Il 0% ha trovato utile questo documento (0 voti)
26 visualizzazioni29 pagine

FUMAROLI - L'umanesimo e La Crisi Contemporanea Dell'educazione

FUMAROLI_-_l'umanesimo_e_la_crisi_contemporanea_dell'educazione
Copyright
© © All Rights Reserved
Per noi i diritti sui contenuti sono una cosa seria. Se sospetti che questo contenuto sia tuo, rivendicalo qui.
Formati disponibili
Scarica in formato PDF, TXT o leggi online su Scribd
Il 0% ha trovato utile questo documento (0 voti)
26 visualizzazioni29 pagine

FUMAROLI - L'umanesimo e La Crisi Contemporanea Dell'educazione

FUMAROLI_-_l'umanesimo_e_la_crisi_contemporanea_dell'educazione
Copyright
© © All Rights Reserved
Per noi i diritti sui contenuti sono una cosa seria. Se sospetti che questo contenuto sia tuo, rivendicalo qui.
Formati disponibili
Scarica in formato PDF, TXT o leggi online su Scribd
Sei sulla pagina 1/ 29

1

2
ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI

MARC FUMAROLI
de l’Académie française

L’UMANESIMO E LA CRISI CONTEMPORANEA


DELL’EDUCAZIONE

NAPOLI MMVI
NELLA SEDE DELL’ISTITUTO

3
Traduzione di Anna Buongiovanni

© 2006 Istituto Italiano per gli Studi Filosofici


Napoli, Palazzo Serra di Cassano
Via Monte di Dio, 14
www.iisf.it

4
Secondo l’insegnamento di Eugenio Garin, l’essenza
dell’umanesimo, delle litterae humaniores, delle lettere che
ci rendono più umani, risiede in un programma di educa-
zione. E tale programma è fedele alla paideia dei Greci,
all’institutio oratoria dei Romani, a quello delle Scuole di
Chartres del XII secolo e della Villa giocosa di Vittorino
da Feltre nel XV secolo: è quindi un programma fondato
sullo studio degli autori classici. L’Avvocato Gerardo Ma-
rotta e l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli
combattono affinché quest’idea di educazione umanista,
oggigiorno contestata e rovinata da più parti, torni ad es-
sere l’idea europea dell’educazione. Condivido questo im-
pegno.
Iniziamo domandandoci: che cos’è un autore classico?
Perché mai da Quintiliano sino ai giorni nostri, l’educa-
zione ha presupposto la lettura e lo studio dei classici?
Perché, dopo circa mezzo secolo, una tendenza generaliz-
zata ha improvvisamente marginalizzato e sempre più di-
sprezzato questa tradizionale educazione dello spirito, del-
l’immaginazione e della sensibilità attraverso i classici, re-
legandone lo studio a seminari di specialisti? Dovremmo
forse credere di aver scoperto ad un tratto e grazie ai con-

5
cetti di “cultura e comunicazione” una panacea sostitutiva
dell’educazione dei giovani spiriti attraverso i classici, di-
venuti di colpo obsoleti nelle nostre democrazie commer-
ciali?
Il ridursi dello spazio che, nei loro studi, i giovani
destinano ai classici è parallelo al contrarsi del tempo che
gli adulti dedicano alla lettura dei libri in generale; un
fenomeno, questo, registrato dalle case editrici un po’ ovun-
que in Europa. La comprensione dei capolavori dell’arte
europea antica e, pertanto, l’interesse che il pubblico nu-
tre nei suoi confronti vengono sminuiti dall’ignoranza del-
la mitologia e della storia sacra biblica e cristiana, le quali
hanno, così spesso, rappresentato un fecondo terreno di
ispirazione. I conservatori dei Musei si limitano ad osser-
vare questo dato. La radice dell’impoverimento della me-
moria simbolica affonda nella scarsa e limitata considera-
zione che l’educazione scolastica riserva oramai ai classici.
L’articolo di giornale diventa lo sforzo più intenso che si
possa richiedere al lettore, dal momento che la clip, l’sms,
il rock in sottofondo dell’iPod, la televisione hanno quasi
già del tutto soppiantato il libro.
La marginalizzazione dei classici nell’educazione, che
spiega questa diminuzione della memoria e dell’attenzio-
ne, è soprattutto la conseguenza del trionfo di una anti-
educazione estremamente precoce e generalizzata: alludo
al fatto che, sin dalla prima infanzia, la mente si impregna
delle scarne e rumorose immagini dello zapping televisivo.
Lo schermo della televisione diventa la nuova balia, prov-
videnziale presenza dei focolai domestici oramai divisi o
di genitori trattenuti dal lavoro lontano da casa: queste
immagini preconfezionate ostacolano il naturale sviluppo
dell’immaginazione, erodono, d’un sol colpo, la capacità di

6
concentrazione, il senso della realtà ed inaridiscono la di-
mensione del gusto individuale, in una fase che precede
l’intervento della scuola. È un fenomeno che i pediatri
costantemente rilevano.
Il raccoglimento che richiede la lettura di un vero li-
bro e la concentrazione dello sguardo o dell’udito solleci-
tati da un capolavoro artistico diventano difficili da otte-
nere in bambini precocemente esposti a questa anti-scuo-
la, la quale è anche una anti-natura. Non sorprende che le
produzioni di quella che viene opportunamente definita
“arte contemporanea” siano racchiuse nel quadro fiacco ed
angusto originato dalla percezione passiva televisuale: tali
opere non sono create per essere contemplate, meditate,
conservate o memorizzate; si accontentano di sollecitare
occasionalmente la curiosità dei loro disincantati spettato-
ri, prima di passare di moda. Sin dal 1936, Joseph Roth si
chiedeva profeticamente: “Dove andremo, se cominciamo
a fabbricare, con materiali privi di valore, oggetti che sem-
brano averne uno?”
Il regime culturale comunicazionale nel quale siamo
immersi non è immune da “danni collaterali” estremamente
gravi e dovuti tanto all’esercizio liberale della democrazia,
quanto all’indipendenza di giudizio dei suoi cittadini ed al
livello delle produzioni dello spirito. Sarebbe opportuno
affrontare tali questioni in maniera diretta: è, infatti, sol-
tanto a questa condizione che possono prospettarsi solu-
zioni correttive.
Per cogliere l’ampiezza del danno, dobbiamo in pri-
mo luogo intenderci sulla definizione delle parole, in pri-
mis, della parola “classico”. Da francese quale sono, il mio
primo passo consiste nel consultare il dizionario canonico
della lingua francese, quello di Emile Littré. Alla voce

7
“classico” leggo la seguente definizione: “un autore studiato
dalle classi”; il che può sembrare assurdo oggigiorno, ma
non lo era, di certo, nella Francia di appena trent’anni fa.
Gli autori che venivano di volta in volta studiati alle ele-
mentari ed alle medie – La Fontaine, Molière, Corneille,
Racine, Voltaire, Diderot, Hugo, Balzac, Baudelaire, Flau-
bert – erano stati approvati dall’unanime giudizio di varie
generazioni. Erano dunque considerati “modelli”, ai quali
si riconosceva “autorità” in materia di lingua, di stile, di
conoscenza dell’animo umano, secondo le precisazioni di
Littré. Analogo discorso valeva per Terenzio, Cicerone,
Virgilio e Orazio per lo studio del latino alle medie ed al
liceo, per Omero, Isocrate, Demostene e i Tragici per lo
studio del greco e per Shakespeare, Jane Austen, Dickens
per lo studio della lingua inglese. I classici europei, i quali
avevano a loro volta una grande familiarità con i classici
latini e greci divenivano, a giusto titolo, indispensabili per
una esatta comprensione di quelli.
Nessun autore del XX secolo si inscrive in questo ca-
none. Aperta al mondo simbolico della letteratura, la filiera
educativa di ascendenza umanista – quella che rivestiva
maggior prestigio ed attrattiva – distoglieva lo sguardo dalla
“realtà” contemporanea, o suggeriva, comunque, di osser-
varla a una rispettosa distanza. Tale atteggiamento le è stato
aspramente rimproverato. I nostri maestri di allora non
pensavano che scopo della migliore educazione fosse quello
di immergere fanciulli ed adolescenti nel tempo presente e
nei suoi specchi. A loro avviso, l’educazione doveva sempli-
cemente tendere ad offrire ai giovani spiriti, ancora vacil-
lanti di fronte all’affaccendarsi del mondo culturale-comu-
nicazionale, comprovati punti di riferimento e parametri di
gusto che avrebbero guidato, senza vincolarlo, il loro perso-

8
nale giudizio, prima dell’ingresso nella vita pratica. Questo
tipo di educazione incentrata sullo studio dei classici corri-
sponde alla definizione aristotelica della scholé, l’età fugace
dell’ozio dedicato allo studio, nel corso della quale provve-
dere lo spirito di quelle abitudini e di quelle risorse, che
rischiareranno l’età adulta dedicata agli affari e addolciran-
no l’età matura e la malinconia che l’accompagna.
Gli studi superiori lasciavano, a quanti ne avessero la
vocazione, la più ampia facoltà di studiare materie speciali-
stiche, destinate all’apprendimento di un mestiere o di una
professione. L’articolo del Littré contiene una rubrica “Eti-
mologia”, la quale ben rivela le origini dell’educazione let-
teraria che, essendo nato in tempo, io ho avuto la fortuna
di ricevere prima dell’avvento dell’era culturale-comunica-
zionale. Classicus – apprendiamo dal Littré – qualifica, in
senso letterale, quanto appartiene alla classe superiore del-
l’esercito, vale a dire agli ufficiali; in senso figurato, tale
parola appare nelle Notti attiche di Aulo Gellio, racconto
del viaggio e delle conversazioni tra sapienti svoltesi su di
un battello, nel Mediterraneo del II secolo della nostra era.
Aulo Gellio qualifica gli autori “di prima classe”, non prole-
tarii. Penetra così nella lingua latina la nozione di capolavo-
ro classico inventata in greco ad Alessandria, e di cui lo
Pseudo-Longino fa, nel suo trattato Del sublime, ad un
tempo il ceppo originario di ogni alta produzione dello spi-
rito e la pietra di paragone di una educazione alla grandez-
za dell’anima ed alla libertà, nelle epoche di asservimento e
di decadenza.
Abbandoniamo per un istante il mondo dell’educazio-
ne per addentrarci in quello dell’invenzione letteraria. L’au-
tore alessandrino del trattato Del sublime non li scinde: la
genesi del capolavoro come semplice elevazione dello spi-

9
rito presuppone l’essere impregnati dei capolavori anteriori.
Per limitarmi ad un esempio francese: sono occorsi classi-
ci del calibro dei Commentari di Cesare e delle Memorie
di Filippo di Commynes per rendere fertile il genere fran-
cese delle memorie; mentre è stato necessario che Saint-
Simon e Chateaubriand diventassero essi stessi classici,
affinché il genere delle Memorie, innestandosi su quelli
dell’autobiografia e del romanzo, approdasse allo straordi-
nario successo della Ricerca del tempo perduto. Nel perio-
do intermedio è non di rado accaduto che le memorie di
non professionisti fossero elevate al rango di capolavori
letterari, molto tempo dopo la morte dei loro autori. Il
punto è che questi ultimi, impregnati di classici del gene-
re, avevano intessuto le loro personali ed originali varia-
zioni su una trama formale, su motivi e situazioni già spe-
rimentate, che avevano guidato la ricerca della loro retro-
spezione. Più un’opera letteraria si avvicina alla “prima
classe”, più antica ne è l’origine e più sfogliato ne sarà il
palinsesto: gli schemi simbolici e formali dei classici ante-
riori si dipanano a mo’ di filigrana sotto il nuovo testo.
La quercia dei classici, nell’accezione di Aulio Gellio,
costituisce la letteratura, il suo spazio peculiare, l’aria che
respira, il laboratorio dove opera, l’oratorio in cui trova
espressione quel tipo di gioia che essa sola è in grado di
donare. È attraverso questa aristocrazia dei capolavori,
trionfatori del tempo, che essa affranca gli autori ed i lettori
dai vincoli del tempo presente. È da queste vette che rag-
giunge l’universale: quando viene colta da un autore o da
un lettore, la convergenza dei classici consente di accedere
ad un luogo dove le frontiere, le credenze, i pregiudizi di
parrocchia o dell’epoca non ingannano più lo sguardo. Da
questo punto sopraelevato di contemplazione, si ottiene una

10
percezione più nitida di se stessi, come del fenomeno uma-
no in generale. Aver potuto intravedere, sin dalla giovane
età, a scuola, questo orizzonte, sul cui sfondo si colora di
significato la vita stessa, con le sue sorprese ed i suoi dolori,
rappresenta, ad un tempo, un lusso ed una bussola che,
oggi, rimpiangiamo di veder svanire attorno a noi. Charles
Péguy ne ha magnificamente evocato l’aurora: “L’entrata in
prima media, a Pasqua, significò per me lo stupore di fron-
te alla novità del rosa, rosae, l’apertura a tutt’altro mondo,
un mondo totalmente diverso; ecco ciò che si dovrebbe dire
e che, tuttavia, mi spingerebbe ad indugiare nella tenerezza
dei ricordi”. Ora, questo “tutt’altro mondo” che, per il tra-
mite dell’antica lingua latina, si schiude al bambino Péguy,
ancora vergine di televisione, rimanda ad una dimensione
sostanzialmente e profondamente diversa dal mondo delle
attualità immediate, sulle quali l’attuale pedagogia pretende
di aprire gli occhi dei fanciulli.
Alle indicazioni tratte dal Littré, aggiungerei alcune
glosse che mi paiono necessarie nell’attuale contesto: se è
vero che il capolavoro conferisce al suo autore una gloria
duratura, che lo colloca nella classe superiore degli autori
– per l’appunto i classici – è non di rado accaduto che il
suo o i suoi capolavori, non ancora “classici”, lo abbiano
nobilitato da un punto di vista sociale, quando era ancora
in vita. Fu questo il caso di Shakespeare, di Péguy e di
tanti altri autori classici venuti al mondo da oscure fami-
glie e distintisi in virtù della loro educazione, del loro ge-
nio e del loro talento. Del resto, se è vero che, da un lato,
l’educazione liberale basata sui capolavori classici nutre,
avvalora e nobilita lo spirito di quanti la ricevono, accade
anche, dall’altro, che, parallelamente in ambito sociale, essa
nobiliti, elevandoli alla classe dei letterati, quanti proven-

11
gono dalla classe degli illetterati. La mobilità morale e
sociale, che l’educazione attraverso i classici introduce tanto
nei ranghi degli autori destinati a divenire classici, quanto
nei ceti degli studiosi di classici, è andata avanti, senza
destare la minima obiezione, nel corso dei secoli, dai tem-
pi della paideia dei Greci e dell’institutio oratoria dei Ro-
mani, sino alle scuole monastiche del Medioevo, le quali
consentivano ai figli dei contadini di diventare eminenti
teologi e predicatori, se non addirittura Papi, passando per
le scuole degli umanisti italiani del XV secolo, le Univer-
sità di Oxford e di Cambridge, le Accademie protestanti
del continente e le Università gesuite della cattolicità.
Queste società, susseguitesi nel corso dei secoli, furono, sia
pure con modalità diverse tra loro, fondamentalmente ari-
stocratiche ed imperniate su di una concezione gerarchica
e qualitativa del mondo. Si uniformarono tutte indistinta-
mente – all’infuori di qualche isolata eccezione che con-
fermava la regola – ad un’educazione basata su di un ca-
none dei classici selezionato nell’Antichità e che schiude-
va ai figli dei contadini, dei mercanti e degli artigiani l’ac-
cesso a funzioni e ad un mondo sociale superiori.
Questa tradizione risalente alla paideia ed alla scholé
ateniesi non fu interrotta nemmeno dalla rivoluzione cri-
stiana, che proclamò l’eguaglianza di tutte le anime di-
nanzi a Dio, di quelle degli schiavi come di quelle degli
uomini liberi. La scuola cristiana salvò il canone dei clas-
sici stabilito ad Alessandria. È ancora più sorprendente
che la Rivoluzione francese – dopo aver rovesciato l’ari-
stocrazia e proclamato l’eguaglianza di tutti i cittadini
davanti alla legge – non abbia mai rimesso in causa il
canone classico dell’educazione, secondo il quale gli stes-
si rivoluzionari erano stati educati. Ancora sul finire del

12
XIX secolo, quando la III Repubblica in Francia trionfò
definitivamente sulla monarchia e l’aristocrazia, la rifor-
ma repubblicana dell’insegnamento pubblico, vigorosamen-
te operata da Jules Ferry a seguito di una capillare in-
chiesta storica sui sistemi educativi conosciuti sin dall’an-
tichità, elargì senza esitazioni la base primaria della pira-
mide educativa a tutti i cittadini, senza tuttavia rimettere
in questione, al grado successivo dell’istruzione, né la
progressiva ascensione degli studenti più brillanti dagli
studi umanistici alla storia letteraria ed alla filosofia, né,
tantomeno, il valore dello studio dei classici francesi, greci
e latini, quale nutrimento stesso dell’immaginazione, del
senso morale e dell’arte dello scrivere. Atteso il numero
relativamente esiguo di quanti possedevano il diploma, la
maturità liceale nella III ed anche nella IV Repubblica
corrispondeva all’attuale comunità delle lettere classiche.
Emile Zola, borsista dello Stato, e Cézanne, figlio di un
banchiere, entrambi illustri latinisti ed eminenti letterati,
erano semplici diplomati. L’irreversibile conquista della
Rivoluzione, l’eguaglianza civile, sembrava essere stata
tutt’altro che vulnerata dalle differenze di attitudini allo
studio. Accessibile gratuitamente a tutti al livello delle
classi elementari, l’insegnamento pubblico, con la sua
selezione ed il suo orientamento articolato in più livelli,
sembrava ai più accaniti repubblicani un ideale alambic-
co, dove armonizzare l’eguaglianza legale ed il naturale
gioco delle vocazioni, delle ambizioni e dei talenti. Il fatto
che la nobile filiera di quella educazione repubblicana
continuasse ad identificarsi con lo studio precoce dei clas-
sici non sembrava scalfire il concetto di eguaglianza.
Apro qui una parentesi: nonostante gli autori classici
siano, per tradizione, suscettibili delle interpretazioni più

13
erudite ed originali, il proprium delle loro opere consiste
nel saper offrire ai giovani spiriti, quando siano corretta-
mente guidati, una forma nitida e immagini forti che si
inscriveranno nelle loro menti. Le società aristocratiche
hanno spesso prodotto capolavori letterari e opere d’arte
in grado di toccare la sensibilità di animi semplici, come
di spiriti forti, laddove le avanguardie moderniste, esoteri-
che e fuorvianti – talvolta per anticonformismo, tal’altra
per una sorta di sfida lanciata alla folla – richiedono un
intervento molto più consistente di glosse e di scienza.
Risulta molto più ardua una lettura approfondita del The
Waste Land che non di un’ecloga di Virgilio o anche di un
sonetto di Baudelaire. L’Orinatoio di Duchamp o i paesaggi
surreali di Yves Tanguy richiedono uno sforzo di compren-
sione estremamente più impegnativo che non una vergine
del Raffaello o l’Atteone di Tiziano. In entrambi i casi, la
ricompensa per lo sforzo compiuto appare assolutamente
sproporzionata.
I nostri maestri non ignorano i tardi capolavori non-
classici del modernismo, preferendo tuttavia rimandare ad
un’epoca successiva la loro scoperta, che acquisterebbe un
senso ed una forza soltanto sullo sfondo dei classici. Og-
gigiorno, la pedagogia della lingua materna e della sua
espressione scarta lo stile dei classici per “aprire” repenti-
namente le porte a ciò che, opportunamente, viene defini-
to “la vita contemporanea”: si è dunque condannati ad una
scelta tra l’esoterismo dei capolavori modernisti e la mo-
notonia della stampa quotidiana, del cartone animato, del-
l’universo audiovisivo. La scelta cade naturalmente più
volentieri sulla seconda opzione. E tuttavia, né l’una né
l’altra, né le due unitamente considerate, possono offrire
alla gioventù quegli universali dell’immaginario e quei ri-

14
ferimenti del gusto, che fecondano lo spirito, educandolo,
per tutta la vita, “al naturale”, secondo la celebre defini-
zione di Stendhal.
La storia dell’educazione e dello spazio privilegiato
che, al suo interno, occupano i classici della letteratura,
della storia e della filosofia ha senz’altro conosciuto dispute
ardenti. La più antica risale alla fine del XVII secolo, quan-
do, nel solco tracciato dalla nuova scienza, scoppiò, dap-
prima a Parigi per in seguito estendersi a tutta Europa, il
dibattito tra Antichi e Moderni. I sostenitori degli Antichi
si battevano perchè l’educazione continuasse ad essere di-
spensata nella lingua classica, il latino di Cicerone e di
Virgilio, ed a fondarsi sullo studio del canone di autori
antichi ristabilito dagli umanisti del Rinascimento; un ca-
none indiscutibilmente fecondo per gli autori moderni, da
Petrarca a Molière. Adepti dell’idea di progresso attestata
dalla nuova scienza e dalle sue applicazioni tecniche, i
Moderni ne estendevano i principi alle lingue, alle lettere
ed alle arti. Auspicavano, pertanto, che l’educazione dei
giovani avvenisse in lingua vernacolare e secondo un ca-
none di “classici moderni” del XVII secolo, che reputava-
no superiore ai loro modelli antichi.
In effetti, nessuno dei due partiti riportò la vittoria,
né in seno ai programmi scolastici, né nella vita adulta dello
spirito. A tutti i livelli, l’insegnamento europeo si espresse
generalmente sempre più in lingua vernacolare, per quan-
to sino al XX secolo, in Francia e in Europa, lo studio dei
classici latini e greci, nel testo originale come nella sua
traduzione, sia rimasto, più che mai, il pilastro della for-
mazione superiore degli spiriti letterati e civilizzati. Le
specializzazioni erudite e scientifiche non intervenivano che
in una fase successiva a questa precoce iniziazione agli studi

15
umanistici. I grandi ed i piccoli romantici – Hugo o Ner-
val, Shelley o Keats – erano esperti ellenisti e latinisti; ana-
logo discorso vale per i grandi scienziati dell’epoca, da
Cuvier a Darwin.
Più grave, almeno in apparenza, quel tardivo rifiuto,
innestato sulla disputa tra Antichi e Moderni, espresso da
C. P. Snow nella sua celebre conferenza “sulle due cultu-
re”, tenutasi a Cambridge nel 1945. Sino ad allora, non era
stato rilevato alcun tipo di incompatibilità tra un insegna-
mento superiore accentuatamente letterario e classico e le
specializzazioni scientifiche. Tuttavia, Snow voleva legger-
vi una contraddizione e persino un grave handicap per lo
sviluppo dello spirito scientifico. Se accettiamo l’impiego
della parola “cultura”, che iniziava a diffondersi in quel-
l’epoca, il discorso accademico di Snow, dopo il quale
molto inchiostro sarebbe stato versato, lì per lì, non intac-
cò il compromesso pedagogico del XX secolo. Quest’ulti-
mo era stato teorizzato da Giambattista Vico in occasione
della disputa tra Antichi e Moderni, assegnando alle lette-
re classiche una funzione assolutamente irrinunciabile:
quella di formare i giovani nella loro età più ricettiva,
educandone l’immaginazione, il gusto, lo spirito, i princi-
pi morali, la conversazione civile; le scienze esatte, tese a
sviluppare elevate facoltà di natura specialistica ed astrat-
ta, non erano, di per sé stesse, atte a plasmare una forma
suscettibile di essere interiorizzata, a livello individuale, né
dall’uomo morale, né dall’uomo sociale.
Quale rivoluzione senza precedenti è dunque inaspet-
tatamente intervenuta perché i classici, sostrato originario
delle umanità civilizzate – che né la rivoluzione cristiana,
né quella francese avevano potuto erodere – si ritrovasse-
ro – in Francia come in ogni altra parte d’Europa – ad

16
essere stati, in pochi decenni, sostanzialmente marginaliz-
zati e mortificati nei programmi dell’istruzione scolastica,
disprezzati ed ignorati dall’opinione pubblica, confinati in
discipline specialistiche, a loro volta ansiose di trovare una
propria legittimazione, fregiandosi del nome di “scienze
umane”, o esprimendosi a nome della “diffusione cultura-
le”? Nell’arco di questo mezzo secolo torrenziale, lo stra-
ordinario proliferare dei concetti gemelli di “cultura” e di
“comunicazione” – dissociati da quello di “educazione”,
ovvero manifestamente assunti come vittoriosi rivali di
questa – ha interamente ricoperto e divorato il copioso
lessico degli studi umanistici. Le lettere, le arti, la civiltà,
il gusto, con i richiami e i riferimenti certi che ritrovavano
nei classici antichi e moderni, con il patrimonio morale e
simbolico della civiltà che rinnovavano e traghettavano di
secolo in secolo, sono stati letteralmente lasciati naufraga-
re tra noi, con un’efficacia forse meno brutale della rivo-
luzione culturale cinese e di quella cambogiana, ma, dopo
tutto, altrettanto radicale. Questa rivoluzione culturale e
comunicazionale che è all’opera nelle nostre società ricche
e sviluppate combatte, con straordinaria intolleranza ed in
nome della tolleranza, qualsivoglia gerarchia di ordine spi-
rituale, morale e estetico, ovvero l’essenza stessa dell’edu-
cazione. Eppure, è l’etimologia a restituirci, ancora una
volta, il significato profondo di questa parola. Educere si-
gnifica condurre fuori dall’ignoranza, dalla barbarie, dalla
brutalità, per iniziare al giudizio e ai costumi civilizzati e,
per quanto possibile, a quella vita libera, creativa e visio-
naria dello spirito che, sin dalle origini dell’Europa, ha
trovato nello studio dei capolavori classici la propria hu-
mus. L’ispirazione livellatrice di questo fondamentalismo
culturale e di questo conformismo comunicazionale, che

17
può lasciare attoniti per raffinatezza tecnologica e rumore
mediatico, non si limita semplicemente a combattere quan-
to residua dell’educazione classica, né a distruggere quel
che rimane delle avanguardie moderniste, il cui fosco eli-
tarismo appare oggi del tutto fuori luogo. Dietro i colori
di un relativismo post-moderno e conquistatore, essa pone
in grave pericolo la nostra capacità di rispondere a testa
alta a un altro fondamentalismo e conformismo ostile, la
cui aggressività di massa si nutre della convinzione che,
dietro la nostra parvenza di ricchezza, scienza e potenza
militare, oramai non mastichiamo altro che nichilismo
morale confusamente intriso di libertà e del kitsch battez-
zato “arte contemporanea”. Non inganniamoci dunque:
dietro la guerra che ci viene dichiarata, si annida una guerra
civile che dichiariamo a noi stessi e la cui posta in gioco
risiede nella nostra stessa capacità di resistenza e di com-
prensione intelligente. Come siamo giunti a questo?
Ancora una volta, chiariamoci sul senso delle parole.
La parola “cultura”, dal latino colere, “lavorare la terra per
renderla feconda”, è stata riferita, nel latino classico, alle
cose dello spirito, solo nell’espressione cultura animi, “cre-
scita interiore e personale attraverso lo studio dei classici
e la mediazione degli esempi migliori”. L’attuale prolifera-
zione ipertrofica ed egualitaria della parola “cultura” di-
scende dall’impiego che se ne fa in antropologia nella lin-
gua inglese: qui, “cultura” sta ad indicare tutto ciò che i
popoli privi di scrittura hanno inventato per piegare la
natura, dalla metallurgia ai riti magici. Applicata alle no-
stre società, tale parola si è trasformata in un gustoso en-
zima che si associa indistintamente a tutto, cultura d’im-
presa, cultura giovanile, cultura tecnologica, cultura gay,
cultura gastronomica; tutte egualmente collocate sullo stes-

18
so piano delle culture etniche, “la cultura giudaico-cristia-
na” o la “cultura scientifica”. Questa parola polivalente,
adottata e moltiplicata dalle industrie e dall’ingegneria dette
culturali ha soppiantato il concetto di “civiltà”, il cui sino-
nimo e rivale tedesco era Kultur, che, come il concetto di
educazione – in tedesco Bildung –, presuppone la suddivi-
sione dei criteri, dei rimandi, dei riferimenti incontestabi-
li, ancorché ciascuno ne offra poi liberamente una sua
personale interpretazione.
Per quanto riguarda la parola communicatio, nel suo
originario significato latino, essa designa la figura retorica
attraverso la quale l’oratore chiede, o fa chiedere all’udi-
torio che cosa ne susciti l’ammirazione o il disprezzo. Essa
presuppone il forum e la sofistica del forum. Per extenso,
significa anche “inserimento in una comunità”. È soltanto
nell’espressione communicatio sermonis che acquista il si-
gnificato intimo e privato di scambio di propositi, di con-
versazione tra amici o familiari. Non è allora un caso se,
oggi, ritroviamo questa parola nuovamente utilizzata per
designare non tanto le tecnologie di massa vieppiù sofisti-
cate, bensì l’ideologia che si cela dietro il fascino e l’inti-
midazione esercitata da quelle.
Le moderne tecnologie della comunicazione sono stru-
menti che possono rivelarsi di estrema utilità soltanto quan-
do vengano azionate da spiriti solidamente strutturati su
basi non-tecnologiche, vale a dire dotati di quello che
Montaigne definiva un “retrobottega”. Tuttavia, la propa-
ganda svolta dai mercanti e l’utilizzo da parte di soggetti
istrionici fa sì che queste tecnologie siano trasformate in
mere protesi sostitutive dello spirito libero e del suo natu-
rale esercizio. Per tale via, pur persuadendolo del molti-
plicarsi delle sue potenzialità, riducono lo spirito ad uno

19
stato di inerzia. Assunte in tale perversa prospettiva, esse
generano un secondo mondo, il mondo mediatico che
immerge lo spirito nella verbosa e vertiginosa euforia del
vuoto, signoreggiando anche la vita privata. Quest’ultima
– vera conquista della libertà civilizzata – viene così stra-
volta e riversata in una sfera pubblica ipertrofizzata, dove
la baraonda si è oramai sostituita all’argomentato dibattito
che le era valso, un tempo, le simpatie di un Jürgen Ha-
bermas, autorizzando le più rozze manipolazioni e gli slanci
più irrazionali. Soltanto i disorientamenti collettivi provo-
cano la fusione delle società multiculturali.
Lungi dall’universalizzare il legame politico ed il lega-
me sociale – come pretendono di fare i suoi ingenui o in-
teressati teorici – l’impiego massiccio delle tecnologie del-
la comunicazione da parte di soggetti che ne ignorano to-
talmente i meccanismi sottostanti non si accontenta sem-
plicemente di abolire la conversazione civile e la corrispon-
denza, le due sorgenti cui le lettere classiche attingono il
loro vitale nutrimento. Sovvertimento della democrazia li-
berale, esso fa parlare i suoi rappresentanti eletti, molti-
plicando la presenza, in seno alla compagine politica, di
grumi di comunità “culturali” ripiegate su se stesse, ostili
e gelose le une delle altre; rendendole nel contempo, ca-
paci, a fronte di determinati eventi traumatici, di coagu-
larsi in potenti conformismi compassionevoli, o esagitati,
o ancora animati dall’odio.
La rivoluzione culturale e comunicazionale, che trava-
glia le nostre vecchie società sviluppate, produce effetti
incontrollabili tanto sulle nuove generazioni sottoeducate
da un punto di vista scolastico, quanto sulle comunità et-
nico-religiose non integrate che le ospitano, e, in misura
ancor più accentuata, sulle immense popolazioni poco svi-

20
luppate del resto del mondo; le quali, indignate dal pro-
cesso in atto, hanno nondimeno appreso a servirsene ener-
gicamente per smantellarlo. Nei nostri ranghi, al dogma del
relativismo delle culture – di tutte le culture oramai assi-
milabili le une alle altre – che si è sostituito all’idea di
educazione e di civiltà, questa rivoluzione culturale unisce,
logicamente, l’idolatria delle tecniche della comunicazione,
mezzi che eleva a scopi, massaggio che lascia credere un
messaggio, secondo l’espressione di Mc Luhan.
Due fonti indomite e violente, solo prima facie con-
trapposte, ma in realtà solidali, alimentano copiosamente
questa rivoluzione: l’una è la sete di guadagno, il greed,
assolutamente priva di scrupoli e che non conosce distin-
zioni nella sfera morale, del gusto e dell’interesse pubbli-
co, anche quando si provveda di ostentatori alibi umanita-
ri e culturali; l’altra è il risentimento sociale fomentato
dall’etica dell’egualitarismo radicale, un’etica che, oramai,
non si limita più – come un tempo il marxismo – a coaliz-
zare i poveri contro i ricchi, ma si rivolge, indistintamen-
te, agli “oppressi” di ogni specie: figli contro genitori,
uomini contro donne, sette contro sette, etnia contro et-
nia, illetterati contro letterati, ecc. in una sorta di capilla-
re guerra civile. La civiltà, la sua educazione, i suoi classi-
ci, i suoi studi umanistici vengono dipinti come un immen-
so abuso di potere, del quale ciascuno è più o meno vitti-
ma e che va integralmente rovesciato, attraverso iniziali e
minuziose prese di potere comunicazionale.
Lungi dallo sfuggire a questa rivoluzione, gli Stati Uniti
ne sono per molti versi l’avanguardia ed il modello. Tutta-
via si rivelano, rispetto all’Europa, più preparati a meta-
bolizzarla. Il greed è una passione che conoscono sin trop-
po bene, per non averlo già meticolosamente canalizzato

21
in norme di legge. Pur non ignorando il risentimento so-
ciale o l’egualitarismo, non teorizzano né l’uno, né l’altro
– se non entro i confini di taluni campus universitari –
compensandoli entrambi con la certezza, largamente con-
divisa, che, nella dinamica democrazia americana, la ric-
chezza e il successo non si negheranno mai a chi vi aspire-
rà con tenacia. Si accontentano di buon grado della coesi-
stenza di un’impressionante industria culturale e comuni-
cazionale di massa – sebbene il più delle volte “granulo-
sa” – con le oasi della civiltà e della ricerca disinteressata,
delle quali nessuno mette in causa il rigido elitarismo. Un
aspetto equilibra l’altro.
I francesi e, a mio avviso, molti Europei hanno una
percezione inesatta di questa democrazia utilitaristica coe-
rente con se stessa, la quale accetta la sua estrema diversità
interna, che ne costituisce anche la vitale risorsa, e non pro-
va alcuna vergogna né della sua passione del guadagno, né
delle sue sperequazioni di fatto. L’Europa e la Francia sono
depositarie di un lungo passato monarchico ed aristocrati-
co, della cui eredità artistica vanno fiere, ma del quale dete-
stano, sino al punto di odiarle, le vere od immaginarie trac-
ce sociali. In Francia, eminenti sociologi hanno studiato
quest’odio, elaborandone una teoria che è naturalmente di-
venuta il credo dei nuovi ricchi della comunicazione della
sfera mediatica. Sin dagli anni ’80, il progressivo ingresso
della Francia e dell’Europa nell’era culturale comunicazio-
nale ha senza alcun dubbio acuito il risentimento sociale
verso la ricchezza ma, soprattutto, verso tutte le forme an-
cora esistenti del patrimonio simbolico.
Quindici anni or sono, in un saggio critico, lo Stato
culturale, ho tentato di illustrare come l’istituzione, in Fran-
cia, sin dal 1959, di un Ministero degli affari culturali, lungi

22
dall’aver arginato i “danni collaterali” della rivoluzione cul-
turale-comunicazionale, in quei tempi appena iniziata – si
era ricongiunta alle originarie intenzioni del suo primo tito-
lare, André Malraux. Il Ministero affidato al celebre scritto-
re era formato da antiche direzioni amministrative, le Belle
Arti, i Musei nazionali, i Teatri e l’Opera, i Monumenti sto-
rici, le Biblioteche e gli Archivi nazionali, che erano stati,
sino ad allora, annessi al Ministero dell’Istruzione. Gli “af-
fari culturali” venivano, d’un sol colpo, collocati in una
posizione che rivaleggiava con il sistema dell’istruzione ere-
ditato dalla III Repubblica e detestato da Malraux. Per ri-
vestire di senso l’azione di questo nuovo Ministero, fatto di
pezzi e frammenti separati, occorreva un nuovo e comune
progetto, simbolicamente incarnato dalla creazione di una
Direzione inedita dello “sviluppo culturale”. Il progetto di
André Malraux, adepto di una terza via francese tra il co-
munismo sovietico ed il capitalismo americano era ad un
tempo elitario e modernista – il che corrispondeva ai suoi
gusti di scrittore e di critico dell’arte – e democratico e
comunicazionale, sebbene in un senso radicalmente oppo-
sto al mercato culturale e comunicazionale americano. Si
trattava di fare accedere “la maggior parte” dei francesi ai
capolavori dell’umanità, ed in particolare ai “capolavori del
modernismo”, ai quali l’autore della Voce del silenzio era
personalmente molto legato; ma il cui estremo elitarismo
non aveva sedotto, sino quel momento, in Francia che una
minoranza di intellettuali e di collezionisti illuminati.
Deliberata dallo Stato grazie ad una “consistente mag-
gioranza”, questa “comunicazione” doveva avvalersi di fon-
di pubblici e dell’intermediazione delle istituzioni pubbli-
che. Cattedrali ufficiali del modernismo artistico, questi
Enti della Cultura, di nuova creazione e disseminati su tutto

23
il territorio, avrebbero dovuto favorire il contatto tra ope-
re complesse – classiche e preferenzialmente anti-classiche
– ed il vastissimo pubblico che ne era stato sino a quel
momento escluso. E tutte le istituzioni ereditate dal passa-
to – Musei, Biblioteche ecc. – dovevano, più o meno a
lungo termine, trasformarsi in Enti della Cultura. Per tale
via, ci si proponeva di respingere la volgare cultura com-
merciale di massa ispirata al modello americano e di offri-
re al popolo francese una cultura “elitaria per tutti”, se-
condo la celebre definizione di uno dei nostri registi tea-
trali di Stato. Il progetto, che suscitò l’entusiasmo dei fran-
cesi, provocò una vasta eco di consensi in Europa.
A lungo andare, nonostante, nel 1981, fossero stati
raddoppiati gli stanziamenti di questo Ministero e malgra-
do l’aumento dei suoi funzionari e delle sue clientele arti-
stiche, il progetto si sgonfiò. In primo luogo, questo Mini-
stero era stato privato del controllo sui canali televisivi,
ovvero sulla più potente rete di comunicazione per il gran-
de pubblico. Nel 1959, iniziava appena a delinearsi l’im-
pero che la televisione avrebbe, di lì a poco, esercitato su
di un pubblico di tutte le età e di tutti gli ambienti. La
comunicazione culturale del Ministero – e dei suoi Enti del-
la Cultura – si rivelò ben presto incapace di competere con
reti televisive sempre più commerciali ed in contraddizio-
ne evidente con il suo programma “elitario per tutti”.
Guardando ai risultati dell’educazione del gusto del pub-
blico, costatiamo che la comunicazione ottenuta favoren-
do il contatto tra pubblico e opere culturali non si rivelò
contagiosa. Chi si giovò di questo ambizioso mecenate dello
Stato, foraggiato grazie al prelievo fiscale, fu in primis, il
pubblico formato di studenti, di professori, istitutori e ceti
medi letterati – il solo a non accontentarsi della televisio-

24
ne. Il “non-pubblico” – volendo usare l’espressione pro-
pria dei funzionari culturali – continuò a rimanere indiffe-
rente all’offerta ufficiale. Non soltanto il rimedio alla mass
culture kitsch del modello americano non aveva potuto
arginare il male, ma ne aveva addirittura generato un al-
tro: le istituzioni – quali le Biblioteche, i Musei, gli Archi-
vi – costrette a trasformarsi in altrettanti Enti della Cultu-
ra ed a fare sempre più comunicazione, hanno dovuto in-
fatti sacrificare a tale dovere una parte del tempo e del
silenzio, in passato destinati alla conservazione ed alla ri-
cerca disinteressata.
Negli Stati Uniti, è il MOMA di New York, un’istitu-
zione potente, ma privata, il cui raggio d’azione rimane,
nonostante tutto, alquanto circoscritto, ad aver convertito
al modernismo le élites della costa dell’Est e dell’Ovest. Il
pubblico americano, pago della sua gigantesca e vivace pop-
culture, è rimasto al di fuori di questa evangelizzazione
realizzata negli anni che vanno dal 1925 al 1960. In Fran-
cia, è un’amministrazione dello Stato, con le sue ramifica-
zioni presenti in tutti i paesi, ad essersi assunta con ritar-
do, nel 1959, il compito di avviare il processo di evange-
lizzazione, destinato, questa volta, alla popolazione nel suo
complesso. Ora che il grande commercio culturale-comu-
nicazionale e la sua sfera mediatica hanno in pugno il gran-
de pubblico francese – che Malraux e i suoi successori
avevano sperato di poter convertire ad una cultura di Sta-
to “elitaria per tutti” – il Ministero ed i suoi principali co-
adiutori, anch’essi convertiti al post-modernismo – sono al
traino del marketing, del management e delle industrie
culturali. Feste cittadine, finanziate con il prelievo fiscale,
tentano di associare lo spirito di fiera all’esposizione ed alla
spiegazione di opere “contemporanee” prodotte da un eser-

25
cito di sovvenzionati “manipolatori di plastica”. Il moder-
nismo elitario di Malraux ha dovuto cedere il passo ad un
post-modernismo populista ed ufficiale, non di rado peg-
giore dell’offerta commerciale proveniente dal mercato
culturale.
Osserviamo il risultato: opere destinate ad ammuffire
negli armadi dello Stato e notti di disordine, durante le
quali un pubblico più o meno “giovane” si “destruttura”
ulteriormente. L’intero edificio dell’amministrazione cultu-
rale, concepito per sottrarre i francesi alla commercializ-
zazione ed alla industrializzazione comunicazionale all’ame-
ricana, si è lanciato in una gara con questo mercato, senza
tuttavia possederne la duttilità, ma sposandone, più o meno
ipocritamente, la tendenza al kitsch standardizzato e di
massa. Ne consegue un inquinamento pianificato, dove le
oasi dedicate al gusto ed alla riflessione si fanno sempre
più rare.
Quali lezioni trarre da questo tentativo francese di
lasciare la cultura kitsch fuori dalle nostre frontiere, per
spingere il popolo a vivere nella presenza dei suoi capola-
vori, ieri classici e modernisti, oggi contemporanei e post-
moderni?
La prima lezione è che sarebbe stato preferibile im-
piegare tutti questi talenti e queste risorse economiche per
offrire agli studenti – i quali, oramai, affluivano in massa
alle scuole medie e superiori – istituzioni più ospitali e
differenziate, di dimensioni modeste ma di alta qualità,
riservando, a quanti tra loro ne avessero avuto la vocazio-
ne, il beneficio di studi classici tradizionali, sull’esempio
dei College of Liberal Arts statunitensi. Alle nostre nazioni
d’Europa occorrono, dotti e tecnici di prim’ordine – non
meno di una élite letterata. Non sarebbe d’altra parte pe-

26
regrino immaginare di poter reclutare, come spesso acca-
de al MIT, i secondi tra i primi. Necessitano altresì di
Fondazioni poste, nei limiti del possibile, ad una distanza
critica rispetto all’universo culturale e comunicazionale
commerciale, e dove si pratichi la ricerca disinteressata.
Sarebbe stato più opportuno non abbandonare le sta-
zioni radio, i canali televisivi pubblici, privati e sovvenzio-
nati da mecenati illuminati, al libero gioco della concor-
renza con le reti commerciali e riservare a un pubblico
mirato programmi meno destrutturanti e più ricchi da un
punto di vista formativo. Se esistevano già simili contrap-
pesi, perché non affidare al libero gioco della domanda e
dell’offerta il compito di provvedere al consumo culturale
e comunicazionale di massa? Dobbiamo salvare il salvabi-
le. Un tale sovvertimento di priorità presupporrebbe una
comunanza di vedute e un atteggiamento di solidale con-
senso verso l’autorità della Repubblica delle lettere; ed è,
senza dubbio in conferenze come quella di oggi, che que-
sto consensus bonorum può essere ottenuto.
Aggiungerei – senza, per questo contraddire, il mio
augurio – che, per quanto benefica possa rivelarsi l’azione
degli Stati, se ben orientata – e questo può naturalmente
accadere – nulla sostituisce il personale coraggio di non la-
sciarsi affascinare dai fenomeni di massa e dagli slanci con-
formistici dell’epoca. Nulla può eguagliare l’ostinato ardore
della riflessione, condotta da ciascuno secondo le proprie,
personali inclinazioni ed attitudini, quella luce verticale che
scende su di noi dal platonico cielo dei classici.

MARC FUMAROLI

27
28
Arti Grafiche «Il Cerchio»
Napoli

novembre 2006

29

Potrebbero piacerti anche