biblioteca di critica liberale
torniamo alle vere gazzette
L’immagine nella pagina precedente riproduce la redazio-
ne e la stamperia della gazzetta fiorentina “Notizie del mon-
do” del 1769. Parrà strano proporre, come esempio per il futu-
ro del giornalismo, una gazzetta di duecentocinquanta anni fa.
Eppure, se osservate bene l’illustrazione, potete cogliere alcuni
“valori” che, più che conservati, vanno ripristinati nell’èra del
web: i giornalisti lavorano insieme, sono illuminati dalla lampa-
da della ragione, non stanno isolati nelle loro case, discutono
tra di loro, si scambiano idee, non danno assolutamente l’idea
d’essere lì di passaggio, precari. Né d’essere “sfruttati”. Lavo-
rano fianco a fianco con chi stamperà il frutto delle loro idee.
Tutti fanno parte di una comunità intellettuale. Non c’è om-
bra di padrone e, in primo piano, sonnecchia un fedele cane
da guardia a tutela della libertà d’informazione. E, perché no,
simbolo di una realizzata intesa tra tutte le forze della natura.
Enzo Marzo
I diritti dei lettori
Una proposta liberale
per l’informazione in catene
Con interventi di Luigi Ferrajoli e Stefano Rodotà
Prima edizione ottobre 2020
ISBN 978-88-3383-116-9
Edizione digitale ottobre 2020
ISBN
I diritti di riproduzione e di adattamento
totale o parziale e con qualsiasi mezzo
sono riservati per tutti i Paesi.
Nessuna parte di questo libro
può essere riprodotta senza il consenso
dell’Editore.
© 2020 Biblion Edizioni srl Milano
www.biblionedizioni.it
[email protected] Dedicato a Massimo, cittadino europeo,
con la speranza che le nuovissime generazioni sappiano realizzare
ciò che la nostra ha saputo solo immaginare
premessa
dai decenni bui
all ’ età della demagogia
la resa dei conti
La situazione del Paese è tragica. Mentre abbiamo alle
spalle (forse, ma non è detto) la stagione dei morti e della soffe-
renza fisica e psichica, si è inaugurato il periodo della miseria
e dell’“assalto alla diligenza”.
Dovrà (o dovrebbe) nascere una Terza Repubblica, davve-
ro liberal-democratica, fondata davvero sui valori costituzio-
nali, sulle libertà, sulla giustizia e lo stato sociale.
Tutto ciò non potrà realizzarsi senza una vera resa dei
conti, senza una riflessione critica di quanto è avvenuto negli
ultimi trent’anni, quando la gran parte della classe dirigente
(non solo quella politica) ha corrotto l’etica pubblica alle fon-
damenta, ha immiserito il Paese, ha violato, addirittura irriso,
le regole dello Stato di diritto, ha svuotato le istituzioni e ha
fatto dilagare corruzione, evasione fiscale,1 egoismi. Ha inoltre
1
Soltanto in Italia sembra che non ci sia rimedio all’evasione fisca-
le. Se ne parla molto, ma gli evasori dilagano e rimangono impuniti.
Risultato: nel 2019 meno di 2 autonomi ogni 100 hanno ricevuto un
controllo del fisco. Secondo la Corte dei Conti nella Relazione sul rendi-
conto generale dello Stato, 2020, per ora strumenti e modalità operative a
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
depenalizzato ogni mascalzonata ed eliminato ogni sanzione
effettiva, non solo in termini giuridici, ma, ciò che è più grave,
nel giudizio morale e politico degli individui. Molte categorie
si sono chiuse in lobbies per difendere ed estendere i propri pri-
vilegi. La forbice della disuguaglianza sociale si è estesa come
non mai.2 La criminalità organizzata si è dilatata con successo
in tutta l’Italia, contraddicendo un premier-cialtrone che, in
un vertice mondiale, assicurò i potenti della Terra che il nostro
paese aveva debellato la mafia. Gli elettori, storditi dalla pro-
paganda e dall’involgarimento di tutto lo spazio pubblico,
hanno visto sparire ogni forma di organizzazione politica
disposizione del fisco restano «non in grado di determinare una signi-
ficativa riduzione dei livelli di evasione» e i risultati dell’attività di con-
trollo «continuano ad essere incoerenti con la gravità del fenomeno».
Non a caso, la cifra sottratta al fisco è stabile e si aggira intorno ai 110
miliardi di euro l’anno, c’è chi ipotizza persino 150 miliardi di euro.
Inoltre è necessario notare che in Italia la sanzione penale è risibile:
i detenuti per reati fiscali da noi sono solo 150, 8.600 in Germania,
12 mila negli Stati Uniti. Clamorosi sono i dati (2017) riguardanti,
più in generale, le sentenze definitive per reati economici e finanziari:
mentre in Germania sono circa 6 mila (11,7% dell’intera popolazione
carceraria), in Italia sono solo 312 (0,9%).
2
«A livello nazionale, la percentuale di famiglie che vivono in
condizioni di povertà estrema è quasi raddoppiata al 6,9% (2017),
il cui dato peggiore (10,3 %) si registra nell’Italia meridionale. Nel
2014 la ricchezza netta media pro capite è diminuita da 88.625 euro a
87.451 euro. Il 20,3% della popolazione, circa 12.235.000 individui,
è a rischio di povertà (2017). Nel 2018 la ricchezza dei 21 miliardari
italiani più ricchi presenti nella classifica stilata da Forbes è stata pari
a tutte le risorse detenute dal 20% più povero della popolazione». Cfr.
Eva Pastorelli e Andrea Stocchiero (Engim/Focsiv per Gcap Italia), Le
disuguaglianze in Italia, report per il progetto “Make Europe Sustainable
for All” coordinato da European Environmental Bureau, 2019.
8
Dai decenni bui all’età della demagogia
democratica e si sono arresi all’avventurismo di pochi “po-
litici” più o meno voltagabbana, dediti esclusivamente alla
menzogna sfacciata e al “potere per il potere”. La “fine delle
ideologie” è stata interpretata dolosamente come necessità del-
la “fine delle idee”. L’età della demagogia, del “qui lo dico e qui lo
nego”, sussiste ora incontrastata e condanna a morte l’attività
più nobile che possa coinvolgere i cittadini: la Politica.
la normalità e la sfacciataggine
Al contrario, soltanto la Politica può mettere fine all’età del-
la demagogia. Basterebbe che almeno le nuove generazioni non
fossero portate a pensare alla politica attuale come esempio
della normalità dei rapporti tra poteri e cittadini. Il buonismo
solo retorico e l’insipienza della sinistra senza valori, nonché
l’affarismo e il malaffare della destra, hanno distrutto il Paese,
devastato dai condoni, dagli indulti, dalle sanatorie, dalle ecce-
zioni, dalle deroghe, da tutto ciò che stravolgeva ogni regola,
instaurando un facsimile di Stato di diritto senza regole certe,
alla mercé di approfittatori, evasori, cementificatori, inqui-
natori, corruttori e corrotti.3 Per non dire degli incompetenti
3
Anche il Covid 19 non ha mutato il paesaggio della corruzione:
«Nei primi 23 giorni di giugno 2020 sono finite sui giornali almeno
14 inchieste per corruzione, per lo più con misure cautelari. Hanno
interessato tutta l’Italia, da Lecce a Catanzaro, passando per Bari,
Roma e Torino» (Valeria Pacelli, Dopo il lockdown la corruzione riparte
come prima,“il Fatto Quotidiano”, 24 giugno 2020). In troppi si sono
gettati a capofitto nell’affare dei prodotti sanitari, molti truffan-
do e corrompendo. L’Indice di Percezione della Corruzione (cpi)
2019 classifica l’Italia al 51° posto nel mondo con un punteggio di
9
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
assoluti. Così l’italiano si è abituato ad essere derubato, ogni
giorno di più, della democrazia liberale e delle regole civili.
Fino a non farci più caso. Tutto è diventato “normale”, anche
il fatto che sono al massimo 5 o 6 persone a nominarsi quasi
tutti i parlamentari, alla faccia dei votanti che fanno la fila
ai seggi elettorali, anche che le maggioranze politiche han-
no la pretesa di farsi la propria riforma elettorale pro domo sua
(persino incostituzionale) a pochi mesi dalle elezioni, anche
che possono esistere imprese che reclamano prestiti miliardari
dallo Stato, pur avendo sede fiscale e legale in altri paesi, e
possano farlo in forza di un semi-monopolio informativo, ecc.
Non si intravvede neppure da lontano, quindi, come si
possano restaurare strumenti di vera partecipazione politica
dei cittadini. Così la democrazia italiana ha la presunzione
di chiamarsi ancora tale, ma resta ridotta a un guscio vuoto
senza sostanza. Il tutto sfacciatamente e senza vergogna.
la terza repubblica
Il pensiero moderno ha impiegato alcuni secoli per trasfor-
mare la plebe in cittadini, ora si vuole percorrere il sentiero
inverso e tornare a una marmaglia informe, in nome della
quale chiunque può sentenziare qualunque scempiaggine.
Scimmiottando le più retrive gerarchie ecclesiastiche delle re-
ligioni monoteiste, i demagoghi di destra e di sinistra, all’urlo
di “il popolo lo vuole”, fondano il loro potere sull’odio, sul
53/100, migliore di un solo punto rispetto all’anno precedente e
al di sotto della media europea (66 punti). Altre classifiche danno
l’Italia al primo posto, in Europa, per corruzione. Sullo stesso gra-
dino dell’Italia troviamo Romania, Grecia e Bulgaria.
10
Dai decenni bui all’età della demagogia
razzismo, sulla perdita della memoria, sull’ignoranza, sulla
propaganda e sul privilegio.
Non può nascere alcuna Terza Repubblica se non risor-
ge, presso i cittadini, un sentimento critico di rigetto e di in-
dignazione nei confronti della criminalità, del dilettantismo,
del servilismo informativo ormai imperanti. La responsabilità
di questo disastro è di (quasi) tutti. Naturalmente la salvez-
za non va affidata ad alcuna caricatura di “uomo forte” o a
veri o pseudo Tecnici, bensì alla Politica, con i suoi sacrosanti
conflitti di idee, di valori e di interessi. Ma non può nascere
alcuna Terza Repubblica se non si riconosce alla Serietà un
valore fondante. Non paia strano da parte mia il ricorso alla
definizione fornita a metà del ’600 da un cardinale gesuita,
ma non ne esiste una più precisa di quella espressa da France-
sco Sforza Pallavicino: serio è chi «nel modo di agire denota
attenta considerazione dei fatti e delle loro conseguenze» non-
ché «coscienza dei propri doveri». Per renderla perfetta basta
aggiungere soltanto: «coscienza dei propri diritti».
Non si sa se il coronavirus abbia ucciso anche l’eccessi-
va e colpevole sopportazione degli italiani. Deve cominciare
un’epoca di Severità, di grande Rigore. Dovremmo auspicar-
lo tutti. Aggrappàti alle Regole liberali e democratiche come
il naufrago alla sua tavola di legno tra i marosi.
Non può nascere alcuna Terza Repubblica se non risorge
presso i cittadini il valore di scandalizzarsi. Si discute, e giusta-
mente, del concetto scomparso di Sanzione. Ma quasi esclusi-
vamente dal punto di vista penale. Purtroppo, però, troppi po-
litici, magistrati, avvocati, manager, giornalisti, intellettuali di
ogni risma in questi decenni sono riusciti a costruire un solido
palcoscenico pubblico dove imperizia, nepotismo e malcostu-
me non subiscono alcuna sanzione né morale né professionale.
11
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
Sempre sulla cresta dell’onda, sproloquiano personaggi che
non sarebbero capaci neppure di gestire un banchetto di frutta
e verdura. Lo so che è un’utopia, ma i cittadini dovrebbero im-
parare a scandalizzarsi e a tirare metaforici pomodori marci,
ovvero a spegnere la televisione sul muso del primo che vie-
ne invitato esclusivamente perché non riesce ad articolare che
sconcezze e ingiurie, oppure ad abbandonare giornali spazza-
tura senza notizie che spacciano solo pubblicità occulta e tri-
viale propaganda, o ancora a mandare in pensione, a godersi
le liquidazioni da nababbi, tutti gli Esperti che hanno fatto solo
danni e non hanno pagato mai pegno.
la lingua tagliata
Tra i guasti maggiori compiuti dal coronavirus (e purtroppo
il meno denunciato) è l’invasione di parole straniere, che han-
no sostituito espressioni italiane. Tra l’indifferenza generale.
Tutti sanno, o dovrebbero sapere, che la lingua è il patri-
monio maggiore che un paese possiede. Il suo “imbastardi-
mento” è il segno sicuro della decadenza di un popolo. La
lingua italiana è stata costretta a soccombere sotto due attac-
chi, uno dal basso (lo sdoganamento della scurrilità compiuto
dai giornali e dalle televisioni), e l’altro dall’alto (il rimpiazzo
di termini italiani con quelli inglesi, perseguito persino dalle
istituzioni e subito accolto dai media). Non c’è bisogno di
scomodare Habermas e la sua affermazione: «Tutte le de-
cisioni politiche esecutive devono essere formulate in una
lingua ugualmente accessibile a tutti i cittadini», talmente il
concetto è ovvio. Bisogna essere proprio “vetero provinciali”
per non capirlo.
12
Dai decenni bui all’età della demagogia
Il fenomeno non è nuovo, basti ricordare come Veltroni,
per dare nuovo slancio agli ex comunisti e per colmare la
frattura con le classi popolari, riprese lo slogan «I care». E
alla sua insegna ci fece un congresso che dette inizio a una
stagione di insuccessi.
Poi questo snobismo è dilagato. Ciò che colpisce non è solo
l’inutilità di alcune “sostituzioni”, ma l’affermarsi di un consape-
vole disegno politico tendente a rendere incolmabile la separa-
zione tra politica (ed elitismo sociale) e i cittadini. Ugualmente,
nello stesso tempo, si dimostra quale mancanza di conoscenza
del reale Paese abbiano l’Informazione e la Politica.4
4
Secondo le indagini pisa (Programme for International Student As-
sessment) condotte dall’ocse, la scuola italiana è incapace di fornire
un’istruzione in linea con gli altri partner dell’Unione Europea: il
10% dei nostri studenti è in grado di leggere un testo, ma non di
comprenderne i contenuti. Al Sud la percentuale sale al 15%. Secon-
do l’indagine all (Adult Literacy and Life skills) il 46,1% degli italiani si
trova in condizione di “illetteralismo”, non riesce cioè a superare il
livello base di comprensione di un brano di prosa. Si tratta di oltre 33
milioni di persone. L’Italia è penultima, 34° posto fra i 35 Stati ocse.
Secondo l’ultimo Rapporto istat sull’istruzione (2020) solo il 62,2%
delle persone tra i 25 e i 64 anni in Italia ha almeno il diploma, nell’ue
il 78,7%. Un dato che in alcuni tra i più grandi paesi dell’Unione sale
ancora: 86,6% in Germania, 80,4% in Francia e 81,1% nel Regno
Unito. Gli italiani, quindi, sono tra fra gli ultimi in Europa per livello
di istruzione. Solo Spagna, Malta e Portogallo hanno valori inferiori
all’Italia. Se passiamo all’analfabetismo funzionale (categoria definita
nel 1952, nella quale ricade chi decifra uno scritto e sa opporre una
firma, ma non sa comprendere quanto ha letto), i dati più attendibili
che riguardano l’Italia (indagine piaac-ocse 2019) ci dicono che il
28% della popolazione tra i 16 e i 65 anni è analfabeta funzionale,
un valore tra i più alti in Europa, eguagliato dalla Spagna e superato
solo da quello della Turchia (47%).
13
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
Addirittura dolose possono essere giudicate le istituzioni
che, per non farsi comprendere dalla “Casalinga di Voghera”
(un pensiero affettuoso va ad Arbasino) o dal disoccupato me-
ridionale o dal parlamentare della Lega salviniana o dallo stu-
dente medio capoccione, hanno inventato il Job Act, il Welfare o
il Family Act. Inoltre, proprio nel momento in cui era necessario
farsi capire assolutamente da tutti, ovvero nei mesi del corona-
virus, hanno inondato il Paese con lockdown, smart working, webi-
nar, contact tracing, triage, Recovery fund, startup, off topic, bike sharing,
material intensity, car pooling, digital divide, Green Deal, entertainment.
Mentre “la Repubblica” organizzava gli incontri “Meet the
Future”. Questi sono solo pochi tra i tanti esempi.
la retorica buonista
Mestamente, ma c’è da ridere su quanto sostenuto dai
molti volenterosi che nel tempo del coronavirus si sono adat-
tati alla retorica nazionale e nei loro scritti hanno preconiz-
zato che, quando ne usciremo definitivamente, saremo tutti
diversi, più civili, con una vita vissuta più responsabilmente.
Ci lasceremo così alle spalle il nostro passato rovinoso. L’e-
sperienza, purtroppo, ci insegna che è una bufala: i costumi
non cambieranno, la delinquenza, l’odio e il fanatismo non
diminuiranno, il civismo non aumenterà. Nel mondo mute-
ranno molte cose, ma secondo i loro tempi, visto che la storia
è perenne movimento, tuttavia l’uomo rimarrà nella sostanza
quell’animale egoista e feroce che è stato sempre. Soprattutto
se si attruppa in massa.
Durante la Prima guerra mondiale, in cinque anni, moriro-
no nel mondo minimo 16 milioni di persone. Senza soluzione
14
Dai decenni bui all’età della demagogia
di continuità arrivò la pandemia di spagnola (1918-1919) che
continuò la strage: ci furono 10 milioni di morti (alcuni hanno
calcolato che si arrivò invece a 50 milioni), di cui 400 mila in
Italia. Facendo la somma si arriva a un vetta inimmaginabile di
cadaveri, anno dopo anno, per circa 6 anni di seguito. Al con-
fronto il coronavirus è cosa tragica, ma minore. Eppure, passati
soltanto vent’anni, nazionalismi e ideologie mortifere costrin-
sero gli uomini a maciullarsi di nuovo, provocando qualcosa
come 60 milioni di morti tra militari e civili. Da Verdun bastò
un breve passo per arrivare alla Shoah.
Scendiamo da vere apocalissi ai nostri tristi giorni, dove
tutti si sono sentiti eroi per aver trascorso qualche settimana
in casa. Il nostro Paese, stremato da alcuni decenni di mal-
governo, di criminalità imperante, di ceti politici e di classi
dirigenti in tutti i settori perlopiù corrotte, corruttrici e inca-
paci, ha l’ardire e la speranza di cambiare. Anche noi immagi-
niamo ottimisticamente una Terza Repubblica che esili fuori
dall’agorà pubblica ogni demagogia, ogni trasformismo, ogni
dilettantismo. Ci auguriamo che la sofferenza patita nel 2020
renda insopportabile anche solo la vista di indecenti buffoni e
avventurieri che ora imperversano sfacciatamente in lungo e
in largo. Ma non ci crediamo davvero.
cocciutamente per le riforme
Ma se tutto ciò non avverrà? Se la nostra Terza Repub-
blica rimarrà un miraggio? Se l’ignoranza e le malversazioni
pubbliche e private non diminuiranno? Se si realizzeranno le
previsioni più pessimistiche? Se saremo costretti a sbattere, di-
sperati come mosche sotto vetro, tra il realismo e la speranza
15
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
che ci rimane? Forse un’insensata cocciutaggine nei confronti
delle Riforme, anche minuscole, anche graduali. Basta soltan-
to che rovescino la tendenza dei decenni bui. La scuola può
fare molto, anche la buona volontà dei singoli e forse può esser
decisivo fermarsi un attimo e prendere coscienza del punto
in cui siamo giunti. Basterebbe che le nuove generazioni non
imitassero i genitori e si guardassero attorno e smettessero di
considerare “normale” ciò che non lo è. Dopotutto, se parto-
no sempre più numerosi in esilio, verso lidi stranieri, vuol dire
che sanno apprezzare la differenza tra la nostra la “normali-
tà” e quella di paesi a noi vicini che non sono certo l’Eldora-
do, ma non sono affogati nel liquame. Se esportiamo giovani,
cerchiamo d’importare vera Europa. Nessun paese del nostro
continente ha più bisogno di noi di regole sovranazionali. Di
una buona madre che ci metta in riga.
mio dio , come sei caduta in basso !
Ed è qui che viene a fagiolo la questione dell’informazione.
Non sono immaginabili né una “rivoluzione democratica” né
una politica senza dilettantismi ed eccessivi trasformismi, se
non si affronta la situazione disastrosa della comunicazione.
Non si sa se siamo giunti a un punto di non ritorno, ma certo è
che mai il nostro Paese si è trovato a un livello così degradato in
questo ambito, da tutti giudicato nevralgico per la democrazia.
Prima liquidiamo l’aspetto più folkloristico di tale imbar-
barimento. Sicuramente questo è rappresentato dall’infamia
dell’informazione di destra e di estrema destra, diventata dap-
pertutto produttrice di bufale e di propaganda usata come
manganello. In confronto “The Sun” e “Bild” hanno l’onestà
16
Dai decenni bui all’età della demagogia
e l’autorevolezza dell’Enciclopedia Britannica. I due giornali
di estrema destra “Libero” e “La Verità” (la “Pravda” di un
auspicato regime salviniano di stampo secessionista-sovranista
e nazi-bolscevico) stanno disonorando non solo la destra, ma
tutto il giornalismo italiano. Dietro di loro arrancano volen-
terosi imitatori come “il Giornale” di Berlusconi, “Il Tempo”
fascistizzato di Bechis, Storace e Bisignani, “Il Riformista”
berlusconiano-pseudolibertario di Sansonetti e Bergamini
(nessuno ha fatto più danni di quest’ultima, la vera custode
del monopolio televisivo raiset). Ogni giorno la loro prima
pagina è un bollettino propagandistico in cui sciacallaggio e
trivialità oltre misura si assommano alle bufale. Prescindendo
totalmente dalla realtà dei fatti. Lo scopo evidente è di far tra-
ghettare i lettori dalle fatuità della “società dello spettacolo”
alle bassezze della “società dell’avanspettacolo”. Lo strumen-
to è perfino troppo facile: sdoganano razzismo, antisemitismo,
atteggiamenti e mentalità fascista, antimeridionalismo, nega-
zionismo, turpiloquio, ecc. Operazione in gran parte riuscita
perché fanatismo propagandistico e linguaggio scurrile sono
stati fatti propri dalla pur bigotta rai-tv di Marcello Foa. E
con ben altra diffusione.
Certo, un paese democratico ha assoluto bisogno dell’op-
posizione, sempre. Anche molto severa. Ma i giornali, oltre
che criticare, avrebbero anche il dovere, qualche volta, di
dare delle notizie ai lettori e non sparare ogni giorno solo
slogan o proposte politiche partorite in redazioni trasforma-
te in bar dello sport. Il fatto che la destra italiana non riesca
a far esistere un quotidiano d’informazione che non sia inde-
cente è una delle tante ragioni della debolezza della Politica
nazionale.
17
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
una crisi pressoché irreversibile e
strutturale
I fogli spazzatura sono solo la bolla più appariscente della
crisi. Ma questa è ormai strutturale. Mentre nella prima par-
te della Seconda Repubblica, dominata dal berlusconismo,
il problema stava tutto nel monopolio/duopolio di raiset e
nel conflitto d’interessi, negli ultimi anni l’irruzione della rete
e il velleitarismo autoritario di Renzi5 hanno fatto esplodere
il sistema della comunicazione, rendendo la crisi pressoché
irreversibile.
Per quanto riguarda il medium televisivo pubblico, la rifor-
ma Renzi ha riportato l’orologio a decenni indietro, ponendo
l’amministratore delegato totalmente nelle mani del Governo.
Così si è passati da un falso pluralismo, fatto di lottizzazione
tra partiti, a un monopolio assoluto dell’Esecutivo.6
5
La prova inconfutabile dell’idiozia di un politico si ha quando questi,
non credendo a nulla se non al proprio potere, si cuce addosso, su
misura, una legge per l’“oggi” e per “sé”, senza pensare che prima o
poi dovrà prendere atto che in politica questi sono concetti fluttuan-
ti e che, masochisticamente, avrà lavorato “contro di sé” (e contro il
Paese) e a favore degli avversari, regalando loro strumenti micidiali.
6
Forse il tradimento più grave, verso sé stesso e i suoi elettori, perpe-
trato dal M5S è stato proprio quello di aver fatto tabula rasa delle criti-
che severissime contro la riforma liberticida di Renzi, gridate quando
era all’opposizione e dimenticate una volta salito al governo, con la
decisione di voltare radicalmente pagina e di dedicarsi alla brutale
occupazione della rai, approfittando proprio di quel provvedimento.
Addirittura esilarante fu poi lo svergognato voto grillino che sanciva
il pubblico accordo separato tra Salvini e lo pseudo oppositore Berlu-
sconi, per eleggere Marcello Foa alla Presidenza della rai.
18
Dai decenni bui all’età della demagogia
Per la “carta stampata” voglio ricordare soltanto due avve-
nimenti epocali, oltre allo stravolgimento dei ruoli e dei com-
piti nella professione giornalistica.
Da una parte, è avvenuta la più vasta operazione di con-
centrazione della stampa nella storia repubblicana che ha ri-
voluzionato l’intero panorama della stampa quotidiana, e non
solo. La formazione di un Gruppo proprietario de “la Repub-
blica” (ma si dovrebbe chiamare “la Repubblica 3.0”), “L’E-
spresso” e pubblicazioni minori, nonché ben altre 17 testate
quotidiane, molte delle quali territorialmente monopolistiche,
lede gravemente la libertà di stampa nel nostro Paese.
C’è bisogno di avvertire che la questione coinvolge i lettori,
ma anche i giornalisti implicati in un’operazione oligopolisti-
ca che ha ristretto bruscamente il mercato del lavoro? Per non
parlare, poi, dello straripante centro di potere che si è formato
e che condizionerà tutta la Politica italiana per assecondare gli
interessi della proprietà.
Dall’altra parte è avvenuto un episodio di cui si è parlato
poco, non per decenza, bensì per nascondere un’operazione
brutale compiuta dal governo Renzi alla vigilia del referen-
dum costituzionale del 2016. “Libero”: il direttore Belpietro,
seguendo la linea del proprietario, l’On. berlusconiano Ange-
lucci, nonché la decisione dello stesso Berlusconi di opporsi
al “sì”, schiera il giornale a favore del “no”. Ma che acca-
de? Belpietro sottovaluta il “Patto del Nazareno” che passa
da Napolitano a Verdini, da Berlusconi a Renzi. Il presidente
del Consiglio non può perdere il referendum. “Repubblica”
viene “aggiustata” bruscamente e diventa “la Repubblica
2.0”, passando dalla direzione Mauro a quella di Calabresi.
Per mettere in riga “Libero”, basta il sottosegretario all’Edi-
toria, Lotti. Il Gruppo Angelucci sa arrangiarsi sul filo della
19
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
legalità: nel 2003 “Libero” chiede ai proprietari del bollettino
“Opinioni Nuove” di prendere in affitto la testata, diventan-
do il supplemento dell’organo ufficiale del Movimento Mo-
narchico Italiano. Con questo raggiro incassa 5.371.000 euro
come finanziamento pubblico agli organi di partito. I lettori
diventano tutti monarchici ma “non ce lo sanno”. Però non
finisce lì. “Libero” ci prova gusto e l’anno successivo acquista
“Opinioni Nuove” e si trasforma in cooperativa di giornalisti.
Nei sette anni che intercorrono dal 2003 al 2009, la testata
beneficia di contributi pubblici per 40 milioni di euro. Nel
2011, l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (agcom)
dopo anni e anni si sveglia e sanziona Antonio Angelucci per
omessa comunicazione di controllo per i suoi giornali. Quindi
la Commissione consultiva sull’editoria, presso la Presidenza
del Consiglio, preso atto della sanzione comminata dall’a-
gcom, stabilisce che i due quotidiani dovranno restituire circa
43 milioni di euro di contributi percepiti irregolarmente. Ma
tutto si sistema in poche ore: Lotti garantisce una comoda ra-
teizzazione in molti anni e in cambio Angelucci caccia il di-
rettore Belpietro, il giorno dopo il solito Feltri garantisce che
“Libero”, dopo analisi profonde e per il bene della Patria e del
Popolo, non può che scatenarsi per il “sì”.
I cittadini, il 4 dicembre 2016, faranno giustizia anche di
tutta questa sozzeria.
i direttori kapò
Un discorso a parte richiede il ruolo dei direttori. Eserci-
tare la direzione di un giornale ora è molto più complicato di
qualche decennio fa. Ora è proprio un altro lavoro.
20
Dai decenni bui all’età della demagogia
È impressionante come Einaudi, negli anni ’40, avesse
compreso che l’intreccio tra libertà d’informazione, direttore
ed editore può essere sciolto in un solo difficilissimo modo:
far diventare forte e autorevole una testata aumentando le
vendite e il credito presso l’opinione pubblica. Lo leggiamo in
una lettera in cui rivolge dei consigli a Emanuel, direttore del
“Corriere della Sera”, nel 1949:
Sono persuaso che se il tuo giornale prendesse l’iniziativa di vere
e proprie campagne, una o due per volta su problemi importanti per
la vita nazionale, discutendoli a fondo e insistendo senza tregua per
soluzioni non ispirate ad interesse di nessun partito, ma esclusiva-
mente a quello collettivo, la tiratura non potrebbe non superare pre-
sto il milione di copie, per giungere alla lunga a cifre assai superiori
al milione. È probabile che oggi ad ogni saltuaria presa di posizione
su qualche problema fastidioso proprietario e direttore del giornale
siano afflitti da “grane”. Se invece di prese saltuarie di posizione
su molti problemi l’attenzione si concentrasse su quelli essenziali in
maniera che fosse nel tempo stesso ineccepibile per solidità di ra-
gionamento e di prove e per la risolutezza di conclusioni, i granisti
[al tempo proprietari del giornale] diventerebbero tremebondi e si
prosternerebbero innanzi ai vostri piedi ringraziando ogni volta che
vi degnaste di usar loro la finezza di prenderli a calci.
Il consiglio è valido tutt’oggi (meno i “calci”, ovviamen-
te). Ma come si fa ad aumentare le vendite in tempo di rete e
a rendere autorevole una testata, se i direttori si succedono e
legano il proprio nome esclusivamente a un rovesciamento di
linea radicale voluto dall’editore? Prima i direttori cercavano
di difendere la dignità di una professione così delicata ed es-
senziale per l’esistenza stessa della democrazia. Facevano parte
21
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
del corpo redazionale. Erano percepiti come tali. Al massimo
ci si poteva lamentare che non tutti sapessero resistere alla ten-
tazione di rinchiudersi in un ristretto e piuttosto corporativo
“club dei direttori”, dove scambiarsi favori e reti di protezione
reciproche. È quello un tempo lontano e perduto. Negli anni
d’oro (permettetemi un elogio del passato), cioè prima della
Grande Guerra, perlomeno tre quotidiani italiani avevano di-
rettori che erano anche gestori del giornale, e si assumevamo la
responsabilità delle notizie che fornivano. Non dovevano ren-
dere conto a nessuno. Il padrone, alla fine dell’anno, staccava
le cedole e incassava quattrini. Quello era l’unico guadagno
dell’editore. Ma non era scarso.
Ora il direttore (a parte le dovute eccezioni) è il kapò nelle
mani dell’editore. I suoi maggiori compiti sono: mettere in
riga i redattori, facilitare le fuoriuscite dei giornalisti e sfrutta-
re precari e collaboratori.
da “watchdog” a “fighting dog”
Il cinema e alcune grandi e piccole inchieste hanno creato
nel ’900 il mito del giornalista “watchdog”. Tra il cittadino e i
poteri si ergeva la figura del “cane da guardia” della società
civile. Molte volte ha funzionato. In Italia meno. Quanti gio-
vani hanno intrapreso la carriera giornalistica, affascinati da
inchieste che facevano cadere presidenti degli Stati Uniti? Per
poi ritrovarsi – come scrisse Pansa – (e si era solo all’inizio
degli “anni di fango”) a «fare le fusa come micioni castrati».
Quella era la prima fase. Col potere berlusconiano se ne
sono succedute altre due: il giornalista resta sì un “cane da
guardia”, ma del potere.
22
Dai decenni bui all’età della demagogia
E il più grosso giornale italiano teorizza e pratica il “cer-
chiobottismo”, confondendo una libera critica ed esposizione
dei fatti con il furbesco “un colpo al cerchio e uno alla bot-
te”, uno dei modi più subdoli con cui si esprime quella che
Paolo Sylos Labini definiva «la cupidigia di servilismo». Con
gli “anni di fango” della Seconda Repubblica e con la sua
coda nefasta nasce poi una terza fase, quella del “fighting dog”:
il giornalista da combattimento. Il prototipo è stato forse il
primo Giuliano Ferrara, col suo “Foglio” di casa Arcore (l’ul-
timo Ferrara è addormentato con le unghie tagliate sui velluti
del Nazareno, sognando un perenne “compromesso storico”
di stampo verdiniano). Ora i “cani da combattimento” sono
tutti di estrema destra, servono il piatto salviniano, ma senza
dimenticare ogni tanto una genuflessione nei confronti di Ber-
lusconi. Non si sa mai. Ogni giorno azzannano, dimenticando
le notizie e nutrendo quella mentalità razzista e fascista che
giace nei ventri di troppi italiani.
Sono trattati dal “padrone” come pezzi su una scacchie-
ra. Sono spostati qui e là secondo gli interessi strategici del
momento, conoscono perfettamente qual è il loro compito di
braccio armato e lo adempiono più o meno bene, ma con de-
dizione cieca. Senza alcuna dignità questi giornalisti-squadri-
sti si prestano a fare i killer a palle incatenate. Naturalmente si
arricchiscono. Gli esempi sono sotto gli occhi di tutti.
Non posso fare a meno di tramandare due casi che de-
scrivono la crisi più di qualunque indignato articolo a favore
della libertà di stampa. Il primo, il più ridicolo, sarà sfuggito
a molti o dimenticato sotto il peso di più chiassose ribalderie.
Eppure batte il record mondiale di servilismo giornalistico.
Alla vigilia di una famosa manifestazione di piazza del Popolo
a Roma sulla libertà di stampa, un quotidiano, “il Giornale”
23
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
allora diretto da Vittorio Feltri, ricopiando alla lettera l’espres-
sione offensiva del presidente del Consiglio Berlusconi, rivolta
a coloro che avrebbero partecipato al raduno, la fa sua e riesce
a titolare – caso unico nel mondo – a diciotto colonne: «si ri-
uniscono i farabutti», nove colonne in prima pagina, poi si
volta il foglio e in terza pagina (quindi in continuità) di nuovo
«si riuniscono i farabutti» su altre nove colonne. Nove più
nove fa diciotto. Mi immagino il rimpianto di quel direttore
per la mancanza di quotidiani a dieci, quindici, venti colonne
per pagina, dove sdraiarsi e strisciare... Con direttori di questo
tipo i redattori non possono essere da meno.
Infatti. Un certo giorno, sempre il famigerato Berlusconi,
con la sua consueta trivialità, si rivolge a Rosy Bindi apostro-
fandola «più bella che intelligente». Passa un solo giorno, e
un oscuro redattore del “Giornale” inizia così il suo articolo:
«Franceschini, che è più bello che intelligente...». Fa propria
e scimmiotta la finezza del suo Padrone. Ben appresa subito
la lezione, la ripete come un pappagallo, immagino con quale
soddisfazione del suo Direttore. Farà carriera.
e gli altri ?
Ci sono poi i giornalisti che sono ancora legati alla loro
professione. Ormai sono pochi. Temono per le loro pensio-
ni, addirittura per il posto. I più giovani sono penalizzati da
un’incapacità professionale diffusa. Eppure sono quelli inna-
morati del giornalismo. Ma in quale giornale si insegna ai
praticanti (esistono ancora?) la tecnica investigativa, come si
struttura un’inchiesta, come si legge un atto parlamentare,
come si decifra un bilancio societario? C’è chi viene mandato
24
Dai decenni bui all’età della demagogia
a morire in zone di guerra senza alcuna preparazione. La
qualità è vista con sospetto, fornisce prodotti compromettenti
che quasi nessuno vuole più. Gli editori preferiscono che sia
così, perché così è più agevole trattare i giornalisti come ma-
nodopera surrogabile e manipolabile. A questa base sempre
più dequalificata si aggiunge una massa di esterni all’Ordine
che dà l’assedio al fortino dei privilegi, nella speranza di farne
prima o poi parte. È la massa degli sfruttati, di coloro che sono
pagati pochissimi euro a “pezzo”, o hanno strappato contrat-
ti precari o lavori parziali che istituzionalizzano il ricatto: “o
ti adegui o te ne vai”. In definitiva, anche nei giornali con
pedigree è penetrata la peste dell’ignoranza, dell’insicurezza
e del bisogno che sta trascinando tutta la “carta stampata”
verso il fondo perché consapevolmente o inconsapevolmente
lavora contro la diffusione e l’autorevolezza dei giornali.
«È l’editoria italiana, bellezza! L’editoria! E tu non ci puoi far
niente! Niente!». Due righe, cui contrappongo Issa Kobayashi:
«Eppure – eppure».
Eppure, qualcosa di civile si può sempre fare.
25
sullo stato della libertà dei
media e la loro riforma
A questo fine è diretta quella pessima, né mai abbastanza esecrata ed
aborrita “libertà della stampa” nel divulgare scritti di qualunque genere;
libertà che taluni osano invocare e promuovere con tanto clamore.
Inorridiamo [...].
Gregorio XVI, 1832
Quasi tutti i nostri giornali hanno oggi lo stesso odore; o, meglio, lo
stesso cattivo odore; quasi tutti portano i medesimi mascheramenti, le
medesime alterazioni e soppressioni delle notizie; dimostrano il medesimo
conformismo riguardo al regime economico e sociale.
Ernesto Rossi, 1958
1. nero su nero
Allo stato della libertà dei media si addice la metafora
sciasciana del Nero su nero. Già da tempo sentivamo di vivere,
nel campo dell’informazione, una condizione assolutamente
drammatica e pensavamo che non si potesse precipitare oltre.
Oltre il nero del buio più oscuro non si va; al contrario stia-
mo sperimentando gradazioni di nero ancora più forti. Anche
solo riflettendo su pochissimi casi avvenuti negli ultimissimi
mesi, nelle ultime settimane, dobbiamo arrenderci al fatto che
la situazione da drammatica è diventata addirittura tragica.
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
Nell’allestimento della manifestazione per l’inaugurazione
della Società Pannunzio per la libertà di informazione, av-
venuta nell’aprile del 2009, noi ponemmo attorno al tavolo
e sulle pareti della sala alcuni manifesti con il numero “44”.
Ci sembrava già uno scandalo che l’Italia fosse al quaranta-
quattresimo posto nella classifica annuale di “Reporters Sans
Frontières”, ma avevamo e avremmo avuto anche posizioni
peggiori. Ogni anno, quando rsf pubblica la nuova classifica
annuale, il mondo della comunicazione italiano alza le spalle,
riporta a mala pena la notizia e deglutisce il rospo. Come se
non gli riguardasse.
Guardiamola in faccia, invece, questa classifica. Nel 2020,
i paesi censiti sono 180. L’Italia sembra uscita dall’incubo del
periodo berlusconiano, ma il suo indice è un’altalena in una
fascia in generale vergognosa e avvilente, se si fa il confronto
con gli altri paesi europei.
I cinque stati più virtuosi sono ovviamente: 1. Norvegia; 2.
Finlandia; 3. Danimarca; 4. Svezia; 5. Olanda. Scontate sono
pure la maglie nere: 180. Nord Corea; 179. Turkmenistan;
178. Eritrea; 177. Cina; 176. Djibouti. Peggiori di noi sono:
42. Corea del Sud; 43. Taiwan; 44. Oecs; 45. Stati Uniti, che
superano di misura la Papua-Nuova Guinea.
Vengono indicati come più “virtuosi” e liberi di noi (e c’è
da arrossire): 40. Repubblica Ceca; 39. Botswana; 38. Burkina
Faso; 37. Andorra; 36. Trinidad.
Nella mappa qui allegata, chiunque abbia un po’ di co-
noscenza della politica italiana sa riconoscere, nell’Indice ita-
liano, l’incidenza di governi, di provvedimenti legislativi, di
direttori, e soprattutto della miseranda condizione della tv
pubblica e privata.
Si può risalire la china? Proviamoci.
28
Sullo stato della libertà dei media e la loro riforma
29
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
2. i media non sono liberi
La libertà di informazione è, bene o male, garantita da
costituzioni e da leggi. I media che avvolgono il globo con le
loro reti si dichiarano liberi, ma sono ovunque in catene. I vin-
coli, beninteso, sono sempre più virtuali, invisibili, legano le
menti e le indirizzano. Una lunghissima lotta ha assicurato la
“formale” libertà d’informare: oggi nei paesi industrializzati si
può stampare, trasmettere, emettere segnali, suoni, messaggi.
Tutto (quasi) liberamente. La libertà dell’impresa mediale è
(quasi) assicurata giuridicamente, spesso foraggiata. E così il
mondo simbolico s’è adagiato sul mondo reale, coprendolo,
rimodellandolo, se non sostituendolo.
La nuova èra è sotto il segno dell’informazione. Il cu-
mulo degli strumenti informativi è impressionante. Persino
eccessivo, temono alcuni. Però, se ciascuno dei segmenti
di questo cumulo è inquinato perché non libero, il Tutto si
tramuta in un incubo di conformismo e di illibertà. L’opi-
nione pubblica viene blandita come dominatrice e onnipo-
tente, ma in effetti è manipolata, eterodiretta, svigorita. Gli
strumenti del comunicare sono inesorabilmente e progres-
sivamente concentrati.
Dappertutto regnano, se non il monopolio, l’oligopolio
e strutture elefantiache, costosissime, irraggiungibili dalle
minoranze ideologiche. Il lettore, lo spettatore e l’ascol-
tatore, che appaiono ovunque protagonisti, in realtà sono
ridotti a oggetti inconsapevoli. Non sono titolari di alcun
diritto. I risultati della conquistata libertà d’impresa me-
diatica sono deprimenti. Il pubblico-lettore si difende come
può e arretra: abbandona progressivamente gli strumen-
ti più “difficili” e soggiace a quelli più “facili”. Va sempre
30
Sullo stato della libertà dei media e la loro riforma
meno in edicola ad acquistare i quotidiani e giace di fronte
alla tv, assimilando improbabili notizie che gli si accavallano
nella mente in un guazzabuglio di fiction e di news.
3. non c’è democrazia senza informazione
indipendente
Secondo Robert A. Dahl,1 dei cinque criteri che caratteriz-
zano una democrazia compiuta, ben tre riguardano i media:
1. Partecipazione effettiva («prima che una strategia venga adot-
tata [...], tutti i membri devono avere pari ed effettive opportu-
nità per comunicare agli altri le loro opinioni a riguardo»);
2. Diritto all’informazione («entro ragionevoli limiti di tempo,
ciascun membro deve avere pari ed effettive opportunità di
conoscere le principali alternative strategiche e le loro proba-
bili conseguenze»);
3. Controllo dell’Ordine del giorno. Lo stesso autore aggiunge
che «offrire opportunità di crearsi una conoscenza chiara del-
le questioni pubbliche non è solo parte della definizione della
democrazia, ne è un requisito fondamentale».
Se si intende la democrazia non solo come forma di
governo, i requisiti minimi sono la «Libertà d’espressione» e
la possibilità di «Accesso a fonti alternative d’informazione».
Certo, prosperano moltissimi stati totalitari, ma le cosiddet-
te democrazie occidentali possono dichiararsi tali senza conti-
nuare a perseguire almeno quei requisiti minimi che noi stessi
1
Robert A. Dahl, Sulla democrazia, Roma-Bari, 2000.
31
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
consideriamo necessari? Possiamo ancora dirci democratici se
non riprendiamo in mano le analisi e le ricette del liberalismo,
e accreditiamo ancora un sistema politico diventato sempre
più un guscio vuoto? Siamo ben lontani dalla “democrazia
della società civile”. Se le masse non hanno strumenti corret-
ti e plurimi per farsi un’idea appropriata dell’agenda politica
corrente, sarà sempre più illusoria la loro trasformazione in
“società civile” in grado di svolgere costantemente una veri-
fica e una valutazione dell’operato del governo e delle forze
politiche che si candidano alla sua sostituzione.
Viviamo il fallimento della democrazia costituzionale, ov-
vero della democrazia delle regole. Ora il gioco è visibilmente
truccato sia dalla manipolazione dell’opinione pubblica, sia
dall’esiguità e dalla predeterminazione delle scelte del singolo
elettore. L’attuale cittadino-elettore, convinto sempre di più
che per esprimere con maggiore vigore la propria scelta politi-
ca debba non recarsi alle urne, deve rendersi conto che ancor
prima di elettore egli è (e deve diventare) un lettore consape-
vole, con diritti riconosciuti sul controllo e sulla trasparenza,
e non un consumatore di media, facile preda di propaganda e
di manipolazione.
Abbiamo tanto combattuto affinché le elezioni politiche
fossero libere, bisogna cominciare a lottare – come sostiene
Sartori – affinché anche le opinioni siano libere «cioè libe-
ramente formate».2 Ora, invece, i media si identificano con
le loro proprietà e nessuno crede più ai giornali come por-
tavoce dell’opinione pubblica, quando ne sono soltanto uno
strumento di deformazione.
2
Giovanni Sartori, Democrazia: cosa è, Milano, 2000.
32
Sullo stato della libertà dei media e la loro riforma
4. opinione pubblica e propaganda
Se tutta la Propaganda è Persuasione (in qualche modo
forzata), non tutta la Persuasione è Propaganda. Se a queste
due affianchiamo la Testimonianza, che è l’unico modus ope-
randi dell’autentico giornalismo, abbiamo tre concetti conti-
gui, spesso con vaste aree in comune e con la predisposizione
a fagocitarsi l’un l’altro. Lo sbaglio più colossale è quello di
definire positiva o negativa la Persuasione e la Propaganda
a seconda del loro contenuto, del loro fine o delle loro ca-
ratteristiche principali, come l’intenzionalità manipolatrice
del propagandista, o la semplicità, anzi il semplicismo, o la
ripetitività. La Propaganda non si distingue dalla Persuasio-
ne né per il contenuto “veicolato” né per le “intenzioni” del
comunicatore, né per le tecniche usate, bensì per la quantità
informativa con cui sommerge le menti senza che queste ab-
biano sufficienti alternative. La Propaganda non ammette
d’essere contraddetta.
L’unico antidoto è il pluralismo delle fonti. Si ritorna così
all’importanza primaria del frazionamento del potere mediati-
co in un’epoca in cui è persino impossibile avere dati attendibili
sul processo di fusione dei media, tanto è frenetico il ritmo delle
concentrazioni. Quando l’informazione è nelle mani di un uni-
co soggetto, si arriva alla Propaganda perfetta, ma questa posi-
zione monopolistica non è prerogativa esclusiva degli Stati tota-
litari. Anche gli Stati democratici, in alcuni momenti della loro
storia, hanno costruito una loro condizione monopolistica per
affermare temi propagandistici che stavano particolarmente a
cuore agli esecutivi. Anche in periodi di cosiddetta “normalità”
non è necessario che la condizione di monopolio sia stabilita
ufficialmente dal governo, ma è piuttosto tutto l’apparato ad
33
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
adeguarsi e uniformarsi. In più, c’è anche il diverso “peso” dei
differenti vettori informativi: purtroppo non esiste soltanto la
tendenza monopolistica all’interno di ogni vettore, ma anche
lo strapotere, su tutti gli altri, di un vettore come la televisione,
e chissà, in un domani assai prossimo, del web, col risultato che
l’attenzione dell’individuo è fagocitata pressoché interamente e
senza alternative critiche.
5. rilevanza e rivoluzione dei nuovi media
Il “numerico” fa convergere i tre sistemi di segni che com-
pongono la comunicazione: la parola scritta, il suono e l’im-
magine. Poiché tutti e tre i segni sono diffusi da un unico mez-
zo (il bit), è inevitabile la concentrazione tra i vettori. Finora
nulla si è fatto per governare questo processo.
Contemporaneamente, come non notare e non fare i conti
con la stessa mutazione del concetto di “merce”? «Passiamo
dai mercati alle reti», scrive Jeremy Rifkin.3 In quel nuovo tipo
di mercato che è la rete si frantumano la proprietà e le merci.
Soprattutto i “nuovi padroni” dei media non vendono beni
materiali, ma principalmente “flussi d’esperienza”. Esperien-
za di testi, suoni e immagini. Diventando il “bene” immateria-
le, anche il termine “proprietà”, che rimanda a un passaggio
fisico da un soggetto a un altro, diventa improvvisamente ob-
soleto e destinato a regolare soltanto rapporti “residui”. Ma in
questo caso, qual è la più efficace politica anti-concentrazio-
ne? Ammesso che esista un’autorità in grado di deciderla e di
3
Jeremy Rifkin, Voici venu le temps des reseaux, in “Manière de voir - Le
Monde diplomatique”, n. 63, 2002.
34
Sullo stato della libertà dei media e la loro riforma
farla rispettare. Forse è antistorica e antiscientifica un’attività
antitrust che aggredisca l’integrazione di tipo verticale, cioè
tendente a separare le varie forme che compongono l’espe-
rienza. È impossibile tenere separata la diffusione del suono
da quella dell’immagine. È impossibile frazionare i “flussi d’e-
sperienza” o anche solo resistere al processo d’integrazione.
Tutti gli sforzi dovrebbero essere indirizzati, invece, verso po-
litiche antitrust di tipo orizzontale, ossia quelle che, pur ammettendo
l’unità dell’esperienza informativa, la limitino in termini quan-
titativi fino a soglie minime e in modo così rigoroso da attivare
un processo di moltiplicazione dei soggetti produttori e quindi
delle offerte informative. Creando un mercato in cui la concor-
renza sia il più possibile effettiva. Sia la sinistra sia la destra, e
non solo nel nostro Paese, non hanno una politica coerente sul-
la libertà di comunicazione. Continuano a ragionare con l’anti-
ca logica della contrapposizione tra pubblico e privato.
La destra confonde la “libertà” con le “mani assolutamen-
te libere”, anche se queste tendono alla concentrazione e all’o-
pacità, e sono propense a usare questa particolare “merce”
con scopi sfacciatamente non pertinenti. La destra confonde il
mercato con l’assoluta assenza di regole. Incoerentemente con
le idee che professa, mira a un basso, o nullo, livello di concor-
renza e, insieme, a cospicui finanziamenti pubblici.
La sinistra macina ancora la stravecchia convinzione,
smentita dai fatti, che il pluralismo possa essere gestito dal po-
tere pubblico. Come se il potere pubblico fosse neutro e non
“soggetto” di scelte, le più diverse, e portatore di interessi pro-
pri. Come se potesse esistere l’obiettività dell’informazione.
Come se il problema fosse quello d’assicurare questa obietti-
vità e bastasse svincolare i media dal “privato” per innalzarli
a esclusivi portavoce di chissà quale Verità, altrimenti distorta
35
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
da interessi e scelte di parte. Come se la notizia non fosse sem-
pre di “parte”. La sinistra di origine comunista non sa dare
risposte a queste domande e alla fine si riduce a intendere per
“pubblico” la grossolana lottizzazione.
Quando arriverà, questa sinistra, a comprendere che il
compito dello Stato non è quello di fornire notizie spacciate
per obiettive, ma di garantire l’effettiva pluralità delle fonti
informative? Passare dalla lottizzazione al pluralismo significa
cambiare la propria filosofia della storia.
L’idea che tutte le comunicazioni siano nelle mani d’un
pugno di oligopolisti fa tremare, ma non è neppure consolan-
te che sia lo Stato (dittatoriale o no) a gestire un potere così
enorme. La rete ora è un gigante produttore di libertà, ma
ha i piedi d’argilla. Se lo Stato è debole, le scelte pubbliche
sono preda facile del potere economico; se lo Stato assume
compiti non propri, le conseguenze sulla libertà dei cittadini
sono schiaccianti. Non c’è soluzione decente che non passi per
un’acquisizione di effettiva autonomia e limitazione del “poli-
tico”. Ora la politica, troppo spesso degradata a semplice stru-
mento operativo di poteri privati, appare sempre più come
un arbitro corrotto e compiacente. Lo Stato non può gestire
alcun mezzo d’informazione, deve sottolineare la sua neutra-
lità e assicurare l’effettivo pluralismo dell’informazione, come
unico garante di un processo democratico non inquinato.
6. cittadini, lettori, consumatori
La libertà d’informazione e il “diritto a essere informati”
sono due valori differenti ma complementari, guai a metter-
li in concorrenza. Vanno entrambi garantiti. Prima abbiamo
36
Sullo stato della libertà dei media e la loro riforma
inserito il “diritto a essere informati” tra le condizioni indispen-
sabili per una democrazia non finta, ma la libertà d’informare
resta pregiudiziale (perché fondatrice) di questo stesso diritto.
Esattamente come la libertà comprende in sé l’uguaglianza,
e non viceversa. Essa è un bene assoluto (anche se parados-
salmente sono molti giornalisti a sostenere il contrario) e
non può essere vincolata a determinate funzioni. E poi queste
“funzioni” da chi dovrebbero essere decise: dallo Stato? Dal
Partito? Dalla Chiesa?
Le tre qualifiche che vanno per la maggiore, ossia “obiet-
tività”, “imparzialità” e “completezza”, infestano la norma-
tiva sul giornalismo e i codici deontologici, ma non hanno
fatto compiere un passo in avanti alla qualità e alla libertà
dell’informazione. Il giornalista non svolge, né deve svolgere
alcun’altra funzione se non quella di testimone della realtà, il suo
compito è di “riportarla” come la vede e la percepisce, senza
illudersi di liberarsi dal soggettivismo e dalle incertezze pro-
prie d’ogni testimone. Nel passato sono state alimentate tesi
tanto velleitarie quanto improduttive sulla missione sociale
del giornalista. Anche a scapito della notizia. Mentre, più
subdolamente, nella mente del giornalista è rimasta ferma la
missione della difesa degli interessi della Proprietà. I cittadi-
ni-lettori più avvertiti sanno bene che caricare il giornalista
di funzioni aggiuntive apre un contrasto col “diritto/dovere di
cronaca”, oltre a non migliorare la leggibilità e la correttezza
dei nostri giornali.
Piuttosto che combattersi in una guerra tra straccioni, “il
diritto di cronaca” e “il diritto a essere informati” si devono
alleare e prendere coscienza che non c’è l’uno senza l’altro.
Soprattutto va fondato, pressoché dal nulla, il “diritto dei
lettori”, i quali sono senza difese sia in quanto cittadini (non
37
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
viene garantita loro né la pluralità né l’indipendenza dell’in-
formazione), sia in quanto consumatori (non viene neppure
preso in considerazione il fatto che, in quanto compratori di
una merce, essi sono “consumatori” e quindi dovrebbero ac-
quisire diritti almeno analoghi a quelli che, con fatica, hanno
conquistato gli acquirenti di un qualunque bene di consumo
in fatto di trasparenza, di non commistione di interessi e di
non inquinamento della notizia).
7. la palude conformista
L’articolo 21 della nostra Costituzione sulla libertà di
stampa è un bell’esempio di liberalismo. Assai rigido e su linea
cavourriana, suggerisce che in questo campo meno si legife-
ra e meglio è. Ma purtroppo si è legiferato, e sono molte le
leggi ordinarie che contraddicono lo spirito del dettato costi-
tuzionale. Alcune di queste ne violano apertamente la lettera
(come l’obbligo di registrare le testate giornalistiche presso i
tribunali). Altre costituiscono intralci e pleonasmi. Esiste però
anche una “libertà positiva” che va assicurata, ma che non
viene assicurata.
La Costituzione non se l’è dimenticata, e l’art. 3, pur nella
sua generalità, risponde bene allo scopo. È quello che sancisce
il dovere della Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine
economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’u-
guaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della
personalità umana.
Da qui nasce sicuramente il dovere del legislatore di ope-
rare per garantire effettivamente a tutti la possibilità concreta
di esprimersi liberamente. Il “funzionalismo”, ovvero la teoria
38
Sullo stato della libertà dei media e la loro riforma
che assegna d’ufficio al giornalismo una “funzione” ultronea,
perduta la battaglia con l’art. 21, si è voluto rifare nei decen-
ni successivi. La normativa ordinaria risulta influenzata dallo
spirito sostanzialmente illiberale dei tempi, più che dall’art.
21, e ha raggiunto il suo culmine sia con la famosa sentenza
della Corte di Cassazione del 1984, sia con tutta la stagione
delle grida deontologiche che, non a caso, inaugura il periodo
più buio del giornalismo italiano, che dura tuttora.
Si è così giunti al momento attuale, il peggiore, dove regna-
no, ammantati di retorica, gli intrecci perversi tra legislazione
rinnegante e legislazione caduta in disuso o mai applicata, tra
esaltazione acritica del “servizio pubblico” (dove l’inevitabile
condizionamento politico e il corrispondente servilismo sono
diventati persino sguaiati) e resa incondizionata al monopolio
privato, tra precarietà contrattuale e debolezza se non conni-
venza sindacale.
I giornalisti affogano nella palude dell’irrilevanza e del
conformismo. Ma anche gli editori, soprattutto quelli della
“carta stampata”, per inconsapevolezza e per ingordigia, ope-
rano per la propria fine.
La diminuzione inesorabile delle vendite, una funzione
sempre più irrisoria di fronte a più moderni strumenti di co-
municazione, un’organizzazione interna feudale, è davanti
agli occhi di tutti, ma nessuno sembra vedere e prenderne co-
scienza. Ci si accontenta di ridursi a veicolo non più di idee
proprie e d’informazioni, ma di libri e cianfrusaglie varie. Ri-
sultato? La massiccia distorsione del messaggio informativo,
la manifesta commistione – se non addirittura sudditanza –
tra il testo redazionale e la pubblicità, l’inconsapevolezza del
proprio ruolo. Da qui la caduta verticale dell’autorevolezza
dei media e dell’attendibilità dei giornalisti.
39
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
L’esito della competizione tra “la carta stampata” e la co-
municazione polverizzata su internet è considerato scontato
solo da chi ha dimenticato l’importanza che deve essere rico-
nosciuta al vettore rispetto al messaggio da trasmettere, e che
vettori diversi svolgono ruoli differenti e insostituibili.
La gara tra i due ha esito scontato soltanto se è condotta
dagli attuali media tradizionali senza alcuna capacità di auto-
trasformazione e senza una forte sottolineatura sia della loro
indipendenza, sia della loro specificità, sia del valore insostitu-
ibile della professionalità giornalistica.
I manager editoriali stanno scegliendo la via dell’affianca-
mento dei due vettori (stampa e internet), confidando gretta-
mente nello sfruttamento ripetuto dello stesso prodotto. Ma,
al contrario, il prodotto stampato si può salvare proprio diffe-
renziandosi radicalmente.
Vi sono due differenti mercati che non verranno mai
meno: quello privo di pretese particolari, che approfitta della
gratuità offerta per annegare in un marasma di notizie non
verificate o scritte malissimo, sfoghi e bufale. E quello che
invece ha l’esigenza di leggere cose di alta qualità, magari in
esclusiva, magari ideologicamente non omogenee o non pro-
pagandistiche, ma autorevoli e sicuramente non adulterate
dalla pubblicità redazionale. Insomma, quello che è disposto
a spendere dei quattrini per maturare una propria opinione,
piuttosto che per vedersela confermare ogni giorno.
Questo risultato può essere raggiunto soprattutto dalla
“carta stampata”, ma solo se questa ha il coraggio di riquali-
ficarsi con un giornalismo professionalmente competente. Se
la “carta stampata” rincorre acriticamente il mercato impo-
nente della rete, il suo destino è segnato. Con grave danno del
patrimonio informativo complessivo.
40
Sullo stato della libertà dei media e la loro riforma
8. cinque criteri per la riforma dei media
Tra le attuali emergenze democratiche va quindi annove-
rata anche una vera riforma, legislativa e non, che costruisca
le condizioni strutturali per garantire la libertà d’informazio-
ne e per fondare i diritti dei lettori-consumatori.
Per essere efficace, essa dovrebbe perseguire cinque criteri:
1. Sancire la rilevanza, di primario interesse pubblico, di
una informazione libera, quale componente necessaria per
l’esistenza di una democrazia politica.
2. Stabilire che la libertà d’informare non può essere ga-
rantita da altro se non da un effettivo pluralismo delle fonti.
3. Perseguire la massima separazione possibile tra i poteri
della “sfera pubblica”, che va al di là dell’ovvia separazione
dei poteri dello Stato.
4. Riconoscere al bene “informazione” uno status diffe-
rente da quello di semplice merce e quindi costruire, per le
imprese editoriali, una forma di governance con una propria
esclusiva tipicità.
5. Considerare basilare la presenza del lettore-consumato-
re tra i protagonisti del processo informativo.
9.i tre poteri della “ sfera pubblica ”:
un nuovo separatismo
Il liberalismo ha inventato un principio che è rivoluziona-
rio, perché si fonda sulla constatazione dell’inevitabilità del
potere e della necessità del suo frazionamento; ora si tratta di
estendere tale teoria a tutta la “sfera pubblica”, di cui il potere
41
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
statale non è che una parte e forse quella sempre meno rile-
vante. Solo il potere può frenare gli effetti perversi del potere.
Se si considera il potere statuale come un insieme compren-
dente tutte le funzioni classiche più quelle che si sono aggiun-
te, come quella amministrativa o quella espressa dalla volontà
politica dei partiti, nelle società moderne si può immaginare la
complessiva “sfera pubblica” composta appunto dall’apparato
statale, dal potere economico e dal potere mediatico.
In questa accezione, la “sfera pubblica” si identifica piutto-
sto con la polis, come luogo dove si intrecciano le relazioni e gli
scambi dell’agire dei cittadini. Il caso vuole che si riproponga
ancora una volta una tripartizione di veri e propri poteri che
trovano in sé stessi la loro forza. Ma il principio liberale del se-
paratismo è perlopiù stravolto: così, più che al legittimo e au-
spicabile conflitto tra poteri, assistiamo al continuo tentativo
di ciascun potere di limitare l’altrui autonomia e di sterilizzare
la reciproca competizione. La principale caratteristica “vizio-
sa” di questa tripartizione è che tutti e tre i poteri sono fuori
dai loro binari. Le società che amano definirsi democratiche
devono finalmente prendere atto di come manchi loro – nella
sostanza e nella forma – quella “divisione dei poteri” che un
tempo stava alla base d’ogni riflessione liberale. Perciò, per
gli aspetti principali, lo scenario è tornato pre-stato moderno.
Il potere mediatico ha una enorme forza, ma non possiede
alcun grado di autonomia, è completamente imbrigliato e le
briglie sono nelle mani dell’economia e/o della politica.
Il potere politico ha perduto grosse quote di autonomia
perché incapace di risolvere, in maniera drastica, il problema
della propria autonomia finanziaria e dei condizionamenti
connessi. Inoltre, il “politico” è stretto nella morsa dalla con-
nessione tra potere economico e potere mediatico.
42
Sullo stato della libertà dei media e la loro riforma
Lo stesso potere economico è fortemente condizionato dal-
le scelte delle politiche pubbliche.
Le reciproche invasioni di campo sono all’ordine del gior-
no. Il “politico” sconfina nella comunicazione: saccheggia e
assoggetta reti televisive, si impadronisce di agenzie stampa,
un tempo – come Stato – persino di un quotidiano. Esercita
continue pressioni e ricatti sui padroni dei giornali. Da parte
loro, gli industriali della comunicazione, da sempre, conside-
rano il ricavo economico un sovrappiù rispetto al guadagno
che deriva loro dalla forza di pressione propria dei media usati
per ben altro che per informare. Condizionando il mercato
pubblicitario, anche i soggetti economici che non possiedono
direttamente vettori mediatici controllano e si spartiscono quel
“sovrappiù”. Qualche volta lo proclamano sfacciatamente.
Se fosse riconosciuto e perseguito nella pratica politica il
principio della separazione di questi tre poteri, il salto di qua-
lità democratica sarebbe enorme. Ma prima sarebbe necessa-
rio che diventassero consapevolezza di massa i guasti provo-
cati dalla terribile distorsione causata dalla dipendenza delle
forze politiche dal finanziamento lecito e illecito dell’apparato
economico, i guasti generati dalla informazione eterodiretta,
i guasti provocati al mercato dalla burocrazia politica e dai
finanziamenti pubblici.
10.i compiti di garanzia di uno stato
neutrale
Anche il liberista più ossessivo sa che la libertà economica
non può essere in contrasto con la libertà tout court e, qualora
lo fosse, dovrebbe farsi da parte. Se quello dell’informazione
43
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
fosse solo un diritto sociale, non avrebbe la prevalenza sulla
libertà economica. Se, invece, viene messa in discussione la
libertà dei cittadini – come nel caso dei media distorti da
interessi non propri – è costituzionalmente doveroso libera-
lizzare uno specifico mercato, spogliandolo di molti aspetti
schiettamente economici e disegnando uno statuto che ga-
rantisca totalmente, e renda autonomo e ben chiaro proprio
quel suo surplus di potere. L’informazione deve mettere tra
parentesi il suo status di merce per potenziare il suo status di
bene specifico. Un intervento dell’autorità politica è più che
legittimo, perché non va contro la libertà d’impresa né contro
la libertà d’espressione. La dottrina giuridico-economica pre-
vede la legittimità di “norme proibitive”:
I beni, previsti da norme proibitive, sono resi incommerciabili, e
come tali, sottratti al negoziare del mercato. La disciplina può pre-
sentare sfumature e gradazioni. [...] Qui torna utile d’osservare che
la commercialità, cioè la destinazione allo scambio, non è un carat-
tere naturale del bene, ma sempre e soltanto un carattere giuridico.4
Tutte queste argomentazioni vogliono dimostrare che è
possibile intervenire, anche drasticamente, con proposte che
rimangono tutte ugualmente interne alla logica del privato e
del mercato libero. È a noi, infatti, completamente estranea
quella logica che individua nello Stato il garante o addirittura
il gestore, ridicolo in verità, d’una presunta obiettività o neu-
tralità dell’informazione, secondo una logica antisoggettiva
che già tanti danni ha inferto.
4
Natalino Irti, L’ordine giuridico del mercato, Roma-Bari, 1998.
44
Sullo stato della libertà dei media e la loro riforma
11.un modello per la libertà d’informa-
zione. premessa
Il modello proposto prevede, per le grandi imprese edi-
toriali, il conflitto concorrenziale tra soggetti privati (non
inquinati da alcun rappresentante pubblico) all’interno del
mercato. Però “soggetti privati” peculiari e sottoposti a vincoli
che perseguono il fine di sottrarli all’influenza di entrambi gli altri
due poteri.
Come si può affermare un modello di proprietà-gestione
delle imprese di comunicazione che sia radicalmente diverso
da quello attuale e che sia tutto ispirato alla separazione tra
potere economico e potere mediatico?
Alcuni, sopravvalutando l’insopprimibile carattere indu-
striale ed economico che è parte integrante d’ogni impresa
comunicazionale, potrebbero ritenere assolutamente utopi-
stico questo progetto di riforma, anche se, in astratto, con-
cordassero sull’obiettivo di fondo. Eppure qui si indica un’u-
topia possibile. Nessuno mette in dubbio una componente
industriale nei media, si pone però l’esigenza di sottolineare
le peculiarità dell’industria mediatica e di differenziare i suoi
modelli societari da quelli delle altre industrie, perché il fine
produttivo e di lucro è comunque assolutamente secondario
rispetto alle finalità pubbliche complessive d’un tipo d’im-
presa che per sua natura è unico.
Certo che è difficile. Va a scontrarsi con una concen-
trazione di interessi che non ha uguali, ma il mondo della
politica, se vorrà salvare il legittimo potere – legato al suo
stesso ruolo – dovrà, prima o poi, comprendere che invece di
scendere di volta in volta a patteggiamenti, ricatti e influenze
non trasparenti, ha come unica via d’uscita il perseguimento
45
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
d’una coerente politica di “separazione”, in grado di mettere
ordine liberale in tutta la “sfera pubblica”. Non c’è mercato
che non conosca una forte propensione al monopolio, ma
i paesi capitalistici dimostrano la loro maggiore o minore
capacità di svilupparsi proprio nella maggiore o minore re-
sistenza che sanno opporre alle concentrazioni di potere,
nell’affermazione di regole che diano ordine alla democrazia
industriale. Siamo convinti che porre all’ordine del giorno la
liberalizzazione dei media incontrerebbe un grande favore
presso gli elettori-lettori, al punto che le eventuali perdite
economiche (che comunque non ci sarebbero) passerebbero
in secondo piano, come avviene solitamente quando si rea-
lizzano grandi riforme.
Tutti i critici dall’interno del sistema capitalistico non
hanno mai smesso di predicare contro le concentrazioni
economiche; anzi, più aderiscono a teorie liberiste e più si
battono per legislazioni antitrust.
Soltanto in Italia vegeta una strana specie di economisti e
di politici che si proclama liberista, ma si schiera dalla parte
del monopolio. Se, per esempio, nella patria del capitalismo
più maturo, gli Stati Uniti, si pose e si cercò di risolvere il
problema della separazione tra finanza e industria, vuol dire
che il principio separatista e liberale settecentesco “funzio-
na” ancora come pietra miliare d’ogni politica che si faccia
carico della questione del potere. Oggi, purtroppo, non sono
molte le voci che si innalzano per gridare allo scandalo con-
tro una concentrazione di potere (somma di potere econo-
mico e di potere mediatico) che nel mondo ha portato alla
morte ogni libera espressione. Eppure siamo ben oltre allo
«sterminato potere» denunciato dal New Deal.
46
Sullo stato della libertà dei media e la loro riforma
12. la rilevanza pubblica dell’informazione
La rivoluzione della separazione tra potere economico
e potere mediatico può essere garantita solo dalla “pubbli-
cizzazione delle imprese mediatiche”, dove “pubblicizzazione”
non sta per “statalizzazione”, ma per riconoscimento della rilevanza
(non funzione, mi raccomando) pubblica dell’informazione. Il libero
contributo alla formazione dell’opinione pubblica deve esse-
re considerato, non solo sui manuali ma anche nella realtà,
come fondamentale e necessaria clausola affinché una democrazia
possa definirsi tale.
Un’avvertenza è necessaria: certamente perseguiamo
una formazione più libera della pubblica opinione, ma
ugualmente temiamo, insieme con Tocqueville, “la tirannia
dell’opinione”, non essendoci mai passato per la testa che
l’opinione dei molti sia di per sé più valida di quella dei po-
chi. Il nostro obiettivo è di stampo riformatore. Vorremmo
che l’opinione pubblica fosse non mitizzata, ma avesse più
strumenti critici e fosse meno vittima condizionata da in-
teressi alieni. Soltanto questo, ma non è poco. Basta che si
prevedano effettivamente la fuoriuscita dell’impresa mediale
dall’unica dimensione dello scambio di merci e la sterilizza-
zione d’ogni controllo economico.
Qui si propone un modello che risponde al principio secondo cui la
proprietà d’un giornale deve essere di chi ci lavora e dei suoi lettori.
La soluzione, più volte avanzata, della formula della pu-
blic company è assolutamente la peggiore, proprio perché il
suo elemento caratterizzante è la contendibilità del controllo.
Un giornale (o qualunque altro vettore mediatico) gettato sul
mercato e quotato in borsa soffre di tutti i difetti che compor-
ta il padrone unico e, in più, subisce quelli di una maggiore
47
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
precarietà e minore trasparenza della proprietà. La separa-
zione si realizza con la formazione di “pseudo public companies”,
cioè di società prive di azionisti di riferimento e non scalabili
dall’azionariato. La pseudo public company è definita:
Un modello in cui, come nella public company, il controllo è
esercitato da un soggetto che dispone di una quota limitata o nulla
del capitale e la proprietà è diffusa, ma che, a differenza della public
company, non prevede la possibilità di ricambio del controllo contro
la volontà di chi lo esercita.5
L’esempio riportato in proposito dalla letteratura specializ-
zata è quello delle tre Grossbanken tedesche (Deutsche Bank,
Dresdner Bank e Commerz Bank), nelle quali il controllo è
esercitato dal management. Le qualifica, come abbiamo visto, il
carattere non contendibile del loro controllo.
13. le difficoltà del modello . possibili
soluzioni
Adottando questo modello di liberalizzazione, la volontà po-
litica riformatrice opererebbe contro soggetti (gli attuali pro-
prietari) fortemente contrari e risoluti a non accettare ciò che
avrebbero l’interesse di dipingere come una vera e propria
espropriazione. Ma che espropriazione non sarebbe, perché
la trasformazione in pseudo public company dovrebbe essere ga-
rantista dell’attuale valore economico del bene.
5
Assetti proprietari e mercato delle imprese, (a cura di) Fabrizio Barca,
vol. I, Bologna, 1994.
48
Sullo stato della libertà dei media e la loro riforma
La mano pubblica, interessata a un riequilibrio dei poteri e
allo stabilimento d’una vera libertà d’espressione, può influire,
porre limiti, condizionare in molti modi. Dovrebbe dare inizio
gradualmente a un percorso tutto dichiaratamente indirizzato
non all’acquisizione in proprio del bene, bensì alla creazione
progressiva di società private sempre più autoreferenziali. Lo
strumento principale è una legislazione antitrust.
Il primo provvedimento, il più importante, impone il vincolo
alle proprietà attuali in tutto il settore mediale (carta stam-
pata, televisione, altre forme di comunicazione) di possedere un
solo vettore in ciascuna area produttiva: un solo quotidiano, una sola
rete televisiva, un solo portale in internet, ecc. Questa misura
ha lo scopo di non deprimere le sinergie che obiettivamente
si instaurano tra i diversi campi, ma impedisce all’interno di
ogni settore la formazione di posizioni dominanti. L’eccedenza
andrebbe ceduta in forme e modi indirizzati dalla normativa.
Il secondo provvedimento introduce l’obbligatorietà della quotazio-
ne in borsa. C’è da domandarsi: come sarebbe l’accoglienza,
nel più tipico luogo del mercato, di un bene che certamente è
orientato verso obiettivi che esulano dallo scambio economi-
co? La conoscenza del punto d’arrivo (la pseudo public company)
non scoraggerebbe, infatti, né la partecipazione dell’azionaria-
to diffuso né l’intervento degli investitori istituzionali (le com-
pagnie di assicurazione, i fondi comuni d’investimento e i fondi
pensioni). Il primo, l’azionariato, pur sapendo di non poter che
essere “nominativo” e di non poter incidere sul controllo, potreb-
be sentirsi persino più attratto da un assetto finale che, ren-
dendo l’azienda editoriale davvero “pura” (o meno “impura”),
sarebbe maggiormente garantito rispetto alle intemperie poli-
tiche e alle avventure più o meno spregiudicate di un capitano
d’industria. Con conseguente, inevitabile, valorizzazione del
49
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
bene. Per i secondi la letteratura specializzata è rassicurante,
perché sostiene che la presenza (anche solo in prospettiva) d’un
controllo intoccabile e predeterminato non sposta le opzioni
degli investitori istituzionali, giacché:
Il profilo dell’esercizio di voto da parte degli investitori istitu-
zionali è stato spesso ritenuto del tutto secondario, poiché, secon-
do una diffusa convinzione, questi ultimi (proprio perché interessati
unicamente alla massima valorizzazione dei titoli detenuti e caratte-
rizzati da un’elevatissima diversificazione del portafoglio) sarebbero
interessati non a intervenire nella gestione delle imprese, ma unica-
mente a valutare dall’esterno l’andamento della gestione, il corso
dei titoli ed eventualmente a disinvestire la propria partecipazione.6
Terzo provvedimento: immissione di limiti al possesso azionario. Per
la privatizzazione, in Italia, questa norma è stata decisiva,
come lo è per ogni politica a favore delle public companies:
Attraverso la determinazione di una soglia massima nella con-
sistenza delle partecipazioni dei singoli azionisti si punta ad impe-
dire una stabile acquisizione del controllo da parte di un singolo
soggetto o di un gruppo di azionisti, legati da patti parasociali o
comunque dall’esistenza di rapporti di alleanza imprenditoriale (te-
stimoniati dall’esistenza di un patto in società terze), ciascuno dei
quali rimane al di sotto del tetto. L’obiettivo è quello di realizzare
una polverizzazione dell’azionariato nel presupposto che l’assenza
di azionisti di riferimento costituisca elemento propedeutico per lo
sviluppo d’una public company.7
6
Raffaele Perna, Public company e democrazia societaria, Bologna, 1998.
7
Ibidem.
50
Sullo stato della libertà dei media e la loro riforma
Ricordiamo che anche il Programma governativo di riordino delle
partecipazioni pubbliche del 1992 indicava nella formazione d’un
azionariato diffuso uno degli obiettivi principali delle proce-
dure di privatizzazione. Un’altra misura limitativa più audace
è la proibizione, per gli azionisti d’una società mediale con
una quota consistente, di possedere partecipazioni di rilievo
in altre società di qualunque tipo. E, ovviamente, qualunque
forma di partecipazione incrociata. Questo passo non si pone
l’obiettivo di creare la figura dell’editore “puro”, cioè non im-
pegnato in iniziative industriali in altri campi (figura che con-
sideriamo fasulla e che in ogni caso giudichiamo inutile), ma
vuole avere un valore dissuasivo, per favorire la fuoriuscita da
tutto il settore mediatico di una concezione padronale.
Dopo questi tre provvedimenti, si passa dalla fase “distrut-
tiva” dell’attuale sistema a quella “costruttiva” del nuovo. Per
riassumere: la nuova società mediale tipo può possedere un solo vettore
in ciascun canale della comunicazione; la sua struttura societaria è quella
di una pseudo public company; di quest’ultima ha alcune caratteristiche,
come la quotazione in borsa e l’obiettivo d’un azionariato diffuso; è gestita
nella parte industriale dal management e nella parte editoriale dai gior-
nalisti, tuttavia fuoriesce dal modello della public company in quanto la
gestione è autoreferenziale (nel senso che risponde esclusivamente agli in-
vestitori per gli aspetti patrimoniali e ai lettori per gli aspetti giornalistici),
non è contendibile e non fa capo ad azionisti di riferimento. Il model-
lo deve salvaguardare anche, nella fase iniziale d’attuazione,
quella che è definita “efficienza della dismissione” e, quindi,
bisogna tendere alla “massimizzazione dei profitti dell’alie-
nante”, il quale deve essere ricompensato equamente del pro-
gressivo abbandono del bene. Probabilmente l’abbassamento
di valore, normalmente causato da un grado più o meno alto
di forzosità nella vendita, verrebbe alleviato dalla gradualità
51
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
di tutta l’operazione. Infine, come escludere un effetto molto
positivo, scaturito dal clima di novità e dall’impreziosimento
del bene, provocato dal nuovo assetto che potrebbe trovare
nell’azionariato popolare un incremento d’interesse?
Operando su questi margini, si può recuperare la possibili-
tà di distribuire al management e ai professionisti della nuova so-
cietà liberalizzata una quota di azioni, anche minima, in gra-
do di formare un nucleo stabile non contendibile né cedibile.
Va da sé che, accanto a questo modello valido per la gran-
di imprese editoriali, dovrebbero coesistere, per la varietà dei
vettori informativi e delle loro dimensioni industriali, formu-
le-quadro differenti, tutte ispirate ai cinque criteri generali pri-
ma enunciati. Come avviene per le public companies tradizionali,
la nuova impresa mediale deve rispondere ad alcuni requisiti
“quadro” e a uno Statuto d’impresa in grado di garantire, di
fronte ai lettori e all’azionariato, efficienza e vera autonomia.
Il Consiglio d’amministrazione, espressione del nucleo stabile,
rappresentativo dunque del management e delle maestranze da
un lato, e dei giornalisti dall’altro, è distinto in due parti: una
parte manageriale, con normali compiti amministrativi, e un
Consiglio editoriale. Si potrebbe obiettare che questo modello
è troppo statico. La scarsa dinamicità del vettore costituisce
un handicap nemmeno lontanamente paragonabile all’assen-
za di indipendenza, ma comunque è limitativo dell’efficienza.
Con un po’ d’immaginazione, però, si può concepire un ma-
nagement non intoccabile.
Ugualmente, si possono escogitare alcune clausole per ren-
dere più mobile il corpo redazionale. Per esempio, il contratto
giornalistico individuale potrebbe essere a termine (decennale
e rinnovabile) e non più a vita come adesso. Oggi, assai giu-
stamente, i giornalisti rifiutano teoricamente ogni limitazione
52
Sullo stato della libertà dei media e la loro riforma
temporale e ogni mobilità, perché se cedessero su questi due
punti, ora che il mercato è oligopolistico e fermo, darebbero
alle attuali Proprietà l’ulteriore definitiva arma di ricatto e di
asservimento. Al contrario, in un contesto liberalizzato e con
la scomparsa della controparte proprietaria, potrebbe essere
accettata una mobilità in grado di rendere molto più fluido
l’intero settore. D’altronde, l’attuale sistema di garanzie è fati-
scente e già completamente in demolizione con l’affermarsi di
una pratica massiccia di lavoro nero, precario o a tempo de-
terminato. In più, la libera circolazione dei giornalisti è pres-
soché annullata dal processo di concentrazione delle testate.
Il danno è incommensurabile: in questo campo le nuove ge-
nerazioni, oltre a ricevere compensi irrisori, non sono affatto
garantite e sono persino ignare degli antichi diritti. In questo
la responsabilità del sindacato è incalcolabile.
14. la soluzione b : il motu proprio
Ricordiamo quello che la storia ci insegna, ossia che pro-
poste contro interessi costituiti, all’apparenza assolutamente
indistruttibili, si sono fatte avanti e hanno raggiunto i loro
obiettivi. Si è disgregato lo Stato assoluto. Sono state abolite
la schiavitù e la tortura (almeno ufficialmente). Uguale destino
toccherà alla pena di morte. Le donne hanno conquistato i
loro diritti. Si è sciolta persino l’iri... Quindi non si può esclu-
dere che la necessità d’essere liberi di comunicare e d’essere
informati, pressante e conculcata com’è, non faccia progre-
dire e portare a compimento progetti come quello fin qui di-
segnato, il quale può ora essere giudicato chimerico, come lo
furono tutti quelli citati sopra.
53
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
Ma ogni politica riformatrice ha il dovere di presentare
sempre una sua Soluzione B, basta che questa faccia fare passi
sulla stessa strada e inveri gli stessi princìpi. L’obiettivo rima-
ne sempre il medesimo: separare la proprietà dei media dalla
gestione giornalistica. La soluzione della pseudo public company è
drastica. Ve ne sono altre più tenui che conserverebbero l’at-
tuale sistema proprietario, ma lo subordinerebbero a regole
tassative già previste in altri settori. Se si parte dal presupposto
dell’irragionevolezza e della perversità di una commistione tra
poteri diversi, la non separazione, da una parte, del potere
economico e il mondo dell’informazione mette in atto il più
classico e il meno denunciato dei conflitti d’interesse.
Con l’eccezione vistosa dell’Italia, sono state inventate del-
le regole che in taluni casi rispondono (anche se non perfetta-
mente) alla necessità di tenere distinta la proprietà dalla sua
gestione. Ugualmente, una rigida politica antitrust potrebbe
frantumare i colossi informativi e portarli a dimensioni con-
correnziali, reprimendo accordi di cartello tra editori o stabi-
lendo soglie alle concentrazioni molte più basse delle attuali.
Gli stessi proprietari, se badassero – come sostengono – solo
al ricavato economico, potrebbero avviare essi stessi un per-
corso riformatore delle loro aziende che ridimensionerebbe il
loro potere “secondario”, ma aumenterebbe molto i proventi
economici, dato che la nuova impresa sarebbe molto più ap-
prezzata dagli azionisti e dai consumatori. Non avverrebbe in
tal caso l’auspicata demercificazione dei media, ma almeno
sarebbero ridotti i danni collaterali.
Già Luigi Einaudi sostenne che:
Gli attuali proprietari [dei giornali] hanno interesse a rinuncia-
re a diritti, di cui sono destinati fatalmente ad essere spogliati, se
54
Sullo stato della libertà dei media e la loro riforma
vogliono salvare quel che più dovrebbe ad essi premere, ossia il frut-
to economico della loro impresa. Aggiungasi che essi si dovrebbero
persuadere della convenienza di siffatta abdicazione.8
È trascorso un secolo da quando i proprietari del “Ti-
mes” e dell’“Economist” di Londra abdicarono spontanea-
mente al loro potere assoluto di scelta dei direttori ed esco-
gitarono lo strumento di un comitato di fiduciari (board of
trustees). Si domandò Einaudi: «Perché dovrebbero i proprie-
tari dei maggiori giornali italiani vedere in questa restrizione
un vincolo dannoso, laddove esso sarebbe invece garanzia
sicura di prosperità dell’impresa?».9 La risposta è semplice:
nel nostro Paese la classe imprenditoriale è assai arretrata e
mediocre, e non si dedica esclusivamente all’interesse azien-
dale. Addirittura, gli attuali editori sono più antiquati dei
loro predecessori di alcune generazioni fa che, con il “diret-
tore-gerente”, regalarono al giornalismo italiano una breve
fase di grande dignità.
15. che fare?
da parte delle politiche pubbliche
Per attuare la Soluzione B, data la rilevanza pubblica del
pluralismo informativo, le politiche pubbliche dovrebbero:
a) Prevedere cospicue provvidenze pubbliche condiziona-
te alla scelta autonoma, da parte dei possessori di imprese
8
Luigi Einaudi, Il problema della stampa quotidiana [1943], ora in
Giornali e giornalisti, Firenze, 1974.
9
Ibidem.
55
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
editoriali, di sciogliere il loro conflitto d’interessi attraverso
il conferimento a un terzo delle quote detenute nelle stes-
se, mediante un “negozio fiduciario” non revocabile o con
un blind trust. Il dibattito politico, in Italia, su questi istituti di
garanzia e di separazione è fuorviante perché condizionato
dall’andamento delle paradossali esperienze contingenti, ma
non è legittimo spogliare di valore tutti gli istituti e le regole che
la dottrina giuridica ha escogitato o potrà escogitare per rag-
giungere – anche parzialmente – il fine predetto. Comunque,
sarebbe un passo rivoluzionario rispetto alla situazione attuale.
b) Applicare una severa legislazione antitrust, comprenden-
te regole già previste per la proposta precedente, ossia il vincolo
alle proprietà attuali in tutto il settore mediale (carta stampata,
televisione, altre forme di comunicazione) di possedere un solo
vettore in ciascuna area produttiva; l’obbligatorietà della quo-
tazione in borsa e nominatività delle azioni; limiti al possesso
azionario, impedendo il possesso di più di una centesima parte
del capitale sociale, fino a raggiungere l’obiettivo di un aziona-
riato diffuso, collegando semmai l’acquisizione di azioni a una
politica innovativa verso il lettore-consumatore.
c) Pretendere il rispetto integrale dell’attuale legislazione
sulla stampa, in parte inapplicata, facendo osservare i diritti
già acquisiti dai lettori e incrementandoli con norme sulla tra-
sparenza delle proprietà, dei bilanci e dei processi decisionali,
nonché sul diritto di rettifica e di difesa della propria onorabi-
lità e della propria versione dei fatti.
d) Ridefinire il rapporto tra pubblicità e prodotto redazio-
nale, sanzionando severamente l’attuale commistione gene-
ralizzata che costituisce, nello stesso tempo, una grave truffa
verso il lettore e una delle cause non secondarie dell’attuale
inattendibilità della comunicazione.
56
Sullo stato della libertà dei media e la loro riforma
da parte degli editori
Se perseguissero lo scopo di accrescere l’incidenza, l’auto-
revolezza e il valore materiale delle loro imprese, i proprietari
– senza attendere una legislazione costrittiva – dovrebbero
avviare autonomamente una riforma indirizzata alla massima
trasparenza e alla piena responsabilizzazione dei diversi e di-
stinti ruoli, attraverso:
a) Un nuovo Statuto d’impresa che preveda una separazione
netta tra gestione industriale e gestione giornalistica, affidan-
do quest’ultima a un Consiglio editoriale o Comitato di fiduciari,
composto da membri permanenti come gli ex direttori del
giornale, i più autorevoli e antichi collaboratori e alcuni ga-
ranti cooptati dal Consiglio stesso per l’autorevolezza e l’in-
dipendenza che viene loro riconosciuta; membri temporanei
come il “Garante dei lettori”, i rappresentanti del corpo reda-
zionale e – perché no? – personalità scelte nella società civile
per il loro momentaneo ruolo di prestigio (per esempio, il ret-
tore dell’università locale, ecc.).
b) Un nuovo modo di scegliere il direttore di testata. Il diret-
tore della testata è nominato dal Consiglio editoriale, riceve un
mandato che dura un numero prefissato di anni, non può es-
sere riconfermato ed è rimosso soltanto se una maggioranza
qualificata del Consiglio editoriale riconosce il venire meno di
standard quantitativi e qualitativi predefiniti già nello Statuto
dell’impresa. Il direttore, per essere all’altezza di questo com-
pito, deve poter decidere le assunzioni (ora può solo propor-
le), nonché utilizzare effettivamente tutti i poteri che già gli
vengono attribuiti, ma solo formalmente, dall’attuale contratto
nazionale di lavoro giornalistico (art. 6), come quelli di «fissare e
impartire le direttive politiche e tecnico-professionali del lavoro redazionale,
57
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
stabilire le mansioni di ogni giornalista». Ogni anno il direttore, per
le spese redazionali, è dotato di un budget preventivo adeguato
all’andamento economico aziendale. Naturalmente il potere
del direttore è riequilibrato dai diritti ormai acquisiti dalle re-
dazioni. Oggi, la gran parte di questi poteri sono completa-
mente svuotati dagli «accordi tra editore e direttore».
c) La nomina di un “Garante dei lettori”, scelto periodi-
camente dai lettori (per esempio, dagli abbonati o dagli azio-
nisti, se l’azionariato è nominativo) in una rosa di ex giorna-
listi della testata, il quale è slegato da vincoli gerarchici con
la struttura del giornale e dotato di uno spazio autonomo e
non sindacabile in cui ogni settimana possa scrivere il pro-
prio parere sull’informazione offerta dalla testata e sulle os-
servazioni del pubblico.
d) L’introduzione nel contratto giornalistico di norme deonto-
logiche riguardanti sia i giornalisti sia l’amministrazione.
e) L’acquisizione dello Statuto dei diritti dei lettori.
16. lo “statuto dei diritti dei lettori” e
la corporazione dei giornalisti
Nessuno ha mai pensato di garantire i diritti dei lettori.
Eppure sono consumatori di una merce ben più delicata di
altre, perché condiziona la salute mentale e democratica. Il
lettore, oggi, non ha che pochissime guarentigie sul prodotto
che acquista e quelle poche sono disattese. Ugualmente, il let-
tore non viene informato di come si forma nel “suo” giornale
il processo informativo, e scarse sono le difese di legge contro
le prevaricazioni ch’egli crede di subire. Forse basterebbero
poche regole per sanare i guasti più visibili:
58
Sullo stato della libertà dei media e la loro riforma
a) Abolizione dell’obbligatorietà dell’Ordine dei Giornali-
sti. Da sempre si discute senza alcun costrutto dell’abolizione
dell’Ordine, ma forse sarebbe più utile discutere dell’abolizio-
ne della sua obbligatorietà, e quindi della cessazione dei suoi
privilegi corporativi. Come scrisse Einaudi: «l’albo obbliga-
torio è immorale, perché tende a porre un limite a quel che
limiti non ha e non deve avere, alla libera espressione del pen-
siero».10 Ovviamente a “tutti i cittadini” (ricordate il dettato
costituzionale?) dovrebbero essere permesse la fondazione e la
direzione di un qualunque organo d’espressione del pensiero,
senza alcun bisogno né di particolari qualifiche personali, né
di registrazione, né di autorizzazioni della testata (in qualun-
que modo sia diffusa).
Per motivi pratici, soprattutto per la difesa della stessa te-
stata giornalistica, ci potrebbe essere un albo cui notificare
l’avvenuta fondazione di una nuova testata e l’indicazione
di un responsabile (senza qualifiche professionali particola-
ri). Ugualmente non può essere richiesta alcuna qualifica a
chi voglia intraprendere la professione del giornalista. Sarà il
mercato a decidere liberamente le qualità professionali degli
aspiranti giornalisti.
L’attuale Ordine obbligatorio non è in grado neppure di
far osservare le minime norme deontologiche e sanzionare
adeguatamente le irregolarità. Se vogliono conservarsi una
propria autoregolamentazione deontologica, i giornalisti de-
vono dotarsi di Collegi giudicanti, composti da un misto di
giornalisti ed ex magistrati o giuristi. Le loro decisioni dovreb-
bero essere pubblicate sul sito dell’Ordine dei Giornalisti.
10
Luigi Einaudi, Albi di giornalisti [1945], ora in Giornali e giornalisti,
Firenze, 1974.
59
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
b) Obbligo, per ogni pubblicazione di un certo rilievo, di
dotarsi di uno Statuto che detti le regole di comportamento
interno e i rapporti con i lettori. Questo Statuto dovrebbe poi
essere reso pubblico e ogni sua violazione sollevata in giudizio
da parte del redattore e del lettore.
c) Ugualmente, anche in permanenza dell’Ordine così
com’è oggi, sarebbe un segno deontologicamente significati-
vo la trasformazione dell’attuale bipartizione tra giornalisti
professionisti e giornalisti pubblicisti in una tripartizione che
comprenda anche i giornalisti comunicatori. I quali svolgono
una funzione decisiva nella comunicazione, ma su un fron-
te specifico, sovente con interessi differenti e anche opposti a
quelli del giornalismo informativo. Si deve tenere pure pre-
sente che ormai la figura dei pubblicisti è del tutto snaturata.
Oggi è formalmente obbligatoria la contemporanea esistenza
di un effettivo lavoro estraneo al mondo della comunicazione,
ma la bulimia di potere di molti burocrati del sindacato gior-
nalistico ha fatto crescere a dismisura il numero dei pubblici-
sti, violando lo spirito e la lettera della regola.
d) Di norma nei giornali dovrebbero essere assunti giorna-
listi professionisti e negli uffici stampa giornalisti comunicatori,
ma oggi la distinzione tra le due carriere non viene tenuta in al-
cun conto, con grave danno per entrambe le categorie e una pe-
nalizzazione irrimediabile della correttezza dell’informazione.
e) Incompatibilità assoluta tra il lavoro presso la redazione
di una testata giornalistica e qualsivoglia altro impegno pro-
fessionale, anche non formalizzato.
f) Dichiarazione pubblica sottoscritta all’atto dell’assun-
zione e ripetuta periodicamente, contenente l’elenco delle as-
sociazioni politiche, parapolitiche o comunque inerenti alla
sfera degli interessi giornalistici, a cui il giornalista aderisce.
60
Sullo stato della libertà dei media e la loro riforma
g) Effettiva applicazione di tutta la disciplina del sistema
dell’informazione, a partire dall’art. 21 della Costituzione (an-
ch’esso non osservato). Torniamo al codice civile e al codice
penale. Non c’è nulla di peggio d’una norma non fatta valere
e caduta silenziosamente nel dimenticatoio della desuetudi-
ne. Analogamente sono inutili tutte le “grida” deontologiche
sprovviste di sanzioni vere.
h) Introduzione di queste regole nel Contratto nazionale
di lavoro giornalistico. Si conosce bene l’interesse degli editori
ad avere dei dipendenti “ricattabili” e quindi predisposti al
servilismo; per questo è necessaria un’assunzione di responsa-
bilità collettiva sulla deontologia.
i) Eliminazione delle incongruenze più visibili della “nor-
mativa rinnegante”. Il caso più grave è la contraddizione limi-
tativa del segreto professionale per i giornalisti: l’art. 200 del
codice penale, inerente il segreto professionale, con una mano
estende questo diritto ai giornalisti e con l’altra glielo toglie.
61
i diritti dei lettori
Il lettore, lo spettatore, l’ascoltatore radiotelevisivo e l’u-
tente web1 appaiono ovunque protagonisti dell’informazione.
Sono censiti, contati, persino vezzeggiati, ma in realtà sono ri-
dotti a oggetti inconsapevoli, a massa indistinta di consumato-
ri indifesi. Non sono titolari di alcun diritto. Il pubblico-lettore
si difende come può e arretra: abbandona progressivamente
gli strumenti più “difficili” e sottostà, come abbiamo detto, a
quelli più “facili”. Va sempre meno in edicola e giace di fronte
alla tv, assimilando improbabili fiction e inattendibili news, per
poi rifugiarsi nella rete, dove rischia d’essere travolto da una
mole indefinita e non selezionata di informazioni vere e false.
Se i cittadini non hanno strumenti corretti e plurimi per
farsi un’idea appropriata dei temi politici correnti, sarà sem-
pre più illusoria la maturazione di una “società civile” in gra-
do di svolgere costantemente una verifica e una valutazione
dell’operato del governo e delle forze politiche.
Molto si è discusso e affermato sul “diritto d’informa-
re” (purtroppo con risultati ancora non soddisfacenti), mol-
to meno sul “diritto a essere informati”. Spesso questi sono visti
come diritti configgenti, e in questo conflitto ha sempre preso
il sopravvento il primo sul secondo. La libertà d’informazione
e il “diritto a essere informati” sono, al contrario, due valori
1
D’ora in avanti chiamati sinteticamente “lettori”.
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
differenti ma complementari, guai a metterli in concorrenza.
Vanno garantiti entrambi. Non esiste l’uno senza l’altro. Cer-
tamente il “diritto a essere informati” è tra le condizioni indi-
spensabili per una democrazia non finta. Pertanto, piuttosto
che combattersi, “il diritto di cronaca” e “il diritto a essere
informati” si devono compenetrare e devono prendere co-
scienza che non c’è l’uno senza l’altro.
Per questo va fondato pressoché dal nulla il diritto dei let-
tori, i quali sono senza difese sia in quanto cittadini (non viene
garantita loro, dell’informazione, né la pluralità né l’indipen-
denza) sia in quanto consumatori. Già, perché quando si vuo-
le far intendere all’industria editoriale che l’informazione è
un prodotto particolare, che va particolarmente garantito, ci
viene sempre ricordato che l’informazione ha una forte com-
ponente di merce. Ma contemporaneamente, mentre i fruitori
di altre merci negli ultimi decenni hanno strappato alcuni di-
ritti, i lettori non sono neppure presi in considerazione come
tali. Eppure, come già detto, in qualità di compratori di una
merce, essi sono “consumatori” e dovrebbero quindi acquisire
diritti analoghi agli acquirenti di un qualunque bene di con-
sumo: trasparenza, non commistione di interessi, non inqui-
namento del mercato. Non è disutile ricordare, altresì, che il
lettore ha diritto alla correttezza, ma non potrà mai pretende-
re ciò che non esiste, cioè la “Verità”. Ogni lettore, per garan-
tirsi la maggiore possibilità di farsi un’opinione non faziosa,
dovrebbe cercare di informarsi presso diverse e contrapposte
fonti. Anche un singolo giornale dovrebbe intelligentemente
fornire un “diverso parere”.
Lo Statuto dei diritti dei lettori si fonda sul principio che il
lettore-consumatore deve essere considerato uno dei protagoni-
sti necessari del processo informativo.
64
I diritti dei lettori
C’è quindi una “libertà positiva” che però non viene assi-
curata. La Costituzione non se l’è dimenticata, e l’art. 3, pur
nella sua generalità, risponde bene allo scopo. È quello che
sancisce il compito della Repubblica di rimuovere gli ostacoli
di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la liber-
tà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo
della personalità umana. Da qui nasce il dovere del legislato-
re di operare per garantire effettivamente a tutti la possibilità
concreta di esprimersi liberamente e di essere informati.
Sul diritto di ricevere informazioni e sul rapporto giorna-
lista-lettore innumerevoli dichiarazioni sono espresse in sedi
nazionali e internazionali,2 ma occorre uscire dalla genericità
2
Vedi la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, 10 dicembre 1948,
Assemblea delle Nazioni Unite, art. 19: «Ogni individuo ha diritto
alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto [...] di cer-
care, ricevere e diffondere informazioni e idee». Il Patto internazionale
di New York sui diritti civili e politici, 19 dicembre 1966, (ratificato con la
Legge n. 881, 25 ottobre 1977), art. 19: «Ogni individuo ha il diritto
alla libertà di espressione; tale diritto comprende la libertà di cercare,
ricevere e diffondere informazioni e idee di ogni genere». La Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Consiglio Europeo di Nizza,
7-9 dicembre 2000, art. 11 (Libertà di espressione e d’informazione):
«1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto
include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare
informazioni o idee». Il Consiglio d’Europa, Risoluzione dell’assem-
blea n. 1003 del 1° luglio 1993 relativa all’etica del giornalismo:
«7. I mezzi di comunicazione sociale adempiono a una funzione di
“mediazione” e di prestazione del servizio di informazione, e i diritti
che essi esercitano in relazione alla libertà dell’informazione esisto-
no in funzione dei destinatari, ossia dei cittadini. [...] 11. Le imprese
di informazione devono essere considerate come imprese socio-e-
conomiche speciali, i cui obiettivi imprenditoriali saranno limitati
dalle condizioni intese a rendere possibile l’esercizio di un diritto
65
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
e dall’astratta petizione dei princìpi per definire e rendere co-
genti i diritti dei lettori.
Il primo passo è quello di pretendere il rispetto integrale
dell’attuale legislazione sulla stampa, dei codici deontologici
e, là dove esistano, degli statuti delle singole pubblicazioni,
che spesso sono inosservati, inapplicati o sfacciatamente vio-
lati. Di conseguenza, è urgente richiamare al proprio dovere
gli organismi preposti a far osservare i diritti già acquisiti dai
lettori, sanzionando le irregolarità e i soprusi in atto.
Lo Statuto dei lettori è sottoscritto dalle parti, cioè dagli or-
ganismi sindacali dei giornalisti e degli editori, dall’Ordine dei
fondamentale. [...]15. Né gli editori, né i proprietari, né i giornalisti
devono ritenere che l’informazione appartenga loro. Nell’impresa
che abbia vocazione alla informazione, questa non deve essere come
una merce ma come un diritto fondamentale dei cittadini. Conse-
guentemente, né la qualità delle informazioni o delle opinioni, né il
significato di queste devono essere sfruttati allo scopo di aumentare
il numero dei lettori o l’audience, e in linea di conseguenzialità le en-
trate pubblicitarie. 16. Ogni informazione conforme agli imperativi
etici richiede che i suoi destinatari siano considerati quali persone e
non come massa». Carta dei doveri del giornalista, 8 luglio 1993, fnsi e
Ordine Nazionale dei Giornalisti). Premessa: «Il rapporto di fidu-
cia tra gli organi d’informazione e i cittadini è la base del lavoro di
ogni giornalista». Principi: «Il giornalista deve rispettare, coltivare e
difendere il diritto all’informazione di tutti i cittadini; per questo ri-
cerca e diffonde ogni notizia o informazione che ritenga di pubblico
interesse, nel rispetto della verità e con la maggiore accuratezza pos-
sibile. [...] La responsabilità del giornalista verso i cittadini prevale
sempre nei confronti di qualsiasi altra. Il giornalista non può mai su-
bordinarla ad interessi di altri e particolarmente a quelli dell’editore,
del governo o di altri organismi dello Stato». Doveri: «Il giornalista è
responsabile del proprio lavoro verso i cittadini e deve favorire il loro
dialogo con gli organi d’informazione».
66
I diritti dei lettori
Giornalisti e dalle associazioni dei consumatori. Lo Stato può
rafforzarlo vincolando ogni forma di finanziamento pubblico
alla sua accettazione e applicazione.
Ma prima di arrivare a questo risultato ultimo, gli editori
e i giornalisti dovrebbero riconoscerne il valore, anche com-
merciale, sul mercato in sofferenza anche per le singole testate
e non aspettare né la Politica né la burocrazia sindacale per
avviare motu proprio questa piccola rivoluzione.
una politica riformatrice
Occorre persistere nel metodo liberale delle riforme. Cer-
care di erodere alla realtà un millimetro per volta, anche solo
un millimetro, ma che sia nella direzione giusta. Non abbiamo
contro solo i conservatori, ma anche i demagoghi, i retori, co-
loro che prescindono assolutamente dai risultati, ma mirano ai
vantaggi spettacolari per la propria setta o la propria persona.
Perché non resuscitare, per la Terza Repubblica, una me-
todologia e una politica liberale? Perché non apprendiamo
dai risultati catastrofici realizzati da un regime corruttore e
dall’improvvisazione di demagoghi ignoranti? Torniamo al
conflitto sulle idee e sulle proposte concrete, senza dare ec-
cessiva rilevanza alle passioni passeggere dei cittadini. Smet-
tiamola di pensare ai cittadini come popolo bue da cui farsi
baciare le mani.
Le lezioni dei maestri non mancano: l’antieconomicismo
di Croce, l’anima azionista di Lombardi, il concretismo di un
Salvemini o di un Einaudi. Crediamo alla possibilità di mo-
dificare, di migliorare, di riformare, ma davvero. Siamo per
un impegno riformatore, non per il riformismo di facciata,
67
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
non per le controriforme. Purtroppo molti contribuiscono a
una retorica che porta la stessa parola “riforma” alla discarica
delle parole ridotte a macerie. Soprattutto se viene masche-
rata e ridicolizzata in lingua straniera. Nessuno accompagna
la parola “riforma” con le risposte a poche, ma essenziali do-
mande: quale riforma? Realizzata da chi? In che direzione?
Che avvantaggia chi?
Certo la via parlamentare e di governo, con l’attuale classe
politica è difficilmente percorribile. Accantonata la via legisla-
tiva, non ci restano che i protocolli tra le parti, il ricorso alla
magistratura per far rispettare almeno le leggi esistenti, il motu
proprio di alcuni illuminati che sanno riconoscere in anticipo i
propri veri interessi.
Non è quindi che non resti nulla da fare. Prima di tutto
discutere, porre degli obiettivi, cercare di inserire nell’agen-
da politica questioni fondamentali di cui nessuno parla, esi-
gere il rispetto delle regole esistenti, sensibilizzare l’opinione
pubblica, agire sui costumi, mobilitare la società civile, aprirsi
all’Europa, smascherare il “nuovismo” identico alle più de-
crepite consuetudini della politica politicante, adoperarsi per
una stagione politica meno nauseabonda e priva di prospetti-
ve dell’attuale. Soprattutto abituare noi stessi alla concretezza
di poche cose, ma nella direzione giusta.
la necessità di uno statuto
Da queste convinzioni nasce la proposta dell’applicazione
di uno Statuto dei lettori.
Il nostro primo obiettivo è di portarla alla discussione, di far
capire l’importanza strategica del tema “diritto dei lettori” per
68
I diritti dei lettori
una risalita della qualità della comunicazione e – perché no?
– delle vendite. Far accettare lo stretto collegamento, per noi
ovvio, ma che ancora non appare a tutti scontato, tra il diritto a
essere informati e una democrazia effettiva. Vogliamo imporre
il tema e far riconoscere che i protagonisti del processo informativo non
sono solo due (editori e giornalisti), ma tre. Essenziale è il lettore.
Tutti si accapigliano sulle questioni della libertà d’informa-
zione, tutti sono sensibili alla libertà d’informare, ed è giusto;
ma nessuno, né in Italia né altrove, si pone davvero il proble-
ma dei diritti dei lettori. Le legislazioni sono carenti e le poche
garanzie esistenti sono completamente disattese. Allora il pri-
mo passo è: ritorniamo alle regole. E introduciamone alcune
altre sostanziali.
È esemplare la figura del consumatore che compra una
qualunque bevanda e ha acquisito, dopo decine di anni di bat-
taglie, alcuni diritti. Non tantissimi, ma alcuni e importanti sì.
Ha la possibilità di conoscere il contenuto, gli ingredienti e la
scadenza del prodotto. Ecco, non si riesce a capire per quale
motivo il consumatore-lettore, che versa comunque i suoi euro
al venditore, non debba avere alcun diritto: sa poco o nulla
della composizione proprietaria; non conosce la tiratura o la
vendita, figuriamoci l’entità del finanziamento pubblico; deve
rimanere all’oscuro dei rapporti tra il recensore e la casa edi-
trice, o l’autore, del libro che recensisce; guai a sapere se il no-
tista politico è iscritto alla massoneria o a qualche partito, o se
il commentatore economico o politico è stato fino a qualche
mese prima addetto stampa di un ministero o addirittura di
palazzo Chigi o portavoce di un dirigente politico; se il critico
famoso pubblica recensioni solo di libri del suo editore; non
può protestare se si accorge dell’inquinamento pubblicitario in
un articolo, ecc. Se non gli sta bene, non compri il giornale...
69
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
Nessuno si pone il “suo” problema. Nessuna “Associazione di
difesa del consumatore” ha mai affrontato la questione. Nessu-
na legge lo protegge.
Forse adesso si capisce meglio che, in questo campo, un
millimetro vale una rivoluzione.
ma quali diritti ?
Noi abbiamo individuato sei diritti:
1. Diritto a un’informazione liberata;
2. Diritto alla trasparenza;
3. Diritto a essere garantiti;
4. Diritto di intervento;
5. Diritto a un’informazione corretta;
6. Diritto alla tutela contro la frode pubblicitaria.
Le proposte che avanziamo possono essere giudicate molto
radicali, ma non è così, sono il minimo indispensabile affinché
la riforma sia effettiva e non solo formale. Esse si fondano
tutte sulla necessità di introdurre delle regole precise e sulla
necessità di farle osservare.
Quasi tutti questi diritti possono essere garantiti senza un
intervento legislativo. Anche se questo non guasterebbe. Ma è
sufficiente un accordo tra l’editore, il direttore, il corpo reda-
zionale e il “lettore” assurto a parte in causa.
All’inizio introduciamo il concetto di “informazione libera-
ta”. Non sprechiamo troppe parole sulla libertà d’informa-
zione. Basta applicare realmente l’articolo 21 della Costi-
tuzione. Per quanto riguarda i giornali, dal 1948 a oggi, ci
70
I diritti dei lettori
siamo infognati nella discussione: autorizzazione piuttosto che
registrazione.3 Ma, nell’era di internet, monstrum imprendibile,
3
Il testo dell’art. 21 della Costituzione è preciso: «Tutti hanno diritto
di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto
e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta
ad autorizzazioni o censure». Passano solo 39 giorni e nella nuova
Legge sulla stampa, 8 febbraio 1948, il “tutti” costituzionale trova
una solenne smentita nell’art. 3 «(Direttore responsabile) Ogni giornale
o altro periodico deve avere un direttore responsabile». «Il direttore
responsabile deve essere cittadino italiano e possedere gli altri requisiti
per l’iscrizione nelle liste elettorali politiche». Ancor più lesivo del dettato
costituzionale appare L’ordinamento della professione di giornalista (Legge
3 febbraio 1963, n. 69) che prescrive, al Titolo II dell’albo professionale.
Capo III dell’esercizio della professione di giornalista, art. 45: «Nessuno può
assumere il titolo né esercitare la professione di giornalista, se non è
iscritto nell’albo professionale. La violazione di tale disposizione è
punita a norma degli artt. 348 e 498 del cod. pen., ove il fatto non
costituisca un reato più grave». Art. 46, relativo alla direzione dei
giornali: «Il direttore ed il vicedirettore responsabile di un giornale
quotidiano o di un periodico o agenzia di stampa, di cui al primo
comma dell’art. 34 devono essere iscritti nell’elenco dei giornalisti
professionisti salvo quanto stabilito nel successivo art. 47». La Corte
costituzionale, con sentenza 2-10 luglio 1968 n. 98 ha dichiarato la
illegittimità costituzionale del presente comma, limitatamente alla
parte in cui esclude che il direttore ed il vicedirettore responsabile
di un giornale quotidiano o di un periodico o agenzia di stampa di
cui al primo comma dell’art. 34 possa essere iscritto nell’elenco dei
pubblicisti: «Per le altre pubblicazioni periodiche ed agenzie di stam-
pa, il direttore ed il vicedirettore responsabile possono essere iscritti
nell’elenco dei professionisti oppure in quello dei pubblicisti, salvo la
disposizione dell’art. 28 per le riviste a carattere tecnico, professiona-
le o scientifico». Ancora, la stessa Legge sulla stampa del ’48, all’art.
5 «(Registrazione) Nessun giornale o periodico può essere pubblicato
se non sia stato registrato presso la cancelleria del tribunale, nella cui
71
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
virtuale e delocalizzato, che senso ha pretendere di porre paletti
in un fiume in piena? Ci vogliamo impiccare sulla distinzione
tra informazione e comunicazione? Ma esiste? Riconosciamo
dunque a tutti la possibilità di esprimersi, di informare e nel-
lo stesso tempo d’essere informati, leggiamo l’articolo 21 sotto
questa ottica, diamo la possibilità a tutti di aprire siti e blog senza
essere iscritti a ordini, registrati ad albi o albi speciali. Bastereb-
be una semplice comunicazione all’agcom, responsabile dell’e-
lenco delle pubblicazioni che si qualificano giornalistiche, per
evitare le duplicazioni delle testate.
Rispettare le regole. Ma davvero.
Quando prendiamo in mano certe grida manzoniane, scrit-
te durante gli anni del bizantinismo della nomenclatura sinda-
cale giornalistica, ci viene quasi da ridere. Io ve ne leggo una
che è impressionante. Dalla Carta dell’informazione e della program-
mazione a garanzia degli utenti e degli operatori del Servizio pubblico
radiotelevisivo: «I giornalisti della rai [...] non possono svolgere
attività di editorialisti o commentatori politici in quotidiani o
periodici». La logica vuole che valga anche il viceversa. Si può
accettare o meno il principio per cui un singolo giornalista non
accentri su di sé potere “televisivo” e “cartaceo”, in linea con
l’analoga norma che dovrebbe imporre il divieto di affastellare
in una sola mano più reti televisive e giornali stampati. Ma se
circoscrizione la pubblicazione deve effettuarsi». Si apre così una
diatriba, ancora non risolta, nella distinzione da azzeccagarbugli tra
le espressioni “autorizzazione” e “registrazione”. Ha perfettamente
ragione lo storico del diritto Italo Mereu: la vera norma fondante
del rapporto tra libertà di stampa e le nostre istituzioni si trova nel
Proclama costituzionale del febbraio 1848, che anticipò lo Statuto albertino.
Il suo art. 11, davvero sfacciato, recita: «La stampa sarà libera, ma
soggetta a leggi repressive».
72
I diritti dei lettori
esiste (ancora?) questa norma deontologica, perché giornalisti
televisivi sono anche editorialisti sui quotidiani, e perché di-
rettori o vicedirettori di quotidiani o periodici affollano con
propri programmi e comparsate quotidiane la tv?
Passiamo poi all’esempio più clamoroso di inosservanza
della legge. Quanti hanno qualcosa da rettificare sanno che
si devono appellare alla formula ormai classica “a norma
dell’articolo 8 della legge sulla stampa” del ’48. L’istituto della
rettifica è regolamentato.4 Sono decenni che nessun direttore di
nessun giornale italiano pubblica le rettifiche secondo le indica-
zioni precise fornite dalla legge. Senza che alcuno protesti.
Non posso dilungarmi su tutte le proposte, ma le potete
leggere direttamente nello Statuto, sono sintetiche e chiare.
4
La Legge è chiara, art. 8: «(Risposte e rettifiche) Il direttore o, comun-
que, il responsabile è tenuto a fare inserire gratuitamente nel quo-
tidiano o nel periodico o nell’agenzia di stampa le dichiarazioni o
le rettifiche dei soggetti di cui siano state pubblicate immagini od ai
quali siano stati attribuiti atti o pensieri o affermazioni da essi ritenu-
ti lesivi della loro dignità o contrari a verità, purché le dichiarazioni
o le rettifiche non abbiano contenuto suscettibile di incriminazione
penale. Per i quotidiani, le dichiarazioni o le rettifiche di cui al com-
ma precedente sono pubblicate, non oltre due giorni da quello in
cui è avvenuta la richiesta, in testa di pagina e collocate nella stessa
pagina del giornale che ha riportato la notizia cui si riferiscono. Per
i periodici, le dichiarazioni o le rettifiche sono pubblicate, non oltre
il secondo numero successivo alla settimana in cui è pervenuta la
richiesta, nella stessa pagina che ha riportato la notizia cui si riferi-
sce». Le rettifiche o dichiarazioni devono fare riferimento allo scritto
che le ha determinate e devono essere pubblicate nella loro interez-
za, purché contenute entro il limite di trenta righe, con le medesime
caratteristiche tipografiche, per la parte che si riferisce direttamente
alle affermazioni contestate.
73
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
Cito per esempio il diritto alla trasparenza, che è fondamentale.
Nel colophon dovrebbe essere riportato l’assetto proprietario. I
lettori dovrebbero infatti conoscere i propri diritti e i doveri
dei giornalisti. Quanti conoscono il codice deontologico dei
giornalisti italiani? Non lo padroneggiano neppure loro stessi.
Il diritto di rettifica non è una novità, basta farlo conferma-
re e farlo applicare. Ma dobbiamo affermare il diritto di replica.
Lo so che pone molti problemi e non può essere obbligatorio,
ma il dialogo tra il giornale e il proprio lettore è necessario e
utile a tutti, a cominciare dal giornale stesso. L’intenzione è
quella di porre al lettore non posizioni dogmatiche, ma lascia-
re spazio alla contraddizione intelligente e non faziosa. Nel
momento in cui il concorrente primo della carta stampata
è uno strumento che si fonda sulla interazione, è oltremodo
sciocco che il giornale stampato rifiuti forme di interattività.
Nel nostro Statuto è affrontato il tema essenziale delle in-
compatibilità. Si auspica fortemente la distinzione, nell’albo dei
giornalisti, della categoria dei comunicatori dalla categoria
dei giornalisti che lavorano nelle redazioni dei giornali. Noi
assistiamo a casi veramente assurdi. Abbiamo giornalisti del
“Corriere della Sera” che “si mettono in sabbatico” e vanno a
fare gli addetti stampa del presidente del Senato, per poi tor-
nare tranquillamente al giornale d’origine e scrivere interviste
in ginocchio all’ex presidente del Senato.
Questi comportamenti anomali sono alla base della co-
stituzione dei feudi all’interno del giornale. Si apre così una
questione primaria, dato che stiamo assistendo a una vera e
propria rivoluzione dell’organizzazione effettiva del giornale.
Il direttore, se ha soltanto il potere che gli deriva dall’editore,
conta sempre meno, perché troppo spesso il “quadro interme-
dio” si crea un suo potere autonomo, proveniente dal rapporto
74
I diritti dei lettori
privilegiato che riesce a costruirsi, grazie a connivenze e favori,
o con il mondo politico o con il mondo economico o con il
mondo sportivo o con il mondo giudiziario, ecc.
Dobbiamo spezzare il malvezzo del cumulo degli incarichi
non solo perché davvero lesivo della correttezza dell’informa-
zione, ma anche perché sottrae posti di lavoro. Ci sono gior-
nalisti parlamentari che hanno il loro contratto regolare con
un’agenzia stampa, ma poi accumulano molti altri stipendi
perché contemporaneamente svolgono attività di ufficio stam-
pa o di pubbliche relazioni di singoli parlamentari o di presi-
denti di commissioni o di capigruppo. Tolgono lavoro ad altri
giornalisti e strumentalizzano, pervertendola, l’informazione
del loro lavoro primario.
L’ultima questione è la più tosta: la tutela contro la frode pub-
blicitaria. In questo settore le regole sono ferree: impongono la
separazione totale tra prodotto giornalistico e pubblicità. Ma
sono perennemente violate. Ricordo un articolo del mio primo
direttore, Piero Ottone, che già quaranta anni fa additava nella
pubblicità il vero cancro dei giornali. Purtroppo anche qui si
è regrediti da una prima ad una seconda fase, ben peggiore.
Anni fa, durante il convegno di presentazione della Società
Pannunzio per la libertà di informazione, abbiamo ascoltato
la relazione di Amelia Beltramini che riportava casi agghiac-
cianti di commistione nei periodici sulla salute. Da decenni i
periodici femminili, i mensili di moda, i mensili sui motori, i
mensili della sanità e molti altri, non sono altro che la pubbli-
cazione appena camuffata di cataloghi dell’industria farma-
ceutica, delle case di moda, degli uffici turistici e così via. Che,
paradossalmente, vengono fatti pure pagare dal lettore.
Di fatto, essendo stata depenalizzata questa truffa, ora si è
bellamente passati alla fase attuale, in cui è stata completata
75
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
la sottomissione dell’informazione nei confronti dell’invasio-
ne illegittima della pubblicità occulta (ma mica tanto) anche
nei quotidiani che pretendono d’essere autorevoli, ma che si
giocano ogni autorevolezza per una manciata di quattrini.
Sono state inventate nuove figure professionali, gli “ambas-
sador”, che non sono altro che personaggi-veicoli attraverso
cui si trasmette la pubblicità occulta in articoli-interviste, in
grado di indispettire il lettore o di farlo sorridere, talmente è
sfacciato l’imbroglio.5
5
Si riporta la gara a chi fa la “marchetta” più sguaiata tra “la Re-
pubblica” di Verdelli e il “Corriere della Sera” di Fontana. Su “la
Repubblica” il titolo: «La grande corsa ai biscotti alla xxxxxxx. Ven-
duti già 57 milioni». «Confezioni introvabili nei supermarket. Il 37%
degli acquisti nel Nordovest. Nelle prime tre settimane di vendita il
fatturato del biscotto alla xxxxxxx (che viene venduto in media a
3 euro alla confezione) è già arrivato a 8 milioni di euro. [Quanti
spesi in pubblicità redazionali? ndr]». Articolo di Paolo Griseri, 27
novembre 2019. Ma il “Corriere della Sera” non accetta d’essere da
meno e pubblica sul suo inserto “Economia” la stessa foto che cor-
reda la “marchetta” analoga, ma il suo titolo è più intrigante: «Tutti
pazzi per i biscotti alla xxxxxxx, perché sono introvabili sugli scaffali
dei supermercati?», articolo firmato, il 27 novembre 2019, da Alice
Scaglioni e che ha un incipit stendhaliano: «Si potrebbero forse con-
tare sulle dita di una mano quelli che non hanno ancora assaggiato
almeno un xxxxxxx». Non vorremmo scrivere che presto forse si
conteranno sulle dita di una mano i giornalisti non marchettari. La
“marchetta” più sfacciata e divertente la racconta però www.profes-
sionereporter.eu: «La grande sciatrice statunitense Mikaela Shriffin,
due titoli olimpici e cinque iridati, intervista il grande tennista Roger
Federer “per conto di un gruppo selezionato di giornalisti internazio-
nali”. Per l’Italia c’è la “Gazzetta dello Sport”, giornale principe de-
gli specializzati sportivi. La formula è già strana. I giornalisti hanno
bisogno della Shriffin per fare domande ed essere pronti a ribattere
76
I diritti dei lettori
Questa truffa si è data anche una “filosofia” e viene teoriz-
zata. Il concetto di “pubblicità nativa”6 mira proprio a supera-
re il vecchio concetto di pubblicità e a confondersi totalmente,
anche nella forma e nella scrittura, con i contenuti redazionali,
affinché il lettore non riesca ad accorgersi dell’inquinamento.
È pubblicità che si camuffa da giornalismo. Dopo chiacchiere
(visto che trattiamo di Federer) alle risposte? Ma quel che conta viene
dichiarato subito nelle prime righe del pezzo uscito a tutta pagina il
19 settembre 2019 con il sopratitolo prestigioso “l’altra copertina”:
l’iniziativa di questa “operazione” è la xxxxxxx, “sponsor italiano
che i due numeri uno hanno in comune, oltre all’amore per la pasta”,
ci informa il collega della Gazzetta che mette la firma sul tutto, Pier
Bergonzi inviato a Ginevra. Ma che pasticcio è? Un grande pasticcio,
visto che lei, Mikaela Shriffin, fotografata a fronte di Federer, nel-
la villa di lui con vista spettacolare sul lago, nel corso dell’intervista
mostra una cartellina (contiene le domande?) con il logo xxxxxxx.
Le domande per la verità non appaiono particolarmente tecniche
o ficcanti. Eccone alcune: L’ultima volta che ha pianto? La sua do-
menica ideale? Legge le storie ai suoi bambini prima di dormire? Si
è mai ubriacato? Un regalo che le piacerebbe ricevere?». Ma tutto
serve per arrivare al punto: «Clamorosa, poi, questa: “Riso o pasta?”,
azzarda la Shriffin (che quando smetterà di sciare ha già un mestiere
di riserva pronto). E Federer, senza esitare: “Pasta, xxxxxxx natu-
ralmente. Amo gli spaghetti pomodoro e basilico. Sono un classico.
Ma anche la carbonara, magari non tutti i i giorni”. Pasta xxxxxxx,
proprio come quella che Federer pubblicizza assieme al cuoco Davi-
de Oldani, in uno spot stravisto».
6
“Native advertising”, un’espressione che serve per mascherare un po’ di
più quello che dovrebbe essere un vero e proprio reato, una variazione
specifica della truffa, ossia una forma di pubblicità a pagamento sulla
rete. Per generare interesse negli utenti, assume l’aspetto dei contenuti
del sito sul quale è ospitata. L’obiettivo è riprodurre l’esperienza-uten-
te del contesto in cui è posizionata sia nell’aspetto sia nel contenuto.
77
di interi decenni questo problema va affrontato con provve-
dimenti drastici. Ci si trova di fronte a un vero reato di fro-
de. Perché, se esiste la fattispecie della pubblicità ingannevole,
quale pubblicità è più ingannevole di un articolo firmato da
un giornalista che incorpora una velina di un ufficio stampa
o direttamente un messaggio pubblicitario? Il lettore è con-
vinto che quella sia l’opinione o la notizia di un giornalista,
mentre invece è solo uno spezzone di un catalogo di moda o
la segnalazione acritica di un prodotto. In molti si accanirono
contro un poveretto di giornalista, il quale aveva osato scrivere
che il Papa aveva firmato un suo documento con una penna
xxxxxxxxx, vedendo la pagliuzza nell’occhio del semplice
redattore, ma facendo finta di non accorgersi della trave che
condiziona tutta l’informazione italiana. La “pubblicità na-
tiva” sta dilagando e la responsabilità è tutta dei giornalisti.
Per stroncarlo e difendere i lettori basterebbero due o tre so-
spensioni, per un anno, dei direttori che ospitano questo tipo
di pubblicità e dei redattori che si adattano a mettere la loro
firma su queste truffe. Tutto qui.
lo statuto dei lettori1
Lo Statuto dei lettori dovrebbe essere sottoscritto dalle parti, cioè dagli or-
ganismi sindacali dei giornalisti e degli editori, dall’Ordine dei Giornalisti e
dalle associazioni dei consumatori. Oppure può essere accolto motu proprio
da singoli editori o da singole testate. Lo Stato può rafforzarlo vincolando ogni
forma di finanziamento pubblico alla sua accettazione e applicazione.
1) il diritto a un’informazione liberata
Il lettore ha il diritto al pieno rispetto della Costituzione. A
tutti i cittadini sono permesse la fondazione e la direzione di
un qualunque organo d’espressione del pensiero, senza alcun
bisogno né di particolari qualifiche personali, né di registra-
zione, né di autorizzazioni della testata giornalistica (in qua-
lunque modo sia diffusa) (a).
2) il diritto alla trasparenza
Il lettore ha diritto di conoscere (anche su un vettore di-
verso, ma collegato al prodotto giornalistico che acquista)
1
Le note di documentazione e di indirizzo, segnate con le lettere,
sono pubblicate alla fine di questa sezione.
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
l’esatta e aggiornata composizione dell’assetto proprietario,
l’ammontare della raccolta pubblicitaria, l’elenco dei princi-
pali inserzionisti pubblicitari e degli azionisti di controllo, gli
eventuali patti di sindacato, i possessi collaterali dei parteci-
panti al patto, i bilanci societari.
Ugualmente devono essere pubblicati lo Statuto d’impre-
sa e lo Statuto interno, il testo integrale dei Patti intercorsi
tra editore e direttore, le norme deontologiche che regolano
la professione giornalistica.
Obbligatoria è la pubblicazione, nel colophon, della com-
posizione del Consiglio di amministrazione, della tiratura,
dell’eventuale quotazione in borsa, della percentuale massi-
ma stabilita tra pubblicità e testi.
Periodicamente, i lettori devono essere informati delle va-
riazioni delle vendite.
Obbligatorio è accompagnare la pubblicazione di articoli
anonimi o di collaboratori con l’indicazione delle fonti gior-
nalistiche (d) e delle qualifiche dei collaboratori, soprattutto se
ricoprono incarichi pubblici o di rilevanza pubblica.
Obbligatoria è la pubblicazione (anche su un vettore di-
verso, ma collegato al prodotto giornalistico che acquista)
dell’elenco della organizzazione gerarchica della pubblica-
zione, con un breve curriculum di tutti i giornalisti (data di
nascita, anni di attività professionale, cronistoria dell’atti-
vità giornalistica, eventuali vicende giudiziarie e delibere
deontologiche a carico, l’appartenenza, anche passata, ad
associazioni e partiti, incarichi politici e istituzionali rico-
perti, nonché eventuali impieghi in ruoli pubblici o di rile-
vanza pubblica).
80
Lo Statuto dei lettori
3) il diritto a essere garantiti
Ogni pubblicazione di una certa importanza ha l’obbligo
di dotarsi di un “Garante dei lettori”, scelto periodicamente
dai lettori stessi (per esempio dagli abbonati) in una rosa di
ex-giornalisti della testata che non abbiano alcuna partecipa-
zione nell’assetto proprietario. Il Garante dei lettori è slegato
da vincoli gerarchici con la struttura del giornale, retribuito e
dotato di uno spazio autonomo non sindacabile, in cui ogni
settimana possa scrivere il proprio parere sull’informazione
offerta e, soprattutto, sulle osservazioni del pubblico.
4) il diritto al separatismo
Ogni impresa editoriale deve dotarsi di uno Statuto d’impresa
che preveda la separazione tra gestione industriale e gestione
giornalistica, affidando quest’ultima a un Consiglio editoriale o
Comitato di fiduciari con l’incarico di designare il direttore e sta-
bilire i patti con lui.
5) il diritto di replica
Si deve distinguere tra diritto di rettifica (e), già regolato
per legge, di cui si pretende il rispetto letterale (f), e il diritto di
replica (g). Mentre la rettifica fa riferimento a errori materiali
che vanno corretti, il diritto di replica rientra nell’auspicata
interrelazione (h) tra lettori e media. Quindi deve essere previ-
sta la pubblicazione di contributi critici, individuali o collettivi,
81
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
di quanti abbiano fondato motivo per sentirsi coinvolti dalla
pubblicazione di una data notizia o di una data opinione, a
condizione che la replica rispetti alcuni requisiti quantitativi (i).
È necessario prevedere, in caso di rifiuto, il ricorso in via
giurisdizionale, arbitrale o amministrativa (presso un’Autorità
indipendente) per garantire il diritto alla pubblicazione.
6) il diritto a un’informazione corretta
Obbligo per ogni media di un certo rilievo di dotarsi di
uno Statuto che detti le regole di comportamento interno.
Tale Statuto dovrà essere reso pubblico e sia il redattore sia il
lettore potranno attivare il procedimento che va dall’inizia-
le denuncia della violazione all’eventuale irrogazione della
sanzione (l).
Incorporazione nel contratto giornalistico di norme deon-
tologiche riguardanti sia i giornalisti sia l’editore (m).
Incompatibilità del cumulo tra lavoro giornalistico e at-
tività in uffici stampa, agenzie di pubblicità, uffici di consu-
lenza e di relazioni pubbliche, anche in maniera informale
e occasionale.
Passaggio, nell’albo dell’Ordine dei Giornalisti, dalla bi-
partizione tra giornalisti professionisti e giornalisti pubblicisti2
a una tripartizione che comprenda i giornalisti comunicatori,
attuando una distinzione tra le due funzioni, senza la quale in-
gente è il danno per entrambe le categorie e grave il discapito
2
Assolutamente truffaldina e contraddittoria è la formula adopera-
ta dal Contratto nazionale di lavoro giornalistico, 2013-2016, art. 36 che
comincia con: «Ai pubblicisti che esercitano attività giornalistica in
via esclusiva... ».
82
Lo Statuto dei lettori
per la correttezza dell’informazione (n). Incompatibilità asso-
luta tra il lavoro presso la redazione di una testata giornalistica
e qualsivoglia altro impegno professionale, anche non forma-
lizzato (o). Nonché rigorose sanzioni, fino alla radiazione, per
chi viola le norme deontologiche che proibiscono l’adesione
ad associazioni segrete (p).
I giornalisti, durante un eventuale incarico elettivo in isti-
tuzioni ed enti pubblici centrali o periferici, devono sospen-
dersi dall’albo.
7) il diritto alla tutela contro la frode
pubblicitaria
La commistione tra il messaggio pubblicitario e l’informa-
zione redazionale va considerata come una vera e propria fro-
de (q) e come tale perseguita.
Le Direzioni dei media si devono considerare deontologi-
camente e giuridicamente responsabili della commistione tra
messaggio pubblicitario e informazione. In tal caso, la pubbli-
cità occulta deve essere sanzionata.
Si deve offrire la possibilità agli abbonati di disdire l’abbo-
namento, con la restituzione del versato, se il lettore ravvisa
che nella pubblicazione la pubblicità influenza in modo ecces-
sivo il contenuto.
Qualora, con un articolo, si induca il lettore in errore,
attribuendo al prodotto illustrato effetti e proprietà che non
possiede, o si sottolinei solo il lato vantaggioso o positivo e non
quello svantaggioso o negativo, tale condotta va considerata
fraudolenta e, come tale, sanzionata.
83
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
note di documentazione e di indirizzo
(a) Si auspica che lo Stato faccia sua, come indirizzo gene-
rale, l’abrogazione della legislazione di favore solo per alcune
pubblicazioni e la dismissione di finanziamenti pubblici di-
retti alle imprese già esistenti sul mercato, o almeno colleghi
il finanziamento in quantità inversamente proporzionale ai
ricavi pubblicitari e stabilisca la quota massima di pubblicità,
collegandola alla foliazione. Ma soprattutto garantisca mas-
sicce forme indirette di sostegno generalizzato che consentano
l’accesso e la permanenza nel libero mercato, preferibilmente
attraverso forme cooperativistiche.
(b) Il diritto alla trasparenza è autorevolmente sancito in
molte sedi: Consiglio d’Europa, Risoluzione dell’assemblea n.
1003 del 1° luglio 1993 relativa all’etica del giornalismo:
12. Nelle imprese di informazione, è necessaria una totale tra-
sparenza in materia di proprietà e di gestione dei mezzi di comuni-
cazione sociale, perché i cittadini conoscano chiaramente l’identità
dei proprietari e il loro livello di coinvolgimento economico nei mez-
zi di comunicazione sociale.
La Carta dei doveri dell’informazione economica, 28 marzo 2007:
6. Il giornalista, tanto più se ha responsabilità direttive, deve assi-
curare un adeguato standard di trasparenza sulla proprietà editoriale
del giornale e sull’identità e gli eventuali interessi di cui siano porta-
tori i suoi analisti e commentatori esterni in relazione allo specifico
argomento dell’articolo. In particolare va ricordato al lettore chi è
l’editore del giornale quando un articolo tratti problemi economici e
84
Lo Statuto dei lettori
finanziari che direttamente lo riguardino o possano in qualche modo
favorirlo o danneggiarlo.
Altre norme simili sono state varate dall’Ordine dei Gior-
nalisti nel 2018, art. 5:
Il giornalista rifiuta pagamenti, rimborsi spese, elargizioni, va-
canze gratuite, regali, facilitazioni o prebende da privati o enti pub-
blici che possano condizionare il suo lavoro e la sua autonomia o
ledere la sua credibilità e dignità professionale.
E art. 6:
Il giornalista non assume incarichi e responsabilità in contrasto
con l’esercizio autonomo della professione, né può prestare nome,
voce e immagine per iniziative pubblicitarie incompatibili con la
credibilità e autonomia professionale.
(c) Contratto nazionale di lavoro giornalistico fieg-fnsi, art. 6, re-
lativo ai Poteri del direttore:
Le facoltà del direttore sono determinate da accordi da stipularsi
tra editore e direttore, tali, in ogni caso, da non risultare in contrasto
con le norme sull’ordinamento della professione giornalistica e con
quanto stabilito dal presente contratto. Questi accordi, con partico-
lare riguardo alla linea politica, all’organizzazione ed allo sviluppo
dei quotidiani, dei periodici, delle agenzie di informazioni per la
stampa e delle unità organizzative redazionali sono integralmente
comunicati dall’editore al rispettivo corpo redazionale tramite i re-
lativi comitati o fiduciari di redazione, contemporaneamente alla
comunicazione della nomina del direttore.
85
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
(d) Il Contratto nazionale di lavoro recita, art. 9:
Nel rispetto delle prerogative del direttore i giornali devono nor-
malmente indicare la fonte di provenienza (agenzie di informazioni)
degli articoli o servizi pubblicati senza la firma dell’autore.
Fa parte del malcostume giornalistico italiano l’omissione
sistematica, nelle pagine culturali, dell’avvertenza che l’even-
tuale recensione o nota critica fa riferimento a un’opera fir-
mata da un giornalista o da un collaboratore fisso dello stesso
giornale o è edita dallo stesso editore del giornale. Quest’ul-
tima manchevolezza vìola la norma – sopra già ricordata –
dell’art. 6 de La Carta dei doveri dell’informazione economica, 2007:
In particolare va ricordato al lettore chi è l’editore del giornale
quando un articolo tratti problemi economici e finanziari che diret-
tamente lo riguardino o possano in qualche modo favorirlo o dan-
neggiarlo.
(e) Il diritto di rettifica è sancito in molte sedi, Consiglio
d’Europa, Risoluzione dell’assemblea n. 1003 del 1° luglio
1993 relativa all’etica del giornalismo:
26. Su richiesta degli interessati, i mezzi di comunicazione prov-
vederanno alla rettifica automatica e sollecita, nelle opportune for-
me informative, delle informazioni ed opinioni che si rivelino false o
erronee. La legislazione nazionale deve prevedere sanzioni adeguate
e, ove necessario, il risarcimento.
Raccomandazione R (2003) 13, 10 luglio 2003 del Co-
mitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, dal titolo Principi
86
Lo Statuto dei lettori
relativi alle informazioni fornite attraverso i mezzi di comunicazione in
rapporto a procedimenti penali. Al principio 9, relativo al Diritto di
rettifica o diritto di replica:
Salva la disponibilità di altri strumenti, chiunque sia stato ogget-
to di notizie inesatte o diffamatorie su mezzi di comunicazione in
rapporto a procedimenti penali dovrebbe avere il diritto di rettifica
o di replica, secondo i casi, nei confronti dei mezzi di comunicazione
interessati. Il diritto di rettifica dovrebbe sussistere anche con riferi-
mento a comunicati stampa contenenti informazioni inesatte che
siano stati rilasciati da autorità giudiziarie o di polizia.
La legislazione italiana è precisa, ma totalmente disattesa.
Similmente, ne L’ordinamento della professione di giornalista, Legge
3 febbraio 1963 n. 69, art. 2, relativo a Diritti e doveri: «Devo-
no essere rettificate le notizie che risultino inesatte, e riparati
gli eventuali errori». Il testo è ripreso testualmente nella pre-
messa de La Carta dei doveri del giornalista, 8 luglio 1993.
(f) Al tassativo obbligo di rettifica deve corrispondere la for-
te attenuazione delle conseguenze civili e penali della “diffa-
mazione” per mezzo stampa.
(g) Di tale diritto si fa cenno nel principio 9, Diritto di retti-
fica o diritto di replica (sopra citato), della Raccomandazione
R (2003)13 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa.
Vaghe le formule contenute ne La Carta dei doveri del giorna-
lista, 1993: «Il giornalista corregge tempestivamente e accu-
ratamente i suoi errori o le inesattezze, in conformità con il
dovere di rettifica nei modi stabiliti dalla legge, e favorisce la
possibilità di replica». Oppure: «Il giornalista [...] si impegna
87
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
a creare strumenti idonei (garanti dei lettori, pagine per i let-
tori, spazi per repliche, ecc.) e dando la massima diffusione
alla loro attività».
(h) Sempre ne La Carta dei doveri del giornalista, 1993, nella
sezione Doveri: «Il giornalista è responsabile del proprio lavo-
ro verso i cittadini e deve favorire il loro dialogo con gli organi
d’informazione».
(i) Tutto ciò è già previsto dalla Raccomandazione n. 1215,
10 luglio 1993 sull’etica del giornalismo, Consiglio d’Europa,
Assemblea n. 1003: «promuovere la creazione di associazioni
di utenti dei mezzi di comunicazione sociale». Lo stesso Con-
siglio d’Europa, nella Risoluzione dell’assemblea n. 1003 del
1° luglio 1993 relativa all’Etica del giornalismo auspica:
38. Gli organismi o i meccanismi di autodisciplina come le asso-
ciazioni di utenti dei mezzi di comunicazione sociale e i componen-
ti istituti universitari potranno pubblicare annualmente le ricerche
effettuate a posteriori sulla veridicità delle informazioni diffuse dai
mezzi di comunicazione sociale, rispetto alla realtà dei fatti. In tal
modo, si avrà un barometro della credibilità che informerà i citta-
dini sul valore etico di ogni mezzo di comunicazione sociale o di
ogni servizio, o di un giornalista in particolare. I correttivi conse-
guentemente adottati consentiranno allo stesso tempo di migliorare
l’esercizio della professione di giornalista.
(l) Esemplare, nonostante il suo debutto infelice e un’appli-
cazione carente, è il testo del Codice di autodisciplina dei giornalisti
redatto dal “Il Sole 24 Ore” (1987), che regola i conflitti d’inte-
resse e impone: «la distinzione tra informazione e pubblicità».
88
Lo Statuto dei lettori
I giornalisti:
si impegnano a non inserire negli articoli messaggi pubblicitari
e a non accettare remunerazioni che, sotto alcuna forma, possano
condizionare la scelta e il contenuto degli articoli. [...] a rifiutare
nell’ambito del loro lavoro per sé e per i propri familiari entro il
secondo grado, per i coniugi o i partner di fatto e i loro familia-
ri e affini entro il secondo grado qualunque forma di pagamento,
omaggio, privilegio, servizio gratuito o a condizioni particolarmente
favorevoli del valore indicativo superiore ai 100 euro o che possa co-
munque danneggiare l’accuratezza, la correttezza e l’indipendenza
dell’informazione che elaborano e dei giudizi che esprimono. [...] a
rifiutare nell’ambito del loro lavoro offerte di viaggi e sistemazioni
alberghiere pagate da enti o aziende per sé e per i propri familiari
entro il secondo grado o per i coniugi, i partner di fatto e i loro fami-
liari e affini entro il secondo grado. In casi eccezionali e particolari,
solo il giornalista incaricato del servizio può essere beneficiario di
queste offerte se autorizzato dal direttore. [...] a restituire gli oggetti
ricevuti in prova entro un tempo congruo per valutare il prodotto e
comunque non oltre i due mesi. [...] a non occuparsi di società di
cui essi o i propri familiari stretti entro il secondo grado, o i coniugi,
i partner di fatto e i loro familiari e affini entro il secondo grado
detengano azioni o obbligazioni. [...] a non scrivere su convegni e
dibattiti a cui partecipano come relatori o moderatori, a meno che
l’attività prestata sia a carattere gratuito e sia compatibile con l’ac-
curatezza e l’indipendenza.
I giornalisti s’impegnano altresì:
ad attribuire, ove possibile, ogni informazione rilevante a una
fonte identificabile. [...] a trascrivere con rigore le dichiarazioni da
89
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
virgolettare sottoponendole alle normali attività redazionali senza al-
terarne il senso. [...] a riferire con correttezza anche le voci contrarie
o lontane dalla linea del giornale nel caso in cui risultino rilevanti.
(m) Si conosce bene l’interesse di molti editori ad avere dei
dipendenti “ricattabili” e quindi predisposti al servilismo; per
questo è necessaria un’assunzione di responsabilità collettiva
sulla deontologia.
(n) Sarebbe un segno deontologicamente significativo e de-
terminante impedire che vi siano giornalisti che facciano su
e giù tra il proprio giornale e posti di grande responsabilità
nella comunicazione di ministeri e di partiti. Nonché di im-
prese private. La confusione tra “fonte” e lavoro giornalistico
è tra le cause principali della mediocrità dell’attuale prodotto
d’informazione e provoca corruzione, dipendenza, certe volte
persino superiore ai condizionamenti proprietari o della stessa
struttura del media. La Carta dei doveri del giornalista degli Uffici
stampa pubblici del Gruppo Speciale Uffici Stampa dell’Ordine
Nazionale dei Giornalisti, 2002, si rende conto della impossi-
bilità di conciliabilità due ruoli opposti e, con questa confusa
formula conciliativa, non trova alcuna soluzione:
In questa funzione, il giornalista deve, in armonia con il dettato
legislativo, dividere nettamente il compito degli altri soggetti previsti
dalle norme di legge in materia di informazione e comunicazione da
quello di operatore dell’Ufficio stampa, evitando situazioni di con-
fusione nelle quali il dovere di informare in maniera obiettiva ed ac-
curata può finire col configgere con le esigenze di una informazione
personalistica e subordinata all’immagine.
90
Lo Statuto dei lettori
(o) Per nulla garantista è l’art. 8 del Contratto nazionale di
lavoro giornalistico fieg-fnsi, relativo ai Rapporti plurimi:
Nessun giornalista può contrarre più di un rapporto di lavoro re-
golato dall’art. 1 (rapporto a tempo pieno). Il giornalista quando sia
stato assunto per prestare esclusivamente la sua opera ad un’impre-
sa giornalistica o agenzia di informazioni per la stampa, non potrà
assumere altri incarichi senza esserne autorizzato per iscritto dal direttore,
d’accordo con l’editore.
Questo articolo garantisce completamente la proprietà,
ma viola il rapporto di fiducia con il lettore e permette ogni
tipo di arbitrio. Ancora più violata e aggirata è la norma
della Carta dell’informazione e della programmazione a garanzia degli
utenti e degli operatori del Servizio pubblico radiotelevisivo (dicembre
1995) che afferma:
I giornalisti della rai, specie quelli che firmano i loro servizi ra-
diotelevisivi, non possono svolgere l’attività di editorialisti o commentatori po-
litici in quotidiani o periodici, non possono svolgere funzioni di addetti
stampa di organismi pubblici e di organizzazioni politiche, economi-
che o sindacali. Ciò appare incompatibile con i doveri che il Servizio
pubblico impone loro, nuocerebbe alla loro credibilità professionale
e sarebbe di danno all’immagine del Servizio pubblico. Il giornali-
sta rai non potrà avere una collaborazione continuativa in materia
radiotelevisiva con quotidiani e periodici. Egli non potrà neppure
assumere rapporti di lavoro subordinato o autonomo, nonché inca-
richi o funzioni anche temporanei – esclusi quelli relativi ad attività
didattiche presso Scuole di giornalismo professionali, universitarie o
di specializzazione – che possano apparire contrastanti o condizio-
nanti l’esercizio della professione nel Servizio pubblico.
91
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
Basti pensare che il più potente conduttore della più segui-
ta trasmissione giornalistica della televisione pubblica da anni
firma suoi editoriali, impunemente e sistematicamente, su vari
quotidiani e un settimanale, e continua tutt’ora, nonostante
eserciti con evidenza attività giornalistica.
(p) «Il giornalista non può aderire ad associazioni segrete o
comunque in contrasto con l’articolo 18 della Costituzione». È
quanto recita La Carta dei doveri del giornalista, ma nessuna nor-
ma è stata mai così platealmente violata. È noto come molte
carriere giornalistiche, anche ad alti vertici, siano fortemente
influenzate proprio dall’appartenenza ad associazioni segrete.
Ugualmente vaga e inconcludente, perché assai scarsamente
sanzionata, è l’altra norma: «Il giornalista non può accettare
privilegi, favori o incarichi che possano condizionare la sua
autonomia e la sua credibilità professionale».
(q) Non mancano i divieti, cominciando dal Contratto nazio-
nale di lavoro che, all’art. 44, prescrive:
Allo scopo di tutelare il diritto del pubblico a ricevere una corret-
ta informazione, distinta e distinguibile dal messaggio pubblicitario
e non lesiva degli interessi dei singoli, i messaggi pubblicitari devono
essere chiaramente individuabili come tali e quindi distinti, anche
attraverso apposita indicazione, dai testi giornalistici.
Si veda poi il Decreto Legislativo del 6 settembre 2005 n. 206,
Codice del consumo, a norma dell’articolo 7 della legge 29
luglio 2003, n. 229. Sulla Trasparenza della pubblicità:
1. La pubblicità deve essere chiaramente riconoscibile come tale.
92
Lo Statuto dei lettori
La pubblicità a mezzo di stampa deve essere distinguibile dalle altre
forme di comunicazione al pubblico, con modalità grafiche di evi-
dente percezione.
Nonché il Protocollo sulla trasparenza pubblicitaria del 1988 tra
il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti (cnog), la
Federazione Nazionale della Stampa Italiana (fnsi), l’Associa-
zione italiana agenzie di pubblicità a servizio completo (as-
sap), l’Associazione italiana studi di comunicazione (aisscom),
l’Associazione agenzie di relazioni pubbliche a servizio com-
pleto (assorel), la Federazione Relazioni Pubbliche Italiana
(ferpi), l’Associazione italiana delle organizzazioni professio-
nali di tecnica pubblicitaria (otep) e l’Associazione italiana di
Tecnici Pubblicitari (tp) che sancisce:
Il cittadino è titolare del diritto ad una corretta informazione.
Nei confronti del pubblico (lettore-ascoltatore) la responsabilità
della correttezza dei messaggi è – ciascuno per la sua parte – delle
categorie professionali delle comunicazioni di massa. Primo dove-
re è di rendere sempre riconoscibile l’emittente del messaggio. Il
lettore o lo spettatore dovrà essere sempre in grado di riconosce-
re quali notizie, servizi od altre attività redazionali sono respon-
sabilità della redazione o di singoli firmatari e quali invece sono
direttamente e liberamente espresse da altri. Nel caso di messag-
gi pubblicitari, dovrà essere riconoscibile al lettore, spettatore o
ascoltatore l’identità dell’emittente in favore del quale viene tra-
smesso il messaggio, che può essere identificato come impresa od
ente o anche come singola marca o prodotto o servizio purché
chiaramente identificabile o riconoscibile.
Dovrà essere inoltre riconoscibile al mezzo di informazione che
ospita la pubblicità (editore, emittente radiotelevisiva o altri) non
93
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
solo l’identità di chi per conto del mezzo vende tempo e spazio
(concessionaria), ma anche sempre l’identità del committente.
Nel caso delle relazioni pubbliche, dovrà essere nota al giornali-
sta (o altro operatore culturale) che riceve un’informazione non solo
l’identità di chi la emette o trasmette (agenzia di relazioni pubbliche
o singolo professionista) ma anche quella del committente (impresa,
ente o gruppo di opinione) per conto del quale l’informazione viene
trasmessa. In ogni caso la “firma” di ciascun messaggio deve essere
chiara e trasparente.
Gli articoli elaborati dal giornalista nell’ambito della sua nor-
male attività redazionale non possono essere utilizzati come mate-
riale pubblicitario.
I testi elaborati dai giornalisti collaboratori dipendenti da uffici
stampa o di pubbliche relazioni devono essere pubblicati facendo se-
guire alla firma l’indicazione dell’organizzazione cui l’autore del te-
sto è addetto quando trattino argomenti riferiti all’attività principale
dell’interessato. I direttori nell’esercizio dei poteri previsti dall’art. 6,
e considerate le peculiarità delle singole testate, sono garanti della
correttezza e della qualità dell’informazione anche per quanto at-
tiene il rapporto tra testo e pubblicità. A tal fine i direttori ricevono
periodicamente i pareri dei comitati di redazione.
La lettura di questo Protocollo, totalmente inosservato e
persino comico, è utile perché contiene l’elenco di tutti i re-
sponsabili della commistione tra informazione e pubblicità.
Ci possiamo aggiungere anche l’upa, Utenti Pubblicità Asso-
ciati, che fu tra i promotori dell’Istituto dell’Autodisciplina
Pubblicitaria.
La Carta dei doveri del giornalista, 1993 assicura che: «I cittadi-
ni hanno il diritto di ricevere un’informazione corretta, sempre
distinta dal messaggio pubblicitario e non lesiva degli interessi
94
Lo Statuto dei lettori
dei singoli». Anche il Decreto Legislativo del 31 luglio 2005 n.
177, testo unico della radiotelevisione, non è meno severo:
d) la diffusione di trasmissioni sponsorizzate, che rispettino la
responsabilità e l’autonomia editoriale del fornitore di contenuti
nei confronti della trasmissione, siano riconoscibili come tali e non
stimolino all’acquisto o al noleggio dei prodotti o dei servizi dello
sponsor, salvi gli ulteriori limiti e divieti stabiliti dalle leggi vigenti
in relazione alla natura dell’attività dello sponsor o all’oggetto della
trasmissione.
Da La Carta dei doveri del giornalista, 1993:
Il giornalista è tenuto all’osservanza dei principi fissati dal Proto-
collo d’intesa sulla trasparenza dell’informazione e dal Contratto nazionale di
lavoro giornalistico; deve sempre rendere riconoscibile l’informazione
pubblicitaria e deve comunque porre il pubblico in grado di ricono-
scere il lavoro giornalistico dal messaggio promozionale.
Tutte queste “grida” che si susseguono senza sosta, riscrivendo gli
stessi principi, sono clamorosamente e sfacciatamente disattese. La pub-
blicità invade ormai direttamente la parte redazionale, ne condiziona pe-
santemente i contenuti e confonde i lettori truffandoli. Mai come in questo
campo si può misurare l’impotenza, se non la correità, dell’Ordine dei
Giornalisti nel mancato rispetto delle norme deontologiche e di legge.
95
l’informazione e le sue garanzie
di luigi ferrajoli1
Il vero, gravissimo problema dell’informazione in Italia
consiste nell’assoluta mancanza di garanzie dell’informazio-
ne. Ovviamente esiste la libertà di stampa e di informazione
come libertà passiva o libertà da censure, o impedimenti o
costrizioni. Tutti possono parlare al bar, stampare volantini,
pubblicare, se ne hanno i mezzi, giornali e riviste. Esistono
quotidiani di opposizione e ciascuno può dire quello che pen-
sa senza temere arresti o censure. Ma non esistono le garan-
zie della medesima libertà come libertà attiva o libertà di in-
formazione, cioè la garanzia del suo esercizio indipendente.
Non esistono, in breve, garanzie di un’effettiva indipendenza
dell’informazione: né della libertà di informazione di chi fa
informazione, cioè dei giornalisti, né del diritto alla non disin-
formazione di chi delle informazioni è destinatario, cioè dei
cittadini lettori. È questa mancanza totale di garanzie – che
in altri paesi esistono, nel costume ancor prima che nelle leggi
– che si è rivelata in questi anni in maniera vistosa e che sta
facendo pagare un prezzo altissimo alla democrazia del nostro
1
Testo dell’intervento di Luigi Ferrajoli nel Convegno, tenutosi il 10
novembre 2009 a Roma nella Biblioteca della Camera dei deputati,
su I diritti dei lettori della “Società Pannunzio per la libertà di infor-
mazione” e poi pubblicato nel supplemento a “Critica liberale”, nn.
173-174, marzo-aprile 2010.
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
paese, precipitato al 73° posto, come paese solo “parzialmente
libero”, nella classifica di “Freedom House” sui livelli della
libertà di stampa.
Cercherò chiarire i termini del nostro problema attraver-
so una loro analisi concettuale. L’informazione coinvolge due
diritti le cui garanzie sono entrambe essenziali alla democra-
zia: la libertà-facoltà di informazione di chi scrive e la liber-
tà-immunità dalla disinformazione di chi legge.
La libertà di informazione, a sua volta, coinvolge tre di-
ritti: il diritto di informazione che è un diritto costituzionale,
la proprietà dei mezzi di informazione che è un diritto patri-
moniale e il diritto civile di impresa giornalistica. Ebbene, né
la libertà costituzionale di informazione in senso attivo, né il
diritto alla non disinformazione in senso passivo sono in Italia
minimamente garantiti, essendo di fatto condizionati e subor-
dinati ai poteri politici e ai poteri economici che detengono il
controllo dei media più importanti.
1. il diritto alla non disinformazione come li-
bertà negativa
Cominciamo con il secondo dei due diritti ora indicati:
il diritto alla non disinformazione. È chiaro che non può
parlarsi di un diritto positivo alla “vera” informazione, che
sarebbe in conflitto con la libertà di informazione. Esiste tut-
tavia, come ha detto Enzo Marzo, un diritto negativo alla
non disinformazione, consistente in una libertà negativa, cioè
nell’immunità dalle disinformazioni e dalla manipolazioni
delle notizie. Questo diritto è un corollario della libertà di co-
scienza e di pensiero, cioè della prima libertà fondamentale
98
L’informazione e le sue garanzie
che si è affermata nella storia del liberalismo e che implica il
diritto alla non manomissione della propria coscienza.
La garanzia di questa libertà negativa rappresenta d’altro
canto una condizione elementare dell’esercizio consapevole
del diritto di voto e della formazione di un’opinione pubbli-
ca informata e matura, ed è perciò il presupposto della de-
mocrazia politica e della sovranità popolare. Sotto questo
aspetto possiamo ben dire che l’informazione è oggetto, oltre
che di diritti fondamentali della persona – la libertà-facoltà
di informazione, la libertà-immunità dalla disinformazione
e, indirettamente, del diritto politico di voto – di un autono-
mo interesse pubblico e collettivo in capo a tutti e a ciascu-
no, implicito in tutti i principi della democrazia politica: la
trasparenza dei pubblici poteri, il controllo popolare sul loro
esercizio, la rappresentatività e la responsabilità degli eletti
nei confronti degli elettori. Se poi si considera il lettore come
un consumatore, il diritto alla non disinformazione e alla non
manipolazione delle notizie equivale altresì al diritto di non
ricevere merce avariata. Si misura, sotto tutti questi aspetti,
l’enorme importanza che avrebbe l’approvazione dello “sta-
tuto dei lettori”, nella loro duplice veste di cittadini e di con-
sumatori, proposto da Enzo Marzo.
Ebbene questo diritto alla non disinformazione è oggi pe-
santemente manomesso dal controllo politico dei media. E
lo è per l’assoluta mancanza di garanzie dell’indipendenza
dell’informazione. C’è infatti un nesso tra la libertà-facoltà di
informazione come diritto attivo e il diritto-immunità alla non
disinformazione come diritto passivo: questo implica quello,
nel senso che la sua migliore garanzia è appunto l’indipenden-
za dell’informazione, che è altresì la principale garanzia della
libertà attiva di informazione.
99
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
2. il diritto di informazione come libertà attiva
Vengo così al diritto di informazione come libertà attiva.
È la mancanza di garanzie di questa fondamentale libertà,
come ho detto all’inizio, il vero, gravissimo problema. Il pro-
blema, ripeto, non è, come sotto il fascismo, l’impedimento di
qualunque esercizio della libertà di informazione: tutti, se ne
hanno i mezzi, possono aprire un giornale e scrivere su di esso
ciò che vogliono. Il vero problema è quello della mancanza di
libertà dell’informazione, nel senso di “indipendenza” del suo
esercizio all’interno dei media direttamente o indirettamente
controllati dal potere politico. È attraverso questo controllo
che passano la repressione e la discriminazione, la censura e
l’autocensura e perciò la manipolazione dell’informazione.
Enzo Marzo ha mostrato, nella sua relazione, le varie for-
me di servilismo e di condizionamento che compromettono
l’indipendenza dell’informazione. Garanzie giuridiche di
questa indipendenza in Italia non esistono, come invece do-
vrebbero esistere e in parte esistono in altri paesi, nei quali
sono comunque operanti regole rigide sul piano quanto meno
della deontologia professionale dei giornalisti. In Italia, per il
rapporto del tutto anomalo che si è stabilito tra informazio-
ne, proprietà e potere politico, non solo non esistono garanzie
giuridiche, ma è crollata anche la deontologia professionale.
L’indipendenza e la libertà dell’informazione sono perciò oggi
diventate il problema centrale della nostra democrazia.
Come si garantisce l’indipendenza dell’informazione? C’è
una vecchia ricetta, un vecchio principio liberale, che suggeri-
sce la prima, elementare garanzia. È la separazione dei poteri:
la netta separazione, precisamente, tra poteri mediatici, cioè
i poteri dell’informazione, e poteri politici. Si tratta di una
100
L’informazione e le sue garanzie
separazione che rimanda alla più generale separazione tra po-
teri pubblici e poteri privati, tra poteri politici e poteri econo-
mici: che è una separazione ancor più importante, ancor più
decisiva ai fini della sopravvivenza dello stato di diritto e della
democrazia della stessa classica separazione intra istituzionale
tra i poteri dello Stato, cioè tra potere legislativo, potere ese-
cutivo e potere giudiziario. Ancor più importante e decisiva
perché fa parte del costituzionalismo profondo, non soltan-
to della democrazia, ma ancor prima dello Stato moderno,
nato appunto dal superamento della confusione tra proprietà
e sovranità che caratterizzava lo stato patrimoniale e il regime
feudale premoderni. Si tratta della prima, pregiudiziale ga-
ranzia del corretto funzionamento dei pubblici poteri; al pun-
to che la sua mancanza, cioè la concentrazione dei poteri e il
conseguente conflitto di interessi, compromette sia la rappre-
sentanza giuridica delle istituzioni pubbliche, che come dice
il codice civile è esclusa ove il rappresentante abbia interessi
in conflitto con quelli del rappresentato, sia la rappresentanza
politica, che come stabilisce l’art. 67 della Costituzione con-
siste nella rappresentanza della Nazione, cioè degli interessi
generali, ed è esclusa allorquando è condizionata da interessi
particolari.
È questa separazione tra sfera pubblica e sfera privata che
è stata dissolta dall’attuale concentrazione di poteri politici e
di poteri economici in capo al presidente del consiglio e dai
conseguenti conflitti di interesse, i quali equivalgono, in realtà,
al sopravvento sugli interessi pubblici degli interessi privati di
colui che detiene una simile somma di poteri. È questa l’enor-
me, gravissima, annosa anomalia italiana che sta provocando
la crisi della nostra democrazia. In tutti i paesi civili questa
anomalia non esiste perché la garanzia della separazione tra
101
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
poteri pubblici e poteri economici è affidata alle regole non
scritte del costume democratico. In Italia, al contrario, essa è
cresciuta su se stessa, benché sia espressamente esclusa dalla
legge: da una vecchia Legge del 1954, che prevede l’ineleg-
gibilità a cariche politiche di chi è concessionario di pubblici
servizi, ma che è stata vistosamente violata, come ben sappia-
mo, fin dal 1994. Ed è aggravata enormemente dal fatto che
la concentrazione riguarda non un qualsiasi potere privato,
ma quello specifico potere che è il potere dell’informazione.
Ne consegue la lesione di una seconda, e non meno impor-
tante separazione che è anch’essa alla base, ancor prima che
della democrazia, della modernità giuridica: la separazione
tra poteri politici e poteri culturali e ideologici realizzatasi con
il processo di secolarizzazione. Controllando l’informazione,
il potere politico persegue l’omologazione ideologica e politi-
ca, facendo sì che «i cittadini», come scrisse Condorcet, «non
apprendano mai nulla che non sia adatto a confermarli nelle
opinioni che i loro governanti vogliono suscitare in loro».
Ne risulta una inevitabile deformazione sia dei poteri po-
litici che dell’informazione. Giacché questa separazione è an-
che la prima, elementare garanzia dell’indipendenza dell’in-
formazione e del suo ruolo democratico, che è quello di fornire
informazioni sgradite al potere, di criticare l’operato del go-
verno, in breve di svolgere un costante controllo sulle politiche
governative. Il controllo politico dei media produce invece un
capovolgimento del rapporto tra controllori e controllati: non
sono più gli elettori che controllano gli eletti, ma viceversa. È
infatti evidente che l’assenza di questa banale garanzia genera
inevitabilmente un’informazione asservita al potere politico:
direttamente attraverso la proprietà di un impero mediatico
detenuta dal capo del governo, e indirettamente attraverso il
102
L’informazione e le sue garanzie
controllo della televisione pubblica da parte della maggioran-
za parlamentare. L’informazione, in queste condizioni, si ri-
solve in una fabbrica del consenso, favorendo la degenerazio-
ne in senso populista dell’intero sistema politico. E certamente
la persona che più di tutti in Italia è consapevole di questo ca-
povolgimento del ruolo dell’informazione – non la critica ma
la fabbrica del consenso, non il controllo ma l’asservimento
al potere – è proprio Silvio Berlusconi. Prova ne sia l’assoluta
fermezza con cui egli ha sempre difeso e rafforzato con leggi
di comodo l’attuale assetto dell’informazione.
Si aggiunga che questa malattia del nostro sistema dell’in-
formazione – la concentrazione dei poteri, il conflitto di
interessi, l’impero mediatico e televisivo di proprietà del
presidente del consiglio – è aggravata da un altro virus: l’a-
nalfabetismo istituzionale del presidente del Consiglio [Ber-
lusconi ndr], la sua totale mancanza di senso del limite e della
misura e la sua concezione padronale delle funzioni di gover-
no manifestata dalla sua intolleranza, sprezzante e aggres-
siva, per ogni manifestazione di critica o di dissenso. Se la
concentrazione dei poteri rappresenta un vizio strutturale del
sistema, l’aggressività del premier nei confronti del dissenso
ne rivela le vocazioni autoritarie sempre più incontrollate e
minacciose. I violenti attacchi di B. alla libera stampa attra-
verso querele, insulti, ricatti e intimidazioni nei confronti di
giornali e giornalisti, colpevoli solo di fare il loro mestiere,
rivelano una totale ignoranza dell’abc della democrazia. Ci
mettono di fronte un autocrate che non sa neppure in che
cosa consista la libertà di manifestazione del pensiero, se è
vero che la stessa intolleranza e i medesimi ricatti e intimi-
dazioni vengono rivolte, dal suo giornale di famiglia, anche
a chi osa muovere qualche timida critica dall’interno del suo
103
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
stesso partito, di cui è per di più cofondatore, come il presi-
dente della Camera Gianfranco Fini. Il sedicente “partito”
o “popolo delle libertà” è evidentemente una caserma la cui
unica regola è il culto del capo acclamato dal popolo.
Si capisce come la convergenza di tutti questi elementi –
quello oggettivo del controllo proprietario e politico dei me-
dia e quello soggettivo dell’intolleranza per il dissenso – sia
micidiale per il futuro della democrazia. Il consenso popolare
vantato da B. non attenua, ma aggrava enormemente la crisi
delle nostre libertà. Quando dai sondaggi risulta, per esem-
pio, che la maggioranza dei cittadini o una loro parte consi-
stente ritengono che i magistrati che indagano su Berlusconi
sono comunisti o partecipi di un complotto per rovesciarlo,
dobbiamo chiederci da dove possa provenire un simile assur-
do convincimento se non dal fatto che queste tesi sono quoti-
dianamente ripetute in televisione, sicché i cittadini ripetono,
nei sondaggi, semplicemente ciò che sentono in televisione.
D’altra parte un simile consenso nei confronti di un governo
che si è distinto unicamente per le sue politiche antisociali,
per le leggi razziste contro gli immigrati e per le aggressioni
al lavoro e ai sindacati, alla scuola pubblica e alla laicità dello
Stato, è solo un segno inequivoco del grado di disinforma-
zione e manipolazione della pubblica opinione e, insieme,
della corruzione del senso civico e della decadenza morale e
civile della società italiana. Si può solo sperare che il delirio
penoso e scomposto di onnipotenza e vanagloria di cui B. dà
quotidianamente spettacolo, la sua crescente impresentabili-
tà come uomo di governo e il suo isolamento internazionale
lo rendano finalmente indigesto perfino alla nostra destra. Il
futuro della nostra democrazia dipende da una corsa con il
tempo: dal fatto che il rigetto da parte dell’opinione pubblica
104
L’informazione e le sue garanzie
di questo declino cresca più rapidamente dell’acquiescenza e
della passivizzazione politica della maggioranza degli elettori.
3. libertà di informazione e proprietà dei media
C’è poi una terza questione, di carattere più generale, che
riguarda il rapporto tra la libertà costituzionale di informazio-
ne, la proprietà privata dei media e il diritto civile di impresa
giornalistica o televisiva: un problema antico, che si è sempre
posto anche per la libertà di stampa, che è sempre stato ri-
mosso dal dibattito pubblico e che assume oggi un carattere
assai più minaccioso per il futuro della democrazia dato che
riguarda la proprietà non già semplicemente di una testata
giornalistica, ma di quella odierna agorà, luogo della sfera pub-
blica per eccellenza, che è diventata la televisione e che diffe-
risce dalla stampa per il suo carattere incomparabilmente più
invasivo e pervasivo.
Ebbene, anche su questo terreno la mancanza di garanzie
dell’informazione è totale. E anche in questo caso la garan-
zia della libertà di informazione e del diritto alla non disin-
formazione richiede una separazione di cui non è traccia nel
nostro ordinamento: la separazione e l’indipendenza dell’in-
formazione, e precisamente dei giornalisti e dei comitati di
redazione, dalla proprietà dei media. La lettera della Costitu-
zione è in proposito chiarissima. La libertà di manifestazione
del pensiero prevista dall’articolo 21 garantisce la libertà di
manifestazione del proprio pensiero, cioè del pensiero di chi
lo manifesta: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente
il proprio pensiero con le parole, lo scritto e ogni altro mezzo
di diffusione». E «il proprio pensiero» è quello dei giornalisti,
105
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
e non certo quello dei proprietari delle testate. Abbiamo mai
visto un articolo di giornale scritto da Berlusconi? Accade in-
vece che la libertà di manifestazione del pensiero viene comu-
nemente identificata con la proprietà della testata ed è perciò
degradata a variabile dipendente della proprietà dei mezzi di
informazione.
Tocchiamo qui un vecchio problema, irrisolto dalla tra-
dizione liberale: la dipendenza della libertà di informazione
dalla proprietà delle testate, che nella stampa poteva forse
tollerarsi fino a quando la proprietà dei mezzi di informazio-
ne era in capo a imprenditori puramente editoriali, ma che
oggi, nella televisione, dotata di una capacità di invadenza, di
influenza e di suggestione incomparabilmente maggiore, si è
risolta nella totale subordinazione agli interessi economici e
politici della proprietà. Il segno più inquietante dell’accetta-
zione acritica, da parte della cultura giuridica e del senso co-
mune, di questa subordinazione giuridicamente insostenibile
della libertà di manifestazione del pensiero alla proprietà delle
testate, è che le critiche alle degenerazioni in atto e i tentativi
di porre ad esse rimedio si sono sempre appuntati, anche nelle
pronunce più avanzate della Corte costituzionale, sulla sola
concentrazione dei mezzi d’informazione: sul fatto, in altre
parole, che da tale concentrazione risultano violate la libera
concorrenza tra testate e, conseguentemente, il pluralismo
dell’informazione. È quindi soltanto la legge del mercato – del
mercato dell’informazione e del consenso politico, governato
a sua volta da quello della pubblicità – che viene invocata con-
tro il monopolio e il controllo privato delle manifestazioni del
pensiero e dell’informazione: come se la libertà di manifesta-
zione del pensiero e di informazione fosse solo un corollario
del principio della libera concorrenza.
106
L’informazione e le sue garanzie
Domandiamoci allora: il problema dell’informazione è
(solo) un problema di antitrust o è (anche, e prima ancora)
un problema di libertà e di democrazia? La libertà di infor-
mazione è solo una variabile dipendente del mercato, oppure
è un principio e un diritto fondamentale costituzionalmente
stabilito? A questo diritto fondamentale, Stato e mercato, po-
teri politici e poteri economici sono vincolati, come impone
il suo rango costituzionale, o possono al contrario disporne a
piacimento, al punto da controllarne e limitarne l’esercizio?
La difesa di questa libertà basilare per la democrazia passa
(solo) per la rivendicazione del pluralismo dei proprietari dei
mezzi d’informazione, oppure va garantita come un valore
fine a se stesso? In breve: la libertà di stampa e di informazio-
ne si identifica con la proprietà dei giornali e delle televisioni,
oppure è da essa distinta e deve essere ad essa sopraordinata,
anziché subordinata?
Si manifesta qui un vistoso equivoco teorico sotteso alla
concezione liberista della libertà di manifestazione del pen-
siero: la confusione concettuale tra libertà d’informazione e
proprietà privata dei mezzi d’informazione, che ignora l’asim-
metria strutturale tra quello che è un diritto fondamentale di
rango costituzionale e quello che è un diritto patrimoniale e
insieme un potere il quale, come tutti i poteri, dovrebbe, nella
logica dello stato di diritto, essere soggetto alla legge e soprat-
tutto ai diritti costituzionalmente stabiliti. Si tratta invece di
due diritti dei quali il secondo, la proprietà, in assenza di limiti
e garanzie, divora letteralmente il primo, la libertà. Con l’av-
vento della televisione e con le sue forme odierne di concen-
trazione e di omologazione è insomma esplosa un’aporia che
era già presente ma assai meno minacciosa nell’informazione
per mezzo della stampa. Quello che è un potere – il potere
107
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
imprenditoriale – viene a sovrapporsi e a coincidere con un
diritto di libertà, la libertà di stampa, di opinione e di infor-
mazione, e perciò ad inglobarlo e a schiacciarlo. I diritti di
libertà, anziché limitare il potere, ne sono in tal modo limitati.
È perciò il rapporto tra proprietà dei media, libertà di in-
formazione, diritto all’informazione e poteri di governo che
deve essere oggi ripensato e rovesciato, se si vuole impedire,
con la concentrazione dei poteri, il collasso della democrazia.
Non ci sono, naturalmente, soluzioni facili. Ma nessun proble-
ma di garanzie è in via di principio insolubile, se non voglia-
mo screditare come utopia ciò che semplicemente non si ha
l’interesse o la volontà di fare. Ciò che è certo è che qualunque
riforma in grado di garantire la libertà di manifestazione del
pensiero e di informazione deve muovere dal riconoscimento
che la proprietà dei media è un potere, e che c’è almeno una
regola, consegnataci dalla tradizione teorica dello stato di di-
ritto, cui esso deve essere sottoposto, come ogni altro potere,
onde ne sia impedita l’accumulazione in forme assolute: la
separazione dei poteri, che è poi la vecchia ricetta di Monte-
squieu che non può non essere estesa a quel quarto potere nel
quale si è soliti identificare la stampa, affinché esso sia real-
mente “quarto”, cioè separato e indipendente dalla proprietà
onde questa non possa limitarne e controllarne l’esercizio. Se
è vero che il diritto di informazione è divorato dalla proprietà,
allora il rimedio consiste nel distinguere e nel separare questi
due diritti e nel garantire la separazione e l’indipendenza del
primo dal secondo, non meno essenziali all’informazione di
quanto indipendenza e separazione lo siano al potere giudi-
ziario nei confronti del potere esecutivo.
Di qui l’importanza che allo “Statuto dei diritti dei lettori”
proposto da Enzo Marzo sia associato uno “Statuto dei diritti
108
L’informazione e le sue garanzie
dei giornalisti” che ne assicuri l’indipendenza, l’uno e l’altro
non meno essenziali per il futuro della democrazia di quanto
sia stato lo Statuto dei diritti dei lavoratori. Un simile statuto
ben potrebbe neutralizzare o quanto meno ridurre il potere
della proprietà con molteplici garanzie: l’elezione o quanto
meno il concorso decisivo delle redazioni nella nomina dei
direttori delle testate; l’istituzione, accanto all’antitrust, di au-
torità di garanzia indipendenti specificamente deputate alla
tutela della libertà dei giornalisti e dell’autonomia delle reda-
zioni; il divieto di licenziamenti arbitrari, di discriminazioni
e di censure; il divieto di ingerenza della proprietà sulle deci-
sioni e gli orientamenti delle redazioni in ordine ai contenuti
dell’informazione e alle programmazioni televisive, o quanto
meno la previsione di finanziamenti pubblici espressamente
condizionati all’assenza di controlli padronali.
Naturalmente si richiedono altresì le garanzie del plura-
lismo delle testate. Una prima garanzia è il divieto di con-
centrazione delle testate in forme ben più rigide di quelle
previste dalle legislazioni vigenti. Semplicemente, dovrebbe
essere preclusa agli investitori, sia nazionali che stranieri, la
proprietà privata di più di un quotidiano o di una rete televi-
siva. È questo il solo modo per assicurare un effettivo plurali-
smo e un’effettiva differenziazione dei mezzi di informazione.
Se la funzione dei mezzi d’informazione è quella appunto di
fornire informazioni, critiche e opinioni, e di essere luoghi di
pubblico dibattito, non si capisce perché non dovrebbe esse-
re sufficiente a tal fine una sola testata. Né si capisce perché
mai i maggiori investimenti non dovrebbero essere diretti a
rafforzarla, ad accrescerne la qualità e la diffusione, anziché
ad acquistare e perciò a controllare e a neutralizzare le testate
concorrenti. Già oggi, del resto, mentre nelle comuni attività
109
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
imprenditoriali è vietato dall’art. 82 del Trattato della Co-
munità Europea «l’abuso di posizioni dominanti sul merca-
to comune», in materia di imprese giornalistiche e televisive
sarebbe preclusa, perfino in Italia, dalla sentenza della Corte
costituzionale n. 420 del 1994 e poi dall’art. 2 della Legge n.
249 del 1997 la stessa «formazione di posizioni dominanti»,
chiaramente prodottasi in capo al presidente del Consiglio e
ulteriormente aggravata dalla Legge Gasparri del 2003.
In secondo luogo andrebbe riconosciuto il carattere di luo-
go e di spazio pubblico ormai chiaramente assunto dalle tele-
visioni, siano esse pubbliche o private, e ne andrebbe perciò
garantito, da idonee istituzioni di garanzia primarie e secon-
darie, il ruolo di contro-poteri – il cosiddetto “quarto potere”
– ossia di strumenti di informazione, di critica e di controllo
sul potere, liberi da censure e discriminazioni interne e da co-
strizioni o imposizioni esterne. Una seria autorità di garanzia
dell’informazione dovrebbe a tal fine essere fornita di efficaci
poteri di accertamento, di controllo e di intervento sanziona-
torio, diretti a impedire le concentrazioni occulte e, insieme,
la massima libertà e indipendenza dei giornalisti e delle reda-
zioni sia dai poteri politici di governo, sia dai poteri economici
e proprietari. È poi evidente che una simile autorità, perché
sia a sua volta garantita nella sua stessa indipendenza, non
dovrebbe essere, come sono oggi gran parte delle cosiddette
“autorità indipendenti”, di nomina parlamentare e quindi, sia
pure indirettamente, di emanazione governativa. Dovrebbe
invece essere formata da membri eletti dalle associazioni del-
la stampa, o quanto meno essere un organo di composizione
mista, in gran parte eletto dai giornalisti e solo per una quota
minoritaria da elevate maggioranze parlamentari, sul model-
lo per esempio del Consiglio superiore della magistratura. In
110
L’informazione e le sue garanzie
nessun caso essa dovrebbe essere espressione della maggioran-
za politica, essendo il suo ruolo quello soprattutto di accertare
violazioni di legge e di garantire l’indipendenza dell’informa-
zione, non diciamo dai controlli ma da condizionamenti poli-
tici provenienti soprattutto dalle istituzioni di governo.
In terzo luogo, una misura tanto semplice quanto effica-
ce per sollevare la qualità del sistema televisivo e assicurarne
l’indipendenza sarebbe la previsione di un adeguato finanzia-
mento pubblico, inversamente proporzionale agli introiti pub-
blicitari e agli spazi riservati alla pubblicità. Una simile misu-
ra varrebbe tra l’altro a distinguere chiaramente le televisioni
commerciali da quelle di informazione. Si potrebbero inoltre
predeterminare tetti massimi di pubblicità, onde favorire la
distribuzione degli introiti pubblicitari e commisurare a tali
tetti la misura del finanziamento pubblico.
Infine, accanto al massimo pluralismo delle televisioni pri-
vate, andrebbe rafforzato il servizio pubblico con una politica
esattamente opposta a quella delle privatizzazioni oggi per-
seguita. C’è una norma nella Costituzione italiana, l’articolo
43, che sembra pensata proprio per questo problema, pur se
fu scritta quando ancora la televisione non esisteva:
Ai fini di utilità generale la legge può riservare originariamente
o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato,
ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate
imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici
essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano
carattere di preminente interesse generale.
Quale mai «servizio pubblico» è più «essenziale» e ha
maggiormente «carattere di preminente interesse generale» di
111
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
quella che ormai è diventata l’odierna arena politica, cioè la
sede più visibile, più affollata, più invadente e più decisiva del
dibattito pubblico e della formazione del consenso? Non di-
mentichiamo che fu proprio su questa norma che per decenni
la Corte costituzionale italiana fondò la legittimità del mono-
polio statale del servizio radiotelevisivo su scala nazionale. La
“riserva allo Stato” di tale servizio, essa affermò nella sentenza
n. 148 del 21.7.1981, si giustifica «in vista del fine di utilità
generale costituito dalla necessità di evitare l’accentramento
dell’emittenza radiotelevisiva in monopolio od oligopolio pri-
vato». E aggiunse, con lungimiranza:
L’asserito aumento della disciplina delle frequenze non appare
infatti elemento determinante per escludere il pericolo di oligopoli
privati, in quanto una serie di fattori di ordine economico, con la
utilizzazione del progresso della tecnologia, fa permanere i rischi di
concentrazione oligopolistica attraverso lo strumento della intercon-
nessione e degli altri ben noti mezzi di collegamento di vario tipo
oggi esistenti per le trasmissioni televisive.
Ovviamente non si tratta di ristabilire il monopolio statale,
ma semplicemente di evitare gli “oligopoli privati” paventati
in Italia, un quarto di secolo fa, dalla Corte costituzionale:
paventati peraltro con previsione ottimistica, visto che quegli
oligopoli si sono in realtà trasformati di fatto in un mono-
polio politico-privato. Si tratta al contrario di assicurarne la
concorrenza, grazie a un loro effettivo pluralismo, in aggiun-
ta a una forte televisione pubblica. Proprio perché “servizio
pubblico” destinato a “fini di utilità generale”, d’altro can-
to, la televisione pubblica ben potrebbe essere emancipata
dall’attuale dipendenza dalla pubblicità, tornando ad essere
112
L’informazione e le sue garanzie
una televisione prevalentemente non commerciale a sostegno
della quale si giustifica il pagamento del canone. È poi evi-
dente che il principio della separazione e del bilanciamento
dei poteri richiederebbe un’amministrazione della televisione
pubblica affidata non già, come oggi, a un organo di nomina
politica e perciò espressione della maggioranza o, nel miglio-
re dei casi, della lottizzazione partitica, bensì a un’istituzione
di garanzia separata organicamente dalle istituzioni di gover-
no, garante al tempo stesso dell’indipendenza dei giornalisti,
del pluralismo politico e della massima ed uguale possibilità
di accesso per tutti.
Separare e garantire la libertà dell’informazione dalla pro-
prietà; istituire autorità di garanzia finalizzate all’effettiva tu-
tela della libertà di stampa e di informazione; impedire ogni
forma di concentrazione della proprietà dei media; trasforma-
re le frequenze in beni pubblici parimenti accessibili a tutti;
favorire con adeguati finanziamenti inversamente proporzio-
nali agli introiti pubblicitari e con la creazione di impianti e
di infrastrutture comuni le televisioni non commerciali; affer-
mare il carattere oggettivamente pubblico della televisione in
quanto tale e allargare lo spazio del servizio televisivo in mano
pubblica: sono soltanto alcune delle possibili riforme volte a
fronteggiare il pericolo incombente del grande fratello. Sono
riforme difficili e attualmente del tutto improbabili. Ma che
almeno le forze di opposizione prendano coscienza dei termi-
ni drammatici del problema. Sono in gioco, su questo terreno,
le libertà fondamentali e la democrazia.
113
i media e la sovranità popolare
di stefano rodotà1
Il rapporto cittadini-informazione è sempre stato molto
complesso, differenziato nel tempo, variabile da paese a pa-
ese. In questi anni ha costituito l’oggetto sia di una riflessione
politico-istituzionale particolarmente intensa che ha proposto
una serie di questioni in modo diverso dal passato, sia un cam-
biamento radicale legato alle tecnologie dell’informazione.
In realtà noi discutiamo – ed è giusto che sia così e sarà qui
ribadito oggi – dell’informazione come un diritto con le due
facce, che sono state messe bene in evidenza da una ricerca
che va avanti da decenni, cioè diritto di informare e diritto
di essere informati, ma si è fatta strada, in maniera sempre
più netta, una riflessione sull’informazione che vede in essa
addirittura una precondizione del processo democratico. An-
che alcuni autorevolissimi sostenitori del carattere meramente
procedurale della democrazia, riflettendo in maniera più ap-
profondita, hanno dovuto ammettere che questa processualità
1
Testo dell’intervento di Stefano Rodotà nel Convegno, tenutosi il
10 novembre 2009 a Roma nella Biblioteca della Camera dei depu-
tati, su I diritti dei lettori della “Società Pannunzio per la libertà di in-
formazione” e poi pubblicato nel supplemento a “Critica liberale”,
nn. 173-174, marzo-aprile 2010. La trascrizione dell’intervento fu
rivista dalla redazione e approvata dall’autore.
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
della democrazia ha senso se alcune precondizioni sono ri-
spettate, e tra queste c’è certamente l’informazione adeguata
del cittadino che diventa un elemento necessario per l’effettivo
esercizio della sovranità popolare.
Inoltre, le tecnologie individuano crescenti opportunità
per i cittadini che vengono coinvolti nel processo informativo
in modo completamente diverso da quello del passato. È giu-
sto allora l’elenco che è scritto nella premessa di questa bozza
per uno Statuto dei diritti del lettore: «Il lettore, lo spettatore,
l’ascoltatore radiotelevisivo e l’utente web (nota: più avanti
chiamati sinteticamente lettori)». Siamo di fronte a una ridefi-
nizione del soggetto destinatario dell’informazione secondo i
mezzi che usa: il lettore ha il libro e il giornale, lo spettatore e
l’ascoltatore hanno la radio e la televisione, l’utente web è una
figura molto sfaccettata al suo interno.
Quest’ultimo ruolo mette in evidenza un dato che è par-
ticolarmente importante nell’ottica di questo Statuto, che si
fonda sulla possibilità di intervento attivo del cittadino. A me
non piace l’espressione “cittadinanza digitale”, perché tutte
le aggettivazioni che si aggiungono a parole forti come “de-
mocrazia”, “eguaglianza”, “cittadinanza” riducono la forza
del sostantivo. Finora il destinatario dell’informazione è sta-
to passivo. Ma questa condizione di passività oggi è sfidata
continuamente da una serie di tecnologie che consentono di
interagire con i mezzi tradizionali. Se voi guardate la versione
on-line di tutti i giornali italiani, trovate che gran parte delle
notizie sono accompagnate dalla formula: «Scrivi un com-
mento». Già questo tende a modificare il rapporto tra il for-
nitore dell’informazione e il destinatario dell’informazione.
Quale sia poi l’incidenza effettiva dello scrivere il commento
è altra cosa.
116
I media e la sovranità popolare
C’è un telegiornale, quello de “La7”, che si apre tutte le
sere con un sondaggio. Certo, è un campione autoselezionato
che non ha attendibilità scientifica, può essere discusso nella
sua qualità politica; tuttavia è uno strumento che individua il
destinatario dell’informazione in maniera diversa da quella in
cui eravamo abituati a percepirlo. Comincia a vederlo come
titolare di diritti. Il punto mi pare significativo.
Quando poi si leggono notizie tipo questa che io vi cito
testualmente: «Il “Guardian” chiama i blogger a coprire il de-
ficit di informazione locale», vedete immediatamente che lo
stesso strutturarsi del soggetto che fa informazione è legato a
un’interazione molto forte con quelli che altrimenti sarebbero
rimasti i destinatari dell’informazione. E sappiamo benissimo
poi che quest’altra forma dell’informazione diventa determi-
nante in situazioni particolari. Pensate alle elezioni in Iran e
a tutto quello che ne era seguito, alle vicende della Birma-
nia. C’è quindi un altro tipo di informazione che qualifica la
presenza dell’utente in maniera completamente diversa e in
maniera che diventa rilevantissima per chi fa informazione
professionale. Senza le immagini mandate dalla Birmania o
dall’Iran via telefonino, tutti i media tradizionali, dal giornale
a un media maturo come la televisione generalista, non avreb-
bero potuto assolutamente svolgere il loro compito.
La seconda questione (che io però affronto solo di sfuggita)
è la dimensione costituzionale, che è rilevantissima non solo
per la rilettura che qui si propone dell’articolo 21, secondo
comma, laddove si dice «la stampa non è soggetta ad autoriz-
zazioni e censure», che oggi deve essere impugnata con molta
maggiore determinazione rispetto al passato, anche perché
sono continui i tentativi, con intenti corporativi, di sottoporre
alla disciplina tradizionale della stampa scritta tutta una serie
117
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
di manifestazioni nuove. Non si può imporre un professionista
alla direzione responsabile, con intenti magari di rispetto per
chi lavora, o per impedire che ci sia un eccessivo sfruttamen-
to di coloro i quali, in una testata on-line, vengono utilizzati
con ancora maggiore disinvoltura e capacità di sfruttamento
di quanto non avvenga con il lavoro precario all’interno dei
giornali tradizionali.
Mi pare giusto avere ricordato, nell’ambito di questo di-
battito, anche l’articolo 3 della Costituzione che io leggerei in-
sieme all’articolo 2, perché qui ci sono due passaggi essenziali
sui diritti inviolabili e sulla rimozione degli ostacoli che sono
visti come condizione o riferimenti indispensabili per la libera
costruzione della personalità. La quale sta al centro di questi
due articoli ma che percorre l’intero testo costituzionale.
Faccio una parentesi. Devo essere molto sincero. Io sono
rimasto sconcertato dal modo in cui si è reagito a una propo-
sta, che non era certamente delle più vergognose, che veniva
dal ministero della Pubblica Istruzione, cioè quella di intro-
durre un insegnamento di cittadinanza e Costituzione. Sia-
mo così poco consapevoli della dimensione costituzionale che
c’è stata una reazione di opinionisti, ahimè accompagnati da
qualcuno che io non avrei mai sospettato di trovare in quella
compagnia, che hanno sostenuto: noi non dobbiamo impor-
re precettistiche. Quando mi sono trovato negli Stati Uniti, il
primo giorno di scuola, mio figlio, che aveva allora sette anni,
è tornato a casa con dei bei libri solidi che doveva restituire
alla fine del corso. Uno di questi libri era sulla Costituzione
americana. Anni sette. Chiusa la parentesi.
I riferimenti costituzionali sono evidentemente importan-
ti, sono sparsi nel testo costituzionale e devono essere sotto-
lineati, perché la costruzione della personalità libera, in un
118
I media e la sovranità popolare
sistema di inquinamento radicale del sistema dell’informa-
zione, è evidentemente qualcosa con cui noi dobbiamo fare i
conti, qualcosa che diventa sempre più difficile.
Comincia a sorgere una certa consapevolezza di questo.
È stata appena presentata da tre senatori (Marini, Ceccanti
e Sanna) una proposta di legge costituzionale per un 21 bis.
Non lo dovrei dire io, ma hanno scoperto una cosa che io
avevo completamente dimenticato, cioè che nella prima bi-
camerale io avevo fatto una proposta. Vi leggo il testo che fu
approvato all’unanimità dalla commissione. Si dice:
Nei limiti e nei modi stabiliti dalla legge, tutti hanno diritto di
cercare, trasmettere e ricevere informazioni nonché di accedere ai
documenti, agli atti amministrativi che li riguardano. Sono vietati
la raccolta e l’uso di informazioni che implichino discriminazione o
lesioni di diritti fondamentali della persona.
Adesso lo scriverei in modo diverso perché, per esempio
preferirei che la seconda parte fosse esemplata su quello che
sta scritto nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea,
per altro richiamata nella relazione. Però oggi, nel clima che
io ho molto velocemente e semplicisticamente ricordato, i
tre riferimenti (che sono poi quelli della Dichiarazione univer-
sale dei diritti dell’uomo del ’48) «cercare, trasmettere e ricevere
informazioni» assumono un significato molto diverso e mol-
to particolare perché le modalità di ricerca, le modalità di
ricevimento e le modalità di trasmissione delle informazioni
sono cambiate.
Naturalmente sappiamo che l’inquinamento del sistema è
molto forte. Non mi stanco mai di ricordare l’indagine Censis
dell’estate scorsa (che non mi pare un’indagine sospettabile
119
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
di parzialità) dove, da una parte, metteva in evidenza come il
69,3 per cento dei cittadini forma la sua opinione politica sui
telegiornali. Sicché anche il discorso sulla qualità e il plurali-
smo informativo in Italia non si fa misurando il fatto che c’è
“la Gazzetta di Parma” o “il Foglio” o che altro, ma consi-
derando qual è il luogo prevalente della formazione dell’opi-
nione pubblica. Se si disaggregano un po’ questi dati si vede
che più del 60 per cento attinge le sue informazioni a due
soli telegiornali, cioè al tg1 e al tg5. Abbiamo chiare così le
modalità di formazione della personalità del cittadino attivo.
È altrettanto chiaro che questa modalità incide in maniera
molto forte sulla stessa libertà di voto, se noi la dobbiamo
considerare non soltanto in una maniera del tutto formale.
Per cui in questo momento la disarticolazione che questo
Statuto della Società Pannunzio propone attraverso una serie
di diritti mi pare importante. Io qui vorrei mettere in evidenza
alcuni fattori che sono stati già parzialmente ricordati, perché
particolarmente significativi, a mio giudizio. In questo mo-
mento i rischi sono molto elevati.
Noi ci troviamo di fronte, proprio sul tema dell’informa-
zione, al tentativo di cancellare la “par condicio”. La “par
condicio” non mi piace per nulla per come è stata struttu-
rata; e tuttavia la prospettiva della sua cancellazione mi in-
quieta. Lo dico con grande sincerità. Sono disposto ad ac-
cettare dei correttivi sulla listarella presentata alle elezioni
che finisce con l’affollare in modo improprio le trasmissioni.
È un punto sul quale si può ragionevolmente discutere per
assicurare in qualche modo il diritto di tribuna. Conosco
bene il ragionamento che negli Stati Uniti hanno svolto tanti
studiosi liberali:
120
I media e la sovranità popolare
Si deve assolutamente rovesciare il principio d’oggi: chi ha già
la maggioranza parlamentare ha avuto già la possibilità di comu-
nicare enormemente. È lo sfidante che deve essere dotato di potere
informativo.
Quello che mi inquieta molto è l’affidare radicalmente al
denaro la capacità di informazione. Lo so che è un liberale
che nessuno legge tra quelli che si proclamano liberali, ma
John Rawls diceva, sfidando anche la vulgata che purtroppo
continua a circolare in Italia, che si doveva permettere ai can-
didati di usare soltanto risorse quantitativamente pari, perché
la forza del denaro è quella che inquina il processo di informa-
zione dell’opinione pubblica.
Poi c’è la disciplina dell’intercettazione così come è struttu-
rata. Fu Bocca a scrivere libro intitolato Il padrone in redazione. Il
padrone diventa padrone in redazione perché, nel momento
in cui cresce il rischio di impresa a causa dei risarcimenti di
danno che gli possono essere chiesti in base a quella disciplina,
vorrà controllare di più. Avrà un’occasione in più per chiedere
di contare.
Questi sono dei punti oggi altamente problematici. Un al-
tro punto è quello rappresentato dalla pubblicità, non solo dal
punto di vista della frode ma anche dal punto di vista delle
risorse necessarie ai giornali.
Non possiamo trascurare il tentativo di alterare il mercato.
Io lo vedo ripetutamente effettuato dal presidente del Con-
siglio [Berlusconi ndr] quando dice: «Non date pubblicità a
questi giornali», mentre i flussi pubblicitari dovrebbero essere
governati dalla convenienza economica. Quindi noi ci trovia-
mo di fronte a un inquinamento in radice del rapporto tra
cittadino e informazione.
121
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
Le altre considerazioni che io vorrei fare molto rapidamen-
te sono queste: le regole da rispettare. Uno. È stato sottoscrit-
to, nella primavera passata, un protocollo d’intesa, da parte di
tutti i rappresentanti delle reti televisive, per quanto riguarda
la rappresentazione di vicende che sono davanti all’autorità
giudiziaria. È stato sottoscritto da tutti, e contiene tutta una se-
rie di questioni che vengono affrontate con grande limpidezza,
a cominciare dalla necessità del contraddittorio. Sicché si do-
vrebbe pensare che, ad esempio, laddove il contraddittorio non
è possibile perché una delle parti (poniamo il giudice istruttore)
non può intervenire, ci deve essere una particolare sobrietà nel
dare la notizia. Questo è assolutamente trascurato.
Nella discussione sui tempi di fango, non mi risulta che,
tranne qualche disperato singolo tentativo, qualcuno abbia
letto una norma contenuta nel codice di deontologia dell’atti-
vità giornalistica (che – mi permetto di dire – non è un codice
deontologico come tutti gli altri: è, come si dice tecnicamente,
una norma secondaria. È una norma applicabile dal giudi-
ce ordinario, dal giudice amministrativo oltre che dai consigli
dell’Ordine). Lì, nell’articolo 6, comma 2 (lo ricordo perché
è un tema in discussione, e qui si dovrebbe giocare la partita
ragionevolmente) si dice:
La sfera privata delle persone note o che esercitano funzioni
pubbliche, deve essere rispettata se le notizie o i dati non hanno
alcun rilievo sul loro ruolo e sulla loro vita pubblica.
L’invocazione di tutela della privacy facendo riferimento
a questo articolo è ingiustificata. Mi permetto di citarlo e di
darne pure l’interpretazione autentica perché devo dire sin-
ceramente che, questo articolo, l’ho scritto materialmente io
122
I media e la sovranità popolare
quando lavorammo con l’Ordine dei giornalisti su questo pun-
to, consapevoli che era un grande tema già stato affrontato a
partire dal ’64 con il famoso caso “NewYork Times” contro
Sullivan. Il discorso, dal punto di vista giuridico, è rovesciato,
cioè io, uomo pubblico, non ho aspettativa di privacy se non
nel caso in cui queste notizie non abbiano alcun rilievo per
quanto riguarda il mio ruolo o la mia vita pubblica. Quindi, vi
rendete conto che ci sono regole che possono orientare. È inve-
ce l’anticipazione, la manipolazione processuale, che incidono
sull’opinione pubblica e, in qualche modo, ledono il diritto del
cittadino all’informazione, per quanto riguarda la giustizia.
Pluralismo. Io credo che sia importante.
Sul diritto di intervento bisogna un po’ lavorare, però è un
punto capitale, e mi limito a sottolineare quanto sia capitale
facendo riferimento a una controversa e anche controverti-
bile ipotesi che da anni propone un signore che insegna ad
Harvard e che si chiama Cass Sunstein. Illustre giurista, ha
insegnato per anni alla Law School della University of Chica-
go e ha anche una cattedra a Harvard. Obama l’ha messo a
capo dell’ufficio per la semplificazione, ma che ha anche altri
compiti importanti, come quello di vigilare affinché le varie
agenzie governative rispettino certe regole e certi standard nel
processo di produzione di norme e decreti.2
Collaboratore nell’estensione di varie recenti costituzioni è,
fin dagli anni ’80, tra i più autorevoli teorici del filone delibera-
tivo del repubblicanesimo, è stato nominato da Obama – come
si dice nel linguaggio colorito degli americani – “zar dell’in-
formazione”. Sunstein sostiene3 che un sito particolarmente
2
Cfr. www.inkiostro.com/2010/04/20/il-mio-internet-e-bello-cosi/
3
Cfr. www.repubblica.it/2009/12/sezioni/politica/giustizia-22/rodo-
ta/rodota.html
123
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
influente e particolarmente caratterizzato su alcuni contenuti
deve essere obbligatorio a indicare un link con un sito di opinio-
ne opposta. Il sito negazionista, però, a sua volta deve indicare a
chi lo visita: «Bada che c’è un’opinione completamente opposta
che tu puoi acquisire cliccando su www... e via dicendo».
Ora, io non voglio dilungarmi, questo è un punto contro-
verso, anche tecnicamente difficile da strutturare, e tuttavia ci
dice che il problema del pluralismo informativo e della possi-
bilità attiva dei soggetti che si trovano di fronte all’informazio-
ne è particolarmente importante. E ritengo che sia importan-
te l’articolo della bozza di Statuto sul diritto d’intervento. La
rettifica tradizionale è nell’interesse soprattutto della persona,
ma, se si afferma un diritto di intervento e di replica, se ne av-
vantaggia l’intera informazione. Questo diritto di intervento
va al di là del chiarimento di una vicenda personale, diventa
un modo per stabilire quell’ideale link con altre opinioni che
altrimenti in quella dimensione non ci sarebbe.
Un accenno rapidissimo conclusivo a un tema che ho af-
frontato all’inizio. L’informazione è condizione dell’esercizio
della sovranità. Io sono stato molto colpito da un argomento
che è stato utilizzato durante la campagna del referendum sul-
la procreazione assistita e ha avuto effetti per indurre all’asten-
sione. Si diceva: «Ma voi non capite niente di queste questio-
ni, sono troppo complicate, e dunque non andate a votare».
Tra tutte, questa è l’argomentazione più pericolosa, per-
ché in un paese che afferma che la sovranità popolare appar-
tiene al popolo si sostiene che ci siano questioni riguardanti
direttamente i cittadini, riguardanti addirittura la loro vita
biologica, su cui il cittadino non ha invece diritto di parola
dato che non possiede l’informazione adeguata. Anche qui mi
permetto di fare un riferimento a una discussione aperta da
124
I media e la sovranità popolare
un po’ di tempo negli Stati Uniti, laddove ci si augura il sor-
gere dello “scientific citizen”, che non vuol dire il cittadino
costruito scientificamente, ma il cittadino in grado di avere
le informazioni adeguate per poter dire la sua anche in que-
stioni apparentemente difficili. Trasferite questo discorso alla
questione più generale e vi rendete conto che l’adeguatezza
dell’informazione è condizione della sovranità, perché altri-
menti cadiamo in meccanismi di esclusione e di riduzione del-
la sovranità ai quali stiamo assistendo.
125
ieri in francia, oggi in italia.
da “le moniteur” a scalfari
ieri …
Il 26 febbraio 1815 Napoleone fugge dal suo esilio presso
l’isola d’Elba e torna a Parigi, dando inizio ai suoi ultimi Cento
giorni. Man mano che Napoleone si avvicina alla capitale, “Le
Moniteur”, che dopo l’insediamento di Luigi XVIII al Palazzo
delle Tuileries è diventato saggiamente monarchico, titola:
1° giorno: «L’antropofago è uscito dalla sua tana».
2° giorno: «L’orco della Corsica è appena sbarcato a Golfe-Juan».
3° giorno: «La tigre è arrivata a Gap».
4° giorno: «Il mostro ha dormito a Grenoble».
5° giorno: «Il tiranno ha attraversato Lione».
6° giorno: «L’usurpatore è stato visto a 60 leghe dalla capitale».
7° giorno: «Bonaparte avanza a grandi passi, ma non entrerà mai
in Parigi».
8° giorno: «Napoleone sarà domani sotto i nostri bastioni».
9° giorno: «L’imperatore è arrivato a Fontainbleau».
10° giorno: «Sua Maestà Imperiale fa il suo ingresso al Palazzo
delle Tuileries, in mezzo ai suoi fedeli Sudditi».1
1
Cfr. Jean-Noèl Jeanneney, Une histoire des médias: des origines a nos
jours, Paris, Seuil, 1996.
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
e oggi
Renzi, da «populista» e «autoritario» a «stati-
sta» come «Cavour e Garibaldi»
[Avvertenza per i lettori: il 15 gennaio 2016 a “la Repub-
blica” è inaspettatamente nominato direttore Mario Calabresi.
Così il quotidiano diventa renziano e nasce “Repubblica 2.0”.
Il 4 dicembre 2016, nonostante le perentorie condizioni poste,
per un anno, a Renzi e tutte respinte, il giorno delle votazioni
sul referendum costituzionale, il fondatore “bacia la pantofola”
al direttore Calabresi, citandolo espressamente all’inizio dell’e-
ditoriale che ufficializza il suo passaggio dal “No” al “Sì”].
12 agosto 2015: «Ma i due disegni di legge dei quali stiamo ora
parlando (elettorale e costituzionale, se sarà approvato) e sulle quali
le nostre opinioni divergono produrranno un mutamento talmente
radicale che a mio avviso equivale ad una riscrittura del contesto
costituzionale che soltanto una nuova Costituente potrebbe affron-
tare. A cominciare dall’abolizione di una delle due Camere». «Non
era mai accaduto che un fatto del genere avvenisse in Italia; bisogna
risalire alla legge Acerbo di mussoliniana memoria».
7 gennaio 2016: «Esiste il rischio che il populismo inquini anche
il pd? Questo sì, quel rischio esiste, anzi se vogliamo dire tutta la
verità quel rischio si è già in parte verificato, la Leopolda renziana
è pieno populismo». «Renzi ha l’intonazione populista. Non è un
insulto ma una constatazione». «Il risultato per Renzi è scontato:
vincerà, i no saranno assai meno dei sì». «Personalmente voterò no
perché sono contrario alla riforma del Senato».
128
Ieri in Francia, oggi in Italia
3 aprile 2016: «Ho più volte criticato questa tendenza autoritaria,
connessa anche ad una riforma elettorale maggioritaria e ad una
riforma costituzionale di trasformazione-abolizione del Senato».
17 aprile 2016: «Se vogliamo entrare nel contesto della legge
in questione per il poco che conta dichiaro che io voterò “no” per
vari motivi. Anzitutto il Senato viene privato di tutti i suoi poteri
legislativi». «Quanto al resto, il Senato di fatto è inesistente». «Così
come è stata concepita e approvata quella legge non soddisfa affatto
i requisiti oggettivi; il risultato politico sancisce dunque di fatto una
schiacciante presenza del potere Esecutivo rispetto a quello Legisla-
tivo, sicché il capo del governo comanda da solo».
11 maggio 2016: «Questa situazione Renzi la conosce bene e
quindi la sta affrontando con l’abilità che deve essergli ampiamente
riconosciuta. Domenica sera l’ha esibita in una trasmissione su rai3,
“Che tempo che fa” di Fabio Fazio. È stato bravissimo e credo abbia
convinto molte persone incerte su come votare». «Non c’è che dire,
è bravo, ha un carisma che eguaglia e forse supera quello che ebbe
Craxi ai suoi tempi». «Comunque Renzi è bravo e allo stato dei fatti
non sembra avere alternative. Vuole il comando; ebbene così sia.
Vuole comandare da solo, e così sia». «Renzi – lo ripeto con verità
e senza ironia – ha carisma e l’intelligenza di saperlo usare. Quindi
così sia. Ma, secondo il mio personale punto di vista, così sia soltanto
ad alcune condizioni. 1. Modificare la pessima legge elettorale già
esistente e adottare invece quella di De Gasperi del 1953, fondata sul
sistema proporzionale. 2. Ammettere l’apparentamento tra varie li-
ste, cioè un’alleanza pre-elettorale. 3. Introdurre un premio previsto
ad una maggioranza che ottenga un voto del 50 per cento più uno.
Una maggioranza talmente esigua da rischiare l’ingovernabilità. Il
premio dovrebbe arrivare al massimo ai 55 seggi ottenuti dai partiti
129
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
che hanno vinto». «Questi contenuti della legge elettorale vanno
emendati prima del voto referendario. Quando non ci fosse il tempo
procedurale (ma c’è) si dovrebbe varare un documento ufficiale che
s’impegni a modificarla nei modi suddetti e venga recapitato uffi-
cialmente a tutte le Alte Autorità dello Stato in modo da evitare che
l’impegno assunto sia tradito».
22 maggio 2016: «E poi c’è il referendum. L’appuntamento è de-
cisivo. Se Renzi vince sarà padrone, se perde si apre uno scenario
nuovo sul quale è molto difficile fare previsioni. Personalmente – l’ho
già detto e scritto – voterò “No”, ma non tanto per le domande del
referendum quanto per la legge elettorale che gli è strettissimamente
connessa. Se Renzi cambia quella legge (personalmente ho sugge-
rito quella di De Gasperi del 1953) voterò “Sì”, altrimenti “No”. E
immagino che siano molti a votare in questo stesso modo». «Pensaci
bene, caro Matteo; se anche vincessi per il rotto della cuffia sarai,
come ho già detto, un padrone. Ma i padroni corrono rischi politici
tremendi e farai una vita d’inferno, tu e il nostro Paese».
25 maggio 2016: «E poi c’è il referendum, quello che può ri-
schiare di trasformarsi in un Renxit. Si può rischiare un pericolo
simile? Io personalmente [...] voterò “No”. Lo faccio perché trovo
inaccettabile per la democrazia italiana l’attuale legge elettorale».
9 ottobre 2016: «Desidero subito chiarire un punto: io non sono
contrario al referendum per ciò che contiene e che in sostanza consi-
ste nell’abolizione del bicameralismo perfetto. Esso esiste già in qua-
si tutti i Paesi democratici dell’Occidente, rappresenta un elemento
a favore della stabilità governativa che non significa necessariamen-
te autoritarismo: può significarlo però se la legge elettorale è fatta in
modo da conferirgli questa fisionomia. Ragion per cui mi sembra
130
Ieri in Francia, oggi in Italia
onesto dichiarare fin d’ora quale sarà il mio voto al referendum».
«Se il governo cambierà prima del 4 dicembre alcuni punti sostan-
ziali della legge elettorale o quanto meno presenterà alla Camera
e al Senato una legge elettorale adeguata che sarà poi approvata
dopo il referendum, voterò “Sì”; se invece questo non avverrà o se
eventuali modifiche a quella legge saranno di pura facciata, allora
voterò “No”».
16 ottobre 2016: «Se vincesse il “No” la sua carriera politica sareb-
be finita, questo è certo, sia come presidente del Consiglio sia come
segretario del partito». «Sarebbe un danno o un vantaggio per l’I-
talia? La risposta a questa domanda non rientra nei ferri del mio
mestiere, è un giudizio personale d’un cittadino che con la politica
ha una certa familiarità, perciò dico questo: un nuovo segretario non
porterebbe alcun danno al partito; un nuovo capo di governo proba-
bilmente sì, soprattutto a livello europeo». «La mia risposta, credo
oggettiva, è stata di mettere l’accento sulla legge elettorale che a mio
avviso va profondamente cambiata per evitare un ballottaggio che
oggi in un sistema non più bipolare ma tripolare, darebbe probabil-
mente forti chance di vittoria ai Cinquestelle e comunque, così come è
fatta, darebbe allo stesso Renzi poteri maggiori di quelli che già pos-
siede». «Lui [Renzi] ha capito – mi ha detto – che deve modificare la
legge elettorale vigente [...] con tre limiti però: 1. Pubblicamente, e
cioè in Parlamento. Verrà deliberato che l’Italicum sarà modificato,
ma il contenuto specifico sarà reso noto e discusso dopo il voto refe-
rendario del 4 dicembre e dopo la sentenza della Corte costituzionale
che entro dicembre sarà resa nota. 2. Il premio di maggioranza non
si tocca [...]. 3. Il ballottaggio non si tocca neppure quello».
23 ottobre 2016: «Recentemente però Renzi si è reso conto che la
ricerca del consenso deve avere come solida base non alcune regole
131
I diritti dei lettori. Una proposta liberale
pro tempore, ma una politica antirecessiva e quindi le ha in qualche
modo modificate. Siamo ancora lontani dal 10 e lode, ma una suf-
ficienza l’ha meritata. Speriamo che in un prossimo futuro dal 6
raggiunga almeno l’8 su dieci». «Qualora però il Parlamento prove-
nisse da una legge elettorale sostanzialmente favorevole al governo
in carica al momento del voto, allora diventerebbe lo sgabello per un
governo e soprattutto per il suo premier con tendenze autoritarie».
«Renzi fino a poco tempo fa ha del tutto ignorato, anzi ha negato
che l’Italicum abbia questi difetti. Vuole la lista unica, vuole il pre-
mio di maggioranza, vuole il ballottaggio».
13 novembre 2016: «Hanno lavorato per quasi un mese e dopo
lunghe discussioni hanno raggiunto un progetto comune. Il progetto
[...] è stato sottoposto a Renzi e da lui approvato. Ne dette notizia
qualche giorno fa nel corso di un discorso comiziale in favore dei
“Sì” referendari, leggendo anche il comunicato che i Cinque ave-
vano stilato. Dopo quella sua pubblica adesione alla riforma elet-
torale proposta dai Cinque non ne ha più parlato. Sembrerebbe a
questo punto che la sua adesione ci sia stata, ma poi l’ha mandata
in soffitta. È un grave errore al quale ci auguriamo ponga riparo al
più presto». «Personalmente non sono né di sentimenti renziani né
antirenziani, ma mi rendo conto che se il premier fosse costretto
alle dimissioni a causa di un “No” vincente, si aprirebbe un periodo
di estrema difficoltà per il nostro Paese con una netta diminuzione
della governabilità e una instabilità in Europa».
1 dicembre 2016: «Questo è l’esercito del “No”. Caro Zagrebel-
sky, sei con una pessima compagnia e dovresti forse riflettere un
momento, anche se so che non lo farai». «Amici che votate “No”,
c’è tra le tante una ragione profondamente ideale, un valore con-
creto che vi ricordo: il Manifesto scritto a Ventotene, dove erano al
132
Ieri in Francia, oggi in Italia
confino fascista, da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Co-
lorni: gli Stati Uniti di Europa. La bandiera di Ventotene la porte-
rete tra la gente di Brunetta, di Salvini e di Grillo? Ci avete pensato
e avete deciso di chiudere gli occhi e di marciare al buio verso il
nulla con l’unica intenzione di mandare Renzi in soffitta?»
4 dicembre 2016: «L’articolo di Mario Calabresi e quello di Stefa-
no Folli usciti su questo giornale inquadrano perfettamente la crisi
che l’Italia sta attraversando, una crisi epocale che ha colpito perfino
l’America». «La crisi italiana aggiunge una sorta di disfacimento
all’analoga crisi europea, il peggio si aggiunge al peggio. Il tutto è
esploso con questo referendum che abbiamo tra i piedi». «Il quesito
che oggi stiamo votando si riassume nell’abolizione del bicamerali-
smo perfetto e quindi nell’instaurazione di un regime monocamera-
le». «Se vogliamo prenderci la briga di vedere com’è la situazione nel
Paese dove è nata storicamente la democrazia e cioè l’Inghilterra».
«Sono tanti anni che il tema è all’ordine dell’attenzione politica, [...]
Renzi c’è infine riuscito a farlo, questo merito gli va riconosciuto».
11 dicembre 2016: «Io per esempio ho deciso di votare “Sì”». «Il
presidente Mattarella dovrebbe cercare di convincere Renzi ad un
reincarico per un governo nella pienezza delle sue funzioni». «Nel
2018 la legislatura sarà terminata, ma i compiti di uno statista no.
Fammi sognare che tra alcuni giorni somiglierai in vesti moderne a
quello che furono un secolo e mezzo fa Cavour e Garibaldi: la guida
politica e lo spirito rivoluzionario».
133
postilla
Il testo qui pubblicato riproduce con sostanziali modifi-
che il Libro blu. Sullo stato della democrazia dei media, proposte per
una politica riformatrice che fu alla base della costituzione della
“Società Pannunzio per la libertà d’informazione”, 2009. A
sua volta il Libro blu era ricavato da Le voci del padrone. Saggio di
liberalismo applicato alla servitù dei media, Edizioni Dedalo, 2006,
dove la trattazione ovviamente è più ampia e argomentata.
Una prima versione dello Statuto dei diritti dei lettori fu pre-
sentata in un convegno della “Società Pannunzio” relativo a
questo argomento, tenutosi nel 2010. La “Società Pannun-
zio per la libertà d’informazione” fu fondata tra coloro che
avevano a cuore le sorti di quella che Kant definiva «libertà
di penna». La Società si ispira alla “Société des Amis de la
liberté et de la presse” che sorse in Francia nel novembre del
1817. Vi aderirono personaggi come Benjamin Constant,
Achille de Broglie, Paul-Louis Courier, e Jean-Baptiste Say
che, con un’attività frenetica fatta di appelli, petizioni, lette-
re e sottoscrizioni per pagare le multe con cui erano penaliz-
zati i giornali d’opposizione, seppero influenzare la riforma
della legislazione francese sulla stampa. Quell’esperienza fu
storicamente importante perché, per la prima volta, alcuni
cittadini si organizzarono in un’associazione per battersi sul
tema della libertà dell’espressione del pensiero, dimostran-
do di comprendere che quella era un’epoca – com’è anche
l’attuale – in cui tale libertà assumeva un rilievo strategico.
La “Pannunzio” fa anche riferimento esplicito alle battaglie
civili condotte da “Il Mondo” e dal suo direttore, nonché dal
“Movimento Salvemini”.
indice
7 premessa
dai decenni bui all’età della demagogia
7 la resa dei conti
9 la normalità e la sfacciataggine
10 la terza repubblica
12 la lingua tagliata
14 la retorica buonista
15 cocciutamente per le riforme
16 mio dio , come sei caduta in basso !
18 una crisi pressoché irreversibile e strutturale
20 i direttori kapò
22 da “watchdog” a “fighting dog”
24 e gli altri ?
27 sullo stato della libertà dei media e la
loro riforma
27 1. nero su nero
30 2. i media non sono liberi
31 3. non c’è democrazia senza informazione indi-
pendente
33 4. opinione pubblica e propaganda
34 5. rilevanza e rivoluzione dei nuovi media
36 6. cittadini, lettori, consumatori
38 7. la palude conformista
41 8. cinque criteri per la riforma dei media
41 9. i tre poteri della “sfera pubblica”: un nuovo
separatismo
43 10. i compiti di garanzia di uno stato neutrale
45 11. un modello per la libertà ‘informazione’.
premessa
47 12. la rilevanza pubblica dell’informazione
48 13. le difficoltà del modello, possibili soluzioni
53 14. la soluzione b : il motu proprio
55 15. che fare?
58 16. lo “statuto dei diritti dei lettori” e la
corporazione dei giornalisti
63 i diritti dei lettori
67 una politica riformatrice
68 la necessità di uno statuto
70 ma quali diritti ?
79 lo statuto dei lettori
97 l ’ informazione e le sue garanzie
di luigi ferrajoli
115 i media e la sovranità popolare
di stefano rodotà
127 ieri in francia , oggi in italia . da “ le
moniteur ” a scalfari
135 postilla
Pubblicato nel mese di ottobre 2020