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Idea Della Prosa - Giorgio Agamben - 2 - , 2013 - Quodlibet - 9788874624621 - Anna's Archive

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Qyodlibet

Giorgio Agamben
Idea della prosa
Giorgio Agamben si è dimesso dall'insegnamento di Filosofia
teoretica presso l'università di Venezia. Con Homo sacer (Einaudi
1995) ha segnato una nuova direzione nel pensiero politico
attuale. Fra i suoi libri più recenti: Stato di eccezione (Bollati
Boringhieri 2003); Profanazioni (Nottetempo 2005); Il Regno e la
Gloria (Neri Pozza 2005); Segnatura rerum (Bollati Boringhieri
2008); La Chiesa e il regno (Nottetempo 2010); Altissima povertà.
Regole monastiche eforme di vita (Neri Pozza 2011). Presso Q!odlibet
ha pubblicato: L'uomo senza contenuto (1994, nuova edizione nella
collana Bis, 2013), Bartleby. Laformula della creazione (1993).
Giorgio Agamben

Idea della prosa

Quodlibet
Nuova edizione illuminata e accresciuta

Prima edizione: aprile 2002


Seconda edizione: ottobre 2013

© 2002 Quodlibet s.r.l.


Macerata, via S. Maria della Porta, 43
www .quodlibet.it
A
José Bergamin
. .

mmemonam

Y es tanto su desvelo que, al velar/o


de sueiio sin sentido,
siente que por debajo de ese sueiio
nunca despertarà del sueiio mismo.
Soglia
Nell'anno 529 della nostra era, l'imperatore Giustiniano, istigato da
fanatici consiglieri del partito antiellenico, decretò con un editto la
chiusura della scuola filosofica di Atene. Toccò così a Damascio,
scolarca in carica, di essere l'ultimo diadoco della filosofia pagana.
Egli aveva cercato, attraverso funzionari di corte che gli avevano
promesso la loro benevolenza, di scongiurare quell'evento; ma ave­
va ottenuto soltanto che gli venisse offerto, in cambio della confisca
dei beni e delle rendite della scuola, uno stipendio di sovrintenden­
te in una biblioteca di provincia. Ora, temendo probabili persecu­
zioni, lo scolarca e sei dei suoi collaboratori più stretti caricarono
libri e masserizie su un carro e cercarono rifugio alla corte del re dei
persiani, Khusraw Anoshakrawan. I barbari avrebbero salvato quel­
la purissima tradizione ellenica che i greci- o, piuttosto, i "roma­
ni", come ora si chiamavano- non erano più degni di custodire.
Il diadoco non era più giovane, erano lontani i tempi in cui ave­
va creduto di potersi occupare di storie meravigliose e di apparizio­
ni di anime; a Ctesifonte, dopo i primi mesi di vita cortigiana, lasciò
ai suoi allievi Prisciano e Simplicio il compito di soddisfare, con
commenti e edizioni critiche, la curiosità filosofica del sovrano.
Chiuso nella sua casa nella parte settentrionale della città, in com­
pagnia di uno scriba greco e di una domestica siriana, egli decise di
consacrare gli ultimi anni della sua vita alla redazione di un'opera
che avrebbe intitolato: Aporie e soluzioni intorno ai principi primi.
Sapeva perfettamente che la questione che intendeva affrontare
non era una questione filosofica fra le altre. Non aveva scritto Pla­
tone stesso, in una lettera che perfino i cristiani consideravano
IO

importante (in verità senza comprenderla), che proprio la domanda


intorno al Primo è la causa di tutti i mali? Ma, aveva aggiunto, la
pena che quella domanda causa nell'anima è come la doglia del par­
to, e finché non si sgrava, l'anima non potrà mai trovare la verità.
Per questo, senza esitare, già nel sigillo dell'opera il vecchio diado­
co formulò con chiarezza il proprio tema: "Quel che chiamiamo
principio unico e supremo del Tutto è al di là del Tutto, oppure è
una certa parte determinata del Tutto, per esempio il culmine delle
cose che da esso procedono? Dobbiamo dire, inoltre, che il Tutto è
con il principio, o che è dopo di esso e procedente da esso? Poiché,
se si ammette questa alternativa, ci sarà allora qualcosa che è fuori
del Tutto, e come sarebbe possibile? Ciò a cui nulla manca è, infat­
ti, il Tutto assoluto; ma il principio manca, dunque ciò che è dopo il
principio e fuori di esso non è il Tutto assoluto".
È tradizione che Damascio lavorasse alla sua opera per trecento
giorni e per altrettante notti, cioè esattamente per tutta la durata del
suo esilio a Ctesifonte. A volte s'interrompeva per giorni e settima­
ne e, in quei momenti, gli appariva come attraverso una nebbia la
vanità della sua impresa. Il testo che leggiamo è costellato di frasi
come "malgrado le lungaggini del nostro svolgimento, non abbia­
mo, mi pare, concluso a nulla" oppure "di ciò che abbiamo appena
scritto, avvenga quel che a Dio piace!" o anche "della mia esposi­
zione, c'è solo questo da lodare: che essa si condanna da sé, ricono­
scendo di non veder chiaro, di essere impotente a guardare la luce".
Ma poi riprendeva immancabilmente il lavoro, fino al prossimo
arresto, fino all'inevitabile nuova crisi. Perché come può il pensiero
porre la domanda intorno al principio del pensiero? Come si può,
in altre parole, comprendere l'incomprensibile? È chiaro che ciò che
qui è in questione non puo essere tematizzato nemmeno come
incomprensibile, non può essere espresso nemmeno come inespri­
mibile. "È talmente inconoscibile che non ha nemmeno per natura
l'inconoscibile, e non è dicendolo inconoscibile che possiamo illu­
derci di conoscerlo, perché noi non conosciamo nemmeno se è inco­
noscibile". Per questo l'allievo di Siriano, che era stato anche il mae­
stro del suo primo maestro Marino e che molti consideravano
II

insuperabile, aveva scritto una volta che, dal momento che non ha
nome, noi possiamo pensarlo attraverso lo spirito aspro che ponia­
mo sulla vocale del termine ev. Ma era- evidentemente- una sotti­
gliezza indegna di un filosofo, al limite della ciarlataneria. N on in
questo modo, con un segno illeggibile o con un fiato, egli avrebbe
esposto, nelle sue Aporie, l'impensabile che è al di là del fiato e del­
lo spirito scrivibile. Fu così che una notte, mentre scriveva, gli
sgorgò a un tratto nella mente l'immagine che- così gli pareva- l'a­
vrebbe guidato fino alla fine dell'opera. Non era, però, un'im­
magine, ma qualcosa come il luogo perfettamente vuoto nel quale
soltanto immagine, fiato, parola potevano, eventualmente, avveni­
re; non era, anzi, nemmeno un luogo, ma, per così dire, il sito del
luogo, una superficie, un'area assolutamente liscia e piana, in cui
nessun punto poteva essere distinto da un altro. Pensò all'aia di pie­
tra bianca nella fattoria dov'era nato, alle porte di Damasco, e dove
a sera i contadini battevano il grano per separarlo dalla pula. Non
era quel che cercava proprio come l'aia, essa stessa impensabile e
indicibile, su cui i ventilabri del pensiero e del linguaggio scevera­
vano il seme e la paglia di ogni essere?
Quell'immagine gli piaceva e, seguendola, si trovò sulle labbra
una parola mai udita, che univa il termine che significa aia o area a
quello con cui gli astronomi indicano la superficie della luna o del
sole: aÀwv. No, non era una cattiva soluzione per quel che voleva
dire. Doveva attenersi a essa e non aggiungervi altro. "È certo",
scrisse, "che dell'assolutamente ineffabile non possiamo nemmeno
affermare che è ineffabile e, dell'Uno, dobbiamo dire che si sottrae
a ogni composizione di nome e discorso, come anche a ogni distin­
zione, qual è quella del conoscibile e del conoscente. Bisogna con­
cepirlo come una specie di alone piano e liscio, in cui nessun punto
si lascia distinguere dall'altro, come la cosa più semplice e più com­
prensiva, non soltanto uno, ma tutto-uno, e uno davanti a tutto, non
uno di un tutto... "
Damascio alzò per un istante la mano e guardò la tavoletta su cui
andava corsivamente annotando i suoi pensieri. Improvvisamente si
ricordò del passo del libro sull'anima dove il filosofo paragona l'in-
12

telletto in potenza a una tavoletta su cui non è scritto nulla. Come


non averci pensato prima? Era questo che giorno dopo giorno ave­
va inutilmente cercato di afferrare, era questo che senza sosta aveva
inseguito al breve lampo di quell'alone indiscernibile, accecante. Il
limite ultimo che il pensiero può raggiungere non è un essere, non
è un luogo o una cosa, per quanto sgombra di ogni qualità, ma la
propria assoluta potenza, la pura potenza della rappresentazione
stessa: la tavoletta per scrivere! Quel che aveva finora creduto di
pensare come l'Uno, come l'assolutamente Altro del pensiero era,
invece, soltanto la materia, soltanto la potenza del pensiero. E tutto
il lungo volume, che la mano dello scriba aveva gremito di caratte­
ri, non era che il tentativo di rappresentare quella tavola perfetta­
mente rasa, su cui nulla è stato ancora scritto. Per questo non riu­
sciva a portare a compimento la sua opera: ciò che non poteva
cessare di scriversi era l'immagine di ciò che mai cessava di non seri­
versi. Nell'uno si specchiava l'altro, inafferrabile. Ma tutto era final­
mente chiaro: poteva, ora, spezzare la tavoletta, cessare di scrivere.
O, piuttosto, cominciare veramente. Credeva ora di comprendere il
senso della massima secondo cui conoscendo la sua inconoscibilità,
non conosciamo qualcosa di lui, ma qualcosa di noi. Ciò che non
può mai essere primo gli lasciava avvenire, dileguando, il barlume di
un tmzw.
I
Idea della materia

L'esperienza decisiva che, per chi l'abbia avuta, si dice sia così diffi­
cile da raccontare, non è nemmeno un'esperienza. Essa non è altro
che il punto in cui tocchiamo i limiti del linguaggio. Ma quel che
allora tocchiamo non è, ovviamente, una cosa, tanto nuova e tre­
menda che, per descriverla, ci mancano le parole: è, piuttosto, mate­
ria, nel senso in cui si dice "materia di Bretagna" o "entrare in mate­
ria" o, perfino, "indice per materia". Colui che tocca, in questo
senso, la sua materia, trova semplicemente le parole da dire. Dove
finisce il linguaggio, comincia non l'indicibile, ma la materia della
parola. Chi non ha mai raggiunto, come in un sogno, questa lignea
sostanza della lingua, che gli antichi chiamavano "selva", è, anche se
tace, prigioniero delle rappresentazioni.
È come per coloro che sono tornati alla vita dopo una morte
apparente: in verità, non sono affatto morti (altrimenti non sareb­
bero tornati) né si sono liberati della necessità di dover un giorno
morire; si sono, però, liberati della rappresentazione della morte. Per
questo, interrogati su quel che gli è capitato, non hanno nulla da dire
sulla morte, ma trovano materia per molti racconti e per molte bel­
le favole sulla loro vita.
Idea della prosa

È un fatto sul quale non si rifletterà mai abbastanza che nessuna


definizione del verso sia perfettamente soddisfacente, tranne quella
che ne certifica l'identità rispetto alla prosa attraverso la possibilità
dell'enjambement. Né la quantità, né il ritmo, né il numero delle sil­
labe- tutti elementi che possono occorrere anche nella prosa- for­
niscono, da questo punto di vista, un discrimine sufficiente: ma è
senz'altro poesia quel discorso in cui è possibile opporre un limite
metrico a un limite sintattico (ogni verso in cui l'enjambement non
è, attualmente, presente, sarà, allora, un verso con enjambement
zero), prosa quel discorso in cui ciò non è possibile.
Vi sono poeti- Petrarca ne è il capostipite- in cui l'enjambement
zero costituisce la regola, altri- e Caproni è fra questi- in cui il gra­
do marcato tende, invece, a prevalere. Nell'ultimo Caproni, tuttavia,
questa tendenza si esaspera fino all'inverosimile: l'enjambement
divora allora il verso, che si riduce a quei soli elementi che permet­
tono di attestarne la presenza- al suo specifico nucleo differenziale,
dunque, se l'enjambement individua, nel senso che s'è visto, il tratto
distintivo del discorso poetico. Citiamo da una poesia recentissima:

........ La porta
bianca...

La porta
che, dalla trasparenza, porta
nell' opacità...

La porta
condannata...
20

La tradizionale consistenza metrica del verso è qui drasticamen­


te contratta, e i puntini di sospensione, così caratteristici del tardo
Caproni, stanno appunto a segnare l'impossibilità di svolgere il tema
metrico del verso al di là del suo nucleo costitutivo (che- osserva­
zione non triviale, anche se, dopo quanto si è detto, scontata - sta
non al principio, ma in fine, nel punto della versura), così come, nel­
l'adagio del quintetto schubertiano op. 163, di cui Caproni ha mes­
so a frutto la lezione, il pizzicato ribadisce ogni volta l'impossibilità,
per gli archi, di formulare compiutamente una frase melodica. Non
per questo la poesia cessa di essere tale: ancora una volta, l'enjam­
bement, diversamente dal bianco mallarmeano, che annette la pro­
sa al campo della poesia, è condizione necessaria e sufficiente della
versificazione.
Che cosa, dunque, è propriamente in esso in questione, perché
gli venga conferito un simile potere delle chiavi sui metri della poe­
sia? I.:enjambement esibisce una non-coincidenza e una sconnes­
sione fra elemento metrico e elemento sintattico, fra ritmo sonoro e
senso, quasi che, contrariamente a un diffuso pregiudizio, che vede
in essa il luogo di una raggiunta, perfetta adesione fra suono e sen­
so, la poesia vivesse, invece, soltanto del loro intimo discordo. Il ver­
so, nell'atto stesso in cui, spezzando un nesso sintattico, afferma la
propria identità, è, però, irresistibilmente attratto a inarcarsi sul ver­
so successivo, per afferrare ciò che ha rigettato fuori di sé: esso
accenna un passo di prosa col gesto medesimo che attesta la propria
versatilità. In questo gettarsi a capofitto sull'abisso del senso, l'unità
puramente sonora del verso trasgredisce, con la propria misura,
anche la propria identità.
I: enjambement porta così alla luce l'originaria andatura, né poe­
tica né prosastica, ma, per così dire, bustrofedica della poesia, l'es­
senziale prosimetricità di ogni discorso umano, la cui precoce atte­
stazione nelle Gatha dell'Avesta o nella satura latina certifica il
carattere non episodico della proposta della Vita nuova alle soglie
dell'età moderna. La versura, che, pur restando innominata nei trat­
tati di metrica, costituisce il nocciolo del verso (e la cui esposizione
è l' enjambement), è un gesto ambiguo, che si volge a un tempo in
21

due direzioni opposte, all'indietro (verso) e in avanti (prosa). Que­


sta pendenza, questa sublime esitazione fra il senso e il suono è l'e­
redità poetica, di cui il pensiero deve venire a capo. Per raccoglier­
ne il lascito, Platone, rifiutando le forme tràdite della scrittura, tenne
fisso lo sguardo su quell'idea del linguaggio che, secondo la testi­
monianza di Aristotele, non era, per lui, né poesia né prosa, ma il
loro medio.
Idea della cesura

Forse nessuna poesia del Novecento affida tanto consapevolmente


il suo ritmo al freno della cesura come quella di Penna. Il poeta ha,
anzi, esaurito, nel breve giro di un distico, una trattazione della cesu­
ra senza riscontro in alcun trattato di metrica:

lo vado verso il fiume su un cavallo


che quando io penso un poco un poco egli si ferma.

Il cavallo, su cui viaggia il poeta, è, secondo un'antica tradizione ese­


getica dell'Apocalisse giovannea, l'elemento sonoro e vocale del lin­
guaggio. Commentando Ap. 19.11, in cui il logos è descritto come un
cavaliere "fedele e verace" che cavalca un cavallo bianco, Origene
spiega che il cavallo è la voce, la parola come proferimento sonoro,
che "corre con più slancio e più rapidità di qualsiasi destriero" e che
solo il logos rende intellegibile e chiara. È addormentato su un tale
cavallo - durmen sus un chivau - che, alle origini della poesia
romanza, Guglielmo d'Aquitania dichiara di aver composto il suo
vers; ed è un certo indizio della tenacia simbolica di quest'immagi­
ne se, all'inizio del secolo, in Pascoli (e, più tardi, nello stesso Pen­
na e in Delfini) il cavallo prende l'ilare figura di una bicicletta.
L'elemento, che arresta lo slancio metrico della voce, la cesura del
verso è, per il poeta, il pensiero. Ma l'esemplarità della trattazione
penniana del problema sta nel fatto che il contenuto tematico del
distico si specchia perfettamente nella sua struttura metrica: nella
cesura che frange il secondo verso in due emistichi. Il parallelismo
fra senso e metro è ancora ribadito dalla ripetizione della stessa
parola ai due margini della cesura, quasi a dare alla pausa la consi­
stenza epica d'un interstizio intemporale fra due istanti, che sospen­
de il gesto a metà in uno stravagante passo dell'oca (forse per que­
sto il poeta ha scritto qui un alessandrino, verso doppio per
eccellenza, la cui cesura si definisce convenzionalmente epica).
Ma che cosa si pensa in questa cesura, che ferma il cavallo del
verso? Che cosa dà a vedere questa interruzione del trasporto rit­
mico della poesia? Qui è Holderlin a rispondere nel modo meno
elusivo: "Il trasporto tragico, infatti, è propriamente vuoto e il più
libero. Perciò, nella successione ritmica delle rappresentazioni, in
cui si espone il trasporto, diventa necessario ciò che nel metro si
chiama cesura, la pura parola, l'interruzione antiritmica, per con­
trastare, al suo culmine, la vicenda incantevole delle rappresenta­
zioni, in modo che venga all'apparenza non più l'alternarsi della rap­
presentazione, ma la rappresentazione stessa".
Il trasporto ritmico, che muove lo slancio del verso, è vuoto, è
soltanto trasporto di sé. Ed è questo vuoto che, come pura parola,
la cesura - per un poco - pensa, tiene in sospeso, mentre un poco si
ferma il cavallo della poesia. Come latinamente scrive Ramon Llull
nel suo dettato: "sul suo palafreno cavalcando, andava a corte per
esser addobbato cavaliere, e, mentre andava, cullato dal trabalzare
della sua cavalcatura, s'addormentò. Ma, giunto che fu a una fonte,
l'animale si fermò per bere: c lo scudiero che sentì, nel sonno, che
ora il cavallo non si muoveva più, subito si destò". Qui il poeta
addormentato sul suo cavallo si sveglia c contempla per un istante
l'ispirazione che lo porta, non pensa nient'altro che la sua voce.
Idea della vocazione

A che cosa è fedele il poeta? Poiché qui certamente è in questione


qualcosa che non può essere fissato in proposizioni o memorizzato
in articoli di fede. Ma come si può conservare una fedeltà senza mai
formularla, nemmeno a se stessi? Essa dovrebbe ogni volta uscir dal­
la mente nell'attimo stesso in cui vi si afferma.
Un glossario medievale così spiega il senso del neologismo
dementicare, che andava nell'uso sostituendo il letterario oblivisci:
dementicastis: oblivioni tradidistis. Il dimenticato non è semplice­
mente cancellato, lasciato da parte: esso è consegnato all'oblio. Nel
modo più puro, lo schema di questa incompitabile tradizione è stato
esposto da Holderlin, quando, nelle note alla traduzione dell'Edipo
sofocleo, scrive che il dio e l'uomo, "affinché la memoria dei cele­
sti non scompaia, comunicano nella forma, dimentica di tutto,
dell'infedelta".
La fedeltà a ciò che non può essere tematizzato, ma nemmeno
semplicemente taciuto, è un tradimento di specie sacra, in cui la
memoria, volgendosi a un tratto come un remolino di vento, scopre
il fronte nevato dell'oblio. Questo gesto, quest'inverso abbraccio di
memoria e dimenticanza, che conserva intatta al suo centro l'iden­
tità di immemorato e indimenticabile, è la vocazione.
Idea dell'Unica

Nel 1961, a un'inchiesta del libraio Flinker di Parigi sul problema del
bilinguismo, Paul Celan diede questa risposta:
"Non credo al bilinguismo in poesia. Una lingua doppia- que­
sta sì, esiste, anche in molte opere d'arte contemporanea, special­
mente in quelle che sanno mettersi in gioviale accordo col consumo
culturale di turno, tanto poliglotta quanto policromo.
La poesia è l'unicità destinale del linguaggio. Dunque non- mi
sia permessa questa verità banale, oggi che la poesia, come la verità,
sfuma fin troppo spesso nella banalità- dunque non la duplicità".
In un poeta ebreo di lingua tedesca, nato e cresciuto in una
regione, la Bukowina, dove si parlavano correntemente, oltre allo
Jiddish, almeno quattro lingue, questa risposta non poteva essere
stata data alla leggera. Quando, subito dopo la guerra, a Bucarest,
gli amici, per convincerlo a diventare un poeta rumeno (di quel
periodo si conservano sue poesie scritte in rumeno), gli ricordava­
no che non avrebbe dovuto scrivere nella lingua degli assassini dei
suoi genitori, morti in un campo nazista, Celan rispondeva sempli­
cemente: "Solo nella madrelingua si può dire la verità. In una lingua
straniera il poeta mente".
Che specie di esperienza dell'unicità della lingua era qui in que­
stione per il poeta? Non semplicemente, certo, quella di un mono­
linguismo, che si serve della lingua materna a esclusione delle altre,
ma sullo stesso piano di quelle. Piuttosto ne andava qui di quell'espe­
rienza che Dante aveva in mente quando scriveva, del parlar mater­
no, che esso "uno e solo è prima ne la mente". C'è, infatti, un'espe­
rienza della lingua che presuppone già sempre parole - in cui
parliamo, cioè, come se avessimo già sempre parole per la parola,
come se avessimo già sempre una lingua ancor prima di averla (la lin­
gua, che allora parliamo, non è mai unica, ma sempre doppia, tripla,
presa nella fuga infinita dei metalinguaggi); e c'è un'altra esperienza
in cui l'uomo sta, invece, assolutamente senza parole di fronte al lin­
guaggio. La lingua, per la quale non abbiamo parole, che non finge,
come lingua grammatica, di esserci ancor prima di essere, ma "è sola
prima in tutta la mente" è la nostra lingua, cioè la lingua della poesia.
Per questo Dante non cercava, nel De Vulgari eloquentia, questa
o quella lingua materna trascelta nella selva vernacolare della peni­
sola, ma solo quel volgare illustre che, spandendo in ciascuna il suo
profumo, non coincideva con alcuna; per questo i provenzali cono­
scevano un genere poetico- il discordo- che attestava la realtà del­
l'unica lingua remota solo attraverso la babelica diceria dei molte­
plici idiomi. La lingua unica non è una lingua. L'unico, cui gli uomini
partecipano come alla sola possibile verità materna, cioè comune, è
già sempre diviso: nel punto in cui raggiungono l'unica parola, essi
devono prendere partito, scegliere una lingua. Allo stesso modo noi
possiamo, parlando, solo dire qualcosa - non possiamo dire unica­
mente la verità, non possiamo dire soltanto che diciamo.
Ma che l'incontro con quest'unica lingua, divisa e impartecipa­
bile, costituisca, in questo senso, un destino, ecco un'ammissione
che solo in un momento di debolezza il poeta si è lasciato strappa­
re. Come potrebbe esserci, infatti, un destino, là dove non ci sono
ancora parole significanti, là dove non c'è ancora una identità della
lingua? E a chi avverrebbe il destino, se, in quel punto, ancora non
siamo parlanti? Mai così intatto, lontano e senza destino è l'infante,
come quando, nel nome, egli sta senza parole di fronte alla lingua.
Il destino concerne soltanto la lingua che, di fronte all'infanzia del
mondo, giura di poterla incontrare, di avere, di essa e su di essa, da
sempre, oltre al nome, qualcosa da dire.
Questa vana promessa di un senso della lingua è il suo destino,
cioè la sua grammatica e la sua tradizione. L'infante che, pietosa­
mente, raccoglie questa promessa e, pur mostrandone la vanità, deci­
de tuttavia la verità, decide di ricordarsi di quel vuoto e di adem-
31

pierlo, è il poeta. Ma, in quel punto, la lingua sta davanti a lui così
sola e abbandonata a se stessa, che non s'impone più in alcun modo
- piuttosto (sono ancora parole, tarde, del poeta) si espone,
assolutamente. La vanità delle parole ha qui veramente raggiunto
l'altezza del cuore.
Idea del dettato

Quando la poesia era una pratica responsabile, era inteso che il poe­
ta fosse ogni volta in grado di dar ragione di ciò che aveva scritto. I
provenzali chiamavano razo l'esposizione di questo chiuso fonda­
mento del canto, che Dante intimava al poeta, sotto pena di vergo­
gna, di saper all'occasione "aprire per prosa".
Delfini, aggiungendo, nel 1956, un'introduzione alla seconda edi­
zione dei suoi racconti, ha scritto, per Il ricordo della Basca, la più lun­
ga razo che un poeta abbia mai immaginato per una sua opera. Ma,
com'era consuetudine fra i poeti d'amore, anche in questo caso la razo
può condurre il lettore fuori strada. Essa indica, infatti, immediata­
mente in direzione della biografia dell'autore, una biografia- s'inten­
de- inventata a partire dall'opera, ma che il lettore rischia, invece, di
prendere per buona. La Basca, che è il trasparente senhal della lingua
e del dettato della sua poesia, diventa così Isabel De Aranzadi, una
ragazza conosciuta a Lerici un'estate di venti anni prima.
La Basca è ciò che è talmente intimo e presente, che non può in
nessun caso essere ricordato, e questa beata impossibilità di ricor­
dare (''lo vorrei che mi fosse così vicina che qualunque sia pur for­
zato ricordo non potesse darmene neanche l'immagine") è il vero
tema del racconto, che finisce, conseguentemente, in una glossola­
lia, cioè nel mito di una lingua in cui lo spirito si confonde- alme­
no in apparenza- immediatamente con la voce. Il racconto s'intito­
la, tuttavia, Ricordo della Basca, a significare che la scrittura è il
tentativo, condannato in partenza, di afferrare proprio quest'imme­
morabile prossimità, quest'amore inallontanabile (di qui "l'irrime­
diabile tragedia di questo ricordo"). Del resto, la poesia, di cui il rac-
34

conto stesso è la razo, non è, in realtà, una glossolalia, ma una copia


in purissima lingua basca, che, tradotta, si conclude con questi ver­
si: "Quando trovo la poesia l tu ti stai addormentando; l come il
sogno della notte l sia per te il mio canto".
Contraddicendosi in questo modo, Delfini ha il garbo d'un cen­
no per quell'altra basca della letteratura italiana del Novecento, che
ne costituisce verisimilmente l'esemplare: Manuelita Etchegarray, la
creola di Dualismo nei Canti orfici, il cui nome tradisce inconfon­
dibilmente un'origine basca. Contro l'ingenua credenza in una nati­
va immediatezza della poesia, Campana (che formula qui, com'è sta­
to osservato, la sua poetica) fa valere il dualismo e la diglossia che
costituiscono per lui l'esperienza della poesia: la memoria e l'imme­
diatezza, la lettera e la voce, il pensiero e la presenza. Tra un'impos­
sibilità di pensare ("io non pensavo, non pensavo a voi: io mai non
ho pensato a voi") e un poter soltanto pensare, tra un'incapacità di
ricordare nella perfetta, amorosa adesione al presente e la memoria
che sorge precisamente nell'impossibilità di quest'amore, è sempre
divisa la poesia, e quest'intima divaricazione è il suo dettato. Come
Folchetto, il poeta ricorda nel canto ciò che, nel canto, vorrebbe sol­
tanto dimenticare, ovvero- ed è la beatitudine- nel canto dimenti­
ca ciò che voleva, in esso, ricordare.
Per questo la lirica- che si attiene unicamente a un tale dettato-
è necessariamente vuota, sta sempre trafitta sulla riva di un giorno
che è già sempre tramontato: essa non ha, letteralmente, nulla da dire
o da raccontare. Ma grazie a questa sobria, stremata dimora della
parola poetica nel principio, si genera per la prima volta, nel ricor­
do e nella parola, quello spazio del vissuto, che il narratore racco­
glie come materia del·suo racconto.
Per questo le tracce di Beatrice nel libro della memoria disegna­
no una vita nuova, per questo il Ricordo del Ricordo della Basca -
così Delfini definisce la sua lunghissima razo - è un'autobiografia.
Idea della verità

Scholem ha scritto una volta che vi è qualcosa di infinitamente scon­


solato nella formulazione dell'assenza di oggetto della conoscenza
suprema, che viene insegnata nelle prime pagine dello Zohar e che
costituisce, del resto, la lezione ultima di ogni mistica. In queste
pagine, sul limite estremo della conoscenza sta il pronome interro­
gativo Che? (Mah), oltre il quale non vi è più alcuna risposta possi­
bile: "Quando un uomo interroga, cercando di discernere e di cono­
scere grado dopo grado fino all'ultimo, raggiunge il Che?, cioè: hai
compreso Che? Hai visto Che? Hai cercato Che? Ma tutto resta
altrettanto impenetrabile che al principio". Più intimo e occulto è,
però, secondo lo Zohar, l'altro pronome interrogativo, che segna il
limite superiore dei cieli: Chi? (Mi). Se Che? è la domanda che chie­
de il che cosa (il quid della filosofia medievale), Chi? è, infatti, la
domanda che interroga il nome: "L'impenetrabile, l'Antico ha crea­
to ciò. E chi è? È Chi? ... Poiché è, insieme, oggetto di domanda e
indisvelabile e chiuso, è chiamato Chi?. Al di là non ci sono più
domande... Esistente e inesistente, impenetrabile e chiuso nel nome,
non ha altro nome che Chi?, aspirazione al disvelamento, a essere
chiamato con un nome".
Certo, giunto al limite del Chi?, il pensiero non ha più oggetto,
sperimenta l'assenza di un ultimo oggetto. Ma questo non è sconso­
lante o, piuttosto, lo è soltanto per un pensiero che, scambiando una
domanda con l'altra, continuasse a chiedere Che? là dove, nonché
risposte, non ci sono nemmeno più domande. Veramente sconso­
lante sarebbe se la conoscenza ultima avesse ancora la forma del­
l'oggettualità. Proprio l'assenza di un ultimo oggetto della cono-
scenza ci salva dalla tristezza senza rimedio delle cose. Ogni verità
ultima formulabile in un discorso obiettivante, fosse anche in appa­
renza felice, avrebbe necessariamente il carattere destinale di una
condanna, di un essere condannati alla verità. La deriva verso que­
sta definitiva chiusura della verità è una tendenza presente in tutte le
lingue storiche, che poesia e filosofia ostinatamente contrastano, e in
cui trovano, invece, alimento tanto il potere significante dei linguaggi
umani che la loro ineluttabile morte. La verità, l'apertura che, secon­
do un oros platonico, è propria dell'anima, si fissa, attraverso il lin­
guaggio e nel linguaggio, in un ultimo, immutabile stato di cose, in
un destino.
È da questo pensiero che Nietzsche cercò di salvarsi attraverso
l'idea dell'eterno ritorno, attraverso il sì detto all'istante più atroce,
quando la verità sembra chiudersi per sempre in un mondo di cose.
L'eterno ritorno è, infatti, un'ultima cosa, ma, insieme, anche l'im­
possibilità di un'ultima cosa: la ripetizione eterna del chiudersi del­
la verità in uno stato di cose è, in quanto ripetizione, anche l'im­
possibilità di questa chiusura. Nella formulazione suprema di
Nietzsche: l'amore del fato.
Questa mostruosa formazione di compromesso fra destino e
memoria, in cui ciò che può solo essere oggetto di ricordo (il ritor­
no dell'identico) è ogni volta afferrato come un destino, è l'imma­
gine stravolta della verità, di cui il nostro tempo non riesce a venire
a capo. Perché l'apertura dell'anima-la verità-non resta spalanca­
ta in un destino infinito né si chiude nell'eterna ripetizione di uno
stato di cose, ma, nel.suo aprirsi in un nome, illumina soltanto la
cosa e, chiudendosi in essa, stringe tuttavia la propria apparenza, si
ricorda del nome. Questo difficile incrocio fra dono e memoria, fra
un'apertura senza oggetto e ciò che può solo essere oggetto, è la
verità in cui, secondo l'autore dello Zohar, il giusto dimora: "Chi?
è il limite superiore del cielo, Che? il limite inferiore. Giacobbe li
riceve entrambi in eredità: egli fugge da un limite all'altro, dal limi­
te iniziale Chi? al limite finale Che? e si tiene nel loro medio".
Idea della musa

A Le Thor, Heidegger teneva il suo seminario in un giardino


ombreggiato da alti alberi. A volte si usciva, invece, dal paese, cam­
minando in direzione di Thouzon o del Rebanquet e il seminario
aveva allora luogo davanti a una capanna sperduta in mezzo a un'o­
liveta. Un giorno che il seminario volgeva ormai al suo termine e gli
allievi gli si stringevano intorno senza più frenare le domande, il filo­
sofo rispose soltanto: "Voi potete vedere il mio limite, io non pos­
so". Anni prima, aveva scritto che la grandezza di un pensatore si
misura dalla fedeltà al proprio limite interno, e che non conoscere
questo limite - e non conoscerlo per la sua prossimità all'indicibile­
è il dono segreto che l'essere, rare volte, può fare.

Che una latenza sia mantenuta, perché possa esservi illatenza, una
dimenticanza custodita, perché possa esservi �emoria: questo è l'i­
spirazione, il trasporto musaico che accorda l'uomo alla parola e al
pensiero. Il pensiero è vicino alla sua cosa solo se si perde in questa
latenza, se non vede più la sua cosa. È, questo, il suo carattere di det­
tato: dev'esserci la dialettica latenza-illatenza, oblio-memoria, per­
ché la parola possa avvenire, e non semplicemente essere manipola­
ta da un soggetto. (Io - è chiaro - non posso ispirar-mi.)
Ma questa latenza è, anche, il nucleo tartarico intorno a cui si
addensa l'oscurità del carattere e del destino, il non-detto che, cre­
scendo nel pensiero, lo precipita nella follia. Ciò che il maestro non
vede è la sua stessa verità: il suo limite è il suo principio. Non vista,
inesposta, la verità entra nel suo occidente, si chiude nel proprio
Amente.

"Che un filosofo cada in questa o in quella forma di apparente


incoerenza per amore di questo o quell'accomodamento, è conce­
pibile: egli stesso può esserne stato cosciente. Ma ciò di cui egli non
è consapevole, è che la possibilità di quest'apparente accomoda­
mento ha la sua radice più profonda in un'insufficiente esposizione
del suo principio. Se, dunque, un filosofo è veramente ricorso a un
accomodamento, i suoi discepoli devono spiegare in base all'intimo,
essenziale contenuto della sua coscienza ciò che, per lui stesso, ha
preso forma di coscienza essoterica".

L'insufficiente esposizione del principio lo costituisce come limite


musaico, come ispirazione. Ma, per poter scrivere, per poter diven­
tare anche per noi ispirazione, il maestro ha dovuto smorzare la sua
ispirazione, venirne a capo: il poeta ispirato è senz'opera. Questo
spegnimento dell'ispirazione, che trae il pensiero dall'ombra del suo
occidente, è l'esposizione della Musa: l'idea.
Idea dell'amore

Vivere nell'intimità di un essere estraneo, e non per avvicinarlo, per


renderlo noto, ma per mantenerlo estraneo, lontano, anzi: inappa­
rente - così inapparente che il suo nome lo contenga tutto. E, pur
nel disagio, giorno dopo giorno non esser altro che il luogo sempre
aperto, la luce intramontabile in cui quell'uno, quella cosa resta per
sempre esposta e murata.
Idea dello studio

Talmud significa studio. Durante l'esilio babilonese, gli ebrei, poi­


ché il Tempio era stato distrutto e non potevano più celebrare i
sacrifici, affidarono la conservazione della loro identità non tanto al
culto, quanto al suo studio. Torah, del resto, non significava in ori­
gine Legge, ma dottrina, e perfino il termine Mishnah, che indicava
la raccolta delle leggi rabbiniche, proveniva da una radice il cui sen­
so era innanzitutto "ripetere". Quando l'editto di Ciro permise il
ritorno degli ebrei in Palestina, il Tempio fu ricostruito; ma ormai
la religione di Israele era stata segnata per sempre dalla pietà dell'e­
silio. All'unico Tempio, dove si celebrava il solenne sacrificio cruen­
to, si affiancarono le molteplici sinagoghe, semplici luoghi di riu­
nione e di preghiera, e al dominio dei sacerdoti si sostituì l'influenza
crescente dei farisei e degli scribi, uomini del libro e dello studio.
Nel7o d.C. le legioni romane distrussero nuovamente il Tempio.
Ma il dotto rabbiJoahannah ben-Zakkaj, uscito nascostamente da
Gerusalemme assediata, ottenne da Vespasiano di poter continuare
l'insegnamento della Torah nella città diJamnia. Da allora il tempio
non fu più ricostruito e lo studio, il Talmud, divenne così il vero
tempio di Israele.
Tra i legati del giudaismo, c'è dunque anche questa polarità sote­
riologica dello studio, propria di una religione che non celebra il suo
culto, ma ne fa oggetto di studio. La figura dello studioso, rispetta­
ta in ogni tradizione, acquista così un significato messianico scono­
sciuto al mondo pagano: poiché in essa è in questione la redenzio­
ne, la sua pretesa si confonde con quella del giusto alla salvezza.
44

Ma, con ciò, essa si carica anche di tensioni contraddittorie. Lo


studio è, infatti, in sé intermin�bile. Chiunque abbia conosciuto le
lunghe ore di vagabondaggio tra i libri, quando ogni frammento,
ogni codice, ogni iniziale in cui ci s'imbatte sembra aprire una nuo­
va strada, che viene poi subito smarrita a un nuovo incontro, o abbia
provato la labirintica illusività di quella "legge del buon vicino", cui
Warburg aveva improntato la sua biblioteca, sa che lo studio non sol­
tanto non può propriamente aver fine, ma nemmeno desidera aver­
la. Qui l'etimologia del termine studium si fa trasparente. Esso risa­
le a una radice st-o sp-, che indica gli urti, gli chocs. Studiare e stupire
sono, in questo senso, parenti: chi studia è nella condizione di chi ha
ricevuto un urto e rimane stupefatto davanti a ciò che l'ha colpito,
senza riuscire a venirne a capo e, insieme, impotente a staccarsene.
Lo studioso è, cioè, sempre anche uno stupido. Ma se, da una parte,
egli se ne sta così attonito e assorto, se lo studio è dunque essenzial­
mente patimento e passione, dall'altra l'eredità messianica che esso
contiene lo spinge invece incessantemente alla conclusione. Questo
festina lente, quest'alternanza di stupore e di lucidità, di scoperta e
di smarrimento, di passione e di azione è il ritmo dello studio.
Nulla di più simile ad esso di quella condizione che Aristotele,
contrapponendola all'atto, definisce "potenza". Potenza e, da una
parte, potentia passiva, passività, passione pura e virtualmente infi­
nita, dall'altra potentia activa, tensione inarrestabile al compimen­
to, urgenza verso l'atto. Per questo Filone paragona la saggezza
compiuta a Sarah, che, essendo in sé sterile, spinge Abramo a unir­
si alla sua serva Hagar, cioè allo studio, per poter generare. Ma una
volta pregno, lo studio è rimesso nelle mani di Sarah, che ne è la
padrona. E non è un caso se Platone, nella settima lettera, si serve di
un verbo apparentato a studiare ( onouòaì;w) per indicare il suo rap­
porto con quanto gli sta più a cuore: solo dopo un lungo, studioso
sfregare insieme nomi, definizioni e conoscenze si produce nell'a­
nimo la scintilla che, infiammandolo, segna il passaggio dalla pas­
sione al compimento.
Questo spiega, anche, la tristezza dello studioso: nulla è più ama­
ro di una prolungata dimora nella potenza. Quale sconsolata tetrag-
45

gine possa derivare da questa incessante procrastinazione dell'atto,


nulla lo mostra meglio di quella melancholia philologica che Pasqua­
li, fingendo di trascriverla dal testamento di Mommsen, pose come
cifra enigmatica della propria esistenza di studioso.
La fine dello studio può non sopraggiungere mai - e, in questo
caso, l'opera rimane per sempre allo stadio di frammento e di sche­
da- o, anche, coincidere col momento della morte, in cui quella che
sembrava un'opera compiuta si rivela come semplice studio: è il caso
di S. Tommaso, che, poco prima di morire, confida in segreto all'a­
mico Rinaldo: "viene la fine della mia scrittura, poiché mi sono ora
svelate cose, per le quali tutto quanto ho scritto e insegnato mi pare
un'inezia, e perciò spero che con la fine della dottrina verrà presto
anche quella della vita".
Ma l'ultima, più esemplare incarnazione dello studio nella nostra
cultura, non è il grande filologo né il santo dottore. È, piuttosto, lo
studente, quale appare in certi romanzi di Kafka o di Walser. Il suo
prototipo è nello studente di Melville, che siede in una camera dal­
la volta bassa, "in tutto simile a una tomba", coi gomiti sulle ginoc­
chia e la fronte tra le mani. E la sua figura più stremata è Bartleby,
lo scrivano che ha smesso di scrivere. Qui la tensione messianica del­
lo studio si è rovesciata, o, piuttosto, è andata oltre se stessa. Il suo
gesto è quello di una potenza che non precede, ma segue il suo atto,
se l'è lasciato per sempre alle spalle; di un Talmud che non soltanto
ha rinunciato alla riedificazione del Tempio, ma lo ha addirittura
dimenticato. (Questi studenti studiano come, dopo la fine dei tem­
pi, potrebbero studiare, nel limbo, i bambini non battezzati o i filo­
sofi pagani, che non hanno più nulla da sperare, né dal futuro né dal
passato.) Con ciò, lo studio si libera dalla tristezza che lo sfigurava
e fa ritorno alla sua più vera natura. Questa non è l'opera, ma l'ispi­
razione, l'autonutrimento dell'anima.
Idea dell'immemorabile

Svegliandoci, sappiamo, a volte, di aver veduto in sogno la verità con


tanta palpabile chiarezza, da esserne perfettamente appagati. Ci vie­
ne, una volta, mostrata una scrittura che dissigilla a un tratto il segre­
to della nostra esistenza; altre volte, una sola parola, accompagnata
da un gesto imperioso o ripetuta in una cantilena puerile, candisce
in una luce di lampo un intero paesaggio di ombre, consegnando
ogni dettaglio alla sua ritrovata e definitiva fattezza.
Al risveglio, tuttavia, pur ricordando noi limpidamente tutte le
immagini del sogno, quella scrittura e quella parola hanno perduto
la loro forza veritativa e, con tristezza, le rivoltiamo, sfatate, da ogni
parte, senza più riuscire a raccapezzarne il portento. Abbiamo il
sogno, ma, di esso, inspiegabilmente ci manca l'essenziale, che è
rimasto sepolto in quella terra dove, dèsti, non abbiamo più accesso.
Di rado facciamo in tempo a osservare quel che pure dovrebbe
esserci perfettamente evidente e, cioè, che invano crediamo in un
altro luogo o in un altro tempo il segreto del sogno: il sogno esiste
per noi tutt'intero nell'attimo in cui ci balena in mente al risveglio.
Lo stesso ricordo che ci ha dato il sogno, ci porge anche la mancan­
za che l'affligge: un solo gesto li contiene entrambi.
Un'esperienza analoga ha luogo nella memoria involontaria. Qui
il ricordo, che ci restituisce la cosa dimenticata, ne è esso stesso ogni
volta dimentico e questa dimenticanza è la sua luce. Di qui, però, il
suo materiarsi di nostalgia: una nota elegiaca vibra così tenacemen­
te in fondo a ogni memoria umana, che, al limite, il ricordo che non
ricorda nulla è il ricordo più forte.
Lungi dal vedere in quest'aporia del sogno e del ricordo un limi­
te e una debolezza, dobbiamo invece riconoscerla per quella che essa
è: una profezia che concerne la struttura stessa della coscienza. Non
ciò che abbiamo vissuto e, poi, dimenticato, torna ora, imperfetta­
mente, alla coscienza, ma, piuttosto, noi accediamo, in quel punto,
a ciò che non è mai stato, alla dimenticanza come patria della
coscienza. Per questo la nostra felicità è intrisa di nostalgia: la co­
scienza contiene in sé il presagio dell'incoscienza e proprio quel pre­
sagio è, anzi, la sua perfezione. Ciò significa che ogni attenzione ten­
de, in ultima istanza, a una svagatezza e che, nel suo fastigio estremo,
il pensiero è solo un trasalimento. Sogno e ricordo tuffano la vita nel
sangue di drago della parola e, in questo modo, la rendono invulne­
rabile alla memoria. L'immemorabile, che precipita di memoria in
memoria senza mai venire esso stesso al ricordo, è propriamente
indimenticabile. Questo indimenticabile oblio è il linguaggio, è la
parola umana.
Così la promessa che il sogno formula nel suo stesso mancarsi è
quella di una lucidità così potente da restituirei alla distrazione, di
una parola così compiuta da riconsegnarci all'infanzia, di una ragio­
ne così sovrana da comprender sé incomprensibile.
II
Idea del potere

Forse soltanto nel piacere le due categorie, inventate dal genio di


Aristotele, della potenza e dell'atto perdono la loro ormai stereoti­
pa opacità e diventano, per un attimo, trasparenti. Il piacere - è scrit­
to nel trattato che il filosofo dedicò al figlio Nicomaco - è ciò la cui
forma è in ogni istante compiuta, perpetuamente in atto. Da questa
definizione consegue che la potenza è il contrario del piacere. Essa
è ciò che non è mai in atto, che manca sempre la sua fine; in una
parola: dolore. E se il piacere, conformemente a questa definizione,
non si svolge mai nel tempo, la potenza sarà invece essenzialmente
durata. Queste considerazioni permettono di far luce sui rapporti
segreti che legano potere e potenza. Il dolore della potenza svani­
sce, infatti, nell'attimo in cui essa trapassa nell'atto. Ma esistono
ovunque - anche dentro di noi - delle forze che costringono la
potenza a attardarsi in se stessa. Su queste forze si fonda il potere:
esso è l'isolamento della potenza dal suo atto, l'organizzazione del­
la potenza. Raccogliendone il dolore, il potere fonda su questo la
propria autorità: esso lascia letteralmente incompiuto il piacere degli
uomm1.
Ciò che va, in questo modo, perduto, non è, però, soltanto il pia­
cere, quanto il senso stesso della potenza e del suo dolore. Divenu­
ta interminabile, essa cade in balia del sogno e intrattiene, su se stes­
sa e sul piacere, gli equivoci più mostruosi. Pervertendo la retta
connessione di via e meta, di ricerca e stesura, essa scambia il cul­
mine del dolore - l'onnipotenza - per la perfezione più grande. Ma
solo come fine della potenza, solo come assoluta impotenza è uma­
no e innocente il piacere; e soltanto come tensione che oscuramen-
te presagisce la sua crisi, il suo giudizio risolutivo, è accettabile il
dolore. Nell'opera, come nel piacere, l'uomo gode finalmente della
propna tmpotenza.
Idea del comunismo

Nella pornografia, l'utopia di una società senza classi si presenta


attraverso l'esagerazione caricaturale dei tratti che le distinguono e
la loro trasfigurazione nel rapporto sessuale. Da nessun'altra parte,
nemmeno nelle mascherate carnevalesche, è dato trovare un'al­
trettanto caparbia insistenza sui segni di classe nel vestiario nel
momento stesso in cui la situazione li trasgredisce e vanifica nel
modo più incongruo. Le creste e gli zinali delle cameriere, la tuta
dell'operaio, i guanti bianchi e i galloni del maggiordomo, di recen­
te perfino i camici e le mascherine delle infermiere celebrano la loro
apoteosi nell'istante in cui, posando come strani amuleti su corpi
nudi inestricabilmente confusi, sembrano annunciare come uno
squillo acutissimo di tromba quell'ultimissimo giorno, in cui
dovranno apparire come sigle di una comunità ancora impresagita.
Qualcosa di simile s'incontra soltanto, nel mondo antico, nelle
raffigurazioni dei rapporti amorosi fra dei e uomini, che costitui­
scono, per l'arte classica al suo tramonto, una fonte inesauribile di
ispirazione. Nell'unione sessuale col dio, il mortale, vinto e felice,
cancellava d'un tratto l'infinita distanza che lo separava dai celesti;
ma, nello stesso tempo, questa distanza si riproduceva rovesciata
nella metamorfosi animale della divinità. Il candido muso del toro
che trascina Europa, il becco arguto del cigno sospeso sul volto di
Leda sono la cifra di una promiscuità così intima e eroica da riusci­
re, ancora per poco, insopportabile.
Se cerchiamo il contenuto di verità della pornografia, immediata­
mente essa ci mette davanti agli occhi la sua ingenua, stuccosa pre­
tesa di felicità. Carattere essenziale di questa è di essere esigibile in
ogni momento e in ogni occasione: qualunque sia la situazione di
partenza, dovrà immancabilmente finire in un rapporto sessuale. Un
film pornografico in cui, per un contrattempo, questo non ayvenis­
se, sarebbe, forse, un capolavoro, ma non sarebbe un film porno­
grafico. Lo striptease è, in questo senso, il modello di ogni intreccio
pornografico: all'inizio ci sono sempre e soltanto delle persone
vestite in una certa situazione e l'unico spazio lasciato all'imprevi­
sto riguarda il modo in cui, alla fine, esse dovranno ritrovarsi insie­
me spogliate. (La pornografia recupera qui il gesto severo della gran­
de letteratura classica: non dev'esserci spazio per la sorpresa e il
talento consiste in impercettibili variazioni su un medesimo tema
mitico.) Ed ecco, insieme, svelato il secondo carattere essenziale del­
la pornografia: la felicità, che essa esibisce, è sempre aneddotica, è
sempre storia e occasione afferrata, mai condizione naturale, mai
qualcosa di già dato: il naturismo, che semplicemente rimuove le
vesti, è da sempre il più accanito avversario della pornografia, e,
come un film pornografico senza evento sessuale non avrebbe sen­
so, altrettanto poco potrebbe essere definita pornografica la sempli­
ce immobile esposizione della sessualità naturale dell'uomo.
Mostrare il potenziale di felicità presente in ogni minima situa­
zione quotidiana e ovunque vi sia una socialità umana: questa è l'e­
terna ragione politica della pornografia. Ma il suo contenuto di
verità, che la pone agli antipodi dei corpi nudi che affollano l'arte
monumentale fine secolo, è che essa non solleva il quotidiano nel
cielo eterno del piacere, ma esibisce, piuttosto, l'irrimediabile carat­
tere episodico di ogni piacere, l'intima digressività di ogni universa­
le. Per questo, solo nella rappresentazione del piacere femminile, che
si segna unicamente in un volto, essa esaudisce la sua intenzione.

Che cosa direbbero i personaggi del film pornografico che stiamo


osservando, se potessero, a loro volta essere spettatori della nostra
57

vita? I nostri sogni non possono vederci- è questa la tragedia del­


l'utopia. Lo scambio fra personaggio e lettore- buona regola di ogni
lettura- dovrebbe funzionare anche qui. Solo che, importante non
è tanto che noi impariamo a vivere i nostri sogni, quanto che essi
imparino a leggere la nostra vita.

"Apparirà, allora, che il mondo possiede da lunghissimo tempo il


sogno di una cosa, di cui esso deve solo possedere la coscienza per
possederla veramente". Certamente - ma come si possiedono i
sogni, dove sono custoditi? Qui non si tratta, naturalmente, di rea­
lizzare qualcosa-nulla è più noioso di un uomo che abbia realiz­
zato i propri sogni: è l'insulsa buona lena socialdemocratica della
pornografia. Ma nemmeno si tratta di custodire intangibili in came­
re di alabastro coronati di gelsomini e di rose, ideali che, diventan­
do cose, si sfracellerebbero: è il segreto cinismo del sognatore.
Bazlen diceva: quel che abbiamo sognato, lo abbiamo già avuto.
Tanto tempo fa, che nemmeno ce ne ricordiamo. Non in un passa­
to, quindi-non ne possediamo i registri. Piuttosto i sogni e i desi­
deri inadempiuti dell'umanità sono le membra pazienti della resur­
rezione, sempre in atto di risvegliarsi nell'ultimo giorno. E non
dormono chiusi in preziosi mausolei, ma stanno confitti come astri
viventi nel cielo remotissimo del linguaggio, di cui appena decifria­
mo le costellazioni. E questo- almeno- non l'abbiamo sognato.
Saper afferrare le stelle che come lacrime cadono dal firmamento
mai sognato dell'umanità è il compito del comunismo.
Idea della politica

Secondo la teologia, la pena più grande in cui può incorrere la crea­


tura, quella per la quale veramente non c'è più rimedio, non è la col­
lera di Dio, ma il suo oblio. La sua collera, infatti, è ancora della stes­
sa materia della sua misericordia: ma se il nostro male ha colmato la
misura, allora perfino la collera di Dio ci abbandona. "Ecco l'istan­
te terribile" scrive Origene "l'estremo istante in cui non siamo più
puniti per i nostri peccati: quando passiamo la misura del male, il
Dio geloso distoglie da noi il suo zelo: 'la mia gelosia' egli dice 'ti
abbandonerà, io non entrerò più in collera per causa tua"'.
Questo abbandono, questa dimenticanza divina è, al di là di ogni
punizione, la vendetta più raffinata, che il credente teme come l'u­
nica irreparabile, di fronte alla quale il suo pensiero indietreggia
atterrito: come si può, infatti, pensare ciò di cui neppure l'onni­
scienza divina sa più nulla, ciò che è stato cavato per sempre dalla
mente di Dio? Di chi incorre in questo abbandono, Bernanos dice
che egli è "non pas absous ni condamné, notez bien: perdu".
C'è, tuttavia, un unico caso in cui questa condizione cessa di
apparire sciagurata e ottiene la sua speciale letizia: è quello dei fan­
ciulli non battezzati, che sono morti senz'altra colpa che il peccato
originale e dimorano eternamente nei limbi, in compagnia dei
dementi e dei giusti pagani. Mitissima est poena puerorum, qui cum
solo originali decedunt. La pena del limbo, di questo margine eter­
no degli inferi, non è, secondo i teologi, una pena afflittiva, non
conosce fiamma né tormento: è solamente una pena privativa, che
consiste nella perpetua carenza della visione di Dio. Ma di questa
carenza gli abitanti del limbo, a differenza dei dannati, non pro-
6o

vano dolore: poiché hanno soltanto la conoscenza naturale e non


quella soprannaturale, che è stata piantata in noi dal battesimo, essi
non sanno di essere privati del sommo bene, o se lo sanno (come
ammette un'altra opinione), non possono rammaricarsene più di
quanto un uomo ragionevole si affliggerebbe di non poter volare.
(Se ne soffrissero, infatti, poiché soffrirebbero di una colpa di cui
non possono emendarsi, il loro dolore finirebbe con l'indurii in
disperazione, come avviene per i dannati, e questo non sarebbe giu­
sto). Di più: i loro corpi sono, come quelli dei beati, impassibili, ma
solo per quanto riguarda l'azione della giustizia divina; per il resto
essi godono pienamente delle loro perfezioni naturali.
La pena più grande-la carenza della visione di Dio-si rovescia
così in naturale letizia: essi non sanno, non sapranno mai di Dio. Per
questo, incurabilmente perduti, dimorano senza dolore nell'abban­
dono divino: non è Dio ad averli dimenticati, ma sono essi ad aver­
lo già sempre scordato, e contro il loro oblio resta impotente la
dimenticanza divina. Come lettere rimaste senza destinatario, que­
sti risorti sono rimasti senza destino. Né beati come gli eletti, né
disperati come i dannati, essi sono carichi di una speranza per sem­
pre inesitabile.
Questa natura limbale è il segreto di Bartleby, la più antitragica
delle figure di Melville (anche se ad occhi umani nulla appare più
sconsolato del suo destino)-ed è questa l'inestirpabile radice di quel
"preferirei di no" contro cui s'infrange, con la divina, anche ogni
umana ragiOne.
Idea della giustizia

a Carlo Betocchi

Che cosa vuole il Dimenticato? Non memoria né conoscenza, ma


giustizia. La giustizia, tuttavia, cui egli si affida, essendo giustizia
non può portarlo al nome e alla coscienza, ma il suo rescritto impla­
cabile si esercita solo, come punizione, sui dimentichi e sui carnefi­
ci-del Dimenticato non fa parola (la giustizia non è vendetta, non
ha nulla da rivendicare). Né potrebbe farlo, senza tradire ciò che si
è abbandonato nelle sue mani non per essere consegnato alla memo­
ria e alla lingua, ma per restare immemorabile e senza nome. La giu­
stizia è, cioè, la tradizione del Dimenticato. Più essenziale della tra­
smissione della memoria è, infatti, per l'uomo, la trasmissione
dell'oblio, la cui anonima catasta gli si accumula ogni giorno alle
spalle, inconsumabile e senza riparo. Per ciascun uomo e, a maggior
ragione, per ogni società, questo mucchio è così smisurato, che l'ar­
chivio più perfetto non potrebbe contenerne nemmeno una bricio­
la (ogni tentativo di costruire la storia come tribunale della giustizia
è, per questo, fallace).
Eppure esso è la sola eredità che ciascun uomo immancabilmen­
te riceve. Nel sottrarsi del Dimenticato alla lingua dei segni e alla
memoria, nasce, infatti, per l'uomo e unicamente per lui, la giusti­
zia. Nasce non come un discorso da tacere o da divulgare, ma come
una voce, non come un testamento autografo, ma come un gesto di
annuncio o una vocazione. Non Logos, ma Dike è, in questo senso,
la più antica tradizione umana (o, piuttosto, essi sono in principio
indistinguibili). Il linguaggio come memoria storica cosciente è solo
62

la nostra sopravvenuta disperazione di fronte alle difficoltà della tra­


dizione. Credendo di trasmettersi una lingua, gli uomini si danno in
verità voce l'un l'altro, e, parlando, si consegnano senza remissione
alla giustizia.
Idea della pace

Da quando la riforma della liturgia ha reintrodotto nella messa il


segno di pace scambiato fra i fedeli, ci si è accorti, non senza disa­
gio, che questi candidamente ignoravano che cosa un tal segno
potesse mai essere, e, poiché l'ignoravano, dopo qualche istante di
perplessità, ricorrevano all'unico gesto familiare e si davano, senza
troppa convinzione, la mano. Il loro gesto di pace era, cioè, quello
stesso che, nelle contrattazioni dei mercati e delle fiere paesane, san­
cisce il raggiungimento dell'accordo.
Che il termine pace indicasse in origine un patto e una conven­
zione è scritto nel suo stesso etimo. Ma il termine che, per i latini,
indicava lo stato che da quel patto derivava non era pax, ma otium,
le cui incerte corrispondenze nelle lingue indoeuropee: (gr. aumoç,
vuoto, amwç, invano; got. aupeis, vuoto; isl. aud, deserto) conver­
gono verso la sfera semantica del vuoto e dell'assenza di finalità. Un
gesto di pace potrebbe essere, allora, soltanto un gesto puro, che non
vuoi dire nulla, che mostra l'inattività e la vacuità della mano. E tale
è, in effetti, presso molti popoli, il gesto del saluto; ed è, forse, pro­
prio perché la stretta di mano è, oggi, semplicemente un modo di
salutarsi, che, chiamati dal sacerdote, i fedeli fanno inconsape­
volmente ricorso a questo gesto incolore.
La verità è, però, che non c'è, non può esserci un segno di pace,
perché vera pace sarebbe solo là dove tutti i segni fossero compiuti
e smorzati. Ogni lotta fra gli uomini è, infatti, lotta per il riconosci­
mento e la pace che segue a tale lotta è soltanto una convenzione che
istituisce i segni e le condizioni del mutuo, precario riconoscimen­
to. Una tale pace è sempre e solo pace delle nazioni e del diritto, fin-
zione del riconoscimento di un'identità nel linguaggio, che provie­
ne dalla guerra e finirà nella guerra.
Non il richiamarsi a segni e immagini garantiti, ma che non ci si
possa riconoscere in alcun segno e in alcuna immagine: è questa la
pace - o, se si vuole, quella letizia che è più antica della pace e che
una mirabile parabola francescana definisce come una dimora- not­
turna, paziente, spaesata - nel non riconoscimento. Essa è il cielo
perfettamente vuoto dell'umanità, l'esposizione dell'inapparenza
come unica patria degli uomini.
Idea della vergogna

l.

L'uomo antico non conosce il sentimento dello squallore e della


casualità che, ai nostri occhi, toglie in ultima istanza ogni grandez­
za alla sventura umana. Certo per lui la gioia può in ogni istante
rovesciarsi, come u�gLç, nel disinganno più amaro: ma, proprio in
quel punto, il tragico interviene a coprire, con la sua eroica obiezio­
ne, ogni possibilità di squallore. Tragico, non meschino è il naufra­
gio dell'uomo antico di fronte alla sorte: la sua infelicità come la sua
felicità non tradiscono piccolezza. È bensì vero che, nella comme­
dia, la colpa tragica mostra il suo risvolto ridicolo: tuttavia, questo
mondo abbandonato dagli dei e dagli eroi non è misero, ma, pro­
priamente, grazioso: "che grazia ha l'uomo" dice un personaggio di
Menandro "quando è veramente umano".
Non nella commedia, ma nella filosofia s'incontra nel mondo
antico la prima e unica traccia di un sentimento che possiamo senza
forzature avvicinare alla vergogna che paralizza la fede di Stavrogin
o alla mitica promiscuità, alla lordura mitica dei tribunali e dei castel­
li kafkiani (nel mondo antico, il sudiciume non può mai essere miti­
co: senza sgomento alcuno, piegando alla sua volontà le forze natu­
rali, Eracle ripulisce le stalle di Augia -noi non riusciamo, invece, a
venire a capo del nostro sudiciume, cui resta incollato fino all'ulti­
mo un residuo mitologico). È, sorprendentemente, in quel passo del
Parmenide, in cui il giovane Socrate espone al filosofo di Elea la teo­
ria delle idee. Di fronte alla domanda di Parmenide che chiede se esi­
stano idee "del capello, della lordura, del fango e di ogni altra cosa
68

di natura vile e spregevole al massimo grado", Socrate confessa di


sentirsi preso come da un capogiro: "mi tormentò già una volta il
pensiero che ciò fosse estensibile universalmente. Ma se appena mi
adagio in quest'opinione, tosto ne rifuggo per il timore di perdermi,
precipitando in un abisso di stoltezza ... " Ma è solo un istante: "è per­
ché sei ancora giovane" replica Parmenide, "e la filosofia non ti ha
ancora preso come prevedo che ti prenderà in futuro, quando non
avrai più ribrezzo per nessuna di queste cose".
È importante che sia qui un problema metafisico (in ultima ana­
lisi teologico) a dissigillare al pensiero, anche se solo per un attimo,
le vertigini dello squallore. Dio stesso -il mondo iperuranio delle
idee, sul modello del quale il Demiurgo crea il mondo sensibile -
mostra quella faccia ripugnante che ci è oggi così familiare e, di fron­
te ad essa, l'uomo pagano ritrae immediatamente lo sguardo, prova
quell'alòwç che segna con tanta forza la pietà antica. Dio non ha
bisogno di giustificazioni: 8Eòç àva(noç suona, nella Repubblica, il
decreto della vergine Lachesis.
Per l'uomo moderno, invece, la teodicea è necessaria e, insieme,
fallisce nel modo più miserevole; Dio stesso si accusa e si rivolta, per
così dire, nel proprio fango teologico, e proprio questo dà al nostro
disagio la sua qualità inconfondibile. L'abisso su cui vacilla la nostra
ragione non è quello della necessità, ma quello dell'accidentalità e
della banalità del male. Di un incidente non si può essere né colpe­
voli né innocenti: ci si può soltanto vergognare, come quando, per
strada, scivoliamo su una buccia di banana. Il nostro Dio è un Dio
che si vergogna. Ma come ogni ribrezzo tradisce in chi lo prova una
segreta solidarietà con l'oggetto schifato, così la vergogna è l'indice
di un'inaudita, spaventosa prossimità dell'uomo con se stesso. Il
sentimento dello squallore è l'ultimo pudore dell'uomo di fronte a
se stesso, così come l'incidente -sotto la cui insegna sembra ormai
disporsi docilmente la sua intera esistenza -è la maschera che copre
il peso crescente che cause unicamente umane esercitano sulle sorti
dell'umanità.
IL

È una ben misera lettura dell'opera di Kafka quella che scorge in


essa soltanto la cifra dell'angoscia dell'uomo colpevole di fronte
all'imperscrutabile potenza di un Dio divenuto estraneo e remoto.
Al contrario, qui è Dio stesso che avrebbe bisogno di essere salvato
e il solo possibile lieto fine che possiamo immaginare per i suoi
romanzi è la redenzione di Klamm, del Conte, dell'anonima folla
teologica di giudici, di cancellieri e di guardiani che si stringe
promiscuamente in anditi polverosi o china il capo sotto soffitti
troppo bassi.
Il genio di Kafka è di aver collocato Dio in uno sgabuzzino, di
aver fatto del ripostiglio e dello stanzino dei rifiuti il luogo teologi­
co per eccellenza. Ma la sua grandezza, che solo a tratti balena nel
gesto dei suoi personaggi, è che egli ha deciso a un certo punto di
rinunciare alla teodicea e di lasciare da parte l'annoso problema del­
la colpa e dell'innocenza, della libertà e del destino, per concentrar­
si unicamente sulla vergogna.
Egli aveva di fronte un'umanità -la piccola borghesia planetaria­
che era stata espropriata di ogni altra esperienza che non fosse la sua
vergogna -la vergogna, cioè la pura, vuota forma del più intimo sen­
timento dell'io. Per una tale umanità, l'unica innocenza possibile sareb­
be stata quella di potersi vergognare senza disagio. L'atbwç non era,
per l'uomo antico, un sentimento imbarazzante; anzi, proprio di fron­
te ad esso egli ritrovava, come Ettore davanti al seno denudato di Ecu­
ba, il suo coraggio e la sua pietà. Agli uomini, Kafka cerca perciò di
insegnare l'uso dell'unico bene che sia loro rimasto: non a liberarsi dal­
la vergogna, ma a liberare la vergogna. È quanto Josef K. si studia di
conseguire per tutto il tempo che dura il suo processo, ed è per salva­
re la propria vergogna, non la propria innocenza, che egli alla fine
caparbiamente si piega al coltello del carnefice: "gli parve", si dice all'i­
stante della sua morte, "che la sua vergogna gli sarebbe sopravvissuta".
Unicamente per questo compito, per conservare all'umanità
almeno la sua vergogna, Kafka ha ritrovato qualcosa come un'antica
letizia.
Idea dell'epoca

L'aspetto più farisaico della menzogna implicita nel concetto di deca­


denza è la pedanteria con cui, nel momento stesso in cui si lamenta­
no scarsità e declino e si registrano i presagi della fine, a ogni gene­
razione si fa la conta dei nuovi talenti e si catalogano le nuove forme
e le tendenze epocali nelle arti e nel pensiero. In questo computo
meschino, spesso in mala fede, va perduto proprio l'unico incompa­
rabile titolo di nobiltà, che il nostro tempo potrebbe legittimamente
rivendicare rispetto al passato: quello di non voler più essere un'epo­
ca storica. Se un tratto della nostra sensibilità merita, infatti, di
sopravvivere, questo è il senso di impazienza e quasi di nausea che
proviamo di fronte alla prospettiva che tutto ricominci daccapo, fos­
se pure nel migliore dei modi: davanti a nuove opere d'arte, ai nuovi
segni del costume o della moda quando, dopo averle allentate per un
tempo, la tradizione riannoda le fila della propria scellerata, antichis­
sima tessitura, c'è qualcosa in noi che, anche, eventualmente, ammi­
rando, non può trattenere un fremito di orrore.
Proprio questo, invece, va perduto nella cieca volontà del nostro
tempo di essere a ogni costo epoca, dovesse pur essere l'epoca del­
l'impossibilità di essere epoca: l'età del nichilismo, appunto. Con­
cetti come quelli di post-moderno, di nuovo rinascimento, di uma­
nità ultrametafisica, tradiscono il grano di progressismo nascosto in
ogni pensiero della decadenza e, persino, nel nichilismo: l'essenzia­
le è, in ogni caso, di non mancare la nuova epoca che è già arrivata
o arriverà o, almeno, potrebbe arrivare e i cui segni è già dato deci­
frare intorno a noi. E nulla è più triste dello sberleffo con cui, nel
generale sconforto, i più furbi derubano i propri simili delle loro
stesse sofferenze, mostrando che queste sono soltanto i geroglifici,
per essi provvisoriamente illeggibili, della nuova felicità epocale.
D'altro canto, coloro che agitano semplicemente il fantasma della
fine dell'umanità, non nascondono la nostalgia per tutto quello che,
malgrado tutto, avrebbe potuto continuare così bene.
Come se al di là di questa alternativa non vi fosse l'unica possi­
bilità propriamente umana e spirituale: quella di sopravvivere all'e­
stinzione, di scavalcare la fine del tempo e delle epoche storiche non
verso il futuro o il passato, ma verso il cuore stesso del tempo e del­
la storia. La storia come noi la conosciamo non è stata, infatti, fino­
ra altro che il proprio incessante aggiornamento, e solo nel punto in
cui la sua pulsazione si arresta c'è speranza di cogliere l'occasione in
essa racchiusa, prima che sia tradita in un ulteriore invio storico­
epocale. Nel nostro ostinato darci tempo, noi smarriamo il senso di
questo dono, così come nel nostro incessante prender parola è la
ragione stessa del linguaggio che va perduta.
Per questo noi non vogliamo nuove opere d'arte o di pensiero,
non desideriamo un'altra epoca della cultura e della società: quel che
vogliamo è salvare l'epoca e la società dalla loro erranza nella tradi­
zione, afferrare il bene -indifferibile e non epocale -che era in esse
contenuto. L'assunzione di questo compito sarebbe l'unica etica, l'u­
nica politica all'altezza del momento.
Idea della musica

All'abbondanza di analisi concettuali del nostro tempo, fa riscontro


una singolare povertà di descrizioni fenomenologiche. È un fatto
curioso che un esiguo manipolo di opere filosofiche e letterarie, scrit­
te fra il 1915 e il 1930, tenga ancora saldamente in pugno le chiavi del­
la sensibilità dell'epoca, che l'ultima descrizione convincente dei
nostri stati d'animo e dei nostri sentimenti risalga, insomma, a più di
cinquanta anni fa. È vero che, nel secondo dopoguerra, l'esistenzia­
lismo francese (e, al suo seguito, il cinema europeo degli ultimi anni
cinquanta) tentò una revisione divulgatrice degli stati d'animo fon­
damentali; ma è altrettanto certo che essa - quasi in un lampo­
divenne incredibilmente insipida e obsoleta. Né la nausea sartriana
né l'imbronciata insensatezza dei personaggi di Camus hanno
aggiunto nulla, ai nostri occhi, alla caratterizzazione heideggeriana
dell'angoscia e delle altre Stimmungen in Sein und Zeit; e, se voglia­
mo cercare un'immagine del nostro spaesamento e della nostra
miseria sociale è, ancora, alla descrizione della quotidianità in Sein
und Zeit o ai romanzi di Roth o alle brevi, febbrili annotazioni del
benjaminiano Viaggio attraverso l'inflazione tedesca che dobbiamo
rivolgerei. Quanto alla fenomenologia dell'amore, nessuno è riusci­
to ad aggiungere molto alle pagine della Recherche che ne hanno fis­
sato per l'ultima volta, la facies hippocratica, né mai la vergogna e la
promiscuità hanno ritrovato per noi l'epica corsività delle novellet­
te kafkiane.
Neppure il surrealismo, che, con indubbia tempestività, si era
accinto a ridisegnare la mappa della sensibilità epocale, è riuscito nel
suo intento: l'atmosfera surrealista, con la sua paccottiglia rimbal-
74

diana e le sue incongrue associazioni, ha, oggi, lo stesso sapore di


arcaismo un po' frivolo che Benjamin aveva riconosciuto nel suo
prototipo nei passages, e se conserva, nonostante tutto, un valore,
non è per aver dato la sua impronta al gusto di un'epoca, ma, sem­
mai, per aver esposto l'essenziale carattere utopico della sensibilità
moderna.
Se la sensibilità è la sfinge con cui ogni epoca storica deve sem­
pre di nuovo misurarsi, allora l'enigma che il nostro tempo deve
sciogliere è quello stesso che aveva trovato per la prima volta la sua
formulazione nella Parigi oscurata della prima guerra mondiale, nel­
la Germania della grande inflazione o nella Praga della caduta del­
l'impero. Ciò non significa che, da allora, non siano state prodotte
opere di valore, nella filosofia come nella letteratura: solo che esse
non contenevano l'inventario di nuovi sentimenti epocali. Quando
non si limitavano alla rivisitazione di atmosfere trascorse o alla
paziente registrazione di sfumature, la loro grandezza consisteva
precisamente nel gesto sobrio con cui gli stati d'animo erano riso­
lutamente messi da parte. Il computo delle Stimmungen, l'ascolto e
la trascrizione di questa silenziosa musica dell'anima, si era chiuso
una volta per tutte in Europa intorno al 1930.
Una delle spiegazioni possibili di questo fenomeno (insoddisfa­
cente come tutte le spiegazioni) è che, nel frattempo, quelle che era­
no state, in origine, esperienze-limite di una élite intellettuale erano
diventate esperienze di massa: sulle vette più impervie del pensiero,
dove il nulla affaccia la sua maschera inespressiva, il filosofo e il poe­
ta si trovavano ora in compagnia di una sterminata massa planeta­
ria. Una Stimmung di massa non è più una musica registrabile: è sol­
tanto fracasso.
Più decisiva è la costatazione della vertiginosa perdita di autorità
dell'esistenza privata e della biografia individuale: come non credia­
mo più alle atmosfere e nessun uomo intelligente vorrebbe oggi
lasciare il suo segno nell'arredamento di una casa o in uno stile di
vestiario, così non ci aspettiamo più molto dai sentimenti che arre­
dano la nostra anima. La capacità di rovesciamento dialettico che era
implicita nell'angoscia e nella disperazione, il tQW<Jaç LaaEtm e la
75

promessa di guarigione, che ancora in Heidegger custodiscono l'e­


strema speranza epocale, hanno smarrito il loro prestigio. Non che
non sia ancora possibile esperire la polarità dialettica dell'angoscia,
così come chi veramente lo voglia può certo provare il potere
catartico degli stati d'animo: ma noi non ci sogneremmo più di alle­
gare un'esperienza -e tanto meno un'esperienza del genere- a fon­
damento di una rivendicazione di autorità.
La nostra sensibilità, i nostri sentimenti non ci fanno più pro­
messe: ci sopravvivono accanto, fastosi e inservibili come animali
d'appartamento. E il coraggio- di fronte al quale l'imperfetto nichi­
lismo del nostro tempo non cessa di indietreggiare -consisterebbe,
appunto, nel riconoscere che noi non abbiamo più stati d'animo, che
noi siamo i primi uomini non accordati in una Stimmung, i primi
uomini, per così dire, assolutamente non musicali: senza Stimmung,
cioè senza vocazione. Non è una condizione allegra, come qualche
miserabile vorrebbe farci credere, non è nemmeno, anzi, una con­
dizione, se ogni condizionare è sempre ancora disporre in un certo
modo e destinare; ma è la nostra situazione, il nostro decrepito sito
in cui ci troviamo incondizionatamente abbandonati da ogni voca­
zione e da ogni destino, esposti come mai prima d'ora.
E se gli stati d'animo sono nella storia degli individui quello che
le epoche sono nella storia dell'umanità, allora ciò che si annuncia
nella luce di piombo della nostra apatia è il cielo mai visto di una
situazione assolutamente non epocale della storia umana. Il disve­
larsi del linguaggio e dell'essere soltanto epocalmente, cioè restan­
do ogni volta non detto in ogni apertura storica e in ogni destino, è,
forse, veramente alla fine. L'anima umana ha perduto la sua musica
-la musica, cioè il segnarsi nell'anima della destinale impraticabili­
tà dell'origine. Privi di epoca, stremati e senza destino, tocchiamo la
soglia beata della nostra dimora non musicale nel tempo. La nostra
parola ha veramente raggiunto l'inizio.
Idea della felicità

a Ginevra

In ogni vita c'è qualcosa che resta non vissuto, come in ogni parola
qualcosa che resta inespresso. Il carattere è l'oscura potenza che si
erge a custode di questa vita indelibata: caparbiamente esso veglia su
ciò che non è mai stato e, senza che tu lo voglia, ne segna sul tuo vol­
to la traccia. Per questo il bambino appena nato sembra già somi­
gliare all'adulto: in realtà fra i due volti non vi è nulla di uguale, se
non ciò che nel secondo come nel primo non è stato vissuto.
La commedia del carattere: nel punto in cui la morte strappa dal­
le sue mani ciò che queste tenacemente nascondono, essa stringe sol­
tanto una maschera. In questo punto, il carattere sparisce: nel volto
del morto non vi è più traccia di ciò che non è stato vissuto, le rughe
incavate dal carattere si distendono. Così la morte è beffata: essa non
ha occhi né mani per il tesoro del carattere. Questo -il mai stato -
è raccolto dall'idea della felicità. Essa è il bene che l'umanità riceve
dalle mani del carattere.
Idea dell'infanzia

Nelle acque dolci del Messico vive una specie di salamandra albina
che ha da tempo attirato l'attenzione degli zoologi e degli studiosi
di evoluzione animale. Chi ha avuto occasione di osservarne un
esemplare in un acquario resta colpito dall'aspetto infantile, quasi
fetale di quest'anfibio: la testa relativamente grande e incassata nel
corpo, la pelle opalescente, appena marezzata di grigio sul muso e
accesa di azzurro e di rosa sulle escrescenze febbrili intorno alle
branchie, le esili zampe gigliate di rozze dita petaliformi.
In un primo momento, l'axolotl fu classificato come una specie
a sé, che presentava la particolarità di mantenere per tutta la vita
caratteristiche, per un anfibio, tipicamente larvali, come la respira­
zione branchiale e la dimora esclusivamente acquatica. Che si trat­
tasse di una specie autonoma era provato oltre ogni dubbio dal fat­
to che, malgrado il suo aspetto infantile, l'axolotl era perfettamente
capace di riprodursi. Solo più tardi una serie di esperimenti accertò
che, in seguito alla somministrazione di ormone tiroideo, il piccolo
tritonide subiva la metamorfosi normale per gli anfibi, perdeva le
branchie e, sviluppando la respirazione polmonare, abbandonava la
vita acquatica per trasformarsi in un esemplare adulto di salaman­
dra screziata (Amblistoma tygrinum). Questa circostanza può
indurre a classificare l'axolotl come un caso di regressione evoluti­
va, come una sconfitta nella lotta per la vita che costringe un anfibio
a rinunciare alla parte terrestre della sua esistenza e a protrarre
indefinitamente il proprio stato larvale. Ma, di recente, proprio que­
sto caparbio infantilismo (pedomorfosi o neotenia) ha offerto la
chiave per comprendere in modo nuovo l'evoluzione umana.
L'uomo non si sarebbe sviluppato per evoluzione a partire dagli
individui adulti, ma dai cuccioli di un primate, che, come l'axolotl,
avevano prematuramente acquisito la capacità di riprodursi. Ciò
spiegherebbe quei caratteri modologici dell'uomo, dalla posizione
del foro occipitale alla forma del padiglione dell'orecchio, dalla pel­
le glabra alla struttura delle mani e dei piedi, che non corrispondo­
no a quelli degli antropoidi adulti, ma a quelli dei loro feti. Caratte­
ri, che nei primati sono transitori, nell'uomo sono divenuti
definitivi, realizzando in qualche modo in carne e ossa il tipo del­
l'eterno fanciullo. Soprattutto, però, quest'ipotesi permette di avvi­
cinarsi in modo nuovo al linguaggio e a tutta quella sfera della tra­
dizione esosomatica che, più di ogni impronta genetica, caratterizza
l'homo sapiens e che finora la scienza sembra costitutivamente inca­
pace di comprendere.
Proviamo a immaginare un infante che non si limiti semplice­
mente, come l'axolotl a fissarsi nel proprio ambiente larvale e nelle
proprie forme acerbe, ma che sia, per così dire, tanto abbandonato
alla propria infanzia, tanto poco specializzato e così totipotente, da
declinare qualsiasi destino specifico e qualunque ambiente determi­
nato, per attenersi unicamente alla propria immaturità e alla propria
sprovvedutezza. Gli animali disattendono le possibilità del loro
soma che non sono iscritte nel germen: in fondo, contrariamente a
quanto si potrebbe pensare, essi non badano affatto a ciò che è mor­
tale (il soma è, in ciascun individuo, quel che, in ogni caso, è votato
alla morte) e coltivano unicamente le possibilità infinitamente ripe­
tibili che si sono fissate nel codice genetico. Essi fanno attenzione
solo alla Legge, unicamente a ciò che è scritto.
L'infante neotenico si troverebbe, invece, nella condizione di
poter fare attenzione proprio a ciò che non è scritto, a possibilità
somatiche arbitrarie e non codificate: nella sua infantile totipoten­
za, egli sarebbe estaticamente allibito e gettato fuori di sé non, come
gli altri viventi, in una avventura e in un ambiente specifici, ma, per
la prima volta, in un mondo: egli sarebbe veramente in ascolto del­
l'essere. E la sua voce essendo ancora libera da ogni prescrizione
genetica, non avendo egli assolutamente nulla da dire e da esprime-
re, egli potrebbe, unico animale, nella sua lingua nominare, come
Adamo, le cose. Nel nome l'uomo si lega all'infanzia, si ancora per
sempre a un'apertura che trascende ogni destino specifico e ogni
vocaziOne genetica.
. .

Ma questa apertura, questa tramortita stazione nell'essere, non è


un evento che, in qualche modo, lo riguardi, non è, anzi, nemmeno
un evento, qualcosa che possa essere registrato endosomaticamente
e acquisito in una memoria genetica, ma, piuttosto, qualcosa che
deve restare assolutamente esteriore, che non lo riguarda affatto e
che, come tale, può essere soltanto affidato all'oblio, cioè a una
memoria esosomatica e a una tradizione. Si tratta, per lui, di ricor­
darsi propriamente di nulla, di nulla che gli sia capitato o che si sia
manifestato, ma che, pure, come nulla, anticipa ogni presenza e ogni
memoria. Per questo prima di tramandarsi qualsiasi sapere e qua­
lunque tradizione, l'uomo ha necessariamente da tramandarsi la
stessa svagatezza, la stessa indeterminata illatenza, nella quale sol­
tanto qualcosa come una concreta tradizione storica è divenuta pos­
sibile. Il che si può anche esprimere con la costatazione, apparente­
mente triviale, che l'uomo, prima di trasmettersi qualcosa, deve
innanzitutto trasmettersi il linguaggio. (Per questo un adulto non
può imparare a parlare: sono stati dei bambini e non degli adulti ad
accedere per la prima volta al linguaggio, e, malgrado i quaranta mil­
lenni della specie homo sapiens, proprio il più umano dei suoi carat­
teri-l'apprendimento del linguaggio-è rimasto tenacemente lega­
to a una condizione infantile e a un'esteriorità: chi crede a un destino
specifico non può veramente parlare.)
La cultura e la spiritualità genuine sono quelle che non dimenti­
cano quest'originaria vocazione infantile del linguaggio umano,
mentre è proprio di una cultura degradata il tentativo di imitare il
germen naturale per trasmettere valori immortali e codificati, in cui
l'illatenza neotenica torna a chiudersi in una tradizione specifica. Se
qualcosa distingue, infatti, la tradizione umana dal germen, è pro­
prio il fatto che essa vuole salvare non soltanto il salvabile (i carat­
teri essenziali della specie), ma ciò che in ogni caso non può essere
salvato, che è, anzi, già sempre perduto, che, meglio, non è stato mai
posseduto come una proprietà specifica, ma che è, appunto per que­
sto, indimenticabile: l'essere, l'illatenza del soma infantile, cui sol­
tanto il mondo, soltanto il linguaggio è adeguato. Ciò che l'idea e
l'essenza vogliono salvare è il fenomeno, l'irripetibile che è stato, e
l'intenzione più propria del logos è non la conservazione della spe­
cie, ma la resurrezione della carne.
Da qualche parte, dentro di noi, lo sbadato fanciullo neotenico
continua il suo gioco regale. Ed è il suo giocare che ci dà tempo, che
mantiene aperta per noi quell'intramontabile illatenza che i popoli
e le lingue della terra, ciascuno a suo modo, vegliano a conservare e
a differire -e a conservare solo nella misura in cui la differiscono.
Le diverse nazioni e le molteplici lingue storiche sono le false voca­
zioni con cui l'uomo cerca di rispondere alla sua insopportabile
assenza di voce, o, se si vuole, i tentativi, andati fatalmente a vuoto,
di rendere afferrabile l'inafferrabile, di diventare-lui l'eterno bam­
bino-adulto. Solo il giorno in cui l'originaria illatenza infantile fos­
se veramente, vertiginosamente assunta come tale, il tempo rag­
giunto e il fanciullo Aion svegliato dal suo gioco e al suo gioco,
allora gli uomini potrebbero finalmente costruire una storia e una
lingua universali e non più differibili, e arrestare la propria erranza
nelle tradizioni. Questa autentica revocazione dell'umanità al soma
infantile si chiama: il pensiero-cioè la politica.
Idea del giudizio universale

a Elsa Morante

Le anime degli uomini giungono da ogni parte nella corte di giusti­


zia, ma la gabbia degli imputati è già occupata. Esse vengono con­
dotte a sedere nel palco dei giurati o prendono posto a gruppi,
rumorosamente, nella platea del pubblico. Quando uno squillo di
campana annuncia l'ingresso della corte, l'imputato che, nel frat­
tempo, ha indossato di soppiatto il tocco e la toga, sale frettolosa­
mente sullo scanno del giudice. Ma ha appena dichiarata aperta l'u­
dienza, che getta la toga e scivola giù nel banco della pubblica
accusa, poi in quello della difesa. Nei momenti di pausa, torna a
sedere, sconsolatamente, nella gabbia dell'imputato.
Mentre Dio è impegnato in questo giudizio su se stesso, in cui
tiene volta per volta tutte le parti, gli uomini, costernati, a poco a
poco abbandonano l'aula in silenzio.

Il giudizio universale non è un giudizio ne/linguaggio, che, come


tale, non può mai essere veramente risolutivo e viene, infatti, inces­
santemente aggiornato (di qui l'idea che il giudizio universale
avverrà solo alla fine dei tempi). Esso è, piuttosto, un giudizio sul
linguaggio stesso, che, nel linguaggio, elimina il linguaggio dal lin­
guaggw.
86

Il potere del linguaggio dev'essere rivolto verso il linguaggio. L'oc­


chio deve vedere il suo punto cieco. La prigione deve incarcerare se
stessa. Solo così i prigionieri potranno uscire.

Da qualche parte, in quell'aula ormai decrepita, dagli scanni ammuf­


fiti, in cui le candele sono agli sgoccioli e nei cui angoli si sono forma­
te enormi ragnatele, la causa di Dio con se stesso continua ancora.

Eppure si tratta soltanto di un'illustrazione a colori in un libro per


l'infanzia, il cui titolo è: Li siette palommielle.
III
Idea del pensiero

a ]acques Derrida

I.

Fra i segni d'interpunzione, le virgolette godono da qualche tem­


po di un favore particolare. L'estensione del loro uso al di là del
signum citationis, nella pratica, fin troppo diffusa, di mettere una
parola fra virgolette, suggerisce, per questo favore, delle ragioni
non superficiali.
Che significa, infatti, mettere una parola fra virgolette? Con le
virgolette, chi scrive prende le distanze dal linguaggio: esse indica­
no che un certo termine non è preso nell'accezione che gli compe­
terebbe, che il suo senso è stato stornato (citato, chiamato fuori) da
quello abituale, ma non completamente reciso dalla sua tradizione
semantica. Non si vuole o non si può più usare semplicemente il
vecchio termine, ma nemmeno si può o si vuole trovarne uno nuo­
vo. Il termine virgolettato è tenuto in sospeso nella sua storia, è
pesato -quindi, almeno embrionalmente, pensato.
Di recente è stata elaborata una teoria generale della citazione ad
uso delle università. Alla consueta irresponsabilità accademica, che
crede di poter maneggiare, estrapolandola dall'opera di un filosofo,
questa pratica rischiosa, occorre ricordare che la parola chiusa fra
virgolette aspetta solo il momento di vendicarsi. E nessuna vendet­
ta è più sottile e più ironica della sua. Chi ha messo una parola fra
virgolette non può più liberarsene: sospesa a mezz'aria nel suo slan­
cio significante, essa gli diventa insostituibile -o, piuttosto, è ora,
per lui, assolutamente incongedabile. Così il dilagare delle virgolet­
te tradisce il disagio del nostro tempo rispetto al linguaggio: esse
rappresentano le mura -esili, ma infrangibili - della nostra prigio­
nia nella parola. Nel cerchio che le virgolette stringono intorno al
vocabolo è rimasto chiuso anche il parlante.
Ma se le virgolette sono una citazione rivolta al linguaggio a
comparire davanti al tribunale del pensiero, il processo così inten­
tato non può restare indefinitamente pendente. Ogni atto compiu­
to di pensiero deve infatti, per essere tale-per potersi, cioè, riferire
a qualcosa che sta fuori del pensiero-risolversi interamente nel lin­
guaggio: un'umanità che potesse parlare solo fra virgolette sarebbe
un umanità infelice, che avrebbe perduto, a furia di pensare, la capa­
cità di portare a compimento il pensiero.
Per questo il processo intentato al linguaggio può concludersi
solo con la cancellazione delle virgolette. Anche nel caso che il ver­
detto finale fosse una condanna a morte. Le virgolette si stringono
allora intorno al collo del termine imputato fino a soffocarlo. Nel
punto in cui questo sembra svuotarsi di ogni senso e esalare l'ulti­
mo respiro, i piccoli carnefici, pacificati e spauriti, fanno ritorno a
quella virgola da cui provengono e che, secondo la definizione di !si­
doro, segna il ritmo della respirazione nel senso.

Il.

Dov'è caduta una voce, dove il fiato è mancato, sta, in alto, un pic­
colo segno. Su nient'altro che quello, esitante, si avventura il pen­
Siero.
Idea del nome

Per chi medita sull'indicibile, è un'osservazione istruttiva che ciò di


cui non può parlare, il linguaggio può, tuttavia, perfettamente nomi­
narlo. La filosofia antica distingueva per questo con cura il piano del
nome (onoma) da quello del discorso (logos) e riteneva la scoperta
di questa distinzione così importante da ascriverne il merito a Pla­
tone. La scoperta era, in verità, più precoce: era stato Antistene ad
affermare per primo che delle sostanze semplici e prime non vi può
essere logos, ma soltanto nome. Indicibile, secondo questa conce­
zione, non è ciò che in nessun modo è attestato nel linguaggio, ma
ciò che, nel linguaggio, può soltanto essere nominato; dicibile, inve­
ce, è ciò di cui si può parlare in un discorso definitorio, anche se
manca, eventualmente, di nome proprio. La distinzione fra dicibile
e indicibile passa, dunque, all'interno del linguaggio, dividendolo
come un crinale sottile lascia cadere ai suoi lati due pareti a stra­
piombo.
Su questa frattura del linguaggio si fonda quell'antica sapienza
che, col nome di mistica, veglia sull'impossibilità di ricalcare il pia­
no dei nomi in quello delle proposizioni. Il nome entra, certo, nel­
le proposizioni, ma ciò che queste dicono non è quel che il nome ha
chiamato. I dizionari e il lavoro instancabile della scienza possono
ben affiancare ad ogni nome una definizione: ciò che in questo
modo si dice, è detto tuttavia solo sulla presupposizione del nome.
Tutto il linguaggio, anzi, riposa su un unico nome, in sé mai profe­
ribile: il nome di Dio. Contenuto in tutte le proposizioni, esso resta
in ciascuna necessariamente non detto.
Diverso è il gesto della filosofia. Essa condivide con la mistica la
diffidenza verso una troppo precipitosa adeguazione dei due piani,
ma non dispera di poter rendere, a suo modo, giustizia a ciò che il
nome ha chiamato. Per questo il pensiero non si ferma sulla soglia
del nome, né conosce, al di là di questo, altri nomi segreti: esso per­
segue, nel nome, l'idea. Perché, come nella leggenda ebraica del
golem, il nome, col quale l'informe è stato chiamato alla vita, è quel­
lo della verità. E quando la prima lettera di questo nome è stata can­
cellata dalla fronte del terribile famulus, il pensiero continua a fissa­
re lo sguardo su quel volto, su cui sta ora scritta la parola "morte",
finché anche questa è cancellata. La muta, illeggibile fronte è, ora, la
sua unica lezione, il suo unico testo.
Idea dell'enigma

I.

Il carattere più proprio dell'enigma è che l'attesa di mistero che esso


suscita va ogni volta immancabilmente delusa, perché la soluzione
consiste appunto nel mostrare che vi era solo l'apparenza dell'enig­
ma. Che quest'attesa, la cui vanità è per noi oggi scontata, costituis­
se in origine il pathos dell'enigma, è provato, fra l'altro, dagli aned­
doti sulla morte degli antichi vati e sapienti, che, non riuscendo a
trovare la soluzione degli indovinelli che erano loro proposti, peri­
vano letteralmente di paura. Ma il vero insegnamento dell'enigma
comincia solo al di là della soluzione e della delusione che questa
sembra inevitabilmente portare con sé. Nulla può infatti riuscire più
disperante della costatazione che non vi può essere l'enigma, ma
solo la sua apparenza. Ciò significa, infatti, che l'enigmaticità riguar­
da solo il linguaggio e la sua ambiguità, ma non quel che nel lin­
guaggio è inteso, il quale, in sé, non soltanto è assolutamente privo
di mistero, ma, addirittura, del tutto indifferente al linguaggio che
dovrebbe esprimerlo, infinitamente remoto da esso.
Che l'enigma non ci sia, che nemmeno l'enigma riesca a cattura­
re l'essere, che è, insieme, perfettamente manifesto e assolutamente
indicibile, questo è ora il vero enigma, di fronte al quale la ragione
umana s1 arresta 1mp1etnta.
. . . .

(È questa la posizione wittgensteiniana del problema dell'enigma).


II.

Si ha paura sempre e soltanto di una cosa: della verità. O, più preci­


samente, della rappresentazione che ce ne facciamo. La paura non è,
infatti, semplicemente una mancanza di coraggio di fronte a una
verità che, più o meno consapevolmente, ci rappresentiamo: ancora
prima sta la paura che è già implicita nel fatto stesso che della verità
ci siamo fatta un'immagine, ne abbiamo comunque avuto un nome
e un presentimento. È questa arcaica paura contenuta in ogni
rappresentazione che, nell'enigma, trova la sua espressione e il suo
antidoto.
Questo non significa che la verità sia un irrapresentabile, che
sempre di nuovo ci affrettiamo a coprire con le nostre rappresenta­
zioni. Piuttosto la verità comincia soltanto un istante dopo il punto
in cui riconosciamo la verità o la falsità di una rappresentazione (nel­
la rappresentazione, essa può solo avere la forma: "dunque era pro­
prio così!" oppure: "allora mi sbagliavo!"). Per questo è importan­
te che la rappresentazione si arresti un istante prima della verità, per
questo vera è soltanto quella rappresentazione che rappresenta
anche lo scarto che la separa dalla verità.

III.

Si racconta che Platone, ormai vecchio, convocasse un giorno i suoi


allievi nell'Accademia, annunciando che avrebbe parlato loro intor­
no al Bene. Poiché con questo termine egli era solito alludere al
nucleo più intimo e oscuro della sua dottrina, di cui non aveva mai
trattato esplicitamente, c'era, fra coloro che si erano adunati nell'e­
sedra (e fra questi erano Speusippo, Senocrate, Aristotele e Filippo
di Opunte) una comprensibile attesa, perfino un certo nervosismo.
Ma quando il filosofo cominciò a parlare e risultò che il discorso
toccava esclusivamente questioni matematiche, numeri, linee,
superfici, movimenti degli astri, e che, da ultimo, si sosteneva che il
Bene era l'Uno, essi cominciarono dapprima a meravigliarsi, poi a
97

scambiarsi occhiate e a scuotere la testa, finché alcuni abbandona­


rono in silenzio la sala. Anche coloro che rimasero fino alla fine,
come Aristotele e Speusippo, erano imbarazzati e non sapevano che
cosa pensare.
Così Platone, che fin'allora aveva sempre messo in guardia i suoi
allievi contro le trattazioni tematiche dei problemi e, nei suoi scrit­
ti, aveva volentieri fatto posto alle finzioni e ai racconti, divenne egli
stesso per i suoi allievi un mito e un enigma.

IV.

Un filosofo si era convinto, dopo molte riflessioni, che la sola for­


ma legittima di scrittura fosse quella che immunizzava ogni volta i
propri lettori contro l'illusione di verità che poteva suscitare. "Se
venissimo a sapere", so leva ripetere, "che Gesù o Lao-Tse hanno
scritto un romanzo poliziesco, questo ci sembrerebbe indecente.
Così un filosofo non può sostenere tesi né esprimere opinioni su
problemi". Per questo aveva deciso di attenersi a quelle semplici for­
me tradizionali, come l'apologo, la favola, la leggenda, che nemme­
no Socrate morente aveva disdegnato e che paiono bonariamente
diffidare il lettore dal prenderle troppo sul serio.
Un altro filosofo gli fece, però, notare che una simile scelta era,
in verità, contraddittoria, perché supponeva nell'autore una inten­
zione così irrimediabilmente seria da essere costretta a prendere le
distanze dalla propria stessa espressione. Se l'intenzione didattica
delle antiche favole riusciva accettabile, ciò era soltanto perché esse
erano state ripetute e variate infinite volte nei secoli e del loro vero
autore non si sapeva più nulla. Ma altrimenti, continuava l'obietto­
re, la sola intenzione che sfuggiva a ogni possibilità di inganno era
l'assoluta assenza di ogni intenzione. E proprio quest'inintenziona­
lità i poeti esprimevano attraverso l'immagine della Musa, che det­
tava loro parole, cui essi si limitavano a prestare la voce. Ma per la
filosofia ciò non era possibile: che senso avrebbe, infatti, una filoso­
fia ispirata? A meno di non trovare qualcosa come una Musa della
filosofia, a meno che non fosse possibile trovare un'espressione che,
come il canto di quell'antichissima musa che i tebani chiamavano
Sfinge, cadesse in pezzi esattamente nell'istante in cui mostrava la
sua verità.

v.

Supponiamo adempiuti tutti i segni, scontata la pena dell'uomo nel


linguaggio, tutte le possibili domande soddisfatte e proferito tutto
quanto poteva essere detto, che cosa sarebbe allora la vita degli
uomini sulla terra? "I nostri problemi vitali", tu dici, "non sarebbe­
ro neppure toccati". Ma supponendo che provassimo ancora voglia
di piangere o di ridere, per che cosa piangeremmo o rideremmo, che
cosa sarebbero quel pianto e quel riso, se, finché eravamo prigionieri
nel linguaggio, essi non erano, non potevano essere altro che l' espe­
rienza, triste o beata, tragedia o commedia, dei limiti, dell'insuffi­
cienza del linguaggio? Dove il linguaggio fosse perfettamente com­
piuto, perfettamente delimitato, là comincerebbero l'altro nso,
l'altro pianto dell'umanità.
Idea del silenzio

In una raccolta di favole tardo-antiche, si legge questo apologo:


"Era costume presso gli ateniesi che chi volesse essere conside­
rato filosofo doveva lasciarsi frustare a dovere e, se sopportava
pazientemente i colpi, allora poteva essere considerato filosofo. Un
tale una volta si era sottoposto alla fustigazione e, dopo aver soppor­
tato in silenzio le busse, esclamò: 'Son ben degno, dunque, di esse­
re chiamato filosofo!' Ma gli fu risposto a ragione: 'Lo saresti stato,
se solo avessi taciuto"'.
La favola insegna che certamente la filosofia ha a che fare con l'e­
sperienza del silenzio, ma che l'assunzione di questa esperienza non
costituisce in alcun modo l'identità della filosofia. Essa sta esposta
nel silenzio assolutamente senza identità, sopporta il senza nome
senza trovare, in questo, il proprio nome. Il silenzio non è la sua
parola segreta- piuttosto la sua parola tace perfettamente il proprio
silenzio.
Idea del linguaggio I

Un bel viso è forse il solo luogo in cui vi sia veramente silenzio.


Mentre il carattere segna il volto di parole non dette e di intenzioni
rimaste incompiute, mentre la faccia dell'animale sembra sempre sul
punto di proferire parole, la bellezza umana apre il viso al silenzio.
Ma il silenzio- che qui avviene- non è semplicemente sospensione
del discorso, ma silenzio della parola stessa, il diventar visibile del­
la parola: idea del linguaggio. Per questo nel silenzio del viso è vera­
mente a casa l'uomo.

IL

Solo la parola ci mette in contano con le cose mute. Mentre la natu­


ra e gli animali sono sempre già presi in una lingua e, pur tacendo,
incessantemente parlano e rispondono a segni, solo l'uomo riesce a
interrompere, nella parola, la lingua infinita della natura e a porsi per
un attimo di fronte alle mute cose. Solo per l'uomo esiste la rosa
indelibata, l'idea della rosa.
Idea del linguaggio II

lngebor g Bachmann in memoriam

La leggenda kafkiana su La colonia penale s'illumina singolarmen­


te se si comprende che l'apparecchio di tortura inventato dall'ex­
comandante della colonia penale è, in verità, il linguaggio. Ma, con
ciò, essa si complica in misura non minore. Nella leggenda, infatti,
la macchina è innanzitutto uno strumento di giustizia e di punizio­
ne. Ciò significa che anche il linguaggio è, sulla terra e per gli uomi­
ni, un tale strumento. Il segreto della colonia penale sarebbe allora
quello stesso che un personaggio di un romanzo contemporaneo
tradisce con queste parole: "Ti confiderò un segreto terribile: il lin­
guaggio è la pena. In esso tutte le cose devono entrare e in esso
devono perire secondo la misura della loro colpa".
Ma, se si tratta di espiare una colpa (e di questo l'ufficiale è asso­
lutamente certo: "la colpa è sempre fuori questione"), in che consi­
ste il senso della pena? Anche qui le spiegazioni dell'ufficiale non
lasciano dubbi: in ciò che accade intorno alla sesta ora. Quando
sono infatti passate sei ore dal momento in cui l'erpice ha iniziato a
trascrivere nella carne del condannato il comando che è stato da lui
trasgredito, questi comincia a decifrarne il testo: "Ma poi, dopo la
sesta ora, come diventa silenzioso l'uomo! Anche al più idiota si
dischiude l'intelligenza. Comincia dagli occhi e di lì si diffonde. È
uno spettacolo che potrebbe indurre chiunque a farsi mettere anche
lui sotto l'erpice. Null'altro avviene, tranne che l'uomo incomincia
a decifrare lo scritto, appunta le labbra come se stesse in ascolto. Lei
ha visto che non è facile decifrare lo scritto con gli occhi, ma il
106

nostro uomo lo decifra con le sue ferite. È un lavoro difficile, gli ci


vogliono sei ore per compierlo. Ma, a quel punto, l'erpice lo ha
attraversato da parte a parte e lo getta nella fossa dov'egli piomba
giù sull'ovatta e sull'acqua insanguinata".
Ciò che il condannato giunge dunque nella sua ultima ora silen­
ziosamente a capire, è il senso del linguaggio. Gli uomini - si
potrebbe dire - vivono la loro esistenza di esseri parlanti senza
intendere il senso che è in essa in questione; ma viene per ciascuno
una sesta ora in cui anche al più idiota deve schiudersi la ragione.
Non si tratta, naturalmente, della comprensione di un senso logico,
quale si potrebbe anche leggere con gli occhi; ma di un senso più
profondo, che può essere decifrato solo con le ferite e che al lin­
guaggio compete unicamente in quanto pena. (Per questo la logica
ha il suo ambito esclusivo nel giudizio: il giudizio logico è, in verità,
immediatamente giudizio penale, sentenza) . Intendere questo sen­
so, misurare la propria colpa è un lavoro difficile, e solo nel punto
in cui questo lavoro è stato condotto a termine, si può dire che giu­
stizia sia stata fatta.
Questa interpretazione non esaurisce, però, il senso della leg­
genda. Anzi, questo comincia propriamente a svelarsi soltanto
quando l'ufficiale, comprendendo di non poter convincere il viag­
giatore, libera il condannato e entra lui stesso, al suo posto, nella
macchina. Decisivo qui è il testo dell'iscrizione che dovrà essergli
incisa nella carne. Esso non ha, come per il condannato, la forma di
un comandamento preciso ("onora il superiore"), ma consiste nella
pura e semplice ingiunzione: "sii giusto". Ma è proprio quando si
prova a trascrivere questa ingiunzione che la macchina non sola­
mente va in frantumi, ma viene anche meno al suo compito: "l'erpi­
ce non scriveva più, trafiggeva soltanto... non era più una tortura...
era un vero e proprio assassinio". Così sulla faccia dell'ufficiale non
è dato scorgere alla fine alcun segno della redenzione promessa:
"quel che tutti gli altri avevano trovato nella macchina, l'ufficiale
non l'aveva trovato".
Due interpretazioni della leggenda sono, a questo punto, possi­
bili. Secondo la prima, l'ufficiale aveva effettivamente, nella sua fun-
zione di giudice, violato il precetto "sii giusto" e per questo doveva
pagarne la pena. Ma con lui anche la macchina, complice necessaria
dell'ingiustizia, deve essere distrutta. Che poi l'ufficiale non possa
trovare nella pena quella redenzione che altri avevano creduto di
trovarvi, si spiega facilmente colla circostanza che egli conosceva in
anticipo il testo dell'incisione.
Ma un'altra lettura è ugualmente possibile. Secondo questa, il
precetto "sii giusto" non si riferisce al dettato che l'ufficiale ha tra­
sgredito, ma è, piuttosto, l'istruzione destinata a mandare in pezzi
la macchina. E l'ufficiale ne è perfettamente cosciente, dal momen­
to che l'annuncia al viaggiatore: "'dunque l'ora è venuta' disse infi­
ne e guardò improvvisamente il viaggiatore con occhi limpidi che
contenevano chissà quale invito, chissà quale appello a comprende­
re". Non c'è dubbio: egli ha introdotto l'istruzione nella macchina
con l'intenzione di distruggerla.
Il senso ultimo del linguaggio- sembra allora dire la leggenda­
è l'ingiunzione "sii giusto"; e tuttavia proprio il senso di questa
ingiunzione è ciò che la macchina del linguaggio non è assoluta­
mente in grado di farci capire. O, piuttosto, può farlo solo cessan­
do di svolgere il suo compito penale, solo andando in pezzi e diven­
tando, da punitrice, assassina. In questo modo la giustizia trionfa
della giustizia, il linguaggio del linguaggio. Che l'ufficiale non abbia
trovato nella macchina quel che gli altri vi avevano trovato è, allora,
perfettamente comprensibile: a quel punto non c'era per lui, nel lin­
guaggio, più nulla da capire. Per questo la sua espressione è rimasta
quale era stata in vita: lo sguardo limpido, convinto, la fronte trafit­
ta dal grosso pungiglione di ferro.
Idea della luce

Accendo la luce in una stanza buia: certo, la stanza illuminata non è


più la stanza buia, io l'ho perduta per sempre. Eppure non si tratta
proprio della stessa stanza? Non è, appunto, la stanza buia l'unico
contenuto della stanza illuminata? Quel che non posso più avere,
quel che infinitamente sfugge all'indietro e, insieme, mi slancia in
avanti, è solo una rappresentazione del linguaggio, il buio presup­
posto alla luce; ma se abbandono il tentativo di afferrare questo pre­
supposto, se rivolgo la mia attenzione alla luce stessa, se la ricevo -
quel che la luce mi dona è, allora, la stessa stanza, il buio non ipote­
tico. L'unico contenuto della rivelazione è l'in sé chiuso, il velato -
la luce non è che l'avvenire del buio a se stesso.
Idea dell'apparenza

Fu un tardo commentatore di Aristotele, Simplicio di Cilicia, profes­


sore nella scuola di Atene pochi anni prima della sua chiusura e poi
esule, con gli ultimi filosofi pagani, alla corte di Cosroe I, a trasmet­
tere all'astronomia medievale (e, attraverso questa, alla scienza moder­
na) l'espressione "salvare le apparenze" ('rà qxuv6!!Eva o<rsnv), come
motto della scienza platonica. Se non da Platone stesso, l'espressione
proviene certamente dall'ambiente dell'Accademia, e non è, forse, un
caso, se la si trova attribuita per la prima volta a quell'Eraclide Ponti­
co, candidato alla successione di Speusippo nella direzione dell'Acca­
demia, di cui si racconta che avrebbe cercato di falsificare l'apparen­
za della propria morte (sostituendo al cadavere un serpente) e che,
secondo lo stesso biografo, sarebbe stato burlato da un acrostico per
non aver saputo riconoscere la falsità di un apocrifo sofocleo.
Nel suo commento al De coelo aristotelico, Simplicio espone in
questo modo il compito che Platone avrebbe assegnato all'astrono­
mia del suo tempo: "Platone ammette in principio che i corpi celesti
si muovono con un movimento circolare, uniforme e costantemen­
te regolare; così egli pone ai matematici questo problema: quali sono
i movimenti circolari e perfettamente regolari che conviene prende­
re per ipotesi, affinché sia possibile salvare le apparenze rispetto agli
astri erranti?"
È noto come l'astronomia greca, a partire da Eudosso, per rispon­
dere a questa esigenza - cioè, per salvare le apparenze infinitamente
complicate che presentava il movimento irregolare degli astri detti,
per questo, "erranti" (:rtÌI.avrrrEç)- fosse costretta a supporre, per
ognuno di essi, una serie di sfere omocentriche, ciascuna animata da
112

un proprio movimento uniforme, dalla cui composizione con quel­


lo delle altre risultava, alla fine, il movimento apparente del pianeta.
Decisivo è, qui, lo statuto da attribuire all'ipotesi: per Platone esse
non erano da considerare alla stregua di principi veri, ma, appunto,
come ipotesi, il cui senso si esauriva con la salvazione dei fenomeni.
Come scrive Proclo, polemizzando con coloro che scambiano le ipo­
tesi con i principi non ipotetici: "queste ipotesi sono concepite per
scoprire la forma dei movimenti degli astri - che, in verità, si muo­
vono proprio così come appare (<'ìxmEg xai <paLvETm)- per rendere,
cioè, comprensibile la misura dei loro movimenti". Per questo, nel
punto in cui Newton iscrisse sulla soglia della scienza moderna il suo
Hypotheses non fingo, assegnando a questa il compito di dedurre
dall'esperienza le cause reali dei fenomeni, l'espressione "salvare le
apparenze" cominciò quella lenta migrazione semantica che, esilian­
dola dall'ambito della scienza, la portò ad assumere il significato peg­
giorativo che essa ha ancor oggi nell'uso colloquiale.
Che cosa poteva significare, nell'intenzione platonica, tà cpmv6-
!1EVa o<9tuv? In vista di che cosa erano salvate le apparenze? E da
che cosa?
L'errante apparenza è, grazie all'ipotesi, resa comprensibile, con­
servata libera da ogni bisogno di un'ulteriore spiegazione scientifica,
da ogni "perché?", che si è saziato nell'ipotesi. L'ipotesi, dandone
ragione, mostra, cioè, l'erranza dell'apparenza come apparenza del­
l'erranza. Ciò non significa che l'ipotesi sia vera, che essa possa esse­
re supposta all'apparenza come un fondamento reale, verso il quale
dovrebbe rivolgersi la conoscenza. La bella apparenza, non ulterior­
mente spiegabile attraverso ipotesi, è, così, tesorizzata, risparmiata,
"salvata" per un'altra comprensione, che l'afferra ora come essa è in
se stessa, anipoteticamente, nel suo splendore. Ciò che qui è raggiun­
to è, cioè, ancora un sensibile (di qui il termine idea, che indica una
visione, un LÒEì:v), ma non un sensibile presupposto al linguaggio e alla
conoscenza, bensì esposto in essi, assolutamente. L'apparenza riposta
non più sull'ipotesi, ma su se stessa, la cosa non più separata dalla sua
intellegibilità, ma nel medio di quella, è l'idea, è la cosa stessa.
Idea della gloria

"Pare"- com'è strana la grammatica di questo verbo! Esso signifi­


ca tanto videtur: "sembra, mi appare come una parvenza o un sem­
biante, che può, quindi essere ingannevole", quanto lucet: "splen­
de, si manifesta nella sua evidenza"; da una parte, una latenza che
resta nascosta nel suo stesso darsi a vedere, dall'altra, una pura, asso­
luta visibilità, priva di ombre. (Nella Vita nuova, che è interamente
costruita come una fenomenologia, per così dire, dell'apparenza, i
due sensi sono a volte intenzionalmente contrapposti: "mi parea
vedere ne la mia camera una nebula di colore di fuoco, dentro a la
quale io discernea una figura d'uno segnore di pauroso aspetto a chi
lo guardasse; e pareami con tanta letizia, quanto a sé... ". Altrettan­
to ironicamente li distingue Guinizzelli, quasi per meglio esibirne la
confusione: "più che stella Diana splende e pare... ").
Questi due sensi non sono propriamente separabili, e non è faci­
le, di volta in volta, decidersi per l'uno o per l'altro: è come se ogni
splendore implicasse una parvenza, ogni "parere" un "mi pare".

Nel viso umano, gli occhi ci colpiscono non per la loro trasparenza
espressiva, ma, proprio al contrario, per la loro ostinata resistenza
all'espressione, per il loro torbido. E se fissiamo davvero lo sguar­
do negli occhi dell'altro, vediamo di lui tanto poco, che essi ci resti­
tuiscono, anzi, quella nostra immagine miniaturizzata, da cui trae il
suo nome la pupilla.
In questo senso, lo sguardo è veramente "la feccia dell'uomo"­
ma questa posatura dell'umano, quest'abissale opacità e miseria del
volto (in cui così spesso l'amante si perde e che il politico sa valuta­
re attentamente per farne strumento di potere) è l'unico genuino
contrassegno della sua spiritualità.

La parola latina voltus - da cui deriva l'italiano volto- ha, nelle lin­
gue indoeuropee, un esatto corrispondente solo nel gotico wulthus.
Nella Bibbia di Ulfila, che ci ha trasmesso questo vocabolo, esso non
serve, però, a rendere un'espressione che significa "volto" (già Cice­
rone osservava che il greco non possiede un equivalente di questa
parola: "ciò che chiamiamo volto- egli scrive- e non può esistere in
nessun animale, ma solo nell'uomo, indica l'elemento morale: que­
sto significato i greci non lo conoscono e mancano affatto della paro­
la"), ma traduce il greco ò6�a, che significa la gloria di Dio. Nel Vec­
chio Testamento, la gloria (Kabod) indica la divinità nel suo
manifestarsi agli uomini o, piuttosto, la manifestazione come uno
degli attributi essenziali di Dio (ò6�a significa etimologicamente:
apparenza, sembiante). Nel Vangelo di Giovanni, chi crede in Cristo
non ha bisogno di segni (GTJf!ELU, miracoli), perché vede immediata­
mente la sua gloria, il suo "volto". Questo è tutt'intero esposto sul­
la croce, l'ultimo "segno", in cui tutti i segni si consumano.

Io guardo qualcuno negli occhi: questi si abbassano (è il pudore, che


è pudore, appunto, del vuoto che c'è dietro lo sguardo) oppure mi
guardano a loro volta. E guardarmi essi possono sfrontatamente,
esibendo il loro vuoto come se vi fosse dietro un altro occhio abis­
sale che conosce quel vuoto e lo usa come un nascondiglio impene­
trabile; oppure con una spudoratezza casta e senza riserve, lascian­
do che nel vuoto dei nostri sguardi avvengano amore e parola.

È un calcolato stratagemma, nelle fotografie pornografiche, che i


soggetti ritratti guardino a volte verso l'obiettivo, esibendo così la
coscienza di essere esposti allo sguardo. Questa circostanza inatte-
sa smentisce violentemente la finzione implicita nel consumo di tali
immagini, secondo cui chi le guarda sorprende, non visto, gli atto­
ri: questi, sfidandone consapevolmente lo sguardo, obbligano il
voyeur a fissarli negli occhi.
Nel breve istante che dura la sorpresa, tra quelle immagini mise­
rabili e colui che le guarda corre qualcosa come un'autentica inter­
rogazione amorosa; la sfrontatezza confina con la trasparenza e il
loro apparire è, per un attimo, soltanto splendore. (Solo per un atti­
mo, tuttavia: è chiaro che qui l'intenzione impedisce la perfetta tra­
sparenza: essi sanno di essere guardati, sono pagati per saperlo.)

Nel punto dell'innervazione, in cui l'immagine riflessa nella retina


si fa propriamente visione, l'occhio è necessariamente cieco. Esso
organizza la visione intorno a questo centro invisibile- il che signi­
fica, anche, che tutta la visione è organizzata per non farti vedere
questa cecità. È come se ogni illatenza contenesse, incastonata al
proprio centro, un'inestinguibile latenza, ogni luminosità imprigio­
nasse un'intima tenebra.
All'animale questo punto cieco resta per sempre nascosto, esso
è immediatamente contiguo alla propria visione, non può mai tra­
dire la propria cecità, farne esperienza. La sua coscienza svanisce
così nel punto stesso in cui si desta: è pura voce. (Per questo l'ani­
male non conosce apparenze. Solo l'uomo s'interessa alle immagini
in quanto immagini, conosce l'apparenza come apparenza.)
È tenendosi con tutte le sue forze a questo punto cieco che l'uo­
mo si costituisce come soggetto cosciente. È come se egli cercasse
disperatamente di vedere la propria cecità. Così, per lui, in ogni
visione s'insinua un ritardo, una non-contiguità e una memoria fra
stimolo e risposta. Per la prima volta l'apparenza si separa dalla cosa,
il sembiante dallo splendore. Ma questa goccia di tenebra- questo
ritardo - è relativa a che qualcosa sia, è l'essere. Per noi soltanto le
cose sono, sciolte dai nostri bisogni e dal nostro immediato rappor­
to con esse. Esse sono, semplicemente, meravigliosamente, irrag­
giungibilmente.
n6

Ma che cosa può significare la visione di una cecità? Io voglio affer­


rare la mia oscurità, ciò che in me resta inespresso e non detto: ma
questo è, appunto, la mia stessa illatenza; il mio non essere altro che
volto e apparenza intramontabile. Se potessi davvero vedere il pun­
to cieco del mio occhio, non vedrei nulla (è questa la tenebra, in cui
i mistici dicono che Dio abiti).

Per questo ogni volto si contrae in un'espressione, s'irrigidisce in un


carattere e, in questo modo, s'inoltra e sprofonda in se stesso. Il
carattere è la smorfia del volto nel punto in cui si accorge di non ave­
re nulla da esprimere e disperatamente arretra dietro di sé alla ricer­
ca della propria cecità. Ma quel che ci sarebbe qui da afferrare è solo
un'illatenza, una pura visibilità: soltanto un viso. E il volto non è
qualcosa che trascende la faccia è l'esposizione della faccia nella
-

sua nudità, vittoria sul carattere: parola.

E non ci è stato dato il linguaggio per liberare le cose dalla loro


immagine, per portare all'apparenza la stessa apparenza, per con­
durla alla gloria?
Idea della morte

L'angelo della morte, che in certe leggende si chiama Samaele e col


quale si racconta che anche Mosè dovesse lottare, è il linguaggio.
Esso ci annuncia la morte - che altro fa il linguaggio? Ma proprio
quest'annuncio ci rende così difficile morire. Da tempo immemo­
rabile, da quanto dura la sua storia, l'umanità è in lotta con l'ange­
lo, per strappargli il segreto che egli si limita ad annunciare. Ma dal­
le sue mani puerili si può cavare soltanto quell'annuncio, che, del
resto, egli era comunque venuto a portarci. Di questo l'angelo non
ha colpa, e solo chi capisce l'innocenza del linguaggio intende,
anche, il vero senso dell'annuncio e può, eventualmente, imparare a
monre.
Idea del risveglio

a !taio Calvino

l.

Nagarjuna viaggiava in lungo e in largo nel regno di Andhra e,


dovunque si fermasse, insegnava a coloro che desideravano istruir­
si la dottrina della vacuità. Capitava, a volte, che ai discepoli e ai
curiosi si mischiassero gli avversari e Nagarjuna doveva allora, sep­
pure a malincuore, confutare le loro obiezioni e disfarne gli argo­
menti. Di queste discussioni negli atrii profumati dei templi o nel
fragore dei mercati, gli restava una certa amarezza. A tormentarlo
non erano, però, i rimbrotti dei monaci ortodossi che lo chiamava­
no nichilista e lo accusavano di distruggere le quattro verità. (Il suo
insegnamento - ben compreso - non era altro che il senso delle
quattro verità.) Nemmeno lo turbavano le ironie dei solitari che,
simili a rinoceronti, coltivavano l'illuminazione soltanto per sé.
(Non era stato, non era ancora egli stesso un simile rinoceronte?)
Piuttosto lo affliggevano gli argomenti di quei logici che non si pre­
sentavano neppure come avversari, che dichiaravano, anzi, di pro­
fessare la sua stessa dottrina. La differenza fra il loro insegnamento
e il suo era così sottile che, a volte, egli stesso non riusciva ad affer­
rarla. Eppure non si poteva immaginare niente di più lontano. Per­
ché era, certo, la stessa dottrina della vacuità, ma trattenuta nella rap­
presentazione. Essi si servivano della produzione condizionata e del
principio di ragione per mostrare la vacuità di tutte le cose, ma non
giungevano al punto in cui anche questi principi mostravano la loro
120

vacuità. Mantenevano, insomma, i soggetti dei principi che mostra­


vano il vuoto di tutti i soggetti! In questo modo, insegnavano la
conoscenza senza il risveglio, la verità senza la sua invenzione.
Di recente, questa dottrina imperfetta era penetrata anche tra i
suoi discepoli. Nagarjuna masticava questi pensieri mentre viaggia­
va a dorso d'asina in direzione del Vidarbha. Il sentiero correva
stretto fra un'altra montagna color di rosa e un prato sconfinato,
interrotto da piccoli laghi in cui si specchiavano le nuvole. Anche
Candrakirti, il suo allievo più caro, era caduto in quest'errore. Ma
come si poteva confutarlo, senza attardarsi in una rappresentazio­
ne? Aggrappato con le ginocchia alla sua grigia cavalcatura, con lo
sguardo perduto fra le pietre e i muschi del sentiero, Nagarjuna
cominciò a stendere mentalmente l'abbozzo delle Stanze del cam­
mino di mezzo:
"Coloro che professano la verità come una dottrina, come una
rappresentazione della verità. Costoro trattano il vuoto come una
cosa, si fanno una rappresentazione della vacuità della rappresenta­
zione. Ma la cognizione della vacuità della rappresentazione non è,
a sua volta, una rappresentazione: è, semplicemente, la fine della rap­
presentazione... Tu vuoi usare il vuoto come un riparo contro il
dolore: ma come potrebbe una vacuità ripararti? Se il vuoto non
rimane esso stesso vuoto, se gli attribuisci l'essere o il non essere,
questo e soltanto questo è il nichilismo: aver afferrato il proprio nul­
la come una preda, come un riparo contro la vacuità. Ma il saggio
sta nel dolore senza trovare in esso alcun riparo, alcuna ragione: sta
nella vacuità del dolore. Per questo scrivi, o Candrakirti: colui per
il quale anche la vacuità è un'opinione e perfino l'irrappresentabile
una rappresentazione, colui per il quale l'indicibile è una cosa sen­
za nome- questi a ragione i Vittoriosi lo diranno inguaribile. Egli è
come un compratore troppo ingordo che al venditore che dice: 'non
ti darò nessuna merce', risponde: 'dammi almeno la merce chiama­
ta nessuna'... Chi vede l'assoluto, non vede altro che la vacuità del
relativo. Ma precisamente questa è la prova più difficile: se, a que­
sto punto, non intendi la natura della vacuità e continui a fartene una
rappresentazione, allora cadi nell'eresia dei grammatici e dei nichi-
123

listi: sei come un mago morso dal serpente che non ha saputo affer­
rare. Se, invece, pazientemente dimori nella vacuità della rappresen­
tazione, se non te ne fai alcuna rappresentazione, questo, o beato, è
il cammino che diciamo di mezzo. Il relativo vacuo non è più rela­
tivo a un assoluto. L'immagine vuota non è più immagine di nulla.
La parola è, del suo essere vana, perfettamente colma. Questa pace
della rappresentazione è il risveglio. Colui che si desta, sa soltanto
di aver sognato, sa soltanto della vacuità della sua rappresentazione,
soltanto del dormiente. Ma il sogno, che ora ricorda, non rappre­
senta, non sogna più nulla".

II.

"Redeo de Perusio et de nocte profunda venio huc et est tempus


hiemis lutosum et adeo frigidum, quod dondoli aquae frigidae con­
gelatae fiunt ad extremitates tunicae et percutiunt super crura et san­
guis emanat ex vulneribus talibus. Et totus in luto et frigore et gla­
cie venio ad ostium, et postquam diu pulsavi et vocavi, venit frater
et quaerit: Quis est? Ego respondeo: Frater Franciscus. Et ipse dicit:
Vade, non est hora decens eundi; non intrabis. Et iterum insistenti
respondeat: Vade; tu es unus simplex et idiota; admodo non venis
nobis; nos sumus tot et tales, quod non indigemus te. Et ego iterum
sto ad ostium et dico: Amore dei recolligatis me ista nocte. Et ille
respondet: non faciam. Vade at loco cruciferorum et ibi pete. Dico
tibi quod si patientiam habuero et non fuero motus, quod in hoc est
vera laetitia et vera virtus et salus animae".
(Francesco non trova riparo nel non-riconoscimento, in nessun
caso l'assenza di identità può costituire una nuova identità. Egli si
ostina, piuttosto, a ripetere: sono Francesco, aprite! Qui la rappre­
sentazione non è trascesa attraverso un'altra, superiore rappre­
sentazione, ma solo attraverso la sua esibizione, il suo andare a fon­
do. Come soglia il nome insignificante - la soggettività pura - è
compreso nell'edificio della letizia).
Soglia
Kafka difeso dai suoi interpreti

Sull'inesplicabile circolano le più varie leggende. La più ingegnosa


- che è stata trovata dagli attuali guardiani del Tempio frugando fra
le vecchie tradizioni - spiega che, essendo inesplicabile, esso resta
tale in tutte le spiegazioni che se ne danno e se ne continueranno a
dare nei secoli. Proprio queste spiegazioni costituiscono, anzi, la
migliore garanzia della sua inesplicabilità. L'unico contenuto del­
l'inesplicabile- qui è la sottigliezza della dottrina- consisterebbe
nel comando - veramente inesplicabile -: "spiega!" A questo
comando non ci si può sottrarre, perché esso non presuppone nul­
la da spiegare, ma è esso stesso il solo presupposto. Qualunque cosa
tu risponda o non risponda alla sua ingiunzione - dunque anche il
tuo silenzio- sarà comunque significativo, conterrà comunque una
sp1egaz10ne.
I nostri inditi padri, infatti- i patriarchi- non trovando nulla da
spiegare, cercarono in cuor loro come potessero esprimere questo
mistero e non trovarono, per l'inesplicabile, nessuna espressione più
adeguata della spiegazione stessa. Il solo modo - essi argomentaro­
no- per spiegare che non c'è nulla da spiegare è di darne delle spie­
gazioni. Ogni altro contegno, compreso il silenzio, afferra l'inespli­
cabile con mani troppo maldestre: solo le spiegazioni lo lasciano
intatto.
Tra i patriarchi, che per primi formularono questa dottrina, essa
andava, però, inseparabilmente congiunta a un codicillo, che gli
attuali guardiani del Tempio hanno invece lasciato cadere. Esso pre­
cisava che le spiegazioni non sarebbero durate in eterno e che un
giorno, che chiamavano "giorno della Gloria", esse avrebbero posto
fine alle loro danze intorno all'inesplicabile.
Le spiegazioni non sono, infatti, che un momento nella tradi­
zione dell'inesplicabile: quello, appunto, che lo custodisce lascian­
dolo inesplicato. Prive di contenuto, le spiegazioni esauriscono con
questo il loro compito. Ma nel punto in cui, mostrando la propria
vacuità, esse lo lasciano andare, anche l'inesplicabile vacilla. Inespli­
cabili, in verità, erano soltanto le spiegazioni, e per spiegarle è stata
inventata la leggenda. Ciò che non era da spiegare è perfettamente
contenuto in ciò che non spiega più nulla.
Indice

7 Soglia

15 Idea della materia

19 Idea della prosa


23 Idea della cesura
27 Idea della vocazione

29 Idea dell'Unica

33 Idea del dettato


35 Idea della verità

39 Idea della musa


41 Idea dell'amore
43 Idea dello studio
47 Idea dell'immemorabile

II

51 Idea del potere


55 Idea del comunismo
59 Idea della politica
6I Idea della giustizia
63 Idea della pace
67 Idea della vergogna
7I Idea dell'epoca
73 Idea della musica
79 Idea della felicità
8I Idea dell'infanzia
85 Idea del giudizio universale

III

89 Idea del pensiero


9I Idea del nome
95 Idea dell'enigma
99 Idea del silenzio
I03 Idea del linguaggio I
I05 Idea del linguaggio II
I09 Idea della luce
III Idea dell'apparenza
II3 Idea della gloria
II? Idea della morte
II9 Idea del risveglio

125 Soglia
Finito di stampare nell'ottobre 2013
dalla Litografica Com di Capodarco di Fermo (Fermo)

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