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Telmo Pievani, Mauro Varotto - Viaggio Nell'italia Dell'antropocene

Per farci riflettere sui rischi concreti a cui potremmo andare incontro, il filosofo ed evoluzionista Telmo Pievani e il geografo Mauro Varotto hanno immaginato come si trasformerà l’Italia proiettandoci, in maniera distopica, nell’anno 2786.
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Telmo Pievani, Mauro Varotto - Viaggio Nell'italia Dell'antropocene

Per farci riflettere sui rischi concreti a cui potremmo andare incontro, il filosofo ed evoluzionista Telmo Pievani e il geografo Mauro Varotto hanno immaginato come si trasformerà l’Italia proiettandoci, in maniera distopica, nell’anno 2786.
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Come ormai tutti purtroppo sappiamo, l’impatto dell’umanità sul pianeta sta producendo effetti

devastanti.
La realtà geografica che identifichiamo con l’Italia è stata nei millenni estremamente mobile per
ragioni tettoniche, morfogenetiche, climatiche, ma in ultimo anche antropiche e possiamo
dunque affermare, con rigore scientifico, che Homo sapiens sta contribuendo a cambiare il clima
e pertanto anche la conformazione della superficie terrestre: non è un fenomeno recente, ma non
era mai accaduto in tempi così rapidi e con conseguenze così vaste. Considerata questa inedita
accelerazione, non possiamo fare a meno di chiederci: come muterà l’aspetto del mondo nel
futuro prossimo? Se tutto continuerà ad andare per il verso sbagliato e non attueremo le giuste
misure per evitarlo, assisteremo allo fusione dei ghiacci perenni e all’innalzamento del livello dei
mari.
Per farci riflettere sui rischi concreti a cui potremmo andare incontro, il filosofo ed evoluzionista
Telmo Pievani e il geografo Mauro Varotto hanno immaginato come si trasformerà l’Italia
proiettandoci, in maniera distopica, nell’anno 2786. Esattamente 1000 anni dopo l’inizio del
viaggio in Italia di Goethe, comincia così il tour di Milordo a bordo del battello Palmanova
attraverso la geografia visionaria del nostro futuro: la Pianura padana sarà quasi completamente
allagata; i milanesi potranno andare al mare ai Lidi di Lodi; Padova e tantissime altre città
saranno interamente sommerse; altre ancora si convertiranno in un sistema di palafitte urbane; le
coste di Marche, Abruzzo e Molise assumeranno l’aspetto dei fiordi; Roma sarà una metropoli
tropicale; la Sicilia un deserto roccioso del tutto simile a quello libico e tunisino… Tappa dopo
tappa, al viaggio di Milordo farà da contraltare l’approfondimento scientifico che motiverà, con
dati e previsioni, le ragioni del cambiamento territoriale – illustrato, per l’occasione, con una
serie di mappe dettagliatissime create da Francesco Ferrarese. Uno scenario giudicato per fortuna
ancora irrealistico, ma utile per farci capire che l’assetto ereditato del nostro Paese non è affatto
scontato e che la responsabilità di orientarlo in una direzione o nell’altra è tutta nostra.
Telmo Pievani (1970), è docente di Filosofia delle scienze biologiche all’Università degli Studi
di Padova. Tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo: Libertà di migrare. Perché ci
spostiamo da sempre ed è bene così (Einaudi, 2016, con Valerio Calzolaio), Sulle tracce degli
antenati. L’avventurosa storia dell’umanità (Editoriale Scienza, 2016), Homo sapiens e altre
catastrofi (Meltemi, 2018), La Terra dopo di noi (Contrasto, 2019, fotografie di Frans Lanting)
Imperfezione. Una storia naturale (Raffaello Cortina, 2019) e Finitudine. Un romanzo filosofico
su fragilità e libertà (Raffaello Cortina, 2020). Dal 2018 è direttore del web magazine
dell’Università di Padova, “Il Bo live”. Collabora con “Il Corriere della Sera” e con le riviste “Le
Scienze” e “Micromega”.
Mauro Varotto (1970) è docente di Geografia all’Università degli Studi di Padova. Dal 2008
coordina il Gruppo Terre Alte del Comitato scientifico centrale del Club alpino italiano. Ha
pubblicato Il grigio oltre le siepi. Geografie smarrite e racconti del disagio in Veneto
(nuovadimensione, 2005, con Francesco Vallerani), La montagna che torna a vivere.
Testimonianze e progetti per la rinascita delle Terre Alte (nuovadimensione, 2013), Paesaggi
terrazzati d’Italia. Eredità storiche e nuove prospettive (Franco Angeli, 2016, con Luca
Bonardi), Montagne del Novecento. Il volto della modernità nelle Alpi e Prealpi venete (Cierre,
2017) e Montagne di mezzo. Una nuova geografia (Einaudi, 2020). Ha ideato e prodotto il
documentario Piccola terra (Premio CinemAmbiente 2012).
ISBN 978-88-5523-123-7
Copertina: Art director, Giacomo Callo
Editing, redazione: The Bookmakers, Studio editoriale
Progetto grafico e impaginazione: Studio grafico Aboca Museum, Sansepolcro (AR)
In copertina: L’Italia nell’Antropocene, mappa di Francesco Ferrarese
Il racconto del viaggio di Milordo è di Telmo Pievani, gli approfondimenti scientifici tra una
tappa e l’altra del viaggio sono di Mauro Varotto. Le cartografie e i dati statistici sull’Italia del
2786 sono a cura di Francesco Ferrarese.
Gli autori hanno deciso di donare i proventi ricavati dalla vendita del libro al Museo di Geografia
dell’Università di Padova per sostenere l’attività di educazione geografica sugli effetti del
cambiamento climatico.

Tutti i diritti sono riservati. Qualsiasi riproduzione, anche parziale e sotto qualsiasi forma, è
vietata senza l’autorizzazione dell’Editore.
Copyright © 2021 Aboca S.p.A. Società Agricola Sansepolcro (AR)

www.aboca.com
Sommario
Introduzione
1. VENETIA
Un campanile solitario
(Ben)venuti a Little Italy
2. TRANSPADANA
Il mare Padano
Ghiacciai estinti e sciate ricordo
3. AEMILIA
Il ritorno delle palafitte
Che tempo farà: il meteo degli estremi
4. ETRURIA
Verso Firenze, discutendo di Antropocene
Acqua dolce che cala, acqua salata che cresce
5. PICENUM ET SAMNIUM
Norvegia mediterranea
La grande risalita verso le terre alte
6. LATIUM
Mare Nostrum di Roma
Città come gironi infernali
7. SARDINIA
Un paradiso tropicale
Nuovi cibi o nuovi modi di produrre lo stesso cibo?
8. CAMPANIA
L’isola vulcano
Abitare tra ecotecnica ed ecotattica
9. APULIA
Le isole tropicali del sud
C’è deserto e deserto…
10. TRINACRIA
Nel sud africano
Take part! Facciamo la nostra parte
Bibliografia essenziale
Introduzione
L’idea di questo libro ha origine da una mappa realizzata nel 1940 dal geografo Bruno
Castiglioni per i tipi del Touring Club Italiano, oggi esposta nella Sala dedicata al Clima del
Museo di Geografia dell’Università di Padova, primo museo geografico universitario in Italia,
inaugurato nel 2019. Quella mappa rappresenta due Italie molto diverse: un’esile silhouette
peninsulare nella fase finale del Pliocene, risalente a 2,5 milioni di anni fa, quando la Pianura
Padana ancora non esisteva e al suo posto si trovavano le calde acque tropicali del golfo
pliocenico padano, e una più tozza conformazione corrispondente alla fase fredda dell’ultimo
massimo glaciale, intorno a 20.000 anni fa, quando la costa adriatica si chiudeva all’altezza di
Ancona.
Quella mappa ci ricorda che la realtà geografica che chiamiamo Italia è stata nei millenni
estremamente mobile, per ragioni tettoniche, morfogenetiche, climatiche, e in ultimo anche
antropiche, dal momento che oggi – secondo i geologi – ci troviamo alle soglie di una nuova era,
l’Antropocene, in cui è l’uomo stesso a modificare sensibilmente gli equilibri ereditati, con una
accelerazione inedita verso una nuova fase calda planetaria. Possiamo dunque affermare con
rigore scientifico che Homo sapiens sta contribuendo a cambiare il clima del pianeta sul quale
vive e di conseguenza anche la conformazione della sua superficie: non è un fenomeno recente,
ma non era mai accaduto in tempi così rapidi e con conseguenze così vaste.
Abbiamo deciso di prendere ispirazione dalla vecchia carta di Bruno Castiglioni per mettere di
nuovo in gioco questa prospettiva mobile, proiettando l’Italia in un ipotetico, fantascientifico e
distopico anno 2786: la fusione ormai completa delle calotte glaciali continentali ha causato una
nuova fase di ingressione marina che ha raggiunto i 65 metri di quota sul livello di costa attuale.
Uno scenario, a onore del vero, giudicato irrealistico, ma utile per riflettere sul fatto che l’assetto
ereditato del nostro territorio non è affatto scontato, e che è oggi nostra la responsabilità di
orientarlo in una direzione o nell’altra.
Secondo una ricerca dell’Università del New South Wales, con sede a Sydney, già 120.000 anni
fa, nell’ultimo periodo interglaciale, un aumento nelle temperature degli oceani portò alla fusione
di parte dei ghiacci continentali e a un sollevamento di tre metri del livello dei mari. A causare
l’innalzamento dei mari fu in particolare la fusione della calotta glaciale dell’Antartico
occidentale, allora come oggi particolarmente vulnerabile al riscaldamento globale poiché poggia
in buona parte sul fondo marino piuttosto che sulla terraferma. La temperatura degli oceani
durante l’ultimo periodo interglaciale era probabilmente fino a 2 gradi più calda di quanto sia
oggi e il livello globale del mare era 6-9 metri più alto. È un fenomeno già accaduto quindi,
anche se con una evoluzione lenta, nell’arco di decine di migliaia di anni: qualcosa di ben
diverso dalla rapida mutazione prevista dai modelli climatici che esaminano quanto potrebbe
accadere da qui a fine secolo, e cioè nell’arco di appena un centinaio di anni.
In questo viaggio semiserio per l’Italia del XXVIII secolo il protagonista Milordo ricalca le orme
del Viaggio in Italia fatto, esattamente mille anni prima, da Johann Wolfgang von Goethe:
fantascienza, riflessione scientifica e giocosità picaresca prefigurano alcuni degli scenari che ci
attendono se la nostra azione rimarrà sorda ai moniti di studiosi, scienziati e organizzazioni
internazionali, al loro invito a invertire rotta, riflettendo sulle ricadute climatiche e ambientali del
nostro attuale modello di sviluppo e stile di vita. Questo è un libro che rispecchia, inoltre, una
nuova idea di università, alle soglie del terzo millennio: non una torre d’avorio del sapere
rinchiusa in sé stessa, ma un faro in grado di orientare e sensibilizzare la società civile attraverso
una comunicazione che superi gli stretti recinti della ricerca e della didattica accademiche,
investendo in una “terza missione” orientata al public engagement. Si tratta di un percorso
circolare doppiamente virtuoso: la riflessione sul nostro futuro genera a sua volta il sostegno, da
parte di chi acquisterà il volume, alle attività del Museo di Geografia, che contribuirà così a
sviluppare la sua azione di conoscenza, educazione e sensibilizzazione al cambiamento climatico
nelle scuole e nella società civile.
Un ringraziamento va ad Aboca per aver ispirato e creduto in questo progetto, al Servizio di
Comunicazione e Fundraising dell’Università di Padova per il supporto all’iniziativa, e a tutti voi
perché contribuirete con la vostra lettura a questa importante missione, forse la più importante
che attende l’umanità in questo e nei secoli a venire.
Telmo Pievani e Mauro Varotto
1
VENETIA
Un campanile solitario
Non erano ancora seduti sul battello che la guida stava già parlando. Diceva che una visita a
Venezia era una tappa obbligata nel Grand Tour che mille anni fa gli aristocratici e i ricchi
inglesi, tedeschi e nordici compivano come rito di passaggio al termine della pubertà, seguendo
le orme di poeti in cerca di ispirazione, di antiquari a caccia di occasioni e di damigelle da
maritare. La guida aveva poi aggiunto, con la solita sbavatura di prolissità, che a quei damerini e
a quelle libere gentildonne in viaggio nel sud dell’Europa era però mancato il brivido di vederla
sommersa, Venezia.
Non con l’acqua granda, che prima o poi si ritira, no, proprio sommersa, e per sempre. Milordo,
come tutti i turisti mitteleuropei di buona famiglia, era atterrato a Trieste, che con i suoi caffè e le
librerie si era trasferita in altura, verso il confine con la Slovenia. Il ragazzo veniva da due
settimane di vacanza nei fiordi dell’Istria, che non immaginava così calda, e poi in campeggio
sopra le scogliere della bella insenatura di Muggia. Non ne poteva già più di quella chiacchierona
un po’ invadente che voleva farsi chiamare chaperon, ma l’idea di galleggiare sopra una Venezia
subacquea lo interessava parecchio.
Pensò che avrebbe finalmente visto in originale il capolavoro di edilizia lagunare più imitato al
mondo, prima a Las Vegas, in Cina e in altri parchi giochi urbani, poi – quando intorno al 2100 i
mari avevano cominciato ad alzarsi sul serio – preso a modello da centinaia di città costiere
invase dall’acqua che avevano dovuto reinventarsi, spostarsi nell’entroterra, guadagnare qualche
decina di metri in altezza. Le palafitte erano inaspettatamente tornate di moda, ma fatte di
materiali sintetici immarcescibili. Lo stuzzicava l’idea di vedere la città vera, sì, anche se
immortalata là sotto nel suo abisso di dimenticanza, ferma come in un acquario, stranamente
simile a quelle Venezie messe dentro le bocce con la neve che cade quando le capovolgi. La città
era diventata il souvenir di sé stessa.
Qualcuno aveva scritto nel 2000 che la forma di Venezia vista dall’alto era quella di un pesce,
anzi che Venezia era proprio un pesce. Era normale che a un certo punto tornasse a nuotare nel
suo elemento. La giunonica guida del Grand Tour antropocenico amava queste battute. Solo lei, a
onore del vero. Al gruppo interessò molto di più sapere che verso l’inizio del Terzo Millennio gli
abitanti della laguna erano riusciti invero a realizzare una diga di contenimento delle acque alte,
dopo decenni di ritardi, malversazioni, sprechi miliardari, tangenti, intoppi burocratici,
corruzioni, estenuanti processi in tribunale, revisioni e collaudi. Ci avevano messo così tanto che,
quando l’avevano inaugurata, la tecnologia usata era già vecchia e superata, e faceva un po’
acqua da tutte le parti. Dopo l’inaugurazione aveva funzionato sì per qualche tempo, per la gioia
e il sollievo di tutti, ma ben presto l’Adriatico si era alzato abbastanza da superare quel povero
anacronistico argine. Così i venti, le maree e le stagioni avevano ricominciato quasi subito a
congiurare per mandare sott’acqua la città, questa volta per sempre.
Milordo pensò che era la solita storia. A scuola gliene avevano raccontate molte altre di simili.
Sull’Olanda e sul Bangladesh, gli pareva di ricordare. Di fronte ai primi effetti tangibili, e
costosi, del riscaldamento climatico, peraltro ampiamente previsti già dalla fine del Secondo
Millennio, gli umani del Primo Antropocene avevano accarezzato l’idea che le tecnologie da sole
potessero salvarli. Pur di non ammettere che avrebbero dovuto cambiare stili di vita e di
consumi, avevano iniziato a progettare muraglie difensive per fermare gli oceani. Il caso più
eclatante, finito in un colossale disastro dopo soli trent’anni, era stato quello di Miami, in
Florida. Per volere di un presidente megalomane e psicopatico, eletto democraticamente per due
volte con l’80% dei suffragi, che aveva bisogno di difendere la sua villa miliardaria con parco da
golf sul lungomare, erano state erette un po’ ovunque dighe ciclopiche per irreggimentare le
piene ed erano stati scavati canali di drenaggio così imponenti che li avrebbero visti anche gli
astronauti dalla Base Lunare. E poi ci si era messi a fantasticare di bombardare le nuvole per far
piovere e nevicare, di spargere nei cieli inquinati delle megalopoli dei batteri sintetici in grado di
mangiare le polveri sottili e metabolizzare l’anidride carbonica, di addomesticare insomma il
tempo atmosferico attraverso interventi di geo-ingegneria. Sappiamo come era finita quella
tragica illusione.
Mentre Milordo rimuginava, il panciuto battello a idrogeno mollò gli ormeggi. Si chiamava
Palmanova e faceva parte della flotta della Alto Adriatico Tours, nome poco originale. Il molo
del porto di Udine si allontanò lentamente. Era una giornata tersa, tanto che le Alpi Carniche
sullo sfondo sembravano vicinissime. La città di Udine distava alcuni chilometri dal suo porto.
Verso est si intravedeva l’imboccatura della Baia del Vipacco, dove una volta si stendeva
Gorizia, la città divisa in due tra Italia e Slovenia, e un tempo spezzata a metà dalla Cortina di
Ferro. L’imbarcazione prese la direzione opposta, seguendo la riviera friulana verso la foce larga
e distesa del Tagliamento. La navigazione era tranquilla e piacevole, difficile immaginarsi che
quelle acque, di lì a qualche mese, sarebbero state scosse dagli uragani stagionali e dall’immane
scontro tra le masse d’aria calda del mar Tropicale Mediterraneo e i venti freschi incanalati e
accelerati dalle vallate alpine sovrastanti.
Poco prima che si aprisse, alla loro destra, il golfo del Cansiglio, la guida disse che stavano
passando sopra le strade della vecchia Pordenone, ora ricostruita dieci chilometri più a nord. Tra
i porti di Conegliano e di Montebelluna, ammirarono il delta del Piave aprirsi all’improvviso
facendosi largo tra Montello e i colli di Soligo. La metropoli di Belluno invece restava nascosta
dietro le montagne, anche se si percepiva la sua presenza per via delle strade e dei traffici che
scendevano da là. Era il capoluogo di regione, crocevia del montagnoso e collinoso nordest
italiano. Poco oltre, sopra la Vecchia Treviso sommersa, videro un vastissimo campo eolico
marino. Appena prima di scorgere l’estuario del Brenta e la grande area industriale marittima di
Bassano, la guida chiese loro di guardare a ore due, verso la possente balconata meridionale
dell’altopiano di Asiago: da lassù, aggiunse, si potevano ammirare tutta la distesa dell’Alto
Adriatico, l’isola Berica, l’intero arcipelago Euganeo e sullo sfondo, a sud, il mare Padano. Era
un piccolo paradiso chiuso, divenuto appannaggio esclusivo di miliardari bellunesi e trentini con
villone e stuoli di maggiordomi, nel quale grazie a un particolare microclima si stava bene anche
in estate, quando la riviera veneta sottostante era letteralmente invivibile, a meno di non
rinchiudersi con l’aria condizionata al massimo nelle hall e nelle piscine di certi hotel di mare a
Schio e Malo.
Poco dopo mezzogiorno, l’equipaggio offrì un aperitivo, incluso nel pacchetto della gita. Milordo
chiese subito cosa fosse e gli risposero Prosecco di Cortina d’Ampezzo, tra i migliori per
rapporto qualità-prezzo, anche se ben lontano dall’inarrivabile Prosecco del Comelico. Dopo un
buffet leggero, la navigazione entrò nel vivo. Il lieve buonumore introdotto dall’alcol rese quasi
tollerabili persino le spiegazioni puntigliose della guida. Nelle prime ore del pomeriggio il
battello si affacciò sul canale Berico e indulse per un po’ lungo la frastagliata costa settentrionale
dell’isola Berica, sopra la palladiana Vicenza da tre secoli sommersa, un’altra tappa d’obbligo
nel Grand Tour del millennio passato. L’imbarcazione scese quindi verso sud, per mostrare ai
gitanti le dolci e smussate forme vulcaniche dell’arcipelago Euganeo, composto dall’isola del
Venda, la più grande, dalle isole di Praglia, dall’isola delle Terme, dall’isola di Monte Ricco e da
quella di Monte Lozzo.
Benché il paesaggio fosse splendido, con spiaggette tropicali, vegetazione rigogliosa e sorgenti
termali, tutti sapevano che quei lidi erano pressoché colonizzati da oligarchi russi e altri magnati
dell’Est, il che li rendeva meno attraenti e comunque inaccessibili ai comuni mortali, inclusi
quelli che potevano permettersi di rifare il Grand Tour dell’Italia dell’Antropocene. Cresceva il
desiderio dell’atteso finale, di Venezia sommersa. Prima però, non senza il disappunto di alcuni,
il battello prese una curva larga verso nord, per navigare sopra la città di Padova, sede in passato
di un’antichissima e prestigiosa Università che nel 2222 aveva fatto appena in tempo a
festeggiare i suoi primi mille anni di vita. Poi ci aveva pensato l’Adriatico, con lento ma
inesorabile incedere, che venendo su metro dopo metro da Mira, Dolo e Piove di Sacco come un
fronte di battaglia aveva alzato il Brenta e il Bacchiglione, inondato Legnaro e Vigonza, lambito
e infine conquistato la periferia est della città. Ne aveva fatto per un po’ una seconda Venezia,
con il porticciolo e la marina in Prato della Valle, ma poi aveva completato l’opera e anche
quell’insigne città di scienza era stata abbandonata al suo destino. L’Università si era messa in
salvo trasferendosi a Belluno. Dal pelo dell’acqua ora spuntava soltanto una struttura moderna,
tutta bianca, punto di accesso a un centro di ricerca. Dove un tempo si studiavano i pianeti e le
stelle nel cielo, ora si esploravano i fondali: la Specola di Padova era diventata un osservatorio
sottomarino.
Venne quindi il momento dell’ultima breve traversata in mare aperto, dritti a est verso un punto
che solo le antiche mappe raffiguravano. La guida appositamente non disse nulla, ma i membri
dell’equipaggio non si trattenevano dall’occhieggiare, suggerendo di guardare a prua. Tutti si
mossero e si sporsero per farlo. Sott’acqua non si vedeva nulla, troppo torbido. La luce non
penetrava a sufficienza e chi sperava di individuare la sagoma del Ponte di Rialto o della Basilica
di San Marco rimase a bocca asciutta. Per quello occorreva iscriversi ai programmi di
immersione, ma erano costosissimi e serviva il patentino da professionisti.
Si cominciò però a intravedere in lontananza una struttura affusolata che emergeva dalla
superficie. Non era una nave né un relitto. Più da vicino si capiva che era di forma quadrata,
possente ed elegante. Nel punto di contatto con l’acqua mostrava una pietra bianca e appena
sotto si vedevano come degli archi. Sopra c’era un grande dado, ornato sui quattro lati da due
leoni veneziani e due figure femminili. In cima, una splendida cuspide piramidale, slanciata
verso il cielo, come se stesse uscendo fuori dall’acqua portandosi dietro tutto quello che giaceva
sotto. Al suo vertice, luccicante, la statua dorata di un arcangelo.
Vento e salsedine, si sa, corrodono tutto. Basta dare loro il tempo. Il corpo centrale di quel
meraviglioso campanile, in mattoni, era stato restaurato più volte, rinforzato alla base e
raddrizzato da squadre di sommozzatori. Il mare, le correnti, le concrezioni lo assalivano
continuamente, ma la manutenzione umana finora era riuscita cocciutamente a preservarlo.
Perfettamente verticale, a bolla, come un albero maestro durante la bonaccia. Dopo quattrocento
anni di immersione, il Campanile di San Marco era ancora lì a segnare il centro di un mondo che
non c’era più, a indicare il cuore di una creatura ibrida, fatta di laguna, di calli e di eleganti
palazzi signorili, che aveva smesso di battere. Milordo pensò alla tenacia dei simboli umani, al
loro voler restare com’erano, dov’erano. Non gli sembrava una sfida arrogante alla furia degli
elementi. Piuttosto il contrario, una resa onorevole e dilazionata.
(Ben)venuti a Little Italy
Di fronte a un’Italia così a bagnomaria, la domanda che sorge spontanea è se davvero un giorno
il nostro Paese potrà ridursi in questo modo. La risposta, a livello teorico, è sì: può accadere
perché è già accaduto in passato, e nulla esclude che la storia possa ripetersi, anche se non è mai
esattamente la stessa storia. Nel Pliocene infatti – ovvero tra 5 e 2,5 milioni di anni dal presente –
la penisola italiana aveva una conformazione ancora più ridotta rispetto a quella qui immaginata
come conseguenza di un riscaldamento globale incontrollato. Al nord era del tutto assente la
Pianura Padana, formatasi solo in seguito alla deposizione di detriti portati dal fiume Po e dai
suoi affluenti nel corso di centinaia di migliaia di anni, oltre che dalla spinta tettonica della
placca africana contro quella europea. Il resto della penisola era una dorsale montuosa esile e
assai frastagliata: la Toscana un vasto arcipelago, l’Appennino meridionale una serie di isole, la
Sicilia una striscia di terra dimezzata rispetto all’attuale, mentre Sardegna e Corsica per ragioni
tettoniche erano unite in un’unica grande isola.
Si tratterebbe dunque di un déjà vu? Non esattamente. Le novità rispetto al passato sono almeno
due, e cambiano nettamente lo scenario: la prima è la rapidità dei processi in atto, che nell’ipotesi
che gli studiosi definiscono business as usual potrebbero verificarsi in un tempo estremamente
rapido, nell’ordine delle centinaia di anni, mentre il passaggio dal Pliocene al Pleistocene è
avvenuto in centinaia di migliaia. La seconda, e per noi ben più importante, è che in quell’epoca
il genere umano attuale non aveva ancora messo piede in Italia, dal momento che Homo sapiens
inizia a fare la sua comparsa solo intorno a 40.000 anni fa circa, preceduto dai Neanderthal e da
altre specie più antiche del genere Homo. Quelle che ci attendono sarebbero dunque
trasformazioni di portata e rapidità tali che nessuna generazione umana ha mai vissuto prima
d’ora.
L’Italia che risulterebbe dalla fusione completa delle calotte polari sarebbe un Paese con una
superficie ridotta del 18%: circa un quinto della superficie attuale andrebbe perduta, pari a
53.000 km2 di territorio sommerso e una superficie emersa residua di 249.000 km2 rispetto ai
302.000 attuali. Ma ciò che più conta è che verrebbe sommersa la parte del Paese più abitata e
popolosa, oltre che più ricca e produttiva: considerando in termini puramente ipotetici i livelli di
popolamento e la distribuzione demografica attuale, la popolazione da evacuare ammonterebbe a
quasi 20 milioni di abitanti, un terzo del totale. Numerose città si troverebbero sotto almeno 40 o
50 metri d’acqua: nel nordest Venezia, Trieste, Padova, Treviso e Pordenone; nell’area
romagnola Ferrara, Rimini e Ravenna; in Liguria ovviamente tutti i capoluoghi di provincia sulla
costa; in Toscana finirebbero sommerse non solo Pisa e Livorno, ma anche Lucca e Grosseto; nel
Lazio non solo Latina, ma anche Roma, città (ex) eterna; lungo la costa adriatica la stessa sorte
toccherebbe ad Ancona, Pesaro e Pescara; in Puglia scomparirebbero Bari, Barletta, Brindisi e
Taranto, in Campania Napoli e Salerno, in Calabria Crotone e Reggio; in Sicilia Messina,
Catania, Palermo, Siracusa e Trapani; in Sardegna il capoluogo Cagliari.
Avremmo poi una serie di città sulla battigia, ovvero a bagnomaria in pochi metri d’acqua: uno
scenario di estese “palafitte urbane”, con edifici abitabili forse dal terzo piano a Verona, Bologna,
Parma, Piacenza, Reggio Emilia, Firenze… Altre città, ora situate in alta pianura e lontane dal
mare – come Gorizia, Pavia, Alessandria, Prato, Pistoia, Caserta o Foggia – si ritroverebbero a
svolgere un inedito ruolo portuale a ridosso della linea di costa.
Ciò che resta del territorio della penisola sarebbe connotato da una spiccata “rugosità”: oggi
montagna, collina e pianura rappresentano rispettivamente il 35, 42 e 23% del territorio; nel 2786
l’area di pianura residua sarebbe ben poca cosa (meno del 7% della superficie) e il territorio
rimanente sarebbe per il 54% collinare e per il 39% montuoso oltre i 600 metri sul nuovo livello
del mare, con il monte Bianco vetta più alta d’Italia declassato a 4745 metri di quota.
Anche immaginando, per assurdo, che l’intera popolazione italiana attuale riuscisse a dislocarsi
nel territorio rimasto all’asciutto, ci troveremmo ad avere una densità media di 250 abitanti per
km2 rispetto ai 200 attuali, ma in condizioni morfologiche e climatiche assai più difficili e
precarie. Una situazione come questa sembra piuttosto preludere a un esodo di proporzioni
bibliche verso il nord e l’Europa continentale: con molta probabilità la popolazione più giovane
(non sta accadendo anche ora, con la “fuga dei cervelli” verso Paesi più ricchi e promettenti?) si
sposterebbe verso zone più temperate, allo stesso modo in cui oggi giovani africani sfidano il
Mediterraneo per sfuggire a povertà e crisi climatiche sempre più ricorrenti in area subsahariana.
Saremmo noi allora gli immigrati alla ricerca di accoglienza e salvezza.
All’atto pratico e sulla base di dati e previsioni attuali, tuttavia, uno scenario come quello
attraversato dal viaggiatore Milordo è da ritenersi scientificamente irreale e imprevedibile,
perché basato su una ipotesi di contesto invariato su diverse scale: assenza di mutamenti
sostanziali nelle forzanti astronomiche del clima (variazioni nell’attività solare o nel flusso di
raggi cosmici, solari e galattici), nelle altre forzanti terrestri come per esempio movimenti
tettonici, isostasia, attività vulcanica (nulla esclude che nel corso dei prossimi decenni
un’eruzione imponente di qualche vulcano possa avere influenza sul clima), così come nella
forzante antropogenica, che può rivedere la propria azione da qui ai prossimi decenni invertendo
il trend di emissioni di gas serra o correndo ai ripari con ciclopiche opere a difesa delle coste
minacciate dalla risalita dei mari.
Possiamo dunque stare tranquilli? Niente affatto, perché anche se questo scenario può definirsi a
ragione “apocalittico” e lontano dal verificarsi, non sono in ogni caso da sottovalutare le
conseguenze ben più reali previste da qui a fine secolo. L’allarme lanciato dall’ENEA nel 2018
per ulteriori sette aree costiere a rischio inondazione a causa dei cambiamenti climatici, con
previsione di arretramento di spiagge e aree agricole per decine di chilometri quadrati a Pescara,
Martinsicuro (Teramo), Fossacesia (Chieti), Lesina (Foggia), Granelli (Siracusa), Valledoria
(Sassari) e Marina di Campo sull’Isola d’Elba, segnano già ora l’inizio di una lunga lotta contro
l’ingressione marina. L’intera area costiera dell’alto Adriatico compresa tra Trieste, Venezia e
Ravenna, il golfo di Taranto, le piane di Oristano e Cagliari sarebbero zone a rischio elevato da
qui al 2100, assieme a tratti di costa della Versilia, dell’Agro pontino, alle piane del Sele e del
Volturno in Campania, e alle aree costiere di Catania e delle isole Eolie in Sicilia.
Negli ultimi duecento anni il livello medio degli oceani è aumentato a ritmi più rapidi rispetto
agli ultimi tremila, con un’accelerazione allarmante pari a 3,4 mm l’anno solo negli ultimi due
decenni. Senza un drastico cambio di rotta nelle emissioni, l’incremento atteso su scala globale
di circa un metro del livello dei mari entro il 2100 modificherà la morfologia del territorio
italiano, con una previsione di allagamento di oltre 5.000 km2 di pianura costiera.
Quindi il Grand Tour di Milordo nell’Italia dell’Antropocene parla di noi, oggi. Non si tratta di
far fronte soltanto al progressivo innalzamento del livello dei mari e all’arretramento delle linee
di costa, ma anche all’ingressione del cuneo salino in buona parte delle aree costiere pianeggianti
e a sistematiche difficoltà di deflusso per tutti i bacini idrografici retrostanti. Insomma, nemmeno
chi starà all’asciutto può dirsi tranquillo, e questo ci fa capire che il cambiamento climatico
riguarda davvero tutti, nessuno escluso.
2
TRANSPADANA
Il mare Padano
L’indomani, a Udine, Milordo prese di buon’ora la corriera a idrogeno che lo avrebbe portato,
insieme al gruppo, al suo secondo appuntamento con il Grand Tour. Era un giovane di alte
aspirazioni e di brillanti studi, ma senza le idee molto chiare sul suo futuro. Là dove viveva, in
mezzo all’Europa, gli sconvolgimenti ecologici avevano alterato profondamente in peggio il
clima e il paesaggio, ma la struttura fisica in sé della sua terra non era cambiata radicalmente.
Faceva sempre troppo freddo o troppo caldo, pioveva sempre troppo o troppo poco. I ghiacciai
scomparsi, i laghi prosciugati, i fiumi deviati, stagioni e precipitazioni modificate, d’accordo, ma
nulla al confronto dell’Italia, che era ormai un caso di studio affrontato in tutti i corsi universitari
al mondo sull’Antropocene: una penisola a metà strada fra l’equatore e il polo nord, protesa nel
mare Mediterraneo, che subisce uno stravolgimento del clima; diventa un paese tropicale con
aree desertiche; si restringe considerevolmente a causa dell’innalzamento dei mari; le fasce di
vegetazione si spostano; esseri umani e animali si mettono in marcia, migrano. Insomma, in una
manciata di secoli si trasforma in un Paese completamente e fisicamente diverso.
Sbagliato candeggio e si è ristretta l’Italia, commentò la guida con il suo solito sarcasmo fuori
luogo. Ricordò agli astanti, e sobbalzanti, passeggeri che la penisola italiana era già da prima un
caso da manuale. Prendete una catena montuosa disposta in senso longitudinale e innestatele
dentro un’altra catena montuosa in perpendicolare, che galleggia come una portaerei in mezzo a
un mare chiuso in rapida trasformazione, già un millennio fa invaso da specie tropicali. Dalla
Sicilia al Friuli, in un Paese con questa disposizione e orografia, la gamma di climi, suoli,
vegetazioni, faune e ambienti era straordinaria. Una ricchezza formidabile, che si misurava un
tempo anche con il fatto che l’Italia aveva, non a caso, la più alta biodiversità di tutta l’Europa.
Era stata per milioni di anni un ponte di passaggio di popolazioni biologiche (patogeni, piante e
animali, umani inclusi) da sud a nord e da est a ovest. Ben quattro specie umane diverse avevano
abitato la penisola nell’ultimo milione e mezzo di anni, prima che la quarta, la più invasiva e
organizzata di tutte, Homo sedicente sapiens, fuoriuscendo per ultima dall’Africa ponesse fine
alla pluralità degli esperimenti umani sulla Terra.
In quel milione e mezzo di anni era successo di tutto, in fatto di clima, di livelli ascendenti e
discendenti dei mari, di ere glaciali e interglaciali, e di conseguenti successioni e alternanze di
specie. Studiando i fossili, le stesse regioni italiane in certi periodi sembravano la Siberia calcata
dai mammut lanosi e in altri periodi un arcipelago tropicale abitato da ippopotami e coccodrilli.
Ma un conto è vedere questi cambiamenti in decine e centinaia di millenni, tutt’altro conto
assistere al loro svolgersi in pochi secoli. Ecco, il Grand Tour in Italia era tornato di moda mille
anni dopo anche per questo: per vedere come l’Antropocene potesse aver rivoltato un Paese
come un calzino, mettendolo sottosopra per una distanza superiore ai mille chilometri da nord a
sud, dalle Alpi alla Sicilia.
Mentre si discuteva di come il tempo profondo avesse cambiato faccia all’Italia, il pullman
silenzioso filava via lungo le strade della costa padana settentrionale: prima la riviera friulana
abbastanza piatta e monotona, poi la riviera veneta con le Dolomiti, ormai smussate dai crolli
prodotti dalla fusione del permafrost, che le incombevano sopra, e infine la congestionata riviera
lombarda che iniziava dopo l’estuario del Mincio. Appena superato il golfo di Thiene la costiera
però mutava terribilmente, diventando un serpente infinito di tornanti mozzafiato. Un paio di
turisti seduti dietro cominciò a sentirsi male e ci si dovette fermare più volte negli spiazzi a
strapiombo sul mare per farli vomitare. Fino a Verona i monti Lessini si tuffavano nel mare come
tante piccole dita, come lingue di lava nell’acqua. Si alternavano continuamente minuscole
vallate adornate di palme da dattero e banani, che terminavano in calette incantevoli, poi si saliva
lungo un crinale, si tagliava un promontorio e giù di nuovo scapicollati verso la valletta
successiva. Il viaggio era un tormento, ma dopo le rovine del castello di capo Soave l’autista
disse di stare attenti perché stava per aprirsi davanti un panorama straordinario.
Era una mossa ben studiata per far sopportare meglio gli ultimi curvoni. Poi, subito dietro la
svolta del porticciolo di San Martino Buon Albergo, la meta preannunciata si palesò, sotto forma
di una grande e affascinante città solcata da canali e sorretta su palafitte che la innalzavano di
alcuni metri sopra il livello del mare, dal quale era protetta, più al largo, da imponenti linee
trincerate di moli, frangiflutti, terrapieni e isole artificiali. Era Verona, l’antica e nobile città che
si era salvata trasformandosi in una nuova Venezia, a ridosso della laguna atesina, la quale si
estendeva subito dopo, a ovest, alimentata dalla foce dell’Adige, che era retrocessa di dieci
chilometri alle spalle della città. I veronesi erano riusciti caparbiamente a far evolvere, ancora
una volta, la città, salvando San Zeno, Castelvecchio, l’Arena e tutti gli altri tesori scaligeri. Li
avevano sopraelevati.
Il serrato programma giornaliero non prevedeva purtroppo una discesa per la visita, ma solo uno
sguardo panoramico da una delle terrazze sul crinale dei Lessini, e questo alimentò proteste,
anche di Milordo. Dall’alto si vedevano piccole imbarcazioni brulicare tra le vie d’acqua, la cui
superficie increspata rifletteva la luce abbacinante del sole antropocenico. L’ansa dell’Adige era
stata mantenuta tale e quale e riempita di acqua di laguna. Certe piazze storiche – come piazza
Duomo, piazza delle Erbe, piazza dei Signori, e persino piazza Bra – erano state sopraelevate in
tutte le loro componenti originali. Per il momento, il miracolo di resilienza tra la terra e il mare
sembrava reggere, ma chissà per quanto sarebbe durata, si disse Milordo. Ciò che venne dopo,
fra l’altro, aumentò la nostalgia e l’ammirazione per la strenua bellezza di quella città.
L’avanzare corrosivo del mare Padano aveva infatti trasformato il basso Garda in un’area di
lagune, dall’apparenza piuttosto malsana, interrotte da colline moreniche ricoperte di erbe secche
e arbusti. La laguna del Lugana non era uno scioglilingua: sembrava un vero paesaggio africano.
Non si avvertiva soluzione di continuità tra la vasta distesa ferma del lago, a nord, e la terra
imbevuta che lo collegava al mare. Sembrava di vedere la fotografia di un processo in corso, che
avrebbe in un lasso di tempo calcolabile portato il lago di Garda a fondersi con il mare. Già
allora un lungo tratto d’acqua era perfettamente navigabile, dall’estuario del Mincio fino su a
Riva del Garda, il cui snodo a sua volta era collegato da un’autostrada e da una ferrovia
sotterranee con la megalopoli di Trento-Bolzano.
La guida mostrò a Milordo e agli altri sui tablet oculari le immagini di queste enormi città
riparate (per così dire) fra le montagne, dove erano confluite in massa le popolazioni sfollate
dalla pianura allagata. Dalle montagne si era scappati per secoli, ora ci si tornava per respirare. Il
clima in realtà era appena sopportabile in autunno e inverno, ma dalla metà della primavera in
avanti quelle distese urbane di vetro e cemento erano comunque un inferno di calura, che si
addensava nel fondovalle cittadino come in un catino mortifero e vi ristagnava per mesi. Per
evitare che il flusso migratorio continuasse per spinta naturale di sopravvivenza verso nord, i
confini con Svizzera e Austria erano stati blindati e militarizzati all’inverosimile, il che dava a
queste metropoli alpine un ancor più opprimente senso di clausura, di vicolo cieco, di prigione
climatica. Non restava che vivere per metà dell’anno in gabbie di aria condizionata, in una trama
artificiale di centri commerciali sotterranei, uffici, abitazioni e palestre.
Le persone non potevano espatriare, ma le merci ovviamente sì. La conurbazione di Trento-
Bolzano era collegata, attraverso le vie d’acqua e un reticolo di autostrade a dodici corsie, con
l’altrettanto inquietante conurbazione prealpina che da Brescia senza soluzione di continuità
andava fino a Milano, passando per Bergamo. Una fila di trasporti aerei volava continuamente
tra una conurbazione e l’altra. In Lombardia la brezza del mare, giunto a lambire il basso delle
province e distante poche decine di chilometri, poteva lenire ben poco l’arsura, essendo quello un
mare paludoso, fermo, tiepido, acquattato fra i resti antropici di quel che era stato. Venendo da
Verona, si vedevano quindi paludi, lagune, prati secchi fino al mare, il tutto bypassato di tanto in
tanto da poderosi ponti ferroviari e autostradali, come vene incassate in un muscolo rattrappito.
Milano non la si vedeva né cominciare né finire. Non era più una città, ma una costellazione di
città, ognuna con il suo centro e la sua periferia. Arrivando da est, quindi, si attraversavano zone
residenziali, poi centri di uffici, poi nuove zone residenziali, poi periferie sterminate, aree
industriali, e poi di nuovo abitazioni e altri centri di shopping e di passeggio per ricchi. La
megalopoli era diventata da un paio di secoli uno dei più importanti centri finanziari e industriali
d’Europa, la porta del continente sul Mediterraneo, soprattutto dopo l’allagamento e l’abbandono
di Genova da una parte e di Ravenna dall’altra. Durante il primo Antropocene le bolle di calore
di queste città avevano più che raddoppiato l’effetto del riscaldamento climatico, con aumenti di
temperature anche di otto-nove gradi medi in un secolo.
Poi tutti i vecchi materiali erano stati sostituiti con asfalto, cemento e vetri isolanti, che
assorbivano il calore esterno. Le emissioni di aria calda degli impianti di condizionamento erano
state trattenute e ritrasformate in energia. I piani urbanistici erano stati ripensati per favorire le
correnti d’aria, si erano moltiplicate le aree verdi alimentate da acqua desalinizzata, tetti e pareti
degli edifici erano stati tappezzati di piante. L’immensa Milano ora si spingeva fino a sud e non
c’era distinzione con l’immenso porto commerciale e civile di Pavia. Poco più a est, chi poteva
permetterselo andava a fare il bagno, dopo una ventina di minuti di macchina o di metropolitana,
nei Lidi di Lodi, una vastissima estensione di spiaggioni sui quali affacciavano hotel, ristoranti e
giostre, ma tutto in prefabbricato, tutto nomade e precario, perché di tanto in tanto il mare saliva,
si ingoiava l’arenile e bisognava spostare indietro il baraccone di un centinaio di metri.
L’estuario dell’Adda era stato irreggimentato, affinché non rovinasse la sequenza delle spiagge,
mentre i seni del Lambro e dell’Oglio erano diventati un grande parco faunistico tropicale, alla
periferia della mostruosa conurbazione milanese, dove le famiglie abbienti facevano lunghe file
nei SUV elettrici per mostrare ai figli gli ultimi scampoli di natura reale e di faune selvatiche. La
corriera di Milordo non si fermò né a Milano né al parco, che costeggiò sul lato settentrionale,
dirigendosi, su una gigantesca autostrada, verso il porto di Pavia. Quando già si intravedevano le
enormi gru sulle banchine e le montagne di container, l’autista prese sulla sinistra e si diresse
verso un piccolo aeroporto turistico, che si stendeva da quella parte poco prima del grande ponte
sul canale Padano, dove un tempo scorreva nel suo alveo il fiume Po.
Si era fatta una gran corsa, quel giorno, proprio per questo. Lo sapevano tutti. L’indomani
mattina il gruppo avrebbe goduto di una delle principali avventure del Grand Tour, senz’altro la
più costosa e la più richiesta: il volo panoramico in aereo elettrico sulle città palafitticole della
riviera emiliana e sull’Italia del nordovest, una rotta circolare a bassa quota in senso orario che
mostrava, meglio di qualsiasi sopralluogo in superficie, come l’Italia fosse stata spezzata
letteralmente in due, visto che restava praticamente solo la catena appenninica come ponte di
terra fra le regioni centrali e l’arco alpino. La guida era pronta a dilungarsi anche su questo, ma
Milordo e compagni si erano già sparpagliati verso le rispettive stanze di motel.
Ghiacciai estinti e sciate ricordo
“Con una zoomata da un satellite posto in posizione zenitale sull’Adamello si scorge un intreccio
molto fitto di piste sciabili in Valcamonica e in Valtellina. Si notano chiaramente gli sciatori che
le percorrono fino a valle, profittando di manti nevosi artificiali, nonostante il tepore di fine
estate. Ormai tutto l’arco alpino è un grande Parco Turistico Europeo, che attira visitatori non
solo da ogni parte della Terra, ma anche da molte delle sue basi minerarie (soprattutto americane
e giapponesi) sparse tra i pianeti del sistema solare. Proprio i turisti giapponesi e cinesi sono ora i
più numerosi e anche i più spericolati nella discesa libera dai ghiacciai…”. Così il geografo
Giacomo Corna Pellegrini scriveva nel 1995 immaginando le Alpi nel Tremila: una grande
Disneyland della neve artificiale per il divertimentificio urbano planetario. Si tratta di uno
scenario ben lontano da quello prospettato dalle previsioni e in questo 2786, in cui dalle Alpi ai
Poli le superfici glacializzate sono completamente fuse. La nostra è una ipotesi estrema,
chiaramente, ma i segnali attuali non lasciano presagire nulla di buono.
I cambiamenti climatici colpiscono le montagne in maniera molto sensibile. In particolare, le
Alpi stanno subendo un riscaldamento doppio rispetto a quello che si manifesta in altre aree, con
un aumento di circa 2°C registrato nel corso del Novecento rispetto alla media che si attesta
attorno a 1°C nell’emisfero nord: una tendenza che ha subìto un’accelerazione notevole
soprattutto negli ultimi tre decenni, e un’accentuazione alle quote più elevate.
Il termometro più fedele e preciso di quanto sta accadendo in quota è dato proprio dagli apparati
glaciali, che risultano complessivamente in forte arretramento da almeno trent’anni, periodo in
cui la temperatura è tornata a crescere a ritmi molto sostenuti, più ancora di quanto fosse
accaduto nel periodo “caldo” precedente, tra il 1920 e il 1950.
Nel Nuovo catasto dei ghiacciai italiani (2015), Claudio Smiraglia e Guglielmina Diolaiuti
presentano un quadro organico e per nulla rassicurante della situazione del glacialismo nelle
nostre montagne: vengono descritti complessivamente 903 ghiacciai alpini (inclusi due piccoli
corpi glaciali appenninici, ciò che rimane del ghiacciaio del Calderone sul Gran Sasso) che
occupano un’area di 368 km2, in media 0,4 km2 per apparato glaciale, un dato che già di per sé
denota la ridotta superficie media e dunque la fragilità delle aree glacializzate rimaste. I ghiacciai
con area maggiore di un chilometro sono solo il 9,4% del totale, ma coprono una superficie del
68%. Solo tre ghiacciai misurano oltre 10 km2 di superficie: il ghiacciaio dell’Adamello tra
Lombardia e Trentino, il ghiacciaio dei Forni in Lombardia, il ghiacciaio del Miage sul massiccio
del Bianco in Valle d’Aosta. Questi tre apparati, i più estesi delle Alpi italiane, rappresentano da
soli il 10,3% dell’intera area glacializzata nazionale: saranno con molta probabilità gli ultimi a
scomparire.
Sul versante italiano delle Alpi si localizza poco più di un quinto dell’intero glacialismo alpino
(che conta complessivamente 3.770 apparati), con una distribuzione che interessa tutti i settori
della catena, dalle Alpi Marittime alle Alpi Giulie, ma con dimensioni e tipologie assai
diversificate: si passa infatti dal grande altopiano dell’Adamello, il più vasto apparato glaciale
italiano, o dai vasti ghiacciai vallivi come quello dei Forni o del Lys, ai piccoli ghiacciai montani
di pendio e ai più minuscoli glacionevati. La regione più glacializzata risulta la Valle d’Aosta
(36% della superficie totale), seguita da Lombardia (24%) e Alto Adige (23%). Meno estese le
coperture delle altre regioni interessate da apparati glaciali, con minimi in Friuli Venezia Giulia e
Abruzzo. Il numero più elevato di corpi glaciali si registra tuttavia in Lombardia (230), seguita
da Alto Adige (212), Valle d’Aosta (192), Trentino (115) e Piemonte (107).
Il confronto tra i dati attuali e la rilevazione precedente effettuata dal CNR e dal Comitato
Glaciologico Italiano nel triennio 1959-1962 registra una contrazione della copertura glaciale del
30% (da 526 a 368 km2), mentre la banca dati del World Glacier Inventory segnala una perdita di
478 ghiacciai e una riduzione areale del 27%, una tendenza in linea con l’intera catena alpina. In
questo contesto, il fatto che i ghiacciai nell’ultimo censimento siano addirittura aumentati di 68
unità (dagli 835 apparati glaciali del primo catasto ai 903 attuali) non è affatto un bel segnale:
registra infatti la frammentazione tipica di ogni fase di deglaciazione, con ghiacciai estesi e
complessi che evolvono in sottobacini distinti.
Le riduzioni risultano molto diversificate e dipendono principalmente dalla quota media degli
apparati glaciali: si passa infatti dalla contrazione fino a metà della superficie esistente per Friuli-
Venezia Giulia, Piemonte, Trentino e Veneto, alla perdita di un quinto di superficie per il
glacialismo lombardo e valdostano. La maggiore riduzione areale ha riguardato i ghiacciai di
piccole dimensioni (area inferiore a un chilometro), che in termini numerici rappresentano l’80%
dei ghiacciai alpini e forniscono un contributo importante alle risorse idriche e idroelettriche
locali. Le recenti misure sulla Marmolada, il principale ghiacciaio delle Dolomiti, sono ancora
più allarmanti, e pronosticano una scomparsa del ghiacciaio entro il 2035: sarebbe la fine di un
ghiacciaio-simbolo, e la prima di una lunga serie di estinzioni eccellenti.
Il trend di riduzione calcolato per l’intero arco alpino tra Otto e Novecento (27% di superficie) è
già ampiamente superato dall’accelerazione notevole degli ultimi trent’anni, con una riduzione in
media del 30% per l’intera catena alpina dalla metà degli anni Ottanta al 2003, pari a una perdita
media annua del 2%. Se questa tendenza continuasse nel futuro, le Alpi si troverebbero prive di
apparati glaciali assai prima del 2786, e a poco servirebbero le poche migliaia di metri quadri di
teli protettivi che in alcuni ghiacciai svizzeri e italiani tentano di salvare la copertura nevosa
dell’annata, utile soltanto a garantire il divertimentificio sciistico.
La riduzione e la progressiva scomparsa delle masse glaciali (che in Italia ammontano a 116
miliardi di metri cubi d’acqua) comporterà notevoli ripercussioni non solo sulle temperature a
livello locale e sulla disponibilità complessiva di acqua dolce, ma anche sulla mitigazione degli
apporti idrici stagionali, con aumento delle portate fluviali invernali e minori portate estive (si
stima che a fine XXI secolo la popolazione interessata da alluvioni a seguito della
estremizzazione dei regimi fluviali potrebbe triplicare rispetto a inizio secolo). Le ricadute in
termini di perdita di attrattività turistica per la scomparsa dei ghiacciai a questo punto al
confronto appaiono quasi risibili.
Assieme alla riduzione dei ghiacciai, è destinato a ridursi fino a scomparire anche il permafrost,
lo strato di suolo perennemente ghiacciato ad alte quote o ad alte latitudini, per un valore
compreso tra il 20 e il 35% dell’estensione totale entro il 2050. In ambito alpino, la riduzione del
permafrost accentuerà l’instabilità complessiva delle zone di alta quota, con crolli di pareti
rocciose e smottamenti diffusi dei versanti. In altre regioni come Siberia, Scandinavia, Canada o
Alaska, la fusione del permafrost potrebbe liberare gli idrati di metano intrappolati al suo interno,
generando ulteriori emissioni di gas serra, quello che gli esperti chiamano “feedback positivo”,
ovvero un effetto che si aggiunge alla causa e accelera l’evoluzione del sistema: se il permafrost
libera una parte del suo metano, sulla Terra potrebbe fare ancora più caldo di quanto previsto.
Le Alpi, definite da Jules Michelet “colonna d’acqua” del continente europeo, negli scenari futuri
saranno dunque caratterizzate da una generale riduzione della disponibilità idrica, con
ripercussioni che si riverbereranno sull’intero bilancio idrico continentale. È stato infatti
calcolato a livello globale che ogni grado di temperatura in aumento genera una riduzione di
acqua dolce del 20%, destinata a interessare il 7% della popolazione globale.
Tornando allo scenario immaginato da Giacomo Corna Pellegrini, già oggi, a più di nove secoli
di distanza dal Tremila, le previsioni climatiche segnalano la diminuzione degli eventi di
abbondanza nevosa e una riduzione del numero di giornate in cui la temperatura resta al di sotto
di 0°C: stabilità e durata del manto nevoso saranno sempre più compromesse almeno fino a
2.000 metri di quota, e a quote superiori si assisterà comunque a riduzioni del volume annuale di
neve disponibile; sugli Appennini, le quote inferiori, le temperature più alte e le minori
precipitazioni prefigurano una situazione ancora più compromessa. Un innalzamento di
temperatura di solo 1°C provocherebbe inoltre, in assenza di innevamento artificiale, la “non
affidabilità” di circa la metà delle 250 stazioni sciistiche dell’arco alpino prese in considerazione
dagli studi. Già oggi l’innevamento artificiale e l’intera industria dello sci appaiono sempre più
insostenibili: gli impianti di innevamento, oltre che richiedere notevoli investimenti finanziari
per la costruzione della rete idrica e dei bacini di raccolta, sono a loro volta responsabili di un
grande consumo di energia e di acqua, sottratta agli ecosistemi e ad altri usi.
Non si tratta quindi soltanto di immaginare delle Alpi grigie e senza neve per i secoli a venire,
già di per sé un dramma oggi per molte economie locali appese esclusivamente ai destini della
stagione sciistica invernale, ma di prevedere un intero arco alpino e un continente europeo
sempre più poveri d’acqua.
3
AEMILIA
Il ritorno delle palafitte
Il velivolo si alzò dall’aeroporto pavese in perfetto silenzio e senza alcuno scarico di cherosene,
come succedeva invece nella preistoria aeronautica. L’interno era spartano, ma funzionale.
Milordo non fece nemmeno in tempo ad ambientarsi che già la guida sveglissima era pronta a
indicare loro una primizia mattutina. In controluce, sul lato sinistro, videro alcune strutture sul
mare. Sulle prime sembravano gigantesche piattaforme petrolifere. L’aereo scese leggermente e
fece un giro sopra il conglomerato di edifici. Era Piacenza, o quel che ne restava, salvata pezzo
per pezzo dai flutti, almeno i suoi monumenti storici, e trasformata in un’isola artificiale. Con un
immane sforzo di spostamento terra, durato centovent’anni, il centro era stato sollevato di trenta
metri. Per qualche tempo la città era rimasta collegata alla riviera emiliana da una strada e da una
ferrovia che correvano su un terrapieno. Poi si era deciso di mantenere solo collegamenti
marittimi e di trasformare l’abitato in un’attrazione turistica.
Opere di questa portata avevano richiesto il pensiero delle cattedrali, cioè quella rara attitudine
umana a intraprendere progetti lungimiranti che richiedono più di una generazione per essere
completati. Gli architetti iniziali sanno che solo i loro nipoti li vedranno finiti, ma sono contenti
lo stesso perché hanno avviato qualcosa di importante che rimarrà, come le cattedrali medioevali
europee che sono ancora in piedi dopo mille e cinquecento anni. E da una generazione all’altra,
da un governo all’altro, non si può cambiare idea, ci vuole continuità di obiettivi e di intenti.
Solo in questo modo, con il pensiero delle cattedrali, era stato possibile cominciare ad affrontare
seriamente il cambiamento climatico, fra il 2100 e il 2200.
Lasciata Piacenza, l’aereo in pochi minuti virò verso nordest, per mostrare una triste curiosità:
per ben cinquanta metri sopra il livello del mare si ergeva, solitaria, la sagoma superiore del
Torrazzo di Cremona, con le sue eleganti quadrifore e la guglia di marmo. Il meraviglioso
orologio astronomico – aggiunse la guida – è purtroppo sommerso, ma per alcuni secoli aveva
fatto in tempo a segnare le tappe del primo Antropocene, con le sue eclissi, le fasi lunari, i
solstizi e gli equinozi. Tutti ripensarono al Campanile di San Marco e a quante altre città cariche
di passato e di gloria – Mantova, Rovigo, Ferrara, Ravenna – giacevano ora in fondo al mare
Padano, anzi per la precisione il mare Adriatico di Ponente, elevando soltanto le punte delle loro
torri più alte fuori dall’acqua, come disperati boccagli di palombari.
Intanto l’aereo aveva puntato a sud, allineandosi di nuovo alla lunga riviera emiliana. All’altezza
di dove un tempo si ergeva Fidenza, piegò verso oriente e a quel punto per gli ignari passeggeri
fu una sequenza emozionante di visioni. Una dopo l’altra, sorvolarono quattro splendide città
palafitticole, collegate alla terraferma da magnifici ponti sospesi, ognuna brulicante di vita, con i
suoi monumenti sopraelevati. La soluzione di Verona aveva funzionato anche alle pendici
settentrionali dell’Appennino tosco-emiliano. La prima ad apparire fu Parma, poi Reggio Emilia,
quindi Modena, un po’ più distante dalla costa, come lembo urbano in mezzo al mare basso, e
infine la più grande, un intrico di portici e canali, Bologna. Sull’antico capoluogo di una regione
che non c’era più, il velivolo turistico si soffermò per alcuni giri panoramici, di modo che tutti
potessero scorgere la versione in bagnasciuga di piazza Maggiore e le due torri rimesse al loro
posto sopra un terrapieno artificiale.
Il pilota disse al microfono che più avanti c’erano altre città palafitticole ingegnose – Forlì,
Cesena, Rimini – ma di tenersi forte perché avrebbe fatto una virata di centottanta gradi verso
sud, proprio sopra la splendida riviera dei Gessi, una riserva naturale protetta dall’UNESCO,
dove l’azzurro del mare tropicale si sposava con i colori grigi e mattone dei gessi bolognesi, una
combinazione unica. Durante il frugale pranzo a bordo, l’aereo sorvolò tutto l’Appennino verso
nordovest, vallate dopo vallate punteggiate di città fino ai passi, e poi piccoli abitati e frazioni
ovunque, che lasciavano libere solo le zone più impervie. I privilegiati delle città emiliane e
romagnole si erano progressivamente trasferiti là, prima ristrutturando tutto il ristrutturabile e poi
costruendo ex novo praticamente in ogni anfratto e calanco abitabile, lavorando in smart working
da casa e mandando i figli alla scuola digitale. Nel tempo anche uffici e scuole si erano
giocoforza trasferiti dalle città ai fondivalle e poi sempre più su.
Nel primo pomeriggio avvistarono sulla destra di nuovo il grande ponte d’acciaio sul canale
Padano, che toccava piede sulla riviera lombarda d’Oltremare, un pezzettino di ex Lombardia ai
piedi dell’Appennino. A quel punto si spalancò davanti ai loro occhi uno scenario impensato: nel
golfo di Alessandria si aprivano due estuari profondi, la foce del Po e la foce del Ticino, l’una
vicino all’altra, e in mezzo una lingua di terra piatta chiamata capo Manara. Alle spalle di questo
anfratto marino incuneato fino ai confini del Piemonte, si estendevano a perdita d’occhio risaie
lucenti, fino a Vercelli e oltre. L’ultimo lembo residuo di Pianura Padana era stato sfruttato infatti
per produrre alcune rare varietà di riso tropicale ultra-vitaminico, geneticamente modificato allo
scopo di aumentarne le proprietà nutrizionali. La biodiversità originaria di quelle terre era
scomparsa da tempo, come del resto in ogni altra parte del Paese.
La rotta a quel punto coincideva quasi esattamente con il breve corso del fiume Po: le risaie
scorrevano sulla destra e il Monferrato a sinistra, con i suoi vigneti e frutteti geneticamente
migliorati che esportavano prodotti in tutto il mondo. Qui e per tutte le Langhe e il Roero, le
specie da frutto tropicali si alternavano, nei fondivalle, ad alcune varietà di uva, sui pendii, che
erano state adattate per via biotecnologica al clima più caldo ed estremo, e davano vini corposi,
densi, pesanti, che piacevano un sacco ai nordici di bocca buona, tra i quali annoveriamo il
facoltoso babbo di Milordo. Il gruppo sorvolò Torino, ormai quasi del tutto disabitata a causa
delle condizioni ambientali divenute insopportabili. Restavano tristemente le vestigia della città
sabauda vicino al fiume, le trame ordinate di vie e piazze monumentali. Buona parte dei torinesi
si era trasferita ad Aosta o in Savoia, ma non in villeggiatura. Il pendolo della storia: un tempo la
capitale era scesa dalla Savoia, Chambéry, a Torino, determinando il predominio delle terre basse
sulle terre alte; poi era accaduto il processo inverso.
Venne quindi il momento del secondo appuntamento importante del volo, quello pomeridiano: la
visione dall’alto delle conche glaciali da dove, molto tempo prima, le lingue di ghiaccio
scivolavano a valle. Già ottocento anni addietro la linea di equilibrio, cioè il delicato
bilanciamento ambientale dei ghiacciai tra la quantità di neve e ghiaccio che si accumula in
inverno e quella che si squaglia in estate, si era spezzata ed era cominciato il progressivo ritiro.
Nel 2050, dopo decenni di regressione e assottigliamento, erano già spariti tutti i ghiacciai alpini
sotto la quota di 3.500 metri. Nel 2120, nonostante i timidi e del tutto insufficienti tentativi di
mitigare il riscaldamento climatico globale da parte della comunità internazionale, erano andati
perduti definitivamente tutti i ghiacciai alpini, anche quelli ai 4.000 metri di altitudine. Per
qualche decennio si era addirittura cercato di porre rimedio organizzando una vasta campagna di
irrorazione di neve artificiale con i cannoni e coprendo i ghiacciai con dei teli durante l’estate,
invano. Da quel momento l’ambiente alpino era stato stravolto: l’acqua potabile scarseggiava,
non c’era irrigazione per i raccolti, le centrali idroelettriche si erano fermate.
Ciò che Milordo stava osservando sotto di sé era il risultato di quella sconfitta, verificatasi
diversi secoli prima. Il cambiamento climatico era stato troppo veloce rispetto ai ritmi geologici
e l’ecosistema alpino non aveva retto. Quattromila ghiacciai alpini si erano fusi in poco più di un
secolo, al ritmo di trentacinque miliardi di tonnellate di ghiaccio perse ogni anno. Allo stesso
destino erano andati incontro, poco dopo, anche i ghiacciai andini, delle Montagne Rocciose e
himalayani. I più sconsiderati, o in mala fede, avevano detto che non era poi così preoccupante,
visto che la fusione procurava molta più acqua potabile per tutti. Poi all’improvviso i rubinetti
glaciali si erano chiusi. Molti scienziati, come altrettante Cassandre inascoltate, lo avevano detto
che i ghiacciai erano come i canarini del minatore che avvertono per primi la mancanza di
ossigeno nelle gallerie. Era stato tutto inutile e in quel momento Milordo guardava le vette calve
del Gran Paradiso, del monte Bianco, del Cervino e del monte Rosa, le sommità pietrose spoglie,
gli enormi ghiaioni, i massi erranti, i bacini vuoti dove un tempo c’erano i laghi glaciali, i torrenti
in secca, e poco sotto le praterie gialle, i versanti sferzati dal vento, le frane e gli smottamenti.
In compenso, i fondivalle apparivano congestionati, soprattutto la metropoli di Aosta, la cui
periferia iniziava poco sopra Ivrea, sotto le rovine del forte di Bard. Era una catena ininterrotta di
abitati fino a Courmayeur, che si arrampicavano fin sotto le pareti delle montagne e si
ramificavano lungo le vallette laterali. Le temperature comunque più fresche delle Alpi avevano
nel tempo attirato in questi luoghi masse di sfollati dalle città piemontesi. Quando ormai sulla
corona delle Alpi verso la Francia rosseggiava il tramonto, l’aereo sopra Novara, divenuta
insieme a Vercelli regina delle risaie, iniziò la discesa sull’aeroporto pavese, a Milano sud. La
pista correva quasi parallela al lunghissimo fiordo, sulla sinistra, scavato dal fiume Olona, sul
quale un sole fulvo e gonfio rispecchiava gli ultimi raggi del giorno.
Che tempo farà: il meteo degli estremi
Quale situazione climatica si troverebbe realisticamente ad affrontare il nostro fantomatico
viaggiatore Milordo in questa ipotetica Italia del 2786? Non esistono ovviamente previsioni
scientifiche sul clima a così lungo raggio, e anche se ci fossero sarebbero poco attendibili. Ciò
che possiamo ipotizzare è una esasperazione dei dati scientifici già previsti per la fine di questo
secolo dal Centro Mediterraneo per i Cambiamenti Climatici (CMCC).
Il fenomeno del riscaldamento globale è ormai inequivocabile, con cambiamenti in atto che non
hanno precedenti su scala multi-decennale, centenaria o addirittura millenaria. Da circa due
secoli alle “forzanti” naturali del clima si è aggiunta una “forzante antropogenica” generatrice di
gas serra (non solo anidride carbonica, ma anche metano, ossidi di azoto, alocarburi, aerosol). I
sistemi naturali sono in grado di assorbire solo in parte i gas serra di origine antropica derivanti
dalla rimessa in circolazione di riserve e giacimenti di milioni di anni: questa la ragione
principale per cui la concentrazione di CO2 in atmosfera è passata da 280 a 418 parti per milione
nel 2020, raggiungendo il livello più alto da almeno 800.000 anni a questa parte.
Un primo effetto incontrovertibile di questo processo è l’aumento delle temperature, a cui stiamo
assistendo già oggi in maniera evidente: l’analisi dei dati climatici misurati dalle principali reti di
osservazione nazionali e regionali ha permesso di registrare un incremento di oltre 1,1°C della
temperatura media annua in Italia nel trentennio 1981-2010 rispetto al trentennio 1971-2000. Gli
ultimi anni in particolare sono stati caratterizzati da incrementi di temperatura sempre più
elevati: otto dei dieci anni più caldi della serie storica sono stati registrati dal 2011 in poi, con
anomalie comprese tra +1,26°C e +1,71°C. Il 2019 è stato, per esempio, il terzo anno più caldo
dall’inizio delle osservazioni (+1,56°C rispetto al trentennio 1961-1990), dopo i record già
registrati nel 2018 e nel 2015, e anche il 2020, nonostante la pandemia, è stato il quinto anno più
caldo in Italia negli ultimi due secoli, e il più caldo nel mondo dal 1850 assieme al 2016. L’area
mediterranea sta registrando in media un aumento di temperature ben più alto rispetto alla media
planetaria, aumentata di 1°C dal 1880 a oggi secondo l’Intergovernmental Panel on Climate
Change (IPCC).
Le previsioni di aumento di temperatura al 2100 prevedono più scenari, sulla base della diversa
capacità umana di ridurre la propria impronta carbonica: se l’aumento di CO2 in atmosfera fosse
contenuto in un intervallo di concentrazione compreso tra 400 e 450 parti per milione, la
temperatura aumenterebbe fino a 2°C rispetto all’era preindustriale. Se l’umanità non interviene
con misure attive, questa sarà la situazione in atmosfera già al 2025. Contenendo l’aumento della
concentrazione di CO2 entro 650 ppm (più del doppio rispetto all’epoca preindustriale) la
temperatura sarebbe più alta di almeno 2,5/3°C (in regime di business as usual questa situazione
si verificherà in atmosfera entro il 2050). Se la concentrazione di CO2 in atmosfera giungesse a
quota 1.000 ppm, la temperatura media planetaria sarebbe più alta di circa 4°C rispetto all’era
preindustriale, ma con picchi fino a 6,4°C: senza interventi regolativi questa sarà la situazione in
atmosfera al 2100. Ma anche quota 1.000 ppm non è un limite invalicabile: se l’umanità non
pone alcun freno alle emissioni di gas serra, dopo il 2100 la temperatura media verosimilmente
aumenterebbe di oltre 6°C, e allora è possibile che si attivino meccanismi destinati a cambiare in
profondità e in maniera imprevedibile le dinamiche del clima. L’IPCC ritiene probabile un
aumento di temperatura a fine secolo compreso tra 2,5 e 4,7°C: si giudica ancora sostenibile lo
scenario in cui il riscaldamento sia contenuto entro i 2°C, mentre sono da considerarsi di grande
impatto gli scenari con aumenti di temperatura superiori.
Tale incremento di temperatura non sarà omogeneo in tutto il pianeta: sarà maggiore alle alte
latitudini, nell’emisfero nord e sui continenti, meno intenso alle basse latitudini, nell’emisfero
sud e sugli oceani. A crescere inoltre saranno di più le temperature minime e meno le massime.
La regione mediterranea in particolare è considerata uno degli “hot spot” del cambiamento
climatico, con un riscaldamento che potrebbe superare del 20% l’incremento medio globale. Le
variazioni maggiori sono attese nella zona alpina e durante la stagione estiva, con un consistente
aumento di ondate di calore e giorni con temperatura minima superiore a 20°C in estate, in quelle
che vengono definite dagli studiosi tropical nights: le “notti tropicali” non hanno niente a che
vedere con vacanze paradisiache, sono piuttosto un indicatore molto importante per valutare
l’impatto sul benessere fisico delle persone, e diversi studi ormai correlano la frequenza delle
notti tropicali con un aumento della mortalità. A esse si associa un aumento d’intensità e durata
della siccità (consecutive dry days o “numero di giorni secchi consecutivi”), anche questo
indicatore fondamentale per valutare l’impatto sull’agricoltura e la probabilità di incendi.
L’aumento asimmetrico della temperatura in atmosfera modificherà anche la circolazione, con
una serie di effetti a catena: il “fronte subtropicale” tenderà a spostarsi in entrambi gli emisferi
verso latitudini più alte, e la “corrente a getto” nella parte superiore della troposfera boreale e
australe aumenterà la già notevole velocità di flusso, andando incontro a fluttuazioni più ampie.
A causa di questi cambiamenti, alle nostre latitudini il tempo meteorologico sarà soggetto a
eventi estremi (maggiori “ondate di calore” in estate e più “ondate di freddo” in inverno), mentre
da occidente spireranno venti più forti.
Anche negli scenari con cambiamento più contenuto, l’Italia evidenzia una tendenza
generalizzata all’aumento di frequenza e intensità di fenomeni di precipitazione su tutto il
territorio nazionale, con un incremento del rischio meteorologico estremo di circa il 9%. Gli
indici di precipitazione evidenziano già ora una crescita statisticamente significativa
dell’intensità degli eventi di precipitazione giornaliera, sia al Nord che al Sud, soprattutto nella
stagione estiva e autunnale, e un aumento in tutti gli scenari della durata dei periodi senza
pioggia.
L’incremento d’intensità dei fenomeni renderà più instabile il territorio: crescerà il rischio
idraulico per bacini di modesta estensione (che esondano prima di bacini più grandi) e il rischio
di frane superficiali soprattutto in zone il cui suolo è caratterizzato da maggiore permeabilità.
L’esasperazione di queste tendenze determinerà un clima sempre più polarizzato, caratterizzato
da piogge meno frequenti e più intense, lunghi periodi di siccità alternati a frequenti nubifragi,
cicloni e tempeste tropicali (i cosiddetti medicanes, “cicloni tropicali mediterranei”): una
situazione che imporrà interventi sempre più poderosi di difesa, raccolta, drenaggio,
contenimento delle acque superficiali, ma anche di isolamento termico e aria condizionata, con
un grosso impatto sul settore energetico.
Nella regione mediterranea è prevista una riduzione delle precipitazioni dal 10 al 30%, in
contrasto con l’aumento generale del ciclo idrologico nelle zone temperate comprese tra 30° e
46°N di latitudine. Tale diminuzione sarà particolarmente evidente nel periodo primaverile-
estivo, mentre aumenteranno le precipitazioni nel periodo invernale al Nord.
L’ampia dinamica dei sistemi di circolazione atmosferica e la complessità orografica del
territorio italiano determinano già ora una forte variabilità delle precipitazioni, destinata ad
accentuarsi in futuro, incrementando il divario tra valori di precipitazione più elevati (oltre 2000
millimetri annui sulle zone alpine e prealpine) e quelli più bassi (compresi tra 400 e 600
millimetri annui in Sicilia meridionale, Puglia, Sardegna meridionale).
L’aumento delle temperature e la riduzione di precipitazioni in area mediterranea esacerberanno
ulteriormente il rischio di incendi, con conseguente impatto su persone, beni ed ecosistemi nelle
aree più vulnerabili. Per il nostro Paese gli studi ipotizzano un aumento della pericolosità
d’incendio fino al 25% per la fine del secolo, con un allungamento della stagione degli incendi
da 20 a 40 giorni in più, a seconda degli scenari: i prolungati periodi di siccità e le precoci ondate
di calore influenzeranno lo stato idrico della vegetazione rendendola più suscettibile all’innesco e
capace di sostenere incendi di grande portata. Il Sud Italia e le isole spiccano per l’aumento
d’intensità e di esposizione al rischio di grossi incendi per la fine del secolo, come esito della
combinazione fra tipologie arbustive (molto infiammabili nel periodo estivo) e venti forti, in
grado di alimentare la propagazione del fuoco e influenzare la lunghezza di fiamma. Si tratta di
un classico esempio di “retroazione positiva” dagli effetti preoccupanti: l’aumento degli incendi
comporterà infatti un ulteriore incremento delle emissioni, influenzando negativamente non solo
la qualità dell’aria e la salute umana su scala locale, ma il budget atmosferico di CO 2 su scala
regionale e globale.
4
ETRURIA
Verso Firenze, discutendo di Antropocene
“Ci vuole una certa presunzione per battezzare un’intera fase geologica con il proprio nome, ma
ci sta”. La guida esordì così, qualcuno sbuffò sul vagone, ma quella fu la prima volta che quasi
tutti si interessarono al suo discorso. Non c’era del resto molto altro da fare per circa un’oretta. Il
gruppo aveva preso il treno superveloce a levitazione magnetica, di buon mattino, da Milano,
destinazione Firenze, senza passare per Bologna come accadeva anticamente, ma percorrendo
uno dei molteplici trafori transappenninici che erano stati aperti per collegare il nordovest,
Milano e la riviera emiliana con l’Italia centrale e poi con Roma. Il treno quindi passò in un
soffio sotto il canale Padano, costeggiò il mare fin sopra Parma e poi si infilò silenziosissimo nel
tunnel che bucava l’Appennino tra la Val Parma e la Lunigiana.
Milordo studiava la cartina fornita dalla società ferroviaria, dove si vedevano ben disegnati i
tracciati delle gallerie. Rimase colpito dalla Liguria, che negli ultimi secoli aveva perso
praticamente tutta la fascia costiera sulla quale una volta si incentrava pressoché interamente la
sua economia, fosse essa turistica, industriale o agricola. La regione era ridotta a un vasto golfo
punteggiato di scogliere, fiordi e insenature, con le poche cittadine retrocesse all’interno nelle
vallate o aggrappate sui colli. Si chiamava ora Le Cento Terre ed era un’attrazione turistica
d’élite nei mesi invernali. Dal capo della Guardia, al confine con la Francia, si estendevano le
Insenature dei Fiori, con le serre di varietà tropicali arrampicate sopra le scogliere. Tra capo
Torre Saracena e capo Monterosso c’era il golfo di Gallinara, poi la profonda baia di Albenga,
quindi il golfo di Pietra Ligure, la baia di Spotorno separata dalla baia di Vado dal capo di Santo
Stefano. Quella costa da pirati proseguiva fino alle insenature del Polcevera e del Bisagno, dove
si distendeva la magnifica città portuale di Genova, ora frammentatasi in tanti piccoli abitati sulla
cresta del costone o nell’entroterra da Bolzaneto a Busalla. Dal centro del golfo verso Levante,
tra mille altre calette e insenature, attraversando il lungo estuario dell’Entella, si arrivava fino al
golfo spezzino, separato dal canale del Magra dalla bella isola, un tempo boscosa, di Lerici.
Milordo faceva questo viaggio con la mente, mentre ne stava facendo un altro fisicamente, poco
più a nord. La mappa riportava scrupolosamente tutte le linee ferroviarie superveloci che nelle
Cento Terre transitavano in parte sulla costa, ma per lo più subacquee, e in parte trasversalmente
unendo le piccole e accaldate città liguri con il Piemonte e con Milano. I treni si fermavano in
stazioni sotterranee e poi gli ascensori e le scale mobili portavano i viaggiatori in superficie,
dove subito vedevano il mare, i terrazzamenti scoscesi, le colture intensive, la vegetazione
lussureggiante sui pochi bordi rimasti liberi, i muretti a secco, le case costruite sottovento per
evitare di essere spazzate via durante gli uragani. Mentre era assorto in una di quelle fotografie
da dépliant, l’attenzione di Milordo fu improvvisamente distolta dai battibecchi concitati in corso
fra la guida del Grand Tour e alcuni turisti del gruppo.
Ma certo, si parlava di Antropocene, ricordò Milordo. Da quanto si capiva, la guida era
infastidita da coloro che sottostimavano l’importanza dell’epoca geologica in cui ci si trovava da
poco più di un millennio. Qualcuno doveva aver detto qualcosa del tipo che è assurdo che una
specie si arroghi il diritto di dare il proprio nome al tempo. Quando saremo estinti, verrà qualcun
altro e lo cambierà: bisognerebbe essere più oggettivi. A Milordo l’obiezione pareva sensata. Ma
la guida non ci stava. “La specie umana è diventata un rullo geologico globale, altro che storie”
incalzò, “un rullo compressore in grado di alterare sottosuolo, superficie e atmosfera terrestri. Gli
scienziati del futuro studieranno i nostri sedimenti e noteranno una discontinuità: gas serra in
concentrazioni abnormi, fiumi deviati, montagne scavate, enormi quantità di ossa di polli, bovini
e suini, deforestazione selvaggia, scorie radioattive, metalli pesanti, plastiche in ogni dove. Ecco,
qui è passata una bestia particolare, Homo sedicente sapiens, diranno. Siamo diventati una
superpotenza biologica e geologica. E i primi ad accorgersene furono alcuni nostri antenati di
sette secoli fa”, proseguì la guida. “Nel 2002, Paul Crutzen, un chimico, premio Nobel per i suoi
studi sul buco nello strato di ozono della stratosfera causato da composti chimici di fattura
umana chiamati clorofluorocarburi (buco che fu poi tappato definitivamente soltanto nel 2150),
propose quasi per scherzo insieme all’ecologista Eugene Stoermer di dare un nome alla ‘geologia
dell’umanità’, cioè alla drammatica fase in cui il sedicente sapiens divenne un fattore geofisico
su larga scala. Il nome proposto fu semplice ed efficace: ‘Antropo-cene’, cioè l’epoca recente
dominata dall’umanità. Avanzata quasi per caso dopo un convegno sui cambiamenti globali
tenutosi a Cuernavaca, in Messico, a quel tempo abitabile, la provocazione ebbe un immediato
successo media-tico e la parola cominciò a circolare in modo virale sui giornali, nei musei e
anche nella comunità scientifica. Sei anni dopo la proposta di Crutzen, la International
Commission on Stratigraphy prese sul serio la questione e istituì un gruppo di lavoro apposito –
composto da geologi, archeologi, geografi, scienziati del sistema Terra e storici – per valutare se
fosse davvero il caso di introdurre ufficialmente l’Antropocene nell’immensa scala del tempo
geologico, quel sublime monumento dell’intelletto umano che anche nelle scuole del 2786 è
appeso sui muri di tutte le aule scolastiche”.
Per rispondere allo scetticismo impresso sui volti di alcuni passeggeri, la guida ritenne di dover
fare una digressione metodologica. “Allora come oggi, per definire i confini di un’epoca
geologica (l’epoca è la quarta suddivisione del tempo geologico, dopo eoni, ere e periodi)
bisogna trovare un segno indelebile e globale nei sedimenti geologici, che sia sufficientemente
netto e inconfondibile per chi lo osserverà anche tra milioni di anni. Finora le unità del tempo
geologico sono state scandite da spartiacque imponenti: comparsa di nuove forme di vita; firme
chimiche planetarie; estinzioni di massa. In sintesi: cambiamenti climatici e avvicendamenti di
specie. Girovagando per l’Italia dell’Antropocene si direbbe che il segno geologico lasciato
dall’uomo sarà ben evidente agli scienziati del futuro. Di sicuro lo è per quelli del 2786. Le
stesse attività umane che in un millennio hanno sconvolto il Belpaese imprimeranno infatti una
traccia irreversibile e sincronica nelle stratigrafie di tutti i depositi geologici al mondo, compresi
sedimenti oceanici, ghiacciai, pollini, fossili, anelli di crescita degli alberi. Certo, è pur vero che
un’epoca geologica recente e caratterizzata dalla presenza umana c’era già: l’Olocene, quel
quieto e neutrale nome che indica l’epoca iniziata ufficialmente con il riscaldamento climatico
successivo all’ultima glaciazione, intorno a 12.400 anni fa, e ancora in corso. L’Olocene è quindi
geologicamente sottilissimo, una dozzina di millenni, e a maggior ragione lo è l’Antropocene,
una questione di millimetri per ora. Le epoche geologiche durano mediamente alcuni milioni di
anni. L’uno e l’altro, Olocene e Antropocene, vengono comunque dopo il Pleistocene, l’epoca
delle glaciazioni e delle continue oscillazioni climatiche iniziata 2,58 milioni di anni fa. Il
Pleistocene più l’Olocene e l’Antropocene compongono il periodo Quaternario, l’ultimo dell’era
cenozoica iniziata con il gran botto di 66 milioni di anni fa che estinse quasi tutti i dinosauri e un
bel pezzo della rimanente biodiversità”.
“Antropocene non significa soltanto cambiamento climatico”, proseguì con fare dottrinale la
guida. “Si tratta di un processo globale e composito, che riguarda il sistema Terra nella sua
interezza e complessità di relazioni, come peraltro si evince chiaramente partecipando al nostro
Grand Tour dell’Italia antropocenica. Contribuiscono all’Antropocene molte tendenze intrecciate
e diverse: la crescita delle temperature medie sulla superficie del pianeta; l’aumento squilibrato
della popolazione umana; le concentrazioni di gas serra, soprattutto anidride carbonica e metano,
dovute a emissioni di industrie, trasporti, riscaldamenti; la disponibilità di acqua; la radioattività
dovuta all’industria nucleare; le alterazioni fisiche umane del suolo terrestre; gli impatti gravi
dell’agricoltura e dell’allevamento intensivi; insomma tutti gli effetti su scala planetaria delle
attività umane. Ciascuno di questi è potenzialmente un indicatore quantitativo dell’impronta
umana sulla Terra, una misura dell’Antropocene, ma le dimensioni del fenomeno sono molto più
vaste perché derivano dalle interazioni non lineari e moltiplicative tra tutti questi processi messi
assieme. Un bel groviglio”.
“E poi c’è l’estinzione in massa della biodiversità”, aggiunse Milordo in uno dei suoi rari
interventi a voce alta. “In mille anni abbiamo distrutto il 75% di tutte le forme di vita, a causa di:
deforestazione, perdita di specie, frammentazioni degli habitat, mancanza di ossigeno nelle acque
costiere, concentrazione di plastiche che già nel 2080, per volume, aveva superato
drammaticamente quella dei pesci. I lentissimi tempi biologici di recupero degli ecosistemi sono
incompatibili con la rapidità tecnologica di queste devastazioni, quindi la specie umana può
essere considerata oggi, a tutti gli effetti, come la più grande forza evolutiva globale che incide
(in negativo) sulla biodiversità”.
La giunonica guida annuiva soddisfatta. “Il grande naturalista inglese Charles Darwin, che
ancora si studia a scuola, a suo modo nove secoli fa aveva fornito le basi concettuali per capire
quanto sta accadendo, anche in Italia. A più riprese aveva fatto notare che le specie, se lasciate a
sé stesse senza ostacoli, tendono a crescere e a moltiplicarsi a dismisura. È l’istinto fondamentale
della vita: occupare tutti gli spazi disponibili. Solo la presenza di opportuni freni ambientali –
cioè risorse limitate, predatori, vincoli fisici, competizioni con altre specie – impedisce che le
popolazioni biologiche esplodano occupando tutto. Quando questi freni saltano, per esempio
introducendo una specie aliena in un ambiente dove non ha predatori, succedono disastri perché
l’equilibrio (già instabile) si rompe e una specie invasiva domina l’ecosistema estinguendone
molte altre. Qualcosa di analogo, a un altro livello, succede quando una popolazione di cellule
cancerose si moltiplica senza freni dentro un organismo”.
“Suvvia, ancora questa storia della specie umana come cancro del pianeta”, sbuffò qualcuno
nelle retrovie. La guida intervenne e diede ragione a Milordo. “Gli esseri umani, per proprio
merito e inventiva, hanno imparato a consumare indefinitamente le risorse del pianeta. Da
almeno quaranta millenni, uno più uno meno, non hanno più limiti ambientali che li frenino.
Possono sopravvivere pressoché ovunque, come si vede qui in Italia persino in cima alle
montagne, sottoterra e sottacqua. E allora succede come quando un’alga invasiva colonizza un
lago eutrofizzato o i batteri invadono una piastra piena di nutrimento a non finire: proliferano,
proliferano e proliferano”.
In effetti siamo dodici miliardi, pensò Milordo. Solo con il miglioramento genetico delle piante
era stato possibile sfamare tutti, ma poi l’aspettativa media di vita aveva superato i centoventi
anni ed era stato comunque a un certo punto necessario imporre un tetto alle nascite, altrimenti
ogni neonato avrebbe avuto cinque anziani da mantenere. Era stato traumatico – riportavano le
cronache del tempo – una sospensione della democrazia, con gravissimi disordini sociali e guerre
durati decenni. Eppure lo si sapeva anche prima che suolo, risorse, atmosfera e oceani non
potevano essere infiniti, visto che giacciono su una sfera schiacciata ai poli che orbita attorno al
Sole.
Anche per questo non era stato facile decidere quando far cominciare l’Antropocene, perché gli
esseri umani a ben vedere sono come l’alga assassina nel lago da un sacco di tempo. Qui la guida
cominciò ad allargarsi. “Crutzen, da chimico dell’atmosfera, non ebbe dubbi: l’Antropocene
andava fatto partire dalla rivoluzione industriale di dieci secoli fa e dai suoi effetti sulla
composizione dell’aria che ancora oggi respiriamo. L’anidride carbonica di allora ci metterà altri
novantottomila anni prima di essere riassorbita nei cicli terrestri, hai voglia. A partire da quel
punto esatto, una combinazione di uso di combustibili fossili e deforestazione fece schizzare i
gas serra a livelli mai raggiunti negli ultimi ottocentomila anni e più. È da quel momento che
inconsapevolmente gli umani hanno cominciato a rinviare il naturale arrivo della prossima
glaciazione. Il ragionamento fila.
Tuttavia, molto tempo prima delle fabbriche inglesi, le attività agricole già avevano modificato
radicalmente la superficie terrestre e l’atmosfera. Gli archeologi del futuro potranno osservare,
nei sedimenti a partire da 12.400 anni fa, un elenco di indizi precisi: erosione dei terreni agricoli,
semi e pollini di piante coltivate, montagne di ossa di animali d’allevamento, più metano e
anidride carbonica in atmosfera, un’insolita stabilità climatica, e poco dopo anche metalli a
concentrazioni inedite, come mercurio e rame. In tal caso però l’Antropocene avrebbe sostituito
completamente l’Olocene. Inutile tenersi due nomi per la stessa cosa.
Altri pensavano invece che la cosiddetta ‘grande accelerazione’ delle attività umane con impatto
geofisico fosse avvenuta dopo la Seconda guerra mondiale di otto secoli fa, con le enormi dighe,
l’uso massiccio di fertilizzanti, la diffusione della plastica, il consumo di acqua e di petrolio, la
crescita dell’aspettativa di vita in ampie porzioni del pianeta, la modificazione genetica delle
piante, il circuito auto-rinforzato di produzione e consumi. L’Italia dell’Antropocene che stiamo
visitando in questo tour è figlia anche di quegli avvenimenti” precisò la guida. “A favore di
quella datazione vi era anche un terribile marcatore globale: il fall-out radioattivo prodotto
dall’esplosione delle prime bombe atomiche; due sganciate sulla popolazione civile in Giappone
e altre cinquecento almeno fatte brillare nei dissennati test nucleari condotti in superficie, nel
sottosuolo e persino in atmosfera fino al picco del 1963.
Oggi quelle armi micidiali e suicide dell’età del ferro nucleare sono bandite da cinquecento anni,
ma in effetti il loro rimane un segno pressoché indelebile (alcuni isotopi radioattivi resteranno
come nostra impronta digitale per quindici milioni di anni) e paragonabile, per precisione,
all’iridio cosparso sulla Terra dall’asteroide che colpì il nostro pianeta 66 milioni di anni fa. Sono
i cosiddetti ‘chiodi d’oro’ che fanno iniziare un’epoca geologica da un punto preciso, da un
marcatore unico. Questo punto stratigrafico globale privilegiato deve definire un sedimento
geologico associato a un cambiamento chimico o biologico che sia netto e universale, cioè
rinvenibile dagli archeologi, paleontologi, glaciologi e geologi del futuro su tutta la superficie del
pianeta e non soltanto in una regione.
Gli storici fissano per esempio uno spartiacque agli inizi del 1600, undici secoli fa, quando il
mondo si aprì: le rotte oceaniche, il capitalismo mercantile, le sue regole spietate, i profitti che
generano altri profitti, le conoscenze scientifiche che aumentano, la mega civiltà connessa su
tutto il pianeta, la spoliazione sistematica delle risorse dei Paesi colonizzati. In quei decenni
piante e animali cominciarono a viaggiare per tutto il mondo sulle navi, generando nuovi ibridi e
specie infestanti. Le diete si trasformarono e si diversificarono. La globalizzazione dei commerci
e degli scambi unificò e al contempo omogeneizzò le specie. Le attività minerarie
sconquassarono le terre emerse. Nuove piante dominarono le economie e cambiarono i
comportamenti: zucchero, tè, tabacco, caffè, spezie. Continenti e oceani furono di nuovo
collegati, non dalla tettonica a placche, ma dalla tettonica commerciale umana che tutto uniforma
a sé. Noi donne e uomini del XXVIII secolo”, sentenziò solenne la guida, “siamo figli anche di
quell’evento. La transizione successiva, cioè la rivoluzione industriale della macchina a vapore
alimentata a carbone e del proletariato urbano, consolidò un processo già avviato. Poi vennero il
cemento, il petrolio e l’elettricità. La popolazione umana crebbe, superando il primo miliardo nel
1804 e il secondo miliardo nel 1927. L’inquinamento da fumi, fuliggine, cenere, gas, polveri,
metalli pesanti divenne un’escalation, affrontata volta per volta solo quando diventava
un’emergenza sanitaria. A conti fatti, per i geologi del futuro il segno sarà chiaro: particelle
carboniose a forma di piccole sfere, frutto della combustione di combustibili fossili, sparse
ovunque sulla Terra, in concentrazioni crescenti, insieme a piombo e altre sgradevolissime firme
chimiche.
Da questa soglia in poi la corsa all’alterazione del clima, attraverso la modifica del ciclo del
carbonio, assunse velocità e dimensioni mai viste prima in tutto il Pleistocene. I livelli di
anidride carbonica in atmosfera passarono da 280 parti per milione, registrabili agli inizi della
rivoluzione industriale, a più di 400 nel 2020. Sta scritto su tutti i manuali di storia
dell’Antropocene. Nel giro di due secoli le terre emerse e gli oceani si riscaldarono di almeno un
grado, e poi di altri due nel mezzo secolo successivo, fino al 2100. Il ritiro dei ghiacciai e
l’espansione termica fecero innalzare il livello globale medio dei mari di trenta centimetri.
Sembravano pochi, tutto sommato, ma era solo l’inizio. Gli oceani diventarono più acidi,
mettendo in seria difficoltà tutti gli organismi che formano strutture di carbonato di calcio, e
quindi alterando a cascata tutti i cicli dei nutrienti nei mari e abbattendo la biodiversità.
Nell’anno 2020 il peso di tutti gli oggetti costruiti dall’uomo superò quello di tutti gli esseri
viventi messi assieme. Il consumismo di massa, l’industrializzazione globale, la transizione
demografica, lo sviluppo energivoro, l’eutrofizzazione degli ecosistemi acquatici causata da
azoto e fosforo dei fertilizzanti, i tassi di estinzione della biodiversità che superarono quelli delle
cinque estinzioni di massa del passato geologico, le plastiche, i modelli di crescita insostenibili
adottati dagli ex Paesi in via di sviluppo: le firme sedimentarie dell’attività umana furono tali e
tante che anche il più tonto dei geologi del futuro non potrà non vederle. In effetti, la domanda è
già tra le più ricorrenti nell’esame universitario del primo anno di geoscienze: il candidato
individui in questa sequenza stratigrafica l’inizio dell’Antropocene, quando la specie sedicente
sapiens si mise follemente a devastare la sua casa planetaria.
Quando li si porta sul campo, in effetti gli studenti osservano negli strati sedimentari di sette
secoli fa una poltiglia inquietante fatta di ossa fossilizzate (umane per un terzo, di mucche,
pollame e suini per gli altri due terzi), elementi radioattivi, metalli pesanti, sferule carboniose,
plastiche, schermi di telefonini, discariche compattate. Questo è lo straterello geologico nascosto
anche sotto le graziose fattezze superficiali dell’Italia che stiamo visitando”, concluse la guida.
“Oggi formalmente l’Antropocene è fatto iniziare nell’anno 1945, 841 anni fa, ma la sua nascita
fu un processo durato alcuni secoli. Si trattò di una transizione rapidissima sul piano geologico,
ma tutto sommato lenta rispetto alle generazioni umane. Ne passarono più di venti, di
generazioni, prima che il processo giungesse a compimento, con gli effetti che vediamo oggi.
Eppure non si fece quasi nulla per evitarlo. I nostri predecessori fecero come la rana che non si
accorse di finire bollita perché l’acqua si scaldava lentamente. Quando le società umane
collassano, non se ne accorgono o fingono di non accorgersene se non una volta che si ritrovano
quasi sul bordo del baratro. Poi è troppo tardi comunque”.
Su questo finale pessimista e meditabondo, che trovò d’accordo quasi tutti più per stanchezza
che per convinzione, il treno a levitazione magnetica frenò e sibilò facendo il suo ingresso alla
stazione di Firenze. La visita al celeberrimo centro storico fu bellissima, ma meno sorprendente
del previsto, poiché ormai di città palafitticole ne avevano viste parecchie. Anche il capoluogo
rinascimentale, infatti, era diventato una Venezia in Toscana, quando ormai la Venezia vera non
c’era più. Stesso destino di Verona e di Bologna, ma su un mare più calmo. Affacciava infatti,
come Prato e Pistoia del resto, sulla laguna di Firenze, un ampio specchio lacustre che si
frapponeva tra la discesa appenninica dell’Arno, da una parte, e un vasto arcipelago che arrivava
fino al Tirreno, dall’altra. Milordo dai canali di Firenze vide enormi stormi di fenicotteri levarsi
in volo e poi posarsi di nuovo, misti ad altri variopinti uccelli tropicali con il becco strano, di cui
non sapeva il nome.
In pratica, il mare si era incuneato fino al centro della penisola. La laguna era collegata al mare
di Fucecchio attraverso il canale dell’Arno, da dove transitavano le merci per Firenze, che però
aveva ormai abbandonato la sua vocazione commerciale per diventare una meta esclusivamente
turistica, nelle stagioni più fresche dell’anno. D’estate era invivibile e tutti si spostavano sulla
cresta appenninica. Il mare di Fucecchio dava poi sul golfo lucchese dopo capo Montecarlo, da
una parte, e sul mare pisano dall’altra. Nel mezzo, un arcipelago di isole, tra le quali le isole
Cerbaie, l’isola di Montepisano e l’isola di Santa Maria. Sul lato meridionale della grande baia
frastagliata, che un tempo aveva ospitato i deliziosi ed eleganti paesaggi toscani raffigurati nei
poster di tutti gli uffici del mondo, si aprivano incantevoli insenature, come il seno d’Elsa, il seno
di Era e i seni livornesi.
Città per secoli rivali, come Lucca, Pisa e Livorno, ormai condividevano lo stesso amaro destino:
sommerse dall’onda antropocenica. I lucchesi avevano trovato rifugio in Garfagnana. I pisani si
erano trasferiti sull’isola di Montepisano, che controllava l’accesso all’arcipelago dell’Arno,
mentre i livornesi, ovviamente in direzione opposta, si erano insediati sulle colline tra la baia del
Savarano e il seno di Volterra. Altri si erano sparpagliati lungo il golfo di Maremma Tusculana e
giù fino al golfo di Suvereto, al golfo di Follonica e al mare di Grosseto, che si era ripreso le
terre bonificate. Di fronte alla costa ritiratasi, le isole del Tirreno centrale si erano moltiplicate: di
fronte all’isola di Populonia, l’isola d’Elba era diventata un piccolo arcipelago autonomo
(composto da isola di Rio, isola di Calamita, isola di Mezzo e isola di Marciana, la più vicina alla
Corsica), abitato da grossetani e maremmani in cerca di sollievo nei periodi di massimo caldo.
Le due notti a Firenze furono umide e appiccicose. Era tutto musealizzato e climatizzato.
Difficile distinguere gli originali dalle copie in alta risoluzione. Fuori sembrava un forno. Il suq
era un formicolio di merci da tutto il sud del mondo. Si faceva fatica a respirare, e a restare.
Meglio spostarsi sul mare, anticipò la guida, ma tornando sul lato adriatico.
Acqua dolce che cala, acqua salata che cresce
Quale che sia il livello di riscaldamento che assumerà il pianeta, non c’è dubbio che tutta
l’umanità, e l’Italia in modo particolare, dovrà fare i conti con problemi di gestione sia di acqua
dolce sempre più scarsa e di cattiva qualità, sia di acqua salata sempre più acida e invasiva.
Per quanto riguarda l’acqua dolce, gli scenari proposti dall’IPCC prevedono una riduzione della
quantità della risorsa idrica rinnovabile, sia superficiale che sotterranea, in particolare nelle zone
semi-aride come quella mediterranea. I cambiamenti climatici modificheranno in modo marcato
il flusso fluviale stagionale: la temperatura crescente aumenterà l’evapotraspirazione (ovvero la
quantità d’acqua che passa allo stato di vapore per effetto congiunto della traspirazione delle
piante e dell’evaporazione diretta dal terreno) e innalzerà il limite nevoso ad altitudini e latitudini
sempre maggiori. Periodi prolungati di siccità, cambiamenti nel regime delle precipitazioni,
riduzione degli afflussi in falda e nelle portate (con il rafforzamento del carattere torrentizio dei
corsi d’acqua) metteranno a rischio non solo la disponibilità d’acqua, ma anche la sua qualità:
aumenteranno infatti i fenomeni di eutrofizzazione, la concentrazione di sostanza organica
disciolta e di nutrienti come nitrati e fosfati, e i contaminanti da attività umane, e si ridurrà
l’ossigeno, con fenomeni di anossia e diffusione di specie potenzialmente tossiche come i
cianobatteri.
Tutto ciò contribuirà ad accentuare la competizione per l’acqua, tra uso civile, agricolo,
industriale ed energetico, particolarmente nella stagione calda, quando le risorse saranno sempre
più scarse e la domanda elevata. In una simile situazione giocherà un ruolo fondamentale
l’efficienza gestionale, ovvero non potrà esserci spazio per inadeguatezze infrastrutturali come
quelle attuali: con un utilizzo medio tra il 30 e il 35% delle sue risorse idriche rinnovabili (a
fronte di un obiettivo europeo di efficienza che prevede di estrarne non più del 20%), l’Italia è
considerata un Paese con stress idrico medio-alto. Dal rapporto ISTAT 2019 sull’utilizzo e la
qualità della risorsa idrica risulta che il prelievo d’acqua a uso potabile è in crescita (+6,9% dal
1999) e ammonta a 9,5 miliardi di metri cubi, pari a 156 metri cubi pro capite all’anno
(equivalenti a 428 litri per abitante al giorno): è il più elevato tra i Paesi europei. Tuttavia,
solamente 8,8 miliardi di metri cubi (l’80% del volume prelevato) sono immessi nelle reti di
distribuzione dell’acqua potabile e il volume erogato agli utenti è ulteriormente ridotto
dell’11,6% a causa di dispersioni di rete. Le perdite percentuali reali ammontano al 38,8% e sono
in aumento rispetto al 2012, non solo a causa di rotture nelle condotte, ma anche di consumi non
autorizzati. Ne consegue che quasi la metà del volume di acqua prelevata alla fonte (47,9%) non
raggiunge gli utenti finali a causa delle dispersioni dalle reti di adduzione e distribuzione.
L’agricoltura rappresenta l’altro grande settore di utilizzo della risorsa idrica. In base ai dati del
6° Censimento generale dell’Agricoltura (ISTAT 2010) risulta che l’Italia è tra i Paesi europei
che maggiormente fanno ricorso all’irrigazione: con più di 2,4 milioni di ettari, è seconda in
termini di superficie irrigata solo alla Spagna e quarta in termini di incidenza della superficie
irrigata sulla superficie agricola utilizzata (19%) dopo Malta, Cipro e la Grecia. Nell’annata
agraria 2009-2010, il volume di acqua destinata a uso irriguo è stato pari a 11.6 miliardi di metri
cubi (in media 4.666 metri cubi per ettaro di superficie irrigata). In genere, a una maggiore
disponibilità d’acqua corrisponde un uso meno oculato. Gli scarsi regimi del futuro imporranno
un aumento dei tassi di efficienza e l’adozione di colture meno esigenti: le tecniche di
sommersione richiedono in media 15.000 metri cubi per ettaro, lo scorrimento superficiale 5.500,
mentre la micro-irrigazione ne richiede solo 3.500.
Sempre l’ISTAT ha stimato l’uso d’acqua per la produzione di energia elettrica e per il
raffreddamento degli impianti termoelettrici intorno ai 18,5 miliardi di metri cubi, di cui tuttavia
solo l’11,9% proviene da acque interne, mentre il restante arriva dal mare.
I cambiamenti climatici avranno un impatto pronunciato soprattutto sulle portate più basse, con
una diminuzione stimata di oltre il 40% entro il 2080, derivato sia da una riduzione delle
precipitazioni sia dall’aumento dell’evapotraspirazione dovuta alle temperature elevate, che
giocherà un ruolo crescente e sempre più significativo nelle stime di bilancio idrico.
Fenomeni di siccità e riduzione delle portate, uniti a condizioni di sovra-sfruttamento della
risorsa idrica, renderanno poi i corsi d’acqua e le falde sotterranee costiere più esposti all’azione
del mare, con conseguente aumento di salinità nelle riserve di acqua dolce. L’ingressione del
cuneo salino è già oggi un problema molto sentito nel delta del Po: nel lungo periodo (2071-
2100) il calo di portata del più lungo fiume d’Italia diventerà ancora più pronunciato, con un
deflusso alla foce che si ridurrà a 33 chilometri cubi rispetto agli oltre 50 attuali, incrementando
in questo modo anche il ruolo dell’evapotraspirazione, che diventerà più rilevante dei prelievi
antropici.
Per quanto riguarda le masse d’acqua salata, i tre problemi più rilevanti a livello planetario
saranno l’aumento di temperatura delle acque, il loro progressivo innalzamento e la crescente
acidificazione. Non sappiamo quale configurazione assumeranno i mari del futuro, e se essi
saranno destinati a ripercorrere le sorti del mare pliocenico: allora la temperatura dell’acqua
marina era più elevata di quella attuale, come dimostra il fatto che l’ittiofauna che popolava
quell’antico mare è oggi presente con le stesse specie o con specie affini nelle calde acque
dell’oceano Indiano e dei mari tropicali, specie che possiamo ritrovare allo stato fossile tra le
colline carbonatiche italiane.
Oggi gli oceani si scaldano molto più velocemente di quanto non sia accaduto in passato, con un
aumento di temperatura a livello globale di 0,44°C tra il 1971 e il 2010. Il tasso di riscaldamento
degli oceani è più che raddoppiato dal 1993 nello strato d’acqua compreso tra la superficie e i
2.000 metri di profondità: questo aumento nel corso dell’ultimo secolo è senza precedenti. Per
quanto riguarda il Mediterraneo, le anomalie su base annua indicano un innalzamento della
temperatura superficiale di circa 1,2°C. L’aumento maggiore nel periodo invernale e primaverile
si ha per il bacino Adriatico, con valori compresi tra 1,5°C e 2°C, mentre nel periodo estivo le
anomalie più alte e diffuse si hanno nel mar Tirreno (circa 1,5°C). Tutte le aree costiere italiane
saranno caratterizzate da un incremento di temperatura rispetto al periodo 1981-2010, che varia
da un minimo di 1,3°C nelle zone del Mediterraneo centro-occidentale e nel mar Ligure a un
massimo di 1,6°C nell’Adriatico centro-settentrionale.
L’aumento del livello del mare nelle ipotesi dell’IPCC è strettamente correlato alla quantità di
CO2 presente in atmosfera: con 450 ppm è previsto un aumento fino a 30 centimetri rispetto
all’era preindustriale. Il livello degli oceani è cresciuto con un ritmo di 3,6 mm all’anno nel
periodo 2005-2015, ma nello scenario ad alte emissioni l’aumento previsto a fine secolo è di
circa 0,84 metri rispetto al periodo 1986-2005, un aumento strettamente legato alla fusione dei

dal suo stesso riscaldamento.𝚎𝚜𝚌I𝚞𝚜𝚒𝚟𝚊 𝚍𝚎𝚕 𝚜𝚒𝚝e 𝚎v𝚛𝚎c𝚊𝚍l


ghiacci della Groenlandia, di parte della calotta polare antartica e all’espansione termica causata

I problemi non saranno dati soltanto dall’innalzamento di livello e dall’ingressione del cuneo
salino: l’aumento delle concentrazioni di anidride carbonica porterà a un aumento del tasso di
acidità degli oceani compreso tra 0,14 e 0,35 unità di pH entro il 2100, e ciò contribuirà a
trasformare profondamente l’ecosistema marino già messo a dura prova dallo sfruttamento ittico
(tra il 1972 e il 2012 il numero di pesci è diminuito del 50% per la pesca eccessiva e il
degradamento delle risorse idriche). Il mare diviene più corrosivo per gli animali e gli organismi
che lo abitano, riducendo il processo di calcificazione e il tasso di riproduzione delle conchiglie,
aumentando il rischio di estinzione per specie e barriere coralline. Cambiamenti nella
temperatura e nella salinità potrebbero comportare modifiche e forse anche interruzioni della
circolazione termoalina, ovvero del grande nastro trasportatore che rimescola le acque degli
oceani.
Senza l’adozione di strategie e misure di adattamento, assisteremo dunque a un incremento dei
rischi di inondazione e di eventi estremi per le comunità costiere e all’insorgenza di sempre più
problematiche per la biodiversità marina (ingressione di specie più adatte alle alte temperature,
maggiore incidenza di patologie, riduzione di popolazioni ittiche oggi commercialmente
importanti, riduzione del potenziale di pesca e delle risorse marine in generale), con conseguenze
negative per la sicurezza alimentare, il turismo, l’economia e la salute.
5
PICENUM ET SAMNIUM
Norvegia mediterranea
“Questa parte della visita vi sorprenderà assai”, aveva detto la generalessa del tour. Un altro
treno levitante transappenninico aveva imbarcato tutti e in meno di un’ora li aveva catapultati
dall’altra parte delle montagne, ma in direzione est. C’era di nuovo il mare che, calmo e caldo,
sembrava cingere d’assedio la sempre più esile penisola. Qualcosa però, nella consunzione della
costa, negli scogli scaraventati, nelle grotte scavate, nei resti dei fiumi di fango, lasciava
chiaramente intendere che quello stesso mare in un’altra stagione sapeva essere violentissimo e
impetuoso. Portava via tutto e si doveva correre all’interno, sulle colline brulle alle spalle dei
fiordi, per non finire annegati.
Sì, fiordi, dappertutto, come Milordo li aveva visti solo in Norvegia, ma con tutt’altri colori, altri
verdi erbosi e grigi di cieli, altri neri profondi del mare. Questi fiordi invece erano arsi sulle
sommità e tolleravano qualche sprazzo di vegetazione solo nei versanti riparati. “Siamo nella
regione adriatica”, spiegò la guida, “dove un tempo c’erano le regioni delle Marche,
dell’Abruzzo e del Molise. Ci fermeremo cinque giorni e in treno subacqueo potrete visitare a
vostra scelta tutti i fiordi che volete”, promise. I turisti capirono presto cosa intendeva con linea
subacquea. Tutto il versante orientale della penisola, dall’ultima città palafitticola che era sorta
all’imbocco del mare Padano, cioè Rimini, verso sud giù fino a Termoli, era diventato negli
ultimi tre secoli un’unica grande regione interconnessa, a vocazione turistica e commerciale, con
una lunghissima sequenza di piccoli abitati bianchi in cima ai fiordi e poi una corrispondente
trama di città sotterranee, al riparo dagli eccessi tropicali del clima, connesse tra loro da treni
superveloci che correvano in tunnel sottomarini e non si vedevano mai in superficie.
Dall’esterno, clima a parte, erano panorami da cartolina. Sembravano certe immagini delle isole
greche del Duemila. Case bianche, impreziosite da infissi e porte dai colori pastello, un mare
azzurro confuso con il cielo. Ma la vita reale – uffici, negozi, mercati, officine, caserme – era
tutta sotto, su più livelli. I treni avevano una gradazione di fermate: alcuni, per gente indaffarata,
scaricavano solo a Pesaro, Ancona, Pescara e Termoli, che erano anche porti trafficati; altri treni
ti lasciavano invece in zone turistiche affollate; altri ancora, ai quali Milordo si appassionò
subito, erano altresì treni locali velocissimi, per viaggiatori curiosi e pendolari mischiati assieme,
praticamente metropolitane del mare, che si fermavano in ogni fiordo. Se li facevano tutti, uno
dopo l’altro, nome dopo nome. Partivano, acceleravano muti, e un attimo dopo erano già alla
fermata successiva.
Milordo divorò quei cinque giorni senza praticamente fermarsi mai. Cominciò dalla costa delle
rias marchigiane, tra la baia di Pesaro, su cui affacciavano le vestigia di Urbino appollaiate di
guardia, e la ria del Metauro, troppo congestionata, fino alla baia dell’Esino, poco prima di
Ancona, città che era diventata un lungo e frastagliato abitato aggrappato sulla costa, con il porto
sottostante. Il monte Co-nero era circondato dal mare e formava una splendida penisola che si
protendeva nell’Adriatico, proteggendo all’interno un capolavoro naturalistico e santuario di
biodiversità, la baia delle Fisarmoniche, dove Milordo fece il bagno in una spiaggia protetta con
le reti anti-coccodrillo. I pappagalli gli fecero compagnia fino al tramonto e dormì in un lodge
nel villaggio antico di Osimo.
Scese poi di fiordo in fiordo fino all’insenatura Leopardi e alla baia di Civitanova. Da qui
esplorò meticolosamente la costa delle rias abruzzesi, dalla ria del Tronto alla ria del Pescara, e
poi la ria del Sangro, la splendida costa del parco nazionale teatino, la baia di Vasto, la ria del
Biferno, giù fino alla baia di Chieuti e alla ria del Fortore. Rimase fortemente colpito da come le
popolazioni adriatiche erano state in grado di ripensare in modo costruttivo il loro rapporto con
l’acqua. Da nemica e assassina, portatrice di alluvioni da terra e di tempeste dal mare, l’avevano
trasformata in un’alleata, non solo per i collegamenti veloci, ferroviari e navali, ma anche per
l’economia, un’autentica economia subacquea. Usavano l’acqua per i campi eolici, per le piscine
di raffreddamento, come schermo ai raggi solari. La depuravano in modo efficace per uso
industriale. Quella potabile e di sorgente, invece, la raccoglievano e la custodivano quasi
sacralmente nell’entroterra.
Uscendo dalla fascia costiera, però, il felice connubio di alte tecnologie ed elementi naturali si
rompeva. Il dolce e fertile paesaggio di un tempo non c’era più, riarso dal sole tropicale e dai
venti del deserto, spazzato e dilavato dalle precipitazioni violente e improvvise. L’Italia interna
dei borghi e delle piccole coltivazioni, delle mille varietà e tradizioni, non esisteva più da secoli,
anche perché, a differenza delle Alpi, gli Appennini, tranne alcune zone molto elevate come la
cima del Gran Sasso, avevano smesso presto di essere un rifugio dalle arsure delle pianure e
delle coste. Avevano quindi attraversato una lunga fase di abbandono e ora erano abitati quel
tanto che bastava per sfruttarne in profondità le risorse idriche e minerali.
Facevano eccezione, appunto, le terre più alte, in particolare i monti Sibillini, il Gran Sasso e la
Maiella, che erano diventate la destinazione di un flusso di migranti interni sempre più cospicuo,
gente alla ricerca di coltivazioni in quota e di prati su cui far pascolare pecore e capre. Ma erano
agricoltura e allevamenti di precisione, che non potevano sostentare più di un certo numero di
famiglie. Nondimeno, la densità di popolazione attorno a queste vette era inusitatamente alta e
ciò creava frequenti conflitti. Nella pancia del Gran Sasso, poi, venne a sapere Milordo, esisteva
un gigantesco laboratorio sotterraneo europeo, di lunga tradizione, per lo studio non più della
fisica delle particelle alle alte energie, che era arrivata ai suoi limiti umanamente esplorabili, ma
del clima e delle tecnologie per resistere su una Terra sempre più calda. Non si chiamavano più
tecnologie “sostenibili”, perché ormai si era capito che Homo sapiens non era stato quasi mai
sostenibile per gli ambienti in cui viveva. Quindi si chiamavano più semplicemente tecnologie
“vitali”.
L’appuntamento per il rientro di tappa era in fondo alla ria del Tronto, in una ridente località
affacciata sul mare chiamata Ascoli Piceno, da dove il gruppo prese di nuovo una corriera a
idrogeno per raggiungere l’antica capitale, Roma. Non lo avrebbero fatto, però, per la via breve e
diretta, quella autostradale e ferroviaria classica, che partiva da Pescara, bensì arrivando lungo un
fiume, anzi lungo un fiordo, un altro fiordo ancora, ma vieppiù inaspettato perché originatosi
sull’altro versante, il Tirreno, e tanto profondo da spaccare quasi in due la penisola. Il mezzo si
inerpicò da Ascoli verso Arquata del Tronto. Tutto attorno, calanchi smussati e sorgenti sulfuree.
I borghi medioevali erano stati abbandonati a causa dei frequenti e devastanti terremoti.
Nell’ultimo millennio la placca africana aveva continuato a spingere verso nord, spostando
l’intera penisola italiana di quindici metri. Per le vie deserte dei paesi si portavano i turisti in
pellegrinaggio a vedere com’era il mondo nei secoli dopo il Medioevo.
Gli abitati nuovi erano per lo più identici: casette antisismiche decorose e dallo stile un po’
nordico, che strideva con il clima torrido, messe là tutte in fila, ordinate, quelle con il giardinetto
e quelle con il balcone, disposte su assetti urbani razionali e impeccabili, divise da strade e
viottoli ben tenuti. Ricordavano certe foto dei quartieri residenziali americani. Milordo vide la
stessa scena a Pescara del Tronto, Norcia, Spoleto, Terni. Rimase scosso dalla vista di
Castelluccio, ricostruita e vuota, arroccata splendidamente tra i monti Sibillini, i cui abitanti si
erano trasferiti più in quota, sulle pendici del monte Vettore, sopra i 1.500 metri. Il caldo aveva
portato anche in altura il tonchio e altri parassiti che attaccavano le piante di lenticchia, divenute
sempre più rare e preziose. Così la gente del luogo aveva imparato a integrare questa coltura
tradizionale con papaie e manghi rinomati e particolarmente gustosi grazie alle speciali
condizioni climatiche dell’altopiano carsico. Non i kiwi, perché volevano troppa acqua e il lago
di Pilato si era prosciugato trecento anni prima.
Dopo un tratto pieno di curve tra colline di tufo e terre vulcaniche abrase, la corriera arrivò sul
bordo di una grande diga dismessa e corrosa, sopra la quale si stendeva l’alveo di un bacino
artificiale ormai asciutto, il lago di Corbara, che forniva di acqua le acciaierie di Terni. Ma nel
2786 di acqua e di acciaierie non ce n’erano più. Il terreno era ovunque argilloso, di argille
marine, monito di un lontano passato geologico che stava tornando. Poco più a sud si aprì un
panorama straordinario. Uno striminzito torrente, che poi si seppe essere il Tevere, sfociava in
uno stretto e bellissimo fiordo. Sopra di esso, poco più a nord, vegliava da lontano sopra le valli
dei calanchi un borgo di ipnotica bellezza e fragilità, in parte distrutto dalle frane, in parte
mantenuto grazie a impalcature mimetizzate: Civita di Bagnoregio, una rupe maestosa, una
guglia naturale solo in parte addolcita dall’erosione, da quattro millenni di tenace lotta contro il
disfacimento della pelle del mondo.
La grande risalita verso le terre alte
Il suolo dell’Italia dell’Antropocene sarà, assieme all’acqua dolce, la risorsa più scarsa e contesa.
Se consideriamo i dati di uso del suolo elaborati dal programma europeo Copernicus, CORINE
Land Cover, per il 2018, l’ingressione marina immaginata nel 2786 si tradurrebbe nella perdita di
oltre il 40% dei frutteti, il 37% delle terre arabili, il 27% dei vigneti e il 15% degli uliveti.
Verrebbero inondate le aree di pianura a maggiore vocazione agricola che, per sfamare una
popolazione come quella attuale, sarebbero destinate a migrare sacrificando il bel paesaggio
collinare in cui oggi è presente un modello di agricoltura più estensivo o promiscuo,
caratterizzato da una significativa copertura vegetale (le zone agricole che la classificazione
CORINE Land Cover considera “eterogenee”, paesaggi intermedi o di transizione collinari e
pedecollinari), un fenomeno già ora riscontrabile per esempio nella contestata e inedita
estensione di vigneti intensivi di Prosecco nelle colline trevigiane e in val Belluna. Nello
scenario immaginato per il 2786, insomma, le poche terre fertili rimaste sarebbero contese tra
impulsi alla intensivizzazione produttiva, corsa all’urbanizzazione e creazione di invasi per la
raccolta d’acqua dolce sempre più scarsa. Tornerebbero forse al centro dell’attenzione paesaggi
terrazzati oggi in gran parte abbandonati e degradati: renderemmo grazie alla fatica di chi li ha
costruiti pietra su pietra, e ai lungimiranti sistemi di raccolta e drenaggio dell’acqua, pensati per
sfruttare ogni minimo apporto idrico in periodi di scarsità ma anche per drenare in maniera
efficace gli apporti di eventi meteorici concentrati, per via della permeabilità dei muri a secco. Si
invertirebbe così il trend di avanzata della copertura boschiva conseguente all’abbandono della
montagna che ha interessato tutto il territorio nel secondo Novecento.
La realtà, ancora una volta, è più complessa, e salire in montagna potrebbe non rivelarsi la
panacea di tutti i mali climatici che caratterizzeranno basse quote e aree urbane, come auspica
Luca Mercalli nel suo ultimo libro Salire in montagna. Prendere quota per sfuggire al
riscaldamento globale. Una voce da tenere in considerazione, per esempio, è l’aumento dei
fenomeni di dissesto e rischio idrogeologico. I cambiamenti climatici faranno aumentare in
frequenza e intensità gli eventi atmosferici estremi, come la tempesta Vaia che ha colpito la
montagna veneta nel 2018. L’innalzamento della temperatura e l’aumento di episodi di
precipitazione intensa hanno un ruolo importante nell’esacerbare il rischio: la fusione di neve,
ghiaccio e permafrost porterà a una variazione in magnitudo e stagionalità dei fenomeni di
dissesto nelle zone alpine e appenniniche; le forti piogge aumenteranno il rischio idraulico e
quello associato a frane. Ciò che emerge dalle analisi scientifiche è che i dissesti profondi
tenderanno a rallentare la loro attività, mentre ci si attende che aumenti la frequenza di eventi
franosi superficiali e veloci: un cambiamento nella tipologia e nella distribuzione del rischio
rispetto a quello attuale.
La grande variabilità climatica potrebbe inoltre portare i sistemi agricoli in quota verso una
maggiore fragilità e incertezza: riduzione delle rese per molte specie coltivate e forte variabilità
delle produzioni sono gli scenari più probabili, accompagnati da una diminuzione delle
caratteristiche qualitative dei prodotti, con risposte fortemente differenziate a seconda delle aree
geografiche e delle specificità colturali. In linea generale condizioni di rischio più elevato
potrebbero verificarsi per il Sud Italia, con perdita di vocazionalità (ovvero delle caratteristiche
ambientali che permettono lo sviluppo ottimale di una coltura) per prodotti tradizionali, e
maggiori costi per produzioni irrigue. Conseguenze negative sia dirette che indirette sono attese
anche per il settore dell’allevamento, con relative ripercussioni sulla qualità e quantità delle
produzioni lattiero-casearia e di carne.
Un ulteriore rischio è dettato dall’aumento degli incendi, una delle principali minacce per il
comparto forestale italiano. L’aumento delle temperature e la riduzione delle precipitazioni
medie annue, e allo stesso tempo la maggiore frequenza di eventi meteorologici estremi quali le
ondate di calore o la prolungata siccità, interagiscono con gli effetti dell’abbandono delle aree
coltivate, dei pascoli e di quelle che un tempo erano foreste gestite. Sono previsti incendi sempre
più pericolosi, spostamento altitudinale delle zone vulnerabili, allungamento della stagione degli
incendi e delle giornate con pericolosità estrema, che a loro volta si potranno tradurre in aumento
delle superfici percorse dal fuoco, con incremento nelle emissioni di gas serra e particolato.
Un altro aspetto da non sottovalutare è l’ingenerarsi di conflitti per l’acqua, soprattutto per
quanto riguarda gli usi intensivi. L’intensificazione e la meccanizzazione dei processi agricoli,
con un’ampia diffusione delle pratiche irrigue, hanno portato a una forte crescita della
produttività, ma anche del consumo di acqua dolce, con diverse conseguenze negative sulle
proprietà ecologiche dei sistemi agricoli, aumento dell’eutrofizzazione e declino della qualità
delle acque.
Un’opportunità positiva da valutare sarà la potenziale espansione verso nord degli areali di
coltivazione, soprattutto per specie mediterranee come l’olivo o la vite. Possibili incrementi di
vocazionalità sono previsti per l’olivo negli areali più settentrionali, ma questa espansione
potrebbe essere controbilanciata o addirittura vanificata dal calo di produttività negli areali
tradizionali. Alcuni studi riportano proiezioni di decremento di resa per molti areali di
coltivazione in Italia, dovuto sia all’incremento delle temperature che a condizioni di aridità
estiva. Anche per la vite, diverse ricerche evidenziano una generale riduzione del ciclo
vegetativo (con anticipo della maturazione soprattutto negli areali meridionali) e perdita di
produttività negli areali attuali con possibile espansione verso aree più settentrionali. In alcune
aree viticole del Trentino, per esempio, si potrebbe trarre beneficio dal cambiamento climatico,
che potrebbe portare a una migliore maturazione e a un miglioramento dello stato sanitario delle
uve; bisogna tuttavia tener presente che la coltivazione della vite nelle aree più settentrionali è
limitata dalla disponibilità di radiazione solare, dalle basse temperature primaverili e dalle alte
precipitazioni estive, che possono ridurre l’accumulo di zucchero nell’uva e aumentare il rischio
di danni da parassiti, in particolare gli attacchi di peronospora. In generale, le aree del Sud
Europa subiranno le maggiori perdite nelle produzioni di elevato livello a causa della siccità, ma
anche delle temperature molto elevate che possono incidere sulla qualità (degradazione
organolettica, contenuto alcolico troppo elevato, etc.).
Anche le foreste si stanno adattando alle nuove condizioni climatiche, modificando la
composizione dei popolamenti e “muovendo” i loro areali sia in termini latitudinali che
altitudinali. Si prevede nel bacino del Mediterraneo una forte riduzione di vocazionalità per
molte delle specie caratterizzanti i popolamenti forestali, particolarmente accentuata nella
regione appenninica e nei rilievi prealpini. In Italia l’alterazione nella distribuzione porterà a una
riduzione del numero di specie e, quindi, della diversità forestale locale. Si assisterà a una
riorganizzazione delle associazioni a vantaggio di specie meno esigenti in termini di disponibilità
idrica e più capaci di tollerare periodi siccitosi e caldi più lunghi: per l’importante gruppo delle
querce mediterranee (roverella, leccio, cerro), per esempio, diventerà proibitivo il margine
meridionale dell’areale (Sicilia), a causa dell’elevato rischio di desertificazione, mentre si
prevede un ampliamento areale a nord.
Sicuramente un limite alla possibilità di espansione verso nuovi areali di coltivazione sarà il
ricorrere di eventi climatici estremi sempre più frequenti. Il manifestarsi tra l’altro di ondate di
calore, di periodi siccitosi, di eventi di precipitazione intensa o di gelate durante specifiche fasi
dello sviluppo – come la fioritura, l’impollinazione e il riempimento del frutto – potranno
ulteriormente accentuare gli impatti determinati dalle variazioni del clima.
Il Rapporto sullo stato delle foreste e del settore forestale in Italia del 2019 stima il patrimonio
forestale in circa 11 milioni di ettari di foreste e terre boscate, oltre il 35% del territorio
nazionale: un patrimonio in costante aumento, frutto principalmente della colonizzazione
spontanea di aree marginali da parte di boschi di nuova formazione a seguito dell’esodo rurale e
montano. Tale fenomeno, che riguarda con intensità diversa tutte le regioni italiane, potrebbe
subire una inversione di tendenza, dal momento che soltanto il 18% della superficie forestale
nazionale risulta oggi interessata da piani di gestione o di assestamento. Un rinnovato interesse
per questo patrimonio potrebbe contrastare la maggiore vulnerabilità ai fenomeni di disturbo,
quali incendi, attacchi parassitari ed eventi meteorologici avversi. Una politica capace di
orientare il riutilizzo sostenibile delle aree montane, non solo boschive, recuperando e dando
centralità al concetto di cura e manutenzione attiva praticata nei secoli passati, sembra dunque
essere in futuro una necessità, non solo per garantire gli equilibri della montagna, ma per l’intero
sistema-paese, o quel che di esso resterà.
6
LATIUM
Mare Nostrum di Roma
Proprio così. Il mar Tirreno si incuneava nella penisola come una spada che trafigge dal basso.
Apriva a metà le province di Terni e di Viterbo, fino all’altezza del lago di Bolsena, che da tre
secoli era tornato a essere il cratere secco e brullo di un antico vulcano, come il lago di Vico,
quello di Bracciano e molti altri. La Terra, sotto questa prospettiva, non era poi tanto diversa
dalla Luna. Il fiordo tiberino aveva creato una grossa penisola in quello che una volta era l’alto
Lazio. A nord del golfo di Maremma Latina, la costa era coronata da isole di recente formazione.
Il golfo frastagliato di Saturnia era un’altra delle rare riserve naturali italiche – una meraviglia di
anfratti marini, spiagge tropicali, sorgenti termali e rovine etrusche congelate nei secoli – protetta
al largo dall’isola Alberese, dall’isola di Santo Stefano (di fronte all’isola del Giglio, mentre
Giannutri era ormai solo uno scoglio) e dalle isole del Leccio sul lato meridionale. A sud invece
il golfo di Maremma Latina si chiudeva con due magnifiche insenature profonde, mete ambite
dai gitanti di tutto il Paese: il seno di Tarquinia e il seno di Aurelia. Qui venivano a depositare le
uova le tartarughe marine tropicali che avevano colonizzato il Mediterraneo, attratte dalle
sterminate popolazioni di meduse di cui questi animali sono ghiotti.
La corriera a idrogeno del Grand Tour dell’Italia dell’Antropocene stava quindi per avvicinarsi a
una delle destinazioni più agognate dai protagonisti dei Grand Tour antichi, abbacinati
com’erano da rovine, templi, nobili dimore, vedute neoclassiche: quella Roma eternamente
decaduta, sempre memore di imperi crollati, di commovente bellezza e disperante
ingovernabilità. Nessuno nel gruppo però avrebbe mai previsto la scioccante realtà di una
capitale dislocata, anch’essa invasa dall’acqua nei secoli e salvata solo grazie a un megalomane
progetto di sollevamento e spostamento di ampie porzioni dell’urbe romana. La città che vantava
il più vasto territorio metropolitano d’Europa ne era stata privata quasi completamente.
La terra non era più ferma. Roma, del resto, era nata anche su terreni di antichissima bonifica
strappati al mare, che ora cercava vendetta. Con infida lentezza le acque si erano fatte strada da
Ostia e da Fiumicino in su. Nei primi decenni era stato strano vedere come gli antichi porti
insabbiati fossero tornati a essere lambiti dal mare. Era successo anche ad Aquileia e a Ravenna.
Poi però anche i vecchi porti erano stati sommersi. Sulle prime si era pensato a una grande
muraglia a forma di arco, da Cerveteri ad Anzio, ma il fondale era troppo spugnoso e instabile,
ben presto sarebbe stato permeato. Quando il Tevere si era gonfiato e aveva iniziato a lambire
l’EUR e il Corviale, si era passati al piano più ambizioso: innalzare e sparpagliare Roma. Il resto
sarebbe diventato un insieme di quartieri palafitticoli, come a Verona, Bologna e Firenze. Era
stato un processo lungo che aveva stravolto la regione, una corsa al rallentatore contro il tempo,
che dava ragione al mare, al formarsi di voragini, di laghi e di lagune. La città che si pensava
eterna venne gradualmente infiltrata e impregnata.
Il fiordo tiberino per un primo tratto settentrionale era molto stretto. La strada correva spesso a
strapiombo e le acque in certi passaggi sembravano ancora quelle di un largo fiume. Ma non
scorreva nulla perché era acqua di mare, nel bel mezzo dell’Italia. Dopo Ponzano Romano
l’insenatura tiberina si allargava, voltava verso sud e diventava un vero e proprio mare interno
tiberino. Nel frattempo era già cominciata la periferia romana, che si era espansa in tutte le
direzioni possibili: sfiorava il lago di Bracciano a nord e Pomezia a sud, inoltrandosi fino a oltre
Tivoli e Guidonia all’interno. Le due sponde del mare Tiberino erano quindi addensate di nuovi
quartieri, distretti industriali, capannoni, centri direzionali che un paio di secoli prima dovevano
esser sembrati avveniristici. Il traffico fluviale era intenso e frequenti tunnel sottomarini
portavano da una parte all’altra merci e persone.
La Roma del 2786 era una metropoli tropicale i cui nervi scorrevano sottoterra e sottacqua,
protesa in scambi commerciali che la collegavano a tutto il resto del mondo. A Milordo venne in
mente un racconto che piaceva molto a suo padre, filologo. Era di uno scrittore loro conterraneo,
Robert Musil, che poco più di otto secoli prima aveva descritto, nelle pagine introduttive a un
romanzo incompiuto dal titolo L’uomo senza qualità, una terra del futuro chiamata Cacania,
parodia affettuosa dell’impero asburgico decaduto. Se l’era immaginata come una città in cui
tutti corrono o si arrestano con il cronometro in mano, dove aria e terra costituiscono un
formicaio, “attraversato dai vari piani delle strade di comunicazione”. Anticipando ciò che poi in
effetti sarebbe avvenuto, Musil aveva scritto: “Treni aerei, treni sulla terra, treni sotto terra, posta
pneumatica, catene di automobili sfrecciano orizzontalmente, ascensori velocissimi pompano in
senso verticale masse di uomini dall’uno all’altro piano di traffico; nei punti di congiunzione si
salta da un mezzo di trasporto all’altro, e il loro ritmo che tra due velocità lanciate e rombanti ha
una pausa, una sincope, una piccola fessura di venti secondi, succhia e inghiotte senza
considerazione la gente, che negli intervalli di quel ritmo universale riesce appena a scambiare in
fretta due parole”.
Ecco cosa gli sembrava questa Italia, anch’essa impero di bellezza decaduto, pensò Milordo: un
formicaio brulicante, una società che alla velocità orizzontale ha aggiunto la stratificazione
verticale, vuoi per carenza di spazio geografico vuoi per difesa contro un clima ormai
inclemente. Adesso ricollegava tutto: le città palafitticole, le metropoli di montagna, le mostruose
conurbazioni, i tunnel transappenninici come gallerie di insetti, la solare civiltà acquatica
adriatica con i suoi treni sottomarini, i villaggi antisismici fatti di bioplastiche degradabili; e
adesso Roma, persino lei, avvinta dal ritmo universale del 2786, trasformatasi in una parvenza
del passato che dialoga con un presente che ancora non si capisce cos’è, perché muta
incessantemente.
La conferma arrivò dopo pochi minuti. A una trentina di chilometri a nord rispetto a dove un
tempo c’era il Colosseo, dopo un’ampia curva dell’autostrada, a sinistra si spalancava uno
scenario mozzafiato. Nemmeno la guida parlò, non ce n’era proprio bisogno. Milordo vide
aprirsi un vasto mare interno, detto mare del Lazio, che si allungava a est nella baia di Tivoli.
L’autista disse che con il binocolo si poteva vedere, affacciata sulla scogliera, la Villa di Adriano,
completamente rifatta nel 2700 esattamente come l’aveva progettata l’imperatore, in un periodo
in cui la prevalenza del kitsch transumanista aveva reso ammissibili certe imprese di archeologia
ricostruttiva. Di fronte, mentre i ponti scavalcavano insenature usate come riparo per navi
cisterna, dette seni romani, si vedeva l’isola Sallustia, circondata da quartieri di palafitte e da
montagnole artificiali sopra le quali erano distribuiti, con una logica non chiara, i grandi
monumenti romani celebri in ogni angolo del pianeta e imitati da qualsiasi urbanista e architetto
neo-nostalgico.
Il colpo d’occhio era straniante. Le sommità dei sette colli non si distinguevano più, perché in
parte sommerse dall’acqua e in parte sommerse dalle abitazioni. Era tutto un continuum di
edificazioni e di movimenti, un via vai, un formicaio appunto. La guida si era attivata per
mostrarci i pezzi forti, ma non era necessario, tanto spiccavano, sopraelevati scenograficamente.
Cinecittà aveva conquistato la città, la riproduzione l’originale. L’effetto cartapesta divenne
ancora più fastidioso quando la corriera cominciò a rallentare facendo scendere ogni tanto i
turisti per qualche foto. Il Colosseo, il Foro Romano, la Domus Aurea, l’Ara Pacis, San Pietro,
Castel Sant’Angelo e tutto il resto erano veri, forse, o almeno sembravano proprio loro, fatti a
pezzi e ricomposti, ma per interromperne il decadimento erano stati spalmati, o chissà
impregnati, di resine e di fissanti. La scelta sarà stata anche motivata da esigenze di
conservazione, ma quelle superfici lucide, quasi laccate, e riflettenti, erano un pugno nell’occhio
e andavano ben oltre la musealizzazione estrema. Un trionfo di artificialità estetica, ammesso che
vi fosse ancora qualcosa che si potesse dire naturale in quel termitaio antropocenico.
Nei tre giorni seguenti la guida fece del suo meglio per riassettare il puzzle disordinato della città
eterna, finché tutte le tessere principali non furono rimesse al loro posto, ovviamente solo nella
memoria giacché quelle reali erano scompaginate sulla superficie liscia e placida del mare del
Lazio. Si concessero anche due extra molto graditi (oltre alle trattorie romane che erano rimaste
sempre le stesse, ma le cui verande affacciavano adesso tutte sul mare): un tour con un battello
dal fondo trasparente per vedere alcuni monumenti che la municipalità aveva deciso di lasciare
dov’erano o non aveva fatto in tempo a far riemergere (e quelli sì che sembrarono veri,
finalmente, con le loro incrostazioni, le alghe, i cirripedi e i molluschi, un patrimonio
sommerso); e infine una gita a Castel Gandolfo, sulla cresta del lago Albano asciutto, dove
risiedeva stabilmente il papa dopo la scomparsa sottacqua dell’intera Città del Vaticano. Qui
Milordo notò, in un angolo, la statua di un certo papa Francesco, il primo papa, poi dimenticato,
a scrivere otto secoli prima un’enciclica sulla necessità di salvare il clima e il pianeta per le
generazioni future. Milordo concluse tra sé e sé che, in fondo, i sentimenti di chi faceva il Grand
Tour nel Settecento o nell’Ottocento alla ricerca di antichità ed esperienze esteticamente forti,
ancorché talvolta conturbanti, non erano poi tanto diversi dai suoi.
Città come gironi infernali
Ciò che più colpisce di questa immaginaria Italia del 2786 è in prima battuta l’impressionante
serie di città “a mollo”: la quantità di superficie urbana e di patrimonio edilizio sommerso
dall’acqua va ben oltre il 20% del territorio. La fusione completa delle masse glaciali terrestri
metterebbe a rischio oltre il 38% dell’edificato urbano attuale, il 48% delle aree industriali e
commerciali, metà della rete stradale e ferroviaria, oltre la metà degli aeroporti. Incalcolabile
invece è il valore del patrimonio storico e architettonico perduto, e non solo nei casi riconosciuti
come Patrimoni Mondiali dall’UNESCO: i centri storici di Roma, Firenze, Pisa, Venezia, Verona,
Ferrara, Ravenna, Napoli, Mantova, Modena, l’Orto Botanico e la Cappella degli Scrovegni di
Padova, i siti archeologici di Aquileia finirebbero sott’acqua, e le città di Pompei ed Ercolano
appena emerse verrebbero sepolte per la seconda volta.
Ma al di là di soluzioni più o meno avveniristiche per la salvaguardia di monumenti e centri
storici di valenza eccezionale, o di costosissime quanto fantascientifiche traslazioni e
gemmazioni urbane in siti più protetti, è la stessa vivibilità cittadina nel suo complesso a essere
messa in discussione nel prossimo futuro, anche dove non interessata da ingressioni marine.
Le città sono dei veri e propri “hot spot”, ossia aree geografiche caratterizzate da vulnerabilità ed
esposizione molto elevate. È proprio qui che i cambiamenti climatici condensano i loro effetti,
interessando un’elevata percentuale della popolazione. L’ambiente urbano attuale infatti è
caratterizzato da un’alta percentuale di superfici impermeabili, ricoperte da cemento e asfalto, e
da poche aree di carattere naturale (suolo e vegetazione). In seguito all’incremento delle
temperature medie ed estreme, alla maggiore frequenza e durata delle ondate di calore e di eventi
di precipitazione intensa, sarà la qualità della vita in questi posti a entrare in crisi, e non solo per
le categorie più fragili come bambini, anziani, disabili.
Sono molti e molto diversi i modi in cui i cambiamenti climatici interagiscono con gli ambienti
urbani e portano a un incremento delle situazioni di rischio. Uno dei principali è lo stress
termico: gli ultimi decenni in Italia sono stati caratterizzati da aumenti significativi delle
temperature medie. Questo andamento andrà rafforzandosi sia per lo scenario con emissioni
elevate che per quello con emissioni contenute, con ulteriore incremento di temperature estreme
e frequenza e durata delle ondate di calore.
Le superfici costruite assorbono la radiazione solare (diretta e riflessa), accumulando calore
durante il giorno e liberandolo durante la notte. Questo calore si aggiunge a quello prodotto dai
processi di combustione dei veicoli, dall’industria e dagli impianti di climatizzazione, rendendo
le città più “calde” rispetto all’ambiente rurale circostante. È noto che i centri urbani
sperimentano temperature più elevate anche di 5-10°C rispetto alle aree rurali. Il fenomeno delle
“isole di calore” genera temperature notturne particolarmente elevate per effetto del rilascio
differito del calore accumulato durante il giorno da parte degli edifici. Inoltre, la conformazione
e la presenza di “canyon” urbani riducono i moti convettivi e la ventilazione, limitando la
dispersione del calore rispetto alle aree più aperte. Ne deriva la percezione di temperature più
elevate. Nel 2019 l’indice rappresentativo delle ondate di calore è stato superiore alla media del
periodo 1961-1990, facendo registrare circa 29 giorni in più di caldo molto intenso su base
annua. Questo dato, associato alle proiezioni sui decenni a venire, fa pronosticare un
significativo aumento di ondate di calore, se non si prevedono interventi di contenimento del
riscaldamento globale. A causa di ciò, in ambiente urbano cresceranno i danni sulla salute dovuti
allo stress termico, e la mortalità per cardiopatie ischemiche, ictus, nefropatie e disturbi
metabolici.
Esiste inoltre un forte legame tra incremento di temperatura e inquinamento atmosferico. Le città
sono infatti caratterizzate da elevate emissioni sia di gas a effetto serra (anidride carbonica e
metano) sia di sostanze quali anidride solforosa, ossido di azoto, monossido di carbonio,
benzene, particolato fine (PM10 e PM2,5) e ozono troposferico, che compromettono la qualità
dell’aria. Questi composti derivano dall’immissione diretta da traffico veicolare, attività
industriali e termoregolazione degli edifici, ma si formano anche autonomamente in atmosfera:
l’energia solare, infatti, agisce sui legami fotochimici innescando reazioni secondarie che portano
alla formazione di nuovi agenti inquinanti. Un incremento dell’irraggiamento solare e delle
temperature, nonché le modifiche nel regime dei venti, delle precipitazioni e le alterazioni nello
strato degli inquinanti determinano un incremento nelle concentrazioni di questi composti. La
sinergia tra variabili climatiche, inquinanti atmosferici e caratteristiche degli aero-allergeni
influirà sempre di più anche sull’entità di reazioni allergiche. Secondo il rapporto dell’Istituto
Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) nel 2018 si sono registrati più di 25
giorni di superamento dell’obiettivo a lungo termine per l’ozono in 66 aree urbane su 91 e il
superamento del limite annuale per il PM2,5 in 13 aree urbane su 84. Nei primi nove mesi del
2018, in 7 aree urbane sono stati registrati oltre 35 giorni di superamento della soglia limite
consentita per il PM10.
I centri urbani saranno sempre più vulnerabili anche a causa della scarsità idrica, soprattutto dove
dipendenti da singole e sempre più limitate fonti di approvvigionamento. Questa vulnerabilità è
emersa durante gli eventi di siccità del 2003 e 2007 in località come Ferrara e Parma, che
dipendono principalmente da prelievi da fiume. Al contempo, la quantità di acqua disperse nella
rete permane a livelli cospicui, con un aumento del numero di città italiane in cui la dispersione
supera il 30%. I tassi di efficienza della rete di distribuzione sono per di più inferiori in quelle
macroregioni climatiche come l’Appennino centro-meridionale, il Sud e le Isole, maggiormente
esposte a situazioni di scarsità idrica.
Al problema dell’incremento delle temperature e della scarsità d’acqua si aggiunge quello
derivante dalle conseguenze in ambiente urbano di eventi di precipitazione intensa: saranno
sempre più frequenti esondazioni di corpi idrici superficiali in bacini a monte delle aree urbane e
inondazioni nelle stesse per insufficiente capacità dei sistemi di drenaggio di smaltire grandi
quantità d’acqua in poco tempo. Emblematici sono gli esempi di Roma dove, tra il 2010 e il
2019, si sono verificati 18 allagamenti a seguito di piogge intense, o quello di Milano, con 23
eventi totali nello stesso periodo, di cui 17 relativi a esondazioni dei fiumi Seveso e Lambro.
Anche le caratteristiche geografiche e idrogeologiche del territorio, la forma e l’ubicazione delle
città renderanno questi ambienti particolarmente esposti a impatti negativi: durante l’ultimo
secolo, a causa di un processo di urbanizzazione scarsamente controllato, i centri urbani si sono
dilatati occupando aree alluvionali e fondivalle di fiumi e torrenti, contribuendo in maniera
sostanziale all’incremento del rischio idrogeologico. Il crescente consumo di suolo, con la
trasformazione di quello permeabile in superfici impermeabili quali strade, parcheggi, piazze,
argini e letti di corsi d’acqua cementificati, ha aumentato frequenza e intensità delle ondate di
piena nei centri abitati. Nonostante la sostanziale stasi demografica, tale consumo di suolo in
Italia continua a crescere: dalle cifre pubblicate dall’ISPRA emerge infatti che esso è proseguito
anche negli anni più recenti (315 km2 sono stati consumati solo tra 2012 e 2018).
L’elevata espansione urbana che ha interessato l’Italia dal dopoguerra a oggi, l’occupazione delle
aree perifluviali, l’impermeabilizzazione della rete idrografica minore, la crescita di
insediamenti, strutture e infrastrutture in aree collinari e montane hanno portato all’occupazione
di territori fragili, alla diminuzione degli spazi a disposizione di fiumi e torrenti, alla
concentrazione delle onde di piena (picchi più elevati, minori tempi di corrivazione, ovvero
maggiore velocità di scorrimento dell’acqua per la ridotta permeabilità dei suoli), esponendo a un
rischio elevato una parte sempre più consistente della popolazione. Il 91% dei comuni italiani già
ora risulta soggetta al pericolo di frane e alluvioni.
La qualità, a volte lontana dall’ottimale, degli insediamenti, delle costruzioni e, localmente,
anche delle opere di difesa, ha contribuito ad aumentare tale vulnerabilità. Sebbene, quindi, le
peculiarità fisiche del territorio italiano (in termini geomorfologici, meteorologici e climatici)
siano all’origine di tali fenomeni, diversi fattori antropici hanno contribuito e possono
contribuire in maniera determinante alla esacerbazione delle loro conseguenze.
Non si tratta pertanto di trasferire le città in quota, o di duplicarle in luoghi più sicuri, ma di
ripensare lo stesso modello urbano, corresponsabile del riscaldamento climatico. Nelle città
italiane, che corrispondono a una superficie di poco meno di 27.000 km2, appena l’8,8% del
territorio nazionale, vive oggi oltre il 56% della popolazione. Forse è il caso di rifondare il
concetto di urbanità, rendendolo più poroso, rarefatto, efficiente, per uscire dal circolo vizioso in
cui sono finiti i nostri centri abitati: realtà urbane vulnerabili e sempre più esposte agli effetti di
un clima che cambia, e insieme principali responsabili delle emissioni di gas serra e dunque
artefici del loro stesso tragico destino.
7
SARDINIA
Un paradiso tropicale
Vi fu anche una terza escursione, alla quale Milordo insistette per iscriversi anche se facoltativa e
dispendiosa, perché ne aveva sentito parlare più volte dagli avventori e dai custodi che aveva
incontrato fra i canali e i musei di Roma. Fu in effetti faticosa, ma entusiasmante. Una
metropolitana leggera lo condusse in pochi minuti al porto di Civitavecchia, retrocesso verso
l’entroterra ma sempre funzionante, passando sotto i seni romani meridionali. Da lì si imbarcò su
un aliscafo a fusione nucleare, una meraviglia meccanica a metà tra il veliero e l’aliante,
tecnologia della leggerezza allo stato puro. In un baleno, di certo meno di un’ora, giusto il tempo
di leggere qualcosa sulla fedele Baedeker per prepararsi, il ragazzo e i suoi compagni di
avventura furono sbarcati sotto la scogliera di Cagliari, capoluogo del celebre arcipelago
tropicale della Sardegna.
Dopo una visita alla città vecchia a dirupo sul canale del Campidano, il gruppo fu accompagnato
a un monoelica da esplorazione, con la carrozzeria fiammante, al fine di ammirare le meraviglie
delle isole. Si trattava in sostanza di un unico grande parco faunistico e floreale, a statuto
autonomo, che tollerava flussi limitati e controllati di turisti, i quali avevano l’obbligo di
conoscere la biodiversità dei luoghi e dell’antichissima cultura locale. Non potevano dunque
sbarcare e rinchiudersi in un villaggio vacanze con la musica ventiquattro ore su ventiquattro,
che sarebbe stato uguale tanto qui quanto ai Caraibi.
A proposito degli autoctoni, questa isola indipendente era riuscita a sottrarsi alla dinamica
demografica fuori controllo che aveva interessato il resto dell’Italia. Sul continente, dopo il picco
del 2050 e dopo una fase di riduzione della popolazione dovuta al calo delle nascite (fino al
dimezzamento secco degli italiani tra il 2100 e il 2150, quando si era detto che la nazione era in
via di estinzione), il peggioramento della crisi climatica in seguito aveva portato, da un lato,
all’aumento dei flussi di migranti ambientali, soprattutto dalla fascia subsahariana
completamente desertificata (con migrazioni forzate di circa seicentocinquanta milioni di
persone verso Europa e Medioriente tra il 2050 e il 2200), e dall’altro alla perdita progressiva di
migliaia e migliaia di chilometri quadrati di territorio a causa dell’innalzamento del livello dei
mari. Questi due processi a tenaglia avevano ripopolato ciò che rimaneva della penisola. La
sommersione di decine di città costiere italiane aveva fatto il resto, obbligando venti milioni di
persone a spostarsi e determinando quelle ulteriori congestioni di abitanti sfollati verso le grandi
conurbazioni montane, subalpine e subappennine.
In Sardegna tutto questo trambusto fortunatamente era stato evitato, grazie alla programmazione,
alla lungimiranza e ai vantaggi dell’insularità. Il clima e gli incendi avevano tuttavia reso
pressoché inabitabili le già povere zone interne nuragiche, con il risultato che anche qui, come
sugli Appennini, esse erano popolate solo in ristretti villaggi bianchi, iper-tecnologici e
prevalentemente sotterranei, dove risiedevano le famiglie coinvolte nello sfruttamento delle
risorse idriche e minerarie delle isole sarde. Curiosamente, le strategie più innovative per evitare
ogni spreco di acqua e di cibo si ispiravano, pur utilizzando materiali di sintesi nuovissimi, a
quelle già sperimentate dai popoli del mare che si erano stabiliti lì quattro se non cinque millenni
prima. Tutti gli altri sardi gravitavano sulle coste, o su ciò che ne restava, vivendo di turismo e di
quel poco che si poteva ricavare dalla pesca, essendo le specie ittiche più redditizie estinte da
tempo ed essendo il mar Mediterraneo ormai infestato da un ristretto numero di specie aliene
tropicali, come ricciole e bavose africane, pesci palla e barracuda. La biodiversità marina dei
Tropici si stava lentamente evolvendo anche qui, recuperando con fatica dopo la distruzione
antropica e andando a occupare le nicchie ecologiche lasciate libere, ma settecento anni non
erano ancora sufficienti per vedere effetti significativi. La pesca era quindi ormai quasi
esclusivamente di allevamento.
Milordo era affascinato da ciò che vedeva: un paradiso ben piantato in mezzo al Mediterraneo.
L’aereo sorvolò inizialmente le isole più meridionali dell’arcipelago sardo: da capo Sarroch
cominciava l’Iglesiente, con le città minerarie di Carbonia e Iglesias riconvertite al turismo
d’élite internazionale, separato dall’isola modaiola di San Pietro e dall’isola di Sant’Antioco dal
canale dell’Iglesiente. Poi virò verso nord, mostrando alla destra le spiagge dai colori oro, rosse e
bianche – splendide piscine iridescenti dovute ai minerali della zona – tra Buggerru e Torre dei
Corsari. La punta era l’isola della Frasca, dalla quale il velivolo sorvolò il mare di Oristano, dove
un tempo si estendevano la cittadina ma soprattutto le terre bonificate durante la dittatura fascista
di otto secoli prima. Paradosso della storia, quelle terre strappate con la forza alle acque e alle
paludi malsane erano tornate al loro elemento dominante e dove un tempo c’erano saline e campi
coltivati ora si vedevano a perdita d’occhio solo valli da pesca e allevamenti ittici.
Dalle isole Sinis, tutto ciò che restava di quelle terre fenicie, la rotta panoramica rimase sulla
costa in direzione nord: attraversò il fiordo Temu, con l’incantevole borgo di Bosa spostato su un
piccolo promontorio, poi il mare di Alghero e la penisola di Torres, circondata a sud
dall’arcipelago nurrese e a nord dalla piccola costellazione tropicale delle isole di Stintino e
dell’Asinara. Milordo si pentì di aver scelto altre destinazioni, più a sud, per la seconda parte
delle sue vacanze al mare. Lì sarebbe stato perfetto e promise a sé stesso che ci sarebbe tornato.
Intanto l’aereo stava sorvolando la baia d’Anglona e Gallura, collegata alla laguna interna di
Cochinas. Poi fu la volta della baia dei Francesi, a ricordare la prospiciente Corsica, delle isole di
Santa Teresa, degli scogli di Bonifacio, di Maddalena e Caprera prima della baia di Arzachena e
del golfo Smeraldino, un tempo zona antesignana del turismo spendaccione e un po’ sguaiato
degli arricchiti e dei sultani in trasferta.
In fondo alla baia di Olbia, un piccolo aeroporto permise di fare scalo e di approfittarne per un
veloce ma prelibato pranzo di pesce alla griglia, meduse fritte e alghe davanti all’isola di Figari.
Al ritorno il volo seguì la costa orientale dell’isola maggiore, propriamente la Sardegna, un
incanto di calette, di isole (Comino, Arbatax), di lagune ricchissime di uccelli tropicali (Orosei),
di golfi scenografici e di grotte scavate dalle onde. Foche monache e cetacei del Tirreno erano
estinti da tempo, ma cominciavano a circolare voci di avvistamenti di lamantini, squali e altre
specie tropicali arrivate dal mar Rosso o da chissà dove. Per atterrare a Cagliari, si tagliò a destra
subito dopo gli scogli di Sferracavallo, sul fiordo scosceso di Quirru, passando sopra l’estuario
del Flumendosa e la baia di Castiadas. Per il pallido Milordo una scorpacciata di mare e di sole,
anche se soltanto dietro i finestrini.
Nuovi cibi o nuovi modi di produrre lo stesso
cibo?
Qualora davvero nel 2786 il paesaggio italiano fosse quello raccontato da Milordo, il suo
fallimento sarebbe anche quello del nostro attuale sistema alimentare. Il sistema agricolo
mondiale, infatti, da un lato vive una profonda crisi dovuta ai danni prodotti dal repentino
cambiamento climatico, dall’altro è esso stesso generatore di questa crisi, essendo una delle
principali voci emissive di gas serra e sfruttamento delle risorse del pianeta. Prima quindi di
immaginare quale potrebbe essere il cibo del futuro, è opportuno capire quale cibo possiamo già
oggi considerare appartenente al passato, in ragione della sua insostenibilità.
La nostra selezione di pochi vegetali e animali sfruttati intensivamente si è rivelata idonea a
sfamare un mondo sempre più popolato di individui, ma non a salvaguardare gli equilibri
planetari: mais, grano e soia da una parte, voluminosi animali da allevamento dall’altra (in
particolare bovini e suini) si stanno rivelando famelici consumatori di risorse ambientali finite e
non rinnovabili, come terra e acqua.
Un recente report pubblicato dalle Nazioni Unite ha stimato l’impatto ambientale
dell’allevamento animale: per produrre un chilo di carne di maiale sono necessari 3.500 litri
d’acqua, 2.300 litri per un chilo di carne di pollo e addirittura 15.000 litri per un chilo di carne di
vitello, responsabile inoltre dell’emissione di 150 chili di anidride carbonica. L’allevamento
bovino nel suo complesso sarebbe responsabile di circa il 18% delle emissioni di gas serra
globali, percentuale che cresce ulteriormente se si prendono in considerazione anche gli
allevamenti di polli, maiali e pesci. Mangiare carne non pone dunque solo questioni etiche e
salutari, ma contribuisce pesantemente al riscaldamento globale. Considerando che tra circa
venticinque anni la popolazione mondiale salirà a 9 miliardi di abitanti e che nazioni come la
Cina consumano sempre più carne, è evidente che bistecche e hamburger saranno cibi sempre più
insostenibili, per di più in situazioni di crescente deficit idrico.
Nell’ambito di un bilancio idrico del suolo, i regimi di precipitazione sempre più estremi nel
futuro saranno meno utili a soddisfare i fabbisogni delle colture in campo. Sulla base delle
proiezioni climatiche da qui al 2100, le colture principalmente colpite saranno quelle con periodi
di crescita primaverili, quando si verificano i cali più consistenti di precipitazioni, oltre che le
arboree sempreverdi e le colture annuali. Gli impatti più marcati si concentreranno nelle aree del
Sud, in cui l’aumento della temperatura, combinato alla carenza idrica, determinerà una tendenza
alla riduzione delle produzioni per molte varietà coltivate e un aumento dello stress da caldo
sugli animali, con effetti negativi sullo stato di salute, sulla produzione e sulla riproduzione della
maggior parte delle specie d’interesse zootecnico, con vulnerabilità maggiori per quelle di esse
più sensibili alle elevate temperature, come ruminanti da latte e suini, e vulnerabilità media per
gli avicoli. Condizioni di siccità, fenomeni di desertificazione, salinizzazione delle falde possono
inoltre ridurre e modificare la disponibilità di cibo per gli allevamenti.
Salvo costosi interventi strutturali a sostegno del regime alimentare attuale (infrastrutture per
l’irrigazione e gestione efficiente dell’acqua, agricoltura di precisione, miglioramento genetico e
utilizzo di genotipi vegetali e animali adattabili a situazioni estreme), è evidente che il
cambiamento climatico richiederà di modificare il nostro sistema di alimentazione, introducendo
specie e varietà a minore richiesta idrica e orientando la nostra dieta verso un ridotto apporto di
proteine animali. In generale, saranno da preferire le soluzioni che rispettano i principi della
Climate Smart Agriculture suggeriti dalla FAO, capaci di aumentare la capacità di sequestro di
carbonio nel suolo, ridurre le emissioni di gas serra in atmosfera, conservare la biodiversità,
preservare sia la risorsa suolo sia la risorsa acqua.
La riduzione delle superfici disponibili in area mediterranea imporrà ben presto la necessità di
aumentare la produzione di cibo per unità di superficie coltivata, ma il peggioramento delle
condizioni ambientali renderà difficile farlo in maniera sostenibile, garantendo allo stesso tempo
qualità delle produzioni, tutela dell’ambiente e sicurezza alimentare: ciò richiederà una profonda
trasformazione sia nelle scelte politiche ed economiche sia nei comportamenti e nelle abitudini di
produttori e consumatori. Le soluzioni che si prospettano all’orizzonte sono sostanzialmente due:
ingegnerizzare il proprio sistema alimentare mantenendolo più o meno immutato, oppure
adottare nuovi stili di vita e di alimentazione.
La prima soluzione punta a soddisfare il bisogno alimentare globale (maggior disponibilità di
proteine animali) attraverso soluzioni hi-tech come per esempio carne prodotta in vitro a partire
da cellule animali, che dovrebbe sostituire allevamenti intensivi imbottiti di antibiotici. Ai puristi
dei cibi naturali si potrebbe obiettare che, al di là della retorica, nessun cibo è veramente
naturale: le carote in origine non erano arancioni, ma bianche e molto più sottili; le pesche
assomigliavano alle ciliegie ed erano salate, le angurie erano piccole, rotonde, dure e amare; le
prugne erano simili a delle uova bianche. La frutta e la verdura che mangiamo oggi hanno circa il
30% di vitamine (e anche calcio, ferro, proteine e fosforo) in meno rispetto alle varietà
selvatiche: le scienze biomolecolari e genetiche potrebbero restituire alle verdure che mangiamo
le loro proprietà nutrizionali originarie, o arricchirle di ciò che più ci serve. Potremmo mangiare
mele dolci come quelle di oggi ma con le stesse proprietà delle loro antenate selvatiche, nocciole
che non causano allergie o lenticchie che hanno la stessa quantità di proteine della carne.
La seconda soluzione è optare per nuovi cibi, in grado di soddisfare una domanda di massa e fare
tesoro dei cambiamenti climatici. La FAO e la redazione della rivista internazionale di economia
Forbes hanno provato a ragionare rispettivamente su quelli che potrebbero essere i nuovi cibi e
gli “affari” del futuro, ed ecco quindi i cinque cibi più papabili per un futuro distopico come
quello attraversato da Milordo:
Megafrutti. I megafrutti come il jackfruit (Artocarpus heterophyllus) originario dell’India e
presente anche in altri Paesi del Sudest asiatico sono noti per le loro caratteristiche nutrizionali.
Sono un’ottima fonte di potassio, calcio e ferro e si adatterebbero benissimo ai climi molto caldi
del futuro: gli alberi non richiedono di essere ripiantati ogni anno, né hanno bisogno di
particolari cure, e potrebbero quindi facilmente diffondersi in quelle che oggi (ma forse ancora
per poco) chiamiamo le fasce di clima temperato.
Alghe. Radicate nella cucina orientale, potrebbero progressivamente fare breccia anche tra i gusti
occidentali: molti nutrizionisti le inseriscono tra i migliori candidati a “cibo del futuro” in
funzione della loro reperibilità, facilità di coltivazione e proprietà benefiche di alcune specie
come le alghe alimentari blu-verdi particolarmente efficaci nel controllo del colesterolo, alghe
rosse ricche di vitamina C, alghe verdi piene di clorofilla. A causa del riscaldamento globale, un
gran numero di coste verrà infestato dalle alghe, la cui tossicità per l’ambiente marino e costiero
è particolarmente preoccupante. Sebbene rappresentino una fonte di minerali e sostanze
benefiche per il nostro organismo, il loro limitato apporto calorico e proteico le porta in ogni
caso a essere considerate alimento complementare.
Microproteine. Si tratta di proteine derivate in laboratorio dalle cellule di funghi, lieviti e muffe.
Le prime sperimentazioni risalgono agli anni Sessanta con il Quorn, la cui fonte principale di
microproteine è una muffa cresciuta in vasche di sciroppo di glucosio che respira aerobicamente:
distribuito sia in Europa che in Nord America e concepito inizialmente come cibo per momenti
di carestia, dal 2004 al 2009 viene introdotto come componente dei burger vegetariani dalla
catena McDonald’s, e attualmente lo si può trovare in diversi supermercati americani ed europei.
Il fatto di essere frutto di laboratorio rende l’impatto ambientale potenzialmente minimo: queste
colonie di batteri presentano una percentuale proteica pari all’80% del peso, sicuramente valida
dal punto di vista nutrizionale.
Meduse. Il surriscaldamento globale, unito alla pesca incontrollata che ha privato il mare dei loro
predatori naturali come tonno e tartarughe, le ha rese di fatto infestanti. Per la stessa ragione
delle alghe, il loro consumo potrebbe riequilibrare l’ecosistema marino. Sono già oggi
ampiamente in commercio nelle piazze orientali: in Cina sono utilizzate essiccate nelle insalate,
in Giappone vengono invece fritte o utilizzate nel sushi, in Thailandia tagliate a strisce vengono
mangiate come spaghetti. Le meduse presentano un’amplissima gamma di nutrienti: sono ricche
di collagene e proteine a basso contenuto calorico, oltre che di omega 3 e 6; hanno un’invidiabile
percentuale di proteine (circa l’80%) e una equilibrata presenza di grassi (circa il 20%).
Insetti. Secondo la FAO più di due miliardi di persone fanno già uso di insetti per fini alimentari,
e le specie commestibili in commercio sono oltre 1.900. In ben 36 Paesi africani vengono
consumate almeno 527 specie diverse, lo stesso avviene in 29 Paesi asiatici e in 23 Paesi
americani. In Thailandia sono oltre ventimila le aziende, spesso a gestione familiare, che
allevano locuste, grilli, bachi da seta, uova di formica. Spostandoci in Europa, la Svizzera è stato
il primo Paese europeo ad avere sugli scaffali dei supermercati cibo composto da insetti: dal
2017 tre specie di insetti (larva della farina, grillo domestico e cavallette) possono essere
utilizzate come derrate alimentari. Sono altamente nutrienti, perché forniscono proteine
paragonabili a quelle di carne e pesce. Dal punto di vista ambientale, gli insetti risultano
altamente ecosostenibili: si nutrono di cibo in decomposizione, funghi e piante, e possono
convertire due chili di cibo in un chilo di massa, laddove un bovino necessita di otto chili di cibo
per produrre un chilo di peso corporeo. In forma essiccata contengono spesso una quantità
doppia di proteine rispetto alla carne o al pesce crudo; alcuni insetti, specialmente allo stato
larvale, sono ricchi anche di lipidi e hanno importanti vitamine e sali minerali. L’anidride
carbonica emessa per produrre un chilo di proteine dai bachi da seta, insetti particolarmente
resistenti alla siccità, è decisamente minore rispetto a quella emessa per produrre un chilo di
proteine animali. Per quanto riguarda i valori nutrizionali, il contenuto proteico di locuste e
cavallette varia dal 18 al 32%, a seconda della specie, quello dei grilli dall’8 al 25%, quello della
carne di vitello è intorno al 22%; uno sciame di locuste contiene da 16 a 20 milioni di esemplari,
pari a circa 30-40 tonnellate di proteine nobili. In futuro quindi quella che fu considerata una
delle dieci piaghe d’Egitto potrebbe trasformarsi in una manna… Insetti “senza pensieri”:
hakuna matata!
8
CAMPANIA
L’isola vulcano
Rientrati a Roma, ci fu il tempo solo per riorganizzare le valigie e ripartire, verso sud. Il mezzo
scelto dall’organizzazione fu nuovamente la corriera a idrogeno, l’unico che permettesse di
contemplare i paesaggi e capirne le trasformazioni. La guida anticipò che da lì in poi avrebbero
visto un’Italia davvero diversa, perché la latitudine avrebbe cominciato a farsi sentire. Aveva
ragione. Lasciata sulla sinistra la laguna di Pantano, che era collegata con la baia di Tivoli, la
strada piegò verso il mare, in particolare verso il golfo di Ardea e il golfo Albano, separati
dall’istmo di Aprilia, in fondo al quale si scorgevano le isole Antine. Dove un tempo sorgevano
Latina e l’Agro Pontino, ora si era allargato il mare Pontino, dal golfo di Lepino a nord, alla baia
di Prossedi, fino a capo Ausonio. A far da guardia all’ingresso, l’isola di Circe, solitaria in mezzo
al Tirreno come una dea mitologica.
La guida, in vena di filosofia, focalizzò l’attenzione sulle alterne vicende del mondo. Qui già i
romani, tre millenni e più prima, avevano strappato al mare le paludi, con imponenti opere di
drenaggio e canalizzazione lungo la via Appia antica. Con la caduta dell’impero queste terre
basse si erano di nuovo impaludate e gli abitanti, per sfuggire alla malaria, si erano ritirati verso
le colline e le montagne dell’interno, proprio come adesso. Ci riprovarono poi i papi, a
bonificarle, con incerti risultati. L’acqua risaliva tutte le volte. Per secoli queste zolle impregnate
di acqua e di cattiva aria furono riparo per pastori, allevatori transumanti e poveracci.
Nell’Ottocento, nove secoli prima, i nobili vi venivano a cacciare e tra questi anche il ben più
blasonato predecessore di Milordo, il poeta tedesco Goethe, che non mancò di apprezzare il lato
selvaggio di questi luoghi. Fu poi la dittatura fascista a imporre con il pugno di ferro e la retorica
la bonifica completa della regione, al prezzo di una falcidia di operai e di oppositori politici
mandati nelle paludi a lavorare e morire. Anche dopo la caduta del regime, quando le ferite della
guerra furono troppo presto rimarginate, nell’Agro Pontino arrivarono genti da ogni dove d’Italia
per rifarsi una vita, facendo di questa provincia un vero melting pot italiano.
Ma la fisica è la fisica e se un terreno costiero è al di sotto del livello del mare ci finisce dentro
tutta l’acqua che scende dalle montagne, la quale per inaggirabile legge di gravità non potrà
andare in salita a scaricarsi in mare e ristagnerà come in un catino. Per alcuni secoli, quindi, era
stato necessario non solo drenare l’acqua dagli avvallamenti nei canali di scolo, ma anche
pomparla fuori ed espellerla, con enorme dispendio di energia (certe idrovore naturali, come gli
eucalipti, non bastavano). Il patto vacillante con la natura era andato avanti per un po’: le acque
dei torrenti anziché disperdersi in paludi furono irreggimentate in una griglia di canali, che
lasciavano libere ampie estensioni di fertili campi da coltivare; le idrovore meccaniche al termine
dei canali di scolo alzavano l’acqua quel tanto che bastava per farle prendere l’abbrivio per
scendere in mare, attraversando le dune che intanto impedivano al mare stesso di entrare.
Per quanto Homo sapiens viva contro natura da molto tempo, l’instabile equilibrio raggiunto non
poteva reggere al riscaldamento climatico. Era stato necessario prima aggiungere un’altra fila di
dune, sempre più alte, con gran sbancamento di sabbie e trituramento di tufi, e poi vere e proprie
barriere, la cui lunghezza però non era mai sufficiente perché il mare entrava da nord e da sud.
C’era poi il problema dello scolo delle acque interne, che per quanto ridotte dalle siccità
continuavano a riempire il catino dell’Agro Pontino. Le si doveva sollevare sempre di più, contro
la forza di gravità. Quando il mare si era alzato ancora e i primi argini si erano rotti, fu dato
inizio alla grande evacuazione di Latina, Sabaudia e degli altri centri. Così come questi erano
nati dal nulla, secoli prima, riconquistando spazio alle acque, adesso il mare era tornato e dal
nulla nascevano altri centri abitati più all’interno, sui Colli Albani, sui monti Lepini e Ausoni,
esattamente come all’epoca dei saraceni e della malaria. La nemesi della storia.
L’equilibrio antropico instabile si era rotto nello stesso modo anche a Grosseto, a Livorno, a
Oristano, e soprattutto a Ravenna, che ora se ne stava come un punto geografico in mezzo
all’Adriatico. Le alterne vicende della storia, umana e ambientale, non tornano però mai
esattamente su sé stesse. Dove un tempo c’era un meraviglioso ecosistema di paludi – regno di
anfibi, rettili, piccoli pesci, cigni, aironi, gru e miriadi di insetti – alternate a fitte selve
mediterranee di sugheri, lecci e pini, abitate da cervi, cinghiali e volpi, ora c’era nel Lazio
meridionale un altrettanto meraviglioso ecosistema di dune tropicali, piccole lagune interne, tratti
di foresta di palme, interrotti soltanto dalle valli da pesca, da coltivazioni di alghe per uso
alimentare e dagli allevamenti di mitili e di meduse.
Fu in questo scenario che la corriera proseguì lungo una strada costiera spettacolare che percorse,
dopo Terracina, i bordi frastagliati della baia di Fondi, poi quelli del golfo di Sessa dopo
Sperlonga, con le isole di Gaeta, di Scauri e di Minturno. A quel punto la strada, anziché
proseguire sul golfo di Sessa verso la penisola di Mondragone, sotto il vulcano ormai quasi del
tutto smussato di Roccamonfina, scavalcava con un ponte scenografico il canale naturale che dal
mare aveva formato un altro vastissimo specchio d’acqua, la laguna di Liri, che arrivava a
lambire l’abbazia di Montecassino, più volte rasa al suolo e più volte risorta.
Dalle pendici meridionali di Roccamonfina la guida fece segno di stare attenti. Stava per aprirsi
innanzi un altro panorama inaspettato. Quella che un tempo era la Campania, meta finale
prediletta del Grand Tour, si era notevolmente ridotta, ma non aveva certo ceduto in bellezza. A
sinistra le colline erano ricoperte di piantagioni di palme da olio, che digradavano verso un
enorme golfo chiamato mare di Partenope. Dove prima scendeva il Volturno si era aperta una
ferita d’acqua lunghissima, l’insenatura del Volturno appunto, che saliva fino a Telese da una
parte e alle pendici del massiccio del Matese, sull’Appennino sannita, dall’altra. I turisti
attraversarono le strade affollate di Caserta, che affacciava direttamente sul mare ed era diventata
il grande porto commerciale del Tirreno meridionale.
Tutti si aspettavano a momenti di avvistare Napoli, ma non arrivava. Proseguiva la costa,
fittamente abitata fino alle pendici montane, per chilometri e chilometri, con altri porti e distretti
industriali. Quando sulla destra apparve, imponente, il Vesuvio, tutti capirono che non avevano
visto Napoli perché erano già a Napoli. La città non era più alle pendici del vulcano e il golfo era
sparito, così si era spostata verso nord estendendosi lungo le coste meridionali del mare di
Partenope e poi del mare di Pompei, che era collegato al primo attraverso il canale d’Ottaviano
dietro il Vesuvio. Rispetto a ciò che aveva ammirato Goethe, era proprio un altro mondo.
Alle spalle della nuova Napoli (Nea Polis due volte), le vallate campane e irpine erano state
trasformate in latifondi di palme da olio, banani e ananas. Il vulcano, che era esploso eruttando
altre tre volte dopo la visita del poeta, era adesso una imponente e vagamente minacciosa isola,
Vesuvia. Alle sue spalle un’altra isola, più piatta, ma con una caldera più larga, l’isola Flegrea.
Qui, dopo un secolo e mezzo di bradisismo che aveva sollevato i Campi Flegrei di dodici metri,
una super-eruzione aveva seminato distruzione, due secoli prima, lasciando come residuo l’isola
attuale, in mezzo all’arcipelago Flegreo, che comprendeva anche Ischia, lo scoglio di Terra
Murata dove prima si distendeva Procida, l’isola Misena e altri faraglioni. L’isola Flegrea adesso
era un rinomato centro internazionale di termalismo, con sofisticate apparecchiature di
prevenzione e allarme in caso di attività vulcaniche. Più al largo, Ventotene e l’arcipelago
ponziano erano ormai ridotti a esigui affioramenti.
Tra riscaldamento climatico, alluvioni, mareggiate sempre più profonde, eruzioni, non c’era stato
il tempo sufficiente per avere quella stabilità ambientale che permettesse la musealizzazione dei
siti archeologici e dei beni storici più preziosi. Milordo pensò che forse era anche meglio così. Il
patrimonio sommerso era tutelato da una speciale sezione di archeologia subacquea che qui
aveva raggiunto punte di eccellenza. Venivano a studiare da tutto il mondo il caso campano e le
tecniche adottate per preservare sui fondali bassi il centro storico di Napoli, oltre che Pompei,
Ercolano, Paestum. Naturalmente anche Milordo e il suo gruppo parteciparono a più di
un’escursione sul mare e visitarono nel quartiere meridionale della Nuova Napoli il bellissimo
Museo interattivo del Patrimonio Sommerso, che permetteva a tutti, anche a chi non era in grado
di fare immersioni, di avere un’esperienza realistica ed emozionante grazie a ologrammi, avatar e
realtà aumentata. Chissà cosa ne avrebbe pensato Goethe.
Oltre la penisola sorrentina, che aveva mantenuto una parvenza della sua conformazione ma con
i paesi spostati più in alto, e il porto di Salerno, che come Caserta aveva sfidato il mare
contrattaccando con la costruzione di giganteschi moli e banchine, si apriva il mare del Sele,
punteggiato a sud dalle isole cilentane, che aveva invaso tutta la piana di Eboli e obbligava a un
lungo giro prima di poter entrare nella meraviglia finale della Campania meridionale: il parco del
Cilento, rifugio di una foresta tropicale eccezionalmente rigogliosa, non ancora deturpata dalle
piantagioni di palma da olio, che ospitava una ricchissima fauna selvatica a rischio estinzione. Ci
si poteva arrivare in treno superveloce, sotterraneo e sottomarino, direttamente da Caserta,
Nuova Napoli e Salerno in poche decine di minuti, ma gli accessi erano contingentati. Rispetto
alle tre città, che ormai erano fuse insieme in un’unica congestionata conurbazione costiera, lo
stacco non poteva essere più radicale. La costa cilentana era straordinaria, tormentata e attraente,
tra l’isola di Licosa, la baia dell’Alento, l’isola di Palinuro – un gioiello di biancheggiante
architettura mediterranea tropicale, protetto dall’UNESCO e separato dalla terraferma dal canale
di Palinuro – e poi a sud la baia di Policastro.
Milordo pensò che anche qui avrebbe potuto fermarsi per la pausa delle vacanze di mare, ma lo
aspettava per il giorno successivo la Puglia, l’altra perla tropicale del meridione d’Italia.
Abitare tra ecotecnica ed ecotattica
Difficile dire come si vivrà in questa distopica Italia del 2786, soprattutto difficile immaginare
chi e quanti possano abitare ancora una terra così desolata. Considerando gli attuali tassi di
natalità e mortalità, la Population Division dell’ONU prevede per fine secolo una popolazione di
appena quaranta milioni di abitanti in Italia: sembrerebbe quasi una buona notizia, se non fosse
che quella popolazione risulterebbe ancora più invecchiata di quella attuale. Peraltro, in una
situazione climatica così compromessa chi avrà potuto permetterselo se ne sarà già andato da
tempo, rincorrendo climi più temperati, come già succede oggi alle carovane di giovani migranti
che si dirigono verso la sponda europea del Mediterraneo per sfuggire alle molteplici crisi
d’Africa: siccità, scarsità d’acqua e di raccolto, conflitti politici e religiosi che generano
sfruttamento e povertà.
A causa dell’inasprimento degli eventi meteorologici o del semplice aumento della temperatura,
tutti gli esperti concordano nel prevedere un aumento dei flussi migratori. Qualcuno calcola in
decine di milioni i “migranti ambientali” costretti, ogni anno, a lasciare le loro case. Un esempio
è l’inondazione del Pakistan del 2010, che ha ricoperto d’acqua un’area grande quanto un terzo
dell’Italia e in poche ore ha lasciato senza casa oltre 20 milioni di persone. Si stima che i
migranti ambientali dopo il 2030 potranno superare i 100 milioni e avvicinarsi progressivamente
a 200 milioni. Molti tra gli analisti che si occupano di sicurezza sostengono che gli effetti
economici e sociali dei cambiamenti climatici saranno causa di conflitti politici e militari: le
Nazioni Unite reputano il climate change una seria minaccia per la pace e la CIA lo considerava
già una decina d’anni fa la più grave minaccia per la sicurezza nazionale, superiore persino al
terrorismo.
La dizione di “rifugiato ambientale” non è di questi anni: fu introdotta nel Palazzo di vetro
dell’ONU per la prima volta nel 1985. Oggi tuttavia le condizioni allora preventivate si sono
puntualmente verificate e moltiplicate: la Banca Mondiale stima che, entro il 2050, le migrazioni
climatiche interesseranno 143 milioni di persone che oggi vivono nel triangolo compreso tra
Africa subsahariana, Asia meridionale e America del Sud, costrette a spostarsi da luoghi resi
invivibili o infruttiferi a causa del global warming. Un fenomeno che i Paesi industrializzati
partecipanti alle varie conferenze internazionali intendono lenire con abbondanti erogazioni di
denaro, ma stando almeno alle previsioni si tratta di una cura approssimativa e palliativa. Milioni
di persone vorranno trovare casa in altri territori, con il rischio che questo movimento sfoci in
guerre e quindi ulteriori fughe verso parti del globo considerate a torto o a ragione più tranquille
e accoglienti. A meno di non trincerarsi in una “fortezza” Europa, una sorta di Alcatraz
inespugnabile, molto probabilmente gli abitanti italiani del XXVIII secolo saranno gli africani di
oggi, adattatisi a vivere in un clima in fondo non così diverso da quello da cui i loro antenati
erano sfuggiti, chissà se con maggiori possibilità tecniche ed economiche per affrontare i disagi
generati da situazioni sempre più estreme.
Quali saranno in ogni caso le soluzioni abitative adottate da chi si troverà in Italia per poter
vivere in un clima così ostile e in un territorio così compromesso? Le vie che l’umanità si troverà
di fronte saranno probabilmente le stesse che abbiamo a disposizione oggi, e che forse hanno
accompagnato da sempre il cammino dell’umanità, a partire dal mito di Prometeo ed Epimeteo
narrato da Platone nel dialogo Protagora: da un lato adattarsi all’ambiente cercando di sfruttarne
al meglio possibilità e opportunità, alla ricerca di nuovi equilibri (soluzione ecotattica);
dall’altro, fare affidamento sulla tecnologia e trasformare l’ambiente in modo da garantire spazi
di vita protetti sempre più dipendenti da interventi ed equilibri artificiali (soluzione ecotecnica).
Un esempio del primo caso sono i Sassi di Matera, tipologia di dimora ipogea di eredità
plurimillenaria, descritti negli anni Cinquanta alla stregua di un girone infernale, ed eletti nel
1993 Patrimonio Mondiale dall’UNESCO quale esempio di ecosistema urbano capace di
perpetuare dal più lontano passato preistorico l’accurata utilizzazione delle risorse fornite dalla
natura (acqua, suolo, energia). Le dimore ipogee sono infatti strutture in grado di adattarsi
all’arsura e al calore delle estati torride e del sole a picco, garantendo al tempo stesso – con un
ingegnoso sistema di condotte, cisterne e vasche sotterranee protette dall’evapotraspirazione – il
necessario approvvigionamento idrico. Vivere sottoterra potrebbe tornare a essere una soluzione
valida, nell’Italia del 2786: in fondo il global warming interessa in primis la superficie del
pianeta, molto meno le profondità terrestri e marine, che potrebbero accoglierci e metterci al
sicuro, quanto meno da temperature torride ed eventi estremi.
Più in generale, l’approccio ecotattico fa riferimento a quelle che vengono definite nature based
solutions, ovvero soluzioni offerte dalla natura stessa per mitigare gli effetti climatici (alberi e
siepi ai margini delle strade, parchi e giardini sui tetti delle abitazioni, orti e aree agricole
periurbane per ridurre le ondate di calore, fasce tampone per la raccolta e l’assorbimento delle
acque, riduzione del consumo di suolo); ma fa leva anche su azioni di educazione e prevenzione
che mirano a modificare e ad adattare i nostri comportamenti: una mobilità sostenibile, modelli
di economia circolare e riciclo dei materiali, riduzione degli sprechi e dei consumi inutili, attività
di sensibilizzazione e coinvolgimento per rendere la popolazione più consapevole e responsabile
delle ricadute sul clima generate dal proprio stile di vita.
Nell’immaginazione fantascientifica tuttavia è la soluzione ecotecnica o “prometeica” quella che
affascina di più: avveniristici universi artificiali autosufficienti, introversi e isolati, in grado di
proteggere l’uomo (al tempo stesso distruttore e demiurgo) dalle ingiurie del tempo
meteorologico che egli stesso ha contribuito a provocare. Già oggi si prefigurano soluzioni
tecnologiche in grado di affrontare i primi problemi generati dal riscaldamento planetario: non
più antiestetici pannelli solari ma soluzioni energetiche più efficienti e performanti, come le
tegole fotovoltaiche progettate da Tesla per catturare energia su tutta la superficie del tetto, o
finestre hi-tech in grado di catturare l’energia del sole o far filtrare più o meno luce a seconda
dell’intensità e luminosità esterna; abitazioni energeticamente autosufficienti, connesse a una
micro-rete elettrica interconnessa per inviare o ricevere elettricità dalle altre abitazioni in caso di
surplus o deficit energetico; domotica con termostati intelligenti e lampadine smart, capaci di
ottimizzare i consumi in base ai gusti e alle necessità… Le case del futuro dovranno essere
sempre più neutrali, sia in termini di emissioni che di consumo d’acqua ed energia, con condotte
d’acqua differenziate a seconda degli usi, sul modello israeliano (un giorno non molto lontano
sembrerà a tutti assurdo usare acqua potabile per lo sciacquone di un wc), sistemi di isolamento
termico e controllo bioclimatico degli edifici garantiti da materiali all’avanguardia, sistemi di
controllo della radiazione solare e dell’ombreggiamento, aumento della ventilazione naturale con
sistemi di raffrescamento integrati.
In fondo non si tratta di futuro, questi sistemi sono già realtà, anche se rischiano di essere a
disposizione di pochi. Sta qui il vero nocciolo della questione: le soluzioni ecotecniche sono
perlopiù declinate sul microcosmo privato, appannaggio di chi economicamente può
permettersele, tendono dunque a essere esclusive, a creare ulteriore divario sociale, separando le
classi un po’ come negli strati verticali della Los Angeles di Blade Runner di Ridley Scott; le
soluzioni ecotattiche richiedono al contrario condivisione, investimenti pubblici, interventi
pianificati al fine di garantire condizioni di benessere estese all’intera collettività.
Forse è necessario rileggere il mito di Platone per integrare i due approcci: reinterpretare e
riconciliare le figure di Prometeo ed Epimeteo, destinate a completarsi a vicenda senza che l’uno
sia necessariamente il perdente dell’altro. Il vaso di Pandora del cambiamento climatico è la
diretta conseguenza di un dominio prometeico incapace di leggere i segnali d’allarme che
provengono dalla natura: riporre una fiducia cieca nell’onnipotenza della tecno-scienza alla
lunga rischia di negare la libertà conquistata dall’uomo rendendolo schiavo di una tecnologia che
deve continuamente alimentare per poter vivere sulla Terra. La vera sfida che ci attende sarà
questa: decidere se abitare sulla (o più probabilmente sotto) una terra divenuta invivibile oppure
continuare ad abitare in dialogo con la Terra, così come la conosciamo.
9
APULIA
Le isole tropicali del sud
L’indomani Milordo da solo prese il treno superveloce che univa in un’ora e mezza Nuova
Napoli con Bari, l’altro grande porto meridionale, sul versante adriatico, che aveva dovuto
arretrare di dieci chilometri ma li aveva gradualmente riconquistati con banchine, isole artificiali
e terrapieni, aprendosi a ventaglio lungo il golfo. Questa della rivincita sul mare era diventata
una prerogativa della Puglia, perché anche Trani e Barletta si erano reinventate come isole-città,
sollevate su montagnole artificiali, due macchie bianche ben visibili al largo del porto di Andria.
I traghetti a fusione nucleare e le navi crociera dei tropici mediterranei ci passavano in mezzo ed
era uno spettacolo unico, sembrava di arrivare nella mitica Atlantide. Tanto più che alle spalle di
Andria, prima dell’estuario dell’Ofanto, si vedeva cominciare, a perdita d’occhio, la distesa delle
piantagioni di palma da olio e da frutto, che anche qui ormai la facevano da padrone.
Alla stazione di Bari i turisti potevano scegliere fra la destinazione settentrionale della Puglia e
quella meridionale. Milordo scelse la seconda, perdendosi così le bellezze del mare Sanseverino,
che sul lato meridionale non aveva molte attrattive essendo per lo più occupato dal porto di
Foggia e dal golfo di Orta, ma in fondo si chiudeva con l’istmo d’Apricena, esiguo collegamento
di terra rimasto per il promontorio del Gargano, un isolato tropicale delizioso, coperto al centro
da una rara foresta secolare, circondato da spiagge dorate e lunghi tratti di mangrovie, dal golfo
di Lesina a quello di Varano, e da qui facendo il giro fino a capo Tufara.
Milordo non ebbe a pentirsene troppo, perché lo attendeva uno dei luoghi più belli del
Mediterraneo tropicalizzato, dove passare dieci giorni di completo relax in un resort. Prese un
taxi da Bari, seguendo la costa. Vide un’altra città-isola, Monopoli, cinque chilometri al largo.
Verso l’interno, piantagioni e ancora piantagioni, con qualche sprazzo di mangrovie e di foresta.
Più all’interno, oltre gli ultimi villaggi bianchi, si intravedeva una fascia arida. Brindisi, come
Bari, era un porto allargatosi a un vasto golfo, ma arretrato di almeno venticinque chilometri. Da
qui partivano i battelli per l’isola Salentina, la meta di Milordo, paradiso tropicale tra i più ambiti
al mondo. Le imbarcazioni doppiavano capo Cellino, si lasciavano sulla destra il golfo di San
Pancrazio e quello di Avetrana, e poi attraversavano il mare di Luppìu, passando sopra il
patrimonio sommerso del barocco leccese e gettando l’ancora in uno dei due golfi gemelli di
Galatina e Galatone.
Il ritiro preferito dai genitori di Milordo si trovava in un’incantevole insenatura dinanzi all’isola
Capo d’Otranto, un avamposto adriatico selvaggio dal quale si vedeva l’Albania. Il giovane
gentiluomo passò dolci giornate di mare, viaggiando in monopattino elettrico su tutta l’isola
Salentina, facendo immersioni tra i coralli del canale di Gallipoli fino all’isoletta Ausentina,
ballando nelle feste notturne e gustando le prelibatezze locali. Pensò che in definitiva non c’era
stata tappa nel Grand Tour dell’Italia dell’Antropocene in cui non avessero pasteggiato
benissimo, segno di una tradizione che aveva resistito a tutti i cambiamenti, compensando la
riduzione della biodiversità dei prodotti locali tipici (la più alta in Europa un millennio prima)
con l’evoluzione delle tecniche gastronomiche.
L’unico cruccio che gli rovinava talvolta l’umore era constatare, nei villaggi vacanze e nei centri
abitati, le forti diseguaglianze tra i benestanti titolari delle attività economiche e i loro sottoposti,
quasi tutti di origine africana o asiatica. Lo aveva studiato a scuola, ma vederlo di persona faceva
un altro effetto. L’evoluzione dell’Antropocene e il suo dispiegarsi in terre di confine come
l’Italia, geograficamente al centro dei flussi migratori e delle trasformazioni ambientali, univano
in sé un grande tema ecologico, cioè l’impervia sostenibilità della specie sedicente sapiens dopo
che il riscaldamento climatico aveva superato la soglia di non ritorno sei secoli prima, e un
grande tema sociale: le ingiustizie, le discriminazioni e le diseguaglianze che accompagnavano la
crescita economica e da secoli la laceravano tra squilibri e costi umani altissimi.
La crisi ambientale, infatti, era stata pagata finora principalmente dai Paesi più poveri, che poco
o nulla avevano contribuito al cambiamento climatico: le nazioni dell’Africa subsahariana,
ridotte a deserto in pochi decenni e praticamente evacuate; le popolazioni del Sudest asiatico,
sferzate da disastri naturali indescrivibili, con nazioni come il Bangladesh allagate per il 75%
della loro estensione, senza risorse per interventi di resilienza, con più di cinquanta milioni di
persone obbligate a spostarsi; e soprattutto gli arcipelaghi dell’oceano Pacifico, completamente
sommersi già sette secoli prima tranne rare eccezioni, i cui popoli dovettero riprendere le vie del
mare e trasferirsi in Australia e Nuova Zelanda. Tutto questo era ingiusto, tanto più che coloro
che erano stati costretti a migrare nelle parti ricche del mondo per ritrovare una vita dignitosa
venivano discriminati, maltrattati e sfruttati proprio da coloro che avevano causato il problema
all’origine.
Milordo non voleva essere parte di questo gioco, ma non sapeva come fare per sottrarsene. Con il
suo aspetto distinto, non gli andava di passare per un gentiluomo germanico che si dava delle
arie, magari accompagnato da un cicisbeo o cavalier servente. L’ecologia non poteva essere un
lusso per magnati e privilegiati, chiusi nei resort africani cari come l’oro per ammirare le ultime
bestie feroci, o sdraiati sulle spiagge salentine, ben accuditi da inservienti di colore. Qualcosa
non aveva funzionato, pensò, se tutte le strepitose innovazioni tecnologiche verdi che si erano
accumulate negli ultimi secoli, dalla fotosintesi artificiale alla fusione nucleare, non erano state
condivise in modo inclusivo, lasciate ad accesso aperto, e i loro vantaggi non erano stati
distribuiti anche ai più bisognosi. Il grido dei poveri continuava a levarsi dalla Terra, insieme al
grido della Terra stessa, calda e sofferente.
L’evoluzione morale, sociale e politica di Homo sedicente sapiens continuava a essere troppo
lenta rispetto a quella tecnologica e scientifica. “Restiamo pur sempre un mammifero ingordo”,
si disse Milordo, “condannato al tribalismo e all’incapacità di guardare al futuro della specie
umana nella sua totalità”. Gli interessi della natura – di quegli uccelli sgargianti, dei pappagalli,
dei serpenti, dei coccodrilli, dei gatti selvatici tropicalizzati e degli insetti che osservava
sull’isola Salentina – coincidevano esattamente con gli interessi umani. Non si poteva non
capirlo. Ciò che avrebbe visto nell’ultima tappa stava per confermare drammaticamente questa
sensazione.
C’è deserto e deserto…
La desertificazione è un fenomeno già presente nel nostro Paese, eppure trascurato e frainteso. Ci
si immagina che esso, come nell’Italia del 2786, si manifesti con le forme classiche dei deserti:
paesaggi di dune, sabbia, rocce e vegetazione spinosa simili a quelli del Sahara o del parco
nazionale del Joshua Tree californiano. In realtà la desertificazione è qualcosa di più complesso e
pervasivo: non è il mero avanzamento di sabbie o di condizioni climatiche e vegetazionali tipiche
dei deserti, ma l’insieme dei processi che portano al degrado del suolo e al declino delle
potenzialità produttive di un territorio, non necessariamente determinate solo da fattori naturali.
Tra il 1998 e il 2013 una percentuale compresa tra il 20 e il 30% della superficie terrestre ha
mostrato andamenti declinanti nella produttività. I dati forniti dal Programma Ambientale delle
Nazioni Unite (UNEP) mostrano che attualmente circa il 39% di essa è affetta da fenomeni di
desertificazione: 250 milioni di persone sono direttamente a contatto con la degradazione della
terra nelle regioni aride (si stima che ogni anno vengano persi 12 milioni di ettari di terreni
fertili), e più di cento Paesi nel mondo sono coinvolti da fenomeni che riducono le possibilità di
produzione alimentare e la biodiversità.
In Europa, sulla base dei dati satellitari del programma Copernicus, è stato stimato che il 12%
delle terre coltivate si trovi in situazioni di calo di produttività e che un ulteriore 21% sia a
rischio desertificazione. La situazione è particolarmente grave in Spagna, nel Sud del Portogallo
e dell’Italia, nella Grecia sud-orientale, a Cipro e in alcune regioni della Bulgaria e della
Romania che si affacciano sul mar Nero; le aree ad alto rischio di erosione produttiva
interesserebbero complessivamente quasi il 20% del territorio della Grecia e dell’Italia.
Nel nostro Paese, secondo il CNR, ci sono aree in cui la percentuale di sostanza organica
contenuta nel terreno è scesa al 2%, soglia per la quale si può iniziare a parlare di deserto; a
rischio sono il 70% del territorio in Sicilia, il 58% in Molise, il 57% in Puglia, il 55% in
Basilicata, e una porzione di territorio tra il 30 e il 50% in Sardegna, Marche, Emilia Romagna,
Umbria, Abruzzo e Campania; insomma una media del 20% di territorio italiano è in pericolo.
Quali le cause di questo fenomeno, non soltanto mediterraneo? Come sempre nelle questioni
ambientali non c’è un solo colpevole, ma una serie di concause, naturali e antropiche. I processi
naturali che favoriscono il fenomeno della desertificazione sono legati alle precipitazioni in
termini di quantità, intensità e distribuzione, all’aumento della temperatura e degli episodi di
siccità. Bisogna innanzitutto distinguere tra aridità e siccità: l’aridità è una caratteristica
climatica strutturale, determinata dalla cronica scarsità di precipitazioni (inferiori a 200-400 mm
all’anno) o dalla forte evaporazione che sottrae umidità a terreni e vegetazione; la siccità è,
invece, un fenomeno episodico, che può colpire anche aree meno aride, in caso di precipitazioni
sensibilmente inferiori ai livelli di norma registrati. Gli ecosistemi naturali hanno, in genere, la
necessaria resilienza per superare periodi di siccità, al contrario i settori produttivi
agroindustriali, più rigidi e standardizzati, dipendono da un apporto d’acqua costante. L’impatto
della siccità si manifesta poi su scale di tempo diverse: si distingue una siccità meteorologica
(inferiore a 3 mesi), una siccità agronomica (da 3 a 6 mesi) e una siccità idrologica (6-12 mesi e
oltre), che porta a una consistente riduzione del livello delle falde acquifere e delle portate
fluviali. Spesso nelle zone aride, dove l’impiego delle risorse idriche è vicino alla soglia di
sostenibilità, una siccità può rompere il delicato equilibrio tra risorse e attività produttive,
provocando crisi alimentari, abbandono di territori, migrazioni e conflitti.
I processi degenerativi che portano alla desertificazione non sono dunque determinati solo o
necessariamente da variabili naturali: a esse si aggiunge spesso l’opera dell’uomo, in particolare
quando a situazioni di vulnerabilità climatica ed ecosistemi fragili (ambienti di transizione quali
lagune e stagni costieri, aree dunali e retrodunali, aree calanchive ecc.) si associano attività
socio-economiche a forte impatto, un uso competitivo e non sostenibile delle risorse, o situazioni
di sovra-sfruttamento rispetto alle reali disponibilità, anche in termini di variabilità climatica.
L’Italia è un Paese mediamente ricco d’acqua, grazie alla presenza di estesi acquiferi calcarei e
alluvionali che favoriscono l’accumulo nel sottosuolo di ingenti serbatoi. La ricchezza di acque
sotterranee è tuttavia compromessa da un uso dissennato della risorsa, caratterizzato da prelievi
eccessivi e non pianificati nonché dall’inquinamento puntiforme e diffuso di diversa origine
(urbana, agricola, industriale). L’incremento dei fabbisogni idrici e la concentrazione dei
consumi in aree limitate, dovuto al passaggio a forme di agricoltura intensiva, hanno portato a un
eccessivo prelievo della risorsa idrica sotterranea, con conseguente abbassamento del livello di
falda. Questo fenomeno può generare, come abbiamo già visto, variazioni nei rapporti idraulici
fra falde sotterranee e corsi d’acqua, e in prossimità della costa il richiamo di acque marine,
causando la salinizzazione delle falde.
Oltre allo sfruttamento delle risorse idriche, anche gli incendi possono contribuire alla
desertificazione. Le alte temperature generate dal fuoco producono infatti effetti negativi non
solo sulla composizione e struttura delle comunità vegetali, ma anche sulle proprietà fisico-
chimiche del terreno: possono, per esempio, cambiarne la struttura rendendolo meno permeabile
e, quindi, più esposto a processi erosivi. Con l’incendio, si formano sostanze idrorepellenti che
accelerano lo scorrimento superficiale e quindi il trasporto solido: nella stagione piovosa subito
successiva all’incendio gravi problemi idrologici si sviluppano pressoché in maniera sistematica
nelle aree bruciate acclivi. Nell’ultimo decennio in Italia si sono perduti più di 600.000 ettari di
bosco a causa degli incendi, che vengono innescati quasi sempre da cause non naturali,
ricollegabili direttamente o indirettamente all’uomo: in alcune aree del Sud Italia e altri Paesi a
clima arido e semiarido del bacino del Mediterraneo si sta assistendo a fenomeni di
desertificazione generati dall’impiego del fuoco per la pulizia dei pascoli o alla mala coltivazione
di terreni poveri e fortemente acclivi per attività zootecnica.
I processi di degrado del suolo sono a volte il risultato dell’uso erroneo di mezzi meccanici che
accentuano pesantemente la costipazione, la compattazione del terreno o la fertilità chimico-
fisica dello strato sottoposto ad aratura; la sempre maggiore grandezza e potenza dei trattori
spesso comporta la trasformazione di sistemazioni agrarie collinari a girapoggio (cioè con linee
di coltura che seguono le curve di livello) in colture a rittochino (ovvero con filari e scoli che
seguono la direzione di massima pendenza), con evidenti effetti sui processi di erosione dei suoli
e ruscellamento delle acque.
Anche la moderna zootecnia, da attività diffusa e in prevalenza agricola a produzione industriale
separata dal campo, ha determinato l’abbandono dei tradizionali ordinamenti produttivi
cerealicolo-foraggeri, generando profonde conseguenze, come la diminuzione di erbai e la
diffusione di monocolture estremamente esigenti in termini di fabbisogno idrico. Il substrato
organico, da elemento principale nel determinare le scelte produttive, è divenuto così fattore
secondario, sostituibile con fertilizzanti ad alta impronta carbonica.
Il passaggio a ordinamenti intensivi ha modificato l’uso del territorio: da una parte si assiste a
fenomeni di inquinamento a causa della necessità di smaltimento delle deiezioni animali su
superfici troppo limitate, dall’altra all’utilizzo eccessivo di poche aree di più facile accesso e
meglio servite da acqua, strade e servizi, sulle quali si sono spesso riscontrati carichi eccessivi,
con conseguenti fenomeni di degrado della vegetazione, compattazione ed erosione dei suoli,
fino a veri e propri processi di desertificazione.
Altri fattori di origine antropica che generano desertificazione, in termini di consumo e
compattazione dei suoli, possono essere considerati anche l’urbanizzazione e il turismo, spesso
responsabili di una perdita irreversibile delle funzionalità agricole e forestali, della drastica
riduzione di coperture vegetali e di una forte richiesta di risorse idriche concentrata nel tempo e
nello spazio.
Non si tratta dunque solo di paesaggi di sabbia, o di semplice cambiamento nel regime di
temperature e precipitazioni, ma di perdita di produttività e di disponibilità idrica spesso indotte
da usi impropri e sconsiderati di suolo e territorio da parte dell’uomo, un problema che va ben
oltre il meridione d’Italia, e ci spinge a interrogarci ancora una volta sulla corresponsabilità
umana nel determinare gli esiti del cambiamento climatico. Forse il “deserto” più pericoloso sta
nella sua etimologia: è l’abbandono, il non accorgersi del deserto che stiamo creando.
10
TRINACRIA
Nel sud africano
Il Grand Tour nell’Italia del Settecento e dell’Ottocento era un vero rito di passaggio. Non era
solo un vezzo per collezionisti d’arte e di libri antichi, di pezzi di antiquariato e souvenir. Non
c’erano solo diletto, curiosità, apprendimento e avventure amorose. I resoconti, al ritorno, non
prevedevano soltanto i soliti stereotipi pittoreschi sull’italianità. Non era insomma solo
classicismo, romanticismo e novelle gotiche. Il Grand Tour faceva parte in senso più ampio di
quella educazione liberale ed empirista che prescriveva di imparare con i sensi e attraverso le
esperienze, di vedere luoghi differenti, di viaggiare appunto, per espandere la mente. Ci stavano
quindi le vedute di laghi, vulcani e rovine, ma anche le scalate di montagne, i furti e le
disavventure, oppure nottate in posti scomodi, qualche passaggio rischioso in terre di briganti
(come accadde a Goethe, che invero andò a cercarseli, in incognito), pericoli e traumi.
Milordo lo sapeva, ma mai avrebbe immaginato che la tappa finale sarebbe stata così
drasticamente diversa dalle precedenti. L’appuntamento con la guida e con il resto del gruppo era
a Cosenza, in Calabria, da dove sarebbero partiti insieme per la Sicilia. Gli altri ci sarebbero
arrivati con un treno superveloce da Salerno, dopo aver visitato l’Irpinia e la Basilicata. Milordo
invece aveva ancora due giorni di viaggio dall’isola Salentina, perché aveva scelto di farli in
corriera, il mezzo che alla fine aveva prediletto per metabolizzare gli spostamenti. Il traghetto lo
sbarcò in un’altra affascinante isola-città, posta a metà strada fra la baia di Grottaglie e il golfo di
Massafra: si chiamava Taranto e dominava con i suoi traffici febbrili l’economia del mare Ionio.
Da qui il pullman gli fece attraversare, su un ponte basso a tralicci, la laguna di Laterza. Pernottò
in una fantastica città scavata nella pietra, dove si giravano film e le dimore ipogee erano
diventate un lusso estremo: Matera.
Poi scese lungo la costa delle rias ioniche, che assomigliava un po’ alla Norvegia marchigiana,
tanti fiordi lunghissimi uno dopo l’altro, che si incuneavano in scenografiche vallate di tufo e di
dolomiti lucane, ma la costa era più bassa e soprattutto più calda, molto più calda. Fu qui che
Milordo cominciò ad avvertire il cambiamento. Scendendo ancora più a sud, le piantagioni
diventavano più rade e le zone aride, anche sulle montagne brulle e sulle praterie del Pollino,
conquistavano spazio. Le folate di vento erano caldissime, come sbuffi di un forno o sfiati di un
condizionatore. Si capiva che i pochi centri abitati, nascosti negli anfratti più protetti, erano solo
porte di ingresso per una vita sotterranea refrigerata. Arrivati in Calabria, la costa tornò più
scoscesa, fino al mare del Crati e alla baia di Spezzano, dove lo Ionio si inoltrava all’interno,
sicché ancora una volta sembrava che la penisola si spezzasse in due.
Scendendo verso Cosenza, il massiccio della Sila sulla sinistra era senza vegetazione, come
prima il Pollino, ma molto più nero. L’autista della corriera spiegò che negli ultimi decenni era
stato distrutto da incendi devastanti e ripetuti che non avevano lasciato scampo. Erano talmente
veloci e voraci che persino la costa ionica del crotonese era stata abbandonata, dalla ria di
Rossano alla ria del Nicà, dalla baia del Lipuda ai golfi del Neto e di Crotone, fino all’isola di
Capo Rizzuto. Quando Milordo incontrò i compagni, era combattuto tra il riposo e la bellezza di
cui aveva goduto e una sottile angoscia per ciò che aveva visto nelle ultime ore. Salito
l’indomani sulla corriera privata del Grand Tour, arrivò a Catanzaro, che giaceva indaffarata e
vociante al termine di un fiordo, tra il mare di Cutro, le rias di Catanzaro e il golfo di Soverato.
In quel punto davvero l’Italia si stringeva tantissimo e la costa tirrenica – tra il mare di Santa
Eufemia, la baia dell’Angitola e il golfo di Vibo – sembrava sfiorare quella ionica tra la punta di
Stalettì e la penisola di Soverato. Scendendo ancora verso sud, tutti percepirono chiaramente
l’Africa. Non nei volti della gente, ma nell’odore del vento del Sahara e nel paesaggio.
L’Aspromonte pure era completamente bruciato, le vallate aride, le coste dunose e desertiche, sia
sul versante tirrenico nel golfo di Nicotera e poi di Gioia Tauro, il cui porto era incassato ora in
un’insenatura, sia sul versante ionico lungo la costa di Sant’Andrea, la baia di Stilo, e poi la costa
delle Fiumare con il golfo di Caulonia, la baia di Gioiosa, il litorale d’Ardore, il piccolo mare di
Bovalino e la baia di Brancaleone, con in mezzo l’isoletta d’Africo. Milordo pensò che stavano
vedendo la stessa cosa sin da Trieste: un’Italia con pochissime pianure, tutta montagnosa e
corrugata, un’Italia orograficamente chiusa su sé stessa.
Lo scenario arido e brullo non cambiò dopo che la corriera, lasciando tutti senza fiato, poco a
nord di Reggio Calabria imboccò l’altissimo ponte antisismico a campata unica sullo stretto di
Messina. La guida scelse di farli arrivare a Palermo prendendo la via lunga, svoltando a sinistra
sulla costa meridionale. L’autista era originario dell’isola di Milazzo e si aggiunse alla guida
integrando il racconto con dettagli pieni di orgoglio e di nostalgia. L’Etna che tanto aveva
affascinato Goethe era attivo e borbottante, con due lingue di lava che scendevano
rispettivamente sui versanti settentrionale e occidentale, ma placide e lente, senza troppe
preoccupazioni visto che comunque i paesi sulle pendici erano stati da tempo abbandonati, non
per il vulcano ma per la mancanza di acqua e di vegetazione spontanea.
Catania, arretrata di pochi chilometri, ora si apriva su un bel golfo interno, il mare Catanese, che
dopo l’isola Catena, la baia Scordia e il golfo di Lentini si concludeva con l’isola di Augusta. Il
periplo della grande isola fu lungo e interessante, ma restava il fatto che la Sicilia era ormai per
gran parte un deserto roccioso del tutto simile a quello libico e tunisino sull’altro lato del
Mediterraneo. I fichi d’india si perdevano in mezzo a mille specie di cactus. I muretti a secco
erano sommersi dalla sabbia. Gli impianti di desalinizzazione garantivano margini di agricoltura
residuale nelle vallate più riparate, soprattutto nella provincia di Ragusa, ma il caldo obbligava a
una vita pressoché sotterranea e notturna. Sui terrazzamenti che gettavano sulla baia di Pachino
erano in corso di sperimentazione nuove colture idroponiche tropicali, oltre ai tradizionali
pomodori: avocado, papaya, mango e litchi. L’acqua desalinizzata aveva un sapore sgradevole,
come se la rimozione del sale marino togliesse anche altri valori al liquido, ma era una
benedizione per le popolazioni locali, che cercavano di sfruttare al meglio le innovazioni
tecnologiche. I campi eolici, marini e terrestri nel deserto interno, unitamente al fotovoltaico,
davano energia sufficiente, ma le infrastrutture dovevano resistere ai cicloni tropicali sempre più
violenti.
Dopo una tappa sulla punta della penisola di Siracusa, a Ortigia, splendidamente abbarbicata sul
mare, i paesaggi erano di quelli in cui l’uomo cerca a ogni costo di tener testa al deserto, come
fanno gli animali che vi si sono adattati, ma nel corso di migliaia di anni. L’estuario del Dirillo,
la baia di Gela, l’isola e il canale di Licata, la maestosa Valle dei Templi, in cui i monumenti
erano stati ricoperti di resina conservante, poi gli estuari infuocati di Platani e del Belice, quindi
la baia di Mazara e il suo litorale sabbioso, la laguna tropicale di Marcanzotta popolata di
lamantini e coccodrilli, davanti alle Egadi, per arrivare alfine a Trapani, i cui abitanti si erano
rifugiati sulla rocca di Erice scavata con gallerie e cisterne, lontano dal suo entroterra torrido.
Ovunque anche qui i segni di catastrofici incendi, dopo i quali spuntava e resisteva solo
vegetazione bassa, insieme ad arbusti e cactus.
Da Erice si organizzavano gite in jeep verso alcuni paesi abbandonati dell’entroterra, fantasmi
pieni di storie come Segesta e Corleone, ma non c’era più tempo. Si doveva rientrare. Dopo un
ultimo bagno in un piccolo resort incassato nella montagna a San Vito Lo Capo, un tempo riserva
naturale ma ormai completamente bruciata, la corriera percorse veloce le insenature di
Castellammare e puntò dritta su Palermo, che era arretrata di qualche chilometro nel bel golfo tra
le isole Pellegrine e l’isola Zafferana, traslando i suoi palazzi e i suoi tesori più preziosi. Dopo
un’ultima notte passata in un hotel comodamente accessoriato vicino allo scheletro intatto di
Santa Maria dello Spasimo, pura poesia siciliana, il gruppo partì per l’aeroporto di Punta Raisi, la
cui pista era ora elevata direttamente sopra il mare, dove li attendeva un volo charter a fusione
nucleare per Trieste. La guida era stranamente ammutolita. Aveva detto tutto, o pagava la sottile
tristezza di ogni finale del Grand Tour dell’Italia dell’Antropocene.
Ci fu però un’altra breve sosta, voluta fortemente da Milordo e da alcuni suoi compagni, a
Capaci, che adesso era una scogliera sul mare chiamata Isola delle Femmine. C’era un grande
monumento, ben tenuto. Raccontava una triste storia che anche nel 2786 gli studenti imparavano
a scuola. Non riguardava propriamente l’Antropocene, ma il desiderio di giustizia contro tutto
ciò di cui è capace la bestia umana. Milordo rese omaggio a quel luogo e agli italiani difensori
del bene comune, quello umano e quello della natura, insieme. Non l’avrebbe dimenticato.
Take part! Facciamo la nostra parte
Sir Nicholas Stern, responsabile del servizio economico del governo britannico ed ex economista
capo della Banca mondiale, disse un giorno: “Il cambiamento climatico rappresenta il più grande
e più esteso insuccesso commerciale cui si sia mai assistito”. Le previsioni degli scienziati sugli
effetti del riscaldamento globale non lasciano dubbi sui costi economici enormi che l’umanità
potrebbe essere chiamata a sostenere per garantirsi un ambiente vivibile, dopo aver fatto di tutto
per deturparlo. Il problema è uno solo, e risponde alla seguente domanda: siamo in grado di
rinunciare a un uovo oggi per una gallina domani? Ovvero, siamo in grado oggi di sostenere
costi tutto sommato contenuti per riformare un modello di consumi e uno stile di vita dissipativi,
e assicurare così alle generazioni future un mondo (ancora) vivibile?
In questa sfida si misura la lungimiranza e generosità di Homo sapiens (che lo psicologo
napoletano Cosimo Varriale ha già ribattezzato Homo sapiens insipiens per la natura invasiva e
prepotente del suo cervello). Come afferma l’IPCC nel suo rapporto speciale del 2018, contenere
il riscaldamento globale al di sotto di 1,5°C anziché al di sotto di 2°C può consentire di ridurre in
maniera significativa i rischi e dunque i costi, permettendo a persone ed ecosistemi di avere
maggiori possibilità di adattamento alle mutate condizioni climatiche.
Gli impatti economici dei cambiamenti climatici in Italia risultano essere ancora gestibili, pur
presentando costi comunque non trascurabili: circa lo 0,5% del PIL nazionale per scongiurare
aumenti di temperatura superiori ai 2°C rispetto al periodo preindustriale; per incrementi
superiori, i costi aumentano rapidamente e in modo esponenziale: nello scenario climatico ad alte
emissioni, che prevede per fine secolo un aumento medio della temperatura di 4°C rispetto al
periodo preindustriale, le perdite di PIL pro capite sarebbero superiori al 2,5% nel 2050 e tra il 7
e l’8% a fine secolo.
Ridurre i rischi climatici e aumentare la resilienza agli impatti sono obiettivi comuni
dell’Accordo di Parigi e del Sendai Framework for Disaster Risk Reduction, entrambi emanati
nel 2015. L’indice della Capacità di Adattamento – calcolato combinando un insieme di dieci
indicatori relativi a risorse economiche disponibili, infrastrutture, istruzione, tecnologia e qualità
delle istituzioni – prevede punteggi più alti nelle regioni settentrionali, che potrebbero anche
trarre qualche beneficio dal riscaldamento planetario. I cambiamenti climatici sono destinati ad
aumentare la disuguaglianza tra regioni: gli impatti economici negativi tendono a essere più
elevati nelle aree più povere, e ciò favorirà conflittualità politiche e sociali destinate a
riverberarsi ben oltre tale perimetro.
È necessario capire dunque che il global warming coinvolge tutti, e che nessuno si salva da solo
in questa battaglia. Come ben sottolinea papa Francesco nella sua enciclica Laudato si’,
pubblicata nel 2015, “l’ambiente umano e l’ambiente naturale si degradano insieme, e non
potremo affrontare adeguatamente il degrado ambientale se non prestiamo attenzione alle cause
che hanno attinenza con il degrado umano e sociale”. Non esistono dunque problemi climatici
separati dai problemi sociali: la crisi del clima e del pianeta è lo specchio di una crisi
dell’umanità, le due crisi vanno dunque affrontate assieme. Da sempre la vita co-evolve con il
clima: un esempio classico sono i mammut lanosi, i mastodonti che hanno sviluppato un lungo
pelo per adattarsi al freddo, ma non sono sopravvissuti all’ultimo periodo interglaciale, e
probabilmente alla caccia da parte di Homo sapiens. La stessa evoluzione del genere Homo e la
comparsa di Homo sapiens in Africa sono legate a fattori climatici, come potrebbe esserlo la sua
estinzione; grandi civiltà sono nate o si sono estinte a causa di cambiamenti del clima: esso è
stato, per esempio, uno dei fattori che ha spinto a emigrare, nel corso dei millenni, svariate
popolazioni da una parte all’altra dell’Eurasia, contribuendo a determinare, di volta in volta, il
collasso dell’impero romano d’Occidente, la crisi dell’impero cinese o l’ascesa dell’impero
ottomano.
Ma è anche vero il contrario: l’uomo è in grado di influenzare il clima, già da alcuni millenni, e
negli ultimi due secoli in maniera sempre più decisiva. Si calcola che la deforestazione causata
dall’uomo quando – all’incirca diecimila anni fa – si è trasformato da raccoglitore e cacciatore ad
agricoltore-allevatore, abbia fatto aumentare la temperatura media sulla superficie del pianeta di
1°C. Le scelte che facciamo oggi ci diranno quindi a quale clima, ma soprattutto a quale civiltà,
dare un futuro.
Nonostante la sua geografia apocalittica, questo libro semiserio è improntato all’ottimismo e
intende stimolare all’azione, che per essere efficace dovrebbe coinvolgere tutte le scale, da quella
politica a quella planetaria a quella dei comportamenti del singolo individuo. Per questo
vorremmo chiudere queste riflessioni elencando dapprima tre macroazioni “chiave”, utili a
fugare le prospettive più catastrofiche per il clima planetario, e poi un decalogo finale per
stimolare l’azione individuale. In ordine di difficoltà crescente ecco gli obiettivi generali.
1) Modificare il paradigma energetico, passando rapidamente dalle fonti fossili (carbone,
petrolio, gas naturale), che ancora oggi soddisfano l’80% della domanda mondiale di energia, a
una prevalenza di fonti rinnovabili carbon free: si tratta di una sfida tecnologica ma anche
culturale, in cui un ruolo chiave è giocato anche dalle politiche per il risparmio energetico.
2) Creare una volontà politica condivisa a livello planetario, in grado di elaborare strumenti
legali vincolanti. Il Green New Deal europeo e quello annunciato dal presidente degli Stati Uniti
Joe Biden sono un passo importante verso una transizione energetica sostenibile, ma occorre un
nuovo protocollo condiviso a livello mondiale, molto più esteso e stringente, negoziato sulla base
dei principi di democraticità e di equità.
3) Mettere in discussione il nostro modello di crescita, fondato sull’espansione dei consumi
individuali: occorre andare verso un modello di economia circolare e di sviluppo senza ulteriore
spreco di materia ed energia, che comporti anche una più equa ripartizione della ricchezza
all’interno delle nazioni e tra le nazioni.
Da un’indagine della Banca Europea per gli Investimenti (BEI) risulta che quasi quattro italiani
su dieci (37%) hanno paura del cambiamento climatico, il 13% in più rispetto alla media
europea. Si tratta di un dato sul quale far leva per avviare azioni di contrasto efficaci: secondo la
Coldiretti tagliare le emissioni di gas serra di oltre 1.000 chilogrammi all’anno (CO 2 equivalenti)
per famiglia è possibile, basta mettere in campo alcuni semplici accorgimenti nella spesa di tutti i
giorni. Ecco dunque qui riportate, in conclusione, dieci regole d’oro per mitigare il nostro
impatto sul clima, a partire dall’attività più basilare della nostra vita ossia l’alimentazione.
1) Ridurre il consumo di carne e derivati a massimo una o due porzioni a settimana, preferendo
pesce di stagione, legumi, frutta secca e proteine di origine vegetale; quando necessario,
prediligere carne, latte e uova provenienti da allevamenti non intensivi, biologici e all’aperto.
2) Scegliere frutta e verdura di stagione, privilegiando le coltivazioni biologiche: produzioni
fresche stagionali consentono di risparmiare energia sia nella fase di produzione, sia nel
mantenimento della catena del freddo, sia nell’utilizzo di pesticidi e fitofarmaci.
3) Preferire l’acquisto di prodotti locali che non devono subire lunghi trasporti con mezzi
inquinanti: evitare il più possibile frutti esotici come avocado, banana, ananas; ridurre le
intermediazioni fino a fare acquisti direttamente dal produttore, per evitare passaggi di mano che
spesso significano trasporti e rincari del prodotto.
4) Privilegiare i prodotti sfusi che non consumano imballaggi, come i distributori automatici di
latte; acquistare confezioni formato famiglia rispetto a quelle monodose, per ridurre l’impiego di
plastica per quantità di cibo consumato.
5) Fare acquisti di gruppo (in famiglia o in condominio) per ridurre i consumi di energia nei
trasporti per fare la spesa.
6) Evitare cibi eccessivamente processati, poveri di nutrienti e ricchi di conservanti, le cui fasi di
lavorazione spesso hanno pesanti ricadute energetiche, climatiche e ambientali.
7) Riutilizzare le borse per la spesa o servirsi di quelle realizzate con materiali biodegradabili e
di tela, evitando quelle in plastica.
8) Ottimizzare l’energia consumata nella preparazione e conservazione dei cibi con pentole,
elettrodomestici e frigoriferi a basso impatto.
9) Ridurre gli sprechi, ottimizzare gli acquisti e riscoprire la cucina degli avanzi, evitando che
finiscano tra i rifiuti: circa un terzo degli sprechi alimentari nei Paesi occidentali ha origine nella
pattumiera di casa.
10) Praticare la raccolta differenziata, per consentire il recupero di energia dai rifiuti prodotti,
favorendo il più possibile modelli di economia circolare.
Come suggerisce Robert Kenner al termine del film Food Incorporation (2008), candidato al
premio Oscar nel 2010 come miglior documentario americano, ciascuno di noi può “votare” per
cambiare sistema almeno tre volte al giorno, attraverso un atto alimentare più consapevole, che
consenta di migliorare la nostra salute, il nostro pianeta e pure il nostro umore. Se lo facciamo
davvero tutti, ce la possiamo fare. Take part!
Bibliografia essenziale
Dove non diversamente indicato, i dati scientifici sul cambiamento climatico contenuti in questo
libro sono ricavati dai documenti ufficiali dell’Intergovernmental Panel on Climate Change
(IPCC) e reperibili nel sito ufficiale www.ipcc.ch. I dati relativi all’Italia e all’area mediterranea
sono sintetizzati dal recente report a cura del Centro Mediterraneo per i Cambiamenti Climatici
(CMCC), pubblicato da Spano D., Mereu V., Bacciu V., Marras S., Trabucco A., Adinolfi M.,
Barbato G., Bosello F., Breil M., Chiriacò M. V., Coppini G., Essenfelder A., Galluccio G.,
Lovato T., Marzi S., Masina S., Mercogliano P., Mysiak J., Noce S., Pal J., Reder A., Rianna G.,
Rizzo A., Santini M., Sini E., Staccione A., Villani V., Zavatarelli M., Analisi del rischio. I
cambiamenti climatici in Italia, 2020 (scaricabile dal sito: www.cmcc.it).
Una riflessione sui cambiamenti ambientali in prospettiva geografica è stata recentemente
pubblicata da Bagliani M., Pietta A., Bonati S., Il cambiamento climatico in prospettiva
geografica. Aspetti fisici, impatti, politiche, Il Mulino, Bologna 2019. Un ringraziamento va
anche a Luca Mercalli per il confronto sui dati e le prospettive contenute nei suoi libri: Non c’è
più tempo. Come reagire agli allarmi ambientali, Einaudi, Torino 2018; Salire in montagna.
Prendere quota per sfuggire al riscaldamento globale, Einaudi, Torino 2020.
I dati relativi alla situazione dei ghiacciai della montagna italiana sono reperibili nel volume
curato da Smiraglia C. e Diolaiuti G., Il nuovo catasto dei ghiacciai italiani, Ev-K2-CNR
Edizioni, Bergamo 2015. La citazione di Giacomo Corna Pellegrini sulle Alpi nel Tremila è tratta
dal libro Pianeta blu. Paesaggi e atmosfere nel mondo, Unicopli, Milano 1995; una riflessione
sulla insostenibilità (climatica e finanziaria) dell’attuale modello turistico basato sugli impianti
sciistici si trova nel dossier curato dalla Fondazione Finanza Etica Turismo bianco, futuro nero,
https://valori.it/dossier/febbraio2020/.
Sull’Antropocene uno dei testi di riferimento è quello di Lewis, S.L., Maslin, M.A., Il pianeta
umano. Come abbiamo creato l’Antropocene, Einaudi, Torino 2019; un’analisi in ottica
psicologico-evoluzionistica del cervello di Homo sapiens è il libro di Cosimo Varriale, Homo
sapiens insipiens. Alle origini di un cervello versatile e ambivalente, invasivo e “prepotente” che
ci sta portando al disastro, Guida edizioni, Napoli 2020.
Alcune delle riflessioni sul cibo del futuro si ritrovano nel documento di Van Huis H., Van
Itterbeeck J., Klunder H., Mertens E., Halloran A., Muir G., Edible Insects. Future prospects for
food and food security, FAO, 2013 (http://www.fao.org/3/i3253e/i3253e00.pdf). Il decalogo
finale è invece ispirato al Decalogo Salvaclima proposto dall’associazione Coldiretti e
all’Ecomenu proposto da Greenpeace. Il documentario Food Incorporation di Robert Kenner
(2008) è pubblicato in edizione italiana e distribuito da Cinehollywood.
Un documento chiave per cogliere le connessioni tra cambiamento climatico e crisi sociale è
l’enciclica di papa Francesco, Laudato sì’, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2015,
disponibile in molte altre edizioni.
Il viaggio di Milordo è liberamente e giocosamente ispirato al Viaggio in Italia di Johann
Wolfgang Goethe, pubblicato poco più di duecento anni fa (1817).

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