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Vol. CXCI ANNO CXXXI Fasc.

635
3o trimestre 2014

DIRETTO DA

L. Battaglia RICCI - F. BRUNI - S. CARRAI - M. CHIESA


A. DI BENEDETTO - M. MARTI - M. POZZI

2014
LOESCHER EDITORE
TORINO
Appunti per una rilettura
degli Ecatommiti

1. L’edizione
La collana dei “Novellieri italiani” ai tanti meriti che si è ac-
quistata aggiunge ora quello di un’edizione moderna e integra-
le degli Ecatommiti (1), opera sotto molti aspetti discutibile ma
certo importantissima per le storie della letteratura, della lin-
gua, del gusto e della cultura. L’ha curata con grande scrupolo
Susanna Villari, una vera specialista di Giraldi, fornendola di
Introduzione, Nota biografica, Nota bibliografica, due appen-
dici (la prima redazione del capitolo in terzine L’autore all’ope-
ra; l’errata corrige dell’editio princeps), commento puntuale a
piè di pagina, Nota al testo e relativo apparato e infine gli uti-
lissimi indici dei nomi propri e delle note linguistiche. Giraldi
pubblicò quest’opera monumentale la prima volta a Mondovì
nel 1565, concludendo una fatica probabilmente pluridecen-
nale (come quella della Villari), in cui si misurava per la prima
volta con un genere non codificato ed evasivo come la novella,
dopo aver riscosso numerosi successi nei generi alti della trage-
dia e della trattatistica e aver compiuto sperimentazioni sul poe-
ma epico. L’opera ebbe una notevole fortuna: fu ripubblicata
sei volte, sempre a Venezia, fino al 1608 e non mancarono le
traduzioni in francese, spagnolo, tedesco. Fu un grande succes-
so di pubblico e di critica, a cui seguì, come per tanti altri scritti
cinquecenteschi, il silenzio fino alle due edizioni ottocentesche:
Firenze, Borghi (1834); Torino, Pomba (1853-4). Nel 1580 gli
inquisitori di Parma la misero all’Indice, ma la sua fortuna non

(1) G. B. Giraldi Cinzio, Gli ecatommiti, a cura di Susanna Villari, Roma, Salerno
(«I novellieri italiani», 34), 2012, pp. 2136 in tre tomi. Cito direttamente le pagine nel
testo.
322 mario pozzi

si arrestò: dai contemporanei fu letta assai più delle tragedie, a


cui invece oggi è prevalentemente legata la fortuna di Giraldi.
Il confronto tra i molti esemplari superstiti dell’editio prin-
ceps – scrive la Villari (p. 2000) – «ha fatto emergere differenze
strutturali (oltre a varianti testuali), che si offrono come in-
dizi di un’attiva partecipazione dell’autore alla realizzazione
della stampa». La formula collazionale indica «un articolato
processo compositivo e editoriale, evidenziato dall’assenza di
continuità nell’organizzazione dei fascicoli»; pertanto appare
fondata «l’ipotesi che originariamente i volumi avessero una
veste tipografica ben diversa, che riproduceva presumibilmen-
te l’organizzazione del manoscritto oggi perduto consegnato
in tipografia: il primo volume doveva accogliere, in 904 pagine
regolarmente numerate, il “principio”, l’introduzione, le dieci
novelle introduttive e le prime cinque deche», ma non ancora
i fascicoli iniziali (comprendenti il frontespizio e gli elementi
paratestuali tra cui l’indice e le dediche a Emanuele Filiberto
di Savoia e a Girolamo Della Rovere) e quelli con le lettere
dedicatorie premesse alle prime cinque deche; «il secondo vo-
lume doveva in origine accogliere soltanto le 820 pagine con i
dialoghi, le altre cinque deche e il capitolo in terzine, mentre
mancavano ancora probabilmente i fascicoli iniziali, compren-
denti tra l’altro le dediche ad Alfonso d’Este e al Principe di
Piemonte, e i fascicoli […] contenenti tutte le altre dediche, la
sezione finale di una nuova redazione del capitolo in terzine
e gli errata corrige». Evidentemente Giraldi, quando il lavoro
era già ultimato non si limitò a consegnare quei testi che nor-
malmente si danno all’editore a stampa conclusa (imprimatur,
errata corrige e indici) «ma sollecitò l’inserzione di elementi
nuovi, come altre tredici dediche» (p. 2001). Quando poi era
ormai iniziata la diffusione dell’opera, riscrisse il capitolo in
terzine «L’autore all’opera» per imposizione del potere poli-
tico. Non posso riassumere oltre la nota al testo, che segnala
anche varianti strutturali e formali, alcune adiafore, altre so-
stanziali. L’edizione mi sembra compiuta con grande acribia
e pazienza, tanto più che vi sono anche tre edizioni autonome
dei Dialoghi della vita civile: due uscite nel 1565 e una nel 1566.
La Villari, esaminata tutta la tradizione, rileva una «chiara vo-
APPUNTI PER UNA LETTURA DEGLI ECATOMMITI 323

lontà degli editori», sopra tutto a partire dalla stampa del 1574,
«di assimilare la struttura della raccolta giraldiana a quella del
Decameron, con la soppressione di tutti quegli elementi che
potevano apparire “spuri”, fino all’eliminazione ottocentesca
anche dei Dialoghi della vita civile. Tali operazioni editoriali
determinarono e sancirono i fraintendimenti che, fino a tempi
non lontani, hanno condizionato l’interpretazione dell’opera»
(pp. 2025-6).
La Villari si è fondata sull’editio princeps, l’unica seguita e
approvata dall’autore; e come base ha scelto l’esemplare custodi-
to nella Biblioteca Nazionale di Napoli (segnatura S.Q.XXXIII
F13-14), «che accoglie tutte le definitive forme di stampa» (p.
2029), ma comunque presenta un gran numero di errori di va-
rio genere, solo in parte sanati dalla corposissima errata corrige
dell’autore, qui opportunamente riprodotta, perché consente in
qualche modo di constatare quali fossero le forme da lui rifiu-
tate. Non solo. Nella fretta talora Giraldi corresse in un posto e
non in un altro. A pp. 111-2 leggiamo di una «schiavona allora
in potestà di un gran cardinale», che poco dopo (p. 112) vien
detto signore (e così corressero le edizioni postume tra il 1574 e
il 1593). Giraldi dunque pensava a un cardinale e sapeva di non
poterlo dire, ma la prima volta si dimenticò di correggere e la
censura non se ne accorse. La curatrice lascia cardinale e segnala
la questione in nota, e secondo me fa bene, ma certamente Gi-
raldi voleva correggere in signore.
Un gran numero di guasti di vario genere sono stati emen-
dati; alcuni secondo le indicazioni dell’errata corrige (peraltro
alquanto complessa), altri già sanati nelle successive edizioni,
altri individuati dalla Villari (pp. 2055–2074). Persino sui nomi
di novellatori si sono rese necessarie delle correzioni, senza pe-
raltro potere, «a causa di più complesse implicazioni, interve-
nire per ripristinare i corretti turni dei narratori (alterati per
una svista a partire da VI 3 3)» (p. 2074) (2). Né ha potuto

(2) Si noti che la curatrice indica le varie parti degli Ecatommiti con un numero ro-
mano, seguito dal numero della novella o della ulteriore suddivisione in numero arabo
e da quello del paragrafo. La suddivisione in paragrafi è utilissima per chi ha i tre tomi
in mano. Qui per ragioni pratiche indico il numero della pagina. VI 3 3 dunque vale
“Deca sesta, novella terza, paragrafo 3”.
324 mario pozzi

correggere l’incongruente indicazione di Savona (p. 1413) qua-


le ulteriore tappa del viaggio verso Marsiglia: a Savona erano
già arrivati nella conclusione della deca precedente: «Si può
soltanto immaginare quella che avrebbe potuto essere designa-
ta come tappa intermedia: ad esempio Porto Maurizio oppu-
re Oneglia» (p. 1413 n. 2). Queste e altre sviste mostrano che
Giraldi desiderava pubblicare l’opera il più presto possibile e
continuò fino all’ultimo a inserire nuove pagine e a correggerne
altre.
La Villari ha sbrogliato questa situazione assai ingarbuglia-
ta, compiendo un vero restauro del testo. I criteri editoriali
sono assennati, sia per quanto riguarda la correzione dei nume-
rosissimi refusi o interventi editoriali sia per quanto riguarda i
criteri di trascrizione. Tutti questi e altri aspetti problematici
sono analizzati e documentati con la massima cura e discussi
con grande perizia, mostrando anche la progressiva degrada-
zione del testo fino alle edizioni ottocentesche. Lo scrupoloso
commento a piè di pagina agevola la comprensione del testo e
ne indica le fonti: molto utile nella prima nota di ogni novella
l’indicazione del tema del racconto, degli eventuali anteceden-
ti, della presenza di fatti storici, ecc. Non solo. La Villari con
l’ottima conoscenza degli scritti giraldiani e in particolare del-
le lettere, da lei edite nel 1996 (3), ha potuto smontare molte
riserve e giudizi preconcetti sugli Ecatommiti. Posso fare solo
una piccola considerazione, forse un po’ pedantesca. Avrei
scritto Cintio, e non Cinzio, l’appellativo aggiunto al cognome
dell’autore, vista l’origine greca e la scrizione con th. E infatti i
dizionari latini traducono Cynthius nell’italiano Cintio.
Conosciuta la tormentata storia della prima edizione, perde
assai d’importanza la questione di quando Giraldi cominciò a
scrivere le novelle. Non è comunque privo di interesse sapere
se è vero quanto egli scrisse più volte – per esempio nella de-
dica della prima parte dell’opera a Emanuele Filiberto (p. 7)
– che cominciò a scrivere questi «ragionamenti» l’anno dopo il
sacco del 1527 e che li trascurò «per lo spazio di più di trenta

(3) G.B. Giraldi Cinzio, Carteggio, a cura di Susanna Villari, Messina, Sicania,
1996.
APPUNTI PER UNA LETTURA DEGLI ECATOMMITI 325

anni», dopo i quali li rilesse constatando che non erano indegni


di essere rivisti nella sua età canuta: «Laonde gli ho richiamati
(come si suol dire) sotto la lima e vi ho messa quella maggior
diligenza che mi hanno conceduta i noiosi travagli dell’animo e
la indisposizione del corpo, acciò che, se non divenissero per-
fettamente tersi e politi, almeno potessero comparire men rozzi
e rugginosi meno» (p. 9). Come osserva Marzia Pieri (4), lo
dice «con apparente noncuranza», ma in realtà fu un lavoro
puntiglioso per dare all’opera «una omogeneità linguistica che
certo doveva riuscirgli ardua». La lingua e lo stile, infatti, ap-
paiono lontani dal bembismo e vicini a quella lingua italiana
che si era da poco affermata grazie al lavoro dei correttori
di tipografia.
Secondo la Villari Giraldi afferma il vero, anche se manca-
no testimonianze autografe e documenti che attestino inequi-
vocabilmente i percorsi della scrittura e dell’organizzazione
della raccolta. L’edizione del 1565 «fu pertanto il risultato di
un impegno compositivo, sia pure non continuativo, di cir-
ca trentasette anni». Non riassumerò i suoi argomenti, tutti
fondati sul buon senso. Invece è chiaramente dimostrato che
la sua non fu – come a lungo si è creduto – una tarda conver-
sione al volgare: aveva subito letto le Prose della volgar lingua
di Bembo, dalle quali fu indotto «a cimentarsi, pur nell’am-
biente accademico ferrarese, ostile al volgare, in rime di tradi-
zione petrarchesca, confluite presumibilmente nel canzoniere
Le Fiamme» (p. XI). Non solo. Inviò al maestro della nuova
letteratura – come si apprende da una lettera che gli indirizzò
il 12 febbraio 1529 – alcuni sonetti, dichiarandosi suo devoto
scolaro: «insino ora sol voi, dopo il Petrarca […] ho seguito»
e per poter continuare a seguirlo lo pregava di fargli conosce-
re i suoi futuri componimenti (5). Quanto alla composizione
delle novelle, nessun argomento è decisivo, ma certo la Villari
abbatte tutte le varie considerazioni che inducevano i critici a
non prendere sul serio le dichiarazioni dell’autore e presenta
molti indizi in contrario.

(4) La strategia edificante degli «Ecatommiti», in «Esperienze letterarie», III, 1978,


3, p. 44.
(5) G.B. Giraldi, Carteggio cit., p. 90.
326 mario pozzi

È certo, però, che dopo l’inizio la raccolta di novelle non


aveva fatto grandi passi in avanti. Bartolomeo Cavalcanti e Sal-
lustio Piccolomini, come vedremo, lamentavano la discrepan-
za tra il titolo grecizzante Ecatommiti (ovvero ‘cento novelle’)
e la presenza di sole settanta novelle (la versione definitiva, a
stampa, ne contiene più di centodieci). Con molta abilità la
curatrice riesce a individuare le settanta novelle già composte,
che «potrebbero essere […] quelle corrispondenti ai raggrup-
pamenti tematici delle attuali prime sei deche e dell’ottava».
È verisimile che l’invito di Giulia, una delle nobildonne della
brigata, a non andar oltre la quinta giornata nella programma-
zione dei ragionamenti (pp. 361-2), celi, «sotto la finzione, la
concreta situazione di un abbozzo di cui ancora l’autore non
poteva prevedere con precisione gli sviluppi». Nella redazione
parziale esaminata da Cavalcanti e Piccolomini (rispettivamen-
te nel 1560 e nel 1563!) probabilmente mancavano «ancora
le novelle della settima deca, sui motti, e le novelle delle ulti-
me due deche, sul tema della fortuna e degli atti di cavalleria
(la cui narrazione è predisposta dai narratori di volta in volta
nell’ambito della conclusione delle deche VI-VIII, lasciando,
però, implicita la determinazione della materia della deca de-
cima» (p. XIV).
La Villari, però, sostiene che «gli interventi sulla prima ste-
sura non intaccarono la sostanza ideologica della raccolta: è da
scartare la tesi di una giustapposizione di motivi moralistici,
perché le istanze etico-pedagogiche costituiscono la ragione
primaria della scrittura e caratterizzano tutto il percorso ideo-
logico giraldiano. Piuttosto, l’impianto moraleggiante poteva
essere potenziato dalla progressiva acquisizione di nuove co-
noscenze, sia empiriche che speculative, dall’affinamento del-
le tecniche narrative, dall’introspezione dei personaggi, dalla
complicazione degli intrecci, dall’arricchimento della cornice
intradiegetica e dall’introduzione di paratesti, come le dedi-
che» (p. XV). Ritiene infine che i Dialoghi sulla vita attiva fos-
sero stati originariamente concepiti come opera autonoma e
solo successivamente integrati nella struttura degli Ecatommiti
(p. XVI) e che questa integrazione riuscì perfettamente tanto
che le novelle non possono stare senza i Dialoghi e viceversa.
APPUNTI PER UNA LETTURA DEGLI ECATOMMITI 327

Le sue argomentazioni a me paiono convincenti. Si può solo


aggiungere che certamente Giraldi negli anni Trenta scri-
veva in un modo molto diverso da come scriveva negli anni
Sessanta e che nella seconda parte aumentano i segni di os-
sequio ai dettami della Chiesa cattolica e gli interventi della
bontà divina sulle vicende umane.
Dirò subito che questa edizione restaurata di per sé risolve
molti problemi che si erano posti tutti quelli che avevano fati-
cosamente letto gli Ecatommiti con la loro selva di errori, più
o meno emendabili, e con una struttura che appariva piuttosto
confusa. Giraldi mi pareva uno scrittore arruffato, oggi la sua
prosa mi pare splendida: quasi ad apertura di libro mi ha col-
pito l’omogeneità della lingua e dello stile, sempre sostenuto,
indipendentemente dalle situazioni e dagli argomenti. La sua
scrittura è un bell’esempio di come la lingua letteraria naziona-
le fosse ormai capace di trattare gli argomenti più diversi e, per
quanto riguarda la forma, della tendenza a fare della novella un
genere onnicomprensivo, in cui la narrazione è solo un aspetto
di quella che potremmo chiamare la civil conversazione.

2. Il nuovo Decameron
Non è difficile capire perché l’esperimento giovanile sia ri-
masto così a lungo sul telaio. È verisimile che egli fin da prin-
cipio avesse pensato a normare con l’esempio il genere anco-
ra indefinito a cui apparteneva il modello della prosa italiana
(6), ma, a parte i tanti impegni che aveva, dovette accorgersi
della difficoltà di realizzare qualcosa di nuovo rispetto al mo-
dello, apprezzato per la lingua e lo stile ma non per il con-
tenuto. Seguendo Bembo era facile diventare un petrarchista,
ma ben difficile scrivere una raccolta di novelle. Nelle Prose

(6) Marie-Françoise Piéjus (Narration et démonstration: le double apparat présen-


tatif dans les «Ecatommiti» de G. Cinzio, in Culture et société en Italie du Moyen-Âge à
la Renaissance. Hommage à André Rochon, Paris, Université de la Sorbonne Nouvelle,
1985, pp. 293-310) ritiene che l’ambizione iniziale di Giraldi fosse «de réaliser un
Décaméron ferrarais, permettant ainsi à une ville dont le prestige était incontesté dans
le domaine du roman chevaleresque et du théâtre, de se mesurer sur un autre plan avec
sa rivale florentine» (p. 300). Probabilmente ha ragione; Giraldi tentò nuove strade in
ogni campo della letteratura e diede soluzioni ragionevoli a molte questioni di poetica
volgare.
328 mario pozzi

si illustrano le forme e lo stile della poesia petrarchesca, ma


non si dice mai che sia bene scrivere novelle. Verso la metà del
secolo la situazione era profondamente cambiata. Boccaccio,
dai più, era stato accolto obtorto collo, prova ne sia che fuori
Firenze nessuno si provò a imitare il Decameron. Se il modello
decameroniano era stato accettato mal volentieri da gran parte
della cultura cortigiana, la sua buona fama era ancora calata
per le sopraggiunte riserve morali e religiose. Quel capolavoro
sembrava lontano per lingua, stile e contenuti. Lo mostra chia-
ramente Girolamo Ruscelli nel 1558, quando, rivolgendosi ai
lettori del Modo di comporre versi nella lingua italiana, propone
un vero e proprio antidecamerone, in cui quasi niente si salva
di quello originale. In molte considerazioni il suo atteggiamen-
to coincide con quello di Giraldi; per esempio quando scrive
che si «è indutto a fare […] un volume di novelle non solo da
dilettare (che però è la principale intenzion sua) ma ancora da
giovare» che «s’è procurato in esse che venga ad esservi come
una tela d’istorie e d’essempi veri e notabilissimi, e con questo
di tener parimente spiegata in essempi o in pratica tutta l’Etica
d’Aristotile, accompagnata coi modi moderni, e facendo o nei
principii o per entro alle novelle cader le diffinizioni, le regole,
i precetti e le obiezzioni e le soluzioni che vi appartengono»
(7). La raccolta di novelle, a cui prima aveva lavorato svoglia-
tamente e a tempo perso, ora poteva essere nobilitata in modo
da rispondere ai nuovi interessi di letterati e uomini colti in ge-
nere, che amavano più l’utile del dilettevole. Infine la condan-
na all’Indice del Decameron aprì spazi nuovi a chi fosse stato
capace di sostituire quell’opera con un altro cento novelle, che
rispondesse in pieno alle norme stabilite dal Concilio di Trento
e alla realtà politica e sociale italiana.
Il tempo era maturo per scrivere un altro e miglior cento
novelle, innalzando un genere evasivo e mal definito a opera
d’arte adatta a un progetto educativo grazie agli esempi di
virtù e di vizii che poteva proporre. Allora gli Ecatommiti a
lungo trascurati divennero per lui il punto più alto a cui po-

(7) G. Ruscelli, Dediche e avvisi ai lettori, a cura di A. Iacono e P. Marini, Man-


ziana, Vecchiarelli, 2011, pp. 212-4.
APPUNTI PER UNA LETTURA DEGLI ECATOMMITI 329

tessero pervenire i suoi studi di poetica e le sperimentazioni


di nuove forme espressive: dare all’Italia un nuovo modello
narrativo che, eliminati i racconti oziosi e meramente diver-
tenti, mostrasse la capacità della nostra lingua di affrontare
argomenti di alto livello e addirittura filosofici, andando ben
al di là di quanto Bembo aveva fatto negli Asolani.
Che occorresse un nuovo cento novelle non era opinione
solamente di Ruscelli, sempre capace di fiutare le richieste edi-
toriali, ma anche di Bartolomeo Cavalcanti che, esaminata l’o-
pera ancora incompleta, in una lettera all’autore del 3 maggio
1560 ne diede un giudizio che è bene ricordare per compren-
dere il contesto culturale in cui Giraldi operava. Gli Ecatommi-
ti suscitano la sua piena soddisfazione
e, considerati gli argomenti e la loro disposizione, mi è parso che abbiate
messa innanti agli uomini una gentil forma di azioni civili, con ciò sia che, per
gli avenimenti raccontati nella bella occasione che vi ha data il già miserabile
sacco di Roma, avete voltato lo stile a biasimare la disonestà, la disubidienza
de’ minori verso de’ loro maggiori, gli adulteri, gli ingannatori, la ingrati-
tudine. E per lo contrario lodare la fede de’ mariti e delle mogli, gli atti di
cortesia e le altre lodevoli azioni che toccate in questo maneggio. E abbiate
acconciamente mostrato di quali pene siano degni i rei uomini e di quali
meriti i buoni e vertuosi.

Dunque approva pienamente i propositi moralistici e didattici


degli Ecatommiti. Non solo; è convinto che la nuova opera su-
pererà il Decameron:
E porto speranza che saranno più care queste vostre novelle che quelle del
Boccaci a’ migliori gusti, perché ancora che quelle del Boccaci siano dette
felicissimamente e che a ragione possiamo dire che egli solo in quella opera
ci abbia mostrata la vera forma del dire toscano, o, come egli dice, fiorentino,
le cui vestigia avete voi felicemente seguitate, portano nondimeno con loro
molto spesso più del lascivo che non si converrebbe, onde egli apre in molti
luoghi più tosto la via ad usare la malizia che la virtù. E mi è molto piaciuto
che astenuto vi siate dal parlare licenziosamente, come egli fece, de’ religiosi
e de’ religiose, perché egli in ciò mostrò poca prudenza e diede anche materia
di farsi odiare ad una buona parte del mondo; onde ne è poscia avenuto quel
che si vede.

Tutto il libro secondo lui merita lode, ma sopra tutto gli pare
meraviglioso «nel movere gli affetti e spezialmente i dogliosi.
E vi prometto che in molti luoghi mi avete fatta tanta forza
che appena ho tenute le lagrime». Qui coglie un aspetto reale
330 mario pozzi

dell’opera, mentre la lode successiva appare piuttosto esage-


rata, anche se corretta: «E bella ho giudicata l’occasione che
avete presa di introdurre, doppo la quinta deca, i tre dialoghi
della vita civile, i quali ho veduto avere acquistato molto della
prima volta che gli vidi in Ferrara, che ha forse diece anni. E
mi è ben parso questo altro episodio che quello delle pappe-
re». Probabilmente coglieva nel segno: anche se a noi il pa-
ragone può sembrare sproporzionato, proprio alla novelletta
delle papere Giraldi volle contrappore il suo Dialogo. Caval-
canti non si pone alcun problema per questo lungo intermez-
zo: Boccaccio spiega la presenza dell’amore nel Decameron
con una novelletta; Giraldi spiega con un trattato l’imposta-
zione della sua opera, che Cavalcanti avrebbe intitolato «An-
dropedia, tanto apporta ella seco di quello, che appartiene alla
virtuosa educazione». Ritiene anche che «le canzoni vostre si
hanno di così gran longa lasciate adietro quelle del Boccaci,
che mi è parso di vederle arrossire dalla vergogna, vedute le
vostre» (pp. 1884-6).
Ho citato ampiamente il giudizio estremamente positivo di
Cavalcanti, perché si tratta di un personaggio autorevole che
ben manifesta il clima culturale del medio Cinquecento, anche
se Giraldi talvolta esagera nell’ossequio alla chiesa presentan-
do all’inizio quasi come epigrafe – prima del necessario im-
primatur – una professione di fede in latino, in cui s’impegna
a condannare i vizi, ad aver cura della condotta e dei costumi
degli uomini e a onorare l’autorità del Pontefice e della Chiesa
romana: tutto sarà onesto, virtuoso e conforme ai decreti, ai
precetti, ai dogmi, alle disposizioni dei religiosi e del sommo
pontefice. Non era un atto necessario e infatti non lo s’incontra
in alcuno dei libri pubblicati in quegli anni. Con tutto questo
non evitò che gli Ecatommiti finissero nell’Indice parmigiano
dei libri proibiti del 1580: il processo di espurgazione, come
mostra la Villari, era già iniziato nel 1574 (pp. 2016-7) (8).
Come ha scritto la Villari – che nell’Introduzione fornisce
un’utilissima guida alla lettura dell’opera – nel giudizio di Ca-

(8) Cfr. in proposito U. Rozzo, Gli «Ecatommiti all’Indice, in Atti delle giornate
di studio dedicate a G.B. Giraldi Cinzio, a cura di R. Bruscagli e U. Rozzo, numero
monografico di «Schifanoia», XII, 1991, pp. 61-77.
APPUNTI PER UNA LETTURA DEGLI ECATOMMITI 331

valcanti si sintetizzano «le ragioni culturali della fortuna edito-


riale cinquecentesca degli Ecatommiti: ragioni delle quali oc-
corre prendere atto, riconoscendo le novità degli intenti, delle
tecniche narrative, degli esiti di un prodotto letterario che ri-
specchia pienamente la temperie del tardo Rinascimento» (p.
IX). Certo oggi siamo assai più attenti di un tempo a contestua-
lizzare le opere ma il fraintendimento critico degli Ecatommi-
ti non è stato generato dalla «svalutazione desanctisiana della
poesia umanistico-rinascimentale e della produzione novelli-
stica del Cinquecento» e «dallo schiacciante confronto con il
modello decameroniano», come scrive la Villari (pp. IX-X). Il
motivo principale – come già ho detto – era che non potevamo
leggere gli Ecatommiti in un’edizione restaurata come la pre-
sente. Le letture parziali mettevano in evidenza le dichiarazioni
di ossequio sia politico sia religioso, per cui a molti sembrava
un’opera moralistica ma insincera e ipocrita. Altri riconosceva-
no una serietà tutta esteriore e nemica dell’arte oppure – come
Giambattista Salinari (9) – comprendevano che non era un
ipocrita ma «un pedante ingegnoso che esegue diligentemente
il suo còmpito scolastico». E anche i coraggiosi e benemeriti
che in tempi relativamente recenti hanno riletto l’opera hanno
finito per non accorgersi delle sua solidità, perdendosi nei labi-
rinti di stampe scorrette.
La Villari invece ha ragione nel sostenere che «un’adegua-
ta interpretazione della raccolta giraldiana si deve proprio al
riconoscimento critico del rapporto di complementarità tra
parte novellistica e Dialoghi e della piena funzionalità di que-
sti ultimi all’interno dell’opera» (p. XVII) (10). A parte consi-
derazioni più approfondite, la complementarità risulta a una

(9) Novelle del Cinquecento, a cura di G. Salinari, Torino, UTET, 1976, p. 46 e


sgg. Riconosce però che in alcune novelle si osserva una certa penetrazione psicologica
(nella novella del Moro e in quella di Orbecche) e anche qualche innovazione dei
motivi della novellistica e persino «qualche tratto in cui si sfiora la poesia» (novelle I,
10 e I, 11).
(10) Come hanno fatto Delmo Maestri (I “Dialoghi della vita civile” negli “Ecatom-
miti” di G.B. Giraldi Cinzio e nella trattatistica rinascimentale, in «Annali dell’Istituto
Universitario Orientale di Napoli, sezione Romanza», XVII, 1975, pp. 363-78), Gior-
gio Patrizi (I “Dialoghi della vita civile” negli “Ecatommiti”, nei citati Atti del 1991, pp.
51-60), Marzia Pieri (G.B. Giraldi Cinzio trattatista, in «Italianistica», III, 1978, pp.
514-28) e Marie-Françoise Piéjus (Narration et démonstration cit.).
332 mario pozzi

lettura continuata non solo perché molte novelle dimostrano


con i fatti quanto è detto per via teorica, ma sopra tutto perché
anche nelle novelle i personaggi trattano questioni importanti,
discutono fra loro opponendo tesi diverse, mentre la brigata
commenta e giudica quanto è stato raccontato. Credo che per
apprezzare gli Ecatommiti occorra tener sempre presente che
la qualità narrativa è sostenuta dalle ‘questioni’ che sono con-
nesse al racconto. Allora la novella prende spessore e dram-
maticità. Naturalmente non è sempre così; la lena di Giraldi
è grande ma spesso denuncia una certa stanchezza e racconta
solo per raccontare, cadendo nell’ovvio o nel banale. La sua
forza, secondo me, è proprio nel fatto che leggi e ti chiedi quale
questione verrà affrontata e come. Di fatto nella mia lettura
non ho trovato modo migliore che seguire i filoni tematici prin-
cipali di un grande trattato che trae linfa viva dalle novelle.
Una buona dose di opportunismo è innegabile, anzi eviden-
te. Giraldi cercava il favore di molti: dei signori che gli avevano
consentito di riprendere la sua attività di docente e non meno
di quelli che aveva dovuto lasciare e con i quali sperava di ria-
prire il dialogo. A scopo promozionale introdusse le lettere elo-
giative di Cavalcanti e Piccolomini e anche tre componimenti
in lode dell’autore (di Lazzaro Donzelli e di un non altrimenti
noto Lucio Latini in italiano e di Arnoldo Arlenio in latino):
questo, però, lo facevano in molti. Si aggiunga il gran nume-
ro di dedicatorie, in cui s’incontrano sopra tutto personaggi
piemontesi e ferraresi, a cominciare da Emanuele Filiberto di
Savoia, a cui è dedicata la prima parte, e da Alfonso II d’Este,
a cui è dedicata non solo la seconda parte ma anche la decima
deca, in cui lo prega di difendere l’opera «da’ cattivi lettera-
ti» (11). Prevalgono però i destinatari in qualche modo legati
all’ambiente sabaudo, fra cui la moglie e l’erede di Emanuele
Filiberto, l’arcivescovo di Torino, notabili e cortigiani, della cui
protezione Giraldi aveva bisogno per sostentare la numerosa

(11) Le lodi degli Estensi sono frequentissime sia nelle novelle sia nei Dialoghi; a
questo proposito e per la carriera presso i sovrani ferraresi cfr. G. Lebatteux, Idéolo-
gie monarchique et propagande dynastique dans l’oeuvre de G. Giraldi Cinthio, in Les
écrivains et le pouvoir en Italie à l’époque de la Renaissance (Deuxième série), études
réunies par A. Rochon, Paris, Université de la Sorbonne Nouvelle, 1974, pp. 243-312.
APPUNTI PER UNA LETTURA DEGLI ECATOMMITI 333

famiglia nel suo ‘esilio’ piemontese (12). Su questa abbondanza


di dediche e di personaggi evocati non è il caso né di indignarsi
né di sorridere: Bandello fece anche di più quanto a dediche
e celebrazioni di personaggi e cenacoli, ma non poteva essere
accusato di piaggeria perché i suoi dedicatari appartenevano a
una realtà ormai remota. Non solo. Bandello aveva compiuto
una scelta politica precisa la cui conseguenza, avendo vinto la
parte avversa, era stato il trasferimento in Francia ad Agen.
Per questo poteva narrare anche novelle di autentica storia o
cronaca rinascimentale.
E non basta. La conclusione dell’opera comprende un’e-
saltazione di Francesco I re di Francia (p. 1832 da leggere con
le note della Villari) con il quale volevano mantenere buoni
rapporti sia Emanuele Filiberto di Savoia sia Alfonso II d’Este.
Modificando spregiudicatamente la realtà storica vi sostiene
che il re di Francia liberò Roma «da quella calamità, nella qua-
le era ridotta da quella eretica e barbara gente» (p. 1833). Per-
tanto i gentiluomini romani possono tornare nella loro città. E
ancora per ragioni cortigiane scrisse e riscrisse un lungo capi-
tolo in terzine (L’autore all’opera) in cui «si rivolge idealmente
alla propria opera, incoraggiandone la diffusione e sfruttando
l’occasione per ricordare ed elogiare tutta una serie di perso-
naggi appartenenti non solo all’entourage culturale e politico
delle corti estense e sabauda, ma anche agli altri centri culturali
italiani, con l’esito di un variegato affresco della società intel-
lettuale coeva» (p. LXXVIII). Vengono fuori dati interessanti,
che non è possibile esaminare qui e per i quali rimando all’In-
troduzione e al commento a piè di pagina della Villari. È il
lancio pubblicitario di uno che è veramente convinto di aver
compiuto un’opera memorabile (13). Le dediche, però, non

(12) Sugli anni trascorsi da Giraldi all’università di Mondovì ha scritto pagine


molto importanti Rosanna Gorris Camos (Giovan Battista Giraldi Cinthio, entre Fer-
rare et Turin “vero rifugio e sicurissimo porto”, in «Critica letteraria», 159-160, 2013,
pp. 239-89), la quale – grazie anche a documenti inediti – mostra che probabilmente
Antonio Maria di Savoia (dedicatario della nona deca) fu il deus ex machina della sua
chiamata, ricostruisce l’ambiente culturale sabaudo e analizza le affinità degli Ecatom-
miti con l’Heptameron di Margherita di Navarra.
(13) L’opera si rivolge a principi e in genere a nobiluomini; e questo si riflette
anche sugli argomenti trattati. Come ha mostrato Corinne Lucas (Réalités matérielles
et espace mental dans les «Ecatommiti» de G.B. Giraldi Cinzio, in L’après Boccace. La
334 mario pozzi

hanno solamente questa funzione pratica, ma segnalano i temi


che l’autore ritiene più importanti, per lo più riferendosi alla
funzione esercitata dai destinatari nella vita pubblica, in modo
da creare un raccordo tra finzione e realtà (14).
Con tutto questo, Giraldi è l’unico a imitare davvero il
Decameron. Non lo rinnega, ma lo adatta alla nuova tempe-
rie storica, culturale e letteraria (15), proponendo uno scritto
rigorosamente tradizionale nella forma esteriore, ma del tutto
rinnovato, volto alla celebrazione dei suoi signori sabaudi ed
estensi, nonché conforme alla morale controriformistica. Non
solo. Realizza un’opera di alto livello culturale: un Decameron
in cui ha ampio spazio la materia filosofica e politica, come
richiedeva la cultura del medio Cinquecento. Dunque pur
parzialmente elaborati in età giovanile, gli Ecatommiti, nella
loro veste definitiva, costituiscono – come giustamente ritiene
la Villari (p. XXXVI) – «un prodotto artistico della maturità, al
quale l’autore affidò, come in una summa enciclopedica, tutto
il proprio sapere e le proprie concezioni filosofiche, religiose,
politiche, culturali».
Se riusciamo a immergerci in quel preciso momento storico
diventa meglio comprensibile l’ampiezza dell’opera, la strut-
tura complicata e persino lo stile alto. Con un po’ di pazienza
ci si accorge che la cornice degli Ecatommiti, malgrado la sua
complessità, è molto coerente dal punto di vista formale e imita

nouvelle italienne aux XVe et XVIe siècles, Paris, Université de la Sorbonne Nouvelle,
1994, pp. 297-355) «Giraldi dans les Ecatommiti franchit un pas décisif par rapport
à ses émules, puisqu’il abolit carrément le thème de l’aventure commerciale» e in ge-
nerale «le milieu des affaires est peu présent par rapport aux autres novellieri de la
même période» (p. 302). Avviene così che in un’epoca di relativa rifeudalizazione viene
abbandonata «une veine narrative, issue de la tradition bourgeoise, qui alliait plus ou
moins les exigences de l’aristocratie et celles de la bourgeoisie en une relative com-
plémentarité» (p. 312).
(14) Sull’abbondante paratesto e in generale sulla struttura si veda F.-M. Piéjus,
Narration et démonstration cit.
(15) Come ha scritto Delmo Maestri (Gli «Ecatommiti» del Giraldi Cinzio: una
proposta di nuova lettura e interpretazione, in «Lettere italiane», XXIII, 1971, pp.
306-31), Giraldi «vuole percorrere vie nuove, ma senza rompere con la tradizione,
accettandone le regole strutturali, ma innovandole dall’interno» (p. 306). Così si era
comportato per affermare la qualità poetica dell’Orlando furioso, così si comporta
in genere trattando di tragedia, commedia, poema epico-cavalleresco: fonda – sono
di nuovo parole di Maestri (p. 307) – «l’equilibrio fra il rispetto del passato e l’aper-
tura alla sensibilità e alle forme nuove sull’idea che l’arte si modifichi adattandosi ai
tempi».
APPUNTI PER UNA LETTURA DEGLI ECATOMMITI 335

il Decameron, come è compito di qualunque artista ambizioso:


cercando di superarlo. L’ampliare e complicare la struttura,
certo, è un modo piuttosto esteriore di raggiungere lo scopo.
Ma Giraldi non era Boccaccio e dobbiamo valutarlo per quello
che era: un ottimo letterato privo dell’ispirazione poetica del
modello, ma capace di fornirci una conoscenza non superficia-
le della letteratura del suo tempo.
«In un’epoca in cui gli autori di novelle osservano la strut-
tura del Decameron con consapevole distacco, – osserva la Vil-
lari – Giraldi è l’unico scrittore che accoglie in pieno l’ “orrido
cominciamento” e la finzione dei novellatori scampati a una si-
tuazione di calamità e di pericolo» (p. XXI). Ben differente era
l’atteggiamento di Ruscelli, il quale poneva fra le cose che nel
Decameron «non molto pienamente satisfanno […] quell’occa-
sione del libro con sì lunga e spaventosa narrazione della peste,
che fa divenir malinconico e tristo chi la legge»: lui invece pen-
sava di prendere come occasione del suo novelliere «la venuta
in Italia del Serenissimo Re Filippo, allora Principe di Spagna,
incominciando dai gloriosi ricevimenti […]. Onde poi la sera
doppo alcuni balli e giuochi nuovi e vaghi, degni d’un tanto
ridutto, si prende fra alcuni l’occasione del novellare» (16).
L’opera di Giraldi supera abbondantemente i canonici cento
racconti: ad essi si aggiungono le dieci novelle dell’Introduzio-
ne e altri otto brevi racconti o aneddoti inseriti nella «cornice»;
ma la Villari ha ragione di sostenere che «la presenza di novelle
eccedenti, rispetto a quelle previste dal titolo e dal piano com-
positivo, non è […] segnale di anomalia strutturale, in quanto
risulta in qualche modo autorizzata dall’archetipo decamero-
niano, nel quale il racconto incastonato nell’introduzione alla
quarta giornata (Dec., iv intr. 12-29) non rientra nel computo
numerico delle cento novelle» (p. XXII). Rientra se mai nel
processo di ingigantimento dell’opera, testimoniato anche dal
maggior numero di componimenti in versi, che, a conclusione
di ogni sezione della raccolta, imitando la struttura del Decame-
ron, richiamano le tematiche fondamentali del testo. Ma anche
in questo caso Giraldi vuole superare il modello conferendogli

(16) Dediche e avvisi ai lettori cit., pp. 213-4.


336 mario pozzi

maggior dignità letteraria. Nel Decameron ci sono dieci ballate,


negli Ecatommiti ventitré componimenti le cui forme sono non
soltanto più varie ma più nobili e complesse: un sonetto, sedici
canzoni, quattro sestine, a cui si aggiungono, nel corpo di due
racconti, un capitolo ternario (IX, 9, p. 1643) e un sonetto (IX,
10, p. 1659), imitando il capolavoro di Boccaccio in cui una
ballata (l’undicesima della raccolta) si legge nel contesto della
novella settima della decima giornata.
Fra il modello e gli Ecatommiti ci sono numerose coinciden-
ze anche negli argomenti del novellare e la Villari mostra che
probabilmente la prima stesura degli Ecatommiti era suddivisa,
come il modello, in “giornate”: «è significativa la sopravviven-
za nell’editio princeps della didascalia “giornata”, relativamente
alla sola deca ottava: cfr. Nota al testo, p. 2074». Questo con-
ferma che a poco a poco Giraldi si allontanò dal modello, «di-
latandone la struttura fino ad accogliere un’ampia introduzio-
ne, tre dialoghi della vita civile e le dediche» (pp. XXI–XXII).
Anche in Giraldi c’è il desiderio, proprio di Boccaccio, di
rispecchiare l’infinita varietà e i molteplici aspetti del vivere
umano, ma – sono sempre parole della curatrice (p. XX) – «si
assiste nello stesso tempo a un radicale mutamento delle pro-
spettive ideologiche: la descrizione degli alterni risultati del
gioco combinatorio delle tre forze (amore, fortuna e ingegno)
che, nella logica del Decameron, regolano l’agire umano, cede il
posto negli Ecatommiti alla rappresentazione del contrasto tra
impulsi irrazionali e dominio sulle passioni, tra ignoranza e cul-
tura, tra puro edonismo e adesione ai valori morali, tra illusorio
e precario benessere e autentica felicità». Il tema generale è il
conflitto tra il male e il bene, «i cui esiti ricevono, soprattutto
nei Dialoghi della vita civile, una rigorosa interpretazione filo-
sofica ed etico-politica mediante la conciliazione dei termini
apparentemente antitetici di fortuna, provvidenza e libero ar-
bitrio, nel contesto più ampio di una integrazione della filoso-
fia classica con le moderne elaborazioni del pensiero cristiano
cattolico e controriformistico» (pp. XX-XXI).
Per quanto ci riesce, Giraldi cerca di rappresentare com-
portamenti umani che non derivino da schemi lineari e astratti:
non un’evasione dalla tragica realtà, dunque, «ma al contrario
APPUNTI PER UNA LETTURA DEGLI ECATOMMITI 337

– come scrive la Villari – una sofferta immersione nella realtà,


per indagare sulla tipologia delle passioni umane e sulla dina-
mica dei rapporti interpersonali che si instaurano a tutti i livelli
della gerarchia sociale, dalle più umili case private ai più alti
vertici delle corti signorili e regali». Per distinguere il bene dal
male e riconoscere l’autentica felicità non basta la dottrina ma
occorre l’esperienza (p. XXXI); e questo è un tema continua-
mente ribadito, che sta a fondamento della novella III, 3, in cui
il narratore esercita la sua ironia su un impegno intellettuale
slegato dalle esigenze della vita civile. Così il commento all’ini-
zio della novella successiva: «spesso più vale l’avere sperienza
delle cose del mondo che lo stare tutta fiata sulle contempla-
zioni» (p. 280).
La volontà di aderire ai precetti della chiesa cattolica da
poco codificati nel concilio, come già si è visto, è chiarissima.
Vizio e virtù sono almeno programmaticamente quelli stabiliti
dalla Chiesa. Gli Ecatommiti non sono però, come si potrebbe
temere, un’opera intrisa di religiosità, perché Giraldi non so
con quanta abilità filosofica ma certo con un’eloquenza efficace
riesce a far concordare gli insegnamenti degli antichi (Platone,
Aristotele, Seneca, classici greci e latini) con quelli della Chie-
sa. Questo, evidentissimo nei Dialoghi, nelle novelle crea una
casistica varia e per lo più non conformistica, grazie anche a un
senso molto forte dei valori civili.
Malgrado propositi extra letterari tanto chiaramente dichia-
rati, l’opera è, dunque, tutt’altro che piatta o dogmatica. Gi-
raldi tratteggia mentalità e ideologie diverse, che si scontrano
in maniera vivace – come scrive la Villari (p. XX) – «non solo
in ambito diegetico, accostando differenti tipologie di pensie-
ro e di condotta sociale, ma anche in ambito intradiegetico,
attraverso il dibattito tra i nobili della brigata, narratori delle
novelle»; il dibattito ideologico infatti è vivace non solo nelle
novelle, che presentano diversi modi di pensare e di compor-
tarsi, ma anche e sopra tutto nelle discussioni tra i componenti
della brigata. La novella non è un mero exemplum, ma racconta
un evento da cui trarre spunti di riflessione.
La serenità con la quale i fuggitivi compiono il loro viag-
gio mira – nelle intenzioni dell’autore – a dare conforto agli
338 mario pozzi

afflitti, «sì per gli accidenti che in essi si ritroveranno simili a’


casi loro, sì anche per veder che costoro che favelleranno, per
infortunio loro avenuto (quantunque grave e acerbo), non si
vollero dar tutti in forza della malvagia Fortuna. E se saran-
no, per lor buona sorte, felici, potranno anco conoscere quali
nelle felicità si debbano mostrare, e come debbano usare il
buono stato e sé medesimi a beneficio del mondo» (p. 27).
Nella dedica ad Emanuele Filiberto scrive di aver rivolto la
sua opera
a biasimare le viziose azioni e a lodare le oneste, acciò che si conoscesse quan-
to siano da essere fuggiti i vizii e con quanto animo si debbano abbracciare le
virtù, per operar bene e meritarne laude e onore in questa vita, sperandone
non pure fra ’ mortali eterna gloria, ma celesti premii doppo la morte. E
perciò fu mia intenzione, sopra ogn’altra cosa, di addurre in questa opera
avenimenti simigliantissimi al vero, i quali potessero portare, con onesto di-
letto, qualche profitto ad ogni sorte di persone (p. 7).

Anche Boccaccio nel Decameron si proponeva di consolare gli


afflitti, ma al solito Giraldi va oltre: non solo i bisognosi di con-
forto e le «vaghe» e «dilicate donne» (Dec., Proemio, 9, 13), ma
tutti gli uomini delle generazioni presenti e future.
Giraldi conosceva benissimo il passo del nono capitolo del-
la Poetica di Aristotele in cui il racconto verisimile del poeta
è considerato superiore alla narrazione storica. Di qui deriva
la preoccupazione di rispettare la verisimiglianza e di qui pro-
babilmente nasce anche quello che può apparire (e in parte è)
uno dei limiti dell’opera: gli eventi sono collocati in ambien-
ti temporalmente e geograficamente lontani «con l’intento –
come scrive la Villari (pp. XXXVII-XXXVIII) – di cogliere le
peculiarità della natura umana, immutabili nel tempo e nello
spazio, e l’universalità dei problemi che i rapporti umani co-
stantemente pongono, pur nell’evoluzione delle società e dei
costumi». Del resto – come già si è detto – i tempi non con-
sentivano più di evocare quel che di bene e di male avveniva
nel presente.
Sul finire della settima deca Fabio, che è il portavoce dell’au-
tore, propone che il giorno dopo le novelle abbiano come argo-
mento l’ingratitudine, «il più scelerato e abominevol vizio che
sia nel mondo», come dice Cornelia. E tuttavia – dice Fabio – il
APPUNTI PER UNA LETTURA DEGLI ECATOMMITI 339

ragionarne diletterà «perché la cognizione de’ vizii fa conosce-


re la virtù; il che è di molto diletto agli animi gentili» (p. 1418).
E nella dedica dell’ottava deca ribadisce che «i contrari sono di
tal natura che l’uno posto allo incontro dell’altro fa troppo, più
ch’altri non istima, comparere qual sia degno di loda e qual no
e qual si debba fuggire e quale accettare e finalmente da qual
lato sia la virtù e da quale il vizio» (p. 1420).
Nelle novelle c’è una spiccata predilezione per le vicende
che mostrano come – al di fuori delle giuste regole e valori – si
scatenano malvagità di fortuna e disordinati appetiti. Anche
qui un po’ come Bandello, ma senza quello stupore attonito
che spesso s’incontra nel suo novelliere di fronte a quelle che
sembrano vere patologie dell’animo umano. Non mi pare che
in Giraldi ci sia una sensibilità divenuta più inquieta. Tutto è
pacato, quasi ovattato, nella cornice. Nelle novelle l’inquietu-
dine è tranquillamente riconducibile – a norma del trattato che
sta al centro dell’opera – al non rispetto dell’etica e non tanto
di quella cristiana (che forse si dà per scontata) quanto a quelle
dei grandi pensatori classici. E nemmeno insisterei sulle strade
strabocchevoli e sui laberinti, in cui gli uomini restano abba-
gliati e le loro capacità di previsione e misura si fanno precarie:
certo le reazioni non sono quelle di Machiavelli, ma si resta nel
normale: contano la ragione, l’onesto, il dicevole. Non vedo la
sofferenza per un’umanità gretta e chiusa, scossa da ferocia e
perfidia incontrollabili: Giraldi mi sembra fin troppo convinto
che bastino amorevoli consigli, almeno nelle famiglie ben for-
mate; della plebaglia non tiene alcun conto.
Non vedo nemmeno atmosfere tetre, gravi e tese, se non
nel prologo. Il sacco di Roma finisce per essere solamente la
calamità che ha provocato la fuga. Senza l’angoscia del ricor-
do i membri della brigata fanno un non inutile esercizio per
mantenere vive le regole morali e la saggezza degli anziani. I
giovani danno qualche scossone alla grigia serietà della conver-
sazione. Fabio – «il quale, quantunque fosse grave di età, e di
molto consiglio, era nondimeno tutto sollazzevole e non meno
grato alla gioventù che i giovani medesimi» (p. 51) – è eletto
capo della brigata e consente che si scherzi, ma nei limiti del
convenevole e del dicevole. Motteggi e battibecchi comunque
340 mario pozzi

vengono interrotti da fatti esteriori per cui le questioni restano


per lo più in sospeso.
Le prime cinque deche riguardano la morale privata e
ripropongono temi decameroniani, adattati ai nuovi tem-
pi: l’amore è diventato etica matrimoniale (condanna degli
amori mercenari nell’Introduzione, matrimoni clandestini
nella seconda deca, fedeltà e infedeltà coniugale rispetti-
vamente nella terza e nella quinta); le beffe si riducono o
almeno cambiano di aspetto (17), al loro posto troviamo
l’«insidia», tema della quarta. I Dialoghi della vita civile,
attraverso il motivo pedagogico, introducono le cinque de-
che successive sulla morale pubblica. Gli atti di cortesia e
di cavalleria raccontati nella sesta e decima deca presentano
regnanti e papi o “cavalieri”; l’ingratitudine è dipinta nella
ottava come «l’abominevole vizio» che si incontra nelle cor-
ti; il tema della nona è il gioco della fortuna e il rapporto fra
destino e libero arbitrio.

3. Il sacco di Roma
L’opera si apre con la descrizione del sacco di Roma e termi-
na con il ritorno in patria della nobile brigata. L’imitazione del
Decameron è anche qui evidente. L’inizio dunque è tetro come
nel Decameron e la nobile compagnia si allontana dalla città or-
ribilmente devastata. La descrizione del sacco – come osserva
Marzia Pieri, che l’ha analizzata con molto acume – è intessuta
«di reminiscenze storiche e letterarie e condotta secondo mo-
duli schiettamente oratori, anche se in più luoghi la materia del
racconto, dolorosamente viva e presente alla memoria, sprigio-
na un’intensa carica di violenza e di orrore senza possibilità di
filtri e mediazioni» (18). C’è una contrapposizione, per così
dire, manichea fra cattolici e luterani, fra umanità e bestiali-
tà, fra civiltà e caos, in un crescendo di violenza e di orrore.
Ai luterani spettano tutte le qualità negative: sono feroci,

(17) Cfr., in proposito, G. Lebatteux, La crise de la ‘beffa’ dans les «Diporti» et les
«Ecatommiti», in Formes et significations de la «beffa» dans la littérature italienne de la
Renaissance, études réunies par A. Rochon, Paris, Université de la Sorbonne Nouvelle,
1972, pp. 179-201.
(18) La strategia edificante cit., p. 48.
APPUNTI PER UNA LETTURA DEGLI ECATOMMITI 341

barbari, crudeli, malvagi, scellerati. Tutto quello che fanno è


sempre deformato e amplificato:
i lanzi rimangono per tutto il racconto un’entità indistinta e spaventosa, nu-
mericamente infinita: «un grossissimo e potentissimo esercito», «una molti-
tudine» di «incredibile impeto», «la molta rabbia dell’infinita gente tedesca»,
«la lor quasi infinita moltitudine», «la gran moltitudine», nel tentativo di giu-
stificare con una mostruosa sproporzione di forze le vicende storiche che si è
costretti a registrare. Ai luterani si oppone il popolo di Roma pieno di valore,
ma anche di «incredibile spavento». I romani sono «i miseri», «la misera gen-
te romana», «i meschini», «gli afflitti». L’aggettivazione, esuberante e insieme
uniforme, si innesta su un tessuto sintattico di tipo schiettamente oratorio.
Il climax della narrazione è costruito con artifici continui e scoperti: antitesi,
accumulazioni sinonimiche, polisindeti, abuso di consecutive. Il narratore si
inserisce in prima persona nel racconto con continue apostrofi, additanti il
pathos e l’orrore nei momenti-chiave (19).

L’autore – prosegue la Pieri – intensifica la carica emoziona-


le con «reminiscenze classiche e bibliche e sulla rovina di Roma
si proietta la suggestione di Troia devastata e della evangelica
strage degli innocenti». Giraldi inoltre tratta i lanzi come se
fossero i Galli per cui il sacco si proietta, attraverso continue
allusioni a celebri episodi affini, su uno sfondo quasi metastori-
co. Il travestimento classico viene realizzato con riferimenti
clamorosi:
fin dall’inizio della narrazione l’autore associa esplicitamente la ritirata del
papa in Castel Sant’Angelo alla secessione degli antichi romani in Campi-
doglio («come già ne’ primi tempi, essendo presa Roma, e con mortalità di
molta gente arsa, e messa a ruba da’ Francesi...»). Il racconto prende dunque
un colore classico assai marcato e, invece di svolgersi per episodi connotati
singolarmente, si stempera in una serie di riferimenti generici all’antichità,
per cui le chiese profanate diventano «tempii degli Iddii immortali», o «altari
ove con somma riverenza già si celebravano da’ santissimi uomini i divini sa-
crifici», le suore violate «religiose vergini» vestali, la Roma pontificia «quella
città, che soleva essere vincitrice di tutte le genti, la sede degli onorati trionfi,
l’albergo della gloria».

Non solo. Nel testo sono sparsi travestimenti liviani: così, per
esempio, «i canuti vecchi» oltraggiati dai lanzichenecchi non
sono altro che i senatori romani, immobili con le loro insegne
in attesa della morte:

(19) Ivi, p. 49.


342 mario pozzi

E la drammatica narrazione di quanto avviene nelle chiese assediate, dove le


famiglie hanno cercato l’ultimo rifugio, e dove i padri uccidono le figliuole
per salvarle dai nemici, ricorda l’episodio del romano Virginio che pugnala la
figlia per non consegnarla nelle mani di Appio Claudio. Numerosi elementi
della narrazione sono ancora ripresi da Livio: come il particolare delle urla
assordanti degli assalitori, la descrizione della città messa a ferro e fuoco, o
dell’esplosione della peste nell’esercito nemico. (20)

Sono considerazioni condivisibili, tranne – a mio parere – la


conclusione:
Sforzandosi di infondere rinnovata carica espressiva ad un istituto letterario
così logorato, il Cinzio finisce per stravolgerne completamente il senso, per
cui negli Ecatommiti l’evento tragico che determina il formarsi della briga-
ta non costituisce più il punto di partenza di una reale ricomposizione
morale e letteraria, ma lungo tutta la raccolta si affrontano dibattiti
inquieti e drammatici in una specie di circolo vizioso. Il doloroso lega-
me stabilito fra autore e lettori all’inizio del libro è garantito appunto
dal ricordo comune di un’esperienza storica tragicamente emblema-
tica, per un uomo del ’500, di tutte le incertezze etiche e politiche
che travagliavano la sua epoca. Così i novellatori si esauriscono in
dispute estenuanti e l’autore insiste a commentare la sua impotenza a
discernere il vero e il giusto. Il trauma del sacco accompagna inevita-
bilmente i romani pellegrini lungo il Tirreno verso una meta di esilio
e di sofferenza (21).

Può essere, ma il ricordo di quegli orrori non è mai espli-


citato e Giraldi a me sembra fin troppo sicuro delle proprie
idee, anche se talora ha la magnanimità di interrompere con
un pretesto (di solito l’arrivo in un porto) la discussione, in cui
comunque il personaggio che lo rappresenta ha esposto com-
piutamente il suo discorso. E la brigata ricostruisce una società
civile. È vero invece che quel travestimento (e dunque l’assenza
di qualsiasi tocco realistico) fa perdere ogni attualità alla de-
scrizione, come – se mi è lecito un paragone un po’ arrischiato
– un affresco neoclassico di cui si ammira la splendida forma
ma ci lascia freddi, non provoca vera emozione; la carica di
retorica e di ricordi dovrebbe potenziare l’effetto, ma l’eccesso
lo intiepidisce e quasi lo annulla. Ammiri la bravura stilistica di
Giraldi ma ti dimentichi degli orrori dei lanzichenecchi.

(20) Ivi, p. 50.


(21) Ivi, pp. 50-51.
APPUNTI PER UNA LETTURA DEGLI ECATOMMITI 343

4. Il viaggio
Il sacco di Roma, completamente dimenticato, non diventa
il simbolo della condizione umana. Nessuno riflette su quei tra-
gici fatti e sul perché siano potuti avvenire. Non riesco perciò
a sentire in queste novelle e nel Dialogo l’angoscia interiore che
altri critici vi hanno sentito. La brigata, allontanatasi da Roma,
lascia dietro di sé ogni angoscia; i giovani badano a divertirsi;
gli anziani tracciano un manuale della vita civile tutto fondato
su un passato lontano e senza alcun vero riferimento al presen-
te. A me proprio non pare che «il trauma del sacco» accompa-
gni «inevitabilmente i romani pellegrini lungo il Tirreno verso
una meta di esilio e di sofferenza».
Anche nel Decameron i giovani sembrano dimentichi degli
orrori della peste, anzi vogliono dimenticarli per mantenere
viva una società gentile. Ma la peste è una calamità naturale,
non prodotta dagli uomini, anche se ha fatto sì che si rompes-
sero i legami sociali. Il sacco di Roma invece è stato causato da
errori e misfatti umani e ci si sarebbe potuti attendere che il
fresco ricordo di quegli errori e orrori venisse, se non esamina-
to, almeno ricordato alla luce dei quei principi di vita civile che
stanno alla base dell’opera. Nessuno mostra tristezza o altro
per il ricordo delle atrocità osservate, alle quali più nessuno
accenna se non in maniera discreta (22). Invece la preoccu-
pazione prima dei giovani sono gli svaghi – cacce, cavalcate,
ecc. – che non possono fare. Alcuni sono addolorati, ma non
per le stragi romane, bensì per amore e perché mal trattati dalle
cortigiane. La loro prima domanda è non come si possa evitare
un altro sacco, o un ricordo di chi ha patito tante disgrazie, ma
come si possa raggiungere le felicità in amore. Così i giovani
con Fazio decidono di trattare dell’amore e in particolare di
«come in amore si possa aver quiete» (p. 55). Il sacco di Roma
resta un grandioso affresco, ma non incide – almeno non viene
detto – sullo stato d’animo della comitiva.

(22) Vedi, per esempio: pp. 1273-4: «nella città nostra, la quale, come è ora infelice
e soggetta a genti barbare e crudelissime, così fu già fortunatissima e reina del mondo e
dominatrice de’ crudeli»; p. 1366: «quando non è da nimica e barbara gente, come ora,
travagliata»; p. 1381: Giovio può alleggerire la noia che Clemente VII «sente di vedere
Roma dalla barbara e nimica gente poco meno che svelta dalle radici».
344 mario pozzi

Certo i ragionamenti non avvengono in un locus amoenus,


ma su una nave, peraltro molto confortevole. Non mi pare di
poter condividere fino in fondo l’opinione della Villari la quale
scrive che, a differenza del Decameron, «l’aspro esordio degli
Ecatommiti […] non sfocia immediatamente in una ‘cornice’
“dilettevole”, sviluppandosi nel contesto metaforico del labi-
rinto e del viaggio. […] l’allontanamento da Roma si realizza
mediante un viaggio per mare (irto di pericoli e difficoltà), le
cui valenze metaforiche sono efficacemente espresse nella sesti-
na conclusiva della deca decima (X concl. 24-36)» (p. XXIII)
(23). I “ragionamenti” si svolgono su una nave, dove nessuno
dei consueti svaghi giovanili è consentito e solo la conversa-
zione può alleviare il disagio e la noia (cfr. Intr., 7-9). Sarà. La
brigata di gentiluomini e gentildonne era stata ospitata «in un
suo palagio in sicuro» da «un benigno e possente signore della
nobilissima famiglia de’ Colonnesi» (p. 45). Il cortese signore
«provide loro di due grandi e bene agiate navi» (p. 49). Il viag-
gio è così ben organizzato che sembra piuttosto una piacevo-
le crociera, in cui sono previste varie tappe (24), sempre con
accoglienze sontuose. I pericoli nascerebbero, non dal mare,
ma dalle sensuali tendenze di alcuni giovani, se non ci fosse
il saggio Fabio a moderarle e a controllarle. Le navi, «date le
vele al vento, che prosperamente soffiava» iniziano il viaggio.
I giovani si annoiano. Ridono e scherzano. Ma a loro non ba-
sta. A questi giovani sventurati mancano i loro consueti svaghi:
danzare, cavalcare, giostrare e armeggiare «e darci a prendere

(23) Effettivamente questa sestina doppia (prova di bravura dell’autore) si lega


idealmente all’inizio dell’opera, quando si discute sull’opportunità di partire da Roma.
Ma ora siamo a Marsiglia, il viaggio è terminato e in versi si riaccende il dibattito sulla
possibilità di rientro in patria. Certo le giovani sfruttano parole rima come sorte, onde,
venti, scogli ed è naturale che ora pensino al ritorno. Ma non mi risulta che a questo
abbiano mai pensato prima o che la rea sorte li avesse condotti «fra terribili onde, / che
insino al ciel volgean superbi venti, / venti, che ci tenean fra duri scogli». Il linguaggio
poetico prende loro la mano, ma secondo la Villari questa è una «metafora dello stato
d’animo di inquietudine e di paura che ha accompagnato il gruppo durante il viaggio»
(p. 1827 note 1 e 2). Peccato che questo stato d’animo non si sia manifestato mai in
un’opera tanto voluminosa.
(24) Ciascuna tappa conclude una sezione e prelude alla sezione successiva:
l’approdo delle navi, a Civitavecchia, a Talamone, a Piombino, a Vada, a Livorno,
a Porto Venere, a Genova, a Savona, e di nuovo a Savona (per una banale svista
dell’autore), e poi a Nizza, a Tolone e a Marsiglia, segna la Conclusione di ciascuna
delle dieci deche.
APPUNTI PER UNA LETTURA DEGLI ECATOMMITI 345

uccelli e a cacciare le fiere» (pp. 50-51). Erano davvero ben


abituati e sulla nave si sentivano prigionieri. Dovevano vincere
la noia. Non vedendo altro che cielo e mare, decidono di usare
l’unica cosa che loro resta: la lingua. Poi si scoprirà che sulla
nave c’erano anche giochi da tavola. Solo da questo mi paio-
no angosciati, non dal ricordo di quanto forse hanno visto in
Roma.
Più di un critico sostiene che il viaggio, o addirittura tut-
ta la raccolta, presenta la condizione angosciosa degli uomini
che «incerti di sé medesimi, come fossero chiusi in un cieco
e intricato laberinto, si aggirano qua e là per ritrovar l’uscita;
ma, quanto più cercano da lor partirsi, tanto meno ritrovano
la via» (p. 84). Questo, sì, è un efficace parlar figurato, ma non
si riferisce alla vita umana in genere, ma solamente agli uomini
dediti ad amori mercenari e dunque non può essere assunto
a simbolo della vita umana. Secondo Giraldi, come vedremo,
l’amor coniugale è la soluzione di tutto e quindi, se si utilizza la
ragione, in quel labirinto non si entra.
Alla fine del primo tratto del viaggio giungono a Talamone,
dove «tutti insieme se n’andarono alquanto per dilettevoli luo-
ghi a diporto, ed essendo l’ora della cena, apprestate le tavole,
si posero a mangiare con gli altri nobili di quel luogo, i quali già
erano stati avisati della loro venuta e non avevano trallasciata
cosa alcuna che loro fusse paruta atta ad accorgli orrevolmen-
te» (p. 231). Le donne si sono annoiate, ma il rimedio è pronto:
anche loro parteciperanno al gioco delle novelle, il giorno suc-
cessivo, che così inizia:
Tosto che l’aurora si mostrò nelle contrade d’oriente, la nobile brigata, ri-
svegliatasi e postasi tutta ad ordine, mandato ad avisare gli uomini del luogo
nel quale volea la sera posarsi, entrò in nave. E ritrovata tutta l’onda marina
in tremolare, vollero non a vela, ma col rimorchio solcare il mare e, infin
che venne l’ora del desinare, si trattennero chi con giuocare a tavole, e chi a
scacchi, e chi facendo una cosa e chi un’altra. E giunta che fu l’ora di terza,
con delicati cibi scacciarono la fame (p. 240).

Inizio, come sarà poi sempre, di tono lirico fra le «contrade


d’oriente» petrarchesche e il dantesco «tremolar de la marina».
La navigazione non provoca problemi e ci si diverte. La nave
giunge a Piombino, «onde tutti allegramente se ne uscirono di
346 mario pozzi

nave, ove furono da quelli del luogo, che prima erano stati avi-
sati, orrevolmente accolti. Poi, venuta l’ora della cena, messe le
tavole, si diedero a mangiare con dolci ragionamenti» (p. 356).
Clima identico il giorno successivo:

Già l’aurora si mostrava nell’oriente, facendo la sua usata scorta al sole, di


varii colori dipinta, quando la brigata, levatasi da dormire, avendo già quelli
a cui dato era il carico di provedere, mandato alla nave quanto era di biso-
gno per l’agio di quel giorno, verso il lito, su per le rugiadose erbe, s’inviò
con lento passo ed entrati tutti nelle navi, costeggiando il lito, seguirono il
lor camino. E chi giuocando a tavole e chi a scacchi e chi motteggiando e
adducendo qualche cosa atta ad indurre onesto e piacevole riso, andarono
passando il tempo insino all’ora del desinare, la quale, poi che fu giunta,
apparecchiarono le tavole e, apprestate le vivande, tutti si posono a mangiare
e poscia si diedero a que’ trastulli e a que’ giuochi che lor parvero più atti ad
ischifare la noia del sonno che suole aggravare, doppo il cibo, altrui (p. 372).

Ci si rattrista per le disgrazie dei personaggi delle novelle,


ma ai viaggiatori niente manca. La nuova tappa è a Vado, nei
pressi di Livorno,
ove gli amici, i quali prima erano stati avisati, tutti erano lungo il lito e con
grandissima festa gli accolsero. E doppo l’aver cercato parte delle cose dilet-
tevoli lungo il mare, inchinandosi già il sole alla sera, entrarono nella rocca,
ove furono lor date ottime e bene agiate stanze. E riposati che si furono,
entrarono in dilettevoli giardini, pieni di vari fiori e di arbori carichi di molti
frutti. E venuta l’ora della cena, poste le tavole sotto l’ombre degli arbori,
tutti a mangiare si misero e con dilicate vivande, accompagnate da nobilissi-
mi vini, si ristorarono. Poscia, levate le tavole, buona pezza si trattennero con
piacevoli ragionamenti, quando di una cosa e quando d’un’altra favellando
(p. 518).

La terza deca comincia come le altre:


Aveva la vegnente Aurora già sparso il canestro de’ gigli e delle rose, colle
candide mani, ne’ sereni del cielo e fugate tutte le stelle dal nostro emispero,
quando Fabio, fatta chiamare la nobile brigata, mise ordine d’entrare in ca-
mino, e fatte apprestare le navi, tutti vi entrarono e si misero col rimorchio a
solcar l’onde marine, e, con vari ragionamenti e diversi giuochi, passarono il
tempo insino all’ora del desinare; la qual giunta, si apparecchiarono le vivan-
de e si posono a mangiare (p. 528).

La nuova tappa è a Livorno e, come al solito, «uscì di nave


la brigata, la quale fu accolta orrevolissimamente dagli uomini
e dalle donne, che di lor prima aveano avuto avviso. Ed entrati
nella terra, si andarono diportando insino all’ora della cena, la
APPUNTI PER UNA LETTURA DEGLI ECATOMMITI 347

qual giunta, apparecchiate le vivande, si misero tutti a mangia-


re» (p. 661).
Credo che basti e risparmio ulteriori citazioni delle parten-
ze e degli arrivi a Porto Venere (p. 802) e a Genova dove l’ac-
coglienza è, se possibile, ancora migliore e c’è anche il famoso
episodio delle due fontane (25). Qui la brigata si ferma per
la tempesta che ha turbato il mare. Un primo inconveniente?
Tutt’altro, perché alcuni nobili giovani «invitarono tutta la gio-
ventù romana ad una piacevole caccia, ordinata nel bellissimo
piano, ove erano le fontane della prova» (p. 970). Fabio que-
sta volta non segue i giovani ma organizza la discussione sulla
vita civile. Essendo già sera «sopravenne l’altra brigata, che alla
caccia era gita, tutta lieta, con varie qualità di selvaggiume» (p.
1040). E le partite di caccia e le discussioni sulla vita civile si
continuano nel giorno successivo:
fu dato aviso che la brigata, che con falconi e sparvieri se ne era in campagna
andata a piacere, montava le scale, onde ognuno, levatosi da sedere, andò
loro incontro, e veggendo che molto felicemente era loro successa la caccia,
fecero con loro gran festa (pp. 1107-8).

Nel terzo giorno un «onorato gentiluomo da casa Flischi […]


invitò tutta la nobile brigata alla nozze di una sua figliuola, che
il giorno ad avenire si deveano celebrare» e naturalmente i gio-
vani accettarono, mentre gli altri condussero a termine il dialo-
go della vita civile (p. 1109).
Ho citato fin troppo e spero che tutti abbiano compreso
che il ricordo degli orrori romani è totalmente dimenticato dai
nostri personaggi e che i narratori – se non si fermano in un
luogo ameno – vengono accolti in diversi luoghi ameni, il che
forse è ancora meglio. Questo non dico per criticare Giraldi,
fra l’altro messo a dura prova nel narrare tante partenze e arrivi
(26), quanto per mostrare l’inconsistenza sia di chi scrive delle

(25) Già la Piéjus (Narration et demonstration cit., pp. 302-3) aveva osservato
che «les conditions particulièrement favorables de ce voyage, sa monotonie, l’accueil
toujours chaleureux des abitants des ports où les navires font escale, excluent tout
imprévu, toute incertitude. En opposition au sac de Rome, le voyage est retour au
calme, reconquête de la sérénité pour les plus meurtris des devisants. Il voit surtout
refleurir l’ordre».
(26) La descrizione di ogni alba è un esercizio lirico che Giraldi ripete, variandolo,
all’inizio di ogni giornata.
348 mario pozzi

difficoltà del viaggio sia di chi sostiene che su tutta l’opera gra-
va l’angoscia provata nel sacco. E nemmeno è il caso di parlare
di labirinti: qui tutto è organizzato così bene che si direbbe che
già si possedessero i telefonini per avvertire quelli dell’appro-
do successivo affinché preparassero una sontuosa accoglienza.
Giraldi anche in questo segue Boccaccio più di quanto non si
creda: tutto il viaggio, fin nei minimi particolari, mostra quanto
possa la generosità e l’animo gentile per mantenere rapporti di
grande civiltà che, questo sì, si contrappongono alla situazione
straziante della città che hanno lasciato.

5. Lingua e stile
Negli Ecatommiti, come in tutte le opere di prosa, si scorgo-
no i limiti della lingua che da qualche tempo si era affermata:
una lingua meramente scritta, incapace di piegarsi alla vivacità
del parlato autentico e di possedere quei sali che solo una lin-
gua viva possiede. A questa situazione di fatto Giraldi aggiunge
la volontà di nobilitare la novella usando uno stile alto o molto
alto: una società nobile e gentile non poteva esprimersi che con
un eloquio elegante. La condizione di tutti i novellisti non to-
scani viene così aggravata. Il tono quasi sempre alto produce
un’impressione di insincerità, che in realtà è solo incapacità di
trovare le espressioni adeguate, quelle che ci paiono sincere.
Nelle novelle entrano dei poveri diavoli o scellerati che non
dovrebbero esprimersi con tanta eleganza; la sua, pertanto, è
necessariamente una lingua povera di registri espressivi, che
non disdegna (come altri facevano) lo stile e le parole di Boc-
caccio, ma si tiene lontana dalle espressioni troppo popolari e
non tenta quasi mai di caratterizzare stilisticamente le parlate
dei personaggi e le loro vicende.
A differenza di altri novellatori Giraldi non prende posizio-
ne sulla lingua italiana. Solamente in una novella – nella quale
peraltro mostra che l’ingegno pronto di un bergamasco vale
più della bella favella – fa dichiarare al narratore:
Non è alcuno di noi che non sappia quanto il parlar toscano, sopra tutte le
favelle d’Italia, sia eccellente, e quanto da essere pregiato […]. La qual cosa
fa che tanto più volentieri si ode dagli Italiani un favellatore toscano […].
Però che il favellare toscano, e per lo splendor delle voci e per la grazia del
APPUNTI PER UNA LETTURA DEGLI ECATOMMITI 349

proferire, che usano gli uomini di quella nazione ne’ communi ragionamenti,
dilettano maravigliosamente a chi gli ascolta (pp. 1371-2) (27).

Probabilmente per lui – imitatore di Boccaccio – si trattava


solamente di allargare quella lingua letteraria, aprendola a ma-
terie diverse da quelle del puro divertimento, cioè con un moto
verso l’alto e non verso il basso. E c’è un momento in cui sem-
bra rivendicare il suo primato nel trattare di materia filosofica
in volgare. Lo si incontra nel primo Dialogo, in cui Giraldi, per
bocca di Lelio dice: «siami lecito […] in materia nova e non
più trattata in questa lingua, usare voci nuove, atte ad ispri-
mere i concetti filosofici»: e questa battuta – come osserva la
Villari (p. 985) – «presuppone la volontà polemica di afferma-
re (contro una persistente tradizione umanistica che giudicava
il latino la lingua esclusiva e privilegiata della filosofia e della
scienza) le potenzialità della lingua volgare, altrettanto atta a
esprimere complesse e attuali tematiche filosofiche».
La sua sintassi è molto più semplice di quella bembiana;
non mancano le inversioni e le incidentali e le varie figure re-
toriche, ma almeno nella conversazione il periodo resta piano,
per quanto era allora possibile. Non mi pare proprio che lo si
possa accusare di costruire periodi complessi alla latina, se non
là dove il discorso dei personaggi cede alla retorica e trasforma
la conversazione in orazione: il che è a volte giustificato dalla
situazione, ma spesso è dovuto a pura necessità espressiva, a
non poter ottenere di più da una lingua come la sua. I perso-
naggi che dovrebbero esprimersi in uno stile basso più che con
il lessico vengono caratterizzati da una sintassi più piana, con
periodi più brevi, con meno figure retoriche.
Non mi pare dunque di poter condividere del tutto l’opi-
nione della Pieri, la quale ritiene che «l’efficacia espressiva è
spesso affidata soltanto al lessico ‘peregrino’ o alla materiale
enormità delle immagini, mentre la sintassi rimane pesante-
mente classicheggiante e boccaccesca; per cui nella scrittura
del Giraldi si assiste di solito all’irrisolto contrasto fra il per-

(27) Anche il suo ciceronianismo vien fuori indirettamente, quando una novella-
trice dice di Celio Rodigino che nello scrivere era «più rozzo e più scabro che l’istesso
Apuleio, tanto è egli duro» (p. 1382).
350 mario pozzi

manente equilibrio retorico della sintassi e la truculenza (o la


pateticità) dell’imagery di repertorio, con effetti di un torbido
horror vacui. E proprio nell’impossibilità di attingere un’au-
tentica compostezza formale si misura l’inquietudine storica
sottesa agli Ecatommiti» (28). Il contrasto fra il permanente
equilibrio della sintassi e la truculenza delle cose narrate nasce
non da inquietudine storica ma da impossibilità o difficoltà di
operare diversamente. E nemmeno mi sento di affermare che
la sua sintassi sia pesantemente classicheggiante e boccaccesca,
perché il periodo di Giraldi non tende alla subordinazione ma,
se mai, al parallelismo e all’anafora.
Tutti i personaggi usano un italiano alto perché Giraldi
non intende usare espressioni dialettali, che costituivano allora
l’unica risorsa per alleggerire quella sintassi e quel lessico che
non era peregrino ma quello che passava il convento. A diffe-
renza di Bandello si trovano pochissime notazioni su parole,
segno anche di una scarsa curiosità linguistica. Qualcuna mi
sarà sfuggita, ma io ho annotato solo queste: p. 999: «Alla qual
cosa convenevole nome hanno dato i lombardi, chiamando ciò
disennare, perché il così fare non è altro che trarre i fanciulli
di senno»; p. 1394: «postigli tutti in un mastello (così chiama-
no i Ferraresi que’ vaselli, ne’ quali le donne fanno bianche le
tele)»; p. 1714: «soperchierie (come oggidì si dice)»; p. 1777:
«una zagaglia (come oggi dicemo)». In ogni caso si tratterebbe
di limiti della sua lingua e non della sua sensibilità.
Le espressioni di solito non sono leziose se non in casi to-
pici come le albe; qualche volta appaiono anche nelle novelle
dichiarazioni di straordinaria bellezza intrise di immagini poe-
tiche.
Giraldi, in ogni aspetto di quest’opera, tende al gigantismo,
all’esagerazione, a simmetrie dalle ampie arcate. Non sarà il
grandguignol, di cui scrive la Pieri (29), ma piuttosto un’opera
hollywoodiana in cui ogni elemento è al suo posto e la regia
mira a impressionare il lettore con gli effetti speciali. L’impian-
to retorico è sapiente; non c’è quasi figura retorica che non

(28) La strategia edificante cit., pp. 63-4.


(29) Ivi, p. 64.
APPUNTI PER UNA LETTURA DEGLI ECATOMMITI 351

venga utilizzata e il suo desiderio di ampliare lo induce a non


accontentarsi delle coppie, ma ad aumentare gli elementi, evi-
tando le mere elencazioni con costrutti anaforici, meglio se
costruiti con chiasmo o parallelismo o altre simmetrie e con
l’aggiunta di altri gruppi binari o ternari. Un elenco completo
richiederebbe moltissime pagine. Mi limito a qualche esempio:

«Parvi che il senno, la vecchiezza, la cortesia, il valore, il fermo pensiero di


fuggir loro basti a salvarci da queste furie? […] Elle nel mezzo de’ dolori
ridono, piangono nelle allegrezze, si turbano ne’ piaceri, si mostrano con-
solate negli affanni, sotto la benivolenza celano l’odio e sotto l’odio l’amore,
sotto la fede nascondon lo inganno, nella crudeltà si fingono pietose e nella
maggior voglia c’hanno di vivere si fingon morte» (p. 151); «ritrovandomi io
ivi femina, sola, povera, inferma, abbandonata da ognuno, senza alcuna spe-
ranza di aiuto» (p. 219); «poteva essere una delle più nobili, delle più ricche
e forse delle più felici donne d’Italia, in povertà, in miseria, in ignominia son
vissa e vivo» (p. 220); «né l’alto legnaggio della donna, né la sua bellezza, né
la giovane età, né l’averla lungamente amata, né l’istessa vita da lei in dono
avuta, né finalmente la fede del matrimonio» (p. 225); «non le torri, non i
tempi, non i palagi, non le corti» (p. 503); «essendo l’uomo nato alla patria,
agli amici e ultimamente a’ parenti, agli Dii immortali, alla publica onestà e
al mantenimento delle virtù» (p. 1019); «non con grida, non con romori, non
con mal viso, non con battiture, ma con paterne ammonizioni e con amore-
voli inviti» (p. 1438); «non avere avuto riguardo né a Iddio, né alla natura, né
alle ragioni del sangue, né al rispetto del padre» (p. 1460); «non pensava altro
mai, né giorno né notte, e non perdonava né a fatica, né a diligenza, pure che
gli si offerisse qualche modo di far guadagno e, quanto più ricco diveniva
costui, tanto più cresceva in lui la sete e il desiderio dell’oro e dell’avere»
(p. 1513); «gli fa non stimare né Iddio, né vita, né onore, né vergogna, né
ragion di sangue, né grato animo, né singolar beneficio, né cosa altra alcuna
del mondo» (p. 1519); «non saranno sicuri i cittadini nelle proprie case, non
si difenderanno i confini delle terre, non si scaccieriano le ingiurie, non si
porrebbe fine alle sedizioni, non si manteneranno le virtù, non si conserverà
la pace e la quiete publica, non si spaventeranno i vicini da farci ingiurie,
da occuparci i beni, da fare violenza alla onestà, non si stenderanno mai i
termini dell’imperio e non si darà a’ cittadini mai materia di acquistarsi, per
valorosi fatti, onore in vita e gloria doppo la morte, la quale ci faccia vivere,
malgrado degli anni, eternamente» (pp. 1693-4); ecc.

In luogo dei “sali” Giraldi usa le espressioni proverbiali:


«come un fiore non fa fede della primavera» (p. 184); «mi pare che la cosa sia
passata tra zingaro e corsale, come si suol dire» (p. 191); «mi avenne quello
che si suol dire in proverbio, ch’uscendo della padella, me ne caddi nelle
bragie» (p. 218); «aveva egli data (come si suol dire) in custodia l’agnella ad
una lupa o la latuca in guardia a papere» (p. 242); «e lascierei andar l’acqua
allo ingiù» (p. 578); «perché ad un colpo di scure non cade la quercia» (p.
915); «E quindi è avenuto che si dice in proverbio “Quali tu vuoi i figliuoli,
352 mario pozzi

tali prenditi la moglie”» (p. 977); «Egli è veramente vero quello che in pro-
verbio si dice, che coloro che manco sanno delle cose e molto si persuadono
di saperne, sono più audaci di tutti gli altri» (p. 1324); «i bergamaschi hanno
il becco grosso, ma lo ingegno sottile» (p. 1373); «ragionevolmente si è detto
che all’avaro così mancano quelle cose che egli ha, come quelle che non ha,
perché nella copia istessa dell’oro e dell’argento se muoiono della fame» (p.
1380); «chi caccia altri per sé non possa e chi vuol ire co’ piedi scalzi non
dee seminare spine» (p. 1385); «Al tor non esser lente, al pagar non esser
corrente, che potrebbe venir tale accidente che non pagaresti mai niente»
(p. 1393); «quanto il vino è più dolce, tanto diviene egli aceto più forte» (p.
1530); «gli parve che gli fosse messo un muro fra la spiga e la mano, come si
suol dire» (p. 1640); «egli dà grave molestia a me ed esso tuttavia ara il lito e
semina nella rena» (p. 1758); ecc.

Come si vede non sono omaggi alla sapienza popolare, ma dif-


fusi modi di dire, assunti per mostrare che si tratta di opinioni
comuni.
Le metafore sono abbastanza ovvie o ripetitive, come succe-
de a chi disdegna di accostarsi all’uso popolare e accoglie solo
quello che gli offrono gli auctores. Qualche volta, però, trova
immagini più originali, almeno a mio parere:
«imparò di levare la lana insino alle radici a’ montoni che con lei cozzare vo-
leano [...]. Costei, che se ne stava come il nibbio alle busecchie, veduto costui
vaneggiare per la strada, poi che le parve averlo tutto fra gli artigli» (p. 142);
«notando nel golfo de’ lascivi piaceri» (p. 144); «Maravigliavami, Flaminio,
se anco non mi volevate mordere, ma poi che mi sono aveduto che conoscete
che, se bene ho il capo bianco, potrei avere qualche cosa di verde, vi perdono
questa dentata che data mi avete» (p. 152); «Tu mi vorresti far entrare […]
in B molle, ma io non sono uso a cantare per quella chiave» (p. 547); «Voglio
io venire con voi, ovunque anderete, se bene così devessi passare in cami-
scia per lo fuoco» (p. 614); «la fede di Selene rimase non men chiara che si
rimanga lo splendore del sole, poi ch’egli ha vinto l’oscuro, che gli avevano
apportato i nuvoli che nell’aria si erano impressi» (p. 828); «e vi va troppo
per poco la sinape al naso» (p. 914); «Il lupo, di ciò impaurito, cominciò a
fuggire e ad urlare aspramente e tirarsi dietro il doglio insieme col fanciullo,
cacciato non altrimente e dalla paura e dal furore, che noi veggiamo terribile
toro correre, muggendo, per la campagna, se forse il custode dell’armento gli
attacca qualche cosa alla coda di qualche grossezza, come zucca o bottaccio
o vesica gonfia, ove siano cose dentro che facciano strepito e gli dia per le
gambe e al corso lo spinga» (p. 1556); ecc.

Come si sarà già notato, Giraldi ama giocare con i vocaboli;


lo fa in vario modo e sopra tutto accostandoli con lo stesso
significato o con significati diversi:
«La mala vecchia, tutta alle male opere per mal uso pieghevole» (p. 100);
APPUNTI PER UNA LETTURA DEGLI ECATOMMITI 353

«Pensate voi, madonna, che se ben voi vostro villano mi chiamate, che io fossi
mai tanto villano che, in vece della cortesia che mi usaste, io volessi che per
mie parole danno ve ne avenisse, o male o disonore?» (p. 261); «tolerava pa-
zientemente la sua intollerabile seccaggine» (p. 717); «le si farebbe conoscer
grata della grata accoglienza» (p. 923); «Riccio allora, più d’ogni crudel uomo
crudele» (p. 926); «quell’ottimo e giustissimo imperadore farebbe portare
giustissima pena a quel malvagio e della ingiustizia e della ingratitudine sua»
(p. 1480); «si chiuse in un monastero di santissime donne e santissimamente,
in digiuni e orazioni, finì fra loro il corso degli anni suoi» (p. 1511); «volendo
più tosto tolerare la intolerabile avarizia di quel vegliardo» (p. 1520); «che
ora tu alla mia mano commesso hai e commesso alla mia fede (p. 1572)»; «cre-
do che debba tenere questo giustissimo magistrato, che giustamente sia stato
morto colui che ella ha ucciso» (p. 1727); ecc.

L’abilità retorica dell’autore è grande; è una sua virtù e an-


che un suo limite. Numerose però sono le eccezioni, sia quan-
do la figura retorica viene evitata, sia quando esprime bene
i costumi di chi parla. Ecco, per esempio, un tratto incisivo
nell’eloquenza di una scellerata vecchia: «il vedersi vecchie e
condannate a starsi coll’arcolaio o colla conocchia sulla cenere
a far fuoco alle pentole ed essere venute a fastidio insino a’
topi delle case» (p. 100-101), o come si esprime Riccio «pieno
di barbara e bestiale lascivia»: «Adunque, villana donna, tale
ha ad essere il premio del mio amore? Disponti a compiacer-
mi e ricordati che tu sei nelle mie forze e che, vogli o no, io
son per pigliarmi quello che tu negar non mi puoi» (p. 924);
e questa semplicità di espressione è tutt’altro che rara negli
Ecatommiti.
Giraldi evita il comico, e questo gli riduce il problema sti-
listico; gli resta però la necessità di esprimere per metafore e
immagini l’erotismo: usa immagini standard e come tali poco
significative. Predominanti – come in tanti scrittori del Cinque-
cento - sono quelle legate al fuoco; l’innamoramento inoltre
imprime l’immagine dell’uno nel cuore dell’altra. Cito a caso:
«s’ella era calda di lui, egli per lei ardeva […] tanto più l’uno e l’altro coceva,
quanto le occulte fiamme sono più ardenti delle palesi» (p. 389); «tanto di
lui si accese e con tanta forza ricevette l’imagine sua nel core, che si sentiva
consumare dalla amorosa fiamma» (p. 412); «ella non meno di lui si accese
ch’egli di lei acceso si fosse» (p. 424); «non sentisse le fiamme d’amore […]
tanto fuoco gli destò nel core, che tutto si sentiva struggere […] e assai più
caldamente che prima […] non meno accesa di lui ch’egli di lei si fosse. E
quel fuoco […] dalla cagione del suo fuoco, si devessero spegnere le fiamme
ond’egli ardeva […] atto a resistere alle fiamme che chiusamente lo strugge-
354 mario pozzi

ano» (p. 462); «Ma se arse Filarco, non agghiacciò Filagnia, ma all’aspetto,
al parlare di lui sentì quello che non avea più mai per uomo alcun sentito,
cioè non so che intorno al core, che pareva che parimente gliele infiammasse
e gliele traffigesse […] beendo tutta via cogli occhi le fiamme che l’erano
per ardere il core […] ch’egli tutto ardeva per lei» (p. 504); «le rare virtù
vostre, colla qualità de’ raggi loro, hanno di modo deleguato quel ghiaccio,
che intorno al mio core io aveva e che scudo e difesa mi facea contra gli
strali e la face d’amore, che, di voi infiammata, sono tutta in forza vostra
[…] io voglio credere che Iddio ci abbia così infiammati l’uno dell’altro a
qualche buon fine» (pp. 509-10); «era ferma di volersene compiacere, più
tosto che morirsene incenerita dalle fiamme che la coceano nel fiore della sua
età» (p. 576); «non poteano ammollire quel core, che parea che fosse armato
di ghiaccio contra le faci di Amore e di diamante contra gli suoi strali» (p.
598); «ebbero tanto di forza nell’uno e nell’altro i primi sguardi, che nel core
del giovane s’impresse la imagine della donna e in quello della donna quella
del giovane. E i primi raggi degli occhi dell’uno e dell’altro accesero tanto di
fuoco ne’ cori loro, che ardevano incredibilmente» (pp. 598-9); «e tanto più
crebbero in Eugenio le ardenti fiamme, quanto chi gliele aveva accese gli era
più lontana, perché, ove il fuoco naturale quanto più è appresso tanto più
arde, accresce nondimeno molte fiate la lontananza le fiamme amorose, onde
non senza cagione fu detto che gli amanti erano sciolti da tutte le qualitadi
umane (pp. 894-5); ecc. (30)

Ancora più imbarazzante era per i non toscani il linguaggio


erotico; Giraldi comunque se la cava discretamente:
«il giovane, al quale era aggrado mutar pasto al suo sparvieri [...] cominciò
egli a tentare di porre la sella a quest’altra giumenta» (pp. 118-9); «sì che, gia-
cendosi con esso lei, ella conoscesse ch’egli così bene sapea uccellare alle qua-
glie com’ella a sparvieri» (p. 120); «parendole che poca fosse la differenza fra
nobile e plebeo, pure che non mancassero del corno onde essi potessero cozzare
con lei» (p. 184); «potesse provare se con miglior corno cozzasse il castaldo che
il marito» (p. 260); «vide il marito e la Nepa in battaglia, la quale non videro
essi, che erano a duello, per essere ambidue solamente intenti alla pugna […]
Levati dalla battaglia i due guerrieri e fermata la pace con cari baci» (p. 630);
«Lisca, a cui molto bene avea scosso il pelliccione l’amante» (p. 649); «si mise
a scuoterle il pelliccione» (p. 722); ecc.

Qualche volta addirittura rinuncia a ricorrere a metafore


come in questo passo: «mostrava quelle parti che le donne fin-

(30) La metafora quasi sempre di amore sensuale diventa simbolo di un profondo


sentimento spirituale nella sestina Se il bel pensier, che tenta di alzar l’alma, cantata da
Fabio. Ma la gravità del soggetto (l’anima che aspira a superare le vanità terrene e a
ricongiungersi con la divinità da cui ha avuto origine) è subito contestata da Ponzio
(«Vedete come Fabio ci ha voluto levar dal mondo e ne’ più fioriti anni farci divenir
vecchi?») e Flaminio («Egli è degno di scusa […] però che i molti anni gli hanno levato
il sentire il dolce di questa vita, la qual viviamo»). Quasi inutile dire che Fabio replica
sostenendo che «questa, che voi chiamate dolcezza, è mortal veleno» (p. 805).
APPUNTI PER UNA LETTURA DEGLI ECATOMMITI 355

gono di veder con gran vergogna nude negli uomini, così ritte
e gonfie ch’era cosa maravigliosa a vedersi, tanto erano elle fori
dell’ordine degli altri uomini» (p. 259); «vi farei di botto vede-
re ch’ora tal cosa è ritta che si stava bassa prima che voi così mi
tentaste come tentato mi avete» (p. 260); «e, datogli un caldo
bacio, stese l’una delle mani a quelle parti che tanto l’altro gior-
no l’erano piacciute; e ritrovatele non meno gagliarde ed ardite
ch’ella istimate le si avesse» (p. 262); ecc.
Le caratterizzazioni dei personaggi sono per lo più iperbo-
liche e dunque generiche, senza sfumature:
«avea una madre, la più scaltrita e la più scelerata femina che mai fosse»
(p. 163); «fu giovane ne’ suoi tempi così gentile e di tanta bellezza che tra ’
suoi cittadini non si sarebbe di leggieri ritrovato a lui pari» (p. 423); «bello
e gentile quanto ne fosse a’ suoi tempi alcuno altro» (p. 503); «cittadino no-
bilissimo e cortese e gentil molto, e tanto per le sue virtù da ognuno amato,
quanto mai fosse uomo alcuno di quella terra» (p. 574); «Ed essendo ella
sopra ogni femina dissoluta e avida del guadagno» (p. 586); «la più bella
donna che fosse in que’ tempi nella città, la quale, come da tutti era, per la
bellezza, lodata, così era, per commune opinione, tenuta la più savia e la più
onesta donna che mai fosse» (p. 598); «di bellissima presenza, ma della più
scelerata natura, che mai fosse uomo del mondo» (p. 615); «Ma copriva que-
sto malvagio sotto quella grave e matura presenza un animo tanto scelerato,
che il peggiore non fu mai veduto in uman core» (p. 680); «era il più disleale
e il più malvagio uomo che mai nascesse» (p. 827); «il quale il migliore e il
più ubidiente figliuolo mi era che mai di madre nascesse» (p. 1305); «una
gentilissima giovane, ornata di tanta bellezza, quanta alcuna altra della sua
età» (p. 1578); ecc.

Ma non è sempre così; ci sono anche ampie descrizioni


come quella di Modesta (V, 10, p. 922), e sopra tutto quella
di Lucilla adagiata sul letto addormentata. Si tratta forse della
descrizione più felice dell’opera, ma è pur sempre una piccola
cosa:
Era il mese di luglio, onde si sentiva il caldo ardentissimo; per la qual cosa la
giovane, dormendo, nel voltarsi per lo letto, avea da una parte lasciati tutti i
panni di che era coperta, onde tutta ignuda il giovane la ritrovò addormenta-
ta, co’ coralli al collo e alle braccia, che maravigliosa vaghezza le aggiungea-
no. Stava ella nel letto supina e colle braccia, come per lo più è costume delle
donne, sopra la testa, onde tutta incontanente la scoperse il giovane amante
con avidissimo occhio. E considerando il viso, il petto e il corpo tutto, da
capo a piedi, non solo la lodò, come avea fatto veggendola vestita, ma tanto,
oltre ogni credenza, ella gli piacque che non gli parve di veder donna mor-
tale, ma una dea che dal Cielo ivi discesa fusse, per pienamente farlo beato
(pp. 1279-80).
356 mario pozzi

Quanto alle composizioni poetiche, un invito a non pren-


derle troppo sul serio viene dalle giovani, che dicono tutte «ad
una voce» come sia l’amore nei versi dei compagni:
Egli è gran cosa, Fabio, che questi nostri giovani tanto d’Amor si dolgano,
quanto ci hanno mostrato le lor canzoni: quegli vive colla morte, questi more
nella vita, altri arde nel gelo, altri nel fuoco è di ghiaccio, quegli grida tacendo
e questi gridando tace, e le cose, per natura impossibili, mostran possibili in
loro (p. 522).

Questi miracoli dei rimatori erano già stati derisi dai trattatisti
a cominciare da Equicola nel Libro de natura de amore, ma qui
la Villari non a torto osserva che i topoi della poesia petrarche-
sca (iperboli, ossimori, antitesi, adynata) vengono considerati
come sintomi degli eccessi passionali (p. 522 n. 1). Proseguono
infatti le giovani:
Il che crediamo che nasca perché non sanno star contenti agli onesti termini
di lodevole amore. Ma queste maraviglie non si veggono in noi perché, aven-
do ad onesto segno dirizzati i nostri pensieri, ci siamo ivi fermate e per ciò
non pure non sentiamo le afflizioni ond’essi si dolgono, ma ci sono le fiamme
soavi, ci sono libertà i nodi co’ quali siamo, a chi è il nostro riposo, astrette;
e così liete, amando, viviamo, che non abbiamo mai, come essi, cagion di
chiamar la morte che ci sottragga alle doglie od a’ martiri, anzi ci dorrebbe
ella, se per nostra sciagura sciogliesse il legame con cui ci ha astretto Amore
a quelli che sono la vita e l’anima nostra (p. 522).

Un «saggio di questa diversa tematica, che associa il sentimen-


to amoroso alla dolcezza e alla quiete del rapporto coniugale,
piuttosto che a sofferenza e morte, era stato dato – come scrive
la Villari (p. 522 n. 2) – da Virginia nella sua canzone (cfr. Intr.,
concl., 33-36)».
«Ripetizioni, accumulazioni sostantivali e aggettivali, figure
etimologiche, poliptoti – scrive la Villari (p. LXXXII-LXXXIII)
– mirano, ad esempio, a evidenziare situazioni esasperate o
pensieri ossessivi, a sottolineare motivi di raccapriccio o di me-
raviglia, a enfatizzare i meccanismi della simulazione e della
dissimulazione (come quando i personaggi vogliono far credere
di credere una determinata cosa o fingono di fingere)». E non ha
torto nel sostenere che «l’esperienza giraldiana nel campo del
teatro si trasfonde nella narrazione novellistica, esaltandone gli
aspetti «visivi»: gli elementi deittici, la vivacità dei dialoghi, la
APPUNTI PER UNA LETTURA DEGLI ECATOMMITI 357

descrizione della gestualità dei personaggi, concorrono a un’a-


nimata rappresentazione, ora comica, ora tragica». Solamente
aggiungerei che di rappresentazioni comiche ne ho incontrate
poche e che c’è una scarsa preoccupazione per il colore locale;
di solito caratterizza con pochi tratti generici i luoghi esotici in
cui ambienta i suoi racconti. Quanto a quelli italiani si impegna
più che altro a lodare i loro sovrani. (1. continua)

Mario Pozzi

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