza» la sua strategia in Occidente:
L’intera operazione di sbarco del nemico non deve in nessun caso durare piú di qualche ora o al massimo qualche giorno, per cui
il tentativo di sbarco a Dieppe può essere considerato un «caso ideale». Una volta subita una sconfitta in uno sbarco, il nemico
non lo ripeterà in nessun caso. Servirebbero mesi […] per prepararne uno nuovo. Non solo questo distoglierà tuttavia gli anglo-
americani da un nuovo tentativo, ma darà anche l’impressione demoralizzante di un’operazione di sbarco fallita.
Dopo la sconfitta, proseguiva Hitler, Roosevelt non sarebbe stato rieletto, mentre Churchill,
ormai troppo vecchio e malato, non sarebbe stato capace di ripetere l’invasione . 223

Rommel dovette preparare le difese nei primi mesi del 1944, in previsione di un’invasione la cui
data non era affatto certa. Il Vallo Atlantico esisteva già, ma era tutt’altro che completo. Il
feldmaresciallo poteva contare su 774 000 operai e 3765 veicoli messi a disposizione
dall’onnipotente Organisation Todt; il 6 giugno, erano state realizzate 12 247 delle 15 000
postazioni difensive previste, era stato piazzato mezzo milione di ostacoli lungo le spiagge ed
erano state posati 6,5 milioni di mine, ma le difese della costa nord-orientale, con ben 132
batterie di artiglieria, restavano comunque molto piú forti che in Normandia, il cui settore
occidentale ne aveva appena 47 . Il numero delle divisioni, inoltre, suggeriva un’abbondanza di
224

unità operative dell’esercito molto superiore a quella che era in realtà. Molti dei soldati erano
infatti anziani o appena guariti da ferite e piú adatti a una difesa statica; l’età media dei soldati
delle sei divisioni che presidiavano le fortificazioni del Vallo Atlantico era di trentasette anni.
Circa 20 delle 58 divisioni di stanza in Francia comprendevano di fatto truppe di guarnigione
formate da soldati di nazionalità mista, compresi quelli reclutati nella steppa russa. In molti casi,
erano pressoché inattive da lunghi periodi, avevano meno equipaggiamenti moderni o erano
perfino carenti di armi convenzionali, senza contare che le divisioni costiere erano decisamente a
corto di carburante . 225

Per dei difensori, il problema di tutti gli assalti anfibi stava nel valutare se fosse meglio
annientare lo sbarco direttamente sulle spiagge oppure aspettare che la testa di ponte si
consolidasse e poi attaccarla con riserve mobili fino a ricacciare il nemico in mare. Rommel
preferiva una sconfitta sulla costa, con l’utilizzo delle divisioni delle difese costiere appoggiate
da riserve, tenute a breve distanza nelle retrovie in modo da poter essere schierate là dove fossero
state necessarie. Il comandante in capo dell’esercito tedesco nell’Ovest, Von Rundstedt, e il
comandante delle forze Panzer in Francia, il generale Geyr von Schweppenburg, preferivano
entrambi la presenza di una grande riserva mobile da lanciare contro l’asse principale
dell’attacco – in questo caso l’area intorno a Calais, piú adatta ai carri armati. Hitler risolse la
controversia con un infelice compromesso: a Rommel fu permesso di mantenere le difese
costiere nell’evenienza che gli Alleati potessero sbarcare non in uno, ma in due o anche tre posti,
mentre Von Schweppenburg ebbe il controllo di una riserva mobile centrale di quattro divisioni
Panzer, da schierare dove necessario. Di conseguenza, la riserva centrale non era abbastanza
forte per essere decisiva, neppure se fosse stata in grado di muoversi sotto i costanti attacchi
aerei e con le azioni di sabotaggio della Resistenza francese, mentre le difese costiere erano
troppo limitate per riuscire a respingere gli invasori direttamente dalle spiagge . Il tempismo era 226

essenziale per il successo, ma non c’era modo di sapere quando sarebbe arrivata l’invasione. Le
truppe venivano messe regolarmente in massima allerta, ma solo per un apparente pericolo che
presto scompariva. Pesanti bombardamenti sul nord-est e altri piú leggeri in Normandia –
organizzati intenzionalmente come parte dell’inganno – lasciavano pensare, come previsto, a
un’invasione lungo la costa di Calais. Allorché nelle belle giornate di maggio non si vide alcuna
azione da parte degli Alleati, l’alto comando di Hitler iniziò a chiedersi se l’invasione sarebbe
arrivata prima di agosto. L’improvviso peggioramento del tempo nei primi giorni di giugno portò
un momento di sollievo. Rommel andò in Germania per festeggiare il compleanno della moglie,
mentre molti ufficiali anziani dello stato maggiore, nel giorno critico dell’invasione, erano
lontani, impegnati in simulazioni a tavolino.
A metà maggio, Eisenhower e Montgomery comunicarono ai comandanti il piano preciso
dell’operazione. A ovest, ai piedi della penisola del Cotentin, la I Armata del generale Bradley
avrebbe invaso le spiagge denominate «Utah» e «Omaha» con due divisioni; piú a est, verso
Caen, il generale Miles Dempsey avrebbe guidato la II Armata britannica con tre divisioni
(incluse unità del Canada e della Francia Libera) sulle spiagge denominate «Gold», «Juno» e
«Sword». Le due armate avrebbero avuto il supporto su entrambi i lati di lanci di truppe
aviotrasportate: gli inglesi sostenuti dalla VI Divisione aviotrasportata, gli americani
dall’LXXXII e dalla CI Divisione aviotrasportata. A sostenere l’invasione vi sarebbero stati piú
di 12 000 aerei e 1200 navi da guerra che scortavano oltre 4000 mezzi per gli sbarchi anfibi.
Montgomery si aspettava di prendere Caen in pochi giorni e sostenere poi il fulcro orientale
contro il contrattacco tedesco, mentre le forze americane irrompevano in Bretagna per poi
volgersi verso Parigi e la Senna; secondo il calendario del generale, gli invasori sarebbero
arrivati a Parigi in novanta giorni. Nelle tre settimane successive vi fu un completo blackout
delle informazioni, al fine di mantenere la piena sorpresa operativa. Le truppe furono confinate
nei loro campi, i marinai rimasero nelle loro navi e tutto il traffico diplomatico, la posta verso
l’estero e i collegamenti telegrafici vennero temporaneamente sospesi. Negli ultimi giorni,
Eisenhower apparve nervoso e taciturno – erano i «tremori del D-Day», come scrisse il suo
aiutante di campo –, anche se, con il senno di poi, è difficile capire perché temesse una possibile
catastrofe viste le enormi forze a sua disposizione. Alan Brooke si rivelò ancora piú pessimista
nel suo diario, elucubrando che nel peggiore dei casi l’operazione «potrebbe risolversi nel
disastro piú grave di tutta la guerra» . L’ansia era aggravata da quello stesso cambiamento
227

meteorologico che aveva convinto Rommel a recarsi in Germania. In tre giorni di incontri tesi,
Eisenhower interrogò il meteorologo piú esperto, John Stagg, sulle previsioni. La data originaria
dell’invasione – il 5 giugno – dovette essere abbandonata per i forti venti di burrasca e la pioggia
battente, ma la sera del giorno 4 Stagg annunciò un miglioramento del tempo nel giro di
ventiquattr’ore, sufficiente a giustificare il rischio. Eisenhower meditò sulla decisione,
dopodiché, come è noto, rispose: «OK. Si parte». Le flotte salparono per l’invasione il giorno
seguente, nelle prime ore del 6 giugno .
228

L’elemento sorpresa si rivelò in effetti quasi perfetto. L’idea della Normandia come diversivo
rendeva difficile ai comandanti tedeschi capire se quella fosse la vera invasione o meno. Hitler,
informato di quanto stava accadendo solamente a mezzogiorno, apparve palesemente sollevato
dal fatto che la tensione dell’attesa era finalmente finita. Lo sbarco, disse al suo staff, era
avvenuto «proprio dove li aspettavamo!» . Le azioni di resistenza furono disomogenee e
229

pericolosamente intense solo sulla spiaggia «Omaha» (i dettagli completi della fase anfibia sono
esaminati nel quinto capitolo), ma alla fine della giornata erano sbarcati 132 450 uomini,
supportati da equipaggiamenti pesanti e migliaia di tonnellate di rifornimenti. Rommel
contrattaccò nel tardo pomeriggio con la 21. Panzerdivision, ma la riserva di mezzi corazzati di
Von Schweppenburg rimase bloccata dalle forze aeree alleate, esattamente come Rommel aveva
previsto che sarebbe avvenuto. Il 7 giugno, le teste di ponte si unirono e il giorno 11 erano stati
ormai ammassati 326 000 uomini, 54 000 veicoli e 104 000 tonnellate di rifornimenti . Bayeux
230

fu conquistata in due giorni, ma l’obiettivo di Montgomery, cioè prendere rapidamente Caen, fu


mancato a causa di una difesa improvvisata. Nell’operazione Perch (Trespolo), lanciata il giorno
13 per prendere la città di Villers-Bocage e spingersi verso Caen, una sottile linea della difesa
tedesca inflisse una pesante sconfitta alla VII Divisione corazzata, e il fronte si consolidò.
All’OKW, poco prima dell’invasione, Jodl aveva predetto che i combattimenti avrebbero
dimostrato il diverso morale «del soldato tedesco, minacciato dalla distruzione della sua patria, e
quello degli americani e inglesi, che ancora adesso non capiscono perché stanno combattendo in
Europa». I soldati tedeschi si batterono con vigore inaspettato, ma lo scontro, per molti di loro,
era ormai concluso. «Fu una battaglia come quelle del secolo scorso», ricordava un
Panzergrenadier, «quando l’uomo bianco combatteva contro gli indiani» . Le unità dell’esercito
231

regolare riuscirono a stabilire una linea di difesa seppure debole, mentre Rommel riuscí a
recuperare alcune divisioni dalla riserva. Gli eserciti alleati dovevano lottare anche con il terreno,
che favoriva i difensori: boschi, basse colline, viuzze strette e alte siepi – il tipico paesaggio del
bocage. Le imboscate erano facili da organizzare e i cecchini godevano di una generosa
copertura. Nonostante la potenza aerea dominante, che impediva ogni movimento tedesco alla
luce del giorno, se non nei giorni piú nuvolosi, le tattiche difensive tedesche si dimostrarono
difficili da superare: «Il vero tedesco “nazista”», scrisse un soldato canadese, «combatte fino
all’ultimo e ce la mette tutta. Sono giovani, robusti e fanatici da morire» .
232

Nonostante i numerosi vantaggi di cui godevano gli Alleati, i progressi erano cosí lenti che al
quartier generale di Eisenhower si temeva che potesse ripetersi lo stallo della guerra di trincea
della Prima guerra mondiale. L’unico successo iniziale fu quando Bradley si spinse nella
penisola del Cotentin per prendere Cherbourg. Le quattro divisioni presenti nella penisola furono
tagliate fuori dal resto delle linee tedesche, e la difesa crollò. Il 22 giugno, le forze americane a
terra, appoggiate dal fuoco di sbarramento delle navi, iniziarono l’assedio del porto. Benché
Hitler avesse ordinato al comandante della guarnigione, il tenente generale Karl-Wilhelm von
Schlieben, di resistere a tutti i costi, fino all’ultimo uomo, egli si arrese il giorno 26, anche se
parte della guarnigione resistette per altri cinque giorni. Hitler divenne furioso con il «porco
senza onore» che si era arreso invece che morire. Il Führer, avendo ormai quasi abbandonato
l’idea di respingere l’invasione in mare, il 29 giugno ordinò a Rommel di accerchiare il nemico
«con piccoli combattimenti» . Insoddisfatto dell’approccio tattico di Von Rundstedt, Hitler lo
233

sostituí con l’ex comandante della Heeresgruppe Mitte, il feldmaresciallo Von Kluge.
Piú a est, le armate di Montgomery furono bloccate a nord di Caen. Grazie al cattivo tempo,
Rommel era riuscito a impegnare quattro divisioni Panzer, portate in campo per rafforzare la
difesa, e tra il 29 giugno e il 1° luglio lanciò un contrattacco sul fronte di Caen che fu respinto
solo da un intenso fuoco di artiglieria. Durante la sua visita al fronte all’inizio di luglio,
Eisenhower «bruciava di rabbia», frustrato da quella che considerava un’eccessiva cautela da
parte di Montgomery, anche se dopo Cherbourg il gruppo d’armata di Bradley aveva trovato
altrettanto difficile avanzare attraverso un terreno di campagna, del tutto inadatto a una guerra
rapida e mobile. L’8 luglio, Montgomery lanciò finalmente un attacco a tutto campo contro le
postazioni tedesche con l’operazione Charnwood, ma Rommel si era già ritirato in una zona
difensiva a sud di Caen, ben preparata, profonda 16 chilometri e dominata dalla cresta di
Bourguébus, dove furono installati settantotto cannoni antiaerei da 88 mm a proiettili penetranti.
Il 13 luglio, Montgomery pianificò una grande offensiva, l’operazione Goodwood, volta a
bloccare e distruggere le riserve corazzate tedesche e aiutare Bradley a spezzare la resistenza piú
a ovest: «Tutte le attività sul fianco orientale», riportava un rapporto per Brooke, «sono
progettate per aiutare le forze a ovest» .
234
Goodwood durò tre giorni di intensi combattimenti, durante i quali le truppe britanniche e
canadesi combatterono attraverso le prime tre linee di difesa, sostenute dall’artiglieria anticarro
posizionata sulla cresta di Bourguébus. Il 20 luglio, dopo che un violento acquazzone aveva
trasformato il terreno in fango, Montgomery mise fine all’operazione. L’obiettivo di logorare i
difensori tedeschi con costi considerevoli era stato comunque raggiunto. Il giorno dopo la
battaglia, Von Kluge riferí a Hitler: «Si è avvicinato il momento in cui questo fronte, già cosí
pesantemente sotto pressione, si romperà». A quel punto, le unità tedesche avevano perso 2117
veicoli corazzati e 113 000 uomini, tra cui lo stesso Rommel, ferito dalle mitragliatrici degli
aerei alleati. Anche le forze anglo-americane avevano subito pesanti perdite di carri armati, ma a
fine luglio ne avevano ancora 4500, contro un totale tedesco di 850. Ormai, piú di un milione e
mezzo di uomini e 330 000 veicoli erano stati portati nella testa di ponte . Anche se la
235

frustrazione di Eisenhower era comprensibile, Montgomery aveva raggiunto il suo scopo. A fine
luglio vi erano 6 divisioni Panzer con 645 carri armati sull’asse orientale a sud di Caen, ma di
fronte al XII Gruppo d’armata di Bradley ve n’erano solo 2, con 110 mezzi corazzati operativi.
Fu qui, il 25 luglio, che le 15 divisioni di Bradley, ora sostenute da una III Armata americana
sotto il comando di Patton, iniziarono l’operazione Cobra, un’offensiva destinata alla fine a
distruggere il fragile scudo tedesco che dava filo da torcere agli Alleati. A quel punto, le 25
divisioni che fronteggiavano gli Alleati erano sfinite da settimane di logoramento e prive di
rinforzi significativi. Almeno 11 di esse non erano piú considerate in grado di combattere,
mentre gli spostamenti avvenivano in gran parte con i cavalli – fatti che incoraggiarono Hitler a
ordinare alla linea di resistere a ogni costo, poiché una ritirata verso una piú lunga linea di difesa
nella Francia orientale non sembrava piú possibile . 236

Il crollo tedesco sul settore occidentale del fronte divenne ora rapido e totale. Dopo il
bombardamento di 1500 bombardieri pesanti la prima mattina, i difensori, ormai storditi, furono
sopraffatti. Le colonne corazzate americane, precedentemente bloccate nel bocage, avanzavano
ora con bulldozer e carri armati Sherman (soprannominati Rhinoceros), provvisti di «denti»
d’acciaio per spingersi attraverso siepi e orti, mentre le forze tedesche, confinate sulle strade,
venivano mitragliate e bombardate dai cacciabombardieri americani. La città di Coutances fu
presa in due giorni da una mezza dozzina di divisioni di fanteria che avanzarono in ordine
sparso, dopodiché Bradley avanzò verso la città bretone di Avranches, coprendo 40 chilometri in
36 ore. L’armata di Patton, ormai pienamente attiva, si mosse a tutta velocità per conquistare
l’intera Bretagna, costringendo le sei divisioni tedesche ancora presenti a ritirarsi nei porti di
Brest, St Nazaire e Lorient, che Hitler aveva dichiarato «città-fortezze». Patton proseguí quindi
verso est in direzione di Parigi e della Senna, senza quasi incontrare forze tedesche che
ostacolassero l’avanzata. Anche se i comandanti della Wehrmacht si erano resi conto che l’intera
Heeresgruppe B rischiava l’accerchiamento, Hitler ordinò a Von Kluge di organizzare un
contrattacco per respingere l’offensiva ad Avranches. Con cinque divisioni Panzer
sottodimensionate e 400 carri armati, Von Kluge dovette pianificare un’operazione dall’area
circostante Mortain per tagliare in due l’avanzata di Patton. Avvertito in anticipo
dall’intelligence di Ultra, Bradley dispiegò rapidamente una linea difensiva anticarro.
L’operazione di Von Kluge, iniziata nella notte del 7 agosto, fu condotta a un punto morto da un
attacco aereo spietato e, in un giorno, i tedeschi si ritrovarono sulle linee di partenza, minacciati
da entrambi i lati . Intorno a Caen, lo spostamento delle divisioni Panzer mandate all’attacco
237

dalla zona di Mortain aveva indebolito fatalmente il fronte. L’8 agosto, Montgomery passò
all’offensiva generale e in due giorni si avvicinò alla città di Falaise, dietro il fronte tedesco. Per
chiudere la trappola, fu ordinato a Patton di inviare a nord parte della III Armata, e il giorno 11 il
generale arrivò ad Argentan, a soli 32 chilometri dai canadesi in prossimità di Falaise, dove si
fermò. Quando seppe che la tenaglia si era chiusa, Hitler liquidò Von Kluge e lo sostituí con
Walter Model, richiamato dall’Est, benché fosse evidente che il disastro era inevitabile. Model
ordinò a quanto restava della 7. Armee di mettersi in salvo attraverso la «breccia di Falaise», ma
furono comunque distrutte 21 divisioni, tra cui sette Panzerdivision e due di paracadutisti . A 238

migliaia si diedero alla fuga, abbandonando gran parte dell’equipaggiamento pesante e migliaia
di veicoli; mescolati a cadaveri e a cavalli morti, i cannoni e i camion bloccavano le strade in
cumuli aggrovigliati. Eisenhower visitò quel caos due giorni dopo: «Si poteva camminare
letteralmente per centinaia di metri», scrisse in seguito, «calpestando solo carne morta e in
decomposizione» . 239

Mentre le truppe tedesche fuggivano verso est per evitare la prigionia, Patton si spinse attraverso
una campagna quasi indifesa per raggiungere la Senna a Mantes-Gassicourt, a nord-ovest di
Parigi. Un’ala meridionale della sua III Armata attraversò la Senna a sud di Parigi, spingendosi il
25 agosto fino a un punto a soli 100 chilometri dal confine tedesco. I soldati della Wehrmacht,
riuniti in piccoli distaccamenti, cercavano disperatamente di attraversare il fiume con zattere
improvvisate o addirittura nuotando: «Stiamo guadagnando terreno rapidamente», scrisse un
soldato alla famiglia, «ma nella direzione sbagliata» . Sulla sponda opposta della Senna, Model
240

riuscí a radunare solo 4 deboli divisioni, con 120 carri armati contro un’avanzata di 40 divisioni
alleate. A quel punto, sulla costa mediterranea francese aveva avuto luogo una seconda
operazione di sbarco contro la Heeresgruppe G, comandata dal generale colonnello Johannes
Blaskowitz. L’operazione Anvil, cosí chiamata nel progetto iniziale degli Alleati come
contrappunto al «martello» in Normandia, avrebbe dovuto essere contemporanea a Overlord, ma
la carenza di mezzi da sbarco e la lunga lotta sulla Linea Gustav ne avevano costretto il rinvio.
Churchill era fortemente contrario alla ripresa dell’operazione, nella speranza che la cattura di
Roma potesse consentire ad Alexander di muoversi rapidamente verso il nord-est dell’Italia e
minacciare perfino uno sfondamento a Vienna – una fantasia militare condivisa dallo stesso
Alexander. Le forze dovettero invece essere spostate dall’Italia, comprese tutte e quattro le
divisioni della Francia Libera e il 70 per cento dell’aviazione tattica, per dare appoggio a
un’operazione ribattezzata Dragoon che prevedeva uno sbarco sulla costa della Provenza a
sostegno dell’offensiva in Normandia. Irritato dalla decisione, Churchill comunicò ai capi di
stato maggiore che «la combinazione di Arnold, King e Marshall è una delle squadre strategiche
piú stupide mai viste», anche se un’avanzata verso Vienna, seppure con forze potenziate, era
un’ulteriore prova di quanto Churchill fosse ormai distante dalla realtà strategica . Le forze
241

tedesche nel sud della Francia, sostanzialmente indebolite dal trasferimento di unità in
Normandia, rappresentavano certamente un obiettivo piú facile rispetto agli eserciti in ritirata di
Kesselring a nord di Roma. Come nel caso di Overlord, vi era un’analoga incertezza sul luogo e i
tempi di un eventuale sbarco alleato nel Mediterraneo. Anche quando il 12 agosto furono
avvistati convogli di truppe che transitavano a ovest della Sardegna, l’OKW ritenne che la loro
destinazione piú probabile fosse il golfo di Genova. Blaskowitz condusse dei preparativi limitati
nell’evenienza in cui il nemico sbarcasse sulla costa meridionale francese, ma a metà agosto le
misure difensive erano ben lungi dall’essere completate . 242

L’operazione Dragoon, approvata dai capi dello stato maggiore congiunto il 2 luglio, doveva
iniziare il 15 agosto, giorno in cui la tenaglia degli Alleati avrebbe dovuto chiudersi a Falaise.
L’operazione fu affidata alla VII Armata americana del tenente generale Alexander Patch,
preceduta dal VI Corpo di Truscott, un veterano di Anzio. Il giorno dopo lo sbarco, un corpo
d’armata della Francia Libera, con sette divisioni sotto il comando del generale Jean de Lattre de
Tassigny, doveva impadronirsi della base navale di Tolone e del porto principale di Marsiglia.
Lo sbarco fu effettuato con un massiccio supporto di navi, tra cui 5 corazzate, 9 portaerei e 24
incrociatori, sostenuti da oltre 4000 velivoli della Mediterranean Air Force. Persino Churchill
arrivò su un cacciatorpediniere per assistere a quella che considerava comunque un’«operazione
ben condotta ma irrilevante e non correlata» . Gli sbarchi, compresa un’azione di paracadutisti,
243

avvennero su tratti della costa provenzale tra Tolone e Cannes, che i tedeschi non avevano
previsto ed erano difesi da un solo reggimento di Panzergrenadier. Su quasi tutte le spiagge
dello sbarco si registrò solamente una resistenza simbolica e fu pertanto ordinato di iniziare
subito l’avanzata nell’entroterra. Il quartier generale della Heeresgruppe G reagí lentamente, non
avendo chiaro se si trattasse di uno sbarco in piena regola o di una semplice incursione. La 11.
Panzerdivision, rimasta bloccata sulla sponda sbagliata del fiume Rodano, non poteva essere
schierata per contenere l’avanzata poiché tutti i ponti erano stati distrutti dagli attacchi aerei. Alla
fine del primo giorno erano sbarcati 60 150 soldati e 6737 veicoli e la testa di ponte era stata
rapidamente ampliata . 244

Il quartier generale di Hitler reagí finalmente all’effettivo pericolo di un crollo dell’intero fronte
in Francia e ordinò alla 19. Armee, che occupava la costa meridionale, di ritirarsi, in netto
contrasto con l’opinione personale del Führer, che insisteva che si dovevano mantenere tutte le
posizioni. Oltre all’ordine di ritirata, l’esercito che retrocedeva lungo la valle del Rodano
ricevette istruzioni di fare terra bruciata dietro di sé e insieme prendere in ostaggio tutti i francesi
in età di leva, cosa che si rivelò impossibile da realizzare. Blaskowitz ricevette infatti l’ordine di
Hitler solo dopo due giorni, perché le comunicazioni si erano interrotte quasi del tutto; nelle
settimane successive, ritirò abilmente le sue forze risalendo la valle sotto i costanti attacchi aerei,
fino a raggiungere una posizione difensiva tra il confine svizzero e l’Alsazia. Le forze francesi
liberarono Tolone e Marsiglia, mentre le divisioni americane raggiunsero Grenoble il 23 agosto e
si unirono in seguito alla III Armata di Patton, formando cosí la VI Armata sotto il comando del
tenente generale Jacob Devers. Il 20 agosto, il governo di Vichy fu frettolosamente evacuato
dalle forze di sicurezza tedesche a Sigmaringen, vicino al lago di Costanza, nel sud della
Germania, per evitare che i suoi membri cadessero prigionieri. Cinque giorni dopo, su insistenza
di De Gaulle, Parigi fu occupata dalle forze francesi sotto il generale Henri Leclerc, anche se
liberare la città non era tra le intenzioni di Eisenhower. Il Comité français de libération
nationale, guidato da De Gaulle, arrivò nella capitale per instaurare un nuovo regime, in un paese
che in meno di tre mesi di combattimenti era stato quasi del tutto sgomberato dal nemico
tedesco .
245

Per le forze del Reich la campagna di Francia fu un disastro. Circa 265 000 soldati furono uccisi
o feriti e circa 350 000 fatti prigionieri. Quasi tutto l’equipaggiamento andò perduto nella
frettolosa ritirata. Il successo dell’invasione alleata, che tanto aveva preoccupato Eisenhower,
Brooke e Churchill, non è difficile da spiegare. La schiacciante potenza aerea, il dominio sul
mare che consentí agli Alleati di organizzare complesse operazioni anfibie, le forze di terra
generosamente fornite, tranne che per brevi momenti di crisi logistica – tutto questo creò le
condizioni che permisero operazioni efficaci. L’esito era prevedibile, nonostante l’abilità tattica
con cui i soldati tedeschi continuarono a difendere posizioni divenute ormai insostenibili. Se
Hitler avesse ordinato già in precedenza la ritirata verso postazioni difensive allestite sul confine
tedesco, la disfatta avrebbe potuto essere evitata, anche se la Francia sarebbe stata comunque
persa. In ogni caso, gli Alleati pagarono costi altissimi. Alla fine di agosto, i caduti erano 206
703, piú della metà dei quali soldati americani . L’operazione in Normandia e la distruzione
246

della Heeresgruppe B rappresentarono il massimo successo riportato dagli anglo-americani


durante la guerra. In Germania, dopo le notizie dai fronti, il morale dell’opinione pubblica crollò:
«Nessuno crede piú alla vittoria in questa guerra», riferiva un rapporto della polizia bavarese,
«poiché siamo in ritirata su tutti i teatri di guerra. Per tutto ciò, il morale della popolazione è il
peggiore che si possa pensare» .247

Mentre gli Alleati occidentali erano ancora ingabbiati nella testa di ponte in Normandia,
l’Armata Rossa iniziò una delle piú grandi e decisive operazioni della guerra. L’operazione
Bagration, cosí chiamata da Stalin in onore di un generale anch’egli georgiano, eroe della guerra
contro Napoleone, fu lanciata in ogni sua parte il 23 giugno, anche se gli attacchi alle retrovie
tedesche in Bielorussia erano già iniziati due giorni prima. Benché a Stalin piacesse dare a
intendere che il piano era stato programmato per portare aiuto agli Alleati, apparentemente
bloccati nel paese del bocage, l’operazione contro la Heeresgruppe Mitte del feldmaresciallo
Ernst Busch, l’ultima forza significativa presente sul territorio sovietico, era stata pianificata
mesi prima come parte di una serie continua di grandi attacchi lungo tutto il vasto fronte, a
partire da un’offensiva contro l’esercito finlandese nell’istmo di Carelia, iniziata il 10 giugno,
fino alle grandi operazioni piú a sud, in Romania e nei giacimenti petroliferi di Ploeşti, avviate il
20 agosto. Si trattava di un’impresa colossale, un chiaro riflesso della crescente fiducia e forza
materiale dell’Armata Rossa. Per i tedeschi, con un esercito diviso fra tre fronti, a ovest, sud ed
est, era essenziale indovinare con precisione dove sarebbe caduto il peso principale
dell’offensiva estiva sovietica. Dato il successo ottenuto dall’Armata Rossa nell’Ucraina
meridionale, si presumeva che il nemico si sarebbe concentrato a sud e sull’asse romeno. Gehlen,
capo dell’intelligence della Wehrmacht in Oriente, reiterò i precedenti fallimenti del suo servizio
informazioni prevedendo che la Heeresgruppe Mitte poteva attendersi «un’estate tranquilla» –
uno degli errori piú clamorosi di tutta la guerra . Le forze tedesche erano piú forti a sud e piú
248

deboli al centro, una situazione che si adattava perfettamente ai piani sovietici.


L’errore di valutazione dei tedeschi fu aggravato da un elaborato piano di disinformazione volto
a mascherare l’intenzione di distruggere la Heeresgruppe Mitte. Solo cinque persone erano
informate dell’intera operazione – Žukov, Vasil’evskij, il suo vice Aleksej Antonov e due
pianificatori operativi – ed era stato loro proibito di menzionare la parola Bagration al telefono,
per lettera o al telegrafo. Non venne fissata nessuna data finché i preparativi non furono
completati, ma l’intero fronte dinanzi alla Heeresgruppe Mitte organizzò ostentatamente misure
difensive, scavando trincee e bunker, mentre piú a sud veniva allestito un esercito fantasma di
finti carri armati, campi militari e depositi di armi, difeso da un’attiva artiglieria antiaerea e
pattugliato da aerei da combattimento per conferire un maggiore realismo. I gruppi d’armata che
avrebbero lanciato l’offensiva – vale a dire i 1-yj, 2-oj e 3-ij Belorusskij front, insieme con il 1-yj
Pribaltijskij front delle armate baltiche – furono rinforzati in assoluta segretezza. A luglio, si
trovavano in loco un milione di tonnellate di rifornimenti e 300 000 tonnellate di carburante, in
alcuni casi frutto delle forniture in Lend-Lease che nel 1944 avevano raggiunto un picco . 249

L’inganno fu un fattore determinante, anche se lo straordinario successo dell’operazione


Bagration, condotta lungo i principali sistemi fluviali e attraverso terreni di campagna tutt’altro
che ideali per rapidi spostamenti di truppe, per di piú contro un gruppo d’armata tedesco che
aveva respinto ripetuti attacchi dall’autunno 1943 in poi, fu dovuto soprattutto al mutato
approccio operativo. Questa volta, l’Armata Rossa fece ciò che i tedeschi avevano fatto con
successo nel 1941, spingendo in profondità nel fronte nemico la punta di diamante
dell’avanguardia, per accerchiare le forze nemiche e disorientare i difensori. Busch, che
disponeva di 51 divisioni sottodimensionate con 480 000 uomini (di cui però solo 166 000
soldati regolari addestrati al combattimento), aveva ricevuto da Hitler l’ordine di tenere le città-
fortezze della Bielorussia – Mogilëv, Orša, Vitebsk, Bobrujsk – in quanto elementi di una linea
difensiva statica contro cui era atteso il consueto assalto frontale sovietico. In assenza di
divisioni Panzer, vi erano solo 570 veicoli corazzati, perché l’attacco era previsto nel sud, dove
la Heeresgruppe Nordukraine di Model aveva otto Panzerdivision. Il fronte era supportato da
650 aerei, dei quali solo 61 caccia, poiché gli altri stavano ora difendendo il Reich o
combattendo in Francia. Le forze difensive tedesche erano cosí esili che ogni chilometro di
fronte era tenuto da una media di 100 uomini . I quattro gruppi d’armata sovietici erano
250

composti da 166 divisioni di fucilieri, cavalleria e forze corazzate, per un totale di 2,4 milioni di
uomini e donne, 31 000 pezzi di artiglieria, 5200 carri armati e cannoni semoventi e 5300 aerei,
anche se non tutti furono utilizzati nell’assalto iniziale .
251

Questa forza enorme si scatenò la mattina del 23 giugno, iniziando a nord del saliente e deviando
lentamente verso sud nei due giorni successivi. Speciali carri armati con vomere furono mandati
attraverso i campi minati, seguiti nel buio del primo mattino da fanteria, mezzi corazzati e
artiglieria, in un’azione congiunta. I razzi illuminavano il fronte, mentre i riflettori abbagliavano
i difensori; la difesa tedesca si sgretolava, le forze meccanizzate penetravano attraverso i varchi,
sfruttavano le brecce e avanzavano rapidamente, con l’ordine questa volta di lasciare sacche di
resistenza che sarebbero state eliminate successivamente dalla fanteria. Quell’avanzata smentiva
tutti i pregiudizi tedeschi sulle operazioni dell’Armata Rossa del passato, prevedibili e maldestre.
Le città-fortezze furono rapidamente circondate, e l’alto comando tedesco negò ai comandanti
delle guarnigioni ogni opportunità di ritirarsi. Vitebsk cadde il 26 giugno, Orša il giorno dopo,
Mogilëv e Bobrujsk nei due giorni seguenti. I carri armati sovietici, in grado di muoversi a una
velocità straordinaria, considerati i problemi del terreno, virarono a ovest dietro Minsk, la
capitale bielorussa, che cadde il 3 luglio, intrappolando la 4. Armee in un grande accerchiamento.
Il 29 giugno, Walter Model, soprannominato «il pompiere del Führer», sostituí Busch al
comando della Heeresgruppe Mitte, ma capí subito che non c’era altro da fare che ritirarsi nel
modo piú ordinato possibile. In due settimane, era stata scavata nel fronte tedesco una fossa larga
400 chilometri e profonda quasi 160, in cui caddero prigionieri piú di 300 000 soldati tedeschi.
La stampa sovietica commentava i lenti progressi degli Alleati sul fronte occidentale con toni che
un giornalista inglese a Mosca definí «petulanti e spocchiosi» . Il contrasto era evidente, se
252

pensiamo all’Armata Rossa impegnata a inseguire un nemico che si ritirava in disordine per
sfuggire alla prospettiva di una cattura, esattamente come l’esercito tedesco avrebbe fatto in
Francia un mese dopo. Il 3-ij Belorusskij front si spinse in Lituania, conquistando Vilnius il 13
luglio e Kaunas il 1° agosto. Le unità avanzate del Pribaltijskij front raggiunsero il golfo di Riga
all’inizio di agosto, separando temporaneamente la Heeresgruppe Nord da quanto restava della
Heeresgruppe Mitte. L’avanzata rallentò e infine si fermò negli ultimi giorni di agosto, a piú di
480 chilometri dalla linea di partenza di giugno, a coronamento della piú riuscita di tutte le
grandi operazioni sovietiche.
Una volta divenuto inconfutabile il successo di Bagration, altre vittorie sarebbero seguite con le
offensive lanciate piú tardi piú a sud. L’8 luglio, Stalin e Žukov pianificarono due attacchi in
Polonia: una prima offensiva del 1-yj Ukrainskij front (ora comandato da Konev) verso L’vov e
Brody, lanciata il 13 luglio e seguita da una seconda operazione da parte del 1-yj Belorusskij
front di Rokossovskij, che puntò su Brest e poi sul fiume Vistola, che scorreva attraverso la
capitale polacca. Konev avanzò lentamente verso L’vov in condizioni meteorologiche proibitive,
ma il 16 luglio le linee tedesche furono sfondate e il generale Pavel Rybalko spinse il gruppo
d’armata 3-ja Gvardejskaja tankovaja attraverso uno stretto corridoio, sotto il fuoco pesante del
nemico. Come a Minsk, lo sfondamento ebbe pieno successo, e otto divisioni tedesche finirono
accerchiate intorno a Łódź; Konev proseguí per prendere L’vov il 27 luglio, raggiungendo la
Vistola e creando una grande testa di ponte a Sandomierz. Rokossovskij riportò un identico
successo, spingendosi contro un fronte ormai in disintegrazione mentre l’operazione Bagration
attirava le forze tedesche a nord. Lublino fu conquistata il 24 luglio, Brest, sul confine sovietico,
quattro giorni dopo. Il gruppo d’armata si mosse rapidamente verso la Vistola, raggiunta il
giorno 26, per poi virare a nord per occupare la sponda orientale del fiume di fronte a Varsavia.
Ulteriori tentativi di attraversare i fiumi Narew e Vistola furono respinti dalle linee tedesche che
si erano riorganizzate lungo un fronte piú stretto e piú facilmente difendibile, grazie ancora una
volta all’iniziativa di Model, poco prima del suo trasferimento in Francia. Rimaneva a quel punto
l’offensiva finale verso i Balcani, lanciata contro quello che era ormai un fronte tedesco molto
indebolito in seguito al trasferimento di dodici divisioni (di cui sei divisioni Panzer) in aiuto
delle truppe piú a nord. Tra il 20 e il 29 agosto, la Heeresgruppe Südukraine crollò quasi del
tutto, con la perdita di circa 150 000 soldati e la distruzione della 6. Armee, ricostituita dopo il
disastro di Stalingrado e ora nuovamente caduta nell’accerchiamento . Il 23 agosto, il governo
253

del maresciallo Antonescu fu rovesciato e l’esercito romeno chiese l’armistizio. I successi


riportati tra giugno e agosto dai sovietici spingevano ora gli alleati e i cobelligeranti dell’Asse ad
abbandonare, finché possibile, uno sforzo bellico ormai fallimentare.
In quasi tutti i casi, nel corso della guerra gli alleati della Germania avevano già previsto la
sconfitta tedesca e cercato, almeno a partire dal 1943, un modo per svincolarsi da un impegno
bellico che gli Alleati vincitori avrebbero chiaramente punito severamente. Gli anglo-americani
premevano sul governo finlandese affinché cessasse le ostilità, ma c’era il timore – alquanto
reale – che la Finlandia, come l’Italia e l’Ungheria, venisse poi occupata dai soldati della
Wehrmacht, 200 000 dei quali si trovavano nell’estremo nord dell’Artico. Dopo l’evidente
successo dell’operazione Bagration, il governo finlandese decise finalmente di correre il rischio
di abbandonare la guerra. Il maresciallo Mannerheim assunse il ruolo di capo di stato e il 5
settembre le forze finlandesi deposero le armi. L’armistizio con l’Unione Sovietica (e con la
Gran Bretagna, che aveva dichiarato guerra nel dicembre del 1941) impose ai finlandesi la
restituzione di tutto il territorio annesso dopo la guerra d’inverno del 1940 nonché la cessione di
una base militare vicino a Helsinki; Stalin, tuttavia, non volle occupare la Finlandia e insistette
affinché fossero i finlandesi a cacciare i tedeschi, cosa che fecero da ottobre in poi, dapprima
inseguendoli a distanza nella loro ritirata e poi passando alla violenza armata dopo aver
constatato che i tedeschi avevano fatto terra bruciata in Lapponia . Anche se i governanti romeni
254

erano stati perfino segretamente in contatto con gli Alleati occidentali, fu l’impatto improvviso
dell’invasione dell’Armata Rossa, che aveva distrutto in tre giorni la linea difensiva romena, ad
accelerare la decisione di re Michele di arrestare Antonescu. Il 31 agosto, l’Armata Rossa entrò a
Bucarest, il giorno dopo aver occupato il giacimento petrolifero di Ploeşti. Benché Hitler avesse
ribadito piú volte che il petrolio era vitale per lo sforzo bellico della Germania, erano stati fatti
pochi preparativi per proteggerlo. Le forze romene furono ora costrette a cambiare schieramento
– non dimentichiamo che in Romania permaneva ancora una sostanziale presenza tedesca – e a
combattere a fianco dell’ex nemico sovietico, liberando il paese dalle forze dell’Asse a metà
settembre.
In Bulgaria, Ungheria e Slovacchia la situazione era molto diversa. Dopo i disastri del 1942, la
Slovacchia aveva cercato di ridurre qualsiasi impegno militare nello sforzo bellico tedesco, ma
solo nel 1944, dopo l’inizio di Bagration, i comandanti dell’esercito slovacco decisero di
sconfessare l’alleanza con il Reich. Il 29 agosto, le truppe tedesche entrarono in Slovacchia e
combatterono contro un’insurrezione popolare che fu infine schiacciata a ottobre; la Slovacchia
fu liberata dall’Armata Rossa solo all’inizio dell’aprile 1945. La Bulgaria, benché firmataria del
Patto tripartito e cobelligerante contro la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, a differenza della
Slovacchia non aveva dichiarato guerra all’Unione Sovietica. Stalin voleva tuttavia una presenza
nel paese poiché le concessioni in Bulgaria erano state parte dell’accordo concluso con Hitler nel
novembre del 1941. Il 5 settembre, l’Unione Sovietica dichiarò guerra e tre giorni dopo le forze
dei gruppi d’armata che occupavano la Romania si mossero verso sud. Il 9 settembre, il Fronte
patriottico bulgaro, l’Otečestven front, di tendenza comunista, prese il potere a Sofia e la
resistenza cessò. Una settimana dopo, arrivarono a Sofia truppe e aerei sovietici, e l’esercito
bulgaro fu costretto, come quello finlandese e romeno, a combattere contro i tedeschi in Serbia e
Ungheria. A quel punto, gli sforzi ungheresi per disimpegnarsi dalla guerra erano ben noti al
controspionaggio tedesco. Nel settembre del 1943, intermediari magiari avevano avviato
negoziati con diplomatici britannici a Istanbul, ma era stato detto loro che solo una resa
incondizionata era accettabile, consigliando loro di attendere fino all’arrivo degli Alleati al
confine. Lo stesso mese, Hitler ordinò di iniziare una pianificazione operativa per l’occupazione
del suo inaffidabile alleato, le cui risorse di materie prime erano ora considerate vitali da Hitler.
All’inizio del 1944, mentre il governo di Miklós Horthy continuava a tentennare, fu lanciata
l’operazione Margarethe, iniziata il 19 marzo con l’ingresso quasi incontrastato nel paese delle
forze tedesche. Il governo fu posto sotto il comando del generale filotedesco Döme Sztójay e fu
insediato il plenipotenziario tedesco Edmund Veesenmayer. In autunno, tuttavia, Horthy tentò
nuovamente di disimpegnare l’Ungheria dalla guerra e raggiunse un accordo con Stalin . L’11 255

ottobre, una delegazione ungherese a Mosca negoziò un accordo preliminare che prevedeva
l’abbandono di tutto il territorio conquistato dal 1937 e la dichiarazione di guerra alla Germania.
Questa volta, gli occupanti tedeschi costrinsero Horthy a dimettersi da reggente e sostituirono il
governo con un esecutivo formato dal Nyilaskeresztes Párt – Hungarista Mozgalom, il Partito
fascista delle Croci frecciate – Movimento ungarista, sotto il primo ministro Ferenc Szálasi, che
si proclamò in tutta fretta Führer ungherese (Nemzetvezető) unendo la sua carica a quella di capo
di stato . L’Ungheria continuò a combattere fino alla fine nell’aprile del 1945 come un riluttante
256

partner dell’Asse al fianco della Repubblica sociale di Mussolini.


La disfatta a ogni costo.
Nel luglio del 1944, mentre i combattimenti infuriavano ancora in Francia, Russia e Cina, furono
architettati due distinti complotti per assassinare i capi dello sforzo bellico tedesco e giapponese,
orditi da ufficiali dell’esercito ansiosi di evitare il peggio vedendo la sconfitta sempre piú vicina.
Dopo mesi di critiche rivolte alla leadership di Tōjō dall’élite militare e politica, un ufficiale
dello stato maggiore, il maggiore Tsunoda Tomoshige, progettò di uccidere Tōjō con una bomba
piena di cianuro di potassio. Tsunoda e gli altri cospiratori avevano contatti con il tenente
generale in pensione Ishiwara Kanji, esponente di spicco del Tōarenmei undō, la Lega dell’Asia
orientale di tendenze radicali, e volevano che Tōjō fosse rimosso e si eleggesse un governo sotto
lo zio dell’imperatore, il principe Higashikuni, oltre a dare inizio a immediati colloqui di pace
con gli Alleati attraverso la mediazione sovietica. Prima che il complotto potesse essere portato a
termine, Tōjō si dimise dalla carica di primo ministro. Tsunoda fu denunciato, arrestato e
imprigionato per due anni. Sorprendentemente, gli altri cospiratori furono lasciati liberi, incluso
Ishiwara, che pochi mesi dopo sosteneva apertamente che «la gente è disgustata dai militari e dal
governo, e a loro non importa piú niente dell’esito della guerra» .257

Il complotto per uccidere Hitler ebbe poco in comune con il fallito colpo di stato di Tsunoda, se
non il fatto che fallí anch’esso. I principali cospiratori, appartenenti ai ranghi degli ufficiali piú
giovani dello stato maggiore tedesco, non ebbero quasi nessuna possibilità di persuadere i
generali piú anziani, nonostante la loro evidente frustrazione e disillusione nei confronti della
leadership militare di Hitler, a sostenere l’assassinio del comandante supremo. Il gruppo, di
piccole dimensioni, ruotava attorno ad alcuni ufficiali dello stato maggiore della Heeresgruppe
Mitte ed era guidato dal colonnello Henning von Tresckow, anche se dal 1944 aveva stabilito
contatti con la resistenza civile conservatrice guidata da Carl Goerdeler e con l’ex capo di stato
maggiore della Wehrmacht Ludwig Beck. Al gruppo si era unito nell’aprile del 1943 il tenente
colonnello Claus Schenk von Stauffenberg, a suo tempo entusiasta della rivoluzione nazionale di
Hitler e volenteroso sostenitore dello sforzo bellico militare, che aveva poi preso le distanze dalla
leadership per le violenze contro ebrei e prigionieri di guerra. Come i suoi compagni di
resistenza, voleva fermare Hitler prima che la Germania fosse distrutta, con l’onore nazionale
infangato. Sperava tuttavia che, una volta morto il Führer, gli Alleati avrebbero permesso alla
Germania di sopravvivere come grande potenza, guidata dalle politiche autoritarie del piú
genuino «nazionalsocialismo». La resistenza conservatrice condivideva la speranza che si
potesse raggiungere a ovest un accordo di compromesso, tale da consentire alle forze tedesche di
concentrarsi sul contenimento della minaccia sovietica . Per piú di un anno, gli ufficiali
258

cospiratori avevano cercato l’opportunità di assassinare Hitler, ma tutti i piani erano falliti. Nel
1944, con la Germania alle prese con l’invasione e la distruzione, i cospiratori non volevano solo
un assassinio ma un cambio di regime. I congiurati avevano convenuto di uccidere Hitler e
attivare subito dopo l’operazione Walküre (Valchiria), un piano di emergenza per permettere
all’esercito di soffocare in patria un possibile colpo di stato o una rivoluzione. Dopo la crisi
iniziata in Francia e l’avanzata sovietica attraverso la Bielorussia a giugno, i cospiratori si
prepararono ad agire.
Non si era trovato nessuno pronto a compiere effettivamente l’atto, tranne lo stesso Von
Stauffenberg, che, nonostante la perdita della mano destra, dell’occhio destro e di due dita della
mano sinistra nella battaglia per la Tunisia, si offrí come volontario per portare una bomba a una
riunione del quartier generale di Hitler e innescare in qualche modo il meccanismo del
detonatore. Anche tanta dedizione doveva risultare quasi vana. Von Stauffenberg aveva portato
la bomba a tre distinti incontri nella residenza di Hitler nell’Obersalzberg e nella Wolfsschanze,
la Tana del lupo, ma aveva deciso di non farla detonare a meno che non fossero presenti anche
Himmler e Göring. Il 20 luglio 1944, Von Stauffenberg ritenne infine che non potevano esserci
ulteriori ritardi. La storia di quel fallito attentato è ben nota. L’ordigno che avrebbe dovuto
uccidere Hitler, insieme con Keitel e Jodl, i suoi collaboratori militari piú stretti, non ebbe
l’effetto voluto perché era stato collocato sotto una spessa tavola di quercia in una capanna di
legno, anziché in un bunker chiuso. Von Stauffenberg tornò a Berlino convinto che Hitler fosse
morto e l’operazione Walküre fosse stata attivata piú tardi quel giorno stesso. In quel momento,
invece, Hitler aveva già parlato con Goebbels a Berlino informandolo di essere sopravvissuto,
anche se l’esplosione danneggiò gravemente la sua salute per qualche tempo. Piú tardi, quel
giorno, fu portata a termine una parte del complotto anche a Parigi, dove le unità di sicurezza
dell’esercito arrestarono per ordine dei cospiratori tutte le SS, SD e Gestapo . Non appena le
259

truppe fedeli a Hitler si resero conto che il Führer era ancora vivo, la congiura andò in pezzi nel
giro di poche ore. Von Stauffenberg e i suoi complici principali furono giustiziati in tutta fretta
nel cortile del ministero della Guerra. A Parigi, i prigionieri furono rilasciati. Nelle settimane
successive, centinaia di persone furono arrestate, mentre la Gestapo e le SS conducevano
interrogatori torturando i cospiratori piú in vista. Himmler lanciò in autunno l’Aktion Gewitter
(operazione «Tempesta di tuoni»), trascinando 5000 socialdemocratici e comunisti nella rete del
terrore per scongiurare altri complotti. Hitler pareva compiaciuto del fatto che il colpo di stato gli
aveva fornito «la prova che l’intero stato maggiore è contaminato», inasprendo cosí la diffidenza
che già nutriva nei confronti degli ufficiali di carriera . L’evidenza, tuttavia, mostra che le forze
260

armate erano rimaste estremamente fedeli al loro comandante supremo, mentre gran parte
dell’opinione pubblica espresse in generale un misto di sgomento per l’attentato alla vita di
Hitler e di sollievo perché il Führer era sopravvissuto: «Il solo fatto che il singolo soldato venisse
ucciso al fronte», spiegava al padre un tenente tedesco, entrambi prigionieri di guerra, e «che
degli ufficiali stessero infrangendo in patria il loro giuramento, fece infuriare la gente» . Da261

lettere e diari si evince che la popolazione civile di allora temeva che, senza Hitler, potesse
seguire il caos politico e militare, perfino una guerra civile; peggio ancora, come scriveva un
padre al figlio soldato, sarebbe nata «una nuova leggenda della pugnalata alle spalle» . 262

L’attentato dinamitardo portò a un temporaneo rafforzamento della fiducia nella leadership


essenziale di Hitler e alla determinazione a continuare la guerra per espiare il tradimento di
pochi.
In Giappone come in Germania vi erano ambienti molto piú vasti pervasi di pessimismo per la
probabile sconfitta e i terribili costi della guerra, anche se tale senso di demoralizzazione non si
tradusse mai in un chiaro segno di minaccia sociale o politica nei confronti di chi voleva
continuare a combattere. Al tempo, e dopo di allora, la responsabilità del fallito complotto di
Von Stauffenberg fu attribuita all’incapacità dei congiurati di cercare una base di appoggio tra le
masse, anche se nel contesto del Terzo Reich l’idea di una base di massa che chiedesse la fine
della guerra e un nuovo governo era pura fantasia. In Giappone, alti funzionari e intellettuali
potevano criticare il modo in cui veniva condotta la guerra, o addirittura promuovere l’idea di
negoziare la fine del conflitto, ma potevano farlo solo all’interno della ristretta cerchia dell’élite.
Il principe Konoe era stato il membro in età piú avanzata del Consiglio degli anziani ( jūshin) a
esprimere regolarmente il proprio pessimismo sull’esito della guerra e fare pressioni sulla corte
imperiale affinché si sbarazzasse di Tōjō. All’inizio del 1944, perfino il principale consigliere
dell’imperatore, Kido Kōichi, pensava che la guerra fosse irrimediabilmente persa, al pari di un
buon numero di alti ufficiali della marina e dell’esercito, ma tutti erano comunque riluttanti ad
agire contro la leadership militare. Il successore di Tōjō alla carica di primo ministro nel luglio
del 1944, il generale Koiso Kuniaki, già governatore generale della Corea, pur favorendo
privatamente la ricerca della pace, ribadí pubblicamente l’impegno nella guerra. Nell’ordine
politico del Giappone non c’era modo di rovesciare la leadership dell’esercito e della marina,
entrambi impegnati nello hondo kessen, la grande battaglia finale per salvare la patria . 263

Per contro, tra i comuni cittadini giapponesi, dimostrazioni di disfattismo e di resistenza illegale
erano da sempre represse fermamente dalle autorità. Una chiara testimonianza di sentimenti
contrari alla guerra era già emersa nel 1942, espressa in commenti casuali, ma imprudenti, o in
graffiti e lettere anonime, o con voci su una sconfitta. Ciascuna di tali espressioni antipatriottiche
era stata oggetto di indagini da parte del Tokubetsu Kōtō Keisatsu (Tokkō), l’Apparato di polizia
speciale superiore noto tra il popolo come Shisō Keisatsu (Polizia del pensiero), la cui attenzione
era rivolta in particolare alla possibilità che il sentimento pacifista potesse portare a una
situazione rivoluzionaria favorevole al comunismo. Vennero arrestati perfino dei membri
dell’autorevole Ufficio centrale di pianificazione, con l’accusa che le loro opinioni in materia di
economia statale erano troppo marxiste . Si rivelò tuttavia difficile rintracciare chi diffondeva
264

dicerie o i responsabili dei «pubblici scarabocchi», sicché il numero di incidenti, seppure


limitato, andò aumentando costantemente durante tutta la guerra. Tra aprile del 1942 e marzo del
1943, il ministero dell’Interno registrò ogni mese una media di venticinque casi di
antimilitarismo e provocazione, media che salí a cinquantuno al mese nell’anno tra aprile del
1944 e marzo del 1945 . Nel corso del conflitto aumentò altresí l’ostilità verso l’imperatore,
265

espressa con una marea di graffiti, anche se gli arresti e i procedimenti giudiziari furono pochi.
Coloro che venivano catturati potevano aspettarsi di finire tra gli artigli della polizia militare, la
Kempeitai, ed essere sottoposti a tortura affinché rivelassero i nomi della piú ampia cerchia di
disfattisti. A livello locale, il controllo dipendeva dalla sorveglianza delle associazioni di
quartiere, i cui responsabili segnalavano eventuali casi di dissenso o pacifismo all’interno della
comunità. Le famiglie sospettate di sentimenti antimilitaristi furono tenute sotto sorveglianza
dalla polizia militare per tutta la durata della guerra. Lo spazio per una qualsiasi protesta
organizzata era di fatto inesistente e ogni forma di disobbedienza comportava alti costi .266

La minaccia del terrore incombeva anche su ogni tedesco per qualsiasi atto contro lo sforzo
bellico, dal presunto sabotaggio alle espressioni spontanee di disfattismo. Il regime era guidato
da uomini ossessionati dal timore che i disordini interni potessero riportare alla crisi del 1918,
per cui ogni cattivo esempio, per banale che fosse, veniva punito severamente. Rispetto alla
popolazione totale, tuttavia, i numeri del dissenso risultavano pur sempre limitati. I procedimenti
giudiziari dinanzi al Volksgerichtshof, il tribunale del popolo istituito a Berlino per deliberare sui
casi di tradimento in tempo di guerra, passarono da 552 nel 1940 a un picco di 2003 nel 1944,
l’anno dell’operazione Walküre. Il totale dei condannati negli ultimi anni di guerra, 1943-45, fu
di 8386 persone . Il rischio di pronunciare parole contro la guerra o improntate al disfattismo era
267

un pericolo reale in una dittatura in cui la delazione era praticata abitualmente, e tale rischio si
moltiplicò negli ultimi due anni di guerra, quando la Gestapo e la polizia militare ricorrevano
sempre piú spesso a brevi udienze in tribunali fittizi per condannare a morte chiunque fosse
ritenuto colpevole di aver minato lo sforzo bellico. Il giorno dopo l’attentato a Hitler, Heinrich
Himmler fu nominato al comando dell’Ersatzheer, l’Esercito di riserva a cui spettava
l’addestramento e l’organizzazione di nuovi reparti di reclute e il cui stato maggiore aveva avuto
un ruolo fondamentale nella cospirazione. Himmler ammoní i comandanti che non sarebbe stato
tollerato alcun ritorno alla situazione del 1918; ogni segnale di disfattismo tra le file
dell’esercito, comunicò al suo rappresentante presso l’OKW, sarebbe stato stroncato brutalmente
da ufficiali reclutati per sparare a «chiunque apra bocca» . Il terrore, amplificatosi man mano
268

che la situazione della guerra veniva a deteriorarsi, colpí prigionieri politici, uccisi
arbitrariamente, operai stranieri che fuggivano dal posto di lavoro e comuni cittadini tedeschi,
civili e militari, che sembravano ignorare con scherno l’esigenza di sostenere fino all’ultimo la
lotta contro il nemico. Nei primi mesi del 1945, per le città bombardate giravano pattuglie
speciali di polizia e militari, autorizzate a uccidere i sospetti a loro piacere. A Düsseldorf, un
giovane soldato che stava scontando dieci anni in prigione per aver detto che la guerra sembrava
inutile fu portato fuori dalla cella e ucciso a colpi di pistola; un diciassettenne malato fu
prelevato dal letto con l’accusa di simulazione, portato via e assassinato; un anziano, accusato di
fornire cibo ai disertori, fu torturato brutalmente e impiccato in pubblico, con un cartello al collo
su cui era scritto a grandi lettere «sono un traditore» . Nella vicina Bochum, un uomo che si era
269

lasciato sfuggire il commento «la guerra è persa» davanti a una squadra che sgombrava le
macerie delle bombe fu picchiato a morte da un compagno che aveva deciso di amministrare da
solo la giustizia del popolo .
270

Il terrore che ricadeva sulle diverse popolazioni locali mentre la sconfitta si avvicinava era
assolutamente reale e inibiva chiaramente qualsiasi aperta espressione di protesta contro la
guerra e le sue conseguenze, o qualsiasi piú ampio movimento sociale e politico che volesse
porre fine al conflitto. Tanto la popolazione tedesca quanto quella giapponese erano state
sottoposte per una dozzina di anni a uno stretto controllo della polizia e comprendevano pertanto
quanto potesse costare il dissenso. Detto questo, il terrore in sé non spiega adeguatamente il
desiderio, spesso entusiastico, di continuare a combattere e lavorare per uno sforzo bellico
inutile. In entrambi i casi – del Giappone e della Germania –, era in azione un complesso
miscuglio di fattori diversi – psicologici e materiali – che influenzava gli individui. Non esisteva
un modello paradigmatico di impegno bellico, né tra i militari né tra i civili. Il servizio di
sicurezza tedesco riferiva nell’autunno del 1944 che benché la gente sembrasse rassegnata,
timorosa, speranzosa nella pace, persino apatica e indifferente, era comunque disposta «a
resistere incondizionatamente» . Un elemento che trascendeva le testimonianze sempre piú
271

numerose di un popolo demoralizzato era la convinzione che una qualche vittoria fosse ancora
possibile, confermata per molti tedeschi dalla sopravvivenza apparentemente provvidenziale di
Hitler nell’attentato di luglio. I governanti di entrambi i paesi continuarono a parlare di vittoria
anche quando il suo significato era evidentemente vuoto, ma tra la popolazione in generale
permaneva il forte desiderio di aggrapparsi a qualsiasi pagliuzza che potesse fare sperare in
un’inversione di tendenza. In Germania, la regolare propaganda sulle nuove Wunderwaffen, le
«armi miracolose» segrete, iniziata da Goebbels nel 1943, ricompariva regolarmente nei diari e
nelle lettere, riecheggiando come un tropo standardizzato il fatto che Hitler aveva una sorpresa in
serbo per gli Alleati, una speranza che sopravvisse fino agli ultimi mesi del conflitto nonostante
il crescente scetticismo sul reale valore degli armamenti di rappresaglia – il missile da crociera
V1 e il razzo V2 – lanciati contro la Gran Bretagna nell’estate del 1944. Quando nel dicembre
dello stesso anno le forze tedesche furono sguinzagliate attraverso le Ardenne contro il fronte
americano con l’operazione Herbstnebel (Nebbia d’autunno), vi furono dimostrazioni di
un’impennata di ottimismo popolare, che vedeva aprirsi un’altra strada verso la vittoria e
un’inattesa ripetizione della campagna del 1940 . In Giappone, l’introduzione delle tattiche
272

suicide dei kamikaze nell’autunno del 1944 provocò nell’opinione pubblica lo stesso entusiasmo
per il fatto che si fosse finalmente trovato un mezzo, come si leggeva in una lettera alla stampa,
«per costringere il nemico ad arrendersi» .
273

Per comprendere il senso di quella lotta condotta fino all’ultimo respiro risulta piú significativa
la convinzione diffusa tra soldati e aviatori che il dovere era quello di combattere fino alla fine
anche nella sconfitta, per preservare in qualche modo l’onore nazionale anche quando era svanita
ogni fiducia nella leadership del paese. Si trattava di un sentimento distruttivo e autodistruttivo al
tempo stesso, alimentato da un crescente fatalismo o nichilismo in un momento in cui la
prospettiva della morte diventava ogni giorno piú reale. Anche se la possibilità di vittoria era
ormai remota e irrealistica, i militari giapponesi e tedeschi cercarono di far pagare un costo
altissimo al nemico responsabile della loro sconfitta, seminando morte come atto di vendetta
anche rinunciando alla loro stessa vita. La Kamikaze tokubetsu kōgekitai (Unità speciale di
attacco del Vento divino), rientrava evidentemente in questa categoria di forze combattenti, e in
4600 si sacrificarono per infliggere danni alle navi e agli uomini del nemico. La cultura che li
circondava enfatizzava il fatto che l’onore dell’imperatore e della nazione prevaleva su ogni
remora morale nel mandare uomini in missioni suicide. Allorché iniziarono le azioni dei
kamikaze nell’ottobre del 1944, il comunicato stampa della marina parlava dell’«incrollabile
lealtà delle aquile divine» e attribuiva alle diverse unità i nomi piú onorevoli, come chūyū tai
(Unità del fedele coraggio) e shisei tai (Unità della sincerità) . La speranza era che nelle loro
274

missioni suicide uccidessero il maggior numero possibile di nemici, ma lo stesso valeva per il
soldato semplice a cui nel 1945 era stato ordinato di preparare una busta con le sue ultime
volontà e una ciocca di capelli, da lasciare alla famiglia dopo essersi inevitabilmente immolato in
battaglia. Alcuni soldati vedevano la morte imminente come un prezzo gradito da pagare, a patto
che morissero anche gli americani. «Ora dobbiamo imparare le lezioni di “Saipan” e
“Guadalcanal”», scrisse un ufficiale giapponese. «Dobbiamo prendere quei bastardi e ucciderli
facendoli a pezzi». Egli provava una sorta di «serenità» nel contemplare la sua morte in
battaglia . Ci si attendeva altresí che i civili uccidessero almeno uno dei nemici invasori con
275

qualsiasi arma a loro disposizione. A una studentessa fu dato un punteruolo e le fu detto di


affondarlo nel ventre di un americano.
Le forze tedesche non organizzarono unità suicide, ma combatterono per infliggere danni
ovunque potessero, anche in situazioni senza speranza. La frase «vittoria o annientamento» non
avrà certamente ispirato ogni soldato, considerando che tra i due era piú probabile
l’annientamento, ma le truppe, per le quali la vittoria era ormai una chimera, trovavano di certo
una sorta di personale rivendicazione della causa tedesca nell’infliggere la morte al nemico. La
perdita nel 1944 di un numero enorme di compagni – in quell’anno caddero 1 802 000 uomini –
evocava un impulso a vendicare i morti, a uccidere o essere uccisi a ogni costo, «un nichilismo
eroico», come lo definí un soldato nella sua autobiografia, benché fosse un eroismo macchiato da
uno spietato sentimento di vendetta contro i civili dei territori occupati cosí come contro i soldati
nemici . Un veterano tedesco della guerra in Italia spiegò che quei combattimenti selvaggi
276

riflettevano «la loro rabbia per […] l’inutile sacrificio che avevano volontariamente fatto anno
dopo anno e per l’insensatezza della guerra» . La cruda realtà era ben presente, ma molti soldati
277

sembravano essere disposti a partecipare a quel momento profondamente drammatico ed


emotivo in cui la nazione affrontava la sua nemesi: «La vostra grande ora è scoccata», disse il
feldmaresciallo Von Rundstedt alle truppe prima dell’inizio dell’ultima controffensiva tedesca a
ovest. «Non serve che dica altro. Lo sentite tutti dentro di voi: o tutto o niente» . Negli ultimi sei
278

mesi del conflitto, un numero considerevole di soldati tedeschi assorbí l’ethos morboso di una
morte inevitabile pur di sostenere una resistenza quasi suicida fino agli ultimi giorni della guerra.
La paura per il destino della nazione si avvertiva chiaramente non solo nella politica pubblica ma
anche nelle riflessioni private sugli ultimi mesi del conflitto. In Giappone e in Germania, la
propaganda aveva avvertito la popolazione di aspettarsi il peggio da una sconfitta per mano di
nemici determinati a sradicare la nazione tedesca e quella giapponese, insieme con le rispettive
popolazioni. A partire almeno dal 1943 in poi, il principale tropo della propaganda tedesca era
che alla vittoria del nemico avrebbe fatto da contrappunto lo sterminio del popolo tedesco da
parte di un’empia alleanza al soldo degli ebrei. Una direttiva della propaganda del febbraio 1945
metteva in chiara luce il destino che attendeva una Germania consegnata ai conquistatori
sovietici: «Tutte le sofferenze e i pericoli della guerra non sono nulla a confronto del destino che
i nemici progettano per la Germania in una “pace bolscevica”». Il popolo tedesco, veniva detto,
poteva scongiurare la minaccia di una «pallottola [bolscevica] nella nuca» solo opponendo la piú
strenua resistenza nazionale fino alla fine . In Giappone, la retorica pubblica giocava sulla
279

nozione di barbarie occidentale, destinata a scatenarsi senza limiti sulla società giapponese a
meno che la resistenza popolare non tenesse a freno i barbari. La propaganda sfruttava
l’affermazione che tutte le donne giapponesi sarebbero state violentate e tutti gli uomini castrati.
Era diffuso il terrore che le donne, non potendo essere difese, avrebbero subito minacce fisiche o
sessuali . Non possiamo sapere fino a che punto quelle paure immaginarie fossero realmente
280

condivise dal grande pubblico o dalle forze combattenti, ma la costante ripetizione dell’idea che
la nazione sarebbe stata sterminata e la popolazione violata, in un contesto in cui non era
esattamente chiaro fin dove si sarebbero spinti gli Alleati nello spasmo della vendetta, faceva
apparire la resistenza fino all’ultimo meno irrazionale di quanto possa sembrare a un pubblico
del dopoguerra.
In entrambi i casi, tali paure furono strumentalizzate per giustificare i livelli estremi di
mobilitazione nell’ultimo anno di guerra da parte di un apparato statale e politico che ancora
conservava il suo potere coercitivo. In Giappone, l’intera popolazione fu mobilitata nella
battaglia finale per ricacciare gli americani in mare al momento dell’invasione. La Legge n. 30,
promulgata nel marzo del 1945, mobilitava alla difesa tutti i cittadini delle zone costiere,
compresi i bambini in età scolare; un secondo decreto dello stesso mese richiedeva tuttavia la
creazione di un Kokumin Giyū Sentōtai (Corpo di combattimento dei cittadini patriottici) che
avrebbe a sua volta istituito i Kokumin Giyūtai (Unità volontarie di combattimento) in cui
arruolare tutti gli uomini dai sedici ai sessant’anni e le donne dai diciassette ai quaranta . I 281

combattenti erano volontari solo di nome, dato che pochi potevano permettersi il rischio di non
partecipare; uomini e donne dovevano impegnarsi in sessioni di addestramento con lance di
bambú e nel lancio di pietre per simulare un attacco con granate. Il piano prevedeva di mobilitare
per l’ultima resistenza del Giappone almeno dieci milioni di persone. Anche in Germania,
all’indomani del complotto di luglio, il regime cercò di organizzare uno sforzo estremo da parte
della popolazione, per la quale, ancora una volta, fu difficile astenersi. Il 21 luglio, il giorno dopo
l’attentato, Goebbels fu nominato Generalbevollmächtigten für den totalen Kriegseinsatz
(plenipotenziario per la guerra totale), una nomina accolta con favore, secondo i rapporti segreti
dell’intelligence, perché dimostrava l’impegno a compiere il massimo sforzo per scongiurare la
sconfitta ed eliminare le paure a essa connesse. Per quanto molti tedeschi, giovani e anziani,
potessero essere riluttanti ad aderire a una spasmodica mobilitazione, era difficile non obbedire
all’appello a unirsi all’ultima «lotta per la patria» (Kampf der Heimat). Il 29 settembre 1944, il
partito iniziò a organizzare una milizia patriottica popolare (Volkssturm) che avrebbe dovuto
radunare una forza di sei milioni di uomini, inadatti al normale servizio militare, per difendere il
Reich nella sua crisi finale. Il decreto di Hitler che istituiva la milizia sottolineava che
«l’obiettivo ultimo del nemico è lo sterminio del popolo tedesco». Quando alla coorte degli
aderenti alla Hitlerjugend, nata nel 1928, fu chiesto di offrirsi volontariamente per il servizio
militare anticipato, rispose il 70 per cento dei membri. Anni dopo, uno dei giovani volontari
ricordava una semplice motivazione per quel gesto: «Volevamo salvare la Patria» . 282

Per gli Alleati, l’assenza di uno slogan facilmente recepibile per mobilitare la spinta finale alla
vittoria comportò delle difficoltà. Anche se nell’autunno del 1944 gli Alleati stavano
chiaramente «vincendo» la guerra, le popolazioni dei paesi che combattevano il nazismo,
soprattutto in Occidente, non erano meno stanche e incerte della guerra di quelle dell’Asse.
Tuttavia, non dovendo piú affrontare la precedente minaccia di una sconfitta, era piú difficile
risvegliare la determinazione necessaria per porre termine al conflitto una volta per tutte, o
dissipare la frustrazione che il colpo decisivo non potesse ancora essere inflitto, come la gente
aveva sperato dopo le vittorie dell’estate, quando Roma, Parigi e Bruxelles erano tornate nelle
mani degli Alleati. La differenza psicologica tra le due parti era chiara. Per i tedeschi e i
giapponesi, non esisteva un «dopoguerra» tangibile, ma solo la vittoria o la distruzione; per le
popolazioni alleate, al contrario, una rapida fine della guerra al minor costo possibile prometteva
la smobilitazione e un futuro migliore. La convinzione iniziale che la vittoria fosse vicina, e la
successiva delusione quando essa non si materializzò, sembrando anzi sempre piú lontana, era
condivisa da militari e civili. Negli Stati Uniti, Roosevelt, al ritorno dalla Conferenza di Teheran
del novembre 1943, deplorò l’opinione popolare secondo cui «la guerra è già vinta e possiamo
cominciare a mollare la presa» . Poche settimane prima, la rivista «Life» aveva avuto il
283

permesso di pubblicare per la prima volta una fotografia di soldati americani morti, nel tentativo
di risvegliare l’entusiasmo per lo sforzo bellico. Sul fronte interno, l’ottimistica visione che la
Germania fosse prossima alla sconfitta persistette durante lo sbarco in Normandia e l’avanzata
alleata in Francia. Il forzato rallentamento nelle campagne francesi, tuttavia, mise fine, come
osservò Henry Stimson, alla «facile fiducia in una vittoria in tempi rapidi», creando invece la
consapevolezza che gli Alleati «erano coinvolti in una guerra lunga e in una lotta molto dura» . 284

In Gran Bretagna, l’inizio dei bombardamenti con le armi della vendetta, V1 e V2, smorzò
l’entusiasmo per la campagna in Francia, lasciando nell’area minacciata una popolazione che,
secondo i rapporti dell’intelligence britannica, viveva in uno stato di ansia e con un’«incredibile
stanchezza», ma era piú che mai desiderosa di una rapida conclusione della guerra. Anche se
Montgomery sperava di poter soddisfare le attese della popolazione, da ottobre divenne chiaro
che la battaglia era tutt’altro che conclusa. «Ci aspettano alcuni combattimenti molto duri»,
scrisse a Brooke. «Se la spuntiamo con successo, suppongo che avremo quasi vinto la guerra. Ma
se ci sbaragliano, è probabile che la guerra si trascini ancora». Nel febbraio del 1945, i capi dello
stato maggiore britannico prevedevano la fine dei combattimenti in Europa non prima dell’ultima
settimana di giugno, pur non escludendo che la guerra potesse durare fino a novembre . 285

Su molte linee del fronte, l’umore degli uomini, impantanati in un duro e interminabile conflitto,
rifletteva i sentimenti dei cittadini in patria. Dopo il successo iniziale in Francia, i combattimenti
si erano fatti piú violenti, tanto che nel settembre e ottobre del 1944 erano stati uccisi piú soldati
britannici che durante la campagna di Normandia. «I giorni dei grandi successi sembravano
essere passati», si lamentava un soldato britannico. «Ogni prospettiva davanti a noi era poco
invitante». Le stesse truppe che prima avevano scommesso su quando sarebbe finita esattamente
la guerra in autunno (ottobre sembrava essere la previsione generale) si trovavano ora
impantanate nel fango e nella pioggia sulla pianura delle Fiandre, come già era accaduto ai loro
padri, in costante pericolo, desiderando soltanto che tutto finisse. I ritmi lenti e le pesanti perdite
crearono una visione cinica di quella vittoria che sfuggiva sempre di mano. «La guerra è finita»,
disse un carrista americano alla giornalista Martha Gellhorn nel dicembre del 1944. «Non lo sa?
L’ho sentito alla radio una settimana fa [...]. Diavolo, è tutto finito. Mi chiedo cosa ci faccio
ancora qui» . Nella Bruxelles appena liberata, un ufficiale inglese aveva saputo da un
286

sottufficiale che all’inizio di settembre avevano annunciato alla radio che «la Germania si è
arresa e Hitler è andato in Spagna», ma si trattava di un pio desiderio. «Magari quelle voci sulla
pace fossero state vere!» annotò nel suo diario pochi giorni dopo mentre partiva per la battaglia
successiva . Piú la pace sembrava vicina, piú diminuiva il numero di soldati disposti a correre
287
dei pericoli rischiando di finire anche loro ammazzati, a differenza dei militi tedeschi e
giapponesi, che continuavano a difendersi nelle trincee ben sapendo che le possibilità di
sopravvivenza erano scarse. Il sistema dell’esercito americano per rimpiazzare le perdite, che
stava ormai mobilitando ragazzi di diciotto anni per soddisfare l’urgente e imprevisto bisogno di
piú combattenti, non faceva che alimentare la fanteria, soldato dopo soldato, di uomini già sfiniti,
senza compagni e senza alcun efficace addestramento, destinati a subire di conseguenza perdite
elevate combattendo al fianco di veterani ben intenzionati a sopravvivere a spese dei piú
giovani . L’Armata Rossa affrontò lo stesso problema quando uomini piú giovani e piú anziani,
288

o uomini feriti che si stavano ancora riprendendo, furono reclutati per rimpiazzare i ranghi
impoveriti delle truppe piú esperte. Le condizioni dei soldati al fronte erano terribili: mancanza
di cibo e calzature, forniture mediche limitate, furti sempre piú frequenti ed episodi di violenza.
«Negli ultimi tempi», scriveva un soldato alla famiglia, «mi sono sentito esausto per questa
guerra […]. Tanto è tutto inutile, ovviamente. La guerra non finirà neppure quest’inverno». È
vero che gli spiriti si erano rianimati dopo il successo dell’operazione Bagration, ma sappiamo
per certo che molti soldati sovietici pensavano che il nemico fosse stato ormai sconfitto e che
avrebbero potuto fermarsi alla frontiera sovietica. Il loro lavoro era concluso. Al contrario, si
erano trovati di fronte alla prospettiva di proseguire l’avanzata fino in Germania: l’esaurimento
fisico e psicologico dell’esercito aveva inoltre richiesto una lunga pausa, per cui la vittoria
avrebbe reso necessari ancora lunghi mesi di aspri combattimenti fino al 1945 .289

Per le forze anglo-americane, i piani di smobilitazione e la riconversione ai settori produttivi del


tempo di pace – programmi iniziati già nel 1943, molto prima che s’intravvedesse chiaramente la
vittoria – avevano esacerbato la tensione tra il desiderio di pace e la realtà di un nemico mortale
ancora da sconfiggere. Negli Stati Uniti, ai tagli apportati alla produzione bellica seguirono
progetti di riapertura delle fabbriche con una produzione limitata di beni destinati alla
popolazione civile, mentre la pubblicità commerciale iniziava a concentrarsi sui prodotti che con
la vittoria sarebbero stati presto di nuovo disponibili. Gli elaborati programmi di riconversione
industriale innescarono una lotta durata un anno tra i militari, che volevano piú munizioni,
bombe e carri armati a fronte delle elevate perdite subite nell’invasione della Francia e
dell’Italia, e i funzionari civili, chiamati a rispondere alle diffuse richieste della popolazione
affinché si ponesse fine ai controlli e al razionamento. Allorché i lavoratori furono impiegati in
quelli che consideravano lavori piú sicuri nell’industria civile, la capacità della produzione
militare si contrasse di un quarto . Vi erano soldati che stavano già tornando a casa in base alle
290

regole dell’Adjusted Service Rating, il sistema che pianificava il ridispiegamento del personale
militare dopo la fine delle ostilità, attribuendo ai singoli soldati un punteggio in base al numero
di mesi trascorsi in combattimento, età, stato di famiglia, ferite e medaglie. Un punteggio di 85
punti significava il ritorno a casa e la fine dei combattimenti per gli uomini che erano stati in
guerra dal 1942 o dall’inizio del 1943. Gli equipaggi dei bombardieri rientravano negli Stati
Uniti dopo trenta azioni in volo, e quelli sopravvissuti cosí a lungo venivano soprannominati
Happy Warriors, i «guerrieri felici». Soldati e aviatori potevano cercare di rientrare nel numero
dei militari smobilitati tentando di correre sempre meno rischi fatali man mano che si avvicinava
la prospettiva del loro ritorno in patria . In Gran Bretagna era sorto un problema analogo con il
291

manuale Release and Resettlement (Smobilitazione e reimpiego), che, pubblicato nel settembre
del 1944, stabiliva i criteri per essere idonei alla smobilitazione. Lo stesso mese in cui Hitler
aveva decretato l’istituzione del Volkssturm, la milizia volontaria britannica della Home Guard
era stata smobilitata, dal momento che non serviva piú. Sul campo, gli uomini piú anziani, e
quelli che si trovavano all’estero da lungo tempo, ricevevano punti favorevoli alla
smobilitazione, anche se ogni soldato era in grado di calcolare da solo quando sarebbe stato
smobilitato. Il primo a essere congedato dal servizio attivo sarebbe stato il dieci per cento dei
militari classificati come manodopera qualificata ed essenziale per il programma di ricostruzione
postbellica, il che aveva provocato tra i soldati una vera e propria corsa a dimostrare «abilità» e
competenze in realtà non sempre possedute . Anche se una promessa di smobilitazione non
292

impediva in nessun caso di dover continuare a combattere, nel momento in cui sia i militari sia i
civili rivolgevano l’attenzione al mondo del dopoguerra il peso di una battaglia diveniva meno
sopportabile. Come scrisse a Eisenhower il vicecapo di stato maggiore dell’esercito americano
all’inizio del 1945, «tutto lascia pensare che sarà un lavoro infernale fare in modo che la guerra
rimanga la vera priorità» .
293

In questo senso, le speranze dei governanti tedeschi e giapponesi che il nemico potesse soffrire di
un calo motivazionale rispetto alla guerra quanto piú lungo e gravoso diventava il conflitto non
erano del tutto campate in aria. Le discussioni sulla strategia da seguire continuarono a
tormentare le relazioni anglo-americane, mentre la collaborazione con l’Unione Sovietica
rimaneva instabile, soprattutto dopo i sospetti emersi fin dall’autunno 1944 circa le ambizioni di
Stalin nell’Europa dell’Est. Sia in Europa sia nel Pacifico, l’avanzata degli Alleati era rallentata
da un lungo e complicato percorso logistico verso le nuove linee del fronte e aveva difficoltà a
mettere a frutto, là dove sarebbero piú serviti, i grandi vantaggi materiali di cui godeva lo
schieramento alleato. I comandanti della Wehrmacht schernivano la lentezza con cui il nemico
rispondeva ai loro exploit piú fortunati, mentre l’intelligence tedesca rilevava tra gli Alleati sia
persistenti tensioni sia una diminuita capacità di avanzare rapidamente. «La storia ci insegna»,
annunciò Hitler ai suoi generali alla fine di agosto, «che tutte le coalizioni si sciolgono, ma si
deve aspettare il momento […] continueremo questa lotta, fino a quando, come disse Federico il
Grande, “uno dei nostri dannati nemici si arrenderà disperato”» . In Giappone, perfino
294

l’imperatore Hirohito aveva accarezzato nei mesi del 1945 l’idea che anche una sola vittoria a
livello locale potesse bastare ad avviare negoziati con un nemico ridotto a pezzi dalla guerra.
Ovunque, lungo i principali fronti di combattimento di Europa e Asia, si creò una relativa
situazione di stallo. L’ultima controffensiva giapponese in Cina aveva lasciato entrambi gli
schieramenti esausti. Anche se l’operazione Ichigō aveva preso il via all’inizio del 1945, altri
piani piú ambiziosi per continuare ad avanzare e cercare di impadronirsi di Chongqing erano
semplicemente al di là delle capacità nipponiche. L’occupazione della tratta ferroviaria dal
Vietnam alla Corea si era rivelata una conquista vana. La XIV Air Force del generale Claire
Chennault in Cina aveva continuato a levarsi in volo da nuovi campi d’aviazione, attaccando le
linee e il traffico della ferrovia. Anche se la lunga campagna del 1944 aveva indebolito quasi
fatalmente il regime nazionalista di Chiang, si poteva fare ancora abbastanza per prevenire
ulteriori invasioni giapponesi, soprattutto lasciando come sospeso lo scontro. Marshall e
Roosevelt avevano deciso da tempo che non aveva senso una grande campagna militare
nell’Asia continentale, per cui agli eserciti cinesi erano stati negati i necessari equipaggiamenti.
La maggior parte delle risorse inviate in Cina erano destinate a sostenere le forze aeree
americane, inclusi i nuovi bombardieri pesanti Boeing B-29, considerati un’arma piú efficace per
minare la resistenza giapponese in una guerra terrestre in Cina.
Chiang ottenne solo una cosa negli ultimi mesi della campagna giapponese: egli insistette infatti
perché l’arcigno Stilwell fosse rimosso dopo che aveva cercato di convincere Roosevelt affinché
Chiang conferisse a lui il comando generale di tutte le forze cinesi, nonostante i suoi fallimenti in
Birmania: «Questo è imperialismo bell’e buono», aveva scritto Chiang nel suo diario dopo aver
ascoltato le richieste americane . Roosevelt accettò con riluttanza e Stilwell fu costretto a
295

lasciare la Cina alla fine di ottobre, dopo aver tentato deliberatamente per anni di avvelenare i
rapporti tra i due alleati. Fu sostituito dal generale Albert Wedemeyer, vice di Mountbatten, ora
comandante in capo delle forze britanniche nel Sud-est asiatico, che considerava Stilwell, con
molti buoni motivi, incapace perfino di comandare un semplice reggimento. Wedemeyer decise
di riorganizzare gli eserciti di Chiang, costruendo una forza iniziale di trentasei divisioni
totalmente riequipaggiate con attrezzature americane. Pianificò poi l’operazione Carbonado, una
campagna nella Cina meridionale che avrebbe dovuto portare alla conquista di Hong Kong o di
Guangzhou alla fine del 1945 o nel 1946, ma i giapponesi si arresero prima che l’operazione
potesse avere inizio . Eliminato Stilwell, Chiang si sottopose alla leadership americana, pur
296

mantenendo segreta una missione a Tokyo nel marzo del 1945, nella quale Miao Pin doveva
tentare di negoziare un completo ritiro giapponese dalla Cina . All’inizio dell’estate del 1945, lo
297

Shina hakengun provò a impadronirsi di una delle nuove piste di atterraggio realizzate da
Chennault a Zhijiang. Fu l’ultimo sussulto dell’aggressione giapponese. Wedemeyer schierò 67
divisioni cinesi con 600 000 uomini contro i 50 000 soldati della XX Armata giapponese.
Nell’ultima grande battaglia della guerra sino-giapponese, gli eserciti nazionalisti sconfissero e
respinsero infine il nemico ormai vacillante .
298

Nel Sud-est asiatico e nel Pacifico, la strategia alleata era oggetto di persistenti discussioni che
rallentarono i progressi delle campagne alleate dopo le conquiste riportate a Saipan e in
Birmania. Dall’inizio del 1944, Churchill era come ossessionato dall’idea di uno sbarco anfibio
nel nord di Sumatra come preludio alla riconquista di Singapore – da effettuarsi con
un’operazione dal nome in codice Culverin (Colubrina). La motivazione reale era principalmente
quella di riaffermare la reputazione della Gran Bretagna nel suo impero asiatico dopo la disfatta
del 1942 e ripristinare il dominio coloniale; Churchill era convinto che a essere vista come la
potenza liberatrice dovesse essere la Gran Bretagna, piuttosto che gli Stati Uniti . Per il governo
299

americano, l’azione a Sumatra avrebbe contribuito poco o niente alla sconfitta del Giappone,
anzi, essa dimostrava chiaramente che gli interessi imperiali erano di primaria importanza per gli
inglesi, ma Churchill aveva continuato a insistere per molto tempo con la sua idea anche dopo
che il suo quartier generale aveva cercato di convincerlo a concentrarsi piuttosto a fornire aiuto
agli Stati Uniti nel Pacifico. «Quest’uomo è un bastone tra le ruote della guerra», si era lamentato
il capo di stato maggiore della Royal Navy dopo l’ennesimo incontro infruttuoso per persuadere
Churchill ad abbandonare la sua idea fissa . «Nell’opinione dell’americano medio», avvertiva
300

l’intelligence britannica negli Stati Uniti, «siamo decisamente a un livello infimo». Un sondaggio
di opinione condotto nel dicembre del 1944 rilevò che il 58 per cento degli americani accusava la
Gran Bretagna di aver rifiutato di cooperare con gli Alleati, mentre solo l’11 per cento incolpava
l’Unione Sovietica . Il piano di Sumatra fu definitivamente abbandonato solo quando divenne
301

chiaro che era semplicemente impossibile soddisfare il bisogno di mezzi da sbarco,


equipaggiamento anfibio e protezione della flotta, ma Churchill, nondimeno, continuò a proporre
ulteriori piani irrealizzabili – tutti per altro abbandonati – per invadere la Malesia (operazione
Zipper, «cerniera») e Singapore (operazione Mailfist).
Alle divergenze con gli inglesi si affiancò un altro scontro, ancora piú dannoso, tra Nimitz e
MacArthur in merito alla strategia da seguire nel Pacifico nel 1945. Dall’inizio del 1944, i capi
dello stato maggiore congiunto avevano pensato di aggirare le Filippine affinché la marina degli
Stati Uniti, assistita dalle forze di MacArthur, potesse concentrarsi sulla conquista di Taiwan e
poi dell’arcipelago giapponese. L’ammiraglio King riteneva che le Filippine contassero poco,
anche se i capi militari giapponesi vedevano nella perdita delle isole un restringimento
potenzialmente disastroso del loro campo d’azione. MacArthur sosteneva di avere l’obbligo
morale di liberare la popolazione dell’isola che aveva abbandonato due anni prima, ma i capi
dello stato maggiore congiunto non si lasciarono certo impressionare al punto da rinunciare
all’idea di usare Taiwan come un trampolino di lancio ben piú adeguato. Solo quando diventò
chiaro che Taiwan era difesa da forze di tutto rispetto, mentre le Filippine sembravano piú
vulnerabili a un attacco, King e Nimitz acconsentirono a un’invasione sotto la guida di
MacArthur, senza tuttavia concordare nessun comando congiunto della campagna. Benché
MacArthur sostenesse con disinvoltura che avrebbe conquistato le Filippine «in trenta giorni»,
evitando quello che definiva il «tragico e inutile massacro di vite americane» avvenuto durante la
campagna «a sbalzi» da un’isola all’altra, Marshall e altri erano dell’opinione che l’esercito si
sarebbe impantanato in un terreno difficile, mentre la priorità urgente era quella di avvicinarsi al
Giappone, senza contare che la marina temeva che le date dell’invasione di Iwo Jima e Okinawa
potessero essere posticipate qualora la campagna nelle Filippine si fosse trascinata nel tempo . 302

MacArthur sembrava ignorare sia la realtà dei lunghi combattimenti contro i giapponesi, ben
difesi nelle loro trincee, sia gli inevitabili costi per il popolo filippino nel caso la lotta dovesse
prolungarsi. Non c’era dubbio che le Filippine potessero essere aggirate e neutralizzate senza
pagare un prezzo cosí alto. Solo nel settembre del 1944 fu finalmente approvata la nuova
direzione strategica e si pose fine alle discussioni, concordando il 20 ottobre come data del primo
sbarco su Leyte, l’isola piú piccola delle Filippine. Vista la situazione di stallo creatasi nel tardo
autunno in Europa e in Cina, sembrava ora possibile un’ulteriore impasse nel Pacifico
meridionale.
Protette da una numerosa presenza navale, 6 divisioni dell’esercito (2 di riserva) con 202 500
uomini sbarcarono a Leyte, difesa da un’unica divisione giapponese di 20 000 soldati. Come
Marshall aveva temuto, l’operazione finí letteralmente per impantanarsi quasi subito. In due mesi
vi furono tre tifoni e caddero quasi 900 millimetri di pioggia. Gli uomini lottavano nel fango dei
monsoni per scaricare e proteggere i rifornimenti; la costruzione di piste d’aviazione, essenziali
per l’impresa, era ostacolata dalle condizioni del terreno impregnato d’acqua, e solo a metà
dicembre furono completati tre campi operativi. Vivere in abiti fradici e con i piedi macerati
provocava malattie e le caratteristiche eruzioni cutanee del piede da trincea. L’isola, seppure
malamente difesa, fu messa in sicurezza solo il 31 dicembre, dopo piú di due mesi di aspri
combattimenti, anche se l’eliminazione delle unità giapponesi bloccate sulle colline e nella
giungla durò fino al maggio 1945. Quando la campagna entrò in stallo, con grande frustrazione
di MacArthur, Nimitz lo ammoní di rimandare i passi successivi. L’isola principale di Luzon
sarebbe stata quindi invasa solo il 9 gennaio. Anziché la prevista passeggiata di trenta giorni, la
conquista delle Filippine sarebbe avvenuta solo molto piú tardi nel 1945. Alla Conferenza di
Jalta di febbraio, i capi dello stato maggiore congiunto predissero cupamente che la guerra contro
il Giappone sarebbe durata fino al 1947.
L’unico elemento positivo della campagna fu la vittoria navale conseguita tra il 24 e il 25
ottobre, allorché la marina giapponese cercò di fare quello che le era riuscito a Guadalcanal e
Saipan, ovvero attaccare e distruggere i mezzi da sbarco e i depositi nel golfo di Leyte. Come la
maggior parte delle principali operazioni navali giapponesi, l’operazione Shō-gō (Vittoria) era
troppo elaborata. Erano state radunate separatamente quattro forze della marina, anziché
concentrarle in un singolo assalto: una grande flotta, che aveva la sua punta di diamante in due
supercorazzate, oltre a tre vecchie corazzate e dieci incrociatori pesanti, formava il braccio
occidentale di un movimento a tenaglia; un secondo squadrone ne costituiva il braccio orientale e
avrebbe dovuto entrare nel golfo di Leyte con due corazzate e un incrociatore pesante, con il
supporto di una terza forza di riserva; piú a nord, per tentare di allontanare la task force della
flotta di Halsey, che doveva sostenere l’operazione a Leyte, faceva da esca una flotta di quattro
portaerei con qualche velivolo e due vecchie corazzate. Halsey abboccò e nella notte del 24/25
ottobre si diresse a nord per intercettare le portaerei, ma ricevette l’ordine urgente di tornare
indietro mentre le due tenaglie giapponesi si chiudevano su Leyte. In realtà, l’aiuto di Halsey che
divise la sua forza lasciandone una metà ad affondare le quattro portaerei non si rivelò necessario
a Leyte . Aerei, cacciatorpediniere e cannoni distrussero dapprima la tenaglia orientale, in
303

navigazione attraverso lo stretto di Surigao, e respinsero poi la forza principale guidata


dall’ammiraglio Kurita Takeo, che si era fatto strada a occidente attraverso lo stretto di San
Bernardino, perdendo lungo la rotta tutti gli incrociatori pesanti, tranne due, e la super corazzata
Musashi. Kurita era rimasto cosí scosso dall’inaspettata resistenza che si lanciò, apparentemente,
come affermò in seguito, all’inseguimento di una portaerei americana fantasma, senza pensare
che le sue navi, ormai senza appoggio aereo, non sarebbero mai riuscite nell’impresa, a maggior
ragione se quella portaerei fosse esistita veramente. La marina giapponese perse tre corazzate,
quattro portaerei, sei incrociatori pesanti e altre diciassette navi da guerra . La battaglia del golfo
304

di Leyte spezzò finalmente la schiena a quanto restava della flotta di superficie giapponese;
perfino nel caso che le spiagge di Leyte e i mezzi da sbarco fossero stati gravemente danneggiati,
la marina degli Stati Uniti sarebbe stata quasi certamente in grado di riprendere in mano la
situazione. Il 25 ottobre ebbero inizio i sinistri attacchi dei kamikaze, che colpirono tre portaerei
di supporto, una delle quali in modo critico. Era l’esordio di una campagna suicida destinata a
durare un anno.
In autunno, tutti i principali fronti europei contro le forze tedesche, in Francia, Belgio, Italia e
Polonia, entrarono in una fase di stallo, a causa di un’accresciuta resistenza tedesca e della
tensione a cui erano sottoposte le forze alleate, impegnate dall’estate in continui combattimenti e
con basi di approvvigionamento molto distanti nelle retrovie. Dopo le ritirate caotiche attraverso
la Bielorussia e la Francia, la capacità dell’esercito tedesco di continuare a frustrare gli Alleati
appariva inaspettata. Il 4 settembre, mentre il gruppo d’armata di Montgomery si avvicinava ad
Anversa, Eisenhower aveva riferito ai comandanti che il nemico tedesco era prossimo al crollo
lungo tutto il fronte: «Sono disorganizzati, in piena ritirata, e difficilmente opporranno
un’apprezzabile resistenza» . Pur respingendo la richiesta di Montgomery di attraversare il Reno
305

con il suo gruppo d’armata e dirigersi verso Berlino lungo un fronte ristretto («si basava
semplicemente su un pio desiderio», disse a Marshall una settimana piú tardi), Eisenhower
sperava di impadronirsi in un prossimo futuro delle regioni industriali della Ruhr e della Saar . 306

In Italia, mentre le forze tedesche si ritiravano da Roma verso la Linea Gotica a nord di Firenze,
Alexander aveva detto che sarebbe bastata una sola spinta per liberare il Nord Italia prima di
proseguire per Vienna e affrontare un nemico ormai a pezzi, molte delle cui divisioni contavano
ora poco piú di 2500 uomini, a corto di equipaggiamenti e di supporto aereo . In entrambi i casi,
307

la speranza che le forze della Wehrmacht fossero prossime al collasso si rivelò prematura. In
Italia, il trasferimento di divisioni dell’esercito per sostenere la campagna nel sud della Francia
privò Alexander della potenza d’urto di cui aveva bisogno, mentre il quartier generale britannico
consigliava cautela a causa delle difficoltà del terreno e del maltempo in avvicinamento. Le forze
alleate dovevano ora avanzare su due assi separati: la V Armata di Clark, ora con solo cinque
divisioni, doveva aprirsi un passaggio sulle montagne verso Bologna, aiutata dall’arrivo della X
Divisione di montagna, di recente formazione; l’VIII Armata del tenente generale Oliver Leese
doveva intraprendere l’operazione Olive, avanzando sulla piana costiera verso Rimini. Anche se
la Linea Gotica era stata respinta con successo fino alla costa, la battaglia aveva richiesto un
pesante tributo alle forze alleate, senza contare che dovevano attraversare fiumi che si
ramificavano in tanti torrenti a causa delle forti piogge autunnali. Alexander affrontò il
rafforzamento della resistenza tedesca, favorita da un terreno ideale per combattimenti difensivi,
con truppe sfinite dalla lunga campagna, dal fango e dalla sensazione demoralizzante che il
fronte italiano fosse considerato dai capi alleati come una realtà stagnante e di secondaria
importanza. Clark scrisse in seguito che la sua avanzata «si era fermata per il semplice fatto che
gli uomini non ce la facevano piú a combattere […] la nostra spinta si era esaurita, lentamente e
dolorosamente» . Alla fine di novembre, Alexander aveva modificato il suo obiettivo nella presa
308

di Bologna e Ravenna con un’offensiva a dicembre, che si rivelò tuttavia eccessiva per le truppe
esauste, per cui il fronte si fermò. Il 30 dicembre, Alexander decise di rinviare alla primavera
qualsiasi altra grande operazione di attacco.
Sul fronte occidentale, il ritmo era rallentato nella prima settimana di settembre, dopo il frenetico
inseguimento iniziale, mentre si facevano avanzare i rifornimenti e l’artiglieria pesante. Proprio
la situazione dei rifornimenti, disse Eisenhower ai capi dello stato maggiore congiunto, era
«giunta al punto di rottura», poiché i lavori di manutenzione dipendevano da porti che ora si
trovavano a quasi 500 chilometri di distanza nel nord-ovest della Francia . Eisenhower approvò
309

tuttavia un ambizioso piano proposto da Montgomery che prevedeva di utilizzare le truppe


aviotrasportate della First Airborne Army per conquistare i punti di attraversamento del Reno a
Nijmegen e Arnhem, con il supporto del XXX Corpo d’armata del tenente generale Brian
Horrocks, in avvicinamento lungo il saliente creato dopo Anversa. Era un’operazione insolita per
Montgomery: pianificata in fretta, con un sostegno dell’aviazione scarsamente integrato, limitate
informazioni di intelligence circa i punti di forza tedeschi, nessuna pianificazione di uno
sbarramento di artiglieria e con la presenza su entrambi i fianchi di significative forze tedesche.
Eisenhower approvò l’operazione Market-Garden solo perché credeva che il nemico fosse
ancora troppo disorganizzato per resistere a un attacco tanto audace e soprattutto intendeva
attraversare il Basso Reno al fine di completare quello che sperava avrebbe compiuto piú a sud il
XII Gruppo d’armata di Bradley. Montgomery, dall’altro lato, considerava Market-Garden come
un mezzo per garantire l’attuazione della sua strategia preferita, ovvero colpire rapidamente la
Germania e spostarsi verso Berlino – un’opzione che i comandanti americani non avevano
nessun desiderio di incoraggiare, soprattutto se questo significava una vittoria britannica che li
avrebbe esclusi. L’esito è noto. Le numerose insidie potenzialmente presenti nell’operazione si
concretizzarono già al suo esordio il 17 settembre. Furono presi i ponti a Nijmegen, ma ad
Arnhem i tedeschi contrattaccarono con le forze del II SS Panzerkorps, che Montgomery non
aveva previsto; il XXX Corpo d’armata rimase bloccato su un’unica strada stretta, con la fanteria
incapace di avanzare abbastanza rapidamente e sotto un attacco continuo da parte del nemico. La
mancanza di supporto a terra nel momento critico portò al disastro di Arnhem, in cui la maggior
parte delle truppe aviotrasportate furono uccise o fatte prigioniere. L’operazione fu annullata il
26 settembre con 15 000 vittime tra gli Alleati; 3300 soldati tedeschi furono uccisi o feriti.
L’avanzata a nord verso la Germania era svanita.
Il XXI Gruppo d’armata dovette passare mesi a sgombrare l’area intorno al saliente mentre le
condizioni meteorologiche si deterioravano rapidamente, in una campagna pianeggiante di canali
e villaggi distrutti, nell’«abominio della desolazione», come lo descrisse un soldato . 310

Eisenhower insisteva affinché Montgomery si dedicasse ora completamente al porto di Anversa,


da riaprire dopo che era stato bloccato dai resti della 15. Armee tedesca che si erano ritirati, in
modo inaspettatamente ordinato, verso l’isola di Walcheren, alla foce del fiume Schelda, da cui
era possibile ostacolare le spedizioni alleate. La I Armata canadese, incaricata di sgomberare la
zona a nord di Anversa, era stata trattenuta dalla necessità di conquistare prima i porti di Le
Havre, Boulogne, Calais e Dunkirk, proclamate da Hitler città-fortezze, e solo a ottobre era stato
possibile liberare l’area piú a est. Walcheren fu finalmente occupata l’8 novembre e Anversa fu
aperta al traffico marittimo alleato. Le prime navi da trasporto di classe Liberty attraccarono il 28
novembre, fornendo cosí agli Alleati una base di rifornimento molto piú vicina e in grado quindi
di permettere operazioni piú lunghe in Germania. Il fronte si stabilizzò nella zona in condizioni
meteorologiche avverse e con perdite crescenti. Nel gruppo d’armata di Montgomery, lo sforzo
estenuante di una lotta di quasi sei mesi aveva causato una perdita media del 40 per cento di ogni
dvisione di fanteria . In quella situazione, nel 1944 non fu possibile una fulminea avanzata verso
311

Berlino né verso Vienna.


Anche il tentativo di prendere le dighe del Saarland e del Roer piú a sud si arrestò nel tardo
autunno, quando le forze tedesche si ritirarono nelle fortificazioni del Westwall e nelle postazioni
di difesa della foresta di Hürtgen, un campo di battaglia densamente boscoso su cui l’esercito
americano non poteva schierare la combinazione vincente di aviazione, mezzi blindati e
artiglieria. La I Armata del generale Courtney Hodges contò circa 29 000 caduti, poiché la
fanteria era stata costretta a respingere il nemico nelle condizioni piú dure, e tutto per un
territorio non certo essenziale per la campagna e per due dighe che alla fine rimasero in mani
tedesche . La III Armata americana sotto il generale Patton attraversò la Mosella con quattro
312

divisioni, ma lo sforzo costò un considerevole consumo di carburante e rifornimenti e l’avanzata


dovette nuovamente fermarsi prima di raggiungere gli obiettivi stabiliti da Eisenhower. A
novembre, quando l’offensiva americana avrebbe potuto riprendere, il tempo peggiorò
drasticamente, mentre le forze tedesche schierate nell’Ovest, che all’inizio di settembre
contavano appena tredici divisioni di fanteria e tre divisioni corazzate adatte al combattimento,
ora comprendevano ben settanta divisioni, tra cui quindici corazzate . A quel punto, Bradley,
313

preda del precedente eccesso di ottimismo di Montgomery, sperò che il XII Gruppo d’armata,
sostenuto dalle forze che avevano risalito la valle del Rodano e si erano ora riunite nel VI
Gruppo d’armata, sarebbe riuscito a impadronirsi del bacino della Saar per poi dirigersi verso la
Ruhr. A dicembre, le forze americane, dopo aver fronteggiato una strenua resistenza, avevano
raggiunto le fortificazioni tedesche del Westwall ma non avevano ancora attraversato il Reno.
Come in Italia, anche qui l’offensiva maggiore doveva essere rimandata alla primavera.
La resistenza tedesca si era rafforzata anche sul fronte orientale. La popolazione delle province
dell’Est era stata mobilitata per scavare i fossati e le trincee dell’Ostwall: circa 700 000 persone
– uomini, donne e adolescenti tedeschi insieme con operai polacchi –, tutte mobilitate al lavoro
coatto. In alcune zone, donne e ragazzi erano di gran lunga piú numerosi degli uomini e
lavoravano con turni di dodici ore per completare in poche settimane centinaia di chilometri di
barriera improvvisata. Il partito e le SS avevano assunto il ruolo principale nella mobilitazione
dei lavoratori per creare difese che la Wehrmacht guardava in realtà con scetticismo. Circolava la
battuta che l’Armata Rossa avrebbe impiegato un’ora e due minuti per forzare la nuova linea
difensiva – un’ora per riprendersi dalle risate e due minuti per aprirsi una breccia –, ma
l’obiettivo della mobilitazione era cercare di evitare il panico e la fuga e rafforzare la
determinazione per la battaglia finale in nome della patria . Piú significativo fu l’ordine
314

impartito da Guderian, il nuovo capo di stato maggiore dell’esercito nominato il 21 luglio subito
dopo l’attentato al Führer, di costruire una rete di venticinque città-fortezze da Memel, sulla
costa baltica, fino a Oppeln in Slesia, da tenere a ogni costo, in base alla direttiva di Hitler, come
capisaldi per rallentare l’avanzata sovietica in arrivo . La batosta prevista sulla Vistola non si
315

materializzò. Le forze sovietiche, stremate dalla lunga campagna in Bielorussia e nella Polonia
orientale, avevano bisogno di riposare, riorganizzarsi e attendere la creazione di linee di
rifornimento piú solide prima della carica finale nel Reich, rinviata a gennaio del 1945.
Piú a nord, il tentativo sovietico di tagliare le forze tedesche a Danzica e nella Prussia orientale
fu fermato dalla forte pressione tedesca e dall’alto numero di caduti fra le truppe sovietiche.
Stalin si concentrò allora sull’occupazione degli Stati baltici al fine di isolare la Heeresgruppe
Mitte, alla quale Hitler aveva negato l’autorizzazione a ritirarsi e sfuggire all’accerchiamento. Il
10 ottobre, l’Armata Rossa raggiunse la costa del Baltico vicino a Memel, e 33 divisioni
tedesche, che contavano quasi 250 000 uomini, restarono intrappolate piú a nord sulla penisola di
Curlandia, in Lettonia, dove la maggior parte rimase fedele agli ordini di Hitler fino alla sconfitta
definitiva . Nel secondo tentativo di entrare nella Prussia orientale, iniziato il 16 ottobre, i
316

sovietici avevano attraversato il confine tedesco e quasi raggiunto il nodo ferroviario di


Gumbinnen, di importanza fondamentale, prima di essere ricacciati indietro, con grande sorpresa
delle forze sovietiche, da una vigorosa reazione tedesca, tale da provocare un altro stallo
nell’offensiva alleata. L’altra preoccupazione di Stalin, di ordine militare e politico, era di
incorporare rapidamente l’Armata Rossa nei Balcani e nell’Europa centrale al fine di prevenire
qualsiasi tentativo di intervento da parte dell’Occidente. Dopo aver aiutato a fine ottobre la
Narodnooslobodilačka vojska Jugoslavije (Esercito di liberazione nazionale della Jugoslavia) a
conquistare Belgrado, l’attenzione sovietica si era rivolta all’Ungheria, in quanto porta di accesso
a Vienna, ma la fiera resistenza tedesca e ungherese aveva rallentato l’avanzata dell’Armata
Rossa, poiché Hitler voleva proteggere a ogni costo il piccolo giacimento petrolifero a sud-ovest
del lago Balaton. Budapest divenne cosí la principale fortezza a sud, tenuta da un misto di unità
tedesche e ungheresi. Anche se il 28 ottobre Stalin aveva ordinato allo 2-oj Ukrainskij front del
generale Malinovskij di conquistare Budapest in un giorno, poiché era politicamente essenziale
avanzare su Vienna, l’accerchiamento di Buda, la metà occidentale di Budapest, era stato
possibile solo il 26 dicembre, con un successivo assedio . La campagna si concluse solo a
317

febbraio, dopo che la maggior parte della capitale ungherese era stata distrutta da esplosioni e
bombardamenti e la guarnigione ridotta a circa 1000 dei 79 000 combattenti presenti a dicembre.
Persero la vita circa 100 000 soldati e civili ungheresi . Nel 1944, quindi, la strada per Vienna si
318

era rivelata per Stalin al di là della portata degli Alleati, esattamente com’era avvenuto per
Alexander in Italia.
La temporanea stabilizzazione del fronte tedesco in Polonia e nella Prussia orientale invogliò
Hitler a rischiare uno stratagemma strategico che accarezzava fin da agosto, quando aveva
richiesto la creazione di una forza – la Heeresgruppe G – destinata a penetrare nella retroguardia
e nei fianchi del XII Gruppo d’armata americano che stava avanzando dalla zona fronteggiante le
montagne dei Vosgi. La Heeresgruppe G contava sei divisioni corazzate e sei nuove brigate di
mezzi blindati, ma con il continuo succedersi di ritirate e contrattacchi l’operazione fu
abbandonata . A metà settembre, Hitler ampliò il proprio piano con l’idea di colpire tra i gruppi
319

d’armata dell’esercito britannico e americano, costringendo cosí in una sacca il XXI Gruppo
d’armata di Montgomery e muoversi poi in direzione di Anversa per porre fine alla prospettiva
degli Alleati di creare linee di rifornimento piú sicure. Hitler sperava che l’operazione potesse
perfino provocare una grande crisi politica tra i suoi nemici occidentali. «Controffensiva delle
Ardenne: obiettivo Anversa», annunciò il 16 settembre a una cerchia di stretti collabratori . 320

Venendo cosí presto dopo la ritirata in tutta la Francia e le battaglie al confine con la Germania,
la maggior parte degli alti gradi dell’esercito non gradí il piano, incluso Von Rundstedt,
richiamato all’inizio di settembre come comandante in capo delle forze in Occidente, e Model,
che aveva il comando della campagna. L’idea di Hitler, basata su una concentrazione di forze
ormai scarseggianti e in un momento in cui l’intero fronte aveva bisogno di essere difeso,
avrebbe funzionato solo se l’esercito avesse potuto impadronirsi delle scorte di carburante e
viveri dei rifornimenti alleati. I comandanti del Führer compresero i rischi di lanciare una grande
offensiva con una scarsa mobilità delle truppe (per l’operazione servivano 50 000 cavalli),
penuria di rifornimenti di ogni genere e unità dell’esercito che avevano ricevuto solamente un
addestramento limitato. Ciò nonostante, non riuscirono a far cambiare idea a Hitler.
Affinché l’operazione Wacht am Rhein (Guardia sul Reno) avesse successo, il Führer insisteva
sull’assoluta segretezza e parò le ovvie obiezioni insistendo sul suo intuito e asserendo che, quali
che fossero i problemi, la campagna avrebbe trasformato il fronte occidentale e «forse l’intera
guerra» . L’intervento alle corde vocali a cui Hitler dovette sottoporsi a metà novembre
321

contribuí a rimandare quella che ora veniva chiamata operazione Herbstnebel fino a quando il
Führer non riapparve il 1° dicembre, in grado almeno di sussurrare . La data fu rinviata
322

dapprima al 10 dicembre, poi a sei giorni dopo, in modo da approfittare del cattivo tempo che
avrebbe tenuto a terra la potenza aerea alleata. Il mattino del 16 dicembre, 24 divisioni con 410
000 uomini, 1400 veicoli corazzati, 1900 pezzi di artiglieria e piú di 1000 aerei colsero gli
Alleati completamente di sorpresa. Le truppe tedesche avanzavano su tre assi: a nord, dove la 6.
SS Panzerarmee di Sepp Dietrich doveva attraversare la foresta delle Ardenne e conquistare
Anversa; al centro, dove il generale Hasso von Manteuffel doveva spingersi verso il fiume Mosa
e oltre; a sud, dove il generale Erich Brandenberger avrebbe coperto il fianco dell’operazione. In
pochi giorni, si era formato un grande saliente, creato principalmente sul fronte centrale – la
«sacca» da cui derivò il nome dato dagli americani all’offensiva delle Ardenne: Battle of the
Bulge, la «battaglia della sacca». Hitler, finalmente felice, come comunicò ai comandanti in un
briefing dell’11 dicembre, di essere in grado di condurre un’«offensiva di successo» anziché una
«prolungata difesa ostinatamente condotta», riferí a Goebbels che l’effetto sugli Alleati era
«colossale» . 323

Hitler non sbagliava pensando che l’offensiva avrebbe lasciato gli Alleati nella piú profonda
costernazione. Il giorno prima dell’inizio dell’operazione, il 15 dicembre, Montgomery aveva
annunciato che l’esercito tedesco non aveva piú capacità offensive. Ancora il giorno successivo
all’avvio dell’azione tedesca, Eisenhower l’aveva descritta come un «contrattacco piuttosto
ambizioso» destinato a essere presto vanificato; il giorno 18, tuttavia, divenne chiaro che quella
in corso era una grande offensiva, volta a spaccare le forze alleate e avanzare verso la costa
belga . L’intelligence alleata aveva avvertito il Supreme Headquarters, Allied Expeditionary
324

Force (SHAEF, Quartier generale della forza di spedizione alleata) di Eisenhower di aver
rilevato un accumulo di riserve tedesche di fronte al settore delle Ardenne, quasi sguarnito di
forze, ma l’eccessiva sicurezza che la Wehrmacht fosse in crisi aveva lasciato inascoltato
l’allarme dei servizi d’informazione. Kenneth Strong, direttore dell’intelligence di Eisenhower
alla SHAEF, sosteneva che l’esercito tedesco stava perdendo nella guerra di logoramento venti
divisioni al mese; si presumeva pertanto che l’assembramento delle riserve tedesche fosse da
attribuirsi ai preparativi di un’ultima difesa della barriera del Reno, mentre un’operazione
attraverso la foresta delle Ardenne sembrava poco plausibile, esattamente come aveva pensato
l’alto comando francese nel maggio del 1940 . I tedeschi avevano nascosto quanto piú possibile i
325

loro preparativi, con un assoluto silenzio radio e i dettagli del piano a conoscenza solo di una
cerchia molto ristretta. Le ricognizioni aeree degli Alleati, nel frattempo, erano ostacolate dal
persistente maltempo.
L’operazione iniziò contro il settore piú debole della prima linea degli americani, in cui cinque
divisioni della I Armata, formate da unità a riposo o soldati appena reclutati, erano sparpagliate
su tutto il territorio delle Ardenne. Né Hodges, comandante della I Armata, né Bradley reagirono
con fermezza agli iniziali attacchi tedeschi (anzi, Bradley rimase per tutto il tempo nel suo
quartier generale in Lussemburgo, limitandosi a impartire direttive via radio e telefono). I
comandanti decentrati, al contrario, riuscirono a mantenere, contro ogni aspettativa, gli
importanti crocevia di St Vith e Bastogne, frustrando in tal modo l’avanzata tedesca. Il generale
Patton aveva già preparato un eventuale piano nel caso gli fosse stato chiesto di spostare le sue
forze a nord per correre in aiuto della I Armata, per cui furono rapidamente ridistribuite sei
divisioni per minacciare l’ala meridionale del saliente. A nord, lungo il crinale di Elsenborn, la 6.
SS Panzerarmee di Dietrich fu fermata dalla decisa difesa dei mezzi anticarro. Solo la 5.
Panzerarmee di Von Manteuffel fece progressi, raggiungendo il 24 dicembre un punto ad appena
5 chilometri dalla Mosa, prima di essere fermata e costretta a invertire la rotta. Il giorno 23,
quando il tempo si rasserenò, le forze aeree alleate avevano iniziato un temibile assalto
all’avanzata tedesca. La Luftwaffe, sebbene ancora di notevoli dimensioni, almeno sulla carta, si
era ridotta in realtà a causa della scarsità di carburante, di basi aeree mal preparate e
dell’inesperienza di centinaia di piloti alle prime armi e con un addestramento insufficiente. Il 1°
gennaio l’aviazione del Reich tentò di concentrare insieme 1035 caccia e cacciabombardieri per
dare il via a una grande operazione dal nome in codice Bodenplatte (Piastra di supporto) per
attaccare le basi aeree tattiche degli Alleati e rendere finalmente possibile la conquista di
Bastogne. Benché le cifre esatte delle perdite alleate siano difficili da calcolare, anche se il loro
numero varia tra 230 e 290 aerei, la maggior parte dei quali a terra e non mimetizzati, l’aviazione
tedesca perse piú di 300 velivoli, la piú grande perdita mai avvenuta in un solo giorno di guerra . 326

Gli Alleati potevano permettersi quelle perdite, in quanto le forze aeree britanniche e americane
nel teatro europeo contavano alla fine del 1944 non meno di 14 690 aerei . 327

A quel punto, una spinta concertata principalmente da parte delle forze americane stroncò il
saliente e iniziò il laborioso, dispendioso e debilitante compito di respingere l’esercito tedesco.
Come avevano ammonito i comandanti tedeschi, la carenza di carburante ed equipaggiamenti e
la totale inesperienza di molte delle nuove reclute che combattevano in quell’inverno si
tradussero in perdite elevate di uomini e veicoli, anche se le truppe della Wehrmacht, secondo le
parole di Eisenhower, combatterono «con una sorta di fanatismo o di “furia germanica”» . Il 3 328

gennaio, Hitler riconobbe che l’offensiva era fallita, pur sperando che gli aspri combattimenti nel
gelo avessero assorbito le riserve degli Alleati, indebolendone il fronte in diversi punti e
procrastinandone l’avanzata verso il Reno. Nonostante tutti gli impedimenti, l’offensiva tedesca
era riuscita a infliggere notevoli danni. Cinque giorni dopo, Hitler accettò la richiesta di Model e
Von Manteuffel di ritirarsi al fine di evitare un’ulteriore distruzione delle truppe già duramente
provate. Entrambi gli schieramenti avevano subito pesanti perdite: tra la metà di dicembre e la
fine di gennaio, le forze americane persero 103 102 uomini, tra cui 19 246 morti; l’OKW stimò
le proprie perdite in 81 834 soldati, di cui 12 642 uccisi e 30 582 dispersi. Senza lasciarsi
scoraggiare dall’insuccesso, Hitler ordinò una seconda controffensiva in Alsazia, di minori
dimensioni e dal nome in codice Nordwind (Vento del Nord), che andò tuttavia incontro allo
stesso destino dell’operazione Herbstnebel. Il 14 gennaio, l’OKW registrò nel diario di guerra
che l’iniziativa «era passata agli Alleati», come del resto stava già avvenendo da parecchio
tempo .
329

Anche se Hitler non lo avrebbe mai saputo, se la sua mossa per dividere gli Alleati occidentali
andò piú vicina a una sua concretizzazione non fu tanto a causa dello scontro militare. Durante
l’offensiva delle Ardenne, infatti, le tensioni tra Montgomery, i capi dello stato maggiore
britannico ed Eisenhower si erano esacerbate fin quasi al punto di rottura. Per fare fronte alla
minaccia immediata, Eisenhower aveva chiesto a Montgomery di assumere il comando della I e
della IX Armata americana a nord del saliente. Bradley si era allora infuriato per quella che
vedeva come una mancanza di fiducia nella sua leadership, ma era stato costretto ad accettare.
Non c’è dubbio che la presenza di Montgomery instillò fiducia nelle truppe a nord del saliente,
ma il contributo delle sue forze britanniche e canadesi fu minimo, tanto che registrarono appena
1400 caduti, di cui 200 morti. Montgomery, inoltre, fu lento a ordinare il contrattacco, fatto che i
suoi critici americani non mancarono di sottolineare allo scopo di screditare il suo ruolo di
generale. A fine dicembre, Montgomery ripresentò la sua precedente richiesta, ovvero che gli
fosse permesso di assumere il comando generale di tutte le forze di terra, come aveva fatto per il
D-Day, o viceversa rischiare il fallimento degli Alleati nell’imminente invasione della Germania.
In privato disse ad Alan Brooke, capo dello stato maggiore imperiale, che a suo avviso
Eisenhower «non sa cosa sta facendo». Marshall consigliò a Eisenhower di non fare alcuna
promessa in tal senso, ma entrambi si erano profondamente risentiti dell’allusione degli inglesi
all’errata strategia seguita da Eisenhower . Una settimana piú tardi, dopo una conferenza stampa
330

del 7 gennaio in cui Montgomery aveva dato l’impressione, intenzionalmente o meno, che
fossero stati gli inglesi a salvare la situazione nella battaglia delle Ardenne, Eisenhower avvertí
Montgomery che, se avesse persistito con quel tono, avrebbe «danneggiato la buona volontà e la
devozione a una causa comune che hanno reso unica nella storia questa forza alleata» . 331

A fine gennaio, durante gli incontri dei capi dello stato maggiore congiunto a Malta, preludio al
summit di Jalta, Brooke riaprí la questione di un unico comandante in capo e di un attacco
circoscritto dal fronte britannico per entrare in Germania. Il suo intervento causò quasi un’aperta
rottura tra i due alleati. In una riunione gravida di tensioni Marshall disse ai comandanti inglesi
che Eisenhower si sarebbe dimesso se avessero continuato a criticare la sua condotta nella
campagna. Il giorno seguente, 1° febbraio, Roosevelt insistette tuttavia che Eisenhower doveva
restare al suo posto. L’insistenza da parte britannica avrebbe potuto provocare una grave crisi se
Churchill non si fosse schierato con Roosevelt. I problemi, tuttavia, rimasero irrisolti a lungo
anche dopo la fine della guerra. Ci sarebbe molto da dire su entrambe le posizioni assunte nel
dibattito, ma il fattore determinante era comunque la presenza di un esercito americano molto piú
grande di quello britannico, i cui comandanti non avrebbero mai accettato di essere agli ordini di
un feldmaresciallo inglese né tantomeno di attenersi a una strategia che lasciasse all’alleato
inglese la gloria di aver sconfitto la Germania. «L’organizzazione del comando non è certo
ideale», scrisse Eisenhower a Marshall, «ma è il massimo praticabile, considerando le questioni
di nazionalità coinvolte e le persone disponibili» . Anche se si evitò per un soffio un’aperta
332

spaccatura, rimane ancora oscuro perché Montgomery non sia stato in grado di cogliere appieno
il delicato aspetto politico dell’alleanza anglo-americana.
Nel gennaio del 1945, la sconfitta di tedeschi e giapponesi era solo questione di tempo, ma le
battaglie degli ultimi mesi di conflitto per sottomettere il Reich nemico ormai in pezzi furono tra
gli scontri piú sanguinosi e cruenti di tutta la guerra combattuta dagli Alleati. Tra dicembre del
1944 e maggio del 1945, i caduti in combattimento di tutte le forze americane in tutti i teatri di
guerra furono 100 667, piú di un terzo di tutti i morti in battaglia durante il conflitto; i caduti
sovietici (morti e dispersi) nelle principali operazioni condotte tra gennaio e maggio del 1945 in
territorio tedesco furono 300 686. Furono altresí i mesi con il numero piú alto di caduti tedeschi e
giapponesi, militari e civili. Negli ultimi quattro mesi di combattimento, le forze armate tedesche
persero 1 540 000 uomini, molti dei quali adolescenti o anziani arruolati per colmare gli enormi
vuoti creatisi nelle unità della Wehrmacht; almeno 100 000 civili morirono sotto le bombe.
L’esito della guerra non fu mai messo in dubbio. All’inizio del 1945, gli Alleati godevano di una
potenza aerea schiacciante – alla fine del dicembre 1944 l’aviazione tedesca possedeva solo il 15
per cento della potenza delle forze anglo-americane combinate –, mentre per quanto riguardava
carri armati e cannoni semoventi il rapporto era quattro a uno a favore degli Alleati, addirittura
sei a uno sul fronte occidentale. Viste tali disparità, la resistenza era vicina a un’azione suicida,
ma a ogni combattente era imposto un estremo sforzo finale per preservare il cuore della
madrepatria imperiale. «Il principio di una lotta fanatica per ogni metro della nostra terra natia»,
recitava a gennaio l’ordine del giorno di un gruppo d’armata tedesco, «deve essere per noi un
sacro dovere» . A Iwo Jima, che fu il primo territorio dell’arcipelago nipponico a essere invaso,
333

il comandante giapponese consegnò alle truppe un elenco di «coraggiosi propositi in battaglia»,


in cui si intimava tra l’altro che «dovere di ogni uomo sarà uccidere dieci nemici prima di
morire» .
334

Hitler non aveva dubbi di avere di fronte il suo Endkampf, l’ultima battaglia, il momento finale
della sconfitta. Il suo aiutante ricordò in seguito una conversazione con il leader disperato
avvenuta a gennaio: «So che la guerra è persa. La superiorità del nemico è troppo grande […] noi
non capitoleremo mai, mai. Potremo anche andare a fondo, ma porteremo con noi il resto del
mondo» . Nel suo distorto universo morale, anche se avrebbe certamente preferito la vittoria,
335

l’alternativa di una sconfitta totale non era un risultato cosí indegno, il che spiega perché si
aggrappò cosí disperatamente agli appelli a vittoria o morte, essendo essenziale per il Führer che
la nazione tedesca fosse redenta dalla vergognosa resa del 1918 e combattesse fino all’ultimo
respiro piuttosto che arrendersi. Nella cultura storica germanica, il dovere di evitare a tutti i costi
la vergogna era un cliché che esercitava un forte fascino non solo su Hitler ma anche su quei
circoli tedeschi ancora disposti a sostenere lo sforzo bellico . Il sacrificio redentore della totale
336

sconfitta era visto come un atto morale di proporzioni eroiche, da cui le future generazioni di
tedeschi avrebbero tratto una lezione al momento di ricostituire la salute e il vigore della razza.
Nel suo «testamento politico», dettato nel bunker di Berlino il 29 aprile 1945, Hitler affermò che
lo sforzo bellico tedesco «passerà nella storia come la manifestazione piú gloriosa ed eroica della
lotta di un popolo per la vita», nonché come un preludio alla rinascita di una vera e propria
Volksgemeinschaft, la «comunità del popolo germanico» . 337

Negli ultimi mesi della guerra in Europa, le forze aeree alleate contribuirono a creare uno sfondo
apocalittico che si adattava perfettamente alle fantasie di Hitler sulla distruzione dell’eroico
popolo tedesco, con le strade deformate e i furiosi incendi che accompagnavano l’ultima
campagna di vendetta. Dal settembre 1944, quando Eisenhower lasciò nuovamente le forze dei
bombardieri pesanti sotto il controllo dell’aviazione, sia il Bomber Command della RAF sia
l’VIII e la XV Forza aerea americana scatenarono i bombardamenti piú pesanti della guerra,
sganciando in soli otto mesi tre quarti di tutte le bombe alleate, confrontandosi con una difesa
aerea gravemente impoverita dal logoramento dei caccia nei cieli della Germania, il cui tasso di
perdite raggiungeva ormai il 50 per cento al mese . Sia Henry Arnold, comandante delle forze
338

aeree dell’esercito americano, sia Harris speravano che i bombardieri sarebbero stati in grado di
infliggere il colpo definitivo che finora gli eserciti alleati non erano riusciti ad assestare, anche se
i bombardamenti di città già piú volte colpite erano altresí giustificati dal timore che la Germania
potesse trovare il modo di invertire le sorti della guerra con nuove armi o con una rinascita
industriale, soprattutto nel caso che la guerra aerea non fosse stata portata avanti senza sosta. La
potenza disponibile era ora strabiliante: le forze aeree degli Stati Uniti contavano in Europa 5000
bombardieri pesanti, supportati da 5000 caccia che dovevano scortarli e abbattere la residua forza
aerea tedesca; il Bomber Command aveva circa 1500 aerei, tra i quali, principalmente, il pesante
quadrimotore Avro Lancaster. Le perdite subite nel corso delle operazioni, che verso la fine del
1943 avevano quasi posto fine alle campagne, erano ora in media solo l’1 o il 2 per cento in tutte
le azioni condotte .
339

I bombardieri si sarebbero ora scatenati nell’operazione Hurricane (Uragano), che doveva


soddisfare la richiesta di Eisenhower di portare il massimo scompiglio tra gli obiettivi militari e
le arterie di comunicazione della Germania occidentale in vista dell’imminente invasione alleata,
anche se tali obiettivi non erano stati definiti con molta chiarezza. L’incertezza su quelli che
erano ora gli obiettivi prioritari fu risolta il 1° novembre 1944 con la direttiva strategica n. 2
dello SHAEF, che esortava a compiere il massimo sforzo per colpire impianti petroliferi e vie di
comunicazione di ogni tipo, mentre, in caso di maltempo, i bombardieri potevano continuare
attacchi settoriali sui vari «centri industriali» . Harris era scettico sui bombardamenti di obiettivi
340

precisi, benché il Bomber Command avesse contribuito a stilare un piano di attacchi contro
impianti petroliferi e trasporti. Le forze aeree di Harris attaccavano perlopiú le città, comprese le
piccole cittadine non ancora incenerite, nella convinzione che dovesse arrivare un momento in
cui il danno sociale e psicologico avrebbe reso impossibile ai tedeschi continuare la guerra. I
bombardieri americani, grazie alla guida dei radar, sganciavano gran parte dei loro ordigni
volando al di sopra delle nuvole, riuscendo cosí a disturbare gravemente le comunicazioni e
ridurre la produzione interna di petrolio della Germania di quasi due terzi rispetto al livello di un
anno prima. Eppure, alla fine, il colpo decisivo non venne inferto, anche se nella primavera del
1945 il danno cumulativo recato alle città tedesche, all’industria e alla popolazione civile
raggiunse livelli eccezionali, compresa la tempesta di fuoco su Dresda che nella notte tra il 13 e
il 14 febbraio uccise (secondo stime recenti) 25 000 persone.
Nel marzo del 1945, il ministro degli Armamenti Albert Speer avvertí Hitler che a causa del
collasso dei trasporti e dei principali settori industriali la produzione bellica sarebbe
sopravvissuta forse ancora sei settimane. È improbabile che questo potesse significare di per sé
una resa da parte tedesca, data l’ossessiva determinazione di Hitler a essere sconfitto
combattendo piuttosto che arrendersi. Né tantomeno si sarebbe evitata un’invasione via terra. I
bombardieri erano considerati dai comandanti delle forze terrestri un contributo alla guerra al
solo scopo di facilitare l’avanzata degli eserciti alleati, inclusa l’Armata Rossa. Dresda rientrava
in uno schema di bombardamenti delle città della Germania orientale che doveva appunto
favorire l’avanzata dei sovietici – una decisione concordata su suggerimento britannico alla
Conferenza di Jalta all’inizio di febbraio e accettata dalla parte sovietica solo se si fosse stabilita
un’adeguata linea di bombardamenti tale da impedire che l’Armata Rossa potesse essere colpita
da fuoco amico . Sembra tuttavia improbabile che siano stati i bombardamenti alleati a
341
contribuire direttamente alla rapida avanzata sovietica. Il fattore chiave fu piuttosto la ridotta
mobilità delle forze armate tedesche su tutto il territorio a causa del ristretto campo di
combattimento.
Al momento del vertice alleato a Jalta, che si riuní tra il 4 e l’11 febbraio 1945 nel Palazzo di
Livadia, tra le rovine della città della Crimea, Stalin aveva finalmente lanciato l’operazione tanto
attesa che avrebbe portato l’Armata Rossa al di là della Vistola nella Polonia centrale, in
direzione della capitale tedesca. La pianificazione era iniziata nell’ottobre del 1944, ma la
necessità di stabilire nuove linee di rifornimento, reintegrare le unità esauste e addestrare le
reclute arruolate nella corsa attraverso la Bielorussia e la Polonia orientale, ne aveva
procrastinato l’inizio di tre mesi. Stalin aveva preso allora il comando diretto dell’Armata Rossa
e ordinato a Žukov, suo vicecomandante, di assumere il controllo del 1-yj Belorusskij front e
sferrare l’attacco principale, mentre il 1-yj Ukrainskij front di Konev attaccava da Sandomierz a
sud, oltre la testa di ponte sulla Vistola. L’obiettivo iniziale era ottimistico quanto quello di
Montgomery: un’avanzata verso il fiume Oder il 3 febbraio, poi verso Berlino e il fiume Elba
all’inizio di marzo, dopodiché le truppe sovietiche avrebbero dilagato sul territorio. La prima
ambizione era chiaramente realistica, dato l’enorme vantaggio materiale di cui godeva la parte
sovietica. Complessivamente, Žukov e Konev avevano sotto il loro comando 2,2 milioni di
uomini, 33 000 pezzi di artiglieria e mortai, 7000 carri armati e 5000 aerei. Di fronte a loro,
secondo i dati russi, le Heeresgruppe A e Mitte contavano 400 000 soldati, 5000 cannoni, 1220
veicoli corazzati da combattimento e 650 aerei . A nord, inoltre, lo 2-oj e il 3-ij Belorusskij
342

front, con 1,67 milioni di uomini e 3800 carri armati, avrebbero intrapreso una simultanea
avanzata nella Prussia orientale e in Pomerania.
La vasta offensiva fu infine lanciata tra il 12 e il 14 gennaio. Žukov e Konev fecero rapidi
progressi contro una difesa che si andava ormai disintegrando. L’Armata Rossa raggiunse l’Oder
nella città-fortezza di Küstrin il 31 gennaio, invadendo in sole due settimane 300 chilometri di
territorio fino ad arrivare a 65 chilometri dalla capitale del Reich; nel sud, le forze di Konev
raggiunsero l’Oder a Breslavia il 24 gennaio, sfondarono le difese lungo il fiume e verso la fine
del mese conquistarono gran parte del distretto industriale della Slesia. A nord, l’avanzata fu piú
lenta a causa di una difesa tedesca molto determinata, ma la costa baltica fu comunque raggiunta
il 26 gennaio e la Prussia orientale rimase isolata; la cittadina di Königsberg, capoluogo di
provincia nonché una delle città-fortezze create nel 1944, fu circondata e assediata tre giorni
dopo, anche se resistette per piú di due mesi. Nelle tre settimane che precedettero il summit di
Jalta, l’Armata Rossa liberò la Polonia occidentale, occupò la Slesia e isolò le forze armate
tedesche nella Prussia orientale.
Indipendentemente dal fatto che Stalin intendesse o meno sfruttare il rapido successo della
campagna per rafforzare la propria posizione negoziale con gli Alleati, i risultati dell’iniziale
sfondamento avvenuto nell’Est contrastavano con la piú lenta avanzata degli eserciti anglo-
americani, impegnati a gennaio e febbraio a liberare la sponda occidentale del Reno e le difese
del Westwall. Le principali operazioni di Montgomery a nord del fronte, come l’operazione
Veritable, destinata a forzare un percorso attraverso la foresta del Reichswald, e l’operazione
Grenade, condotta dalla IX Armata degli Stati Uniti per sfondare la linea sul fiume Roer,
iniziarono solo l’8 febbraio, quando la Conferenza di Jalta si stava ormai avviando alla
conclusione. I tre leader alleati arrivarono a Jalta non piú preoccupati principalmente
dell’andamento della guerra, ormai prevedibile, bensí dei problemi della pace che sarebbe
seguita. Gran parte dell’agenda era progettata per soddisfare Stalin. A differenza dei precedenti
incontri, i delegati occidentali trovarono un dittatore affabile e sobrio, ben disposto «su molte
questioni», come ricordava il presidente dello stato maggiore congiunto, «a scendere a
compromessi per raggiungere un accordo» . Le apparenze ingannavano. Qualche settimana
343

prima, Stalin aveva detto a una delegazione jugoslava a Mosca che con «i politici borghesi
bisogna stare molto attenti […] noi siamo guidati non dalle emozioni ma dalla ragione,
dall’analisi e dal calcolo». Stalin avrebbe anche potuto aggiungere dallo spionaggio, dal
momento che molti dei documenti sensibili preparati per Roosevelt e Churchill erano già in
possesso dei sovietici, mentre il Palazzo di Livadia pullulava di microfoni nascosti . Roosevelt
344

era esausto e visibilmente molto malato dopo un viaggio di 9500 chilometri e con una sola sosta
a Malta per incontrare Churchill. Anthony Eden, il segretario agli Esteri di Churchill, che
considerava Roosevelt una persona «vaga, approssimativa e poco capace», aveva trovato invece
un presidente molto determinato a impressionare l’opinione pubblica americana con
un’esibizione di unità e di impegno verso un ordine postbellico pacifico e democratico.
Raggiunse ampiamente tale scopo con un accordo generale sull’organizzazione delle Nazioni
Unite e con la firma, l’ultimo giorno del vertice, di una Dichiarazione sull’Europa liberata,
ovvero un impegno da parte delle tre potenze a instaurare governi basati su libere elezioni e
volontà popolare. Roosevelt strappò altresí un accordo a Stalin che l’Unione Sovietica sarebbe
entrata in guerra contro il Giappone dopo la sconfitta tedesca – una promessa che sembrava
ancora strategicamente necessaria agli americani per porre fine alla guerra nel Pacifico . 345

La Dichiarazione sull’Europa liberata era in realtà un tentativo di tappare falle evidenti


nell’alleanza. All’insaputa di Roosevelt, Churchill aveva già considerato persa la maggior parte
dell’Europa orientale quando aveva incontrato Stalin a Mosca nell’ottobre precedente,
circostanza in cui aveva presentato un elenco ufficioso di quote territoriali sovietiche e
occidentali – il cosiddetto accordo delle percentuali –, che concedeva a Stalin Romania e
Bulgaria purché gli inglesi avessero mano libera in Grecia. Churchill era preoccupato di
assicurare la continuità del dominio britannico nel Mediterraneo e consentire alla Francia un
ruolo nella Germania occupata del dopoguerra, cosa che Stalin aveva accettato a malincuore. Il
vero ostacolo era il futuro della Polonia, ora interamente sotto l’occupazione sovietica. Roosevelt
e Churchill accettarono con riluttanza che l’Unione Sovietica mantenesse le regioni occupate nel
1939, ma mancava un accordo definitivo sulla linea lungo cui stabilire la frontiera occidentale
polacca, scavata nella Germania orientale, a titolo di compensazione per la parte in mano
all’Urss. La nuova Polonia era già sotto l’amministrazione provvisoria di un comitato di
comunisti istituito da Stalin nel 1944 come «governo temporaneo», ma né Churchill né
Roosevelt erano disposti ad accettare il nuovo regime cosí com’era e volevano coinvolgervi altri
polacchi non comunisti. Dinanzi alle insistenze di Stalin, che voleva una Polonia sí democratica
e indipendente ma al tempo stesso favorevole agli interessi sovietici, gli Alleati occidentali non
avevano in pratica alcun mezzo a disposizione per ottenere un esito diverso, dal momento che la
parte sovietica era assolutamente determinata a non cedere in fatto di sicurezza territoriale.
Venne raggiunto un compromesso temporaneo dopo che Stalin acconsentí ad autorizzare una
commissione, composta da Molotov e dagli ambasciatori di Gran Bretagna e Stati Uniti, che
avrebbe dovuto riunirsi a Mosca e trovare una soluzione per una Polonia «democratica» –
quando i tre si sedettero al tavolo dei colloqui, la commissione arrivò presto a un punto morto, e
la Polonia, casus belli nel 1939, fu lasciata al suo destino comunista.
Nonostante il grande rilievo pubblico avuto da Jalta come espressione dell’unità alleata e della
collaborazione postbellica, evidente nelle tante fotografie dei tre leader sorridenti, nei mesi
precedenti la sconfitta tedesca i rapporti tra gli Alleati si deteriorarono rapidamente. Stalin,
nell’eterno timore che i suoi partner potessero pur sempre concludere un accordo separato con la
Germania, non aveva escluso davanti a una delegazione ceca in visita a Mosca a fine marzo la
possibilità che «i nostri alleati possano provare a salvare i tedeschi e a trovare un accordo con
loro». Roosevelt capí ben presto che la Dichiarazione di Jalta sul futuro dell’Europa significava
poco per Stalin. Il 24 marzo, quando riferirono per l’ennesima volta al presidente americano che
Stalin aveva ostacolato la richiesta degli Stati Uniti di facilitare il rimpatrio dalla Polonia dei
prigionieri di guerra americani, Roosevelt picchiò i pugni sulla sua sedia a rotelle esclamando:
«Non possiamo collaborare con Stalin. Ha disatteso tutte le promesse fatte a Jalta» . 346

Il volto pubblico dell’alleanza, tuttavia, rimaneva come inalterato anche in quel clima di
crescente sfiducia e recriminazione. Nei due mesi successivi, l’anello intorno alla Germania si
chiuse a ovest, est e sud. A differenza degli Alleati, le forze armate tedesche si trovavano ad
affrontare barriere insuperabili a ogni capovolgimento delle sorti della guerra. Il sistema dei
trasporti, indispensabile alle linee interne di approvvigionamenti e comunicazioni, era troppo
danneggiato per soddisfare le reali esigenze; in molti casi, le forniture militari venivano spostate
al fronte con i cavalli; il supporto aereo agli eserciti di terra era ormai solo residuale; le divisioni
erano a corto di uomini, rimpiazzati in modo casuale, molti reclutati da gruppi di età inadatti o
non addestrati; alle unità del Volkssturm venne consegnata una bizzarra mescolanza di uniformi,
qualche fucile e mitragliatrice e, in un caso, 1200 granate senza spolette . I soldati alleati
347

riferivano che la resistenza tedesca era ormai divisa, secondo le loro parole, tra «una selvaggia
determinazione e la totale apatia» . Hitler, soprattutto, aveva perso quel poco senso della realtà
348

che aveva ancora mantenuto nelle ultime settimane in veste di comandante in capo, licenziando
gli alti ufficiali che non erano riusciti a resistere al nemico. Il Führer insisteva che «ogni isolato,
ogni casa, ogni piano, ogni siepe, ogni buca vanno difesi al massimo» . Non consentí neppure
349

che le armate tedesche intrappolate nella penisola di Curlandia o isolate nella Prussia orientale
partissero via mare, finché era ancora possibile, per rafforzare la difesa del cuore della Germania.
Rifiutò di autorizzare l’esercito a ritirarsi oltre la prima linea dietro la barriera naturale del Reno,
o in Italia dietro il fiume Po. A febbraio e poi di nuovo a marzo inviò delle forze che sarebbero
state disperatamente necessarie in Germania per tentare di spezzare l’assedio sovietico a
Budapest, sperando cosí di poter riconquistare l’area della produzione petrolifera ungherese sul
lago Balaton. E fu un prevedibile disastro. Il 19 marzo, infine, emanò un decreto, divenuto
famoso come Nerobefehl (Ordine di Nerone), che intimava di fare terra bruciata nel restante
territorio tedesco e non lasciare intatto nulla che l’esercito alleato potesse utilizzare, dai ponti
alle scorte alimentari. Il decreto è stato interpretato come se Hitler intendesse ripudiare il popolo
tedesco, che, colpevole di non aver risposto adeguatamente all’appello alla gloria imperiale,
veniva pertanto abbandonato senza nulla, anche se è chiaro che le sue parole si riferivano
solamente agli equipaggiamenti militari, alla produzione e ai trasporti, ed erano coerenti,
secondo il Führer, con il modo in cui le autorità sovietiche avevano fatto terra bruciata lungo il
percorso degli eserciti tedeschi quattro anni prima . A quel punto, le autorità militari e le sezioni
350

del partito locali agirono secondo il proprio istinto, rifiutandosi in molti casi di attuare il decreto,
che avrebbe chiaramente compromesso la sopravvivenza della popolazione civile; nelle grandi
città, in realtà, era rimasto ben poco che le forze aeree alleate non avessero già bruciato.
Quando arrivò l’ora, il crollo fu repentino. A Jalta, i capi alleati avevano discusso sul momento
in cui sarebbe finita la guerra in Europa, concludendo che non sarebbe stato prima del 1° luglio,
anzi, molto piú probabilmente, entro il 31 dicembre. In realtà, la fragile difesa che ancora
proteggeva la Germania, come anche le forze tedesche in Italia, non era certo in grado di
rispettare quelle previsioni. Sul fronte occidentale, l’ambizioso piano di Eisenhower di liberare
dal nemico la sponda occidentale del Reno era stato completato entro il 10 marzo, momento in
cui gli Alleati calcolarono che un terzo della forza della Wehrmacht era andata perduta, inclusi
250 000 prigionieri di guerra. Sulla sponda occidentale del fiume si trovavano ora quattro milioni
di soldati alleati ripartiti in 73 divisioni (secondo i tedeschi, 4,5 milioni in 91 divisioni) .351

Eisenhower dovette affrontare ancora una volta pressioni contrastanti da parte di Montgomery e
Bradley in merito al punto in cui effettuare il primo attraversamento del Reno. Pur sostenendo il
piano britannico dell’operazione Plunder (Bottino), supportata da un’azione aerea dal nome in
codice Varsity (Squadra di college) e destinata a iniziare il 23 marzo, Eisenhower non fece nulla
per impedire al XII Gruppo d’armata di Bradley di sfruttare la sconfitta delle forze tedesche
lungo il tratto centrale del fronte. Il 7 marzo, una forza di ricognizione della IX Divisione
corazzata aveva conquistato, intatto, il ponte Ludendorff a Remagen, e Bradley aveva avuto il
permesso da Eisenhower di spostare le proprie truppe al di là del Reno. La successiva testa di
ponte si mosse solo per un breve tratto e fu contenuta fino a fine marzo, ma Patton, anziché
aspettare Montgomery e una mossa operativa britannica, decise di muoversi per primo. Con la
sua III Armata conquistò Coblenza il 7 marzo, dopo aver percorso 88 chilometri in 48 ore, e il 22
marzo attraversò il Reno a Nierstein e Oppenheim, poco prima degli inglesi piú a nord.
A distanza di un giorno, dopo un fuoco di sbarramento di 3500 pezzi di artiglieria, il XXI
Gruppo d’armata di Montgomery attraversò il Reno a Wesel. Dopo le sconfitte a ovest del fiume,
la resistenza sia qui sia piú a sud era ora limitata e irregolare; non mancarono sacche di
combattimenti aspri e tenaci, ma cresceva altresí nei soldati tedeschi la volontà di arrendersi.
Anche se l’attraversamento del Reno – completato solo il giorno 28 – richiese parecchio tempo,
di lí in poi l’avanzata fu rapida come lo era stata quella di Žukov a gennaio. La II Armata fu
inviata verso l’Elba e Amburgo; la I Armata canadese avanzò nei Paesi Bassi. La IX Armata
degli Stati Uniti tornò sotto il comando di Bradley e accerchiò la regione industriale della Ruhr-
Renania. Il maresciallo Brooke deplorò la «visione nazionalistica degli Alleati», che lasciava piú
debole il gruppo d’armata di Montgomery e affidava agli inglesi il ruolo piú limitato di
proteggere il fianco sinistro delle truppe alleate . Attraverso la pianura settentrionale, dove
352

veniva invasa una città dopo l’altra, l’avanzata fu rapida ma non del tutto incontrastata. Brema,
raggiunta il 20 aprile, resistette alle forze britanniche per sei giorni; Montgomery aveva avuto
l’ordine di procedere velocemente verso la Danimarca e il porto baltico di Lubecca, in questo
caso per prevenire l’Armata Rossa, poiché non era stato concluso nessun accordo con Stalin
riguardo all’occupazione della Danimarca o dei Paesi Bassi. Il 2 maggio, la II Armata entrò a
Lubecca e la guerra nel nord della Germania giunse praticamente alla sua conclusione.
Piú a sud, il gruppo d’armata di Bradley attraversò il Reno in forza, incontrando nuovamente
scarsa resistenza mentre muoveva la IX Armata da nord e la I Armata da sud per circondare e poi
spaccare in due la «sacca» della Ruhr. Il 17 aprile, i 317 000 uomini della Heeresgruppe B
deposero finalmente le armi dopo che il comandante, il feldmaresciallo Model, sciolse la
formazione piuttosto che arrendersi. Il feldmaresciallo si sparò quattro giorni dopo in un bosco
vicino alla città di Duisburg . A quel punto, Eisenhower e Bradley decisero un repentino
353

cambiamento della strategia americana. Anche se l’ambizione originaria era quella di puntare su
Berlino subito dopo aver forzato il Reno – «una rapida spinta verso Berlino», aveva annunciato
Eisenhower nel settembre dell’anno precedente –, era emerso dalle informazioni di intelligence
un quadro confuso, secondo cui le rimanenti truppe scelte tedesche, principalmente le unità delle
Waffen-SS, si stavano concentrando a sud per creare una Alpenfestung (Fortezza alpina), con
depositi di cibo ed equipaggiamenti nascosti nelle montagne e perfino fabbriche sotterranee di
aerei . Dopo lo shock dell’attacco nelle Ardenne, i comandanti americani temevano di poter di
354

essere colti nuovamente in fallo. I chiari segni di un rafforzamento tedesco e la paura che le
cospicue truppe ancora in Italia potessero trasferirsi sulle Alpi, come sostenne Bradley nelle sue
memorie, rappresentavano «una minaccia troppo sinistra per essere ignorata», sicché il 28 marzo
Eisenhower informò direttamente Stalin, e con lui Marshall e Montgomery, che stava ordinando
al VI Gruppo d’armata e alla III Armata di Patton di deviare verso sud e sud-est per escludere la
prospettiva di un’ultima resistenza tedesca in montagna . «Come area strategica», riferí ai capi
355

dello stato maggiore congiunto, «Berlino viene scartata, essendo ormai una città in gran parte
distrutta» . Le altre armate americane ricevettero l’ordine di avanzare fino all’Elba una volta
356

eliminata la sacca della Ruhr e di fermarsi ad aspettare i russi.


Che l’Alpenfestung fosse una fantasia dell’intelligence divenne chiaro con il senno di poi, anche
se a sud vi erano abbastanza unità delle Waffen-SS e mezzi corazzati per rendere quei timori piú
plausibili di quanto possano sembrare ora. Churchill e i capi di stato maggiore britannici erano
sgomenti per il cambiamento di priorità imposto dagli americani, ma Eisenhower insistette quasi
rabbioso che questa volta non avrebbe tollerato alcuna obiezione da parte dello scomodo alleato.
Le forze statunitensi si spostarono rapidamente dal Reno al fiume Tauber in Franconia, ma nello
Steigerwald e lungo le alture francone, dove incontrarono linee difensive improvvisate,
presidiate in molti casi da cadetti militari e unità della Hitlerjugend, nei combattimenti emersero
una volontà omicida e la determinazione a una lotta senza quartiere. Ci vollero tre settimane per
attraversare il Danubio, ma i resti dell’esausta difesa tedesca non erano piú in grado di
coordinare alcuna resistenza. «Era una pura sofferenza», ricordò in seguito un testimone oculare
tra i soldati tedeschi, «vedere quei resti dell’esercito tedesco in fuga, stremati, stracciati, e per la
maggior parte disarmati» . Alcune truppe americane attraversarono l’Austria, chiusero il passo
357

del Brennero verso l’Italia e tornarono verso la Cecoslovacchia, dove fu stabilito un fronte
comune con l’Armata Rossa a ovest di Praga. Nel sud della Germania, ogni volta che potevano
evitare le terribili punizioni inflitte dai comandanti a chi si arrendeva, i soldati tedeschi
abbandonavano la lotta, tanto che alla fine di aprile si contavano 600 000 prigionieri di guerra.
Eisenhower avrebbe anche potuto preoccuparsi molto meno di un’ultima resistenza nelle Alpi se
avesse capito la situazione sul fronte italiano, dove le forze tedesche si erano trincerate sulle
ultime creste montuose antistanti la Pianura Padana e lungo la costa adriatica per contenere il
nemico. Il comandante tedesco in Italia, il feldmaresciallo Kesselring, era stato trasferito il 10
marzo per assumere il comando supremo a ovest al posto di Von Rundstedt, e il suo sostituto, il
generale colonnello Heinrich von Vietinghoff-Scheel, si era trovato con ventitre divisioni
sottodimensionate (incluse le restanti quattro dell’esercito italiano di Mussolini) per mantenere la
linea dalla Liguria a ovest fino a Ravenna a est. Cosí disperse su un lungo fronte, le sue difese
affrontavano ora un nemico che vantava una schiacciante superiorità aerea, un vantaggio di due a
uno nell’artiglieria e di tre a uno nei mezzi corazzati da combattimento. Dopo la situazione di
stallo invernale, gli Alleati si preparavano per la battaglia finale. L’VIII Armata iniziò il suo
assalto il 9 aprile, dopo uno spaventoso raid di 825 bombardieri pesanti che lanciavano bombe
dirompenti; una volta raggiunto il fiume Santerno, attraversato due giorni piú tardi di fronte a un
nemico vacillante, le unità neozelandesi dell’avanguardia si mossero velocemente verso
Bologna . Il 14 aprile, il generale Lucian Truscott, ora comandante della V Armata americana
358

dopo che a Clark era stato affidato il comando di tutti i gruppi d’armata presenti in Italia, iniziò a
rompere l’accerchiamento muovendo dagli Appennini settentrionali e incontrando
un’opposizione non uniforme ma accanita, finché il 19 aprile fu sfondata l’ultima linea difensiva
del Vallo Ligure. Entrambi i fianchi dell’offensiva alleata potevano ora muoversi verso Bologna
e il fiume Po, raggiunto il giorno 22. Una volta aperta una breccia nelle loro ultime linee
difensive, le unità tedesche si ritirarono nel disperato sforzo di evitare il collasso, come già aveva
fatto la Wehrmacht in Francia nel 1944. Attraversato il Po, quelli che riuscirono fuggirono in
direzione nord-est, verso una via possibile per l’Austria. A quel punto, le guarnigioni tedesche
delle principali città del Nord dovevano fronteggiare la rivolta partigiana. Con l’avvicinarsi delle
armate alleate, gli episodi di resa si moltiplicarono, anche se l’alto comando tedesco aveva già
iniziato a esplorare le possibilità di una resa generale attraverso negoziati segreti. Anche se il
Gauleiter del Tirol-Vorarlberg, Franz Hofer, aveva avanzato alcuni mesi prima a Berlino l’idea
di creare una ridotta alpina, la proposta aveva suscitato scarso interesse, in quanto sottintendeva
una prospettiva disfattista. Alla fine di aprile, mentre le truppe tedesche in Italia avevano di
fronte il collasso totale, ogni idea di un’ultima resistenza svaní.
Per Stalin, le ansie americane per l’Alpenfestung furono un sollievo, poiché offrivano la
possibilità di evitare una corsa interalleata verso Berlino. Anche se Stalin aveva comunicato agli
Alleati che nemmeno la parte sovietica considerava importante Berlino, la conquista della
capitale di Hitler rappresentava una priorità politica piuttosto che militare. Stalin aveva
annunciato a gennaio che voleva catturare il Führer nella sua tana, per cui le truppe sovietiche
presero a indicare la loro destinazione non come Berlin ma con la parola russa berlog, «tana» . 359

Una volta raggiunta la linea dell’Oder, tuttavia, si verificò un ritardo inaspettato. All’inizio di
febbraio, Žukov aveva riferito a Stalin di poter prendere Berlino «con una corsa fulminea» entro
la metà del mese; mentre Stalin era a Jalta, Žukov chiese nuovamente l’autorizzazione per una
campagna immediata. Piú a sud, anche Konev era impaziente di muoversi e prometteva di
raggiungere l’Elba negli ultimi giorni di febbraio . Stalin tentennò, poi, sapendo che gli Alleati
360

occidentali erano ancora apparentemente impantanati sull’altra sponda del Reno, decise di
liberare prima di tutto i fianchi dell’Armata Rossa là dove esistevano ancora grandi
concentrazioni di forze nemiche. I motivi di tale decisione non sono noti con certezza, anche se
sgombrare i fianchi per evitare qualsiasi rischio nella presa di Berlino non era privo di senso
strategico. Il leader sovietico, dopo aver investito cosí tanto nell’invasione e nell’occupazione del
cuore della Germania, non poteva permettersi un fiasco nell’assalto conclusivo a Berlino. Žukov,
inviato a nord per contribuire alla liberazione della Pomerania e raggiungere la costa baltica,
trascorse due mesi aiutando lo 2-oj Belorusskij front di Rokossovskij a sconfiggere quanto
restava dell’esercito tedesco nella Prussia orientale e nell’ex «corridoio polacco». Danzica cadde
in mano all’Armata Rossa il 30 marzo. I combattimenti di quei due mesi spezzarono ogni
ulteriore resistenza tedesca da nord, ma costarono il triplo di caduti rispetto all’operazione Visla-
Oder intrapresa a gennaio. Piú a sud, in Slesia, Konev si trovò impegnato in grandi battaglie
contro la Heeresgruppe Mitte del generale Ferdinand Schörner, mentre sul fronte del Danubio
l’ultima controffensiva tedesca, l’operazione Frühlingserwachen (Risveglio di primavera),
condotta dalla 6. Panzerarmee di Sepp Dietric e progettata per riconquistare i giacimenti
petroliferi ungheresi, dovette essere respinta a metà marzo con un elevato costo di vite umane . 361

Era ormai aperta la strada verso Vienna, circondata e catturata il 13 aprile, e Praga, dove a
maggio si svolsero alcune delle ultime battaglie della guerra europea già dopo la resa tedesca.
Non appena fu chiaro che il successo dell’attraversamento del Reno a fine marzo sarebbe stato il
preludio di una rapida avanzata degli Alleati occidentali, Stalin ordinò immediatamente i
preparativi di un’offensiva su Berlino e oltre, verso la linea dell’Elba. L’operazione doveva
essere rapidamente pianificata, mentre grandi forze venivano ridistribuite dai fianchi. Stalin
voleva che la capitale tedesca venisse presa in cinque giorni, tanto che per l’impresa venne
radunata un’enorme forza militare che comprendeva i tre gruppi d’armata di Žukov, Konev e
Rokossovskij, che contavano insieme 2,5 milioni di uomini, organizzati in 171 divisioni e 21
unità mobili, 6250 carri armati, 7500 aerei, 41 000 pezzi di artiglieria e mortai; la 9. e la 3.
Panzerarmee che difendevano l’Oder avevano 25 divisioni con 754 carri armati, mentre la 12.
Armee che difendeva Berlino sotto il comando del tenente generale Walther Wenck aveva 6
divisioni di nuova formazione, messe insieme frettolosamente ad aprile con poche armi pesanti.
In totale, le forze tedesche potevano radunare solo 766 000 uomini, molti dei quali combattenti
inadeguati a causa di ferite, stanchezza o età. Entrambi gli schieramenti aspettavano con grande
ansia quella che doveva essere con ogni probabilità l’ultima grande campagna della guerra. Il 16
aprile, si aprí l’offensiva sul fronte di Žukov, che puntò sulle alture di Seelow come la via piú
diretta per Berlino. Žukov dispiegò 143 proiettori per abbagliare i difensori tedeschi, ma
l’imponente fuoco di sbarramento preliminare dell’artiglieria non solo aveva sollevato nuvole di
polvere che mettevano in difficoltà i mezzi corazzati che avanzavano, ma aveva anche creato una
spessa coltre di fumo che rifletteva il bagliore dei proiettori sulla fanteria dell’Armata Rossa in
arrivo . Le alture furono prese d’assalto con grandi perdite umane alla fine del secondo giorno,
362

ma Stalin reagí alle informazioni riguardanti lo stallo dell’attacco di Žukov incoraggiando


Konev, che aveva avuto piú successo a sud, a muovere verso nord per prendere Berlino da sud
con una vera e propria corsa alla conquista della città. Il gruppo d’armata di Konev aveva
affrontato un difficile attraversamento del fiume Neisse, finché il 16 aprile, sotto una grandine di
colpi di artiglieria e cortine di fumo artificiale, uno sciame di piccole imbarcazioni era riuscito ad
attraversare il corso d’acqua e occupare la sponda opposta nel giro di un’ora. Il primo giorno, il
nemico fu respinto indietro per 13 chilometri, dopodiché la resistenza tedesca crollò quando il 1-
yj Ukrainskij front si spostò a ovest e nord-ovest in direzione Berlino. Il 18 aprile, l’avanguardia
di Konev occupò il quartier generale della Wehrmacht a Zossen, ormai prossima a Berlino. Il 25
aprile, parte delle forze di Konev aggirarono la capitale e si diressero verso il fiume Elba, dove,
in un villaggio vicino a Torgau, si incontrarono finalmente le forze sovietiche e americane.
Intorno a Berlino, le ultime fragili linee difensive furono sfondate una dopo l’altra. Konev era
ormai in procinto di vincere la gara, dato che le armate di mezzi corazzati della 1-ja e 4-ja
Gvardejskaja tankovaja si stavano spingendo nei sobborghi di Berlino e si dirigevano verso il
centro del governo e la «tana» di Hitler. Il giorno 25, Konev era ormai pronto a ordinare l’assalto
agli edifici governativi e al Reichstag quando la sua avanguardia si trovò a sparare sulle truppe
dell’armata 8-ja Gvardejskaja del generale Čujkov, che faceva parte del gruppo d’armata di
Žukov ed era riuscita ad accelerare l’avanzata e arrivare al centro della capitale poche ore prima
di Konev. Agli uomini di Čujkov fu dato l’onore di impadronirsi del covo del Führer e il 30
aprile un piccolo distaccamento fece irruzione nell’edificio del Reichstag e vi issò in cima una
grande bandiera rossa . A poche centinaia di metri di distanza, Hitler e un piccolo seguito di
363

fedelissimi si accalcavano nel bunker costruito sotto la Cancelleria del Reich. Il Führer,
completamente distaccato dalla realtà circostante, fantasticava che la sconfitta potesse essere
evitata dalla Provvidenza. Quando il 12 aprile era giunta la notizia che Roosevelt era morto per
un’emorragia cerebrale, Hitler aveva immaginato per breve tempo un capovolgimento delle sorti
della guerra: «Ora che il destino ha liberato il mondo dal piú grande criminale di guerra di tutti i
tempi, la marea della guerra prenderà una nuova direzione» . Hitler si cullò per giorni
364
nell’illusione che la salvezza potesse essere ancora possibile, tanto che il 24 aprile ordinò alle
armate tedesche intorno alla città di «ristabilire ampiamente il legame con Berlino e decidere
cosí vittoriosamente la battaglia per la capitale» . Il giorno 28, mentre l’artiglieria sovietica
365

colpiva la sommità degli edifici, Goebbels lanciò un altro grido di battaglia, pubblicato su un
improvvisato giornale berlinese, il «Panzerbär», al fine di plasmare il mito di Hitler come eroe
popolare germanico: «I suoi ordini vengono ancora emessi da Berlino in una battaglia per la
libertà che sta facendo la storia del mondo […]. Egli è in piedi sul campo di battaglia piú rovente
che l’uomo abbia mai conosciuto. E intorno a lui si sono raccolti i soldati piú fantastici che ci
siano mai stati» . Non c’era via d’uscita. Quando durante gli interrogatori chiesero a Jodl perché
366

Hitler non si fosse semplicemente arreso anzitempo di fronte a una catastrofica sconfitta, rispose:
«Si può forse rinunciare a un impero e a un popolo prima di aver perso una guerra? Un uomo
come Hitler non poteva farlo» . 367

La «battaglia finale» del Giappone non si materializzò mai nelle proporzioni di quella tedesca
perché le isole dell’arcipelago non furono invase, anche se era intenzione dell’intransigente
leadership militare nipponica che quell’ultima battaglia di redenzione dovesse avvenire, in modo
da salvare l’onore dell’impero sconfitto. Nel gennaio del 1945, gli Alleati erano ancora
sufficientemente lontani da consentire un certo grado di fiducia sul fatto che le dure battaglie in
arrivo potevano comunque alimentare la speranza, concepita a partire dal 1942, che i costi
necessari per sconfiggere il Giappone si sarebbero rivelati troppo alti per gli Alleati, e avrebbero
condotto a una pace di compromesso che si sarebbe dovuta negoziare. Fu istituita una zona
difensiva interna che da Taiwan e dalla Cina orientale attraversava la Corea del sud fino alle
isole Bonin nel Pacifico. Anche in quel caso, tuttavia, l’esito non lasciava dubbi, considerando la
superiorità materiale degli Alleati e il graduale collasso dell’economia di guerra giapponese sotto
l’impatto del blocco aereo e navale del commercio. Solo il ritmo dell’avanzata degli Alleati era
oggetto di discussione, e nel 1945 esso si rivelò piú lento del previsto dopo che le guarnigioni
imperiali giapponesi escogitarono ogni mezzo per intrappolare il nemico in lunghe battaglie di
logoramento su un terreno da loro scelto.
Le tensioni che avevano caratterizzato la pianificazione americana delle campagne finali
riemersero in relazione ai lenti progressi compiuti da MacArthur nel grande impegno che si era
assunto con le Filippine, da lui ritenute il migliore punto d’appoggio per un’eventuale invasione
dell’arcipelago nazionale nipponico. L’ammiraglio King sperava che un blocco combinato aereo
e navale, reso ora possibile dai bombardieri che decollavano dalle basi nelle Marianne, rendesse
non necessaria l’invasione vera e propria, mentre Nimitz e MacArthur erano convinti che il
Giappone non si sarebbe arreso fino a quando le sue isole non fossero state invase e occupate. A
tale scopo, Nimitz e Arnold, comandante delle forze aeree dell’esercito, avevano bisogno delle
basi insulari di Iwo Jima e Okinawa, in quanto avamposti imprescindibili e geograficamente
avanzati per operazioni aeree e navali. La conquista di Iwo Jima avrebbe inoltre impedito ai
caccia giapponesi di sferrare regolari attacchi contro i bombardieri pesanti B-29 che avevano ora
la loro base nelle Marianne . Prima di poter fare questo, MacArthur doveva completare il piú
368

velocemente possibile l’occupazione di Luzon, l’isola principale delle Filippine. L’invasione


iniziò il 7 gennaio con 175 000 soldati americani, cioè un numero inferiore ai 267 000
giapponesi sotto il comando del tenente generale Yamashita Tomoyuki – un calcolo che
MacArthur aveva per altro definito un’inutile «fesseria» . Yamashita, che vedeva come suo
369

obiettivo una deliberata azione dilatoria per reggere a ogni possibile invasione del Giappone,
trattenne le sue forze sulle colline e montagne intorno alla valle principale di Luzon. Di
conseguenza, i combattimenti si limitarono alla prima settimana, mentre MacArthur esortava il
suo comandante, il generale Walter Krueger, ad accelerare la presa della capitale Manila, in
modo da poter annunciare una vittoria definitiva e tornare trionfante nella città dove aveva
stabilito la sua dimora prima del 1941.
La battaglia per Manila, incentrata principalmente contro una forza navale sotto il comando del
contrammiraglio Iwabuchi Sanji, si sviluppò in una lunga e brutale campagna, durante la quale
venne detto ai comandanti americani di cambiare le regole di ingaggio e consentire all’artiglieria
di sparare sulle aree abitate da civili, mentre il comando giapponese emetteva a sua volta l’ordine
che «tutti i civili [che si trovano] nella zona della battaglia siano uccisi» . I soldati giapponesi
370

replicarono la furia omicida già dimostrata a Nanchino, legavano gli uomini a gruppi e gli
davano fuoco, uccidevano donne e bambini con una violenza mostruosa e stupravano donne e
ragazze. I quartieri centrali e meridionali della città dovettero essere distrutti isolato dopo isolato
e la guarnigione giapponese fu infine liquidata. Finí in macerie anche l’attico abitato da
MacArthur all’ultimo piano del Manila Hotel. Si stima che circa 100 000 filippini morirono sotto
il fuoco dell’artiglieria, per i bombardamenti e la ferocia giapponese; nella difesa di Manila
caddero 16 000 giapponesi, a fronte di appena 1010 caduti americani – un numero insolitamente
esiguo per la guerra del Pacifico . Date le circostanze, MacArthur annullò la marcia trionfale che
371

aveva pianificato attraverso il centro della capitale in rovina, liberata il 3 marzo. Anche se i porti
e gli aeroporti di Luzon potevano ora essere utilizzati per la prevista invasione dell’arcipelago
nipponico, Yamashita si era ormai ritirato con le sue truppe nelle ridotte in montagna, dove
resistette fino alla resa giapponese ad agosto. I costi umani dei combattimenti che seguirono
furono eccezionalmente alti tra i soldati di entrambi gli schieramenti, impegnati nella lotta in un
clima tropicale, su un terreno difficile ma ideale per difese ben nascoste, e pure indebolite dalle
malattie e dalla fatica degli scontri a fuoco. Al termine della battaglia per le Filippine, le perdite
giapponesi ammontarono a 380 000 uomini, per la maggior parte uccisi, mentre quelle degli
Alleati contarono 47 000 caduti in battaglia, ma altri 93 000 morti per malattia, affaticamento da
combattimento e collasso psichico . Tali costi umani piú elevati del previsto ritardarono e
372

indebolirono al tempo stesso la capacità di organizzare la successiva fase strategica


dell’invasione, esattamente come aveva previsto Yamashita.
La conquista di Iwo Jima, una delle isole Bonin a sud del Giappone, e quella di Okinawa, la piú
grande delle isole Ryūkyū, si rivelarono tra le azioni militari piú letali di tutta la guerra del
Pacifico. L’operazione Detachment (Distaccamento), lanciata contro Iwo Jima, doveva iniziare
nel febbraio del 1945 ed essere seguita ad aprile dall’operazione Iceberg, diretta contro Okinawa.
Tecnicamente, entrambe le isole erano territorio giapponese, per cui ai soldati del Sol Levante fu
detto che la difesa del suolo patrio era un sacro dovere. Iwo Jima divenne tristemente famosa
come l’unica campagna in cui i caduti americani superarono quelli giapponesi. Poiché la
leadership di Tokyo si aspettava che l’isola sarebbe stata un inevitabile obiettivo degli americani,
il comandante di Iwo Jima, il tenente generale Kuribayashi Tadamichi, impiegò i suoi 20 000
uomini per costruire sull’isola un’autentica fortezza, utilizzando le grotte e le rocce vulcaniche
per creare una rete di installazioni difensive, collegate da tunnel dove uomini, armi e depositi
potevano essere concentrati e restare invisibili al nemico. Kuribayashi organizzò il suo quartier
generale a 22 metri di profondità, con un fortino in cima protetto da un tetto di cemento armato
spesso 3 metri; sull’isola, lunga solo 10 chilometri e larga 3, vi erano 17 chilometri di gallerie
costruite sotto la superficie rocciosa. Uno dei tre aeroporti era circondato da non meno di 800
casematte .
373
Cosí fortificata, l’isola garantiva un fuoco di sbarramento totale dal quale potevano trovare
scarsa protezione le tre divisioni di marine con 70 647 uomini che nel D-Day, fissato per il 19
febbraio, formavano la principale forza di invasione. Anziché i dieci giorni di bombardamento
preventivo richiesti, vennero concessi in tutto ai marine solo tre giorni di cannoneggiamento da
parte della V Flotta di Spruance, dato che la marina militare intendeva spostarsi piú a nord per
sferrare degli attacchi diretti alla costa giapponese. Anche se circa la metà dei cannoni pesanti
dell’isola era stata neutralizzata, insieme con un quarto delle casematte e delle postazioni dei
mortai, la difesa giapponese conservava ancora una formidabile potenza di fuoco. Kuribayashi
attese che lo sbarco fosse ultimato per poi scatenare un feroce fuoco di sbarramento, preludio di
una campagna di sei settimane in cui i marine si trovarono ininterrottamente sotto i colpi di
artiglieria, mitragliatrici e mortai. Benché le piste d’aviazione fossero state messe in sicurezza in
pochi giorni, liberare l’isola si rivelò una sfida eccezionale. Dopo che l’iconica bandiera
americana fu issata il 23 febbraio sulla vetta piú meridionale del monte Suribachi (il momento fu
immortalato per i posteri da un fotografo dell’Associated Press in una ricostruzione dell’evento
tre ore dopo), furono necessari altri sei giorni per stanare i soldati giapponesi dalle grotte sulle
montagne . Piú a nord, i marine si mossero lentamente attraverso la parte dell’isola piú
374

pesantemente difesa, distruggendo le installazioni nemiche con granate, dinamite e lanciafiamme


e subendo nell’azione consistenti perdite, poiché gli uomini erano ormai esausti e disorientati
dopo un mese di continui combattimenti. Il fortino di Kuribayashi fu infine fatto esplodere con la
dinamite mentre all’interno il tenente generale praticò il suicidio rituale. Quando il 27 marzo
l’isola fu dichiarata sicura, erano morti in totale 6823 militari americani, oltre a 19 217 uomini
feriti o inabili; della guarnigione giapponese di 20 000 uomini, solo 1083 soldati furono fatti
prigionieri . L’isola divenne una base aerea americana da cui i caccia su lunghe distanze P-51
375

scortavano le incursioni diurne sulle città del Giappone e dove centinaia di bombardieri B-29 si
fermavano per fare rifornimento, risolvere problemi tecnici o riparare danni da combattimento.
Quella di Okinawa fu complessivamente un’operazione di proporzioni ben piú ampie.
Trattandosi di un territorio del Giappone, Tokyo considerava l’isola una sorta di banco di prova
di quanto sarebbe potuto accadere se gli Alleati avessero invaso le altre isole principali. Il
comandante di Okinawa, il tenente generale Ushijima Mitsuru, si attenne alle nuove «tattiche
dormienti» utilizzate a Iwo Jima, ovvero consentire lo sbarco anfibio e attirare poi gli invasori
verso il sud dell’isola fortemente difeso, dove circa 83 000 soldati, appartenenti principalmente
alla XXXII Armata, erano concentrati in un’altra rete di caverne, tunnel e casematte . Anche se
376

le informazioni dell’intelligence americana in merito alla strategia giapponese a Okinawa erano


limitate, questa volta la marina militare corse meno rischi e bombardò l’isola per dieci giorni
mentre una piccola forza conquistava le isole periferiche di Kerama Retto, da utilizzare come
basi per gli idrovolanti e scali navali. Per l’invasione, gli americani avevano radunato una vasta
armata di oltre 1200 navi di ogni tipo, ma il 5 marzo, ancor prima che le truppe sbarcassero, il
viceammiraglio Ugaki Matome aveva formalmente istituito l’Unità speciale di attacco del Vento
divino e lanciato contro la flotta degli Stati Uniti in avvicinamento il primo attacco suicida di una
campagna destinata a durare quasi tre mesi. Il 30 marzo, due giorni prima dell’invasione, uno dei
kamikaze riuscí a colpire l’Indianapolis, la nave ammiraglia della flotta, il cui comandante fu
costretto a trasferirsi sulla New Mexico. Furono lanciate in totale 1465 missioni suicide, che
affondarono 36 navi e ne danneggiarono 300, comprese alcune della flotta britannica del
Pacifico, molto piú piccola, che si era finalmente unita sotto il comando americano, solo per
vedersi affidare qualche operazione minore prima di tornare in Australia a maggio per le
necessarie riparazioni .377

Il 1° aprile, la forza di invasione con 173 000 soldati dell’esercito e marine arrivò suddivisa in
sette divisioni sotto il comando del generale Simon Bolivar Buckner. A parte gli attacchi dei
kamikaze, non incontrò quasi nessuna resistenza, e in pochi giorni mise in sicurezza l’area
dell’aeroporto. Il primo contatto con le unità giapponesi avvenne l’8 aprile, quando le truppe
americane si sparsero nelle zone dell’isola a nord e a sud. Poiché Ushijima aveva concentrato e
nascosto le sue forze sulla zona montuosa meridionale, gli americani furono costretti ancora una
volta ad avanzare con penosa lentezza contro difese che dovevano essere eliminate una alla
volta, anche dopo che l’artiglieria e il supporto navale avevano scaricato sui fianchi delle colline
2,3 milioni di proiettili . L’avanzata, lenta quanto quella attraverso Iwo Jima, mise nuovamente a
378

dura prova le forze americane in cento giorni di combattimenti senza sosta e in condizioni
meteorologiche che alla fine di maggio trasformarono le colline in profonde pozze di fango da
cui proveniva il putrido fetore dei corpi in decomposizione. Soltanto a giugno si riuscirono a
respingere nella regione sud-occidentale dell’isola i soldati della guarnigione giapponese
sopravvissuti e destinati a essere lentamente eliminati poiché a corto di munizioni, cibo e
forniture mediche. La resistenza cessò infine il 21 giugno, tre giorni dopo che Buckner era stato
ucciso da una bomba mentre visitava le prime linee. Come Kuribayashi, anche Ushijima praticò
il suicidio rituale. Persero la vita circa 92 000 uomini, tra soldati giapponesi e miliziani di
Okinawa, insieme con un notevole numero di civili, stimato tra 62 000 e 120 000 morti. La
flotta, l’esercito e i marine americani contarono 12 520 morti e 36 613 feriti, a cui si aggiunsero
33 096 morti non in battaglia ma per stanchezza e malattia, per un totale non lontano dalle
perdite giapponesi . Fu il numero dei caduti a Okinawa e Iwo Jima a provocare negli Stati Uniti
379

un’ondata di proteste per i costi umani subiti al solo fine di mettere in sicurezza delle piccole
isole il cui valore strategico era difficile da capire, cosa che alimentò a Washington la
preoccupazione che il prezzo dell’invasione dell’arcipelago nipponico potesse rivelarsi piú alto
di quanto l’opinione pubblica americana avrebbe tollerato.
L’accanita resistenza dei giapponesi da postazioni opportunamente preparate alla difesa deve
essere vista nel contesto dello sforzo bellico di un Giappone ormai vacillante, in quanto il blocco
marittimo e, dal marzo 1945, i pesanti attacchi aerei avevano creato una crisi crescente sia per
l’industria sia per la popolazione. Nel 1944 e 1945, le azioni di sottomarini e aerei contro il
traffico oceanico e costiero giapponese raggiunsero un picco. La marina mercantile del Giappone
era stata ridotta tra il 1942 e il 1944 a 890 000 tonnellate rispetto ai precedenti 5,9 milioni, ma
nel 1945 gran parte del tonnellaggio rimanente non poteva essere utilizzato per trasportare merci
dal Sud-est asiatico o dall’Asia continentale a causa della minaccia dei sottomarini e delle mine .
380

Le aree costiere intorno al Giappone pullulavano talmente di mine da causare nel 1945 il crollo
definitivo delle importazioni essenziali di materie prime, carbone e cibo. Se nel 1941 le
importazioni all’ingrosso erano state complessivamente di venti milioni di tonnellate, nel 1945 si
erano ridotte a 2,7 milioni. Negli ultimi sei mesi di guerra, le importazioni di minerale di ferro
per l’industria siderurgica giapponese scesero a sole 341 000 tonnellate, dai 4,7 milioni di
tonnellate del 1942; le importazioni di gomma scesero praticamente a zero; quelle di carbone,
principalmente dal continente asiatico, ammontavano nel 1941 a 24 milioni di tonnellate, ma
nell’ultimo semestre della guerra arrivarono appena a 548 000 tonnellate . A corto di risorse,
381

nell’estate del 1945 l’industria bellica giapponese era ormai prossima al collasso.
L’inizio dei pesanti bombardamenti da parte del XXI Bomber Command, che operava dalle basi
nelle Marianne, aggravò definitivamente l’impatto del blocco, anche se gran parte dei danni piú
gravi causati allo sforzo bellico del Giappone e la riduzione delle scorte per la popolazione civile
avevano già preceduto il bombardamento sistematico delle città. I bombardamenti di precisione
sulle industrie aeronautiche e navali erano iniziati nel gennaio e febbraio del 1945, anche se
l’utilizzo diurno dei bombardieri B-29 ad alta quota si era rivelato una tattica inefficace a causa
dei forti venti persistenti sul Giappone. All’inizio di marzo, il nuovo comandante dei
bombardieri, il tenente generale Curtis LeMay, capovolse le tattiche americane avviando
incursioni notturne a bassa quota (a 1500-2500 metri anziché 10 000) con grandi carichi di
bombe incendiarie M-69, contenenti gel incendiario al napalm, altamente efficace, sviluppato dai
chimici di Harvard e con effetti micidiali sulle città giapponesi costruite in gran parte in legno .
382

Il primo raid contro Tokyo, lanciato nella notte del 9/10 marzo 1945 con 325 B-29 che
trasportavano 1665 tonnellate di ordigni incendiari, fu l’incursione aerea piú sanguinosa della
guerra e distrusse oltre 40 chilometri quadrati della città con una tempesta di fuoco che uccise,
secondo le stime della polizia, 83 793 persone . Tra marzo e giugno, le forze di LeMay
383

sganciarono 41 592 tonnellate di bombe incendiarie sulle aree urbane-industriali piú importanti
del Giappone, riducendone in cenere la metà; tra giugno e agosto, i B-29 martellarono le città piú
piccole di minore importanza industriale, incendiando in alcuni casi il 90 per cento dell’area
urbana . Un’indagine condotta nel dopoguerra mostrò che in quel periodo la produzione bellica
384

delle fabbriche giapponesi presenti nelle aree bombardate era diminuita in media del 27 per cento
rispetto al picco produttivo, mentre negli impianti non danneggiati era scesa in media del 50 per
cento . Il generale Le May cercò di convincere Marshall e i capi dello stato maggiore congiunto
385

che una campagna concentrata sulla rete ferroviaria giapponese avrebbe completato la
distruzione del paese e reso superflua l’invasione.
Anche se i comandanti della flotta e dell’aviazione approvavano l’argomentazione che il danno
inflitto dal blocco aereo-marittimo sarebbe stato sufficiente per costringere il Giappone alla resa,
i pianificatori americani rimanevano convinti che solo un’invasione di terra avrebbe reso sicura
la capitolazione. Entrambi gli schieramenti si prepararono dunque per quello che sembrava un
inevitabile scontro finale. Nella primavera del 1945, l’esercito giapponese iniziò a organizzare
l’operazione Ketsu-gō (operazione Decisiva). Nel teatro delle operazioni furono istituiti due
comandi: il Dai-ichi Sōgun (Primo esercito generale) per la difesa delle regioni centro-
settentrionali di Honshū e il Dai-ni Sōgun (Secondo esercito generale) per le zone occidentali di
Honshū, Shikoku e l’isola meridionale di Kyushu. L’obiettivo era la creazione di una forza di 60
divisioni: 36 per il contrattacco lungo i fronti dell’invasione; 22 per l’immediata difesa costiera e
due divisioni corazzate mobili. Dove si richiedesse, sia l’esercito sia la marina incoraggiavano le
tattiche suicide (tokko), come i nuotatori fukuryu (Dragone acquattato), autentiche mine umane
della cosiddetta Forza d’attacco acquatico a sorpresa, e le shinyo, piccole imbarcazioni kamikaze
imbottite di esplosivo . L’8 giugno, alla presenza dell’imperatore, fu decisa la «Linea politica
386

fondamentale» in vista di una battaglia finale in cui si sarebbe combattuto fino alla morte. Il
giorno seguente, un rescritto imperiale esortava il popolo a «schiacciare le smodate ambizioni
delle nazioni nemiche» per «conseguire gli obiettivi della guerra». Solo una settimana prima, i
comandanti americani dello stato maggiore congiunto avevano sollecitato un piano di invasione
ufficiale, e MacArthur, il comandante designato delle truppe di terra, aveva elaborato
l’operazione Downfall (Tracollo), divisa in due parti: l’invasione il 1° novembre delle regioni
meridionali di Kyushu (con l’operazione Olympic) e la successiva invasione dell’area di Tokyo
(con l’operazione Coronet, «Diadema») all’inizio della primavera del 1946. Per la prima fase
erano necessarie fino a diciassette divisioni, per la seconda venticinque, sostenute entrambe da
una grande armata di navi da guerra e trasporti anfibi, oltre a ventidue portaerei statunitensi . A
387

quel punto, anche se i comandanti inglesi si erano offerti di partecipare nella speranza che una
dimostrazione di buona fede avrebbe mantenuto viva nel dopoguerra la cooperazione anglo-
americana, le cinque divisioni del Commonwealth messe a disposizione (solo una era
interamente britannica) rappresentavano un contributo che Marshall aveva respinto definendolo
«imbarazzante» . L’offerta di squadroni di bombardieri della RAF venne trattata sbrigativamente
388

– «la maledetta squadra di Lancaster», si lamentò Stilwell, affilando la sua lingua malevola da
degno successore di Buckner a proposito di Okinawa – e prima della fine della guerra furono
possibili ben pochi progressi in tal senso .
389

Il 17 giugno, nel corso di un incontro tra il nuovo presidente Harry S. Truman e i capi dello stato
maggiore congiunto, fu necessario arrivare a una decisione. Truman era favorevole a mantenere
la pressione sul Giappone con il blocco navale e i bombardamenti, ma, al pari dei comandanti
dell’esercito, si diceva convinto che si dovesse tentare l’invasione soltanto se lo spargimento di
sangue poteva essere ridotto rispetto ai livelli di Iwo Jima e Okinawa. Anche se molto è stato
detto circa i timori di perdite comprese tra 500 000 e un milione di uomini – una cifra presa Dio
solo sa da dove da un giornalista americano nel maggio del 1945 e ripresa in seguito nelle
memorie di Truman –, le stime fornite all’epoca al presidente americano dall’esercito risultavano
meno allarmanti . Le statistiche presentate da MacArthur indicavano un numero probabile di
390

morti e dispersi attorno ai 105 000, distribuiti su una campagna di novanta giorni; i pianificatori
dello stato maggiore congiunto suggerivano 43 500 tra morti o dispersi per entrambe le
operazioni, mentre a una riunione con Truman e William Leahy, presidente dello stato maggiore
congiunto, Marshall previde un numero totale di caduti compreso tra 31 000 e 41 000, pur
ritenendo puramente ipotetica ogni proiezione, come in effetti era. Ad agosto, 150 000 uomini
della LVII Armata giapponese, sotto il comando del tenente generale Kanji Nishihara, erano in
attesa a Kyushu del colpo d’ascia, previsto forse già a ottobre . Truman approvò l’invasione
391

dell’isola (definita dagli americani con il nome in codice Diabolic) per l’inizio di novembre. Da
giugno in poi, dopo la caduta di Okinawa e di fatto la conclusione di ogni resistenza nelle
Filippine e in Birmania, entrambi gli schieramenti aspettavano una resa dei conti che avrebbe
potuto essere evitata solo se il governo nipponico avesse abbandonato l’operazione Ketsu-gō e
accettato la resa incondizionata.
Ultimo atto: resa incondizionata.
Dopo una guerra di tale portata, l’atto di resa nel 1945 di Germania e Giappone fu un momento
di catabasi nell’intensa tragedia di battaglie combattute a oltranza. In alcuni casi, i combattimenti
proseguirono per giorni o addirittura settimane dopo l’annuncio della resa, ma per la stragrande
maggioranza dei soldati, uomini e donne essa fu un’improvvisa liberazione dal lungo dramma
della violenza. Per entrambi gli schieramenti, tuttavia, la costrizione alla resa si rivelò un
processo politico e militare di notevole complessità. Quando nel gennaio del 1943 il presidente
Roosevelt aveva annunciato alla Conferenza di Casablanca che le potenze alleate avrebbero
accettato soltanto una resa incondizionata, lo aveva fatto in parte per prevenire qualsiasi
deviazione per conto di uno degli alleati alla ricerca di una pace separata, ma anche per chiarire
ai nemici dell’Asse che non avevano nulla da guadagnare da un negoziato, che per altro tutti e tre
i paesi stavano tentando. Non mancavano sicuramente delle condizioni da parte degli Alleati.
Roosevelt aveva aggiunto che la vittoria avrebbe consentito la distruzione «in Germania, Italia e
Giappone di una filosofia basata sulla conquista e la sottomissione di altri popoli» – che era poi
ovunque la filosofia di qualsiasi impero . Nei due anni successivi, erano state precisate ulteriori
392

condizioni: occupazione e governo militare del paese sconfitto, disarmo, processo ai criminali di
guerra, epurazione dei funzionari e dei politici che avevano diretto lo sforzo bellico e istituzione
di un sistema sociopolitico democratico sotto l’immediata supervisione degli Alleati. Gli stati
dell’Asse sapevano che, se si fossero arresi incondizionatamente come richiesto, quelle
sarebbero state le probabili condizioni, anche se tanto i governi quanto le popolazioni si
aspettavano ben di peggio. Rimane tuttora una questione controversa se la richiesta degli Alleati
possa aver prolungato di fatto la guerra, anche se una volontà di compromesso avrebbe minato lo
scopo concordato tra gli Alleati e avallato regimi aggressivi.
Né Hitler né Mussolini intendevano essere gli unici responsabili dell’eventuale accordo e
successiva firma dei termini di una resa incondizionata, e alla fine nessuno dei due lo fece. In
Giappone, la resa – incondizionata o meno – non apparteneva al lessico culturale della nazione;
nessuno doveva o poteva arrendersi senza un intervento da parte dell’imperatore. Solo un
rescritto imperiale poteva infatti porre fine allo stato di guerra, ma portare l’imperatore Hirohito
a compiere volontariamente quel passo senza precedenti era una questione politica, militare e
costituzionale estremamente delicata. Tali difficoltà erano già chiare agli Alleati quando
Roosevelt aveva annunciato che sarebbe stata accettata soltanto una resa incondizionata. Il
termine non era, come lasciò intendere in seguito lo stesso Roosevelt, «una parola che mi era
appena saltata in mente». La resa incondizionata era stata concertata come richiesta alleata dai
funzionari del dipartimento di Stato americano almeno dal maggio 1942 e doveva essere ben
distinta da un armistizio, che poteva essere negoziato, come i tedeschi avevano cercato di fare
dopo aver firmato quello del novembre 1918. In un incontro con i comandanti americani dello
stato maggiore congiunto il 7 gennaio 1943, poco prima di partire per Casablanca, Roosevelt
aveva assicurato che avrebbe richiesto la resa incondizionata come posizione fondamentale degli
Stati Uniti durante la guerra . Churchill avrebbe preferito una soluzione che lasciasse aperta la
393

prospettiva di un accordo di pace separato con l’Italia, mediato con una fazione anti-Mussolini,
ma il suo gabinetto di guerra l’aveva respinta, insistendo sul fatto che anche l’Italia avrebbe
dovuto accettare la resa incondizionata . Stalin non fece commenti sulla proposta fino al 1°
394

maggio 1943, quando usò per la prima volta in un discorso il termine «resa incondizionata»,
anche se non era un impegno a cui attribuisse lo stesso significato dei partner occidentali, che
avevano bisogno che l’Unione Sovietica rimanesse in guerra, per cui alla fine tutte e tre le
potenze dell’Asse si arresero in prima istanza agli americani .
395

Il concetto sarebbe stato messo per la prima volta alla prova dei fatti solo pochi mesi piú tardi,
quando nell’estate del 1943 divenne chiaro che l’Italia poteva benissimo essere il primo paese
dell’Asse a crollare. Vi erano significativi disaccordi tra inglesi e americani in merito
all’atteggiamento da tenere nei confronti di un governo italiano che negoziava per la pace e la
sopravvivenza della monarchia italiana, che Churchill era disposto ad accettare mentre gli
americani rimanevano incerti. Nel corso delle discussioni, gli inglesi usavano il termine
«armistizio», che gli americani invece rifiutavano. Venne allora concordato l’impiego di
un’espressione piú neutra, come «termini di resa». Nell’estate del 1943, quando la crisi in Italia
sembrava imminente, i due alleati si accordarono finalmente per un governo militare congiunto
da instaurarsi dopo la «resa totale senza impegni» dell’Italia, la stessa linea adottata per la
Germania fino al 1945 .396
Dopo il rovesciamento del governo di Mussolini il 25 luglio, né il nuovo regime del maresciallo
Pietro Badoglio né gli Alleati sapevano bene come procedere. Badoglio annunciò che la guerra
sarebbe continuata, benché non fosse ciò che voleva. Entrambe le parti nutrivano illusioni su ciò
che poteva essere possibile. Gli Alleati speravano perfino che l’esercito italiano avrebbe cacciato
i tedeschi dall’Italia prima di accettare la resa, mentre il re Vittorio Emanuele era fiducioso che i
soldati italiani avrebbero ancora «resistito e combattuto» abbastanza a lungo da giungere a una
soluzione negoziata. Gli Alleati iniziarono allora a usare il termine «capitolazione onorevole»
per indurre gli italiani alla resa, ma il termine sembrava implicare uno spazio di manovra che i
governanti italiani speravano di sfruttare. Tra inglesi e americani permanevano tensioni in merito
ai termini del documento di resa, per cui all’inizio di agosto Eisenhower propose alla fine un
«armistizio breve», che implicava solamente la resa militare e il disarmo, mentre l’«armistizio
lungo» dei britannici, con condizioni politiche ed economiche piú dure, fu concordato tra
Churchill e Roosevelt solo alla Conferenza di Québec alla fine di agosto. Badoglio inviò emissari
dagli Alleati per discutere una possibile collaborazione militare, ma senza ancora una vera
offerta di resa. Il generale Giuseppe Castellano, il referente principale, capí che gli Alleati erano
ben contenti di una promessa di assistenza militare da parte italiana e persuase Badoglio e i capi
dell’esercito che l’«armistizio breve» doveva essere firmato rapidamente, in modo che l’Italia
avesse la possibilità di cambiare schieramento. Il 31 agosto, Castellano si recò al quartier
generale alleato a Cassibile in Sicilia, dove il 3 settembre fu firmata la resa militare. Eisenhower
intendeva tenerla segreta fino a quando non fosse stata a buon punto l’invasione alleata a Salerno
di pochi giorni dopo, nel caso in cui i tedeschi occupassero l’Italia.
Badoglio si rifiutò sia di riferire ai suoi colleghi che cosa era successo sia di ordinare i
preparativi per affrontare i tedeschi allo scopo di aiutare gli Alleati, i cui piani per uno sbarco a
Salerno erano noti alla parte italiana. Nella notte tra il 7 e l’8 settembre, Badoglio fu svegliato in
piena notte e, in pigiama, si trovò ad affrontare un irato generale americano, comandante della
divisione aviotrasportata che sarebbe dovuta arrivare a Roma per sostenere il giorno successivo
la difesa italiana della capitale contro i tedeschi. Il comandante americano era penetrato di
nascosto a Roma per valutare la situazione militare italiana. Badoglio fu costretto a rivelare che
le forze armate italiane non avevano intrapreso alcun preparativo e chiese il rinvio della
pubblicazione dell’armistizio. Eisenhower, fuori di sé, si accorse finalmente della doppiezza di
Badoglio e l’8 settembre annunciò che l’Italia si era arresa incondizionatamente e costrinse il
governo italiano a fare lo stesso. La sera del giorno 8, Badoglio annunciò alla radio l’armistizio
(ma evitò la parola «resa») . La resa ufficiale, che includeva le quarantaquattro condizioni
397

previste dall’«armistizio lungo», fu firmata solennemente a Malta il 29 settembre da Badoglio e


dal re, fuggito nel Meridione da Roma il 10 settembre. Le difficoltà non erano comunque finite.
Il governo sovietico non vedeva alcun motivo per cui l’Urss dovesse essere esclusa dal processo
di resa e dal successivo controllo militare dell’Italia, dal momento che l’Armata Rossa
combatteva fin dal 1941 le forze italiane sul fronte russo. Gli Alleati occidentali rifiutarono la
partecipazione diretta dei sovietici ma offrirono loro un ruolo consultivo all’interno dell’Allied
Advisory Council istituito per l’Italia. Le obiezioni da parte sovietica si smorzarono
relativamente, ma Stalin ne trasse l’ovvia lezione: quando l’Armata Rossa impose l’armistizio a
Romania e Bulgaria nel 1944 e all’Ungheria nel 1945, gli Alleati occidentali vennero esclusi . I 398

successivi trattati di pace riguardanti i tre stati dell’Asse furono imposti in base ai termini
sovietici, ma in cambio Stalin permise agli Stati Uniti di organizzare l’occupazione militare del
Giappone e concordarvi la pace . 399
La resa senza condizioni del 1943 non pose fine alla guerra in Italia. Dopo l’annuncio dell’8
settembre, furono le forze armate tedesche a disarmare quasi tutte le unità militari italiane e a
imporre un pesante dominio su gran parte della penisola. Il nuovo regime italiano sotto
Mussolini, instaurato sotto la protezione tedesca, non era toccato dall’armistizio. In Italia, la resa
incondizionata di tutte le forze dell’Asse, compresi gli italiani che combattevano ancora per
Mussolini, fu rinviata al 1945, quando lo sforzo per assicurare la resa si rivelò ancora una volta
complesso e protratto nel tempo. All’inizio del 1945, gli alti ufficiali tedeschi presenti sul fronte
italiano cominciarono a discutere la possibilità di porre fine alla guerra, e a marzo il generale
delle SS Karl Wolff fece visita in segreto ad Allen Dulles, rappresentante a Berna dell’Office of
Strategic Services (OSS) americano, con la mediazione di un intermediario svizzero, Gero von
Gaevernitz. Wolff tornò in Italia dopo aver promesso di coinvolgere nell’idea della resa il
feldmaresciallo Kesselring, comandante in capo delle forze tedesche. Inglesi e americani
reagirono positivamente a quella che chiamarono operazione Sunrise («Alba», anche se
Churchill insisteva sul nome in codice Crossword, «Cruciverba»), ma il 20 aprile Dulles
ricevette istruzioni di porre fine ai contatti, essendo evidente che il comandante della Wehrmacht
in Italia, Von Vietinghoff-Scheel, sperava di ottenere un accordo grazie al quale poter riportare le
sue armate in Germania con l’onore intatto, piuttosto che arrendersi senza condizioni. Pochi
giorni prima, Wolff era volato a Berlino per incontrare di persona Hitler e gli era stato detto di
mantenere aperti i contatti con gli americani al fine di ottenere condizioni migliori per un
armistizio: «Arrendersi incondizionatamente», secondo le parole di Hitler riferite da Wolff,
«sarebbe insensato» . Wolff tornò in Italia, felice di essere sopravvissuto a quell’incontro, ma gli
400

ordini del quartier generale di Hitler insistettero che le forze tedesche restassero in Italia e
combattessero fino alla morte.
A marzo, dopo che la notizia dei negoziati segreti fu trasmessa a Mosca da spie sovietiche, Stalin
ebbe nuovamente timore che l’Occidente stesse cercando una pace separata, questa volta come
preludio per dirottare le forze di stanza in Italia contro l’avanzata sovietica nell’Europa centrale.
Il ministro degli Esteri sovietico Molotov chiese immediatamente che i rappresentanti sovietici
fossero presenti a qualsiasi negoziato, ma gli fu detto che su un fronte anglo-americano potevano
essere responsabili solo gli inglesi e gli americani – un rifiuto simile a quello del 1943. Seguí un
aspro scambio di accuse, in cui venne imputato agli Alleati occidentali l’intento di agire «alle
spalle del governo sovietico». Il 3 aprile, Stalin protestò che l’Occidente stava pianificando «di
alleggerire ai tedeschi i termini dell’armistizio», in modo che gli eserciti anglo-americani
potessero poi spostarsi verso est. Due giorni dopo, in risposta alla ferma confutazione di
Roosevelt, Stalin spiegò che il problema della resa aveva messo in luce punti di vista molto
diversi su «ciò che un alleato può permettersi di fare nei confronti dell’altro» . Non si trattava
401

ancora di una spaccatura aperta, ma faceva presagire un maggiore divario all’interno


dell’alleanza, destinato a trasformarsi passo dopo passo nel confronto tra le due potenze che
avrebbe avuto luogo nel dopoguerra che seguí. La reazione di Mosca venne nuovamente
mitigata, almeno sulla carta, dalla decisione di consentire una presenza sovietica a ogni
cerimonia di resa al fine di garantire che i tedeschi non ottenessero una pace facile, e il 25 aprile
il generale Aleksej Kislenko, rappresentante sovietico dell’Allied Advisory Council, costituito nel
1943, giunse al quartier generale degli Alleati a Caserta .
402

A quel punto, la sconfitta era imminente e la resa solo questione di tempo. A metà aprile,
Mussolini, senza alcuna intenzione di arrendersi, arrivò a Milano dalla sede del suo governo a
Salò per scoprire che l’alleato tedesco stava negoziando la resa senza di lui. Pur protestando di
essere stato «tradito», ebbe l’istinto di fuggire e fu condotto verso il confine svizzero travestito
da soldato tedesco. Il 28 aprile, fu catturato dai partigiani insieme con altri gerarchi fascisti e
giustiziato. I corpi furono appesi a testa in giú in una piazza di Milano, come carne di macelleria.
Il maresciallo Graziani, comandante delle forze italiane ormai disperse e della milizia fascista
ancora in lotta contro gli Alleati, chiese ai tedeschi di firmare anche a nome degli italiani, per
evitare loro la firma di una seconda resa incondizionata . Il 25 aprile, Von Vietinghoff-Scheel
403

inviò due emissari a incontrare di nuovo Dulles a Berna, disposto questa volta ad accettare di
arrendersi senza condizioni; Churchill, subito informato, telegrafò immediatamente a Stalin per
ottenere il consenso sovietico ad accettare la resa. Inaspettatamente, Stalin acconsentí, e il giorno
27 due ufficiali tedeschi arrivarono al quartier generale alleato per espletare le formalità. A quel
punto, 40 000 soldati dell’Asse avevano già accettato la resa a livello locale e altri 80 000
seguirono il loro esempio alla fine del mese . Il giorno 29 fu finalmente firmato il documento di
404

diciassette pagine che sanciva la resa, ma che sarebbe divenuto operativo solo tre giorni dopo per
dare ai comandanti tedeschi il tempo di avvertire le rispettive forze ormai allo sbando . La resa
405

non era ancora a prova di bomba, poiché doveva essere formalmente ratificata di persona da Von
Vietinghoff-Scheel, in veste di comandante in capo, nel suo quartier generale a Bolzano, capitale
della Operationszone Alpenvorland (Zona operativa Prealpi). Per evitare di allertare Berlino
riguardo alla resa, gli emissari furono fatti volare a Lione e poi condotti in auto attraverso la
Svizzera fino a Bolzano. Al momento del loro arrivo, alla mezzanotte del 30 aprile, Hitler
apprese della capitolazione dal Gauleiter Franz Hofer, che era anche commissario supremo della
zona operativa Prealpi. In uno dei suoi ultimi atti prima del suicidio, Hitler ordinò l’arresto di
Von Vietinghoff-Scheel e la sua sostituzione con il generale maggiore Paul Schultz, a cui fu
ordinato di organizzare una ritirata armi in mano verso l’Austria. Al suo arrivo, Schultz venne
arrestato dalle Waffen-SS di Wolff e il 1° maggio Von Vietinghoff-Scheel inviò finalmente a
tutte le unità militari l’ordine di cessare il fuoco. Il 2 maggio, Kesselring, ora comandante in
capo delle forze armate occidentali, accettò seppure con riluttanza il fatto che la morte di Hitler
aveva reso ormai inutile ogni ulteriore resistenza e approvò la capitolazione. L’alto comando
alleato monitorò la radio tedesca per assicurarsi che gli annunci della resa fossero effettivamente
trasmessi alle forze del Reich e alle 18.30 del 2 maggio fu annunciata la seconda resa
incondizionata dell’Italia .
406

La resa vera e propria si rivelò alla fine un processo caotico. Alcune forze dell’Asse – tra cui le
unità cosacche che avevano ucciso e violentato mentre attraversavano l’Italia settentrionale alla
caccia di partigiani – si rifiutarono di arrendersi, dirigendosi verso l’Austria attraverso le valli del
Friuli lungo il confine settentrionale dell’Italia. Cadute in un’imboscata dei partigiani,
perpetrarono per rappresaglia i loro ultimi atti di atrocità, massacrando cinquantuno abitanti ad
Avasinis e ventitre a Ovaro. I combattimenti nella regione terminarono solamente il 14 maggio,
una settimana dopo la resa generale tedesca, mentre un gruppo di cecchini, guidati da un capo
fascista in un ultimo e disperato tentativo di resistenza, fu annientato solo il giorno 29 . Anche
407

altre unità rifiutarono di gettare le armi. Il 4 maggio, una commissione alleata che si recava al
quartier generale di Von Vietinghoff-Scheel a Bolzano dovette superare posti di blocco presidiati
da soldati tedeschi e Waffen-SS tutt’altro che compiacenti, per di piú ancora armati di tutto punto
come se la guerra fosse stata messa in pausa anziché conclusa. I comandanti tedeschi sostennero
che i loro soldati tenevano le armi per paura delle vendette partigiane, e la commissione alleata,
ora supportata dalle forze armate, dovette insistere per dieci giorni affinché le armi fossero
consegnate. Altre unità continuarono a resistere e, per un mese o piú, isolate sacche di soldati
fascisti, tedeschi, russi e italiani rimasero rintanate nei fitti boschi e sulle ripide montagne intorno
alla valle di Merano, in cerca di cibo con il fucile puntato. I comandanti alleati della zona posero
fine a quella situazione disastrosa solo dopo settimane di banditismo improvvisato. La
popolazione del posto, come riferiva un ufficiale della SOE, diceva di stare «peggio di quanto
fosse stata sotto l’occupazione tedesca» .408

Sorsero ulteriori difficoltà con la resa finale e incondizionata di tutte le forze tedesche rimaste in
Europa, e questo mentre tra gli Alleati riemergevano le tensioni a pochi giorni dalla crisi della
resa italiana. Nella primavera del 1945, mentre considerevoli forze alleate convergevano nel
cuore della Germania, non c’erano dubbi in merito alla sconfitta e all’occupazione militare del
paese. Gli sforzi per aprire canali di comunicazione con gli Alleati occidentali non avevano
alcuna prospettiva di successo e l’Occidente, dopo i problemi sorti in Italia, non intendeva
permettere alcuna congettura su possibili trattative separate in corso. Il documento della resa
incondizionata era già stato redatto e concordato nel 1944 dai tre maggiori alleati e si atteneva
rigorosamente allo schema dell’«armistizio lungo» italiano, anche se la versione firmata
inizialmente, come in Italia, corrispondeva alla forma breve. Gli Alleati avevano inoltre
concordato la divisione territoriale della Germania, assegnandone una zona a ciascuno, anche se
la spartizione rimaneva esclusa dal documento finale della resa. Restava ancora tutt’altro che
chiaro, in ogni caso, chi si sarebbe arreso a chi e in quali circostanze. La possibilità di una rivolta
popolare in Germania per porre fine alla guerra era stata spesso esaminata dall’intelligence
occidentale, ma nella primavera del 1945 si era dimostrato che un tale esito era una pura fantasia
politica. Al popolo tedesco, concludeva un rapporto preparato per Churchill dal Joint Intelligence
Committee, mancavano ormai «l’energia, il coraggio o l’organizzazione per spezzare il regno del
terrore» . Si riponeva ben poca fiducia nel fatto che lo stesso Hitler sarebbe stato catturato e
409

costretto a firmare il documento di resa e giravano voci che probabilmente si sarebbe suicidato
piuttosto che affrontare l’umiliazione della cattura. In effetti, il Führer non aveva alcuna
intenzione di essere preso prigioniero. Quando il 28 aprile arrivò nel bunker della Cancelleria del
Reich la notizia della morte di Mussolini, Hitler era rimasto inorridito dall’eventualità che anche
il suo corpo potesse essere profanato ed esibito a una folla tedesca inferocita. La sua decisione di
suicidarsi, presa in qualche momento del giorno 29, scongiurava a suo avviso qualsiasi pericolo
che la sua immagine storica venisse insozzata dalla cattura, dall’assassinio o da un processo. Nel
pomeriggio del 30 aprile, Hitler ed Eva Braun, sua sposa per un giorno, si tolsero la vita, lei con
una capsula di cianuro, lui con un colpo alla testa. Aveva dato ordine che il suo corpo fosse
bruciato, come ricordava il suo aiutante di campo Otto Günsche, piuttosto che farlo «portare a
Mosca per essere esposto in un gabinetto delle curiosità» . 410

Hitler, tuttavia, aveva pensato a come sarebbe potuta finire la guerra e continuato a sperare che la
Germania potesse ancora avere un margine di manovra. Dopo la visita nel bunker di Hitler il 18
aprile, Karl Wolff aveva riferito a Dulles che il Führer gli aveva spiegato che le forze tedesche si
sarebbero concentrate in una serie di ridotte fino a quando l’esercito sovietico e quello americano
si fossero inevitabilmente scontrati nel momento in cui l’Armata Rossa avesse cercato di
spingersi oltre la linea di demarcazione concordata a Jalta. Si aspettava di resistere a Berlino
dalle sei alle otto settimane, dopodiché avrebbe scelto di unirsi a una parte o all’altra nella guerra
tra Stati Uniti e Unione Sovietica, evitando del tutto la resa . Il suo aiutante della Luftwaffe
411

ricordò nelle sue memorie la speranza di Hitler che l’Occidente «non avrebbe piú insistito sulla
resa incondizionata» . Il 20 aprile, aveva comunicato al suo ministro degli Esteri che se fosse
412

morto difendendo Berlino, Von Ribbentrop avrebbe dovuto impegnarsi in negoziati di pace con
l’Occidente per porre le basi di un accordo globale. In una lettera destinata al capo del suo
quartier generale, il feldmaresciallo Keitel, inviata negli ultimi giorni dal bunker ma mai
consegnata, Hitler aveva ripreso la sua convinzione fondamentale che l’obiettivo futuro della
nazione fosse «ancora conquistare territori nell’Est per il popolo tedesco», anche se non sarebbe
piú stato lui a consegnarli ai tedeschi . Queste e altre fantasie accompagnarono gli ultimi giorni
413

di Hitler. Non gli importava nulla del destino delle persone che aveva condotto sull’orlo del
disastro, poiché una resa avrebbe significato che «avevano perso il diritto a esistere» . Il suo
414

suicidio rappresentò il definitivo rifiuto di ogni responsabilità per la fine delle ostilità, il che
lasciava aperta la questione di come si potesse imporre una resa incondizionata a un sistema
governativo ormai in preda al collasso e a forze armate che si stavano arrendendo in gran numero
ai comandanti alleati delle varie zone. Alla resa italiana del 2 maggio seguí due giorni dopo la
resa davanti a Montgomery di tutte le forze tedesche nel nord della Germania, nei Paesi Bassi e
in Danimarca. La regione comprendeva la città di Flensburg, vicina al confine tedesco-danese, e
fu qui che iniziò a operare un governo tedesco appena riorganizzato. Nel suo testamento finale,
Hitler aveva previsto il ruolo dei suoi successori: il grandammiraglio Karl Dönitz doveva
assumere la presidenza tedesca; il ministro della Propaganda Joseph Goebbels la Cancelleria.
Goebbels si suicidò nel bunker dopo Hitler, lasciando Dönitz come capo titolare dello stato
tedesco al collasso e del «governo di Flensburg».
Il nuovo esecutivo operava in una sorta di limbo costituzionale, tanto che Montgomery non era
riuscito a ordinare che la cittadina fosse occupata militarmente né che fossero arrestati i membri
del nuovo governo, molti dei quali erano sulla lista dei principali criminali di guerra compilata
dagli Alleati. Il risultato fu di risvegliare ancora una volta al Cremlino il profondo sospetto che
Dönitz stesse per diventare il Badoglio della Germania. Il 6 maggio, il vicecapo di stato
maggiore dell’Armata Rossa, Aleksej Antonov, comunicò ai rappresentanti degli Alleati a Mosca
che la parte sovietica si rifiutava di riconoscere un nuovo governo tedesco e insisteva sul fatto
che l’alto comando della Wehrmacht doveva arrendersi incondizionatamente. In caso contrario,
proseguí Antonov, gli ambienti di Mosca avrebbero continuato a ritenere che gli Alleati
occidentali stessero negoziando una tregua separata affinché le forze tedesche potessero
concentrare i loro sforzi contro l’Armata Rossa . Dönitz sapeva che la resa era inevitabile, ma,
415

come temevano i sovietici, avrebbe preferito arrendersi alle potenze occidentali e continuare a
combattere nell’Est. Aveva infatti ritardato l’accettazione immediata della resa per dare tempo a
soldati e rifugiati tedeschi di fuggire dall’avanzata delle truppe sovietiche, fino a quando
Eisenhower gli disse il 5 maggio che tutte le forze dovevano arrendersi incondizionatamente, non
un pezzo qui e un pezzo là. Alla fine, Dönitz inviò il capo delle operazioni dell’OKW, generale
colonnello Jodl, allo SHAEF di Eisenhower nella città francese di Reims per firmare una resa,
nutrendo ancora la vana speranza che essa potesse riguardare soltanto la guerra in Occidente.
Ben presto, avrebbe scoperto che non c’era alcuno spazio di manovra. Il documento fu firmato
nelle prime ore del 7 maggio, senza informare Stalin . Un delegato sovietico presente all’evento,
416

il generale Ivan Susloparov, non sapeva decidere se firmare senza le necessarie istruzioni dal
Cremlino, anche se alla fine lo fece, trepidante per il suo possibile destino. Stalin,
prevedibilmente infuriato, ribadí che il documento nelle mani americane non era un atto di resa
incondizionata ma unicamente un «protocollo preliminare», come lo avrebbe definito in seguito.
La parte sovietica richiese pertanto che a Berlino si tenesse una cerimonia ufficiale per sancire la
resa . Eisenhower inviò in sua rappresentanza a Berlino il suo vice, il maresciallo dell’Aria
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britannico Tedder, insieme con un alto ufficiale americano e uno francese in veste di testimoni.
L’8 maggio, a tarda sera, il capo del quartier generale supremo di Hitler, feldmaresciallo Keitel,
firmò a Karlshorst il documento che gli Alleati poterono considerare unanimemente una resa
incondizionata. Le discordanze tra occidentali e sovietici rimasero evidenti nella data designata
come VE-Day (ovvero la Giornata della vittoria in Europa): l’8 maggio nei paesi occidentali, il 9
maggio in Unione Sovietica – distinzione mantenuta fino ai giorni nostri.
Come in Italia, questa non fu la fine decisiva che una resa incondizionata avrebbe dovuto
sancire. Nei territori cechi, per esempio, i combattimenti continuarono fino al 12 maggio, giorno
in cui le forze tedesche furono infine sopraffatte in battaglia. Il governo di Dönitz rimase al suo
posto e vide arrivare un flusso di americani e inglesi delle squadre di verifica postbellica dei
bombardamenti, incaricate di discutere il loro operato con i ministri tedeschi. La delegazione
trovò una cittadina ancora brulicante di soldati armati e guardie delle SS . Il 12 maggio, il
418

quartier generale di Montgomery concordò con il governo tedesco che Ernst Busch, il
feldmaresciallo di stanza a Flensburg, avrebbe assunto il comando della provincia dello
Schleswig-Holstein per mantenere l’ordine e aiutare la popolazione a procurarsi rifornimenti –
un atto di per sé equivalente a un riconoscimento ufficiale dell’autorità del nuovo regime.
Indipendentemente dalle difficoltà politiche, Churchill era favorevole al mantenimento in carica
di Dönitz, il cui governo avrebbe potuto contribuire alla normalizzazione della Germania
occupata. Se Dönitz si fosse rivelato «uno strumento a noi utile», scrisse Churchill, si sarebbe
potuto sorvolare sulle «atrocità da lui commesse in guerra» . Il risultato fu una nuova ondata di
419

proteste da parte del Cremlino e della stampa sovietica, secondo cui l’Occidente stava
progettando di riconoscere la piena legittimità al nuovo regime allo scopo di creare un’alleanza
in funzione antisovietica. Per gettare benzina sul fuoco, Stalin autorizzò una campagna di stampa
che lasciava intendere che in realtà Hitler non era morto a Berlino, bensí fuggito, probabilmente
sotto la protezione degli Alleati occidentali. Dopo quella beffa, vi fu da parte dell’intelligence
britannica uno sforzo concertato per confermare che Hitler si era realmente suicidato, cosa che
Stalin sapeva già in base alle prove forensi raccolte nel giardino della Cancelleria, dove il corpo
di Hitler era stato bruciato . Le accuse di malafede non erano tuttavia fortuite. Stalin nutriva da
420

due anni profondi sospetti sul modo in cui i suoi alleati avrebbero gestito la sconfitta tedesca. La
sopravvivenza del regime di Dönitz non aveva fatto che confermare i suoi peggiori timori. Alla
fine, Eisenhower, in qualità di comandante supremo del fronte europeo, ebbe la meglio su
Churchill e sui prevaricanti capi dello stato maggiore congiunto e riuscí ad autorizzare
l’occupazione militare di Flensburg e l’arresto di Dönitz e del suo gabinetto. Il 23 maggio, piú di
due settimane dopo l’originaria firma della resa, un’unità di soldati britannici fece prigionieri a
Flensburg tutti i capi tedeschi . Solo allora fu possibile istituire l’Allied Control Council e
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pubblicare il 5 giugno 1945 una dichiarazione ufficiale degli Alleati sulla sconfitta e la resa
incondizionata della Germania.
Le complicazioni sorte in Europa, in ogni caso, non furono niente in confronto alla difficoltà di
forzare il governo nipponico a una resa, visto che per i militari giapponesi il concetto stesso era
impensabile – uno stato d’animo confermato oltre tutto dalle centinaia di migliaia di soldati
giapponesi che si erano fatti uccidere piuttosto che abbandonare una sfida senza speranza. Per la
leadership giapponese, l’intera strategia della guerra del Pacifico era basata sull’idea che, dopo le
vittorie iniziali, si sarebbe raggiunto un compromesso con i nemici occidentali cosí da evitare
qualsiasi prospettiva di dover combattere fino a una resa. Si pensò allora alla Svizzera come
possibile intermediario neutrale, come pure al Vaticano, dove all’inizio della guerra era stata
istituita per tale scopo una missione diplomatica giapponese. Il governo di Tokyo, che aveva
attentamente osservato il processo della resa italiana nel 1943, si sentí incoraggiato a ritenere che
se Badoglio aveva potuto modificare la resa incondizionata mantenendo il governo e il re, allora
una «soluzione Badoglio» avrebbe potuto garantire anche in Giappone la sopravvivenza del
sistema imperiale . Quando nell’aprile del 1945 si formò un nuovo gabinetto, dopo mesi di crisi
422

militari, il nuovo primo ministro, il settantottenne Suzuki Kantarō, annunciò alla radio che
«l’attuale guerra è entrata in una fase di estrema gravità, in cui nessun ottimismo è ammissibile».
Dopo aver ascoltato la trasmissione, l’ex premier Tōjō Hideki riferí a un giornalista: «Questa è la
fine. Questo è il nostro governo Badoglio» . Suzuki Kantarō era stato nominato primo ministro
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dopo molte discussioni con l’imperatore e il Consiglio degli anziani in quanto apparteneva alla
cerchia di coloro che erano favorevoli a trovare un modo per porre fine alla guerra a condizioni
accettabili, ma, come Badoglio, sosteneva altresí il proseguimento delle ostilità per soddisfare i
militari piú intransigenti presenti nel governo, che non avrebbero tollerato alcuna prospettiva di
deporre le armi. Durante i mesi che portarono alla capitolazione finale, la politica giapponese
rimase combattuta tra il desiderio di pace e l’imperativo di combattere qualora la pace si fosse
rivelata troppo costosa.
Negli Stati Uniti e in Unione Sovietica vi furono contatti formali e informali al fine di verificare
l’effettiva possibilità di una pace negoziata, anche se il reiterato rifiuto dal 1938 in poi di tutti gli
sforzi giapponesi per giungere a un accordo di compromesso con il governo di Chiang Kai-shek
avrebbe dovuto smorzare fin da subito le aspettative. Nell’aprile del 1945, mentre Wolff
discuteva con Dulles, venne sondata la possibilità che la stessa strada svizzera potesse essere
utilizzata anche per il Giappone. L’addetto navale giapponese a Berlino inviò in Svizzera il suo
assistente comandante Fujimura Yoshikazu, che riuscí a incontrare Dulles il 3 maggio.
Impressionato dal successo dei negoziati per arrivare alla resa in Italia, Fujimura sperava di poter
persuadere Dulles che si potesse negoziare con Tokyo una pace di compromesso tale da
consentire la sopravvivenza del sistema imperiale e permettere al Giappone di continuare a
occupare le isole della Micronesia. I colloqui si esaurirono rapidamente non appena il
dipartimento di Stato degli Stati Uniti chiarí che era accettabile solamente la resa incondizionata,
senza contare che le autorità di Tokyo diffidavano di qualsiasi negoziazione che non fosse sotto
il loro diretto controllo . Fallirono allo stesso modo tentativi analoghi compiuti a Stoccolma
424

(come era accaduto precedentemente quello stesso anno agli approcci tedeschi). Tutto questo
lasciava come unico possibile mediatore l’Unione Sovietica, dato che i due paesi non erano
ancora in guerra.
Le opinioni dei giapponesi in merito a un intervento sovietico nell’Asia orientale erano
contrastanti. Ci si aspettava generalmente che a un certo punto Mosca avrebbe abbandonato il
Patto di non aggressione firmato nel 1941, ma era molto incerto se o quando ciò avrebbe potuto
sfociare in una guerra. Qualora l’Unione Sovietica non fosse stata disposta a mediare una pace
con gli Alleati, si poteva sperare che il coinvolgimento sovietico in Asia avrebbe potuto
ristabilire un equilibrio con la schiacciante potenza americana e creare forse nel dopoguerra delle
condizioni in cui il futuro della nazione nipponica avrebbe potuto preservarsi piú facilmente che
sotto una dominazione americana dell’Asia orientale. Com’era avvenuto per Hitler e la
leadership tedesca, nacque la speranza che un conflitto tra i due alleati in tempo di guerra potesse
lasciare spazio di manovra al Giappone (come effettivamente fu) . A luglio, l’ambasciatore
425

giapponese a Mosca sondò la disponibilità sovietica a mediare un accordo e trovò il Cremlino


comprensibilmente freddo. A quel punto, infatti, era piú che evidente un rafforzamento militare
sovietico lungo il confine con la Manciuria, anche se la possibile data di un’invasione
dell’Armata Rossa rimaneva una pura congettura. L’idea di avvalersi di un intervento sovietico
per moderare la pace draconiana che si attendeva dagli americani era estremamente rischiosa,
soprattutto considerando il fatto che la «polizia del pensiero» giapponese aveva rilevato un
crescente sentimento comunista in Giappone e in Corea, ma restava uno dei modi in cui il
governo nipponico sperava di evitare una resa rigorosamente incondizionata . 426

A giugno, il regime di Tokyo si trovò di fronte a un’impasse. Sotto gli auspici delle potenze
neutrali non si vedeva alcuna via d’uscita per una fine negoziata della guerra; l’esercito insisteva
nel continuare i preparativi per la resa dei conti finale, allorché gli americani avrebbero invaso le
isole dell’arcipelago; aumentavano le testimonianze, confermate da Kido Kōichi, confidente di
Hirohito e Lord del Sigillo imperiale, di disordini popolari, perfino di sentimenti ostili nei
confronti dello stesso imperatore, scarabocchiati in graffiti sui resti delle mura della città dopo
tre mesi di bombardamenti. L’8 giugno, Hirohito approvò le «Linee guida fondamentali da
seguire d’ora in avanti nella condotta della guerra» formulate dalle forze armate, ritenendo
ancora necessario qualche segno di successo militare prima di prendere in considerazione la fine
del conflitto; il giorno 22, tuttavia, con la caduta di Okinawa, l’imperatore ordinò al Gunji
sangikan kaigi, il Consiglio supremo di guerra, di «pensare immediatamente e dettagliatamente
ai modi di porre fine al conflitto», poiché «si ravvisa una sempre maggiore tensione nella
situazione interna ed esterna del Giappone» . Nelle settimane successive, la situazione di stallo
427

continuò, ma tutte le parti, compreso l’imperatore, volevano dagli Alleati delle concessioni, che
variavano dal mantenimento dell’impero coloniale e degli interessi nipponici in Cina alla
possibilità di scongiurare l’occupazione militare del paese, consentire al Giappone di disarmare
le proprie forze e punire i propri criminali di guerra e, soprattutto, conservare il sistema imperiale
e il kokutai, ovvero la piena sovranità nazionale del sistema di governo. L’idea che un negoziato
potesse essere effettivamente possibile era corroborata da notizie regolari dagli Stati Uniti circa
la crescente stanchezza della guerra e l’estremo disagio causato dalla smobilitazione e
ridistribuzione delle risorse, divenute una realtà evidente nell’estate del 1945. Prima della
riunione dell’8 giugno che doveva confermare i piani militari, il Consiglio supremo di guerra
venne informato che, alla luce delle difficoltà interne americane, sarebbe stato possibile
«diminuire considerevolmente la volontà del nemico di continuare la guerra» . 428

Benché il governo giapponese non ne fosse a conoscenza, dalla primavera del 1942 si era aperto
negli Stati Uniti un ampio dibattito sul significato della resa incondizionata in rapporto al
Giappone – discussioni per altro assenti in merito alla Germania. I funzionari del dipartimento di
Stato a favore di una «pace morbida» temevano che se gli Alleati avessero insistito per abolire
l’istituzione imperiale, questo avrebbe fornito «un incentivo permanente all’insurrezione e alla
vendetta» . Nell’estate del 1945, il governo americano voleva innanzitutto portare la guerra a
429

una rapida conclusione e non apprezzava la prospettiva di un’invasione anfibia dell’arcipelago


nipponico, tanto piú che le fonti di intelligence indicavano un pesante dispiegamento di truppe e
attrezzature giapponesi nell’isola meridionale di Kyushu, su cui doveva appunto avvenire lo
sbarco americano. I conservatori raggruppati intorno al segretario alla Guerra Henry Stimson
temevano che quanto piú fosse durata la guerra, maggiore sarebbe stato il rischio di un intervento
dell’Urss, addirittura di un’occupazione sovietica del Giappone; una guerra piú lunga avrebbe
anche potuto portare alla nascita in Giappone di un movimento radicale, perfino vicino
all’ideologia comunista, lo stesso che creava preoccupazioni a Tokyo. Stimson era favorevole a
una dichiarazione che definisse una resa incondizionata, tale però da includere una «pace
morbida» che avrebbe mantenuto in vita il sistema imperiale. Coloro che erano invece favorevoli
a una «pace dura», guidati dal segretario di Stato di fresca nomina James Byrnes, etichettavano
tale posizione come appeasement e si rifiutavano di consentire al Giappone di porre qualsiasi
condizione. Il presidente Truman, contrario a definire un termine già di per sé esplicativo, venne
convinto alla fine che una dichiarazione potesse rafforzare il desiderio di pace da parte
giapponese. La bozza fu portata alla Conferenza interalleata del 17 luglio a Potsdam, indetta per
appianare le restanti divergenze esistenti tra gli Alleati circa il futuro dell’Europa. Fu nel corso di
quel summit che Stimson vide infine frustrati gli sforzi per includere una clausola che
proteggesse lo status dell’imperatore. Truman, che considerava Hirohito un criminale di guerra,
accettò di sostituire la clausola con la disposizione secondo cui «il popolo giapponese sarà libero
di scegliere la propria forma di governo», frase che, come divenne presto chiaro, lasciava ampio
spazio all’interpretazione . La Dichiarazione di Potsdam, firmata da Stati Uniti, Gran Bretagna e
430

Cina e pubblicata il 26 luglio, prefigurava la distruzione istantanea del Giappone qualora non si
fosse arreso incondizionatamente. Benché dovesse essere pubblicato una settimana prima,
occorse del tempo per inviare il documento al quartier generale di Chiang Kai-shek vicino a
Chongqing, decriptarlo, tradurlo e ottenerne l’approvazione . L’Unione Sovietica, non essendo
431

ancora in stato di guerra con il Giappone, non firmò. Stalin, in effetti, accettò di tenere fede alla
promessa fatta alla Conferenza di Jalta che l’Unione Sovietica sarebbe entrata in guerra con il
Giappone e comunicò agli Alleati che era prevista una campagna militare per metà agosto.
Nessuna delle due parti si fidava del tutto delle intenzioni dell’altra riguardo all’Asia, per cui alla
fine combatterono due guerre separate . 432

Al momento della pubblicazione della dichiarazione, Truman sapeva che la minaccia di una
«distruzione istantanea e totale» stava per assumere forma concreta. Il 16 luglio aveva ricevuto a
Potsdam la notizia che presso la base aerea di Alamogordo nel New Mexico si era svolto con
successo il primo test di una bomba nucleare, che segnava il culmine dell’operazione nota in
codice come «Progetto Manhattan» e iniziata tre anni prima grazie al materiale di ricerca
ricavato da un precedente progetto britannico. Lo sviluppo della nuova arma richiedeva uno
sforzo industriale di proporzioni tali che soltanto gli Stati Uniti erano in grado di sostenere. Il
fisico giapponese Nishina Yoshio aveva intrapreso un programma sperimentale per isolare
l’isotopo dell’uranio U235, indispensabile per fabbricare una bomba, ma il suo laboratorio di
legno era andato completamente a fuoco durante un raid aereo americano, per cui il progetto di
ricerca era rimasto bloccato. Negli Stati Uniti, il Progetto Manhattan, a cui erano andati generosi
finanziamenti, era guidato da un gruppo internazionale di fisici di prim’ordine e aveva ottenuto
la massima priorità. Furono sviluppati due modelli di bombe, uno basato sull’uranio arricchito e
uno sul plutonio, un elemento artificiale derivato dagli isotopi U239 dell’uranio. Se la Germania
non si fosse arresa nel maggio del 1945, la prima bomba sarebbe stata usata in Europa, come
previsto originariamente dagli inglesi. I capi americani dello stato maggiore congiunto non erano
concordi sull’opportunità di utilizzarla o meno, ma, in definitiva, la decisione risultò politica e
non militare . Alla fine del luglio 1945 vi erano solo due bombe pronte, una per tipo, e Truman,
433

con l’approvazione di Churchill, era pronto a lanciarle su due città giapponesi scelte come
possibili obiettivi dimostrativi e preservate dalla campagna di bombardamenti. «Abbiamo
scoperto», scrisse Truman nel suo diario, «la bomba piú terribile nella storia del mondo».
Qualunque scrupolo morale potesse portarlo a esitare nel concedere l’approvazione fu messo da
parte in base alla convinzione che in tal modo la guerra con il Giappone poteva essere
rapidamente risolta. Aggiunse infatti nel suo diario: «Essa può tuttavia rivelarsi la cosa piú
utile» . Dal suo punto di vista, l’intero scopo degli anni trascorsi a sviluppare la bomba era
434

quello di usarla non appena fosse stata pronta.


Due giorni dopo, non appena si seppe che Suzuki aveva respinto la Dichiarazione di Potsdam –
«il mio governo la ignorerà», aveva affermato –, venne confermata la decisione di procedere con
gli attacchi nucleari. Il rifiuto di Suzuki venne considerato la prova che i giapponesi non erano
seriamente intenzionati a cercare la pace, anche se sembra piú probabile che la Dichiarazione
fosse stata ritenuta a Tokyo come la semplice reiterazione di una richiesta di resa incondizionata,
cosa ben chiara a entrambe le parti e che sembrava non richiedere risposte. Dall’elenco delle città
annotate da Henry Arnold, capo di stato maggiore delle forze aeree dell’esercito – Hiroshima,
Kokura, Niigata, Nagasaki, Kyoto –, fu scelta la prima . Il 6 agosto un bombardiere B-29,
435

l’Enola Gay, decollò dall’isola di Tinian nelle Marianne e sganciò la prima bomba,
soprannominata con pessimo gusto dagli americani Little Boy (Ragazzino). Alle 8.15 l’ordigno
esplose a circa 550 metri dal suolo, liquefacendo ogni forma di vita umana nel raggio di 1,5
chilometri dall’epicentro dell’esplosione, bruciando vivi quelli che si trovavano entro 5
chilometri e poi, allorché seguí l’onda d’urto, strappando la pelle e distruggendo gli organi
interni di coloro che erano sopravvissuti al lampo iniziale. L’equipaggio del bombardiere osservò
l’enorme palla di fuoco e il fungo atomico durante il rientro alla base. «Potessi campare
cent’anni», scrisse nel suo diario il copilota Robert Lewis, «non riuscirò mai a togliermi dalla
mente quei pochi minuti» .436

Tre giorni dopo, il Consiglio supremo di guerra si riuní per una giornata di discussioni su come
sarebbe dovuta finire la guerra. L’ipotesi condivisa dai leader occidentali, e sostenuta molte volte
dopo il 1945 nella storiografia della resa giapponese, vedeva nell’attacco nucleare il fattore
decisivo che avrebbe spinto i giapponesi a capitolare. Il modello di causa ed effetto sembra del
tutto plausibile, eppure maschera una realtà giapponese ben piú complessa. Nel contesto di
un’offensiva con bombardamenti convenzionali, l’impatto avuto dalla bomba sul terreno di
Hiroshima non sembrava molto diverso dalle conseguenze dei devastanti attacchi con bombe
incendiarie, che avevano già ridotto in cenere quasi il 60 per cento delle aree urbane del
Giappone e ucciso oltre 260 000 civili. Durante la riunione, il Consiglio doveva inoltre
considerare l’invasione sovietica della Manciuria. L’8 agosto, il ministro degli Esteri sovietico
aveva informato l’ambasciatore giapponese a Mosca che il giorno successivo i due paesi
sarebbero stati in guerra. Suzuki lo interpretò come un evento decisivo, in quanto poneva fine a
ogni speranza di mediazione del Cremlino e presentava il rischio di un’invasione sovietica della
Corea o dell’arcipelago nipponico . La mattina del 9 agosto, il Consiglio supremo di guerra si
437

riuní e ne seguí una lunga discussione. La metà del Consiglio composta da militari voleva
continuare la lotta, a meno che gli Alleati non abbandonassero i piani di occupazione,
consentissero ai giapponesi di deporre le armi, punire i propri criminali di guerra e mantenere
intatto il sistema imperiale. L’altra metà, insieme con il ministro degli Esteri Tōgō Shigenori, era
propensa ad accettare la Dichiarazione di Potsdam purché potesse essere mantenuto il sistema
imperiale, quindi «una sola condizione» contro le «quattro condizioni» richieste dall’esercito . 438

Nessuno dei presenti era favorevole alla resa incondizionata, neppure dopo l’arrivo della notizia
che una seconda bomba, questa volta un ordigno al plutonio soprannominato Fat Man
(Grassone), era stata sganciata su Nagasaki quella mattina stessa (anziché sull’obiettivo previsto
di Kokura, oscurato dalle nuvole). La situazione di stallo fu risolta solo alla fine del giorno 9,
quando Hirohito, sotto le pressioni di Suzuki e Kido, accettò di convocare una Conferenza
imperiale a tarda notte. Hiranuma Kiichirō, presidente del Sūmitsu-in (Consiglio privato),
dichiarò all’incontro che la situazione interna del paese era prossima al punto di crisi: «Il
proseguimento della guerra creerà disordini interni maggiori della fine della guerra». Hirohito
era stato avvertito da settimane che il sentimento popolare contro la guerra e contro la sua stessa
persona era alimentato dai bombardamenti e da una diffusa crisi alimentare, e questo doveva
certamente pesare sull’imperatore quanto la bomba atomica e l’invasione sovietica . Quando 439

nelle prime ore del giorno 10 Suzuki chiese infine a Hirohito di intervenire, l’imperatore
annunciò di aver deciso di accettare la Dichiarazione di Potsdam, purché fosse mantenuto in vita
il sistema imperiale. Il giorno seguente, gli Alleati furono formalmente informati
dell’accettazione condizionata dei loro termini.
La risposta americana fu ambigua, poiché Truman e Byrnes erano sottoposti a Washington a forti
pressioni affinché fosse accolta la richiesta giapponese, al fine di prevenire ulteriori spargimenti
di sangue. La nota confermava che l’imperatore e il governo giapponese sarebbero stati soggetti
all’autorità del comandante supremo alleato in Giappone secondo i termini della resa
incondizionata, ma non specificava se il sistema imperiale sarebbe stato sospeso o abolito. Il 14
agosto, fu convocata una seconda Conferenza imperiale, durante la quale Hirohito, a dispetto
delle obiezioni dell’esercito, insistette affinché la versione americana fosse accettata. Tutti i capi
militari erano ora vincolati dalla decisione imperiale. Lo stesso giorno, Hirohito registrò un
rescritto imperiale da trasmettere la mattina seguente. Nel corso della giornata, gli Alleati furono
informati, tramite intermediari svizzeri, della decisione del tennō (imperatore). Un annuncio
radiofonico avvertí la popolazione giapponese di attendere un’importante trasmissione a
mezzogiorno del giorno 15. Durante la mattinata, la gente si radunò ovunque potesse essere
installata una radio; la stragrande maggioranza dei giapponesi non aveva mai udito la voce
dell’imperatore. Quando finalmente ebbe inizio la Gyokuon-hōsō, la «Trasmissione della voce
del gioiello», le parole erano difficili da capire, non solo perché Hirohito parlava un giapponese
arcaico e ricercato, ma anche a causa della cattiva qualità della registrazione. Il tennō, come ebbe
a osservare un ascoltatore, parlava con «parole acute, poco chiare e tremolanti», eppure, anche se
le parole erano difficili da comprendere, «il tono cupo rendeva chiaro che ci stava informando
della sconfitta» .
440

Hirohito non pronunciò la parola «resa», ma disse solamente che avrebbe accettato la
Dichiarazione di Potsdam e «sopportato l’insopportabile» insieme con il suo popolo. Il motivo
per cui compí il passo senza precedenti di intervenire direttamente per mettere fine alle
argomentazioni politiche del governo e annunciare di persona la decisione di arrendersi
incondizionatamente sarebbe rimasto aperto a congetture, ma sembra che vi siano poche ragioni
per favorire una spiegazione rispetto a un’altra. L’imperatore temeva i bombardamenti (sia
nucleari sia convenzionali), capiva che il Giappone aveva subito sul campo una sconfitta totale,
non voleva un’occupazione sovietica e vedeva che stava scoppiando una grave crisi sociale. Egli
era altresí il prodotto del suo passato imperiale, che gli storici occidentali sono stati troppo restii
a prendere alla lettera. A luglio, per esempio, aveva espresso il suo personale timore che le
insegne imperiali (specchio, spada e gioiello), tramandate nei secoli per proteggere il kokutai e la
famiglia imperiale, potessero facilmente cadere nelle mani degli invasori. Nel suo «monologo»
successivo alla resa tornò a ripetere che se gli Alleati si fossero impadroniti delle sacre insegne,
questo avrebbe significato la fine del Giappone storico: «Ho deciso che, anche se dovessi
sacrificarmi in tale evoluzione, dobbiamo fare la pace» . 441

Quello fu l’inizio di un processo di resa, non la resa in sé. Il 15 agosto, venne istituito come
misura provvisoria una sorta di «governo Badoglio» guidato dallo zio di Hirohito, principe
Higashikuni. Il giorno 17, si tentò di convincere gli americani ad accettare un’occupazione
militare limitata ad alcuni punti specifici, ma la richiesta fu respinta. La maggior parte del vasto
impero era ancora nelle mani dei giapponesi, a differenza di quanto accaduto dopo la sconfitta
tedesca, e i membri della famiglia imperiale furono inviati a ovest e a sud per ordinare ai
comandanti locali di arrendersi con le loro truppe. A Saigon, Singapore e Nanchino ebbero luogo
cerimonie di resa separate. Le forze nel Pacifico si arresero all’ammiraglio Nimitz; le truppe in
Corea, a sud del 38° parallelo, nelle Filippine e in Giappone al generale MacArthur. A
Singapore, i giapponesi si arresero al South East Command di Mountbatten . Il 9 settembre, a
442

Nanchino, il comandante in capo delle forze giapponesi in Cina, generale Okamura Yasuji,
consegnò le sue forze nella Cina continentale, a Taiwan e nel Vietnam settentrionale al
rappresentante di Chiang Kai-shek, il generale He Yingqin; ignorando gli accordi alleati, le
armate comuniste di Mao Zedong organizzarono la resa dell’invasore nipponico nella Cina nord-
occidentale mentre combattevano per sequestrare armi e rifornimenti giapponesi . Le prime
443

forze di occupazione americane arrivarono in Giappone il 28 agosto, mentre il comandante in


capo, il generale MacArthur, arrivò due giorni dopo. La resa fu ufficialmente firmata il 2
settembre dal ministro degli Esteri Shigemitsu Mamoru nel porto di Tokyo, a bordo della
corazzata americana Missouri. Anche se Stalin aveva sperato di partecipare all’occupazione
militare del Giappone inviando l’Armata Rossa nella metà settentrionale di Hokkaido, Truman
aveva respinto bruscamente la sua richiesta. L’Unione Sovietica proseguí invece la guerra lungo
una propria traiettoria e l’Armata Rossa continuò ad avanzare, anche dopo la trasmissione
radiofonica dell’imperatore, nel resto della Manciuria e infine in Corea. L’esercito giapponese in
Manciuria firmò infine un armistizio il 19 agosto, ma la battaglia per le isole a sud di Sachalin
proseguí fino al 25 agosto, mentre Stalin ordinava contemporaneamente alle forze sovietiche di
occupare le Curili, comprese le isole meridionali che, secondo gli accordi di Jalta, dovevano
rientrare nella Zona di occupazione americana. Tali conquiste furono completate solo il 1°
settembre, il giorno prima della cerimonia della resa; i diversi cessate il fuoco vennero
concordati indipendentemente dai momenti di resa già in atto piú a sud .444

Le rese incondizionate posero fine a tutte le guerre combattute in Europa e in Asia orientale e ai
progetti imperiali con cui erano iniziate, anche se la conclusione del conflitto mondiale si rivelò
meno chiara di quanto poteva suggerire il semplice aggettivo «incondizionata». In Germania e in
Giappone, la resa portò con sé un’ondata di suicidi tra coloro che temevano una rappresaglia, o
che si vergognavano della sconfitta globale dell’impero-nazione oppure non riuscivano a far
fronte all’estremo tumulto emotivo e psicologico provocato dal fallimento degli sforzi per
costruire il nuovo ordine, o infine tra coloro che credevano alla propaganda sulla barbara
violenza che sarebbe stata inflitta dal nemico. Quello di Hitler fu uno delle migliaia di suicidi
avvenuti durante l’ultimo periodo di combattimenti e nelle settimane che seguirono, incluso
quello dell’ammiraglio Hans-Georg von Friedeburg, che ebbe la disgrazia di presenziare a tutte e
tre le rese tedesche e alla fine si sparò quando i membri del governo Dönitz furono arrestati. Ben
otto Gauleiter si suicidarono, insieme con sette alti ufficiali delle SS, 53 generali, 14 comandanti
dell’aviazione e 11 ammiragli. Josef Terboven, Reichskommissar in Norvegia, si fece saltare in
aria l’8 maggio con 50 chili di dinamite . Tra i fedelissimi del partito e delle SS, i suicidi
445

divennero comuni nei mesi immediatamente precedenti e successivi alla resa; tra i maggiori
criminali di guerra incriminati a Norimberga, Hans Frank tentò il suicidio, mentre riuscirono
invece nel loro intento Robert Ley e Hermann Göring. Himmler evitò il processo inghiottendo
cianuro quando fu identificato e catturato. Una reazione analoga seguí la resa in tutto il Giappone
e negli avamposti imperiali, dove la cosa onorevole che restava da fare dopo la sconfitta era
commettere il gyokusai (glorioso autoannientamento) o il seppuku (suicidio rituale). A Okinawa,
il primo territorio giapponese conquistato dalle forze americane, venne ordinato alla popolazione
del luogo e ai soldati di suicidarsi in massa piuttosto che cadere nelle mani del nemico. Ad alcuni
civili furono date delle granate, altri usarono rasoi, attrezzi agricoli o bastoni. Un giovane di
Okinawa ricordò in seguito di aver lapidato sua madre e i suoi fratelli piú piccoli . Il suicidio si
446

diffuse altrettanto tra i membri dell’élite giapponese. Nove generali e ammiragli si tolsero la vita
subito dopo la resa, tra cui il ministro della guerra Anami Korechika e il suo predecessore,
generale Sugiyama Hajime, che si sparò il giorno prima che sua moglie, tutta vestita di bianco,
commettesse il suicidio rituale; Tōjō tentò di fare seppuku, ma fallí e fu processato nel 1946 . 447

Per milioni di altri, da entrambe le parti, la resa fu un sollievo dalle richieste onnicomprensive di
una guerra totale, ma le molte discussioni tra gli Alleati riguardo alla resa e le sue conseguenze
anticipavano l’imminente guerra fredda, mentre le crisi irrisolte generate dall’imperialismo in
Europa, Medio Oriente, Africa e Asia preconizzavano altri anni di violenza e conflitti politici.
Capitolo quarto
La mobilitazione per una guerra totale
Nel 1941 avevo 16 anni. Ero piccola e magra […] Lavoravo a una macchina che produceva cartucce per fucili automatici.
Quando non riuscivo ad arrivare alla macchina, mi mettevano in piedi su una scatola. […] La giornata lavorativa era di 12 ore
o anche piú. E siamo andati avanti cosí per quattro anni. Senza giorni di riposo o ferie.
Elizaveta Kočergina, Čeljabinsk1.
La mobilitazione delle risorse per affrontare una guerra globale poteva richiedere sforzi
eccezionali, come nel caso della giovane operaia sovietica che abbiamo citato. Nella città di
Čeljabinsk, nel cuore piú profondo della Russia sovietica, i decreti sul lavoro obbligavano donne
con figli, giovani e vecchi a lavorare senza sosta alla produzione di munizioni. Quando un’altra
giovane donna, Vera Šejna, che saldava le alette ai vettori dei razzi, venne mandata a casa dopo
che il metallo incandescente le aveva gravemente ustionato le gambe, il sorvegliante si recò a
casa sua, la trascinò di nuovo al lavoro con le gambe fasciate e la costrinse a continuare il lavoro
di saldatura . Durante la guerra, l’Unione Sovietica imponeva il massimo sforzo alla sua
2

popolazione, esigendo livelli di resistenza che nessun lavoratore occidentale avrebbe tollerato.
L’esperienza della mobilitazione, tanto nelle strutture militari quanto nell’industria bellica e
nell’agricoltura, variava ampiamente da uno stato belligerante all’altro, ma era determinata
ovunque dalla convinzione quasi universale che in una guerra totale la sopravvivenza nazionale
dipendeva dal massimo impiego delle risorse umane e materiali della nazione. Il contrario
significava una probabile sconfitta. A Čeljabinsk, gli errori di produzione erano considerati
tradimento e puniti di conseguenza.
La visione della Seconda guerra mondiale come una guerra di mobilitazione di massa è divenuta
un luogo comune, ma pone molte domande. La portata dell’impegno bellico non aveva
precedenti e partiva dall’esperienza della Grande Guerra, durante la quale la mobilitazione di
massa era emersa solo gradualmente quale inevitabile necessità strategica. Nel corso dei conflitti
avvenuti dagli anni Trenta al 1945, le maggiori potenze fecero indossare l’uniforme a piú di 90
milioni di esseri umani, uomini e donne; a livello mondiale, il loro numero superò sicuramente i
120 milioni. La mobilitazione delle risorse economiche fu altrettanto colossale. La quota di
reddito nazionale dilapidata per combattere la guerra variava tra i principali stati belligeranti, ma
perfino le cifre piú basse indicano uno straordinario cambiamento di priorità. In Giappone, la
guerra assorbí nel 1944 il 76 per cento dell’intero reddito nazionale; in Germania, nello stesso
anno, piú del 70 per cento – picchi eccezionali che tradivano uno sforzo disperato per
scongiurare la disfatta. Tra le potenze alleate, la quota massima variava: da quasi due terzi del
reddito nazionale in Unione Sovietica al 55 per cento in Gran Bretagna e al 45 per cento negli
Stati Uniti ricchi di risorse. L’eccezione era costituita dall’Italia fascista, che destinò alla guerra
non piú di un quinto del prodotto nazionale – un dato che rifletteva sia la riluttanza di Mussolini
a disperdere l’appoggio popolare imponendo con la mobilitazione un fardello troppo pesante sia
le conseguenze di una debilitante carenza di risorse . L’impegno del fronte interno per la guerra
3

significava che la maggior parte dei lavoratori dell’industria produceva qualcosa per lo sforzo
bellico, da armi e uniformi a carta e barattoli per le mense militari. A parte la fornitura dei generi
alimentari di base, l’intera produzione civile era classificata come inessenziale e poteva essere
fermata. Una mobilitazione di tale portata fu un fenomeno unico nella storia e può essere
compreso solo ricordando il contesto piú ampio in cui essa si realizzò.
La mobilitazione di massa fu un’espressione della modernità. Solo gli stati moderni con una
consistente base industriale e commerciale, una forza lavoro numerosa e tecnicamente
qualificata, una struttura scientifica sviluppata e l’accesso a risorse e finanziamenti adeguati
potevano impegnarsi in una guerra su larga scala e fornire armi ed equipaggiamento adatti a
sostenerla. Si rendeva necessaria una moderna struttura burocratica statale, in grado di sviluppare
pratiche amministrative e studi statistici che coinvolgevano ogni membro della società. Ancora
negli anni Trenta, lo stato aveva appena iniziato a comprendere la composizione e le dimensioni
dell’economia aggregata, ma la capacità di costruire un’immagine statistica della forza lavoro e
della produzione industriale era essenziale per qualsiasi pianificazione macroeconomica della
manodopera e per l’allocazione delle risorse tra le forze armate e l’industria bellica. La
rivoluzione statistica dei primi decenni del secolo rese possibile tutto questo allorché gli stati
svilupparono complessi sistemi di rendicontazione e registrazione di un’intera serie di dati sociali
ed economici. Al centro della mobilitazione dell’economia vi era un’estesa produzione di massa
di armi e materiale militare, ma ciò era divenuto possibile, ancora una volta, solo grazie alle
rivoluzioni produttive e gestionali dei primi anni del secolo, che avevano completamente
trasformato la natura della produzione manifatturiera e della sua distribuzione. La guerra
industrializzata dipendeva da un insieme di armamenti moderni, facilmente riproducibili e
relativamente economici, affinché fosse possibile sostenere grandi forze sul campo e rifornirle
adeguatamente negli anni di guerra – un fenomeno oggi al di là delle capacità degli stati a causa
dei costi crescenti e della complessità tecnica delle armi attuali. La guerra moderna richiedeva
altresí un livello di istruzione sufficiente tra le reclute e i lavoratori, poiché la manipolazione e la
produzione di armi diventavano sempre piú sofisticate e la guerra sempre piú burocratizzata. In
Giappone, per esempio, nel 1900 il 30 per cento delle reclute dell’esercito era analfabeta o
semianalfabeta; vent’anni dopo, grazie all’ampliamento dell’istruzione primaria, tale percentuale
divenne trascurabile . La gamma di armi utilizzate nelle due guerre mondiali – aerei, radio,
4

veicoli di ogni tipo, artiglieria ad alte prestazioni – richiedeva un numero consistente di


manodopera qualificata sia nelle forze armate sia nell’industria, e anche questo era possibile solo
in un contesto sociale caratterizzato da un’avanzata formazione tecnica e una precisa divisione
del lavoro. Gli stati privi di ogni segno distintivo della modernità, come la Cina nazionalista,
potevano sostenere la guerra solo grazie agli aiuti esterni e non erano in grado, nonostante le
grandi dimensioni del paese, di giungere alla vittoria. Una generazione prima, nessuno degli stati
belligeranti avrebbe potuto combattere guerre mondiali della medesima portata.
Questi elementi di modernità spiegano perché la mobilitazione fu possibile, ma non perché essa
avvenne. La volontà dei governi di realizzare una mobilitazione quasi illimitata, e quella dei
popoli di sottomettersi a essa, era stata plasmata dalla nascita del nazionalismo moderno e dalla
diversa percezione del concetto di cittadinanza. La nazione moderna era un’entità
eccezionalmente potente per concretizzare una mobilitazione, senza contare che la competizione
tra nazioni, vuoi economica, imperiale o militare, era ormai considerata come una conseguenza
inevitabile della lotta nazionale per l’esistenza. Era diffusa l’idea che il paradigma darwiniano
della lotta per la sopravvivenza in natura fosse applicabile con pari dignità alla competizione tra
popoli, imperi e nazioni . Durante entrambe le guerre mondiali, una delle forze motrici che
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sostenne i conflitti, per quanto irrazionale possa apparire oggi, fu la paura di un’estinzione
nazionale e del crollo dell’impero. Dal momento che in entrambi i conflitti si erano rivelati inutili
gli sforzi per trovare una pace negoziata, regimi e popoli presumevano che la sconfitta sarebbe
stata totale, a meno che non si mobilitassero completamente tutte le risorse della nazione. Al
tempo stesso, l’avvento della nazione moderna o dell’impero-nazione aveva introdotto una
diversa visione della cittadinanza. Una delle responsabilità di chi apparteneva a una nazione era
servire per difenderla, e un lungo periodo di servizio militare obbligatorio, ampiamente
introdotto dagli ultimi decenni del XIX secolo (tranne che in Gran Bretagna e Stati Uniti),
rappresentava un modo per costruire un’identità tra popolo e nazione e preparare la società a una
mobilitazione su grande scala.
La Grande Guerra era stata uno spartiacque nell’evoluzione della mobilitazione di massa. Anche
se nessuna delle nazioni coinvolte prevedeva che il conflitto si sarebbe trasformato in una guerra
di logoramento e sopravvivenza nazionale, le battaglie potevano essere sostenute solo con grandi
aumenti incrementali della forza lavoro militare e attraverso lo sfruttamento organizzato
dell’industria e dell’agricoltura per rifornire di armi, nutrire le forze armate e sostenere
l’impegno popolare in patria. L’esperienza del tempo di guerra cementò l’idea che la vittoria, in
una guerra moderna, industrializzata e «totale», dipendeva da una mobilitazione illimitata delle
risorse nazionali e che la responsabilità di condurre una tale guerra investiva l’intera comunità
nazionale, uomini e donne, non solo le semplici forze armate. Questo valeva in modo particolare
per la Germania, i cui capi militari davano per scontato che la sconfitta del 1918 rappresentava
un fallimento della mobilitazione nazionale. Il generale Erich Ludendorff, a cui si deve
l’espressione der totale Krieg «la guerra totale», coniata nelle memorie scritte nel primo
dopoguerra, sosteneva che in futuro le nazioni avrebbero dovuto essere pronte a mettere «le loro
forze mentali, morali, fisiche e materiali al servizio della guerra» . Venti anni dopo, in un
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incontro con i suoi generali nel maggio del 1939, Adolf Hitler spiegò che, se si fosse verificata
una guerra importante, non avrebbero dovuto aspettarsi una rapida vittoria come aveva sperato
l’esercito tedesco nel 1914: «Ogni stato resisterà il piú a lungo possibile […] diviene quindi
essenziale l’uso illimitato di tutte le risorse. […] L’idea di cavarsela a buon mercato è pericolosa,
giacché non esiste tale possibilità» . Un mese dopo, il Reichsverteidungsrat (Consiglio di difesa
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del Reich), presieduto da Hermann Göring, comandante in capo dell’Aviazione tedesca, iniziò a
pianificare la propria attività partendo dal fatto che, se fosse nuovamente esplosa una guerra
generale tra le grandi potenze, avrebbe dovuto essere mobilitata l’intera popolazione abile di
43,5 milioni di uomini e donne, di cui non meno di sette milioni nelle forze armate, il resto nella
produzione di cibo, attrezzature e armi per lo sforzo bellico .
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Tale visione della guerra non apparteneva soltanto alla Germania. Anche le potenze che avevano
vinto nel 1918 ritenevano che fosse stato il massimo sforzo nazionale (e imperiale) a portarle alla
vittoria. Il maresciallo Pétain, eroe di Verdun, incitava i connazionali a rendersi conto che la
guerra moderna «richiedeva la mobilitazione di tutte le risorse di un paese» . In una conferenza
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sul tema The Doctrine of Total War (La dottrina della guerra totale), lo stratega britannico Cyril
Falls definí quella nuova concezione come «la devozione di ogni settore della nazione e di ogni
fase della sua attività all’obiettivo di una guerra» . Negli anni tra i due conflitti mondiali, il
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carattere «democratico» delle future guerre tra le grandi potenze era ampiamente ritenuto
inevitabile. Di conseguenza, era venuta a erodersi quella barriera tra i militari e i civili sul fronte
interno che esisteva nel 1914; i lavoratori dell’industria, dell’agricoltura e dei trasporti potevano
essere tutti considerati come parte integrante dello sforzo bellico, uomini e donne. E nel
momento in cui una popolazione civile diveniva un elemento delle future guerre tanto quanto le
forze armate, non poteva piú aspettarsi di essere immune dall’azione del nemico. Nel 1936 un
anziano aviatore britannico spiegò al pubblico riunito al Naval Staff College che il «potere della
democrazia» aveva reso la popolazione del nemico un legittimo obiettivo di possibili attacchi;
«non è piú possibile», concluse, «tracciare una linea di separazione tra combattente e non
combattente» . Negli anni Trenta, anche gli aviatori americani avevano fatto propria una visione
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della guerra in cui «l’obiettivo ultimo di tutte le operazioni militari è distruggere la volontà delle
persone nelle loro case […] delle masse di civili, della gente nelle strade» . 12

Quella che oggi è conosciuta come la «civilizzazione» della guerra ha le sue radici nella Grande
Guerra, ma fu accresciuta dall’esperienza dei conflitti interni in Russia nel 1918-21, in Cina negli
anni Venti e in Spagna tra il 1936 e il 1939, in ciascuno dei quali i civili erano stati combattenti
oltre che vittime. Negli anni Trenta, la militarizzazione della società in tempo di pace era stata un
riflesso della diffusa convinzione che un conflitto avrebbe probabilmente coinvolto l’intera
comunità e che quest’ultima si aspettava di non poterne restare immune. In Unione Sovietica,
Germania, Italia e Giappone la struttura politica e ideologica dominante si basava sulla
partecipazione della comunità alla difesa della nazione. Ci si aspettava che i cittadini sovietici
difendessero lo stato rivoluzionario al fianco delle forze armate, e ogni anno alle coorti del
Komsomol (Unione dei giovani comunisti), a cui aderivano sia maschi sia femmine, veniva
impartita una rudimentale formazione paramilitare; nella Germania nazista, la Volksgemeinschaft
– la comunità nazionale basata sull’identità razziale – era chiamata nel suo insieme a lottare per
l’esistenza futura della nazione. Il Giappone, dal canto suo, negli anni Trenta stava già
combattendo una guerra totale contro la Cina – un impegno espresso attraverso il Kokka Sōdōin
Hō, la Legge sulla mobilitazione generale dello stato emanata nel 1938. I cittadini giapponesi
organizzarono nelle comunità locali migliaia di associazioni che dovevano incoraggiare il pieno
sostegno all’imperialismo nipponico e cementare l’identità del popolo con lo sforzo dell’esercito
nazionale . Il governo cinese seguí alla fine l’esempio giapponese con una Legge sulla
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mobilitazione generale dello stato, promulgata nel marzo del 1942 «al fine di concentrare e
utilizzare tutte le forze umane e materiali del paese», nonché conferire al regime poteri
straordinari su qualsiasi aspetto della vita militare, economica e sociale .14

Anche in Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti, seppure con bassi livelli di militarizzazione delle
masse (nonostante una forte cultura militare dovuta all’esperienza della Grande Guerra), un
futuro conflitto era immaginato come una «guerra totale», non solo perché avrebbe imposto
l’utilizzo di «tutte le risorse della nazione», come scriveva un militare britannico, ma anche a
causa dell’«illimitata posta in gioco» . In America esistevano fin dai primi anni Trenta dei piani
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per una vasta mobilitazione di guerra industriale; alla fine dello stesso decennio, il governo
britannico e quello francese avevano pianificato, in caso di guerra, di riprendere la mobilitazione
di massa economica e militare abbandonata al termine della Grande Guerra. Il concetto di
«guerra totale» divenne cosí una sorta di profezia destinata ad autorealizzarsi, un cliché
contagioso, come la «guerra al terrore» o la «guerra cibernetica» del XXI secolo. Di conseguenza,
nessuno stato né forza armata pensava di poter rischiare di evitare la mobilitazione di tutte le
energie sociali, materiali e psicologiche della nazione al fine di perseguire la vittoria in una
guerra moderna. Perfino gli Stati Uniti, che mobilitarono le proprie risorse in modo meno
rigoroso rispetto alle altre potenze in guerra, e i cui civili non furono toccati dalla realtà fisica del
conflitto, usavano il linguaggio della guerra totale per definire lo sforzo bellico americano. In un
discorso del luglio 1942, il segretario di Stato Cordell Hull disse al suo uditorio che la guerra in
corso era «una lotta all’ultimo sangue per la conservazione della nostra libertà, delle nostre case,
della nostra stessa esistenza» . In questo caso, come in ogni stato in guerra, la mobilitazione per
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la guerra totale rappresentava una complessa interazione tra le esistenti strutture della modernità,
la natura percepita di una moderna guerra tra i popoli e la volontà dei popoli stessi di identificare
i loro interessi con la piú ampia preoccupazione per la sopravvivenza della nazione o
dell’impero.
La mobilitazione militare.
Nella Seconda guerra mondiale, la mobilitazione del personale militare fu la massima priorità di
tutti gli stati belligeranti, seppure condizionata da un certo numero di fattori che andavano al di
là dell’ovvia realtà delle dimensioni della popolazione o della natura delle campagne in corso. In
primo luogo, la guerra moderna richiedeva grandi strutture gestionali, burocratiche, di servizi e
formazione che rispecchiavano la società in tempo di pace e assorbivano milioni di persone in
uniforme. Nella guerra del Pacifico vi erano diciotto americani in uniforme tra uomini e donne
per ogni soldato effettivamente in combattimento . In secondo luogo, le perdite sul campo
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imponevano ulteriori reclutamenti. Le perdite potevano essere il risultato di grandi battaglie con
un alto tasso di morti e feriti in combattimento, oppure perdite di soldati caduti prigionieri o di
disertori. L’elevato tasso di perdite spiega i ritmi estremamente sostenuti della mobilitazione in
Unione Sovietica, Germania e Giappone, che insieme mobilitarono sessanta milioni di persone in
servizio attivo. Perdite relativamente piú basse spiegano perché Stati Uniti e Gran Bretagna
poterono fare affidamento sulle prime ondate di reclutamento senza dover ricorrere a livelli di
emergenza di coscrizione di massa. In Unione Sovietica furono mobilitati 34,5 milioni di
cittadini, pari a circa il 17,4 per cento della popolazione del periodo prebellico (o il 25 per cento
della popolazione rimasta dopo la conquista tedesca dei territori sovietici occidentali); in
Germania, incluse le regioni annesse tra il 1938 e il 1940, furono mobilitati in totale 17,2 milioni
di cittadini, circa il 18 per cento della popolazione del periodo prebellico. In Gran Bretagna
(esclusi però i dominion e le colonie dell’impero) il numero delle persone mobilitate fu di 5,3
milioni, negli Stati Uniti di 16,1 milioni – rispettivamente il 10,8 e l’11,3 per cento della
popolazione d’anteguerra.
La mobilitazione militare fu altresí condizionata dalla competizione tra manodopera militare e
civile. Nella Prima guerra mondiale, la prima ondata di reclutamento aveva coinvolto un gran
numero di lavoratori qualificati e professionisti come ingegneri e scienziati, lasciando
l’economia di guerra a corto di un indispensabile personale specializzato. Nel secondo conflitto,
al contrario, si rese subito chiaro che le richieste di natura militare dovevano essere bilanciate
con le esigenze dell’industria e dell’agricoltura. Gli uomini impiegati in occupazioni strategiche
potevano essere esentati dal reclutamento. Nel 1941, in Germania, circa 4,8 milioni di lavoratori
furono esentati dalla leva, in particolare gli operai metalmeccanici specializzati; in Gran
Bretagna, i lavoratori esentati furono circa sei milioni, perlopiú specializzati nei settori
dell’ingegneria, costruzione navale e impianti chimici, oltre a 300 000 agricoltori . Gli uffici di
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leva degli Stati Uniti ebbero maggiori difficoltà, data la scarsa preparazione nel caso di una
grande guerra. Nel programma iniziale di registrazione anagrafica furono esentati milioni di
cittadini, non solo per motivi professionali, ma anche per impegni familiari, analfabetismo o
disturbi psichiatrici, perfino per problemi di dentizione. Le autorità federali compilarono alla fine
un elenco di 3000 occupazioni strategiche, che nel 1944 escludevano dalle forze armate almeno
cinque milioni di giovani . Solo in Unione Sovietica l’esenzione avveniva piú raramente, a causa
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delle eccezionali perdite subite dal personale militare; metà della forza lavoro maschile adulta
finí a un certo punto nelle forze armate. La produzione nazionale dipendeva molto dalle giovani
donne come Elizaveta Kočergina, che sostituivano le reclute partite per il fronte .
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Riuscire a valutare la quantità necessaria di manodopera militare era una vera impresa, su cui
influivano sia le aspettative in merito al futuro del conflitto sia la capacità dell’esercito di
assorbire un gran numero di reclute o riservisti. Nella maggior parte degli stati principali si
presumeva che si sarebbe rivelata necessaria la mobilitazione di massa della Grande Guerra, per
cui nelle prime fasi del conflitto la Germania e la Francia mobilitarono le riserve in base
all’esperienza del 1914. I riservisti richiamati dall’esercito erano di solito gruppi di cittadini di
età piú avanzata. L’età media degli 1,6 milioni di soldati francesi fatti prigionieri di guerra nel
1940 era di trentacinque anni. Nella prima fase del conflitto sino-giapponese, l’esercito
nipponico richiamò un milione di riservisti; nel maggio del 1938, in Cina, quasi la metà
dell’esercito era composta da uomini di età compresa tra i ventinove e i trentaquattro anni.
L’iniziale riluttanza del Giappone a reclutare gli uomini piú giovani venne abbandonata solo
negli ultimi due anni di guerra, quando furono finalmente mobilitati i diciannovenni e i
ventenni . Anche se il governo cinese di Chiang Kai-shek aveva dichiarato abili al servizio
21

militare tutti gli uomini tra i diciotto e i quarantacinque anni (fatta eccezione per i figli unici e i
disabili), furono effettivamente arruolati da una popolazione in sé molto numerosa solamente
circa 14 milioni di persone, essendo divenuto chiaro che il reclutamento universale andava al di
là delle capacità del regime di renderlo effettivo. Dopo una prima ondata di patrioti volontari
negli anni iniziali della guerra, cominciò a diffondersi la renitenza alla leva. I ricchi potevano
comprare ai figli l’esenzione dall’arruolamento, mentre altri venivano arruolati come mercenari
anziché come reclute. Nelle province in cui non si riusciva a soddisfare le quote annuali i
reclutatori dell’esercito giravano per i villaggi radunando i giovani contadini sotto la minaccia
delle armi. Legati insieme e costretti a lunghe marce forzate per raggiungere i campi di
addestramento, le reclute cinesi erano sottoposte a un brutale regime demoralizzante che ne
riduceva il valore come soldati fin da subito. Si stima che circa 1,4 milioni di giovani morirono
di malattia, fame e persino maltrattamenti prima ancora di raggiungere la loro unità in prima
linea .
22

Negli Stati Uniti, che non avevano una riserva significativa di veterani, ebbe inizio nell’autunno
del 1941 il Victory Program, basato sul presupposto che le forze armate potessero arruolare e
addestrare un numero di reclute in grado di uguagliare la coscrizione di massa del nemico. La
forza prevista per l’esercito di terra contava 215 divisioni con nove milioni di uomini, sebbene i
pianificatori dell’esercito avessero immaginato anche uno scenario da incubo nel caso in cui
l’Unione Sovietica non fosse riuscita a sopravvivere all’invasione nazista, con un esercito
americano formato in quel caso da 25 milioni di uomini organizzati in 800 divisioni . Grazie alla
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resistenza sovietica, alla fine furono create solo novanta divisioni allargate, a cui si sarebbero
unite verso la fine della guerra altre unità provenienti dall’America Latina e pronte ad aiutare gli
Stati Uniti qualora questo avesse poi comportato un ruolo nell’ordine mondiale del dopoguerra.
Il Messico dichiarò guerra agli stati dell’Asse nel maggio del 1942; il Brasile sei mesi dopo. Nel
1945, un gruppo di aviatori messicani, lo Squadrone 201 delle Águilas Aztecas, combatté nelle
Filippine; una divisione di truppe brasiliane e un distaccamento dell’aviazione brasiliana
giunsero in Italia nel luglio del 1944, nonostante le obiezioni britanniche, e a settembre si
unirono ai combattimenti fino alla sconfitta tedesca otto mesi piú tardi .24

Dopo le prime fasi della mobilitazione, le potenze belligeranti aumentarono in modo


incrementale le dimensioni delle forze armate, man mano che la guerra si espandeva e
aumentavano le perdite. Le statistiche sulle dimensioni delle forze militari durante la guerra sono
riportate nella tabella 4.1.
Tabella 4.1. Totale delle forze armate delle maggiori potenze, 1939-45 (.000)25.
Queste cifre replicavano, e poi superarono, la portata della mobilitazione durante la Prima guerra
mondiale. Nel 1945, nelle fasi finali del conflitto in Europa e in Asia, le maggiori potenze
mondiali avevano 43 milioni di uomini e donne in uniforme, con una netta trasformazione del
consueto paesaggio sociale. I dati includevano anche le forze armate polacche, che nel 1939-40,
e poi nel 1942, quando Stalin permise ai prigionieri di guerra polacchi di unirsi agli Alleati nel
Nordafrica, continuarono a combattere sotto il comando alleato. Nel maggio del 1940 l’esercito
polacco ricostituito contava 67 000 uomini; esisteva inoltre una piccola flotta da guerra polacca,
che sventolava la bandiera della Rzeczpospolita, e vi erano aviatori polacchi nella Royal Air
Force. Nell’aprile del 1944, 50 000 polacchi combattevano in Italia nelle file degli Alleati .
26

Questi dati grezzi possono dare un’idea delle dimensioni della mobilitazione di massa, ma non
chiariscono la natura delle società militari prodotte dall’arruolamento di massa. Le forze armate
non erano una massa. Seppure trattate spesso come un elemento del tutto distinto dalla vita civile
a causa dell’uniforme, esse rispecchiavano in realtà gli ambiti sociali in cui era avvenuto il
reclutamento. Si trattava di organizzazioni sociali la cui complessità rifletteva le svariate forme
di manodopera militare rese necessarie dalla guerra moderna. Molte di tali forme non erano cosí
dissimili da quelle della vita civile e si differenziavano semplicemente perché uomini e donne
indossavano un’uniforme. Il legame con la vita civile era amplificato dal fatto che la maggior
parte di coloro che erano soggetti al servizio militare erano volontari civili o giovani di leva. Le
numerose perdite tra i soldati regolari nelle prime fasi del conflitto contribuirono ad accrescere la
dipendenza dell’esercito dalle piú ampie fasce di popolazione, che portarono con sé nelle forze
armate una serie di competenze e pratiche acquisite in tempo di pace. I servizi ausiliari e di
supporto erano enormi e coinvolgevano nella maggior parte dei casi gli uomini piú anziani o i
soldati che erano stati feriti, insieme con le donne volontarie. Quelli che vedevano effettivamente
il combattimento erano sempre una frazione. Il resto della società militare era composto da
impiegati, magazzinieri, operai, ingegneri, personale logistico, addetti ai servizi radio e
segnalazione, organizzazioni di intelligence, addetti alla manutenzione, archivisti e addetti alla
documentazione, medici, veterinari, personale occupato nella preparazione dei cibi e
nell’approvvigionamento alimentare, impiegati addetti alle paghe e cosí via. Questa estrema
varietà di occupazioni spiega la portata della mobilitazione. Nel 1943, l’esercito tedesco aveva
due milioni di uomini in prima linea, mentre altri otto milioni svolgevano compiti di carattere
militare. Nel dicembre del 1943, l’esercito degli Stati Uniti contava 7,5 milioni di arruolati, dei
quali solo 2,8 milioni assegnati a unità di combattimento – di cui una percentuale significativa
era impiegata in ruoli di supporto e non partecipava agli scontri. L’VIII Air Force americana, di
stanza in Gran Bretagna alla fine del 1943, aveva circa 25 000 membri di equipaggi di volo, ma
ben 283 000 uomini impiegati in qualcuna delle tante mansioni non coinvolte direttamente nei
combattimenti. Una tipica divisione della fanteria britannica contava 15 500 uomini, di cui solo
6750 erano combattenti in prima linea . Rapporti del genere risultavano molto meno marcati in
27

Giappone e in Unione Sovietica, paesi afflitti da una disperata carenza di manodopera al fronte,
anche se l’establishment militare si affidava a milioni di non combattenti per un’efficace
organizzazione degli scontri armati.
Come nella società civile, i militari avevano bisogno di competenze o di conoscenze
specialistiche per trasmettere in tempi rapidi quelle stesse competenze attraverso
l’addestramento. Le procedure di selezione erano generalmente orientate alla ricerca di reclute
con una solida preparazione e un’istruzione superiore, da assegnare ai settori tecnicamente piú
complessi. L’aviazione americana aveva reclutato due quinti di coloro che avevano ottenuto il
punteggio piú alto nelle prove standardizzate dell’Army General Classification Test. In Canada,
le forze aeree arruolarono appena 90 000 uomini su 600 000 volontari, ricorrendo a uno speciale
Visual Link Trainer, un programma progettato da medici e psicologi esperti e in grado di
individuare i potenziali equipaggi di volo . Il reclutamento britannico conobbe inizialmente una
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gestione alquanto imperfetta, con un gran numero di uomini qualificati a cui furono affidati ruoli
che non sfruttavano adeguatamente le loro capacità. I test psicologici vennero lentamente
introdotti nel 1940, fino a quando venne istituito nel 1941 il Directorate for Selection of
Personnel, modellato sul National Institute of Industrial Psychology che operava in tempo di
pace. Il nuovo sistema si basava su test attitudinali in grado di garantire che le competenze
acquisite nella vita civile fossero adeguatamente ripartite tra gli svariati settori militari . I sistemi
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erano di certo lontani dalla perfezione e riflettevano una prevalente realtà di classe: le reclute
poco qualificate, spesso con scarsi risultati scolastici, finivano quasi universalmente in fanteria.
A volte, l’addestramento doveva essere estremamente elementare: in Italia, per esempio, migliaia
di giovani analfabeti provenienti dalle campagne non sapevano distinguere la destra dalla
sinistra, per cui dovevano portare una fascia colorata avvolta intorno a un braccio per riuscire a
ricordare la differenza . Tutti i coscritti ricevevano un addestramento di base, anche se sarebbero
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stati impiegati successivamente in un servizio o settore ausiliario. A causa dell’enorme


mobilitazione, le strutture di addestramento dovevano essere realizzate in modo da soddisfare la
grande richiesta di manodopera. La RAF, per esempio, si basava sul British Commonwealth Air
Training Plan, un piano concordato con il governo canadese nel dicembre del 1939, grazie al
quale vennero formati alla fine 131 000 equipaggi di volo provenienti da 97 scuole di
addestramento canadesi . Allorché nel 1942 gli Stati Uniti iniziarono a reclutare grandi numeri di
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militari, si rese indispensabile un sistema di addestramento di emergenza da crearsi in 242 siti


diversi; i posti per la formazione degli ufficiali passarono da 14 000 nel 1941 a 90 000 un anno
dopo. L’addestramento venne altresí esteso a una parte degli 1,6 milioni di analfabeti individuati
dall’ufficio di reclutamento e destinati a imparare a leggere e scrivere oltre a seguire il normale
addestramento di tipo militare . Il piú straordinario programma di formazione fu creato in
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Unione Sovietica con il decreto del 17 settembre 1941 sulla Vseobščaja voinskaja podgotovka
graždan CCCP (Preparazione militare generale dei cittadini dell’Urss), in base al quale tutti gli
uomini non ancora nelle forze armate dovevano frequentare dopo il lavoro 110 ore di corsi di
formazione per imparare a maneggiare fucili, mortai, mitragliatrici e granate e costruire una
trincea .
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La seconda variabile che influenzò la portata della mobilitazione fu l’impatto cumulativo delle
perdite sul campo, aspetto sotto cui divenne evidente una netta differenza tra le democrazie
occidentali e le dittature. In Gran Bretagna e negli Stati Uniti vi era il diffuso desiderio di evitare
le perdite debilitanti causate dall’immobilismo della guerra di trincea tipico della Grande Guerra.
Si insisteva maggiormente sulla strategia aerea e navale, e anche se le perdite di manodopera
altamente qualificata potevano essere considerevoli (il 41 per cento degli equipaggi del Bomber
Command della RAF), l’impatto complessivo sull’organico era piú contenuto. In effetti, entrambi
gli stati si trovarono impegnati in combattimenti di terra su larga scala solo dal 1944 in poi. Alla
fine di quell’anno, le perdite totali americane su tutti i fronti (tra morti, dispersi e prigionieri di
guerra) ammontavano a 168 000 uomini, meno di quelle subite sul fronte orientale in una singola
battaglia . L’elevato numero di caduti durante gli ultimi mesi dell’attacco in Europa e nel
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Pacifico portò a 292 000 il totale dei morti in combattimento (con ulteriori 114 000 deceduti per
malattia o ferite) . Nei sei anni di conflitto i soldati britannici che persero la vita furono 270 000.
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Tale andamento delle perdite negli anni di guerra permise alla Gran Bretagna di allentare
costantemente i ritmi di arruolamento: nel 1941 furono reclutati tre milioni di uomini, nel 1942
solo 547 000, altri 347 000 nel 1943 e 254 000 nel 1944 . L’allentamento causò alla fine una
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crisi di manodopera nella seconda metà del 1944, quando le perdite erano al loro livello piú alto
e ci si aspettava che i comandanti cercassero di mantenere basso il numero dei caduti . Una lunga
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sopravvivenza tra le forze armate aveva l’effetto di accrescere l’intraprendenza di soldati e


aviatori, anche se tra i veterani si riscontravano fenomeni di grave esaurimento a causa dei
ripetuti combattimenti. Era risaputo che gli equipaggi di volo alle prime armi erano molto piú a
rischio nella guerra di bombardamento, cosí come la decisione degli americani di procedere a
graduali sostituzioni nei corpi impegnati nei combattimenti di terra esponeva i soldati «novellini»
a pericoli molto maggiori. I livelli relativamente modesti delle perdite subite di anno in anno
fecero sí che il popolo britannico e quello americano non furono esposti quanto i loro alleati o
nemici alla medesima richiesta categorica di forza lavoro militare, anche se in entrambi gli stati
perfino questi livelli piú modesti di reclutamento creavano comunque apprensioni sulla costante
possibilità di reperire nuove reclute.
Le grandi battaglie di logoramento della Seconda guerra mondiale furono combattute sul fronte
orientale. Senza quei livelli catastrofici di perdite, lo sforzo bellico della Germania avrebbe avuto
maggiore slancio e l’Occidente avrebbe affrontato una guerra ben piú pericolosa per la
democrazia. Le perdite irreparabili subite complessivamente dall’Unione Sovietica ammontarono
a un totale di 11,4 milioni di uomini, di cui 6,9 milioni morti in combattimento, per malattia o
altri incidenti e 4,5 milioni prigionieri di guerra o dispersi. Inoltre, 22 milioni di militari sovietici
subirono ferite o soffrirono di congelamento e varie patologie. Se si aggiungono alle vittime
sovietiche i feriti e i malati, l’Armata Rossa perse 11,8 milioni di soldati solo nei primi diciotto
mesi delle ostilità. Le perdite irreparabili delle forze armate tedesche, impegnate su tre diversi
teatri di guerra, salirono a 5,3 milioni, inclusi 4,3 milioni di morti in combattimento o dispersi e
548 000 morti per malattia, infortunio o suicidio. Il tasso delle perdite sovietiche subí un
decremento man mano che la guerra procedeva ma rimase comunque di grave entità; le perdite
tedesche aumentarono progressivamente, fino a raggiungere 1,2 milioni di morti nelle battaglie
finali del 1945 . Tranne 36 000 uomini, i caduti dell’Unione Sovietica perirono tutti nella guerra
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con la Germania (il resto nella conquista della Manciuria nell’agosto del 1945). Le stime piú
accurate indicano che il 75 per cento di tutte le perdite tedesche si registrò sul fronte orientale. La
tabella 4.2 riporta le statistiche dei combattenti morti anno per anno.
Tabella 4.2. Statistiche comparative dei morti tra i militari tedeschi e sovietici, 1939-45 39.
Perdite di tale portata costrinsero entrambi gli stati a reclutare uomini anziani o gruppi di fasce
d’età piú giovani e a reinserire rapidamente i feriti sui campi di combattimento. In Germania,
quasi il 50 per cento di coloro che prestavano servizio nelle forze armate era nato prima del
1914, il 7 per cento dopo il 1925 . Dopo un decreto del novembre 1943, il governo del Reich
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cominciò a rastrellare il «surplus» di manodopera dagli uffici dell’esercito e dai servizi di


retroguardia, ma, anziché il milione di combattenti che aveva sperato di radunare, riuscí a
mandare in prima linea appena 400 000 uomini . In Unione Sovietica, l’età avanzata non era
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considerata un ostacolo al servizio militare, non piú della giovane età o di una disabilità. I feriti
venivano riportati al fronte, spesso ancora in condizioni inadatte, anche se pochi probabilmente
uguagliarono il leggendario maresciallo Rokossovskij, che, ferito quarantasei volte, avrebbe
diretto le operazioni durante l’assedio di Stalingrado da un letto d’ospedale. Mentre l’esercito
russo avanzava nel 1943-1944, disperatamente a corto di truppe di fanteria, vennero reclutati tutti
gli uomini rimasti nei territori occupati dai tedeschi, che ricevettero un’uniforme e un
rudimentale addestramento militare. L’Armata Rossa si vide costretta al reclutamento piú
indiscriminato, mascherando la conseguente carenza di competenze e condizioni fisiche adatte
con una massiccia produzione di armi, che spostò il rapporto tra capitale e forza lavoro delle
forze sovietiche decisamente a favore dell’equipaggiamento. Tale sviluppo fu comune alla gran
parte degli eserciti impegnati nella guerra, con quantità sempre maggiori di armamenti di qualità
superiore disponibili per le nuove ondate di reclute. La forza lavoro militare soffrí
inevitabilmente delle pressioni esercitate sul sistema di addestramento e dello sforzo per
mobilitare reclute sempre meno preparate o adatte al combattimento. Sotto questo aspetto, la
mobilitazione di massa poneva dei limiti evidenti alle prestazioni militari quanto piú a lungo
durava la guerra.
Si trattava, comunque, di una guerra imperiale. Alle eccezionali richieste di forza lavoro
nazionale potevano rispondere quegli stati belligeranti che erano altresí degli imperi, di antica o
nuova formazione. Essi erano in grado di mobilitare le popolazioni sotto il loro controllo,
perlopiú come truppe ausiliarie o di servizio ma, con il procedere della guerra, anche come unità
da combattimento. L’esercito giapponese iniziò a reclutare volontari coreani e taiwanesi nel 1937
e introdusse la leva obbligatoria dal 1942 in avanti. Circa 200 000 coreani prestavano servizio
nelle forze di terra nipponiche, altri 20 000 nella flotta. Piú di 100 000 erano integrati nelle unità
dell’esercito, benché solo un numero esiguo avesse accesso ai gradi di ufficiale . L’esercito 42

italiano impiegava un gran numero di askari, cioè truppe coloniali dell’Africa orientale, oltre a
forze a cavallo libiche. Il nuovo impero tedesco in Europa era una fonte di intenso reclutamento.
Migliaia di cittadini si unirono alla Wehrmacht, alle Waffen-SS e alle forze di sicurezza come
volontari pronti a combattere quella che veniva presentata come la minaccia bolscevica per
l’Europa: 60 000 estoni, 100 000 lettoni, 38 000 belgi, 14 000 spagnoli, 12 000 tra norvegesi e
danesi, oltre a 135 svizzeri e 39 svedesi . Tale fonte di forza lavoro militare non sempre si
43

rivelava utile. La Légion des volontaires français contre le bolchévisme, i cui membri erano stati
reclutati nel 1941 tra l’estrema destra francese, arrivò in Russia in tempo per l’attacco a Mosca
nel 1941, ma si rivelò militarmente un disastro. Malamente guidata da ufficiali incompetenti e
corrotti, a corto anche delle risorse piú elementari e dopo aver ricevuto un addestramento breve e
rudimentale, la legione venne decimata nei suoi primi giorni di combattimento e non tornò mai
piú in prima linea . Dai territori sovietici conquistati allo sforzo bellico tedesco si unirono piú di
44

250 000 uomini come combattenti, reclutati principalmente tra le popolazioni ostili al
comunismo della Russia meridionale e dell’Ucraina, mentre un milione di russi lavorava per
l’esercito tedesco dietro le linee come Hilfswillige (ausiliari volontari), a cui erano affidate
svariate mansioni come non combattenti oppure nelle forze di sicurezza. Uno dei transfughi
sovietici passati ai tedeschi, il generale Andrej Vlasov, catturato da un’unità olandese di Waffen-
SS, intendeva formare un esercito di liberazione russo per combattere a fianco dei tedeschi, ma la
sua armata non si concretizzò mai come una forza di qualche reale utilità. Alla fine, le due
divisioni di Vlasov, frettolosamente formate nel gennaio del 1945, entrarono in azione a Praga
negli ultimi giorni della guerra, ma solo per rivolgere le armi contro gli alleati tedeschi in modo
da proteggere i fratelli slavi dall’ultima furia delle Waffen-SS locali .
45

Di tutte le potenze imperiali, la Gran Bretagna era di gran lunga il paese che piú beneficiava
della forza lavoro dell’impero. In effetti, gran parte della guerra del Regno Unito, in particolare
quella per la diretta difesa dell’impero, non fu combattuta da britannici, un fatto che ancora oggi
viene ignorato con molta facilità nelle narrazioni britanniche del conflitto. I quattro dominion –
Canada, Australia, Nuova Zelanda e Sudafrica – mobilitarono complessivamente 2,6 milioni di
soldati tra uomini e donne; l’India circa 2,7 milioni. Nel 1945, la Gran Bretagna aveva ancora 4,6
milioni di uomini in divisa; l’India e i dominion 3,2 milioni . La Nuova Zelanda registrò il piú
46

alto tasso di mobilitazione di qualsiasi altra regione dell’impero, arruolando il 67 per cento degli
uomini di età compresa tra i diciotto e i quarantacinque anni. In Canada, prestò servizio militare
piú di un milione di uomini, vale a dire il 41 per cento di quelli di età compresa tra i diciotto e i
quarantacinque anni. Le reclute dei dominion formavano una percentuale significativa degli
equipaggi di volo impegnati nell’offensiva aerea strategica condotta contro la Germania dal
Bomber Command della RAF, soprattutto i canadesi, che volavano con i loro squadroni al fianco
degli equipaggi britannici. I dominion contarono altri 96 822 morti in combattimento per la
bandiera britannica, l’India ebbe 87 000 caduti. Nel corso della guerra, il maggiore contingente
di volontari venne formato proprio nel subcontinente. La maggior parte dei volontari indiani
prestava servizio militare in patria, mantenendo la sicurezza interna e affrontando la minaccia
giapponese, anche se numerose divisioni combatterono nelle campagne del Sud-est asiatico, nel
Medio Oriente e infine in Italia. Nel 1943 vi erano sei divisioni d’oltremare, venti divisioni e
quattordici brigate in patria. Nei primi anni, gli indiani mobilitati per la guerra patirono una
carenza di equipaggiamento, ma i volontari non mancavano di certo. All’inizio, le autorità
britanniche preferirono reclutare uomini tra le «etnie bellicose», principalmente nel Punjab
(abitato da musulmani e sikh), nella Provincia della frontiera nord-occidentale e nel Nepal. Tra la
popolazione dei sikh, circa il 94 per cento di tutti i maschi abili al servizio militare si offrí
volontario nell’esercito indiano. Quando però iniziò a venir meno il flusso di reclute dalle etnie
bellicose, il reclutamento si diffuse piú a sud, dove raggiunse un picco nel 1942, anno in cui le
etnie piú portate alla guerra costituivano solo il 46 per cento delle forze armate indiane. Dal
momento che gli inglesi diffidavano maggiormente degli indiani urbanizzati e istruiti, i quattro
quinti dell’esercito provenivano dai villaggi rurali ed erano quasi tutti soldati analfabeti .
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L’importanza del contributo offerto dai dominion e dall’India può essere valutata in base alla
quota di forze non britanniche usate in quelle che erano essenzialmente delle campagne
imperiali. Nel 1941, l’VIII Armata britannica in Nordafrica era costituita per un quarto da inglesi
e per tre quarti da forze provenienti dai territori dell’impero. Nel 1945, quattro quinti delle truppe
sotto il South East Asia Command erano costituiti da unità indiane e africane . Le divisioni
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africane rappresentavano la parte restante dell’impero coloniale, che forní alle forze armate
britanniche piú di mezzo milione di volontari e reclute. I King’s East African Rifles, un corpo che
risaliva al 1902, fornirono alla fine 323 000 soldati; la Royal West African Frontier Force,
fondata nel 1900, ne inviò altri 242 600. I territori meridionali dell’African High Commission –
Bechuanaland (Botswana), Swaziland e Basutoland (Lesotho) – fornirono 36 000 soldati. Alla
fine della guerra, le colonie africane avevano inviato alle forze armate britanniche un totale
complessivo di 663 000 uomini, tra lavoratori e soldati di colore . La maggior parte non conobbe
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i veri combattimenti, mentre le divisioni che si trovavano in prima linea proteggevano


sostanzialmente l’impero dalle possibili minacce: i King’s East African Rifles in Etiopia,
Madagascar e Birmania; la West African Force dapprima in Etiopia e poi in Birmania; le truppe
del Bechuanaland in Medio Oriente. Le colonie dei Caraibi radunarono circa 12 000 volontari, la
maggior parte dei quali prestò servizio come non combattenti. Nel 1944 venne formato un
Caribbean Regiment che fu inviato in Italia, anche se alla fine non fu coinvolto in
combattimenti .50

Anche se il reclutamento coloniale britannico si era basato inizialmente su quanti si presentavano


come volontari, secondo una lunga tradizione imperiale, l’urgente necessità di reclute locali per i
piú svariati ruoli ausiliari incoraggiò il passaggio a strategie di reclutamento che di volontario
avevano ben poco. Nell’Africa occidentale, per esempio, erano i capi del posto, usati come
intermediari dagli inglesi, a fissare le quote di uomini da rastrellare nei villaggi; agli indigeni su
cui pendeva la condanna di un tribunale poteva essere offerto un incarico nell’esercito al posto
della prigione; a volte i lavoratori erano caricati su camion con qualche pretesto e portati
direttamente al campo militare del luogo; nello Swaziland, l’arruolamento avveniva anche con la
forza. La carenza di reclute da utilizzarsi in una guerra lontana, il cui scopo era compreso solo
vagamente, condusse all’introduzione della coscrizione coloniale, che si rivelò estremamente
impopolare. Nei disordini scoppiati nella città di Winneba, sulla Costa d’Oro (ora Ghana),
morirono sei manifestanti. Le autorità coloniali preferivano prendere gli uomini dai villaggi piú
remoti, tra popoli considerati ancora una volta come etnie bellicose: come ebbe a dire un
ufficiale bianco: «Piú il loro viso è nero, migliore è il soldato che ne viene fuori». Di preferenza
si sceglievano quelli che avevano avuto pochi contatti con il mondo moderno, con il risultato che
il 90 per cento delle reclute africane era formato da soldati analfabeti .
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Un piccolo numero di volontari neri, alcuni dei quali già residenti in Gran Bretagna, espresse il
desiderio di potersi unire alle forze armate britanniche regolari. Fino all’ottobre 1939 era
prevalsa la regola in base alla quale solamente i sudditi di discendenza britannica o europea
potevano prestare servizio nell’esercito britannico. La regola era stata ribaltata nell’autunno di
quell’anno in seguito a una campagna di opinione condotta dalla League of Coloured Peoples,
con sede in Gran Bretagna e guidata dal medico di colore Harold Moody. Il servizio attivo,
tuttavia, rimase generalmente ostile alla presenza dei neri, fatta eccezione per la RAF, che
reclutò circa 6000 neri dei Caraibi allo scopo di aumentare il personale di terra delle basi aeree
britanniche e alla fine permise a circa 300 volontari di colore di fare parte degli equipaggi di
volo . A un numero ristretto di reclute nere fu riconosciuto lo status di «ufficiale di emergenza»,
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anche se dovettero affrontare la sfida di un pregiudizio razziale persistente seppure non
generalizzato («Prima non ero mai stato chiamato darkie [“negretto”]», ricorderà in seguito un
ufficiale di colore). Alla fine della guerra, il governo britannico cercò di rimpatriare tutti i
volontari neri che ancora si trovavano in Gran Bretagna, ma la protesta popolare, ancora una
volta, permise a molti di loro di rimanere nella madrepatria che avevano scelto di difendere.
Negli Stati Uniti, la razza era una questione imbarazzante per le forze armate, costituite perlopiú
da bianchi. Reclute di colore avevano prestato servizio nella Prima guerra mondiale,
principalmente come operai dell’esercito e ausiliari. Negli anni tra le due guerre, le unità da
combattimento erano immancabilmente bianche. La rapida espansione delle forze armate
americane dal 1941 in poi sollevò la questione se al 10 per cento degli americani formato da neri
si dovesse permettere di portare armi. Roosevelt insistette affinché la marina e l’esercito
accettassero reclute di colore, anche se fu concordato che il loro numero non avrebbe dovuto
superare la percentuale di afroamericani presenti nella popolazione; sia la flotta sia l’esercito, in
ogni caso, conservarono il diritto di tenere separate le reclute bianche e nere nei campi di
addestramento, nelle strutture di servizio e nelle unità militari . Le reclute nere provenienti dagli
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Stati del Nord, dove la segregazione era da tempo scomparsa, furono costrette ad accettare
nuovamente la discriminazione razziale. Stranamente, l’esercito credeva che i bianchi del Sud
fossero gli ufficiali migliori per le unità di colore perché avevano piú familiarità con le comunità
nere. Tale linea politica provocò ampio risentimento nonché occasionali proteste violente tra le
reclute non piú abituate alla segregazione . Questa situazione conflittuale si replicò tra le truppe
54

distaccate oltreoceano, dove soldati e ufficiali bianchi cercarono di mantenere forme di apartheid
militare. Nel luglio del 1944, nel porto inglese di Bristol esplose una vera e propria sommossa tra
militari americani neri e bianchi, con la morte di un soldato di colore e dozzine di feriti.
Il programma di reclutamento tra i neri ebbe risultati misti. Al pari delle reclute coloniali
britanniche, la maggior parte dei neri americani non fu inserita nelle unità di combattimento. La
grande maggioranza dei 696 000 uomini arruolati nell’esercito si trovò a svolgere mansioni di
servizio e manodopera. Nessuno dei corpi delle forze armate raggiunse il 10 per cento di neri
concordato con Roosevelt . L’esercito sosteneva che le reclute di colore riportavano risultati
55

insoddisfacenti nelle prove del General Classification Test (nel 1943 circa la metà non riuscí a
superarlo del tutto), il che spiegava il loro status subordinato. Soltanto l’1,9 per cento del corpo
ufficiali dell’esercito era nero, e meno ancora nella marina degli Stati Uniti, dove le reclute nere
costituivano solo il 6 per cento del personale. Nell’aprile del 1942, la flotta aveva acconsentito
con riluttanza ad ammettere reclute di colore, a condizione che non prestassero servizio in mare
ma solo nelle installazioni portuali e costiere. Nella primavera del 1943, il 71 per cento del
personale nero era impiegato tra gli steward (nel cosiddetto Stewards Branch) ed era al servizio
degli ufficiali bianchi . Anche l’aviazione americana reclutò pochi aviatori neri per operazioni di
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combattimento; alla fine del 1944, solo l’1 per cento dei 138 000 neri presenti nell’aeronautica
includeva membri degli equipaggi di volo . Le reclute di colore ammesse alle operazioni di volo
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erano addestrate nella base di Tuskegee in Alabama, dove erano presenti solo neri, ma poche di
loro ebbero l’effettiva possibilità di volare in combattimento, fatta eccezione per i quattro
squadroni di piloti da caccia denominati Tuskegee airmen e inviati sul fronte italiano nel 1943-
44, dove rimasero sotto costante osservazione dei loro superiori bianchi, desiderosi di vedere se
le loro prestazioni confermavano i pregiudizi razziali esistenti. Quando sbarcarono a Boston al
loro ritorno a casa nel 1945, erano state approntate passerelle separate per gli aviatori bianchi e
quelli di colore, che solo poche settimane prima avevano combattuto fianco a fianco.
L’esperienza dei Tuskegee airmen dimostrò fino a che punto il pregiudizio bianco riuscí a
ostacolare il pieno utilizzo della popolazione nera dell’America . Al contrario, l’atteggiamento
58

dell’esercito verso i nippo-americani internati nei campi all’inizio delle ostilità per ordine della
Casa Bianca era quello di offrire loro la possibilità di dimostrare la propria lealtà verso gli Stati
Uniti offrendosi come volontari. Circa 22 500 nippo-americani, uomini e donne, si fecero avanti
e 18 000 di loro furono organizzati in unità militari segregate che svolsero il servizio militare in
Europa, compreso il 422° Reggimento, che divenne l’unità piú decorata dell’esercito americano . 59

Lo stesso amalgama di pregiudizi e convenienza riguardò il reclutamento delle donne nelle forze
armate. Neppure questo era un fenomeno nuovo. Il servizio femminile era stato introdotto negli
ultimi anni della Prima guerra mondiale per far fronte all’emergenza della mancanza di
manodopera ma si era interrotto negli anni di pace. La guerra totale, tuttavia, era ben lungi dal
coinvolgere soltanto un genere ben specifico. La democratizzazione del conflitto incluse anche le
donne, sia nel mondo del lavoro o nella difesa civile, sia, in modo piú limitato, nel personale
militare. Non vi erano grandi problemi nel reclutare le donne per svolgere lavori di urgenza
bellica o allestire strutture contro i raid aerei, dato che molte donne condividevano
evidentemente l’idea che nella guerra moderna le responsabilità dovessero essere condivise da
tutta la comunità. Le donne esercitavano altresí pressioni per poter unirsi allo sforzo militare,
riflettendo ancora una volta l’idea del conflitto come una «guerra di popolo» piuttosto che una
guerra condotta solo da uomini. L’atteggiamento maschile verso il reclutamento femminile nelle
forze armate era piú ambivalente. Fatta eccezione per l’Unione Sovietica, nessuno degli altri
principali stati belligeranti consentiva alle donne di portare armi. Molte delle mansioni in cui le
donne sostituivano gli uomini nelle strutture militari erano quelle comunemente appartenenti alla
forza lavoro femminile nella vita civile – stenografe, impiegate, postine, cuoche, operatrici di
centralino, bibliotecarie, dietiste, infermiere . Di norma, la maggiore vicinanza delle donne alle
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operazioni militari vere e proprie la si doveva al loro ruolo di addette ai radar, operatrici radio,
conduttrici di veicoli a motore o impiegate degli uffici di intelligence, ma, tranne che in Unione
Sovietica, si trovavano di solito lontane dal fronte.
Fu solo quando il fronte interno divenne la prima linea, come accadde con la guerra di
bombardamento, che le donne conobbero l’azione. In Gran Bretagna, Germania e Unione
Sovietica le donne operavano alle batterie della contraerea, anche se solo nel caso sovietico
erano autorizzate a sparare in assenza di uomini. In Gran Bretagna, i regolamenti dell’esercito
furono modificati nell’aprile del 1941 per consentire alle donne dell’Auxiliary Territorial Service
di operare nei siti della contraerea; nel 1943 si registrò un picco di 57 000 donne impiegate come
operatrici radar, osservatrici, rilevatrici di altezza e addette alle cellule fotoelettriche. Nonostante
la resistenza degli equipaggi maschili della contraerea, le unità miste divennero la norma. Agli
uomini spettava il pesante lavoro di caricare le batterie e sparare. In base al Royal Warrant
emesso nel 1938, le donne non erano autorizzate a portare armi e quelle impiegate nei servizi di
guardia della contraerea potevano portare solo manici d’ascia e fischietti. La partecipazione delle
donne era segnata da tratti spiccatamente e deliberatamente femminili: percepivano solo due terzi
della paga dei colleghi maschi, avevano pause piú lunghe dal lavoro e godevano di una
sistemazione piú comoda rispetto alle consuete tende in cui vivevano gli uomini. Una certa
«dieta femminile», meno ricca di carne, pane e pancetta e piú di latte, uova, frutta e verdure, fu
presto abbandonata quando si vide che le donne continuavano ad avere fame . Le ausiliarie
61

dell’aviazione tedesca manovravano i proiettori, lavoravano alle apparecchiature radio e alla rete
telefonica della Kammhuberlinie, la rete delle difese contraeree del Reich, estesa lungo tutto il
confine settentrionale della Germania. Nel 1944, l’aviazione tedesca impiegò piú di 130 000
donne, alcune delle quali operavano anche alle mitragliatrici. Nel marzo del 1945, l’Oberste
Heeresleitung, il comando supremo tedesco, autorizzò le ausiliarie a portare pistole e il
lanciagranate anticarro portatile denominato Panzerfaust .62

Si è cristallizzato in modo persistente il mito secondo cui le donne tedesche non partecipavano
allo sforzo bellico perché l’ideologia nazionalsocialista definiva il ruolo della donna come madre
e angelo del focolare. Tale ideologia, in realtà, non fu mai cosí inflessibile. Le donne, in
particolare quelle giovani o nubili, erano chiamate a svolgere la loro parte insieme con gli uomini
di cui condividevano l’identità razziale. Le forze armate reclutarono circa mezzo milione di
donne in veste di Wehrmachtelferinnen (aiutanti delle forze armate) che sostituivano gli uomini
nei settori delle comunicazioni, lavori di ufficio, amministrazione e strutture assistenziali. Altre
migliaia di donne lavoravano in abiti civili come segretarie e personale d’ufficio . All’incirca lo
63

stesso numero di donne venne reclutato nelle forze armate britanniche e statunitensi. Dopo lo
scoppio della Seconda guerra mondiale, i tre corpi armati della Gran Bretagna riportarono in vita
le unità femminili della Grande Guerra. La Women’s Royal Naval Reserve (della marina
militare), l’Auxiliary Territorial Service (appartenente all’esercito) e la Women’s Auxiliary Air
Force passarono rapidamente da un totale di 49 000 donne nel giugno 1940 a 447 000 nel giugno
1944; tre quarti di loro erano volontarie, nonostante l’introduzione della leva femminile in base
al National Service Act (2) del dicembre 1941; piú della metà aveva meno di ventidue anni . 64

Anche i dominion reclutarono donne. In Canada, una Division of Volunteer Services fu istituita
nel 1941 per sovrintendere all’occupazione femminile in ambiti di volontariato. A differenza dei
servizi femminili britannici, dove le donne rimanevano delle ausiliarie, le forze canadesi le
integrarono del tutto nel personale militare, con la nomina delle prime donne al grado di ufficiale
nel 1942 . Anche in Canada – come in ogni altro paese occidentale impegnato nello sforzo
65

bellico – l’elemento maschile si distingueva per l’esclusione delle donne dal combattimento e per
la consuetudine generale secondo cui le donne ufficiali non potevano dare ordini ai combattenti
di sesso maschile.
Negli Stati Uniti, il reclutamento delle donne incontrò dapprima pregiudizi piú consolidati, anche
se alla fine la pressante necessità di manodopera forzò la mano ai vari corpi armati. Circa 400
000 donne prestarono servizio nei diversi rami delle forze armate, di cui 63 000 nel Women’s
Army Auxiliary Corps (che dal 1943 divenne semplicemente Women’s Army Corps). Il corpo
ausiliario femminile era stato formato solo grazie a una legge del maggio 1942, presentata al
Congresso dalla rappresentante repubblicana Edith Rogers. Ne era seguita una lunga discussione
contro l’arruolamento delle donne condotta essenzialmente da uomini timorosi che la presenza
femminile avrebbe causato il declino morale delle forze armate . L’esercito e l’aviazione
66

insistevano sul fatto che la partecipazione delle donne sarebbe stata «con» quel particolare corpo
delle forze armate anziché «in» quel corpo, fino a quando non furono obbligati a concedere la
piena integrazione dalla normativa approvata dal Congresso nel luglio del 1943 – un secondo
Rogers Bill . La modifica portò a un sistema semplificato di arruolamento e favorí un flusso di
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nuove volontarie. Le forze aeree, tuttavia, continuarono a escludere le donne dell’Auxiliary Air
Corps dal servizio di allerta dell’aviazione e della contraerea americana . All’inizio della guerra
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la marina degli Stati Uniti si dimostrò riluttante a impiegare le donne in qualsiasi settore, ma la
carenza di uomini da destinarsi a ruoli ausiliari produsse alla fine un corpo femminile
caratterizzato dalla denominazione deliberatamente prolissa Women Accepted for Volunteer
Emergency Service (Donne accettate per il servizio di emergenza volontario) e indicato poi con
l’acronimo WAVES. Il nuovo corpo femminile nacque nell’agosto del 1942. A differenza
dell’esercito, le autorità della flotta decisero che le donne dovevano essere pienamente integrate
nel servizio «in» marina anziché «con» la marina, anche se obbedivano a un corpo separato di
ufficiali donne . Alla fine della guerra, circa 80 000 donne del WAVES si erano diplomate alle
69

scuole di addestramento navale. Le volontarie di pelle nera accettate nei servizi americani erano
poche e rimasero di stanza negli Stati Uniti fino al 1945, quando un’unità nera del Women’s
Army Corps, il 6888th Central Postal Directory Battalion, comandato da una delle sole due
donne di colore con il grado di alto ufficiale, fu inviata in Gran Bretagna per mettere ordine in
una montagna di posta inevasa . Resta aperta la questione se le mansioni svolte dalle donne non
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potessero essere affidate almeno in parte a uomini. Sia in Gran Bretagna sia negli Stati Uniti le
donne esercitavano notevoli pressioni affinché fossero autorizzate a prestare la loro opera anche
al di là dell’attività di tipo assistenziale e infermieristico di solito loro assegnata; inoltre, visto
che le democrazie consideravano la guerra come un impegno genuinamente condiviso,
l’inclusione delle donne veniva ad avere un ruolo ben preciso nel cementare la solidarietà
nazionale in nome dello sforzo bellico, dimostrando che tutti i cittadini, uomini e donne, avevano
una responsabilità comune.
Tra i compiti piú pericolosi per i quali le donne si offrivano volontarie nei paesi democratici vi
era il trasbordo di velivoli su tratte interne dalla fabbrica alla base aerea, o tra i vari centri di
addestramento, come anche le esercitazioni di tiro in volo. L’Air Transport Auxiliary, istituito in
Gran Bretagna nel gennaio del 1940, reclutava uomini e donne con la necessaria qualifica. Un
totale di 166 donne prestava servizio come piloti ausiliari e 15 persero la vita, tra cui Amy
Johnson, l’aviatrice piú famosa della Gran Bretagna . Un’altra celebre donna pilota, l’americana
71

Jacqueline Cochran, si offrí volontaria per lavorare con le ausiliarie britanniche e in seguito
rientrò negli Stati Uniti per fondare il Women’s Flying Training Detachment nel settembre del
1942, nonostante l’iniziale riluttanza del comandante in capo delle forze aeree Henry Arnold.
Nel 1943, il distaccamento si fuse con uno dei Women’s Auxiliary Ferrying Squadron, sotto il
comando della Cochran, per formare le Women Airforce Service Pilots (WASP, Donne pilota
dell’aeronautica militare). In America, le donne pilota erano piú numerose che in ogni altro
paese, con ben 25 000 volontarie per l’addestramento, anche se alla fine furono selezionate solo
1074 donne pilota qualificate, di cui 39 rimasero uccise in azione. Come alla loro controparte
britannica, era loro rifiutato l’effettivo status militare ed erano soggette a meschini pregiudizi
maschili contro la loro inclusione in quello che i piloti consideravano un ambiente
esclusivamente maschile. In alcuni campi di addestramento, alle donne venivano dati per le
esercitazioni di tiro i velivoli piú vecchi o peggio equipaggiati; in altre basi aeree le donne erano
bandite del tutto. Nessuna candidata nera, nonostante le molte volontarie, fu ammessa nelle
WASP. Alla fine del 1944, l’intero programma fu brutalmente interrotto, grazie a un crescente
surplus di piloti maschi addestrati e a una potente lobby che faceva pressioni contro la presunta
minaccia che le donne rappresentavano per l’occupazione maschile. Alla fine della guerra, le
donne pilota avevano effettuato 12 652 missioni di trasbordo di velivoli con 78 diversi tipi di
aerei, inclusa la superfortezza gigante B-29, su cui i piloti maschi erano riluttanti a volare a causa
di iniziali problemi tecnici. Nel 1977, dopo una lunga lotta per il riconoscimento, il Congresso
approvò finalmente una legge che riconosceva alle donne lo status di veterane di guerra . 72

L’Unione Sovietica non ebbe esitazioni riguardo all’arruolamento delle donne. La terribile
emorragia di uomini nel primo anno di guerra aveva reso indispensabile il reclutamento
femminile. Durante il conflitto, circa 850 000 donne prestarono servizio nelle forze armate: 550
000 come effettivi dell’Armata Rossa e dell’aviazione e 300 000 in unità della contraerea e sul
fronte interno. Si stima che 25 000 donne in uniforme combattessero con i partigiani . 73

Nonostante la diffusa retorica d’anteguerra sull’intera società in lotta per difendere la


Rivoluzione, il regime sovietico fu incerto su come rispondere all’ondata di giovani volontarie
che si erano presentate alle postazioni di reclutamento fin dai primi giorni del conflitto e
chiedevano di arruolarsi nell’esercito. Ragazze del Komsomol furono arruolate tra i quattro
milioni di civili volontari che si stima facessero parte della «milizia popolare» (opolčenie) che
combatté contro l’invasore tedesco e venne decimata dal nemico .74

Il cosiddetto programma di Preparazione militare generale dei cittadini dell’Urss era obbligatorio
per gli uomini, ma non era ufficialmente precluso alle donne che riuscivano a frequentarlo dopo
aver persuaso i funzionari locali. Ufficialmente, il primo reclutamento di donne avvenne
nell’ottobre del 1941, quando Stalin autorizzò la mobilitazione di tre reggimenti aerei da
combattimento con equipaggio femminile. Nel corso della guerra, la partecipazione delle donne
allo sforzo dell’aviazione si ampliò, tanto che gran parte dei bombardamenti notturni delle basi
tedesche veniva effettuata da unità femminili, tra cui il leggendario 46-j gvardejskij nočnoj
bombardirovočnoj aviacionnoj Tamaskij Krasnoznamennyj polk (46º Reggimento guardie di
Taman per il bombardamento leggero notturno), i cui equipaggi formati da donne, chiamate dai
tedeschi Nachthexen, le «streghe della notte», effettuarono 24 000 missioni e furono decorati con
23 medaglie come Eroi dell’Unione Sovietica . Altrettanto famosa era la Central’naja Škola
75

snajperskoj podgotovki, la scuola centrale femminile per la preparazione di franchi tiratori


fondata nel maggio del 1943 in seguito ai successi riportati l’anno precedente dalle donne
cecchino; alla scuola si diplomarono in totale 1885 donne, che furono mandate in prima linea e
uccisero un numero imprecisato di soldati tedeschi . 76

Nell’aprile del 1942 il governo sovietico riconobbe infine la necessità di arruolare le donne per
rimpiazzare gli uomini caduti al fronte. Nell’Urss, tuttavia, il numero delle donne arruolate per
svolgere occupazioni normalmente riservate in Occidente alle reclute di sesso femminile rimase
significativamente piú basso. Delle 40 000 donne mobilitate nell’aviazione, solo 15 000 finirono
a lavorare come impiegate, bibliotecarie, cuoche o magazziniere, mentre altre 25 000 vennero
addestrate per il fronte come autiste, armaiole e addette alle comunicazioni. Delle 520 000 donne
che si unirono alle forze armate, circa 120 000 presero parte ai combattimenti di terra e aria e
altre 110 000 prestarono servizio in prima linea come specialiste militari non combattenti . Le
77

donne condividevano gli stessi disagi degli uomini, ma pativano ulteriori privazioni a causa della
lentezza con cui venivano fornite le uniformi femminili o della mancanza di servizi igienici e
medici adatti alle necessità delle reclute. A differenza delle forze occidentali, i pregiudizi di
genere non impedivano alle donne di impartire ordini agli uomini in prima linea, benché il
pregiudizio come tale sopravvivesse. «Mi hanno rifilato delle ragazze», lamentava un
comandante di divisione. «Una guerra atroce, e chi mi mandano? Tutto un corpo di ballo, come a
una festa danzante!» . Le donne rimasero comunque un elemento caratteristico dei
78

combattimenti in prima linea per tutta la guerra. Benché l’esperienza sovietica nascesse tanto
dalla necessità quanto dall’ideologia, le esigenze estreme imposte dalla piú totale delle guerre
bene si adattavano alla visione sovietica, secondo cui la lotta per la sopravvivenza nella grande
guerra patriottica richiedeva livelli assoluti di mobilitazione.
Si trattava in ogni caso di una necessità che raramente, o addirittura mai, veniva messa in
discussione dalle reclute delle potenze belligeranti. La mobilitazione militare di massa veniva
perlopiú considerata da coloro che avrebbero combattuto come un dato di fatto della guerra
totale. Nella Seconda guerra mondiale gli ammutinamenti furono straordinariamente pochi. Piú
frequenti furono i casi di diserzione o defezione, che riguardarono comunque una piccola
frazione del numero totale di persone mobilitate. L’insubordinazione era frequente e diffusa, ma
le molte infrazioni alla vita e alla disciplina militare riflettevano l’ampiezza della rete sociale in
cui era avvenuto il reclutamento e non devono essere interpretate come un segno di protesta
contro la mobilitazione di massa. I casi riferibili ad autentica ribellione erano di solito il risultato
di circostanze specifiche che avevano provocato la protesta, ma non un rifiuto del servizio
militare in tempo di guerra. Nell’esercito indiano, per esempio, si registrarono numerosi
ammutinamenti di breve durata, alcuni per protesta contro l’ordine di andare a combattere
oltreoceano, altri contro l’insistenza con cui gli inglesi imponevano ai soldati sikh di tagliarsi i
capelli, togliere i turbanti e indossare gli elmetti d’acciaio. Poiché secondo le tradizioni religiose
dei sikh indossare il turbante e non tagliare i capelli erano pratiche non negoziabili, sia in India
sia tra i militari sikh di Hong Kong si verificarono ammutinamenti per protestare contro
l’applicazione delle regole britanniche. Nell’ultimo caso, ottantatre sikh furono portati davanti
alla corte marziale per ammutinamento e undici di loro ricevettero pesanti condanne . Negli Stati
79

Uniti, la segregazione razziale nelle forze armate provocò diffusi episodi di violenza tra i soldati
e gli aviatori di colore in risposta al trattamento subito. Le rivolte violente erano iniziate molto
prima che l’America entrasse in guerra. Nel 1941, vicino a Fort Bragg, nel North Carolina,
agenti della polizia militare bianca e soldati neri furono coinvolti in un feroce scontro a fuoco
che lasciò sul terreno due morti e cinque feriti. Le peggiori violenze si verificarono nel 1943,
quando si registrarono disordini e sparatorie in almeno dieci diversi campi militari. Il
risentimento dei neri originari degli Stati del Nord arruolati nel 364° Reggimento di fanteria
scatenò un grave scontro a Camp Van Dorn, nel Mississippi, per protesta contro regole di
segregazione a cui i soldati di colore non erano abituati. Una volta sedata la ribellione, l’unità fu
mandata per punizione nelle isole Aleutine, nell’estremo nord del Pacifico, per il resto della
guerra .
80

Gli Stati Uniti conobbero altresí una protesta popolare particolarmente attiva contro la leva
militare. Il Selective Service Bill dell’autunno 1940, legge che fu rinnovata un anno dopo, suscitò
proteste a livello nazionale da parte di vari gruppi isolazionisti e contrari alla guerra, ostili
all’idea che quel reclutamento su larga scala fosse necessario. Secondo i sondaggi condotti
nell’estate del 1941, quasi la metà degli interpellati era contraria all’estensione della norma
legislativa. Giornalisti investigativi si recarono nei campi di leva e riscontrarono un diffuso senso
di delusione e risentimento tra i giovani soldati pressoché sfaccendati, con un insoddisfacente
addestramento al combattimento e poche armi. Si stimò che la metà era disposta a disertare se
solo ne avesse avuto l’occasione; il 90 per cento degli intervistati espresse ostilità nei confronti
del governo che li aveva costretti a indossare l’uniforme. Violenti disordini scoppiati nei campi
in occasione del rinnovo del disegno di legge confermarono tra le nuove leve la portata
dell’ostilità popolare verso il servizio militare. Il Selective Service Bill fu approvato alla Camera
dei rappresentanti per un solo voto . Si trattò della piú grave crisi politica affrontata da uno stato
81

in merito alla questione della leva obbligatoria. Non c’è dubbio che la renitenza alla leva fosse
un fenomeno comune anche altrove, ma si trattava di una decisione individuale, non del risultato
di una campagna collettiva. Alla fine, dopo lo scoppio della guerra nel dicembre del 1941, il
servizio militare di massa venne accettato anche in America come l’unica via per la vittoria.
La mobilitazione economica.
La preoccupazione principale di tutti gli stati belligeranti era la capacità di fornire un’adeguata
quantità di armi, equipaggiamenti e rifornimenti per sostenere le grandi forze di combattenti che
avevano reclutato. Tale priorità sollevava tuttavia alcuni interrogativi fondamentali su come
dovesse essere finanziata la guerra e in che modo la maggioranza della popolazione civile
potesse essere rifornita e nutrita a un livello sufficiente per sostenere la mobilitazione nazionale.
Le forze armate erano dei consumatori eccezionalmente avidi. La gigantesca quantità di armi
prodotte dalle maggiori potenze negli anni di guerra uguagliava la straordinaria mobilitazione di
forza lavoro. Parleremo nel sesto capitolo dello sviluppo, della produzione e distribuzione
dell’equipaggiamento militare, ma è certo che la produzione bellica e la coscrizione militare di
massa ebbero un effetto diretto sui cittadini in quanto contribuenti, risparmiatori, consumatori e
lavoratori. Il fronte interno si trovava a finanziare lo sforzo bellico e a lavorare lunghe ore per
evadere le ordinazioni di guerra, mentre una notevole porzione delle scorte alimentari e dei beni
di consumo della nazione scompariva davanti agli occhi dei cittadini per finire nei magazzini e
nelle mense delle forze armate. In generale, una mobilitazione nazionale significava lavorare piú
duramente e ricevere di meno, e farlo senza protestare.
Gli armamenti erano la punta dell’enorme iceberg dei consumi militari. In genere, l’acquisizione
di armi assorbiva tra il 15 e il 20 per cento del bilancio dell’esercito. Le forze armate erano cosí
grandi da creare proprie economie, importando non solo armi ma anche vettovaglie, beni di
consumo di ogni genere, prodotti tessili, chimici, petroliferi, attrezzature specializzate per i
trasporti o la manutenzione e, nel caso delle forze armate tedesche e sovietiche, pure un gran
numero di animali. I milioni di militari che facevano parte del personale di servizio e di supporto
dovevano essere alloggiati, cosí come si dovevano realizzare basi militari, aeroporti e depositi di
rifornimenti là dove non esistevano ancora. Venivano compiuti sforzi enormi per garantire che il
personale militare mangiasse bene, anche se la popolazione civile soffriva di penuria di cibo. Si
riteneva comunemente che i soldati britannici dovessero assumere quotidianamente 4500 calorie,
ben al di sopra dei livelli calorici delle razioni della popolazione civile britannica (e
generalmente superiori alla fornitura giornaliera di cibo di indiani e truppe coloniali) . Nei primi
82

anni di guerra, i soldati del Reich godevano di razioni di carne tre volte superiori a quelle dei
civili (poi addirittura quattro volte tanto) e di un volume piú che doppio di cereali per la
panificazione. Di prioritaria importanza per il personale militare erano anche il vero caffè,
cioccolato, sigarette, tabacco, marmellata e verdure, sempre piú assenti tra i normali consumatori
tedeschi . Oltre al cibo, le economie militari assorbivano un’elevata percentuale di tutti i beni di
83

consumo. Nel 1941, metà della produzione dell’industria dell’abbigliamento della Germania
veniva usata per le uniformi; ai militari andava l’80 per cento di tutti i mobili prodotti e
un’identica percentuale di tutti i prodotti chimici di consumo (compreso il dentifricio e il lucido
da scarpe); a loro era altresí destinato il 60 per cento di tutti i pennelli, scatole di legno e barili
nonché il 44 per cento di tutta la pelletteria e cosí via. Si stima che nel 1941 la metà di tutti i beni
di uso civile prodotti in Germania fosse ingoiata dalla macchina militare. Per le forze armate era
talmente importante la fornitura di dolciumi che al settore venne data la massima priorità per
l’assegnazione di forza lavoro .84

Le pretese di questi giganteschi consumatori militari distorsero fondamentalmente le economie


delle potenze belligeranti ancora prima dello scoppio della guerra. L’effetto era infatti già
evidente nella spinta al riarmo degli anni Trenta, quando la quota del prodotto nazionale
destinata alle spese militari era aumentata vertiginosamente fino a raggiungere livelli senza
precedenti in tempi di pace, toccando il 17 per cento in Germania nel 1938/39 e il 13 per cento in
Unione Sovietica. Alla vigilia della Prima guerra mondiale, le percentuali erano state del 3 per
cento in Germania e del 5 per cento nella Russia zarista, in parte perché le armi erano meno
complesse e costose . Nel maggio del 1939, quasi un terzo della forza lavoro industriale tedesca
85

lavorava a ordini provenienti direttamente dalle forze armate; nel 1937-39, due terzi degli
investimenti industriali tedeschi erano incanalati verso l’esercito e in progetti essenziali per la
guerra. In Unione Sovietica, il terzo Piano quinquennale, cominciato nel 1938, aveva stanziato
21,9 miliardi di rubli per investimenti nella difesa, a fronte di una somma di appena 1,6 miliardi
nel 1936 . Programmi di spesa di tale portata limitarono fortemente quanto era disponibile per il
86

consumatore civile e i settori dell’economia non legati alla guerra in tempo di pace. Con lo
scoppio del conflitto in Asia ed Europa, i governi dovettero tuttavia confrontarsi con le realtà
economiche della guerra totale e della mobilitazione su vasta scala.
L’esperienza della Prima guerra mondiale aveva messo in luce l’importanza di un equilibrio tra
le esigenze dell’apparato militare, il bisogno di stabilità finanziaria e un adeguato standard di vita
della popolazione civile. La natura in gran parte improvvisata della mobilitazione economica
avvenuta nel precedente conflitto aveva prodotto in genere alti tassi di inflazione, crisi
finanziarie e una malaccorta distribuzione delle risorse tra militari e civili. La penuria di generi
alimentari aveva portato a diffuse proteste sindacali e alla disaffezione sociale. Il crollo dello
sforzo bellico russo nel 1917 e la sconfitta degli imperi centrali nel 1918 erano stati attribuiti in
gran parte a crisi economiche e sociali. Di conseguenza, si ipotizzava ampiamente che si potesse
condurre con successo la guerra totale solo evitando che il pericolo di una crisi sociale e
finanziaria si ripetesse una seconda volta. Il problema cruciale era capire quali effetti potesse
avere lo sforzo bellico sulla struttura dell’economia nazionale, facendo in modo che l’esercito
avesse a disposizione risorse sufficienti senza minare del tutto il sistema finanziario o la
domanda dei consumatori. Si reputava essenziale pertanto mobilitare precise competenze.
Nell’estate del 1940, all’illustre economista britannico John Maynard Keynes fu assegnato
l’incarico di consigliere speciale del Tesoro dopo la pubblicazione del suo opuscolo How to Pay
War (Come pagare il costo della guerra), che affrontava direttamente il problema di bilanciare i
consumi, il risparmio e la tassazione senza correre il rischio di inflazione . In Germania, il
87

ministro dell’Economia Walther Funk aveva istituito nell’autunno del 1939 il Professoren-
Ausschuss (Comitato di professori) incaricato di capire come pagare la guerra e controllare i
consumi; gli economisti tedeschi elaborarono un quadro statistico provvisorio del reddito
nazionale per illustrare in che modo equilibrare la tassazione, il risparmio e i consumi per
soddisfare le esigenze militari . Il Kokumin Chochiku Shōrei Linkai (Consiglio per la promozione
88

del risparmio nazionale giapponese), istituito nel giugno del 1938, era composto da esperti
sociologi ed economisti chiamati a trovare il modo di incoraggiare il risparmio, limitare i
consumi ed evitare l’inflazione . Gli economisti di tutto il mondo consideravano la guerra totale
89

come un problema economico ben distinto. Tra dittature e democrazie non vi erano grandi
differenze rispetto alla possibile soluzione del problema, poiché in tempo di guerra era comune a
entrambi i tipi di stato una qualche forma di «economia di comando».
La prima sfida che si poneva era finanziare una guerra di quelle dimensioni evitando
un’inflazione galoppante. Con una mobilitazione di tale portata, non c’era altra alternativa che
affrontare un grande disavanzo, anche se quest’ultimo poteva essere mitigato dalla tassazione,
oppure rinviarne gli effetti economici a dopo la guerra. I prestiti statali a lungo e medio termine
finanziarono circa metà dello sforzo bellico americano, innalzando il debito pubblico a livelli
senza precedenti; in Gran Bretagna, prestiti di ogni genere coprirono circa il 42 per cento delle
spese di guerra, aumentando il disavanzo annuale da una modesta somma di 490 milioni di
sterline nel 1939 a 2,8 miliardi nel 1943 e triplicando il debito pubblico; in Germania,
l’indebitamento pubblico crebbe di dieci volte negli anni della guerra, passando da 30 miliardi di
marchi a 387 miliardi e coprendo circa il 55 per cento delle spese belliche; in Giappone, il
disavanzo del 1945 corrispondeva a una percentuale analoga. Solo in Cina il governo si limitò
semplicemente a stampare moneta come molti stati avevano fatto durante la Prima guerra
mondiale: nel 1945 il deficit ammontava all’87 per cento della spesa pubblica . I fondi venivano
90

generalmente raccolti dalle banche e degli istituti di credito esistenti, che non avevano altra
scelta se non comprare i titoli di stato. A fare eccezione era l’economia sovietica, in cui la
pianificazione centrale e la politica dei prezzi erano state progettate per far quadrare i conti
evitando il piú possibile il gettito fiscale e tariffario esistente grazie a un sistema alquanto
creativo di contabilità comunista. Rispetto alle entrate dello stato in tempo di guerra, pari a un
totale di 1117 miliardi di rubli, i prestiti rappresentavano soltanto 100 miliardi di rubli, vale a
dire appena l’8,9 per cento .
91

Ad alcune economie fu possibile posticipare i pagamenti in tempo di guerra importando


semplicemente merci dalle aree occupate o dai territori degli imperi e bloccandone il pagamento
per l’intera durata del conflitto. A Berlino, lo stato tratteneva un totale di oltre 19 miliardi di
marchi dovuti agli stati occupati per vitali importazioni di guerra, il cui rimborso sarebbe
avvenuto solo dopo la vittoria; altri 25,4 miliardi venivano ricavati dai paesi europei occupati
come prestiti per pagare ulteriori beni . La Gran Bretagna sospese i pagamenti all’interno del
92

blocco della sterlina per merci importate per un valore complessivo, alla fine della guerra, di 3,4
miliardi di sterline – di fatto, una forma di coercizione economica . Germania e Gran Bretagna
93

contavano anche sui sostanziali contributi provenienti dai territori occupati o appartenenti
all’impero: lo sforzo bellico tedesco incanalò nelle spese di guerra 71 miliardi di marchi
provenienti dalle regioni occupate, mentre la Gran Bretagna costrinse l’India a pagare
direttamente la sua partecipazione al conflitto, forzando il governo indiano a gestire un
considerevole disavanzo annuale, e questo in un’economia che non era certo in grado di
permettersi tale costo, oltre ad accettare notevoli aumenti di tasse che ricadevano sulla
popolazione del subcontinente . Il regime tedesco poteva inoltre sottrarre beni e denaro alla
94

popolazione ebraica perseguitata. L’oro razziato ai legittimi proprietari ebrei, o quello dei denti
estratti ai morti nei campi di sterminio, veniva depositato in banche svizzere per contribuire a
finanziare le importazioni essenziali. In Germania, proprietà ebraiche di un valore stimato di
circa sette-otto miliardi di marchi, tra cui azioni, metalli preziosi e gioielli, furono rilevate dallo
stato in seguito alle restrizioni legali imposte sulle ricchezze degli ebrei e ai programmi di
«arianizzazione» obbligatoria. Nelle aree conquistate, tutto ciò che gli ebrei possedevano poteva
essere sequestrato e il ricavato andava allo stato. Gli oggetti di valore venivano depositati a
Berlino presso la Reichshauptkasse Beutestelle (Ufficio bottini di guerra del Tesoro del Reich), e
utilizzati per rimpolpare i fondi statali .
95

Dato l’enorme disavanzo, si correva il grave pericolo che si creasse quello che Keynes aveva
chiamato «gap inflazionistico», ovvero la differenza tra la quantità di denaro circolante
nell’economia e la quantità di beni disponibili all’acquisto della popolazione civile. Tale divario,
causa di un’elevata inflazione nella Prima guerra mondiale, doveva essere colmato, in un modo o
nell’altro. Tutti gli stati belligeranti compresero il problema e tutti, tranne la Cina, adottarono
soluzioni molto simili: aumento delle tasse, spinta a elevati tassi di risparmio individuale,
controllo dei salari e dei prezzi e limitazioni all’accesso ai beni di consumo rimasti dopo che i
militari avevano preso la loro fetta. In Cina, l’aumento delle tasse era un’opzione difficile da
implementare. L’occupazione giapponese delle regioni piú produttive del paese aveva ridotto
dell’85 per cento gli incassi tariffari e del 65 per cento le entrate dell’imposta sul sale, entrambi
fonti tradizionali del finanziamento statale. La crisi al tempo di guerra rese difficile accedere ai
prestiti, mentre una riduzione della spesa militare avrebbe esposto la Cina alla sconfitta.
Nonostante gli sforzi per imporre nuove tasse su reddito, proprietà terriere e manifatture, il
governo fu costretto a ricorrere alla zecca, aumentando in maniera massiccia la quantità di
denaro in circolazione fino al punto di creare un’iperinflazione. Le nuove emissioni di banconote
ammontavano a 1,4 miliardi di fabi nel 1937 e a 462,3 miliardi nel 1945 . Altrove, il 96

finanziamento della guerra e la riduzione del potere d’acquisto dei consumatori risultarono molto
piú efficaci, con popolazioni maggiormente disposte a cooperare con le richieste del governo.
L’aumento del gettito fiscale, i prestiti e il risparmio dovevano tuttavia essere presentati come un
mezzo per impegnare il cittadino nello sforzo bellico in modo molto diretto e personale,
inducendolo ad accettare i sacrifici economici per il bene nazionale. Un’opzione del genere si
rivelava tuttavia ingestibile in una Cina divisa e dilaniata dalla guerra.
La tassazione come espediente per far fronte alle spese di guerra si era sviluppata solo
lentamente durante la Prima guerra mondiale, e con risultati disomogenei. Nel corso del secondo
conflitto, il gettito fiscale era aumentato drasticamente, coprendo in genere tra un quarto e metà
delle entrate statali. Negli Stati Uniti, dove lo sforzo bellico produsse redditi in rapida crescita su
tutta la linea, le tasse fornivano il 49 per cento delle entrate, in gran parte per la nuova
imposizione di un’imposta sul reddito. Nel 1939, circa il 93 per cento degli americani non
pagava alcuna imposta federale sul reddito, mentre nel 1944 venivano tassati i due terzi di tutti i
guadagni, nonostante le molte difficoltà incontrate nell’impostare un complesso sistema fiscale
che colpiva dei contribuenti costretti a pagare per la prima in condizioni di guerra. Al fine di
presentare come genuinamente democratici i sacrifici imposti dalla guerra, Roosevelt insistette
per tassare gli eccessi di profitto, introducendo un’imposta che nella fornitura dei fondi
governativi era seconda solo alla tassa sul reddito . In Giappone, anche il pagamento
97

dell’imposta sul reddito si diffuse rapidamente tra la popolazione delle regioni occupate,
passando dal 6 per cento del reddito personale nel 1939 al 15 per cento nel 1944 e rimanendo pur
sempre insufficiente a far fronte all’aumento della spesa. A differenza di altre economie di
guerra, il gettito fiscale copriva in tempo di guerra meno di un quarto della spesa del Giappone . 98

La Gran Bretagna e la Germania vantavano una piú lunga tradizione di imposte sul reddito, e
durante la guerra entrambi i paesi aumentarono sostanzialmente sia la soglia impositiva sia le
imposte indirette. La fede nell’idea che i cittadini dovessero condividere equamente i sacrifici
generò alti tassi di imposta sul reddito per le classi piú abbienti. In Gran Bretagna, il numero di
persone con un reddito superiore a 4000 sterline all’anno al netto delle tasse passò da 19 000 nel
1939 ad appena 1250 tre anni dopo. Complessivamente, le entrate derivate dall’imposta sul
reddito triplicarono, da 460 milioni di sterline nel 1939-40 a 1,3 miliardi nel 1944-45 . In 99

Germania furono introdotte nel 1939 un’addizionale di emergenza sui redditi personali e
un’imposta sugli utili in eccesso dell’industria, che insieme portarono a un aumento delle entrate
fiscali dirette da 8,1 miliardi di marchi nel 1938 a 22 miliardi nel 1943. La soglia impositiva sul
reddito riguardava ancora una volta i piú ricchi. Un’imposta su un reddito annuale compreso tra
1500 e 3000 marchi (vale a dire il guadagno della maggior parte dei lavoratori semi-qualificati o
specializzati) aumentò di un quinto, mentre la tassa su guadagni che andavano da 3000 a 5000
marchi crebbe del 55 per cento. Nei primi anni di guerra, metà della spesa tedesca venne coperta
dalle tasse, in netto contrasto con la mancanza di un’adeguata tassazione durante la Grande
Guerra, benché il regime nazista fosse molto preoccupato che i cittadini tedeschi accettassero
senza protestare dei livelli contributivi eccezionalmente alti .
100

Anche la questione del risparmio risentí dell’eredità del precedente conflitto, allorché le
campagne patriottiche avevano cercato di raccogliere sottoscrizioni ai titoli di guerra il cui valore
era stato rapidamente eroso dall’inflazione, o, nel caso della Germania, reso completamente
inutile dal crollo della moneta nel primo dopoguerra. Sia in Gran Bretagna sia in Germania si
aveva poca fiducia nel ripetere la fanfara della raccolta fondi. Nel Regno Unito erano disponibili
per la cittadinanza i Defence Bonds e i National Savings Certificates, ma la maggior parte
dell’aumento del risparmio individuale venne incanalato in piccoli depositi alla Posta, nelle casse
di risparmio o nel capitale di società che avevano buoni rapporti con il governo, in modo da poter
essere mobilitato dallo stato senza dover ricorrere alla persuasione o alla coercizione . Lo stesso
101

sistema, denominato dal ministro delle Finanze del Reich «finanza silenziosa», venne adottato in
Germania. I piccoli investitori, incoraggiati al risparmio dalla propaganda pubblica, e con meno
prodotti da comprare nei negozi, collocarono il loro denaro nelle casse di risparmio o sui libretti
postali, il cui portafoglio passò da 2,6 miliardi di marchi nel 1939 a 14,5 miliardi nel 1941. Il
numero dei libretti di risparmio postali aumentò da 1,5 a 8,3 milioni . Il governo poteva poi
102

attingere ai risparmi per contribuire al pagamento della guerra, trasformando cosí i risparmiatori
in ignari sottoscrittori dello sforzo bellico. La sfiducia dei cittadini tedeschi nei confronti dei
prestiti di guerra, vista l’esperienza della Prima guerra mondiale, divenne palese allorché il
regime cercò di introdurre verso la fine del 1941 il programma volontario delle Eisen
Einsparungen, i «prestiti di ferro» da detrarre dal reddito alla fonte e da collocare in appositi
conti bloccati da utilizzare nel dopoguerra. Il programma si sviluppò molto lentamente, mentre
tutte le altre forme di risparmio individuale vennero invece quadruplicate negli anni di guerra . 103

Tanto in Gran Bretagna quanto in Germania, i risparmiatori speravano di utilizzare l’aumento di


guadagni per crearsi un gruzzolo che sarebbe stato prezioso dopo la guerra, quando si
prevedevano condizioni economiche ben piú dure. Il boom del risparmio dimostrò che i cittadini
comuni, e non solo i capitalisti, speravano di fare soldi con la guerra, e non erano certo disposti
ad accettare rischi finanziari per il bene della nazione.
In Giappone e in Unione Sovietica, che risentivano meno dell’eredità lasciata dalla Grande
Guerra, si registrò una maggiore fiducia negli appelli patriottici ad acquistare i titoli di stato o
aumentare i risparmi personali in nome dello sforzo bellico. In nessuno dei due paesi il risparmio
poteva considerarsi un atto del tutto volontario. In entrambi gli stati, infatti, le campagne per
incoraggiare l’acquisto di obbligazioni a sostegno della modernizzazione del paese erano in atto
fin dagli anni Venti e avevano contribuito a creare una cultura sociale della parsimonia. Nel caso
sovietico, l’acquisto di obbligazioni era organizzato come uno sforzo collettivo nelle fattorie e
nelle fabbriche, in modo che chiunque si distinguesse per il rifiuto di conformarsi correva il
rischio di una visibilità pubblica negativa e di accuse di vittimismo. Il risparmio veniva
monitorato dalle varie Komissii sodejstvija goskreditu i sberegatel’nomu delu, ovvero le
«commissioni locali per i contributi ai crediti e risparmi statali», meglio note con l’acronimo
komsody. Esse incoraggiavano i lavoratori a formare piccoli gruppi responsabili di una
determinata somma loro assegnata che gli operai o i contadini suddividevano poi tra loro. A
causa dei rischi che comportava l’eventuale non conformismo, le emissioni venivano
regolarmente sottoscritte. Era stata introdotta altresí una nuova forma di obbligazioni «lotteria»
che offrivano in premio pellicce, gioielli, orologi o posate a un popolo affamato anche di beni di
consumo di base, anche se non mancavano regolari lamentele da parte dei vincitori per il fatto
che le ricompense promesse non arrivavano mai . 104

In Giappone, le campagne pubbliche per incoraggiare il risparmio e l’acquisto di obbligazioni


erano accompagnate anche da strategie sociali volte a ridurre al minimo il non conformismo
sfruttando l’idea del risparmio di gruppo. Sotto la pressione del governo, sorsero in tutto il paese
associazioni di risparmio in cui il collettivo, come in Unione Sovietica, si assumeva la
responsabilità di una determinata somma e si assicurava che ogni singolo membro versasse il
dovuto. Nel 1944 esistevano 65 500 associazioni di questo tipo, con 59 milioni di membri. Nello
stesso anno, venne destinata al risparmio una considerevole quota del reddito disponibile tra la
popolazione, pari al 39,5 per cento. In ogni anno, fatta eccezione per il 1941, l’obiettivo di
risparmio fissato dallo stato venne superato . Per i lavoratori, veniva stabilita una certa quota
105

destinata al risparmio in base al fabbisogno, successivamente detratta dai pacchetti salariali al


pari delle imposte dirette . Oltre ai risparmi personali, a ogni associazione di quartiere era
106

destinata una quota prestabilita di titoli di stato. Gli abitanti si riunivano per concordare le quote
e ognuno sapeva esattamente quanto le altre famiglie si fossero impegnate a comprare. Il
mancato rispetto dell’impegno significava esporsi alla pubblica vergogna e al rischio di
discriminazioni piú drastiche, inclusa la perdita del diritto alle razioni . Il risparmio era
107

considerato prima di tutto un dovere patriottico, anche se un sondaggio condotto nel 1944 dal
governo sulle motivazioni al risparmio rilevò che il 57 per cento degli intervistati adduceva come
motivazione l’eventualità di bisogni imprevisti di denaro mentre il 38 per cento pensava a creare
un gruzzolo per i propri figli . 108

Nella strategia americana della raccolta fondi i titoli di stato furono fondamentali. Benché le
campagne di sottoscrizione fossero meno coercitive che in Giappone o in Unione Sovietica, le
pressioni all’acquisto delle obbligazioni erano diffuse e incessanti e portarono a una
considerevole raccolta di quaranta miliardi di dollari per coprire i costi della guerra. Come in
Giappone, erano stati lanciati programmi per dedurre i contributi obbligazionari volontari
direttamente dalle buste paga e circa la metà di tutte le vendite di obbligazioni avveniva in modo
indiretto. La quota restante era raccolta con vendite di piccolo taglio – in genere inferiori a 100
dollari –, il che significò che alla fine della guerra erano stati commercializzati ben 997 milioni
di obbligazioni. I buoni di guerra venivano gestiti al pari di progetti commerciali. L’obiettivo,
come disse il segretario al Tesoro Henry Morgenthau, era «usare le obbligazioni per vendere la
guerra, anziché viceversa» . Furono adottate tecniche pubblicitarie moderne, vennero reclutate
109

le star del cinema – incluso Bing Crosby che cantava Buy a Bond (Compera un titolo di stato) – e
sei milioni di volontari furono arruolati per la propaganda, con visite porta a porta a famiglie,
fabbriche e club. Al pari delle associazioni di quartiere giapponesi, in molti casi l’adesione era
solo semi-volontaria. Anche nel caso americano, i sondaggi di opinione rilevarono che, benché il
patriottismo avesse la sua parte nella compravendita dei titoli, fino a due terzi degli intervistati
riferiva di voler semplicemente contribuire all’acquisto dell’equipaggiamento necessario a mariti
e figli che si trovavano al fronte oltreoceano. Le otto campagne nazionali per la vendita dei titoli
contribuirono a stabilire un legame diretto tra una popolazione lontana dai campi di battaglia e
coloro che invece stavano combattendo al fronte . 110

Un ulteriore passo per colmare il divario inflazionistico venne compiuto con un pacchetto di
controllo su prezzi, salari e produzione di consumi reso necessario a causa della grave carenza di
beni di consumo da acquistare. I controlli su prezzi e salari erano strettamente collegati, poiché
una sregolata inflazione dei prezzi avrebbe determinato, com’era avvenuto nella Grande Guerra,
una diminuzione del valore dei salari e stimolato di conseguenza la protesta dei lavoratori. La
Germania era entrata in guerra con un regime di controlli su prezzi e salari già attivo da alcuni
anni allo scopo di far fronte agli effetti delle elevate spese militari condotte nel periodo
prebellico. Il Preiskomissariat, creato nel 1936 per vigilare sui prezzi, godeva di ampi poteri per
imporre la stabilità dei prezzi in tutti i settori della spesa civile, tanto che nel corso della guerra
l’indice del costo della vita aumentò meno del 10 per cento, mentre i salari medi settimanali, con
orari di lavoro piú lunghi, aumentarono appena al di sopra del 10 per cento . Anche se la qualità
111

di molti beni subí un deterioramento e le lunghe ore di lavoro imponevano sacrifici alla forza
lavoro, il tentativo di scongiurare l’inflazione caratterizzò il sistema tedesco come un modello di
stabilità rispetto alla spirale inflazionistica verificatasi durante il precedente conflitto. Anche il
Giappone era entrato in guerra con un sistema di controllo di prezzi e salari già attivo in risposta
alla guerra in Cina. I prezzi di prodotti alimentari e tessuti furono sotto controllo dal 1937 in poi
e gli stipendi dall’aprile 1939. Ciò nonostante, il livello dei prezzi continuò a salire a dispetto di
tutti i regolamenti, poiché militari e consumatori erano in competizione per gli stessi prodotti. Il
governo rispose nel settembre del 1939 emettendo l’ordinanza Stoppu rei, che congelava non
solo i prezzi della maggior parte dei prodotti di consumo ma anche gli affitti, le tasse, i costi dei
trasporti e gli stipendi, tutti ancorati al livello raggiunto il giorno prima dell’entrata in vigore
dell’ordinanza. Nel 1943, il controllo dei prezzi riguardava ancora ben 785 000 articoli distinti ed
era imposto dai principali ministeri e dagli enti locali. Il nuovo sistema stabilizzò l’indice dei
prezzi al consumo fino al 1943, anche se negli ultimi mesi di guerra la diffusa carenza perfino
dei beni di prima necessità, aggravata da un mercato nero ramificato, alimentò l’inflazione già in
crescita, che il Chūō Bukka Tōsei Kyoryoku Kaigi (Comitato centrale per il controllo dei prezzi)
istituito nel novembre del 1943, si era dimostrato incapace di arginare . Nonostante una spirale
112

salariale incoraggiata dalla concorrenza illecita tra le imprese a causa delle scarse risorse di forza
lavoro, nel 1944 i salari reali erano diminuiti di un terzo rispetto ai livelli d’anteguerra, per
dimezzarsi poi nell’anno successivo . In Cina, dove l’inflazione era fuori controllo, nel 1945 i
113

salari reali medi erano diminuiti di quasi due terzi da prima della guerra, relegando molti
lavoratori al di sotto del livello di sussistenza .
114

Nel caso della Gran Bretagna e degli Stati Uniti, la guerra costrinse all’abbandono del libero
mercato nella formazione dei prezzi e dei salari. A differenza dei regimi autoritari, l’introduzione
di una regolamentazione statale doveva tener conto degli interessi delle imprese e delle
organizzazioni dei lavoratori. Nel primo anno di guerra, l’assenza di un controllo effettivo su
tutta la gamma di prezzi e salari portò alle prime avvisaglie di una pericolosa inflazione dei
prezzi. Verso la fine del 1940, l’indice britannico del costo della vita superava di quasi un terzo
quello dell’anno precedente, provocando richieste di aumenti salariali per compensare
l’inflazione e lasciando presagire l’esatta crisi che Keynes e altri avevano previsto. Nonostante la
disponibilità dei sindacati ad accettare sia i limiti salariali sia le sentenze del nuovo National
Arbitration Tribunal istituito nel mese di luglio, nel corso del 1940 entrarono in sciopero circa
821 000 lavoratori – un vero picco per gli anni di guerra. La priorità del governo, come
affermava il ministero del Lavoro, era trovare il modo di garantire che «la massa generale dei
lavoratori sia soddisfatta», e negli anni della guerra i salari aumentarono piú velocemente del
costo della vita. Con orari piú lunghi, straordinari e bonus, i salari settimanali medi furono
incrementati di quasi il 40 per cento, mentre il costo della vita dei nuclei familiari era aumentato
di un terzo. La regolamentazione dei prezzi venne introdotta un po’ alla volta: nell’agosto del
1940 il governo approvò sussidi alimentari per mantenere stabile il costo di tutti i prodotti di
base; nel bilancio del 1941, affitti e prezzi del carburante furono ancorati; i produttori che
operavano sul mercato civile vennero incoraggiati a concentrare e razionalizzare la produzione al
fine di contenere i costi. Nel luglio del 1941, il governo introdusse infine il Goods and Services
(Price Control) Act, che riconosceva allo stato ampi margini di controllo sui prezzi massimi e sui
massimi livelli di profitto . In tutti i casi, furono coinvolte nel processo decisionale sia le
115

imprese sia la forza lavoro, allo scopo di cercare di evitare qualsiasi impressione che i controlli
statali fossero imposti arbitrariamente; la minaccia inflazionistica fu affrontata collettivamente,
in modo, come disse Keynes, «da soddisfare il senso di giustizia popolare» . 116

La sfiducia nei confronti del potere statale in campo economico era molto piú radicata nella
comunità imprenditoriale e tra il grande pubblico degli Stati Uniti di quanto non fosse in Europa,
come si era reso evidente negli anni Trenta con i conflitti sul New Deal per combattere la grande
depressione. Eppure, l’amministrazione Roosevelt non aveva altra scelta se non trovare il modo
di controllare prezzi e salari in un contesto in cui le forze armate assorbivano circa la metà dei
beni solitamente destinati ai consumatori civili. Il riarmo americano del 1939 aveva già spinto
verso l’alto i prezzi, ma la risposta iniziale del governo era stata semplicemente quella di
incoraggiare le aziende a limitare gli aumenti applicando volontariamente la moderazione.
L’accelerazione delle spese militari nel 1941 spezzò tuttavia qualsiasi restrizione potesse
esistere. Nonostante si ribadisse che i materiali strategici (acciaio, gomma, olio) dovevano essere
soggetti al controllo dei prezzi, il governo vide l’indice dei prezzi al consumo balzare del 12 per
cento in un anno e i prezzi all’ingrosso del 17 per cento. Una volta in guerra, l’amministrazione
riconobbe la necessità di un’azione urgente. Nell’aprile del 1942, l’Office of Price
Administration introdusse il General Maximum Price Regulation, che riguardava tutte le merci.
Il General Max, come fu presto soprannominato il regolamento, costringeva le imprese ad
ancorare i prezzi a una determinata base concordata, ma poiché il calcolo dei prezzi era lasciato
alle aziende, vi era molto spazio per una contabilità capitalistica oltremodo creativa. L’inflazione
continuò nel 1942, provocando un’ondata di disordini tra i lavoratori allorché i sindacati
concordarono limiti salariali e il divieto di sciopero. Nell’aprile del 1943, Roosevelt costrinse
infine le imprese e i sindacati ad accettare in tempo di guerra un congelamento di tutti i prezzi e
salari, imposto da un nuovo Office of Economic Stabilization. Il motto di Roosevelt «Mantenere
la posizione» diede risultati abbastanza positivi, in parte perché i funzionari incaricati di stabilire
i prezzi potevano ora fare affidamento su 6000 commissioni locali che segnalavano eventuali
violazioni, sistematicamente sanzionate. Gli amministratori federali determinavano il prezzo
delle merci, abbandonando del tutto quanto restava del libero mercato. Negli ultimi tre anni di
guerra, l’indice dei prezzi al consumo aumentò su base annua solo dell’1,4 per cento, inferiore
quindi a quello registrato altrove tra gli stati belligeranti .
117

Queste strategie economiche erano indirizzate alla popolazione civile, che avrebbe dovuto
sopportare il peso dell’aumento dei consumi militari e il rapido declino della disponibilità di beni
di ogni genere. Solo negli Stati Uniti e nel Canada, dotati di grandi risorse economiche, fu
possibile ottenere un sostanziale aumento produttivo sia di fucili sia di burro. Tra il 1939 e il
1944, i consumi alimentari americani aumentarono dell’8 per cento, mentre abbigliamento e
calzature conobbero un incremento del 23 per cento, gli articoli per la casa (esclusi i beni
durevoli) del 26 per cento, tabacco e alcol del 33 per cento. In confronto, gli acquisti di generi
alimentari in Gran Bretagna erano inferiori dell’11 per cento, quelli di abbigliamento e calzature
subirono un calo del 34 per cento e i prodotti per la casa di oltre la metà . Benché esistano stime
118
contrastanti sull’aumento dei consumi personali negli Stati Uniti, tutte indicano un significativo
incremento negli anni di guerra rispetto al 1939, anno di punta degli anni Trenta dopo la grande
depressione. I dati ufficiali sembrano indicare che la spesa reale pro capite (escludendo le truppe
all’estero e adeguandola all’aumento dei prezzi) era di 512 dollari nel 1939 e di 660 nel 1945 . 119

Queste cifre risultano tanto piú significative se si considera che la produzione dei principali beni
durevoli, in particolare degli autoveicoli, si era ridotta a un rigagnolo durante la guerra. Gli
americani, piuttosto, quando non compravano titoli di guerra, spendevano di piú in vestiti,
scarpe, bevande e sigarette.
In tutti gli altri principali stati belligeranti, i consumi personali subirono tagli sostanziali, al fine
di deviare risorse verso lo sforzo bellico. Al pari degli aumenti fiscali e delle campagne per
l’acquisto di titoli di guerra, i tagli ai consumi venivano presentati come una conseguenza
inevitabile della mobilitazione per la guerra e sembra che, come tali, fossero generalmente
accettati dalla popolazione civile. I limiti al consumo fisico, piuttosto che realizzarsi assorbendo
il reddito in eccesso, potevano essere imposti in vari modi: razionamento dei beni di consumo, in
particolare cibo e abbigliamento; chiusura di impianti produttivi inessenziali o loro conversione
in produzioni di guerra; riduzione della qualità attraverso l’adulterazione o la standardizzazione
dei prodotti; oppure limitando ai produttori la fornitura di materie prime e forza lavoro. In Gran
Bretagna e Germania, gli articoli per la casa venivano prodotti secondo un design economico e
standardizzato – i cosiddetti utility products del mercato britannico e gli Einheitsprodukte di
quello tedesco –, riducendo in tal modo la scelta ma mantenendo costante una fornitura minima.
La spesa complessiva dei consumatori britannici scese da un indice di 100 nel 1938 a 86 nel
1944, ma il calo dei consumi di prodotti non alimentari fu piú drastico: l’abbigliamento scese da
100 a 61, gli articoli per la casa da 100 a 73 e l’arredamento da 100 a 25 . 120

Contrariamente all’idea ancora ampiamente diffusa che il popolo tedesco non fu soggetto alle
esigenze economiche della guerra se non molto piú tardi, a conflitto avanzato, i consumi della
popolazione civile del Reich si erano ridotti ancora piú ampiamente e sistematicamente che in
Gran Bretagna fin dall’inizio delle ostilità. Dall’autunno del 1939, tutte le merci furono razionate
o ne venne limitata o vietata la produzione. La spesa dei consumatori pro capite era già in calo
prima della guerra e precipitò rapidamente nei primi anni del conflitto. Considerando un indice
di 100 nel 1938, i consumi a prezzi rettificati scesero a 82 nel 1941 per precipitare infine a 70 nel
1944; se includiamo anche le aree piú povere annesse alla Grande Germania, il dato è
rispettivamente 74,4 e 67. Il regime di Hitler, determinato a evitare qualsiasi minaccia di crisi
sociale, a cui si attribuiva per altro la colpa della sconfitta tedesca nel 1918, definí un
Existenzminimum, ovvero «minimo di sussistenza», per tutta la popolazione civile. L’austerità di
tale quota minima si mantenne per gran parte del periodo di guerra, nonostante i pesanti
bombardamenti degli Alleati, ma non includeva alcun prodotto alimentare o articolo per la casa
che non fosse ritenuto essenziale. In Germania, come osservava un giornalista americano nel
1941, la vita era «assolutamente spartana», seppure sopportabile . Come in Gran Bretagna, ci si
121

attendeva che la popolazione civile «si arrangiasse senza sprechi», riparando abiti vecchi, scarpe
e pezzi di mobilio. I pesanti bombardamenti delle città tedesche nel 1943 e nel 1944 costrinsero a
riprendere la produzione di beni di consumo per far fronte alle perdite subite nelle case, anche se
molti di coloro che avevano avuto danni dalle bombe furono risarciti con merce prelevata da
magazzini pieni di mobili, vestiti e calzature espropriati agli ebrei deportati e uccisi.
Per il consumatore giapponese e sovietico in tempo di guerra la storia fu completamente diversa.
Si trattava di stati con un tenore di vita relativamente basso, in cui le esigenze della guerra totale
stavano consumando una quota elevata delle risorse necessarie alla popolazione civile. In
Giappone, l’approvvigionamento della cittadinanza aveva una bassa priorità ed era diminuito
costantemente dalla metà degli anni Trenta. La propaganda del governo ribadiva la necessità di
uno stile di vita austero e parsimonioso; nel 1940, in seguito alle nuove normative che limitavano
la produzione al consumo, lo slogan Zeitaku wa teki da, «Il lusso è il nemico», divenne un tropo
standard della cultura del tempo di guerra . Fatta eccezione per i rifornimenti alimentari, la
122

produzione di beni per la popolazione civile venne sospesa, oppure se ne trasferirono le risorse a
quella bellica. Un «piano dei bisogni quotidiani» approntato nell’aprile del 1943 si concentrò su
cibo, combustibile per la casa e tessuti, anche se lo stesso anno l’industria tessile venne
interamente destinata alla produzione militare. L’obiettivo del governo era ridurre di un terzo i
consumi civili, ma la produzione dei beni di consumo diminuiva drasticamente quanto piú il
regime insisteva sull’assoluta priorità di uno sforzo bellico prossimo al fallimento. Nel 1944, la
produzione si era ridotta del 50 per cento rispetto al livello d’anteguerra, fino ad arrivare a un
quinto verso la fine del conflitto . Anche in Unione Sovietica le forniture destinate alla
123

popolazione civile passarono in secondo piano rispetto all’industria bellica, arrivando a circa un
terzo dei livelli d’anteguerra. Il commercio al dettaglio, a prezzi fissi, scese da 406 miliardi di
rubli nel 1940 a un minimo di 147 miliardi nel 1943, nel pieno della guerra; le stime del
consumo medio delle famiglie, già molto basse in confronto agli standard europei, indicano un
calo nel 1943 fino al 60 per cento del dato prebellico. Il problema della maggior parte dei
consumatori sorse con la decisione del governo di consentire livelli di prezzi differenziati. Il cibo
razionato e i beni di guerra erano soggetti a controlli, ma tutte le altre merci erano soggette alla
pressione della domanda e subirono una rapida inflazione. I salari non riuscivano a tenere il
passo, lasciando la maggior parte dei consumatori russi in condizioni molto peggiori di quanto
facciano intendere le cifre ufficiali . Tutti i racconti della vita in Unione Sovietica in tempo di
124

guerra mettono in luce la disperata povertà della popolazione civile, anche se, a differenza della
crisi sul fronte interno che aveva travolto lo stato zarista vent’anni prima, erano garantiti quel
tanto di cibo e combustibile (e terrore di stato) sufficienti a prevenire il collasso sociale.
Gli esempi del Giappone e dell’Unione Sovietica pongono innanzitutto in rilievo l’importanza
del cibo come elemento fondamentale per sostenere l’attività e la volontà di guerra tra la
popolazione civile. Nei governi di tutto il mondo sembravano risuonare le insistenti parole di
Churchill sul fatto che «niente deve interferire con le forniture necessarie per mantenere la
resistenza e la risolutezza del popolo di questo paese» . Il controllo sulla produzione agricola e
125

la sopravvivenza del commercio alimentare erano gli elementi fondamentali affinché lo sforzo
della mobilitazione riportasse un vero successo. Il problema di sfamare la popolazione era meno
urgente solo negli Stati Uniti e nei dominion britannici, entrambi zone con eccedenze di cibo,
anche se le imponenti esigenze delle forze armate e le estese esportazioni alimentari costrinsero
perfino le aree con un surplus di produzione a introdurre limiti al razionamento e controlli
sull’approvvigionamento. Negli Stati Uniti, la maggior parte della popolazione mangiava di piú,
se non addirittura meglio, durante la guerra che non prima di essa. In media, l’assunzione
quotidiana di calorie superò in effetti il livello degli anni Trenta: da 3260 pro capite nel 1938 a
un picco di 3360 nel 1943, in piena guerra . Anche se alla fine furono soggetti al razionamento
126

la carne, il caffè, lo zucchero e i latticini, rispetto agli standard internazionali le razioni erano
comunque generose. Nel 1944, il consumo annuo di carne pro capite era passato da 65
chilogrammi a 70 chilogrammi, innalzando a livelli record il contenuto proteico della dieta
americana, anche se le cifre ufficiali sottostimano il mercato nero legato al consumo di carne nei
cosiddetti meateasies, spacci gestiti da agricoltori e mattatoi al di fuori del sistema di controllo
statale . Piú importante per lo sforzo bellico alleato fu la disponibilità degli Stati Uniti a fornire
127

grandi quantità di cibo e foraggio a costo zero attraverso il programma Lend-Lease; per
l’emergenza bellica dell’Unione Sovietica, 4,4 milioni di tonnellate di cibo non risolsero il
problema del vettovagliamento, ma garantirono un deciso margine di sopravvivenza ai soldati e
ai civili affamati .
128

Nelle aree afflitte da penuria alimentare, inclusa l’Unione Sovietica dopo la perdita nel 1941-42
di tre quinti delle terre coltivate e due terzi della fornitura di grano, tutti i governi cercavano di
mantenere un adeguato apporto calorico, in particolare per i lavoratori dell’industria e i minatori,
e garantire attraverso il razionamento un’equa distribuzione di derrate alimentari in quantità
sempre piú ridotta. Le quote del razionamento non furono mai uguali – i minatori e i
metalmeccanici tedeschi assumevano 4200 calorie al giorno, il consumatore «normale» solo
2400 –, e nel prosieguo della guerra si rivelò difficile in Unione Sovietica, Giappone e Germania
garantire perfino il diritto alle razioni, anche se la fornitura di cibo si interruppe del tutto solo in
Giappone negli ultimi mesi del conflitto. Una volta che le forze armate avevano preso la loro
quota, non c’era modo di mantenere gli standard alimentari d’anteguerra. Tutti i governi
optarono per un aumento dei cibi ipercalorici piuttosto che di proteine, grassi e prodotti freschi, il
che significò per la maggior parte dei consumatori urbani una dieta monotona e ricca di amido
con un calo del contenuto di vitamine. Era abbastanza per sopravvivere, anche se a lungo termine
finiva per minare la salute. L’alimento fondamentale del Nord Europa erano le patate; per l’Italia
il grano; per il Giappone e la Cina il riso. Le patate erano nutrienti e venivano facilmente
coltivate, anche in terreni poveri. In Gran Bretagna, tra il 1940 e il 1944 la produzione di patate
aumentò di oltre il 50 per cento; in Germania, il consumo crebbe del 90 per cento rispetto ai
livelli d’anteguerra . In Unione Sovietica, la produzione del 1944 superò del 134 per cento
129

quella degli anni precedenti la guerra, poiché per molti russi, compresi perfino quelli che
lavoravano nei kolchoz, era quella l’unica forma di nutrimento. Nell’aprile del 1942 il presidente
sovietico Michail Kalinin lanciò addirittura un appello nazionale sulle patate: «Se volete
partecipare alla vittoria sui fascisti tedeschi invasori, allora dovete piantare quante piú patate
potete» .
130

Altri cibi di tradizionale importanza si rivelarono difficili da mantenere. In Italia, dove il mais e
il grano erano un ingrediente fondamentale della dieta nazionale, la produzione agricola diminuí
costantemente dai livelli d’anteguerra, con l’ulteriore aggravio di dover esportare prodotti
alimentari per assicurarsi il petrolio e le materie prime indispensabili allo sforzo bellico; nel 1943
la produzione netta era calata di un quarto, con una riduzione del contenuto calorico del cibo
razionato fino a un misero 990, anche se la maggior parte del cibo veniva prodotta e consumata
al di fuori del regime di razionamento a prezzi rapidamente gonfiati . Il riso si rivelò il prodotto
131

piú minacciato non solo per i consumatori giapponesi, ma in tutta la regione asiatica colpita dalla
guerra. A partire dall’aprile 1941, i consumatori delle città giapponesi ebbero diritto a una
razione quotidiana di 330 grammi di riso, che fornivano una base di 1158 calorie, integrate da
piccole razioni di altri alimenti. La fornitura di riso dalle regioni dell’impero crollò nel 1944-45
in seguito al blocco marittimo americano, il che ridusse il consumo di cibo di quasi un quarto
rispetto ai livelli d’anteguerra, con un apporto calorico giornaliero che tra i consumatori urbani
precipitò fino a 1600-1900 calorie al giorno, insufficienti per sostenere le lunghe ore di lavoro . 132

Nelle regioni afflitte da penuria alimentare l’agricoltura si trovò ad affrontare molti problemi
comuni. La forza lavoro maschile era stata infatti ampiamente reclutata nelle forze armate; le
macchine e le attrezzature agricole erano usurate e in molti casi non potevano essere sostituite; i
fertilizzanti chimici competevano con gli esplosivi in quanto usavano le stesse sostanze; gli
animali da tiro e i trattori erano stati requisiti dall’esercito. In Germania, la fornitura di
fertilizzanti chimici si dimezzò negli anni della guerra, mentre tra il 1941 e il 1944 le quote di
ferro destinate alle attrezzature agricole scesero da 728 000 tonnellate a 331 000, mentre circa il
45 per cento della forza lavoro maschile venne reclutata nei primi anni di mobilitazione,
lasciando alle donne la gestione di molte fattorie. Nel 1945, il 65,5 per cento della manodopera
tedesca impegnata in agricoltura era femminile, coadiuvata da un gran numero di lavoratori e
prigionieri di guerra stranieri . In Unione Sovietica, i macchinari scomparvero dalle fattorie
133

collettive, ai fertilizzanti venne attribuita una priorità secondaria e la forza lavoro maschile si
ridusse a una mera frazione. Nel 1944, quattro quinti della manodopera rurale erano femminili;
squadre di donne si legavano insieme per tirare gli aratri che avrebbero dovuto essere trainati
dagli animali . A fare eccezione era l’esperienza britannica. Prima della guerra, la Gran Bretagna
134

faceva affidamento sui paesi d’oltreoceano per il 70 per cento delle sue forniture alimentari. La
carenza di spazio e la minaccia dei sottomarini tedeschi costrinsero il governo a introdurre un
programma per espandere rapidamente la produzione interna, il che significò investire in
macchinari, attrezzature e fertilizzanti per facilitare la transizione. La produzione di trattori
aumentò del 48 per cento, la produzione di trebbiatrici del 121 per cento, i cavapatate a forche
del 381 per cento; in genere, gli animali da tiro non vennero requisiti, dato che l’esercito
britannico era quasi completamente motorizzato. La produzione cerealicola nazionale passò da
4,2 milioni di tonnellate nel 1939 a 7,4 milioni nel 1944, sufficiente a evitare il razionamento del
pane durante tutta la guerra . Alla modernizzazione agricola e alle politiche a favore di una
135

migliore nutrizione, iniziate già prima della guerra, venne dato un sostegno sufficiente a
garantire che la popolazione inglese mangiasse meglio dei consumatori di qualsiasi altra zona
afflitta da penuria di cibo.
Poiché l’approvvigionamento alimentare era cosí cruciale, vennero trovati dei modi – alcuni
legali, molti altri illeciti – per integrare l’offerta di beni razionati e aumentare l’apporto calorico
quotidiano delle popolazioni. La necessità di alimenti di base comportò un calo degli allevamenti
e un aumento della superficie coltivabile. I risultati potevano essere sorprendenti. In Gran
Bretagna, tra gli ultimi anni di pace e il 1944, il contenuto calorico dei prodotti agricoli venne
quasi a raddoppiare. In Giappone, dove si insisteva su colture ipercaloriche, venne limitata o
proibita la produzione di cinquanta diversi prodotti vegetali, tra cui frutta, fiori e tè . Fu altresí
136

possibile ampliare la superficie coltivata incoraggiando semplicemente la popolazione, quella


urbana in particolare, a coltivare autonomamente il proprio cibo. Gli Stati Uniti fecero di tutto
per promuovere gli «orti della vittoria» (Victory Gardens), tanto che ne furono creati venti
milioni (in cui vennero tra l’altro registrati nel 1943 raccolti record di pomodori), mentre il
popolo britannico veniva esortato a «cavare la terra per la vittoria», trasformando interamente
prati all’inglese e giardini in appezzamenti destinati alla coltivazione di ortaggi e frutta. Nel 1943
vi erano in Gran Bretagna 1,5 milioni di orti, che arricchivano una dieta monotona di essenziali
integratori stagionali. In Giappone, si potevano trovare coltivazioni lungo i binari ferroviari o nei
cortili delle scuole . Gli orti furono la salvezza anche della forza lavoro sovietica. Un decreto del
137

Cremlino dell’aprile 1942 permetteva ai lavoratori delle città di sfruttare i terreni incolti, tanto
che nel 1944 esistevano 16,5 milioni orti dove si potevano produrre ortaggi e frutta e perfino
allevare animali per la carne. Un piccolo esercito di 600 000 volontari armati vigilava su
eventuali furti da parte della popolazione affamata .138
Nei casi in cui le carenze non potevano essere colmate, rimaneva sempre l’opzione del cibo
adulterato o dei surrogati. In Gran Bretagna, il pane bianco divenne beige nel 1942, quando fu
ordinato ai mugnai di utilizzare maggiormente i residui del grano; il riso bianco giapponese
divenne marrone per lo stesso motivo. Il Kokusaku Dayohin Fukyu Kyokai (Sezione alimenti
sostitutivi del ministero dell’Agricoltura) cercò di sviluppare una «dieta in polvere» utilizzando
ghiande e foglie di vite o di gelso essiccate e mescolate con farina. L’esperimento giapponese
fallí in gran parte, mentre in Germania i prodotti surrogati, da quelli tessili al caffè, ebbero
grande diffusione, benché poco apprezzati. Il tè veniva fatto con piante e bacche selvatiche, il
caffè principalmente con l’orzo. I berlinesi escogitarono subito dei soprannomi dispregiativi per i
risultati ottenuti, come «sudore di negro» per il caffè e «succo di cadavere» per il latte in polvere
adulterato. Nel 1941 venne diffuso in Italia un opuscolo dal titolo Non sprecate, che suggeriva
alla popolazione ricette di «pesce finto» o «carne finta» a base di pangrattato, dolci «autarchici»
senza zucchero né uova e caffè senza caffè .139

Quando tutto il resto falliva, c’erano le tentazioni del mercato nero. In realtà, il mercato esterno
ai settori dell’alimentazione e del razionamento, piú controllati, era per la maggior parte piú
grigio che nero. In Unione Sovietica, il regime vedeva di buon occhio un rifornimento al di fuori
delle razioni, cioè prodotti coltivati principalmente in piccoli appezzamenti e da vendere senza
controlli sui prezzi. Il prezzo degli alimenti non razionati era di oltre dieci volte piú alto, fuori
dunque dalla portata della maggior parte della forza lavoro urbana. In Italia e Giappone, con una
grande popolazione rurale come l’Unione Sovietica, le autorità potevano chiudere un occhio
davanti ai viaggi nelle campagne, dove la gente di città, sempre piú affamata, scambiava quel che
poteva per avere del cibo in piú. In Giappone, venivano spesso mandati i bambini, non solo
perché suscitavano piú simpatia negli agricoltori, ma anche perché era meno probabile che la
polizia li sanzionasse, come invece faceva con gli altri trasgressori. Il mercato nero giapponese
aveva iniziato a operare dagli anni Trenta in poi, non appena il cibo aveva cominciato a
scarseggiare. Nel 1938 era stata istituita la Keizai Keisatsu, la «polizia economica», che doveva
controllare ogni trasgressione e la manipolazione dei prezzi e che nei primi quindici mesi arrestò
due milioni di persone. Il commercio illegale divenne parte della vita, soprattutto se le famiglie
urbane volevano sopravvivere, per cui, alla fine, la polizia desistette e i controlli ebbero scarso
effetto . In Cina, anche lo Juntong, la polizia segreta, aveva la responsabilità di perseguire
140

accaparratori, contrabbandieri e operatori del mercato nero attivi in una terra di nessuno, dal
punto di vista economico, suddivisa tra il regime cinese, i signori della guerra locali e gli
occupanti giapponesi. Anche qui i milioni di multe comminate fecero ben poco per limitare il
commercio illegale .
141

Nelle società in cui il sistema di razionamento funzionava in modo piú efficace e i controlli erano
meglio organizzati il commercio illegale era considerato un crimine e trattato di conseguenza. In
Germania, già il 4 settembre 1939 era stato emanato un decreto contro i reati economici che
riguardava ogni tentativo di eludere i controlli sui rifornimenti di cibo e il regime di
razionamento. La pena piú severa era la morte, e non mancarono casi palesi trattati come un
tradimento del popolo e con la condanna a morte dei colpevoli . Anche in Germania emerse
142

tuttavia una zona grigia in cui si potevano compiere piccole infrazioni tra amici o con negozianti
affidabili, anche se il rischio era sempre alto. In Gran Bretagna, dove il razionamento copriva
una gamma meno ampia di prodotti alimentari, si trattava soprattutto di porre un freno agli
aumenti non ufficiali dei prezzi da parte di rivenditori locali, che avrebbero fatto salire
l’inflazione. I provvedimenti si rivelarono difficili da applicare fino a quando non venne istituito
un adeguato sistema di ispezione che, una volta reso operativo, portò a un rapido incremento dei
procedimenti giudiziari. Negli anni di guerra, il ministero dell’Alimentazione avviò non meno di
114 488 cause per violazione dei controlli sul mercato e commercio illecito, anche se le
punizioni non comportavano altro che una multa o un breve periodo di detenzione, per cui
durante il conflitto le violazioni continuarono ad aumentare nell’unico paese europeo in guerra
dove l’approvvigionamento alimentare, paradossalmente, era piú generoso e molto ramificato . 143

I timori dei governi che eventuali carenze nell’approvvigionamento alimentare potessero


compromettere la mobilitazione della popolazione per lo sforzo bellico si rivelarono infondati, né
ebbe a ripetersi la crisi rivoluzionaria esplosa alla fine della Prima guerra mondiale. Questo non
significava tuttavia che il cibo fosse disponibile per tutti su una base equa. Le élite politiche e del
mondo degli affari potevano mangiare bene e lo facevano senza ritegno, come risultava evidente
a chiunque fosse presente a un banchetto del Cremlino o a cena con Winston Churchill. In
Germania, i capi del partito avevano accesso a depositi opportunamente sigillati dove venivano
conservati tabacco, caffè e cibi di lusso. I ristoratori piú intraprendenti di Tokyo continuarono a
servire i ricchi del Giappone mentre il resto della popolazione diveniva sempre piú emaciata. Vi
era inoltre un netto contrasto tra le città e le campagne, tranne che in Unione Sovietica, dove i
lavoratori delle fattorie collettive potevano trattenere solo una frazione del raccolto e dovevano
procurarsi in qualche modo qualsiasi altro cibo extra. Vennero fatti vari tentativi di controllare la
quantità di produzione che i Selbstversorgeren, il termine tedesco che indicava gli
«autofornitori» delle campagne, potevano trattenere, attraverso una complessa normativa che
fissava le quote pro capite per pane, carne, burro, uova e latte. In Giappone, il mercato del riso
era controllato dal governo, con quote fissate per ogni fattoria al fine di limitare la quantità di
prodotto consumato dalla popolazione rurale . Si trovavano tuttavia vari modi per aggirare le
144

regole; quando gli sfollati dai bombardamenti arrivavano nelle campagne tedesche o giapponesi,
trovavano sia una ricca varietà e quantità di generi alimentari da lungo tempo scomparsi nelle
città sia contadini disposti a correre i gravi rischi connessi con la macellazione e
l’accaparramento illegale.
Negli stati piú vulnerabili, il consumatore urbano continuava a seguire una dieta gravemente
impoverita. Secondo alcuni calcoli fatti in Italia nel dopoguerra, tra i sette e i tredici milioni di
abitanti urbani del paese avevano avuto nel 1942-43 forniture di cibo «al di sotto del minimo
fisiologico»; negli anni centrali della guerra, le razioni sovietiche e giapponesi erano insufficienti
per mantenere condizioni fisiche normali . L’inedia era tenuta in qualche modo a bada in Unione
145

Sovietica e Giappone, e in entrambi i paesi i lavoratori faticavano con una dieta che significava
fame continua e salute in declino. Le quote del razionamento stabilivano un diritto ma non
significavano che il cibo fosse effettivamente disponibile. In alcuni casi, poi, erano gli stessi
funzionari a sottrarre per uso proprio gli alimenti destinati agli operai affamati . I cittadini
146

sovietici senza un’occupazione non avevano alcun diritto e non sappiamo quanti morirono di
fame durante la guerra. È difficile capire in che modo i lavoratori continuassero a seguire una
dieta cosí povera e a faticare spesso al freddo e in condizioni insalubri per dieci o quattordici ore
al giorno. In entrambi i paesi, non mancarono casi in cui gli operai morirono di malnutrizione e
sovraffaticamento accanto ai macchinari su cui lavoravano – una diretta conseguenza delle forti
pressioni sociali esercitate sulla popolazione lavoratrice da uno stato strettamente coercitivo al
fine di sostenere la collettività.
Nel caso dei lavoratori sovietici, la situazione migliorò con la riconquista dei territori occupati
dai tedeschi, mentre nel 1945 la popolazione urbana giapponese dovette affrontare la vera fame.
Le importazioni di riso dall’impero del Giappone si erano ridotte da 2,3 milioni di tonnellate nel
1941-42 ad appena 236 000 tonnellate nel 1944-45, mentre la produzione interna era passata da
dieci milioni di tonnellate a 5,8 milioni nell’ultimo anno di guerra . Le importazioni erano state
147

gravemente colpite dai sottomarini americani e dal blocco aereo, che nel 1945 aveva distrutto
quattro quinti della flotta mercantile giapponese; i bombardamenti avevano inoltre creato un
flusso di 8 milioni di profughi nelle campagne e arrestato il normale ciclo di raccolta e
distribuzione del cibo. Nei mesi estivi il consumo medio pro capite era sceso a 1600 calorie al
giorno, anche se il dato medio nascondeva ampie differenze. La crisi aveva suscitato tra le élite
conservatrici del Giappone il timore che la scarsità di cibo potesse innescare sconvolgimenti
sociali, se non addirittura una rivoluzione comunista come nella Russia zarista. Nel giugno del
1945, l’imperatore Hirohito era stato avvertito dal suo consigliere personale Kido Kōichi che la
crisi alimentare poteva benissimo significare che «la situazione andrà al di là di ogni possibile
salvezza». Nonostante la diffusa dislocazione sociale causata prima dalle bombe convenzionali e
poi da quelle atomiche, non si materializzò nessuna crisi rivoluzionaria, ma la decisione finale di
Hirohito sulla resa, presa il 10 agosto, fu motivata, almeno in parte, dalla volontà di scongiurare
le conseguenze sociali di una carestia che avrebbe potuto distruggere l’impero giapponese
dall’interno prima ancora che il conflitto militare fosse finito .
148

La carestia fu l’ultima conseguenza delle devastazioni della guerra sia in Europa sia in Asia.
Anche se in alcuni casi svolgeva un ruolo la natura, le peggiori carestie erano principalmente
causate dall’uomo. Nella Grecia occupata, le truppe tedesche pensavano di doversi sostentare
con i frutti della terra, il che significò dall’aprile 1941 che tutte le scorte di cibo vennero
sequestrate, insieme con gli animali da soma per trasportarle. Le requisizioni dei nazisti erano
spietate e condotte in assoluto disprezzo dei bisogni della popolazione delle comunità greche. Gli
sforzi del governo fantoccio ellenico per organizzare il razionamento fallirono per la resistenza
di 1,3 milioni di piccoli coltivatori a fornire grano a prezzi fissi, visto che potevano accumularlo
e venderlo al mercato nero . Nell’autunno 1941, per la principale area urbana di Atene-Pireo era
149

disponibile meno di un quarto del cibo necessario. Le razioni di pane, che potevano essere
distribuite solo irregolarmente, furono ridotte da 300 a 100 grammi al giorno; le mense per i
poveri rifornite dalla Croce Rossa e altri enti benefici riuscivano a sfamare solo 150 000 persone
su una popolazione affamata di oltre un milione . A settembre, mentre incombeva la carestia, gli
150

occupanti tedeschi si rifiutarono di offrire qualsiasi assistenza, sulla base del fatto che la Grecia
era una conquista italiana e che la responsabilità ricadeva pertanto sull’Italia. Dall’altra sponda
dell’Adriatico furono spedite delle derrate alimentari, insufficienti in ogni caso per far fronte alla
crisi generale dell’approvvigionamento e dei trasporti. Il cibo inviato dai paesi neutrali veniva
inoltre fermato dal blocco navale britannico. Ad Atene, nell’inverno 1941-42 il tasso di mortalità
aumentò di oltre sei volte, dato che le persone piú vulnerabili morivano di inedia o di malattie
contro le quali non potevano piú combattere. Solo nel febbraio del 1942 il governo britannico,
sotto le forti pressioni popolari, acconsentí ad allentare il blocco, ma soltanto a giugno venne
istituita una Swedish-Swiss Relief Commission per organizzare spedizioni di cibo attraverso il
blocco e solo in autunno furono finalmente disponibili quantità significative di rifornimenti.
Nell’agosto dello stesso anno, 883 000 ateniesi, circa l’80 per cento della popolazione, venivano
sfamati nelle mense per i poveri . La penuria alimentare persistette per tutto il periodo
151

dell’occupazione, ma lo spettro della fame svaní nel corso del 1942 e nel 1943. La Croce Rossa
ha calcolato che tra il 1941 e il 1944 almeno 250 000 persone morirono per le conseguenze
dirette o indirette della fame e della malnutrizione.
In Asia, tre grandi carestie portarono il bilancio delle vittime della guerra a un numero stimato di
oltre sette milioni di persone. Due di esse si verificarono in zone ancora sotto il controllo alleato,
vale a dire in Bengala, nell’India nord-orientale, e nella provincia della Cina nazionalista dello
Honan (Henan); la terza colpí l’area del Tonchino nell’Indocina francese, sotto l’occupazione
giapponese. Anche se le carestie erano state in parte determinate dal clima – gelate, cicloni o
siccità –, la perdita di derrate alimentari per cause naturali non sarebbe stata sufficiente a causare
la fame di massa. In tutti e tre i casi, la penuria alimentare fu il risultato di una distorsione del
mercato e di una distribuzione non uniforme a causa della guerra. Il Bengala risentí
pesantemente della perdita delle forniture di riso dalla Birmania, senza contare che nel corso del
1942 il riso prodotto dalle piccole fattorie contadine era stato comprato e ammassato dagli
speculatori. Il prezzo era cosí passato da nove rupie per una maund (37 chilogrammi) nel
novembre del 1942 a 30 rupie nel maggio successivo, un prezzo inaccessibile ai braccianti piú
poveri senza terra e agli stessi contadini che avevano venduto in anticipo le loro scorte. Il
governo indiano aveva peggiorato la situazione acquistando grano per sfamare la forza lavoro di
Calcutta e permettendo il libero mercato del riso. Quando la carestia colpí la regione, il governo
non seppe riconoscere la gravità dell’evento bloccando le spedizioni di riso dalle regioni con
eccedenze di produzione al fine di evitare che i giapponesi sequestrassero le barche (circa due
terzi delle 66 500 disponibili) o utilizzassero il prodotto per il loro sforzo bellico . Di fatto, le
152

eccedenze disponibili in altre province non vennero mobilitate per aiutare il Bengala. Le autorità
impiegarono parecchio tempo prima di ammettere il problema: il governatore britannico deplorò
le immagini di morti e moribondi riportate dalla stampa indiana e chiese un’azione di
propaganda per contrastare quegli «inutili racconti dell’orrore». Varie misure per razionare e
distribuire il riso disponibile furono prese soltanto nell’ottobre del 1943, quando si calcola
fossero ormai morti tra i 2,7 e i tre milioni di bengalesi .
153

Nella provincia dello Honan, nella Cina centro-settentrionale, la perdita delle importazioni di riso
dalla Birmania e dal Vietnam aggravò la povertà del raccolto, che nel 1942 era stato inferiore ai
precedenti. I proprietari terrieri piú ricchi e gli speculatori accumulavano i cereali comprati dai
contadini piú poveri, mentre la scomparsa dei buoi da tiro e della manodopera maschile riduceva
la produttività locale. Le province vicine si rifiutarono di distribuire le loro eccedenze di
granaglie e il governo nazionalista fece ben poco per alleviare efficacemente la situazione. Tra
ottobre del 1942 e la primavera del 1943 vi furono tra i due e i tre milioni di morti, circa un terzo
della popolazione. La medesima situazione si ripeté a grandi linee in Indocina, dove i giapponesi,
dopo un accordo firmato nell’agosto del 1942 con le locali autorità francesi di Vichy,
requisivano ogni anno un milione di tonnellate del riso migliore. Lo stato coloniale impose un
tributo di granaglie a milioni di piccoli produttori, mentre l’inflazione incoraggiava i mercanti
piú ricchi ad accumulare scorte. Nel Tonchino, la popolazione affrontò una situazione di carestia
o quasi carestia dalla fine del 1943 all’estate del 1945, quando ormai era morto un quinto degli
abitanti . In tutti e tre i casi di grave carestia, la penuria alimentare era stata creata
154

artificialmente dalle confische dell’esercito, dall’avidità degli intermediari e dall’incompetenza o


indifferenza delle autorità.
Forza lavoro maschile e femminile.
Al di là della finanza e dell’alimentazione, la mobilitazione di massa per la guerra totale
comportava il coinvolgimento dell’intera forza lavoro civile. Tale fenomeno rappresentava il
nucleo delle varie definizioni di guerra totale scaturite nel periodo prebellico: ogni risorsa umana
era chiamata a servire all’unico obiettivo della vittoria. Si trattava di una pretesa straordinaria,
radicata ancora una volta nella percezione dei successi e insuccessi registrati nella Grande
Guerra, ma non corrispondeva a un semplice svolazzo retorico. Tutti i governi coinvolti nella
guerra tentarono di mobilitare l’intera popolazione attiva con una finalità condivisa, e quando le
risorse di forza lavoro si rivelavano insufficienti, come accadde quasi dovunque, cercarono il
modo di mobilitare nuove fonti di manodopera ai margini della popolazione idonea al lavoro. Pur
combattendo su una linea del fronte diversa da quella dei militari, i lavoratori venivano definiti in
termini simili. La propaganda americana li esortava per esempio a considerarsi come «soldati
della produzione» a fianco dei GI oltreoceano. Il diritto del lavoro sovietico denominava
effettivamente i lavoratori come soldati. Un decreto del 26 dicembre 1941 definiva «diserzione»
l’assenza dal lavoro, punibile fino a otto anni di campo di prigionia. In Germania, dove i
lavoratori tedeschi non erano stati militarizzati in forma ufficiale, l’introduzione degli
Arbeitserziehungslager, i «campi di rieducazione al lavoro» gestiti col pugno di ferro dalla
Gestapo, doveva ricordare alla popolazione che «in guerra ciascuno deve contribuire con il
massimo del proprio lavoro», oppure subirne le conseguenze . 155

Non potevano essere che lo stato e le sue agenzie a organizzare la mobilitazione e distribuire la
forza lavoro. La manodopera era considerata cosí importante dal punto di vista strategico che le
agenzie di collocamento detenevano poteri praticamente assoluti. Poiché nella maggior parte dei
casi erano indipendenti dal resto della struttura che controllava l’economia di guerra,
l’integrazione tra il collocamento della forza lavoro e i programmi di produzione si dimostrava
raramente un’operazione semplice. In alcuni casi, risultavano divisi gli stessi organi preposti al
collocamento. Negli Stati Uniti, per esempio, il National War Labor Board doveva conciliare la
propria politica con la War Manpower Commission (due delle ben 112 nuove agenzie create per
lo sforzo bellico americano). In Germania, il Reichsarbeitsministerium (ministero del Lavoro del
Reich) doveva competere con due agenzie gestite dai capi del Partito: il Deutsche Arbeitsfront
(Fronte del lavoro tedesco) guidato da Robert Ley, e il Generalbevollmächtigter für den
Arbeitseinsatz, l’ufficio del generale plenipotenziario per la distribuzione della forza lavoro Fritz
Sauckel, istituito nel 1942 per aumentare il reclutamento di manodopera straniera. In entrambi i
casi, la mancanza di un programma d’azione unificato finí per minare la spinta a massimizzare la
produzione.
In Gran Bretagna, la politica della manodopera era piú centralizzata. Il collocamento della forza
lavoro (presto mutato in reclutamento) avveniva in base alla National Conscription Ordinance
emessa nell’aprile del 1939 e alla People’s Mobilization Ordinance di tre mesi dopo, che
stabilivano insieme un programma nazionale per gestire la forza lavoro durante lo sforzo bellico.
In seguito alla nomina del leader sindacale Ernest Bevin a ministro del Lavoro del gabinetto di
Churchill nel 1940, il National Service Act venne utilizzato per collocare la manodopera là dove
era necessaria, conferendo a Bevin un certo grado di potere esecutivo, che, come egli stesso
ammise dinanzi ai suoi colleghi di gabinetto, «non aveva precedenti nel paese» . L’introduzione
156

del Register of Employment nazionale permise a Bevin di avere una panoramica dell’intera
struttura della manodopera, semplificando cosí la ridistribuzione delle risorse lavorative man
mano che la guerra progrediva. Un tale potere sarebbe stato impossibile negli Stati Uniti, con la
loro forte tradizione di resistenza a ogni forma di controllo statale. Roosevelt, ormai frustrato,
cercò infine nel gennaio del 1944 di fare approvare dal Congresso un National Service Bill volto
a risolvere la carenza di manodopera, ma la legge incontrò notevoli resistenze e in definitiva
ricevette il voto contrario del Senato nel mese di aprile. Un giornalista salutò l’esito della
votazione come una chiara decisione «che il paese non doveva finire sotto una dittatura». Non
mancavano tuttavia dei programmi di collocamento della forza lavoro che incoraggiavano
l’occupazione in tempo di guerra. La War Manpower Commission collocò manodopera in non
meno di 35 milioni di diversi posti di lavoro – una forza lavoro intesa tuttavia come volontaria e
non arruolata .
157

Le strutture occupazionali degli stati belligeranti differivano principalmente per il livello di forza
lavoro concentrato nell’agricoltura, particolarmente alto in Giappone, Italia e Unione Sovietica e
molto basso invece in Gran Bretagna, dove l’industria e i servizi impiegavano la maggior parte
della manodopera. Per le economie piú industrializzate e urbanizzate, il problema centrale era
reindirizzare la forza lavoro dall’interno dell’industria civile a quella bellica, anziché assorbire
manodopera dall’industria esterna. In Germania, la percentuale della forza lavoro industriale che
produceva direttamente per lo sforzo bellico passò dal 22 per cento del 1939 al 61 per cento del
1943, mentre nella produzione manifatturiera fu rispettivamente del 28 e 72 per cento; in Gran
Bretagna, i settori industriali meno essenziali persero il 40 per cento della loro forza lavoro,
mentre nel 1943 un terzo della manodopera industriale era concentrato direttamente nella
produzione di armi . Là dove esisteva un settore agricolo sviluppato, la manodopera rurale venne
158

reclutata e, se necessario, riqualificata per l’industria. In Giappone, l’arruolamento della forza


lavoro nel corso della guerra trasferí dall’agricoltura agli armamenti 1,9 milioni di lavoratori; in
Unione Sovietica, nel 1941 quasi mezzo milione di giovani passò dalle campagne alle scuole per
i lavoratori di riserva, dove apprendevano le competenze richieste nelle principali industrie
belliche; in Italia, la carenza di metalmeccanici in tempo di guerra portò alla creazione di corsi di
addestramento che attingevano al bacino di manodopera della campagna e dell’artigianato . 159

Negli Stati Uniti, l’agricoltura perse quasi un milione di lavoratori tra il 1940 e il 1945, mentre le
cosiddette industrie del Gruppo I (che includevano perlopiú la produzione di armamenti)
passarono da 5,3 milioni di lavoratori nel 1940 a undici milioni tre anni dopo, assorbendo non
solo coltivatori ma anche impiegati e lavoratori della sfera dei consumi. Le economie differivano
inoltre nel grado di risorse umane disponibili, disoccupate o sottoccupate. La Germania aveva
raggiunto la piena occupazione nel 1939, ancora prima dello scoppio della guerra; anche
l’Unione Sovietica dichiarava di non avere risorse prive di occupazione, il che spiega perché le
ragazze si ritrovavano a lavorare dieci ore al giorno in condizioni pietose. In Gran Bretagna,
viceversa, nell’estate del 1940 c’erano ancora un milione di disoccupati; negli Stati Uniti
addirittura piú di otto milioni, con altri milioni di lavoratori a orario ridotto. Verso la fine della
guerra, il dato della disoccupazione americana era ormai trascurabile – 670 000 disoccupati a
fronte di una popolazione occupata di 65 milioni di persone –, mentre in Gran Bretagna la
disoccupazione si aggirava in media nel 1944 attorno allo 0,6 per cento della forza lavoro . 160

Quali che fossero le differenze nella struttura della forza lavoro, la caratteristica comune a tutte
le economie in lotta nel corso della guerra fu la carenza di lavoratori. Le pretese delle forze
armate e la necessità di mantenere almeno un minimo di approvvigionamenti per il resto della
popolazione circoscrivevano le dimensioni della forza lavoro disponibile al rifornimento di armi,
equipaggiamenti e materiali destinati allo sforzo bellico. Le carenze, soprattutto di lavoratori
qualificati, divennero urgenti ed evidenti nei primi mesi di guerra. Il problema era aggravato dal
fatto che la domanda di manodopera incoraggiava i lavoratori a trasferirsi là dove i salari erano
piú alti o le condizioni migliori e, nonostante gli sforzi per controllare la mobilità della
manodopera vincolando i lavoratori alle loro attuali occupazioni, i datori di lavoro o i direttori di
stabilimento, oppressi dall’urgente bisogno di ulteriore forza lavoro, si rendevano complici dei
lavoratori che si presentavano anche senza documenti in regola. In Unione Sovietica, i casi di
«diserzione» dal lavoro negli anni di guerra, nonostante le dure sanzioni, raggiunsero 1,88
milioni, anche se molti assenteisti trovavano una nuova occupazione da qualche altra parte e
continuavano cosí a contribuire allo sforzo bellico . La «diserzione» dal lavoro era diffusa anche
161

in Giappone, in quanto i principali datori di lavoro trovavano vari modi per indurre la
manodopera a rischiare un trasferimento non autorizzato in un nuovo posto di lavoro,
assumendosi perfino il rischio di falsificare i documenti necessari. I salari del mercato nero del
lavoro (yamichingin) venivano pagati a dispetto degli sforzi del ministero del Welfare sia per
rendere fisse le retribuzioni sia per controllare gli spostamenti dei lavoratori attraverso il
Registro nazionale del lavoro, introdotto nell’ottobre del 1941, e l’Ordinanza sul ricambio di
manodopera emessa quattro mesi dopo . Negli Stati Uniti, dove i lavoratori non conoscevano la
162

minaccia di sanzioni legali o campi di lavoro, risultò difficile far rispettare l’accordo stipulato in
tempo di guerra con i sindacati, in base al quale i posti di lavoro non potevano essere modificati
senza previa autorizzazione. Circa 25 milioni di americani si spostarono attraverso i confini delle
contee e degli stati alla ricerca di un lavoro migliore, tra cui un milione di afroamericani del Sud
che speravano di trovare migliori opportunità nelle città industriali del Nord. In quest’ultimo
caso, il pregiudizio continuò a seguire gli immigrati neri, tanto che solo il 3 per cento dei
dipendenti delle aziende che producevano armamenti era di colore, poiché i datori di lavoro
sostenevano che gli afroamericani mancavano di sufficienti competenze tecniche . 163

Esistevano numerosi modi per affrontare tali carenze. La cosa piú semplice era estendere l’orario
di lavoro e introdurre turni aggiuntivi. La giornata lavorativa di dieci-dodici ore per uomini e
donne di tutte le età divenne per molti la norma in tempo di guerra, giorno e notte. In Giappone e
Unione Sovietica, i lavoratori erano chiamati a lavorare sette giorni su sette senza ferie,
un’imposizione che lasciava regolarmente la gran parte di loro debilitata dalla stanchezza e dalle
malattie. La ricollocazione di lavoratori con l’«epurazione» della manodopera, ovvero il
trasferimento della forza lavoro da occupazioni non essenziali nei settori del consumo,
dell’artigianato o dei servizi, assicurò il necessario reclutamento sia di nuove leve per le forze
armate sia di lavoratori aggiuntivi per l’industria bellica. Il programma britannico della
«concentrazione della produzione», avviato nel marzo del 1941, conferí al governo il potere di
chiudere aziende in ventinove branche dell’industria e ricollocare le loro risorse nel nucleo di
imprese piú grandi ed efficienti di ciascun settore . In Germania, le operazioni di «epurazione»
164

della manodopera proseguirono durante tutta la guerra, anche se i maggiori trasferimenti di forza
lavoro si verificarono nei primi due anni del conflitto. Nel settore dell’artigianato tedesco,
oltremodo sviluppato, il 40 per cento della forza lavoro, tra cui molti dei lavoratori qualificati piú
anziani, era stato trasferito nel 1942 a occupazioni legate alla guerra; l’impiego di lavoratori di
sesso maschile nelle industrie del consumo diminuí nell’estate del 1940 di oltre mezzo milione di
persone, dato che gli uomini partivano per il servizio militare o erano trasferiti all’industria
bellica .
165

Molti risultati si potevano anche ottenere dalla «razionalizzazione» della produzione. Planimetrie
piú efficienti degli impianti, un uso piú esteso di macchine utensili specializzate ed economie di
scala derivanti dall’utilizzo di fabbriche piú grandi predisposte alla catena di montaggio erano tra
i molti modi per ridurre l’immissione di forza lavoro e aumentare cosí la produttività di ciascun
lavoratore. In Gran Bretagna e Germania, gli ispettori statali giravano di fabbrica in fabbrica,
prendendo nota della scarsa efficienza e costringendo le imprese ad adottare i metodi utilizzati
dalle aziende «stellari» di ciascun settore. Una migliore efficienza era sostanziale nelle industrie
della difesa, molte delle quali adottavano i suggerimenti offerti dalla forza lavoro con un passato
nelle fabbriche. In Germania, nel 1941 erano 3000 le imprese dotate di un sistema di
suggerimenti, divenute 35 000 nel 1943. Per le raccomandazioni che funzionavano meglio i
lavoratori potevano essere ricompensati con bonus o razioni extra . Per ogni aereo consegnato
166

nell’aprile del 1942, la produzione dei bombardieri Halifax presso la English Electric Company
richiedeva 487 lavoratori, ma già l’anno dopo ne erano necessari solo 220. Quando nel 1943 fu
introdotta in Germania la catena di montaggio nella produzione del Panzer III, le ore/uomo per
carro armato scesero da 4000 a 2000; la razionalizzazione della produzione dei motori
aeronautici tedeschi vide calare alla Bayerische Motoren Werke (BMW) il numero di ore/uomo
per motore da 3260 nel 1940 a 1250 nel 1943 . Il risultato rappresentò un significativo guadagno
167

in produttività (misurata in produzione pro capite) nelle industrie che lavoravano per lo sforzo
bellico. In Unione Sovietica, dove i metodi della produzione di massa erano stati ampiamente
adottati in tempo di guerra per far fronte alle richieste, il valore aggiunto per lavoratore nel
settore della difesa era di 6019 rubli nel 1940 e di 18 135 nel 1944. Questi dati si replicarono in
tutte le economie di guerra, mentre nell’agricoltura e nelle industrie di consumo la produttività
era generalmente stagnante o diminuiva a causa dei lavoratori privi di competenze che avevano
rimpiazzato gli uomini mobilitati .
168

La mobilitazione delle donne fu di primaria importanza per far fronte alla perdita degli uomini
mandati nelle forze armate e alle elevate richieste in tempo di guerra di manodopera industriale e
agricola. Cosí come si offrivano volontarie per il servizio militare, le donne rimaste sul fronte
interno capivano di essere parte integrante di ogni sforzo per affrontare la guerra totale, e non
semplici sostitute degli uomini assenti per l’emergenza bellica, anche se è questa l’impressione
che spesso si ricava dai resoconti di guerra sul reclutamento femminile. Donne come lavoratrici,
o votanti, o membri del partito, o volontarie in campo assistenziale facevano parte del tessuto
sociale prebellico tanto quanto gli uomini. In ogni paese, le donne avevano rappresentato una
parte considerevole della forza lavoro d’anteguerra, meno in Gran Bretagna e negli Stati Uniti
(circa il 26 per cento all’inizio della guerra), di piú in Germania e Giappone (rispettivamente 37
e 39 per cento), con una punta massima del 40 per cento in Unione Sovietica. Gli anni della
guerra assistettero a una notevole espansione dell’occupazione femminile in entrambe le
democrazie, mentre in altri paesi vi erano minori opportunità per prendere in mano la situazione,
per cui le donne venivano ricollocate dalla produzione civile a quella bellica oppure
continuavano semplicemente a gestire negozi, uffici o fattorie da sole, senza l’aiuto degli uomini.
A influire principalmente sulla diversa portata dell’occupazione femminile nell’industria era
ancora una volta la natura del settore agricolo. In Unione Sovietica, Giappone e Germania, la
manodopera rurale occupava tra un terzo e la metà dei lavoratori e gran parte della forza lavoro
delle campagne era femminile. Il rapporto tra donne e uomini andò aumentando man mano che la
guerra proseguiva: nel 1941, in Unione Sovietica, la metà della forza lavoro dei kolchoz era
femminile e divenne l’80 per cento nel 1945; in Giappone, le donne costituivano il 52 per cento
della forza lavoro nel 1940, il 58 per cento nel 1944; le donne tedesche rappresentavano nel 1939
il 54,5 per cento della forza lavoro rurale autoctona, il 65,5 per cento nel 1944 . Queste donne
169

erano indispensabili allo sforzo bellico a causa dell’elevata priorità attribuita


all’approvvigionamento alimentare e, di conseguenza, nessuno pensava di reimpiegarle
nell’industria. Nel contesto della guerra totale, le lavoratrici agricole facevano parte della prima
linea produttiva tanto quanto le donne impiegate nell’industria.
In Gran Bretagna e negli Stati Uniti, la mobilitazione delle donne rappresentò un sostanziale
guadagno netto, dato che milioni di donne, soprattutto sposate, scelsero di intraprendere
un’attività lavorativa. In America, la forza lavoro femminile crebbe tra il 1940 e il 1944 di 5,2
milioni di lavoratrici, di cui 3,4 milioni sposate e perlopiú con figli già grandi, e 832 000 single . 170

Per quanto tale incremento possa sembrare impressionante sulla carta, la grande maggioranza
delle donne americane rimase a casa, svolgendo in molti casi opera di volontariato con la Croce
Rossa o raccogliendo contributi per la campagna dei titoli di stato o prestando aiuto assistenziale
all’infanzia. Durante la guerra, in effetti, due milioni di donne abbandonarono un lavoro a tempo
pieno, mentre molte altre scelsero di entrare e uscire dal mondo del lavoro secondo le occasioni;
solo un quinto della forza lavoro femminile era attiva nel settore manifatturiero. La maggior
parte delle donne che dovette sostituirsi agli uomini assenti trovò lavoro in uffici, banche, negozi
e amministrazione federale . Il governo americano rifiutò qualsiasi idea di reclutamento
171

femminile. La reazione iniziale alla marea di donne in cerca di lavoro in ambito bellico fu
altrettanto timorosa quanto quella dell’esercito. Solo gradualmente, quando le imprese della
difesa iniziarono per necessità a reclutare e addestrare anche le donne, i manager maschi
superarono finalmente i loro pregiudizi.
Le donne si rivelarono ben presto delle lavoratrici piú affidabili – coscienziose, organizzate, abili
e pazienti – di molti uomini e dal 1942 furono sempre piú reclutate in occupazioni legate alla
guerra. «Al diavolo gli uomini», sbottò con un giornalista il direttore di un’industria aeronautica:
«Datemi delle donne» . In quel momento le donne costituivano piú della metà della forza lavoro
172

di alcuni dei grandi stabilimenti aeronautici appena costruiti in California, in cui i processi di
produzione di massa erano stati adattati per andare incontro alle lavoratrici con una minore
qualifica e ridurre lo sforzo fisico . Piú o meno lo stesso modello si sviluppò in Gran Bretagna,
173

dove il reclutamento di lavoratrici supplementari riguardò solo 320 000 donne nel primo anno di
guerra poiché i datori di lavoro negli impianti della produzione bellica esitavano ad assumere
manodopera femminile che si sarebbe dovuta addestrare a lavorare a fianco degli uomini, mentre
in numerosi casi i lavoratori di sesso maschile si risentivano per la «diluizione» della forza
lavoro. L’occupazione femminile passò da 6,2 milioni di donne nel 1939 a 7,7 milioni nel 1943,
anche se, come negli Stati Uniti, molte donne nuove al lavoro preferivano sostituire gli uomini in
impieghi di ufficio. Per far fronte alle richieste del tempo di guerra, nel 1942 e 1943 fu introdotto
un reclutamento limitato che riguardò dapprima le giovani donne single e le vedove senza figli,
poi, nel 1943, anche le donne sposate senza figli. La maggior parte della forza lavoro femminile
necessaria all’industria venne creata ridistribuendo nelle fabbriche che producevano attrezzature
militari donne che già lavoravano come operaie nell’industria civile . 174

Il ricollocamento caratterizzò altresí le economie della Germania e dell’Unione Sovietica, in cui


la percentuale di donne lavoratrici era già molto alta, in effetti piú elevata già all’inizio della
guerra rispetto ai livelli raggiunti alla fine del conflitto dai paesi democratici (cfr. tabella 4.3). In
Germania, la partecipazione al mondo del lavoro delle donne tra i quindici e i sessant’anni era
già del 52 per cento nel 1939, mentre il picco raggiunto dagli Stati Uniti in tempo di guerra fu del
36 per cento e in Gran Bretagna del 45 per cento.
Tabella 4.3. La proporzione delle donne nella forza lavoro nazionale, 1939-44 (dati percentuali).
(Dati sovietici: Urss I = l’intera occupazione nel settore pubblico; Urss II = lavoro agricolo collettivo).
In Unione Sovietica, la partecipazione femminile a tutti i rami della forza lavoro era eccezionale
per gli standard internazionali: 41 per cento della manodopera industriale nel 1940; 53 per cento
nel 1943; 21 per cento degli occupati nel settore dei trasporti prima della guerra; 40 per cento nel
1943; e cosí via. Sia in Germania sia in Unione Sovietica, la maggior parte delle lavoratrici
supplementari impiegate nei settori bellici venne creata non tanto con aggiunte ex novo bensí
trasferendo la forza lavoro dagli impianti civili a quelli della difesa, man mano che le fabbriche
venivano convertite o si chiudevano le attività inessenziali. In Unione Sovietica le donne erano
soggette al reclutamento del lavoro e le uniche senza un’occupazione erano quelle in età troppo
avanzata, oppure malate o gravate dalla cura dei figli.
In Germania, il regime nazista accarezzò l’idea di reclutare l’intera popolazione femminile, ma
alla fine si affidò al reclutamento delle giovani donne single, a cui non era lasciata altra scelta
che lavorare, e incoraggiò quelle sposate con figli a fare mezzi turni di sei o sette ore – opzione
accettata nel 1944 da 3,5 milioni di donne, da aggiungersi agli oltre 14,8 milioni che già
lavoravano. Milioni di donne svolgevano attività di volontariato nella difesa civile, nei servizi di
pronto soccorso o nelle organizzazioni assistenziali del partito. Gli sforzi per reclutare piú del 51
per cento di donne nella forza lavoro nazionale – obiettivo finalmente raggiunto nel 1944 –
furono tuttavia minati dalla campagna di bombardamenti alleati che costrinse milioni di donne e
bambini a sfollare nelle campagne, impedendo cosí alle madri la prospettiva di svolgere un utile
lavoro di guerra. Nel 1945, allorché il Giappone subí pesanti bombardamenti, le donne
costituivano il 42 per cento della forza lavoro nazionale, concentrata principalmente
nell’agricoltura e nel commercio. Il reclutamento di giovani donne tra i sedici e i venticinque
anni era stato introdotto nel 1941, mobilitandone un milione; nel settembre del 1943, esso era
stato esteso alle ragazze di quattordici e quindici anni, aggiungendo cosí altri tre milioni di
donne. La forza lavoro femminile veniva perfino mandata a lavorare nelle miniere, dove
l’occupazione raddoppiò negli anni della guerra . 175

Il reclutamento di milioni di donne nel lavoro rivolto allo sforzo bellico non pose fine alla
discriminazione di genere né favorí una maggiore parità tra i due sessi. Le donne raramente
assumevano ruoli di supervisione o svolgevano i lavori piú qualificati. Quelle che lavoravano
negli uffici occupavano di solito le posizioni meno pagate, come mansioni da impiegata, di
segreteria o di servizio. Nel corso della guerra, la quota di lavoratrici americane classificate come
artigiane, caposquadra o operaie specializzate aumentò solo dal 2,1 per cento al 4,4. Nel 1944, la
paga media delle donne era di 31 dollari la settimana, laddove gli uomini ne guadagnavano 55
anche quando svolgevano piú o meno lo stesso lavoro. In Gran Bretagna, il salario medio delle
donne era ancora la metà di quello degli uomini . Le condizioni di lavoro di donne e ragazze
176

andavano spesso al di là di ciò che molti avrebbero potuto sopportare per anni, fatta eccezione
per donne come Elizaveta Kočergina e altri milioni di lavoratrici sovietiche, costrette a lavorare
ininterrottamente fino a che non crollavano fisicamente. Le aziende abituate a impiegare
principalmente uomini erano spesso lente ad allestire bagni o strutture mediche per le donne e si
aspettavano tranquillamente che reggessero turni di dieci ore. Quando tra le donne si
registravano valori superiori alla media nel tasso di assenteismo, per esaurimento, malattia o
problemi familiari, i pregiudizi maschili si facevano piú forti. Molte donne erano soggette a
pressioni ben piú grandi degli uomini, costrette a occuparsi dei figli, andare alla ricerca dei beni
razionati e svolgere le faccende domestiche nelle ore di cui ancora disponevano tra il lavoro e il
sonno. Per aiutarle ad affrontare questa duplice responsabilità, lo stato provvedeva ad asili nido
per i bambini. Nel 1944, si contavano 1,2 milioni di neonati negli asili nido tedeschi; negli Stati
Uniti, nonostante la riluttanza del governo a considerarla una responsabilità dello stato, si
allestirono oltre 30 000 strutture per la prima infanzia, che ospitavano tuttavia solo 130 000
bambini. La pubblicità sui mezzi di informazione reclamizzava una serie di centri che erano mal
gestiti da personale indifferente alle esigenze dei bambini, con il risultato che alcune madri
lavoratrici preferivano lasciare i propri figli da soli a casa, scatenando un dibattito a livello
nazionale sulla difficile situazione dei «bambini abbandonati a loro stessi» e l’ondata di
delinquenza giovanile che si diceva fosse incoraggiata dalla negligenza del genitore . 177

Agli imperi del «Nuovo ordine» rimaneva ancora una risorsa da sfruttare. Dai territori
conquistati si potevano reclutare lavoratori, nella maggior parte dei casi forzatamente, al fine di
colmare le carenze della manodopera nazionale. In milioni si trovarono a lavorare per le forze
occupanti in cantieri, costruzione di strade e ferrovie oppure in fattorie e fabbriche delle zone
occupate. Si stimava che venti milioni di europei lavorassero agli ordini dei tedeschi, oltre a un
numero sconosciuto di lavoratori nel nuovo impero asiatico del Giappone. Un gran numero di
lavoratori cinesi venne arruolato per lavorare allo sforzo bellico giapponese in Manciuria, nella
Mongolia Interna, in Corea e nell’arcipelago nipponico. Tra il 1942 e il 1945, circa 2,6 milioni di
cinesi furono arruolati di fatto come schiavi, costretti a lavorare in condizioni tremende senza
alcuna retribuzione . Ai lavoratori della colonia giapponese della Corea andò meglio, grazie
178

soprattutto all’elevata domanda di manodopera locale da parte delle industrie create nella
penisola per soddisfare le esigenze belliche giapponesi. Nel 1933 lavoravano nell’industria,
nell’edilizia e nei trasporti solo 214 000 coreani, ma dieci anni dopo erano già divenuti 1,75
milioni, di cui 400 000 nel settore manifatturiero. Quasi tutti i coreani erano classificati al livello
piú basso della manodopera, nonostante un numero crescente di ingegneri e uomini d’affari
coreani che traevano profitto dalle esigenze della produzione bellica . Altri coreani erano meno
179

fortunati. Il programma di lavoro forzato venne infatti esteso anche alle colonie giapponesi, e si
stima che verso la fine della guerra 2,4 milioni di coreani, un quarto della forza lavoro
industriale, lavorassero nelle fabbriche e miniere giapponesi in condizioni molto meno
favorevoli .
180

L’economia di guerra tedesca era molto piú sviluppata di quella giapponese e, perciò, il suo
bisogno di forza lavoro era di gran lunga maggiore. Durante tutta la guerra il paese fece
affidamento sull’impiego di manodopera non tedesca, che divenne una frazione sempre piú
grande della forza lavoro. Alla fine del 1944 vi erano 8,2 milioni di stranieri che lavoravano in
Germania e nei territori annessi – nella «Grande Germania» –, accanto a una forza lavoro di 28
milioni di tedeschi etnici. Si stima che nel corso dell’intera guerra tra 13,5 e 14,6 milioni di
lavoratori stranieri, prigionieri di guerra e detenuti dei campi di lavoro abbiano arricchito il
bacino della manodopera tedesca nel Reich stesso, piú di un quinto della forza lavoro civile nel
1944 . La forza lavoro straniera comprendeva un ampio spettro di nazionalità, organizzate in
181

categorie distinte che il regime hitleriano trattava in modi diversi. Una piccola parte della forza
lavoro straniera includeva la manodopera volontaria. Nella primavera del 1939 in Germania
c’erano già 435 000 lavoratori stranieri, grazie soprattutto alle opportunità di occupazione e ai
maggiori guadagni generati dal riarmo su larga scala. Molti venivano da paesi vicini che presto
sarebbero stati conquistati, divenendo di lí a un anno territorio tedesco a tutti gli effetti; un
numero considerevole era composto da immigrati dall’Italia, alleata della Germania, per un totale
di 271 000 presenze nel 1941 . Dopo l’occupazione dei Paesi Bassi e della Francia nel 1940, un
182

numero significativo di altri volontari attraversò la frontiera per lavorare nelle aziende tedesche:
circa 100 000 lavoratori olandesi e 185 000 francesi. Nei territori sottratti alla Polonia nel 1939
lavoravano per il Reich circa tre milioni di polacchi . Gran parte di questa manodopera
183

«volontaria» poteva considerarsi tale solo in un senso ben limitato. La coercizione economica
causata nei paesi occupati dall’aumento della disoccupazione mentre la produzione diminuiva
spingeva i lavoratori ad accettare un impiego in Germania. In Italia, Mussolini aveva promesso a
Hitler un flusso di migranti italiani in cambio di forniture tedesche di materiale bellico
essenziale. I funzionari fascisti iniziarono allora a incoraggiare, anche facendo pressioni, i
lavoratori dell’agricoltura e dell’industria italiana a trasferirsi in Germania. In base a un accordo
stipulato in tempo di guerra tra i due dittatori, il governo italiano aveva l’obbligo di pagare le
rimesse inviate alle famiglie rimaste in Italia. L’economia tedesca non solo si era procurata della
forza lavoro ma era anche riuscita a evitare di doverla pagare per intero .
184

Lo stesso accadeva nello sfruttamento della forza lavoro dei prigionieri di guerra. La
Convenzione di Ginevra del 1929, ratificata da tutte le potenze belligeranti a eccezione
dell’Unione Sovietica e del Giappone, limitava l’impiego della manodopera dei prigionieri di
guerra ai soli settori non direttamente correlati allo sforzo bellico. Tali restrizioni furono
osservate piú o meno scrupolosamente dai tedeschi nel caso dei prigionieri inglesi e americani.
In un primo momento furono applicate anche nei confronti dei 300 000 prigionieri di guerra
polacchi portati nel Reich nel 1939 e messi a lavorare nelle fattorie, com’era consentito dalla
Convenzione. Nove mesi dopo l’esercito tedesco catturò 1,6 milioni di prigionieri di guerra
francesi, un terzo dei quali lavoratori agricoli. Piú di un milione fu trattenuto in Germania e metà
fu messa a lavorare, come nel caso dei polacchi, nelle campagne tedesche. Con l’accresciuto
bisogno di manodopera nell’industria, tuttavia, si escogitarono modi per aggirare le restrizioni di
Ginevra. Dal momento che agli occhi dei tedeschi lo stato polacco aveva cessato di esistere tout
court, si sosteneva che i prigionieri potevano essere considerati dei civili e come tali essere usati
per compiti non concessi dalla Convenzione. Per evitare le restrizioni previste dal diritto
internazionale, nel caso dei francesi venne introdotta nell’aprile del 1943 una categoria speciale,
quella del prigioniero «trasformato» in travailleur libre: per ogni lavoratore inviato forzatamente
dalla Francia al Reich, un prigioniero volontario veniva classificato in Germania come
«lavoratore civile», qualificato quindi come forza lavoro industriale e regolarmente salariato.
Verso la metà del 1944, circa 222 000 prigionieri francesi avevano approfittato di
quell’accordo .
185

Ben diversa era la situazione dei soldati dell’Europa orientale e meridionale catturati in guerra.
Con i prigionieri sovietici non sorgeva alcun problema di ordine legale, dato che l’Unione
Sovietica non aveva ratificato la Convenzione di Ginevra. La maggior parte dei prigionieri di
guerra morí o fu uccisa nel primo anno dello scontro tra tedeschi e sovietici e solo con riluttanza
Hitler accettò alla fine di impiegare prigionieri dell’Armata Rossa all’interno della Grande
Germania. Il numero rimase contenuto – nell’agosto del 1944 vi erano 631 000 prigionieri di
guerra sovietici che lavoravano in Germania –, anche perché molti prigionieri lavoravano per le
forze armate e le strutture di comando tedesche nei territori orientali occupati. La Convenzione
non garantí nemmeno alcuna tutela per i soldati italiani fatti prigionieri dall’ex alleato dopo che
l’Italia firmò l’armistizio nel settembre del 1943. I 600 000 italiani deportati nel Reich furono
classificati come «internati militari» anziché prigionieri di guerra, in modo da poter essere
utilizzati per qualsiasi tipo di lavoro. Vilipesi dalle autorità tedesche e da buona parte
dell’opinione pubblica come traditori della causa dell’Asse, gli internati italiani erano malnutriti,
male alloggiati e vittime di bullismo e molestie sul lavoro. Alla fine della guerra, 45 600 italiani
erano morti in prigionia .
186

Nel 1942, la carenza di manodopera non poteva essere soddisfatta né dall’immigrazione


volontaria né utilizzando i prigionieri di guerra. Nella primavera di quell’anno, il regime nazista
optò per la prestazione di lavoro coatto nel Reich da parte delle popolazioni sparse in tutti i
territori occupati. Il cambiamento trovò espressione nel marzo del 1942 con la nomina del
Gauleiter nazionalsocialista della Turingia, Fritz Sauckel, a generale plenipotenziario per la
distribuzione della forza lavoro. Il lavoro forzato era già stato imposto alla popolazione polacca,
tanto che alla fine del 1941 vi erano oltre un milione di polacchi che lavoravano in Germania,
principalmente nel settore agricolo e in quello minerario . Sauckel aveva la responsabilità di
187

trovare molti piú lavoratori per il settore degli armamenti in espansione. La strategia si rivelò piú
facile da implementare nei territori orientali che nelle regioni occidentali occupate. Nel dicembre
del 1941 venne introdotto l’obbligo generale di lavorare per tutti gli uomini dai quindici ai
sessantacinque e per le donne dai quindici ai quarantacinque anni. Non mancarono dei volontari,
e le fotografie di ucraini e bielorussi sorridenti mentre salgono sui treni diretti in Germania
vennero usate per incoraggiare gli altri a seguirne l’esempio. Pochi lo fecero, per cui nella
primavera del 1942 venne imposto il lavoro coatto con regolari retate di giovani uomini e donne
sovietici, spesso consegnati ai tedeschi da collaborazionisti del luogo che avevano ricevuto le
quote del numero di lavoratori richiesti dalle autorità del Reich ed erano liberi di ricorrere a
qualsiasi mezzo per effettuare i rastrellamenti e consegnare i prigionieri. Nel primo anno vennero
mandate in Germania 1,48 milioni di persone, di cui 300 000 furono tuttavia rispedite indietro
perché in età troppo avanzata, o troppo malate, oppure, nel caso delle donne, in stato di
gravidanza. I rastrellamenti proseguirono negli anni successivi e nell’agosto del 1944 si
trovavano in Germania 2,1 milioni di lavoratori sovietici, di cui poco piú della metà di sesso
femminile. Erano tutti costretti a indossare un bracciale su cui era cucita una grande «O» per
Ostarbeiter, cioè «lavoratore dell’Est» .
188

Il reclutamento della forza lavoro coatta nell’Europa occidentale e meridionale fu piú


problematico, anche perché gli stati esistenti non erano stati eliminati con la conquista. La
coscrizione della manodopera francese doveva essere negoziata con il governo del maresciallo
Pétain, con sede nella città di Vichy. Nel giugno del 1942 Sauckel raggiunse un accordo con il
primo ministro francese Pierre Laval per la fornitura di 150 000 lavoratori all’industria tedesca.
Laval, che sperava ancora in una vittoria tedesca, aveva acconsentito ad autorizzare gli uffici di
collocamento francesi a iniziare una registrazione obbligatoria e a mandare dei lavoratori nel
Reich per due anni (la cosiddetta relève). Dato che l’iniziativa si rivelò tutt’altro che facile da
realizzare, nel febbraio del 1943 lo stato francese istituí il Service du travail obligatoire (STO,
servizio di lavoro obbligatorio), che considerava tutti gli uomini di età compresa tra i venti e i
cinquant’anni idonei a lavorare per i tedeschi, tanto in Francia quanto in Germania. Nel 1944
circa quattro milioni di persone lavoravano direttamente per le forze di occupazione tedesche,
mentre le cosiddette quattro «azioni di Sauckel» (iniziative di «reclutamento») rastrellarono tra il
1942 e il 1944 728 000 persone tra uomini e donne da trasferire in Germania . Le «azioni»
189

svolte nei Paesi Bassi e in Belgio procurarono circa mezzo milione di lavoratori aggiuntivi. Dopo
che l’Italia si arrese agli Alleati, Sauckel si recò a Roma nel settembre del 1943 per esigere che
un analogo programma fosse attuato nei due terzi della penisola occupata dalle forze tedesche. Il
suo obiettivo era reclutare altri 3,3 milioni di lavoratori italiani, ma come risultato ottenne
appena il trascurabile numero di 66 000 persone da aggiungere agli «internati militari» italiani e
ai 100 000 emigrati volontari che erano rimasti bloccati in Germania dopo che l’Italia aveva
abbandonato la lotta . A quel punto, le popolazioni locali avevano ormai compreso che cosa
190

significasse il reclutamento della forza lavoro. In Italia e Francia, giovani uomini e donne
abbandonarono le loro case per unirsi ai movimenti della Resistenza o trovarono altri modi per
sottrarsi alla leva. I miseri risultati ottenuti dalle successive «azioni» e gli spietati
bombardamenti sul fronte interno provocarono un cambiamento nella politica tedesca. Gli appalti
furono a quel punto decentralizzati e trasferiti alle aree occupate, per cui si sarebbe dovuto
arruolare sotto coercizione per lavorare nel Reich un numero piú basso di lavoratori.
Le condizioni variavano a seconda dei diversi gruppi di lavoratori stranieri, ma nei casi peggiori
erano sufficientemente dure da produrre negli anni di guerra un tasso di mortalità pari al 18 per
cento tra tutti i soggetti al lavoro coatto . Ai lavoratori dell’Europa occidentale andò forse
191

meglio, con razioni alimentari paragonabili a quelle dei tedeschi, almeno fino alla diffusa penuria
di cibo che caratterizzò l’ultimo anno di guerra. Non erano lavoratori schiavi, come spesso si
lascia intendere, e ricevevano regolari salari. Una volta detratte le tasse speciali e il costo del
vitto e alloggio, restavano in media circa 32 marchi a settimana, contro i 43 degli operai tedeschi.
Essi godevano inoltre delle medesime prestazioni assistenziali in caso di malattia o infortunio;
dovevano rispettare il coprifuoco ed erano soggetti sia a controlli su quali servizi e negozi
potevano utilizzare sia alle stesse dure regole dei lavoratori tedeschi in caso di indisciplina o
violazione del contratto, pur potendo finire anche in un campo di concentramento per persistente
cattiva condotta.
Per i lavoratori dei territori orientali, invece, le condizioni erano molto diverse. Erano
generalmente alloggiati in rozze baracche nei pressi del luogo di lavoro e soggetti a una rigorosa
regolamentazione degli spostamenti; detratti i costi della sistemazione e del cibo di scarsa
qualità, ricevevano non piú di sei marchi alla settimana per una giornata lavorativa di dieci-
dodici ore. Anche se molti trovarono forse delle condizioni sostanzialmente migliori rispetto a
quelle che avevano lasciato in Unione Sovietica, a parte i provvedimenti disciplinari non molto
diversi, il rendimento produttivo dei lavoratori orientali rimase in un primo momento ben al di
sotto di quello dei lavoratori tedeschi o dell’Europa occidentale. Un sondaggio sui lavoratori
stranieri effettuato nel 1942 rilevò che i lavoratori francesi (la maggior parte dei quali erano
ancora volontari in quell’anno) avevano un tasso di produttività attorno all’85-88 per cento di
quello di un lavoratore tedesco; il dato scendeva al 68 per cento nel caso dei russi e del 55 per
cento per i polacchi . Si capí ben presto che migliorando l’approvvigionamento alimentare e
192

innalzando i salari sarebbe migliorato anche il rendimento produttivo. La paga dei lavoratori
dell’Est aumentò fino a una media di 9,8 marchi nel 1942 e a 14 marchi alla settimana nel 1943
per tutti i lavoratori in regola. Tra la forza lavoro dei territori orientali, i lavoratori che
registravano maggiore successo erano le donne, presto impiegate in gran numero nella
produzione di armamenti ed equipaggiamenti militari. Sauckel era particolarmente propenso a
reclutare le donne sovietiche, perché, a suo avviso, mostravano una sana resistenza quando si
trattava di lavorare nelle fabbriche: «Possono reggere per dieci ore», riferí a un pubblico di
funzionari tedeschi nel gennaio del 1943, «sono in grado di fare ogni tipo di lavoro da uomo». Se
rimanevano incinte già dopo essere state inserite in una struttura di lavoro, erano costrette ad
abortire o a lasciare il bambino in una casa dove erano riportate subito dopo il lavoro in
fabbrica . Nel 1944, la loro produttività era calcolata tra il 90 e il 100 per cento rispetto a quella
193

di un lavoratore tedesco; i lavoratori maschi sovietici, impiegati principalmente nel settore edile
e minerario, potevano raggiungere l’80 per cento.
Tutti i sondaggi indicavano l’impossibilità di far lavorare con altrettanta efficienza la
manodopera dell’Europa meridionale, men che meno i lavoratori forzati greci. I livelli di
produttività rimanevano ovunque tra il 30 e il 70 per cento di quelli tedeschi. Tra i prigionieri di
guerra messi a lavorare nei cantieri, quelli britannici erano tra i peggiori, con un livello di
produttività inferiore di piú del 50 per cento rispetto a quello di un lavoratore tedesco . In molti
194

di questi casi, la lentezza del lavoro e l’indisciplina riflettevano una protesta contro la
coercizione e il duro regime imposto agli stranieri. Comunque fosse, la forza lavoro non tedesca
era indispensabile. Nel tentativo di ottenere di piú dalla manodopera straniera, l’organizzazione
del lavoro Deutsche Arbeitsfront affidò all’Institut für Arbeits und Organisationspsychologie
(Istituto di psicologia del lavoro) l’elaborazione di test attitudinali da sottoporre a mezzo milione
di lavoratori stranieri, per assicurarsi che fossero assegnati a compiti idonei alle loro capacità. Il
programma venne addirittura esteso ai prigionieri debilitati dei campi di concentramento mandati
a lavorare nell’industria, dove potevano sopravvivere non piú di qualche settimana . Su tutti i
195

lavoratori stranieri si poteva imporre la disciplina piú facilmente che su quelli tedeschi, in
particolare sull’elevata percentuale di lavoratrici. Nel 1944, l’assenteismo medio giornaliero allo
stabilimento Ford di Colonia raggiunse un picco del 25 per cento tra gli operai tedeschi, ma una
media solo del 3 per cento tra quelli stranieri . Nell’agosto del 1944 i lavoratori stranieri
196

costituivano il 46 per cento della forza lavoro rurale, il 34 per cento di tutti i minatori e un quarto
di tutti gli operai dell’industria . Nel settore degli armamenti, un terzo della forza lavoro era
197

formato da stranieri, costretti a costruire attrezzature militari proprio per lo stato la cui
aggressione li aveva messi in quella posizione .198

Allorché nel 1944 iniziò a scemare l’arruolamento dei lavoratori stranieri e si diffusero sempre
piú azioni di resistenza e fughe, venne aumentato il numero dei lavoratori forniti dal sistema dei
campi di concentramento. Nell’agosto del 1942 i prigionieri rinchiusi nei campi tedeschi erano
115 000, destinati a diventare 525 286 nell’agosto del 1944 e 714 211 nel gennaio del 1945. In
quella fase, quasi tutti i prigionieri non erano tedeschi – tra loro si contavano combattenti della
Resistenza, oppositori politici, lavoratori stranieri recalcitranti ed ebrei sopravvissuti alle
deportazioni e agli assassinii di massa nei centri di sterminio. Nella primavera del 1942,
l’organizzazione delle SS di Heinrich Himmler istituí lo SS-Wirtschafts-und
Verwaltungshauptamt (WVHA, Ufficio centrale economico e amministrativo) incaricato di
sfruttare appieno le risorse di forza lavoro disponibili nei campi, inclusi i detenuti ebrei. Circa un
quinto degli ebrei deportati nei campi di sterminio venne selezionato come possibile
manodopera, principalmente giovani uomini e donne. Questi prigionieri erano a tutti gli effetti
dei lavoratori schiavi, usati come manodopera in imprese delle SS o concessi in piccole quantità
a centinaia di ditte tedesche che pagavano al Tesoro del Reich 6 marchi al giorno per i lavoratori
dei campi con una specializzazione e 4 marchi per uomini e donne senza una qualifica . Verso la
199

fine della guerra vi erano migliaia di campi sparsi in tutta la Germania, con colonne di lavoratori
esausti ed emaciati in uniformi a strisce, bastonati, vessati o ammazzati dalle guardie tedesche –
uno spettacolo che si ripeteva ogni giorno. Le condizioni di vita erano rese deliberatamente
atroci, benché lo scopo fosse quello di ricavare quanto piú lavoro possibile dagli sfortunati
prigionieri, in una crudele parodia della guerra totale.
Sul gradino piú basso della scala si trovavano gli ebrei vittime della mobilitazione della forza
lavoro. Già nel 1938 era stato introdotto un programma di lavori forzati destinato agli ebrei e
gestito dalla Reichsarbeitsverwaltung (Ufficio del lavoro del Reich). Gli ebrei di sesso maschile
erano stati costretti a registrarsi per il lavoro coatto e già nell’estate del 1939 20 000 ebrei
lavoravano in unità segregate, principalmente nei cantieri edili della Germania; nel 1941 ve
n’erano 50 000, sparsi in una vasta rete di campi e sottocampi, alcuni dei quali gestivano solo un
manipolo di lavoratori per volta. Il modello venne reiterato nella Polonia occupata, dove circa
700 000 ebrei erano sfruttati in base a un programma di lavori forzati indipendente dal sistema
dei campi gestiti dalle SS . Questi lavoratori non erano ancora prigionieri, ma nel 1941 le SS
200

subentrarono alla regolare amministrazione dell’Ufficio del lavoro del Reich e assunsero la
direzione del programma di lavori forzati riservato agli ebrei; le unità segregate furono cosí
assorbite dal piú ampio sistema dei campi e affiancate agli ebrei selezionati nei lager come forza
lavoro anziché per una morte immediata. La carenza di manodopera fece sí che all’inizio del
1943 circa 400 000 lavoratori forzati ebrei lavorassero ancora nella Grande Germania e nella
Polonia occupata. Le condizioni di vita della forza lavoro ebraica erano state rese
intenzionalmente peggiori di quelle degli altri detenuti o lavoratori coatti, anche se la necessità di
manodopera era tale che di solito non venivano subito costretti a lavorare fino alla morte. La fine
arrivava lentamente per malnutrizione e malattie, finché non si spremeva l’ultimo granello di
forza da uomini e donne ritenuti nemici mortali del Reich. Le cifre esatte del numero dei morti in
tutte le diverse forme di manodopera forzata e schiavizzata sono difficili da calcolare, anche se
all’interno del sistema dei campi delle SS l’aspettativa di vita era inferiore a un anno. Molti dei
2,7 milioni di lavoratori morti appartenevano al sistema dei campi, di cui una percentuale
significativa di ebrei provenienti da tutta l’Europa . Un simile livello di mortalità dimostrava che
201

perfino l’irrazionalità della guerra totale aveva i suoi limiti, visto che il regime si trovava a
lottare tra le sue priorità razziste in conflitto con le necessità dell’economia bellica.
In Unione Sovietica, lo sfruttamento della manodopera dei prigionieri rifletteva il medesimo
paradosso. Nella rete nazionale dei cinquantanove GULag, cosí come nei sessantanove campi
provinciali e colonie di lavoro forzato istituiti per la prima volta nel decennio antecedente alla
guerra, erano obbligatorie lunghe giornate di lavoro. Negli anni di guerra, circa due terzi dei
prigionieri lavoravano nell’industria, il resto nel settore minerario e forestale, in condizioni
debilitanti e brutali. Alle autorità del campo era dato ordine di dimostrare di saper ricavare il
massimo del lavoro e ridurre al minimo le «giornate lavorative perse», anche se durante la guerra
la carenza di cibo, i giorni di lavoro lunghi fino a sedici ore e un’assistenza sanitaria ridotta al
minimo facevano sí che, in media, circa un terzo dei detenuti fosse invalido o inabile a ulteriore
fatica oppure morto . Stalin stesso monitorava regolarmente il rendimento produttivo dei
202

detenuti per assicurarsi che non cercassero di sottrarsi al lavoro per lo sforzo bellico. I prigionieri
che non rispettavano le quote di lavoro loro assegnate venivano lentamente ridotti alla fame
mentre quelli che superavano l’orario di lavoro venivano ricompensati con permessi e razioni
extra. Quelli troppo ammalati erano rilasciati per far posto a lavoratori ancora dotati di capacità
lavorativa da sfruttare. Nell’aprile del 1943, un decreto del Presidium O merach nakazanija dlja
nemecko-fašistskich zlodeev […] dlja špionov, izmennikov rodiny […] i dlja ich posobnikov
(«Sulle misure punitive per i criminali fascisti tedeschi […], le spie e i traditori della Patria e i
loro complici») istituí dei campi speciali di lavoro duro (katorga), in cui i detenuti lavoravano
piú a lungo, con qualsiasi temperatura, senza giorni di riposo e nei luoghi fisicamente piú
faticosi. Questi prigionieri, come gli ebrei del sistema tedesco di lavori forzati, venivano fatti
lavorare letteralmente fino alla morte, spremendo da essi fino all’ultima goccia di fatica in nome
di uno sforzo bellico gravemente afflitto dalla carenza di forza lavoro. Tra gennaio del 1941 e
gennaio del 1946 morirono 932 000 prigionieri, a testimonianza della fondamentale inefficienza
di un regime carcerario volto a sfruttare la manodopera per la guerra totale .
203

Proteste e sopravvivenza.
La manodopera maschile e femminile lavorava in condizioni molto diverse a seconda del paese.
Durante la guerra, i lavoratori di Stati Uniti e Gran Bretagna (anche se non dell’impero
britannico in senso lato) godevano di ragionevoli standard di vita, guadagni e risparmi, in
condizioni che andarono migliorando man mano che la guerra continuava e con il diritto, se
volevano, di avere dei rappresentanti sindacali. La forza lavoro della Germania (esclusi i
prigionieri e i lavoratori forzati) mangiava meno bene, non godeva di alcuna tutela sindacale e
dovette affrontare condizioni in netto deterioramento allorché iniziarono i bombardamenti sulle
città. La forza lavoro sovietica e giapponese ebbe per tutta la guerra problemi di cattiva
alimentazione, lunghe ore di lavoro, severa vigilanza e standard di vita in rapido declino. A
Čeljabinsk, i lavoratori continuarono a sopportare il freddo pungente con un riscaldamento
inefficiente, mancanza quasi totale di sicurezza in fabbrica e costante minaccia di punizioni. Non
era raro che le ragazze lavorassero senza scarpe o stivali, con i piedi ricoperti da vesciche e da
ferite infette per il freddo e il congelamento.
In questo ampio spettro di esperienze, lavoratori e consumatori condividevano un elemento
importante: dovevano tutti resistere a un regime di duro lavoro, lunghe ore di fatica e infinite
carenze, e questo non solo per settimane o mesi ma per anni e anni, senza avere idea di quando
sarebbe finito il loro calvario. La mobilitazione per la guerra totale sottoponeva i civili a
pressioni eccezionali, mentre lo sforzo bellico assorbiva sempre di piú le risorse che avrebbero
dovuto sostenere normalmente l’economia civile. Non si spiega facilmente in che modo essi
riuscirono a resistere, e di certo non c’è un’unica spiegazione che, senza incorrere in distorsioni
della realtà, possa essere valida per regimi politici, strutture sociali e sistemi economici cosí
diversi. Per milioni di esseri umani, la guerra totale divenne uno stile di vita. Il patriottismo o
l’odio per il nemico potevano incentivare i lavoratori per qualche tempo, ma difficilmente
bastano a dare una motivazione per un periodo cosí lungo. La prospettiva della vittoria o della
sconfitta aveva chiaramente un ruolo, anche se il popolo tedesco e quello giapponese
continuarono a resistere ostinatamente pure di fronte all’imminente collasso militare, mentre nel
1944 i popoli britannico e americano mostrarono segni di crescente demoralizzazione man mano
che la vittoria si avvicinava.
È piú utile pensare che la maggior parte dei lavoratori fossero motivati dalle loro apprensioni
personali come salariati anziché dalle manipolazioni della propaganda che li spingeva a
identificarsi completamente con lo sforzo bellico. La guerra garantiva la piena occupazione,
offriva l’opportunità di guadagni extra (perfino in Unione Sovietica, dove coloro che superavano
le quote di produzione loro assegnate ricevevano razioni aggiuntive e altri privilegi), la
possibilità di risparmiare in vista del momento in cui si sarebbe tornati a spendere in tempo di
pace, l’opportunità di apprendere nuove competenze e migliorare la propria posizione salariale,
oppure, nel caso delle lavoratrici, la prospettiva di guadagnare di piú che nel periodo precedente
la guerra, come un passo verso una maggiore emancipazione. Per comprendere fino a che punto i
lavoratori razionalizzassero a modo loro la mobilitazione, può essere utile un esempio. Nel 1943,
un uomo d’affari svedese intervistò diversi portuali di Amburgo per cercare di scoprire che cosa
li motivasse a continuare a lavorare per un regime con cui pochi di loro si identificavano
politicamente. Gli intervistati furono unanimi sul fatto di lavorare sodo per una vittoria della
Germania perché non volevano ritrovarsi nella disoccupazione e nelle difficoltà degli anni della
Depressione. La vittoria degli Alleati, affermavano, avrebbe probabilmente determinato la
frammentazione della Germania (come in effetti accadde) e il suo impoverimento. I lavoratori
tedeschi, soprattutto, non volevano rischiare di nuovo l’accusa di aver tradito l’esercito
«pugnalandolo alle spalle». Nell’ultimo anno di guerra, la propaganda politica britannica cercò di
incoraggiare i lavoratori tedeschi a ribellarsi alla dittatura, ma da alcuni rapporti fatti uscire di
nascosto dalla Ruhr-Renania all’inizio del 1945 risultava chiaramente che i lavoratori non erano
né disposti né in grado di ripetere quanto avvenuto nel 1918. «Nella Germania nazista», riferiva
uno dei rapporti, non esistevano «né una situazione rivoluzionaria […] né dei leader né
un’organizzazione». I lavoratori aspettavano di ricostruire una nuova Germania dopo la
sconfitta .
204

La domanda poteva anche essere capovolta: che prospettive aveva la popolazione del fronte
interno per protestare contro i lunghi anni di guerra e le difficoltà che stava patendo? Questo era
esattamente il risultato che tutti i governi volevano evitare in tempo di guerra. La protesta dei
lavoratori durante la Seconda guerra mondiale, tuttavia, si espresse inversamente alle loro
condizioni sociali ed economiche. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, dove le condizioni erano
in assoluto meno gravose, vi furono regolari proteste dei lavoratori, nonostante l’accordo
stipulato in tempo di guerra con i sindacati, in base al quale avrebbero sospeso ogni attività di
sciopero e collaborato con il governo, purché quest’ultimo avesse rispettato gli interessi dei
lavoratori. In Gran Bretagna, ogni anno una media di 1,8 milioni di giornate lavorative venivano
perse in scioperi non autorizzati; se nel 1940 vi erano state 940 interruzioni, nel 1944 se n’erano
registrate 3714, anche se nel 90 per cento dei casi erano durate meno di una settimana. Alcune
proteste avvenivano per futili motivi (come «l’atteggiamento dittatoriale di una caposquadra» o
«l’obiezione a lavorare con gli irlandesi»), e tutte, in ogni caso, riflettevano un interesse dei
lavoratori limitato alle controversie su divisione del lavoro, provvedimenti disciplinari,
diluizione delle competenze o livelli salariali, anziché una reale opposizione alla guerra .
205

Negli Stati Uniti, i sindacati cercarono di rispettare l’impegno a non dichiarare scioperi, ma
l’aumento dei prezzi nei primi anni di guerra e il diseguale incremento dei livelli salariali
provocarono proteste non ufficiali da parte della forza lavoro. Nel corso del conflitto, si
registrarono 14 471 scioperi «selvaggi», che in pochi casi durarono tuttavia piú di una settimana
e solo il 6 per cento piú di due settimane. Anche negli Stati Uniti, gli scioperi rientravano in una
battaglia per le retribuzioni e le condizioni di lavoro, non certo per la guerra, sebbene la risposta
del governo fosse piú vigorosa che in Gran Bretagna . Già prima della guerra, una grande serrata
206

in uno stabilimento della North American Aviation in California, che produceva un quarto degli
aerei da combattimento americani, si era conclusa dopo che era stato dato ordine a 2500 soldati
di prendere in consegna gli impianti e rimettere i lavoratori al lavoro sotto la minaccia delle armi.
Le proteste dei lavoratori in tempo di guerra erano considerate da gran parte dell’opinione
pubblica alla stregua di un tradimento. Nel 1943, in risposta a un grande sciopero nel bacino
d’antracite della Pennsylvania, e nonostante l’opinione contraria di Roosevelt, il Congresso
approvò lo Smith-Connally War Labor Disputes Act, che conferiva al governo il diritto di
assumere il controllo delle imprese essenziali allo sforzo bellico e avviare procedimenti penali
contro i leader degli scioperi non ufficiali. La nuova legge venne messa alla prova nel dicembre
dello stesso anno, quando le ferrovie, sprezzanti verso ogni divieto, dichiararono sciopero e
provocarono l’occupazione per tre settimane dell’intera rete da parte delle forze federali, finché i
sindacati non si tirarono indietro e accettarono un accordo salariale imposto dallo stato . 207

Nemmeno i dirigenti d’azienda erano immuni. Piú tardi nella guerra, quando il presidente di una
compagnia si rifiutò di accettare la disposizione che i nuovi lavoratori di stabilimenti
sindacalizzati dovevano aderire al sindacato (aumentando gli iscritti da dieci milioni a quindici
milioni negli anni di guerra), il procuratore generale americano guidò di persona una squadra di
soldati per espellerlo dal suo ufficio e prendere in consegna la compagnia.
Nei regimi autoritari, dell’Asse o degli Alleati, un tale livello di protesta da parte dei lavoratori
era impossibile. In tutti questi paesi gli scioperi erano fuori legge ed erano ben chiari i rischi
connessi a un’azione sindacale. La protesta era interpretata in termini politici, non come difesa
degli interessi dei lavoratori, bensí come una sfida allo sforzo bellico e al regime. In Germania e
Unione Sovietica, i sindacalisti recidivi finivano nei campi di concentramento. Ciò nonostante, le
durissime condizioni di lavoro in Giappone, Cina e Unione Sovietica provocarono una spontanea
disaffezione al lavoro, oppure il tentativo di sfuggire a quelle condizioni impossibili e ai bassi
salari cambiando lavoro. Ai sindacati giapponesi erano state imposte restrizioni già prima del
1939, per essere poi sciolti del tutto nel 1940; nel 1939, gli iscritti ai sindacati erano 365 000, nel
1944 nessuno. Ciò nonostante, i verbali di polizia menzionavano nel 1944 ben 216 casi di
proteste nell’industria, che avevano coinvolto tuttavia non piú di 6000 lavoratori in totale, ovvero
una minuscola frazione della forza lavoro nazionale. Alcuni lavoratori reagivano all’assenza di
una rappresentanza sindacale rallentando intenzionalmente la produzione, svolgendo lavori
scadenti o perfino organizzando occasionali atti di sabotaggio . La forza lavoro veniva
208

attentamente monitorata per ogni possibile accenno di simpatie comuniste e tutti i sospetti erano
arrestati e maltrattati. Le forze di sicurezza presentavano rapporti che ingigantivano anche le piú
esili prove pur di suggerire che l’infiltrazione comunista stava aumentando, anche se la vera
minaccia rivoluzionaria restava una chimera . Nell’industria della difesa cinese, benché i
209

lavoratori fossero soggetti alla legge militare e a un duro regime di fabbrica, migliaia di persone
correvano i rischi della diserzione come forma indiretta di protesta. Le aziende riferivano che
ogni anno si doveva rimpiazzare metà della forza lavoro qualificata e incolpavano gli agitatori
comunisti che attiravano i lavoratori nelle zone sotto il loro controllo, anche se in molti casi i
lavoratori abbandonavano il loro posto nella speranza di trovare un’occupazione dove avrebbero
subito una minore repressione e ricevuto piú denaro o riso. Quelli catturati venivano riportati
indietro sotto scorta armata e puniti con la perdita della paga e delle razioni alimentari . In 210

Unione Sovietica, ai lavoratori era riconosciuta in teoria la possibilità di presentare le loro


rimostranze ai funzionari comunisti della fabbrica, anche se tale iniziativa era sempre rischiosa. I
lavoratori erano legati ai loro stabilimenti fino a quando non veniva detto loro di trasferirsi
altrove, ma l’assenteismo non ufficiale divenne un modo indiretto per denunciare le pessime
condizioni di lavoro o gli assurdi maltrattamenti. Sulla carta, i rischi erano molto grandi: secondo
una risoluzione segreta approvata dal governo nel gennaio del 1942, qualsiasi lavoratore delle
industrie della difesa che risultasse assente senza permesso doveva essere denunciato nel giro di
ventiquattr’ore ai pubblici ministeri militari, che avevano facoltà di imporre una pena massima
da cinque a otto anni di campo di lavoro. Si trattava di un procedimento perfino ridicolo, tanto
che alla fine la maggior parte delle condanne veniva emessa in contumacia data l’impossibilità di
ritrovare i lavoratori fuggiti; in alcuni casi, si avviarono procedimenti penali contro lavoratori
che in realtà erano già morti, oppure contro reclute chiamate dall’esercito; in altri casi, erano gli
stessi pubblici ministeri ad accusare la dirigenza dell’azienda di non aver saputo fornire
condizioni dignitose e rimettevano in libertà i lavoratori .211

Le condizioni di lavoro della manodopera tedesca erano quasi universalmente migliori di quelle
dell’Unione Sovietica. Tutti i lavoratori e datori di lavoro tedeschi erano rappresentati dalla vasta
organizzazione del Deutsche Arbeitsfront, fondato nel 1933 dopo che Hitler era salito al potere e,
benché i lavoratori non avessero il diritto di scioperare o protestare, era possibile convincere i
funzionari del Deutsche Arbeitsfront a insistere con i datori di lavoro affinché garantissero
strutture di lavoro dignitose o assicurassero degli efficienti rifugi antiaerei. Sotto gli altri aspetti,
il sistema risultava coercitivo quanto il modello sovietico. Le infrazioni alla disciplina del lavoro,
nel senso stretto del termine, erano poche: 1676 casi nel 1940, 2364 nel 1941. Nel 1942,
l’indisciplina venne ridefinita allo scopo di penalizzare un numero piú ampio di infrazioni, e i
casi salirono quell’anno a 14 000. Una percentuale crescente di casi riguardava lavoratrici, tra le
quali, dovendo sobbarcarsi le durezze di una doppia vita – tra il lavoro e le faccende domestiche
–, erano piú probabili fenomeni di assenteismo o negligenza. La maggioranza dei lavoratori
accusati di indisciplina riceveva un ammonimento, una piccola parte era mandata in prigione e
un numero decisamente esiguo in campo di concentramento. Nel maggio del 1941 Himmler
introdusse una nuova forma di punizione, l’Arbeitserziehungslager, o «campo di rieducazione al
lavoro», per tutti i lavoratori il cui comportamento fosse giudicato una reiterata minaccia allo
sforzo bellico. I nuovi campi erano gestiti dalla Gestapo e nel 1944 erano piú di un centinaio, in
cui erano rinchiusi non solo lavoratori tedeschi ma migliaia di lavoratori forzati stranieri,
giudicati colpevoli di sabotaggio o lentezza nel lavoro. La «rieducazione al lavoro» era un
eufemismo per condizioni estreme e maltrattamenti, che rendevano i campi non molto diversi da
quelli di concentramento . I lavoratori stranieri, le cui condizioni erano generalmente peggiori, si
212

arrischiavano a volte a fare uno sciopero. Nell’aprile del 1942 seicento operai italiani del
complesso Krupp di Essen deposero gli attrezzi in segno di protesta contro la scarsa quantità e
qualità del cibo e la mancanza di tabacco; nello stesso mese, altri italiani dichiararono sciopero in
un’azienda di Hannover per la mancanza di vino e formaggio. Se la dovettero vedere con la
polizia del lavoro assegnata alle ditte per mantenere l’ordine. Tra maggio e agosto del 1942,
finiva sotto arresto ogni mese una media di 21 500 lavoratori, l’85 per cento dei quali stranieri.
Gli italiani considerati facinorosi erano rimandati in Italia, dove al ritorno venivano arrestati
dalla polizia fascista. Tra i lavoratori tedeschi, gli atti di indisciplina diminuirono dal 1942 in poi.
Nella prima metà del 1944, solo 12 945 lavoratori tedeschi furono coinvolti in proteste, contro
193 024 lavoratori stranieri. L’evidenza suggerirebbe una crescente lealtà verso lo sforzo bellico
tedesco, una sorta di consenso non dovuto unicamente alla natura coercitiva del regime . 213

La portata limitata delle proteste da parte del popolo lavoratore degli stati belligeranti dimostrava
il crescente potere dello stato nell’imporre un autentico impegno nazionale verso la strategia
della mobilitazione totale. Tale risultato non si basò esclusivamente sulla coercizione, benché
essa fosse una realtà sempre presente anche nelle stesse democrazie. Gli stati dimostravano la
loro capacità di mobilitarsi su larga scala garantendo rifornimenti regolari di cibo, rispondendo in
modo flessibile, dove indispensabile, alle esigenze della forza lavoro ed estendendo la rete del
reclutamento quanto piú fosse necessario o possibile. Il loro successo in tal senso garantí di
scongiurare che avesse a ripetersi qualcosa di simile ai tumulti rivoluzionari del primo conflitto
mondiale e dell’immediato dopoguerra, fatta eccezione per l’Italia, dove l’imminente sconfitta, i
bombardamenti, l’inflazione e la penuria di cibo alimentarono la crescente protesta sociale nei
mesi precedenti il rovesciamento di Mussolini nel luglio del 1943. La mobilitazione di massa
dipendeva da un patto tra lo stato e il popolo che sottolineava il carattere totalizzante della guerra
moderna. Nell’esercito e sul fronte interno, il fatto che la guerra totale richiedesse una
mobilitazione nazionale non venne mai messo seriamente in discussione. Coloro che non si
conformavano o non sembravano comprendere le implicazioni della guerra totale venivano
bombardati dalla propaganda, organizzata per indurre ogni singolo individuo a contribuire in
qualche modo allo sforzo bellico e a isolare come antipatriottici, se non addirittura traditori,
quanti non lo facevano, come gli operai e i dirigenti sovietici accusati di lassismo o negligenza, o
i 18 000 americani denunciati all’Fbi dai loro connazionali per presunti atti di sabotaggio . La214

guerra totale esigeva ovunque la partecipazione di tutti, ma questo funzionava soltanto nella
misura in cui la gente poteva essere persuasa a riconoscerne da sola gli imperativi. Nel 1945, il
critico americano Dwight Macdonald riassumeva cosí il rapporto tra cittadino e stato nella guerra
appena conclusa: «Proprio perché in questa sfera l’individuo risulta in realtà piú impotente, i suoi
[his] governanti compiono i maggiori sforzi possibili per presentare lo stato non solo come uno
strumento per i suoi [his] scopi, ma come un’estensione della sua stessa [his] personalità» . 215

Macdonald avrebbe potuto benissimo aggiungere alla sua riflessione l’aggettivo possessivo
femminile her. La guerra totale imponeva infatti a tutti, uomini e donne, giovani e vecchi, liberi e
non liberi, la richiesta di contribuire per quanto potevano allo sforzo comune compiuto nella lotta
e nel lavoro. Si trattò di un momento storico in sé unico, difficilmente possibile prima, e ora
perfino al di là del regno delle possibilità.
Capitolo quinto
La guerra combattuta
Un giorno, si potrà costruire una grande storia della guerra in Unione Sovietica raccontando semplicemente ciò che accadde
alle venticinque divisioni corazzate mandate da Adolf Hitler oltre la frontiera russa. Erano la lama della sua spada, le macchine
che aprivano la strada alla sua fanteria e artiglieria. Quando i tedeschi vincevano, vincevano. Quando i tedeschi perdevano,
perdevano.
Walter Kerr, The Russian Army, 19441.
C’è un’allettante semplicità nell’idea che la sconfitta delle divisioni corazzate tedesche basti a
spiegare perché la Germania e l’Europa dell’Asse persero la Seconda guerra mondiale. Walter
Kerr era stato inviato a Mosca dal «New York Herald Tribune», dove trascorse gli anni di guerra
parlando con i comandanti dell’Armata Rossa delle loro esperienze, fino al giorno in cui ritornò
negli Stati Uniti dopo Stalingrado. Per farsi un’opinione delle forze corazzate tedesche si affidò a
quello che sentiva raccontare dai militari e alle loro congetture. Le venticinque divisioni erano
un’esagerazione diffusa tra la gente di Mosca, come anche l’idea che i tedeschi avessero lanciato
l’operazione «Barbarossa» con 18 000 carri armati. Eppure, nonostante tutta la disinformazione,
l’attenzione sulla divisione corazzata come elemento centrale di una moderna guerra di terra non
era cosí sbagliata, benché tale tesi risulti oggi incompleta. Tra le innovazioni della Seconda
guerra mondiale, imitate da quasi tutte le potenze belligeranti, l’organizzazione di unità
dell’esercito completamente meccanizzate, che combinavano carri armati, fanteria motorizzata e
artiglieria, fu tra quelle di maggiore rilevanza per spiegare l’esito dei combattimenti di terra. Nel
1945, l’Armata Rossa aveva all’attivo quarantatre corpi di carri armati, ed era ora il loro turno di
fare ciò che l’esercito tedesco aveva fatto nel 1941.
L’osservazione di Kerr racchiude il grande interrogativo del perché furono alla fine le potenze
alleate a vincere sul fronte dei combattimenti, sconfiggendo le forze dell’Asse che pure avevano
riportato una serie di vittorie iniziali. La risposta può trovarsi nella misura in cui ciascuno
schieramento imparò a sviluppare e sfruttare un’intera gamma di quelli che vengono chiamati
«moltiplicatori di forza» – organizzazione operativa, equipaggiamento, tattica, servizi di
informazione –, in grado di accrescere notevolmente l’impatto che un esercito, un’aviazione o
una flotta potevano avere, soprattutto dopo essersi inizialmente trovate in condizioni di
svantaggio. Anche se gran parte degli scontri in mare e nelle battaglie di terra continuò a essere
dominata dalle armi piú tradizionali, la cui importanza non va comunque sottovalutata –
corazzate, fanteria, artiglieria, perfino cavalleria –, in generale erano i moltiplicatori di forza a
fare la differenza nelle prestazioni sul campo di battaglia, primo tra tutti lo sviluppo della guerra
meccanizzata e del concomitante supporto tattico alle unità di terra da parte dell’aviazione. Una
volta che le forze corazzate furono organizzate e integrate strutturalmente nella battaglia, questo
trasformò il modo in cui la guerra veniva combattuta su terra, dapprima per l’esercito tedesco,
poi per gli Alleati. Le forze aeree tattiche erano state ampiamente utilizzate nella Prima guerra
mondiale, ma l’avvento dei veloci caccia monoplano, degli attacchi aerei alle postazioni di terra
e dei bombardieri a medio raggio ad alte prestazioni, tutti forniti di armi sempre piú letali, aveva
trasformato il potenziale dell’aeronautica sul campo di battaglia. In mare, la forza aerea contribuí
alla grande rivoluzione della guerra anfibia, prima nel teatro del Pacifico, con l’avanzata dei
giapponesi e la controffensiva degli Alleati, poi in Europa, con gli sbarchi anfibi in Nordafrica,
Sicilia, Italia e Normandia. Si trattò di complesse operazioni combinate, in cui forze aeree,
marittime e terrestri collaborarono per creare un trampolino di lancio su una costa nemica
fortemente difesa su cui stabilire una testa di ponte permanente. Per le potenze marittime alleate,
la guerra anfibia era l’unico modo per attanagliare il nemico sul territorio occupato. La capacità
di proiettare le proprie forze armate dal mare sulla terraferma offrí agli Alleati il metodo migliore
per avere successo.
L’evoluzione e l’applicazione della guerra elettronica accompagnarono lo sviluppo delle forze
corazzate, dell’aeronautica e dei combattimenti in mare. La radio e il radar divennero
componenti essenziali del moderno campo di battaglia, e tali sono rimasti da allora. La moderna
tecnologia della radio rese possibile il controllo centralizzato delle unità aeree; permise ai
comandanti di gestire in modo piú efficace un campo di battaglia complesso e in rapido
movimento; la guerra marittima globale venne guidata dalle comunicazioni radio, e sempre la
radio divenne un’ancora di salvezza per le piccole unità che chiedevano assistenza o un
coordinamento delle loro operazioni in loco. La ricerca sulle onde radio portò allo sviluppo del
radar, inizialmente introdotto per dare tempestivamente l’allarme per l’avvicinamento di aerei
nemici in arrivo dall’altra parte del mare, ma presto dotato di ulteriori e significative applicazioni
sul campo. Il radar, tra le altre cose, permetteva di dare il preallarme in caso di velivoli da
attacco tattico, contribuiva in modo fondamentale al successo delle operazioni antisommergibili,
avvisava di una flotta sotto attacco e permetteva di puntare l’artiglieria con micidiale precisione,
sia a terra sia a bordo delle navi. Nel corso del conflitto, il vantaggio rappresentato dalla guerra
elettronica passò decisamente agli Alleati, sempre intenti ad apprendere come meglio produrre e
utilizzare una tecnologia bellico-scientifica all’avanguardia.
La radio risultò altresí fondamentale in tempo di guerra per le operazioni di spionaggio e
controspionaggio, inclusa l’elaborazione di complesse azioni di disinformazione. Sono questi gli
ultimi moltiplicatori di forza che prenderemo in considerazione. La guerra di intelligence
operava in una serie di campi, alcuni piú utili ad accrescere la forza in combattimento, altri
meno. Le strutture di intelligence operativa e tattica erano tra quelle fondamentali per aiutare le
forze armate a combattere in modo piú efficiente. Per gran parte della guerra, gli Alleati
godettero di un accesso piú completo all’intelligence e a una piú efficace valutazione del nemico,
benché rimanga difficile giudicare quanto sia stato significativo l’impatto dell’intelligence sulle
operazioni. Lo stesso vale per la disinformazione, ampiamente sfruttata ma spesso destinata a
clamorosi insuccessi. Nei casi però in cui la disinformazione funzionava alla perfezione,
l’impatto poteva risultare operativamente determinante. I quadri militari sovietici erano maestri
dell’inganno. La devastante sconfitta degli eserciti dell’Asse durante l’operazione Uran, nel
novembre del 1942, e l’annientamento della Heeresgruppenkommando Mitte (Gruppo d’armate
Centro) nel giugno del 1944 ne sono una testimonianza. Il valore dell’inganno messo in atto
dagli Alleati prima dell'invasione della Normadia può anche essere messo in discussione, ma
resta il fatto che esso rafforzò senza dubbio l’idea a cui Hitler era incline, cioè che la Normandia
sarebbe stata una finta e il Pas de Calais il vero punto dell’invasione principale. Per gli Alleati,
un’intelligence di grande capacità e una disinformazione di successo contribuirono a contrastare
le elevate capacità di combattimento di un nemico determinato a difendere fino all’ultimo
chilometro quadrato i territori del nuovo impero germanico. In questo caso, come per le forze
corazzate, l’aeronautica, le operazioni anfibie e la guerra elettronica, la spiegazione della vittoria
o sconfitta finale nella Seconda guerra mondiale dipese dalla misura in cui le forze armate
impararono a sfruttarle.
Mezzi corazzati e aerei.
Quando le forze tedesche invasero la Polonia nel 1939, il mondo assistette direttamente a una
rivoluzione dell’organizzazione militare incarnata nelle sei divisioni corazzate schierate per
l’assalto e nel martellamento aereo dei bombardamenti in picchiata, nei bombardieri e caccia di
supporto. Il successo dell’attacco tedesco alla Polonia, tuttavia, generò anche molte esagerazioni.
Il carro armato fu considerato il vero vincitore sul campo di quella che fu chiamata Blitzkrieg
(guerra lampo), termine molto diffuso in Occidente sia allora sia oggi, benché non appartenesse
all’esercito tedesco. I carri armati godevano di una fama quasi leggendaria, cosí come il
bombardiere di picchiata Junkers Ju87, con le sue «trombe di Gerico», la terrificante sirena che
risuonava mentre l’aereo piombava sull’obiettivo. Nella fantasia popolare, il carro armato
tedesco, come descritto da Walter Kerr, era una forza tremenda «di ferro, acciaio e fuoco» che
combatteva la guerra «secondo il modello nazista» . 2

Il carro armato non era né un’arma nuova né tantomeno un monopolio delle forze armate
tedesche. La campagna in Polonia potrebbe essere fatta risalire alla disamina condotta negli anni
Venti dall’esercito della Germania di ciò che era andato storto nell’ultimo anno della Grande
Guerra, quando i carri armati e gli aerei alleati avevano guidato l’attacco sul fronte occidentale
tedesco nella «campagna dei 100 giorni». In base ai termini del trattato di Versailles, all’esercito
tedesco era stato vietato sviluppare o possedere carri armati, per cui era giunto ai mezzi corazzati
in ritardo, alla metà degli anni Trenta. Altrove, i carri armati furono ampiamente sviluppati negli
anni tra le due guerre, perlopiú sotto forma di carri armati leggeri, o tankettes, dotati soltanto di
una mitragliatrice come il Kyūyon-shiki keisōkōsha, o Type 94, il carro armato giapponese da
combattimento piú diffuso negli anni Trenta . I carri armati piú pesanti cominciarono ad apparire
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solo nella seconda metà del decennio, solitamente muniti di un cannone di medio calibro da 37
mm e di una mitragliatrice. L’esercito francese si dotò del primo carro pesante solo nel 1940 – il
Char B1-Bis, che portava cannoni da 75 mm e 47 mm e due mitragliatrici. Solo nel corso della
guerra i carri armati e i pezzi semoventi di artiglieria furono adattati per montare cannoni da 75
mm o piú . La maggior parte dei primi carri armati era destinata alla fanteria, con compiti di
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supporto o ricognizione. In quanto arma offensiva, le esperienze variarono. Là dove il carro


armato era nato dalla tradizionale forza di cavalleria, per esempio in Gran Bretagna e Stati Uniti,
si preferiva usare i mezzi corazzati come i tradizionali reparti a cavallo; nella maggior parte dei
casi, venivano suddivisi tra le divisioni di fanteria per fornire ulteriore potenza di fuoco mobile e
proteggerne i fianchi. L’idea di utilizzare i carri armati quale nucleo di un pugno corazzato per
perforare e avviluppare una linea nemica era comparsa per breve tempo in Unione Sovietica
all’inizio degli anni Trenta sotto l’influenza del capo di stato maggiore dell’Armata Rossa
Michail Tuchačevskij, fino a quando questi non era stato epurato nel 1937; l’arma apparve
finalmente nell’esercito tedesco negli ultimi anni di pace.
Come arma da battaglia, i carri armati presentavano vantaggi e svantaggi. Erano dotati di grande
mobilità, a differenza della maggior parte dei pezzi di artiglieria; erano in grado di superare gli
ostacoli piú diversi e i terreni piú sconnessi; potevano essere impiegati contro le postazioni
dell’artiglieria nemica, mitragliatrici o fortificazioni leggere e, piú raramente, contro altri carri
armati. Contro la fanteria nemica si potevano impiegare carri armati leggeri, dotati solo di
mitragliatrici come i tank giapponesi nella guerra in Cina. Il carro armato rimaneva comunque
un’arma vulnerabile, generalmente lenta, e lo fu sempre piú man mano che si appesantí
ulteriormente durante la guerra. Il carro armato tedesco Panzer VI Tiger pesava 55 tonnellate e
raggiungeva una velocità massima di circa 30 chilometri orari, con un’autonomia limitata e un
tale bisogno di manutenzione regolare che in pratica non poteva essere utilizzato, come si
pensava in origine, per sfondare un fronte nemico e sfruttare la breccia . La vulnerabilità di tutti i
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carri armati ai guasti meccanici rendeva necessario lasciare alle loro spalle un battaglione addetto
alle riparazioni e alla manutenzione, oppure abbandonare del tutto quelli che evidenziavano
difetti meccanici o danni minori. Sebbene in tempo di guerra i carri armati fossero dotati di
un’armatura piú robusta, anche il mezzo piú pesante era vulnerabile al fuoco diretto contro i
cingoli o la parte posteriore e le fiancate. Le condizioni in cui vivevano gli equipaggi dei carri
armati erano estremamente disagevoli. Se i mezzi piú piccoli avevano poco spazio per gli
uomini, costretti a svolgere una serie di compiti in un angusto cubicolo, anche nei carri di
dimensioni medie e piú pesanti, con quattro o cinque uomini al loro interno, l’ambiente
claustrofobico rendeva un’impresa ardua operazioni come colpire il bersaglio, caricare
l’artiglieria e comunicare alla radio; la visibilità era limitata e il rombo del motore soffocava i
rumori provenienti dall’esterno, non importa se di un’azione del nemico o di fuoco amico; il
cubicolo del carro armato si riempiva immancabilmente di fumi che rendevano ancora piú
invivibile un ambiente già caldo e soffocante; la possibilità di essere colpiti comportava il
pericolo di incendio o di schegge di metallo tagliente, a cui seguiva il parapiglia per mettersi in
salvo attraverso la stretta uscita del carro. «I nostri volti sanguinano», scrisse di quella esperienza
un comandante di carri armati sovietici, «si staccano piccole schegge d’acciaio che penetrano
nelle guance e nella fronte. Siamo assordati, intossicati dal fumo delle armi, sfiniti dalla
turbolenza» .
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I carri armati erano soprattutto vulnerabili a un’ampia varietà di armi anticarro. Nonostante tutta
la paura che un carro armato incuteva nei soldati quando rimbombava spietatamente verso di
loro, esso poteva essere immobilizzato dall’artiglieria pesante anticarro, oppure da altri carri
armati, da appositi cannoni anticarro, granate, lanciarazzi, mine magnetiche o fucili anticarro.
Cosí come i carri armati furono perfezionati durante la guerra, lo furono anche le armi e le
munizioni anticarro. Gli eserciti svilupparono piccole unità di fanteria, denominate «cacciatori di
carri armati», che si muovevano sul campo di battaglia per ingaggiare carri armati isolati o
immobilizzati, usando armi apposite per micidiali attacchi ravvicinati, come il shitotsu bakurai
giapponese, una mina attaccata a un palo di legno che mentre colpiva il carro armato faceva
saltare in aria anche il soldato che lo reggeva (le truppe americane la chiamavano il «bastone
dell’idiota»), o le sacche a «doppia carica» tedesche, che venivano pericolosamente lanciate
sopra il cannone dei carri armati nemici ed esplodevano dopo pochi minuti con effetti devastanti . 7

La maggior parte dei carri armati mandati in prima linea rimaneva danneggiata o distrutta.
Perfino dei pesanti Tiger e Königstiger, la «tigre reale», ne furono distrutti 1580 su 1835
prodotti . L’aspettativa di vita di un T-34 sovietico lanciato nel combattimento non superava i
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due o tre giorni. Su 86 000 carri armati prodotti in Unione Sovietica, 83 500 vennero persi o
danneggiati, e solo il rapido recupero e riparazione dei mezzi permise di sostenere oltre la guerra
meccanizzata . I cambiamenti rivoluzionari apportati all’armatura provocarono l’evoluzione della
9

sua nemesi: l’antiarmatura. La capacità di difendersi dalla blindatura dei carri assunse la stessa
importanza dell’armatura stessa, esattamente come il fuoco della contraerea aumentò di intensità
ed efficacia contro la minaccia della forza aerea tattica. Di norma, le divisioni corazzate
possedevano sia la capacità di effettuare operazioni offensive mobili sia quella di difesa mobile
contro altre unità corazzate e forze aeree nemiche. Questo si rivelò una combinazione essenziale
per la sopravvivenza.
Da soli, i carri armati avevano un’utilità limitata. Una volta che in combattimento superavano la
fanteria, potevano rimanere isolati ed essere distrutti dalle armi anticarro. I carri armati non
potevano occupare un territorio, non piú di quanto potessero farlo dei velivoli. Il successo delle
forze corazzate durante la guerra dipese dallo sviluppo di forze armate tra loro combinate, in cui
i carri armati rappresentavano il nucleo di un’unità corazzata che funzionava in stretto
collegamento con la fanteria motorizzata, l’artiglieria trainata o motorizzata, i cannoni anticarro,
le batterie della contraerea da campo, un battaglione mobile del genio e un’unità per la
manutenzione dei mezzi. Fu questa combinazione, e non il carro armato in sé, a conferire alle
formazioni corazzate la loro formidabile forza d’urto. Le forze armate tra loro combinate furono
la chiave del successo finale delle armi corazzate, legato in larga misura a una meccanizzazione
onnicomprensiva e a un’estrema mobilità. Per avere successo, tutte le armi dispiegate per
sostenere la guerra corazzata avevano bisogno di camion, auto da campo, mezzi blindati per il
trasporto delle truppe e veicoli da traino necessari non tanto a seguire i carri armati quanto ad
avanzare insieme.
Fu questo il fattore che impedí ai due principali alleati della Germania, il Giappone e l’Italia, di
sviluppare un pieno impegno nella guerra corazzata. Gli iniziali esperimenti condotti in entrambi
i paesi confermarono le virtú dell’organizzazione combinata delle varie forze, ma entrambe le
nazioni mancavano delle risorse industriali (in particolare il petrolio) necessarie per motorizzare
e meccanizzare in modo piú esteso le rispettive forze armate. Nel 1934, il Giappone aveva
sviluppato una delle prime formazioni di mezzi blindati, la Dokuritsu konsei ryodan kōshahōtai,
o Brigata mista indipendente giapponese, dotata di un battaglione di carri armati, fanteria
motorizzata, una compagnia del genio, un’altra di artiglieria e un’unità mobile di ricognizione,
ma l’ostilità dell’esercito verso l’idea di una formazione indipendente pose fine alla breve
carriera della brigata già all’inizio del conflitto sino-giapponese. La brigata venne sciolta e i carri
armati leggeri furono assegnati in piccoli numeri al supporto delle singole divisioni di fanteria.
Nel 1942 vennero finalmente attivate tre divisioni corazzate tra loro combinate, in risposta
all’evidente successo dell’esempio tedesco; una quarta venne aggiunta in seguito per la difesa
dell’arcipelago nazionale. Le forze corazzate, inoltre, erano difficili da schierare nella guerra del
Pacifico, il che spiega la bassa priorità assegnata ai carri armati nella produzione bellica
giapponese. Nel 1944 ne furono prodotti solo 925, nel 1945 appena 256. Le divisioni vennero
usate frammentariamente per supportare la fanteria; una venne distrutta nelle Filippine nel 1944,
un’altra si arrese in Manciuria nell’agosto del 1945, la terza si fermò a causa di riparazioni e
manutenzione inadeguate dopo aver percorso 1300 chilometri attraverso la Cina meridionale . 10

In Italia, una prima unità meccanizzata ad armi combinate fu costituita nel 1936, la Brigata
motomeccanizzata, dotata di un battaglione di carri armati, due di fanteria e una batteria di
artiglieria. Alla brigata fu poi riconosciuto lo status di divisione e le vennero aggiunte altre unità
di supporto, ma, similmente al caso giapponese, l’esercito italiano attivò negli anni di guerra
solamente tre divisioni corazzate, impegnate a combattere come parte di un corpo di fanteria piú
grande. Secondo la dottrina dell’esercito italiano, non era il mezzo armato a costituire
«l’elemento decisivo nel combattimento», bensí la fanteria . Tra le forze corazzate rientravano
11

inizialmente il carro armato leggero Fiat 3000B, dotato di un cannone da 37 mm poco efficiente,
e i carri veloci con mitragliatrice senza torretta CV33 e CV35, il cui valore nella guerra corazzata
mobile rimase trascurabile. Nel 1940 fu introdotto il carro medio M11/39, presto ritirato a causa
della limitata protezione dell’armatura; nel 1941 fu la volta dell’M13/40, migliorato con un
cannone da 47 mm ad alta velocità ma con un’armatura non piú spessa di 30 mm. Nessun carro
armato italiano si dimostrò adeguato ai requisiti della moderna guerra corazzata, e durante
l’intero conflitto ne vennero prodotti appena 1862. Due delle tre divisioni furono distrutte nella
battaglia di El Alamein, in cui, alla fine, non rimase nemmeno un carro armato. Né il Giappone
né l’Italia elaborarono pertanto la dottrina di una guerra corazzata degna di questo nome. Nei
pochi scontri con armamenti mobili avvenuti nella guerra del Pacifico, i carri armati giapponesi
si lanciarono contro le linee nemiche in un attacco equivalente a una carica di fanteria al grido
banzai! e furono distrutti dalle armi anticarro americane.
Fu in Germania, desiderosa per anni dopo il 1919 di riavere il diritto di sviluppare un esercito
moderno, che furono sfruttati con successo per la prima volta i vantaggi operativi di una forza
meccanizzata e motorizzata. In seguito alla sconfitta, l’esercito tedesco aveva cercato vari modi
per migliorare la velocità e la potenza delle forze necessarie per la «battaglia decisiva»
(Entscheidungsschlacht), da cui erano stati traditi nella Grande Guerra. La teoria dei mezzi
corazzati aveva preso forma ancora prima che la Germania possedesse dei moderni carri armati.
Le manovre dell’esercito nel 1932, in cui si erano impiegati finti mezzi corazzati, dimostrarono
tutto il potenziale delle operazioni mobili. Ispirata dal generale maggiore Oswald Lutz, tra l’altro
Inspekteur der Verkehrstruppen (ispettore delle truppe motorizzate), e dal giovane maggiore
Heinz Guderian, nel corso dei successivi tre anni venne studiata l’organizzazione di una
divisione corazzata (Panzer), e nel 1935 furono rese operative le prime tre. La priorità era
garantire che il mezzo corazzato non fosse rallentato dalla limitata mobilità delle forze di
supporto; unità di fanteria, artiglieria, ricognizione, genio e comunicazioni furono pertanto tutte
motorizzate, conferendo cosí alla divisione una capacità di combattimento autonoma . Venne 12

deciso di posizionare i carri armati in un nucleo corazzato a cui era affidato il maggiore impatto,
nonostante la resistenza di alcuni comandanti militari che volevano una maggiore diffusione in
tutto l’esercito di elementi meccanizzati e motorizzati. «Una concentrazione delle forze corazzate
a disposizione», scriveva Guderian nel 1937, «sarà sempre piú efficace di una loro dispersione» . 13

In ogni caso, il numero limitato di mezzi resi disponibili da un settore automobilistico di


dimensioni ancora modeste, oltre alla velocità con cui veniva condotto il riarmo, precluse la
creazione di una base piú ampia di veicoli motorizzati. In sostanza, le forze armate tedesche
entrarono nella Seconda guerra mondiale con due eserciti: uno moderno e dotato di grande
mobilità e l’altro ancora basato su una fanteria lenta e dipendente per i suoi spostamenti da
cavalli e strade ferrate. Quando le divisioni corazzate di Hitler avanzarono in territorio sovietico,
esse avevano al seguito un esercito con circa 750 000 cavalli (insieme con i relativi stallieri,
convogli per il foraggio e personale veterinario). Nel 1942, altri 400 000 cavalli furono requisiti
da tutta l’Europa occupata come animali da traino per l’artiglieria e altre armi pesanti perché non
c’erano abbastanza veicoli .
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Le sei divisioni Panzer disponibili nella guerra contro la Polonia, insieme con le altre dieci usate
sul fronte occidentale nel maggio del 1940, costituivano il pugno corazzato di un lungo braccio
composto dalla fanteria. La vittoria in entrambe le campagne mise in allerta il resto del mondo
sull’impatto radicale della guerra mobile condotta dai tedeschi e incoraggiò l’emulazione, anche
se mascherava i problemi derivati dal rapido sviluppo di forze corazzate e la difficoltà nella
fornitura del necessario equipaggiamento. Dei 2574 carri armati impiegati nell’invasione della
Francia e dei Paesi Bassi, 523 erano PKW (Panzerkraftwagen) I, armati solo di mitragliatrici;
955 erano PKW II, dotati di un inefficiente cannone centrale da 20 mm; 334 erano carri armati
catturati ai cechi e solo 627 erano PKW III e IV con cannoni di calibro maggiore, nessuno dei
quali poteva comunque colpire facilmente o neutralizzare i carri armati piú pesanti del nemico.
Buona parte della fanteria e dei soldati del genio al seguito viaggiava su semplici camion,
anziché su mezzi corazzati. L’esercito francese schierò in totale 3254 carri armati, molti dei quali
piú pesanti e meglio armati dei tedeschi . Nonostante l’inferiorità numerica e qualitativa delle
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forze corazzate tedesche, la vittoria in Francia fu assicurata in parte grazie al supporto aereo, in
parte perché l’esercito francese aveva disperso molti dei suoi carri armati tra gli eserciti di
fanteria anziché concentrarli, ma soprattutto perché le unità mobili di supporto delle divisioni
Panzer, collegate da ottime comunicazioni, svolsero perfettamente il ruolo previsto, occupando il
terreno e combattendo i mezzi motorizzati del nemico. Nell’unico grande scontro tra carri armati
della battaglia di Francia, intorno alla città belga di Gembloux, i comandanti tedeschi scoprirono
che i carri armati francesi, a causa della mancanza di comunicazioni radio, effettuavano manovre
maldestre, operavano in piccoli gruppi dispersi anziché in massa e avevano un fuoco lento e
impreciso – un problema aggravato nei carri armati francesi piú piccoli dal fatto che la torretta
monoposto richiedeva che fosse il comandante del carro armato a fare fuoco e a dirigere
contemporaneamente gli spostamenti del mezzo corazzato . La battaglia fu l’epitome dei
16

vantaggi offerti dalla dottrina delle armi combinate e dei limiti a cui andavano incontro i carri
armati che cercavano di combattere da soli.
Per l’invasione sovietica del 1941, la Wehrmacht fu costretta ad aumentare il numero delle
divisioni corazzate, accettando però una riduzione della loro forza. Le ventuno divisioni Panzer,
organizzate in quattro gruppi principali, contavano solo 150 carri armati ciascuna, anziché i 328
che avevano nel settembre del 1939. Su 3266 carri armati mobilitati, 1146 erano PKW III e IV, il
resto era costituito da automezzi cechi e PKW II, con il loro armamento inadeguato. Il collasso
totale dell’Armata Rossa nei primi mesi dell’operazione «Barbarossa» esaltò le forze corazzate
tedesche. Nei primi sei mesi di guerra, i sovietici persero ben 20 500 carri armati e cannoni
semoventi dei 28 000 disponibili, ma aumentarono altresí costantemente anche le perdite
tedesche . Ad agosto, la forza dei carri armati tedeschi si era ormai ridotta della metà; a
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novembre, su mezzo milione di veicoli di ogni tipo impegnati nella campagna, solo 75 000 erano
ancora funzionanti. Le forze meccanizzate della Wehrmacht subirono un progressivo declino
negli ultimi anni di guerra, con perdite elevate e una produzione nazionale rallentata, che finí per
limitare ogni possibilità. Nel 1943, furono prodotti solo 5993 carri armati dei vari tipi; lo stesso
anno, l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti ne produssero insieme 53 586. A Kursk, nel luglio del
1943, le divisioni meccanizzate disponevano in media di 73 carri armati ciascuna, anche se
alcune ne ebbero molti di piú nella fase dell’attacco; sempre a Kursk, in ogni caso, la 9. Armee
aveva bisogno di 50 000 cavalli, mentre alla 4. Panzerarmee ne servivano 25 000 . 18

La dottrina tedesca sull’uso dei carri armati dovette essere modificata in seguito al diverso
equilibrio di forze venutosi a creare con gli Alleati. Da braccio armato destinato a spezzare il
fronte nemico, avviluppandone e sfruttandone poi il territorio, dalla metà del 1943 le forze
corazzate tedesche si videro costrette alla difensiva. Anche in difesa, tuttavia, i mezzi potevano
essere usati in modo offensivo. Sul fronte orientale, le unità meccanizzate erano state concentrate
in Panzerkampfgruppen (Gruppi di battaglia corazzati), composti da carri armati, fanteria
corazzata e artiglieria a traino, da destinare ai punti di maggiore pericolo in cui facevano da
supporto a forze di combattimento autonome e combinate tra loro. Ora, tuttavia, l’attenzione si
era spostata sulla necessità di distruggere la forza corazzata nemica in avvicinamento, usando un
insieme di carri armati, unità di fanteria e armi anticarro, incluso lo Sturmgeschütz, una batteria
semovente dotata di cannoni perforanti da 75 mm che alla fine della guerra risultò essere il
mezzo corazzato da combattimento piú numeroso dell’esercito tedesco . Il nuovo 19

Panzerkampfwagen V Panther, con un cannone ad alta velocità da 75 mm, e il


Panzerkampfwagen VI Tiger, armato di un cannone da 88 mm e usato brevemente nella battaglia
di Kursk durante l’ultima offensiva strategica tedesca, furono riassegnati come veicoli per
controffensive limitate, oppure, a volte, affossati nel terreno come artiglieria difensiva, anziché
essere utilizzati per la loro capacità di movimento. Si nota un indubbio tratto ironico nel
mutamento delle priorità tedesche. Negli ultimi due anni di guerra, infatti, l’esercito che aveva
aperto la strada all’offensiva delle forze corazzate divenne sempre piú esperto nella difesa
anticarro. Nel 1943, la Wehrmacht organizzò i Pakfronten, cioè una prima linea destinata alla
difesa anticarro e formata da cannoni interrati in punti nascosti per tendere imboscate alle forze
corazzate che avanzavano lungo le rotte previste, a imitazione del precedente kotël ognja dei
sovietici, il «crogiolo di fuoco» formato da una zona circondata da mine e ostacoli naturali in cui
le unità anticarro dell’Armata Rossa cercavano di attirare le forze corazzate nemiche. Nello
stesso anno, furono introdotte due nuove armi anticarro: il lanciarazzi RPzB 43 da 88 mm,
comunemente noto come Panzerschreck (il «terrore dei carri armati»), e il Panzerfaust (il
«pugno corazzato»), un cannone anticarro che sparava una sola testata in grado di penetrare piú
di 140 mm di corazza. Erano entrambi armi portatili e leggere che potevano essere utilizzate da
qualsiasi soldato addestrato per immobilizzare ogni tipo di carro armato medio e pesante. Furono
prodotti piú di otto milioni di Panzerfaust, che offrirono alle forze tedesche in ritirata delle armi
efficaci con cui rallentare l’avanzata di un nemico pesantemente corazzato, capovolgendo cosí la
strategia operativa con cui l’esercito aveva iniziato la guerra .
20

Gli Alleati, al contrario, dopo i disastri in Francia nel 1940 e nelle fasi iniziali dell’invasione
dell’Unione Sovietica, dovettero rielaborare la dottrina e l’organizzazione delle forze corazzate
esaminando attentamente la pratica tedesca. In Gran Bretagna e negli Stati Uniti, lo sviluppo e
l’espansione delle forze corazzate dovevano partire quasi da zero; in Unione Sovietica, la
distruzione del suo grande braccio armato nell’estate del 1941 costrinse a mutare profondamente
il modo in cui venivano schierate le forze corazzate dell’Armata Rossa. Gran Bretagna e Stati
Uniti godevano entrambi del vantaggio di essere state le potenze piú motorizzate negli anni tra le
due guerre ed erano in grado di attingere a un grande settore industriale e a una riserva di mezzi
al fine di modernizzare in profondità l’esercito. La fanteria americana e quella britannica erano
trasportate da camion e mezzi corazzati; i cavalli erano una rarità. Ciò nonostante, le loro forze
corazzate si svilupparono dalla tradizione della cavalleria. In entrambi i casi, tale tradizione
incoraggiò la formazione di unità costituite principalmente da soli mezzi corazzati, anziché di
una forza combinata che utilizzava carri armati in massa, come era uso fare con i cavalli, per
inseguire il nemico o sfruttare una breccia nelle linee nemiche.
In Gran Bretagna, i primi esperimenti con armi combinate condotti negli anni Venti furono
sostituiti dall’idea di una forza interamente corazzata senza fanteria o artiglieria. La Tank
Brigade, formata nel 1931, era un’unità di soli carri armati che avrebbe formato in seguito il
nucleo della Mobile Division (denominata ben presto British Armored Division) . Nel 1939, si
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decise di dividere in due le forze corazzate: la brigata di carri armati, che utilizzava veicoli medi
pesantemente corazzati (Matilda, Churchill e Valentine) come supporto alla fanteria, venne
aggiunta alle divisioni di fanteria; le divisioni corazzate con carri armati «incrociatori», molto
piú veloci, avrebbero continuato a svolgere il ruolo di forza mobile tradizionalmente
appartenente alla cavalleria. Le brigate di carri armati al seguito della fanteria venivano
regolarmente aggiornate con cannoni di calibro superiore adatti a colpire le corazze nemiche, ma
rimanevano comunque legate alla fanteria che dovevano sostenere. Tra il 1940 e l’autunno del
1941, dopo la distruzione in Francia della prima divisione britannica, furono create altre sette
divisioni corazzate. La loro penosa vulnerabilità, se non erano supportate da altre armi, portò nel
1942 a una riorganizzazione finale, che vide ridurre il numero dei carri armati e aggiungere la
fanteria motorizzata, con una maggiore potenza anticarro e contraerea. Quando nel 1943 fu
costituita la VI Divisione corazzata, utilizzando le forze sudafricane che avevano prestato
servizio in Nordafrica, essa comprendeva una brigata di carri armati, una brigata di fanteria
motorizzata, tre reggimenti di artiglieria, un reggimento con cannoni anticarro e uno con
contraerea, oltre a un ultimo reggimento con cannoni semoventi da 25 libbre – una divisione sul
modello Panzer . Rispetto a Germania e Unione Sovietica, tuttavia, l’investimento della Gran
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Bretagna nelle forze corazzate fu modesto, e la qualità dei carri armati britannici veniva
ampiamente considerata inadeguata. Verso la fine della guerra, c’erano solo cinque divisioni
corazzate e otto brigate di carri armati, ciascuna fortemente dipendente dal mezzo corazzato
americano M4 Sherman, fornito in grandi quantità dal 1942 in poi in base al Lend-Lease Act . Lo 23

sforzo bellico della Gran Bretagna fu molto maggiore nella guerra dell’aria e del mare.
Prima del 1939, gli Stati Uniti possedevano pochissime forze corazzate e, come gli inglesi,
svilupparono in quell’anno la prima unità corazzata: la VII Cavalry Brigade, in cui i cavalli erano
stati sostituiti da 112 piccoli carri armati per ricognizione. A luglio del 1940, dopo aver valutato
il successo tedesco in Polonia e Francia, furono attivate le prime due divisioni corazzate, dotate
tuttavia di un eccessivo complemento di carri armati. Nelle esercitazioni condotte nel 1941 in
Louisiana si vide quanto facilmente i carri armati ammassati da soli potessero essere eliminati
dalle armi anticarro. Le divisioni furono frettolosamente rimaneggiate al fine di incorporare una
forza armata combinata e piú equilibrata grazie all’aggiunta di fanteria, artiglieria, armi
anticarro, un battaglione di ricognizione, un reparto del genio e di servizio. Le divisioni,
interamente motorizzate e meccanizzate, ciascuna con 375 carri armati e altri 759 veicoli
cingolati e blindati, furono progettate per perforare le linee nemiche, esattamente come le forze
corazzate tedesche. «Il ruolo delle divisioni corazzate», secondo il manuale da campo compilato
sotto il generale Adna Chaffee, primo comandante della Armored Force, «è quello di condurre
una guerra estremamente mobile, particolarmente offensiva per natura, grazie a un’unità
autosufficiente dotata di grande potenza e mobilità» . I problemi affrontati nella prima campagna
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americana in Tunisia, tuttavia, costrinsero ad apportare notevoli modifiche. Il numero delle


divisioni corazzate previste fu ridotto da 61 a 16 e il loro ruolo fu cambiato in modo da effettuare
e sfruttare una breccia iniziale nelle linee nemiche realizzata da forze di fanteria pesantemente
armate – una dottrina realizzata con successo durante lo sfondamento in Normandia alla fine di
luglio del 1944.
Al posto di piú divisioni corazzate furono creati settanta battaglioni di carri armati, uno per ogni
divisione di fanteria, trasformando di fatto l’intero esercito di terra americano in una forza
Panzer. Non si avvertiva alcuna urgente necessità di un carro armato pesante che corrispondesse
agli sviluppi militari di tedeschi e sovietici, soprattutto perché la chiave del successo era vista in
una mobilità rapida, mentre i carri armati pesanti erano molto lenti. Il carro medio M4 Sherman,
e le sue numerose varianti, era stato progettato sia per supportare la fanteria sia per lanciarsi
all’inseguimento del nemico, sebbene potesse anche adattarsi a una vasta gamma di altri ruoli,
come accadde nella guerra del Pacifico contro i numerosi bunker e casematte giapponesi. Benché
in un combattimento carro contro carro con il Panther o il Tiger tedesco venisse surclassato,
l’M4 Sherman era un mezzo robusto, con un’estrema facilità di manutenzione. Fu inoltre
prodotto in quantità tali da sopraffare semplicemente il nemico. A dicembre del 1944, l’esercito
tedesco schierò sul fronte occidentale 500 Panther, gli eserciti alleati ben 5000 M4 Sherman . Le25

forze mobili americane svilupparono inoltre una vasta gamma di armi atte a mettere fuori
combattimento i carri armati nemici, tra cui il lanciarazzi portatile Bazooka dotato di proiettili
anticarro. Del Bazooka M1 (che prendeva il nome da uno strumento musicale del teatro leggero a
cui somigliava molto), usato per la prima volta durante l’operazione Torch, venne introdotta due
anni dopo una versione molto migliorata e dotata di una testata ancora piú micidiale. Ne furono
prodotti oltre 476 000, generosamente distribuiti tra le divisioni corazzate e quelle di fanteria. La
formidabile combinazione di carri armati, cannoni semoventi detti «killer delle corazze»,
artiglieria anticarro, bazooka e aerei con proiettili anticarro vanificò le operazioni nemiche
condotte con mezzi corazzati – il caso piú famoso si registrò in occasione della controffensiva
tedesca a Mortain nell’agosto del 1944 .26

La trasformazione piú significativa riguardo alle capacità delle forze corazzate avvenne in
Unione Sovietica. Fu lungo l’esteso fronte sovietico-tedesco che fu schierata la maggior parte
delle forze corazzate della Wehrmacht, e fu qui che la loro potenza fu finalmente recisa. La
sconfitta subita nel 1941 dalle forze corazzate sovietiche aveva messo in luce molte carenze. Una
nutrita percentuale dei numerosissimi carri armati sovietici disponibili alla vigilia dell’invasione
non era del tutto funzionante – solamente 3800 dei 14 200 esistenti – e non era costituita dai
famosi T-34 bensí da modelli piú piccoli e piú leggeri, facile preda delle forze corazzate e
dell’artiglieria tedesca . Un rapporto stilato dal generale maggiore Rodion Morgunov, che nel
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giugno del 1941 era al comando di un corpo meccanizzato in Ucraina (dove le divisioni Panzer
con 586 carri armati contribuirono a distruggere quasi 300 dei 3427 carri armati sovietici che
affrontarono), deplorava l’errore di non aver concentrato le forze meccanizzate, lo scarso livello
dell’intelligence e delle comunicazioni, la mancanza di collegamenti radio, la difficoltà di
reperire pezzi di ricambio e carburante nonché l’assenza di un chiaro piano tattico . Dalla 28

primavera del 1942, le forze corazzate sovietiche furono riorganizzate abbandonando la


dispersione che si era creata nel 1940, quando le unità meccanizzate erano state assegnate alle
armate di fanteria. L’unità operativa di base era ora costituita da un corpo di carri armati dotato
di 168 mezzi, con artiglieria anticarro e contraerea e un battaglione di batterie di razzi Katjuša;
due corpi di carri armati furono uniti a una divisione di fucilieri allo scopo di creare una forza
mista di mezzi blindati e fanteria, ovvero l’equivalente di una divisione Panzer. All’inizio non si
distinsero per particolari successi, soprattutto per mancanza di comandanti esperti, ma, in
seguito, grazie all’ulteriore attivazione e concentrazione delle forze corazzate, l’Armata Rossa fu
in grado di replicare la tattica tedesca. Da settembre del 1942, le armate di mezzi blindati furono
integrate da una combinazione di corpi meccanizzati che contavano fino a 224 carri armati, ma
con una proporzione maggiore di forze di fanteria supportate da grandi unità di artiglieria
anticarro e contraerea. Sia le armate di carri armati sia i corpi meccanizzati venivano migliorati
man mano che aumentava la fornitura di risorse militari . Il numero di mezzi blindati per ogni
29

corpo di carri armati aumentò nel 1943 da 168 a 195, fino a quando cominciarono a essere
disponibili nel 1944 il carro armato medio T-34, opportunamente modificato, e i carri pesanti IS-
1 e IS-2, che, dotati di cannoni da 100 mm e 122 mm, rappresentavano i carri armati piú avanzati
della Seconda guerra mondiale.
Furono attivati in totale quarantatre corpi di mezzi corazzati e ventidue corpi meccanizzati, il che
assicurava all’Armata Rossa una concentrazione di forze corazzate maggiore di qualsiasi altro
stato belligerante. Le nuove armate di mezzi blindati furono usate per perforare i punti piú deboli
delle linee nemiche e poi inseguire e avviluppare le truppe tedesche, esattamente come aveva
fatto la Wehrmacht nel 1940-41. La mobilità era stata migliorata convertendo i motori da
benzina a diesel e triplicando in tal modo l’autonomia dei serbatoi; le operazioni di comando e
controllo erano state inoltre rivoluzionate dall’introduzione della radio. Nonostante il persistente
ostacolo di un addestramento limitato e di carenze tecniche, il miglioramento tattico dello
schieramento fu evidente nel rapporto delle perdite tra i due contendenti. Nel 1941-42, le forze
corazzate sovietiche avevano perso sei veicoli per ogni mezzo tedesco; nel 1944, il rapporto era
diventato di uno a uno, grazie anche all’evoluzione da parte sovietica di una piú efficace
artiglieria anticarro: il cannone ZiS-3 da 76 mm e il gigantesco BS-3 da 100 mm. Con l’aiuto di
una produzione sostenuta e di un efficiente sistema di riparazioni, verso la fine del 1944
l’Armata Rossa possedeva oltre 14 000 carri armati da schierare contro 4800 mezzi blindati e
cannoni semoventi tedeschi; sul fronte occidentale, gli Alleati avevano 6000 carri armati contro
1000 tedeschi. Le lezioni del 1940 e del 1941 erano state apprese pienamente.
Piú o meno la stessa storia si ripeté nello sviluppo dell’aviazione di supporto alle forze di terra,
un ambito in cui l’aeronautica tedesca godeva già nel 1939 di un vantaggio sostanziale sia sotto
l’aspetto teorico sia come equipaggiamento. La Luftwaffe, al pari delle forze corazzate, era stata
creata solo negli ultimi anni prima dello scoppio della guerra, pensando a quella che gli aviatori
tedeschi chiamavano «guerra aerea operativa» e attingendo all’esperienza della Prima guerra
mondiale e agli insegnamenti che ne erano stati tratti. Negli anni Venti, il ministero della Difesa
tedesco aveva istituito piú di quaranta gruppi di studio sulla guerra aerea, quasi tutti dedicati a
come vincere e mantenere la superiorità nei cieli sul fronte della battaglia per supportare
un’offensiva di terra . Il manuale del 1936 Luftkriegfuhrung (Conduzione della guerra aerea)
30

definiva come essenzialmente offensivo il ruolo dell’aviazione, impegnata con esercito e marina
per sconfiggere insieme le forze armate nemiche. Gli aerei dovevano essere usati innanzitutto per
distruggere la forza e l’organizzazione dell’aeronautica nemica al fine di stabilire la superiorità
aerea sul campo di battaglia principale; una volta assicurata quest’ultima, era possibile sostenere
l’offensiva di terra, isolando prima indirettamente il campo di battaglia, con l’interdizione di
rifornimenti, comunicazioni e riserve nemiche fino a una profondità di 200 chilometri oltre la
linea del fronte, e offrendo poi un supporto diretto alle forze di terra impiegando bombardieri
medi e aerei per attacchi al suolo . Si trattava dunque della classica asserzione di una potenza
31

aerea tattica. L’arsenale dei nuovi progetti di aeromobili sviluppati tra il 1935 e lo scoppio della
guerra – il bombardiere in picchiata Junkers Ju87, lo Heinkel He111, il Dornier Do17, i
bombardieri medi Junkers Ju88 e i Messerschmitt Bf109 e Bf110 – venne ideato interamente
pensando alla guerra aerea operativa. Tali modelli formavano ancora il nucleo delle forze aeree
tattiche tedesche alla fine della guerra, quando ormai, nonostante i regolari miglioramenti, erano
di molto arretrati rispetto alla tecnologia aerea degli Alleati. L’organizzazione dell’aeronautica
rifletteva queste priorità operative. Dietro ogni grande gruppo dell’esercito vi era una flotta aerea
corrispondente a tutti i diversi settori di una battaglia nei cieli – aerei da ricognizione, caccia,
bombardieri in picchiata, grandi bombardieri e velivoli da trasporto – e progettata per seguire
l’offensiva di terra; i mezzi aerei erano comandati in modo indipendente, controllati
centralmente, dotati di estrema mobilità e dotati dal 1939 di un’efficiente rete di comunicazioni
radio sia aria-aria sia aria-terra.
L’organizzazione di supporto sul fronte di combattimento rimase di fatto immutata nel corso
della guerra. Il suo successo fu evidente durante l’invasione della Francia, quando la
concentrazione di oltre 2700 aerei da combattimento annientò le forze aeree alleate, attaccò
rifornimenti, rinforzi e servizi nelle retrovie e sostenne direttamente le truppe tedesche sul campo
di battaglia contro le forze e l’artiglieria del nemico. Grazie all’ottimo collegamento con le forze
aeree, le forze di terra erano in grado di chiedere supporto nel giro di pochi minuti, laddove la
RAF impiegava in Francia fino a tre ore per rispondere a una richiesta di aiuto da parte
dell’esercito. Lo shock psicologico delle incursioni dei bombardieri in picchiata poteva essere
devastante, anche se era difficile che le bombe venissero sganciate con grande precisione. Un
tenente francese, sorpreso da una grandinata di ordigni mentre i tedeschi attraversavano la Mosa,
scrisse in seguito: «Ce ne stavamo lí, immobili, muti, con le schiene piegate, tutti rannicchiati,
con la bocca aperta perché non ci scoppiassero i timpani» . Per l’invasione dell’Unione Sovietica
32

venne dispiegata una forza di 2770 aerei, poco piú di quelli di un anno prima a causa della lenta
espansione della produzione aeronautica; essi conseguirono comunque lo stesso drammatico
effetto ottenuto in Francia, distruggendo in poche settimane la potenza aerea sovietica e
prestando appoggio diretto alle grandi offensive delle forze corazzate che si spingevano in
profondità in territorio sovietico. Su aeroporti, centri di comunicazione, concentrazioni di truppe
e punti di forza del campo di battaglia vi furono incursioni aeree che lanciavano a terra bombe e
raffiche di proiettili con mitragliatrici e cannoni. Gli equipaggi, a cui era stato dato ordine di
attaccare i mezzi corazzati nemici pericolosamente vicini alle forze tedesche, impararono presto
a distinguere i carri armati tedeschi da quelli sovietici. «L’effetto cumulativo dei nostri attacchi»,
ha scritto nelle sue memorie un pilota di Bf110, «era evidente dal crescente numero di veicoli in
fiamme e di carri armati immobili o abbandonati che ricoprivano il campo di battaglia
sottostante» . La concentrazione di forze aeree tedesche, come quella delle forze corazzate,
33

massimizzò il loro impatto. Sulla prima linea dei cieli, l’aeronautica tedesca mantenne la
superiorità sulle forze aeree sovietiche, male organizzate e male addestrate, fino alla battaglia di
Stalingrado, allorché la bilancia cominciò per la prima volta a non pendere da un solo lato.
A posteriori, la ricetta tedesca per una potenza aerea tattica di successo potrebbe sembrare dettata
semplicemente dal buon senso. Detto questo, allo scoppio della guerra nessun’altra grande forza
aerea aveva elaborato e teorizzato una potenza aerea tattica altrettanto efficiente, e ciò era dovuto
a due pressioni contrastanti. In primo luogo, gli eserciti volevano che l’aviazione fornisse un
supporto molto ravvicinato alle forze di terra mantenendo un «ombrello aereo» difensivo su di
esse e, nei casi in cui l’esercito era in grado di dettare le proprie esigenze, la potenza aerea
veniva decentralizzata e subordinata ai corpi delle armate locali. Al contrario, alcuni comandanti
dell’aviazione erano ansiosi di sviluppare una strategia aerea indipendente, che sfruttasse la
flessibilità e la vasta gamma di velivoli in operazioni lontane dal campo di battaglia, magari
dirette perfino contro il fronte interno del nemico. Nell’idea di potenza aerea diffusa tra l’esercito
negli anni Trenta si riflettevano le evidenti carenze dell’aeroplano come effettivo strumento di
guerra. Nel 1935, il generale di brigata americano Stanley Embick cosí riassumeva i «limiti
intrinseci» degli aerei:
Non possono occupare né controllare permanentemente né territori né tratti di mare, sono impotenti e indifesi salvo in volo e
costretti a dipendere in gran parte dalle forze di terra e di mare per la loro protezione. Sono fragili, vulnerabili ai piú piccoli
missili, inutilizzabili in caso di maltempo ed estremamente costosi34.
Al pari del carro armato, gli aerei si trovavano anche ad affrontare batterie di contraerea sempre
piú perfezionate e progettate per abbatterli o allontanarli dagli obiettivi piú importanti. Embick
avrebbe potuto aggiungere che la tecnologia predominante rendeva le operazioni aeree contro
bersagli a terra intrinsecamente imprecise, a meno che non fossero effettuate a quote molto
basse. Durante la guerra, la fantasia dell’aereo come «distruttore di carri armati» amplificò l’idea
che anche un piccolo obiettivo poteva essere colpito dall’aria, almeno fino a quando non si
perfezionarono maggiormente armamenti e proiettili adatti agli attacchi di terra.
In Giappone, Italia, Francia, Unione Sovietica e Stati Uniti, gli aerei erano considerati
dall’esercito, nel migliore dei casi, come una sorta di braccio ausiliario, piú adatto a fornire un
supporto ravvicinato alle unità di terra controllate dall’esercito, e la stessa organizzazione delle
forze aeree rifletteva tale priorità. Solo l’aviazione della Gran Bretagna, istituita per la prima
volta come servizio aereo indipendente nel 1918, sviluppò un profilo strategico che ignorava in
gran parte l’assistenza ai combattimenti di terra e combatté in tal senso una lunga battaglia con
l’esercito e la marina per mantenere la propria autonomia. La RAF riconosceva invece la priorità
della difesa aerea contro ogni futura offensiva con bombardamenti e dello sviluppo di una forza
d’attacco dal cielo in grado di portare la guerra delle bombe fin sul fronte interno nemico.
Entrambe queste funzioni sfruttavano la differenza tra l’esercizio della forza aerea e quello delle
forze della terra, corrispondendo in pieno alla posizione geopolitica della Gran Bretagna negli
anni Venti e Trenta: un paese al sicuro da invasioni e affatto disposto a immaginare un secondo
grande conflitto di terra dopo il salasso di sangue della Grande Guerra. L’attenzione alla difesa
aerea e ai bombardamenti strategici si contrapponeva alla nascita della «guerra operativa aerea»
prefigurata dalla pianificazione tedesca e dimostrata con successo nei primi anni del conflitto.
Il fallimento delle forze aeree britanniche e francesi nella battaglia di Francia del 1940 pose in
chiara evidenza il contrasto con la pratica tedesca. Nessuna delle due aviazioni aveva come
priorità assoluta un attacco alla forza aerea nemica e alla sua organizzazione di supporto al solo
scopo di guadagnare la superiorità nei cieli. L’Instruction sur l’emploi tactique de grandes unités
(Istruzioni sull’uso tattico delle grandi unità) emessa dal ministero dell’Aeronautica francese
insisteva sul fatto che «la partecipazione alle operazioni di terra rappresenta il compito piú
fondamentale dell’aviazione» . L’esercito voleva un’aeronautica strettamente legata ai singoli
35

corpi d’armata, che avesse come priorità assoluta le ricognizioni sull’artiglieria nemica nonché la
protezione dal cielo delle truppe di terra. Il risultato ottenuto nel 1940 fu una forza aerea priva di
flessibilità e decentralizzata – situazione ulteriormente aggravata dallo stato primitivo delle
comunicazioni francesi . In Gran Bretagna vi era stata ben poca preparazione in vista di
36

operazioni combinate tra esercito e aviazione. Nel 1938, John Slessor, responsabile dell’Ufficio
progettazione della RAF, e il tenente colonnello dell’esercito Archibald Nye avevano elaborato
un manuale provvisorio intitolato The Employment of Air Forces in the Field, ma la proposta
«Slessor/Nye» di una componente aerea dell’esercito formata da caccia e bombardieri e di una
cooperazione tra esercito e aviazione subordinata al comandante dell’esercito venne respinta dal
ministero dell’Aeronautica, che la considerò un tentativo di creare per vie traverse
un’aeronautica militare separata. Nonostante le pressioni esercitate dopo lo scoppio delle ostilità
dal War Office e dall’Imperial General Staff per formare quella che il ministro della Guerra
Leslie Hore-Belisha definiva «una forza aerea sotto il controllo dell’esercito», lo stato maggiore
dell’aviazione continuò a respingere qualsiasi tentativo di sovvertire l’indipendenza della RAF . 37

Alla fine, l’esercito dovette accontentarsi di una Advanced Air Striking Force di bombardieri
leggeri obsoleti, per altro decimati dalla Luftwaffe, e di una piccola forza aerea composta da
caccia e aerei da ricognizione posti sotto il controllo non dell’esercito ma dello stato maggiore
dell’aviazione e agli ordini della RAF per quanto riguardava i bombardieri e i caccia. Esercito e
aeronautica non avevano un quartier generale comune, le comunicazioni terra-aria lasciavano
molto a desiderare e non venne compiuto nessuno sforzo per impegnarsi in una strategia di
contrattacco concertata. Al pari dell’aviazione francese, la RAF fu costretta ad agire come forza
difensiva dinanzi all’assalto tedesco, con un equipaggiamento inadeguato a fronteggiare sia i
caccia nemici sia le numerose batterie di contraerea da campo, di cui gli Alleati erano privi. La
RAF considerava la partecipazione agli scontri di terra in termini del tutto negativi. La tesi di
Slessor secondo cui «l’aereo non è un’arma da campo di battaglia» era piú volte ripresa dai
comandanti della RAF sul campo. Gli attacchi agli aeroporti nemici erano considerati uno sforzo
«dispendioso e antieconomico», data la facilità con cui il nemico poteva nascondere o ricollocare
altrove le proprie risorse aeree . Alla metà di maggio del 1940 fu concessa alla RAF
38

l’opportunità di iniziare a bombardare le città industriali tedesche come un modo indiretto per
ridurre la forza di combattimento della Wehrmacht in Francia. La scadente esperienza di una
forza aerea tattica parve confermare che in futuro gli attacchi «strategici» contro il fronte interno
nemico avrebbero rappresentato un uso piú redditizio delle risorse aeree.
Fu una lunga curva di apprendimento quella che permise alla RAF di passare dalle sue
preferenze strategiche allo sviluppo di capacità tattiche che nel 1945 risultavano ormai ampie ed
efficaci. All’indomani del fallimento in Francia, l’esercito aveva istituito una commissione
diretta dal tenente generale William Bartholomew e incaricata di rivedere gli errori commessi e
valutare che cosa si doveva fare. L’esercito, sostanzialmente, attribuiva alla RAF la colpa di non
aver creato sulle forze britanniche un ombrello aereo atto a proteggerle dagli attacchi nemici dal
cielo, e per i successivi tre anni proseguí tra esercito e aviazione una discussione dai toni
insolitamente aspri riguardante il controllo delle risorse aeree da combattimento . In definitiva, la
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nascita di una capacità tattica venne forzata dalle circostanze stesse. L’unico terreno su cui le
forze di terra britanniche potevano dare battaglia alle forze dell’Asse era quello del Nordafrica.
Non essendovi in quel caso nessuna possibilità di attacchi a lunga distanza contro il fronte
interno del nemico, il Middle East Command della RAF non poté che concentrarsi sulla
creazione di una guerra aerea operativa, oppure rischiare di essere semplicemente inghiottito
dall’esercito, il cui comandante in capo, il generale Archibald Wavell, voleva un rigoroso
controllo dei cieli da parte delle forze di terra al fine di prevenire eventuali attacchi alle truppe
dell’impero britannico. La Middle East Air Force, dapprima sotto il maresciallo capo
dell’Aeronautica Arthur Longmore, poi, da giugno del 1941, sotto il maresciallo
dell’Aeronautica Arthur Tedder, iniziò a sviluppare qualcosa che somigliava maggiormente alla
guerra aerea operativa tedesca. Ribadendo che solo un comandante dell’aviazione poteva
controllare e comandare le risorse aeronautiche, tentò di concentrare le forze aeree come avevano
fatto i tedeschi. Quella era la ricetta che aveva assicurato il successo della Wehrmacht, ma si
rivelò difficile da replicare. I comandanti dell’esercito continuavano a chiedere una protezione
aerea ravvicinata, sprecando cosí risorse in pattugliamenti difensivi o in attacchi a bersagli
terrestri fortemente difesi, che vedevano aumentare a dismisura le perdite di velivoli. Tedder
voleva che il quartier generale dell’aviazione e quello dell’esercito fossero uno accanto all’altro
per meglio coordinare la strategia operativa, ma durante le battaglie del 1941 e della prima metà
del 1942 essi si trovarono a volte a 130 chilometri di distanza l’uno dall’altro . La RAF operò nei
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primi anni con una variegata collezione di aerei britannici e americani, senza unità destinate ad
attacchi al suolo e con pochi bombardieri medi efficienti. Riuscire a dare forma alla guerra aerea
operativa partendo da un simile miscuglio poco promettente fu uno dei risultati piú notevoli dello
sforzo bellico britannico.
La fortunata creazione di un’aeronautica tattica dovette molto alla nomina nel settembre del 1941
del vicemaresciallo dell’aviazione neozelandese Arthur «Mary» Coningham a comandante della
Western Desert Air Force sotto Tedder. Il contributo fondamentale di Coningham fu un vigoroso
rifiuto di quella protezione aerea ravvicinata tanto desiderata dall’esercito. In un opuscolo sulla
cooperazione tra esercito e aviazione redatto dopo la vittoria a El Alamein, Coningham sosteneva
che la forza aerea doveva essere centralizzata se voleva essere efficace, e doveva trovarsi sotto il
diretto comando e controllo dell’aviazione. «Il soldato», proseguiva Coningham, «non deve
attendersi né desiderare di esercitare il diretto comando sulle forze d’attacco aeree» –
conclusione a cui era già giunto Churchill quando nel novembre del 1941 aveva riservato a
Wavell una decisa strigliata per aver continuato a sostenere l’idea di un’aviazione dipendente
dall’esercito. «Le truppe di terra», aveva scritto Churchill, «non devono mai piú aspettarsi, come
una cosa normale, di essere protette dagli aerei dai pericoli del cielo» – raro caso di un diretto
intervento politico su una questione teorica . La soluzione della controversia tra le due forze
41

militari aprí finalmente la strada a fruttuose operazioni combinate.


Coningham e Tedder svilupparono la strategia operativa a tre livelli ideata in precedenza dalla
Luftwaffe: conseguire la superiorità aerea, isolare il campo di battaglia e sostenere quindi
direttamente lo scontro sul terreno. Per quest’ultima fase venne definita con la massima
attenzione una chiara «linea di bombardamento», affinché le truppe non fossero colpite da fuoco
amico, un problema che aveva afflitto il supporto aereo ravvicinato fino all’estate del 1942. Il
quartier generale dell’aviazione e quello dell’esercito erano finalmente affiancati e, grazie a
nuove apparecchiature radio, radar mobili e un sistema di unità di controllo dell’azione aerea che
avrebbe accompagnato l’esercito nel combattimento, il tempo necessario a chiedere il sostegno
dell’aviazione sul fronte della battaglia scese da una media di due o tre ore a soli trenta minuti .
42

La RAF era ora armata con lo Hurricane IID, dotato di un potente fuoco di cannone atto a un
supporto ravvicinato contro i carri armati – il primo aereo da attacco al suolo britannico di
grande efficienza –, e con il cacciabombardiere americano P-40D, ribattezzato Kittyhawk e
concesso all’aviazione inglese con il sistema Lend-Lease. Sul finire dell’estate del 1942, mentre
Rommel era pronto ad attaccare l’Egitto, le forze aeree della Gran Bretagna e del
Commonwealth conquistarono il completo dominio dei cieli. I danni inflitti al nemico
sembravano fare eco ai successi riportati dall’aviazione tedesca in Francia due anni prima.
L’offensiva di Rommel ad Alam el-Halfa nel mese di agosto fu fermata dalla forza aerea tattica
britannica, e si può dire che due mesi dopo, durante la controffensiva di Montgomery a El
Alamein, il dominio dell’aria fosse completo. Rommel disse in seguito che qualsiasi esercito
costretto a confrontarsi con un nemico che possedeva la superiorità aerea «è come un selvaggio
che combatte contro moderne truppe europee» . 43

Le lezioni apprese nella campagna del Deserto occidentale dovettero essere dolorosamente
riviste nel novembre del 1942, quando un corpo di spedizione combinato anglo-americano
sbarcò nell’Africa nord-occidentale durante la cosiddetta operazione Torch. Né la rappresentanza
della RAF, soprannominata Eastern Air Force, né la XII Air Force americana, sotto il comando
del generale maggiore James Doolittle, avevano informazioni dettagliate su come la forza aerea
tattica avesse riportato il successo in Egitto e Libia, nonostante Churchill avesse ribadito nel suo
intervento di ottobre che l’esercito e l’aviazione dovevano adottare «il modello libico» . 44

Nell’iniziale campagna contro le forze aeree tedesche e italiane in Tunisia si commisero tutti gli
errori che erano stati lentamente eliminati nel Deserto occidentale: tra il comando aereo
britannico e quello americano non vi era quasi nessuna comunicazione, poiché ciascuno aveva il
compito di garantire un supporto ravvicinato alle rispettive forze di terra; Eisenhower,
comandante in capo del corpo di spedizione, insisteva affinché all’esercito spettasse di diritto il
comando delle unità aeree; non vi fu quasi nessun tentativo di coordinare la campagna contro
l’aviazione nemica, mentre i comandanti delle truppe di terra, sia americani sia inglesi,
chiedevano insistentemente che le pattuglie di caccia lungo la prima linea creassero un ombrello
aereo; pochi aerei erano destinati agli attacchi sul terreno, senza contare che i piloti dei caccia
americani non avevano esperienza di mitragliamenti a terra e, almeno all’inizio, nessun vano
bombe esterno per condurre azioni di disturbo. Furono presi solo cinque campi d’aviazione
agibili con qualsiasi condizione meteorologica, limitando gravemente la mobilità degli aerei
durante la stagione di piogge torrenziali. Le perdite erano elevate, e i comandanti dell’esercito
lamentavano che le loro truppe inesperte, che subivano alti tassi di vittime con disturbi
psichiatrici alla loro prima esposizione al fuoco reale, avevano bisogno a tutti i costi di un
supporto aereo ravvicinato . Gli insuccessi dimostrarono fino a che punto entrambe le forze
45

aeree, pressoché ignare delle reali battaglie sul suolo africano, non avessero assimilato né
compreso il «modello libico».
Prima della guerra, la visione americana di una potenza aerea tattica era dominata dall’esigenza
dell’esercito di un supporto ravvicinato alle forze di terra, sotto il controllo dell’esercito, i cui
comandanti erano ostili alle richieste di maggiore indipendenza da parte dell’aviazione, anche se
le grandi esercitazioni con forze aeree e terrestri condotte in Louisiana nel 1941 avevano
dimostrato che l’esercito non aveva pressoché alcuna idea di come funzionasse una forza aerea.
Nonostante la Air Corps Tactical School fosse già giunta alle conclusioni dell’aeronautica
tedesca in merito alla guerra aerea operativa a tre livelli, l’idea dell’esercito che un supporto
ravvicinato dal cielo fosse la priorità assoluta non poteva essere messa in discussione. Il primo
manuale da campo FM-31-35 pubblicato nell’aprile del 1942, che prendeva in considerazione la
forza aerea tattica, ribadiva che «è il comandante delle forze di terra […] a decidere quale sia il
supporto aereo necessario». Prima dell’operazione Torch, il quartier generale di Eisenhower
aveva pubblicato Combat Aviation in Direct Support of Ground Forces (L’aviazione da
combattimento come diretto supporto delle forze di terra), che asseriva esplicitamente che le
forze aeree erano subordinate al comando di terra . Il comandante dell’esercito britannico, il
46

tenente generale Kenneth Anderson, nutriva il classico pregiudizio sulle operazioni aeree
indipendenti e, di conseguenza, sosteneva l’insistenza americana che le forze dell’aria fossero
sotto il comando di quelle di terra. Di lí a poche settimane fu possibile rendersi conto che la forza
aerea tattica alleata nell’Africa nord-occidentale era stata un disastro. Doolittle, a cui era stato
concesso solo un ruolo di consulente benché comandasse la XII Air Force, chiese agli Alleati di
«abbandonare la nostra attuale organizzazione che è una stronzata al 100 per cento» e impiegare
la forza aerea come doveva essere impiegata . Eisenhower si rese conto molto rapidamente di
47

aver frainteso la natura della forza aerea tattica, sicché alla Conferenza anglo-americana di
Casablanca, alla fine di gennaio del 1943, l’organizzazione venne radicalmente rivista,
anticipando cosí l’adozione delle lezioni tattiche apprese nel Deserto occidentale. Il primo passo
fu la centralizzazione della struttura di comando. Tedder venne nominato comandante in capo
delle forze aeree del Mediterraneo; il generale dell’aeronautica americana Carl Spaatz fu
nominato comandante delle forze aeree dell’Africa nord-occidentale; a Coningham fu affidato il
controllo congiunto della forza aerea tattica. Venne abbandonato immediatamente l’uso del
cosiddetto ombrello aereo, fu ribaltato il diritto dei comandanti dell’esercito di dare ordini alle
forze di supporto aereo e si diede inizio a una campagna aerea tattico-offensiva contro
l’aviazione militare dell’Asse.
Il «modello libico» fu adottato pienamente nel febbraio del 1943 dopo una riunione al vertice nel
porto di Tripoli tra i comandanti delle forze aeree e di terra degli Alleati. Durante l’incontro,
Montgomery spiegò all’uditorio la necessità di un braccio aereo indipendente in grado di
perseguire la propria idea di superiorità nei cieli. Pochi mesi dopo venne introdotto un nuovo
manuale da campo americano, FM-100-20 – Command and Employment of Air Power
(Comando e uso della forza aerea), il cui incipit a lettere maiuscole recitava: «LE FORZE DI TERRA
E LE FORZE AEREE NON SI EQUIVALGONO […] NESSUNA DELLE DUE HA UN RUOLO AUSILIARIO
RISPETTO ALL’ALTRA» . Il manuale riportava l’idea di Coningham sui tre livelli operativi, che gli
ufficiali dell’aviazione americana avevano trasmesso a Washington dopo il loro ritorno . Anche
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se nelle campagne successive permase un residuo di sfiducia tra forze aeree e terrestri, i
cambiamenti organizzativi e teorici introdotti nel Nordafrica imposero l’uso della forza aerea
tattica fino al termine del conflitto. I miglioramenti apportati a comunicazioni, intelligence ed
equipaggiamento, oltre all’adozione dei caccia americani P-51 Mustang (denominati anche A-36
Apache come velivoli per attacchi al suolo) e del lanciarazzi britannico Hawker Typhoon,
amplificarono l’impatto della forza aerea tattica anglo-americana. La IX Air Force degli Stati
Uniti e la II Tactical Air Force britannica, mobilitate per sostenere l’invasione della Francia nel
giugno del 1944, erano irriconoscibili rispetto alle forze aeree disorganizzate che avevano
contestato a suo tempo l’operazione Torch. Nella guerra meccanizzata, la forza aerea tattica
alleata si rivelò decisiva nel portare gli Alleati alla vittoria. Al contrario, l’aviazione tedesca
come forza tattica subí un tracollo, costretta a impiegare due terzi della propria potenza di
combattimento e buona parte dell’artiglieria contraerea per difendersi dalle offensive dei
bombardieri alleati. A corto di qualsiasi tipo di aerei da battaglia sul campo e scarseggiando di
carburante, era costretta a mandare in combattimento dei piloti non sufficientemente addestrati . 49

Il capo delle operazioni dell’Oberkommando della Wehrmacht, il generale colonnello Alfred


Jodl, riferí nel corso degli interrogatori di giugno del 1945 quello che era il suo pensiero a
riguardo: «In definitiva, è chi conquista la superiorità aerea assoluta sull’intero teatro della
guerra a decidere del tutto le sorti del conflitto» .
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Se alla fine del 1944 si fossero aggiunte ai numeri degli Alleati occidentali le forze aeree tattiche
sovietiche, la disparità sarebbe stata ancora maggiore. Anche se i comandanti dell’esercito
tedesco minimizzarono sia durante sia dopo la guerra la portata delle forze aeree dell’Urss, i
cambiamenti introdotti nella guerra aerea tattica dalle Voenno-Vozdušnye Sily in risposta alle
prime vittorie tedesche possono essere paragonati ai considerevoli miglioramenti qualitativi delle
forze aeree anglo-americane. La potenza aerea sovietica risentiva, alla pari delle forze corazzate
sotto il profilo teorico e organizzativo, delle riforme introdotte alla fine degli anni Trenta, quando
le forze aeree erano state legate alle singole armate e poste sotto il comando diretto dell’esercito.
La dottrina sovietica sottolineava il ruolo dell’aviazione nell’immediato supporto alle forze di
terra, sí da formare una forza offensiva combinata aria-terra. A differenza della «guerra aerea
operativa» tedesca o del «modello libico» occidentale, le Voenno-Vozdušnye Sily non
consideravano la superiorità aerea come un risultato teoricamente distinto dal supporto
ravvicinato alle forze di terra, in quanto la si doveva conquistare non già bombardando lontani
aeroporti e punti di rifornimento bensí distruggendo i caccia e i bombardieri nemici con i
combattimenti nei cieli sovrastanti il campo di battaglia. Nel Boevoj Ustav Voenno-Vozdušnych
Sil (Regole di combattimento per l’aviazione militare), pubblicato nel 1940, il caccia era
considerato lo strumento principe per conquistare la superiorità aerea in combattimento . Anche
51

se nel giugno del 1941 non era mancato qualche tentativo di attaccare le retrovie tedesche, i lenti
bombardieri sovietici, per di piú privi di scorta, erano stati abbattuti senza pietà dagli aerei da
combattimento tedeschi, il che aveva spronato l’esercito a limitare il supporto aereo alle sole
operazioni tattiche sul campo di battaglia, disperdendo e restringendo quindi ciò che l’aviazione
sovietica sarebbe stata in grado di ottenere. Per tutta la durata del conflitto, l’accento venne posto
sul sostegno ravvicinato sopra il terreno dello scontro di terra. Secondo la teoria sovietica, anche
le limitate azioni di disturbo condotte immediatamente alle spalle della linea del fronte erano
considerate operazioni di supporto alle forze di terra. Piú tardi nel corso della guerra, ai piloti
sovietici venne concessa la possibilità di seguire la cosiddetta tattica dei «liberi cacciatori»
(ochotniki) e colpire quindi obiettivi di opportunità sul campo, ma tali operazioni erano
comunque confinate a distanze non superiori a 24 chilometri dalla prima linea . A differenza
52

della pratica di tutte le altre grandi potenze, l’aviazione tattica sovietica si limitava nella maggior
parte a sostenere le forze di terra. Ironia della sorte, allorché le risorse aeree tedesche iniziarono a
diminuire e i combattimenti a terra divennero piú aspri e prolungati, le flotte della Luftwaffe
abbandonarono lo schema della guerra aerea operativa per concentrarsi maggiormente su un
supporto ravvicinato all’esercito di terra, imitando cosí la consuetudine dell’aviazione sovietica,
anziché viceversa.
Le scarse prestazioni delle forze aeree sovietiche nell’estate del 1941, quando erano stati distrutti
quasi tutti gli aerei assegnati ai distretti militari occidentali, accelerarono una riforma del modo
in cui era organizzato il supporto sul campo di battaglia, benché la teoria rimanesse invariata.
Nell’aprile del 1942, il giovane generale dell’aviazione Aleksandr Novikov, che si era distinto
nella difesa aerea di Leningrado e Mosca, fu nominato comandante in capo dell’aeronautica e si
mise subito all’opera per cambiare il modo in cui erano organizzate le forze aeree. L’«aviazione
dell’esercito», o l’«aviazione delle truppe», legata alle singole armate e divisioni e soggetta agli
ordini dell’esercito, fu abolita e al suo posto fu introdotto l’«esercito dell’aria», organizzato
come la flotta aerea tedesca con un corpo di caccia, bombardieri e aerei da attacco al suolo. Le
diciassette armate aeree erano controllate centralmente da ufficiali dell’aeronautica che
operavano nel quartier generale a diretto contatto con il comandante del gruppo di forze terrestri
a cui gli aerei erano assegnati come supporto. L’esercito dell’aria permise di concentrare per la
prima volta l’aviazione che operava al di sopra del campo di battaglia. Al fine di aumentare il
grado di concentrazione nei punti critici dell’offensiva, la Stavka (il comando supremo sovietico)
organizzò dei corpi di riserva di caccia, bombardieri e aerei da attacco al suolo, da spostare dove
si rivelava necessario. Gli eserciti dell’aria erano completamente mobili, al pari delle unità
corazzate, con 4000 velivoli ciascuno, in grado di spostarsi rapidamente verso le basi aeree
avanzate o ritirarsi altrettanto velocemente. Novikov e il suo staff introdussero altre riforme volte
ad accrescere l’efficacia del combattimento. Le comunicazioni e la raccolta di informazioni
furono aggiornate con la radio e il radar; le operazioni di manutenzione e riparazione divennero
prioritarie; furono introdotti efficaci camuffamenti e stratagemmi per evitare la devastante
disfatta subita nel 1941. Di particolare rilievo fu il miglioramento degli equipaggiamenti. Caccia
e cacciabombardieri come Jak-3 e La-5 potevano benissimo uguagliare gli ultimi caccia tedeschi
Me109 e Fw190 ed essere modificati per trasportare bombe o razzi. L’Il-2 Šturmovik,
soprannominato la «Morte Nera» dai soldati tedeschi, era l’aereo per attacchi al suolo piú
numeroso; poteva essere armato di razzi, bombe (in particolare quelle antiuomo a
frammentazione che incutevano il terrore nelle truppe della Wehrmacht) o lanciagranate, e nel
1943 fu modificato con un cannone da 37 mm in grado di distruggere i carri armati. Prodotto in
gran quantità, veniva utilizzato quasi esclusivamente sul fronte del combattimento, dove
distruggeva le forze corazzate tedesche e demoralizzava i soldati con la sua pioggia di bombe.
Le Voenno-Vozdušnye Sily impiegarono del tempo per adeguarsi alla riorganizzazione, alla
nuova rete di comunicazioni e ai nuovi modelli di velivoli. L’addestramento limitato, durante il
quale i piloti effettuavano nel 1942-43 poco piú di qualche ora di volo su aerei da
combattimento, provocò perdite elevate al fronte; l’attenzione rivolta quasi completamente a
sorvolare il campo di battaglia portò altresí a pericolose operazioni contro le difese della
contraerea tedesca e il fuoco della fanteria a terra. Ai piloti sovietici occorse tempo per sentirsi a
loro agio con le comunicazioni via radio, senza contare che, degli 8545 campi d’aviazione
costruiti durante la guerra, 5531 erano semplici piste sterrate su cui era pericoloso atterrare. Ciò
nonostante, il confronto tra i due schieramenti aerei si fece meno sbilanciato a Stalingrado e a
Kursk, dove dalla metà del 1943 in avanti i sovietici raggiunsero una maggiore maturità tattica
nel corso della lunga offensiva contro le forze armate tedesche. Gli aerei sovietici per attacchi al
suolo operavano egregiamente a supporto delle grandi offensive dei mezzi corazzati, creando un
corridoio per l’avanzata delle unità di terra mentre i caccia tenevano a bada le forze aeree
nemiche con continui pattugliamenti offensivi. Nel 1945, con il nemico tedesco fortemente
ridotto per dimensioni e capacità, fu possibile impegnarsi in piú vaste operazioni di disturbo alle
spalle del fronte nemico, benché esse fossero ancora considerate un supporto diretto sul terreno
dello scontro. In questa fase, le Voenno-Vozdušnye Sily erano in grado di dispiegare in prima
linea una forza di 15 500 velivoli, con un vantaggio numerico di dieci volte superiore al nemico
tedesco. Nello sforzo bellico dell’Unione Sovietica, nonostante tutte le carenze individuate nelle
successive ricerche, la combinazione tra forze aeree e forze corazzate creò una potenza
invincibile, essenziale per la vittoria generale degli Alleati, esattamente come le forze aeree e
quelle corazzate avevano garantito le vittorie dei tedeschi quattro anni prima.
L’avvento dei mezzi anfibi.
«Per lanciare e condurre un’operazione con mezzi anfibi», scriveva l’ammiraglio Lord Keyes in
un’edizione delle conferenze da lui date nel 1943 al Lees Knowles Lectureship del Trinity
College di Cambridge, «bisogna avere la supremazia del mare nel teatro dell’operazione e, data
la presenza delle forze aeree, essa può essere ottenuta solo da una flotta dotata dei mezzi per dare
battaglia non solo sopra e sotto il mare ma anche nel cielo» . Se nella Seconda guerra mondiale
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gli scontri terrestri e aerei furono ineluttabilmente legati insieme, altrettanto si può dire di quelli
in mare e nei cieli, soprattutto per il buon esito delle operazioni con mezzi anfibi, che, a
differenza della Prima guerra mondiale, furono un importante elemento del conflitto sia in
Europa sia nel Pacifico, oltre che un fattore fondamentale per la vittoria conclusiva degli Alleati.
La guerra anfibia era un ibrido che richiedeva la combinazione di esercito, aviazione e marina
per sferrare l’attacco iniziale e mantenere ed estendere poi l’area occupata fino alla completa
sconfitta del nemico. Essa si distingueva da un semplice sbarco di truppe incontrastato, cosa che
avveniva con una certa frequenza. Il significato della guerra anfibia era esattamente ciò che
diceva il suo nome: portare il combattimento dal mare sulla terraferma. Negli anni tra le due
guerre era stata una priorità secondaria per la maggior parte delle flotte e degli eserciti, vuoi per i
pregiudizi che ciascuna arma nutriva riguardo a un’idea che le obbligava a collaborare, vuoi a
causa dell’opinione dominante, secondo cui, con le armi moderne, tra cui gli aerei, era
impossibile prendere d’assalto una costa ben difesa. Il disastro degli Alleati a Gallipoli nel 1915-
16 era divenuto un eloquente memento sulle difficoltà di operazioni del genere e un regolare
punto di riferimento per coloro che negli anni tra le due guerre non vedevano di buon occhio la
guerra anfibia. Solo in Giappone e negli Stati Uniti, che si erano trovati faccia a faccia
nell’immenso Oceano Pacifico, la guerra anfibia veniva presa sul serio come una necessità
strategica e operativa in qualsiasi loro guerra futura. La geografia faceva sí che entrambi i paesi
avrebbero avuto bisogno di basi periferiche tra le tante isole del Pacifico occidentale, che
potevano essere attaccate e occupate soltanto dal mare.
L’idea americana di un confronto del genere risaliva ai tempi del War Plan Orange, redatto negli
anni precedenti la Prima guerra mondiale in previsione di una possibile guerra con il Giappone,
anche se il carattere anfibio di ogni futura campagna era stato confermato solo dopo che il
Giappone aveva avuto nel 1919 come ricompensa da parte della Società delle Nazioni il mandato
sui territori insulari tedeschi (isole Marshall, Marianne e Caroline). Negli anni Venti, in aperta
sfida alla Società delle Nazioni, il Giappone aveva iniziato segretamente a costruire strutture
navali e campi d’aviazione, ponendo in effetti la prima pietra di quello che durante la Seconda
guerra mondiale sarebbe divenuto un lungo perimetro difensivo nel Pacifico. Alla luce delle
nuove posizioni strategiche del Giappone a cavallo del Pacifico occidentale, la flotta degli Stati
Uniti si accinse a rivedere il War Plan Orange. Tra i tanti contributi alla revisione del 1922 vi
era uno scritto del tenente colonnello Earl «Pete» Ellis, un ufficiale dell’intelligence del Corpo
dei marine, intitolato Advanced Base Operations in Micronesia (Operazioni di base preliminari
in Micronesia), che poneva le basi della teoria americana sulla guerra anfibia. Ellis aveva
compreso che un attacco dal mare era fondamentalmente diverso sia da un combattimento di
terra sia da un tradizionale scontro navale. La sua descrizione di future operazioni contro coste
ben difese anticipava fin nei particolari il conflitto che sarebbe scoppiato nel Pacifico centrale
vent’anni piú tardi: necessità di una considerevole forza di marine addestrati; rimozione di mine
e ostacoli per creare un canale sicuro su cui i mezzi da sbarco potessero avvicinarsi a terra;
cannoneggiamento delle navi di supporto per eliminare il fuoco nemico; supporto a terra dalle
portaerei; trasbordo a terra di artiglieria e battaglioni per le telecomunicazioni al fine di assistere
i marine nella costruzione di una testa di ponte; demarcazione e controllo delle spiagge durante
lo sbarco di uomini e vettovagliamenti; rapido spostamento dalle imbarcazioni a terra per
massimizzare il primo impatto dell’assalto. Le operazioni anfibie, concludeva Ellis, «avrebbero
conosciuto praticamente il completo successo o il loro fallimento sulla spiaggia» . Anche se per
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gran parte degli anni Venti e Trenta sia la marina sia l’esercito evitarono di impegnarsi nella
guerra anfibia, le raccomandazioni di Ellis vennero riprese dal piccolo Corpo dei marine, che
stava preparando il primo Tentative Manual for Landing Operations (Manuale provvisorio delle
operazioni di sbarco), pubblicato nel 1934. Il manuale costituirà a sua volta il nucleo della
pubblicazione della marina Fleet Training Publication 167, Landing Operations Doctrine
(Pubblicazione 167 sull’addestramento della flotta; Teoria delle operazioni di sbarco), edita per
la prima volta nel 1938 e mantenuta (con qualche modifica) durante la guerra nel Pacifico. Ellis
non era vissuto abbastanza per vedere confermate le sue opinioni. Alcolista da sempre, era morto
in circostanze oscure nel 1923, durante un’operazione di spionaggio nelle isole Caroline,
occupate dai giapponesi .55

Lo sviluppo giapponese di capacità anfibie rispecchiava il progetto americano. Fin dagli anni
novanta del XIX secolo e dai primi passi della nazione nipponica nella costruzione di un impero
d’oltremare era apparso evidente che l’esercito e la marina dovevano imparare a proiettare la loro
forza dal mare contro ogni potenziale nemico, sia nell’Asia continentale sia nelle isole del
Pacifico. Nel 1918, un manuale redatto congiuntamente da esercito e marina sulle linee generali
dell’impiego delle forze armate presentava una possibile invasione anfibia delle Filippine,
all’epoca sotto amministrazione americana; in una versione del 1923 era stata aggiunta come
possibile obiettivo anche la base americana di Guam. Uno studio accurato della campagna di
Gallipoli persuase l’esercito giapponese di non poter fare affidamento sulla marina per condurre
operazioni anfibie. L’addestramento delle forze di terra ad attacchi a spiagge con postazioni
difensive iniziò nel 1921; il primo manuale completo dell’esercito, Jōriku oyobi joriku bōgyo
sakusen kōyō (Compendio sulle operazioni anfibie), fu pubblicato nel 1924, mentre nel 1932
apparve come testo conclusivo Joriko sakusen kōyō (Linee generali delle operazioni anfibie),
redatto congiuntamente con la marina. La dottrina giapponese sottolineava la necessità di un
rapido spostamento dalle imbarcazioni alla riva, di un supporto navale e aereo per proteggere lo
sbarco e di mezzi anfibi specializzati per trasferire truppe e rifornimenti dalle navi alla spiaggia,
preferibilmente di notte allo scopo di disorientare i difensori, usando dei segnali di vernice
luminosa per guidare i mezzi da sbarco. Sia l’esercito sia la marina ipotizzavano tuttavia che si
potessero schierare solo forze relativamente piccole. La marina sviluppò delle speciali forze
navali da sbarco della potenza di un battaglione (circa 1000 uomini tra ufficiali e soldati),
destinate a operazioni contro basi del Pacifico ritenute scarsamente difese; l’esercito prevedeva
di intraprendere assalti con la potenza di una divisione o anche piú, ma in sbarchi ampiamente
dispersi, ciascuno di dimensioni piú limitate .
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L’elemento critico nella guerra anfibia, individuato ben presto dall’esercito giapponese, era la
necessità di speciali mezzi e navi da sbarco progettati per traportare con estrema rapidità sulla
battigia uomini, veicoli e rifornimenti. L’evoluzione delle imbarcazioni destinate a operazioni
anfibie fu il principale fattore che ne determinò il successo in futuro, tanto per le potenze
dell’Asse quanto per quelle alleate. Nel 1930, l’esercito giapponese possedeva due tipi di mezzi
da sbarco motorizzati: il Tipo I (daihatsu) era in grado di trasportare cento soldati ed era dotato
di una rampa per facilitare l’accesso alla spiaggia; il Tipo II (shōhatsu) era piú piccolo e in grado
di trasportare trenta uomini, oppure dieci uomini e dieci cavalli, ma era sprovvisto di rampa di
sbarco. Entrambi erano blindati e armati per proteggersi dal fuoco nemico. Per il trasporto dei
mezzi da sbarco, gli ingegneri dell’esercito realizzarono la nave da 8000 tonnellate Shinsu-maru,
con coperta a pozzo e portelloni di poppa. Una volta allagato il ponte a pozzo, i mezzi da sbarco
trasportati potevano galleggiare e dirigersi verso la spiaggia. Anche la Akitsu-maru, piú grande e
introdotta nel 1941, poteva trasportare mezzi da sbarco . Nel primo anno della guerra sino-
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giapponese, osservatori americani e britannici presenti in Cina avevano potuto assistere alle
operazioni della Shinsu-maru e dei daihatsu all’opera. Tra loro vi era un giovane tenente della
marina americana, Victor Krulak, che inviò un rapporto al comandante del Corpo dei marine,
Thomas Holcomb, insieme con un suo modellino di mezzo da sbarco. Anche se Holcomb fece
subito pressioni per realizzare un’imbarcazione a basso pescaggio dotata di una rampa a prua per
scaricare le truppe direttamente sulla spiaggia, ci vollero piú di due anni per convincere la marina
statunitense che l’idea era essenziale per le operazioni anfibie, non ultimo perché l’innovazione
dei mezzi d’assalto era stata accolta negativamente dalla lobby isolazionista del Congresso. In
definitiva, si può dire che le varie tipologie di Landing Craft, Vehicle, Personnel, o LCVP, e di
Landing Ship Dock, o LSD, tutte in servizio dal 1943, dovevano le loro origini alle innovazioni
giapponesi degli anni Trenta .
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Il fronte del Pacifico rendeva senza dubbio sensati i preparativi alla guerra anfibia del Giappone
e degli Stati Uniti, mentre in Europa l’imperativo ad allestire forze e attrezzature per uno
scenario di guerra alquanto improbabile rimaneva assai poco sentito. Quello che si attendeva, in
fondo, era un grande conflitto di terra. Perfino in Gran Bretagna, che vantava la prima flotta del
mondo e un impero globale, eventuali sbarchi contro una costa difesa dal nemico non erano
considerati molto probabili. La lezione di Gallipoli era stata a lungo analizzata dopo il 1918, ma
l’Inter-Departmental Committee on Combined Operations, istituito nel 1920, aveva concluso che
le diverse forze armate – marina ed esercito – dovevano rimanere indipendenti, evitando di
pianificare sbarchi contrastati. Ai Royal Marines, forti di 9000 uomini, spettava il compito di
difendere le basi navali esistenti oltreoceano, piuttosto che formare il nucleo di una forza
d’assalto anfibia. Un Manual of Combined Operations, pubblicato per la prima volta nel 1922,
forniva scarse indicazioni sotto il profilo operativo. Quando nel 1939 si iniziò a pianificare la
guerra in Europa, l’esercito pensò che le forze britanniche avrebbero combattuto a fianco di
quelle francesi, a imitazione di quanto avvenuto nel 1918. Nessuno avrebbe creduto alla
prospettiva che la Gran Bretagna sarebbe stata espulsa dal continente europeo, con l’unica
alternativa di prepararsi a un assalto anfibio di grandi dimensioni contro le sue difese, eppure,
nell’estate del 1940, quella era ormai l’unica opzione. I soli preparativi per delle operazioni
anfibie erano avvenuti negli anni Venti con la realizzazione di piccoli mezzi da sbarco
motorizzati sotto gli auspici di un Landing Craft Committee (Comitato per i mezzi da sbarco),
ma nel 1938 la marina ne possedeva solo otto. Nello stesso anno venne dato ordine di sviluppare
un Landing Craft Assault, o LCA, per le truppe e un Landing Craft Tank, o LCT, per il trasporto
dei mezzi da sbarco – una decisione provvidenziale che portò alla realizzazione dei due mezzi
standard impiegati nelle operazioni di sbarco del 1943 e 1944 . A parte questo, tuttavia, la
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capacità della Gran Bretagna di organizzare grandi operazioni anfibie restò relegata in un futuro
pieno di incertezze.
Il nemico tedesco si trovava invece ad affrontare difficoltà perfino maggiori. L’occupazione
della Norvegia aveva avuto un costo esorbitante in navi da guerra e non era stata organizzata
come un assalto anfibio in piena regola. Nell’estate del 1940, la preparazione dell’operazione
Seelöwe (Leone marino), cioè uno sbarco nella Gran Bretagna meridionale, era stata avviata
partendo da una sorta di vuoto assoluto. Anche se i preparativi dell’esercito tedesco erano stati
quanto piú possibile accurati (compresa l’assegnazione di un’ampia capacità di carico per il
foraggio con cui sfamare i cavalli da trasportare oltre la Manica), l’esercito e la marina
mancavano di adeguati mezzi da sbarco o navi da trasporto, di navi da guerra pesanti da
affiancare come supporto all’invasione, dell’indispensabile esperienza in sbarchi su spiagge ben
difese e di un efficace sistema di comunicazioni mare-terra. Il progetto di spostare 22 divisioni
attraverso la Manica utilizzando 3425 piroscafi improvvisati e chiatte a traino era
eccezionalmente ambizioso e si basava interamente sulla supremazia aerea che si sarebbe dovuta
creare nei cieli dell’Inghilterra meridionale. Il capo di stato maggiore dell’esercito Franz Halder
scribacchiò sulla sua copia del piano operativo, a margine del paragrafo sulla supremazia aerea,
le parole «conditio sine qua non» . Anche prevedendo la supremazia nei cieli, i rischi erano
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molto grandi. Quella che avrebbe potuto essere la prima massiccia operazione anfibia nel teatro
europeo della guerra naufragò non solo per l’insuccesso della battaglia nei cieli dell’Inghilterra
ma anche per l’assenza di una teoria assodata, di equipaggiamento specializzato e di forze
adeguatamente addestrate. Lo stesso problema si verificò nel caso dell’alleato italiano di Hitler,
quando Mussolini decise nel marzo del 1942 di occupare Malta – «una sorpresa con risultati
formidabili» . Erano già in atto piani per invadere e conquistare l’isola, considerata una spina nel
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fianco delle forze dell’Asse che traghettavano uomini e rifornimenti sul fronte nordafricano
attraverso il Mediterraneo. Il piano dell’operazione C3 era stato redatto negli anni Trenta e
aggiornato nel 1942 in considerazione delle notevoli difese di Malta. Hitler aveva approvato
l’idea senza troppo entusiasmo, purché non interrompesse le operazioni di Rommel nel deserto
nordafricano. Quando la marina italiana iniziò a esplorare la reale situazione dell’isola, si perse
rapidamente d’animo di fronte a quella che venne descritta come «una delle piú grandi
concentrazioni di potenza difensiva del mondo» . Le forze italiane non disponevano di mezzi da
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sbarco adeguati né di qualsivoglia esperienza di assalti anfibi lanciati contro una spiaggia dotata
di ottime difese, supportate dalla forza aerea dell’isola e dai numerosi sottomarini britannici che
incrociavano nel mare circostante. Anche se la marina italiana esagerò di certo la forza della
guarnigione britannica, il rischio di un fallimento era troppo elevato e l’operazione decadde già
nella sua fase di pianificazione.
La guerra anfibia, sotto il profilo sia teorico sia strutturale, fu messa realmente alla prova la
prima volta con l’inizio della guerra nel Pacifico nel dicembre del 1941. Le forze giapponesi
lanciarono una serie di operazioni dal mare contro la penisola malese, le Indie orientali olandesi,
le Filippine e le isole del Pacifico centrale e meridionale sotto amministrazione britannica,
australiana e americana. Il Giappone aveva il vantaggio sia della superiorità navale e aerea
sull’intera zona, considerata essenziale per un attacco anfibio di successo, sia di anni di
esperienza nel lancio di sbarchi sulla costa e sui delta fluviali della Cina. Nonostante le
aspettative dei giapponesi, le varie invasioni non trovarono per la maggior parte nessuna difesa
sulle spiagge. La copertura della notte e un’intelligence rafforzata prima dell’invasione
massimizzarono l’impatto degli sbarchi contro forze limitate e impreparate. La prima operazione,
diretta contro la costa nord-orientale della Malesia, nei pressi della città di Kota Bharu, fu
contrastata da una sottile linea di truppe indiane che presidiavano alcuni fortini. Dalle spiagge,
nonostante la perdita di un certo numero di mezzi da sbarco e i bombardamenti a intermittenza
dalla vicina base aerea, le forze giapponesi si addentrarono in poche ore nell’entroterra per
chilometri e chilometri, infiltrandosi nelle retrovie dei difensori con il supporto della forza aerea.
La fase anfibia si concluse rapidamente. Il caso piú eclatante di un litorale ben difeso si registrò
poche settimane dopo durante l’invasione dell’isola di Singapore da parte della XXV Armata
comandata dal tenente generale Yamashita e inferiore per numero e armamenti. L’operazione
lanciata attraverso lo stretto di Johore nella notte tra l’8 e il 9 febbraio 1942 fu un attacco anfibio
esemplare, anche se dovette piú all’improvvisazione che alla teoria. Un accurato piano di
disinformazione era riuscito a confermare nel comandante britannico la convinzione che
l’obiettivo principale fosse la parte nord-orientale dell’isola. In realtà, i giapponesi puntavano
alla zona nord-occidentale, con difese piú deboli. Pesanti bombardamenti e lanci di granate
precedettero l’attacco al fine di ammorbidire le difese; una prima ondata di 4000 fanti fu
traghettata su gommoni gonfiabili e motoscafi attraverso lo stretto nell’oscurità della sera
avanzata fino al litorale, dove la resistenza era meno intensa. Infiltrandosi tra le posizioni
difensive, ondate di truppe giapponesi guadagnarono la riva. Al mattino, il fronte alleato a nord
era ormai crollato. Furono traghettati a terra piú di 20 000 soldati, con rifornimenti e armi, tra cui
211 carri armati leggeri. Sei giorni dopo, Singapore si arrese a Yamashita . 63

Il successo dell’invasione dell’intera regione centro-meridionale del Pacifico, fino alle isole
Salomone e parte dell’isola di Nuova Guinea, pose gli Alleati in una situazione insormontabile
come quella europea. Solo con delle operazioni anfibie lanciate contro guarnigioni ottimamente
trincerate si sarebbe potuto costringere i giapponesi ad abbandonare le loro conquiste. Per il Sol
Levante, autentico pioniere della guerra anfibia, quella doveva invece rivelarsi la fine delle
invasioni dal mare. A parte un numero limitato di sbarchi controffensivi senza successo nelle
isole Salomone e in Nuova Guinea, le prime operazioni non ebbero piú a ripetersi. L’esercito
aveva sviluppato il Dai 101 Gō-gata Yusōkan, una nuova nave da trasporto progettata piú per
rifornire le guarnigioni isolate nelle aree conquistate che per lanciare nuovi assalti anfibi sulle
isole riconquistate dagli Alleati; il nuovo Dai 1 Gō-gata Yusōkan, la nave da trasporto di Prima
classe della marina, fu progettato piú o meno per lo stesso scopo ed era in grado di eludere gli
aerei e i sottomarini americani grazie alla sua elevata velocità. Anche se le forze armate
giapponesi lo avessero voluto, furono prodotte troppo poche navi del genere per rendere
possibile una grande operazione anfibia contro le robuste difese americane.
L’iniziativa passò a quel punto agli Stati Uniti. Alla fine del 1941, le capacità dei mezzi anfibi
erano molto piú vicine al successo di quanto non fossero due anni prima. Nel 1933, la marina
aveva autorizzato il Corpo dei marine ad attivare una Fleet Marine Force dedicata alle
operazioni anfibie. Forte appena di 17 000 effettivi nel 1936, la flotta fu trasformata sotto il
comando del piú inflessibile dei generali dei marine, Holland McTyeire «Howlin’ Mad» Smith,
in efficienti unità di armi combinate tra loro, supportate dall’aviazione del Corpo dei marine. La
Fleet Marine Force era l’unica forza al mondo destinata unicamente agli assalti anfibi e alla fine
del 1941 contava 55 000 effettivi, divenuti 143 000 verso l’estate del 1942 e 385 000 alla fine
della guerra . In una lunga serie di esercitazioni annuali condotte tra il 1936 e il 1941 si
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imitarono operazioni anfibie, il che forní un’ottima opportunità di apprendere da molti errori.
Con la settima esercitazione, nel 1941, furono pienamente comprese le complessità di uno sbarco
sotto i colpi del nemico. L’esercito americano, resosi conto che nelle future operazioni anfibie
sarebbero state necessarie anche truppe regolari, adottò quasi alla lettera come manuale da
campo FM-31-5 quello della marina FTP-167 e iniziò ad addestrare allo scopo le proprie forze.
Nel 1940, la marina degli Stati Uniti approvò finalmente la produzione di un mezzo da sbarco,
progettato dal costruttore navale di New Orleans Andrew Higgins e dotato di spazio per le truppe
e un veicolo. Il LCVP divenne la tipologia standard, migliorata nel 1943 con uno scafo piú
grande e una rampa di sbarco; durante la guerra ne furono prodotti piú di 25 000. La seconda
innovazione fu il Landing Vehicle, Tracked, o LVT, un mezzo da sbarco cingolato che fu
sviluppato partendo dall’Alligator prodotto da Donald Roebling per navigare nelle Florida Keys
e generalmente noto come Amphtrack, ovvero «trattore anfibio». Il mezzo anfibio, armato e
corazzato, poteva trasportare uomini o un veicolo attraverso le barriere coralline poco profonde
che costeggiavano molte isole del Pacifico e si rivelò fondamentale nelle operazioni successive;
nel corso del conflitto ne furono realizzati circa 18 600, con versioni successive modificate con
una rampa di prua atta a consentire uno sbarco piú rapido. La flotta aveva infine bisogno di navi
da trasporto in grado di trasferire carichi diversi, uomini, veicoli e mezzi da sbarco. Nell’anno
precedente la guerra, varie navi da carico americane furono requisite e riconvertite, anche se fu
poi progettata la Landing Ship, Tank, o LST, dotata di grandi portelloni di prua e in grado di
raggiungere anche le secche vicine alla riva per sbarcare uomini, veicoli e rifornimenti. Fu
questo terzetto di navi anfibie a sopportare il peso maggiore degli sbarchi durante la guerra .
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Poche di queste speciali risorse anfibie erano disponibili per il primo grande assalto ordinato su
insistenza di Roosevelt nell’estate del 1942 contro l’isola di Guadalcanal nelle Salomone
meridionali. Tradurre la teoria in pratica comportava una complessa curva di apprendimento, non
ultimo da parte dei comandanti e di migliaia di giovani volontari della marina, ancora privi di
reale esperienza nelle operazioni anfibie. L’ufficiale della flotta nominato al comando della forza
anfibia, il contrammiraglio Richmond «Terrible» Turner – l’ennesimo comandante famoso per il
pessimo carattere –, riteneva che, in assenza di una superiorità aerea e navale, la missione fosse
condannata al fallimento. Durante una grande esercitazione di mezzi anfibi condotta nella baia di
Chesapeake nel gennaio del 1942 si verificò uno sbarco caotico, in cui nessuna unità riuscí a
trovare la spiaggia che le era stata assegnata. Quando la forza navale mosse finalmente alla volta
di Guadalcanal dalla sua base temporanea in Nuova Zelanda, una prova generale effettuata
sull’isola di Koro nelle Fiji si rivelò ancora piú disastrosa, senza che un solo mezzo da sbarco
riuscisse ad attraversare la barriera corallina per arrivare sulla spiaggia . La pianificazione
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frettolosa aveva comportato carenze nel carico stesso, tanto che i marine avevano dovuto lasciare
in Nuova Zelanda tre quarti dei loro veicoli, la metà delle munizioni necessarie e un terzo delle
loro razioni. Lo sbarco principale, avvenuto la mattina del 7 agosto nei pressi dell’aerodromo
giapponese, si attenne comunque al «modello Ellis», con il supporto di fuoco pesante dalle navi
da guerra e da una portaerei, a cui seguí una linea di sbarco organizzata verso la spiaggia dopo
che gli uomini si erano calati sulle reti lanciate lungo i fianchi dei mezzi da trasporto. Dopo uno
sbarco incontrastato sulla battigia, i marine occuparono in breve tempo il campo d’aviazione, ma
la piccola testa di ponte divenne immediatamente l’obiettivo di ripetuti attacchi aerei, navali e di
terra da parte dei giapponesi, al punto che per sei mesi, fino a quando i giapponesi non
abbandonarono l’isola, l’operazione mantenne di fatto il proprio carattere anfibio.
Benché coronato alla fine dal successo, lo sbarco aveva messo in luce numerose carenze. Il fatto
che i giapponesi non fossero riusciti ad attaccare le navi da trasporto o far saltare in aria
l’equipaggiamento accatastato sulla sabbia era stato un colpo di fortuna, ma l’operazione avrebbe
anche potuto risolversi in un disastro, e minare cosí l’interesse per futuri piani anfibi. Un attento
studio di quell’azione militare evidenziò gli elementi da correggere, il piú importante dei quali
era il problema del comando. Turner, in quanto comandante della forza anfibia, non poteva dare
ordini alla task force navale che accompagnava l’assalto, sicché dopo due giorni il
viceammiraglio Frank Fletcher aveva ritirato le sue navi per paura degli aerosiluranti giapponesi,
lasciando le forze in mare esposte agli attacchi aerei del nemico, almeno fino a quando i velivoli
americani non erano stati in grado di usare la pista d’aviazione finalmente riparata. In base alle
indicazioni del manuale FTP-167, Turner insistette sul suo diritto di comandare, una volta a
terra, sia lo sbarco sia le forze dei marine, il cui comandante, il maggiore generale Alexander
Vandegrift, obiettò all’idea che un ufficiale della marina, privo di qualsiasi esperienza di
combattimenti terrestri, pensasse di dare ordini alle forze di terra una volta sbarcate sulla battigia.
A novembre, in seguito alle pressioni dell’alto comando dei Marine, l’ammiraglio Chester
Nimitz, comandante della flotta del Pacifico, ottenne l’autorizzazione dal capo delle operazioni
navali, l’ammiraglio Ernest King, a discostarsi dalle indicazioni teoriche, riconoscendo alla flotta
il diritto di esercitare il comando tra le navi e la spiaggia, ma affidando al comando dei Marine o
dell’esercito il diritto di dare ordini una volta effettuato lo sbarco. La riforma, nonostante la sua
difficile attuazione per via delle obiezioni della flotta, si rivelò comunque essenziale nelle
operazioni successive, in particolare quelle nel Pacifico sud-occidentale, dove il comandante
dell’esercito MacArthur lanciò ventisei sbarchi a terra, quasi tutti con poca o nessuna resistenza
da parte delle difese sulle spiagge.
Il secondo problema riguardava la logistica. Durante le operazioni di carico in porti lontani si era
prestata un’attenzione insufficiente alla teoria secondo cui i carichi piú importanti dovevano
essere scaricati e spediti a terra per primi. A Guadalcanal, le navi avevano scaricato il carico
quando e dove potevano, creando sulla riva un ammasso di merci; poiché le squadre sulla
spiaggia non avevano saputo organizzare efficientemente lo spazio del litorale, si erano formati
veri e propri cumuli di munizioni e fusti di petrolio mescolati a vettovaglie e forniture mediche,
senza alcuna mimetizzazione né protezione. Dopo tre giorni, Turner ritirò anche le navi ormai in
pericolo, lasciando i marine isolati per sei giorni senza ulteriori rifornimenti. Alla fine, Turner
sfruttò quell’iniziale inesperienza per riformare l’intera catena logistica. Nel novembre del 1942
erano in vigore istruzioni piú complete per massimizzare la velocità di scarico dalle navi a terra:
le spiagge dovevano essere chiaramente segnalate con cartelloni di grandi dimensioni; le squadre
incaricate di organizzare la distribuzione dei rifornimenti dovevano essere sbarcate per prime; i
depositi dovevano essere trasferiti in sicurezza il piú rapidamente possibile. Come aveva predetto
Ellis vent’anni prima, la chiave del successo delle operazioni anfibie era un’organizzazione
adeguata della spiaggia .
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Le prime operazioni anfibie nel teatro di guerra europeo tradivano la medesima inesperienza
degli Alleati. Nel 1940, Churchill insistette per creare un Combined Operations Headquarters
incaricato di supervisionare la sua idea di regolari incursioni sulle coste europee da parte di forze
speciali. Il quartier generale, dapprima sotto il comando dell’ammiraglio Roger Keyes, poi, dal
1942, del viceammiraglio Louis Mountbatten, non solo organizzava le incursioni dei commando,
ma iniziò altresí a pianificare e addestrare le forze destinate a un eventuale rientro sul continente
con operazioni anfibie. Per testare le reali capacità delle forze britanniche combinate, fu
pianificata nell’agosto del 1942 una grande incursione nel porto di Dieppe. Era stato scelto un
porto perché si presumeva che una qualsiasi invasione futura non potesse essere condotta e
rifornita attraverso una spiaggia. Il 19 agosto, mentre i marine di Vandegrift scavavano trincee a
Guadalcanal, una piccola flottiglia di mezzi da trasporto e da sbarco, scortata solamente da
quattro cacciatorpediniere, si avvicinò alla costa francese. L’operazione Jubilee si risolse in un
disastro caotico. Le pesanti difese tedesche erano state allertate in anticipo e gli sfortunati mezzi
da sbarco e il loro carico furono accolti da una pioggia di fuoco. Tutti e ventisette i carri armati
sbarcati furono colpiti o messi fuori uso; trentatre mezzi da sbarco furono distrutti e una delle
navi da guerra affondata. Dei 6086 soldati britannici e canadesi sbarcati, 3623 vennero uccisi,
feriti o fatti prigionieri. I caduti delle forze navali e aeree furono altri 659. Come esperienza di
apprendimento, l’operazione ebbe costi sbalorditivi, ma le lezioni apprese non lasciavano dubbi.
L’analisi britannica del disastro rimarcò il ruolo essenziale di un potente bombardamento navale
di supporto, unito al bombardamento aereo delle difese del nemico e al sostegno dell’aviazione
contro i suoi velivoli; le comunicazioni, alquanto carenti, portarono alla conclusione che
un’imbarcazione «ammiraglia» anfibia avrebbe dovuto coordinare qualunque attacco (una
decisione presa dopo Guadalcanal con motivazioni pressoché identiche); i veicoli speciali, infine,
dovevano essere progettati per essere in grado di penetrare ed eliminare le difese della spiaggia.
La Royal Navy sviluppò inoltre una forza navale d’assalto denominata Force J e utilizzata sia
per elaborare tecniche anfibie sia per addestramento, che rimase operativa per il resto della
guerra .
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L’incursione a Dieppe rammentò a tutti che un’operazione anfibia in Europa sarebbe stata
completamente diversa dalle analoghe operazioni condotte contro il perimetro insulare del
Giappone. In Europa, il nemico aveva il vantaggio di lunghe linee interne di comunicazione per
ricevere potenziali rinforzi e rifornimenti su larga scala; anche nel caso di successo, uno sbarco
sarebbe stato solamente il preludio a una grande campagna di terra, in cui la guerra anfibia
sarebbe rimasta alle spalle. Nel Pacifico, al contrario, le guarnigioni nemiche erano isolate dalla
forza principale dei giapponesi e dovevano affidarsi a lunghe e incerte linee d’oltremare per
approvvigionamenti e rinforzi. In tali condizioni, le operazioni anfibie furono la vera fonte della
vittoria, isola dopo isola. Questo contribuisce a spiegare le risorse sostanziali investite nella
guerra anfibia contro il Giappone. Dopo Guadalcanal, la marina degli Stati Uniti e il Corpo dei
marine crearono una forza operativa che andava ben al di là delle possibilità del nemico, in grado
di garantire in ogni particolare assalto il necessario livello di superiorità navale e aerea. Per
l’attacco a Guadalcanal erano state assegnate 76 navi, divenute 1200 per l’invasione di Okinawa
nell’aprile del 1945. Si spiegano anche gli enormi sforzi compiuti per valutare che cosa era
andato storto nelle operazioni precedenti. Anche allora, tuttavia, il primo grande attacco a una
costa fortemente difesa, sferrato nel novembre del 1943 contro l’isola Betio, al largo della costa
dell’atollo Tarawa nelle isole Gilbert, rivelò che vi era ancora molto da imparare. L’assalto a
Betio e alla sua base aerea giapponese da parte della II Divisione marine, considerato essenziale
per aprire la strada alla campagna, prevista da anni, contro le isole del Mandato del Pacifico
meridionale, rappresentava tuttavia una sfida ben diversa da quella di Guadalcanal. Sul
minuscolo territorio dell’isola i giapponesi possedevano infatti un fitto sistema difensivo:
fucilieri e mitragliatrici coprivano l’intera zona da 500 casematte rinforzate, ricoperte di tronchi,
travi in acciaio, cemento e roccia corallina, rese pressoché invisibili dall’alto e supportate da
cannoni pesanti lungo la costa, carri armati leggeri, artiglieria da campo e mortai. La spiaggia era
disseminata di filo spinato, mine e tetraedri di cemento armato; subito dopo la spiaggia si ergeva
un solido muro di tronchi di palme da cocco. Era la catena di isole occupate dal Giappone piú
pesantemente difesa. Il comandante di Betio, il contrammiraglio Shibasaki Keiji, era famoso per
aver predetto che «un milione di americani non potrebbe prendere Tarawa neppure in 100 anni» . 69

In realtà, l’atollo di Tarawa fu preso in tre giorni di sanguinosi combattimenti, anche se il primo
attacco contro un obiettivo cosí fortemente difeso richiese tutte le capacità di un’operazione
anfibia. Non fu certo d’aiuto l’accesa e reiterata discussione su chi dovesse avere il comando tra
l’ammiraglio Turner, nuovamente a capo della forza anfibia, e «Howlin’ Mad» Smith, a cui era
stato permesso di osservare ma non dirigere l’operazione dei marine. La mattina dell’attacco, il
20 novembre, il comando e il controllo vennero subito compromessi allorché la corazzata
Maryland, che fungeva da nave ammiraglia, rimase inaspettatamente priva di comunicazioni
radio a causa dei colpi dei suoi possenti cannoni. Il fuoco di supporto da parte delle navi e gli
attacchi aerei che precedettero lo sbarco sortirono ben pochi effetti contro i bunker pesantemente
rinforzati dell’isola. Mentre i mezzi da sbarco si avvicinavano non vi fu neppure un fuoco sotto
costa da parte delle navi piú piccole, il che lasciò alle difese giapponesi circa venti minuti per
riprendersi dal bombardamento e armarsi. I mezzi anfibi non riuscivano a superare la barriera
corallina che circondava l’isola, per cui ai marine, nonostante le irate richieste di rinforzi da parte
di «Howlin’ Mad» Smith, rimasero appena 125 Amphtrack per raggiungere la riva. Le navi
cargo, sotto il fuoco delle batterie costiere giapponesi, avevano difficoltà a coordinare le
operazioni di scarico e persero le comunicazioni con i marine a terra. I rifornimenti arrivavano in
modo caotico, mentre l’artiglieria e i veicoli avevano grandi difficoltà ad attraversare la barriera
corallina. Benché fossero stati assegnati all’assalto 732 mezzi, solo pochi riuscirono a toccare
terra il primo giorno. Le truppe sulla spiaggia dovettero impegnarsi a rimuovere gli ostacoli sotto
una grandine di fuoco continuo. Quando arrivarono i mezzi da sbarco di Higgins con la seconda
ondata di truppe, gli uomini dovettero sbarcare a 800 metri dalla riva e lottarono tra le onde
tenendo alti i fucili sopra la testa sotto le raffiche incessanti delle mitragliatrici nemiche. L’unico
risultato positivo del bombardamento, altrimenti inefficace, fu la distruzione delle comunicazioni
telefoniche giapponesi, che privò Shibasaki della possibilità di coordinare la difesa. La vittoria a
Betio fu dovuta principalmente all’iniziativa e al coraggio dei marine assegnati all’impresa
contro un nemico pronto a morire piuttosto che arrendersi. I marine persero in tre giorni 992
uomini, quasi lo stesso numero di caduti nei sei mesi di battaglia a Guadalcanal. Dei 2602
giapponesi marinai del VII Corpo della Kaigun tokubetsu rikusentai (Forza speciale da sbarco
della marina) e del III Corpo della Tokubetsu konkyochitai (Forza speciale di base), ne furono
fatti prigionieri solo 17; perirono anche molti dei 2217 sfortunati lavoratori coreani che si
trovavano sull’isola, dei quali solo 129 erano ancora vivi alla fine dei combattimenti . 70

I molti errori commessi a Tarawa innescarono una profonda revisione di ciò che non era andato
per il verso giusto. Il primo giorno, infatti, l’assalto era stato molto vicino alla sconfitta. Quasi
tutte le successive operazioni condotte contro le catene insulari furono contrastate da forze
trincerate per difendersi, ma la lezione appresa a Tarawa contribuí a una riforma definitiva della
teoria e pratica anfibie, in modo da assicurare che non si verificasse piú di tanto caotico. Il
contrammiraglio Alan Kirk, assegnato al comando della Western Task Force per l’invasione
della Francia, si recò sul teatro di guerra del Pacifico per capire di prima persona che cosa non
avesse funzionato e che cosa andava fatto per evitare di commettere gli stessi errori. Il primo
passo fu quello di migliorare la struttura di comando. Dopo l’esperienza di Tarawa, fu accentuata
la divisione tra il comando delle forze navali anfibie e quello delle forze di terra. Allo scopo di
coordinare l’attacco, una nave ammiraglia d’assalto, dotata di migliori apparecchiature di
comunicazione radio, sostituí le corazzate che erano state convertite per essere utilizzate nelle
operazioni iniziali. Il cannoneggiamento, abbondante ma inefficace a Tarawa, doveva essere
aumentato sostanzialmente con un primo bombardamento piú lungo di granate a perforazione, in
grado di mettere fuori gioco lo spesso carapace difensivo delle postazioni dei cannoni nemici. Un
bombardamento di supporto piú ravvicinato, unito all’azione dei bombardieri di picchiata,
doveva tenere sotto pressione i difensori mentre la forza di invasione si avvicinava. Nelle
operazioni che seguirono si rivelarono cruciali le modifiche apportate all’equipaggiamento.
Erano necessari molti piú Amphtrack (e al successivo grande assalto dei marine a Capo
Gloucester ne furono assegnati piú di 350 per ogni divisione); i carri armati leggeri furono
sostituiti da Sherman medi, alcuni dei quali dotati di lanciafiamme, dei quali, essendosi rivelati
l’arma piú efficace per svuotare casematte e bunker, furono fornite anche le truppe, grazie a un
modello portatile a zaino. Dopo i momenti critici di Betio, venne rivista ancora una volta la
logistica. Il flusso di rifornimenti sarebbe stato ora controllato al largo della costa individuando
precisi punti di scarico, atti a garantire che tutto arrivasse nella giusta sezione della spiaggia;
lungo la linea di partenza dei mezzi da sbarco furono predisposti dei gommoni con riserve
galleggianti di rifornimenti essenziali adatti a un rapido trasferimento a riva; le squadre a terra
dovevano essere rinforzate in modo da offrire un adeguato supporto agli uomini intenti a spostare
i rifornimenti; si decise infine, quando possibile, di trasportare dei camion a pieno carico in
grado di raggiungere la spiaggia direttamente dalle imbarcazioni .71

Le lezioni apprese a Tarawa furono essenziali per un evidente miglioramento della pratica
anfibia americana, fino all’attacco finale sferrato nell’aprile del 1945 contro Okinawa, la piú
grande delle isole Ryūkyū, 1125 chilometri a sud del Giappone – una sorta di preludio allo
sbarco sull’arcipelago nipponico previsto in quello stesso anno. L’operazione di Okinawa si
avvicinò per dimensioni alle grandi invasioni sul continente europeo. Vi presero parte 433 navi
da trasporto e da sbarco caricate in 11 porti diversi, sparsi lungo le coste del Pacifico. Uomini,
veicoli e rifornimenti furono trasportati in modo tutt’altro che agevole per migliaia di chilometri
di oceano, molti su imbarcazioni con poco pescaggio che si alzavano e si abbassavano con un
sonoro schiocco su ogni onda mentre si avvicinavano lentamente alla destinazione cosparse del
vomito dei soldati con il mal di mare. Le truppe d’assalto contavano 183 000 uomini (due
divisioni di marine, tre dell’esercito) – la piú grande forza mai radunata nel Pacifico per uno
sbarco su spiagge pesantemente difese. Al largo della costa di Okinawa, dai cannoni delle navi
iniziò un massiccio fuoco di sbarramento, a cui diede manforte l’Air Ground Task Force degli
stessi marine, ora addestrati a garantire un diretto supporto alle truppe impegnate nello sbarco e
nella creazione di una testa di ponte. Squadre subacquee di demolizione rimuovevano intanto
ogni possibile ostacolo allo sbarco . Le truppe d’assalto erano abbondantemente dotate di LVT,
72

carri armati medi e lanciafiamme. Delle squadre di terra, che dovevano controllare e distribuire
l’equipaggiamento man mano che arrivava sulla spiaggia, facevano parte 5000 uomini,
supportati da una Joint Assault Signal Company che fece in modo questa volta che le
comunicazioni sulla spiaggia e tra la terraferma e le navi funzionassero efficacemente. Furono
scaricate circa 313 000 tonnellate di merci, immagazzinate secondo i piani e spostate in avanti
parallelamente all’avanzata delle truppe.
Questa volta, tuttavia, anche il comando dell’esercito giapponese aveva imparato la lezione. Il
tenente generale Ushijima Mitsuru, comandante dell’isola, abbandonò l’idea di una difesa sulla
spiaggia, che era sempre fallita, anche nel caso di Tarawa, e costruí linee di resistenza
nell’entroterra, in grotte e bunker nascosti e presidiati da piú di 100 000 soldati. Contro le
aspettative americane, gli sbarchi iniziali avvennero praticamente senza incontrare ostacoli. La
successiva conquista dell’isola si trasformò a tutti gli effetti in una massiccia operazione di terra,
abilmente supportata dalla logistica navale. A differenza delle operazioni precedenti, ci vollero
ottantadue giorni per liberare Okinawa dal nemico. Tra gli americani vi furono 7374 morti, ma si
stima che 131 000 persone, tra giapponesi e abitanti di Okinawa, rimasero sepolte vive nei
bunker e nei rifugi distrutti, oppure incenerite dai lanciafiamme o falciate dal fuoco della
fanteria. La piú grande operazione anfibia del Pacifico, tuttavia, doveva ancora venire. Nel
settembre del 1944, l’American Joint War Plans Committee aveva preparato un piano per
invadere Kyushu, l’isola meridionale dell’arcipelago giapponese – un’invasione con 13 divisioni,
sostenute da 7200 aerei della flotta e dell’esercito e 3000 navi. La forza di invasione sarebbe
sbarcata su tre spiagge separate, conquistando i campi dell’aviazione e stabilendo sull’isola un
forte supporto aereo. Alla fine, l’operazione Olympic, e la successiva invasione anfibia dell’isola
principale di Honshu, non si materializzò, in seguito alla resa del Giappone nell’agosto del 1945.
La forza navale anfibia traghettò invece tra agosto e settembre l’esercito di occupazione alleato e
contribuí a riportare le forze cinesi nelle aree costiere occupate in precedenza dal Giappone .73

La piú grande operazione anfibia della guerra rimase l’operazione Neptune, il nome in codice
che indicava la fase anfibia dell’invasione alleata nella Francia nord-occidentale – l’operazione
Overlord – nel giugno del 1944. Si trattava di un’impresa ben diversa da quelle condotte contro
le piccole isole e aree costiere del teatro della guerra nel Pacifico. In confronto, l’assalto alla
costa francese aveva dimensioni enormi e doveva essere lanciato contro un litorale dotato di forti
difese, su cui il nemico aveva concentrato nell’estate del 1944 circa trentaquattro divisioni (piú
altre da richiamare in caso di necessità), aveva realizzato in due anni il sistema di potenti difese
costiere detto Atlantikwall e, sotto la direzione del feldmaresciallo Rommel, comandante dei
preparativi per la difesa, aveva disposto sulla spiaggia e sotto l’acqua ostacoli e campi minati,
oltre a un letale fuoco di sbarramento. Le linee di comunicazione interne, che arrivavano fino in
Germania, rappresentavano, almeno in linea teorica, un vantaggio fondamentale. Il fantasma di
Gallipoli aleggiava sull’intera operazione, il che spiega forse il debole entusiasmo dimostrato
verso quell’impresa da Churchill e dalla leadership militare britannica. Churchill aveva dietro di
sé non solo l’eredità di Gallipoli, ma anche la Norvegia, Dunkerque, Creta e Dieppe. Dall’altro
lato, nonostante i tanti problemi incontrati, la dirigenza americana poteva citare i successi
dell’invasione nel Nordafrica, in Sicilia e Italia, nonché il trionfo insperato della conquista di
Guadalcanal. I rischi strategici dell’operazione, tuttavia, erano ben maggiori di quelli affrontati
nelle isole del Pacifico o nelle precedenti invasioni europee. Una mancata vittoria sull’isola di
Betio non avrebbe danneggiato in modo critico l’avanzata nel Pacifico, mentre un fallimento
dell’operazione Neptune avrebbe messo gli Alleati dinanzi a una calamità strategica, minato i
rapporti con Stalin, reso improbabile un secondo tentativo e demoralizzato a livelli imprevedibili
l’opinione pubblica di Stati Uniti, Gran Bretagna e Canada. Se il successo dell’operazione
potrebbe sembrare a posteriori assicurato, l’esperienza di guerra anfibia in Europa nei diciotto
mesi precedenti Neptune giustificava del tutto le riserve espresse dalla leadership britannica .
74

Le operazioni anfibie alleate in Europa erano iniziate con l’operazione Torch nel novembre del
1942. Gli sbarchi in Marocco e Algeria avevano dimostrato piú dell’incursione nel porto di
Dieppe quanto vi fosse ancora da imparare, nonostante il «nemico», in quel caso, fosse costituito
unicamente dalle piccole guarnigioni e dall’attività navale che la Francia di Vichy aveva
mantenuto nelle regioni nordafricane dell’impero. Si era sperato di poter convincere i francesi a
non opporre resistenza agli sbarchi, ma le autorità militari di Vichy avevano considerato
l’operazione alleata come una vera e propria invasione di un territorio francese. L’operazione
Torch, come la Watchtower di Guadalcanal, era stata preparata in breve tempo e con una buona
dose di improvvisazione. La maggior parte dei soldati che attraversarono l’Atlantico sulle navi
da sbarco e da trasporto già pronte al combattimento erano giovani reclute che avevano ricevuto
uno scarso addestramento alla guerra anfibia. Uno di loro ricordò in seguito fino a che punto gli
equipaggi fossero costituiti da «pivellini»: «Non avevamo mai visto un oceano prima,
figuriamoci poi da una nave» . Lezioni di addestramento erano state frettolosamente impartite a
75

bordo utilizzando modellini di spiagge e di mezzi da sbarco, ma quelle forze dell’esercito, a


differenza dei marine nel Pacifico, non erano comunque del tutto preparate a uno sbarco sotto il
fuoco delle postazioni nemiche. In assenza di imbarcazioni, alcune delle reclute erano state
addestrate con normali autovetture guidate su una superficie ondulata, a pallida imitazione delle
onde. Gli sbarchi in Marocco furono caotici, con troppi mezzi da sbarco controllati da timonieri
con poca esperienza, senza nessuna mappa adeguata e nessuna segnaletica efficiente delle corsie
di avvicinamento alla spiaggia. Le truppe erano state lente a sbarcare calandosi su reti metalliche
rese scivolose dal mare, costrette a trasportare, su insistenza dell’esercito, 40 chilogrammi di
equipaggiamento – un peso abbandonato invece dai marine che operavano nel Pacifico. Guasti ai
motori, collisioni e attività aerea francese crearono scompiglio tra i mezzi che raggiungevano la
riva. Durante la prima ondata dell’attacco, una nave da trasporto perse diciotto dei suoi
venticinque mezzi da sbarco, e cinque dei nove rimasti dalla seconda ondata. Il tentativo di
portare a terra dei carri armati con il mare grosso finí con molti mezzi corazzati che
sprofondavano nella sabbia bagnata. Il primo giorno, arrivò a riva solo il 2 per cento delle scorte.
Gli sbarchi anglo-americani in Algeria erano stati meno caotici grazie a una migliore
segnalazione delle corsie di avvicinamento con fari lampeggianti, ma l’insistenza con cui gli
inglesi ribadivano l’importanza dei porti aveva finito per ricreare gli stessi problemi di Dieppe.
Né Orano né Algeri poterono essere prese finché non arrivarono le forze sbarcate sulle spiagge . 76

La resistenza opposta a tutti gli sbarchi fu finalmente debellata, il che contribuí a dissipare la
convinzione che le operazioni anfibie fossero destinate al fallimento. Tra le operazioni Torch e
Neptune, tuttavia, vi era stato molto da imparare, cosí com’era successo tra Guadalcanal e
Okinawa. I numerosi problemi rimasti emersero pericolosamente negli sbarchi di Salerno nel
settembre del 1943 e di Anzio pochi mesi dopo.
Il primo ostacolo da superare nell’invasione della Francia fu la questione del comando. Gli
Alleati avevano concordato che il generale Eisenhower avrebbe esercitato il comando supremo,
ma l’operazione in sé avrebbe avuto un comandante navale per lo sbarco anfibio e un
comandante dell’esercito per le operazioni a terra, distinzione già praticata nel Pacifico.
Entrambi erano inglesi: l’ammiraglio Bertram Ramsay fu posto al comando dell’operazione
Neptune; il maresciallo di campo Montgomery avrebbe comandato le truppe di terra
nell’operazione Overlord. Le forze aeree tattiche, essenziali per l’operazione anfibia, erano
controllate centralmente da un comandante dell’aeronautica, il maresciallo dell’Aria Trafford
Leigh-Mallory; le forze dei bombardieri strategici, nonostante il consiglio e l’istinto dei
comandanti dei velivoli, furono poste direttamente sotto Eisenhower, che le avrebbe impiegate
come meglio credeva. La pianificazione e l’organizzazione dell’intera operazione dal mare alla
terra raggiunsero dimensioni fino ad allora inimmaginabili. Attraverso l’Atlantico, furono spedite
in Gran Bretagna nove milioni di tonnellate di rifornimenti per sostenere l’invasione. Circa 350
000 persone, tra uomini e donne, militari e civili, erano impegnate nell’organizzazione delle linee
di rifornimento, nell’addestramento e dispiegamento dei milioni di soldati destinati alla
campagna sul suolo europeo, nonché nello sviluppo di equipaggiamenti speciali, indispensabili
se si voleva che lo sbarco non fosse respinto dalle spiagge . Quando il numero delle divisioni
77

previste nella prima ondata fu portato da tre a cinque, allargando cosí il fronte in Normandia, la
quantità di merci da imbarcare aumentò talmente che la competizione con i teatri della guerra nel
Mediterraneo e nel Pacifico per accaparrare approvvigionamenti e rinforzi rischiò di minare
l’intero progetto anfibio. Le dimensioni delle spedizioni erano state tra gli argomenti di quanti si
erano detti contrari a tentare un importante sbarco in Francia nel 1943 e, anche se Neptune
rappresentava l’operazione cardine dello sforzo bellico occidentale, una certa carenza di navi da
guerra e da trasporto e di mezzi da sbarco rimaneva un limite critico.
Il piano iniziale dell’operazione Neptune, stilato nel 1943, prevedeva un totale di 2630 mezzi da
sbarco assortiti e non meno di 230 delle maggiori navi da trasporto (Landing Ship, Tank), con il
loro pesante carico di veicoli e rifornimenti. In rapporto alla produzione complessiva, tali
requisiti sembrerebbero alquanto modesti. Tra il 1940 e il 1945, la costruzione di mezzi da
sbarco americani totalizzò il considerevole numero di 63 020 veicoli anfibi, anche se 23 878
furono prodotti dopo giugno del 1944 per soddisfare la forte domanda nel teatro della guerra nel
Pacifico. Ciò nonostante, le perdite elevate subite nel Pacifico e nel Mediterraneo e la continua
richiesta di mezzi da sbarco in entrambi questi teatri per operazioni non strategicamente
necessarie (compresa l’ostinata insistenza con cui Churchill voleva nel 1944 un’invasione anfibia
di Rodi, anche se questo avrebbe costretto a rimandare Neptune di due mesi) imponevano di
trovare un difficile equilibrio tra le tante richieste . L’aumento del numero di divisioni nella
78

prima ondata incrementò ancor piú la pressione sulle risorse navali. Alla produzione di navi da
trasporto e mezzi da sbarco venne data finalmente una valutazione di speciale urgenza soltanto
nell’agosto del 1943, ma ci volle del tempo per fabbricare le nuove imbarcazioni e, dopo la crisi
di Tarawa, molte risorse supplementari furono riservate con urgenza alla produzione per il
Pacifico.
Alla fine, vennero messi a disposizione circa 4000 mezzi da sbarco – un numero sufficiente,
come si scoprí poi, a creare la testa di ponte iniziale. Le carenze di maggiore criticità
riguardavano piuttosto le navi piú grandi, le LST, la maggior parte delle quali erano prodotte e
varate lungo il fiume Ohio. Questo tipo di scafo a basso pescaggio poteva approdare direttamente
sulla spiaggia e scaricare automezzi e riserve di approvvigionamento e, in assenza di un porto, si
rivelava vitale per mantenere adeguatamente rifornite le forze a terra. Eisenhower ne voleva
almeno 230, ma nel 1944, con troppe navi ancora nel Mediterraneo per soddisfare le esigenze
delle operazioni anfibie previste in quell’area, ritenne che il numero disponibile fosse
insufficiente per trasportare i necessari rifornimenti. Da ottobre del 1943, un programma
intensivo di produzione, direttamente agli ordini di Roosevelt e King, varò tra novembre del
1943 e maggio del 1944 ben 420 nuove LST, molte delle quali attraversarono tuttavia l’Atlantico
troppo tardi per partecipare all’invasione ma in tempo per il programma di rifornimenti. La
cancellazione delle operazioni in Birmania e nel Mediterraneo aggiunse altre navi, e per il D-Day
Eisenhower ne aveva ormai 234 a disposizione. Per far fronte all’operazione, l’esercito insistette
che fossero caricate fino alla loro totale capienza, perfino sovraccaricate, mentre venivano
compiuti parallelamente urgenti sforzi affinché tutte le LST fossero in perfette condizioni. Il 1°
giugno, a cinque giorni dalla scadenza, erano pronte per le operazioni non meno di 229 navi da
trasporto .
79

I preparativi per l’operazione Neptune non risentirono dell’affrettata improvvisazione che aveva
contraddistinto l’urgenza di molte azioni compiute nel Pacifico. I milioni di soldati destinati ad
attraversare la Manica trascorsero lunghi mesi di addestramento regolare e intenso, iniziando
dalle esercitazioni su piccola scala per imparare a effettuare uno sbarco e risalire di corsa una
spiaggia e terminando ai primi di maggio del 1944 con una serie di grandi manovre, dal nome in
codice Fabius, lungo la costa meridionale inglese, con mine e munizioni vere. L’operazione
Neptune risentí comunque di una grave carenza di marinai addestrati sia sulle navi da trasporto
sia sui mezzi da sbarco. Molti degli ufficiali arrivavano direttamente da un breve corso condotto
negli Stati Uniti per comandare le imbarcazioni; altri si erano formati presso l’Amphibious
Training School di Slapton Sands, sulla costa meridionale del Devon. La Royal Navy aveva
istituito una scuola temporanea per cadetti navali in cui i giovani ufficiali venivano addestrati a
manovrare un mezzo d’assalto anfibio, ma non alla navigazione d’altura. Una volta terminato il
corso, si sperava che le giovani reclute mettessero in pratica le innumerevoli istruzioni emanate
dal quartier generale di Ramsay. Le direttive riempivano un volume di quasi 1200 pagine e
riguardavano ogni aspetto della fase anfibia dell’assalto. Per l’operazione furono altresí formate
delle squadre specializzate con relativo equipaggiamento, a imitazione delle squadre che
operavano a terra e sulle spiagge del Pacifico. Per far fronte alle difese del nemico, furono
istituite trentadue Naval Combat Demolition Units e si addestrarono i piloti di tutte le forze aeree
tattiche a individuare le batterie dell’artiglieria nemica; un certo numero di navi da trasporto
della classe Liberty venne convertito in unità provviste di radar per dirigere i caccia nelle loro
intercettazioni; l’intensa copertura offerta dai mezzi aerei per ricognizione doveva garantire un
quadro di informazioni di intelligence molto piú completo rispetto ad altre operazioni anfibie.
Allo scopo di portare rapidamente sulle spiagge i mezzi corazzati, fu ideato un duplex drive tank
anfibio, un carro armato a doppio motore in grado, in teoria, di navigare autonomamente fino a
riva. Per trasportare il carico sulle spiagge furono costruiti i cosiddetti Rhino ferries, grandi
chiatte dotate di motore fuoribordo. Erano stati infine realizzati degli autocarri anfibi – i DUKW
– non solo per trasferire il carico da una parte all’altra della costa ma anche per consegnarlo
direttamente là dove le truppe stavano combattendo. Il 15 maggio, quando Ramsay annunciò a
Eisenhower che l’operazione poteva iniziare, stava ormai per essere lanciato il piú grande assalto
anfibio della storia. Il 28 maggio, Ramsay ordinò all’immensa forza posta sotto il suo comando
di «partire con l’operazione “Neptune”» .80

L’invasione della Normandia dimostrò fino a che punto l’esperienza della guerra anfibia degli
Alleati si fosse evoluta dai suoi primi passi inizialmente incerti. Essa presentava numerosi
elementi in comune con la teoria articolata per la prima volta da Ellis e dal Corpo dei marine
negli anni Venti. Il prerequisito fondamentale era la superiorità sul mare e nell’aria, e nel giugno
del 1944 erano state assicurate entrambe. L’invasione era supportata da piú di 1000 navi da
guerra di ogni tipo e le forze aeree alleate erano in grado di radunare 12 000 velivoli di tutti i
generi. L’aviazione tedesca, costretta a rientrare in difesa del Reich, aveva subito perdite
debilitanti durante tutta la prima metà del 1944. Alla vigilia dell’operazione Neptune, la III Flotta
della Luftwaffe era in grado di portare nel nord della Francia 540 velivoli di vario tipo, tra cui
appena 125 caccia . La supremazia navale alleata era totale. Le veloci motosiluranti Schnellboote
81

(che gli inglesi chiamavano E-boat, cioè enemy boat, «battello nemico») e i sottomarini tedeschi
tentarono di intervenire, ma della grande armata alleata di 7000 navi andarono perse solamente
tre piccole navi da carico e una dozzina di navi da guerra minori, mentre dei 43 sommergibili
tedeschi inviati all’attacco 12 furono danneggiati e 18 affondati .
82

L’obiettivo dell’assalto iniziale del 6 giugno era la realizzazione rapida e violenta di una sicura
testa di ponte, l’eliminazione delle difese costiere e un sufficiente supporto logistico per garantire
che qualsiasi controffensiva concertata potesse essere contenuta. Su un ampio fronte lungo la
costa della Normandia erano state selezionate cinque spiagge ben distinte: «Gold», «Juno» e
«Sword» per la forza combinata anglo-canadese, «Utah» e «Omaha» per le forze americane.
Dopo la completa rimozione degli ostacoli presenti sulle spiagge da parte dalle squadre speciali
di demolizione, 200 dragamine sanificarono i campi minati dei corridoi contrassegnati,
dopodiché i mezzi da sbarco pieni di uomini nervosi e con il mal di mare iniziarono il loro
viaggio verso la riva, che in alcuni casi comportava una traversata di oltre 15 chilometri. La linea
difensiva tedesca fu bombardata dalle navi da guerra, da un pesante assalto dei grandi
bombardieri quadrimotore e quindi da scariche di razzi lanciati dalla riva da mezzi da sbarco
opportunamente modificati e supportati dagli attacchi tattici di bombardieri di picchiata e
bombardieri medi. Anche se il bombardamento non distrusse le difese, l’obiettivo era quello di
neutralizzarle sufficientemente affinché lo shock dell’invasione sulla spiaggia potesse
disorientare i difensori. I bombardieri pesanti e il cannoneggiamento navale fecero relativamente
pochi danni, ma le squadre di terra e gli aerei «ricognitori» furono in grado di dirigere i
bombardamenti oltre le spiagge, dove le forze tedesche si stavano ritirando. Gli sbarchi furono
piú ordinati di quanto ci si sarebbe potuti aspettare vista l’inesperienza di molti equipaggi dei
mezzi anfibi. Benché l’impressione fosse che i mezzi da sbarco, i carri armati anfibi e le pile di
casse del carico fossero arrivati a riva in apparente confusione, l’ordine fu presto restaurato, in
modo che altri rifornimenti e uomini potessero arrivare rapidamente per rafforzare lo sbarco
iniziale. A mezzogiorno, tutte e tre le spiagge del settore britannico erano state messe in
sicurezza e le truppe cominciarono a spostarsi nell’entroterra per guadagnare posizioni piú
solide. Sulla spiaggia «Utah», le truppe americane erano sbarcate a una certa distanza dalla
destinazione prevista a causa della cappa di fumo creata dai bombardamenti, ma per loro fortuna
il sito era protetto da difese piuttosto deboli. Verso sera, le forze americane sbarcate sulla
spiaggia «Utah» erano già avanzate nell’entroterra per 10 chilometri.
La battaglia principale del D-Day ebbe luogo sulla seconda spiaggia degli americani. «Omaha»
fu il Tarawa della guerra in Europa. Come nell’operazione condotta nel Pacifico, andò storto
tutto quello che poteva andare storto, anche se la spiaggia, a dispetto delle circostanze, venne
finalmente messa in sicurezza. L’iniziale bombardamento delle navi era stato troppo breve,
com’era avvenuto sull’isola di Betio; le raffiche di razzi avevano mancato il loro obiettivo; i
bombardieri pesanti avevano sganciato i loro ordigni troppo lontano dalle difese, per cui mentre i
mezzi da sbarco si dirigevano verso la spiaggia, i difensori tedeschi avevano avuto abbastanza
tempo per riprendersi dal bombardamento e preparare i loro cannoni. Quando la prima ondata di
truppe toccò la battigia, i mortai, l’artiglieria e le mitragliatrici dei tedeschi crearono un muro di
fuoco, distruggendo i mezzi da sbarco e decimando i soldati del primo anfibio. Il mare agitato
inondò i carri armati anfibi, spedendoli in fondo al mare con i loro equipaggi intrappolati
all’interno. Dei ventinove mezzi solo due raggiunsero la riva, mentre sulla spiaggia «Sword» ne
erano arrivati trentuno su trentaquattro e su «Juno», la spiaggia dei canadesi, ventuno su
ventinove . Le Naval Combat Demolition Units erano sbarcate sotto la prima grandinata di
83

proiettili, perdendo cosí tanti uomini ed equipaggiamenti che riuscirono ad aprire solo cinque
stretti corridoi prima dello sbarco della seconda e terza ondata di fanteria. Sulla battigia, i mezzi
da sbarco danneggiati e le attrezzature bloccavano la strada a chi veniva dopo, spezzando
l’ordine dei mezzi da sbarco in una mischia confusa e costringendo gli uomini a fare del loro
meglio saltando in mezzo a relitti e corpi senza vita. In molti casi, una ritirata dalla spiaggia si
rivelò impossibile o estremamente pericolosa.
Il fuoco tedesco continuava implacabile. Dopo due ore, sembrò possibile che l’assalto a
«Omaha» fosse destinato a fallire. Come a Tarawa, furono il coraggio e la determinazione dei
soldati americani sopravvissuti a superare gli ostacoli. Dopo un’urgente richiesta di aiuto inviata
ai cacciatorpediniere, una dozzina di navi si staccarono dalla flotta principale e, nonostante i
bassi fondali, arrivarono a poche centinaia di metri dalla spiaggia e aprirono il fuoco di tutti i
cannoni contro le postazioni tedesche. Il bombardamento ravvicinato, che rientrava in una delle
lezioni apprese nel Pacifico, si rivelò ancora una volta molto piú efficace del pesante
cannoneggiamento delle navi. Poiché le squadre di terra che avrebbero dovuto aprire il fuoco
avevano subito gravi perdite, i cacciatorpediniere spararono senza un piano preciso. Il risultato
del bombardamento sotto costa, per quanto improvvisato, fu decisivo e permise alle forze
americane di avanzare dalla stretta spiaggia . Verso sera, il disastro peggiore era stato
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scongiurato ed era stata assicurata una testa di ponte, seppure modesta, come a Tarawa. Il
numero dei soldati morti, feriti e dispersi non è ancora chiaro, ma le stime concordano sul fatto
che i caduti furono piú di 2000, corrispondenti alle perdite subite dai marine sull’atollo di Betio.
Nessuno sbarco anfibio che incontri una decisa resistenza potrebbe mai svolgersi perfettamente
secondo i piani, e lungo tutta la costa presa d’assalto furono anche commessi errori. Alla fine del
primo giorno, tuttavia, le truppe erano riuscite a conquistare una posizione sicura. Anche se sulla
spiaggia di «Omaha» vi fosse stata una sconfitta, essa quasi certamente non avrebbe messo in
pericolo l’intera operazione. La quantità di uomini, equipaggiamenti e riserve che furono
scaricati su tutte le varie spiagge nella prima settimana era sufficiente a garantire che, anche nel
caso i tedeschi non avessero diviso le loro forze tra la Normandia e il Pas de Calais, dove
prevedevano l’invasione, la possibilità di ricacciare «di nuovo in mare» le forze alleate, come
aveva ordinato Hitler, era al di là delle loro capacità militari. L’11 giugno, l’armata di navi aveva
trasportato fino alla testa di ponte 326 000 uomini, 54 000 veicoli e 104 000 tonnellate di
rifornimenti; il 17 giugno, quando l’ammiraglio Ramsay dichiarò conclusa con successo la fase
anfibia dell’invasione, erano state scaricate circa 50 000 tonnellate di rifornimenti perfino sulla
riva martoriata di «Omaha» . Quella fu l’ultima grande operazione anfibia sul continente
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europeo. In entrambi i teatri della guerra – l’Europa e il Pacifico – gli Alleati avevano seguito
una lunga curva di apprendimento che aveva tradotto la teoria dell’assalto anfibio in forze
opportunamente addestrate, equipaggiamenti adeguati e consapevolezza tattica. Si trattò di un
elemento essenziale per la loro vittoria finale, poiché, senza i mezzi per invadere una riva ben
difesa e guadagnare una posizione sicura e permanente, non vi sarebbe stato modo di ricacciare il
nemico dai territori che aveva occupato. L’albatro di Gallipoli aveva finalmente trovato pace.
I moltiplicatori di forza: la radio e il radar.
In una pubblicazione del 1945 dell’«American Joint Board of Scientific Information» si
affermava che «dopo l’invenzione dell’aeroplano, il radiorilevamento e misurazione di distanza –
meglio noto come radar, acronimo dell’inglese radio detection and ranging – ha cambiato il
volto della guerra piú di ogni altra innovazione» . Benché tale affermazione possa sembrare un
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filo esagerata, resta il fatto che durante la Seconda guerra mondiale l’avanzato sviluppo di mezzi
corazzati, forza aerea tattica, incursioni anfibie e combattimenti aeronavali fu determinato in
buona misura dall’evoluzione della guerra elettronica in prima linea, grazie alla radio e al radar.
La scienza delle onde radio aveva raggiunto un momento culminante nella seconda metà degli
anni Trenta. In un solo anno, negli Stati Uniti, il Naval Research Laboratory dimostrò il primo
impulso radar, l’ufficiale dei Signal Corps Edwin Armstrong scoprí le onde radio in FM
(modulazione di frequenza) e l’esercito progettò un sistema a impulsi radar per rilevare aerei in
avvicinamento. Quell’anno era il 1936, ma solo cinque anni dopo, quando gli Stati Uniti furono
costretti alla guerra, esistevano già una rete di difesa radar che andava dal Canale di Panama alle
isole Aleutine, un radar navale per rilevare battelli di superficie e dirigere automaticamente i
colpi di cannone, un radar ASV (air-to-surface vessel radar) sulle portaerei, comunicazioni radio
in FM per tutti i carri armati e un radar AI (air interception) per gli aerei dell’esercito. Lo
sviluppo sul campo fu esponenziale e continuò a esserlo negli anni della guerra.
La radio era stata poco usata nella Prima guerra mondiale. I fronti statici si affidavano alle
comunicazioni via cavo e al telefono, oppure adoperavano staffette, bandiere di segnalazione e
piccioni viaggiatori. L’avvento dei mezzi corazzati e degli aerei rese imperativo trovare una
nuova forma di comunicazione, poiché le reti telefoniche statiche erano di scarsa utilità. Lo
sviluppo negli anni tra le due guerre della tecnologia radio per uso civile ebbe anche un’ovvia
applicazione militare. Negli anni Trenta, i laboratori militari di ricerca di tutto il mondo
esploravano la possibilità di utilizzare la radio per comunicare sul campo di battaglia a terra e in
mare, sia per trasmettere direttamente gli ordini al fronte sia per consentire alle unità di fanteria,
artiglieria e mezzi corazzati di comunicare a livello locale. La maggior parte degli eserciti rimase
inizialmente fedele all’idea delle comunicazioni via cavo, in quanto piú sicure e con una migliore
qualità del suono, mentre le forze aeree richiesero ovunque la radio poiché non c’erano altri
mezzi di comunicazione tra gli aerei o tra controllo a terra e velivoli in volo. Sulle navi di
superficie e i sottomarini la radio di bordo divenne essenziale per le comunicazioni di carattere
operativo tra le unità della flotta e i centri di comando. La radio comportava tuttavia degli
svantaggi che dovevano essere superati. Le prime apparecchiature erano pesanti, con antenne
estremamente lunghe. Le radio in AM (modulazione di ampiezza), considerate standard negli
anni Trenta, erano soggette a interferenze, derive di frequenza e scariche elettrostatiche. Il raggio
di trasmissione per le radio sul fronte di battaglia era limitato, a volte poco piú di un chilometro
circa. Su un veicolo in movimento, la radio in AM era quasi impossibile da usare. Sulle navi, la
radio di bordo poteva inoltre risentire delle scosse create dalla potenza dei cannoni. In condizioni
di temperature estreme, elevata umidità o pioggia battente le radio potevano diventare
inutilizzabili, o potevano corrodersi i delicati circuiti. Le comunicazioni radio non erano neppure
cosí sicure, dato che potevano essere facilmente intercettate e usate dal nemico (a meno che i
messaggi non fossero stati precedentemente cifrati) o essere soggette a disturbi creati dalle
truppe di segnalazione nemiche. Usare la radio en clair aveva senso solo in veloci combattimenti
di terra o nel cielo, dove l’intercettazione dei messaggi da parte del nemico faceva poca
differenza. La maggior parte di questi svantaggi venne affrontata negli anni della guerra, poiché
la necessità della radio era divenuta piú urgente, anche se la sua sicurezza e capacità di
sopravvivenza non furono mai completamente risolte.
La creazione delle forze corazzate nella seconda metà degli anni Trenta andò di pari passo con le
ricerche nell’ambito di comunicazioni migliori. Le forze armate tedesche erano state le prime a
esplorare la futura possibilità di usare la radio per controllare un campo di battaglia, dal comando
supremo fino alla piccola unità in prima linea. A giugno del 1932, un’esercitazione su grande
scala dell’esercito chiamata Funkübung (Esercizio radio) testò le comunicazioni nello scenario
immaginario di un’invasione della Germania da parte dei cecoslovacchi. L’esercitazione pose le
basi di un’elaborata teoria e pratica delle segnalazioni in cui la radio doveva svolgere un ruolo
cruciale. L’esperienza acquisita nella guerra civile spagnola dalle forze tedesche inviate in aiuto
di Franco confermò che i veicoli blindati funzionavano al loro meglio quando erano collegati via
radio . Nel 1938, ogni unità corazzata era coordinata da un Befehlspanzerwagen (veicolo
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blindato di controllo), in cui l’unità di comando, dotata di una vasta gamma di apparecchiature
radio, manteneva il controllo delle sue truppe e i contatti con il quartier generale tattico. Nel
1940, vi erano 244 veicoli di controllo, divenuti 330 al momento dell’invasione dell’Unione
Sovietica – un’innovazione fondamentale per un efficiente funzionamento delle formazioni
corazzate . Le radio ricetrasmittenti furono installate su tutti i carri armati della Wehrmacht e nel
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1940 offrirono un vantaggio decisivo durante l’invasione della Francia e dei Paesi Bassi, allorché
i quattro quinti dei mezzi corazzati francesi era ancora privo di radio. Per controllare una forza di
carri armati francesi si rendeva a volte necessario un ufficiale che corresse da un mezzo
corazzato all’altro, gridando attraverso i portelli per farsi sentire . Ogni divisione corazzata
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tedesca, al contrario, godeva di un apposito battaglione di truppe per segnalazione ben


equipaggiate che mantenevano il contatto radio tra tutti i carri armati. Ogni radiofonista riceveva
un rigoroso addestramento. Le comunicazioni dovevano utilizzare nomi in codice («Leone»,
«Aquila», «Sparviero» e cosí via), essere il piú brevi possibile e usare delle frasi elencate in una
«tabella di brevità», al fine di evitare lunghe trasmissioni di onde radio e tradire la propria
posizione . L’alto livello delle comunicazioni radio rimane una valida spiegazione della capacità
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dell’esercito tedesco di mantenere la propria potenza di combattimento anche battendo in ritirata.


In situazioni di battaglia in cui veicoli e mezzi corazzati erano l’elemento fondamentale la radio
si rivelava essenziale per esercitare quello che oggi viene chiamato «comando e controllo». I
carri armati lasciati a combattere da soli o le batterie di artiglieria prive di una direttiva centrale
rappresentavano uno svantaggio tattico permanente. Passò tuttavia del tempo prima che la pratica
tedesca venisse replicata tra le altre forze corazzate. I regolamenti di campo dell’esercito
britannico emanati fino al 1935 non facevano menzione della radio, la cui tecnologia venne
sviluppata rapidamente nel primo anno di guerra, anche se nel 1940 le staffette e il telefono
rimanevano ancora i principali mezzi di comunicazione delle forze in prima linea. I carri armati
furono alla fine dotati dell’apparecchiatura WS 19 AM, una radio ricetrasmittente che consentiva
le comunicazioni sia tra i mezzi blindati sia con i vertici del comando, nonostante le difficoltà
nell’usare le frequenze in AM su un veicolo in movimento . I carri armati sovietici e giapponesi
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non disponevano generalmente di una radio, fatta eccezione per il comandante delle unità
corazzate in prima linea; i rari mezzi blindati forniti di radio, inoltre, avevano apparecchiature di
scarsa qualità e con prestazioni limitate. Durante le operazioni di mezzi corazzati giapponesi le
comunicazioni avvenivano comunemente attraverso segnali con le mani, segnalazioni luminose o
un elaborato sistema di bandiere colorate e diversamente disegnate . La sconfitta sovietica del
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1941 fu dovuta in buona parte alla mancanza di comunicazioni radio a tutti i livelli. La situazione
migliorò col tempo grazie alla generosa fornitura di 245 000 radio da campo da parte di Stati
Uniti e Gran Bretagna. Furono montate apparecchiature radio sui carri armati dei comandanti
anche delle piú piccole unità, ma l’esercizio di «comando e controllo» via radio nelle forze
corazzate non uguagliò mai la pratica tedesca.
Negli anni Trenta, l’esercito degli Stati Uniti, come quello britannico, dava per scontato che le
linee telefoniche e il sistema di messaggistica convenzionale fossero mezzi adeguati per
comunicare, come era stato per il corpo di spedizione americano nel 1918. Sotto le pressioni del
nuovo Mechanized Corps (divenuto ben presto l’Armored Force), il Signal Corps Laboratory
dell’esercito iniziò a sviluppare apparecchiature radio in FM di alta qualità per carri armati e
veicoli, utilizzando cristalli di quarzo per creare frequenze stabili, buona ricezione e immunità da
eventuali disturbi e interferenze. Le grandi esercitazioni effettuate dall’esercito in Louisiana
nell’estate del 1940 dimostrarono che la radio in FM funzionava egregiamente per creare
un’efficace rete di comunicazioni e controllare le forze corazzate sul campo di battaglia. L’SCR-
508 divenne l’apparecchiatura ricetrasmittente standard per le comunicazioni tra carri armati e
posti di comando tattici e si rivelò preziosa nel 1944 nel corso delle principali operazioni delle
forze corazzate in Europa . L’unico problema emerse a causa della vulnerabilità dei cristalli di
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quarzo per le frequenze in FM a guasti improvvisi, dovuti a un fenomeno noto come


«invecchiamento». Il fisico americano Virgil Bottom, reclutato presso la Quartz Crystal Section
del Signal Corps Laboratory, ne scoprí la causa e la soluzione in tempo per i combattimenti in
Normandia. Nel 1944, le forze armate degli Stati Uniti non solo possedevano un numero
maggiore di radio per ciascuna unità di combattimento rispetto a qualsiasi altra potenza
belligerante, ma anche apparecchiature di alta affidabilità e prestazione .
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Per le unità di fanteria, in particolare per quelle che dovevano supportare l’avanzata dei carri
armati, le comunicazioni erano piú problematiche. Le prime apparecchiature radio erano pesanti,
ingombranti e difficili da usare in movimento. Comunque fosse, visto che la maggior parte delle
operazioni erano mobili, era indispensabile trovare un mezzo che consentisse alle truppe che si
trovavano sul terreno dello scontro di comunicare con le forze corazzate e l’artiglieria e avere un
«controllo a voce» sulle unità di fanteria piú avanzate, al fine di garantire uno schieramento
tattico piú efficace. L’idea di poter realizzare una rete integrata di comunicazioni che mettesse in
collegamento sia gli ufficiali del comando con le piccole unità sia queste ultime tra loro si rivelò
difficile da realizzare, sostanzialmente perché mezzi corazzati, artiglieria e fanteria erano
radiosintonizzati su frequenze diverse. Le forze britanniche introdussero una frequenza comune
solo nel 1945; nelle unità americane, per altro, comunicazioni radio condivise da fanteria e mezzi
corazzati erano comparse negli ultimi mesi del 1944. Nelle operazioni americane, in cui fanteria
e carri armati avrebbero dovuto procedere insieme, il problema era reale. Le due tipiche radio di
fanteria – lo handie-talkie SCR-586 AM (un primitivo antenato del telefono cellulare) e il piú
grande walkie-talkie SCR-300 AM, per il cui uso servivano due uomini – erano entrambe
incompatibili con l’SCR-508 dei carri armati, che trasmetteva in FM. Per chiedere assistenza o
fornire informazioni, la fanteria doveva inviare i messaggi attraverso i centri di comando tattici,
una procedura troppo lenta per consentire l’immediata risposta necessaria. Per aggirare il
problema si ricorreva spesso all’improvvisazione. Le radio di fanteria erano talvolta collocate
all’interno dei carri armati, dove il rumore e il movimento ne limitavano le prestazioni. La
soluzione piú comune era l’uso di un telefono da campo saldato sul retro del carro armato e
collegato al suo sistema di interfono. Un soldato della fanteria poteva riferire direttamente
all’equipaggio del mezzo corazzato istruzioni su obiettivi e rischi, ma si trovava pericolosamente
esposto al fuoco dei cecchini nemici .
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Le comunicazioni radio della prima linea, seppure vitali per aiutare le piccole unità a coordinare
le azioni e chiedere assistenza, erano irte di palesi difficoltà. A parte i problemi tecnici che si
riscontravano per l’instabilità delle frequenze, valvole che si rompevano o installazioni scadenti,
il contatto radio veniva facilmente interrotto da forti piogge, da infiltrazioni di acqua di mare o di
fiume e da una topografia sfavorevole. Montagne e colline limitavano le trasmissioni o
interrompevano del tutto le comunicazioni, come era accaduto alle forze alleate che si trovavano
in Tunisia all’inizio del 1943 o in Italia durante tutta la campagna lungo la penisola. Perché
funzionassero a dovere, le apparecchiature dovevano essere caricate a dorso di mulo e portate in
cima alle colline. I radiofonisti soffrivano inoltre di una maggiore vulnerabilità nel corso della
battaglia. Mentre si avvicinavano alla spiaggia durante le operazioni anfibie, poteva capitare che
la pesante attrezzatura li trascinasse sott’acqua; i tiratori nemici cercavano con gli occhi le
antenne degli apparecchi, che facevano dell’operatore un facile bersaglio. Nondimeno, man
mano che le radio si resero piú affidabili e piú leggere da trasportare, vennero regolarmente
distribuite alle piccole unità sul campo e affidate a uno o due operatori. I Funkgeräte tedeschi
Torn Fu.d2 (Dora) e Torn Fu.g (Gustav) erano apparecchi portatili di grande affidabilità con una
portata fino a 10 chilometri. Le unità britanniche disponevano del meno efficiente walkie-talkie
WS 38, con un raggio di trasmissione inferiore a un chilometro, e del piú grande WS 18, a cui
servivano due operatori e che aveva una portata fino a 8 chilometri. Sebbene considerato uno
strumento inaffidabile, durante la guerra vennero prodotti 187 000 WS 38 portatili, usati poi in
tutta Europa. Durante l’intero corso della guerra, l’esercito britannico fu rifornito di 552 000
radio, a testimonianza del loro valore imprescindibile nei combattimenti . 96

L’avvento delle radio di prima linea richiese una ripida curva di apprendimento. Nel teatro della
guerra nel Pacifico, le scadenti comunicazioni radio delle prime operazioni americane causarono
perdite inutilmente elevate. Per l’assalto a Tarawa nel novembre del 1943, l’ammiraglia USS
Maryland disponeva di un’apparecchiatura radio inadeguata a comunicare con i marine appena
sbarcati sulle spiagge. La radio risentiva dell’effetto concussione dei cannoni dell’enorme
corazzata, mentre le radio portatili dei marine a terra, gli apparecchi TBX e TBY in dotazione
alla flotta, funzionavano male a causa dei danni causati dall’acqua salata e della breve durata di
vita delle batterie. Al momento dell’invasione di Okinawa nell’aprile del 1945, le navi
ammiraglie, dotate di migliori apparecchiature radio, controllarono i movimenti dell’invasione
con comunicazioni nave-terra, mentre radio portatili molto migliorate contribuirono a
organizzare il campo di battaglia tattico con minori perdite di uomini . L’uso della radio non era
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riuscito a creare un’efficiente rete di comunicazioni neppure nel novembre del 1942, durante il
primo sbarco anfibio anglo-americano nel Nordafrica. Le apparecchiature in AM avevano infatti
risentito delle piogge torrenziali e dell’intasamento delle frequenze. Molti degli operatori radio
erano stati frettolosamente addestrati sulle navi che attraversavano l’Atlantico, mentre la
fornitura di apparecchiature adeguate e pezzi di ricambio era ben lontana dal soddisfare i
requisiti. I sistemi radio americani e inglesi, tra loro incompatibili, dovettero essere adattati per
permettere di comunicare tra le due forze. L’utilità delle apparecchiature si era rivelata talmente
scarsa che gli inglesi istituirono una commissione sotto il generale maggiore Alfred Godwin-
Austen per valutare la lezione appresa e fare in modo che la radio potesse svolgere un ruolo piú
efficace. La commissione comunicò le proprie conclusioni nel marzo del 1944, appena in tempo
per migliorare l’uso della radio nell’invasione della Normandia . Nel 1944, la radio fu finalmente
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incorporata nella pratica militare britannica e americana. Rispetto al 1940, ora l’esercito
britannico disponeva di un numero di apparecchiature dieci volte superiore; nel D-Day, le unità
dell’esercito americano avevano 90 000 trasmittenti radio, per la maggior parte costituite dalle
piú affidabili apparecchiature a cristalli in FM, tutte sintonizzate su nuove frequenze per
confondere l’intelligence tedesca. A quel punto, l’industria americana aveva in produzione due
milioni di apparecchi a cristalli al mese, contro una produzione prebellica di 100 000 all’anno.
La radio dimostrò la sua utilità durante il lungo inseguimento delle forze tedesche per tutta la
Francia nel luglio e agosto del 1944 e, insieme con il radar di terra, si rivelò essenziale per
dirigere efficacemente il fuoco e controllare la formidabile artiglieria degli Alleati .
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Nel corso del conflitto, la radio si dimostrò ancora piú essenziale per l’evoluzione della forza
aerea tattica. L’aviazione chiese e ottenne l’assoluta priorità nella distribuzione di
apparecchiature radio ad alte prestazioni. Radio di produzione britannica ad altissima frequenza
(VHF) furono installate su tutti gli aerei in preparazione della battaglia d’Inghilterra nell’estate e
autunno del 1940, consentendo ai piloti di comunicare sia tra loro sia con le stazioni di controllo
a terra, che li indirizzavano verso il bersaglio non appena il radar o gli osservatori a terra
individuavano un’intrusione aerea. La radio era l’unico mezzo in grado di mantenere in
collegamento la difesa aerea con la zona di combattimento. Sul campo, infatti, le offensive aeree
erano piú difficili da organizzare e dovevano contare non solo sulla creazione di centri avanzati
di comando a terra, al fine di mantenere il controllo a voce degli aerei attaccanti, ma anche su un
adeguato contatto radio tra gli aerei e l’esercito (o la flotta in mare) ogni qual volta doveva essere
neutralizzato un obiettivo di superficie. Sotto questo aspetto, le forze aeree tedesche avevano
avuto pieno successo nelle prime campagne in Polonia e Francia, nonostante il fatto che
l’esercito e l’aviazione usassero frequenze diverse. Alle principali unità dell’esercito erano stati
assegnati degli ufficiali di collegamento dell’aeronautica che avevano avuto un ruolo
fondamentale nel fondere insieme le operazioni di terra con quelle aeree; per l’invasione
dell’Unione Sovietica, a ciascuna divisione corazzata venne assegnata una Luftnachrichten-
Abteilung, cioè un distaccamento per le comunicazioni aeree con lo scopo di chiedere il supporto
dell’aviazione. Nelle battaglie del 1943 sul fronte orientale i comandanti dei carri armati e gli
aerei di supporto disponevano di un contatto radio diretto che utilizzava la stessa frequenza .100

Anche in questo caso, ci vollero alcuni anni prima che il controllo radio delle forze aeree tattiche
fosse altrettanto perfezionato dagli Alleati. In Gran Bretagna, dopo il disastro avvenuto in
Francia, una squadra congiunta di esercito e aeronautica, guidata dal tenente colonnello J.
Woodall, escogitò un metodo per coordinare l’azione delle forze aeree e terrestri. Il «rapporto
Woodall» che ne seguí, completato nel settembre del 1940, raccomandava la creazione di centri
di controllo congiunti, in grado di ricevere insieme con le truppe in prima linea delle
informazioni dettagliate sugli obiettivi dalle unità di segnalazione, in modo da richiamare
rapidamente gli aerei dove erano necessari. Anche se il sistema fu approvato ufficialmente, nella
guerra del deserto nordafricano un controllo radio dell’aviazione, durante operazioni in rapido
movimento, si dimostrò difficile da realizzare, almeno fino a quando non vi fu un numero
sufficiente di aerei e di operatori radio qualificati, e nonostante un persistente pregiudizio tra le
file dell’esercito . Prima dell’autunno 1941, con la creazione delle Forward Air Support Lines,
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la prima linea non aveva alcuna possibilità di chiedere via radio il supporto di un attacco aereo,
dato che la richiesta doveva prima pervenire al quartier generale della RAF per essere approvata,
rallentando cosí una celere risposta operativa. All’inizio del 1942, infine, venne stabilita una rete
di comunicazioni radio piú sofisticata con un Advanced Air Headquarters che si muoveva con
l’esercito ed era in grado – grazie ad apparecchi radio VHF – di dirigere gli aerei ancora in volo
da un obiettivo di superficie all’altro. Con l’esercito avanzavano circa 400 veicoli con apparecchi
VHF, che fornivano via radio informazioni dettagliate circa le posizioni nemiche da attaccare dal
cielo, imitando finalmente, e poi addirittura superando, le comunicazioni messe a punto dai
tedeschi .
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Anche l’aviazione sovietica dovette imparare dalla pratica tedesca. Nei primi anni di guerra,
l’assenza di radio per aerei significava che un aereo da ricognizione doveva atterrare in un
aeroporto per allertare i piloti di un’operazione da compiere e guidarli poi visivamente
sull’obiettivo da colpire. Prive di radio, le unità aeree mantenevano la formazione basandosi
sull’aereo capofila, cosa che le rendeva facili bersagli dei nemici tedeschi che potevano operare
in modo piú flessibile grazie alle comunicazioni radio. Lo scarso coordinamento nel controllo
delle operazioni aeree fu evidenziato nei rapporti della Sekcija po analizu voenno-boevogo opyta
(Sezione dell’Armata Rossa per l’analisi dell’esperienza di guerra e combattimento) e, alla fine
del 1942, il nuovo comandante in capo dell’aviazione, A. A. Novikov, introdusse sul fronte di
Stalingrado un sistema radio centralizzato che utilizzava sia il radar sia le ricetrasmittenti per
dirigere gli aerei su bersagli in cielo e sul terreno. A 2-3 chilometri dietro il fronte vennero create
delle postazioni ausiliarie di controllo di terra, collegate via radio alle basi aeree e ai velivoli
sovietici. Fu pubblicato il nuovo manuale di campo Ukazanija voenno-vozdušnym silam po
kontrolju, svedeniju i rukovodstvu samolëtam putëm radioveščanija (Istruzioni per le forze aeree
su controllo, informazioni e guida dei velivoli attraverso la radio), e i piloti tedeschi iniziarono
quasi subito a osservare che le intercettazioni degli aerei sovietici erano piú efficaci e mirate. Ci
volle del tempo sia per installare le reti di comunicazioni radio sull’ampio fronte di
combattimento sia perché i piloti sovietici imparassero ad affidarsi ai comandi via radio.
Capitava che gli aviatori mandassero messaggi en clair, facilmente intercettabili dall’intelligence
tedesca. Nella battaglia di Kursk, nel luglio del 1943, il sistema funzionò meno bene in difesa,
mentre nella lunga controffensiva che seguí nell’estate e autunno l’introduzione di stazioni radio
fornite dagli americani e le 45 000 apparecchiature radio per aerei concesse con il sistema Lend-
Lease permisero di impiegare la crescente superiorità numerica dei sovietici con maggiore
efficacia .
103

Al pari dell’aviazione sovietica, le forze aeree dell’esercito e della marina degli Stati Uniti
conobbero un difficile periodo di apprendistato. Nella battaglia di Guadalcanal, nell’agosto del
1942, si era rivelata essenziale la possibilità di chiedere supporto aereo, ma la flotta, il Corpo dei
marine e le forze aeree dell’esercito usavano frequenze radio diverse. Una soluzione
improvvisata fu trovata in un sistema di «osservatori aerei in avanguardia» che inviavano segnali
su una radio modificata e collegata a due microfoni, in modo che anche una radio navale nelle
vicinanze era in grado di ricevere il rapporto . Durante gli sbarchi in Africa nord-occidentale nel
104

novembre del 1942, la componente aerea si era rivelata insoddisfacente, principalmente a causa
della difficoltà di creare rapidamente una rete di radio e radar efficiente con forniture e personale
inadeguati. Il risultato, come ebbe a lamentare il comandante dell’aviazione Carl Spaatz, era
stato un «sistema di comunicazioni debole e incapace», aggravato dalla mancata integrazione
delle frequenze usate dal controllo aereo britannico e americano . La lezione appresa nel
105

Nordafrica produsse alla fine un sistema di comunicazioni piú funzionale. Nelle operazioni di
supporto a terra durante l’invasione della Francia le principali unità dell’esercito erano
accompagnate da squadre di supporto aereo, in grado di trasmettere immediatamente le richieste
di intervento dal cielo alle postazioni di controllo dell’aviazione. Verso la fine dell’estate del
1944, le squadre di supporto aereo destinarono un operatore radio VHF ai carri armati in prima
linea, in modo da chiedere il sostegno degli aerei che pattugliavano i cieli sopra il campo di
battaglia impiegando gli stessi apparecchi radio SCR-522 usati dall’aviazione. La relativa
scarsità di aerei tedeschi in quella fase della campagna rese altresí possibile impiegare il piccolo
velivolo di collegamento L-5 Horsefly davanti alle forze di terra piú avanzate, alle quali
comunicava via radio i potenziali bersagli . La radio faceva parte ormai di una complessa rete di
106

comunicazioni che collegava le postazioni di controllo a terra con gli aerei, questi ultimi tra loro
e con le forze di terra. Anche se i sistemi non furono mai perfetti né tra i paesi dell’Asse né tra
gli Alleati, la radio amplificò comunque l’impatto degli aerei sui combattimenti, con un
crescente vantaggio degli Alleati man mano che si avvicinavano alla fine della loro curva di
apprendimento.
L’avvento di efficaci comunicazioni radio per il controllo dei velivoli, sia nel corso di
combattimenti aerei sia in appoggio alle forze di superficie, fu strettamente legato all’evoluzione
e allo sviluppo del radar. I primi timidi passi nell’impiego delle onde radio per rilevamento erano
stati sollecitati dalla ricerca di un mezzo che fosse in grado di avvisare tempestivamente
sull’avvicinamento di velivoli ostili e fosse diverso dall’uso convenzionale dei grandi sensori
acustici, di scarsa utilità operativa in quanto non potevano indicare altro che la presenza di un
debole rumore. La ricerca sulle onde radio fu universale e la tecnologia necessaria a sviluppare il
radar ebbe un carattere genuinamente internazionale. Due componenti chiave, originariamente
giapponesi e tedesche – l’antenna Yagi, sviluppata da Yagi Hidetsugu nel 1926, e il tubo
Barkhausen-Kurz (o magnetron), inventato nel 1920 per ricevitori e trasmettitori –, erano state
anche brevettate all’estero, e la ricerca le aveva rese prontamente disponibili ad altri. Lo sviluppo
commerciale della televisione alla fine degli anni Venti e all’inizio degli anni Trenta, anch’esso
comune a tutto il mondo industrializzato, aveva contribuito in modo sostanziale all’evoluzione
del radar, compreso il tubo a raggi catodici utilizzato nelle installazioni radar per dare
un’immagine facilmente leggibile dell’oggetto rilevato. L’industria civile ebbe un ruolo
determinante nel fornire quelle innovazioni ingegneristiche che resero possibile il radar: la
Telefunken in Germania, la General Electric negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, la Nippon
Denki Kabushiki-gaisha (Nippon Electric Company) in Giappone e cosí via. Data la natura
transnazionale della scienza, non sorprende che le osservazioni che diedero origine al radar siano
avvenute quasi contemporaneamente in tutti i principali stati che in seguito combatterono la
guerra. Il radar, pertanto, non fu affatto l’«invenzione» di una singola persona o di un singolo
paese.
Anche se lo sviluppo del radar poteva apparire inevitabile negli anni Trenta, le sue prime origini
erano state il risultato tanto di casualità quanto di lungimiranza. Alla fine del 1934, il direttore
della ricerca scientifica presso il ministero dell’Aeronautica britannico, Henry Wimperis,
impressionato dall’affermazione del fisico ungherese Nikola Tesla che delle onde radio
concentrate potevano agire come un «raggio mortale» per gli aerei in avvicinamento, chiese al
sovrintendente della Radio Research Station, Robert Watson-Watt, di indagare sulla tesi di Tesla.
Watson-Watt riferí che l’affermazione non era scientificamente plausibile, ma che un raggio di
onde radio poteva essere utilizzato per un «rilevamento radio anziché per azioni distruttive con la
radio». Basandosi sul suo lavoro sulle misurazioni della ionosfera con impulsi radio e riflessione
di onde sonore, il 26 febbraio 1935 Watson-Watt organizzò un esperimento a pochi chilometri
dal trasmettitore della BBC di Daventry. Un aereo Handley Page Heyford volò lungo il raggio di
onde radio restituendo segnali chiari al ricevitore di terra. Eccitato dal risultato dell’esperimento,
che finalmente prometteva un qualche mezzo di protezione contro gli attacchi di aerei ostili,
Watson-Watt esclamò: «La Gran Bretagna è diventata di nuovo un’isola!» . 107

Intanto, all’oscuro della squadra britannica, i cui membri sono stati regolarmente considerati gli
inventori di quella che essi chiamarono range and direction finding (radiogoniometria), il
Bureau of Engineering della marina statunitense aveva depositato nel novembre del 1934 un
brevetto per «rilevare oggetti con onde radio», mentre un mese dopo il Naval Research
Laboratory aveva dimostrato che il radar a impulsi poteva rilevare un aereo alla distanza di un
chilometro e mezzo; il Signal Corps Laboratory dell’esercito americano aveva già avviato nello
stesso anno un programma di «rilevamento della posizione con onde radio». Nel 1934, il fisico
tedesco Rudolf Kühnhold, direttore del Radioforschunginstitut della marina tedesca, aveva
utilizzato le onde radio per rilevare la posizione di una nave e nel maggio seguente, meno di tre
mesi dopo l’esperimento di Daventry, aveva dimostrato con successo l’impiego del radar a
impulsi . Le ricerche in Unione Sovietica erano iniziate ancora prima, quando l’Artillerijskoe
108

upravlenie (Direzione centrale dell’artiglieria) aveva autorizzato la Central’naja


radiolaboratorija di Leningrado a lavorare ai rilevamenti radio per aiutare le difese della
contraerea. Un esperimento condotto il 3 gennaio 1934 da Pavel Oščepkov dal tetto di un edificio
di Leningrado dimostrò che i segnali radio potevano essere riflessi da oggetti distanti . In quasi
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tutti i casi, venne immediatamente compresa la possibile applicazione militare delle scoperte e il
radar fu improvvisamente avvolto da un mantello di segretezza.
Anche se la scoperta del radar fu universale, gli sviluppi successivi risultarono meno omogenei.
Vi erano per esempio significative differenze operative tra il radar a impulsi, adottato subito in
Gran Bretagna, Stati Uniti e Germania, e il rilevamento radio basato sulla trasmissione a onde
continue anziché a impulsi intermittenti. Il vero radar trasmetteva un impulso della durata di
circa un milionesimo di secondo e riceveva di rimando un’eco dall’oggetto rilevato
nell’intervallo tra gli impulsi a diversi milionesimi di secondo. Tale procedimento aumentava la
potenza del raggio di impulsi radio e permetteva di misurare la distanza tra il ricevitore e
l’oggetto (un momento critico della difesa antiaerea) e la direzione di volo. La stima dell’altezza
– o azimut – era piú difficile da stabilire ma il problema fu risolto con un componente aggiuntivo
(nel caso britannico, un goniometro che calcolava l’angolo del velivolo). La trasmissione a onde
continue poteva rilevare distanza, altezza e direzione in modo imperfetto o non rilevarle affatto.
A complicare le ricerche sovietiche vi erano l’insistenza dell’aviazione in favore del radar a
impulsi e l’opinione dell’esercito, convinto che le onde continue soddisfacessero i requisiti
dell’artiglieria contraerea – un’idea che si rivelò un vicolo cieco poiché era impossibile stimare il
raggio di azione degli aerei rilevati. La politica fu determinante negli anni del Grande Terrore tra
il 1937-38, quando la maggior parte dei ricercatori piú esperti che avevano studiato la radio e il
radar vennero arrestati, tra cui lo stesso pioniere Oščepkov, mandato in un GULag per dieci
anni . In Giappone, negli anni Trenta, né la marina né l’esercito si erano convinti che il
110

rilevamento radio avesse qualcosa da offrire sotto il profilo militare, per cui nel 1941, quando
venne finalmente installato lungo le coste della Cina e dell’arcipelago nipponico un primitivo
sistema radar, le stazioni a onde continue potevano indicare soltanto la presenza di un aereo, non
il suo raggio d’azione o la direzione, il che rendeva il sistema operativamente inutile, anche se
venne mantenuto per tutta la guerra. Né l’esercito né la marina avrebbero collaborato allo
sviluppo del radar, mentre la piccola comunità di scienziati e ingegneri impegnati nelle ricerche
sulla radio fu emarginata dall’establishment militare, diffidente nei confronti di interventi da
parte di civili . La situazione italiana era di gran lunga peggiore. Quando l’Italia entrò in guerra
111
nel 1940, non era disponibile alcuna apparecchiatura radar e alle ricerche sui rilevamenti a onde
radio veniva riconosciuta una priorità quasi inconsistente. L’esercito preferiva le onde continue,
ma non venne creata nessuna rete costiera, neppure quelle di una forma di radar inadeguata. Nel
1941, venne finalmente commissionata la produzione di due apparecchiature, dal nome in codice
Folaga e Gufo, che impiegavano onde radar a impulsi per la difesa costiera e navale, ma ne
furono prodotte solo dodici in tutto. L’esercito sviluppò per il rilevamento degli aerei
l’apparecchiatura denominata Lince, ma solo poche risultarono disponibili prima della resa
italiana dell’8 settembre. La rete radar infine creata nel 1943 era tedesca e serviva a proteggere le
forze del Reich .
112

L’iniziale interesse di esercito e marina per il rilevamento radio si concentrava sostanzialmente


sulla possibilità di allertare tempestivamente le truppe sull’avvicinamento di un aereo nemico,
fornendo sufficienti informazioni e tempo per attivare le difese della contraerea e far decollare
dei velivoli per l’intercettazione. In Gran Bretagna, alla metà degli anni Trenta, questo era visto
come un mezzo vitale per ridurre la potenziale minaccia di attacchi con bombe, che tanto i
politici quanto l’opinione pubblica temevano avrebbero potuto avere un impatto decisivo in una
guerra che, secondo le previsioni, sarebbe prima o poi esplosa. Alla fine del 1935, meno di un
anno dopo l’esperimento di Daventry, iniziò a essere commissionata la costruzione di cinque
stazioni «Chain Home» lungo le coste meridionali e orientali. Nel 1940, esistevano ormai trenta
stazioni che si estendevano dalla Cornovaglia, a sud-ovest, fino al lontano nord della Scozia. Per
rilevare gli aerei a bassa quota venne creato un cordone di trentuno stazioni «Chain Home Low».
Il loro funzionamento non era perfetto, dato che i primi radar potevano effettuare rilevamenti
soltanto sul mare e non erano in grado di seguire gli aerei nell’interno, a causa delle interferenze
di un terreno irregolare e affollato di ostacoli; rimaneva inoltre difficile misurare con precisione
l’altezza a cui volava un aereo, in parte perché molti operatori avevano avuto un addestramento
frettoloso e avrebbero avuto bisogno di maggiore esperienza nei combattimenti aerei per sfruttare
appieno il radar . Una volta integrato con la rete delle comunicazioni via radio e telefono, nel
113

1940 il radar svolse tuttavia un ruolo determinante nell’allertare i caccia britannici affinché
intercettassero tempestivamente le regolari incursioni diurne dell’aviazione tedesca. Nel corso
degli anni di guerra, le prestazioni del radar furono continuamente migliorate, nonostante la
progressiva contrazione delle sortite nemiche.
Negli Stati Uniti, si iniziarono a installare radar per la difesa costiera dalla fine degli anni Trenta,
soprattutto per il timore che aerei giapponesi o tedeschi con base nell’America Latina potessero
sferrare un attacco a sorpresa. Il radar per i rilevamenti a lunga distanza fu autorizzato nel 1937,
e due anni dopo erano state ormai sviluppate apparecchiature sia fisse sia mobili. La prima
stazione permanente di radar SCR-271 fu realizzata nel 1940 per difendere il Canale di Panama;
nel febbraio di quell’anno, l’Air Defense Command si attivò per dare inizio ai lavori di una rete
di stazioni radar collegate alle forze aeree di intercettazione, analogamente al sistema britannico.
Lo sviluppo della struttura richiese del tempo a causa della carenza di personale qualificato e
delle concomitanti richieste di riarmo, sicché al momento dell’attacco a Pearl Harbor vi erano
solamente due stazioni radar sulla costa orientale e sei nel Pacifico. Il radar era in grado di
rilevare la direzione e la distanza di un velivolo ma non l’altezza di volo. Molte apparecchiature
erano state mal collocate in cima a colline su indicazione del War Department e dovettero essere
trasportate in luoghi piú bassi per ottimizzarne le prestazioni. I radar costieri raggiunsero gli
standard britannici solo gradualmente, grazie a modifiche apportate alle apparecchiature, ma alla
fine fu attiva una rete globale di rilevamento formata da sessantacinque stazioni sulla costa del
Pacifico e trenta sulla costa orientale degli Stati Uniti. Negli ultimi anni di guerra, il radar del
tipo Ground Control Interception, SCR-588, era in grado di individuare sullo stesso schermo
aerei amici e nemici, precisandone distanza, direzione e azimut, mentre il modello SCR-516
forniva l’equivalente della «Chain Home Low» britannica ed era in grado di rilevare voli a bassa
quota a una distanza di oltre 100 chilometri . Alla fine, nessuna delle due coste americane subí
114

attacchi dal cielo, sicché l’elaborata struttura di radar, campi d’aviazione per i caccia,
comunicazioni radio e osservazione dal suolo – elementi cosí vitali nel 1940 per la
sopravvivenza della Gran Bretagna – non venne mai testata. Le stazioni radar dovettero invece
far fronte al gran numero di voli di addestramento dell’aeronautica nazionale. Soltanto nel luglio
del 1942, le difese della contraerea della regione di Los Angeles monitorarono 115 000 voli di
addestramento, ma non un solo aereo nemico . L’ironia di un sistema che ebbe bisogno di essere
115

testato in tempo di guerra è sottolineata da quell’unica volta e da quell’unico luogo in cui ve ne


sarebbe stato bisogno, vale a dire in occasione dell’attacco prebellico giapponese alla base navale
di Pearl Harbor. Una postazione radar era stata installata nel dicembre del 1941 a Opana Ridge,
sulla costa settentrionale di O’ahu, e all’alba del 7 dicembre due operatori avevano debitamente
segnalato una grande formazione di aerei in avvicinamento, solo per sentirsi dire dall’ufficiale in
comando che si trattava di bombardieri amici in arrivo come rinforzo alle basi del Pacifico.
Mentre lo schermo del radar era oscurato da interferenze di fondo, i due operatori lasciarono
incustodita la postazione e andarono a fare colazione .
116

La copertura radar difensiva piú sofisticata ed estesa fu realizzata dall’aviazione tedesca lungo le
frontiere occidentali della Germania e la costa settentrionale dell’Europa occupata – regioni in
cui i combattimenti aerei furono continui, dai primi raid britannici nel maggio del 1940 alla fine
delle ostilità nel maggio del 1945. Il radar tedesco per allarme aereo era stato sviluppato da due
aziende private, GEMA e Telefunken, e quindi adottato dal generale Wolfgang Martini,
responsabile delle comunicazioni delle forze aeree, per essere utilizzato dall’aeronautica militare
tedesca, da cui dipendeva il sistema di difesa aerea. La GEMA aveva realizzato il radar noto
come Freya, che usava un’ampia lunghezza d’onda e copriva 130 chilometri di coste. Divenuto
operativo nel 1939, il radar era stato migliorato aggiungendo misurazioni dell’altezza a cui
volava il bersaglio, allo scopo di dirigere con precisione l’intercettazione dei caccia tedeschi. Il
rendimento migliorò poi nel 1940 grazie all’unione di otto stazioni Freya che creavano una
copertura radar dal nome in codice Wassermann con una portata di 300 chilometri; nel 1941,
sedici radar Freya furono collegati per formare la rete di segnalazione dal nome in codice
Mammut, con un’analoga portata. Grazie a tali modelli potenziati, si potevano rilevare gli aerei
inglesi fin dal momento del loro decollo dalle basi dell’Inghilterra orientale. Wilhelm Runge,
direttore del Telefunken-Forschungszentrum, il centro di ricerche radio della Telefunken,
sviluppò un radar dal nome in codice Würzburg, dotato di un sistema di puntamento per dirigere
con precisione il fuoco della contraerea. Entrambe queste apparecchiature radar divennero la
fornitura standard del sistema di difesa aerea tedesco. Piú tardi, durante la guerra, il Würzburg fu
integrato dal «Würzburg-Riese» e dal «Mannheim», un radar di controllo per l’artiglieria della
contraerea con una portata di 30 chilometri e una maggiore precisione. Nel 1944, fu introdotto un
radar mobile di sorveglianza, il Fu MG407, per far fronte alle incursioni dei cacciabombardieri
che volavano a bassa quota. Montato su un camion opportunamente trasformato, il radar veniva
spostato da un posto all’altro per colmare gli spazi vuoti tra le installazioni Freya e Würzburg,
ampiamente distanziate tra loro .
117
Il sistema radar era integrato con la difesa dei caccia, i proiettori e le postazioni della contraerea
a formare una linea difensiva dal nome in codice Himmelbett (Letto celeste), ma di solito
descritta come Kammhuberlinie, in onore del primo comandante delle pattuglie di caccia per la
difesa del Reich, il generale Josef Kammhuber. La cintura di postazioni radar andava dalla
frontiera svizzera alla Francia settentrionale e al Belgio, fino al confine tra Germania e
Danimarca. Il sistema, al pari di quello inglese e americano, non funzionava perfettamente.
Mancavano operatori qualificati e la produzione dei radar necessari risultava lenta. Nella
primavera del 1942, solo un terzo delle batterie della contraerea disponeva di Würzburg con
sistemi di puntamento . In seguito, il radar si rivelò particolarmente suscettibile a disturbi e
118

interferenze, soprattutto quelle create dalle piccole strisce di lamina metallica (conosciute come
«finestre» in Gran Bretagna e «pula» negli Stati Uniti) che dall’estate del 1943 in poi furono
lanciate a centinaia di migliaia per soffocare gli schermi radar nemici. Nondimeno, la cintura
difensiva, grazie alla sua lunga portata di rilevamento, alle batterie dell’artiglieria controllate dai
radar e alle intercettazioni dei caccia, giorno e notte, riuscí ad abbattere un numero considerevole
di bombardieri britannici e americani, tanto da essere sul punto, nell’inverno del 1943, di
soffocarne del tutto l’offensiva.
Il radar navale seguí rapidamente i primi studi della metà degli anni Trenta. In effetti, gli istituti
di ricerche navali di Gran Bretagna, Stati Uniti e Germania furono i veri protagonisti
dell’evoluzione di una vasta gamma di applicazioni radar che andavano al di là dei sistemi di
rilevamento statico costiero. I ritmi delle ricerche riflettevano in genere la misura in cui una
flotta era disposta o meno ad accettare che le forze aeree avessero mutato gli equilibri tra marina
da guerra e aviazione nell’esercizio del potere sui mari. Il rilevamento radio degli aerei nemici in
arrivo era l’unico mezzo per evitare gli effetti paralizzanti di un’offensiva dal cielo, allertando
tempestivamente le portaerei o mobilitando la contraerea delle navi da guerra. Il radar poteva
altresí essere d’aiuto nella navigazione, contribuendo a evitare collisioni in fase di
combattimento o in formazione convoglio e a rilevare sia navi di superficie sia sottomarini.
Grazie al sistema di puntamento, una nave nemica poteva essere colpita di notte, o in presenza di
nebbia e nuvole, senza nemmeno accorgersi di essere sotto minaccia – la distruzione delle navi
da guerra italiane nella battaglia di Capo Matapan il 28 marzo 1941 ne fu uno dei primi esempi.
L’uso del radar in mare, tuttavia, aggiungeva nuove difficoltà. Doveva essere tenuto libero da
acqua e ghiaccio; le antenne erano vulnerabili agli effetti del clima e dei combattimenti; il radar
aveva bisogno di una piattaforma stabile, mentre sull’oceano le navi beccheggiavano e
imbardavano di continuo; il radar poteva anche essere messo fuori uso dalle vibrazioni causate
dal fuoco dei potenti cannoni delle navi. Il radar sulla corazzata tedesca Bismarck venne reso
inutilizzabile dopo il primo combattimento con la Royal Navy, per cui divenne impossibile
rilevare l’aerosilurante Swordfish che alla fine paralizzò del tutto la nave . In conclusione, si
119

trovarono soluzioni a tutti questi problemi, in modo da rendere il radar un elemento di


fondamentale importanza per la guerra in mare, in particolare per la Gran Bretagna e gli Stati
Uniti, dove la ricerca e lo sviluppo di radar navali aprirono la strada alle numerose applicazioni
della nuova tecnologia.
In Gran Bretagna, l’Admiralty Experimental Department aveva avviato nel 1935 un programma
di ricerca autonomo partendo dal fatto che le condizioni a bordo di una nave richiedevano un
sistema radar ben distinto da quello in fase di sviluppo per il preallarme costiero, e nel settembre
dello stesso anno aveva replicato con successo l’esperimento di Daventry con il radar a impulsi.
Nel 1937, la Signal School della marina proseguí le ricerche e sviluppò un anno dopo il primo
radar navale operativo per il rilevamento di aerei e navi di superficie, il Type 79Y, installato
sperimentalmente sulla corazzata HMS Rodney. Nei due anni seguenti il sistema venne
modificato e migliorato in modo che il radar potesse anche dirigere il fuoco della contraerea alla
giusta distanza o puntare i cannoni principali di una nave contro uno scafo lontano in superficie.
Il modello 79Y si evolse in una serie di applicazioni diverse: il Type 281 venne impiegato per
rilevare la presenza di navi; i Type dal 282 al 285 furono sviluppati come apparecchiature
telemetriche di armamento, anche se nessuno di questi modelli funzionò perfettamente fino a
quando il personale navale non imparò a sfruttare appieno la capacità delle nuove
apparecchiature; per rilevare voli a bassa quota, il radar ASV aria-terra, montato sugli aerei,
venne modificato come Type 286 . Le portaerei furono dotate dell’ASV Mk II, il radar che
120

permise agli aerosiluranti Swordfish, decollati dalla portaerei HMS Victorious, di trovare la
Bismarck nel maggio del 1941, nonostante le nuvole basse, il mare in tempesta e l’imminente
crepuscolo. Il ruolo della marina tedesca nello stimolare lo sviluppo del radar fu altrettanto
significativo. Il primo radar operativo tedesco, sia costiero sia in mare, fu il DeTe-I, noto
generalmente come Seetakt. Aggiornato nel 1938 come DeTe-II, forní il modello Freya
dell’aeronautica militare. Il radar venne installato per la prima volta sulla sfortunata «corazzata
tascabile» Admiral Graf Spee. Nel 1938 la marina introdusse anche l’Identification, Friend or
Foe (IFF, Sistema automatico elettronico di riconoscimento amico-nemico) noto come Erstling
(Primogenito), adottato in seguito dall’aviazione . I piloti lanciavano un segnale a impulsi
121

prestabilito ai propri radar per indicare che non erano aerei ostili e fare in modo che gli operatori
non ordinassero di aprire il fuoco. Nel 1940 il sistema IFF divenne il modello standard di tutte le
principali forze aeree, sebbene potesse essere soggetto a intercettazioni e utilizzato dal nemico,
oppure, come nel caso dei voli di addestramento in prossimità della costa degli Stati Uniti,
pericolosamente ignorato dalla maggior parte dei piloti data la totale assenza di velivoli nemici.
L’incapacità di sviluppare un sistema IFF italiano causava regolarmente le lamentele
dell’aviazione, i cui aerei venivano colpiti indiscriminatamente dalle batterie della contraerea
dell’alleato tedesco.
Negli Stati Uniti, il Naval Research Laboratory aveva avviato nel 1934 anche un programma
indipendente di ricerche sul radar, testando con successo nell’aprile del 1937 delle
apparecchiature a bordo di una nave da guerra. Il primo radar operativo americano, il modello
XAF, fu installato sulla corazzata New York nel gennaio del 1939. L’anno successivo due
ufficiali di marina coniarono l’acronimo «radar», adottato inizialmente come nome di copertura
per le ricerche ma presto ampiamente utilizzato nel mondo anglofono per descrivere tutte le
forme di rilevamento radio. I progressi nell’adattare il radar a tutte le esigenze navali furono
rapidi. Alla fine del 1941 fu introdotto il radar SK, che impiegava un’altra fondamentale
innovazione, il Plan Position Indicator, che mostrava un’immagine dell’ambiente di
combattimento e la geografia circostante. Per le portaerei era importante distinguere tra i propri
velivoli e quelli nemici, per cui nel 1937 cominciò in America lo sviluppo di una versione navale
di IFF. Nel 1941, tutte le portaerei vennero anche dotate di ASV e si iniziò a studiare un radar di
puntamento che avrebbe permesso di bombardare le navi nemiche anche di notte o attraverso le
nuvole. Nel 1944, la XIV Air Force americana di stanza in Cina affermò di avere affondato navi
giapponesi per un totale di 110 000 tonnellate utilizzando il radar di puntamento per bombardare
piccoli bersagli durante la notte. Alla fine della guerra erano stati prodotti 27 000 radar ASV
standardizzati . Quasi tutte le applicazioni navali furono adattate all’uso da parte dell’esercito e
122

delle forze aeree. Il radar con un accurato sistema di puntamento dei cannoni era un’aggiunta
vitale per le batterie della contraerea, sia a terra sia in mare. Il radar con puntamento britannico
Mark II (GL-Mk II) rendeva possibile una media di 4100 colpi per ogni aereo distrutto, contro i
18 500 dell’equipaggiamento originale Mark I, privo di radar. Seguendo la pratica navale,
divenne comune tra tutte le principali forze aeree il radar di intercettazione (AI), che consentiva
ai velivoli di avvicinarsi al nemico di notte o in caso di maltempo, assistiti dai radar di superficie.
Dopo che nel 1941 fu introdotto tra i caccia della RAF che operavano di notte il sistema di
intercettazione con controllo a terra, le perdite tedesche aumentarono in media dallo 0,5 al 7 per
cento. I radar di intercettazione tedeschi, sviluppati piú tardi nel corso della guerra, come i
modelli Lichtenstein e SN2, furono essenziali per dirigere con successo i caccia notturni tedeschi
contro il flusso di bombardieri alleati.
Tutte le prime applicazioni del radar a impulsi operavano su ampie lunghezze d’onda. Il radar
tedesco impiegava lunghezze d’onda di svariati decimetri, di solito 50 centimetri, mentre la
maggior parte degli altri apparecchi utilizzava ampiezze comprese tra 1,5 e 3 metri. Fin dai primi
anni Trenta, era noto che le microonde, se applicate al radar, garantivano una maggiore
precisione e versatilità, ma le iniziali ricerche compiute in Germania e Giappone avevano
dimostrato che le valvole termoioniche esistenti non erano in grado di generare abbastanza
potenza per rendere possibile il radar a microonde, per cui l’idea fu abbandonata. La svolta
fondamentale nella tecnologia delle microonde avvenne, come nel caso delle prime osservazioni
della riflessione radioelettrica, per un fortunato insieme di circostanze. Nel 1939, il British
Committee for the Coordination of Valve Development commissionò alle Università di Oxford,
Bristol e Birmingham lo sviluppo di una potente valvola, in grado di generare una lunghezza
d’onda di 10 centimetri. A Birmingham, il fisico australiano Marcus Oliphant reclutò nel suo
team di ricercatori due giovani dottorandi, John Randall e Henry Boot. Ignorando le lunghe
discussioni sul fatto che il klystron o il magnetron (due modelli avanzati di valvole termoioniche
su cui si erano basate le precedenti ricerche sulle microonde) fosse in grado di generare la
potenza necessaria per lunghezze d’onda centimetriche, i ricercatori li utilizzarono entrambi,
unendoli insieme a formare quello che divenne noto come magnetron a cavità di risonanza. Il
primo esperimento rivelò che il nuovo apparecchio riusciva a produrre un alto livello di potenza.
Il 21 febbraio 1941, i due ricercatori presentarono il magnetron a Oliphant e al suo staff,
dimostrando che poteva produrre lunghezze d’onda di 9,8 centimetri. La produzione fu
immediatamente affidata alla General Electric Company, il cui laboratorio era stato anche
sponsorizzato dalla Royal Navy per lavorare sul klystron e il magnetron. A maggio venne
prodotto un modello operativo e ad agosto il Telecommunications Research Establishment
organizzò una dimostrazione che rivelava senza ombra di dubbio che il magnetron a cavità di
risonanza utilizzato in un sistema a impulsi produceva ritorni chiari, perfino da piccoli oggetti (in
quel caso una piastra metallica attaccata a una bicicletta che procedeva lungo una vicina
scogliera). Il magnetron a cavità di risonanza, denominato E1198, fu custodito in una scatola di
metallo e portato quello stesso mese negli Stati Uniti da una missione scientifica guidata dallo
scienziato del governo Henry Tizard. Il 19 settembre, la scoperta ancora segreta venne divulgata
nel corso di una riunione di illustri scienziati di Washington, dove provocò una fortissima
reazione. Come ricordava Edward Bowen, che aveva scortato il magnetron a cavità di risonanza
dall’Inghilterra, era divenuto improvvisamente chiaro «che l’oggetto lasciato [sic] sul tavolo di
fronte a noi poteva essere la salvezza della causa alleata» .
123

Il magnetron a cavità di risonanza trasformò i radar inglesi e americani. La missione guidata da


Tizard affidò il magnetron all’American Microwave Committee con l’accordo che si sarebbe
organizzata una produzione di massa. La responsabilità fu affidata ai Bell Telephone
Laboratories, e alla fine della guerra ne erano stati prodotti piú di un milione, perlopiú del tipo
magnetron con cavità «a bretella» sviluppato nel 1941 per migliorare la stabilità della frequenza.
Le ricerche sul radar assunsero a quel punto un’importanza determinante per le forze armate
americane. Presso il Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Boston fu istituito un
Radiation Laboratory, diretto da Lee DuBridge e concentrato principalmente sullo sviluppo della
tecnologia delle microonde. Nell’estate del 1943, per evitare la dispendiosa duplicazione degli
sforzi avvenuta nel primo anno di guerra, una branca del laboratorio venne trasferita in Gran
Bretagna . Tutti gli sviluppi precedenti riguardanti l’uso del radar sul campo di battaglia
124

poterono ora essere accantonati a favore di un’apparecchiatura piú precisa e versatile. La priorità
iniziale venne data alla produzione di un radar a microonde destinato alle intercettazioni aeree e
di un altro fornito di sistema di rilevamento e puntamento automatico e destinato alle batterie
della contraerea. Il radar AI fu sviluppato nell’estate del 1942 con la sigla SCR-520, aggiornato
infine come SCR-720. Il modello fu introdotto su tutti gli aerei americani e, in virtú delle sue
prestazioni avanzate, venne adottato dall’aviazione britannica come AI-Mk X, in sostituzione del
radar a microonde AI-Mk VII, entrato in funzione nell’aprile del 1942. Il radar con puntamento
SCR-584 fu uno dei radar di maggior successo della guerra. Utilizzando un computer analogico
installato nel goniotacometro M9 per misurare la distanza e l’altezza di un bersaglio, le armi
sparavano automaticamente e con precisione agli aerei nemici. Era usato non solo nella
contraerea ma pure nei combattimenti di terra, dove poteva essere impiegato per tracciare le
traiettorie delle granate e rilevare mortai, veicoli o perfino un solo soldato nemico anche
attraverso fumo, nebbia o oscurità. Durante il D-Day, furono trasportati sulle spiagge trentanove
di queste apparecchiature, grazie alle quali l’artiglieria e la contraerea americana erano in grado
di dirigere il fuoco con la massima precisione .
125

Per il radar a microonde furono sviluppate inizialmente lunghezze d’onda di 10 centimetri, poi di
3 e infine di 1 centimetro verso la fine della guerra. La lunghezza d’onda di 3 centimetri venne
utilizzata per sviluppare sui bombardieri un mezzo di rilevamento sul terreno e migliorare
l’individuazione del bersaglio. Fu una delle occasioni in cui si videro emergere attriti tra i due
alleati, impegnati entrambi in una competitiva ricerca scientifica. Gli inglesi svilupparono
l’apparecchiatura H S, mentre il laboratorio dell’MIT elaborò una versione chiamata H X, ma
2 2

nessuna delle due parti avrebbe mai acconsentito a usare un sistema comune. Una collaborazione
piú fruttuosa si creò invece con il microsistema progettato per le spolette delle granate della
contraerea, in grado di seguire il bersaglio grazie a un piccolo radar ed esplodere poi al momento
giusto. Proposta inizialmente nel 1940 da William Butement, un fisico australiano che lavorava
al radar in Gran Bretagna, l’invenzione venne portata negli Stati Uniti dalla missione scientifica
guidata da Tizard, dove l’idea venne pienamente sviluppata l’anno seguente. La «spoletta di
prossimità» fu impiegata per la prima volta nel gennaio del 1943 per abbattere un aereo nemico
nel Pacifico e trasformò in seguito il combattimento nave-aria in quel teatro di guerra. In Europa,
tuttavia, le spolette venivano usate con parsimonia, per il timore che la loro tecnologia cadesse in
mani tedesche. Nondimeno, potendo essere impiegate nello spazio aereo britannico, furono
utilizzate con successo nella difesa aerea del paese contro i missili V1, di cui si stima che venne
abbattuto il 50 per cento. Le spolette furono anche utilizzate nella campagna di Francia e Belgio
alla fine del 1944. Durante la battaglia delle Ardenne, furono abbattuti grazie alle spolette di
prossimità almeno 394 aerei tedeschi. Si calcola che nel 1945 ne fossero state prodotte circa 22
milioni .
126
Il radar a microonde si rivelò una risorsa inestimabile per la guerra in mare. In Gran Bretagna,
l’Ammiragliato promosse lo sviluppo di un radar ASV in grado di rilevare i sottomarini tedeschi
con maggiore precisione. Il Type 271, pronto già all’inizio del 1941, fu il primo radar a
microonde a divenire operativo. Grazie alle microonde era possibile individuare non solo il
sottomarino, ma perfino il periscopio che sporgeva dalla superficie del mare. Il 16 novembre
1941, al largo di Gibilterra, venne affondato il primo sottomarino rilevato grazie a un radar a
microonde. Le apparecchiature a microonde a bordo delle navi della Royal Navy includevano
migliori sistemi di puntamento, ausili alla navigazione e goniotacometri. La marina americana
proseguí insistentemente a sviluppare radar navali presso il Naval Research Laboratory anziché
il Radiation Laboratory dell’MIT, producendo un’ampia varietà di radar centimetrici per aerei,
portaerei e navi da guerra. Le apparecchiature SM e SP, introdotte sulle principali navi da guerra
e sui vettori piú leggeri, erano in grado di effettuare rilevamenti aerei tridimensionali. Il sistema
di puntamento divenne piú sofisticato grazie all’introduzione, dalla fine del 1942, del radar Mk 8
da 10 centimetri, che consentiva ai cannoni navali di sparare alla cieca e seguire poi la traiettoria
del proiettile; sullo schermo compariva anche l’eliminazione fisica del bersaglio. Fu utilizzato
per la prima volta a Guadalcanal quando un’ignara nave giapponese venne affondata di notte a
una distanza di oltre 12 chilometri; la nuova tecnologia, in ogni caso, si rivelava spesso troppo
complicata per la maggior parte dei capitani delle navi. Nel novembre del 1942, l’ammiraglio
Nimitz diede ordine a tutte le principali navi da guerra di avvalersi di un Combat Operation
Center che contribuisse a coordinare e diffondere le informazioni del radar, lasciando in tal
modo gli alti ufficiali liberi di comandare. I vari Combat Information Centers furono introdotti
su tutta la flotta con il nome in codice Project Cadillac. Ciascuno comprendeva un buon numero
di operatori radio e radar, anche se le figure chiave erano il «valutatore», che valutava la
situazione dal punto di vista operativo, e il «dicitore», che trasmetteva le informazioni là dove
erano necessarie per operazioni aeree, batterie antiaeree o i cannoni principali della nave . Una
127

volta che i comandanti presero familiarità con la nuova tecnologia, essa rivestí un ruolo
fondamentale negli ultimi due anni di guerra. Nel 1944, la guerra navale combattuta dagli
americani nel Pacifico era interamente elettronica e non aveva equivalenti presso il nemico
giapponese.
Il radar a microonde portò la guerra elettronica di inglesi e americani a un livello che andava ben
oltre i successi dei tedeschi e giapponesi. All’inizio del conflitto, le ricerche tedesche sul radar
avevano prodotto un’eccellente apparecchiatura utilizzando lunghezze d’onda di 50 centimetri,
mentre gli studi sulle microonde condotti nei primi anni Trenta si erano rivelati infruttuosi e non
furono ripresi durante la guerra per mancanza di qualsiasi entusiasmo. Negli anni di guerra, lo
sviluppo del radar risentí della cultura di segretezza che circondava l’innovazione tecnologica in
un regime dittatoriale in cui ogni minima inadempienza era passibile di sanzioni penali. Il nume
tutelare delle ricerche sull’alta frequenza, Hans Plendl, reclutato da Göring nel 1940, fu
licenziato nel 1944 per «aver passato materiale segretato a non tedeschi», in realtà perché aveva
chiesto a scienziati ebrei detenuti nel campo di concentramento di Dachau di aiutarlo a riparare
un radar. Fu fortunato a non finire egli stesso in un campo, come accadde invece a Hans Mayer,
direttore della ricerca presso l’azienda di elettronica Siemens e rinchiuso a Dachau per «incauta
conversazione». Lo sviluppo delle apparecchiature risentiva inoltre della pluralità di centri di
ricerca, della scarsa comunicazione tra essi e dell’incapacità di stabilire delle chiare priorità.
Anche quando un magnetron a cavità di risonanza cadde nelle mani dei tedeschi dopo essere
stato recuperato da un bombardiere Stirling schiantatosi nel febbraio del 1943, non ne
usufruirono piú di tanto. Chiamato Rotterdam-Gerät, dal nome della città in cui l’aereo era
caduto, il magnetron fu portato al laboratorio della Telefunken, dove nell’estate del 1943 fu
prodotto un certo numero di apparecchi a microonde che non furono però utilizzati. Venne
sviluppato con il nome in codice Marburg un radar a onde di 10 centimetri, dotato di sistema di
puntamento, ma solo alcuni furono forniti alle batterie della contraerea tedesca; nel gennaio del
1945 fu sviluppato un altro radar a microonde, chiamato Berlin, destinato ai caccia in volo
notturno tedeschi e divenuto operativo nel marzo di quell’anno, troppo tardi per fare qualche
differenza nei combattimenti aerei . Non fu prodotta alcuna spoletta di prossimità, anche se
128

avrebbe offerto un contributo sostanziale, forse decisivo, alla difesa contro la campagna di
bombardamenti alleati.
Lo sviluppo del radar giapponese risentí invece degli scarsi rapporti esistenti tra gli istituti di
ricerca dell’esercito e quelli della marina e di una sfiducia generalizzata verso le interferenze di
civili come gli scienziati delle università e dei laboratori di ricerca aziendali, trattati, secondo
Yagi Hidetsugu, quasi fossero stati degli «stranieri». Rispetto agli standard internazionali, le
ricerche sul magnetron erano progredite, ma i militari non mostravano alcun interesse a
sfruttarne la tecnologia. Il radar venne preso seriamente in considerazione solo dopo la visita di
due delegazioni giapponesi in Germania nel 1940 e nel 1941, allorché fu loro mostrato un
numero limitato di apparecchiature radar tedesche. Agli inizi del 1942, i radar anglo-americani
che facevano parte del bottino di Singapore e dell’isola di Corregidor avevano permesso ai
laboratori giapponesi di sviluppare una propria versione attraverso un processo di
ingegnerizzazione inversa, ma i risultati furono lenti e il primo radar che utilizzava la tecnologia
alleata divenne operativo solo nel 1944. Come in Germania, i programmi di ricerca erano
decentralizzati e la segretezza rappresentava un ostacolo a uno sviluppo razionale della nuova
tecnologia. Nel principale laboratorio di ricerca sulle onde radio, metà degli ingegneri che
lavorava ai magnetron e ai radar venne arruolata nell’esercito, dove potevano ritrovarsi nella
condizione di semplici soldati di fanteria. La carenza di materiali e personale specializzato
distorceva l’individuazione delle vere priorità. Molti componenti elettronici erano di bassa
qualità, con una produzione subappaltata a officine inesperte dove mancavano i metalli
fondamentali. I radar esistenti risentivano fortemente delle interferenze create dalle contromisure
elettroniche americane – un programma guidato dallo scienziato americano Frederick Terman,
reclutato nel 1942 per dirigere il Radio Research Laboratory. Nelle operazioni aeree condotte nel
1945 sull’arcipelago giapponese venne usato un disgregatore di segnale chiamato Porcupine che
produceva un potente rumore radioelettrico che interferiva con i radar della difesa giapponese.
Dei radar a microonde di portata limitata furono infine introdotti dalle forze armate giapponesi
alla fine della guerra, inizialmente un singolo modello navale, il Type 22, e quindi
un’apparecchiatura per aerei, il modello FD-3 adatto ai combattenti notturni, di cui fu tuttavia
prodotto solo un centinaio di esemplari. Questi radar rimasero privi di un indicatore topografico
di posizione (PPI) – essenziale per avere un’immagine utile al combattimento – fino a luglio del
1945, quando ne fu finalmente disponibile un modello. A guerra ormai conclusa, un magnetron a
cavità di risonanza con grande potenza di emissione era in fase di sviluppo . Per uno strano
129

scherzo del destino, l’idea di un «raggio della morte», che per prima aveva spinto Robert
Watson-Watt a studiare il rilevamento radio nel 1934, fu ripresa dai ricercatori giapponesi nel
1945 come un ultimo progetto disperato. Un raggio concentrato di onde radio fu utilizzato per
uccidere in 10 minuti un coniglio a 30 metri di distanza. Pochi mesi dopo, furono sganciate le
due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, ciascuna innescata da quattro spolette a
radiofrequenza . 130

La radio e il radar offrirono agli Alleati un contributo sostanziale per potenziare la loro forza di
combattimento. Le tecnologie non vinsero la guerra, come sembra talvolta implicito, né
funzionarono con un’efficienza uniforme o senza problemi tecnici, ma negli ultimi anni del
conflitto garantirono un decisivo margine di vantaggio agli eserciti, alle forze aeree e alle flotte
degli Alleati – un vantaggio in cui si riflettevano gli stretti legami tra governo, scienziati,
ingegneri e militari. In Gran Bretagna e Stati Uniti, la ricerca sulle onde radio venne
sponsorizzata da commissioni nominate dal governo, furono messi a disposizione abbondanti
fondi e si creò un significativo livello di aperta collaborazione tra ricercatori e utenti militari
prima ancora che gli Stati Uniti entrassero in guerra. La capacità produttiva, grazie alla natura
avanzata dell’industria elettronica americana, era enorme. La formazione di personale qualificato
avveniva con programmi ambiziosi. Il solo Pacific Fleet Radar Center addestrò tra il 1942 e il
1945 125 000 uomini, tra ufficiali e soldati. I laboratori della marina e dell’esercito che
supportavano le ricerche su radar e radio impiegarono verso la fine della guerra piú di 18 000
persone . L’Asse nemico poteva usufruire di ben pochi di questi vantaggi.
131

Moltiplicatori di forza? Intelligence e disinformazione.


Il 23 giugno 1944, il sottomarino da trasporto giapponese I-52, che trasportava attraverso il
blocco alleato un carico di oro, tungsteno, molibdeno, oppio, chinino, gomma e stagno destinato
allo sforzo bellico tedesco, fu affondato da un siluro ad autodirezione acustica lanciato da un
bombardiere americano Avenger mentre salpava poco lontano dal golfo di Biscaglia dopo essersi
incontrato con un sottomarino tedesco. La posizione esatta del sottomarino era stata intercettata e
tracciata per settimane dalla Combat Intelligence Division degli Stati Uniti decifrando i numerosi
segnali radio del sottomarino. A un ricevimento di dignitari tedeschi e giapponesi si attendeva
con impazienza che l’equipaggio nipponico arrivasse a Lorient, sulla costa occidentale della
Francia, come trovata di propaganda per festeggiare il felice superamento del blocco alleato. Col
passare del tempo, tuttavia, non giungendo altre trasmissioni radio dal sottomarino ormai
affondato, lo si diede per perso, e con l’irruzione delle forze alleate che muovevano dalla testa di
ponte in Normandia i festeggiamenti furono frettolosamente abbandonati. Nel 1944, diciotto
sottomarini da trasporto su ventisette erano stati intercettati grazie allo spionaggio delle
comunicazioni radio ed erano tutti affondati. L’ultima nave di superficie a tentare di superare il
blocco alleato era stata affondata nel gennaio del 1944, vittima della stessa scansione dei segnali
radio da parte degli operatori dell’intelligence .
132

Il destino dell’I-52 era stato segnato dall’uso alleato dell’intelligence tattica che operava sui
segnali radio – un servizio di spionaggio di solito chiamato SIGINT (anche se in questo caso si
trattava piú propriamente di intelligence che intercettava le comunicazioni, o COMINT) – e
costituiva la piú importante fonte di informazioni tattiche e operative sul fronte dei
combattimenti, ovunque esse potessero essere adeguatamente intercettate e interpretate. Durante
l’invasione alleata della Francia, circa due terzi delle informazioni di intelligence dell’esercito
tedesco provenivano dal traffico radiofonico; il capo della Fremde Heere West, la sezione dei
servizi segreti del fronte occidentale, considerava il SIGINT «il sogno di tutti gli agenti di
spionaggio» . Per altro, esso non rappresentava affatto l’unica fonte di informazioni da sfruttare
133

per scopi di intelligence, ma costituiva di gran lunga l’elemento che aveva avuto maggiore
sviluppo. In sua assenza, i servizi segreti dell’esercito e della marina facevano affidamento
sull’«intelligence umana», ovvero su agenti o prigionieri di guerra che erano spesso di dubbia
credibilità (se non altro nel caso in cui l’agente era stato ingaggiato dal nemico perché fornisse
informazioni errate), o su documenti di cui erano venuti in possesso e che di solito davano solo
un’idea delle intenzioni o decisioni dell’avversario, o sul riconoscimento di fotografie aeree, che
erano comunque secondarie rispetto al SIGINT come principale fonte di informazione sicura, se
il materiale poteva essere adeguatamente interpretato . Il vantaggio offerto dalle intercettazioni
134

radio risiedeva nel fatto che coprivano ogni aspetto dell’attività tattica e operativa del nemico su
un ampio territorio geografico e in volume consistente. La sezione di decriptazione della marina
statunitense, OP-20-G, rilevò 115 000 segnali della marina militare del Reich durante la battaglia
dell’Atlantico; all’inizio del 1943, il lavoro svolto dalla Government Code and Cipher School
(GCCS) britannica sulla macchina tedesca Enigma decifrava 39 000 messaggi al mese, divenuti
poi in media 90 000 al mese dalla fine del 1943 alla conclusione della guerra . Le informazioni
135

ricavate dai segnali radio erano abbondanti e riflettevano la misura in cui nella Seconda guerra
mondiale la radio era stata incorporata nelle operazioni dell’esercito e della marina militare.
Ogni potenza belligerante sfruttava l’intelligence tattica e operativa. Una piú vasta intelligence
«strategica» riguardante i piani, le intenzioni e il comportamento del nemico era molto piú
difficile da realizzare e in molte occasioni famose incorse in errori clamorosi – per esempio
l’incapacità dei militari e della leadership politica degli Stati Uniti di prevedere nel dicembre del
1941 un imminente attacco giapponese; oppure lo sbaglio dei giapponesi nel ritenere che si
potessero scoraggiare gli americani dall’entrare in guerra; l’errore di valutazione delle forze
tedesche da parte dell’Unione Sovietica nel 1941 e il devastante rifiuto di Stalin di dare retta a
piú di ottanta avvertimenti sull’incombente invasione della Wehrmacht; la persistente speranza
che la Germania sarebbe crollata grazie ai soli bombardamenti e cosí via. La maggior parte di
quelle convinzioni erano alimentate dall’intelligence, ma erano spesso influenzate da pii desideri,
congetture, pregiudizi razziali o politici, o addirittura da pura e semplice incredulità, perfino nei
tanti casi in cui i cifrari diplomatici, meno sicuri, potevano essere facilmente decriptati – come in
quello delle comunicazioni giapponesi decodificate dagli americani con il sistema MAGIC prima
di Pearl Harbor. L’intelligence strategica risentiva troppo spesso di atteggiamenti arroganti,
soprattutto in quelle situazioni in cui la vittoria sembrava assicurata. Il successo iniziale della
controffensiva lanciata dai tedeschi nel dicembre del 1944 con la Unternehmen Herbstnebel
(operazione Nebbia d’autunno) derivò dalla convinzione degli Alleati che i tedeschi fossero
ormai troppo demoralizzati per organizzare un’efficace rappresaglia, benché vi fossero
comunicazioni di intelligence di alto livello che fornivano prove contrarie; analogamente,
possiamo citare la persistente convinzione della Wehrmacht che le forze armate sovietiche
sarebbero crollate sotto l’attacco – un giudizio errato che resistette tuttavia anche dopo che tutte
le prove lasciavano intendere il contrario.
In termini di «moltiplicatori di forza», l’intelligence tattica e operativa risultava ben piú
importante di quella strategica o politica. Anche se l’organizzazione e la pratica dell’intelligence
operativa riflettevano sia le specifiche culture militari nel modo in cui venivano realizzate e
gestite sia la misura in cui l’intelligence veniva integrata nel piú ampio apparato bellico, essa non
fu trascurata da nessuna grande potenza. L’intelligence militare giapponese era divisa tra il II
dipartimento dello stato maggiore dell’esercito (Sanbō Honbu) e il III dipartimento dello stato
maggiore della marina (Gunreibu). Quando si trattava di organizzare le operazioni, tuttavia, né la
flotta né l’esercito nutrivano particolare rispetto per l’intelligence, il cui personale era mantenuto
a distanza. Il Rengō Kantai, la «Flotta imperiale combinata», aveva un solo ufficiale
d’intelligence annesso al quartier generale, e ve n’era solo uno per ciascuna delle flotte separate.
Ci si aspettava che durante il combattimento i comandanti delle unità navali esprimessero i
propri giudizi sul nemico . Mancava qualsiasi agenzia o comitato centrale che coordinasse
136

l’attività di intelligence, oltre al fatto che tra esercito e marina esisteva una scarsa collaborazione.
Quando alcuni analisti dell’esercito decriptarono alcuni cifrari dell’esercito americano come M-
94 e M-209, essi si astennero deliberatamente dal condividere le informazioni con la flotta . 137

L’organizzazione dell’intelligence militare tedesca tradiva un’analoga riluttanza a coinvolgere


strettamente nelle operazioni il personale, come anche a reclutarlo tra i civili. Il personale
dell’Ablösung 1c dell’esercito tedesco si occupava di intelligence e di una serie di altre attività,
incluso il lavoro di propaganda tra le truppe. Nel 1939, l’Ablösung D5 dell’intelligence della
marina contava ventinove effettivi e si espanse lentamente durante la guerra, esercitando tuttavia
solo un’influenza limitata sui comandanti delle operazioni. Come per l’esercito, il personale
dell’intelligence delle forze aeree era anche responsabile del benessere degli equipaggi, dei
comunicati stampa, della censura e della propaganda . In tutti e tre i casi, gli addetti all’attività di
138

intelligence erano pochi ma con grandi responsabilità; si pensava comunque che i comandanti
tedeschi fossero in grado di esprimere a qualsiasi livello il proprio giudizio sulle operazioni,
facendo riferimento o meno al rispettivo personale dell’intelligence. Come in Giappone, la
raccolta e la diffusione di informazioni avvenivano per compartimenti stagni e non esisteva
nessuna agenzia centrale per il loro coordinamento. Al momento di interpretare le fotografie
delle ricognizioni aeree, ciascun comandante locale usufruiva di collaboratori di basso rango, ma
non c’era nulla che potesse equivalere all’unità centralizzata di interpretazione di Medmenham,
in Gran Bretagna, che distribuiva le informazioni a tutte le forze armate . A differenza di quanto
139

avveniva in Inghilterra, non vi era neppure un servizio segreto per l’intercettazione di segnali e
comunicazioni integrato in un centro nazionale. Se a livello tattico l’intelligence tedesca risultava
spesso sistematica e abbondante di informazioni, l’integrazione a livello operativo era oltremodo
limitata.
In Gran Bretagna e negli Stati Uniti, l’intelligence assunse un ruolo piú importante,
coinvolgendo non solo le forze armate, ognuna delle quali ne possedeva una propria sezione, ma
anche il piú ampio sforzo bellico della popolazione civile. L’intelligence scientifica utilizzata a
scopi militari venne istituzionalizzata in Gran Bretagna nel 1940, negli Stati Uniti un anno dopo;
il British Joint Intelligence Committee, istituito nel 1936, forniva regolarmente al gabinetto di
guerra e alle forze armate valutazioni dell’intelligence su un’ampia gamma di argomenti; i
servizi di intelligence erano integrati nella pianificazione operativa dal livello strategico a quello
tattico. Per tutte le diverse armi, l’intelligence per l’intercettazione di segnali e comunicazioni
era stata centralizzata a Bletchley Park, sede della GCCS, che al momento della sua massima
espansione contava 10 000 impiegati, perlopiú civili e in maggioranza donne. Il coinvolgimento
di esperti civili rifletteva la natura della mobilitazione in tempo di guerra nei paesi democratici,
dove i militari avevano minori pregiudizi rispetto al coinvolgimento del personale di intelligence,
che appartenesse o meno alle forze armate, in pianificazioni e valutazioni di carattere operativo.
Molti di quelli assunti come traduttori o decriptatori erano studenti universitari particolarmente
dotati nelle lingue classiche o moderne. La divisione di intelligence della RAF reclutò 700
persone durante la guerra, delle quali solo 10 erano suoi ufficiali regolari . Elemento piú
140

importante, le valutazioni e le informazioni dell’intelligence erano condivise tra le due


democrazie in base ad accordi ufficiali che vennero a creare alla fine un livello (quasi illimitato)
di collaborazione tra servizi segreti. Non mancarono i tentativi di estendere tale condivisione
anche all’Unione Sovietica, ma la collaborazione risultava quasi sempre unilaterale e comportava
il rischio di compromettere le fonti occidentali. Il modo scontroso e sgraziato con cui i sovietici
accoglievano le informazioni dell’intelligence era a dir poco sconcertante . 141

Prima della guerra, il sistema dell’intelligence militare americana era il meno sviluppato tra
quelli delle maggiori potenze. Le unità di combattimento non avevano persone addette
esclusivamente alle operazioni di intelligence né vi erano speciali strutture di addestramento. Nel
1941, l’esercito e la marina degli Stati Uniti iniziarono a espandere i rispettivi settori del servizio
informazioni, il G-2 per le forze di terra e l’Office of Naval Intelligence per la marina, anche se,
al pari di quelli giapponesi, rimanevano scarsamente integrati. Nell’estate dello stesso anno,
l’esercito iniziò la creazione di un ramo separato di intelligence aerea, l’A-2, che, almeno ai suoi
esordi, faceva grande affidamento sui materiali forniti liberamente dalla RAF e dai servizi segreti
australiani, disposti a collaborare. Come era avvenuto in Gran Bretagna, non vi era altra
possibilità che reclutare un buon numero di esperti civili, accademici o studenti qualificati.
L’esercito istituí poi il Military Intelligence Service, che introdusse alla fine in ogni reggimento
delle squadre di intelligence strategica, in cui quanti si erano laureati ai corsi di linguaggio
militare tedesco o giapponese potevano interrogare i prigionieri di guerra o tradurre i documenti
caduti nelle mani degli Alleati dopo un combattimento. La divisione di intelligence della marina
era sostanzialmente concentrata in operazioni nel Pacifico, una regione di cui nel 1941 si sapeva
poco. Il manuale riguardante gli aerei giapponesi aveva addirittura una pagina bianca per il
caccia Mitsubishi Zero, benché fossero già disponibili informazioni dettagliate . L’intelligence
142

della marina aveva la propria base a Washington, ma le squadre che operavano nelle zone delle
ostilità e nella ricognizione aerea trasmettevano le informazioni al Joint Intelligence Committee
Pacific Ocean Area, che preparava a sua volta un gran numero di rapporti con informazioni da
distribuire tra le forze armate attive nel teatro del Pacifico . L’esercito istituí un servizio di
143

intelligence dei segnali e comunicazioni ad Arlington Hall, in Virginia – l’equivalente americano


della GCCS. La marina disponeva separatamente di uffici di intelligence delle comunicazioni a
Washington (D.C.), ma con il procedere della guerra i due servizi svilupparono una stretta
collaborazione. Nelle ultime fasi del conflitto, l’intelligence rappresentò un elemento
indispensabile a ogni livello dello sforzo bellico americano.
L’organizzazione dell’intelligence militare sovietica differiva fondamentalmente da quella delle
altre grandi potenze belligeranti. Il servizio informazioni (razvedka) occupava un posto centrale
nella dottrina operativa sovietica molto prima del 1941. Esso era parte integrante
dell’organizzazione di ogni esercito e dell’addestramento delle forze aeree, dagli alti comandi
fino alla piú piccola unità tattica. Per una piú ampia intelligence di carattere operativo, il
materiale proveniente dai vari fronti veniva trasmesso al Glavnoe razvedyvatel’noe upravlenie
(GRU), ovvero la Direzione centrale dei servizi di informazione, al fine di fornire elementi utili
alla creazione di un’immagine composita delle intenzioni nemiche; le informazioni
dell’intelligence operativa e tattica venivano invece raccolte, analizzate e diffuse tra i
raggruppamenti dell’esercito e al quartier generale delle varie divisioni. Ogni livello di comando
disponeva di un direttore dei servizi di intelligence e di personale che lavorava a stretto contatto
dei comandanti operativi, che erano tenuti a precisare di quali informazioni avevano bisogno,
con quali mezzi acquisirle e quali forze erano necessarie. Nel corso dei combattimenti, i
comandanti dei raggruppamenti dell’esercito attendevano i rapporti dei servizi di informazione
ogni due o tre ore, mentre i singoli comandanti delle forze di terra ogni una o due ore. In effetti,
si trattava di un’intelligence sostanzialmente attiva sul campo di battaglia, con informazioni
raccolte direttamente al fronte, soprattutto attraverso ricognizioni aeree (quando era possibile),
incursioni e imboscate sul fronte nemico e spionaggio armato sul territorio. Agenti e infiltrati,
sostenuti dal 1942 in poi da distaccamenti partigiani, penetravano fino a 15 chilometri dietro le
linee del fronte nemico. Osservatori in avanguardia, pericolosamente nascosti nelle immediate
vicinanze delle linee nemiche, segnalavano la posizione delle batterie di artiglieria e delle
mitragliatrici. Gli incursori, solitamente tra cinque e otto uomini, avevano il compito di sottrarre
documenti e armi e fare prigionieri, sottoposti poi a rigorosi interrogatori. L’intelligenza non
strumentale forniva gran parte delle informazioni necessarie; il SIGINT fu utilizzato con
maggiore frequenza solo negli ultimi anni di guerra. Trattandosi di un elemento inscindibile dalle
operazioni militari sovietiche, l’intelligence non soffriva della sfiducia di tedeschi e giapponesi
nei confronti dei servizi di informazioni . La dottrina e l’organizzazione dell’attività di
144

intelligence furono rafforzate nel 1942 contestualmente alle altre riforme dell’Armata Rossa e
delle forze aeree; dal 1943 in poi, la raccolta di informazioni divenne meglio coordinata e piú
sistematica, benché mai perfetta. Nell’aprile del 1943, una direttiva di Stalin agli agenti
dell’intelligence che operavano sul campo li esortava a migliorare i loro sforzi al fine di
individuare gli assi lungo i quali il nemico stava concentrando le proprie forze, ma, ciò
nonostante, gli equilibri delle truppe tedesche al momento della battaglia di Kursk rimasero
pericolosamente fraintesi .
145

L’intelligence risentiva in ogni caso di limiti evidenti, insiti nella natura stessa delle sue
operazioni, che influivano sul grado di fiducia o scetticismo dei comandanti dell’esercito. Il
quadro dell’intelligence era spesso irregolare o incoerente, con lunghe interruzioni nella capacità
di rilevare e comprendere i segnali nemici, errate valutazioni delle informazioni fornite da agenti
o disertori nemici, oppure la mancata interpretazione delle ricognizioni aeree – il caso piú
tristemente noto in Occidente furono i rapporti dei piloti che nel maggio del 1940 avevano visto
le forze corazzate tedesche ammassate nelle Ardenne e non erano riusciti a richiamare
l’attenzione dei comandanti francesi. Coloro che valutavano tutte le fonti disponibili erano
soggetti ai consueti errori umani, come eccesso di ottimismo, desiderio di mettere ordine in
un’immagine confusa, interessi particolari a livello istituzionale e cosí via. La segretezza era
ovunque un elemento della massima importanza; perfino in Gran Bretagna, dove l’attività di
intelligence coinvolgeva un’ampia cerchia di persone, ogni comunicazione tra le diverse sezioni
era vietata. Quelli che alla GCCS lavoravano a cifrari di livello inferiore non dovevano sapere
nulla sul progetto Ultra, nel caso ci fossero falle nella sicurezza. Le informazioni ottenute da
fonti criptoanalitiche dell’Ultra potevano essere riferite solamente in Gran Bretagna dalla
Special Liaison Unit e negli Stati Uniti dagli Special Security Officers, e i messaggi dovevano
essere distrutti dopo la lettura . Soprattutto, le modifiche regolarmente apportate ai codici e ai
146

cifrari utilizzati nel SIGINT comportavano lunghe settimane se non addirittura mesi di attesa
prima che quelli nuovi potessero essere letti. Da febbraio a dicembre del 1942, i criptoanalisti
britannici e americani persero i messaggi trasmessi dalle navi tedesche con la macchina Enigma
e subirono un nuovo blackout nel marzo del 1943; il servizio informazioni della flotta tedesca era
riuscito a decifrare il British Naval Cipher n. 3 per la maggior parte del 1942 e all’inizio del
1943, ma aveva poi affrontato a sua volta un blackout quando il cifrario fu sostituito a giugno dal
Naval Cipher n. 5 . Prima del D-Day, gli Alleati erano stati in grado di leggere i segnali tra
147

Berlino e l’alto comando tedesco a Parigi, ma avevano perso il collegamento allorché il cifrario
era stato modificato il 10 giugno, cioè in un momento critico della battaglia, riuscendo a
recuperare il traffico delle informazioni solo a settembre .
148
Anche quando si riuscivano a leggere i messaggi, le decriptazioni arrivavano spesso giorni dopo,
troppo tardi per essere utilizzate nelle operazioni correnti. La maggior parte delle decriptazioni
riguardanti l’alto comando dei sottomarini tedeschi in Francia, per esempio, non poté essere
usata in tempo. Anche la trascrizione era una vera e propria sfida. La versione finale della
traduzione di un’informazione di intelligence ottenuta da comunicazioni intercettate passava
attraverso una serie di fasi ben distinte, dall’iniziale cifratura del nemico, nella versione ascoltata
dalla stazione radio di ricezione, al processo di decriptazione e traduzione del messaggio, fino
alla digitazione finale prima che finisse sulla scrivania di un ramo del servizio di informazioni.
Le abilità linguistiche dovevano essere sviluppate prima ancora di usarle nella lettura delle
informazioni. Si dava per scontato che i traduttori inglesi dei messaggi in tedesco o giapponese
possedessero solamente una certa capacità di lettura; quelli che si erano formati in lingua
giapponese avevano avuto all’inizio solo un breve corso propedeutico basato su libri di testo e
dizionari obsoleti. Gli errori erano inevitabili, non ultimo per la vastità del compito. Durante la
guerra, infatti, il numero di documenti da tradurre alla GCCS da parte di uno staff già
sovraccarico di lavoro era cresciuto esponenzialmente. Agli inizi del 1943 l’intelligence della
marina aveva 1000 messaggi da tradurre, ma nell’estate dell’anno seguente erano ben 10 000
quelli in attesa di essere tradotti . Negli Stati Uniti, nel 1941, una disperata carenza di americani
149

bianchi che comprendevano la lingua giapponese constrinse l’esercito a reclutare cittadini nippo-
americani come traduttori e interpreti – un programma che proseguí nel 1942 anche dopo
l’internamento forzato dei nippo-americani. Nel 1945, 2078 nippo-americani si erano diplomati
alla Military Intelligence Service Language School, molti dei quali furono mandati con le truppe
che combattevano nel Pacifico con il compito di interrogare i giapponesi catturati mentre ancora
continuavano gli scontri a fuoco, rischiando di morire o di essere feriti . La marina si rifiutò di
150

arruolare cittadini nippo-americani, preferendo affidarsi principalmente, come fece anche il


Corpo dei marine, a studenti universitari della Naval Japanese Language School di Boulder, in
Colorado, che in seguito, seppure con una conoscenza limitata dei termini militari giapponesi,
venivano mandati negli aspri combattimenti del Pacifico, dove cercavano di convincere gli altri
marine a non uccidere ogni soldato giapponese prima che potessero interrogarlo . 151

Il fattore di maggior peso che inibiva il lavoro di intelligence era la necessità di garantire la
sicurezza di tutte le informazioni trasmesse via radio, che il nemico poteva intercettare.
L’obiettivo principale di quanti raccoglievano informazioni era riuscire ad abbattere
tempestivamente e del tutto la barriera di quella sicurezza rafforzata, il che poteva rivelarsi
un’impresa gigantesca vista la crescente sofisticatezza dei sistemi e delle apparecchiature che
generavano le comunicazioni via radio. Accadeva casualmente che i messaggi si potessero
leggere in chiaro, cosa che, almeno potenzialmente, risolveva il problema, anche se erano
comunque possibili interpretazioni errate. Le comunicazioni in chiaro erano particolarmente
frequenti tra gli equipaggi di volo, soprattutto gli aviatori americani e sovietici, che in svariati
casi si rivelavano molto disaccorti e incuranti della sicurezza radiofonica; questo accadeva
tuttavia anche alle forze di terra durante i combattimenti, quando la cifratura allungava
eccessivamente i tempi di trasmissione, o quando si comunicavano messaggi di routine tra le
varie unità militari. L’intelligence tedesca delle comunicazioni sul fronte sovietico riusciva a
cogliere circa il 95 per cento delle intercettazioni non codificate; nel settembre del 1944, sul
fronte italiano, i tedeschi intercettarono 22 254 messaggi in chiaro, a fronte di 14 373 criptati . 152

Anche i segnali non codificati potevano tuttavia presentare dei problemi. In una postazione
dell’intelligence britannica per le intercettazioni radio del «servizio Y», la soddisfazione di
ascoltare i primi messaggi non codificati scambiati tra piloti tedeschi si smorzò del tutto quando
scoprirono che nessuno dei presenti capiva il tedesco . I messaggi piú importanti, tuttavia, erano
153

quasi sempre criptografati in modi ideati appositamente per frustrare i tentativi dei nemici in
ascolto, alcuni piú impenetrabili di altri. Le permutazioni erano decisamente un lavoro
impegnativo. Le comunicazioni inviate attraverso la macchina Enigma potevano avere
cinquantadue varianti; quelle della marina e dell’esercito giapponese ne avevano, insieme,
almeno cinquantacinque . Nel complesso tentativo di svelare quei segreti, i servizi di
154

intelligence della Gran Bretagna e degli Stati Uniti godettero negli anni di guerra di un vantaggio
significativo.
Lo sforzo anglo-americano per decifrare le comunicazioni del nemico derivava dalla natura
globale del campo di battaglia in cui operavano e dalla priorità riconosciuta alla forza navale e
aerea. Per la RAF e la Royal Navy, l’accesso al traffico radio del nemico nei primi anni di guerra
era indispensabile per proteggere la Gran Bretagna continentale dagli attacchi aerei e mantenere
aperte le rotte marittime nonostante il pericolo di sottomarini tedeschi e italiani, navi da guerra e
corsare. Per la flotta degli Stati Uniti, la lettura dei codici giapponesi fu essenziale nelle prime
fasi della guerra del Pacifico per evitare una sconfitta, ma divenne poi uno strumento offensivo
fondamentale nella distruzione conclusiva della marina e della flotta mercantile giapponese. La
storia delle intercettazioni britanniche è sempre associata al sistema Ultra – un nome scelto alla
fine nel 1941 per le decriptazioni dei segnali elaborati dalla macchina tedesca Enigma (la Royal
Navy l’aveva chiamato «Silenzio», mentre Churchill insisteva per «Bonifacio»). Concentrando
tuttavia l’attenzione sul sistema Ultra, si ignora non solo l’epoca in cui i mutamenti delle chiavi
di decriptazione impedivano la lettura dei messaggi, ma si sottovaluta altresí la misura in cui
altre forme di intelligence delle comunicazioni integravano, completavano o, a volte, addirittura
sostituivano il materiale proveniente da Ultra. Inizialmente, le decriptazioni della macchina
Enigma si erano limitate alle comunicazioni dell’aviazione tedesca, meno sicure e interpretate la
prima volta nel maggio del 1940 grazie alla fornitura di pezzi di Enigma e all’assistenza di
criptografi polacchi fuggiti dall’invasione tedesca nel settembre del 1939. I messaggi potevano
essere letti solo con un certo ritardo, che si ridusse gradualmente con l’introduzione delle
«bombe elettromeccaniche», ovvero macchinari progettati per accelerare il processo di
decriptazione, prima dei messaggi dell’Enigma a tre rotori e poi, con l’arrivo nel 1943 delle
«bombe» americane, del traffico ben piú impegnativo della macchina a quattro rotori,
scarsamente utilizzata nella battaglia d’Inghilterra e nel Blitz aereo tedesco; di uso limitato nel
Mediterraneo fino a quando fu finalmente adottata per le comunicazioni dell’esercito tedesco, in
tempo per le battaglie di Alam el-Halfa ed El Alamein; con un’interruzione di dieci frustranti
mesi al culmine della battaglia dell’Atlantico e un impiego praticamente inesistente nell’Europa
occidentale, dato che le comunicazioni nei territori occupati erano limitate ai telefoni fissi. Le
comunicazioni attraverso Enigma risultavano utili per l’ordine di battaglia della Wehrmacht e in
una serie di informazioni logistiche e organizzative, ma offrivano meno indizi circa le intenzioni
strategiche e operative dei tedeschi. Quando funzionava, il sistema Ultra permetteva agli Alleati
di aprire una finestra sul nemico che altrimenti non avrebbero mai avuto, ma doveva essere usato
con molta cautela per assicurarsi che il nemico non capisse mai che le sue comunicazioni erano
compromesse.
La misura in cui il sistema Ultra deve essere contestualizzata può risultare chiara se
consideriamo l’attività di intelligence disponibile nella battaglia d’Inghilterra e in quella
dell’Atlantico. Da parte britannica, la battaglia aerea coinvolse il «servizio Y» della RAF per
l’ascolto delle frequenze radio utilizzate dall’aviazione tedesca, a volte di messaggi in chiaro
oppure con un basso grado di cifratura e di semplici nomi in codice, piú facili da decifrare.
Persone con una buona conoscenza del tedesco venivano reclutate come computors [sic] per
fornire informazioni aggiornate sulle unità aeree tedesche e i loro movimenti. Questa fonte era
integrata dalle Home Defence Units, che usavano tecniche radio per scoprire la direzione dei
velivoli e fornivano tempestivamente comunicazioni circa il decollo, la rotta e l’altezza degli
aerei nemici e potevano distinguere tra bombardieri e caccia, cosa che il radar non era in grado di
fare. La principale base del «servizio Y» era a Cheadle, vicino a Manchester, e garantiva durante
la battaglia un flusso di informazioni vitali alle stazioni dei caccia della RAF, spesso con appena
un minuto di preavviso sull’arrivo degli aerei, laddove al radar ne occorrevano quattro, nel
migliore dei casi. Le intercettazioni del sistema Ultra fornivano poche informazioni tattiche utili,
ma contribuivano a ricostruire l’ordine di battaglia delle forze tedesche. Il comandante in capo
del Fighter Command non venne nemmeno a sapere di Ultra fino a ottobre, quando la campagna
tedesca era ormai quasi finita .155

Un’analoga mescolanza di fonti di informazione si ebbe durante la battaglia dell’Atlantico. Tra le


apparecchiature piú importanti vi erano quelle di rilevamento di direzione con onde ad alta
frequenza (HF/DF), utilizzate da stazioni in Gran Bretagna, Stati Uniti e Canada (e infine diffuse
nel mondo intero). Poiché i segnali navali tedeschi erano tutti ad alta frequenza al fine di
raggiungere la distanza necessaria, si potevano intercettare i messaggi e individuare la presenza
di un sottomarino o di una nave corsara, con una precisione che migliorò nel corso della guerra. I
sottomarini, inoltre, una volta avvistato un convoglio di navi, utilizzavano regolarmente brevi
segnali «Beta» riportati nel Kurzsignalheft (Quaderno per segnalazioni) della marina; una volta
che essi erano stati intercettati, non serviva nemmeno decifrarli, poiché era evidente che si era
stabilito un contatto tra il sottomarino e le navi e si rendeva quindi indispensabile allontanarsi
rapidamente dal pericolo. Entrambe le fonti di informazione si rivelarono essenziali nel periodo
in cui Ultra non fu piú in grado di fornire le decriptazioni dei segnali navali inviati con Enigma,
riuscendo insieme ad assicurare una rete di informazioni che permetteva alle regolari «analisi del
traffico» di individuare dove stessero operando dei sottomarini e con quali forze. Usate
inizialmente in modo difensivo per consentire ai convogli di evitare contatti con i sottomarini,
dalla primavera del 1943 le intercettazioni radio furono impiegate in modo offensivo per aiutare
aerei e antisommergibili a dare la caccia ai «branchi di lupi» della Wolfsrudeltaktik, la tattica di
guerra adottata dai sottomarini tedeschi. Esse si rivelarono uno strumento essenziale per
eliminare la minaccia dei sommergibili .156

Il servizio informazioni degli Alleati nel teatro del Pacifico usava lo stesso nome in codice Ultra
per intercettare comunicazioni radio giapponesi di alto livello. L’intelligence si era rivelata un
misero fallimento prima di Pearl Harbor, riservando ben pochi sforzi alla decifrazione del
principale codice navale giapponese JN-25b. Verso la fine del 1941, l’unità di intercettazione
americana di Station Cast, nelle Filippine, era in grado di decifrare qualche frammento dei
messaggi (di cui il servizio di informazioni della marina faceva comunque poco uso), ma una
settimana prima dell’attacco a Pearl Harbor la marina giapponese aveva adottato un nuovo
codice, di fatto illeggibile . Nella primavera del 1942, nel giro di qualche frenetica settimana, la
157

Fleet Radio Unit del Pacifico stabilí la propria base alle Hawai’i e fece ogni sforzo possibile per
decriptare il nuovo codice, riuscendo nell’impresa in tempo per prevedere l’operazione
giapponese contro Midway. Da quel momento, il cifrario JN-25 poté essere letto quasi
continuamente dalla OP-20-GZ, la divisione di intelligence della marina responsabile per il
Giappone. In questo caso, il sistema Ultra forní dettagli sui convogli giapponesi, sulle navi di
scorta e sui punti di forza della guarnigione di stanza sulle isole del Pacifico , rilevando perfino
158

l’aereo su cui l’ammiraglio Yamamoto era solito ispezionare le difese sulle isole Gilbert e
Salomone. Con l’approvazione dell’ammiraglio Nimitz, i caccia P-38 intercettarono e
abbatterono il velivolo con il comandante della flotta combinata giapponese. Nemmeno questo,
tuttavia, mise in guardia i giapponesi sul fatto che i loro principali codici navali erano stati
compromessi. A giugno del 1943, i criptografi americani decriptarono finalmente il Senpaku
angoshu 2, il codice dei trasporti per mare dell’esercito giapponese, utilizzato dai convogli che
rifornivano le guarnigioni. L’intelligence delle onde radio permise agli aerei e ai sottomarini
americani e australiani di individuare e distruggere un numero considerevole delle navi
mercantili giapponesi e delle relative scorte navali.
In generale, si rivelò piú difficile ottenere lo stesso livello di accesso al traffico radio
dell’esercito. Questo rifletteva in parte la preferenza dell’esercito per le comunicazioni su rete
telefonica fissa, che potevano essere rilevate solo con rischiose intercettazioni dietro le linee
nemiche. La radio era piú ampiamente usata dove la battaglia presentava contorni piú fluidi,
seppure troppo raramente per ottenere informazioni regolari e aggiornate. Aggressive missioni di
ricognizione, rilevamenti fotografici o gli interrogatori dei prigionieri di guerra compensavano la
carenza di intelligence delle comunicazioni dell’esercito. Nel 1939, i criptoanalisti giapponesi
decodificarono il cifrario dell’esercito sovietico OKK5, ma ne trassero scarso beneficio nella
sconfitta subita a Nomonhan nell’agosto di quell’anno e non se ne servirono piú fino a quando
l’Unione Sovietica non dichiarò guerra all’impero giapponese nell’agosto del 1945, quando il
codice era ormai cambiato . Durante l’invasione dell’Unione Sovietica, l’esercito tedesco,
159

seppure con un numero limitato di operatori, decodificò i cifrari di basso livello usati al fronte,
decifrando nel 1943 e 1944 circa un terzo dei messaggi, anche se le comunicazioni dell’alto
comando si dimostrarono una barriera quasi impossibile da superare . Nella guerra del
160

Nordafrica, Rommel non era in grado di leggere regolarmente le comunicazioni dell’esercito


britannico, riuscí però ad avere accesso a quelle tra le forze aeree e le unità dell’esercito, fino a
quando il cifrario non fu modificato nell’estate del 1942. I tedeschi non possedevano nulla di
equivalente al sistema Ultra che potessero usare regolarmente e a lungo termine contro gli
Alleati occidentali. Le fonti alternative, d’altro canto, erano inaffidabili. Le ricognizioni aeree
erano state compromesse dagli elaborati camuffamenti dei principali obiettivi industriali e
militari britannici e dalla crescente vulnerabilità degli aerei da ricognizione tedeschi; gli agenti
segreti in loco rappresentavano un rischio, in quanto potevano essere arruolati dal
controspionaggio nemico o fornire poco piú di qualche informazione approssimativa.
Gli Alleati facevano affidamento su una varietà di accessi alle comunicazioni degli eserciti
tedesco, italiano e giapponese. Nella guerra del Pacifico, si era prestata dapprima minore
attenzione alla decriptazione dei messaggi dell’esercito poiché gran parte della campagna, ai suoi
inizi, era rivolta contro la marina giapponese. Se nell’estate del 1942, solo 25 criptoanalisti
lavoravano ai cifrari dell’esercito, un anno dopo erano già 270. I cifrari dell’esercito erano molto
piú difficili da decodificare rispetto al JN-25, almeno fino all’inizio del 1944, quando durante la
ritirata della XXI Divisione giapponese dalla Nuova Guinea non furono recuperati i manuali dei
codici. Da quel momento, i messaggi dell’esercito poterono essere decifrati regolarmente . Nel161

teatro di guerra del Mediterraneo, i cifrari italiani – che a Bletchley Park ricevettero i nomi
«Zog» e poi «Musso» – si rivelarono quasi impossibili da decodificare. Erano infatti codificati in
modo casuale, e altrettanto casuale risultava quindi la loro decriptazione. Nel 1941, tuttavia,
venne violato un cifrario piú facile di basso livello usato nelle spedizioni navali italiane, il che
rese possibile un costante accumulo di informazioni su rifornimenti e convogli diretti agli eserciti
dell’Asse schierati nel Nordafrica . Le comunicazioni dell’esercito tedesco codificate con
162

Enigma nel deserto africano furono finalmente decifrate nell’estate del 1942. Al Cairo venne
istituita una filiale della GCCS al fine di garantire che il contenuto dei messaggi fosse trasmesso
tempestivamente alle forze alleate prima delle battaglie di Alam el-Halfa ed El Alamein, anche
se il sistema Ultra si rivelò poi meno utile nel lungo inseguimento delle forze dell’Asse
attraverso il deserto e nella loro successiva sconfitta in Tunisia .
163

A questo punto della guerra, i decifratori britannici scoprirono una fonte di messaggi cifrati
ancora piú importante di Enigma. L’esercito tedesco aveva infatti sviluppato un collegamento
radiotelescrivente utilizzando l’apparecchiatura Schlüsselzusatz 40 (in seguito 42), prodotta dalla
ditta Lorenz per l’invio di comunicazioni di alto livello senza dover ricorrere al codice Morse –
una caratteristica di Enigma. Ogni collegamento della telescrivente aveva il proprio codice; nel
1943 ne esistevano dieci, divenuti ventisei all’inizio del 1944. La Wehrmacht usava i
collegamenti per comunicazioni operative e strategiche e li considerava assolutamente sicuri. A
Bletchley Park, a tali messaggi era stato dato il nome in codice Fish (dal nome in codice tedesco
Sägefisch, cioè «pesce spada») e i lavori di decriptazione erano iniziati all’inizio del 1942, ma
con scarso successo. A ogni collegamento era stato assegnato un nome di copertura di tipo
marino – Turbot, «rombo», per la linea Berlino-Copenaghen; Jellyfish, «medusa», per la linea
Berlino-Parigi; Conger, «anguilla», per quella Berlino-Atene e cosí via . Uno dei cifrari, usato
164

per le comunicazioni al comando della Wehrmacht nei Balcani, fu il primo a essere violato, a cui
seguí nel maggio del 1943 il collegamento con le armate del feldmaresciallo Kesselring in Italia.
Per accelerare il processo di decriptazione, vennero infine sviluppati i primi computer operativi.
Sebbene comunemente associato alle decodifiche effettuate con il sistema Ultra, all’inizio del
1944 il Colossus I (seguito dal Mark II, installato il 1° giugno 1944) era stato progettato per
decifrare Fish, non Enigma. Colossus II era in grado di elaborare 25 000 caratteri alfabetici al
secondo, 125 volte piú veloce dei processi meccanici inizialmente impiegati . A marzo del 1944
165

furono violate le comunicazioni operative tra Berlino e il comandante in capo della Wehrmacht a
Parigi, e anche se le modifiche regolarmente apportate ai cifrari causarono periodi di blackout
fino a settembre del 1944, negli ultimi nove mesi di guerra il sistema Fish garantí una regolare
fornitura di comunicazioni tedesche di alto livello, e questo in un momento in cui le nuove
impostazioni di Enigma stavano riducendo le capacità di Ultra . Fish venne a sua volta integrato
166

da altre fonti. Da aprile del 1943, il «servizio Y» intercettò e decifrò comunicazioni di medio
livello dell’esercito tedesco, mentre altri segnali di basso livello, compresi i codici dei mezzi
corazzati, furono violati alla fine dell’anno, contribuendo a creare un quadro piú completo delle
intenzioni tedesche prima dell’invasione del D-Day. Il servizio informazioni degli agenti della
SOE in Francia e le unità della resistenza francese completarono il quadro. Il capo
dell’intelligence Montgomery ebbe a riconoscere in quell’occasione che «pochissimi eserciti
sono mai andati a combattere meglio informati sul loro nemico» . 167

Fino a che punto si possa dire che la quantità di informazioni raccolte – in particolare dal
SIGINT – contribuiva al successo operativo rimane una vexata quaestio, nonostante
l’abbondante letteratura storica che ha cercato di dimostrarne il valore essenziale. Chiaramente,
operare alla cieca contro forze nemiche si rivela inutile e inefficace, e durante la Seconda guerra
mondiale nessuna forza armata ignorò il bisogno di avere dinanzi un quadro degli schieramenti,
delle capacità e delle innovazioni tecniche del nemico, nonché, quando possibile, delle sue vere
intenzioni. L’uso richiesto all’intelligence, tuttavia, dipende dalla misura in cui le informazioni
vengono integrate nella pianificazione operativa a tutti i livelli, o dal diverso grado in cui i
comandanti ritengono a chi debba spettare il compito di valutare la situazione del fronte della
battaglia. L’intelligence veniva troppo spesso a rifrangersi nella complessa stratificazione dei
processi decisionali, che finivano per inibirne un uso operativo efficace. Anche i migliori servizi
d’informazione potevano rivelarsi infruttuosi. Un avvertimento in tal senso, derivato da
decriptazioni del sistema Ultra, era stato inviato per la prima volta ai comandanti britannici sul
campo alla vigilia dell’operazione tedesca per invadere Creta, ma non poté impedire la sconfitta
britannica; un messaggio urgente, riguardante l’imminente attacco di Rommel il 30 marzo 1941,
era stato mandato a Wavell, che aveva tuttavia preferito ignorarlo, per sua grande sfortuna.
Anche la famosa svolta dell’intelligence scientifica britannica alla fine del 1940, quando erano
stati individuati e poi deliberatamente distorti i segnali dell’aviazione aerea tedesca, non riuscí a
impedire altri mesi di bombardamenti. I raid su porti e obiettivi industriali, in effetti, erano ora
divenuti ancora meno precisi, causando di conseguenza maggiori perdite tra i civili. Gli esempi
piú chiari dell’efficacia operativa dei servizi d’informazione emersero nelle ostilità navali, in cui
i segnali radio erano divenuti il principale mezzo di comunicazione, intercettazione e
decriptazione, attività essenziali su un campo di battaglia globale. In questo caso, il successo
degli Alleati contribuí in maniera sostanziale alla sconfitta delle campagne sottomarine
dell’Asse, alla protezione dei convogli e alla distruzione delle linee di rifornimento via mare del
nemico – tutte operazioni vitali per condurre efficacemente il piú vasto conflitto. Si trattò di
lunghe campagne in cui l’intelligence bellica si rivelò chiaramente un moltiplicatore di forza per
gli Alleati, anche se il successo dei servizi di informazione dipese in certa misura dalla fortuna
che né la flotta giapponese né quella tedesca scoprirono mai che i loro codici e segnali erano stati
compromessi. Nonostante tutto il glamour e il coraggio comunemente associati al mondo delle
spie e dello spionaggio, dei servizi segreti e del controspionaggio, nel contesto della guerra fu il
lavoro di routine, fatto di analisi e interpretazione, giorno dopo giorno, a fare la differenza.
La stessa ambivalenza si riscontra nelle valutazioni delle attività di disinformazione condotte
durante la Seconda guerra mondiale. La disinformazione era l’altra faccia della medaglia
dell’intelligence. Il suo obiettivo era confondere il nemico circa le intenzioni e lo schieramento
delle proprie forze, in modo che, al momento di lanciare un’operazione a sorpresa, il nemico
precipitasse nel caos, massimizzando cosí l’impatto delle forze armate del contendente che aveva
condotto l’opera di disinformazione e riducendo i costi della battaglia. Nella guerra moderna, la
disinformazione può funzionare solo se si riesce a convincere l’intelligence del nemico che ciò
che è falso è vero, sostenendo la montatura per tutto il tempo necessario. Durante il secondo
conflitto mondiale, la disinformazione spaziò dal nascondere le principali operazioni strategiche
fino ai piú modesti programmi di mimetizzazione per proteggere basi militari e aeroporti e
rifilare autentiche fregature a ricognizioni aeree troppo indiscrete. Anche se occasionali attività
di disinformazione furono comuni in tutti i teatri della guerra, da ambo le parti, l’inganno venne
istituzionalizzato solo in due establishment militari, quello inglese e quello sovietico. L’attacco
sferrato a sorpresa contro l’Unione Sovietica nel giugno del 1941 e quello giapponese a Pearl
Harbor e nel Sud-est asiatico nel dicembre del 1941 furono quasi gli unici grandi tentativi di
disinformazione strategica montata dagli stati dell’Asse. Anche se non si trattò di vere sorprese.
Nonostante gli sforzi tedeschi per occultare l’imminente invasione, nel giugno del 1941
l’operazione «Barbarossa» era ben nota grazie alla vasta rete dello spionaggio sovietico, e fu solo
l’intransigente rifiuto di Stalin di affrontare la realtà che trasformò l’inizio dell’invasione in una
sorpresa. L’operazione dei giapponesi a Pearl Harbor venne nascosta grazie al quasi totale
silenzio radio della task force navale in avvicinamento alle Hawai’i, ma non fu compiuto alcuno
sforzo intenzionale per ingannare in anticipo l’esercito americano. In entrambi i casi, furono la
leadership sovietica e quella americana ad autoingannarsi.
Le attività di disinformazione degli inglesi divennero cosí diffuse all’interno dello sforzo bellico
britannico che alla fine meritarono un volume a sé stante nella storiografia ufficiale del
dopoguerra . Dopo qualche esordio piuttosto limitato, nel corso del conflitto si passò a grandi
168

obiettivi strategici. Le prime azioni ebbero un carattere principalmente difensivo, di fronte ai


probabili bombardamenti offensivi tedeschi e poi alla minaccia di un’invasione vera e propria
nell’estate del 1940. Già nel 1936, i capi di stato maggiore avevano istituito un Advisory
Committee on Camouflage, volto in primo luogo a consigliare come proteggere bersagli
vulnerabili e importanti dai bombardieri nemici. Il ministero della Home Security, attivato dopo
lo scoppio della guerra nel 1939, assorbí il compito del comitato con l’istituzione del Civil
Defence Camouflage Establishment . Gli addetti ai vari camuffamenti, molti dei quali reclutati
169

dal mondo dell’arte, dell’architettura, del cinema e del teatro, passarono giorni a mascherare
importanti fabbriche di produzione bellica o a dipingere di verde le strade ferrate affinché si
confondessero con la campagna circostante. La RAF creò una propria unità di disinformazione
sotto il direttore dei lavori del ministero dell’Aeronautica, il colonnello John Turner,
organizzando la costruzione di finti aeroporti che avrebbero attirato gli attacchi degli aerei
tedeschi; ne furono realizzati piú di un centinaio, completi di aerei e hangar fittizi, che attirarono
il doppio dei raid lanciati su quelli veri . Il regista Geoffrey de Barkas, che era tra gli addestrati
170

alle attività di mimetizzazione a uso delle varie forze armate, nel 1940 fu messo a capo di una
piccola unità di esperti e mandato in Nordafrica, dove, sotto il comando del generale Wavell,
l’attività di disinformazione britannica fu riconosciuta per la prima volta come un ramo effettivo
del settore operativo.
Wavell aveva osservato il successo avuto dalla disinformazione nei confronti dei turchi nel corso
della campagna in Palestina durante la Prima guerra mondiale ed era pienamente convinto del
suo valore come moltiplicatore di forza: «Ho sempre creduto che si debba fare tutto il possibile
per disorientare e fuorviare il proprio avversario» . A dicembre del 1940, persuase Churchill,
171

egli stesso fermamente convinto del valore dell’inganno, ad autorizzare una nuova unità
destinata al comando delle truppe in Medio Oriente, conosciuta come A Force e responsabile
della disinformazione in tutte le sue molteplici forme. Wavell nominò suo direttore l’esuberante
tenente colonnello Dudley Clarke. L’intento di Clarke era usare qualsiasi mezzo per fuorviare il
nemico ed essere cosí di aiuto alle operazioni, in primo luogo agenti, disinformazione via radio e
unità di mimetizzazione di Barkas. All’inizio i risultati furono contrastanti, ma Churchill si rivelò
abbastanza entusiasta da reclutare un ex ministro della Guerra, Oliver Stanley, e porlo
ufficialmente a capo di un centro di coordinamento delle attività di disinformazione a Londra.
Nel maggio del 1942, in seguito a un esplicito memorandum di Wavell sulle molte virtú dei
depistaggi, i capi di stato maggiore concordarono finalmente la creazione di un organismo
istituzionalizzato. Stanley fu sostituito dal tenente colonnello John Bevan a capo di quello che
viene ora chiamato London Controlling Section – ovvero l’organizzazione principale per la
pianificazione, la supervisione e il coordinamento delle operazioni di disinformazione globale
condotte dalla Gran Bretagna. Il suo compito era trovare i mezzi piú adatti a depistare e «fare
sprecare al nemico le sue risorse militari». Anche se le forze armate degli Stati Uniti
consideravano la disinformazione con molto scetticismo, decisero comunque di istituire
un’organizzazione corrispondente, il Joint Security Control (formato inizialmente da due soli
ufficiali), destinato a svolgere i medesimi compiti per l’esercito e la marina . La maggior parte
172

dell’attività iniziale venne incentrata sulla ricerca di possibili modi per sconfiggere le forze
dell’Asse nella campagna del deserto nordafricano. La natura del terreno arido presentava
particolari difficoltà di mimetizzazione, ma essa era comunque essenziale per proteggere le forze
alleate dagli attacchi e confondere il nemico. Enormi quantità di pittura color marroncino
ricoprirono le installazioni portuali e le piste dell’aviazione; le basi aeree furono camuffate da
aree abitative con un uso intelligente di zone verniciate e zone in ombra; con materiali
disponibili in loco furono progettati i «parasole», che trasformavano un carro armato visto
dall’alto in un camion – ben piú difficile si rivelò trasformare un camion in un carro armato, ma
si riuscí a ottenere ugualmente un buon risultato utilizzando dei graticci. Le schermature create
dagli Alleati riportarono un tale successo nello sviare le forze di ricognizione tedesche che
Barkas descrisse il suo lavoro in un opuscolo destinato all’addestramento, Concealment in the
Field (Occultamento sul campo), adottato come manuale operativo e stampato in piú di 40 000
copie .
173

I risultati ottenuti con l’attività di disinformazione erano sempre difficili da valutare, tanto che,
all’insaputa degli Alleati, i servizi segreti di Rommel avevano accesso sia ai messaggi
dell’addetto militare americano al Cairo sia al collegamento radio tra la Desert Air Force e l’VIII
Armata, garantendo una visione piú che completa delle intenzioni del nemico e dei suoi
schieramenti. La disinformazione entrò effettivamente in gioco al suo meglio solo con i
preparativi per la seconda battaglia di El Alamein nell’autunno del 1942, quando Rommel aveva
ormai perso entrambe le fonti di intelligence. Si trattò del piano di disinformazione di gran lunga
piú elaborato di tutta la guerra nel Mediterraneo, ritenuto indispensabile se si volevano tenere
lontani dal Cairo e dal Canale di Suez l’imbattibile Rommel e il suo alleato italiano. Con il nome
in codice Bertram, il piano prevedeva sei azioni separate, tutte progettate per persuadere il
nemico che il principale assalto alleato sarebbe stato sferrato sul settore meridionale del fronte,
mentre vi sarebbe stato in realtà un massiccio attacco di forze corazzate nel nord. La
mimetizzazione si rivelò essenziale per il successo. Nel nord, grandi scorte di petrolio,
vettovaglie e munizioni furono abilmente camuffate da parcheggi per camion; nel sud furono
realizzati dei depositi fasulli che, se visti dall’alto, sembravano assolutamente reali. I camion e i
carri armati veri erano stati parcheggiati a sud e spostati poi verso nord nottetempo in assoluto
silenzio radio, sostituiti da finte sagome negli spazi che avevano occupato. Nel nord, 360 pezzi di
artiglieria erano stati coperti in modo da sembrare camion. Un totale di 8400 veicoli, armamenti
e depositi fasulli furono infine realizzati per confermare al nemico che il piano di battaglia di
Montgomery era quello di attaccare nel sud. Dudley Clarke organizzò venticinque stazioni radio
fantasma in modo che le forze di ricognizione aerea tedesche e italiane avessero l’impressione
che la maggior parte delle truppe alleate era concentrata lí . Come qualsiasi operazione di
174

disinformazione, era un piano che sarebbe potuto andare storto, data la sua portata e complessità,
ma i tedeschi abboccarono e Rommel concentrò le forze corazzate nel posto sbagliato. La
battaglia successiva fu vinta solo di stretta misura, nonostante la schiacciante superiorità aerea
degli Alleati e carri armati e blindati ben piú numerosi. Il margine della vittoria fu assicurato in
questo caso dalla disinformazione. I comandanti tedeschi e italiani fatti prigionieri confermarono
che si aspettavano l’offensiva principale sul fianco meridionale e che avevano continuato a farlo
per diversi giorni a battaglia già iniziata, quando era ormai troppo tardi per salvare la situazione.
Il successo del piano Bertram potrebbe spiegare la decisione di ricorrere piú assiduamente alla
disinformazione nella strategia anglo-americana. Nell’estate del 1943, nell’ambito dei preparativi
a lungo termine di un’invasione della Francia l’anno seguente, i capi dello stato maggiore
britannico approvarono un piano di «copertura e camuffamento», l’operazione Cockade, allo
scopo di persuadere le forze armate tedesche del progetto di un’invasione oltre Manica prevista
per la fine dell’estate del 1943, trattenendo cosí le truppe del Reich in Occidente a tutto
vantaggio delle campagne alleate in Italia e Unione Sovietica. I comandanti americani non erano
entusiasti del piano, mentre i tedeschi, dal canto loro, non si lasciarono ingannare dai fragili
tentativi di impiegare agenti che facevano il doppio gioco per lanciare avvertimenti né si fecero
impressionare dalla limitata attività nei cieli e in mare, avviata con il nome in codice di
operazione Starkey e progettata per simulare i preparativi di un assalto . In questo e in molti altri
175

tentativi falliti di disinformazione durante la guerra, era l’assenza di un’operazione vera e propria
da mascherare a minare la credibilità di qualsiasi piano di copertura. Il totale fallimento di
Cockade, diretta dalla London Controlling Section, avrebbe potuto benissimo porre fine a
qualsiasi altra idea di tentare di ingannare il nemico nel 1944. Un secondo piano di
disinformazione, l’operazione Jael, venne ideato nel tentativo di convincere i tedeschi che nel
1944 il principale teatro strategico delle forze armate anglo-americane sarebbe stato il
Mediterraneo, integrato da un’offensiva di bombardieri anziché da un’invasione. Gli alti ufficiali
dell’esercito americano ritennero, giustamente, che la proposta non fosse affatto convincente, e il
piano Jael fu abbandonato . A luglio del 1943, venne studiato un altro piano, l’operazione
176

Torrent, connesso alla vera invasione programmata per l’anno seguente, per cercare di
confondere i tedeschi sulle reali intenzioni degli Alleati: mentre il grosso delle truppe avrebbe
invaso la Normandia, vi sarebbe stato al Pas de Calais un finto diversivo di portata limitata, in
tutto poche divisioni, allo scopo di tenere lontani i rinforzi dal luogo dell’attacco principale. Ben
presto, anche questo piano fallí, perché la finta manovra che era stata pianificata venne
considerata troppo esigua per riuscire a distogliere le truppe tedesche per il tempo necessario .
177

Nel caso dell’invasione, la disinformazione sopravvisse come elemento nella strategia alleata
grazie a Churchill, che dopo la Conferenza di Teheran, in cui era stata confermata l’invasione
della Normandia, ritornò nuovamente all’idea che il successo dell’operazione dipendeva dal
riuscire a fuorviare il nemico, in modo che le sue forze fossero tenute lontane dalla Francia
settentrionale – questo rifletteva probabilmente lo scetticismo di Churchill in merito all’esito
positivo delle operazioni anfibie come tali. Bevan e la London Controlling Station ricevettero
l’incarico di montare un nuovo piano di disinformazione, l’operazione Bodyguard, per cercare di
persuadere i tedeschi che nel 1944 le principali operazioni sarebbero state dirette contro i
Balcani, l’Italia settentrionale e la Scandinavia; un’invasione della Francia doveva essere rinviata
agli ultimi mesi dell’anno, al piú presto. Al pari di Torrent e Cockade, anche il piano Bodyguard
fallí in gran parte nel suo scopo. Verso la fine del 1943, l’alto comando tedesco e lo stesso Hitler
avevano già capito che il considerevole accumulo di forze nell’arcipelago britannico era mirato a
un’invasione della Francia, probabile a un certo punto della primavera o estate successiva. Una
possibile minaccia per la Norvegia o i Balcani non era affatto esclusa, per cui venne mantenuto
in entrambe le aree un numero sostanziale di truppe, anche se nei calcoli tedeschi circa le
intenzioni degli Alleati tali aree restavano sempre in secondo piano.
Il piano di disinformazione per l’invasione della Normandia venne realizzato alla fine grazie al
personale di stanza nel teatro del Mediterraneo e dotato di reale esperienza operativa nell’ambito
del depistaggio. Il vice di Dudley Clarke, il colonnello Noel Wild, fu richiamato a Londra nel
dicembre del 1943 per assumere la direzione delle attività di disinformazione preso il quartier
generale di Eisenhower, da poco divenuto il comandante supremo. La nomina di Montgomery al
comando del XXI Gruppo di armata completò la transizione in vista dell’invasione. Eisenhower
e Montgomery erano entrambi favorevoli al depistaggio e ne avevano entrambi tratto vantaggio.
Noel Wild e la divisione Special Means iniziarono a lavorare con gli esperti in depistaggio del
XXI Gruppo d’armata, noto come R Group e guidato dal tenente colonnello David Strangeways
nella realizzazione di un piano di disinformazione per la vera operazione, dal nome in codice
Fortitude South. Il piano Bodyguard venne affiancato all’operazione Fortitude North, come
continuazione dell’idea elaborata nel 1943 che una minaccia alla Norvegia e ai giacimenti di
minerale di ferro della Svezia potesse apparire un’operazione plausibile; anche questo, come nei
casi precedenti, ebbe tuttavia scarso effetto sulla pianificazione tedesca, poiché in Norvegia
restavano comunque delle forze significative e non sembrava esserci alcuna necessità di
rafforzarle.
Lo stratagemma centrale era rappresentato da Fortitude South, progettato per persuadere la
leadership militare e politica del Reich che l’invasione della Normandia era solo il preludio a una
piú grande forza di attacco lanciata attraverso il punto piú stretto della Manica, in direzione di
Pas de Calais. Come nel caso di Bertram a El Alamein, l’obiettivo era simulare un sostanziale
pericolo da un’area mascherando la portata e la tempistica della vera minaccia da un’altra zona.
Nell’Inghilterra sud-orientale venne creato il First United States Army Group (FUSAG), del tutto
immaginario, con un vero comandante – il generale Patton –, comunicazioni radio fantasma e
attrezzature fasulle. Le file di carri armati e cannoni finti nell’Inghilterra orientale attingevano
all’esperienza fatta nel deserto nordafricano, a eccezione dei mezzi da sbarco fittizi che, essendo
troppo fragili, si arenavano o rompevano con molta facilità (anche se le ricognizioni aeree
tedesche, limitate, non se ne accorsero mai). Il grande vantaggio del depistaggio, com’era
avvenuto a El Alamein, consisteva nel mantenere alcune forze reali nell’Inghilterra sud-orientale
fino a poco prima del loro trasferimento nelle regioni sud-occidentali nell’imminenza
dell’invasione, sostituendole poi con vere forze di riserva mescolate a divisioni che esistevano
soltanto sulla carta. L’inganno funzionò fino all’ultimo dettaglio e si riuscí a mantenere la
massima sicurezza.
L’uso di agenti doppiogiochisti consolidò ulteriormente le informazioni a cui il SIGINT e le
ricognizioni aeree tedesche erano in grado di accedere. Nel 1942, l’organismo per la sicurezza
interna britannica, l’MI5, aveva catturato quasi tutte le spie tedesche presenti in Gran Bretagna e
ne aveva trasformate molte in agenti che lavoravano per gli Alleati. In occasione del piano
Fortitude South, l’agente degli Alleati dal nome in codice Garbo (la spia spagnola Juan Pujol
García) usò la sua rete di agenti fasulli per fornire all’Abwehr (il controspionaggio tedesco)
informazioni di intelligence di alto livello. Tra gennaio e giugno del 1944 fece pervenire 500
messaggi appositamente ideati per inculcare nella mente dei suoi controllori tedeschi l’idea che
gli Alleati stavano ammassando forze nell’Inghilterra sud-orientale e in Scozia e, seppure con
minor successo, l’idea che l’invasione sarebbe avvenuta piú avanti nel corso dell’anno. L’aspetto
piú eclatante della storia è fino a che punto i servizi segreti tedeschi credettero per anni che la
loro controparte britannica non fosse in grado di rintracciare ed eliminare le spie nemiche mentre
quelle degli Alleati nell’Europa occupata venivano regolarmente scoperte e catturate. Le
informazioni degli agenti dovevano ancora arrivare ai comandi operativi, ma nel dopoguerra si
scoprí che dei 208 messaggi ufficialmente registrati nei rapporti dell’OKW sugli schieramenti di
truppe in Gran Bretagna ben 188 provenivano da agenti che facevano il doppio gioco . Il 178
problema dell’intelligence militare tedesca era che cosa fare con l’enorme quantità di materiali
disponibili mentre l’invasione si avvicinava. La Fremde Heere West, la sezione dei servizi
segreti del fronte occidentale, venne completamente fuorviata circa le dimensioni della forza
radunata in Gran Bretagna. Grazie all’inganno del FUSAG, le forze alleate furono sopravvalutate
del 50 per cento, rendendo cosí probabile che fossero previste almeno due operazioni distinte,
una in Normandia e un’altra, piú grande, contro il Pas de Calais. Entrambe apparivano
assolutamente plausibili, per questo risultava cosí difficile a Hitler e ai suoi comandanti avere la
certezza di quale fosse finta e quale vera, anche se le valutazioni fatte ad aprile sembravano a
favore della Normandia o della Bretagna. A metà maggio, tuttavia, un aumento di informazioni
sulle forze del FUSAG sembrò invece suggerire che l’invasione dall’Inghilterra sud-orientale
appariva la piú probabile, con una prima operazione in Normandia, ma di secondo piano. Le
decriptazioni di Ultra e MAGIC permisero ai depistatori di valutare fino a che punto gli
stratagemmi stessero funzionando e alla fine di maggio divenne evidente che, partendo da Hitler
fino al resto della catena di comando, a essere presa molto seriamente era la minaccia al Pas de
Calais. Il 1° giugno, la decriptazione di un messaggio inviato a Tokyo dall’ambasciatore
giapponese a Berlino, Ōshima Hiroshi, sulla base di una recente conversazione con Hitler,
confermò che era atteso un attacco diversivo in Normandia, a cui sarebbe seguita l’apertura di un
«secondo fronte di guerra senza quartiere attraverso lo stretto di Dover» .179

Anche i tempi dell’invasione rimasero un mistero, nonostante l’intelligence dell’esercito tedesco


si fosse resa conto che gli sforzi compiuti dagli agenti doppiogiochisti per suggerire un rinvio
dell’operazione alla fine dell’anno non erano che un «intenzionale camuffamento delle vere
intenzioni nemiche» . La data effettiva, tuttavia, sfuggí ai servizi segreti del Reich. Tra aprile e
180

giugno, le forze tedesche dispiegate lungo la costa francese avevano ricevuto ben dieci allarmi e
da allora erano meno inclini a prendere sul serio qualsiasi grido «al lupo, al lupo!» Un
promemoria redatto per il comandante in capo del fronte occidentale, Von Rundstedt, e inviato il
5 giugno, poche ore prima che l’esercito invasore comparisse al largo della costa, concludeva che
un’imminente invasione «non sembra essere ancora indicata» . L’elemento fondamentale
181

dell’operazione di depistaggio Fortitude South, tuttavia, prevedeva la finzione di una seconda


invasione, da effettuarsi in un momento imprecisato dopo la Normandia da parte del fantomatico
raggruppamento dell’esercito americano. I timori di un successivo sbarco non impedivano a
Rommel di spostare rapidamente in Normandia alcune divisioni corazzate, ma l’alto comando
tedesco non era disposto a correre il rischio di lasciare sguarnita la Francia nord-orientale. L’uso
continuo della disinformazione via radio, insieme con altre informazioni apparentemente
attendibili fornite dagli agenti doppiogiochisti, convinse sempre piú profondamente i comandanti
tedeschi del pericolo rappresentato dal FUSAG. Un guazzabuglio di informazioni di intelligence,
non tutte provenienti da agenti doppiogiochisti, faceva pensare che il FUSAG fosse in attesa che
la testa di ponte in Normandia attirasse le riserve tedesche prima di lanciare una seconda
operazione contro la costa nord-orientale della Francia. Date le informazioni disponibili, si
trattava di uno scenario plausibile, ma costrinse i tedeschi a mantenere circa ventidue divisioni al
Pas de Calais fino a luglio, quando i comandanti della Wehrmacht decisero infine che il successo
sul fronte della Normandia aveva spinto gli Alleati a cambiare idea e a coinvolgere il FUSAG
nella campagna in corso anziché aprire un secondo fronte, e credettero quindi fino in fondo
all’esistenza di quel raggruppamento fantasma. Ad agosto, Hitler ordinò finalmente alle forze di
stanza al Pas de Calais di unirsi alla battaglia in Normandia, ma era ormai troppo tardi . 182

Nonostante i molti rischi che la copertura alleata potesse saltare, l’azione di depistaggio funzionò
fino alla fine, dato che non faceva che confermare nella mente del nemico un calcolo strategico
che appariva del tutto razionale. Di conseguenza, la piú elaborata tra tutte le operazioni di
disinformazione condotte dagli Alleati finí per moltiplicare la loro forza dividendo nel contempo
quella del nemico. Il risultato portò a ridurre l’elevato rischio di un’operazione in cui gli Alleati
non potevano permettersi di fallire.
Mentre in Occidente era in corso Fortitude South, un secondo grande piano di disinformazione
fu lanciato sul fronte orientale dalle forze sovietiche contro la Heeresgruppe Mitte in Bielorussia.
Per dimensioni, l’operazione era pari a Overlord ed ebbe effetti devastanti sui tedeschi che si
trovavano in prima linea in territorio sovietico. Come Fortitude, il piano di depistaggio
dell’operazione Bagration, lanciata il 22/23 giugno 1944, rappresentava il momento conclusivo
di un lungo apprendistato nella piena padronanza della disinformazione strategica e operativa.
L’importanza centrale della maskirovka (depistaggio o occultamento) e della vnezapnost’
(repentinità, sorpresa) era stata riconosciuta dalla dottrina militare sovietica già negli anni Venti.
I successivi regolamenti di campo dell’Armata Rossa enfatizzavano sempre piú i vantaggi
dell’assoluta segretezza: «L’elemento sorpresa ha un effetto sbalorditivo sul nemico». Lo scopo
era sempre quello di nascondere al nemico le vere intenzioni mascherando le concentrazioni di
forza e lanciare poi un attacco inaspettato, che, secondo successive regole di campo elaborate
durate la guerra, avrebbe «lasciato attonito il nemico, paralizzato la sua volontà, privandolo della
possibilità di opporre resistenza in modo organizzato» . Poteva dunque sembrare ironico che le
183

stesse forze sovietiche fossero state colte alla sprovvista nel giugno del 1941 e che la loro
resistenza organizzata fosse rimasta temporaneamente confusa. Nel settembre del 1941, la
Stavka, lo stato maggiore sovietico, insistette che la maskirovka doveva essere praticata a ogni
livello – strategico, operativo e tattico – e inserita in quasi tutte le successive 140 operazioni
condotte sul fronte. Il camuffamento divenne una seconda natura per i soldati sovietici, che si
dimostrarono abilissimi a livello tattico negli occultamenti e nelle imboscate. Una piú ampia
azione di disinformazione a livello operativo, tuttavia, includeva cauti spostamenti di truppe
durante la notte, rigorosa sicurezza, silenzio radio assoluto (meno difficile data l’iniziale carenza
di apparecchiature) e azioni condotte su terreni del tutto inaspettati. Alla fine del 1941, quando
l’esercito tedesco era compostamente schierato davanti a Mosca, all’intelligence tedesca era già
sfuggita la presenza di tre intere armate sovietiche. Nel 1942, ciascun quartier generale operativo
possedeva uno staff specializzato nel depistaggio per coordinare la maskirovka con ogni
pianificazione tattica, nella speranza che l’occultamento potesse aiutare l’Armata Rossa a
ritrovare il proprio equilibrio e contrastare l’avanzata delle truppe tedesche.
Il successo di tali cambiamenti fu evidente nel novembre del 1942 con l’operazione Uran,
studiata per tagliare i rinforzi alle truppe tedesche a Stalingrado, oppure nella battaglia di Kursk
otto mesi dopo o nella sbalorditiva sconfitta della Heeresgruppe Mitte nell’estate del 1944.
Affinché Uran avesse successo, era essenziale che l’occultamento fosse il piú completo
possibile. A comandanti, ufficiali e truppe che erano stati schierati nella posizione da cui lanciare
la controffensiva contro i lunghi fianchi delle forze dell’Asse non era stato neppure detto perché
si trovassero esattamente in quel luogo. Stalin aveva insistito affinché gli ordini fossero
esclusivamente verbali, senza mappe o altro materiale stampato. Le misure per la sicurezza delle
comunicazioni radio furono inasprite con la minaccia di severe punizioni e ai soldati della
fanteria fu ordinato di non aprire il fuoco contro eventuali aerei nemici, come erano orientati a
fare . A sud e a nord del corridoio tedesco verso Stalingrado, furono schierati in posizione,
184

rimanendo totalmente invisibili, 300 000 uomini, 1000 carri armati e 5000 pezzi di artiglieria e
mortai. Le forze dell’Asse – ungheresi, italiane e romene – che presidiavano la maggior parte del
corridoio vennero a conoscenza di alcuni di quegli spostamenti, ma furono rassicurate dal
generale Reinhard Gehlen, capo della divisione dell’intelligence della Fremde Heere Ost,
l’Armata straniera dell’Est, che non c’era da aspettarsi alcun attacco di rilievo. Il capo di stato
maggiore, il generale Kurt Zeitzler, concluse che l’apparente mancanza di ulteriori riserve
sovietiche rendeva l’Armata Rossa incapace di lanciare «un’offensiva su larga scala». Il giorno
precedente l’inizio dell’operazione Uran, il 18 novembre 1942, il rapporto di Gehlen circa una
minaccia all’esercito tedesco era vago ed evasivo . L’operazione sovietica sfruttò al massimo
185

l’effetto sorpresa. Allorché gli eserciti dell’Asse riuscirono a riprendersi, era ormai troppo tardi.
Le armate tedesche a Stalingrado erano state tagliate fuori da rinforzi e rifornimenti e ogni sforzo
per salvarle era destinato a fallire.
Per la battaglia di Kursk nel luglio del 1943 venne impiegato l’intero repertorio della
maskirovka. Per la zona difensiva attorno al saliente venne fatto ogni sforzo per confondere le
ricognizioni aeree tedesche, costruendo numerose postazioni di artiglieria, parchi di carri armati
e centri di comando del tutto finti e impiegando nel contempo sofisticati metodi di camuffamento
per tutto ciò che era invece reale, compresi i campi minati, mascherati nel terreno con tale perizia
che in alcuni casi le forze corazzate tedesche riuscirono a individuarli soltanto quando videro
saltare in aria il primo carro armato. Comunicazioni radio fasulle contribuirono a fare in modo
che i tedeschi fraintendessero del tutto le forze e gli spiegamenti dei sovietici mentre gli altri
messaggi radio, rigidamente disciplinati, mantenevano nascoste le dimensioni e le posizioni reali
delle forze sovietiche. Finti aeroporti furono realizzati in modo cosí impeccabile che su
venticinque attacchi sferrati dall’aviazione tedesca contro basi aeree sovietiche prima del lancio
dell’operazione solo tre colpirono il vero obiettivo . L’elemento chiave del depistaggio, tuttavia,
186

era la concentrazione di grandi forze di riserva dietro il saliente di Kursk, camuffate come
elementi di difesa ma pronte in realtà a lanciare una grande controffensiva non appena le forze
tedesche fossero state smussate dalle azioni di difesa. Anche in questo caso, era stato ordinato un
totale occultamento allo scopo di mascherare i veri punti di forza e trasmettere al nemico l’idea
che vi fossero soltanto delle riserve limitate e destinate a potenziare i difensori lungo il saliente.
L’intelligence tedesca non riuscí del tutto a prevedere la repentina controffensiva verso Orël, a
nord del saliente, e verso Belgorod e Char’kov a sud. Un elaborato depistaggio venne ancora
utilizzato per celare l’avanzata verso le posizioni da cui lanciare la nuova offensiva, mentre
alcuni attacchi fasulli piú a sud riuscivano a deviare le riserve dei mezzi corazzati tedeschi. Il
successo della vnezapnost’ fu confermato nella grande offensiva di agosto del 1943, che entro
novembre avrebbe respinto fino al fiume Dnepr le forze tedesche che occupavano il fronte
centrale della Russia.
L’azione di depistaggio dell’operazione Bagration, nel giugno del 1944, attinse a tutte queste
precedenti esperienze. Il regolamento di campo dell’Armata Rossa del 1944 definiva
l’occultamento e l’inganno come «forme obbligatorie di supporto al combattimento, in qualsiasi
azione e operazione» –, elementi che integravano pertanto l’arte della guerra operativa sovietica.
Solo cinque persone erano pienamente informate dell’operazione – Žukov, Vasil’evskij e altri tre
alti ufficiali –, con l’assoluto divieto di menzionare la parola Bagration per telefono, lettera o
telegrafo. A livello strategico, alla parte tedesca furono offerte tutte le indicazioni affinché si
pensasse che le principali azioni offensive sarebbero state condotte a sud, contro gli stati
balcanici dell’Asse, e a nord, lungo la costa del Baltico. L’intelligence dell’esercito tedesco
aveva già ipotizzato che il peso principale della campagna estiva si sarebbe avvertito nel sud e, di
conseguenza, cadde facilmente vittima dell’inganno. Ai comandi della Heeresgruppe Mitte,
sparsi per la Bielorussia, dove era appunto prevista la principale offensiva sovietica, l’Abwehr
comunicò che non c’era da aspettarsi alcun attacco in grande stile . L’inganno richiese di
187

dispiegare segretamente sul fronte bielorusso nove armate e undici corpi di carri armati, veicoli
blindati e cavalleria, nonché di occultare 10 000 pezzi di artiglieria, 300 000 tonnellate di
carburante e mezzo milione di lattine di razioni. A sud, furono realizzati pezzi di artiglieria, carri
armati e aeroporti fasulli, protetti da una vera contraerea e da pattuglie di caccia per aggiungere
maggiore realismo al depistaggio. La segretezza si rivelò un’impresa ardua. Alle truppe in prima
linea venne ordinato di mantenere le «normali» apparenze, sparando come al solito e sostenendo
un regolare traffico radio. Tutte le nuove forze che si stavano spostando dovevano invece
rispettare l’assoluto silenzio radio e muoversi solo di notte, non erano autorizzate a unirsi a
eventuali incursioni di ricognizione per evitare catture da parte del nemico né vennero informate
dei piani militari (nel caso vi fossero dei disertori). Gli esperti del genio riuscirono a nascondere
la costruzione di passerelle di legno attraverso i terreni paludosi a nord degli acquitrini del fiume
Pripjat’, sicché le forze corazzate sovietiche, come i carri armati di Guderian che erano usciti
dalla foresta delle Ardenne nella battaglia di Francia, si sarebbero inaspettatamente riversate
grazie a quelle passerelle sui difensori tedeschi terrorizzati . Nonostante alcuni comandi locali
188

avessero fatto presente importanti preparativi offensivi in corso, il quartier generale dell’esercito
riteneva che si trattasse di pura finzione, né si prevedeva l’arrivo imminente di rinforzi alla
Heeresgruppe Mitte. Nella notte tra il 22 e il 23 giugno si aprí l’offensiva, e in poche settimane
la Bielorussia fu sgomberata dalle truppe della Wehrmacht e le unità dell’Armata Rossa
proseguirono inarrestabili fino alle rive del fiume Vistola davanti a Varsavia, infliggendo ai
tedeschi una delle peggiori sconfitte di tutta la guerra.
Anche se il semplice fatto di includere un depistaggio nelle operazioni sovietiche non era di per
sé una garanzia di successo, che si basava piuttosto su settimane e settimane di estenuanti
combattimenti, in tutte le principali operazioni condotte contro le forze tedesche l’inganno
raggiunse lo scopo di disorientare sufficientemente il nemico e facilitare il compito delle forze di
terra e dell’aria. Qualora fosse necessaria una prova della sua utilità, questa è facilmente fornita
dall’ultima campagna offensiva dei sovietici contro l’esercito giapponese del Kwantung in
Manciuria. Le forze giapponesi non erano ancora state oggetto di vaste operazioni di
disinformazione. I comandanti americani non erano particolarmente attratti dal depistaggio come
elemento strategico, per altro identificato con la subdola operazione messa in atto dai giapponesi
nel dicembre del 1941. Il Joint Security Control, istituito per affiancare la London Controlling
Section britannica in Europa, aveva difficoltà a persuadere i comandanti che si trovavano nella
regione del Pacifico a prendere sul serio la possibilità del depistaggio. Alla fine del 1943, agli
ufficiali del Joint Security Control venne data istruzione di proporre eventuali attività di
disinformazione per i piani operativi americani, ma riuscirono soltanto a provocare il
risentimento dei comandanti di campo. Le poche operazioni di depistaggio – Wedlock, Husband,
Bambino, Valentine e Bluebird – riportarono scarsi risultati, principalmente perché l’intelligence
giapponese non era nemmeno riuscita a rilevare o reagire a quelle che erano operazioni del tutto
fittizie. Il rafforzamento delle forze giapponesi nelle isole Curili settentrionali nel 1944 e a
Taiwan nel 1945 fu quasi certamente una mossa preventiva che l’esercito giapponese aveva
ritenuto necessaria, anziché un diretto risultato delle operazioni di depistaggio Wedlock (una
finta invasione dalle isole Aleutine) o Bluebird (un finto sbarco a Taiwan e sulla costa della Cina
meridionale) . I tentativi degli inglesi di utilizzare come agenti doppiogiochisti le spie
189
giapponesi catturate in India fallirono in gran parte perché gli agenti avevano solo contatti
intermittenti con l’intelligence nipponica, né c’era modo di sapere se la disinformazione avesse
effettivamente influenzato o meno le operazioni dei giapponesi .190

L’offensiva in Manciuria, al contrario, fu un modello esemplare di maskirovka sovietica: ai


giapponesi non sfuggirono gli spostamenti delle armate sovietiche verso est, ma non ne
compresero la portata. I convogli ferroviari viaggiavano solo di notte e le linee ferroviarie piú
vicine alla Manciuria erano state coperte con tunnel improvvisati al fine di occultare il traffico
sottostante. Una volta sul posto, le forze sovietiche usarono l’intero armamentario della
mimetizzazione e dell’occultamento. L’esercito del Kwantung sottovalutò la forza sovietica di
circa la metà, senza riuscire ad anticipare la direzione e i tempi dell’attacco (l’Armata Rossa
aveva affrontato un terreno che il nemico considerava impraticabile ai mezzi corazzati). Benché
fosse chiaro che le truppe sovietiche intendevano lanciare un’invasione, le valutazioni fatte
suggerivano che l’Armata Rossa sarebbe stata pronta solo nel tardo autunno, se non addirittura
nella primavera del 1946. L’attacco fu pertanto sferrato in modo del tutto inatteso e le forze
giapponesi vennero scardinate dal rapido dispiegamento dei sovietici e dalla loro capacità di
penetrazione. Una campagna destinata a durare trenta giorni fu completata in quindici con
l’annientamento della piú grande concentrazione di soldati del Giappone: quell’Armata del
Kwantung, forte di milione di uomini, che aveva iniziato le ostilità quattordici anni prima, nel
1931 .
191

Vi sono solide ragioni per sostenere che i depistaggi accuratamente pianificati e orchestrati
svolsero un ruolo determinante nell’assicurare agli Alleati delle vittorie che avrebbero potuto
altrimenti comportare uno sforzo bellico piú lungo e maggiori perdite. Non c’è dubbio che nelle
battaglie di El Alamein, Stalingrado e Kursk e negli attacchi in Normandia, Bielorussia e
Manciuria la disinformazione si rivelò un autentico moltiplicatore di forza, seppure anche altri
fattori si dimostrarono essenziali per la vittoria. In Gran Bretagna e Unione Sovietica, una serie
di grandi sconfitte aveva reso imperativo il reperimento di modi che garantissero un vantaggio, e
i depistaggi furono senz’altro uno di questi. La disinformazione funzionò anche grazie alla
superiorità di cui godeva l’intelligence alleata e alla carenza di corrette valutazioni da parte dei
servizi segreti tedeschi e giapponesi. Detto questo, la misura in cui sia l’intelligence sia la
disinformazione contribuirono a determinare l’esito di svariate operazioni rimane per gli storici
una questione meno definita di quanto non sia invece l’operato delle forze corazzate,
dell’aviazione, della radio, del radar o degli assalti anfibi.
Vincitori e sconfitti: la curva di apprendimento durante la guerra.
L’espressione «curva di apprendimento» nacque contemporaneamente alla crisi del tempo di
guerra, fu coniata la prima volta nel 1936 e applicata durante il conflitto alle valutazioni dello
sviluppo produttivo della cantieristica americana. Seppure intesa come un mezzo per misurare la
rapidità con cui dirigenti e forza lavoro apprendevano come ridurre le ore impiegate a realizzare
un’unità di produzione, essa appare altresí singolarmente appropriata come metafora del modo in
cui durante la guerra le forze armate seppero migliorare la loro capacità di combattimento. La
teoria postula due tipi di apprendimento: organizzativo e lavorativo. L’aspetto manageriale
risulta di particolare importanza perché sono i dirigenti che possono introdurre innovazioni
tecnologiche e tenere d’occhio i parametri di rendimento per capire dove è necessario porre dei
rimedi; la forza lavoro, dal canto suo, si trova a doversi adattare a condizioni e attrezzature non
familiari e imparare a padroneggiarle . Questo è esattamente ciò che fecero le forze armate
192

durante la guerra, seppure non sempre in modo uniforme o con i migliori risultati. I quadri
militari dovettero valutare carenze, rimediare a tattiche infruttuose e promuovere modelli
tecnologici e organizzativi di carattere innovativo, mentre il soldato semplice, il marinaio e
l’aviatore divennero piú abili grazie all’addestramento e, con l’indispensabile aiuto tecnico, piú
efficienti in combattimento. Se intendiamo valutare i vincitori e i vinti in combattimento durante
la guerra, la capacità di apprendimento e adattamento si rivelò fondamentale.
La curva di apprendimento implica tuttavia un certo tempo, necessario per valutare i risultati,
individuare i correttivi e addestrare la forza lavoro. Per gli Alleati, dopo i disastri iniziali, si
rivelò cruciale disporre di tempo sufficiente per capire che cosa servisse per invertire le sorti del
conflitto. Anche se tutti e tre i principali Alleati subirono all’inizio una serie di sconfitte, le
potenze dell’Asse non furono mai in grado di rendere la loro potenza militare capace di imporre
una rapida e decisiva sconfitta, come avevano fatto i tedeschi in Francia nel 1940. La Germania e
l’Italia non potevano invadere le isole britanniche ed erano tenute a bada in Nordafrica; il
Giappone non poteva invadere né gli Stati Uniti né la Gran Bretagna; l’Unione Sovietica, inoltre,
si sarebbe rivelata un’entità geografica troppo smisurata per poterla inghiottire in un solo
boccone. Gli stati dell’Asse avevano tutti piú spazio che tempo, e fu proprio lo spazio a rallentare
la loro avanzata e a fermarli nel 1942. Nello stesso anno, gli Alleati non erano certo prossimi a
invadere il Giappone, la Germania o l’Italia, ma avevano ora dalla loro parte il tempo e la portata
globale per capire come riorganizzare e migliorare la propria capacità militare, in modo da poter
pensare all’invasione negli ultimi due anni di guerra. I loro establishment militari divennero ciò
che il teorico dell’organizzazione Trent Hone ha descritto come «sistemi adattivi complessi», in
cui era possibile elaborare la curva di apprendimento . 193

Era altresí essenziale che le potenze alleate capissero quanto fosse necessario imparare e
riformare e che potessero sviluppare in tal senso i necessari meccanismi istituzionali. Il processo
di valutazione e apprendimento si rivelò fondamentale per la sopravvivenza sovietica dopo le
catastrofiche perdite di materiali ed esseri umani nel 1941. L’anno seguente, lo stato maggiore
dell’esercito inaugurò una revisione capillare di ciò che era andato storto e di ciò che si doveva
imparare, attingendo sostanzialmente alla pratica tedesca. A questo seguirono miglioramenti di
vasta portata nelle comunicazioni e nella raccolta di informazioni da parte dell’intelligence,
insieme con una radicale riorganizzazione a livello sia operativo sia tattico delle forze corazzate,
delle divisioni di fanteria e delle forze aeree . Gli effetti di quella trasformazione furono
194

profondi, come avrebbero scoperto a loro spese i comandanti tedeschi. La potenza dell’esercito e
della marina della Gran Bretagna migliorò con una sostanziale riforma organizzativa che portò
allo sviluppo di un esercito in gran parte meccanizzato, di un’efficace forza aerea tattica
(praticamente assente nel 1940) e alla capacità di organizzare grandi operazioni anfibie dopo il
disastro di Dieppe. La riforma fu perorata in molti casi da commissioni incaricate di trarre
insegnamento da quelle lezioni – per esempio il Bartholomew Committee sulle conseguenze di
Dunkirk, il «rapporto Woodall» in merito alla collaborazione tra forze di terra e forze dell’aria, il
Godwin-Austen Committee sulle comunicazioni –, ma soprattutto dal lungo elenco di umilianti
fallimenti fino alla prima vittoria a El Alamein e oltre . Inoltre, anche se le forze di terra
195

britanniche continuarono a fare affidamento su un fuoco di artiglieria pesante e accurato,


affiancato da un ampio supporto aereo, esse divennero tatticamente piú abili e meno ostacolate
da strutture di comando dall’alto in basso di quanto fossero state nei primi anni di guerra. Le
Briefs Notes on the Conduct of Battle for Senior Officers (Brevi note sulla conduzione della
battaglia a uso degli ufficiali anziani), scritte e fatte circolare da Montgomery nel dicembre del
1942, riconoscevano ai comandanti subordinati una libertà di manovra maggiore nel portare a
termine un compito particolare, avvicinandosi al famoso concetto tedesco di Auftragstaktik
(comando decentralizzato legato allo svolgimento di un particolare compito tattico) rispetto a
quanto vorrebbe ammettere la gran parte dei critici moderni dell’esercito britannico .196

Alle forze armate degli Stati Uniti non restava altro che iniziare a imparare. L’esercito e
l’aviazione militare degli Stati Uniti, di dimensioni esigue, tecnicamente arretrati e con servizi di
intelligence di bassa qualità, affrontarono la formidabile impresa di trasformare una potenza
bellica frettolosamente assemblata in un’organizzazione militare di professionisti. La marina
statunitense era piú grande e disponeva di migliori risorse, ma aveva comunque molto da
imparare. Le prime campagne a Guadalcanal e nel Nordafrica avevano messo in luce numerose
carenze e imposto una rapida rivalutazione di ciò che era necessario. Dopo il disastro sfiorato
nella battaglia del passo di Kasserine in Tunisia, il tenente generale Lesley McNair, comandante
delle Army Ground Forces, richiese un esercito «basato sull’addestramento e soggetto a un
costante apprendimento». Sul campo, veniva rivolta la massima attenzione alla ricezione e
successiva divulgazione di informazioni tattiche sul nemico e alla corrispondente reazione. I
Combat Intelligence Centers raccoglievano le informazioni dalla battaglia in corso e inviavano
compendi e consigli alle unità che affrontavano o stavano per affrontare il nemico. Nel Pacifico
(e in Europa), la cultura delle rigide istruzioni di comando dall’alto venne gradualmente
trasformata per consentire agli ufficiali delle unità piú piccole una certa discrezionalità
nell’affrontare la situazione tattica delle difese dei giapponesi, pronti a combattere fino alla
morte . In Europa, una centralizzazione del comando e del controllo non era sempre possibile. In
197

Italia, nel giugno del 1944, il II Corpo della V Armata ricevette istruzioni in base alle quali, in
quelle circostanze, «i comandanti devono agire sotto la propria responsabilità, di propria
iniziativa e secondo il loro giudizio. L’inattività è imperdonabile» . La trasformazione della
198

potenza di combattimento americana e britannica fu onnicomprensiva, dall’organizzazione di un


esercito meccanizzato, comunicazioni efficienti, migliori servizi di intelligence, considerevole
miglioramento di dottrina e pratica dell’assalto con mezzi anfibi a una potenza aerea con
funzioni tattiche e aggressive – in ciascun caso, un passo essenziale lungo la curva di
apprendimento.
Anche le forze dell’Asse ebbero da imparare, migliorando gli investimenti nelle risorse militari e
osservando da vicino il nemico. L’entusiasmo delle prime vittorie, tuttavia, smorzò la ricerca di
cambiamenti piú trasformativi. Per gran parte della guerra (e del dopoguerra), i comandanti
tedeschi considerarono generalmente inferiori le qualità militari delle forze che affrontavano su
tutti i fronti. Nel 1942, l’Afrika Korps aveva rilevato «lentezza e goffaggine del nemico,
mancanza di iniziativa e pianificazione tattica», e questo poche settimane prima della sua quasi
totale sconfitta a El Alamein . Sul fronte orientale, i primi insuccessi dei sovietici determinarono
199

la visione tedesca dell’avversario: «Ogni soldato tedesco», scriveva il generale Hermann Geyer
nell’autunno del 1941, «ha il diritto di sentirsi superiore a quello russo» . Allorché opinioni del
200

genere iniziarono a mutare, era troppo tardi. La combinazione di forze corazzate e aviazione
garantí ottimi frutti all’esercito tedesco fino a Stalingrado, quando la situazione iniziò a
ristagnare; all’inizio della guerra, la tecnologia tedesca della radio e del radar era piú avanzata
rispetto alla pratica degli Alleati, ma il primato venne perso nel 1943; la guerra sottomarina
tedesca riecheggiava quella della Grande Guerra, e si concluse con lo stesso fallimento
definitivo; il successo dell’attacco a sorpresa contro la Francia nel 1940, o del lancio
dell’operazione «Barbarossa», non ebbe piú a ripetersi. Le forze giapponesi conobbero un esito
analogo. Durante i combattimenti contro le forze cinesi, male equipaggiate, l’alto comando
giapponese aveva avvertito scarse pressioni in favore di una riforma; alle operazioni anfibie si
dovette il successo giapponese nel 1941-42, svanito tuttavia non appena il perimetro del Pacifico
fu reso sicuro; la resa degli Alleati all’inizio del 1942, infine, aveva generato una visione del
tutto sprezzante del nemico fra truppe pronte a morire piuttosto che arrendersi.
Viceversa, nei primi anni di guerra, i moltiplicatori di forza utilizzati dagli Alleati riflettevano la
debolezza della loro efficacia militare e l’assoluta necessità di un adeguamento. Il processo non
fu uniforme, ancora soggetto a errori, sprechi o carenze tecnologiche, ma fu sufficiente ad
assicurare la vittoria. Per lungo tempo, si sono tradizionalmente viste le forze dell’Asse
semplicemente logorate dalle enormi risorse militari a disposizione degli Alleati, pur rimanendo
militarmente efficienti, o, nel caso tedesco, palesemente superiori a qualsiasi forza armata alleata
che avevano affrontato . Un vantaggio legato alle risorse, tuttavia, significa poco – come aveva
201

avuto modo di scoprire l’Armata Rossa nel 1941, quando era stata facilmente spazzata via
nonostante la sua notevole superiorità numerica di carri armati e aerei –, a meno che non sia
affiancato a una teoria piú valida, organizzazione, addestramento e intelligence. Gli Alleati
avrebbero dovuto migliorare in ciascuno di questi settori affinché il loro vantaggio in termini di
risorse fosse significativo. Il combattimento rappresentò la vera prova in tutto il Pacifico,
attraverso il Nordafrica, l’Italia e la Francia, mentre lungo lo sterminato fronte orientale le forze
dell’Asse vennero infine sconfitte da forze armate che avevano appreso la lezione a proprie
spese. Secondo la teoria, la «curva di apprendimento» industriale si appiattisce verso la fine del
processo, man mano che manager e forza lavoro ottimizzano con successo quanto hanno
imparato. La vittoria degli Alleati nel 1945 rappresentò il momento in cui la loro curva di
apprendimento si era finalmente appiattita.
Capitolo sesto
Economie di guerra – economie in guerra
Il genio industriale americano, ineguagliato in tutto il mondo nella soluzione dei problemi di produzione, è stato chiamato a
mettere in azione le sue risorse e i suoi talenti. I produttori di orologi, attrezzi agricoli, linotype, registratori di cassa,
automobili, macchine da cucire, tosaerba e locomotive stanno ora producendo spolette, imballaggi per bombe, supporti per
telescopi, granate, pistole e carri armati.
Franklin Roosevelt, Fireside chats, 29 dicembre 19401.
Il necessario aumento di efficienza della nostra produzione di armi ed equipaggiamento deve quindi essere raggiunto 1)
attraverso una dettagliata correzione nella fabbricazione delle nostre armi ed equipaggiamenti, affinché sia possibile una
produzione di massa su principî moderni e conseguire in tal modo la razionalizzazione dei nostri metodi di produzione.
Hitlers Erlaß, 3 dicembre 1941– Decreto sull’efficienza2.
Negli Stati Uniti, la produzione di massa di armi ed equipaggiamenti militari era data per
scontata. Il presidente Roosevelt avviò il riarmo dell’aviazione nel maggio del 1940, chiedendo
la produzione di 50 000 aerei all’anno . In seguito, intervenne nella pianificazione della
3

produzione di mezzi corazzati, esigendone 25 000 all’anno. All’epoca, non erano pochi i dubbi
sulla reale possibilità di raggiungere tali obiettivi, ma il «genio industriale americano», di cui
Roosevelt aveva parlato nel dicembre del 1940 in una delle trasmissioni radiofoniche della serie
Fireside chats, si dimostrò all’altezza delle esigenze del riarmo e della guerra. Nel 1943, gli Stati
Uniti producevano da soli già piú di tutti gli stati nemici messi insieme. Hitler, in effetti, era stato
ammonito da esperti militari di non sottovalutare la capacità della produzione militare degli Stati
Uniti, ma questo non gli aveva impedito di dichiarare guerra. Qualche giorno prima dell’attacco
giapponese a Pearl Harbor, il quartier generale del Führer emanò un decreto con la sua firma in
cui si insisteva affinché l’industria bellica tedesca adottasse un programma di semplificazione e
standardizzazione, tale da rendere possibile una produzione di massa anche in Germania.
Sebbene a Hitler non venga attribuita normalmente una grande capacità strategica, la sua
consapevolezza, fin dall’inizio della guerra, che una produzione militare sulla scala piú ampia
possibile fosse un prerequisito indispensabile per affrontare con successo il conflitto venne
confermata dagli eventi. Il decreto di dicembre del 1941 era giunto dopo mesi in cui aveva
cercato di intervenire in veste di comandante supremo per convincere l’industria e i militari a
cooperare tra loro per trovare il modo di utilizzare le ampie risorse della Germania al fine di
aumentare la produzione. A maggio del 1941, aveva tenuto una conferenza con il ministro degli
Armamenti e Munizioni Fritz Todt e il capo dell’Ufficio delle forze armate per l’Economia di
guerra, il generale Georg Thomas, in cui aveva esposto le sue idee per rendere piú efficiente
l’economia di guerra, incolpando i militari di sovraccaricare l’industria con specifiche tecniche
complesse e chiedendo una «fabbricazione piú primitiva e robusta» e la «promozione di una
produzione di massa grezza» . Fu emanata una direttiva che esortava l’esercito, la marina e
4

l’aviazione a ridurre il numero e la complessità delle armi, seguita da ulteriori direttive durante
l’estate e l’autunno affinché si concentrassero su armi adatte ai moderni metodi di produzione,
fino ad arrivare al decreto di dicembre, che aveva reso esplicito ciò che Hitler si aspettava. «È
significativo», riferí nel 1945 ai suoi carcerieri il vice di Albert Speer, Karl Otto Saur, «che in
Germania il processo di razionalizzazione sia divenuto veramente operativo a tutti gli effetti
pratici solo dopo l’ordine di Hitler del 3 dicembre 1941 e che fosse stato necessario il suo
intervento per portare tale processo dalla teoria alla pratica» . La storia non finisce tuttavia con
5

quel decreto. Due anni dopo, infatti, il capo della produzione di motori aeronautici in Germania,
William Werner, lamentava che la produzione era ancora «fortemente caratterizzata da metodi
artigianali» e auspicava una produzione a catena di montaggio «secondo il modello americano» . 6

Il divario tra le due culture produttive si rivelò arduo da colmare e fu un fattore determinante per
l’esito finale della guerra.
Armi di produzione di massa.
La produzione militare delle potenze belligeranti mise in ombra qualsiasi cosa vista prima o dopo
di allora. Per quanto smisurate fossero le dimensioni della produzione, tuttavia, solo una parte
delle armi, veicoli e navi era prodotta in massa, nell’accezione convenzionale del termine. La
produzione massificata era associata al «fordismo», le cui origini affondavano nella rivoluzione
tecnologica inaugurata dall’industria automobilistica americana (e da Henry Ford in particolare)
nei primi decenni del secolo. Il fordismo era aperto all’interpretazione: negli Stati Uniti,
rappresentava un mezzo per massimizzare la produzione di beni a basso costo destinati al
consumatore medio, applicando un controllo razionale sul flusso di risorse e componenti per
arrivare a una linea di produzione in cui l’assemblaggio fosse suddiviso in compiti facilmente
apprendibili e ripetitivi; in Unione Sovietica, il fordismo era stato accolto dal giovane regime
comunista non solo come simbolo di modernità dei Soviet, ma anche perché la produzione di
massa razionalizzata avrebbe fornito merci a buon mercato al proletariato appena salito al potere.
Solo in Germania il fordismo era visto in modo ambivalente. Anche se forme di produzione di
massa erano state adottate negli anni Venti in alcuni settori in cui predominavano gli estimatori
del modello produttivo di Ford, il crollo economico seguito al 1929 aveva provocato un rifiuto
del modello di produzione americano a beneficio di un’enfasi piú germanica sulla produzione
specializzata e l’alta qualità ingegneristica – fattori che favorivano entrambi lo sviluppo di
un’industria delle armi sofisticata e tecnicamente avanzata. Queste diverse culture produttive si
manifestarono durante la Seconda guerra mondiale, segnando per esempio la differenza tra
l’elevata produzione degli Sherman americani e dei carri armati sovietici T-34 e quella
relativamente modesta dei Tiger e Panther tedeschi, entrambi di gran lunga superiori ai carri
armati alleati fabbricati in serie, ma prodotti in numero del tutto inadeguato.
In pratica, la produzione di massa, cosí come era stata interpretata negli anni tra le due guerre in
merito all’offerta di beni di consumo durevoli e standardizzati, presentava evidenti limiti se
applicata alla fabbricazione di armamenti moderni. Nella Prima guerra mondiale, il volume della
produzione di equipaggiamenti militari era divenuto essenziale, per cui nella produzione di armi
leggere, munizioni e artiglieria erano stati introdotti alcuni elementi della moderna pratica
industriale al fine di aumentare l’efficienza produttiva della forza lavoro e risparmiare risorse .
7

Nella Seconda guerra mondiale, il volume della produzione richiese un maggiore output di
prodotti ingegneristici complessi, dai carri armati e veicoli corazzati ai motori aeronautici e alle
fusoliere di aerei. Un velivolo militare richiedeva in genere piú di 100 000 pezzi da assemblare,
per cui la capacità produttiva rappresentava in sé una sfida straordinaria già solo in termini di
organizzazione del flusso di pezzi fabbricati da centinaia di subappaltatori, in modo da garantire
che l’assemblaggio finale potesse procedere relativamente senza problemi. Se un fucile o una
mitragliatrice potevano essere facilmente prodotti assemblando un numero modesto di pezzi
standardizzati, replicando cosí le pratiche di produzione del tempo di pace, un aereo, un carro
armato o un sottomarino richiedevano invece un eccezionale processo produttivo. Il bombardiere
americano Consolidated B-24 Liberator era assemblato utilizzando 30 000 disegni per la
produzione; quando Henry Ford cercò di produrre in serie il bombardiere, basandosi sulla sua
esperienza nella produzione di automobili e camion, l’assemblaggio fu suddiviso in 20 000
operazioni distinte, che richiedevano l’installazione di 21 000 maschere e staffaggi e 29 000
stampi. Il progetto impiegò cosí tanto tempo per essere realizzato che il bombardiere risultava
già obsoleto quando ne iniziò la produzione . La fiducia di Ford che la produzione di massa del
8

tempo di pace potesse essere applicata alle armi lo portò nel 1940 a offrirsi di produrre 1000
aerei da combattimento al giorno utilizzando macchine utensili standard, ma l’offerta fu rifiutata
dopo un’attenta indagine, poiché le specifiche ingegneristiche di un’auto familiare economica
non corrispondevano minimamente ai requisiti della moderna produzione aeronautica. Lo stesso
problema travolse gli sforzi della General Motors per produrre un caccia moderno e veloce,
l’XP-75. Anziché creare l’intero progetto ex novo, l’azienda cercò delle scorciatoie acquistando
componenti già pronti da altri progetti di aerei. Dopo quattro anni, il progetto fu dichiarato un
completo fallimento e mandato al macero nell’estate del 1945 – una testimonianza di quanto
fosse difficile per un grande produttore di massa adattare la pratica del tempo di pace alle
esigenze del tempo di guerra, ma anche la prova che gli Stati Uniti potevano spendere energie e
risorse in progetti futili pur producendo al tempo stesso piú di ogni altra economia .
9

I numerosi problemi associati alla capacità produttiva di armi tecnologicamente avanzate


evidenziavano la differenza tra la produzione civile in tempo di pace, quando le decisioni su cosa
produrre e in quale quantità erano dettate dal mercato dei consumi e dai gusti dei cittadini, e
quella di un’economia di guerra, in cui esistevano come unico cliente le forze armate, con
esigenze incerte, mutevoli e al tempo stesso perentorie. L’avvio di lunghe produzioni in serie,
con le corrispondenti economie di scala, era regolarmente frustrato da imprevedibili cambi di
strategia o dalla necessità di uguagliare o superare i risultati tecnici del nemico, o addirittura di
interrompere un determinato ciclo produttivo a causa dell’insistenza dell’apparato militare per
apportare modifiche tattiche a breve termine a un’arma di uso già consolidato. In tali circostanze,
non poteva che essere difficile fissare dei modelli standardizzati, con pezzi intercambiabili e
linee di montaggio. In tempo di guerra, le costanti modifiche si rivelarono nemiche della
produzione in serie. Come disse Alec Cairncross, responsabile della progettazione di componenti
presso il ministero della Produzione Aeronautica britannico: «La vita era un’eterna lotta con il
caos» . Nei primi tre anni di produzione, il progetto dei bombardieri medi tedeschi Junkers Ju88
10

subí 18 000 modifiche, il che ridusse completamente qualsiasi prospettiva di un ciclo produttivo
invariato nel lungo periodo. Le modifiche al progetto non riguardavano solamente
l’assemblaggio finale di un aeromobile o di un carro armato, ma coinvolgevano anche le
centinaia di fornitori di componenti, costretti a coordinare la loro produzione con i principali
stabilimenti di assemblaggio. Si riscontrava spesso una marcata differenza tra il potenziale
produttivo dei singoli fornitori, in quanto le piccole imprese erano meno abili ad adattarsi con
flessibilità alle nuove esigenze o a introdurre forme di produzione piú efficienti. Nel 1942, la
produzione di carri armati degli Stati Uniti non raggiunse neppure i 20 000 mezzi corazzati sui
42 000 previsti, a causa di una grave penuria di componenti fondamentali. Negli anni centrali
della guerra, la Germania cercò di assicurarsi che i subappaltatori di componenti su commesse
militari adottassero tutti le migliori pratiche produttive. Il rapporto tra la migliore e peggiore
efficienza risultava di 1:5; dopo la razionalizzazione dell’attività industriale il rapporto scese a
1:1.5 .
11

Alla fine, tutte le maggiori potenze belligeranti, fatta eccezione per l’Italia e la Cina,
svilupparono programmi quantitativi di produzione che includevano elementi della «produzione
di massa» convenzionale, nonostante i molteplici problemi connessi all’ingegneria militare, piú
complessa e costosa. I risultati ottenuti in tempo di guerra sono riportati nella tabella 6.1. Le
statistiche aggregate mascherano l’effetto che regimi politici e amministrativi molto diversi tra
loro ebbero sul volume della produzione, come anche le mutevoli esigenze strategiche da cui
dipendevano le rispettive priorità. Il Giappone e la Gran Bretagna, per esempio, concentrarono
quantitativamente la produzione su aerei e navi, poiché, trattandosi di potenze insulari, tale
priorità corrispondeva alla natura delle strategie scelte; l’Unione Sovietica e la Germania, al
contrario, produssero modeste quantità di equipaggiamenti navali, vantando però eccezionali
livelli di armamenti per l’esercito e le forze aeree; solo gli Stati Uniti, grazie al loro accesso a
una straordinaria abbondanza di risorse, ebbero la possibilità di produrre su larga scala
equipaggiamenti per l’aviazione, la marina e l’esercito. Le cifre nascondono altresí le differenze
qualitative tra i diversi risultati. Anche se le autorità militari erano generalmente impegnate ad
aggiornare gli equipaggiamenti per essere al livello del nemico, tale compito risultava spesso
difficile se la produzione era già pesantemente legata a precedenti versioni, o semplicemente al
di là della capacità ingegneristica dell’economia. Le differenze qualitative, tuttavia, raramente
erano cosí ampie da compensare una carenza quantitativa. Con la maturazione delle economie di
guerra, l’apparato militare, il mondo degli affari e i governi collaborarono per concentrarsi su un
nucleo di armi già collaudate in combattimento che potevano essere efficientemente prodotte in
buona quantità, anziché dissipare gli sforzi tra un gran numero di modelli in esubero.
Tabella 6.1. La produzione militare delle maggiori potenze belligeranti, 1939-44.
Dalle navi sono esclusi i mezzi da sbarco e le piccole imbarcazioni ausiliarie; la riga di cifre (a) della Germania si riferisce ai
carri armati; la riga (b) all’artiglieria semovente e ai blindati anticarro; le cifre dei carri armati sovietici includono anche
l’artiglieria semovente; per i pezzi di artiglieria di Gran Bretagna, Stati Uniti e Germania si intendono solo armi di calibro medio
e pesante; le cifre relative all’Unione Sovietica includono invece tutti i calibri.
La riduzione numerica dei diversi modelli prodotti e la piú efficace gestione delle modifiche da
apportare furono dei significativi moltiplicatori di forza per la quantità di armi prodotte. Una
maggiore standardizzazione offriva il vantaggio che la produzione poteva essere
quantitativamente concentrata nelle imprese migliori e piú grandi. Si trattò di un processo
irregolare, in particolare dove la concorrenza per le risorse produttive tra i diversi corpi delle
forze armate scoraggiava la cooperazione. In Giappone si esercitava scarso controllo sulla
politica di approvvigionamento della marina e dell’esercito, per cui la prima produceva 53
modelli base di aerei con 112 varianti e il secondo 37 modelli base con 52 varianti. La marina
contava nel 1942 un totale di 52 tipi diversi di motore. Ne derivarono una produzione in serie
limitata e regolari problemi per i pezzi di ricambio e di manutenzione, anche se questo non
impedí negli ultimi due anni di guerra un’improvvisa impennata nella produzione di aerei e
motori aeronautici . In Gran Bretagna, il processo di assestamento su modelli standardizzati
12

richiese tempo soprattutto a causa dei rapidi cambiamenti tecnologici, ma verso la metà della
guerra la produzione di carri armati era ormai concentrata sui modelli Churchill e Cromwell (con
i derivati di quest’ultimo, Comet e Challenger), mentre la produzione aeronautica era focalizzata
sui bombardieri Lancaster e Halifax, sui cacciabombardieri Spitfire e Hawker Tempest e sul De
Havilland Mosquito. La produzione di carri armati era concentrata su un unico motore, il Meteor,
mentre quella di motori aeronautici sul modello Rolls-Royce Merlin. Gli Stati Uniti intrapresero
la produzione quantitativa di modelli standardizzati fin dall’inizio del conflitto, concentrando
quasi l’intera produzione di carri armati sul modello Sherman M4 e suoi derivati e la produzione
di aerei dell’esercito sui bombardieri pesanti B-17 e B-24, sui caccia P-38, P-47 e P-51 e
sull’aereo da trasporto Douglas DC-3. L’esercito e la marina produssero insieme solo diciotto
modelli di aerei. La produzione di camion dell’esercito era basata solamente su quattro tipologie
ormai collaudate, mentre l’onnipresente Jeep Willys era il principale mezzo di piccole dimensioni
utilizzato per le comunicazioni. L’Urss si limitò per tutto il periodo bellico alla produzione di
carri armati T-34 e relativi modelli aggiornati fino alla comparsa del carro pesante IS-1 negli
ultimi mesi del conflitto. L’aviazione sovietica produsse invece in gran numero il caccia Jak 1-9
e il bombardiere in picchiata Iljušin Il-2 Šturmovik, rispettivamente 16 700 e 36 000 . Uno dei
13

pochi successi della produzione standardizzata tedesca fu il caccia Messerschmitt Bf109, di cui
furono fabbricati negli anni della guerra ben 31 000 esemplari. Una volta selezionato un modello
principale e avviato un lungo ciclo produttivo, le economie di scala erano quasi automatiche.
La produzione in serie non era esente da problemi neppure con un programma piú stabile di
selezione e standardizzazione dei modelli. Le modifiche da apportare ai modelli in produzione
dovevano essere concordate con i militari, per i quali era prioritaria non tanto l’ininterrotta
produzione in serie quanto la prestazione sul campo di battaglia. In Gran Bretagna, le modifiche
ai modelli di aerei furono apportate attenendosi il piú possibile alle linee di produzione già
esistenti, soprattutto grazie a una politica di cambiamenti incrementali al progetto, in modo da
evitare troppe interruzioni. Lo Spitfire subí venti importanti aggiornamenti progettuali senza mai
interromperne la produzione né introducendo un considerevole programma di riprogettazione, e
nonostante ciò nel 1944 divenne un caccia straordinariamente piú efficace rispetto al 1940. La
pratica americana, al contrario, era di consentire la produzione a pieno volume, con tutti i
risparmi garantiti dal continuo flusso della catena di montaggio, ma l’aereo, una volta
completato, era inviato a uno dei venti Modification Centers dove spesso necessitava di un
ulteriore 25-50 per cento di ore di lavoro per apportare le modifiche a ogni velivolo, il che
annullava di fatto i vantaggi ottenuti dalla produzione in serie dell’originale. Nell’enorme
stabilimento della Ford a Willow Run, nel Michigan, le modifiche preproduzione al bombardiere
B-24 trasformavano l’aereo e imponevano regolari cambiamenti in macchinari, maschere e
fissaggi che portavano a sprechi di tempo e denaro ancora prima dell’inizio della produzione.
Nel 1944, l’industria aeronautica fu incoraggiata ad adeguarsi alla pratica britannica al fine di
evitare sia ritardi nelle forniture sia il caos causato dall’accumulo di richieste tattiche da parte
delle forze in campo, che si univano alla necessità di integrare i cambiamenti dei Modification
Centers .
14

La produzione in serie influiva altresí sulla qualità del prodotto finito, a causa dell’utilizzo di
manodopera meno qualificata e delle pratiche di taglio dei costi. Per la maggior parte degli anni
di guerra, i carri armati britannici rimasero notoriamente mal assemblati, con la conseguenza di
danni frequenti. A settembre del 1942 fu istituito un Directorate of Fighting Vehicle Inspection, i
cui ispettori passarono da 900 nel 1940 a 1650 alla metà del 1943, con un deciso decremento nel
1944 delle segnalazioni di guasti meccanici. Le forze britanniche riscontrarono analoghi
problemi con i carri armati Sherman inviati dagli Stati Uniti nell’ambito del programma Lend-
Lease. Un gruppo di 38 mezzi corazzati inviato in Nordafrica nel 1942 risultò avere 146 difetti
dovuti a un assemblaggio disattento o mal controllato . La rapida produzione in massa del carro
15

armato sovietico T-34 vide crollare la qualità della lavorazione. Nell’estate del 1943, all’epoca
della battaglia di Kursk, solo il 7,7 per cento della produzione di carri armati superava i test di
fabbrica per il controllo qualità . Quando gli ingegneri americani dell’Aberdeen Proving Ground
16

usato dall’esercito nel Maryland esaminarono l’unico esemplare di T-34 consegnato dai sovietici,
vi riscontrarono un intero catalogo di ingegneria raffazzonata e rifiniture scadenti. Dopo 343
chilometri di test, il carro armato si guastò irreparabilmente a causa dello sporco che, passando
attraverso un filtro dell’aria di scarsa qualità, aveva distrutto il motore; erano inoltre comparse
delle crepe nelle piastre a saldatura della corazza, per cui, in caso di pioggia, l’acqua penetrava
all’interno del veicolo; i cingoli in acciaio erano realizzati con materiale di bassa qualità che si
rompeva regolarmente, e cosí via . Sebbene la produzione in serie fosse l’ideale, i principali
17

produttori di massa affrontavano grandi ostacoli nel tentativo di fornire un prodotto di qualità.
A rappresentare un’eccezione nell’esperienza della produzione in serie fu la guerra sino-
giapponese. La produzione bellica cinese era limitata dallo stato immaturo dello sviluppo
industriale e dalla conquista giapponese delle regioni settentrionali e orientali, dove si trovava
gran parte delle risorse di base e aveva sede la seppur limitata capacità industriale della Cina. Di
fronte all’invasione, fu intrapresa una grande evacuazione di macchine e attrezzature dagli
arsenali militari cinesi, spostate fisicamente nel sud-ovest della Cina e nella zona industriale
adiacente alla nuova capitale Chongqing. Dalla fine degli anni Trenta in poi, i tredici arsenali
raggruppati intorno alla città fornivano almeno i due terzi di tutta la produzione bellica cinese . 18

La successiva documentazione relativa al tempo di guerra, tuttavia, rimase esigua in confronto


con le altre potenze belligeranti. Gli arsenali mancavano di macchinari moderni o di adeguate
forniture di materiali e facevano grande affidamento sul lavoro manuale. L’Ufficio forniture
militari del Kuomintang distribuiva annualmente agli arsenali solo 12 000 tonnellate di acciaio;
nel momento di massima produzione, il settore degli armamenti non contava piú di 56 500
lavoratori. Lo sforzo produttivo era concentrato soprattutto su armi di piccolo calibro, munizioni,
un mortaio da 85 mm e bombe a mano. Nel 1944, la produzione annua destinata a un esercito
composto da 300 divisioni con tre milioni di uomini ammontava alle misere cifre di 61 850
fucili, 3066 mitragliatrici pesanti, 10 749 mitragliatrici leggere e 1215 mortai. Nel 1941, era stato
sviluppato un pezzo di artiglieria da 37 mm, ma ogni anno ne venivano prodotti solo da 20 a 30,
con munizioni di scarsa qualità . La Cina non produceva aerei, né cannoni pesanti, carri armati e
19

altri mezzi blindati. Da dati del genere risulta difficile capire come fecero gli eserciti nazionalisti
a operare per anni contro un nemico armato ben piú pesantemente, in particolare dopo che
l’espansione giapponese impose gravi limiti alle forniture provenienti dall’estero. Esistevano, è
vero, delle scorte di armi importate negli anni prebellici, ma erano di dimensioni modeste e
impossibili da ricostituire. Gli eserciti cinesi, avvantaggiati dalle condizioni del terreno, si
affidavano a una guerra di logoramento, ma in un aperto combattimento questa scarsa base di
risorse li esponeva di solito a inevitabili sconfitte.
Altrettanto circoscritta risultava la produzione bellica giapponese per la guerra in Cina,
nonostante il Kokka Sōdōin Hō, il «decreto della mobilitazione totale» del 1938, avesse richiesto
alla popolazione uno sforzo su vasta scala. Tra il 1937 e il 1941, l’industria giapponese produsse
per l’intera campagna cinese una media annua di 600 carri leggeri e medi, mentre la produzione
di aerei per l’esercito e la marina, basata su un’ampia gamma di modelli di fusoliera e motore,
raggiungeva in media poco piú di 4000 velivoli all’anno . Maggiori risorse erano incanalate nella
20

costruzione navale, anche se essa ebbe scarso effetto sulla guerra in Cina. In termini di
organizzazione e dotazione di macchinari, i settori della cantieristica navale e dell’aviazione
erano relativamente moderni, ma la capacità produttiva era limitata dalla netta divisione tra le
sfere produttive dell’esercito e della marina e dal decentramento della produzione attraverso una
vasta gamma di piccoli subappaltatori la cui efficienza poteva variare enormemente. Lo scoppio
della guerra nel Pacifico trasformò la produzione bellica, con un flusso di investimenti
nell’industria navale, cantieristica mercantile e aviazione. Mancò invece qualsiasi tentativo di
innalzare il livello di meccanizzazione e motorizzazione dell’esercito giapponese, la maggior
parte del quale era ancora invischiato nella guerra in Cina. Durante il conflitto nel Pacifico, la
produzione di carri armati, dopo il picco registrato nel 1942 con 1271 mezzi corazzati, diminuí a
soli 342 nel 1944; la produzione di autoblindo, iniziata nel 1942, ammontò nell’intera guerra a
non piú di 1104 veicoli. Rispetto agli standard americani o europei, l’industria giapponese degli
automezzi era sottosviluppata e produsse in quattro anni appena 5500 camion di grandi
dimensioni destinati sia all’esercito sia ad attività economiche . Quando sul campo finivano le
21

munizioni, i soldati giapponesi passavano alle spade e alle baionette. La grave carenza di acciaio
e altri metalli, esacerbata dall’impatto del blocco marittimo americano, spiega in parte il basso
livello della produzione bellica, ma questa fu anche il risultato di decisioni strategiche in merito
ai beni su cui una piccola economia industriale avrebbe dovuto concentrarsi. Nel 1943, la priorità
assoluta andò all’aviazione, indispensabile per la difesa del perimetro dell’impero. La decisione
di massimizzare la produzione di aerei esercitò pressioni enormi sull’intero sistema della
produzione bellica, finché nel novembre del 1943, quindi molto avanti nella guerra, il governo
nipponico istituí un nuovo ministero delle Munizioni per sovrintendere allo sforzo aereo. Nel
1944, la produzione di velivoli coprí il 34 per cento di tutto l’output industriale e nello stesso
anno il ministero delle Munizioni predispose dei piani elaborati per una produzione di massa di
oltre 50 000 aerei . Fu inoltre creata un’Associazione dell’industria aeronautica, suddivisa in 14
22

filiali specializzate in ogni principale sottogruppo e componente aereo prodotti dal forte aumento
di subappalti . Solo costringendo ogni anfratto dell’economia di guerra a concentrarsi sugli aerei
23

fu possibile produrli in grande quantità nel 1943 e nel 1944, prima che si esaurissero le forniture
di bauxite importata (indispensabile per la produzione di alluminio). L’attività produttiva era
tuttavia vincolata da un’insufficiente vigilanza sui fornitori dei vari componenti, dalla durata
limitata e dalla scarsa precisione delle macchine utensili di produzione nazionale e dalla
mancanza di ingegneri esperti nella produzione in serie. Nel 1942 furono progettate due grandi
fabbriche in cui dovevano essere impiegati i metodi della produzione di massa, ma lo
stabilimento di Kouza, progettato per produrre 5000 aerei in un anno, produsse alla fine solo 60
caccia, mentre lo stabilimento di motori aeronautici a Tsu non riuscí a produrne neanche uno
prima della fine della guerra . Il resto dell’industria aeronautica faticò a completare il piano;
24
l’urgenza della produzione e l’introduzione di manodopera meno qualificata portarono a un calo
di qualità del prodotto, causando negli ultimi anni di guerra piú vittime tra gli aviatori giapponesi
che combattimenti aerei. La produttività rimase bassa. Nel 1944, la produzione aeronautica per
giornata lavorativa, calcolata in libbre, fu di 0,71; negli Stati Uniti il dato equivalente era di
2,76 . Anche se vi fossero stati livelli di efficienza piú elevati, la scarsità di materiale avrebbe
25

comunque limitato quanto si poteva realizzare. Durante il conflitto, l’economia giapponese


produsse solo il 10 per cento dei beni di guerra prodotti negli Stati Uniti.
Negli anni di guerra, la vera produzione di massa si realizzò in Unione Sovietica e Stati Uniti.
Dal 1941 al 1945 i due paesi produssero 443 451 aerei di ogni tipo, 175 635 carri armati e
cannoni semoventi e 676 074 pezzi di artiglieria – un risultato che mise in ombra la produzione
delle altre grandi potenze industriali e che farebbe impallidire l’odierna produzione bellica.
Durante il conflitto, gli Stati Uniti produssero piú aerei del loro alleato e l’Unione Sovietica piú
carri armati e pezzi di artiglieria, ma entrambi assicurarono eccezionali livelli produttivi durante
tutta la guerra. Le condizioni in cui operavano i due maggiori produttori di massa presentavano
in ogni caso profonde differenze. Il sistema sovietico era un’economia di comando autoritaria,
organizzata centralmente e sorvegliata con un rigore eccezionale per monitorare qualsiasi errore
da parte della dirigenza o della forza lavoro; l’economia americana prevedeva la libera impresa,
un sistema capitalista con un basso livello di interventi statali, benessere dell’azienda privata e
libertà della forza lavoro. L’Unione Sovietica, che prima dell’invasione tedesca disponeva di
grandi risorse materiali, era ora ridotta a un’economia tronca, avendo perso due terzi della sua
capacità di produrre acciaio e carbone. Nel 1942, l’industria dell’Urss sostenne la produzione
bellica con solo 8 milioni di tonnellate di acciaio, contro una produzione di 18 milioni di
tonnellate nel 1941, 75 milioni di tonnellate di carbone anziché 150 e appena 51 000 tonnellate
di alluminio. Gli Stati Uniti erano invece piú ricchi di risorse di qualsiasi altra potenza
belligerante e nel 1942 avevano prodotto 76,8 milioni di tonnellate di acciaio, 582 milioni di
tonnellate di carbone e 521 000 tonnellate di alluminio. Il contrasto piú significativo tra le due
potenze si evidenziava forse nel contesto prebellico della produzione militare. L’Unione
Sovietica aveva iniziato la produzione militare su larga scala all’inizio degli anni Trenta e nel
1941 poteva vantare, almeno sulla carta, l’aviazione e il parco carri armati piú grandi del mondo.
Nonostante la crisi provocata dall’operazione «Barbarossa», gli ingegneri e gli operai sovietici
possedevano anni d’esperienza nella produzione in serie di armi. Prima del 1941, gli Stati Uniti
non avevano tale esperienza, fatta eccezione per la cantieristica navale, per cui il riarmo iniziò da
zero nella maggior parte dei casi. Quando gli ingegneri della Chrysler Motor Corporation furono
invitati a visitare l’arsenale di Rock Island nel 1940, allo scopo di intraprendere la produzione di
carri armati, nessuno di loro aveva mai visto un mezzo corazzato . La Chrysler fu reclutata, ma,
26

prima di poter dare inizio a qualsiasi produzione, si dovette realizzare un nuovo stabilimento su
un terreno agricolo del Michigan. Alla fine del 1941, tuttavia, lo stabilimento aveva già in
produzione quindici carri armati al giorno – un’autentica testimonianza di quanto fosse radicata
la forza imprenditoriale e ingegneristica del sistema americano.
Il successo sovietico fu reso possibile dalla natura stessa della dittatura comunista. Il 30 giugno
1941 era stato istituito il GKO, presieduto dallo stesso Stalin e investito di poteri assoluti in
campo economico. Tutte le decisioni su produzione e armamenti erano centralizzate nel
comitato, che assegnava la responsabilità produttiva ai vari commissariati repubblicani. Il GKO
incoraggiava funzionari e ingegneri a dimostrarsi flessibili e creativi, in contrasto con i controlli
piú severi del tempo di pace. Qualsiasi problema riguardante un componente o la fornitura di
materiali era segnalato al comitato, che poteva passare immediatamente all’azione per cercare di
sbloccare il processo produttivo, a volte anche solo con una telefonata irata e minacciosa di
Stalin . La priorità dello sforzo bellico era assoluta, ogni investimento veniva incanalato in
27

stabilimenti, macchinari e approvvigionamento di materie prime. L’efficacia del sistema fu


testata quasi subito allorché il Sovet po evakuacii pri SNK SSSR (Soviet per l’evacuazione presso
il Consiglio dei commissari del popolo), istituito due giorni dopo l’invasione tedesca, riuscí a
spostare verso est, in nuovi siti degli Urali e della Siberia, e nella Russia meridionale 50 000
officine e fabbriche (tra cui 2593 grandi stabilimenti) e 16 milioni di lavoratori con le famiglie . 28

Tale dislocazione fu superata solo grazie agli sforzi straordinari di ingegneri e lavoratori, che
lottarono per ristabilire la produzione nel gelo e con grave scarsità di servizi o alloggi. Nel 1942,
un’economia sovietica gravemente impoverita produceva sostanzialmente piú equipaggiamenti
militari che nel 1941, e durante i successivi anni di guerra l’industria produsse piú aerei, carri
armati, cannoni, mortai e proiettili dei paesi dell’Asse nemico. Quegli armamenti, inoltre, erano
di qualità affidabile per il combattimento. I soldati e gli ingegneri che li selezionarono scelsero
una gamma ristretta di modelli, adattati alla produzione in serie, in grado di reggere il confronto
con la tecnologia tedesca e di infliggere il massimo danno al nemico. Ne era un ottimo esempio il
razzo Katjuša. Montato sul retro di un autocarro per facilitarne gli spostamenti, il lanciarazzi a
canne multiple colpiva le truppe nemiche con un carico di bombe ad alto potenziale. Facile da
produrre e da usare, il razzo Katjuša divenne il simbolo di quella miscela di semplicità ed effetto
tipica di molte armi sovietiche.
Le dimensioni della produzione sovietica furono rese possibili dalle caratteristiche del sistema
produttivo. Le fabbriche sovietiche erano costruite su grande scala, pianificate in molti casi come
impianti integrati, adatti sia alla produzione di componenti e apparecchiature sia
all’assemblaggio del prodotto finito. Speciali macchine utensili resero possibile la produzione su
catena di montaggio, con parti e sottogruppi dell’elemento da costruire inviati nella sala di
assemblaggio, talvolta su nastri trasportatori in legno scavato. Gli impianti erano progettati da
ingegneri di produzione con l’obiettivo di ridurre sprechi di tempo o risorse. L’esempio del
Čeljabinskij traktornyj zavod, la fabbrica di trattori di Čeljabinsk, una città degli Urali, illustra in
che modo funzionava la produzione sovietica. Nei mesi successivi all’invasione tedesca, la
fabbrica di trattori passò alla produzione di carri armati sotto la direzione di Isaak Moiseevič
Zal’cman, vicecommissario per l’industria dei mezzi corazzati. Circa 5800 macchine utensili
furono evacuate da Leningrado e installate in quattro nuove gigantesche sale di montaggio il cui
tetto non era ancora stato completato. Fu ordinato di iniziare immediatamente la produzione in
serie e nell’ottobre del 1941 erano già pronti per la consegna i primi carri pesanti KV-1, benché
mancassero i motorini di avviamento. Zal’cman ordinò che fossero consegnati a una stazione
ferroviaria vicino a Mosca, dopodiché spedí i carri armati su rotaia fino alla capitale, dove fece
installare direttamente i motorini d’avviamento. Ad agosto del 1942 la fabbrica ricevette l’ordine
di convertirsi alla produzione del carro armato medio T-34 e nel volgere di un mese, nonostante
tutti i problemi per avviare la produzione di un nuovo modello, lo stabilimento di trattori fu
pronto a produrre il nuovo carro armato, riuscendo a consegnarne piú di 1000 entro la fine
dell’anno . Il 43 per cento della forza lavoro di 40 000 persone era composto da operai sotto i
29

venticinque anni, un terzo dei quali donne; non essendo perlopiú abituati al lavoro in fabbrica,
avevano seguito dei corsi rapidi nelle nuove školy fabrično-zavodskogo obučenija, le «scuole
industriali» istituite nel 1940, ed erano stati poi introdotti a compiti relativamente semplici alla
catena di montaggio. Le condizioni erano dure e ogni inadempienza era punita, ma, come
risultato della produzione standardizzata su larga scala, la produttività per lavoratore aumentò
notevolmente. Nel 1940 il valore aggiunto netto per lavoratore nel settore della difesa (a prezzi
costanti) era di 6019 rubli ma raggiunse i 18 135 rubli nel 1944 . La natura capricciosa del
30

sistema, tuttavia, traspariva spesso al di sotto della superficie. Gli sforzi eroici di Zal’cman per
trasformare Čeljabinsk in Tankograd, la «città dei carri armati», non impedirono a Stalin di
accusarlo nel dopoguerra di simpatie controrivoluzionarie e di ordinarne la retrocessione
all’umile ruolo di sorvegliante.
L’economia americana operava con pochi vincoli di risorse rispetto a quella sovietica, e nessuna
minaccia di GULag. Eppure, vi sono buone ragioni per porre a confronto l’energia e l’iniziativa
manageriale mostrata nella riconversione della fabbrica di trattori di Čeljabinsk in uno
stabilimento di assemblaggio di carri armati su catena di montaggio e la rapida costruzione del
gigantesco stabilimento di mezzi corazzati della Chrysler: entrambe le fabbriche iniziarono per
esempio a produrre dieci carri armati al giorno a pochi mesi dalla costruzione, utilizzando
ambedue manodopera meno qualificata per molti compiti della routine di assemblaggio. Sul
fronte della produzione, tali somiglianze contribuiscono a spiegare i risultati ottenuti nella
realizzazione della produzione in serie, anche se il sistema che ebbe successo negli Stati Uniti
discordava in modo fondamentale dal corrispondente sovietico. Nonostante Roosevelt sperasse
che l’esperienza del New Deal degli anni Trenta avrebbe reso possibile dirigere la produzione
bellica attraverso le agenzie del governo federale, non esisteva in realtà una tradizione di
pianificazione statale e si aveva una scarsa conoscenza di come regolare il flusso di materiali e
componenti, solitamente dettato in tempo di pace dalle forze del mercato. La necessità di
reclutare le imprese americane per contribuire allo sforzo bellico portò alla fine a un sistema in
cui, anziché le agenzie federali formalmente responsabili, erano piuttosto le iniziative
improvvisate e imprenditoriali a creare le condizioni per incrementare la capacità produttiva. Il
War Production Board, istituito nel gennaio del 1942, dovette concedere all’esercito e alla
marina il diritto di stipulare contratti per armi e munizioni senza previa approvazione, annullando
cosí lo scopo del comitato di vigilanza sulla produzione aggregata. Venne creato un Production
Requirements Plan con l’obiettivo di razionare le materie prime al fine di limitare l’autonomia
dell’esercito e della marina, anche se l’istituzione mancava dell’apparato burocratico necessario
a far rispettare le priorità. Sotto gli auspici del War Production Board fu istituito un Production
Executive Committee allo scopo di cercare di controllare e tracciare la distribuzione di
componenti standardizzati essenziali. Il comitato produsse un programma generale per l’utilizzo
di ottantasei componenti, in modo da garantire che venissero destinati tempestivamente là dove
erano piú necessari, ma i risultati non furono sempre positivi. Emerse inoltre una pletora di
agenzie per il controllo dell’uno o dell’altro settore dell’economia di guerra, cosa che generò un
sistema troppo spesso contraddittorio, non tanto cooperativo quanto amministrativamente
confuso .
31

In assenza di una rigida pianificazione e direzione che ricalcassero il modello sovietico,


l’economia di guerra americana dipendeva dall’opportunismo e dall’ambizione delle imprese
private. La diversità tra i due modelli fu esemplificata da una delle prime azioni del War
Production Board, diretto da William Knudsen, presidente della General Motors. Egli convocò i
principali direttori d’azienda e lesse loro ad alta voce un elenco dei contratti prioritari, chiedendo
che si presentassero dei volontari. Le grandi compagnie non si lasciarono sfuggire
quell’opportunità . Nella prima ondata di appalti, i quattro quinti andarono a un centinaio di
32

imprese, ma la necessità di subappaltare la produzione di migliaia di componenti e nuove


attrezzature creò tra le piccole imprese la corsa al profitto e alla massima produttività. La
General Motors utilizzava 19 000 fornitori per garantire i componenti necessari all’assemblaggio
finale presso i principali stabilimenti dell’azienda, con una produzione di 13 450 aerei. L’intera
industria aeronautica impiegava circa 162 000 subappaltatori . Negli anni di guerra, furono
33

create 500 000 nuove imprese, in gran parte per soddisfare la massiccia domanda di materiale
bellico specializzato. Furono anche arruolati uomini d’affari che collaborassero alla gestione
delle agenzie federali, creando cosí un collegamento formale tra il mondo del commercio e gli
sforzi del governo – Knudsen della General Motors, Donald Nelson (suo successore) della Sears
Roebuck, Charles Wilson della General Electric, il consulente finanziario Ferdinand Eberstadt e
altri ancora. Mentre il sistema sovietico dipendeva da un attento monitoraggio dei dirigenti
statali, quello americano si basava su tradizioni di volontarismo antistatale, su un vigoroso spirito
di competizione e sull’immaginazione imprenditoriale . Quando Henry Ford si era offerto –
34

inutilmente – di costruire 1000 aerei da combattimento al giorno, aveva altresí ammonito i


funzionari statali che avrebbe potuto farlo solo se non vi fosse stata alcuna ingerenza da parte
dell’amministrazione federale. Malgrado i pregiudizi di Ford nei confronti dell’apparato e delle
lungaggini burocratiche, la sua azienda divenne alla fine uno dei massimi produttori di una vasta
gamma di armamenti: 277 896 jeep, 93 718 camion, 8685 bombardieri, 57 851 motori
aeronautici, 2718 carri armati e 12 500 autoblindo. L’intera industria automobilistica fu
convertita quasi completamente per soddisfare le commesse di guerra. Se nel 1941 erano stati
prodotti oltre 3,5 milioni di automobili, al culmine del conflitto il loro numero era sceso
vertiginosamente .
35

I tanti problemi connessi al monitoraggio della produzione bellica – insieme con gli occasionali
esempi di spreco, corruzione o incompetenza che la concorrenza tra produttori e agenzie
inevitabilmente generava – rivestivano negli Stati Uniti un’importanza molto minore rispetto a
qualsiasi altro paese, grazie soprattutto all’abbondanza di risorse e denaro in un’economia che
non conosceva né blocchi commerciali né bombardamenti. Mentre la Germania doveva
incanalare risorse per difendere il proprio spazio aereo e le città, gli Stati Uniti non dovevano
spendere in tal senso quasi nulla. La maggior parte degli storici ritiene ora che quell’eccezionale
produzione avrebbe potuto essere realizzata piú economicamente adottando una maggiore
centralizzazione e coercizione, ma, ciò nonostante, la produttività rimase decisamente alta nel
settore delle armi grazie alle economie generate dalle stesse dimensioni della produzione in serie
e dall’ampia diffusione della catena di montaggio e della produzione a flusso continuo, inclusa
quella di attrezzature per i trasporti. La produzione di 303 713 aeromobili e 802 161 motori
aeronautici in quattro anni fu un diretto riflesso dei punti di forza dell’alleanza stretta
temporaneamente tra lo stato federale e l’industria, non certo dei suoi svantaggi. La produzione
aeronautica, misurata in libbre pro capite prodotte giornalmente, passò da 1,05 nel luglio del
1941 a 2,70 tre anni dopo. Se si considera il forte impegno verso la produzione di armi per
l’esercito, le dimensioni dei cantieri di navi mercantili e per trasporto truppe risultarono
altrettanto notevoli. Il varo di 1316 navi da guerra, dalle corazzate ai cacciatorpediniere che
scortavano i convogli, eclissò la produzione navale di qualsiasi altra potenza; vanno inoltre
aggiunte 109 786 navi piú piccole, tra cui 83 500 mezzi da sbarco per le operazioni anfibie . Il 36

settore della cantieristica mercantile produsse 5777 navi di grande tonnellaggio, tra cui le navi da
trasporto della classe Liberty, il piú famoso esempio di produzione di massa americana realizzata
da Henry Kaiser, l’imprenditore americano per antonomasia.
Quella di Kaiser era stata la classica storia «dalle stalle alle stelle»: dopo aver mandato avanti un
negozietto di fotografo a New York, era stato messo a capo di un’importante società di
costruzioni che aveva realizzato la diga di Hoover e il ponte della baia di San Francisco-Oakland.
Kaiser aveva un’autentica passione per le sfide di progetti apparentemente impossibili. Pur non
avendo alcuna esperienza di cantieristica, nel 1940, quando la sua impresa di costruzioni iniziò
ad assemblare nuovi cantieri, decise di costruire anche navi, benché non avesse mai assistito a un
varo. Con la Permanente Metals Corporation di Richmond, in California, decise di produrre in
serie un cargo standard di 10 000 tonnellate per contribuire alla sostituzione delle navi mercantili
affondate dai sommergibili tedeschi. Progettata semplicemente con pezzi standardizzati messi
assieme, la nave di classe Liberty venne prodotta grazie a una linea di montaggio lunga diversi
chilometri dalla riva; componenti e sottogruppi viaggiavano su nastri trasportatori lunghi 24
metri e pulegge giganti, mentre gli operai, con una formazione limitata e monitorati da esperti in
tempistica e movimentazione, erano distribuiti lungo la linea e svolgevano compiti ripetitivi. La
costruzione della prima nave varata in un cantiere di Baltimora aveva richiesto 355 giorni e 1,5
milioni di ore di lavoro; nel 1943, la catena di montaggio dei cantieri Kaiser in California
completava una nave in una media di 41 giorni, dopo appena 500 000 ore di lavoro. Alla fine
della guerra, i cantieri Kaiser avevano costruito 1040 navi di classe Liberty, 50 portaerei di scorta
ai convogli e una schiera di navi piú piccole. La costruzione da parte di Kaiser durante la guerra
di quasi un terzo delle navi americane fu il prodotto di una cultura fiorita sullo zelo
imprenditoriale individuale e sul culto della razionalizzazione industriale .
37

Piú discutibile era la qualità di certa produzione in serie in situazioni di guerra. Le stesse navi di
classe Liberty, con il loro nuovo scafo completamente saldato, potevano spezzarsi in due in
mezzo alle tempeste oceaniche. I militari si affidavano a progetti già in produzione o che si
potevano rapidamente adattare alla produzione in serie, per cui si rendeva necessaria l’esperienza
del combattimento per individuare le pecche di tale forma di produzione. I bombardieri B-17 e
B-24, per esempio, risultavano degli obiettivi vulnerabili al sistema di difesa antiaerea tedesco e
riuscivano a scamparla unicamente perché erano scortati da caccia piú moderni. Solo questi
ultimi, a loro volta, potevano impegnarsi in combattimento sulla Germania, grazie
all’introduzione di serbatoi aggiuntivi prodotti rapidamente in serie e con successo negli Stati
Uniti alla fine del 1943. Il bombardiere pesante B-29 piú avanzato, divenuto operativo solo alla
fine del 1944, presentava comunque problemi di progettazione una volta in battaglia. Malgrado
un primo volo nell’ottobre del 1942 del caccia sperimentale a reazione Bell XP-59A, il suo
sviluppo fu troppo lento per produrre un aereo a reazione in tempo per combattere in guerra . La 38

decisione di attenersi a un modello di carro medio, l’M4 Sherman e i suoi derivati, fu approvata
dall’Ordnance Department Technical Division dell’esercito, diretta dal generale maggiore
Gladeon Barnes, perché poteva essere rapidamente prodotto in serie, pur essendo inferiore
all’ultimo modello tedesco e ai carri armati sovietici. L’Ordnance Department non possedeva
alcuna esperienza reale nella progettazione di carri armati né aveva familiarità con le esigenze
delle forze corazzate impegnate in combattimento. Lo Sherman, nonostante alcune limitate
migliorie, presentava una protezione dell’armatura inefficace, una sagoma vulnerabile sul campo
di battaglia e cannoni con una velocità insufficiente. Gli equipaggi dell’M4 in combattimento nel
1943 e nel 1944 dovettero escogitare tattiche per colpire un carro armato tedesco di lato o da
dietro anziché frontalmente, una posizione in cui era probabile che fossero distrutti. «Abbiamo
dei carri armati», scrisse un sergente di una divisione corazzata, «buoni per le parate e
l’addestramento, ma in combattimento sono solamente delle potenziali bare». Un sostituto piú
pesante, il T26 Pershing, capace di combattere i carri armati tedeschi Panther e Tiger, divenne
disponibile, e in numero limitato, solo nelle ultime settimane del conflitto: 310 furono consegnati
sul teatro di guerra europeo, altri 200 vennero inviati a unità corazzate . Nei combattimenti di
39

terra, gli americani riportarono dei successi principalmente perché disponevano semplicemente
di cosí tanti equipaggiamenti da compensare eventuali carenze nella qualità del prodotto.
Durante la guerra, l’economia tedesca avrebbe potuto potenzialmente diventare uno dei
principali produttori di massa. A differenza dell’Italia e del Giappone, relativamente meno
sviluppati industrialmente e con gravi limiti di risorse, la Germania vantava una potente forza
industriale, ingegneristica e scientifica da mobilitare a fini bellici, senza contare l’accesso dopo il
1941 alle risorse della maggior parte dell’Europa continentale. Se l’Unione Sovietica produceva
nel 1943 8,5 milioni di tonnellate di acciaio, il Reich ne produceva 30,6 milioni; nello stesso
anno la Germania aveva a disposizione 340 milioni di tonnellate di carbone, contro i 93 milioni
dell’Unione Sovietica; sempre nel 1943, la produzione di alluminio – essenziale per gli aerei e
molti altri prodotti legati alla guerra – raggiungeva in Germania le 250 000 tonnellate, mentre la
produzione sovietica ne rappresentava solo una parte esigua, con 62 000 tonnellate. Non si può
sostenere che il Terzo Reich mancasse di risorse adeguate o di investimenti industriali. Solo nel
1943-44, tuttavia, l’economia tedesca, nonostante i pesanti bombardamenti delle principali città
industriali, iniziò a sfruttare tali risorse in modo abbastanza efficace da avvicinarsi alla capacità
produttiva degli Alleati, pur non riuscendo a uguagliarla. A spiegare questo paradosso era la
riluttanza del regime di Hitler a mobilitare completamente l’economia per paura di alienarsi la
popolazione attiva, fino a quando non si trovò costretto a farlo nel 1943 a causa delle mutate
condizioni della guerra – una conclusione a cui giunsero nel 1945 gli esperti economisti collegati
allo Strategic Bombing Survey americano, perplessi del perché la Germania, con tutte le risorse a
disposizione dell’economia militare, avesse prodotto nei primi anni di guerra un numero cosí
modesto di aerei, carri armati e veicoli .
40

La realtà storica era molto diversa. Dall’inizio della guerra, Hitler, in veste di comandante in
capo, si aspettava che la produzione bellica si espandesse rapidamente fino a superare i livelli
raggiunti alla fine della Prima guerra mondiale. A dicembre del 1939, l’Ufficio armamenti della
Wehrmacht aveva messo a confronto la produzione del 1918, la produzione attuale e l’Endziel,
l’«obiettivo finale», di Hitler riguardo a munizioni e armi. L’artiglieria prodotta nel 1918
ammontava a 17 453 pezzi, mentre l’obiettivo finale di Hitler era una produzione di 155 000
pezzi all’anno; le mitragliatrici prodotte nel 1918 erano state 196 578, laddove la cifra prevista
da Hitler superava i due milioni l’anno; nel 1918 la produzione mensile di polvere da sparo ed
esplosivi era stata di 26 100 tonnellate, ma Hitler voleva 60 000 tonnellate al mese. L’ordine del
quartier generale di Hitler era di convertire l’economia tedesca alla produzione bellica «con tutta
l’energia», al fine di garantire «un programma con le cifre piú alte possibili» . Hitler usò queste
41

statistiche come un elemento imprescindibile delle sue rampogne sull’inefficienza dell’attuale


produzione militare. Nel dopoguerra, Albert Speer, designato ministro degli Armamenti nel
febbraio del 1942, disse a coloro che lo interrogavano che Hitler «conosceva in dettaglio i dati
sugli approvvigionamenti dell’ultima guerra e poteva rimproverarci del fatto che nel 1917-18 la
produzione fosse superiore a quella che potevamo mettere in mostra nel 1942» . Tra il 1939 e il
42

1942 la produzione bellica tedesca si espanse ma rimase ben al di sotto dei livelli quantitativi
possibili, considerando che nel 1942 quasi il 70 per cento della forza lavoro industriale lavorava
su commesse delle forze armate (un livello sostanzialmente piú alto di quello mai conseguito
durante la guerra da Gran Bretagna o Stati Uniti), mentre tre quarti della produzione di acciaio
era destinata all’economia militare . Nei primi anni delle ostilità, Gran Bretagna e Unione
43

Sovietica produssero piú dell’economia tedesca, ma con meno risorse materiali e minor forza
lavoro.
Si possono trovare molte spiegazioni a questa disparità. Pur avendo una sua visione molto
precisa degli obiettivi riguardanti la produzione bellica, Hitler non istituí, a differenza di Stalin (o
dello stesso Churchill), un comitato centrale per la difesa in cui si potessero integrare e abbinare
strategia, capacità industriale e sviluppo tecnologico. In assenza di un centro decisionale, il
sistema tedesco della produzione bellica rimase ostinatamente decentralizzato, con elementi
diversi all’interno dell’apparato amministrativo che operavano isolati uno dall’altro: il Piano
quadriennale controllato da Göring, il ministero dell’Economia, il ministero del Lavoro, il
ministero degli Armamenti e Munizioni creato nella primavera del 1940, il ministero
dell’Aviazione e cosí via. Il principale problema era dato dal fatto che gli alti gradi militari si
arrogavano il diritto assoluto di controllare quanto veniva prodotto, da chi e in quale quantità. Le
strutture delle forze armate non riuscivano a coordinare la pianificazione e ciascun ramo asseriva
di avere bisogni urgenti, prestando scarsa attenzione a ciò che era possibile da parte
dell’industria. I militari diffidavano istintivamente della produzione in serie e preferivano
utilizzare appaltatori affermati, con una tradizione di lavoro specializzato e di alta qualità e armi
che rispettavano le specifiche tecniche. I moderni armamenti richiedevano infatti un livello di
sofisticatezza tecnica e finitura di precisione che si pensava sarebbe andato perso nella
produzione in serie. Interrogato alla fine della guerra sul fallimento della piena mobilitazione
dell’industria automobilistica tedesca, con il suo potenziale di produzione di massa, un alto
funzionario del ministero di Speer sosteneva ancora che «non era adatta alla produzione bellica.
[...] Non ci siamo concentrati su un unico tipo da prodursi in massa» . Gli ingegneri e gli ispettori
44

militari insistevano piuttosto affinché l’industria rispondesse in modo flessibile alle infinite
richieste di modifiche basate sull’esperienza di combattimento, commissionando un’intera
gamma di modelli e progetti sperimentali che rendevano difficile realizzare la standardizzazione
e la lunga catena di produzione. Nel 1942 Hitler osservò che l’industria aveva tutte le ragioni di
lamentarsi di una «procedura sconclusionata: oggi un ordine per dieci obici, domani per due
mortai e via dicendo» . Ci si aspettava che l’industria civile obbedisse agli ordini; ingegneri e
45

progettisti civili erano tollerati al fronte soltanto se indossavano un’uniforme; lo stesso ministero
degli Armamenti, gestito da amministratori civili che cercavano di fornire piú armi, era
considerato dall’Ufficio armamenti della Wehrmacht una sorta di «intruso privo di esperienza» . 46

Come conseguenza di un’economia di guerra in gran parte non pianificata e schiacciata da


richieste militari che reprimevano la possibilità di una produzione in serie sorse un sistema che
nel 1941, secondo Karl Saur, il vice di Speer, appariva «del tutto irrazionale» . 47

Il decreto emanato da Hitler nel dicembre del 1941 sulla razionalizzazione era stato un tentativo
di rompere l’impasse e insistere affinché i militari permettessero all’industria tedesca di mettersi
al passo con la capacità produttiva della pratica sovietica. I risultati rimasero contrastanti. Poco
dopo il decreto di Hitler, il ministero delle Munizioni diretto da Fritz Todt introdusse un
cambiamento radicale nell’organizzazione della produzione bellica. Per ogni classe importante di
armamenti – mezzi corazzati, armi leggere, munizioni, macchine utensili, navi da guerra –
furono istituiti dei comitati prioritari, diretti da ingegneri e industriali anziché da militari. La
produzione di aerei, che assorbiva oltre il 40 per cento delle risorse destinate alla produzione
bellica, rimase tuttavia indipendente dal ministero di Todt. Erhard Milch, il vice di Göring al
ministero dell’Aviazione, creò delle analoghe «organizzazioni circolari» per la produzione di
aerei, motori aeronautici e componenti gestite dai principali produttori, anche se i 178 comitati e
organizzazioni esistenti nell’estate del 1942 rischiavano di travolgere ancora una volta il
sistema . In entrambi i casi, l’obiettivo era consentire alle imprese piú efficienti di assumere un
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ruolo guida. «Quest’idea di convincere le aziende ad accettare la guida di quella piú


competente», affermò Otto Merker, direttore del comitato per le costruzioni navali, «fu il primo
grande passo verso una razionalizzazione di successo» . A febbraio del 1942, Todt morí in un
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incidente aereo e fu sostituito da Hitler con il suo beniamino, il giovane architetto Albert Speer,
un civile senza alcuna esperienza nella produzione di armi, nominato ministro degli Armamenti e
della Produzione bellica. Proseguendo il lavoro di Todt, Speer introdusse a marzo la Zentrale
Planung, un Consiglio centrale di pianificazione che aveva lo scopo di regolamentare la fornitura
di materie prime fondamentali, assegnate in precedenza con scarsa attenzione alle priorità e con
molti sprechi. A seguito del decreto di Hitler, la razionalizzazione divenne non solo una necessità
economica ma anche un imperativo politico. A un esperto di efficienza come Theodor Hupfauer
fu chiesto di riferire sul complessivo andamento produttivo dell’industria bellica. Il suo
sondaggio, riferí a coloro che lo interrogarono nel 1945, aveva dimostrato che «il grado di
efficienza dell’industria tedesca, incluse le aziende piú moderne, era pessimo». Era sua opinione
che i tempi di produzione nei singoli processi potessero variare fino a venti volte tra le diverse
aziende e quattro o cinque volte per l’assemblaggio finale. Per il resto della guerra, scrisse, la
parola d’ordine divenne «MAGGIORE EFFICIENZA su una base piú ampia possibile e con tutti i
mezzi possibili» .
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Il tentativo di sfruttare piú razionalmente nello sforzo bellico la capacità industriale tedesca
incontrò la resistenza dell’esercito, che continuava a considerare primaria la consueta pratica
delle forniture militari. Alla fine, Speer riuscí a stabilire il controllo su tutte le branche della
produzione militare soltanto nell’estate del 1944, ma lo sforzo di razionalizzare l’industria aveva
l’appoggio diretto di Hitler e non poteva essere facilmente contestato. Uno dei cambiamenti
chiave introdotto all’inizio del 1942 su iniziativa di Todt, ma contro la volontà dell’esercito, era
stato quello di stipulare dei contratti obbligatori a prezzo fisso per sostituire il sistema degli
accordi per appalti militari a costi maggiorati. Un prezzo fisso permetteva ai produttori di
tagliare i costi per realizzare un profitto adeguato, laddove i costi maggiorati incoraggiavano una
pratica produttiva meno efficiente poiché le aziende cercavano di eludere i rigorosi controlli
militari su prezzi e costi. In regime di prezzo fisso, le imprese ricevevano premi se riuscivano a
produrre a un prezzo del 10 per cento inferiore a quanto concordato, oppure, se accettavano un
prezzo ben al di sotto della norma, potevano ridurre i costi grazie al risparmio garantito da una
maggiore efficienza e incamerare il margine come guadagno supplementare senza dover pagare
la tassa speciale sui profitti di guerra. Come disse Todt a un’assemblea di industriali tedeschi nel
gennaio del 1942: «L’impresa che lavora piú razionalmente ottiene il maggiore profitto». Piú
un’impresa riusciva a incrementare la propria efficienza, piú alti erano i guadagni . Se le forze
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armate accettarono con riluttanza di non essere piú loro a determinare i prezzi, gli esponenti piú
radicali del Partito nazionalsocialista non gradirono la natura apertamente «capitalista» della
riforma Todt. A maggio del 1942 Speer introdusse in ogni caso il nuovo sistema dei prezzi fissi,
con la minaccia che le imprese che avessero fallito la prova di una maggiore produttività
sarebbero state tagliate fuori dal cerchio degli appaltatori. È difficile stimare quanta parte delle
migliori prestazioni produttive nascesse dall’incentivo a realizzare profitti, dato che alcune delle
aziende di armamenti erano di proprietà statale. L’esclusione dei militari dalla formazione dei
prezzi lasciò comunque le imprese libere di prendere le loro decisioni sulle modalità della
produzione di guerra .52

Piú difficile fu riorganizzare lo stato confuso delle commesse militari e concentrare la


produzione in lunghe catene di prodotti standardizzati, anche se le pesanti perdite dopo
Stalingrado resero essenziale una razionalizzazione. Nel 1943 Speer riuscí a concentrare la
produzione di componenti e macchine utensili, premiando le aziende piú efficienti e facendo
cessare la produzione delle altre. Nel 1942, le macchine utensili erano prodotte in 900 aziende,
divenute appena 369 nell’autunno del 1943; i 300 diversi tipi di vetro prismatico prodotti furono
ridotti a 14 e le imprese coinvolte passarono da 23 a 7 . Una Commissione per gli armamenti,
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istituita da Speer per garantire una migliore corrispondenza tra le esigenze tecniche dell’esercito
e le capacità dell’industria, riuscí a trovare un accordo con i militari al fine di ridurre da 14 a 5 il
numero di armi della fanteria leggera, da 12 a 1 le armi anticarro, da 10 a 2 i tipi di cannoni della
contraerea, da 55 a 14 i veicoli e da 18 a 7 i mezzi corazzati. L’alto comando dell’esercito ordinò
infine «di semplificare la fabbricazione» in modo da coadiuvare la «produzione di massa» . I 54

modelli di aerei passarono da 42 a 20, poi a 9 e infine a 5, sotto la supervisione di uno Jägerstab
(Stato maggiore dei caccia) di emergenza, istituito nella primavera del 1944 per tentare di
arginare i bombardamenti sulla Germania . I modelli selezionati e i loro componenti potevano
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quindi essere prodotti con catene di montaggio grazie all’introduzione della produzione
meccanizzata mediante nastri trasportatori e pulegge. I moderni metodi di fabbrica non erano
diffusi sull’intero territorio, essendo compromessi dai pesanti bombardamenti e dalla necessità di
dislocare il piú possibile la produzione. La preferenza dei tedeschi per le macchine utensili di uso
generico, anziché per la strumentazione specializzata necessaria alla produzione di massa,
continuò a incentivare, dove era possibile, un’eccessiva dipendenza da lavoratori qualificati,
sebbene nel 1944, quando fu finalmente raggiunta un’elevata produzione in serie, gran parte
della forza lavoro fosse costituita da manodopera straniera semi-qualificata, piú adatta alla catena
di montaggio. Anche se le prestazioni delle singole imprese differivano molto – la crescita della
produttività annuale negli stabilimenti aeronautici che producevano Junkers fu del 69 per cento,
ma solo dello 0,3 per cento in quelli dei bombardieri Heinkel –, le statistiche generali della
produttività del lavoro evidenziano negli ultimi due anni di guerra un piú elevato incremento . 56

Nell’industria tedesca della difesa, la produzione pro capite, secondo una stima, scese da un
indice di 100 nel 1939 a 75,9 nel 1941, per risalire poi a 160 nel 1944; altre stime sembrano
indicare un modesto aumento tra il 1939 e il 1941 e un incremento piú marcato in seguito, dal
1942 al 1944, quando l’industria bellica aveva finalmente completato la curva di apprendimento.
Lo studio condotto dagli americani nel dopoguerra sui bombardamenti, utilizzando le statistiche
ufficiali tedesche, riscontrò che la produttività nei settori correlati – chimico, siderurgico,
combustibili liquidi – era sostanzialmente inferiore nel 1944 rispetto all’inizio della guerra. Il
risultato era stato meno impressionante dell’esperienza sovietica o americana . 57

La produzione in serie fu finalmente realizzata proprio nel momento in cui i bombardamenti e


l’avanzata di terra degli Alleati stavano riducendo l’accesso tedesco alle risorse e, com’era
avvenuto nel 1944 per l’incremento della produzione giapponese, si arrivò al punto in cui la
produzione alleata superava di gran lunga ciò che l’Asse avrebbe potuto forse produrre. La
grande crescita della produzione di aerei e veicoli nel 1943-45 venne di conseguenza risucchiata
in una sorta di circolo vizioso, in cui l’aumento delle perdite annullava rapidamente l’impatto
militare che la maggiore produzione quantitativa avrebbe potuto avere. Nel caso della Germania,
l’enfasi sulla qualità delle armi, cosí importante per i militari, venne vanificata dalla natura
disorganizzata dell’economia di guerra e dagli insuccessi nello sviluppo di nuovi armamenti.
L’aviazione militare espresse giudizi negativi sull’evoluzione di una nuova generazione di aerei,
finendo cosí per produrre gli stessi modelli, seppure migliorati, di cui la Luftwaffe disponeva già
nel 1938: Me109, Me110, He111, Do17, Ju52, Ju87 e Ju88. Il bombardiere pesante Heinkel
He177 e il caccia pesante Messerschmitt Me210 furono entrambi dei disastri di progettazione che
assorbirono grandi risorse offrendo però uno scarso ritorno . Il motore a reazione Me262 era
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stato sviluppato rapidamente nel 1943-44 per sostituire il vecchio aereo con motore a pistoni,
poiché quello a reazione aveva bisogno di meno ore/uomo e utilizzava meno materiali di cui vi
era scarsità, pur risultando di bassa qualità e poco collaudato. Di 1433 aerei a reazione prodotti
alla fine della guerra, solo 358 divennero operativi, mentre centinaia di essi dovettero essere
demoliti . La ricerca e lo sviluppo di aeromobili, isolati dal fronte, finirono per frantumarsi in un
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vasto assortimento di progetti avanzati che contribuirono poco allo sforzo bellico, incluso
l’insuccesso del cosiddetto «caccia del popolo» Heinkel He162 con motore a reazione, fabbricato
in tutta fretta come il Me262 in fabbriche sotterranee negli ultimi mesi di guerra e divenuto
operativo in numero esiguo tre settimane prima della resa tedesca . 60

Nella guerra navale, la svolta nella progettazione dei sottomarini U-boot Klasse XXI e XXIII non
avvenne abbastanza rapidamente per permettere ai nuovi modelli di entrare in combattimento. I
carri pesanti Tiger I e Tiger II, nonostante la loro formidabile potenza, non solo furono prodotti
in numero modesto, ma risultavano anche troppo complessi tecnicamente e afflitti da continui
guasti meccanici come risultato di una produzione frettolosa. L’intervento di Hitler nel 1943
aveva infine portato alla decisione di produrre in serie le Vergeltungswaffen, le cosiddette «armi
della vendetta», ovvero il missile da crociera V1 e il razzo V2, nessuno dei quali prometteva
profitti strategici e che assorbivano entrambi un’enorme capacità produttiva che avrebbe potuto
essere invece concentrata su armamenti strategicamente vantaggiosi. Nonostante tutta l’enfasi
dell’esercito tedesco sulla qualità piuttosto che sulla quantità, la soglia tecnologica piú avanzata
raggiunta nel 1944 non fu sufficiente a compensare il crescente divario di risorse sul campo di
battaglia tra la Germania e gli Alleati. La produzione bellica tedesca si trovò tra l’incudine e il
martello della pratica sovietica e di quella americana: da un lato, una forma di economia di
comando priva però di un comandante centrale, dall’altro, un sistema capitalista in cui
l’iniziativa imprenditoriale era soffocata dall’intervento militare anziché essere liberata. I
paradossi prodotti da questa situazione furono risolti troppo tardi per realizzare la visione
hitleriana della produzione di massa formulata nel decreto del 1941.
Gli arsenali della democrazia: il programma «Lend-Lease».
All’inizio di ottobre del 1941, a Mosca, i rappresentanti britannici e americani raggiunsero con il
governo sovietico uno storico accordo per la fornitura di armi e attrezzature destinate allo sforzo
bellico dell’Urss. Alla sigla dell’accordo, Maksim Litvinov, presente ai colloqui e in procinto di
assumere la carica di ambasciatore dell’Unione Sovietica a Washington, era balzato in piedi
gridando: «Ora vinceremo la guerra!» . Di certo, Stalin non doveva essere meno entusiasta, dopo
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settimane di gelidi scambi in merito alla mancanza di aiuti da parte alleata. In mezzo alla
battaglia che infuriava nei pressi della capitale sovietica, Stalin scrisse a Roosevelt per esprimere
la sua «piú profonda gratitudine» per le forniture promesse e la sua «sincera riconoscenza» per il
fatto di non doverle pagare, o, al massimo, soltanto a guerra terminata . Lo stesso giorno, il 7
62

novembre 1941, il presidente americano ordinò formalmente che l’Unione Sovietica fosse ora
inclusa tra i destinatari di aiuti Lend-Lease. L’unico modo in cui le altre potenze alleate potevano
accrescere il loro accesso a equipaggiamenti militari, al di là di quelli che potevano produrre a
livello nazionale, era fare affidamento sulla disponibilità degli Stati Uniti a fornirli
gratuitamente. L’accordo di Mosca rientrava in uno sforzo logistico mondiale senza precedenti e
volto a ridistribuire le risorse tra gli stati che combattevano contro l’Asse. In un apprezzamento
del Lend-Lease fatto negli anni di guerra, Charles Marshall, professore di politica a Harvard e
per un certo tempo anche soldato, lo descrisse come «un enorme sistema di strategia economica
internazionale. Vi partecipano nazioni che coprono i due terzi della superficie terrestre e della
sua popolazione» . Il potenziale bellico-economico degli Alleati era stato trasformato dalle scelte
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strategiche di Washington prima ancora che gli Stati Uniti divenissero un paese attivamente
belligerante. Nel 1945, la promessa fatta da Roosevelt nel dicembre del 1940 che gli Stati Uniti
sarebbero diventati «il grande arsenale della democrazia» era stata mantenuta con un programma
di aiuti del valore di oltre cinquanta miliardi di dollari.
Gli alleati dell’Asse non godevano di vantaggi nemmeno lontanamente paragonabili. Non
esisteva un «arsenale della dittatura». Anche se l’economia di guerra tedesca era in stretto
rapporto con quella di Italia e Giappone, cosí come l’economia americana lo era con quella degli
Alleati, la Germania aveva già difficoltà a soddisfare le proprie esigenze militari senza dover
sostenere le economie di guerra di partner piú deboli. Le piccole quantità di forniture militari
concesse agli alleati dei tedeschi, per le quali quegli stessi alleati dovevano pagare, erano messe
in ombra dalla generosità americana. Nel 1943, la Germania esportò 597 aerei, per la maggior
parte non da combattimento, in Italia, Finlandia, Romania, Ungheria, Bulgaria e Slovacchia in
cambio di petrolio, prodotti alimentari e minerali assolutamente indispensabili ai tedeschi; tra il
1941 e il 1945, gli Stati Uniti consegnarono ai loro alleati 43 000 aerei e 48 000 motori
aeronautici . Non fu mai fatto alcun accenno all’eventualità che Italia e Giappone fornissero aiuti
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militari alla Germania, neppure nel caso in cui questo fosse stato logisticamente possibile. Gli
aiuti al Giappone da parte delle potenze europee dell’Asse erano limitati dalla geografia e dalla
presenza della potenza navale oceanica anglo-americana. Nel 1943 erano arrivati in Giappone
sette aerei tedeschi e un motore aeronautico BMW. L’impero del Sol Levante, a sua volta, aveva
accettato alla fine di fornire materie prime provenienti dalle regioni meridionali conquistate non
appena era stato chiaro che la Germania non avrebbe avanzato pretese su di esse dopo aver
conquistato la Francia e i Paesi Bassi: le navi giapponesi che forzavano il blocco (le cosiddette
Yanagi-sen, o «navi salice») consegnarono cosí 112 000 tonnellate di forniture, principalmente
gomma e stagno. Nel 1943, il controllo alleato degli oceani aveva reso impossibile continuare.
Di 17 483 tonnellate di forniture inviate in quell’anno attraverso il blocco alleato ne arrivarono a
destinazione solo 6200, una minima frazione del tonnellaggio interalleato. Il Giappone, al
contrario, fece uso di cargo sottomarini di grandi dimensioni per far arrivare le materie prime in
Germania, ma la maggior parte di essi venne affondata durante il viaggio. Di 2606 tonnellate
inviate in Europa nel 1944-45, solo 611 tonnellate riuscirono a passare . La Germania riforniva
65

l’Italia soprattutto di carbone e acciaio, anche se Berlino era dell’idea che l’Italia dovesse
adeguare la propria strategia alle proprie risorse nazionali anziché aspettarsi delle forniture
tedesche. In realtà, solo una frazione del carbone e dell’acciaio richiesti dall’Italia fu
effettivamente fornita. Le aziende tedesche, inoltre, temevano che qualsiasi attrezzatura venduta
o barattata con l’Italia sarebbe stata poi imitata dalle imprese italiane sul mercato competitivo del
dopoguerra. Ai funzionari italiani fu detto che i macchinari destinati alle fabbriche belliche
italiane erano gli ultimi della lista, poiché la priorità era fornire attrezzature industriali alle
aziende europee che lavoravano alle commesse militari tedesche. Quando nel 1942 l’aviazione
italiana aveva chiesto apparecchiature radar avanzate, la Telefunken, principale fornitore, aveva
insistito sul fatto che avrebbero dovuto essere prodotte da personale tedesco in Italia al fine di
evitare qualsiasi pirateria commerciale . Tra le tre potenze dell’Asse vi furono pochissimi aiuti
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tecnici o scientifici diretti. Nel 1942 gli ingegneri tedeschi avevano acconsentito a inviare in
Giappone un modello di radar Würzburg, ma uno dei due sottomarini che trasportavano
l’attrezzatura fu affondato durante la traversata.
Gli stati dell’Asse dovevano quindi fare affidamento sulle risorse materiali delle aree conquistate
per sostenere il loro sforzo bellico. Equipaggiamenti militari supplementari potevano essere
assicurati, principalmente, solo impadronendosi delle armi del nemico, e questa era nel migliore
dei casi un’improvvisazione con benefici imprevedibili e a breve termine. L’acquisizione piú
utile per le forze armate tedesche fu l’aggiunta di 200 000 autoveicoli francesi e britannici
catturati in seguito alla sconfitta della Francia, insieme con una certa quantità di aerei francesi
requisiti. Lo sfruttamento da parte tedesca dell’aviazione e dell’industria automobilistica
francese continuò durante l’occupazione. Nel 1942 le aziende francesi fornirono in totale 1300
aerei e 2600 nel 1943, anche se in molti casi erano velivoli per addestramento e di uso ausiliario.
Si trattava dunque di una minuscola frazione degli aerei prodotti in Germania nel corso della
guerra e doveva essere pagata . I mezzi corazzati catturati ai francesi venivano utilizzati dalle
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armate tedesche, ma, anche in questo caso, si trattava di piccoli numeri: secondo un rapporto
stilato dalla Wehrmacht nel maggio del 1943, lungo l’intero fronte tedesco erano operativi 670
carri armati francesi. Benché fosse intenzione dell’alto comando tedesco di rimettere in campo il
maggior numero possibile di carri armati sovietici, erano pochissimi i mezzi corazzati catturati ai
russi ancora idonei all’uso. Si stima che sul fronte orientale fossero disponibili circa 300 T-34
sovietici, inseriti nell’esercito o nelle forze di sicurezza, anche se lo stesso rapporto di maggio
del 1943 ne contava solo 63 operanti con unità della Wehrmacht. Dopo le pesanti perdite subite
nei combattimenti, nell’aprile del 1945 rimanevano operativi 310 carri armati sottratti al nemico.
In quello stesso momento della guerra, gli americani stavano fornendo agli Alleati 37 323 carri
armati .
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La decisione degli Stati Uniti di offrire aiuti ai paesi in guerra contro l’Asse senza prevederne un
pagamento non fu tuttavia semplice, non solo perché l’esercito americano, dopo l’inizio del
riarmo nel 1940, reclamava il diritto assoluto di decidere riguardo alle risorse belliche, ma anche
perché gli aiuti militari sollevavano importanti questioni legali e costituzionali in una nazione
che non era ancora in stato di guerra. La decisione scaturí dalla prova inconfutabile che la Gran
Bretagna non sarebbe stata in grado di pagare in dollari nessun ordine militare ben oltre i primi
mesi del 1941. Per due anni, i contratti firmati dagli inglesi per attrezzature militari,
principalmente aerei e motori aeronautici, erano stati pagati con la modalità cash-and-carry,
ovvero pagamento alla consegna e trasporto su naviglio mercantile del compratore, soprattutto
dopo che Roosevelt era riuscito nel 1939 a modificare con successo la legislazione sulla
neutralità americana. Nel 1940, erano stati ordinati alle fabbriche americane 23 000 aerei, ma i
mezzi per pagarli erano evaporati una volta esaurite le riserve britanniche di dollari e oro, e senza
le forniture americane lo sforzo bellico della Gran Bretagna era pericolosamente diminuito. Gli
Stati Uniti avevano già venduto una grande quantità di fucili, mitragliatrici, pezzi di artiglieria e
munizioni durante l’estate al fine di compensare le perdite del Corpo di spedizione britannico in
Francia. A settembre del 1940, Roosevelt aveva autorizzato la consegna di cinquanta
cacciatorpediniere decisamente arrugginiti, residuo della Prima guerra mondiale, allo scopo di
fare da scorta ai convogli britannici, ma questo solo dopo che il governo britannico aveva
accettato di offrire alle forze americane una serie di basi militari da Terranova alle Bermuda.
L’accordo era stato fortemente osteggiato dalle lobby ostili all’intervento americano e Roosevelt
dovette assicurare al Congresso che le basi erano degli avamposti per la sicurezza dell’emisfero
occidentale e non delle postazioni create in vista di un loro coinvolgimento nella guerra europea.
Pur sentendosi del tutto solidale con la difficile situazione britannica, Roosevelt sapeva bene che
buona parte dell’opinione pubblica americana non solo era contraria all’intervento ma aveva
spesso una mentalità anglofoba. Perfino i consiglieri militari piú vicini al presidente detestavano
fortemente l’idea che l’aiuto americano avrebbe contribuito a tutelare l’impero britannico. La
loro priorità era la sicurezza futura degli Stati Uniti, e nessuna forma di assistenza poteva essere
espressa se non in questi termini. Il piú ardente interventista tra i capi militari di alto livello,
l’ammiraglio Harold Stark, sostenne che qualsiasi aiuto destinato alla Gran Bretagna era
unicamente «per assicurare lo status quo dell’emisfero occidentale e promuovere i nostri
interessi nazionali» . Quando il disegno di legge per fornire aiuti alla Gran Bretagna fu
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presentato al Congresso nel gennaio del 1941, esso recava il goffo titolo «Disegno di legge per
promuovere la difesa degli Stati Uniti e per altri scopi» e, su istigazione di Felix Frankfurter, un
giudice della Corte suprema, recava il numero patriottico (e antibritannico) H. R. 1776 .70

La genesi del programma Lend-Lease era stata motivata da una lettera di Churchill consegnata
con un idrovolante a Roosevelt il 9 dicembre 1940, mentre il presidente era nei Caraibi a bordo
della USS Tuscaloosa, in vacanza dopo la vittoria senza precedenti di un terzo mandato alle
elezioni presidenziali di novembre. Nella lettera Churchill riconosceva che era giunto il
momento in cui la Gran Bretagna non poteva piú pagare in contanti le forniture e le spedizioni
americane e che senza quell’aiuto il paese «potrebbe precipitare» . La crisi era già stata chiarita
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senza mezze misure dall’ambasciatore britannico a Washington, Lord Lothian, al suo arrivo
all’aeroporto La Guardia di New York a fine novembre: «Bene ragazzi», aveva detto ai
giornalisti in attesa, «la Gran Bretagna è al verde. Sono i vostri soldi che vogliamo». All’inizio di
dicembre, il gabinetto di Roosevelt, dopo aver discusso la questione se gli Stati Uniti dovessero
salvare la Gran Bretagna per garantire la sicurezza americana, aveva deciso a favore, nonostante
un residuo scetticismo sul fatto che le risorse britanniche fossero davvero esaurite come
sosteneva Londra . La difficoltà stava nel trovare un mezzo per finanziare le commesse
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britanniche senza violare la legislazione sulla neutralità e il Johnson Act del 1934, che vietava
prestiti a qualsiasi stato, inclusa la Gran Bretagna, che si era rifiutata di rimborsare i prestiti
contratti nella Prima guerra mondiale. Il presidente fu visto leggere e rileggere da capo a fondo la
lettera di Churchill sul ponte del Tuscaloosa, finché l’11 dicembre aveva confidato a Harry
Hopkins, che era a bordo, l’idea di dare in affitto o prestare merci alla Gran Bretagna senza,
come avrebbe precisato in una conferenza stampa pochi giorni dopo, «il vecchio e sciocco
simbolo del dollaro» . Quasi certamente, Roosevelt sperava che l’America, sostenendo la
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belligeranza britannica, avrebbe potuto evitare la guerra; se non altro, l’idea del Lend-Lease
(come il programma di aiuti era stato inizialmente chiamato) era destinata a prevenire un collasso
britannico o una decisione da parte inglese di concludere un accordo con l’Asse. La trasmissione
di Fireside chats del 29 dicembre, in cui Roosevelt coniò l’espressione «arsenale della
democrazia», fu usata per assicurare agli americani che gli Stati Uniti sarebbero stati ora «salvati
dall’agonia e dalle sofferenze della guerra» . Roosevelt ordinò la redazione di un disegno di
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legge che riflettesse la sua decisione, che fu presentato al Congresso il 6 gennaio 1941.
Churchill era ben felice del risultato, che, come disse al suo segretario, «equivaleva a una
dichiarazione di guerra [degli Stati Uniti]» . Non era certo quello che la maggior parte degli
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americani voleva. La settimana in cui il disegno di legge fu finalmente approvato dalla Camera
dei rappresentanti nel marzo del 1941, un sondaggio di opinione rilevò che l’83 per cento degli
intervistati era contrario all’entrata in guerra dell’America. Il disegno di legge Lend-Lease divise
profondamente il pubblico americano. Gli oppositori dell’intervento condividevano l’opinione di
Churchill che esso significasse guerra in tutto tranne che nel nome. Perfino tra coloro che per
diversi anni avevano fatto pressioni affinché fosse offerto aiuto alle democrazie serpeggiava il
timore che il Lend-Lease fosse un passo eccessivo. William Allen White, presidente del
Committee to Defend America by Aiding the Allies (Comitato per la difesa dell’America
attraverso gli aiuti agli Alleati), si dimise in segno di protesta contro il disegno di legge,
coniando tra l’altro lo slogan The Yanks Are Not Coming, «Gli yankee non arriveranno», preso
poi a prestito da un ramo del movimento isolazionista come titolo di un opuscolo che vendette
300 000 copie. Sui gradini del Congresso vi fu una dimostrazione di donne vestite di nero con
cartelli che proclamavano «Uccidete il Disegno di legge 1776, non i nostri figli» . Il disegno di
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legge sollevò altresí significative proteste contro i poteri che la legislazione avrebbe concesso al
presidente. Gli isolazionisti soprannominarono il Lend-Lease «la legge-dittatura», in quanto
riconosceva a Roosevelt il diritto di decidere quali nazioni erano qualificate per ricevere gli aiuti,
quali forniture potevano avere e in che quantità, il tutto senza dover prima riferire al Congresso .77

Una tale discrezionalità dell’esecutivo era senza precedenti, ma visto che i sondaggi indicavano
che i due terzi della popolazione approvava il disegno di legge, Roosevelt ignorò tutte le
obiezioni inserendo due importanti concessioni: il presidente conveniva che il programma Lend-
Lease non avrebbe impegnato gli Stati Uniti a trasportare il materiale fornito e che il disegno di
legge sarebbe rimasto in vigore soltanto due anni. Accettò inoltre di fornire al Congresso rapporti
trimestrali sull’andamento degli aiuti, riconoscendo all’assemblea il diritto di votare i fondi
necessari nell’ambito di una serie di «Atti supplementari per aiuti alla difesa» .
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Sulla questione di un eventuale rimborso, Roosevelt fece vaghi riferimenti a una compensazione
postbellica «in natura». Si prospettavano inoltre importanti concessioni pure da parte inglese.
Roosevelt ordinò il sequestro di un certo numero di beni patrimoniali britannici in dollari e forzò
la vendita di altri; il segretario di Stato Cordell Hull ottenne da Londra anche una riluttante
promessa che il sistema di riduzioni tariffarie dell’Imperial Preference sarebbe stato sostituito
dopo la guerra con un regime commerciale piú aperto – una concessione che rendeva espliciti i
mutati rapporti di forza tra i due stati nonché l’intenzione americana di eliminare i blocchi
economici imperiali di epoca prebellica. La promessa del governo britannico non fu carpita senza
difficoltà. I negoziati per quello che sarebbe diventato il Master Lend-Lease Agreement si
trascinarono per sette mesi, mentre funzionari e politici britannici cercavano di opporsi
all’articolo VII dell’accordo, che impegnava la Gran Bretagna al libero commercio al termine
della guerra. L’impegno fu siglato il 23 febbraio 1942, solo dopo che Roosevelt ebbe chiarito
agli inglesi che il fatto di non firmarlo avrebbe avuto come conseguenza la sospensione degli
aiuti . Se Churchill incensava in pubblico il programma Lend-Lease come «l’atto piú generoso
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[unsordid ] nella storia di qualunque nazione», in privato nutriva forti preoccupazioni che la
Gran Bretagna sarebbe stata non solo scuoiata «ma scorticata fino all’osso». Non mancavano
neppure dubbi circa il fatto che Roosevelt avrebbe effettivamente consegnato quanto era stato
promesso. Dopo alcune inutili pressioni su Washington, un funzionario britannico lamentò che le
promesse americane «spesso si esauriscono in pratica nel nulla» . Dubbi analoghi assalirono
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anche i cinesi, il cui continuo sforzo bellico contro il Giappone era stato utilizzato da Roosevelt
come giustificazione per estendere il programma Lend-Lease pure alla Cina. Fin dall’inizio,
Roosevelt promise considerevoli aiuti, da incanalare attraverso la China Defense Supplies
Corporation fondata a Washington sotto la direzione di T. V. Soong, cognato di Chiang Kai-
shek. Le pressioni affinché si fornissero in primo luogo aiuti alle forze occidentali ridussero
tuttavia quelli destinati alla Cina a poco piú di un rivolo. Chiang si sentí cosí deluso dal divario
tra le promesse e la realtà da minacciare nel 1943 di raggiungere un accordo di pace con il
Giappone qualora il programma Lend-Lease non fosse stato all’altezza delle sue aspettative . 81

In effetti, il piano di aiuti si rivelò lento a materializzarsi ovunque. Alla fine del 1941, dello
stanziamento iniziale di sette miliardi di dollari, ne era stato speso solo uno. Nello stesso anno, la
maggior parte delle forniture americane alla Gran Bretagna era ancora pagata in contanti e solo
100 aerei su 2400 rientrarono nel programma Lend-Lease. Le forze degli Stati Uniti erano
impegnate nel riarmo su larga scala e non vedevano di buon occhio il trasferimento di
equipaggiamento militare in Gran Bretagna, considerando che le loro scuole di addestramento
aereo erano a corto di istruttori e le esercitazioni dell’esercito dovevano essere condotte con carri
armati finti. Il programma Lend-Lease fu inizialmente gestito da un comitato ad hoc presieduto
da Harry Hopkins e sostenuto dai nuovi poteri esecutivi di Roosevelt, ma l’approvazione e il
reperimento delle forniture che rientravano nel Lend-Lease dipendevano nel migliore dei casi
dall’improvvisazione. Sulla questione delle spedizioni delle attrezzature di cui la Gran Bretagna
aveva bisogno Roosevelt si dimostrò meno disponibile, e l’opinione pubblica molto meno
entusiasta, dato che ogni convoglio correva il rischio di imbattersi nei sottomarini tedeschi.
Quando le navi militari degli Stati Uniti iniziarono ad avventurarsi nell’Atlantico per proteggere
i convogli britannici che trasportavano merci del Lend-Lease, Roosevelt ribadí pubblicamente
che si trattava di «pattuglie» e non di scorte per la protezione dei cargo; il presidente chiese
inoltre che la pubblicità governativa sul Lend-Lease dicesse che le forniture «sarebbero state
consegnate», non «le stiamo andando a consegnare», per evitare qualsiasi sospetto che le navi da
guerra americane facessero in realtà da scorta ai convogli . Nel 1941, la fornitura da parte di
82

Washington di navi mercantili alla flotta britannica si limitò principalmente all’assegnazione di


navi dell’Asse e di paesi neutrali requisite nei porti americani e inviate sulle rotte commerciali
britanniche . Sebbene si possa sostenere che Roosevelt considerava in realtà il piano Lend-Lease
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come un trampolino di lancio dell’intervento americano nella guerra in Europa, le prove in tal
senso rimangono inconcludenti. Il presidente non mancava di ripetere nelle occasioni pubbliche
che il Lend-Lease era una strategia per difendere gli interessi americani aiutando altri paesi nella
guerra – un’asserzione a cui si dovrebbe dare il giusto peso, tanto piú che tale punto di vista
strategico era evidente anche nelle conversazioni private. In una lettera inviata nel maggio del
1941 a un deputato del Congresso, Roosevelt citava l’editoriale di un giornale riguardante la
strategia americana: «Non sono gli affari dell’impero britannico a preoccuparci, ma la nostra
sicurezza, la sicurezza del nostro commercio e l’integrità del nostro continente». Roosevelt
aggiunse: «Mi sembra decisamente corretto» . L’opinione pubblica americana rimaneva
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saldamente a favore degli aiuti alla Gran Bretagna, ma respingeva altrettanto saldamente l’idea
che gli americani entrassero in guerra come conseguenza del piano Lend-Lease.
Il principio di offrire aiuto a chi combatteva l’Asse venne messo ancora una volta alla prova
quando le truppe della Germania e dell’Asse invasero l’Unione Sovietica il 22 giugno 1941. La
decisione in quel caso fu piú difficile, giacché «l’arsenale della democrazia» non era destinato a
sostenere regimi totalitari come quello dell’Urss, senza contare la diffusa ostilità del popolo
americano nei confronti dell’Unione Sovietica e la paura del comunismo interno. Un funzionario
del dipartimento di Stato, Samuel Breckinridge Long, scrisse a luglio nel suo diario: «La grande
maggioranza della nostra gente ha imparato che il comunismo è una cosa da sopprimere e che è
nemico della legge e dell’ordine. Non riesce a capire come possiamo allinearci anche solo
minimamente con esso» . Perfino le organizzazioni interventiste, soddisfatte dell’assistenza alla
85

Gran Bretagna, erano ostili all’idea che tali aiuti fossero estesi all’Unione Sovietica, poiché
l’obiettivo, secondo una dichiarazione del movimento interventista Fight for Freedom, era quello
di «estendere la democrazia, non limitarla» . La risposta britannica quasi certamente aiutò
86

Roosevelt a prendere una decisione. Il 22 giugno, infatti, Churchill aveva promesso all’Urss un
sostegno incondizionato, e una settimana dopo dei funzionari sovietici avevano presentato a
Londra un cospicuo elenco degli aiuti richiesti dall’Unione Sovietica. Le prime forniture erano
ancora da pagare, ma il 4 settembre il governo britannico concordò l’impiego di una forma di
Lend-Lease, seppure non con quel nome, per coprire le forniture all’Unione Sovietica, molte
delle quali sarebbero state, di fatto, merci inviate alla Gran Bretagna dagli Stati Uniti nell’ambito
dell’analogo programma.
Pochi giorni dopo l’invasione tedesca, Roosevelt annunciò in una conferenza stampa che anche
gli Stati Uniti «avrebbero fornito alla Russia tutto l’aiuto possibile», ordinando lo scongelamento
di quaranta milioni di dollari di proprietà sovietica affinché potessero essere pagati tutti i beni
forniti. Il 26 giugno l’ambasciatore dell’Urss Konstantin A. Umanskij presentò una richiesta
formale di aiuti, e pochi giorni dopo arrivò da Mosca una stravagante lista della spesa che
comprendeva non solo aerei, carri armati e munizioni ma anche interi stabilimenti per la
produzione di leghe leggere, pneumatici e carburante per velivoli . Tutto questo non solo andava
87

ben oltre ciò che gli Stati Uniti erano in grado di fornire nel 1941, ma non vi era neppure alcuna
certezza che l’Unione Sovietica potesse sopravvivere all’assalto tedesco. L’opinione prevalente,
tanto a Londra quanto a Washington, presupponeva una vittoria tedesca in pochi mesi, il che
avrebbe significato che le forniture occidentali sarebbero cadute nelle mani del Reich. Solo dopo
che Hopkins rientrò da un viaggio a Mosca a fine luglio, dicendosi fiducioso che lo sforzo
bellico sovietico fosse ben lungi dal collasso, Roosevelt acconsentí finalmente il 2 agosto a
concedere «tutta l’assistenza economica praticabile», anche se, come nel caso britannico, gli aiuti
dovevano essere pagati e tardarono a concretizzarsi. Londra, intanto, temeva che un programma
americano per l’Unione Sovietica avrebbe comportato un minore sostegno alla Gran Bretagna.
Lord Beaverbrook, ministro dei Rifornimenti, esigeva che gli inglesi controllassero il flusso di
aiuti al nuovo alleato, destinandogli per esempio una frazione dei beni inviati alla Gran Bretagna
in Lend-Lease, ma gli americani opposero un netto rifiuto . Solo dopo l’incontro d’ottobre a
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Mosca gli anglo-americani assunsero un fermo impegno stilando di comune accordo un «primo
protocollo» (ve ne sarebbero stati complessivamente quattro) che prevedeva tra ottobre del 1941
e giugno del 1942 la fornitura di un totale di 1,5 milioni di tonnellate di merci e attrezzature.
Quando l’opinione pubblica americana iniziò a oscillare in favore degli aiuti all’Unione
Sovietica, Roosevelt chiese e ottenne l’approvazione dal Congresso per trattare le forniture
sovietiche come se rientrassero nel programma Lend-Lease e fossero pertanto vitali per la difesa
degli Stati Uniti. Dal 7 novembre, inoltre, i sovietici non avrebbero piú dovuto pagare gli aiuti.
Gli Stati Uniti erano ora diventati l’arsenale di tutti.
La portata e la natura del programma Lend-Lease finirono per andare al di là di qualsiasi
iniziativa si fosse immaginata quando la legge era stata introdotta. Alla fine della guerra, erano
stati stanziati piú di cinquanta miliardi di dollari per merci e forniture, consegnate in base al
piano di assistenza in piú di quaranta paesi dell’intero mondo. Gli aiuti americani ammontarono
al 16 per cento di tutte le spese affrontate in tempo di guerra dal governo federale; quelli forniti
all’Unione Sovietica dalla Gran Bretagna totalizzarono la cifra piú modesta di 269 milioni di
sterline, circa il 9 per cento della spesa britannica in tempo di guerra . Il programma divenne
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un’operazione congiunta di Gran Bretagna e Stati Uniti, con due Combined Boards (Agenzie
combinate) che avevano la supervisione della produzione bellica e delle forniture di materie
prime. Missioni militari britanniche a Washington negoziavano le priorità con i capi delle forze
armate americane, mentre le assegnazioni all’Urss erano concordate separatamente ogni anno
con funzionari di Mosca. Il 28 ottobre 1941, Roosevelt creò l’Office of Lend-Lease
Administration, diretto dall’uomo d’affari Edward Stettinius, e congedò il comitato istituito ad
hoc sotto la guida di Hopkins. Quando gli aiuti americani raggiunsero il loro apice nel 1943-44,
esistevano undici diverse agenzie impegnate in produzione, assegnazione e distribuzione delle
forniture, con un buon numero di controversie e un’inutile duplicazione di sforzi. A marzo del
1943, tuttavia, al momento di rinnovare la legge, il Lend-Lease fu approvato quasi all’unanimità
dal Congresso, senza l’astioso dibattito di due anni prima . Il principale beneficiario degli aiuti
90

americani rimaneva l’impero britannico, che ricevette circa trenta miliardi di dollari (ovvero il 58
per cento del valore in dollari di tutte le spedizioni), destinati per la maggior parte alla Gran
Bretagna e una frazione ai dominion britannici. Gli aiuti assegnati all’Urss ammontarono a 10,6
miliardi di dollari, il 23 per cento di tutte le spese; quelli per le Forze della Francia Libera a circa
l’8 per cento; gli aiuti alla Cina, dove le forniture arrivavano con difficoltà dopo che i giapponesi
ebbero occupato la Birmania, solo al 3 per cento. Circa l’1 per cento fu fornito come aiuto a
paesi dell’America Latina .91

Una delle intenzioni originarie del programma Lend-Lease era che i beneficiari avrebbero fornito
una qualche forma di ricompensa «in natura» in cambio della generosa offerta di beni e servizi
da parte americana, anche se Churchill era stato molto sincero con Roosevelt, a cui aveva detto
«non ripagheremo i debiti del Lend-Lease» . Dopo che gli Stati Uniti entrarono in guerra, l’idea
92

di prestiti reciproci o inversi divenne una possibilità reale. Il 28 febbraio 1942 fu firmato
ufficialmente tra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti un Agreement of Mutual Aid (Accordo di
mutuo soccorso). Dal 1942 in poi, gli inglesi coprirono le spese di molte delle risorse e dei
servizi necessari all’esercito e alle forze americane di stanza in Gran Bretagna, fornirono petrolio
e altri servizi in Nordafrica e si assunsero l’onere di eventuali spedizioni laddove necessario. Il
governo australiano pagò molte delle strutture e dei servizi necessari alle forze americane
presenti in Australia durante la guerra del Pacifico. Nel corso della guerra, gli aiuti britannici
ammontarono a 5,6 miliardi di dollari, quelli australiani a un miliardo; il sostegno complessivo
offerto dall’impero britannico raggiunse 7,5 miliardi di dollari, circa il 15 per cento del totale
americano . In base ai termini dei protocolli di aiuto, l’Unione Sovietica aveva assunto impegni
93

analoghi, anche se alla fine forní 2,2 miseri milioni di dollari di aiuti reciproci, una frazione
insignificante di tutti quelli inviati tra il 1941 e il 1945. Secondo l’intento iniziale di Roosevelt, i
contratti in Lend-Lease stabilivano che dopo la guerra, e dove fosse stato possibile, le forniture
dovevano essere restituite come se fossero state date realmente in prestito dagli Stati Uniti
anziché donate. Considerando che quasi tutte le armi, le materie prime e le vettovaglie erano
state consumate dalle insaziabili esigenze della guerra e delle popolazioni affamate, era rimasto
poco da restituire. Secondo i calcoli del dipartimento della Guerra americano, furono rese
forniture per un totale di 1,1 miliardi di dollari, principalmente tra quelle inviate a uso delle forze
armate degli Stati Uniti. Tra gli stati che restituirono la maggior parte del Lend-Lease vi fu la
Cina, dato che era risultato troppo difficile spedire tutti gli stock di merci ammassati in India e
destinati alla Cina stessa prima che la guerra finisse.
Il piano di aiuti negoziato tra Canada e Gran Bretagna non era stato formalmente inserito nel
programma Lend-Lease, nei cui resoconti il contributo canadese agli aiuti globali venne spesso
ignorato, anche se fu un elemento significativo dell’assistenza economica fornita allo sforzo
bellico britannico dalle terre dell’impero. L’aiuto canadese, come quello americano, divenne
indispensabile quando agli inglesi mancò la possibilità di pagare approvvigionamenti alimentari
e munizioni in dollari canadesi, oltre che per il timore del Canada che la Gran Bretagna potesse
deviare le commesse verso gli Stati Uniti in base ai termini del Lend-Lease. I leader canadesi,
pur non volendo imitare il piano americano, visto che l’aiuto del Canada sarebbe rimasto in
ombra in confronto al piú ampio progetto degli Stati Uniti, intendevano tuttavia presentarsi come
uno degli «arsenali della democrazia». Dopo accese discussioni nel gabinetto canadese,
alimentate dall’opposizione del Québec francofono a fornire aiuti alla Gran Bretagna, fu deciso
che il Canada avrebbe «regalato un miliardo di dollari» (Billion Dollar Gift) a copertura degli
ordinativi britannici da gennaio del 1942 a marzo del 1943, quando gli aiuti sarebbero stati
rivisti. Allorché si seppe pubblicamente del «regalo», Churchill era in visita a Ottawa e rimase
stupito da tanta generosità. Temendo di non aver sentito bene la cifra, chiese addirittura che fosse
ripetuta. Mackenzie King, il primo ministro canadese, riferí al parlamento che «la Gran Bretagna
sta ricevendo una ricompensa per quanto ha fatto per garantire la libertà», sicché il «regalo» fu
presentato all’opinione pubblica canadese sotto tale forma, benché i sondaggi della Gallup
indicassero che solo una risicata maggioranza di canadesi era favorevole. Di conseguenza, il
dono non ebbe a ripetersi ma fu sostituito all’inizio del 1943 da un programma di «mutuo
soccorso», in base al quale, come nel caso del Lend-Lease, le risorse canadesi sarebbero
pervenute alle Nazioni Unite (come ora venivano chiamati gli Alleati) anziché alla sola Gran
Bretagna, pur conservando una chiara identità canadese ben distinta . 94

La gamma di risorse di ogni genere messe a disposizione con il programma Lend-Lease – e con
altri piani di mutuo soccorso – era enorme, anche se il nucleo era costituito da attrezzature
belliche e munizioni. Nel 1943, la quota di forniture e spedizioni militari inviate alla Gran
Bretagna in Lend-Lease raggiunse il 70 per cento; l’Unione Sovietica si aggiudicò porzioni ben
maggiori di prodotti industriali e di viveri, per cui gli aiuti strettamente militari, nonostante un
loro aumento quantitativo, diminuirono dal 63 per cento del totale nel 1942 al 41 per cento nel
1945. La quantità totale di materiale militare fornito agli Alleati dagli Stati Uniti è riportata nella
tabella 6.2. I prodotti e servizi non militari includevano petrolio, metalli e grandi quantità di cibo.
Dato che le dimensioni delle spedizioni dovevano essere contenute, fu necessario escogitare altri
modi di inviare vettovaglie senza occupare il prezioso spazio delle navi mercantili. Uno dei
prodotti alimentari fondamentali fu lo Spam – scatolette di maiale pressato –, soprannominato il
«secondo fronte» dai soldati sovietici che se ne nutrivano. «Senza di esso», ricordava il premier
sovietico Nikita Kruščëv nelle sue memorie, «sarebbe stato difficile sfamare il nostro esercito».
Alla fine della guerra, erano state inviate in Unione Sovietica quasi 800 000 tonnellate di carne
in scatola . Disidratando gli alimenti freschi, si riduceva lo spazio di carico di oltre la metà, ma
95

nel caso della carne bovina il risparmio era addirittura del 90 per cento, per uova e latte dell’85
per cento. Una volta aggiunta l’acqua al prodotto disidratato, il risultato era ben poco appetibile,
ma i cibi essiccati fornirono comunque un supplemento vitale alla dieta britannica. La Gran
Bretagna in cambio riforniva le forze americane di stanza in Europa con la maggior parte dei loro
cibi non disidratati e con grandi quantità di caffè, zucchero, cacao e marmellata, che i
consumatori britannici riuscivano in qualche modo a procurarsi da soli in confezioni piccole e
razionate. Per le truppe americane di stanza in aree piú remote, il governo requisí autobus
denominati Clubmobiles, che oltre al cibo, tra cui le «ciambelle» (doughnuts), vietate nelle
panetterie britanniche, trasportavano anche artisti per l’intrattenimento delle truppe . 96

Tabella 6.2. Forniture americane di attrezzature militari in base al contratto di Lend-Lease, 1941-4597.
Le forniture di beni e servizi tra Gran Bretagna e Stati Uniti erano integrate da una significativa
condivisione di innovazioni tecniche e scientifiche. Come il programma del Lend-Lease, anche
queste erano prodotti di necessità strategica. Una volta entrati in guerra, gli Stati Uniti non
avevano motivo di non condividere informazioni che potessero contribuire alla causa comune
contro l’Asse, anche se nel caso particolare del progetto atomico le relazioni erano piú tese. Per
quasi tutti gli anni di guerra, i leader occidentali ritennero che la scienza e l’ingegneria dei
tedeschi fossero piú sofisticate, piú strettamente integrate con l’apparato militare e maggiormente
in grado, rispetto alla tecnologia degli Alleati, di produrre invenzioni scientifiche tanto
inaspettate quanto pericolose. Benché oggi sia chiaro che il rispetto verso l’establishment
scientifico-militare tedesco fosse esagerato, le ansie del momento contribuiscono a spiegare il
grado di collaborazione senza precedenti che si attuò tra una sponda e l’altra dell’Atlantico. Il
fatto piú notevole è che tale cooperazione era iniziata, come il Lend-Lease, ben prima
dell’entrata in guerra degli Stati Uniti. Ad agosto del 1940, il governo britannico inviò a
Washington lo scienziato Sir Henry Tizard a capo di una missione di tecnici che avrebbero
fornito informazioni segrete tecnico-scientifiche agli scienziati militari e civili americani. Il
segreto piú importante condiviso dalla missione era il magnetron a cavità di risonanza,
sviluppato all’Università di Birmingham, che rese possibile l’evoluzione del radar a microonde,
molto piú efficace. A Vannevar Bushm, direttore del National Defense Research Committee da
poco inaugurato, venne offerta cosí l’opportunità di sviluppare la nuova tecnologia per le forze
armate americane. Il Radiation Laboratory da lui creato presso l’MIT divenne il principale
istituto di ricerca americano sui radar. Dopo la missione Tizard, scienziati americani e britannici
aprirono vie di collaborazione destinate a durare fino alla fine della guerra in tutti i settori della
ricerca militare, fatta eccezione per lo sviluppo delle armi nucleari .
98
I programmi di ricerca atomica, o nucleare, rappresentavano una tecnologia d’avanguardia con
implicazioni sia civili sia militari troppo importanti per essere condivise anche con un potenziale
alleato. La decisione di esplorare la possibilità di una bomba atomica era stata presa in Gran
Bretagna allorché era stato istituito il Maud Committee nell’aprile del 1940, che aveva il compito
di supervisionare la ricerca. A luglio del 1941, il comitato riferí che una bomba atomica era una
possibilità reale, un’idea che né Tizard né gli scienziati americani che aveva incontrato
ritenevano possibile realizzare nel breve periodo. Nell’ottobre dello stesso anno, Roosevelt
suggerí a Churchill che i due paesi coordinassero le loro ricerche in ambito nucleare, ma la parte
britannica rifiutò per paura che i segreti, una volta che i loro risultati fossero stati comunicati agli
scienziati americani, potessero essere inavvertitamente divulgati. Nell’estate del 1942 la ricerca
americana aveva gradualmente superato i progressi fatti in Gran Bretagna e il problema
dell’eventuale coordinamento si poneva ora di fronte agli scienziati britannici. Questa volta
furono gli americani a esitare, per paura che i loro successi potessero essere sfruttati nel
dopoguerra dalla Gran Bretagna a fini commerciali. Scienziati britannici e canadesi fondarono
quindi il Montreal Laboratory per continuare la ricerca nucleare, utilizzando materiali forniti
dagli Stati Uniti ma con scarso accesso alle informazioni tecniche americane. Solo dopo che
nell’agosto del 1943 Churchill confermò alla Conferenza interalleata di Québec il fermo
impegno della Gran Bretagna a non sfruttare per i propri scopi le ricerche degli Stati Uniti, alcuni
scienziati britannici furono coinvolti nel programma americano, seppure con modalità che
impedivano loro di assistere all’intero processo di sviluppo della bomba. Il timore degli Stati
Uniti era che la collaborazione potesse portare altri stati ad acquisire armi nucleari, indebolendo
cosí gli sforzi americani per costruire un nuovo ordine postbellico. A Stalin non fu detto che era
stata fabbricata una bomba atomica fino a luglio del 1945, cioè poco prima che fosse usata, ma a
quel punto il programma sovietico diretto da Igor’ Kurčatov aveva fatto notevoli progressi dopo
il 1942, grazie a una rete di spionaggio negli Stati Uniti di cui, ironia della sorte, faceva parte
Klaus Fuchs, uno degli scienziati inviati dagli inglesi in base agli accordi di Québec e divenuto
una fonte di informazioni fondamentali per i sovietici . 99

Se rispetto alla proprietà intellettuale il programma del Lend-Lease non rappresentò mai uno
scambio cosí semplice, tale problema non fu nulla in confronto ai problemi logistici e agli attriti
tra gli Alleati generati dal piano degli aiuti materiali. L’organizzazione di un sistema globale di
distribuzione si rivelò un’impresa colossale e irta di numerose difficoltà. Per i primi due anni del
Lend-Lease, la rotta atlantica verso la Gran Bretagna fu un campo di battaglia. La fornitura di
navi mercantili era limitata e fino a novembre del 1941, quando il Congresso accettò di
modificare ancora una volta le leggi sulla neutralità, le navi americane non potevano essere
utilizzate per trasportare materiale bellico. A compromettere decisamente il flusso delle merci
inviate con il Lend-Lease non furono né i sottomarini tedeschi né le richieste avanzate
dall’esercito degli Stati Uniti dopo Pearl Harbor, bensí le richieste in cui facevano a gara
entrambe le parti interessate e che causavano regolari contenziosi sulle priorità e limitavano la
quantità di merci in grado di raggiungere i porti britannici. Il maggiore problema della flotta
mercantile britannica, che nel 1941 era tre volte piú grande di quella americana, era il
tonnellaggio permanentemente in riparazione, con una media mensile di 3,1 milioni di tonnellate
tra il 1941 e marzo del 1943, quando diminuí la minaccia dei sottomarini tedeschi . Gran parte
100

delle navi mercantili venivano riparate nei cantieri navali americani secondo le clausole del
Lend-Lease, ma la tempistica della manutenzione rimaneva comunque un problema secondario
rispetto al bisogno di spazio di carico. Roosevelt riuscí a promettere che un numero sufficiente di
navi americane sarebbe stato dirottato per soddisfare la necessità degli inglesi di garantire il
flusso di aiuti militari e cibo solo nel 1943, quando la cantieristica mercantile degli Stati Uniti
produsse una quantità notevole di nuovi cargo per un totale di 12,3 milioni di tonnellate.
Nell’estate di quell’anno, lo spazio di carico disponibile superava ormai le merci che avrebbero
dovuto riempirlo .
101

Ancora piú impegnativa si rivelò la consegna di rifornimenti all’Unione Sovietica, che deviò le
spedizioni britanniche e americane dalle consuete rotte commerciali attraverso l’Atlantico. Tutte
e tre le rotte principali verso l’Urss – quella del Mare Artico, il cosiddetto corridoio persiano e il
passaggio tra l’Alaska e la Siberia – ponevano gravi difficoltà logistiche. La rotta piú pericolosa
era quella seguita dai convogli che attraversavano i mari artici diretti ai porti di Murmansk e
Arkangel’sk, nell’estremo nord dell’Unione Sovietica. Le navi dovevano affrontare non solo
condizioni meteorologiche proibitive – mari in tempesta, minaccia di formazioni di ghiaccio a
bordo – tali da capovolgere addirittura uno scafo, e occasionali piattaforme ghiacciate e iceberg
alla deriva, ma anche il persistente pericolo di sottomarini, aerei e navi di superficie dei tedeschi,
che avevano le loro basi in Norvegia. Nonostante quelle condizioni cosí difficili, le perdite
furono inferiori a quelle che si sarebbero potute prevedere. Di 848 mercantili inclusi in 42
convogli lungo la rotta artica che partiva dai porti della Scozia e dell’Islanda, un totale di 65 navi
andò perso per cause accidentali, attacchi sottomarini e aerei; altre 40 furono perse sulla rotta di
ritorno . La perdita piú tristemente famosa, nel giugno del 1942, fu quella di ventiquattro delle
102

trentasei navi che componevano il convoglio PQ17, costrette a disperdersi per evitare la possibile
minaccia delle navi da guerra tedesche. Il disastro portò al rinvio di altri convogli artici per
diversi mesi dell’estate 1942, con grande scorno dei leader sovietici. A partire dal 1943, grazie a
una migliore protezione dei convogli, vi fu un minor numero di vittime e le navi continuarono a
percorrere la rotta del Nord fino all’ultimo convoglio, salpato dal porto del fiume Clyde in
Scozia nell’aprile del 1945. Circa quattro milioni di tonnellate di rifornimenti, ovvero il 22,6 per
cento degli aiuti forniti all’Unione Sovietica, furono inviati attraverso la rotta artica .
103

Le altre grandi vie seguite dagli aiuti destinati all’Urss erano meno minacciate dalla presenza del
nemico o dalla furia degli elementi. La piú importante era la rotta relativamente sicura che
attraversava il Pacifico settentrionale, benché si ghiacciasse nei mesi invernali lasciando le navi
incagliate nel ghiaccio, dove ogni tanto si spaccavano in due. Le navi che percorrevano la rotta a
nord dell’isola giapponese di Hokkaido, sia sovietiche sia americane, navigavano sotto la
bandiera dell’Urss, giacché il Patto di non aggressione nippo-sovietico, firmato nell’aprile del
1941, le proteggeva da eventuali interventi nemici, nonostante il fatto che le merci fossero aiuti
destinati a un nemico della Germania, alleata del Giappone. Circa otto milioni di tonnellate di
forniture, il 47 per cento del totale, arrivarono in territorio sovietico lungo quella rotta,
inizialmente al porto di Magadan, poi alle nuove strutture portuali costruite a Petropavlosk, dove
le merci venivano immagazzinate o trasportate per ferrovia sul lungo percorso che dalla Siberia
portava alle città industriali della regione degli Urali o verso linee del fronte ben piú distanti. Il
costo di costruzione e gestione degli impianti sorti lungo le rotte dall’Alaska alla Siberia
superava con un margine considerevole il valore effettivo delle merci spedite . 104

Quasi un quarto delle forniture militari all’Unione Sovietica arrivò tramite la terza via, aperta
attraverso la Persia (l’odierno Iran) e divenuta operativa all’inizio del 1942. Si trattava di una
rotta pericolosa a causa del cattivo stato delle strade iraniane e della ferrovia a binario unico che
portava nella Repubblica sovietica meridionale dell’Azerbajdžan; per breve tempo, tra l’estate e
l’autunno del 1942, i pericoli aumentarono dopo che le forze armate tedesche entrarono nella
regione del Caucaso e mossero verso il Volga e Stalingrado. La Persia britannica e il comando
iracheno avevano la responsabilità di tenere aperta la via, il che richiese un grande lavoro per
ampliare le strutture portuali nell’Iran e Iraq, sviluppare i collegamenti ferroviari e rendere le
strade adatte ai convogli di autocarri pesanti. La strada attraversava zone desertiche, distese di
terra ricoperte di sale (o di una densa melma giallastra chiamata kavir) e passi di montagna con
centinaia di tornanti a zig-zag; le temperature, in uno dei luoghi piú caldi della terra, potevano
raggiungere d’estate i 49 gradi centigradi, mentre in inverno sui valichi innevati si potevano
raggiungevare picchi fino a -40. Gli autisti potevano morire congelati nelle loro cabine in
inverno o essere uccisi da colpi di calore in estate . I soldati indiani, schierati a guardia della
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ferrovia contro gli attacchi dei banditi, potevano restare uccisi mentre sgombravano uno dei 220
tunnel non illuminati, o rischiavano il soffocamento a causa del fumo che usciva da locomotive
surriscaldate che procedevano con estrema lentezza. Eppure, anche in tali condizioni debilitanti,
soldati, ingegneri e operai riuscirono a compiere un miracolo per garantire gli
approvvigionamenti. Nel 1941, la ferrovia trasportava 200 tonnellate al giorno, ma dopo che il
comando americano del Golfo Persico prese il controllo delle ferrovie nell’anno seguente, le
spedizioni giornaliere arrivarono a una media di 3397 tonnellate. Mentre la guerra si avvicinava
alla fine, il corridoio persiano fu sostituito dal percorso piú facile che raggiungeva i porti
meridionali della Russia attraverso il Mar Nero . 106

Per contribuire allo sforzo anglo-americano, le autorità sovietiche dei trasporti organizzarono
quella che fu definita una «missione speciale» per spostare merci e veicoli dai porti dell’Iran
meridionale all’Unione Sovietica lungo nuove autostrade costruite nel 1942 e nel 1943. La
distanza superava i 2000 chilometri e i convogli di veicoli incorrevano regolarmente in incidenti,
furti, tempeste di polvere e bufere di neve. Le forze britanniche e americane realizzarono nel sud
dell’Iran e in Iraq sei stabilimenti di assemblaggio in cui si rimontavano i veicoli che erano stati
smontati, imballati e caricati su mercantili per il lungo viaggio intorno al Capo di Buona
Speranza – per un totale di oltre 184 000 veicoli. Ad agosto del 1943, l’Urss creò il «Primo
distaccamento speciale veicoli a motore», grazie al quale i tempi delle consegne furono ridotti da
un mese o piú a una media di dodici/quattordici giorni. Sulle strade polverose, che potevano
salire a quote oltre i 2000 metri, erano sparsi punti di ristoro e officine per le riparazioni allestite
appositamente per velocizzare le spedizioni. Una volta in territorio sovietico, iniziava un secondo
viaggio, lungo e arduo, verso le unità di prima linea. Su tutte e tre le linee di rifornimento
l’Unione Sovietica accumulò lo strabiliante totale di 16 milioni di tonnellate di rifornimenti,
trasportate su 2600 navi salpate dai porti del Nord Atlantico e della costa occidentale del
Pacifico .
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Non meno impegnative erano le rotte dei rifornimenti in Lend-Lease inviati alla Cina
nazionalista. Benché la Cina fosse stata inclusa inizialmente tra gli stati qualificati per ricevere
gli aiuti, la priorità accordata ai rifornimenti cinesi era di molto inferiore rispetto a quella degli
approvvigionamenti previsti per la Gran Bretagna e l’Unione Sovietica. Molte di quelle risorse
rimasero addirittura inutilizzate, accumulate prima sui moli e sulle linee ferroviarie di Rangoon e
poi, dopo l’invasione giapponese della Birmania, nei porti lungo la costa dell’India nord-
orientale, in attesa di essere consegnate su una rete di trasporti estremamente limitata. Gli aiuti
destinati alla Cina poterono essere inviati attraverso il Pacifico fino all’attacco di Pearl Harbor,
ma successivamente dovettero affrontare la traversata dell’Atlantico e dell’Oceano Indiano. Una
volta arrivati in territorio cinese, si presentavano considerevoli ostacoli di natura geografica per
far proseguire gli aiuti agli eserciti cinesi attraversando alcune delle zone topografiche piú
inospitali del mondo, con strade inadeguate e nessuna ferrovia efficiente. Nel 1941, lo sforzo per
costruire un collegamento ferroviario tra Lashio, nella Birmania settentrionale, e Kunming, nella
provincia meridionale dello Yunnan, comportò condizioni di lavoro a dir poco disastrose per
circa 100 000 operai cinesi e birmani, migliaia dei quali morirono di malaria o tifo, mentre si
stima che la metà fumasse oppio per resistere a quel calvario . Quando le rotte birmane
108

divennero impraticabili, l’unica prospettiva possibile fu quella di trasportare i rifornimenti su


aerei che decollavano dalle basi in India e sorvolavano l’Himalaya fino a Kunming. Tale via,
popolarmente soprannominata The Hump (La gobba), era estremamente pericolosa: temperature
gelide a piú di 6000 metri di altitudine, tempeste spettacolari, forti venti contrari che facevano
aumentare il consumo di carburante e costringevano ad atterraggi d’emergenza, senza contare
che in Cina esistevano solo due rozze piste di aviazione fatte di pietrisco. Nel corso di quel ponte
aereo, furono persi almeno 700 aerei e 1200 uomini tra i membri degli equipaggi. Fino al 1943,
la carenza di strutture, aerei e piloti mantenne i rifornimenti ad appena un rivolo; dal 1943, il
ponte aereo crebbe di portata, pur restando impossibile volare trasportando attrezzature, veicoli o
macchinari pesanti. Nel 1944, metà di tutti i rifornimenti inviati via mare erano ancora in attesa
di essere spediti in Cina . La maggior parte degli aiuti arrivati a destinazione veniva assegnata
109

alle forze americane in Cina, principalmente alla XIV Air Force di Chennault. I funzionari cinesi
calcolavano che il 98 per cento dei rifornimenti veniva utilizzato dagli americani, e anche
considerando tale percentuale eccessivamente alta, resta il fatto che Stilwell, in veste di capo del
quartier generale americano presso le truppe di Chiang Kai-shek, riferiva di poter controllare il
flusso degli aiuti in Lend-Lease per soddisfare gli obiettivi americani .
110

Lo sforzo logistico di tutti i paesi interessati fu prodigioso, e portato a termine non solo perché
gli aiuti economici rappresentavano un fattore sostanziale della strategia contro l’Asse, ma anche
perché i leader nazionali alleati erano direttamente coinvolti nelle trattative e nel monitoraggio
dei risultati. Eppure, nonostante l’evidente successo di tale sforzo, tra gli Alleati persistevano
attriti riguardo al ritmo dei rifornimenti e alla natura degli aiuti. La fornitura di carri armati
americani agli inglesi, per esempio, fu guastata dalle lamentele britanniche per il fatto che l’M3 e
il suo diretto successore, l’M4 Sherman, necessitavano di modifiche per affrontare le condizioni
di un campo di battaglia; nel 1944 si registrò una significativa carenza nella fornitura di carri
armati – con oltre 3400 mezzi in meno – e alla fine dello stesso anno tutte le spedizioni di mezzi
corazzati in Lend-Lease furono improvvisamente annullate a causa di imprevisti livelli di perdite
tra le unità corazzate americane . Di maggiore rilievo erano invece le controversie in merito alla
111

fornitura di aerei. Poiché nell’estate del 1940 i bombardamenti sulla Germania erano divenuti
una priorità strategica, la RAF sperava che l’industria aeronautica degli Stati Uniti avrebbe
fornito entro il 1943 500 bombardieri pesanti al mese, ma la consegna era stata compromessa
dalle esigenze dell’aviazione americana. Quando arrivarono i primi bombardieri B-17 e B-24, la
RAF espresse il proprio disappunto per il loro limitato potenziale di combattimento e ne
contemplò un possibile utilizzo solo in ruoli sussidiari. Dato che questi erano i beniamini tra i
bombardieri americani in aumento, le critiche urtarono fortemente l’aviazione statunitense, tanto
che Henry Arnold, comandante in capo delle forze aeree dell’esercito americano, si rifiutò di
promettere piú di 400-500 bombardieri per tutto il 1942, per poi tirarsi indietro del tutto
successivamente. A detta del ministro dell’Aviazione britannico, Archibald Sinclair, i caccia e i
bombardieri leggeri, ormai obsoleti e forniti nel 1940 e nel 1941, erano «pressoché privi di
valore» . Anche se alla fine gli Stati Uniti fornirono alla Gran Bretagna e al suo impero quasi 26
112
000 aerei, essi inclusero nelle consegne soltanto 162 B-17, fornendo in compenso 3697
bombardieri leggeri e 8826 aerei per addestramento e trasporto .
113

Anche gli aiuti all’Unione Sovietica furono accompagnati da una litania di lamentele da parte del
Cremlino. Le prime promesse fatte dal governo britannico nel giugno del 1941 erano state lente a
materializzarsi, e gran parte dell’equipaggiamento pervenuto nei mesi successivi era stato
considerato dai sovietici di qualità scadente. I caccia Hurricane vennero criticati per la mancanza
di piastre di armatura e armamenti deboli; i carri armati britannici, in particolare il Matilda,
furono considerati inadeguati alle condizioni russe, male armati e di fatto incapaci di muoversi
alle basse temperature. La funzionalità dei carri armati britannici si aggirava in media soltanto
attorno al 50 per cento. Quando iniziarono ad apparire i carri armati americani Sherman, gli
ingegneri sovietici li considerarono scarsamente protetti dalla corazza e con un’altezza tale da
renderli un facile bersaglio. Le forze corazzate dell’Urss li soprannominarono (poco
generosamente) «una tomba per sette fratelli», a causa della loro vulnerabilità al fuoco anticarro
nemico . Di certo, entrambi gli stati occidentali preferivano inviare equipaggiamenti che non
114

erano di prima categoria, a meno che non lo si potesse evitare. Nel 1942-43, i carri armati
Matilda, il cui modello era stato gradualmente eliminato dalle unità corazzate britanniche,
continuarono a essere fabbricati in Gran Bretagna e in Canada per rifornire le forze sovietiche;
quando poi i russi chiesero i bombardieri pesanti B-17 e B-24, gli americani non accolsero la
richiesta .
115

L’effettivo impiego delle attrezzature fornite con il piano Lend-Lease fu compromesso dal
persistente rifiuto da parte sovietica di consentire che del personale occidentale procurasse aiuti
nell’addestramento e nella manutenzione o offrisse informazioni su come utilizzare al meglio gli
aiuti. Nel 1943, l’Unione Sovietica aveva accumulato grandi scorte di materiali, ma restava
impossibile verificarne la giustificazione o limitare ulteriori consegne senza la cooperazione
sovietica. All’epoca, la segretezza imposta dal Cremlino rendeva difficile controbattere alle
regolari critiche che seguivano agli insuccessi nei combattimenti, eppure, nonostante le tante
promesse, i funzionari sovietici rilasciavano poche informazioni sullo sviluppo di carri armati e
aerei di produzione nazionale, fatta eccezione per l’unico carro armato T-34 inviato negli Stati
Uniti nel 1942. «Andiamo tuttora incontro alle loro richieste anche se siamo al limite delle nostre
possibilità», si lamentò con il generale Marshall il capo della missione militare americana a
Mosca John Deane, «mentre loro soddisfano le nostre quel minimo sufficiente a tenerci calmi» . 116

Il crescente sospetto che le richieste sovietiche di forniture in Lend-Lease, che raggiunsero un


picco nel 1944-45, riguardassero merci destinate alla ricostruzione del paese nel dopoguerra
portò a forti pressioni politiche affinché Washington ponesse dei limiti agli aiuti sovietici. Ad
agosto del 1945, in seguito alla resa del Giappone, il presidente Truman annunciò l’immediata
cessazione di tutte le spedizioni in Lend-Lease senza consultare nessuno dei principali
destinatari . 117

Le tensioni nei rapporti legati al programma Lend-Lease erano inevitabili, date le dimensioni
stesse dello spazio geografico coinvolto e la competizione nelle richieste di urgenti
approvvigionamenti, anche se alla fine gli Alleati condivisero vaste risorse, provenienti
principalmente dalle eccedenze produttive americane. Tale realtà, nelle parole di Edward
Stettinius, direttore amministrativo del piano Lend-Lease, era stata «un’arma che aveva portato
alla vittoria?» La risposta è piú complessa di quanto possa sembrare. Per anni, dopo il conflitto,
la linea ufficiale sovietica, con un atto deliberato di distorsione storica, fu di minimizzare o
ignorare del tutto il ruolo avuto dal programma Lend-Lease nello sforzo bellico dell’Urss. Poco
dopo la fine della guerra, erano state rese note delle linee guida informali (che nessun autore
sensato poteva ignorare sotto Stalin) in base alle quali il Lend-Lease «non giocò un ruolo in
qualche modo rilevante nella vittoria russa» . Fino agli anni Ottanta, la posizione ufficiale fu di
118

insistere sul fatto che le forniture in Lend-Lease arrivavano in ritardo, erano spesso di scarsa
qualità e coprivano solo il 4 per cento delle armi prodotte dagli sforzi dell’Unione Sovietica.
Durante la guerra, in compenso, i leader sovietici ammettevano in privato quanto fosse
fondamentale ogni forma di aiuto. Nelle interviste registrate per le sue memorie, l’ex premier
sovietico Nikita Kruščëv rivelò quanta importanza Stalin attribuisse agli aiuti, anche se il
seguente passaggio fu pubblicato solo negli anni Novanta: «Piú volte ho sentito Stalin
ammetterne l’importanza [del Lend-Lease] nella ristretta cerchia di persone che lo circondano.
Diceva che […] se avessimo dovuto affrontare la Germania in un testa a testa, non saremmo stati
in grado di farcela». Nelle memorie pubblicate nel 1969, il maresciallo Žukov, il grande
vincitore a Berlino, si attenne alla linea del partito, anche se in una conversazione intercettata sei
anni prima lo si era sentito dire che senza gli aiuti dall’estero l’Unione Sovietica «non avrebbe
potuto continuare la guerra» .
119

Il dato del 4 per cento come percentuale delle forniture alleate rispetto alla produzione sovietica
non è sbagliato, ma maschera completamente ciò che il programma Lend-Lease aveva
effettivamente reso possibile. Nelle prime fasi della guerra, i carri armati e gli aerei forniti con il
piano di aiuti coprivano una percentuale ben maggiore dell’equipaggiamento sovietico, a causa
delle enormi perdite subite nei primi mesi di combattimento. Con il progredire della guerra, la
produzione sovietica riprese vigore e le attrezzature militari del Lend-Lease diventarono di
conseguenza meno significative. Fino alla battaglia di Stalingrado, i carri armati arrivati con il
programma di aiuti ammontavano al 19 per cento della produzione sovietica. Nella battaglia di
Kursk di sei mesi dopo, che vide uno dei piú grandi schieramenti di carri armati di tutta la guerra,
3495 mezzi corazzati erano di costruzione sovietica e solo 396 erano stati forniti in Lend-Lease,
circa l’11 per cento . Nelle consegne degli Alleati, tuttavia, carri armati, aerei e armi non furono
120

l’elemento decisivo. Di significato molto maggiore furono la trasformazione del sistema delle
comunicazioni sovietico, il sostegno a una rete ferroviaria al limite delle sue possibilità e le
grandi forniture di materie prime, carburante ed esplosivi, senza i quali il complessivo sforzo
bellico e le campagne militari dell’Unione Sovietica sarebbero stati tutt’altro che adeguati a
sconfiggere il grosso dell’esercito tedesco. Nei primi anni di guerra, una delle maggiori carenze
nei combattimenti dell’aviazione e dei mezzi corazzati era stata la mancanza di apparecchiature
elettroniche – un problema enorme anche per i comandanti che cercavano di gestire un vasto
campo di battaglia con comunicazioni pessime o scarse. Con il piano del Lend-Lease gli Alleati
occidentali fornirono pure 35 000 stazioni radio, 389 000 telefoni da campo e oltre un milione e
mezzo di chilometri di linee telefoniche . All’inizio del 1943, le Voenno-Vozdušnye Sily SSSR
121

(Aeronautica militare dell’Urss) furono finalmente in grado di controllare centralmente le unità


aeree in combattimento, mentre una semplice apparecchiatura radio nei carri armati si rivelò un
efficace moltiplicatore di forza. Sempre la radio venne altresí a svolgere un ruolo
nell’efficacissimo uso da parte dell’Armata Rossa dell’inganno e della disinformazione, che in
numerose occasioni impedirono all’esercito tedesco di indovinare le dimensioni, la
localizzazione o le intenzioni delle forze nemiche.
Le condizioni dei rifornimenti dell’Armata Rossa furono trasformate soprattutto da camion e
jeep forniti in Lend-Lease, che alla fine ammontarono a oltre 400 000 veicoli, contro una
produzione nazionale sovietica di 205 000. Nel gennaio del 1945, un terzo dei mezzi usati
dall’Armata Rossa proveniva da forniture del Lend-Lease . L’aiuto americano ampliò inoltre la
122

gamma di veicoli necessari allo sforzo bellico sovietico: automezzi per ricognizione, mezzi
corazzati, semicingolati, mezzi anfibi Ford e 48 956 jeep, anch’esse dotate di radio in modo che i
comandanti dell’Armata Rossa potessero controllare le loro truppe con maggiore efficienza . 123

Anche gli spostamenti su rotaia di uomini e attrezzature ebbero il sostegno della fornitura da
parte americana di 1900 locomotive (contro una produzione sovietica di appena 92) e del 56 per
cento di tutti i binari utilizzati durante la guerra. Alla fine del 1942, il sistema ferroviario
sovietico era in grado di rifornire le forze in prima linea a Stalingrado con quindici treni al
giorno, laddove la capacità tedesca era in media di dodici . Gli aiuti alleati fornirono infine quasi
124

il 58 per cento di tutto il carburante per aerei, il 53 per cento degli esplosivi e metà del
fabbisogno di alluminio, rame e pneumatici in gomma sintetica . Con tali dimensioni, le
125

forniture degli Alleati furono decisive. L’industria sovietica poté infatti concentrarsi sulla
produzione di massa di armi, lasciando all’assistenza alleata la fornitura di tante altre merci
essenziali all’economia di guerra.
Molto meno si può discutere in merito all’impatto avuto dal piano Lend-Lease sullo sforzo
bellico britannico, benché nella memoria popolare della guerra esso appaia raramente come un
elemento storicamente significativo. Al pari della considerazione riservata dai sovietici al Lend-
Lease, il ricordo di una forte dipendenza da un altro alleato offusca la gloria nazionale. Tale
dipendenza, in ogni caso, era assoluta. Dal 1941 in avanti, senza il generoso aiuto degli Stati
Uniti lo sforzo bellico britannico sarebbe naufragato. La Gran Bretagna non disponeva di
ulteriori mezzi per pagare altre risorse in dollari, soprattutto il petrolio, e senza l’accesso alla
produzione industriale americana, ai prodotti alimentari e alle materie prime, l’economia di
guerra britannica avrebbe raggiunto il limite delle sue capacità, ben al di sotto di quanto era
necessario per sostenere uno sforzo bellico globale o di qualsiasi prospettiva di sconfiggere la
Germania. Le campagne militari condotte in tutto il mondo dagli inglesi finirono per fare
completo affidamento sulle armi americane e sugli spostamenti a bordo di navi statunitensi. Nel
1941, il piano Lend-Lease copriva l’11 per cento delle attrezzature militari britanniche, quasi il
27 per cento nel 1943 e poco meno del 29 per cento nel 1944, anno di punta delle campagne
militari britanniche. Al momento della seconda battaglia di El Alamein, alla fine di ottobre del
1942, gli americani avevano fornito al Nordafrica 1700 carri armati medi e leggeri, 1000 aerei e
25 000 veicoli tra camion e jeep . Complessivamente, gli Stati Uniti inviarono in Gran Bretagna
126

e nelle zone di guerra inglesi 27 751 carri armati, 27 512 mezzi blindati per trasporto truppe e 25
870 aerei. Come nel caso sovietico, le forniture americane consentirono all’industria britannica
di concentrarsi sulla produzione di altre armi o, in alcuni casi, di sostituirle del tutto. Nel 1944 la
produzione di carri armati britannici diminuí a causa delle forniture americane, mentre si
incrementò quella delle locomotive al fine di alleviare le condizioni della rete ferroviaria
britannica . Precisi accordi stipulati tra gli Alleati dovevano favorire una distribuzione razionale
127

delle risorse, anziché duplicare gli sforzi. Il dato produttivo sia britannico sia sovietico rifletteva
il modello degli aiuti americani. Per entrambi i paesi, la consapevolezza di non dover fare
affidamento unicamente sulle proprie risorse era un ammortizzatore psicologico che mancava
alle potenze dell’Asse. Per gli Stati Uniti, il trasferimento al piano Lend-Lease di quasi il 7 per
cento della produzione interna venne compiuto esercitando pressioni relativamente modeste
sull’economia nazionale, portando con sé il grande vantaggio che le principali nazioni alleate,
com’era stato fin dall’inizio nelle intenzioni di Roosevelt, avrebbero potuto difendere piú
efficacemente gli interessi americani.
Impedire l’accesso alle risorse: blocco mercantile e bombardamenti.
Se il mutuo soccorso era una strategia economica volta ad accrescere le forniture belliche, la
guerra economica divenne il mezzo per ridurre sia gli armamenti già in uso presso il nemico sia
le risorse materiali a sua disposizione. Nel senso originario, la guerra economica, intesa come
conflitto letteralmente economico – con congelamento dei beni del nemico, acquisti preventivi,
interruzione e controllo del commercio ostile –, fu sostituita nella Seconda guerra mondiale da
autentiche azioni militari contro l’economia, condotte da sottomarini e bombardieri e causa di
elevate perdite di uomini ed equipaggiamenti da entrambe le parti in lunghe battaglie di
logoramento economico. Le forme convenzionali di tale conflitto erano ancora praticate durante
la guerra, ma la loro importanza impallidiva in confronto allo sforzo compiuto per condurre una
lotta economica con mezzi militari, sia contro risorse in transito, su mare o via terra, sia contro
risorse prodotte dall’economia nazionale. La guerra condotta dai sottomarini, che non conosceva
limiti, e il bombardamento dei centri urbani furono strategie comuni della guerra economica,
tanto da parte dell’Asse quanto degli Alleati.
In questo senso piú ampio della guerra economica, con la distruzione fisica delle risorse del
nemico prima che raggiungessero il campo di battaglia, il potenziale successo dipendeva in
primo luogo dal grado di vulnerabilità economica palesato dagli stati belligeranti. Rispetto a tale
parametro, si creò un netto contrasto tra i due schieramenti man mano che il conflitto si
allargava. Gli Stati Uniti, per esempio, furono quasi immuni alla guerra economica: la loro
posizione geografica continuava a proteggere l’industria americana da qualsiasi minaccia di
bombardamento, mentre le enormi risorse dell’emisfero occidentale salvaguardavano la
produzione bellica del paese da eventuali impasse, tranne in rare eccezioni, soprattutto nel caso
della gomma naturale, compensata da un’urgente conversione su larga scala alla produzione del
materiale sintetico. Il breve periodo dei primi due mesi del 1942, allorché gli U-boot tedeschi
erano stati schierati lungo la costa orientale americana per affondare le navi senza scorta, si
concluse rapidamente, con scarsi effetti sullo sforzo bellico americano. Nel corso delle traversate
transatlantiche, la flotta degli Stati Uniti era sí vulnerabile, ma la stragrande maggioranza delle
merci e attrezzature militari trasportate sull’oceano arrivava a destinazione. Dopo la perdita delle
regioni occidentali nel 1941, l’Unione Sovietica avrebbe potuto soffrire dei bombardamenti
tedeschi a lungo raggio sulle aree industriali, ma l’aviazione tedesca era priva dei mezzi
necessari e la produzione sovietica poté continuare senza interruzione. La ricchezza di risorse
naturali interne, insieme con l’incremento dei flussi di aiuti in base al programma Lend-Lease
(nonostante i tentativi da parte tedesca di interrompere i convogli nell’Artico), rendeva
improbabile che la strategia della guerra economica contro l’Unione Sovietica potesse avere
grande successo. Il piú vulnerabile degli Alleati era la Gran Bretagna, e fu proprio contro la
produzione e il commercio britannico che la Germania rivolse nel 1940-43 campagne militari
congiunte sui mari e nei cieli. Si trattò del tentativo piú serio da parte dall’Asse di impiegare una
strategia di guerra economica per ostacolare lo sforzo bellico e fiaccare la volontà di combattere
di un grande nemico. La vulnerabilità britannica, tuttavia, era relativa. La necessità di fare
affidamento sui rifornimenti d’oltremare di cibo, materie prime e petrolio – e in seguito sulle
attrezzature militari inviate con il Lend-Lease – fece sí che grandi risorse fossero dirottate nei
combattimenti al fine di mantenere aperte le rotte marittime. La Gran Bretagna possedeva una
flotta mercantile che, pur non essendo inesauribile, figurava a tutti gli effetti come la piú grande
del mondo, per cui si sarebbe dovuto affondare un tonnellaggio molto elevato prima che il
commercio britannico raggiungesse il punto di rottura. Grazie all’assistenza americana, fu
organizzata una rete globale di cargo che offrí agli Alleati i mezzi per spostare materiali in tutto
il mondo ovunque fosse necessario, e impedire al tempo stesso al nemico di godere di un
identico vantaggio. Per combattere questo sistema, l’Asse avrebbe dovuto imporre un analogo
blocco marittimo globale per il quale mancavano i mezzi, anche nel caso fosse stato un’assoluta
priorità strategica.
Gli stati dell’Asse condividevano la medesima vulnerabilità: tutti e tre i paesi potevano essere
soggetti a un blocco marittimo grazie alla potenza navale e aerea della Gran Bretagna e, piú tardi,
degli Stati Uniti. Italia e Giappone, in particolare, possedevano economie di guerra piú deboli,
dipendenti da approvvigionamenti d’oltremare poiché nessuno dei due paesi disponeva di
un’ampia base di materie prime naturali. Il Mediterraneo, inoltre, era un mare chiuso in cui il
blocco poteva essere imposto con relativa facilità (fino al 1943, agli inglesi non sfuggí il fatto
che il blocco funzionava in entrambe le direzioni); il Giappone doveva servirsi di lunghe rotte
che partivano dalle regioni conquistate nel Sud-est asiatico, ma anche di cibo e materiali forniti
da Taiwan, Manciuria e Corea. Nel caso della Germania, tuttavia, venne sopravvalutata la
suscettibilità del Reich a un blocco convenzionale, congelamento dei beni e crisi finanziaria,
ovvero gli elementi fondamentali della strategia anglo-francese nel 1939. L’ossessione di Hitler
per gli effetti che il blocco aveva avuto durante la guerra del 1914-18 lo aveva indotto a
sviluppare negli anni Trenta la piena autosufficienza nazionale, o «autarchia». Nel 1939, la
Germania produceva l’80 per cento dei generi alimentari di base e aveva programmi di sintesi
per petrolio, tessuti, gomma e un’intera gamma di altri prodotti correlati alla guerra. La carenza
di oro e valuta estera per l’acquisto di forniture essenziali per l’economia militare, evidente nel
1939, era stata superata con una strategia globale di saccheggio delle risorse europee e con
pressioni sugli stati neutrali del Vecchio Continente .
128

Una volta scoppiata la guerra con l’Occidente, il blocco marittimo imposto dagli Alleati tagliò
fuori la Germania dalle rotte transoceaniche, anche se l’espansione territoriale tedesca dal 1938
in poi era stata in parte progettata proprio per rendere la Germania blockadefest, cioè libera dalla
minaccia di un blocco. L’occupazione della Norvegia garantiva inoltre le forniture di minerale di
ferro dalla Svezia, mentre l’invasione dei Balcani assicurava ulteriori materie prime e l’accesso
al commercio turco. Il patto tedesco-sovietico di agosto del 1939 portò fino a giugno del 1941 a
un flusso significativo di materie prime e cibo: 617 000 tonnellate di prodotti petroliferi nel
1940, contro le 5100 dell’anno precedente; 820 000 tonnellate di grano a fronte delle 200 del
1939; oltre a forniture di rame, stagno, platino, cromo e nichel praticamente inesistenti nel
1939 . Anche senza le risorse sottratte in seguito ai sovietici, la «Grande economia di zona»
129

creata tra il 1938 e il 1941 aveva posto fine di fatto a qualsiasi prospettiva che un blocco
marittimo convenzionale potesse indebolire lo sforzo bellico tedesco. L’unica risorsa che
mancava a tutti e tre gli stati dell’Asse era il petrolio. Si trattava di una carenza di importanza
critica, in quanto il petrolio alimentava la guerra meccanizzata tedesca cosí come la marina
imperiale giapponese. Era stato il bisogno di petrolio a spingere i giapponesi a invadere il Sud-
est asiatico e Hitler a tentare di conquistare la regione del Caucaso sovietico nel 1942 . Gli
130

Alleati controllavano o possedevano oltre il 90 per cento della produzione mondiale di petrolio
naturale; gli stati dell’Asse controllavano invece appena il 3 per cento della produzione
petrolifera e il 4 per cento degli impianti di raffinazione del greggio. La Germania produceva
carburante sintetico su larga scala, tanto da raggiungere nel 1943 i sette milioni di tonnellate,
ovvero i tre quarti del petrolio usato dal paese, ma c’era sempre bisogno di averne di piú . La
131
vulnerabilità connessa al petrolio doveva rivelarsi un elemento centrale nella strategia degli
Alleati occidentali, volta a impedire l’accesso alle risorse e assicurarsi la vittoria finale.
Per gli stati dell’Asse, assorbiti dal loro progetto imperiale, intraprendere una guerra economica
non rientrava nella loro pianificazione strategica di un conflitto piú ampio. Dei tre paesi, solo la
Germania tentò di colmare il divario strategico intraprendendo un blocco aereo e marittimo della
Gran Bretagna, ma nel 1939 le prospettive erano fosche. La marina militare del Reich possedeva
solo venticinque sottomarini oceanici, con un numero massimo di U-boot simultaneamente in
mare che andava da sei a otto, mentre la Luftwaffe era principalmente impegnata a raggiungere
la superiorità aerea per supportare le operazioni di terra, senza alcuna pianificazione preventiva
di una propria campagna strategica contro le navi o l’industria del nemico. Lo Z-Plan della
marina militare del Reich, il piano annunciato nel 1939 e volto alla creazione di una vasta flotta
oceanica, era ancora lontano anni dalla realizzazione. A novembre del 1939, tuttavia, Hitler
aveva lanciato le forze armate del Reich in un’iniziale guerra economica contro la Gran
Bretagna: «Abbattere l’Inghilterra è la precondizione per la vittoria finale. Il modo piú efficace
di fare questo è degradare l’economia inglese colpendo in punti decisivi» . L’aviazione e la
132

marina ricevettero l’ordine di collaborare alla posa di mine lungo le rotte commerciali
britanniche, distruggere installazioni portuali, magazzini, depositi di petrolio e scorte di cibo,
affondare navi e bombardare l’industria militare, soprattutto quella della produzione aeronautica.
Con un occhio al blocco alimentare creato contro la Germania nella Prima guerra mondiale,
Hitler mise l’accento sul blocco delle forniture di generi di prima necessità. Dopo il breve
interludio in cui era stata pianificata l’invasione poi fallita della Gran Bretagna, Hitler era tornato
a parlare di un «blocco decisivo per la guerra», con la collaborazione di aerei e sottomarini
impegnati in una campagna che nel prossimo futuro avrebbe prodotto «il crollo della resistenza
inglese» .
133

In quel momento, l’impegno di Hitler in una guerra economica per cui le forze a sua disposizione
non erano preparate aveva poco senso strategico, ma rifletteva la sua concezione della guerra in
funzione tanto della potenza economica quanto del successo in campo militare. Tale visione
derivava in parte dalle azioni compiute dai sottomarini tedeschi tra il 1914 e il 1918, che avevano
quasi paralizzato lo sforzo bellico alleato affondando con U-boot e mine 6651 navi, per una
stazza lorda di 12,5 milioni di tonnellate . Questa volta gli alti gradi della Kriegsmarine,
134

incoraggiati dall’ottimismo di Hitler, speravano di intraprendere quella che definivano «la piú
grande guerra economica di tutti i tempi». La convinzione che l’affondamento di molte navi
fosse la chiave per sconfiggere la Gran Bretagna venne ripresa dal comandante dei sottomarini
tedeschi, il commodoro (poi gran ammiraglio) Karl Dönitz, che ne fece l’obiettivo principale
della sua piccola forza di U-boot . Anche dopo l’entrata in guerra degli Stati Uniti, con la loro
135

enorme riserva potenziale di nuove spedizioni su cargo, Hitler continuò a considerare la guerra
economica un fattore determinante per impedire l’accesso alle risorse. «Il Führer», riferiva nel
giugno del 1942 il comandante in capo della flotta, il gran ammiraglio Erich Raeder, «è
consapevole del fatto che sarà la guerra sottomarina a decidere l’esito della guerra» . 136

Nonostante la relativa debolezza delle risorse disponibili per attuare un blocco navale e aereo,
nei primi anni di guerra vi furono non pochi successi. L’aviazione attaccò le navi nel Canale
della Manica e nel Mare del Nord, mentre tra settembre del 1939 e dicembre del 1940 una
combinazione di sottomarini, navi da guerra mascherate da mercantili e stormi di Focke-Wulf
200 Condor, un aereo di linea opportunamente modificato per essere usato come bombardiere a
lungo raggio, affondò nell’Atlantico 1207 navi, anche grazie all’abilità del B-Dienst, il servizio
di intelligence della marina tedesca, nel captare i segnali dei convogli britannici. Nel 1941, il
solo Condor aveva affondato ogni mese 150 000 tonnellate di navi mercantili, fino a quando gli
aerei da combattimento inglesi non furono finalmente dirottati per cacciare e distruggere il
grande predatore, temibile ma lento. Nel 1940, 580 000 tonnellate furono perse a causa di
attacchi aerei; nel 1941, piú di un milione di tonnellate, per un totale di 500 navi. Nello stesso
periodo, i sottomarini affondarono 869 navi, e avrebbero ottenuto molto di piú se i siluri tedeschi
non avessero avuto gravi difetti tecnici che non furono sanati definitivamente fino all’autunno
del 1942. Cause incidentali (come collisioni, naufragi, incendi a bordo, ecc.) portarono alla
perdita di altre 653 navi. Il tonnellaggio delle importazioni britanniche diminuí bruscamente,
passando da 41,8 milioni di tonnellate nel 1940 a 30,5 milioni di tonnellate nel 1941 . 137

Alle conseguenze della guerra sui mari si aggiunse il blocco aereo, iniziato nell’estate del 1940
con incursioni sui porti e sulle strutture portuali dell’Inghilterra meridionale ed estesosi poi a
metà settembre, dopo che Hitler ebbe posticipato l’operazione Seelöwe, alle principali città
portuali di tutte le isole britanniche. Anche se coloro che all’epoca vissero i bombardamenti
tedeschi li consideravano delle azioni terroristiche volte a spezzare la tempra britannica,
l’aviazione tedesca obbediva all’ordine di sostenere la futura invasione dal mare distruggendo i
porti usati dal commercio britannico proveniente da oltreoceano (con Londra, Liverpool e
Manchester come obiettivi primari), oltre a magazzini, silos, depositi di stoccaggio del petrolio,
cantieri e strutture per la riparazione delle navi; le incursioni dovevano inoltre colpire obiettivi
economici militari, principalmente nelle Midlands, dove si concentrava la produzione di motori
aeronautici. Il Blitz fu una forma di guerra economica, condotta con tale intento durante i nove
mesi da settembre del 1940 a maggio del 1941. Se il blocco avesse avuto successo, l’effetto
auspicato sarebbe stato un decremento della capacità bellica della Gran Bretagna e un calo
generale dell’impegno della popolazione a continuare il conflitto. Su 171 raid principali, 141
furono diretti contro le città portuali, tra cui Londra, che nel 1939 aveva gestito la maggior
quantità del commercio estero. Delle 3116 tonnellate di bombe incendiarie lanciate, l’86 per
cento ebbe come obiettivo i porti inglesi; delle 24 535 tonnellate di bombe ad alto potenziale la
percentuale fu dell’85 per cento . Da gennaio del 1941, l’aeronautica tedesca ricevette l’ordine
138

di lanciare maggiori quantità di ordigni incendiari sulle aree portuali in cui le scorte britanniche
di materie prime erano piú vulnerabili al fuoco. Per contrastare la decisione britannica di
trasferire il commercio atlantico in entrata verso i porti occidentali, tra cui Bristol, Clydebank,
Swansea, Cardiff e Liverpool, venne data nuova priorità a queste città portuali . Allorché la
139

campagna fu sospesa, con il trasferimento a est delle unità della forza aerea, tutti i porti principali
erano stati pesantemente bombardati – Hull, Plymouth, Londra e Southampton ripetutamente.
La campagna di bombardamenti si rivelò molto meno efficace della guerra in mare, anche se per
l’alto comando tedesco era quasi impossibile ottenere informazioni dettagliate sui danni inflitti.
Hitler fu presto deluso dai risultati. A dicembre del 1940, riteneva che l’impatto sull’industria
bellica britannica fosse stato minimo; trascorsi due mesi, concordava con l’opinione di Raeder
che il morale britannico era rimasto «incrollabile» anche dopo i bombardamenti e il 6 febbraio
emise il Führerbefehl che riconosceva il primato della campagna di sottomarini e aerei contro le
navi mercantili come la forma piú decisiva di guerra economica . I bombardamenti proseguirono
140

ugualmente, in parte poiché sarebbe risultato alquanto difficile spiegare al popolo tedesco,
sottoposto da quasi un anno alle incursioni della RAF, perché si dovesse abbandonare la
campagna contro la Gran Bretagna, in parte per convincere Stalin che la principale
preoccupazione di Hitler era la Gran Bretagna, e questo mentre procedevano i preparativi segreti
per l’invasione dell’Unione Sovietica. In questo caso, Hitler non era stato tradito dal suo istinto.
Secondo i calcoli del ministero dell’Aviazione, effettuati piú tardi nel 1941, non piú del 5 per
cento della produzione bellica della Gran Bretagna, in rapida espansione, era andato perduto a
causa della campagna di bombardamenti; nelle città colpite, i normali ritmi produttivi erano
ripresi dopo 3-8 giorni, fatta eccezione per il grande raid su Coventry nel novembre del 1940,
che richiese sei settimane prima di poter riprendere l’attività precedente il bombardamento.
Altrettanto limitati risultarono gli sforzi per tagliare le scorte britanniche di petrolio e generi
alimentari, dato che andarono persi solo lo 0,5 per cento del petrolio immagazzinato, il 5 per
cento della capacità di macinazione della farina, l’1,6 per cento della produzione di semi oleosi e
l’1,5 per cento delle celle frigorifere. L’approvvigionamento idrico non fu interrotto da nessuna
parte per piú di ventiquattr’ore, mentre le comunicazioni ferroviarie continuarono un servizio di
guerra quasi normale, senza che le linee rimanessero bloccate per piú di un giorno . L’aviazione
141

tedesca, in compenso, sostenne perdite ingenti: tra gennaio e giugno del 1941 furono distrutti 572
bombardieri, molti persi per incidenti e 496 danneggiati. A maggio del 1941, l’armata di
bombardieri contava 769 velivoli operativi, molti meno di quelli disponibili un anno prima per
l’invasione della Francia . Da parte britannica, il costo piú pesante fu la morte nel 1940-41 di 44
142

652 persone tra uomini, donne e bambini, vittime di un blocco aereo per altro inconcludente.
Hitler abbandonò l’idea che il bombardamento di obiettivi britannici avrebbe contribuito al
blocco e l’aviazione non fu mai piú utilizzata a tale scopo. Il blocco si concentrò invece sul mare,
con la guerra sottomarina e aerea. La flotta di superficie tedesca, che per tutto il conflitto non
superò le 47 navi, contribuí ben poco e, dopo l’affondamento della moderna corazzata Bismarck
nel maggio del 1941, le principali navi da guerra furono ritirate dalle operazioni oceaniche per
proteggere piuttosto i rifornimenti tedeschi in arrivo dalla Scandinavia e minacciare i convogli
che attraversavano l’Artico diretti in Unione Sovietica. Nell’estate del 1941, la situazione della
guerra sui mari e nei cieli era mutata. Göring, comandante in capo della Luftwaffe, non vedeva
di buon occhio che delle risorse aeree fossero dirottate per sostenere la campagna navale, tanto
piú dopo che l’aeronautica era stata pesantemente impegnata nell’operazione «Barbarossa». La
Kampfgruppe 40, l’unità aerea di stanza nella Francia occidentale e designata per essere di
supporto alla flotta, mancò di risorse adeguate per tutta la sua esistenza. Tra luglio del 1941 e
ottobre del 1942, la Luftwaffe affondò in media soltanto quattro navi al mese . Lo strumento
143

predominante per attuare il blocco era rappresentato dai sottomarini, il cui numero aumentò
considerevolmente durante il 1941, passando da una flotta totale di 102 U-boot nel primo
trimestre a 233 a fine anno, anche se la lentezza delle riparazioni dei sottomarini danneggiati, la
forte richiesta di sommergibili per addestramento e la diffusione di operazioni nei teatri di guerra
nel Nord, nell’Atlantico e nel Mediterraneo fecero sí che per attaccare le rotte transatlantiche
britanniche non fossero mai disponibili piú di 17 sottomarini al massimo. Alcuni sommergibili
italiani inviati in aiuto nell’Atlantico risultarono incapaci di affrontare l’oceano aperto e vennero
ridestinati a luoghi piú sicuri e piú caldi. Solo nel 1942 il numero degli U-boot iniziò ad
avvicinarsi a quello che Dönitz considerava essenziale se si voleva che il blocco funzionasse:
352 a luglio, 382 alla fine dell’anno, e piú di 400 in tutto il 1943, anno in cui la flotta dei
sottomarini raggiunse tra gennaio e marzo un picco di 110 mezzi operativi simultaneamente . 144

A quel punto, tuttavia, le contromisure degli Alleati avevano cominciato ad avere un effetto
significativo sulla guerra sottomarina. L’Ammiragliato britannico aveva istituito il Western
Approaches Command, con sede a Liverpool, che dirigeva nella guerra contro i sottomarini tutto
il traffico marittimo commerciale in arrivo. Il comando utilizzava le informazioni di intelligence
fornite dalla Submarine Tracking Room in merito ai movimenti sottomarini e selezionate da
un’ampia varietà di fonti, tra cui le intercettazioni di Ultra dei messaggi navali inviati da Enigma
tra maggio del 1941 e giugno del 1942, quando i tedeschi alterarono il loro codice cifrato
rendendolo illeggibile per sei mesi. Compito dell’intelligence alleata era fare in modo che i
convogli sfuggissero agli U-boot in agguato. Le Western Approaches Convoy Instructions
emesse nella primavera del 1941 consideravano che l’obiettivo principale dei comandanti delle
navi da guerra di scorta fosse sfuggire ai siluri piuttosto che dare la caccia ai sottomarini.
Dall’inizio della guerra, quasi tutte le imbarcazioni navigavano in convoglio, fatta eccezione per
quelle in grado di navigare a 15 nodi o piú, che potevano percorrere le loro rotte autonomamente.
Le scorte per i convogli furono notevolmente rafforzate nel 1941, mentre la copertura aerea,
seppure lontana dall’essere completa, costringeva i sommergibili a restare immersi per lunghi
periodi. Le navi di scorta e gli aerei erano dotati di radar da 1,7 metri che contribuivano a
individuare i sottomarini e di un modello avanzato di ASDIC, il sonar di rilevamento sonoro
inventato nell’ultimo anno della Prima guerra mondiale. Né i primi né il secondo funzionavano
perfettamente nelle frequenti tempeste e con il forte moto ondoso dell’oceano, ma nel 1940 vi fu
un’autentica svolta nello sviluppo del radar con l’introduzione del magnetron a cavità di
risonanza, che permetteva lunghezze d’onda molto piú corte. Il radar centimetrico Type 271
iniziò a essere installato sulle navi dalla metà del 1941 e piú tardi sugli aerei, consentendo una
visione molto piú accurata della presenza di un sottomarino, anche in condizioni notturne, con
nebbia o nubi basse. Le migliorie apportate agli strumenti antisommergibile non significò un
aumento considerevole delle perdite di U-boot (solo 19 nel 1941 e 35 nel 1942), ma costrinsero i
sottomarini ad abbandonare i loro precedenti terreni di caccia e allontanarsi verso il cosiddetto
Mid-Atlantic gap, il «divario medio atlantico», che indicava un’area oltre la portata degli aerei
antisommergibili, o verso sud, lungo le rotte che partivano da Gibilterra e dalla Sierra Leone. Il
successo delle operazioni lanciate nel 1940 da aerei e sottomarini contro i convogli costieri non
ebbe a ripetersi: i 608 convogli che nel 1941 e 1942 fecero la spola tra la Scozia e Londra
persero in tutto 61 navi su 21 570 mercantili . Nel 1941, il tonnellaggio affondato precipitò da
145

un picco di 364 000 tonnellate a marzo ad appena 50 682 a dicembre.


Il blocco tedesco ebbe il suo momento culminante tra la primavera del 1942 e la primavera del
1943, quando il tonnellaggio affondato tornò improvvisamente ad aumentare. Le ragioni di tale
cambiamento erano in parte circostanziali e mascheravano fino a che punto la guerra sottomarina
fosse stata compromessa nel lungo periodo dalle dimensioni e dall’inventiva della reazione del
nemico. La dichiarazione di guerra agli Stati Uniti nel dicembre del 1941 aveva offerto l’inattesa
opportunità di colpire il traffico costiero nell’Atlantico occidentale, quasi non protetto. Il 9
dicembre, Hitler tolse tutte le restanti restrizioni all’azione degli U-boot, visto che ora gli Stati
Uniti non erano piú neutrali. Dönitz, colto di sorpresa dall’ingresso degli americani in guerra,
disponeva all’inizio di appena sei sommergibili, che non superavano il numero di dieci neppure a
fine gennaio. Gli U-boot Klasse IXC, adatti a percorrere distanze notevoli, furono inviati verso
sud nel golfo del Messico e lungo la rotta del petrolio e della bauxite che partiva da Trinidad; i
piú piccoli U-boot Klasse VII salparono invece verso la costa degli Stati Uniti, dove riportarono
straordinari successi. Washington non aveva quasi pensato che i sottomarini tedeschi potessero
rappresentare una minaccia cosí vicina a casa. Mentre le luci della città brillavano ancora lungo
la costa e illuminavano il traffico costiero, le imbarcazioni navigavano in piena autonomia, con
poche restrizioni alle comunicazioni radio e piene di luci. Il comandante in capo della marina
degli Stati Uniti, l’ammiraglio Ernest King, rifiutava l’idea che fosse necessario formare dei
convogli o che le navi di scorta o gli aerei adatti alla guerra contro i sommergibili fossero
insufficienti. Il risultato, nei primi sei mesi del 1942, fu una carneficina dei cargo alleati tale da
stabilire di mese in mese un nuovo record di affondamenti: 71 navi a febbraio, 124 a giugno, il
numero piú alto raggiunto durante la guerra. Quasi tutte in acque americane, erano per il 57 per
cento delle petroliere dirette verso l’Atlantico nord-occidentale per rifornire l’industria
americana e assicurare le forniture in Lend-Lease alla Gran Bretagna . Le perdite di tonnellaggio
146

registrate mensilmente iniziavano ad avvicinarsi a quelle 700 000 - 800 000 tonnellate che
Dönitz riteneva indispensabili per minare in modo decisivo il trasporto marittimo alleato. Le
azioni degli U-boot conobbero una nuova urgenza, poiché, con l’entrata in guerra degli
americani, la natura del conflitto era mutata, passando da una guerra economica volta a privare di
ogni risorsa la Gran Bretagna a una campagna per impedire agli Stati Uniti di inviare attraverso
l’oceano uomini e attrezzature per le operazioni militari in Europa.
Nel corso dell’anno, altri fattori giocarono a favore dei tedeschi. L’Atlantico nord-occidentale
era sotto la responsabilità della Marina reale canadese, che aveva avuto una frettolosa
espansione. La carenza di navi di scorta, comandate da ufficiali che avevano ricevuto un
addestramento limitato, un modello antiquato di sonar e le continue richieste di pattugliare i
convogli nel medio Atlantico portarono la flotta canadese prossima al collasso. Quando i
sottomarini tedeschi si spostarono a nord-ovest nell’estate e autunno del 1942, per condurre
azioni nel golfo di San Lorenzo, incontrarono solamente una debole resistenza: cinque
sottomarini affondarono diciannove navi e costrinsero a chiudere il golfo alla navigazione
mercantile . Dopo che l’ammiraglio King introdusse finalmente convogli con navi e aerei di
147

scorta, gli attacchi nelle acque americane e caraibiche diminuirono. Dönitz fece allora adottare ai
suoi U-boot la Wolfsrudeltaktik, la tattica dei «branchi di lupi», e li spostò nuovamente verso il
«divario medio atlantico», che le pattuglie aeree non potevano ancora raggiungere. La nuova
campagna sottomarina fu avvantaggiata dalla decisione di modificare le impostazioni di Enigma,
che lasciò l’intelligence inglese di Ultra priva di informazioni da febbraio a dicembre, il che rese
piú impegnativa, benché ancora possibile, la fuga dalla minaccia dei siluri. Anche se le scorte
armate dei convogli erano piú potenti e dotate di radar centimetrici, il divario di forze nei cieli
restava un fattore critico. La Royal Navy fece pressioni sulla RAF perché concedesse al
comando costiero un maggior numero di aerei a lungo raggio, in particolare il bombardiere
americano B-24 Liberator opportunamente modificato, ma fu Churchill a rivelarsi l’ostacolo
principale a colmare il divario tra le forze aeree. Nei mesi di crisi del 1942, il primo ministro
insistette che a richiedere un potenziamento dell’aviazione erano in primo luogo i
bombardamenti sulla Germania, preferendo dunque la guerra economica offensiva alle esigenze
difensive dei convogli. Con il forte sostegno del comandante in capo del Bomber Command, il
maresciallo dell’Aria Arthur Harris, Churchill era convinto che bombardare la produzione di
sottomarini avrebbe dato migliori risultati che attaccare gli U-boot in mare – un’opinione che
mancava per altro di prove credibili. Il primo ministro acconsentí che piú risorse aeree venissero
dirottate verso la guerra sui mari soltanto quando fu informato della cruda realtà, cioè che nel
1943 le importazioni in Gran Bretagna sarebbero precipitate a livelli talmente bassi da risultare
intollerabili, sperando tuttavia che il cambio di rotta non compromettesse l’offensiva dei
bombardieri. Nella tarda primavera del 1943, con perdite di navi superiori a 600 000 tonnellate al
mese, Churchill permise finalmente il trasferimento di aerei a lungo raggio; nello stesso
momento, Roosevelt, consapevole di quanto fosse grave il massacro dei convogli, costrinse le
forze aeree dell’esercito a consegnare quindici Liberator all’aviazione canadese, in modo da
colmare il «divario medio atlantico» anche da ovest. A maggio, circa quarantuno aerei in grado
di coprire lunghissime distanze proteggevano finalmente l’Atlantico in tutta la sua larghezza .148

Il successo riportato dai sottomarini nel 1942 e all’inizio del 1943 era per molti aspetti
un’illusione ottica e dipendeva dalla risposta disordinata alla minaccia sottomarina da parte della
marina americana e dalla temporanea incapacità di disporre di risorse aeree sufficienti a
inseguire i «branchi di lupi» tedeschi anche in pieno Oceano Atlantico. Nonostante le pesanti
perdite subite dalla navigazione mercantile, le statistiche indicano che un buon numero di navi
passò indenne. Tra maggio del 1942 e maggio del 1943, su 174 convogli che attraversarono
l’Atlantico 105 non subirono attacchi; dei restanti 69, avvistati dai sommergibili tedeschi, 23
sfuggirono ai siluri, 30 subirono perdite minori e solo 10 furono gravemente danneggiati. Per
gran parte del periodo in cui i sommergibili tedeschi riportarono i migliori risultati, a essere
colpite dai siluri furono le navi in ritardo rispetto al convoglio o quelle piú vulnerabili che
navigavano isolate: su 308 navi, 277 vennero affondate in acque americane nella prima metà del
1942. Lungo le principali rotte seguite dai convogli in partenza dalla base in Nuova Scozia,
denominati in codice HX e SC, vi furono meno perdite nel 1942 che nel 1941: 69 navi anziché
116 . Con il proseguimento della guerra sottomarina, il dato relativo alle tonnellate affondate per
149

ogni U-boot evidenziò un forte calo: nell’ottobre del 1940, esso ammontava a 920 tonnellate al
giorno; nel novembre del 1942, in cui il tonnellaggio affondato nel «divario medio atlantico»
toccò la punta massima, la cifra era solo di 220 tonnellate . Nel 1942, apparvero nello
150

schieramento alleato numerosi vantaggi tecnici e tattici: radar centimetrici, nuove


apparecchiature di ricerca direzionale ad alta frequenza per un rilevamento accurato di qualsiasi
sottomarino che usasse una radio, le prime portaerei di scorta ai convogli, esplosivi migliori, il
proiettore Leigh per illuminare il mare quando un aereo era troppo vicino perché il radar
funzionasse efficacemente, oltre alla scoperta nell’ottobre del 1942 dei nuovi codici Triton a
bordo dell’U-559 catturato nel Mediterraneo orientale, che a dicembre permisero di decriptare
nuovamente il codice di Enigma. Sotto un nuovo comandante, il sommergibilista ammiraglio
Max Horton, il Western Approaches Command trasformò l’addestramento dei comandanti delle
navi di scorta e introdusse come supporto squadre di navi da guerra dotate di ordigni ad alto
potenziale che cercavano e distruggevano i «branchi di lupi» man mano che si formavano. Anche
se a marzo del 1943 due convogli, SC121 e HX229, subirono gravissimi danni nel corso di
combattimenti apocalittici in cui vennero affondate ventuno navi, i sottomarini distrutti in tutte le
acque toccarono improvvisamente il numero piú alto mai raggiunto nella guerra: diciannove a
febbraio e quindici a marzo.
La combinazione di tutti questi fattori contribuí a determinare una brusca scomparsa della
minaccia di blocco mercantile. I cargo aggiunti dagli Stati Uniti portarono a un aumento del
tonnellaggio delle importazioni britanniche, che passarono da 22,8 milioni nel 1942 a 26,4
milioni l’anno successivo. La «crisi delle importazioni» che tanto preoccupava Churchill si era
rivelata temporanea, causata in gran parte dall’elevato numero di navi dirottate verso la
campagna del Pacifico e gli sbarchi alleati nel Nordafrica. L’intelligence navale tedesca aveva
stimato che nel 1942 gli Alleati non avrebbero costruito nuove navi mercantili per piú di cinque
milioni di tonnellate, mentre in quell’anno furono raggiunti i sette milioni di tonnellate e nel
1943 14,5 milioni. Nonostante le perdite di navi subite nel 1942 e all’inizio del 1943, i cantieri
navali degli Alleati impedirono che la campagna di logoramento degli U-boot tedeschi
affondasse un numero sufficiente di mercantili per avere un effetto decisivo sull’economia. A
dicembre del 1942 la Gran Bretagna aveva scorte disponibili di cibo e materiali per un totale di
18,4 milioni di tonnellate; 17,3 milioni nel febbraio del 1943 e di nuovo 18,3 milioni a giugno . 151

Grazie alla cantieristica americana si registrò rispetto alle perdite del 1943 un’eccedenza di navi
mercantili per undici milioni di tonnellate. Nel 1944, la marina militare del Reich non poté fare
quasi nulla per impedire il flusso di attrezzature e uomini attraverso l’Atlantico in vista
dell’invasione della Francia.
Nelle battaglie oceaniche le carte in tavola furono completamente capovolte. L’11 maggio 1943,
un convoglio lento, denominato in codice SC130, fu inviato in Gran Bretagna dalla Nuova
Scozia protetto da una scorta navale volutamente numerosa. Il convoglio venne incrociato dal
«branco di lupi» in pieno Atlantico, dove ora operavano le nuove pattuglie di Liberator. Furono
affondati sei U-boot ma nemmeno un mercantile. Nell’Atlantico, quello stesso mese, andarono
perduti 33 sottomarini, dei 41 in tutti i teatri di guerra, vale a dire un terzo degli U-boot operativi.
Il 24 maggio, Dönitz, giunto alla conclusione che perdite simili erano insostenibili, ordinò ai
sottomarini di rientrare alla base fino a quando non fossero state disponibili nuove attrezzature
per volgere ancora una volta la battaglia in suo favore. Il 31 maggio, riferí di quella momentanea
sconfitta a Hitler, che, come al solito, non intendeva ritirarsi: «Non si può parlare di una tregua
nella guerra sottomarina. L’Atlantico è la mia prima linea di difesa in Occidente» . Il blocco
152

rimase comunque spezzato fino alla fine della guerra. Nella seconda metà del 1943, vennero
affondati piú sottomarini che navi mercantili e nel 1944, in tutti i teatri di guerra, gli Alleati
persero navi per un totale di sole 170 000 tonnellate, il 3 per cento delle perdite del 1942.
L’ampliamento e il potenziamento delle forze antisommergibili resero le azioni sottomarine
insostenibili e suicide: nel 1943 furono affondati circa 237 U-boot, 241 nel 1944. Le nuove
macchine da guerra erano in cantiere con gli U-boot Klasse XXI e XXIII, in grado di operare a
elevate profondità, di passare inosservati sott’acqua e di lanciare i siluri rimanendo in
immersione, con un raggio operativo che arrivava a Città del Capo. Lo sviluppo dei nuovi
modelli fu tuttavia lento, sia a causa dei bombardamenti alleati sia della diversione di risorse ad
altre necessità piú urgenti. Il primo sottomarino di nuova generazione divenne operativo il 30
aprile 1945 e si diresse verso l’estuario del Tamigi quando lo sforzo bellico tedesco volgeva
ormai al termine .
153

A differenza delle potenze dell’Asse, la pianificazione prebellica britannica e americana


racchiudeva un nocciolo duro in previsione di una guerra economica, grazie in gran parte a
fattori geografici. Nessuno dei due paesi, infatti, poteva essere invaso da terra, il che li lasciava
liberi di proiettare la loro forza principale sui mari e nei cieli. La pianificazione statunitense di
una guerra contro il Giappone risaliva agli anni precedenti alla Prima guerra mondiale e
prevedeva di porre il Giappone sotto assedio economico se mai Tokyo avesse tentato di
estromettere gli Stati Uniti dal Pacifico occidentale. Nei venticinque anni seguiti alla sua prima
concezione, il War Plan Orange (in cui il colore arancione indicava il Sol Levante) aveva
conosciuto una serie di versioni, nelle quali rimaneva comunque fermo l’impegno per una guerra
economica illimitata. A fornire il migliore esempio era il successo del blocco organizzato durante
la guerra civile contro la Confederazione. Impedire l’accesso alle risorse d’oltremare, distruggere
i trasporti marittimi e isolare il paese commercialmente e finanziariamente erano tutti strumenti
atti a indurre «l’impoverimento e l’esaurimento» del «nemico arancione» . Di fronte a una
154

guerra estrema contro il Giappone, la forza dell’economia americana avrebbe assicurato la


distruzione di quella giapponese. Negli anni Trenta, i pianificatori avevano inserito
nell’equazione anche la potenza aerea, con i bombardamenti e il blocco mercantile come
strumenti complementari della guerra economica. La versione del 1936 del War Plan Orange
prevedeva il bombardamento di obiettivi industriali e sistemi di comunicazione con aerei che
sarebbero decollati dalle basi insulari del Pacifico, e questo molto tempo prima che esistessero
velivoli in grado di operare su distanze cosí lunghe, per cui l’idea rimase una pura aspirazione
fino a quando i mezzi aerei non divennero finalmente disponibili piú tardi durante la campagna
militare lanciata nel Pacifico centrale . L’aviazione si sarebbe rivelata fondamentale anche per i
155

piani di guerra economica nel teatro di guerra europeo qualora la Germania fosse diventata un
potenziale nemico. In questo caso, i bombardamenti erano già possibili nell’immediato e il loro
scopo, concordato dai pianificatori militari americani alla fine dell’estate del 1941, sarebbe stato
«il crollo della struttura industriale ed economica» .
156

Il modello britannico di guerra economica si rifaceva alla Prima guerra mondiale, poiché si
presumeva che una delle principali spiegazioni del crollo delle potenze centrali fosse stato il
blocco navale che aveva impedito l’accesso a risorse e cibo, provocando la crisi industriale e
sociale del 1918. Verso la fine di quel conflitto, si era aggiunta al blocco la prospettiva di
bombardare l’industria tedesca come forma di guerra economica. I piani di un’importante
offensiva aerea alleata nel 1919, con centinaia di bombardieri plurimotore, erano stati sospesi
dall’armistizio di novembre del 1918, ma l’idea di porre sotto assedio aereo un’economia nemica
era rimasta nei successivi vent’anni un punto fermo della pianificazione della forza aeronautica.
Nel 1928, il capo dello stato maggiore dell’aviazione Hugh Trenchard aveva stabilito che
l’obiettivo bellico fondamentale di una forza aerea era l’attacco alle città industriali del nemico e
alla volontà di combattere della loro popolazione, bombardando «i punti in cui il nemico ha
maggiori difficoltà a difendersi e in cui è piú vulnerabile agli attacchi» . Questa ambizione
157

rimase al centro delle missioni aeree fino all’inizio dell’offensiva dei bombardieri nel maggio del
1940, quando furono integrate nella strategia generale del blocco. Tra le due guerre, rimase
un’opzione permanente anche l’embargo formale del commercio del nemico via mare, e nel 1937
la pianificazione di un blocco si orientò piú specificamente su una possibile guerra con la
Germania. Nello stesso anno venne infatti istituita la Commissione per le pressioni economiche
sulla Germania, le cui deliberazioni sulla debolezza dell’economia tedesca contribuirono a
plasmare l’idea che una guerra economica contro la Germania sarebbe dovuta diventare un
fattore determinante della grandiosa strategia britannica. Un ministero della Guerra Economica
fu attivato temporaneamente al momento della crisi di Monaco nel settembre del 1938. La
denominazione del dicastero intendeva volutamente ampliare il concetto di guerra economica (un
termine coniato per la prima volta nel 1936) al di là di un semplice blocco navale, al fine di
includere tutte le possibili forme di restrizione nell’accesso della Germania a beni, risorse
finanziarie e servizi, compresa ovviamente l’azione offensiva sotto la rubrica «reparto
combattimenti». Tali compiti servirono alla fine a definire e valutare gli obiettivi economici del
Bomber Command . A settembre del 1939, il ministero divenne ufficialmente un elemento
158

attivo della macchina da guerra britannica.


In Occidente, tuttavia, la guerra economica era potenzialmente limitata dalle restrizioni legali
relative all’uso di sottomarini e aerei contro navi mercantili e stabilimenti industriali del nemico.
Il London Submarine Protocol del 1936 – concordato dalle maggiori potenze, tra cui Germania e
Giappone – limitava giuridicamente gli attacchi di sottomarini a navi per trasporto truppe,
mercantili in convoglio con scorte navali nonché qualsiasi nave mercantile armata impegnata in
atti di guerra. La guerra sottomarina senza restrizioni era dichiarata illegale. Le navi mercantili
avrebbero dovuto essere fermate e perquisite per verificare la presenza di merce di contrabbando,
e la sicurezza dell’equipaggio andava rispettata. Le medesime restrizioni riguardavano la forza
aerea. Secondo le istruzioni del ministero dell’Aviazione britannica, emesse all’inizio del 1940,
soltanto le navi da guerra potevano essere attaccate; un eventuale attacco dal cielo contro navi
mercantili doveva avere l’unico obiettivo di deviarle dalla rotta seguita . Dal momento che né i
159

sottomarini né gli aerei potevano facilmente attenersi alla politica legalmente ineccepibile del
«fermare e perquisire», il loro impatto in una guerra economica sui mari sarebbe stato
probabilmente trascurabile. Un analogo problema si poneva per il bombardamento di obiettivi
tedeschi. Direttive emesse nel 1939 dal governo e dai capi dello stato maggiore della Gran
Bretagna dichiaravano illegale qualsiasi operazione che prendesse deliberatamente di mira la
popolazione civile, soprattutto se gli obiettivi militari non erano immediatamente identificabili (il
che significava nessun bombardamento attraverso le nuvole o di notte) e se la morte di civili
risultava da un probabile atto di negligenza .160

In entrambi i casi, nel corso del 1940 il governo britannico capovolse tali restrizioni.
Bombardamenti sulle città industriali della Germania iniziarono alla metà di maggio del 1940,
partendo dal presupposto che le forze tedesche avevano già sfidato cosí sfacciatamente il diritto
internazionale che la Gran Bretagna non era piú tenuta ad attenervisi per quanto riguardava la
Germania. In ottobre, tutte le restrizioni furono revocate, aprendo cosí le porte, alla metà del
1941, a una strategia che definiva apertamente la popolazione civile delle città industriali come
legittimo obiettivo militare . Lo stesso ragionamento fu utilizzato per la guerra con i
161

sommergibili. Dal momento che la Germania aveva fatto palese ricorso ad azioni sottomarine
senza alcuna restrizione – anche se le cose non stavano esattamente cosí –, non esisteva alcun
argomento legale che vietasse una guerra senza limiti contro le navi mercantili del Reich. A
partire dalla campagna tedesca contro la Norvegia, furono istituite delle zone circoscritte in cui
navi e aerei britannici potevano «affondare a vista». Tali zone furono gradualmente ampliate nel
corso dell’anno successivo, per cui i mercantili dei paesi dell’Asse si trovarono soggetti in
generale a una guerra che non conosceva restrizioni di sorta. Per gli Stati Uniti la questione
legale fu notevolmente semplificata dall’attacco giapponese contro Pearl Harbor. Sei ore dopo, i
comandanti della base colpita ricevettero un telegramma: « INIZIARE GUERRA AEREA E
SOTTOMARINA SENZA RESTRIZIONI CONTRO GIAPPONE» . 162

La guerra economica senza i limiti imposti dal diritto internazionale fece la sua prima
apparizione nel teatro di guerra del Mediterraneo. Il 13 giugno 1940, un sommergibile italiano
affondò senza alcun preavviso una petroliera norvegese in una zona di mare che la marina
italiana aveva designato come «pericolosa». Sembra che gli italiani avessero posato mine in mare
senza la dichiarazione formale richiesta dal diritto internazionale. A metà luglio, il gabinetto di
guerra britannico discusse e approvò la direttiva di «affondare a vista» le navi italiane, prima al
largo della costa libica, poi a 50 chilometri dalla costa di qualsiasi territorio italiano. Sottomarini,
navi di superficie e aerei erano liberi di distruggere i mercantili dell’Italia e le navi per i
rifornimenti di equipaggiamento militare e trasporto truppe destinate a combattere sul fronte del
Nordafrica . Nonostante tutto questo, la campagna militare britannica impiegò tempo ad attuarsi.
163

Nel 1940, vi erano solo dieci sottomarini nel Mediterraneo, tutti vecchi mezzi di classe O e P,
troppo grandi e troppo lenti a immergersi nelle acque poco profonde e nella piena visibilità del
mare interno. Gli aerei erano invece troppo pochi e impiegati nella difesa dell’Egitto. Nel 1941,
iniziarono ad arrivare in numeri significativi i sommergibili della nuova classe T e quelli piú
piccoli di classe S e U, piú adatti alle condizioni del Mediterraneo. A ottobre del 1940 la marina
britannica catturò i codici dei sottomarini italiani e nel giugno dell’anno seguente fu decriptato il
codice italiano C-38m, che forní cosí dettagli sulle partenze e le rotte dei convogli . Una 164
maggiore attività aerea e un uso piú esteso di mine e di forze di superficie impiegate nella caccia
ai convogli causarono irreparabili perdite di mercantili italiani e tedeschi (questi ultimi erano
stati prestati all’Italia ma navigavano sotto la bandiera del Reich) e distrussero progressivamente
la marina mercantile italiana.
Negli ultimi drammatici mesi tra gennaio e maggio del 1943, i convogli italiani sfidarono la sorte
nello stretto canale esistente tra le acque minate dagli Alleati per rifornire le forze dell’Asse
imbottigliate in Tunisia. Furono massacrati dagli aerei decollati dalle vicine basi britanniche e
americane e attaccati da navi di superficie e sottomarini, con scarse possibilità di sopravvivere
illesi. I marinai italiani iniziarono a chiamarla la «rotta della morte». A causa delle perdite di
navi da guerra, non vi erano mai piú di dieci cacciatorpediniere disponibili come scorta, che
operavano 24 ore su 24 e che da febbraio si ridussero soltanto a cinque. Nei mesi di marzo e
aprile, il 41,5 per cento dei rifornimenti finí in fondo al mare; a maggio, poco prima della resa
italiana, il dato salí al 77 per cento. Nel periodo della «rotta della morte» circa 243 navi di
rifornimento furono affondate e 242 danneggiate . Nei tre anni di campagna militare, la marina
165

mercantile italiana passò da 3,1 milioni di tonnellaggio, di navi italiane, tedesche e altre
catturate, ad appena 2,8 milioni; furono affondate in totale 1826 navi e petroliere, il 42 per cento
da sottomarini, il 41 per cento da aerei e il 17 per cento da navi di superficie e mine . L’effetto
166

sullo sforzo bellico dell’Asse in Nordafrica fu tuttavia diversificato. Nonostante gli sforzi
concentrati sugli attacchi ai convogli, si stima che quasi il 15 per cento dei rifornimenti avesse
raggiunto l’Africa. E fu appunto lí che navi e forniture di guerra, imbottigliate in piccoli porti
non idonei al volume delle spedizioni, furono distrutte dagli implacabili attacchi aerei delle unità
della RAF decollate dal Medio Oriente, oppure andarono perdute nei lunghi percorsi dei trasporti
verso il fronte . Il problema non era il grado delle effettive perdite dei convogli in quanto tali,
167

ma la crescente carenza di navi per il trasporto delle merci. Migliaia di tonnellate rimasero
immobilizzate per le riparazioni nei cantieri navali italiani a corto di risorse. I rifornimenti
mensili di merci sul fronte nordafricano ebbero il loro picco tra febbraio e giugno del 1941; da
luglio a dicembre dell’anno seguente, la media mensile fu solo il 62 per cento del dato
precedente, benché i rinforzi necessari in quel momento fossero considerevolmente maggiori . 168

Non suscita invece particolari disparità di opinioni il fatto che l’interruzione delle spedizioni
mercantili italiane contribuí al declino della produzione bellica dell’Italia e alla carenza di
petrolio. Il blocco alleato colpiva infatti non solo il traffico verso l’Africa ma anche il regolare
commercio con i porti italiani, da cui l’industria italiana dipendeva per materie prime e
combustibili e la popolazione civile per approvvigionamenti alimentari. La misura in cui tutto
questo avesse risentito della distruzione o del danneggiamento delle navi italiane ha attirato
minore attenzione da parte degli studiosi rispetto alle rotte dei rifornimenti diretti in Africa, per
cui è piú difficile da dimostrare statisticamente. In base alle stime delle forze armate, era
necessario importare ogni anno 8,3 milioni di tonnellate di petrolio, mentre la media consegnata
tra il 1940 e il 1943 fu appena di 1,1 milioni; rispetto a un fabbisogno di 159 000 tonnellate di
rame e stagno, le importazioni furono solo di 30 000 tonnellate; ogni anno arrivavano soltanto
5000 tonnellate di alluminio, a fronte delle 33 000 necessarie . Nel 1942, le forniture di cotone e
169

caffè coprirono appena l’1 per cento del dato del 1940; la lana il 4 per cento; il grano l’11 per
cento; ferro e acciaio il 13 per cento e cosí via . Fino a che punto tali carenze fossero
170

direttamente dovute alla guerra economica degli Alleati rimane aperto a varie congetture, ma la
perdita nell’estate del 1943 del 90 per cento della capacità mercantile nel corso della guerra
appare in sé eloquente.
La guerra economica contro la Germania fu condotta su una scala significativamente piú ampia
e, a differenza della guerra degli approvvigionamenti nel Mediterraneo, venne attuata in gran
parte con azioni aeree, svolte inizialmente dal Bomber Command della RAF, a cui si
affiancarono dopo il 1942 la VIII Air Force americana, di stanza in Gran Bretagna, e, dalla fine
del 1943, la XV Air Force, che aveva le sue basi nel Sud Italia. Il blocco del traffico marittimo
tedesco si rivelò di limitata utilità, poiché il Reich poteva accedere alle risorse dell’Europa
occupata e neutrale. Nelle acque del Nord Europa, i sottomarini britannici affondarono durante la
guerra solo 81 navi, mentre gli aerei del Coastal Command ne eliminarono in totale altre 366,
anche se molte erano navi costiere di tonnellaggio limitato. Si stima che le mine ne mandarono a
picco altre 638, perlopiú piccole imbarcazioni . Il traffico mercantile oceanico verso la
171

Germania veniva intercettato dalle navi da guerra britanniche con le cosiddette operazioni di
«controllo del contrabbando», durante le quali il materiale bellico veniva sequestrato come
bottino, anche se carichi di questo genere diminuirono presto di importanza nell’autunno del
1939. Da allora in poi, infatti, le navi che cercarono di violare il blocco furono poche, alcune
tedesche, altre giapponesi, con un’alta percentuale di mercantili affondati o sequestrati e un
impatto strategico minimo. Già prima della guerra, l’idea di impedire allo sforzo bellico tedesco
di accedere alle risorse era considerata una strategia piú facilmente perseguibile attaccando
direttamente la fonte di tali risorse con aerei in grado di volare su lunghe distanze. Nei mesi che
avevano preceduto lo scoppio della guerra, il ministero dell’Aviazione britannico aveva
elaborato i cosiddetti Western Air Plans 16, una lista di obiettivi che andava ben oltre le capacità
del Bomber Command. I piani fondamentali erano il W. A. 5 – «piani per attaccare le fonti della
produzione industriale tedesca», incluse le risorse del settore bellico in generale, l’area della
Ruhr e le risorse petrolifere – e il W. A. 8, che prevedeva attacchi notturni ai depositi di materiali
da guerra tedeschi. Questi due piani si fusero e divennero operativi alla metà di maggio del 1940,
dopo che il nuovo gabinetto di guerra di Churchill aveva autorizzato le azioni notturne, che
avrebbero inevitabilmente causato vittime tra la popolazione civile . Queste prime incursioni
172

inaugurarono una campagna quinquennale contro il fronte interno della Germania e la


produzione tedesca nell’Europa occupata – una campagna la cui lunghezza e portata non erano
state del tutto previste. Le forze aeree anglo-americane speravano che la guerra economica dal
cielo avrebbe avuto un impatto immediato, tuttavia, come per la guerra di logoramento in mare,
l’impresa di indebolire le risorse economiche del Reich si rivelò un processo lento, frustrante e
costoso.
In pratica, nei primi due anni della campagna il Bomber Command non fu in grado di riportare
quasi nessun risultato di una certa efficacia. Anche se Churchill aveva espresso il suo pieno
sostegno all’offensiva, in quanto unico modo per portare la guerra sulla soglia di casa del popolo
tedesco, l’idea che l’industria e le comunicazioni tedesche potessero essere pesantemente
perturbate si dissolse dinanzi alla realtà operativa, nonché alla chiara prova che anche i
bombardamenti tedeschi stavano avendo un effetto limitato sulla produzione britannica. Il
Bomber Command disponeva di troppo pochi aerei e non aveva alcun bombardiere pesante,
mancava di un moderno sistema di puntamento o di ausilio al volo, i suoi velivoli trasportavano
bombe ad alto potenziale ma di piccolo calibro e pochi ordigni incendiari, oltre a dover
affrontare un numero spaventoso di postazioni antiaeree che proteggevano gli obiettivi chiave
nella Germania occidentale. Un pilota del Bomber Command ricordava che nel 1940 le
operazioni contro obiettivi economico-militari designati «erano senza senso», dal momento che
molti equipaggi non riuscivano nemmeno a trovare la città che erano stati mandati a bombardare.
Un’alta percentuale di bombe cadeva in aperta campagna e un numero significativo restava
inesploso . Sappiamo che gli insuccessi vennero alla luce nell’agosto del 1941, allorché il
173

consulente scientifico di Churchill, Frederick Lindemann, chiese al giovane studioso di statistica


David Bensusan-Butt di analizzare 650 fotografie scattate da aerei del Bomber Command e
misurarne la precisione. Butt scoprí che solo un aereo su cinque lanciava le proprie bombe entro
un raggio di 8 chilometri dall’obiettivo, uno su dieci nella regione industriale Ruhr-Renania e
solo uno su quindici nelle notti senza luna o nebbiose. Due mesi dopo, la sezione
dell’Operational Research del Bomber Command, creata di recente, riscontrò che le incursioni
effettuate in autunno davano risultati perfino peggiori: solo il 15 per cento degli aerei rilasciava i
suoi ordigni entro 8 chilometri dal bersaglio .
174

Già prima della relazione di Butt, la strategia di guerra economica del Bomber Command era
mutata, in considerazione del fatto che i bombardamenti, nelle condizioni di allora, erano
decisamente imprecisi. Analizzando l’impatto dei bombardamenti tedeschi sulla Gran Bretagna,
il ministero dell’Aviazione concluse in primo luogo che occorreva dare la priorità alle bombe
incendiarie, che causavano molti piú danni dell’esplosivo ad alto potenziale, e, in secondo luogo,
che bombardare i lavoratori e il loro ambiente urbano sarebbe stato un modo piú efficace per
ridurre la produzione bellica nemica, anziché sferrare inutili attacchi a una determinata fabbrica.
Nell’aprile del 1941, le nuove linee guida dei bombardamenti consigliavano «attacchi “ BLITZ ”
attentamente pianificati, concentrati e continui» e sferrati al centro delle zone operaie delle città e
paesi tedeschi. I lavoratori, sosteneva il direttore dell’Air Intelligence, erano «i meno mobili e i
piú vulnerabili a un attacco aereo generale» . Quasi simultaneamente, il ministero della Guerra
175

Economica concluse che la strategia della guerra economica sarebbe stata piú efficace se diretta
alla distruzione non tanto delle singole fabbriche quanto delle abitazioni e dei negozi dei
lavoratori e fece pressione sul ministero dell’Aviazione perché fossero organizzate azioni dirette
contro intere città . Nell’idea britannica, i lavoratori venivano cosí trasformati in un obiettivo
176

economico astratto. Con questa definizione in mente, nel luglio del 1941 il Bomber Command
ricevette una nuova direttiva in base alla quale tre quarti delle operazioni dovevano essere rivolte
contro la classe operaia e le aree industriali, il resto, quando possibile, doveva avere come
obiettivo strutture dei trasporti e delle comunicazioni. Una seconda direttiva del 14 febbraio 1942
rimosse i trasporti come obiettivo utile (le loro strutture, infatti erano state raramente attaccate
con successo) e pose come obiettivo primario operazioni rivolte direttamente contro il morale
della popolazione civile nemica, in particolare dei lavoratori dell’industria. Le città industriali
tedesche furono suddivise in zone per evidenziare i quartieri residenziali vulnerabili: «Zona 1:
area centrale della città, completamente edificata; Zona 2(a): area residenziale compatta,
completamente edificata; fino ad arrivare alla Zona 4: aree industriali». Lo scopo era che il
Bomber Command organizzasse attacchi nelle zone residenziali 1 e 2(a) ed evitasse uno spreco di
bombe sulle zone industriali con minore densità . Il ministero della Guerra Economica stilò un
177

elenco di cinquantotto città (la cosiddetta Bomber’s Baedeker), precisando un punteggio


economico per ciascuna di esse in base all’analisi del numero di fabbriche piú importanti.
Berlino ebbe il punteggio piú alto con 545 punti; Würzburg, in seguito distrutta in una tempesta
di fuoco, aveva totalizzato appena 11 punti. Il vero obiettivo non era tanto incoraggiare
bombardamenti di precisione, quanto fare in modo che, allorché un’area urbana veniva devastata,
molte importanti strutture produttive risentissero della morte, ferimento ed evacuazione della
loro forza lavoro. L’elenco fu successivamente esteso a coprire 120 città. Dopo la sua nomina a
capo del Bomber Command nel febbraio del 1942, Harris prese la lista e iniziò a evidenziare le
città che riteneva fossero state «adeguatamente» distrutte. Nell’aprile del 1945, quando i
bombardamenti urbani cessarono pochi giorni prima della resa tedesca, Harris aveva segnato sul
suo elenco settantadue città .
178

Le forze aeree dell’esercito americano avevano una visione molto diversa del loro potenziale
bellico in campo economico. Nel 1940, grazie a materiali forniti dal servizio d’informazione
dell’aviazione britannica, la sezione dell’intelligence aerea americana elaborò un dossier di
obiettivi economici che riteneva potessero minare in modo decisivo lo sforzo bellico tedesco. In
base alle istruzioni formulate nell’agosto del 1941 dal dipartimento della Guerra al fine di
elaborare un piano di azioni aeree inserite nel Victory Program di Roosevelt, gli analisti scelsero
come obiettivi primari di un’offensiva aerea strategica impianti di energia elettrica, trasporti e oli
combustibili, insieme con il morale della popolazione (una sorta di tributo all’influenza
britannica). A differenza di tutta la pianificazione bellica della Gran Bretagna, il piano americano
denominato AWPD-1 riteneva l’aviazione tedesca e le relative industrie e infrastrutture di
supporto un «bersaglio intermedio» sostanziale, la cui distruzione era considerata giustamente un
prerequisito per poter eliminare efficacemente gli altri obiettivi . Nel 1942, mentre l’VIII Air
179

Force attraversava l’Atlantico diretta alle basi in Inghilterra, il piano iniziale fu modificato. Nel
settembre dello stesso anno, l’AWPD-42 rimosse il morale della popolazione come bersaglio
utile e aggiunse tra gli obiettivi critici la produzione di sottomarini, gomma sintetica e alluminio.
I piani d’azione furono calcolati con precisione: 154 obiettivi singoli nel 1941, portati a 177
l’anno seguente . Si calcolarono altresí le dimensioni della forza di bombardieri necessari e il
180

peso dell’attacco. Si riteneva inoltre che i bombardieri degli Stati Uniti, dotati di un efficace
sistema di puntamento, potessero sorvolare di giorno la Germania per lanciare attacchi di
precisione su impianti individuati come obiettivi primari. Il piano americano presumeva che una
volta distrutti gli obiettivi stabiliti l’effetto «sarebbe stato decisivo e la Germania non sarebbe
stata in grado di continuare lo sforzo bellico» . Le differenze con i bombardamenti notturni della
181

RAF furono formalmente precisate in vista della Combined Bomber Offensive concordata infine
nel gennaio del 1943 alla Conferenza degli Alleati di Casablanca. L’operazione Pointblank,
stabilita sei mesi dopo, distingueva chiaramente tra due forme di guerra economica: una basata
su specifici obiettivi industriali attaccati di giorno, l’altra su incursioni notturne, destinate a
minare la volontà dei lavoratori tedeschi di continuare la guerra. Si trattava di strategie distinte
ma non incompatibili, benché i comandanti dell’aviazione americana rimanessero scettici sul
fatto che l’offensiva britannica potesse ottenere qualche risultato decisivo in termini sia politici
sia economici. «In una società totalitaria, il morale della popolazione è irrilevante», concluse il
generale Carl Spaatz, comandante delle forze aeree strategiche americane in Europa, «almeno
fintanto che i modelli di controllo funzionano efficacemente» . 182

Nel corso del primo anno, l’VIII Air Force americana si sottopose a un difficile apprendistato.
Nelle condizioni prevalenti, i piani per rendere inutilizzabili i 177 obiettivi inseriti
specificamente in un elenco a suo modo perfino bizzarro si rivelarono impossibili da realizzare.
Il tanto decantato sistema di puntamento Norden risultò uno strumento scadente per
bombardamenti da oltre 4500 metri di quota; le città industriali tedesche erano regolarmente
avvolte da nuvole o fumi di ciminiere, sicché tra il 1943 e il 1945 quasi tre quarti delle bombe
americane furono sganciate «alla cieca» usando le indicazioni dei radar, senza grandi differenze
rispetto ai bombardamenti che gli inglesi concentravano in determinate aree; i raid diurni, privi
di caccia di scorta, erano soggetti a livelli di perdite intollerabili. I bombardieri di due grandi
incursioni lanciate nell’agosto e ottobre del 1943 contro un unico bersaglio fondamentale da
colpire con precisione – ovvero le fabbriche di cuscinetti a sfera di Schweinfurt – subirono un
grave attacco: il 31 per cento dei velivoli andò perso nel raid di agosto, distrutto, gravemente
danneggiato o costretto a dirigersi verso le basi nordafricane; a ottobre, su 229 bombardieri ne
andarono persi 65 . Livelli tali di perdite non potevano essere sostenuti, per cui, fino a febbraio
183

del 1944, l’VIII Air Force scelse obiettivi piú facili sulla costa della Germania settentrionale o
nell’Europa occupata.
Nello stesso mese, quando riprese l’offensiva diurna contro l’industria tedesca, la situazione era
molto mutata. Sotto la guida di Spaatz, nominato alla fine del 1943 comandante di tutte le forze
aeree strategiche americane in Europa, e del generale maggiore James Doolittle, che aveva
assunto il comando dell’VIII Air Force nel gennaio del 1944, la guerra economica si concentrò
sulla sconfitta militare dell’aviazione tedesca che difendeva gli obiettivi industriali. La
dimensione economica era evidente, dal momento che l’industria aeronautica era l’obiettivo
prioritario. Dal 19 al 26 febbraio 1944, l’VIII Air Force in volo dalla Gran Bretagna e la XV Air
Force decollata dall’Italia intrapresero in quella che venne soprannominata la Big Week, la
«grande settimana», un’ondata di attacchi contro diciotto impianti di assemblaggio di aerei. I
danni furono ingenti ma non ancora determinanti in modo critico. Il vero danno fu causato dal
mutato quadro tattico. Come le navi mercantili in mare, gli stormi di bombardieri avevano
bisogno della protezione di una scorta. Dalla fine del 1943, la forza dei caccia americani – P-38
Lightning, P-47 Thunderbolt e P-51 Mustang, ad alte prestazioni e alimentati da un motore
Merlin prodotto in Gran Bretagna su licenza negli Stati Uniti – fu equipaggiata con serbatoi
aggiuntivi di carburante per consentire loro di penetrare a fondo nello spazio aereo tedesco. Pur
proteggendo i bombardieri vulnerabili, i caccia erano altresí autorizzati a compiere operazioni in
totale autonomia, allontanandosi per miglia e miglia dagli stormi dei bombardieri per attaccare
velivoli, basi aeree e altre strutture del nemico. Nonostante l’eccezionale incremento della
produzione di caccia tedeschi nel 1944, il logoramento causato dalle aggressive scorte americane
si rivelò disastroso. A febbraio, la Luftwaffe aveva perso un terzo dei suoi caccia, mentre ad
aprile il dato salí al 43 per cento della forza combattente . Alle perdite di piloti esperti non si
184

poteva rimediare rapidamente, per cui il livello di addestramento non poté che diminuire. Danni
di tale portata si rivelarono insostenibili e, anche se la produzione di aerei continuò a ritmi
sostenuti per tutto il 1944, nonostante i bombardamenti, l’aviazione tedesca perse la gara per la
superiorità nel suo stesso spazio aereo.
La sconfitta della Luftwaffe permise alle forze dei bombardieri americani di riprendere la guerra
economica, sostenuta ora da un considerevole aumento numerico di aerei. Questa volta, l’ampia
gamma di obiettivi previsti nella pianificazione iniziale fu abbandonata in favore di attacchi alle
forniture di petrolio della Germania. Nel marzo del 1944, un rapporto dell’Enemy Objectives
Committee indicava il petrolio come bersaglio piú vulnerabile, che avrebbe avuto probabilmente
un effetto determinante sulla forza di combattimento tedesca in generale. Pur considerando che le
azioni di bombardamento sarebbero state dirottate per sostenere l’invasione alleata della Francia,
prevista per giugno, Spaatz ordinò di continuare la campagna contro gli obiettivi petroliferi. Ad
aprile furono effettuate incursioni devastanti sul giacimento petrolifero romeno di Ploeşti, la
principale fonte tedesca di petrolio naturale. A maggio e all’inizio di giugno furono effettuate
pesanti incursioni sui principali impianti di produzione di petrolio sintetico e di raffinazione del
carburante. Anche se la grande maggioranza delle bombe cadde all’esterno dell’area stabilita, un
numero di ordigni sufficiente a produrre gravi danni venne sganciato sugli obiettivi petroliferi .185

La produzione di carburante per l’aviazione scese da 180 000 tonnellate a marzo a 54 000
tonnellate a giugno e 21 000 tonnellate a ottobre. La produzione di petrolio sintetico, che era di
348 000 tonnellate ad aprile, scese a settembre a 26 000 tonnellate. La decisione di attaccare
impianti ad alta intensità di capitale che non potevano essere facilmente sparpagliati sul territorio
o nascosti si estese ad altri stabilimenti di prodotti chimici di base necessari all’industria delle
munizioni. Nel 1944, la produzione di azoto fu ridotta di tre quarti, quella di metanolo di quattro
quinti, della soda del 60 per cento, dell’acido solforico del 55 per cento e cosí via. La produzione
di gomma sintetica, aggiunta al petrolio come ulteriore risorsa militare di importanza decisiva,
scese da 12 000 tonnellate nel marzo del 1944 a sole 2000 nel mese di novembre . Come effetto
186

cumulativo si ebbe un’erosione delle restanti scorte tedesche di risorse fondamentali, e a livelli
tali da rendere impossibile continuare il conflitto molto oltre la primavera del 1945.
Il danno ai principali impianti petroliferi e chimici fu corredato nel settembre del 1944 da una
direttiva inviata da Eisenhower alle forze aeree americane e britanniche per focalizzare
l’attenzione sui bombardamenti delle comunicazioni e degli impianti connessi al petrolio. Harris
si oppose a qualsiasi tentativo di distogliere il Bomber Command dal bombardare le città, ma
acconsentí a sganciare bombe su quelle aree urbane che ospitavano anche obiettivi petroliferi e
ferroviari. La maggior parte della campagna finale contro gli obiettivi designati, tra cui la
sistematica eliminazione della forza aerea tedesca, fu diretta da Spaatz. In termini economici,
l’ondata di attacchi lanciata da settembre del 1944 in avanti contro obiettivi ferroviari e canali
navigabili si rivelò decisiva. Il corso del Reno fu bloccato da un colpo di fortuna che fece saltare
in aria il ponte di Mülheim a Colonia; il Canale del Mittelland, che collegava la regione
industriale della Ruhr-Renania alla Germania centrale, fu reso praticamente inutilizzabile negli
ultimi mesi dell’anno; a novembre, metà dei 250 000 vagoni merci a disposizione delle ferrovie
tedesche era fuori uso. Il carbone e l’acciaio, ormai impossibili da trasportare dalla Ruhr,
finivano accumulati alla fine delle rotaie in attesa di essere spostati; tra settembre del 1944 e
gennaio del 1945 il trasporto totale di merci su ferrovia diminuí quasi della metà . La Germania
187

venne frammentata in zone economiche in cui la produzione militare iniziò rapidamente a calare
quando le risorse si prosciugarono. Nel dopoguerra, in quasi tutti gli interrogatori di funzionari e
uomini d’affari responsabili della produzione bellica tedesca il declino del sistema dei trasporti
fu identificato quale causa principale della crisi economica. Al contrario, i capi delle forze
armate consideravano come elemento chiave del crollo militare la perdita delle riserve di
petrolio: «Senza carburante», osservò Göring, «nessuno è in grado di condurre una guerra» . 188

Gli studi del dopoguerra sulla guerra economica, condotti dallo Strategic Bombing Survey degli
Stati Uniti e dalla piú modesta Bombing Survey Unit britannica, confermarono ampiamente le
opinioni ricavate durante gli interrogatori. Le ricerche si concentrarono sui risultati della
campagna della guerra economica anziché sulle conseguenze politiche o militari. Non vi fu
nessun tentativo di nascondere il fatto che, nonostante cinque anni di bombardamenti e 1,3
milioni di tonnellate di bombe, la produzione bellica tedesca si era notevolmente ampliata fino
all’autunno del 1944: gli aerei da combattimento erano aumentati di tredici volte, i carri armati di
cinque, i cannoni pesanti di quattro . L’incremento produttivo piú rapido era avvenuto proprio
189

negli anni in cui erano diventati possibili i bombardamenti piú pesanti e persistenti. Senza le
bombe si sarebbe certamente prodotto di piú, ma i bombardamenti furono solo uno dei fattori che
influirono sull’andamento dell’economia di guerra. Gli autori dell’Overall Report americano
calcolarono che i bombardamenti erano costati all’economia tedesca il 2,5 per cento della
produzione potenziale nel 1942, il 9 per cento nel 1943 e il 17 per cento nel 1944, quando
l’offensiva americana contro gli obiettivi industriali era riuscita a essere efficace, benché tali
statistiche includessero anche generi di produzione non bellica. Il rapporto, al pari degli
interrogatori del dopoguerra, concludeva che la campagna contro le riserve petrolifere e la
distruzione delle comunicazioni erano state i fattori principali a compromettere lo sforzo bellico
tedesco, e questo anche se la sezione del rapporto dedicata al petrolio indicava che appena il 3,4
per cento delle bombe destinate a installazioni petrolifere aveva effettivamente colpito gli
impianti e gli oleodotti, mentre l’84 per cento era caduto fuori dall’obiettivo . Com’era 190

prevedibile, il rapporto americano sosteneva che la campagna di bombardamenti britannica su


aree precise «ebbe scarso effetto sulla produzione», ma occorre dire che quando la Bombing
Survey Unit inglese compilò il proprio rapporto un anno dopo, l’affermazione americana si
dimostrò ampiamente corretta. Uno studio condotto su ventuno città industriali rilevò che i
bombardamenti di area avevano ridotto la produzione solo dello 0,5 per cento nel 1942 e appena
dell’1 per cento nel 1944. La produzione, inoltre, era aumentata piú rapidamente nelle città
bombardate che nelle quattordici città non bombardate, esaminate anch’esse dall’indagine . Il 191

rapporto inglese concludeva che la strategia americana diretta a colpire i trasporti era stata la
scelta giusta. I bombardamenti di area avevano distrutto quasi il 40 per cento delle zone edificate
della Germania e causato la morte di oltre 350 000 esseri umani tra uomini, donne e bambini, ma
anche un livello simile di danni, senza precedenti, non aveva impedito l’andamento ascendente
della produzione bellica fino all’autunno 1944.
Il modesto successo riportato in ambito economico dall’offensiva dei bombardieri fino agli
attacchi ai trasporti e al petrolio può essere spiegato da una serie di fattori. Secondo uno degli
economisti arruolati per esaminare l’economia tedesca, Nicholas Kaldor, le moderne economie
industriali avevano in tempo di guerra un certo grado di capacità per «ammortizzare» e assorbire
l’impatto dei bombardamenti. In Germania, tale ammortizzamento era stato garantito in parte
dalle risorse e dalla forza lavoro ricavate dall’Europa occupata, in parte con la razionalizzazione
del sistema di produzione bellica e in parte dalla dislocazione improvvisata degli impianti
produttivi . L’economista americano J. K. Galbraith, anch’egli coinvolto nella ricerca, concluse
192

che l’economia tedesca era «in espansione e resiliente, non statica e fragile», come invece aveva
suggerito l’intelligence alleata . Alla fine, neppure la strategia formulata nel 1941 dalla RAF e
193

dal ministero della Guerra Economica, secondo cui i bombardamenti avrebbero determinato un
forte assenteismo tra la forza lavoro demoralizzata, riuscí a concretizzarsi. Quasi tutte le città
pesantemente bombardate ripresero l’80 per cento o anche piú della produzione precedente i raid
nel giro di tre mesi e il 100 per cento o perfino di piú entro sei. Ad Amburgo, dopo la tempesta di
fuoco di luglio del 1943, oltre il 90 per cento della forza lavoro era di nuovo al lavoro a
settembre . Nel 1944, al culmine dei bombardamenti, solo il 4,5 per cento delle ore perse
194

nell’industria era da attribuirsi all’assenteismo seguito alle incursioni, anche se le percentuali


erano piú elevate in settori mirati come la produzione di sottomarini e aerei . In quella fase
195

dell’economia tedesca, fino a un terzo della forza lavoro era composta da lavoratori forzati
stranieri, costretti a lavorare in mezzo alle rovine e durante i raid sulle città. Il costo principale
per l’economia di guerra del Reich era rappresentato dai programmi di assistenza e riabilitazione
delle vittime dei bombardamenti e dalla perdita di manodopera, dirottata verso protezione civile,
operazioni di salvataggio e riparazioni dei danni. Non è facile calcolare statisticamente – né vi
furono tentativi in tal senso nel 1945 – fino a che punto tutto questo impedí l’ascesa della
produzione bellica prima della distruzione del sistema dei trasporti, ma sembra intrinsecamente
improbabile che le risorse sopravvissute alle incursioni, qualsiasi fosse il livello della loro
distribuzione, potessero contribuire a incrementare la produzione bellica.
Per la Germania, furono decisamente piú consistenti i costi sotto il profilo militare. Nell’autunno
del 1944, l’80 per cento dei caccia tedeschi era concentrato nella difesa dai bombardamenti,
mentre la produzione di bombardieri era scesa ad appena un decimo del numero dei caccia,
lasciando cosí i fronti di combattimento sguarniti di entrambi i tipi di aerei. Nel 1944, la
Germania possedeva 56 400 pezzi di artiglieria contraerea, con una produzione di 4000 cannoni
al mese; gli armamenti antiaerei consumavano metà della produzione del settore elettronico e un
terzo dei prodotti dell’industria ottica . Questa enorme diversione dello sforzo bellico tedesco
196

non era stata prevista dagli Alleati all’inizio dei bombardamenti, ma aveva avuto come risultato
fortuito la riduzione degli equipaggiamenti disponibili alle forze della Germania sui diversi fronti
in un momento critico della guerra.
La guerra economica contro il Giappone fu, al contrario, una campagna combattuta
principalmente in mare. Le basi necessarie ai bombardieri pesanti diretti verso l’arcipelago
giapponese si erano rese disponibili solo alla fine del 1944 e all’inizio del 1945, dopo la
conquista americana delle isole Marianne. La strategia dei bombardamenti per indebolire la
produzione bellica giapponese fu possibile nei modi voluti solo negli ultimi sei mesi della guerra
del Pacifico. Il conflitto sui mari era una forma di guerra economica indiretta, che impediva
l’accesso alle risorse materiali necessarie all’industria bellica giapponese, al petrolio per
l’esercito e la marina e al cibo per la popolazione civile. Era questa l’intenzione originaria del
War Plan Orange, ma aveva come presupposto una decisiva presenza americana nel Pacifico
occidentale. La conquista delle Filippine e delle basi americane di Guam e Wake da parte dei
giapponesi fece sí che qualsiasi blocco commerciale dovesse realizzarsi con sottomarini e
aviazione navale, almeno fino a quando non fossero stati di nuovo in mani americane basi
terrestri e porti sicuri.
I leader giapponesi compresero che la forte dipendenza dalle importazioni, in particolare dalle
aree conquistate nel Pacifico meridionale e nel Sud-est asiatico, rendeva imperativo garantire un
numero sufficiente di spedizioni mercantili per compensare le possibili perdite. I «piani di
mobilitazione per i materiali» redatti nel 1941 e 1942 si basavano sulla piena disponibilità di
trasporti marittimi, un fattore che governò lo sviluppo dell’economia di guerra giapponese fino al
1945. In base alle indicazioni dell’Ordinanza per il controllo del commercio oceanico in tempo
di guerra, pubblicate nel marzo del 1942, venne istituita una Commissione per le operazioni di
spedizione al fine di controllare la richiesta, i movimenti e l’operatività di tutte le navi
giapponesi . Il trasporto marittimo divenne cosí un settore prioritario della produzione bellica. Il
197

tonnellaggio disponibile nel dicembre del 1941 era di 5,2 milioni; ampliando i cantieri esistenti,
costruendone altri sei ex novo e standardizzando la progettazione e la costruzione delle navi, fu
possibile disporre durante la guerra di altri 3,5 milioni di tonnellate . Per buona parte del
198

conflitto, il problema principale dell’economia giapponese fu la quantità di navi mercantili


requisite dall’esercito e dalla marina per sostenere operazioni in una vasta regione oceanica, dalle
Aleutine nell’estremo nord del Pacifico alla Birmania nell’Oceano Indiano. La necessità di
ricostituire truppe ed equipaggiamenti era inesorabile, ma il risultato fu un livello di requisizioni
da parte dei militari che per gran parte della guerra lasciò meno di due milioni di tonnellate ai
mercantili che dovevano rifornire la popolazione civile dell’arcipelago nipponico di cibo,
materiali e petrolio. Durante l’inverno del 1942-43, la battaglia cruciale per la sola isola di
Guadalcanal assorbí 410 000 tonnellate di navi mercantili; per le operazioni in sé limitate in
Birmania nel giugno del 1943, i militari requisirono al settore civile 165 000 tonnellate di spazio
di carico .
199
Passarono quasi due anni prima che le forze armate degli Stati Uniti potessero trarre
efficacemente vantaggio dallo stato vulnerabile delle spedizioni d’oltremare giapponesi. Nel
1942, data la vastità del campo di battaglia sui mari, erano pochi i sottomarini disponibili, né vi
era una chiara strategia per il loro utilizzo. Per quasi due anni, i siluri americani furono afflitti
dallo stesso problema di quelli tedeschi, con guasti regolari dei fusibili magnetici e di contatto.
Nel corso della guerra, servirono 14 748 siluri per affondare 1314 navi mercantili e da guerra.
Nel 1942, colarono a picco soltanto 180 navi giapponesi, per un totale di 725 000 tonnellate . 200

L’anno seguente, tuttavia, sotto il comando del viceammiraglio Charles Lockwood e grazie
all’ampliamento delle basi di Pearl Harbor e dei porti australiani di Fremantle e Brisbane, i
sottomarini americani iniziarono a pattugliare le principali rotte di rifornimento intorno
all’impero del Sol Levante, dando la caccia a mercantili e petroliere o, quando possibile, a navi
da guerra nemiche. Quell’anno, furono affondati in totale 1,8 milioni di tonnellate, e alla fine
dell’anno le navi colate a picco superavano le nuove che avrebbero dovuto rimpiazzarle. Il
tonnellaggio delle importazioni giapponesi scese da 19,5 milioni di tonnellate a 16,4 milioni, una
situazione pericolosa ma non ancora critica. L’efficacia delle operazioni sottomarine era
amplificata dalle ottime informazioni ottenute con le decriptazioni (grazie al sistema chiamato
Ultra anche nel Pacifico), dall’evoluzione tecnologica dei rilevamenti radar e dallo sviluppo
definitivo di siluri – Mk XIV e Mk XVIII – maggiormente in grado di affondare una nave con
esplosivi migliorati e spolette piú robuste. La forza sottomarina non fu mai grande, ma il
sommergibile standard da 1500 tonnellate della flotta americana era in grado di navigare su
distanze fino a 15 000 chilometri e trasportava rifornimenti per 60 giorni in mare – due
condizioni indispensabili per compiere le lunghe traversate nel Pacifico. I gravi danni causati ai
mercantili giapponesi furono inflitti da una forza che all’inizio del 1944 contava ancora solo 75
sommergibili. Nel corso della guerra, la marina degli Stati Uniti commissionò 288 sottomarini,
appena una frazione del numero costruito dall’industria tedesca per la guerra nell’Atlantico . 201

Nonostante il rapido declino della marina mercantile disponibile – alla fine del 1943 rimanevano
appena 1,5 milioni di tonnellate per tutte le operazioni non militari –, la flotta giapponese si
prodigò in sforzi molto inferiori a quelli compiuti dagli Alleati nell’Atlantico per proteggere il
loro vulnerabile commercio d’oltremare. La guerra antisommergibile fu ostacolata dalla
mancanza di radar a onde corte, divenuto disponibile soltanto nell’autunno del 1944, e dalla
fallita elaborazione di tattiche piú efficaci per utilizzare bombe di profondità o radiogoniometri.
Le perdite di sottomarini americani si verificavano piú comunemente quando attaccavano
convogli di rifornimenti pesantemente scortati: quindici sommergibili furono affondati nel 1943,
diciannove nel 1944, ma mai abbastanza da inibire la lunga campagna di logoramento contro la
navigazione mercantile che rappresentava la vera priorità strategica. Solo nel 1943 i giapponesi
iniziarono a organizzare convogli regolari lungo le rotte principali, ma riconoscendo pur sempre
l’assoluta priorità ai trasporti di rifornimenti per la marina e l’esercito. Fu creata la Grande flotta
di scorta, supportata dallo Squadrone aereo 901, anche se le navi e gli aerei di scorta erano in
numero troppo limitato per organizzare efficaci pattuglie antisommergibili. La maggior parte dei
velivoli destinati alle operazioni contro i sottomarini fu distrutta nel 1944 da una portaerei
americana, mentre furono affondate tre delle quattro piccole portaerei di scorta . Quando nel
202

1944 gli aerei si unirono alla caccia di navi mercantili da parte dei sottomarini, ai giapponesi
rimase ben poco per rispondere, sicché le principali vie di rifornimento furono chiuse una dopo
l’altra. Le forniture di minerale di ferro spedite dal fiume Yangtze vennero interrotte dall’ampio
uso di mine, che ridussero di tre quarti le spedizioni; il flusso di petrolio dalle regioni meridionali
si era ridotto nel dicembre del 1944 da 700 000 tonnellate al mese a 200 000, finché nel febbraio
del 1945 la rotta del petrolio fu chiusa del tutto . L’improvvisazione giapponese fu di scarso
203

aiuto. I materiali trasportati per ferrovia verso i porti cinesi e coreani, anziché via mare,
dovevano comunque essere spediti fino alle isole del Giappone con il rischio di attacchi aerei e
sottomarini. Per aumentare il tonnellaggio disponibile furono requisite piccole imbarcazioni –
giunche e sampan – e le navi iniziarono a essere costruite in legno per far fronte alla carenza
d’acciaio, ma nel 1944 i comandanti dei sommergibili americani avevano ormai esaurito i
bersagli primari e cominciarono ad affondare anche le navi piú piccole, supponendo che stessero
trasportando prodotti bellici, come in effetti molte facevano .
204

Da novembre del 1944, alla campagna aerea e navale della marina americana contro i mercantili
del nemico vennero ad affiancarsi i bombardamenti strategici dell’aviazione sull’arcipelago
giapponese. L’intento dei pianificatori delle forze aeree era completare gli effetti di un vasto
blocco commerciale con la diretta distruzione dell’industria nazionale nipponica, ma i primi raid
con il Boeing B-29 Superfortress (la «superfortezza volante») furono ostacolati dalle difficili e
impreviste condizioni meteorologiche sul Giappone (una potente corrente a getto rendeva quasi
impossibile un bombardamento preciso da alta quota) e da persistenti nuvolosità e fumo
industriale che coprivano le città bersaglio, mentre l’equipaggiamento radar standard,
l’AN/APQ-13 ricavato dal modello H2X utilizzato in Europa, non riusciva a fornire immagini
sufficientemente chiare dell’area da colpire . Come in Europa, ad avere la priorità assoluta fu la
205

distruzione degli impianti di assemblaggio di aerei e motori aeronautici, ma nel gennaio del 1945
nessun obiettivo prestabilito era stato colpito in modo efficace. Tale realtà operativa portò a
rivedere le priorità, come era già avvenuto in Gran Bretagna nel 1941. Fin dal 1943, gli analisti
del Committee of Operation Analysts dell’aviazione americana avevano raccomandato attacchi di
zona contro le sei principali città industriali del Giappone, adducendo i medesimi argomenti
avanzati dalla RAF e dal ministero della Guerra Economica, cioè che i lavoratori dell’industria e
il loro ambiente rappresentavano un legittimo obiettivo economico – raccomandazione che,
ripetuta in via prioritaria nell’ottobre del 1944, contribuí alla decisione di bombardare le città
giapponesi nella primavera del 1945, a cominciare dalla tempesta di fuoco che si abbatté su
Tokyo nella notte del 10 marzo .206

I raid di precisione contro gli impianti aeronautici continuarono fino alla fine della guerra ogni
volta che le condizioni meteorologiche lo consentivano, ma, per il resto, la maggior parte delle
operazioni successive si limitò ad attacchi di zona. A differenza del conflitto in Europa, il
petrolio e le comunicazioni non furono scelti come obiettivi potenzialmente determinanti. I
servizi di intelligence che monitoravano l’economia del Giappone indicavano che la produzione
era alquanto sparpagliata in piccole officine nascoste nelle zone residenziali delle grandi città.
Gli attacchi incendiari di zona furono progettati tenendo conto dell’estrema infiammabilità
dell’edilizia urbana giapponese, con lo scopo dichiarato di uccidere o rendere inattivi i lavoratori,
distruggerne abitazioni e servizi e bruciare le piccole officine, il tutto nella speranza che la
devastazione colpisse le prestazioni produttive di «una ventina di impianti di guerra» . Dal 207

momento che i raid di precisione si erano rivelati inefficaci, il generale Curtis LeMay,
comandante del XXI Bomber Command di stanza nelle Marianne, lanciò infine da bassa quota
una serie di incursioni notturne con bombe incendiarie. In seguito, giustificò le tempeste di fuoco
innescate dalle sue forze aeree adducendo il fatto che era l’unico modo per affrontare la
dispersione strategica delle industrie giapponesi. Come scrisse nelle sue memorie: «Bastava
visitare uno di quei bersagli dopo averlo arrostito per vedere le rovine di una moltitudine di
minuscole case, con un trapano a colonna che spuntava tra le macerie di ogni abitazione. L’intera
popolazione era entrata in azione e lavorava alla produzione bellica di aeroplani o munizioni» . 208

L’affermazione si rivelò alla fine non verificabile, e sia il Committee of Operation Analysts sia lo
Strategic Bombing Survey americano, istituito nel teatro di guerra del Pacifico nell’estate del
1945, sostennero in seguito che le officine domestiche non erano piú cosí ampiamente diffuse e
usate e non avrebbero dovuto giustificare attacchi di zona . L’asserzione del generale LeMay
209

conferí tuttavia una patina da guerra economica a quella che era in effetti una guerra letale
condotta contro la popolazione civile e il suo ambiente urbano.
Valutare l’impatto dei bombardamenti strategici contro obiettivi economici giapponesi si rivelò
molto piú difficile di quanto non fosse stato nel caso della Germania, dato che nel 1945 la
produzione bellica e lo sforzo militare di Tokyo erano già vicini al collasso come conseguenza
del cappio stretto dal blocco marittimo, che aveva toccato il suo apice l’anno prima della resa del
Giappone. La produzione giapponese di munizioni aveva raggiunto un picco nel settembre del
1944, prima che iniziassero i bombardamenti, e avrebbe potuto continuare solo utilizzando le
scorte di materiali accumulate e riducendo all’osso i consumi della popolazione civile.
Nonostante la nuova ed estesa capacità dell’industria e uno stock in continua espansione di
macchine utensili, la produzione militare nipponica era diminuita rapidamente dopo che si erano
esauriti i rifornimenti di materiali dall’estero. L’indice della produzione di munizioni (1941 =
100) era stato 332 nel settembre del 1944 e 156 nel luglio del 1945 . L’importazione di materiali
210

sfusi era scesa a 10,1 milioni di tonnellate nel 1944, la metà rispetto al 1941, e a non piú di 2,7
milioni di tonnellate nel 1945. Nel secondo trimestre dello stesso anno erano ancora disponibili
navi mercantili per appena 890 000 tonnellate, molte delle quali erano rimaste tuttavia bloccate
nei porti intorno al Mare del Giappone dopo che i sottomarini americani avevano cominciato ad
avventurarsi nelle acque nazionali giapponesi. Per integrare la guerra sui mari, il XXI Bomber
Command iniziò la posa di mine, 12 000 delle quali, lasciate lungo la costa giapponese,
affondarono altre 293 navi tra marzo e agosto del 1945. In totale, il Giappone perse 8,9 milioni di
tonnellate di navi mercantili, vale a dire piú del 90 per cento delle spedizioni disponibili tra il
1942 e il 1945 . La perdita di tonnellaggio mercantile e gli effetti sulle importazioni strategiche
211

giapponesi sono riportati nella tabella 6.3.


Tabella 6.3. Navi mercantili giapponesi e commercio di materie prime, 1941-45 (1000 milioni di tonnellate) 212.
I dati del tonnellaggio mercantile si riferiscono alla media di ottobre-dicembre, di ciascun anno, di agosto per il 1945; i dati
relativi alle merci del 1945 si riferiscono soltanto ai mesi gennaio-agosto.
La guerra economica richiese anni di combattimenti logoranti, ma nella primavera del 1945 la
produzione industriale e l’approvvigionamento alimentare del Giappone erano ormai prossimi
all’esaurimento. Era poco probabile che l’economia potesse sopravvivere oltre la fine dell’anno
su un residuo di produzione industriale.
La guerra economica fu per sua natura una strategia a lenta combustione e con risultati ambigui.
«Non si può distruggere un’economia», osservò lo scienziato del governo inglese Sir Henry
Tizard in uno studio della campagna di bombardamenti della Gran Bretagna condotto nel 1947 . 213

In effetti, le grandi economie industriali moderne si erano rivelate piú flessibili di fronte agli
attacchi di quanto ci si aspettasse prima della guerra. In ciascuno dei casi, vi fu una valutazione
fin troppo ottimistica di quanto rapidamente e decisamente avrebbe funzionato la guerra
economica, soprattutto se consideriamo fino a che punto i principali paesi belligeranti fossero
poco preparati per campagne di questo genere. I tedeschi pensavano che il loro blocco aereo e
marittimo avrebbe posto fine alla resistenza della Gran Bretagna in meno di un anno; i
comandanti d’aviazione, britannici e americani, speravano che i bombardamenti avrebbero
distrutto lo sforzo bellico nemico in pochi mesi. In pratica, la guerra economica funzionò meglio
quando si selezionarono obiettivi molto specifici, con un effetto moltiplicatore dei danni inflitti
all’economia in generale. Fu questo il caso degli attacchi condotti con successo contro la
navigazione mercantile giapponese e dei bombardamenti su impianti petroliferi e sul sistema di
comunicazioni della Germania, ma anche in questi casi l’impatto della guerra economica si fece
sentire molto tardi, quando sia la Germania sia il Giappone stavano ormai affrontando la
sconfitta sul fronte militare per ragioni che nulla avevano a che vedere con la perdita di risorse
economiche. È significativo che l’Unione Sovietica non tentò di impegnarsi in una guerra
economica, in parte per la mancanza di opportunità, dati i limiti geografici, ma soprattutto perché
la dottrina militare sovietica sottolineava il primato del campo di battaglia e della sconfitta delle
forze armate nemiche. Per creare le condizioni economiche utili alla vittoria, l’Unione Sovietica
preferí invece affidarsi alla produzione di massa e agli aiuti alleati. Anche nella guerra
economica, quindi, a determinarne il corso e l’esito fu il confronto militare: il blocco tedesco
della Gran Bretagna era fallito perché gli U-boot erano stati sconfitti dalla marina e
dell’aviazione degli Alleati; i bombardamenti americani sulla Germania avevano avuto successo
grazie alla precedente disfatta e continua eliminazione della forza aerea tedesca; la distruzione
del tonnellaggio mercantile giapponese e italiano era stata una conseguenza di anni di piccole
battaglie tra navi da guerra, navi di scorta e sottomarini. Il fronte della guerra economica, in
effetti, divenne un fronte militare.
La guerra condotta a danno dell’economia del paese nemico ebbe un caro prezzo per entrambi gli
schieramenti. Per riuscire a impedire al nemico l’accesso alle risorse si rese necessario il
dispiegamento di ampi mezzi. I bombardamenti contro la Gran Bretagna nel 1940-41 e contro la
Germania nel 1940-45 deviarono una parte significativa della produzione militare, obbligando a
loro volta il difensore a destinare ulteriori risorse alla difesa aerea, anche se per gran parte del
tempo l’impatto degli attacchi sull’economia fu limitato o minimo in entrambi i casi. Il Bomber
Command registrò 47 268 aviatori morti in azione; le formazioni aeree strategiche americane
rivolte contro la Germania persero 30 099 uomini. Le due forze di bombardieri persero 26 606
aerei . I bombardamenti contro l’economia e il morale della forza lavoro del nemico costarono
214

piú di 650 000 vite di civili tedeschi e giapponesi. La guerra economica annientò i
sommergibilisti tedeschi, che su cinque uomini arruolati come volontari ne persero piú di quattro
(oltre a ben 781 sottomarini), senza riuscire, in definitiva, a bloccare con successo il nemico. A
subire grandi sofferenze furono anche i marinai dei mercantili, che, nonostante il loro status
civile, erano generalmente trattati come personale militare. Lungo le rotte dei convogli
britannici, rimasero uccisi 29 180 marinai; tra quelli dei cargo giapponesi le vittime
ammontarono in totale a 116 000 uomini, morti, dispersi o resi inabili . Nonostante il grande
215

successo, i sommergibilisti americani sperimentarono il massimo livello di perdite delle forze


armate degli Stati Uniti: 3501 ufficiali e uomini, ovvero il 22 per cento della forza volontaria . 216

Al tempo stesso, migliaia di bombardieri precipitarono finendo a terra come rottami e navi
mercantili per milioni di tonnellate di stazza lorda affondarono nell’oceano. L’idea di impedire
l’accesso alle risorse era pienamente coerente con il concetto di guerra totale, anche se alla fine
furono la produzione in serie e la condivisione tra gli Alleati di attrezzature militari a rivelarsi il
contributo economico piú sicuro alla vittoria.
Capitolo settimo
Guerre giuste? Guerre ingiuste?
In una Guerra Totale, le questioni morali ed etiche non hanno alcuna validità, se non nella misura in cui la loro osservanza o la
loro distruzione contribuiscono alla vittoria finale. In una guerra totale, l’unico criterio della condotta umana è la convenienza,
non la moralità.
Dennis Wheatley, Total War, 19411.
Durante la Seconda guerra mondiale, tutti gli stati belligeranti pensavano che il conflitto che
stavano combattendo fosse giustificato. Lo pensavano per ragioni diverse e con diverse posizioni
morali, ma nessuno sentiva comunque di avere la coscienza sporca. La giustificazione della
guerra si trasformò presto nella convinzione che il conflitto dovesse essere inequivocabilmente
giusto. La letteratura del dopoguerra, quasi unanime, ha ritenuto assolutamente pretestuoso il
fatto che gli stati aggressori pensassero di combattere per una giusta causa, eppure, non
riusciremmo a intravedere un senso negli sforzi di quasi tutti i popoli di portare avanti la guerra
fino alle sue estreme conseguenze se non riconoscessimo che entrambi gli schieramenti erano
convinti di avere la ragione dalla propria parte. Sia l’Asse sia gli Alleati si prodigarono in enormi
sforzi per persuadere i loro popoli della virtuosità della causa per cui combattevano e della
bassezza del nemico, trasformando cosí il conflitto in una lotta tra versioni diverse di «civiltà»,
una lotta che doveva essere protratta fino alla vittoria definitiva. Coloro che per motivi etici si
opposero apertamente alla guerra rimasero una piccola e isolata minoranza.
Dennis Wheatley, il popolare autore britannico il cui pensiero sulla moralità della guerra apre
questo capitolo, fu reclutato nel 1940 dal Joint Planning Staff dell’esercito britannico per
relazionare sulla natura della guerra totale e sulle sue implicazioni morali. La sua descrizione
poteva benissimo adattarsi a tutte le potenze impegnate nei combattimenti nel momento
culminante del conflitto. «Dobbiamo comprendere chiaramente e chiaramente affermare»,
scriveva Wheatley, «che per una nazione in lotta la Guerra Totale presenta solo due possibili
alternative: la Vittoria Totale o l’Annientamento Totale». In tali drammatiche circostanze,
concludeva l’autore, ogni linea d’azione in grado di abbreviare la guerra e portare alla vittoria era
da considerarsi moralmente giustificata «a prescindere dalle sue implicazioni di “legalità” o
“illegalità”» . Dal punto di vista storico, i termini estremi in cui fu combattuta la Seconda guerra
2

mondiale furono in sé unici. I regimi di entrambe le parti adottarono la retorica «azione o morte»,
ovvero annientamento o sopravvivenza della nazione. La volontà di vincere a tutti i costi fu il
cemento morale che tenne insieme lo sforzo bellico. Anche se la minaccia di un totale
annientamento era nella maggior parte dei casi un’esagerazione, il fatto stesso che fosse possibile
costituiva di per sé un imperativo morale che costringeva all’assoluta accettazione dello sforzo
bellico e giustificava le misure piú estreme che sarebbero state adottate da entrambi gli
schieramenti, paesi dell’Asse e Alleati. Ovunque, la guerra per la sopravvivenza veniva vista, per
definizione, come una guerra giusta, distorcendo la tradizionale visione giuridica ed etica del
termine, per la quale era piuttosto una giustizia naturale anziché una lotta darwiniana a
determinare se una guerra fosse giusta o meno.
Le giustificazioni della guerra.
I termini assoluti in cui venne definita la guerra totale non erano quelli che gli stati aggressori
dell’Asse avevano in mente negli anni Trenta, quando avevano dato inizio ai progetti imperiali
per la conquista di territori in Asia, Africa ed Europa. Le loro ambizioni erano di ambito
regionale ed essi giustificavano il desiderio di conquista sostenendo che la struttura del potere
mondiale aveva negato a ognuno di loro una giusta quota delle risorse globali e, in particolare,
un’adeguata porzione di territorio. Tale accezione di giustizia derivava da un concetto
aprioristico secondo cui esistevano popoli che, per motivi di superiorità razziale e culturale,
erano destinati all’impero e popoli che potevano solo essere colonizzati, una visione questa
palesemente legittimata dalla recente storia dell’espansione coloniale europea. Negli anni Trenta,
l’ordine globale era considerato illegittimo in quanto concepito per porre un freno a quelle
rivendicazioni; le guerre di conquista imperiale, da quella della Manciuria nel 1931 a quella della
Polonia nel 1939, intendevano correggere l’ingiustizia che negava a popoli vigorosi una via
verso l’impero e un accesso piú equo alle risorse naturali della Terra . A settembre del 1940, il
3

Patto tripartito firmato dai tre stati dell’Asse, che affidava a ciascun membro la realizzazione di
un nuovo ordine imperiale in Europa, nel bacino del Mediterraneo e nell’Asia orientale,
dichiarava che una pace duratura sarebbe stata possibile solo quando ogni nazione del mondo
(vale a dire ogni nazione «avanzata») «avesse ricevuto lo spazio a cui aveva diritto», suggerendo
cosí che il nuovo ordine si sarebbe dovuto basare su un piú saldo senso di giustizia
internazionale . Come sosteneva un ufficiale giapponese, perché mai era considerato moralmente
4

accettabile che la Gran Bretagna dominasse l’India ma non che il Giappone dominasse la Cina?
L’obiettivo di creare nuovi imperi regionali appariva incerto e improvvisato, se non altro perché
a tutti e tre gli stati dell’Asse era ben chiaro che la motivazione addotta per giustificare la loro
espansione aggressiva difficilmente sarebbe stata approvata dalla piú vasta comunità mondiale.
Al momento dello scoppio della guerra nel settembre del 1939, l’Occidente si era ormai formato
l’opinione che l’aggressione dell’Asse facesse parte di un piano piú ampio per dominare il
mondo, e l’idea che l’Asse si fosse imbarcato in una cospirazione globale di conquista rimase
radicata nella percezione che gli Alleati avevano del nemico fino a quando i maggiori criminali
di guerra furono messi sotto processo nel dopoguerra. Uno dei principali capi d’accusa fu quello
di aver complottato per portare avanti una guerra aggressiva. La tesi che l’Asse, e in particolare
la Germania di Hitler, cercasse il «dominio mondiale» non fu mai elaborata chiaramente, bensí
usata come strumento retorico per enfatizzare al massimo la minaccia posta dagli stati aggressori.
In realtà, non c’era un piano coerente né era stata ordita intenzionalmente una cospirazione per
conquistare il dominio mondiale, o comunque lo si voglia definire. In effetti, gli stati dell’Asse
vedevano la situazione come l’esatto contrario. Quando le loro ambizioni imperiali a livello
regionale furono infine minacciate dalla guerra in Asia e nel Pacifico a partire dal 1937 e in
Europa dal 1939, essi scoprirono che la loro giustificazione del conflitto avrebbe dovuto essere
riformulata come una necessaria guerra totale di autodifesa contro l’implacabile ostilità e il nudo
interesse personale di stati che già godevano dei frutti dell’impero, vale a dire territori e
abbondanza di risorse. In Germania, l’aggressione contro la Polonia fu messa in ombra dalla
dichiarazione di guerra di Francia e Gran Bretagna, considerata come un ulteriore tentativo di
«accerchiare» il Reich e soffocare le sue legittime richieste di parità imperiale. A settembre del
1939, l’opinione popolare, ricordò un giovane tedesco, riteneva che «eravamo stati attaccati e
dovevamo difenderci», ed erano piuttosto le potenze occidentali a essere coinvolte in un
complotto, non la Germania . La difesa del nucleo germanico dai suoi nemici divenne
5

l’imprescindibile dovere morale del popolo del Reich, trasformando cosí l’ingiusta aggressione
tedesca in una guerra giusta a difesa della sopravvivenza nazionale.
Tale rovesciamento morale fu comune a tutti gli stati dell’Asse; convinti del fatto che erano le
forze alleate a essere colpevoli di aver cospirato non solo per limitare le loro giuste
rivendicazioni territoriali, ma addirittura per annientare l’esistenza nazionale del cuore
dell’impero. In Italia, Mussolini sostenne ripetutamente che l’Italia era stata imprigionata nel
Mediterraneo dalle «potenze plutocratiche» che colludevano per negare al paese, in quanto
potenza civilizzatrice, il diritto a uno spazio vitale in cui poter fondare una nuova civiltà. La
guerra, pertanto, veniva giustificata dalla prospettiva dell’impero . In Giappone, esisteva un forte
6

risentimento per il fatto che la precedente disponibilità delle potenze occidentali a riconoscere
Tokyo come alleato nella Grande Guerra e collaborare a imporre alla Cina i «trattati ineguali» si
fosse trasformata nel corso degli anni Trenta in una marcata ostilità verso le ambizioni
giapponesi in Asia. Il sostegno occidentale alla Cina, dopo lo scoppio della seconda guerra sino-
giapponese, era stato considerato un elemento di una piú vasta cospirazione che aveva preso
forma dopo l’occupazione della Manciuria al fine di frustrare le legittime rivendicazioni
imperiali del Giappone. Per l’élite militare, politica e intellettuale del Sol Levante, il «pericolo
bianco» minacciava la sopravvivenza stessa del kokutai, la comunità storica dei giapponesi, e
con essa la missione divina destinata a riunire i popoli asiatici sotto l’unico tetto della protezione
imperiale giapponese. L’imperativo morale del Giappone, scriveva Nagai Ryūtarō, era quello di
«rovesciare l’autocrazia mondiale dell’uomo bianco» . Anche se la decisione finale di rischiare
7

una guerra con gli Stati Uniti e l’impero britannico aveva una solida motivazione militare ed
economica, essa venne invece presentata dal primo ministro Tōjō come una fondamentale difesa
dello storico stato imperiale nipponico contro la minaccia dell’Occidente, intenzionato a creare
un «piccolo Giappone» e porre fine a 2600 anni di gloria imperiale . Nel giorno dell’attacco a
8

Pearl Harbor, il governo pubblicò le «Linee guida sulle politiche di informazione e propaganda»,
che attribuivano la colpa della guerra al «desiderio egoistico di conquista mondiale»
dell’Occidente . Il coinvolgimento morale del popolo giapponese nella guerra totale si basava su
9

un rovesciamento della realtà analogo a quello del caso tedesco e trasformava l’aggressione alla
Cina e nel Pacifico in una guerra di autodifesa contro l’accerchiamento delle potenze dei bianchi.
A dicembre del 1941, il poeta Takamura Kōtarō cosí riassumeva la visione giapponese del
conflitto con l’Occidente:
Noi sosteniamo la giustizia e la vita,
Mentre loro si battono per il profitto,
Noi difendiamo la giustizia,
Mentre loro aggrediscono per profitto,
Alzano la testa con arroganza,
Mentre noi costruiamo la famiglia della Grande Asia orientale.
Un anno dopo, il quotidiano in lingua inglese «Japan Times» ricordava ai lettori che la guerra di
autodifesa era «assolutamente giusta» . 10

La piú elaborata e dannosa teoria del complotto prese piede in Germania. Per Hitler e la
leadership nazionalsocialista, il vero nemico che complottava per muovere guerra al popolo
tedesco era «l’ebraismo mondiale». Dall’inizio della guerra in Europa nel settembre del 1939,
Hitler associò il conflitto contro gli Alleati occidentali a una guerra piú ampia contro gli ebrei. I
nemici della nazione erano considerati semplici strumenti di una malefica rete internazionale di
ebrei che complottavano non solo per frustrare le legittime rivendicazioni imperiali della
Germania ma per annientare del tutto il popolo germanico. Tale fantasia affondava solide radici
nell’epoca prebellica. La sconfitta del 1918 era stata a lungo interpretata dalla componente
nazionalista radicale come la conseguenza di una presunta pugnalata alle spalle da parte di
disfattisti e agitatori ebrei che operavano in patria. Nei discorsi pronunciati all’inizio degli anni
Venti, in veste di leader del piccolo Partito nazionalsocialista, Hitler aveva trasformato
quell’accusa in qualcosa dai toni ben piú apocalittici, una «lotta per la vita o la morte», una vera
e propria guerra «tra ebrei e tedeschi» .
11

Hitler e i suoi compagni antisemiti consideravano sistematicamente la lotta contro gli ebrei nei
termini di un conflitto mondiale di portata storica. Per la propaganda nazionalsocialista, erano gli
ebrei a cercare di «dominare il mondo», non la Germania; erano gli ebrei a volere la guerra
mondiale, non i tedeschi. Nel 1936, anni prima della guerra, Heinrich Himmler, capo delle SS e
piú tardi artefice del genocidio ebraico, scrisse che il principale nemico della Germania erano gli
ebrei, «il cui desiderio è il dominio sul mondo, il cui piacere è la distruzione, la cui volontà è lo
sterminio». A novembre del 1938, Himmler ammoní una platea di alti ufficiali delle SS che, se
fosse scoppiata la guerra, gli ebrei avrebbero cercato di annientare la Germania e sterminare il
suo popolo: «Sarebbe sufficiente parlare tedesco e avere avuto una madre tedesca» . Questi due
12

cliché triti e ritriti, ovvero che gli ebrei volessero la guerra con la Germania fino al punto di
complottare per provocarla e progettassero di sterminare il popolo tedesco – o «ariano» –
rendevano perfettamente chiaro alla mente nazionalsocialista lo stretto legame tra guerra e colpa
ebraica. II 30 gennaio 1939, in un discorso pronunciato al Reichstag nell’anniversario del suo
cancellierato, Hitler scelse infine di annunciare pubblicamente la famigerata profezia secondo
cui, se gli ebrei fossero riusciti a fare sprofondare ancora una volta l’Europa nella guerra (come
si sosteneva avessero fatto nel 1914), la conseguenza sarebbe stata l’annientamento della razza
ebraica in Europa. Gli storici sono stati restii a prendere quell’affermazione alla lettera, anche se
negli anni a venire Hitler tornò piú volte sul tema, ribadendo che dietro lo scoppio della guerra e
la sua successiva estensione si celavano gli sforzi malvagi e deliberati dell’«ebraismo
mondiale» .
13

L’intreccio tra una guerra tra stati e una guerra contro gli occulti cospiratori dell’ebraismo
mondiale divenne palese fin dall’inizio del conflitto. Il 4 settembre 1939, in un discorso
radiofonico al popolo tedesco, Hitler attribuí la colpa della dichiarazione di guerra di Gran
Bretagna e Francia a un «nemico internazionale ebraico-democratico» che aveva costretto le due
potenze occidentali a entrare in un conflitto che non volevano . Il giornale antisemita
14

«Weltdienst» arrivò ad affermare che il «settimo protocollo», quello sulla guerra universale
contenuto nei Protokoly sionskich mudrecov (Protocolli dei Savi di Sion), di pura invenzione ma
di cui erano state vendute in Germania piú di 150 000 copie, trovava la sua realizzazione nella
dichiarazione di guerra da parte dell’Occidente: «I piani di guerra dell’ebraismo potrebbero forse
essere espressi piú chiaramente di cosí?» . Quando piú tardi, sempre a settembre, il capo del
15

Congresso ebraico mondiale Chaim Weizmann si impegnò pubblicamente a sostenere la causa


britannica, la rivista «Die Judenfrage» (la questione ebraica) disse ai suoi lettori che la Germania
si trovava ad affrontare «il nemico mondiale numero 1: l’Internazionale ebraica e l’ebraismo
mondiale, affamato di potere e pieno di odio» . La guerra di autodifesa consisteva in due guerre
16

combattute simultaneamente: una guerra contro gli Alleati e una guerra contro il nemico ebraico
latente. Il rifiuto della Gran Bretagna di accettare un accordo di pace dopo la sconfitta della
Francia fu attribuito all’influenza ebraica su Churchill (un motivo ricorrente). L’attacco
all’Unione Sovietica, per il quale esistevano solidi motivi economici e territoriali, fu presentato
come un’azione preventiva contro un presunto complotto ebraico in atto tra Londra e Mosca, tesi
che permise alla propaganda tedesca di far leva su quella che altrimenti sarebbe parsa
un’inverosimile alleanza tra plutocrazia e bolscevismo .17

Gli ultimi passi verso la guerra globale, dalla pubblicazione della Carta Atlantica nell’agosto del
1941, che sanciva la collaborazione anglo-americana, fino all’entrata in guerra degli Stati Uniti
nel dicembre dello stesso anno, furono pubblicamente condannati dai leader tedeschi come la
prova definitiva, se mai ve ne fosse stato bisogno, che la Germania era vittima di un complotto
ebraico volto ad annientare il popolo tedesco. Quando le copie di un libro di 100 pagine,
intitolato Germany Must Perish! (La Germania deve perire!) e pubblicato a proprie spese negli
Stati Uniti da uno sconosciuto Theodore N. Kaufman, arrivarono in Germania nel luglio del
1941, esso fu considerato la prova ultima che i governanti americani danzavano al suono di una
melodia ebraica, ovvero erano pupazzi in mano agli ebrei. Il 23 luglio, il titolo dell’organo di
stampa del Partito nazionalsocialista strombazzava: «Il prodotto del sadismo criminale ebraico:
Roosevelt chiede la sterilizzazione del popolo tedesco!» Dopo l’annuncio della Carta Atlantica,
il 14 agosto, sullo stesso giornale comparve il titolo «L’obiettivo di Roosevelt è il dominio
mondiale degli ebrei», mentre Hitler ordinava che gli ebrei tedeschi venissero costretti a
indossare la stella di David, cosí che il popolo tedesco potesse riconoscere con certezza il nemico
che si trovava in mezzo a loro . Quando nel discorso al Reichstag dell’11 dicembre Hitler aveva
18

dichiarato guerra agli Stati Uniti, i suoi fedeli antisemiti davano già per scontato che gli ebrei si
fossero nuovamente impegnati in un complotto per spingere Roosevelt alla guerra. Il giorno dopo
Pearl Harbor, il comunicato stampa quotidianamente destinato ai media tedeschi affermava che
la guerra in Asia era «opera di Roosevelt, il guerrafondaio nonché criminale a livello mondiale,
che, essendo un accolito degli ebrei, lotta incessantemente da anni insieme con Churchill per
arrivare alla guerra» . Anziché vedere l’entrata in guerra dell’America come una diretta
19

conseguenza dell’aggressione giapponese, Hitler sostenne nel suo discorso al Reichstag che la
spiegazione stava negli «ebrei, nella loro assoluta viltà satanica» . La dichiarazione di guerra
20

degli Stati Uniti veniva cosí a suggellare l’affermazione, regolarmente ripetuta nelle direttive alla
stampa da parte del capo Ufficio stampa del Führer, che «il bolscevismo e il capitalismo sono il
medesimo imbroglio mondiale ebraico, solo con una diversa gestione» . 21

Il continuo riferimento a una cospirazione mondiale ebraica per spiegare la ragione per cui la
Germania si ritrovava coinvolta in una guerra per difendersi dalla minaccia di distruzione era
evidentemente molto di piú di un semplice stratagemma retorico per incoraggiare il popolo
tedesco a considerare il conflitto come una legittima lotta per la sopravvivenza, cosa che si
sarebbe potuta ottenere anche senza fare alcun riferimento agli ebrei. Una tesi del genere appare
ora – come dovette apparire anche a molti tedeschi dell’epoca – di insensata assurdità, ma è
difficile non pensare che Hitler e quanti lo circondavano non ne fossero davvero convinti. Il
paradigma che non fu mai messo in discussione era la colpa degli ebrei per la sconfitta della
Germania nella Prima guerra mondiale; ne conseguiva per analogia che anche la colpa della
Seconda guerra mondiale fosse loro. Il complotto ebraico divenne una potente metafora storica
che permise a Hitler e ai suoi fedelissimi di proiettare sugli ebrei il loro stesso senso di colpa per
la guerra di aggressione che da anni portavano avanti contro gli ebrei. Per la dirigenza del partito
e gran parte dei suoi gregari, la motivazione del complotto ebraico permetteva di dare un senso
all’imprevista svolta degli eventi scaturita dalla dichiarazione di guerra anglo-francese, al rifiuto
della Gran Bretagna di concludere la pace nell’estate del 1940, alla necessità della guerra con la
Russia e all’intervento americano. «Se si conoscono gli ebrei», sosteneva una circolare di
propaganda pubblicata nell’autunno del 1944 e indirizzata agli oratori locali del partito, «si
comprende il significato della guerra» . Nelle sue ultime osservazioni dettate a Martin Bormann
22

nella primavera del 1945, Hitler sostenne che il ruolo degli ebrei spiegava perché cosí tante cose
non fossero andate nel modo in cui aveva sperato. Fin dal 1933, «gli ebrei hanno deciso […] di
dichiararci tacitamente guerra»; la pace con la Gran Bretagna era stata impossibile «perché gli
ebrei non ne volevano sapere. E i loro lacchè, Churchill e Roosevelt, si adoperarono per
evitarla». Non era stato l’attacco giapponese a provocare la reazione di Roosevelt, ma il
presidente americano, «spinto dal mondo ebraico, aveva già deciso di andare in guerra per
annientare il nazionalsocialismo». Non c’era mai stato prima un conflitto, concludeva Hitler,
«cosí tipicamente e al tempo stesso cosí esclusivamente ebraico» . Perfino dopo la guerra, gli
23

inquirenti degli Alleati osservarono tra gli accusati che quel luogo comune conservava ancora
tutta la sua forza, nonostante il fatto che la semplice prudenza dovesse suggerire loro di
abbandonarlo. Messo alle strette da quella che considerava un’ingiusta accusa di antisemitismo,
Robert Ley, ex capo del Deutsche Arbeitsfront, cercò di fare capire agli Alleati perché gli ebrei
fossero stati presi di mira: «Noi nazionalsocialisti […] vedevamo nel conflitto che ora abbiamo
alle spalle una guerra esclusivamente contro gli ebrei, non contro i francesi, gli inglesi, gli
americani o i russi. Eravamo convinti che essi fossero solo strumenti in mano agli ebrei» .24

Il presunto complotto ebraico serví a far apparire legittime le guerre che la Germania portava
avanti. Il conflitto tra «ariani» ed ebrei era una lotta fino all’ultimo sangue, e ogni tedesco aveva
la responsabilità morale di condurre quella lotta fino in fondo. Esso serví altresí a legittimare il
ricorso al genocidio nel 1941; una volta dipinte come il nemico in guerra contro la Germania,
tutte le comunità ebraiche subirono una militarizzazione che le trasformò loro malgrado in
combattenti irregolari, giustificandone cosí l’annientamento. Proiettando sull’ebraismo mondiale
l’idea che gli ebrei volessero sterminare i tedeschi, le ripetute minacce fatte in pubblico di
annientare, sterminare, distruggere o sradicare gli ebrei apparivano come una risposta del tutto
giustificata, quasi un atto morale in difesa della comunità razziale. Nella mente di Hitler e dei
suoi complici nel genocidio, la guerra reale e la guerra di fantasia contro gli ebrei si
amalgamarono in una terribile simbiosi, in cui l’uccisione di soldati nemici e l’uccisione di ebrei
si equivalevano sul piano morale. Benché la causa immediata del passaggio dalla deportazione e
dalla ghettizzazione allo sterminio di massa sia ancora oggetto di ampio dibattito, appare
evidente il rapporto tra la guerra, che Hitler e la sua cerchia consideravano un prodotto della
macchinazione ebraica, e quella che Himmler definí piú tardi la «logica ferrea» dello sterminio . 25

Per quanto improvvisato sia stato il passaggio decisivo verso lo sterminio di massa, il quadro
esplicativo che modellò l’idea che il regime aveva della guerra fu una precondizione essenziale.
A maggio del 1943, quando la maggior parte delle vittime ebree era già stata uccisa, Joseph
Goebbels rifletteva nel suo diario che «nessuna delle parole profetiche del Führer si è rivelata
cosí manifestamente vera come quando previde che se gli ebrei fossero riusciti a provocare un
secondo conflitto mondiale, l’esito non sarebbe stato la distruzione della razza ariana, ma,
piuttosto, l’eliminazione della razza ebraica» .
26

L’ossessione di una lotta contro una cospirazione ebraica a livello mondiale ebbe ripercussioni
sul modo in cui gli alleati della Germania, Italia e Giappone, risposero a loro volta alla
«questione ebraica». Per i governanti giapponesi, la mancanza di prolungati contatti con le
comunità ebraiche comportò un atteggiamento sostanzialmente neutrale rispetto alla questione.
Negli anni Trenta, due antisemiti convinti, il colonnello dell’esercito Yasue Norihiro (a cui si
doveva la traduzione in giapponese dei Protocolli dei Savi di Sion) e il capitano della marina
Inuzuka Koreshige, erano stati incaricati di studiare la questione ebraica; anche se Inuzuka
descrisse gli ebrei come un «cancro del mondo», né lui né Yasue svilupparono una visione
coerente del complotto ebraico, né si può dire che esercitarono una qualche influenza degna di
nota. Entrambi speravano di sfruttare i 20 000 rifugiati ebrei provenienti dall’Europa e residenti
principalmente a Shanghai per ottenere l’accesso alle finanze ebraiche e migliorare le relazioni
con gli Stati Uniti. Quando tale prospettiva venne meno con la firma del Patto tripartito con la
Germania e l’Italia, il trattamento riservato ufficialmente agli ebrei da parte dei giapponesi
divenne piú rigido, ma non ebbe mai nulla in comune con il trattamento tedesco. L’insediamento
ebraico che accoglieva a Shanghai tutti i rifugiati, seppure in condizioni tutt’altro che ideali, non
era gestito come i ghetti e i campi di concentramento in Europa né l’antisemitismo divenne mai
una tematica della propaganda di guerra . 27

Diversa era la situazione in Italia, dove le leggi razziali contro gli ebrei erano state introdotte nel
1938 senza alcuna pressione da parte tedesca, gettando cosí le fondamenta di un duro regime di
apartheid ebraico. Anche in questo caso, tuttavia, fu solo alla fine del 1943, con la fondazione
della Repubblica sociale italiana, che la guerra iniziò a essere giustificata dai fascisti con
l’esplicita idea di essere condotta contro un nemico mondiale ebraico; tale giustificazione aveva
trovato ispirazione nella ferocia antisemita dell’ex sacerdote Giovanni Preziosi, che nel 1921
aveva pubblicato la sua traduzione dei Protocolli dei Savi di Sion. Nel Manifesto di Verona,
redatto nel 1943 da Mussolini per la nuova repubblica, gli ebrei venivano additati specificamente
come «nazione nemica» . I manifesti di propaganda usavano immagini antisemite per tacciare i
28

leader alleati come tirapiedi dell’ebraismo mondiale. I giornali fascisti dichiaravano che gli ebrei,
oltre a essere colpevoli di spionaggio e terrorismo, erano «i piú grandi sostenitori di questa
guerra» e stavano «perseguendo un folle progetto di dominazione mondiale»; l’attività di
propaganda, tuttavia, non era sistematica né legata, come nella visione hitleriana del mondo, a
un’idea centrale di complotto. Gli ebrei venivano piuttosto incolpati di «tradimento» durante il
rovesciamento di Mussolini nell’estate del 1943, ponendosi cosí come una minaccia interna
anziché internazionale .
29

Dal canto loro, gli Alleati non avevano alcuna necessità di fingere che le guerre di aggressione
fossero solo guerre di autodifesa contro una minaccia esterna, razziale o di altro tipo. Si dava per
scontato che la causa alleata fosse giusta. Il concetto di autodifesa era tuttavia un argomento
complicato per i governi di Gran Bretagna e Francia, in quanto erano stati loro a dichiarare
guerra alla Germania e non il contrario, considerando anche che fino a settembre del 1939
nessuno dei due stati fu direttamente minacciato dall’aggressione tedesca. In questi due casi,
l’idea dell’autodifesa fu presentata in senso piú generico come difesa contro le ambizioni
territoriali e la cruda violenza del Terzo Reich, che dovevano essere fermate prima che
l’espansione tedesca minacciasse effettivamente e direttamente gli interessi dell’Occidente. La
difesa della Polonia era in realtà una preoccupazione secondaria, che nessuno dei due stati aveva
preso seriamente in considerazione prima della sconfitta polacca; dichiarare guerra in nome della
Polonia fu comunque sufficiente a mettere Francia e Gran Bretagna in prima linea contro le forze
tedesche, e il confronto armato, a quel punto, venne facilmente inserito nella retorica
dell’autodifesa non appena Hitler decise che l’aggressione era preferibile a una posizione
difensiva, per altro perfettamente praticabile. Le altre potenze alleate, grandi e meno grandi,
potevano presentarsi senza ambiguità come le vittime di un’aggressione ingiustificata e pertanto
impegnate in una guerra di autodifesa. A novembre del 1941, nel suo discorso annuale per
commemorare la Rivoluzione d’Ottobre, Stalin annunciò: «Lenin distingueva due generi di
guerre: guerre di conquista, e quindi ingiuste, e guerre di liberazione, giuste» . La difesa della
30

madrepatria contro l’aggressione fascista divenne il fulcro fondamentale della retorica di guerra
sovietica. Il concetto di Velikaja Otečestvennaja Vojna, «grande guerra patriottica», termine
usato in Urss durante l’intero conflitto, fu coniato dal giornale ufficiale del partito Pravda il 23
giugno 1941, ad appena un giorno dall’inizio delle ostilità . Negli Stati Uniti, l’attacco a Pearl
31
Harbor ebbe un effetto elettrizzante sull’opinione pubblica americana, che fino a dicembre del
1941 era stata nettamente divisa tra isolazionisti e interventisti. Il cemento che tenne insieme
un’alleanza alquanto inverosimile di forze politiche discordanti fu l’inequivocabile impegno a
difendere gli Stati Uniti da quelli che Roosevelt definí «gangster potenti e pieni di risorse»,
intenzionati a ridurre in schiavitú il genere umano . In tutti questi ultimi casi, l’autodifesa
32

corrispondeva coerentemente alla tradizione della guerra giusta.


Gli stati alleati non ebbero difficoltà a trovare una giustificazione etica alla guerra. Il 3 settembre
1939, Neville Chamberlain concluse la sua trasmissione radiofonica sulla dichiarazione di guerra
della Gran Bretagna con un’esplicita affermazione in merito: «Sono cose malvagie quelle contro
cui ci troveremo a combattere – forza bruta, malafede, ingiustizia, oppressione e persecuzione –,
e contro di esse sono certo che il bene prevarrà» . Nel suo discorso commemorativo del 1941,
33

Stalin disse al suo pubblico che il «degrado morale» aveva ridotto i tedeschi «al livello di bestie
feroci». Nel 1942, Roosevelt, trovandosi ad affrontare tutti e tre i nemici dell’Asse, definí la
guerra dell’America uno scontro «per ripulire il mondo da antichi mali, antichi morbi» . Nello34

stesso anno, Chiang Kai-shek, nel quinto anniversario della lunga guerra contro il Giappone,
annunciò che anche il popolo cinese stava combattendo una guerra «tra il bene e il male, tra il
diritto e la forza bruta» e che questa metteva la Cina in una posizione di «superiorità morale» . 35

Per tutto il conflitto che seguí, il fatto di muovere guerra contro nemici percepiti come
irrimediabilmente immorali forní, in negativo, una potente giustificazione alla guerra. Il
presupposto di una malvagità del nemico trovava il proprio fondamento negli eventi degli anni
Trenta, quando gli stati occidentali, pur senza grandi interventi, avevano comunque deplorato
l’espansione violenta e l’autoritarismo repressivo dei paesi dell’Asse. Allo scoppio della guerra,
la contrapposizione morale era ormai accettata come dato di fatto né ci si faceva scrupolo di
usare parole di condanna morale per affermare la logica di una narrazione secondo cui
l’annientamento di un nemico malvagio giustificava qualsiasi mezzo utilizzato. Quando alla metà
di maggio del 1940 il gabinetto di guerra britannico discusse se permettere o meno il
bombardamento di obiettivi tedeschi in cui sarebbero rimasti uccisi dei civili, Churchill sostenne
che la lunga lista dei crimini tedeschi forniva «ampia giustificazione» a siffatte operazioni . Per36

l’opinione pubblica britannica, l’odio verso il nemico tedesco conferiva al conflitto un carattere
quasi biblico. L’autore pacifista A. A. Milne abbandonò la sua obiezione alla guerra nel 1940,
poiché combattere Hitler significava «combattere veramente il Diavolo, l’Anti-Cristo». Un altro
pacifista pentito, il teologo Reinhold Niebuhr, riteneva che la storia non avesse mai presentato
prima agli uomini di buona volontà «un “male” piú chiaramente delineato» . Negli Stati Uniti, la
37

narrazione semi-ufficiale, immortalata nel primo film della serie di Frank Capra Why We Fight
(Perché combattiamo), si apriva con una dichiarazione d’intenti nei titoli di testa che sosteneva
che quel documentario era il piú grande film sui gangster mai realizzato: «Piú crudele […] piú
diabolico […] piú orribile di qualsiasi film dell’orrore che abbiate mai visto» . 38

Formulare in positivo una giustificazione della guerra era un’operazione piú complessa. Nel suo
scritto Total War, Dennis Wheatley osservava che, nonostante la convinzione quasi universale
che la guerra della Gran Bretagna fosse giusta, persisteva quella che aveva definito «una
deplorevole mancanza di munizioni mentali» sugli obiettivi positivi di guerra e di pace della
Gran Bretagna . Negli Stati Uniti, Archibald MacLeish, l’uomo scelto da Roosevelt per dirigere
39

una sezione del servizio informazioni del governo, scrisse nell’aprile del 1942 un memorandum
in cui cercava di capire che cosa avrebbe potuto fornire una visione positiva della guerra: «1.
Questa guerra dovrebbe essere presentata come una crociata? 2. Se sí, una crociata per cosa?
Cosa vogliono gli uomini? a. Ordine e sicurezza? Un ordine mondiale e cosí via? b. Una vita
migliore? 3. Come si ottengono queste cose?» . Una visione positiva della natura morale del
40

conflitto fu fornita alla fine dal luogo comune che gli Alleati stessero salvando la civiltà e
l’umanità dalla barbarie e dalla natura distruttiva dei nemici degli stati dell’Asse. Nella Gran
Bretagna e nella Francia del 1939, l’arrogante pretesa di difendere i valori della civiltà rifletteva i
profondi timori dell’élite intellettuale e politica di entrambi i paesi che la crisi degli anni Trenta,
causata dal collasso economico, dall’autoritarismo politico e dal militarismo, potesse significare
che la civiltà, quale era concepita dall’Occidente, fosse davvero in pericolo . Su Hitler e
41

l’hitlerismo si concentrò una serie di angosce dell’Occidente, cosicché nel 1939 la guerra con la
Germania non rappresentò semplicemente il ripristino di un equilibrio di forze, bensí una gara
decisiva per decidere il futuro destino del mondo. La questione veniva posta in termini grandiosi:
«La nostra responsabilità», scriveva il deputato britannico Harold Nicolson alla fine del 1939 in
Why Britain is at War (Perché la Gran Bretagna è in guerra), «è magnifica e terribile». La Gran
Bretagna, proseguiva, stava combattendo per la sua stessa esistenza, ma si sarebbe battuta fino
all’ultimo respiro anche «per salvare l’umanità» . La stessa retorica era utilizzata in Francia. A
42

dicembre del 1939, Édouard Daladier, il primo ministro francese, spiegò in un discorso al Senato
che anche se si combatteva strenuamente per la Francia, «si combatteva al tempo stesso per le
altre nazioni e, soprattutto, per gli alti principî morali senza i quali la civiltà non esisterebbe piú».
La guerra veniva vista come giusta per definizione, poiché, nelle parole pronunciate nel 1939 dal
filosofo francese Jacques Maritain, «essa avviene in nome di cose elementari senza le quali la
vita umana cessa di essere umana» . 43

Non mancavano tuttavia delle ambiguità nel modo in cui si voleva presentare la guerra di Gran
Bretagna e Francia come guerra per la difesa della civiltà. Vi furono critiche secondo cui le
affermazioni erano troppo altisonanti e troppo vaghe per una popolazione che voleva promesse
certe di un futuro migliore e piú sicuro nel dopoguerra. Raramente si offriva una definizione
chiara di civiltà, dando per scontato che l’opinione pubblica occidentale sapeva bene che cosa
significasse senza dover approfondire il concetto. Gran parte della retorica sottolineava lo stile di
vita democratico e la sopravvivenza delle libertà tradizionali, ma vi era un contrasto
imbarazzante tra coloro che vedevano la guerra come una forma di crociata per salvare la «civiltà
cristiana» e coloro che avevano una visione piú secolare di ciò che la civiltà moderna
rappresentava. Anche se Churchill usò il termine «civiltà cristiana» nel suo famoso discorso di
giugno del 1940, dopo la caduta della Francia, in cui annunciava l’imminente «battaglia
d’Inghilterra», egli raramente espresse in termini religiosi gli obiettivi di guerra della Gran
Bretagna. Gli scrittori cristiani, in Gran Bretagna e in Francia, erano critici nei confronti di
qualsiasi pretesa di salvare una qualche civiltà cristiana, in quanto i valori cristiani erano già
palesemente tramontati tra le popolazioni dell’Occidente . A febbraio del 1945, un Appeal
44

Addressed to All Christians, un «appello indirizzato a tutti i cristiani», diffuso in Gran Bretagna
dal Bombing Restriction Committee, affermava che esisteva «una coscienza cristiana
profondamente angosciata, diffusa e inespressa che contestava il conseguimento della vittoria
tramite una violenza senza freni» .45

Vi era soprattutto un imbarazzante doppio standard nella continua ripetizione che i due alleati
(insieme con i dominion bianchi della Gran Bretagna) stavano difendendo i valori democratici,
visto che entrambi controllavano grandi imperi coloniali in cui era ben poco evidente
l’intenzione di implementare quegli stessi valori, né durante né dopo la guerra. Nel 1939, il dato
di fatto era che sia la Gran Bretagna sia la Francia andavano in guerra per difendere non solo la
madrepatria democratica, ma anche interi imperi. Senza l’impero, scrisse Nicolson, la Gran
Bretagna avrebbe perso non solo «la propria autorità, le proprie ricchezze e i propri
possedimenti; avrebbe anche perso la propria indipendenza» . Durante tutta la guerra, Churchill
46

rimase fermo nella sua convinzione che l’impero britannico fosse destinato a sopravvivere a
lungo dopo la fine del conflitto. Ne conseguí nel corso della guerra una persistente
contraddizione tra la pretesa di difendere la civiltà democratica e il desiderio di sostenere
l’imperialismo britannico. Se da un lato ci si impegnava a salvare la democrazia occidentale e le
libertà dei cittadini, la governance coloniale poggiava sulla negazione di quelle stesse libertà e
sulla repressione di qualsiasi protesta contro la natura antidemocratica del dominio coloniale. La
propaganda di guerra sull’importanza dell’unità dell’impero induceva a credere che le regioni
colonizzate condividessero un comune fine morale con la madrepatria, ma quell’affermazione
mascherava una realtà storica meno chiara. «Una vittoria degli Alleati», sosteneva un pamphlet
laburista nel 1940, «significherebbe il consolidamento del piú grande impero del mondo, quello
stesso impero che ha insegnato ai nazisti l’uso dei campi di concentramento, quell’impero nelle
cui prigioni uomini come Gandhi e Nehru hanno trascorso gran parte della loro vita» . Durante la
47

guerra, l’India ne fu un esempio lampante. Nell’agosto del 1942, quando il mahatma Gandhi
lanciò il movimento Quit India per protestare contro la mancata offerta da parte del governo
britannico di un autogoverno nel dopoguerra, migliaia di nazionalisti indiani furono imprigionati
e centinaia uccisi quando le truppe e la polizia aprirono il fuoco sui manifestanti. Il teologo
afroamericano Howard Thurman pensava che Gandhi avesse «ridotto a un assurdo morale» la
pretesa britannica di «combattere una guerra per la libertà» .
48

Negli Stati Uniti, l’iniziale incertezza su come presentare il conflitto in modo diverso da una
guerra di difesa fu gradualmente sostituita da un inequivocabile internazionalismo dettato dalla
visione di Roosevelt, secondo cui dopo la vittoria l’intero mondo avrebbe dovuto godere di ogni
libertà. Il suo impegno morale verso la creazione di un mondo migliore era attivo ben prima che
gli Stati Uniti fossero costretti a entrare in guerra. Nel gennaio del 1941, aveva definito in che
cosa consistessero le Quattro Libertà essenziali: libertà dalla miseria, libertà dalla paura, libertà
di credo religioso e libertà di parola. Le Four Freedoms divennero il fondamento della
narrazione pubblica americana riguardo al perché venisse combattuta quella guerra. Le Quattro
Libertà furono illustrate dall’artista Norman Rockwell e i quattro dipinti vennero riprodotti
infinite volte durante la guerra; nel 1943 furono distribuiti 2,5 milioni di volantini che
utilizzavano le quattro immagini per incentivare la popolazione all’acquisto di obbligazioni di
guerra . Due delle Quattro Libertà furono sancite nella Carta Atlantica, vale a dire nella seconda
49

dichiarazione di intenti morali di Roosevelt in epoca prebellica. Il documento era stato il frutto
del primo incontro al vertice tra Roosevelt e Churchill a Placentia Bay, sull’isola di Terranova,
tra il 9 e il 12 agosto 1941. Si era trattato perlopiú di una dichiarazione estemporanea, dal
momento che né Roosevelt né Churchill erano arrivati all’incontro preparati in tal senso, benché
il presidente americano sperasse che ciò potesse accadere. Nessuno dei due statisti aveva
motivazioni disinteressate. Per Roosevelt, formulare una qualche dichiarazione aveva lo scopo di
rafforzare la posizione degli interventisti americani; Churchill e il governo britannico speravano
che una dichiarazione, per quanto non impegnativa, avrebbe indicato che gli Stati Uniti erano
pubblicamente a favore della causa alleata e avrebbero potuto essere coinvolti in una guerra
totale .
50

La Carta stessa non era che un elenco di otto dichiarazioni di intenti espresse in un linguaggio
internazionalista forbito, coerente con gran parte della retorica di Roosevelt circa le speranze per
un mondo migliore. I «principî comuni» della Carta includevano il desiderio di un disarmo
postbellico, la libertà di navigazione e la giustizia economica per vincitori e vinti. La terza
affermazione era la piú significativa e riguardava «il diritto di tutti i popoli di scegliere la forma
di governo sotto cui vivere». Mancava qualsiasi spiegazione di come tutto questo potesse
ottenersi, al di là di una sconfitta della «tirannia nazista» . La reazione britannica alla Carta fu
51

sottotono. Churchill era soprattutto riluttante ad applicarne i principî all’impero. La Carta, riferí
alla Camera dei Comuni al suo ritorno, non era «applicabile alle razze di colore dell’impero
coloniale» ma solo agli stati e alle nazioni dell’Europa . Stalin volle che l’Unione Sovietica si
52

associasse a quanto espresso dalla Carta solo come gesto di buona volontà verso gli Alleati che
già sostenevano lo sforzo bellico sovietico. In Cina, Chiang Kai-shek, pur vedendo nella Carta
atlantica un intento esclusivamente europeo, decise di interpretare la «tirannia nazista» in modo
flessibile, in maniera da includervi il Giappone. Nel gennaio del 1942, Chiang chiese
formalmente a Roosevelt di applicare i principî della Carta ai popoli dell’Asia sotto il dominio
coloniale; rimasto deluso, nel novembre del 1943 chiese nuovamente a Roosevelt e Churchill,
durante un summit al Cairo, una Carta che potesse essere applicata al mondo intero, ma senza
successo .
53

Nondimeno, dopo che gli Stati Uniti entrarono in guerra, Roosevelt fece sí che la Carta
diventasse un punto di riferimento centrale e lasciasse intendere l’impegno americano per un
ordine postbellico con basi piú etiche, che oltre a essere al servizio degli interessi americani
avesse anche implicazioni globali. In una delle trasmissioni di Fireside chats, trasmessa nel
febbraio del 1942, Roosevelt disse al pubblico americano che, a suo giudizio, la Carta era da
applicare non solo agli stati che si affacciavano sull’Atlantico ma al mondo intero e che il
riconoscimento delle Quattro Libertà era uno dei principî cardine degli Alleati, benché la Carta
parlasse soltanto di libertà dalla paura e libertà dalla miseria . A quel punto, con un riluttante
54

consenso da parte di Churchill, Roosevelt aveva già ribattezzato le potenze alleate «Nazioni
Unite», invitandole a firmare una Dichiarazione, pubblicata il 1° gennaio 1942, che riaffermava i
principî sanciti nella Carta. Questo non equivaleva ancora all’approvazione ufficiale di un
organismo internazionale postbellico, visto che Roosevelt non intendeva subire ciò che aveva
sofferto Woodrow Wilson dopo il rifiuto americano di partecipare alla Società delle Nazioni. Nel
gennaio del 1943, tuttavia, fu definitivamente persuaso dal dipartimento di Stato che gli interessi
globali americani potevano essere meglio difesi attraverso una nuova assemblea internazionale
volta a promuovere la pace e i diritti umani . L’obiettivo di Roosevelt era assicurarsi che gli
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Alleati si trovassero formalmente in una posizione di superiorità morale, quali che fossero le
contraddizioni o le ambiguità insite in uno sforzo comune che univa democrazie, potenze
imperiali e dittature autoritarie. La richiesta di resa incondizionata avanzata alla Conferenza di
Casablanca nel gennaio del 1943 sottolineava appunto l’impegno etico assunto con la Carta e la
Dichiarazione, affermando chiaramente che non poteva esservi nessun accordo con stati
considerati moralmente corrotti. Già nel discorso annuale sullo Stato dell’Unione del gennaio
1942 Roosevelt aveva dichiarato a chiare lettere la sua convinzione che «non c’è mai stato – né
potrà mai esserci – un buon compromesso tra il bene e il male» – una contrapposizione, questa,
che autorizzava gli Alleati a mettere da parte qualsiasi eventuale scrupolo morale nella
conduzione della guerra .56

Quando il conflitto cominciò ad andare male per l’Asse, i suoi membri fecero uno sforzo ancora
maggiore per poter giustificare la guerra in termini piú internazionali. Dal 1943 in avanti, la
propaganda tedesca prese a sostenere che la guerra di autodifesa era volta a salvare la civiltà
europea dalla barbarie bolscevica. La propaganda giapponese, a sua volta, cercò di ritrarre il
Giappone come il paese che avrebbe salvato l’Asia dal ritorno degli oppressori bianchi. Dinanzi
all’imminente sconfitta, nessuna delle due affermazioni sembrava credibile. Nel 1945, entrambi
gli stati lottavano disperatamente per evitare quella che vedevano come una reale possibilità di
annientamento nazionale. Il principale vantaggio di cui godevano gli Alleati nella loro
giustificazione della guerra era stata l’adozione di un linguaggio che parlava di diritti universali,
mentre le rivendicazioni dell’Asse ribadivano immancabilmente la difesa di un particolare
popolo e del suo diritto alla conquista territoriale. Tale contrapposizione venne formalmente
confermata nei tribunali militari istituiti a Norimberga nel 1945 e a Tokyo nel 1946 (ma non in
Italia, che dal 1945 si era schierata con gli Alleati). Churchill e alcuni membri del suo gabinetto
volevano che i leader tedeschi venissero considerati criminali da giustiziare non appena fossero
stati correttamente identificati . Sia gli Stati Uniti sia il governo sovietico, tuttavia, volevano un
57

processo formale, affinché si potessero rendere inconfutabili davanti all’opinione pubblica


mondiale le affermazioni fatte in tempo di guerra sulla malvagità dell’Asse e sullo spirito di
giustizia degli Alleati.
In entrambe le sessioni processuali – Norimberga e Tokyo –, l’accusa principale era di aver
intrapreso una guerra d’aggressione. Poiché dichiarare una guerra non andava ufficialmente
contro il diritto internazionale, i pubblici ministeri degli Alleati fecero riferimento al Patto
Briand-Kellogg del 1928, sottoscritto da sessantadue stati, tra cui tutti i principali paesi
successivamente coinvolti nella guerra. Il patto doveva impegnare i firmatari ad abbandonare il
conflitto armato come strumento politico, altrimenti, cosí facendo, avrebbero «violato il Diritto
delle Nazioni» . Seppure considerato piú una dichiarazione di intenti morali che uno strumento
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del diritto internazionale, si ritenne che il Patto Briand-Kellogg fornisse una solida base di
partenza nel processo contro i leader tedeschi e giapponesi. Il procuratore capo americano,
Robert Jackson, aprí il Processo di Norimberga nel nome e a difesa di una non meglio definita
«civiltà», chiamando a giudizio imputati accusati di avere deliberatamente perpetrato crimini
malvagi e devastanti contro il resto del mondo. Nonostante i tanti problemi procedurali e
giudiziari che la «giustizia dei vincitori» comportava, i processi avevano lo scopo di definire
quali guerre fossero ingiuste e quali giuste. A dicembre del 1946, i principî enunciati a
Norimberga furono inseriti nel diritto internazionale dall’Organizzazione delle Nazioni Unite,
succeduta alle informali Nazioni Unite del tempo di guerra, e denominati i sette Principî di
Norimberga, tuttora in vigore nel XXI secolo . 59

Una guerra non esattamente «buona».


Gli stati dell’Asse capivano di trovarsi, agli occhi della maggior parte dell’opinione pubblica
mondiale, in una posizione eticamente infima, ma restavano tuttavia scettici in merito alla
supposta superiorità morale degli Alleati. Ad aprile del 1945, poco prima della sconfitta tedesca,
Hitler riversò tutto il suo disprezzo sulle «puerili» pretese di superiorità da parte degli Stati Uniti,
«una specie di vademecum morale basato su principî elevati ma chimerici e sulla cosiddetta
scienza cristiana» . I commentatori giapponesi contrapponevano la retorica democratica
60

dell’Occidente alla realtà dell’oppressione coloniale o del razzismo in patria e gongolavano nel
segnalare tutte le azioni di repressione imperiale in India e tutti i linciaggi e le sommosse razziali
negli Stati Uniti come prove dell’ipocrisia britannica e americana. Un giornale espresse
l’opinione diffusa in Giappone riguardo alla «barbarie» dell’America: «Se si considerano le
atrocità commesse contro i nativi americani, i neri e i cinesi, ci si stupisce della loro presunzione
di voler indossare la maschera della civiltà» . Anche tra gli Alleati vi erano critici che non
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vedevano di buon occhio quello che veniva considerato un pretesto di guerra per mascherare
l’ambiguità morale della retorica alleata. Nel dopoguerra, W. E. B. Du Bois, veterano della
campagna per i diritti civili negli Stati Uniti, sostenne che «non è esistita atrocità nazista – campi
di concentramento, mutilazioni e omicidi di massa, profanazione delle donne o orribile
vilipendio dell’infanzia – che la civiltà cristiana dell’Europa non avesse già da tempo praticato
contro la gente di colore in ogni parte del mondo» . Soprattutto, l’insistenza degli Alleati sul
62

fatto che i processi del dopoguerra servissero a illustrare i crimini dell’Asse contro l’umanità e
contro la pace sollevava l’imbarazzante questione di come gli stati occidentali potessero fare
causa comune con la brutale dittatura dell’Unione Sovietica, che aveva complottato con la
Germania per distruggere gli accordi stipulati dopo il 1919 riguardo all’Europa orientale. La
palese incompatibilità di un’alleanza tra i due maggiori stati capitalisti e quello comunista aveva
alimentato fino alla fine della guerra la fantasia dell’Asse che la Grande Alleanza sarebbe andata
presto in frantumi.
Una delle straordinarie conseguenze dell’inaspettata alleanza tra gli Alleati occidentali e
l’Unione Sovietica fu la capacità di tutti e tre gli stati principali di mettere da parte, per la durata
del conflitto, le profonde divergenze politiche e morali esistenti tra loro. Fino all’operazione
«Barbarossa», le potenze occidentali avevano trattato l’Unione Sovietica poco meglio della
Germania di Hitler e consideravano il comunismo, in patria come all’estero, una profonda
minaccia allo stile di vita e ai valori della democrazia. Il patto tedesco-sovietico di agosto del
1939, a cui era seguita a settembre l’invasione sovietica della Polonia orientale e
successivamente l’aggressione contro la Finlandia alla fine di novembre dello stesso anno, aveva
rafforzato l’opinione che tutti i dittatori fossero fatti della stessa pasta. Anche se tra gli ambienti
considerati progressisti, sia in Gran Bretagna sia negli Stati Uniti, si aveva simpatia per
l’esperimento sovietico, l’opinione prevalente disapprovava un regime che non rifuggiva dal
terrore di massa, commetteva atti di aggressione e collaborava con il nemico fascista. Dopo
l’invasione della Finlandia, l’ambasciatore sovietico a Londra, Ivan Majskij, rilevò nella
popolazione e tra i politici una «frenetica campagna antisovietica». «La domanda da porsi»,
scrisse nel suo diario, era: «Chi è il nemico numero uno? La Germania o l’Urss?» . Majskij fu
63

testimone dei furiosi dibattimenti del parlamento britannico in merito all’armistizio imposto alla
Finlandia nel marzo del 1940, durante i quali i deputati avevano mostrato «una furia […] vivida,
ribollente, traboccante» . La Finlandia si rivelò un punto di svolta anche per Roosevelt e molti
64

liberali filosovietici. Il presidente americano disse a un uditorio alla fine del 1939 che l’Unione
Sovietica di Stalin era «una dittatura assoluta quanto qualsiasi altra del mondo», e chiese un
embargo di natura etica sull’esportazione di armi e attrezzature americane per soddisfare i
bisogni sovietici, deplorando quello che definí «il terribile stupro della Finlandia» . Negli Stati
65

Uniti si riaccese per breve tempo la «paura dei rossi», anche se l’ostilità popolare nei confronti
del comunismo era diretta piú al sistema sovietico e a Stalin stesso, ritenuto, come sosteneva
l’arcivescovo cattolico di Washington, «il piú grande assassino che il mondo abbia mai
conosciuto» . La comunità internazionale manifestò la propria disapprovazione morale
66

espellendo l’Unione Sovietica dalla Società delle Nazioni il 14 dicembre 1939. Nella primavera
del 1940, a Londra e Parigi ci si preparò a un possibile conflitto con l’Unione Sovietica, schierata
a fianco del suo nuovo alleato tedesco. Il timore di Roosevelt era che una vittoria tedesco-
sovietica in Europa avrebbe messo in pericolo la civiltà . 67

Se il mondo occidentale considerava l’Unione Sovietica moralmente indegna, la dirigenza


dell’Urss era altrettanto dura nel giudicare il mondo capitalista al di là dei confini sovietici.
L’universo morale in cui vivevano i capi del Cremlino era avulso dai valori dell’Occidente
liberale e velato da un linguaggio che capovolgeva la realtà storica. Per anni, prima dello scoppio
della guerra nel 1939, Stalin aveva ritenuto che a un certo punto gli stati capitalisti sarebbero
stati storicamente obbligati a cercare di distruggere l’esperimento sovietico. I ripetuti timori di
una guerra, per quanto irrazionali, avevano mantenuto viva l’idea che il capitalismo
rappresentasse la principale minaccia alla pace e che i leader della borghesia fossero gli autori di
un’immorale repressione di classe . Visto da questa angolazione, il patto siglato con Hitler
68

nell’agosto del 1939 poté essere giustificato dal regime come un mezzo per vanificare i piani dei
governi borghesi di rivolgere l’aggressione tedesca contro l’Unione Sovietica, al pari della
conclusione della guerra con la Finlandia, che era stata spiegata ai sostenitori del comunismo
come «una vittoria della politica di pace dell’Unione Sovietica», in quanto aveva fatto saltare i
presunti progetti britannici e francesi di scatenare una guerra globale contro l’alleanza tra la
Germania e l’Urss . Il conflitto in Occidente era descritto come una guerra imperialista, condotta
69

dalle classi dominanti della Gran Bretagna e della Francia. Il Partito comunista britannico fu
informato da Mosca che «il baluardo del capitalismo» non era rappresentato dalla Germania
fascista bensí dall’«Inghilterra antisovietica, con il suo enorme impero coloniale». A settembre
del 1939, la «liberazione» dei lavoratori della Polonia orientale doveva mostrare, al contrario,
che l’Urss costituiva «un potente baluardo per tutte le forze amanti della pace». Durante il
periodo in cui fu in vigore il patto con la Germania, la linea politica sovietica non fece che
ribadire che il nemico principale era l’imperialismo britannico, laddove il Reich veniva
considerato una fonte di pace, costretta ad aggredire solo per difendersi dalle potenze
imperialiste. Alla fine del 1940, Stalin prese persino in considerazione la possibilità che l’Unione
Sovietica aderisse al Patto tripartito, firmato a settembre dalle potenze dell’Asse . I partiti
70

comunisti di ogni paese si adeguarono alla linea dettata dal PCUS. Il giorno prima di essere
chiuso dal governo britannico nel gennaio del 1941, il quotidiano «Daily Worker» inneggiò al
fatto che ovunque le masse stavano «cercando una via d’uscita dalla guerra imperialista»
ricorrendo ai metodi della lotta di classe leninista .71

La condanna morale espressa da entrambi gli schieramenti svaní il 22 giugno 1941, quando le
forze dell’Asse invasero l’Unione Sovietica. Pochi giorni dopo l’aggressione, Majskij annotava
che l’opinione pubblica britannica era rimasta sconcertata dal voltafaccia: «Solo poco tempo fa,
la “Russia” era considerata un alleato occulto della Germania, praticamente un nemico. E
improvvisamente, nel giro di 24 ore, è diventata un paese amico» . La sera del 22 giugno,
72

Churchill pronunciò la sua famosa dichiarazione di sostegno alla lotta del popolo russo, anche se
chiarí che non si sarebbe rimangiato nulla della sua lunga e coerente opposizione al comunismo.
Per Churchill, come per molti in Occidente, Hitler rappresentava la peggiore minaccia mondiale:
«Qualsiasi uomo o stato», continuò Churchill, «che combatte contro il nazismo, avrà il nostro
aiuto». Roosevelt, che condivideva in pieno l’idea che la minaccia tedesca fosse immediata e
pericolosa, mise da parte le proprie remore morali dopo l’invasione dell’Unione Sovietica. In una
delle sue abituali chiacchierate «accanto al camino» alla radio americana, affermò che nessuna
differenza insanabile separava gli Stati Uniti dall’Unione Sovietica: «Andremo perfettamente
d’accordo con lui [Stalin] e con il popolo russo» .
73

A Mosca, lo scoppio della guerra pose immediatamente fine alla campagna contro il capitalismo
imperialista. Il giorno dell’invasione, Stalin disse al capo del Comintern Georgij Dimitrov che la
nuova linea politica era concentrata «sulla sconfitta del fascismo» e che ogni menzione all’estero
della rivoluzione socialista doveva essere bruscamente interrotta. Trasformando il conflitto in
«una guerra difensiva contro la barbarie fascista», i leader sovietici speravano che la potente
ondata di antifascismo in Occidente si sarebbe immediatamente identificata con la lotta sovietica
e l’avrebbe sostenuta . Alla fine, entrambe le parti erano pronte ad allearsi con il rispettivo
74

Belzebú pur di sconfiggere il Satana germanico. La collaborazione che ne risultò non fu mai
facile per nessuna delle due, ma era motivata dalla necessità militare e dalla speranza che
comunismo e capitalismo potessero trovare un terreno comune nella creazione di un pacifico
ordine postbellico . La visione che i sovietici avevano dell’Occidente era amareggiata dalle
75

discussioni sull’apertura di un «secondo fronte» in Europa e sulla tempistica degli aiuti in Lend-
Lease; la buona volontà degli occidentali, a sua volta, era messa alla prova dalle molte futili
restrizioni imposte al loro personale in Unione Sovietica e dalla crescente evidenza che i
dirigenti sovietici intendevano introdurre la «democrazia» nell’Europa dell’Est nei termini
dell’ideologia comunista. Nessuna delle due parti si fidava completamente del fatto che l’altra
non avrebbe tentato di raggiungere un qualche accordo separato con Hitler. Almeno
pubblicamente, tuttavia, i leader occidentali chiusero un occhio sulle aggressioni sovietiche
avvenute tra il 1939 e il 1941 e sulla repressione politica in patria e all’estero, poiché
l’imperativo morale fondamentale, condiviso da tutte e tre le potenze, era la sconfitta della
Germania.
In Gran Bretagna e Stati Uniti, la disponibilità dei leader occidentali a riconoscere l’Unione
Sovietica come partner e alleata fu appoggiata da un’ondata di sostegno popolare a favore dello
sforzo bellico dei russi. Parte di quell’entusiasmo era dovuto alla propaganda ufficiale, sia
occidentale sia sovietica. In Gran Bretagna, il fenomeno sollevò imbarazzanti domande su come
rendere accettabile lo sforzo bellico sovietico senza avallarne l’ideologia. Il problema fu risolto,
come aveva fatto Churchill nel suo discorso del 22 giugno, parlando della «Russia» piuttosto che
dell’Unione Sovietica. Il Political Warfare Executive (PWE), organo responsabile della
propaganda politica britannica, ricevette istruzioni di parlare, ogni qual volta fosse possibile, di
«governo russo» anziché di «governo sovietico» e assicurarsi che esposizioni e discorsi
sottolineassero la storia, le arti e il carattere russo ma evitassero di parlare di politica russa .
76

Negli Stati Uniti, l’Office of War Information, composto da liberali solitamente piú favorevoli
all’esperimento sovietico, costruí per il pubblico americano un’immagine idealizzata e
sentimentale dell’Unione Sovietica, rafforzata dai mass media e da film che mettevano in scena
l’eroismo russo – come The North Star (Fuoco a oriente), Counter Attack, Song of Russia. A
marzo del 1943, la rivista «Life» informò i propri lettori che il popolo sovietico «ha l’aspetto
degli americani, si veste come gli americani e pensa come gli americani», oltre a proclamare
Stalin «uomo dell’anno» . La propaganda sovietica in Occidente sfruttava tale visione
77

sentimentale della Russia e l’immagine di Stalin come uomo impegnato per la pace e la
democrazia, una visione, questa, recepita in modo acritico dal pubblico occidentale, la cui
conoscenza della realtà sovietica era desunta interamente dalle immagini offerte dalla
propaganda. A novembre del 1944 il vescovo di Chelmsford, nonché presidente del National
Council for British-Soviet Unity, aprendo un convegno a Londra, descrisse gli Alleati come «tre
grandi democrazie». Allo stesso convegno, un altro uomo di chiesa parlò dei «successi
autenticamente religiosi del governo sovietico» e dell’eccezionale contributo che il regime
dell’Urss aveva dato «all’aspetto etico della vita» .
78

Buona parte del sostegno popolare fu comunque spontanea, con una celebrazione entusiasta della
resistenza sovietica all’aggressione dell’Asse che contrastava con i limitati successi militari
riportati dalle forze britanniche e americane. Agli occhi dell’opinione pubblica, la riconquista di
Stalingrado divenne una vittoria dell’Occidente. A febbraio del 1942, l’ambasciatore Majskij
registrò nel suo diario «un’ammirazione estatica» per l’Armata Rossa; a giugno parlò di «una
fervida sovietofilia», e dopo Stalingrado di un giubilo generale, «senza riserve e senza freni» . In
79

Gran Bretagna, a partire dal 1941, sorsero in tutto il paese comitati e gruppi di «amicizia e
aiuto»; nel 1944 ve ne erano piú di 400, organizzati sotto l’egida del National Council for
British-Soviet Unity. Si stimava che circa 3,45 milioni di persone si riconoscessero in
organizzazioni che lavoravano per lo sforzo bellico sovietico e per l’amicizia con il popolo
dell’Urss . Negli Stati Uniti, il Committee for Soviet-American Friendship ebbe un ruolo simile
80

nel mobilitare un entusiasmo popolare che si espresse in tutta l’America con «giornate della
bandiera», mostre itineranti e comitati per la raccolta di fondi. Tanto in Gran Bretagna quanto
negli Stati Uniti, essere antisovietici era ora considerato un atto di malafede, perfino un
tradimento. L’House Committee for the Investigation of Un-American Activities, istituito nel
1938 per iniziativa del membro del Congresso Martin Dies e volto principalmente a stanare i
sovversivi comunisti, continuò il proprio lavoro durante la guerra in mezzo a un coro di critiche
ostili e accuse di simpatizzare con il fascismo. L’antisovietismo, atteggiamento predominante
prima del 1941, era stato ora relegato ai margini della politica bellica .
81

La patina di moralità conferita all’Unione Sovietica e alla sua lotta contro il fascismo, a livello
ufficiale e non ufficiale, non escludeva tuttavia una persistente diffidenza, se non ostilità, verso il
comunismo, in particolare verso i movimenti sorti in patria. In Gran Bretagna, l’MI5 (F Branch)
continuò la sua stretta sorveglianza del Partito comunista britannico anche dopo che l’Unione
Sovietica era divenuta un inaspettato alleato. Nel 1943, Douglas Springhall, organizzatore
nazionale del Partito comunista, fu accusato di fornire informazioni segrete e condannato a sette
anni di prigione. Herbert Morrison, segretario degli Interni, avvertí Churchill che era necessario
aumentare la vigilanza a causa dell’«attuale simpatia» per la causa sovietica. I comunisti,
continuò Morrison, «non hanno alcun obbligo di lealtà verso uno “stato capitalista”» . Churchill
82

non aveva certo bisogno di essere incoraggiato in tal senso. Ad aprile del 1943, Majskij era stato
presente a una conversazione, avvenuta in un dopocena, in cui Churchill aveva espresso la sua
ammirazione per la Russia ma il suo disgusto per il suo attuale sistema di governo: «Non voglio
il comunismo […]. Se qualcuno venisse qui e volesse instaurare il comunismo nel nostro paese,
lo combatterei con la stessa ferocia con cui adesso sto combattendo i nazisti» . Persino il Partito
83

laburista, generalmente piú favorevole alla causa sovietica, pubblicò un opuscolo dal titolo The
Communist Party and the War: A Record of Hypocrisy and Treachery to the Workers of Europe
(Il Partito comunista e la guerra: una storia di ipocrisia e tradimento nei confronti dei lavoratori
d’Europa) . Negli Stati Uniti, dove il movimento comunista vide aumentare i propri membri
84

attorno ai 100 000, i sostenitori dello sforzo bellico sovietico erano ben consapevoli della
minaccia che il comunismo poteva rappresentare in patria. Ansiosi di essere percepiti come
buoni patrioti, i comunisti sciolsero il loro movimento nel 1944, per poi ricostituirlo come
Communist Political Association, ma a quel punto il sostegno attivo al comunismo in patria era
in declino, cosí come lo era in Gran Bretagna.
Nell’ultimo anno di guerra, cominciò a riaffiorare, tanto in Occidente quanto in Unione
Sovietica, la visione prebellica che considerava moralmente incompatibili comunismo e
capitalismo. Per la dirigenza dell’Urss, l’alleanza restava comunque quella che John Deane, capo
della missione militare americana a Mosca, aveva definito «un matrimonio di convenienza» . Al 85

Cremlino non si era mai fatta una gran distinzione morale tra gli stati fascisti e quelli
democratici, giacché tutti, in ultima analisi, erano imbrattati dallo stesso pennello del
capitalismo. Considerando l’imminente sconfitta della Germania, il ministro degli Esteri
sovietico Vjačeslav Molotov aveva affermato: «Ora è piú facile combattere il capitalismo». Pur
confidando nella possibilità di qualche forma di coesistenza pacifica dopo la fine delle ostilità,
all’inizio del 1945 Stalin era giunto alla conclusione che, in seguito alla sconfitta della
compagine fascista, un eventuale futuro conflitto sarebbe stato «contro la fazione dei capitalisti»,
riportando cosí l’Unione Sovietica a un confronto a lei familiare . Nell’autunno del 1946, Nikolaj
86

Novikov, inviato in veste di ambasciatore a Washington con il compito di valutare le intenzioni


americane, riferí a Mosca che negli Stati Uniti i preparativi di un conflitto futuro erano «condotti
nella prospettiva di una guerra contro l’Unione Sovietica, che agli occhi degli imperialisti
americani è il principale ostacolo sulla strada degli Stati Uniti verso il dominio mondiale» .
87

Negli Stati Uniti, la chiara riluttanza dei sovietici a instaurare delle autentiche democrazie
popolari nei paesi dell’Europa dell’Est liberati dall’Armata Rossa deluse importanti settori
dell’opinione liberale e progressista, in precedenza convinti che la retorica sovietica su pace e
democrazia fosse sincera. Louis Fischer, uno dei redattori della rivista di sinistra «The Nation»,
si dimise a maggio del 1945 in segno di protesta contro l’ostinazione dei suoi colleghi, che
continuavano a considerare la Gran Bretagna e gli Stati Uniti come «i diavoli» e Stalin come
«l’arcangelo». Per giustificare la sua decisione, Fischer produsse una lunga lista di violazioni
sovietiche ai principî sanciti dalla Carta Atlantica . Anche se Roosevelt ricordò a chi lo criticava
88

che nessuno aveva firmato o ratificato la Carta Atlantica, lo spirito del trattato era costantemente
invocato nelle argomentazioni contro una collaborazione acritica con l’Unione Sovietica. Nel
1944, l’ex presidente Herbert Hoover si era lagnato del fatto che la Carta era stata «mandata in
ospedale per una grossa amputazione della libertà tra le nazioni». Nel 1945, Averell Harriman,
ultimo ambasciatore di Roosevelt a Mosca e un tempo appassionato sostenitore della
collaborazione, avvertí il suo capo che il programma sovietico era «l’instaurazione del
totalitarismo, la fine della libertà personale e della democrazia come noi la conosciamo e la
rispettiamo». Pochi mesi dopo, chiese a Truman, il successore di Roosevelt, di fare il possibile
per scongiurare un’«invasione dei barbari» in Europa . Negli ultimi mesi di guerra e nei primi
89

mesi di pace, la felice luna di miele tra Occidente e Unione Sovietica si volatilizzò non appena
entrambe le parti compresero quanto sarebbe stato difficile sostenere il «matrimonio di
convenienza».
Si dovette comunque continuare a chiudere un occhio sulle violazioni sovietiche della pace e dei
diritti umani nel corso della fondazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e nei processi
intentati nel dopoguerra contro i principali criminali di guerra tedeschi, eventi in cui l’Unione
Sovietica ebbe un ruolo pari e uguale a quello degli altri Alleati. Il governo di Mosca si rifiutò di
permettere qualsiasi discussione che facesse riferimento alle aggressioni prebelliche, avvenute
senza alcuna provocazione contro la Polonia e la Finlandia, o all’annessione forzata di Lituania,
Lettonia, Estonia e province settentrionali della Romania. Il protocollo segreto del patto tedesco-
sovietico che aveva spartito la Polonia tra le due dittature era ben noto alla parte accusatrice
americana (in quanto era stato fornito nel 1939 all’ambasciatore americano a Mosca da un
diplomatico tedesco), ma venne archiviato con la parola «aggressione» scarabocchiata
sull’intestazione e non fu mai utilizzato durante i processi . La parte sovietica voleva che il
90

crimine di cospirazione volto a scatenare una guerra aggressiva fosse applicato solo ai casi di
aggressione tedesca e non si basasse su un principio piú universale, cosa che i pubblici ministeri
dell’Occidente accettarono, seppure controvoglia. A novembre del 1945, Mosca inviò a
Norimberga un’unità speciale di forze di sicurezza per garantire che non si facesse menzione di
crimini internazionali commessi dai sovietici. Il regime comunista si dimostrò talmente
suscettibile che i pubblici ministeri sovietici rimossero dal discorso di apertura qualsiasi
riferimento all’aggressione della Germania ai danni della Polonia, nel caso potessero dare adito a
domande imbarazzanti. L’ex procuratore generale dell’Urss, Andrej Vyšinskij, ordinò agli
avvocati sovietici di stroncare nel corso del processo qualsiasi tentativo della difesa o degli
imputati di menzionare la complicità sovietica nelle conquiste territoriali del 1939-40. Un’unica
menzione della guerra d’inverno in Finlandia suscitò puntualmente un rumoroso intervento da
parte sovietica .
91

Nonostante la riluttanza sovietica, gli Alleati accettarono inoltre di mettere gli imputati tedeschi
sotto accusa per «crimini contro l’umanità», al fine di rendere evidente nelle imputazioni il
terrore perpetrato dal regime di Hitler contro il suo stesso popolo e i crimini commessi contro
altre nazionalità, come deportazioni, lavori forzati e uccisioni di massa. In questo senso,
l’Occidente non solo si dimostrava cieco di fronte ai comportamenti disumani del regime
stalinista, ma era anche privato di informazioni concrete, giacché era stato steso un velo quasi
impenetrabile sul reale trattamento riservato a tutti coloro che erano considerati ostili o
incompatibili con il sistema comunista, tanto in Unione Sovietica quanto nelle zone occupate
dell’Europa dell’Est, sia prima sia alla fine della guerra. A eccezione del genocidio sistematico,
l’apparato repressivo sovietico si era macchiato di quasi tutti gli altri crimini contro l’umanità
elencati a Norimberga: deportazioni di massa in campi di lavoro e di concentramento su vasta
scala; gestione di lager con un livello sistematico di soprusi e uccisioni che uguagliava quello dei
peggiori campi di concentramento del Terzo Reich; intolleranza verso ogni forma di credo
religioso; nessuna libertà di espressione o di associazione e nessun rispetto dello stato di diritto .
92

Mentre il tribunale di Norimberga esprimeva il proprio sdegno per i campi di concentramento del
nemico sconfitto, l’apparato di sicurezza sovietico che operava nella zona della Germania
occupata dall’Armata Rossa aveva allestito una struttura di isolamento in un ex lager tedesco a
Mühlberg sul fiume Elba, in cui furono mandati senza alcun processo 122 000 prigionieri
tedeschi, 43 000 dei quali perirono o furono uccisi . Tra un campo tedesco e un campo sovietico,
93

scrisse Anatolij Bakaničev in un memoriale privato dopo la sua esperienza in entrambi, «le
differenze stavano solo nei dettagli» .
94

L’unico evento di cui l’Occidente era perfettamente a conoscenza – poiché la propaganda


tedesca aveva piú volte sbandierato la scoperta di fosse comuni nel 1943 – era il massacro di
ufficiali polacchi compiuto dalle forze del Narodnyj Komissariat Vnutrennich Del (NKVD,
Commissariato del popolo per gli Affari Interni), nell’aprile del 1940 nella foresta di Katyn’ e
dintorni. Il procuratore capo sovietico a Norimberga, Roman Rudenko, all’epoca poco noto, era
stato in realtà inviato da Stalin a Char’kov per supervisionare il massacro degli ufficiali polacchi
dopo che gli ufficiali dell’NKVD locale si erano dimostrati restii a commettere un tale crimine.
Secondo la versione a cui si attennero rigidamente le autorità sovietiche, si era trattato di
un’atrocità tedesca e, benché gli inglesi fossero quasi certi che il crimine era stato commesso dal
loro alleato, si ritenne politicamente prudente non esaminare troppo attentamente le prove (e
infatti l’inconfutabile verità emerse soltanto dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1990). La
reticenza degli occidentali su questa e tutte le altre prove di crimini di guerra o contro l’umanità
commessi dai sovietici era ritenuta essenziale per evitare che gli imputati tedeschi sfruttassero la
crescente frattura venutasi a creare tra gli ex Alleati. Perfino nel 1948, quando la spaccatura era
ormai evidente e la guerra fredda si presentava come inevitabile, la leadership sovietica continuò
a fingere di rappresentare un sistema umanitario unico nel suo genere. Nello stesso anno, a
Parigi, nel corso delle discussioni sulla stesura di una Dichiarazione dei diritti umani da parte
delle Nazioni Unite, Vyšinskij lasciò intendere che era irrilevante nel caso dell’Unione Sovietica,
dal momento che il sistema comunista, in quanto principale attore della liberazione dei popoli,
rappresentava di per sé «i diritti umani in azione» .
95

Anche se nessuno degli Alleati occidentali aveva mai uguagliato l’Unione Sovietica nel modo
spietato in cui erano state praticate aggressioni territoriali e repressioni di massa, tantomeno nel
rovesciamento morale utilizzato per giustificarle, la pungente osservazione dell’Asse secondo cui
gli Alleati stessi, per motivi razziali, non erano certo all’altezza della loro immagine democratica
aveva messo in luce una delle maggiori falle nella posizione etica assunta dall’Occidente e
soprattutto dagli Stati Uniti, che, a differenza della Gran Bretagna, ponevano particolare enfasi
sulla difesa delle libertà democratiche. In America, la principale questione razziale nasceva dalla
lunga storia di discriminazione, segregazione e violenza nei confronti della minoranza
afroamericana. La mancanza dei pieni diritti civili e il consenso sociale da parte delle comunità
bianche che approvavano la segregazione razziale, in particolare negli Stati Uniti del Sud, erano
questioni che nei dieci anni antecedenti alla guerra l’amministrazione Roosevelt aveva evitato di
toccare, anche perché il presidente contava sul sostegno al Congresso dei Democratici del Sud,
che si opponevano risolutamente a qualsiasi concessione nei confronti della minoranza nera. Lo
scoppio della guerra, con l’appello all’unità nazionale e alla difesa della libertà, fu interpretato
dai leader neri come un’opportunità per manifestare la propria frustrazione per le disuguaglianze
esistenti, sperando che un conflitto in difesa della «democrazia» avrebbe significato anche la loro
liberazione. La guerra, dichiarò ottimisticamente Du Bois, era una «guerra per l’uguaglianza
razziale» .
96

A gennaio del 1942, lo stesso mese in cui ebbe luogo il primo linciaggio in tempo di guerra a
Sikeston nel Missouri, 300 spettatori erano presenti quando un sospettato nero era stato cosparso
di cinque galloni di benzina e arso vivo, e il «Pittsburgh Courier» pubblicò la lettera di un
giovane lavoratore nero impiegato in una mensa, di nome James Thompson, che invitava gli
americani di colore a combattere per «la doppia V di una doppia vittoria». La prima V, spiegava
Thompson, era per la vittoria sui nemici al di fuori dell’America; «la seconda V per la vittoria sui
nostri nemici all’interno» . Per molti di coloro, bianchi e neri, che si opponevano alla condizione
97

di «serie b» degli afroamericani, la guerra per difendere la democrazia dalla dittatura era priva di
ogni significato se non si riconosceva che gli ideali democratici non erano stati estesi alle
minoranze di colore. «Io credo nella democrazia, cosí tanto | che voglio che tutti in America | ne
abbiano un po’ | i Neri […] ne avranno un po’», scrisse la poetessa Rhoza Walker nel settembre
del 1942 . Gli attivisti neri capirono che in un momento in cui l’amministrazione di Roosevelt
98

stava giurando fedeltà alle Quattro Libertà e alle promesse espresse nella Carta Atlantica sarebbe
stato possibile fare un paragone poco gradevole con il razzismo tedesco. Un pamphlet sui diritti
civili pubblicato a St Louis in tempo di guerra aveva come titolo Let’s stop would-be Hitlers at
Home – Let’s practice democracy as we preach it (Fermiamo gli aspiranti Hitler in patria –
Mettiamo in pratica la democrazia che predichiamo), un atteggiamento che riecheggiava in tutto
il movimento per i diritti civili . Quando i sondaggi d’opinione condotti dalla stampa
99

afroamericana domandarono ai neri americani se si identificassero con i nobili sentimenti


espressi da Roosevelt e dal suo governo, l’82 per cento rispose di no . L’opportunità offerta dalla
100

guerra di sfruttare il divario morale tra la propaganda bellica ufficiale e la realtà di milioni di neri
americani portò a un sostanziale incremento dell’attivismo nero. Durante il conflitto, la
diffusione della stampa nera aumentò del 40 per cento; l’adesione alla National Association for
the Advancement of Colored People (NAACP), guidata da Walter White, crebbe di dieci volte
negli anni della guerra; l’associazione piú radicale March on Washington Movement, fondata nel
1941 da A. Philip Randolph, aprí sedi in tutto il paese . Le richieste di uguaglianza avevano
101

preceduto di molto la guerra, ma il periodo bellico forní l’occasione adatta in cui contestare piú
apertamente ed esaustivamente i presupposti bianchi in merito alla razza.
I risultati del crescente attivismo risultarono disomogenei. All’aumento delle proteste dei neri
seguí spesso un irrigidimento da parte dei bianchi piú intransigenti. I membri sudisti del
Congresso ritenevano che la crescente richiesta di diritti civili e di uguaglianza economica fosse
un disastro per il Paese: «Non c’è minaccia piú grande», aveva detto uno di loro . Negli Stati del
102

Sud, gli elettori neri venivano tenuti lontani dalle urne e si cercava di trovare il modo di
costringere la manodopera rurale nera a lavorare nelle fattorie dei bianchi. In alcune zone le
persone di colore erano costrette a portare ovunque con sé un distintivo con il nome del datore di
lavoro e l’orario della giornata lavorativa o rischiavano l’arresto. La cultura del «lavoro o
prigione» fu pensata per soffocare qualsiasi prospettiva di militanza nera . Per molti americani di
103

colore del Nord, la chiamata alle armi in tempo di guerra o l’occupazione nel crescente settore
della difesa li fece sentire esposti a un livello di segregazione e discriminazione che non avevano
mai conosciuto prima. Quando i datori di lavoro dovevano arrendersi alle pressioni del mercato e
assumere manodopera, ai lavoratori neri venivano generalmente assegnati solo lavori non
qualificati, indipendentemente dalla loro specializzazione personale. Nelle forze armate, la
segregazione era largamente utilizzata. Le reclute nere vivevano in condizioni piú disagiate,
venivano costrette a lavorare come addetti alla mensa o manovali e, in alcune parti del Sud,
rischiavano persino il linciaggio se erano sorprese in uniforme fuori dal campo. «Se mai c’è stata
una schiavitú, è questa qui», denunciò in una lettera al «Pittsburgh Courier» un soldato che
scriveva da un campo dove i soldati di leva di colore dovevano dormire per terra e usare secchi
come latrine . Il diverso trattamento dei soldati neri era rafforzato dai pregiudizi della stessa
104

amministrazione. L’esercito degli Stati Uniti, scriveva un’altra recluta delusa, è «tanto nazista
quanto quello di Hitler» . Nel 1944, l’Office of War Information pubblicò un manuale riservato
105

agli ufficiali bianchi dal titolo Certain Characteristics of Negroes (Alcune caratteristiche dei
negri) che, tra le altre cose, descriveva i soldati di colore nei termini seguenti: «gregari,
estrovertiti [sic] […] dal carattere impetuoso [...], mentalmente pigri, disattenti, smemorati [...],
governati dall’istinto e dalle emozioni piuttosto che dalla ragione [...] dotati di un acuto senso del
ritmo [...] sfuggenti […] facili alla menzogna, frequentemente, con naturalezza» . In risposta alla
106

notizia di violenze razziali nel quartiere newyorkese di Harlem, un soldato nero di stanza in
Europa fece presente che i soldati di colore si stavano domandando: «Per cosa stiamo
combattendo?» . 107

Le contraddizioni messe in evidenza dalla guerra provocarono alla fine un’ondata di violenza
razziale. Nei primi anni del conflitto, i lavoratori bianchi intrapresero gli «scioperi dell’odio»
contro le assunzioni di un numero crescente di neri. I segregazionisti si trovarono coinvolti in
violenti disordini in difesa di quartieri o scuole per soli bianchi. Nel corso della guerra, mentre la
mobilità del lavoro portava un milione di migranti neri nelle città del Nord e dell’Ovest
americano, la tensione razziale si intensificò, raggiungendo un picco di violenza, in cui si stima
si siano registrati 242 scontri razziali in 47 città americane . Vi furono inoltre rivolte e scontri
108

nelle strade e nei cantieri navali di Mobile, in Alabama, Port Chester, in Pennsylvania,
Centerville, in Mississippi, Los Angeles e Newark, in New Jersey. I disordini piú gravi si
verificarono nell’estate del 1943, prima a Detroit, poi a Harlem. La violenza a Detroit esplose il
20 giugno a causa del crescente risentimento dei lavoratori bianchi per l’afflusso di nuova
manodopera nera; prima che si potesse ristabilire l’ordine, i tumulti lasciarono sul terreno 37
morti (25 dei quali neri) e 700 feriti. Il 1° agosto, scoppiarono dei disordini a Harlem, in seguito
ai quali vi furono 6 morti e 1450 negozi bruciati o saccheggiati. Roosevelt fu persuaso a non
rilasciare alcuna dichiarazione pubblica sulla questione razziale, in parte per timore dell’opinione
bianca nel Sud, in parte per non alimentare ulteriormente la tensione razziale ammettendo
l’esistenza di un pericoloso punto di faglia. Al fine di prevenire altre violenze, si ricorse invece a
una piú intensa operazione di intelligence in merito ai potenziali fattori di crisi e si reperirono a
livello locale vari modi per disinnescare il conflitto sociale prima che esso interferisse
negativamente sulle operazioni di guerra .109

La reazione contenuta di Roosevelt di fronte all’evidenza di crescenti tensioni razziali era


indicativa del suo approccio alla piú ampia questione dei diritti civili e dell’uguaglianza razziale.
Il sostegno dei democratici del Sud al Congresso era essenziale per la sua posizione politica, ed
egli era pertanto riluttante a riconoscere all’opinione pubblica nera concessioni di qualsiasi tipo
che potessero mettere a repentaglio quell’appoggio. L’unica concessione a cui acconsentí nel
1941, prima della guerra, fu di emettere l’Ordinanza esecutiva 8802 con cui si istituiva la Fair
Employment Practices Commission per cercare di ridurre la discriminazione razziale nel settore
della difesa, soprattutto dopo le pressioni dei leader del movimento per i diritti civili (o, come
disse il suo addetto stampa Stephen Early, dopo il «lungo ululato della gente di colore»). Negli
anni del conflitto, l’occupazione nera nelle industrie della difesa aumentò effettivamente dal 3
per cento all’inizio del 1942 fino a un massimo dell’8 per cento nel 1944, anche se i redditi delle
famiglie nere rimanevano ancora, in media, pari al 40-60 per cento dei guadagni dei bianchi. Nel
1942, il nuovo organismo della Fair Employment fu assorbito dalla War Manpower Commission,
limitando cosí la prospettiva di poter utilizzare la precedente commissione per combattere la
disuguaglianza razziale. Nel Sud, l’amministrazione offrí sussidi e programmi di formazione per
aumentare la produttività delle fattorie dei bianchi, mentre chiuse un occhio sul maggiore
controllo che le riforme del tempo di guerra avevano reso possibile esercitare sui lavoratori neri . 110

Roosevelt pensò bene di tacere sul paradosso esistente tra la sua retorica di libertà e la
sopravvivenza della segregazione e della discriminazione razziale in patria.
Lo stesso si poteva dire in merito all’opinione di Roosevelt sul razzismo nell’impero britannico –
un punto di vista prudentemente moderato per non pregiudicare l’alleanza di guerra, nonostante
la sua personale opinione che gli imperi coloniali fossero moralmente deficitari e dovessero
essere messi sotto un’amministrazione fiduciaria internazionale oppure ottenere l’indipendenza.
Quando le autorità britanniche arrestarono Gandhi nell’agosto del 1942, insieme con migliaia di
altri indiani sostenitori della sua campagna Quit India, Roosevelt non rilasciò alcuna
dichiarazione pubblica che condannasse la decisione degli inglesi o le violenze che
l’accompagnarono. Walter White annullò per protesta un discorso che avrebbe dovuto tenere per
conto dell’Office of War Information e inviò un telegramma a Roosevelt in cui collegava il
movimento per i diritti civili alla piú ampia lotta mondiale per l’emancipazione
dall’imperialismo occidentale: «Non c’è dubbio che un miliardo di esseri umani neri e gialli
nell’area del Pacifico vedrà nel trattamento spietato riservato ai leader e ai popoli indiani il tratto
tipico di quanto i bianchi faranno alla gente di colore se le Nazioni Unite vinceranno» . 111

Il legame tra la lotta per i diritti civili negli Stati Uniti e il piú ampio movimento globale per la
liberazione coloniale si consolidò con il proseguire della guerra. Nel 1944, dopo aver visitato gli
scenari di guerra nel Nordafrica e in Europa, White scrisse A Rising Wind (Un vento nascente),
un libro di memorie concepito per mostrare che «negli Stati Uniti la lotta dei neri è parte
integrante della lotta contro l’imperialismo e lo sfruttamento in India, Cina, Birmania, Africa,
Filippine, Malesia, Indie occidentali e Sud America» . Quando nel maggio del 1945 i delegati si
112

incontrarono a San Francisco per concordare l’assetto dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, i
gruppi di pressione neri cercarono di ottenere che la delegazione americana includesse una
dichiarazione dei diritti umani tale da non vertere soltanto sui diritti dei neri americani ma che
affermasse anche i diritti delle «colonie e dei popoli assoggettati», ma le pressioni non riuscirono
ad avere una risposta concreta sul problema della discriminazione razziale. John Foster Dulles,
uno dei delegati degli Stati Uniti, temeva che i diritti umani avrebbero messo in evidenza il
«problema dei neri nel Sud» . Nel 1948, quando le Nazioni Unite si riunirono a Parigi per
113

discutere, tra le varie cose, la stesura di una Dichiarazione dei diritti umani, la vedova di
Roosevelt, Eleanor, presidente della Human Rights Commission, rifiutò di accogliere, per le
problematiche politiche che avrebbe potuto sollevare, la petizione redatta da Du Bois An Appeal
to the World (Un appello al mondo), che collegava direttamente l’oppressione dei neri negli Stati
Uniti alla tematica dei diritti umani. I delegati dei principali stati volevano essere sicuri che una
dichiarazione dei diritti universali non implicasse il diritto di intervento nei paesi in cui tali diritti
venivano manifestamente violati . Nonostante una guerra condotta in difesa della democrazia,
114

nel 1945 gli Stati Uniti e le potenze imperiali emersero con un sistema di discriminazione ancora
saldamente radicato nell’idea occidentale di razza.
Se la lunga storia di episodi di razzismo in patria non combaciava con la retorica di guerra, non
mancarono neppure ulteriori ambiguità nel modo in cui venne affrontato il razzismo del nemico,
soprattutto nel caso dell’antisemitismo. Il solenne rilievo ora attribuito all’Olocausto, o Shoah,
nella memoria pubblica della Seconda guerra mondiale ha indotto a pensare che un fattore
importante nella guerra contro la Germania e i suoi alleati europei dell’Asse fosse quello di porre
fine al genocidio della popolazione ebraica e liberare quella sopravvissuta. Si tratta per buona
parte di un’illusione. La guerra non fu combattuta per salvare gli ebrei dell’Europa, anzi, i
governi di tutte e tre le maggiori potenze alleate si adoperarono affinché l’opinione pubblica non
pensasse esattamente questo. La liberazione, quando arrivò, fu il sottoprodotto di piú vaste
ambizioni volte a estromettere gli stati dell’Asse dalle loro terre di conquista e ripristinare la
sovranità nazionale di tutti i popoli conquistati e vinti. L’atteggiamento delle potenze alleate
verso gli ebrei fu a tratti negligente, cauto, ambivalente o moralmente discutibile.
Il modo in cui gli Alleati consideravano la «questione ebraica» era stato plasmato, da un lato,
dalla reazione di epoca prebellica alle sfide poste dall’antisemitismo tedesco e, dall’altro,
dall’ascesa del sionismo e dall’affermazione di un’identità nazionale ebraica. La politica
sovietica verso gli ebrei era dettata in particolare dall’ostilità verso le aspirazioni sioniste, che
minacciavano la fedeltà degli ebrei sovietici al sistema comunista. Da tempo Stalin pensava che
gli ebrei fossero difficilmente integrabili nella nuova Unione Sovietica e mal tollerava il loro
desiderio di «separazione». I sionisti erano perseguitati e spinti alla clandestinità; all’inizio degli
anni Trenta, l’emigrazione ebraica si ridusse al minimo, e dal 1934 fu vietata del tutto; ai
lavoratori ebrei non era concesso tempo libero per celebrare lo Shabbath e centinaia di sinagoghe
vennero chiuse . Quando nel 1939-40 altri due milioni di ebrei finirono sotto il dominio
115

sovietico dopo l’occupazione della Polonia orientale e degli Stati baltici, essi furono costretti a
subire la distruzione del loro tradizionale stile di vita. Da tutta la regione, circa 250 000 ebrei
furono deportati nelle regioni sovietiche dell’interno, migliaia di rabbini e leader ebrei vennero
arrestati e mandati nei GULag sovietici, le sinagoghe furono chiuse o convertite ad altri scopi, le
imprese di ebrei divennero di proprietà dello stato e i riti pubblici religiosi e culturali ebraici
furono soppressi. La vita tradizionale delle piccole comunità dello shtetl era già stata annientata
molto prima dell’arrivo dei tedeschi nel 1941 .
116

In Gran Bretagna e negli Stati Uniti, la questione ebraica era legata ai timori per gli effetti di
un’immigrazione ebraica su larga scala causata dall’aumento delle persecuzioni e, nel caso
britannico, alla preoccupazione che la migrazione ebraica turbasse la fragile sicurezza dei
mandati che la Società delle Nazioni aveva affidato agli inglesi in Medio Oriente. Seppure non
caratterizzata in nessuno dei due paesi da tratti esplicitamente o apertamente antisemiti, la paura
delle conseguenze sociali o politiche che potevano derivare dallo spalancare le porte ai rifugiati
ebrei determinò la reazione di entrambi i governi. Durante gli anni Trenta, un numero
considerevole di immigrati ebrei era comunque riuscito a fuggire dalla Germania e dalle regioni
annesse nel 1938-39, per un totale di circa 360 000 persone tra il 1933 e il 1939. Di questo
numero, 57 000 avevano trovato rifugio negli Stati Uniti, 53 000 nella Palestina sotto Mandato
britannico e 50 000 nelle isole della Gran Bretagna. Vi era stata inoltre una considerevole
emigrazione di ebrei europei da quei paesi in cui l’antisemitismo era diventato negli anni Trenta
un problema piú acuto. Tra il 1933 e il 1939, il numero totale di immigrati ebrei in Palestina fu di
215 232, che raddoppiarono la popolazione ebraica della regione . Fu questo afflusso a
117

influenzare maggiormente l’atteggiamento del governo britannico verso il problema dei rifugiati
ebrei. Nel 1936, l’arrivo in Palestina di una nuova ondata di ebrei dall’Europa aveva innescato
una grande rivolta araba che per tre anni impegnò gran parte del piccolo esercito britannico
presente nel territorio e minacciò la posizione strategica della Gran Bretagna in Medio Oriente.
Come risultato, venne presa la decisione definitiva, pubblicata nel maggio del 1939 in un Libro
Bianco, di limitare ulteriori migrazioni ebraiche a 75 000 individui nell’arco di cinque anni e
sospenderle poi del tutto, a meno che la comunità araba non fosse d’accordo, il che era
improbabile. Per sanzionare gli ingressi clandestini su larga scala, fu imposto un blocco iniziale
di sei mesi all’intero flusso migratorio. Nel 1939, solo 16 000 ebrei furono ammessi legalmente
in Palestina, ma altri 11 000 riuscirono a entrare illegalmente. Come se non bastasse, il
documento governativo escludeva anche la prospettiva di uno stato ebraico separato, che era la
principale ambizione sionista . Le linee guida fissate nella primavera del 1939 influenzarono la
118

politica britannica durante tutta la guerra, chiudendo tragicamente una delle piú importanti vie di
fuga per i rifugiati ebrei.
L’emigrazione verso la Gran Bretagna venne frenata nel momento stesso in cui l’antisemitismo
tedesco raggiungeva nuovi livelli di intensa discriminazione e persecuzione dopo il pogrom della
Kristallnacht, la Notte dei cristalli di novembre del 1938. Un certo numero di bambini, senza i
genitori, fu autorizzato a far parte del cosiddetto Kindertransport e 7700 di loro raggiunsero la
Gran Bretagna nel luglio del 1939, mentre gli adulti dovevano affrontare crescenti difficoltà per
riuscire a soddisfare i criteri stabiliti dai britannici per l’ingresso nel paese e ricevere i visti
necessari. Le autorità della Gran Bretagna davano la preferenza agli immigrati ebrei sostenuti da
organizzazioni ebraiche e in possesso di una qualche competenza che fosse di una certa utilità, o
in grado di riempire un vuoto nel mercato del lavoro, anche se il ministero degli Interni dava la
precedenza agli ebrei che promettevano di emigrare nuovamente dopo l’arrivo in Gran Bretagna
– prospettiva che si ridusse progressivamente con l’avvicinarsi della guerra. Quote e limitazioni
imposte agli immigrati erano condivise da tutto il mondo occidentale. Negli Stati Uniti, in realtà,
le restrizioni non riguardavano direttamente gli ebrei, considerati cittadini del loro particolare
paese di provenienza, ma questo comportava liste d’attesa per il visto lunghe fino a due anni, e
una volta che in uno stato si raggiungeva la quota prefissata non si facevano eccezioni. Su questo
punto, il governo degli Stati Uniti rifiutò qualsiasi concessione nonostante la particolare crisi
degli ebrei europei. Quando Roosevelt fu sollecitato affinché facilitasse l’ingresso degli ebrei
dopo la Kristallnacht, egli si limitò a commentare: «I tempi non sono maturi per questo». I
sondaggi di opinione, a cui Roosevelt era sempre attento, indicavano che il 75 per cento degli
americani riteneva che gli ebrei possedessero «tratti indesiderabili», mentre il 72 per cento era
contrario a qualsiasi ulteriore immigrazione ebraica . Un disegno di legge presentato al
119

Congresso nel gennaio del 1939 (il cosiddetto Children’s Bill ), che avrebbe permesso l’ingresso
negli Stati Uniti a 20 000 rifugiati bambini per un periodo di due anni, non suscitò alcuna
risonanza nella popolazione e nessun sostegno da parte del presidente, e fu bocciato in sede di
commissione. I sondaggi mostrarono ancora una volta una forte opposizione da parte
dell’opinione pubblica.
In Gran Bretagna, piuttosto che affrontare la prospettiva di una potenziale ondata di profughi
disperati, furono avanzate proposte che prevedevano il trasferimento di ebrei nella colonia
sudamericana della Guyana britannica («per placare la coscienza del governo di Sua Maestà in
relazione agli ebrei europei», come disse senza mezzi termini un funzionario del Foreign Office),
ma il timore di un’opposizione da parte della popolazione locale mise fine alla proposta. Negli
Stati Uniti si avanzò l’idea di creare un’enclave ebraica in Alaska, ma Roosevelt pose il veto per
paura di creare uno stato ebraico all’interno di un altro stato . Ciò che né la Gran Bretagna né gli
120

Stati Uniti volevano era una maggiore presenza ebraica a livello nazionale, quali che fossero le
ragioni morali sottostanti. Osservando le pressioni esercitate dal movimento dei rifugiati nel
1940, l’ambasciatore americano a Mosca, Laurence Steinhardt, sintetizzò cosí la scelta del suo
governo: «Sono dell’opinione che quando vi sia anche solo la remota possibilità di un conflitto
tra gli aspetti umanitari e gli interessi degli Stati Uniti, i primi devono cedere il passo ai
secondi» .
121

Lo scoppio della guerra non fece che rafforzare tale convinzione. Dal settembre del 1939, non fu
piú permessa alcuna emigrazione ebraica in Gran Bretagna dalla Germania o dall’Europa
occupata dai tedeschi. «Per quanto riguarda noi e la Francia», scrisse un funzionario del Foreign
Office, «la posizione degli ebrei in Germania non è di alcuna reale rilevanza» . Negli Stati Uniti,
122

l’opposizione del Congresso ottenne che il rigido sistema delle quote in vigore non venisse
rivisto. Le autorità tedesche erano ansiose di espellere il maggior numero possibile di ebrei,
almeno fino a quando Himmler vietò definitivamente nell’ottobre del 1941 l’emigrazione in
favore di uno sterminio totale. In ogni caso, gli ebrei che avevano avuto la fortuna di trovare una
via verso l’Occidente rappresentavano soltanto una piccola parte di quelli in difficoltà.
L’emigrazione verso la Palestina, ancora consentita dal sistema delle quote, non raggiunse mai i
livelli previsti nel Libro Bianco poiché non fu fatto alcuno sforzo per facilitare la fuga degli ebrei
dall’Europa. In quindici dei trentanove mesi in cui agli ebrei fu possibile lasciare la Germania e
il suo nuovo impero, l’intero flusso migratorio fu sospeso dalle autorità britanniche per
sanzionare gli immigrati clandestini, il cui numero era comunque in diminuzione. Nel 1940,
emigrarono negli Stati Uniti 36 945 ebrei, ma altre migliaia restavano in attesa in Europa poiché
le quote erano state ormai raggiunte. Quelli che riuscirono ad arrivare in Gran Bretagna subirono
un’ulteriore umiliazione allorché il governo britannico ordinò nel giugno del 1940 che la gran
parte di loro fosse internata come nemici ostili, in seguito all’allarmismo tra la popolazione per
una possibile «quinta colonna». La maggioranza degli internati venne poi liberata, ma le
condizioni iniziali in cui gli ebrei si erano trovati nei campi temporanei di Gran Bretagna,
Canada e Australia erano dure e umilianti .123

La drammatica crisi in cui versava la popolazione ebraica dell’Europa spronò gli ebrei a cercare
la fuga in barba ai regolamenti imposti dall’Occidente. In quel frangente, le autorità della Gran
Bretagna mostrarono un’insensibilità che demolí completamente la pretesa del paese di porsi
come paladino della dignità umana. Quando tre navi provenienti dalla Romania e stracariche di
rifugiati ebrei dell’Europa centrale, affamati e debilitati, comparvero al largo della Palestina, ai
profughi fu prima negato il permesso di sbarcare, poi vennero fatti scendere a terra e internati in
campi improvvisati, in attesa di trovare il modo per costringerli a lasciare la Terra Promessa. Le
autorità mandatarie decisero di spedirne alcuni nella colonia dell’isola di Mauritius, ma i
rifugiati, disperati e demoralizzati per i maltrattamenti subiti, rifiutarono e, il giorno in cui
dovevano essere deportati, si sdraiarono nudi sui loro letti in segno di protesta. La polizia
coloniale prese a bastonate gli uomini, dopodiché li trascinò nudi sulla nave insieme con le
donne, gettando in mare i loro beni oppure confiscandoli e rivendendoli in cambio di fondi
governativi palestinesi. Durante la traversata verso l’isola di Mauritius, piú di quaranta morirono
di tifo o prostrazione; all’arrivo, furono internati in un campo recintato da filo spinato e
sorvegliato da guardie armate, passando cosí da un duro regime a un altro. Vi rimasero
prigionieri fino agli ultimi mesi di guerra, con gli uomini separati da mogli e figli. Sir John
Shuckburgh, vice sottosegretario presso il Colonial Office, commentò che le proteste
dimostravano che «gli ebrei non avevano alcun senso dell’umorismo e della misura» . Dalla 124

primavera del 1941, gli ingressi clandestini in Palestina cessarono del tutto.
Quando il genocidio ebbe effettivamente inizio, a partire dall’estate del 1941, prima sul fronte
orientale e successivamente in tutta l’Europa dell’Asse, per le autorità fu difficile restare
indifferenti al destino degli ebrei. Anche se dapprima si rivelò complesso radunare le numerose e
diverse informazioni raccolte dall’intelligence di Londra e Washington, all’inizio dell’estate del
1942 era divenuto ormai lampante che tutto portava in modo inequivocabile a un sistematico
sterminio di massa degli ebrei d’Europa. A maggio del 1942, la resistenza polacca inviò un
rapporto al governo polacco in esilio, il cosiddetto Bund Report, che descriveva nel dettaglio lo
sterminio degli ebrei polacchi. Nel mese di giugno, la BBC era stata autorizzata a trasmettere in
Europa le conclusioni del rapporto, secondo cui erano già stati uccisi 700 000 ebrei, ma il
Foreign Office ritenne che l’informazione fosse dubbia e temette che potesse essere un
espediente per giustificare ulteriori emigrazioni in Palestina . All’inizio di agosto del 1942 il
125

rappresentante del Congresso mondiale ebraico a Ginevra, Gerhart Riegner, inviò tramite il
Foreign Office al deputato britannico Sydney Silverman un lungo telegramma che riportava i
dettagli, forniti da una fonte tedesca, sui campi di sterminio e le camere a gas. Inviato l’8 agosto,
nonostante il persistente scetticismo nei confronti di informazioni non verificate, il telegramma
fu trasmesso a Silverman dal Foreign Office solo il 17 agosto, con l’avvertimento di non dare
troppo peso alla notizia . Il telegramma fu inviato anche al dipartimento di Stato di Washington
126

affinché fosse fatto pervenire al rabbino Stephen Wise, capo del Congresso mondiale ebraico, ma
i funzionari dell’amministrazione americana decisero che la «natura fantasiosa delle accuse» ne
precludeva qualsiasi ulteriore utilizzo. Ai censori americani sfuggí invece un secondo
telegramma, inviato direttamente a Wise da Silverman, con allegato il Rapporto Riegner.
Quando Wise cercò tuttavia di ottenere dal dipartimento di Stato il permesso di rendere pubblica
la notizia, trascorsero altri tre mesi prima che l’autorizzazione fosse concessa, e non senza
riluttanza . I funzionari britannici e americani diffidavano di quella che era ancora considerata
127
un’informazione non confermata e temevano che i gruppi di pressione ebraici utilizzassero quelle
lugubri notizie per chiedere un intervento del governo.
A dicembre del 1942 vi erano ormai sufficienti informazioni pubblicamente disponibili per poter
esercitare una maggiore pressione popolare su entrambi i governi occidentali. Un sondaggio
britannico della Gallup indicò che l’82 per cento degli intervistati era disposto ad accogliere altri
fuggitivi ebrei . Per placare le proteste contro l’atteggiamento passivo degli Alleati, il ministro
128

degli Esteri britannico Anthony Eden propose alla Camera dei Comuni di rilasciare una
dichiarazione a nome delle potenze alleate e denunciare apertamente lo stermino degli ebrei da
parte dei tedeschi, promettendo che a guerra conclusa i responsabili avrebbero ricevuto il giusto
castigo. A Washington, il dipartimento di Stato pensò che la dichiarazione non avrebbe fatto che
incoraggiare ulteriori proteste ebraiche che avrebbero potuto «influenzare negativamente lo
sforzo bellico». Alla fine i funzionari americani acconsentirono, ma solo dopo che la frase sullo
sterminio, «resoconti provenienti dall’Europa che non lasciano spazio a dubbi», venne
modificata in «numerosi resoconti dall’Europa», che poteva dare ancora adito a perplessità. Una
settimana prima della dichiarazione, Roosevelt incontrò per la prima e unica volta nel corso della
guerra i leader ebrei per discutere su come reagire al genocidio. Parlò per quattro quinti del
tempo, dedicò solo due minuti al vero argomento e non fece alcuna promessa . A Mosca, dove
129

dall’estate del 1941 il servizio di sicurezza dell’NKVD aveva raccolto e verbalizzato numerose
prove dirette del genocidio (seppure mai trasmesse all’Occidente), esisteva un’analoga
ambivalenza nei confronti di una dichiarazione degli Alleati che parlava di vittime ebree anziché
di vittime sovietiche piú in generale. L’Unione Sovietica si uní tuttavia alla lista dei firmatari di
quella che risultò essere l’unica importante dichiarazione resa in tempo di guerra sulla catastrofe
ebraica . Il 17 dicembre, Eden lesse la dichiarazione alla Camera dei Comuni, i cui deputati si
130

alzarono spontaneamente per osservare due minuti di silenzio. Alle organizzazioni ebraiche di
tutto il mondo sembrò che gli Alleati potessero ora allentare le loro restrizioni e rispondere
attivamente alla situazione degli ebrei dell’Europa. Per quelli intrappolati nella rete dell’Asse, la
dichiarazione pubblica degli Alleati rappresentò un bene solo a metà: «Dovremmo essere felici
di questa “preoccupazione” per la nostra sorte», scrisse Abraham Lewin nel suo diario dal ghetto
di Varsavia, «ma ci sarà di qualche utilità?» .
131

La dichiarazione di dicembre del 1942, pur risultando il momento piú significativo di una
reazione a livello governativo alla notizia dell’Olocausto, non portò tuttavia a quasi nessun
cambiamento decisivo nella politica degli Alleati nei confronti degli ebrei europei ancora in vita.
In Unione Sovietica, lo Evrejskij antifašistskij komitet, il Comitato ebraico antifascista istituito
nel 1942 con l’approvazione di Stalin ma sotto la vigile supervisione dei servizi di sicurezza,
veniva tollerato perché attirava denaro americano, anche se il suo scopo non era certo quello di
appoggiare una strategia attiva per salvare o aiutare gli ebrei sovietici sotto occupazione tedesca,
la maggior parte dei quali, alla fine del 1942, era già stata sterminata. In Gran Bretagna, il
ministro degli Interni Herbert Morrison respinse la richiesta di accogliere un numero maggiore di
rifugiati ebrei e chiese al ministero degli Esteri di prendere in considerazione qualche altra
remota destinazione, incluso il Madagascar, a cui nel 1940 avevano brevemente pensato anche i
tedeschi. Per evitare ulteriori critiche, il gabinetto di guerra istituí un Committee for the
Reception and Accommodation of Jewish Refugees, ma la parola Jewish, «ebraico», fu poi
eliminata dalla dicitura per evitare che si pensasse di voler privilegiare un particolare gruppo di
vittime. Nel gennaio del 1943, il comitato descrisse il proprio obiettivo principalmente in toni
negativi: «Stroncare l’idea che in questo paese e nelle colonie britanniche sia possibile
l’immigrazione di massa». L’unica concessione di Morrison fu la disponibilità ad accogliere altri
1000-2000 ebrei se si fosse dimostrato che tali rifugiati potevano essere utili allo sforzo bellico
della Gran Bretagna .
132

In America, alla dichiarazione di dicembre non fece eco alcun provvedimento pratico immediato.
I suggerimenti delle lobby ebraiche furono messi da parte o ignorati da Roosevelt e dal
dipartimento di Stato. A gennaio, Washington ricevette dal governo britannico la proposta di
prendere in considerazione un summit di alto livello sul problema dei rifugiati e, dopo molte
resistenze da parte americana, venne finalmente convocata per la metà di aprile del 1943 una
conferenza nella colonia dell’isola britannica di Bermuda, nei Caraibi. Entrambe le parti
concordarono di trattare il problema dei rifugiati in generale e non solo degli ebrei e di non
discutere quelli che venivano visti come utopistici suggerimenti di un’eventuale operazione di
soccorso. I risultati del summit, riferí il capo della delegazione britannica, furono «alquanto
esigui». I convenuti acconsentirono la ricostituzione di un Intergovernmental Committee on
Refugees, già istituito inizialmente nel 1938, ma negli anni a seguire il suo ruolo nel fornire aiuto
agli ebrei si rivelò del tutto trascurabile. Non si prese in considerazione una deroga alle quote in
vigore allo scopo di poter accogliere altri rifugiati ebrei in Gran Bretagna, in Palestina o negli
Stati Uniti, anche se Roosevelt, alla fine, fu costretto nel 1944 a offrire asilo di guerra a Fort
Ontario, nello stato di New York, ad appena 1000 profughi. L’idea ventilata a Bermuda che fosse
possibile allestire nel Nordafrica occupato dagli Alleati un campo per i rifugiati ebrei provenienti
dalla Spagna impiegò un anno per concretizzarsi. Il timore delle ripercussioni sull’opinione
pubblica musulmana, insieme con le obiezioni da parte francese, ebbe come risultato la
realizzazione di un campo che avrebbe ospitato non migliaia di persone come previsto, bensí
l’esiguo numero di 630 . La principale conclusione della conferenza fu che non si poteva fare
133

nulla, come disse Eden, «finché non fosse stata ottenuta la vittoria decisiva». Per puro caso, il
summit era avvenuto nel momento stesso in cui gli ebrei ribelli del ghetto di Varsavia avevano
dato inizio alla loro insurrezione, poi destinata al fallimento. Mentre i delegati discutevano in un
hotel di Bermuda su come contenere il problema dei rifugiati, i ribelli ebrei combattevano senza
speranza la loro ultima battaglia contro gli oppressori, con scarso sostegno da parte dell’Armia
Krajowa della Resistenza polacca e senza alcun aiuto degli Alleati. Uno degli ultimi messaggi
provenienti dal ghetto devastato affermava semplicemente: «Il mondo della libertà e della
giustizia tace e non fa nulla» .134

Un giudizio cosí severo non era del tutto irragionevole. La persecuzione e lo sterminio degli
ebrei non suscitarono da parte degli Alleati occidentali una risposta che fosse all’altezza degli
orrori dell’Olocausto. Al contrario, i rifugiati ebrei che speravano di fuggire dall’Europa e le
organizzazioni ebraiche che cercavano di avviare le operazioni di salvataggio si trovarono ad
affrontare infiniti ostacoli, decisi rifiuti e solo occasionalmente un timido sostegno. Grazie alla
piena consapevolezza di quanto era accaduto, le generazioni del dopoguerra sono state altrettanto
dure nel giudicare il fallimento morale della causa alleata, che ebbe molteplici ragioni. In primo
luogo, il problema della gestione dei rifugiati ebrei negli anni Trenta aveva innescato, soprattutto
per quanto riguardava l’amministrazione mandataria britannica in Palestina, una forte reazione
negativa rispetto alla possibilità di fornire ulteriore assistenza. In secondo luogo, vi era il
problema della credibilità. Mentre l’orrore di quanto stava accadendo veniva allo scoperto, gli
scorci mostrati all’opinione pubblica occidentale sembravano andare oltre ogni immaginazione,
perfino tra le comunità ebraiche. «Credete all’incredibile», scrisse l’ufficio di Londra del
Congresso mondiale ebraico alla sede centrale di New York . In Occidente, dopo l’esperienza
135
della Prima guerra mondiale, le storie di atrocità venivano trattate con estrema cautela, e i
giornalisti che dall’Europa riferivano i particolari della catastrofe dovevano aprire una breccia in
quella che Leon Kubowitzki, parlando nel 1948 al Congresso mondiale ebraico, definí «una
crosta di scetticismo». La stampa era restia a riportare le stesse storie, perché quelle informazioni
erano tenute in minor considerazione rispetto alle notizie della guerra. Negli anni del conflitto, il
«New York Times», il principale quotidiano americano, pubblicò 24 000 articoli in prima
pagina, ma solo 44 erano dedicati a questioni ebraiche. Il proprietario, l’ebreo-americano Arthur
Sulzberger, esitò a usare il proprio giornale per dar voce alla tragedia ebraica, nel timore di
alienarsi i lettori o suscitare una reazione antisemita. Di conseguenza, la conoscenza
dell’Olocausto a livello popolare era frammentaria ed episodica e rischiava di ispirare incredulità
piuttosto che empatia. «La lotta mortale in cui il popolo ebraico era impegnato», continuò
Kubowitzki nel suo discorso, «non era solo impensabile per la mente umana, era anche
incomprensibile» .
136

Un fallimento del genere potrebbe anche essere spiegato dall’antisemitismo, che risulta
comunque un problema piú complesso di quanto possa sembrare. In tutti e tre i principali stati
alleati, l’antisemitismo era presente nella sua forma piú cruda e razzista, seppure non come
movimento di massa e non a livello di governo. Tra la popolazione degli Stati Uniti,
l’antisemitismo era aumentato nel corso degli anni Trenta, durante i quali lo slogan New Deal =
Jew Deal, «Nuovo Patto = Patto Ebraico», era stato utilizzato dall’estrema destra contro le
riforme economiche di Roosevelt. L’antisemitismo populista era rappresentato da William Pelley
e dalle sue 15 000 «camicie d’argento» fasciste; dal reverendo Gerald Winrod, il cui giornale
antisemita «Defender» veniva letto da 100 000 americani; e da padre Charles Coughlin, grande
comunicatore radiofonico nonché convinto sostenitore della veridicità del Protocolli dei Savi di
Sion, le cui invettive antisemite raggiungevano un pubblico di milioni di persone, fino a quando
fu messo a tacere nel 1942 dal suo arcivescovo. Profanazioni di sinagoghe e costanti attacchi
contro gli ebrei continuarono durante gli anni della guerra . L’antisemitismo britannico era
137

presente nelle frange di destra, marginalizzate tuttavia alla fine degli anni Trenta. Nel 1940, gli
attivisti della British Union of Fascists furono internati. È comunque evidente che molti politici e
funzionari occidentali che affrontavano la «questione ebraica» lo facevano da una posizione di
pregiudizio o intolleranza, il che valeva anche per larga parte dell’opinione pubblica. La visione
stereotipata dell’«ebreo» aveva indotto una sorta di antisemitismo «passivo» che avrebbe
influenzato in modo negativo la possibilità di una risposta maggiormente incisiva nei confronti
della crisi ebraica. Anthony Eden, responsabile della dichiarazione di dicembre del 1942,
soltanto un anno prima aveva detto al suo segretario privato: «Se dobbiamo avere delle
preferenze […] preferisco gli arabi agli ebrei». I funzionari del Foreign Office e del Colonial
Office, che si occupavano della Palestina e del problema dei rifugiati, infarcivano i loro verbali
di un occasionale razzismo. «A mio parere», scrisse uno di loro nel 1944, «in questo ufficio si
spreca una quantità sproporzionata di tempo per occuparci di questi ebrei lagnosi» . Tra i 138

colleghi di gabinetto, Churchill era una figura atipica per il suo palese sostegno al sionismo e la
sua preoccupazione per il popolo ebraico, intrappolato nella rete dell’Asse, anche se durante la
guerra non fu mai in grado di ribaltare l’indifferenza o l’ostilità di coloro che lo circondavano.
Roosevelt, al contrario, fece ben poco per affrontare il problema dei rifugiati ebrei o rispondere
alla crisi ebraica, tranne quando sentí che era l’opinione pubblica a volerlo, finendo di fatto per
sostituire al calcolo politico la preoccupazione umanitaria.
Esisteva inoltre un altro modo in cui l’antisemitismo poté contribuire a spiegare la reazione
dell’Occidente. Tra le organizzazioni e i gruppi di pressione ebraici esisteva il persistente timore
che l’attivismo ebraico, prima e durante la guerra, potesse provocare una reazione antisemita e
peggiorare ovunque le condizioni degli ebrei. I leader ebrei di Gran Bretagna e Stati Uniti non
erano entusiasti alla prospettiva di accogliere grandi numeri di altri ebrei dell’Europa centrale e
orientale, in quanto avrebbero potuto portare scompiglio nelle comunità ebraiche già consolidate
e avere problemi di integrazione. Si temeva inoltre che le agitazioni ebraiche potessero indurre a
credere che gli ebrei fossero una minoranza sleale – la stessa idea che si era fatto Stalin della
popolazione ebraica sovietica. Quando nell’agosto del 1943 si rivolse al Congresso ebraico
americano, il rabbino Wise si sentí in dovere di dichiarare: «Noi siamo innanzitutto americani,
sempre e comunque» . Anche i politici non ebrei temevano che si scatenasse l’antisemitismo
139

qualora un’ondata di rifugiati ebrei, costretta dal disegno tedesco, avesse improvvisamente
chiesto di essere accolta. Per gran parte della guerra, rimase contemplata in Gran Bretagna la
possibilità di un esodo di massa, perfino quando la maggior parte degli ebrei nell’Europa di
Hitler era stata ormai sterminata. Tanto in Gran Bretagna quanto negli Stati Uniti, vedere negli
ebrei le vittime principali della guerra europea era considerato politicamente problematico, in
quanto dava l’impressione di voler privilegiare gli ebrei a spese degli altri gruppi di vittime nei
territori europei occupati. Da qui la decisione di eliminare la parola «ebreo» dal comitato di
emergenza per i rifugiati istituito in Gran Bretagna nel gennaio del 1943. Sia i leader ebrei sia
quelli non ebrei temevano infine che una risposta piú apertamente a favore della crisi ebraica
avrebbe fatto il gioco della propaganda tedesca, dando l’impressione che la guerra contro la
Germania fosse in effetti una «guerra ebraica».
La reazione all’Olocausto fu soprattutto condizionata dalla convenienza politica e dalla necessità
militare. La questione dei rifugiati ebrei aveva una bassa priorità per le popolazioni occidentali,
piú preoccupate per l’esito della guerra in generale. Anche là dove vi erano sentimenti di empatia
verso la situazione degli ebrei, essa veniva trattata di massima come parte di piú ampie
apprensioni per tutte le vittime dei paesi occupati dall’Asse. Nella propaganda destinata
all’Europa, i funzionari britannici erano ansiosi di non dare l’impressione che gli ebrei, che non
costituivano una «nazione», godessero di qualche priorità rispetto ai popoli con una precisa
identità nazionale. I governi europei in esilio a Londra condividevano il timore che le
popolazioni prigioniere potessero risentirsi dell’attenzione riservata agli ebrei a scapito della loro
situazione. Al generale De Gaulle, capo della Francia Libera, fu consigliato di «non presentarsi
come l’uomo che riporta qui gli ebrei». La destra francese incolpava gli ebrei della sconfitta
subita nel 1940, cosí come i nazionalisti polacchi accusavano gli ebrei di aver venduto il paese ai
russi nel settembre del 1939. I governi in esilio non avevano alcuna intenzione di creare un loro
«problema ebraico» durante e dopo la guerra, e la propaganda britannica teneva conto di tali
preoccupazioni politiche . Perfino quando la Germania offrí agli stati neutrali la possibilità di far
140

rimpatriare gli ebrei in possesso di passaporto o altro documento, la risposta fu una cauta
procrastinazione in ossequio ai nazionalisti. Nel 1943 e 1944, dei 5000 ebrei in possesso di
documenti spagnoli ne arrivarono in Spagna solo 667, e a patto che emigrassero di nuovo.
Migliaia furono assassinati mentre funzionari neutrali cavillavano sui requisiti di ingresso e sulla
verifica dei documenti .
141

L’ambiguità della risposta alla catastrofe ebraica continuò anche dopo la vittoria, che avrebbe
dovuto essere la chiave della liberazione. L’introduzione del termine «genocidio» nelle delibere
del Tribunale militare internazionale che nel 1945 chiamò in giudizio i principali criminali di
guerra tedeschi fu suggerita da un avvocato ebreo polacco, Rafael Lemkin, arrivato negli Stati
Uniti nel 1941. Aveva coniato quel termine non per parlare del destino dei suoi compagni ebrei
ma per descrivere la castrazione politica, culturale e sociale dell’identità nazionale dei popoli
conquistati. L’inserimento dello sterminio di massa degli ebrei nell’atto d’accusa avvenne
all’ultimo momento a causa della difficoltà nel definire gli ebrei come «nazione» nonché per
l’ostilità sovietica a una loro identificazione collettiva anziché un’inclusione nel totale delle
vittime di una determinata nazione . Il termine genocidio fu usato con parsimonia durante i
142

processi e non comparve affatto nella sentenza finale. Lemkin si adoperò per far sí che le
Nazioni Unite definissero il genocidio come crimine internazionale ed ebbe il sostegno di India,
Panama e Cuba, ma non quello delle grandi potenze. La Final Genocide Convention fu adottata
nel dicembre del 1948 contemporaneamente alla Dichiarazione universale sui diritti umani, ma
non senza resistenze da parte di Gran Bretagna, Francia, Unione Sovietica e Stati Uniti,
preoccupati che la Convenzione potesse essere usata in relazione al trattamento delle popolazioni
coloniali o delle minoranze oppresse in patria. All’epoca, Stalin aveva autorizzato un’epurazione
antisemita che aveva portato all’uccisione o all’incarcerazione di migliaia di ebrei sovietici, tra
cui quelli che avevano diretto lo Evrejskij antifašistskij komitet in tempo di guerra. Negli Stati
Uniti la riluttanza a ratificare la Convenzione era altresí legata alla paura di ulteriori tumulti per i
diritti civili. Nel 1951, in effetti, gli attivisti per i diritti civili Paul Robeson e William Patterson
presentarono alle Nazioni Unite la petizione We Charge Genocide (Accusiamo di genocidio) sul
trattamento dei neri americani. Lemkin si rammaricava di dover paragonare la sorte degli ebrei a
quella dei neri: «Essere discriminati non è la stessa cosa che essere morti». Il governo degli Stati
Uniti, in definitiva, non ratificò la Final Genocide Convention fino al 1986 . 143

L’ambiguità morale delle posizioni assunte in guerra in merito alla collaborazione tra gli Alleati,
al razzismo interno o al sostegno agli ebrei europei non poneva le potenze alleate sullo stesso
piano degli stati dell’Asse, ma metteva in discussione la loro generale pretesa di rappresentare,
collettivamente, un insieme di valori progressisti e umani. La narrazione alleata della «buona
guerra» cominciò a emergere durante il conflitto, e da allora è rimasta un motivo fondamentale e
ricorrente nella memoria della Seconda guerra mondiale . La realtà non aveva colori cosí netti.
144

L’opportunismo morale e politico degli anni del conflitto plasmò una visione storiografica in cui
le potenze alleate, spinte da quella che era vista come una necessità strategica e politica o da una
convinzione ideologica, operarono scelte morali tali da macchiare la narrazione del periodo
bellico.
Guerre di popoli: nascita di una «collettività morale».
La carta della moralità giocata da tutte le potenze per giustificare gli obiettivi del conflitto e i
sacrifici richiesti alle popolazioni rendeva essenziale persuadere la grande maggioranza della
gente che la guerra era una sfida degna di essere affrontata. Se glielo avessero chiesto, quella
grande maggioranza avrebbe quasi certamente preferito non essere in guerra, non importa se con
motivazioni pratiche o morali. «Prima di ogni altra cosa», scrissero nel 1943 i leader del
Parliamentary Peace Aims Group britannico, «dobbiamo renderci conto che la gente comune di
qualunque paese civilizzato non può avere che una minima responsabilità della guerra. Vi è stata
tirata dentro a forza dai suoi governanti, tenuta calma con semplici frasette e costretta a sottostare
a ogni orrore e indegnità» . Se questo giudizio sembra piú adatto agli stati dell’Asse che agli
145

Alleati, tutti i regimi belligeranti avevano comunque il bisogno impellente di assicurarsi che il
loro popolo si rispecchiasse in un conflitto che non aveva contribuito a scatenare e mostrasse un
chiaro impegno morale verso lo sforzo bellico, anche di fronte alla crisi o alla sconfitta. La Prima
guerra mondiale aveva evidenziato quali sarebbero stati i costi se non si fosse riusciti in tale
intento.
Il mezzo principale per garantire l’impegno popolare fu la costruzione di una «collettività
morale», in cui l’intera popolazione diventava apparentemente unita nel portare avanti la guerra
sino alla fine. Il concetto di «collettività» rifletteva l’idea della guerra moderna come conflitto
totale, condotto da intere società, non semplicemente da governi e forze armate. L’idea di
collettività come comunità organica in guerra, dominata da un’etica del dovere e del sacrificio,
era un fenomeno universale, non certo limitato alle dittature. I tratti essenziali di tale costrutto
morale erano stati colti da Chiang Kai-shek in un discorso rivolto alla nazione cinese all’inizio
del 1942:
Dovete essere tutti consapevoli che la guerra moderna non è una semplice questione di azioni militari. Essa coinvolge tutta la
nostra forza e tutte le risorse della nazione. A prendervi parte non sono solo i soldati, ma tutti i cittadini, senza eccezione. Questi
ultimi devono immaginare che il pericolo che corre la nazione li riguarda personalmente e devono essere pronti a sopportare tutte
le difficoltà necessarie, come pure abbandonare la libertà e il piacere individuale allorché la disciplina e l’interesse pubblico lo
richiedano [...]. In una società siffatta, la vita sarà modellata dalle esigenze del tempo di guerra; vale a dire, l’interesse nazionale
sarà ritenuto sovrano e la vittoria sarà il vero traguardo degli sforzi di tutti i cittadini146.
La collettività morale entrò nel linguaggio usato per definire lo sforzo bellico. In Gran Bretagna,
la guerra fu presto battezzata «guerra del popolo», per distinguerla dai conflitti combattuti in
passato per conto di un’élite ben piú ristretta; la «gente comune» unita contro la tirannia divenne
l’elemento centrale della narrazione bellica . In Germania, l’idea popolare della
147

Volksgemeinschaft, una comunità nazionale con forti connotazioni razziali nonché caratteristica
dominante dell’ideologia e della propaganda nazionalsocialista durante gli anni Trenta, fu
facilmente trasformata nel corso della guerra prima nel concetto di Kampfgemeinschaft, una
comunità combattente in difesa del popolo, poi, con l’approssimarsi della sconfitta, in quello di
Schicksalsgemeinschaft, la «comunità unita dal destino» e volta a sopportare le avversità del
conflitto finale . Nelle parole di Stalin, l’Unione Sovietica avrebbe dovuto diventare un unico
148

«campo in armi», impegnato in una grande guerra patriottica per cacciare l’invasore fascista.
L’idea di una guerra del popolo trovò espressione già nelle prime settimane del conflitto nella
canzone popolare Idët vojna narodnaja, svjaščennaja vojna («Si combatte la guerra del popolo,
la sacra guerra»). A settembre del 1942, Stalin annunciò che anche l’Unione Sovietica
combatteva una «guerra del popolo», in cui ogni cittadino abile, maschio o femmina non
importa, doveva essere pronto a combattere . Negli Stati Uniti, dove prevaleva l’etica
149

dell’individualismo, la costruzione di una comunità morale in tempo di guerra fu piú


problematica, seppure formulata nella prima trasmissione di Roosevelt dopo Pearl Harbor: «Ci
siamo tutti dentro, fino in fondo. Ogni singolo uomo, donna e bambino» . 150

Fecero eccezione le esperienze della Cina e dell’Italia, dove negli anni Trenta si erano già
combattute guerre con costi enormi per economie relativamente deboli. Nel 1940, quando
Mussolini decise infine di lanciarsi rischiosamente nella guerra contro altre grandi potenze,
importanti settori dell’élite militare e politica italiana, nonché buona parte dell’opinione
pubblica, mostravano un desiderio decisamente modesto di ulteriori guerre. Anziché sollecitare
una nuova solidarietà morale, come la guerra aveva fatto in altri paesi, dal 1940 in poi il conflitto
mise in evidenza il crescente divario tra il regime e la popolazione. Le prime sconfitte non fecero
che alimentare tra la gente un diffuso pessimismo; i rapporti di polizia evidenziavano un calo di
fiducia nella vittoria, la paura dell’intervento americano e il desiderio che il conflitto finisse. A
novembre del 1940, un tipico rapporto proveniente da Genova rimarcava «un’assoluta mancanza
di entusiasmo per la guerra e i suoi obiettivi» . Mussolini, di conseguenza, esitò a imporre una
151

mobilitazione totale, con il risultato che molti piú italiani riuscirono a restare lontani dal conflitto
di quanto non accadde in Gran Bretagna, Germania e Unione Sovietica. In Cina, l’identificazione
con lo sforzo bellico, nonostante Chiang avesse capito di che cosa c’era bisogno per ottenerla,
rimase limitata. Piú tardi, in un discorso del 1942 alla sessione plenaria del Consiglio politico del
Popolo a Chongqing, Chiang rimproverò i suoi connazionali di non aver fatto propria
l’esortazione alla guerra totale: «La vita sociale è in larga misura lassista ora quanto lo era in
tempo di pace [...]. L’entusiasmo patriottico è ampiamente assente tra la gente e le abitudini
egoistiche e la disattenzione per l’interesse pubblico rimangono elementi di ostacolo» . I 152

problemi della Cina spiegano la mancanza di un adeguato senso di sforzo collettivo. Metà della
nazione era occupata dai giapponesi, con i quali era stata avviata una collaborazione
opportunistica; esisteva inoltre uno stato di conflitto latente tra il regime nazionalista di Chiang e
il Partito comunista cinese che, nelle aree occupate, riportava generalmente maggiori successi nel
fare appello a una «guerra di tutto il popolo contro il Giappone»; nei villaggi, milioni di
contadini cinesi si trovavano ad affrontare un’ondata di profughi, oppressi dalla necessità di
trovare cibo e difendersi dal banditismo diffuso, ed erano poco attratti dall’idea di combattere per
una comunità nazionale; in tutta la Cina non occupata, inoltre, la corruzione era diffusa ai piú alti
livelli: i commercianti approfittavano delle scarse risorse e i ricchi compravano l’esenzione dei
figli dal servizio militare . Chiang deplorò questo stato di disunione descrivendolo con
153

l’espressione cinese «un vassoio di sabbia sparsa», ovvero «ognuno per sé» . 154

Là dove la collettività morale venne realizzata con successo in tempo di guerra, essa doveva
avere innanzitutto un carattere inclusivo, fatta eccezione per coloro che per definizione erano già
da considerarsi degli esclusi, come i 120 000 giapponesi residenti negli Stati Uniti che nel 1942
furono radunati e deportati in campi di detenzione; oppure gli ebrei e i lavoratori stranieri in
Germania; o la numerosa categoria dei «nemici del popolo» in Unione Sovietica. Ci si aspettava
che ogni cittadino, compresi i bambini e gli adolescenti, svolgesse un qualche ruolo, seppure
piccolo o passivo, nel sostenere lo sforzo bellico e fare fronte ai necessari sacrifici. In Germania,
Unione Sovietica e Giappone, la diretta partecipazione rientrava in una piú vasta
irreggimentazione della comunità, in cui era inevitabile il coinvolgimento attivo di gran parte
della popolazione su obiettivi comuni. In questi casi, la creazione della collettività di guerra,
dotata di un consenso morale condiviso, non era che un’estensione di forme già consolidate di
impegno comunitario. Si stima che nel 1939 i cittadini tedeschi già inseriti in una qualche
associazione della gioventú, del partito, della previdenza sociale, della protezione civile e del
mondo del lavoro fossero circa 68 milioni, su una popolazione complessiva di 80 milioni . Allo 155

scoppio della guerra, tutte queste organizzazioni si accollarono sul fronte interno una parte dello
sforzo bellico. In Giappone, nel 1940, il ministero dell’Interno istituí una rete di «consigli
comunitari» (chōnaikai) con lo scopo di creare una struttura istituzionale che coinvolgesse la
popolazione nello sforzo bellico. Entro la fine dell’anno se ne contavano ben 180 000, ciascuno
dei quali riguardava diverse centinaia di famiglie nelle città mentre nelle campagne ce n’era uno
in ogni villaggio. Contemporaneamente, furono costituite piú di un milione di associazioni di
quartiere piú piccole, solitamente formate da otto o nove famiglie, che avrebbero dovuto
collegare ancora piú strettamente le comunità locali agli obiettivi generali della guerra e isolare
facilmente chiunque non avesse fatto proprio l’obbligo morale di conformarsi . In Gran Bretagna
156

e Stati Uniti, al contrario, la realizzazione di un forte impegno popolare dipese molto di piú dagli
appelli alla coscienza individuale piuttosto che da aggregazioni sociali preesistenti. La narrazione
bellica americana contrapponeva la natura organica della società giapponese, con la sua
concezione ristretta di cittadinanza, all’idea di un volontarismo civico mediante cui l’individuo
arrivava a comprendere i propri obblighi verso gli altri. «Che cosa hai fatto tu oggi per la
Libertà?» chiedeva un manifesto americano . Alla propaganda che incoraggiava l’inclusione si
157

affiancava una forte pressione sociale a conformarsi. Il fatto di non accettare di buon grado i
sacrifici o non partecipare alle attività della comunità locale veniva rilevato e segnalato. In Gran
Bretagna, nonostante le evidenti differenze di classe o regione, era condivisa l’idea che una
temporanea collettività di guerra prevedesse, per chiunque fosse in condizioni adeguate,
l’obbligo morale di impegnarsi per la vittoria.
Questi collettivi di guerra erano costrutti morali ed emotivi particolarmente potenti. Era difficile
rimanere in disparte o al di fuori della comunità in lotta, e negli stati autoritari era addirittura
pericoloso. Nella maggior parte dei paesi belligeranti si registrava un’elevata adesione morale
alla partecipazione attiva, a prescindere dai dubbi dei singoli individui. Sul piano etico, i presunti
cittadini inadempienti, disfattisti e pacifisti diventavano dei reietti; in Unione Sovietica era
probabile che venissero giustiziati. Se l’attività di propaganda era indispensabile, la costruzione
di una comunità di guerra dipendeva anche dallo sviluppo di una piú ampia cultura della
partecipazione, in cui i media, le organizzazioni giovanili, le chiese, i gruppi di donne nonché la
pubblicità commerciale, almeno negli stati occidentali, giocavano tutti un proprio ruolo. Il
coinvolgimento dei bambini nella comunità di guerra offre un esempio significativo di come
venisse costruito e recepito il tema della collettività di guerra. Un testo scolastico intitolato
Education for Victory (Istruzione per la Vittoria), pubblicato negli Stati Uniti subito dopo Pearl
Harbor, suggeriva agli insegnanti di cercare di incoraggiare i bambini a comprendere lo spirito
della morale corrente: «[Aiutarli a] percepire per che cosa sta combattendo l’America
sviluppando la conoscenza degli ideali democratici. [...] A percepire che la lotta dell’America per
i principî democratici non è che una parte della lunga lotta dell’umanità per la libertà». Venne
inoltre distribuito mezzo milione di copie di The Children’s Moral Code (Codice di moralità per
l’infanzia), in cui si esortavano i bambini a essere leali alla famiglia, alla scuola, allo stato e alla
nazione e, soprattutto, «leali all’umanità». Quando il segretario al Tesoro Henry Morgenthau
invitò trenta milioni di giovani americani a unirsi alla lotta per la libertà con lo slogan Save,
Serve, Conserve, «Risparmia, Servi [la comunità], Conserva», circa 28 000 scuole aderirono
all’iniziativa. Gli alunni cominciarono a mettere da parte francobolli della guerra,
intraprendevano raccolte casalinghe di rottami di metallo, carta e grasso e partecipavano a
progetti comunitari locali .
158

In Giappone, i bambini venivano educati a riconoscere il valore dell’impegno morale verso la


comunità. L’istruzione degli alunni era avvenuta per decenni con libri di testo basati sull’etica e
pubblicati dal ministero della Pubblica Istruzione per incoraggiare l’obbedienza, la lealtà e il
coraggio. Le edizioni dei libri di testo pubblicati nel 1941 furono rimaneggiate affinché
includessero simboli e sentimenti nazionalisti («Il Giappone è un bellissimo paese | un paese
puro. | L’unico paese divino | nel mondo») nonché una serie di vicende di cittadini comuni
disposti a morire per l’imperatore. Venivano scelte storie esemplari che esortavano i bambini a
raccogliere materiale di recupero per lo sforzo bellico, scrivere lettere ai soldati oltremare ed
essere grati di far parte della grande famiglia imperiale. Il manuale degli insegnanti che
accompagnava il libro di testo spiegava che la nuova «moralità nazionale» assorbiva ora sia la
sfera sociale sia quella individuale. Nel 1945, i bambini si trovarono anche a dover intonare
regolarmente canti di guerra in classe e partecipare all’addestramento militare che li avrebbe
preparati all’ultima strenua difesa del Giappone. Una scolaretta descrisse nel suo diario una
giornata di «addestramento spirituale» che prevedeva la lotta corpo a corpo, il lancio di palle
come pratica del lancio delle granate, il combattimento con spade di legno e infine l’allenamento
a trafiggere gli avversari: «È stato tanto divertente. Ero stanca, ma ho capito che anche una sola
persona può uccidere molti nemici» . 159

La creazione di una collettività in tempo di guerra presentava tuttavia dei chiari limiti. Il
sostegno all’impegno bellico non era affatto cosí immediato per popolazioni ampiamente diverse
con molteplici aspettative e differenze di età, interessi e prospettive. Per garantire la sostenibilità
della narrazione di una guerra combattuta per la giusta causa da parte di una comunità morale,
tutti i regimi bellici si impegnarono in un sistematico monitoraggio dell’opinione pubblica, nella
censura e nella propaganda selettiva, al fine di assicurarsi che tutte le aree di palese dissenso e le
manifestazioni di temporaneo scetticismo e disincanto potessero essere prontamente individuate
e venissero adottate le misure necessarie per ammorbidirle o reprimerle del tutto. Il termine in
voga per descrivere lo stato d’animo della popolazione in tempo di guerra era il «morale». Usato
diffusamente nella Prima guerra mondiale, il concetto entrò a far parte negli anni tra le due
guerre della percezione di una maggiore o minore capacità di resistenza da parte della
popolazione di un dato paese. Nel 1940, per esempio, Arthur Pope, uno studioso di Yale, istituí
ufficiosamente un Committee for National Morale per analizzare in che modo si potesse tenere
alto il morale degli americani in tempo di guerra; i risultati aiutarono l’amministrazione a
formarsi un’idea di come sostenere l’impegno bellico della nazione . Era difficile definire con
160

precisione, e ancor piú misurare, il morale. In Gran Bretagna, i sondaggi d’opinione effettuati per
testare quanto lo sforzo bellico soddisfacesse l’opinione pubblica rilevarono negli anni di guerra
ampie oscillazioni: da un minimo del 35 per cento all’inizio del 1942 fino a picchi del 75-80 per
cento nell’ultimo anno del conflitto; ciò nonostante, il favore popolare per una prosecuzione
della guerra non venne mai a mancare fino alla fine . In Unione Sovietica, nel primo anno di
161

crisi della guerra, si erano registrate ampie manifestazioni di disfattismo, in modo particolare tra
i circa 200 000 soldati che disertarono per passare dalla parte tedesca. Una rigida sorveglianza
dell’NKVD impedí che il sentimento disfattista avesse presa sulle masse . In tutti i casi, l’ansia
162

popolare per l’andamento della guerra non si tradusse necessariamente in un pericoloso


sconforto, fatta eccezione per l’Italia. Ciò nonostante, il monitoraggio del morale, nel senso lato
del termine, era considerato di fondamentale importanza per mantenere in vita la collettività
morale; il ruolo dello stato nell’effettuare sondaggi sui propri cittadini superò di gran lunga, per
portata e ambizione, l’esperienza acquisita durante la Prima guerra mondiale.
Il compito di valutare lo stato d’animo popolare era notevolmente piú facile negli stati autoritari,
che già prima della guerra avevano predisposto strutture che fornivano al regime rapporti
dettagliati sull’opinione pubblica e sul suo comportamento. In assenza di una stampa libera e di
un sistema politico liberale, le dittature facevano affidamento su una vasta rete di informatori che
riferivano sulle reazioni della gente alle iniziative del governo sia in patria sia all’estero. Il
sistema tedesco era un’organizzazione scrupolosa ed esemplare. Nel corso degli anni Trenta, una
branca del Sicherheitsdienst (Servizio di sicurezza) era stata destinata alla segnalazione di notizie
interne. A settembre del 1939, il Servizio di sicurezza era stato riorganizzato come Amt III, vale
a dire Terzo dipartimento dello RSHA, il nuovo Ufficio centrale per la sicurezza del Reich
diretto dal comandante delle SS Otto Ohlendorf, che dal 9 ottobre iniziò a compilare
ufficialmente i primi Rapporti sulla situazione politica interna. A novembre, la dicitura fu
cambiata in Rapporti dal Reich, che continuarono a essere stilati come tali fino all’estate del
1944, quando il tono pessimistico delle informazioni dell’intelligence portò ad accuse di
disfattismo e alla cessazione di rapporti regolari. L’ufficio di Ohlendorf era diviso in diciotto
(successivamente in ventiquattro) sottogruppi che raccoglievano informazioni su ogni possibile
aspetto relativo alle opinioni e al morale della gente. Ad acquisirle provvedevano circa 30 000 -
50 000 informatori, i cui rapporti erano poi vagliati dagli uffici locali e provinciali prima di
essere trasmessi a Berlino, dove veniva redatto un rapporto complessivo successivamente
distribuito ai leader del partito e al ministero della Propaganda. Gli informatori erano reclutati da
ambienti prevalentemente professionali – medici, avvocati, funzionari pubblici, ufficiali di
polizia – e avevano il compito, secondo un ufficio regionale, di coinvolgere familiari, amici e
colleghi di lavoro in discussioni su temi di attualità e ascoltare eventuali conversazioni sul posto
di lavoro, sugli autobus, nei negozi, da parrucchieri e barbieri, nei mercati e nei caffè di
quartiere . I rapporti erano integrati dall’attività della Gestapo, la cui rete di informatori vagliava
163

potenziali danni derivanti da voci disfattiste o dissenzienti che venivano quindi soffocate alla
fonte.
Sistemi analoghi erano in vigore anche in Italia e nell’Unione Sovietica. A partire dall’estate del
1940, la polizia politica segreta italiana, denominata Organizzazione di vigilanza e repressione
dell’antifascismo (OVRA), utilizzò una rete di informatori e agenti incaricati di redigere regolari
rapporti settimanali sullo stato dell’opinione popolare (il cosiddetto spirito pubblico). Il numero
degli informatori fu frettolosamente incrementato quando divenne evidente fino a che punto gran
parte della popolazione fosse pessimista e disillusa . Le informazioni della polizia segreta
164

venivano poi integrate dai rapporti delle prefetture locali e il tutto andava prima al ministero
degli Interni a Roma e infine sulla scrivania di Mussolini. Nell’Unione Sovietica, le comunità
erano costantemente controllate da funzionari e membri della sezione locale del Partito
comunista e dalla grande rete di informatori dell’NKVD. Qualsiasi accenno di disfattismo o di
critica al regime era denunciato alle autorità di polizia. Le denunce divennero talmente
istituzionalizzate che ogni cittadino sovietico si trasformò in un potenziale delatore . Per quanto
165

angosciati potessero essere i cittadini sovietici per le richieste imposte loro durante la guerra, era
universalmente risaputo che il rischio che si correva lamentandosi era tale da indurre a mantenere
al minimo qualsiasi atteggiamento negativo. Comunque sia, in tutte e tre le dittature si raggiunse
una sorta di equilibrio tra coercizione e concessioni. Le preoccupazioni dei cittadini
riguardavano spesso questioni di minore importanza rispetto alla continuazione della guerra o
alla sua moralità e potevano essere alleviate con risposte appropriate da parte delle autorità statali
o attraverso una forma mirata di coercizione.
In Gran Bretagna e Stati Uniti, la situazione era molto diversa. Non esisteva una rete consolidata
per la raccolta di informazioni sullo stato d’animo della gente. I sondaggi sull’opinione pubblica
erano iniziati già alla fine degli anni Trenta, ma allo scoppio della guerra erano ancora uno
strumento inadeguato per sondare il morale della popolazione. Alla Casa Bianca, Roosevelt
aveva un suo sistema per monitorare le opinioni, basato su un’attenta analisi delle migliaia di
lettere che arrivavano ogni giorno e su un accurato esame giornaliero di piú di 400 giornali
americani da parte del suo staff. A settembre del 1939 fu istituito l’Office of Government
Reports, progettato, nonostante il nome, per monitorare i mutamenti nell’opinione pubblica.
Roosevelt, che nel 1940 aveva raggiunto un accordo privato con Hadley Cantrill, uno dei pionieri
dei sondaggi selettivi, affinché gli fornisse regolari informazioni sulle opinioni dei cittadini, nel
1942 riceveva i risultati dei sondaggi ogni due settimane . Negli anni della guerra,
166

l’amministrazione istituí una serie di uffici destinati sia a monitorare le opinioni sia a educare il
pubblico con informazioni appropriate. L’Office of War Information, creato nel giugno del 1942
sotto il direttore editoriale della CBS Elmer Davis, aveva anche una Domestic Intelligence
Division, una «divisione di intelligence interna» che riferiva regolarmente sul morale della
nazione. Gli informatori erano reclutati localmente tra uomini d’affari, ecclesiastici, editori e
leader sindacali («la parte vigile e articolata» del popolo, sosteneva l’Ufficio) che riportavano
regolarmente le opinioni della gente del posto, impegnandosi anche, dove possibile, a
plasmarle . Gli informatori reclutati dall’Office of Civilian Defense, istituito nel maggio del 1941
167

sotto il sindaco di New York Fiorello La Guardia, fungevano da «guardiani del morale» e
segnalavano all’Office of War Information le diverse situazioni a livello locale. I sondaggi
d’opinione erano integrati da numerosi organismi progettati dall’Office of War Information per
contribuire a creare il consenso: il Bureau of Radio (che raggiungeva un pubblico di cento
milioni di persone), il Bureau of Motion Pictures (che curava film e cinegiornali visti da circa
ottanta-novanta milioni di persone ogni settimana) e il Bureau of Graphics and Printing,
responsabile dei manifesti e delle immagini che comparivano in ogni spazio pubblico. Anziché
ricorrere a forme grossolane di propaganda, il programma americano per il miglioramento del
morale si concentrava sul fornire informazioni chiare che aiutassero a educare l’opinione
pubblica, piuttosto che a fare la morale, e sull’incoraggiare il settore commerciale privato
affinché rafforzasse un messaggio positivo per il morale della nazione attraverso la pubblicità .
168

In Gran Bretagna, il sistema di monitoraggio della popolazione venne realizzato lentamente a


partire dai primi mesi di guerra. A dicembre del 1939, Mary Adams, una produttrice della BBC,
fu nominata a capo di una sezione della Home Intelligence del ministero dell’Informazione,
incaricata di fornire «un flusso continuo di informazioni affidabili» come base per la pubblicità
governativa e «una valutazione del morale nazionale». L’Home Intelligence iniziò a pubblicare
rapporti giornalieri nel maggio del 1940, divenuti poi settimanali da settembre e distribuiti ai
principali ministeri e al gabinetto di guerra . Data la mancanza di esperienza nella raccolta
169

sistematica di informazioni sull’opinione pubblica, nell’aprile del 1940 la Adams reclutò la


società privata Mass Observation affinché fornisse sondaggi dettagliati sul morale e segnalasse
eventuali segnali di disfattismo. Mass Observation era stata fondata nel 1937 dallo scienziato
Tom Harrisson e dal poeta Charles Madge allo scopo di effettuare sondaggi sul comportamento e
sugli atteggiamenti sociali attraverso l’utilizzo di interviste a campione che fornivano materiale
di prima mano. I metodi furono immediatamente applicati al lavoro di monitoraggio dello stato
d’animo della nazione. Per ciascun rapporto venivano condotte circa sessanta interviste, basate
su domande generali riguardanti notizie ed eventi di attualità. Il campione era estremamente
ridotto e specificamente su base regionale, il che poteva minarne la credibilità, ma la «News
Quota» di Mass Observation, che veniva redatta ogni lunedí e giovedí, continuò a essere usata
fino a maggio del 1945 come fonte primaria per i rapporti sul morale della nazione destinati al
ministero dell’Informazione .
170

Questi rapporti venivano integrati dagli informatori del ministero stesso, reclutati ancora una
volta tra medici, avvocati, funzionari pubblici, ecclesiastici, negozianti e gestori di locali
pubblici, nonché dal lavoro del Wartime Social Survey, istituito nel giugno del 1940 da alcuni
accademici della London School of Economics al fine di fornire rapporti dettagliati non solo sul
morale, ma anche su una serie di questioni sociali. Composto principalmente da psicologi sociali,
il Wartime Social Survey valutava il sentimento popolare in maniera piú professionale.
Nell’ottobre del 1944, aveva già condotto 101 sondaggi, con non meno di 290 000 interviste a
domicilio . A quell’epoca, i periodici rapporti sul morale inviati al gabinetto erano stati sospesi
171
in considerazione del fatto che, dalla fine del 1942 in poi, la maggior parte delle notizie di guerra
erano positive. Grazie alle informazioni di intelligence sull’opinione pubblica, il ministero
dell’Informazione, controllato da luglio del 1941 da Brendan Bracken, stretto confidente di
Churchill, imparò a modificare la propaganda di guerra, passando, come negli Stati Uniti, da
esortazioni alla partecipazione all’utilizzo di semplice materiale esplicativo ed educativo. In
Gran Bretagna, come in tutti i principali stati, le questioni sollevate dal monitoraggio del morale
comparivano a un livello sotterraneo rispetto alla narrazione principale, che presentava una
comunità morale impegnata a proseguire la guerra fino alla fine. Il piú delle volte, le critiche e le
preoccupazioni popolari erano dirette a rendere lo sforzo bellico piú efficiente, o a rendere piú
equi i suoi effetti sociali, anziché a minare il piú ampio quadro morale dello sforzo collettivo.
Lo stretto monitoraggio degli atteggiamenti popolari nei confronti della guerra solleva la
questione di quanto fossero efficienti gli stati nel far accettare alla popolazione la grandiosa
narrazione che legittimava la guerra. Se nella maggior parte dei casi vi era un consenso generale
all’idea di una comunità impegnata in una giusta guerra, la comprensione degli obiettivi morali
piú specifici del conflitto, regolarmente enunciati dalla retorica bellica, appariva invece piú
problematica. Per gran parte della gente comune, intrappolata in una guerra che durava da anni,
la comprensione del suo progredire e dei suoi obiettivi poteva risultare parziale, poco chiara,
male informata e incostante nel tempo. Se la prospettiva storica fa ora apparire la guerra come un
insieme di eventi perfettamente intelligibile, all’epoca le persone la vedevano da un punto di
vista soggettivo, basato sull’andamento degli eventi bellici e sull’imprevedibile futuro del
conflitto. La conoscenza della gente era intrinsecamente limitata da ciò che le era permesso
sapere e dire – una situazione, questa, che variava molto a seconda dei vari paesi in guerra. Le
notizie erano invariabilmente soggette a censura, da parte sia dei militari sia delle autorità civili;
nelle dittature, le notizie erano gestite da agenzie centrali incaricate di dettare ciò che il pubblico
poteva leggere; nelle democrazie, la stampa e i media non erano controllati da un’autorità
centrale ma non potevano comunque pubblicare o trasmettere a loro piacimento. In Australia, per
esempio, dove il governo si dimostrò molto sensibile alle critiche, in particolare nei confronti
dell’alleato americano, tra il 1942 e il 1945 vi furono non meno di 2272 direttive di censura del
materiale di stampa . La carta stampata dipendeva ovunque da comunicati ufficiali che si
172

rivelavano non sempre aderenti alla verità e di cui ci si poteva raramente fidare. Un rapporto
redatto a Milano nel febbraio del 1941 osservava che la popolazione era «amaramente delusa»
dagli articoli di giornale, pieni zeppi di «paroloni, previsioni infondate o superate […]
argomentazioni infantili» . In Cina, il crollo dei quotidiani tradizionali in seguito
173

all’occupazione giapponese portò alla proliferazione di piccoli giornali locali che riferivano i
banali comunicati governativi o che, in mancanza di corrispondenti di guerra, confezionavano le
notizie mescolando indiscrezioni e congetture. Anche per quei pochi che sapevano leggere, la
credibilità dei media era bassa. Alla maggioranza analfabeta le informazioni arrivavano con il
passaparola grazie ad attivisti che leggevano le notizie agli abitanti dei villaggi o attraverso voci
e dicerie .
174

Durante la guerra, le «false voci» giocarono ovunque un ruolo importante in quanto integravano
le notizie ufficiali. Dicerie di ogni tipo alimentavano quello che uno storico ha definito un
«universo clandestino» che concedeva alla gente comune, sia al fronte sia in patria, un certo
potere su come presentare la guerra e i suoi obiettivi . Nelle dittature, le «false voci» erano un
175

modo per far fronte alla necessità di mantenere un prudente silenzio nei luoghi pubblici e
riaffermare un certo senso di autonomia. In Germania, l’ufficio del Sicherheitsdienst per le
informazioni interne registrò tra ottobre del 1939 e luglio del 1944 ben 2740 voci infondate, che
andavano dalle notizie piú banali fino a quelle sulla presunta morte di Hitler o sul rovesciamento
del governo e si spostavano da una parte all’altra del paese con rapidità fulminea. Un decreto del
13 marzo 1941 faceva una distinzione tra dicerie e battute, attribuendo a queste ultime un certo
valore positivo ma imponendo invece severe misure penali contro chiunque fosse stato sorpreso
a diffondere voci «di carattere spregiativo a danno dello stato» . In Italia, in assenza di notizie
176

affidabili, le voci dilagavano e i fascisti del posto venivano incoraggiati, qualora riuscissero a
individuare i cosiddetti vociferatori, a pestarli per bene e somministrare loro olio di ricino . 177

Nell’Unione Sovietica, la reazione fu la caccia ai disfattisti e ai «divulgatori di voci


provocatorie». Nei sei mesi da giugno a dicembre del 1941, ben 47 987 persone furono arrestate
per aver diffuso voci e dimostrato atteggiamenti disfattisti .
178

In Gran Bretagna, le voci non confermate venivano esaminate dal ministero dell’Informazione e
la polizia aveva il compito di perseguire i «divulgatori di voci malevole». Una prima ondata di
severe condanne nell’estate del 1940 provocò tuttavia forti proteste pubbliche, per cui nel mese
di agosto cessò ogni procedimento giudiziario. Da quel momento in poi, le voci infondate
avrebbero dovuto essere combattute attraverso una migliore informazione . Negli Stati Uniti, in
179

particolare nelle comunità piú isolate e lontane dalla realtà della guerra, le voci erano molto
diffuse. L’Office of War Information istituí in tal senso un gruppo di controllo all’interno del
Bureau of Public Inquiries sotto Eugene Horowitz, incaricato di indagare sulle fonti delle voci e
fornire le informazioni necessarie per soffocarle. Vennero create su iniziativa spontanea delle
«cliniche delle voci», in cui autorevoli figure civiche del luogo individuavano e segnalavano le
false voci e, quando era possibile, ricorrevano alla stampa e alla radio locali per rettificare le
illusioni create da false informazioni . In Giappone, le voci non confermate erano molto diffuse,
180

in parte a causa dei resoconti menzogneri della stampa sui «successi» giapponesi, che risultavano
difficilmente credibili. Tra l’autunno del 1937 e la primavera del 1943, vennero analizzate 1603
voci false che violavano il codice militare e furono denunciate 646 persone. A partire dal 1942,
altre centinaia furono oggetto di indagine in base a un’«ordinanza per la pace e l’ordine» volta a
evitare che tali informazioni fittizie turbassero l’opinione pubblica . Le voci piú fantasiose
181

avevano la stessa funzione delle innumerevoli superstizioni che fiorivano in tempo di guerra
come antidoto alla paura. Le «cliniche delle voci» americane scoprirono che, in base a una certa
scala di attendibilità, tra un quinto e quattro quinti di chi veniva a contatto con tali voci era
disposto a ritenerle credibili. Le autorità le prendevano molto seriamente, il che spiega lo sforzo
compiuto per monitorarne la fonte e la proliferazione, anche se non si hanno prove che
arrecassero un autentico danno alla narrazione dominante.
I limiti insiti nella conoscenza della guerra, almeno nei termini grandiosi in cui essa veniva
condotta, trovarono un riflesso anche nel modo disomogeneo in cui il grande pubblico accettava
la giustificazione morale del conflitto. La retorica bellica ufficiale si ritrova piú volte nei diari e
nella corrispondenza di civili e soldati semplici che tentavano di descrivere al meglio
atteggiamenti e sentimenti. Il linguaggio utilizzato dalla propaganda di guerra per parlare degli
obiettivi morali del conflitto era tuttavia piú astratto e speculativo di quanto il pubblico
desiderasse. I sondaggi d’opinione condotti negli Stati Uniti rilevarono che, malauguratamente,
solo un’esigua percentuale di intervistati aveva fatto propria la grandiosa narrazione di
Roosevelt: circa il 35 per cento aveva sentito parlare delle Quattro Libertà, ma solo il 5 per cento
ricordava che includevano la libertà dalla paura e dalla miseria; nell’estate del 1942, addirittura
solo un quinto degli intervistati aveva sentito parlare della Carta Atlantica . Nel 1943, la rivista
182
«Life» descrisse «lo smarrimento dei ragazzi delle forze armate di fronte al significato della
guerra». Il vincitore di un concorso letterario per soldati americani in Italia che chiedeva di
spiegare il motivo per cui stessero combattendo, si era limitato a due sole brevi frasi: «Perché sto
combattendo? Sono stato arruolato» . 183

Un esempio di maggiore interesse riguarda la misura in cui i tedeschi credevano alle


affermazioni del partito e del governo rispetto al fatto che gli ebrei erano i veri responsabili della
guerra e che il popolo germanico aveva l’obbligo morale di difendere la nazione dalla minaccia
ebraica. Non vi possono piú essere dubbi che un’alta percentuale della popolazione tedesca era a
conoscenza delle deportazioni delle comunità ebraiche e che, grazie alle voci o al passaparola
provenienti dal fronte orientale o alle minacce di distruzione della nazione fatte ampiamente
circolare dai leader nazisti, aveva ben chiaro il fatto che gli ebrei venivano sistematicamente
massacrati. Si stima che un terzo della popolazione sapesse, o avesse il sospetto, di un genocidio
in atto, anche se la percentuale potrebbe essere piú alta. Resta tuttavia da confermare se questo
significasse la piena accettazione degli argomenti antiebraici . Ben pochi tedeschi riuscivano a
184

non essere avvolti dal soffocante abbraccio della propaganda antisemita associata alla decisione
di passare al genocidio vero e proprio. Negli anni centrali della guerra, l’opinione pubblica fu
bombardata da materiale informativo ufficiale sulla minaccia ebraica. A novembre del 1941,
Goebbels ordinò che insieme alle tessere settimanali del razionamento fosse spedito un piccolo
volantino nero con la stella di David e le parole «Tedeschi, questo è il vostro nemico mortale».
Quell’inverno, i manifesti spiegavano che gli ebrei «hanno voluto questa guerra per distruggere
la Germania» , un messaggio ripetuto da milioni di immagini e opuscoli; un Handbuch der
185

Judenfrage (Manuale sulla questione ebraica) vendette 330 000 copie; un libello prodotto dal
ministero di Goebbels nell’autunno del 1941 – intitolato Das Kriegsziel der Weltplutokratie (Gli
obiettivi di guerra della plutocrazia mondiale) e basato sullo scritto in lingua inglese di Theodore
N. Kaufman Germany Must Perish! – ebbe una tiratura di cinque milioni di copie . 186

Permane tuttavia una certa ambiguità su quanto il popolo tedesco credesse alla propaganda e la
utilizzasse per giustificare a se stesso la guerra. Numerose citazioni tratte da diari o
corrispondenza evidenziano chiaramente che un certo numero di tedeschi, sicuramente tra i
membri del partito ma anche tra i militari, riteneva che la lotta contro un nemico mondiale ebreo
fosse reale. Un dattiloscritto del 1944 di Georg Mackensen, un alto funzionario che non aveva
aderito al partito, rivela fino a che punto la cultura della contrapposizione tra tedeschi ed ebrei,
creata dal regime, si fosse infiltrata nella percezione popolare del conflitto: «Questa guerra non è
una guerra ordinaria, come una lotta dinastica o per la conquista di territori. No! È una lotta tra
due ideologie opposte, tra due razze. […] Da questo lato abbiamo gli ariani, dall’altro gli ebrei. È
una lotta per la sopravvivenza o l’estinzione della nostra civiltà occidentale» . D’altra parte, non
187

mancano neppure ampie testimonianze di scetticismo, incertezza, perfino ostilità nei confronti
delle politiche ebraiche del regime e, implicitamente, della pretesa che la guerra fosse una guerra
giusta, combattuta contro un nemico mondiale ebraico, anziché una guerra convenzionale di
difesa contro nemici reali. Il fatto di mantenere un atteggiamento cauto nei confronti della
narrazione dominante non significava escludere sentimenti antisemiti, né il desiderio di trarre
profitto dall’esclusione degli ebrei o una certa indifferenza al loro destino – cosa per altro molto
diffusa –, ma indicava che la visione di Hitler di una guerra «tipicamente ebraica» non trovava
un’immediata condivisione. I due approcci si fusero solo negli ultimi anni del conflitto, quando
la spietata affermazione propagandistica che, se la guerra fosse stata persa, gli ebrei si sarebbero
presi una spaventosa rivincita, venne accettata piú facilmente, soprattutto con l’intensificarsi dei
bombardamenti alleati e l’avvicinarsi dell’Armata Rossa. Tali timori erano in gran parte dettati
dalla seppur parziale consapevolezza di ciò che la Germania di Hitler aveva già fatto agli ebrei
d’Europa, piuttosto che da una tardiva accettazione della teoria di una cospirazione mondiale
ebraica . 188

Per le popolazioni in guerra, ovunque esse si trovassero, le preoccupazioni di ordine etico erano
generalmente piú contenute e specifiche di quelle presentate dalla narrazione dominante. Sia tra i
militari sia tra i civili vi fu chi si costruí delle proprie narrazioni soggettive per dare un senso alla
guerra che aveva intorno e al proprio ruolo in essa. L’identificazione con la causa nazionale
permetteva alle famiglie di vedere la morte dei propri cari come preziosa, persino nobile, anziché
insensata o inutile. L’imperativo categorico era quello di porre fine alla guerra, ed è questo il
motivo per cui lo sforzo collettivo veniva largamente sostenuto anche in Unione Sovietica, dove
esisteva una forte ostilità latente verso Stalin e il governo comunista, o in Giappone, dove,
seppure solo in forma ufficiosa, esistevano numerosi dubbi sulla guerra e sulle pretese dello
stato . Al di là dell’assoluta remissività, spontanea o meno, si rendeva necessario trovare una
189

maniera di adattarsi a condizioni belliche che in qualche modo preservavano ancora la sfera
privata. In questo senso, gli obblighi morali si estendevano alla famiglia e agli amici, ai colleghi
e ai combattenti al fronte; nel caso dei militari, uomini e donne, si estendevano all’unità di
appartenenza, non importa se una divisione di fanteria, l’equipaggio di un bombardiere o gli
uomini di un sottomarino. Negli Stati Uniti, gran parte di questa narrazione privata di guerra era
rivolta a proteggere la famiglia e la regolare vita domestica, trasformando un obbligo astratto in
un personale senso di responsabilità. Le illustrazioni delle Quattro Libertà realizzate da Norman
Rockwell riprendevano tradizionali scene domestiche – come la cena del Ringraziamento, bimbi
piccoli a letto, una riunione cittadina –, riportando cosí in maniera comprensibile a tutti la sfera
privata al piú generale messaggio etico . Per quanto riguarda le popolazioni occidentali, nelle
190

quali le aspettative individuali venivano prese in considerazione e liberamente espresse, alcune


ricerche evidenziarono che il grande desiderio della maggioranza era un ritorno alla normalità, a
una vita senza guerra. In Gran Bretagna, il Nuffield College Social Reconstruction Survey, un
sondaggio condotto negli anni centrali della guerra, riscontrò scarso entusiasmo per i grandi piani
postbellici, ma un diffuso desiderio di ritornare a una vita privata regolare, libera da troppe
interferenze statali e con la promessa di una maggiore sicurezza economica. Negli Stati Uniti, i
sondaggi d’opinione rilevarono un analogo desiderio di obiettivi piú immediati e concreti
riguardanti l’occupazione, la casa e la sicurezza personale e un minor desiderio di fungere da
coscienza del mondo . 191

Non c’è motivo di non credere che anche la popolazione della Germania, dell’Unione Sovietica o
del Giappone tenesse separati dal mondo pubblico della guerra gli obblighi della sfera privata,
insieme con le sue aspettative e speranze. I cittadini sovietici speravano che i sacrifici compiuti
potessero garantire una vita migliore dopo la guerra, piú libera dal controllo comunista e dalle
difficoltà economiche. Fin dall’inizio del conflitto, le autorità sovietiche ebbero chiaro che gli
appelli a combattere in nome degli ideali marxisti-leninisti non erano ciò che la gente comune
voleva. La propaganda, pertanto, iniziò a riflettere una realtà diffusa, in cui soldati e lavoratori
sovietici vedevano la guerra in termini privati piuttosto che statali – difesa della famiglia, della
casa e della città natale. La stampa di stato permise la pubblicazione di lettere private che
parlavano di affetto filiale e lealtà verso i propri cari, lettere che negli anni Trenta sarebbero state
ignorate, ma che evidentemente ora si addicevano a uno stato d’animo popolare in cui
combattere per motivi privati non era in contraddizione con la lotta per lo stato comunista . In 192
Germania, benché fosse difficile esprimerle apertamente, ansie e speranze private erano
decisamente reali. Dall’intercettazione di una conversazione tra tedeschi fatti prigionieri nel
teatro di guerra del Mediterraneo nel 1945, emerge come un giovane tenente interpretava la
tensione tra il dovere di combattere e la profanazione della vita normale causata dalla guerra:
Se penso a quello che la guerra è costata a me e alla mia generazione, sono inorridito! […] I migliori anni della mia vita sono stati
buttati via: sei anni preziosi in cui avrei dovuto conseguire il mio dottorato in chimica, sposarmi, iniziare a farmi una famiglia e
dare un contributo alla mia generazione e al mio paese. Nelle cose che contano davvero, sono molto piú povero ora di quanto non
fossi sei anni fa193.
Non avrebbe potuto esprimere apertamente tali sentimenti mentre ancora stava combattendo. Ne
consegue che persino nelle dittature non vi era un’incompatibilità assoluta tra l’etica pubblica del
dovere e del sacrificio richiesti dallo sforzo bellico e una vasta gamma di percezioni private della
guerra, maggiormente critiche, scettiche, incredule o indifferenti. Soltanto nell’Italia di
Mussolini il malessere privato fece irruzione nel discorso collettivo, ma questo avvenne
esclusivamente di fronte all’imminente invasione e sconfitta. Altrove, l’azione di rompere i
legami morali che continuavano a permettere alla società di combattere, rifiutandosi di
partecipare alla guerra, fu una prerogativa di pochi.
Contro la guerra: il dilemma del pacifismo.
Nel 1942, il reverendo Jay Holmes Smith, fondatore della Community Church di New York e
sostenitore dell’appello del mahatma Gandhi alla resistenza non violenta, affermò che per
opporsi alla guerra totale era necessario un «pacifismo totale» . Un’affermazione del genere non
194

poteva che rivelarsi problematica. Il rifiuto assoluto della guerra da parte dei pacifisti fu una
posizione etica assunta soltanto da una piccola minoranza perfino in quegli stati in cui era lecito
appellarsi alla coscienza per rifiutare il servizio militare. La partecipazione alla guerra totale era
divenuta un imperativo morale che prevaleva sul rifiuto consapevole della violenza, anche da
parte di chiese e uomini di chiesa che prima del conflitto avevano condannato lo slittamento
verso una nuova catastrofe. Nonostante gli effetti soffocanti di una propaganda che sollecitava
alla partecipazione, il pacifismo sopravvisse allo scoppio della guerra. Il rifiuto su basi morali
della violenza in tempo di guerra rappresentava una forma di dissenso con profonde radici nel
periodo prebellico, e dopo il 1945 ebbe una lunga storia nel dopoguerra.
Il fatto che in seguito al 1939 siano stati in pochi ad assumere una posizione etica contro la
guerra è una sorta di paradosso storico, soprattutto se consideriamo il diffuso sentimento
popolare contrario alla guerra evidente in tutto il mondo occidentale negli anni Venti e Trenta.
Negli anni Venti, il rifiuto della guerra era stato sia una reazione al conflitto appena terminato sia
l’avallo della nuova ondata di idealismo internazionale rappresentato dall’istituzione della
Società delle Nazioni. Il movimento contro la guerra comprendeva una vasta comunità che
includeva pacifisti radicali assolutamente contrari a qualsiasi manifestazione di militarismo,
pacifisti cristiani che sostenevano l’incompatibilità della guerra con gli insegnamenti di Cristo,
socialisti e comunisti per i quali la pace era un’aspirazione ideale, nonché una lobby antiguerra
piú conservatrice e non ufficialmente pacifista che si impegnava tuttavia seriamente per un
mondo di pace. Le profonde differenze di vedute tra i molti componenti della lobby antiguerra
erano colmate soltanto dal desiderio comune di evitare un conflitto a tutti i costi. Esisteva per
altro una tensione persistente tra coloro che esaltavano il rifiuto etico della violenza, in
particolare i pacifisti cristiani, quelli il cui attivismo pacifista radicale era legato a un piú ampio
rifiuto politico dei sistemi e dei regimi che avevano reso possibile la guerra, e coloro il cui
desiderio di pace non escludeva la possibilità di una guerra per una giusta causa.
I piú folti gruppi di pressione contro la guerra si riscontravano nelle potenze che avevano vinto
nel 1918, anche se negli anni Venti era venuta a svilupparsi nella Germania sconfitta una vasta
rosa di gruppi pacifisti genericamente organizzati sotto il Deutsches Friedenskartell (Cartello
tedesco della pace). A riscuotere maggiore successo era il ramo tedesco del No More War
Movement guidato da Fritz Küster, fondatore della rivista «Das andere Deutschland», finché,
come tutte le organizzazioni pacifiste, fu soppresso dal regime hitleriano e tutti i suoi dirigenti
furono imprigionati . In Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti il sentimento pacifista e antibellico
195

raggiunse il picco negli anni Venti e Trenta. Il pacifismo francese godeva di un’ampia adesione,
tra cui quella degli ex combattenti della Grande Guerra, gli anciens combattants pacifistes che
respingevano la prospettiva di un nuovo conflitto. All’inizio degli anni Trenta, esistevano almeno
cinquanta gruppi che rivendicavano una qualche forma di programma pacifista, da quelli che si
opponevano politicamente alla «guerra imperialista» a quelli che per motivi morali rifiutavano
ogni forma di violenza, predicando quello che veniva chiamato «pacifismo integrale». Uno dei
movimenti di maggior successo fu la Ligue internationale des combattants de la paix (Lega
internazionale dei combattenti per la pace), fondata nel 1930 da Victor Méric, con 20 000
membri. Nel suo primo appello, il movimento insistette che la politica, la filosofia e la religione
non erano altro che distrazioni dall’obiettivo principale: «Solo una cosa conta: la pace» . Nel
196

1936, il leader socialista Léon Blum condusse un milione di persone per le strade di Parigi in una
manifestazione di massa a favore della pace. Nel settembre dello stesso anno, i pacifisti francesi
contribuirono a fondare il Rassemblement universel pour la paix (Organizzazione internazionale
per la pace), che fungeva da trait d’union tra le diverse compagini antimilitariste delle
democrazie occidentali, tra cui la British League of Nations Union, il cui milione di membri la
rendeva il piú grande gruppo europeo contrario alla guerra.
Negli anni Venti, il sostegno britannico alla pace era già ben consolidato grazie alla costituzione
del National Peace Council, un’organizzazione a ombrello che rappresentava numerose
associazioni affiliate, tra cui il No More War Movement, ma che escludeva la piú radicale War
Resisters’ International, organizzata dal pacifista britannico H. Runham Brown dalla sua casa di
Londra. La War Resisters’ International sosteneva rigorosamente il principio che «la guerra è un
crimine contro l’umanità» e che la partecipazione a qualsiasi tipo di ostilità, diretta o indiretta,
doveva essere assolutamente respinta . In Gran Bretagna, l’impegno popolare per la pace era
197

diffuso e non partigiano. Nel 1934, la League of Nations Union, insieme ad altri movimenti
pacifisti, lanciò una campagna nazionale affinché gli elettori esprimessero il loro sostegno
all’internazionalismo della Lega. In quello che fu rapidamente battezzato Peace Ballot (Voto
della pace) gli organizzatori riuscirono a far votare quasi dodici milioni di persone a favore
dell’attivismo pacifista della Lega. In quanto simbolo del sentimento antimilitarista britannico, la
votazione fu considerata un trionfo. La scelta che il mondo doveva affrontare, scriveva nel 1934
il presidente della Lega, Lord Robert Cecil, era tra «cooperazione e pace o anarchia e guerra» . 198

Nello stesso anno, nacque quello che sarebbe divenuto il piú grande gruppo di pressione pacifista
in assoluto, la Peace Pledge Union (PPU). Il reverendo anglicano Dick Sheppard chiese agli
uomini (le donne furono incluse piú tardi, anche se poche parteciparono) di firmare un impegno a
non prendere parte né prestare sostegno a una guerra futura. Nel 1936, quando il movimento fu
formalmente costituito con il nome di Peace Pledge Union, si contavano 120 000 membri. Nel
1939 vi erano già 1150 filiali in tutto il paese. Sheppard morí alla sua scrivania nell’ottobre del
1937 e per due giorni le persone sfilarono davanti al suo feretro. Il corteo funebre verso la
cattedrale di St Paul era fiancheggiato da una folla enorme. Anche se il pacifismo assoluto era
una voce di minoranza tra gli elettori contrari alla guerra, esso esprimeva tra il popolo britannico
un desiderio di pace ben piú ampio . 199

Negli Stati Uniti, l’impegno per la pace venne istituzionalizzato in risposta all’esperienza della
Grande Guerra. Era diffusa la convinzione che l’America fosse stata indotta con l’inganno a
partecipare al conflitto dagli astuti europei che prendevano soldi e uomini dal Nuovo Mondo e
non davano nulla in cambio. Anche se nel 1920 il Senato degli Stati Uniti aveva rifiutato di
aderire alla Società delle Nazioni, il perseguimento della pace era considerato fondamentale per i
valori americani. Il Carnegie Endowment for International Peace e la World Peace Foundation,
entrambi fondati nel 1910, divennero dopo il 1919 delle importanti istituzioni che volevano un
mondo senza guerra; un National Committee on the Cause and Cure of War riuniva circa sei
milioni di donne; nel 1921, l’avvocato di Chicago Solomon Levinson fondò l’American
Committee for the Outlawry of War, mentre il Women’s Peace Group cercò, senza successo, di
far presentare al Congresso un emendamento costituzionale secondo cui «qualunque tipo di
guerra è da ritenersi illegale» . Quando nel 1928 il segretario di Stato americano Frank Kellogg,
200

insieme con il ministro degli Esteri francese Aristide Briand, convinse cinquantanove paesi a
firmare un patto che metteva fuori legge la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie,
il movimento per la pace sembrò aver ottenuto ciò in cui avevano fallito le potenze della Lega.
Oggi, sostenne la rivista americana «Christian Century» dopo che il Senato ebbe ratificato il
patto, «la guerra internazionale è stata bandita dalla civiltà» .
201

Negli anni Trenta, il sentimento popolare di opposizione alla guerra crebbe come reazione
all’evidente crisi internazionale e alle campagne politiche in favore dell’isolazionismo e della
neutralità. Nel corso del decennio, le principali organizzazioni pacifiste – la War Resisters’
League, la Fellowship of Reconciliation e la Women’s International League for Peace and
Freedom – incrementarono i loro iscritti. Negli anni Trenta, la Women’s International League,
fondata nel 1915, contava 50 000 membri, distribuiti in venticinque paesi . La sociologa
202

americana Jane Addams, una delle sue fondatrici, ricevette il premio Nobel per la pace nel 1931.
Per dimostrare che la generazione di quegli anni non era disposta ad abbracciare la guerra,
moltitudini di studenti universitari scesero in piazza e marciarono per dichiarare il loro rifiuto
della guerra, facendo picchettaggio contro i professori che erano su posizioni opposte alle loro.
Un gruppo di pressione informale organizzato dagli studenti di Princeton sotto lo striscione
ironico Veterans of Future Wars (Veterani delle Guerre Future) si riprodusse rapidamente in 300
campus di tutta l’America. Un sondaggio condotto su un campione di 21 000 studenti rilevò che
il 39 per cento era «categoricamente pacifista» . Il presidente Roosevelt, estraneo agli ideali
203

pacifisti, condivideva comunque il desiderio del suo popolo di evitare la guerra. Quando
nell’aprile del 1939 tenne il discorso di apertura all’Esposizione universale di New York, disse di
vedere il futuro dell’America legato a una stella, «una stella di buona volontà internazionale e,
soprattutto, una stella di pace». Mentre il mondo si sgretolava nella guerra, gli organizzatori
cambiarono il nome dell’esposizione da The World of Tomorrow (Il mondo di domani) a Peace
and Freedom (Pace e la libertà) . 204

Il rifiuto della guerra, a cui aderirono milioni di persone su entrambe le sponde dell’Atlantico,
non sopravvisse alla crisi che travolse il mondo. Il 3 settembre 1939, il parlamento britannico
espresse un solo voto contro la guerra, quello del socialista pacifista John McGovern. Spiegando
la propria posizione, egli disse alla Camera che non riusciva a vedere alcun idealismo in una
dichiarazione di guerra, ma unicamente «una lotta materialista per il profitto, dura, senz’anima,
opprimente» . Negli Stati Uniti, dove nel 1941 la mobilitazione pacifista aveva raggiunto un
205
attivismo frenetico, dopo l’attacco di Pearl Harbor vi fu nuovamente un solo voto contro la
guerra da parte della veterana pacifista, e rappresentante repubblicana del Montana, Jeannette
Rankin. Il crollo del movimento contro la guerra, in effetti, era già evidente ben prima dello
scoppio del conflitto in Europa nel settembre del 1939. Negli anni Trenta, gli stati dittatoriali con
culture politiche orientate all’idea della guerra, sia che fosse per il futuro della razza sia per il
futuro della rivoluzione, non tolleravano alcuno spazio per il sentimento pacifista o
antimilitarista. Nella Germania di Hitler, i pacifisti piú in vista furono costretti all’esilio, mandati
in prigione o in un campo di concentramento, poiché le loro convinzioni antimilitariste erano
viste come politicamente inaccettabili in una comunità recentemente militarizzata. Nel 1939,
Hitler, interrogato sul trattamento da riservare a coloro che si opponevano per motivi morali al
servizio militare, rispose che in tempi di emergenza nazionale le convinzioni personali dovevano
cedere il passo a uno «scopo etico superiore» . Il pacifismo ebbe la stessa scarsa importanza
206

anche nell’Unione Sovietica di Stalin, dove l’antimilitarismo era considerato una deviazione
borghese. La principale organizzazione pacifista sopravvissuta, la Tolstovskoe Vegetarianskoe
Obščestvo (Società vegetariana tolstoiana), fu chiusa nel 1929; altre sette associazioni religiose
in cui il pacifismo era un principio fondamentale furono costrette ad abbandonare la loro
posizione o a essere pesantemente sanzionate, al pari dei pacifisti tedeschi, con la reclusione dei
loro membri nei GULag sovietici . 207

Nei paesi democratici, il pacifismo non subí persecuzioni dirette, ma la crescente crisi della
guerra aprí spaccature inconciliabili nel vasto movimento antimilitarista. La guerra civile
spagnola rappresentò un punto di svolta per molti pacifisti laici, che trovarono difficile conciliare
il proprio rifiuto morale della guerra con il disgusto per il fascismo. Importanti leader pacifisti
abbandonarono la causa e abbracciarono l’idea di una guerra giusta contro la tirannia. «Quando
comparve la minaccia fascista», scrisse nelle sue memorie il veterano della campagna per la pace
Fenner Brockway, «non potei piú giustificare il pacifismo» . In Francia, il movimento pacifista
208

svaní nel nulla nel 1939 a causa della nuova minaccia tedesca. «L’appello alla forza», sostenne
Léon Blum, «è divenuto oggi l’appello alla pace» . Negli Stati Uniti, l’eminente teologo e
209

pacifista Reinhold Niebuhr abbandonò il movimento e fondò la Union for Democratic Action,
chiedendo la «piena partecipazione militare» per sradicare la minaccia del fascismo. Lo United
Pacifist Committee, fondato nel 1940 per osteggiare la leva militare in America, capí che nel
1941 l’appoggio alla causa stava ormai svanendo, per via di una non precisata accusa secondo
cui il pacifismo era una copertura per l’infiltrazione comunista oppure uno specchietto per le
allodole che favoriva l’estrema destra americana . 210

Per i gruppi di pressione antimilitaristi piú moderati degli altri paesi, il fallimento della Società
delle Nazioni e l’inizio del riarmo posero un dilemma che poté essere risolto solo con la
paradossale argomentazione che, se si voleva tornare a una situazione di pace, la guerra era
inevitabile. Questo si era già reso evidente durante il Peace Ballot, quando in risposta alla
domanda se si dovesse ricorrere alla guerra come ultima risorsa per prevenire un’aggressione,
6,8 milioni di persone avevano dato risposta affermativa. Una grande maggioranza di coloro che
avevano aderito ai movimenti contro la guerra non era formata da pacifisti e, di fronte alla realtà
del conflitto, riconobbe che non c’era altro da fare se non sciogliere le organizzazioni e
pianificare un mondo migliore quando la guerra si fosse conclusa. I pacifisti assoluti divennero
una minoranza sempre piú piccola, sospettati di aiutare la causa del nemico, consapevolmente o
meno. Dopo lo scoppio della guerra, il disagio popolare per l’attività della Pacifist Pledge Union
a Londra portò a chiedere la chiusura dell’organizzazione e, anche se il governo si rifiutò di
metterla totalmente al bando, i pacifisti assoluti vennero strettamente controllati dai servizi
segreti. Sei funzionari furono perseguiti per aver distribuito il manifesto War Will Cease When
Men Refuse to Fight («La guerra cesserà quando gli uomini si rifiuteranno di combattere») . A 211

dicembre del 1942, Stuart Morris, segretario generale della Pacifist Pledge Union, fu arrestato in
base al Regolamento 18B e accusato di aver violato l’Official Secrets Act . Essere membri dei
212

principali gruppi pacifisti assoluti era difficile in virtú del fatto che, negli anni tra le due guerre,
il movimento non era palesemente riuscito a salvaguardare la pace e per la crescente ostilità
popolare verso i dissidenti di guerra. Gli stessi sostenitori del pacifismo mal sopportavano i
problemi causati da una posizione intransigente. Gli «inguaribili minoritari», lamentava la
pacifista britannica Vera Brittain, erano inclini a fare piú male che bene agli sforzi per mantenere
vivo l’impegno morale a favore della pace . 213

La comunità pacifista che ancora sopravviveva si attendeva un sostegno di qualche tipo da parte
delle chiese cristiane, visto che negli anni Trenta molti uomini di chiesa avevano avuto un ruolo
nel predicare il rifiuto morale della guerra. «In quanto cristiani», aveva proclamato William Inge,
decano di St Paul a Londra, «siamo tenuti a essere pacifisti» . I pacifisti cristiani traevano
214

ispirazione dagli insegnamenti di Gesú, in particolare dalla «dottrina della non resistenza al
male». Nel 1936, i metodisti americani avevano dichiarato formalmente che la guerra è «una
negazione degli ideali di Cristo» . Nell’ottobre del 1939, in risposta allo scoppio della guerra,
215

L’American Federal Council of the Churches of Christ (Consiglio federale americano delle
chiese di Cristo) aveva approvato una risoluzione secondo cui la guerra «è una cosa malvagia,
contraria alla mente di Cristo» . In Inghilterra, il clero pacifista anglicano, facendo pressioni
216

nell’estate del 1940 sugli arcivescovi affinché lanciassero un appello per la pace, sosteneva che
l’opposizione alla guerra esprimeva «la verità e la chiarezza di Gesú Cristo» . La gerarchia
217

anglicana, tuttavia, non fu mai ufficialmente pacifista. Quando nel 1935 era stato chiesto
all’arcivescovo di Canterbury Cosmo Lang di spiegare il paradosso dei cristiani che accettavano
di partecipare alla guerra, egli aveva sostenuto che senza una qualche costrizione sulla gente vi
sarebbe stata l’anarchia: «Non posso credere che il cristianesimo mi costringa a questa
conclusione». Un anno dopo, Lang e l’arcivescovo di York William Temple spiegarono al clero
pacifista che si potevano verificare circostanze in cui «la partecipazione alla guerra non sarebbe
stata incompatibile con il loro dovere di cristiani» . Nel 1940, anche George Bell, vescovo di
218

Chichester nonché uno dei principali oppositori della guerra moderna, sostenne che l’attuale
conflitto si era abbattuto come il «Giudizio di Dio», una conseguenza ineluttabile del vigente
«regno di violenza, crudeltà, egoismo, odio tra gli uomini e le nazioni», contro cui i cristiani
potevano prendere le armi in piena coscienza. Egli citò anche l’articolo XXXVII della religione
della Chiesa anglicana, secondo cui era lecito per i cristiani «su ordine di un magistrato, portare
armi e prestare servizio in guerra» e, a maggior ragione, in una guerra contro il «barbaro
tiranno» . Soltanto un vescovo anglicano, Ernest Barnes di Birmingham, mantenne le proprie
219

convinzioni pacifiste anche in tempo di guerra: «In questo momento», si rammaricò, «il
cristianesimo si è prostituito» in nome della guerra .220

Al pari della Chiesa anglicana, le altre chiese cristiane nazionali si impegnarono ovunque per
offrire sostegno morale e pratico allo sforzo bellico del paese, come d’altronde avevano fatto
durante la Prima guerra mondiale. Il fenomeno si registrò anche dove le chiese erano oggetto di
discriminazione o persecuzione da parte delle autorità secolari dello stato. Oltre al piú
convenzionale impegno morale volto a fornire conforto alle congregazioni sofferenti e a
innalzare preghiere patriottiche in nome dello sforzo bellico nazionale, le chiese si
preoccupavano di difendere gli interessi della loro stessa istituzione. Il sostegno incondizionato
al conflitto prometteva di integrare religione e stato e proteggere simultaneamente il tornaconto
delle chiese – un atteggiamento che ben spiega perché esse erano disposte ad appoggiare la
guerra. In Germania, le chiese in generale sostennero lo sforzo bellico nonostante la natura
anticlericale del regime di Hitler. I vescovi luterani non vedevano nulla di illegittimo nella guerra
contro la Polonia e nel settembre del 1939 pregarono per «l’intercessione per il nostro Führer e
Reich, per le forze armate e coloro che fanno il loro dovere per la Patria». Perfino la Bekennende
Kirche, il movimento dissenziente della Chiesa Confessante fondata nel 1934 dal clero
protestante critico nei confronti della politica religiosa dello stato, sostenne comunque la guerra
in ogni sua fase, come richiesto dal precetto di San Paolo (Romani 13) che intimava assoluta
obbedienza all’autorità costituita. Benché rimanesse incerto il fatto che la guerra fosse davvero
una «guerra giusta» in termini teologici, anche per il clero piú radicale i fedeli dovevano
mostrarsi «obbedienti al comando di Dio», come allo stato . I membri della Chiesa Confessante
221

si arruolarono quali volontari nelle forze armate e condannarono l’obiezione di coscienza, in un


perfetto allineamento con la politica del regime grazie al quale la Chiesa avrebbe subito in tempo
di guerra meno ostilità da parte dello stato. Il clero cattolico, che negli anni Trenta aveva patito
piú dei protestanti durante le campagne anticristiane del regime, dimostrò maggiori cautele nel
sostenere lo sforzo bellico – in particolare, i preti cattolici non pregavano ostentatamente per la
vittoria ma piuttosto per una «pace giusta» –, ma anche in questo caso i vescovi videro la guerra
nel contesto di una tradizionale «guerra giusta» e non negarono il ruolo di sostenitori della patria
a coloro che compivano il loro dovere di soldati. Il vescovo di Münster Clemens August conte di
Galen, famoso per aver condannato il programma Aktion T4, che prevedeva l’«eutanasia» per
disabili psichici e fisici e malati lungodegenti e terminali, elogiò i soldati che morivano sul fronte
orientale definendoli crociati che combattevano contro «un sistema ideologico satanico» . 222

L’immagine dei crociati fu ampiamente utilizzata per descrivere la guerra contro l’ateismo
dell’Unione Sovietica. In Finlandia, Johannes Björklund, primo vescovo da campo nominato
nell’esercito nel 1941, esortò il clero luterano finlandese a condividere «la crociata paneuropea
contro il bolscevismo», unendo cosí l’esercito e la Chiesa in una «guerra santa». I cappellani
militari finlandesi appoggiavano l’idea di una guerra di Dio, condotta, come sosteneva uno di
loro, da «un guerriero crociato, un soldato la cui bandiera è contrassegnata dalla croce» .223

In Unione Sovietica e Giappone, stati dichiaratamente non cristiani, le Chiese usarono il


sostegno al conflitto per dimostrare la loro lealtà al regime ed evitare ulteriori repressioni o
controlli da parte dello stato. Allo scoppio della guerra nel 1941, la posizione della Russkaja
Pravoslavnaja Cerkov’, la Chiesa ortodossa russa, era estremamente precaria. Circa 70 000
membri del clero e funzionari laici erano morti durante il Grande Terrore degli anni Trenta e
8000 chiese e case religiose erano state chiuse. Eppure, il primo giorno di guerra, il metropolita
Sergij di Leningrado esortò i suoi connazionali a difendere la patria e a «polverizzare le forze
ostili del fascismo» . Il patriottismo ortodosso era un dato di fatto e portava avanti una lunga
224

tradizione di sostegno della Chiesa alla Russia in guerra. Fin dall’inizio del conflitto, la Chiesa
iniziò a raccogliere donazioni da parte dei fedeli ortodossi per fornire assistenza e strutture
ospedaliere ai feriti, vestiti per soldati e rifugiati e denaro per comprare armamenti, tra cui gli
aerei dello squadrone Za Rodinu (Per la Madrepatria). Nel corso del conflitto, la Chiesa
ortodossa fece donazioni per circa trecento milioni di rubli. La richiesta spontanea di riaprire le
chiese da parte dei cristiani ortodossi, a lungo privati di un’effettiva libertà confessionale, spinse
Stalin ad allentare la campagna antireligiosa e nominare un nuovo patriarca. Il sostegno morale
alla guerra non portò tuttavia il clero ortodosso ad appoggiare allo stesso tempo il regime
comunista. In un Sobor (concilio) della Chiesa nel febbraio del 1945, le gerarchie ecclesiastiche
esortarono tutti i cristiani del mondo a ricordare le parole di Cristo, colui «che di spada ferisce, di
spada perisce», trasformando la guerra in una crociata contro il fascismo anziché nel trionfo del
comunismo sovietico . La persecuzione religiosa da parte del regime non si fermò neppure
225

durante la guerra. I membri della setta ortodossa separatista degli Iosifljane (giuseppini), rimasta
fermamente contraria alla dittatura, furono perseguitati dalle forze di sicurezza e mandati nei
GULag. Non sorprende che il disgelo religioso di Stalin si sia concluso già due anni dopo la fine
della guerra, anche se l’appoggio della Chiesa ortodossa aveva aiutato lo sforzo bellico offrendo
ai fedeli un altro modo di concepire la guerra come giusta . 226

Il caso del Giappone appare piú complesso. Sotto l’imperatore Shōwa Hirohito, la religione
autoctona dello scintoismo fu trasformata in «shinto di Stato» e tutti i giapponesi furono chiamati
a testimoniare la loro fedeltà al divino tennō con un culto rituale presso un santuario scintoista.
La cultura dell’obbedienza all’imperatore-stato si radicò nella società nipponica. Per le principali
denominazioni cristiane del Giappone, questo si rivelò meno problematico per la loro
professione di fede di quanto non fosse la glorificazione dello stato nelle dittature europee. La
fedeltà cristiana a Dio e quella all’imperatore venivano considerate come impegni paralleli
anziché contrapposti. Durante la lunga guerra in Asia, tutte le Chiese cristiane, tranne una,
accettarono il conflitto come una guerra giusta o una guerra santa, condotta per liberare l’Asia
dalle pretese europee e stabilire quello che veniva definito un «cristianesimo puro», libero da
ogni retaggio dell’Europa. Il legame tra la guerra e l’istituzione di una forma giapponese di
religione cristiana fu reso esplicito in una dichiarazione rilasciata nell’ottobre del 1942
dall’associazione per il raggiungimento dell’unità tra le Chiese:
Noi, che crediamo in Cristo, siamo convinti unanimemente di avere la grande responsabilità di servire e contribuire all’istituzione
di un Cristianesimo Puro vanificando l’intento del pensiero e dell’informazione del nemico, estirpando il colore, l’odore e il
sapore britannico e americano e spazzando via religioni, teologia, concetti e organizzazioni che dipendono dalla Gran Bretagna e
dagli Usa227.
Solo la Sairin no tame no hōrinesu kyōkai (Chiesa della santità del secondo avvento) e i
Testimoni di Geova rifiutarono di accettare l’idea dell’imperatore-dio e di dover sostenere lo
sforzo bellico, e i loro membri furono imprigionati con l’accusa di aver violato la Shūkyō Dantai
Hō (Legge sulle organizzazioni religiose) del 1928 e la sacralità dello stato nipponico.
La situazione della Chiesa cattolica differiva in maniera sostanziale in quanto il papato
rappresentava un’autorità internazionale, non legata a una particolare nazione. Nel papa e nella
sua gerarchia si riconosceva una parte importante di coloro che combattevano su tutti i fronti.
Durante la guerra, il Vaticano si dimostrò riluttante sia a condannare l’aggressione, sia a
evidenziare una qualche contraddizione nel fatto che i cattolici combattevano in un conflitto che
metteva in discussione i valori cristiani. Papa Pio XII, eletto nel 1939, poco prima dello scoppio
della guerra, affermò come punto fondamentale l’importanza di rimanere imparziale, seguendo
l’esempio di papa Benedetto XV nella Prima guerra mondiale. La principale preoccupazione del
pontefice, sosteneva, era «la salvezza delle anime», ovunque stessero combattendo i cattolici, e
la via della salvezza passava attraverso la penitenza e la preghiera, ma era anche consapevole dei
rischi che la Chiesa avrebbe corso se egli avesse eccessivamente provocato i dittatori. Il Vaticano
si trovava fisicamente nella capitale del fascismo; da settembre del 1943, inoltre, Roma era in
mano tedesca. Pio XII condannò sí le ingiustizie e le violenze, tranne che nel caso eclatante della
persecuzione degli ebrei, ma intendeva distanziarsi da qualsiasi iniziativa che lo costringesse a
prendere posizione. L’unico intervento significativo del papa fu quello della vigilia di Natale del
1939, quando annunciò al Sacro collegio cardinalizio e alla Prelatura romana i cinque postulati
che erano alla base di una pace onorevole e giusta: il primo si riferiva chiaramente al recente
destino della Polonia cattolica: «Un postulato fondamentale di una pace giusta e onorevole è
assicurare il diritto alla vita e all’indipendenza di tutte le nazioni, grandi e piccole, potenti e
deboli». Il quinto invitava gli uomini di stato a tenere presente «quella fame e sete di giustizia,
che è proclamata come beatitudine nel Sermone della Montagna», a farsi guidare dall’amore
universale e mostrare un senso di responsabilità «che misura e pondera gli statuti umani secondo
le sante e incrollabili norme del diritto divino» . Il piano di pace condannava implicitamente
228

l’aggressione dell’Asse ma, in seguito al successivo fallimento della sua iniziativa, Pio XII si
dimostrò riluttante a farsi coinvolgere nuovamente negli sforzi per porre fine al conflitto.
L’opinione personale del pontefice su Hitler era che fosse un uomo posseduto dal diavolo. In
segreto, Pio XII condusse una serie di esorcismi a distanza per liberare il Führer dalla morsa
demonica, ma solo nel 1945, a guerra finita, informò il Sacro collegio cardinalizio che, a suo
giudizio, Hitler era veramente un servo di Satana . Durante la guerra, tuttavia, la posizione del
229

Vaticano divenne piú complessa in seguito all’invasione dell’Unione Sovietica da parte delle
forze dell’Asse, dato che molti nelle gerarchie e nel clero di Roma speravano che il bolscevismo
ateo sarebbe stato distrutto. L’anticomunismo cattolico non permetteva di condannare ciò che gli
invasori tedeschi e i loro alleati stavano facendo, neppure dopo che alle autorità del Vaticano
divennero chiare le dimensioni del programma genocida tedesco. «Il mondo intero è in fiamme»,
si rammaricò il vescovo di Trieste dopo un incontro con Pio XII per discutere la questione
ebraica, «e in Vaticano meditano sulle verità eterne e pregano con fervore» . Anche in
230

quell’occasione, Pio XII ritenne che la discrezione valesse molto piú del coraggio. In merito al
destino degli ebrei, disse a padre Scavizzi, cappellano di un ospedale militare italiano, di essere
«in angoscia per loro e con loro», ma temeva che un intervento papale avrebbe fatto piú male che
bene, provocando «una persecuzione ancora piú implacabile» . Su queste posizioni, i cattolici
231

fecero i conti con la propria coscienza, ma sulla questione se si dovesse combattere la guerra o
meno, il Vaticano rimase prudentemente neutrale, mentre le Chiese cattoliche nazionali
cercarono di non dare alcuna indicazione che non fosse di carattere patriottico. Le Chiese
protestanti e anticonformiste, per le quali il pacifismo era un imperativo teologico, si trovarono
di fronte a dilemmi morali piú profondi. Quaccheri, metodisti, avventisti del Settimo Giorno,
mennoniti, congregazionisti e battisti erano tutti contrari alla guerra in quanto tale, ma in un
conflitto che veniva comunemente definito uno scontro tra la civiltà cristiana e le forze delle
tenebre, le chiese pacifiste si trovarono costrette a scendere a compromessi. In Unione Sovietica,
i mennoniti aderirono alla guerra nel 1941 per evitare le persecuzioni. In Germania, il ristretto
numero di quaccheri aveva pronunciato nel 1935 una «Testimonianza di pace» in cui si
riaffermava l’impegno della Religiöse Gesellschaft der Freunde (Società religiosa degli amici)
per il pacifismo, ma questo non era vincolante per i membri e tutti, tranne uno, fecero il servizio
militare come non combattenti . In Gran Bretagna, le principali Chiese non conformiste erano
232

divise sull’atteggiamento da assumere nei confronti di una guerra la cui correttezza sembrava
inattaccabile. I battisti impiegarono quattro anni per decidere se la loro congregazione potesse
prendere parte al conflitto; i metodisti lasciarono la decisione aperta, mentre ai quaccheri fu
permesso di esercitare il loro rifiuto della violenza perché incoraggiavano comunque la
partecipazione attiva nella difesa civile e nel soccorso medico, sia in patria sia sul campo – un
esempio, questo, di quello che venne definito, paradossalmente, «servizio pacifista in prima
linea» . Un’analoga ambiguità aveva caratterizzato la risposta delle Chiese protestanti americane
233

allorché avevano considerato, negli anni immediatamente precedenti Pearl Harbor, la reale
possibilità della guerra. Benché non tutte le cosiddette Peace Churches fossero strettamente
pacifiste, abbracciavano la dottrina della «non resistenza al male» e rifiutavano il ricorso alla
violenza. Nel 1940, la Methodist General Conference decise che la Chiesa non avrebbe
«approvato né sostenuto la guerra, né partecipato ufficialmente a essa», ma dopo il 1941 i
metodisti furono lasciati liberi di scegliere se partecipare o meno, in base al fatto che, pur non
essendo formalmente in guerra, Dio e la Chiesa erano immersi nella guerra. Alla Methodist
Convention del 1944, i delegati infine rifiutarono la decisione di non dare la propria benedizione
alla guerra e accettarono la possibilità di «pregare per la vittoria» . La Presbyterian Church
234

General Assembly concluse che la guerra era «necessaria e giusta» solo nel 1943, quando molti
della congregazione indossavano già l’uniforme. L’Assemblea dei congregazionisti del 1942
votò con 499 voti contro 45 a favore dello sforzo bellico, poiché «le aggressioni delle potenze
dell’Asse sono indicibilmente crudeli e spietate e le loro ideologie sono distruttive di quelle
libertà che abbiamo a cuore» . I mennoniti e gli avventisti del Settimo Giorno mantennero il loro
235

impegno verso la «non resistenza al male», ma i membri di entrambe le denominazioni


prestarono servizio nello sforzo bellico in altri modi. In Gran Bretagna e Stati Uniti, il pacifismo
religioso evitò il rifiuto diretto della partecipazione alla guerra e, implicitamente, ne approvò
l’intento morale.
Nei paesi degli Alleati e dell’Asse, solo una Chiesa oppose un assoluto rifiuto a qualsiasi
partecipazione alla guerra. L’Associazione degli studiosi della Bibbia, meglio conosciuta come
Testimoni di Geova, nome adottato quando la denominazione fondò il proprio quartier generale a
New York nel 1931, rifiutò incondizionatamente non solo la guerra e il servizio militare, ma
anche le richieste dello stato. Il movimento non era tuttavia del tutto pacifista, considerando che i
Testimoni erano in attesa dell’Armageddon, la battaglia finale tra le forze sataniche e quelle
divine. Sarebbero stati disposti a prestare servizio militare soltanto nell’«esercito di Dio» e non
come coscritti per uno stato senza Dio, rimanendo pertanto irremovibili nella loro opposizione
alla guerra . I Testimoni di Geova furono ovunque penalizzati per le proprie convinzioni, perfino
236

in Gran Bretagna e Stati Uniti, dove la loro fede era stata tollerata in tempo di pace soprattutto
perché essi insistevano che la guerra era una manifestazione delle forze delle tenebre. In
Germania, i membri della setta, messa al bando alla fine del 1933, dovevano incontrarsi e
organizzarsi in clandestinità. Si stima che 10 000 dei 23 000 Testimoni finirono in prigione o
furono mandati in un campo di concentramento, comprese le donne, mentre i bambini furono
presi in custodia dallo stato. Solo chi ritrattava veniva liberato, ma lo fecero in pochi. Se prima
del 1939 il rifiuto del servizio militare comportava una pena detentiva di un anno, un nuovo
decreto sulla leva del 26 agosto di quell’anno introdusse la pena capitale per il rifiuto di prestare
servizio. I Testimoni costituirono un’alta percentuale di quanti furono processati dal
Reichskriegsgericht (Tribunale militare del Reich), e su 408 Testimoni perseguiti per
«sovvertimento della forza militare della nazione», 258 furono condannati a morte. Il tribunale,
sotto la direzione dell’ammiraglio Max Bastian, poteva emanare una sentenza piú lieve solo nel
caso in cui il Testimone ritrattasse, ma le tradizioni del diritto militare tedesco e prussiano
incoraggiavano i giudici a essere particolarmente severi . In Giappone, i Testimoni di Geova
237

negavano il concetto del dio-imperatore, ritenendolo opera del diavolo, e subirono gravi
conseguenze per il loro rifiuto di servire nelle forze armate, anche se questo caso riguardò
solamente cinque individui . In Gran Bretagna e Stati Uniti, si cercavano i Testimoni tra i gruppi
238
pacifisti e antimilitaristi per poi riservare loro trattamenti particolarmente severi. In America, due
terzi di coloro che furono imprigionati per renitenza alla leva erano Testimoni di Geova; la folla
arrivò a scagliarsi con violenza contro i membri della congregazione per la loro presunta
mancanza di patriottismo (a Flagstaff, in Arizona, una folla mise all’angolo un Testimone,
urlando «Spia nazista! Impiccatelo! Tagliategli la testa!») . In Gran Bretagna, l’affermazione dei
239

Testimoni di Geova che ognuno dei 14 000 membri della loro confessione fosse a tutti gli effetti
un ministro della chiesa, con il compito di convertire le altre persone, fu del tutto ignorata e
all’organizzazione fu negato il riconoscimento di denominazione di culto. Le riunioni dei
Testimoni furono vietate ai sensi del Regolamento della Difesa 39E . La distinzione che i
240

Testimoni facevano tra guerre empie e guerre divine fu assunta come prova che essi non erano
contrari alla guerra di per sé – per quanto improbabile potesse essere la battaglia finale contro
l’Anticristo – e che quindi, nel conflitto in corso, non poteva essere loro riconosciuto il diritto
all’obiezione di coscienza .
241

Il rifiuto morale di partecipare alla guerra si limitò alla fine ad alcuni uomini (e a un certo
numero di donne) disposti a dichiarare individualmente la loro obiezione di coscienza, il che
comportava una posizione di grande coraggio di fronte alla ferma disapprovazione pubblica e
alla natura coercitiva dello stato in guerra. Non si saprà mai quanti altri espressero remore di
natura morale nei confronti dell’addestramento militare e dell’obbligo di uccidere, ma
certamente ve ne furono molti. Lo stigma della codardia e la minaccia della punizione erano
potenti dissuasori. Inoltre, il dovere dei cittadini di difendere il proprio stato e la propria
comunità in tempo di guerra era considerato l’unica corretta espressione della coscienza; si
riteneva che coloro che si rifiutavano violassero tale impegno morale di ordine superiore.
L’obiezione di coscienza era ufficialmente possibile solo negli Stati Uniti e nel Commonwealth
britannico, anche se a condizioni particolari e rigorose. Nelle dittature, lo status di obiettore di
coscienza era stato cancellato nel momento dello scoppio della guerra. In Unione Sovietica,
l’obiezione di coscienza era permessa in base a un decreto liberale del 1919, ma la crescente
ostilità dello stato verso il sentimento pacifista fece sí che nel 1930 essa non esistesse quasi piú.
Coloro che obiettavano erano mandati in prigione o nei GULag fino a cinque anni. Tra il 1937 e
il 1939, gli anni del Grande Terrore, non vi furono richieste da parte di obiettori e nel 1939 il
diritto originario fu cancellato dal corpus delle leggi . Nel Terzo Reich, la legge sulla leva
242

militare introdotta nel 1935 non prevedeva l’obiezione di coscienza, e coloro che vi si
opponevano erano considerati disertori e imprigionati. Il regime prevalse sulla giustizia militare
e insistette affinché gli obiettori, in maggioranza Testimoni di Geova, fossero mandati nei campi
di concentramento. La prima esecuzione di un obiettore ebbe luogo nel campo di Sachsenhausen
nel settembre del 1939; negli anni di guerra si stima che ne siano stati uccisi altri 300. Sotto un
regime in cui la pena di morte era considerata l’unico antidoto all’obiezione di coscienza, era
necessario avere una profonda convinzione e un coraggio speciale per rimanere fedeli alle
proprie convinzioni morali . 243

La decisione di permettere l’obiezione di coscienza in Gran Bretagna, Stati Uniti e dominion


britannici rifletteva non solo la preoccupazione per come erano stati trattati gli obiettori nella
Prima guerra mondiale, ma anche la difficoltà di creare eserciti di leva in democrazie liberali
dove esistevano attive minoranze pacifiste. Poiché tutti i paesi democratici contrapponevano la
libertà di coscienza all’irreggimentazione degli stati dell’Asse, risultava difficile negare che
alcuni cittadini esercitassero tale libertà rifiutandosi di fare il servizio militare per motivi di
coscienza. William Beveridge, responsabile di un progetto di stato del welfare nel dopoguerra,
riteneva che il fatto che lo stato permettesse l’obiezione di coscienza fosse «un esempio estremo
della libertà britannica» . Questa visione, in realtà, male si conciliava con il modo in cui gli
244

obiettori venivano trattati. In Gran Bretagna, come negli Stati Uniti, l’obiezione dei laici al
servizio militare non era generalmente considerata una posizione morale accettabile. Anche se il
presidente di uno dei tribunali locali, istituiti per giudicare la sincerità degli obiettori, aveva
chiesto ai suoi colleghi di tenere a mente che «la convinzione che la guerra sia orribile, o futile, o
non necessaria può portare alla certezza che sia sbagliata», gli altri giudici rimasero scettici sul
pacifismo laico. Sotto il profilo politico, l’obiettore piú convincente, a detta di un giudice di
tribunale, doveva essere un fascista . Ci si aspettava che la maggior parte degli obiettori che
245

venivano registrati e portati davanti a un tribunale fosse in grado di provare la sincerità delle
proprie convinzioni religiose, poiché l’obiezione per motivi di fede era considerata una posizione
morale accettabile.
Tra i 60 000 obiettori di coscienza britannici, furono pochissimi a ricevere la dispensa
incondizionata da qualsiasi forma di attività militare. Nei tribunali, gli obiettori erano sottoposti a
un duro interrogatorio, volto a fare emergere le ambiguità morali delle loro posizioni pacifiste.
Non bastava affermare, come aveva fatto un obiettore, che «l’amore e non la forza è il potere
ultimo dell’universo»; la lunga adesione a una chiesa pacifista e il sostegno del clero erano
fondamentali per avere lo status incondizionato di obiettore, concesso solo al 4,7 per cento dei
richiedenti, o il diritto di intraprendere forme alternative di servizio militare nell’agricoltura o
nella protezione civile, concesso a un altro 38 per cento. Dei restanti, il 27 per cento fu assegnato
al servizio nelle forze armate come non combattente, mentre l’altro 30 per cento fu rimosso dal
casellario perché non era riuscito a convincere i tribunali con argomenti adeguati. Tra coloro che
persistettero nel rifiutare il servizio militare, 5500 finirono in carcere, tra cui 500 donne, e 1000
vennero processati dalla corte marziale e mandati nelle prigioni militari. Poiché anche la forza
lavoro civile era soggetta alla coscrizione, altri 610 uomini e 333 donne furono condannati per
essersi rifiutati di lavorare nell’industria bellica . Per alcuni degli obiettori, il cui status era
246

condizionato al fatto che si impegnassero in lavori di comunità, esistevano piccoli nuclei rurali
fondati da pacifisti dove gli obiettori potevano prestare la loro opera in quelle che un funzionario
del Central Board for Conscientious Objectors definí piú tardi «isole contro la guerra in un mare
di guerra» . Le Christian Pacifist Forestry and Land Units, fondate prima della guerra, offrivano
247

agli obiettori un ambiente privo dell’ostilità popolare a cui erano soggetti altrove. La PPU
gestiva una fattoria di 121 ettari in cui gli obiettori venivano addestrati ai lavori di campagna
dalla Community Land Training Association . Quanti venivano indirizzati al servizio della difesa
248

civile incontravano altri ostacoli da superare, a causa della natura quasi militare del lavoro. Circa
2800 obiettori furono condannati per essersi rifiutati di sottoporsi all’esame medico della difesa
civile perché replicava la procedura militare che avevano respinto già in precedenza; alcuni
obiettori che si erano offerti come volontari per il servizio antincendio scoprirono che poteva
essere loro richiesto di usare una pistola per difendere la stazione dei vigili del fuoco . Il Central
249

Board, istituito nel 1939, fece pressioni su Herbert Morrison (un ex obiettore della Prima guerra
mondiale) affinché fosse garantito che ai pacifisti non sarebbe stato chiesto nulla che
compromettesse la loro obiezione di coscienza e, alla fine del 1943, egli si decise ad acconsentire
che a nessuno con lo status di obiettore venisse imposto di fare qualcosa che risultasse
«ripugnante alla sua coscienza», riconoscendo cosí che la sua posizione morale doveva essere
trattata con rispetto.
Negli Stati Uniti, l’obiezione di coscienza aveva una dimensione piú strettamente politica. Sotto
le pressioni dei pacifisti e della Chiesa, il Selective Service Act del 1940 era stato emendato
affinché riconoscesse il diritto all’obiezione per motivi religiosi, altrimenti ritenuta illegale . Su
250

iniziativa delle maggiori chiese pacifiste venne istituito un National Service Board for Religious
Objectors a cui il governo riconobbe la legale rappresentanza di tutti coloro che si dichiaravano
obiettori. Seppure giuridicamente consentita, l’obiezione di coscienza era impopolare tra la gente
e otteneva scarso sostegno dalla leadership politica. Roosevelt voleva evitare di rendere «le cose
troppo facili» agli obiettori e sperava che l’esercito li avrebbe rimessi in riga; il presidente che gli
successe, Harry Truman, era dell’idea che gli obiettori da lui incontrati fossero «nient’altro che
dei codardi e scansafatiche» . Il generale Lewis Hershey, responsabile del programma del
251

Selective Service Act, pensava che, per il bene stesso dell’obiettore, la sua situazione dovesse
«essere gestita senza che nessuno ne senta parlare» . Le commissioni incaricate del reclutamento
252

erano incerte su come trattare coloro che attribuivano un valore morale al rifiuto di prestare
servizio militare: «La coscienza», osservò un funzionario, «è qualcosa di intangibile e
indescrivibile, nascosto nel cuore e nell’anima dell’uomo». Poiché si presumeva che solo
l’obiezione per motivi religiosi potesse avere una genuina base morale, lo status di obiettore
venne concesso a pochissimi richiedenti laici. Quanti obiettavano per motivi politici erano di
solito reclute di colore che protestavano contro la discriminazione razziale. In uno di questi casi
il giudice della commissione lesse dal Mein Kampf di Hitler alcuni brani da cui si evinceva
l’atteggiamento del dittatore nei confronti dei neri: «Come potete starvene seduti a guardare»,
continuò il giudice, «dicendo “non alzerò un dito contro l’uomo che pensa che la mia razza sia
solo per metà umana”?» Al che ricevette la sconcertante risposta: «Anche qui ci sono molte
persone che sono d’accordo con lui» . Se si persisteva nella protesta politica, si andava incontro
253

a una pena detentiva, anche se solo il 6 per cento di quanti finirono in prigione fu ritenuto un
caso estraneo a motivazioni religiose .254

In totale, sui dodici milioni di cittadini americani mobilitati solo 43 000 rifiutarono il servizio
militare. Negli Stati Uniti non esisteva una categoria che prevedesse l’obiezione incondizionata.
Gli obiettori che rientravano nella categoria I-A-O erano indirizzati al servizio militare come non
combattenti; la categoria IV-E permetteva invece agli obiettori di svolgere lavori «di importanza
nazionale». In entrambe le categorie, che piacesse o meno, l’esercito considerava gli obiettori
come militari di leva . Tra coloro che si rifiutarono categoricamente di prestare servizio, 6000
255

furono imprigionati con lunghe pene detentive. Tra i rimanenti, a 25 000 fu concesso lo status di
non combattente nelle forze armate, mentre veniva creata allo stesso tempo la nuova istituzione
del Civilian Public Service, che chiamò circa 12 000 obiettori a lavorare in progetti ritenuti di
utilità sociale ma non direttamente collegati allo sforzo bellico. Il programma del Civilian Public
Service era gestito dalle «Chiese della pace» attraverso il National Service Board, seppure sotto
il controllo generale delle autorità militari. Seguí la creazione di 151 campi in cui gli obiettori
dovevano pagare 35 dollari al mese per il loro mantenimento . Le condizioni di vita in tali
256

luoghi, volutamente isolati, erano generalmente pessime, mentre il lavoro non qualificato nei
campi o nelle foreste era considerato di scarsa importanza nazionale. Nel 1942, vi fu un’ondata
di proteste contro quello che gli obiettori consideravano un lavoro coatto o schiavizzato (dato che
nessuno riceveva una paga) e contro il sistema di controllo da parte dei militari . I manifestanti
257

finirono in prigione, alla stregua dei pacifisti assoluti e dei Testimoni di Geova. Gli obiettori
continuarono le loro proteste anche nelle strutture detentive, con scioperi della fame e scontri
non violenti, volti in parte a mettere in discussione la segregazione razziale tra gli internati. Nel
1942, il pacifista nero James Farmer, cavalcando la tigre delle proteste, fondò il Congress for
Racial Equality per condurre una campagna contro la discriminazione razziale usando i metodi
non violenti di Gandhi . Il rifiuto del servizio militare per motivi di ordine morale venne cosí a
258

intrecciarsi negli Stati Uniti in guerra con le piú ampie problematiche legate a rivendicazioni
etiche. Nel 1945, il presidente Truman rifiutò di concedere l’amnistia ai 6000 obiettori ancora in
prigione, provocando un’ulteriore ondata di proteste guidate dal Committee for Amnesty.
Nell’ottobre dello stesso anno, i dimostranti alzarono davanti alla Casa Bianca dei cartelli con la
scritta «Prigioni federali – campi di concentramento americani». Truman continuò a rifiutare
un’amnistia generale, anche se molti furono alla fine liberati ancora sotto la sua presidenza. Igal
Roodenko, un obiettore che aveva portato avanti un lungo sciopero della fame, scrisse in seguito
che «la libertà e la democrazia possono diventare beni esportabili solo nella misura in cui li
pratichiamo a casa nostra» . Per quanto piccolo fosse il loro numero, gli obiettori di coscienza,
259

quando poterono, difesero il principio per cui anche nella guerra totale era possibile sfidare gli
imperativi morali imposti dalla comunità e difendere la scelta morale individuale.
Nel corso del conflitto, i pacifisti continuarono a testimoniare, spesso con grandi sacrifici, quella
che consideravano l’inutilità e la degradazione morale della guerra. Volente o nolente, la
stragrande maggioranza dei popoli coinvolti nella guerra avallava le assunzioni morali del
proprio stato, vuoi con il silenzio, vuoi con complicità, entusiasmo o indifferenza. Per quanto
impotente si sia dimostrato il vasto movimento contro la guerra di epoca prebellica, il pacifismo
fu uno dei fattori che spinsero gli stati ad adottare strategie di controllo, sorveglianza e
consolidamento morale per assicurarsi che lo sforzo bellico venisse considerato legittimo e
giusto, inclusi i numerosi casi in cui non lo era.
Capitolo ottavo
Le guerre dei civili
Oggi le guerre non si combattono né si vincono soltanto sui campi di battaglia né si decidono in combattimenti tra le grandi
flotte delle nazioni in guerra. Le guerre sono combattute dai ministeri della Propaganda, da leali funzionari pubblici, da uomini
e donne che lavorano in fabbrica con mansioni tra le piú umili; da impiegati e consiglieri di contea, da contadini che lavorano i
campi di giorno [...] e da povere casalinghe che, dopo aver finito la loro giornata di lavoro, lasciano le loro case e pattugliano
le strade con l’oscuramento. [...] Oggi le guerre sono combattute da tutte le persone nel loro solito trantran quotidiano.
Raymond Daniell, 19411.
È ormai risaputo che nella Seconda guerra mondiale morirono milioni di civili in piú rispetto ai
soldati, l’esatto contrario di quanto avvenuto nella Grande Guerra. All’epoca in cui il giornalista
americano Raymond Daniell si trovava a Londra per seguire i bombardamenti tedeschi del Blitz,
per ogni soldato britannico venivano uccisi circa dieci civili. A Londra, sotto i bombardamenti,
circolava una battuta su una ragazza che aveva dato una piuma bianca, simbolo di codardia, al
suo fidanzato che le aveva comunicato che si sarebbe arruolato nell’esercito. Si scoprí che i
militari che tornavano nelle città sotto attacco aereo erano ancora piú angosciati della
popolazione attorno a loro. I civili non erano di certo usciti illesi dalla guerra del 1914-18, in
particolare nei territori occupati dal nemico o negli stati in cui il conflitto si era concluso con una
rivoluzione violenta, ma il loro diretto coinvolgimento nella violenza della guerra era stato
minimo. La guerra civile russa del 1918-21 e la guerra civile spagnola combattuta dal 1936 al
1939 avevano anticipato il «trasferimento nella società civile» della guerra del 1939-45, in cui i
civili combatterono e morirono per difendere le loro comunità e le loro convinzioni.
Se la popolazione civile viene troppo spesso dipinta come un insieme di vittime passive della
violenza riversatasi su di loro e intorno a loro durante la guerra, è altresí vero che una
percentuale significativa si impegnò nell’autodifesa o nella propria liberazione, passando dalla
condizione di semplici testimoni delle ostilità a quella di partecipanti attivi. Una caratteristica
interessante degli anni della guerra fu la prontezza da parte dei civili ad agire per il loro bene
contro incursioni aeree, invasioni e occupazioni, oppure, nel caso estremo del genocidio ebraico,
contro la minaccia dello sterminio. Lo fecero correndo rischi straordinari, con scarsa protezione,
legale o di altro tipo, a differenza delle loro controparti militari. Ogni notte, sotto i
bombardamenti, il personale della protezione civile incaricato della difesa poteva trovare una
morte improvvisa; i combattenti della Resistenza, che appartenessero alle brigate di partigiani o
fossero insorti improvvisati, sapevano che, secondo le leggi della guerra, non avrebbero potuto
godere di alcun tipo di difesa in caso di cattura e che se cadevano in mano nemica avrebbero
potuto essere fucilati sul posto; là dove l’occupazione militare alimentava tra la popolazione
divisioni razziali o ideologiche, i combattenti della società civile si trovavano spesso a condurre
una guerra brutale contro altri civili, perfino quando erano impegnati nella resistenza contro il
nemico invasore. Le linee di combattimento che coinvolgevano i civili, di conseguenza, avevano
una natura piú disordinata e pericolosa rispetto al servizio militare in una situazione di guerra. La
violenza generata dalla Resistenza e dalla guerra combattuta dai civili fu anche piú viscerale e
immediata di quella della maggior parte degli scontri tra soldati, senza contare che le
conseguenze dei pesanti bombardamenti esposero i combattenti civili a un livello di danni fisici
assolutamente fuori da ogni regola. Le guerre condotte dai civili erano parte del conflitto piú
generale, ma avevano un loro carattere peculiare.
La trasformazione da civili in combattenti dipese da circostanze, opportunità e propensione. La
grande maggioranza della popolazione non si uní né ai combattenti civili né ai partigiani,
cercando invece altri modi per adattare la propria sfera privata alla guerra in corso tutt’intorno. In
Gran Bretagna e Germania, tra l’1 e il 2 per cento della popolazione si arruolò nella difesa civile
assumendo ruoli ufficiali; secondo alcune stime, solo tra l’1 e il 3 per cento della popolazione
francese prese parte a qualche forma di resistenza attiva, benché tali statistiche siano
praticamente impossibili da verificare . Fra coloro che aderivano alla lotta vi era soprattutto la
2

convinzione comune che quella guerra non sarebbe finita sul campo di battaglia, ma sarebbe
stata combattuta sul fronte interno, sia difendendosi dai bombardamenti sia impegnandosi nella
sovversione politica o combattendo con i partigiani. Tutti coloro che entravano nella Resistenza,
inclusi alcuni soldati sconfitti divenuti fondatori o guida di drappelli partigiani, si rifiutavano di
accettare che la disfatta sul campo o la resa significasse la fine della guerra, ribaltando cosí la
convenzione militare secondo cui un armistizio o l’occupazione armata ponevano fine alle
ostilità. La logica della guerra totale, intesa come un conflitto che coinvolgeva società intere,
spiega perché i civili considerassero la loro lotta quale parte integrante del piú generale conflitto
militare e non come un’anomalia. Ciò che ne conseguí non fu tanto il trasferimento della guerra
nella società civile quanto la militarizzazione di quest’ultima.
I civili che avevano il coraggio di passare a un impegno attivo avevano motivazioni diverse e
cosí numerose che qualsiasi spiegazione di carattere generale risulterebbe inutile. Patriottismo,
fede ideologica, perseguimento di un nuovo ordine postbellico, odio profondo verso il nemico,
disperazione, desiderio di vendetta e persino interesse personale potevano essere tutti fattori che
contribuivano in parte a spiegare le ragioni di chi sceglieva di intervenire direttamente alla
guerra. In alcuni casi, i civili furono sottoposti a pressioni affinché scendessero in campo,
pertanto la loro partecipazione nella guerra non fu l’espressione di un impegno volontario.
Spesso, l’aiuto prestato alla difesa civile era obbligatorio e non una libera scelta. Il sostegno alla
resistenza armata poteva essere imposto o volontario. Le unità partigiane sovietiche rastrellavano
abitualmente tra gli abitanti dei villaggi le potenziali reclute, che altrimenti non si sarebbero
arruolate. Un ordine di leva affisso dai partigiani a Djakivka, un villaggio dell’Ucraina,
affermava semplicemente che coloro che si fossero rifiutati di obbedire sarebbero stati «fucilati e
le loro case bruciate» . Altri ancora, spinti a entrare nella Resistenza per sfuggire al reclutamento
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di lavoratori imposto dagli invasori o alla minaccia della deportazione, finivano per essere dei
combattenti civili non del tutto convinti. Nei casi in cui la violenza popolare si trasformò in una
guerra sul fronte interno, i civili di entrambe le parti potevano trovarsi inaspettatamente
trasformati in combattenti, che lo volessero o meno. Una partigiana della guerra civile greca
affermò piú tardi che erano state le circostanze a spingere le persone all’azione, loro malgrado:
«La vita ti obbligava a essere un eroe, ma nessuno voleva esserlo» . Dinanzi a tali inaspettate
4

richieste, i civili si videro costretti a operare scelte morali difficili, ovvero se partecipare o farsi
da parte e a quali condizioni.
I civili impegnati nella difesa.
Per i civili, l’impegno nella difesa durante la guerra divenne il grande momento in cui
abbandonarono la loro precedente situazione di immunità per partecipare direttamente al
conflitto in corso. I bombardieri che percorrevano lunghe distanze per colpire le città, vuoi
perché rappresentavano obiettivi economico-militari o perché i raid contribuivano
intenzionalmente a demoralizzare la popolazione, avevano travalicato quella linea che separava
l’ambiente civile e gli abitanti urbani dai combattimenti al fronte. Già nella Prima guerra
mondiale, seppure su scala ridotta, erano avvenuti bombardamenti lontano dalla prima linea, con
gli ordigni lanciati dai tedeschi con dirigibili e aerei su Londra e le città costiere britanniche, o le
bombe sganciate dagli inglesi sulle città della Germania occidentale, e le occasionali bombe
austriache e italiane cadute su obiettivi urbani piú lontani. Per quanto limitati fossero quei primi
esperimenti, la comparsa dei bombardamenti aerei nella guerra del 1914-18 aveva creato negli
anni tra le due guerre la visione immaginifica di una guerra futura, in cui il bombardamento delle
città avrebbe potuto innescare in tempi brevi sconvolgimenti sociali e politici e portare il
conflitto a una rapida conclusione. La piú famosa di queste previsioni era stata esposta dal
generale italiano Giulio Douhet nel suo libro Il dominio dell’aria, pubblicato in Italia nel 1921,
in cui sosteneva che solo una forza aerea indirizzata spietatamente contro città, infrastrutture e
popolazione del nemico avrebbe potuto far vincere una guerra futura, e vincerla anche
rapidamente, trasformando il fronte civile interno nel principale obiettivo strategico e rendendo
vani gli sforzi dell’esercito per difendere la popolazione . Le visioni apocalittiche di una guerra
5

contro le popolazioni civili avevano carattere universale, anche se prima del 1939 avevano scarsa
attinenza con la realtà delle forze aeree convenzionali. La cultura distopica di un disastro futuro,
tuttavia, si concentrava non tanto sulle capacità militari del momento, ancora tecnicamente
limitate, quanto sulla convinzione che le moderne popolazioni urbane fossero particolarmente
suscettibili al panico e alla disperazione che un raid aereo poteva scatenare, dato che la città
contemporanea mancava di un saldo senso di comunità . Il teorico militare britannico J. F. C.
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Fuller pensava che un attacco aereo su Londra avrebbe trasformato la capitale in «una sterminata
Babele delirante […] il traffico cesserà, quelli rimasti senza un tetto grideranno aiuto, la città
sarà un vero pandemonio» . Un altro catastrofista britannico, il filosofo di Cambridge
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Goldsworthy Lowes Dickinson, commentò l’affermazione che gli aerei nemici sarebbero stati in
grado nell’arco di tre ore di avvelenare l’intera popolazione di Londra, sostenendo che la guerra
aerea equivaleva ora a uno sterminio, «non solo dei soldati, ma anche dei civili e della civiltà» .
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La paura dei drammatici effetti dei bombardamenti sulla società urbana era ampiamente
condivisa dalle popolazioni delle principali potenze, anche se la previsione che la guerra futura
sarebbe stata una guerra totale metteva in luce un paradosso: se una società urbana poteva essere
distrutta cosí facilmente in pochi giorni di bombardamento, allora aveva poco senso prepararsi
alla mobilitazione totale di tutte le risorse nazionali, visto che la guerra sarebbe finita prima che
esse potessero essere pienamente sfruttate. Il divario tra queste due diverse visioni di una guerra
futura fu colmato dalle disposizioni riguardanti la difesa civile e messe in atto negli anni Trenta,
quando la prospettiva di un grande conflitto stava ormai diventando sempre piú probabile. Anche
se nella Prima guerra mondiale la difesa civile era stata introdotta su scala ridotta in risposta ai
primi bombardamenti su lunghe distanze (definiti ben presto «strategici»), la creazione di vere e
proprie organizzazioni di difesa civile a livello nazionale risaliva al decennio precedente lo
scoppio della Seconda guerra mondiale. Si trattava di un’esperienza nuova e, come poi si capí,
unica nel suo genere, sollecitata non solo dalla minaccia dei bombardamenti ma anche
dall’opinione condivisa che nella guerra a venire i civili non dovevano aspettarsi di restare illesi.
La difesa civile mise la popolazione in stretto contatto con la realtà del conflitto, inculcandole un
senso di partecipazione e di importanza che era mancato nella Prima guerra mondiale. Lo scopo
era la mobilitazione di tutti in difesa della comunità, al fine di evitare quel momento critico
suggerito dalle previsioni piú catastrofiche. Era un’ambizione senza precedenti. La mobilitazione
civile di massa in difesa della società moderna si rese necessaria dopo la comparsa dei grandi
bombardieri, ma obbediva altresí alla logica della guerra totale. La difesa civile, di conseguenza,
divenne l’ennesimo mezzo con cui uno stato poteva monitorare regolarmente l’impegno della sua
popolazione nello sforzo bellico totale, vuoi attraverso il rispetto dell’oscuramento assoluto, le
esercitazioni obbligatorie di difesa antiaerea o la partecipazione a turni di sorveglianza
antincendio. Per collegare i due fronti, quello del campo di combattimento e quello della società
civile, i cittadini difensori furono a loro volta trasformati in personale paramilitare, soggetti a una
disciplina in stile militare, con tanto di uniformi e addestramento. In Italia, a partire da agosto del
1940, essi furono definiti «civili mobilitati», conferendo in tal modo al fronte interno uno status
militare piú ufficiale e impedendo che i cittadini si rendessero latitanti . Alla fine della guerra,
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riflettendo sui milioni di persone che avevano prestato servizio nei ranghi della difesa civile, il
ministro della Sicurezza Interna britannico Herbert Morrison li descrisse come un «esercito di
cittadini», composto da «soldati semplici», uomini o donne che fossero . 10

Le disposizioni relative alla difesa civile furono infine introdotte in tutto il mondo, perfino in
quelle aree in cui la prospettiva dei bombardamenti era alquanto remota. Non è facile fornire una
cifra complessiva dei numeri coinvolti, soprattutto perché si rende necessaria una distinzione tra i
civili impegnati a tempo pieno o parziale in compiti di protezione civile – sentinelle per
l’avvistamento delle incursioni aeree, pompieri ausiliari, sorveglianti dei rifugi, tirocinanti di
pronto soccorso e personale di assistenza – e i milioni di capifamiglia e giovani cooptati per
l’addestramento in caso di incursioni e per mansioni di difesa antiaerea, ma non inseriti
ufficialmente nella difesa civile in uniforme. Questa seconda categoria coinvolgeva una vasta
area urbana (e in alcuni casi rurale) abitata da decine di milioni di persone; ci si aspettava che i
residenti, in quanto civili, svolgessero un preciso ruolo in quella che le autorità tedesche
definivano «autoprotezione» delle case e dei luoghi di lavoro, sotto la supervisione delle
organizzazioni ufficiali di difesa civile. Questi cittadini difensori e i loro numerosi ausiliari erano
di solito incaricati di proteggere la comunità di appartenenza e raramente venivano trasferiti
lontano dalla regione o dalla città in cui vivevano, il che spiega in parte perché in quei lunghi e
difficili anni si impegnarono al massimo per salvaguardare un luogo a loro cosí familiare. Dal
punto di vista sociale, la difesa civile era per sua natura inclusiva e non faceva distinzione di
genere, attribuendo alle donne un ruolo di primo piano nella protezione della comunità, in
contrasto con il ruolo piú limitato che esse svolgevano nell’apparato militare regolare. Quando le
varie comunità si videro privare degli uomini piú giovani, numerose donne si offrirono
volontarie nei tanti servizi della difesa civile. In Germania, circa 200 000 funzionari a tempo
pieno che lavoravano nell’organizzazione della difesa civile erano donne; in Gran Bretagna, nel
1940, vi erano 151 000 lavoratrici impiegate a tempo pieno o parziale nell’autodifesa della
popolazione, incluso il servizio ausiliario dei vigili del fuoco, mentre altre 158 000 erano attive
nei servizi di primo soccorso . Negli Stati Uniti, quasi due terzi dei volontari della difesa di
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Washington erano donne; a Detroit erano circa la metà . Anche gli scolari di ambo i sessi
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venivano reclutati per compiti particolari: in Gran Bretagna, i volontari dei Boy Scout andavano
coraggiosamente in bicicletta tra le varie postazioni della contraerea portando messaggi urgenti;
l’Unione Sovietica reclutava dal Komsomol, il movimento giovanile comunista, i ragazzi che
dovevano unirsi alle squadre di soccorso o individuare le bombe incendiarie sui tetti; negli ultimi
mesi dei bombardamenti sulla Germania, i membri della Hitlerjugend venivano inviati come
Flakhelfer (ausiliari della forza antiaerea) a manovrare i cannoni della contraerea in assenza di
truppe regolari dell’aviazione.
Le piú grandi organizzazioni di difesa civile furono fondate in Giappone, Germania e Unione
Sovietica, paesi in cui la protezione delle comunità locali dall’impatto dei bombardamenti
divenne un obbligo quasi universale. I preparativi del Giappone risalivano alla fine degli anni
Venti, quando le esercitazioni di oscuramento e contraerea nelle principali città coinvolsero
l’intera popolazione urbana. Ad aprile del 1937, una Legge per la difesa aerea nazionale
introdusse in tutto il paese un programma secondo cui le «associazioni di condominio» e i gruppi
di quartiere piú piccoli di città e villaggi dovevano assicurarsi che gli abitanti si trasformassero in
potenziali membri della difesa civile. Due anni dopo, per aiutare la popolazione a fronteggiare i
raid aerei, il governo istituí forze ausiliarie di pompieri e polizia reclutate fra le comunità di
civili. La difesa interna si fondava su una tradizione di impegno collettivo che lasciava poco
spazio al dissenso. Le grandi organizzazioni di difesa civile istituite in Unione Sovietica e in
Germania erano altrettanto autoritarie e collettiviste e riflettevano l’ambizione di entrambe le
dittature di voler inserire i propri cittadini in una vasta gamma di attività ideate affinché il loro
impegno aderisse pienamente agli obiettivi della comunità nazionale. In Urss, l’Obščestvo
sodejstvija oborone, aviacionnomu i chimičeskomu stroitel’stvu, la Società per la promozione
della difesa, dell’aviazione e della chimica nota con l’acronimo Osoviachim e fondata nel 1927,
contava nel 1933 almeno quindici milioni di membri, tra cui tre milioni di donne, benché la
minaccia di bombardamenti fosse minima. Gli iscritti ricevevano un addestramento rudimentale
su come difendersi dai raid aerei, affrontare un attacco con i gas e prestare i primi soccorsi dopo
un bombardamento. A luglio del 1941, un decreto sulla formazione «universale e obbligatoria»
contro le incursioni aeree trasformò ogni cittadino in un membro improvvisato della difesa civile.
Già nel 1944 si calcolava che ben 71 milioni di cittadini sovietici di ogni età avessero ricevuto
una qualche forma di addestramento in materia di difesa della popolazione. Nelle città
maggiormente esposte alla minaccia dei bombardamenti, le autorità crearono unità urbane di
«autodifesa» con il compito di fornire aiuto nella lotta agli incendi e nei soccorsi; alla fine della
guerra, tali unità contavano 2,9 milioni di membri. Dalle persone reclutate ci si aspettava che
svolgessero appieno il loro ruolo, preparassero le rispettive comunità ai bombardamenti e
contenessero le conseguenze dei raid. Accanto a questo esercito di cittadini difensori, lo stato
aveva istituito nel 1932 la direzione generale della Mestnaja protivovozdušnaja oborona
(MPVO), la Difesa antiaerea locale che aveva la responsabilità ufficiale di addestrare il personale
della difesa civile, creare una rete di rifugi, principalmente in edifici residenziali, e garantire
servizi antincendio e di primo soccorso dopo i raid. I cittadini impegnati nella MPVO erano
difensori paramilitari, il cui numero, nel periodo di massima intensità della guerra, salí a 747 000
unità . In Germania, la Reichsluftschutzbund (Lega per la difesa aerea del Reich), istituita nel
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1933 dal nuovo ministero dell’Aeronautica, divenne rapidamente uno dei principali organismi
impegnati nella formazione e nell’addestramento della popolazione sulle precauzioni da prendere
in caso di raid aerei. A maggio del 1937 fu introdotta una legge sull’«autoprotezione»
(Selbstschutz) che obbligava tutti i capifamiglia a difendere le loro case e palazzi da un attacco
aereo, offrire assistenza nella difesa antiaerea di edifici pubblici e uffici e prendere parte alla
«protezione del lavoro» nelle fabbriche . Poiché il regime insisteva che l’autodifesa era un
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obbligo della comunità, come accadeva in Unione Sovietica e Giappone, gli undici milioni di
membri che la Lega contava nel 1937 erano divenuti 13 nel 1939 e 22 nel 1943, vale a dire un
quarto della popolazione tedesca. Nel 1942, l’organizzazione aveva 1,5 milioni di funzionari e
gestiva un sistema di 3400 Reichsluftschutzschule, «scuole di difesa antiaerea» in cui si impartiva
l’addestramento di base . Esisteva pure una struttura ufficiale per la protezione antiaerea gestita
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dalla Luftschutzpolizei (forze dell’ordine per la difesa antiaerea), dalla Feuerschutzpolizei (forze
dell’ordine per la difesa antincendio) e dai comandi regionali delle forze aeree tedesche, anche se
l’attività dipendeva in gran parte dal contributo volontario dei membri della Lega
nell’organizzare e supervisionare i preparativi contro i raid aerei messi a punto dalle comunità
locali, al fine di accertarsi che l’«autoprotezione» fosse pienamente rispettata e fornire gli uomini
e donne necessari alle diverse mansioni della difesa civile.
Negli stati occidentali, al contrario, i sistemi della difesa civile dipendevano fortemente dai
volontari che avevano risposto prontamente agli appelli dei governi affinché ognuno, vista la
guerra in corso, assumesse i propri doveri civici. La Gran Bretagna aveva iniziato a reclutare dei
cittadini difensori soltanto alla fine degli anni Trenta. Pur non esistendo un’organizzazione di
massa per la protezione dai raid aerei tale da uguagliare quelle della Germania o dell’Unione
Sovietica, nell’autunno del 1940, quando iniziarono i bombardamenti, il governo non si limitò a
incoraggiare semplicemente il volontariato ma rese obbligatori e universali alcuni aspetti della
difesa civile. Alla fine del 1937, nella paura di una guerra imminente, il governo britannico
aveva approvato l’Air Raid Precautions Act, una legge che richiedeva a tutte le autorità locali di
istituire un programma di difesa civile e nominare un Air Raid Precautions Controller (di solito
l’assessore comunale piú anziano) e un Emergency or War Executive Committee, con l’intento di
supervisionare la difesa civile non appena i temuti bombardamenti fossero diventati una realtà.
Nel 1939 fu istituita una rete di commissari regionali per coordinare le iniziative locali e fungere
da trait d’union tra il governo centrale e le varie comunità . La struttura era formata quasi del
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tutto da civili, mentre all’esercito e all’aviazione era affidata unicamente la responsabilità della
difesa antiaerea attiva, con batterie di contraerea e aerei da combattimento. Per sottolinearne il
carattere non militare, allo scoppio della guerra nel settembre del 1939 la rete fu posta sotto il
controllo di un civile in veste di ministro della Sicurezza Interna. Nell’estate del 1940 la difesa
del fronte interno contava 626 000 difensori civili, un quinto dei quali impegnati a tempo pieno e
altri 354 000 a tempo parziale, da utilizzarsi in caso di emergenza. I servizi antincendio
passarono inoltre da 5000 pompieri regolari nel 1937 a 85 000 vigili del fuoco a tempo pieno e
139 000 pompieri ausiliari nel 1940, mentre i Women’s Voluntary Services for Air Raid
Precautions, fondati alla fine del 1938, potevano vantare al culmine del conflitto quasi un
milione di membri . Alla fine del 1940, in seguito all’introduzione dell’obbligo di sorveglianza
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antincendio nelle fabbriche e negli edifici pubblici, il numero dei membri della difesa civile a
tempo parziale superava i quattro milioni, circa un decimo dell’intera popolazione . Anche nei
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paesi dove non esisteva un obbligo, i civili erano chiamati a organizzare la difesa delle loro
comunità residenziali strada per strada, esortando ogni nucleo familiare, per esempio in
Germania, a prendere parte in qualche modo alla propria protezione.
In Francia e in Italia, due paesi che alla fine degli anni Trenta non potevano non aspettarsi di
essere prima o poi bombardati, le organizzazioni della difesa civile erano tuttavia di dimensioni
piú modeste. Su insistenza del governo francese, nel 1935 era stato istituito un sistema di défense
passive che, come in Gran Bretagna, obbligava tutte le comunità locali a creare una rete di
protezione contro i raid aerei e addestrare la gente del posto a ricoprire ruoli di difesa civile. Al
momento della resa francese nel giugno del 1940, il sistema non era stato ancora adeguatamente
collaudato. Sotto il regime di Vichy, la difesa civile fu abbandonata fino a quando l’aviazione
britannica, e in seguito anche quella americana, iniziò a bombardare alcuni obiettivi francesi. Ora
che la Francia era stata palesemente esclusa dalla guerra, il governo Pétain era riluttante a
mobilitare i civili e sostenere i costi di un esteso sistema di difesa civile, ma, in seguito alle
pressioni tedesche, ai prefetti e ai sindaci locali furono nuovamente affidate le responsabilità
della défense passive, benché fossero a corto di fondi e personale . In Italia, il regime aveva
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emanato nel marzo del 1934 una legge che dava mandato ai prefetti provinciali di istituire un
sistema regionale decentralizzato di difesa civile, ma ai nuovi Ispettorati provinciali per la
Protezione antiaerea non era riconosciuta alcuna priorità né ricevevano risorse . La difesa civile
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italiana faceva particolare affidamento sui volontari dell’Unione nazionale per la protezione
antiaerea (UNPA), istituita dal ministero della Guerra nell’agosto del 1934 allo scopo di formare
un corpo di cittadini difensori, che nel 1939 aveva però raggiunto solamente le 150 000 unità.
Nel 1940, inoltre, allo scoppio della guerra con la Gran Bretagna e la Francia, migliaia di loro
abbandonarono l’organizzazione. Quando si trattava di nominare i funzionari della protezione
civile, si dava priorità ai membri del Partito fascista, né vi era un’azione vera e propria di
coordinamento per mobilitare e organizzare i civili delle principali aree urbane affinché
prendessero parte all’addestramento e adottassero le norme dell’«autoprotezione» . 21

Lontano dalle grandi minacce che gravavano sull’Europa e l’Asia orientale, la difesa civile era
comunque considerata non solo strategicamente necessaria, ma altresí utile a mobilitare la
popolazione e indurla a svolgere compiti in linea con lo sforzo bellico. «Abbiamo raggiunto un
momento storico, credo», disse il generale Marshall nel novembre del 1941 al pubblico della
radio americana, «in cui il cittadino deve assolutamente prendere il suo posto nella preparazione
generale del paese» . Nel maggio dello stesso anno era stato istituito per ordine del presidente un
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Office of Civilian Defense con il compito di preparare i volontari civili non soltanto nel caso in
cui i giapponesi o i tedeschi avessero trovato un modo per bombardare la costa occidentale o
orientale degli Stati Uniti, ma anche per incoraggiare la popolazione a partecipare a una serie di
altre iniziative sociali legate alla guerra. Posto inizialmente sotto la supervisione del sindaco di
New York, Fiorello La Guardia, l’ufficio fu diretto da febbraio del 1942 dal professore di Diritto
di Harvard James Landis, che supervisionò il reclutamento di milioni di americani in ruoli di
difesa civile, come addetti all’avvistamento dei raid aerei, pompieri ausiliari, volontari di primo
soccorso e squadre di paramedici. Complessivamente, si stima che sette-otto milioni di cittadini
si fossero offerti volontari, mentre altre milioni di persone, tra cui bambini in età scolare, furono
avviati a esercitazioni basilari di difesa civile, sia sul posto di lavoro sia a scuola . La 23

pubblicazione periodica dell’Office of Civilian Defense fu intitolata «Civilian Front» per rendere
esplicito il diretto coinvolgimento dei civili nella guerra totale combattuta dall’America. La
difesa civile, scriveva Landis nel 1943, «è un impegno di carattere militare ben preciso, tanto
quanto il compito affidato a una task force armata a cui è stato ordinato di prendere e mantenere
una postazione nemica» . Anche se i bombardamenti sugli Stati Uniti continentali non si
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concretizzarono mai, nonostante la Luftwaffe ambisse a creare il «bombardiere dell’America»


ideale, i responsabili della difesa civile continuarono a essere addestrati fino alla fine della
guerra, mentre i controllori che dovevano avvistare gli eventuali raid aerei pattugliavano le strade
delle città costiere americane. Un’identica situazione si ripeté nelle regioni piú remote
dell’impero britannico, dove la minaccia di un attacco aereo, dopo lo scoppio della guerra nel
Pacifico nel dicembre del 1941, non era affatto improbabile (e nel caso di Hong Kong, Singapore
e Australia settentrionale alquanto reale). In Nuova Zelanda, che non fu mai bombardata al pari
degli Stati Uniti, l’Emergency Precautions Service, istituito nel marzo del 1942, aveva come
modello la difesa civile britannica, con addetti alla sorveglianza dei cieli (uno ogni 500 persone),
servizi di primo soccorso, assistenza e salvataggio. La difesa civile ricordava quotidianamente
alla popolazione neozelandese che la guerra moderna richiedeva la partecipazione di tutti i
cittadini, non solo il semplice sforzo militare. «Cittadini del Commonwealth, siate pronti»,
recitava lo slogan delle organizzazioni di reclutamento. «Può succedere qui!» . 25

In pratica, ai responsabili della difesa civile si chiedeva di proteggere le loro comunità mediante
modalità molto diverse, a seconda del tempo e del luogo. In Europa e Asia, numerose zone
subirono un unico bombardamento, alcune nessuno. Là dove le incursioni furono piú numerose,
tra un raid e l’altro potevano trascorrere mesi o addirittura anni. Le città tedesche come
Amburgo, Colonia o Essen, bombardate piú di 200 volte, furono l’eccezione piuttosto che la
regola. Nella guerra in Asia, solo Chongqing, la capitale dei nazionalisti cinesi bombardata 218
volte tra il 1938 e il 1941, uguagliò l’esperienza tedesca . Anche il carico di ordigni poteva
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variare notevolmente: una squadra di 600 bombardieri pesanti Lancaster poteva sganciare una
quantità devastante di esplosivi ad alto potenziale e di bombe incendiarie, sufficienti a
distruggere con il fuoco l’intero centro di una città; una piccola squadra di cinquanta bombardieri
di medie dimensioni, con un carico di bombe relativamente modesto, poteva infliggere seri danni
a livello locale ma non devastazioni su larga scala. Per la maggior parte dei membri della difesa
civile, il momento di agire era spasmodico e di breve durata; per molti altri vi era poco o niente
da fare, a volte per anni. Il sistema della difesa civile giapponese fu mantenuto in costante stato
di allerta per quattro o cinque anni prima che i bombardieri americani entrassero in azione alla
fine del 1944, cosa che nel tempo aveva provocato in qualche cittadino difensore un misto di
apatia e irritazione. La difesa civile nipponica fu finalmente messa alla prova soltanto negli
ultimi sei mesi della guerra del Pacifico, quando le città giapponesi erano ormai sotto tiro. Le
regole della difesa civile, fatte rispettare da un vero e proprio esercito di responsabili, erano state
comunque mantenute, nel caso di un eventuale attacco dei bombardieri. In ogni paese, mentre le
finestre venivano oscurate, l’acqua razionata e mucchi di sabbia tenuti sottomano in caso di
incendio, l’obbligo imposto ai difensori si rivelava un mezzo efficace per ricordare
quotidianamente alla popolazione che si trovava in prima linea, seppure su un fronte civile.
«Ogni volta che c’è un’esercitazione di difesa antiaerea», scriveva nel 1943 una donna di Tokyo,
«ci fanno mettere in fila indiana e fanno l’appello, borbottando sul fatto che da alcune case non è
venuto nessuno» . Le infrazioni alle regole dell’oscuramento erano regolarmente punite,
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ovunque si verificassero. L’intervento dello stato in guerra divenne una realtà concreta nella vita
quotidiana di quasi tutti i cittadini.
Le esperienze potevano essere diverse anche per la natura stessa della strategia aerea messa in
atto contro la popolazione civile. Quasi tutti i bombardamenti della Seconda guerra mondiale
risultavano imprecisi, spesso con un ampio scarto, benché lo scopo fosse generalmente quello di
minare la potenza bellica del nemico attaccando su grandi distanze obiettivi militari ed
economico-militari. Solo in tre casi l’azione aerea era stata deliberatamente finalizzata a
distruggere l’ambiente civile e uccidere una popolazione inerme: il bombardamento giapponese
di Chongqing; la strategia di bombardamento su aree specifiche delle città tedesche adottata dal
Bomber Command della RAF a partire dall’estate del 1941; e il bombardamento delle città
giapponesi da parte del XXI Bomber Command americano, iniziato con le bombe incendiarie
sganciate su Tokyo nel marzo del 1945 e conclusosi con i due ordigni atomici. Lo sviluppo della
strategia della RAF, che mirava a minare il morale del nemico attraverso una distruzione
pianificata delle aree urbane, aveva le sue radici negli anni Trenta, quando nelle discussioni sulle
future strategie di bombardamento si sosteneva che nella guerra moderna non si doveva piú fare
alcuna distinzione tra combattenti e non combattenti. I civili erano da considerarsi un obiettivo
perché contribuivano materialmente a sostenere lo sforzo bellico del nemico, il che non faceva
che rispecchiare la convinzione degli stessi cittadini che nelle guerre a venire la loro capacità di
resistenza avrebbe probabilmente costituito un obiettivo cruciale. Nel 1944, il vicemaresciallo
dell’Aviazione Richard Peck, responsabile della propaganda della RAF, si pronunciò in favore
dell’attacco indiscriminato alle aree urbane civili con queste motivazioni:
I lavoratori sono l’esercito dell’industria e la loro uniforme è la tuta; ogni uomo è stato prelevato dai corpi dell’esercito
dall’esercito stesso; ogni donna occupa un posto che altrimenti verrebbe occupato da un uomo – e hanno i loro alloggi nelle
vicinanze della città; la loro casa equivale agli alloggi in cui si riposano i soldati o alle trincee della riserva 28.
I bombardamenti delle città industriali tedesche erano stati pianificati sia per causare il massimo
danno ai quartieri residenziali e alle infrastrutture della classe operaia sia per uccidere i
lavoratori, e un risultato del genere lo si otteneva piú facilmente con alte concentrazioni di
bombe incendiarie sganciate sulle zone residenziali del centro delle città . Si trattava di una vera 29

e propria guerra diretta contro la difesa civile. Piccole quantità di ordigni ad alto potenziale
venivano mescolate al carico di bombe incendiarie per far saltare finestre e tetti e scoraggiare gli
addetti alla difesa civile. Per demoralizzarli ulteriormente, gli esplosivi venivano montati su un
certo numero di bombe incendiarie (circa 10 per carico) con spolette a tempo programmate a
intervalli diversi. Nel 1942, ai carichi di bombe degli aerei furono aggiunte piccole bombe
antiuomo. L’intenzione era quella di uccidere o colpire i membri della difesa civile cosí
sfortunati da trovarsi nelle vicinanze della deflagrazione . 30

Per neutralizzare il sistema della protezione civile giapponese le forze aeree dell’esercito
americano che sorvolavano il Giappone adottarono una tattica analoga. Era cosa risaputa che le
città giapponesi fossero facile preda del fuoco. Il generale Marshall, in una conferenza stampa
segreta tenuta poco prima dell’attacco a Pearl Harbor, aveva detto ai giornalisti che se fosse
arrivata la guerra, le «città di carta» del Giappone sarebbero state date alle fiamme: «Non avremo
alcuna esitazione a bombardare i civili: l’attacco sarà totale» . Fu solo nel 1945, tuttavia, che i
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bombardieri americani si trovarono abbastanza vicini da poter condurre pesanti raid incendiari
con lo scopo dichiarato di distruggere l’ambiente urbano, uccidere o lasciare mutilati i lavoratori
giapponesi e demoralizzare la forza lavoro. «Aveva perfettamente senso», osservò il generale Ira
Eaker, vicecomandante delle forze aeree dell’esercito nel 1945, «uccidere i lavoratori
specializzati incendiando intere aree» . Come per la RAF, questo richiedeva un attento studio di
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quali fossero le condizioni operative ottimali per sopraffare i servizi antincendio e di emergenza.
Le ricerche su come ottimizzare i danni causati dal fuoco alle case giapponesi erano iniziate
diversi anni prima delle incursioni, favorite dai calcoli scientifici condotti dagli esperti inglesi
sulla natura dei danni provocati dalle bombe incendiarie – risultati che i britannici condivisero
volentieri con gli Alleati. La distruzione di massa dell’ambiente civile e della popolazione urbana
divenne un obiettivo in sé, come lo era stato per la RAF in Germania. Anche qui si trattò di una
vera e propria guerra tra le forze aeree e la difesa civile.
I cittadini difensori si trovarono ad affrontare la loro prova piú ardua proprio nel corso di tali
operazioni, rivolte deliberatamente contro la popolazione; ovunque vi furono dei
bombardamenti, tuttavia, i difensori civili faticarono a fronteggiare la realtà: durante i raid,
infatti, la maggior parte dei bombardieri riusciva comunque a sorvolare l’obiettivo e riversare il
proprio carico mortale sulle aree residenziali sottostanti. Tale difficoltà veniva riscontrata anche
nei sistemi di difesa antiaerea piú sofisticati. Nel 1944, la linea della contraerea tedesca, la
cosiddetta Kammhuberlinie (dal nome del generale Josef Kammhuber che l’aveva ideata), che
comprendeva attrezzature radar, artiglieria antiaerea, caccia sia diurni sia notturni, non aveva
rivali, anche se, notte dopo notte e giorno dopo giorno, la maggior parte dei bombardieri degli
Alleati, seppure indebolita, riusciva a raggiungere in qualche modo la zona degli obiettivi
prefissati. Dove le difese erano deboli o inesistenti, i bombardieri non dovevano nemmeno
preoccuparsi della minaccia dei caccia nemici o di un efficiente fuoco della contraerea. Alla fine
del 1938, le prime incursioni giapponesi sulla capitale dei comunisti cinesi Yan’an erano state
praticamente incontrastate sino a quando non erano stati installati dei cannoni antiaerei sul
torrione di epoca Ming. A Chongqing, la debole forza dei caccia cinesi era stata letteralmente
spazzata via dai giapponesi e il fuoco della contraerea era stato rapidamente circoscritto,
lasciando agli equipaggi dei bombardieri giapponesi il lusso di bombardare piú o meno a loro
piacere . Perfino in Gran Bretagna, dove nei primi giorni del Blitz di settembre del 1940 la
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potenza dei caccia diurni era riuscita a infliggere pesanti danni ai bombardieri tedeschi in arrivo,
quando ebbero inizio i bombardamenti notturni le città britanniche poterono contare soltanto sul
fuoco delle batterie della contraerea – che colpivano pochi bombardieri ma li costringevano a
volare piú in alto, per cui le loro bombe avevano una precisione ancora minore – e su una
squadra notturna di caccia del tutto inefficiente, fino a quando, nella primavera del 1941, non fu
introdotto il sistema delle intercettazioni radar . Di conseguenza, volenti o nolenti, i membri
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della difesa civile venivano a trovarsi in prima linea, schiacciati tra i bombardieri e la
popolazione bombardata, un fronte tutto particolare, in cui essi non vedevano mai il volto del
nemico che li minacciava.
Durante l’inverno e la primavera del 1940-41, il bombardamento di nove mesi sulle città
britanniche forní ai responsabili della protezione civile l’opportunità di dimostrare di che cosa
fosse capace una forza di difesa ben organizzata. L’esperienza iniziale aveva messo in luce
notevoli problemi, per esempio una scarsa conoscenza di che cosa fosse il panico o di come lo si
potesse mitigare. Un autorevole psicoanalista, Edward Glover, che nel 1940 aveva scritto sulla
paura dei bombardamenti, aveva saputo suggerire solamente, come banale antidoto al panico,
che i cittadini dai nervi piú saldi portassero con sé una fiaschetta di brandy o un pacchetto di
biscotti con cui calmare i loro compatrioti maggiormente agitati . In piú di un caso si verificò tra
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la popolazione civile una situazione di panico diffuso, che, dopo un’incursione aerea, sfociò in
un esodo di massa dalla città, anche se la pronta disponibilità di un rifugio e l’offerta di
assistenza erano di solito sufficienti a disinnescare una potenziale crisi sociale. Il problema della
fuga di massa dalle città, denominata all’epoca trekking, si rivelò piuttosto grave a Plymouth,
Southampton e Hull, tutti porti ripetutamente bombardati. Il pesante bombardamento di
Southampton, alla fine di novembre del 1940, era stato cosí devastante che il sistema di difesa
civile aveva subito un temporaneo collasso, «sopraffatto dalle dimensioni del disastro», come
ebbe a dire il commissario regionale. Il giorno successivo al raid, un funzionario del ministero
dell’Alimentazione trovò che la gente era «stordita, disorientata, priva di occupazioni e di
istruzioni» . I membri della difesa civile erano stati ostacolati dalla caduta delle
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telecomunicazioni e dalla perdita della sala centrale di controllo, che elaborava le precauzioni da
usare in caso di raid aerei. La popolazione aveva cercato rifugio nei boschi e nei villaggi vicini,
anche se il bilancio dei 244 morti causati dalle due incursioni fu modesto rispetto alle perdite che
i bombardamenti degli Alleati avrebbero inflitto a loro volta nella fase successiva della guerra.
I primi insuccessi spinsero a una rapida riforma del sistema di difesa civile, mettendo l’accento
sull’efficienza delle comunicazioni e dell’informazione, aumentando il numero di centri di
assistenza ben equipaggiati, creando mense di emergenza ed elaborando soprattutto programmi
per rendere rapidamente abitabili le case che potevano ancora essere riparate con facilità. Per
l’esercito dei sorveglianti dei raid aerei, il cui compito era quello di allertare la comunità appena
suonava la sirena dell’allarme antiaereo, la difficoltà maggiore era quella di fare rispettare la
disciplina dei rifugi, che era l’unico modo certo per ridurre il numero delle vittime. In Germania
e Unione Sovietica era obbligatorio recarsi in un rifugio e la polizia aveva il compito di aiutare i
sorveglianti locali a mantenere la disciplina, anche con la forza se necessario (disciplina che in
Germania comportava l’esclusione di ebrei e lavoratori stranieri costretti ai lavori forzati da tutti
i rifugi, riservati ai soli tedeschi «ariani»). I sorveglianti britannici non potevano invece ricorrere
ad alcuna sanzione legale, per cui la ricerca di un rifugio rimaneva una decisione individuale
anziché un obbligo la cui infrazione veniva punita dalla legge. Il governo, inoltre, preferiva un
sistema di rifugi decentralizzati negli scantinati e nelle cantine, oppure, quando possibile, i
«rifugi Anderson», scavati nel giardino di casa. Soltanto metà della popolazione in pericolo
aveva accesso a un rifugio, nessuno dei quali, per altro, era effettivamente a prova di bomba. Una
ricerca successiva rivelò che tra le famiglie che non avevano un rifugio in casa propria, solo il 9
per cento cercava di usare quelli pubblici , che si erano rivelati ben presto mal costruiti, insalubri
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e quasi tutti senza adeguati posti letto. La fiducia della gente rimase bassa anche dopo dicembre
del 1940, quando il governo avviò un vigoroso programma che doveva garantire in ogni rifugio
letti, assistenza e igiene. Migliaia di persone, al contrario, sceglievano di ignorare il sistema della
difesa civile e rimanere nelle proprie case, a letto, sotto le scale o sotto il tavolo – un elemento,
questo, che contribuisce a spiegare le alte perdite subite durante i bombardamenti, per altro ben
lontani dalle dimensioni dei pesanti e ininterrotti raid lanciati successivamente sulla Germania e
sul Giappone. In Gran Bretagna, in realtà, fu distrutto solo il 3 per cento dell’area urbana, un
dato che raggiunse però il 39 per cento in Germania e un incredibile 50 per cento in Giappone . 38

I bombardamenti a tappeto erano stati progettati per frantumare la struttura della difesa civile
nemica e aprire la strada a una distruzione illimitata, quasi sempre con le bombe incendiarie.
Nelle città in cui si verificarono le grandi tempeste di fuoco – ad Amburgo nel luglio del 1943, a
Kassel tre mesi dopo e a Dresda nel febbraio del 1945 –, la difesa civile fu effettivamente
sopraffatta. Durante il bombardamento di Amburgo erano all’opera 34 000 persone tra vigili del
fuoco, soldati e soccorritori, ma riuscirono soltanto a limitare la diffusione degli incendi nei
sobborghi della città. Nel suo rapporto sulla tempesta di fuoco della notte tra il 27 e il 28 luglio,
il capo della polizia della città ammise che la difesa civile si era trovata inerme di fronte alla
portata degli incendi – «non ci sono parole», scrisse, cercando di esporre quanto era successo –,
ma raccomandò di apportare importanti cambiamenti al modo in cui gli addetti alla difesa civile
affrontavano la minaccia del fuoco: ispezionare tutti i rifugi domestici (la cosiddetta «stanza a
prova di bomba») per assicurare un’uscita di emergenza cosí da impedire che quanti si trovavano
all’interno morissero asfissiati, dato che le fiamme bruciavano l’ossigeno, com’era appunto
avvenuto ad Amburgo; costruire chiare vie di fuga nei centri cittadini, affinché la popolazione
potesse fuggire prima di essere travolta dalla tempesta di fuoco . Al personale della difesa civile
39

fu consigliato di addestrare tutti i capifamiglia a disattivare immediatamente le bombe


incendiarie lanciate durante i raid al fine di evitare che gli incendi di minore portata confluissero
l’uno nell’altro causando una pericolosa conflagrazione, cosa che esponeva cosí un piú alto
numero di civili ai pericoli a cui erano normalmente esposti i cittadini difensori. Nel 1944, la
maggior parte degli 1,7 milioni di vigili del fuoco presenti in Germania era costituita da
volontari, tra cui 275 000 donne e ragazze. Circa 100 000 volontari erano organizzati in 700
unità di emergenza, progettate per spostarsi, in caso di necessità, da un luogo all’altro in modo da
contrastare gli incendi. Ad agosto del 1943 furono istituite speciali «squadre di autoprotezione» e
tutti i civili vennero obbligati per legge a prendere parte attiva nella difesa collettiva, senza
quindi limitarsi semplicemente all’autoprotezione delle singole abitazioni . Ad Amburgo venne
40

altresí sollecitata una maggiore attenzione ai rifornimenti di cibo, presenza di rifugi di emergenza
e assistenza medica nelle aree bombardate; come in Gran Bretagna, l’efficienza delle
informazioni, l’abbondanza di cibo e assistenza, oltre a un programma di evacuazione e rapida
ricostruzione (svolta in parte da manodopera proveniente dai campi di concentramento),
evidenziarono fino a che punto la difesa civile e i servizi di soccorso, se adeguatamente
organizzati, fossero in grado di contrastare i tentativi di incentivare la disgregazione sociale nelle
città bombardate. Ad Amburgo, circa il 61 per cento delle abitazioni fu danneggiato o distrutto,
ma nel giro di pochi mesi il 90 per cento di quanti erano rimasti in città, circa 300 000 famiglie
su mezzo milione, venne rialloggiato in edifici ristrutturati o prefabbricati .
41

Il lancio delle bombe incendiarie rappresentò per le città giapponesi un ulteriore momento in cui
l’organizzazione della difesa civile cedette sotto una pressione estrema. Le autorità si
aspettavano un bombardamento di precisione su obiettivi economici e militari, analogo a quello
effettuato con scarso successo dalle forze aeree americane nella prima ondata di incursioni tra la
fine del 1944 e febbraio del 1945. Gli ordigni incendiari, lanciati per la prima volta nel grande
raid su Tokyo nella notte tra il 9 e il 10 marzo, crearono conflagrazioni impossibili da
controllare. I volontari della difesa civile erano stati addestrati per far fronte a raid di portata piú
limitata, e quando il fuoco divorò rapidamente un’intera zona urbana le esercitazioni antiaeree
dei civili proprietari di case si rivelarono completamente inadeguate. «Se bombardano», scrisse
una madre giapponese alla figlia evacuata nel maggio del 1945, «pensa per favore che la casa è
persa» . Nei rifugi c’era spazio solo per il 2 per cento della popolazione urbana. Le città
42

giapponesi, con le loro costruzioni in legno e carta, erano particolarmente vulnerabili ai


bombardamenti incendiari; circa il 98 per cento degli edifici di Tokyo erano costruiti con
materiale infiammabile, senza contare che nelle principali aree urbane vi era una densità
demografica eccezionalmente alta . 43

Nel 1939 e nel 1940, i primi bombardamenti dell’aviazione navale giapponese sulla capitale
cinese Chongqing avevano dimostrato quanto le città di quel tipo potessero essere vulnerabili. Le
strade strette e anguste, su cui si addossavano edifici costruiti principalmente in legno e bambú,
erano ideali per diffondere gli incendi anche durante un attacco circoscritto. Circa i quattro quinti
del centro commerciale della città furono distrutti interamente dal fuoco in pochissimi raid di
piccoli gruppi di aerei nemici . Al fine di scongiurare un disastro simile nelle regioni della
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madrepatria giapponese, le autorità della difesa civile ordinarono la demolizione di ben 346 629
edifici per poter creare nelle aree urbane delle fasce tagliafuoco. I bombardamenti americani a
bassa quota dei giganteschi Boeing B-29, tuttavia, saturarono l’area urbana con migliaia di
tonnellate di ordigni incendiari, colpendo una zona ben delimitata. Delle 160 000 tonnellate di
bombe sganciate sul Giappone, 98 000 erano incendiarie . Nel raid su Tokyo, il collasso della
45

difesa civile, delle attività assistenziali e del pronto soccorso fu aggravato dalla distruzione di
449 delle 857 stazioni di primo aiuto, cosí come di 132 dei 275 ospedali e di centinaia di centri di
assistenza precedentemente allestiti. Allo scopo di tenere alto il morale della popolazione e
prevenire il panico di massa, venne data la priorità alle «squadre del pensiero politico», ma, di
conseguenza, i servizi di soccorso e antincendio si ritrovarono con scarse risorse e un numero
insufficiente di personale, senza attrezzature adeguate né apparecchiature di soccorso
specializzate. Il risultato fu che a Tokyo si registrò un livello eccezionalmente alto di vittime e si
stima che nella tempesta di fuoco del 9-10 marzo siano morte 87 000 persone. In tutta l’area
urbana bombardata, in soli cinque mesi di incursioni, le statistiche ufficiali contarono 269 187
morti, 109 871 feriti gravi e 195 517 con ferite piú leggere .46

Questo spaventoso bilancio di vittime, soprattutto civili, si ripeté in tutte le aree pesantemente
bombardate, anche se la protezione civile non fu in grado di evitare perdite tra la popolazione e
distruzioni di massa neppure nelle zone soggette a bombardamenti piú leggeri. In Germania, le
stime attuali parrebbero indicare che persero la vita tra 353 000 e 420 000 persone (il numero
ufficiale del 1956 era di 625 000); i bombardamenti sulla Gran Bretagna provocarono 60 595
morti, a causa di bombe, razzi e missili da crociera; i raid degli stati europei sotto occupazione
tedesca, seppure pianificati in modo da limitare dove possibile le perdite, evitando quindi
bombardamenti incendiari a tappeto nelle aree urbane, causarono in Francia tra 53 000 e 70 000
morti tra i civili; in Belgio circa 18 000; in Olanda altri 10 000; in Italia, sia quando era un paese
dell’Asse sino alla resa dell’8 settembre sia poi sotto l’occupazione tedesca fino a maggio del
1945, la cifra ufficiale del dopoguerra relativa ai morti sotto i bombardamenti è di 59 796
vittime; le statistiche ufficiali dei bombardamenti tedeschi su obiettivi sovietici, per quanto
modesti fossero stati i raid, registrarono altri 51 526 morti; la stima piú attendibile dei cinesi
morti sotto i bombardamenti è di 95 522 persone . A tutte queste vittime occorre aggiungere i
47

civili gravemente feriti durante le incursioni, che nella maggior parte dei casi provocarono
approssimativamente il raddoppio del numero delle vittime. La cifra di circa un milione di morti
e un numero analogo di feriti gravi potrebbe far pensare che, a conti fatti, gli enormi sforzi
compiuti dalla difesa civile furono un puro e semplice fallimento. Il fronte della battaglia si
presentava certamente come un caso di guerra asimmetrica: si trattava di bombardieri
equipaggiati con una spaventosa serie di armamenti e lanciati contro addetti alla difesa civile
disarmati e, nella maggior parte dei casi, anche contro volontari civili impiegati a tempo parziale.
Eppure, nonostante tale disparità, i cittadini difensori e la grande schiera di civili che svolgevano
ruoli ausiliari nei tanti programmi di autoprotezione non esitarono ad affrontare la potenza aerea
nemica pure nelle città colpite dalle bombe incendiarie, con il preciso impegno di evitare
l’incontrollabile collasso sociale predetto dalla narrazione e dalla futurologia militare prebellica.
Non c’è dubbio che nelle comunità urbane, senza la difesa civile, il numero delle vittime e il caos
sociale sarebbero stati notevolmente piú alti e l’impatto dei bombardamenti si sarebbe avvicinato
maggiormente alle previsioni di Giulio Douhet. Nei momenti in cui la difesa civile venne meno,
come accadde in diversi casi e in particolare durante le tempeste di fuoco, la crisi poté essere in
genere contenuta grazie ai soccorsi urgenti arrivati dall’esterno della città colpita. In Gran
Bretagna, la tendenza al trekking, cioè la fuga di massa dai porti bombardati, non creò una crisi
sociale permanente. I servizi assistenziali crearono delle «cinture cuscinetto» di emergenza nelle
campagne circostanti, dove le famiglie potevano vivere mentre i lavoratori facevano ogni giorno
i pendolari per raggiungere la città. Molte altre vite furono salvate da programmi formali e
informali di evacuazione di massa, introdotti in tutte le aree colpite. In Germania, all’inizio del
1945 quasi nove milioni di persone lasciarono le città; in Giappone, alla fine della guerra la cifra
si avvicinò agli otto milioni. Anche durante le stesse incursioni, molte vite furono salvate grazie
allo sforzo immediato degli addetti alla difesa civile, che, laddove erano disponibili dei rifugi,
fecero in modo di persuadere la popolazione a farne uso in maniera ordinata. Quando si
scatenava il panico improvviso, gli esiti potevano essere disastrosi, come ebbe a verificarsi dopo
una lunga incursione giapponese su Chongqing il 5 giugno 1940. Mentre le persone terrorizzate
uscivano da una galleria trasformata in rifugio, altre cercavano disperatamente di entrarvi dopo
che era giunta voce che i giapponesi stavano tornando con le bombe a gas. Molti di quelli che
cercavano di uscire rimasero schiacciati nella calca. Secondo i registri della polizia, nel fuggi
fuggi generale persero la vita 1527 persone . Il panico scatenatosi il 3 marzo 1943 alla stazione
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della metropolitana londinese di Bethnal Green, dopo un allarme antiaereo, creò un eccessivo
affollamento lungo le scale umide e scarsamente illuminate, con il risultato che 173 persone
furono calpestate o soffocate .
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Questi casi furono tuttavia un’eccezione. Gli addetti alla sorveglianza svolgevano
coraggiosamente il loro compito, controllando le comunità in pericolo, assicurando un accesso
disciplinato ai rifugi pubblici e monitorando l’utilizzo dei ripari domestici. I vigili del fuoco e i
primi soccorritori rischiavano ogni volta la vita sotto i bombardamenti. Anche a Chongqing,
dove erano stati frettolosamente improvvisati piú di mille rifugi nei tunnel sulle colline della
città, quando l’allarme segnava il momento di rifugiarsi nelle gallerie, i sorveglianti riuscivano
generalmente a imporre l’ordine nelle loro comunità. Nel 1937, su una popolazione di quasi
mezzo milione di persone, i rifugi potevano accoglierne solo 7000, ma nel 1941 erano disponibili
ripari antibombe per 370 000 persone . Nel 1939 si registravano undici vittime ogni due bombe
50

sganciate sulla città; nel 1941 la cifra era di una vittima ogni 3,5 bombe . Durante il Blitz sulla
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Gran Bretagna, le settimane con il picco di vittime furono quelle tra settembre e novembre del
1940, quando il sistema era ancora in fase sperimentale. Ovunque, gli addetti alla difesa civile
facevano il possibile per limitare gli effetti piú gravi dei bombardamenti e le loro immediate
conseguenze. I racconti dell’epoca sui raid aerei contengono numerose storie di eroismo
personale in cui sono protagonisti dei civili. In Germania, ai cittadini difensori uccisi in servizio
era concesso l’onore, come ai soldati caduti, di avere una croce di ferro accanto al loro nome
negli elenchi dei morti riportati sui giornali; gli eroi sopravvissuti potevano essere decorati con la
croce di ferro al valor militare. Per poter concedere un’onorificenza a chi aveva mostrato
coraggio sotto le bombe del Blitz sulla Gran Bretagna, re Giorgio VI istituí la George Medal, una
decorazione che celebrava lo straordinario valore dei civili. Tra i primi a essere decorati ci
furono due vigili del fuoco e un pompiere ausiliario del Dover Auxiliary Fire Service, che non
avevano esitato a cercare di mettere in salvo una nave piena di esplosivi mentre cadevano le
bombe, e due autiste di ambulanza del Suffolk, che avevano salvato un uomo gravemente ferito
durante un raid.
Gli addetti alla difesa civile e i milioni di cittadini che lavoravano con loro svolsero un ruolo
fondamentale per contenere gli effetti demoralizzanti dei bombardamenti e per limitare gli esiti
traumatici dei raid. Nella loro opera essi agivano come agenti dello stato, garantendo un grado di
gestione civile locale che legava le comunità colpite allo sforzo piú generale compiuto a livello
nazionale per sostenere il morale della popolazione e per contenere al tempo stesso i danni e la
distruzione causati dai bombardamenti. Si trattò sicuramente di un successo impari, ma, in linea
generale, la difesa civile contribuí a mantenere vivo un certo senso di solidarietà tra le comunità
locali, solidarietà che lo stato centrale non sarebbe stato in grado di ottenere da solo. A seguito
dei bombardamenti era cresciuta la fiducia nello stato, tuttavia i mezzi con cui essa era stata
ottenuta erano da attribuire innanzitutto agli sforzi di coloro che si erano impegnati nella difesa
civile, nell’assistenza e nei soccorsi, con l’unico fine di sostenere la vita della comunità
nonostante le ripetute incursioni aeree. La guerra dei civili contro i bombardieri, inoltre, avvicinò
piú intimamente le comunità locali alla realtà del conflitto, mentre la costante disciplina richiesta
dal rispetto delle regole della difesa civile e dall’addestramento di milioni di cittadini comuni
trasformò il fronte interno in un surrogato di quello militare. Il 12 luglio 1941, in un discorso ai
volontari della difesa civile, Winston Churchill si rivolse loro in termini militari: «Addestrate le
truppe civili, preparate le munizioni per combattere il fuoco nemico, mobilitate la popolazione,
addestrate ed equipaggiate il grande esercito di combattenti contro le bombe incendiarie» . 52

Ovviamente, anche quando indossavano un’uniforme, i volontari civili non erano dei soldati,
bensí cittadini disarmati e addestrati a una forma del tutto particolare di combattimento. Sotto
l’impatto dei bombardamenti, i civili si trovarono, spesso per anni, a combattere una guerra
impari in cui subirono perdite sostanziali. Nient’altro ha mai rappresentato la mobilitazione dei
civili in guerra in modo cosí esplicito come la guerra combattuta dalla difesa civile.
I molti volti della Resistenza in tempo di guerra.
I movimenti della Resistenza aprirono un fronte di natura completamente diversa da quella della
difesa civile. In quel caso non si trattava di sostenere una solidarietà comunitaria dinanzi a una
minaccia condivisa, bensí di destabilizzare le società sotto occupazione nemica. La Resistenza fu
diretta contro un nemico che aveva già sconfitto le forze armate nazionali o imperiali e che ora,
da conquistatore, controllava intere aree abitate dalla popolazione civile. Mentre la difesa civile è
relativamente facile da definire, la Resistenza si rivela, allora come oggi, restia a qualunque
semplice definizione. La Resistenza poteva assumere molte forme, nascoste o palesi. Piccole
azioni di non conformità o di dissenso erano sí diffuse, ma difficilmente rispecchiavano
l’immagine della Resistenza durante la guerra. Ad agosto del 1940, il giornalista francese Jean
Texcier pubblicò in forma anonima i 33 Conseils à l’occupé (33 raccomandazioni agli occupati),
dove si limitava a elencare i modi in cui il popolo francese avrebbe dovuto evitare contatti,
atteggiamenti solidali o perfino conversazioni con il nemico tedesco . Tale atteggiamento
53

passivo nei confronti dell’occupazione era la forma piú comune di comportamento. La maggior
parte dei civili si limitava ad aspettare la liberazione – un atteggiamento descritto con il termine
attentisme dalla Resistenza francese e attendismo dai partigiani italiani . Nelle regioni europee e
54

asiatiche occupate era diffuso il comprensibile desiderio di riuscire in qualche modo a


sopravvivere all’occupazione senza attirare l’attenzione del nemico o correre rischi. Dal punto di
vista storico, la visione postbellica di una divisione polarizzata dei paesi occupati, tra résistants e
collaborateurs nel caso francese o tra káng Ri (resistenti) e hanjian (collaboratori) nella Cina
sotto il dominio giapponese, ha poco senso . I milioni di persone che non partecipavano
55

attivamente alla Resistenza trovavano una loro collocazione tra questi due poli, spostandosi
verso l’uno o l’altro a seconda delle circostanze, cercando sempre e comunque di proteggere la
propria sfera privata dalle sofferenze imposte dagli invasori e dai tirapiedi locali. Resistenti e
collaborazionisti, volenti o nolenti, appartenevano sempre a una piccola percentuale della
popolazione sotto occupazione militare.
La Resistenza con un piú attivo ruolo di militanza fu un fenomeno eterogeneo.
Fondamentalmente, quasi tutti i principali movimenti avevano come obiettivo la liberazione
nazionale, un’ambizione che si rifletteva nei nomi scelti: Comitato di liberazione nazionale in
Italia, Conseil national de la Résistance in Francia, Ethnikó apeleftherotikó métopo (Fronte di
liberazione nazionale) ed Ellinikòs Laïkòs Apeleftherotikòs stratós (ELAS, Esercito popolare
greco di liberazione) in Grecia, Narodnooslobodilačka vojska (Esercito di liberazione nazionale)
in Jugoslavia e cosí via. Questi movimenti nazionali mascheravano tuttavia modi diversi di
esprimere lo spirito di resistenza e non tenevano conto delle formazioni piú piccole, spesso a
livello locale, che non si identificavano necessariamente con una piú generale campagna di
liberazione nazionale su base ideologica, politica o tattica. Il concetto di «resistenza» può essere
meglio sintetizzato come una qualsiasi forma di confronto attivo con l’autorità degli occupanti,
di cui violava le regole o metteva in discussione la presenza politica e militare. In alcuni casi,
questo significava un’attività politica sovversiva – pubblicazione di giornali, opuscoli o manifesti
murali, organizzazione di incontri clandestini e creazione di reti –, senza però la necessaria
transizione al livello successivo di guerriglia organizzata e/o attività terroristica. Il giornale piú
popolare della Resistenza francese, «Défense de la France», stampato in una stanza del
seminterrato della Sorbona, lanciava una forma di scontro culturale con il regime di occupazione,
anche se i suoi redattori non furono mai coinvolti in azioni violente . Nei villaggi delle zone
56

occupate della Cina, il teatro popolare basato sui tradizionali yangge (canti dei germogli di riso)
rappresentava una forma di opposizione culturale e proponeva brevi spettacoli sui temi della
Resistenza – con titoli come «Ci uniamo alle forze della guerriglia» o «Arrestare i traditori» –
che il pubblico contadino poteva facilmente comprendere . Nella maggior parte dei casi, tuttavia,
57

la Resistenza comportava azioni violente contro l’invasore straniero, anche da parte di


organizzazioni o gruppi che si erano proposti inizialmente di impegnarsi nella lotta politica ed
evitare ogni forma di terrorismo. Il 15 marzo 1944, dopo anni di brutale repressione tedesca, il
giornale «Défense de la France» pubblicò un editoriale dal titolo Le devoir de tuer (Il dovere di
uccidere): «Il nostro dovere è chiaro: dobbiamo uccidere. Uccidere i tedeschi per ripulire il
nostro territorio, ucciderli perché uccidono la nostra stessa gente, ucciderli per essere liberi» .
58

La resistenza armata assunse molte forme distinte. Vi furono atti di terrorismo spontanei e
individuali; gruppi che si impegnarono in sabotaggi e uccisioni organizzati attraverso una piú
ampia rete di partigiani; vi furono infine importanti formazioni di guerriglieri e/o partigiani che
si raggruppavano nelle retrovie nemiche per logorare e intimidire le truppe. Persisteva comunque
un ampio divario tra l’oscura esistenza di poche centinaia di oppositori che operavano in reti
clandestine di massima segretezza e i grandi eserciti partigiani attivi verso la fine della guerra.
Nel 1945, le forze armate del Partito comunista cinese contavano 900 000 uomini; nel 1944,
l’ELAS ne contava 80 000, con ben 50 000 riservisti; l’Esercito di liberazione nazionale della
Jugoslavia contribuí alla riconquista della Serbia con 8 divisioni, arrivando ad avere tra le sue
file 65 000 partigiani che sostennero l’Armata Rossa nella presa di Belgrado . Queste diverse
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forme di resistenza armata erano dettate in parte dall’assetto geografico, in parte dalla tempistica.
I partigiani che combattevano in Europa potevano sfruttare le grandi aree montane e i fitti boschi
delle catene montuose dell’Italia, le colline e le montagne della Jugoslavia, della Macedonia e
della Grecia, o le vaste foreste e paludi della Polonia orientale e dell’Unione Sovietica
occidentale. Nei casi in cui gli oppositori cercavano di intervenire nelle aree urbane dell’Europa
occidentale o nelle sterminate steppe dell’Ucraina e della Russia, potevano diventare facile preda
del nemico. In Francia, dal 1943 in poi, i résistants si radunarono in gran numero nelle foreste e
sulle montagne del Massiccio Centrale o delle Alpi francesi, adottando la parola corsa maquis,
«macchia», per definirsi con un adeguato termine topografico. In Asia, le foreste delle Filippine
e della Birmania, o le vaste aree di montagna, gli altopiani e le valli fluviali della Cina
settentrionale e centrale offrivano una certa salvaguardia da un nemico distribuito sul territorio,
permettendo cosí alle forze di resistenza di consolidarsi.
Il problema della tempistica dovette essere affrontato da tutti i movimenti di resistenza, grandi e
piccoli. Agli inizi, la Resistenza fu spesso una reazione spontanea all’invasione, destinata a non
avere un ruolo particolarmente incisivo. In seguito, gli oppositori dovevano analizzare
l’andamento della guerra prima di poter decidere come e quando agire. La Resistenza continuò
anche durante il lungo periodo in cui le sorti della guerra sembravano incerte, ma in alcuni casi si
cercò di evitare il piú possibile l’azione armata per conservare le forze e l’equipaggiamento fino
al momento in cui la vittoria alleata fosse stata piú certa. L’Armia Krajowa creò in tutte le zone
occupate una rete di riservisti da utilizzare solo in una rivolta finale, allorché la liberazione fosse
apparsa imminente. La strategia, come aveva annunciato nella primavera del 1943 il comandante
in capo Stefan Rowecki, era quella di «aspettare con le armi in mano e non essere coinvolti in
azioni frettolose che potrebbero concludersi in bagni di sangue» . Dopo la sconfitta inflitta sul
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campo dall’esercito giapponese nella Cina settentrionale, Mao Zedong insistette che la resistenza
comunista si limitasse a piccoli attacchi di guerriglia, anche con lunghi periodi di inattività, cosí
da preservare le forze comuniste per la fine della guerra di resistenza e la futura guerra civile:
«Noi crediamo in una strategia di guerra prolungata e azioni decise con estrema rapidità» . Altri
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movimenti ritenevano che contro le forze di occupazione avesse piú senso una guerra di
logoramento, trascurando la questione se una resistenza attiva già molto prima della liberazione
potesse essere inutile o addirittura demoralizzante. A settembre del 1941, il Fronte di liberazione
nazionale greco pubblicò un manifesto sulle finalità del movimento: «La lotta deve continuare in
ogni momento e in ogni luogo […] sulla piazza del mercato, nel caffè, nella fabbrica, nelle
strade, nelle fattorie, e avere sempre successo» . 62

L’adesione ai movimenti della Resistenza e alle forze militari fu altrettanto eterogenea e soggetta
a cambiamenti nel tempo. Inizialmente, la Resistenza dipese fortemente dal contributo di piccoli
gruppi di intellettuali, professionisti e studenti che potevano plasmare gli obiettivi del
movimento, produrre e pubblicare materiale sull’opposizione all’invasore e stabilire delle reti di
comunicazione. Anche gli ufficiali delle forze armate sconfitte che avevano evitato la cattura e il
campo di prigionia ebbero un ruolo di primo piano nel dare vita alla Resistenza. I primi
importanti gruppi francesi, attivi nel sud del paese non occupato, riflettevano il carattere sociale
della militanza iniziale: Combat fu fondato nell’estate del 1941 da Henri Frenay, un capitano
dell’esercito con una particolare visione radicale; Libération-Sud nacque per iniziativa di un
giornalista di sinistra, Emmanuel d’Astier de la Vigerie; nella zona occupata, Libération-Nord fu
fondato nel dicembre del 1940 da Christian Pineau, un ex funzionario del ministero
dell’Informazione, e alcuni dirigenti sindacali . Man mano che la guerra proseguiva e la
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Resistenza diventava un movimento di massa, mutò anche la composizione sociale. Molti dei
primi leader e attivisti furono catturati e giustiziati, per essere sostituiti da militanti piú giovani.
Nel 1943 e nel 1944, migliaia di giovani francesi si unirono alla guerriglia per evitare di essere
mandati ai lavori forzati in Germania; in Italia, dopo la resa dell’8 settembre, migliaia di giovani
italiani fuggirono nelle brigate partigiane per non essere arruolati nell’esercito dello stato fascista
appena istituito o per sottrarsi ai lavori forzati per i tedeschi .
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Le nuove formazioni dovevano molto alla decisione di impegnarsi nella Resistenza presa dai
partiti comunisti europei dopo che le forze dell’Asse invasero l’Unione Sovietica, svincolandoli
quindi dal Patto di non aggressione tedesco-sovietico. Nella guerra partigiana italiana, i
comunisti contribuirono con il maggior numero di unità e le loro «brigate Garibaldi» formavano
circa il 50 per cento delle forze di guerriglia . Il movimento della Resistenza comunista francese,
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Francs-tireurs et partisans (FTP), formatosi nel 1942, divenne una delle piú importanti
organizzazioni e nel 1944 contava 60 000 attivisti iscritti al partito . In Grecia, Jugoslavia e
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Unione Sovietica, la Resistenza partigiana venne costruita grazie agli sforzi dei partiti comunisti
per organizzare e inglobare nel movimento un gran numero di reclute prevalentemente di
estrazione contadina, organizzate da funzionari e membri del partito provenienti in genere da un
ambiente piú urbano o dalla classe operaia. Anche se i partigiani comunisti erano inclusi in unità
di tipo militare, molti erano volontari civili o giovani reclute, costretti a sopravvivere adattandosi
ai rigori e ai regolamenti delle formazioni paramilitari. Nell’esercito comunista cinese, le reclute
civili ricevevano appena un mese di addestramento, quasi la metà del quale dedicato
all’educazione politica e storica piuttosto che alla preparazione al combattimento. Oltre alle unità
dell’esercito, il Partito organizzava milizie locali nei Corpi di autodifesa del popolo, composti
interamente da contadini dei villaggi, tra cui le Avanguardie della resistenza al Giappone, che
includevano le giovani reclute dai diciotto ai ventiquattro anni, e le Unità Modello, che
arruolavano gli uomini piú anziani. Nel 1945 le reclute civili locali ammontavano a quasi tre
milioni ed erano impegnate nella difesa delle rispettive comunità . 67

Una percentuale significativa dei militanti della Resistenza era formata da donne, il cui
coinvolgimento indicava chiaramente che la guerra partigiana, come la partecipazione alla difesa
civile, era una scelta fatta dalla popolazione civile senza distinzioni di genere. Le donne erano
presenti in ogni fase e in ogni tipo di movimento, armato o disarmato. Anche se nei racconti
della Resistenza esse appaiono spesso come semplici ausiliarie che aiutavano a rifornire le unità
partigiane, oppure rivestivano ruoli di staffette e vedette, offrivano case «sicure» agli uomini in
fuga o curavano i feriti, tutte queste attività erano comunque considerate dal nemico come atti di
resistenza, quali in effetti erano, e venivano punite con la stessa severità riservata a un partigiano
armato. Non mancavano tuttavia delle questioni problematiche che riguardavano piú
specificamente le donne. Erano loro, per esempio, a essere maggiormente coinvolte nelle
proteste per gli scarsi rifornimenti di cibo razionato o per le condizioni lavorative e assistenziali
riservate alle migliaia di donne che si trovavano ora a sostituire gli uomini; per molte di loro, sia
dentro sia fuori la Resistenza, la protezione della famiglia era una priorità assoluta. Si è calcolato
che in Francia vi furono almeno 239 manifestazioni di donne che protestavano per problemi
legati al nucleo familiare . Per alcune di loro, la resistenza politica fu un ulteriore modo per
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sfidare il potere maschile e aprire la strada all’emancipazione femminile, permettendo di


perseguire al contempo due forme di liberazione. Tali aspirazioni non venivano necessariamente
espresse in termini di resistenza attiva, ma la linea di separazione tra le donne che protestavano
per problemi domestici o familiari e le donne che operavano nelle reti della Resistenza era
oltremodo permeabile. All’interno del movimento francese, molti uomini consideravano il lavoro
svolto dalle donne, ovvero procurare cibo, riparo e cure mediche, come un’estensione della vita
domestica piuttosto che un tentativo di passare alla militanza attiva, un passo compiuto in effetti
da poche donne francesi . Si stima che in Jugoslavia un milione di donne, soprattutto di
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estrazione contadina, fornisse una qualche forma di aiuto clandestino a un numero molto piú
esiguo di donne impegnate attivamente nella lotta armata. Molte appartenevano all’Antifašistička
fronta žena (Fronte delle donne antifasciste), che nel 1945 contava oltre due milioni di iscritte,
con comitati regionali e locali e propri giornali . In Italia, i Gruppi di difesa delle donne,
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costituiti nel novembre del 1943 per fornire, tra le altre cose, assistenza e sostegno alle famiglie,
alle donne lavoratrici e alla popolazione bombardata, erano impegnati anche nella produzione e
distribuzione di giornali e volantini clandestini, oltre che in altre forme piú dirette di assistenza ai
partigiani. L’atto costitutivo sottolineava l’adesione alla Resistenza: «I barbari rubano e
depredano, devastano e uccidono. Non possiamo cedere. Dobbiamo combattere per la
liberazione» .
71

Molte donne combattevano a fianco degli uomini, invadendo quella che era stata una prerogativa
maschile. Interrogata da un tribunale tedesco a Lione per spiegare perché avesse imbracciato le
armi, Marguerite Gonnet, una leader locale di Libération-Sud, rispose: «Perché gli uomini le
avevano deposte» . L’immagine iconica di una giovane donna che imbraccia un fucile non era
72

pura e semplice propaganda. In Italia, si stima che 35 000 donne si unirono ai partigiani nei
boschi e sulle montagne; circa 9000-10 000 di loro furono uccise, ferite, arrestate, deportate o
giustiziate, con un tasso di perdite che pochi eserciti regolari avrebbero potuto sostenere . In 73

Grecia, le donne si unirono all’Esercito di liberazione nazionale nella guerra partigiana contro
l’Asse, arrivando successivamente a costituire circa il 20-30 per cento del Dimokratikòs Stratòs
Elládas, l’Esercito democratico greco guidato dai comunisti, con ruoli sia di combattimento sia
secondari . In Jugoslavia, nel febbraio del 1942, 100 000 donne prestavano servizio nell’Esercito
74

di liberazione nazionale grazie alla decisione della leadership comunista jugoslava di permettere
alle donne di portare armi, oltre a svolgere i ruoli convenzionali di infermiere e ausiliarie come
già accadeva. Le partizánki costituivano circa il 15 per cento delle forze partigiane, partecipando
ai combattimenti in unità miste maschili e femminili e subendo pesanti perdite (circa un quarto
delle arruolate). In genere, non ricevevano un addestramento adeguato, avevano poca
dimestichezza con l’equipaggiamento in uso ed erano circondate da uomini, alcuni dei quali
ostili o poco rispettosi nei confronti di questo afflusso di donne, in prevalenza molto giovani.
Secondo i ricordi dei veterani, gli uomini si aspettavano che le donne, oltre a combattere,
svolgessero le normali faccende del campo e gli altri compiti assistenziali. Le partigiane che
rimanevano incinte erano obbligate ad abbandonare i loro bambini o ucciderli alla nascita, un
dovere imposto anche a quante prestavano servizio nel movimento partigiano sovietico . 75

Nella Resistenza, il mondo di lotta popolato da uomini e donne rappresentava una forma
peculiare di conflitto, nettamente diverso dagli scontri che avvenivano tra le forze militari
regolari. A causa dell’isolamento, ciascun gruppo aveva difficoltà a ottenere informazioni
precise sull’attività o le operazioni delle altre formazioni combattenti. Lo scontro armato, quando
si verificava, era all’ultimo sangue: si trattava di uccidere o essere uccisi. Non c’era nessuna
regola, non solo perché i partigiani erano al di fuori dell’ambito delle leggi militari vigenti e
potevano ricevere un trattamento a totale discrezione delle forze di occupazione, ma anche
perché si commettevano atti che in tempo di pace sarebbero stati considerati gravi crimini. Dopo
il 1945, il sistema giudiziario italiano mise infatti sotto processo numerosi ex partigiani con la
motivazione che l’uccisione di funzionari e miliziani fascisti era contraria alla legge vigente e
doveva essere punita. La Resistenza aveva un suo codice etico, frutto dell’ambiente
estremamente pericoloso in cui operavano i suoi militanti. In molti casi, i combattenti facevano
un giuramento di sangue, come in una società segreta, accettando di pagare con la vita qualsiasi
atto di tradimento o diserzione. Ogni partigiano sospettato di aver tradito o la cui disattenzione
avrebbe potuto costare la vita ad altri, poteva aspettarsi soltanto una giustizia sommaria, come
nel caso della giovane comunista francese Mathilde Dardant, il cui corpo nudo e crivellato di
colpi fu ritrovato al Bois de Boulogne di Parigi, vittima di un errore giudiziario dei comunisti . I
76

veri traditori, una volta scoperti, erano uccisi sul posto oppure braccati e assassinati, benché la
linea di demarcazione tra l’identità di partigiano e quella di traditore potesse essere labile nel
caso di esseri umani spaventati, minacciati o delusi. Quando i partigiani non rispettavano la
popolazione del posto, ne subivano le conseguenze, in quanto eventuali atti criminosi venivano
immancabilmente a creare ostilità in coloro il cui aiuto era indispensabile, ma nonostante questo
molti membri della Resistenza non riuscivano a rispettare tale regola. Il Fronte di liberazione
nazionale greco istituí nei villaggi che controllava dei «tribunali del popolo», da cui i partigiani
potevano essere condannati a morte per furto, uccisione di bestiame o stupro . La paura di atti di
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sovversione o spionaggio toccava vertici paranoici: «Il nostro dovere piú importante», sosteneva
un giornale della Resistenza greca, «è quello di vigilare» .
78

L’implacabile giustizia imposta ai combattenti della Resistenza rifletteva il costante stato di


pericolo in cui si trovavano i partigiani. A differenza dei soldati regolari, essi sapevano che in
caso di cattura sarebbero stati torturati, processati (ammesso che vi fosse un processo) da
tribunali speciali senza possibilità di appello e di solito giustiziati. In molti casi venivano
semplicemente fucilati o impiccati sul posto, una realtà spesso ripagata con la stessa moneta
quando soldati o miliziani nemici avevano la disgrazia di essere fatti prigionieri. In Bielorussia,
un bambino partigiano fu testimone dell’esecuzione di un gruppo di sette prigionieri tedeschi con
cui si voleva imitare la giustizia riservata ai partigiani: costretti a spogliarsi nudi, erano stati
messi in fila e poi fucilati . La guerra della Resistenza era spietata, a prescindere dalle parti
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coinvolte e dai luoghi in cui veniva combattuta. Il terrore instillato nelle forze di occupazione e
nei collaborazionisti nasceva dall’assoluta imprevedibilità di un attacco terroristico o di
un’incursione dei guerriglieri. Nel 1938, dopo aver scritto Lùn chíjiǔ zhàn (Sulla guerra di lunga
durata), Mao Zedong divenne il principale assertore delle tattiche di guerriglia nella lotta contro
il Giappone, insistendo che le forze cinesi dovevano affrontare il nemico con piccole azioni
lanciate contro distaccamenti giapponesi isolati, organizzando imboscate e usando la protezione
della notte e l’elemento sorpresa prima di disperdersi nuovamente nelle campagne . Nelle città, il
80

successo di operazioni di sabotaggio e uccisioni dipendeva dalla completa segretezza, dalla


rapidità dell’attacco e dal ridotto numero degli esecutori. L’obiettivo era quello di evitare lo
scontro con il nemico nelle aree urbane, dove i soldati regolari potevano utilizzare al meglio il
loro addestramento e le loro armi migliori e dove la fuga era piú difficile. Le tattiche «mordi e
fuggi» permettevano ai partigiani di compensare in qualche modo la loro massiccia inferiorità
militare.
Il carattere asimmetrico di ogni guerra di resistenza contro avversari pesantemente armati e
organizzati era esacerbato dall’estrema difficoltà di accedere alle armi e all’equipaggiamento,
perfino alle uniformi. In molte delle famose immagini di combattenti della Resistenza si vedono
gruppi di uomini e donne che indossano un abbigliamento variamente assortito, alcuni in
uniforme, altri no, la maggior parte senza elmetti di protezione – l’esatto opposto dell’ordinato
stile militare. Passando in rassegna a Tolosa i partigiani francesi dopo la liberazione della città, il
generale De Gaulle rimase inorridito dai variegati drappelli che si trovò di fronte, vestiti con abiti
da guerriglia improvvisati. Un delegato britannico presso il movimento della Resistenza greca
rammentava in seguito l’aspetto pietoso dei combattenti: «I loro erano abiti ordinari, fatti
perlopiú di stracci, e molti partigiani erano letteralmente scalzi […] nella neve. Avevano vecchi
fucili, almeno di 60 anni» . Se le armi scarseggiavano, ancora piú difficile era ottenere le
81

munizioni per continuare a combattere. Le armi pesanti erano una rarità, tranne che per alcune
unità partigiane che operavano sul fronte orientale o in Jugoslavia, generalmente meglio
equipaggiate. Nondimeno, perfino la Prva proleterska narodnooslobodilačka udarna brigada
(Prima divisione proletaria dell’esercito di liberazione nazionale jugoslavo) riusciva a fornire un
fucile solo alla metà dei suoi 8500 soldati . L’Armia Krajowa, che per anni aveva accumulato
82

armi in attesa del momento di attaccare, era meglio equipaggiata della maggior parte dei
movimenti della Resistenza, eppure, quando la XXVII Divisione entrò finalmente in azione nel
gennaio del 1944, erano disponibili solo 4500 fucili e 140 mitragliatrici per 7500 uomini. Dopo
due mesi di combattimenti, l’unità fu praticamente distrutta . Nella Cina settentrionale, l’esercito
83

comunista, che nel 1940 contava sulla carta un numero considerevole di soldati, non riusciva a
dotare di un’arma da combattimento nemmeno la metà dei suoi effettivi e assegnava solo poche
munizioni a quelli che possedevano un fucile . Poiché il sabotaggio era per gli inglesi una
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priorità strategica, quando la Gran Bretagna iniziò a distribuire forniture ai movimenti della
Resistenza europea, vennero inviate grandi quantità di esplosivo al plastico e micce ma molte
meno armi da combattimento, che erano ciò di cui i combattenti avevano piú bisogno. A
differenza degli eserciti regolari, il supporto logistico alla Resistenza ebbe un carattere irregolare,
discontinuo e quasi sempre inadeguato.
La lotta partigiana non era diretta soltanto contro le forze di occupazione. I partigiani erano
implacabili con il nemico, ma erano altrettanto spietati con i collaborazionisti e duri, a volte, con
altri movimenti analoghi. La definizione di nemico poteva quindi assumere sfumature diverse. I
collaborazionisti erano un obiettivo speciale, piú facile da colpire, non essendo necessariamente
armati, e con la loro uccisione si volevano ammonire quanti si trovavano nei paesi occupati a non
concedere favori al nemico. In Cina, il collaborazionismo era un fenomeno diffuso, poiché sotto
l’occupazione giapponese le élite locali o i signori della guerra cercavano di proteggere
innanzitutto i propri interessi. Le statistiche conservate da un’amministrazione comunista locale
nella Cina settentrionale indicavano che nel 1942 erano stati uccisi 5764 collaborazionisti, ma
soltanto 1647 giapponesi; per l’anno successivo, le cifre erano ancora piú rilevanti: 33 309 cinesi
a fronte di 1060 nemici . Lo stesso Mao affermò in seguito che nella lotta contro i giapponesi era
85

stato impiegato appena il 10 per cento dello sforzo della resistenza comunista. Nelle Filippine, i
militanti dello Hukbalahap, guidato dai comunisti, erano temuti piú degli invasori a causa delle
violenze inflitte alle presunte spie e collaborazionisti, che costituirono una percentuale elevata tra
le circa 25 000 vittime accertate dei ribelli Huk . Nelle aree da loro controllate, i guerriglieri
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greci del Fronte di liberazione nazionale non risparmiavano la loro vendetta su chiunque fosse
sospettato di collaborare con il regime fantoccio, conducendo una spietata campagna di
intimidazioni e uccisioni di cui furono vittime perfino dei presunti anglofili, colpevoli, cosí si
diceva, di incoraggiare l’interferenza britannica negli affari ellenici . 87

Nella lotta di guerriglia sul fronte orientale, i collaborazionisti, accertati o presunti, venivano
eliminati di norma insieme con le rispettive famiglie. Nel confuso conflitto sia contro i tedeschi
sia contro l’Ukraïns’ka Nacional’na Armija, l’Esercito insurrezionale ucraino nazionalista, i
partigiani sovietici riuscirono a essere spietati fino all’eccesso. Un’unità partigiana sotto il
comando di Oleksii Fedorov sterminò gli abitanti del villaggio di Ljachoviči nella convinzione
che la popolazione collaborasse con gli insorti nazionalisti. Ecco come ricordava l’attacco
indiscriminato un testimone oculare:
Ammazzavano tutti quelli che vedevano. I primi a essere uccisi furono Stepan Marčyk e la sua vicina Matrëna con la figlia di otto
anni, Mykola Khvesyk e Matrëna Khvesyk con la figlia di dieci anni. Uccisero la famiglia di Ivan Khvesk (moglie, figlio, nuora e
neonato) e li gettarono in una casa in fiamme […]. Morirono cinquanta persone innocenti88.
Benché i distaccamenti partigiani si vantassero con Mosca di uccidere dieci tedeschi per ogni
collaborazionista, alcuni documenti della Wehrmacht indicano che il rapporto era piú vicino a
1:1,5, nonostante la documentazione dei partigiani lasci pensare che il rapporto fosse
considerevolmente piú alto. I collaborazionisti venivano regolarmente torturati e a volte perfino
scuoiati o sepolti vivi . Nell’Europa occidentale e meridionale, una parte imprecisabile degli
89

sforzi della Resistenza fu diretta ad assassinare o terrorizzare i collaborazionisti o a distruggere


attrezzature e impianti destinati alla produzione di beni utili allo sforzo bellico tedesco.
Lo stesso trattamento spietato poteva essere riservato anche a coloro che si supponeva fossero
dalla stessa parte e avessero in comune gli stessi nemici dell’Asse. In Grecia, il piú grande
movimento della Resistenza, il Fronte di liberazione nazionale, di fatto controllato dal
Kommounistikó kómma Elládas (KKE, Partito comunista greco) cercava di costringere con la
forza i gruppi piú piccoli di partigiani non comunisti a unirsi al suo schieramento. Ad aprile del
1944, i partigiani dell’Esercito di liberazione nazionale attaccarono ed eliminarono il movimento
greco rivale, l’Ethnikí kai koinonikí apelefthérosis (Liberazione nazionale e sociale), e ne
giustiziarono il leader, il colonnello Demetrios Psarros. Nonostante ripetuti scontri armati,
l’Ellenikòs Demokratikòs Ethnikòs Syndésmos (Lega nazionale democratica greca) sopravvisse
solo perché il suo leader, il generale Napoleone Zervas, godeva di un forte sostegno da parte
inglese. I comunisti greci, al pari di quelli francesi, davano la caccia ai presunti militanti trockisti
e li assassinavano . La rivalità era alimentata dalla grande diversità di convinzioni ideologiche e
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programmi politici. In Jugoslavia, il conflitto armato tra l’Esercito di liberazione nazionale


guidato dai comunisti e i Četnici cappeggiati dal colonnello Draža Mihailović derivava da una
differente idea dello stato jugoslavo postbellico: una comunista, l’altra monarchica. Nella
primavera del 1942, i leader comunisti optarono per la strategia del terrore di classe per colpire i
rivali all’interno della Resistenza, assassinando ad aprile 500 Četnici di spicco e iniziando cosí
una prolungata guerra civile tra le due parti . In Cina, i nazionalisti del Kuomintang di Chiang
91

Kai-shek si scontrarono ripetutamente con i comunisti cinesi durante le azioni di guerriglia che
entrambi stavano conducendo nelle retrovie dell’esercito giapponese, nonostante un accordo
iniziale che prevedeva la formazione di un Fronte Unito contro l’aggressore. In privato, i leader
nazionalisti consideravano nemici sia i giapponesi sia i comunisti di Mao. Nel gennaio del 1941,
una divisione dello Xīn sì jūn, la Nuova IV Armata comunista, che aveva perso l’orientamento
spostandosi verso nord attraverso la provincia di Jiangsu, fino alle retrovie giapponesi, fu
distrutta da unità delle forze armate del Kuomintang e 10 000 uomini furono uccisi. Da allora, il
Fronte Unito non recuperò mai piú la sua seppure debole unità . Ambizioni politiche e rivalità
92

personali caratterizzarono ovunque la Resistenza. Divisi da un nemico comune, i partigiani


potevano uccidersi a vicenda esattamente come eliminavano collaborazionisti e invasori.
Se all’interno di ogni lotta della Resistenza esisteva una forma di guerra civile contro
collaborazionisti e rivali, in Cina, Jugoslavia e Grecia la Resistenza divenne parte integrante
dello scontro civile, poiché i guerriglieri guidati dai comunisti, perfino mentre erano impegnati
nelle azioni contro il nemico esterno, sfruttarono la crisi bellica per iniziare a trasformare il
panorama sociale e politico delle regioni da loro controllate. Tali conflitti riguardavano il futuro
politico della nazione e le parti in causa presupponevano implicitamente che il Nuovo ordine
dell’Asse sarebbe fallito. Nel 1945, nelle vaste regioni da cui operava, il Partito comunista cinese
governava di fatto su cento milioni di persone. In quelle zone i comunisti costrinsero i proprietari
terrieri sopravvissuti ad accettare una generale riduzione degli affitti e degli interessi richiesti
alla maggioranza contadina. Le Dieci piattaforme per resistere al Giappone e salvare la nostra
nazione, proclamate dal Politbjuro nel 1937, includevano l’impegno all’uguaglianza sociale e a
una maggiore democrazia a livello locale. Nei casi in cui le élite o i proprietari terrieri del luogo
si opponevano, le riforme erano loro imposte con la forza, mentre ai contadini veniva concesso il
diritto fino ad allora sconosciuto di partecipare alle strutture politiche locali . Nel 1945, il partito
93

era ormai pronto a un confronto di classe piú radicale, condotto con crescente violenza contro le
vecchie classi elitarie e il regime del Kuomintang – conflitto destinato a trasformarsi presto in
aperta guerra civile.
In Grecia, una trasformazione analoga della vita rurale fu avviata dai comunisti del Movimento
di liberazione nazionale e dal suo braccio armato. Si narra che nel giugno del 1942 il giovane
comunista greco Aris Velouchiotis entrò nel villaggio di Domnista, sulle montagne a 300
chilometri da Atene, con quindici uomini armati, una bandiera e una tromba e alzò il «vessillo
della rivolta» non solo contro il nemico tedesco ma anche contro il vecchio sistema classista . 94

Che sia vero o no, nei villaggi delle zone dominate dalla guerriglia la democrazia popolare fu
instaurata sul modello del codice di «autogoverno e giustizia popolare» elaborato per la prima
volta nel villaggio di Kleistos. Ogni comunità rurale aveva il proprio commissariato di guerriglia
e un responsabile (ipefthinos) dell’organizzazione della vita del villaggio, ma i contadini avevano
comunque la possibilità, come accadeva in Cina, di votare per il consiglio e i comitati del luogo e
parteciparvi . Ogni villaggio aveva il proprio laïkò dikastírio, un tribunale del popolo che si
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riuniva regolarmente la domenica per dibattere i problemi della comunità. La retorica del
Movimento di liberazione nazionale sottolineava l’impegno verso un «governo del popolo»,
un’idea, questa, a cui poteva essere facilmente introdotta una popolazione rurale largamente
analfabeta, senza dover definire troppo dettagliatamente che cosa potesse significare . Coloro che
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opponevano resistenza al nuovo ordine, o ne mettevano in dubbio la legittimità, correvano il


rischio di subire una giustizia sommaria che portava all’esecuzione. Le nuove condizioni, per
altro, non erano ideali neppure per quanti si adeguavano senza fiatare, a causa di imposte sul
raccolto, tasse per pagare le forze della guerriglia e il costante regolamento di conti tra le
famiglie rivali del luogo coinvolte nel conflitto . Anni dopo, il leader comunista Yiannis
97

Ioannidis avrebbe cosí giustificato i diffusi episodi di violenza: «Quando si combatte una guerra
civile, non ci si abbandona ai sentimenti […] si distrugge il nemico con qualsiasi mezzo» . La 98

trasformazione mirava a creare le condizioni per una guerra di classe e una rivoluzione sociale di
stampo radicale, perciò, nel momento in cui i tedeschi abbandonarono infine l’occupazione
nell’autunno del 1944, le zone liberate dai guerriglieri – definite dalla Resistenza come Grecia
Libera – divennero la base da cui il Partito comunista greco lanciò il suo tentativo di prendere il
potere a livello nazionale, trasformando l’implicita guerra civile degli anni dell’occupazione in
un aperto conflitto postbellico. Nella battaglia per il futuro della Grecia tra gli insorti comunisti e
l’esercito nazionale greco, ricostituito nel 1944-45, perirono circa 158 000 combattenti, quasi
tutti civili tranne 49 000 soldati, e i sopravvissuti avrebbero conosciuto anni di disordini e
sfollamento .
99

In Jugoslavia, durante gli anni del conflitto, a fianco della guerra di resistenza ne infuriò una
civile vera e propria. La guerra civile fu un complesso intreccio di conflitti etnici, religiosi e
politici durante i quali la popolazione rimase intrappolata in una rete di estrema violenza,
diventandone a volte parte attiva e restandone a volte vittima. La stima piú attendibile sembra
indicare che durante la guerra persero la vita poco piú di un milione di jugoslavi, la maggior
parte a causa dei combattimenti tra compatrioti e non contro il nemico tedesco. La Resistenza
jugoslava aveva un doppio significato: resistenza contro gli invasori e resistenza contro i nemici
interni. Ad aprile del 1941, l’invasione tedesca aveva distrutto il fragile stato jugoslavo,
sostituendolo con una struttura di occupazione che finí per incoraggiare il conflitto interno. La
Croazia, cattolica e indipendente sotto il leader fascista Ante Pavelić, ospitava al suo interno
vaste minoranze di musulmani bosniaci e serbi ortodossi; l’Italia controllava la Slovenia e il
Montenegro; la Germania quanto ancora restava di uno stato serbo con un governo fantoccio
filotedesco sotto Milan Nedić, il Pétain serbo. Il nuovo regime croato aspirava a mantenere la
propria indipendenza e a dare vita una nazione etnicamente pulita; i Četnici serbi, dal canto loro,
volevano una Grande Serbia in cui fosse ripristinata la monarchia ma che escludesse i
musulmani; il piccolo Savez komunista Jugoslavije (Lega dei comunisti della Jugoslavia)
puntava a creare un fronte comune contro il nemico fascista e condurre una lotta senza quartiere
contro tutti i movimenti la cui visione del futuro escludeva ogni collaborazione con il
comunismo . 100

La guerra civile iniziò quasi subito. I croati uccidevano o espellevano la popolazione serba; i
Četnici sterminavano i musulmani bosniaci, distruggendone i villaggi e sgozzando le loro
vittime; i partigiani comunisti combattevano spietatamente sia i monarchici serbi sia i fascisti
croati . Migliaia di volontari confluirono nelle forze armate irregolari per salvaguardare le
101
rispettive comunità e movimenti. I Četnici della Jugoslovenska vojska u otadžbini (Armata
jugoslava in patria) concentravano la maggior parte dei loro sforzi nell’eliminazione fisica di
bosniaci, croati e comunisti. L’Esercito di liberazione nazionale, guidato dai comunisti di Josip
Broz (Tito), si difese dalla contro-insurrezione tedesca, ma combatté attivamente anche contro i
Četnici, la milizia degli Ustaša croati e lo Srpski dobrovoljački korpus (Corpo volontario serbo
parafascista). La popolazione civile formò ovunque dei gruppi improvvisati di autodifesa per
resistere alle molte minacce, come il Zeleni kadar dei musulmani bosniaci, il Muslimanski
oslobodilački pokret (Movimento di liberazione musulmana) di Muhamed Pandža e la Slovenska
zaveza (Alleanza slovena) fortemente anticomunista . Le violenze si ripetevano in modo brutale.
102

«La morte non era niente di insolito», scrisse il comunista Milovan Đilas nel suo libro di
memorie sulla guerra. «La vita aveva perso ogni significato, a parte quello della pura
sopravvivenza» . Gli invasori tedeschi e italiani mettevano l’una contro l’altra le diverse
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formazioni, oppure concludevano con loro accordi temporanei per agire di comune intento
contro il nemico comunista. Nel 1944, il Movimento di liberazione guidato da Tito cominciò a
ottenere consensi piú ampi anche tra gli ex monarchici, soprattutto perché prometteva un futuro
in cui le differenze religiose ed etniche sarebbero state superate con la creazione di un nuovo
stato nazionale federale che si proponeva di rispettarle. Nelle zone rurali e nelle piccole città
controllate dai partigiani comunisti furono introdotte riforme sociali e politiche, come in Grecia e
in Cina . Nell’autunno del 1944, la campagna finale per liberare la Serbia, la regione in cui il
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movimento di Tito aveva fatto meno progressi, si tradusse in uno scontro tra jugoslavi. I
tedeschi, che potevano mobilitare soltanto pochi uomini delle forze di polizia e qualche
battaglione di SS, si affidarono a migliaia di Četnici e al Corpo volontario serbo, sostenuto da
volontari russi anticomunisti. La fine della guerra in Serbia nell’autunno del 1944 segnò anche la
fine della guerra civile .
105

Le divisioni ideologiche e politiche che avevano alimentato il conflitto civile erano solo due dei
molti ostacoli che i movimenti della Resistenza si erano trovati ad affrontare durante la guerra.
La stragrande maggioranza della popolazione delle aree occupate non voleva impegnarsi in una
resistenza attiva e manteneva nel proprio atteggiamento verso coloro che lo facevano una
persistente ambivalenza, a volte perfino un’aperta ostilità. Là dove erano sorti i maggiori
movimenti di guerriglia, le risorse e i rifornimenti alimentari dovevano essere sottratti agli
abitanti dei villaggi. In alcuni casi, i contadini accettarono di cooperare, ma in Cina o in Ucraina
gli agricoltori consideravano i partigiani quasi alla stregua degli invasori, visto che si
impadronivano delle loro già scarse scorte di cibo e uccidevano i rivoltosi. In Unione Sovietica,
unità isolate di sbandati o disertori dietro le linee nemiche ricorrevano a volte al banditismo vero
e proprio per sopravvivere e abbandonavano ogni intenzione di unirsi alla Resistenza. Nelle
retrovie tedesche emersero localmente delle bande improvvisate, ben decise a sopravvivere a
spese delle comunità circostanti. Nel rapporto di un comandante partigiano sovietico della
regione di Kiev si condannavano le «ben note unità partigiane» che operavano in totale
autonomia: «Si danno all’ubriachezza, confiscano i beni della popolazione. [...] Nei
distaccamenti regna il caos assoluto» . I banderivci – gli elementi dell’Esercito nazionalista
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ucraino guidato da Stepan Bandera – erano conosciuti dagli abitanti dei villaggi semplicemente
come bandity. Rubavano il bestiame, uccidevano sia i non ucraini sia gli ucraini che non
simpatizzavano con il movimento di Bandera, bruciavano i villaggi ostili e depredavano la stessa
società che avrebbero dovuto liberare . Nella Cina settentrionale, il banditismo era diffuso già
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prima dell’invasione giapponese, con piccole bande locali che approfittavano dell’assenza di un
reale potere statale. Nella guerra di resistenza, alcuni capi dei banditi finsero di offrire protezione
contro i giapponesi, mentre in realtà derubavano e saccheggiavano gli abitanti dei villaggi che
sorvegliavano. Hu Jinxiu, un capobanda ben contento di sfruttare quel pretesto, aveva raccolto
intorno a sé 5000 uomini che, al posto di proteggere la popolazione, si comportavano come i
fuorilegge che effettivamente erano, uccidendo e rubando, finché non furono annientati da una
spedizione giapponese . Per i contadini cinesi delle zone occupate, la priorità assoluta era trovare
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una qualsiasi forma di stabilità, anche se ciò significava appoggiare i giapponesi contro i
guerriglieri e i banditi locali. I comunisti della Nuova IV Armata rimasero allibiti vedendo che al
loro ingresso in una piccola città gli abitanti sventolavano entusiasti delle bandiere giapponesi . 109

In tali condizioni, caotiche e violente, l’unico stato che ancora esisteva era lo stato di natura.
Le popolazioni locali, inoltre, erano regolarmente vittime di ritorsioni selvagge da parte delle
forze di occupazione, come rappresaglia per le azioni della Resistenza considerate alla stregua di
terrorismo criminale puro e semplice. Il fine ultimo era quello di spronare il popolo a rifiutare la
campagna dei partigiani, terrorizzandolo con le conseguenze che ne sarebbero derivate per i
cittadini innocenti. Nell’Europa orientale e sud-orientale, per ogni loro soldato ucciso i quadri
militari tedeschi erano autorizzati a giustiziare fino a 100 ostaggi civili senza alcuna colpa; in
Francia, dove le atrocità dell’occupazione furono piú contenute, il rapporto fu fissato a cinque
ostaggi uccisi per ogni tedesco morto . In simili circostanze, il disagio della popolazione era
110

evidente e ci si chiedeva se i costi della Resistenza non fossero troppo alti. In Francia, una prima
ondata di uccisioni nel 1940-41 fu largamente condannata dalla popolazione e dai rappresentanti
della Francia Libera a Londra, soprattutto in considerazione della pratica tedesca di prendere un
gran numero di ostaggi e ucciderli come promesso. Quando nella primavera del 1943 fu fondato
il Raad van Verzet (Consiglio della Resistenza olandese), il governo in esilio rifiutò di
autorizzarlo a compiere atti di violenza contro i tedeschi per lo stesso motivo . La Resistenza
111

doveva costantemente confrontarsi con il dilemma morale di danneggiare con le proprie azioni
dei compatrioti innocenti, per di piú infliggendo all’invasore danni soltanto modesti o
trascurabili. Fin da subito, la repressione fu alquanto indiscriminata, avendo come scopo quello
di incutere terrore nel resto della popolazione e indurla alla sottomissione. Nel 1941, i vari
comandanti giapponesi erano cosí irritati dalle incursioni della guerriglia comunista da ordinare
alle loro truppe di attenersi alla famigerata regola «Prendi tutto, brucia tutto, uccidi tutto» nelle
aree in cui si sapeva che la guerriglia era attiva, e all’inizio della guerra furono tanti i casi in cui
erano state le unità antipartigiane a distruggere tutti i villaggi sul loro cammino, uccidendo gli
abitanti e rubando loro tutte le scorte alimentari . In Europa, la reazione fu molto simile. Nelle
112

città, gli oppositori venivano rimandati a giudizio, deportati o giustiziati e si fucilavano ostaggi
per rappresaglia, spesso con esecuzioni sulla pubblica piazza. Nelle zone rurali, interi villaggi
furono rasi al suolo e i loro abitanti uccisi per il semplice sospetto che avessero dato rifugio a
partigiani o franchi tiratori. Nel 1942, la distruzione del villaggio ceco di Lidice, come
rappresaglia per l’assassinio di Reinhard Heydrich, o la distruzione nel giugno del 1944 del
villaggio francese di Oradour-sur-Glane con tutti i suoi abitanti, donne e bambini inclusi, da
parte di un reggimento della divisione SS Das Reich, non furono che la punta dell’iceberg di
crudeli punizioni inflitte alla collettività in risposta ad atti individuali di resistenza all’invasore.
In Ucraina, le forze militari e di sicurezza tedesche, guidate dal generale delle SS Erich von dem
Bach-Zelewski, bruciarono 335 villaggi e, secondo le loro stesse statistiche, tanto precise quanto
macabre, uccisero 49 294 uomini, donne e bambini, due terzi dei quali nel 1943, al culmine
dell’attività partigiana. In Grecia, 70 600 uomini furono giustiziati o uccisi in operazioni di
rappresaglia .
113

Le forze di occupazione organizzavano inoltre grandi operazioni militari antiguerriglia che


avevano effetti deleteri sulla Resistenza. In Jugoslavia, il Fall Weiß (Operazione Bianco) noto ai
partigiani come Četvrta neprijateljska ofanziva (Quarta offensiva del nemico) e condotto dalle
forze dell’Asse tra gennaio e marzo del 1943, insieme con il Fall Schwarz (Operazione Nero), o
Peta neprijateljska ofanziva (Quinta offensiva del nemico), tra maggio e giugno dello stesso
anno, non riuscí ad annientare l’Esercito di liberazione nazionale ma inflisse comunque pesanti
perdite; in Ucraina, l’operazione Seidlitz, conosciuta dai russi come Rževskaja mjasorubka
(Tritacarne di Ržev) e condotta nel giugno e luglio del 1943, provocò tra i partigiani 5000 morti.
Le campagne antipartigiane condotte nell’Italia settentrionale nell’inverno del 1944-45
decimarono le brigate, con circa 75 000 caduti tra uomini e donne. Nella primavera del 1944, in
Francia e nei Paesi Bassi, il persistente lavoro investigativo della Gestapo, regolarmente assistito
dalle forze di polizia locali, riuscí a smantellare la maggior parte delle prime organizzazioni e
movimenti. Tra quanti furono reclutati per le operazioni antiresistenza vi erano anche soldati di
ventura – come i combattenti dell’Ukraïns’ka Narodna Milicija (Milizia ucraina), i musulmani
bosniaci della divisione SS Handžar o la divisione cosacca in Italia – e, secondo la maggior parte
dei racconti, non disdegnavano la natura brutale dell’incarico. Contro un’opposizione cosí
determinata, vi erano limiti reali a ciò che la Resistenza poteva fare. Piú tempo gli Alleati
impiegavano a respingere l’avanzata dell’Asse, piú disperata appariva l’attività della Resistenza.
Il lungo ritardo della liberazione creò demoralizzazione e portò persino all’ostilità verso le
potenze alleate, anche se la mancanza di sufficienti armi pesanti e di un’efficiente struttura
militare, perfino dove esisteva un esercito partigiano vero e proprio, significava che la Resistenza
non aveva quasi nessuna prospettiva di arrivare alla liberazione con i propri mezzi. Questo
poneva un paradosso non da poco: una maggiore incisività militare richiedeva un aiuto reale ed
equipaggiamenti da parte degli Alleati, ma accettare tale aiuto avrebbe compromesso
l’ambizione di riuscire a liberare la nazione dall’interno e plasmarne il futuro. «In realtà», scrisse
Henri Frenay, leader di Combat, «abbiamo creato gruppi di partigiani che vogliono combattere
piú per la propria liberazione che contro l’invasore» .
114

La Resistenza e gli Alleati.


Sostenere i movimenti di liberazione non era certo una priorità per gli Alleati, per i quali la
Resistenza era importante soprattutto nella misura in cui contribuiva alla sconfitta del nemico.
Gli aiuti alle forze della Resistenza, dove possibile, venivano forniti con l’intesa che
l’equipaggiamento sarebbe stato utilizzato per fini strategici, rispettando cioè le intenzioni degli
Alleati in tal senso. «Dovevamo giudicare ogni proposta e ogni iniziativa», ricordava il capo di
stato maggiore per le operazioni speciali britanniche in Europa, «dal punto di vista strettamente
pratico del contributo che esse avrebbero offerto alla vittoria della guerra» . Gli Alleati, ben
115

consapevoli delle conseguenze politiche all’indomani del conflitto, non ignoravano le


implicazioni della Resistenza, anche se a dettare l’andamento bellico erano comunque le
esigenze di ordine militare, come quando il governo britannico spostò nel 1943 il proprio
sostegno dal monarchico Mihailović al comunista Tito solo perché l’Esercito di liberazione
nazionale guidato da quest’ultimo stava combattendo i tedeschi in maniera piú incisiva
(paradossalmente, Stalin non era contrario a sostenere le unità dei Četnici di Mihailović ma
diffidava delle ambizioni dei comunisti di Tito, che avrebbero potuto inasprire le relazioni con i
suoi alleati occidentali). Per i principali movimenti della Resistenza, d’altra parte, la sconfitta del
nemico era un mezzo, non un fine. In Cina, Italia, Francia e Balcani, la liberazione raggiunta
dopo aver assicurato la vittoria significava la creazione di una società diversa, piú democratica,
socialmente piú giusta e piú inclusiva di quelle rovesciate o assoggettate agli invasori. Michel
Brut, capo del Service National Maquis, contrapponeva la propria idea delle azioni della
Resistenza a quella degli Alleati: «Non ci sarà liberazione senza insurrezione. [...] Non si tratta
tanto di dare un valore strategico immediato a queste azioni quanto di addestrare i combattenti
all’insurrezione» .
116

Non mancarono tuttavia delle differenze nel modo in cui le principali potenze alleate sfruttarono
la Resistenza. Nel caso sovietico, il Movimento partigiano che operava sul suolo patrio si integrò
strettamente con lo sforzo bellico dell’Armata Rossa dall’altra parte del fronte. La speranza della
liberazione aumentò con le vittorie sovietiche del 1943 e del 1944 e, a differenza del caso
britannico e americano, l’Armata Rossa e i partigiani che la sostenevano nella sua avanzata
stavano effettivamente liberando il loro territorio e i loro popoli. Ancora prima che le truppe
sovietiche raggiungessero nel 1944 la frontiera originaria dell’Urss, la guerra di resistenza
rallentò e i partigiani furono integrati nelle unità dell’esercito regolare. Soltanto a quel punto
l’alleato sovietico si impegnò nella piú generale guerra partigiana dell’Europa dell’Est, con
risultati molto contrastanti. Quando si trattò di offrire aiuto all’esterno del proprio territorio, i
partigiani sovietici dovettero comunque affrontare molte delle stesse difficoltà incontrate dalla
Resistenza in altre regioni dell’Europa. Nel 1941, mentre l’Armata Rossa si ritirava, il regime
aveva organizzato nella retroguardia delle unità regolari, allo scopo di creare delle milizie
partigiane che erano tuttavia risultate difficili da mantenere, tanto piú che in quel momento Stalin
non era cosí interessato al loro potenziale come invece sarebbe accaduto in seguito durante la
guerra. Nel 1943, dei 216 distaccamenti presenti in Ucraina ne erano rimasti solo 12 con appena
241 uomini e ogni tentativo di paracadutare dei rinforzi era vanificato dalla facilità con cui essi
venivano individuati dal nemico. Le prime reclute arruolate tra la popolazione civile erano
scarsamente addestrate, non avvezze alle esigenze della guerriglia e inclini a scappare o
disertare . La gente del luogo, inoltre, seppure apparentemente favorevole a una guerra
117

partigiana che accelerasse la liberazione e la restaurazione del potere sovietico, mostrava


un’evidente ambivalenza nei confronti di combattenti che confiscavano ai civili cibo e risorse,
mettevano interi villaggi a rischio di ritorsioni da parte delle forze di occupazione, offrivano
scarsa protezione e intendevano reinstaurare un rigido regime comunista.
La situazione migliorò nel maggio del 1942, con la nomina del segretario del partito bielorusso
Pantelejmon Ponomarenko a capo di una squadra partigiana che aveva la sua base centrale a
Mosca, benché fosse ancora difficile stabilire comunicazioni radio con tutte le unità o fornire
munizioni ed esplosivi adeguati. Solo dopo la vittoria a Stalingrado l’atteggiamento popolare nei
confronti dei partigiani divenne meno ostile, mentre i rifornimenti di equipaggiamenti
dell’Armata Rossa e l’infiltrazione di specialisti militari attraverso le linee tedesche
contribuirono a militarizzare sempre piú le forze irregolari che componevano i distaccamenti
partigiani. Nel corso del 1943, le unità partigiane divennero piú efficienti e crebbero di numero;
a luglio si contavano ufficialmente 139 583 unità, anche se le perdite rimanevano elevate. Nello
stesso anno, solo poco piú della metà degli infiltrati nelle retrovie tedesche sopravvisse, e tra i
molti contadini poco addestrati e che erano stati arruolati nei distaccamenti partigiani si registrò
un tasso di perdite ancora piú elevato . Le azioni dei partigiani, tuttavia, vennero infine a
118

rappresentare un chiaro vantaggio strategico per l’alto comando sovietico. Verso la primavera
del 1943, i partigiani controllavano circa il 90 per cento delle regioni boscose della Bielorussia e
due terzi della produzione di grano e carne della regione, sottraendo tali risorse alle forze di
occupazione . Gli attacchi alle comunicazioni tedesche raggiunsero il culmine nella seconda
119

metà dell’anno, quando furono piú di 9000; nel solo mese di agosto, mentre l’esercito tedesco si
stava riprendendo dalla disastrosa sconfitta di Kursk, la documentazione della Wehrmacht
riportava che erano stati distrutti piú di 3000 chilometri di binari e messe fuori uso quasi 600
locomotive. Le statistiche sovietiche, probabilmente lontane dalla realtà, rimarcavano che i
partigiani avevano distrutto nel loro periodo di massima attività 12 000 ponti e 65 000 veicoli . 120

Fino a che punto ogni partigiano fosse riuscito a rispettare la norma che prevedeva di sterminare
ogni mese «almeno cinque fascisti e traditori» è al di là di ogni possibile calcolo statistico. Nel
gennaio del 1944, il Central’nyj štab partizanskogo dviženija (Quartier generale centrale del
movimento partigiano) venne chiuso e nelle aree già liberate le unità partigiane furono inglobate
nell’Armata Rossa.
All’inizio del 1944, le forze sovietiche avevano ormai attraversato l’Ucraina e raggiunto il
vecchio confine dell’Urss. Stalin doveva ora affrontare il nuovo contesto della Resistenza
nell’Europa orientale e sud-orientale, in cui i comunisti erano in competizione con i movimenti
partigiani avversari, i quali temevano che una vittoria sovietica significasse l’imposizione di una
liberazione in versione comunista. Neppure il movimento di resistenza armata comunista locale –
soprattutto in Jugoslavia e Grecia – seguiva necessariamente o forse nemmeno capiva la linea del
partito dettata da Mosca. La percezione sovietica della Resistenza era evidente dai commenti
sprezzanti o paternalistici in merito al reale contributo che il movimento poteva dare. Un
ufficiale sovietico riteneva che l’Esercito di liberazione nazionale greco fosse «solo una
marmaglia di uomini armati, che non valeva la pena di sostenere»; un altro comandante
dell’Armata Rossa pensava che i partigiani di Tito fossero «dilettanti dannatamente bravi», ma
pur sempre dei dilettanti . L’esempio piú tragico fu quello della Polonia, dove la principale
121

organizzazione della Resistenza, l’Armia Krajowa, fortemente anticomunista e antisovietica, si


trovava ora di fronte alla prospettiva che, tra i principali Alleati, solo l’Unione Sovietica sarebbe
stata direttamente convolta nella liberazione del paese. L’Armia Krajowa, pur rappresentando il
movimento partigiano piú grande, non era l’unica realtà. Lo Stronnictwo Chłopskie, il Partito
contadino sorto nell’anteguerra con un programma radicale anticapitalista, aveva creato i
Bataliony Chłopskie (Battaglioni contadini) per proteggere gli interessi degli agricoltori dalle
forze sociali conservatrici fortemente rappresentate nell’Armia Krajowa. I comunisti polacchi
avevano inoltre un proprio movimento di resistenza, l’Armia Ludowa (Esercito del popolo), che
si rifiutava di cooperare con il resto della Resistenza e nel 1944 attingeva ai rifornimenti
dall’Armata Rossa che avanzava, allo stesso modo dei partigiani sovietici nella Russia occupata
dai tedeschi. Il numero dei combattenti comunisti era esiguo – circa 1500 a livello nazionale nel
1943, 400 nella sola Varsavia nel 1944 – ma era avvantaggiato dal fatto che lo tsunami che si
stava riversando sull’esercito tedesco dall’Ucraina e dalla Bielorussia era comunista .122

Fino al 1944, la Resistenza polacca fu contenuta, soprattutto perché l’Armia Krajowa voleva
evitare un’insurrezione prematura. Una parte significativa dei 400 000 potenziali combattenti
reclutati nel 1944 aveva avuto un addestramento militare, anche se erano ormai da considerarsi
civili in tutto tranne che nel nome e contavano tra le loro file migliaia di donne polacche.
L’esercito venne diviso in unità militari convenzionali e le scorte di armi e cibo furono nascoste
nell’intero paese in attesa del momento ottimale per colpire – momento per altro difficile da
determinare poiché dipendeva dall’andamento della guerra degli Alleati contro i tedeschi. Il
governo polacco in esilio a Londra si rese conto del paradosso che doveva affrontare il principale
movimento della Resistenza. Nel corso del 1943, le relazioni politiche con l’Unione Sovietica si
erano rapidamente deteriorate e già nel giugno del 1944 Stalin aveva incanalato completamente
il proprio sostegno verso un Polski Komitet Wyzwolenia Narodowego (Comitato di liberazione
nazionale) composto da comunisti e soprannominato Comitato di Lublino. I tentativi del quartier
generale dell’Armia Krajowa di mantenere un collegamento con l’alto comando dell’Armata
Rossa che avanzava furono ignorati dai sovietici, le cui intenzioni non erano chiare. Da Londra
fu ordinato al comandante dell’Armia Krajowa, il generale Tadeusz Bór-Komorowski, di agire
«senza tenere in alcuna considerazione l’atteggiamento militare o politico dei russi» . Gli Alleati
123

non avevano alcun progetto di appoggiare un’insurrezione polacca, tanto che tra l’inizio del 1941
e giugno del 1944 le forniture occidentali di equipaggiamenti e armi ammontarono a non piú di
305 tonnellate. Nel 1943 e nel 1944, alcune centinaia di volontari polacchi erano state
paracadutate in Polonia da Occidente, ma la loro finalità prioritaria restavano le azioni di
sabotaggio volte a sostenere lo sforzo militare alleato. Nell’estate del 1944, Stalin riferí a
Churchill che la resistenza non comunista in Polonia era «effimera e priva di influenza». Il
generale Vasilij Čujkov, il difensore di Stalingrado il cui esercito si era spinto in territorio
polacco nel corso dell’offensiva sovietica di giugno e luglio del 1944 con l’operazione
Bagration, riteneva che «a tutti gli effetti» l’esercito nazionale polacco «non sta affatto
combattendo i tedeschi» .124

Nel 1944, in realtà, questo non era piú vero. Bór-Komorowski decise di propria iniziativa di
ordinare all’Armia Krajowa e ai Battaglioni contadini di organizzare postazioni di battaglia
contro i tedeschi in ritirata. Vennero prelevate le armi dai depositi nascosti, furono preparate le
scorte di cibo e si miscelarono le bombe Molotov. L’esercito era scarsamente equipaggiato, con
rozze uniformi ornate da una fascia con i colori nazionali polacchi, rosso e bianco. Nel gennaio
del 1944, la Resistenza lanciò l’Akcja Burza (operazione Tempesta) contro le forze tedesche
nella Polonia orientale, nella speranza che i combattenti polacchi potessero liberare le loro città
prima dell’arrivo dell’Armata Rossa. La campagna rivelava fino a che punto i polacchi si
illudessero di poter raggiungere la liberazione nazionale indipendentemente dall’imminente
presenza sovietica. A novembre del 1943, all’insaputa della Resistenza polacca, Stalin aveva già
dato ordine ai comandanti dell’Armata Rossa di disarmare tutte le forze dell’Armia Krajowa e
uccidere chiunque si fosse opposto. Tra gennaio e ottobre del 1944, 21 000 membri dell’esercito
della Resistenza furono arrestati; i loro ufficiali vennero deportati in Unione Sovietica e i soldati
stipati nei campi di concentramento tedeschi appena liberati, tra cui il campo di lavoro e di
sterminio di Majdanek, liberato dall’Armata Rossa a luglio . La repressione da parte sovietica
125

dei movimenti nazionalisti della Resistenza, già nota a Bór-Komorowski e al comandante della
regione di Varsavia, il generale Antoni Chrusćiel, consisteva nella stessa dura punizione inflitta
ai nazionalisti ucraini quando le truppe dell’Armata Rossa e i commissari dell’NKVD si erano
mossi verso ovest, deportando e uccidendo chiunque si trovasse sul loro cammino. Come era
accaduto allo stato polacco nel settembre del 1939, cosí, nell’estate del 1944, l’Armia Krajowa si
trovò intrappolata tra le forze sovietiche e quelle tedesche, parimenti ostili alla sua
sopravvivenza.
Questa cruda realtà rende piú facile comprendere la decisione presa alla fine da Bór-
Komorowski e dai suoi comandanti, ovvero lanciare il 1° agosto una grande rivolta a Varsavia.
La situazione militare non era del tutto chiara, ma si sapeva che l’Armata Rossa era a pochi
chilometri dalla riva orientale del fiume Vistola che divide Varsavia, mentre il comando militare
e civile tedesco nella capitale e dintorni sembrava prepararsi ad abbandonare la città. Alla fine di
luglio, voci radiofoniche trasmesse da Mosca avevano esortato il popolo di Varsavia a sollevarsi
contro gli oppressori, anche se gli appelli erano rivolti alla molto piú piccola Armia Ludowa
comunista, il che dovette forse mettere in guardia il resto della Resistenza sul pericolo che
avrebbero certamente corso sotto un’occupazione sovietica. Dal governo polacco in esilio a
Londra giungevano voci di estrema cautela, un chiaro segno dell’incertezza in merito a un
eventuale sostegno da parte degli Alleati occidentali; Chrusćiel si disse contrario a correre rischi,
soprattutto disponendo di cosí poche armi e di un numero irrisorio di combattenti. La decisione
venne presa infine partendo da una questione di principio: la Resistenza intendeva liberare
Varsavia prima dell’arrivo delle armate sovietiche per dimostrare che la sovranità nazionale del
paese poteva essere conquistata con il solo sangue polacco, senza fare affidamento sull’appoggio
degli Alleati. Il comando dell’Armia Krajowa calcolò di non avere piú di quattro o cinque giorni
per cacciare i tedeschi e accogliere i russi come alleati, ma non come liberatori. In quelle
condizioni, l’insurrezione nazionale, scrisse piú tardi Bór-Komorowski, «appariva reale e
fattibile» . I capi della Resistenza si riunirono il 31 luglio per decidere sul da farsi. Non si era
126

ancora raggiunto il consenso sulle azioni da intraprendere quando arrivò la notizia – per altro
infondata – che i carri armati sovietici stavano entrando nei sobborghi orientali di Varsavia.
L’informazione indusse tutti a trovarsi d’accordo sul fatto che il momento doveva essere quello,
o mai piú. Dopo che fu inviato l’ordine di dare inizio all’insurrezione il giorno seguente, arrivò la
notizia che l’Armata Rossa, in realtà, non si stava muovendo. Bór-Komorowski rifiutò
comunque di revocare l’ordine . 127

In verità, l’insurrezione era destinata a fallire e la restaurazione della sovranità nazionale polacca
non era che una vana aspirazione. Alla Resistenza, tuttavia, questo sembrò un sublime momento
di rivincita. «La nostra vittoria sembrava assicurata», rammentava Kazik, un ebreo superstite che
si spacciava per cittadino di etnia polacca, «[vi era] un’atmosfera di ribellione popolare [...] un
momento di euforia» . Il 1° agosto, alle cinque del pomeriggio, l’Armia Krajowa lanciò in tutta
128

la città una serie di attacchi contro i tedeschi sbigottiti. Le stime indicano che vi erano piú di 50
000 combattenti, di cui circa 40 000 presero direttamente parte alla rivolta. Le armi erano scarse,
forse sufficienti a garantire un’arma efficiente ad appena 8500 insorti. Alcuni dei volontari erano
donne e vi erano inoltre migliaia di bambini inquadrati nei Szare Szeregi («Schiere grigie», l’ala
paramilitare dello Związek Harcerstwa Polskiego (Associazione Scout Polacca); solo quelli con
piú di sedici anni avevano il permesso di combattere e quattro quinti di loro persero la vita . 129

Contro gli insorti furono schierate le forze della Wehrmacht e delle Waffen-SS, frettolosamente
inviate per potenziare la linea della Vistola contro l’avanzata dell’Armata Rossa. Quando la
notizia della rivolta arrivò a Hitler, egli ordinò che Varsavia fosse cancellata dalla faccia della
terra e che i suoi cittadini fossero tutti uccisi, e questa fu la piú estrema e patologica delle sue
reazioni alla Resistenza. Due brigate ben note per la loro ferocia – una delle SS, agli ordini di
Oskar Dirlewanger, l’altra guidata dal rinnegato russo Bronislav Kaminskij – furono mobilitate
per assicurare che gli ordini di Hitler venissero rispettati. Nelle zone in cui l’Armia Krajowa non
era riuscita a prendere il controllo, gli aggressori si lanciarono in una grottesca orgia di uccisioni
e distruzione, spingendo i combattenti della Resistenza in sacche sempre piú piccole dentro la
città. Un numero imprecisato di civili non esitò a unirsi alla rivolta, ma altre migliaia si
astennero. Si stima che 150 000 persone furono uccise da bombe, granate e massacri di massa,
perpetrando cosí la piú grande atrocità militare della guerra. Solo con l’arrivo del generale delle
SS Bach-Zelewski, veterano della brutale guerra antipartigiana e ora comandante delle forze di
repressione, l’originaria intenzione di massacrare tutti gli abitanti di Varsavia fu modificata in
una politica di deportazione di massa di cui furono vittime quanti erano sopravvissuti alla
carneficina.
L’appoggio degli Alleati alla rivolta fu minimo. La speranza ottimistica che l’Armata Rossa
sarebbe arrivata a Varsavia dopo che i ribelli avevano espulso i tedeschi si dimostrò sin da subito
mal riposta. Il 1° agosto, infatti, l’offensiva sovietica si era fermata, dopo quaranta giorni di
continui ed estenuanti scontri con le armate tedesche in ritirata. L’impresa di arrivare al fiume
Vistola aveva sfinito le truppe sovietiche, il cui comando non aveva alcuna intenzione di
proseguire per prendere Varsavia; anche se il quartier generale sovietico lo avesse ordinato, le
truppe del maresciallo Rokossovskij non sarebbero state in grado di sostenere la furia di un
ulteriore assalto attraverso una barriera fluviale che la Wehrmacht stava rapidamente
potenziando per una grande controffensiva. A quel punto, sarebbero state necessarie altre sei
settimane di combattimenti prima di respingere il contrattacco tedesco; non sarebbe stato
possibile portare rinforzi all’insurrezione polacca prima della metà di settembre. Una volta
annientata la Heeresgruppe Mitte in Bielorussia, tuttavia, l’obiettivo di Stalin era un’avanzata sia
lungo l’asse settentrionale, in direzione degli Stati baltici, sia lungo il piú accessibile asse
meridionale, verso i Balcani e l’Europa centrale, al fine di assicurare il dominio sovietico sulla
regione . Stalin non aveva alcun interesse ad aiutare i nazionalisti polacchi, di cui liquidò con
130

disinvoltura l’insurrezione: «Che razza di esercito è, senza artiglieria, carri armati, forza aerea?
Non hanno nemmeno abbastanza fucili. In una guerra moderna questo equivale a un bel niente».
Alla metà di agosto, un messaggio di Stalin a Churchill descriveva la rivolta come nient’altro che
un «azzardo sconsiderato e impaurito» . Fu solo quando la resistenza polacca, al di là di ogni
131

aspettativa, continuò a battersi non per quattro o cinque giorni, ma per settimane che Stalin fu
messo sotto pressione dalle unità che combattevano con l’Armata Rossa e dagli Alleati
occidentali affinché facesse un gesto politico. Per ben due settimane a partire dalla notte del 13-
14 settembre gli aerei lanciarono rifornimenti, anche se i velivoli, dovendo individuare le piccole
sacche della Resistenza, erano costretti a volare a quote cosí basse che molti dei paracaduti non
si aprirono e gran parte dell’equipaggiamento e del cibo andò perduta. Altri lanci dagli aerei
inglesi, decollati dall’Italia, e da quelli americani, partiti dalla Gran Bretagna, fecero arrivare
altri rifornimenti, ma i contenitori caddero perlopiú nelle mani dei tedeschi. Dei 1300 lanci della
III American Air Division, solo 388 furono recuperati con successo. Gli equipaggi inglesi e
polacchi incontrarono difficoltà a raggiungere Varsavia e subirono molte perdite. Su 199 aerei,
solo 30 lanciarono rifornimenti direttamente sulla città, e la Resistenza polacca poté beneficiare
solo di una parte di essi .
132

Gli aiuti degli Alleati ritardarono l’inevitabile, ma già il 2 ottobre, per quel poco che ancora
restava di una Resistenza malridotta e disperata, la battaglia poteva dirsi conclusa. Bór-
Komorowski e 16 300 insorti, tra cui 3000 donne, finirono in campi di prigionia ma fu loro
concesso lo status di prigionieri di guerra, un raro riconoscimento per delle forze irregolari. Le
stime delle perdite subite dalla Resistenza variano, ma sembra probabile una cifra indicativa di
17 000 morti. Dopo la guerra, Bach-Zelewski rilasciò la poco plausibile dichiarazione che i suoi
uomini avevano subito perdite in misura quasi uguale, con 10 000 morti e 7 000 dispersi, anche
se il suo rapporto di guerra riferiva in origine di 1453 soldati uccisi e 8183 feriti. Tali numeri
erano di per sé la testimonianza di quanto fosse stato aspro lo scontro, che, come a Stalingrado,
fu combattuto casa per casa e strada per strada. I giovani superstiti delle Schiere grigie furono
mandati nei campi di lavoro. Per ironia del destino, i bombardieri alleati colpirono per errore
proprio uno dei campi di Brockwitz, uccidendo molti dei giovani polacchi che erano riusciti a
uscire vivi dall’insurrezione.
Il fallimento della rivolta pose fine alla Resistenza polacca organizzata. Nei quattro mesi che
precedettero la grande operazione lanciata dall’Armata Rossa nel gennaio del 1945 al di là della
Vistola, la società polacca pagò i terribili costi dell’insuccesso. Circa 350 000 abitanti della
capitale furono espulsi come profughi verso un destino incerto, altre migliaia finirono ai lavori
forzati in Germania. Il 9 ottobre, Hitler ripeté la sua richiesta che Varsavia fosse fisicamente
cancellata; i tedeschi saccheggiarono la città prima di distruggere sistematicamente piú del 50
per cento degli edifici. Circa 23 500 vagoni ferroviari carichi di bottino partirono per la
Germania . L’effetto sul resto del movimento della Resistenza fu totalmente negativo. Nelle
133

zone occupate dall’Armata Rossa, la repressione sovietica contro l’Armia Krajowa si intensificò
dopo la notizia di un presunto appello di Bór-Komorowski: «Ogni azione a favore della Russia è
un tradimento della Patria. […] È arrivato il momento di combattere i sovietici» . I Battaglioni
134

contadini e le unità dell’Armia Krajowa presenti nelle zone occupate dai tedeschi si sciolsero. La
popolazione rispose agli orrori di Varsavia con un crescente risentimento verso la Resistenza
anziché verso i veri colpevoli. Un rapporto stilato a novembre dal governo polacco in
clandestinità rilevava il «senso di impotenza diffuso tra il popolo» e una diffusa reazione
contraria a ogni ulteriore forma di resistenza: «Le cose sono andate troppo avanti. Il numero
delle vittime è troppo grande, i risultati appaiono deludenti» .
135

Durante tutta la guerra, l’atteggiamento del Cremlino perfino nei confronti di quei movimenti
della Resistenza apertamente comunisti non fu per niente chiaro. Stalin diffidava persino dei
comunisti polacchi che nel 1944 avevano combattuto nella Resistenza, in quanto si dimostravano
troppo indipendenti dai «polacchi di Mosca» che egli ora sosteneva. I messaggi dei sovietici ai
comunisti di ogni paese invitavano alla cautela: evitare lo scontro e collaborare con i non
comunisti. Già dagli anni Trenta, Stalin si era dimostrato particolarmente diffidente nei confronti
del Partito comunista cinese, che operava in gran parte in maniera indipendente dai diktat di
Mosca. Mao si lamentò in seguito con l’ambasciatore sovietico: «[Stalin] non si fidava granché
di noi. Ci considerava un secondo Tito, una nazione arretrata». Il leader sovietico voleva che
Mao evitasse la guerra civile e collaborasse con Chiang Kai-shek per far fronte comune contro il
nemico giapponese; una volta finita la guerra, Stalin fu comunque poco propenso nel rifornire le
forze di Mao di attrezzature militari, cosí come era contrario alle ambizioni dei comunisti cinesi
di governare tutta la Cina . Dopo che l’Unione Sovietica era stata invasa, la politica ufficiale
136

aveva sottolineato la necessità di fare fronte comune con i non comunisti, e in Grecia e
Jugoslavia, dove i principali movimenti della Resistenza erano guidati da comunisti, Stalin tese a
evitare qualsiasi crisi rivoluzionaria, soprattutto per non alienarsi gli Alleati occidentali
incoraggiando una presa di potere comunista in una regione di evidente priorità strategica per gli
inglesi. Il regime sovietico non dimostrò mai grande rispetto per i rivoluzionari greci . Stalin
137

voleva che il Partito comunista greco evitasse il linguaggio rivoluzionario e non pianificasse
rivolte, concentrandosi sostanzialmente sull’autodifesa. All’Esercito di liberazione greco, inoltre,
non arrivò dall’Urss quasi nessuna fornitura di guerra. Alla fine del 1944, Stalin consigliò ai
comunisti di entrare a far parte di un governo di coalizione favorito dagli inglesi e rifiutò di
approvare la guerra civile che stava ormai iniziando .
138

Anche se in Jugoslavia il Comintern aveva cercato di convincere Tito a non condurre una
campagna di stampo troppo comunista ma a collaborare con tutti gli altri movimenti che si
opponevano al fascismo, l’impeto della guerra civile stava ormai andando ben oltre il controllo
di Stalin. Di conseguenza, fino al 1944, il regime sovietico continuò a sostenere il re in esilio e il
suo governo, incoraggiando Tito ad avvicinarsi a tutti gli ambienti antihitleriani, inclusi i Četnici
monarchici. Stalin riconobbe il governo provvisorio di Tito solo nel giugno del 1944, nel
momenti in cui gli fu chiaro che gli Alleati occidentali non sarebbero stati contrari . A settembre,
139

tuttavia, quando l’aiuto militare sovietico avrebbe potuto dare manforte ai partigiani jugoslavi, la
direttiva inviata all’Armata Rossa dal quartier generale di Stalin affermava senza mezzi termini:
«Non si effettuino attacchi in territorio jugoslavo, in quanto non farebbero che disperdere le
nostre forze» . Alla fine dello stesso mese, quando Tito si recò in visita da Stalin, il leader
140

sovietico acconsentí a sottrarre all’Armata Rossa che stava avanzando in Ungheria un numero
limitato di uomini che avrebbero aiutato Tito a catturare Belgrado, fermo restando che gli
effettivi dell’Armata Rossa avrebbero lasciato il paese al termine dell’operazione. Stalin, incerto
del possibile risultato politico in Jugoslavia, permise tuttavia a unità dell’esercito sovietico di
collaborare sia con i Četnici sia con i guerriglieri di Tito . Nell’ottobre del 1944, una volta
141

conquistata Belgrado, l’Armata Rossa abbandonò la Jugoslavia, lasciando all’esercito dei


guerriglieri di Tito il compito di completare la liberazione del paese. Il nervosismo britannico per
l’imminente conquista comunista della Jugoslavia spinse Tito a rompere infine con gli Alleati
occidentali che fino ad allora avevano sostenuto le sue truppe con rifornimenti e attacchi aerei.
«In qualità di presidente e comandante supremo», comunicò alla missione britannica, «io non
devo rispondere delle mie azioni a nessun altro, se non al mio Paese» . A marzo del 1945, Tito
142

formò un governo con un gabinetto di ventinove parlamentari, di cui ventitre comunisti, e non
lasciò agli Alleati altra scelta se non quella di riconoscerne la legittimità. Dopo un ultimo cruento
assalto alle linee tedesche lungo il fiume Sava, dove i combattimenti proseguirono fino al 15
maggio – una settimana dopo la resa incondizionata della Germania –, venne finalmente
raggiunta la liberazione nazionale senza la diretta presenza militare degli Alleati, celebrando un
trionfo che non ebbe uguali tra le tormentate storie della Resistenza in tempo di guerra.
Nell’Europa occidentale, gli Alleati non isolarono né perseguitarono i membri della Resistenza,
come invece continuò a fare l’Unione Sovietica anche molto tempo dopo la vittoria del 1945 con
i polacchi e le altre nazionalità dell’Europa orientale; l’atteggiamento degli Alleati non cessò di
essere dettato dalla necessità di attribuire la priorità assoluta alla vittoria sulla Germania. I
movimenti della Resistenza venivano comunque trattati con cautela. Dopo la liberazione, gli
Alleati occidentali vollero disarmare tutti i partigiani e limitare l’influenza delle forze della
Resistenza sulla ricostruzione politica delle aree liberate, esattamente come aveva fatto l’Unione
Sovietica, anche se in questo caso l’obiettivo era quello di ostacolare anziché incoraggiare la
diffusione del comunismo. Il sostegno delle potenze occidentali alla Resistenza aveva le sue
radici nella decisione presa dagli inglesi nel luglio del 1940, secondo i quali, in assenza di
strategie alternative, si dovevano trovare modi indiretti per contrastare lo sforzo bellico tedesco.
Una via era rappresentata dal blocco navale; un’altra poteva essere il bombardamento
dell’industria tedesca; una terza possibilità era quella di promuovere movimenti di resistenza che
si sarebbero impegnati in azioni di sabotaggio e terrorismo contro gli invasori, ovvero, per usare
la ben nota frase di Churchill, «incendiare l’Europa». Si trattava di un elemento nuovo nella
strategia della guerra moderna. Nel 1940, l’idea che la popolazione civile dovesse insorgere
nell’attesa della liberazione aveva poco senso pratico, tant’è che i britannici non fecero granché
per favorire la Resistenza fino a quando divenne possibile riportare le truppe alleate nel
continente europeo.
La tattica venne comunque messa subito in atto. Il ministro della Guerra Economica, il politico
laburista Hugh Dalton, fu incaricato di creare un’organizzazione segreta che avrebbe inviato
agenti, denaro e rifornimenti nell’Europa occupata. Neville Chamberlain fu invitato a redigere gli
atti costitutivi del nuovo dipartimento, che egli chiamò Special Operations Executive (SOE) . 143

Dalton, che prevedeva una potenziale rivoluzione tra le classi lavoratrici oppresse d’Europa,
riteneva che «le potenzialità di questa guerra sul fronte interno siano veramente immense» . 144

Oltre alla SOE, il governo approvò azioni di propaganda dirette all’Europa occupata per
incoraggiare ogni forma di resistenza, incluse le trasmissioni radio della BBC e i volantini
lanciati dagli aerei. Al culmine della guerra, la BBC trasmetteva 160 000 parole al giorno in 23
lingue diverse ed era ascoltata in tutta Europa da popoli ansiosi di avere notizie piú affidabili di
quelle delle radio dell’Asse; nel corso del conflitto, inoltre, aerei e aerostati lanciarono quasi 1,5
miliardi di volantini, comunicati e riviste. I lanci erano attesissimi, anche se essere in possesso di
uno scritto della propaganda alleata poteva equivalere a una condanna a morte . 145

Fu istituita una seconda organizzazione, il PWE, sotto la direzione dell’ex diplomatico Robert
Bruce Lockhart, con lo scopo di orchestrare la campagna di propaganda dal quartier generale
nella Bush House della BBC, nel centro di Londra. La lotta politica aveva l’obiettivo di tenere
alto il morale nelle zone occupate e incoraggiare atti clandestini di resistenza per «ferire o
indebolire» il nemico . Il fine ultimo era quello di promuovere un diffuso movimento partigiano
146

da potersi mobilitare al momento giusto a sostegno degli Alleati. Lockhart e i suoi colleghi
idearono vari programmi che speravano potessero stimolare l’opposizione. Attraverso
programmi trasmessi di prima mattina (come Dawn Peasants), venne indirizzata agli agricoltori
europei la campagna Peasant Revolt (Rivolta dei contadini), che li esortava a respingere le
richieste di rifornimenti alimentari da parte dei tedeschi. La campagna, come molte altre, era
basata su una buona dose di ipotesi e fantasie: «Se i contadini non cooperano con il nemico»,
affermava un rapporto alquanto ottimistico, «la macchina da guerra dei dittatori
nazionalsocialisti un giorno cesserà di funzionare» . Una seconda campagna, dal nome in codice
147

Trojan Horse (Cavallo di Troia), era destinata agli operai europei costretti al lavoro forzato in
Germania. Il documento strategico, redatto nel 1944, sosteneva che la forza lavoro costituiva una
«forza rivoluzionaria unica nel suo genere», che poteva essere chiamata alla rivolta nel caso di
un’invasione alleata. Nonostante la mancanza di qualsiasi prova credibile e di una reale
conoscenza delle condizioni in cui faticavano gli operai obbligati al lavoro coatto, il PWE riuscí
a persuadere il quartier generale di Eisenhower a inserire tale campagna nelle proprie iniziative
politiche . Il ministero degli Esteri del governo ceco in esilio diede una valutazione piú realistica
148

quando avvertí Lockhart che la guerra politica degli inglesi era lontana «ventimila leghe» dalle
realtà europee. Alla fine della guerra, il capo del Joint Intelligence Committee britannico Victor
Cavendish-Bentinck concluse che era alquanto discutibile che la guerra politica «potesse
accorciare la recente guerra anche solo di un’ora» .149

Dopo l’entrata in guerra degli Stati Uniti, l’Office of Strategic Services, istituito nel luglio del
1942 sotto il generale William Donovan, creò un ramo americano per le Special Operations (SO)
da affiancarsi alla SOE e una Morale Division (divenuta in seguito Political Warfare Division)
che avrebbe dovuto riproporre l’attività svolta dal PWE . Sia la SOE sia il ramo americano delle
150

SO organizzavano e addestravano agenti speciali da infiltrare nei territori occupati per prendere
contatto con i vari movimenti della Resistenza, al fine di organizzare azioni di sabotaggio o
raccogliere informazioni. Il timore degli Alleati era che i partigiani, se lasciati a se stessi,
potessero rivelarsi dei dilettanti incapaci. Le due organizzazioni, che operavano in tutto il
mondo, si spartirono le rispettive attività su base geografica, in maniera da evitare di duplicare
gli sforzi e creare confusione nella guerra segreta. In Asia, con l’eccezione della Birmania, i
gruppi operativi delle SO svolgevano un ruolo piú importante, di cui condividevano le
responsabilità. In Europa predominava la SOE e nel gennaio del 1944, quando la SOE e le SO
furono accorpate, gli agenti americani vennero integrati in molti casi nelle unità SOE già
esistenti. Alla fine, la Special Operations Executive comprendeva 13 200 effettivi, uomini e
donne, circa la metà dei quali prestava servizio in qualità di agenti sul campo e, al pari dei
combattenti locali, subiva ingenti perdite, soprattutto in seguito a tradimenti o intercettazioni.
Verso la fine della guerra, l’OSS contava 26 000 effettivi, parte dei quali in servizio nelle SO e
parte nella sezione dell’American Secret Intelligence .151

In alcuni casi, ma non sempre, gli agenti erano madrelingua, reclutati tra gruppi di rifugiati in
Gran Bretagna o tra comunità di immigrati in America. Una volta paracadutati in territorio
nemico, correvano rischi mortali e la loro vita, come ebbe a dire durante la guerra l’ultimo capo
della SOE, il maggior generale Colin Gubbins, era soggetta a «un’ansia continua, tutto il giorno e
tutti i giorni» . La loro situazione precaria era dovuta non solo alla presenza del nemico, che li
152

considerava terroristi, ma anche ai rapporti non sempre ben definiti con gli esponenti della
Resistenza locale, disposti a collaborare con gli agenti degli Alleati soprattutto perché questi
ultimi fornivano pure denaro, armi ed esplosivi, senza i quali la Resistenza sarebbe stata
gravemente penalizzata. Esisteva per altro un vero e proprio conflitto tra il desiderio degli Alleati
di portare avanti operazioni consone alle loro priorità strategiche e tattiche e le piú ampie
campagne della Resistenza per raggiungere la liberazione nazionale, che gli Alleati erano meno
interessati a sostenere. Peter Wilkinson, il primo agente a stabilire un contatto personale con
Tito, riferí al quartier generale della SOE che i partigiani sembravano piú interessati a portare
avanti una guerra civile che ad affrontare i tedeschi. «Ora come ora», continuava il suo rapporto,
«non c’è, ripeto, non c’è alcuna attività di sabotaggio in corso, anche se le possibilità sarebbero
enormi» . Gli agenti paracadutati in Grecia erano ancora piú scettici sul potenziale bellico dei
153

partigiani dei villaggi che avrebbero dovuto aiutare – uomini e donne che Churchill liquidava
disinvoltamente come «miserabili banditi» . Il sostegno occidentale poneva sempre una
154

condizione: qualsiasi azione di sabotaggio doveva essere sempre funzionale all’obiettivo


primario, ovvero la sconfitta degli stati dell’Asse. Le armi non erano nate per alimentare guerre
civili. Nell’autunno del 1944, a liberazione avvenuta, esplose in Grecia il conflitto civile e nel
dicembre dello stesso anno l’esercito britannico intervenne per evitare la presa di Atene da parte
dei comunisti membri delle unità dell’Esercito di liberazione nazionale, equipaggiate con armi
fornite a suo tempo dagli Alleati. Fu l’unico caso in cui truppe alleate combatterono contro
quegli stessi gruppi della Resistenza che avevano sostenuto nella lotta contro il nemico
dell’Asse .
155

Il fatto che gli aiuti alle forze della Resistenza dovessero principalmente coincidere con le
priorità strategiche del comando alleato risulta palese dalle statistiche sui rifornimenti di risorse e
sul numero di agenti paracadutati. Tra il 1943 e il 1945, la RAF paracadutò per la Resistenza
francese 8455 tonnellate di rifornimenti provenienti dalle basi britanniche, 484 tonnellate
sganciate sul Belgio, 554 sui Paesi Bassi, 37 sulla Polonia e una sola tonnellata sulla
Cecoslovacchia, in quanto difficile da raggiungere per via aerea senza che gli equipaggi e gli
aerei corressero seri rischi. Ai partigiani jugoslavi, che tenevano a bada almeno sei divisioni
tedesche, furono fornite 16 500 tonnellate di aiuti, mentre ai partigiani italiani, il cui valore
militare era considerato con maggiore scetticismo, arrivarono solo 918 tonnellate di forniture tra
giugno e ottobre del 1944, vale a dire nei mesi critici della battaglia sul fronte italiano . Anche la
156

tempistica era decisa in base alla pianificazione militare alleata. I rifornimenti alla Francia furono
esigui fino all’inizio del 1944, cioè il momento in cui ci si aspettava che i movimenti della
Resistenza intraprendessero azioni di sabotaggio a sostegno dell’invasione della Normandia. Dal
1941 alla fine del 1943 furono lanciate 602 tonnellate di rifornimenti, ma tra gennaio e settembre
del 1944 le forze aeree britanniche e americane ne sganciarono ben 9875, di cui quasi due terzi
dopo gli sbarchi di giugno. Il numero degli agenti paracadutati per fornire assistenza
all’invasione alleata corrispondeva al flusso dei rifornimenti: tra il 1941 e il 1943 ne furono
mandati circa 415, ma ben 1369 tra gennaio e settembre del 1944, 995 dei quali arrivarono dopo
il D-Day . Gli aiuti erano inoltre destinati alle aree piú vicine al fronte, benché la Resistenza
157

fosse diffusa in tutto il paese. In Italia, gli aiuti mandati alle unità partigiane nell’estremo nord-
est del paese furono irrisori. «La RAF era dunque un mito?» scrisse furibondo al proprio quartier
generale un agente della SOE in Friuli. «Se il comando non intende avere alcun
coinvolgimento», continuava l’agente, «non avrebbe dovuto promettere armi e materiali […] e
dare cosí [ai partigiani] false speranze» . In Francia, ai partigiani della Bretagna, regione
158

prossima alle zone dello sbarco alleato, furono inviate dopo il D-Day 29 000 armi, ma nella
lontana regione dell’Alsazia-Ardenne-Mosella, sul confine orientale francese, ne arrivarono
appena 2000 . Se tali priorità avevano un chiaro senso operativo per gli Alleati, nelle brigate
159

partigiane, rimaste isolate dalla linea del fronte, creavano frustrazione per quella che essi
consideravano una deliberata disattenzione vero il loro ruolo nella lotta contro i tedeschi.
Nelle ultime fasi della guerra, la natura ambigua della risposta alleata alle forze irregolari dietro
le linee nemiche fu evidente soprattutto nel caso dell’Italia e della Francia. In entrambi i paesi gli
Alleati volevano poter esercitare un qualche tipo di controllo diretto, perfino sui partigiani. In
Italia questo si rivelò tutt’altro che facile, visto che il movimento di liberazione nazionale
italiano aveva scelto la violenza popolare e insurrezionale rispetto alla fedeltà formale verso
l’alto comando alleato e l’ortodossia della sua pianificazione militare. A marzo del 1943, i
maggiori movimenti della Resistenza antifascista – il Partito comunista italiano, il Partito
d’azione e i socialisti – si trovarono d’accordo nel lanciare un appello unitario all’insurrezione
nazionale, e l’enfasi su una possibile guerra civile di liberazione rimase immutata nei due anni
successivi. Dopo la resa italiana e l’invasione dell’Italia continentale da parte degli Alleati nel
settembre del 1943, la prima violenza insurrezionale liberò la città di Napoli dall’occupazione
tedesca senza l’aiuto degli Alleati. L’insurrezione fu una reazione spontanea alla mancanza di
cibo, alle privazioni imposte dagli invasori tedeschi (che a poche ore dalla resa avevano iniziato
a trattare gli italiani come un popolo nemico) e alla richiesta di deportare in Germania tutti gli
uomini in età lavorativa. Quello che il 28 settembre era iniziato come un banale scambio di fuoco
tra le forze tedesche e un gruppo di disertori e di civili armati assunse rapidamente dimensioni
sempre maggiori. Un rapporto tedesco del giorno successivo osservava che «l’attività delle
bande [partigiane] si è estesa al punto da trasformarsi in un’insurrezione dell’intera
popolazione» . In quattro giorni di combattimenti improvvisati, i tedeschi furono cacciati dalla
160

città, mentre gli inglesi, acquartierati ora sulle isole di Capri e Ischia nel golfo di Napoli,
rimasero a guardare, rifiutandosi di fornire uomini o munizioni agli insorti. La ribellione costò la
vita a circa 663 italiani, un quinto dei quali donne, e causò la distruzione della città, ma fu una
vittoria popolare. La rivolta napoletana, scrisse il leader della Resistenza Luigi Longo, era un
«esempio guida» che dava «senso e valore» agli appelli all’insurrezione lanciati nel resto
dell’Italia occupata .161
In seguito al successo di Napoli, il movimento partigiano sviluppatosi in Italia dopo
l’occupazione tedesca crebbe rapidamente. Secondo le stime, nell’estate del 1944 le unità
partigiane comprendevano tra 80 000 e 120 000 combattenti, uomini e donne , coordinati in 162

maniera approssimativa dal Comitato di liberazione nazionale per l’Alta Italia (CLNAI), creato
nel settembre del 1943, che operava indipendentemente dal principale Comitato di liberazione
nazionale con base nelle regioni meridionali occupate dagli Alleati. Pur essendo in contatto con
la SOE e con gli agenti americani dell’OSS, nella loro lotta per espellere i tedeschi dal resto della
penisola i partigiani italiani operavano in gran parte al di fuori del controllo degli Alleati. Il capo
dell’OSS nell’Italia occupata, Max Corvo, osservò piú tardi quanto era stato difficile persuadere
il CLNAI «a organizzare le loro attività paramilitari in concerto con i piani militari ortodossi» . 163

L’alto comando alleato diffidava delle ambizioni politiche della Resistenza, in primo luogo di
una probabile rivoluzione sociale di ispirazione comunista. Nelle città liberate, gli inglesi
avevano cercato di insediare, come autorità provvisorie, degli aristocratici del luogo, ma erano
stati ostacolati dai comitati locali di liberazione e dal risentimento popolare. Un rapporto del
Number 1 Special Forces, il quartier generale della SOE in Italia, ammoniva che «bande
comuniste si stanno preparando a prendere il potere». L’aiuto ai partigiani veniva dunque fornito
là dove era giudicato piú utile militarmente ma meno rischioso a livello politico . Di 164

conseguenza, l’approccio degli Alleati alla Resistenza fu in gran parte strumentale. Quando non
c’era bisogno della Resistenza o il suo appoggio era considerato con sospetto, l’alto comando
alleato agiva con indifferenza, perfino con ostilità. L’8 agosto 1944, quando a Firenze scoppiò
un’insurrezione armata che vide migliaia di volontari civili a fianco dei partigiani, le forze alleate
in avvicinamento furono reticenti a sostenerla e, dopo la ritirata tedesca, spostarono i loro carri
armati ai margini dei campi partigiani per costringere le forze irregolari ad abbandonare le armi.
Nell’ottobre del 1944, quando l’avanzata alleata si arrestò lungo la Linea Gotica, la Resistenza a
nord fu di fatto abbandonata a se stessa. Nell’ottobre del 1944 furono sganciate solamente 110
tonnellate di rifornimenti, a fronte della promessa originaria di 600 tonnellate . Ancor peggio,
165

con la chiusura del fronte alleato nei mesi invernali, alle forze tedesche e fasciste fu chiaro che
potevano impegnarsi in una selvaggia guerra antipartigiana senza timore di interventi degli
Alleati.
Il 13 novembre 1944, il generale Harold Alexander, comandante in capo degli eserciti alleati in
Italia, trasmise in chiaro sulla stazione radio della Resistenza Italia Combatte un proclama che
annunciava che le truppe alleate avrebbero fermato la campagna durante i mesi invernali,
raccomandando ai guerriglieri di cessare gli attacchi, mettere da parte le armi e attendere
istruzioni in primavera . Non appena l’esercito tedesco capí di poter concentrare i propri sforzi
166

nella lotta contro i partigiani, il risultato fu devastante per la Resistenza. A ottobre, l’esercito
tedesco, una volta consolidata la linea del fronte, iniziò insieme con le «brigate nere» fasciste e
una divisione di volontari cosacchi una grande campagna contro i partigiani. Dopo la
trasmissione di Alexander, l’operazione antinsurrezionale aumentò di intensità; furono istituiti
tribunali speciali di «controguerriglia» che prendevano di mira non solo la resistenza armata ma
chiunque fosse sospettato di aiutare o sostenere il movimento partigiano. I rifugi di montagna
furono attaccati e migliaia di partigiani uccisi, mentre altre migliaia disertarono o scesero a valle
nella Pianura Padana, dove furono facile oggetto di delazioni e rastrellamenti. Si stima che alla
fine dell’anno il numero di persone ancora armate fosse diminuito a 20 000-30 000 . Il mancato 167

sostegno da parte degli Alleati determinò una grave crisi tra le unità dei guerriglieri, a corto
persino di vestiti, stivali e prodotti alimentari di prima necessità. Anche le comunità locali che
avevano sostenuto la Resistenza durante l’estate furono selvaggiamente perseguitate dalle unità
antipartigiane, con il risultato di innescare una crescente diffidenza verso un’ulteriore
collaborazione con i partigiani. Come venne ammesso piú tardi nella versione ufficiale della
SOE, lo stato d’animo tra i partigiani era di «confusione e disperazione». Gli Alleati, pur
rendendosi presto conto che la natura dell’appello di Alexander era stata male interpretata,
abbandonarono la Resistenza al suo destino. L’accusa rivolta ad Alexander di aver
deliberatamente sacrificato il movimento partigiano per eliminare la prospettiva di
un’insurrezione comunista rimane indimostrata, per quanto possa essere plausibile. Il proclama,
al contrario, rispecchiava l’incapacità dell’alto comando alleato di saper apprezzare la vera
natura della guerra clandestina, guerra che non poteva essere accesa o spenta a seconda delle
esigenze degli Alleati. «Non c’erano pause nella guerra partigiana», rifletteva Max Corvo nel suo
libro di memorie, «nessun riposo, nessuna tregua» . 168

A dicembre, i dirigenti del CLNAI si recarono a Roma per fare pressione sugli Alleati affinché
fornissero un sostegno piú efficace e riconoscessero che la loro organizzazione e il loro esercito
irregolare rappresentavano un’autorità politica dietro il fronte tedesco. Quest’ultima richiesta fu
accettata con riluttanza, dato che gli Alleati non volevano incoraggiare il radicalismo politico
nelle zone che avevano liberato; venne accordato un maggiore sostegno diretto, ma solo perché
nel gennaio del 1945 gli eserciti alleati stavano preparando l’assalto finale alle forze tedesche
nella Pianura Padana e avevano ancora una volta bisogno dei partigiani per sabotare le
comunicazioni e i rifornimenti tedeschi. I Protocolli di Roma, come vennero poi denominati,
mitigarono in qualche modo le ripercussioni dell’errore commesso da Alexander. Nonostante la
gravità della crisi nei mesi invernali, la prospettiva che gli italiani sarebbero stati presto in grado
di liberare le loro città del Nord, in anticipo sulla nuova offensiva alleata, portò a un’ondata di
nuovi reclutamenti; i rifornimenti alleati fluirono improvvisamente in abbondanza, per cui le
unità che per mesi erano rimaste prive di risorse indispensabili poterono ora riarmarsi.
Dall’inizio della primavera, arrivavano ogni mese piú di 1000 tonnellate di rifornimenti alle
forze partigiane, che si erano nuovamente rimpolpate fino a raggiungere circa 80 000
combattenti a marzo e 150 000 il mese successivo . A Roma, gli Alleati e le autorità di governo
169

volevano che l’esercito partigiano combattesse esclusivamente contro i tedeschi. A marzo, il


CLNAI acconsentí all’«impiego esclusivo di forze militari per scopi bellici», ma, nonostante un
aumento delle operazioni di sabotaggio contro le linee di comunicazione tedesche, i partigiani
restavano piú interessati a preparare un’ultima ondata di violenza insurrezionale – guerriglieri e
civili insieme – contro le forze di occupazione e i loro alleati fascisti . Quando il 10 aprile iniziò
170

la campagna alleata, il generale americano Mark Clark ordinò ai partigiani di non fare alcuna
mossa «senza l’autorizzazione del Comando supremo alleato», ordine che fu del tutto ignorato
dalle forze partigiane .
171

Mentre gli eserciti alleati sfondavano rapidamente le linee tedesche e iniziavano l’avanzata
attraverso la Pianura Padana, il movimento di liberazione, composto da uomini armati e non,
iniziò a studiare strategie per scacciare i tedeschi dalle principali città prima dell’arrivo delle
truppe alleate. La loro speranza, se possibile, era di assumere il controllo del sistema giudiziario
locale, al fine di sbarazzarsi, anche con la violenza se necessario, di quegli italiani che avevano
sostenuto il regime fantoccio fascista. Il CLNAI annunciò che chiunque venisse considerato un
criminale di guerra o un traditore poteva essere giustiziato sommariamente, e tra le vittime di tale
giustizia approssimativa vi furono Benito Mussolini e la sua amante Clara Petacci, catturati e
fucilati il 28 aprile mentre cercavano di fuggire attraverso il confine svizzero. Nelle ultime due
settimane di aprile del 1945, la resistenza armata, sostenuta da numerosi volontari della
popolazione civile e da scioperi a macchia d’olio, liberò una città dopo l’altra: Bologna il 20
aprile, Milano e Genova (dove 18 000 tedeschi si arresero a una ristretta forza di guerriglieri) il
25-26 aprile, Torino il 28 aprile. In tutta l’Italia settentrionale, molte città e paesi piú piccoli
vennero liberati dall’insurrezione o in seguito alla ritirata tedesca – raggiungendo l’incredibile
numero complessivo di 125 nuclei urbani . Gli eserciti alleati arrivarono nel giro di pochi giorni,
172

desiderosi di tenere sotto controllo il potere amministrativo e giudiziario ed evitare l’eventualità


che il movimento rivoluzionario radicale tentasse di anticiparli. I partigiani, riluttanti a
consegnare le armi, ne nascosero a migliaia, deponendo invece soltanto quelle danneggiate o
obsolete. Gli Alleati non poterono impedire in tutta l’Italia settentrionale un’ondata di violente
uccisioni a scopo di vendetta contro fascisti e collaborazionisti, per un totale, secondo le migliori
stime a disposizione, di circa 12 000-15 000 morti . Qualunque fosse stato l’aiuto che la guerra
173

partigiana aveva fornito alla causa militare alleata, la Resistenza era interessata principalmente a
sradicare il fascismo e, come nel caso dei polacchi, raggiungere la liberazione nazionale prima
dell’arrivo degli Alleati e della fine della guerra. Da allora, l’Italia celebra la vittoria il 25 aprile
anziché il 2 maggio, data in cui le forze tedesche si arresero formalmente agli Alleati, questo per
sottolineare chiaramente la distinzione tra la fine ufficiale della campagna militare e lo slancio
insurrezionale della liberazione avvenuta una settimana prima.
L’esperienza degli Alleati in Francia differí da quella in Italia per molti aspetti rilevanti. La
Francia era un alleato sotto occupazione, l’Italia un ex nemico; la Gran Bretagna aveva ospitato
un movimento di liberazione francese sotto la guida del generale Charles de Gaulle, mentre non
vi era mai stato all’estero un movimento di liberazione italiano; i movimenti della Resistenza
francese passarono alla fine sotto il comando militare unificato della Francia Libera di De
Gaulle, che aveva la sua base in Gran Bretagna, e nel 1944 le loro azioni vennero integrate il piú
possibile con le operazioni alleate; in Italia, al contrario, il comando, nella misura in cui poteva
essere esercitato, rimase nelle mani del movimento di liberazione nazionale; nel 1944, un intero
esercito composto da francesi aveva combattuto a fianco degli Alleati occidentali per riaffermare
il diritto della Francia a essere nuovamente considerata una grande potenza; l’Italia liberata,
viceversa, contribuí principalmente con forze ausiliarie e un piccolo numero di combattenti. Nel
1945, il movimento partigiano italiano aveva approfittato infine del momento per liberare le città
del Nord Italia con le sole sue forze, laddove la maggior parte delle città della Francia erano state
liberate dagli Alleati e dal redivivo esercito francese.
Il controllo centralizzato dei movimenti della Resistenza francese, tuttavia, non si realizzò
facilmente e, come in Italia, fu osteggiato o rifiutato a livello locale per le tensioni tra coloro che
si erano esposti quotidianamente ai rischi dei combattimenti e coloro che se n’erano rimasti al
sicuro a Londra ma volevano imporre al movimento partigiano le loro priorità. De Gaulle
condusse una lunga campagna non solo per far riconoscere la propria autorità in Francia, ma
anche per farla accettare ai suoi presunti alleati britannici e americani. A ottobre del 1942, il
governo in esilio della Francia Libera aveva chiesto ai principali movimenti della Resistenza –
Combat, Libération e Francs-tireurs et partisans – di unire le loro risorse e accettare la
denominazione onnicomprensiva di Armée secrète, posta genericamente sotto la guida del
generale francese in pensione Charles Delestraint. A gennaio del 1943, i gruppi della Resistenza
si erano uniti formalmente nei Mouvements unis de la Résistance. Il numero reale di quanti
facessero parte dell’Armée secrète resta, nel migliore dei casi, puro oggetto di congetture. A
marzo del 1943 essi erano presumibilmente 126 000, anche se quelli dotati di armi ammontavano
forse a non piú di 10 000; nel gennaio del 1944, grazie al moltiplicarsi dei rifornimenti alleati, i
combattenti armati erano saliti a 40 000. L’anno prima, Jean Moulin, rappresentante di De
Gaulle in Francia, aveva fondato il Conseil national de la Résistance per coordinare l’ala politica
e militare del movimento, ma dopo il suo arresto e la successiva morte nel giugno del 1943 e con
la scoperta da parte della Gestapo degli archivi dell’Armée secrète e dei Mouvements unis, la
compagine della Resistenza si frammentò nuovamente e molti dei suoi quadri migliori caddero
vittime della terrificante repressione. Il Conseil national trovò rifugio presso gli Alleati e alla
fine costituí un governo provvisorio con sede nella città di Algeri ora riconquistata. Quando il
movimento nazionale si ricostituí, gli Alleati cercarono di integrarlo piú direttamente nel
progetto di invasione della Francia.
I tentativi di coordinare i progetti degli Alleati relativi al periodo precedente e immediatamente
successivo allo sbarco in Normandia avevano avuto inizio già nella primavera del 1943, quando
era stato istituito un comitato congiunto di pianificazione tra la SOE e il Bureau central de
renseignements et d’action. Furono elaborati i piani denominati Vert, Violet, Tortue e Bleu per
azioni di sabotaggio a danno di ferrovie e telecomunicazioni e per il rinforzo delle truppe e la
fornitura di elettricità. Benché gli Alleati diffidassero delle ambizioni di De Gaulle e guardassero
con sospetto la potenza militare della Resistenza, nel marzo del 1944 acconsentirono alla
creazione delle Forces françaises de l’Intérieur (FFI, Forze della Francia Libera) sotto il
generale della Francia Libera Marie-Pierre Koenig, di fatto però sotto il comando supremo di De
Gaulle. Eisenhower insistette per integrare le FFI nel suo Supreme Headquarters e pose Koenig
a capo non solo delle forze della Resistenza francese ma anche delle Allied Special Forces;
venne inoltre costituito un Comité de défense nationale che controllava per conto degli Alleati le
azioni della Resistenza al fronte e dietro le linee di combattimento.
Anche se alcuni partigiani francesi non apprezzarono quel risultato, esso risultava soddisfacente
sia per le potenze alleate sia per la Francia Libera di De Gaulle, non solo perché il sabotaggio era
un elemento essenziale della strategia dell’invasione ma anche perché veniva a crearsi sulla
Resistenza una struttura centralizzata di comando che privilegiava le operazioni militari rispetto
alla tanto discussa politica di liberazione. Per assicurarsi l’efficacia delle azioni della Resistenza,
compiute in molti casi da civili non addestrati, la Sezione F della SOE infiltrò propri agenti e
altri delle SO affinché organizzassero delle reti partigiane per le operazioni di sabotaggio e le
addestrassero all’uso degli esplosivi. Si calcola che nel D-Day fossero operative cinquanta di tali
reti della Resistenza; dopo il D-Day, furono inviate nelle zone occupate delle squadre speciali di
agenti composte da tre uomini e chiamate in codice Jedburgh (dal nome di un villaggio
scozzese), per un totale di novantadue squadre di infiltrati provenienti dalla Gran Bretagna e
venticinque dalle regioni del Mediterraneo . Ne risultò un aumento significativo delle attività di
174

sabotaggio. Tra aprile e giugno del 1944 vi furono 1713 azioni di sabotaggio contro la rete
ferroviaria francese; nei primi sei mesi dell’anno i partigiani distrussero o danneggiarono 1605
locomotive e 70 000 vagoni merci. Gli attacchi degli aerei alleati distrussero altre 2536
locomotive e 50 000 vagoni . Il piano Tortue, che doveva bloccare i rinforzi tedeschi diretti al
175

fronte della Normandia, faceva grande affidamento sulle azioni della SOE e della Resistenza
volte a distruggere ponti e bloccare vie di comunicazione. L’impatto fu significativo: la 9. e 10.
Panzerdivision, arrivate in Lorena il 16 giugno, impiegarono altri nove giorni per raggiungere la
Francia occidentale; alla 27. Infanterie-Division occorsero diciassette giorni per percorrere 180
chilometri .
176
I tentativi degli Alleati di mobilitare la Resistenza sotto il proprio diretto controllo ricordavano il
modo in cui le forze armate e il sistema di sicurezza dell’Urss avevano saputo controllare
l’attività dei partigiani sovietici. Nei territori che venivano liberati durante la marcia delle forze
alleate attraverso il nord della Francia e, dal mese di agosto, anche nel sud, i volontari delle FFI
che avevano l’età per combattere erano integrati nell’esercito francese quali soldati regolari,
esattamente come era avvenuto per i partigiani in Russia. La maggior parte delle città e dei paesi
francesi era in attesa di essere liberata dall’arrivo degli Alleati. Alcune ricerche condotte su 212
località hanno rilevato che 179 di esse erano state liberate dagli Alleati o in seguito alla ritirata
tedesca, mentre altre 28 si erano date a insurrezioni violente, seppure circoscritte, nell’intento di
sostenere i liberatori in procinto di arrivare . In quella fase, la resistenza armata era trattata con
177

particolare ferocia dalle forze di occupazione tedesche – SS, Gestapo e Wehrmacht –, sicché
l’attentisme rimase sino alla fine un comportamento con un chiaro senso pratico . L’impulso
178

rivoluzionario che aveva sostenuto le attività della Resistenza ben prima dell’invasione in
Normandia non scomparve del tutto, sollecitato dall’appello dei comunisti a un’«insurrezione
armata» di massa. L’8 giugno 1944, la sezione parigina del Comitato di liberazione, dominato
prevalentemente dalla Resistenza comunista, incitò la popolazione a dare inizio a una rivolta
popolare e a uccidere sia i tedeschi sia i loro alleati di Vichy: «Uomini e donne di Parigi: a
ciascuno il suo Boche [termine gergale che indicava i prussiani, o i «crucchi»], il suo milicien
[miliziano di Vichy], il suo traditore!» Sei giorni dopo, il Comitato militare della resistenza di
Parigi, che aveva respinto il progetto alleato di esercitare un controllo sull’attività partigiana,
invitò le FFI a collaborare con le «masse popolari» come primo passo verso «l’insurrezione
nazionale» .
179

A Lille, Marsiglia, Limoges, Thiers, Tolosa, Castres e Brive, come in un certo numero di
comunità piú piccole, la Resistenza riuscí a liberare le città prima dell’arrivo degli Alleati, anche
se non vi era stata un’insurrezione generale. Dopo la liberazione di Tolosa, le unità delle FFI
dominate dai comunisti assunsero il controllo della città, ma davanti alla minaccia di fare
intervenire una divisione dell’esercito regolare per ripristinare l’autorità del governo provvisorio,
la leadership comunista cedette . L’insurrezione piú importante ebbe luogo a Parigi, dove una
180

forza spontanea di civili, insorti insieme con un’unità delle FFI, decise che, piuttosto che
aspettare gli Alleati, avrebbe preferito sfidare l’ordine di Koenig e del Comitato di liberazione
nazionale di Algeri di evitare un conflitto dal sapore anarchico con una guarnigione tedesca di
grandi dimensioni. La tensione raggiunse il picco ad agosto, quando le forze alleate uscirono
dalla testa di ponte della Normandia attraverso la Francia settentrionale. L’intenzione di
Eisenhower non era di liberare Parigi ma di muovere verso nord e attraversare la Senna a sud per
accerchiare le forze del nemico. La notizia della sconfitta tedesca nella Francia nord-occidentale
accelerò a Parigi il progetto di un’insurrezione popolare. Il 17 agosto, i capi della Resistenza
tennero una riunione per vagliare tale ipotesi. Le opinioni erano discordanti: i piú prudenti non
solo erano consapevoli che De Gaulle non voleva la violenza popolare ma erano altresí coscienti
della crisi che la Resistenza stava affrontando a Varsavia. Alla fine, prevalse l’opzione
insurrezionale: «Non si può permettere l’ingresso [degli Alleati] senza un’insurrezione», si
leggeva nel verbale della riunione . 181

Il 18 agosto, Henri Rol-Tanguy, il comunista a capo delle forze della Resistenza parigina, ordinò
di affiggere cartelli in tutta la città per incitare la popolazione a dare inizio all’insurrezione il
giorno seguente, pur sapendo perfettamente che la sua forza di circa 20 000 combattenti tra
uomini e donne non aveva piú di 600 armi a disposizione. I combattimenti che seguirono furono
sporadici, a differenza dell’aspra battaglia di Varsavia, e l’esito rimase incerto. Venne dichiarata
una breve tregua, che i combattenti delle FFI, desiderosi di mettersi alla prova, infransero. Negli
arrondissements abitati in prevalenza dalla classe operaia furono erette frettolosamente delle
barricate, simbolo iconico della lunga tradizione rivoluzionaria parigina. «La libertà sta
tornando», scrisse nel suo diario lo scrittore Jean Guéhenno. «Non sappiamo dove essa sia, ma è
tutta intorno a noi, nella notte» . Incerto del possibile esito, il giorno 20 Rol-Tanguy inviò un
182

emissario all’alto comando alleato chiedendo aiuto, e il giorno seguente De Gaulle convinse
Eisenhower a dirottare su Parigi una divisione francese comandata dal generale Philippe Leclerc
in modo da garantire la liberazione ed evitare un golpe comunista. Le truppe regolari arrivarono
il giorno 24, quando l’insurrezione aveva già raggiunto il proprio scopo contro una guarnigione
tedesca ormai demoralizzata. L’indomani, il comandante tedesco a Parigi, il generale Dietrich
von Choltitz, ignorando l’ordine di Hitler di difendere la città fino all’ultimo uomo e ridurla in
cenere come Varsavia, si arrese a Leclerc e Rol-Tanguy . Il concomitante arrivo di De Gaulle
183

compromise comunque l’insurrezione popolare. La Resistenza parigina dovette accettare


l’autorità di Koenig, l’integrazione delle FFI con gli eserciti alleati e un governo francese
organizzato da De Gaulle con l’appoggio, seppure riluttante, del comando britannico e
americano, inizialmente interessati alla presenza di un governo militare nel territorio francese da
loro liberato. Alla fine, trentacinque reggimenti e battaglioni delle FFI divennero unità della I re

Armée, per un totale di almeno 57 000 uomini. Altre migliaia di combattenti tornarono a casa
piuttosto che unirsi all’esercito regolare, alcuni per proteggere il loro posto di lavoro, altri troppo
esausti per continuare, altri ancora non disposti a barattare il fascino e i pericoli della Resistenza
clandestina con il rigore e la disciplina di una vita militare regolare .
184

Gli Alleati occidentali, cosí come accadeva in Unione Sovietica, misuravano il valore della
Resistenza in base alla misura in cui le azioni dei partigiani erano in grado di compromettere o
ostacolare le operazioni del nemico e ridurne le risorse. La Resistenza ricevette grandi forniture
di equipaggiamenti e conobbe una considerevole presenza di agenti infiltrati soltanto quando le
forze alleate ebbero bisogno del suo sostegno per le loro principali operazioni. Pochi combattenti
sarebbero stati d’accordo con il capo di stato maggiore della SOE, il generale di brigata Richard
Barry, quando nel 1958, durante la prima conferenza sulla storia della Resistenza, informò
l’uditorio che, senza l’aiuto degli Alleati, «sarebbe stata possibile ben poca Resistenza, o forse
nessuna» . In Europa e in Asia, la Resistenza continuò indipendentemente dall’appoggio degli
185

Alleati e con tempistiche e obiettivi dettati piú dalle condizioni e dalle possibilità locali che dalle
necessità degli anglo-americani. Per coloro che avevano lo straordinario coraggio civile di
resistere, prevalentemente uomini e donne amalgamati da un nucleo di ex soldati e disertori, lo
scopo era dimostrare alle forze di occupazione che non avrebbero permesso loro di esercitare
l’autorità in maniera incontrastata e che la liberazione delle comunità locali e della nazione
sarebbe stata ottenuta combattendo anche dall’interno. Il desiderio di giocare un proprio ruolo
come insorti civili rappresentava un’asserzione politica e morale, non solo un contributo alla
vittoria, ed è per questo che a Varsavia, a Milano e a Parigi l’insurrezione fu considerata
preferibile all’accettazione passiva della liberazione da parte delle forze alleate. Le ultime azioni
degli insorti servirono a legittimare sia coloro che avevano resistito sia gli anni di lotta a cui
avevano preso parte. Una giovane donna partigiana di Brescia, nel Nord Italia, ricordava nel suo
diario il giorno in cui i partigiani avevano liberato la città prima dell’esercito americano: «I
nostri ragazzi sfilano orgogliosi, con le mitragliatrici pronte a fare fuoco. Nei loro occhi brilla la
gioia della vittoria. Hanno conquistato la città e questa è ora nelle loro mani [...] il cuore canta.
La città è libera» .
186

«Siamo perduti, ma dobbiamo combattere»: la Resistenza degli ebrei.


La Resistenza delle comunità civili ebraiche europee fu fondamentalmente diversa da tutte le
altre forme di opposizione al nemico. A differenza di quelle formazioni della Resistenza
partigiana che lottavano per liberare la nazione dall’occupazione, o che combattevano tra loro
sulla questione di come doveva essere il paese nel dopoguerra, gli ebrei europei si confrontarono
con un regime impegnato in una guerra di sterminio contro il loro popolo. In tali condizioni, la
parola «resistenza» significava reagire per limitare o contrastare il programma di sterminio, o, se
possibile, trovare il modo di sottrarsi a un destino inevitabile mediante strategie di fuga o di
occultamento. Non vi era una nazione ebraica o un futuro politico su cui la lotta potesse
concentrarsi. Gli ebrei che resistettero in quanto ebrei lo fecero perché, nonostante l’impresa
fosse condannata al fallimento, preferivano morire per loro scelta anziché per un destino stabilito
dai persecutori tedeschi e dai loro complici. «Siamo perduti», sosteneva nel 1942 il dottor
Icheskel Atlas, un leader partigiano ebreo, «ma dobbiamo combattere». Morí piú tardi quell’anno
nelle lotte partigiane della Polonia orientale .
187

Nondimeno, non è semplice definire cosa abbia esattamente rappresentato la Resistenza ebraica.
In primo luogo, alcuni partigiani ebrei si consideravano parte del movimento della Resistenza
nazionale e non desideravano essere visti come persone che perseguivano obiettivi
specificamente ebraici. Questo era l’atteggiamento tipico degli ebrei che si erano ben integrati
nella comunità nazionale, per esempio in Francia, dove molti combattenti ebrei desideravano
identificarsi con una piú generale campagna patriottica piuttosto che rischiare di essere accusati
di servire solo gli interessi ebraici. «Sono francese», scrisse nelle sue memorie il partigiano ebreo
Léon Nisand, «e la nostra famiglia è francese perché […] partecipiamo alle fortune e alle
disgrazie della nostra Repubblica» . Gli ebrei francesi ebbero un ruolo di primo piano nei primi
188

movimenti non ebraici della Resistenza in Francia, sia come membri fondatori del circolo Musée
de l’Homme nel 1940, sia in quanto parte del gruppo che nel luglio del 1941 lanciò «Libération»,
sia perché combattenti attivi e di spicco a Parigi, dove si stima che due terzi di tutti gli attacchi
avvenuti tra luglio del 1942 e luglio del 1943 abbiano visto il coinvolgimento di gruppi ebraici . 189

In tutta Europa, i comunisti ebrei erano altresí divisi tra il desiderio di soccorrere in qualche
modo le comunità ebraiche perseguitate e la necessità di rimanere fondamentalmente fedeli alla
lotta politica di classe contro il fascismo. Nelle regioni dell’Unione Sovietica occupate dai
tedeschi dopo il 1941, alcuni ebrei fuggiti nelle foreste per unirsi alle unità partigiane o formarne
di nuove scoprirono che potevano trovare una migliore protezione mescolandosi a brigate non
ebraiche in lotta per ristabilire il potere sovietico e poco preoccupate del destino degli ebrei russi.
Se sfuggivano alla fucilazione, in quanto sospettati di essere delle pedine dei tedeschi, i giovani
ebrei venivano incoraggiati ad adottare pseudonimi russi per evitare il reale pericolo di violenze
antisemite. Ne derivò pertanto il paradosso per cui, per combattere contro i nemici del popolo
ebraico, essi dovevano sembrare dei non ebrei . 190

La seconda questione è legata a una definizione piú precisa di che cosa abbia significato la
«resistenza» nel contesto del genocidio ebraico. Le forme di resistenza politica erano limitate, in
quanto la persecuzione degli ebrei non era una repressione di questo genere. Si è spesso
sostenuto che il termine «lotta armata» sia l’unica definizione appropriata della Resistenza
ebraica. Nondimeno, considerando che lo scopo della macchina di sterminio tedesca era
l’eliminazione fisica di ogni singolo ebreo, a esclusione di quei pochi tenuti in vita abbastanza a
lungo da sfruttarne le ultime energie come forza lavoro, un’azione di resistenza non poteva che
richiedere di fare tutto il possibile per nascondere i perseguitati, aiutarli a fuggire o fornire loro
delle false identità – azioni che richiedevano anche il contributo di molti non ebrei. Tutte queste
strategie si opponevano alla priorità fondamentale del regime, poiché sottraevano ai persecutori
la possibilità di uccidere le loro vittime designate. La sopravvivenza era di per sé un modo per
resistere all’imperativo genocida che gli ebrei si trovavano ad affrontare ovunque nell’Europa
occupata o nei paesi dell’Asse, anche se, a eccezione di quanti fuggivano nelle foreste e nelle
paludi dell’Europa orientale e della Russia, la fuga dipendeva da civili non ebrei che avevano il
coraggio di sfidare i persecutori. Le azioni di salvataggio furono molto diffuse nell’Europa
occidentale, dove le comunità ebraiche erano generalmente piú integrate e la popolazione piú
propensa a respingere le pretese tedesche; in Francia, circa il 75 per cento della popolazione
ebraica residente sopravvisse al genocidio; in Italia circa l’80 per cento . Nelle regioni occupate
191

dell’Est, al contrario, la presenza di una diffusa e spesso viscerale antipatia per gli ebrei rendeva
molto piú difficile trovare dei non ebrei disposti a correre rischi. Ciò nonostante, si stima che a
Varsavia 28 000 ebrei polacchi vennero nascosti fuori del ghetto e circa due quinti di loro
sopravvissero alla guerra. Anche alcune famiglie bielorusse e ucraine nascosero degli ebrei,
seppure di solito non a lungo, poiché gli ebrei in fuga dall’Est europeo tentavano, quando
possibile, di raggiungere la sicurezza pur relativa delle piccole comunità ebraiche che avevano
trovato rifugio nelle foreste .
192

Il fatto di nascondere una persona come forma di resistenza attiva comportava tutti i rischi
comunemente connessi all’opposizione politica e militare: perquisizioni delle abitazioni,
interrogatori della polizia e delazioni da parte di vicini desiderosi, almeno nell’Est, di ricevere il
sacchetto di zucchero o sale offerto come ricompensa per ogni ebreo catturato. Come accadeva
nel caso dei partigiani regolari, coloro che in una famiglia o in un’istituzione venivano ritenuti
colpevoli di avere ospitato degli ebrei erano soggetti alla pena di morte o alla detenzione in un
campo di lavoro. Si stima che tra i 2300 e i 2500 polacchi furono giustiziati per aver aiutato degli
ebrei, anche se il loro numero, dato che potevano essere uccisi sommariamente senza alcun
processo, fu quasi certamente molto piú alto. Dove esistevano reti di salvataggio, i soccorritori
potevano essere torturati affinché rivelassero i nomi degli altri e indicassero le case «sicure»,
esattamente come accadeva agli oppositori politici. Le perquisizioni della Gestapo puntavano in
particolare a scovare i bambini, piú facili da nascondere e con maggiori possibilità di trovare una
famiglia disposta ad accoglierli. In Polonia, sotto gli auspici del comitato Żegota, che faceva
parte della Rada Pomocy Żydom (Consiglio per l’assistenza agli ebrei), furono salvati e nascosti,
correndo seri rischi, circa 2500 bambini ebrei, collocati presso famiglie o in orfanotrofi oppure
affidati alla Chiesa cattolica. Una volta catturati, i bambini, nella maggior parte dei casi orfani o
abbandonati, subivano la stessa sorte dei non ebrei che li avevano accolti e venivano spediti nei
campi di sterminio o uccisi sul posto. Quando la Gestapo scoprí che a Varsavia i monaci dello
Bractwo Śląska (Confraternita della Slesia) stavano dando rifugio a un certo numero di bambini
ebrei, li impiccarono a un alto balcone insieme con i piccoli, in bella vista su una strada affollata,
lasciando i loro corpi a marcire come ammonimento alla popolazione. Anche se i soccorritori del
comitato Żegota si sforzavano di fare in modo che ai bambini piccoli che parlavano solo yiddish
venissero insegnate preghiere cattoliche in polacco per aiutarli a camuffarsi, una bambina di sei
anni, Basia Cukier, non riuscí a recitarle davanti agli ufficiali della Gestapo e fu portata via per
essere uccisa . In tali condizioni, in cui l’occultamento di qualsiasi tipo veniva criminalizzato e
193
le pene erano brutalmente severe, tanto i salvati quanto i loro soccorritori devono essere
considerati partigiani a pieno titolo.
L’attività armata degli ebrei, cosí come le iniziative per nascondere o salvare le vittime, si
differenziava per alcuni aspetti importanti dalle altre forme di resistenza all’occupazione delle
forze dell’Asse. Trattandosi di una reazione ai mutevoli modelli delle persecuzioni tedesche e
degli alleati della Germania, la tempistica della Resistenza ebraica era dettata non
dall’andamento della guerra in generale ma da quello della guerra di Hitler contro gli ebrei. Nella
maggior parte dell’Europa e dell’Asia, la Resistenza raggiunse la sua massima espressione solo
negli ultimi diciotto mesi del conflitto, quando fu chiaro che gli stati aggressori si sarebbero
prima o poi trovati di fronte all’ineluttabile sconfitta. La Resistenza ebraica, al contrario, si
sviluppò principalmente nel 1942 e nel 1943 come reazione al programma di deportazione di
massa delle popolazioni ebraiche dai ghetti dell’Est e dal resto dell’Europa occidentale.
L’opposizione armata degli ebrei in Francia fu piú evidente negli anni centrali della guerra,
allorché altri gruppi della Resistenza si muovevano invece con maggiore cautela. In Polonia, le
azioni condotte dagli ebrei andavano decisamente contro gli interessi dell’Armia Krajowa, che
voleva evitare lo scontro con il nemico fino al momento in cui la sua sconfitta fosse stata
imminente. La Resistenza ebraica non aveva in programma di collaborare allo sforzo bellico
degli Alleati, anche se a volte lo fece seppure in modo marginale, né gli Alleati fornivano ai
gruppi ebraici armi o denaro per sostenerne le azioni, come facevano con altri movimenti
partigiani. Su 240 volontari ebrei provenienti dalla Palestina e addestrati con riluttanza dalla
SOE, solo 32 furono paracadutati in Europa nel 1944, troppo tardi per essere d’aiuto alle
comunità ebraiche assediate . I combattenti ebrei erano principalmente civili, avevano per la
194

maggior parte un’esperienza militare limitata o nulla ed erano mal equipaggiati per affrontare
l’apparato di sicurezza tedesco ben armato e i suoi numerosi ausiliari non tedeschi: lituani,
lettoni, russi, ucraini o polacchi. «Resistenza» significava contrastare in qualche modo, anche in
forma limitata, lo spietato progetto di genocidio, nonostante la maggior parte dei combattenti
ebrei si rendesse conto che la loro opposizione era destinata a fallire. Fare guerra ai tedeschi,
come disse un combattente ebreo, equivaleva «alla dichiarazione di guerra piú disperata che mai
sia stata fatta» .195

Nella sua forma attiva, la resistenza ebraica si esprimeva in due modi contrastanti: il primo
consisteva nel trovare i mezzi per far sí che almeno una piccola parte della popolazione ebraica
in pericolo potesse essere salvata dalla deportazione e, se le condizioni geografiche lo
permettevano, avviare la costituzione di gruppi di autoprotezione o bande di partigiani che
difendessero le comunità a cui i nazisti davano la caccia; il secondo era quello di organizzare
rivolte che, sebbene destinate al fallimento fin dall’inizio, avrebbero dimostrato ai persecutori
tedeschi che la popolazione ebraica non era del tutto passiva di fronte al proprio destino ma che,
come disse il giovane leader sionista Hirsch Belinski, sarebbe «morta con dignità e non come un
animale braccato» . In verità, in entrambi i casi, la sorte degli ebrei non cambiava molto. «Ogni
196

ebreo porta con sé una condanna a morte», osservava Emanuel Ringelblum, il cronista del ghetto
di Varsavia . La natura pericolosa della resistenza attiva e il numero ridotto di armi disponibili
197

contribuiscono a spiegare perché solo un’esigua minoranza della popolazione ebraica destinata a
morire partecipò di fatto alla lotta. Si calcola che nella primavera del 1943 soltanto il 5 per cento
dei residenti rimasti nel ghetto di Varsavia abbia effettivamente combattuto durante la rivolta. A
marzo dello stesso anno, il movimento della Resistenza nel grande ghetto di Vilna poteva contare
unicamente su 300 combattenti . Coloro che fuggivano dai ghetti e dai campi di prigionia per
198
unirsi ai gruppi armati erano una piccola parte dell’intera popolazione dei ghetti e dei lager;
quelli che riuscivano a portarsi al sicuro nelle foreste rappresentavano una percentuale ancora piú
esigua, poiché le milizie e le forze di polizia braccavano i fuggitivi con uno zelo implacabile.
Pur considerando che le opportunità erano certamente limitate, esistevano molti altri ostacoli in
grado di spiegare perché non si uní alla Resistenza un numero maggiore di persone. Ovunque, le
comunità ebraiche possedevano soltanto una comprensione limitata o parziale di ciò che stavano
subendo, con una forte predisposizione a credere che il peggio non potesse essere vero. Un
diarista del ghetto di Varsavia si lamentava per esempio di «voci terrificanti [...] prodotto di una
certa immaginazione esagerata» . Esisteva la reale paura che l’azione armata potesse peggiorare
199

le cose, accelerare deportazioni e uccisioni e incoraggiare selvagge rappresaglie da parte tedesca.


I potenziali combattenti si trovavano di fronte a una difficile scelta morale: proteggere la propria
famiglia e i propri compagni o abbandonarli per imbracciare le armi. Tra le comunità dei ghetti,
il desiderio di salvaguardare la famiglia, in particolare i bambini, era un forte incentivo che le
spingeva a non opporre alcuna resistenza violenta . All’interno delle comunità ebraiche
200

esistevano inoltre profonde divisioni politiche e religiose, in particolare tra gli ebrei piú
conservatori e quelli appartenenti alle varie organizzazioni comuniste, il che rendeva la
collaborazione piú complessa e, a volte, impossibile. Molti ebrei ortodossi negavano che l’uomo
avesse il diritto di ostacolare un destino decretato da Dio e invitavano le congregazioni a
concentrarsi per rafforzare lo spirito di fronte all’oppressione . Vi era soprattutto la vana
201

speranza che, cooperando con le autorità tedesche, almeno alcuni degli abitanti del ghetto, in
particolare quelli che lavoravano nelle officine, potessero sopravvivere abbastanza a lungo da
assistere alla sconfitta della Germania e alla liberazione. Il fallimento del movimento della
Resistenza nel ghetto di Vilna fu dovuto all’ampio sostegno dato dalla popolazione al leader
ebreo Jacob Gens, la cui strategia di acquiescenza lasciava intravedere maggiori probabilità di
salvare vite umane rispetto a una rivolta infruttuosa . Un poliziotto ebreo del ghetto riteneva che
202

nessuno avrebbe compiuto il passo eroico della Resistenza «finché fosse esistita una sola scintilla
di speranza di poter sopravvivere». La speranza, osservava Herman Kruk nel suo diario dal
ghetto di Vilna, era «la peggiore malattia del ghetto» .
203

Si stima che nell’Europa occupata dai tedeschi il numero di quanti riuscirono a sfuggire ai
rastrellamenti o ai ghetti e ai campi oscilli considerevolmente tra 40 000 e 80 000 persone,
concentrate tuttavia soprattutto nell’Europa orientale, dove le condizioni geografiche erano piú
favorevoli. Si calcola che nel Governatorato generale polacco, che nel 1942 contava una
popolazione attorno ai tre milioni di ebrei, quasi 50 000 trovarono scampo nelle foreste intorno a
Lublino e Radom, benché tali cifre non siano verificabili . Una volta raggiunti i boschi, i
204

fuggitivi dovevano fare una serie di scelte difficili: alcuni creavano delle formazioni autonome di
guerriglia ebraica, che potevano comprendere uno sparuto gruppo di persone o anche centinaia,
spinte in molti casi, forse per la maggior parte, dal desiderio di vendetta contro i loro
persecutori . Imbracciando armi rubate o talvolta acquistate, il loro obiettivo era quello di
205

affrontare il nemico, piuttosto che assicurarsi semplicemente la sopravvivenza, impegnandosi in


piccoli attacchi di disturbo prima di disperdersi nuovamente nelle foreste e nelle paludi. Altri
davano vita alle cosiddette unità familiari, formando piccole comunità ebraiche in assoluta
clandestinità il cui scopo principale era quello di assicurarsi che almeno alcuni sopravvivessero
al conflitto. Si stima che tra i 6000 e i 9500 ebrei vivessero in unità familiari nelle regioni
sovietiche occupate . Trattandosi di gruppi male armati, quando potevano evitavano lo scontro
206

diretto, utilizzando il limitato equipaggiamento militare che avevano a disposizione per difendere
la comunità. L’unità guidata da Shalom Zorin, per esempio, resistette alle pressioni dei partigiani
sovietici che volevano che prendesse parte alla campagna militare con il ruolo di unità di
approvvigionamento, aiutando cioè a trovare cibo e fornendo servizi medici e professionali ai
guerriglieri non ebrei. La famosa brigata dei fratelli Bielski, concentrata nella comunità di Leśne
Jeruzalem (Gerusalemme dei boschi), che in certi momenti ospitò fino a 1200 rifugiati, si
spostava regolarmente da un nascondiglio all’altro per evitare i combattimenti. «Non abbiate
fretta di combattere e morire», sembra dicesse Tuvia Bielski, «siamo rimasti davvero in pochi,
dobbiamo salvare le vite» .207

La vita nelle foreste e nelle paludi, sia per nascondersi sia per combattere, era estremamente
dura. La maggior parte dei fuggitivi proveniva da città o paesi e non aveva familiarità con le
difficoltà della vita in natura. Il cibo era difficile da trovare e si correvano grandi rischi cercando
di convincere i contadini, già gravati dalle richieste tedesche o dalle depredazioni dei partigiani
sovietici o polacchi, a consegnare altri prodotti. Poiché il cibo che poteva essere raccolto nella
foresta – erbe, noci, frutta – era stagionale, le altre vettovaglie dovevano essere rubate oppure
occasionalmente barattate. I fuggitivi ebrei si guadagnarono la cattiva reputazione, anche tra gli
altri partigiani non ebrei, di essere saccheggiatori e criminali. Un sopravvissuto ebreo ricordò in
seguito che i fuggitivi erano a metà strada tra gli eroi e i ladri: «Dovevamo pur vivere ed
eravamo costretti a privare i contadini dei loro miseri averi» . Quando avevano la fortuna di
208

trovare del cibo, i fuggitivi dovevano mettere da parte ogni scrupolo riguardante gli alimenti
kosher e il divieto di mangiare carne di maiale. Una sopravvissuta ricordava il suo dilemma
quando le era stato offerto per la prima volta il muso di un maiale, che aveva poi deciso di
mangiare. Cucinare implicava ulteriori rischi, dato che il fuoco e il fumo potevano rivelare i
nascondigli. Alcuni contadini disposti a collaborare insegnarono ai gruppi come accendere il
fuoco usando pietre focaie e muschio e quale tipo di legna usare per non produrre quasi nessun
fumo. Si vestivano con quello che trovavano, comprese le scarpe, fatte con corteccia di querce o
betulle . L’assistenza sanitaria era primitiva e le malattie, la fame e la debilitazione erano
209

endemiche. In inverno, sopravvivere era una questione di pura fortuna.


Tutte queste difficoltà scomparivano dinanzi alla paura di essere scoperti e alla morte certa che
ne sarebbe conseguita. I fuggiaschi erano braccati dalle unità di polizia tedesche, dalla
Granatowa policja, la «polizia blu» dei polacchi collaborazionisti e, dal 1942 in poi, dalle
cosiddette Ostlegionen, unità formate da transfughi sovietici che trattavano i prigionieri ebrei con
particolare ferocia . Gli ebrei nascosti nelle foreste erano anche vittime di altri gruppi partigiani
210

polacchi, ucraini e sovietici, tra i quali era diffuso l’antisemitismo, oltre che delle Narodowe Siły
Zbrojne (NSZ, Forze armate nazionali polacche), e occasionalmente delle unità dell’Armia
Krajowa. Un ebreo sopravvissuto era entrato a far parte di un’unità partigiana polacca
spacciandosi per cattolico dopo aver imparato i riti cristiani in prigione: «Non potevo essere un
ebreo», ricordava, «mi avrebbero ucciso». Si stima che un quarto delle morti di fuggitivi ebrei sia
avvenuto per mano di partigiani non ebrei . Ai partigiani sovietici era stato detto di diffidare
211

degli ebrei, in quanto potenziali spie mandate dai tedeschi, il che aveva innescato ulteriori
violenze di inaudita ferocia. Alcune donne ebree fuggiasche catturate dai partigiani furono
spogliate, violentate, legate insieme con filo spinato e bruciate vive . Per gli ebrei in
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clandestinità non era semplice distinguere gli amici dai nemici, e gli amici erano pochi. Si
calcola che tra l’80 e il 90 per cento circa di coloro che sfuggirono alla persecuzione morí a
causa di violenze, malattie, freddo o fame.
La Resistenza attiva e armata era soggetta a pericoli non certo minori. Almeno quattro quinti di
tutti coloro che furono coinvolti nel movimento partigiano persero la vita, insieme con altre
migliaia di persone rimaste intrappolate nel fuoco incrociato o vittime di punizioni dure e
indiscriminate. La reazione dei comandanti tedeschi era quella di ritenere qualsiasi azione armata
come la prova dell’estrema pericolosità del nemico ebreo, anziché considerarla un disperato
tentativo di evitare l’ondata genocida. «Si vede perfettamente che cosa possiamo aspettarci dagli
ebrei quando riescono a mettere le mani su delle armi», annotò nel maggio del 1943 Joseph
Goebbels nel suo diario durante la rivolta del ghetto di Varsavia . In Francia era emerso un certo
213

numero di organizzazioni della Resistenza ebraica intenzionate a difendere gli interessi degli
ebrei. Fu il caso, per esempio, di La main forte, fondata a Tolosa nel 1940 da un gruppo di ebrei
in gran parte immigrati e impegnati a combattere le politiche antiebraiche del regime di Vichy;
un anno dopo, nell’agosto del 1941, venne trasformata nell’Armée juive, e piú tardi ancora
nell’Organisation juive de combat. Non rispondeva alla Resistenza francese bensí al movimento
sionista Haganah, che aveva la sua base in Palestina . Il gruppo non solo si occupava di fornire
214

sostegno al salvataggio e all’assistenza degli ebrei in Francia, ma anche di condurre regolari


assalti armati contro obiettivi sia tedeschi sia francesi di Vichy, incluse le uccisioni dei
connazionali noti per aver consegnato degli ebrei alla Gestapo. Affrontavano rischi estremi e ne
pagavano le conseguenze in termini di costanti delazioni, arresti ed esecuzioni. Ben prima
dell’invasione alleata, l’Armée juive fu definitivamente annientata nel 1943 da tre ondate di
arresti di massa. I vari tentativi di ricrearla nuovamente nel 1944 andarono incontro a un analogo
destino .
215

Nell’Europa dell’Est, la Resistenza armata che non aveva trovato rifugio nelle foreste si
concretizzò in numerose rivolte, in gran parte reazioni spontanee alla deportazione o alle
condizioni nei campi di lavoro e di concentramento, oppure, come nel caso dei Sonderkommando
– le Unità speciali di prigionieri incaricati di bruciare i corpi delle vittime uccise nelle camere a
gas dei campi di sterminio –, la rivolta si tradusse in un breve tentativo di sabotare la macchina
della morte. Reazioni di questo tipo erano molto diffuse. Vi furono rivolte in sette dei principali
ghetti e in quarantacinque di quelli piú piccoli, oltre a vari movimenti di resistenza in circa un
quarto del totale dei ghetti. Nei campi di concentramento si ebbero cinque rivolte, nei campi di
lavoro forzato altre diciotto . Il 14 ottobre 1943, nel campo di sterminio di Sobibor, una rivolta
216

ebbe come esito la morte di 11 SS, incluso il comandante del lager, e la fuga nei boschi di 300
prigionieri; il 2 agosto dello stesso anno, a Treblinka i ribelli uccisero le guardie, incendiarono il
campo e permisero la fuga di 600 prigionieri, la maggior parte dei quali fu tuttavia uccisa o
nuovamente catturata piú tardi. Ad Auschwitz-Birkenau, il 7 ottobre 1944, una rivolta dei
Sonderkommando causò la morte di 450 loro membri su 663, mentre altri 200 furono giustiziati
piú tardi . Le fughe erano spesso possibili proprio grazie a una rivolta, anche se per la maggior
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parte di quanti vi aderivano si trattava del loro ultimo atto. Himmler reagí alla violenza
ordinando l’eliminazione di tutti i lavoratori ebrei. Il 3 novembre 1943, 18 400 ebrei, uomini e
donne, furono uccisi nel campo di lavoro di Majdanek . 218

La piú grande di quelle rivolte armate illustra perfettamente i molti problemi che dovevano
affrontare gli ebrei che vedevano nella lotta una presa di posizione morale che permettesse loro
di recuperare, per quanto brevemente, autonomia e un certo grado di autostima nei confronti di
un nemico che li considerava meno che umani. La rivolta del ghetto di Varsavia, iniziata il 19
aprile 1943, fece seguito alle deportazioni di massa dal ghetto iniziate nell’estate del 1942. In
quel caso, la rivolta fu tutt’altro che spontanea. Nell’autunno del 1942, i sionisti di sinistra
guidati da Mordechai Anielewicz avevano fondato la Żydowska Organizacja Bojowa (ŻOB,
Organizzazione ebraica combattente); la diffidenza nei confronti delle spiccate simpatie
dell’organizzazione per il comunismo aveva poi portato alla nascita del Żydowski Związek
Wojskowy (ŻZW, Unione militare ebraica), fondata da sionisti revisionisti; i socialisti
dell’Algemayner yidisher arbeter bund (Unione generale dei lavoratori ebrei [di Lituania,
Polonia e Russia]) si erano rifiutati di aderire ma avevano accettato di collaborare, mentre
all’esterno della principale organizzazione ribelle si era formato un certo numero di gruppi
«sciolti». Al momento dell’insurrezione, la ŻOB aveva circa ventidue gruppi di combattimento,
lo ŻZW dieci, sparsi in diversi distretti del ghetto. Nel gennaio del 1943, quando le autorità
tedesche sotto il colonnello delle SS Ferdinand von Sammern-Frankenegg avevano iniziato un
nuovo programma di deportazioni, gli insorti, colti di sorpresa, erano comunque riusciti a
organizzare una breve battaglia di quattro giorni, sufficiente ad avvertire i tedeschi che la
successiva fase di deportazioni sarebbe stata contrastata con maggiore fermezza. Himmler ordinò
che il ghetto venisse distrutto non appena possibile. Fu organizzata una consistente unità di
Waffen-SS, polizia e ausiliari ucraini, supportata da armi pesanti, per portare a termine la seconda
grande deportazione. Sammern-Frankenegg fu sostituito all’ultimo momento dal generale
maggiore delle SS Jürgen Stroop, nella speranza di un’azione spietata, decisa e rapida che
stroncasse ogni resistenza .
219

Avvertite in anticipo di una possibile grande operazione da parte dei tedeschi, le due principali
organizzazioni combattenti iniziarono infine a collaborare tra loro, creando punti di resistenza e
radunando le poche armi disponibili. Al momento della rivolta, la ŻOB aveva un solo
mitragliatore, pochi fucili e un numero maggiore di pistole, granate e bombe molotov. L’Armia
Krajowa si era offerta di addestrare, anche se in forma limitata, una forza civile in gran parte
inesperta e di procurare loro alcune armi – non molte perché necessarie a una futura insurrezione
generale . Quando una truppa di circa 2000 soldati tedeschi entrò nel ghetto, si trovò di fronte
220

circa 750-1000 ribelli dislocati nei punti chiave. La battaglia che ne seguí compromise
completamente i piani tedeschi. Un sopravvissuto rammentava la sua gioia alla vista dei «soldati
tedeschi che urlavano dandosela a gambe in preda al panico», cercando di fuggire dalle mine e
dai cecchini che si erano improvvisamente trovati davanti . Benché gli insorti disponessero di
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scarsissime risorse, l’accorto utilizzo di quanto avevano, oltre all’iniziale elemento sorpresa,
permise alla rivolta di proseguire fino alla prima settimana di maggio. I tedeschi cambiarono
tattica, ricorrendo ad artiglieria, bombardamenti aerei e bombe incendiarie e distruggendo il
ghetto strada per strada. Piuttosto che essere catturato, Anielewicz si uccise in uno dei tanti
bunker improvvisati in cui si erano rifugiati i combattenti. Per tutta l’estate continuarono azioni
circoscritte di guerriglia mentre ciò che restava del ghetto bruciato veniva ripulito e gli ultimi
ebrei erano mandati a Treblinka per essere sterminati. Si stima che 7000 persone morirono nei
combattimenti, incluso il grosso dei combattenti della ŻOB e dello ŻZW, e forse altre 5000-6000
negli incendi. La grande maggioranza dei morti era costituita da ebrei che si erano nascosti ma
erano stati stanati dai lanciafiamme e dalle granate a gas oppure bruciati vivi negli estesi incendi
appiccati dagli aggressori. Stroop affermò di aver perso solo sedici uomini, il che sembra poco
plausibile data la durata del conflitto, ma cifre piú alte restano puramente ipotetiche .
222

La rivolta riuscí a fermare le deportazioni appena per qualche settimana, anche se permise ad
altri ebrei di fuggire dal ghetto. Per quanto destinata a fallire, essa rese chiaramente visibile al
mondo intero ciò che gli ebrei dovevano affrontare. Per i tedeschi si trattò di una fastidiosa
interruzione di un programma che sarebbe continuato senza sosta per tutto il 1943, quando
furono eliminati gli ultimi abitanti del ghetto di Varsavia. La Resistenza ebraica, a differenza dei
movimenti partigiani del resto dell’Europa e dell’Asia, fu soprattutto importante nel contesto
straordinario del genocidio, piuttosto che in quello piú ampio di una guerra mondiale in cui il
destino degli ebrei rimase invece marginale. Soltanto quando gli ebrei partecipavano alla piú
generale resistenza non ebraica e ai movimenti partigiani, il loro ruolo rappresentò un contributo
alla lotta per la liberazione. In quei casi, gli ebrei erano esposti a un doppio pericolo, sia come
combattenti della Resistenza sia come presunti nemici razziali dei tedeschi, che restavano
comunque convinti che la maggior parte delle azioni armate avvenisse su istigazione degli ebrei.
La guerra separata condotta esclusivamente contro il genocidio ebbe un carattere circoscritto e
autodistruttivo, poiché contrappose civili disarmati o scarsamente armati a un apparato di
sicurezza dotato di ingenti risorse. Fu una guerra che i civili ebrei non si erano mai aspettati di
combattere e per la quale si erano trovati inadeguatamente preparati, in tutti i sensi. Tra tutte le
tante guerre civili combattute tra il 1939 e il 1945, quella della Resistenza ebraica contro
l’Olocausto fu la piú iniqua e quella che comportò il prezzo umano piú alto.
Capitolo nono
La geografia emotiva della guerra
Ho pianto tanto in queste ultime notti, che quasi mi sembra insopportabile. Ho visto piangere anche un camerata, ma per
un’altra ragione. Piangeva per i suoi carri armati perduti, che erano tutto il suo orgoglio. […] Gli ho sparato, mentre le lacrime
mi colavano giú dalle guance. Ora piango già da tre notti per quel carrista russo morto assassinato da me […] Nella notte però
piango senza ritegno, come un bambino.
Ultime lettere da Stalingrado, gennaio 19431.
Le ultime lettere inviate da Stalingrado dai soldati tedeschi non furono mai lette dai loro familiari
o amici. All’esercito tedesco fu ordinato di sequestrare gli ultimi sette sacchi di posta usciti
dall’accerchiamento di Stalingrado, in modo da poter valutare il morale dei soldati ormai
condannati. Il risultato non fu esattamente quello sperato. Da un’analisi delle lettere si rilevò che
solo il 2,1 per cento approvava come era stata condotta la guerra, mentre il 37,4 per cento
appariva dubbioso o indifferente e il 60,5 per cento scettico, negativo o inequivocabilmente
contrario. Allorché si ebbe l’idea di usarle per un libro di propaganda sulla lotta eroica condotta
sul Volga, Joseph Goebbels la respinse risolutamente esclamando: «Tutta questa roba è
insopportabile per il popolo tedesco!» Per ordine di Hitler tutte le lettere furono distrutte. Circa
trentanove di esse, copiate dal funzionario dell’Ufficio propaganda che avrebbe dovuto scrivere
il libro, vennero successivamente pubblicate dopo la guerra . Come per il soldato in lacrime la
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cui immagine apre questo capitolo, l’atteggiamento e il comportamento dei soldati tedeschi non
si conformavano affatto al ritratto degli eroici guerrieri germanici che combattevano per la razza
e la liberazione dell’Europa dalla minaccia bolscevica. I morti, scriveva uno dei sopravvissuti,
«giacciono dappertutto qui attorno senza braccia, senza gambe, senz’occhi, coi ventri squarciati.
Si dovrebbe girare un film per render impossibile “la piú bella morte del mondo”. È una morte
bestiale che poi un giorno sarà nobilitata su zoccoli di granito con guerrieri morenti, con la testa
o il braccio fasciati» . 3

Nella Seconda guerra mondiale, gli uomini intrappolati a Stalingrado non furono affatto gli unici
a reagire emotivamente. La loro fu una reazione agli orrori del campo di battaglia su cui si
trovavano e alle cupe prospettive di sopravvivenza che condividevano. Nella sua forma piú
estrema, tale reazione poteva provocare gravi sintomi psichiatrici o affezioni psicosomatiche che
rendevano inabili, temporaneamente o permanentemente, centinaia di migliaia di militari.
L’emozione fondamentale condivisa da quanti affrontavano il combattimento, in tutte le sue
molteplici forme, compresi i civili che avevano vissuto i bombardamenti aerei o il fuoco
dell’artiglieria, si definisce solitamente come paura. In quanto termine generico, la paura è poco
piú di un ombrello descrittivo valido per un’ampia gamma di stati emotivi – ansia prolungata,
terrore, isteria, panico, depressione acuta, perfino aggressività – e può generare una gamma
altrettanto ampia di condizioni neuropsichiatriche, psicotiche o psicosomatiche. Le reazioni
provocate da forme estreme di paura, piú comunemente intese oggi come disturbi da stress post-
traumatico, benché universalmente diffuse durante i combattimenti in tempo di guerra, non
risultano necessariamente disabilitanti per tutti coloro che ne sono affetti. In combattimento i
soldati si trovavano spesso di fronte a una sconcertante gamma di emozioni. Un soldato
britannico che combatteva in Birmania era «spaventato a morte ma non rincretinito» e descriveva
il suo stato emotivo come una confusa mescolanza di «rabbia, terrore, esultanza, sollievo e
stupore» . Una donna sovietica che si trovava in un’unità di prima linea rammentava che
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all’inizio dell’attacco «cominci a tremare… sei scosso da brividi convulsi… ma dura fino al
primo colpo d’arma da fuoco. Quando poi senti l’ordine, dimentichi ogni cosa, ti alzi insieme a
tutti gli altri e corri in avanti». Al contrario, concludeva la donna, la guerra portava alla luce in
coloro che la combattevano «qualcosa di anormale, dei lampi ferini che attraversano i loro
sguardi ed espressioni» . Per i comandanti delle truppe o i governi degli stati belligeranti, gli stati
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emotivi indotti dalla violenza della guerra divenivano un problema solo quando minacciavano di
diventare invalidanti, minavano l’efficienza militare o creavano il panico di massa e
demoralizzavano il fronte interno. Gestire la risposta emotiva di soldati e civili alla realtà
viscerale del combattimento divenne un aspetto fondamentale dello sforzo bellico di ogni stato
impegnato nel conflitto. Il fatto di dover affrontare il trauma del conflitto, d’altra parte, era la
cruda realtà per decine di milioni di persone, uomini e donne comuni, intrappolate nelle spire
della guerra totale. Di solito, le loro reazioni psichiatriche non venivano trattate in alcun modo e,
generalmente, sono state trascurate nelle narrazioni del conflitto scritte nel dopoguerra.
«Le nevrosi di guerra sono causate dalla guerra».
L’esperienza di una diffusa crisi emotiva nelle forze armate deve essere interpretata nel
particolare contesto della Seconda guerra mondiale. Le forze armate avevano dimensioni
eccezionalmente grandi e dipendevano quasi del tutto dalla leva militare di civili (di cui solo una
frazione era stata brevemente sotto le armi) i cui valori e aspettative erano stati condizionati da
un ambiente borghese. Nel conflitto le forze armate rappresentavano un ampio spaccato delle
società da cui provenivano ed erano espressione di ampie differenze di classe sociale,
educazione, personalità e temperamento. Nonostante gli sforzi delle istituzioni belliche per
plasmare gli uomini e le donne a loro disposizione, non esisteva nulla che potesse definirsi un
carattere militare standardizzato. Giovani civili si trovarono di fronte alle forme piú estreme di
stress: il pericolo di essere uccisi e la richiesta di uccidere gli altri . Andava da sé, pertanto, che
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su un moderno campo di battaglia il personale attivo avrebbe evidenziato un ampio spettro di


reazioni fisiche e mentali. Le condizioni del combattimento, inoltre, massimizzavano la
possibilità di danni psichiatrici per la natura stessa delle armi tecnologicamente avanzate. Gli
attacchi aerei contro le truppe sul campo, o le popolazioni civili durante le offensive dei
bombardieri a lungo raggio, evocavano un particolare terrore, innescato dall’impotenza di chi era
a terra e dall’imprevedibilità del bersaglio. Nei combattimenti sui campi di battaglia, la potenza
dell’artiglieria moderna, in tutte le sue molteplici forme, o la minaccia dei cingoli dei carri armati
che rotolavano sulle postazioni della fanteria piú esposte, creavano uno scenario che metteva a
dura prova anche gli uomini piú coraggiosi. Come scrisse uno psichiatra in tempo di guerra,
l’effetto cumulativo di «esplosioni continue, botti, schiocchi di mitragliatrici, fischi di granate,
fruscio di mortai, ronzio di motori di aeroplani, logora ogni capacità di resistenza» . Il soldato
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medio (e il civile sotto i bombardamenti) doveva inoltre assuefarsi alla vista consueta di corpi
morti e mutilati, campagne e strade cosparse di parti anatomiche in putrefazione, scene macabre
completamente estranee alla vita civile di tutti i giorni. L’ambiente militare stesso, con la sua
rigida disciplina, l’anti-individualismo e la soppressione dell’identità del singolo, provocava
quello che uno psichiatra australiano ha descritto come un «naufragio della mente» e questo già
molto prima che il soldato raggiungesse il campo di battaglia . L’esercito britannico, che nel
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1941 era di stanza in patria, registrava 1300 malati psichiatrici al mese. Ai soldati americani di
guarnigione nell’estremo nord delle isole Aleutine fu diagnosticata una «prostrazione da
combattimento» benché non avessero mai combattuto. Uno screening psichiatrico effettuato sui
soldati australiani di ritorno dalla Nuova Guinea rilevò che i due terzi di quanti erano affetti da
disturbi psiconevrotici non avevano visto combattimenti, il che portò a concludere che non
c’erano prove per presumere che fosse solo il campo di battaglia a generare delle psiconevrosi . 9
In queste circostanze, il numero dei malati psichiatrici era potenzialmente enorme, e tale si
dimostrò in pratica. Gli Stati Uniti, che avevano riformato due milioni di reclute per motivi
psichiatrici, registrarono ugualmente nel corso del conflitto 1,3 milioni di casi a cui furono
diagnosticati disturbi psichici, 504 000 dei quali furono congedati dalle forze armate. Nel teatro
di guerra europeo, il 38,3 per cento di tutti i malati americani rientrava in una qualche categoria
di affezioni psiconevrotiche. Si è stimato che il 98 per cento dei fanti sopravvissuti alla
campagna in Normandia risultò a un certo punto affetto da disturbi psichiatrici . Nella stessa
10

campagna, tra il 10 e il 20 per cento di tutti i soldati malati dell’esercito britannico fu definito
psichiatrico, il 25 per cento tra le truppe canadesi. Tra quanti furono congedati per motivi medici
dall’esercito inglese e americano, un terzo erano pazienti psichiatrici . Nel caso della marina
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degli Stati Uniti la proporzione era molto piú bassa, in parte perché il campo di combattimento
era piuttosto diverso, senza uccisioni faccia a faccia e solo con brevi periodi di scontri intensi.
Appena il 3 per cento di coloro che furono congedati dalla marina soffriva di disturbi
psiconevrotici . I dati riguardanti l’esercito tedesco e quello sovietico sono piú difficili da
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valutare, in quanto le condizioni di nevrosi venivano spesso ignorate o trattate come affezioni di
natura organica e quindi come casi di medicina generale. Secondo una delle stime, l’Armata
Rossa contò circa un milione di malati psichiatrici, secondo un’altra, meno plausibile, appena
100 000 . Nell’esercito tedesco, i casi di disturbi psiconevrotici durante le prime fasi
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dell’operazione «Barbarossa» aumentarono notevolmente, tanto da diventare la causa piú


importante di patologie. Le stime sembrano indicare che fino a gennaio del 1944 si registrarono
tra i 20 000 e i 30 000 casi psichiatrici al mese, che salirono forse fino a 100 000 a cavallo del
1944-45. I dati sino al 1943 suggeriscono che, tra i soggetti congedati dal servizio militare, il
19,2 per cento erano casi psiconevrotici, ma tale valore statistico dovette certamente aumentare
nel 1944-45, quando le condizioni dei combattimenti si fecero piú dure, aumentarono le
probabilità di morte o ferite e si iniziarono a reclutare uomini sempre piú giovani o piú anziani . I
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registri militari italiani sono troppo incompleti per fornire dati statistici complessivi, ma
testimonianze locali indicano che i soldati italiani soffrivano della stessa varietà di disturbi
psichiatrici debilitanti come negli altri eserciti .
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Al fine di evitare il combattimento, o le sue minacciose conseguenze, esistevano anche altri


modi, non necessariamente collegati a forme di disturbi nevrotici, benché sia alquanto probabile
che una parte consistente di coloro che si autoinfliggevano ferite, oppure disertavano, o dei
soldati che si arrendevano al nemico soffrisse in misura maggiore o minore di una reazione
psichiatrica alla paura, o di un’esperienza traumatica, o degli effetti soffocanti della vita militare.
Le ferite autoinflitte comportavano molti rischi (e in certi casi potevano essere fatali). I soldati si
ferivano perlopiú con un colpo di arma da fuoco a una mano o a un piede. Dalle testimonianze
risulta che tali casi si verificavano nella maggior parte delle forze armate, benché i dati numerici
siano scarsi. Durante la campagna nell’Europa nord-occidentale, circa 1100 militari americani
scelsero questa via per raggiungere una relativa sicurezza; in quello stesso frangente, nel 1944,
l’esercito canadese registrò 232 casi. Nell’Armata Rossa, alle ferite autoinflitte,
immancabilmente considerate esempi di vergognosa codardia, poteva seguire rapidamente il
plotone di esecuzione. Negli ospedali militari americani, questi soldati venivano separati dagli
altri con un cartello appeso sopra il letto avente la scritta SIW (self-inflicted wound, «ferita
autoinflitta») ed erano trattati dal personale medico come dei paria, anche se non incorrevano per
il momento in punizioni formali .16
Le diserzioni rientravano in una categoria ben diversa. Nell’Armata Rossa, gli episodi di
diserzione (inclusi i soldati che passavano al nemico) raggiunsero la cifra sbalorditiva di 4,38
milioni di casi. Dei 2,8 milioni di soldati definiti disertori o renitenti alla leva dalla parte
sovietica del fronte, 212 400 non furono mai catturati (in effetti, potevano benissimo essere
morti). Molti non erano tecnicamente dei disertori, bensí soldati che avevano perso i contatti con
le loro unità durante le grandi ritirate del 1941-42 o che erano riusciti ad attraversare le linee
tedesche nelle battaglie di accerchiamento; questi soldati, di solito, facevano regolarmente
ritorno alle loro unità di appartenenza . Tra quelli classificati come disertori vi erano i transfughi
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passati ai tedeschi, vuoi perché delusi dal sistema sovietico, o dalle durissime condizioni di vita e
dalla leadership militare, vuoi perché nutrivano semplicemente la speranza (presto infranta, come
scoprirono) di migliori possibilità di sopravvivenza. Secondo le stime, tra il 1942 e il 1945 vi
furono almeno 116 000 defezioni, e forse altre 200 000 erano avvenute nel 1941, sebbene
entrambe le cifre risentano di ampi margini di errore . Nell’esercito americano in Europa vi
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furono 19 000 disertori, su un totale di 40 000 in tutto il mondo. Nel caso dell’esercito
britannico, si registrarono complessivamente negli anni di guerra 110 350 disertori, con un picco
nel periodo di relativa inattività nel 1941-42, spinti probabilmente piú dalla frustrante inazione e
dalla vicinanza a casa che dall’esperienza della battaglia. I dati a noi noti riguardo all’esercito
tedesco si limitano ai fuggitivi che furono ripresi e condannati a morte come disertori, con ben
35 000 casi. Dai racconti della guerra in Asia sembra che a finire davanti al plotone di
esecuzione fossero di solito gli uomini sorpresi a scappare dall’esercito giapponese o cinese,
mentre i dati relativi al campo di battaglia vero e proprio erano troppo confusi per aspettarsi delle
statistiche accurate. I numeri ufficiali dell’esercito giapponese per il 1943 e il 1944 riportavano
rispettivamente appena 1023 e 1085 disertori, piú altri 60 soldati passati al nemico, anche se a
quel punto in tanti erano fuggiti nella giungla o nelle zone di montagna per nascondersi dal
nemico e risultavano quindi irrintracciabili, non permettendo di formulare statistiche . Gli uomini
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disertavano per molte ragioni, alcune legate al loro stato emotivo, altri perché affetti da nevrosi
indotte dalla guerra, alcuni per darsi al crimine, altri in segno di protesta politica e di coscienza,
ma tutti erano comunque trattati come soldati che volevano soltanto sottrarsi al combattimento.
Le dimensioni del fenomeno delle diserzioni esercitavano forti pressioni sul sistema militare, che
voleva soprattutto scongiurare qualsiasi panico di massa, e anche se la maggior parte dei disertori
non veniva fucilata, il fatto di aver abbandonato la propria unità era severamente punito e
stigmatizzato affinché il fenomeno non raggiungesse proporzioni epidemiche . 20

È evidente in ogni caso che la decisione di abbandonare il combattimento o di ritirarsi dalla


guerra per una crisi psichiatrica non era comune a tutti. Molto dipendeva dalle circostanze
particolari che i soldati dovevano affrontare piuttosto che dalla natura della loro personalità.
Negli scontri con elevate perdite, in situazioni in cui gli uomini rimanevano intrappolati con
poche speranze di ricevere aiuto, con la morte improvvisa di compagni cari, o dopo essere
scampati per un pelo alla deflagrazione di una bomba o di una granata, le possibilità di una
reazione da stress post-traumatico erano elevatissime. Nella campagna nordafricana del 1942, il
senso di demoralizzazione regnante tra le truppe dell’impero britannico e del Commonwealth,
che si erano trovate a combattere un nemico dotato di armi e quadri militari migliori, portò a un
considerevole aumento numerico di quanti preferivano arrendersi anziché continuare a
combattere, oppure sparivano senza alcun permesso. Tra marzo e luglio del 1942 vi furono 1700
morti nell’VIII Armata, ma ben 57 000 «dispersi», la maggior parte in seguito alla resa . In una
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situazione in cui i soldati di rimpiazzo venivano inseriti qua e là in unità con cui non avevano
alcuna familiarità, come avveniva nell’esercito americano, si riscontrava tra i nuovi combattenti
un’alta incidenza di morti in battaglia o di crisi psichiatriche. In determinate battaglie, le
caratteristiche del terreno richiedevano uno sforzo enorme all’umana capacità di resistere – per
esempio il gran numero di fiumi e montagne da attraversare in Cina, la guerra nelle giungle del
Sud-est asiatico, gli scontri sul fronte russo durante l’inverno, o le aspre condizioni del fronte
montano in Italia, dove gelate, nevicate, fango e malattie mietevano un numero enorme di vite. Il
tasso di pazienti psichiatrici negli eserciti alleati registrò un brusco incremento durante la prima
campagna invernale nell’Italia meridionale; nella campagna di Birmania, lo spaventoso ambiente
della foresta tropicale, unito a malattie che innescavano tipiche reazioni da stress, causò elevati
tassi di mortalità con diagnosi non meglio specificate .
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L’unica conclusione valida per ogni fronte di combattimento era che nessuno, nelle condizioni
piú estreme, era immune da crolli psicofisici. Le «nevrosi di guerra», scrivevano gli psichiatri
americani Roy Grinker e John Spiegel nel 1943, «sono causate dalla guerra» . Nel corso del
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conflitto, la United States Research Branch, fondata nell’ottobre del 1941 per monitorare
l’esercito sotto il profilo sociologico e psicologico, concluse che nessun uomo era immune alle
distorsioni psicologiche causate dal combattimento. Tenendo fede al rapporto redatto dallo
psichiatra militare John Appel dopo sei settimane di permanenza sul campo in Italia, il chirurgo
generale dell’esercito americano Norman Kirk comunicò a tutti i comandi nel dicembre del 1944
l’opinione ufficiale secondo cui «i pazienti psichiatrici sono inevitabili come le ferite da colpi di
arma da fuoco e schegge di granata» . Perfino il comando della Wehrmacht, generalmente ostile
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all’idea che dei veri uomini subissero un crollo sotto il fuoco nemico, produsse nel 1942 delle
linee guida sul trattamento della nevrosi che riconoscevano che perfino i «soldati
straordinariamente efficienti» erano soggetti allo stress emotivo come tutti gli altri . Nel 1944, gli
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psichiatri militari discutevano su quanti giorni di combattimento potesse sopportare il soldato


medio; secondo le stime britanniche, il tempo era di circa 400 giorni, ma con pause regolari per
brevi periodi di riposo; i medici americani ritenevano invece che la durata limite si collocasse tra
80 e 200 giorni. A maggio del 1945, l’esercito americano sancí un limite di 120 giorni. Nel caso
degli equipaggi di bombardieri impegnati sulla Germania, si riteneva che il limite fosse
rappresentato da quindici/venti missioni, anche se gli equipaggi uscivano regolarmente in azione
trenta volte e alcuni si ripresentavano per altre trenta. Dal momento che solo il 16 per cento
sopravviveva a un secondo round di operazioni, la maggior parte degli aviatori moriva prima di
potersi classificare come psichicamente logorata. Moderne ricerche asseriscono che dopo
sessanta giorni in combattimento un militare non è piú efficiente .26

Tutte le istituzioni militari coinvolte nella Seconda guerra mondiale dovettero stabilire e
sviluppare un sistema per far fronte ai crolli psicologici, riducendo cosí la possibilità di
«contaminazioni» emotive tra coloro che non erano colpiti da stress e riportando in prima linea
quanti piú uomini possibile. La precedente esperienza di esaurimento psichico da combattimento
registrata nella Prima guerra mondiale (generalmente noto come «shock da granata»), determinò
in parte le aspettative militari in occasione del nuovo conflitto, anche se molte delle lezioni
apprese erano state dimenticate o superate dagli ultimi sviluppi della medicina psichiatrica e
della psicologia . Il cambiamento piú significativo era avvenuto negli anni tra le due guerre con
27

la rivoluzione freudiana, che aveva favorito la diffusa convinzione che alcune personalità fossero
predisposte nell’inconscio a conflitti psicologici generati dalle esperienze vissute nell’infanzia.
Anche se i medici psichiatri diffidavano delle affermazioni di Freud e dei suoi discepoli sul
funzionamento della psiche, l’idea di una predisposizione era stata rafforzata dall’evoluzione del
pensiero genetico riguardo all’ereditarietà di pecche mentali, il che aveva incoraggiato gli
psichiatri a presumere che, in un modo o nell’altro, fosse la predisposizione a determinare certe
reazioni psichiatriche . Psichiatria e psicologia erano in competizione con la neurologia, i cui
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medici specialisti sostenevano che tutti i disturbi psichiatrici avevano un’origine organica e
interferivano con il funzionamento del cervello e del sistema nervoso, rifiutando quindi il
concetto stesso di «malattia» psicologica. Nel corso del conflitto, tutti questi vari punti di vista,
insieme con gli scienziati che li rappresentavano e difendevano, rivestirono un ruolo nello
sviluppo della psichiatria militare, anche se il risultato furono grandi discussioni che non
portarono a nulla, se non a una totale confusione in merito al corretto trattamento da adottare. La
situazione era inoltre aggravata dalla sfiducia che molti comandanti dimostravano nei confronti
di qualsiasi specialista che sostenesse fermamente l’idea che il crollo psichico fosse un evento
pienamente riconosciuto dalla pratica medica. Uno psicologo incaricato di valutare le reclute in
uno degli uffici di leva dell’Idaho si sentí dire senza mezzi termini dall’ufficiale responsabile che
non c’era alcun bisogno del suo aiuto: «So io come trattare uomini che hanno merda nelle
vene» .
29

I diversi approcci culturali e scientifici all’idea dello stress emotivo spiegano le differenze
sostanziali nel modo in cui nella Seconda guerra mondiale venne applicata la psichiatria militare.
Essa fu integrata completamente nello sforzo bellico americano, probabilmente come riflesso del
grande entusiasmo dell’opinione pubblica per gli sviluppi della psicologia. Tale integrazione fu
invece inferiore nelle istituzioni militari tedesche, sovietiche e giapponesi . Le forze armate
30

americane istituirono un reparto di neuropsichiatria del massimo livello sia nell’esercito sia nella
marina. Prima della guerra, negli Stati Uniti c’erano 3000 psichiatri praticanti, ma solamente 37
lavoravano per l’Army Medical Corps . La situazione mutò durante la guerra, quando 2500
31

psichiatri furono reclutati nei servizi sanitari e medici delle forze armate. Nel 1943 vi era uno
psichiatra assegnato a ogni divisione dell’esercito. La marina istituí un reparto di
neuropsichiatria nel 1940 e creò unità psichiatriche in tutte le sue strutture, ognuna formata da
uno psichiatra, uno psicologo e un neurologo, forse per allentare le tensioni teoriche tra loro .
32

Nelle forze armate britanniche, l’integrazione della psichiatria fu un processo piú lento.
All’inizio furono reclutati pochissimi psichiatri, finché nell’aprile del 1940 fu deciso di nominare
un consulente psichiatrico per ogni comando dell’esercito. Solo nel gennaio del 1942 fu tuttavia
istituito ufficialmente un sistema per trattare e risolvere i casi psichiatrici, mentre nell’aprile
dello stesso anno fu creato un Directorate of Army Psychiatry, forse come diretto riflesso del
pregiudizio di Churchill secondo cui la psichiatria «può degenerare molto facilmente in
ciarlataneria». Ancora nel 1943 vi erano soltanto 227 psichiatri assegnati all’intero esercito
britannico, di cui solo 97 oltremare . La RAF, che nei primi anni di guerra visse la maggior parte
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dei combattimenti, istituí nel 1940 una struttura di neuropsichiatria diretta da un importante
neurologo britannico e volta a fronteggiare lo stress del volo da combattimento. La struttura creò
dei centri specializzati – che alla fine divennero dodici – per valutare i danni emotivi come
«presunta nevrosi non ancora diagnosticata». La maggior parte dei medici assegnati alla RAF era
formata da psichiatri o neurologi .
34

In Germania e Unione Sovietica, gli psichiatri erano tenuti a distanza dai militari, cosa in parte
dovuta alla sfiducia nei confronti della scienza psicologica sia nella dittatura sovietica sia in
quella tedesca, dove si enfatizzava la salute della collettività rispetto ai bisogni del singolo
individuo. Vi era la presunta convinzione che i militari (incluse le donne nel caso sovietico)
fossero ispirati a superare le crisi emotive in virtú del loro impegno ideologico. Il direttore del
dipartimento di Psichiatria della Sovetskaja voenno-medicinskaja Akademija (Accademia
sovietica medico-militare) scrisse nel 1934 che il «livello del morale politico del soldato
dell’Armata Rossa, la sua persistente coscienza di classe, gli consentirà di superare piú
facilmente le reazioni psicotiche» . Nel caso del soldato tedesco, scriveva un altro psichiatra,
35

l’impulso alla mera autoconservazione in situazioni di reale pericolo «viene vinto e represso
grazie al suo attaccamento a valori e ideali elevati» . In Germania furono reclutati psichiatri e
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psicologi perché assistessero alla selezione delle forze armate e, durante la guerra, fungessero da
consulenti (Beratenden Psychiater) per ciascun gruppo principale dell’esercito. Alla fine, vi
erano sessanta psichiatri alle dipendenze del capo del Wehrmachtsanitätswesen (Servizi medici
della Wehrmacht), che fornivano consigli per il morale dei combattenti e sulle cure mediche
riservate all’esercito e all’aviazione, anche se a livello base i trattamenti erano di competenza
degli ufficiali sanitari. Sia psicologi sia psichiatri erano integrati maggiormente nei servizi
medici dell’aeronautica. Nel 1939 venne creata una struttura per la psicoterapia e furono infine
fondati undici ospedali psichiatrici per il personale di volo affetto da stress debilitante. Nel 1942,
tuttavia, allorquando i paesi democratici stavano ampliando le loro strutture, la psicologia
militare fu liquidata su ordine di Hitler, prima nell’aviazione a maggio, poi, due mesi dopo,
nell’esercito. La psichiatria mantenne una posizione seppure precaria al fronte, dove si
supponeva che quanti subivano un crollo emotivo avessero bisogno piú di una severa educazione
ai valori militari che di un’adeguata terapia .
37

La situazione della psichiatria era ancora piú vacillante in Unione Sovietica, caratterizzata da una
persistente carenza di medici con una formazione psichiatrica e dalla solida convinzione che i
sintomi mentali avessero una causa organica e potessero quindi essere curati dal normale
personale medico. A settembre del 1941, agli psichiatri che operavano sotto il Glavnoe voenno-
medicinskoe upravlenie (Direzione centrale medico-militare) venne infine chiesto di creare degli
ospedali psichiatrici, che si occupavano tuttavia unicamente dei casi piú difficili. Gli ospedali
militari destinavano soltanto trenta posti letto per pazienti affetti da disturbi della psiche. Nel
1942, diversi psichiatri furono chiamati sui principali fronti dell’esercito in veste di consulenti,
alcuni assegnati a singole divisioni delle forze di terra. Al fronte, tuttavia, la stragrande
maggioranza dei casi di crollo emotivo veniva seguita da medici con poca esperienza o scarse
attitudini a quel tipo di trattamento . L’esercito giapponese, presumendo a priori che le reclute
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avrebbero mostrato forte resistenza al pericolo della morte, non prevedeva quasi nessuna
assistenza psichiatrica. Si dava per scontato che quanti subivano un crollo erano dei poco di
buono o dei disadattati ed erano pertanto inviati alle «Unità di educazione» dell’esercito, in cui
erano trattati alla stregua di degenerati mentali. I pochi psichiatri assegnati all’esercito avevano il
particolare compito di spiegare perché alcuni soldati palesassero istinti criminali psicopatici
(come il frequente omicidio di ufficiali), ma non quello di mantenere al meglio la salute mentale
del resto delle truppe .
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Psichiatria e psicologia venivano utilizzate nelle forze armate in due modi molto diversi, che
riflettevano le tensioni esistenti nel mondo scientifico tra quanti propendevano per l’idea di una
predisposizione naturale al crollo emotivo e quanti consideravano invece i pazienti psichiatrici
come le vittime di combattimenti psicologicamente e fisicamente impegnativi. Dopo l’esperienza
della Prima guerra mondiale era diffusa la convinzione che una piú efficiente procedura per
selezionare le reclute tra i civili avrebbe eliminato in anticipo chiunque presentasse un ambiente
di origine o tratti della personalità che lasciavano presagire la possibilità di collassi emotivi. Si
pensava altresí piuttosto diffusamente che, una volta iniziato il combattimento, coloro che
esibivano stati emotivi disabilitanti fossero in qualche modo pre-programmati a crollare, vale a
dire, come ebbe a esprimersi un ufficiale australiano, «le navi piú deboli si rompono
facilmente» . Solo le forze armate degli Stati Uniti insistevano che in ogni commissione di
40

reclutamento doveva essere presente uno psichiatra o uno psicologo. I colloqui volti a stilare un
profilo psichiatrico richiedevano in genere dai tre ai quindici minuti e raramente erano quindi
lunghi a sufficienza per stabilire se fosse possibile rilevare un semplice stato ansioso o tratti
psicologici anormali. Agli psichiatri che conducevano i colloqui veniva detto di individuare
sostanzialmente quegli uomini che sembravano rientrare in una delle ventidue condizioni
possibili, dalla «tendenza all’isolamento» alle «palesi stravaganze» o «inclinazioni omosessuali».
Tale filtro arbitrario portò a riformare oltre due milioni di reclute. Gli psichiatri americani
concordavano generalmente sull’importanza fondamentale dell’ambiente familiare e della
personalità – «Le nevrosi di guerra “nascono in America”» – e ritenevano di poter rilevare tali
elementi con dei semplici test . Gli psichiatri delle forze armate australiane e americane
41

escogitavano domande stereotipate, atte a eliminare ogni potenziale paziente con sintomi
emotivi. Domande del genere «Ti preoccupi molto?» oppure «Ti scoraggi molto facilmente?»
erano tipiche, ma difficilmente erano in grado di ottenere delle risposte franche o utili alla
diagnosi . Per offrire un aiuto a coloro che erano stati selezionati, l’esercito degli Stati Uniti
42

distribuí una sorta di manuale, Fear in Battle (La paura in battaglia), che spiegava che qualsiasi
uomo era destinato a provare paura, ma che quest’ultima poteva essere superata attraverso un
processo di «adattamento» emotivo . 43

Le forze armate britanniche furono molto piú lente nello sviluppare una selezione delle reclute su
basi psichiatriche e solo l’1,4 per cento dei coscritti venne respinto per evidenti caratteristiche
psicotiche, in confronto al 7,3 per cento di tutte le reclute americane. I reclutatori britannici erano
molto piú preoccupati che i nuovi soldati dimostrassero particolari attitudini per determinate
mansioni, anche se cercavano al tempo stesso di individuare e scartare quelli che presentavano
un’evidente «indole timorosa e un temperamento ansioso» . Ai centri di reclutamento della
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Germania erano assegnati degli psicologi in base al presupposto che vi fosse la necessità sia
razziale sia militare di eliminare tutti coloro che potevano definirsi «asociali» o con evidenti
difetti della personalità, allo stesso modo in cui il regime in senso lato cercava di sbarazzarsene o
di escluderli dall’autentica comunità germanica. I pregiudizi verso i cosiddetti nevrotici di
guerra, diffusi tra i veterani tedeschi del primo conflitto e assecondati dagli sforzi dei
nazionalsocialisti per plasmare una generazione di soldati autenticamente «virili» anziché
potenziali isterici, vennero a riflettersi nello screening delle procedure militari. L’esercito voleva
innanzitutto evitare che si ripetessero gli episodi di panico da shock da granata causati dalla
guerra di trincea e osteggiava qualsiasi possibilità di avere a che fare con uomini che considerava
scansafatiche o «smaniosi di andare in pensione» . Otto Wuth, consulente psichiatrico
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dell’Ispettorato sanitario dell’esercito, distingueva tra «volonterosi» e «riluttanti», e gli psichiatri


erano usati per estirpare quelli della seconda categoria, tra cui i presunti portatori di difetti
psicologici e i piantagrane. Il basso livello di pazienti psichiatrici nei primi due anni del conflitto,
con rapide vittorie e senza la pesante guerra di trincea del 1914-18, sembrò confermare che lo
screening aveva effettivamente eliminato i «nevrotici di guerra». I casi registrati erano in gran
parte attribuiti a una chiara predisposizione del soggetto: «Questi individui non sono dotati di un
pieno valore spirituale», scriveva uno psichiatra nel 1940. «Qui non si tratta di una vera malattia
in senso medico, ma [persone] di valore inferiore» . 46
L’accento sulla predisposizione individuale al crollo psicologico durante il servizio militare
contrastava con la diffusa evidenza che i collassi psichiatrici si verificavano attraverso l’intero
spettro delle reclute. L’enfasi sulla predisposizione soggettiva non venne eliminata del tutto,
poiché risultava palese che in una fetta di popolazione cosí ampia non potesse mancare un certo
numero di uomini affetti da gravi disturbi psicotici, mentre l’idea che alcuni fossero per natura
codardi o scansafatiche confermava la bontà dei pregiudizi diffusi tra i militari. L’esempio piú
famoso appartiene a un ospedale da campo americano allestito nella cittadina siciliana di
Nicosia, in cui il generale al comando dell’invasione della Sicilia, George Patton, aveva
schiaffeggiato un apparente paziente psichiatrico per aver simulato i suoi disturbi (infatti il
soldato era affetto da malaria mal diagnosticata). «Uomini del genere», aveva commentato in
seguito il generale, «sono solo dei codardi» . Anche se Patton venne emarginato per il suo
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comportamento, l’intolleranza dei militari verso i pazienti con disturbi psichiatrici era istintiva.
Arthur Harris, comandante in capo del Bomber Command della RAF, era notoriamente famoso
per il suo disprezzo nei confronti dei «deboli e tremebondi» che si spezzavano sotto la tensione
del combattimento, ma tale pregiudizio nasceva dal trattamento riservato dalla RAF agli
equipaggi di volo fin da aprile del 1940, quando ai comandanti era pervenuta la «circolare sui
tremebondi», in cui si raccomandava di affrontare rapidamente qualsiasi segnale di crollo
emotivo che potesse definirsi come «mancanza di fibra morale». Indicata con l’acronimo LMF
(Lack of Moral Fibre), divenne l’espressione standard utilizzata in tutti i casi in cui un aviatore
veniva congedato dal servizio per una presunta sintomatologia simulata o codardia, e anche se la
maggior parte dei pazienti psichiatrici veniva trattata dagli psichiatri da campo con maggiore
empatia, spettava comunque al soldato convincere i superiori di non essere un semplice
vigliacco . La priorità della RAF era quella di individuare e rimuovere i casi di fragilità emotiva
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prima che potessero infettare i membri sani dell’equipaggio di volo: «Il compito piú importante
degli psicologi non è rattoppare del materiale di per sé inferiore, bensí eliminarlo prima che
possa fare danni» . Gli psichiatri che lavoravano per l’esercito australiano si attennero al
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principio della predisposizione naturale per tutta la guerra. Uno studio condotto sui soldati
australiani in Nuova Guinea individuò nel 51 per cento dei casi che la causa dei problemi
psicologici era da ricercarsi in condizioni preesistenti. Gli psichiatri si concentravano sugli
uomini che erano stati in orfanotrofi o che avevano storie familiari di nevrosi o genitori
alcolizzati. Lo scopo era evitare di dimostrarsi indulgenti con «perditempo e psicopatici» . 50

Con il progredire della guerra, tuttavia, divenne sempre piú evidente che una predisposizione
naturale oppure difetti caratteriali o una presunta scarsità di virtú razziali non potevano spiegare
l’alto tasso di pazienti definiti psichiatrici, in particolare nelle forze armate americane e tedesche,
dove si era compiuto il massimo sforzo per selezionare le reclute in base alla loro adattabilità
psicologica al servizio militare. Per gli psichiatri che lavoravano sul campo, era ovvio che ciò
che stavano osservando erano reazioni da stress in seguito a combattimenti estremi o prolungati,
alcune delle quali potevano essere semplicemente il prodotto di un esaurimento fisico e mentale,
altre invece vere e proprie reazioni da shock post-traumatico in grado di provocare disturbi
psicotici piú gravi. I sintomi piú evidenti erano già noti dalla Prima guerra mondiale: «Occhi
tenebrosi con uno sguardo ossessionato che sembravano affondare nelle orbite», ricordava un
soldato americano, «[l’uomo] ballava in abiti troppo grandi, fumava di continuo, agitava le mani,
aveva dei tic nervosi» . Gli uomini tremavano o piangevano senza potersi trattenere, perdevano il
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controllo delle capacità motorie, defecavano o urinavano senza rendersene conto, raggomitolati
in posizione fetale, oppure diventavano insensibili e apatici. Molti sviluppavano sintomatologie
psicosomatiche, come perdita dell’udito, mutismo, balbuzie, spasmi improvvisi, ulcere peptiche
(di cui vi fu una vera epidemia nell’esercito tedesco). La spiegazione fisiologica degli effetti di
un’estrema paura sulle funzioni corporee era già stata compresa da alcuni neurologi prima della
guerra, ma non veniva applicata ai pazienti psichiatrici. La defecazione involontaria,
sperimentata secondo un sondaggio da un quarto dei soldati americani, era la prima causa delle
accuse di codardia, mentre si trattava in realtà di una normale reazione fisiologica indotta dal
sistema nervoso simpatico. A poco a poco, le autorità militari arrivarono a riconoscere che la
maggior parte degli uomini che combattevano non erano né codardi né scansafatiche, bensí
vittime dello stress prodotto da una prolungata situazione di pericolo. La risposta era sviluppare
una terapia appropriata anziché stigmatizzare i soldati con scarsa resistenza interiore .
52

Rispetto ai paesi democratici, le forze armate dell’Unione Sovietica e della Germania avevano
una visione piú chiara degli effetti che poteva avere il combattimento, in quanto erano
maggiormente inclini a trattare le reazioni psichiatriche alla stregua di patologie organiche,
considerando come soldati affetti da veri disturbi nevrotici solo una minima parte dei pazienti
psicotici. Le forze armate tedesche avevano individuato già negli anni Trenta quattro categorie di
terapia dei militari in prima linea: esaurimento nervoso e temporanee reazioni psicogene
(innescate dall’esperienza del combattimento), da trattarsi direttamente al fronte o in prossimità
di esso; forti reazioni isteriche e psicosi, da curarsi negli ospedali della retroguardia o una volta
tornati in patria. Non appena la guerra nell’Est europeo iniziò a imporre perdite elevate
nell’autunno del 1941, i disturbi funzionali correlati alla psiche vennero trattati in un primo
momento in postazioni mediche o centri di recupero organizzati al fronte, dove l’abbondanza di
cibo, sonno, trattamenti con narcotici, presenza di consulenti psichiatrici e di altri commilitoni
miravano tutti a riportare rapidamente gli uomini in prima linea. L’aviazione militare istituí
propri centri di recupero piú distanti dal fronte e destinati agli aviatori definiti abgeflogen
(letteralmente «volati fuori» per stress da volo): nel 1940 ce n’erano tre – a Parigi, Bruxelles e
Colonia – e altri otto furono creati nel 1943 . L’Armata Rossa ricorreva allo stesso sistema di
53

centri medici prossimi al fronte in cui il riposo, cibo di buona qualità e adeguate condizioni
igieniche trasformavano gli uomini sfiancati dai combattimenti in soldati relativamente in forze
per tornare in prima linea. Gli eserciti dei paesi democratici impiegarono piú tempo a riconoscere
il problema e fornire quindi quella che venne chiamata «psichiatria di prima linea». L’esercito
della Nuova Zelanda fu il primo a introdurre nel 1942 centri di recupero da campo in Nordafrica,
ma il suo esempio fu rapidamente seguito dagli inglesi e americani che combattevano nella
campagna di Tunisia. Il direttore dell’American Army Neuropsychiatric Division, Roy Halloran,
approvò la creazione in prima linea di unità mediche in grado di fornire cure psichiatriche,
essendosi presto reso conto che quando si trasferivano gli uomini nelle retrovie molto distanti dal
fronte, questi tendevano a peggiorare anziché migliorare, in quanto si trovavano nella condizione
di autentici pazienti psichiatrici. Al fronte, la prima clinica venne istituita in via sperimentale in
Tunisia nel marzo del 1943. I suoi immediati successi portarono ad avviare trattamenti medici
già al fronte per tutto l’esercito . Le forze di terra britanniche attuarono un sistema analogo, a
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cominciare dall’introduzione di unità di ambulanze specificamente organizzate per cure


psichiatriche, a cui seguirono nel 1943 altre unità che vagliavano i diversi casi e centri di
recupero per i soldati il cui fisico era ormai esausto. Verso la fine della guerra, un gran numero di
soldati considerati vittime di esaurimento da battaglia veniva trattato sulla linea di fuoco o nelle
immediate retrovie .
55
Nonostante il trattamento offerto direttamente al fronte, le tensioni tra i diversi punti di vista
sulle reazioni allo stress e sul modo piú efficace per affrontarle continuarono a produrre attrito e,
in innumerevoli casi, diagnosi errate (seppur pochi soldati subirono l’umiliazione di un paziente
sul fronte birmano, la cui cartella clinica preliminare lo indicava semplicemente come uno «fuori
di testa») . Anche le rivalità di ordine professionale interferivano con l’atteggiamento nei
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confronti di una terapia che fosse di giovamento. Gli psichiatri militari della Germania si
opponevano alla tendenza diffusa negli ospedali dell’aeronautica a consentire terapie prolungate,
probabilmente sotto l’influenza della pratica terapeutica psicoanalitica, lasciando intendere che
molti aviatori erano stati i fortunati beneficiari di ciò che equivaleva a un «fallimento dell’arte
medica» e una violazione della «virile disciplina militare» . Gli psichiatri tedeschi non esitavano
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a penalizzare tra i pazienti psichiatrici qualsiasi sintomo che sapesse di simulazione; anzi, sembra
che la minaccia di trattamenti punitivi possa aver contribuito a spingere i malati a ritornare
volontariamente al fronte. Anche la cultura militare prevalente nell’Armata Rossa insisteva sul
fatto che non c’era posto per scansafatiche e piagnucoloni, e la consapevolezza di quali potevano
essere le conseguenze contribuiva quasi certamente ad accorciare i tempi della ripresa psicofisica
consentita dalla solidarietà dei compagni e dalle ore di sonno . 58

Il linguaggio stesso usato per descrivere i pazienti psichiatrici rifletteva sia la confusione in
merito ai disturbi che la psichiatria sosteneva di curare sia lo scetticismo della leadership militare
riguardo a ciò che poteva considerarsi una condizione patologica accettabile. Nella prima grande
battaglia del Pacifico a Guadalcanal, l’unico psichiatra assegnato all’Americal Division (vale a
dire la XXIII Divisione di fanteria) era cosí preoccupato dell’atteggiamento nei confronti dei
crolli psichici che preferiva diagnosticare i disturbi come «commozione cerebrale», termine
meno ostico alla filosofia militare; i servizi medici sovietici ricorrevano alla parola «contusione»
per motivi analoghi . In Gran Bretagna, la definizione «shock da granata» era stata abbandonata
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ben prima della guerra, nel timore che potesse incoraggiare i soldati a pensare che un collasso
sotto il fuoco nemico fosse accettabile, anche se i nuovi termini introdotti – come sindrome da
sforzo o sindrome da stanchezza – potevano essere altrettanto sfruttati, finché durante la
campagna di Normandia non venne introdotto l’«esaurimento da battaglia» . Nelle forze armate
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degli Stati Uniti, la consapevolezza che la grande maggioranza dei casi era il risultato delle
condizioni degli scontri armati portò a regolari diagnosi di «sfinimento da combattimento» per le
truppe di terra e «stanchezza operativa» per gli aviatori. Gli stessi psichiatri suddividevano i
pazienti che non si riprendevano nelle postazioni mediche di prima linea in un’ampia gamma di
categorie mediche che riflettevano i progressi compiuti negli anni tra le due guerre nella
conoscenza dei danni psichiatrici, il che incoraggiava però gli uomini che non volevano tornare
al fronte a considerarsi come invalidi in base a una diagnosi specifica e approvata.
Alla fine, la vera prova a cui la medicina psichiatrica venne sottoposta durante la guerra era la
misura in cui soldati che mostravano sintomi di esaurimento, o stati psicotici o psicosomatici di
maggiore gravità, potevano essere rimandati a combattere. Psichiatri e psicologi si trovarono
soggetti a forti pressioni al solo scopo di dimostrare che il loro posto all’interno della struttura
medico-militare era pienamente legittimo; le ansie di natura professionale fecero sí, quasi
certamente, che fossero rimandati al fronte o destinati a mansioni di non combattimento uomini
che non erano affatto «guariti», seppure non piú cosí palesemente affetti da disturbi invalidanti.
Come ausilio a superare esaurimento e paura veniva impiegata un’ampia varietà di terapie,
inclusi narcotici, terapia di suggestione, iniezioni di insulina (per favorire l’aumento di peso) e,
in alcuni casi, farmaci che inducevano nel paziente, sollecitato dallo psichiatra, uno stato in cui
egli riviveva traumi specifici al fine di liberare il terrore represso . Il tasso dei rientri in servizio
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attivo dichiarato dalle unità di neuropsichiatria variava ampiamente, e alla maggior parte di
quanti rientravano erano assegnati compiti di non combattimento al fronte o appena dietro la
prima linea, anche se gli ospedali psichiatrici italiani al fronte rimandarono in servizio attivo alle
rispettive unità solamente il 16 per cento dei pazienti, mentre alla gran parte fu permesso di fare
ritorno alle loro case . A marzo del 1943, gli psichiatri militari americani sul fronte tunisino
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dichiararono un tasso di rientro in prima linea del 30 per cento dei casi dopo appena trenta ore di
riposo e trattamento e del 70 per cento dopo quarantotto ore, anche se altre stime indicavano che
appena il 2 per cento era tornato effettivamente a combattere . Nel 1943, il tasso di rientro
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complessivo tra le truppe britanniche venne stimato tra il 50 e il 70 per cento dopo una settimana
di trattamento, anche se, ancora una volta, la maggior parte dei soldati era rientrata alle unità di
appartenenza con mansioni di non combattimento. Nelle forze aeree della Gran Bretagna, gli
aviatori non stigmatizzati ufficialmente con l’acronimo LMF non ritornavano in generale alle
loro mansioni di volo. Non si fecero particolari sforzi per controllare il tasso di recidive tra
coloro che rientravano in servizio attivo. Alcuni studi compiuti in tempo di guerra indicavano
che solo un piccolo numero presentava nuovamente disturbi psichiatrici, anche se le ricerche
effettuate nelle singole unità rilevavano successi molto inferiori. Uno studio su 346 pazienti di
fanteria ritornati a combattere in Italia nel 1943 indicava che tre mesi dopo solo 75 di loro erano
ancora in combattimento . Dopo settimane di duri scontri in Normandia, solo il 15 per cento di
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quelli inviati ai centri di recupero in prima linea poté fare ritorno alle rispettive unità, mentre la
metà di loro fu rimandata in Gran Bretagna . La maggior parte di quelli che tornavano in prima
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linea abbastanza in forma dimostravano comunque una chiara inefficienza nel combattimento. Di
conseguenza, il posto degli uomini non piú in grado di combattere doveva essere preso da nuove
reclute, spesso con un addestramento scarso e rapidamente immerse nel caos della prima linea,
con alte probabilità di diventare rapidamente a loro volta dei pazienti psichiatrici.
Quanti non potevano essere aiutati nelle postazioni psichiatriche al fronte andavano incontro a
destini diversi mentre ripercorrevano la catena di ospedali e cliniche psichiatriche nelle retrovie.
Alcuni venivano semplicemente riconosciuti come psichicamente esausti e non erano sottoposti a
ulteriori sforzi. Quella che venne chiamata la «sindrome del vecchio sergente» (oppure,
nell’esercito britannico, «isteria del piantone») fu riconosciuta dalle forze alleate durante la
campagna d’Italia del 1943-44, allorché un numero crescente di ufficiali e sottufficiali con uno
stato di servizio impeccabile subí il crollo dopo mesi passati al fronte. Considerati incurabili,
questi uomini furono congedati con onore dalle forze armate . In Gran Bretagna, coloro a cui
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erano stati diagnosticati disturbi psicotici o psicopatie venivano rimandati a casa per il
trattamento ed esonerati se le loro condizioni non avevano probabilità di migliorare, oppure
rimanevano nelle forze armate per lavorare in basi e magazzini qualora fossero stati giudicati
capaci di svolgere delle mansioni e liberare per il fronte uomini pienamente abili . Nelle 67

dittature, al contrario, si presumeva la possibilità che quanti subivano un collasso emotivo


stessero simulando o esagerassero i sintomi mirando a quella che gli psichiatri tedeschi
chiamavano Kriegsflucht, la «fuga dalla guerra». Nell’Armata Rossa, i presunti scansafatiche o
simulatori venivano mandati nei battaglioni di punizione, dove probabilmente finivano
rapidamente uccisi. In Germania, quelli che venivano ricoverati nelle cliniche delle retrovie
erano sottoposti a una forma deliberatamente dolorosa di elettroshock, durante la quale si
registravano spesso attacchi di cuore o ossa fratturate. Se resistevano a quel trattamento, o
rifiutavano di tornare in servizio attivo, finivano in «speciali dipartimenti» punitivi allestiti nelle
retrovie, in condizioni simili a quelle dei campi di concentramento; in alternativa, da aprile del
1942, venivano spediti in prima linea in battaglioni di punizione. Nel 1943, l’esercito decise di
inserire i pazienti con disturbi dello stomaco o dell’udito di natura psicosomatica nei «battaglioni
dei malati» (Krankenbatallionen), che andavano a rimpiazzare truppe regolari in servizio presso
guarnigioni e fortificazioni. Un’esigua minoranza di quanti erano considerati al di là di ogni
speranza a causa del loro carattere «asociale» finí per morire nelle cosiddette strutture
dell’«eutanasia» .
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L’alto numero di pazienti psichiatrici, gli scarsi tassi di ritorno in combattimento e il


reclutamento di nuovi coscritti impreparati alla violenza del fronte fecero sí che, nel corso del
conflitto, tutte le forze armate persero buona parte della loro efficienza. Il declino dell’elemento
umano era mascherato da una massiccia produzione militare e da sostanziali migliorie tattiche e
operative introdotte nel modo stesso di combattere, anche se gli scontri prolungati in condizioni
difficili rallentarono comunque la capacità delle truppe di trarre pieno vantaggio dalle modifiche
materiali. Gli eserciti di terra, in particolare, vacillavano sotto il peso delle perdite e, alla stregua
di lottatori rimbecilliti, avevano sempre maggiori difficoltà ad assestare un knock-out quanto piú
lunghi erano i combattimenti. Tra le piccole unità sparse su tutti i fronti di battaglia erano
numerosi gli episodi di panico da prima linea. I racconti contemporanei della guerra sino-
giapponese sono zeppi di momenti del genere, su un campo di battaglia fluido e confuso, con
uomini che scappavano «come topi spaventati», secondo le parole di un ufficiale cinese . Erano 69

rari, in compenso, gli esempi di panico collettivo o di totale perdita di disciplina. La ritirata degli
inglesi dalla Norvegia nel 1940, o il crollo della disciplina sull’isola di Singapore all’inizio del
1942, oppure la divisione italiana che a Tobruk si era arresa terrorizzata di fronte a 6000 soldati
polacchi lanciati all’attacco con le sole baionette perché senza munizioni, furono fenomeni tutto
sommato inconsueti. Gli episodi di resa di massa (almeno fino agli ultimi giorni di guerra) si
verificarono generalmente all’inizio del conflitto – in Francia e Belgio nel 1940, in Africa
orientale e in Unione Sovietica nel 1941 – o avvennero nel momento in cui i combattimenti non
potevano piú continuare, come a Stalingrado. Anche quei casi in cui gli eserciti subivano un
crollo temporaneo – per esempio l’esercito francese nel 1940 o l’Armata Rossa nelle steppe del
Don nell’estate del 1942, o anche la caotica ritirata tedesca attraverso la Francia nel 1944 – si
concludevano alla fine con la creazione di una nuova linea di difesa non appena i soldati in preda
al panico venivano riportati sotto il controllo degli ufficiali e le loro paure sconfitte dal rigore
della disciplina. Gli uomini continuarono a combattere nonostante gli effetti psicologici dei
moderni combattimenti e l’epidemia di malati psichiatrici, esattamente com’era avvenuto nella
Prima guerra mondiale.
Mantenere alto il «morale».
Se le pressioni emotive subite in tempo di guerra da centinaia di migliaia di uomini e donne
erano troppo grandi da sopportare, per ragioni che non sono difficili da comprendere, resta
comunque da chiedersi in che modo la maggioranza dei combattenti che non si trovò a
soccombere a crisi psichiatriche, sia passeggere sia piú durature, sia riuscita a vincere le proprie
reazioni allo scontro armato e continuare a combattere. Si tratta di una domanda che verte di
solito sulla questione del morale delle truppe, anche se il termine «morale» risulta di per sé
nebuloso. Esso ricorre non solo in una vasta gamma di possibili spiegazioni dei motivi per cui gli
uomini combattono, ma è altresí applicato all’intero spettro di eventuali reazioni da parte di
uomini le cui differenze di intelligenza, ambiente sociale di provenienza, condizioni psicologiche
o circostanze personali rendono di certo insostenibile qualsiasi presupposto generico sul loro
morale o sul loro stato emotivo. Durante la Seconda guerra mondiale, le organizzazioni militari
tendevano a dare per scontato che, con un addestramento e un’educazione motivazionale efficaci,
ogni soldato poteva essere pressato nello stesso stampo. L’aiutante generale britannico Ronald
Adam scriveva nel 1943 che «la stragrande maggioranza degli uomini può essere addestrata ad
affrontare la paura cosí come può essere addestrata ad affrontare i tedeschi» . Perfino gli
70

psichiatri immaginavano che esistesse un individuo-norma in grado di adattarsi alla guerra


moderna e alla vita militare, contrapposto a chi era «schivo o timido, impacciato e irresoluto»,
come ebbe a esprimersi uno psichiatra britannico . L’ipotesi prevalente era che la maggior parte
71

degli uomini, quando ciò veniva loro ordinato, sapeva vincere le proprie paure. «Dietro tale
convinzione», scrisse il consulente psichiatrico dell’esercito inglese J. R. Rees, «vi è l’idea che il
coraggio e la codardia siano in qualche modo delle libere scelte alternative che si presentano a
ogni uomo, prevalendo su ogni stress emotivo […] e che egli possa dimostrarsi coraggioso
qualora gli venga detto che cosí deve essere» . 72

Qualsiasi generica conclusione che tutti gli uomini possono essere pronti a combattere, fatta
eccezione per quella minima parte a cui è impedito dal suo stato emotivo, non tiene conto a
sufficienza delle grandi differenze culturali e sociali esistenti tra gli ambienti militari delle
potenze belligeranti o delle diverse condizioni di combattimento. Le narrazioni del tempo di
guerra insistevano molto sull’importanza di una solida leadership o dell’entusiasmo morale
generato dalla prospettiva della vittoria, ma nessuno dei due argomenti offre una qualsiasi
spiegazione generale rispetto alla tesi che gli uomini possono essere addestrati a essere
coraggiosi. Le truppe tedesche e giapponesi continuarono a combattere con cupa determinazione
anche di fronte alla sconfitta imminente; i soldati degli Alleati, viceversa, divennero
notevolmente piú cauti e riluttanti a rischiare la pelle quanto piú vicina appariva la vittoria. Il
generale George Marshall, il capo di stato maggiore degli Stati Uniti, introdusse una Morale
Division nell’esercito solamente nel 1944, quando la vittoria sembrava ormai sicura . In Unione
73

Sovietica, il cambio di rotta avvenuto nel 1943-44 non fece grande differenza per lo stato
d’animo delle truppe, molto meno di quanto ci si potesse aspettare. «Dopo tre anni di guerra»,
affermava nel 1944 un combattente dell’Armata Rossa, «il soldato sovietico è esausto,
fisicamente e moralmente» . Il livello non eccezionale del comando complessivo e le errate
74

valutazioni operative non fermarono le forze statunitensi che nel 1943-44 combattevano nella
testa di ponte di Anzio nell’Italia meridionale, o nella disastrosa campagna nella foresta di
Hürtgen alla fine del 1944, allorché entrambi i contendenti, americani e tedeschi, subirono
terribili perdite per un’operazione del tutto inutile. Le truppe continuarono a combattere nelle
condizioni piú demoralizzanti, cosa a cui nessuna argomentazione generica sulla natura del
morale può fornire una spiegazione soddisfacente.
La spiegazione ovvia, anche se meno attraente, è la coercizione dell’apparato di guerra. Ogni
organizzazione militare è per sua natura coercitiva, seppure non ugualmente punitiva. Nella
Seconda guerra mondiale, un ampio segmento della società civile fu coinvolto e costretto ad
accettare le strutture, la disciplina e le esigenze quotidiane della vita militare. Il sistema della
corte marziale venne ampliato per far fronte ai problemi che la coercizione avrebbe potuto
sollevare, ma gli interessi della giustizia militare erano del tutto distinti dalla sfera della giustizia
civile, in quanto il progetto era quello di limitare pressoché ogni libertà di scelta e di prescrivere
una gamma ristretta di comportamenti accettabili, dal campo di addestramento alla prima linea
del fronte. Le consuetudini quotidiane della disciplina erano volutamente intrusive, inibenti e
onnipresenti, atte a minare il singolo individuo e accentuare il potere del collettivo. A ogni
livello di attività militare, in ogni teatro di guerra, e in tutti i settori delle forze armate, la
coercizione militare manteneva attive l’organizzazione e la forza combattiva del materiale
umano a disposizione. La disciplina era integrata dall’addestramento (con una severità che
variava a seconda della particolare cultura militare), da programmi di educazione politica e
ideologica, da deliberate campagne di propaganda per tenere alto il morale e (per una piccola
parte) fare baluginare la prospettiva di promozioni e premi. Questi elementi, evidentemente,
contavano molto per coloro che vivevano e operavano nell’ambiente sconosciuto della guerra
moderna, ma la coercizione e la minaccia di punizioni restavano comunque alla base della
capacità delle forze armate di reclutare, addestrare e disciplinare le decine di milioni di ex civili
che prendevano parte alle battaglie.
Il grado di coercizione, tuttavia, differiva a seconda dell’ambiente militare; in linea generale, le
forze armate nei regimi autoritari erano significativamente piú punitive di quelle dei paesi
democratici. Le culture militari della Germania e del Giappone si fondavano sulle tradizioni
dell’onore e dell’obbedienza – nel caso dei combattenti giapponesi, fino alla morte. I soldati
dell’impero del Sol Levante potevano subire la pubblica fustigazione per ogni accenno di
codardia o disobbedienza, e persino essere picchiati dalle altre reclute per qualsiasi negligenza al
dovere . Si trattava di culture psicologicamente coercitive in cui si attendevano da ogni
75

combattente il rispetto dei sommi valori militari, anche nelle condizioni piú ardue, l’assoluta
obbedienza e un senso incrollabile del dovere, benché tutto questo non sempre avvenisse . Il 76

sistema della corte marziale e i modelli di disciplina militare erano portati all’estremo nella
dittatura sovietica e tedesca, sotto le quali erano meno tollerati i crolli psichiatrici e le diserzioni.
Il sistema penale militare era un’estensione del terrore di stato praticato da entrambe le dittature,
in cui qualsiasi digressione dagli obiettivi ideologici del regime comportava severe punizioni. Il
rifiuto o la riluttanza a partecipare ai combattimenti per il futuro della razza tedesca o per la
difesa della madrepatria sovietica erano considerati un’imperdonabile pecca della motivazione
politica, come anche un atteggiamento di sfida ai codici comportamentali della vita militare. In
Italia, il fascismo si atteneva per molti aspetti alla medesima visione. Le condanne a morte
emesse dai tribunali militari straordinari contro 130 disertori, che costituivano in ogni caso solo
una minima parte di quelli catturati, dovettero essere un esempio «pedagogico» per tutti gli altri
soldati, al fine di incoraggiare un maggiore impegno verso la causa . 77

In Unione Sovietica, nell’agosto del 1941 il Cremlino fece pervenire ai comitati politici dei vari
gruppi dell’esercito l’ordine di giustiziare i disertori e i codardi, ordinanza estesa in seguito a
tutte le forze di terra e corpi militari. Per prevenire la diserzione di massa o la ritirata, l’Armata
Rossa costituí nel settembre del 1941 i cosiddetti zagraditel’nye otrjady, i «reparti di blocco»
formati da soldati o uomini della sicurezza dell’NKVD impiegati nelle retrovie per fermare i
soldati terrorizzati e sbandati che fuggivano dalla sconfitta e riportarli alle rispettive unità di
combattimento. Nei primi mesi dell’invasione tedesca, i reparti di blocco fermarono 657 364
uomini, perlopiú ricondotti in prima linea, fatta eccezione per 10 201 soldati la cui diserzione
venne considerata cosí grave da meritare la pena capitale. A luglio del 1942, come abbiamo già
ricordato, Stalin aveva emanato il Prikaz n. 227 Ni šagu nazad! («Non un passo indietro!») al
fine di rendere chiaro a tutti che nessun soldato poteva abbandonare la sua posizione senza
incorrere in punizioni. Si stima che nel corso della guerra siano stati giustiziati 158 000 soldati
per diserzione, codardia, attività criminale o devianza politica; altri 436 000 furono inviati nei
vari GULag – l’equivalente di circa 60 divisioni sovietiche . Dal 1943 in poi, ogni sbandamento
78

del personale militare sovietico divenne oggetto di indagini da parte di una nuova organizzazione
di sicurezza denominata SMERŠ (acronimo di Smert’ špionam, «Morte alle spie»); oltre a
individuare ogni possibile segno di tradimento, gli ufficiali dello SMERŠ avevano altresí la
responsabilità di regolare i conti con disertori, codardi e soldati con ferite autoinflitte. L’obiettivo
era instillare un terrore del castigo piú forte della paura del nemico . Poiché il regime minacciava
79

di punire anche le famiglie di coloro che disertavano o si arrendevano, i soldati sovietici erano
soggetti a ulteriori pressioni affinché superassero qualsiasi crisi emotiva e continuassero a
combattere.
Nelle forze armate tedesche, si presumeva che quanti abbandonavano la lotta, attraverso la
diserzione sia fisica sia interiore e psicologica, fossero commilitoni di razza inferiore, meritevoli
della giusta punizione per aver abbandonato la battaglia che doveva garantire il futuro della
Germania. Come la carenza di forza lavoro costringeva i quadri militari a reclutare soldati meno
capaci o meno adatti a sostenere il fuoco della prima linea, cosí la minaccia della punizione – o il
«trattamento speciale» (Sonderbehandlung) nel lessico del regime – era impiegata soprattutto per
imporre la piena obbedienza. I provvedimenti della giustizia militare contro le «fughe dalla
guerra» o l’indebolimento della disciplina venivano applicati ai sensi del Paragrafo 51 dello
Strafgesetzbuch, il Codice penale delle forze armate; i casi richiedevano spesso che uno
psichiatra presentasse un rapporto a conferma che il colpevole non era un paziente psichiatrico
grave e poteva essere punito di conseguenza . Molte volte, la punizione significava il plotone di
80

esecuzione e, come nelle forze armate sovietiche, la paura delle conseguenze di un eventuale
abbandono del dovere di soldato aveva lo scopo di mantenere gli uomini in combattimento . 81

Anche se le forze armate tedesche non erano cosí prodighe di punizioni con la loro forza lavoro
come l’Armata Rossa, il numero totale dei condannati a morte faceva impallidire le quarantotto
esecuzioni avvenute durante la Prima guerra mondiale. Si stima infatti che circa 35 000 militari
furono condannati a morte e 22 750 giustiziati, di cui circa 15 000 disertori, ma la cifra
complessiva dei soldati fucilati fu quasi certamente molto piú alta . Nell’ultimo anno di guerra, i
82

fuggitivi catturati nel Reich venivano impiccati ai lampioni, come monito a tutti gli altri, o
fucilati in luoghi piú nascosti dalle forze di polizia, lasciando cosí poche tracce statistiche. I reati
minori erano ancora piú numerosi, e il carcere militare divenne un’istituzione di particolare
importanza. Il totale delle pene detentive inflitte al personale delle forze armate durante la guerra
fu di circa tre milioni, di cui circa 370 000 per periodi superiori a 6 mesi e 23 124 con lunghe
condanne ai lavori forzati . Il paradosso evidente dalle statistiche sia dell’esercito sovietico sia di
83

quello tedesco è che la paura della punizione non agiva da deterrente. La lotta sul fronte orientale
fu particolarmente lunga, straziante e sanguinosa. Entrambi gli eserciti coinvolti fecero ricorso a
una severa disciplina per assicurarsi che tutte le loro truppe conoscessero il prezzo di ogni
inosservanza del dovere, ma questo non fu mai sufficiente ad arginare il flusso dei soldati troppo
impauriti o disillusi per continuare a combattere.
Nelle forze armate democratiche, la coercizione esisteva come realtà quotidiana e forza
organizzativa, senza però la minaccia di una giustizia militare eccessivamente punitiva. La
diserzione e il crimine erano entrambi puniti, ma nel corso del conflitto solo un soldato
americano fu fucilato per diserzione e nessun soldato britannico, benché il comandante in capo
dell’esercito inglese in Nordafrica, il generale Claude Auchinleck, chiedesse a gran voce di
ripristinare la pena di morte per coloro che abbandonavano il combattimento . Si tendeva 84

maggiormente a coprire di vergogna quanti si erano allontanati dalla battaglia senza una buona
causa medica con un congedo con disonore o con cerimonie pubbliche di degradazione. Agli
aviatori britannici indagati per LMF venivano strappati i distintivi e le mostrine dall’uniforme,
dopodiché erano fatti marciare per le strade del posto affinché tutti li vedessero, e questo prima
che fosse presa qualsiasi decisione formale circa il loro stato mentale o fisico . Per i fuggitivi era
85

pur sempre in vigore un regime di punizione, seppure non cosí pericoloso. Nell’ultimo anno di
guerra, 8425 militari britannici furono condannati per diserzione . Nel corso dell’intero conflitto
86

la corte marziale pronunciò 30 299 condanne, di cui quasi 27 000 per diserzione o assenza
ingiustificata, 265 per ferite autoinflitte e solo 143 per codardia . L’esercito degli Stati Uniti
87

celebrò 1,7 milioni di procedimenti di corte marziale, perlopiú per reati banali commessi sul
campo, ma con 21 000 condanne per diserzione.
La coercizione veniva inoltre integrata da iniziative piú positive per tenere alto il morale,
attraverso programmi opportunamente concertati. I tentativi di motivare la forza lavoro militare
fornendo una regolare educazione politica e motivazionale risultavano come sempre piú
invadenti nelle forze armate delle dittature che negli eserciti dei paesi democratici. Ciascuna
unità dell’esercito sovietico includeva un commissario politico introdotto in base alle riforme del
1939 e preposto a elevare il livello di coscienza politica tra le reclute, individuare eventuali
travisamenti ideologici e punire ogni contestazione di carattere politico. Il Cremlino emanava
regolarmente argomenti di discussione e propaganda e la partecipazione dei soldati era richiesta
ogni volta che ne avevano la possibilità. Anche quando il ruolo operativo del commissario
politico fu declassato nel 1942, su insistenza dell’alto comando dell’esercito, il significato
dell’educazione politica non fu abbandonato. La «Stella Rossa» («Krasnaja zvezda»), il foglio di
informazione dell’esercito che offriva una mescolanza di notizie di guerra e lezioni di ideologia,
aveva una tiratura di milioni di copie ed era distribuita a tutte le truppe. La cultura sovietica del
tempo di guerra traboccava di storie straordinarie di eroismo, delle quali poche erano del tutto
veritiere; l’obiettivo era creare un legame emotivo tra il singolo soldato e il modello idealizzato,
a cui si poteva tenere fede solo con ulteriori atti di coraggio e abnegazione. A milioni di militari,
uomini e donne che si erano distinti in combattimento, veniva offerta una corsia preferenziale per
aderire al Partito comunista . L’educazione politica e motivazionale rivestiva un ruolo di rilievo
88

anche nelle forze armate del Reich, tra le quali si incoraggiava l’identificazione con la lotta della
Germania per la sopravvivenza, con la guerra contro il nemico ebraico e con i valori della
Volksgemeinschaft, la «comunità del popolo germanico» esaltata dai nazionalsocialisti. Ad aprile
del 1939 fu istituita l’Amtsgruppe für Wehrmachtpropaganda, il dipartimento delle Forze armate
per la Propaganda, che organizzava gruppi che svolgevano attività propagandista per sollevare il
morale delle truppe e distribuivano materiali di lettura direttamente al fronte. Nell’ottobre del
1940 furono pubblicate delle linee guida sull’educazione politica dell’esercito basate su quattro
elementi chiave: Das deutsche Volk (Il popolo tedesco); Das Deutsche Reich (L’impero tedesco);
Der deutsche Lebensraum (Lo spazio abitativo tedesco); e Nationalsozialismus als Grundlage
(Nazionalsocialismo come fondamento) . Nell’ottobre di tre anni dopo, mentre l’indottrinamento
89

politico delle forze sovietiche veniva declassato, Hitler ordinò l’istituzione del
Nationalsozialistischer Führungsstab (Stato maggiore della dirigenza nazionalsocialista), con il
compito di nominare i commissari politici destinati alle varie unità militari. A dicembre del 1943
operavano a tempo pieno 1047 commissari e altri 47 000 ufficiali, che univano alle loro regolari
mansioni militari altre attività specifiche per alzare il morale delle truppe .
90

È difficile giudicare quanto quei programmi ideati per rafforzare la motivazione a combattere
fossero realmente utili a incoraggiare i soldati a identificarsi con la causa e mantenere la
disciplina. A un certo livello, ogni forza armata era consapevole del nemico che stava
combattendo e della necessità della vittoria, ma non era qualcosa che sostenesse in modo
significativo le truppe, che vedevano solo alternarsi giorni di tedio o di pericolo. I soldati
sovietici erano spesso cosí esausti dei combattimenti che neppure quella forzatura a impegnarsi
emotivamente nella lotta faceva molta differenza, pur capendo che qualsiasi discorso disfattista o
dissenso politico sarebbe stato comunque punito: «Si diventa indifferenti», affermava un soldato
dell’Armata Rossa, «non si è nemmeno piú felici di essere vivi» . Nel 1944, anche i soldati
91

tedeschi si trovarono a un punto in cui la lotta per gli ideali originari, ammesso che avessero
avuto un qualche impatto anche prima, si era quasi estinta. Nel luglio di quell’anno, un giovane
carrista scrisse nel suo diario che lui e i suoi compagni combattevano «solo per il senso del
dovere che era stato loro inculcato a forza» . Di certo, gli ideali non avevano sostenuto le truppe
92

a Stalingrado. «Non mi si può far credere», scrisse un soldato in una delle sue ultime lettere,
«che i camerati muoiano con sulle labbra la parola: “Deutschland” o “Heil Hitler”» . Solo 93

l’esercito americano valutava le opinioni dei soldati per capire fino a che punto fosse loro chiara
la causa per cui combattevano. Tra gli intervistati, il 37 per cento delle truppe nel Pacifico e il 40
per cento di quelle in Europa dichiarò che non faceva alcuna differenza il perché stessero
combattendo. Quando la Gallup chiese ai soldati quali fossero le Quattro Libertà che Roosevelt
si era impegnato a difendere con la guerra, solo il 13 per cento riuscí a nominarne almeno una . 94

Un veterano riferí al Research Branch dell’esercito che appena arruolato si sentiva «patriottico
fin nelle ossa», ma che il combattimento lo aveva poi cambiato: «Si combatte per la propria pelle
[…] Non c’è alcun patriottismo in prima linea» . Tra le truppe britanniche, il servizio per
95

l’istruzione dell’esercito rilevò che alcuni soldati erano molto piú disposti a discutere del mondo
dopo la vittoria, ma che la natura del conflitto e l’impegno per la causa fino alla vittoria
risvegliavano reazioni piú negative. Le attività orchestrate per rafforzare l’impegno bellico
potevano anche avere piú senso di una struttura disciplinare coercitiva, ma la loro effettiva
capacità di motivare i soldati a superare l’immediata reazione alla paura, alla disperazione o al
pericolo rimane tuttora oggetto di discussione.
Piú o meno lo stesso si può dire degli sforzi per suscitare l’odio collettivo nei confronti del
nemico. Si potrebbe presumere a priori che l’odio sia un tratto caratteristico di una guerra, e sono
molte le testimonianze sul fatto che in certi momenti fu proprio l’odio (o, piú precisamente, un
improvviso scoppio di rabbia) a spingere gli uomini a vendicarsi della morte dei compagni, o del
fuoco spietato di un cecchino o di una mitragliatrice, oppure davanti alle prove di crimini di
guerra. I diari della guerra sino-giapponese traboccano di espressioni spontanee di odio come
forma di automotivazione a combattere un nemico pericoloso e spesso nascosto . Vi sono 96

tuttavia molte prove che i tentativi formali di instillare odio nelle truppe ebbero fortune alterne.
L’odio, come affermava nel 1940 un eminente psicologo britannico, è «incostante e
capriccioso», è un’emozione difficile da sostenere per lungo tempo . Nel 1942 l’esercito
97

britannico decise di istituire delle scuole di tattica del combattimento in cui era presente una
sorta di addestramento all’odio, progettato, come annunciava un programma della BBC, per
«insegnare agli uomini […] a odiare il nemico e in che modo usare quell’odio». Le proteste
pubbliche esplosero dopo che si venne a sapere che l’addestramento all’odio prevedeva delle
visite ai macelli, in cui le reclute erano deliberatamente spruzzate di sangue. L’iniziativa venne
interrotta su insistenza di Montgomery, allora comandante in capo della regione sud-orientale
dell’Inghilterra, che considerava l’odio un modo alquanto futile di mobilitare emotivamente dei
soldati alla guerra . In uno studio del 1943 sulla paura in battaglia, l’antropologo sociale John
98

Dollard scoprí che «l’odio per il nemico» compariva solo in ottava posizione su nove tra le
motivazioni, appena poco di piú rispetto a «tenersi occupati» . I sondaggi condotti sul morale
99
dell’esercito americano rilevarono che il 40 per cento dei militari in Europa non considerava
affatto l’odio come un elemento motivazionale; nel Pacifico, il dato era del 30 per cento, ma qui
la propaganda induceva a considerare i giapponesi come gente particolarmente detestabile . 100

L’odio, per altro, era ricambiato. I militari giapponesi erano esposti a una regolare propaganda di
odio verso i «barbari» americani. Nel dopoguerra, alcune ricerche americane sul morale dei
giapponesi rilevarono che il 40 per cento esprimeva un odio estremo, insieme a rabbia e
disprezzo per il nemico e che solo un decimo degli intervistati non provava nessuno di tali
sentimenti .
101

Un modo piú convincente per spiegare in che modo i soldati riuscissero a reggere la coartazione
emotiva di un conflitto senza cedere alla tensione è quello di considerare il livello base
dell’esperienza quotidiana. Le forze armate di massa non costituiscono, ovviamente, una massa,
bensí un amalgama di migliaia di piccole comunità di combattenti – una compagnia di fanteria,
l’equipaggio di un sottomarino, un’unità di artiglieria, l’equipaggio di un bombardiere. Buona
parte della letteratura sul morale delle truppe in tempo di guerra pone in luce l’importanza del
senso immediato di unità e cameratismo come fulcro di lealtà, impegno e supporto emotivo. La
maggioranza dei militari al fronte, anche ufficiali, non aveva alcuna idea precisa di come stesse
combattendo il resto delle truppe – non aveva una grande conoscenza della strategia piú ampia
che li coinvolgeva –, qualsiasi informazione si limitava a quanto doveva sapere per portare a
termine operazioni particolari. Per i soldati giapponesi di stanza in remote isole del Pacifico o
nelle giungle della Nuova Guinea o della Birmania, non c’era nemmeno modo di capire quali
fossero realmente le sorti della guerra, anche se le informazioni ufficiali, se li raggiungevano,
erano immancabilmente ottimistiche. Solo agli storici è concesso il lusso di vedere il quadro
completo e valutare le conseguenze. Nella vita di ogni giorno, la maggior parte degli uomini (e
delle donne nel caso dell’Unione Sovietica) aveva come priorità assoluta il massimo sostegno al
piccolo collettivo a cui appartenevano, unico mezzo in grado di garantire una possibilità di
sopravvivenza. Per quanto riguardava gli uomini che combattevano, i problemi apparivano piú
prosaici, basti ricordare il pianto del carrista tedesco dopo la perdita del suo mezzo corazzato.
Ogni piccolo collettivo costituiva ciò che gli psicologi sociali definiscono un «universo di
obblighi», in cui la sopravvivenza del singolo membro dipende dal mutuo soccorso degli altri . 102

L’impegno morale ed emotivo primario investe coloro che condividono immediatamente gli
stessi pericoli, non una comunità piú ampia con obblighi precisi. Benché si pensi spesso che il
morale fosse gestito dall’alto, era altrettanto frequente che fosse invece autogestito dal basso.
Questo contesto di dimensioni piú ridotte generava un insieme di reazioni emotive diverse. Gli
uomini eseguivano i loro compiti sotto la spinta di sentimenti di impegno emotivo e lealtà verso
il gruppo e, al tempo stesso, per la paura molto reale della vergogna o del senso di colpa che
potevano provare se abdicavano alla loro responsabilità o subivano un crollo. Per milioni di
esseri umani, la prova del vero coraggio non era data da qualche atto di eroismo casuale, bensí
dalla capacità di vincere una paura cosí pervasiva e proseguire il cammino per il bene di coloro
che li circondavano. «Ho scoperto», scriveva un veterano americano, «che la differenza tra
essere spaventati ed essere dei codardi è che gli altri lo scoprano» . Si potevano vedere uomini
103

feriti che lottavano per ricacciare indietro le lacrime e non essere quindi stigmatizzati da una
cultura militare che incoraggiava manifestazioni di ostentata virilità . Gli psichiatri si
104

accorgevano che i pazienti feriti nel fisico o nella psiche erano spesso distrutti dal senso di colpa
per non aver saputo resistere e non desideravano che mettersi nuovamente alla prova dinanzi ai
loro compagni. I sondaggi condotti tra i militari statunitensi rilevavano che per l’87 per cento, in
entrambi i principali teatri di guerra, erano convinti che la cosa piú importante fosse non
deludere gli uomini attorno a loro. Per quanto giusta potesse essere la causa per cui si
combatteva, come ebbe a dire un veterano, «essa non era cosí importante quanto il rispetto
reciproco tra gli uomini» . Indagini sociologiche condotte sia nell’esercito sovietico sia in quello
105

tedesco hanno confermato che ad avere la massima importanza era la coesione dei piccoli gruppi,
e per quanto le perdite elevate causassero una rapida frammentazione dei gruppi, essi non
potevano che essere necessariamente ricreati grazie all’arrivo di nuovi uomini, arruolati in unità
che sapevano mantenere la loro identità nonostante le perdite subite . I critici hanno giustamente
106

osservato che i legami potevano anche esistere a livello di reggimento o addirittura di divisione,
oppure non esistere affatto ed essere incoraggiati con l’impegno verso l’ideologia o il sistema
assiologico dominante, ma si trattava di elementi esterni alle unità primarie che conducevano la
battaglia e il cui senso interiore di responsabilità contava ben di piú, non importa quanto
potessero essere diverse l’una dall’altra per origini, composizione e mentalità . Nella guerra
107

aerea, gli equipaggi dei bombardieri impegnati nell’offensiva contro la Germania conobbero
livelli eccezionali di perdite, eppure, una volta a bordo di un velivolo, anche con un equipaggio
che non aveva avuto il tempo di creare dei legami, la comunità di clausura che veniva a formarsi
non aveva altra scelta che lavorare di comune accordo per la sopravvivenza. Per questo si
riteneva essenziale che qualsiasi anello debole all’interno dell’equipaggio, qualunque potesse
essere la spiegazione psicologica, dovesse essere rimosso rapidamente dal combattimento per
evitare qualsiasi influenza nociva sugli altri uomini in volo . Di quelle piccole unità, non ne
108

esistevano due identiche, e tutte potevano essere soggette alle consuete tensioni emotive tipiche
di qualsiasi gruppo umano, oppure subire un crollo psicologico o un disastro militare. La lotta, in
ogni caso, poteva essere sostenuta nelle forze armate di massa soltanto dalla miriade di piccole
comunità temporanee plasmate dalle circostanze della guerra.
All’interno di questi esigui gruppi solidali, la vita quotidiana era governata da semplici fattori. La
disponibilità di cibo e risorse, per esempio, era una preoccupazione costante (anche se la penuria
non impediva agli uomini di combattere); la prospettiva di un bottino di qualsiasi tipo, ma
soprattutto alimentare, era sempre possibile, e il saccheggio era praticato da ogni esercito, a
cominciare da quello tedesco durante l’invasione della Polonia nel 1939 . Anche delle gratifiche
109

modeste, per quanto banali, potevano avere un impatto importante sul morale di ciascuna piccola
unità. I considerevoli sforzi compiuti dall’esercito britannico per rifornire di tè pure i fronti piú
remoti consentivano la regolare preparazione dell’infuso, con grande stupore dei soldati
americani e del Commonwealth che osservavano allibiti i militari britannici mentre sorbivano il
loro tè perfino nei momenti dello scontro armato. Le autorità sovietiche, dal canto loro, avevano
deciso che la distribuzione in massa di fisarmoniche avrebbe potuto avere un effetto edificante
sulle truppe stanche e abbattute . I soldati, inoltre, ogni volta che riuscivano a reperirne qualche
110

quantità, si appropriavano ovunque di alcolici e droghe per smorzare gli effetti della paura. I
combattenti sovietici potevano bere alcol o liquido antigelo fino a morirne; in Italia, i militari
dell’esercito alleato potevano contare su una stabile fornitura di stupefacenti illeciti che
arrivavano dai porti del Medio Oriente; i soldati giapponesi scolavano abbondanti quantità di
alcol distribuito dall’esercito per attutire gli orrori del campo di battaglia . Per uomini
111

solitamente lontani da casa, anche la deprivazione sessuale era un problema. Gli eserciti
chiudevano un occhio sulla prostituzione locale o istituivano bordelli controllati e distribuivano
profilattici per scongiurare epidemie di malattie veneree. L’esercito giapponese permise la
spietata creazione di centri di schiavitú sessuale in tutta la Cina e nel Sud-est asiatico, dove le
cosiddette comfort women erano tenute di fatto prigioniere e regolarmente violentate dai soldati
del Sol Levante, mentre per quanto riguarda i soldati dell’Armata Rossa, la loro sete predatoria
di bottino sessuale è risaputa (entrambi questi casi sono analizzati in modo piú approfondito nel
capitolo seguente) . Anche se la ricerca di uno sfogo sessuale non si limitava agli uomini celibi,
112

quelli sposati affrontavano una serie di problemi emotivi se si univano ai compagni. L’ansia per
mogli e famiglie, spesso molto lontane, senza alcuna prospettiva di licenze, era considerata uno
degli aspetti piú demoralizzanti della vita quotidiana dei militari. Le donne americane erano
soggette a forti pressioni da parte dell’opinione pubblica affinché rimanessero fedeli ai loro
compagni mandati oltreoceano, ma con risultati palesemente contrastanti. A gennaio del 1945, la
Croce Rossa americana rimproverò pubblicamente quei civili che spedivano ai soldati al fronte
lettere in cui denunciavano l’infedeltà delle mogli – missive che non potevano che minare il
morale dei militari. Si fecero inoltre enormi sforzi per sostenere il flusso postale tra il paese di
origine e il fronte. In Germania fu organizzato uno speciale servizio espresso affinché le famiglie
in patria potessero rassicurare gli uomini in prima linea di essere sopravvissute ai
bombardamenti. Sembra che la mancanza di posta, oppure le lettere che portavano cattive notizie
da casa, avessero sul morale della truppa un effetto piú debilitante che la prospettiva di un
imminente combattimento . 113

Tra le piccole ansie e i piaceri della vita militare quotidiana, uomini e donne sviluppavano dei
meccanismi di vario tipo per affrontare la realtà. Superstizioni e talismani erano diffusi in tutte le
forze armate. I marinai dei sommergibili americani portavano con sé piccole statuine del Buddha
e prima del combattimento si massaggiavano il ventre come gesto apotropaico. A volte, si
trovavano militari convinti che un certo oggetto portafortuna avrebbe garantito loro
l’invulnerabilità. Benché fosse opinione degli psichiatri che tale genere di convinzione fosse un
pericoloso segno di imminente crisi psicologica, simile al torpore fatalistico con cui altri pazienti
psichiatrici contemplavano la propria morte, le superstizioni riuscivano evidentemente ad aiutare
alcuni individui a far fronte allo stress a cui dovevano costantemente resistere . Per altri, anche
114

se non tutti, la religione delle forze armate assunse un’importanza crescente come mezzo per
fronteggiare le paure suscitate dal combattimento. I soldati giapponesi sapevano che il loro
sacrificio in battaglia aveva un fondamentale significato religioso, sebbene resti alquanto
dubbioso che ciò rendesse piú facile affrontare la prospettiva della morte. Nell’esercito sovietico,
il sentimento religioso era escluso dall’ideologia comunista, ma durante la guerra Stalin allentò
la campagna contro la pratica di fede, le chiese furono riaperte e si attenuarono i violenti attacchi
degli atei contro le affermazioni della religione. Per il soldato dell’Armata Rossa, in ogni caso,
Dio non era la prima corte a cui appellarsi. In Germania, l’ostilità del regime nei confronti della
religione ebbe un riflesso nella battaglia che l’alto comando dell’esercito dovette affrontare per
concedere l’ingresso di cappellani nelle unità militari. Alla fine ne furono reclutati circa 1000 per
un esercito di sei milioni di uomini, per di piú con un accesso al fronte controllato
arbitrariamente . Che la religione fosse importante per i soldati semplici risulta evidente dalle
115

poche lettere spedite da Stalingrado e ancora disponibili, in cui gli appelli alla Provvidenza
divina si mescolavano ad affermazioni secondo cui l’esperienza della guerra aveva infranto ogni
fede.
Gli eserciti dell’America e del Commonwealth britannico potevano contare su un numero di
cappellani molto maggiore, né vi era alcun pregiudizio nei confronti della pratica religiosa. Le
forze armate degli Stati Uniti avevano 8000 cappellani appartenenti a una vasta gamma di
confessioni; le forze britanniche ne avevano 3000 e l’esercito canadese, di gran lunga piú
piccolo, 900. I pastori britannici tenevano regolarmente delle letture durante «l’ora del Padre»,
una delle quali era stata intitolata, forse in modo illuminante, Possiamo credere
nell’immortalità? Nel 1941, la trasmissione della BBC Radio Padre aveva sette milioni di
ascoltatori. I cappellani americani erano sommersi di richieste di conforto e sostegno, tanto che
alcuni arrivavano a tenere fino a cinquanta colloqui al giorno; il generale Eisenhower ribadí che
la «consolazione della fede» avrebbe dovuto essere inserita tra i protocolli della medicina
militare. I sondaggi effettuati nel 1943-44 tra i militari americani rilevarono che il 79 per cento
degli intervistati affermava che la loro fede in Dio si era rafforzata come conseguenza della
guerra. Secondo un altro sondaggio condotto tra le truppe in Europa, il 94 per cento dei soldati
pensava che la preghiera fosse di grande aiuto per far fronte allo stress del combattimento . 116

L’ovvio fascino che una «religione da trincea» esercitava sulle reclute di un paese con una forte
cultura religiosa sollevò la questione se i soldati, in un momento di crisi, fossero capaci di quella
che un cappellano definí «la vera preghiera», anche se il reale problema dei combattenti non era
il grado della loro fede, bensí fino a che punto la preghiera poteva temporaneamente migliorare
lo stato di paura cronica che sperimentavano in battaglia. Le ricerche effettuate alla fine della
guerra confermarono il legame tra preghiera e stress . Essa era uno dei tanti modi con cui coloro
117

che sopravvivevano al fronte e continuavano a combattere potevano attutire i debilitanti effetti


psicologici della guerra.
La vita emotiva sul fronte interno.
La popolazione civile degli stati belligeranti, tra cui erano reclutate le forze armate, si trovò a
sostenere la propria parte di pressioni emotive, benché gli storici vi abbiano dedicato molta meno
attenzione rispetto agli aspetti psicologici dello stato d’animo dei combattenti. La paura e
l’incertezza erano onnipresenti, seppure condivise in modi diversi e di rado come una condizione
emotiva persistente. Ansia da separazione, paura di ricevere notizie di familiari morti o feriti,
rabbia contro il nemico e disperazione per il futuro si mescolavano alla quotidiana realtà emotiva
della vita domestica. Il grado di pericolo o privazione variava ampiamente: anche se la società
americana non fu mai colpita direttamente dalla guerra, nel 1939 l’American Psychiatric Society
si era preparata ad aiutare la popolazione ad affrontare «l’insicurezza e la paura» provocate dalla
guerra, mentre nel 1940 un gruppo di accademici aveva istituito un Committee for National
Morale che doveva contribuire a creare «un senso di unità emotiva profondo e duraturo» . La 118

società sovietica, dall’altro lato, si trovava immersa unicamente nella lotta per sopravvivere a
interminabili ore di lavoro, scarse scorte di cibo e una prima linea che assorbiva la grande
maggioranza degli uomini. Tra queste due situazioni opposte vi erano gli stati le cui popolazioni
civili erano sottoposte a campagne di bombardamenti che trasformavano il fronte interno in una
sorta di prima linea. Le popolazioni urbane di Gran Bretagna, Germania, Italia e Giappone
subirono pesanti bombardamenti per lunghi periodi della guerra (con un numero complessivo di
morti tra i civili pari a circa 750 000 persone); la Francia e gran parte del resto dell’Europa sotto
il controllo dell’Asse dovettero sostenere il bombardamento di obiettivi prevalentemente
industriali o tattici, ma di tale portata da rendere inevitabili pesanti perdite anche tra la
popolazione. Nel corso della guerra, circa un milione di civili rimase ucciso dagli ordigni lanciati
dagli aerei, e circa lo stesso numero restò gravemente ferito per le ragioni già analizzate piú a
fondo nell’ottavo capitolo . Solo le condizioni dei campi di concentramento e le deportazioni
119

generavano un’esperienza emotiva psicologicamente devastante quanto quelle dei ripetuti


bombardamenti aerei.
Prima dell’inizio della guerra mondiale nel 1939 si era ampiamente ipotizzato che in qualsiasi
conflitto futuro il morale dei civili sarebbe stato probabilmente uno degli obiettivi da colpire e
che i pesanti bombardamenti delle aree urbane, con un misto di bombe convenzionali, uso di gas
e armi biologiche, avrebbero costretto la popolazione terrorizzata a forzare la mano del governo
perché chiedesse la pace. Gran parte della letteratura popolare sulla guerra futura poneva in
evidenza la vulnerabilità psicologica dei civili, che, privi di addestramento militare, non avevano
modo di reagire, per cui ci si aspettava che fossero facilmente suscettibili al panico di massa e al
crollo emotivo. I governi erano consapevoli sia del potenziale danno di cui qualsiasi sforzo
bellico futuro avrebbe sofferto se la popolazione civile fosse stata soggetta a bombardamenti sia,
in particolare, del pericolo che i lavoratori terrorizzati potessero abbandonarsi a una forma di
«diserzione economica», fuggendo dalle fabbriche minacciate e minando cosí l’economia di
guerra. Si fecero ovunque dei preparativi di protezione civile e si installarono difese antiaeree,
oltre a prevedere un sostegno assistenziale e un rifugio per le comunità in pericolo e allertare i
servizi sanitari per una possibile ondata di patologie psichiatriche legate ai bombardamenti. Gli
psicologi della Gran Bretagna e della Germania sostennero l’idea che un bombardamento
avrebbe provocato, oltre a lesioni fisiche, un crollo emotivo e che gli ospedali psichiatrici si
sarebbero dovuti svuotare dei normali pazienti per fare spazio alle vittime della guerra .
120

Quando nel 1940 ebbero inizio i regolari bombardamenti strategici su lunghe distanze, le
conseguenze emotive sembrarono risultare molto meno gravi di quanto si fosse previsto. Le
popolazioni delle città non caddero nel panico di massa né gli ospedali psichiatrici si riempirono
di pazienti con gravi disturbi psichici. Durante il Blitz dei bombardamenti tedeschi sulla Gran
Bretagna, psicologi e psichiatri cominciarono a studiare i motivi per cui si registravano cosí
pochi disordini mentali cronici o persistenti . Una ricerca condotta su 1100 persone che
121

cercavano regolarmente riparo negli stessi rifugi di Londra rilevò che solo l’1,4 per cento
manifestava prolungati problemi psicologici. Un funzionario del Mental Health Emergency
Committee britannico che aveva visitato le aree dell’East End, duramente colpito nel settembre
del 1940, non riuscí a trovare «nessun caso evidente di disturbo emotivo» . Quando il ministero
122

della Sicurezza Interna organizzò un sondaggio sulla salute mentale dei cittadini del porto di
Hull, pesantemente bombardato nel 1941, gli psichiatri riferirono di non essere riusciti a
individuare quasi nessuna prova di «isteria» (la condizione patologica piú comunemente
prevista) e conclusero che la gente di quella cittadina portuale era mentalmente stabile . La 123

maggior parte degli psichiatri britannici presumeva che i pochi che avevano avuto effettivamente
un crollo psichico manifestavano, al pari delle reclute dell’esercito, una predisposizione naturale
al cedimento emotivo. Uno studio sulla «paura delle incursioni aeree» confermò che quei rari
pazienti psichiatrici ricoverati in ospedale presentavano tutti una precedente anamnesi di disturbi
nevrotici . Si osservò inoltre che alcuni casi psicotici subivano un peggioramento a causa dello
124

stress da bombardamento; quanti erano affetti da forme di masochismo, cosí si diceva, godevano
effettivamente della minaccia fisica ai loro corpi . Lo stesso fenomeno si manifestò tra altre
125

popolazioni bombardate. In Germania, gli psichiatri intervistati nel 1945 nel corso del sondaggio
americano sui bombardamenti confermarono che nelle loro cliniche erano stati
straordinariamente rari i casi di «malattie neurologiche organiche o disturbi psichiatrici». Anche
i ricercatori giapponesi scoprirono che dopo il lancio delle due bombe atomiche non si erano
verificati livelli eccezionali di depressione, ma solo un continuo stato di apprensione. Durante
l’intera campagna di bombardamenti sul Giappone, i ricoveri per trattamenti psichiatrici erano
stati insignificanti, esattamente com’era avvenuto in Gran Bretagna e Germania . 126
L’apparente assenza di disturbi cronici e di alti livelli di ospedalizzazione mascherava una realtà
molto piú dura. Per una serie di motivi, la vera entità delle sofferenze psichiche causate dai
bombardamenti venne sottovalutata proprio da coloro che avrebbero avuto un interesse
professionale a valutarla. Questo, in parte, accadde perché era tale il numero degli psichiatri
reclutati nelle forze armate che a monitorare il resto della popolazione ne era rimasto un gruppo
decisamente esiguo. A differenza della maggiore attenzione riservata alla psichiatria militare
durante la guerra, non vi era stato alcun provvedimento regolare in favore della popolazione
civile, anzi quest’ultima era vivamente scoraggiata dal sovraccaricare il sistema ospedaliero
esistente. In Gran Bretagna, certi psichiatri piú anziani ritenevano addirittura che la popolazione
civile fosse troppo incline a esagerare i propri sintomi e che una tazza di tè e una bella ramanzina
sarebbero stati rimedi piú che sufficienti . Di conseguenza, la maggior parte dei civili divenuti
127

temporaneamente dei pazienti psichiatrici, o in preda a gravi reazioni psicosomatiche o anche a


disturbi piú prolungati, visse in solitudine le sue crisi emotive. Al pari dei soldati, molte delle
reazioni da stress erano trattate come se avessero un’origine organica anziché psicologica, e i
pazienti, di fatto, venivano registrati nei reparti di medicina generale. Secondo un sondaggio
britannico condotto su cento persone che abitavano in due strade di Bristol che erano state
bombardate, un’alta percentuale soffriva di reazioni somatiche che si presumeva potessero essere
trattate con i farmaci normalmente prescritti, mentre alcuni dei cittadini con evidenti reazioni
psichiatriche si vergognavano troppo per ammettere la loro condizione . 128

In Gran Bretagna, tali pazienti erano classificati come affetti da «nevrosi traumatica
temporanea», in Germania, da «fugaci sintomi reattivi». Il loro numero è impossibile da
calcolare (uno psicologo britannico ha suggerito che i casi fossero almeno cinque volte superiori
a quelli osservati), ma ciò che l’evidenza ci suggerisce è che la reazione emotiva ai
bombardamenti si tradusse in diffuse affezioni psichiatriche, seppure spesso temporanee. Al pari
dei soldati, i civili che secondo gli psichiatri erano possibili pazienti con disturbi psicologici non
erano quelli necessariamente piú predisposti, bensí quelli che avevano vissuto l’esperienza di
«esserci andati molto vicini» – persone rimaste sepolte sotto le macerie, oppure con la casa
distrutta o la famiglia uccisa. Il coinvolgimento personale rappresentava un fattore critico
nell’innesco di gravi reazioni emotive, un fattore confermato anche dai medici tedeschi
intervistati dopo la guerra . I sintomi dei civili somigliavano per certi versi a quelli dei soldati
129

sottoposti a pesanti bombardamenti o lanci di granate: tremore irrefrenabile, perdita del controllo
della vescica, disturbi sensoriali e motori, stati confusionali, depressione maggiore e, tra le
donne, amenorrea. Erano comuni reazioni psicosomatiche che portavano a mutismo temporaneo,
perdita dell’udito, paralisi di gambe o braccia o perfino, come nel caso tedesco, una vera
epidemia di ulcera peptica . Nonostante le ottimistiche conclusioni degli psichiatri, le
130

testimonianze raccolte durante lo studio del porto di Hull evidenziavano un ampio spettro di
disturbi emotivi. Alcune donne riferivano di essere soggette a svenimenti, perdite di urina o
vomito non appena sentivano il suono delle sirene dell’allarme aereo; gli uomini accusavano
grave dispepsia, insonnia, depressione, alcolismo e irritabilità. La maggior parte degli abitanti di
Hull si era rifiutata di vedere un medico e gli uomini erano tornati al lavoro entro qualche giorno
o settimana, nonostante il loro stato di ansia . A Hull, come in tutte le altre città bombardate, i
131

danni causati a livello psichiatrico dai bombardamenti erano affrontati quali cedimenti
individuali, gli stessi che lo scrittore James Stern, uno degli americani reclutati nella squadra che
intervistava le vittime dei bombardamenti tedeschi, definí come «danni invisibili» . Alcune132

ricerche del dopoguerra, per esempio quella condotta da Stern in Germania su donne che
venivano colte da tremore e pianto a ogni rumore improvviso, rilevarono che, tra i civili, gli
effetti di un’intensa esperienza traumatica erano di lunga durata. I medici che lavoravano a
Leningrado nel 1948 diagnosticarono la «sindrome ipertensiva» tra quanti erano sopravvissuti al
lungo assedio della città, durante il quale l’insieme di fame, bombardamenti aerei e granate
aveva provocato, com’era da aspettarsi, gravi traumi psichici .133

Ciò che piú preoccupava i governi era tuttavia in che misura le reazioni della psiche ai
bombardamenti avrebbero potuto provocare il panico di massa e una rapida caduta del morale. In
realtà, i bombardamenti non divennero un elemento socialmente invalidante neppure nelle
situazioni piú gravi. La paura generata dall’attesa e dalla realtà dei bombardamenti generava sí
momenti transitori di panico, che si esprimevano tuttavia sotto forma di un comprensibile
desiderio di fuggire dal pericolo immediato – opzione, questa, raramente disponibile per i soldati
sul campo. Nei casi di bombardamenti particolarmente pesanti, la popolazione fuggiva dalle città
riversandosi nelle campagne e villaggi circostanti, attuando quindi una scelta indotta dalla
ragione piú che dal panico. Questo accadde per esempio nelle città britanniche, in particolare
nelle conurbazioni piú piccole pesantemente colpite durante il Blitz, come Southampton, Hull,
Plymouth o Clydebank; ciò accadde anche nelle città della Germania in cui la fuga della
popolazione non certo ben accetta alle autorità si rivelò inevitabile nel breve termine; lo stesso
fenomeno si registrò altresí nel 1945 nelle città del Giappone, i cui abitanti cercarono scampo
dalle bombe incendiarie fuggendo nelle campagne. In ogni paese bombardato furono introdotti
ufficialmente dei programmi di evacuazione, affinché la fuga non si trasformasse in un’autentica
crisi sociale. In Gran Bretagna venne evacuato circa un milione di donne e bambini; le stime
riguardanti l’Italia parlano di 2,2 milioni di persone, mentre in Germania, verso la fine del
conflitto, il dato era di quasi nove milioni e in Giappone di otto milioni. I timori che quei grandi
trasferimenti di popolazione potessero minare l’economia di guerra si rivelarono infondati. Le
ricerche sulla forza lavoro britannica rilevarono che quasi tutti i lavoratori rientravano nelle
fabbriche pochi giorni dopo un’incursione, pur facendo quotidianamente la spola da pendolari tra
il posto di lavoro e le campagne vicine. In Germania, i pesanti e continui bombardamenti del
1943 e del 1944 non produssero alti livelli di assenteismo. Solo il 2,5 per cento delle ore di
lavoro perse era direttamente imputabile ai bombardamenti; in realtà, tra marzo e ottobre del
1944, il monte ore complessivo relativo ai settori dell’economia di guerra aveva addirittura
registrato un aumento, anche se non dobbiamo dimenticare che gran parte della manodopera
introdotta nel 1944 era composta da stranieri o da prigionieri dei campi di concentramento,
costretti a lavorare anche durante le incursioni aeree .
134

Le città bombardate non crollarono come unità sociali ed economiche per una serie di ragioni.
Innanzitutto, le autorità avevano avuto un ruolo preciso nel dare vita a dei «regimi emotivi» che
incoraggiavano i civili ad accettare i sacrifici della guerra ed evitare di esibire stati psicologici
potenzialmente demoralizzanti. Tali regimi divergevano l’uno dall’altro, essendo in effetti un
diretto riflesso di differenze culturali molto specifiche esistenti tra gli stati belligeranti. In
Giappone, la cultura della morte e del sacrificio pervadeva l’impegno del governo nel creare tra i
civili un impegno emotivo verso lo sforzo bellico pari a quello delle forze combattenti . In Gran
135

Bretagna, il tropo dominante della propaganda organizzata durante il Blitz – con frasi come «la
Gran Bretagna può farcela» – faceva leva sullo stereotipo inglese di una placida determinazione
di fronte a qualsiasi crisi. Le immagini delle città bombardate mostravano le persone che al
mattino camminavano per strada per andare al lavoro tra le macerie, oppure donne sorridenti che
vendevano il tè in tazzoni rotondi . In Germania, la dittatura enfatizzava il fatto che i civili erano
136
legati ai soldati nella cosiddetta Schicksalsgemeinschaft, una «comunità unita dal destino» in cui
le ansie personali dovevano essere messe da parte in nome della lotta per l’esistenza della
nazione. Le immagini di propaganda ritraevano la cupa determinazione delle persone di fronte ai
sacrifici condivisi dalla collettività e una morbosa ossessione per una morte eroica. La
Wehrmacht rifiutava di congedare i soldati con disturbi psicotici per l’effetto che avrebbe potuto
avere sulla popolazione civile qualora fosse divenuta visibile la realtà di un collasso tutt’altro che
eroico. Anche il regime sovietico rimarcava il sacrificio collettivo e l’impresa eroica, ma lo
faceva in modi che evitavano la morbosità del nemico tedesco . 137

La morte, benché sempre presente tra i civili sotto i bombardamenti e le famiglie dei soldati al
fronte, veniva tenuta a distanza emotiva da funerali accuratamente programmati per esprimere
non tanto un dolore pubblico quanto la determinazione di un popolo. In Giappone, intere
comunità celebravano lo «spirito eroico» dei caduti con rituali scenograficamente elaborati. Le
immagini dei civili morti erano censurate, mentre in Gran Bretagna, durante i bombardamenti, il
numero delle vittime veniva deliberatamente celato o diminuito, evidentemente per evitare il
panico di massa . Ogni manifestazione di isteria emotiva era disapprovata, e quando esse si
138

verificavano nei rifugi antiaerei, il personale della protezione civile era caldamente invitato ad
allontanare i trasgressori. I «regimi emotivi» divennero un modello per le popolazioni civili, in
base al quale era possibile mettere alla prova la propria capacità di resistenza passiva e stabilità
emotiva. In realtà, la misura in cui gli individui potevano adeguare il proprio stato psicologico
nel rispetto delle regole sociali del tempo di guerra variava ampiamente, ma il quadro normativo
forniva comunque l’impalcatura che reggeva la costruzione di uno stato d’animo positivo. La
necessaria congruenza tra immagine pubblica e comportamento individuale era imposta
attraverso le pressioni sociali e la pratica ufficiale, sicché coloro che non riuscivano a far fronte
allo stress diventavano dei devianti emotivi, che dovevano essere aiutati o rimessi in riga al pari
dei soldati combattenti.
Anche l’aiuto materiale era essenziale per far fronte alle conseguenze dei bombardamenti. A
Hull, gli psichiatri conclusero che «la stabilità della salute mentale della popolazione dipende in
grande misura dal loro stato nutrizionale». Gli sforzi da parte dello stato per fornire cibo,
assistenza, compensazioni e programmi di riabilitazione si rivelarono in genere in grado di
funzionare abbastanza bene da prevenire la diffusione di proteste sociali o demoralizzazione. Per
le vittime direttamente colpite, era attiva – seppure in modo perlopiú casuale – una forma di
«psichiatria di prima linea», con centri di recupero e primo soccorso che fornivano cibo, riposo e
l’opportunità di parlare della peggiore esperienza che le persone avessero vissuto, anche se non
era previsto alcun reale trattamento di natura psichiatrica. In Gran Bretagna, gli psichiatri
adottavano perlopiú un approccio poco sensato nei confronti dei civili sofferenti, suggerendo
forme banali di «primo soccorso mentale», come parole ferme e una pacca sulla spalla. Anche se
la vera priorità era nascondere agli altri la paura, gli individui piú agitati potevano essere calmati,
cosí almeno si sosteneva, con un pacchetto di biscotti o dolci, o con un sorso di brandy . Anche i
139

rifugi antiaerei municipali erano considerati una sorta di piccole comunità di autoaiuto, in cui la
paura sarebbe stata smussata grazie alla cooperazione nell’organizzare un’attiva vita comunitaria
sotterranea. I rifugi antiaerei erano considerati dagli psicologi come siti «psicoterapeutici»
perfino nelle zone piú pesantemente bombardate della Germania, utili al controllo delle emozioni
e ad aiutare coloro che avevano subito un tracollo, tutto al fine di eliminare le conseguenze della
paura e dello shock . Gli psichiatri notarono che i civili soggetti a regolari bombardamenti
140

avevano sviluppato la capacità di abituarsi all’esperienza, a differenza di quanti vivevano di


continuo i combattimenti in prima linea, in cui la ripetuta esposizione al trauma poteva produrre
l’effetto opposto. I sondaggi condotti nel dopoguerra in Germania rilevarono che il 66 per cento
degli intervistati affermava di provare la medesima paura, o perfino meno, dopo essere stati
bombardati, mentre solo il 28 per cento riferiva di avere piú paura . Quando durante il Blitz
141

venne chiesto agli inglesi quale fosse la loro peggiore paura, fu messa al primo posto la minaccia
alle scorte di cibo; i bombardamenti furono classificati come la peggiore paura solo dal 12 per
cento della popolazione nel novembre del 1940 e dall’8 per cento quattro mesi dopo . 142

Come i soldati sul campo, molti civili ricorrevano a diversi meccanismi per reagire alla paura,
che comprendevano forme di superstizione, fede nella forza dei talismani o anche una notevole
dose di fatalismo o apatia riguardo alle reali prospettive di sopravvivenza. Ai civili giapponesi
era stato detto di mettersi una cipolla sulla testa per scongiurare la minaccia delle bombe; i
negozi della Gran Bretagna erano zeppi di amuleti e ciondoli portafortuna. Nel 1941, un
sondaggio condotto dall’organizzazione Mass-Observation sulle superstizioni rilevò che l’84 per
cento delle donne intervistate e il 50 per cento degli uomini ammettevano di subirne l’influenza . 143

Tra le superstizioni predominanti in Germania e in Italia vi era l’idea che la popolazione civile
fosse punita per i crimini dei loro regimi e che soltanto un «buona condotta» poteva tenere
lontani i bombardieri. In Italia esisteva una potente credenza superstiziosa secondo cui un aereo
solitario, di provenienza non meglio specificata, soprannominato «Pippo», sorvolava le città
della penisola alla ricerca di malfattori da punire, oppure, in base ad altri racconti, lanciava una
sorta di allarme per un’incursione imminente . I civili sotto i bombardamenti potevano anche
144

affrontare le loro paure con fatalismo, sia nella convinzione che la bomba «a loro destinata» non
potesse essere evitata, sia adottando un meccanismo psicologico descritto da uno psichiatra come
«stato di invulnerabilità», in virtú del quale gli individui andavano irrazionalmente incontro ai
rischi attribuendo la loro personale sopravvivenza a una forza sovrannaturale . 145

Alla fine, alcuni civili, al pari dei soldati, arrivarono ad affidarsi con maggiore convinzione alla
fede, intesa come unico elemento di salvezza e consolazione sotto la grandine delle bombe. Nei
diversi paesi, gli osservatori riscontrarono un’accresciuta presenza nelle chiese, oppure una piú
profonda adesione alla preghiera, benché gli stessi bombardamenti inibissero la pratica religiosa
distruggendo i luoghi di culto e disperdendo le congregazioni. In Germania, Hitler decretò che
non si potevano celebrare funzioni religiose in momenti che contrastavano le priorità della
protezione civile o le attività di normalizzazione successive alle incursioni aeree. Nel 1943, i
vescovi della Renania presentarono al Führer una petizione affinché allentasse le restrizioni, in
modo da aiutare la gente ad affrontare «l’enorme e crescente tensione psicologica» provocata
dalle incursioni, ma Hitler oppose un netto rifiuto . Negli anni Quaranta, la Gran Bretagna era un
146

paese troppo laico perché la religione potesse svolgere un ruolo analogo e, nonostante si sappia
di momenti di «preghiera per la difficile situazione» e di un National Day of Prayer da celebrarsi
ogni mese di settembre, dal 1942 in poi si osservò un netto declino della presenza nelle chiese . 147

La religione assumeva un piú profondo carattere consolatorio nelle comunità cattoliche, dove la
cultura del conforto della preghiera, degli appelli all’aiuto divino e dell’intervento dei santi si era
facilmente adattata alle condizioni della guerra di bombardamento. Nelle città italiane piú
minacciate, le famiglie allestivano piccoli altari consacrati alla Madonna e ai santi del luogo
nella speranza di scongiurare il pericolo delle bombe; si recitavano preghiere create
appositamente per la guerra aerea che chiedevano l’intercessione della Vergine Maria per
respingere i bombardieri. Se capitava che delle statue della Madonna restassero intatte tra le
macerie, i fedeli lo consideravano un miracolo. A Forlí, nel Nord Italia, 40 000 persone sfilarono
in processione davanti alla Madonna del Fuoco, rimasta intatta dopo i bombardamenti. Il
movimento mariano accrebbe il suo richiamo sia in Germania sia in Italia. Quando una ragazza
di un paesino vicino alla città di Bergamo affermò di avere avuto tredici visioni della Madonna,
decine di migliaia di italiani accorsero sul luogo sperando di trovare protezione, consolazione o
addirittura la promessa della fine della guerra. La politica ufficiale tendeva a ridimensionare le
testimonianze di visioni e miracoli, ma per molti cattolici italiani sotto i bombardamenti la
Chiesa sostituí lo stato come principale fonte di aiuto, sia pratico sia psicologico .
148

Al limite estremo dello spettro di sofferenze dei civili vi erano i milioni di persone travolte nel
vortice di deportazioni, uccisioni genocide, atrocità di massa e battaglie sullo sterminato
territorio del conflitto tedesco-sovietico. Sul fronte orientale non vi era nessuna «psichiatria di
prima linea», nessun tentativo di scongiurare la viva sofferenza dello stress post-traumatico nella
sua forma piú acuta, nessun «regime emotivo» né alcuna gestione dei casi di disturbi psichici.
«La morte regna sovrana», scrisse un sopravvissuto nella città di Leningrado, stretta nella morsa
dei bombardamenti e della fame. «La morte è diventata un fenomeno osservabile a ogni angolo
di strada. La gente ci si è abituata. È apatica. […] La sensazione è che la pietà sia svanita. A
nessuno importa piú» . Possiamo farci una qualche idea delle condizioni emotive e psicologiche
149

dei milioni di vittime dalle memorie dei sopravvissuti, o dalle testimonianze orali, dai diari e
lettere dei contemporanei, ma non era certo una preoccupazione degli autori di quelle immense
violenze che milioni di morti non avessero lasciato dietro di sé alcuna traccia. Agli storici non
rimangono che documenti sommari per tracciare un modello delle reazioni traumatiche che si
registrarono allorché una violenza senza mediazioni, diversa da quella in qualche modo
controllata del campo di battaglia, spinse le persone ai limiti piú primitivi del comportamento
umano. «Ormai siamo tornati alla preistoria», scriveva nel suo diario lo stesso sopravvissuto di
Leningrado .150

In Unione Sovietica, agli psichiatri fu concessa un’inaspettata opportunità di cogliere l’entità dei
danni emotivi quando l’Armata Rossa liberò le regioni sovietiche occidentali che avevano
sperimentato per due anni o piú l’occupazione tedesca. I medici si concentrarono sulle condizioni
dei bambini, migliaia dei quali erano stati profondamente traumatizzati dalla violenza degli
occupanti. Il terrore era stato sperimentato direttamente non solo dalla popolazione adulta, ma
anche dai piú piccoli. Gli occupanti tedeschi trattavano i giovani, perfino i giovanissimi di nove
o dieci anni, come sospetti partigiani o potenziali lavoratori forzati, potevano ucciderli per puro
divertimento oppure, nel caso delle ragazze, segregarle nei loro bordelli da campo. Molti
bambini rimasti orfani erano costretti a vivere per le strade e rubare cibo, divenendo cosí un
ennesimo bersaglio di sconsiderati maltrattamenti da parte degli occupanti . Era questa 151

l’esperienza di vita quotidiana di milioni di persone soggette all’occupazione e finite nel fuoco
incrociato della guerra. Nelle zone liberate, i medici sovietici presero a trattare i casi piú disperati
di collasso psichiatrico e scoprirono bambini che avevano assistito all’uccisione dei genitori o
dei vicini di casa, che erano fuggiti dalle loro abitazioni in villaggi i cui abitanti erano stati tutti
bruciati vivi, o che avevano assistito a scene di tortura e mutilazioni. Un importante studio
condotto nel 1943-44 rilevò che i bambini vivevano in «un costante stato di paura e ansia» che si
esprimeva sia attraverso i consueti sintomi dell’ansia – svenimenti, sonnambulismo, bagnare il
letto, mal di testa, estrema irritabilità – sia con reazioni somatiche come paralisi, tic nervosi,
balbuzie, mutismo o stati catalettici. I rapporti mostravano che i pazienti piú piccoli
rispondevano abbastanza bene al riposo e a un ambiente circostante sicuro, anche se le sindromi
reattive risultavano persistenti. Un forte rumore o un’esplosione poteva provocare attacchi di
nausea, defecazione involontaria, tremori e sudorazione intensa, cioè reazioni molto simili a
quelle osservate tra i civili all’indomani dei bombardamenti, o tra soldati psichicamente devastati
dal combattimento . Reazioni psicogene alla paura estrema continuarono a manifestarsi molto
152

tempo dopo che il pericolo era passato, ma le unità psichiatriche sovietiche soffrivano di troppe
carenze di risorse e personale per poter curare piú di una frazione di quanti avevano patito piú
gravemente.
Un piccolo numero di bambini sovietici erano ebrei scampati allo sterminio, ma nel 1945 era
ancora viva appena una minima parte di quanti avevano sofferto l’Olocausto – i cosiddetti Sh’erit
HaPleta, i «restanti sopravvissuti» della Shoah. Sembra che vennero compiuti ben pochi sforzi
per curare o studiare lo stato emotivo di quei sopravvissuti, dato che nella maggior parte dei casi
i loro bisogni apparivano di natura medica piú che psicologica, senza contare che la cultura della
«liberazione», seppure di scarso significato per i prigionieri dei campi affamati e disorientati, finí
per creare l’illusione che le esperienze traumatiche fossero ormai alle spalle . A un «concerto per 153

la liberazione» tenuto tre settimane dopo la fine della guerra in Europa, Zalman Grinberg, che
lavorava in un ospedale pieno di pazienti ebrei, cercò di cogliere lo stato emotivo di coloro che
avevano superato l’inferno:
Apparteniamo a coloro che sono stati gasati, impiccati, torturati, affamati, tormentati e fatti lavorare fino alla morte nei campi di
concentramento. […] Noi non siamo vivi. Siamo ancora morti. […] Ci sembra che per ora l’umanità non riesca a capire quello
che abbiamo passato e vissuto in questo periodo. E ci sembra che neppure noi saremo capiti in futuro. Abbiamo disimparato a
ridere; non sappiamo piú piangere; non comprendiamo la nostra libertà; questo probabilmente perché siamo ancora tra i nostri
compagni morti154.
I sopravvissuti provavano anche sentimenti di colpa o vergogna per essere vivi mentre la grande
maggioranza era stata uccisa – emozioni che si mescolavano con l’angoscia di scoprire, spesso
molto tempo dopo, che familiari o amici erano invece morti. Nei campi per sfollati (DP,
displaced persons), gli ebrei sopravvissuti, costretti in un primo tempo in condizioni
demoralizzanti, vivevano, a detta di un osservatore, in «un perenne stato di paura, ansia e
incertezza». I funzionari che cercavano di gestire i campi riscontravano tra i sopravvissuti chiari
esempi di comportamento distruttivo, nevrotico e non collaborativo, come bagnare il letto,
regressione infantile, piccoli furti e scarsa igiene – un evidente riflesso della reazione della
psiche ai gravi traumi subiti e alla continua incertezza . La testimonianza piú sorprendente dei
155

campi allestiti per gli ebrei sopravvissuti è quella di un’energica ripresa della cultura e della
comunità ebraica. Benché le ansie legate ai danni psichiatrici dei campi potessero causare
impotenza o uno stato permanente di amenorrea, nel 1948 il tasso di natalità tra i sopravvissuti ai
lager era tra i piú alti del mondo, superiore di sette volte a quello dei tedeschi sopravvissuti alla
guerra .156

Dopo la fine della guerra, dovette passare un anno prima che gli psicologi fossero autorizzati a
visitare i campi per sfollati della Germania, che ospitavano ora la grande maggioranza degli ebrei
sopravvissuti. L’Occidente aveva mostrato un maggiore interesse nel cercare di comprendere lo
stato emotivo degli autori delle violenze, identificando e descrivendo la mente nazista, piuttosto
che nel definire ciò che le persecuzioni avevano significato in termini emotivi per le vittime . Ad 157

aprile del 1946, lo psicologo polacco Tadeusz Grygier, desideroso soprattutto di studiare
«l’impatto dell’oppressione sulla mente umana», fu autorizzato a riunire come oggetto della sua
ricerca un gruppo di ex prigionieri di campi e lavoratori forzati, ma gli ebrei sfollati respinsero la
richiesta, un esito che Grygier ricondusse all’influenza dell’«estrema oppressione» vissuta . Nel 158

luglio dello stesso anno, anche lo studioso russo-americano di psicologia fisiologica David Boder
(nato Aron Mendel Michelson) fu autorizzato a svolgere un programma di interviste nei campi
per sfollati. Interessato allo studio della «personalità esposta a stress senza precedenti», vedeva
negli ebrei sopravvissuti ai campi di sterminio un gruppo ideale per la sua ricerca. Essendo egli
stesso ebreo, non dovette affrontare nessuno dei problemi incontrati da Grygier ed esaminò un
insieme di sopravvissuti, sia ebrei scampati ai campi di concentramento sia lavoratori forzati
stranieri che durante la guerra avevano vissuto in Germania in condizioni decisamente meno
pesanti .
159

Boder iniziò utilizzando un «Test di appercezione tematica» standard durante il quale mostrava
ai soggetti una selezione di immagini a cui avrebbero dovuto rispondere con reazioni per
associazione. Scoprí ben presto che il test gli forniva ben poche informazioni, dato che gli
intervistati erano spesso evasivi o si dimostravano scettici sul fatto che fosse mai possibile avere
una corretta comprensione del mondo emotivo della persecuzione. «Gli psicologi sono dunque
progrediti a tal punto», domandò il diciottenne Abe Mohnblum, «da conoscere davvero la natura
umana cosí bene?» Quando Boder obiettò tentennante che la psicologia stava appunto cercando
di esplorare nuove strade, il giovane ragazzo ribatté che gli psicologi «sono assolutamente
incapaci di valutare ciò che può davvero accadere nella realtà» . Boder, di sicuro umiliato di
160

fronte al baratro che separava i suoi obiettivi di psicologo dall’inimmaginabile realtà affrontata
da quel gruppo di sopravvissuti, parlò a lungo con il giovane ebreo. Lo psicologo pubblicò poi
nel 1949 una selezione delle interviste che aveva registrato con il titolo I Did Not Interview the
Dead (Non ho intervistato i morti). Nel suo studio Boder riportava quello che aveva definito un
«Indice traumatico» (che nelle edizioni successive diverrà «Inventario traumatico»), contenente
dodici categorie che classificavano «quanto è successo nella psiche di queste persone». L’indice
copriva tutti i momenti dell’esperienza che aveva violentemente privato quegli esseri umani del
mondo fisico ed emotivo della loro cultura contemporanea e lo aveva sostituito con un passato
primitivo che includeva al Punto 7 un «sovraccarico cronico della capacità di sopportazione
fisica e mentale» . Benché Boder usasse il termine «trauma» in modo piuttosto diverso dalla sua
161

attuale accezione come descrizione di una reazione repressa allo stress, la sua intenzione era
comunque quella di descrivere il danno psicologico cumulativo che l’esperienza della
persecuzione aveva causato in quel frammento di vittime sopravvissute. Egli cercò poi di
quantificare tale sofferenza misurandola in «unità catastrofiche», scoprendo cosí, cosa non certo
sorprendente, che i sopravvissuti ai campi di concentramento portavano un carico traumatico
almeno tre volte maggiore dei lavoratori stranieri .
162

Milioni di coloro che durante la guerra soffrirono di crisi emotive non riuscirono a sopravvivere,
vuoi sul fronte dei combattimenti oppure sotto le bombe o tra i civili vittime di atrocità, fame e
genocidio. Alla fine del conflitto, le forze armate tedesche, sovietiche e giapponesi avevano
perso circa 18 milioni di uomini, contro circa un milione delle forze armate occidentali, il che
significò che molti altri milioni di soldati degli eserciti dei paesi democratici tornarono in patria
per essere reintegrati nella società civile. Come nel caso dei sopravvissuti dai campi, non si trattò
certo di un processo semplice, dato che militari e donne ormai abituati a un mondo dominato da
valori del tutto diversi, e che si portavano dietro il peso emotivo e i traumi dei lontani campi di
battaglia, dovettero a fatica cercare di reintegrarsi in forme comportamento civile normativo e di
recuperare piú convenzionali legami emotivi. Solo negli Stati Uniti venne considerata come
questione urgente la necessità di un aiuto all’adattamento di natura psichiatrica. Nel 1945 furono
pubblicate numerose guide, tra cui lo Psychiatric Primer for the Veteran’s Family and Friends
(Nozioni psichiatriche fondamentali per la famiglia e gli amici del veterano), in cui si spiegava
che il personale militare di ritorno poteva apparire in molti casi «irrequieto, aggressivo e
risentito» . I diffusi timori che i soldati rientrati in patria potessero provocare un’ondata di
163

criminalità, o che i loro disturbi psichici potessero ostacolare la rinascita delle comunità in tempo
di pace, portarono l’esercito degli Stati Uniti a finanziare nel 1945 due filmati pubblicitari, uno
sull’«esaurimento da combattimento», l’altro con il titolo assolutamente infelice The Returning
Psychoneurotics (I nevrotici di ritorno). Il secondo film, diretto da John Huston, esplorava le
terapie di riabilitazione per pazienti con disturbi gravi in un ospedale psichiatrico di New York,
ma l’esercito ritenne che le immagini fossero troppo morbose per un pubblico americano ancora
ignaro dei tanti danni che la guerra aveva inflitto a livello emotivo a quanti avevano partecipato a
quello che gli sceneggiatori avevano pensato di definire un «salvataggio umano». Anche se il
filmato fu poi ribattezzato Let There Be Light (Sia la luce!), l’esercito ne mise al bando la
proiezione fino al 1981 . 164

I rari sondaggi effettuati tra i militari dopo la guerra indicavano che le cicatrici emotive causate
dal conflitto persistevano anche durante la pace. Negli Stati Uniti, il 41 per cento dei veterani
riceveva un’indennità di invalidità per disturbi psichiatrici. Un’altra ricerca pubblicata dal
dipartimento della Guerra nel 1946 rilevava che, di tutti coloro che avevano ricevuto cure
mediche durante la guerra, tra il 40 e il 50 per cento erano casi di spossatezza da
combattimento . In Gran Bretagna fu condotta una serie di studi di piccole dimensioni per
165

seguire i casi psichiatrici che durante la guerra erano stati dimessi e nuovamente inseriti nella
comunità. Si rilevò che molti di quegli uomini avevano difficoltà a eseguire una mansione o
riappropriarsi della loro autostima. Anche se in Germania, Unione Sovietica o Giappone non
sembra siano stati condotti dei sondaggi sistematici tra i veterani che tornavano alla vita civile, il
processo di reintegrazione emotiva fu comunque difficile, oppure, come nel caso dei tedeschi e
giapponesi, ritardato talvolta per lungo tempo in seguito alle decisioni di Gran Bretagna, Francia
e Unione Sovietica di affidare ai prigionieri di guerra di Germania e Giappone i lavori di
ricostruzione del dopoguerra, anche per molto tempo dopo il periodo previsto dalla Convenzione
di Ginevra . Quando all’inizio degli anni Cinquanta i prigionieri di guerra giapponesi furono
166

finalmente rimpatriati dall’Unione Sovietica, si diffuse tra l’opinione pubblica nipponica una
certa preoccupazione per quegli uomini che non solo avevano avuto il disonore di farsi catturare,
ma che ora, tornati alla vita civile, si rivelavano anche distruttivi e «rissosi» .
167

Dopo il 1945 gli Stati Uniti furono l’unico paese a richiedere che, dove possibile, fossero
riportati in patria i resti di coloro che erano morti in combattimento oltreoceano. I soldati sia
degli Alleati sia dell’Asse, uomini e donne che avevano combattuto all’estero, venivano
generalmente sepolti nel teatro di guerra in cui morivano. L’opinione pubblica dell’America, i
cui soldati erano morti nelle sterminate distese dell’oceano, avvertiva tuttavia l’insopprimibile
desiderio di seppellire i proprio morti nel suolo patrio. Venne cosí a sospendersi quel regime
emotivo del tempo di guerra, la cui linea politica ufficiale era quella di velare la realtà e l’entità
dei morti in battaglia, e, per una volta, venne consentito un momento di dolore collettivo,
seppure opportunamente concertato. Nell’ottobre del 1947, rientrarono dall’Europa le prime
6200 bare. Venne scelto a caso un Milite Ignoto, la cui bara fu portata in un solenne corteo a
cavallo lungo la Fifth Avenue di New York, davanti a una folla di mezzo milione di persone; a
Central Park si celebrò una cerimonia dinanzi a 150 000 spettatori , di cui alcuni in lacrime, altri
168

incapaci perfino di guardare. Quel momento fu l’espressione di tutte le emozioni represse negli
anni della guerra. «Ecco là il mio ragazzo», gridò una donna dalla folla. Per anni, milioni di
soldati, uomini e donne, avevano dovuto affrontare la tensione tra le loro paure e ansie private e
un regime militare di disciplina e abnegazione, mentre i civili di tutto il mondo avevano
convissuto da parte loro con la contraddizione tra la cultura pubblica della sopportazione e la
realtà intima del dolore e della perdita.
Capitolo decimo
Crimini e atrocità
Quando gli ebrei furono prelevati dai loro appartamenti per essere fucilati, Liza Lozinskaja, che faceva la maestra, si era
nascosta da qualche parte. Il giorno successivo, dopo le fucilazioni di massa, i tagliagole della Gestapo la catturarono. I banditi
la trascinarono sulla piazza del mercato, la legarono a un palo del telegrafo e iniziarono a lanciarle contro pugnali affilati. I
mostri le appesero al collo un cartello con la scritta «Ho impedito ai funzionari tedeschi di fare rispettare leggi e regolamenti».
Testimonianza registrata, The Germans in Mozyr 1.
Un giorno, un soldato tedesco fu catturato e portato alla base [partigiana]. Non riuscirono nemmeno a interrogarlo. La gente lo
fece praticamente a pezzi. Fu una scena orribile; donne e anziani gli strapparono i capelli. E tutti gridavano «per mio figlio, per
mio marito», ecc.
Intervista a Leonid Okon2.
La Seconda guerra mondiale fu un conflitto atroce. Dall’inizio alla fine, crimini ed efferatezze
scandirono il comportamento di soldati, guardie della sicurezza e civili con tale implacabile
energia e su scala cosí vasta che prima difficilmente si sarebbero potuti immaginare. Le atrocità
generavano atrocità, in un circolo vizioso di rappresaglie. L’abitante del villaggio che ricordò il
destino di Liza Lozinskaja rammentava anche una donna partigiana sovietica, catturata e punita
in quell’identica maniera per aver «ostacolato» il lavoro dei poliziotti tedeschi e degli ausiliari
locali, il cui compito era radunare i vicini ebrei bielorussi lungo le fosse scavate fuori dal
villaggio e sparargli, in modo che cadessero l’uno sull’altro formando degli strati.
Il giovane Leonid Okon, fuggito dal ghetto di Minsk, aveva un solo pensiero quando si era unito
ai partigiani: «Ho sempre voluto combattere. Volevo vendicarmi» . I tedeschi e i loro tirapiedi
3

vivevano nel timore di quelle vendette e la loro ansia non faceva che alimentare ulteriori ondate
di crudele violenza nel tentativo di tenere a bada la minaccia. Era uno dei tanti fronti narrativi
delle atrocità in tempo di guerra. Non vi fu un singolo scenario in cui la barbarie piú spietata
rimase confinata, né un’unica causa che la spiegasse; a creare il lato oscuro della Seconda guerra
mondiale concorsero molte parti. Alcune delle atrocità non furono che tipici crimini di guerra
che si facevano beffa delle leggi vigenti e dei regolamenti di guerra. Altre furono il prodotto di
profondi odi e pregiudizi razziali. Altre ancora, piú facili da tenere nascoste, furono il frutto di
una persistente violenza maschile nei confronti delle donne.
Di norma, il concetto di «crimine di guerra» corrispondeva per i contemporanei a una violazione
degli articoli della Convenzione dell’Aia del 1907, che disciplinava «Leggi e consuetudini della
guerra terrestre», nonché della Convenzione di Ginevra sulla Croce Rossa Internazionale, su cui
si era trovato un accordo già nel 1864. In base a tale definizione, i crimini di guerra erano
compiuti dagli eserciti sia nei riguardi delle forze armate nemiche, attive o prigioniere, sia contro
la popolazione civile del nemico, che avrebbe dovuto essere protetta da quelle violazioni in base
alle «leggi dell’umanità» esistenti tra i «popoli civilizzati» . La Convenzione non si applicava ai
4

popoli delle colonie, definiti «semicivilizzati» o «non civilizzati». La natura dei crimini di guerra
non era definita con particolare precisione, né si riusciva a capire come essi potessero essere
individuati o puniti, dato che non si era mai istituito un tribunale internazionale per far rispettare
gli accordi. Durante la Grande Guerra, le consuetudini e gli usi di guerra furono violati da
entrambe le parti, seppure non sistematicamente, dato che per lunghi periodi le zone di
combattimento rimasero limitate alla guerra di trincea, senza una presenza partigiana o civile in
prima linea. La guerra, tuttavia, aveva portato alla classificazione di altri «crimini», da
considerarsi pari violazioni delle Convenzioni dell’Aia. Alla fine del conflitto, i vincitori
avevano stilato un elenco di 35 violazioni corrispondenti ad altrettanti comportamenti che
dovevano essere considerati criminali, tra cui «omicidi e massacri» (soprattutto riguardo alle
uccisioni degli armeni da parte dei turchi); «terrorismo sistematico»; «tortura di civili» e
deportazione e lavoro forzato di non combattenti . A febbraio del 1919, gli Alleati avevano
5

istituito una Commissione sulle responsabilità nella guerra e nella sua conduzione, che aveva
dato vita a sua volta a una sottocommissione sulle violazioni delle leggi di guerra incaricata di
perseguire processualmente noti criminali di guerra. Gli Stati Uniti si erano tuttavia opposti
all’idea di un tribunale internazionale chiamato a giudicare i presunti crimini di guerra compiuti
da tedeschi e turchi e, alla fine, su insistenza degli Alleati, i governi della Germania e della
Turchia si erano limitati a condurre alcuni processi simbolici, mentre francesi e belgi avevano
processato e condannato 1200 prigionieri ancora in mano loro. Un Ufficio investigativo tedesco
raccolse addirittura 5000 dossier sui crimini di guerra commessi dagli Alleati, dimenticando che
nel 1919 la giustizia era prerogativa dei vincitori, non del nemico sconfitto . 6

La palese mancanza di definizioni e procedure, evidenziata nel 1919, fece sí che nei dieci anni
successivi si cercò di raggiungere un piú preciso accordo internazionale su quella che doveva
ritenersi una condotta accettabile in tempo di guerra. Durante il primo conflitto, entrambe le parti
non avevano esitato a bombardare le popolazioni civili, eppure, nonostante il «bombardamento
aereo» fosse stato vietato dalla Convenzione del 1907, non esisteva uno specifico organo di
diritto internazionale che disciplinasse un codice di condotta nella guerra aerea. Nel 1923,
all’Aia, in seguito a una decisione presa alla Conferenza navale di Washington dell’anno
precedente, un comitato internazionale di giuristi aveva definito le regole dell’Aia per la guerra
aerea. Anche se tali regole non furono mai ratificate da nessun governo, esse erano considerate
valide in base al diritto internazionale, in particolare la disposizione secondo cui non si dovevano
sferrare attacchi contro i civili e le loro proprietà ma solo contro obiettivi militari chiaramente
identificabili . Nel 1925, fu raggiunto a Ginevra un accordo relativo a una disposizione che
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metteva fuori legge l’uso (ma non il possesso) di armi chimiche e batteriologiche. Quattro anni
dopo, era stata redatta un’altra disposizione che disciplinava il trattamento dei prigionieri di
guerra e ampliava di fatto la protezione già sancita dai trattati dell’Aia. Nel 1930 furono stilate
nuove regole per la guerra navale che mettevano fuori legge le operazioni sottomarine non
regolamentate e praticate durante la Grande Guerra; alle navi militari veniva chiesto di fermare e
perquisire le navi mercantili sospettate di rifornire il nemico, garantendo la sicurezza dei loro
equipaggi, anziché affondare a vista le imbarcazioni.
Molte di queste garanzie supplementari erano già state violate durante gli anni Trenta. Nel corso
dell’invasione dell’Etiopia e della Cina, l’Italia e il Giappone avevano utilizzato gas tossici; gli
aerei giapponesi avevano bombardato le popolazioni civili durante la guerra in Cina e gli aerei
italiani e tedeschi avevano fatto altrettanto nella guerra civile spagnola; i prigionieri di guerra
cinesi venivano uccisi a mani nude dai soldati giapponesi. Durante la Seconda guerra mondiale,
tutti gli accordi internazionali furono violati dall’una o dall’altra parte, e in molti casi si trattò di
violazioni cosí gravi e di tale portata che non erano state nemmeno prese in considerazione
quando erano stati redatti gli strumenti del diritto internazionale. Con l’emergere delle prove di
atrocità di dimensioni inimmaginabili, l’idea novecentesca del crimine di guerra si spinse ben
oltre i confini conosciuti. Per far fronte alle conseguenze di un conflitto cosí atroce, alla fine
delle ostilità venne elaborato un nuovo concetto, tale da permettere di perseguire penalmente la
deportazione di massa, lo sfruttamento e lo sterminio delle popolazioni civili. Tali abusi erano
ora classificati sotto il termine onnicomprensivo «crimini contro l’umanità» . Nel 1945, gli
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Alleati vittoriosi definirono nuovamente la natura del crimine di guerra. Oltre ai «criminali di
guerra di classe A», accusati di aver condotto una guerra d’aggressione, vennero individuati i
«criminali di classe B», colpevoli di violazioni delle consuetudini e degli usi di guerra, e i
«criminali di classe C», accusati di crimini contro l’umanità.
Violazioni delle «Leggi e consuetudini della guerra».
Con i soli accordi sulla carta si dimostrò impossibile ridurre i crimini di guerra, intesi nel loro
significato piú stretto di violenze illegittime intercorse tra forze armate rivali o tra forze armate e
popolazione civile. Le violazioni sul campo di battaglia erano numerose per ovvie ragioni. A
differenza della guerra di trincea della Prima guerra mondiale, il secondo conflitto aveva
conosciuto il ripetersi di aspre battaglie in una guerra mobile e in campo aperto, e in tali
circostanze si era rivelato a volte piú semplice sparare ai soldati che si arrendevano o ai nemici
feriti anziché sottrarre uomini ed energie per trasferirli nelle retrovie. Nei combattimenti di
fanteria, i soldati che cercavano di arrendersi pochi minuti dopo aver sparato al nemico potevano
benissimo essere uccisi seduta stante; i cecchini, se catturati, venivano regolarmente giustiziati,
in quanto considerati un tipo di assassini particolare. Nella guerra sovietico-tedesca e nella
guerra in Asia, i feriti erano regolarmente trucidati sul posto. Nell’impeto della battaglia, i soldati
non pensavano certo per prima cosa alla Convenzione di Ginevra, e sembra che gli ufficiali di
tutti gli eserciti avessero ben poco controllo sui propri uomini e, in alcuni casi, li incoraggiassero
attivamente a commettere crimini di guerra. Sui mari, il campo di combattimento era molto
diverso, ma neppure in quel caso mancavano le occasioni per violare gli accordi stabiliti, per
esempio quando marinai e soldati venivano abbandonati a loro stessi in acqua o quando si
colpivano deliberatamente le scialuppe e si mitragliavano i sopravvissuti. Le regole della guerra
erano osservate con maggiore scrupolo soltanto nei duelli aria-aria, anche se tutte le parti in
causa si rendevano a volte colpevoli di mitragliare gli aviatori che si erano lanciati con il
paracadute; i combattimenti aria-terra, al contrario, generavano problemi imbarazzanti a causa
della natura imprecisa, a volte perfino casuale, dei bombardamenti e dei mitragliamenti durante
le operazioni a terra. A sollevare profonde questioni etiche erano in particolare i bombardamenti
«strategici» su lunghe distanze, in quanto le operazioni uccidevano un gran numero di civili, in
alcuni casi perfino volutamente, e distruggevano indiscriminatamente ospedali, scuole, chiese e
tesori d’arte e cultura.
La maggior parte dei crimini di guerra di classe B era commessa nei combattimenti di terra,
allorché i soldati si trovavano faccia a faccia con l’eventualità di uccidere o essere uccisi. «Qui
esiste una sola regola», scriveva nel suo diario un ingegnere americano durante la guerra del
Pacifico, «UCCIDERE, UCCIDERE, UCCIDERE» . Anche se nella foga del momento avvenivano
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regolarmente delle violazioni, la portata e la natura delle atrocità belliche intercorse tra le forze
armate in tutti i teatri di guerra furono determinate da una vasta gamma di fattori: conformazione
del terreno, ideologia e propaganda, cultura militare, assenza di restrizioni e cosí via. È
improbabile che coloro che commettevano le violenze fossero coscienti di tali fattori nel
momento dell’azione, fatta eccezione per l’ultimo. Dove non vi erano restrizioni, infatti, o dove
le regole erano deliberatamente ignorate dalle autorità militari, i soldati erano liberi di
comportarsi con istintiva violenza sul campo di battaglia. A dicembre del 1941, per esempio,
Hitler aveva detto all’esercito che combatteva in Unione Sovietica che la guerra su quel territorio
non aveva nulla a che vedere con «la cavalleria tra soldati o con gli accordi della Convenzione di
Ginevra», e si aspettava che le sue truppe traessero le dovute conclusioni. Nella guerra contro le
potenze occidentali, invece, il Führer voleva che le sue armate osservassero il piú possibile le
regole di combattimento concordate – un punto di vista che ribadí quando gli giunse la notizia
del massacro di soldati americani da parte delle Waffen-SS a Malmédy alla fine del 1944 . Anche
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se tra le forze occidentali avveniva piú raramente, accadeva a volte che le regole venissero del
tutto sospese. Prima dell’invasione americana di Guam nel 1944, fu detto ai marine e ai soldati
esultanti che non dovevano essere fatti prigionieri .
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Per quanto riguarda le dimensioni e la barbarie dei crimini commessi sul campo di battaglia, uno
sguardo al piú ampio contesto delle campagne militari rileva tuttavia grandi differenze tra i vari
scenari di guerra. Nell’Europa occidentale e nel Mediterraneo, le forze armate avversarie
osservavano di norma le convenzioni stabilite dagli accordi internazionali. L’unica eccezione
erano gli scontri in Occidente contro le Waffen-SS, ampiamente considerate come entità a sé
stanti, fedeli in modo fanatico a Hitler e senza scrupoli nella loro condotta. Nel 1944-55, durante
le aspre battaglie in Italia e lungo la frontiera tedesca, le Waffen-SS catturate erano di solito
liquidate sul posto. Dopo che tra le truppe si erano sparse le voci sulle atrocità commesse dalle
Waffen-SS, i soldati avevano tratto le loro conclusioni. Nella «battaglia della sacca», pochissime
Waffen-SS finirono nei campi di prigionia. «Poiché la guerra è quello che è e la gente è quella
che è», ricordò piú tardi un veterano americano, «molte volte un uomo diventava cosí furioso che
perdeva ogni controllo su se stesso e le emozioni prendevano il sopravvento» . In certi casi, le
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forze britanniche ripagavano con la stessa moneta, e lo Special Air Service, istituito nel 1941,
raramente faceva prigionieri. Anche i crimini di guerra commessi da tedeschi contro altri soldati
in Nordafrica, Italia ed Europa occidentale furono relativamente sporadici, soprattutto se
paragonati alle atrocità perpetrate in Unione Sovietica e in Cina. In quei teatri di guerra le vittime
si contavano a decine o centinaia, mentre in Russia e Asia erano centinaia di migliaia. Nel
conflitto sui mari, entrambe le parti adottarono una guerra sottomarina che ignorava qualsiasi
restrizione, in spregio al trattato navale firmato a Londra nel 1930, anche se, in linea generale,
entrambi i contendenti evitavano di uccidere coloro che avevano abbandonato la nave e la Royal
Navy salvava in quasi tutti i casi i nemici che erano in acqua .
13

Il teatro di guerra dell’Europa orientale e la guerra in Asia ebbero invece un carattere


completamente diverso. In entrambe le zone, gli eserciti difensori si erano resi conto abbastanza
rapidamente delle regole d’ingaggio di un nemico che avanzava ed era pronto a battersi, e
avevano reagito di conseguenza. Il risultato fu un crescendo di atrocità in cui ogni feroce
rappresaglia provocava un’ulteriore degenerazione nel comportamento delle truppe di ambo le
parti. La «barbarizzazione della guerra» – espressione coniata dallo storico Omer Bartov per
descrivere la guerra spietata condotta dalla Wehrmacht in Russia – avvenne intenzionalmente nel
caso tedesco e giapponese, anche se da entrambe le parti le pressioni e le circostanze furono tali
da trasformare in feroci assassini uomini che altrimenti non avrebbero commesso alcuna
atrocità . Non è da considerarsi trascurabile il ruolo avuto dalle condizioni naturali. I soldati
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combattevano nelle condizioni piú inospitali, lontani da casa e con poche prospettive di una
licenza o addirittura di un congedo. Le pressioni a cui erano sottoposte le truppe che si trovavano
nelle giungle della Birmania o nelle remote isole del Pacifico del Sud, oppure tra le montagne e i
fiumi della Cina centrale, o anche nella sterminata steppa russa, calda e polverosa d’estate e
gelida d’inverno, ebbero evidentemente la loro parte nel favorire combattimenti particolarmente
aspri. In quelle zone remote, l’onnipresente realtà della morte collettiva in battaglia, oppure per
malattia o in seguito alle ferite, contribuiva a creare una cultura profondamente morbosa, in cui
la morte del nemico veniva trattata con assoluta indifferenza. I soldati tedeschi trovavano
difficile comprendere le tattiche quasi suicide dell’Armata Rossa, e il risultato fu quello di
considerare i soldati sovietici come carne da cannone. I soldati giapponesi combattevano fino
alla morte in un sistema militare in cui veniva inculcato in ogni recluta il principio del gyokusai
(il «glorioso autoannientamento») . Gli attacchi suicidi e la difesa fino alla morte
15

ridimensionarono la percezione che americani, australiani e inglesi avevano nei confronti dei
caduti giapponesi. Lungo le strade dove i corpi dei giapponesi giacevano insepolti, il passaggio
degli Alleati riduceva presto ogni cadavere a un’ombra appiattita e rinsecchita.
Fin dal suo esordio, la guerra sino-giapponese fu condotta con poco o nessun riguardo verso le
regole della guerra moderna. I soldati cinesi che si arrendevano venivano abitualmente fucilati o
decapitati sul posto man mano che l’esercito nipponico avanzava. I feriti erano finiti con la
baionetta o le spade, armi che la fanteria giapponese utilizzava con particolare soddisfazione.
Anche se gli aerei lanciavano volantini che incoraggiavano i soldati nazionalisti cinesi ad
arrendersi, con la promessa che l’esercito giapponese non avrebbe fatto «del male ai prigionieri
di guerra», dai diari dei soldati del Sol Levante risulta chiaramente che quella promessa non era
altro che uno stratagemma. Un soldato giapponese riferí del compiacimento provato durante
l’assalto alla provincia di Hebei nel picchiare i feriti cinesi con una pietra e nell’aprire in due un
prigioniero con la spada. Mentre la sua unità seguiva le forze cinesi in ritirata nella provincia di
Shanxi, egli scrisse che uccidere i soldati nemici in fuga era divertente: «Anche trastullarsi con i
feriti e spingerli a uccidersi a vicenda è stato uno spasso» . I diari rivelano pure la profonda
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insicurezza e la paura che tormentavano i soldati giapponesi nella loro avanzata, soggetti a
regolari imboscate da parte di soldati cinesi che avevano abbandonato il campo di battaglia e
ricorrevano ora a sporadiche tattiche di guerriglia. Durante l’avanzata, l’esercito giapponese subí
molte perdite, e i soldati si vendicavano del nemico con deliberato sadismo.
Il culmine delle atrocità fu raggiunto nell’assalto e nella presa della capitale cinese nazionalista
di Nanjing (Nanchino), in cui circa 20 000 soldati cinesi furono trucidati insieme con migliaia di
civili. Anche se l’alto comando giapponese in Cina voleva che i soldati mostrassero
moderazione, i lunghi mesi di difficili scontri in un paesaggio sconfinato avevano incoraggiato il
desiderio di rappresaglia. In Giappone due soldati dell’esercito divennero delle celebrità da un
giorno all’altro quando si diffuse la notizia della loro gara per vedere chi sarebbe riuscito a
tagliare per primo la testa a 100 cinesi; lo hyakunin-giri kyōsō proseguí fino al 1938, e a marzo
un tenente era riuscito a decapitare 374 uomini. Poesie, canzoni, perfino libri per bambini
celebrarono le «uccisioni patriottiche dei cento uomini» . I soldati cinesi venivano braccati
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ovunque e massacrati con un’intera varietà delle forme piú crudeli di esecuzione: prigionieri
impiccati per la lingua, sepolti vivi, bruciati vivi, usati per esercitarsi con la baionetta, gettati
nudi d’inverno «a cercare pesci» in buchi scavati nel ghiaccio . A Nanjing, un soldato
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giapponese passò accanto a un cumulo di 2000 cinesi morti e fatti a pezzi che si erano
precedentemente arresi sventolando bandiera bianca. Come notava il soldato, erano stati «uccisi
nei modi piú svariati» e lasciati a marcire in strada . La violenza incontrollata nasceva anche
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dalla decisione dell’esercito giapponese di classificare i soldati cinesi come banditi, rimuovendo
cosí ogni ostacolo legale alla loro uccisione dopo la cattura. La Convenzione di Ginevra sui
prigionieri non era stata ratificata dal governo giapponese e, pure nel caso in cui lo fosse stata, i
limiti imposti dal diritto internazionale e sanciti dagli accordi di Ginevra non sarebbero stati
comunicati nemmeno agli ufficiali piú alti del comando nipponico . Man mano che i soldati
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giapponesi diventavano sempre piú assuefatti a una vita di combattimenti selvaggi, l’abitudine di
uccidere i nemici feriti o fatti prigionieri divenne uno stile di vita. «Ho calpestato i cadaveri dei
soldati cinesi senza curarmene», scriveva un testimone di Nanjing nel suo diario, «perché il mio
cuore era diventato selvaggio e sempre in tumulto» . 21
Quando nel dicembre del 1941 il Giappone attaccò i possedimenti americani, britannici e
olandesi nel Sud-est asiatico e nel Sud del Pacifico, la maggior parte dei soldati aveva già
prestato servizio nella guerra in Cina, a differenza degli eserciti alleati che avevano scarsa se non
nessuna esperienza di battaglia. Nei quattro anni di combattimenti contro le potenze coloniali i
soldati giapponesi misero a frutto quanto avevano imparato. Benché la fama di estrema crudeltà
precedesse le truppe giapponesi, l’impatto fu comunque uno shock per i militari occidentali, che
non solo avevano sottovalutato le capacità tattiche di combattimento del nemico, ma avevano
anche dato per scontato che nelle battaglie con gli eserciti dei bianchi i giapponesi avrebbero
osservato i regolamenti che vietavano la violenza incontrollata. Quando il giorno di Natale del
1941 il governatore britannico consegnò Hong Kong ai giapponesi, l’esercito invasore devastò
l’insediamento, uccidendo i prigionieri, infilzando con la baionetta i feriti negli ospedali,
violentando e uccidendo le infermiere (solo pochi giorni prima, in ogni caso, le truppe inglesi e
le forze di polizia avevano sterminato i saccheggiatori cinesi aprendo su di loro il fuoco delle
mitragliatrici, oppure, in un altro caso, avevano messo in fila settanta presunti militanti della
quinta colonna, gli avevano coperto la testa con dei sacchi e li avevano fucilati uno alla volta) . 22

Durante l’invasione della Malesia i soldati giapponesi uccisero i prigionieri che avevano
catturato mentre avanzavano lungo la penisola e massacrarono i feriti, seguendo uno schema che
si sarebbe ripetuto in tutti i combattimenti nel Pacifico. Negli scontri avvenuti in Nuova Guinea,
dove le forze giapponesi morivano di fame e avevano carenza di munizioni, i soldati australiani
catturati furono trovati in seguito legati nudi agli alberi per esercitarsi su di loro con la baionetta,
oppure fatti a brandelli con le spade, e, in un certo numero di casi, macellati per rifornire di carne
umana la truppa affamata . I soldati americani trovavano i compagni morti, mutilati e torturati, e
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nelle tasche dei giapponesi deceduti vi erano i trofei presi ai nemici. Sui mari, la flotta
giapponese affondava le navi a vista e lasciava annegare i sopravvissuti oppure li mitragliava
mentre erano in acqua; durante l’invasione delle Indie Orientali (l’attuale Indonesia), i militari
della marina scesi a terra massacrarono centinaia di soldati australiani e olandesi fatti prigionieri
sull’isola Amboina – in quell’occasione era stata concessa agli esecutori la scelta di decapitare i
prigionieri o pugnalarli al petto con una baionetta . Anche la flotta statunitense adottò una guerra
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sottomarina senza restrizioni fin dall’inizio del conflitto. Nel 1945 rimaneva ben poco da
affondare, per cui i sommergibilisti attaccavano i pescherecci e i sampan che veleggiavano lungo
la costa, in violazione delle loro stesse regole di combattimento. Abbandonare al loro destino
oppure uccidere i giapponesi sopravvissuti che si dibattevano tra le onde o si arrampicavano sulle
scialuppe di salvataggio era una questione di coscienza lasciata ai singoli comandanti, anziché
una questione di diritto sancito dalla legge .
25

Per gli invasori giapponesi, il comportamento spietato nei confronti delle forze alleate si rivelò
del tutto controproducente. Visto che i giapponesi non facevano alcun tentativo di rispettare le
convenzioni di guerra, le truppe che li affrontavano in campo rispondevano con la stessa moneta.
Non tutti i soldati alleati, né tutti i soldati giapponesi, commisero atti in spregio alle leggi di
guerra, ma nel conflitto del Pacifico queste violazioni furono comuni, né i soldati e i marine si
aspettavano di essere sanzionati per tali atti. Il comportamento dei militari americani fu
condizionato dall’ondata di rabbia generatasi spontaneamente dopo l’attacco a Pearl Harbor. Il
direttore delle operazioni navali, l’ammiraglio Harold Stark, annunciò poche ore dopo lo scoppio
delle ostilità che le forze americane potevano intraprendere «una guerra aerea e sottomarina
contro il Giappone senza restrizioni di sorta», ribaltando cosí gli impegni internazionali ancor
prima che il combattimento fosse iniziato. Il consigliere personale di Roosevelt, William Leahy,
chiarí inoltre che quando si combattevano i «selvaggi giapponesi» le regole di guerra stabilite
dovevano «essere abbandonate», mentre il viceammiraglio William Halsey disse agli equipaggi
della sua flotta di portaerei: «Uccidete i giapponesi, uccidete i giapponesi, uccidetene sempre di
piú» . In tali circostanze, non vi era alcuna probabilità che i militari americani fossero frenati da
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norme ufficiali, tanto piú se si trovavano ad assistere in prima persona alla realtà delle violazioni
giapponesi. «Uccidere i bastardi» divenne un leitmotiv nei documenti letti dai militari degli Stati
Uniti. Dal canto loro, le truppe giapponesi di difesa non conoscevano regole, andando a volte
contro ogni logica: alzavano bandiera bianca per poi tendere imboscate al nemico che si
avvicinava; giacevano immobili sul campo di battaglia per simulare la morte e poi aprivano
improvvisamente il fuoco; si arrendevano con una granata innescata legata al braccio per
uccidere se stessi e coloro che li avevano catturati e, in rare occasioni, si lanciavano in massa con
le spade sguainate contro il fuoco delle mitragliatrici nemiche .27

I marine e la fanteria americani nutrivano una diffusa avversione e disprezzo per i nemici,
sentimenti alimentati dalla propaganda che dipingeva questi ultimi come animali senza nulla di
umano, prodotto di una cultura esotica e insondabile. Sul campo di battaglia, l’unico «giapponese
buono» era il «giapponese morto», e infatti si facevano pochi prigionieri. I feriti venivano finiti
con la gola squarciata. Dai corpi venivano tagliate parti destinate a diventare autentici trofei;
alcuni venivano scotennati, ad altri erano strappati i denti d’oro, conservati poi come bottino in
piccoli sacchetti. Le mutilazioni erano cosí diffuse che nel settembre del 1942 il dipartimento
della Guerra ordinò a tutti i comandanti, con scarso successo, di vietare quei raccapriccianti
souvenir. Quando alla fine della guerra alcuni scheletri giapponesi furono rimpatriati dalle isole
Marianne, il 60 per cento di essi era privo di teschio. Un tagliacarte ricavato dall’osso di un
giapponese fu persino offerto in dono a Roosevelt, che insistette perché fosse restituito al
Giappone . Dei giapponesi fatti prigionieri e incapaci di accettare il fatto di non essere morti in
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combattimento lottarono con tale violenza che il loro desiderio fu esaudito sul posto da chi li
aveva catturati. Nella battaglia per Guadalcanal, nelle isole Salomone, era divenuto cosí difficile
trovare un giapponese ancora vivo da interrogare che agli uomini dell’Americal Division furono
promessi whisky e birra extra se ne avessero portato uno . A ottobre del 1944, dopo tre anni di
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combattimenti, soltanto 604 giapponesi erano finiti nelle mani degli Alleati. In tutto il teatro di
guerra del Pacifico, infine, caddero prigionieri solo 41 000 soldati e marinai giapponesi, quasi
tutti verso la fine del conflitto. Il fatto stesso di sapere che gli americani e gli australiani non
facevano generalmente prigionieri aveva soltanto rafforzato il Senjinkun (Codice militare di
comportamento sul campo) che prevedeva la morte piuttosto che il disonore. Lo stesso fenomeno
si ripeté nella guerra in Birmania, dove le forze britanniche, quelle dell’Africa occidentale e le
truppe indiane, dopo aver assistito alle atrocità giapponesi, uccidevano o ferivano i prigionieri
nemici in modo cosí sistematico che i soldati del Sol Levante non avevano alcun incentivo ad
arrendersi. In un caso, i soldati indiani bruciarono vivi 120 giapponesi feriti, un’altra volta ne
seppellirono vivi piú di 20. I giapponesi feriti venivano abitualmente infilzati con la baionetta o
fucilati; i soldati caduti venivano infilzati per accertarsi che non fossero ancora vivi. Un
maggiore di brigata osservò: «Erano delle bestie, e come tali venivano trattati» .
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La guerra sul fronte orientale mostrò molte di queste stesse caratteristiche. L’esercito tedesco si
era già comportato con estrema durezza nella guerra in Polonia del 1939, quando circa 16 000
soldati polacchi catturati erano stati fucilati in azioni di rappresaglia. Ancora prima dell’inizio
del conflitto con l’Unione Sovietica, le forze armate tedesche, a cui era stato distribuito
l’opuscolo Conoscete il nemico?, si aspettavano di trovare le truppe sovietiche «imprevedibili,
subdole e spietate» nel loro modo di combattere – un pregiudizio, questo, basato in parte sul
ricordo della condotta dell’esercito russo nella Prima guerra mondiale . Una combinazione di
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pregiudizi razziali e ostilità verso il «bolscevismo ebraico» spingeva i comandanti della


Wehrmacht a concordare con l’affermazione di Hitler, comunicata loro nel marzo del 1941,
secondo la quale la campagna di Russia era una «guerra di sterminio», in cui i tedeschi dovevano
«abbandonare l’idea di cameratismo tra soldati». Georg von Küchler, comandante della XVIII
Armata durante l’invasione, disse ai suoi ufficiali che avrebbero combattuto contro «soldati di
una razza straniera» che non meritavano «nessuna pietà» in battaglia . Il generale maggiore
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Eugen Müller descrisse il modo in cui i soldati tedeschi avrebbero dovuto combattere in Russia
definendolo un ritorno a «una forma precedente di guerra», quando le regole di combattimento
non erano ancora state codificate all’Aia e a Ginevra . Tre direttive emanate dal quartier generale
33

di Hitler a maggio e a giugno, poco prima dell’invasione, definivano quale sarebbe stata quella
«forma precedente di guerra». Die Richtlinien für das Verhalten der Truppe in Rußland (Linee
guida sulla condotta delle truppe in Russia) auspicavano una ferocia assoluta al fine di eliminare
ogni forma di resistenza; il Kommissarbefehl (Ordinanza sui commissari) emanato dall’OKW
impartiva l’ordine di consegnare tutti i commissari dell’esercito sovietico catturati –
personificazioni di una «forma asiatica di guerra» – direttamente alle SS affinché fossero
giustiziati; la direttiva finale, Die Einschränkung der Kriegsgerichtsbarkeit (Limiti alla
giurisdizione militare), concedeva un’amnistia generale a tutti i soldati che avessero commesso
ciò che il diritto internazionale definiva come un crimine di guerra contro militari o civili. Anche
se alcuni comandanti tedeschi temevano che tali direttive avrebbero incoraggiato quelle che il
feldmaresciallo Walter von Reichenau descrisse come una «sparatoria delirante» e priva di ogni
disciplina, sembra che la maggior parte degli alti ufficiali le avessero approvate, attenendovisi in
seguito senza alcuna pietà durante il conflitto .
34

La guerra iniziata nel giugno del 1941 confermò i pregiudizi tedeschi su come l’avversario
sovietico avrebbe combattuto. Lungo la loro avanzata, i soldati della Wehrmacht trovavano i
cadaveri mutilati dei loro compagni – uomini con la lingua inchiodata a un tavolo, prigionieri
impiccati ai ganci per la carne, altri lapidati a morte. Storie di atrocità sovietiche, vere o no, si
diffusero presto tra le unità tedesche che si inoltravano nel territorio, e i soldati dell’Armata
Rossa catturati nelle prime settimane dell’operazione «Barbarossa» venivano di norma fucilati a
piccoli gruppi anche dopo essersi arresi. A settembre del 1941, l’OKW comunicò alle truppe che
i soldati sovietici trovati dietro le linee tedesche erano da considerarsi partigiani da giustiziare
senza indugi . Al pari dei giapponesi, i soldati dell’Armata Rossa spesso combattevano fino
35

all’ultimo uomo in situazioni disperate, si nascondevano per tendere imboscate al nemico dalle
retrovie, si fingevano morti e poi aprivano il fuoco oppure continuavano a combattere anche se
gravemente feriti. Ci si aspettava che il soldato sovietico, come quello giapponese, non
accettasse di cadere prigioniero e, per sottolineare l’ethos dell’autosacrificio per il bene della
collettività, il Cremlino aveva emesso nell’agosto del 1941 il Prikaz n. 270, l’ordine che
condannava come «traditori della Patria» tutti coloro che si arrendevano o finivano prigionieri,
prevedendo sanzioni anche per le loro famiglie . Nelle prime disperate battaglie, l’Armata Rossa
36

fece raramente prigionieri; piú tardi, quando i sovietici presero ad avanzare rapidamente, i soldati
nemici catturati vennero a costituire un handicap. Un giovane soldato tedesco, che si era perso in
una foresta alla fine del 1944, era scampato alla sorte toccata al resto della sua unità: ritrovò i
suoi compagni stesi l’uno accanto all’altro in un campo, con la testa schiacciata e il ventre
squarciato da una baionetta .
37
I soldati sovietici non avevano alcun obbligo di rispettare le regole. Combattevano con qualsiasi
mezzo, giusto o sbagliato, poiché il dovere morale fondamentale che dovevano rispettare era
quello di salvare la patria dagli invasori fascisti. Tra i ranghi si diffondevano storie di atrocità
tedesche, rafforzando cosí l’idea che il nemico meritasse ben poca pietà . Il compito del soldato
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dell’Armata Rossa era uccidere i tedeschi. Come gli opuscoli americani nel teatro di guerra del
Pacifico, i giornali dell’Armata Rossa riportavano esortazioni a uccidere colme di odio. «Nulla ci
dà cosí tanta gioia», scriveva il poeta Il’ja Ehrenburg sulla rivista militare «Krasnaja Zvezda»,
«quanto i cadaveri dei tedeschi». I soldati erano spronati a uccidere almeno un tedesco al giorno,
se potevano. Durante la ritirata del 1941, gli sbandati formarono unità partigiane che lanciavano
costanti azioni di disturbo alle linee di comunicazione del nemico, torturando e uccidendo
regolarmente i tedeschi che catturavano. In tali circostanze, il rispetto di teoriche regole di guerra
non aveva alcun senso per truppe che cercavano disperatamente di ribaltare la situazione contro
un inaspettato aggressore. Nelle grandi battaglie di accerchiamento del 1941 furono comunque
catturati milioni di uomini e si diffuse presto la notizia che migliaia di prigionieri erano stati
sistematicamente uccisi dai tedeschi. In linea di massima, l’esercito della Wehrmacht si atteneva
alla direttiva di uccidere tra i prigionieri i commissari, i comunisti e gli ebrei, arrivando a un
totale di circa 600 000 persone uccise nel corso della campagna. I soldati tedeschi, a loro volta,
trovavano i propri compagni fatti prigionieri «assassinati e torturati in modo bestiale e
indescrivibile», come si leggeva nella protesta ufficiale inviata a Mosca dal ministero degli Esteri
del Reich . Né da parte della Wehrmacht né dell’Armata venne fatto tuttavia alcuno sforzo per
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porre un freno alle violenze, in quanto sancite dall’alto. Dal 1942-43 le uccisioni dei prigionieri
dimiuirono, soltanto perché entrambi i regimi volevano usarne la manodopera nelle loro
economie di guerra, anche se a quel punto la metà di tutti i prigionieri tedeschi era già morta,
cosí come i due terzi dei soldati sovietici caduti in mano tedesca.
Il destino dei prigionieri di guerra lontani dalla linea del fronte rifletteva una diversa
applicazione delle regole di guerra rispetto alla prima linea. Il tasso di sopravvivenza indica
chiaramente tale differenza. I prigionieri dell’impero britannico e degli americani non erano
soggetti a severe punizioni o a torture, né venivano ridotti alla fame, anche se nel 1945, ormai
alla fine della guerra, l’enorme numero di prigionieri aveva creato nei campi di fortuna allestiti
inaspettati problemi di alloggiamento e alimentazione e livelli di mortalità piú alti del previsto. I
545 000 italiani prigionieri degli inglesi e degli americani sopravvissero quasi tutti, tranne l’1 per
cento . I prigionieri dei paesi occidentali nelle mani dei tedeschi o degli italiani furono trattati
40

secondo i termini della Convenzione di Ginevra, e su 353 474 prigionieri ne morirono 9300, la
maggior parte dei quali per ferite o malattie (il 2,7 per cento); al contrario, dei 132 134
prigionieri catturati dai giapponesi, ne morirono o furono uccisi 35 756 (il 27 per cento). Gli
americani e australiani catturati nel Pacifico se la passarono peggio, con la morte di un terzo dei
loro 43 000 uomini . Pochissimi giapponesi furono fatti prigionieri prima della fine della guerra,
41

essendo per la maggior parte morti o uccisi al fronte. In Birmania, erano stati catturati 1700
giapponesi, ma ne erano morti ben 185 000. Dei sopravvissuti, solo 400 erano in condizioni
accettabili, e tutti cercarono di compiere il suicidio rituale . A causa delle dimensioni stesse della
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guerra tedesco-sovietica, e nonostante il costante sterminio dei soldati che si arrendevano, nel
corso della campagna cadde prigioniero un numero enorme di uomini. Dei 5,2 milioni di soldati
sovietici catturati si stima che tra i 2,5 e i 3,3 milioni morirono in prigionia (il 43-63 per cento);
dei 2,88 milioni di tedeschi che finirono prigionieri dei sovietici, ne morirono 356 000 (il 14,9
per cento). Altri 1,1 milioni di prigionieri dell’Asse furono catturati in Italia, Romania, Ungheria
e Austria (conteggiati a parte rispetto ai tedeschi), di cui 162 000 morirono (14,7 per cento). Dei
600 000 giapponesi catturati durante la conquista della Manciuria nell’agosto del 1945, ne
morirono 61 855 (il 10,3 per cento) . La sorte degli italiani mandati nel 1941 da Mussolini a
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combattere il bolscevismo rappresentò un’eccezione in ambito sovietico: dei 48 947 soldati finiti
nei campi di prigionia, ne perirono infatti circa 27 683 (56,5 per cento) .
44

L’eccezionale livello di mortalità tra i sovietici fatti prigionieri dai tedeschi e tra i soldati degli
Alleati catturati dai giapponesi fu una conseguenza di decisioni deliberatamente adottate, ovvero
maltrattare, torturare o uccidere quanti fossero sopravvissuti agli scontri mortali sul campo di
battaglia. Già negli anni Trenta, quando il concetto di morte eroica per il proprio imperatore,
opposto a ogni idea di resa, aveva raggiunto il suo apice, l’atteggiamento dell’esercito
giapponese nei confronti dei prigionieri di guerra era stato totalmente negativo. La sconfitta
morale implicita nell’esperienza della prigionia veniva inculcata in tutte le reclute giapponesi.
Nel gennaio del 1941, il ministro dell’Esercito, il generale Tōjō Hideki, pubblicò per tutti i
soldati l’opuscolo Istruzioni per il campo di battaglia, in cui si ribadiva il monito «Non subire la
vergogna di essere catturato vivo» . Di conseguenza, i soldati giapponesi ritenevano che anche i
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prigionieri nemici fossero uomini indegni. I cinesi catturati potevano essere uccisi alla stregua di
«banditi», in quanto non erano considerati esseri umani bensí dei «maiali», come disse un
ufficiale giapponese . A febbraio del 1942, quando, in seguito alla resa di Singapore e a quella di
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Corregidor tre mesi dopo, cadde in mano giapponese un gran numero di prigionieri, essi vennero
giudicati con un misto di incredulità e disprezzo e sottoposti a sistematici maltrattamenti. Nel
1929 il Giappone aveva firmato ma non ratificato la Convenzione di Ginevra sui prigionieri di
guerra, tuttavia nel gennaio del 1942 il governo si era offerto di rispettare gli accordi soltanto se
gli Alleati avessero fatto lo stesso. È significativo che l’offerta giapponese escludesse le clausole
che proibivano di utilizzare il lavoro dei prigionieri per lo sforzo bellico, anzi il generale Tōjō,
allora primo ministro, aveva dato ordine di impiegare i prigionieri di guerra come risorse di forza
lavoro per la costruzione di strade, campi d’aviazione e ferrovie per l’esercito giapponese. In
realtà, ai prigionieri alleati non era concessa nessuna delle salvaguardie previste dalla
Convenzione di Ginevra, né era mai stato dato l’ordine di farle rispettare a chi era incaricato di
gestire e sorvegliare i campi di prigionia. Il tenente generale Uemura Mikio, direttore
dell’Ufficio informazioni sui prigionieri di guerra, si era espresso a favore di un trattamento
duro, al fine di dimostrare ai popoli delle colonie conquistate la «superiorità della razza
giapponese» e la sconfitta di quella caucasica .
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L’alto tasso di mortalità che ne seguí fu dovuto a diverse cause. Le guardie della maggior parte
dei campi erano reclutate tra coscritti coreani e taiwanesi ai quali era stato insegnato a
considerare i prigionieri come degli animali che potevano trattare come meglio credevano.
Quelle guardie, trattate brutalmente dai soldati e dagli ufficiali giapponesi e spesso loro stesse a
corto di cibo e forniture mediche, sfogavano le proprie frustrazioni sugli uomini che dovevano
sorvegliare. Era opinione diffusa che i prigionieri di guerra meritassero condizioni peggiori di
quelle già dure imposte ai soldati giapponesi. I comandanti e il personale dei campi avevano
come priorità assoluta il dovere di portare a buon fine gli incarichi loro assegnati, non certo
quello di proteggere i prigionieri dai maltrattamenti. A questi ultimi erano negate adeguate
razioni di cibo e forniture mediche e quasi tutti erano afflitti da malattie tropicali e dissenteria
endemica. I prigionieri costretti al lavoro forzato erano sottoposti a brutalità gratuite, picchiati
con bastoni e fruste, torturati al minimo sospetto di negligenza, messi in cella di punizione per
lunghi periodi anche per lievi infrazioni del regolamento. Agli uomini in cella di rigore veniva
negata l’acqua per tre giorni, il cibo per sette. Qualora tentassero la fuga, potevano essere
fucilati. Se il «Servizio speciale» della polizia militare Kempeitai, responsabile della
sorveglianza politica, sospettava di eventuali piani di resistenza da parte dei prigionieri, questi
potevano essere torturati per ottenere una confessione. I metodi utilizzati erano finalizzati al
risultato, per esempio la «tortura del riso», in cui la vittima era alimentata a forza con grandi
quantità di riso crudo seguito da un copioso getto d’acqua: il riso si espandeva nello stomaco,
causando dolori lancinanti per giorni. Per rendere le percosse ancora piú insopportabili, sulla
pelle della vittima veniva strofinata della sabbia bagnata, che creava abrasioni sanguinolente su
tutta la zona martoriata . Chi era sottoposto alla tortura moriva mentre veniva interrogato, oppure
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confessava bizzarre cospirazioni. Una volta estorta la confessione, un tribunale fantoccio


emetteva una sentenza di morte o una condanna a una lunga pena detentiva. Tali abusi venivano
commessi su uomini già da tempo debilitati dalla fame e dalle malattie. La sopravvivenza era del
tutto fortuita e dipendeva dal capriccio degli ufficiali giapponesi o dalla fortuna di ritrovarsi in
un posto in cui le malattie erano meno diffuse o le guardie meno sadiche.
Nella guerra tra gli stati dell’Asse e l’Unione Sovietica, l’elemento ideologico rivestí un ruolo
importante nell’elevata mortalità dei prigionieri. Avendo ricevuto l’ordine di ignorare le
Convenzioni dell’Aia e di Ginevra, le truppe tedesche non dovevano sottostare ad alcun obbligo
di trattare in modo umano i soldati e gli aviatori sovietici catturati. A settembre del 1941, quando
milioni di soldati sovietici erano già stati catturati, Reinhard Heydrich, capo dello RSHA, emise
una direttiva secondo cui i prigionieri di guerra sovietici, considerati alla stregua di criminali,
non avevano diritto «a essere trattati come soldati valorosi», con tutto ciò che ne conseguiva . 49

Non erano stati neppure presi particolari provvedimenti per far fronte al gran numero di
prigionieri. I soldati sovietici furono pertanto ammassati in campi di fortuna, spesso costretti a
marce forzate di centinaia di chilometri per raggiungere la destinazione. I campi di prigionia non
erano altro che una distesa di terra circondata da filo spinato e mitragliatrici. L’acqua potabile
scarseggiava, il cibo era di pessima qualità e l’assistenza sanitaria veniva negata a meno che non
fosse prestata da personale medico prigioniero. Uniformi e stivali venivano rubati dalle guardie
tedesche. Gli uomini che cercavano di scappare venivano fucilati, e a subire la stessa sorte non
erano soltanto gli ebrei e i membri del Partito comunista stanati dalle forze di sicurezza, ma
qualsiasi soldato che violasse le severe regole del campo: in un caso, per esempio, due
prigionieri furono fucilati per aver praticato il cannibalismo anziché lasciarsi morire di fame
come tutti gli altri . Quelli che erano ancora abbastanza in forma erano costretti a lavorare, ma il
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freddo e la fame, oltre alle epidemie di febbre tifoidea, non li risparmiavano. Alcuni riuscirono a
sopravvivere alla prigionia nel 1941-42 solo perché accettarono di diventare Hilfswillige
(ausiliari volontari) per l’esercito tedesco, ma un gran numero di prigionieri, dopo poche
settimane di detenzione, non aveva piú la forza di svolgere lavori utili ed era lasciato morire. A
febbraio del 1942, i prigionieri sovietici deceduti erano due milioni; del resto, non si può dire che
fossero stati fatti grandi sforzi per tenerli in vita .
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Come il Giappone, l’Unione Sovietica non aveva ratificato la Convenzione di Ginevra del 1929 e
non considerava piú validi tutti gli accordi prerivoluzionari sottoscritti dal regime zarista,
comprese le due Convenzioni dell’Aia. Alla fine di giugno del 1941, il governo sovietico aveva
cercato di ricorrere alla mediazione della Croce Rossa Internazionale per ottenere dai tedeschi il
consenso affinché entrambe le parti rispettassero comunque le modalità di trattamento dei
prigionieri, ma il governo del Reich aveva rifiutato. A quel punto, del resto, i due eserciti
avevano già violato tutte le eventuali clausole su cui avrebbero potuto giungere a un accordo.
Poiché il conflitto era esploso inaspettatamente, le forze armate sovietiche non avevano
provveduto agli alloggiamenti dei prigionieri di guerra. Alla fine del 1941, erano disponibili solo
tre campi in grado di ospitare gli 8427 soldati tedeschi scampati al massacro della prima linea;
nel 1943, il numero dei campi era salito a 31, con la possibilità di contenere fino a 200 000
persone. I prigionieri erano stati messi a lavorare in base a un decreto del 1° luglio 1941
sull’utilizzo del lavoro coatto. Di fatto, erano considerati alla stregua dei prigionieri sovietici
rinchiusi nei GULag e ricevevano le stesse razioni. Come per i prigionieri sovietici nei campi
tedeschi, potevano ottenere maggiori quantità di cibo lavorando duramente, ma le intollerabili
condizioni di vita in tende e rozze baracche, con forniture alimentari sempre piú ridotte,
rendevano molti prigionieri troppo debilitati per poter lavorare. I detenuti tedeschi non erano
deliberatamente lasciati morire di fame, come i prigionieri sovietici, ma nel 1942-43 il sistema di
approvvigionamento subí un tracollo, causando tra l’altro anche la morte di centinaia di migliaia
di detenuti sovietici nei GULag. Nell’inverno 1942-43, il tasso di mortalità dei prigionieri
dell’Asse raggiunse il 52 per cento, di cui 119 000 morti per edema nutrizionale. Tra giugno del
1941 e aprile del 1943, su 296 856 prigionieri ne morirono 171 774, vittime di malattie, freddo e
negligenza sanitaria .
52

Dalla primavera del 1943, le condizioni migliorarono gradualmente per ordine del Komitet
oborony (Comitato per la difesa) e dell’NKVD e, alla fine della guerra, il tasso di mortalità era
sceso al 4 per cento. In quella fase, le autorità sovietiche cercavano di rieducare i prigionieri di
guerra tedeschi per convincerli a passare dal fascismo al comunismo; un quinto di quelli rimasti
in vita aderí alla Frei-Deutschland-Bewegung, il movimento «Germania libera» di ispirazione
comunista . Anche la morte in massa dei prigionieri di guerra italiani non fu una scelta politica
53

intenzionale, ma la conseguenza dell’incuria, della fame e del freddo. Nei primi campi allestiti
dopo la sconfitta dell’Asse a Stalingrado, il tasso di mortalità era altissimo. I prigionieri
arrivavano già indeboliti da settimane di inedia e privi di un’adeguata protezione dalle
temperature gelide. Nel campo di Chrenovoe, alla fine di gennaio del 1943, vi erano 26 805
prigionieri, dei quali due mesi piú tardi ne restavano in vita solo 298. In quel caso, il comandante
del campo fu arrestato per aver ignorato le direttive dell’NKVD sul trattamento dei prigionieri,
che ormai costituivano una manodopera essenziale per lo sforzo bellico sovietico. I prigionieri
italiani non erano certo preparati ad affrontare un simile calvario e i campi in cui vennero
concentrati erano tra i peggiori. Tra gennaio e giugno del 1943, ne morirono altri 31 230, alcuni
durante il tragitto verso la prigionia, altri nei primi centri di detenzione, la maggior parte nei
campi di destinazione finale, per fame, ipotermia e un’epidemia di febbre tifoidea, come stava
accadendo a molti dei prigionieri sovietici in mano tedesca .
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La totale negligenza nei confronti delle regole di combattimento concordate e l’assoluta


mancanza di rispetto dello status di prigioniero di guerra misero in chiara evidenza la fragile
natura di tutti gli accordi internazionali volti a limitare i crimini di guerra. Una delle principali
preoccupazioni delle originarie Convenzioni dell’Aia era stata quella di trovare, in uno stato di
belligeranza, una qualche forma condivisa di immunità per i civili, ma se negli scontri armati
della Seconda guerra mondiale aumentarono i crimini tra il personale militare, lo stesso accadde
anche per le violenze perpetrate dai militari sui civili. L’immunità della popolazione comune fu
compromessa dalle necessità impellenti della guerra totale, non solo perché i civili erano
considerati parte integrante dello sforzo bellico del nemico, ma anche perché in molti casi
avevano scelto di affrontare le truppe di occupazione ricorrendo loro stessi alla violenza.
L’immunità fu altresí compromessa dalle dimensioni della potenza militare di eserciti che si
riversavano nei territori ostili o amici con milioni di soldati, senza curarsi delle sventurate
popolazioni che trovavano sul cammino. Coloro che nel 1907 avevano stilato la Convenzione
dell’Aia mai avrebbero potuto immaginare fino a che punto l’immunità dei civili sarebbe stata
violata dagli stessi stati firmatari.
Una delle violazioni piú comuni e commesse da tutti gli eserciti erano i saccheggi, anche se
durante le ostilità del conflitto mondiale i principali responsabili di rapine ed espropri furono gli
stati stessi. Gli articoli 46 e 47 delle Leggi e consuetudini della guerra terrestre, inserite nella
Convenzione dell’Aia, sancivano: «la proprietà privata non può essere confiscata» e «il
saccheggio è ufficialmente proibito» . La definizione di ciò che costituiva saccheggio era tuttavia
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alquanto ambigua. Secondo il diritto internazionale, una potenza conquistatrice aveva il diritto di
fare uso dei beni pubblici dello stato conquistato, inclusi lingotti d’oro e riserve monetarie, ma
doveva comunque garantire che le esigenze economiche e sociali della popolazione sotto
occupazione militare fossero pienamente soddisfatte. Se lo stato poteva dunque fare man bassa di
grandi ricchezze, il singolo soldato doveva rispettare la proprietà privata dei civili, astenendosi
totalmente dal depredarla . Era un’aspirazione improntata al piú puro idealismo già nel momento
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in cui era stata formulata. Nella Seconda guerra mondiale fu quasi impossibile imporre
restrizioni, e per gli ufficiali e la polizia militare che avrebbero dovuto farle rispettare il compito
era semplicemente al di là dei mezzi a loro disposizione, perfino se avessero voluto applicare la
legge con tutta la loro buona volontà. Il generale Eisenhower, comandante in capo degli Alleati
in Europa, aveva ordinato all’esercito americano di non darsi ai saccheggi, ma i soldati vi si
abbandonarono su larga scala, anche a danno di quelle stesse popolazioni civili che stavano
liberando . Nelle prime settimane dell’invasione dell’Unione Sovietica, i comandanti della
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Wehrmacht avevano ordinato alle loro unità di pagare i contadini per i beni confiscati, anziché
semplicemente prelevarli come bottino, ma nel giro di poco tempo il saccheggio era stato
accettato alla stregua di fatto inevitabile e fuori da ogni controllo . Dimensioni e caratteristiche di
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saccheggi e razzie variavano a seconda delle circostanze e delle opportunità. Si andava dai
piccoli furti di beni, cibo e alcol, sottratti dalle case dei civili che i militari utilizzavano quali
alloggiamenti, ai saccheggi piú massicci e distruttivi. In alcuni casi, alla rapina si accompagnava
lo stupro delle donne e delle ragazze della famiglia, sfruttate come bottino sessuale; nel caso
degli ebrei, l’appropriazione dei loro ultimi beni da parte di soldati e milizie durante la guerra dei
tedeschi nell’Est fu il preludio alla loro eliminazione fisica. Si trattò di atrocità di vario tipo, che
costituiscono l’argomento delle successive sezioni di questo capitolo.
Per gli stati conquistatori, il saccheggio era un fenomeno scontato. Fin dai primi giorni della
campagna tedesca in Polonia nel 1939, i soldati si erano appropriati dei beni della popolazione
polacca. Un medico polacco, Zygmunt Klukowski, registrò le depredazioni nel suo diario, giorno
dopo giorno: «Devastazione totale e saccheggio dei negozi»; «i tedeschi […] cercano soprattutto
buon cibo, liquori, tabacco, sigarette e argenteria»; «oggi anche gli ufficiali tedeschi hanno
iniziato a perquisire le case degli ebrei, arraffando tutti i contanti e i gioielli». Klukowski osservò
anche che i soldati tedeschi rubavano i tesori delle chiese cattoliche della zona. La polizia
militare, rilevò, stava a guardare e non faceva nulla . Durante la conquista dell’Europa
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occidentale, il saccheggio fu in generale piú contenuto, nonostante alle famiglie tedesche


arrivassero comunque interi convogli ferroviari carichi di cibo, bevande e oggetti di arredamento.
Nella guerra dei Balcani, i saccheggi reiterarono l’esperienza polacca. Nelle città elleniche,
ufficiali e soldati semplici si abbandonarono alla razzia di beni di ogni genere, dai tesori dei
musei alle proprietà domestiche. Ad Atene, uno spettatore sconvolto si chiedeva perché i
tedeschi «sono diventati tutti ladri». Era rimasto a guardare mentre «svuotavano le case di tutto
ciò su cui posavano lo sguardo. […] Dalle abitazioni piú povere della zona si portavano via
lenzuola e coperte [...] finanche i pomelli di metallo delle porte» .
60

All’indomani dell’invasione del 1941, la popolazione civile delle città e delle campagne
sovietiche fu sottoposta a un saccheggio capillare. La speranza delle forze tedesche, come anche
di quelle giapponesi in Cina e nel Sud-est asiatico, era di alimentarsi per quanto possibile con i
prodotti della terra. Nelle sterminate distese dei territori conquistati in Russia e in Cina, gli
eserciti rubavano ai poveri contadini tutto ciò che trovavano sul loro cammino, senza alcun
tentativo di mantenere in qualche modo il tenore di vita locale. Si trattava di regioni con uno
standard di vita già basso, per cui le prospettive di fare incetta di bottino erano di conseguenza
minori. Nondimeno, le truppe tedesche e giapponesi erano scese come locuste sulle zone
occupate. In risposta agli attacchi della guerriglia cinese, i soldati giapponesi erano stati indotti
dagli ordini impartiti nel 1940 a reagire seminando il terrore tra la popolazione locale, ossia,
come riferivano le vittime cinesi, a «prendere tutto, bruciare tutto, uccidere tutto» . Nelle61

province della Cina centrale e meridionale dove la guerra infuriava, le campagne vennero
devastate da furti di bestiame e villaggi dati alle fiamme, mentre le città erano ridotte in macerie
dai bombardamenti. In Russia, l’Armata Rossa in movimento si impadroniva di tutte le provviste
di cui aveva bisogno, mentre i soldati tedeschi, dal canto loro, si appropriavano degli abiti caldi
dei russi per contrastare i rigori del clima. Per poter sostenere l’offensiva tedesca, il saccheggio
divenne sistematico. Le truppe, osservò un soldato tedesco durante l’avanzata verso Leningrado,
«non avevano altra scelta che saccheggiare gli orti. Le unità addette ai rifornimenti, inoltre,
sottraevano alla povera popolazione altri beni di assoluta necessità per il suo sostentamento.
Dietro di noi arrivavano altre formazioni che non esitavano a partecipare al saccheggio». Un
ufficiale, vedendo che le truppe sequestravano tutto il foraggio e tutti gli animali a contadini già
in miseria, si rese conto di quanto poco restasse da prendere: «Quando ce ne saremo andati, non
sarà rimasto piú nulla» .
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Quando gli eserciti alleati effettuarono saccheggi su larga scala, come nei mesi che portarono
alla sconfitta finale della Germania e alla sua occupazione, le motivazioni furono le piú
eterogenee. Le forze britanniche e americane iniziarono i saccheggi non autorizzati nella seconda
metà del 1944 mentre si spostavano attraverso la Francia. Nel 1940, quando le forze di
spedizione si erano inimicate la popolazione francese con continui furti, era stato difficile tenere
sotto controllo i saccheggi degli inglesi, che nel 1944 furono tuttavia molto piú estesi. Il governo
britannico versò infine 60 000 sterline come risarcimento per i furti compiuti dai soldati del suo
esercito. I militari americani presero cibo, bevande, vestiti caldi e coperte per affrontare il freddo
estremo dell’inverno del 1944-45; le case abbandonate dai profughi erano un esplicito invito ai
saccheggiatori. Una volta arrivate sul suolo tedesco, tuttavia, le truppe non considerarono piú il
saccheggio come un furto, bensí come il legittimo bottino del vincitore, «per alleggerire un po’ i
tedeschi», come dicevano i soldati. Solo coloro che erano colti sul fatto dalla polizia militare
potevano essere puniti, ammesso che poi lo fossero veramente. «Siamo pura devastazione»,
scrisse un sergente americano in una lettera nell’aprile del 1945. «Dopo che siamo passati noi,
rimane poco: nessuna macchina fotografica, nessuna pistola, nessun orologio, pochissimi gioielli,
e maledettamente poche vergini» . I grandi depositi degli alcolici che erano già stati saccheggiati
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in Francia dai tedeschi furono nuovamente sequestrati dai liberatori. A Coblenza, perfino mentre
si combatteva l’ultima battaglia, un giovane soldato aveva scovato una cantina piena zeppa di
champagne che la sua unità aveva usato per riempire una vasca da bagno dove gli uomini si
erano lavati a turno, «come quelle dive nude del cinema», sperando che i tedeschi non
contrattaccassero proprio in quel momento . 64

Mentre marciavano in territorio tedesco, anche i soldati sovietici facevano razzia di ogni tipo di
alcol, perfino quando gli effetti erano tossici. Furono trovati dei soldati annegati in cantine piene
del vino fuoriuscito dai fori di proiettile nelle botti. Gli ospedali erano presi di mira da vandali in
cerca di qualsiasi cosa che sapesse di alcol. I soldati sovietici avevano tuttavia anche altri motivi
per compiere razzie cosí capillari. Dopo anni di privazioni, il bottino era considerato un
insopprimibile privilegio di guerra. Le case e le fattorie sul loro cammino erano saccheggiate,
spesso distrutte in modo sconsiderato. A suscitare la furia dei soldati semplici dell’Armata Rossa
era probabilmente l’evidente divario esistente tra le condizioni della vita sovietica e la relativa
agiatezza dei tedeschi. Non riuscivano a capire perché i beni cosí limitati del popolo sovietico
fossero stati saccheggiati da invasori che già godevano di tale benessere. Sei anni prima, un
analogo confronto aveva già alimentato i saccheggi dei soldati dell’Armata Rossa durante
l’occupazione della Polonia orientale e degli stati del Baltico; ora si era però scatenata una vera e
propria orgia di rapine, da parte sia degli ufficiali sia dei soldati semplici . Il furto era
65

ufficialmente avallato, cosa che permetteva ai soldati di mandare ogni mese in Russia un pacco
da 5 chilogrammi, mentre gli ufficiali potevano inviarne uno da 14,5 kg. I servizi postali militari
furono sommersi da una marea di merci inviate alle famiglie in patria, alle quali era stata negata
per anni la possibilità di avere cibo e beni di consumo decenti .66

Il saccheggio rappresentava soltanto la punta dell’iceberg dei crimini commessi contro le


popolazioni civili. Nel corso del tempo, dalla metà degli anni Trenta alla fine degli anni
Quaranta, milioni di civili furono uccisi o morirono di fame, e una percentuale imprecisata
rimase vittima di atrocità perpetrate dalle forze armate e dai servizi di sicurezza che
combattevano sui loro territori. Come i crimini commessi tra le varie forze armate, le morti dei
civili furono la conseguenza di una serie di motivazioni e circostanze diverse. Risalire al numero
dei morti e alle ragioni di quelle atrocità si è rivelato nondimeno difficile, trattandosi di contesti
in cui erano rare le registrazioni accurate del numero delle vittime o dei danni inflitti. L’unica
eccezione è data dal quadro delle atrocità commesse in Italia, dove sia il numero delle vittime sia
i diversi frangenti sono stati mappati in tutta la penisola. Tra il 1943 e il 1945 si ebbero 5566 casi
di violenza contro i civili da parte delle forze tedesche e delle milizie fasciste italiane (mobilitate
dal governo fantoccio della Repubblica sociale di Mussolini), con 23 479 vittime, uccise per
rappresaglia in seguito ad attacchi dei partigiani, come punizione collettiva per presunte azioni di
ribellione, oppure, in alcuni casi, perché le popolazioni dei paesini si erano rifiutate di spostarsi
dalle loro terre divenute la prima linea delle ostilità. Quasi un terzo delle vittime erano partigiani,
uomini e donne inermi catturati nei rastrellamenti e privi di qualsiasi tutela legale. Benché siano
noti casi di uccisioni di donne e bambini, in Italia l’87 per cento delle vittime fu costituito da
uomini, la maggior parte in età di leva . Non mancarono alcuni massacri punitivi particolarmente
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violenti, in cui furono uccisi donne e bambini, tra cui la tragedia di Monte Sole vicino a Bologna,
le cui 770 vittime rappresentarono il piú alto numero di morti in una singola azione nel teatro di
guerra dell’Europa occidentale . In Francia, l’atrocità piú tristemente famosa, ovvero la strage e
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la distruzione del villaggio di Oradour-sur-Glane da parte di alcune unità della 2. Panzerdivision


SS Das Reich, causò la morte di 642 abitanti, dei quali 247 donne e 205 bambini,
presumibilmente come ritorsione per l’attività della Resistenza francese del posto. L’uccisione
dei civili francesi faceva seguito a un’escalation di attacchi partigiani durante l’assalto alleato
alla Normandia, dopo anni in cui le atrocità erano state, per quanto possibile, evitate. A giugno
del 1944 furono uccise 7900 persone, di cui 4000 dalla sola divisione Das Reich . 69

Le statistiche sui civili uccisi, lasciati morire di fame o torturati durante la guerra nell’Europa
orientale e sud-orientale o in Asia, mettono quasi in ombra le violenze perpetrate nell’Europa
occidentale. Nella guerra tra l’Asse e l’Unione Sovietica morirono circa 16 milioni di civili (di
cui 1,5 milioni erano ebrei sovietici); in Polonia i morti arrivarono a 6 milioni, di cui per metà
ebrei. Non ci sono dati precisi sui morti tra la popolazione civile cinese, ma le stime oscillano tra
i 10 e i 15 milioni di persone. Durante la guerra del Pacifico, nei territori occupati dal Giappone i
civili perirono a centinaia di migliaia – 150 000 nelle fasi finali dell’occupazione delle Filippine.
Circa 100 000 cittadini giapponesi di Okinawa furono uccisi dalle forze giapponesi e americane
durante l’accanita difesa dell’isola e la successiva conquista, oppure intrappolati nel brutale
fuoco della prima linea, falciati dalle raffiche degli aerei e dell’artiglieria, privati del cibo da
entrambi i contendenti, costretti a uscire dai loro rifugi per poi essere colpiti dal fuoco delle
mitragliatrici o infilzati con la baionetta oppure fatti saltare in aria dai soldati giapponesi se
cercavano di arrendersi . Nelle guerre della Resistenza, i civili potevano cadere vittime della
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violenza partigiana se erano sospettati di collaborare con il nemico o se cercavano


deliberatamente di nascondere il cibo alle brigate dei guerriglieri in fuga. Nel nord della
Birmania, i partigiani cinesi, in parte guerriglieri, in parte banditi, depredarono la popolazione
locale, radendo al suolo i villaggi e uccidendo i contadini che cercavano di opporsi alle razzie. In
Ucraina, i partigiani russi si dimostrarono spietati verso quella stessa popolazione che cercavano
di liberare dall’oppressore tedesco e impiccavano sulla pubblica piazza i presunti
collaborazionisti . I civili sovietici e cinesi erano altresí vittime dei loro stessi regimi, che non
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esitavano a colpire le comunità sospettate di connivenza con il nemico. Negli anni della guerra,
milioni di persone furono condannate all’esilio nelle zone piú remote dell’Unione Sovietica, tra
cui centinaia di migliaia di polacchi e baltici provenienti dai territori occupati dall’Armata Rossa
nel 1939-41; nel 1941, i discendenti dei tedeschi del Volga (una popolazione che si era trasferita
in Russia nel XVIII secolo) furono accusati in blocco di attività di spionaggio. Le donne e i
bambini vennero mandati in campi di fortuna in Asia centrale, gli uomini in campi di lavoro
forzato dove a migliaia morirono di fame e maltrattamenti. Nel 1944 fu la volta dei popoli non
russi della Crimea e del Caucaso, brutalmente sradicati dalle loro terre e deportati in Siberia.
Ogni cittadino sovietico rischiava di essere accusato di sabotaggio o disfattismo per la minima
infrazione o negligenza e finire per un certo periodo in un GULag, dove tra il 1940 e il 1945
morirono circa 974 000 persone.
La stragrande maggioranza delle vittime civili in Europa e Asia morí comunque per mano delle
truppe conquistatrici tedesche e giapponesi. Il tentativo di occupare l’Eurasia presentava delle
inevitabili difficoltà. Le forze giapponesi, per esempio, occupavano un territorio abitato da 160
milioni di persone con un esercito e un’amministrazione militare che doveva coprire l’intera
regione conquistata; le forze tedesche e dell’Asse avevano invaso un territorio sovietico con una
popolazione di 60 milioni di persone, sorvegliata da unità dell’esercito e della sicurezza che
contavano poche centinaia di migliaia di persone. La pacificazione era divenuta pertanto della
massima priorità sia per i comandanti giapponesi sia per quelli tedeschi, ma la portata del
compito era sconfortante e le azioni di resistenza diffuse e imprevedibili. In Russia e in Cina
esisteva uno spazio apparentemente infinito e infinitamente pericoloso. Gli invasori trattavano la
popolazione locale con una miscela tossica di terrore e disprezzo; queste zone erano considerate
mature per la colonizzazione e lo spietato trattamento dei civili non faceva che rispecchiare la
lunga storia di violente espansioni coloniali. Per i popoli che resistevano al progetto
colonizzatore non era prevista alcuna protezione dal diritto internazionale. Il trattamento
riservato dalla Germania alle popolazioni dell’Est fu fondamentalmente diverso da quello
riservato agli europei occidentali e del Nord Europa . Il modello coloniale divenne altresí
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evidente nelle atrocità commesse dagli italiani nei confronti della resistenza civile in Etiopia
nell’anteguerra e dell’insurrezione libica durante il conflitto, dove l’esercito e la brutale «polizia
dell’Africa italiana» repressero la rivolta araba e berbera con metodi considerati una pratica
coloniale accettabile: esecuzioni di massa, impiccagioni pubbliche e fustigazioni. I coloni locali
si vendicarono poi degli insorti, alcuni dei quali uccisi con granate, bruciati vivi o usati per il tiro
al bersaglio . La polizia coloniale italiana collaborava con le forze di sicurezza tedesche
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fornendo consigli e addestramento alla polizia coloniale tedesca nei territori dell’Est. Analoghe
pratiche di sicurezza furono estese al dominio italiano in Grecia e in Jugoslavia, dove l’incendio
dei villaggi e l’esecuzione di civili ricalcavano esattamente l’esperienza africana .74

In Russia e in Cina, le strategie di pacificazione erano dettate dalla necessità di creare delle
retrovie sicure per il grosso dell’esercito che combatteva su un fronte lontano. In entrambi i casi,
gli invasori si trovarono ad affrontare non solo le unità regolari del nemico, ma anche la
resistenza di forze irregolari costituite da soldati che erano rimasti isolati dalle loro stesse unità
nonché da milizie spontanee o da civili decisi a ostacolare il progetto di colonizzazione. In Cina,
i soldati regolari si liberavano delle uniformi e si mescolavano alla popolazione civile, oppure si
univano ai numerosi gruppi di guerriglieri o di banditi che operavano nelle retrovie giapponesi.
In Unione Sovietica, era difficile esercitare un controllo su comunità in cui i ribelli potevano
passare per normali lavoratori, come la giovane cameriera che a Minsk assassinò nel suo quartier
generale Wilhelm Kube, Reichskommissar per la Bielorussia. In entrambi i casi, le forze armate
giapponesi e tedesche vedevano l’insurrezione clandestina come una profonda minaccia alla
sicurezza e al benessere delle proprie truppe, un pericolo che doveva essere affrontato con
decisione e durezza. In Giappone, l’esercito era autorizzato a combattere gli insorti con le
«severe punizioni della legge» ( genju-shobun) o con «punizioni sul campo» ( genchi-shobun). I
comandanti locali, di fronte alle abituali minacce di imboscate, assassinii e azioni di
cecchinaggio, presero in mano la situazione dando carta bianca alle truppe affinché uccidessero i
civili, bruciassero i villaggi e giustiziassero gli ostaggi senza alcuna remora. Le forze tedesche,
fin dall’inizio del conflitto in Unione Sovietica, ebbero il permesso di usare tutti i mezzi
necessari per assicurare la pacificazione. A luglio del 1941, Hitler esortò i suoi comandanti dal
quartier generale nella Prussia orientale a normalizzare il piú rapidamente possibile la regione
conquistata, «sparando a chiunque possa sembrare sospetto». Il 25 luglio, gli alti comandi della
Wehrmacht emisero una direttiva in base alla quale ogni attacco e atto di violenza contro le
truppe tedesche da parte delle forze irregolari doveva essere «spietatamente represso», e se non
si fossero riusciti a trovare i colpevoli sarebbe stato necessario imporre «misure di violenza
collettiva». Fin dall’inizio della campagna tali ordini aprirono la strada all’uso della violenza
estrema nei confronti di ogni presunta minaccia. I civili dei gruppi clandestini venivano impiccati
pubblicamente come monito alla popolazione, i villaggi erano rasi al suolo e migliaia di ostaggi
furono giustiziati entro poche settimane dall’invasione. Nel corso dello stesso mese, Reinhard
Heydrich, capo delle forze di sicurezza, emanò una direttiva che permetteva l’esecuzione sul
campo di tutti gli «elementi radicali (sabotatori, propagandisti, cecchini, assassini, agitatori,
ecc.)», dando cosí libero corso a una violenza senza limiti . 75
Quando le campagne di Russia e Cina finirono in stallo, il trattamento della popolazione civile e
dei temibili partigiani si radicalizzò. Si stima che nel maggio del 1941 vi fossero sulla scena
cinese 467 000 guerriglieri, di cui alcuni non erano altro che gruppi di banditi che approfittavano
dell’assenza di leggi nei territori delle retrovie giapponesi; altri erano comunisti, altri ancora
degli infiltrati provenienti dalle regioni sud-occidentali in mano ai nazionalisti con lo scopo di
sabotare le comunicazioni giapponesi . La crescente insicurezza e la paura dei soldati del Sol
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Levante venivano quindi a proiettarsi sugli sfortunati civili in mezzo ai quali agivano i
guerriglieri. Il trattamento riservato dai giapponesi ai civili cinesi durante le spedizioni punitive
era drastico. Anche se alcune delle testimonianze successive potevano senza dubbio esagerare la
natura selvaggia dell’occupazione giapponese, sono troppi i resoconti di civili sepolti o bruciati
vivi, decapitati o annegati, oppure di bambini gettati vivi nell’acqua bollente, o di donne
impalate a terra attraverso la vagina, perché tutto questo possa essere soltanto il prodotto di voci
o invenzioni. I soldati giapponesi non solo scelsero di sfogare la loro frustrazione, il brutale
condizionamento e le costanti ansie sui civili che si trovavano davanti, ma lo fecero spesso con
calcolato e grottesco sadismo. A volte non era che il risultato di un improvviso spasmo di
violenza che si manifestava durante l’avanzata delle truppe, come la miscela tossica di euforia
per la vittoria e di desiderio di vendetta che aveva alimentato i massacri di Nanjing. Altre volte,
il motivo sembrava essere semplicemente il piacere che poteva derivare da uno spettacolo
raccapricciante, come la giovane ragazza di una missione americana in Nuova Guinea che era
stata tenuta a terra urlante mentre le veniva tagliata la testa, o i bambini olandesi costretti ad
arrampicarsi sulle palme fino a quando scivolavano esausti lungo il tronco per finire sulle
baionette che li aspettavano di sotto. A volte, era il risultato di una balzana pianificazione – la
piú strana fu la morte di trenta civili internati sull’isola di Nuova Irlanda, nel Pacifico
meridionale, tra cui sette sacerdoti tedeschi, ovvero connazionali del maggiore alleato del Sol
Levante. Anziché limitarsi a sparare contro di loro, gli ufficiali nipponici inscenarono un
assassinio agghiacciante: agli internati fu detto di fare la valigia e di andare al molo perché
dovevano essere trasferiti a diversa destinazione. Erano poi stati condotti avanti uno alla volta,
senza essere visti dagli altri, e fatti sedere sul bordo della banchina. Qui era stato loro messo un
cappuccio con due cappi rapidamente stretti da uomini in piedi accanto a loro. Dopo quello
strangolamento silenzioso i corpi erano stati legati con del filo metallico a un grande blocco di
cemento, portati al largo e gettati nell’oceano .
77

Le misure antinsurrezionali tedesche si radicalizzarono anche a causa della crescente minaccia


della Resistenza clandestina e, come in Giappone, si iniziarono a comminare dure punizioni
collettive come monito alla popolazione, affinché non si opponesse agli ordini dell’invasore o
fornisse qualsivoglia tipo di aiuto ai partigiani. La reazione tedesca univa l’operato delle unità
dell’esercito regolare e quello della polizia dietro la linea del fronte, il cui compito era mantenere
l’ordine e combattere l’attività dei partigiani, agli sforzi della polizia di sicurezza e del servizio
di sicurezza (Sicherheitspolizei e Sicherheitsdienst), che radunavano i sospettati, li interrogavano
e torturavano e, nella maggior parte dei casi, li giustiziavano . Le autorità tedesche si trovarono
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impegnate in una versione ante litteram della guerra al terrorismo, per cui erano legalmente
autorizzate a rispondere con misure sufficientemente severe da impedire ulteriori azioni
terroristiche. Dal 1941, nei territori occupati dalla Germania, i ribelli furono definiti «banditi» o
«bande», sia per evitare che fosse loro riconosciuto lo status di combattenti sia per enfatizzarne
la condizione di criminali. Il linguaggio dell’antiterrorismo permeava la lunga serie di ordini e
direttive che dal quartier generale di Hitler discendevano lungo tutta la catena di comando. Ad
agosto del 1942, Hitler deplorò la «natura intollerabile» degli attacchi terroristici e ordinò una
politica di «sterminio» – un’ingiunzione piuttosto vaga che consentiva alle unità sul campo di
effettuare massacri senza alcuna remora. A dicembre dello stesso anno, Hitler approvò infine «i
mezzi piú brutali […] anche contro donne e bambini», benché le truppe tedesche e gli uomini
della sicurezza già da molto tempo uccidessero le donne e i bambini nelle retate antipartigiane. Il
30 luglio 1944, dal quartier generale venne emesso un ulteriore Führerbefehl sulla «lotta contro i
terroristi e i sabotatori» per chiarire che, in caso si dovesse ricorrere a un’azione drastica, non si
doveva avere alcun riguardo verso i civili . A livello locale, i comandanti interpretavano le
79

direttive centrali a modo loro. Nel 1943, nelle grandi operazioni antinsurrezionali in Croazia, il
comandante tedesco aveva impartito le seguenti istruzioni: «Ogni provvedimento che assicuri la
sicurezza delle truppe [...] è giustificabile. […] Nessuno deve essere ritenuto responsabile di aver
agito con eccessiva durezza». Il generale Karl Kitzinger, trasferito in Francia dal comando in
Ucraina, ribadí che «il metodo piú duro» era sempre «quello corretto» . Le ricerche hanno 80

evidenziato che non tutte le unità operavano nello stesso modo, anche se venivano esercitate forti
pressioni sugli ufficiali affinché non esitassero a ordinare l’uccisione di civili. Il feldmaresciallo
Hugo Sperrle, ufficiale in seconda della Luftwaffe in Francia, avvertí i comandanti che se
avessero agito «in modo blando o esitante» sarebbero stati puniti, mentre sarebbero state tollerate
«misure troppo severe». Ai soldati era stato detto che avere scrupoli morali significava
macchiarsi di «un crimine contro il popolo tedesco e contro i combattenti al fronte» . 81

La radicalizzazione della politica antiterroristica tedesca, volta a includere intere comunità,


uomini, donne e bambini, non avvenne nel vuoto assoluto. Contro le forze di occupazione gli
insorti ricorrevano a tattiche terroristiche che anticipavano il modello di guerra asimmetrica che
si sarebbe sviluppato a livello mondiale dopo il 1945. Il profondo senso di paura e insicurezza
provato dalle forze occupanti, in particolare nelle zone a ridosso dei combattimenti, scaturiva dal
comportamento imprevedibile di un nemico invisibile, nascosto tra montagne e foreste lontane, o
che comunque non era possibile individuare tra le masse urbane. Se catturati, gli insorti sapevano
di non avere alcuna protezione legale, e quindi non concedevano tregua al nemico. In Unione
Sovietica, i soldati tedeschi fatti prigionieri dai partigiani venivano sistematicamente giustiziati.
Un giovane partigiano ricordava in seguito che «i bambini volevano almeno dare qualche
bastonata» a due soldati tedeschi appena catturati – tutto sommato, una lieve punizione in
confronto ai resoconti di partigiani russi che scorticavano vivi i loro prigionieri, cavavano loro
gli occhi, tagliavano loro le orecchie e la lingua, li decapitavano o li affogavano . Un partigiano 82

italiano, Giovanni Pesce, scrisse nel dopoguerra il resoconto di un conflitto in cui nessuna delle
due parti mostrava alcuna pietà: «Avevamo risposto al terrore del nemico con il terrore, alle sue
rappresaglie con rappresaglie, ai rastrellamenti con imboscate, ai suoi momenti di arresto con
azioni di sorpresa» . I successi raggiunti dalla sua brigata in poche settimane di lotta a Milano
83

illustrano la natura della campagna di terrore di cui Pesce fu protagonista:


Il 14 luglio (1944) due gappisti ferirono gravemente Odilla Bertolotti, una spia fascista, e la sera stessa altri due gappisti
distrussero un grosso camion tedesco in viale Tunisia. Un ufficiale tedesco che aveva tentato di intervenire fu ucciso. Tra il 20
luglio e l’8 agosto furono distrutti otto grossi camion e due auto del comando tedesco. Tre grossi camion furono incendiati con
bombe Molotov. In via Leopardi fu incendiato un carro armato tedesco. Due ufficiali furono uccisi84.
A pagare il costo delle attività terroristiche condotte da Pesce e altri erano i civili del posto – dei
«banditi complici», come avevano detto i comandanti tedeschi alle loro truppe –, i cui paesi
venivano distrutti e gli abitanti decimati con continue atrocità. Alla fine, la guerra dell’Asse al
terrore ebbe come esito lo sterminio di milioni di civili, nel tentativo di eliminare qualche
migliaio di uomini che terrorizzavano i loro soldati.
Uccidere i civili durante la loro avanzata non rientrava nella pratica normale delle forze di terra
alleate, anche perché, giungendo come liberatrici, si aspettavano che la popolazione le
considerasse tali. L’Armata Rossa si vendicò dei sovietici che avevano collaborato con le forze
di occupazione dell’Asse, cosa che avveniva di norma inscenando processi con successive
esecuzioni. Le prime unità dell’Armata Rossa arrivate sul suolo tedesco nella Prussia orientale si
abbandonarono a una violenza sporadica, ma estrema, contro le città e i villaggi che
incontravano, travolte dalla rabbia per la devastazione della campagna russa che avevano
attraversato. «Il cuore esulta quando attraversiamo una città tedesca in fiamme», scriveva un
soldato a casa. «Ci stiamo vendicando di tutto, e la nostra è una giusta vendetta. Fuoco per fuoco,
sangue per sangue, morte per morte» . Dopo i primi giorni di violenza, tuttavia, i comandanti
85

sovietici cominciarono a imporre una maggiore disciplina per mettere un freno alla distruzione
delle proprietà e all’uccisione di civili tedeschi (anche se chiusero un occhio sui molteplici casi
di stupro). Non è noto quanti civili morirono in quell’iniziale sete di vendetta, ma in seguito i
tedeschi che avevano in qualche modo prestato servizio sotto la dittatura hitleriana furono
radunati e messi in un ex lager, dove nel corso del 1945-46 morirono piú di 43 000 persone,
perlopiú per malnutrizione e malattia.
Dall’altro lato, le forze aeree alleate – inglesi, americane e canadesi – uccisero circa 900 000
civili nel corso dei bombardamenti dell’offensiva in Europa e nel Pacifico; piú di 140 000
vittime appartenevano alle popolazioni che avrebbero dovuto essere liberate, il che aggiunge un
ulteriore livello di complessità ai giudizi di carattere giuridico o etico sul mancato rispetto
dell’immunità dei civili. In che misura l’uccisione di nemici non combattenti sia stata un crimine
di guerra resta tuttora una questione controversa. Esistono pochi dubbi sul fatto che le bombe
causarono condizioni atroci sul territorio, visto che interi centri cittadini furono incendiati e
migliaia di persone morirono per gli effetti degli esplosivi ad alto potenziale, asfissia o gravi
ustioni. Ad Amburgo, tra il 27 e il 28 luglio 1943 piú di 18 000 tedeschi morirono arsi vivi nel
corso di una sola notte di attacchi, divorati dalla tempesta di fuoco che si era scatenata e aveva
lasciato le strade disseminate di cadaveri carbonizzati e bunker pieni di persone morte
lentamente per asfissia man mano che si consumava l’ossigeno dell’aria. La morte di 87 000
civili nel raid su Tokyo del 10 marzo 1945 o le 200 000 persone morte durante i bombardamenti
nucleari di Hiroshima e Nagasaki nell’agosto dello stesso anno stabilirono il record di civili
uccisi durante un’unica operazione.
Tutti gli stati che durante la guerra si avvalsero di attacchi aerei strategici su lunghe distanze
erano consapevoli che la concezione giuridica prevalente condannava i bombardamenti in cui a
patire maggiormente degli attacchi aerei – come vittime volute o «collaterali» – sarebbero stati i
civili e il loro ambiente di vita. In caso di incursione aerea, le «regole dell’Aia» riconoscevano la
priorità assoluta alla protezione della popolazione civile, limitando in maniera rigorosa tutto ciò
che poteva essere considerato un obiettivo legittimo. Anche se non ratificate ufficialmente, tali
regole erano considerate valide ai sensi del diritto internazionale. L’opinione pubblica
occidentale considerò gli attacchi giapponesi alle città della Cina negli anni Trenta, o i
bombardamenti italiani e tedeschi nella guerra civile spagnola, come azioni terroristiche che
violavano chiaramente non solo le regole dell’Aia ma anche le leggi di guerra internazionali
intese come tali. La posizione britannica in merito all’aspetto legale era esplicita. All’inizio della
guerra in Europa, nell’autunno del 1939, il ministero dell’Aviazione e i capi dello stato maggiore
avevano annunciato che, in base alle leggi di guerra vigenti, i bombardamenti contro obiettivi
militari in aree urbane residenziali o le incursioni notturne in cui gli obiettivi non potevano
essere chiaramente identificati, come anche ogni deliberato attacco contro i civili e il loro
ambiente di vita, erano tutte operazioni illegali . Tali restrizioni di ordine giuridico imposte agli
86

aviatori britannici, e progressivamente eliminate nel 1940 quando i bombardamenti notturni


divennero la norma per fronteggiare un nemico ormai definito barbaro, non comparivano quasi
per niente nelle valutazioni americane di che cosa potesse ritenersi accettabile nel contesto di una
campagna di bombardamenti . «Non ho mai pensato che dovesse esistere un qualche senso
87

morale tra i comandanti delle forze aeree», affermò Ira Eaker, comandante nel 1942-43 dell’VIII
Air Force degli Stati Uniti. «Un militare deve essere addestrato e abituato a fare il proprio
lavoro» . I bombardamenti in cui sarebbe stato chiaramente ucciso un gran numero di civili,
88

deliberatamente o meno, divennero pratica comune di tutte le forze aeree che effettuavano
attacchi aerei strategici su lunghe distanze. Le considerazioni di ordine legale in merito a
operazioni destinate a mietere vittime tra i civili e nel loro ambiente di vita furono in gran parte
accantonate a favore di argomentazioni pragmatiche sulle modalità di conduzione di operazioni
aeree che danneggiassero con la massima efficacia il fronte interno del nemico.
Quando si esprime un giudizio di carattere legale, si rimarcano solitamente le evidenti differenze
esistenti tra le uccisioni di civili commesse direttamente – vis-à-vis – nelle operazioni
antinsurrezionali dell’Asse e la morte di civili in seguito a bombardamenti. Le città bombardate
erano quasi sempre difese da caccia e dal fuoco antiaereo (seppure in maniera inefficace nel caso
delle città cinesi) e gli aviatori si consideravano militari impegnati in un regolare combattimento
anziché portatori di morte tra la popolazione civile. Durante i bombardamenti si creava una lunga
distanza, in senso sia letterale sia psicologico, tra chi sganciava gli ordigni e chi si trovava a
terra, una distanza che dava l’illusione che i bombardamenti fossero in qualche modo
indipendenti dall’azione umana. In teoria, le popolazioni erano libere di abbandonare le aree
minacciate, laddove le vittime delle rappresaglie non lo erano. In realtà, stiamo parlando di un
margine di libertà molto limitato, considerando le dimensioni del problema rappresentato da
un’evacuazione totale per sfuggire alle bombe, eppure fu proprio l’idea di questa presunta libertà
ad alterare il modo in cui venivano considerate le vittime civili. La maggior parte delle forze
aeree, infine, ordinava alle formazioni di bombardieri di colpire obiettivi militari in senso lato,
senza escludere quelli industriali e logistici che sostenevano lo sforzo bellico interno, ma di non
colpire deliberatamente la popolazione civile. Tale ordine nasceva dalla consapevolezza che
sarebbe stato probabilmente ucciso un gran numero di civili, il che certamente violava le regole
dell’Aia del 1923; la finalità, comunque fosse, era quella di recare il massimo danno
all’infrastruttura fisica del nemico, non di uccidere esseri umani in quanto tali – una sottile
distinzione legale che aveva ben poco significato per coloro che si trovarono sotto una pioggia di
bombe.
Le principali eccezioni furono l’offensiva dei bombardieri lanciata dagli inglesi contro la
Germania e il bombardamento del Giappone da parte degli Stati Uniti nel 1945. A dispetto delle
prime direttive di guerra, secondo le quali un bombardamento «disattento» con lo scopo di
causare vittime tra civili era illegale, la RAF, con tanto di approvazione del governo, estese la
definizione di obiettivo militare al punto da includervi intere città impegnate nello sforzo bellico
e le relative popolazioni. A partire dalle direttive di luglio del 1941 e di febbraio del 1942, ai
bombardieri fu ordinato di stroncare il morale della classe operaia attaccandola e distruggendone
i quartieri residenziali. Anche se il cambio di strategia fu mascherato con l’argomentazione che
l’uccisione e il «dislocamento» dei lavoratori erano parte integrante della guerra economica, e
quindi non un deliberato bombardamento della popolazione civile, le direttive «confidenziali»
del ministero dell’Aviazione, avallate dall’entusiasmo intermittente di Churchill affinché venisse
bombardata «ogni tana degli Unni», dimostravano chiaramente che l’eliminazione fisica di civili
e l’incendio delle aree residenziali restavano il vero obiettivo delle operazioni. A dicembre del
1942, il capo dell’aeronautica, il maresciallo dell’Aria Charles Portal, spiegò ai suoi colleghi
dello stato maggiore che l’obiettivo dell’anno successivo sarebbe stato quello di uccidere 900
000 tedeschi e renderne disabile un altro milione . In un suo scritto dell’autunno 1943, uno degli
89

scienziati assegnati al Bomber Command si rammaricava che i recenti raid non fossero riusciti a
produrre un «olocausto totale» in una certa città della Germania . La radicalizzazione della
90

strategia britannica in materia di bombardamenti trovò l’esecutore ideale in Arthur Harris,


comandante in capo del Bomber Command da febbraio del 1942. Egli non si faceva scrupoli a
proclamare che l’obiettivo consisteva in una diffusa distruzione del tessuto urbano e
nell’eliminazione fisica dei civili. Verso la fine della guerra, quando gli fu chiesto per lettera
perché stesse ancora bombardando aree in cui i precedenti raid avevano già fatto terra bruciata,
scarabocchiò sul lato della missiva che lo faceva semplicemente «per uccidere i crucchi» . Piú 91

problematica dal punto di vista etico risultava invece l’uccisione di civili francesi, olandesi, belgi
o italiani. In quel caso, gli alti comandi britannici e americani si rifecero al concetto di necessità
militare, visto che i civili uccisi con l’obiettivo di liberare i loro compatrioti non erano a quel
punto un bersaglio intenzionale. L’eliminazione fisica dei civili tedeschi era intenzionale, e ci
volle una buona dose di lavoro scientifico e tecnico per trovare il modo migliore per ucciderne il
maggior numero possibile. La strategia era una chiara violazione sia di quelle restrizioni
legislative al ricorso alla forza area che i leader politici e militari britannici avevano annunciato
inizialmente nel 1939 sia dello spirito delle convenzioni dell’Aia precedenti al 1914, che
tutelavano i civili da danni intenzionali.
Le medesime restrizioni legali e morali avrebbero potuto mettere un freno al bombardamento
delle città giapponesi da parte degli Stati Uniti, con attacchi incendiari di massa concepiti,
secondo le intenzioni dei capi delle forze aeree, sia per uccidere o rendere inabili i lavoratori
giapponesi sia per distruggere l’ambiente residenziale e industriale in cui essi vivevano e
lavoravano . Carl Spaatz, il comandante in capo delle forze aeree strategiche americane in
92

Europa, rimase scioccato dai raid incendiari sul Giappone: «Non ho mai approvato», scrisse nel
suo diario nell’agosto del 1945, «la distruzione delle città in quanto tali né l’uccisione di tutti i
loro abitanti» . Il segretario alla Guerra americano, Henry Stimson, si lamentò dei
93

bombardamenti con il presidente Truman, asserendo che non voleva «che gli Stati Uniti si
guadagnassero la reputazione di aver superato Hitler» . Fin dall’inizio della guerra, tuttavia,
94

quando il generale Marshall aveva ordinato contro il Giappone una guerra aerea e marittima
senza restrizioni, ogni scrupolo legale o etico era stato rimosso. Le città del Giappone erano
ritenute particolarmente vulnerabili a causa della loro densità demografica e della preponderanza
di costruzioni in legno. A febbraio del 1944, Henry Arnold, comandante in capo delle forze aeree
americane, aveva raccomandato a Roosevelt di dare inizio a «conflagrazioni incontrollate» al
fine di incendiare le città giapponesi e le industrie militari in esse presenti. I lavoratori
giapponesi, come quelli tedeschi, erano considerati un obiettivo legittimo in quanto parte
integrante delle attività belliche del nemico. « NON CI SONO CIVILI IN GIAPPONE », scrisse un
ufficiale dell’aviazione nel luglio del 1945, dopo che il governo giapponese aveva annunciato la
mobilitazione dell’intera popolazione civile a sostegno dello sforzo bellico . Mentre sorvolavano
95
il Giappone, gli aviatori americani non pensavano di commettere un crimine quando
incenerivano i cittadini giapponesi inermi, ma piuttosto di accelerare la fine di una guerra contro
un nemico definito barbaro, fanatico e criminale. «Sapevamo che avremmo ucciso un sacco di
donne e bambini quando bombardammo quella città [Tokyo]», scriveva il generale Curtis
LeMay, comandante del XXI Bomber Command nel teatro del Pacifico. «Doveva essere fatto» . 96

In realtà, tali attacchi non solo violavano le leggi classiche della guerra, ma anche lo spirito
dell’appello che Roosevelt aveva rivolto alle potenze belligeranti nel settembre del 1939 affinché
si astenessero dal bombardare le città nemiche. Essi erano pure in contrasto con il tentativo, nel
teatro europeo, di separare la tattica di bombardamento americana da quella britannica, che
colpiva le zone civili delle città tedesche ed era considerata poco efficace dal punto di vista
militare. Nel caso del Giappone, per giustificare la rimozione delle tradizionali questioni morali
riguardanti l’uccisione di civili ci si appellò a motivazioni di urgente necessità militare. In
seguito, nei processi intentati dopo la fine del conflitto ai criminali di guerra, sia la leadership
britannica sia quella americana si dimostrarono comprensibilmente riluttanti a inserire i
bombardamenti tra i crimini punibili. Quando lo si propose a Londra nell’estate del 1945, il
ministero degli Esteri britannico insistette per cancellare un’accusa che avrebbe reso gli Alleati
occidentali parimenti colpevoli di gravi crimini di guerra .
97

Crimini razziali.
Tra le molte atrocità commesse contro le comunità di civili si registrò un nucleo di estrema
violenza su base razziale. Che la differenza di razza o etnia potesse generare una specifica
categoria di crimini di guerra non era stato previsto in nessuno degli strumenti giuridici
internazionali redatti prima della Grande Guerra. Nel 1919, tuttavia, gli Alleati vincitori avevano
considerato la possibilità di incriminare i turchi responsabili dei massacri degli armeni,
un’iniziativa che avrebbe potuto rendere le atrocità razziali materia del diritto internazionale.
Non esisteva il concetto di genocidio – termine coniato per la prima volta alla fine della Seconda
guerra mondiale –, né ci si aspettava che uno sterminio razziale dovesse rientrare in un
procedimento giuridico internazionale. Alla fine, il precedente turco si era rivelato troppo
complesso per essere affrontato in assenza di un corpo di leggi concordate e di un tribunale
internazionale competente. La violenza razziale era un fenomeno difficile da condannare in un
mondo dominato da imperi in cui la differenza di razza era una caratteristica distintiva e la
violenza correlata, persino quella genocida, era estremamente diffusa. Quando nel 1919 la
delegazione di Tokyo volle inserire nella parte del trattato di Versailles che istituiva la Società
delle Nazioni una clausola razziale a garanzia che nessuna discriminazione sarebbe stata usata
contro i giapponesi in quanto popolo asiatico, gli altri alleati avevano rifiutato. La
differenziazione fra le razze era un elemento ben radicato nel mondo imperiale dominato dagli
europei bianchi. Per confermare l’esistenza di razze superiori e inferiori era stata mobilitata
anche la biologia moderna, sebbene la discriminazione razziale si basasse principalmente sulla
percezione delle differenze culturali. Gli europei degli stati imperiali ritenevano che gran parte
del resto del mondo fosse semicivilizzata, se non addirittura incivile, e davano per scontato che
le razze non potessero diventare uguali neppure sotto il dominio degli europei . Tale visione
98

razziale del mondo incoraggiò profondi pregiudizi nei confronti delle altre etnie, non solo nei
territori degli imperi ma anche nel crogiolo etnico dell’Europa centrale e orientale, dove l’assetto
del 1919 aveva costretto grandi blocchi etnici a vivere sotto il dominio di un gruppo nazionale
dominante e aveva lasciato la Čerta osedlosti dell’ex impero zarista, ovvero la zona dove viveva
la maggior parte degli ebrei d’Europa, in bilico tra nuovi e sconosciuti confini nazionali.
In un mondo in cui le differenze e le gerarchie razziali giocavano un ruolo cosí determinante, la
razza si pose sicuramente come un problema negli anni Trenta, allorché si tentò di costruire
nuovi imperi o difendere i vecchi; con i grandi spostamenti di popolazione durante la guerra era
inevitabile che l’odio razziale diventasse uno dei fattori che avrebbe spinto a commettere crimini
atroci. La Germania di Hitler non fu affatto l’unico regime a promuovere una visione del nemico
basata sulla razza o a usare l’appartenenza razziale come giustificazione dell’uso della violenza
estrema. Negli anni Trenta e Quaranta, anche i nuovi imperi del Giappone e dell’Italia erano stati
edificati in base al concetto di razza e condividevano con il precedente imperialismo europeo
l’idea che i nuovi popoli sottomessi fossero intrinsecamente inferiori alla razza dei colonizzatori
e potessero quindi essere trattati con il violento disprezzo riservato ai popoli sottomessi. Nella
guerra del Pacifico, il comportamento brutale delle due parti non faceva che riflettere ideologie
razziali contrapposte, ovvero l’ostilità dei giapponesi verso i nemici bianchi e il disprezzo
razziale degli Alleati per i giapponesi. Nella maggior parte di quei casi, il razzismo in sé non
bastava a spiegare l’uso della forza bruta, ma forniva una giustificazione che poteva essere
facilmente compresa anche dai soldati semplici e legittimava cosí una violenza militare che
avrebbe potuto essere altrimenti considerata una strategia criminale dagli stessi aggressori.
Nelle guerre dell’Asia e del Pacifico, la percezione del nemico sotto l’aspetto razziale permeò
tutti i livelli di combattimento, come anche il pesante trattamento riservato alle popolazioni
civili. L’atteggiamento dei militari giapponesi nei confronti dei cinesi dei territori occupati
affondava le proprie radici nella convinzione che i giapponesi fossero una razza speciale,
storicamente destinata a dominare la regione imperiale che invadeva e le razze su cui governava.
I cinesi erano comunemente considerati poco piú che animali, da trattare duramente se si
opponevano al progetto imperiale nipponico. Nelle zone conquistate nel Sud-est asiatico, le
comunità locali cinesi erano l’unico gruppo razziale a essere sottoposto ad atroci vessazioni. A
Singapore, in una deliberata «epurazione dei cinesi d’oltremare» (kakyō shukusei) seguita alla
resa britannica nel febbraio del 1942, l’esercito giapponese e la Kempeitai massacrarono fino a
10 000 residenti cinesi durante azioni di raccapricciante ferocia. Nella lotta contro le potenze
europee e gli Stati Uniti, i timori giapponesi riguardo a un «fronte unito bianco», intenzionato a
evirare il futuro della razza nipponica, lasciarono il posto a un crescente disprezzo per il nemico
dalla pelle bianca e all’indifferenza per le violazioni commesse sul campo di battaglia. I media
giapponesi presentavano l’America come un paese barbaro, la cui barbarie era esemplificata
dalle foto di Roosevelt che teneva in mano un tagliacarte ricavato dall’osso dell’avambraccio di
un giapponese . L’ostilità razziale del Sol Levante verso il nemico bianco si inseriva in decenni
99

di risentimento per la presenza delle potenze occidentali nell’Asia orientale e nella persistente
denigrazione dell’elemento giapponese da parte della visione razziale del mondo occidentale. La
minaccia del «pericolo bianco» sarebbe stata ribaltata dalla conquista giapponese del Sud-est
asiatico . Dopo la caduta di Hong Kong, una scalcinata colonna di coloni bianchi fu fatta sfilare
100

per le strade al fine di dimostrare al mondo intero la vacuità delle pretese di superiorità
dell’uomo bianco.
Anche il modo in cui americani e australiani vedevano i giapponesi derivava da lunghi decenni
di pregiudizi, ma il fondamento razziale della guerra intrapresa nel Pacifico da entrambe le
nazioni era stato ulteriormente confermato dalle invasioni dei giapponesi e dalla natura feroce
dei loro combattimenti. L’atteggiamento derivava in parte dal lascito di violenza distruttiva usata
nei confronti dei nativi americani o degli aborigeni australiani. Lo storico Allan Nevins è arrivato
alla conclusione che probabilmente «nessun nemico è stato cosí detestato quanto i giapponesi.
[…] Si erano risvegliate emozioni dimenticate dai tempi delle piú selvagge guerre indiane» . 101

L’opinione pubblica e le truppe americane condividevano tale visione annientatrice del nemico
giapponese; in un sondaggio condotto tra i veterani del Pacifico, il 42 per cento si era espresso a
favore del totale annientamento dei giapponesi. La violenza sfrenata contro i giapponesi nel
Pacifico si inseriva dunque in un quadro di estremo pregiudizio razziale divulgato dai media
alleati e fatto proprio dalle truppe. I soldati del Sol Levante, scriveva un tenente americano,
«vivono come topi, strillano come maiali e si comportano come scimmie». Un opuscolo di
addestramento militare intitolato The Jap Soldier (Il soldato giapponese) affermava che
quest’ultimo emanava in genere «l’odore di selvaggina tipico degli animali» . La risposta dei
102

soldati fu quella di reagire considerando i giapponesi alla stregua di selvaggina da cacciare per
sport. «È aperta la stagione di caccia ai giapponesi» divenne un adesivo popolare applicato sui
veicoli, insieme con numerose metafore venatorie che sottolineavano il legame tra l’eredità della
frontiera americana e la nuova frontiera del Pacifico . Le truppe australiane risposero con
103

analoga ostilità razziale ai «brutti musi gialli» o agli «sporchi bastardi gialli», che si
comportavano, come disse un soldato, da «bestie intelligenti con alcune caratteristiche umane».
In un discorso rivolto alle truppe australiane nel 1943, il generale Thomas Blamey disse ai suoi
uomini che i giapponesi erano «una razza bizzarra, un incrocio tra l’essere umano e le grandi
scimmie» . Contro un nemico definito in termini razziali cosí sprezzanti, gli eccessi di violenza
104

divennero un fatto normale, com’era stato per decenni dopo che i popoli asiatici erano entrati in
contatto con l’Occidente.
In Europa la guerra assunse connotazioni razziali diverse. Nei paesi occidentali il conflitto
generò forti ostilità, alcune delle quali erano il risultato di rozzi stereotipi del nemico, anche se
non si trattò di un conflitto razziale vero e proprio. I sondaggi americani rilevavano che solo il 10
per cento degli intervistati riteneva che i tedeschi dovessero essere sterminati o resi sterili fino
all’estinzione. La sola eccezione fu la reazione tedesca all’impiego da parte dei francesi di truppe
di colore nella battaglia di Francia del 1940, in cui vennero commesse sistematiche atrocità su
base razziale, seppure non organizzate in maniera ufficiale. L’ostilità verso il ricorso da parte
della Francia a soldati coloniali neri risaliva alla Prima guerra mondiale e all’occupazione
francese della Ruhr-Renania nel 1923, quando erano stati impiegati soldati africani per far valere
le richieste francesi delle riparazioni di guerra. Quando incontravano i Tirailleurs Sénégalais
dell’Africa occidentale, le unità tedesche facevano pochi prigionieri, uccidendone probabilmente
almeno 1500 in una serie di atrocità avvenute nel maggio e nel giugno del 1940. I soldati neri
combattevano tenacemente, a volte tenendosi a distanza per attaccare le truppe tedesche dai lati e
dalle retrovie. Gli ufficiali della Wehrmacht consideravano i neri dei selvaggi che usavano i
tradizionali coltelli a serramanico per mutilare i prigionieri tedeschi. Anche se non tutte le unità
tedesche uccidevano i soldati neri, questi erano comunque sottoposti a condizioni di prigionia
ben peggiori rispetto a quelle dei soldati bianchi ed erano oggetto di costante discriminazione
razziale. Ai Tirailleurs morti veniva anche rifiutata la sepoltura o la lapide sulla tomba .
105

Le guerre tedesche nell’Est, dalla Polonia all’operazione «Barbarossa» contro l’Unione


Sovietica, ebbero fin dall’inizio una base razziale. Le atrocità in questo caso non erano dettate
solamente dalle condizioni sul campo di battaglia, ma corrispondevano a una deliberata strategia
della leadership politica e militare tedesca portata avanti da rappresentanti dello stato. Il progetto
imperiale tedesco, che aveva il suo fulcro nella pulizia etnica e in una brutale colonizzazione, è
già stato descritto (vedi cap. II ), ma i crimini commessi sul campo nel 1941-42 da soldati,
poliziotti e agenti della sicurezza contro la popolazione ebraica dell’Unione Sovietica, sterminata
con uccisioni vis-à-vis, furono delle atrocità basate esclusivamente sulla razza come diretto
riflesso delle priorità razziali del regime. Le uccisioni di non ebrei nelle campagne
antinsurrezionali e di pacificazione avevano sí delle implicazioni razziali, tuttavia avvenivano in
un quadro di operazioni di sicurezza selvagge e indiscriminate ma non prevalentemente per
motivi concernenti la razza. Lo sterminio di circa 212 000 rom e sinti europei assecondava il
pregiudizio secondo cui i popoli nomadi erano probabilmente spie, criminali o sabotatori, anche
se il pregiudizio razziale giocò comunque un ruolo nella loro persecuzione. Nei territori dell’Est
essi venivano trattati come partigiani o loro complici, il che equivaleva a «essere trattati da
ebrei», con intere famiglie assassinate, spesso insieme con altre vittime ebree . Per gli 106

aggressori, persino le uccisioni degli ebrei sovietici – che presto comportarono l’eliminazione di
ogni uomo, donna e bambino – non avvenivano interamente su base razziale. L’identificazione
degli ebrei sovietici come portatori del virus bolscevico conferiva una finta patina politica al
progetto genocida, mentre la fantasia che, tra gli insorti, fossero gli ebrei quelli che
maggiormente attaccavano le truppe tedesche fu usata per giustificare fin dall’inizio le uccisioni
di massa. «Dove ci sono partigiani», aveva annunciato il generale delle SS Erich von dem Bach-
Zelewski nel settembre del 1941, «ci sono ebrei, dove ci sono ebrei, ci sono partigiani» . Questo
107

rozzo sillogismo serviva a mascherare il fatto che nell’estate e nell’autunno del 1941 gli ebrei,
indipendentemente dall’età o dal sesso, erano da massacrare proprio in quanto ebrei.
Le atrocità contro la popolazione ebraica ebbero inizio fin dai primi giorni della campagna
contro l’Unione Sovietica, adducendo a esile pretesto il fatto che gli ebrei avevano cercato di
ostacolare l’avanzata della Wehrmacht. Le motivazioni, a tutt’oggi, non sono ancora chiare,
anche se l’esercito aveva sempre ingigantito la potenziale minaccia rappresentata dai civili. Gli
«ordini criminali» pervenuti dal quartier generale di Hitler prevedevano l’eliminazione degli
ebrei maschi appartenenti al Partito comunista sovietico e impiegati negli organi statali, ma non
venne mai alla luce un ordine in cui si richiedesse alle forze militari e a quelle della sicurezza di
uccidere indiscriminatamente tutti gli ebrei. Ben presto, però, gli ebrei di sesso maschile in età di
leva vennero aggiunti alla lista delle vittime designate. Anche se l’eliminazione fisica di specifici
obiettivi ebrei aveva l’approvazione di Hitler e Himmler, nelle prime settimane la leadership
tedesca cercò di capire se l’opinione pubblica e i soldati tedeschi nell’Est avrebbero reagito
negativamente alle testimonianze di atrocità di massa. Divenne presto chiaro che non sarebbe
successo niente del genere, per cui, da luglio del 1941 in poi, le unità di sicurezza, sia della
polizia sia dell’esercito, nonché le quattro Einsatzgruppen assegnate alla campagna nell’Est,
furono incoraggiate a collaborare all’identificazione e alla successiva eliminazione degli ebrei
nel quadro di una piú ampia operazione di pulizia in tutto il territorio occupato .
108

A quel punto, lo sterminio di massa degli ebrei era già iniziato. Il 23 giugno, nella città lituana di
Gargždai, gli uomini dello Sicherheitsdienst arrestarono per crimini contro l’esercito tedesco 201
ebrei (inclusi una donna e un bambino), giustiziati il giorno seguente da unità della polizia
locale. Il 27 giugno, a Białystok, in quella che era stata la Polonia orientale prima dell’invasione
sovietica del 1939, 2000 ebrei furono uccisi da un battaglione della Ordnungspolizei agli ordini
della 221. Sicherungs-Division della Wehrmacht, inclusi 500 uomini, donne e bambini bruciati
vivi nella sinagoga. Benché non fossero ancora stati impartiti ordini sull’uccisione di donne e
bambini, alla fine di luglio, probabilmente su insistenza di Himmler, la pratica divenne la norma.
Quel mese, Friedrich Jeckeln, comandante della Einsatzgruppe C, ordinò alla 1. SS-Infanterie-
Brigade di eliminare 1658 donne e uomini ebrei in un’operazione di pulizia nei pressi di Žitomir
(oggi Žytomyr). Il 30 luglio, dopo che al comandante era stato rimproverato di non essersi
attenuto alle nuove disposizioni, l’Einsatzkommando 9 fucilò 350 uomini e donne ebrei a
Vileyka. Da agosto in poi, donne e bambini furono regolarmente vittime dei massacri . 109

La rapida escalation delle uccisioni di ebrei avvenne altresí nel contesto dell’«autopulizia», in
cui i non tedeschi degli stati del Baltico, della Polonia e della Romania approfittarono
dell’improvviso crollo della presenza sovietica per sfogare la loro selvaggia vendetta sulle
comunità ebraiche locali, accusate, tra le altre cose, di aver collaborato con gli occupanti
sovietici. In alcuni casi, quelle atrocità furono spontanee, in altri furono il risultato di pressioni
da parte tedesca. Nella Polonia nord-orientale, dove tra il 1939 e il 1941 la presenza sovietica era
stata particolarmente sofferta, nel periodo di transizione tra la ritirata dei russi e il radicamento
dell’autorità tedesca la popolazione locale sterminò gli ebrei in almeno venti città. Mentre le
truppe della Wehrmacht dilagavano a est, i polacchi formarono gruppi di vigilanti per attuare le
loro vendette. A Kolno, il 23 giugno, i soldati tedeschi assistettero alla carneficina di intere
famiglie ebree da parte dei polacchi del posto; a Grajewo, secondo le testimonianze rilasciate
dopo la guerra, centinaia di ebrei furono rinchiusi nella sinagoga e lí torturati in modi
raccapriccianti, con le mani legate con filo spinato, alcuni con la lingua e le unghie strappate e
tutti sottoposti ogni mattina a 100 frustate. A Radziłów, i polacchi uccisero e violentarono i loro
vicini ebrei, costringendo i sopravvissuti a entrare in un fienile che venne poi dato alle fiamme;
quando trovarono altri ebrei nascosti, questi furono costretti a salire su una scala e a gettarsi tra le
fiamme. In alcuni casi, i funzionari polacchi locali chiesero ai tedeschi se fosse permesso
uccidere gli ebrei prima di dare inizio ai pogrom. Gli ebrei, rispose un ufficiale tedesco, erano
«senza alcun diritto» (rechtlos) e potevano essere trattati nel modo in cui i polacchi ritenevano
piú opportuno . Le autorità tedesche a Berlino osservavano attentamente quelle violenze, ma non
110

fecero nulla per ostacolarle. «Non ci devono essere ostacoli alle operazioni di autopulizia»,
comunicò Heydrich alle Einsatzgruppen nel giugno del 1941. «Al contrario, esse devono essere
istigate, naturalmente in modo impercettibile, intensificate e incanalate nella giusta direzione» . 111

Anche l’esercito e le forze di polizia romene scatenarono una violenza selvaggia contro gli ebrei
dopo che il 2 luglio 1941 la Romania si uní all’invasione dell’Unione Sovietica. Mentre l’Armata
Rossa si ritirava frettolosamente dalle ex province romene della Bessarabia e della Bucovina
settentrionale, occupate dall’Unione Sovietica nel giugno del 1940, le comunità locali iniziarono
una serie di pogrom contro i loro vicini ebrei, accusati anche in questo caso di aver sostenuto
l’invasore «ebreo-bolscevico». Quando pochi giorni dopo arrivò l’esercito romeno, i massacri
erano ormai in corso; si stima che nei primi giorni di guerra il numero dei morti sia stato tra 43
500 e 60 000. L’arrivo dell’esercito romeno e delle guardie di polizia intensificò le violenze. Il 4
luglio, a Storojinet, nella Bucovina settentrionale, i soldati spararono a 200 uomini, donne e
bambini, mentre i vicini di casa delle vittime saccheggiavano le loro abitazioni. I contadini
ucraini della provincia si abbandonarono a una vendetta particolarmente efferata, uccidendo i
vicini ebrei con gli attrezzi agricoli; un macellaio kosher fu segato a pezzi mentre era ancora vivo
con i suoi stessi strumenti di lavoro . Componenti della Einsatzgruppe D affiancavano i romeni,
112

ma le violenze superavano anche le provocazioni delle SS. Gli stessi osservatori tedeschi
rimasero scioccati dal livello di brutalità e indisciplina mostrato dalle forze romene e dai loro
complici del luogo, brutalità che continuò senza sosta anche dopo la presa della città di Odessa
da parte delle forze romeno-tedesche.
La violenza di polacchi e romeni nasceva da una combinazione di cultura antisemita di epoca
prebellica e risentimento viscerale per il ruolo che si pensava gli ebrei avessero avuto
nell’occupazione sovietica. Ben presto, le stesse autorità tedesche si mossero per porre fine alle
violenze incontrollate e ai grandi saccheggi delle proprietà ebraiche, ma le manifestazioni di
ostilità verso gli ebrei in tutta l’area occupata tra giugno e settembre del 1941 cancellarono
qualsiasi dubbio residuo su una possibile escalation della violenza tedesca contro gli ebrei. In
effetti, si può affermare che le forze di sicurezza tedesche, osservando il massacro indiscriminato
delle comunità ebraiche, furono esse stesse incoraggiate ad adottare una pratica di sterminio
ancora piú capillare. Una volta divenuto chiaro che non c’era semplicemente un numero
sufficiente di tedeschi per estendere il massacro, non fu difficile trovare degli entusiasti volontari
antisemiti tra le forze di polizia e della milizia degli stati del Baltico e dell’ex zona sovietica
occupata dalla Wehrmacht in Bessarabia e Ucraina. Furono istituite delle formazioni ausiliarie
con il compito di aiutare a identificare, radunare e sorvegliare gli ebrei e condurli poi ai luoghi di
esecuzione. Alla fine del 1941 vi erano 33 000 ausiliari (Schutzmänner), divenuti 165 000
nell’estate del 1942 e 300 000 durante il picco della carneficina nel 1943. In alcuni casi i
bielorussi presero l’iniziativa di uccidere la popolazione ebraica locale, per esempio con la
distruzione del ghetto di Borisov nell’ottobre del 1941 e il massacro dei suoi 6500-7000
abitanti . Le delazioni contro ebrei nascosti e altri che cercavano di mascherare la propria
113

identità ebraica erano cosí diffuse che le autorità tedesche istituirono delle postazioni ad hoc
(Anzeigestellen) per incoraggiare le denunce; le informazioni piú accurate venivano premiate con
una taglia di cento rubli, talvolta con la promessa di ottenere l’abitazione precedentemente di
proprietà ebraica .
114

Le dita che premevano il grilletto nei massacri degli ebrei sovietici erano quasi invariabilmente
tedesche. Da luglio del 1941, Himmler e il capo della Ordnungspolizei Kurt Daluege
aumentarono in misura sostanziale il numero di quanti erano impegnati nelle uccisioni. Agli
originali 3000 membri delle Einsatzgruppen furono aggiunti circa 6000 riservisti della
Ordnungspolizei e 10 000 Waffen-SS. Il personale veniva regolarmente sollevato dall’incarico e
sostituito, ma la cifra di circa 20 000 carnefici tedeschi rimase piú o meno costante durante
l’anno di massacri che seguí. Quando era necessario, queste unità erano assistite da elementi
della Sicherheitsdienst, della polizia di sicurezza, della Geheime Feldpolizei (polizia segreta
militare) o della Feldgendarmerie. Meno frequentemente, poteva essere chiesto all’esercito di
fornire non solo armi, munizioni e rifornimenti, cosa che faceva di buon grado, ma anche, a
volte, dei soldati per eseguire le uccisioni. Non tutti i comandanti dell’esercito collaborarono con
entusiasmo quando fu chiaro che lo sterminio degli ebrei era ormai una pratica indiscriminata,
ma opinioni come quella del comandante della 6. Armee, feldmaresciallo Von Reichenau, non
erano rare: nell’ottobre del 1941 egli aveva infatti comunicato ai suoi uomini la «necessità di
ottenere una dura ma giusta espiazione dalla razza ebraica subumana» . All’inizio di agosto del
115

1941, alcune unità dell’esercito di Von Reichenau avevano collaborato con il Sonderkommando
4a, una sottounità della Einsatzgruppe C, a radunare a Žitomir 402 ebrei di sesso maschile,
principalmente anziani, per giustiziarli dopo l’arresto di due ebrei ritenuti agenti dell’NKVD. Le
uccisioni, avvenute in un cimitero della zona, misero in luce alcuni dei problemi già riscontrati
nei precedenti massacri: le vittime venivano fucilate da un plotone d’esecuzione davanti a una
fossa già predisposta, ma si era constatato che circa un quarto di loro era ancora vivo nel
momento in cui vi cadeva dentro; sparare un colpo di grazia alla testa delle vittime non era cosa
fattibile perché gli assassini venivano spruzzati di pezzi di cervello e sangue; alla fine, i
moribondi vennero abbandonati nella fossa in modo che venissero sepolti dai corpi delle vittime
successive e dagli strati di terra. Dopo l’esecuzione, gli ufficiali delle SS e dell’esercito si
incontravano per discutere sui modi piú efficaci per eseguire le uccisioni e ridurre la pressione
psicologica sui loro uomini .
116

Nei mesi che seguirono, le SS, la polizia e l’esercito misero gradualmente a punto un sistema
ordinato di procedure a seconda del luogo in cui si svolgevano le uccisioni. A settembre del
1941, nella città di Mogilëv ormai conquistata, fu organizzato su istigazione del comandante
dell’esercito della zona un corso sul trattamento da riservare agli ebrei/partigiani. Il corso si era
concluso con la dimostrazione pratica di un’esecuzione di trentadue ebrei, uomini e donne.
L’apprendimento attraverso l’esempio era molto diffuso. Dato che uccidere donne e bambini era
un’azione snervante per alcuni carnefici, alle donne venne dato il permesso di tenere in braccio i
propri bambini, che avrebbero dovuto essere fucilati prima del genitore. Quando l’ordine di
eliminare donne e bambini arrivò alle unità delle Einsatzgruppen, il capo del Sonderkommando
11b illustrò di persona il metodo ai suoi uomini: prima si sparava ai bimbi, poi alle madri . In un
117

primo momento, era normale che uno degli ufficiali della Ordnungspolizei mostrasse ai propri
uomini come si uccideva un essere umano con un colpo alla nuca e li invitasse poi a seguire il
suo esempio. Durante la seconda ondata di uccisioni di massa all’inizio della primavera del 1942,
si utilizzò l’esperienza dell’anno precedente per garantire che i massacri venissero condotti in
maniera tale da ridurre la pressione sugli esecutori e massimizzare l’efficienza delle uccisioni.
Esse prevedevano una precisa divisione del lavoro tra coloro che quel giorno erano designati
come «tiratori», quelli che controllavano il convoglio delle vittime diretto alle fosse, quelli che
guidavano i camion e quelli che mantenevano i corpi ordinatamente accatastati nella fossa in
modo che ci fosse spazio per lo strato successivo. Un ebreo ucciso a Ternopol’ (Ternopil’) lasciò
una lettera mai spedita che descriveva com’era organizzata l’uccisione: «Inoltre, devono
sistemare nelle fosse quelli che sono stati giustiziati per primi, cosí che si utilizzi efficientemente
lo spazio e prevalga sempre l’ordine. L’intera procedura non richiede molto tempo» . Gli errori
118

commessi durante un’esecuzione erano guardati con disapprovazione (anche se di solito non
venivano puniti) e ci si aspettava che gli assassini rimanessero distaccati e freddi, come se
stessero eseguendo una difficile operazione chirurgica anziché commettere un’atrocità
disgustosa. Gli uomini delle SS che dimostravano un’eccessiva brutalità – ed erano in molti –
correvano il rischio di incorrere in provvedimenti disciplinari se si riteneva che avessero
pregiudicato la filosofia dell’organizzazione con un comportamento disdicevole per un uomo
delle SS. Nel 1943, nel giudicare un ufficiale delle SS, il tribunale delle SS di Monaco osservò
che, per quanto avvilente fosse stata la sua condotta, «gli ebrei devono essere annientati; non è
una gran perdita quando si tratta di loro» .
119

Le atrocità commesse sul campo nei confronti della popolazione ebraica dell’Unione Sovietica
continuarono fino al 1942, sovrapponendosi alle operazioni dei campi di sterminio istituiti
all’inizio di quell’anno in base al programma di genocidio della popolazione ebraica d’Europa. I
campi della morte furono creati dalla dirigenza delle SS in parte per ridurre lo stress psicologico
delle migliaia di tedeschi impegnati nei massacri in Russia. Le uccisioni sul campo, tuttavia,
continuarono nel corso dell’anno durante l’avanzata dell’esercito tedesco, intrappolando nella
rete del genocidio gli ebrei che erano riusciti a fuggire come profughi dalle aree conquistate
l’anno precedente. Nel remoto villaggio di Peregruznoe, in prossimità di Stalingrado, una piccola
unità di segnalazione della 4. Panzerarmee radunò nel settembre del 1942 tutti gli abitanti e i
rifugiati ebrei – uomini, donne, bambini e neonati – con il pretesto che trasmettevano
informazioni alle lontane linee sovietiche. Il comandante, tenente Fritz Fischer, non aveva
ricevuto ordini dall’alto. Convinto nazionalsocialista e antisemita, voleva forse dare il suo
piccolo contributo al grande programma di sterminio. Durante la notte, gli ebrei vennero caricati
su dei camion, condotti poi nella steppa da un piccolo gruppo di soldati che si erano offerti
volontari o che non si erano opposti alla richiesta del loro ufficiale. Il primo camion si fermò,
agli ebrei fu permesso di scendere per poi essere falciati dai fucili mitragliatori mentre correvano
via barcollando. Per evitarsi lo spiacevole compito di uccidere il gruppo successivo in mezzo al
mucchio di morti e moribondi, i camion vennero condotti 200 metri piú avanti lungo la strada, in
un «campo della morte» ancora immacolato. Gli uomini terminarono il loro compito e tornarono
in tempo per colazione .
120

Il massacro di Peregruznoe è solo uno dei tanti esempi tra migliaia e solleva le stesse domande
che sorgono sulle uccisioni di ebrei da parte dei tedeschi in tutte le esecuzioni dirette. Tali
uccisioni erano diverse da quelle dei pogrom in Polonia, in Romania o negli stati del Baltico,
dove le comunità uccidevano gli ebrei presenti tra loro in scoppi di estrema violenza ed espropri
che duravano uno o due giorni al massimo, alimentati dall’odio etnico. Le uccisioni da parte
tedesca erano invece sistematiche e persistenti. Le unità della Ordnungspolizei che eseguirono
gran parte delle uccisioni si resero responsabili non di un solo massacro, ma di una carneficina
dopo l’altra. Il Reserve-Polizei-Bataillon 101 aveva iniziato la propria carriera omicida il 13
luglio 1942 con l’uccisione di circa 1500 ebrei del ghetto di Józefów, ma già nove mesi dopo
aveva partecipato al massacro di piú di 80 000 persone, tra uomini, donne e bambini ebrei . A 121

differenza degli istigatori dei pogrom, gli esecutori tedeschi non conoscevano le loro vittime
(anche se si affidavano a informatori locali per scovarle) e non avevano alcun motivo intrinseco
per odiarle. Gli omicidi erano compiuti a sangue freddo, al contrario degli altri esempi di
violenza genocida del XX secolo e a differenza delle molte altre categorie di crimini descritte in
questo capitolo. Come sia stato possibile per i carnefici uccidere razionalmente e senza
distinzione, perseguendo ogni singolo ebreo che trovavano con un vigore implacabile e calcolato,
va al di là di ogni spiegazione storica e psicologica.
Si è tentati di presumere che l’ideologia antisemita del regime fosse cosí radicata nei diversi
gruppi di aguzzini da permettere loro di trovare una giustificazione alle proprie azioni e mettere a
tacere qualsiasi scrupolo potessero nutrire. Evidentemente, chi era coinvolto nelle uccisioni era
consapevole di servire un regime antisemita in cui la demonizzazione dell’ebreo come nemico
acerrimo del popolo tedesco era un tema centrale. La propaganda rivolta agli uomini sul campo
sottolineava, come veniva detto in una pubblicazione di dicembre del 1941, che un obiettivo
determinante della guerra era creare «un’Europa libera dagli ebrei» . In che modo dei normali
122

soldati e poliziotti riuscissero a mettere in relazione l’idea dell’ebreo inteso come Weltfeind,
ovvero «nemico mondiale» della Germania, con le masse di persone spaventate, disorientate e
impoverite che massacravano resta ancora da chiarire. La maggior parte dei resoconti delle unità
di sterminio operanti nell’Est sottolineano il ruolo centrale degli istigatori, vale a dire quegli
ufficiali di medio e basso rango dei servizi di sicurezza e delle forze di polizia che avevano
ricevuto un addestramento politico supplementare, inclusi dei corsi periodici il cui argomento
centrale era la natura nefasta della cospirazione mondiale ebraica. Nelle conversazioni e nella
corrispondenza delle forze di sicurezza, delle SS e dell’esercito emergono spesso fantasticherie
sulla minaccia ebraica, a comprova di quanto fosse facile fare propria la paranoia di un regime
che convalidava lo sterminio di massa. «Gli ebrei ci piomberanno addosso», rifletteva un soldato
di fanteria tedesco nel 1944 riguardo alla prospettiva di una sconfitta, «e stermineranno tutto ciò
che è tedesco; ci sarà un crudele e terribile massacro» . Alcune unità contavano tra i loro
123

ufficiali e sottufficiali un’alta percentuale di nazionalsocialisti o membri delle SS che palesavano


chiaramente un certo grado di competitività o spirito di emulazione nello svolgere i loro compiti
con estrema efficienza . Per gli esecutori materiali delle uccisioni appartenenti ai ranghi della
124

polizia o dell’esercito non è possibile fare alcuna generalizzazione. Essi rappresentavano un


segmento trasversale della società tedesca, alcuni erano devoti alla causa del regime, altri no. Sia
che fossero scettici, entusiasti o indifferenti, tuttavia, tra coloro che venivano reclutati per
svolgere l’inatteso ruolo di assassino ben pochi si rifiutavano di partecipare ai massacri.
La psicologia sociale dell’esecuzione di un crimine sembra indicare che gli uomini trovavano
una varietà di modi per fare fronte al compito loro ordinato, giacché non stavano semplicemente
obbedendo alle istruzioni ricevute . Gli assassini provenivano da ambienti diversi, avevano
125

personalità diverse e si adeguavano alle uccisioni ciascuno a proprio modo. Una volta fissata una
procedura standard, la divisione del lavoro consentiva ad alcuni di evitare del tutto l’omicidio
offrendosi volontari come autisti, guardie o impiegati. Era possibile rifiutarsi di prendere parte
attiva nelle uccisioni, ma chi si rifiutava una volta poteva poi accettare di farlo quella successiva,
preso dalla vergogna per il fatto che i suoi compagni avevano invece dovuto partecipare. Altri
dimostravano invece un autentico entusiasmo nell’uccidere, tanto che a volte, dopo il primo
spargimento di sangue, dovevano essere tenuti a freno. È probabile che alcuni avessero
sviluppato odio verso le vittime la cui sorte li aveva costretti a diventare assassini loro malgrado
e che incolpassero gli ebrei, ma mai loro stessi, di quanto stava accadendo. Abbondano
testimonianze di crudeltà gratuite, cosí come certi aspetti di spettacolarizzazione dell’evento, per
esempio quando soldati e poliziotti fotografavano le torture inflitte alle vittime. L’elevato
numero di coloro che volevano assistere ai massacri richiese nell’agosto del 1941 una direttiva
del capo della Gestapo, Heinrich Müller, che ordinava alle Einsatzgruppen di «impedire
l’affollamento di spettatori durante le esecuzioni di massa» . Su insistenza di Himmler, i
126

carnefici venivano riforniti di generose quantità di alcol, spesso disponibile prima e durante le
uccisioni. Gli ausiliari ucraini erano noti per essere particolarmente crudeli quando erano
ubriachi, e si dice che lanciassero i bambini in aria per poi sparare loro come facessero il tiro al
piccione. Dopo le carneficine, gli uomini venivano incoraggiati a passare la serata insieme
facendo baldoria e bevendo. In seguito all’esecuzione di massa di 33 000 ebrei e prigionieri
sovietici nei dirupi di Babij Jar, vicino a Kiev, gli assassini si godettero un banchetto per
festeggiare l’occasione. Quelle serate erano organizzate dal comando delle SS per attenuare
l’impatto psicologico delle esecuzioni, che altrimenti avrebbe potuto danneggiare «la mente e il
carattere» degli uomini. Himmler sperava che i soldati coinvolti rafforzassero il loro legame di
onesti membri della razza germanica impegnati in un duro lavoro e resistessero al rischio di
destabilizzazione e di «depressione» . Qualcuno degli assassini soccombeva alla pressione delle
127

continue uccisioni e aveva un crollo nervoso. In quel caso veniva rimandato in Germania, e
considerato vittima di un incarico duro e snervante.
L’idea che gli esecutori dei crimini fossero in qualche modo vittime delle azioni che
commettevano, bisognosi di conforto e riposo, non era che uno dei molti capovolgimenti morali
che resero possibili i massacri da parte tedesca. La preoccupazione per il benessere degli uomini
coinvolti abbandonava le vere vittime a se stesse, praticamente invisibili nel distorto universo
morale in cui vivevano i carnefici e i loro comandanti. Le comunità ebraiche venivano dipinte
come qualcosa di estraneo alla sfera morale degli assassini, il cui dovere principale era verso la
propria unità e l’adempimento del proprio compito. Le conseguenze di quel processo psicologico
che le moderne neuroscienze hanno descritto come otherization (alterizzazione) furono profonde.
Nella crudele ritualizzazione della loro eliminazione fisica le vittime ebree diventavano meri
oggetti. In tutti i resoconti che ci sono pervenuti, cosí come nelle testimonianze provenienti dalle
unità di sterminio, manca praticamente qualsiasi esempio di esecutori che abbiano compiuto
anche solo un minimo gesto di pietà verso coloro che dovevano uccidere, perché questo avrebbe
reinserito la vittima nella sfera di una morale condivisa. Al contrario, i responsabili mettevano da
parte il senso di colpa e lo sostituivano con l’ansia che potesse trapelare un qualche segno di
scrupolo o debolezza e la preoccupazione di deludere, quindi, i propri compagni. Appartenere a
un gruppo che condivideva l’orrore permetteva loro di non considerarlo affatto un crimine nel
senso stretto del termine.
Le violenze di genere e la guerra.
I crimini contro le donne commessi durante la Seconda guerra mondiale oscillano tra i crimini di
guerra, come sono stati definiti in modo restrittivo, e i crimini contro l’umanità. Il trattamento
riservato alle donne vittime delle forze nemiche fu disumano, e gli esempi non scarseggiano.
Durante l’invasione tedesca della Lettonia, nel giugno del 1941, degli uomini del reggimento
Württemberg-Baden Grenadier avevano sequestrato due studentesse dell’Università di Riga e le
avevano legate nude a due sedie i cui sedili imbottiti erano stati sostituiti da lamine di latta, poi
avevano acceso due fornelli a petrolio sotto di loro e si erano messi a ballare in cerchio attorno
alle vittime che si contorcevano. Un anno dopo, quando le truppe tedesche riconquistarono
alcune città della Crimea, trovarono i corpi delle infermiere della Croce Rossa denudati, violati e
torturati dai soldati sovietici, alcuni con i seni tagliati, altri con manici di scopa conficcati nella
vagina. Durante la guerra in Asia, le atrocità contro le donne divennero all’ordine del giorno. A
Beipiao, un villaggio cinese del Nord, le forze giapponesi violentarono tutte le donne davanti alle
loro famiglie. Una donna incinta fu spogliata, legata a un tavolo, violentata e poi colpita con la
baionetta per strapparle il feto. I soldati avevano anche scattato delle fotografie della macabra
scena come souvenir .128

Queste sordide storie tradiscono un sadismo senza limiti e hanno in comune il crudele
sfruttamento delle donne per il divertimento degli uomini, il che rende tali atrocità uniche nel
loro genere. Nonostante siano presi a caso, simili esempi si possono trovare moltiplicati molte
volte e in molti contesti diversi. Per la stessa natura dei crimini e delle vittime, il diritto
internazionale è rimasto in gran parte silente sugli abusi sessuali subiti dalle donne in tempo di
guerra. Nella Convenzione dell’Aia del 1907, una delle direttive riguardanti l’immunità della
popolazione civile riguardava la protezione dell’«onore e dei diritti della famiglia», e per
«onore» si intendeva in linea di massima che durante una guerra le donne non dovevano subire
stupri. La Convenzione di Ginevra del 1929 specificava che le donne prigioniere dovevano
essere trattate con «tutte le attenzioni dovute al loro sesso». Eppure, «lo stupro, la prostituzione
forzata, o qualsiasi altra forma di aggressione oscena» furono finalmente definiti crimini sessuali
e dichiarati illegali solo nel 1949, con la Quarta Convenzione di Ginevra . Lo stupro, in ogni
129

caso, era considerato un crimine dalla maggior parte dei sistemi giudiziari militari. Cosí come i
soldati non dovevano saccheggiare il nemico o l’alleato, la violenza sessuale era considerata un
crimine che portava disonore ai militari e ne pregiudicava la disciplina. Ciò nonostante, i crimini
sessuali, al pari del saccheggio, erano diffusi, anche se la loro entità è impossibile da
quantificare. Le donne vittime di crimini sessuali, o di altre forme di quelle che vengono
comunemente definite «molestie», erano riluttanti a parlare del proprio calvario, o non erano in
grado di trovare canali di tutela in cui la violenza sessuale subita poteva essere presa sul serio . 130

La cultura della vergogna veniva altresí rafforzata dalla disapprovazione sociale nei confronti
della denuncia pubblica di crimini sessuali nonché dalle strategie maschili di negazione.
Il sesso era sicuramente un grande problema in tempo di guerra. Decine di milioni di uomini
venivano strappati per anni dalle loro comunità di origine, fatti alloggiare in strutture quasi
interamente maschili e con sempre minori prospettive di ottenere un congedo per poter tornare a
casa dalle famiglie o dalle compagne. Molti di loro erano sottoposti a lunghi periodi di forte
stress e a livelli innaturali di aggressività, che non facevano che aumentare il loro desiderio e la
loro frustrazione sessuale. Le autorità militari si rendevano conto di tali problemi, come anche
dei pericoli che potevano derivare da epidemie di malattie veneree se gli incontri sessuali non
fossero stati regolamentati o se agli uomini non fossero state distribuite adeguate quantità di
profilattici. Il ministero della Guerra giapponese riteneva che la presenza di bordelli per le truppe
fosse «particolarmente benefica» per la salute psicologica e lo spirito combattivo degli uomini.
Una direttiva del dicastero sosteneva che il fatto di provvedere al benessere sessuale avrebbe
«influenzato positivamente il morale, il mantenimento della disciplina e la prevenzione del
crimine e delle malattie veneree». Durante la guerra furono distribuiti alle truppe oltre 32 milioni
di preservativi per cercare di scongiurare la diffusione di malattie, ma, data la loro distribuzione
irregolare, i soldati erano incoraggiati a lavarli e riutilizzarli . Heinrich Himmler riteneva che
131

una regolare attività sessuale nei bordelli avrebbe aumentato l’efficienza non solo dei soldati
tedeschi, ma anche dei lavoratori forzati e dei prigionieri nei campi di concentramento. In alcuni
lager della Germania, dell’Austria e della Polonia furono allestite dieci baracche che ospitavano
bordelli per i prigionieri che godevano di privilegi . Era tra l’altro un modo per tenere sotto
132

controllo le malattie a trasmissione sessuale. Per garantire che soldati e uomini delle SS non si
affidassero a rimedi improvvisati e inutili, Himmler vietò ogni forma di profilattico a eccezione
dei preservativi messi a disposizione gratuitamente . Le linee guida diramate alle truppe in
133

merito al comportamento sessuale invitavano alla «moderazione e al rispetto verso l’altro sesso»,
ma le forze armate e le SS organizzarono anche case di cura per il trattamento delle malattie
veneree, poiché la priorità non era stigmatizzare le intemperanze bensí riportare gli uomini alle
loro unità combattenti .
134

L’esercito britannico non organizzò bordelli, anche se generalmente alle truppe non ne era
impedita la frequentazione, fatta eccezione per quelli del quartiere a luci rosse di Berka, al Cairo,
a causa della grande diffusione di malattie veneree. L’atteggiamento delle autorità mediche
dell’esercito era presumere che i soldati britannici avrebbero fatto la cosa giusta e si sarebbero
impegnati a non utilizzare i servizi delle prostitute, o che addirittura si sarebbero astenuti da
qualsiasi tipo di attività sessuale. Ci si aspettava che, per motivi d’onore, gli ufficiali non
frequentassero prostitute, con il rischio di essere radiati. L’astinenza sessuale, come aveva
dichiarato il direttore dei servizi sanitari in Medio Oriente, il maggior generale E. M. Cowell, «è
un dovere verso se stessi, la propria famiglia e i propri compagni». Per compensare la
morigeratezza, veniva incoraggiata la pratica di sport dinamici, sebbene fossero comunque
disponibili «kit profilattici» (sapone, cotone idrofilo, crema antisettica) per quei soldati che non
riuscivano a resistere alla tentazione – «quei tizi sensuali e piuttosto stupidi», come si era
espresso un esperto venereologo. Quando i soldati contraevano una malattia a trasmissione
sessuale e si facevano curare erano costretti a indossare una cravatta rossa in segno di vergogna;
se contraevano una malattia e non la denunciavano, perdevano la paga o subivano una
retrocessione di grado. Nel teatro di guerra del Medio Oriente, il tasso di infezione variò nel
tempo, passando da 34 su 1000 nel 1940 a 25 su 1000 nel 1942, anche se in Italia, alla fine della
guerra, il tasso era di 71 su 1000. Si trattava di livelli relativamente bassi, da cui si può dedurre
che, nel caso britannico, l’appello all’autocontrollo e alla pratica di sport salutari non fosse stato
del tutto inutile .
135

Per le forze armate tedesche e giapponesi i bordelli divennero una caratteristica centrale della
cultura militare e bellica. Già nel 1936 le autorità militari tedesche avevano deciso che le case di
tolleranza per militari erano «una necessità urgente». Il 9 settembre 1939, il ministero degli
Interni del Reich aveva ordinato la costruzione di baraccamenti in cui raggruppare le prostitute
che avrebbero offerto i loro servigi alle truppe. Le donne erano soggette a regolari ispezioni
mediche e l’accesso dei soldati era regolato in base a una media di cinque o sei incontri al mese.
I bordelli per militari proliferarono durante le campagne nell’Est, a differenza di quanto accadde
in Europa occidentale, dove i soldati potevano sfruttare la rete esistente di quartieri a luci rosse.
Le prostitute reclutate per servire i militari erano a tutti gli effetti delle carcerate; la donna che
rifiutava di prostituirsi per i soldati rischiava di essere mandata in un campo di concentramento,
dove alcune prostitute erano già state rinchiuse negli anni Trenta in quanto considerate elementi
«asociali». Per completare le quote di prostitute, la polizia prendeva donne e ragazze la cui
presunta vita dissoluta e l’ostentata sessualità le caratterizzavano come candidate alla
prostituzione forzata. A riempire i bordelli erano sempre piú spesso le donne dell’Est occupato,
oppure sinti e rom, perfino donne ebree, nonostante il fatto che i rapporti sessuali con gli ebrei
fossero proibiti dalle Leggi di Norimberga del 1935. La difficoltà di trovare donne sovietiche in
una società in cui la prostituzione era ora poco diffusa fece sí che molte di quelle che si offrivano
come «volontarie» per i bordelli lo facessero unicamente per la disperazione dovuta alla fame e
alle privazioni. Un poliziotto italiano che prestava servizio a fianco dell’esercito in Russia
descrisse una squallida visita a un bordello pieno di donne del posto: «Corpi magri, denutriti e
goffi, vestiti di stracci, con occhi spaventati, sedevano in alcove fredde e squallide». Un’elevata
percentuale delle giovani ragazze costrette dagli stenti a prostituirsi era composta da vergini, che
in molti casi venivano respinte. Gli organizzatori tedeschi iniziarono a reclutare donne polacche,
mentre i tenutari dei bordelli italiani facevano arrivare ragazze dalla Romania . Nel 1943-44,
136

mentre l’esercito indietreggiava attraverso i territori occupati dell’Unione Sovietica, la politica


della terra bruciata coinvolse anche le donne costrette a prostituirsi. A novembre del 1943,
allorché le truppe tedesche si ritirarono da Kiev, i corpi di un centinaio di prostitute furono
gettati nei burroni di Babij Jar .
137

Il servizio di prostituzione per militari di gran lunga piú grande e coercitivo fu istituito dalle
forze armate giapponesi. Dai primi mesi della guerra in Manciuria e nella Cina settentrionale, nel
1931-32, sino alla fine del conflitto, quando migliaia di prostitute coatte furono uccise in un
vortice di violenza legato alla vergogna della sconfitta, l’esercito giapponese creò, oltre a centri
di detenzione piú piccoli e spesso non autorizzati, una vasta rete di bordelli militari permanenti e
di postazioni sessuali improvvisate o temporanee che si spostavano seguendo le linee del fronte e
in cui le donne venivano imprigionate e stuprate. Alcuni postriboli erano gestiti da
collaborazionisti cinesi che utilizzavano le prostitute locali o rapivano donne e ragazze per
soddisfare la domanda giapponese. L’ampia varietà di «strutture per il sesso» viene di solito
indicata con l’unico termine, velato di tragica ironia, di comfort station (ianjo), in cui abitavano
le cosiddette comfort women (ianfu). Il termine stesso comfort sembra suggerire che gli uomini
erano considerati vittime della guerra piú delle donne che subivano la prostituzione forzata o la
schiavitú sessuale. Il sistema funzionava su vasta scala. Le autorità militari avevano calcolato
che si sarebbero rese necessarie circa 20 000 donne per ogni 700 000 soldati giapponesi. Il
numero medio di uomini che una donna doveva «servire» ogni giorno oscillava tra i trenta e i
trentacinque . Alcune di quelle donne erano state reclutate dalla polizia tra la vasta popolazione
138

di prostitute del Giappone; nel servizio sessuale militare venivano inoltre arruolate le prostitute
coreane, che lo volessero o meno, insieme con un numero imprecisato di donne coreane rapite o
indotte alla prostituzione. Si stima che ve ne fossero tra 80 000 e 200 000, di cui quattro quinti
provenienti dalla Corea . Le prostitute giapponesi godevano di condizioni migliori, avevano un
139

contratto e ricevevano piccoli compensi; molte erano destinate alle comfort stations allestite per
gli ufficiali, che pagavano di piú per i loro servigi. Non erano libere di spostarsi e, se disertavano
il loro posto, potevano essere punite, cosa alquanto bizzarra, esattamente come i militari.
La prostituzione fu imposta con la forza a decine di migliaia di donne e ragazze incarcerate nella
piú ampia e spesso informale rete di postazioni del sesso. In tutta la Cina occupata,
successivamente in Malesia, Birmania, nelle Indie orientali olandesi e nelle Filippine, le donne
erano rapite o attirate con falsi pretesti di offerte di lavoro oppure vendute dalle loro stesse
famiglie per soddisfare le crescenti richieste sessuali delle forze giapponesi. Molte delle donne
europee catturate furono costrette a prostituirsi sotto la minaccia di morte. Tutte queste vittime
erano letteralmente oggetti sessuali, classificati addirittura dall’organizzazione logistica
nipponica come «forniture militari». In Cina, in cui probabilmente circa 200 000 donne venivano
sfruttate nelle comfort stations, le vittime erano tenute prigioniere e punite severamente se
cercavano di fuggire. In alcuni casi, l’intera famiglia di una donna era decapitata come punizione
e come ammonimento per le altre donne. La supervisione delle molte postazioni di prima linea
istituite dalle singole unità dell’esercito era scarsa se non del tutto assente; alcune postazioni di
detenzione, o «fortezze», come venivano talvolta chiamate, contenevano gruppetti di donne che
subivano ripetuti stupri da parte dei soldati locali. I resoconti delle donne cinesi sopravvissute
riferiscono di regolari brutalità, cibo scadente e repentini peggioramenti della salute. Sull’isola
cinese occupata di Hainan vi erano piú di sessanta postazioni al servizio di una forza di
occupazione tutto sommato modesta. Su 300 donne cinesi costrette alla schiavitú sessuale
sull’isola, alla fine della guerra ne erano morte 200. Vi era poco controllo sul modo in cui le
donne venivano trattate, visto che, comunque fosse, potevano essere facilmente sostituite dalla
successiva ondata di rastrellamenti. Le donne che rimanevano incinte o si ammalavano venivano
uccise. In una comfort station della Cina centrale le donne rimaste incinte dopo i molteplici
stupri a cui erano state sottoposte furono legate nude a dei pali e usate per le esercitazioni con la
baionetta dagli stessi soldati che avevano precedentemente abusato di loro . Non vi è difesa né
140

alcun uso elegante della semantica che possa mascherare il terribile tributo pagato dalle donne
costrette a fornire sesso. Furono vittime di stupro dall’inizio alla fine; una donna costretta a
prostituirsi che riuscisse a sopravvivere a 100 giorni di abusi poteva venire violentata fino a 3000
volte.
Una delle tante crudeli ironie del sistema di «conforto» giapponese era la speranza delle autorità
militari di ridurre in tal modo sia il rischio di stupri estemporanei sia la diffusione di malattie,
mentre la popolazione locale avrebbe avuto al tempo stesso delle garanzie sul fatto che la
pacificazione non sarebbe sfociata in sfrenati crimini sessuali. Al contrario, in tutte le aree
occupate dalle forze giapponesi, al «conforto» dei bordelli militari si aggiunsero stupri casuali e
generalizzati. Anche se la violenza carnale fu la forma piú estrema di sofferenza imposta alle
donne durante la guerra, non mancarono tuttavia altre forme di molestie sessuali che si
discostavano ben poco dalla violazione vera e propria. Le prigioniere erano spesso costrette a
spogliarsi durante gli interrogatori per accrescere la loro ansia e umiliazione; le perquisizioni
intime corporali da parte degli uomini violavano l’integrità femminile; la tortura delle donne
comportava solitamente l’infliggere dolore ai genitali o la minaccia di stupro . Sulla definizione
141

di violenza carnale, tuttavia, non esistono dubbi, nonostante le abituali discussioni maschili su
ciò che costituisce o meno una forma di consenso: lo stupro è la violazione sessuale di una donna
senza il suo consenso. Gli orientamenti giudiziari dell’epoca in materia di stupro lasciavano
tuttavia molte zone d’ombra nella valutazione della gravità del crimine, influenzando il modo in
cui lo stupro veniva considerato dall’establishment militare maschile. Il romanziere e veterano di
guerra William Wharton ricordò in seguito che non c’era grande differenza tra i soldati russi che
investivano le donne con i loro veicoli, «come si farebbe con un cervo o un coniglio», e i G.I.
americani che usavano sigarette e cibo per sedurre le donne disperate, ovvero «quanto di piú
vicino allo stupro possa esserci, ma senza troppa violenza sfrenata» . In effetti, migliaia di donne
142

ricorsero alla prostituzione temporanea per alleviare gli stenti e la fame, portando al limite l’idea
di sesso consensuale.
Inoltre, era difficile denunciare uno stupro a un’istituzione maschile e ottenere un’adeguata
compensazione. Nell’Unione Sovietica occupata, le autorità giudiziarie militari tedesche
insistevano sul fatto che lo stupro doveva essere oggetto d’indagine solo se la donna aveva
presentato formale denuncia ed era in grado di identificare il colpevole – una decisione che
significava, a tutti gli effetti, che la maggior parte degli stupri non veniva denunciata né
indagata . Il senso di vergogna e la disapprovazione delle famiglie limitavano anche la
143

propensione delle vittime a farsi avanti per denunciare gli abusi subiti. Di conseguenza, il
numero di stupri commessi durante la guerra non è noto. Si stima che il numero di donne
tedesche violentate dai soldati sovietici nel 1945 vada da 200 000 a due milioni. Una delle stime
attuali sugli stupri commessi dai militari americani in Europa, circa 18 000, si basa su
un’indagine criminologica condotta negli anni Cinquanta, secondo cui solo il 5 per cento degli
stupri fu denunciato, un’estrapolazione impossibile da verificare . Una stima piú recente, basata
144

sul numero di bambini illegittimi registrati in Germania, ipotizza che durante il periodo di
occupazione vi siano stati 190 000 stupri da parte degli americani. Tutte queste stime, tuttavia,
non sono che congetture statistiche . Solo 904 casi di stupro da parte americana furono
145

effettivamente esaminati, ma chiaramente molti altri non vennero registrati. In un’indagine


forense del 1946, condotta in quattro province cinesi sotto controllo comunista, si arrivò alla
cifra di 363 000 stupri commessi dagli occupanti giapponesi, ma sappiamo che nel teatro di
guerra asiatico furono migliaia le donne violentate e poi uccise, e di esse non rimaneva quasi
traccia dopo la guerra . 146

Benché lo stupro in sé sia semplice da definire, in tempo di guerra esso assunse molte forme e fu
il prodotto di una serie di motivi. Tra i molti crimini di stupro di cui esiste una documentazione
storica, le violenze di gruppo (o buddy rapes) erano parecchio diffuse, a volte coinvolgevano
solo due o tre uomini, a volte molti piú soldati che abusavano ripetutamente di una vittima. Nella
campagna militare in Nuova Guinea, i soldati australiani si imbatterono nel corpo di una donna
papuana legata a testa in giú a una veranda con le gambe aperte, circondata da settanta
preservativi usati . Durante la guerra in Cina, i soldati giapponesi erano soliti dividersi le
147

vittime, tenendole a volte nelle loro stesse case per violentarle ripetutamente per giorni. Nelle
prime settimane dell’invasione della Germania si vedevano soldati sovietici rannicchiati in
gruppo e in trepidante attesa del loro turno attorno a donne e ragazze tedesche distese sul ciglio
della strada . Vi erano stupri compiuti da un predatore solitario, che agiva non appena ne aveva
148

l’occasione, molto simili alle violenze che avvenivano nelle comunità in tempo di pace; gli stupri
di gruppo avevano tuttavia uno scopo che andava oltre la mera gratificazione sessuale, ovvero
quello di consolidare il branco e rafforzare una mascolinità messa alla prova dalle paure e dai
pericoli della guerra. Quando esitava ad associarsi ai compagni, un soldato poteva essere
costretto a partecipare e non gli veniva lasciata alcuna libertà di esprimere le proprie scelte di
maschio o condannare implicitamente l’atto. Nel dopoguerra, un ufficiale sovietico ricordava nei
suoi scritti l’ansia che aveva provato quando aveva esitato ad accettare di abusare di una ragazza
tedesca proveniente da un gruppo di vittime, per timore di essere considerato impotente o
codardo . Gli stupri di massa erano spesso indotti e facilitati dall’alcol, che bloccava
149

rapidamente ogni residua inibizione, e rappresentavano in molti casi uno spettacolo di sadismo
apprezzato sia dai soldati che assistevano sia da quelli che vi partecipavano direttamente, come
nello stupro e successivo assassinio delle infermiere della Croce Rossa di Varsavia durante la
rivolta del 1944 da parte della SS-Sturmbrigade Dirlewanger, formata da assoluti psicopatici.
Dopo lo stupro di massa, le infermiere nude erano state appese per i piedi nella Adolf Hitler Platz
e prese a fucilate nello stomaco, sotto gli sguardi lascivi di una folla di soldati tedeschi,
malviventi russi e membri della Hitlerjugend . 150

In conflitti piú recenti, lo stupro è stato utilizzato come deliberata strategia per esercitare il potere
maschile e dominare o minacciare la comunità nemica. Meno scontate risultano invece le
motivazioni alla base dei frequenti stupri sistematici o di gruppo avvenuti durante la Seconda
guerra mondiale. Chiaramente, ebbe un ruolo quello che viene definito «stupro di
compensazione», quando cioè soldati frustrati e nervosi si impadronivano di un bottino sessuale
che veniva considerato una sorta di ricompensa per gli uomini in guerra . Il ricorso allo stupro
151

come espressione di dominio assoluto su una comunità nemica sottintendeva il ricorso a una vera
e propria strategia della violenza carnale. In Cina e in Germania, i soldati giapponesi e sovietici
stupravano di norma donne e giovani ragazze di fronte alle loro famiglie, uccidendo o
decapitando gli uomini che intervenivano, per rimarcare cosí l’impotenza di questi ultimi e il
potere dei carnefici. Lo stupro di massa del 1945 a Berlino, scrisse una delle tante vittime, non fu
altro che «la sconfitta del sesso maschile». Dato che potevano subire uno stupro donne di
qualsiasi età o condizione, il desiderio di dominio non faceva discriminazioni . Altri esempi di
152

stupro su larga scala si verificarono con l’allentamento della tensione dinanzi all’improvvisa
prospettiva della vittoria dopo mesi di duri combattimenti. Gli stupri di donne italiane commessi
nell’Italia centrale dalle forze francesi, in particolare dalle truppe coloniali nordafricane, furono
una reazione al crollo del fronte tedesco e alla repentina opportunità di poter saccheggiare e
violare la popolazione locale – una prospettiva che alcuni soldati delle colonie davano per
scontata data la loro personale esperienza della violenza coloniale. L’improvviso aumento nella
frequenza di denunce di stupri commessi dai soldati americani in Germania nel 1945, e piú tardi
in Giappone in quello stesso anno, fu la conseguenza di questa libido euforica da vittoria. In
Germania furono denunciati 552 stupri commessi da americani, a fronte di 181 avvenuti in
Francia e Belgio. Si stima che durante la conquista americana di Okinawa circa 10 000 donne
siano state stuprate, rapite e a volte uccise . Quando furono occupate le isole dell’arcipelago
153

nipponico, si verificò un picco negli stupri di gruppo da parte dei soldati americani e del
Commonwealth britannico, commessi contro un nemico le cui stesse violenze sessuali
sembravano reclamare un risarcimento della stessa natura. In una prefettura giapponese si
registrarono 1336 casi solo nei primi 10 giorni di occupazione. Per proteggere le donne
giapponesi da ulteriori violenze, alla fine di agosto del 1945 le autorità giapponesi autorizzarono
l’istituzione di «case di conforto», denominate eufemisticamente «Associazione per lo svago e
l'intrattenimento», in cui risiedevano 20 000 prostitute giapponesi che si offrivano agli uomini
affinché evitassero lo stupro . Alle prostitute di una città portuale era stato detto che dovevano
154

soddisfare la lussuria americana per salvare la razza giapponese: «Questo è un ordine che viene
dagli dèi. […] Il destino di tutte le donne giapponesi ricade sulle vostre spalle» .155

Che lo stupro fosse un crimine non era messo in dubbio da nessuna giurisdizione militare, ma
una cosa era che si trattasse di un’azione illegale, un’altra che i militari la considerassero un
crimine molto serio. Dei 904 soldati americani effettivamente accusati di stupro nel teatro di
guerra europea, solo 461 subirono una condanna. Appena il 3,2 per cento dei processi svoltisi
nelle corti marziali americane riguardò reati sessuali. La punizione era comunque dura, al fine di
scoraggiare ulteriori crimini, e settanta condannati furono giustiziati. La maggior parte delle
condanne riguardò soldati neri o ispanici (72 per cento), il che suggerisce che le indagini sui
crimini sessuali avevano un carattere fortemente razzista . Anche in Italia le autorità militari
156

francesi reagirono all’ondata di stupri penalizzando pesantemente le truppe nordafricane. Le


comunità locali italiane, in linea generale, puntavano il dito contro i «marocchini», benché
fossero coinvolti anche soldati bianchi francesi, a volte in «stupri di gruppo» insieme con i loro
compagni nordafricani. L’ondata di violenza sessuale si verificò principalmente tra maggio e
luglio del 1944 nelle regioni del Lazio e della Toscana; nei tre mesi intercorsi tra lo sfondamento
della Linea Gustav, la presa di Roma e l’avanzata su Firenze, le autorità italiane contarono 1117
stupri o tentativi di violenza. Lo sforzo per ristabilire la disciplina portò alla condanna di appena
156 soldati – numero di molto inferiore a quello degli stupri –, di cui 144 appartenenti alle truppe
coloniali di Marocco, Algeria, Tunisia e Madagascar. Nello stesso periodo, le autorità italiane
riportarono solo trentacinque stupri da parte di soldati americani e diciotto da parte di truppe
dell’impero britannico; di quaranta di questi casi furono ritenuti responsabili soldati neri o
indiani – un numero ancora una volta sproporzionato rispetto a quello dei militari bianchi . 157

Anche le forze armate tedesche condannavano lo stupro come crimine, ma la questione dei reati
sessuali era affrontata non tanto per la preoccupazione nei confronti delle vittime quanto per il
timore che venisse intaccato l’onore militare e per la minaccia che lo stupro poteva porre nei
confronti delle strategie di pacificazione. Lo stupro era motivo di maggiore preoccupazione nel
teatro di guerra dell’Europa occidentale, dove i crimini erano molto evidenti e la protesta locale
una cosa comune, anche se, come disse un ufficiale tedesco a un giudice istruttore francese:
«Siamo i vincitori! Voi siete stati sconfitti! […] I nostri soldati hanno il diritto di divertirsi» . In
158

Francia finirono in tribunale solo sedici casi di stupro, con sei condanne a pene detentive; anche
in Italia si contarono pochi casi, giacché i militari tedeschi volevano evitare di aizzare la
popolazione contro l’occupazione imposta da settembre del 1943 . Lo stupro fu piú comune
159

durante la guerra nell’Est, dove risultava piú difficile effettuare una stretta supervisione e
l’atteggiamento verso le donne sovietiche e polacche era condizionato dal progetto di
colonizzazione. I soldati tedeschi sapevano che la legislazione sulla profanazione della razza
avrebbe dovuto limitare i loro appetiti sessuali nei territori orientali, ma le testimonianze
dimostrano che il piú delle volte i militari chiudevano un occhio sulla violazione della legge. La
profanazione della razza era sfruttata come meccanismo di regolamentazione nello stesso Reich,
dove i prigionieri di guerra polacchi e russi o i lavoratori forzati venivano impiccati o mandati in
un campo di detenzione se sorpresi ad avere rapporti sessuali con una cittadina tedesca. Nel
gennaio del 1943, le linee guida del Reichsjustizministerium (ministero della Giustizia del Reich)
ammonivano le donne tedesche che avere una relazione sessuale con prigionieri di guerra nemici
significava «tradire il fronte e recare un grave danno all’onore della nazione». Le donne, se
giudicate colpevoli, perdevano i diritti civili e potevano andare incontro a una pena detentiva . 160
Negli sterminati territori orientali occupati dai tedeschi, in ogni caso, vi erano molte piú
opportunità di commettere crimini sessuali, anche se le prove di stupri di gruppo sono scarse. I
soldati tedeschi e gli uomini della sicurezza usavano la scusa della caccia agli insorti per
molestare le donne che arrestavano o perquisivano; la tortura sessuale era usata senza remore. I
soldati tedeschi nutrivano un odio particolare per le donne cecchino sovietiche, le cosiddette
Flintenweiber, le «mogli con il fucile». Quando venivano catturate, rischiavano di subire torture
sessuali, mutilazioni genitali e stupri. Si potevano vedere a volte i loro corpi a gambe divaricate
lungo la strada, vestite solo con la giacca dell’uniforme – un chiaro avvertimento alle donne di
non sfidare gli uomini in un mondo di uomini . In effetti, il sistema giudiziario militare esaminò
161

e puní un certo numero di stupri, in particolare quando essi comportavano altre forme di violenza
gratuita oppure addirittura l’omicidio, pronunciando in alcuni casi pesanti condanne. La maggior
parte dei crimini sessuali, tuttavia, comportava da due mesi a due anni di punizione, da
trascorrere per gran parte prestando servizio in un battaglione penale dove un comportamento
esemplare poteva guadagnare il condono della pena. La priorità piú importante rimaneva il
rientro degli uomini nel servizio attivo. Lo stupro non era definito un «crimine primario» e vi era
poca simpatia per le donne sovietiche, che, secondo la visione tedesca della società russa,
difettavano di «integrità sessuale». Le motivazioni delle sentenze che ci sono pervenute indicano
che gli uomini condannati erano stati ritenuti colpevoli non solo di stupro, ma anche di
negligenza o di comportamento antisociale, il che si rifletteva negativamente sulle forze armate e
minava gli sforzi di pacificazione nella vasta regione orientale: «Danneggiava gli interessi delle
forze armate tedesche», «danneggiava la reputazione delle forze armate», minava l’«opera di
pacificazione» e cosí via. A questi soldati «asociali» venivano inflitte pene molto piú severe . 162

Nell’Est, come altrove, il crimine sessuale era deplorato per l’impatto che avrebbe avuto sulla
reputazione degli uomini delle forze armate nella zona occupata, non per la condotta morale dei
responsabili o per il terrore che incuteva nella vittima.
In due casi i crimini sessuali rimasero diffusi e impuniti perché le istituzioni militari coinvolte
tolleravano gli eccessi sessuali e facevano pochi sforzi per frenarli. Pur contravvenendo al codice
militare nipponico, nella condotta comportamentale lo stupro era classificato come una
sottocategoria e durante la guerra solo 28 soldati furono condannati per violenza sessuale dai
tribunali militari e altri 495 dai tribunali penali nazionali . Sul campo, i soldati approfittavano in
163

ogni modo possibile della vulnerabilità e dell’impotenza delle donne dei territori occupati. Si
stima che a Nanjing siano state violentate, mutilate e uccise circa 20 000 donne, benché tale cifra
non sia verificabile. Quando dinanzi a un ufficiale giapponese furono sollevate le proteste per lo
stupro di massa delle infermiere in città, egli replicò: «Dovrebbero sentirsi onorate di essere state
stuprate da un ufficiale dell’esercito imperiale giapponese» – un’opinione che non nascondeva
sicuramente alcuna ironia . Durante il lungo periodo di guerra, lo stupro divenne una
164

caratteristica endemica della cultura militare giapponese, favorito dalla convinzione generale
degli alti comandi che il sesso, anche in condizioni di atrocità incontrollate, aiutava a rinnovare
lo spirito combattivo degli uomini. Dal momento che le forze armate giapponesi avevano accesso
alla piú grande organizzazione di bordelli militari rispetto a qualsiasi altra forza armata, il
persistere di stupri di massa al di fuori del sistema regolarizzato delle comfort stations fa pensare
che negli atteggiamenti dei giapponesi dell’epoca verso le donne vi fossero problematiche piú
profonde, in particolare verso le donne del nemico, trattate come semplici oggetti di crudele
gratificazione anziché come esseri umani. Data la sua diffusione, lo stupro evidentemente non
era considerato un crimine in senso convenzionale. Ai soldati giapponesi veniva insegnato a
operare in un rigido universo morale di lealtà collettiva nei confronti dell’imperatore, in cui il
rispetto per l’umanità di coloro che si trovavano al di fuori di tale ordine morale era
sostanzialmente assente.
Gli stupri di massa da parte dell’esercito sovietico furono diversi da quelli giapponesi, non
ultimo perché rimasero in gran parte confinati a un anno di estrema violenza sessuale, ovvero
quando l’Armata Rossa penetrò nell’Europa orientale e in Germania nella corsa finale verso la
vittoria. Pur essendo un crimine previsto dal codice militare sovietico, lo stupro era scarsamente
utilizzato come capo d’accusa contro i soldati che avevano abusato delle donne nemiche. Il
crimine sessuale era tollerato ai vertici stessi della dittatura. Quando nel 1945 l’eminente
comunista jugoslavo Milovan Đilas protestò con Stalin per gli stupri di donne jugoslave
commessi dai soldati dell’Armata Rossa, il commento di Stalin, dopo tutti gli orrori che i soldati
sovietici avevano vissuto, fu: «Cosa c’è di cosí terribile nel divertirsi con una donna?» . Un
165

ufficiale russo, Lev Kopelev, che aveva cercato di impedire gli stupri da parte dei soldati, fu
accusato di «umanesimo borghese» e di «pietà per il nemico» e condannato a dieci anni di campo
di lavoro. Anche in questo caso, un universo morale ristretto plaudiva alla ferocia con cui il
nemico veniva punito e assolveva gli stupratori dalle loro colpe. Dov’era possibile, le autorità
militari cercavano di porre un freno agli stupri, ma questo solo per l’indisciplina che essi
incoraggiavano e l’ostilità che provocavano nella popolazione, non necessariamente perché li
disapprovavano . La propaganda dell’Armata Rossa aveva spianato la strada agli stupri futuri:
166

«Spezzate con la forza l’arroganza razziale delle donne germaniche!» esortava Il’ja Ehrenburg.
«Prendetele come legittimo bottino di guerra!» . Gli uomini dell’Armata Rossa, del resto, non
167

avevano bisogno di molti incoraggiamenti. Gli stupri dei collaborazionisti o dei non russi che si
trovavano sul loro cammino cominciarono ancora prima di raggiungere la frontiera sovietica.
Dopo l’occupazione di Bucarest nel 1944 e di Budapest all’inizio del 1945, i soldati si
scatenarono in entrambe le città in una sorta di frenesia sessuale, alimentata da tutte le scorte di
alcol che riuscivano a trovare. Si stima che in Ungheria furono stuprate circa 50 000 donne e
ragazze, anche se nel dopoguerra il regime comunista di Budapest insistette per anni che gli
uomini dell’Armata Rossa erano stati dei liberatori modello e che il sesso era stato consensuale . 168

In tutta la Prussia orientale e lungo la strada fino a Berlino, donne e ragazze di ogni età furono
vittime di stupri di gruppo, a volte mutilate e uccise se opponevano resistenza, a volte torturate e
mutilate per puro divertimento. «Quattro anni senza donne», ricordava un veterano. «E
acchiappavamo le ragazze tedesche e… In dieci ne violentavamo una… ma non bastavano mai,
la popolazione stava fuggendo dall’Armata Rossa… cosí prendevamo anche quelle piú
giovani… di dodici o tredici anni… se piangeva, la picchiavamo, le ficcavamo qualcosa in bocca
e… le faceva male e a noi faceva ridere» . I soldati dell’Armata Rossa erano inoltre infiammati
169

da un profondo odio per il nemico e vedevano le donne non come un semplice oggetto per
soddisfare le voglie represse, ma anche come un modo per imprimere la loro conquista sui corpi
umani e sulle nazioni che avevano violato la società sovietica. Lo stupro era altresí un modo per
fare piazza pulita delle false rivendicazioni di una superiorità razziale germanica. La violenza era
incontrollabile e indiscriminata, indirizzata in molti casi verso le profughe, che, lontane dalle
comunità di origine, erano piú vulnerabili. Non venivano risparmiate nemmeno le prigioniere dei
campi, né diverse donne ebree che erano riuscite a nascondersi negli anni della persecuzione
antisemita per poi emergere dai loro rifugi e finire violentate dai loro stessi liberatori.
Per le donne ebree gli anni della guerra rappresentarono un doppio pericolo, essendo vittime
della persecuzione razziale e al tempo stesso di abusi sessuali. Anche se le leggi tedesche sulla
profanazione della razza erano state inizialmente promulgate al preciso scopo di proibire i
rapporti sessuali tra tedeschi ed ebrei, furono pochi i casi in cui soldati o uomini delle SS o della
polizia furono puniti per essersi fatti beffe della legge. Un ufficiale tedesco disse perfino a
Henryk Szoszkies, uno dei leader della comunità ebraica di Varsavia, che cercava di reclutare
giovani ragazze ebree per un bordello militare: «Non preoccupatevi delle leggi razziali. La
guerra è guerra, e in questa situazione tutte le teorie svaniscono» . Poiché lo stupro delle donne
170

ebree era considerato un atto trasgressivo, molte delle prove venivano fatte sparire. Nell’Est era
piú facile nascondere gli abusi, e visto che gli ebrei erano comunque destinati allo sterminio,
molte donne venivano violentate prima di essere uccise, come nel caso dello stupro di gruppo e
omicidio di due ragazze ebree da parte di sette soldati, avvenuto vicino al burrone di Babij Jar . 171

Le donne ebree erano talvolta tenute come concubine dagli ufficiali delle SS e successivamente
uccise o mandate nei campi; si racconta di uomini e soldati delle SS che facevano incursioni nei
ghetti ebraici per trovare ragazze da violentare; l’identità razziale delle donne ebree mandate nei
bordelli dell’esercito e costrette con la forza a prostituirsi veniva celata alle autorità militari;
anche le ebree che vivevano nascoste potevano essere minacciate dai maschi che le stavano
proteggendo .172

Poiché gli ebrei erano considerati vittime che si collocavano al di fuori di ogni ambito giuridico,
non era previsto alcun risarcimento per chi aveva subito uno stupro o un abuso. Il fatto di essere
isolati e perseguitati li rendeva un facile bersaglio anche per i non tedeschi, sia delle milizie e
guardie ucraine al servizio dei tedeschi ai tempi dell’Olocausto sia degli antisemiti delle regioni
«liberate» negli stati del Baltico. In Romania, l’esercito e la polizia si abbandonarono a reiterate
violenze sessuali contro le comunità ebraiche dopo l’invasione e la rioccupazione della
Bessarabia e della Bucovina settentrionale e le deportazioni degli ebrei romeni della Transnistria.
I soldati romeni si aggiravano per le strade e i mercati dei ghetti sequestrando giovani donne per
le basi militari del posto. Nell’estate del 1942, le ragazze di un gruppo portato via dal ghetto di
Beršad’ (Berşad) furono costrette a passare «attraverso i ranghi» nelle caserme, dove, secondo
quanto riferito, furono violentate fino alla morte . Molte testimonianze postbelliche sugli stupri
173

di donne ebree si sono focalizzate sui campi di concentramento, dove le donne erano
completamente isolate, indifese e vittime di violenze sessuali casuali e degradanti. In quel
terrificante mondo di tenebra fatto di crimini sessuali basati sulla razza, le donne ebree erano
costrette a subire la loro doppia condizione di vittime.
Delitto e castigo.
La stragrande maggioranza dei crimini di guerra rimase impunita e di solito neppure
documentata, se non attraverso i vivi ricordi dei testimoni oculari. Per altro, non tutto il personale
militare commise dei reati. Un calcolo approssimativo dei crimini di guerra attribuiti ai militari
americani nel teatro di guerra del Pacifico ha evidenziato che i responsabili non furono piú del 5
per cento; in un sondaggio condotto durante il conflitto, solo il 13 per cento dei militari
statunitensi ammise di essere stato testimone di crimini, anche se il 45 per cento ne aveva sentito
parlare . Nelle forze armate piú grandi, tuttavia, anche solo un coinvolgimento del 5 per cento
174

produrrebbe forse a livello mondiale una cifra di cinque milioni di crimini, dalle violenze
commesse illegalmente sul campo di battaglia ai saccheggi, dagli stupri alle esecuzioni di massa
e agli omicidi. Soltanto le forze di polizia e di sicurezza assegnate ai teatri di guerra in Russia e
in Asia commisero abitualmente delle atrocità, soprattutto quando parteciparono alle «uccisioni
selvagge» di ebrei nell’Europa orientale e in Russia ma anche nel contesto di feroci operazioni
antinsurrezionali. In nessuno dei due casi quegli uomini pensavano che le loro azioni fossero
criminali.
L’atteggiamento dei soldati semplici nei confronti del crimine variava notevolmente, passando
da una convinta disapprovazione a una cinica accettazione del fatto che la guerra totale rendeva
il delitto inevitabile; all’altra estremità dello spettro vi era chi si rifiutava di accettare che quanto
commesso potesse essere definito senza alcuna ambiguità un’azione di natura criminale. Nei
ricordi dell’eccessiva brutalità del tempo di guerra, l’effetto deformante esercitato sulla natura
umana era solitamente attribuito alle condizioni del conflitto: «Quanto in basso possono
precipitare gli esseri umani», scrisse William Wharton, «quando si toglie loro il guinzaglio» . In 175

molti casi, i colpevoli giustificavano le loro azioni come conseguenza di un’astratta costrizione
esterna sotto la quale svaniva ogni scelta morale individuale. Azuma Shirō, che scrisse
dell’uccisione di 7000 prigionieri cinesi nel diario in seguito pubblicato, non riusciva a
considerare il crimine «inumano o orribile». «Sul campo di battaglia, la vita non ha piú valore di
un pugno di riso», proseguiva. «Le nostre esistenze vengono gettate in un grande bidone della
spazzatura chiamato guerra» . 176

Durante il massacro degli ebrei nell’Europa dell’Est, nei numerosi luoghi in cui le uccisioni
avvenivano vis-à-vis, si poneva l’accento sulla necessità di mantenere un certo ordine nella
coreografia della carneficina, arrivando fino al punto di impartire istruzioni sulle dimensioni
precise delle fosse in cui le vittime sarebbero state sepolte e insistere che gli ebrei attendessero la
propria ora facendo una fila ordinata . Quando a un poliziotto di scorta a una colonna di ebrei
177

condotta dal ghetto di Riga al luogo dell’esecuzione venne chiesto perché sparava ai vecchi e
agli infermi lungo la strada, egli aveva risposto: «Stiamo agendo in assoluta conformità con le
istruzioni ricevute. Dobbiamo attenerci strettamente al programma di spostamento della colonna
verso il luogo designato; per cui stiamo eliminando dalle file tutti quelli che potrebbero rallentare
il passo» . Il desiderio di ordine e le istruzioni impartite dettavano il senso del dovere degli
178

aguzzini e annullavano la necessità di rispettare l’umanità delle vittime. «Qualcuno deve pur
farlo», aveva risposto nei territori orientali un poliziotto alla domanda sul perché di tutto ciò.
«Gli ordini sono ordini» . Tale rimozione della responsabilità individuale era evidente anche
179

durante i bombardamenti. Gli equipaggi degli aerei, non importa se tedeschi, inglesi o americani,
non si consideravano agenti di uccisioni di massa di civili (benché il risultato fosse proprio
quello), bensí militari il cui compito era quello di portare le bombe dalla base all’obiettivo come
da ordini ricevuti, evitare il fuoco della contraerea e i caccia nemici, sganciare gli ordigni e
tornare alla base. Quasi nessuna delle memorie scritte dagli equipaggi dei bombardieri si
sofferma su qualche senso di sbandamento morale per aver violato l’immunità della popolazione
civile, ponendo invece in risalto il forte impegno morale che i membri dell’equipaggio avevano
l’uno verso l’altro e il fatto che la loro sopravvivenza era prioritaria.
Le migliaia di esecutori di crimini, grandi o piccoli, non erano dei sadici di professione o degli
psicopatici ma, in generale, degli uomini comuni (e qualche donna), che nelle loro comunità di
origine mai si sarebbero sognati di commettere un furto, uno stupro o un omicidio. Non erano
esattamente degli «uomini comuni», come ha sostenuto Christopher Browning in un libro
rivoluzionario sul genocidio nell’Europa dell’Est, perché erano soldati e guardie della sicurezza,
selezionati e addestrati per uccidere il nemico, combattere senza pietà le insurrezioni o obbedire
all’ordine di sterminare qualsiasi presunta minaccia alla razza. È evidente che qualcuno tra i
milioni di militari e poliziotti avesse delle tendenze psicopatiche, e le avrebbero potute avere
pure nella vita civile, anche se le organizzazioni militari in generale cercavano di eliminare dai
ranghi chiunque fosse manifestamente disturbato. Negli «uomini ordinari» il cambiamento era
causato dalle circostanze eccezionali in cui si trovavano, quando la bussola morale che a casa
dettava il loro comportamento diventava molto debole o del tutto assente. Nel deserto morale dei
combattimenti in Asia, nel Pacifico o nell’Europa dell’Est, gli aggressori divennero assuefatti a
un mondo distorto di violenza estrema, in cui i normali limiti posti a comportamenti sadici o
all’omicidio erano stati capovolti; tali comportamenti erano divenuti oggetto di approvazione,
perfino momenti di intrattenimento di quello che uno storico ha definito «turismo
dell’esecuzione» . In questi ambienti di totale alienazione, la bestialità era un processo
180

cumulativo e ogni atto impunito spingeva in avanti la soglia di ciò che era ammissibile. Alla fine
della sua carriera omicida sul fronte orientale, un poliziotto tedesco disse alla moglie che «poteva
sparare a un ebreo mentre mangiava un panino».
L’assenza di una solida bussola morale fece sí che tra i responsabili furono pochi a esprimere un
profondo rammarico, sia all’epoca sia in seguito. Molte delle atrocità furono atti collettivi, in cui
la responsabilità veniva distribuita nel gruppo, liberando cosí il singolo individuo dal peso della
colpa. I crimini commessi sul campo di battaglia, in particolare, rappresentavano una sorta di
giustizia approssimativa in assenza di qualsiasi controllo ufficiale. Dopo la guerra, il comandante
di un sottomarino americano affermò che quando gli veniva chiesto se avesse degli scrupoli di
coscienza verso tutti i marinai e soldati che aveva abbandonato al loro destino nell’oceano, era
solito rispondere: «No, anzi, consideravo in effetti un grande privilegio poter ammazzare quei
bastardi» . Nelle molte deposizioni di guardie della sicurezza che uccisero ebrei nell’Est,
181

raccolte durante i processi degli anni Sessanta, ogni senso di disfatta morale era riservato non
alle vittime, bensí ai momenti in cui avevano deluso i loro compagni o erano venuti meno al
proprio dovere . In una testimonianza orale rilasciata negli anni Novanta da una vasta cerchia di
182

sopravvissuti tra gli equipaggi dei bombardieri della RAF, solo uno ammise di sentirsi pentito
per essersi comportato «come un terrorista» quando aveva sganciato le bombe sui civili . In tutti
183

quei casi, l’idea di criminalità era ampiamente assente dalle riflessioni postbelliche. In tempo di
guerra, la criminalità era stata invece proiettata sulla comunità delle vittime in quanto oggetto di
profondo risentimento. Le insurrezioni erano considerate illegali e quindi le dure punizioni
inflitte in quei casi erano moralmente giustificate; nella visione del mondo nazionalsocialista, gli
ebrei erano considerati dei cospiratori intenzionati a distruggere il popolo germanico, e questo
loro crimine giustificava la natura estrema della reazione tedesca; perfino il crimine sessuale
poteva essere presentato come qualcosa che le donne meritavano e non come un’immeritata
violenza inflitta loro.
I crimini e le atrocità non seguivano alcun modello generale. Furono minori per numero e
intensità nell’Europa occidentale e settentrionale, dove la struttura e il sistema giudiziario locale
erano rimasti in vigore durante l’occupazione e dove i crimini erano individuati e denunciati con
maggiore facilità. I teatri di guerra piú atroci, in cui vennero a sovrapporsi su larga scala crimini
di guerra commessi sul campo, crimini razziali e crimini sessuali, furono le zone in cui le
strutture statali erano state indebolite o del tutto rovesciate dall’invasione e dall’occupazione o
dove si verificarono grandi spostamenti di profughi o deportati e la giustizia ordinaria era
difficile da garantire o largamente assente. In quelle circostanze eccezionali, le comunità locali
risultarono estremamente vulnerabili quando vi si riversarono le forze armate del nemico. Le
dimensioni stesse delle campagne di guerra fecero sí che la polizia militare e le autorità
giudiziarie non fossero in grado di porre un freno a tutti gli episodi di criminalità. Il fattore che
rese particolarmente pernicioso il comportamento delle forze militari e di sicurezza in Asia e
nell’Europa orientale non fu tuttavia l’assenza di controllo, anche se questo ebbe la sua parte,
bensí la regia attiva, l’approvazione e la tolleranza della violenza da parte della leadership
militare e politica. Gli «ordini criminali» tedeschi, la strategia giapponese di «prendere tutto,
uccidere tutto, bruciare tutto» o l’ingiunzione di Stalin all’Armata Rossa nel novembre del 1941
di condurre una propria «guerra di sterminio» che fosse pari alla violenza dei tedeschi furono
tutti elementi che contribuirono alla degenerazione delle consuetudini e delle leggi di guerra di
quell’epoca. La ferocia di una delle parti provocava a sua volta, come nel caso dei militari
americani, una reazione di pari ferocia che veniva largamente tollerata dai comandanti sul
campo. «I soldati che abbiamo affrontato non li consideravo come persone», ricordava un
veterano dell’Americal Division parlando di Guadalcanal. «Torturavano [...] i prigionieri e
mutilavano i nostri morti e feriti. Li consideravamo la forma di vita piú bassa» . In quegli atroci
184

teatri di guerra, le vittime dei crimini erano di fatto disumanizzate. Lo stesso autore del diario
che scriveva sull’uccisione dei prigionieri cinesi, li descriveva come «un branco di bestie» a cui
era «impensabile» pensare in termini di nemici umani . L’ammiraglio William Halsey riteneva
185

che i giapponesi fossero «come animali. […] Si addentrano nella giungla come se vi fossero
cresciuti e, come capita con certe bestie, non le vedi mai se non quando le trovi morte» . Perfino
186

nei bombardamenti il bersaglio umano veniva camuffato con un linguaggio eufemistico. Quando
il segretario generale del Consiglio federale delle Chiese di Cristo domandò a Truman di
giustificare lo sgancio delle bombe atomiche, il presidente diede la sua famosa risposta: «Quando
hai a che fare con una bestia, devi trattarla da bestia» .
187

La maggior parte dei responsabili di crimini e atrocità sopravvissuti alla guerra evitò ogni forma
di punizione. La vittoria degli Alleati nel 1945 spazzò via qualsiasi denuncia che avrebbe potuto
essere formulata contro le forze anglo-americane, lasciando in prigione solo quei pochi soldati
che erano stati condannati per gravi crimini. In Unione Sovietica, la giustizia colpí coloro che
criticavano i crimini dell’Armata Rossa o quei prigionieri di guerra che al rientro in patria furono
accusati di codardia o collaborazionismo con il nemico, ma non i veri colpevoli. Per quanto
riguarda l’Asse, molti dei colpevoli di crimini di guerra e contro l’umanità erano già morti alla
fine del conflitto, rendendo in molti casi superfluo il compito di rintracciare e incriminare i
colpevoli individuati. La maggior parte di loro si reintegrò nella società civile, nuovamente
all’interno di un quadro di riferimento tradizionale di giustizia ordinaria e di limiti morali,
lasciandosi alle spalle saccheggi, stupri e omicidi. Ci vollero vent’anni prima che le autorità
giudiziarie della Germania Federale cominciassero ad arrestare e poi perseguire le centinaia di
poliziotti riservisti che avevano preso parte al massacro degli ebrei in Polonia e in Russia, ma le
brevi pene detentive a cui furono condannati non fecero che negare la realtà, ovvero le decine di
migliaia di uomini, donne e bambini al cui assassinio avevano contribuito molti di loro. In
Giappone si fece ben poco per incriminare soldati o marinai per crimini di guerra, anche se le
autorità di polizia dovettero collaborare con gli Alleati nell’identificazione di quei militari
considerati criminali dai vincitori. Dopo il 1945, la società giapponese continuò ad asserire per
anni che le azioni dei militari avevano la loro giustificazione nei servigi resi agli ideali
dell’impero e non potevano quindi considerarsi criminali in nessun senso. Dopo la fine della
guerra, un ufficiale scrisse di disapprovare la tendenza occidentale a descrivere i massacri a cui
egli aveva preso parte come «atrocità»: «In tempo di pace, questi atti sarebbero totalmente
impensabili e disumani, ma nell’assurda realtà del campo di battaglia, è facile commetterli» . 188

Gli Alleati vincitori intendevano comunque usare la loro vittoria per denunciare al mondo la
malvagità dei loro ex nemici. Anziché identificare i milioni di soggetti coinvolti nei crimini, si
concentrarono su quelle figure di comando di alto e medio rango che potevano essere ritenute
responsabili di quanto commesso sul campo dalle truppe ai loro ordini. Il fatto che a essere
perseguiti secondo il diritto internazionale fossero singoli individui ben precisi anziché stati o
istituzioni astratte fu di per sé un’innovazione notevole. Nondimeno subentrarono notevoli
difficoltà nel caso di crimini di guerra e contro l’umanità, poiché la Convenzione dell’Aja del
1907 non aveva definito in modo esplicito le azioni che condannava come criminali, ma
semplicemente come violazioni del periodo di guerra che le potenze firmatarie si impegnavano
concordemente a evitare. Anche se tali norme restrittive sul trattamento dei prigionieri e i
saccheggi (articoli XXII, XXIII e XXVIII) furono usate come punto di partenza per il dibattito
sui crimini di guerra, i Tribunali militari internazionali (IMT, International Military Tribunal),
istituiti per processare i principali criminali in Germania e Giappone, dovevano comunque prima
definire come «criminali» le azioni commesse. I giuristi degli Alleati sostennero che esisteva
un’interpretazione comune e consuetudinaria delle violazioni delle leggi di guerra e che i
tribunali militari convenzionali trattavano già sistematicamente tali trasgressioni come reati,
senza bisogno di alcun riferimento alla Convenzione . La Carta di Londra, firmata dai principali
189

Alleati nel 1944, definiva retroattivamente i crimini di guerra ai sensi dell’articolo 6 (b), in modo
che i tribunali avessero un utile elemento per accusare gli imputati. La definizione generale
rimase «violazioni delle consuetudini e delle usanze di guerra», che avrebbero dovuto includere,
tra le altre cose, «l’omicidio, il maltrattamento o la deportazione ai lavori forzati» di una
popolazione civile sotto occupazione, l’omicidio o il maltrattamento dei prigionieri di guerra o di
«persone in mare», l’uccisione di ostaggi, il saccheggio di proprietà private e pubbliche e la
distruzione indiscriminata di città, paesi o villaggi o qualsiasi altra devastazione non giustificata
da necessità militari. Si trattava di un passo coraggioso, considerando che il governo e le forze
armate dell’Urss sul campo avevano avuto modo di esperire quasi tutte le violazioni elencate e
che gli attacchi atomici successivi estendevano l’idea di necessità militare oltre ogni limite lecito.
Nel 1946, con l’annuncio della Carta degli IMT per l’Estremo Oriente, quella complessa
definizione fu messa da parte nella clausola 5 (b) «Crimini di guerra convenzionali», dove venne
espresso solo il principio generale introduttivo riguardante le «violazioni delle consuetudini e
delle usanze di guerra». A quel punto, l’idea che i «crimini contro l’umanità» dovessero
includere ogni forma evidente di persecuzione razziale e politica, «l’omicidio, lo sterminio, la
riduzione in schiavitú, le deportazioni» venne separata dai crimini di guerra convenzionali
nell’atto d’accusa finale, che autorizzava il tribunale europeo a perseguire ogni aspetto delle
atroci conseguenze della guerra e quello di Tokyo ad adottare la medesima distinzione . 190

Queste definizioni furono utilizzate in molti processi dell’epoca e in quelli successivi celebrati in
Asia e in Europa per perseguire i comandanti militari, gli uomini della sicurezza e i poliziotti
colpevoli di aver ordinato o organizzato crimini di guerra. In Asia furono istituiti altri tribunali a
Yokohama, Manila, Luzon, Nanjing, Guangzhou e altre città, in cui furono processati 5600
accusati, di cui 4400 condannati e 920 giustiziati. Il governo francese istituí a Saigon un
Tribunale militare permanente con il compito di perseguire i soldati giapponesi che avevano
ucciso truppe e civili francesi negli ultimi sei mesi di guerra, anche se a interessare il tribunale
erano piú le uccisioni di cittadini francesi che le persistenti e diffuse atrocità commesse contro la
popolazione non bianca dell’Indocina. In un arco di quattro anni, i francesi processarono 230
imputati e ne condannarono a morte 63, di cui 37 in contumacia, a dimostrazione di quanto fosse
difficile rintracciare ed estradare gli accusati. Verso la fine degli anni Quaranta, le autorità
francesi persero interesse nel perseguire i crimini di guerra e i principali colpevoli noti furono
reclutati al servizio degli interessi francesi nella guerra contro il Viet minh . Circa lo stesso
191

numero di accusati subí un processo in Europa, dove si riscontrarono analoghe difficoltà nel
rintracciare gli imputati già individuati, alcuni dei quali erano fuggiti all’estero mentre altri si
trovavano ora nell’Europa occupata dai sovietici, dove il loro destino o la loro posizione
rimanevano incerti. Nei successivi processi degli IMT in Germania, diretti da una squadra di
pubblici ministeri americani, furono processate 177 persone, con 142 condanne e 25 esecuzioni
capitali. Gli altri stati europei celebrarono i propri processi contro i criminali di guerra accusati di
violazioni ai danni di militari o civili: i tribunali militari britannici condannarono 700 accusati e
ne mandarono a morte 230; quelli francesi ne processarono 2100, con 1700 condanne e 104
sentenze di morte. Tra tutti i processi per crimini di guerra celebrati tra il 1947 e il 1953 furono
condannati complessivamente 5025 imputati, un decimo dei quali condannato a morte . A quel 192

punto, tuttavia, le esecuzioni capitali venivano regolarmente commutate in modeste pene


detentive, mentre altri colpevoli di gravi crimini trovavano delle strategie per evitare
l’incriminazione o erano trattati con clemenza dai tribunali. Quando il tenente Fischer fu
finalmente arrestato e processato nel 1964 per le uccisioni avvenute a Peregruznoe, la corte
decise – nonostante tutte le prove a carico – che, in base alla definizione del Codice penale
federale tedesco, l’imputato non aveva commesso alcun delitto, in quanto le sue azioni non erano
state deliberatamente crudeli, né erano state il prodotto di ignobili motivazioni né mostravano
alcuna delle «caratteristiche riprovevoli che contraddistinguono le uccisioni deliberate e
illegali» .
193

Lo sforzo degli Alleati di definire chiaramente i crimini di guerra in base al diritto internazionale
venne formalizzato nella clausola 6 della Carta delle Nazioni Unite, dove furono sanciti i
Principî di Norimberga che definivano i crimini contro la pace, i crimini di guerra e i crimini
contro l’umanità. I principî furono approvati dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 14
dicembre 1946. Lo stesso mese, la Risoluzione 96 (1) definí il genocidio come crimine in base al
diritto internazionale e due anni dopo fu pubblicata la Convenzione sul genocidio. Nel 1949,
furono concordate nuove Convenzioni di Ginevra: la Convenzione III, «relativa al trattamento
dei prigionieri di guerra», e la Convenzione IV, «relativa alla protezione dei civili in tempo di
guerra». Protocolli aggiuntivi furono concordati nel 1977, quando fu accordata per la prima volta
una protezione piú esplicita alle potenziali vittime di futuri bombardamenti. Con la Convenzione
IV del 1949 le donne ricevettero per la prima volta lo specifico riconoscimento internazionale
che ogni aggressione «al loro onore» era da considerarsi illecita; la clausola includeva lo stupro,
benché esso fosse ancora trattato come una violazione morale piuttosto che un atto di estrema
violenza fisica e psicologica. Solo nei Protocolli Aggiuntivi alla Convenzione di Ginevra I e II
del 1977 l’idea di «onore» fu sostituita con «oltraggio alla dignità personale», includendovi lo
stupro, la prostituzione forzata e ogni altra forma di aggressione al pudore . Un’attenzione
194

particolare alla violenza sulle donne fu sancita dalla Dichiarazione delle Nazioni Unite
sull’eliminazione della violenza contro le donne, pubblicata nel 1993 ma non giuridicamente
vincolante. L’abuso sessuale in quanto crimine di guerra fu perseguito per la prima volta solo
negli anni Novanta dai tribunali speciali per l’ex Jugoslavia e il Ruanda.
Resta da vedere se accordi piú solidi sulle leggi di guerra o su un corpus concordato di leggi
umanitarie internazionali avrebbero potuto limitare i crimini e le atrocità della Seconda guerra
mondiale, considerando che non riuscirono a farlo neppure nella maggior parte dei conflitti che
si verificarono successivamente. La possibilità appare alquanto remota, dato che anche nei casi
in cui le Convenzioni di Ginevra o dell’Aia erano note e comprese esse non avevano alcuna forza
legale. Quando fu fatto prigioniero a Okinawa, un ufficiale giapponese ferito rammentò ai soldati
che lo avevano catturato che secondo la Convenzione di Ginevra aveva diritto a essere portato in
un ospedale e ricevere cure mediche. «Noi ci pisciamo su di te, testa di cazzo», fu la risposta
prima di fucilarlo sul posto . I diffusi atti criminali commessi nella Seconda guerra mondiale
195

rispecchiavano la portata, la ferocia e la determinazione con cui fu combattuta. Soprattutto,


rispecchiavano la diversità tra le varie forme di conflitto e violenza, dai furibondi scontri sul
campo di battaglia alle azioni antinsurrezionali, dalle guerre civili alla pacificazione coloniale,
fino al genocidio e ai crimini sessuali: ciascuna di esse generò aspetti ben distinti di atrocità e
un’ampia gamma di sventurate vittime.
Capitolo undicesimo
Da imperi a nazioni: un’era globale diversa
Il vecchio ordine si sta sgretolando e al suo posto ne sta nascendo uno nuovo. In tutto il mondo stanno andando in frantumi le
fondamenta della vecchia società, in cui un gruppo di persone cavalcava beatamente sulle spalle di altre. I popoli oppressi della
terra si stanno rivoltando nella loro miseria e degrado e passano al contrattacco […] L’imperialismo non si elimina da solo.
Amanke Okafor, Nigeria: Why We Fight for Freedom, 19491.
Quattro anni dopo la fine della guerra, lo studente di Giurisprudenza e comunista nigeriano
George Amanke Okafor, le cui attività erano attentamente monitorate dai servizi di sicurezza
britannici, scrisse e pubblicò a Londra un opuscolo nel quale esponeva le ragioni
dell’indipendenza postbellica dell’Africa dal dominio coloniale degli europei . Il cantante e 2

attivista americano per i diritti civili Paul Robeson aggiunse poi una prefazione in cui sosteneva
il movimento panafricano e lo incitava a «sbarazzarsi delle catene del colonialismo». La sconfitta
nel 1945 degli imperi italiano, giapponese e tedesco favorí nei popoli un diffuso rifiuto
dell’imperialismo ancora praticato sia dai britannici e francesi vincitori sia dai belgi e olandesi
liberati dall’occupazione nazista. Nonostante la determinazione con cui le potenze vincitrici
restavano aggrappate al dominio imperiale, esercitato su popolazioni che vivevano, secondo le
parole pronunciate nel dopoguerra dal laburista Lord Pethick-Lawrence, «in uno stato di civiltà
primitiva», la conseguenza geopolitica piú significativa del conflitto fu il crollo, in meno di due
decenni, dell’intero progetto imperiale europeo e l’istituzione di un mondo di stati-nazione. Nel
1960, la Nigeria, il piú grande possedimento coloniale che ancora rimaneva alla Gran Bretagna,
ottenne l’indipendenza, restaurando, come disse Okafor, «la dignità dei popoli africani» . 3

La storiografia dell’immediato dopoguerra si è incentrata sulla profonda crisi umanitaria


generata dal conflitto e sullo sviluppo di un rinnovato sistema globale di collaborazione
economica e cooperazione internazionale – anni dominati dall’Occidente e, soprattutto,
dall’inizio della guerra fredda tra gli ex alleati della Seconda guerra mondiale. Anche se gli
storici hanno dedicato minore attenzione alla fine dell’imperialismo, il disfacimento degli imperi,
vecchi e nuovi, rappresentò il contesto in cui si plasmarono la crisi umanitaria, il nuovo
internazionalismo e l’emergente guerra fredda. Alla sconfitta e scomparsa degli imperi creati
dagli stati dell’Asse seguirono di lí a poco gli ultimi spasmi degli imperi piú antichi che l’Asse
aveva cercato di soppiantare. In Asia, Medio Oriente e Africa, la struttura geopolitica venne
radicalmente alterata dalla ritirata delle potenze europee e del Giappone, sostituite da una
geografia politica che persiste ancora oggi nel XXI secolo.
La fine degli imperi.
La sconfitta e la resa di Germania e Giappone nel 1945 e, prima ancora, quella dell’Italia nel
1943, misero una fine drastica e repentina ai quattordici anni di violenta edificazione imperiale
iniziata nel 1931 con l’invasione della Manciuria. In nessuno dei tre stati dell’Asse i gruppi di
potere che avevano appoggiato il nuovo imperialismo cercarono di riportarlo in vita, o di
sostenere il nazionalismo radicale che lo aveva alimentato. La distruzione di tutti e tre gli imperi
rese evidenti gli enormi costi umani che quell’imperialismo aveva comportato nella sua scia,
costi che ora gravavano sulle grandi popolazioni di Germania, Giappone e Italia, incagliate in
quello che era stato per breve tempo un territorio coloniale o imperiale. La distruzione dei nuovi
imperi era stato un obiettivo centrale di quelle che da gennaio del 1942 in poi erano state
denominate «Nazioni Unite», un’espressione inventata da Roosevelt durante la visita di
Churchill a Washington alla fine di dicembre del 1941 ma che venne ben presto a definire gli
Alleati nel loro insieme . Il presupposto fondamentale delle discussioni sulla resa dell’Asse era
4
che la Germania (e i suoi alleati europei: Romania, Bulgaria e Ungheria) avrebbe dovuto
abbandonare le sue conquiste territoriali; che l’Italia avrebbe perduto le sue colonie in Africa e
nei territori conquistati in Europa; che il Giappone, infine, avrebbe dovuto rinunciare alle sue
colonie, ai mandati territoriali e ai protettorati occupati in Asia orientale e nel Pacifico. Tutti e tre
gli stati sarebbero rimasti confinati entro le rispettive frontiere nazionali definite dai vincitori. I
paesi dell’Asse sarebbero stati delle nazioni, non piú degli «imperi-nazione».
La ricostruzione nazionale piú radicale avvenne in Germania. Gli alleati non erano solo
determinati a limitare il territorio tedesco in base a quanto stabilito dal trattato di Versailles del
1919, ma, a seguito dell’accordo raggiunto con Stalin alla Conferenza di Jalta, anche la Polonia
doveva essere risarcita per la perdita dei territori orientali occupati dall’Unione Sovietica nel
settembre del 1939 con una corposa fetta delle terre orientali della Germania. I tre principali
alleati avevano altresí concordato che quanto restava del Reich sarebbe stato spartito tra loro in
tre zone di governo militare, procrastinando la definitiva costituzione di una nuova nazione
tedesca a data da stabilirsi; in seguito alle pressioni esercitate nel 1944 dal governo provvisorio
francese, alla Francia era stata assegnata anche una piccola zona di occupazione nel Sud. Vi
erano perfino indicazioni da parte di Londra affinché la Germania fosse temporaneamente
trasformata in un dominio britannico per far sí che i tedeschi imparassero nel mentre le lezioni
della democrazia . Alla fine, le potenze occupanti non riuscirono a trovare un accordo su una
5

futura Germania unificata, sicché nel 1949 vennero create due nazioni separate: la Repubblica
democratica tedesca, nella zona di ingerenza sovietica, e la Repubblica federale tedesca,
costituita unendo le tre zone di influenza occidentale. La situazione del Giappone si rivelò piú
semplice. Esisteva infatti un’unica autorità di occupazione sotto il comandante supremo alleato
Douglas MacArthur. La Corea, Taiwan, la Manciuria e le isole del Mandato del Pacifico
meridionale cessarono di essere giapponesi. Okinawa, la piú grande delle isole Ryūkyū, rimase
sotto amministrazione americana fino al 1972. Previo accordo tra Stati Uniti e Unione Sovietica,
la Corea fu divisa lungo il 38° parallelo, in base alla partizione del 1904, quando Giappone e
Russia avevano delimitato per la prima volta le rispettive zone di influenza. Le forze sovietiche
occuparono il Nord, quelle americane il Sud. Taiwan e la Manciuria furono assegnate alla Cina
di Chiang Kai-shek, con concessioni all’Unione Sovietica in Manciuria, mentre le isole del
Pacifico furono assegnate agli Stati Uniti come territori fiduciari delle Nazioni Unite.
La situazione dell’Italia appariva piú delicata, considerando che da settembre del 1943 in avanti
l’Italia era stata un paese cobelligerante con gli Alleati e che nel maggio del 1945 era tornata a
essere una nazione unita entro i confini del 1919. In merito al futuro del porto adriatico di Trieste
dopo la fine della guerra, una sorta di stallo militare tra l’esercito britannico e i partigiani
jugoslavi di Tito si concluse con la restituzione della città all’Italia; una seconda situazione di
stallo con le forze francesi in Val d’Aosta impedí l’annessione di zone del territorio italiano da
parte della Francia . Le ex colonie italiane erano tutte sotto l’amministrazione militare inglese,
6

mentre l’Etiopia era tornata a essere una nazione indipendente nel 1941 sotto l’imperatore Hailé
Selassié, rimesso sul trono. Benché a Roma esistesse una lobby nazionalista che sperava di
riprendere parzialmente o integralmente le ex colonie italiane come elemento di prestigio in un
nuovo mondo imperialista, la situazione nel 1945 era del tutto diversa da quella del 1919.
L’ondata di sentimenti anticolonialisti del dopoguerra portò a scarse simpatie internazionali
verso gli sforzi italiani, per cui l’articolo 23 del trattato di pace firmato con l’Italia nel febbraio
del 1947 escluse espressamente qualsiasi ritorno a un ruolo imperiale. Questo non risolse tuttavia
le gravi divergenze esistenti tra i precedenti Alleati su che cosa fare delle colonie perdute
dall’Italia. Alla Conferenza di Potsdam nel luglio del 1945, il governo sovietico aveva richiesto
l’amministrazione fiduciaria di almeno uno dei territori italiani. Gran Bretagna e Stati Uniti, non
certo desiderosi di un avamposto sovietico in Africa, persistettero nel rifiutare qualsiasi
coinvolgimento dell’Urss, aggiungendo cosí un altro chiodo alla bara di una possibile
cooperazione postbellica tra gli anglo-americani e il Cremlino. Gli Stati Uniti, a cui risultava per
altro sgradita anche una soluzione che rafforzasse le posizioni imperiali della Gran Bretagna in
Africa, respinsero a loro volta le proposte britanniche riguardanti il Corno d’Africa e il futuro
della Libia, che avrebbero garantito agli inglesi una presenza continua nella regione . Alla fine, il
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mancato raggiungimento di un compromesso accettabile costrinse gli Alleati a trasferire la


questione in seno alle Nazioni Unite. A maggio del 1949, l’Assemblea Generale delle Nazioni
Unite respinse sia i tentativi diplomatici italiani di ribaltare i termini del trattato di pace sia le
speranze degli inglesi di riorganizzare la regione secondo i propri interessi. La Libia ottenne
l’indipendenza; l’Eritrea fu infine federata con l’Etiopia; successivamente, nel dicembre del
1950, l’Assemblea Generale acconsentí a concedere all’Italia l’amministrazione fiduciaria della
Somalia, la piú povera e piú piccola delle precedenti colonie italiane. A causa delle tante
difficoltà nel reperire fondi e personale per gestire l’amministrazione fiduciaria di fronte al
nazionalismo somalo organizzato, i funzionari italiani si limitarono a preparare il territorio
fiduciario all’indipendenza, finché il 30 giugno 1960 scomparvero anche le ultime vestigia
dell’imperialismo italiano .
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La fine dell’impero dell’Asse fu accompagnata da un esodo, in parte volontario ma perlopiú


forzato, di italiani, tedeschi e giapponesi che vivevano ancora nei territori degli imperi ormai
defunti. Si trattava in maggioranza non di coloni recenti ma di comunità consolidate da tempo e
nate ben prima dell’inizio della violenta espansione degli anni Trenta (nel caso tedesco, vi erano
gruppi che esistevano da centinaia di anni), che furono tuttavia penalizzate in quanto
rappresentative di ambizioni imperiali, come di fatto erano, almeno in alcuni casi . Molti emigrati
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italiani erano già rientrati in patria ben prima del 1945, tra cui 50 000 dall’Etiopia, ma altri erano
ancora in Africa: piú di 4000 in Somalia, 37 000 in Eritrea e circa 45 000 nella Libia orientale,
sicché alla fine degli anni Quaranta rientrarono in Italia piú di 200 000 coloni. Altri 250 000
italiani fuggirono o furono cacciati dall’impero di breve durata creato in territorio europeo, in
Istria e Dalmazia. Non era facile reintegrare i coloni nella società italiana; molti furono collocati
in campi profughi che si sarebbero svuotati solo all’inizio degli anni Cinquanta . I numeri erano
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comunque ridotti se paragonati ai milioni di giapponesi e tedeschi che vennero sradicati e


costretti a tornare nella madrepatria. Alla fine della guerra, nell’agosto del 1945, vi erano circa
6,9 milioni di militari e civili giapponesi sparsi tra Cina, Sud-est asiatico e Pacifico. Gli Alleati
pianificarono il rimpatrio del personale militare, ma per i civili mancò una netta linea di
condotta. Furono gli Stati Uniti a prendere l’iniziativa, ritenendo necessaria la deportazione della
popolazione civile giapponese, in parte per proteggerla dalle violenze e in parte per segnalare
chiaramente la fine del progetto imperiale . Molti civili, profondamente radicati nelle colonie,
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persero ogni proprietà e ricchezza quando venne loro ordinato di partire; il resto era formato da
giapponesi emigrati in tempi recenti in Manciuria e nella Cina settentrionale, o da funzionari e
uomini d’affari che amministravano l’impero.
Quanti furono rimpatriati o deportati vissero esperienze molto diverse. La maggioranza di quanti
si trovavano in Manciuria era costituita da donne e bambini a cui venne offerta ben poca
assistenza e che subirono vessazioni o stupri da parte dei soldati sovietici, rimanendo pressoché
privi di mezzi di trasporto o di accesso al cibo. Il loro calvario fu il piú duro, abbandonati per
nove mesi o piú tra una popolazione ostile e la forza di occupazione. All’arrivo dell’Armata
Rossa, i 223 000 coloni contadini iniziarono una fuga verso est, ma molti di loro, probabilmente
la maggior parte, furono rapinati dei beni e del cibo, e decine di migliaia costretti a mendicare o
rubare. Solo 140 000 persone fecero ritorno in Giappone; 78 500 morirono per violenze, malattie
o fame . Un rimpatrio organizzato del resto della popolazione giapponese in Manciuria ebbe
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inizio solo nell’estate del 1946, quando oltre un milione di civili fu trasferito in campi profughi
in Giappone. Nelle regioni controllate da americani e cinesi il programma di rimpatrio era
iniziato prima ed era stato meno arduo che in Manciuria, grazie soprattutto ai rifornimenti delle
spedizioni americane, ma aveva comunque comportato il reinsediamento coatto e la perdita della
casa e dei beni. Nella metà della Corea occupata dalle forze americane, il rimpatrio delle truppe e
dei civili giapponesi fu dichiarato obbligatorio il 17 settembre 1945, poco dopo la resa, e il
trasferimento in Giappone cominciò quello stesso mese; poiché molti civili avevano tuttavia
scelto di rimanere, nel marzo del 1946 fu ordinato loro di partire entro l’inizio di aprile per non
incorrere in punizioni. Il governo militare americano fissò l’esigua quantità di denaro e beni che
potevano portare con sé. A Taiwan, i cinesi nazionalisti diedero lo stesso breve preavviso,
annunciando nel marzo del 1946 l’espulsione obbligatoria, da concludersi entro la fine di aprile.
Nel giro di poche settimane, 447 000 giapponesi furono rimandati in Giappone e costretti ad
abbandonare per sempre il loro passato coloniale. Sulle isole dell’arcipelago nipponico iniziò un
lungo periodo di riadattamento per favorire il passaggio dai centri dei profughi rimpatriati alla
vita civile regolare. I giapponesi della madrepatria crearono una barriera invisibile tra loro e gli
espulsi, stigmatizzati come il simbolo del fallito progetto imperiale e dei suoi lugubri costi .
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Nella Cina continentale, la deportazione dei civili, perlopiú su navi americane, cominciò nel
novembre del 1945 per essere in gran parte completata nell’estate seguente; numerose unità
militari giapponesi, al contrario, furono mantenute dal governo cinese per garantire l’ordine
pubblico a Shanghai e Beijing e combattere i comunisti cinesi ribelli. Il rimpatrio piú lento ebbe
luogo nelle regioni poste sotto il South East Asia Command agli ordini di Lord Louis
Mountbatten. I soldati e i civili giapponesi vivevano in condizioni rese volutamente difficili. I
soldati catturati erano stati ridenominati «personale militare arreso» anziché «prigionieri di
guerra», in modo che le autorità britanniche potessero aggirare le norme previste dalla
Convenzione di Ginevra. I soldati furono pertanto tenuti come lavoratori forzati, e anche quando
il grosso delle forze giapponesi fu finalmente rimpatriato nell’estate del 1946, grazie ancora una
volta a navi americane, 100 000 soldati vennero sfruttati come lavoratori sino all’inizio del 1949,
a dispetto di quanto stabilito dalla Convenzione . La transizione dei civili conobbe momenti
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pesanti. Molti furono collocati in campi mal gestiti e sottoposti a un duro regime di lavoro. Un
funzionario del governo giapponese in Indonesia ricordava la routine estenuante del campo di
prigionia britannico in cui si trovava internato, dove i detenuti seminudi erano costretti a pulire le
piste della base aerea con una spazzola metallica, in pieno sole e con poca acqua o cibo; in
seguito, era stato trasferito sull’isola di Galang vicino a Singapore, in un campo isolato privo di
riparo dal sole, senza acqua potabile e con razioni inferiori a metà scodella di riso al giorno. Le
condizioni migliorarono solo dopo un sopralluogo della Croce Rossa . 15

Il piú grande spostamento di deportati e rifugiati da nuovi imperi fu di gran lunga quello che
coinvolse i tedeschi che si erano trovati involontariamente a far parte del Terzo Reich, esteso
attraverso l’Europa centrale, orientale e sud-orientale, inclusi gli abitanti di etnia tedesca che
occupavano i territori persi con il trattato di Versailles, riconquistati dopo il 1939 e ora
nuovamente perduti. Si stima che il numero degli sfollati nella Germania occupata sia stato tra i
12 e i 14 milioni di persone (dati piú precisi sono al di là di ogni ricostruzione storica); essi
provenivano prevalentemente dalla Cecoslovacchia e dai Ziemie Odzyskane polacchi, ovvero i
«territori recuperati» in quella che era stata la Germania orientale e ora nuovamente assegnati
alla Polonia. Vi furono anche espulsioni verso la Germania da Romania, Jugoslavia e Ungheria,
oltre a un numero imprecisato di tedeschi del Volga che erano riusciti a fuggire verso ovest
accodandosi all’esercito della Wehrmacht in ritirata. Le armate sovietiche deportarono a loro
volta verso est 140 000 tedeschi dalla Romania e dall’Ungheria, trasferiti nei campi all’interno
dell’Unione Sovietica . La maggior parte delle persone espulse era formata da donne, bambini e
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anziani, mentre molti uomini abili al lavoro furono trattenuti dalle autorità per provvedere alle
opere necessarie alla ripresa economica della regione. Benché gli Alleati avessero espresso a
Potsdam la speranza che le espulsioni sarebbero avvenute in modo «ordinato e umano», l’ondata
di violenze punitive seguite alla sconfitta del Reich ricadde indiscriminatamente sulle minoranze
tedesche con poco ordine o umanità. Le stime del numero dei morti tra gli espulsi variano
ampiamente da mezzo milione a due milioni di persone, ma resta fuori da qualsiasi dubbio il
fatto che centinaia di migliaia morirono di fame, ipotermia, malattie o furono deliberatamente
uccise . I primi sei mesi dopo la fine della guerra furono un periodo contrassegnato dalle
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«espulsioni selvagge», durante le quali le comunità tedesche furono costrette a marce forzate per
attraversare la frontiera e raggiungere le quattro zone della Germania occupate dagli Alleati, o
vennero stipate su treni privi di qualsiasi servizio igienico, con poco cibo e vestiti, per il lungo ed
estenuante viaggio verso il territorio della loro nazione. Nella prima ondata di violenze punitive,
la polizia e i soldati riservarono ai tedeschi lo stesso trattamento riservato agli ebrei durante le
deportazioni verso Est. In un episodio di agghiacciante atrocità, avvenuto a Horní Moštěnice nel
giugno del 1945, dei soldati cechi costrinsero 265 tedeschi dei Sudeti a scendere dal loro treno.
Le persone del gruppo, tra cui 120 donne e 74 bambini, vennero costrette a scavare una fossa
comune dietro la stazione dove furono poi uccise con un colpo alla nuca . In molti casi, agli
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espulsi venivano date solo poche ore di preavviso, a volte addirittura pochi minuti, per cui
potevano prendere ben poco con sé. I vagoni merci erano stipati in modo che gli espulsi
potessero solo stare in piedi, schiacciati l’uno contro l’altro, su treni che viaggiavano senza
riserve d’acqua o di cibo; i morti erano scaricati nelle stazioni lungo il percorso. Alcuni furono
inizialmente confinati in campi di fortuna in cui gli uomini erano costretti ai lavori forzati nelle
condizioni tipiche di tutti i campi di concentramento: poco cibo, pidocchi, tifo, brutalità
quotidiana.
Gli Alleati incontrarono difficoltà a gestire le prime ondate di espulsioni in quelle zone dove la
popolazione tedesca preesistente aveva già problemi a sostentarsi e a riprendere una vita
normale. Vi furono casi in cui le autorità dei luoghi di accoglienza rifiutarono l’ingresso agli
sfollati. I funzionari americani non celavano la preoccupazione di trovarsi collusi con quelle che
venivano definite «cose orribili e disumane». I funzionari britannici riferivano a Londra delle
quotidiane atrocità a cui assistevano, ma il Foreign Office intendeva evitare di condannare i
cechi o i polacchi per timore che gli inglesi venissero reputati di «essere inutilmente teneri di
cuore con i tedeschi» . Alla fine, gli Alleati accettarono di organizzare con un certo ordine le
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espulsioni. Nell’ottobre del 1945 fu istituito un Combined Repatriation Executive responsabile


del programma logistico per trasferire gli espulsi in Germania e gli «sfollati» nei rispettivi paesi
di origine, per un totale di oltre sei milioni di persone. A novembre, fu annunciato l’accordo
dell’Allied Control Council che fissava il numero di espulsi per ciascuna zona (2,75 milioni nella
zona sovietica, 2,25 milioni in quella americana, 1,5 milioni in quella inglese e 150 000 in quella
francese), e per tutto l’anno successivo le espulsioni proseguirono sotto la supervisione degli
Alleati. Nonostante gli sforzi per stabilire dei regolamenti riguardo al trattamento e trasferimento
dei tedeschi deportati, le loro condizioni rimasero precarie, e la situazione in Germania era
raramente migliore. Gli Alleati, che non avevano previsto il vasto esodo di tedeschi dall’Europa
centro-orientale, crearono per loro dei campi improvvisati, perfino in ex campi di
concentramento, con penuria di cibo, assistenza limitata e scarse prospettive di occupazione.
Verso la fine del 1945, la zona sovietica ospitava 625 campi, ma nelle zone occidentali
pullulavano a migliaia. Come in Giappone, il reinserimento degli espulsi nella società si rivelò
un processo lungo e faticoso, soprattutto perché la popolazione tedesca residente diffidava in
gran parte dei nuovi arrivati e disapprovava il costo del loro mantenimento .20

Mentre il flusso di espulsi dai nuovi imperi si muoveva in una direzione, milioni di uomini,
donne e bambini sfollati come profughi di guerra, orfani, lavoratori forzati o prigionieri
procedevano nella direzione opposta, sia per tornare in patria sia per cercarne un’altra
oltreoceano. A soffrire della nuova ondata di edificazione imperiale erano state decine di milioni
di persone, vittime di spostamenti forzati le cui dimensioni erano senza precedenti. Nell’Asia
orientale, il maggiore trasferimento di popolazione si era verificato in Cina, dove il governo di
Chiang Kai-shek stimava che alla fine della guerra 42 milioni di persone fossero «scappate in
altri luoghi», secondo la terminologia ufficiale. I dati approssimativi del dopoguerra riguardanti
l’intera popolazione di profughi, compresi quelli che si erano spostati piú volte, sembrano
indicare che a un certo punto della guerra ben 95 milioni di persone, vale a dire un quarto degli
abitanti totali della Cina, avevano dovuto abbandonare le loro case. Dalle province settentrionali
e orientali, sotto occupazione giapponese, era fuggito tra il 35 e il 44 per cento della popolazione.
La maggior parte delle persone cercava di tornare come meglio poteva nelle zone
precedentemente occupate, spesso dopo mesi di ulteriori spostamenti, ma meno di due milioni di
loro poterono contare su qualche aiuto da parte dello stato. Alcuni non se la sentirono e rimasero
degli sfollati. Quando ritornavano alle loro case, i profughi trovavano nuclei familiari distrutti e
abitazioni e proprietà trasferite a coloro che non erano fuggiti – fatto, questo, che generò un
crescente risentimento verso le comunità che non erano scappate dai giapponesi e quindi, per
associazione, avevano collaborato con il nemico . Il ritorno dei lavoratori forzati, delle truppe
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coloniali mobilitate dalle forze armate giapponesi e delle numerose comfort women costrette a
prostituirsi ricadeva sotto la responsabilità degli occupanti americani e inglesi e fu gestito nel
corso del 1945 con un programma di rimpatrio basato su una stima approssimativa delle varie
nazionalità di appartenenza.
Nel teatro europeo, gli Alleati si erano resi conto molto prima della fine del conflitto che il nuovo
impero tedesco aveva creato un problema di spostamenti demografici potenzialmente illimitato,
attraverso lo sfruttamento del lavoro schiavizzato, le deportazioni razziali e il terrore. In questo
caso, i profughi non erano persone che avevano cercato scampo dal nuovo ordine tedesco ma che
erano state perlopiú strappate alle loro comunità nazionali per servire la macchina da guerra del
Reich o per riempire i campi di concentramento. Non mancavano, soprattutto nei territori
orientali, alcuni che si erano arruolati come volontari nella macchina militare tedesca ed erano
ora rimasti bloccati dalla sconfitta. Nel 1943, due anni prima che fosse costituita ufficialmente
l’ONU, l’istituto preliminare delle «Nazioni Unite» aveva creato la Relief and Rehabilitation
Administration (UNRRA, Amministrazione per il soccorso e la ricostruzione) nel tentativo di
anticipare le problematiche da affrontare una volta che la Germania e i suoi alleati fossero stati
sconfitti. L’attività assistenziale, secondo le parole di Roosevelt, doveva essere rivolta alle
«vittime della barbarie tedesca e giapponese» . L’UNRRA operò alla fine in sedici paesi
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dell’Asia e dell’Europa, distribuendo tra il 1945 e il 1947 aiuti alimentari per un valore di dieci
miliardi di dollari. Nell’Europa occidentale, l’amministrazione era stata organizzata in piccole
squadre di tredici persone – personale medico, assistenziale, organizzativo e d’ufficio –, di cui
piú della metà provenienti dall’Europa continentale al fine di risolvere i previsti problemi
linguistici. Nella zona sovietica, le missioni dell’UNRRA collaboravano con le autorità locali di
Polonia, Cecoslovacchia, Ucraina e Bielorussia, ma le forniture di aiuti dovevano essere
consegnate ai porti o alla frontiera per essere poi distribuite da agenti governativi anziché dal
personale dell’UNRRA . Nell’estate del 1945 vi erano 322 squadre che amministravano circa
23

227 centri nelle zone occidentali della Germania e 25 in Austria; nel 1947 esistevano 762 centri
per sfollati in Italia, Austria e Germania .
24

Il numero totale dei profughi tra la popolazione non tedesca è stato stimato in quattordici milioni,
ma, anche in questo caso, è impossibile avere delle cifre precise. I dati riguardanti le aree
occupate dall’Armata Rossa risultano incerti, in quanto l’UNRRA non operava direttamente
nelle zone sovietiche. Nelle settimane successive alla fine della guerra, milioni di persone
presero la via di casa, usufruendo di camion e treni speciali americani. Su 1,2 milioni di deportati
e prigionieri francesi in Germania, nel giugno del 1945 ne rimanevano solamente 40 550. A
luglio, avevano fatto ritorno a casa 3,2 milioni di vittime di sfollamento forzato, mentre 1,8
milioni rimanevano ancora nei centri gestiti dall’UNRRA. Inizialmente, la situazione fu caotica,
poiché gli sfollati venivano ospitati e nutriti in baracche improvvisate. Nonostante la priorità
alimentare concessa agli sfollati, il cibo restava scarso, e nel 1947, quando permaneva ancora nei
campi profughi piú di mezzo milione di persone, l’apporto nutrizionale giornaliero era sceso a
1600 calorie pro capite, ben al di sotto del livello necessario a mantenere la piena salute .
25

Gli Alleati occidentali presumevano che tutti gli sfollati volessero tornare a casa dopo il loro
calvario, ma, in pratica, la questione del rimpatrio non si rivelò per nulla semplice. Ai rifugiati
ebrei era stato riconosciuto lo status speciale di «cittadini delle Nazioni Unite», allo scopo di
evitare che fossero rimpatriati nelle regioni in cui erano stati vittime della persecuzione . Il
26

problema principale era la riluttanza di milioni di europei dell’Est a tornare a vivere sotto il
regime comunista. Nel settembre del 1945, circa due milioni di cittadini sovietici erano stati
rimpatriati da tutta l’Europa, ma l’Occidente aveva una scarsa conoscenza di che cosa
significasse il rimpatrio per uomini e donne che al ritorno venivano trattati come fossero stati
contaminati dal loro contatto con il fascismo. Dopo essere stati sottoposti a un accurato screening
dagli agenti dell’NKVD o dall’organizzazione di intelligence denominata SMERŠ, ad alcuni fu
permesso di tornare alle loro case, altri vennero esiliati in regioni remote dell’Unione Sovietica,
mentre migliaia finirono nei campi di concentramento e di lavoro dell’Urss. Dei 5,5 milioni di
soldati e civili rimpatriati, circa tre milioni furono puniti in un modo o nell’altro. Circa 2,4
milioni vennero autorizzati a rientrare a casa, ma in seguito 638 000 di loro furono nuovamente
arrestati . Funzionari e ufficiali sovietici visitavano i campi profughi occidentali cercando quelli
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che potevano classificarsi come cittadini sovietici autorizzati al rimpatrio. Inizialmente, gli
eserciti delle potenze occidentali collaborarono, costringendo i deportati riluttanti a tornare in
mano sovietica, con la sola eccezione dei cittadini delle repubbliche baltiche, la cui indipendenza
era stata violata nel 1939-41 con l’occupazione militare dei russi. Al loro ritorno, anche migliaia
di jugoslavi che avevano combattuto contro i partigiani di Tito o che avevano sostenuto la causa
monarchica, rimpatriati contro la loro volontà dall’esercito britannico, finirono massacrati o
imprigionati .
28
Nell’ottobre del 1945, le prove di abusi sistematici nei confronti di quanti erano tornati sotto
regimi comunisti erano tali e tante che Eisenhower, in veste di comandante in capo delle truppe
in Occidente, ordinò ufficialmente che i profughi delle regioni interessate potessero scegliere se
essere rimpatriati o meno e, nonostante le vigorose proteste da parte sovietica, la decisione fu
ratificata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel febbraio del 1946. «Questa cosiddetta
tolleranza», tuonò il delegato sovietico Andrej Vyšinskij, «è nota alla storia con una sola parola:
Monaco!» . Nondimeno, nei due anni successivi, l’UNRRA e l’International Refugee
29

Organization che le succedette fecero di tutto per convincere russi, polacchi e jugoslavi a tornare
in patria. Un gruppo irremovibile di 450 000 soldati e civili sovietici si rifiutarono di rientrare nel
loro paese. Alla fine, spinti dalla grave carenza di manodopera del dopoguerra, gli stati
occidentali permisero l’immigrazione a un gran numero di profughi. 115 000 veterani delle unità
polacche che avevano combattuto in Occidente furono autorizzati a restare in Gran Bretagna; alla
fine del 1951 il Canada ne accolse 157 000 e l’Australia altri 182 000. Sottoposto alle pressioni
esercitate da una lobby trasversale, il Citizens Committee on Displaced Persons (Comitato civico
per gli sfollati), il presidente Truman si convinse ad approvare a giugno del 1948 e a giugno del
1950 due leggi che consentivano a 400 000 profughi di stabilirsi negli Stati Uniti. Nel 1952,
restavano nei campi profughi solamente 152 000 persone, la maggior parte anziane, disabili o
affette da tubercolosi cronica. Gli ultimi centri vennero chiusi nel 1957 dal governo della
Germania Federale . 30

«Merdeka dengan darah»: l’indipendenza attraverso il sangue.


Il precoce coinvolgimento delle Nazioni Unite nella necessità di fare i conti con le conseguenze
provocate dagli imperi dell’Asse anticipò un impegno piú ampio, sancito dall’articolo 1 dello
Statuto e definitivamente concordato nel giugno del 1945, nei confronti dell’autodeterminazione
dei popoli. Si trattava di ben piú che una semplice reazione alla distruzione di intere nazioni per
opera degli imperi dell’Asse. L’impegno implicava infatti che anche gli altri imperi coloniali, di
piú antica data, dovevano considerare l’eliminazione del colonialismo tedesco, giapponese e
italiano come preludio a un piú ampio programma globale destinato in ultima analisi a porre fine
a qualsiasi forma di impero territoriale. «I giorni coloniali sono passati», aveva dichiarato nel
1942 Wendell Willkie, il rivale repubblicano di Roosevelt, durante un tour mondiale. «Questa
guerra deve significare la fine dell’impero di alcune nazioni su altre» – una frase con cui pochi
americani sarebbero stati in disaccordo . «L’imperialismo è imperialismo, vecchio o nuovo che
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sia», affermava nel febbraio del 1945 un editoriale dell’«American Mercury», «e la consueta
violenza quotidiana necessaria a sostenere le vecchie tirannie è imperdonabile quasi quanto una
nuova aggressione» . 32

Nel 1945, la fine della guerra aveva lasciato uno scenario fondamentalmente diverso da quello
del 1919, quando le richieste di autodeterminazione da parte dei popoli erano svanite di fronte
alle resistenze opposte dalle potenze imperiali. Tre dei quattro grandi vincitori nel 1945 – Stati
Uniti, Unione Sovietica e Cina – erano contrari alla sopravvivenza di potenze imperiali e
possedimenti coloniali. La Gran Bretagna e la Francia, che in quanto membri storici delle
Nazioni Unite e membri permanenti del Consiglio di sicurezza speravano che la nuova
organizzazione internazionale potesse aiutarle a proteggere e rivitalizzare i loro imperi dopo la
crisi degli anni di guerra, furono presto disilluse. Per gli imperi europei, il conflitto si rivelò uno
spartiacque. Gli anticolonialisti sostenevano che la guerra contro l’Asse aveva avuto come fine
garantire l’indipendenza politica di tutti i popoli, non solo degli stati europei liberati dal giogo
nazista. Attingendo al linguaggio della Carta Atlantica del 1941 e ai Quattordici punti di
Woodrow Wilson, il nazionalista nigeriano Nnamdi Azikiwe (poi primo presidente della Nigeria
indipendente) aveva redatto nel 1943 una «Carta della libertà» che includeva il diritto alla vita,
alla libertà di espressione e di associazione e all’autodeterminazione. Entrambi i documenti
precedenti, secondo Azikiwe, confermavano «il diritto di tutti i popoli di scegliere la forma di
governo sotto cui vivere» . Il primo ministro iracheno Nuri al-Sa‘id scrisse a Churchill che si
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augurava che «gli autori della Carta Atlantica non mancheranno di trovare una via affinché le
Nazioni Unite garantiscano [l’indipendenza] agli arabi» . Alla fine, le Nazioni Unite definirono il
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termine «autodeterminazione» solo nel dicembre del 1950, ma il diritto fu considerato


giuridicamente vincolante con la Risoluzione 1514 – denominata Dichiarazione per la garanzia
dell’indipendenza dei Paesi e dei popoli coloniali – dell’ONU, approvata nel dicembre del 1960
da una maggioranza schiacciante di voti. Essa, come riferiva il British Colonial Office, sarebbe
divenuta il «testo sacro delle Nazioni Unite» . 35

Non era certo il risultato che le potenze imperiali europee avrebbero voluto, nella presunzione
che il 1945 sarebbe stato molto simile al 1919, allorché l’autodeterminazione era stata ristabilita
in Europa (seppure in una veste molto diversa nell’area dominata dall’Unione Sovietica) ma non
nei territori degli imperi. All’indomani della guerra, tutte le potenze imperiali avevano come
priorità assoluta la ricostruzione dell’economia in tempo di pace e lo sfruttamento dell’impero
come mezzo per recuperare credibilità politica e prestigio dopo la repentina decadenza
dell’autorità politica e morale negli anni di guerra. Un rapporto inviato a Washington dall’OSS
ammoniva che il governo laburista britannico, subentrato nel luglio del 1945 alla coalizione del
tempo di guerra, era «favorevole all’impero quanto il suo predecessore conservatore sotto
Churchill» . Il nuovo primo ministro britannico, Clement Attlee, riteneva che una «semplice
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restituzione» dei territori coloniali fosse «sia indesiderabile sia impraticabile». Durante il suo
tour in Africa nel novembre e nel dicembre del 1947, Montgomery, ora capo dello stato
maggiore imperiale, riferí al governo di considerare l’africano ancora «un completo selvaggio» e
di essere favorevole allo sfruttamento dell’impero «affinché la Gran Bretagna possa
sopravvivere» . Nel 1944, alla Conferenza di Brazzaville nel Congo francese, il generale De
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Gaulle aveva auspicato una maggiore integrazione tra le colonie e la Francia, escludendo «ogni
idea di autonomia, ogni possibilità di evoluzione al di fuori del blocco imperiale francese» . Il38

governo olandese, rientrato nei Paesi Bassi dall’esilio, decise subito di sviluppare una nuova
forma di Commonwealth olandese nell’ambito di un impero ristrutturato, essendo ormai svanita
qualsiasi prospettiva di insediamenti olandesi nell’oriente tedesco . Per l’intero corso della
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guerra, gli alleati imperiali erano stati consapevoli del fatto che per essere rispettabili nel nuovo
ordine postbellico avrebbero dovuto rimarcare il loro impegno per l’economia e lo sviluppo
sociale dei rispettivi imperi, come avevano fatto nel periodo tra le due guerre, evitando al tempo
stesso qualsiasi promessa di indipendenza.
Per Gran Bretagna e Francia, il mutato equilibrio di forze emerso alla fine del conflitto era
difficile da accettare. Nel 1939 erano le due maggiori potenze mondiali proprio grazie
all’impero, e quest’ultimo avrebbe potuto riportare nuovamente in vita il loro status di grandi
potenze. Alla conferenza di fondazione delle Nazioni Unite, il delegato britannico aveva potuto
perfino affermare che l’impero era stato «una grande macchina per la difesa della libertà» e
avrebbe dovuto essere quindi mantenuto . Entrambi i governi temevano che gli Stati Uniti, al
40

momento della fondazione delle Nazioni Unite nel maggio del 1945, potessero ribadire che tutte
le colonie dovevano diventare dei territori fiduciari sotto la supervisione internazionale.
L’articolo 2 (7) introdotto nello Statuto di fondazione durante la Conferenza di San Francisco
rappresentò per Gran Bretagna e Francia un successo, in quanto confermava che il governo
coloniale era un affare interno e non soggetto a interferenze, consentendo loro di sviluppare
nuovamente l’impero al fine di rafforzare il loro status a livello globale. Il ministro degli Esteri
britannico Ernest Bevin era un convinto difensore dell’impero come mezzo per creare una «terza
potenza» tra l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti, riprendendo cosí l’idea di un «sistema
tripartito» già sviluppato dal Foreign Office nel maggio del 1945 al fine di garantire che i
vincitori europei fossero trattati come pares inter pares . Bevin si opponeva all’indipendenza
41

dell’India, sperava di estendere l’impero britannico alla Libia e non amava l’amministrazione
fiduciaria proposta dalle Nazioni Unite. C’era una forte preferenza nel diffondere l’idea del
Commonwealth inteso come un’associazione libera (e vagamente definita) di stati indipendenti e
dominata dalla Gran Bretagna come terza potenza globale (il prefisso «British» era stato
eliminato dalla parola Commonwealth nel 1949 per evitare accuse di neocolonialismo) . Bevin 42

accolse inoltre l’idea del Foreign Office di un blocco delle potenze imperiali europee – Gran
Bretagna, Francia e Belgio – in grado di sfruttare l’«Eurafrica» per contribuire a garantire, come
disse al gabinetto britannico nel gennaio del 1948, «l’uguaglianza con l’emisfero occidentale e i
blocchi sovietici» . Hugh Dalton, cancelliere dello Scacchiere, pensava che sfruttando le risorse
43

africane si potessero «rendere gli Stati Uniti dipendenti [dalla Gran Bretagna]» . Il progetto finí
44

nel nulla a causa del tiepido sostegno da parte francese. La Francia aveva invece in programma
la creazione di una nuova struttura costituzionale per il suo impero, tale da legare maggiormente
le colonie alla madrepatria promettendo ai sudditi coloniali la cittadinanza francese e una
versione limitata di autonomia locale. L’Union française venne fondata dopo un plebiscito nel
1946, ma divenne presto chiaro che il suo scopo era quello di garantire la sopravvivenza nel
lungo periodo di rapporti coloniali in base ai quali i sudditi non avrebbero goduto dello stesso
suffragio, dei diritti civili e delle prestazioni assistenziali e opportunità economiche di cui
godevano i francesi. Oltre a non avere alcun intento di consentire l’indipendenza nazionale,
l’Union française non faceva che stringere maggiormente i legami che vincolavano l’impero . 45

Buona parte del programma per rivitalizzare l’impero non era che un pio desiderio. Gran
Bretagna, Francia e Paesi Bassi dovevano affrontare i gravi problemi della ripresa economica. La
Gran Bretagna era quasi in bancarotta a causa della guerra; l’economia francese era minata da
anni di occupazione. La dipendenza dagli aiuti degli Stati Uniti era inevitabile e la rinascita
dell’impero come fonte di forza economica era compromessa dall’insistenza con cui gli
americani, dopo gli accordi di Bretton Woods del 1944, ribadivano la necessità di smantellare i
sistemi commerciali imperiali e le aree monetarie chiuse a favore di un sistema globale di
commercio piú libero. L’introduzione dello European Recovery Plan nel 1947, generalmente
noto come Piano Marshall, costrinse ulteriormente gli imperi europei a fare sempre maggiore
affidamento sull’America. Quando la Gran Bretagna negò agli Stati Uniti l’accesso
incondizionato alla bauxite giamaicana, i prestiti previsti dal Piano Marshall per il 1949 furono
subordinati all’ottemperanza da parte britannica . L’impero poteva essere una fonte di mercati e
46

materie prime, ma aveva anche i suoi costi. Al fine di apparire meno coloniali, sia la Gran
Bretagna sia la Francia inaugurarono programmi di sviluppo – come il British Colonial
Development and Welfare Act nel 1945 o i Fonds d’Investissements pour le Developpement
Économique et Social creati dalla Francia l’anno successivo –, ma gran parte del denaro investito
serviva a incoraggiare nell’impero dei progetti economici che avrebbero giovato allo standard di
vita della popolazione della madrepatria anziché contribuire a programmi utili ai popoli
assoggettati. Il denaro utilizzato dagli inglesi proveniva da crediti coloniali bloccati a Londra per
tutta la durata della guerra – un gioco di prestigio con cui si evitava di dover utilizzare i soldi dei
contribuenti britannici.
Le potenze imperiali non si rendevano conto neppure di quanto la sopravvivenza dell’impero
sarebbe divenuta sia un campo di battaglia delle Nazioni Unite sia un fattore determinante del
passaggio dall’alleanza del periodo bellico alla guerra fredda. Dal 1946 in avanti, infatti,
l’Unione Sovietica scelse di riprendere la campagna contro l’imperialismo abbandonata all’inizio
del conflitto con la Germania. Nel 1947, in un discorso ampiamente pubblicizzato e rivolto ai
rappresentanti delle organizzazioni comuniste d’Europa (Cominform), Andrej Ždanov annunciò
che in base alla visione sovietica esistevano ora nel mondo «due campi», quello imperialista e
antidemocratico e quello antimperialista e democratico. L’obiettivo dell’Urss era combattere
contro «le nuove guerre e l’espansione imperialista» . Il British Colonial Office iniziò a
47

monitorare l’attività del Cremlino nelle vesti di «paladino dei popoli coloniali» e Bevin fece
pervenire nel 1948 a tutte le missioni diplomatiche britanniche istruzioni su come «rispondere
agli attacchi sovietici al colonialismo» . Ad aprile del 1947 un funzionario del ministero degli
48

Interni francese avvertí l’ambasciatore americano che uno degli obiettivi principali del
comunismo sovietico era «la disintegrazione dei possedimenti coloniali esistenti» al fine di
indebolire le potenze coloniali e renderle facili prede «per un definitivo dominio comunista» . La49

delegazione sovietica alle Nazioni Unite era in prima linea nella critica al colonialismo e nelle
richieste di autodeterminazione, inclusa la promozione nel 1960 della Risoluzione 1514 da parte
del premier sovietico Nikita Chruščëv, anche se il sentimento prevalente dell’Assemblea era
comunque già ostile alla sopravvivenza dell’impero, ancor di piú dopo l’approvazione della
Dichiarazione dei diritti dell’uomo nel 1948, a cui si sarebbero regolarmente appellati in seguito
i fautori della campagna anticoloniale. Un funzionario britannico osservò nel 1947 che fin dalla
fondazione delle Nazioni Unite due anni prima «l’attenzione mondiale si è concentrata sulle
questioni coloniali». Dieci anni dopo, un rapporto britannico sul lavoro delle Nazioni Unite
concludeva, giustamente, che esso risultava «infinitamente meno favorevole agli interessi
dell’Europa occidentale di quanto fosse la Società delle Nazioni» . 50

Il principale impulso al crollo dei vecchi imperi, tuttavia, provenne dalla crescita in tutto il
mondo colonizzato di sentimenti nazionalisti e anticolonialisti favoriti dal corso e dalle
conseguenze della guerra. Anche senza il conflitto mondiale, le richieste di autogoverno e
indipendenza avrebbero sfidato i sistemi imperiali come era già accaduto nel 1919, ma la rapidità
con cui i vecchi imperi scomparvero dopo il 1945 nacque da un’ostilità a livello mondiale nei
confronti dell’impero nella sua forma tradizionale e dalla nascita di reti antimperialiste
all’indomani della grande mobilitazione bellica. Simbolo del cambiamento fu l’organizzazione
nell’ottobre del 1945 di un Panafrican Congress a Manchester, in cui i rappresentanti di sessanta
paesi e movimenti anticolonialisti confluirono allo scopo di stimolare la richiesta di
emancipazione dal dominio coloniale e la fine della discriminazione razziale. Durante la guerra,
il reclutamento di nuovi iscritti da parte di sindacati o organizzazioni del lavoro nelle regioni
degli imperi aveva garantito un’ulteriore base di massa alle proteste organizzate, che, collegate
con le campagne di marxisti come George Padmore di Trinidad, vedevano la lotta contro
l’impero in termini di diritti economici .51

Il fondatore del People’s National Party, il giamaicano Norman Manley, operava in stretto
contatto con la Jamaican Progressive League fondata a Harlem, New York, ed esortava i
lavoratori neri americani a combattere non solo per i loro diritti ma anche per le «minoranze e i
gruppi coloniali di tutto il mondo» . Le reti degli attivisti potevano raggiungere anche gli angoli
52
piú remoti dell’impero. Nel 1945, a Guadalcanal, teatro di una delle piú drammatiche battaglie
della guerra, Jonathan Fifi’i, che era stato sergente del Solomon Islands Labour Corps, pensò di
fondare un movimento politico nazionale dopo essere stato a stretto contatto con i soldati neri
americani: «Eravamo arrabbiati», ricordava in seguito, «perché eravamo stati trattati come
spazzatura» dagli inglesi. Richiamandosi direttamente allo Statuto di fondazione dell’ONU, Fifi’i
e altri contribuirono alla nascita del movimento Maasina Ruru (Governo della fratellanza), che,
dopo aver istituito un sistema di autorità tribale alternativo a quello coloniale, rifiutava di pagare
le tasse e boicottava i «consigli nativi» creati dagli inglesi. Le autorità britanniche delle isole
Salomone risposero con l’operazione repressiva denominata De-Louse per soffocare il
movimento. Migliaia di attivisti furono arrestati e incarcerati per sedizione fino ai primi anni
Cinquanta .
53

Questa volta, tuttavia, l’ondata di nazionalismo antimperialista si rivelò irreversibile e fu


affrontata dalle vecchie potenze imperiali con un mix disomogeneo di compromessi di ripiego e
violenza estrema. Se lo scoppio di momenti critici nell’impero non era imprevedibile, come un
terremoto, i loro effetti furono comunque devastanti. Il crollo degli imperi europei in Asia tra il
1946 e il 1954 pose fine nel giro di otto anni a secoli di edificazione imperiale. Tutto questo
rappresentava per la Gran Bretagna un fenomeno preoccupante e fondamentale, poiché il grande
arco di territori dell’impero che andavano dall’India e la Birmania fino alla Malesia e Singapore
rappresentava la parte piú grande e ricca dell’intero dominio – essenziale, cosí si sosteneva, alla
continuazione di una sicura presenza britannica in Asia e del relativo status globale. Nel 1942, la
crisi indiana scoppiata durante la guerra e fomentata dalla campagna Quit India era stata
soffocata, ma gli anni del conflitto avevano assistito alla nascita di un movimento di massa
fortemente legato all’idea che agli obblighi e ai sacrifici della guerra dovevano immancabilmente
seguire azadi (libertà) e swaraj (autogoverno). «Abbiamo sofferto in guerra», affermava un
soldato indiano nel 1946, «lo abbiamo sopportato per poter essere liberi». Piú di un milione di
indiani erano stati smobilitati nel 1945 per tornare in villaggi e città che avevano conosciuto le
devastazioni della guerra . Il desiderio di indipendenza dal dominio britannico, sostenuto negli
54

anni Trenta dall’élite politica, si era trasformato ora in una richiesta populista su larga scala.
L’All-India Muslim League (Lega musulmana panindiana) era passata da un partito con poco piú
di 1000 iscritti alla fine degli anni Venti a un’organizzazione di massa con due milioni di membri
nel 1946. Nel 1940, la Lega pubblicò la Risoluzione di Lahore, che dava voce alle aspirazioni di
un Pakistan musulmano sovrano . Verso la fine della guerra, si allearono all’Indian National
55

Congress forze nazionaliste popolari con un vasto seguito di masse rurali e urbane. Il 14 giugno
1945, quando i leader del Congresso tornarono finalmente in libertà dalle prigioni e ripresero la
campagna per porre fine al Raj, trovarono un movimento indipendentista molto mutato.
Jawaharlal Nehru, presidente del Congresso, ammoní Stafford Cripps, ora presidente del Board
of Trade con il nuovo governo laburista, che l’indipendenza del paese era ormai inevitabile: «Il
popolo ora è disperato […] non ci deve essere alcuna prevaricazione» . 56

L’atteggiamento del governo Attlee era titubante, ma la portata della crisi imminente non
lasciava dubbi. La stampa popolare e gli uomini politici regionali ponevano la penuria
alimentare, le diffuse proteste sindacali e un ammutinamento dei marinai indiani di stanza a
Bombay (Mumbai), avvenuto nella primavera del 1946, in diretto collegamento con la piú ampia
questione della libertà dell’India. La malaccorta decisione del governo indiano di mettere sotto
processo i membri dell’Indian National Army con l’accusa di connivenza con il nemico
giapponese si trasformò in una cause célèbre a livello nazionale e provocò violente proteste. In
verità, la presenza britannica era troppo debole per tenere a bada un subcontinente in cui ribolliva
l’ostilità verso la continuazione del Raj. Si stima che nel 1946 vi fossero solamente circa 97 000
britannici in tutta l’India, senza considerare che la maggior parte dell’esercito e delle forze di
polizia era formata da indiani. Le elezioni della primavera del 1946 diedero mandato al
cambiamento con una maggioranza schiacciante di voti. La Lega panindiana di Muhammad
Jinnah vinse in tutte le province a maggioranza musulmana, mentre il Partito del Congresso
risultò vincitore nelle altre. Gli indiani erano ora al governo in tutte le province. Il viceré,
feldmaresciallo Wavell, informava con crescente pessimismo Londra del dramma politico in
corso; nell’estate del 1946, l’India era divenuta pressoché ingovernabile. Anche se il governo
londinese comprendeva solo in misura limitata fino a che punto fosse diventata precaria la
situazione, in conclusione venne deciso di inviare nel subcontinente una Missione di gabinetto
guidata dal segretario di Stato per l’India Lord Pethick-Lawrence e incaricata di elaborare un
futuro costituzionale per un dominion indiano indipendente ma sotto la Corona. A giugno del
1946, la missione propose finalmente una complessa struttura federale che prevedeva un governo
centrale panindiano da cui dipendevano la difesa e la politica estera, affiancato da federazioni
provinciali in rappresentanza delle maggioranze musulmane o indú a cui era affidata la gran
parte delle questioni di ordine interno. Sarebbe stata eletta un’assemblea costituente che avrebbe
portato a un successivo governo indiano ad interim. La proposta fallí rapidamente: il Congresso
temeva che gli inglesi intendessero pianificare una «balcanizzazione» dell’India; la Lega
musulmana, per cui era vitale un preciso impegno per il Pakistan, iniziò a sostenere la
spartizione. Per gli inglesi divenne impossibile controllare la crescente violenza, e il governo
locale passò rapidamente nelle mani degli indiani.
La prova che la crisi in India era al di là di ogni possibile soluzione da parte del governo
britannico giunse alla metà di agosto del 1946, quando durante il Direct Action Day indetto da
Jinnah in risposta alle proposte britanniche scoppiarono a Calcutta (oggi Kolkata) feroci
disordini tra attivisti musulmani e indú rivali. Le violenze, che non facevano che replicare gli
scontri visti per piú di un anno in tutta l’India settentrionale lungo le faglie religiose del Punjab e
del Bengala, erano tuttavia di una portata ben piú vasta e piú letale. Per la città si aggiravano
bande pronte a uccidersi e a mutilarsi a vicenda con armi improvvisate, bruciando negozi e case
insieme con i loro abitanti, compiendo rapimenti e stuprando donne e ragazze, ma fu solo dopo
sei giorni di tumulti che il viceré fece finalmente intervenire le truppe britanniche, indiane e
Gurkha. Le stime dei morti durante le violenze variano ampiamente dalla cifra ufficiale di 4000,
arrivando fino a 15 000 caduti con piú di 100 000 feriti. La Calcutta Disturbances Commission
of Enquiry successivamente istituita non aveva alcun potere decisionale, né gli inglesi avevano
qualche possibilità di arginare la diffusione di ulteriori violenze data la loro limitata potenza
militare . Le uccisioni conobbero un’escalation durante l’inverno del 1946-47, alimentata in
57

parte dalla persistente incertezza sulle intenzioni degli inglesi dopo il fallimento della Missione
di gabinetto e dalla paura generata nelle comunità delle minoranze indú e musulmane di potersi
poi trovare dalla parte sbagliata di ogni eventuale linea di demarcazione religiosa.
A marzo del 1947, Wavell fu sostituito alla carica di viceré da Lord Mountbatten, a cui Londra
aveva dato la direttiva di trovare qualsiasi soluzione che permettesse agli inglesi di ritirarsi
dall’India. Mountbatten decise che la spartizione in due stati, uno musulmano e uno indú, era
inevitabile e, una volta convinto il governo britannico, il 3 giugno 1947 annunciò alla radio che il
subcontinente sarebbe stato diviso in due dominion sovrani britannici, l’India e il Pakistan. La
decisione venne messa in pratica con una fretta a dir poco vergognosa. Il Giorno
dell’Indipendenza venne fissato per il 15 agosto 1947, dopodiché gli ufficiali e i funzionari
britannici iniziarono immediatamente ad abbandonare il Raj. I confini della partizione erano stati
definiti con tale rapidità che milioni di musulmani, indú e la minoranza sikh (le cui opinioni
erano state in larga parte ignorate) vennero a trovarsi di fatto in una situazione di guerra civile.
Benché non si possa avanzare nessuna stima precisa del successivo bilancio delle vittime, il
numero dei morti oscilla tra mezzo milione e due milioni, mentre tre milioni di profughi
attraversarono la linea di demarcazione religiosa. Occorsero anni prima di superare le
ripercussioni della repentina abdicazione della Gran Bretagna in India. Nel 1949, entrambi i
nuovi stati divennero repubbliche e rifiutarono lo status di dominion britannico sotto la Corona.
Niente confermò la fine degli imperi in modo cosí decisivo come l’indipendenza dell’India e del
Pakistan. L’anno successivo, Ceylon (Sri Lanka) divenne la prima colonia della Corona a cui fu
concessa l’indipendenza. Mentre l’India si dibatteva negli spasmi dell’indipendenza, i
nazionalisti birmani cominciarono una campagna per cacciare gli inglesi, spinti dal breve periodo
di «indipendenza» vissuto sotto i giapponesi. L’Esercito nazionale birmano era guidato da Aung
San (popolarmente noto come Bogyoke), che aveva cambiato bandiera abbandonando il
Giappone per combattere al fianco degli Alleati, e ora prevedeva che la Gran Bretagna avrebbe
rinunciato al suo governo coloniale ormai screditato. Aung San guidava il principale partito
politico nazionalista, dalla pittoresca denominazione Movimento antifascista per la libertà del
popolo (indicato in birmano con l’acronimo Hpa Hsa Pa La), sotto i cui auspici furono istituite
le Organizzazioni dei volontari del popolo, formazioni paramilitari usate per mobilitare le
campagne in nome della causa nazionale e accaparrarsi le armi inglesi e giapponesi rimaste dalla
guerra. L’evidenza di quanto stava accadendo in India spronò i nazionalisti birmani. Nel corso
del 1946, anche la Birmania divenne pressoché ingovernabile, con vaste aree del paese
praticamente fuori dal controllo britannico. Un’ondata di scioperi minacciò in autunno di
paralizzare il paese, mentre erano ovunque evidenti i segnali di una probabile ribellione armata
contro il dominio inglese. Montgomery riferí allo stato maggiore che la Gran Bretagna non
disponeva semplicemente della forza necessaria a mantenere sotto controllo la Birmania, poiché
le truppe indiane non potevano piú essere utilizzate per reprimere un’insurrezione antibritannica.
Il 20 dicembre 1946, Attlee annunciò in parlamento che la Gran Bretagna avrebbe ora
«accelerato il momento in cui la Birmania realizzerà la sua indipendenza», pur sperando ancora
che il paese sarebbe rimasto nel Commonwealth e strettamente legato alla Gran Bretagna con
accordi commerciali e di difesa . Nel gennaio del 1947, Aung San si recò a Londra, dove fu
58

raggiunto un accordo sull’indipendenza della Birmania, da concretizzarsi nel gennaio dell’anno


successivo. Aung San fu assassinato nel luglio del 1947 da una squadra di miliziani
pesantemente armati al soldo del politico corrotto di destra U Saw, che sperava di mantenere
stretti legami di affari con la Gran Bretagna. U Saw fu processato, ritenuto colpevole e
impiccato. Il 4 gennaio 1948, la Birmania divenne indipendente, ma come repubblica al di fuori
del Commonwealth. Solo allora l’instabile mescolanza di forze nazionaliste, comuniste e
separatiste presenti nel paese degenerò in un lungo periodo di violenti scontri. In quel caso, come
già in India, la Gran Bretagna aveva abbandonato il territorio prima che toccasse alle forze
britanniche affrontare la violenza .
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Diverso fu il caso del Sud-est asiatico, dove le colonie conquistate dai giapponesi furono
nuovamente occupate con ondate di violenta repressione in Malesia, Indocina francese e Indie
orientali olandesi. Per contrastare la perdita dell’Asia meridionale, inglesi, francesi e olandesi
inviarono negli anni successivi al 1945 considerevoli forze armate per riconquistare le colonie e
impedire ai movimenti nazionalisti di porre rapidamente fine al dominio coloniale. Per tutte e tre
le potenze imperiali, il Sud-est asiatico conservava la sua piena importanza come risorsa
economica, in primo luogo come fonte di guadagni in dollari tanto necessari; per tutte e tre, la
paura della diffusione del comunismo, divenuto ora il nuovo nemico globale dopo la sconfitta
dell’Asse, contribuisce a spiegare almeno in parte il grado di violenza che venne esercitato.
Furono soprattutto le azioni violente condotte dai gruppi irredentisti contro i colonizzatori di
ritorno a provocare lotte feroci per ristabilire il controllo che, per molti versi, ricordavano le
campagne antinsurrezionali condotte dall’Asse in Europa e in Asia. In Indonesia, il patrocinio
concesso dai giapponesi al movimento indipendentista e l’eventuale concessione
dell’«indipendenza» ai leader nazionalisti Sukarno e Muhammad Hatta alla vigilia della resa di
Tokyo, portarono alla dichiarazione di indipendenza del 17 agosto 1945. Come in Birmania e in
India, esisteva un vasto movimento populista sbocciato durante la guerra e impegnato a
combattere per l’ideale della merkeda, ovvero la libertà dall’oppressione coloniale. Tra i giovani
giavanesi, il movimento pemuda aveva plasmato una generazione radicale e ribelle, totalmente
dedita al rifiuto violento di un ritorno degli olandesi: «Noi estremisti», disse alla radio Bung
Tomo, uno dei leader carismatici del pemuda, «preferiremmo vedere l’Indonesia annegare nel
sangue e affondare sul fondo del mare piuttosto che vederla nuovamente colonizzata!» . Gli 60

Alleati, convinti comunque di dover ripristinare una qualche forma di dominio olandese, nel
settembre del 1945 inviarono a Giava e Sumatra forze dell’impero britannico, a cui seguirono
nella primavera seguente i primi contingenti dei Paesi Bassi. Ai comandanti inglesi non sfuggí
l’intransigenza dei funzionari olandesi rientrati nel Sud-est asiatico e intenzionati a riprendere il
controllo totale. Molti di loro, che avevano evitato la guerra acquartierati a «Camp Colombia» in
Australia aspettando l’occasione per ritornare alle vecchie consuetudini coloniali, avevano una
scarsa consapevolezza di quanto fossero mutati gli umori della popolazione asiatica. Quando il
tenente governatore Hubertus Van Mook arrivò nell’ottobre del 1945 per riprendere il suo
ufficio, fu accolto con cartelli che a causa della sua miopia non riuscí a leggere: «Morte a Van
Mook», lo informarono discretamente i suoi collaboratori . 61

Le forze britanniche rimasero fino a novembre del 1946, intrappolate tra un governo
repubblicano che gli olandesi non accettavano, forze militari e unità di polizia dei Paesi Bassi
che si comportavano con esagerata violenza nei confronti della popolazione indonesiana e
un’insurrezione disorganizzata che mieteva continuamente vittime tra gli olandesi. Questo non
impedí ai militanti pemuda di ritenere che anche gli inglesi fossero un ostacolo all’indipendenza.
Un anno prima, le forze dell’impero britannico combatterono una battaglia campale contro le
forze nazionaliste nella città portuale di Surabaya, dove la milizia pemuda, pesantemente armata
dai giapponesi in ritirata, si impadroní della città, uccise il comandante della guarnigione
britannica e si abbandonò a macabri atti di vendetta contro gli olandesi e gli eurasiatici
intrappolati nella città, mozzando teste, arti e genitali . La risposta fu tuttavia sproporzionata. Un
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fuoco di sbarramento dalle navi, seguito dall’assalto di 24 000 soldati, 24 carri armati e 24 aerei,
ridusse in macerie gran parte di Surabaya, uccidendo secondo le stime 15 000 indonesiani, la
maggior parte dei quali intrappolata nel fuoco incrociato, ma lasciando sul campo anche 600
morti tra le forze inglesi. La devastazione ebbe tuttavia meno ripercussioni del previsto; venne
negoziato un cessate il fuoco con gli insorti e alla repubblica fu offerto uno status di semi-
indipendenza, ma i colloqui si interruppero nell’estate del 1947.
Gli olandesi piú intransigenti, che insistevano per una risposta militare, tra il 1945 e il 1949
mandarono in Indonesia 160 000 soldati e 30 000 agenti della polizia militare, oltre a un corpo di
«truppe d’assalto» (il Depot Speciale Troepen comandato da Raymond Westerling) per instillare
il terrore nella resistenza nazionalista . Quasi nessuno pensò a un collegamento tra il movimento
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della Resistenza olandese in tempo di guerra e la selvaggia repressione degli indonesiani, anche
se i politici che l’avevano approvata erano stati loro stessi dei partigiani . Il detto popolare «Se
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perdiamo le Indie, sarà la rovina» manteneva l’opinione pubblica olandese a favore di una guerra
la cui conduzione violava le regole convenzionali di ingaggio. Per evitare accuse di crimini di
guerra, le forze olandesi chiamarono la loro campagna un’«azione di polizia». Detenzioni senza
processo, torture durante gli interrogatori e uccisioni arbitrarie divennero elementi strutturali
della politica antinsurrezionale. «In questo posto bisogna essere duri come pietre», riferiva un
soldato olandese, «e non bisogna lasciarsi sopraffare dalla sofferenza e dalla miseria». La parola
d’ordine per i soldati che arrivavano dai Paesi Bassi era «Spara prima che sparino a te e non
fidarti di nessuno che sia nero di pelle!» . Si stima che nei quattro anni di conflitto abbiano perso
65

la vita tra i 100 000 e i 150 000 indonesiani, alcuni uccisi dal fuoco incrociato, altri vittime di
violenze interetniche, e tutto questo per una guerra che alla fine si rivelò troppo costosa in vite e
denaro perché il governo olandese potesse giustificarla dinanzi a un’opinione pubblica sempre
piú critica. Il 27 dicembre 1949, la regina Giuliana presiedette ufficialmente al trasferimento dei
poteri nelle mani del presidente Sukarno, dopo aver raggiunto un’intesa in base alla quale i due
paesi sarebbero stati partner alla pari in una sorta di Commonwealth . L’accordo naufragò ben
66

presto a causa dell’insistenza olandese per mantenere il resto della Nuova Guinea occidentale e
accontentare cosí la lobby coloniale fortemente delusa. Dopo che i piani per trasformare la
regione in una colonia modello non si concretizzarono, le richieste indonesiane portarono quasi
alla guerra le due parti, fino a quando i Paesi Bassi cedettero il territorio all’Organizzazione delle
Nazioni Unite, che lo concessero prontamente all’Indonesia nel 1963 . 67

Il South East Asia Command, agli ordini di Mountbatten, si trovò inizialmente sulla linea di tiro
anche in Vietnam dopo che le truppe dell’impero britannico occuparono il Sud del paese fino al
16° parallelo, mentre le forze nazionaliste cinesi mantenevano il controllo sul Nord. Come in
Indonesia, la resa giapponese offrí ai nazionalisti raggruppati nel Viet minh (la Lega per
l’indipendenza del Vietnam guidata dai comunisti) l’opportunità per dichiarare l’indipendenza il
piú rapidamente possibile. Il leader comunista Ho Chi Minh era arrivato a Hanoi alla fine di
agosto del 1945 e il 2 settembre, data ufficiale della resa del Giappone, proclamò l’indipendenza
della Repubblica democratica del Vietnam dinanzi a un’enorme folla visibilmente emozionata,
citando l’impegno delle Nazioni Unite per l’autodeterminazione e l’uguaglianza dei popoli . 68

Venne istituito un governo provvisorio per l’intero Vietnam occupato. Pochi giorni dopo, il
generale inglese Douglas Gracey assunse il comando del Sud, seguito dal corpo di spedizione del
generale francese Philippe Leclerc, il cui scopo era ristabilire, secondo le sue stesse parole, «il
futuro della razza bianca in Asia» . Uno dei primi atti dei soldati della Francia da poco liberata
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dai nazisti fu l’impiccagione di alcuni rappresentanti del «Comitato del popolo» del Viet minh,
istituito a Saigon in rappresentanza del governo di Hanoi. Gli inglesi reagirono violentemente
all’avanzata verso Saigon di militanti del Viet minh male armati, imposero la legge marziale e
ordinarono alle truppe di sparare a vista su qualsiasi «Annamese armato» . La repressione
70

britannica fu presto eclissata da una feroce controffensiva lanciata dalle forze coloniali francesi
su ordine dell’uomo scelto come alto commissario della Francia, l’ammiraglio Georges-Thierry
d’Argenlieu, un fervente cattolico con un passato da frate carmelitano determinato a fare
accettare ai vietnamiti l’autorità della civiltà cristiana. A dispetto delle istruzioni di Parigi,
d’Argenlieu istituí la République autonome de Cochinchine (nucleo del successivo Vietnam del
Sud) e impose un brutale governo francese nel Sud del paese. Nel Nord, un’Assemblea nazionale
convocata a Hanoi dal Viet minh si riuní nell’ottobre del 1946 ed elesse come presidente Ho Chi
Minh. Quando divenne chiaro che i francesi intendevano trasformare il Vietnam in un membro
dell’Union française e non in uno stato indipendente, scoppiò la guerra aperta tra il Viet minh e i
francesi, destinata a proseguire, nonostante qualche sporadico tentativo di compromesso, per gli
otto anni successivi.
I francesi, con il crescente sostegno degli Stati Uniti, combatterono una guerra logorante contro
la guerriglia del Viet minh. Nel 1949, cercando di arrivare a un compromesso, le autorità francesi
affidarono all’ex imperatore dell’Annam, Bao Dai, messo per breve tempo sul trono dai
giapponesi nel 1945, la guida di uno stato unitario all’interno dell’Union française. Il governo
centrale provvisorio venne formalmente istituito il 2 luglio 1949. La Francia, in realtà,
manteneva il controllo del Vietnam, per cui la nomina di Bao Dai fece poca differenza riguardo
al conflitto, dato che il Viet minh rifiutò di accettare il nuovo governo in assenza di una piena
indipendenza. All’inizio degli anni Cinquanta, erano di stanza in Vietnam 150 000 soldati
francesi e coloniali, supportati da un esercito vietnamita privo di esperienza con circa 100 000
uomini, comandati e addestrati da ufficiali francesi a combattere quella che per loro era una
guerra civile . Le unità militari occupavano le regioni centrali e settentrionali, del tutto insicure,
71

dove il Viet minh controllava con il suo nucleo in gran parte comunista vaste aree rurali. A quel
punto, dopo la vittoria di Mao Zedong sui nazionalisti di Chiang nella guerra civile, gli insorti
potevano contare sul sostegno della Cina e su quello di Stalin, che fino al 1950 aveva rifiutato di
riconoscere la Repubblica democratica del Vietnam. Il conflitto veniva ora ad assumere, di
conseguenza, una dimensione da guerra fredda . Il paese era amministrato da due diversi regimi,
72

uno con sede a Saigon e l’altro nelle regioni centro-settentrionali dominate da Ho Chi Minh.
All’inizio del 1954 il comandante delle truppe francesi, il generale Henri Navarre, pianificò una
resa dei conti finale con le forze del Viet minh; come sito ideale per indurre il nemico a
combattere una grande battaglia venne scelto il piccolo villaggio di Dien Bien Phu, prossimo al
confine tra Vietnam e Laos. L’area venne trasformata in un’immensa zona fortificata e 13 200
paracadutisti arrivarono a dare man forte alle forze locali. Navarre sperava che il Viet minh
avrebbe preso d’assalto le fortificazioni con vani attacchi frontali e sarebbe stato falciato.
Per Navarre, la battaglia sarebbe stata decisiva per il futuro della Francia nel Vietnam, e cosí fu.
Il comandante del Viet minh, Vo Nguyen Giap, che poteva contare su armi pesanti fornite dai
cinesi, guidò 100 000 uomini, tra soldati e ausiliari, attraverso le montagne che circondavano
Dien Bien Phu e nel marzo del 1954, anziché lanciare un assalto frontale, pose sotto assedio la
base francese. L’artiglieria pesante dei guerriglieri distrusse la pista di atterraggio improvvisata,
impedendo cosí ulteriori rifornimenti dal cielo. Le piccole ridotte all’esterno della fortificazione
principale furono eliminate l’una dopo l’altra e persistenti colpi di mortaio logorarono i difensori,
ormai a corto di cibo, munizioni e forniture mediche. Nella notte tra il 6 e il 7 maggio, i francesi
si arresero. Il giorno seguente sarebbero iniziati a Ginevra i negoziati del summit convocato da
Gran Bretagna e Unione Sovietica per cercare di risolvere la crisi in Vietnam. La sconfitta
francese aveva reso inevitabile il definitivo abbandono delle aspirazioni coloniali. In base
all’accordo raggiunto, il Vietnam sarebbe stato diviso in due stati. La Francia abbandonò
l’Indocina, mentre Vietnam del Nord, Vietnam del Sud, Laos e Cambogia si trasformavano in
stati sovrani indipendenti. Il costo in vite umane fu elevato per entrambe le parti, anche se
sproporzionato tra loro. Si stima che nella prima guerra per l’indipendenza del Vietnam morirono
circa 500 000 vietnamiti, mentre le truppe francesi e coloniali persero 46 000 soldati – poco
meno delle perdite subite nella sconfitta del 1940 .73

Mentre i francesi combattevano una guerra su vasta scala in Vietnam, gli inglesi riprendevano
possesso dei territori coloniali della Malesia e Singapore. Benché i buoni risultati riportati dagli
inglesi in Malesia nell’evitare disordini delle proporzioni dell’insurrezione indonesiana e
vietnamita siano stati spesso attribuiti ai loro sforzi per conquistare «il cuore e la mente» della
popolazione, anziché lanciarsi in brutali e fallimentari campagne di pacificazione, il movimento
irredentista fomentò anche in questo caso una guerra lunga e feroce dal 1948 alla fine degli anni
Cinquanta, di fatto l’ultimo conflitto coloniale in Asia. La presenza giapponese aveva creato le
condizioni destinate a portare al rifiuto del dominio coloniale. La numerosa popolazione cinese
della penisola, circa il 38 per cento del totale, aveva svolto un ruolo importante nell’opporsi
all’occupante giapponese con il Tentera Anti-Jepun Penduduk Tanah Melayu (Esercito
antigiapponese del popolo della Malesia) e il Parti Komunis Malaya (Partito comunista della
Malesia). Anche se alla fine del conflitto l’esercito era stato smobilitato, nel paese persisteva
ancora il radicalismo degli anni di guerra, favorito dalla diffusa penuria alimentare e dalla
disoccupazione generata dallo scompiglio causato dai giapponesi. Nei due anni successivi alla
fine della guerra, si susseguirono regolarmente scioperi e proteste per le cattive condizioni di vita
prima sotto l’amministrazione militare britannica e poi sotto un rinnovato governo civile di
stampo coloniale. La guerra aveva innescato un’analoga crisi di legittimità riguardo al ritorno dei
colonizzatori e un forte risentimento nei confronti dello sfruttamento economico della penisola
da parte degli inglesi. A fianco del Partito comunista, il Parti Kebangsaan Melayu Malaya
(Partito nazionalista malese) e l’Angkatan Pemuda Insaf (API), la «Generazione dei giovani
consapevoli» nata sul modello del movimento indonesiano pemuda, chiesero la fine dell’impero
con lo slogan Merdeka dengan darah, ovvero «Indipendenza attraverso il sangue», una formula
che era stata usata nel 1947 per condannare il leader dell’API Ahmad Boestamam . Anche se gli
74

inglesi, che contavano sulle divisioni politiche ed etniche della Malesia per scongiurare una
ribellione unitaria, avevano creato nel 1947 una Federation of Malaya che favoriva la
maggioranza malese, in varie regioni della penisola i gravi disordini iniziarono a essere evidenti.
Il vero scontro avvenne soltanto nel 1948, quando il regime coloniale divenne piú illiberale nei
confronti della stampa e dei partiti politici. A giugno di quell’anno, il governatore britannico
dichiarò lo «stato di emergenza» con un provvedimento legislativo basato sull’Emergency Power
Act introdotto dagli inglesi nel 1939, all’inizio della guerra, per consentire al regime coloniale
della Malesia (e successivamente in Kenya, Cipro e Oman) di effettuare arresti senza processo,
trattenere i sospetti in campi di detenzione, ricorrere alla tortura durante gli interrogatori, imporre
il coprifuoco, criminalizzare la «letteratura sediziosa» e perfino uccidere sul posto i sospettati
ricercati dalla polizia. Una delle prime uccisioni, avvenuta nel luglio del 1948 durante
un’incursione di guardie armata in una capanna isolata, fu quella dell’ex comandante delle forze
di guerriglia antigiapponesi, che tre anni prima aveva guidato il contingente malese nella parata
della vittoria di Londra .
75

Lo stato d’emergenza durò altri dieci anni, durante i quali gli inglesi e le forze di sicurezza
malesi ricorsero a ogni misura per estinguere la resistenza antibritannica. I gruppi di ribelli
militanti nel Tentera Pembebasan Rakyat Malaya (Esercito di liberazione delle razze malesi) non
contarono mai piú di 7000-8000 uomini, ma avevano un ampio sostegno tra la popolazione. La
maggior parte era cinese, come era avvenuto già nella lotta contro i giapponesi, ma erano
presenti anche altre etnie. Benché non tutti fossero comunisti, le autorità britanniche
presumevano che lo fossero, sicché pure quell’insurrezione alimentava i piú ampi timori
dell’impero connessi alla guerra fredda. In Malesia, come in Indonesia, la reazione fu del tutto
sproporzionata. Nonostante le persistenti affermazioni, sia allora sia dopo, che gli inglesi stavano
impiegando solamente una «forza minima», i manuali di campo facevano esclusivamente
riferimento alla «minima forza necessaria», espressione aperta alle piú ampie interpretazioni. La
forza necessaria, come riferí al parlamento britannico il segretario di Stato per la Guerra, «non
potrà che essere un bel po’ di forza» . Essa incluse per esempio il regolare cannoneggiamento
76

dalle navi, rivolto speculativamente contro i piccoli campi della guerriglia; nel 1955, nel corso
dell’operazione Nassau, per otto mesi le navi bombardarono quasi ogni notte . Nel 1952, 77

momento culminante delle ostilità, per fare rispettare lo stato d’emergenza vi erano 40 000
soldati britannici, 67 000 poliziotti e 250 000 uomini armati appartenenti alla «Guardia
nazionale» malese e reclutati in gran parte tra la popolazione ostile ai cinesi e al comunismo. Si
trattava di un livello di sicurezza a dir poco eccezionale per una popolazione di appena sei
milioni di abitanti .
78

I ribelli venivano trattati con scarso riguardo per la legalità. Al fine di giustificare la repressione,
il Colonial Office arrivò a eliminare il termine «insorti» sostituendolo con «banditi», esattamente
come avevano fatto i tedeschi durante la guerra nella lotta contro i partigiani europei. Sir Henry
Gurney, che nel 1949 rivestiva la carica di governatore generale, ammise in privato che «la
polizia e l’esercito infrangono la legge ogni giorno» . Il Colonial Office vietò l’uso di riportare
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alla base dopo le operazioni antiguerriglia le teste mozzate dei ribelli ai fini dell’identificazione
solamente nel 1952, lo stesso anno in cui la parola «bandito» fu abbandonata in favore
dell’acronimo da guerra fredda CT (communist terrorist, «terrorista comunista»). Le norme dello
stato di emergenza legalizzavano ostentatamente l’uso di una «forza ragionevole», il che veniva
interpretato nel senso che nelle «zone di fuoco libero» i sospetti rivoltosi potevano essere fucilati
senza recriminazioni; furono allestiti campi di detenzione per sospetti ribelli senza processo; in
base alla norma 17C, venne autorizzata la deportazione, il che consentí alle autorità di espellere
20 000 cinesi nella Cina continentale . Per impedire alla popolazione locale di fornire sostegno
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agli insorti, gli inglesi autorizzarono un programma di reinsediamento obbligatorio. Circa mezzo
milione di cinesi furono spostati dai margini delle foreste nei «nuovi villaggi», circondati da filo
spinato, con torrette per mitragliatrici e ingresso sorvegliato da guardie. Gli inglesi speravano
che gli abitanti dei villaggi avrebbero fornito informazioni sui luoghi in cui si trovano i
guerriglieri. Quando i cinesi si rifiutavano, venivano puniti con razioni ridotte, chiusure di negozi
e coprifuoco. Nel 1954, esistevano 480 «nuovi villaggi», mentre altri 600 000 operai erano stati
trasferiti per controllarli piú facilmente. Tre anni dopo, piú di due terzi degli insorti erano morti e
la minaccia comunista venne ritenuta debellata. La Malesia ottenne l’indipendenza nel 1957
sotto il governo di Tunku Abdul Rahman, vincitore nel 1955 delle prime elezioni nazionali, in
cui aveva votato una schiacciante maggioranza malese.
A guerra conclusa, la fine dell’impero nel Sud-est asiatico comportò violenza armata e
coercizione per altri dieci anni. L’indipendenza dei vari paesi fu a volte conquistata, a volte
concessa dalle potenze imperiali, ormai incerte sull’effettiva possibilità di ricolonizzare i territori
perduti. Il crollo degli imperi in tutta l’Asia fu finalmente celebrato come momento storico
epocale con la Conferenza degli stati afroasiatici tenutasi nella città indonesiana di Bandung dal
18 al 24 aprile 1955. I 29 stati presenti, inclusa la Cina comunista, rappresentavano un miliardo e
mezzo di persone, piú della metà della popolazione mondiale. La conferenza confermò in sintesi
il rifiuto dell’«occidentalismo» che i movimenti indipendentisti avevano reso esplicito. Nel
comunicato stampa conclusivo si chiedeva la fine di tutto il colonialismo ancora esistente e di
eventuali tentativi neocoloniali. Gli organizzatori considerarono la conferenza come una tappa
simbolica del mutevole ordine postbellico. Il grande sostenitore del convegno, il presidente
indonesiano Sukarno, auspicò «un nuovo inizio nella storia mondiale», in cui i paesi asiatici e
africani avrebbero potuto finalmente incontrarsi come stati «liberi, sovrani e indipendenti».
In Africa, tuttavia, colonie, protettorati e territori fiduciari dovevano ancora conquistare la
libertà. Dopo la prima ondata di decolonizzazione, l’Africa rimaneva l’unica regione del mondo
in cui le potenze imperiali esercitavano ancora il dominio coloniale in maniera significativa. Sul
territorio africano, probabilmente, credevano di trovarsi su un terreno piú sicuro dopo le
devastazioni della guerra. Se il nazionalismo asiatico era una forza difficile da affrontare, i
movimenti nazionali africani erano invece meno sviluppati. Anche se Francia, Gran Bretagna e
Belgio aderivano solo a parole all’idea di contribuire allo sviluppo dei territori africani con un
esempio di «imperialismo liberale», si dava ampiamente per scontato che l’autodeterminazione
fosse una meta lontana per popoli non ancora idonei ad autogovernarsi. Alcuni territori,
affermava nel 1954 il ministro delle Colonie Henry Hopkinson I barone Colyton, «non potranno
mai aspettarsi di essere completamente indipendenti» . Lo storico britannico Hugh Seton-Watson
81

lamentava che l’estensione della democrazia agli africani avrebbe segnato il «tragico
decadimento della civiltà» e «un ritorno alla barbarie». Agli europei, proseguiva, si sarebbero
sostituite «le capre, le scimmie e la giungla» . Le potenze imperiali, tuttavia, erano tenute, ai
82

sensi della Carta delle Nazioni Unite, ad «accettare l’obbligo […] di assicurare il progresso delle
popolazioni sottomesse», e questo includeva chiaramente l’evoluzione verso l’autogoverno.
Dopo che l’intera Asia ottenne l’indipendenza, divenne politicamente difficile difendere
qualsiasi forma di opposizione all’estensione dell’autodeterminazione alle colonie e ai
protettorati dell’Africa. E questo valeva prima di tutto per i territori fiduciari delle Nazioni Unite,
la maggior parte dei quali si trovava in Africa. Le potenze fiduciarie erano le stesse che avevano
amministrato i territori sotto i mandati della Società delle Nazioni, ma questa volta la loro attività
di amministrazioni fiduciarie doveva essere supervisionata da uno Special Committee on
Information from Non-Self Governing Territories (Comitato speciale delle Nazioni per le
informazioni sui Territori non autonomi) e un Trusteeship Council (Consiglio per
l’amministrazione fiduciaria). Il Consiglio era composto da otto membri che gestivano i territori
in amministrazione fiduciaria e da altri otto scelti tra gli stati dell’Assemblea Generale. Il
Comitato speciale divenne il campo di battaglia tra i colonizzatori e i loro critici, in quanto molti
dei suoi membri provenivano da territori che avevano conquistato recentemente l’indipendenza.
Poiché inglesi e francesi si rifiutavano di fornire nel rapporto annuale obbligatorio qualsiasi
informazione su questioni politiche e costituzionali, sostenendo che si trattava di affari interni
non soggetti a interferenze, nel 1951 fu approvata una risoluzione che chiedeva agli
amministratori fiduciari di presentare ulteriori informazioni sui diritti umani. A quel punto, le
potenze imperiali si ritrovarono soggette a un rigoroso controllo sul modo in cui trattavano i
popoli africani – un elemento, questo, che tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni
Sessanta contribuí alla corsa finale per disfarsi del modello coloniale .
83

Benché sotto rigido controllo, nei territori fiduciari la repressione politica restava possibile. Nel
Camerun francese, l’Union des populations du Cameroun, il movimento indipendentista fondato
nel 1948 in base al fatto che l’autodeterminazione rappresentava ormai un diritto umano formale,
fu perseguitata senza sosta dall’amministrazione coloniale francese, finché nel 1955 fu bandita
come organizzazione comunista – il primo partito politico a essere proscritto in un Territorio
fiduciario. I leader del movimento fuggirono nel vicino Territorio fiduciario del Camerun
britannico, dove i francesi continuarono la caccia e assassinarono il presidente del partito. Gli
inglesi seguirono l’esempio della Francia e nel giugno del 1957 misero al bando il partito e ne
deportarono i leader in Sudan. L’International League of the Rights of Man, organismo
newyorchese di vigilanza sui diritti umani, calcolò che la Francia e la Gran Bretagna avevano
violato almeno cinque degli articoli fondamentali della Dichiarazione dei diritti umani delle
Nazioni Unite. Soltanto nel 1956, il Camerun aveva inviato alle Nazioni Unite 45 000 petizioni
in merito a violazioni dei diritti umani .
84

Lontano dal controllo del Comitato speciale, il governo coloniale poteva essere altrettanto duro
quanto nel Sud-est asiatico. In Kenya, una ribellione del popolo kikuyu contro la perdita di terre
e lo sfruttamento da parte della comunità dei coloni bianchi portò nell’ottobre del 1952 a un’altra
dichiarazione dello stato di emergenza. I Mau Mau (letteralmente gli «avidi mangiatori»
appartenenti alla tradizionale autorità tribale) organizzarono il Kenya Land and Freedom Army,
alcuni leader del quale avevano combattuto in Birmania contro i giapponesi al fianco delle truppe
inglesi. «Non potevamo piú accettare», affermava uno di loro, «l’idea che uno mzungu [europeo]
fosse migliore di un africano» . I guerriglieri kenioti regolarono i conti con i coloni bianchi e le
85

loro famiglie con uccisioni casuali da parte di gruppi dotati di armi sia moderne sia tradizionali .86

La reazione delle autorità fu la piú estrema di tutte le azioni antinsurrezionali britanniche. I


kikuyu furono accusati indiscriminatamente delle violenze, perfino alcuni che prestavano
servizio in una «Guardia nazionale» che sosteneva il regime coloniale e si era resa responsabile
di gran parte della violenza scatenata contro i ribelli in un altro esempio di guerra civile
coloniale . Come in Malesia, venne messo in atto il sistema dei «nuovi villaggi», nei quali fu
87

trasferito a forza un milione di kikuyu; in aree piú remote furono creati centri di detenzione che
nel momento culminante della rivolta contavano 70 000 prigionieri, soggetti a lavori debilitanti e
regolari violenze, inflitte principalmente da altri kenioti che lavoravano per il governo coloniale .
88

Piú di 1000 capi dei Mau Mau furono impiccati e 11 503 (cifra ufficiale) vennero uccisi nelle
zone di fuoco libero e in retate delle forze di sicurezza. I detenuti erano ufficialmente passati al
vaglio per estorcere confessioni a quanti avevano giurato fedeltà ai Mau Mau, ma lo screening
prevedeva regolari torture, percosse e minacce di castrazione inflitte a uomini appesi per le
braccia o per i piedi. Le autorità coloniali chiusero un occhio sulle violenze fino a quando nel
1959 venne resa pubblica la notizia che undici detenuti erano stati pestati a morte nel campo di
Hola, tristemente famoso per il ripetersi degli abusi . Dopo anni di repressione, i ribelli kikuyu
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erano stati costretti a sottomettersi a forza di bastonate, per cui i nazionalisti moderati guidati da
Jomo Kenyatta negoziarono con il governo, promettendo di rispettare i diritti dei coloni bianchi
in cambio dell’indipendenza, concessa nel 1963. A quel punto, il governo della Gran Bretagna e
quello della Francia si erano resi conto che l’indipendenza non poteva piú essere negata con
motivazioni ragionevoli, sicché tra il 1959 e il 1961 divennero indipendenti ventitre stati africani.
Un’unica eccezione causò il dramma piú violento della fine degli imperi. I governi francesi degli
anni Cinquanta erano passati dall’idea dell’Union française a quella di una Communauté
française di ex colonie che avrebbe collaborato come organizzazione di stati nominalmente
indipendenti, pur mantenendo stretti legami con la Francia. Fu appunto tale struttura, a seguito di
referendum locali, a consentire a quasi tutte le colonie francesi in Africa di conquistare
l’indipendenza entro il 1962. L’Algeria sarebbe stata la tragica eccezione. Il paese non figurava
come colonia, anche se le sue popolazioni arabe e berbere erano trattate in tal modo, bensí come
parte integrante della Francia, divisa in dipartimenti amministrativi e con un elettorato in cui
predominavano i coloni francesi. Durante la Seconda guerra mondiale l’Algeria era rimasta
fedele al governo di Vichy fino all’occupazione alleata nel novembre del 1942, quando migliaia
di algerini furono mobilitati per unirsi agli eserciti della Francia Libera. Nel 1945, nel giorno in
cui l’Europa celebrava la vittoria, avvenne a Sétif un violento scontro tra coloni francesi (detti
pieds noirs, «piedi neri», per via delle scarpe europee) e manifestanti arabi. La repressione che
seguí provocò la morte di circa 3000 ribelli algerini e segnò l’inizio della lunga lotta per
l’indipendenza dell’Algeria, che si concluse solamente nel 1962 . 90

Poiché l’Algeria era considerata dai politici di Parigi come parte della Francia, il nazionalismo
algerino era visto come una pericolosa minaccia interna, benché la società indigena dell’Algeria
fosse molto lontana dalla realtà della Francia metropolitana. Nel gennaio del 1955, alla sua
nomina a governatore generale d’Algeria, Jacques Soustelle aveva dichiarato che Algeria e
Francia erano indivisibili: «La Francia non lascerà l’Algeria piú di quanto potrebbe accadere con
la Provenza e la Bretagna» . Qualche mese prima, il Front de libération nationale (FLN, Fronte
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di liberazione nazionale), guidato da alcuni veterani di Sétif che avevano trascorso lunghi periodi
di detenzione, aveva iniziato una campagna di sporadici atti terroristici contro l’amministrazione
francese, i coloni e i «collaborazionisti» algerini. I francesi avevano risposto con una nuova
ondata di repressione violenta, sollecitata, come in Kenya, da una vasta comunità di coloni che
chiedeva una reale protezione. Fu l’inizio delle ben note misure antinsurrezionali, con detenzioni
arbitrarie, zone di fuoco libero, regolari uccisioni di sospetti disarmati e torture quotidiane di
guerriglieri e loro presunti complici. L’effetto si rivelò controproducente; le forze dell’FLN
crebbero in numero e capacità, costringendo le comunità indigene a fornire loro aiuto e
mettendole in prima linea nel mezzo del fuoco incrociato. Nel 1956 si trovavano in Algeria 450
000 soldati francesi, la maggior parte dei quali erano giovani reclute. Le dimensioni della
reazione possono valutarsi in base ai 2,5 milioni di soldati francesi che nel conteggio finale
risultarono aver combattuto in qualche momento nella guerra d’Algeria. Di questi, piú di 18 000
furono uccisi. Il numero dei morti tra gli algerini è stato calcolato in 500 000, in azioni di
combattimento, omicidi per vendetta, per fame e malattie .92

La società algerina fu devastata dalla decisione di riproporre gli schermi di reinsediamento


adottati nel Sud-est asiatico. Sotto la direzione di Maurice Papon, che durante la Seconda guerra
mondiale mandava a morte gli ebrei francesi, il regime inaugurò un programma per isolare i
ribelli dal resto della popolazione mediante una politica di regroupement, ovvero di
reinsediamento forzato in villaggi brutalmente moderni che distruggevano il villaggio
tradizionale o la vita nomade. Attorno a questi villaggi veniva perseguita una politica della terra
bruciata, con zone di fuoco libero letali per chiunque fosse stato cosí stolto da trasgredire
entrandovi. Nel 1961, esistevano 2380 centri di regroupement; secondo i dati ufficiali erano stati
trasferiti forzatamente 1,9 milioni di persone, ma stime piú recenti indicano 2,3 milioni, ovvero
un terzo della popolazione rurale. Circa 400 000 nomadi insediati ai margini del Sahara furono
spostati e persero il 90 per cento del loro bestiame. La massiccia dislocazione minò anche
l’agricoltura algerina: tra il 1954 e il 1960 i raccolti di grano e orzo diminuirono di tre quarti,
esponendo migliaia di persone alla minaccia della carestia. Si stima che circa il 75 per cento
dell’area boschiva dell’Algeria sia stata distrutta dall’uso del napalm . Alla fine, la strategia
93

dell’isolamento e del massiccio dispiegamento di soldati erose la base militare dell’FLN, che nel
1958 si stima contasse 50 000 militanti. Un anno dopo, sotto i colpi dell’esercito regolare
francese e di 60 000 uomini tra harki (la milizia algerina al servizio del regime) e coloni-
vigilantes, le unità della guerriglia erano state dimezzate . A quel punto, tuttavia, la natura
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ingestibile e dispendiosa delle misure antinsurrezionali aveva portato alla caduta della Quarta
Repubblica. Fu richiamato in quel momento il grande leader del tempo di guerra Charles de
Gaulle. Egli capí che il popolo francese ne aveva ormai abbastanza di una guerra coloniale
impossibile da vincere e che sfidava inutilmente l’ondata della decolonizzazione. Il 16 settembre
1959 De Gaulle annunciò che intendeva giungere a un cessate il fuoco, autorizzare un’amnistia,
indire elezioni e iniziare il passaggio all’autodeterminazione. L’aspra opposizione della comunità
dei coloni raggiunse il picco nel 1960-61 con un’ondata di violenze e un fallito colpo di stato
ordito dai generali che sostenevano la feroce campagna di controguerriglia dell’Organisation de
l’armée secrète (OAS). A luglio del 1962, l’Algeria divenne indipendente sotto il leader
dell’FLN Ahmed Ben Bella, un veterano della campagna italiana decorato per il suo eroismo
nella battaglia di Montecassino.
Come nella fine dell’impero dell’Asse, il prolungato collasso dei vecchi imperi provocò
un’ulteriore ondata di reinsediamenti, in quanto coloni, funzionari e guardie di polizia britannici,
francesi, olandesi e belgi dovettero cercare una nuova patria. I pieds noirs abbandonarono
l’Algeria: 1,38 milioni si stabilirono in Francia, 50 000 in Spagna; 300 000 olandesi lasciarono
l’Indonesia; 90 000 belgi abbandonarono il Congo belga quando il paese ottenne finalmente
l’indipendenza nel 1960. Le stime indicano che dopo la guerra mondiale, e le sue lunghe e
violente conseguenze, rientrarono in Europa dai territori degli ex imperi tra i 5,4 e i 6,8 milioni di
persone. Per i popoli colonizzati, l’ultima avventura dell’impero causò alti livelli di mortalità in
tutte le zone ribelli, come conseguenza di azioni di guerra, conflitti interetnici e interreligiosi,
fame e malattie – dall’Indonesia all’Algeria si parla forse di quasi un milione di morti, anche se
la maggior parte delle statistiche rimane pura congettura. Inoltre, il lavoro forzato, le detenzioni
senza processo, i reinsediamenti coatti, l’esilio e le deportazioni crearono il caos in tutte le
comunità locali e permisero abusi di routine di proporzioni inaudite. Furono quelle le prime
«guerre al terrore» dell’Occidente, in cui si violarono non solo la Dichiarazione dei diritti umani
delle Nazioni Unite, ma anche i Principî di Norimberga approvati dopo i processi ai grandi
criminali di guerra tedeschi. Gli abusi rimasero generalmente impuniti e non vennero resi
pubblici. Le «guerre dopo la guerra» delle potenze coloniali rappresentarono una coda
disordinata e violenta dell’epoca del nuovo imperialismo territoriale che, iniziato negli anni
settanta dell’Ottocento, raggiunse il picco negli anni Quaranta e crollò negli anni Sessanta.
Un mondo di stati-nazione.
La fine degli imperi in Asia e in Africa trasformò la natura delle Nazioni Unite. Nel 1942,
quando era stato istituito il fronte della nuova organizzazione internazionale, il termine
«nazione» aveva avuto un valore determinante per Roosevelt e Churchill, nonostante il fatto che
la Gran Bretagna e la Francia fossero delle potenze imperiali. Anche se nessuno dei due leader
aveva contemplato qualcosa di piú oltre alle nazioni ormai consolidate dell’Europa e del Nuovo
Mondo, vent’anni dopo la decolonizzazione aveva creato nell’organizzazione una schiacciante
maggioranza di stati indipendenti dell’Asia, dell’Africa e del Medio Oriente, ovvero di quello
che veniva comunemente definito Terzo Mondo. Benché le frontiere del mondo imperiale
fossero state tracciate senza troppi riguardi per le differenze culturali o etniche dei territori, la
maggior parte dei movimenti indipendentisti nati dopo il 1945 si trovò costretta a operare entro i
confini stabiliti dalle potenze coloniali. Alla fine, gli ideali federativi o comunitari che dovevano
trascendere la camicia di forza della nazionalità, acquisendo popolarità soprattutto nell’Africa
francofona, non riuscirono a minare il fascino seducente dell’identità nazionale . Alla conferenza
95

di fondazione delle Nazioni Unite erano rappresentate cinquantuno nazioni. Il requisito per
diventare membri dell’organizzazione era una dichiarazione di guerra contro gli stati dell’Asse
da pronunciarsi entro e non oltre l’8 marzo 1945. Dopo molte discussioni tra gli Alleati, erano
stati inclusi stati come l’Ucraina e la Bielorussia, che non erano nazioni nel senso stretto del
termine; l’India, che non era ancora indipendente; e la Polonia, la cui ammissione, nonostante il
suo status di primo paese in lotta con il nazismo, divenne un pomo della contesa nel puro spirito
della guerra fredda. Nel 1955, e al tempo della Conferenza di Bandung, vi erano settantasei stati,
compresi Austria, Ungheria, Romania e Italia, che erano stati precedentemente alleati dell’Asse.
Quando l’Algeria e il Kenya ottennero l’indipendenza nel 1962 e nel 1963, i paesi rappresentati
divennero 112, compresi tutti i maggiori territori coloniali a eccezione dell’Angola portoghese e
del Mozambico, divenuti indipendenti rispettivamente nel 1975 e 1976. Il Giappone fu ammesso
nel 1956 e i due stati tedeschi solo nel 1973. L’Organizzazione delle Nazioni Unite, nonostante
tutte le critiche rivolte sia allora sia adesso in merito alla sua reale capacità di garantire la pace e
promuovere il rispetto dei diritti umani, simboleggiò in una forma molto palpabile la transizione
da un mondo di imperi globali a uno di stati-nazione.
Tra le nazioni sovrane presenti alla conferenza di fondazione di San Francisco nel 1945 vi erano
gli stati mediorientali di Egitto, Iraq, Iran, Siria e Libano. La loro presenza mascherava una realtà
ben diversa, considerando che nel 1945 erano tutti occupati dalle forze e dai funzionari
dell’impero britannico – una conseguenza del tempo di guerra che ne comprometteva
effettivamente la sovranità; una metà dell’Iran era ancora occupata dall’Unione Sovietica in base
ai termini dell’accordo raggiunto nell’autunno del 1941. Durante il conflitto, la sicurezza della
regione mediorientale era stata una priorità fondamentale della grande strategia degli inglesi, che
non avevano esitato a calpestare l’indipendenza nominale di tutti e cinque gli stati. La Palestina e
la Transgiordania, inoltre, figuravano ancora come territori sotto mandato della Società delle
Nazioni, uno status che sopravvisse temporaneamente alla fondazione delle Nazioni Unite. Nel
1945, era tuttavia evidente che l’egemonia prebellica di Gran Bretagna e Francia non poteva piú
essere sostenuta. La Siria e il Libano avevano dichiarato la loro indipendenza dopo che i francesi
di Vichy erano stati sconfitti dalle forze britanniche nel 1941 e la sovranità di entrambi era stata
riconosciuta nel 1944 dall’Unione Sovietica e dagli Stati Uniti. Alla fine della guerra, la Francia
Libera sotto De Gaulle aveva sperato di ripristinare le posizioni francesi in Siria e alla fine di
maggio del 1945 la locale guarnigione francese aveva iniziato a bombardare il centro di
Damasco, come rappresaglia contro le manifestazioni anticolonialiste. A fermare i francesi era
intervenuto l’esercito britannico, il cui comandante aveva dichiarato la legge marziale e
confinato le truppe di Parigi nelle loro caserme. Né gli inglesi né gli americani avevano alcun
desiderio di vedere ristabilita la posizione della Francia in Medio Oriente ed erano ben contenti
di appoggiare l’indipendenza. Il 21 giugno 1945, i governi di Siria e Libano unirono le forze per
respingere qualsiasi pretesa francese su ogni autorità residua nei territori sotto mandato,
assicurandosi cosí l’indipendenza. Le ultime truppe alleate partirono nell’estate del 1946 . Al 96

mandato affidato in Transgiordania ai britannici dalla Società delle Nazioni venne posta
rapidamente fine dopo l’accordo siglato con il re Abdullah, in base al quale la Gran Bretagna
avrebbe continuato a godere del diritto di mantenere delle basi militari nel paese e perfino
sostenere la personale ambizione del re di creare una «Grande Siria» espandendosi nel territorio
adiacente, fino a quando il dipartimento di Stato americano non oppose un netto rifiuto a
qualsiasi prospettiva di espansione giordana. La Transgiordania divenne uno stato indipendente
nel marzo del 1946, ma, a causa dei suoi stretti legami con gli interessi britannici, Stati Uniti e
Unione Sovietica non riconobbero il nuovo stato fino al 1949, quando la Giordania, come era ora
chiamata, occupò il proprio seggio nel consesso delle Nazioni Unite . 97

Una volta espulsa la Francia dalla regione, le principali preoccupazioni della Gran Bretagna
riguardo al Medio Oriente riflettevano le priorità del tempo di guerra: prevenire ogni
infiltrazione sovietica nella regione, proteggere gli interessi petroliferi britannici in Iraq e Iran e
mantenere una presa strategica sul Canale di Suez, la grande arteria che portava verso i territori
imperiali piú a oriente. La situazione appariva piú pericolosa in Iran, dove la paura di una
presenza sovietica e la minaccia alle forniture petrolifere iraniane erano strettamente collegate.
L’accordo stipulato in tempo di guerra prevedeva che le forze britanniche e sovietiche avrebbero
lasciato l’Iran entro sei mesi dalla fine del conflitto. Gli inglesi si erano ritirati nel marzo del
1946, ma le forze sovietiche erano rimaste. Il Cremlino cercava infatti di fare pressioni sul
governo iraniano, guidato ora dal nazionalista Ahmad Qavam, affinché riconoscesse all’Urss una
concessione petrolifera nel nord del paese e sosteneva allo stesso tempo gli sforzi della
popolazione azerbaigiana per creare una zona autonoma. A maggio del 1946 le forze sovietiche
si erano ritirate nella convinzione che Qavam avrebbe ratificato un trattato che accettava le
richieste di Mosca, ma il governo iraniano, sotto le forti pressioni dell’America e della Gran
Bretagna, respinse l’accordo con l’Urss. Stalin, intenzionato a evitare un conflitto mentre era
impegnato nella ricostruzione politica dell’Europa orientale, fece ancora una volta marcia
indietro . La minaccia comunista, tuttavia, persistette, soprattutto con l’ascesa dello Hezb-e
98

Tudeh-e Iran (Partito delle masse dell’Iran) e un’ondata di scioperi e proteste popolari. Il Foreign
Office e i funzionari dell’Anglo-Iranian Oil Company lanciarono una campagna di propaganda
anticomunista corrompendo funzionari e redattori di giornali, e quando nel luglio del 1946 un
grande sciopero lanciato dal Tudeh interessò direttamente il giacimento petrolifero di Abadan,
Bevin ordinò alle truppe britanniche di convergere in segno di minaccia nella base irachena di
Bassora. Lo sciopero si dissolse, ma il mese seguente Qavam respinse ogni ulteriore ingerenza
straniera negli affari iraniani . Tre anni dopo, nel marzo del 1951, il nuovo primo ministro,
99

Mohammad Mosaddeq, ottenne il sostegno del parlamento iraniano per nazionalizzare le


compagnie petrolifere britanniche. Herbert Morrison, il nuovo ministro degli Esteri britannico
dopo la morte di Bevin, era deciso a inviare 70 000 soldati per proteggere gli interessi britannici,
ma gli Stati Uniti lo esortarono alla cautela – sarebbe stata una «pura follia» secondo il segretario
di Stato Dean Acheson – e nell’ottobre dello stesso anno gli inglesi furono espulsi dall’Iran. «Il
loro prestigio in Medio Oriente», scriveva un giornale egiziano, «è finito» . Il giudizio si sarebbe
100

rivelato prematuro. Nel 1953, i servizi segreti britannici, operando a stretto contatto con la CIA,
provocarono un colpo di stato a Teheran per rovesciare il regime di Mosaddeq. Il petrolio
continuò a fluire verso le compagnie britanniche e americane in Iran fino alla Rivoluzione
islamica del 1979 .
101

Anche l’Iraq era in prima linea nelle speranze britanniche di contenere la minaccia dell’Urss
preservando nel paese delle basi aeree per possibili operazioni contro obiettivi sovietici. L’Iraq,
sebbene nominalmente indipendente, era stato amministrato alla stregua di un territorio sotto
mandato dalla repressione della rivolta del 1941 alla fine della guerra. La politica clientelare
irachena aveva accettato la presenza degli inglesi, che rimasero al loro posto anche dopo il
cessare del conflitto mondiale e la restaurazione, almeno di nome, dell’indipendenza. L’Iraq fu
un ottimo esempio dell’ambizione di Bevin di creare in Medio Oriente un «impero attraverso
trattati». Anche se gli amministratori britannici e la maggior parte delle loro forze imperiali
lasciarono l’Iraq nel 1947, nel porto di Portsmouth, luogo simbolico dell’impero, venne
negoziato a bordo della HMS Victory un nuovo trattato d’indipendenza che sostituiva quello del
1930. Il trattato di Portsmouth (da non confondere con quello del 1906 firmato a Portsmouth, nel
Maine, per porre fine alla guerra russo-giapponese), concordato nel gennaio del 1948,
riconosceva alla Gran Bretagna il proseguimento delle concessioni militari in Iraq. Gli inglesi,
sia in Iraq sia altrove, avevano tuttavia sottovalutato la forza del sentimento antimperialista. A
seguito di diffusi tumulti antibritannici, il reggente iracheno Abd al-Ilah respinse il trattato e gli
interessi britannici nel paese diminuirono. Nel 1948 l’Iraq lasciò il blocco valutario della sterlina
e quattro anni dopo negoziò un accordo per avere metà delle entrate delle concessioni petrolifere
britanniche. Nel 1955, le due basi aeree inglesi da cui sarebbero partiti in futuro i possibili
bombardamenti contro la minaccia sovietica passarono sotto il controllo iracheno, finché nel
1958 un colpo di stato militare non mise fine a quanto ancora restava della residua autorità
britannica .
102

Per gli inglesi, niente contava di piú che mantenere una presenza sul Canale di Suez, che
avevano difeso strenuamente per tutti i primi anni di guerra. Per i capi dello stato maggiore, il
canale rappresentava un’arteria essenziale per i collegamenti tra la Gran Bretagna e l’impero in
Asia, e tale visione persistette anche dopo che India e Pakistan erano diventati indipendenti, in
virtú del fatto che la lotta al comunismo richiedeva basi da cui lanciare forze di aria e di terra
contro possibili minacce sovietiche. L’ossessione per una presenza militare rendeva
assolutamente prioritari il raggiungimento di un accordo con il governo egiziano e, soprattutto, la
possibilità di normalizzare il Mandato britannico in Palestina dopo anni di discussioni sul futuro
della popolazione araba e di quella ebraica. I rapporti con il re e il governo dell’Egitto, già
insoddisfacenti durante la guerra, si erano rapidamente deteriorati dopo la vittoria degli Alleati,
in quanto gli Stati Uniti erano venuti a sostituire la Gran Bretagna come una delle principali fonti
di investimento e aiuti commerciali . Il re Faruk intendeva porre fine al trattato di reciproca
103

difesa del 1936, che negli anni di guerra aveva consentito alle forze dell’impero britannico di
condurre la loro campagna sul suolo egiziano. Nel 1945, la zona del Canale di Suez controllata
dagli inglesi costituiva la piú grande base militare del mondo, con 10 campi d’aviazione, 34
campi militari e 200 000 soldati . Il numero delle truppe diminuí con la smobilitazione
104

postbellica, e nel 1946 le forze dell’impero britannico lasciarono il resto del territorio egiziano,
mantenendo occupata soltanto la zona del canale. Il governo del Cairo, che insisteva tuttavia per
una completa evacuazione, abrogò il trattato di reciproca difesa del 1936, spingendo cosí gli
inglesi ad aumentare ancora una volta le loro forze a Suez, portate a 84 000 soldati. L’area
divenne difficile da difendere dai persistenti attacchi di forze irregolari egiziane, tra cui i Fratelli
Musulmani, mentre i violenti contrattacchi delle forze britanniche provocati da quelle incursioni
venivano fortemente condannati dagli Stati Uniti.
Dopo che Faruk fu rovesciato nel 1952 da un colpo di stato dell’esercito, la Gran Bretagna
continuò a condurre negoziati per mantenere la sua presenza nel paese ed evitare quello che
Churchill, ora di nuovo primo ministro, definiva «un lungo e umiliante smantellamento davanti a
tutto il mondo» . Ciò nonostante, due anni dopo, lo stesso Churchill acconsentí a smantellare la
105

base militare del Canale di Suez e nell’ottobre del 1955 le forze britanniche lasciarono il
territorio egiziano. Ma la storia non era ancora finita. A luglio del 1956 il governo egiziano del
colonnello Gamal Abdel Nasser nazionalizzò il Canale di Suez, provocando in Medio Oriente
l’ultimo sussulto dell’imperialismo anglo-francese. La decisione di occupare la zona del canale
con la forza, in cooperazione con il governo israeliano, fu un disastro. Gli scontri iniziarono il 24
ottobre, ma il 6 novembre le pressioni dell’opinione pubblica universale e delle Nazioni Unite
imposero il cessate il fuoco e il ritiro delle truppe . Il Commonwealth stesso corse il pericolo di
106

scomparire allorché gli ex dominion condannarono l’azione britannica – il primo ministro


canadese denunciò che era stato «come trovare un amato zio arrestato per stupro» . La crisi di
107

Suez segnò la fine degli sforzi da parte britannica per rimanere uno dei grandi attori nella regione
mediorientale e fu l’ultima fragile avventura di una piú antica tradizione imperiale.
Considerati i problemi presentati da un’occupazione dell’Egitto, il governo britannico aveva
cercato fin dal 1945 di sfruttare il mandato palestinese come una base strategica alternativa che
potesse restare sotto il diretto controllo della Gran Bretagna anziché dipendere dalle clausole di
qualche trattato. In realtà era una pura fantasia strategica. Dal 1945, infatti, la Palestina viveva
una prolungata crisi militare seguita alla guerra mondiale e alla rinnovata richiesta da parte delle
masse arabe di una Palestina araba indipendente, che veniva ad affiancarsi alle speranze degli
ebrei di trasformare la loro presenza nella Terra Promessa in uno stato ebraico nazionale. La
questione della Palestina era stata procrastinata alla fine delle ostilità. Gli inglesi avrebbero
preferito evitare qualsiasi azione che potesse alienare l’opinione pubblica araba, su cui era
destinata a fare affidamento la continua presenza britannica in Medio Oriente, e questo
significava non fare concessioni alle richieste ebraiche di uno stato nazionale. La politica era
ancora dominata dal Libro Bianco di maggio del 1939, che poneva restrizioni all’immigrazione
ebraica in Palestina e negava il diritto di un’autonomia ebraica. Durante la guerra, tuttavia,
l’Agenzia ebraica, in qualità di rappresentante di circa 650 000 ebrei residenti nel Mandato, si
era preparata all’eventuale creazione di un organismo statale. «Gli ebrei dovrebbero agire come
se in Palestina fossero essi lo stato», aveva dichiarato il capo dell’Agenzia David Ben-Gurion, «e
dovrebbero continuare ad agire in tal modo fino a quando non vi sarà uno stato ebraico» . 108

L’Agenzia possedeva un proprio «parlamento» ebraico, un esecutivo e la forza paramilitare


clandestina dell’Haganah, in grado di mobilitare almeno 40 000 combattenti. A maggio del
1942, i sionisti si erano riuniti in un hotel di New York dove avevano redatto la Dichiarazione di
Biltmore, in cui si chiedeva la creazione di un Commonwealth ebraico in Palestina e il controllo
ebraico sull’immigrazione. Il sostegno degli Stati Uniti non giungeva solo attraverso i numerosi
ebrei americani che assicuravano generosi finanziamenti all’Agenzia, ma anche dalla stessa
amministrazione di Washington. Nell’ottobre del 1944, Roosevelt aveva chiesto «l’apertura della
Palestina a un’immigrazione ebraica illimitata» – una linea apolitica a cui gli inglesi si erano
opposti con particolare determinazione sia allora sia nell’immediato dopoguerra . L’ala radicale
109

del movimento nazionalista ebraico arrivò a vedere gli inglesi come un nemico dello stato
ebraico peggiore dei tedeschi. Durante la Seconda guerra mondiale, le due organizzazioni dei
Lohamei Herut Israel (letteralmente i «Combattenti per la libertà d’Israele» ma meglio
conosciuti come la «banda Stern», dal nome del loro leader Abraham Stern) e dell’Irgun Zvai
Leumi (l’«Organizzazione militare nazionale» guidata, tra gli altri, da Menachem Begin, il futuro
primo ministro israeliano) iniziarono una campagna terroristica contro obiettivi britannici.
L’Haganah, pur opponendosi pubblicamente alla violenza, sosteneva in privato gli obiettivi dei
terroristi. A novembre del 1944, dopo che il viceministro di Stato in Egitto, Walter Guinness I
barone Moyne, fu assassinato da due membri dei Lohamei Herut Israel, lo stesso Churchill, che
aveva sostenuto la causa sionista, rimase cosí scioccato da riconsiderare la lealtà da lui
«mantenuta in modo cosí coerente in passato» . 110

Le simpatie britanniche andavano piú in generale alla causa araba. A marzo del 1945, Egitto,
Siria, Libano, Iraq e Arabia Saudita fondarono al-Jāmi‘ah al-‘Arabiyyah (Lega araba), che aveva
tra le sue priorità la campagna in favore di un’autentica sovranità di tutti gli stati arabi, inclusa
una futura Palestina . Non appena la Gran Bretagna permise nuovamente i partiti politici nel
111

Mandato, emersero sei organizzazioni arabe, la piú significativa delle quali era ‘al-Hizb
al-‘Arabi al-Filastini, il Partito arabo della Palestina guidato da Jamal al-Husayni, portatore della
massima istanza, ovvero una Palestina araba indipendente. Nei mesi successivi alla fine della
guerra, sorsero con l’approvazione britannica dei piccoli gruppi di militanti arabi al-Najjda
(letteralmente «quelli pronti a soccorrere»), mascherati da una rete di società sportive che in
realtà erano unità paramilitari addestrate per affrontare la crisi imminente. A febbraio del 1946 la
Lega araba incoraggiò i nazionalisti palestinesi a cooperare sotto un Comitato supremo, in
seguito sotto un Esecutivo supremo arabo, guidato dal gran muftí Amin al-Husayni. Emersero
altre unità paramilitari, tra cui il Jaysh al-Jihād al-Muqaddas (Esercito del sacro jihād ) e il
Jaysh al-Inqadh al-Arabi (Esercito di liberazione araba), entrambi con base in Siria e composti
principalmente da palestinesi in esilio e volontari siriani e tutti e due impegnati a sradicare con la
violenza la minaccia di uno stato ebraico, ma ambedue troppo poco addestrati e armati per
condurre un serio conflitto . Di fronte a un’incipiente guerra civile, il governo britannico reagí
112

mandando in Palestina 100 000 soldati, supportati da 20 000 poliziotti armati. Per il personale di
servizio britannico divenne cosí pericoloso farsi vedere nelle strade che le loro basi furono
soprannominate Bevingrad, dal nome del ministro Bevin, l’uomo che li aveva mandati in
Palestina.
Da parte ebraica, gli attacchi terroristici aumentarono di intensità. In una sola notte, nell’ottobre
del 1945, vi furono 150 attacchi alla rete ferroviaria locale. Nel giugno del 1946, all’alto
commissario britannico furono concessi poteri discrezionali per affrontare l’emergenza delle
violenze ebraiche. Montgomery, capo dello stato maggiore imperiale, insisteva con grande
schiettezza e scarso acume politico che gli ebrei «devono essere completamente sconfitti e le loro
organizzazioni illegali vanno distrutte per sempre» . Nell’estate del 1946, alcuni agenti
113

britannici scoprirono un diretto collegamento tra l’Agenzia ebraica e la campagna di terrore e il


29 giugno l’esercito di occupazione lanciò l’operazione Agatha, fece irruzione nel quartier
generale dell’Agenzia e arrestò 2700 sospetti. I soldati britannici che avevano effettuato il raid,
frustrati dagli attacchi terroristici, cantavano «quello che ci serve sono le camere a gas» e
scarabocchiavano «morte agli ebrei» sugli edifici della zona. Per reazione, Begin ordinò il
bombardamento del quartier generale britannico al King David Hotel di Gerusalemme, che
venne fatto saltare in aria il 22 luglio provocando la morte di novantuno persone intrappolate
all’interno, di cui ventotto inglesi. L’attacco dinamitardo segnò un punto di svolta, alienando
l’opinione pubblica britannica dai costi e dai sacrifici di un’occupazione militare e lasciando le
truppe di stanza in Palestina con la prospettiva di condurre una dura campagna antinsurrezionale
sotto lo sguardo vigile del popolo britannico. Quando di lí a pochi mesi fu proclamata la legge
marziale, il provvedimento fu sospeso dopo due settimane a causa dei rischi politici che
comportava.
Questo non impedí alle autorità britanniche di intraprendere un’azione spietata nel tentativo di
impedire che l’immigrazione clandestina di ebrei in Palestina aggirasse le rigide restrizioni
ancora in vigore. Diverse navi, tra cui la Ben Hecht, finanziate con le donazioni dei sionisti
americani, furono intercettate illegalmente fuori delle acque territoriali palestinesi, gli equipaggi
vennero imprigionati e i profughi inviati nei campi di Cipro. Istruzioni segrete emanate da Bevin,
e denominate in modo piú che appropriato con il nome in codice Operation Embarrass
(operazione Imbarazzo), permettevano agli agenti britannici di sabotare le navi all’ancora nei
porti europei in attesa di trasportare profughi ebrei, contaminando per esempio i rifornimenti
alimentari e l’acqua e ricorrendo a mignatte per aprire falle negli scafi. L’episodio piú famoso fu
quello della nave Exodus 1947, che, stipata di profughi selezionati per loro vulnerabilità –
anziani, donne in gravidanza e bambini –, fu speronata e danneggiata da due cacciatorpediniere
britannici (dopo essere scampata per un pelo a un piano per minarla). La nave fu rimorchiata in
un porto della Palestina, in cui i passeggeri furono costretti a sbarcare, reimbarcati su tre navi di
deportazione e mandati ad Amburgo, dove erano attesi da poliziotti e soldati britannici armati di
idranti, gas lacrimogeni e manganelli impiegati per costringere gli ebrei, ormai sfiniti e debilitati,
a scendere dalla nave e tornare nei campi profughi in Germania . Per le pubbliche relazioni, il
114

risultato fu un disastro. «La pura verità su cui teniamo chiusi cosí fermamente i nostri occhi»,
scrisse un funzionario del Colonial Office, «è che in questa deportazione d’emergenza stiamo
prendendo una pagina dal libro dei nazisti» .115

Il problema dell’immigrazione divenne un fattore centrale per il crollo definitivo della


responsabilità inglese nei territori del Mandato. Le risposte americane alla crisi in Palestina si
divisero da quelle britanniche, danneggiando la reputazione internazionale della Gran Bretagna.
Ai circa 27 000 ebrei sfollati nell’estate del 1945 nelle zone occidentali della Germania e
dell’Austria si aggiunse presto un flusso di ebrei proveniente dall’Europa orientale e inviato dal
governo polacco e da quello sovietico in quanto «non rimpatriabile», apparentemente per motivi
umanitari ma in realtà allo scopo di allontanare l’elemento ebraico per evitare problemi di
integrazione in un clima di antisemitismo postbellico. Si stima che nell’estate del 1946 vi fossero
250 000 ebrei sfollati, la maggior parte dei quali si trovava nell’ambiente meno ostile dei campi
profughi americani. La popolazione dei campi avvertiva l’irresistibile desiderio di emigrare nel
territorio del Mandato britannico. Sul questionario fatto circolare dall’UNRRA tra 19 000 sfollati
ebrei per scoprire le loro preferenze per una nuova patria, 18 700 di essi scrissero «Palestina».
«Abbiamo lavorato e lottato troppo a lungo sulle terre di altri popoli», spiegava nel 1945 un
anziano ebreo. «Ora dobbiamo costruire una patria tutta nostra» . Il presidente Truman affidò a
116

Earl Harrison, delegato dell’Intergovernmental Committee on Refugees, il compito di indagare


sulla difficile situazione degli ebrei in Europa. Dal suo rapporto risultò un devastante atto
d’accusa per le loro condizioni di vita e un’inequivocabile approvazione del loro diritto di
emigrare in Palestina. Truman chiese ad Attlee di accogliere 100 000 immigrati, ma il governo
britannico tergiversò. Bevin voleva mandare in Palestina un numero di ebrei sufficiente a
«placare la sensibilità ebraica», ma l’ingresso di una moltitudine di ebrei nella Terra Promessa
avrebbe soltanto aggravato la crisi e suscitato ostilità nell’opinione pubblica araba . Benché
117

l’iniziativa di Truman sia stata vista come un’abile mossa politica per rabbonire il grande blocco
elettorale ebraico degli Stati Uniti ed evitare allo stesso tempo di dover accogliere un grande
numero di profughi ebrei, l’opinione pubblica americana era generalmente critica nei confronti
della posizione britannica e si aspettava che il governo di Sua Maestà rispondesse piú
pienamente e umanamente al desiderio ebraico di emigrare. In Europa, le organizzazioni per i
rifugiati definirono gli sfollati ebrei dapprima come apolidi, poi come «nazione non territoriale»,
garantendo loro di fatto lo status di nazione. Il 4 ottobre 1946, Truman auspicò la nascita di uno
«stato ebraico vitale» per soddisfare la richiesta di nazionalità da parte degli ebrei. Per il governo
britannico, il conflitto in Palestina, irrisolvibile come la crisi in India, era impossibile da
comporre unilateralmente. A febbraio del 1947, Bevin propose una Palestina binazionale,
amministrata dalla Gran Bretagna in veste di fiduciario per almeno cinque anni, ma era già
evidente che nessuna delle due parti presenti sul territorio avrebbe mai accettato la proposta. Lo
stesso mese, gli inglesi passarono il problema alle Nazioni Unite. «Che sia la natura a spartirsi la
Palestina», fu la battuta d’addio di Bevin .
118

Lo Special Committee on Palestine delle Nazioni Unite concluse che l’unica soluzione era la
spartizione in uno stato ebraico e uno arabo. Il rapporto della commissione, fortemente sostenuto
da Stati Uniti e Unione Sovietica, fu approvato il 29 novembre 1947 nel corso di una drammatica
votazione dell’Assemblea Generale, dopo forti pressioni da parte degli Stati Uniti per garantire
un voto conforme tra gli stati dell’America Latina e dell’Europa occidentale. Gli inglesi si
astennero e rifiutarono di applicare i termini della spartizione stabiliti dallo Special Committee. Il
governo di Londra, al contrario, annunciò che il 15 maggio 1948 la Gran Bretagna si sarebbe
ritirata unilateralmente dai territori del Mandato e che le sue numerose forze militari di stanza in
Palestina sarebbero rimaste confinate nelle caserme. Il risultato fu la guerra civile: ebrei e arabi
iniziarono a combattere per occupare le zone destinate ai rispettivi popoli o altre indicate nella
mappa della partizione redatta dallo Special Committee. L’Esercito di liberazione araba si infiltrò
in Palestina dalle basi siriane, accompagnato da un’accozzaglia di volontari antisemiti – bosniaci,
tedeschi, inglesi e turchi. Il Jaysh al-Arabi, la Legione araba di re Abdullah, addestrato da
ufficiali britannici, entrò in Cisgiordania, sulla sponda occidentale del fiume Giordano, per
difendere Gerusalemme dagli attacchi ebraici. L’Agenzia ebraica ordinò all’Haganah, che
contava ora tra i 35 000 e i 40 000 uomini armati, inclusi i 5000 veterani della Brigata ebraica del
tempo di guerra, di passare all’offensiva. In una serie di brevi ma sanguinosi scontri l’Haganah
prese il controllo delle aree previste dalla partizione e attaccò gli insediamenti arabi nel tentativo
di acquisire ulteriori territori . Le forze ebraiche erano meglio armate, piú disciplinate e meglio
119

guidate dei loro avversari arabi, e quando il 14 maggio, il giorno precedente al ritiro delle truppe
inglesi, Ben-Gurion annunciò la nascita dello stato di Israele, la partizione era ormai
sufficientemente consolidata per passare subito all’azione. La Lega araba dichiarò quindi guerra
per eliminare i nuovi arrivati, ma gli eserciti arabi disponevano di risorse troppo scarse e non
riuscirono ad attuare una vera collaborazione. Le Nazioni Unite imposero delle tregue
temporanee, in gran parte ignorate. Nel 1949 c’erano 650 000 profughi palestinesi, piú della
metà della popolazione araba. Lo stato arabo separato previsto dalle Nazioni Unite non si
materializzò; la Giordania assunse il controllo della Cisgiordania, dove aveva trovato rifugio la
maggior parte dei profughi palestinesi, mentre l’Egitto occupò la Striscia di Gaza. Sempre nel
1949 le Nazioni Unite riuscirono finalmente a mediare una serie di accordi per un armistizio e
l’11 maggio dello stesso anno Israele fu ammesso a far parte dell’ONU. Tra il 1948 e il 1951,
emigrarono in Israele dall’Europa 331 594 ebrei . 120

Nei primi decenni di vita delle Nazioni Unite, l’unico grande assente nell’Assemblea Generale fu
la Repubblica popolare cinese, fondata nell’ottobre del 1949 dopo la vittoria riportata nella
guerra civile dagli eserciti di liberazione comunisti di Mao Zedong. La Cina era rappresentata
all’ONU da Taiwan, dove Chiang Kai-shek si era rifugiato nel 1949 con una piccola parte del
suo partito e dell’esercito nazionalista. Tra tutti gli sconvolgimenti successivi al 1945 che
contribuirono a plasmare il nuovo ordine globale del dopoguerra, il piú significativo, nel breve e
nel lungo periodo, fu il successo del Partito comunista cinese nella creazione di uno stato
nazionale unitario in una Cina emersa divisa e conflittuale dalla guerra di resistenza
all’aggressore giapponese. Alla conclusione del conflitto contro il Giappone, sia Chiang sia Mao
immaginavano di poter sfruttare il caos e lo scompiglio del tempo di guerra per instaurare un
nuovo ordine. Alla fine di agosto del 1945, Mao e Zhou Enlai, il principale negoziatore dei
comunisti, avevano trascorso sei settimane ospiti di Chiang nella capitale nazionalista di
Chongqing, cercando di capire se il negoziato potesse portare a una nuova Cina attraverso la
collaborazione. I colloqui, tuttavia, misero soltanto in luce l’evidente abisso tra le rispettive
visioni di ciò che rappresentava una nuova Cina. Mao rifiutò sia di porre dei limiti alle
dimensioni dell’esercito comunista, denominato ben presto Zhōngguó Rénmín Jiěfàngjūn
(Esercito popolare di liberazione), sia di integrarlo con quello di Chiang sotto un comando
nazionalista. I comunisti non avrebbero neppure rinunciato alla loro richiesta di governare le
cinque province settentrionali occupate nell’ultimo anno del conflitto mondiale . Benché Mao
121

fosse stato ammonito da Stalin di evitare una guerra civile e una probabile disgregazione della
Cina, il rifiuto di abbandonare il controllo di una forza armata con piú di un milione di reclute
rese pressoché inevitabile lo scontro. Già durante i colloqui erano scoppiati combattimenti tra i
due schieramenti nella valle dello Yangtze e nelle province settentrionali, mentre gli eserciti
comunisti iniziavano a riversarsi in Manciuria sotto lo sguardo vigile dell’Armata Rossa che
occupava la regione.
Data la presenza delle forze sovietiche in Manciuria e di consiglieri e attrezzature dell’esercito
americano nelle regioni meridionali, il futuro della Cina postbellica rappresentava altresí
un’importante questione internazionale. Gli alleati di Chiang durante la guerra avevano opinioni
diverse su come la Cina si sarebbe inserita in un nuovo ordine mondiale. Roosevelt aveva
insistito sul fatto che la Cina doveva essere uno dei «quattro poliziotti» chiamati a mantenere la
sicurezza nel dopoguerra, per cui nel 1946 il paese era diventato membro del Consiglio di
sicurezza delle Nazioni Unite . Per Churchill, al contrario, la pretesa della Cina di essere una
122

grande potenza era pura «boria». I funzionari britannici continuavano perlopiú a vedere la Cina
allo stesso modo, presumendo la possibilità di riaffermare quell’«impero britannico informale»
abbandonato a malincuore nel 1943, quando Chiang aveva insistito per abrogare i «trattati
ineguali» che davano agli occidentali il diritto di extraterritorialità nei principali porti
commerciali della Cina . Il Far Eastern Committee del governo britannico raccomandò di
123

compiere qualsiasi sforzo per «recuperare quanto piú possibile la nostra precedente influenza in
Cina», in primo luogo le concessioni economiche. Le intenzioni britanniche furono messe alla
prova con la rioccupazione di Hong Kong nel settembre del 1945, effettuata dalla Royal Navy a
dispetto di un accordo siglato con Chiang che consentiva alle forze cinesi di riprendere possesso
della regione. Gli Stati Uniti si opposero al fatto concluso e venne compiuto ogni sforzo per
garantire che la Gran Bretagna non tentasse di riportare in vita il suo precedente status di potenza
imperiale. Alla fine del 1944 Roosevelt aveva inviato in Cina il generale Patrick Hurley come
suo emissario particolare con esplicite istruzioni di «tenere d’occhio l’imperialismo europeo» . 124

La considerevole presenza militare e imprenditoriale americana ostruiva l’attività britannica,


anche se l’ostacolo principale era rappresentato da Chiang, che non aveva alcuna intenzione di
ribaltare le posizioni nazionaliste secondo cui il vecchio ordine delle sfere d’influenza europea e
giapponese era ormai morto.
Dopo il 1945, per gli inglesi era preferibile l’idea di una Cina debole e divisa, da cui ottenere
ancora delle concessioni regionali, ma dovevano vedersela con l’amministrazione americana,
impegnata invece a mantenere quella che il generale George Marshall, successore di Hurley
come emissario particolare della Casa Bianca, descriveva come una Cina «forte, democratica,
unificata» . Se la presenza britannica era ormai attenuata e appena tollerata, il coinvolgimento
125

americano nella Cina del dopoguerra era invece vasto. Tra il 1945 e il 1948 furono distribuiti
pacchi di aiuti per un totale di ottocento milioni di dollari, piú del valore di tutti quelli pervenuti
alla Cina in tempo di guerra. I consiglieri militari americani avevano addestrato sedici divisioni
dell’esercito nazionalista e impartito una formazione preliminare ad altre venti, senza contare che
l’80 per cento dell’equipaggiamento militare di Chiang proveniva dagli Stati Uniti . La politica
126

americana tendeva piú a sostenere Chiang che i comunisti, ma tale sostegno era subordinato alla
volontà del leader cinese di far progredire rapidamente la Cina verso il modello americano di
democrazia – requisito che indicava quanto poco gli Stati Uniti avessero imparato sulla Cina in
quattro anni di alleanza bellica. A dicembre del 1945, Truman aveva mandato Marshall a
Chongqing in veste di mediatore allo scopo di scongiurare la guerra civile e avvicinare in una
coalizione i due principali movimenti politici «con mezzi pacifici e democratici» . Marshall 127

istituí il Comitato dei Tre, composto dallo stesso Marshall, Zhou Enlai e il ministro del
Kuomintang Zhang Qun, al fine di concludere ancora una volta un accordo. A gennaio, il
comitato mediò il cessate il fuoco tra le due parti, un governo di coalizione e l’integrazione dei
due eserciti. Chiang intraprese l’opera di democratizzazione della Cina, mentre Mao scrisse la
promessa che «la democrazia cinese deve seguire la via americana» . Marshall era al settimo
128

cielo per il risultato ottenuto: «È assolutamente straordinario come abbiamo potuto dirimere la
controversia in quelle che sembravano condizioni impossibili […] fino al nostro arrivo, non era
pensabile nessun risultato». Il suo ottimismo era prematuro. Alla fine di gennaio del 1946,
Chiang aveva scritto confidenzialmente nel suo diario che Marshall non capiva affatto la politica
cinese: «Gli americani», scriveva, «tendono a essere ingenui e fiduciosi […] si lasciano
imbrogliare dai comunisti». Dall’altro lato, la reale opinione di Mao era che tutti gli accordi con
gli imperialisti non erano che pezzi di carta: «Tutto viene deciso», disse ai comandanti del suo
esercito, «dalla vittoria o dalla sconfitta sul campo di battaglia» .
129

Mentre Marshall pensava di avere raggiunto un solido accordo, la guerra civile scoppiò nella
Cina settentrionale e in Manciuria, ignorando il cessate il fuoco entrato nominalmente in vigore a
metà gennaio. La Manciuria divenne il principale terreno di scontro, lontano dai colloqui
condotti a Chongqing. Per Chiang, il controllo della regione era una priorità, anche perché era in
Manciuria che nel 1931 aveva avuto inizio la lunga Seconda guerra mondiale, allorché la risposta
nazionalista era stata un completo fallimento. Ad agosto del 1945 Chiang era riuscito a
raggiungere un accordo con Stalin, in base al quale la Manciuria, ora occupata dalle truppe
sovietiche, sarebbe tornata sotto la sovranità cinese. Il trattato sino-sovietico del 14 agosto
riconosceva all’Unione Sovietica il controllo di due importanti città portuali della Manciuria, ma
prometteva altresí a Chiang «assistenza morale, militare e di altro tipo» al fine di stabilire il suo
dominio incontrastato su una Cina unificata . I comunisti cinesi, esclusi dall’accordo, erano
130

incerti sull’atteggiamento di Stalin. Nei primi mesi dopo la fine della guerra, piú di mezzo
milione di combattenti comunisti si era trasferito nella regione sotto il comando di Lin Biao,
introducendo una riforma della proprietà fondiaria e formando nelle zone rurali quadri del partito
a livello locale. I tentativi di entrare nelle città della Manciuria furono contrastati dall’Armata
Rossa, in quanto Stalin aveva promesso la regione a Chiang. Dalla fine del 1945 in poi, la marina
degli Stati Uniti contribuí a trasportare in Manciuria 228 000 soldati nazionalisti e relativo
equipaggiamento, comprese la Nuova I Armata e la Nuova VI Armata, che costituivano le forze
d’élite di Chiang; nei mesi successivi arrivò in Manciuria il 70 per cento dell’esercito
nazionalista . Ben presto, non appena le forze sovietiche iniziarono a ritirarsi nel marzo e aprile
131

del 1946, le semplici schermaglie si tramutarono in grandi battaglie. A marzo i comunisti furono
respinti da Shenyang (Mukden), ma ad aprile l’Esercito popolare di liberazione sgominò una
guarnigione nazionalista a Changchun. Il cessate il fuoco era ormai un completo fallimento,
come già si aspettavano sia Mao sia Chiang. Alla fine, Marshall, travolto dalla disillusione nei
mesi seguenti, persuase Truman a imporre un embargo sulle armi fornite agli eserciti di Chiang,
lasciandoli cosí nelle campagne militari successive a corto di munizioni e pezzi di ricambio per
le loro armi americane. La guerra civile aveva ormai trovato il vero impeto, completamente fuori
del controllo di Stati Uniti e Unione Sovietica.
L’esito del conflitto per il futuro della Cina non era affatto scontato. In diciotto mesi, dopo la
rottura del cessate il fuoco, le forze nazionaliste ripresero il controllo di città, paesi e aree rurali
occupate dai comunisti a sud, a est e a nord, fino alla Grande Muraglia. Verso la fine del 1946, i
comunisti avevano perso 165 città e 174 000 chilometri quadrati di territorio. A marzo del 1947,
il generale nazionalista Hu Zongnan lanciò una grande offensiva nello Shaanxi per conquistare
Yan’an, la capitale delle forze comuniste. Avvisati tempestivamente da una spia nel quartier
generale di Hu, Mao e la dirigenza comunista evacuarono le truppe dalla città verso le basi a
nord e a est. La guarnigione lasciata simbolicamente in difesa di Yan’an fu spazzata via, ma le
forze di Hu entrarono in una città ormai abbandonata dai comunisti. La conquista venne
celebrata dalla leadership e dalla stampa nazionalista come una vittoria storica, anzi, perfino
come il culmine del successo nella guerra . Quella vittoria, in realtà, non era che illusoria, poiché
132

il Partito comunista cinese, nonostante le pesanti perdite subite nei diciotto mesi di guerra,
rimaneva ben arroccato in gran parte della Cina rurale del Nord e in Manciuria. Come nel
conflitto contro il Giappone, la strategia comunista era di consolidare e proteggere le zone
fondamentali e impegnarsi in quella che il generale Zhu De chiamava «la guerra dei passeri»,
volta a logorare il nemico con brevi attacchi lanciati a sorpresa contro unità isolate per poi
confondersi nuovamente nel territorio circostante. «Le campagne circondano le città», recitava lo
slogan dei comunisti, ed era appunto nelle zone rurali che il comunismo cinese avrebbe riportato
la vittoria conclusiva, stimolandovi la rivoluzione sociale .133

La situazione della Cina postbellica favoriva la visione comunista del futuro molto piú di quella
nazionalista. Lo sconvolgimento della guerra aveva portato a grandi spostamenti di popolazione
ed espropriazioni; i tradizionali valori confuciani che governavano la vita familiare e
l’atteggiamento nei confronti dell’autorità erano crollati allorché le famiglie erano state
smembrate e la fiducia nel regime era svanita sotto il peso dell’occupazione giapponese e
l’inefficace sforzo bellico dei nazionalisti. I giovani cinesi, in particolare, avevano risentito del
collasso dell’ordine sociale e avvertivano un nuovo senso di liberazione dai tradizionali legami
imposti dalla società. Metà delle reclute del Partito comunista e dell’Esercito di liberazione
aveva meno di vent’anni. Per i contadini di gran parte della Cina, la guerra era stata
un’esperienza estremamente negativa. Nella provincia dello Hunan, la carestia del 1944-45
aveva ucciso tra due e tre milioni di persone; nel 1946 erano morti altri quattro milioni di
abitanti. Padroni di casa, commercianti del mercato nero e banditi sfruttavano e depredavano la
popolazione dei villaggi di tutta la Cina. Nelle aree in cui i comunisti potevano attuare il loro
programma, i contadini erano protetti e veniva introdotta la riforma agraria. Nella «direttiva sulla
questione fondiaria», pubblicata dal Partito comunista il 4 maggio 1946, si chiedeva l’esproprio
della classe padronale e la redistribuzione della terra a chi la lavorava. La guerra di classe,
sospesa durante il conflitto con il Giappone, divenne il nucleo centrale dell’appello comunista.
Nei villaggi del nord vennero introdotti i súkǔhuí, i cosiddetti incontri «per dare sfogo
all’amarezza», durante i quali contadini e operai del luogo erano incoraggiati a farsi avanti e
denunciare coloro che li avevano oppressi. L’obiettivo era quello di rendere consapevoli i poveri
delle zone rurali delle ragioni della loro povertà e aiutarli a focalizzare il nemico di classe. Il
partito mandava nelle comunità di contadini «oratori dell’amarezza» opportunamente addestrati a
esibire un’espressione triste e dare sfogo a una rabbia simulata . Le rappresaglie contro gli
134

sfruttatori erano dure e si riducevano spesso a esecuzioni sommarie; i collaborazionisti dei


giapponesi o dei nazionalisti venivano puniti con violenza arbitraria. I comunisti alimentavano
soprattutto l’ostilità nei confronti di Chiang e del regime nazionalista, accusati di ritardare la
ricostruzione di una nuova Cina dalle rovine della guerra.
Per Chiang e il movimento nazionalista, gli anni del dopoguerra non fecero che esacerbare la
crisi finanziaria e sociale generata dall’emergenza bellica. La spirale inflazionistica non si
fermava, aggravata dalle esigenze militari che consumavano quasi i due terzi della spesa statale.
Il tasso di cambio del fabi cinese rispetto al dollaro americano era precipitato da 2655 nel giugno
del 1946 a 36 826 appena un anno dopo, per arrivare a 180 000 nel gennaio del 1948.
L’iperinflazione colpiva i consumatori e i risparmiatori della Cina urbana sotto il dominio
nazionalista ma aveva minori effetti nelle zone rurali piú autosufficienti, dove era ormai radicato
il comunismo. Quando Chiang insistette per convertire la valuta dell’occupazione giapponese in
fabi, al tasso di 1:200, migliaia di persone che avevano lavorato per gli occupanti o si erano
arricchite grazie al mercato nero si trovarono in rovina . Quanti avevano collaborato con i
135

giapponesi, o si pensava l’avessero fatto, furono cacciati dalle loro case e le loro proprietà
vennero sequestrate dai sostenitori del Kuomintang, alienando e impoverendo cosí molti
rappresentanti della vecchia élite mercantile e burocratica a tutto vantaggio di una nuova classe
privilegiata e arricchita dalle confische. La corruzione e la criminalità che avevano pregiudicato
lo sforzo bellico persistettero negli anni del dopoguerra, mentre la gente faceva a gara per avere
dei benefici o semplicemente per sopravvivere. A causa della diffusione della corruzione su larga
scala, le merci procurate dalla sezione cinese dell’UNRRA venivano saccheggiate o rivendute da
privati alle imprese, anziché rifornire i profughi indigenti che ne avevano bisogno . Nonostante i
136

successi riportati sul campo di battaglia, la popolazione cinese si sentiva estranea alla continua
guerra e al regime di Chiang che la sosteneva. A febbraio del 1948 Chiang scriveva nel suo
diario: «Il popolo sta perdendo la fiducia ovunque» .
137

La maggiore difficoltà affrontata da Chiang fu quella di consolidare le sue vittorie nella Cina
settentrionale e in Manciuria eliminando la resistenza comunista. La scelta strategica della
Manciuria aveva per Chiang un senso ben preciso, dato che il conflitto nella regione poteva fare
in modo che venisse mantenuta la promessa di Stalin della sovranità cinese su quel territorio,
mentre gli eserciti comunisti potevano essere distrutti dalle truppe addestrate e armate dagli
americani. La conquista della Manciuria, al contrario, si rivelò difficile da consolidare a causa
della grande distanza, coperta da un’unica linea ferroviaria che veniva facilmente sabotata dal
nemico, mentre l’embargo americano sulle armi, con la mancata fornitura di munizioni, aveva
annullato il vantaggio dell’equipaggiamento militare proveniente da oltreoceano. Marshall,
profondamente scoraggiato dal suo ruolo di «messaggero», fu sollevato dall’incarico e fece
presto ritorno in America ai primi di gennaio del 1947 per essere nominato segretario di Stato . 138

L’amministrazione americana iniziò a prendere le distanze da un diretto sostegno a Chiang,


soprattutto perché i costi di ulteriori aiuti militari sembravano pericolosamente a tempo
indeterminato. Altri rifornimenti cominciarono ad arrivare nuovamente soltanto nel settembre del
1948, quando era ormai troppo tardi .
139

Dal momento che la minaccia comunista si era ritirata nelle campagne, gli eserciti nazionalisti si
trovarono relegati nelle principali città, impossibilitati a tornare nella Cina meridionale fino a
quando la vittoria non fosse stata completa e sempre piú demoralizzati dal clima e dalle difficili
condizioni del Nord. Dopo le sconfitte del 1946-47, il Partito comunista si era riorganizzato,
reclutando altre masse di volontari tra i giovani delle città, impoveriti e alienati, e ricostituendo
l’Esercito di liberazione grazie all’equipaggiamento sovietico fornito attraverso il confine tra
l’Urss e la Manciuria, lungo il quale si erano ritirate nel 1946 le armate comuniste. Nell’autunno
dell’anno seguente, l’Esercito di liberazione contava ancora in Manciuria circa un milione di
combattenti, uomini e donne. A dicembre del 1947, con temperature di 35 gradi sottozero, 400
000 soldati comunisti iniziarono la riconquista della Manciuria urbanizzata attraversando il
fiume Sungari ghiacciato per assediare la città di Shenyang. I dieci mesi di accerchiamento di
una città con quattro milioni di abitanti da parte di circa 200 000 soldati nazionalisti causarono
una disperata carenza di cibo e carburante. Le unità comuniste avevano tagliato il principale
collegamento ferroviario, isolando la Manciuria da ogni possibile aiuto. La superiorità delle forze
di artiglieria, quattro volte piú grandi di quelle nazionaliste, compensava la mancanza di forza
aerea dei comunisti, mentre i consulenti tecnici sovietici contribuivano a trasformare una truppa
di guerriglieri in un esercito moderno e in grado di sostenere azioni belliche di grandi
dimensioni . A maggio del 1948, Lin Biao pose sotto assedio Changchun, piú a nord. Quando il
140

comandante delle forze nazionaliste rifiutò di arrendersi, Lin Biao ordinò alle sue truppe di
ridurre Changchun in «una città di morti» . Tra maggio e ottobre, l’assedio divenne totale. La
141

città era circondata a una certa distanza da linee difensive con filo spinato, fortini e trincee. Una
parte della popolazione affamata cercò di attraversare la deserta terra di nessuno tra la città e le
linee comuniste, ma né poté superare le guardie comuniste né le fu permesso di rientrare nella
città assediata. La putrefazione accelerata dalla calura faceva gonfiare i mucchi di cadaveri
accatastati; si stima che 160 000 persone morirono fuori e dentro la città. Quando Chiang ordinò
al comandante nazionalista Zheng Dongguo di tentare una sortita, metà delle truppe si ammutinò
e la città si arrese il 16 ottobre 1948 .
142

Alla caduta di Changchun seguí rapidamente la presa di Jinzhou, poi quella di Shenyang, che si
arrese il 1° novembre dopo feroci combattimenti corpo a corpo. Nelle battaglie per le città,
Chiang perse la maggior parte dei suoi migliori eserciti, con un totale di perdite stimato a un
milione e mezzo di uomini. Ogni successo comunista portava dallo schieramento nemico uno
sciame di disertori, mentre molti cinesi appartenenti all’élite – la cosiddetta fazione del vento –
cambiarono bandiera nella speranza di ottenere maggiori benefici dall’ordinamento comunista.
La sconfitta in Manciuria rese quasi inevitabile la disfatta nelle altre regioni. Ciò che seguí
rispecchiò in modo considerevole il modello geografico dell’avanzata giapponese di dieci anni
prima. Beijing fu sottoposta a un assedio di quaranta giorni che si concluse con la resa il 22
gennaio 1949. 240 000 soldati nazionalisti furono assorbiti dall’Esercito popolare di liberazione.
In piazza Tienanmen venne appeso un ritratto di Mao frettolosamente realizzato in sostituzione
dell’immagine di Chiang. Incapace di sopportare la perdita di Beijing, e trovandosi ovunque
sconfitto, Chiang si dimise dalla sua carica presidenziale il 21 gennaio, trasferendo l’incarico di
presidente ad interim al suo vice Li Zongren, a cui toccò il triste compito di negoziare la fine
della guerra civile. Ad aprile, Mao chiese la resa incondizionata, che Li Zongren non poteva
accettare. Chiang si rammaricò nel suo diario che la sconfitta fosse derivata dalla perenne
incapacità di costruire un efficace «sistema strutturale» al di fuori del partito indisciplinato del
Kuomintang e da un esercito non riformato . Le forze comuniste si allargarono a ventaglio in
143

tutta la Cina settentrionale. La piú grande battaglia della guerra civile ebbe luogo per il possesso
dello svincolo ferroviario della città di Xuzhou. Quasi due milioni di uomini combatterono per
difendere la porta della Cina del Sud, ma gli eserciti nazionalisti furono ancora una volta
sconfitti. Piú a sud, la capitale nazionalista di Nanjing cadde il 23 aprile, seguita da Wuhan e poi
da Shanghai nel maggio del 1949. Benché all’inizio del mese Chiang si fosse recato in
quest’ultima città, prima dell’arrivo del nemico, dichiarando che Shanghai sarebbe stata la
Stalingrado della Cina, vi fu solamente una resistenza sporadica. Lionel Lamb, ambasciatore
britannico, scrisse a Londra che il popolo cinese del Sud considerava ora «come un esito scontato
il crollo del governo centrale» . Un milione di combattenti comunisti, con i rinforzi di centinaia
144

di migliaia di disertori dell’esercito nazionalista, si trovava ora sulla sponda settentrionale dello
Yangtze, pronto a invadere il sud.
Alcuni mesi prima, Stalin era intervenuto nuovamente per chiedere a Mao di astenersi
dall’attraversare lo Yangtze in attesa della mediazione sovietica. Il Cremlino preferiva una
divisione tra nord e sud, di tipo coreano. Sembra che a motivare tale preferenza fosse il timore
che una Cina comunista unificata avrebbe potuto rivelarsi non solo difficile da accettare per il
Cremlino, ma che avrebbe allontanato anche gli Stati Uniti, inserendosi come un cuneo tra le
sfere di influenza già concordate. Nell’idea dei Due Regni riecheggiava la storia millenaria della
Cina, e sia il governo britannico sia quello americano si chiedevano se una divisione del paese
non potesse essere preferibile qualora Chiang fosse riuscito a mantenere il Sud dalla sua parte . 145

Mao rifiutò la proposta di Stalin, e le forze comuniste, seppure indebolite da mesi di estenuante
campagna e incerte della possibile reazione della popolazione meridionale, sciamarono
attraverso lo Yangtze. A ottobre, avevano già occupato Guangzhou, il principale porto del sud.
Chiang riparò nuovamente a Chongqing, ma l’ex capitale, a differenza di quanto era avvenuto
con i giapponesi, era già stata conquistata dall’Esercito di liberazione. Chiang raggiunse in aereo
Taiwan il 9 dicembre 1949. I combattimenti continuarono nell’anno seguente nelle zone in cui i
nazionalisti si rifiutarono di arrendersi, ma il nuovo stato unificato era ormai realtà. In un
discorso pronunciato a settembre alla Rénmín zhèngxié, la Conferenza consultiva del popolo
istituita originariamente come assemblea da Chiang per soddisfare la richiesta di Marshall di un
ordinamento democratico di modello americano, Mao proclamò trionfalmente la fine del regime
nazionalista e dei suoi sostenitori imperialisti: «La nostra non sarà piú una nazione soggetta a
insulti e umiliazioni. Ci siamo alzati in piedi» .
146

Arrivato a Beijing, il 1° ottobre 1949 Mao annunciò davanti a un’adunata di popolo entusiasta su
piazza Tienanmen la fondazione della Repubblica popolare della Cina. Il giovane dottore Li
Zhisui, divenuto poi il medico personale di Mao, ricorda nelle sue memorie che quel giorno era
stato «cosí pieno di speranza, cosí felice che lo sfruttamento, la sofferenza e l’aggressione
straniera fossero finiti per sempre» . La guerra civile era prossima a concludersi, ma l’impresa di
147

edificare una società comunista non prometteva alcuna fine alle sofferenze imposte su coloro che
non superavano il test comunista di «buona classe» ed erano invece classificati come
appartenenti al «ceto medio» o a una «cattiva classe». Per ironia della sorte, uno dei primi paesi
occidentali a riconoscere il nuovo stato cinese il 6 gennaio 1950, con un’aperta sfida lanciata agli
Stati Uniti, fu la Gran Bretagna, che da oltre un secolo rappresentava la nemesi imperiale della
Cina ma che sperava ancora in opportunità commerciali. Alle Nazioni Unite, il riconoscimento
del nuovo status della Cina dovette attendere altri vent’anni. Il 15 ottobre 1971, facendo seguito
a una mozione presentata dall’Albania a luglio, l’Assemblea Generale votò per riconoscere la
Repubblica popolare come l’unico stato cinese legittimo. I rappresentanti della Repubblica
cinese di Chiang sostennero che il contributo offerto dai nazionalisti alla vittoria nella Seconda
guerra mondiale giustificava pienamente il titolo di paese membro, ma la loro richiesta fu
respinta a gran voce ed essi abbandonarono l’assemblea. A novembre, la Cina di Mao occupò il
proprio seggio nell’Assemblea Generale e nel Consiglio di sicurezza.
Nuovi imperi al posto dei vecchi?
La guerra aveva creato due superpotenze, Stati Uniti e Unione Sovietica, entrambe coinvolte
nella ricostruzione dell’ordine post-imperiale e destinate a divenire i principali avversari in una
guerra fredda che molto doveva alla crisi seguita alla fine degli imperi. Subito dopo il 1945, i
contemporanei iniziarono a chiedersi se le due superpotenze potessero diventare esse stesse degli
«imperi», successori dell’ordine ormai defunto, e nei decenni che seguirono i termini «impero
sovietico» e «impero americano» vennero a descrivere comunemente il potere egemonico
esercitato dai due stati federali nel contesto della guerra fredda. Molti dei leader presenti alla
Conferenza afroasiatica di Bandung nel 1955 temevano che la fine del vecchio colonialismo
potesse aprire la strada a nuove forme di impero. Il delegato iracheno, Djalal Abdoh, ammoní gli
altri leader a proposito dei nuovi aggressori comunisti, intenti a «reinventare il colonialismo sotto
nuove forme» per sovvertire la «sovranità e la libertà» conquistate a fatica dai popoli . I 148

simpatizzanti marxisti, a loro volta, vedevano nella potenza globale degli Stati Uniti emersa dopo
il 1945 un impero sotto mentite spoglie. Le accuse da parte sovietica che gli Stati Uniti stessero
ormai praticando l’imperialismo a livello mondiale si radicarono nella retorica comunista fino
alla fine del blocco sovietico nel 1990. I liberali americani che criticavano l’impero erano
ugualmente disposti ad applicare il termine al lungo coinvolgimento degli Stati Uniti nelle guerre
postcoloniali in Vietnam. L’espressione «impero americano» è ormai ampiamente accettata nel
contesto della potenza unipolare dell’America dopo il 1990 e il crollo del blocco sovietico . 149

È indiscutibile che nel mondo del dopoguerra l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti siano diventati
delle potenze egemoniche grazie alla loro massiccia superiorità militare ereditata dagli anni del
conflitto e alle comuni ambizioni politiche di esercitare un’influenza a livello globale. Durante il
conflitto e nel primo dopoguerra, tuttavia, furono entrambi delle potenze anticolonialiste. Stalin
deplorava il colonialismo e accettava l’idea espressa da Roosevelt alla Conferenza di Teheran di
novembre del 1943 che, a conflitto concluso, tutte le colonie dovessero essere affidate a una
supervisione internazionale. Con l’inizio della guerra fredda, i leader sovietici iniziarono a
chiedere non solo l’amministrazione fiduciaria ma l’autodeterminazione universale. Dalla fine
degli anni Quaranta in avanti, il confronto bipolare tra «socialismo» e «imperialismo» divenne il
pilastro centrale della pianificazione strategica e del pensiero sovietico . In una burrascosa
150

sessione delle Nazioni Unite nel novembre del 1960, il delegato dell’Urss Valerjan Zorin
denunciò il colonialismo come «il fenomeno piú vergognoso nella vita dell’umanità» e chiese
l’indipendenza entro un anno di tutti i popoli colonizzati. Il delegato britannico deplorò la
ripetizione di «slogan leninisti triti e ritriti» e pose in chiara evidenza il fatto che le repubbliche
sovietiche non avevano avuto alcuna possibilità di autodeterminazione. L’Unione Sovietica, in
ogni caso, era formalmente tenuta, sia ideologicamente sia strategicamente, a intervenire, quando
opportuno, nelle lotte di liberazione dei paesi coloniali .
151

L’amministrazione americana del tempo di guerra era contraria al colonialismo non solamente in
virtú dell’idealismo liberale di Roosevelt, ma anche per un desiderio pragmatico di creare
un’economia globale aperta smantellando i particolari privilegi commerciali incorporati nelle
economie imperiali prebelliche. Il generale Hurley, emissario speciale di Roosevelt in Medio
Oriente nel 1943, lamentava che la Gran Bretagna fruiva degli aiuti americani «non allo scopo di
costruire il mondo nuovo (brave new world) fondato sulla Carta Atlantica e sulle Quattro
Libertà, ma a vantaggio della conquista britannica, del dominio imperialistico e del monopolio
commerciale della Gran Bretagna» . L’istituzione del Fondo monetario internazionale e della
152

Banca Mondiale dopo il vertice economico di Bretton Woods nel 1944, e il successivo General
Agreement on Trade and Tariffs (Accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio) del
1947, furono due momenti determinanti degli sforzi americani per sovvertire i blocchi mercantili
chiusi e le restrizioni commerciali e valutarie caratteristiche dei sistemi imperiali, sia prima sia
durante la guerra. Le ambizioni economiche erano strettamente intrecciate con i progetti di
decolonizzazione. Una commissione territoriale istituita dal dipartimento di Stato aveva iniziato
già nel 1942 a esplorare in che modo, a guerra finita, i territori sottomessi potevano essere
disgiunti dal dominio coloniale chiuso. Nel novembre dello stesso anno, la commissione aveva
partorito l’idea di un’amministrazione fiduciaria internazionale (International Trusteeship),
sancita in seguito nella nuova organizzazione della United Nations Trusteeship . Roosevelt fu il
153

principale portavoce della fine del colonialismo tradizionale, favorendo l’amministrazione


fiduciaria universale per tutti i territori sottomessi e pianificando chiaramente già prima del 1945
di porre fine alle tradizionali strutture imperiali nonostante la resistenza dell’alleato britannico.
Al termine del conflitto, Washington prevedeva una qualche forma di amministrazione fiduciaria
del mondo colonizzato fondata idealmente su una progressiva evoluzione verso
l’autodeterminazione e combinata con l’assistenza economica internazionale.
La forte opposizione di Gran Bretagna e Francia fece sí che alla fine, durante la conferenza di
apertura delle Nazioni Unite, il sistema di un’amministrazione fiduciaria universale fosse
abbandonato, anche se il successore di Roosevelt, Harry Truman, non era certo piú affezionato
del suo predecessore all’idea di riportare in vita i vecchi imperi – un atteggiamento piú che
evidente nell’ostilità del suo governo verso gli sforzi britannici per riaffermare un impero
tradizionale, seppure informale, in Cina e Iran. L’opposizione americana alla restaurazione delle
colonie era tuttavia ambigua, dato che i crescenti timori del comunismo sovietico iniziavano a
rendere i leader americani meno insistenti sulla questione dell’amministrazione fiduciaria
universale come via rapida verso l’indipendenza. Nei Caraibi, nonostante le pressioni da parte
dell’Organizzazione degli Stati americani, costituita nel 1948, affinché si ponesse fine a ogni
forma di colonialismo del Nuovo Mondo, gli Stati Uniti, per la preoccupazione che il loro fianco
meridionale potesse essere minacciato qualora gli inglesi fossero troppo pressati dalla
decolonizzazione, finirono per sostenere gli sforzi britannici per individuare e combattere la
«penetrazione del nemico» attraverso agenti comunisti che fungevano da agitatori in nome
dell’indipendenza . In Indocina, la forte avversione di Roosevelt per il ripristino delle colonie
154

sotto dominio francese fu compromessa dopo il 1945 dai timori che senza l’aiuto americano si
sarebbe arrivati alla nascita di un Vietnam comunista. In Indonesia, viceversa, l’assenza di una
grave minaccia comunista offrí a Truman un maggiore margine di manovra per incoraggiare gli
olandesi a concedere l’autogoverno e porre fine alle misure antinsurrezionali oppure incorrere in
possibili sanzioni da parte americana.
Il fulcro anticoloniale della politica americana si rese altresí evidente dopo il 1945 nel processo
di decolonizzazione dei territori sottomessi agli stessi Stati Uniti, dove il caos e la miseria degli
anni di guerra avevano alimentato proteste radicali contro la presenza degli americani e quanti
collaboravano con essi. Nel 1946, le Filippine ottennero l’indipendenza com’era stato promesso
nel 1934, prima della guerra, ma il conflitto sociale sfociò in una guerra civile che terminò nel
1954 con il nazionalismo filippino ulteriormente rafforzato. I nazionalisti portoricani, guidati da
Pedro Albizu Campos, intrapresero una campagna di violente proteste, tra cui un assalto armato
alla Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti e un piano per assassinare il presidente Truman . 155

Il territorio ottenne lo status di Commonwealth nel 1952, mentre venivano incanalati nell’isola
consistenti fondi per lo sviluppo e per tenere a bada le istanze piú radicali. Nel 1959, dopo la
vittoria dal Partito democratico hawaiano nelle elezioni del 1954, le isole delle Hawai’i
passarono dallo status di protettorato a quello di stato dell’Unione a pieno titolo. Cuba,
conquistata durante la guerra ispano-americana del 1898, era nominalmente indipendente ma
strettamente legata agli Stati Uniti, fino a quando la rivoluzione del 1959 portò Fidel Castro al
potere e ruppe le relazioni tra i due stati per piú di mezzo secolo. Convinta che si trattasse di una
«penetrazione del nemico comunista» nei Caraibi, l’amministrazione Eisenhower si attenne a una
linea politica volta a isolare o eliminare il regime di Castro. Il risultato fu un temporaneo
allineamento dell’isola a Mosca, e questo nell’area caraibica dove vi erano state fino ad allora
rare connessioni di tale genere .
156

Va da sé che la definizione dell’Unione Sovietica e degli Stati Uniti come «imperi» non è cosí
trasparente. La parola «impero» è un termine elastico, riferito con scarsa precisione a una vasta
gamma di esempi storici che vanno dal mondo classico al XXI secolo. I cambiamenti avvenuti nel
1945 posero fine a un impero dalle caratteristiche meglio definite, ovvero quegli imperi
territoriali che comportavano una diretta sottomissione e perdita di sovranità della popolazione
indigena, tanto in colonie, protettorati, territori sotto mandato e insediamenti speciali quanto in
condomini internazionali. Gli imperi nati in tempo di guerra – tedesco, italiano e giapponese –
condividevano queste caratteristiche con le piú antiche istituzioni imperiali europee, alcune delle
quali risalivano a 400 anni prima. Lo status egemonico di cui godevano le due superpotenze, al
contrario, non si basava su tale forma di impero territoriale, destinato a non ricomparire dopo il
1945. Come ormai sappiamo, il neocolonialismo venne praticato nel modo piú articolato dalle ex
potenze imperiali, che seppero in molti casi mantenere negli ex territori coloniali, anche tempo
dopo la loro indipendenza, i propri interessi culturali, economici e di difesa.
Nel caso dell’Unione Sovietica, l’impero si basava principalmente sui rapporti di potere stabiliti
tra l’Urss e i paesi dell’Europa centro-orientale liberati dall’occupazione tedesca nel 1944-45.
L’Armata Rossa e le forze di sicurezza sovietiche combatterono una lunga guerra contro i
movimenti nazionali di Ucraina, Polonia, Slovacchia e Stati baltici, i cui aderenti non
intendevano essere governati dai comunisti. Si trattò di importanti campagne antinsurrezionali
iniziate nel 1944, quando le truppe sovietiche riconquistarono i territori bielorussi e ucraini per
poi proseguire con l’Estonia, la Lettonia e la Lituania, reincorporate nell’Unione Sovietica, e la
Polonia, dove i nazionalisti dell’Armia Krajowa continuarono a lottare contro la prospettiva di un
regime comunista. Nel condurre le operazioni antiguerriglia, l’Armata Rossa e le forze di
sicurezza dell’NKVD evidenziarono il medesimo disprezzo per la legalità che aveva
caratterizzato le misure antinsurrezionali in ambito coloniale. Gli insorti, a loro volta, erano
coinvolti in feroci atti di violenza volti a intimidire la popolazione locale e costringerla a un
supporto passivo o attivo. L’Orhanizacija ukraïns'kych nacionalistiv (OUN, Organizzazione dei
nazionalisti ucraini) si faceva vanto del suo disprezzo per il popolo che stava cercando di
liberare: «Non intimidire ma distruggere», incitava il comandante dell’ala militare dell’OUN.
«Non dobbiamo preoccuparci che la gente possa maledirci per la brutalità» . Le guerre di
157

liberazione ebbero un altissimo costo in vite umane per entrambe le parti. Nel 1944-46, la
resistenza della guerriglia provocò la morte di 26 000 uomini tra guardie di sicurezza, soldati,
funzionari sovietici e civili; si stima che nel 1945-46 rimasero uccisi circa 100 000 ribelli, con
una percentuale particolarmente elevata nelle regioni dell’Ucraina occidentale. Le guerre
continuarono fino all’inizio degli anni Cinquanta, quando gli ultimi gruppi della guerriglia
furono sconfitti ed eliminati. Tra il 1944 e il 1953, furono uccisi 20 000 guerriglieri lituani, ma
solo 188 nell’ultimo anno di resistenza . La maggiore differenza tra le operazioni
158
antinsurrezionali sovietiche e quelle degli stati imperiali risiedeva nella strategia della
deportazione di massa degli insorti e delle loro famiglie nelle colonie penali dell’Unione
Sovietica. Essa fu condotta su grande scala non solo per liberare il territorio dalla resistenza dei
nazionalisti, ma anche per portare avanti la ricostruzione sociale dell’Europa orientale
eliminando i «nemici di classe»: contadini piú agiati, proprietari terrieri, esponenti del clero,
politici nazionalisti e presunti collaborazionisti con i tedeschi. Tra il 1945 e il 1952, 108 362
persone furono deportate dalla Lituania; dall’Ucraina occidentale (territorio polacco incorporato
nell’Unione Sovietica) 203 662 «banditi complici» e contadini ricchi furono esiliati negli
«insediamenti speciali» sovietici . In Lettonia, nel marzo del 1949 avvenne la deportazione in
159

massa in Siberia di 43 000 nazionalisti, guerriglieri fatti prigionieri, contadini ricchi e loro
familiari. Altri 150 000 furono puniti per quelli che gli occupanti sovietici definirono crimini
politici .
160

Alla deportazione dei nemici di classe e dei «banditi» – termine quasi universalmente riferito ai
guerriglieri in lotta per la liberazione –, le autorità sovietiche affiancarono nei territori
conquistati un ampio programma di ricostituzione etnica per evitare la possibilità di qualsiasi
forma di resistenza postbellica legata ai conflitti interetnici che avevano tormentato i nuovi stati
dell’Europa orientale dopo il 1919. A novembre del 1945, un milione di polacchi fu deportato
nella nuova Rzeczpospolita Polska (Repubblica della Polonia) dall’Ucraina e dalla Bielorussia,
mentre 518 000 bielorussi e ucraini furono trasferiti dalla Polonia in Unione Sovietica. Dopo
l’annessione a spese della Cecoslovacchia della regione ucraina della Transcarpazia, il governo
ceco e quello sovietico si accordarono per rimpatriare dal territorio fino a 35 000 cechi e
slovacchi . I programmi di ricostituzione etnica e sociale erano destinati a sostenere le
161

democrazie popolari emergenti nelle zone dell’Europa orientale e sud-orientale liberate dalle
forze comuniste. La risposta iniziale di Stalin non fu di imporre un regime comunista, bensí di
incoraggiare ampie coalizioni di governo da cui il sostegno al comunismo si sarebbe sviluppato
naturalmente come risultato di riforme socioeconomiche di stampo socialista. A luglio del 1946
Stalin disse al leader comunista ceco Klement Gottwald che «dopo la sconfitta della Germania di
Hitler, dopo la Seconda guerra mondiale […] che ha distrutto la classe di governo […] la
coscienza delle masse popolari ha compiuto un balzo in avanti» . All’atto pratico, tuttavia, i
162

molteplici percorsi verso il socialismo si rivelarono tutt’altro che facili, nonché in contrasto con
la priorità di Stalin di erigere una barriera di stati filosovietici per garantire che non vi sarebbero
state ulteriori minacce alla sicurezza dell’Urss da parte degli ex nemici . I comunisti vennero
163

cosí a dominare i nuovi regimi di Bulgaria, Romania, Polonia e Ungheria. Con il rafforzamento
della guerra fredda nel 1947, la leadership sovietica iniziò a preoccuparsi della possibilità di un
intervento occidentale, un timore di cui Stalin scorgeva un chiaro simbolo nel Piano Marshall
istituito per la ripresa europea e a cui il governo cecoslovacco desiderava partecipare. Il piano di
aiuti fu respinto dal blocco comunista come strumento atto a «rafforzare l’imperialismo e
preparare una nuova guerra imperialista» . A febbraio del 1948, la coalizione del presidente
164

Beneš, al governo in Cecoslovacchia, fu rovesciata e sostituita da un regime comunista


intransigente. Nel 1949, allorché la zona sovietica creata in Germania venne convertita in
Repubblica democratica tedesca, gli stati dell’Europa orientale erano tutti filosovietici e guidati
da governi comunisti.
Tutto questo equivaleva a un impero sovietico? Vi sono chiari argomenti che contrastano con
tale definizione. Gli Stati baltici furono incorporati con la forza nell’Unione Sovietica come
Repubbliche socialiste federate. Gli stati ricostituiti nell’Europa orientale, che avevano fatto
parte del progetto coloniale del Terzo Reich, erano stati restaurati come paesi sovrani, le loro
popolazioni erano trattate come cittadini, non sudditi, nonostante l’assenza dei tradizionali diritti
civili. Lo scopo, secondo un discorso pronunciato da Stalin nel febbraio del 1946, era quello di
«ripristinare le libertà democratiche», nel senso comunista del termine, e parte dell’iniziativa di
edificare delle «democrazie popolari» proveniva da comunisti locali che asserivano il loro diritto
di determinare il futuro dei rispettivi paesi . Nonostante le sue personali antipatie per il
165

comunismo, Nehru aveva difeso il blocco comunista alla Conferenza di Bandung, poiché «non è
colonialismo se riconosciamo la sovranità di un paese». Anche se il sistema politico imposto non
appariva democratico in nessuna delle forme riconoscibili in Occidente e violava regolarmente i
diritti umani, esso si differenziava comunque dal potere esercitato da un governatore generale
coloniale sui popoli sottomessi. Benché i dati relativi allo sviluppo dell’economia comunista
possano essere visti con scetticismo, i nuovi stati dell’Europa orientale sperimentarono un rapido
sviluppo dell’industria e dell’urbanizzazione, insieme con l’introduzione di politiche assistenziali
e sociali di carattere universale.
Esistevano altresí dei limiti alle ambizioni sovietiche. Stalin si era rifiutato di aiutare i comunisti
greci nella guerra civile scoppiata dopo il 1945; la Jugoslavia di Tito ruppe con l’autorità di
Stalin nel marzo del 1948 e a giugno venne espulsa dal Cominform (succeduto al Comintern);
nel 1961 era stata la volta dell’Albania, che accusava l’Unione Sovietica di deviazionismo
rispetto alla linea antimperialista. Stalin rispettò l’indipendenza della Finlandia e insistette sul
fatto che i grandi partiti comunisti dell’Italia e della Francia cooperassero per ripristinare la
tradizionale democrazia occidentale. Fuori dall’Europa, Stalin si dimostrò riluttante a lasciarsi
coinvolgere nelle battaglie della decolonizzazione. Dopo l’occupazione sovietica, il Cremlino
accettò di restituire la Manciuria a Chiang Kai-shek piuttosto che a Mao Zedong; riconobbe
ufficialmente la Repubblica democratica del Vietnam di Ho Chi Minh solo dopo cinque anni,
garantendole uno scarso sostegno diretto a differenza della Cina di Mao; evitò il confronto con
gli inglesi in Iran; pur incoraggiando la Corea del Nord a mettere alla prova la determinazione
americana nel 1950, fece un passo indietro per non farsi coinvolgere direttamente nella guerra
che seguí e che trascinò ancora una volta la Cina comunista nel conflitto; nel Sud-est asiatico, in
Medio Oriente e in Africa, l’Unione Sovietica non diede grandi contribuiti ai movimenti di
liberazione nazionalisti, nonostante i persistenti timori occidentali. Il Komitet Gosudarstvennoj
Bezopasnosti, i servizi di sicurezza sovietici meglio noti come KGB, aprí un dipartimento per
l’Africa subsahariana solo nel 1960, durante l’ultima ondata di decolonizzazioni e guerre
d’indipendenza .166

Altrettanto problematico è il caso dell’impero americano. La nuova potenza acquisita


dall’America si espresse attraverso pressioni politiche, minacce economiche, sorveglianza di
intelligence a livello mondiale e presenza militare globale, ma non si trattò di un impero
territoriale. Nelle zone occupate in Germania, Italia e Giappone, i governi militari contribuirono
a ripristinare i servizi, fornire capitali per progetti di ricostruzione e preparare gli ex stati nemici
a riconquistare la piena sovranità sotto regimi parlamentari. La presenza degli Stati Uniti si
limitava pertanto a forze aeree e di terra in basi loro assegnate, e queste, dato che esistevano
anche in Gran Bretagna, non erano certo una prova di imperialismo, se non per un’analogia
molto approssimativa. L’impero americano è stato descritto ugualmente come un «impero di basi
militari». Nel XXI secolo se ne contavano almeno 725, sparse in 38 paesi diversi, con un
comandante in capo per ciascuna regione del globo . La presenza militare consentiva agli Stati
167

Uniti di proiettare la propria potenza a livello mondiale, ma non nel modo seguito da inglesi o
francesi come potenze coloniali. Riflettendo sull’eventualità che fosse meglio impossessarsi dei
possedimenti coloniali britannici nei Caraibi, al fine di salvaguardare le nuove strutture militari
concordate nel patto del 1940, denominato «cacciatorpediniere in cambio di basi», Roosevelt
respinse l’idea in quanto contraria allo spirito anticoloniale americano. Al pari di Stalin,
l’amministrazione americana era preoccupata piú della sicurezza, soprattutto considerando la
minaccia fortemente avvertita del comunismo, che di un impero, quale che fosse il suo senso
storico. Nacquero da tali considerazioni i patti per la sicurezza a livello regionale, di cui il piú
ampio e duraturo fu quello della NATO (North Atlantic Treaty Organisation), fondata nel 1949.
La maggiore sfida che gli Stati Uniti dovettero fronteggiare fu la soluzione dei conflitti
postcoloniali. In Corea, la spartizione concordata nel 1945 lungo il 38° parallelo aveva lasciato
alle forze americane la responsabilità di un’ex colonia improvvisamente priva dei suoi padroni
coloniali. Il XXIV Corpo d’armata distaccato nella Corea del Sud sotto il generale John Hodge si
trovò ad affrontare un compito arduo e scoraggiante. Quasi nessuno degli ufficiali parlava
coreano o aveva una conoscenza dettagliata del paese e del suo passato recente. I coreani
avevano dichiarato a gran voce di essere in grado di organizzare i propri partiti politici, ma
nell’ottobre del 1945 ne esistevano già 54 e nel 1947 circa 300 . Gli americani, nel loro primo
168

tentativo di organizzare il paese dopo aver istituito un governo militare sotto il generale
maggiore Archibald Arnold, fecero notevole affidamento sull’assistenza degli ex funzionari
giapponesi, che, prima del loro rimpatrio, fornirono alla nuova amministrazione 350
memorandum molto dettagliati. I coreani chiedevano autodeterminazione e riforme economiche
e nel giro di pochi mesi scoppiarono un po’ ovunque scioperi e proteste nelle campagne. Un
sondaggio d’opinione condotto nell’ottobre del 1946 rilevò che quasi la metà degli intervistati
preferiva il dominio giapponese a quello americano . Nel Nord, le forze sovietiche avevano
169

insediato come leader dei comunisti coreani l’ex guerrigliero antigiapponese Kim Il Sung, che
aveva trascorso gli anni della guerra in Siberia. Il timore di possibili infiltrazioni comuniste nei
numerosi comitati popolari sorti nelle campagne sudcoreane distolse l’attenzione americana
dall’insistente richiesta di autogoverno da parte dagli ex sudditi del Giappone.
Nel settembre del 1945, i nazionalisti del Sud avevano dichiarato la Joseon inmin gonghwaguk,
la Repubblica popolare di Corea, che Hodge mise al bando tre mesi dopo perché ritenuta
anch’essa troppo comunista. In una conferenza a Mosca il 27 dicembre 1945, Unione Sovietica,
Gran Bretagna, Cina e Stati Uniti accettarono di gestire in Corea un’amministrazione fiduciaria
congiunta della durata di almeno quattro anni. La diffusa ostilità dei nazionalisti coreani all’idea
che il paese avrebbe dovuto attendere la sua indipendenza portò a una situazione di stallo. Sotto
la supervisione sovietica, Kim Il Sung e gli altri suoi compagni comunisti avviarono nel Nord
riforme radicali, in primo luogo la ridistribuzione delle terre, tanto agognata dai contadini di
entrambi i lati del 38° parallelo. Piú tardi, nel 1946, fu istituito il Choguk t’ongil minju chuŭi
chŏnsŏn (Fronte democratico per la riunificazione della Patria), e il futuro stato comunista iniziò
a prendere forma. Nel Sud, il governo militare bandí i sindacati e sospese il diritto di sciopero,
soffocando nel settembre del 1946 una violenta ribellione esplosa nella città di Taegu. Ulteriori
colloqui con l’Unione Sovietica per la creazione di una Corea unificata e indipendente furono
interrotti e, sempre a settembre, gli Stati Uniti, ansiosi di disimpegnarsi da un’occupazione
costosa e pericolosa, chiesero alle Nazioni Unite di assumersi la responsabilità del paese. Una
Commissione provvisoria delle Nazioni Unite per la Corea prese l’iniziativa di indire le elezioni
per una nuova assemblea nazionale, ma l’Unione Sovietica rifiutò di riconoscerne l’autorità. Le
elezioni, che si tennero nel Sud, partorirono un’Assemblea nazionale che, pur rappresentando
solo una frazione del popolo coreano, approvò una costituzione ed elesse il veterano nazionalista
Syngman Rhee, che aveva iniziato la sua campagna per l’indipendenza presentando nel 1919 una
petizione a Woodrow Wilson, alla carica di primo presidente di quella che il 15 agosto 1948
divenne la Repubblica di Corea (Daehan minguk). Anche il Nord indisse delle elezioni
«nazionali», e il 9 settembre dello stesso anno l’Assemblea suprema del popolo, che includeva i
comunisti del Sud, inaugurò la Repubblica popolare democratica di Corea (Chosŏn minjujuŭi
inmin gonghwaguk). La divisione sembrava replicare l’assetto delle due Germanie definito
l’anno successivo. Entrambe le parti sostenevano di rappresentare la nazione coreana, ma le
Nazioni Unite riconobbero come governo legittimo soltanto la Repubblica di Corea (del Sud) . 170

Nel 1950 fu istituita una Commissione delle Nazioni Unite per l’unificazione e la ricostruzione
del paese, ma ogni prospettiva di successo scomparve con la Guerra di Corea e le sue lunghe
conseguenze. Le Nazioni Unite riconobbero le due repubbliche coreane come membri a pieno
titolo dell’Assemblea Generale solo nel settembre del 1991 . 171

Gli Stati Uniti, che si erano ritirati dalla Repubblica di Corea nel 1949, fecero ritorno un anno
dopo. L’obiettivo del Sud come del Nord della penisola rimaneva quello dell’unità nazionale, ma
il Sud non aveva alcun desiderio di essere comunista e il Nord non aveva alcun desiderio di
ricongiungersi al regime di Rhee, nazionalista e anticomunista. A giugno del 1950, il Chŏnsŏn-
inmin’gun (Esercito popolare coreano) invase il Sud nella speranza di unificare la Corea sotto un
governo comunista. Le forze limitate della Repubblica di Corea furono respinte in una piccola
area circostante il porto di Pusan, nell’estremo sud. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite,
grazie alla temporanea assenza dell’Unione Sovietica, decise di inviare delle forze armate per
assistere il Sud. Gli invasori furono a loro volta ricacciati in profondità nel nord del paese, e
questa volta fu Rhee a sperare di creare una Corea unificata man mano che la resistenza si
affievoliva. L’intervento cinese nel novembre del 1950 costrinse nuovamente alla ritirata le
Nazioni Unite, ma nell’aprile del 1951 la linea del fronte si era ormai stabilizzata all’incirca dove
era iniziato il conflitto e si diede inizio a negoziati per porre fine alle ostilità. Un armistizio fu
finalmente firmato solo nel luglio del 1953, ma nel frattempo le forze aeree strategiche degli
Stati Uniti avevano sganciato sulla Repubblica democratica piú bombe di quelle lanciate sulla
Germania durante la Seconda guerra mondiale. Le principali città del Nord subirono devastazioni
tra il 75 e il 90 per cento. Il costo in vita umane superò di gran lunga qualsiasi altra guerra
coloniale e postcoloniale: si stimano 750 000 morti tra i soldati e qualcosa come un minimo di
800 000 e un massimo di quasi due milioni di morti tra i civili . 172

La Guerra di Corea dimostrò fino a che punto il piú ampio scontro della guerra fredda fosse
alimentato dai punti critici della decolonizzazione, come sarebbe accaduto nella successiva
guerra del Vietnam. Il risultato rifletteva tuttavia solo in misura limitata l’ipotesi che si trattasse
di uno scontro tra gli «imperi» dell’Unione Sovietica e degli Stati Uniti piú che di un confronto
ideologico. Questa non è solo una differenza semantica. Dopo trentacinque anni di
colonizzazione, la Corea era stata divisa in due stati sovrani indipendenti, e tali rimasero dopo
quattro anni di guerra. L’egemonia sovietica e americana ebbe la propria parte nell’esito
raggiunto e nelle successive conseguenze, come era accaduto poco prima con la Cina comunista,
ma la fine dell’impero giapponese nel 1945 non divenne un invito alla ricolonizzazione.
La lunga Seconda guerra mondiale, dagli anni Trenta agli anni violenti del dopoguerra, non
soltanto pose fine a una particolare forma di impero, ma screditò l’intero passato del termine.
Nelle sue Reith Lectures, tenute nel 1961 per la BBC, l’africanista di Oxford Margery Perham
osservò che tra tutte le «vecchie autorità» attualmente condannate dopo la guerra «nessuna ha
mietuto giudizi peggiori dell’imperialismo». Si trattava, come riteneva la Perham, di un profondo
cambiamento storico. «Per tutti i sessanta secoli di storia piú o meno documentata», proseguiva
la studiosa, «l’imperialismo, l’estensione del potere politico di uno stato su un altro, […] era
stato dato per scontato come elemento dell’ordine costituito». L’unica autorità che la gente ora
accetterebbe dopo la guerra «è quella che nasce dalla propria volontà, o può essere fatta sembrare
come tale» . Nacque da questo la corsa per ottenere lo status di nazione – per un totale di 193
173

paesi membri delle Nazioni Unite nel 2019. Il nuovo organismo degli stati-nazione, rappresentati
da istituzioni internazionali e patti regionali, non ha evidentemente posto fine ai conflitti, né
internazionali né interni, ma viviamo comunque un’età diversa da quella esistente prima dello
scoppio dell’ultima guerra imperiale. La Seconda guerra mondiale, piú di quelle rivoluzionarie o
napoleoniche, o della stessa Prima guerra mondiale, ha creato le condizioni per trasformare non
solo l’Europa ma l’intero ordine geopolitico globale. Quella fase finale degli imperi territoriali
non sarebbe stata, come aveva ipotizzato Leonard Woolf nel 1928, «pacificamente sepolta»,
bensí con un eccesso di «sangue e rovine».
Note
Abbreviazioni
AHB

BAB

BA-MA

CCAC

IWM

LC

NARA

TNA

TsAMO

UEA

USMC

USSBS

Prefazione.
1. Frederick Haberman (a cura di), Nobel Lectures: Peace, 1926-1950, Amsterdam 1972, p. 318.
2. Christopher Browning, Ordinary Men: Reserve Police Battalion 101 and the Final Solution in Poland, London 1992 [trad. it.
Uomini comuni: polizia tedesca e «soluzione finale» in Polonia, Torino 2020]; si veda inoltre Richard Overy, «Ordinary men»,
extraordinary circumstances: historians, social psychology, and the Holocaust, in «Journal of Social Issues», LXX (2014), pp.
515-30.
3. Si vedano i recenti lavori di Gordon Corrigan, The Second World War: A Military History, London 2010; Antony Beevor, The
Second World War, London 2013 [trad. it. La Seconda guerra mondiale: i sei anni che hanno cambiato la storia, Milano 2013];
Max Hastings, All Hell Let Loose: The World at War 1939-1945, London 2011 [trad. it. Inferno: Il mondo in guerra 1939-1945,
Vicenza 2013]; Andrew Roberts, The Storm of War: A New History of the Second World War, London 2009. Tra i libri migliori
che meno si concentrano sull’aspetto militare desidero menzionare Gerhard Weinberg, A World at Arms: A Global History of
World War II, Cambridge 1994 [trad. it. Il mondo in armi: storia globale della Seconda guerra mondiale: la prima fase della
guerra: l’offensiva dell’Asse e del Giappone, Torino 2008]; Evan Mawdsley, World War Two: A New History, Cambridge 2012 e
lo studio ormai classico di Gordon Wright, The Ordeal of Total War, 1939-1945, New York 1968; in anni piú recenti vi sono stati
Andrew Buchanan, World War II in Global Perspective: A Short History, Hoboken (N.J.) 2019 e Victor Hanson, The Second
World Wars: How the First Great Global Conflict was Fought and Won, New York 2019 [trad. it. La Seconda guerra mondiale:
come è stato combattuto e vinto il primo conflitto globale, Milano 2019]. È di ulteriore stimolo al dibattito sull’esito militare del
conflitto il volume di Phillips O’Brien, How the War was Won, Cambridge 2015.
4. Reto Hofmann e Daniel Hedinger, Axis Empires: towards a global history of fascist imperialism, in «Journal of Global
History», XII (2017), pp. 161-65; si veda inoltre Daniel Hedinger, The imperial nexus: The Second World War and the Axis in
global perspective, ivi, pp. 185-205.
5. Sulla Grande Guerra e le sue conseguenze per l’impero si vedano Robert Gerwarth e Erez Manela, The Great War as a global
war, in «Diplomatic History», XXXVIII (2014), pp. 786-800; Jane Burbank e Frederick Cooper, Empires after 1919: old, new,
transformed, in «International Affairs», XCV (2019), pp. 81-100.
6. Sui limiti della storia «militare», si vedano l’interessante conferenza di Stig Förster, The Battlefield: Towards a Modern
History of War, Annual Lecture presso il German Historical Institute, London 2007 e Jeremy Black, Rethinking World War Two:
The Conflict and its Legacy, London 2015.
Prologo. «Sangue e rovine»: l’impero e le origini della guerra
1. Leonard Woolf, Imperialism and Civilization, London 1928, p. 17.
2. Ibid., pp. 9-12.
3. Birthe Kundrus, Moderne Imperialisten: Das Kaiserreich im Spiegel seiner Kolonien, Köln 2003, p. 28; si veda inoltre Helmut
Bley, Der Traum vom Reich? Rechtsradikalismus als Antwort auf gescheiterte Illusionen im deutschen Kaiserreich 1900-1938 , in
Birthe Kundrus (a cura di), Phantasiereiche: Zur Kulturgeschichte des deutschen Kolonialismus, Frankfurt am Main 2003, pp.
56-67.
4. Nicola Labanca, Oltremare: storia dell’espansione coloniale italiana, Bologna 2002, p. 57. La citazione dal giornale del
ministero degli Affari Esteri italiano è riportata in Pier Luigi Vercesi, L’Italia in prima pagina: i giornalisti che hanno fatto la
storia, Milano 2008, p. 59.
5. Louise Young, Japan’s Total Empire: Manchuria and the Culture of Wartime Imperialism, Berkeley 1998, pp. 12-13, 22-23;
Frederick Dickinson, The Japanese Empire, in Robert Gerwarth e Erez Manela (a cura di), Empires at War 1911-1923, Oxford
2014, pp. 198-200.
6. Il concetto di «impero-nazione» è stato ampiamente dibattuto; si vedano in particolare il saggio di Gary Wilder, Framing
Greater France between the wars, in «Journal of Historical Sociology», XIV (2000), pp. 198-202 e Heather Jones, The German
Empire, in Gerwarth e Manela (a cura di), Empires at War cit., pp. 56-57.
7. Birthe Kundrus, Die Kolonien – «Kinder des Gefühls und der Phantasie», in Ead. (a cura di), Phantasiereiche cit., pp. 7-18.
8. Paul Crook, Darwinism, War and History, Cambridge 1994, pp. 88-89; si veda inoltre Mike Hawkins, Social Darwinism in
European and American Thought 1860-1945, Cambridge 1997, pp. 203-15.
9. Friedrich von Bernhardi, Deutschland und der nächste Krieg, Stuttgart-Berlin 1912 [trad. ingl. Germany and the Next War,
London 1914, p. 18].
10. Benjamin Madley, From Africa to Auschwitz: how German South West Africa incubated ideas and methods adopted and
developed by the Nazis in Eastern Europe, in «European History Quarterly», XXXV (2005), pp. 432-34; Guntram Herb, Under
the Map of Germany: Nationalism and Propaganda 1918-1945, London 1997, pp. 50-51.
11. Timothy Parsons, The Second British Empire: In the Crucible of the Twentieth Century, Lanham 2014, p. 8; Troy Paddock,
Creating an oriental «Feindbild», in «Central European History», XXXIX (2006), p. 230.
12. Madley, From Africa to Auschwitz cit., p. 440.
13. Un’utile disamina della visione concettuale dell’impero è offerta in Pascal Grosse, What does German colonialism have to do
with National Socialism? A conceptual framework, in Eric Ames, Marcia Klotz e Lora Wildenthal (a cura di), Germany’s
Colonial Pasts, Lincoln (Nebr.) 2005, pp. 118-29.
14. Martin Thomas, The French Empire between the Wars: Imperialism, Politics and Society, Manchester 2005, p. 1; Wilder,
Framing Greater France cit., p. 205; Parsons, The Second British Empire cit., pp. 5, 83-84.
15. Giuseppe Finaldi, «The peasants did not think of Africa»: empire and the Italian state’s pursuit of legitimacy, 1871-1945, in
John MacKenzie (a cura di), European Empires and the People: Popular Responses to Imperialism in France, Britain, the
Netherlands, Germany and Italy, Manchester 2011, p. 214. La citazione di Mussolini è riportata in Renzo De Felice, Mussolini, il
rivoluzionario, Torino 1965, p. 104.
16. Kundrus, Moderne Imperialisten cit., pp. 32-37; Bernhard Gissibl, Imagination and beyond: cultures and geographies of
imperialism in Germany, 1848-1918, in MacKenzie (a cura di), European Empires and the People cit., pp. 175-77.
17. Kristin Kopp, Constructing racial difference in colonial Poland, in Ames, Klotz e Wildenthal (a cura di), Germany’s
Colonial Pasts cit., pp. 77-80; Bley, Der Traum vom Reich? cit., pp. 57-58; Kristin Kopp, Arguing the case for a colonial
Poland, in Volker Langbehn e Mohammad Salama (a cura di), German Colonialism: Race, the Holocaust and Postwar Germany,
New York 2011, pp. 148-51; la «peggiore barbarie» è citata in Matthew Fitzpatrick, Purging the Empire: Mass Expulsions in
Germany, 1871-1914, Oxford 2015, p. 103.
18. Kopp, Constructing racial difference cit., pp. 85-89; Gissibl, Imagination and beyond cit., pp. 162-63, 169-77.
19. Robert Nelson, The Archive for Inner Colonization, the German East and World War I, in Id. (a cura di), Germans, Poland,
and Colonial Expansion to the East, New York 2009, pp. 65-75; si veda inoltre Edward Dickinson, The German Empire: an
empire?, in «History Workshop Journal», LXVI (2008), pp. 132-35.
20. Young, Japan’s Total Empire cit., pp. 89-90.
21. Daniel Immerwahr, The Greater United States: territory and empire in U. S. history, in «Diplomatic History», XL (2016), pp.
377-81.
22. Le cifre sono tratte da Parsons, The Second British Empire cit., p. 32.
23. Finaldi, «The peasants did not think of Africa» cit., p. 214; si veda inoltre Lorenzo Veracini, Italian colonialism through a
settler colonial studies lens, in «Journal of Colonialism and Colonial History», XIX (2018), p. 2, riguardo all’idea che gli italiani
vedevano una contrapposizione tra il loro imperialismo «proletario» e quello «aristocratico» e «borghese».
24. Labanca, Oltremare cit., pp. 104-17.
25. Richard Bosworth e Giuseppe Finaldi, The Italian Empire, in Gerwarth e Manela (a cura di), Empires at War cit., p. 35;
Finaldi, «The peasants did not think of Africa» cit., pp. 210-11; Labanca, Oltremare cit., pp. 123-24.
26. Le migliori analisi recenti della crisi del 1914 sono offerte in Christopher Clark, The Sleepwalkers: How Europe Went to
War in 1914, London 2012 [trad. it. I sonnambuli: come l’Europa arrivò alla Grande Guerra, Roma-Bari 2013]; Margaret
MacMillan, The War that Ended Peace: How Europe abandoned Peace for the First World War, London 2013 [trad. it. 1914:
come la luce si spense sul mondo di ieri, Milano 2013].
27. Si veda l’analisi in Robert Gerwarth e Erez Manela, The Great War as a global war, in «Diplomatic History», XXXVIII
(2014), pp. 786-800.
28. William Mulligan, The Great War for Peace, New Haven 2014, pp. 91-92, 104-6; Bosworth e Finaldi, The Italian Empire
cit., pp. 40-43; Labanca, Oltremare cit., pp. 117-27.
29. Per i particolari rimando a Jones, The German Empire cit., pp. 63-64.
30. Dickinson, The Japanese Empire cit., pp. 199-201; Nicholas Tarling, A Sudden Rampage: The Japanese Occupation of
Southeast Asia, 1941-1945, London 2001, pp. 24-26.
31. John Darwin, The Empire Project: The Rise and Fall of the British World System, 1830-1970, Cambridge 2009, pp. 315-18;
David Fieldhouse, Western Imperialism and the Middle East, 1914-1958, Oxford 2006, pp. 47-51.
32. Jones, The German Empire cit., p. 62; per maggiori particolari sui piani tedeschi per destabilizzare gli imperi nemici, si
vedano Jennifer Jenkins, Fritz Fischer’s «Programme for Revolution»: implications for a global history of Germany in the First
World War, in «Journal of Contemporary History», XLVIII (2013), pp. 399-403; David Olusoga, The World’s War, London
2014, pp. 204-7, 224-28.
33. Fieldhouse, Western Imperialism cit., pp. 57-60.
34. Vejas Liulevicius, War Land on the Eastern Front: Culture, National Identity and German Occupation in World War I ,
Cambridge 2000, pp. 63-72.
35. Citato in Jones, The German Empire cit., p. 59; Andrew Donson, Models for young nationalists and militarists: German
youth literature in the First World War, in «German Studies Review», XXVII (2004), p. 588.
36. Paddock, Creating an oriental «Feindbild» cit., p. 230; Vejas Liulevicius, The language of occupation: vocabularies of
German rule in Eastern Europe in the World Wars, in Nelson (a cura di), Germans, Poland, and Colonial Expansion cit., pp.
122-30.
37. Citato in Darwin, The Empire Project cit., p. 313. Sull’Africa, si veda Jones, The German Empire cit., pp. 69-70.
38. Robert Gerwarth e Erez Manela, Introduction, in Idd. (a cura di), Empires at War cit., pp. 8-9; Philip Murphy, Britain as a
global power, in Andrew Thompson (a cura di), Britain’s Experience of Empire in the Twentieth Century, Oxford 2012, pp. 39-
40.
39. Richard Fogarty, The French Empire, in Gerwarth e Manela (a cura di), Empires at War cit., pp. 109, 120-21. Berny Sèbe,
Exalting imperial grandeur: the French Empire and its metropolitan public, in MacKenzie (a cura di), European Empires and the
People cit., p. 34, riferisce un numero maggiore di arruolati, pari a 607 000 soldati.
40. Erez Manela, The Wilsonian Moment: Self-determination and the International Origins of Anticolonial Nationalism, Oxford
2007, pp. 23-24, 43-44; Trygve Throntveit, The fable of the Fourteen Points: Woodrow Wilson and national self-determination,
in «Diplomatic History», XXXV (2011), pp. 446-49, 454-55.
41. Manela, The Wilsonian Moment cit., p. 37; Marcia Klotz, The Weimar Republic: a postcolonial state in a still colonial world,
in Ames, Klotz e Wildenthal (a cura di), Germany’s Colonial Pasts cit., pp. 139-40.
42. Edward Drea, Japan’s Imperial Army: Its Rise and Fall, 1853-1945, Lawrence 2009, pp. 142-45 [trad. it. L’esercito
imperiale giapponese: ascesa e caduta, 1853-1945, Gorizia 2022]. Sulla paura del bolscevismo in Europa, si veda Robert
Gerwarth e John Horne, Bolshevism as fantasy: fear of revolution and counter-revolutionary violence, 1917-1923, in Idd. (a
cura di), War in Peace: Paramilitary Violence in Europe after the Great War, Oxford 2012, pp. 40-51.
43. Manela, The Wilsonian Moment cit., pp. 59-65, 89-90.
44. Ibid., p. 149.
45. Ibid., pp. 60-61.
46. Per maggiori particolari, si veda Susan Pedersen, The Guardians: The League of Nations and the Crisis of Empire, Oxford
2015, pp. 1-4, 29-32.
47. Ibid., pp. 2-3, 77-83.
48. Ibid., pp. 24-26.
49. Wilder, Framing Greater France cit., pp. 204-5; Thomas, The French Empire between the Wars cit., pp. 31-34.
50. Ibid., pp. 94-98, 103.
51. Henri Cartier, Comment la France «civilise» ses colonies, Paris 1932, pp. 5-6, 24.
52. Sèbe, Exalting imperial grandeur cit., pp. 36-38; Thomas, The French Empire between the Wars cit., pp. 199-202.
53. Brad Beaven, Visions of Empire: Patriotism, Popular Culture and the City, 1870-1939, Manchester 2012, pp. 150-51, 164;
Matthew Stanard, Interwar pro-Empire propaganda and European colonial culture: towards a comparative research agenda, in
«Journal of Contemporary History», XLIV (2009), p. 35.
54. William Fletcher, The Search for a New Order: Intellectuals and Fascism in Prewar Japan, Chapel Hill (N.C.) 1982, pp. 31-
32; Dickinson, The Japanese Empire, pp. 203-4; John Darwin, After Tamerlane: The Global History of Empire since 1405,
London 2007, pp. 396-98; Hosoya Chihiro, Britain and the United States in Japan’s view of the international system, 1919-1937,
in Ian Nish (a cura di), Anglo-Japanese Alienation 1919-1952: Papers of the Anglo-Japanese Conference on the History of the
Second World War, Cambridge 1982, pp. 4-6.
55. Tarling, A Sudden Rampage cit., p. 26.
56. Sarah Paine, The Wars for Asia 1911-1949, Cambridge 2012, pp. 15-16; Jonathan Clements, Prince Saionji: Japan. The
Peace Conferences of 1919-23 and their Aftermath, London 2008, pp. 131-36.
57. Fletcher, The Search for a New Order cit., pp. 29-33, 42; Tarling, A Sudden Rampage cit., pp. 25-27; Paine, The Wars for
Asia cit., pp. 21-22; Young, Japan’s Total Empire cit., pp. 35-38.
58. MacGregor Knox, Common Destiny: Dictatorship, Foreign Policy and War in Fascist Italy and Nazi Germany, Cambridge
2000, pp. 114-15 [trad. it. Destino comune: dittatura, politica estera e guerra nell’Italia fascista e nella Germania nazista,
Torino 2003].
59. Bosworth e Finaldi, The Italian Empire cit., p. 41.
60. Spencer Di Scala, Vittorio Orlando: Italy. The Peace Conferences of 1919 and their Aftermath, London 2010, pp. 140-41,
170-71.
61. Claudia Baldoli, Bissolati immaginario: le origini del fascismo cremonese, Cremona 2002, pp. 50-53; Mulligan, The Great
War for Peace cit., pp. 269, 275-77, 281.
62. Di Scala, Vittorio Orlando cit., pp. 156-57, 173.
63. Si veda John Gooch, Mussolini and his Generals: The Armed Forces and Fascist Foreign Policy, 1922-1940, Cambridge
2007, pp. 62-68 [trad. it. L’esercito italiano nella seconda guerra mondiale: Mussolini e i suoi generali, Gorizia 2016].
64. Greg Eghigian, Injury, fate, resentment, and sacrifice in German political culture, 1914-1939, in Greg Eghigian e Matthew
Berg (a cura di), Sacrifice and National Belonging in Twentieth-Century Germany, College Station (Tex.) 2002, pp. 91-94.
65. Dirk Van Laak, Über alles in der Welt: Deutscher Imperialismus im 19. und 20. Jahrhundert, München 2005, p. 107; Shelley
Baranowski, Nazi Empire: German Colonialism and Imperialism from Bismarck to Hitler, Cambridge 2011, pp. 154-55.
66. Wolfe Schmokel, Dream of Empire: German Colonialism, 1919-1945, New Haven 1964, pp. 18-19.
67. Christian Rogowski, «Heraus mit unseren Kolonien!» Der Kolonialrevisionismus der Weimarer Republik und die
«Hamburger Kolonialwoche» von 1926, in Kundrus (a cura di), Phantasiereiche cit., pp. 247-49.
68. Uta Poiger, Imperialism and empire in twentieth-century Germany, in «History and Memory», XVII (2005), pp. 122-23; Van
Laak, Über alles in der Welt cit., pp. 109-110; Schmokel, Dream of Empire cit., pp. 2-3, 44-45; Andrew Crozier, Imperial decline
and the colonial question in Anglo-German relations 1919-1939, in «European Studies Review», XI (1981), pp. 209-10, 214-17.
69. David Murphy, The Heroic Earth: Geopolitical Thought in Weimar Germany, 1918-1933, Kent (Ohio) 1997, pp. 16-17;
Woodruff Smith, The Ideological Origins of Nazi Imperialism, New York 1986, pp. 218-20.
70. Murphy, The Heroic Earth cit., pp. 26-30; Smith, The Ideological Origins cit., pp. 218-24; Van Laak, Über alles in der Welt
cit., pp. 116-19.
71. Herb, Under the Map of Germany cit., p. 77.
72. Ibid, pp. 52-57, 108-10.
73. Vejas Liulevicius, The German Myth of the East: 1800 to the Present, Oxford 2009, p. 156.
74. Pedersen, The Guardians cit., pp. 199-202; sulla decolonizzazione, si veda Van Laak, Über alles in der Welt cit., p. 120. Il
termine «decolonizzazione» fu coniato dall’economista Moritz Julius Bonn.
75. Fletcher, The Search for a New Order cit., pp. 40-41; Hosoya Chihiro, Britain and the United States cit., pp. 5-6, 7-10.
76. Knox, Destino comune cit.
77. Labanca, Oltremare cit., pp. 138-39, 149-52, 173-75; A. de Grand, Mussolini’s follies: Fascism and its imperial and racist
phase, in «Contemporary European History», XIII (2004), pp. 128-32; Gooch, L’esercito italiano nella seconda guerra mondiale
cit.
78. Tale tesi è condivisa dal migliore studio condotto sulla crisi in tempi recenti: si veda Robert Boyce, The Great Interwar Crisis
and the Collapse of Globalization, Basingstoke 2012, in particolare pp. 425-28.
79. Van Laak, Über alles in der Welt cit., pp. 127-28.
80. Boyce, The Great Interwar Crisis cit., p. 299.
81. Jim Tomlinson, The Empire/Commonwealth in British economic thinking and policy, in Andrew Thompson (a cura di),
Britain’s Experience of Empire in the Twentieth Century, Oxford 2012, pp. 219-20; Thomas, The French Empire between the
Wars cit., pp. 93-98.
82. Takafusa Nakamura e Kōnosuke Odaka (a cura di), Economic History of Japan 1914-1955, Oxford 1999, pp. 33-37.
83. Paine, The Wars for Asia cit., pp. 22-33; Fletcher, Search for a New Order cit., pp. 40-42.
84. Sulla situazione tedesca, si veda Horst Kahrs, Von der «Grossraumwirtschaft» zur «Neuen Ordnung», in Id. (a cura di),
Modelle für ein deutschen Europa: Ökonomie und Herrschaft im Grosswirtschaftsraum, Berlin 1992, pp. 9-13.
85. Joyce Lebra, Japan’s Greater East Asia Co-Prosperity Sphere in World War II: Selected Readings and Documents, Oxford
1975, pp. 74-75.
86. Otčëtnyj doklad XVII s’ezdu partii o rabote CK VKP(b) (26 janvarja 1934 goda), in Stalin I.V., Voprosy leninizma, OGIZ,
Moskva 1939 [trad. ingl. Report on the work of the Central Committee to the Seventeenth Congress of the CPSU, 26 January
1934, in Joseph Stalin, Problems of Leninism, Moscow 1947, p. 460; trad. it. Rapporto al XVII Congresso del Partito, in
https://paginerosse.wordpress.com/2014/08/25/g-stalin-rapporto-al-xvii-congresso-del-partito-sullattivita-del-comitato-centrale-
del-partito-comunista-bolscevico-dellu-r-s-s-26-gennaio-1934/].
I. Imperi-nazione e crisi globale, 1931-40.
1. Citato in Louise Young, Japan’s Total Empire: Manchuria and the Culture of Wartime Imperialism, Berkeley 1998, pp. 57-58.
2. Ibid., pp. 39-41; Sarah Paine, The Wars for Asia 1911-1949, Cambridge 2012, pp. 13-15; Edward Drea, Japan’s Imperial
Army: Its Rise and Fall, 1853-1945, Lawrence 2009 [trad. it. L’esercito imperiale giapponese: ascesa e caduta, 1853-1945,
Gorizia 2022].
3. A. de Grand, Mussolini’s follies: fascism and its imperial and racist phase, in «Contemporary European History», XIII (2004),
p. 137.
4. Young, Japan’s Total Empire cit., pp. 146-47.
5. Nicholas Tarling, A Sudden Rampage: The Japanese Occupation of Southeast Asia, 1941-1945, London 2001, p. 28.
6. Si veda Michael Geyer, «There is a land where everything is pure: its name is land of death»: some observations on
catastrophic nationalism, in Greg Eghigian e Matthew Berg (a cura di), Sacrifice and National Belonging in Twentieth-Century
Germany, College Station (Tex.) 2002, pp. 120-41.
7. Steven Morewood, The British Defence of Egypt 1935-1940: Conflict and Crisis in the Eastern Mediterranean, London 2005,
pp. 25-26.
8. CCAC, Christie Papers, 180/1/4, Notes of a conversation with Göring by Malcolm Christie (già attaché dell’ambasciata
britannica a Berlino): «Wir wollen ein Reich» (il corsivo è di Christie).
9. Aurel Kolnai, The War against the West, London 1938, p. 609.
10. De Grand, Mussolini’s follies cit., p. 136; Davide Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo: le politiche di occupazione
dell’Italia fascista in Europa, 1940-1943, Torino 2003.
11. Gerhard Weinberg (a cura di), Hitler’s Second Book, New York 2003, p. 174.
12. Young, Japan’s Total Empire cit., pp. 101-6, 116-32.
13. Rainer Zitelmann, Hitler: The Politics of Seduction, London 1999, pp. 206-7; sulle tendenze antioccidentali, si veda Heinrich
Winkler, The Age of Catastrophe: A History of the West, 1914-1945, New Haven 2015, pp. 909-12.
14. Patrick Bernhard, Borrowing from Mussolini: Nazi Germany’s colonial aspirations in the shadow of Italian expansionism, in
«Journal of Imperial and Commonwealth History», XLI (2013), pp. 617-18; Ray Moseley, Mussolini’s Shadow: The Double Life
of Count Galeazzo Ciano, New Haven 1999, p. 52 [trad. it. Ciano, l’ombra di Mussolini, Milano 2000, ePub, p. 73].
15. Nicola Labanca, Oltremare: Storia dell’espansione coloniale Italiana, Bologna 2002, pp. 328-29; De Grand, Mussolini’s
follies cit., pp. 133-34. Nel 1935, l’impero dell’Italia forniva soltanto il 4,8 per cento delle importazioni italiane. Sull’Albania, si
veda Bernd Fischer, Albania at War, 1939-1945, London 1999, pp. 5-6 [trad. it. L’Anschluss italiano: la guerra in Albania
(1939-1945), Nardò 2003].
16. Ramon Myers, Creating a modern enclave economy: the economic integration of Japan, Manchuria and North China, 1932-
1945, in Peter Duus, Ramon Myers e Mark Peattie (a cura di), The Japanese Wartime Empire, 1931-1945, Princeton 1996, p.
148; Paine, The Wars for Asia cit., pp. 13-15, 23; Tarling, A Sudden Rampage cit., pp. 27-28.
17. Karsten Linne, Deutschland jenseits des Äquators? Die NS-Kolonialplanungen für Afrika, Berlin 2008, p. 39.
18. CCAC, Christie Papers, 180/1/5, Notes from a conversation with Göring, 3 febbraio 1937, p. 51.
19. Weinberg (a cura di), Hitler’s Second Book cit., pp. 16-18, 162. Sui cambiamenti avvenuti nel pensiero economico tedesco, si
veda Horst Kahrs, Von der «Grossraumwirtschaft» zur «Neuen Ordnung», in Id. (a cura di), Modelle für ein deutschen Europa:
Ökonomie und Herrschaft im Grosswirtschaftsraum, Berlin 1992, pp. 9-10, 12-14; E. Teichert, Autarkie und
Grossraumwirtschaft in Deutschland, 1930-1939, München 1984, pp. 261-68. Sul pensiero economico di Hitler, si veda Rainer
Zitelmann, Hitler: Selbstverständnis eines Revolutionärs, Hamburg 1989, pp. 195-215.
20. Si veda a tale proposito Patricia Clavin, The Failure of Economic Diplomacy: Britain, Germany, France and the United
States, 1931-1936, London 1996, capp. VI-VII .
21. Otto Tolischus, Tokyo Record, London 1943, p. 32.
22. George Steer, Caesar in Abyssinia, London 1936, p. 401.
23. Malcolm Muggeridge (a cura di), Ciano’s Diplomatic Papers, London 1948, pp. 301-2.
24. Drea, L’esercito imperiale giapponese cit.
25. Wilhelm Treue, Hitlers Denkschrift zum Vierjahresplan, 1936, in «Vierteljahrshefte für Zeitgeschichte», III (1955), pp. 204-
6.
26. Kathleen Burke, The lineaments of foreign policy: the United States and a «New World Order», 1919-1939, in «Journal of
American Studies», XXVI (1992), pp. 377-91.
27. G. Bruce Strang, Imperial dreams: the Mussolini-Laval Accords of January 1935, in «The Historical Journal», XLIV (2001),
pp. 807-9.
28. Richard Overy, Germany and the Munich Crisis: a mutilated victory?, in «Diplomacy & Statecraft», X (1999), pp. 208-11.
29. Susan Pedersen, The Guardians: The League of Nations and the Crisis of Empire, Oxford 2015, pp. 289-92.
30. Paine, The Wars for Asia cit., p. 25.
31. Benito Mussolini, Politica di vita, in «Il popolo d’Italia», 11 ottobre 1935, in Id., Opera Omnia, Firenze 1959, pp. 163-64.
32. Chad Bryant, Prague in Black: Nazi Rule and Czech Nationalism, Cambridge 2007, pp. 41-44.
33. Kristin Kopp, Arguing the case for a colonial Poland, in Volker Langbehn e Mohammad Salama (a cura di), German
Colonialism: Race, the Holocaust and Postwar Germany, New York 2011, pp. 150-51; David Furber, Near as far in the colonies:
the Nazi occupation of Poland, in «International History Review», XXVI (2004), pp. 541-51.
34. James Crowley, Japanese army factionalism in the early 1930s, in «Journal of Asian Studies», XXI (1962), pp. 309-26.
35. Drea, L’esercito imperiale giapponese cit.; Tarling, A Sudden Rampage cit., pp. 40-43.
36. Paine, The Wars for Asia cit., pp. 34-40; Takafusa Nakamura, The yen bloc, 1931-1941, in Duus, Myers e Peattie (a cura di),
The Japanese Wartime Empire cit., p. 178.
37. Paine, The Wars for Asia cit., p. 15.
38. Takafusa Nakamura e Kōnosuke Odaka (a cura di), Economic History of Japan 1914-1955, Oxford 1999, pp. 49-51; Paine,
The Wars for Asia cit., pp. 24-30; Myers, Creating a modern enclave economy cit., p. 160.
39. Yoshiro Miwa, Japan’s Economic Planning and Mobilization in Wartime, 1930s-1940s, Cambridge 2015, pp. 62-64;
Nakamura e Odaka (a cura di), Economic History of Japan cit., pp. 47-51; Akira Hara, Japan: guns before rice, in Mark
Harrison (a cura di), The Economics of World War II: Six Great Powers in International Comparison, Cambridge 1998, pp. 283-
87.
40. Hans Van de Ven, China at War: Triumph and Tragedy in the Emergence of the New China 1937-1952, London 2017, pp. 58-
64.
41. Ibid., pp. 66-70; Paine, The Wars for Asia cit., pp. 128-29.
42. Rana Mitter, China’s War with Japan 1937-1945: The Struggle for Survival, London 2013, pp. 73-74 [trad. it. Lotta per la
sopravvivenza: la guerra della Cina contro il Giappone 1937-1945, Torino 2019, ePub, pp. 95-97].
43. Van de Ven, China at War cit., pp. 68-76; Odd Arne Westad, Restless Empire: China and the World since 1750, London
2012, pp. 256-57.
44. Paine, The Wars for Asia cit., pp. 128-29.
45. Hans Van de Ven, War and Nationalism in China, 1925-1945, New York 2003, pp. 194-95.
46. Paine, The Wars for Asia cit., pp. 181-82.
47. Mitter, Lotta per la sopravvivenza cit., pp. 157-68; sui massacri di Nanchino, si veda Iris Chang, The Rape of Nanking: The
Forgotten Holocaust of World War II, New York 1997, capp. III-IV .
48. Van de Ven, War and Nationalism cit., pp. 221-26.
49. Diana Lary, The Chinese People at War: Human Suffering and Social Transformation, 1937-1945, Cambridge 2010, pp. 60-
62; Mitter, Lotta per la sopravvivenza cit., pp. 187-92.
50. Paine, The Wars for Asia cit., pp. 134-35, 140-42; Mark Peattie, Edward Drea e Hans Van de Ven (a cura di), The Battle for
China: Essays on the Military History of the Sino-Japanese War of 1937-1945, Stanford 2011, pp. 34-35.
51. Dagfinn Gatu, Village China at War: The Impact of Resistance to Japan, 1937-1945, Copenhagen 2007, pp. 415-17.
52. Paine, The Wars for Asia cit., pp. 165-67.
53. Knox, Destino comune cit.
54. Morewood, The British Defence of Egypt cit., pp. 32-45; Labanca, Oltremare cit., pp. 184-88.
55. Alberto Sbacchi, Ethiopia under Mussolini: Fascism and the Colonial Experience, London 1985, pp. 13-14; Morewood, The
British Defence of Egypt cit., pp. 25-27.
56. Claudia Baldoli, The «northern dominator» and the Mare Nostrum: Fascist Italy’s «cultural war» in Malta, in «Modern
Italy», XIII (2008), pp. 7-12; Deborah Paci, Corsica fatal, Malta baluardo di romanità: irredentismo fascista nel mare nostrum
(1922-1942), Milano 2015, pp. 16-19, 159-67.
57. Matteo Dominioni, Lo sfascio dell’impero: gli italiani in Etiopia 1936-1941, Roma 2008, pp. 9-10; Sbacchi, Ethiopia under
Mussolini cit., pp. 15-18.
58. Steer, Caesar in Abyssinia cit., pp. 135-36, 139; Sbacchi, Ethiopia under Mussolini cit., pp. 16-18.
59. Angelo Del Boca, I gas di Mussolini, Roma 1996, pp. 76-77, 139-41, 148. Vi furono complessivamente 103 attacchi con
bombe all’iprite e 325 con il fosgene.
60. Sulla guerra, si vedano Labanca, Oltremare cit., pp. 189-92; Giorgio Rochat, Le guerre italiane 1935-1943, Torino 2005, pp.
48-74; Sbacchi, Ethiopia under Mussolini cit., pp. 25-28.
61. Le cifre sono tratte da ibid., p. 33.
62. Labanca, Oltremare cit., pp. 200-2; Sbacchi, Ethiopia under Mussolini cit., pp. 36-37.
63. Giulia Barrera, Mussolini’s colonial race laws and state-settler relations in Africa Orientale Italiana, in «Journal of Modern
Italian Studies», VIII (2003), pp. 429-430; Fabrizio De Donno, «La Razza Ario-Mediterranea»: Ideas of race and citizenship in
colonial and Fascist Italy, 1885-1941, in «Interventions: International Journal of Postcolonial Studies», VIII (2006), pp. 404-5.
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94. Teichova, Instruments of economic control cit., pp. 50-58.
95. Una descrizione esaustiva è offerta in Ralf Banken, Edelmetallmangel und Grossraubwirtschaft: Die Entwicklung des
deutschen Edelmetallsektors im «Dritten Reich», 1933-1945, Berlin 2009, pp. 287-91, 399-401.
96. Overy, War and Economy cit., pp. 47-51.
97. Ibid., pp. 319-21; Teichova, Instruments of economic control cit., pp. 89-92.
98. Bryant, Prague in Black cit., pp. 121-28.
99. Teichova, Instruments of economic control cit., pp. 103-4.
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101. Tale opinione è espressa con particolare vigore in Gerhard Weinberg, The Foreign Policy of Hitler’s Germany: Starting
World War II, 1937-1939, Chicago 1980 e Adam Tooze, The Wages of Destruction: The Making and Breaking of the Nazi
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113. Halik Kochanski, The Eagle Unbowed: Poland and the Poles in the Second World War, London 2012, pp. 84-85.
114. Ibid., p. 84; Maier, Rohde, Stegmann e Umbreit, Das Deutsche Reich und der Zweite Weltkrieg cit., p. 133. I dati riguardanti
l’Armata Rossa sono tratti da Alexander Hill, Voroshilov’s «lightning» war – the Soviet invasion of Poland, September 1939, in
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115. Sulla forza aerea tedesca, si veda Caius Bekker, The Luftwaffe War Diaries, London 1972, pp. 27-78, 466.
116. Jürgen Zimmerer, The birth of the Ostland out of the spirit of colonialism: a postcolonial perspective on the Nazi policy of
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197. TNA, WO 193/144, War Office memorandum «Assistance to Finland», 16 dicembre 1939 («non possiamo certo
raccomandare che dovremmo dichiarare guerra alla Russia»); Kahn, Measuring Stalin’s Strength cit., pp. 90-92.
198. Gabriel Gorodetsky (a cura di), The Maisky Diaries: Red Ambassador at the Court of St James’s, 1932-1943, New Haven
2015, p. 245, pagina del diario del 12 dicembre 1939.
199. Patrick Salmon, Great Britain, the Soviet Union, and Finland, in John Hiden e Thomas Lane (a cura di), The Baltic and the
Outbreak of the Second World War, Cambridge 1991, pp. 116-17; Thomas Munch-Petersen, Britain and the outbreak of the
Winter War, in Robert Bohn e altri (a cura di), Neutralität und totalitäre Aggression: Nordeuropa und die Grossmächteim
Zweiten Weltkrieg, Stuttgart 1991, pp. 87-89; John Kennedy, The Business of War, London 1957, pp. 47-48.
200. TNA, PREM 1/437, Reynaud to Chamberlain and Lord Halifax, 25 marzo 1940.
201. TNA, PREM 1/437, memorandum per il primo ministro: Possibilities of Allied Action against the Caucasus, marzo 1940, p.
3. Per maggiori particolari sull’operazione, si veda C. O. Richardson, French plans for Allied attacks on the Caucasus oil fields
January-April 1940, in «French Historical Studies», VIII (1973), pp. 130-53.
202. Edward Spears, Assignment to Catastrophe, London 1954, pp. 102-6; Jackson, The Fall of France cit., pp. 82-84.
203. Walter Warlimont, Inside Hitler’s Headquarters 1939-45, London 1964, pp. 66-72.
204. Fuehrer Conferences on Naval Affairs cit., pp. 63-67, 80-84.
205. Maier, Rohde, Stegmann e Umbreit, Das Deutsche Reich und der Zweite Weltkrieg cit., pp. 212-17; British Air Ministry,
Rise and Fall of the German Air Force 1919-1945 [1947], Poole 1983, pp. 60-63.
206. Maier, Rohde, Stegmann e Umbreit, Das Deutsche Reich und der Zweite Weltkrieg cit., p. 224.
207. Robert Rhodes James (a cura di), The Diaries of Sir Henry Channon, London 1993, pp. 244-50, pagine del diario del 7, 8, 9
maggio 1940.
208. Frieser, The Blitzkrieg Legend cit., pp. 36-48. I dati statistici sulla forza aerea sono soggetti ad alcune variazioni, a seconda
del grado di utilizzo in determinati giorni e in base alla classificazione delle riserve. Patrick Facon, L’Armée de l’Air dans la
tourmente: la Bataille de France 1939-1940, Paris 1997, pp. 151-69, riporta cifre piuttosto diverse: 5524 velivoli per gli Alleati e
3959 per i tedeschi; si veda inoltre Ernest May, Strange Victory: Hitler’s Conquest of France, New York 2000, p. 479, che
riferisce i dati relativi a bombardieri e caccia nei due schieramenti: 2779 aerei tedeschi contro 5133 degli Alleati.
209. Frieser, The Blitzkrieg Legend cit., p. 45; Facon, L’Armée de l’Air cit., pp. 169, 205; Jackson, The Fall of France cit., pp.
15-17.
210. Ibid., pp. 21-25. Circa i mezzi trainati da cavalli nella retroguardia tedesca, si veda Richard L. Dinardo, Mechanized
Juggernaut or Military Anachronism? Horses and the German Army of WWII, Mechanicsburg (Pa.) 2008, pp. 24-26.
211. Quétel, L’impardonnable défaite cit., p. 246.
212. Frieser, The Blitzkrieg Legend cit., p. 93.
213. Henri Wailly, La situation intérieure, in Philippe Ricalens e Jacques Poyer (a cura di), L’Armistice de juin 1940: Faute ou
nécessité?, Paris 2011, pp. 48-49.
214. Von Below, At Hitler’s Side cit., p. 57.
215. Frieser, The Blitzkrieg Legend cit., pp. 107-12.
216. Ibid., p. 161.
217. Jackson, The Fall of France cit., pp. 45-47.
218. David Dilks (a cura di), The Diaries of Sir Alexander Cadogan 1938-1945, London 1971, p. 284, pagina del diario del 16
maggio; Spears, Assignment to Catastrophe cit., p. 150.
219. Megargee, Inside Hitler’s High Command cit., p. 85.
220. Hugh Sebag-Montefiore, Dunkirk: Fight to the Last Man, London 2006, p. 3.
221. Max Schiaron, La Bataille de France, vue par le haut commandement français, in Ricalens e Poyer (a cura di), L’Armistice
de juin 1940 cit., pp. 3-5.
222. Stephen Roskill, Hankey: Man of Secrets, 1931-1963, London 1974, pp. 477-78.
223. Claude Huan, Les capacités de transport maritime, in Ricalens e Poyer (a cura di), L’Armistice de juin 1940 cit., pp. 37-38.
224. Frieser, The Blitzkrieg Legend cit., pp. 301-2.
225. Allport, Browned Off and Bloody-Minded cit., pp. 55-56.
226. Sebag-Montefiore, Dunkirk cit., pp. 250-53.
227. Paul Gaujac, L’armée de terre française en France et en Afrique du Nord, in Ricalens e Poyer (a cura di), L’Armistice de
juin 1940 cit., pp. 15-16.
228. Huan, Les capacités de transport maritime cit., pp. 38-39. Riguardo ai soldati polacchi, si veda Kochanski, The Eagle
Unbowed cit., pp. 212-16.
229. Jacques Belle, La volonté et la capacité de défendre l’Afrique du Nord, in Ricalens e Poyer (a cura di), L’Armistice de juin
1940 cit., pp. 150-57; Gaujac, L’armée de terre française cit., pp. 20-22.
230. Schiaron, La Bataille de France cit., pp. 7-8.
231. Ibid., pp. 9-11; Elisabeth du Réau, Le débat de l’armistice, in Ricalens e Poyer (a cura di), L’Armistice de juin 1940 cit., pp.
65-69.
232. Schiaron, La Bataille de France cit., pp. 11-12; Jackson, The Fall of France cit., p. 143.
233. Gilles Ragache, La bataille continue!, in Ricalens e Poyer (a cura di), L’Armistice de juin 1940 cit., pp. 142-45.
234. Rochat, Le guerre italiane cit., p. 239.
235. Gooch, L’esercito italiano nella seconda guerra mondiale cit.; Robert Mallett, Mussolini and the Origins of the Second
World War, 1933-1940, Basingstoke 2003, pp. 214-17.
236. Gooch, L’esercito italiano nella seconda guerra mondiale cit.
237. Galeazzo Ciano, Diario 1937-1943, a cura di Renzo De Felice, Milano 1998, pp. 429, 435, 442, pagine del 13 maggio, 28
maggio e 10 giugno 1940.
238. Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo cit.; Ciano, Diario cit., p. 444, pagina del 18-19 giugno 1940.
239. Ibid., p. 443.
240. Ragache, La bataille continue! cit., pp. 143-44.
241. Rochat, Le guerre italiane cit., pp. 248-50.
242. Karine Varley, Entangled enemies: Vichy, Italy and collaboration, in Ludivine Broch e Alison Carrol (a cura di), France in
an Era of Global War, 1914-1945: Occupation Politics, Empire and Entanglements, Basingstoke 2014, pp. 153-55; Rodogno, Il
nuovo ordine mediterraneo cit. Sui termini imposti dalla Germania, si veda Thomas Laub, After the Fall: German Policy in
Occupied France 1940-1944, Oxford 2010, pp. 36-39.
243. Roberts, Stalin’s wartime vision of the peace cit., pp. 236-37.
244. Ciano, Diario cit., p. 443, pagina del 18-19 giugno 1940.
245. Randolph Churchill (a cura di), Into Battle: Speeches by the Right Hon. Winston S. Churchill, London 1941, pp. 255-56,
259.
246. John Colville, The Fringes of Power: Downing Street Diaries 1939-1955, London 1985, p. 267, pagina del 20 agosto 1940.
247. Gorodetsky (a cura di), Maisky Diaries cit., p. 304, pagina del 20 agosto 1940.
248. Ibid., p. 287, pagina del 17 giugno 1940.
249. Hastings Ismay, The Memoirs of Lord Ismay, London 1960, p. 153.
250. James (a cura di), The Diaries of Sir Henry Channon cit., pp. 261-62.
251. Srinath Raghavan, India’s War: The Making of Modern South Asia, 1939-1945, London 2016, pp. 47-48.
252. Riguardo alle posizioni sovietiche, si veda Sergei Kudryashov, The Soviet perspective, in Paul Addison e Jeremy Crang (a
cura di), The Burning Blue: A New History of the Battle of Britain, London 2000, pp. 71-72. Sulla Francia, si veda Robert Tombs
e Isabelle Tombs, That Sweet Enemy: Britain and France, London 2007, pp. 10, 571-73.
253. Colville, The Fringes of Power cit., p. 176, pagina del 6 giugno 1940.
254. Robert Self, Neville Chamberlain: A Biography, Aldershot 2006, p. 434; per la citazione di Churchill si veda Spears,
Assignment to Catastrophe cit., p. 70, che riferiva il commento di Churchill: «Eravamo piú che in grado di battere i tedeschi da
soli».
255. Paul Addison e Jeremy Crang (a cura di), Listening to Britain: Home Intelligence Reports on Britain’s Finest Hour May-
September 1940, London 2011, pp. 80, 123, 126, pagine del 5, 17 e 18 giugno 1940; si veda inoltre Richard Toye, The Roar of
the Lion: The Untold Story of Churchill’s World War II Speeches, Oxford 2013, pp. 51-59.
256. John Charmley, Lord Lloyd and the Decline of the British Empire, London 1987, p. 251.
257. John Ferris e Evan Mawdsley, The war in the West, in Idd. (a cura di), The Cambridge History of the Second World War:
Fighting the War, Cambridge 2015, p. 350.
258. Richard Toye, Lloyd George and Churchill: Rivals for Greatness, London 2007, pp. 342, 363-69, 380; Antony Lentin, Lloyd
George and the Lost Peace: From Versailles to Hitler, 1919-1940, Basingstoke 2001, pp. 121-27.
259. Self, Neville Chamberlain cit., p. 433.
260. Richard Hallion, The American perspective, in Addison e Crang (a cura di), The Burning Blue cit., pp. 83-84.
261. Richard Overy, The Bombing War: Europe 1939-1945, London 2013, pp. 252-54.
262. Toye, The Roar of the Lion cit., p. 54.
263. Id., Churchill’s Empire: The World that Made Him and the World He Made, New York 2010, pp. 203-4.
264. Jackson, The British Empire and the Second World War cit., pp. 21-23.
265. Parsons, The Second British Empire cit., pp. 108-9; K. Fedorowich, Sir Gerald Campbell and the British High Commission
in wartime Ottawa, 1938-40, in «War in History», XIX (2012), pp. 357-85; Toye, Churchill’s Empire cit., p. 209; Jonathan
Vance, Maple Leaf Empire: Canada, Britain, and Two World Wars, Oxford 2012, pp. 149-50, 179; Darwin, The Empire Project
cit., pp. 495-97.
266. Clair Wills, The Neutral Island: A History of Ireland during the Second World War, London 2007, pp. 41-48; Toye,
Churchill’s Empire cit., pp. 196-97, 207.
267. Raghavan, India’s War cit., pp. 13-16, 38-39, 52-60, 69-70.
268. Dilks (a cura di), The Diaries of Sir Alexander Cadogan cit., p. 311, pagina del 5 luglio 1940; Tarling, A Sudden Rampage
cit., pp. 54-55.
269. Morewood, The British Defence of Egypt cit., pp. 174-77, 193-98.
270. Ageron, Vichy, les Français et l’Empire cit., p. 122.
271. Schmokel, Dream of Empire cit., pp. 144-54.
272. Gerhard Schreiber, Bernd Stegemann e Detlef Vogel, Germany and the Second World War: The Mediterranean, South-east
Europe and North Africa, 1939-1941, Oxford 1995, pp. 282-88; Schmokel, Dream of Empire cit., pp. 140-44.
273. Donald Nuechterlein, Iceland: Reluctant Ally, Ithaca 1961, pp. 23-36.
274. William Roger Louis, Imperialism at Bay: The United States and the Decolonization of the British Empire, 1941-1945,
Oxford 1977, pp. 158, 175-77; Neil Smith, American Empire: Roosevelt’s Geographer and the Prelude to Globalization,
Berkeley 2003, pp. 353-55.
275. Guy Vanthemsche, Belgium and the Congo 1885-1980, Cambridge 2012, pp. 122-26, 130.
276. Jonathan Helmreich, United States Relations with Belgium and the Congo, 1940-1960, Newark 1998, pp. 25-40.
277. Jennifer Foray, Visions of Empire in the Nazi-Occupied Netherlands, Cambridge 2012, pp. 3-5.
278. Ibid., pp. 50-51, 54, 109-15.
279. Ibid., pp. 50-53; Tarling, A Sudden Rampage cit., pp. 66-68.
280. Marcel Boldorf, Grenzen des nationalsozialistischen Zugriffs auf Frankreichs Kolonialimporte (1940-1942), in
«Vierteljahresschrift für Wirtschafts-Sozialgeschichte», XCVII (2010), pp. 148-50.
281. Ageron, Vichy, les Français et l’Empire cit., pp. 123-24, 128-29; Frederick Quinn, The French Overseas Empire, Westport
2000, pp. 219-20.
282. Tarling, A Sudden Rampage cit., pp. 53-54; Martin Thomas, The French Empire at War 1940-45, Manchester 1998, pp. 45-
46.
283. Charmley, Lord Lloyd cit., pp. 246-47.
284. Tombs e Tombs, That Sweet Enemy cit., pp. 561, 572-73.
285. Ibid., pp. 562-63; Christopher Bell, Churchill and Sea Power, Oxford 2013, pp. 197-199; Raymond Dannreuther,
Somerville’s Force H: The Royal Navy’s Gibraltar-based Fleet, June 1940 to March 1942, London 2005, pp. 28-34.
286. Martin Thomas, Resource war, civil war, rights war: factoring empire into French North Africa’s Second World War, in
«War in History», XVIII (2011), pp. 225-48.
287. Varley, Entangled enemies cit., pp. 155-56.
288. Quinn, The French Overseas Empire cit., pp. 221-22; Thomas, The French Empire at War cit., pp. 52-58.
289. Robert Frank, Vichy et les Britanniques 1940-41: double jeu ou double langage?, in Azéma e Bédarida (a cura di), Le
Régime de Vichy et les Français cit., pp. 144-148. Riguardo a Dakar, si vedano Thomas, The French Empire at War cit., pp. 75-
76 e Bell, Churchill and Sea Power cit., p. 209.
290. Foray, Visions of Empire cit., pp. 93, 103.
291. Varley, Entangled enemies cit., pp. 155-58.
292. Ciano, Diario cit., pp. 449, 452, pagine del 2 e 16 luglio 1940.
293. Max Domarus, Hitler: Reden und Proklamationen 1932-1945, München 1965, p. 1538.
294. Elke Fröhlich (a cura di), Die Tagebücher von Joseph Goebbels: Sämtliche Fragmente, München 1987, pp. IV , 221, 227,
pagine del 28 giugno e 4 luglio 1940. Circa i «contatti di mediazione», si veda Karina Urbach, Go-Betweens for Hitler, Oxford
2015.
295. Domarus, Hitler: Reden und Proklamationen cit., pp. II , 1537-38, appunti del generale Halder sulla riunione al Berghof, 13
luglio 1940; Von Below, At Hitler’s Side cit., pp. 67-68.
296. Gerwin Strobl, The Germanic Isle: Nazi Perceptions of Britain, Cambridge 2000, pp. 84, 92-94.
297. Domarus, Hitler: Reden und Proklamationen cit., pp. II , 1557-58.
298. Fröhlich (a cura di), Die Tagebücher: Sämtliche Fragmente cit., pp. IV , 246-47, pagina del 20 luglio 1940.
299. Colville, The Fringes of Power cit., p. 234, pagina del 24 luglio 1940.
300. Fröhlich (a cura di), Die Tagebücher: Sämtliche Fragmente cit., pp. IV , 250, pagina del 24 luglio 1940.
301. Walter Hubatsch (a cura di), Hitlers Weisungen für die Kriegführung, Frankfurt am Main 1962, pp. 71-72, direttiva n. 16.
302. Von Below, At Hitler’s Side cit., pp. 68-69, pagina del 21 luglio 1940.
303. Domarus, Hitler: Reden und Proklamationen cit., pp. II , 1561, appunti del generale Halder sulla riunione con il Führer del
21 luglio 1940.
304. Toye, Lloyd George and Churchill cit., p. 376.
305. Domarus, Hitler: Reden und Proklamationen cit., pp. II , 1561; Fröhlich (a cura di), Die Tagebücher: Sämtliche Fragmente
cit., pp. IV , 249.
306. BA-MA, I Fliegerkorps, Gedanken über die Führung des Luftkrieges gegen England, 24 luglio 1940. Sui preparativi della
Germania, si veda Horst Boog, The Luftwaffe’s assault, in Addison e Crang, The Burning Blue cit., pp. 40-41.
307. Bell, Churchill and Sea Power cit., p. 199.
308. Overy, The Bombing War cit., pp. 251-52.
309. TNA, AIR 16/212, n. 11 Group Operational Orders, Measures to Counter an Attempted German Invasion, Summer 1940, 8
luglio 1940, p. 2.
310. AHB, Battle of Britain: Despatch by Air Chief Marshal Sir Hugh Dowding, p. 569, 20 agosto 1940.
311. Hubatsch (a cura di), Hitlers Weisungen für die Kriegführung cit., pp. 75-76; AHB, German Translations, vol. I, VII/21,
OKW directive «Operation Sea Lion», 1° agosto 1940.
312. TNA, PREM 3/29 (3), Fighter Command Order of Battle, 6 settembre 1940.
313. TNA, AIR 22/72, rapporto sulla propaganda tedesca, agosto 1940.
314. Percy Schramm (a cura di), Kriegstagebuch/OKW: Band 1, Teilband 1, Augsburg 2007, pp. 59-60, pagina del 3 settembre
1940.
315. TNA, AIR 16/432, Home Security intelligence summary, Operations during the Night of 5/6 September.
316. Ibid., rapporti del 24-25, 25-26 e 28-29 agosto 1940. La prima notte furono colpiti tre quartieri di Londra, cinque la seconda
e undici la terza.
317. Overy, The Bombing War cit., pp. 83-84; Fröhlich (a cura di), Die Tagebücher: Sämtliche Fragmente cit., pp. IV , 309.
318. Allport, Browned Off and Bloody-Minded cit., p. 68.
319. David French, Raising Churchill’s Army: The British Army and the War against Germany 1919-1945, Oxford 2000, pp.
185, 189-90; Alex Danchev e Daniel Todman (a cura di), War Diaries: Field Marshal Lord Alanbrooke, 1939-1945, London
2001, p. 108, pagina del 15 settembre 1940.
320. TNA, AIR 8/372, minuta dei collaboratori del comandante in capo dell’aviazione, 22 maggio 1940; rapporto di Cripps al
gabinetto di guerra, 26 giugno 1940; minuta del Foreign Office per Churchill, 3 luglio 1940.
321. TNA, INF 1/264, Home Intelligence, Summary of daily reports, 4 settembre 1940.
322. Virginia Cowles, Looking for Trouble, London 1941, pp. 448-49, 452.
323. Warlimont, Inside Hitler’s Headquarters cit., p. 114.
324. Ibid., pp. 115-17; Von Below, At Hitler’s Side cit., p. 72.
II. Fantasie e realtà imperiali, 1940-43.
1. F. C. Jones, Japan’s New Order in East Asia, Oxford 1954, p. 469. La traduzione è stata fatta sulla base del testo tedesco.
L’originale era in inglese e recitava: «Ciascuna [nazione] ha il suo proprio posto», anziché «il posto che a ciascuna spetta». Il
termine Raum (spazio) venne introdotto nella versione in tedesco affinché fosse piú esplicita la natura territoriale del Nuovo
ordine.
2. Galeazzo Ciano, Diario 1937-1943, a cura di Renzo De Felice, Milano 1998, pp. 466-67; William Shirer, Berlin Diary: The
Journal of a Foreign Correspondent 1934-1941, London 1941, pp. 417-20, pagina del 27 settembre 1940.
3. Per la versione inglese, si veda Akten der deutschen auswärtigen Politik, Göttingen, 1964, pp. 153-54; Von Mackensen to the
German Foreign Office, 24 Sept. 1940, pp. 140-41; Von Ribbentrop to von Mackensen, 24 Sept. 1944; Otto Tolischus, Tokyo
Record, London 1943, p. 30, discorso del 27 gennaio 1941.
4. Horst Kahrs, Von der «Grossraumwirtschaft» zur «Neuen Ordnung», in Id. (a cura di), Modelle für ein deutschen Europa:
Ökonomie und Herrschaft im Grosswirtschaftsraum, Berlin 1992, pp. 17-22; Gustavo Corni, Il sogno del «grande spazio»: le
politiche d’occupazione nell’europa nazista, Roma 2005, pp. 61-68; Paolo Fonzi, La moneta nel grande spazio: il progetto
nazionalsocialista di integrazione monetaria europea 1939-1945, Milano 2011, pp. 116-17, 121, 167-69.
5. Geoffrey Megargee, Inside Hitler’s High Command, Lawrence 2000, pp. 90-91 [trad. it. Il comando supremo di Hitler,
Gorizia 2005]; Nicolaus von Below, At Hitler’s Side: The Memoirs of Hitler’s Luftwaffe Adjutant 1937-1945, London 2001, pp.
72-73.
6. La migliore trattazione di questi negoziati è offerta in Norman Goda, Tomorrow the World: Hitler, Northwest Africa, and the
Path toward America, College Station (Tex.) 1998; si veda inoltre H. James Burgwyn, Mussolini Warlord: Failed Dreams of
Empire 1940-1943, New York 2012, pp. 22-29.
7. Gabriel Gorodetsky, Grand Delusion: Stalin and the German Invasion of Russia, New Haven 1999, pp. 17-18.
8. Joachim von Ribbentrop, Zwischen London und Moskau: Erinnerungen und letzte Aufzeichnungen aus dem nachlass
Herausgeben von Annelise von Ribbentrop, Leoni am Starnberger 1954 [trad. ingl. The Ribbentrop Memoirs, London 1954, pp.
149-152; trad. it. Fra Londra e Mosca: ricordi e ultime annotazioni tratti dal lascito e pubblicati da Annelise Von Ribbentrop,
Milano-Roma 1954].
9. Von Below, At Hitler’s Side cit., pp. 74-75.
10. Sönke Neitzel, Der Einsatz der deutschen Luftwaffe über dem Atlantik und der Nordsee 1939-1945, Bonn 1995, pp. 55-56, 68.
11. Christopher Bell, Churchill and Sea Power, Oxford 2013, p. 215.
12. W. J. R. Gardner, Decoding History: The Battle of the Atlantic and Ultra, Basingstoke 1999, p. 177; Marc Milner, The Battle
of the Atlantic, Stroud 2005, pp. 40, 46.
13. Ibid., pp. 40-41; Bell, Churchill and Sea Power cit., pp. 216, 224.
14. Milner, The Battle of the Atlantic cit., pp. 43-44.
15. Le cifre sono ricavate da Arnold Hague, The Allied Convoy System 1939-1945: Its Organization, Defence and Operations,
London 2000, pp. 23-25, 107-8.
16. Ralph Erskine, Naval Enigma: a missing link, in «International Journal of Intelligence and Counter-Intelligence», III (1989),
pp. 497-99.
17. Richard Overy, The Bombing War: Europe 1939-1945, London 2013, pp. 84-85; Percy Schramm (a cura di),
Kriegstagebuch/OKW, Augsburg 2007, p. 76, pagina del 14 settembre 1940.
18. BA-MA, RL2 IV/27, Grossangriffe bei Nacht gegen Lebenszentren Englands, 12 agosto 1940 - 26 giugno 1941.
19. TsAMO, f. 500, o. 725168, d. 110, Luftwaffe Operations Staff report on British targets and air strength, 14 gennaio 1941;
Fuehrer Conferences on Naval Affairs 1939-1945, London 1990, p. 179.
20. Michael Postan, British War Production, London 1957, pp. 484-85; Klaus Maier, Horst Rohde, Bernd Stegmann e Hans
Umbreit, Das Deutsche Reich und der Zweite Weltkrieg: Die Errichtung der Hegemonie auf dem europäischen Kontinent,
Stuttgart 1979, pp. 402-4.
21. C. B. A. Behrens, Merchant Shipping and the Demands of War, London 1955, p. 325. Nel 1941 erano immagazzinate quasi
17 milioni di tonnellate di cibo e materiali d’importazione.
22. John Darwin, The Empire Project: The Rise and Fall of the British World System, 1830-1970, Cambridge 2009, pp. 510-11.
23. Warren Kimball, «Beggar my neighbour»: America and the British interim finance crisis 1940-41, in «Journal of Economic
History», XXIX (1969), pp. 758-72; Id. (a cura di), Churchill & Roosevelt: The Complete Correspondence, London 1984, p. 139,
Churchill memorandum, 1° marzo 1941.
24. Nigel Nicolson (a cura di), Harold Nicolson: Diaries and Letters 1939-45, London 1967, pp. 144-45, lettera a W. B. Jarvis.
25. Orio Vergani, Ciano: una lunga confessione, Milano 1974, p. 97.
26. Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo cit., pagina del diario del generale Bongiovanni.
27. Mario Cervi, Storia della Guerra di Grecia, ottobre 1940 - aprile 1941, Milano 1986, p. 51.
28. Vergani, Ciano cit., p. 88.
29. Marco Bragadin, The Italian Navy in World War II, Annapolis 1957, pp. 28-29 [ed. it. La Marina italiana nella Seconda
Guerra Mondiale, 1940-1943, Roma s.d.]; Simon Ball, The Bitter Sea, London 2009, pp. 52-53.
30. Lucio Ceva, Italia e Grecia 1940-1941: una guerra a parte, in Bruna Micheletti e Paolo Poggio (a cura di), L’Italia in guerra
1940-43, Brescia 1991, p. 190; Burgwyn, Mussolini Warlord cit., pp. 38-39.
31. Ceva, Italia e Grecia cit., pp. 191-92.
32. Cervi, Storia della Guerra di Grecia cit., pp. 40, 51-52; Ball, The Bitter Sea cit., pp. 50-52; Giorgio Rochat, Le guerre
italiane 1935-1943, Torino 2005, p. 261.
33. Ceva, Italia e Grecia cit., p. 192; Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo cit.
34. Mario Luciolli, Mussolini e l’Europa: la politica estera fascista [1945], Firenze 2009, p. 220.
35. Ceva, Italia e Grecia cit., pp. 193-201; Rochat, Le guerre italiane cit., pp. 262-63, 274.
36. Bragadin, The Italian Navy cit.; Gerhard Schreiber, Bernd Stegemann e Detlef Vogel, Germany and the Second World War:
The Mediterranean, South-east Europe and North Africa, 1939-1941, Oxford 1995, pp. 426-29.
37. Leland Stowe, No Other Road to Freedom, London 1942, pp. 182-83.
38. Ceva, Italia e Grecia cit., pp. 201-2; Bragadin, The Italian Navy cit.
39. Rochat, Le guerre italiane cit., pp. 279-80. Ceva, Italia e Grecia cit., riferisce un numero totale di caduti piú alto, pari a 40
000 morti. Migliaia di soldati morirono di congelamento e malattia ormai lontani dal fronte, il che potrebbe spiegare le ampie
discrepanze nel numero dei caduti.
40. Jack Greene e Alessandro Massignani, The Naval War in the Mediterranean 1940-1943, London 1998, pp. 103-7; Bragadin,
The Italian Navy cit.
41. Ibid.
42. Sul fallimento della presa di Tripoli, si veda Klaus Schmider, The Mediterranean in 1940-1941: crocevia od opportunità
perdute?, in «War & Society», XV (1997), pp. 27-28.
43. Schreiber, Stegemann e Vogel, Germany and the Second World War cit., pp. 92-95. Sulle operazioni condotte, si veda
Rochat, Le guerre italiane cit., pp. 268-77.
44. Richard Carrier, Some reflections on the fighting power of the Italian Army in North Africa, 1940-1943, in «War in History»,
XXII (2015), pp. 508-14.
45. Schreiber, Stegemann e Vogel, Germany and the Second World War cit., pp. 454-66.
46. Walter Warlimont, Inside Hitler’s Headquarters 1939-45, London 1964, p. 128.
47. John Kennedy, The Business of War: The War Narratives of Major-General Sir John Kennedy, London 1957, pp. 72-75.
48. Vergani, Ciano cit., p. 100.
49. Kennedy, The Business of War cit., pp. 101-3.
50. Nicolson (a cura di), Harold Nicolson cit., p. 161, pagina del 4 aprile 1941; Daniel Todman, Britain’s War: Into Battle 1937-
1941, London 2016, p. 565.
51. Ashley Jackson, Persian Gulf Command: A History of the Second World War in Iran and Iraq, New Haven 2018, pp. 56-57.
52. Jeffrey Herf, Nazi Propaganda for the Arab World, New Haven 2009, pp. 60-61.
53. Jackson, Persian Gulf Command cit., p. 88.
54. Ibid., p. 99.
55. Ibid., pp. 94-104; Herf, Nazi Propaganda cit., pp. 57-58, 61.
56. Walther Hubatsch (a cura di), Hitlers Weisungen für die Kriegführung 1939-1945, München 1965, pp. 139-41, Weisung n.
30: Mittlerer Orient; pp. 151-55, Weisung n. 32: Vorbereitungen für die Zeit nach Barbarossa.
57. Herf, Nazi Propaganda cit., pp. 36-39.
58. David Motadel, Islam and Nazi Germany’s War, Cambridge 2014, pp. 84-89.
59. Ibid., pp. 107-9.
60. Ibid., pp. 111-12, 130. Sul trattamento riservato dagli italiani alle popolazioni libiche, si veda Patrick Bernhard, Behind the
battle lines: Italian atrocities and the persecution of Arabs, Berbers, and Jews in North Africa during World War II, in
«Holocaust and Genocide Studies», XXVI (2012), pp. 425-46.
61. Nicholas Tamkin, Britain, the Middle East, and the «Northern Front» 1941-1942, in «War in History», XV (2008), p. 316.
62. David Fieldhouse, Western Imperialism and the Middle East, 1914-1958, Oxford 2006, pp. 325-26.
63. Stefanie Wichhart, Selling democracy during the second British occupation of Iraq, 1941-5, in «Journal of Contemporary
History», XLVIII (2013), p. 515.
64. Ibid., p. 523.
65. Gerry Kearns, Geopolitics and Empire: The Legacy of Halford Mackinder, Oxford 2009, p. 155.
66. W. H. Parker, Mackinder: Geography as an Aid to Statecraft, Oxford 1982, pp. 150-158; Geoffrey Sloan, Sir Halford J.
Mackinder: the heartland theory then and now, in Colin Gray e Geoffrey Sloan (a cura di), Geopolitics, Geography and Strategy,
London 1999, pp. 154-55.
67. Geoffrey Sloan, Geopolitics in United States Strategic Policy 1890-1987, London 1988, pp. 31-36; Kearns, Geopolitics and
Empire cit., pp. 15-17.
68. Benjamin Madley, From Africa to Auschwitz: how German South West Africa incubated ideas and methods adopted and
developed by the Nazis in Eastern Europe, in «European History Quarterly», XXXV (2005), pp. 432-34.
69. Andrew Gyorgy, Geopolitics: The New German Science, Berkeley 1944, pp. 207-208, 221.
70. Kearns, Geopolitics and Empire cit., p. 20; L. H. Gann, Reflections on the German and Japanese empires of World War II, in
Peter Duus, Ramon Myers e Mark Peattie (a cura di), The Japanese Wartime Empire, 1931-1945, Princeton 1996, p. 338.
71. Volker Ullrich, Hitler: Downfall 1939-45, London 2020, p. 145; Warlimont, Inside Hitler’s Headquarters cit., p. 140.
72. Max Domarus, Hitler: Reden und Proklamationen 1932-1945, München 1965, p. 1731 [trad. it. del discorso di Hitler in
https://www.notiziegeopolitiche.net/storia-lannuncio-di-hitler-delloperazione-barbarossa/].
73. Warlimont, Inside Hitler’s Headquarters cit., p. 139.
74. Von Ribbentrop, Memoirs cit., p. 153.
75. Ullrich, Hitler: Downfall cit., p. 145.
76. Albert Kesselring, The Memoirs of Field Marshal Kesselring, London 1953, p. 87.
77. Michael Bloch, Ribbentrop, London 1992, p. 317.
78. Hugh Trevor-Roper (a cura di), Hitler’s Table Talk 1941-1944: His Private Conversations, London 1973, p. 15, pagina del
27 luglio 1941.
79. Stephen Fritz, The First Soldier: Hitler as Military Leader, New Haven 2018, pp. 132-138 [trad. it. Hitler, il primo soldato,
Gorizia 2019].
80. David Stahel, Operation Barbarossa and Germany’s Defeat in the East, Cambridge 2009, pp. 47-53.
81. Megargee, Inside Hitler’s High Command cit., pp. 114-15.
82. Fritz, The First Soldier cit., pp. 151-52.
83. Warlimont, Inside Hitler’s Headquarters cit., p. 140.
84. Jürgen Förster, Hitler turns East: German war policy in 1940 and 1941, in Bernd Wegner (a cura di), From Peace to War:
Germany, Soviet Russia and the World, 1939-1941, Oxford 1997, p. 129; Andreas Hillgruber, The German military leaders’ view
of Russia prior to the attack on the Soviet Union, ibid., pp. 171-72, 180. Sull’uso di peggiorativi con sfumature razziali, si veda
Andrei Grinev, The evaluation of the military qualities of the Red Army in 1941-1945 by German memoirs and analytic
materials, in «Journal of Slavic Military Studies», XXIX (2016), pp. 228-29.
85. Fritz, The First Soldier cit., pp. 124-25; Elke Fröhlich (a cura di), Die Tagebücher von Joseph Goebbels: Sämtliche
Fragmente, München 1987, p. 695, pagina del 16 giugno 1941.
86. Stahel, Operation Barbarossa cit., p. 74.
87. Richard L. Dinardo, Mechanized Juggernaut or Military Anachronism? Horses and the German Army of WWII, New York
1991, pp. 36-39.
88. Stahel, Operation Barbarossa cit., pp. 78, 132-33.
89. Klaus Schüler, The eastern campaign as a transportation and supply problem, in Wegner (a cura di), From Peace to War cit.,
pp. 207-10.
90. F. Seidler e D. Zeigert, Die Führerhauptquartiere: Anlagen und Planungen im Zweiten Weltkrieg, München 2000, pp. 193-
96; Warlimont, Inside Hitler’s Headquarters cit., p. 162.
91. Johannes Kaufmann, An Eagle’s Odyssey: My Decade as a Pilot in Hitler’s Luftwaffe, Barnsley 2019, p. 97.
92. Christian Ingrao, The Promise of the East: Nazi Hopes and Genocide 1939-43, Cambridge 2019, pp. 21-22, 99-101.
93. Horst Boog e altri, Das Deutsche Reich und der Zweite Weltkrieg: Der Angriff auf die Sowjetunion, Stuttgart 1983, pp. 129-
35.
94. Stephen Fritz, Ostkrieg: Hitler’s War of Extermination in the East, Lexington 2011, pp. 61-62; Alex Kay, «The purpose of the
Russian campaign is the decimation of the Slavic population by thirty million»: the radicalization of German food policy in early
1941, in Alex Kay, Jeff Rutherford e David Stahel (a cura di), Nazi Policy on the Eastern Front, 1941: Total War, Genocide, and
Radicalization, New York 2012, pp. 107-8.
95. Stahel, Operation Barbarossa cit., pp. 114-16.
96. Oula Silvennoinen, Janus of the North? Finland 1940-44: Finland’s road into alliance with Hitler, in John Gilmour e Jill
Stephenson (a cura di), Hitler’s Scandinavian Legacy, London 2013, pp. 135-36.
97. Joumi Tilli, «Deus Vult!»: the idea of crusading in Finnish clerical rhetoric 1941-1944, in «War in History», XXIV (2017),
pp. 364-65, 372-76.
98. Silvennoinen, Janus of the North? cit., pp. 139-40.
99. Dennis Deletant, Romania, in David Stahel (a cura di), Joining Hitler’s Crusade: European Nations and the Invasion of the
Soviet Union, 1941, Cambridge 2018, pp. 66-69.
100. Ibid., pp. 9, 69-70.
101. Jan Rychlík, Slovakia, in Stahel (a cura di), Joining Hitler’s Crusade cit., pp. 123-124; Ignác Ramsics, Hungary, ibid., pp.
88-89, 92-95, 100-1.
102. Jürgen Förster, Freiwillige für den «Kreuzzug Europas» gegen den Bolschewismus, in Boog e altri, Das Deutsche Reich
und der Zweite Weltkrieg cit., pp. 908-9.
103. Thomas Schlemmer, Invasori, non Vittime: la campagna italiana di Russia 1941-1943, Roma 2019, pp. 9-12.
104. Von Below, At Hitler’s Side cit., p. 111.
105. Alessandro Massignani, Die italienischen Streitkräfte und der Krieg der «Achse», in Lutz Klinkhammer, Amadeo Guerrazzi
e Thomas Schlemmer (a cura di), Die «Achse» im Krieg: Politik, Ideologie und Kriegführung 1939-1945, Paderborn 2010, pp.
123-26, 135-37.
106. Eugen Dollmann, With Hitler and Mussolini: Memoirs of a Nazi Interpreter, New York 2017, pp. 192-93. Per registrare gli
eventi, Dolmann si basava sugli appunti presi durante il suo lavoro.
107. K. Arlt, Die Wehrmacht im Kalkul Stalins, in Rolf-Dieter Müller e Hans-Erich Volkmann (a cura di), Die Wehrmacht:
Mythos und Realität, München 1999, pp. 107-9.
108. David Glantz, Stumbling Colossus: The Red Army on the Eve of World War, Lawrence 1998, pp. 95-96, 103-4; R. E.
Tarleton, What really happened to the Stalin Line?, in «Journal of Slavic Military Studies», VI (1993), p. 50; C. Roberts,
Planning for war: the Red Army and the catastrophe of 1941, in «Europe-Asia Studies», XLVII (1995), p. 1319.
109. Glantz, Stumbling Colossus cit., pp. 239-43; Christopher Andrew e O. Gordievsky, KGB: The Inside Story, London 1990,
pp. 209-13; David Glantz, The Role of Intelligence in Soviet Military Strategy in World War II, Novato 1990, pp. 15-19.
110. Si tratta ormai di un vecchio dibattito; si veda Klaus Schmider, No quiet on the Eastern Front: the Suvorov debate in the
1990s, in «Journal of Slavic Military Studies», X (1997), pp. 181-94; V. Suvorov, Who was planning to attack whom in June
1941, Hitler or Stalin?, in «Military Affairs», LXIX (1989).
111. R. H. McNeal, Stalin: Man and Ruler, New York 1988, p. 238.
112. Georgii Zhukov [Žukov], Reminiscences and Reflections, Moscow 1985, pp. 217-29; Alexander Hill, The Red Army and the
Second World War, Cambridge 2017, pp. 205-7.
113. Von Below, At Hitler’s Side cit., p. 103.
114. Jerrold Schecter e Vyacheslav Luchkov (a cura di), Khrushchev Remembers: The Glasnost Tapes, New York 1990, p. 56.
115. Henrik Eberle e Matthias Uhl (a cura di), The Hitler Book: The Secret Dossier Prepared for Stalin, London 2005, p. 73; Von
Ribbentrop, Memoirs cit., p. 153.
116. William J. Spahr, Zhukov: The Rise and Fall of a Great Captain, Novato 1993, p. 43; A. G. Chor’kov, The Red Army during
the initial phase of the Great Patriotic War, in Wegner (a cura di), From Peace to War cit., pp. 417-18.
117. Victor Kamenir, The Bloody Triangle: The Defeat of Soviet Armor in the Ukraine, June 1941, Minneapolis 2008, pp. 247-
54.
118. Von Below, At Hitler’s Side cit., p. 107.
119. Evan Mawdsley, Thunder in the East: The Nazi-Soviet War 1941-1945, London 2005, p. 19.
120. Kamenir, The Bloody Triangle cit., pp. 21-25.
121. Roberts, Planning for War cit., p. 1307; Chor’kov, The Red Army cit., p. 416; R. Stolfi, Hitler’s Panzers East: World War II
Reinterpreted, Norman 1991, pp. 88-89.
122. James Lucas, War on the Eastern Front: The German Soldier in Russia 1941-1945, London 1979, pp. 31-33.
123. G. F. Krivosheev (a cura di), Soviet Casualties and Combat Losses in the Twentieth Century, London 1997, pp. 96-97, 101.
124. Trevor-Roper (a cura di), Hitler’s Table Talk cit., pp. 17, 24, pagine del 27 luglio e 8-9 agosto 1941.
125. Megargee, Inside Hitler’s High Command cit., pp. 132-33.
126. Martin Kahn, From assured defeat to «the riddle of Soviet military success»: Anglo-American government assessments of
Soviet war potential 1941-1943, in «Journal of Slavic Military Studies», XXVI (2013), pp. 465-67.
127. Johannes Hürter (a cura di), A German General on the Eastern Front: The Letters and Diaries of Gotthard Heinrici 1941-
1942, Barnsley 2015, p. 68, lettera del 6 luglio 1941.
128. Ibid., pp. 73-74, lettere dell’1 e 3 agosto; p. 78, lettera del 28 agosto 1941.
129. Hans Schröder, German soldiers’ experiences during the initial phase of the Russian campaign, in Wegner (a cura di),
From Peace to War cit., p. 313.
130. Stahel, Operation Barbarossa cit., p. 182.
131. Dinardo, Mechanized Juggernaut cit., pp. 45-49; Stahel, Operation Barbarossa cit., pp. 183-85.
132. Dinardo, Mechanized Juggernaut cit., p. 53; Stahel, Operation Barbarossa cit., p. 234.
133. Fritz, Ostkrieg cit., pp. 129-32.
134. Peter Longerich, Hitler: A Biography, Oxford 2019, p. 753.
135. Dmitri Pavlov, Leningrad 1941-1942: The Blockade, Chicago 1965, pp. 75, 79, 84, 88; N. Kislitsyn e V. Zubakov,
Leningrad Does Not Surrender, Moscow 1989, pp. 116-18. Il numero dei morti in tutta la zona sotto assedio è approssimativo,
ma è comunemente ritenuto la migliore valutazione possibile in base alle testimonianze disponibili. Richard Bidlack e Nikita
Lomagin, The Leningrad Blockade 1941-1944, New Haven 2012, pp. 270-73.
136. Megargee, Inside Hitler’s High Command cit., p. 135.
137. Domarus, Hitler: Reden und Proklamationen cit., pp. II , 1758-67.
138. Jack Radey e Charles Sharp, «Was it the mud?», in «Journal of Slavic Military Studies», XXVIII (2015), pp. 663-65.
139. Ibid., pp. 667-70.
140. Fritz, Ostkrieg cit., p. 161.
141. Klaus Reinhardt, Moscow 1941: the turning point, in John Erickson e David Dilks (a cura di), Barbarossa: The Axis and the
Allies, Edinburgh 1994, pp. 218-19; Fritz, Ostkrieg cit., pp. 189-90.
142. Ibid., pp. 187-89.
143. Spahr, Zhukov cit., pp. 74-75.
144. Kriegstagebuch des Oberkommandos der Wehrmacht, Frankfurt am Main 1961-63, pp. I , 1120; la statistica è tratta da Fritz,
Ostkrieg cit., p. 192.
145. Sulle carenze dei sovietici, si veda Hill, The Red Army cit., pp. 302-3.
146. Christian Hartmann, Operation Barbarossa: Nazi Germany’s War in the East 1941-1945, Oxford 2015, pp. 54-55.
147. Hürter (a cura di), A German General on the Eastern Front cit., p. 126, lettera del 2 gennaio 1942.
148. Carl Boyd, Hitler’s Japanese Confidant: General Ōshima Hiroshi and Magic Intelligence 1941-1945, Lawrence 1993, pp.
27-30.
149. Klaus Reinhardt, Moscow – The Turning Point: The Failure of Hitler’s Strategy in the Winter of 1941-42 , Oxford 1992, p.
58.
150. Gerhard Krebs, Japan and the German-Soviet War, in Wegner (a cura di), From Peace to War cit., pp. 548-50, 554-55; John
Chapman, The Imperial Japanese Navy and the north-south dilemma, in Erickson e Dilks (a cura di), Barbarossa cit., pp. 168-69,
177-79.
151. Warlimont, Inside Hitler’s Headquarters cit., pp. 207-9.
152. Eri Hotta, Japan 1941: Countdown to Infamy, New York 2013, pp. 6-7.
153. Hans Boberach (a cura di), Meldungen aus dem Reich: Die geheimen Lageberichte des Sicherheitsdienst der SS 1938-1945,
Herrsching 1984, pp. VIII , 3073, rapporto dell’11 dicembre 1941 e pp. IX , 3101-2, rapporto del 19 dicembre 1941; Willi Boelcke
(a cura di), The Secret Conferences of Dr. Goebbels 1939-1943, London 1967, p. 194, conferenza del 18 dicembre 1941.
154. Fuehrer Conferences on Naval Affairs cit., p. 245, Report by the C-in-C Navy to the Fuehrer, 12 dicembre 1941.
155. Eberle e Uhl (a cura di), The Hitler Book cit., p. 79.
156. Ben-Ami Shillony, Politics and Culture in Wartime Japan, Oxford 1981, pp. 134-136, 142-45; Nicholas Tarling, A Sudden
Rampage: The Japanese Occupation of Southeast Asia, 1941-1945, London 2001, pp. 127-28.
157. Boyd, Hitler’s Japanese Confidant cit., p. 44.
158. Friedrich Ruge, Der Seekrieg: The German Navy’s Story 1939-1945, Annapolis 1957, pp. 252-55.
159. Dollmann, With Hitler and Mussolini cit., p. 204. Tale posizione è descritta in Tobias Jersak, Die Interaktion von
Kriegsverlauf und Judenvernichtung: ein Blick auf Hitlers Strategie im Spätsommer 1941, in «Historisches Zeitschrift»,
CCLXVIII (1999), pp. 345-60.
160. Christian Gerlach, The Wannsee Conference, the fate of the German Jews, and Hitler’s decision in principle to exterminate
all European Jews, in «Journal of Modern History», LXX (1998), pp. 784-85. Sulla riunione del 12 dicembre si veda Martin
Moll, Steuerungsinstrument im «Ämterchaos»? Die Tagungen der Reichs und Gauleiter der NSDAP, in «Vierteljahreshefte für
Zeitgeschichte», XLIX (2001), pp. 240-43.
161. Tolischus, Tokyo Record cit., p. 30, che cita il discorso pronunciato alla Dieta il 20 gennaio 1941.
162. Sean Casey, Cautious Crusade: Franklin D. Roosevelt, American Public Opinion and the War against Nazi Germany, New
York 2001, p. 39.
163. Jonathan Marshall, To Have and Have Not: Southeast Asian Raw Materials and the Origins of the Pacific War, Berkeley
1995, pp. 36-41; Sidney Pash, Containment, rollback, and the origins of the Pacific War, 1933-1941, in G. Kurt Piehler e Sidney
Pash (a cura di), The United States and the Second World War: New Perspectives on Diplomacy, War and the Home Front, New
York 2010, pp. 43-44.
164. Pash, Containment, rollback cit., pp. 46-51; Sarah Paine, The Wars for Asia 1911-1949, Cambridge 2012, pp. 175-82;
Tarling, A Sudden Rampage cit., pp. 71-73. La citazione di Grew è riportata in Joseph Grew, Ten Years in Japan, London 1944,
p. 257.
165. Hotta, Japan 1941 cit., pp. 4-7.
166. Krebs, Japan and the German-Soviet War cit., pp. 550-51.
167. Tarling, A Sudden Rampage cit., pp. 73-74; Sarah Paine, The Japanese Empire: Grand Strategy from the Meiji Restoration
to the Pacific War, Cambridge 2017, pp. 147-48, 153.
168. Pash, Containment, rollback cit., pp. 53-55, 57-58; Marshall, To Have and Have Not cit., pp. 147-50.
169. Ibid., p. 163.
170. Hotta, Japan 1941 cit., pp. 265-68.
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20. Citino, La fine della Wehrmacht cit.
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American Public Opinion and the War against Nazi Germany, New York 2001, pp. 48-50. I sondaggi condotti tra dicembre del
1941 e marzo del 1942 indicavano mediamente un 62 per cento dell’opinione pubblica in favore di una concentrazione di forze in
Giappone e un 21 per cento in Germania.
28. David Roll, The Hopkins Touch: Harry Hopkins and the Forging of the Alliance to Defeat Hitler, Oxford 2015, pp. 183-84.
29. Ibid., pp. 197-98.
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33. Stoler, Allies and Adversaries cit., p. 88.
34. Kennedy, The American People in World War II cit., pp. 153-54; Stoler, Allies and Adversaries cit., pp. 79-85; Unger e
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35. Hastings Ismay, The Memoirs of Lord Ismay, London 1960, pp. 279-80.
36. Traggo questa descrizione dalla storia ufficiale della spedizione: Frank Hough, The Island War: The United States Marine
Corps in the Pacific, Philadelphia 1947, pp. 41, 61, 84-85.
37. John Lorelli, To Foreign Shores: U.S. Amphibious Operations in World War II, Annapolis 1995, pp. 43-44; Richard Frank,
Guadalcanal, New York 1990, pp. 33-44.
38. David Ulbrich, Preparing for Victory: Thomas Holcomb and the Making of the Modern Marine Corps, 1936-1943, Annapolis
2011, pp. 130-32.
39. Lorelli, To Foreign Shores cit., pp. 46-50; Hough, The Island War cit., pp. 45-48.
40. Meirion Harries e Susie Harries, Soldiers of the Sun: The Rise and Fall of the Imperial Japanese Army, London 1991, pp.
339-40.
41. Symonds, World War II at Sea cit., pp. 328-29.
42. Ibid., pp. 366-71; Trent Hone, «Give them hell»: the US Navy’s night combat doctrine and the campaign for Guadalcanal, in
«War in History», XIII (2006), pp. 188-95.
43. Frank, Guadalcanal cit., pp. 559-61, 588-95.
44. Harries e Harries, Soldiers of the Sun cit., pp. 341-42; Hough, The Island War cit., pp. 79-85; Frank, Guadalcanal cit., pp.
611-13; Francis Pike, Hirohito’s War: The Pacific War 1941-1945, London 2016, pp. 574-75. Frank riferisce un numero di morti
tra i giapponesi di poco inferiore, pari a 30 343 caduti.
45. Frank, Guadalcanal cit., pp. 618-19.
46. Ashley Jackson, Persian Gulf Command: A History of the Second World War in Iran and Iraq, New Haven 2018, p. 254.
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49. Gooch, Le guerre di Mussolini cit.
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51. Nigel Hamilton, Monty: Master of the Battlefield 1942-1944, London 1983, p. 9; Harper, «No model campaign» cit., p. 75.
52. Fennell, Fighting the People’s War cit., pp. 268-69.
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54. Barr, Pendulum of War cit., pp. 218-19.
55. Fennell, Fighting the People’s War cit., p. 268; Citino, La fine della Wehrmacht cit.
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57. Horst Boog e altri, Das Deutsche Reich und der Zweite Weltkrieg: Der globale Krieg, Stuttgart 1990, p. 694.
58. French, Raising Churchill’s Army cit., p. 243.
59. Peter Stanley, «The part we played in this show»: Australians and El Alamein, in Edwards (a cura di), El Alamein cit., pp. 60-
66, riguardo all’esperienza delle truppe australiane; Harper, «No model campaign» cit., pp. 73-75, 86-88, sulla divisione
neozelandese.
60. French, Raising Churchill’s Army cit., pp. 246-54; Fennell, Fighting the People’s War cit., pp. 276-78, 283-90.
61. Buchanan, A friend indeed? cit., pp. 289-91.
62. Fennell, Fighting the People’s War cit., p. 301; Ceva, Storia delle Forze Armate in Italia cit., pp. 319-20; Boog e altri, Das
Deutsche Reich und der Zweite Weltkrieg cit., p. 694, secondo cui le forze complessive della RAF nel teatro di guerra
mediorientale erano 1500.
63. Barr, Pendulum of War cit., pp. 276-77; Richard Carrier, Some reflections on the fighting power of the Italian Army in North
Africa, 1940-1943, in «War in History», XXII (2015), pp. 508-9, 516; Domenico Petracarro, The Italian Army in Africa 1940-
1943: an attempt at historical perspective, in «War & Society», IX (1991), pp. 115-16.
64. Rick Stroud, The Phantom Army of Alamein: The Men Who Hoodwinked Rommel, London 2012, pp. 183-209. Il piano di
disinformazione è descritto con maggiori particolari nel cap. V .
65. Simon Ball, Alamein, Oxford 2016, pp. 16-22.
66. Fennell, Fighting the People’s War cit., pp. 308-12; Ball, Alamein cit., pp. 37-41; Barr, Pendulum of War cit., pp. 398-401.
67. Ibid., p. 404; Ceva, Storia delle Forze Armate in Italia cit., p. 320; Ball, Alamein cit., p. 47; Gooch, Le guerre di Mussolini
cit.
68. Barr, Pendulum of War cit., pp. 406-7.
69. David Glantz, Colossus Reborn: The Red Army at War, 1941-1943, Lawrence 2005, p. 37.
70. Boog e altri, Das Deutsche Reich und der Zweite Weltkrieg cit., pp. 965-66; Citino, Death of the Wehrmacht cit., p. 254.
71. Ibid., p. 257.
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74. Roberts, Stalin’s Wars cit., p. 142.
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76. Alexander Hill, The Red Army and the Second World War, Cambridge 2017, pp. 392-93.
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78. Wegner, Vom Lebensraum zum Todesraum cit., p. 32.
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80. Fritz, Ostkrieg cit., p. 295.
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87. Fritz, Ostkrieg cit., p. 316.
88. Ibid., pp. 319-20.
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del numero dei prigionieri variano da 220 000 a 275 000, ma sembra piú probabile il valore piú alto.
112. Symonds, World War II at Sea cit., pp. 423-24.
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166. Lutz Budrass, Jonas Scherner e Jochen Streb, Fixed-price contracts, learning, and outsourcing: explaining the continuous
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Review», LXIII (2010), p. 131.
167. Il dato britannico è tratto da TNA, AVIA 10/289, memorandum per il ministero della Produzione Aeronautica, The supply of
labour and the future of the aircraft industry programme, 19 maggio 1943; i dati sulla Germania provengono da IWM, box 368,
report 65, Interrogation of Ernst Blaicher, head of Main Committee Tanks, p. 12; IWM, 4969/45, BMW report, Ablauf der
Lieferungen seit Kriegsbeginn, s.d., p. 25.
168. I dati tedeschi sono riportati in Rüdiger Hachtmann, Industriearbeit im «Dritten Reich», Göttingen 1989, pp. 229-30; i dati
relativi all’Unione Sovietica sono riportati in Harrison (a cura di), The Economics of World War II cit., pp. 285-86.
169. Id., The Soviet Union cit., pp. 284-85; Wunderlich, Farm Labor in Germany cit., pp. 297-99; Johnston, Japanese Food
Management cit., p. 244.
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172. Klein, A Call to Arms cit., p. 354.
173. Gerald Nash, World War II and the West: Reshaping the Economy, Lincoln (Nebr.) 1990, pp. 77-78.
174. Geoffrey Field, Blood, Sweat and Toil: Remaking the British Working Class, 1939-1945, Oxford 2011, pp. 129-30, 145.
175. Yamashita, Daily Life in Wartime Japan cit., p. 16; Martin, Japans Kriegswirtschaft cit., p. 281; Johnston, Japanese Food
Management cit., p. 244.
176. Parker, Manpower cit., pp. 435-36; Jeffries, Wartime America cit., p. 96.
177. Leila Rupp, Mobilizing Women for War: German and American Propaganda, Princeton 1978, p. 185; Jeffries, Wartime
America cit., pp. 90-91; Klein, A Call to Arms cit., p. 710.
178. Lary, The Chinese People at War cit., p. 161.
179. Eckert, Total war in late colonial Korea cit., pp. 17-21, 24-25.
180. Hara, Japan: guns before rice cit., p. 246; Michael Seth, A Concise History of Modern Korea, Lanham 2016, p. 83.
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the economic exploitation of POW and foreign labor from occupied territories by Nazi Germany, in Scherner e White (a cura di),
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182. Ulrich Herbert, Fremdarbeiter: Politik und Praxis des «Ausländer-Einsatzes» in der Kriegswirtschaft des Dritten Reiches,
Bonn 1985, pp. 56-58; Gustavo Corni, Die deutsche Arbeitseinsatzpolitik in besetzten Italien, 1943-1945, in Richard Overy,
Gerhard Otto e Johannes Houwink ten Cate (a cura di), Die «Neuordnung» Europas: NS-Wirtschaftspolitik in den besetzten
Gebiete, Berlin 1997, pp. 137-41.
183. Spoerer, Zwangsarbeit cit., pp. 50, 59-60, 66; Bernd Zielinski, Die deutsche Arbeitseinsatzpolitik in Frankreich 1940-1944,
in Overy, Otto e ten Cate (a cura di), Die «Neuordnung Europas» cit., p. 119.
184. Corni, Die deutsche Arbeitseinsatzpolitik cit., pp. 138-39.
185. Spoerer, Zwangsarbeit cit., pp. 45-47, 62-65; Zielinski, Die deutsche Arbeitseinsatzpolitik in Frankreich cit., pp. 111-12.
186. Corni, Die deutsche Arbeitseinsatzpolitik cit., pp. 143-49.
187. Herbert, Fremdarbeiter cit., pp. 83-90, 99.
188. Spoerer, Zwangsarbeit cit., pp. 73-80; Herbert, Fremdarbeiter cit., pp. 157-60, 271.
189. Zielinski, Die deutsche Arbeitseinsatzpolitik in Frankreich cit., pp. 121-23, 131; Spoerer, Zwangsarbeit cit., pp. 64-65.
Zielinski riporta la cifra di 850 000 - 920 000 deportati, che includono quelli arruolati al di fuori delle «quattro azioni».
190. Corni, Die deutsche Arbeitseinsatzpolitik cit., pp. 150-60.
191. Custodis, Employing the enemy cit., p. 95.
192. Cesare Bermani, Sergio Bologna e Brunello Mantelli, Proletarier der «Achse»: Sozialgeschichte der italienischen
Fremdarbeiter in NS-Deutschland 1937 bis 1943, Berlin 1997, p. 222.
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194. Spoerer, Zwangsarbeit cit., p. 186. I dati si basano su quattro distinti sondaggi tedeschi condotti nel 1943-44.
195. Rüdiger Hachtmann, Fordism and unfree labour: aspects of work deployment of concentration camp prisoners in German
industry between 1942 and 1944, in «International Review of Social History», LV (2010), p. 496.
196. IWM, Speer Collection, FD 4369/45, British Bombing Survey Unit, Manuscript Notes on Ford, Cologne.
197. Spoerer, Zwangsarbeit cit., p. 226; Herbert, Fremdarbeiter cit., pp. 270-71.
198. Custodis, Employing the enemy cit., p. 72.
199. Hachtmann, Fordism and unfree labour cit., pp. 505-6. Sulla questione se sia appropriato il termine «schiavo», si veda Marc
Buggeln, Were concentration camp prisoners slaves? The possibilities and limits of comparative history and global historical
perspectives, in «International Review of Social History», LIII (2008), pp. 106-25.
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201. Spoerer, Zwangsarbeit cit., pp. 228-29.
202. Golfo Alexopoulos, Illness and Inhumanity in Stalin’s Gulag, New Haven 2017, pp. 160-61, 208-9, 216.
203. Ibid., pp. 197-98; Wilson Bell, Stalin’s Gulag at War: Forced Labour, Mass Death, and Soviet Victory in the Second World
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209. Martin, Japans Kriegswirtschaft cit., p. 282; Yellen, The specter of revolution cit., pp. 207-11.
210. Howard, Workers at War cit., pp. 172-75.
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212. Werner, «Bleib übrig» cit., pp. 172-89.
213. Bermani, Bologna e Mantelli, Proletarier der «Achse» cit., pp. 210-11, 220-22; Werner, «Bleib übrig» cit., pp. 189-92.
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215. Robert Westbrook, Why We Fought: Forging American Obligations in World War II, Washington (D.C.) 2004, p. 11.
V. La guerra combattuta.
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2. Ibid., pp. 69-70.
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9. Gary Dickson, Tank repair and the Red Army in World War II, in «Journal of Slavic Military Studies», XXV (2012), pp. 382-
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10. Gordon Rottman e Akira Takizawa, World War II Japanese Tank Tactics, Oxford 2008, pp. 3-6.
11. MacGregor Knox, The Italian armed forces, 1940-43, in Allan Millett e Williamson Murray (a cura di), Military
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12. Pöhlmann, Der Panzer und die Mechanisierung des Krieges cit., pp. 190-91, 207-12; Richard Ogorkiewicz, Tanks: 100 Years
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14. Richard L. Dinardo, Mechanized Juggernaut or Military Anachronism? Horses and the German Army of WWII,
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15. Karl-Heinz Frieser, The Blitzkrieg Legend: The 1940 Campaign in the West, Annapolis 2012, pp. 36-42.
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17. G. F. Krivosheev (a cura di), Soviet Casualties and Combat Losses in the Twentieth Century, London 1997, p. 252.
18. Dinardo, Mechanized Juggernaut cit., p. 67; Richard Ogorkiewicz, Armoured Forces: A History of Armoured Forces and
Their Vehicles, London 1970, pp. 78-99 [trad. it. I corazzati: l’evoluzione delle forze e dei mezzi corazzati, Roma 1964]; Matthew
Cooper, The German Army 1933-1945, London 1978, pp. 74-79. Sul numero di carri armati a Kursk, si veda Lloyd Clark, Kursk:
The Greatest Battle, London 2011, pp. 197-99.
19. Ogorkiewicz, Tanks cit., p. 1523; Pöhlmann, Der Panzer und die Mechanisierung des Krieges cit., pp. 432-34.
20. Rottman, World War II cit., pp. 46-47, 49-52.
21. Giffard Le Q. Martel, Our Armoured Forces, London 1945, pp. 40-43, 48-49.
22. Willem Steenkamp, The Black Beret: The History of South Africa’s Armoured Forces. The Italian Campaign 1943-45 and
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23. Ogorkiewicz, Tanks cit., pp. 120-23; Wilbeck, Sledgehammers cit., pp. 203-4.
24. Steven Zaloga, Armored Thunderbolt: The U.S. Army Sherman in World War II, Mechanicsburg (Pa.) 2008, pp. 16-17.
25. Ibid., pp. 24, 329-30.
26. Rottman, World War II cit., pp. 29-32.
27. Krivosheev (a cura di), Soviet Casualties cit., p. 241. Alexander Hill, The Red Army and the Second World War, Cambridge
2017, p. 691, riferisce di 12 782 carri armati disponibili, di cui però solo 2157 erano nuovi e non richiedevano interventi di messa
a punto.
28. Kamenir, The Bloody Triangle cit., pp. 255-56, 280-81.
29. David Glantz, Colossus Reborn: The Red Army at War, 1941-1943, Lawrence 2005, pp. 225-34.
30. James Corum, From biplanes to Blitzkrieg: the development of German air doctrine between the wars, in «War in History»,
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38. Il commento di Slessor è riportato in Peter Smith, Impact: The Dive Bomber Pilots Speak, London 1981, p. 34; TNA, AIR
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1939; TNA 9/98, Report on Trials to Determine the Effect of Air Attack Against Aircraft Dispersed about an Aerodrome Site ,
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42. Smathers, «We never talk about that now» cit., pp. 40-43; Robert Ehlers, Learning together, winning together: air-ground
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43. Hallion, Strike from the Sky cit., pp. 159-61.
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45. B. Michael Bechthold, A question of success: tactical air doctrine and practice in North Africa, in «Journal of Military
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46. Ibid., pp. 830-34.
47. Syrett, The Tunisian campaign cit., p. 167.
48. Hallion, Strike from the Sky cit., pp. 171-73; Syrett, The Tunisian campaign cit., pp. 184-85.
49. Richard Overy, The Air War 1939-1945, Dulles 20053, p. 77. Le cifre riportavano rispettivamente 46 244 aerei americani,
8395 britannici e 6297 tedeschi.
50. NARA, United States Strategic Bombing Survey, Interview 62, Col. Gen. Jodl, 29 giugno 1945.
51. Kenneth Whiting, Soviet air-ground coordination, in Cooling (a cura di), Case Studies cit., pp. 117-18.
52. Von Hardesty e Ilya Grinberg, Red Phoenix Rising: The Soviet Air Force in World War II, Lawrence 2012, pp. 204-5, 261-
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55. Allan Millett, Assault from the sea: the development of amphibious warfare between the wars – the American, British, and
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1996, pp. 71-74; Lorelli, To Foreign Shores cit., pp. 13-14; Miller, War Plan Orange cit., p. 174. Sulla sorte di Ellis, si veda
John Reber, Pete Ellis: Amphibious warfare prophet, in Merrill Bartlett (a cura di), Assault from the Sea: Essays on the History
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57. Von Lehmann, Japanese landing operations in World War II cit., p. 198; Millett, Assault from the sea cit., pp. 81-82.
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60. TsAMO, Sonderarchiv, f. 500, o.957972, d. 1419, Army commander-in-chief, von Brauchitsch, Anweisung für die
Vorbereitung des Unternehmens «Seelöwe», pp. 2-5, 30 agosto 1940, Anlage 1; OKH, General staff memorandum «Seelöwe», p.
4, 30 luglio 1940; si veda inoltre Frank Davis, Sea Lion: the German plan to invade Britain, 1940, in Bartlett (a cura di), Assault
from the Sea cit., pp. 228-35.
61. Ciano, Diario cit., pagina del 26 maggio 1942, p. 661.
62. IWM, Italian Series, box 22, E2568, Esigenza «C.3» per l’occupazione dell’isola di Malta, pp. 25-27; si veda inoltre Mariano
Gabriele, L’operazione «C.3» (1942), in Romain Rainero e Antonello Biagini (a cura di), Italia in guerra: il terzo anno, 1942,
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63. Alan Warren, Singapore 1942: Britain’s Greatest Defeat, London 2002, pp. 60-64, 221-32.
64. Ulbrich, Preparing for Victory cit., pp. XIII , 123; Robert Heinl, The U.S. Marine Corps: author of modern amphibious
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65. Craig Symonds, Operation Neptune: The D-Day Landings and the Allied Invasion of Europe, New York 2014, pp. 149-52;
Ulbrich, Preparing for Victory cit., pp. 61-62, 84; Frank Hough, The Island War: The United States Marine Corps in the Pacific,
Philadelphia 1947, pp. 212-15.
66. Lorelli, To Foreign Shores cit., pp. 38, 49; Hough, The Island War cit., p. 36.
67. Lorelli, To Foreign Shores cit., pp. 53-56; Ulbrich, Preparing for Victory cit., pp. 130-32, 138-39.
68. Lorelli, To Foreign Shores cit., pp. 58-59; Symonds, Operation Neptune cit., pp. 75-76.
69. USMC Command and Staff College paper, Tarawa to Okinawa: The Evolution of Amphibious Operations in the Pacific
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70. Ibid., pp. 9-11, 17-20; Lorelli, To Foreign Shores cit., pp. 162-76; Hough, The Island War cit., pp. 132-38.
71. USMC Command and Staff College paper, Tarawa to Okinawa cit., pp. 14-25; Lorelli, To Foreign Shores cit., pp. 178-81.
72. Hough, The Island War cit., pp. 215-16; USMC Command and Staff College paper, Tarawa to Okinawa cit., pp. 11-12.
73. Lorelli, To Foreign Shores cit., pp. 307-13.
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75. Lorelli, To Foreign Shores cit., p. 63.
76. Ibid., pp. 71-79; Symonds, Operation Neptune cit., pp. 88-91.
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78. Coakley e Leighton, Global Logistics cit., pp. 805-7, 829; Symonds, Operation Neptune cit., pp. 163-64.
79. Coakley e Leighton, Global Logistics cit., pp. 309-11, 348-50, 829; Lorelli, To Foreign Shores cit., pp. 215-16, 222.
80. Symonds, Operation Neptune cit., pp. 196-210, 220-21; Lorelli, To Foreign Shores cit., pp. 215-22.
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83. Symonds, Operation Neptune cit., pp. 256-57.
84. Ibid., pp. 291-99.
85. Eisenhower, Report by the Supreme Commander cit., p. 32. La direttiva di Hitler è riportata in Hugh Trevor-Roper (a cura di),
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86. Joint Board on Scientific Information, Radar: A Report on Science at War, Washington (D.C.) 1945, p. 1.
87. Citino, The Path to Blitzkrieg cit., pp. 208-11; Pöhlmann, Der Panzer und die Mechanisierung des Krieges cit., p. 269.
88. Riccardo Niccoli, Befehlspanzer: German Command, Control and Observation Armored Combat Vehicles in World War
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1939-1944, 31 luglio 1945, tabella 7. Le proporzioni erano 28,6 nel 1939, 62,3 nel 1940, 68,8 nel 1941 e 70,4 nel 1942. Dati del
31 maggio di ogni anno.
44. NARA, RG 243, entry 32, USSBS Interrogation of Dr Karl Hettlage, 16 giugno 1945, p. 9.
45. Hugh Trevor-Roper (a cura di), Hitler’s Table Talk 1941-1944, London 1973, p. 633 [trad. it. Conversazioni a tavola di
Hitler, Gorizia 2010].
46. IWM, Speer Collection, box 368, report 83, Relationship between the Ministry and the Army Armaments Office, ottobre 1945.
Era opinione di Speer che lo stato maggiore mancasse «di qualsiasi conoscenza in campo tecnico ed economico».
47. IWM, Speer Collection, box 368, report 90 I, Interrogation of Karl-Otto Saur, p. 4.
48. Lutz Budrass, Flugzeugindustrie und Luftrüstung in Deutschland 1918-1945, Düsseldorf 1998, pp. 742-46; Rolf-Dieter
Müller, Speers Rüstungspolitik im totalen Krieg: Zum Beitrag der modernen Militärgeschichte im Diskurs mit der Sozial-und
Wirtschaftsgeschichte, in «Militärgeschichtliche Zeitschrift», LIX (2000), pp. 356-62.
49. IWM, Speer Collection, box 368, report 90 IV, Rationalization of the Munitions Industry, p. 44.
50. IWM, Speer Collection, box 368, report 85 II, p. 4 (le maiuscole sono nell’originale).
51. Lotte Zumpe, Wirtschaft und Staat in Deutschland: 1933 bis 1945, Berlin 1980, pp. 341-42; Müller, Speers Rüstungspolitik
cit., pp. 367-71.
52. Ibid., pp. 373-77.
53. Dieter Eichholtz, Geschichte der deutschen Kriegswirtschaft 1939-1945, München 1999, pp. 314-15; IWM, Speer Collection,
box 368, report 90 V, Rationalization in the Components Industry, p. 34.
54. IWM, EDS, Mi 14/133, Oberkommando des Heeres, Studie über die Rüstung 1944, 25 gennaio 1944.
55. IWM, EDS AL/1746, Saur interrogation, p. 6, 10 agosto 1945; si veda inoltre Daniel Uziel, Arming the Luftwaffe: The
German Aviation Industry in World War II, Jefferson 2012, pp. 85-90.
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growth of output and labour productivity in the German aircraft industry during the Second World War, in «Economic History
Review», LXIII (2010), p. 124.
57. Eichholtz, Geschichte der deutschen Kriegswirtschaft cit., p. 265. Il dato è stimato in base a un elenco di armamenti stilato da
funzionari dello Statistisches Reichsamt. L’USSBS calcolava nello stesso periodo un aumento del 48 per cento della produzione
pro capite dei settori siderurgici. I dati del sondaggio sono riportati in Industrial Sales, Output and Productivity Prewar Area of
Germany 1939-1944, pp. 21-22, 65, 15 marzo 1946; si veda inoltre Adam Tooze, No room for miracles: German output in World
War II reassessed, in «Geschichte & Gesellschaft», XXXI (2005), pp. 50-53.
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cura di), Luftkriegführung cit., pp. 225-26.
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133. Ibid., 118-19, Weisung n. 23, «Richtlinien für die Kriegführung gegen die englische Wehrwirtschaft, 6 febbraio 1941.
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165. Bragadin, The Italian Navy cit.
166. Ibid., pp. 364-65; Hammond, British policy on total maritime warfare cit., p. 807. Sulle perdite subite dall’Asse nel
Mediterraneo si hanno svariate stime diverse. Quelle dell’ammiragliato indicavano 1544 scafi affondati nell’intero periodo di
guerra, ma per un totale di 4,2 milioni di tonnellate, si veda Robert Ehlers, The Mediterranean Air War: Air Power and Allied
Victory in World War II, Lawrence 2015, p. 403.
167. Questa è la conclusione a cui giunge Martin Van Creveld in Supplying War: Logistics from Wallenstein to Patton,
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168. Bragadin, The Italian Navy cit. Il dato relativo al 1941 era 89 563, mentre nel 1942 era 56 209.
169. Vera Zamagni, Italy: how to win the war and lose the peace, in Harrison (a cura di), The Economics of World War II cit., p.
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170. Istituto centrale di statistica, Statistiche storiche dell’Italia 1861-1975, Roma 1976, p. 117.
171. Hammond, British policy on total maritime warfare cit., p. 808; Christina Goulter, Forgotten Offensive: Royal Air Force
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173. Citato in Edward Westermann, Flak: German Anti-Aircraft Defenses, 1914-1945, Lawrence 2001, p. 90.
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202. Roscoe, United States Submarine Operations cit., pp. 215-17.
203. USSBS, The Effects of Strategic Bombing cit., pp. 35-42; Blair, Silent Victory cit., p. 816. Per un’esposizione piú completa,
si veda Phillips O’Brien, How the War was Won, Cambridge 2015, pp. 432-44.
204. Michael Sturma, Atrocities, conscience, and unrestricted warfare: US submarines during the Second World War, in «War in
History», XVI (2009), pp. 455-56; Hara, Wartime controls cit., p. 277.
205. Thomas Searle, «It made a lot of sense to kill skilled workers»: the firebombing of Tokyo in March 1945, in «Journal of
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206. William Ralph, Improvised destruction: Arnold, LeMay, and the firebombing of Japan, in «War in History», XIII (2006), pp.
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207. Searle, «It made a lot of sense to kill skilled workers» cit., pp. 119-21.
208. Conrad Crane, Evolution of U.S. strategic bombing of urban areas, in «Historian», L (1987), pp. 36-37.
209. Ralph, Improvised destruction cit., pp. 521-22.
210. USSBS, The Effects of Strategic Bombing cit., p. 205.
211. Roscoe, United States Submarine Operations cit., p. 523; Hara, Japan: guns before rice cit., p. 245; Barrett Tillman,
Whirlwind: The Air War against Japan 1942-1945, New York 2010, pp. 194-99.
212. Roscoe, United States Submarine Operations cit., p. 453; Hara, Japan: guns before rice cit., p. 245; USSBS, The Effects of
Strategic Bombing cit., pp. 180-81.
213. UEA, Zuckerman Archive, SZ/BBSU/3, Rough Notes on Exercise Thunderbolt, p. 13, 16 agosto 1947.
214. TNA, AIR 20/2025, Casualties of RAF, Dominion and Allied Personnel at RAF Posting Disposal, 31 maggio 1947; AIR
22/203, War Room Manual of Bomber Command Operations 1939-1945, p. 9. I dati riguardanti gli americani sono riportati in
Davis, Carl A. Spaatz cit., p. 9, appendice IV .
215. Hague, The Allied Convoy System cit., p. 107; Roscoe, United States Submarine Operations cit., p. 523.
216. Ibid., p. 493; Blair, Silent Victory cit., p. 877.
VII . Guerre giuste? Guerre ingiuste?
1. Dennis Wheatley, Total War: A Paper, London 1941, p. 17.
2. Ibid., pp. 18, 20.
3. Davide Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo: le politiche di occupazione dell’Italia fascista in Europa, 1940-1943, Torino
2003.
4. F. C. Jones, Japan’s New Order in East Asia, Oxford 1954, p. 469. Si tratta della traduzione in inglese del testo del Patto in
tedesco. La bozza dell’originale era stata redatta in inglese e la versione riportava «ciascuno il proprio posto», anziché «lo spazio
a cui ciascuno ha diritto». L’idea di «spazio» fu introdotta nella versione tedesca allo scopo di rendere piú esplicitamente
territoriale la natura del Nuovo ordine.
5. Eric Johnson e Karl-Heinz Reuband, What We Knew: Terror, Mass Murder and Everyday Life in Germany, London 2005, p.
106 [trad. it. La Germania sapeva: terrore, genocidio, vita quotidiana. Una storia orale, Milano 2009]; si veda inoltre Nick
Stargardt, The German War: A Nation under Arms, 1939-45, London 2016, pp. 15-17.
6. Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo cit.
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11. Werner Maser (a cura di), Hitler’s Letters and Notes, London 1973, pp. 227, 307, appunti per i discorsi del 1919/20 [trad. it.
Hitler segreto; lettere e appunti inediti, Milano 1974].
12. André Mineau, Himmler’s ethic of duty: a moral approach to the Holocaust and to Germany’s impending defeat, in «The
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13. Randall Bytwerk, The argument for genocide in Nazi propaganda, in «Quarterly Journal of Speech», XCI (2005), pp. 37-39;
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14. Heinrich Winkler, The Age of Catastrophe: A History of the West, 1914-1945, New Haven 2015, pp. 87-91.
15. Randall Bytwerk, Believing in «inner truth»: The Protocols of the Elders of Zion and Nazi propaganda 1933-1945, in
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16. Jeffrey Herf, The Jewish Enemy: Nazi Propaganda During World War II and the Holocaust, Cambridge 2006, pp. 61-62.
17. Ibid., pp. 64-65.
18. Tobias Jersak, Die Interaktion von Kriegsverlauf und Judenvernichtung: ein Blick auf Hitlers Strategie im Spätsommer 1941,
in «Historisches Zeitschrift», CCLXVIII (1999), pp. 311-74; Bytwerk, The argument for genocide cit., pp. 42-43; Herf, The
Jewish Enemy cit., p. 110.
19. Helmut Sündermann, Tagesparolen: Deutsche Presseweisungen 1939-1945. Hitlers Propaganda und Kriegführung, Leoni am
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20. Confino, A World without Jews cit., p. 194.
21. Sündermann, Tagesparolen cit., p. 255, direttiva per l’ufficio stampa del 13 agosto 1943.
22. Bytwerk, The argument for genocide cit., p. 51, che cita una circolare dello Sprechabendsdienst (servizio stampa serale) del
settembre-ottobre 1944.
23. François Genoud (a cura di), The Testament of Adolf Hitler: The Hitler-Bormann Documents February-April 1945, London
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24. NARA, RG 238 Jackson Papers, box 3, traduzione della lettera di Ley all’avvocato Dr Pflücker, 24 ottobre 1945 (mai
inviata).
25. Mineau, Himmler’s ethic of duty cit., p. 63, da un discorso pronunciato nel 1944 davanti agli ufficiali dell’Abwehr: «L’unica
cosa che doveva prevalere era una logica ferrea: con sentimentalismi fuori luogo non si vincono guerre in cui è in gioco la vita
della razza»; si veda inoltre Claudia Koonz, The Nazi Conscience, Cambridge 2003, pp. 254, 265; Christopher Browning, The
Holocaust: basis and objective of the «Volksgemeinschaft», in Martina Steber e Bernhard Gotto (a cura di), Visions of Community
in Nazi Germany, Oxford 2014, pp. 219-23.
26. Bytwerk, The argument for genocide cit., p. 49.
27. Gao Bei, Shanghai Sanctuary: Chinese and Japanese Policy toward European Jewish Refugees during World War II, Oxford
2013, pp. 20-25, 93-94, 104-7, 116-25.
28. Amedeo Guerrazzi, Die ideologischen Ursprünge der Judenverfolgung in Italien, in Lutz Klinkhammer, Amadeo Guerrazzi e
Thomas Schlemmer (a cura di), Die «Achse» im Krieg: Politik, Ideologie und Kriegführung 1939-1945, Paderborn 2010, pp.
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29. Simon Levis Sullam, The Italian executioners: revisiting the role of Italians in the Holocaust, in «Journal of Genocide
Research», XIX (2017), pp. 23-28 [trad. it. I carnefici italiani: scene dal genocidio degli ebrei, 1943-1945, Milano 2016].
30. Joseph Stalin, The War of National Liberation, New York 1942, p. 30, discorso del 6 novembre 1941 [il discorso di Stalin è
tradotto in: https://www.lasecondaguerramondiale.com/stalin-discorso-del-novembre-1941].
31. Oleg Budnitskii, The Great Patriotic War and Soviet society: defeatism 1941-42, in «Kritika», XV (2014), p. 794.
32. Russell Buhite e David Levy (a cura di), FDR’s Fireside Chats, Norman 1992, p. 198, trasmissione del 9 dicembre 1941.
33. Keith Feiling, The Life of Neville Chamberlain, London 1946, p. 416.
34. Stalin, War of National Liberation cit., p. 30; Susan Brewer, Why America Fights: Patriotism and War Propaganda from the
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35. Chinese Ministry of Information, The Voice of China: Speeches of Generalissimo and Madame Chiang Kai-shek, London
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38. Dower, War without Mercy cit., p. 17.
39. Wheatley, Total War cit., pp. 33, 54.
40. Brewer, Why America Fights cit., p. 88.
41. Sulle ansie di quel periodo, si veda Richard Overy, The Morbid Age: Britain and the Crisis of Civilization between the Wars,
London 2009; Roxanne Panchasi, Future Tense: The Culture of Anticipation in France between the Wars, Ithaca 2009.
42. Harold Nicolson, Why Britain is at War, London 1939, pp. 135-36, 140.
43. Jacques Maritain, De la justice politique: notes sur la présente guerre, Paris 1940, p. 23; Hugh Dalton, Hitler’s War: Before
and After, London 1940, p. 102.
44. Robbins, Britain, 1940 and «Christian Civilisation» cit., pp. 279, 288-91; Maritain, De la justice politique cit., cap. III .
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46. Nicolson, Why Britain is at War cit., pp. 132-33.
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51. H. V. Morton, Atlantic Meeting, London 1943, pp. 126-27, 149-51.
52. Von Eschen, Race against Empire cit., p. 26.
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60. Genoud (a cura di), The Testament of Adolf Hitler cit., pagina del 2 aprile 1945.
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64. Ibid., pp. 258-59, pagina del 13 marzo 1940.
65. Elliott Roosevelt (a cura di), The Roosevelt Letters, 1928-1945, London 1952, p. 290, Roosevelt a Lincoln MacVeagh, 1°
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pp. 33-34, 36; David Mayers, The Great Patriotic War, FDR’s embassy Moscow and US-Soviet relations, in «International
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70. Ibid., pp. 153-57, 164.
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73. Sirgiovanni, An Undercurrent of Suspicion cit., pp. 3-5; Buhite e Levy (a cura di), FDR’s Fireside Chats cit., pp. 277-78,
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74. Firsov, Klehr e Haynes, Secret Cables of the Comintern cit., pp. 184-85.
75. Sulle speranze di una collaborazione, si veda Martin Folly, Churchill, Whitehall, and the Soviet Union, 1940-1945,
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76. TNA, FO 800/868, Desmond Morton to Lord Swinton, 11 novembre 1941; Morton to Robert Bruce Lockhart, 15 novembre
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77. Sirgiovanni, An Undercurrent of Suspicion cit., pp. 3-5; Frank Warren, Noble Abstractions: American Liberal Intellectuals
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79. Gorodetsky (a cura di), The Maisky Diaries cit., pp. 411, 436, 475, pagine del 15 febbraio, 24 giugno 1942 e 5 febbraio 1943.
80. Britain, Russia and Peace cit., pp. 3-4.
81. Sirgiovanni, An Undercurrent of Suspicion cit., pp. 49-56.
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83. Gorodetsky (a cura di), The Maisky Diaries cit., pp. 509-10.
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88. Warren, Noble Abstractions cit., pp. 172-74.
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90. NARA, RG 238, box 32, Secret Additional Protocol to the German-Soviet Pact of 23.8.39; Mayers, The Great Patriotic War
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92. Per due eccellenti trattazioni del feroce apparato repressivo sovietico, si vedano Golfo Alexopoulos, Illness and Inhumanity in
Stalin’s Gulag, New Haven 2017 e Jörg Baberowski, Scorched Earth: Stalin’s Reign of Terror, New Haven 2016, in particolare i
capp. V-VI .
93. Achim Kilian, Einzuweisen zur völligen Isolierung: NKWD-Speziallager Mühlberg/Elbe 1945-1948, Leipzig 1993, p. 7.
94. Andrew Stone, «The differences were only in the details»: the moral equivalency of Stalinism and Nazism in Anatoli
Bakanichev’s Twelve Years Behind Barbed Wire, in «Kritika», XIII (2012), pp. 123, 134.
95. Mayers, Humanity in 1948 cit., pp. 462-63.
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101. Ibid., pp. 93-94; Welky, Marching Across the Color Line cit., pp. XX-XXI , 112.
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106. Welky, Marching Across the Color Line cit., p. 112.
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109. Ibid, pp. 229-32; Welky, Marching Across the Color Line cit., pp. 121-22; Robert Dallek, Franklin D. Roosevelt: A Political
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117. Bernard Wasserstein, Britain and the Jews of Europe 1939-1945, Oxford 1979, pp. 7, 11.
118. Ibid., pp. 18-20; Louise London, Whitehall and the Jews 1933-1948: British Immigration Policy, Jewish Refugees and the
Holocaust, Cambridge 2000, p. 140.
119. Takaki, Double Victory cit., p. 195; Joseph Bendersky, Dissension in the face of the Holocaust: the 1941 American debate
over anti-Semitism, in «Holocaust and Genocide Studies», XXIV (2010), p. 89.
120. Wasserstein, Britain and the Jews cit., pp. 46-47; Takaki, Double Victory cit., pp. 195-96.
121. Mayers, The Great Patriotic War cit., p. 305.
122. Wasserstein, Britain and the Jews cit., p. 52.
123. Leah Garrett, X-Troop: The Secret Jewish Commandos Who Helped Defeat the Nazis, London 2021, pp. 26-41.
124. Wasserstein, Britain and the Jews cit., pp. 54-76.
125. Michael Fleming, Intelligence from Poland on Chelmno: British responses, in «Holocaust Studies», XXI (2015), pp. 172-74,
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126. Fleming, Intelligence from Poland cit., pp. 174-75.
127. David Wyman, The Abandonment of the Jews: America and the Holocaust 1941-1945, New York 1984, pp. 43-45; Zohar
Segev, The World Jewish Congress during the Holocaust: Between Activism and Restraint, Berlin 2017, pp. 23-26.
128. London, Whitehall and the Jews cit., pp. 207-8.
129. Wyman, The Abandonment of the Jews cit., pp. 73-75.
130. Leonid Smilovitskii, Antisemitism in the Soviet partisan movement 1941-1945: the case of Belorussia, in «Holocaust and
Genocide Studies», XX (2006), pp. 708-9; Jeffrey Herf, The Nazi extermination camps and the ally to the East: could the Red
Army and Air Force have stopped or slowed the Final Solution?, in «Kritika», IV (2003), pp. 915-16; Alexander Gogun,
Indifference, suspicion, and exploitation: Soviet units behind the front lines of the Wehrmacht and Holocaust in Ukraine, 1941-
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131. Lániček, Governments-in-exile cit., p. 76.
132. London, Whitehall and the Jews cit., pp. 205-6, 218; Wasserstein, Britain and the Jews cit., pp. 183, 188.
133. Ibid., pp. 190-203; Shlomo Aronson, Hitler, the Allies and the Jews, New York 2004, pp. 85-100; Takaki, Double Victory
cit., pp. 205-6.
134. Wasserstein, Britain and the Jews cit., p. 304.
135. Segev, The World Jewish Congress cit., pp. 26-30.
136. Laurel Leff, Buried by the Times: The Holocaust and America’s Most Important Newspaper, New York 2005, pp. 330-41.
137. Bendersky, Dissension in the face of the Holocaust cit., pp. 89-96; Takaki, Double Victory cit., pp. 189-91.
138. Wasserstein, Britain and the Jews cit., pp. 34, 351.
139. Segev, The World Jewish Congress cit., p. 41.
140. Lániček, Governments-in-exile cit., pp. 81-85; Wasserstein, Britain and the Jews cit., pp. 295-302.
141. Rainer Schulze, The Heimschaffungsaktion of 1942-3: Turkey, Spain and Portugal and their responses to the German offer
of repatriation of their Jewish citizens, in «Holocaust Studies», XVIII (2012), pp. 54-58.
142. Overy, Interrogations cit.
143. Bendersky, Dissension in the face of the Holocaust cit., pp. 108-9; Mayers, Humanity in 1948 cit., pp. 448-55.
144. Kenneth Rose, Myth and the Greatest Generation: A Social History of Americans in World War II, New York 2008, pp. 1-7.
145. Parliamentary Peace Aims Group, Towards a Total Peace: A Restatement of Fundamental Principles, 1943, p. 4.
146. Chinese Ministry of Information, The Voice of China cit., discorso alla nazione, 18 febbraio 1942.
147. Sonya Rose, Which People’s War? National Identity and Citizenship in Wartime Britain 1939-1945, Oxford 2003, pp. 286-
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148. Frank Bajohr e Michael Wildt (a cura di), Volksgemeinschaft: Neue Forschungen zur Gesellschaft des Nationalsozialismus,
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149. Michael David-Fox, The people’s war: ordinary people and regime strategies in a world of extremes, in «Slavic Review»,
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150. Buhite e Levy (a cura di), FDR’s Fireside Chats cit., p. 199, trasmissione del 9 dicembre 1941.
151. Luigi Petrella, Staging the Fascist War: The Ministry of Popular Culture and Italian Propaganda on the Home Front, 1938-
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152. Chinese Ministry of Information, The Voice of China cit., discorso di Chiang Kai-shek, 22 ottobre 1942.
153. Sulle difficoltà incontrate da Chiang, si veda Rana Mitter, China’s War with Japan 1937-1945: The Struggle for Survival,
London 2013 [trad. it. Lotta per la sopravvivenza: la guerra della Cina contro il Giappone 1937-1945, Torino 2019]; sul
collaborazionismo, si veda l’esposizione di David Barrett e Larry Shyu (a cura di), Chinese Collaboration with Japan, 1932-
1945: The Limits of Accommodation, Stanford 2001, pp. 3-12; sulla mobilitazione dei comunisti cinesi, si veda Lifeng Li, Rural
mobilization in the Chinese Communist Revolution: from the anti-Japanese War to the Chinese Civil War, in «Journal of Modern
Chinese History», IX (2015), pp. 97-104.
154. Chinese Ministry of Information, The Voice of China cit., discorso di Chiang Kai-shek, 31 ottobre 1942.
155. Bajohr e Wildt (a cura di), Volksgemeinschaft cit., p. 7.
156. Samuel Yamashita, Daily Life in Wartime Japan 1940-1945, Lawrence 2015, pp. 13-14.
157. Sparrow, Warfare State cit., pp. 72-73; Westbrook, Why We Fought cit., pp. 8-9.
158. William Tuttle, «Daddy’s Gone to War»: The Second World War in the Lives of American Children , New York 1993, pp.
115-16, 118, 121-23.
159. Yamashita, Daily Life in Wartime Japan cit., pp. 66-70, 87.
160. Sparrow, Warfare State cit., p. 65.
161. Ian McLaine, Ministry of Morale: Home Front Morale and the Ministry of Information in World War II, London 1979,
risguardi di copertina.
162. Budnitskii, The Great Patriotic War cit., pp. 771-81; Mark Edele, Stalin’s Defectors: How Red Army Soldiers became
Hitler’s Collaborators, 1941-1945, Oxford 2017, pp. 21, 29-31. Non si hanno dati certi riguardo alle diserzioni; la cifra di 200
000 rappresenta un probabile limite massimo.
163. Hans Boberach (a cura di), Meldungen aus dem Reich: Die geheimen Lageberichte des Sicherheitsdienst der SS 1938-1945,
Herrsching 1984, pp. 11-16, 20; David Welch, Nazi propaganda and the Volksgemeinschaft: constructing a people’s community,
in «Journal of Contemporary History», XXXIX (2004), p. 215.
164. Mimmo Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra: agenti, collaboratori e vittime della polizia politica fascista, Torino 1999, pp.
386-88; Canosa, I servizi segreti cit., pp. 380-85.
165. Amir Weiner, Getting to know you: the Soviet surveillance system 1939-1957, in «Kritika», XIII (2012), pp. 5-8.
166. Sparrow, Warfare State cit., p. 43.
167. Ibid., p. 69; Brewer, Why America Fights cit., pp. 93-96, 103.
168. Neil Wynn, The «good war»: the Second World War and postwar American society, in «Journal of Contemporary History»,
XXXI (1996), pp. 467-70; Sparrow, Warfare State cit., pp. 67-68, 87-88; Westbrook, Why We Fought cit., pp. 49-50, 69-70.
169. Paul Addison e Jeremy Crang (a cura di), Listening to Britain: Home Intelligence Reports on Britain’s Finest Hour May-
September 1940, London 2011, pp. XI-XII .
170. James Hinton, The Mass Observers: A History, 1937-1949, Oxford 2013, pp. 166-67.
171. McLaine, Ministry of Morale cit., pp. 256-57, 260; Addison e Crang (a cura di), Listening to Britain cit., pp. XIII-XIV ;

Hinton, The Mass Observers cit., pp. 179-80.


172. John Hilvert, Blue Pencil Warriors: Censorship and Propaganda in World War II, St Lucia 1984, pp. 220-22.
173. Petrella, Staging the Fascist War cit., p. 136.
174. Chang-tai Hung, War and Popular Culture: Resistance in Modern China, 1937-1945, Berkeley 1994, pp. 181-85.
175. Peter Fritzsche, An Iron Wind: Europe under Hitler, New York 2016, pp. 10-13.
176. Boberach (a cura di), Meldungen aus dem Reich cit., p. 25.
177. Petrella, Staging the Fascist War cit., pp. 136-38.
178. Budnitskii, The Great Patriotic War cit., p. 791.
179. McLaine, Ministry of Morale cit., pp. 80-84.
180. Sparrow, Warfare State cit., pp. 86-88.
181. John Dower, Japan in War and Peace: Essays on History, Race and Culture, London 1993, p. 129.
182. Sparrow, Warfare State cit., p. 45.
183. Rose, Myth and the Greatest Generation cit., p. 64.
184. Johnson e Reuband, What We Knew cit.
185. Frank Bajohr e Dieter Pohl, Der Holocaust als offene Geheimnis: Die Deutschen, die NS-Führung und die Allierten,
München 2006, pp. 35-36, 56-57; Herf, The Jewish Enemy cit., pp. 114-22.
186. Bytwerk, The argument for genocide cit., pp. 43-44; Id., Believing in «inner truth» cit., p. 215.
187. Schmiechen-Ackermann, Social control and the making of the Volksgemeinschaft cit., p. 249.
188. Peter Longerich, «Davon haben wir nichts gewusst!»: Die Deutschen und die Judenverfolgung, 1933-1945, München 2006,
pp. 317-21, 326-27; Bytwerk, The argument for genocide cit., pp. 53-54.
189. Si veda Edele, Stalin’s Defectors cit., pp. 169-74; Yamashita, Daily Life in Wartime Japan cit., pp. 165-71.
190. Westbrook, Why We Fought cit., pp. 8-9, 40-50.
191. José Harris, Great Britain: the people’s war, in Warren Kimball, David Reynolds e Alexander Chubarian (a cura di), Allies
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192. Lisa Kirschenbaum, «Our city, our hearths, our families»: local loyalties and private life in Soviet World War II
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194. Timothy Stewart-Winter, «Not a soldier, not a slacker»: conscientious objection and male citizenship in the United States
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195. Rennie Smith, Peace verboten, London 1943, pp. 45-48.
196. Norman Ingram, The Politics of Dissent: Pacifism in France 1919-1939, Oxford 1991, pp. 134-39. Sul Rassemblement
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197. H. Runham Brown, The War Resisters’ International: Principle, Policy and Practice, London 1936, pp. 1-5.
198. Storm Jameson (a cura di), Challenge to Death, London 1935, p. XII . Riguardo al Peace Ballot, si veda Martin Caedel, The
first referendum: the Peace Ballot 1934-1935, in «English Historical Review», XCV (1980), pp. 818-29.
199. Overy, The Morbid Age cit., pp. 243-50; D. C. Lukowitz, British pacifists and appeasement: the Peace Pledge Union, in
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200. Habenstreit, Men Against War cit., pp. 126-33.
201. Gerald Sittser, A Cautious Patriotism: The American Churches and the Second World War, Chapel Hill (N.C.) 1997, pp. 18-
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202. Ibid., pp. 133-34; Scott Bennett, American pacifism, the «greatest generation», and World War II, in Piehler e Pash (a cura
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203. Habenstreit, Men Against War cit., pp. 138-39.
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209. Mona Siegel, The Moral Disarmament of France: Education, Pacifism and Patriotism 1914-1940, Cambridge 2004, pp.
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211. Neil Stammers, Civil Liberties in Britain during the 2nd World War, London 1989, pp. 93-94; Lukowitz, British pacifists and
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213. Martin Caedel, Pacifism in Britain, 1914-1945: The Defining of a Faith, Oxford 1980, p. 299; Vera Brittain, One Voice:
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214. Peter Brock e Nigel Young, Pacifism in the Twentieth Century, Syracuse 1999, p. 165.
215. Sittser, A Cautious Patriotism cit., p. 19.
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International League for Peace and Freedom Papers, 21AW/2/C/46, Report of a deputation of Pacifist Clergy to the Archbishops
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218. Overy, The Morbid Age cit., pp. 242-43.
219. George Bell, Christianity and World Order, London 1940, pp. 78-81.
220. Stephen Parker, Reinvigorating Christian Britain: the spiritual issues of the war, national identity, and the hope of religious
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221. Donald Wall, The Confessing Church and the Second World War, in «Journal of Church and State», XXIII (1981), pp. 19-
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222. Thomas Brodie, Between «national community» and «milieu»: German Catholics at war 1939-1945, in «Contemporary
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223. Joumi Tilli, «Deus Vult!»: the idea of crusading in Finnish clerical rhetoric 1941-1944, in «War in History», XXIV (2017),
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224. Roger Reese, The Russian Orthodox Church and «patriotic» support for the Stalinist regime during the Great Patriotic War,
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225. Jan Bank e Lieve Grevers, Churches and Religion in the Second World War, London 2016, p. 506.
226. Reese, The Russian Orthodox Church cit., pp. 144-45.
227. Su questo paragrafo si veda John Mitsuru Oe, Church and state in Japan in World War II, in «Anglican and Episcopal
History», LIX (1990), pp. 202-6.
228. Bell, Christianity and World Order cit., pp. 98-100.
229. Frank Coppa, Pope Pius XII: from the diplomacy of impartiality to the silence of the Holocaust, in «Journal of Church and
State», LV (2013), pp. 298-99; Gerard Noel, Pius XII: The Hound of Hitler, London 2008, pp. 3-4.
230. Bank e Grevers, Churches and Religion cit., pp. 483-94.
231. Coppa, Pope Pius XII cit., p. 300.
232. Brock, Against the Draft cit., pp. 350-52; Anna Halle, The German Quakers and the Third Reich, in «German History», XI
(1993), pp. 222-26.
233. Kelly, Citizenship, cowardice and freedom of conscience cit., pp. 701-2; Richard Overy, Pacifism and the Blitz, 1940-1941,
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234. W. Edward Orser, World War II and the pacifist controversy in the major Protestant Churches, in «American Studies», XIV
(1973), pp. 7-10; Sittser, A Cautious Patriotism cit., pp. 35-36.
235. Orser, World War II and the pacifist controversy cit., pp. 12-18.
236. Gabriele Yonan, Spiritual resistance of Christian conviction in Nazi Germany: the case of the Jehovah’s Witnesses, in
«Journal of Church and State», XLI (1999), pp. 308-9, 315-16; Stewart-Winter, «Not a soldier, not a slacker» cit., p. 532.
237. Thomas Kehoe, The Reich Military Court and its values: Wehrmacht treatment of Jehovah’s Witness conscientious
objection, in «Holocaust & Genocide Studies», XXXIII (2019), pp. 351-58; Yonan, Spiritual resistance cit., p. 309; Jackman,
«Ich kann nicht zwei Herren dienen» cit., pp. 189, 193.
238. Oe, Church and state in Japan cit., p. 210.
239. Sittser, A Cautious Patriotism cit., pp. 186-87.
240. Denis Hayes, Liberty in the War, pamphlet pubblicato da «Peace News», settembre 1943, pp. 5-6.
241. Bennett, American pacifism cit., p. 267; Stewart-Winter, «Not a soldier, not a slacker» cit., p. 532; Kelly, Citizenship,
cowardice and freedom of conscience cit., p. 710.
242. Brock, Against the Draft cit., pp. 329-30.
243. Jackman, «Ich kann nicht zwei Herren dienen» cit., pp. 189-93, 197-98.
244. Kelly, Citizenship, cowardice and freedom of conscience cit., p. 699.
245. National Library of Wales, Stanley Jevons Papers, I IV/103, Notes by the Chairman of the South-East Tribunal (s.d. ma
settembre - ottobre 1941); Kelly, Citizenship, cowardice and freedom of conscience cit., p. 709.
246. Brock e Young, Pacifism in the Twentieth Century cit., pp. 158-59; la citazione è tratta da Kelly, Citizenship, cowardice and
freedom of conscience cit., p. 694.
247. Denis Hayes, Challenge of Conscience: The Story of Conscientious Objectors of 1939-1949, London 1949, p. 210.
248. Andrew Rigby, Pacifist communities in Britain during the Second World War, in «Peace & Change», XV (1990), pp. 108-
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249. Rachel Barker, Conscience, Government and War: Conscientious Objection in Britain, 1939-45, London 1982, p. 58;
Overy, Pacifism and the Blitz cit., pp. 222-23.
250. Sittser, A Cautious Patriotism cit., pp. 131-32.
251. Scott Bennett, «Free American political prisoners»: pacifist activism and civil liberties, 1945-48, in «Journal of Peace
Research», XL (2003), p. 424; Stewart-Winter, «Not a soldier, not a slacker» cit., pp. 527-28.
252. Ibid., p. 522.
253. Ibid., pp. 522-26.
254. Bennett, American pacifism cit., p. 267.
255. Nicholas Krehbiel, General Lewis B. Hershey and Conscientious Objection during World War II, Columbia 2011, pp. 5-6,
97.
256. Ibid., pp. 260, 265-66; Stewart-Winter, «Not a soldier, not a slacker» cit., p. 521.
257. Krehbiel, General Lewis B. Hershey cit., pp. 112-16.
258. Habenstreit, Men Against War cit., pp. 151-52; Bennett, American pacifism cit., pp. 264, 272-73, 275-77; Id., «Free
American political prisoners» cit., pp. 414-15.
259. Ibid., pp. 413-14, 423-30.
VIII . Le guerre dei civili.
1. Raymond Daniell, Civilians Must Fight, New York 1941, pp. 4-5.
2. Mark Edele, Stalin’s Defectors: How Red Army Soldiers became Hitler’s Collaborators, 1941-1945, Oxford 2017, p. 177;
sulle statistiche della difesa civile Britannica, si veda Fred Iklé, The Social Impact of Bomb Destruction, Norman 1958, pp. 163-
64.
3. Alexander Gogun, Stalin’s Commandos: Ukrainian Partisan Forces on the Eastern Front, London 2016, pp. 155-57.
4. Margaret Anagnostopoulou, From heroines to hyenas: women partisans during the Greek civil war, in «Contemporary
European History», X (2001), p. 491, intervista dell’autrice a una veterana dei partigiani.
5. Giulio Douhet, The Command of the Air, Maxwell, Ala, 2019, pp. 14-24 [trad. it. Il dominio dell’aria e altri scritti, Roma
2002, conforme all’edizione C. De Alberti, Roma 1927, pp. 8-13, https://www.liberliber.it/online/autori/autori-d/giulio-douhet/il-
dominio-dellaria]; si veda inoltre Thomas Hippler, Bombing the People: Giulio Douhet and the Foundations of Air-Power
Strategy, 1884-1939, Cambridge 2013, cap. IV .
6. Su tali visioni, si vedano Josef Konvitz, Représentations urbaines et bombardements stratégiques, 1914-1945, in «Annales»,
XLIV (1989), pp. 823-47; Susan Grayzel, «A promise of terror to come»: air power and the destruction of cities in British
imagination and experience, 1908-39, in Stefan Goebel e Derek Keene (a cura di), Cities into Battlefields: Metropolitan
Scenarios, Experiences and Commemorations of Total War, Farnham 2011, pp. 47-62.
7. Ian Patterson, Guernica and Total War, London 2007, p. 110.
8. Goldsworthy Lowes Dickinson, War: Its Nature, Cause and Cure, London 1923, pp. 12-13.
9. Franco Manaresi, La protezione antiaerea, in Cristina Bersani e Valeria Monaco (a cura di), Delenda Bononia: immagini dei
bombardamenti 1943-1945, Bologna 1995, pp. 29-30.
10. Prefazione a Stephen Spender, Citizens in War – and After, London 1945, p. 5.
11. Terence O’Brien, Civil Defence, London 1955, p. 690, appendice X . Sul problema dei ruoli di genere, si veda Lucy Noakes,
«Serve to save»: gender, citizenship and civil defence in Britain 1937-41, in «Journal of Contemporary History», XLVII (2012),
pp. 748-49.
12. Matthew Dallek, Defenseless Under the Night: The Roosevelt Years and the Origins of Homeland Security, New York 2016,
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13. Richard Overy, The Bombing War: Europe 1939-1945, London 2013, pp. 215-17.
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15. Bernd Lemke, Luftschutz in Großbritannien und Deutschland 1923 bis 1939, München 2005, pp. 254-56.
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18. O’Brien, Civil Defence cit., pp. 548-58, 690.
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21. Ibid., pp. 46-48; Knapp e Baldoli, Forgotten Blitzes cit., p. 54.
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27. Samuel Yamashita, Daily Life in Wartime Japan 1940-1945, Lawrence 2015, p. 28.
28. RAF Museum, Hendon, Bottomley Papers, AC 71/2/31, Address to the Thirty Club by Richard Peck, 8 marzo 1944, p. 8. Per
un’analisi piú dettagliata del passaggio ai bombardamenti sulle città industriali, si veda Richard Overy, «The weak link»? The
perception of the German working class by RAF Bomber Command, 1940-1945, in «Labour History Review», LXXVII (2012),
pp. 24-31.
29. TNA, AIR 14/783, Air Staff memorandum, 7 ottobre 1943: lo scopo degli attacchi di area era «la distruzione delle case dei
lavoratori, l’uccisione degli operai specializzati e la generale devastazione dei servizi pubblici».
30. Overy, The Bombing War cit., pp. 328-30.
31. Bland (a cura di), The Papers of George Catlett Marshall cit., p. 678, rapporto di una conferenza stampa del 15 novembre
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32. Thomas Searle, «It made a lot of sense to kill skilled workers»: the firebombing of Tokyo in March 1945, in «Journal of
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34. Overy, The Bombing War cit., pp. 99-105.
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41. Iklé, The Social Impact of Bomb Destruction cit., pp. 67-68.
42. Yamashita, Daily Life in Wartime Japan cit., p. 102, da una lettera inviata nel maggio del 1945; si veda inoltre Aaron Moore,
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43. USSBS Pacific Theater, report 11, pp. 6, 69.
44. China Information Committee, China After Four Years of War, Chongqing 1941, pp. 174-75.
45. USSBS Pacific Theater, report 11, pp. 69, 200.
46. Ibid., pp. 2, 9-11.
47. I dati statistici sono tratti dalle seguenti opere: per la Francia, Jean-Charles Foucrier, La stratégie de la destruction:
bombardements alliés en France, 1944, Paris 2017, pp. 9-10; per la Cina, Diana Lary, The Chinese People at War: Human
Suffering and Social Transformation, 1937-1945, Cambridge 2010, p. 89.
48. Mitter, Lotta per la sopravvivenza cit., pp. 257-59.
49. Bernard Donoughue e G. W. Jones, Herbert Morrison: Portrait of a Politician, London 2001, pp. 316-18.
50. Edna Tow, The great bombing of Chongqing and the Anti-Japanese War, 1937-1945, in Mark Peattie, Edward Drea e Hans
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51. China Information Committee, China After Four Years of War cit., p. 179.
52. CCAC, CHAR 9/182B, Notes for a speech to civil defence workers, County Hall, London, 12 luglio 1940, pp. 4-5.
53. Matthew Cobb, The Resistance: The French Fight against the Nazis, New York 2009, pp. 39-40.
54. Tom Behan, The Italian Resistance: Fascists, Guerrillas and the Allies, London 2008, pp. 67-68; Cobb, The Resistance cit.,
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55. Sulla situazione cinese, si veda Poshek Fu, Resistance in collaboration: Chinese cinema in occupied Shanghai, 1940-1943, in
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matériaux et humains, Vincennes 2009, p. 162; CCAC, BUFt 3/51, SHAEF report, The Effect of the Overlord Plan to Disrupt
Enemy Rail Communications, pp. 1-2.
176. Wieviorka, Storia della Resistenza cit., pp. 357-59.
177. Buton, Les lendemains qui déchantent cit., pp. 104-5.
178. Thomas Laub, After the Fall: German Policy in Occupied France 1940-1944, Oxford 2010, pp. 277-80, soprattutto per i
particolari della politica di repressione del 1944.
179. Wieviorka, Storia della Resistenza cit., pp. 373-77; Buton, Les lendemains qui déchantent cit., pp. 91-92.
180. Raymond Aubrac, The French Resistance, 1940-1944, Paris 1997, pp. 35-37; Gildea, Fighters in the Shadows cit., pp. 386-
88.
181. Ibid., pp. 394-95.
182. Jean Guéhenno, Diary of the Dark Years, 1940-1944: Collaboration, Resistance, and Daily Life in Occupied Paris, Oxford
2014, p. 270, pagina del 21 agosto 1944.
183. Jean-François Muracciole, Histoire de la Résistance en France, Paris 1993, pp. 119-120; Gildea, Fighters in the Shadows
cit., pp. 395-401.
184. Philibert de Loisy, 1944, les FFI deviennent soldats: l’amalgame. De la résistance à l’armée régulière, Paris 2014, pp. 187-
89, 192-93, 258-59.
185. Richard Barry, Statement by U.K. representatives, in European Resistance Movements cit., p. 351.
186. Maria Pasini, Brescia 1945, Brescia 2015, pp. 40-41.
187. Nechama Tec, Defiance: The Bielski Partisans, New York 1993, pp. 81-82 [trad. it. Gli ebrei che sfidarono Hitler: come la
brigata partigiana dei fratelli Bielski salvò 1200 persone dai nazisti, Milano 2001, pp. 104, 152].
188. Léon Nisand, De l’étoile jaune à la Résistance armée: combat pour la dignité humaine 1942-1944, Besançon 2006, p. 21.
189. Renée Poznanski, Geopolitics of Jewish resistance in France, in «Holocaust and Genocide Studies», XV (2001), pp. 256-57;
Id., Reflections on Jewish resistance and Jewish resistants in France, in «Jewish Social Studies», II (1995), pp. 129, 134-35.
190. Walke, Pioneers and Partisans cit., pp. 132-34; Zvi Bar-On, On the position of the Jewish partisan in the Soviet partisan
movement, in European Resistance Movements cit., pp. 210-11.
191. Christian Gerlach, The Extermination of the European Jews, Cambridge 2016, pp. 407, 409-10.
192. Kochanski, The Eagle Unbowed cit., p. 303; sulla Bielorussia, si veda Walke, Pioneers and Partisans cit., pp. 121-25.
193. Kochanski, The Eagle Unbowed cit., pp. 319-21; Janey Stone, Jewish resistance in Eastern Europe, in Gluckstein (a cura
di), Fighting on All Fronts cit., pp. 113-18.
194. Philip Friedman, Jewish resistance to Nazism: its various forms and aspects, in European Resistance Movements cit., pp.
198-99.
195. Rachel Einwohner, Opportunity, honor and action in the Warsaw Ghetto 1943, in «American Journal of Sociology», CIX
(2003), p. 665.
196. Ibid., p. 661.
197. Krakowski, War of the Doomed cit., pp. 163-65.
198. Corni, I ghetti ebraici cit., p. 239.
199. Ibid.
200. James Glass, Jewish Resistance During the Holocaust: Moral Uses of Violence and Will, Basingstoke 2004, pp. 21-22;
Friedman, Jewish resistance cit., pp. 196-97.
201. Ibid., pp. 201-2; Corni, I ghetti ebraici cit.
202. Eric Sterling, The ultimate sacrifice: the death of resistance hero Yitzhak Wittenberg and the decline of the United Partisan
Organisation, in Ruby Rohrlich (a cura di), Resisting the Holocaust, Oxford 1998, pp. 59-62.
203. Ibid., p. 63; Einwohner, Opportunity, honor and action cit., p. 660.
204. Suzanne Weber, Shedding city life: survival mechanisms of forest fugitives during the Holocaust, in «Holocaust Studies»,
XVIII (2002), p. 2; Krakowski, War of the Doomed cit., pp. 10-11.
205. Glass, Jewish Resistance cit., pp. 3, 14. La vendetta compare frequentemente nelle testimonianze orali raccolte da Glass tra i
sopravvissuti ebrei del movimento di guerriglia.
206. Walke, Pioneers and Partisans cit., pp. 164-65; Glass, Jewish Resistance cit., p. 80.
207. Walke, Pioneers and Partisans cit., pp. 180-81; Tec, Gli ebrei che sfidarono Hitler cit.; Friedman, Jewish resistance cit., p.
191; Glass, Jewish Resistance cit., pp. 9-10.
208. Tec, Gli ebrei che sfidarono Hitler cit.; Krakowski, War of the Doomed cit., pp. 13-16.
209. Weber, Shedding city life cit., pp. 5-14, 21-22.
210. Krakowski, War of the Doomed cit., pp. 12-13; Weber, Shedding city life cit., pp. 23-24.
211. Glass, Jewish Resistance cit., pp. 3, 93; Bar-On, On the position of the Jewish partisan cit., pp. 235-36.
212. Amir Weiner, «Something to die for, a lot to kill for»: the Soviet system and the barbarisation of warfare , in George
Kassimeris (a cura di), The Barbarisation of Warfare, London 2006, p. 119.
213. Stone, Jewish resistance in Eastern Europe cit., p. 102; Saul Friedländer, The Years of Extermination: Nazi Germany and
the Jews 1939-1945, London 2007, p. 525 [trad. it. Gli anni dello sterminio: la Germania nazista e gli ebrei (1939-1945), Milano
2007].
214. Gildea, Fighters in the Shadows cit., pp. 229-30.
215. Poznanski, Geopolitics of Jewish resistance cit., pp. 250, 254-58.
216. Stone, Jewish resistance in Eastern Europe cit., p. 104; Rohrlich (a cura di), Resisting the Holocaust cit., p. 2.
217. Frediano Sessi, Auschwitz: storia e memorie, Venezia 2020, p. 316.
218. Friedländer, The Years of Extermination cit.
219. Per una descrizione dettagliata, si vedano Krakowski, War of the Doomed cit., pp. 163-89; Friedländer, The Years of
Extermination cit.
220. Kochanski, The Eagle Unbowed cit., pp. 309-10.
221. Kazik (Simha Rotem), Memoirs of a Warsaw Ghetto Fighter cit.
222. Krakowski, War of the Doomed cit., pp. 211-13; Stone, Jewish resistance in Eastern Europe cit., pp. 101-2; Friedman,
Jewish resistance cit., p. 204; Corni, I ghetti ebraici cit.
IX . La geografia emotiva della guerra.
1. Letzte Briefe aus Stalingrad, 1950 [trad. it. Ultime lettere da Stalingrado, Torino 1958, ePub, p. 73].
2. Ibid., p. 5.
3. Ibid., p. 26.
4. Citato in Pat Jalland, Death in War and Peace: A History of Loss and Grief in England 1914-1970, Oxford 2010, pp. 172-73.
5. Svetlana Aleksievič, The Unwomanly Face of War, London 2017 [trad. it. La guerra non ha un volto di donna: l’epopea delle
donne sovietiche nella Seconda Guerra Mondiale, Firenze-Milano 2020, ePub, p. 170].
6. David Grossman, Human factors in war: the psychology and physiology of close combat, in Michael Evans e Alan Ryan (a
cura di), The Human Face of Warfare: Killing, Fear and Chaos in Battle, London 2000, p. 10. Psichiatri e neurologi concordano
sul fatto che la minaccia di essere uccisi e uccidere altri è tra i principali «fattori di stress» in situazioni di combattimento.
7. Thomas Brown, «Stress» in US wartime psychiatry: World War II and the immediate aftermath, in David Cantor e Edmund
Ramsden (a cura di), Stress, Shock and Adaptation in the Twentieth Century, Rochester 2014, p. 123.
8. Ann-Marie Condé, «The ordeal of adjustment»: Australian psychiatric casualties of the Second World War, in «War &
Society», XV (1997), pp. 65-66.
9. Emma Newlands, Civilians into Soldiers: War, the Body and British Army Recruits 1939-1945, Manchester 2014, p. 156;
Condé, «The ordeal of adjustment» cit., pp. 64-65; Walter Bromberg, Psychiatry Between the Wars 1918-1945, New York 1982,
p. 162.
10. Grossman, Human factors in war cit., p. 7; Paul Wanke, «Inevitably any man has his threshold»: Soviet military psychiatry
during World War II – a comparative approach, in «Journal of Slavic Military Studies», XVI (2003), p. 92; Id., American
military psychiatry and its role among ground forces in World War II, in «Journal of Military History», LXIII (1999), pp. 127-33.
11. Robert Ahrenfeldt, Psychiatry in the British Army in the Second World War, London 1958, pp. 175-76, 278; Terry Copp e Bill
McAndrew, Battle Exhaustion: Soldiers and Psychiatrists in the Canadian Army, Montreal 1990, p. 126.
12. Frederick McGuire, Psychology Aweigh! A History of Clinical Psychology in the United States Navy 1900-1988, Washington
(D.C.) 1990, pp. 99-100.
13. Wanke, «Inevitably any man has his threshold» cit., p. 94, che suggerisce un raffronto con il tasso di pazienti psichiatrici
americani, con un totale di 1 007 585 casi di crolli psichici su 18 319 723 caduti dell’Armata Rossa. Riguardo al dato piú basso,
si veda Catherine Merridale, Ivan’s War: The Red Army, 1939-45, London 2005 [trad. it. I soldati di Stalin: vita e morte
nell’Armata Rossa, 1939-1945, Milano 2007]. Il dato reale è senza dubbio piú alto, considerando che molti casi non vennero
diagnosticati, oppure che furono uccisi o fatti prigionieri prima che i loro sintomi potessero essere accertati sotto il profilo
medico.
14. Peter Riedesser e Axel Verderber, Maschinengewehre hinter der Front: Zur Geschichte der deutschen Militärpsychiatrie,
Frankfurt am Main 1996, pp. 146-47, 168; Klaus Blassneck, Militärpsychiatrie im Nationalsozialismus, Würzburg 2000, pp. 35-
37.
15. Paolo Giovannini, La psichiatria di guerra: dal fascismo alla seconda guerra Mondiale, Milano 2015, pp. 73-76.
16. Bromberg, Psychiatry Between the Wars cit., p. 163; Copp e McAndrew, Battle Exhaustion cit., p. 135; Roger Reese, Why
Stalin’s Soldiers Fought: The Red Army’s Military Effectiveness in World War II, Lawrence 2011, pp. 238-39.
17. Reese, Why Stalin’s Soldiers Fought cit., pp. 173-75.
18. Mark Edele, Stalin’s Defectors: How Red Army Soldiers became Hitler’s Collaborators, 1941-1945, Oxford 2017, pp. 30-31,
111.
19. Samuel Yamashita, Daily Life in Wartime Japan 1940-1945, Lawrence 2015, p. 159.
20. I dati relativi agli Stati Uniti sono tratti da Paul Fussell, The Boys’ Crusade: American GIs in Europe. Chaos and Fear in
World War II, London 2003, p. 108; quelli della Gran Bretagna da Ahrenfeldt, Psychiatry in the British Army cit., p. 273; quelli
della Germania da Dieter Knippschild, «Für mich ist der Krieg aus»: Deserteure in der deutschen Wehrmacht, in Norbert Haase
e Gerhard Paul (a cura di), Die anderen Soldaten: Wehrkraftzersetzung, Gehorsamsverweigerung und Fahnenflucht im Zweiten
Weltkrieg, Frankfurt am Main 1995, pp. 123, 126-31; i dati riguardanti l’Italia da Mimmo Franzinelli, Disertori: una storia mai
raccontata della seconda guerra mondiale, Milano 2016, pp. 133-49.
21. Jonathan Fennell, Courage and cowardice in the North African campaign: the Eighth Army and defeat in the summer of
1942, in «War in History», XX (2013), pp. 102-5.
22. Sull’Italia, si veda Albert Cowdrey, Fighting for Life: American Military Medicine in World War II, New York 1994, pp.
149-50; Copp e McAndrew, Battle Exhaustion cit., pp. 50-51. Sul fronte indiano, si veda B. L. Raina, World War II: Medical
Services. India, New Delhi 1990, pp. 40-41.
23. Brown, «Stress» in US wartime psychiatry cit., p. 127.
24. Cowdrey, Fighting for Life cit., p. 151; G. Kurt Piehler, Veterans tell their stories and why historians and others listened, in
G. Kurt Piehler e Sidney Pash (a cura di), The United States and the Second World War: New Perspectives on Diplomacy, War
and the Home Front, New York 2010, pp. 228-29; Rebecca Plant, Preventing the inevitable: John Appel and the problem of
psychiatric casualties in the US Army in World War II, in Frank Biess e Daniel Gross (a cura di), Science and Emotions after
1945, Chicago 2014, pp. 212-17.
25. Blassneck, Militärpsychiatrie im Nationalsozialismus cit., p. 20.
26. Grossman, Human factors in war cit., pp. 7-8; Edgar Jones, LMF: the use of psychiatric stigma in the Royal Air Force
during the Second World War, in «Journal of Military History», LXX (2006), p. 449; Cowdrey, Fighting for Life cit., p. 151;
Ahrenfeldt, Psychiatry in the British Army cit., pp. 172-73; Plant, Preventing the inevitable cit., p. 222.
27. Sui crolli emotivi durante la Prima guerra mondiale, si veda per esempio Michael Roper, The Secret Battle: Emotional
Survival in the Great War, Manchester 2009, pp. 247-50, 260-65.
28. Sul mutato atteggiamento tedesco verso lo «shock da granata», si veda Jason Crouthamel, «Hysterische Männer?»
Traumatisierte Veteranen des Ersten Weltkrieges und ihr Kampf um Anerkennung im «Dritten Reich», in Babette Quinkert,
Philipp Rauh e Ulrike Winkler (a cura di), Krieg und Psychiatrie: 1914-1950, Göttingen 2010, pp. 29-34. Riguardo alle
controversie negli Stati Uniti, si veda Martin Halliwell, Therapeutic Revolutions: Medicine, Psychiatry and American Culture
1945-1970, New Brunswick 2013, pp. 20-27; sulla Gran Bretagna, Harold Merskey, After shell-shock: aspects of hysteria since
1922, in Hugh Freeman e German Berrios (a cura di), 150 Years of British Psychiatry: The Aftermath, London 1996, pp. 89-92.
29. Bromberg, Psychiatry Between the Wars cit., p. 158.
30. Paul Wanke, Russian/Soviet Military Psychiatry 1904-1945, London 2005, pp. 91-92.
31. Id., American military psychiatry cit., p. 132.
32. Gerald Grob, Der Zweite Weltkrieg und die US-amerikanische Psychiatrie, in Quinkert, Rauh e Winkler (a cura di), Krieg
und Psychiatrie cit., p. 153; Cowdrey, Fighting for Life cit., p. 139; McGuire, Psychology Aweigh! cit., pp. 35-41.
33. Edgar Jones e Simon Wessely, Shell Shock to PTSD: Military Psychiatry from 1900 to the Gulf War, Hove 2005, pp. 70-71,
76; Ben Shephard, A War of Nerves: Soldiers and Psychiatrists, 1914-1994, London 2000, p. 195.
34. Jones, LMF cit., pp. 440, 445; Sydney Brandon, LMF in Bomber Command 1939-1945: diagnosis or denouement?, in
Freeman e Berrios (a cura di), 150 Years of British Psychiatry cit., pp. 119-20.
35. Wanke, «Inevitably any man has his threshold» cit., pp. 80-81.
36. Blassneck, Militärpsychiatrie im Nationalsozialismus cit., p. 21.
37. Geoffrey Cocks, Psychotherapy in the Third Reich: The Göring Institute, New Brunswick 1997, pp. 308-16 [trad. it.
Psicoterapia nel Terzo Reich, Torino 1988]; Blassneck, Militärpsychiatrie im Nationalsozialismus cit., pp. 41-45; Riedesser e
Verderber, Maschinengewehre hinter der Front cit., pp. 135-38.
38. Wanke, «Inevitably any man has his threshold» cit., pp. 92-97.
39. Janice Matsumura, Combating indiscipline in the Imperial Japanese Army: Hayno Torao and psychiatric studies of the
crimes of soldiers, in «War in History», XXIII (2016), pp. 82-86.
40. Condé, «The ordeal of adjustment» cit., p. 65.
41. Brown, «Stress» in US wartime psychiatry cit., pp. 123-24 (la citazione è tratta da una pubblicazione del 1944 di Merrill
Moore e J. L. Henderson); Bromberg, Psychiatry Between the Wars cit., pp. 153-58; Halliwell, Therapeutic Revolutions cit., p.
25; Ellen Herman, The Romance of American Psychology: Political Culture in the Age of Experts, Berkeley 1995, pp. 86-88.
Sull’omosessualità si veda Naoko Wake, The military, psychiatry, and «unfit» soldiers, 1939-1942, in «Journal of the History of
Medicine and Allied Sciences», LXII (2007), pp. 473-90.
42. McGuire, Psychology Aweigh! cit., pp. 101-2; Condé, «The ordeal of adjustment» cit., pp. 67-68.
43. Herman, The Romance of American Psychology cit., pp. 110-11; Shephard, A War of Nerves cit., p. 235.
44. R. D. Gillespie, Psychological Effects of War on Citizen and Soldier, New York 1942, pp. 166-72; Shephard, A War of
Nerves cit., pp. 187-89.
45. Crouthamel, «Hysterische Männer?» cit., pp. 30-34; Manfred Messerschmidt, Was damals Recht war… NS-Militär-und
Strafjustiz im Vernichtungs Krieg, Essen 1996, pp. 102-6.
46. Riedesser e Verderber, Maschinengewehre hinter der Front cit., pp. 103-5, 115-17; Blassneck, Militärpsychiatrie im
Nationalsozialismus cit., pp. 17-20, 22-23.
47. Cowdrey, Fighting for Life cit., pp. 138-39.
48. Jones, LMF cit., pp. 439-44; Brandon, LMF in Bomber Command cit., pp. 119-123. Per una trattazione completa del rapporto
tra psichiatria ed equipaggi dei bombardieri, si veda Mark Wells, Courage and Air Warfare: The Allied Aircrew Experience in
the Second World War, London 1995, pp. 60-89.
49. Allan English, A predisposition to cowardice? Aviation psychology and the genesis of «Lack of Moral Fibre», in «War &
Society», XIII (1995), p. 23.
50. Condé, «The ordeal of adjustment» cit., pp. 65-72.
51. John McManus, The Deadly Brotherhood: The American Combat Soldier in World War II, New York 1998, p. 193.
52. Grossman, Human factors in war cit., pp. 9-10, 13-15; Brown, «Stress» in US wartime psychiatry cit., pp. 130-32.
53. Blassneck, Militärpsychiatrie im Nationalsozialismus cit., pp. 55-56; Cocks, Psychotherapy in the Third Reich cit., pp. 309-
12; Riedesser e Verderber, Maschinengewehre hinter der Front cit., pp. 145-46.
54. Hans Pols, Die Militäroperation in Tunisien 1942/43 und die Neuorientierung des US-amerikanischen Militärpsychiatrie, in
Quinkert, Rauh e Winkler (a cura di), Krieg und Psychiatrie cit., pp. 133-38.
55. Edgar Jones e Simon Wessely, «Forward psychiatry» in the military: its origin and effectiveness, in «Journal of Traumatic
Stress», XVI (2003), pp. 413-15; Mark Harrison, Medicine and Victory: British Military Medicine in the Second World War,
Oxford 2004, pp. 171-73.
56. Raina, World War II: Medical Services cit., p. 41.
57. Riedesser e Verderber, Maschinengewehre hinter der Front cit., pp. 135-37.
58. Catherine Merridale, The collective mind: trauma and shell-shock in twentieth-century Russia, in «Journal of Contemporary
History», XXXV (2000), pp. 43-47.
59. Ead., Ivan’s War cit.; Cowdrey, Fighting for Life cit., p. 137.
60. Gillespie, Psychological Effects of War cit., pp. 32-33, 191-94; Edgar Jones e Stephen Ironside, Battle exhaustion: the
dilemma of psychiatric casualties in Normandy, June-August 1944, in «Historical Journal», LIII (2010), pp. 112-13.
61. Pols, Die Militäroperation in Tunisien cit., pp. 135-37.
62. Giovannini, La psichiatria di guerra cit., pp. 74-76.
63. Ibid., pp. 137-39.
64. Ahrenfeldt, Psychiatry in the British Army cit., pp. 168-70; Jones e Wessely, «Forward psychiatry» cit., pp. 411-15.
65. Jones e Ironside, Battle exhaustion cit., p. 114.
66. Cowdrey, Fighting for Life cit., pp. 149-50; Pols, Die Militäroperation in Tunisien cit., pp. 140-42; Harrison, Medicine and
Victory cit., p. 114.
67. Ahrenfeldt, Psychiatry in the British Army cit., pp. 155-56.
68. Blassneck, Militärpsychiatrie im Nationalsozialismus cit., pp. 47-53, 73-85; Riedesser e Verderber, Maschinengewehre hinter
der Front cit., pp. 118-23, 140-43, 153-56.
69. Aaron Moore, Writing War: Soldiers Record the Japanese Empire, Cambridge 2013, pp. 94, 95, 127.
70. Harrison, Medicine and Victory cit., p. 177.
71. Gillespie, Psychological Effects of War cit., p. 166.
72. Ahrenfeldt, Psychiatry in the British Army cit., p. 167.
73. Halliwell, Therapeutic Revolutions cit., p. 27.
74. Merridale, Ivan’s War cit.
75. Matsumura, Combating indiscipline cit., pp. 82-83, 90-91.
76. Questo risulta evidente nelle conversazioni registrate di prigionieri tedeschi che parlavano di virtú militari, si veda Sönke
Neitzel e Harald Welzer, Soldaten: Protokolle vom Kämpfen, Töten und Sterben, Frankfurt am Main 2011, pp. 299-307.
77. Franzinelli, Disertori cit., pp. 115-16.
78. Reese, Why Stalin’s Soldiers Fought cit., pp. 161-65, 173-75.
79. Ibid., p. 171.
80. Blassneck, Militärpsychiatrie im Nationalsozialismus cit., pp. 47-50; Riedesser e Verderber, Maschinengewehre hinter der
Front cit., pp. 109, 115-16, 163-66.
81. Omer Bartov, Hitler’s Army: Soldiers, Nazis, and War in the Third Reich, New York 1991, pp. 96-99 [trad. it. L’esercito di
Hitler: soldati, nazisti e guerra nel Terzo Reich, Desenzano del Garda 1997].
82. Knippschild, «Für mich ist der Krieg aus» cit., pp. 123-26.
83. Fietje Ausländer, «Zwölf Jahre Zuchthaus! Abzusitzen nach Kriegsende!»: Zur Topographie des Strafgefangenenwesens der
deutschen Wehrmacht, in Haase e Paul (a cura di), Die anderen Soldaten cit., p. 64; Jürgen Thomas, «Nur das ist für die Truppe
Recht, was ihr nützt…» Die Wehrmachtjustiz im Zweiten Weltkrieg, ibid., p. 48.
84. Fennell, Courage and cowardice cit., p. 100.
85. Jones, LMF cit., p. 448; Brandon, LMF in Bomber Command cit., pp. 120-21.
86. Alan Allport, Browned Off and Bloody-Minded: The British Soldier Goes to War 1939-1945, New Haven 2015, pp. 251, 256.
87. Newlands, Civilians into Soldiers cit., pp. 137-38.
88. Merridale, The collective mind cit., pp. 49-50; Bernd Bonwetsch, Stalin, the Red Army, and the «Great Patriotic War», in Ian
Kershaw e Moshe Lewin (a cura di), Stalinism and Nazism: Dictatorships in Comparison, Cambridge 1997, pp. 203-6; T. H.
Rigby, Communist Party Membership in the USSR, 1917-1967, Princeton 1968, pp. 246-49.
89. Arne Zoepf, Wehrmacht zwischen Tradition und Ideologie: Der NS-Führungsoffizier im Zweiten Weltkrieg, Frankfurt am
Main 1988, pp. 35-39.
90. Jürgen Förster, Ludendorff and Hitler in perspective: the battle for the German soldier’s mind 1917-1944, in «War in
History», X (2003), pp. 329-31.
91. Reese, Why Stalin’s Soldiers Fought cit., pp. 156-58.
92. Günther Koschorrek, Blood Red Snow: The Memoirs of a German Soldier on the Eastern Front, London 2002, pp. 275-76.
93. Ultime lettere da Stalingrado cit., p. 30.
94. McManus, The Deadly Brotherhood cit., pp. 269-72; Michael Snape, War, religion and revival: the United States, British and
Canadian armies during the Second World War, in Callum Brown e Michael Snape (a cura di), Secularisation in a Christian
World: Essays in Honour of Hugh McLeod, Farnham 2010, p. 146.
95. Piehler, Veterans tell their stories cit., p. 226.
96. Moore, Writing War cit., pp. 112-13, 120.
97. Edward Glover, The Psychology of Fear and Courage, London 1940, pp. 82, 86.
98. Ahrenfeldt, Psychiatry in the British Army cit., pp. 200-2.
99. Fennell, Courage and cowardice cit., pp. 110-11.
100. McManus, The Deadly Brotherhood cit., pp. 269-70.
101. Irving Janis, Air War and Emotional Stress, New York 1951, pp. 129-31.
102. Helen Fein, Accounting for Genocide: National Responses and Jewish Victimization during the Holocaust, New York 1979.
Sulle piccole comunità legate da una comune vita emotiva, si veda Barbara Rosenwein, Problems and methods in the history of
emotions, in «Passions in Context», I (2010), pp. 10-19.
103. William Wharton, Shrapnel, London 2012, p. 155.
104. Newlands, Civilians into Soldiers cit., pp. 164-67.
105. McManus, The Deadly Brotherhood cit., pp. 323-24.
106. Simon Wessely, Twentieth-century theories on combat motivation and breakdown, in «Journal of Contemporary History»,
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107. Thomas Kühne, The Rise and Fall of Comradeship: Hitler’s Soldiers, Male Bonding and Mass Violence in the Twentieth
Century, Cambridge 2017, pp. 107-11.
108. Richard Overy, The Bombing War: Europe 1939-1945, London 2013, pp. 351-52.
109. Si veda per esempio Seth Givens, Liberating the Germans: the US Army and looting in Germany during the Second World
War, in «War in History», XXI (2014), pp. 33-54.
110. Newlands, Civilians into Soldiers cit., p. 63; Merridale, The collective mind cit., pp. 53-54.
111. Matsumura, Combating indiscipline cit., pp. 92-93; Merridale, Ivan’s War cit.
112. Peipei Qiu, Su Zhiliang e Chen Lifei, Chinese Comfort Women: Testimonies from Imperial Japan’s Sex Slaves, New York
2013, pp. 21-34; Newlands, Civilians into Soldiers cit., pp. 124-35.
113. Hester Vaizey, Surviving Hitler’s War: Family Life in Germany 1939-1948, Basingstoke 2010, p. 65; Ann Pfau, Allotment
Annies and other wayward wives: wartime concerns about female disloyalty and the problem of the returned veteran, in Piehler e
Pash (a cura di), The United States and the Second World War cit., pp. 100-5.
114. Michael Snape, God and Uncle Sam: Religion and America’s Armed Forces in World War II, Woodbridge 2015, pp. 349,
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Beating the odds: superstition and human agency in RAF Bomber Command 1942-1945, in «War in History», XXII (2015), pp.
382-400.
115. Snape, War, religion and revival cit., p. 138.
116. Per maggiori particolari ibid., pp. 138-49; McManus, The Deadly Brotherhood cit., pp. 273-75.
117. Snape, God and Uncle Sam cit., pp. 327, 332-33, 343.
118. James Sparrow, Warfare State: World War II America and the Age of Big Government, Oxford 2011, pp. 65-67; Bromberg,
Psychiatry Between the Wars cit., p. 152.
119. Per maggiori particolari sulla guerra di bombardamento in Europa, si veda Overy, The Bombing War cit., passim. Sulla
guerra aerea contro il Giappone, si vedano Kenneth Werrell, Blankets of Fire: U. S. Bombers over Japan during World War II,
Washington (D.C.) 1996 e Barrett Tillman, Whirlwind: The Air War against Japan 1942-1945, New York 2010.
120. Edward Glover, War, Sadism and Pacifism: Further Essays on Group Psychology and War, London 1947, pp. 161-66;
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Medicine», XVII (2004), pp. 463-79; Shephard, A War of Nerves cit., pp. 178-79.
121. Janis, Air War and Emotional Stress cit., p. 72; Dietmar Süss, Death from the Skies: How the British and Germans Survived
Bombing in World War II, Oxford 2014, pp. 344-46.
122. Gillespie, Psychological Effects of War cit., pp. 107-8; Janis, Air War and Emotional Stress cit., p. 72.
123. UEA, Zuckerman Archive, OEMU/57/3, bozza di rapporto, Hull (s.d. ma novembre 1941).
124. E. Stengel, Air raid phobia, in «British Journal of Medical Psychology», XX (1944-46), pp. 135-43.
125. Janis, Air War and Emotional Stress cit., pp. 78-79.
126. Ibid., pp. 59-60, 73-77.
127. Shephard, A War of Nerves cit., pp. 181-82.
128. Janis, Air War and Emotional Stress cit., p. 78; M. I. Dunsdon, A psychologist’s contribution to air raid problems, in
«Mental Health», II (1941), pp. 40-41; E. P. Vernon, Psychological effects of air raids, in «Journal of Abnormal and Social
Psychology», XXXVI (1941), pp. 457-76.
129. Janis, Air War and Emotional Stress cit., pp. 103-4, 106-8.
130. Ibid., pp. 88-91; Gillespie, Psychological Effects of War cit., pp. 126-27.
131. UEA, Zuckerman Archive, OEMU/57/5, Hull report, appendice II , Case Histories.
132. James Stern, The Hidden Damage, London 1990.
133. Merridale, The collective mind cit., pp. 47-48.
134. Overy, The Bombing War cit., pp. 462-63.
135. Yamashita, Daily Life in Wartime Japan cit., pp. 13-14, 17-34.
136. Si veda per esempio Mark Connelly, We Can Take It! Britain and the Memory of the Second World War, Harlow 2004.
137. Sulla Germania, si vedano J. W. Baird, To Die for Germany: Heroes in the Nazi Pantheon, Bloomington 1990; Neil Gregor,
A «Schicksalsgemeinschaft»? Allied bombing, civilian morale, and social dissolution in Nuremberg, 1942-1945, in «Historical
Journal», XLIII (2000), pp. 1051-70; Riedesser e Verderber, Maschinengewehre hinter der Front cit., pp. 105-6, 163-64;
sull’Unione Sovietica, si veda Merridale, The collective mind cit., pp. 43-50.
138. Riguardo alla Gran Bretagna, rimando a Jalland, Death in War and Peace cit., pp. 132-37; sul Giappone, si veda Yamashita,
Daily Life in Wartime Japan cit., pp. 20-21.
139. Glover, Psychology of Fear and Courage cit., pp. 62-65.
140. Cocks, Psychotherapy in the Third Reich cit.
141. Janis, Air War and Emotional Stress cit., pp. 110-11.
142. George Gallup (a cura di), The Gallup International Public Opinion Polls: Great Britain, 1937-1975, New York 1976, pp.
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143. Vanessa Chambers, «Defend us from all perils and dangers of this night»: coping with bombing in Britain during the
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144. Claudia Baldoli, Religion and bombing in Italy, 1940-1945, ibid., pp. 146-48; Claudia Baldoli e Marco Fincardi, Italian
society under the bombs: propaganda, experience and legend, 1940-1945, in «Historical Journal», LII (2009), pp. 1030-32; Alan
Perry, Pippo: an Italian folklore mystery of World War II, in «Journal of Folklore Research», XL (2003), pp. 115-16, 120-23.
145. Janis, Air War and Emotional Stress cit., pp. 172-74.
146. Süss, Death from the Skies cit., pp. 263-66.
147. Chambers, «Defend us from all perils and dangers of this night» cit., pp. 156-57.
148. Baldoli, Religion and bombing cit., pp. 139-49; Süss, Death from the Skies cit., pp. 267-68, 271-72.
149. Elena Skrjabina, Siege and Survival: The Odyssey of a Leningrader, Carbondale 1971, pp. 39-41, pagine del 15 e 26
novembre 1941.
150. Ibid., p. 24, pagina del 5 settembre 1941.
151. Olga Kucherenko, Little Soldiers: How Soviet Children went to War 1941-1945, Oxford 2011, pp. 204-6, 226-27.
152. Maggiori particolari sui rapporti e i vari casi si possono reperire in Wanke, Russian/Soviet Military Psychiatry cit., pp. 74-
78.
153. Ruth Gay, Safe Among the Germans: Liberated Jews after World War II, New Haven 2002, pp. 44-45; Dan Stone, The
Liberation of the Camps: The End of the Holocaust and its Aftermath, New Haven 2015, pp. 1-26.
154. Gay, Safe Among the Germans cit., pp. 74-75.
155. Joseph Berger, Displaced persons: a human tragedy of World War II, in «Social Research», XIV (1947), pp. 49-50; Ralph
Segalman, The psychology of Jewish displaced persons, in «Jewish Social Service Quarterly», XXXIII-XIV (1947), pp. 361, 364-
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156. Gay, Safe Among the Germans cit., pp. 67-68.
157. Daniel Pick, The Pursuit of the Nazi Mind: Hitler, Hess and the Analysts, Oxford 2012.
158. Tadeusz Grygier, Oppression: A Study in Social and Criminal Psychology, London 1954, pp. XII , 20-23, 27, 42.
159. David Boder, The impact of catastrophe: assessment and evaluation, in «Journal of Psychology», XXXVIII (1954), pp. 4-8.
160. Alan Rosen, The Wonder of Their Voices: The 1946 Holocaust Interviews of David Boder, Oxford 2010, pp. 134-35, 183-
86. La versione completa delle interviste è stata pubblicata in David Boder, Die Toten habe ich nicht befragt, a cura di Julia
Faisst, Alan Rosen e Werner Sollors, Heidelberg 2011, pp. 125-238.
161. Rosen, The Wonder of Their Voices cit., pp. 195-98; Boder, Die Toten habe ich nicht befragt cit., pp. 16-17.
162. Id., The impact of catastrophe cit., pp. 4, 16, 42-77.
163. Pfau, Allotment Annies cit., pp. 107-9.
164. Halliwell, Therapeutic Revolutions cit., pp. 20-22; Erin Redfern, The Neurosis of Narrative: American Literature and
Psychoanalytic Psychiatry during World War II, Evanston 2003, pp. 16-25.
165. Halliwell, Therapeutic Revolutions cit., pp. 20, 25.
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167. Lori Watt, When Empire Comes Home: Repatriation and Reintegration in Postwar Japan, Cambridge 2009, pp. 134-35,
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168. Stephen Casey, When Soldiers Fall: How Americans Have Confronted Combat Losses from World War I to Afghanistan,
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3. Rubenstein e Altman (a cura di), The Unknown Black Book cit., p. 274; Walke, Pioneers and Partisans cit., p. 191.
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11. Schrijvers, The GI War against Japan cit., p. 222.
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13. De Zayas, The Wehrmacht War Crimes Bureau cit., pp. 107-8.
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18. Ball, Prosecuting War Crimes and Genocide cit., pp. 67-69.
19. Moore, Writing War cit., p. 123.
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25. Michael Sturma, Atrocities, conscience, and unrestricted warfare: US submarines during the Second World War, in «War in
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26. Ibid., pp. 449-50; John Dower, War without Mercy: Race and Power in the Pacific War, New York 1986, p. 36.
27. Johnston, Fighting the Enemy cit., pp. 78-80, 94-95; McManus, The Deadly Brotherhood cit., pp. 210-11.
28. James Weingartner, Trophies of war: U. S. troops and the mutilation of Japanese war dead, 1941-1945, in «Pacific Historical
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29. Schrijvers, The GI War against Japan cit., pp. 207-10; Johnston, Fighting the Enemy cit., pp. 80-82; Craig Cameron, Race
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30. Tarak Barkawi, Soldiers of Empire: Indian and British Armies in World War II, Cambridge 2017, pp. 208-17.
31. Theo Schulte, The German Army and Nazi Policies in Occupied Russia, Oxford 1989, pp. 317-20.
32. Jeff Rutherford, Combat and Genocide on the Eastern Front: The German Infantry’s War 1941-1944, Cambridge 2014, pp.
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33. Habeck, The modern and the primitive cit., p. 85; si veda inoltre Alex Kay, A «war in a region beyond state control?» The
German-Soviet war 1941-1944, in «War in History», XVIII (2011), pp. 111-12.
34. Felix Römer, The Wehrmacht in the war of ideologies, in Alex Kay, Jeff Rutherford e David Stahel (a cura di), Nazi Policy on
the Eastern Front, 1941: Total War, Genocide, and Radicalization, New York 2012, pp. 74-75, 81.
35. Sönke Neitzel e Harald Welzer, Soldaten: Protokolle vom Kämpfen, Töten und Sterben, Frankfurt am Main 2011, pp. 135-37;
Rutherford, Combat and Genocide on the Eastern Front cit., pp. 86-90; Bartov, Fronte orientale cit.
36. Amaon Sella, The Value of Human Life in Soviet Warfare, London 1992, pp. 100-2.
37. Günther Koschorrek, Blood Red Snow: The Memoirs of a German Soldier on the Eastern Front, London 2002, p. 275.
38. Catherine Merridale, Ivan’s War: The Red Army, 1939-45, London 2005 [trad. it. I soldati di Stalin: vita e morte nell’Armata
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39. De Zayas, The Wehrmacht War Crimes Bureau cit., p. 88.
40. Maria Giusti, I prigionieri italiani in Russia, Bologna 2014, p. 132.
41. Felicia Yap, Prisoners of war and civilian internees of the Japanese, in «Journal of Contemporary History», XLVII (2012), p.
317; Ball, Prosecuting War Crimes and Genocide cit., p. 84.
42. Niall Ferguson, Prisoner taking and prisoner killing: the dynamic of defeat, surrender and barbarity in the age of total war ,
in Kassimeris (a cura di), Barbarisation of Warfare cit., p. 142.
43. Riguardo ai dati sovietici, desidero ringraziare James Bacque per avermi fornito le statistiche compilate dal dipartimento
Carcerario del ministero degli Esteri dell’Urss sui prigionieri di guerra degli ex eserciti europei 1941-45, 28 aprile 1956; si veda
inoltre Russkij Archiv 13: Nemeckie Voennoplennye v SSSR, Moskva 1999, č. I, p. 9. Sui prigionieri giapponesi si veda S. I.
Kuznetsov, The situation of Japanese prisoners of war in Soviet camps, in «Journal of Slavic Military Studies», VIII (1995), pp.
612-29. Sui prigionieri di guerra sovietici rimando a Alfred Streim, Sowjetische Gefangene in Hitlers Vernichtungskrieg:
Berichte und Dokumente, Heidelberg 1982, p. 175; Christian Streit, Die sowjetische Kriegsgefangenen in den deutschen Lagern,
in D. Dahlmann e Gerhard Hirschfeld (a cura di), Lager, Zwangsarbeit, Vertreibung und Deportationen, Essen 1999, pp. 403-4.
44. Giusti, I prigioneri italiani cit., p. 133
45. Eri Hotta, Japan 1941: Countdown to Infamy, New York 2013, p. 93.
46. Ball, Prosecuting War Crimes and Genocide cit., p. 63.
47. Yap, Prisoners of war and civilian internees cit., pp. 323-24; Tanaka, Hidden Horrors cit., pp. 16-18.
48. Ibid., pp. 26-27.
49. Habeck, The modern and the primitive cit., p. 87.
50. Christian Hartmann, Massensterben oder Massenvernichtung? Sowjetische Kriegsgefangenen im «Unternehmen
Barbarossa», in «Vierteljahreshefte für Zeitgeschichte», XLIX (2001), p. 105; Merridale, Ivan’s War cit.; Bartov, Fronte
orientale cit.
51. Christian Streit, Keine Kameraden: Die Wehrmacht und die sowjetischen Kriegsgefangenen, 1941-1945, Bonn 1978, p. 128.
52. Stefan Karner, Im Archipel GUPVI: Kriegsgefangenschaft und Internierung in der Sowjetunion 1941-1956, Wien 1995, pp.
90-94; Russkij Archiv 13, pp. 69, 76, 159-160; Giusti, I prigionieri italiani cit., p. 127.
53. Karner, Im Archipel GUPVI cit., pp. 94-104.
54. Giusti, I prigionieri italiani cit., pp. 100-102, 110-11, 125-29.
55. Seth Givens, Liberating the Germans: the US Army and looting in Germany during the Second World War , in «War in
History», XXI (2014), pp. 35-36.
56. Neville Wylie, Loot, gold and tradition in the United Kingdom’s financial warfare strategy 1939-1945, in «International
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57. Givens, Liberating the Germans cit., pp. 35-36.
58. Rutherford, Combat and Genocide on the Eastern Front cit., pp. 107-8.
59. Zygmunt Klukowski, Diary of the Years of Occupation 1939-1944, Urbana 1993, pp. 28-30, 47, giorni del 20, 23 settembre e
30 ottobre 1939.
60. Mark Mazower, Inside Hitler’s Greece: The Experience of Occupation 1941-1944, New Haven 1993, pp. 23-24.
61. Ball, Prosecuting War Crimes and Genocide cit., p. 64; Harries e Harries, Soldiers of the Sun cit., p. 411.
62. Rutherford, Combat and Genocide on the Eastern Front cit., pp. 105-10.
63. Givens, Liberating the Germans cit., pp. 33, 46-47.
64. William Wharton, Shrapnel, London 2012, pp. 182-83.
65. Amir Weiner, «Something to die for, a lot to kill for»: the Soviet system and the barbarisation of warfare , in Kassimeris (a
cura di), The Barbarisation of Warfare cit., pp. 102-5.
66. Givens, Liberating the Germans cit., pp. 45-46.
67. Gianluca Fulvetti e Paolo Pezzino (a cura di), Zone di Guerra, Geografie di Sangue: l’atlante delle stragi naziste e fasciste
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68. Massimo Storchi, Anche contro donne e bambini: stragi naziste e fasciste nella terra dei fratelli Cervi , Reggio Emilia 2016,
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69. Peter Lieb, Repercussions of Eastern Front experiences on anti-partisan warfare in France 1943-1944, in «Journal of
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70. Alastair McLauchlan, War crimes and crimes against humanity on Okinawa: guilt on both sides, in «Journal of Military
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71. Hans Van de Ven, War and Nationalism in China 1925-1945, London 2003, p. 284; Weiner, «Something to die for, a lot to
kill for» cit., pp. 119-21.
72. Wendy Lower, Nazi Empire-Building and the Holocaust in Ukraine, Chapel Hill (N.C.) 2005, pp. 19-29, riguardo alla natura
coloniale dell’occupazione tedesca nei territori dell’Est. Sul diverso atteggiamento tedesco all’Ovest e all’Est, si veda Lieb,
Repercussions of Eastern Front experiences cit., pp. 797-98, 802-3.
73. Patrick Bernhard, Behind the battle lines: Italian atrocities and the persecution of Arabs, Berbers, and Jews in North Africa
during World War II, in «Holocaust and Genocide Studies», XXVI (2012), pp. 425-32.
74. Id., Die «Kolonialachse»: Der NS-Staat und Italienisch-Afrika 1935 bis 1943, in Lutz Klinkhammer, Amadeo Guerrazzi e
Thomas Schlemmer (a cura di), Die «Achse» im Krieg: Politik, Ideologie und Kriegführung 1939-1945, Paderborn 2010, pp. 164-
68. Per uno studio di carattere generale sulle atrocità perpetrate dai militari italiani, si veda Gianni Oliva, «Si ammazza troppo
poco»: i crimini di guerra italiani 1940-43, Milano 2006.
75. Alex Kay, Transition to genocide, July 1941: Einsatzkommando 9 and the annihilation of Soviet Jewry, in «Holocaust and
Genocide Studies», XXVII (2013), pp. 411-413; Id., A «war in a region beyond state control?» cit., pp. 112-15.
76. Van de Ven, War and Nationalism in China cit., pp. 283-84.
77. Tanaka, Hidden Horrors cit., pp. 186-92; Harries e Harries, Soldiers of the Sun cit., p. 405.
78. Henning Pieper, The German approach to counter-insurgency in the Second World War, in «International History Review»,
LVII (2015), pp. 631-36; Alexander Prusin, A community of violence: structure, participation, and motivation in comparative
perspective, in «Holocaust and Genocide Studies», XXI (2007), pp. 5-9.
79. Storchi, Anche contro donne e bambini cit., p. 29; Ben Shepherd, With the Devil in Titoland: a Wehrmacht anti-partisan
division in Bosnia-Herzegovina, 1943, in «War in History», XVI (2009), p. 84; Edward Westermann, «Ordinary men» or
«ideological soldiers»? Police Battalion 310 in Russia, 1942, in «German Studies Review», XXI (1998), p. 57.
80. Lieb, Repercussions of Eastern Front experience cit., p. 806; Shepherd, With the Devil in Titoland cit., pp. 84-85.
81. Storchi, Anche contro donne e bambini cit., p. 23; Lieb, Repercussions of Eastern Front experience cit., p. 798.
82. Walke, Pioneers and Partisans cit., pp. 191-92; Weiner, «Something to die for, a lot to kill for» cit., pp. 117-21.
83. Giovanni Pesce, And No Quarter: An Italian Partisan in World War II, Athens 1972, p. 211.
84. Ibid., p. 176.
85. Merridale, Ivan’s War cit.
86. TNA, AIR 41/5 J. M. Spaight, The International Law of the Air 1939-1945, 1946, pp. 1-15.
87. Richard Overy, The Bombing War: Europe 1939-1945, London 2013, pp. 247-49; Peter Gray, The gloves will have to come
off: a reappraisal of the legitimacy of the RAF Bomber Offensive against Germany, in «Air Power Review», XIII (2010), pp. 15-
16.
88. Ronald Schaffer, American military ethics in World War II: the bombing of German civilians, in «Journal of American
History», LXVII (1980), p. 321.
89. Charles Webster e Noble Frankland, The Strategic Air Offensive against Germany 1939-45, London 1961, pp. 258-60; si
veda inoltre Richard Overy, «Why we bomb you»: liberal war-making and moral relativism in the RAF bomber offensive, 1940-
45, in Alan Cromartie (a cura di), Liberal Wars: Anglo-American Strategy, Ideology, and Practice, London 2015, pp. 25-29.
90. TNA, AIR 14/1812, Operational Research Report, 14 settembre 1943.
91. TNA, AIR 14/1813, bozza del messaggio di A. G. Dickens a Arthur Harris, 23 febbraio 1945 (le note a margine sono di
Harris).
92. Thomas Earle, «It made a lot of sense to kill skilled workers»: the firebombing of Tokyo in March 1945, in «Journal of
Military History», LXVI (2002), pp. 117-21.
93. Conrad Crane, Evolution of U.S. strategic bombing of urban areas, in «Historian», L (1987), p. 37.
94. Cameron, Race and identity cit., p. 564.
95. Tsuyoshi Hasegawa, Were the atomic bombs justified?, in Yuki Tanaka e Marilyn Young (a cura di), Bombing Civilians: A
Twentieth-century History, New York 2009, pp. 118-19.
96. Crane, Evolution of U. S. strategic bombing cit., p. 36.
97. Richard Overy, The Nuremberg Trials: international law in the making, in Philippe Sands (a cura di), From Nuremberg to
The Hague: The Future of International Criminal Justice, Cambridge 2003, pp. 10-11.
98. Sulla violenza genocida del colonialismo, si veda Michelle Gordon, Colonial violence and holocaust studies, in «Holocaust
Studies», XXI (2015), pp. 273-76; Tom Lawson, Coming to terms with the past: reading and writing colonial genocide in the
shadow of the Holocaust, ivi, XX (2014), pp. 129-56.
99. Horne, Race War cit., pp. 266, 270.
100. Peter Duus, Nagai Ryutaro and the «White Peril», 1905-1944, in «Journal of Asian Studies», XXXI (1971), pp. 41-47.
101. Ronald Takaki, Double Victory: A Multicultural History of America in World War II, New York 2000, p. 148.
102. McManus, The Deadly Brotherhood cit., p. 202; Schrijvers, The GI War against Japan cit., pp. 218-19.
103. Harrison, Skull trophies of the Pacific war cit., pp. 818-21.
104. Johnston, Fighting the Enemy cit., pp. 85-87.
105. Raffael Scheck, «They are just savages»: German massacres of black soldiers from the French army, 1940, in «Journal of
Modern History», LXXVII (2005), pp. 325-40.
106. Si veda per esempio Mikhail Tyaglyy, Were the «Chingené» victims of the Holocaust? Nazi policy toward the Crimean
Roma, 1941-1944, in «Holocaust and Genocide Studies», XXIII (2009), pp. 26-40. Sulla sorte del popolo rom nell’Est, si veda
Johannes Enstad, Soviet Russians under Nazi Occupation: Fragile Loyalties in World War II, Cambridge 2018, pp. 66-70;
Brenda Lutz, Gypsies as victims of the Holocaust, in «Holocaust and Genocide Studies», IX (1995), pp. 346-59.
107. Thomas Kühne, Male bonding and shame culture: Hitler’s soldiers and the moral basis of genocidal warfare, in Olaf Jensen
e Claus-Christian Szejnmann (a cura di), Ordinary People as Mass Murderers: Perpetrators in Comparative Perspective,
Basingstoke 2008, pp. 69-71.
108. Jürgen Matthäus, Controlled escalation: Himmler’s men in the summer of 1941 and the Holocaust in the occupied Soviet
territories, in «Holocaust and Genocide Studies», XXI (2007), pp. 219-20.
109. Lower, Nazi Empire-Building cit., pp. 75-76; Kay, Transition to genocide cit., p. 422; Matthäus, Controlled escalation cit.,
p. 223.
110. Sara Bender, Not only in Jedwabne: accounts of the annihilation of the Jewish shtetlach in north-eastern Poland in the
summer of 1941, in «Holocaust Studies», XIX (2013), pp. 2-3, 14, 19-20, 24-25.
111. Leonid Rein, Local collaboration in the execution of the «final solution» in Nazi-occupied Belorussia, in «Holocaust and
Genocide Studies», XX (2006), p. 388.
112. Simon Geissbühler, «He spoke Yiddish like a Jew»: neighbours’ contribution to the mass killing of Jews in Northern
Bukovina and Bessarabia, July 1941, ivi, XXVIII (2014), pp. 430-36; Id., The rape of Jewish women and girls during the first
phase of the Romanian offensive in the East, July 1941, in «Holocaust Studies», XIX (2013), pp. 59-65.
113. Rein, Local collaboration cit., pp. 392-94; Eric Haberer, The German police and genocide in Belorussia, 1941-1944: police
deployment and Nazi genocidal directives, in «Journal of Genocide Research», III (2001), pp. 19-20.
114. Rein, Local collaboration cit., p. 391.
115. Kühne, Male bonding and shame culture cit., pp. 57-58, 70; Peter Lieb offre un interessante caso di studio in Täter aus
Überzeugung? Oberst Carl von Andrian und die Judenmorde der 707 Infanteriedivision 1941/42, in «Vierteljahrshefte für
Zeitgeschichte», L (2002), pp. 523-24, 536-38.
116. Lower, Nazi Empire-Building cit., pp. 78-81.
117. Andrej Angrick, The men of Einsatzgruppe D: an inside view of a state-sanctioned killing unit in the «Third Reich» , in
Jensen e Szejnmann (a cura di), Ordinary People as Mass Murderers cit., p. 84.
118. Dick de Mildt, In the Name of the People: Perpetrators of Genocide in the Reflection of Their Post-War Prosecution in West
Germany, The Hague 1996, p. 2.
119. Matthäus, Controlled escalation cit., pp. 228-29.
120. Waitman Beorn, Negotiating murder: a Panzer signal company and the destruction of the Jews of Peregruznoe 1942 , in
«Holocaust and Genocide Studies», XXIII (2009), pp. 185-95.
121. Christopher Browning, Ordinary Men: Reserve Police Battalion 101 and the Final Solution in Poland, London 1992 [trad.
it. Uomini comuni: polizia tedesca e «soluzione finale» in Polonia, Torino 2020, pp. 72, 144].
122. Jürgen Matthäus, Die Beteiligung der Ordnungspolizei am Holocaust, in Wolf Kaiser (a cura di), Täter im
Vernichtungskrieg: Der Überfall auf die Sowjetunion und der Völkermord an den Juden, Berlin 2002, pp. 168-76.
123. Stephen Fritz, Ostkrieg: Hitler’s War of Extermination in the East, Lexington 2011, p. 374.
124. Si veda per esempio Westermann, «Ordinary men» or «ideological soldiers»? cit., pp. 43-48. Tra il 38 e il 50 per cento di
ciascuna unità del Reserve-Polizei-Bataillon 101 era formato da iscritti al Partito nazionalsocialista.
125. Esiste oggi un’ampia letteratura sulla psicologia sociale dei colpevoli dell’Olocausto, si veda Richard Overy, «Ordinary
men», extraordinary circumstances: historians, social psychology, and the Holocaust, in «Journal of Social Issues», LXX (2014),
pp. 513-38; Arthur Miller, The Social Psychology of Good and Evil, New York 2004, cap. IX .
126. Rein, Local collaboration cit., pp. 394-95.
127. Edward Westermann, Stone-cold killers or drunk with murder? Alcohol and atrocity during the Holocaust, in «Holocaust
and Genocide Studies», XXX (2016), pp. 4-7.
128. Ilya Ehrenburg e Vasily Grossman, The Complete Black Book of Russian Jewry, a cura di David Patterson, New Brunswick
2002, p. 382 [trad. it. Il libro nero: il genocidio nazista nei territori sovietici 1941-1945, Milano 2001]; De Zayas, The
Wehrmacht War Crimes Bureau cit., p. 189; Peipei Qiu, Su Zhiliang e Chen Lifei, Chinese Comfort Women: Testimonies from
Imperial Japan’s Sex Slaves, New York 2013, p. 22.
129. Gloria Gaggioli, Sexual violence in armed conflicts: a violation of international humanitarian law and human rights law, in
«International Review of the Red Cross», XCVI (2014), pp. 506, 512-13.
130. Nomi Levenkron, Death and the maidens: «prostitution», rape, and sexual slavery during World War II, in Sonja Hedgepeth
e Rochelle Saidel (a cura di), Sexual Violence against Jewish Women during the Holocaust, Waltham 2010, pp. 15-17.
131. Tanaka, Hidden Horrors cit., pp. 96-97; George Hicks, The «comfort women», in Peter Duus, Ramon Myers e Mark Peattie
(a cura di), The Japanese Wartime Empire, Princeton 1996, p. 310.
132. Nicole Bogue, The concentration camp brothel in memory, in «Holocaust Studies», XXII (2016), p. 208.
133. Annette Timm, Sex with a purpose: prostitution, venereal disease, and militarized masculinity in the Third Reich, in
«Journal of the History of Sexuality», XI (2002), pp. 225-27; Janice Matsumura, Combating indiscipline in the Imperial
Japanese Army: Hayno Torao and psychiatric studies of the crimes of soldiers, in «War in History», XXIII (2016), p. 96.
134. Regina Mühlhäuser, The unquestioned crime: sexual violence by German soldiers during the war of annihilation in the
Soviet Union 1941-45, in Raphaëlle Branche e Fabrice Virgili (a cura di), Rape in Wartime, Basingstoke 2017, pp. 35, 40-42.
135. Emma Newlands, Civilians into Soldiers: War, the Body and British Army Recruits 1939-1945, Manchester 2014, pp. 124-
35; Mark Harrison, Medicine and Victory: British Military Medicine in the Second World War, Oxford 2004, pp. 98-104.
136. Raffaello Pannacci, Sex, military brothels and gender violence during the Italian campaign in the USSR, 1941-3, in
«Journal of Contemporary History», LV (2020), pp. 79-86.
137. Timm, Sex with a purpose cit., pp. 237-50; Levenkron, Death and the maidens cit., pp. 19-20; Helene Sinnreich, The rape of
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Jeffrey Burds, Sexual violence in Europe during World War II, 1939-1945, in «Politics & Society», XXXVII (2009), pp. 37-41.
138. Peipei, Su e Chen, Chinese Comfort Women cit., pp. 1, 9-11, 37-38; Hicks, The «comfort women» cit., pp. 311-12.
139. Ibid., p. 312; Tanaka, Hidden Horrors cit., pp. 98-99; Michael Seth, A Concise History of Modern Korea, Lanham 2016, pp.
81-82.
140. Peipei, Su e Chen, Chinese Comfort Women cit., pp. 30-38, 48. Il macabro episodio delle baionette fu raccontato da un
veterano della XIV Divisione di stanza nel Nord della Cina nelle ultime fasi della guerra.
141. Brigitte Halbmayr, Sexualised violence against women during Nazi «racial» persecution, in Hedgepeth e Saidel (a cura di),
Sexual Violence against Jewish Women cit., pp. 33-35; Mühlhäuser, The unquestioned crime cit., pp. 37-38.
142. Wharton, Shrapnel cit., p. 189.
143. David Snyder, Sex Crimes under the Wehrmacht, Lincoln (Nebr.) 2007, p. 137.
144. J. Robert Lilly, Taken by Force: Rape and American GIs in Europe during World War II, Basingstoke 2007, p. 11; Elisabeth
Krimmer, Philomena’s legacy: rape, the Second World War, and the ethics of reading, in «German Quarterly», LXXXVIII
(2015), pp. 83-84.
145. Miriam Gebhardt, Crimes Unspoken: The Rape of German Women at the End of the Second World War, Cambridge 2017,
pp. 18-22.
146. Peipei, Su e Chen, Chinese Comfort Women cit., pp. 37-38.
147. Johnston, Fighting the Enemy cit., pp. 98-99.
148. Weiner, «Something to die for, a lot to kill for» cit., pp. 114-15.
149. Merridale, Ivan’s War cit.
150. Alexandra Richie, Warsaw 1944: The Fateful Uprising, London 2013, pp. 283, 302.
151. Elisabeth Wood, Conflict-related sexual violence and the policy implications of recent research, in «International Review of
the Red Cross», XCVI (2014), pp. 472-74.
152. James Messerschmidt, Review symposium: the forgotten victims of World War II: masculinities and rape in Berlin 1945, in
«Violence Against Women», XII (2006), pp. 706-9.
153. Schrijvers, The GI War against Japan cit., pp. 210-12; McLauchlan, War crimes and crimes against humanity cit., pp. 364-
65.
154. Lilly, Taken by Force cit., p. 12; Tanaka, Hidden Horrors cit., pp. 101-3; Joanna Bourke, Rape: A History from 1860 to the
Present, London 2007, pp. 357-58.
155. Robert Kramm, Haunted by defeat: imperial sexualities, prostitution and the emergence of postwar Japan, in «Journal of
World History», XXVIII (2017), pp. 606-7.
156. Lilly, Taken by Force cit., pp. 22-23.
157. Julie Le Gac, Vaincre sans gloire: le corps expéditionnaire français en Italie (novembre 1942 - juillet 1944), Paris 2014,
pp. 432-46.
158. Annette Warring, Intimate and sexual relations, in Robert Gildea, Olivier Wieviorka e Annette Warring (a cura di),
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159. Snyder, Sex Crimes under the Wehrmacht cit., pp. 149, 157-58.
160. Birthe Kundrus, Forbidden company: domestic relationships between Germans and foreigners 1939 to 1945, in «Journal of
the History of Sexuality», XI (2002), pp. 201-6.
161. Walke, Pioneers and Partisans cit., p. 152; Mühlhäuser, The unquestioned crime cit., pp. 38-39.
162. Snyder, Sex Crimes under the Wehrmacht cit., pp. 138-42; Mühlhäuser, The unquestioned crime cit., pp. 41-42.
163. Peipei, Su e Chen, Chinese Comfort Women cit., pp. 28-29.
164. Matsumura, Combating indiscipline cit., p. 91.
165. Milovan Djilas, Conversations with Stalin, New York 1962, p. 161 [trad. it. Conversazioni con Stalin, Milano 1978].
166. Gebhardt, Crimes Unspoken cit., pp. 73-75.
167. Krimmer, Philomena’s legacy cit., pp. 90-91.
168. James Mark, Remembering rape: divided social memory of the Red Army in Hungary 1944-1945, in «Past & Present»,
CLXXXVIII (2005), pp. 133, 140-42.
169. Svetlana Aleksievič, The Unwomanly Face of War, London 2017 [trad. it. La guerra non ha un volto di donna: l’epopea
delle donne sovietiche nella Seconda Guerra Mondiale, Firenze-Milano 2020, ePub, p. 44].
170. Helene Sinnreich, «And it was something we didn’t talk about»: rape of Jewish women during the Holocaust, in «Holocaust
Studies», XIV (2008), pp. 10-11.
171. Anatoly Podolsky, The tragic fate of Ukrainian Jewish women under Nazi occupation, in Hedgepeth e Saidel (a cura di),
Sexual Violence against Jewish Women cit., p. 99.
172. Levenkron, Death and the maidens cit., pp. 16-19; Sinnreich, The rape of Jewish women cit., pp. 109-15; Zoë Waxman,
Rape and sexual abuse in hiding, in Hedgepeth e Saidel (a cura di), Sexual Violence against Jewish Women cit., pp. 126-31;
Westermann, Stone-cold killers cit., pp. 12-13; Burds, Sexual violence in Europe cit., pp. 42-46.
173. Podolsky, The tragic fate of Ukrainian Jewish women cit., pp. 102-3; Geissbühler, «He spoke Yiddish like a Jew» cit., pp.
430-34.
174. Schrijvers, The GI War against Japan cit., pp. 220-21.
175. Wharton, Shrapnel cit., p. 252.
176. Moore, Writing War cit., p. 145.
177. Neitzel e Welzer, Soldaten cit., pp. 158-59.
178. Ehrenburg e Grossman, The Complete Black Book cit., p. 529.
179. Christopher Browning, Nazi Policy, Jewish Workers, German Killers, Cambridge 2000, pp. 155-56. Sul significato
psicologico dell’ordine, si veda Harald Welzer, On killing and morality: how normal people become mass murderers, in Jensen e
Szejnmann (a cura di), Ordinary People as Mass Murderers cit., pp. 173-79.
180. Theo Schulte, The German soldier in occupied Russia, in Paul Addison e Angus Calder (a cura di), Time to Kill: The
Soldier’s Experience of War in the West, 1939-1945, London 1997, pp. 274-76. Sull’inversione comportamentale dell’omicida, si
veda Dorothea Frank, Menschen Töten, Düsseldorf 2006, p. 12.
181. Sturma, Atrocities, conscience and unrestricted warfare cit., p. 458.
182. Overy, «Ordinary men», extraordinary circumstances cit., pp. 518-19, 522-23.
183. Si tratta di interviste condotte nel 1995-96 per un documentario della BBC sul Bomber Command, si veda Richard Overy,
Bomber Command, 1939-1945, London 1997, in particolare le pp. 198-201 per alcuni esempi di tali interviste.
184. McManus, The Deadly Brotherhood cit., p. 206.
185. Moore, Writing War cit., p. 145.
186. Hasegawa, Were the atomic bombs justified? cit., p. 119.
187. Andrew Rotter, Hiroshima: The World’s Bomb, Oxford 2008, p. 128, lettera inviata a Samuel Cavert l’11 agosto 1945.
188. Moore, Writing War cit., p. 245.
189. Andrew Clapham, Issues of complexity, complicity and complementarity: from the Nuremberg Trials to the dawn of the
International Criminal Court, in Sands (a cura di), From Nuremberg to The Hague cit., pp. 31-33, 40; Ball, Prosecuting War
Crimes and Genocide cit., p. 73.
190. Clapham, Issues of complexity cit., pp. 40-41; Ball, Prosecuting War Crimes and Genocide cit., p. 77; Norbert Ehrenfreund,
The Nuremberg Legacy: How the Nazi War Crimes Trials Changed the Course of History, New York 2007, pp. 115-21.
191. Beatrice Trefalt, Japanese war criminals in Indochina and the French pursuit of justice: local and international constraints ,
in «Journal of Contemporary History», XLIX (2014), pp. 727-29.
192. Ball, Prosecuting War Crimes and Genocide cit., pp. 56-57, 74-76; Cameron, Race and identity cit., p. 564.
193. Beorn, Negotiating murder cit., p. 199.
194. Gaggioli, Sexual violence in armed conflicts cit., pp. 512-13, 519-20.
195. McManus, The Deadly Brotherhood cit., p. 211.
XI . Da imperi a nazioni: un’era globale diversa.
1. Amanke Okafor, Nigeria: Why We Fight for Freedom, London 1949, p. 6.
2. TNA, KV2/1853, Colonial Office to Special Branch, 22 settembre 1950; Security Liaison Office to Director General, MI5, 20
ottobre 1950, G. N. A. Okafar; Director General to Security Liaison Office, West Africa, 12 giugno 1950.
3. Okafor, Nigeria cit., pp. 5, 30, 39.
4. David Roll, The Hopkins Touch: Harry Hopkins and the Forging of the Alliance to Defeat Hitler, Oxford 2015, pp. 173-74.
5. TNA, FO 898/413, Political Warfare Executive, Projection of Britain, propaganda to Europe: general policy papers.
6. Jean-Christophe Notin, La campagne d’Italie 1943-1945: les victoires oubliées de la France, Paris 2002, pp. 692-93; Richard
Lamb, War in Italy 1943-1945: A Brutal Story, London 1993 [trad. it. La guerra in Italia 1943-45, Milano 2000]; David
Stafford, Endgame 1945: Victory, Retribution, Liberation, London 2007, pp. 354, 469-70.
7. Nicola Labanca, Oltremare: storia dell’espansione coloniale Italiana, Bologna 2002, pp. 428-33; Saul Kelly, Cold War in the
Desert: Britain, the United States and the Italian Colonies, 1945-52, New York 2000, pp. 164-67.
8. Antonio Morone, L’ultima colonia: come l’Italia è tornata in Africa 1950-1960, Roma 2011, pp. 131-33, 176-77, 383; Kelly,
Cold War in the Desert cit., pp. 169-71.
9. Ian Connor, Refugees and Expellees in Post-War Germany, Manchester 2007, pp. 8-10, sui primi insediamenti tedeschi.
10. Labanca, Oltremare cit., pp. 438-39; Gerard Cohen, In War’s Wake: Europe’s Displaced Persons in the Postwar Order, New
York 2012, p. 6.
11. Lori Watt, When Empire Comes Home: Repatriation and Reintegration in Postwar Japan, Cambridge 2009, pp. 1-3, 43-44.
12. Louise Young, Japan’s Total Empire: Manchuria and the Culture of Wartime Imperialism, Berkeley 1998, pp. 410-11.
13. Watt, When Empire Comes Home cit., pp. 43-47, 97.
14. Ibid., pp. 47-50.
15. Haruko Cook e Theodore Cook (a cura di), Japan at War: An Oral History, New York 1992, pp. 413-15, testimonianza di
Iitoyo Shōgo, funzionario del ministero del Commercio e Industria.
16. Connor, Refugees and Expellees cit., p. 13.
17. Raymond Douglas, Orderly and Humane: The Expulsion of the Germans after the Second World War, New Haven 2012, pp.
1-2, 93-96.
18. Ibid., p. 96.
19. Ibid., pp. 126, 149.
20. Ibid., pp. 124-25, 160-61, 309; Ruth Wittlinger, Taboo or tradition? The «Germans-as-victims» theme in the Federal
Republic until the mid-1990s, in Bill Niven (a cura di), Germans as Victims, Basingstoke 2006, pp. 70-73.
21. Diana Lary, The Chinese People at War: Human Suffering and Social Transformation, 1937-1945, Cambridge 2010, p. 170.
22. G. Daniel Cohen, Between relief and politics: refugee humanitarianism in occupied Germany, in «Journal of Contemporary
History», XLIII (2008), p. 438.
23. Jessica Reinisch, «We shall build anew a powerful nation»: UNRRA, internationalism, and national reconstruction in
Poland, ivi, pp. 453-54.
24. Mark Wyman, DPs: Europe’s Displaced Persons, 1945-1951, Ithaca 1998, pp. 39, 46-47.
25. Ibid., pp. 17-19, 37, 52. Nel marzo del 1946 vi erano 844 144 sfollati affidati all’UNRRA; 562 841 nell’agosto del 1948.
26. Cohen, Between relief and politics cit., pp. 445, 448-49.
27. R. Rummell, Lethal Politics: Soviet Genocide and Mass Murder since 1917, London 1996, pp. 194-95; Mark Edele, Stalin’s
Defectors: How Red Army Soldiers became Hitler’s Collaborators, 1941-1945, Oxford 2017, pp. 139-42.
28. Nicolas Bethell, The Last Secret: Forcible Repatriation to Russia 1944-1947, London 1974, pp. 92-118; Keith Lowe, Savage
Continent: Europe in the Aftermath of World War II, London 2012, pp. 252-62.
29. Cohen, In War’s Wake cit., p. 26.
30. Wyman, DPs cit., pp. 186-90, 194-95, 202-4.
31. James Barr, Lords of the Desert: Britain’s Struggle with America to Dominate the Middle East, London 2018, p. 22.
32. Jessica Pearson, Defending the empire at the United Nations: the politics of international colonial oversight in the era of
decolonization, in «Journal of Imperial and Commonwealth History», XLV (2017), pp. 528-29.
33. Jan Eckel, Human rights and decolonization: new perspectives and open questions, in «Humanity: An International Journal
of Human Rights, Humanitarianism and Development», I (2010), pp. 114-16.
34. Stefanie Wichhart, Selling democracy during the second British occupation of Iraq, 1941-5, in «Journal of Contemporary
History», XLVIII (2013), pp. 525-26.
35. Eckel, Human rights and decolonization cit., p. 118; Dane Kennedy, Decolonization: A Very Short Introduction, Oxford
2016, p. 1; W. David McIntyre, Winding up the British Empire in the Pacific Islands, Oxford 2014, pp. 90-91.
36. Lanxin Xiang, Recasting the Imperial Far East: Britain and America in China 1945-1950, Armonk 1995, p. 38.
37. Peter Catterall, The plural society: Labour and the Commonwealth idea 1900-1964, in «Journal of Imperial and
Commonwealth History», XLVI (2018), p. 830; H. Kumarasingham, Liberal ideals and the politics of decolonization, ibid., p.
818. La citazione di Montgomery è tratta da Tour of Africa November-December 1947, 10 dicembre 1947.
38. Kennedy, Decolonization cit., pp. 34-35.
39. Geraldien von Frijtag Drabbe Künzel, «Germanje»: Dutch empire-building in Nazi occupied Europe, in «Journal of Genocide
Research», XIX (2017), pp. 251-53; Bart Luttikhuis e Dirk Moses, Mass violence and the end of Dutch colonial empire in
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41. Anne Deighton, Entente neo-coloniale? Ernest Bevin and proposals for an Anglo-French Third World Power 1945-1949, in
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42. Christopher Prior, «The community which nobody can define»: meanings of the Commonwealth in the late 1940s and 1950s,
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43. Harry Mace, The Eurafrique initiative, Ernest Bevin and Anglo-French relations in the Foreign Office 1945-50, in
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44. Deighton, Entente neo-coloniale? cit., pp. 842-45.
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46. Jason Parker, Remapping the Cold War in the tropics: race, communism, and national security in the West Indies, in
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47. Geoffrey Roberts, Stalin’s Wars: From World War to Cold War, 1939-1953, New Haven 2006, pp. 318-19.
48. Leslie James, Playing the Russian game: black radicalism, the press, and Colonial Office attempts to control anti-colonialism
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49. Balázs Szalontai, The «sole legal government of Vietnam»: the Bao Dai factor and Soviet attitudes toward Vietnam 1947-
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50. Eckel, Human rights and decolonization cit., pp. 122, 126.
51. Penny von Eschen, Race against Empire: Black Americans and Anticolonialism 1937-1957, Ithaca 1997, pp. 45-50; James,
Playing the Russian game cit., pp. 509, 512.
52. Parker, Remapping the Cold War in the tropics cit., pp. 322-23; Von Eschen, Race against Empire cit., p. 47.
53. McIntyre, Winding up the British Empire cit., pp. 24-26.
54. Yasmin Khan, The Great Partition: The Making of India and Pakistan, New Haven 2007, p. 25.
55. Mary Becker, The All-India Muslim League 1906-1947, Karachi 2013, pp. 225-29; Khan, The Great Partition cit., p. 38.
56. Christopher Bayly e Tim Harper, Forgotten Wars: The End of Britain’s Asian Empire, London 2007, p. 77.
57. Ranabir Samaddar, Policing a riot-torn city: Kolkata, 16-18 August 1946, in «Journal of Genocide Research», XIX (2017),
pp. 40-41, 43-45.
58. Bayly e Harper, Forgotten Wars cit., pp. 253-57.
59. Thomas, Fight or Flight cit., pp. 108-9.
60. Bayly e Harper, Forgotten Wars cit., pp. 163-65, 173.
61. Ibid., pp. 170-71.
62. William Frederick, The killing of Dutch and Eurasians in Indonesia’s national revolution, 1945-49: a «brief genocide»
reconsidered, in «Journal of Genocide Research», XIV (2012), pp. 362-64.
63. Petra Groen, Militant response: the Dutch use of military force and the decolonization of the Dutch East Indies, in «Journal of
Imperial and Commonwealth History», XXI (1993), pp. 30-32; Luttikhuis e Moses, Mass violence cit., pp. 257-58.
64. Jennifer Foray, Visions of Empire in the Nazi-Occupied Netherlands, Cambridge 2012, pp. 296-97, 301-3.
65. Gert Oostindie, Ireen Hoogenboom e Jonathan Verwey, The decolonization war in Indonesia, 1945-1949: war crimes in
Dutch veterans’ egodocuments, in «War in History», XXV (2018), pp. 254-55, 265-66; Bart Luttikhuis, Generating distrust
through intelligence work: psychological terror and the Dutch security services in Indonesia, ivi, pp. 154-57.
66. Kennedy, Decolonization cit., pp. 53-54; John Darwin, After Tamerlane: The Global History of Empire since 1405, London
2007, pp. 435-36, 450-51.
67. Vincent Kuitenbrouwer, Beyond the «trauma of decolonization»: Dutch cultural diplomacy during the West New Guinea
question (1950-1962), in «Journal of Imperial and Commonwealth History», XLIV (2016), pp. 306-9, 312-15.
68. Robert Schulzinger, A Time for War: The United States and Vietnam 1941-1975, New York 1997, pp. 16-17.
69. Bayly e Harper, Forgotten Wars cit., pp. 148-49.
70. Ibid., p. 20; Thomas, Fight or Flight cit., pp. 124-25.
71. François Guillemot, «Be men!»: fighting and dying for the state of Vietnam (1951-54), in «War & Society», XXXI (2012),
pp. 188-95.
72. Szalontai, The «sole legal government of Vietnam» cit., pp. 3-4, 26-29.
73. Kennedy, Decolonization cit., pp. 51, 54.
74. Bayly e Harper, Forgotten Wars cit., pp. 355-56.
75. Ibid., pp. 428-32; David French, Nasty not nice: British counter-insurgency doctrine and practice, 1945-1967, in «Small
Wars and Insurgencies», XXIII (2012), pp. 747-48.
76. Bruno Reis, The myth of British minimum force in counter-insurgency campaigns during decolonization (1945-1970), in
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77. Steven Paget, «A sledgehammer to crack a nut?» Naval gunfire support during the Malayan emergency, in «Small Wars and
Insurgencies», XXVIII (2017), pp. 367-70.
78. Keith Hack, Everyone lived in fear: Malaya and the British way of counter-insurgency, ivi, XXIII (2012), pp. 671-72;
Thomas, Fight or Flight cit., pp. 139-40.
79. French, Nasty not nice cit., p. 748.
80. Hack, Everyone lived in fear cit., pp. 681, 689-92.
81. Kumarasingham, Liberal ideals cit., p. 816.
82. Ian Hall, The revolt against the West: decolonization and its repercussions in British international thought, 1945-75, in
«International History Review», XXXIII (2011), p. 47.
83. Pearson, Defending the empire cit., pp. 528-36; Meredith Terretta, «We had been fooled into thinking that the UN watches
over the entire world»: human rights, UN Trust Territories, and Africa’s decolonisation, in «Human Rights Quarterly», XXXIV
(2012), pp. 332-37.
84. Ibid., pp. 338-43.
85. Daniel Branch, The enemy within: loyalists and the war against Mau Mau in Kenya, in «Journal of African History», XLVIII
(2007), p. 298.
86. Thomas, Fight or Flight cit., pp. 218-19, 223-26.
87. Branch, The enemy within cit., pp. 293-94, 299.
88. Timothy Parsons, The Second British Empire: In the Crucible of the Twentieth Century, Lanham 2014, pp. 176-77.
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XXIII (2012), pp. 701-7; French, Nasty not nice cit., pp. 752-56; Thomas, Fight or Flight cit., pp. 232-33.
90. Jean-Charles Jauffert, The origins of the Algerian war: the reaction of France and its army to the two emergencies of 8 May
1945 and 1 November 1954, in «Journal of Imperial and Commonwealth History», XXI (1993), pp. 19-21.
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93. Keith Sutton, Population resettlement – traumatic upheavals and the Algerian experience, in «Journal of Modern African
Studies», XV (1977), pp. 285-89.
94. Thomas, Fight or Flight cit., pp. 318-28.
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Mapping the End of Empire: American and British Strategic Visions in the Postwar World, Cambridge 2014, pp. 14-15, 135-142;
Thomas, Fight or Flight cit., pp. 68-70.
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100. Barr, Lords of the Desert cit., pp. 126-30, 134-39.
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104. Parsons, The Second British Empire cit., p. 124; John Kent, The Egyptian base and the defence of the Middle East 1945-
1954, in «Journal of Imperial and Commonwealth History», XXI (1993), p. 45.
105. Ibid., pp. 53-60; Judge e Langdon, The Struggle against Imperialism cit., pp. 78-79.
106. Martin Thomas e Richard Toye, Arguing about Empire: Imperial Rhetoric in Britain and France, 1882-1956, Oxford 2017,
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107. Walton, Empire of Secrets cit., p. 298.
108. Husain, Mapping the End of Empire cit., p. 29.
109. Barr, Lords of the Desert cit., pp. 24-28, 61; Fieldhouse, Western Imperialism cit., pp. 184-85.
110. Ibid., pp. 205-6.
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112. Eliezir Tauber, The Arab military force in Palestine prior to the invasion of the Arab armies, in «Middle Eastern Studies»,
LI (2016), pp. 951-52, 957-62.
113. Barr, Lords of the Desert cit., pp. 73-74; Fieldhouse, Western Imperialism cit., pp. 187-88.
114. Barr, Lords of the Desert cit., pp. 84-88; Thomas, Fight or Flight cit., p. 117.
115. Walton, Empire of Secrets cit., pp. 105-6.
116. Wyman, DPs cit., pp. 138-39, 155; Cohen, In War’s Wake cit., pp. 131-40.
117. Barr, Lords of the Desert cit., pp. 63-64.
118. Ibid., pp. 88-90.
119. Tauber, The Arab military force in Palestine cit., pp. 966-77; James Bunyan, To what extent did the Jewish Brigade
contribute to the establishment of Israel?, in «Middle Eastern Studies», LI (2015), pp. 40-41; Fieldhouse, Western Imperialism
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120. Wyman, DPs cit., p. 155.
121. Hans Van de Ven, China at War: Triumph and Tragedy in the Emergence of the New China 1937-1952, London 2017, pp.
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122. Beverley Loke, Conceptualizing the role and responsibility of great power: China’s participation in negotiations toward a
post-war world order, in «Diplomacy & Statecraft», XXIV (2013), pp. 213-14.
123. Robert Bickers, Out of China: How the Chinese Ended the Era of Western Domination, London 2017, pp. 230-31; Xiaoyan
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Empire, Cambridge 1996, p. 153.
124. Xiang, Recasting the Imperial Far East cit., pp. 4, 25-26.
125. Ibid., p. 55.
126. Ibid., pp. 94-95; Sarah Paine, The Wars for Asia 1911-1949, Cambridge 2012, p. 234.
127. Debi Unger e Irwin Unger, George Marshall: A Biography, New York 2014, p. 371.
128. Jay Taylor, The Generalissimo: Chiang Kai-Shek and the Struggle for Modern China, Cambridge 2011, pp. 339-43.
129. Odd Arne Westad, Decisive Encounters: The Chinese Civil War 1946-1950, Stanford 2003, p. 35; Taylor, The
Generalissimo cit., p. 343; Unger e Unger, George Marshall cit., p. 375.
130. Liu, A Partnership for Disorder cit., p. 282.
131. Taylor, The Generalissimo cit., p. 350; Paine, The Wars for Asia cit., pp. 239-40.
132. Westad, Decisive Encounters cit., pp. 47, 150-53.
133. Diana Lary, China’s Civil War: A Social History, 1945-1949, Cambridge 2015, p. 3; Paine, The Wars for Asia cit., p. 226.
134. Lifeng Li, Rural mobilization in the Chinese Communist Revolution: from the anti-Japanese War to the Chinese Civil War,
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135. Lary, China’s Civil War cit., pp. 89-90.
136. Bickers, Out of China cit., pp. 264-66.
137. Taylor, The Generalissimo cit., p. 381.
138. Unger e Unger, George Marshall cit., pp. 379-81.
139. Paine, The Wars for Asia cit., pp. 245, 251.
140. Van de Ven, China at War cit., pp. 244-47.
141. Frank Dikötter, The Tragedy of Liberation: A History of the Chinese Revolution 1945-57, London 2013, pp. 4-5.
142. Ibid., pp. 6-8.
143. Taylor, The Generalissimo cit., p. 400.
144. Van de Ven, China at War cit., p. 251.
145. Dongill Kim, Stalin and the Chinese civil war, in «Cold War History», X (2010), pp. 186-91.
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147. Dikötter, The Tragedy of Liberation cit., p. 41.
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153. Neil Smith, American Empire: Roosevelt’s Geographer and the Prelude to Globalization, Stanford 2003, pp. 351-55.
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157. Alexander Statiev, The Soviet Counterinsurgency in the Western Borderlands, Cambridge 2010, p. 131.
158. Ibid., pp. 117, 125, 133.
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163. Mark Kramer, Stalin, Soviet policy, and the establishment of a communist bloc in Eastern Europe, 1941-1948, in Timothy
Snyder e Ray Brandon (a cura di), Stalin and Europe: Imitation and Domination 1928-1953, New York 2014, pp. 270-71.
164. Ibid., pp. 280-81; Roberts, Stalin’s Wars cit., pp. 314-19.
165. Norman Naimark, Stalin and the Fate of Europe: The Postwar Struggle for Sovereignty, Cambridge 2019, pp. 18-25.
166. Walton, Empire of Secrets cit., pp. 224-25.
167. Kennedy, Essay and reflection cit., pp. 98-99.
168. Michael Seth, A Concise History of Modern Korea, Lanham 2016, p. 105; Ronald Spector, After Hiroshima: Allied military
occupation and the fate of Japan’s empire, in «Journal of Military History», LXIX (2005), p. 1132.
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170. Seth, A Concise History of Modern Korea cit., pp. 101-5.
171. Basic Facts about the United Nations, New York 1995, pp. 89-90.
172. Seth, A Concise History of Modern Korea cit., pp. 120-21.
173. Margery Perham, The Colonial Reckoning: The Reith Lectures, London 1963, p. 13.
Indice analitico
Abadan.
Abdullah, re della Transgiordania.
Abe Hiroaki.
Aberdeen Proving Ground.
Abissinia vedi Etiopia.
accordo navale anglo-tedesco (1935).
Aceh, sultanato di.
Acheson, Dean.
Adam, Ronald.
Adams, Mary.
Addams, Jane.
Addis Abeba.
Aden.
Adlertag (giorno dell’aquila).
Admiralty Experimental Department.
Adriatico, mare.
Advance Air Striking Force.
Advanced Air Headquarters.
Advisory Committee on Camouflage.
Advisory Committee on Problems of Foreign Relations (1939).
aerei:
– americani: Bell XP-59A; Boeing B-17 «Fortezza volante»; Boeing B-29 «Superfortezza»; Brewster F2A Buffalo; Consolidated
B-24; Curtiss SB2C Helldiver; Curtiss P-40 Kittyhawk; Douglas DC-3; Douglas SBD Dauntless; Grumman FBF Hellcat;
Gruman TBF Avenger; Lockheed P-38 Lightning; North American P-51 Mustang; Republic P-47 Thunderbolt.
– britannici: Avro Lancaster; De Havilland Mosquito; Fairey Swordfish; Gloster Gladiator; Handley Page Halifax; Handley Page
Heyford, 637; Hawker Hurricane; Hawker Tempest; Hawker Typhoon; Short Sunderland; Supermarine Spitfire; Vickers
Wellington.
– italiani: Fiat CR-42.
– giapponesi: Aichi D3 Val; Mitsubishi A6M Zero; Nakajima B5N Kate.
– sovietici: Iljušin Il-2 Šturmovik; Jakovlev Jak-1b; Jakovlev Jak-3; Jakovlev Jak-7b; Lavočkin La-5.
– tedeschi: Dornier Do17; Focke-Wulf Fw190; Heinkel He111; Heinkel He162; Heinkel He177; Junkers Ju52; Junkers Ju87;
Junkers Ju88; Messerschmitt Bf109; Messerschmitt Bf110; Messerschmitt Me262.
Afghanistan.
Africa orientale italiana.
Africa orientale tedesca.
Africa sud-occidentale tedesca.
Afrika Korps.
Agenti dei «servizi speciali» (Giappone); vedi anche senbu-xuanfu.
Agenzia ebraica.
Ageron, Charles-Robert.
Águilas Aztecas (aviatori messicani).
Aia, Convenzione dell’ (1907); vedi anche «Leggi e consuetudini della guerra terrestre»; «Regole dell’Aia per la guerra aerea».
Ain el-Gazala.
Air Corps Tactical School.
Air Defense Command.
Air Raid Precautions Act (1937).
Air Transport Auxiliary.
Aisne, fiume.
Aktion Gewitter (operazione «Tempesta di tuoni»).
Aktion Reinhard.
Aktion T4.
Alam el-Halfa, battaglia di.
Alamogordo (New Mexico).
Alaska.
Albani, Colli.
Albania.
Aleppo.
Alessandria d’Egitto.
Aleutine, isole.
Alexander, Harold.
Algemayner yidisher arbeter bund (Unione generale dei lavoratori ebrei [di Lituania, Polonia e Russia]).
Algeri.
Algeria.
Alicante (Spagna).
alimentari, rifornimenti.
alleanza anglo-giapponese (1902).
alleanza anglo-polacca (1939).
Allied Advisory Council (istituito per l’Italia).
Allied Control Council (istituito per la resa della Germania).
All-India Muslim League (Lega musulmana panindiana); vedi anche Jinnah, Muhammad.
Alpenfestung (Fortezza alpina).
Alpi, catena montuosa delle.
Alsazia.
Alsazia-Lorena.
Alta Slesia.
Alto Nilo.
Amau, dottrina (Giappone).
Amba Aradam.
Amboina, isola.
Ambrosio, Vittorio.
Amburgo.
Amedeo di Savoia, duca d’Aosta.
American Committee for the Outlawry of War.
American Federal Council of the Churches of Christ (Consiglio federale americano delle Chiese di Cristo).
American Joint Board of Scientific Education.
American Joint War Plans Committee.
American Microwave Committee; vedi anche magnetron.
American Psychiatric Society.
Ammiragliato francese.
Ammiragliato (Gran Bretagna).
Ammiragliato, isole dell’.
Amphibious Training School (Slapton Sands).
Amphtrack («trattore anfibio»).
Amritsar.
Amtsgruppe für Wehrmachtpropaganda (dipartimento delle Forze armate per la propaganda).
Anami Korechika.
Anatolia.
«Andere Deutschland, Das».
Anders, Władysłav.
Anderson, Kenneth.
Angkatan Pemuda Insaf («generazione dei giovani consapevoli», Malesia); vedi anche pemuda.
Anglo-Iranian Oil Company.
Angola.
Anielewicz, Mordechai.
Annam (Vietnam).
anticarro, armi.
antisemitismo.
Antonescu, Ion; vedi anche Romania.
Antonescu, Mihai; vedi anche Romania.
Antonov, Aleksej.
Anversa (Antwerp).
Anzio.
appeasement.
Appel, John.
Arabia Saudita.
arabo-israeliana, guerra (1948).
Arbeitserziehungslager («Campi di rieducazione al lavoro»).
Arcadia, colloqui.
Archangel’sk.
Ardenne, foreste delle.
Argenlieu, Georges-Thierry d’.
Argentan (Francia).
Arita Hachirō.
Arlington Hall (Virginia).
Armata Rossa:
– e atrocità.
– e battaglia di Kursk.
– e battaglia di Stalingrado.
– e battaglie di Char’kov (Char’kiv).
– e campagne del 1943.
– e campagne del 1944.
– e crimini sessuali.
– e difesa di Mosca.
– diserzioni nella.
– e guerra corazzata.
– e inganno/disinformazione.
– e insurrezioni postbelliche.
– e intelligence.
– e invasione della Manciuria.
– e invasione della Polonia.
– e invasione tedesca dell’Unione Sovietica.
– e liberazione della Polonia.
– e operazione Bagration.
– e operazione Visla-Oder.
– e pazienti psichiatrici.
– e presa di Berlino.
– e reclutamento femminile.
Armata Rossa, unità della:
– VI Armata.
– XIII Armata.
– LXII Armata.
– LXIV Armata.
– 1-yj Belorusskij Front (I Gruppo d’armata Bielorussia).
– 2-oj Belorusskij Front (II Gruppo d’armata Bielorussia).
– 3-ij Belorusskij Front (III Gruppo d’armata Bielorussia).
– Brjanskij Front (Gruppo d’armata Brjansk).
– Central’nyj Front (Gruppo d’armata centrale).
– 8-ja Gvardejskaja armija (VIII Armata della Guardia).
– 1-ja Gvardejskaja tankovaja armija (I Armata corazzata della Guardia).
– 3-ja Gvardejskaja tankovaja armija (III Armata corazzata della Guardia).
– 4-ja Gvardejskaja tankovaja armija (IV Armata corazzata della Guardia).
– 5-ja Gvardejskaja tankovaja armija (V Armata corazzata della Guardia).
– 1-yj Pribaltijskij Front (I Gruppo d’armata Baltico).
– Stepnoj Front (Gruppo d’armata Steppa).
– 1-yj Ukrainskij Front (I Gruppo d’armata Ucraina).
– 2-oj Ukrainskij Front (II Gruppo d’armata Ucraina).
– Voronežskij Front (Gruppo d’armata Voronež).
– 8-ja Vozdušnaja armija (VIII Armata aerea).
– Zapadnyj Front (Gruppo d’armata occidentale).
Armée juive.
Armée secrète.
Armellini, Quirino.
armistizio franco-italiano (1940).
armistizio franco-tedesco (1940).
Armstrong, Edwin.
Arnhem.
Arnim, Hans-Jürgen von.
Arnold, Archibald.
Arnold, Henry.
Arras.
Artico, mare.
Artillerijskoe upravlenie (Direzione centrale dell’artiglieria, Urss).
Arzi Hukumat-e-Azad Hind (governo provvisorio dell’India libera).
Asaka Yasuhiko, principe del Giappone.
Assam.
Associazione degli studiosi della Bibbia, vedi Testimoni di Geova.
Associazione dell’industria aeronautica (Giappone).
Associazione per il raggiungimento dell’unità tra le Chiese (Giappone).
Associazione per la promozione di un Nuovo ordine (Giappone).
Astier de la Vigerie, Emmanuel d’.
Astrachan’.
Atene.
Atlantico, battaglia dell’.
Atlantico, oceano.
Atlas, Icheskel, leader partigiano.
atomici, attacchi.
Attlee, Clement, primo ministro britannico.
Attu; vedi anche Aleutine, isole.
Auchinleck, Claude.
Aung San; vedi anche Birmania; Esercito per l’Indipendenza della Birmania.
Auschwitz-Birkenau, campo di sterminio di.
Australia:
– IX Divisione di fanteria australiana.
austro-ungarico, impero.
Auxiliary Air Corps.
Auxiliary Territorial Service.
Avasinis (Friuli).
Avola.
Avranches.
Avventisti del Settimo giorno.
Azad Hind Fauj (Esercito nazionale indiano).
Azikiwe, Nnamdi.
Azov, Mar d’.
Azuma Shirō.
Babij Jar, eccidio di.
Backe, Herbert.
Bach-Zelewski, Erich von dem.
Badoglio, Pietro.
Baghdad.
Bai Chongxi.
Bakaničev, Anatolij.
Baku.
Balaton, lago.
Baltico, Mar.
Baltico, stati del.
Baltimora.
Ba Maw.
Banca Mondiale.
«banda Stern», vedi Lohamei Herut Israel.
Bandera, Stepan; vedi anche Ucraina, banderivci.
Bangkok.
Bao Dai, imperatore dell’Annam.
Barbados.
Barbarians at the Gate (I barbari alle porte); vedi anche Woolf, Leonard.
Barbey, Daniel.
Bardia.
Barkas, Geoffrey de.
Barkhausen-Kurz, tubo di; vedi anche magnetron.
Barnes, Ernest.
Barnes, Gladeon.
Barry, Richard.
Bartholomew, William.
Bartov, Omer.
Bassora.
Bastian, Max.
Bastogne.
Basutoland.
Bataan, penisola di.
Batavia (oggi Giacarta).
Battle of the Bulge («battaglia della sacca»); vedi anche Ardenne.
Batumi.
Bauer, Hans.
Bayerische Motoren Werke (BMW).
Bayeux.
Bazooka M1.
Beaverbrook, Max.
Bechuanaland.
Beck, Ludwig.
Beda Fomm.
Begin, Menachem.
Behari Bose, Rash.
Beijing (Pechino).
Beipiao.
Beirut.
Beitaying, base di.
Belfast.
Belgio:
– aviazione belga.
– esercito belga.
Belgorod.
Belgrado.
Belinski, Hirsch.
Bell, George.
Bell, Joseph.
Bell Telephone Laboratories.
Below, Nikolaus von.
Bełżec, campo di lavoro.
Ben Bella, Ahmed.
Benedetto XV, papa.
Beneš, Edouard.
Bengala.
Bengala, golfo del.
Ben-Gurion, David.
Ben Hecht, nave.
Bensusan-Butt, David.
Bergamo.
Berka (quartiere a luci rosse del Cairo).
Berlino.
Bermuda.
Berna.
Bernhardi, Friedrich von.
Beršad’ (Berşad), ghetto di.
Bessarabia.
Best, Werner.
Bethnal Green, stazione di.
Betio, isola di.
Bevan, John.
Beveridge, William.
Bevin, Ernest, ministro degli Esteri britannico.
Bhāratīya Kamyunisṭ Pārṭī (Partito comunista dell’India).
Bhāratīya Rāṣtrīya Kā̃gres (Indian National Congress Party; Partito del Congresso).
Biak, isola di.
Białystok.
Bielorussia.
Bielski, brigata.
Bielski, Tuvia.
Billion Dollar Gift («regalo da un miliardo di dollari» al Canada).
Biltmore, Dichiarazione di.
Bintan, isola di.
Bir Hacheim.
Birmania (oggi Myanmar); vedi anche Aung San:
– Esercito nazionale birmano.
– Esercito per l’Indipendenza della.
– Forza di difesa della.
– Movimento antifascista per la libertà del popolo (Hpa Hsa Pa La).
Birmingham.
Birmingham, Università di.
Bismarck, arcipelago delle.
Bismarck, corazzata.
Bismarck, Otto von.
Bizerta.
Björklund, Johannes.
Blamey, Thomas.
Blaskowitz, Johannes.
Bletchley Park.
Blitz; vedi anche Inghilterra, battaglia d’.
blocco mercantile:
– della Germania.
– del Giappone.
– della Gran Bretagna.
– dell’Italia.
Blum, Léon.
Blumentritt, Günther.
Bobrujsk.
Bock, Fedor von.
Boder, David.
Boemia e Moravia.
Boestamam, Ahmad.
Boevoj Ustav Voenno-Vozdušnych Sil (Regole di combattimento per l’aviazione militare).
Bologna.
bolscevichi; vedi anche Rivoluzione d’Ottobre.
Bolzano.
bombardamenti:
– in Francia.
– in Germania.
– in Giappone.
– in Gran Bretagna.
– in Italia.
Bombay (oggi Mumbai).
Bomber Command (RAF).
Bombing Restriction Committee (Comitato per la limitazione dei bombardamenti).
Bonin, isole.
Bonnet, Georges.
Boot, Henry.
Bordeaux.
Boris III di Sassonia-Coburgo-Gotha, zar di Bulgaria.
Borisov, ghetto di.
Bór-Komorowski, Tadeusz.
Bormann, Martin.
Borneo britannico.
Borneo olandese.
Boston.
Botoşani.
Bottai, Giuseppe.
Bottom, Virgil.
Bougainville.
Boulogne.
Bourguébus, cresta di.
Bowen, Edward.
Bowman, Isaiah.
Bracken, Brendan.
Bractwo Śląska (Confraternita della Slesia).
Bradley, Omar.
Brandenberger, Erich.
Brasile.
Brauchitsch, Walter von.
Braun, Eva.
Breda.
Brema.
Brennero, passo del.
Brérié, Jules.
Brescia.
Breslavia (oggi Wrocław).
Brest (Francia).
Brest (Urss).
Bretagna.
Bretagne, nave francese.
Bretton Woods, accordi di (1944).
Briand, Aristide.
Brisbane.
Bristol.
Bristol, Università di.
British Bombing Survey Unit.
British Broadcasting Corporation (BBC).
British Colonial Development and Welfare Act (1945).
British Colonial Office.
British Commonwealth Air Training Plan.
British Expeditionary Force (BEF, Forza di spedizione britannica).
British Home Intelligence (divisione del ministero dell’Informazione).
British Joint Planning Staff; vedi anche Wheatley, Dennis.
British League of Nations Union.
British Mental Health Emergency Committee (Comitato d’emergenza per la salute mentale).
British Ministry of Aircraft Production (ministero per la Produzione aerea).
British Parliamentary Peace Aims Group.
British Union of Fascists.
Brittain, Vera.
Brive.
Brjansk.
Brockway, Fenner.
Brody.
Brooke, Alan.
Brown, H. Runham.
Browning, Christopher.
Broz, Josip, vedi Tito.
Brut, Michel.
Brüx.
Bruxelles.
Bucarest.
Buchenwald, campo di sterminio di.
Buckner, Simon Bolivar.
Bucovina settentrionale.
Budapest.
Bulgaria.
Bund Nationalsozialistischer Deutscher Juristen (Associazione degli avvocati nazionalsocialisti).
Bund Report (rapporto sugli ebrei polacchi).
Burma Road (via della Birmania).
Busch, Ernst.
Bush, Vannevar.
Butement, William.
Byrnes, James.
Bzura, fiume.
Cactus Air Force.
Caen.
Cairncross, Alec.
Cairo, Il.
Calabria.
Calais; vedi anche Pas de Calais.
Calcutta (Kolkata).
– disordini di.
Calcutta Disturbances Commission of Enquiry (1946).
California.
Callaghan, Daniel.
Calmucchi, steppa dei.
Cambogia.
Cambridge.
Camerun britannico.
Camerun francese.
Camerun tedesco.
«campagna della Grande Muraglia».
Campos, Pedro Albizu.
Camp Van Dorn.
Cam Ranh, baia di.
Canada:
– I Armata.
– I Divisione.
Canale Alberto.
Cannes.
Canton, vedi Guangzhou.
Cantrill, Hadley.
Capo Matapan, battaglia di (1940).
Capra, Frank.
Capri.
Caraibi.
Cardiff.
Carelia, istmo di.
Carnegie Endowment for International Peace.
Carol II di Hohenzollern-Sigmaringen, re della Romania.
Caroline, isole.
Carpazi.
carri armati, tipologie di:
– America: M3 Lee/Grant; M4 Sherman; T26 Pershing.
– Francia: Char B1-Bis.
– Germania: Panzerkampfwagen VI Ausf. B Königstiger («tigre reale»); PKW I; PKW II; PKW III; PKW IV; PKW V Panther;
PKW VI Tiger.
– Italia: CV33; CV35; Fiat 3000B; M11/39; M13/40.
– Giappone: Type 94.
– Gran Bretagna: Challenger; Churchill; Comet; Cromwell; Matilda; Valentine.
– Urss: IS-1; IS-2; KV-1; T-26; T-34.
Carta Atlantica.
Carta di Londra (1944).
Caserta.
Caspio, mare.
Cassibile.
Cassino.
Castellano, Giuseppe.
Castres.
Castro, Fidel.
Catania.
Caucaso.
Cavallero, Ugo.
Cavendish-Bentick, Victor.
Cawnpore.
Cecil, Robert.
Cefalonia, isola di.
Čir, fiume.
Celebes (Sulawesi).
Čeljabinsk.
censura.
Centerville (Mississippi).
Central Board for Conscientious Objectors.
Central’naja radiolaboratorija (Leningrado).
Central’naja Škola snajperskoj podgotovki (Scuola centrale femminile per la preparazione di franchi tiratori).
Central’nyj štab partizanskogo dviženija (Quartier generale centrale del movimento partigiano, Unione Sovietica).
6888th Central Postal Directory Battalion.
Čerta osedlosti («Zona di residenza» degli ebrei russi).
Československá státní zbrojovka (Waffenwerke Brünn, Brno).
Četnici.
Ceylon (oggi Sri Lanka).
Chaffee, Adna.
Chahar, provincia di.
Chamberlain, Arthur Neville; vedi anche appeasement; Sudeti; Polonia, invasione della; Special Operations Executive (SOE).
Chandra Bose, Subhas.
Changchun.
Changsha.
Channon, Henry «Chips».
Char’kov (oggi Char’kiv).
Cheadle (base del «servizio Y»).
Chełmno, campo di sterminio.
Chen Gongbu.
Chennault, Claire.
Cherbourg.
Cherson.
Chiang Kai-shek:
– e campagna di Birmania.
– e Carta Atlantica.
– alla Conferenza del Cairo.
– e forniture occidentali.
– e guerra civile cinese.
– e guerra del Pacifico.
– e guerra sino-giapponese.
– e guerra totale.
– e resa incondizionata del Giappone.
chiese:
– battista.
– Bekennende Kirche.
– cattolica.
– confessante.
– congregazionista.
– mennonita.
– metodista.
– ortodossa russa (Russkaja Pravoslavnaja Cerkov’).
– presbiteriana.
– della santità del secondo avvento (Sairin no tame no hōrinesu kyōkai).
China Defense Supplies Corporation.
Choltitz, Dietrich von.
chōnaikai («consigli comunitari»).
Chongqing.
Chorošunova, Irina.
Chruščëv, Nikita Sergeevič.
Chrusćiel, Antoni.
Chrysler Motor Corporation.
Chūkaminkoku Ishin Seifu (Governo riformato).
Chūō Bukka Tōsei Kyoryoku Kaigi (Comitato centrale per il controllo dei prezzi, Giappone).
Churchill, Randolph.
Churchill, Winston Spencer:
– e battaglia dell’Atlantico.
– e campagna italiana.
– alla Conferenza di Casablanca.
– alla Conferenza di Jalta.
– alla Conferenza di Teheran.
– e discorso dei «Pochi».
– diventa Primo ministro.
– e guerra nel deserto.
– e guerra del Pacifico.
– e impero.
– e inganno/disinformazione.
– e invasione della Germania.
– e Lend-Lease.
– mire belliche di.
– e movimenti di resistenza.
– e operazione Overlord.
– e opinioni sull’India.
– e resa incondizionata.
– e sconfitta della Francia.
– e strategia britannica.
– e Sud-est asiatico.
– e tattica aerea.
– e Unione Sovietica.
Ciad.
Ciano, Galeazzo.
Cina:
– e assetto postbellico (1919).
– e creazione della Repubblica popolare.
– e deportazioni dei giapponesi.
– e difesa civile.
– e dominazione giapponese.
– ed economia di guerra.
– e guerra civile.
– e guerra in Corea.
– e Ichigō-sakusen (operazione Numero Uno).
– e invasione giapponese.
– e lavoro forzato.
– e Lend-Lease.
– e mobilitazione.
– e prima guerra sino-giapponese.
– e produzione degli armamenti.
– e proteste dei lavoratori.
– e resa del Giappone.
– e resistenza.
– e rifugiati.
– e scoppio della seconda guerra sino-giapponese.
Cina, aviazione della.
Cina, esercito della, vedi esercito nazionalista cinese; unità dell’esercito nazionalista cinese.
Cipro.
Cir, fiume.
Cirenaica.
Citizens Committee on Displaced Persons.
Civilian Public Service.
Clark, Mark.
Clarke, Dudley.
Clyde, fiume.
Clydebank.
Coastal Command (RAF).
Coblenza.
Cochran, Jaqueline.
Colombo (Ceylon / Sri Lanka).
Colonia.
Colossus I.
Colossus II.
Colville, John.
Combat (Francia); vedi anche Resistenza, movimenti della.
Combat Intelligence Division (Usa).
Combat Operation Center (Usa).
Combined Bomber Offensive (Gran Bretagna).
Combined Chiefs of Staff (Comandanti dello stato maggiore congiunto).
Combined Repatriation Executive (1945).
comfort women; vedi anche Corea; Cina.
Cominform.
Comintern, vedi Internazionale comunista.
Comitato di liberazione nazionale (CLN).
Comitato di liberazione nazionale dell’Alta Italia (CLNAI).
Comité de défense nationale.
Comité français de libération nationale.
Commissie tot Uitzending van Landbouwers naar Oost-Europa (Commissione per il trasferimento degli agricoltori nell’Europa
orientale).
Commissione d’armistizio italiana (con la Francia).
Commissione per le pressioni economiche sulla Germania.
Commissione permanente per i mandati; vedi anche Società delle Nazioni.
Commissione sulle responsabilità nella guerra e nella sua conduzione (1919).
Committee to Defend America by Aiding the Allies (Comitato per la difesa dell’America attraverso gli aiuti agli Alleati).
Committee of National Morale (Comitato per il morale della nazione).
Committee of Operation Analysts (aviazione americana).
Committee for Soviet-American Friendship.
Commonwealth britannico.
Communauté française (delle ex colonie della Francia).
Compiègne.
conferenze:
– di Bandung (1955).
– di Bermuda (1943).
– di Brazzaville (1944).
– del Cairo (1943).
– di Casablanca (1943).
– sul disarmo di Ginevra (1933).
– sul disarmo di Washington (1922-23).
– economica mondiale di Londra (1933).
– di Jalta (1945).
– di Monaco (1938).
– navale di Londra (1930).
– di pace di Parigi (1919).
– di Potsdam (luglio 1945).
– Rénmín zhèngxié (Conferenza consultiva del popolo, Cina).
– di San Francisco (1945).
– di Teheran.
– di Wannsee (1942).
Congo belga.
Congress for Racial Equality.
Congresso ebraico mondiale.
Coningham, Arthur.
Consiglio degli anziani (jūshin).
Consiglio supremo di guerra (alleato).
Convenzione di Ginevra (1929).
Convenzioni di Ginevra (1949); vedi anche Protocolli Aggiuntivi (1977).
Corano.
Corap, André.
corazzati, mezzi.
Corea:
– Chŏnsŏn inmin’gun (Esercito popolare coreano).
– Chosŏn minjujuŭi inmin gonghwaguk (Repubblica popolare democratica di Corea).
– Daehan Minguk (Repubblica di Corea).
– Joseon inmin gonghwaguk (Repubblica popolare di Corea).
Corea, guerra di.
Corps expéditionnaire français en Italie; vedi anche Juin, Alphonse.
Cornovaglia.
Corradini, Enrico.
Corregidor, isola di.
corridoio persiano.
corridoio polacco.
Corsica.
Corvo, Max.
Costa d’Oro (oggi Ghana).
Costantinopoli.
Cotentin, penisola del.
Coughlin, padre Charles.
Council on Foreign Relations (Usa).
Counter-Mortar Committee.
Coutances.
Coventry.
Cowell, E. M.
Cracovia.
Creta, isola di.
Crimea.
Cripps, Stafford.
Cristiano X di Glücksburg, re di Danimarca.
Croazia:
– Hrvatska seljačka stranka (Partito contadino croato).
– Hrvatski revolucionarni pokret (Movimento rivoluzionario croato degli Ustaša; vedi anche).
Croce Rossa Americana.
Croce Rossa Internazionale.
Crosby, Bing.
Croydon, quartiere di Londra.
Cuba.
Čujkov, Vasilij Ivanovič.
Culala, Felipa, detta Dayang-Dayang.
Cunningham, Andrew.
Curaçao.
Curili, isole.
Curlandia, penisola di.
Curzon, Lord George.
Dachau, campo di sterminio.
Dajjal, re ebreo.
Daladier, Édouard.
Dalmazia.
Dalton, Hugh, cancelliere dello Scacchiere.
Daluege, Kurt.
Damasco.
Daniell, Raymond.
Danimarca.
Dannecker, Theodor.
Danubio, fiume.
Danzica.
Dardant, Mathilde.
Darlan, Jean.
Darwin, Charles.
Darwin (Australia).
Daventry.
Davis, Elmer.
Davis, Norman.
D-Day; vedi anche operazioni speciali, Overlord.
Deane, John.
De Bono, Emilio.
De Chair, Somerset.
Defence Requirements Committee (Comitato per i requisiti di difesa, Usa).
Deir el Shein.
Delestraint, Charles.
Delhi.
Demchugdongrub, principe.
Dempsey, Miles.
Dentz, Henri-Fernand.
Desjat’ stalinskich udarov («dieci colpi schiaccianti di Stalin»).
Desna, fiume.
Detroit.
Deutsche Arbeitsfront («Fronte del lavoro tedesco»).
Deutsche Kolonial-Ausstellung (Esposizione coloniale tedesca, Berlino).
Deutsche Kolonialgesellschaft (Società coloniale tedesca, DKG).
Deutsche Kolonialschule (Scuola coloniale tedesca); vedi anche Koloniale Frauenschule.
deutsche Lebensraum, Der (lo spazio abitativo tedesco), vedi Educazione politica dell’esercito (Germania).
Deutsche Nationalversammlung (Assemblea nazionale di Weimar).
Deutsche Reich, Das (l’impero tedesco), vedi Educazione politica dell’esercito (Germania).
Deutsches Friedenskartell («Cartello tedesco della pace»); vedi anche No More War Movement; Fritz Küster; «Das andere
Deutschland».
Deutsche Vaterlandspartei (Partito della patria tedesca).
deutsche Volk, Das (il popolo tedesco), vedi Educazione politica dell’esercito (Germania).
Deutschland und der nächste Krieg (la Germania e la prossima guerra); vedi anche Bernhardi, Friedrich von.
De Valera, Éamon.
De Vecchi, Cesare.
Devers, Jacob.
De Vleeschauwer, Albert.
Dichiarazione sull’Europa liberata (1945).
Dickinson, Goldsworthy Lowes.
Dien Bien Phu.
Dieppe, raid di (1942).
Dies, Martin.
Dietrich, Sepp.
difesa civile.
Đilas, Milovan.
Dill, John.
Dimitrov, Georgij.
Dinant.
Directorate of Army Psychiatry.
«direttiva sulla questione fondiaria» emanata dal Partito comunista cinese (1946).
Dirlewanger, Oskar.
Displaced persons (DP, «sfollati, profughi»).
Division of Volunteer Services.
Djakivka (Ucraina).
Djalal Abdoh.
Dnepr, fiume.
Dnepropetrovsk.
Dnestr, fiume.
Dodecaneso, isole del.
Dollard, John.
Dollmann, Friedrich.
Dolo, battaglia di (1935).
Domestic Intelligence Division («divisione di intelligenza interna», Usa).
Domnista (Grecia); vedi anche Velouchiotis, Aris.
Don, fiume.
Donbass (Doneckij Bassejn).
Dönitz, Karl.
Donovan, William.
Doolittle, James.
doroga žizni («strada della vita»); vedi anche Leningrado.
Douhet Giulio.
Dowding, Hugh.
Drancy (Francia), campo di deportazione.
Dresda.
Drugi korpus wojska Polskiego (Secondo corpo polacco); vedi anche Anders, Władysłav.
Dubno.
Du Bois, W. E. B.
DuBridge, Lee.
Duisburg.
Dulles, Allen.
Dulles, John Foster.
Dunkerque, nave.
Dunkirk/Dunkerque:
– evacuazione di.
Düsseldorf.
Dvina, fiume.
Dykes, Vivian.
Dyle, fiume.
Eaker, Ira.
Early, Stephen.
Eben-Emael, forte belga.
Eberstadt, Ferdinand.
Eden, Anthony.
Education for Victory (Istruzione per la Vittoria).
educazione politica dell’esercito (Germania).
Egeo, mare.
Egitto:
– e indipendenza nel dopoguerra.
– e invasione dell’Asse.
– presenza britannica.
– e Prima guerra mondiale.
– e Trattato anglo-egiziano (1936).
Ehlich, Hans.
Ehrenburg, Il’ja.
Eichmann, Adolf.
Einsatzgruppen.
Einschränkung der Kriegsgerichtsbarkeit, Die (Limiti alla giurisdizione militare).
Eisenhower, Dwight D.:
– e Battle of the Bulge («battaglia della sacca»).
– e frontiera tedesca.
– e invasione della Germania.
– e operazione Overlord.
– e operazione Torch.
– e resa.
– e rimpatri.
El Agheila.
El Alamein, battaglia di.
Elba, fiume.
Elbrus, monte.
Ellis, Earl «Pete».
Elsenborn, crinale di.
Embick, Stanley.
Emergency Power Act (Gran Bretagna).
Emergency Precautions Service (Nuova Zelanda).
Emmerich, Walter.
Empire Day.
Empire Exhibition (Gran Bretagna).
Endlösung, vedi soluzione finale.
Enemy Objectives Committee.
Enfield, quartiere di Londra.
English Electric Company.
Enigma; vedi anche intelligence; Ultra.
Eniwetok, isola di.
Enola Gay, bombardiere.
Entente cordiale (franco-britannica).
Epiro.
Epp, Franz Ritter von.
Erëmenko, Andrej Ivanovič.
Eritrea.
Ersatzheer (esercito di riserva, Germania).
Erzegovina.
Escaut, fiume.
Esecutivo supremo arabo; vedi anche al-Husayni, Amin.
esercito nazionalista cinese.
esercito nazionalista cinese, unità dell’:
– V Armata (nazionalista cinese).
– VI Armata (nazionalista cinese).
– Nuova I Armata (nazionalista cinese).
– Nuova VI Armata (nazionalista cinese).
– X Force.
– Y Force.
Essen.
Estonia.
Etiopia.
Eufrate, fiume.
European Recovery Program, vedi Piano Marshall.
Evrejskij antifašistskij komitet (Comitato ebraico antifascista).
Exodus 1947, nave.
Export Control Act (1940).
Exposition coloniale internationale (Vincennes).
Fair Employment Practices Commission.
Falaise.
Falkenhorst, Nikolaus von.
Falls, Cyril.
Fallujah.
Fang Xianjue.
Farmer, James.
Faruk, re dell’Egitto.
Federation of Malaya (1947).
Fedorov, Oleksij, comandante partigiano; vedi anche Ljachoviči.
Fellowship of Reconciliation; vedi anche pacifismo.
Ferenc Szálasi.
Feuerschutzpolizei (forze dell’ordine per la difesa antincendio).
Fifi’i, Jonathan.
Fight for Freedom, movimento interventista americano.
Fiji, isole.
Filippine, isole:
– «Associazione per la lealtà del popolo» (Filippine).
– Hukbalahap (Esercito popolare antigiapponese, Filippine).
– Kang-chu (Corpo volontario filippino-cinese antigiapponese).
– Kang-fan (Lega filippino-cinese antigiapponese e contro il governo fantoccio).
– Kapisanan ng Paglilingkod sa Bagong Pilipinas (Associazione per il sostegno alle Nuove Filippine).
– Wa-chi (Forze filippino-cinesi di guerriglia antigiapponese).
Final Genocide Convention (1948).
Finlandia; vedi anche guerra russo-finlandese.
Finschhafen, porto di.
Firenze.
Fischer, Fritz.
Fischer, Hans.
Fischer, Louis.
Fiume Giallo, inondazione del (1938).
Flagstaff (Arizona).
Fleet Radio Unit.
Flensburg.
Fletcher, Frank.
Flintenweiber («mogli con il fucile», donne cecchino sovietiche).
Florida Keys, isole.
Foggia.
Fondo Monetario Internazionale.
Fonds d’Investissements pour le Developpement Économique et Social (1946).
Forces françaises de l’Intérieur (FFI, Forze della Francia libera).
Ford, Henry.
Foreign Office (Gran Bretagna).
Forlí.
Formosa, isola di, vedi Taiwan.
Fort Bragg (North Carolina), disordini di.
Fort Ontario (New York).
Forward Air Support Lines.
Fossoli, campo di concentramento.
Four Freedoms («Quattro Libertà») 978.
Francia:
– e aiuti alleati.
– e crimini di guerra.
– e crisi di Monaco.
– e crisi polacca.
– e difesa civile.
– e fine dell’impero.
– e guerra d’Algeria.
– e «guerra d’inverno» russo-finlandese (1939-40).
– e impero coloniale.
– invasione e sconfitta della.
– e invasione della Norvegia.
– e lavori forzati.
– e mobilitazione.
– e opinione pubblica.
– pacifismo in.
– e Prima guerra mondiale.
– e questione ebraica.
– e reclutamento nell’impero.
– e regime di Vichy.
– Resistenza in.
– riarmo della.
– e sbarco in Normandia.
– e territori del Mandato.
Francia, esercito della.
Francia, ministero dell’Aeronautica della.
Francia, unità dell’esercito della:
– 1re Armée (1940).
– 1re Armée (1944).
– 4e Division cuirassée.
– IXe Armée.
– IIe Armée.
– VIIe Armée.
Francia Libera.
Franco, Francisco; vedi anche Spagna; guerra civile spagnola.
Franconia.
Francs-Tireurs et Partisans (FTP).
Frank, Hans; vedi anche Bund Nationalsozialistischer Deutscher Juristen (Associazione degli avvocati nazionalsocialisti);
Generalgouvernement für die besetzten polnischen Gebiete (Governatorato generale delle aree occupate della Polonia).
Frankfurter, Felix.
Fratelli Musulmani.
Frei-Deutschland-Bewegung (movimento «Germania libera»).
Freikorps.
Fremantle, porto di.
Frenay, Henri.
Frère, Aubert.
Freud, Sigmund.
Freyberg, Bernard.
Friedeburg, Hans-Georg von.
Friuli.
Front de libération nationale (FLN).
Frühjahrsoffensive («Offensiva di Primavera»).
Fuchs, Klaus.
Fujian, provincia del.
Fujimura Yoshikazu.
fukuryu («Dragone acquattato», Giappone).
Fuller, John F. C.
Funafuti, isola.
Funk, Walther.
Gabon.
Gaevernitz, Gero von.
Galang, isola di.
Galbraith, John K.
Galen, Clemens von.
Galizia.
Gallipoli.
Gamelin, Maurice.
Gandhi, Mohāndās Karamchand, detto mahatma.
Gandin, Antonio.
García, Juan Pujol (nome in codice Garbo).
Gargždai.
Garibaldi, brigate.
Gariboldi, Italo.
Gaulle, Charles de.
Gaza, Striscia di.
Gazala, battaglia di (1942).
Geheime Feldpolizei (polizia segreta militare).
Gehlen, Reinhard.
Geisler, Hans.
Gela.
gelenkte Wirtschaft («economia controllata»).
Gellhorn, Martha.
Gembloux.
genchi-shobun («punizioni sul campo»).
General Agreement on Trade and Tariffs (Accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio).
Generalbevollmächtigten für den totalen Kriegseinsatz (plenipotenziario per la guerra totale).
Generalbevollmächtigter für den Arbeitseinsatz (generale plenipotenziario per la distribuzione della forza lavoro).
General Electric Corporation.
Generalgouvernement für die besetzten polnischen Gebiete (Governatorato generale delle aree occupate della Polonia).
General Motors Corporation.
Generalplan Ost (Piano generale per l’Est); vedi anche Generalsiedlungsplan; Meyer-Heitling, Konrad.
Generalsiedlungsplan (Piano generale degli insediamenti); vedi anche Generalplan Ost.
genju-shobun («severe punizioni della legge»).
Genova.
Gens, Jacob.
Gensoul, Marcel-Bruno.
geopolitica.
Georges, Alphonse.
Germania:
– e aiuti ai paesi dell’Asse.
– e assetto postbellico (1919).
– e assetto postbellico (1945).
– e blocco mercantile della Gran Bretagna.
– e bombardamenti in.
– e campagna d’Italia.
– e campi di lavoro.
– chiese in.
– e colonizzazione.
– e depressione economica.
– e difesa civile.
– e dominio nell’Unione Sovietica.
– esce dalla Società delle Nazioni.
– ed espropri alla popolazione ebraica.
– e forza lavoro.
– e forza lavoro femminile.
– e guerra nei Balcani.
– e guerra corazzata.
– e guerra in Occidente.
– e impero francese.
– e invasione della Gran Bretagna.
– e invasione della Polonia.
– e invasione dell’Unione Sovietica.
– e lavoro forzato.
– mobilitazione economica in.
– e mobilitazione militare.
– e «Nuovo ordine» europeo.
– e olocausto.
– e operazione Walküre («Valchiria»).
– e Prima guerra mondiale.
– e problema dello «spazio».
– e produzione di armamenti.
– e resistenza finale.
– riarmo della.
– e sbarco in Normandia.
– e sconfitta dell’Asse.
– sconfitta della.
– e sconfitta nei territori orientali.
– e scoppio della guerra del Pacifico.
– e sfruttamento economico.
– e tenore di vita.
Germania, aviazione della, vedi Luftwaffe.
Germania, esercito della, vedi Wehrmacht.
Germania, marina militare della, vedi Kriegsmarine.
Gerusalemme.
Gestapo (polizia segreta, Germania).
Geyer, Hermann.
ghetti.
Ghormley, Robert.
Giappone:
– e assetto postbellico (1945).
– e attacco a Pearl Harbor.
– e avanzata verso sud.
– e bombardamenti.
– e campagna nelle isole Marianne.
– Daiichi Kōkū Kantai (I Flotta aerea giapponese).
– Daikaishi Dai Nihyakujusan-go (direttiva 213 della marina giapponese marzo 1943).
– Dai Tōa Kaigi (Summit della Grande Asia orientale).
– Dai Tōa Kyōeiken (Grande sfera di co-prosperità dell’Asia orientale).
– Dai Tōa Sensō (Grande guerra dell’Asia orientale).
– Daitōashō («ministero per la Grande Asia orientale»).
– e depressione economica.
– e difesa civile.
– ed edificazione imperiale in Cina.
– esce dalla Società delle Nazioni.
– e forza lavoro.
– e Guadalcanal.
– e guerra anfibia.
– e guerra corazzata.
– e guerra russo-giapponese.
– e Ichigō-sakusen.
– e invasione sovietica della Manciuria.
– Kaigun tokubetsu rikusentai (Forza speciale da sbarco della marina).
– kakyō shukusei («epurazione dei cinesi d’oltremare»).
– Kamikaze tokubetsu kōgekitai («Unità speciale di attacco Vento divino»).
– Kantō-gun (Armata del Kwantung).
– Kantō-shū (Concessione del Kwantung).
– Keizai Keisatsu (Polizia economica, Giappone).
– Kempeitai, polizia militare giapponese.
– Kita Chūgoku Seifu Iinkai (Commissione per gli Affari Politici della Cina settentrionale).
– Kokka Sōdōin Hō (Legge sulla mobilitazione generale dello stato, Giappone).
– Kokumin Chochiku Shōrei Linkai (Consiglio per la promozione del risparmio nazionale giapponese).
– Kokumin Giyū Sentōtai («Corpo di combattimento dei cittadini patriottici»).
– Kokumin Giyūtai («Unità volontarie di combattimento).
– e lavoro forzato.
– e Manchukuo.
– mobilitazione economica in.
– movimenti indipendentisti.
– Nampō, («Regioni del Sud»).
– opposizione alla guerra in.
– e Prima guerra mondiale.
– e prima guerra sino-giapponese.
– e produzione di armamenti.
– e religione in tempo di guerra.
– e resa incondizionata.
– e resistenza finale.
– e risorse delle regioni meridionali.
– Shisō Keisatsu («Polizia del pensiero»), vedi Tokubetsu Kōtō Keisatsu (Tokkō).
– e tenore di vita.
– e territori del mandato.
– Tokubetsu Kōtō Keisatsu (Tokkō) («Apparato di polizia speciale superiore», noto anche come «Polizia del pensiero»).
– e voci non confermate.
Giappone, esercito del:
– e atrocità.
– e avanzata verso sud.
– e crimini sessuali.
– e difesa del Giappone.
– e Guadalcanal.
– e Ichigō-sakusen.
– e invasi0ne della Cina.
– e invasione dell’India.
– e mobilitazione.
– e seconda guerra sino-giapponese.
Giappone, Forza d’attacco acquatico a sorpresa del.
Giappone, mare del.
Giappone, marina militare del:
– e guerra anfibia.
– e intelligence.
Giappone, ministero della Guerra del.
Giappone, ministero dell’Interno del.
Giappone, ministero delle Munizioni del.
Giappone, ministero della Pubblica Istruzione del.
Giappone, navi della marina militare del:
– Akagi.
– Hiei.
– Hiryū.
– Kaga.
– Kirishima.
– Musashi.
– Shokaku.
– Sōryū.
– Taiho.
Giappone, unità dell’esercito del:
– XIV Armata.
– XVI Armata.
– XVII Armata.
– XX Armata.
– XXV Armata.
– XXXII Armata.
– Dai-ichi Sōgun (Primo esercito generale).
– Dai-jyū-ichi gun (XI Armata giapponese).
– Dai-jyūgo gun (XV Armata giapponese).
– Dai-ni Sōgun (Secondo esercito generale).
– Kantō-gun (Armata del Kwantung, Manciuria).
– Kita Shina hōmen gun (Esercito della Cina del Nord).
– Nakashina hakengun (Forza di spedizione della Cina centrale).
– Nanpō gun (Armata del Sud).
– Nippon chiseigaku sengen (Manifesto della geopolitica giapponese).
– Nippon Denki Kabushiki-gaisha (Nippon Electric Company).
– Shina Chūtongun (Guarnigione nipponica della Cina).
– Shina hakengun (Corpo di spedizione cinese).
Giava.
Ginevra.
Giorgio VI di Sassonia-Coburgo-Gotha, re di Gran Bretagna.
Gibilterra.
Gilbert ed Ellice, isole.
Giolitti, Giovanni.
Giordania, vedi Transgiordania.
Giordano, fiume.
Giraud, Henri.
Giuliana d’Oranje-Nassau, regina dei Paesi Bassi.
Gleiwitz, stazione radio di.
Globočnik, Odilo Lotario.
Gloucester, Capo.
Glover, Edward.
Glubokoe, distretto di.
Godwin-Austen, Alfred.
Goebbels, Joseph .
Goerdeler, Carl.
Gonnet, Marguerite.
Göring, Hermann:
– e Austria.
– e battaglia d’Inghilterra.
– e Blitz.
– e crisi polacca.
– e operazione «Barbarossa».
– e sfruttamento economico dei territori conquistati.
– suicidio.
– e Vierjahresplan (Piano quadriennale).
Gort, John.
Gosudarstvennyj komitet oborony (Comitato statale per la difesa, GKO, Urss).
Gott, William.
Gottwald, Klement.
Government Code and Cipher School (GCCS).
Gracey, Douglas.
Grajewo.
Gran Bretagna:
– e aiuti americani e Lend-Lease.
– e anticomunismo.
– e battaglia d’Inghilterra.
– e Blitz.
– e Cina.
– e Conferenza di Teheran.
– e crisi dell’Etiopia.
– e crisi in Iraq.
– e crisi di Monaco.
– e crisi in Palestina.
– e crisi polacca.
– e deportazioni postbelliche.
– e difesa civile.
– e fine dell’impero.
– e fine dell’impero in Asia.
– e guerra anfibia.
– e guerra in Birmania.
– e guerra economica.
– e «guerra d’inverno» russo-finlandese (1939-40).
– e guerra in Nordafrica.
– e impero.
– e impero francese.
– e invasione della Norvegia.
– e manodopera proveniente dall’impero.
– e mezzi corazzati.
– e mobilitazione economica.
– e mobilitazione della forza lavoro.
– e mobilitazione militare.
– e morale della popolazione civile.
– e movimenti di resistenza.
– opinione pubblica in.
– pacifismo in.
– e Prima guerra mondiale.
– e produzione di armamenti.
– e questione ebraica.
– e reclutamento femminile.
– e smobilitazione.
– e tenore di vita.
– e territori del Mandato.
Gran Bretagna, aviazione della, vedi Royal Air Force (RAF).
Gran Bretagna, esercito della:
– arruolamento femminile.
– diserzioni nell’.
– intervento in Indonesia dell’.
– e malattie psichiatriche.
– e politica sessuale.
– e razioni militari.
Gran Bretagna, flotta del Pacifico della.
Gran Bretagna, marina militare della, vedi Royal Navy.
Gran Bretagna, ministero dell’Aeronautica della.
Gran Bretagna, ministero dell’Alimentazione della.
Gran Bretagna, ministero della Guerra Economica della.
Gran Bretagna, ministero della Home Security della.
Gran Bretagna, ministero dell’Informazione della.
Gran Bretagna, ministero del Lavoro della.
Gran Bretagna, stato maggiore della.
Gran Bretagna, unità dell’esercito della:
– I Armata.
– II Armata.
– VIII Armata.
– Caribbean Regiment.
– VI Divisione Aviotrasportata.
– First Airborne Army.
– First Armoured Division (Prima divisione corazzata britannica).
– XXI Gruppo d’armata.
– Seventh Armoured Division (VII Divisione corazzata britannica).
Gran Consiglio del Fascismo.
Grande Guerra, vedi Prima guerra mondiale.
Grande flotta di scorta (Giappone).
Grandi, Dino.
Graziani, Rodolfo.
Great Marianas Turkey Shoot («grande tiro al piccione delle Marianne»).
Grecia:
– carestia in.
– e Dimokratikòs stratòs Elládas (Esercito democratico greco).
– ed Ellenikòs demokratikòs ethnikòs Syndésmos (Lega nazionale democratica greca).
– ed Ellinikòs laïkòs apeleftherotikòs stratós (Esercito popolare greco di liberazione, ELAS).
– ed Ethnikí kai koinonikí apelefthérosis (Movimento di liberazione nazionale e sociale)
– ed Ethnikò apeleftherotikò métopo (Fronte di liberazione nazionale greco).
– guerra civile in.
– e invasione italiana.
– e Kommounistikó kómma Elládas (Partito comunista greco, KKE).
– e occupazione dei paesi dell’Asse.
– e sostegno britannico.
Greiser, Arthur.
Grenoble.
Grew, Joseph.
Grimm, Hans.
Grinberg, Zalman.
Grinker, Roy.
Grossraum («grande spazio»).
Groznyj.
Grygier, Tadeusz.
Guadalcanal.
Guam.
«Guangxi, Nuova cricca del».
Guangzhou (Canton).
Gubbins, Colin.
Guderian, Heinz.
Guéhenno, Jean.
guerre:
– boera (1899-1902).
– ispano-americana (1898-99).
– civile russa.
– civile spagnola.
– fredda.
– italo-turca (1911-12).
– russo-finlandese («guerra d’inverno»).
– russo-giapponese (1904-05).
– totale.
– dei Trent’anni.
Guglielmina di Oranje-Nassau, regina dei Paesi Bassi.
Guiana britannica.
Guidi, Guido.
Guinea, golfo di.
Gumbinnen, nodo ferroviario di.
Günsche, Otto.
Gurney, Henry.
Gurs, campo di concentramento (Francia).
Guzzoni, Alfredo.
gyokusai («glorioso autoannientamento», suicidio collettivo).
Habbaniya, base aerea britannica di.
Hácha, Emil.
Haganah (movimento sionista).
Haifa.
Hailé Selassié, imperatore d’Etiopia.
Hainan.
Halder, Franz.
Halifax, Lord Edward.
Halloran, Roy.
Halsey, William.
Hangzhou (Hankow).
Hankey, Maurice.
Hannover.
Hanoi.
harki (milizia algerina al servizio del regime francese).
Harlem.
Harrar, provincia dello.
Harriman, Averill.
Harris, Arthur.
Harrison, Earl.
Harrisson, Tom.
Hatta, Muhammad.
Hattori Takushirō.
Haushofer, Karl.
Hawai’i, isole.
Hawley-Smoot Tariff (1930).
Hebei, provincia dello.
Heinkel, azienda aeronautica.
Heinrici, Gotthard.
Helli, incrociatore.
Helsinki.
Henan (Honan) provincia dello.
Hendaye, incontro di.
Henderson Field, pista d’atterraggio.
Hengyang.
Hershey, Lewis.
Hess, Rudolf.
Heydrich, Reinhard.
He Yingqin.
Hezb-e Tudeh-e Iran (Partito delle masse dell’Iran).
Higashikuni, principe.
Higgins, Andrew.
Hilfswillige («ausiliari volontari» nei campi di prigionia tedeschi).
Himalaya, catena dell’.
Himmler, Heinrich:
– e bordelli per militari.
– e campi di lavoro.
– e colonizzazione della Polonia.
– e invasione dell’Unione Sovietica.
– e olocausto.
– e piani per i territori orientali.
– Reichskommissar.
– suicidio.
Hiranuma Kiichirō.
Hirohito, imperatore del Giappone:
– e crisi sociale.
– e Patto Tripartito.
– e resa del Giappone.
Hiroshima.
Hitler, Adolf:
– e aiuti a Mussolini.
– e battaglia di Kursk.
– e battaglia di Stalingrado.
– e Blitz.
– e blocco mercantile della Gran Bretagna.
– e caduta di Mussolini.
– e campagna in Unione Sovietica (1942).
– e capitolazione della Germania.
– e colonizzazione.
– e crisi cecoslovacca.
– e dominio dell’Unione Sovietica.
– e guerra del deserto.
– e guerra in Occidente.
– e guerra con gli Stati Uniti.
– e incontro con Molotov.
– e insurrezione di Varsavia.
– e invasione della Norvegia.
– e invasione della Polonia.
– e lavoro forzato.
– e Lebensraum («spazio vitale»).
– morte di.
– e National-sozialistische Deutsche Arbeiterpartei (Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori, NSDAP).
– e operazione «Barbarossa».
– e operazione Herbstnebel («Nebbia d’autunno»).
– e operazione Walküre («Valchiria»).
– e pacifismo in Germania.
– e piani per invadere la Gran Bretagna.
– e piani per invadere l’Unione Sovietica.
– e produzione di massa.
– e questione ebraica.
– e resa francese.
– e resa incondizionata.
– e rivolta in Iraq.
– e sbarco in Normandia.
– e sconfitta dei paesi europei dell’Asse.
– e ultima resistenza.
Hitlerjugend (Gioventú hitleriana).
‘al-Hizb al-‘Arabi al-Filastini («Partito arabo della Palestina).
Ho Chi Minh.
Hochlinden.
Hodge, John.
Hodges, Courtney.
Hofer, Franz.
Hohenlohe-Schillingfürst, Chlodwig zu.
Hokkaido.
Hokushi jihen (incidente della Cina del Nord).
Hola, campo di detenzione.
Holcomb, Thomas.
Hollandia, porto di.
Hone, Trent.
Hong Kong.
Honshū.
Hoover, Herbert.
Hopkins, Harry.
Hopkinson, Henry.
Hore-Belisha, Leslie.
Horní Moštěnice, eccidio di.
Horowitz, Eugene.
Horrocks, Brian.
Horstenau, Edmund von.
Horthy, Miklós.
Horton, Max.
Hossbach, Fritz.
Hoth, Hermann.
How to Pay War (Come pagare il costo della guerra).
House Committee for the Investigation of Un-American Activities (1938).
Houx.
Hubei, provincia di.
Hu Jinxiu.
Hull (Gran Bretagna).
Hull, Cordell.
Hunan, provincia dello.
Hungerplan («Piano della fame»).
Huntziger, Charles.
Hupfauer, Theodor.
Hurley, Patrick.
Hürtgen, foresta di.
al-Husayni, Amin.
al-Husayni, Jamal.
Huston, John.
Hu Zongnan.
hyakunin-giri kyōsō («uccisioni patriottiche dei cento uomini»).
Hyakutake Harukichi.
Ichiki Kiyonao.
I Did Not Interview the Dead (Non ho intervistato i morti), vedi anche Boder, David (Aron Mendel Michelson).
Idris, re della Libia.
I.G. Farbenindustrie.
al-Ilah, Abd, principe reggente dell’Iraq.
Imperialism and Civilization (Imperialismo e civiltà); vedi anche Woolf, Leonard.
Imphal (India).
India :
– e campagna Quit India.
– e carestia in Bengala.
– indipendenza dell’.
– e malcontento sociale.
– e mobilitazione.
– e richiesta di indipendenza.
– e ritirata dalla Birmania.
India Home Rule League of America; vedi anche Lajpat Rai, Lala.
India Office (Gran Bretagna).
Indian Independence League (Bangkok).
Indiano, oceano.
Indie olandesi orientali.
Indocina francese.
Indonesia; vedi anche Indie olandesi orientali.
inganno/disinformazione:
– e El Alamein;
– e guerra in Manciuria.
– e operazione Bagration;
– e sbarco in Normandia;
Inge, William.
Inghilterra, battaglia d’ (1940).
Inönü, Ismet.
Institut für Arbeits und Organisationspsychologie (Istituto di psicologia del lavoro).
intelligence:
– britannica.
– decriptazione.
– giapponese.
– italiana.
– SIGINT (intelligence applicata ai segnali radio).
– sovietica.
– statunitense.
– tedesca.
Inter-Departmental Committee on Combined Operations (1920).
Intergovernmental Committee on Refugees.
Interlandi, Telesio.
International League of the Rights of Man (New York).
International Military Tribunal (IMT, Tribunale militare internazionale).
International Peace Campaign (Bruxelles).
International Refugee Organization.
Internazionale comunista (Comintern).
Inuzuka Koreshige.
Ioannidis, Yiannis.
Iran.
Iraq.
Irgun Zvai Leumi («Organizzazione militare nazionale» ebraica); vedi anche Begin, Menachem.
Irlanda (Éire).
Irrawaddy, fiume.
Ischia, isola.
Ishiwara Kanji.
Islanda.
Ismay, Hastings.
Ispettorati provinciali per la Protezione antiaerea (Italia).
Israele.
Istanbul.
Italia:
– e annessione dell’Albania.
– e armistizio.
– e assetto postbellico (1919).
– e assetto postbellico (1945).
– e colonie.
– e crimini sessuali.
– e difesa civile.
– ed economia di guerra.
– esce dalla Società delle Nazioni.
– e guerra corazzata.
– e guerra in Etiopia.
– e guerra in Nordafrica.
– e guerra in Occidente.
– e invasione alleata.
– e invasione della Grecia.
– lavoro forzato dei prigionieri italiani in Germania.
– e «Nuovo ordine» europeo.
– e operazione «Barbarossa».
– e pazienti psichiatrici.
– e Prima guerra mondiale.
– e questione ebraica.
– Resistenza partigiana in.
– e tenore di vita.
Italia, aviazione dell’.
Italia, esercito dell’:
– diserzioni nell’.
– e malati psichiatrici.
– e mobilitazione.
Italia, marina militare dell’.
Italia, ministero degli Esteri dell’.
Italia, ministero degli Interni dell’.
Italia, ministero delle Colonie dell’.
Italia, ministero della Guerra dell’.
Italia, unità dell’esercito dell’:
– X Armata.
– Divisione Ariete.
– Divisione Folgore.
– Divisione Littorio.
– Divisione Livorno.
Italia, unità della marina militare dell’:
– Caio Duilio.
– Conte di Cavour.
– Littorio.
– Vittorio Veneto.
Iwabuchi Sanji.
Iwo Jima.
Jabłonica, passo di.
Jackson, Robert.
Jamaican Progressive League.
al-Jāmiʿah al-ʿArabiyyah («Lega Araba»).
Jap Soldier, The (Il soldato giapponese), opuscolo di addestramento militare.
Jassin, H. B.
Jaysh al-Inqadh al-Arabi (Esercito di liberazione araba).
Jaysh al-Jihād al-Muqaddas (Esercito del Sacro jihād).
Jeckeln, Friedrich.
Jiangsu, provincia di.
Jiangxi, provincia di.
Jinnah, Muhammad.
Jinzhou.
Jodl, Alfred.
Johnson, Amy.
Johnson Act (1934).
Joint Assault Signal Company (Usa).
Joint Intelligence Committee (Gran Bretagna).
Joint Intelligence Committee, Pacific Ocean Area.
Joint Security Control.
Józefów, ghetto di.
Juchnov, accerchiamento di.
Jugoslavia:
– Antifašistička fronta žena (Fronte delle donne antifasciste, Jugoslavia).
– Jugoslovenska vojska u otadžbini (Armata jugoslava in patria); vedi anche Četnici.
– Narodnooslobodilačka vojska Jugoslavije (Esercito di liberazione nazionale della Jugoslavia).
– Savez komunista Jugoslavije (Lega dei comunisti della Jugoslavia).
Juin, Alphonse.
al-Kailani, Rashid Ali.
Kaiser, Henry.
Kalač-na-Donu.
Kaldor, Nicholas.
Kalinin, Michail.
Kalisch (Kalisz), ghetto di.
Kaluga.
Kaminskij, Bronislav.
Kam’janec’-Podil’s’kyj.
Kammhuber, Joseph.
Kammler, Hans.
Kampf der Heimat («lotta per la patria»).
Kanji Nishihara.
Karachi.
Karlshorst; vedi anche resa incondizionata.
Kassa.
Kassel.
Kasserine, passo di.
Kastl, Ludwig.
katorga (campi di lavoro sovietici).
Katyn’, massacro di.
Katzmann, Friedrich.
Kaufman, Theodore.
Kaunas.
Kawaguchi Kiyotake.
Kedah, provincia di
Keitel, Wilhelm.
Kelantan, provincia di (Malesia).
Kellogg, Frank.
Kempf, Werner.
Kenya; vedi anche Mau Mau, rivolta dei.
Kenya Land and Freedom Army.
Kenyatta, Jomo.
Kepner, William.
Kerama Retto.
Kerr, Walter.
Kesselring, Albert.
Keyes, Roger.
Keynes, John Maynard.
Khomeini, Ayatollah, vedi Musavi, Ruhullah.
Kido Kōichi.
Kiev (Kyiv).
Kievskij osobyj voennyj okrug (Distretto militare speciale di Kiev).
Kim Il Sung.
Kimmel, Husband.
Kindertransport.
King, Ernest.
King, Mackenzie.
King David Hotel (Gerusalemme).
King’s East African Rifles.
Kinkaid, Thomas.
kircheriane, tariffe (1928).
Kirk, Alan.
Kirk, Alex.
Kirk, Norman.
Kiska.
Kislenko, Aleksej.
Kitzinger, Karl.
Kleist, Ewald von.
Klin.
Kluge, Günther von.
Klukowski, Zygmunt.
Knudsen, William.
Koch, Erich.
Koenig, Marie-Pierre.
Koestler, Arthur.
Kohima.
Koiso Kuniaki.
Kokura.
Kokusaku Dayohin Fukyu Kyokai (Sezione alimenti sostitutivi del ministero dell’Agricoltura, Giappone).
Kolno, carneficina di.
Kolombangara, isola di.
Koloniale Frauenschule (Scuola coloniale femminile).
Komitet Gosudarstvennoj Bezopasnosti (Servizi di sicurezza sovietici, KGB).
Kommissarbefehl (Ordinanza sui commissari).
Kondō Nobutake.
Konev, Ivan.
Königlich Preußische Ansiedlungskommission in den Provinzen Westpreußen und Posen (Commissione reale per gli insediamenti
nella Prussia orientale e nella provincia di Posen).
Königsberg (oggi Kaliningrad).
Konoe Fumimaro.
Kontinentale Öl-Aktiengesellschaft (holding petrolifera tedesca).
Kopelev, Lev.
Koritsa (Grecia).
Körner, Paul.
Koro, isola di.
Koryzis, Alexandros.
Kosovo.
Kota Bharu.
Krankenbatallionen («battaglioni dei malati»).
Krasnaja Armija, vedi Armata Rossa.
«Krasnaja Zvezda» («Stella Rossa», foglio di informazione dell’esercito sovietico).
Kretschmer, Otto.
Kriegsflucht («fuga dalla guerra»).
Kriegsmarine, navi della:
– Admiral Graf Spee.
– Bismarck.
– Gneisenau.
– Hipper.
– Scharnhorst.
– Scheer.
– Schleswig-Holstein.
Kriegsmarine (marina militare del Reich).
Kriegsschule (Accademia delle forze armate, Germania).
Krivoj Rog.
Krueger, Walter.
Kruk, Herman.
Krulak, Victor.
Krupp, industrie (Essen).
Kuban’, pianura del.
Kube, Wilhelm.
Kubowitzki, Leon.
Küchler, Georg von.
Kühnhold, Rudolf.
Kujbyšev.
Kundrus, Birthe.
Kunming.
Kurčatov, Igor’.
Kuribayashi Tadamichi.
Kurita Takeo.
Kuroshima Kameto.
Kursk.
Kursk, battaglia di (1943).
Kurusu Saburo.
Kurzsignalheft (Breve quaderno per segnalazioni).
Küster, Fritz.
Küstrin, «città fortezza».
Kwajalein, isola.
Kyoto.
Kyushu.
Lack of Moral Fibre («mancanza di fibra morale», LMF).
Ladoga, lago.
Lae.
La Guardia, Fiorello.
Lahore, Risoluzione di (1940).
Lai Tek.
Lajpat Rai, Lala.
Lamb, Lionel.
Lampedusa.
Landis, James.
Lang, Cosmo.
Lansing-Ishii, accordo (1917).
Laos.
Lapponia.
Lashio (Birmania).
La Spezia.
Laurel, Salvador.
Laval, Pierre.
Lazio.
League of Coloured Peoples; vedi anche Moody, Harold.
Leahy, William.
Leclerc, Henri.
Leclerc, Philippe.
Leeb, Wilhelm von.
Leese, Oliver.
Legge per la difesa aerea nazionale (Giappone).
«Leggi e consuetudini della guerra terrestre»; vedi anche Convenzione dell’Aia; «Regole dell’Aia per la guerra aerea».
Légion des volontaires français contre le bolchévisme.
Legione Araba.
Le Havre.
Leigh, proiettore.
Leigh-Mallory, Trafford.
LeMay, Curtis.
Lemkin, Rafael.
Lend-Lease Act (1941).
Lenin (Vladimir Il’ič Ulianov).
Leningrado; vedi anche «strada della vita».
Let There Be Light («Sia la luce!»); vedi anche Huston, John.
Lettonia.
Levinson, Solomon.
Lewin, Abraham.
Lewis, Robert.
Ley, Robert.
Leyte, battaglia nel golfo di (1944).
Leyte, isola di.
Liang Hongzhi.
Libano.
Libération-Nord.
Libération-Sud.
Liberty, classe di navi.
Libia.
Lidice.
«Life», rivista.
Ligue internationale des combattants de la paix («Lega internazionale dei combattenti per la pace»); vedi anche Méric, Victor.
Ligue maritime et coloniale française.
Liguria.
Lille.
Limoges.
Lin Biao.
Lindemann.
Linea Gotica.
Linea Gustav.
Linea Maginot.
Linea del Mareth.
Linea Molotov.
Linea di Možajsk.
Linlithgow, Lord Victor.
Lione.
Liri, valle del.
List, Wilhelm von.
Lituania.
Litvinov, Maksim.
Liutež.
Livadia, palazzo di.
Liverpool.
Li Zhisui.
Li Zongren.
Ljachoviči, villaggio di.
Lloyd, George.
Lloyd George, David.
Lochvica.
Lockhart, Robert Bruce.
Lockwood, Charles.
Łódź.
Lohamei Herut Israel («Combattenti per la libertà di Israele») detto «banda Stern»; vedi anche Stern, Abraham.
Loira, valle della.
London Controlling Section (organizzazione per la pianificazione, la supervisione e il coordinamento delle operazioni di
disinformazione).
London School of Economics.
London Submarine Protocol (1936).
Londra.
Long, S. Breckinridge.
Longmore, Arthur.
Longo, Luigi.
Lopatin, Aleksandr.
Lorient, città-fortezza.
Los Angeles.
Lossberg, Bernhard von.
Lothian, Lord Philip.
Louisiana.
Lower, Wendy.
Lozinskaja, Liza.
Lubecca.
Lubiana.
Lublino.
Lublino, Comitato di, vedi Polski Komitet Wyzwolenia Narodowego (Comitato di liberazione nazionale).
Lucas, John.
Luck.
Ludendorff, Erich.
Luftschutzpolizei (forze dell’ordine per la difesa antiaerea).
Luftwaffe; vedi anche aerei, tedeschi:
– e battaglia d’Inghilterra.
– e Blitz.
– ed esaurimento fisico e mentale.
– e forza aerea tattica.
– e sconfitta.
Luftwaffe, unità della:
– VIII Fliegerkorps.
– X Fliegerkorps.
– 2. Luftflotte.
– 3. Luftflotte.
– 4. Luftflotte.
– 5. Luftflotte.
Lugouqiao, ponte, vedi Ponte Marco Polo.
Lussemburgo.
Lutz, Oswald.
Luzon.
L’vov (L’viv).
Maasina Ruru («Governo della fratellanza», isole Salomone).
MacArthur, Douglas.
Macdonald, Dwight.
Macedonia.
Maček, Vladko; vedi anche Croazia, Hrvatska seljačka stranka (Partito contadino croato).
Machida Keiji.
Mackensen, Eberhard von.
Mackensen, Georg.
Mackinder, Halford.
MacLeish, Archibald.
Madagascar.
Madge, Charles.
Madrid.
Magadan.
Magic; vedi anche intelligence.
magnetron; vedi anche Barkhausen-Kurz.
Maher, Ali.
Majdanek, campo di sterminio.
Majkop.
Majskij, Ivan Michajlovič.
Makin, isola di.
Malesia:
– Parti Kebangsaan Melayu Malaya (Partito nazionalista malese).
– Parti Komunis Malaya (Partito comunista della Malesia).
– Tentera Anti-Jepun Penduduk Tanah Melayu (Esercito antigiapponese del popolo della Malesia).
– Tentera Pembebasan Rakyat Malaya (Esercito di liberazione delle razze malesi).
Malinovskij, Roman.
Malmédy, massacro di.
Maloelap, isola di.
Malta.
Manchester.
Manchukuo.
Manciuria; vedi anche Mukden, incidente di (1931).
Mandalay.
Manhattan, Progetto.
Manila.
Manley, Norman.
Mannerheim, Gustav.
Manshū-koku Kyōwakai (Lega della Concordia); vedi anche Manchukuo.
Manstein, Erich von; vedi anche Stalingrado, battaglia di.
Mantes-Gassicourt.
Mantetsu (ferrovia della Manciuria meridionale).
Manteuffel, Hasso von.
Mao Zedong.
Mar Cinese meridionale.
Marcks, Erich.
Marco Polo, ponte.
Mare dei Coralli, battaglia del (1942).
Mare delle Filippine, battaglia del (1944).
Mare del Nord.
Marianne, isole.
Marina reale canadese.
Maritain, Jacques.
Mar Nero.
Marocco.
Marocco, crisi in (1905-908).
Marocco francese.
Marsiglia.
Marshall, Charles.
Marshall, George.
Marshall, isole.
Marshall, Piano.
Martini, Wolfgang.
Massachusetts Institute of Technology (MIT).
Massiccio Centrale Francese.
Mass Observation.
Matsui Iwane.
Matsuoka Yōsuke.
Mauchenheim, Gustav von.
Maud Committee.
Mau Mau, rivolta dei.
Mauritius, isola di.
Maurois, André.
Mayer, Hans.
McGovern, John.
McNair, Leslie.
Mediterranean Air Force (RAF).
Mediterraneo, mare.
Medmenham.
Meiji, Restaurazione (1868).
Mein Kampf; vedi anche Hitler, Adolf.
Melitopol’.
Memel.
Mengkukuo.
Mentone.
Menzies, Robert.
Merano.
mercato nero.
Méric, Victor.
Merker, Otto.
Mersa Matruh.
Mers-el-Kébir, base navale di.
Messe, Giovanni.
Messico.
Messico, golfo del.
Messina.
Mestnaja protivovozdušnaja oborona (Difesa antiaerea locale, MPVO, Urss).
Metaxas, Ioannis.
Meteor, motore per carri armati.
Meyer-Heitling, Konrad.
Miao Pin.
Michele I di Hohenzollern-Sigmaringen, re di Romania.
Middle East Command.
Midway, battaglia di (1942).
Midway, isola di.
Mihailović, Draža.
Milano.
Milch, Erhard.
Military Intelligence Service (Usa).
Milne, A. A.
Milner, Lord Alfred.
Mindanao,
Minseitō (Partito liberale giapponese).
Minsk.
Mise en valeur des colonies françaises, La (La valorizzazione delle colonie francesi); vedi anche Sarraut, Albert.
missione militare americana (Mosca).
Mitscher, Marc.
Mittelland, Canale del.
Mius, fiume.
Mobile (Alabama).
Model, Walter.
Modification Centers.
Mogilëv.
Mohnblum, Abe.
Moldavia.
Molotov, Vjačeslav Michajlovič.
Molotov-Ribbentrop, vedi patti.
Molucche, isole.
Monaco di Baviera.
Moncornet.
Mongolia.
Mongolia Interna.
Montecassino, abbazia di.
Montenegro.
Monte Sole, massacro di.
Montgomery, Bernard Law:
– a Alam el-Halfa.
– e VIII Armata.
– nella Battle of the Bulge («battaglia della sacca»).
– e campagna di Tunisia.
– a El Alamein.
– e invasione della Germania.
– e invasione dell’Italia.
– e operazione Market Garden.
– e operazione Overlord.
– e resa incondizionata.
– e stato maggiore imperiale.
Monthermé.
Montoire.
Moody, Harold.
Mook, Hubertus Van.
Morale Division; vedi anche Political Warfare Division.
Morgan, Frederick.
Morgenthau, Henry.
Morgunov, Rodion.
Morris, Stuart.
Morrison, Herbert.
Mortain.
Mosa, fiume.
Mosaddeq, Mohammad.
Mosca.
Mosca, battaglia di (1941).
Mosella, fiume.
Mosul.
Motono Ichirō.
Moulin, Jean.
Mountbatten, Lord Louis.
«Movimento di pacificazione rurale» (Cina).
Moyne, Lord Walter.
Mozambico.
Mühlberg.
Mukden, vedi Shenyang.
Mukden, incidente di (1931).
Mulberry (pontili artificiali).
Müller, Eugen.
Müller, Heinrich.
Munda, isola di.
Münstereifel.
Murmansk.
Musavi, Ruhullah (Ayatollah Khomeini).
Muslimanski oslobodilački pokret (Movimento di liberazione musulmana).
Mussolini, Benito:
– e annessione dell’Albania.
– e caduta del fascismo.
– e Conferenza di Monaco (1938).
– e crisi polacca.
– e guerra in Egitto.
– e guerra in Occidente.
– e invasione alleata dell’Italia.
– e invasione dell’Etiopia.
– e invasione della Grecia.
– morte di.
– e «Nuovo ordine» europeo.
– e operazione «Barbarossa».
– e piani di espansione imperiale.
– e questione ebraica.
– e resa incondizionata.
Mutaguchi Renya.
Myitkyina.
Nagai Ryūtarō.
Nagasaki.
Nagumo Chūichi.
Nakashina hakengun (Forza di spedizione della Cina centrale).
Namier, Lewis.
Nanchang.
Nanjing (Nanchino).
Nankou.
Nanumea.
Napoli.
Napoli, golfo di.
Narew, fiume.
Narva.
Narvik.
Nasser, Gamal Abdel.
National Arbitration Tribunal.
National Association for the Advancement of Colored Peoples (NAACP).
National Committee on the Cause and Cure of War.
National Council for British-Soviet Unity.
National Day of Prayer.
National Defense Research Committee.
National Institute for Industrial Psychology.
National Peace Council.
National Service Act (1939/41).
National Service Board for Religious Objectors.
Nationaal-Socialistische Beweging (Movimento nazionalsocialista olandese).
Nationalsozialismus als Grundlage (Nazionalsocialismo come fondamento), vedi Educazione politica dell’esercito (Germania).
National-sozialistische Deutsche Arbeiterpartei (Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori, NSDAP).
Nationalsozialisticher Führungsstab (stato maggiore della dirigenza nazionalsocialista).
National War Labor Board (Usa).
NATO (North Atlantic Treaty Organisation).
Naval Combat Demolition Units.
Naval Research Laboratory.
Naval Staff College (Gran Bretagna).
Navarre, Henri.
Nazioni Unite, Organizzazione delle (ONU):
– Carta delle Nazioni Unite.
– Commissione per l’unificazione e la ricostruzione della Corea della.
– Consiglio di sicurezza della.
– Dichiarazione dei diritti umani della (1948).
– Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne della (1993).
– Risoluzione 1514 della.
– Special Committee on Palestine (ONU).
– United Nations Temporary Committee on Korea.
Nebe, Arthur.
Nedić, Milan.
Nehru, Jawaharlal.
Neisse, fiume.
Nelson, Donald.
Nepal.
Neurath, conte Constantin von.
Nevins, Allen.
Newark (New Jersey).
New Deal.
New York.
«New York Herald Tribune».
«New York Times».
New Mexico.
New Zealand Second Division.
Nicolson, Harold.
Nicosia.
Niebuhr, Reinhold.
Nierstein.
Nigeria.
Niigata.
Niitakayama Nobore 0812 («Scalare il monte Niitaka 0812»).
Nijmegen.
Nikopol’.
Nilo, Delta del.
Nimitz, Chester.
Nisand, Léon.
Nishina, Yoshio.
NKVD (Narodnyj Komissariat Vnutrennich Del, «Commissariato del Popolo per gli Affari Interni», Urss).
Nnamdi Azikiwe.
Noguès, Charles.
Nomonhan, battaglia di.
No More War Movement.
Nomura Kichisaburō.
Nordafrica francese.
Norimberga, Leggi di (1935).
Norimberga, Tribunali di.
Norimberga, principî di.
Normandia.
North American Aviation Company.
North China Development Company.
Norvegia.
Novikov, Aleksandr.
Novikov, Nikolaj.
Nuffield College Social Reconstruction Survey.
Nuova Britannia.
Nuova Georgia.
Nuova Guinea.
Nuova Guinea (ex colonie tedesche).
Nuova Guinea occidentale.
Nuova Irlanda.
Nuova Scozia.
Nuova Zelanda.
Nuove Ebridi.
Nuri al-Sa’id.
Nye, Archibald.
O’ahu (Hawai’i).
Oberkommando der Wehrmacht (Comando supremo della Wehrmacht, OKW).
Obersalzberg.
obiezione di coscienza.
Obojan-Kursk, strada.
Obščestvo sodejstvija oborone, aviacionnomu i chimičeskomu stroitel’stvu (Società per la promozione della difesa, dell’aviazione
e della chimica, Osoviachim).
Oder, fiume.
Odessa.
Office of Civilian Defense (Usa); vedi anche difesa civile.
Office of Economic Stabilization (Usa).
Office of Price Administration (Usa).
Office of Strategic Services (OSS, Usa).
Office of War Information (Usa).
Ohio, fiume.
Ohlendorf, Otto.
Oise, fiume.
Okafor, George Amanke.
Okamura Yasuji.
Okon, Leonid.
Ol’chovatka, cresta di.
Oliphant, Marcus.
olocausto.
«Omaha», spiaggia.
Oman.
Operationszone Alpenvorland (Zona operativa Prealpi).
operazioni speciali:
– Achse (1943).
– Aerial (1940).
– Agatha.
– Akcja Burza.
– Alarich (1943).
– Anakim.
– Anvil.
– Bagration (1944).
– Baytown (1943).
– Bodenplatte (1944).
– Braunschweig (1942).
– Buccaneer.
– Carbonado.
– Cartwheel (1943).
– Catapult (1940).
– Charnwood (1944).
– Cobra (1944).
– Compass (1940).
– Coronet.
– Crusader (1941).
– Culverin.
– De-Louse (1945).
– Detachment (1945).
– Diadem (1944).
– Dipper (1943).
– Downfall.
– Dragoon (1944).
– Dynamo (1940).
– Embarrass.
– Fall Blau (1942).
– Fall Schwarz.
– Fall Weiß.
– Felix (1940).
– Flintlock (1944).
– Forager (1944).
– Fredericus (1942).
– Frühlingserwachen (1945).
– Gomorra (1943).
– Goodwood (1944).
– Grenade (1945).
– Gymnast (poi operazione Torch, vedi).
– Herbstnebel.
– Himmler (1939).
– Hubertus.
– Hurricane.
– Husky (1943).
– Iceberg (1945).
– Ichigō (1944).
– Ironclad (1942).
– Iskra (1943).
– Jubilee (1942).
– Ka (1942).
– Ke.
– Ketsu-gō.
– Kol’co.
– Kutuzov (1943).
– Lightfoot (1942).
– Mailfist.
– Malyj Saturn.
– Margarethe (1944).
– Marita (1940).
– Mars (1942).
– Meigo Sakusen (1945).
– Menace (1940).
– Mondscheinsonate (1940).
– Nassau.
– Neptune (1944).
– Olive (1944).
– Olympic.
– Overlord.
– Paukenschlag (1942).
– Perch (1944).
– Persecution (1944).
– Plunder (1945).
– Reckless (1944).
– Roland (1943).
– Roundup.
– Rumjancev (1943).
– Sabine.
– Seelöwe (1940).
– Seidlitz.
– Shingle (1944).
– Shō-go (1944).
– Sledgehammer.
– Sonnenblume (1941).
– Sunrise.
– Supercharge (1942).
– Suvorov (1943).
– Taifun (1941).
– Tannenberg (1939).
– Torch (1942).
– Ugō (1944).
– Uran (1942).
– Venezia (1942).
– Veritable (1945).
– Watchtower (1942-43).
– Weserübung (1940).
– Wilfred (1940).
– Wintergewitter (1942).
– Zipper.
– Zitadelle (1943).
– Zvezda (1943).
Oppeln (Slesia).
Oppenheim.
Oradour-sur-Glane.
Oranje Vrystaat (Stato libero di Orange).
Orano.
Orël.
Organisation de l’armée secrète (OAS).
Organisation juive de combat.
Organisation Todt (OT).
Orlando, Vittorio.
Orša.
Oščepkov, Pavel.
Ōshima Hiroshi.
Oslo.
Ostrog.
Ostwall («vallo orientale»).
Ottawa.
ottomano, impero.
Oxford University.
Ozawa Jisaburō.
Pacific Fleet Radar Center.
Pacifico, oceano.
Padmore, George.
Paesi Bassi:
– aeronautica militare olandese (Koninklijke Luchtmacht).
– Depot Speciale Troepen (truppe d’assalto olandesi).
– esercito olandese (Koninklijke Landmacht).
Pakistan.
Palau, isole.
Palermo.
Palestina.
Panafrican Congress (1945).
Panama.
Panama, Canale di.
panasiatismo.
Pantelleria, isola.
Panzerfaust (arma anticarro).
Panzerschreck (lanciarazzi RPzB 43, «terrore dei carri armati»).
Papagos, Alexandros.
Papon, Maurice.
Papua.
Parigi :
– insurrezione di.
Partito comunista cinese:
– forze armate del.
– e guerra civile.
– e movimento di resistenza.
– e resa del Giappone.
– Xīn sí jūn (Nuova IV Armata comunista).
Partito comunista della Gran Bretagna.
Partito comunista italiano.
Partito d’Azione (Italia).
Partito fascista italiano.
Partito laburista britannico.
Pas de Calais; vedi anche Calais.
Patch, Alexander.
patti:
– d’Acciaio (1939).
– Antikominternpakt (Giappone e Germania 1936).
– dell’Asse (1936).
– Briand-Kellogg (1928).
– di difesa franco-giapponese (9 dicembre 1941).
– Hoare-Laval (1935).
– di non aggressione nippo-sovietico (1941).
– di non aggressione tra Germania e Urss (Molotov-Ribbentrop).
– Tripartito.
Patton, George.
Paulus, Friedrich von.
Pavelić, Ante.
Peace Ballot («Voto della pace»).
Peace Pledge Union (PPU).
Pearson, Karl.
Peck, Richard.
Peleliu, isola di.
Pelley, Wiilliam.
pemuda, movimento indonesiano.
Penck, Albrecht.
«People’s National Party» (Giamaica); vedi anche Manley, Norman; Jamaican Progressive League.
Percival, Arthur.
Peregruznoe, villaggio di.
Perham, Margery.
Perlis, provincia di.
Permanente Metals Corporation (Richmond, California).
Persia, vedi Iran.
Persico, Golfo.
Pesce, Giovanni.
Petacci, Clara.
Pétain, Philippe.
Pethick-Lawrence, Lord Frederick.
petrolio.
Petropavlosk.
Phibunsongkhram, Plaek.
Phillips, William.
Phoney War (Finta guerra).
Piani quinquennali (Urss).
«piano di guerra» anglo-francese (1939).
Piano quadriennale (Vierjahresplan).
pieds noirs (coloni francesi in Africa).
Pineau, Christian.
Pio XII, papa.
Pireo.
Pisa.
Placentia Bay, incontro tra Roosevelt e Churchill a.
Pleiger, Paul.
Plendl, Hans.
Ploeşti.
Plymouth.
Po, fiume.
Political Warfare Division (Usa); vedi anche Morale Division.
Political Warfare Executive (PWE).
Polonia:
– Armia Krajowa (esercito di liberazione polacco).
– Armia Ludowa (Esercito del popolo polacco).
– e assetto postbellico (1945).
– colonizzazione tedesca della.
– invasione sovietica della.
– invasione tedesca della.
– e lavoro forzato.
– liberazione della.
– Narodowe Siły Zbrojne (NSZ, Forze armate nazionali polacche).
– Polski Komitet Wyzwolenia Narodowego (Comitato di liberazione nazionale).
– Rzeczpospolita Polska (Repubblica della Polonia).
– e soldati polacchi inquadrati con gli Alleati.
Poltava.
Pomerania.
Ponomarenko, Pantelejmon Kondrat’evič.
Ponyri, villaggio di.
Pope, Arthur.
Portal, Charles.
Port Chester.
Port Moresby.
Portsmouth.
Portogallo.
Posen (oggi Poznań).
Potsdam, Dichiarazione di (1945).
Praga.
Prasca, Sebastiano.
Preparazione militare generale, programma di (Usa).
Preziosi, Giovanni.
prigionieri di guerra:
– e lavoro forzato.
– nella guerra tra Germania e Unione Sovietica.
– sotto l’esercito giapponese.
– tasso di mortalità dei.
Prikaz n. 227 «Ni šagu nazad!» (Ordine n. 227 «Non arretrate di un solo passo»).
Princeton University.
«Principî di Norimberga».
Pripjat’, fiume.
Prochorovka, nodo ferroviario di.
propaganda.
Protocolli aggiuntivi alle Convenzioni di Ginevra (1977); vedi anche Convenzione di Ginevra (1929); Convenzioni di Ginevra
(1949).
Protocolli dei Savi di Sion (Protokoly sionskich mudrecov).
Provenza.
Provincia della frontiera nord-occidentale.
Prussia orientale.
Psarros, Demetrios.
Psël, fiume.
psichiatrici, pazienti.
Psychiatric Primer for the Veteran’s Family and Friends (Nozioni psichiatriche fondamentali per la famiglia e gli amici del
veterano).
Puerto Rico.
Punjab.
Punta Stilo, battaglia di (1940).
Pusan.
Pu Yi, imperatore della Cina.
Qavam, Ahmad.
quaccheri.
Quadrant, incontro (Québec 1943).
«Quattordici punti»; vedi anche Wilson, Woodrow.
Québec.
Quisling, Vidkun.
Quit India, campagna indipendentista.
Raabe.
Raad van Verzet (Consiglio della Resistenza olandese).
Rabaul, base di.
radar:
– nella battaglia dell’Atlantico.
– nella battaglia d’Inghilterra.
– centimetrico.
– in Germania.
– in Giappone.
– in Gran Bretagna.
– nella guerra del Pacifico.
– in Italia.
– navale.
– negli Stati Uniti.
– in Unione Sovietica.
Radiation Laboratory (Usa).
radio:
– e aviazione.
– AM.
– FM.
– in Germania.
– in Gran Bretagna.
– nella Prima guerra mondiale.
– negli Stati Uniti.
– in Unione Sovietica.
– VHF.
Radio Bari.
Radioforschunginstitut .
Radio Research Station (Gran Bretagna).
Radio Roma.
Radom.
Radziłów (Polonia).
Raeder, Erich.
Rahn, Rudolf.
Ramsay, Bertram.
Randall, John.
Randolph, A. Philip.
Rangoon.
Rankin, Jeannette.
Rappard, William.
Rassemblement universel pour la paix.
Rasse-und Siedlungshauptamt der SS (Ufficio centrale delle SS per la razza e il reinsediamento, RuSHA).
Ratzel, Friedrich.
Ravenna.
Războiul sfânt contra bolşevismului («grande guerra santa contro il bolscevismo», Romania).
Reconstruction Finance Corporation (Usa).
Recreation and Amusement Association, organizzazione di bordelli nel Giappone occupato.
Rees, J. R.
«Regole dell’Aia per la guerra aerea» (1923); vedi anche Convenzione dell’Aia; «Leggi e consuetudini della guerra terrestre».
regroupement (reinsediamento forzato in Algeria).
Rehe, provincia di.
Reichenau, Walter von.
Reichsarbeitsministerium (ministero del Lavoro del Reich).
Reichsarbeitsverwaltung («Ufficio del lavoro del Reich»).
Reichshauptkasse Beutestelle (Ufficio bottini di guerra del Tesoro del Reich).
Reichsjustizministerium (ministero della Giustizia del Reich).
Reichskolonialbund (Lega coloniale del Reich).
Reichskommissar für die Festigung deutschen Volkstums (Commissario del Reich per il rafforzamento del carattere nazionale
germanico, RKFDV).
Reichskommissariat Ostland (Commissariato del Reich per il Baltico e la Bielorussia).
Reichskommissariat Ukraine (Commissariato del Reich per l’Ucraina).
Reichskriegsgericht (Tribunale militare del Reich).
Reichskriegsministerium (ministero della Guerra del Reich).
Reichsluftschutzbund (Lega per la difesa aerea del Reich).
Reichsluftschutzschule («scuole di difesa aerea»).
Reichsministerium für die besetzten Ostgebiete (ministero per i Territori orientali occupati); vedi anche Rosenberg, Alfred.
Reichsministerium für Bewaffnung und Munition (ministero degli Armamenti e Munizioni).
Reichsministerium für Volksaufklärung und Propaganda (ministero del Reich per l’Istruzione Pubblica e la Propaganda, RMVP);
vedi anche Goebbels, Joseph.
Reichssicherheitshauptamt (Ufficio centrale per la sicurezza del Reich, RSHA).
Reichsverteidungsrat (Consiglio di difesa del Reich).
Reichswerke Hermann Göring.
Reichszentrale für jüdische Auswanderung (dipartimento centrale del Reich per gli affari ebraici); vedi anche Eichmann, Adolf.
Reims.
Reinhardt, Hans.
Religiöse Gesellschaft der Freunde (Società religiosa degli amici).
Remagen.
Renania, militarizzazione della (1936).
Rendsburg.
Reno, fiume.
Repubblica sociale italiana (RSI).
Repubblica sociale italiana, ministero degli Interni della.
République autonome de Cochinchine.
resa incondizionata.
resistenza:
– antigiapponese.
– donne nella.
– in Germania.
– ebraica.
– e misure antinsurrezionali.
– partigiana in Italia.
– in Polonia.
Returning Psychoneurotics, The (I nevrotici di ritorno).
«Revue des Deux Mondes».
Reynaud, Paul.
Rhodesia.
riarmo.
Ribbentrop, Joachim von.
Richelieu, nave.
Richter, Gustav.
Richthofen, Werner von.
Richtlinien für das Verhalten der Truppe in Rußland, Die (Linee guida sulla condotta delle truppe in Russia).
Riegner, Gerhart.
Rif, guerra del (Marocco).
Riga:
– ghetto di.
– Università di.
Rimini.
Ringelblum, Emanuel.
Ritchie, Neil.
Rivoluzione d’Ottobre.
Robeson, Paul.
Rochefort, Joseph.
Röchling, Hermann.
Rock Island, arsenale di.
Rockwell, Norman.
Rodano, valle del.
Rodi.
Rodogno, Davide.
Roebling, Donald.
Roer, fiume.
Rogers, Edith.
Rokossovskij, Konstantin.
Rolls-Royce Merlin, motore aeronautico.
Rol-Tanguy, Henri.
rom, popolo.
Roma.
Roma, Protocolli di.
Romania.
Rommel, Erwin.
rōmusha (lavoro forzato, Giappone).
Roodenko, Igal.
Roosevelt, Eleanor.
Roosevelt, Franklin Delano:
– alla Conferenza di Casablanca.
– alla Conferenza di Jalta.
– alla Conferenza di Teheran.
– e controlli economici.
– e discriminazione razziale.
– e fine dell’impero britannico.
– e guerra in Nordafrica.
– e Lend-Lease.
– mire belliche di.
– e National Service Bill.
– e operazione Overlord.
– e Pearl Harbor.
– e produzione di massa.
– e questione ebraica.
– e rapporti con Chiang Kai-shek.
– e rapporti con Churchill.
– e rapporti con l’Unione Sovietica.
– e reclute di colore.
– e resa incondizionata.
Rosenberg, Alfred.
Rostov sul Don.
Rothschild, Louis.
Rotmistrov, Pavel.
Rotterdam.
Rouen.
Rovno.
Rowecki, Stefan.
Royal Air Force (RAF):
– e aiuti alla Resistenza.
– e aviatori polacchi nella.
– e battaglia d’Inghilterra.
– e bombardamenti sulla Germania.
– e forza aerea tattica.
– e guerra in Occidente.
– e intelligence.
– in Iraq.
– e LMF (Lack of Moral Fibre).
– e pazienti psichiatrici.
– e reclute di colore.
– II Tactical Air Force.
Royal Marines.
Royal Navy:
– e battaglia dell’Atlantico.
– e China Squadron.
– a Dakar.
– a Dieppe.
– a Dunkirk.
– nel Mediterraneo.
– a Mers-el-Kébir.
– e operazione Overlord.
Royal Navy, navi della:
– HMS Bulolo.
– HMS Courageous.
– HMS Hood.
– HMS Illustrious.
– HMS Prince of Wales.
– HMS Repulse.
– HMS Rodney.
– HMS Victorious.
– HMS Victory.
Royal West African Frontier Force.
Rudenko, Roman.
Ruhr-Renania.
Rumbula, foresta di.
Rundstedt, Gerd von.
Runge, Wilhelm.
russo, impero.
Rwanda-Burundi.
Rybalko, Pavel.
Ryti, Risto.
Ryūkyū, isole.
SA (Sturmabteilung, Battaglione d’assalto delle camicie brune).
Saar.
Sabry, Hassan.
saccheggio.
Sachalin, isola di.
al-Sa‘id, Nuri.
Saigon (oggi Ho Chi Minh City).
Saipan.
Saitō Yoshitsugu.
Salerno.
Salmuth, Hans von.
Salò, regime di, vedi Repubblica sociale italiana.
Salomone britanniche, isole.
Salomone orientali, battaglia delle (1942).
Salonicco.
Sammern-Frankenegg, Ferdinand von.
Samoa Occidentali, isole.
San Bernardino, stretto di.
Sandomierz.
San Francisco.
San Lorenzo, golfo di.
Santerno, fiume.
Sardegna.
Sarraut, Albert.
Sartre, Jean-Paul.
Sauckel, Fritz.
Saur, Karl Otto.
Sava, fiume.
Savo, isola di.
Scapa Flow, base navale di.
Scandinavia.
Scavizzi, Pirro.
Schacht, Hjalmar.
Schelda, fiume.
Schlafende Heer, Das (L’esercito che dorme); vedi anche Viebig, Clara.
Schleswig-Holstein.
Schlieben, Karl-Wilhelm von.
Schlüsselburg, presa di
Schmitt, Carl.
Schörner, Ferdinand.
Schultz, Paul.
Schutzmannschaften (forze di polizia locali nei territori orientali).
Schweinfurt.
Schweppenburg, Geyr von.
scioperi.
Scozia.
Sebastopoli.
«Secondo fronte».
Sedan.
Seeadler porto di.
Seelow, alture di.
Selangor.
Selbstschutz («autoprotezione»).
Selective Service Bill Act (Usa).
senbu-xuanfu («annuncio del conforto»).
Senegal.
Senjinkun (Codice militare giapponese di comportamento sul campo»).
Senna, fiume.
Serbia:
– «Serbien ist judenfrei» («In Serbia non c’è piú un solo ebreo»).
– Srpski dobrovoljački korpus (Corpo volontario serbo parafascista).
Sergij, metropolita di Leningrado.
Service du travail obligatoire.
Sétif.
Seton-Watson, Hugh.
Sextant (Sestante), summit del Cairo (1944).
Seyss-Inquart, Arthur.
Shaanxi, provincia dello.
Shandong, penisola dello.
Shanghai.
Shanghai, Municipalità Speciale di.
Shanxi, provincia dello.
Shenyang (Mukden).
Sheppard, Richard.
Sh’erit HaPleta («restanti sopravvissuti» della Shoa).
Shibasaki Keiji.
Shigemitsu Mamoru.
Shikoku, isola di; vedi anche Giappone, Dai-ni Sōgun.
Shoah, vedi olocausto.
Shōjirō Iida.
Shuckburgh, John.
Siam, vedi Tailandia.
Siberia.
Sicherheitsdienst (SD, Servizio di sicurezza).
Sicilia.
Sidi Barrani.
Sierra Leone.
Sigmaringen.
Signal Corps (Usa).
Sikeston (Missouri).
Silverman, Sydney.
Sinclair, Archibald.
Singapore.
Singapore, base navale di.
Singh, Mohar.
sinti, popolo.
sionismo.
Siria.
sistema di unità di controllo dell’azione aerea (Gran Bretagna).
Škoda.
Slapton Sands.
Slesia.
Slessor, John.
Slim, William.
Slovacchia.
Slovacchia, insurrezione della.
Slovenia:
– Slovenska zaveza (Alleanza slovena, anticomunista).
SMERŠ (Smert’ špionam, «Morte alle spie», organizzazione della sicurezza sovietica).
Smith, Holland «Howlin’ Mad».
Smith, James Holmes.
Smith-Connally War Labor Disputes Act (Usa).
Smolensk.
Smuts, Jan.
Sobibór, campo di sterminio di.
Società delle Nazioni.
Soddu, Ubaldo.
Sofia (Bulgaria).
Sokolov, Boris.
Sokolovskij, Vasilij.
Solomon Islands Labour Corps; vedi anche Fifi’i, Jonathan.
soluzione finale (Endlösung); vedi anche olocausto.
Somalia italiana.
Somaliland britannico.
Somaliland francese.
Somerville, James.
Somme, fiume.
Song Zheyuan.
Sōryokusen Kenkyūjō (Istituto per la guerra totale).
sottomarina, guerra.
Soustelle, Jacques.
Southampton.
South East Asia Command; vedi anche Mountbatten, Louis.
Sovet po evakuacii pri SNK SSSR (Soviet per l’evacuazione presso il Consiglio dei commissari del popolo).
Sovetskaja voenno-medicinskaja Akademija (Accademia sovietica medico-militare).
Spaatz, Carl.
Spagna.
Special Committee on Information from Non-Self Governing Territories (Comitato speciale delle Nazioni per le informazioni sui
Territori non autonomi).
Special Operations (SO).
Special Operations Executive (SOE).
Speer, Albert.
Spengler, Oswald.
Sperrle, Hugo.
Spiegel, John.
spoletta di prossimità.
Springhall, Douglas.
Spruance, Raymond.
Sri Lanka (oggi Ceylon).
SS Handžar Division (musulmani bosniaci).
SS-Kavallerie-Brigade.
6. SS Panzerarmee.
2. SS Panzerkorps.
SS, Schutz Staffel (Organizzazione paramilitare dello NSDAP per la sicurezza).
SS-Sturmbrigade Dirlewanger.
SS-Wirtschafts-und Verwaltungshauptamt (Ufficio centrale per l’amministrazione economica).
Stagg, John.
Stalin, Iosif Vissarionovič:
– e armistizi nel 1944.
– e assetto postbellico della Polonia.
– e battaglia di Stalingrado.
– e campagne del 1942.
– e campagne del 1943.
– e comunismo cinese.
– alla Conferenza di Jalta.
– alla Conferenza di Teheran.
– e crisi polacca.
– e difesa di Mosca.
– ed ebrei sovietici.
– ed Europa orientale.
– e guerra in Asia.
– e guerra in Occidente.
– e invasione della Germania.
– e invasione tedesca dell’Unione Sovietica.
– e Lend-Lease.
– e Patto Tripartito.
– e presa di Berlino.
– e resa incondizionata.
– e «Secondo fronte».
Stalingrado.
Stanley, Oliver.
Stapel, Wilhelm.
Stark, Harold.
Stati Uniti d’America (Usa):
– antimperialismo degli.
– approvvigionamento alimentare negli.
– e assetto postbellico (1919).
– e assetto postbellico del Medio Oriente.
– e attacco a Pearl Harbor.
– e contenimento della minaccia dell’Asse.
– e crisi durante la riconversione.
– e difesa civile.
– ed economia di guerra.
– e forza aerea tattica.
– e forza lavoro femminile.
– e guerra anfibia.
– e guerra civile cinese.
– e guerra corazzata.
– e guerra di Corea.
– e guerra economica.
– e guerra ispano-americana.
– e «impero americano».
– e internamento dei nippo-americani.
– e invasione tedesca dell’Unione Sovietica.
– e Iwo Jima / Okinawa.
– e Lend-Lease.
– mire belliche degli.
– mobilitazione della forza lavoro negli.
– mobilitazione militare negli.
– e opinione pubblica riguardo all’Unione Sovietica.
– pacifismo negli.
– e Prima guerra mondiale.
– e produzione di armamenti.
– e questione ebraica.
– e reclutamento femminile.
– e reclute di colore.
– e resa incondizionata del Giappone.
– e rimpatri postbellici.
– e sconfitta della Francia.
– e segregazione razziale.
– e smobilitazione.
– e strategia di guerra.
Stati Uniti d’America, aviazione degli:
– e bombardamenti del Giappone.
– e bombardamenti della Germania.
– e forza aerea tattica.
Stati Uniti d’America, Corpo dei marine degli:
– V Corpo anfibio.
– I Divisione marine.
– II Divisione marine.
– IV Divisione marine.
– Fleet Marine Force.
Stati Uniti d’America, dipartimento della Guerra degli.
Stati Uniti d’America, esercito degli:
– nella Battle of the Bulge («battaglia della sacca»).
– e campagna d’Italia.
– e crimini sessuali.
– diserzioni nell’.
– nelle Filippine.
– e guerra anfibia.
– e guerra corazzata.
– e invasione della Germania.
– e malati psichiatrici.
– e mobilitazione.
– e nippo-americani.
– in Nordafrica.
– e odio giapponese antiamericano.
– a Okinawa.
– nel Pacifico meridionale.
– e reclutamento femminile.
– e reclute di colore.
– e sbarco in Normandia.
Stati Uniti d’America, marina militare degli:
– e attacco a Pearl Harbor.
– e battaglia nel golfo di Leyte.
– nella battaglia del Mare delle Filippine.
– a Guadalcanal.
– e guerra anfibia.
– e guerra sottomarina.
– e malati psichiatrici.
– a Midway.
– a Okinawa.
– e reclutamento femminile.
– e reclute di colore.
– unità impiegate nel Pacifico della: V Flotta; III Flotta; VII Flotta; Task Force 58.
Stati Uniti d’America, navi della marina militare degli:
– USS Arizona.
– USS Enterprise.
– USS Hornet.
– USS Indianapolis 460.
– USS Iowa.
– USS Maryland.
– USS Missouri.
– USS New Mexico.
– USS New York.
– USS Saratoga.
– USS Washington.
– USS Waspi.
– USS Yorktown.
Stati Uniti d’America, unità dell’aviazione militare degli:
– VIII Air Force.
– IX Air Force.
– X Air Force.
– XII Air Force.
– XIV Air Force.
– XV Air Force.
– American Army Neuropsychiatric Division (Usa).
– Army Medical Corps (Usa).
– Army Morale Division (Usa).
– XXI Bomber Command.
– VIII Fighter Command.
Stati Uniti d’America, unità dell’esercito degli:
– Americal Division.
– III Armata.
– V Armata.
– VII Armata.
– IX Armata.
– VI Divisione aviotrasportata.
– LXXXII Divisione aviotrasportata.
– CI Divisione aviotrasportata.
– IX Divisione corazzata.
– First United States Army Group (FUSAG).
– VI Gruppo d’armata.
– XII Gruppo d’armata.
– Second Armoured Division.
Stauffenberg, Claus von.
Steinhardt, Lawrence.
Stern, Abraham; vedi anche Lohamei Herut Israel.
Stern, James.
Stettinius, Edward.
Stilwell, Joseph.
Stimson, Henry.
St Nazaire.
Stoccolma.
Storojinet.
St Paul’s, cattedrale di.
«strada del ghiaccio», vedi doroga žizni; vedi anche Leningrado.
Strafgesetzbuch (Codice penale delle forze armate tedesche).
Strangeways, David.
Strategic Bombing Survey (Usa).
Stresemann, Gustav.
Strong, Kenneth.
Stroop, Jürgen.
Student, Kurt.
Stülpnagel, Carl-Heinrich von.
Stumme, Georg.
Stumpff, Hans-Jürgen.
Stumpp, Karl.
St Vith.
Submarine Tracking Room.
Sudafrica.
Sudan.
Suez, Canale di.
Sugiyama Hajime.
Sukarno.
súkǔhuí, incontri «per dare sfogo all’amarezza» (Cina).
Sulzberger, Arthur.
Sumatra.
Sungari, fiume.
Surabaya.
Suribachi, monte.
Surigao, stretto di.
Suriname.
Susloparov, Ivan.
Suzuki Kantarō.
Svezia.
Svizzera.
Swansea.
Swaziland.
Swedish-Swiss Relief Commission.
Sykes-Picot (1915), accordo.
Syngman Rhee.
Szálasi, Ferenc.
Szoszkies, Henryk.
Sztójay, Döme.
Taegu.
Taganrog.
Tahiti.
Taierzhuang.
Taika nijūikkajō yōkyū («Ventuno richieste»).
Tailandia.
Taisei Yokusankai (Associazione per l’assistenza alla via imperiale).
Taiwan.
Takamura Kōtarō.
Tanganica.
Tang Enbo.
Tanggu.
Taranto.
Tarawa, atollo; vedi anche Betio.
Taruc, Luis.
Tassigny, Jean de Lattre.
Tauber, fiume.
Tedder, Arthur.
Teheran; vedi anche conferenze.
Telecommunications Research Establishment (Gran Bretagna).
Telefunken.
Teleki, Pál.
Tembien.
Temple, William.
Terauchi Hisaichi.
Terboven, Josef.
Terman, Frederick.
Ternopol’ (oggi Ternopil’).
Terranova, isola di.
Tesla, Nikola.
Tesoro, isole del.
Testimoni di Geova.
Texcier, Jean.
Thiers.
Thomas, Georg.
Thompson, James.
Thurman, Howard.
Tianjin.
Tichvin.
Tienanmen, piazza.
Tiga-A («Movimento delle tre A», Giappone).
Timošenko, Semën Konstantinovič.
Tinian.
Tirailleurs Sénéglais, soldati neri dell’esercito francese.
Tirana.
Tirol-Vorarlberg.
Tiso, Jozef.
Tito (Josip Broz).
Tizard, Sir Henry.
Tōarenmei undō («Lega dell’Asia orientale»).
Tobruk.
Todt, Fritz.
Togo.
Tōgō Shigenori.
Tōjō Hideki.
tokko («tattica suicida»).
Tokyo.
Tokyo, bombardamento di (1945).
Tolone.
Tolosa.
Tolstovskoe Vegetarianskoe Obščestvo («Società vegetariana tolstojana»).
Tomislav II di Savoia, re di Croazia.
Tonchino, golfo del.
Tonchino, regione del.
Torgau.
Torino.
Torokina, Capo.
Toscana.
Toyoda Teijirō.
Tracia.
Transgiordania.
Transilvania.
Transnistria.
Transvaal.
trattati:
– anglo-egiziano (1936).
– di Brest-Litovsk (1918).
– commerciale nippo-americano (1911).
– di commercio e amicizia tra Italia e Yemen.
– Deutsch-Sowjetische Grenz-und Freundschaftsvertrag (Trattato tedesco-sovietico di amicizia e territorialità).
– di Locarno (1925).
– di Londra (1915).
– di Losanna (1923).
– delle nove potenze (1922).
– di Portsmouth (1948).
– di Portsmouth (1906).
– sino-sovietico (1945).
– di Versailles (1919).
Treblinka, campo di sterminio di.
Trenchard, Hugh.
Trengannu.
Tresckow, Hennig von.
«Tribunale militare permanente» (Saigon).
Trident (nome in codice della Conferenza sul disarmo di Washington), vedi conferenze.
Trieste.
Trincomalee.
Trinidad.
Triplice Alleanza (1882).
Tripoli.
Tripolitania.
Trondheim.
Truk.
Truman, Harry S.:
– e bomba atomica.
– e Cina.
– e fine dell’impero britannico.
– e obiezione di coscienza.
– e Palestina.
– e resa incondizionata del Giappone.
Truscott, Lucian.
Trusteeship Council (Consiglio per l’amministrazione fiduciaria).
Tsolakoglou, Georgios.
Tsunekichi Komaki.
Tsunoda Tomoshige.
Tuchačevskij, Michail Nikolaevič.
Tula.
Tulagi.
Tunisi.
Tunisia.
Tunku Abdul Rahman.
Turchia.
Turner, John.
Turner, Richmond.
Tuskegee airmen (piloti di colore).
Ucraina:
– banderivci (membri dell’Esercito nazionalista ucraino); vedi anche Bandera.
– Organizacija Ukraïns’kich Nacionalistiv (Organizzazione dei nazionalisti ucraini, OUN).
Uemura Mikio.
Ugaki Matome.
Ultra, intelligence Europa; vedi anche Enigma.
Ultra, intelligence Pacifico; vedi anche Enigma.
Umanskij, Konstantin.
«Unabara» (Grande Oceano, rivista giapponese).
Ungheria:
– Nyilaskeresztes Párt – Hungarista Mozgalom (Partito fascista delle Croci frecciate, Ungheria); vedi anche Szálasi, Ferenc.
Unione nazionale per la protezione antiaerea (Unpa).
Unione Sovietica (Urss):
– e aiuti alla Cina.
– e battaglia di Stalingrado.
– e campagne del 1944.
– chiese nell’.
– e crisi polacca.
– e deportazioni.
– e difesa civile.
– e difesa di Mosca.
– espansione in Europa orientale dell’.
– e forza lavoro.
– e forza lavoro femminile.
– e guerra aerea.
– e guerra corazzata.
– e guerra con la Finlandia.
– e guerra russo-giapponese.
– e «impero sovietico».
– e insurrezioni postbelliche.
– e invasione tedesca dell’.
– e Lend-Lease.
– mire belliche dell’.
– mobilitazione economica nell’.
– mobilitazione militare nell’.
– e movimenti della Resistenza.
– pacifismo nell’.
– e produzione di armamenti.
– psichiatria nell’.
– e reclutamento femminile.
– e resa incondizionata.
– e riconquista di Kiev.
– e rimpatri postbellici.
– e sconfitta della Germania.
– tenore di vita nell’.
Unione Sovietica, aviazione dell’, vedi Voenno-Vozdušnye Sily.
Unione Sovietica, esercito dell’, vedi Armata Rossa.
Union des populations du Cameroun, movimento indipendentista (1948).
Union for Democratic Action (Usa).
Union française.
United Pacifist Committee (Usa).
United States Neutrality Laws (leggi sulla neutralità/37).
United States Research Branch (Usa).
UNRRA (United Nations Relief and Rehabilitation Administration, «Amministrazione per il soccorso e la ricostruzione»).
Untergang des Abendlandes, Der (Il tramonto dell’Occidente); vedi anche Spengler, Oswald.
Urali, catena montuosa degli.
U Saw.
Ushijima Mitsuru.
Ustaša; vedi anche Croazia, Hrvatski revolucionarni pokret.
V1, missile da crociera; vedi anche Vergeltungswaffen («armi della vendetta»).
V2, razzo; vedi anche Vergeltungswaffen («armi della vendetta»).
Val d’Aosta.
Vallo Atlantico.
Vallo Ligure.
Vandegrift, Alexander.
Vandenberg, Arthur.
Vansittart, Lord Robert.
Vargas, Jorge.
Varsavia:
– ghetto di.
– insurrezione di.
– rivolta del ghetto di.
Vasil’evskij, Aleksandr.
Vaticano.
Vatutin, Nikolaj.
VE-Day (Giornata della vittoria in Europa).
Veesenmayer, Edmund.
Velouchiotis, Aris.
Verdun.
Vergani, Orio.
Vergeltungswaffen («armi della vendetta»); vedi anche V1; V2.
Verona, Manifesto di.
Versailles, Trattato di (1919), vedi trattati.
Viebig, Clara.
Vienna.
Vienna, Secondo Arbitrato di (1940).
Vietinghoff-Scheel, Heinrich von.
Viet minh (Lega per l’indipendenza del Vietnam).
Vietnam.
Vietnam, guerra del.
Vietnam del Nord.
Vietnam del Sud.
Vileyka, uccisioni di.
Villa Incisa.
Villers-Bocage.
Vilna, ghetto di.
Vilnius.
Vinson Act (1938).
Vistola, fiume.
Vitebsk.
vittime di guerra:
– nel 1945.
– nell’avanzata giapponese verso sud.
– nella battaglia di Kursk.
– nella Battle of the Bulge (battaglia della sacca).
– in Birmania.
– dei bombardamenti.
– nella campagna delle Marianne.
– a El Alamein.
– tra gli equipaggi dei bombardieri.
– nelle Filippine.
– a Guadalcanal.
– nella guerra d’Algeria.
– nella guerra di Corea.
– nella guerra d’Etiopia.
– e guerra in Occidente (1940).
– nell’Ichigō-sakusen (operazione Numero Uno).
– nell’invasione della Francia.
– nell’invasione della Grecia.
– nell’invasione della Norvegia.
– nell’invasione della Polonia.
– a Iwo Jima.
– tra i marinai dei mercantili.
– nell’occupazione dell’Albania.
– a Okinawa.
– nell’operazione «Barbarossa».
– nell’operazione Market-Garden.
– tra la popolazione civile.
– nella rivolta di Varsavia.
– nella seconda guerra sino-giapponese.
– a Stalingrado.
– a Tarawa.
– tra le truppe della Germania.
– tra le truppe dell’Unione Sovietica.
Vittorio Emanuele III di Savoia, re d’Italia.
Vjazma.
Vlasov, Andrej.
Voenno-Vozdušnye Sily (Aviazione militare sovietica); vedi anche Boevoj Ustav Voenno-Vozdušnych Sil (Regole di
combattimento per l’aviazione militare).
Volga, fiume.
Volga, tedeschi del.
Volk ohne Raum («popolo senza spazio»).
Volksgemeinschaft (comunità del popolo germanico).
Volksgerichtshof (Tribunale del popolo, Berlino).
Volkssturm (milizia patriottica popolare).
Vo Nguyen Giap.
Vosgi, monti.
Vremennoe pravitel’stvo (governo provvisorio rivoluzionario, Russia).
Vyšinskij, Andrej Januar’evič.
Waffen-SS.
Wagner, Edouard.
Wainwright, Jonathan.
Wakde, isola di.
Wake, isola di.
Walcheren, isola di.
Walker, Rhoza.
Wang Jingwei.
Wang Kemin.
Wanping.
War Manpower Commission (Usa).
War Plan Orange (Usa).
War Production Board (Usa).
War Resisters’ International; vedi anche Brown, H. Runham.
War Resisters’ League; vedi anche pacifismo.
Warthegau.
Wartime Social Survey.
Washington D.C.
Watson-Watt, Robert.
Wavell, Archibald.
Wedemeyer, Albert.
Wehrmacht:
– e atrocità sul campo di battaglia.
– e battaglia di Kursk.
– e battaglia di Stalingrado.
– e campagne del 1942.
– e difesa della Germania.
– diserzioni nella.
– e guerra nei Balcani.
– e guerra nel Nordafrica.
– e guerra in Occidente.
– e invasione dell’Italia.
– e invasione della Polonia.
– e obiezione di coscienza.
– e operazione «Barbarossa».
– e operazione Herbstnebel.
– e pazienti psichiatrici.
– politica sessuale.
– e reclutamento femminile.
– e reclutamento degli stranieri.
– e sbarco in Normandia.
– e sconfitta nei territori orientali.
Wehrmacht, unità della:
– 4. Armee.
– 6. Armee.
– 7. Armee.
– 9. Armee.
– 10. Armee.
– 12. Armee.
– 14. Armee.
– 15. Armee.
– 17. Armee.
– 19. Armee.
– Fallschirm-Panzerdivision 1 «Hermann Göring».
– Heeresgruppe A.
– Heeresgruppe B.
– Heeresgruppe C.
– Heeresgruppe Don.
– Heeresgruppe G.
– Heeresgruppe Mitte.
– Heeresgruppe Nord.
– Heeresgruppe Süd.
– Heeresgruppe Südukrain.
– 5. leichte Division.
– 2. Panzerarmee.
– 3. Panzerarmee.
– 4. Panzerarmee.
– 5. Panzerarmee.
– 6. Panzerarmee.
– 9. Panzerarmee.
– 2. Panzerdivision SS Das Reich.
– 7. Panzerdivision.
– 9. Panzerdivision.
– 10. Panzerdivision.
– 4. Panzerdivision.
– 11. Panzerdivision.
– 15. Panzerdivision.
– 21. Panzerdivision.
– 3. Panzergruppe.
Wehrmachtsanitätswesen (Servizi medici della Wehrmacht).
Weichs, Maximilian von.
Weimar, Assemblea nazionale di (Deutsche Nationalversammlung).
Weizmann, Chaim.
Weltgeschichte als Kolonialgeschichte, Die (La storia del mondo come storia coloniale).
Wenck, Walther.
Werner, Wilhelm.
Wesel.
Westerling, Raymond.
Western Approaches Command (Liverpool).
Western Desert Air Force.
Westwall.
Wetzel, Erhard.
Weygand, Maxime.
Wharton, William.
Wheatley, Dennis.
White, Walter; vedi anche NAACP.
Wieluń.
Wild, Noel.
Wilkinson, Peter.
Willkie, Wendell.
Willow Run (Michigan).
Willys, Jeep (veicolo).
Wilson, Charles.
Wilson, Henry Maitland.
Wilson, Sir Henry.
Wilson, Sir Horace.
Wilson, Woodrow.
Wimperis, Henry.
Winneba.
Winrod, Gerald.
Wirtschaftsführungsstab Ost (stato maggiore per l’economia dei territori orientali).
Wise, Stephen.
Wisliceny, Dietmar.
Wolff, Karl.
Wolfsschanze (Tana del lupo).
Women Accepted for Volunteer Emergency Service (Donne accettate per il servizio di emergenza volontario, WAVES).
Women Airforce Service Pilots (Donne pilota dell’aeronautica militare, WASP).
Women’s Army Auxiliary Corps.
Women’s Auxiliary Air Force.
Women’s Flying Training Detachment.
Women’s International League; vedi anche pacifismo.
Women’s International League for Peace and Freedom; vedi anche pacifismo.
Women’s Royal Naval Reserve.
Women’s Voluntary Services for Air Raid Precautions
«Woodall, Rapporto».
Woolf, Leonard.
World Peace Foundation.
Wotje, isola di.
Wuhan.
Württemberg-Baden Grenadier, reggimento della Wehrmacht.
Wuth, Otto.
Xi’an.
Xuzhou.
Yagi Hidetsugu.
Yamaguchi Tamon.
Yamamoto Isoroku.
Yamashita Tomoyuki.
Yan’an.
Yangtze, fiume.
Yasue Norihiro.
Yemen.
Yenangyaung.
Yokohama.
Yoshizawa Kenkichi.
Yunnan, provincia dello.
Zagabria.
Zagraditel’nye otrjady (reparti di soldati o di uomini della sicurezza dell’NKVD che davano la caccia a disertori e fuggitivi).
Zal’cman, Isaak Moiseevič.
Zamość.
Zaporož’e, diga di.
Ždanov, Andrej Aleksandrovič.
Zeesen.
Żegota, Comitato.
Zeitzler, Kurt.
Zeleni kadar (movimento dei musulmani bosniaci).
Zentrale Plannung (Consiglio centrale di pianificazione).
Zervas, Napoleon.
Zhang Qun.
Zhang Xueliang.
Zhejiang, provincia dello.
Zheng Dongguo.
Zhijiang.
Zhōngguó Rénmín Jiěfàngjūn (Esercito popolare di liberazione, Cina).
Zhou Enlai.
Zhu De.
Ziemie Odzyskane («territori recuperati» dalla Polonia dopo la guerra).
Žitomir (oggi Žytomyr).
Zogu, Ahmet (re Zog).
Zorin, Shalom.
Zorin, Valerjan.
Zossen.
Z-Plan (Ziel-Plan, marina militare del Reich).
Zuckerman, Solly.
Zuid-Afrikaansche Republiek (Transvaal).
Žukov, Georgij Konstantinovič.
Związek Harcerstwa Polskiego (Associazione Scout Polacca).
Żydowska Organizacja Bojowa (Organizzazione ebraica combattente, ŻOB).
Żydowski Związek Wojskowy (Unione militare ebraica, ŻZW).
Il libro
I l capolavoro di uno dei piú rinomati storici della Seconda guerra mondiale, che ci costringe a considerare quei tragici eventi
sotto una luce inedita.
«Uno studio vasto e dettagliato, sicuramente la miglior storia della Seconda guerra mondiale in un unico volume. Un potente
monito sull’orrore della guerra e sulla minaccia rappresentata dai dittatori nutriti di sogni imperiali».
«The Wall Street Journal»
Richard Overy si propone di riformulare il modo in cui guardiamo alla Seconda guerra mondiale, alle sue origini e alle sue
conseguenze. Secondo il grande storico inglese si trattò di una «Grande guerra imperiale», la conclusione terribile di quasi un
secolo di espansione imperiale globale, che raggiunse il suo apice nelle ambizioni di Italia, Germania e Giappone negli anni
Trenta e all’inizio degli anni Quaranta, prima di sprofondare nella piú estesa e costosa guerra della storia dell’umanità che, dopo
il 1945, sancí la fine di tutti gli imperi territoriali. Al centro del volume, le modalità secondo le quali questa guerra su vasta scala
venne combattuta, alimentata, subita, sostenuta dalla mobilitazione di massa e moralmente giustificata. Overy sottolinea
l’immane prezzo pagato da chi si trovò coinvolto nei combattimenti e l’eccezionale livello di criminalità e atrocità di ognuno di
questi progetti imperiali. Una guerra mortale per militari e civili, una guerra all’ultimo sangue la cui posta in gioco era il futuro
dell’ordine globale.
New York Times Bestseller.
Vincitore del Duke of Wellington Medal for Military History.
Finalista del Gilder Lehrman Prize for Military History.
L’autore
RICHARD OVERY , Professore onorario di Storia all’Università di Exeter, è uno degli storici inglesi piú illustri. Le sue opere
principali includono The Dictators, vincitore del Premio Wolfson nel 2005, The Morbid Age e The Bombing War, finalista al
Cundill Award for Historical nel 2014. È membro della British Academy e dell’Accademia europea delle scienze e delle arti. Tra
i suoi libri ricordiamo Russia in guerra (il Saggiatore, 2000), Interrogatori (Mondadori, 2002), La strada della vittoria (il Mulino,
2002) e Sull’orlo del precipizio (Feltrinelli, 2009).
Titolo originale Blood and Ruins. The Great Imperial War, 1931-1945
© 2021 Richard Overy
First published as BLOOD AND RUINS in 2021 by Allen Lane, an imprint of Penguin Press. Penguin Press is part of the Penguin Random House group of companies.
© 2022 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
In copertina: Coventry devastata dai bombardamenti, 15 novembre 1940. (Foto © Fox Photos / Hulton Archive / Getty Images).
Progetto grafico: Fabrizio Farina e Viviana Gottardello.
Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in
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Ebook ISBN 9788858441299

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