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Crisi Dell Io Nel 900

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CRISI DELL’UOMO NEL ‘900

Di Fulio M.

Il Novecento è un secolo che raccoglie e sviluppa la crisi di fine


Ottocento. Cambia radicalmente il modo di porsi dell’uomo di fronte alla realtà
e rispetto ai suoi simili. Siamo lontani dal determinismo scientifico del
naturalismo francese, dall’idealismo assoluto di Hegel e dal giustificazionismo
positivista di Comte.

In filosofia Nietzshe non aderisce a nessuno dei sistemi e delle diramazioni


filosofiche del 1800. La fine dell’800 coincide con la fine della filosofia pura e
Freud, padre della psicoanalisi, dà via allo sviluppo delle scienze umane, ossia
di un sapere organizzato scientificamente avente per oggetto l’uomo. Mentre
Freud va alla ricerca della crisi dell’uomo analizzando le cause interiori e
psicologiche, Nietzsche sostiene che il disagio dell’uomo nasce da fuori.

Il pensiero di Nietzsche è caratterizzato da una radicale messa in discussione


della civiltà e della filosofia dell’Occidente, che si traduce nella distruzione delle
certezze del passato. Il libro fondativo di Nietzsche è “Nascita di una tragedia”
nel quale il motivo centrale è la distinzione tra apollineo (tutto ciò che richiama
Apollo, ed è quindi equilibrato, misurato, composto, ovvero razionalià)
dionisiaco (ciò che richiama Dioniso, cioè l’abbandono sensuale, perdita di
controllo, mancanza d’equilibrio, e quindi predominio dell’irrazionalità). Questi
due modelli convivono in modo equilibrato fino all’affermazione del
razionalismo di Socrate che segna il trionfo dell’apollineo sul dionisiaco: la
storia dell’Occidente è il dominio inarrestabile e incontrastato del modello
apollineo. Nietzsche afferma che con l’avvio del dominio dell’attività razionale
umana è iniziata la mortificazione della vita, e contro tale processo di
decadenza propone il recupero convinto di Dioniso attraverso una dimensione
di autoascolto ed espressività di sé. Il filosofo tedesco annuncia la volontà di
potenza, vale a dire la volontà di provare la forza naturale che è in me, di
esprimere la creatività immediata, la pienezza vitalistica del mio corpo. Ciò che
troviamo nella civiltà occidentale è la negazione della volontà di potenza;
l’Occidente è una civiltà di valori, etica. Tutto ciò che è prodotto dall’Occidente
comporta un controllo dell’esistenza e coincide con l’avvilimento e la
mortificazione della vita. Il corpo dell’uomo è colonizzato da un mondo di
valori, limiti e barriere che non promuove, non stimola, né entusiasma la vita.
L’origine e il fine dell’esistenza umana è Dio, come principio di valori. Dio
rappresenta la personificazione delle varie certezze metafisiche, morali e
religiose elaborate dall’umanità per dare un senso plausibile ed un ordine
rassicurante al caos della vita e del mondo. Tutto ciò che è dionisiaco è infatti
percepito dall’occidente come degenerazione, smarrimento, orrore. Chi
recupera dentro di sé la volontà di potenza non può aderire al valore. Il

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nichilismo è la nullificazione dei valori, che non coincide con la distruzione dei
valori, ma significa uscire dalla dimensione dei valori. Su questa base di
nihilismo c’è il nihilismo attivo, che coincide con la morte di Dio, ossia il fatto
che qualsiasi variazione di valore non riguarderà più la mia esistenza (c’è il
rifiuto di Dio come vertice dei valori). Tutto questo è il quadro fondativo
dell’oltre uomo che percepisce come la vita non possa coincidere con un
valore; l’oltre uomo è colui in grado di accettare la dimensione dionisiaca della
vita, di reggere la morte di Dio e la perdita di certezze assolute, di porsi come
volontà di potenza e procedere oltre il nichilismo. L’oltre uomo è enormemente
distante dall’uomo occidentale in quanto riesce a dire sì all’istante; questa è la
completa smentita della logica occidentale secondo cui esiste una gerarchia di
momenti, l’assoluto sbriciolamento del finalismo. Il presente non è un
passaggio per arrivare in futuro a qualcosa di migliore. Il dire sì all’istante è
l’affermazione dell’eterno presente: ogni momento attuale è pienamente vita, e
sacrificare un momento di vita con la convinzione che ciò che viene dopo sarà
migliore è un distruggere la vita.

Mentre Nietzsche studiò la crisi dell’uomo su base filosofica, ricercando le


cause del male nella società e trovando come soluzione quella di cambiare il
rapporto uomo-civiltà, Freud studia i mali dell’uomo su base scientifica e,
sviluppando le scienze umane, giunge alla conclusione che il disagio dell’uomo
è da ricercare dentro la sua psiche; Freud scoprì che la causa delle
psiconevrosi è da ricercarsi in un conflitto tra forze psichiche inconsce, ossia
operanti al di là della sfera di consapevolezza del soggetto, i cui sintomi
risultano quindi psicogeni, cioè non derivano da disturbi organici bensì da
traversie della psiche stessa. La scoperta dell’inconscio segna l’atto di nascita
della psicoanalisi. La psicanalisi è un punto di svolta importante: viene
abbandonata la farmacologia e la logica meccanicista della medicina
tradizionale. La psicanalisi mira a ricostruire la genealogia della persona e non
si fonda su un causalismo; essa non ha un punto d’arrivo perché parte dall’oggi
e procede a ritroso fino all’infanzia, che è il nucleo in cui si sviluppa la
personalità del paziente; altro momento ritenuto importante dalla psicanalisi è
l’adolescenza perché è durante quel periodo che si ha lo svincolarsi da punti di
riferimento parentali e la costruzione di propri punti di riferimento. Un'altra
novità è rintracciabile nel rapporto medico-paziente: il medico non valuta, né
fa un’analisi diretta del malato, ma cerca di indurre quest’ultimo ad esprimere i
motivi fonte del disagio; la persona non è più il destinatario passivo della
terapia (come nella medicina comune in cui il medico dice e il paziente ascolta
e segue i suoi consigli) ma diventa essa stessa colei che si "cura" e che vuole
"guarire". Freud dichiara che il disagio di un uomo è dovuto alla mancanza di
armonia tra i tre livelli in cui si articola la psiche: es, io, superio. Per ricostruire
la genealogia del disagio si deve studiare il subconscio, e l’unico mezzo per
conoscere l’elaborazione psichica inconscia dell’uomo è la psicanalisi:
attraverso le libere associazioni mentali, e l’interpretazione dei sogni (il mondo
onirico svincolandosi dal controllo della coscienza elabora senza alcun finalismo

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ed è quindi una miniera per conoscere gli elementi psichici mantenuti inconsci
dalla rimozione) lo psicanalista cerca di ricostruire ciò che non va e scoprirne le
cause, per poi riequilibrare le forze psichiche in conflitto. Freud identifica due
grandi famiglie di disagi psichici: le nevrosi (sono le fissazioni di una persona
che ha sempre bisogno di punti di riferimento; il nevrotico non ha mancanza di
coordinamento ma di armonia: il soggetto mantiene il contatto con la realtà, sa
di avere qualcosa che non va, ma non riesce a capire il perché e, a parte
qualche disturbo, per il resto conduce una vita "normale") e le psicosi (è la
scissione della personalità: non c’è più il coordinamento né la consapevolezza
dei rapporti tra le componenti della psiche; l’individuo non ha più coscienza
della gravità del suo male ed ha perso il contatto con la realtà. La schizofrenia
è la più tipica delle psicosi e comporta una scissione della personalità che non
si riassorbe; l’Io è sbriciolato, ed Es e Superio sono in conflitto tra loro).

L’esperienza artistica di Pirandello riflette la crisi dell’individuo italiano nella


società borghese. La vita si presenta assurda nella sua casualità e tale che ogni
illusione presenta spesso il suo risvolto negativo. Pirandello incentra il proprio
interesse sulla crisi che travaglia l’uomo del suo tempo, privo d’identità e di
valori morali, fondata sulla precarietà dei rapporti tra individuo e individuo
nell’ambito della società borghese. L’esperienza dello scrittore presso
l’università di Bonn lo mise a contatto con la cultura tedesca e probabilmente
con la filosofia di Nietzsche. Il riferimento a Nietzsche appare evidente nella
critica ad ogni tipo di società organizzata che, spengendo la spontaneità e
l’immediatezza della vita, mortifica l’esistenza umana. Pirandello desidera un
recupero della vita, concepita come energia vitale che si muove fuori e dentro
di noi; tale recupero si muove in direzione opposta all’uomo moderno che si
distacca dal perpetuo movimento vitale della realtà per assumere una forma
individuale; questo fenomeno è tipico di una società in cui ognuno tende a
cristallizzarsi in una personalità unitaria che ci separa dal resto della vita.
Pirandello afferma che sotto la maschera che c’imponiamo non c’è un volto
immutabile, ma un fluire di stati in perenne trasformazione. D’impronta
nietzschana è anche la critica all’istituzione familiare che, codificata com’è su
vecchi valori, rappresenta insieme alla condizione borghese (un lavoro
monotono e per niente gratificante) una sorta di trappola che immobilizza la
vitalità. Su questa posizione influì sicuramente la gelosia soffocante della
moglie, spesso in preda alla follia, e l’esperienza della declassazione sociale.
L’intellettuale diviene l’umorista che registra il caos nel quale egli stesso è
immerso. Il passaggio da uomo qualunque ad eroe pirandelliano può essere
rappresentato dal passaggio dell’eroe classico all’Amleto shakespeariano.
Amleto rappresenta il tipico eroe moderno che, perplesso da infiniti dubbi e
insicurezze, non riesce nella vendetta perché vive in un’epoca in cui le certezze
e i capisaldi della vita sono crollati. L’elemento che determina questo passaggio
è un evento banale della vita (per esempio lo “strappo nel cielo di carta”) che
allarga l’orizzonte visivo dell’uomo. Inizialmente si verifica una crisi d’identità
che si manifesta spesso con un gesto di follia, e porta l’uomo ad avvertire di

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non essere nessuno ma centomila secondo tutte le prospettive degli altri, e
quindi nessuno. Dallo stato di angoscia e solitudine si passa poi ad una
condizione in cui l’uomo diviene consapevole dell’inutilità di mortificare la
propria vita cercando di riconoscersi in maschere e forme statiche; la
mancanza d’identità diviene una condizione positiva e permette all’eroe
pirandelliano di abbandonarsi al fluire della vita. Si viene così a delineare la
figura dell’eroe filosofo, estraniato, che guarda dal di fuori la miseria della
commedia umana, cogliendo l’assurdità e l’inconsistenza del “normale”. La
riflessione di colui che osserva dal di fuori fa nascere il sentimento del contrario
che permette di cogliere il carattere molteplice e contraddittorio della realtà,
allo stesso tempo tragica e comica. Alla crisi dell’identità si accompagna poi il
relativismo conoscitivo: la “filosofia del lanternino” spiega che ogni uomo si
orienta nel buio della realtà attraverso una luce particolare (i vari valori cui si
aggrappa l’umanità) ed interpreta ciò che vede come certezza e verità
assoluta, solida base su cui costruire la propria esistenza. Pirandello prende
coscienza del fatto che non esiste una verità oggettiva. Mentre la concezione
meccanicistica del mondo, che aveva dominato nel corso dell’800, offriva con i
suoi nessi rigorosi di causa – effetto, un solido terreno di certezze Pirandello si
fa sostenitore di una natura problematica del mondo; la realtà non è più una
totalità organica ma si sfalda in una pluralità di frammenti. Il fatto che ognuno
sostenga una propria verità porta all’incomunicabilità tra gli uomini che si
chiudono in uno stato di solitudine.

In quest’epoca l’uomo inizia a percepire la difficoltà di comunicare con i suoi


simili; ciò comporta uno stato di disagio nel rapporto soggetto-realtà. Tale
difficoltà e disorientamento sono espressi in arte dalla pittura metafisica che
nasce nel 1917 grazie all’invenzione di De Chirico, la cui ricerca fu poi seguita
dal fratello Alberto Savino, da Carlo Carrà e Morandi. La metafisica si
caratterizza per l’allusione ad una realtà diversa, che va oltre ciò che vediamo
quando gli oggetti, usati fuori del loro contesto solito, sembrano rivelare un
nuovo significato che sorprende. Metafisico è ciò che è avulso dalla logica
ambientale in cui siamo abituati a vederlo: un oggetto qualsiasi isolato dal
contesto in cui vive e inserito in un altro o, più semplicemente, osservato da
noi intensamente e prolungatamente e quindi staccato da quelli vicini. Questi
contesti suscitano in noi un'inquietudine, una sottile angoscia, quasi un senso
di paura perché insolito, inaspettato, a-logico. Nel 1919 De Chirico scriveva:
“L’opera d’arte metafisica è quanto all’aspetto serena; dà però l’impressione
che qualcosa di nuovo debba accadere in quella stessa serenità e che altri
segni, oltre a quelli già palesi, debbano subentrare sul quadrato della tela: tale
è il sintomo della profondità abitata. Così la superficie piatta di un oceano ci
inquieta non tanto per l’idea della distanza chilometrica che sta tra noi e il suo
fondo, quanto per tutto lo sconosciuto che si cela in quel fondo.” Tutti dentro di
noi abbiamo una serie di ricordi grazie ai quali un oggetto è sempre associato
ad un uso e ad uno spazio proprio : è la collana dei ricordi; ma se essa si
spezza tutto è nuovo. Tale situazione, che crea una diversa realtà o ci dà

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nuove informazioni sugli oggetti comuni, si ottiene estraniando gli oggetti dal
loro contesto usuale, oppure presentando inanimati luoghi fatti per contenere
persone, con un effetto provocatorio che ci turba. All’immediatezza degli
Impressionisti, alla scomposizione delle forme e allo spazio dinamico dei
Futuristi, la Metafisica oppone: una prospettiva rigida e ordinatrice, ma a volte
falsata; un colore terso; una solida volumetria degli oggetti; un segno netto,
deciso e sicuro; precisione dello spazio geometrico. Attraverso queste tecniche
i metafisici operano un richiamo all’ordine, alla certezza, alla condizione di
smarrimento e al bisogno di sicurezze dovute alla guerra: in linea con la
tradizione pittorica italiana del 1400 basata sulla forma e sulla solidità
volumetrica (valori plastici), De Chirico afferma:<<Pictor classicus sum.>>.
De Chirico nasce in Grecia e si trasferisce a Firenze, Milano e Monaco dove si
interessa alla pittura tedesca del simbolista Bocklin. Allo scoppio della guerra
viene arruolato e destinato a Ferrara. L’incontro con Ferrara è determinante
per l’esperienza artistica di De Chirico, che definirà questa la città metafisica
per eccellenza. In seguito all’Addizione Erculea (operata da Ercule Deste in
epoca rinascimentale) Ferrara presentava grandi piazze ornate di monumenti
dalle lunghe ombre e una perfetta simmetria geometrica; inoltre la solitudine
innaturale di vie e piazze sulle quali si affacciano nobili palazzi inutilizzati la
rende simile ad una "città morta " dalla quale per ragioni misteriose, gli
abitanti sono improvvisamente scomparsi. Questi spazi ampi e diritti danno
l’idea di una città rialzata, sospesa, come se fosse abitata da qualcosa che va
oltre l’umanità reale. De Chirico cerca, infatti, di dipingere una verità che va
oltre il mondo reale, attribuendo uno strano significato agli oggetti fuori del
contesto reale. L’effetto che scaturisce turba e mette a disagio l’osservatore,
rende ambigue le certezze e disorienta. I suoi dipinti non sono tuttavia
espressivi, né ricercano la comunicazione. Il dipinto che costituisce un vero e
proprio manifesto della pittura metafisica è “Le muse inquietanti”, realizzato
nel 1917. Il quadro raffigura una fantastica piazza ferrarese trasformata nel
piano ripido di un palcoscenico (il punto di vista alto dà estrema profondità),
chiuso sul fondo da edifici emblematici: il castello degli Estensi, una torre
cilindrica, un’officina con le ciminiere. Medioevo, Rinascimento e tempi recenti
si mescolano tra loro, allo stesso modo in cui si uniscono sempre, nelle opere
di De Chirico, i riferimenti alla storia dell’arte e alla vita comune.
Ferrara è qui solo il simbolo di una città che ebbe una corte, un potere, ma che
ora è ridotta a puro involucro della propria memoria. L‘immagine è, infatti,
costruita per dare una sensazione d’irrealtà, per proporsi come Io spazio di una
rappresentazione mentale: l’orizzonte, innaturalmente alto, pare far posto ad
un immenso palco teatrale. Sulla destra della piazza, quasi celata all’ombra di
un gran palazzo, si trova una statua abbigliata in modo sontuoso. In primo
piano la figura in piedi mostra una testa da manichino sartoriale innestata su
una schiena muscolosa da statua classica e su una veste che ricorda le
scanalature di una colonna dorica; quella seduta ricorda nelle proporzioni
alcune figure di Picasso e le cuciture da cui è segnata suggeriscono un
fantoccio di pezza, anziché di marmo. La sua testa è svitata e accostata alle

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gambe. Accanto a loro sono disposte delle scatole colorate, una maschera e un
bastoncino di zucchero. L’esplicito richiamo alle muse —divinità mitologiche
che presiedono all’ispirazione artistica — rimanda alla Grecia antica, accen-
tuando l‘atmosfera misteriosa ed enigmatica dell’immagine: queste muse
pietrificate appaiono come relitti di un mondo sospeso tra realtà e
immaginazione, calate in un contesto urbano così estraneo dal loro, ma anche
da ogni logica temporale: esse sono inquietanti perché illogico e misterioso è il
filo che le lega alle cose, allo spazio. Allo sconvolgimento d’ogni logico rapporto
tra gli oggetti e lo spazio contribuisce anche il colore, intenso, dorato e
smaltato, irrealistico, disteso a Iisce campiture ed esaltato da una luce
astratta, che proietta lunghe ombre sui piani, sottolineando la concreta
volumetria delle figure e degli oggetti e le illogiche prospettive degli spazi e
delle cose: si veda la scatola a triangoli policromi in primo piano definita con
una prospettiva contraria a quella del palcoscenico. L’immagine sembra
realizzata in un momento di tempo sospeso, in cui le ciminiere della fabbrica
che non fumano, le finestre degli edifici buie e chiuse, l’assenza dell’uomo dalla
scena, comunicano l’assoluta immobilità di un momento di sospensione.

Anche Montale, così come Pirandello, dichiara l’impossibilità del letterato di


dare soluzioni valide in un’epoca senza certezze. La raccolta “Ossi di seppia”
(1925) dichiara l’impotenza del poeta di stabilire un rapporto privilegiato con la
natura, come invece avveniva nell’esperienza panica, armoniosa e privilegiata,
di D’Annunzio. La natura e il paesaggio servono ad evidenziare il conflitto tra
soggetto e realtà: attraverso il correlativo oggettivo gli oggetti della natura
diventano emblemi in cui si legge il destino dell’uomo, nelle sue rare gioie e
speranze e nell’infelicità di una condizione esistenziale. Il titolo stesso della
raccolta richiama, nella scelta di questo relitto di mare che è l’osso di seppia,
delle cose inaridite, prosciugate, senza vita. La poesia “I limoni”, oltre ad
accusare la poesia aulica e sublime, ufficiale e tradizionale, dei <<poeti
laureati>> (D’Annunzio e Carducci), indica nella percezione dell’odore e del
colore dei limoni un momento magico che permette all’uomo di riconquistare
vitalità ed illusioni: di fronte all’impossibilità di ogni consolazione non resta che
attendere un evento di altra natura, un miracolo; non resta che “l’attesa di
scoprire uno sbaglio di Natura,/ il punto morto del mondo, l’anello che non
tiene,/ il filo da disbrogliare che finalmente ci metta/ nel mezzo di una verità.”.
Ma l’attesa del prodigio si rivela un fallimento e all’uomo non rimane che la
divina indifferenza, l’accettazione lucida e consapevole della propria condizione
d’angoscia e di sconfitta. La poesia “Spesso il male di vivere ho incontrato” è
una drammatica testimonianza della crisi spirituale dell’uomo moderno,
dell’impotenza dell’intellettuale e della cultura che sa di aver perso i suoi punti
di riferimento storico. Il male di vivere è l’incapacità dell’uomo di comunicare,
l’isolamento, la frattura. L’unico bene possibile è una soluzione etica: il distacco
e l’indifferenza (questa soluzione è simile alla posizione assunta dal Leopardi
ne “La ginestra”). La poesia “Non chiederci la parola” testimonia la crisi
dell’uomo moderno. Il poeta non si sente più custode di certezze assolute, non

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può offrire nessuna luce per illuminare il “prato polveroso” dell’esistere,
nessuna parola per decifrare un mondo pieno d’illusioni. Alla poesia fatta di
belle parole, ai poeti sicuri di sé che offrono facili miti consolatori, il poeta
risponde con un no secco e deciso. Montale rifiuta l’immagine tradizionale del
poeta vate e anche ogni concezione della poesia come fonte di educazione e di
elevazione spirituale. Di fronte all’impossibilità di sciogliere il mistero della vita
Montale non può che proporre una forma di conoscenza in negativo: “Codesto
solo oggi possiamo dirti,/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.”. Nella
raccolta “Le occasioni” (1939) Montale assume una posizione dichiaratamente
anti-fascista, e contrappone alla mancanza di autenticità della massa Clizia, la
donna angelo d’ispirazione dantesca, simbolo di autenticità e portatrice di
valori spirituali. Agli scenari aperti e solari della prima raccolta si sostituiscono
gli interni protettivi, paragonabili al nido familiare di Pascoli. Al termine della
raccolta Clizia si ritira, simbolo di un’umanità minacciata dalla guerra, e al
poeta resta il compito di vigilare e testimoniare la storia. Nella raccolta “Bufera
e altro” (1956) il male di vivere viene inizialmente interpretato come male
storico, causato dalla guerra fascista e nazista. Montale condanna apertamente
gli orrori della guerra nella poesia “Il sogno del prigioniero”, dove la serie
d’immagini gastronomiche come “crac di noci schiacciate, un oleoso/ sfrigolìo
dalle cave, girarrosti/ veri o supposti” alludono alle torture e alle carni umane
bruciate nei crematori dei lager nazisti. La fine della guerra segna un clima di
ritrovata fiducia e ottimismo;ben presto però Montale percepisce la caduta di
ogni speranza e intuisce che non era quel particolare momento storico la causa
del male di vivere, ma era stata l’alienazione e la reificazione della società di
massa ad aver causato il tramonto della civiltà. Alla figura di Clizia si
sostituisce Volpe, la donna che rappresenta l’oggetto del soddisfacimento
fisico, legata alle dimensioni materiali di erotismo e quotidianità. Dopo dieci
anni di inattività Montale compone la raccolta intitolata “Satura” (1971) nella
quale recupera i miti del passato, e attraverso il procedimento della palinodia,
ironizza su quelle illusioni del passato di cui adesso si vergogna. La condizione
di angoscia e desolazione non è dovuta ad un particolare momento storico ma
è una condizione ontologica. Abbandona il tono alto che aveva caratterizzato le
prime raccolte ed adotta uno stile che alterna al parlato della prosa alcune
citazioni sublimi, a scopo straniante. Ai miti femminili di Clizia e Volpe si
sostituisce la figura domestica della moglie morta, chiamata Mosca. La visione
scanzonata e pungente della realtà, il tono disincantato, mostrano il distacco
cinico del poeta.

La studio di Freud sulla psicanalisi mosse un nuovo interesse nei confronti della
profondità della psiche e influenzò tutto lo scenario culturale, indirizzando la
ricerca dell’artista verso la psiche umana. La coscienza di uno stato di
"malattia" cui si contrappone come terapia l’introspezione, è il tratto rilevante
della personalità umana e artistica dello scrittore Italo Svevo. La coscienza di
uno stato patologico e nevrotico che impedisce di vivere la vita nel suo
svolgersi e la ricerca di una chiarificazione seria attraverso l’autoanalisi,

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accompagnarono l’esistenza dello scrittore triestino. Italo Svevo s’impegnò
nell’analisi della malattia dell’uomo moderno in una civiltà borghese ed
industriale, che egli condanna pesantemente poiché annulla l’individuo. Gli eroi
sveviani che si oppongono ad un sistema che spersonalizza e soffoca ogni
aspirazione (parallelismo con Pirandello) non possono che uscire sconfitti dalla
loro lotta, constatando la loro malattia, la loro inettitudine e la loro impotenza.
Il primo romanzo, “Una vita”, presenta la storia di Alfonso Nitti, un uomo
inetto, incapace di affrontare la vita tanto da rifugiarsi nella letteratura. Emilio
Brentani, il protagonista di “Senilità” presenta uno stato d’animo senile, che
nega la possibilità di sognare: il personaggio, riflessivo e titubante, si esclude
volontariamente dalle gioie della vita; il suo scontro con la società si conclude
nell’incapacità di vivere con gli altri, nell’isolamento e nella solitudine. Il terzo
romanzo, “La coscienza di Zeno”, è la trascrizione della coscienza in crisi
dell’uomo contemporaneo nella società borghese che lo schiaccia. Il romanzo si
presenta nella forma di un memoriale autobiografico che Zeno Cosini, il
protagonista, scrive su invito dello psicoanalista a scopo terapeutico. Tuttavia
Zeno non fa nulla per guarire; riempie solo il diario di menzogne, quasi a
descriverci l'inutilità della psicoterapia. Infatti, se per Freud la psicanalisi ha un
valore terapeutico, per Svevo essa è solo un mezzo conoscitivo. Zeno vorrebbe
uscire dal vizio del fumo, ma non vi riesce perché non vuole liberarsi dalla
malattia, che è per lui l’unica condizione esistenziale. Lo scontro individuo-
società non avviene più in modo frontale ed esterno, come nel primo romanzo,
ma è colto nella dinamica che esso scatena all’interno della coscienza del
protagonista. Proprio nell’analisi del conscio e del subconscio, nell’indagine dei
tortuosi meandri dell’anima Zeno cerca di superare le sue debolezze. Tuttavia,
mentre all’inizio la malattia sembra essere un fatto individuale, ben presto essa
si rivela un destino comune dell’umanità, alla quale nessuno può sottrarsi.
L’indagine di Svevo, da soggettiva e limitata ad un determinato tipo d’uomo,
finisce con il coinvolgere la vita in sé. L’inetto è il "malato" che osserva
lucidamente, portandola allo scoperto, la rete di mistificazione, inganni,
censure e rimozioni che il mondo dei "sani" ignora, per una sorta
d’autoinganno collettivo, con cui sostiene la sua visione ottimistica del
progresso, il suo vitalismo. Nei primi due romanzi la malattia porta alla
sconfitta: Alfonso Nitti si lascia uccidere ed Emilio Brentani si abbandona ad
una condizione simile all’atarassia mentale. Zeno invece assume
consapevolezza e distanza ironica: rivaluta la funzione positiva della malattia,
giustificando tutto ciò che è informe, aperto e diverso rispetto alla
convenzionalità della vita sociale. La malattia non è più il segno di una
sconfitta individuale, di un fallimento esistenziale, di una caduta nella lotta per
la vita, ma è il sintomo di un malessere connaturato al vivere e nello stesso
tempo la condizione imprescindibile per la rivelazione del senso della vita; la
malattia è un peso, un fardello doloroso ed è solo dopo averne riconosciuto il
carattere esistenziale e non patologico, e aver ravvisato in essa il sintomo di
una crisi generale di valori che tale fardello può essere trasformato in uno
strumento di conoscenza e di saggezza. La realtà del mondo è la malattia e la

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salute piena e innocente non è alla portata dell’uomo, specie di quello
contemporaneo. L’unica e ultima alternativa è la catastrofe ipotizzata nelle
pagine conclusive: l’uomo che ha inventato ordigni così straordinari e potenti è
destinato all’autodistruzione e alla catastrofe finale. L'uomo è ammalato così in
profondità che nessuna medicina lo può guarire. L'inguaribilità dell'uomo non
può cessare che con la scomparsa della specie umana; solo cosi,
paradossalmente, l'uomo si salverà. Da un punto di vista formale “La coscienza
di Zeno” presenta un nuovo impianto narrativo, chiamato tempo misto. Il
racconto non presenta gli eventi nella loro successione cronologica e lineare
come nei romanzi ottocenteschi; il flusso di coscienza spazia tra presente e
passato attraverso un continuo accavallarsi di flashback.

In the English literature Virginia Woolf represents the human being in crisis.
The premature death of the mother caused an oppressive atmosphere within
her family. She had nervous breakdowns: she became depressed and she
heard strange voices. When she started to write she was terrified of what the
others could think of her. Virginia Woolf married Leonard who was an
intellectual against Victorian beliefs. She was very happy with his husband but
she committed suicide. Her most important novel is “Mrs Dalloway”, which
presents a new prose style and some characters who are symbols of man’s
uncertainty. The main character is Clarissa Dalloway, the wife of a conservative
member of parliament. At the beginning of the novel Mrs Dalloway is buying
some flowers for the party that she is going to give that evening. While she is
walking in the street she thinks and remembers, so that present, future plans
and past flow into each other. While she is in the flower shop Lucrezia and his
husband, Septimus, are walking in the street. Septimus is a veteran of the war
and he was shocked by the death of a friend. When Clarissa comes back home
she meets Peter Walsh, the man she loved in her youth. Septimus is received
by a nerve specialist who says him to go in a clinic. At six p.m. Septimus
commits suicide jumping out of a window. All the characters who have been
important during the day are present at Clarissa’s party. When the nerve
specialist arrives Clarissa knows about the Septimus’s death. Characters
belong to upper class (doctors, lawyers, politicians). Time and place: the novel
takes place in a single day (a sunny day in June), in a small area of London
(Westminster district). Woolf makes use of cinematic devices as close-up and
flashback. Big Ben striking and clocks reminds the reader of the external and
objective time. Clarissa is fifty one years old. She feels need for freedom,
independence and peace to overcome her weakness. She is conscious of her
sexual frigidity and her ambivalence. Septimus is a very sensitive man in prey
to panic, fear and feelings of guilt. Septimus is shocked and haunted by the
spectre of his best friend Evans, dead during the war. He suffers of headaches,
insomnia and sexual impotence. During the plot there isn’t a direct relationship
between Clarissa and Septimus, but they are similar: their marriage are
founded on need rather than on love; they have sexual problems; both have

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psychological problems, but while Septimus commits suicide, Clarissa never
loses her awareness.

Woolf believed in the tunneling process: people’s mind is composed by caves


which are linked with tunnels activated by real events. Virginia Woolf’s
production was influenced by Freud, William James and Bergson. William
James was an American psychologist which said that inner life is an endless
flux; river and stream are metaphors of consciousness. Past and future flow
into each other, so that there isn’t a chronological order. The French
philosopher Bergson distinguished between the mathematical time of science
(external time) and the time of mind, which changes from one person or
situation to another; this second time was called duration or internal time.
These new psychological theories changed the form of novel because
determined the stream of consciousness technique: novel doesn’t
describes what the hero’s life has been, but what the hero remembers of it.
The omniscient narrator disappeared, and the need to go deeper and deeper
into analysis of the mind of characters imposed a new prose style, appropriate
to convey the fragmentation of thought and the swift passing from one idea to
another: Soliloquy and internal monologue were used. The novel has a twisted
syntax, sudden passages from one topic to another and from first person to
third person. As a result we seem to enter directly the flux of characters’
thoughts.

Il sogno del prigioniero


Alba e notti qui variano per pochi segni.

Il zigzag degli storni sui battifredi


nei giorni di battaglia, mie sole ali,
un filo d'aria polare,
l'occhio del capoguardia dallo spioncino,
crac di noci schiacciate, un oleoso
sfrigolìo dalle cave, girarrosti
veri o supposti - ma la paglia è oro,
la lanterna vinosa è focolare
se dormendo mi credo ai tuoi piedi.

La purga dura da sempre, senza un perché.


Dicono che chi abiura e sottoscrive
può salvarsi da questo sterminio d'oche;
che chi obiurga se stesso, ma tradisce
e vende carne d'altri, afferra il mestolo
anzi che terminare nel pâté

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destinato agl'Iddii pestilenziali.

Tardo di mente, piagato


dal pungente giaciglio mi sono fuso
col volo della tarma che la mia suola
sfarina sull'impiantito,
coi kimoni cangianti delle luci
sciorinate all'aurora dei torrioni,
ho annusato nel vento il bruciaticcio
dei buccellati dai forni,
mi son guardato attorno, ho suscitato
iridi su orizzonti di ragnateli
e petali sui tralicci delle inferriate,
mi sono alzato, sono ricaduto
nel fondo dove il secolo è il minuto -

e i colpi si ripetono ed i passi,


e ancora ignoro se sarò al festino
farcitore o farcito. L'attesa è lunga,
il mio sogno di te non è finito.

(Eugenio Montale, La bufera)

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