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Hegel

Analisi dei concetti di spirito in Hegel

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LA STORIA UNIVERSALE

Lo spirito determinato di un popolo, essendo reale può essere considerato come determinato
storicamente.
Esso è nel tempo e ha un suo principio particolare, deve compiere uno svolgimento, determinato da
questo, della sua coscienza e della sua realtà. Ha una storia.
In quanto spirito determinato, però, la sua indipendenza è subordinata alla storia universale, composta
dalla dialettica dei vari popoli particolari.
Questo movimento porta alla liberazione della sostanza spirituale: lo spirito, che prima è solo in sé, giunge
attraverso questo movimento alla coscienza e all’autocoscienza e quindi alla rivelazione e alla realtà della
sua essenza in sé e per sé, diventando anche universale, spirito del mondo.
Questo svolgimento ha un luogo e tempo, una storia. Quindi i singoli momenti sono gli spiriti dei vari
popoli. Ciascuno come singolo è destinato a riempire un solo grado, eseguire un solo compito nell’azione
totale.
- Storia a priori: far nella storia il presupposto di uno scopo. È stato rimproverato ai filosofi di
scrivere aprioristicamente la storia. È però necessario fare una precisazione: in fondo alla storia
(intesa come universale) vi è uno scopo finale in sé e per sé, che altri non è che la ragione, che si
realizza nella storia. Questa condizione deve essere considerata come necessaria filosoficamente
e quindi come necessaria in sé per sé. Si può criticare, solamente, il presuppore rappresentazioni o
pensieri arbitrari e a voler conformare gli avvenimenti ad essi
Di questo ultimo approccio, in realtà, si sono fatti portatori coloro che si considerano come storici e
si dichiarano avversi alla filosofia, considerata cosa immonda. E questo è derivato prevalentemente
dalla filologia. Questo approccio ha portato a determinate idee che sono da considerarsi come
frutto dell’immaginazione: l’idea, per esempio, che vi fosse un periodo in cui tutti i popoli avessero
la conoscenza di tutte le scienze, data direttamente da Dio.
- Storia imparziale: la storia non deve essere considerata secondo uno scopo oggettivo. Lo storico in
questo approccio deve procedere con imparzialità, senza porre alcuna idea e opinione: lo storico
non deve giudicare gli avvenimenti, ma deve raccontarli, nella loro condizione accidentale, così
come se li trova d’avanti.
È però riconosciuto che la storia deve avere un oggetto: questo quindi è lo scopo presupposto, che giace a
fondamento degli avvenimenti e giace nel giudizio di quali prendere in considerazioni come più
interessanti. Una storia che non presentasse tali caratteristiche sarebbe da intendere come mera
immaginazione.

Lo scopo di un popolo, nella sua esistenza, è di essere uno stato e di mantenersi come tale. Senza
formazione politica, di fatti, un popolo non ha storia. Tutto ciò che accade ad un popolo ha il suo significato
nella relazione verso lo stato. La particolarità degli individui è lontana da questo concetto, che è
unicamente universale.
Certo, vi possono essere degli individui notevoli che racchiudono lo spirito universale di un tempo o eventi
particolari che fanno lo stesso, ma l’identificazione di questi spetta allo storico lungimirante. Infatti, la
caratteristica dello spirito e del suo tempo è contenuta solo nei grandi avvenimenti.
Hegel cita in questo senso i romanzi che si interessano delle vite particolari che si uniscono agli interessi
generali. Fare ciò è andare contro la verità oggettiva: per essa è vero per lo spirito solo ciò che è
sostanziale, non l’accidente. Si può quindi dire che ciò che appartiene al sentimento fa parte di un
terreno che è diverso rispetto a quello della storia.
Anche la richiesta di imparzialità che viene fatta alla storia della filosofia e alla storia della religione porta
con sé l’esclusione di uno scopo oggettivo. Come per quanto riguarda lo stato, che è ciò a cui il giudizio
deve riferire gli avvenimenti nella storia politica, qui la verità dovrebbe essere l’oggetto, e a questa si
dovrebbero riferire i singoli fatti e gli avvenimenti dello spirito; invece, l’idea è che tali storie (filosofia e
religione) abbiano solo opinioni e rappresentazioni (contenuti soggettivi) e non la verità. Questa idea si
basa sul presupposto che in tali ambiti non vi sia alcuna verità e, quando si ammette questo, l’interesse per
la verità viene visto come una parzialità di opinioni, che valgono come differenti. La verità storica diventa
così solo esattezza della notizia, senza giudizio al di fuori di questa considerazione di esattezza.
Se però, nella storia politica Roma d l’impero germanico ecc. sono un oggetto vero e costituiscono lo scopo
a cui devono riferirsi i fenomeni e in base al quale giudicarli, si può dire che nella storia universale, lo
spirito universale stesso (la coscienza di sé e della sua essenza) è un oggetto reale, al quale tutti gli altri
fenomeni servono. Tali fenomeni, quindi, hanno il loro valore e la loro esistenza solo attraverso il giudizio
con il quale sono assunti sotto lo spirito universale e per cui esso è loro inerente. Che nell'andamento dello
spirito la libertà (svolgimento determinato mediante il concetto dello spirito) sia l'elemento determinante e
che solo la verità sia il concetto finale è da considerarsi come conoscenza filosofica (l’idea quindi che la
ragione sia nella storia).

L’autocoscienza di un popolo particolare è una tappa dello spirito universale, ed è una realtà oggettiva,
nella quale è contenuta la volontà dello spirito. Bisogna precisare che la particolarità è da intendere come
uno strumento dello spirito oggettivo, e la loro soggettività (dei popoli particolari) è la forma vuota
dell’attività. Ciò che essi guadagnano, da questo passaggio, è un’universalità soggettiva.
Lo spirito di un popolo contiene una necessità naturale e sta nell'esistenza esterna: la sostanza etica in sé
infinita è, per sé, particolare e limitata; e il suo aspetto soggettivo è affetto di accidentalità ed ha coscienza
del suo contenuto come di un qualcosa che esiste temporalmente e in relazione verso una natura e un
mondo esterno.
 Lo spirito pensante nella eticità: è legato allo spirito di un popolo e si trova nello stato. Si eleva al
sapere di sé nella sua essenzialità, però tale sapere è limitato, legato allo spirito del popolo
 Lo spirito della storia universale: cancella la limitatezza degli spiriti particolari, conquista
un’universalità concreta e si eleva al sapere assoluto. Giunge ad una verità reale, dove la ragione è
libera di per sé e gli spiriti particolari sono gli strumenti della rivelazione dello spirito.

ELEVAZIONE A DIO
Del processo di elevazione a Dio Hegel sostiene di dover prendere in considerazione unicamente il
momento della negazione. Attraverso essa il finito, reale autocoscienza etica, viene purificato dall’opinione
soggettiva ed è reso libero. Tale purificazione avviene nel mondo etico.
Partendo da tale presupposto, quindi, si può dire che la vera religione e la vera religiosità vengono fuori
solo nell’eticità; ed è da considerarsi come eticità pensante, che quindi diventa consapevole
dell’universalità libera della sua essenza concreta. Solo per mezzo di essa e partendo da essa, l'idea di Dio
vien saputa come spirito libero: fuori dello spirito etico, è vano cercare vera religione e religiosità.

Partendo da tali presupposti, Hegel traccia la relazione che intercorre tra Stato e religione e illustra alcune
categorie di uso comune.
L’eticità è quindi lo stato ricondotto alla sua interiorità sostanziale. Ed esso (lo Stato) è lo svolgimento e la
realizzazione di questa; ma la sostanzialità dell'eticità stessa e dello Stato è la religione.
Lo Stato riposa sulla disposizione d'animo etica e questa, a sua volta, sulla religiosa, Poiché la religione è la
coscienza della verità assoluta, ciò che deve valere come diritto e giustizia, come dovere e legge può valere
solo in quanto ha parte in quella verità, è assunta sotto di essa, e segue da essa.
Ma affichè ciò che è veramente etico sia conseguenza della religione, è necessario l’idea di Dio contenuta
in essa sia vera.
Ora, partendo dal presupposto che l’eticità è lo spirito divino presente realmente nell’autocoscienza di un
popolo e degli individui di esso: tale autocoscienza, tornando in sé dalla sua realtà empirica e portando la
sua verità alla coscienza, ha nella sua fede e nella sua coscienza soltanto ciò che ha nella certezza di sé
stessa, nella sua realtà spirituale.
Le due cose sono inseparabili: non ci possono essere due coscienze diverse, religiosa e etica, che siano
anche diverse per il contenuto.
Ma spetta al contenuto religioso, secondo la forma, in quanto verità somma (verità pura in sé e per sé)
sanzionare l’eticità, che invece sta nella realtà empirica: la religione è quindi per l’autocoscienza la base
dell’eticità e dello stato.
È un errore del nostro tempo considerare le due cose sperabili e differenti tra loro. Oggi, infatti, lo Stato
viene visto come qualcosa che esiste già di per sé, e la religiosità come condizione soggettiva degli individui,
che vi si aggiunge solo per rafforzarlo. O addirittura si pensa che questa sia indifferente. L’eticità dello stato
viene quindi considerata come ferma sul fondamento dello stesso.
Ci troviamo però di fronte ad un problema interno alla religione, legato alla forma: la verità è lo spirito
dell’autocoscienza presente nella sua realtà; l’autocoscienza ha certezza di sé solo a partire da questo
contenuto ed è libera.
La problematica, che troviamo anche nella religione cristiana è la sua sottomissione ad una condizione
esterne: Tutte queste condizioni assoggettano lo spirito ad un’esteriorità; e il suo concetto viene
disconosciuto nel suo intimo e travisato. Il diritto e la giustizia, la moralità e la coscienza, quindi, sono
guasti nella loro radice.
A questo principi corrisponde anche una legislazione e una costruzione dello stato che, però, rimane legata
ad una condizione di ingiustizia e di immoralità. La religione cattolica assicura quindi la stabilità dei governi,
ma solo di quelli che si fondono su tale schiavitù dello spirito.
In opposizione a tale sottomissione all’esteriorità, ritroviamo la filosofia. Attraverso essa la coscienza
raccoglie la sua realtà interiore e libera.

Qui il contenuto morale ha una forma diversa. Se infatti, nella servitù della forma il contenuto morale viene
considerato come sottratto all’autocoscienza e quindi è considerato vero solo quando si definisce in
negativo rispetto alla realtà, e si chiama, in virtù di tale mancanza di verità, una cosa santa; con l’introdursi
dello spirito divino nella realtà, e con la liberazione della realtà nello spirito divino, ciò che nel mondo era
santità, diventa eticità. Per esempio, in luogo del voto di castità, solo il matrimonio vale come etico, e
quindi la famiglia come ciò che di più alto vi è di questo aspetto; per la povertà vale l’attività dell’acquistare
mediante l’intelligenza; per l’ubbidienza, vale l’ubbidienza vero la legge e le istituzioni dello stato. Lo stato,
qui, è la vera libertà. Pertanto, è la vera e propria ragione che si realizza. Si parla di eticità nello Stato.
In questo modo, quindi, diritto e moralità possono diventare effettuali. Le condizioni di eticità si
contrappongono alle condizioni della santità.

Con il bisogno del diritto e dell’eticità e con l’intelligenza acquistata circa la natura libera dello spirito,
sorge la lotta di questo contro la religione della servitù.
Il fatto che le leggi e gli ordinamenti dello stato si siano trasformate in organizzazioni giuridiche razionali,
non serve se non si abbandona, nella religione, il principio di servitù. Le due cose sono incomportabili tra
loro.
Non si può pensare di attribuire loro un dominio separato, nell’opinione che le due condizioni stiano
pacificamente tra di loro. I principi della libertà giuridica possono essere soltanto astratti e superficiali, e le
istituzioni di Stato derivate da essi sono insostenibili se non si riconosce che i principi della ragione della
realtà hanno la loro ultima e somma garanzia nella coscienza religiosa, nell’assunzione, sotto coscienza,
della verità assoluta.
Se nascesse una legislazione con unicamente a fondamento i principi razionali, e fosse in contrasto con la
religione basata sui principi della servitù spirituale, l’attuazione della legislazione sarebbe risposta negli
individui del governo. In questo senso, quindi, è un’idea astratta immaginarsi come possibile che gli
individui operino solo secondo senso e lettera della legislazione, e non secondo lo spirito della loro religione
in cui consiste la loro intima coscienza e la loro somma obbligazione.
Le leggi appaiono come qualcosa fatto dall’uomo, come antitesi rispetto a ciò che la religione ha dichiarato
santo. Esse non potrebbero, quindi, in alcun modo opporre resistenza alla contraddizione e agli assalti dello
spirito religioso contro di loro.
Quindi, anche se il loro contenuto fosse vero, tali leggi naufragano nella coscienza, il cui spirito è diverso
dallo spirito delle leggi e non le sanziona.
È da considerare come una pazzia dei tempi recenti cambiare un sistema di costume corrotto e la
costituzione dello stato senza cambiare la religione, senza aver fatto una riforma: pensare che la vecchia
religione e ciò che ha definito santo possano stare in pace ed armonia con lo stato, che si possa procurare
stabilità alle leggi mediante una garanzia esterna.
E per non più che un ripiego è da considerare il voler separare i diritti e le leggi dalla religione, quando ci sia
l'impotenza a discendere nelle profondità dello spirito religioso e di elevare questo spirito stesso alla sua
verità.

Platone era cosciente del dissidio tra


 Religione esistente e stato
 Esigenze che la libertà (diventata consapevole della sua interiorità) poneva alla religione e alle
condizioni politiche.
Platone sosteneva che la vera costituzione e la vera vita dello stato aveva il suo fondamento nell’idea, nei
principi in sé e per sé universali e veri della giustizia eterna. Saper riconoscere ciò è affare della filosofia.
Proprio muovendo da questo punto di vista, Platone fa dire a Socrate che la filosofia e il potere dello stato
devono coincidere; che l’idea deve essere la governatrice.
Egli qui aveva in mente che l'idea deve essere elevato all’universalità e portato alla coscienza in questa
universalità.
Per paragonare il punto di vista platonico con il rapporto espresso tra religione e stato bisogna ricordare le
distinzioni di concetto.
La prima consiste nella considerazione che, nelle cose naturali la sostanza di queste, il genere, è diverso
dall’esistenza in cui esso è come soggetto.
Questa esistenza soggettiva del genere è diversa da quella che il genere, o in generale l’universale, preso
come tale per sé, riceve in colui che lo rappresenta e pensa.
Questa più ampia individualità, ovvero il campo dell'esistenza libera della sostanza universale, è il sé stesso
dello spirito pensante. Il contenuto delle cose naturali non riceve la forma dell'universalità ed essenzialità
mediante sé; e la loro individualità non è la forma, la quale è soltanto il pensiero soggettivo per sé, e dà
esistenza per sé nella filosofia a quel contenuto universale.
Il contenuto umano è lo stesso spirito libero, invece, e viene a esistenza nella sua autocoscienza. Questo
contenuto assoluto, che è in sé spirito concreto, è il pensiero. Si riprende qui la determinazione
aristotelica, il suo concetto di entelechia del pensiero, che si è elevato, superando l’idea platonica (che è il
genere, il sostanziale).
Ma il pensiero in genere contiene e adotta l’essere per sé immediato della soggettività come universalità; e
l’idea vera dello spirito in sé concreto è una delle sue determinazioni sia nella coscienza soggettiva e
nell’universalità. Sia nell’una che nell’altra è lo stesso contenuto sostanziale.
Ma a quella forma (condizione soggettiva) appartiene il sentimento, l'intuizione, la rappresentazione; ed è
anzi necessario, che la coscienza dell'idea universale venga prima concepita, nell'ordine temporale, in
questa forma, ed esista nella sua realtà immediata prima come religione che come filosofia.
La filosofia si poggia infatti su essa: così come la filosofia greca è appunto posteriore alla religione greca,
perciò ha raggiunto la sua perfezione con il concepire e comprendere il principio dello spirito, che
dapprima si manifesta nella religione, nella sua intera e determinata essenzialità.

Però la filosofia greca si poteva porre solo come opposta alla religione; così come l’unità del pensiero e la
sostanzialità dell’idea si potevano atteggiare in modo ostile contro il politeismo della fantasia.
La forma, nella sua verità infinita, la soggettività dello spirito, proruppe solo come pensiero soggettivo e
libero, che non era identico alla sostanzialità stessa. Questa, quindi, non era ancora concepita come spirito
assoluto.
Così la religione poteva apparire purificata solo mediante il pensiero pure e che è per sé, mediante la
filosofia; ma la forma immanente alla sostanzialità, che fu combattuta da essa, era quella fantasia
(politeista).
Lo stato, che in egual modo, ma prima della filosofia, si sviluppa dalla religione, presenta, nel campo della
realtà, l’unilateralità, di cui la sua idea, in sé vera, è . Lo Stato, — che in egual modo, ma prima della
filosofia, si sviluppa dalla religione. presenta, nel campo della realtà, l'unilateralità, di cui la sua idea, in sé
vera, è affetta, come corruttela (abbandono della rettitudine).
Platone, d’accordo con tutti gli uomini di pensiero suoi contemporanei, conoscendo questa corruttela della
democrazia e la manchevolezza stessa del principio di essa, mise in rilievo il sostanziale, ma non poté
imprimere nella sua idea dello stato la forma infinita della soggettività, che era ancora nascosta al suo
spirito.
Il suo stato, perciò, è in sé stesso senza la libertà soggettiva.
La verità, che doveva risiedere nello stato, costituirlo e dominarlo, egli la concepì solo nella forma della
verità pensata (della filosofia), e sostenne che finché i filosofi non reggeranno gli stati o i re non
filosoferanno, né lo stato né il genere umano si libereranno dei mali, né l’idea della sua costituzione
politica diventerà possibile e vedrà la luce del sole.
Platone non arrivò a dire che, finché la religione non entrerà nel mondo e non diventerà dominante negli
stati, il vero principio dello Stato non sarà pervenuto alla sua realtà.
Ma fin quando questo principio non giungeva al pensiero, non poteva da questo essere concepita la vera
idea di stato, dell’eticità sostanziale con cui è identica la libertà dell’autocoscienza che è per sé.
Solo nel principio dello spirito, che sa la sua essenza, che è libero assolutamente in sé, e ha la sua realtà
nell’attività della sua liberazione, esiste la possibilità e la necessità assoluta che, il potere dello stato, della
religione e i principi della filosofia coincidano, compiendo la conciliazione della realtà in genere con lo
spirito, dello Stato con la coscienza religiosa, e insieme col sapere filosofico.
Poiché la soggettività, che è per sé, è assolutamente identica con l'universalità sostanziale, la religione in
quanto tale, come lo Stato in quanto tale, in quanto forme in cui i! principio esiste, contengono la verità
assoluta. Questa, quindi, quando è filosofia, è solo in una delle sue forme. Ma, poiché anche la religione
svolge le differenze contenute nell’idea, l’essere determinato deve apparire nella sua prima materia
immediata, unilaterale, e la sua esistenza corrompersi ad esteriorità sensibile e, inoltre, configurarsi come
oppressione della libertà dello spirito e depravazione della vita politica.
Ma il principio contiene l'elasticità infinita della forma assoluta, a vincere questa corruttela delle sue
determinazioni formali e del contenuto per mezzo di esse, ad effettuare in esso stesso la conciliazione dello
spirito.
Così il principio della coscienza religiosa e della coscienza etica diventa una e medesima cosa nella
coscienza protestante: — lo spirito libero, che si sa nella sua razionalità e verità.
La costituzione e la legislazione, come le loro attuazioni, hanno a loro contenuto il principio e lo
svolgimento dell'eticità; la quale procede soltanto dalla verità della religione, ricondotta al suo principio
originario, e che quindi solo come tale è reale. L'eticità dello Stato, e la spiritualità religiosa dello Stato, si
garantiscono così, a vicenda, solidamente.

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