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Gasparri (Con Evidenziazioni)

Saggio barbari

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Stefano Gasparri

Tardoantico e alto Medioevo: metodologie di ricerca e modelli interpretativi


[A stampa in Il Medioevo (secoli V -XV), VIII (Popoli, poteri, dinamiche), a cura di S. Carocci, Roma 2006, pp. 27 -61 ©
dell’autore - Distribuito in formato digitale da “Reti Medievali”]

1. Ripensare la cronologia
Negli ultimi decenni la ricerca storica ha profondamente trasformato l’interpretazione del periodo
che è qui oggetto di indagine. Gli studi che oggi si collocano all’avanguardia forniscono
un’immagine che finisce per ribaltare quasi totalmente quella tradizionale, la quale rimane
peraltro ancora ben viva nell’opinione comune. Stiamo parlando, è quasi ovvio ricordarlo, dei
secoli che tradizionalmente costituiscono, da una parte, l’età della decadenza dell’impero romano
(IV-V), dall’altra le “età oscure”, i Dark Ages: ovvero l’alto Medioevo occidentale in senso proprio
(VI-IX/X). Possiamo dire subito che, in linea generale, il processo di revisione che si è innescato
tende a spostare il pendolo interpretativ o dal negativo al positivo o quantomeno al neutro.
Il primo dato su cui riflettere è fornito proprio dalla cronologia. Infatti trattare insieme questo
blocco di secoli, pur essendo in sintonia con le direttrici attuali della ricerca, non è un fatto
scontato: si tratta di accettare la convergenza di due periodi che un tempo erano ritenuti marginali
nei rispettivi ambiti di studi, la storia antica e quella medievale, e che invece uniti insieme
acquistano un nuovo significato. Ma perché la loro unione non sia un fatto puramente meccanico,
per trovare cioè degli elementi di lungo periodo che contraddistinguano tutto il periodo, è
necessario prima di tutto colmare un baratro che si colloca al centro di esso e che rappresenta una
delle più marcate discontinuità dell’intera storia europea, occidentale, mediterranea: la fine del
mondo antico, ovvero la fine dell’impero di Roma.
Dall’umanesimo in poi, la cultura europea si è interrogata sulla fine della civiltà antica, con una
partecipazione e talvolta anche un’angoscia diverse a seconda delle età e dei contesti in cui
vivevano gli studiosi: davvero la crisi di Roma “è sempre apparsa come il metro per intendere la
storia del mondo” 1 . Se i dotti dell’umanesimo si confrontavano con una civiltà della quale
speravano di riprodurre l’altissimo livello culturale, e che pure era caduta, in modo diverso un
illuminista come Edward Gibbon, con la sua razionale fede nel progresso umano, pur indagando “il
declino e la caduta dell’impero romano” riteneva impossibile un’altra ondata di barbarie nei tempi
futuri2 . Sia pure in modo non lineare, tuttavia, dagli umanisti – fu Flavio Biondo il primo a parlare
di “decadenza dell’impero romano” (inclinatio Romanorum imperii) – fino ai romantici l’idea di
decadenza si impose progressivamente non solo nella storiografia, ma più in generale come un
canone interpretativo proprio della cultura europea. E neppure la rivalutazione, nell’arte come
nella politica, avvenuta nel corso della prima metà del XX secolo, di quello che veniva pur sempre
definito con una formula negativa “il basso impero”, fu sufficiente a superare la cesura fra
Antichità e Medioevo, anche se certo creò premesse più favorevoli.
Le tendenze attuali degli studi sono molto più radicali. Infatti, se oggi si considera tutto intero il
segmento cronologico indicato prima, vuol dire che al suo interno non si intravede alcuna cesura
significativa, e ciò significa proporre un’interpretazione totalmente diversa della transizione
dall’Antichità al Medioevo. Non si tratta però di un trionfo tardivo della teoria di Henri Pirenne
che, svalutando l’impatto delle invasioni barbariche, aveva spostato in avanti la fine del mondo
antico, ponendola dopo l’espansione arabo-islamica e come sua diretta conseguenza3 . Infatti, a
leggere tanta parte della storiografia recente sembra che non si possa più parlare di crisi, ma
piuttosto di “trasformazione del mondo romano” 4 , intendendo con questa definizione un processo
plurisecolare al termine del quale la società medievale occidentale è compiutamente formata, così
come al di fuori di essa si è ormai strutturato il mondo islamico, esso pure erede della civiltà antica
del Mediterraneo.
Un modello interpretativo di questo tipo non solo supera la cesura fra Antichità e Medioevo ma
“crea” un periodo che ha, o dovrebbe avere, una sua coerenza interna; ma è un periodo che non ha
neppure un nome che lo comprenda tutto in modo efficace e che, da questo punto di vista, svela la
sua origine storiograficamente recente. Se infatti è impossibile definirlo semplicemente alto
Medioevo, per l’evidente alterità della storia tardo-imperiale rispetto a quella altomedievale
1
classica, appare anche riduttivo attribuirgli l’etichetta di mondo tardoantico, come ha fatto Peter
Brown nel lontano 1971 riferendosi ai secoli che vanno dal III all’VIII, da lui inquadrati appunto
come “mondo tardoantico” in uno studio espressamente dedicato alla “trasformazione sociale e
culturale” (non alla crisi). È evidente che contano molto, in queste definizioni, le differenti
formazioni dei singoli studiosi, antichisti o medievisti. Non è neppure un caso che, come dice lo
stesso autore nell’introduzione, il libro di Brown si indirizzasse più verso la Baghdad di Harun al-
Rashid che verso la “remota” Aquisgrana di Carlo Magno5 . Remota, quest’ultima, dal
Mediterraneo: l’ottica mediterranea o continentale, l’attenzione per l’Oriente in via di diventare
bizantino o per l’Occidente romano-barbarico portano con sé inevitabilmente periodizzamenti
diversi, come taglio cronologico e come definizione.
Le definizioni comunque sono importanti anche al di fuori del campo della cronologia. Decadenza,
crisi, caduta, fine, trasformazione: tutte parole niente affatto neutre che invitano a una scelta. In
modo del tutto provocatorio – potremmo dire non “storiograficamente corretto” secondo i
parametri di oggi – Brian Ward-Perkins ha intitolato un suo libro recentissimo La caduta di Roma
e la fine della civiltà, con ciò non solo rivendicando la discontinuità ma portandola ai massimi
livelli. “La civiltà può morire, perché essa è già morta una volta”, aveva scritto Wilamowitz nel
1897, e allora quest’affermazione non sembrava provocatoria: oggi invece, in un contesto culturale
diverso, lo è senz’altro. Il quadro, delineato da Ward-Perkins, della fine della società romana e del
suo stile di vita, legati com’erano a un’economia complessa e diversificata rispetto sia alla
produzione dei beni che ai meccanismi di circolazione degli stessi, è in effetti assai crudo e fondato
su dati archeologici molto aggiornati6 . Ma in questo modo, accettando cioè in toto l’interpretazione
di Ward-Perkins, il paradigma tradizionale verrebbe rimesso in piedi: e, visti i continui
revisionismi storiografici, non ci sarebbe affatto da stupirsi se questo libro – che del resto già non è
più il solo a muoversi in questa direzione 7 –,al di là forse delle intenzioni stesse del suo autore,
aprisse la strada ad un ritorno verso le vecchie e confortevoli interpretazioni.
È certo che i paladini del nuovo hanno talvolta spinto le loro posizioni un po’ troppo oltre; “did
Rome ever fall?” (‘ma Roma è mai caduta?’) si chiede infatti ironicamente Ward-Perkins nel primo
capitolo del libro appena citato, con riferimento alle posizioni continuiste più spinte. Un
interrogativo che richiama in un modo apparentemente curioso il titolo di un articolo non
recentissimo di Chris Wickham, La chute de Rome n’aura pas lieu (‘la caduta di Roma non avrà
luogo’): infatti Wickham, che in quel caso criticava aspramente un libro “continuista” di Jean
Durliat, è talvolta collocato a sua volta fra i continuisti, ossia coloro che negano una frattura totale
fra il mondo romano e quello medievale; anche se le idee di Wickham sono meglio definite
dall’etichetta, da lui stesso coniata, dell’ “altra transizione”. Ciò significa che anche nel campo del
“nuovo”, sotto le differenti categorie della continuità, della trasformazione o dell’ “altra
transizione” sono presenti modelli interpretativi che sono anch’essi molto differenti gli uni dagli
altri e che non vanno quindi appiattiti fra di loro8 .

2. I barbari: Germani, anzi Romani


La fine del mondo romano evoca i barbari. E proprio qui si annida la questione più controversa,
quella che più di tutte ha finito per rovesciare l’interpretazione complessiva del periodo. I barbari,
anzi i Germani, sono visti normalmente non solo come i distruttori di Roma ma anche come i
costruttori del Medioevo. A partire almeno dall’Ottocento, una lunghissima tradizione di studi,
potremmo dire un orientamento generale della cultura europea, ha radicato questi concetti dentro
di noi. Qui come altrove, il secolo XIX ha imposto modelli interpretativi ferrei, difficilissimi da
ribaltare9 . Tutta la tradizionale discussione sul Medioevo (e ovviamente in particolare sull’alto
Medioevo) veniva impostata dunque sulla dicotomia fra “romano” (o “latino”) e “germanico”,
accentuando o diminuendo la portata del retaggio dell’antichità o delle innovazioni germaniche nei
singoli campi dell’evoluzione storica, dalla società, alla politica, alla religione, all’economia, a
seconda che prevalessero, in quel campo o in quella regione, l’elemento etnico romano o quello
germanico, ritenuti portatori di due culture ben distinte e coerenti al loro interno1 0 . Di qui da un
lato partiva la grande discussione sulle “origini” (le origini del feudalesimo, della cavalleria, dei
comuni, ecc.)1 1 , già a suo tempo stigmatizzata da Marc Bloch in un capitoletto della sua Apologie de

2
l’histoire intitolato “l’idolo delle origini”, in cui si pronunciava nettamente contro le “origini che
spiegano”: infatti gli uomini, sosteneva, assomigliano più al loro tempo che ai loro padri1 2 ;
dall’altro si sviluppava la discussione relativa ai rapporti etnici nell’alto Medioevo, i rapporti cioè
fra gli invasori germanici e le popolazioni indigene, una questione quest’ultima particolarmente
cara alla storiografia italiana.
Le tendenze ad un superamento di questa situazione non sono recenti. Per restare in Italia, sono
stati molto importanti gli studi di Giovanni Tabacco, la sua idea del Medioevo come risultato del
connubio latino-germanico. Egli indagò con occhi neutri e non più partigiani l’incontro fra l’eredità
delle grandi civiltà sedentarie del Mediterraneo e il dinamismo delle genti semi-nomadi, fino alla
sistemazione complessiva del “mondo latino-germanico” ad opera dei Carolingi1 3 . Ma alla base
della sua interpretazione c’erano sempre i due distinti modelli di “romano” e “germanico”: e sono
invece precisamente questi ultimi che sono ormai saltati.
A smuovere le acque è stato il libro di uno studioso tedesco, Reinhard Wenskus, apparso nel
1961 1 4 . Questo libro dette l’avvio ad una svolta epocale negli studi sui popoli barbarici, forse al di là
delle intenzioni stesse del suo autore, che era ancora molto legato ad una letteratura di tipo
tradizionale 1 5 . Fino a quel momento, i popoli barbarici erano stati unanimemente interpretati come
delle unità di tipo quasi “naturale”, i cui membri erano legati fra loro da vincoli biologici,
determinati da una discendenza comune e resi manifesti dal possesso di una medesima lingua,
cultura, tradizione, diritto. Ed erano precisamente raggruppamenti umani con queste
caratteristiche che erano i portatori di quella compatta “cultura germanica” di cui si parlava prima.
Anche sorvolando sulle origini di questo modello di etnia barbarica, origini che potrebbero certo
essere rintracciate fra gli stessi autori tardoantichi, fra i quali il primo posto spetta al vescovo
ispano-visigoto Isidoro di Siviglia, non vi sono dubbi sul fatto che esso si era imposto nel corso del
XIX secolo. Era quella l’età delle nazioni, ed è evidente il rapporto tra questa idea degli antichi
popoli barbarici e l’idea allora prevalente di nazione intesa come un corpo compatto ed unitario al
suo interno, premessa indispensabile per la formazione di stati anch’essi nazionali, ovvero
etnicamente (culturalmente, religiosamente, linguisticamente) omogenei. La questione era
particolarmente sentita nella cultura tedesca, nella quale fin dall’inizio lo studio del Medioevo si
era coniugato con la riscossa nazionale, se è vero che persino la grande esperienza dei Monumenta
Germaniae Historica, editi da una società fondata nel 1819 da un patriota antinapoleonico, il
barone Karl von Stein, nasceva dall’esigenza di rivalutare, pubblicandone le fonti, gli eventi di un
periodo “germanico” come il Medioevo, nel quale le “tribù tedesche” (deutsche Stämme), ossia i
Germani intesi come progenitori diretti della moderna nazione tedesca, erano state protagoniste,
abbattendo l’impero romano e fondando a loro volta regni e imperi.
I Germani, dunque, erano in prima linea. E ancor più lo furono quando, verso la fine
dell’Ottocento, l’idea di etnia si incontrò con la dottrina della razza, che fece dei Germani una razza
superiore, identificabile sulla base anche di parametri antropologici (forma del cranio, lunghezza
delle ossa, eccetera) e destinata “naturalmente” al dominio sugli altri popoli. L’uso folle che fece il
Terzo Reich di tali teorie gettò il discredito sulle dottrine razziali dopo il 1945, senza tuttavia
intaccare il quadro interpretativo ottocentesco1 6 . I popoli barbarici erano sempre intesi come etnie
biologicamente omogenee, le cui origini si perdevano nella più remota preistoria, al punto che
potevano essere considerati come appartenenti quasi più al mondo naturale che a quello della
storia umana.
Le cose sono cambiate dopo l’uscita del libro di Wenskus, il cui titolo – Formazione e struttura
interna delle stirpi – in italiano suona poco comprensibile, mentre il sottotitolo – Il divenire delle
‘gentes’ del primo Medioevo – risulta forse meno ostico. Nella sostanza, Wenskus studiò la
cosiddetta “etnogenesi”, ossia i complicati processi di formazione delle varie etnie barbariche
nell’età tardoantica e altomedievale, mettendo in rilievo, come fattore di coesione di queste etnie
(Stämme), la loro comune tradizione, fondata soprattutto sui cosiddetti “miti di origine”, dalla
quale derivava la loro strutturazione interna: le istituzioni, il diritto, la religione. Era dunque un
fattore soggettivo, storico e non biologico-naturale come il sangue o la discendenza, quello che
veniva messo al centro del processo di formazione e costituzione dell’etnicità barbarica. Questo
modello di etnicità vedeva all’origine dei popoli a noi storicamente noti l’azione di singoli gruppi

3
dinamici, che Wenskus definiva “nuclei di tradizione” (Traditionskerne), spesso collegati
direttamente a una dinastia regia (ma non sempre: la stessa funzione poteva essere assolta anche
da associazioni cultuali), i quali riuscirono, con la forza delle armi e il prestigio di un capo
vittorioso, ad aggregare e poi a tenere insieme nel corso del tempo gruppi sempre più ampi e di
origine anche molto eterogenea trasmettendo loro una tradizione comune. Nacquero così i popoli
che noi conosciamo dalle fonti del III-VII secolo, ai quali tali nuclei fornirono il nome e anche
l’identità, ovvero il senso di appartenenza a un’etnia: quello che oggi va sotto la definizione
abbreviata di “etnicità” 1 7 .
La svolta impressa alla ricerca da Wenskus fu tuttavia incompleta, e senza gli sviluppi successivi
della cosiddetta “scuola di Vienna” oggi non saremmo probabilmente qui a discutere con tanta
attenzione del suo libro1 8 . La stessa scelta del termine etnogenesi non fu felicissima perché,
nonostante tutto, esso poteva sempre essere ricondotto in qualche modo a processi non
propriamente storici ma naturali, e ciò anche per una forte astrattezza dei processi descritti da
Wenskus, che rendevano difficile collocare storicamente l’azione di questi “nuclei di tradizione”. Il
suo era inoltre un modello elitario, giacché vedeva all’origine di questa tenuta della tradizione delle
varie stirpi un’azione condotta appunto dalle élites; infine, come ha scritto Walter Pohl, “il suo
concetto di Stamm indica che queste tribù erano componenti di un Volk o popolo germanico”, che
in realtà non è mai esistito come soggetto unitario, tutt’al più può essere inteso come
“un’astrazione linguistica” 1 9 . Al contrario, oggi si tende a vedere nei processi di trasmissione di
queste tradizioni antiche l’azione di forze diverse, all’interno delle gentes barbariche, e non solo di
quelle legate alla regalità o comunque al comando: si parla anche di etnogenesi “decentralizzate”,
ad esempio in relazione agli Slavi2 0 ; i processi etnici infatti erano processi aperti, non opera di
nuclei chiusi e impermeabili ad influssi esterni. Le stesse tradizioni, infine, sono interpretate come
il cemento che forniva un’identità ai vari popoli, relegando nel passato storiografico non solo
l’inesistente “popolo germanico” della remota preistoria, ma anche la schematica dicotomia di
“romano” e “germanico”, intesi come l’espressione di due mondi differenti2 1 .
Il rinnovamento del modello di Wenskus passa soprattutto per quest’ultimo punto. Infatti, non a
caso nel suo libro mancava Roma: la sua azione, la sua influenza, la sua eredità; insomma, con
Wenskus eravamo ancora in presenza di una visione quasi esclusivamente germanica della storia
della Stammesbildung (‘formazione delle stirpi’). Tale visione è stata superata grazie a una
concezione nuova dell’intero problema, che ha totalmente rimescolato le carte al punto da rendere
possibile la ormai famosa e provocatoria affermazione di Patrick Geary, secondo il quale “il mondo
germanico fu forse la più grande e duratura creazione del genio politico e militare romano” 2 2 . Con
queste parole, e in perfetta sintonia con studiosi come Walter Pohl, Geary voleva sottolineare l’idea
che, almeno in età imperiale, la compenetrazione tra mondo romano e barbaricum era stata
talmente intima e profonda che entrambi si erano evoluti insieme. Dunque non siamo più di fronte
a due realtà separate, ma ad un centro ricco – l’impero, con la sua civiltà urbana complessa ed
evoluta, le sue ricchezze, il suo prestigio secolare – e a una periferia povera – le terre barbariche
che si trovavano al di là del limes, ma che erano strettamente collegate al centro da cui traevano
mezzi di sostentamento, ricchezze, simboli di status, anche la religione (il cristianesimo cattolico o
ariano), e verso cui i loro abitanti erano irresistibilmente attratti, sia individualmente (le carriere
di tanti ufficiali barbarici sono ben note) sia in gruppo (i federati). In questa sorta di “sistema-
mondo” l’integrazione reciproca era molto alta e cresceva di continuo, al punto che molte gentes
che più tardi invasero il centro imperiale si formarono proprio sul limes e per diretta influenza
politica romana: è il caso di Franchi e Alamanni, grandi leghe militari di più facile gestione da
parte delle autorità romane rispetto a un instabile pulviscolo di piccoli raggruppamenti barbarici.
Radici barbariche e radici romane entrano dunque entrambe a pieno titolo nella formazione delle
identità etniche delle gentes tardoantiche e altomedievali2 3 .
Senza entrare ulteriormente nei dettagli di questa interpretazione, qui importa sottolineare come
essa delinei un modello interpretativo radicalmente nuovo rispetto al passato. Le gentes
barbariche sono viste innanzitutto come realtà polietniche, fluide, aperte continuamente a nuovi
influssi: fra questi, quello proveniente da Roma è senza dubbio fondamentale, molto più di quello
che proveniva dalle “foreste della Germania”. Ciò non vuol dire affatto svalutare il peso delle

4
antiche tradizioni, delle saghe, i miti delle origini, con il loro contenuto anche pagano (Wotan, gli
Asi, le streghe, i re dai lunghi capelli, ecc.): al contrario esse rappresentano uno strato “pre-
etnografico”, ancora rintracciabile nelle opere degli autori dell’alto Medioevo come Giordane,
Gregorio di Tours, Beda, Paolo Diacono, e costituiscono materiale per storie che, pur
profondamente rielaborate, contribuiscono a fondare l’identità dei vari popoli barbarici2 4 .
Barbarici, infine, e non “germanici”: per il ruolo di Roma (e dei provinciali romani che spesso
confluivano nei loro ranghi) e per la presenza importante dei nomadi, non sempre facilmente
isolabili dal resto della popolazione e che certamente non parlavano lingue germaniche, dunque a
nessun titolo possono essere definiti Germani.

3. Un esperimento sfuggito di mano?


Le conseguenze di questa diversa interpretazione sono molteplici e cambiano tutta la classica
ricostruzione dell’alto Medioevo. Infatti, in una simile prospettiva è lecito addirittura affermare
che i regni fondati dai barbari non siano stati altro che dei regni postromani fondati da eserciti
federati romani di origine largamente barbarica: è una posizione estrema, certo, e tuttavia in molti
casi difendibile 2 5 . Ed è precisamente così che può saltare la cesura Antichità-Medioevo, che in tal
modo viene sostituita da una lenta transizione verso forme sociali, culturali, politiche diverse e più
semplici, in un orizzonte che è sempre quello prevalente della romanità, sia pure trasformata dalla
totale compenetrazione con il mondo barbarico. E all’interno dei vari regni, viene meno anche – se
non altro nei termini tradizionali – la rigida contrapposizione fra “romano” e “germanico” che era
alla base di tutte le ricostruzioni. Valga un esempio tratto dalla storia italiana. Per interpretare la
storia del regno longobardo, Gian Piero Bognetti si era valso di uno schema binario molto
semplice: ariani contro cattolici, che si alternavano al potere fino alla vittoria definitiva di questi
ultimi, sintomo di una sia pur tardiva apertura dei Longobardi verso la realtà sociale, culturale,
religiosa prevalente nel paese da loro occupato2 6 . Ma alla base di questa sua idea c’era
sostanzialmente quella della compattezza etnica degli arimanni, i guerrieri longobardi, che era
difesa mediante il mantenimento dell’arianesimo, secondo Bognetti un’autentica religione
nazionale; dall’altro canto c’era il cattolicesimo visto come la religione dell’elemento romano,
rigidamente contrapposto agli invasori. Demoliti i due concetti di romano e germanico, vengono a
mancare le basi stesse di questa ricostruzione, e del resto un riesame delle fonti ha mostrato che
essa era del tutto priva di un effettivo riscontro documentario2 7 .
Più in generale è l’incontro stesso fra barbari e romani, in tutte le sue manifestazioni, che deve
essere reinterpretato alla luce delle nuove posizioni storiografiche 2 8 . Prima però va sottolineato che
il coro non è unanime. Pur all’interno di un generale rinnovamento delle griglie interpretative,
infatti, ci sono voci diverse. Il continuismo può essere spinto fino a livelli quasi paradossali. Tale
può essere intesa la posizione di Jean Durliat, che sulla base anche di un’interpretazione rigida, e
perciò discutibile, del vocabolario delle fonti ritiene che il sistema fiscale imperiale tardoromano
sia rimasto sostanzialmente in funzione fino ai Carolingi: ma tale sistema era la pietra angolare su
cui si reggeva l’intero mondo romano, sostenere una sua prosecuzione vuol dire affermare che quel
mondo non era ancora finito2 9 . Più complessa la posizione di Walter Goffart, caposcuola di coloro
che hanno studiato le “tecniche di insediamento” (techniques of accommodation) dei popoli
barbarici all’interno dell’impero. La sua idea di un pacifico e concordato stanziamento dei barbari
discendeva dall’idea che per le autorità romane incorporarli nell’impero, per utilizzarli contro altri
barbari, fosse più proficuo che combatterli; di qui la deduzione che i federati barbarici
utilizzassero, nel loro stanziamento, le rendite fiscali delle varie province. Era questo il fenomeno
principale del V secolo, non le invasioni dei popoli barbarici, secondo Goffart, il quale arriva
addirittura ad affermare che la fine dell’impero romano sarebbe stato semplicemente “un
esperimento fantasioso sfuggito di mano” 3 0 .
L’eccesso interpretativo è evidente, e Brian Ward-Perkins – da cui abbiamo preso le mosse – ha
buon gioco a metterlo in luce, sottolineando a tinte forti i disastri prodotti dalle invasioni,
culminati in un drammatico abbassamento degli standard di civiltà3 1 . Ma pure la frase di Geary
citata sopra (e citatissima sempre ed ovunque) è eccessiva, forse volutamente. Tra continuità,
barbari romanizzati, ingegneria politica, il rovesciamento dei modelli tradizionali è giunto talvolta

5
a livelli paradossali; e inoltre, come si diceva, non avviene in un quadro concorde. In effetti, il
paradosso è riscontrabile soprattutto nei continuisti “romani” più spinti, come Durliat e Goffart:
quest’ultimo, caposcuola di una corrente storiografica che è ferocemente ostile a tutta la “scienza
delle antichità germaniche” (germanische Altertumskunde), svaluta per questo motivo totalmente
la germanicità dei barbari e il peso della loro influenza fino ad annullarli. Di qui una polemica
durissima con chi – il gruppo viennese innanzitutto –, pur reinterpretando le teorie di Wenskus,
non fa scomparire del tutto dal mondo barbarico né la teoria dell’etnogenesi né, di conseguenza, gli
elementi culturali non riconducibili al bagaglio mediterraneo3 2 .
La polemica si sviluppa soprattutto sul piano dell’interpretazione delle fonti, come vedremo. Ma
prima conviene sottolineare subito come gli attacchi di Goffart e della sua scuola appaiano un po’
retrodatati, nelle loro accuse di “criptogermanesimo” rivolte al gruppo viennese. L’apertura verso
la continuità romana è evidente anche in questi studiosi, come abbiamo visto; loro caratteristica,
rispetto ad altri, è semmai la considerazione – facilmente spiegabile con il ruolo storico del loro
paese – da essi stessi riservata ai nomadi dell’est, Unni, Avari, nella costruzione delle
caratteristiche del mondo postromano e dei suoi vicini (la cosiddetta “alternativa unna”)3 3 .
Un’altra e diversa critica è basata sull’osservazione secondo cui i nuovi modelli interpretativi del
rapporto fra impero romano e mondo barbarico (barbaricum) risentirebbero delle inquietudini
contemporanee: basta sostituire al primo elemento l’Occidente industrializzato e al secondo il
terzo mondo con le sue masse affamate, un conflitto che oggi ha preso le sembianze di un
confronto fra Occidente cristiano e Islam. La volontà di delineare scenari futuri meno traumatici
porterebbe a una reinterpretazione del passato che cancelli l’antico trauma del crollo del grande
impero mediterraneo di Roma e presenti una pacifica o quantomeno facile integrazione dei barbari
nel mondo romano, prefigurazione della futura, auspicata integrazione degli immigrati nella
società europea contemporanea. Un’osservazione, questa del legame con le angosce del presente,
che forse è vera come spiegazione di una molla psicologica, ma che non può in alcun modo farci
tornare al passato. Infatti non siamo di fronte a una moda, bensì a un rinnovamento profondo
degli strumenti di analisi a nostra disposizione: ed è precisamente da questo rinnovamento che
deriva la costruzione dei nuovi modelli3 4 . Ormai i Germani della tradizione ottocentesca sono
diventati, per la storiografia, dei “Germani immaginari”: e tali è bene che restino3 5 . A meno di non
abolire addirittura il termine, come qualcuno ha proposto3 6 .

4. La questione delle fonti narrative: testo e realtà storica


Le discussioni e le polemiche sulla natura dei barbari si sono incrociate con un rinnovamento
metodologico di fondo nell’interpretazione delle tradizionali fonti narrative, le cronache che
contenevano le storie delle origini di quei popoli. Paolo Diacono e gli altri autori di tali storie erano
stati sempre utilizzati esclusivamente come serbatoi dai quali attingere notizie oggettivamente
valide, pur in un contesto pieno di evidenti deformazioni, sulla più antica storia delle genti
barbariche, sulle loro origini (origines): si trattava solo di distinguere, con gli strumenti della
tradizionale critica filologica di matrice ottocentesca (quella rappresentata al più alto livello dagli
MGH), i dati “falsi” da quelli “veri”, ciò che era copiato o inventato da ciò che era autentico e
genuino. Queste notizie erano poi messe in rapporto – un rapporto per la verità da sempre non
facilissimo – con le informazioni deducibili dall’evidenza archeologica, arrivando così a ricostruire,
ad esempio, le plurisecolari migrazioni delle varie stirpi.
Sulla spinta di una corrente radicale di critica del testo, il cosiddetto “mutamento linguistico”
(linguistic turn), la fiducia in queste fonti (come in qualsiasi testo, sia esso a carattere letterario o
documentario) è stata profondamente scossa, ed è stata messa in discussione la possibilità di
raggiungere, per il loro tramite, la realtà che sta dietro di esse: l’assunto generale del linguistic
turn è che “non c’è nulla al di fuori del testo” e che quest’ultimo è totalmente separato dal mondo
reale. La relazione così interrotta tra scrittura e realtà comporta, in fondo, una dissoluzione della
storia in quanto nega la capacità del linguaggio di rendere conto di una qualsiasi realtà che non sia
se stesso: la storia, il passato divengono così semplicemente “un sottosistema di segni linguistici”,
il quale costruisce il suo oggetto secondo le regole dell’universo linguistico abitato dagli storici3 7 .
È evidente che è difficile applicare fino alle estreme conseguenze questa metodologia interpretativa

6
alle narrazioni storiche, e in un certo senso anche l’opera di Walter Goffart, che pure l’ha applicata
ai testi altomedievali, lo prova3 8 . Certo, per noi oggi è chiaro che le realtà del passato descritte sulla
base di tali testi sono di fatto delle “realtà della mente”, ma non possiamo fermarci a questo stadio
e rinunciare così al nostro compito di indagare la funzione, il significato che tali testi hanno
veicolato: il che vuol dire il loro effettivo rapporto con la realtà storica, rispetto alla quale non sono
puri e semplici serbatoi di fatti, è vero, ma con la quale hanno interagito profondamente,
essendone prodotti e al tempo stesso contribuendo a costruirla o a modificarla. La novità di questo
approccio metodologico, che reagisce agli eccessi della critica decostruzionista delle fonti pur
recependone gli aspetti più innovativi, è proprio nella sua valutazione del carattere dinamico e non
statico del rapporto fra il discorso costruito dalle fonti e il referente rappresentato dalla realtà; un
rapporto che, nel nostro caso, ha al suo centro il paradigma della “costruzione del passato”,
l’indagine sui modi con i quali una data società ha percepito il proprio passato e al tempo stesso lo
ha modellato: qui, nel campo della memoria sociale (o memoria culturale), la distinzione fra ciò
che è vero o falso si perde, le operazioni di “invenzione della tradizione” acquistano piena
legittimità, e le fonti stesse diventano così “modi di creare un nuovo passato per il presente”3 9 .
Dunque, respingendo la soluzione radicale che era stata proposta dal linguistic turn ma
mettendone a frutto gli strumenti critici, i testi altomedievali hanno assunto un interesse nuovo e
al tempo stesso hanno conservato la loro posizione nella ricerca storica. Certo nessuno oggi cerca
più di rintracciare sulla carta geografica Golanda, Anthaib o Vurgunhaib, le stazioni della
migrazione longobarda ricordate da Paolo Diacono, né posiziona più sulla carta geografica delle
frecce che partendo dall’estremo nord segnino il percorso di Goti, Longobardi, Vandali, giungendo
infine, con un percorso sinuoso, sino ai paesi mediterranei. Non è importante stabilire se davvero i
Longobardi venissero dalla Scandinavia, come dice sempre Paolo (e prima di lui un breve testo del
secolo VII, l’Origo gentis Langobardorum), o se si trattasse invece di una imitazione di Giordane;
è importante invece il fatto che, per suo tramite, la cultura longobarda del tardo secolo VIII
sostenesse, come elemento identitario, l’origine scandinava della stirpe4 0 . Dal canto suo
Cassiodoro, quando accenna al passato scitico e getico dei Goti, costruendo così una loro
genealogia immaginaria, a sua volta non sta proponendo dei fatti ma un’interpretazione del
passato gotico che, nel suo programma ideologico di sostegno all’azione della corte di Teodorico e
poi di Atalarico, è di grande importanza, è la prova dell’antica nobiltà dei Goti, tale da consentire
loro di stare al pari dei Romani. Del resto Cassiodoro ce lo aveva anche detto, il suo scopo era
quello di trasformare l’origo gothica in historia romana: in questa chiave di lettura vero e falso,
romano e barbarico (o germanico) sono categorie prive di senso.
Constructing the past, ‘costruire il [proprio] passato’: il significato sociale principale delle opere
dei “narratori delle storie barbariche” (e non solo) può essere senza dubbio rintracciato in questa
formula. Tuttavia rimangono in piedi altre questioni. Infatti, come è stato notato in modo sensato,
al di là del testo e della sua azione esiste una realtà dove i fatti sono effettivamente accaduti.
Quando Paolo Diacono descrive Alboino che, appena entrato in Italia, sale sul Monte Regio a
contemplare il paese che si accinge a conquistare, ha avuto certo in mente un modello biblico,
quello di Mosè che contempla dall’alto del monte la Terra promessa; tuttavia Alboino è davvero
entrato in Italia, e in tal modo Paolo ce ne dà notizia. E ancora: quando descrive l’incontro pacifico
tra lo stesso Alboino e il vescovo di Treviso, Felice, egli replica il modello dell’incontro fra Attila e
Leone I, però è del tutto verosimile che l’incontro sia avvenuto e che si sia svolto in maniera
pacifica. Ciò vuol dire una cosa in apparenza banale, che un rapporto con la realtà di queste fonti
altomedievali c’è; tuttavia esso non va visto in modo statico, ma dinamico, come una tensione
continua tra il discorso narrativo e la realtà del passato.
Quindi queste storie sono importanti. Il loro ruolo primario è quello di contribuire alla costruzione
dell’identità etnica dei popoli altomedievali, un processo tanto più interessante perché si tratta di
popoli nuovi. Ecco quindi che tradizioni di origine diversa, talvolta recenti – e allora il loro
carattere romano è più evidente: i Goti/Geti, le Amazzoni –, talvolta più antiche – gli Asi, Wotan, i
cinocefali –, tutte insieme contribuiscono a forgiare l’identità etnica di questi popoli, fornendo loro
l’idea di un’origine comune, eventualmente modelli di comportamento (cawarfidae, belagines),
istituzioni politiche (ad esempio la regalità), il significato del nome stesso

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(Longobardi/Longibarbi)4 1 . Il fatto che non sempre i diversi spunti delle narrazioni sulle origini si
completino bene a vicenda, che essi insomma non compongano alla fine “una buona storia” è, in
un certo senso, una prova ulteriore del fatto che non siamo di fronte solo a della letteratura, ma
che questo materiale, con la sua contraddittorietà, è al centro della formazione dell’etnicità dei
popoli alto-medievali4 2 . La stessa fittizia origine troiana dei Franchi non è il frutto della pura e
semplice erudizione di Fredegario e degli autori merovingi, in quanto si radica in un’antica scelta
(risalente al IV sec.) da parte imperiale romana di definire popoli fratelli coloro i quali erano legati
all’impero tramite alleanze militari, prima i Burgundi, poi i Franchi: fratelli, ovvero tutti
discendenti dai Troiani. Ma questo non è solo “invenzione”, perché diventa per i Franchi un
elemento identitario, la radice prima di una vocazione imperiale 4 3 .

5. La manipolazione del passato


In un mondo in cui le identità erano fluide, in continuo divenire, le narrazioni a carattere storico
(cronache, ma anche testi di legge, cataloghi di sovrani, testi poetici, ecc.), con le loro tradizioni
antiche e nuove, svolgevano un ruolo fondamentale nella costruzione di una memoria condivisa
(shared memory) – potremmo parlare anche di “memoria sociale” – da parte di una specifica
comunità, un popolo (meglio, la sua élite) o magari anche una comunità monastica, come nel caso
di Montecassino messo in luce da Walter Pohl. E proprio per questo motivo esse erano anche
soggette a manipolazioni per fini politici ed ideologici.
Qui il discorso si allarga, fino a toccare un periodo decisivo della storia dell’alto Medioevo. Infatti
questo ruolo specifico delle fonti storiografiche è stato studiato con risultati profondamente
innovativi in riferimento al mondo franco dell’VIII e del IX secolo, concentrando l’attenzione sui
modi con i quali i vari testi, mediante tale memoria, cercavano di creare un senso di identità
nell’élite franca nel periodo decisivo di affermazione dei Carolingi. Tenere in considerazione il
ruolo dell’autore, la circolazione dei manoscritti, l’ambiente dei fruitori o i committenti ha
consentito di uscire dalla ristretta gabbia del linguistic turn, recuperando così il senso di queste
scritture storiche. Tutto questo è avvenuto mettendo temporaneamente da parte i principi cardine
della filologia tradizionale, usa a valutare un testo solo per la sua maggiore o minore originalità e a
scartare quindi come pure e semplici copiature, ad esempio, le parti di un testo storico che
venivano recuperate da una narrazione precedente. Al contrario, è possibile impostare in modo
differente dal passato anche il problema dell’autore, della sua figura e del suo profilo individuale,
applicando il modello “autoriale” anche agli autori altomedievali. Infatti copiare un testo solo in
parte, sottraendogli dunque delle notizie, ma poi aggiungendone altre, non è un’operazione neutra,
perché cambia profondamente il testo di partenza facendone un testo nuovo. Inoltre, anche
l’accostamento di testi diversi in uno stesso manoscritto contribuisce a farci capire il senso
dell’operazione culturale che sta dietro alla confezione dell’intero codice e non solo alla scrittura
del singolo testo: che così, rimodellato dal suo nuovo “autore” e accostato ad altre opere, assume
contenuto e significato completamente nuovi4 4 .
In questa prospettiva di ricerca, è significativo il caso del Liber Historiae Francorum
(tradizionalmente datato al 727) studiato da Rosamund McKitterick. Il modo complesso con cui
questo testo, a lungo sottovalutato, recepisce (usa) parti della storia di Gregorio di Tours
inserendole in un contesto nuovo, che identifica le origini dei Franchi nel lontanissimo passato
romano e troiano, e ne colloca la storia nel contesto dell’impero romano e della Gallia cristiana, ne
fa un’opera originale, tesa a costruire un passato specifico per un gruppo particolare, l’élite franca
dell’VIII secolo: la sua ragion d’essere è quella di fornire “the definition of a people by means of its
history”4 5 .
Ancor più questo ruolo risalta da una considerazione dei manoscritti circolanti del Liber. Vedere
ad esempio quest’ultimo, in un codice parigino, unito agli Annales Regni Francorum a mo’ di
prefazione, ne sottolinea ancor più il ruolo preparatorio rispetto all’affermazione dei Carolingi,
accentuando il ruolo di Carlo Martello. E lo stesso aspetto fisico di questo codice è importante. La
scrittura in capitali rosse dei nomi dei maestri di palazzo o sovrani carolingi, infatti, contribuisce a
fare di questi ultimi gli autentici eroi della storia. Così, manipolando il passato, scegliendo cosa
ricordare e cosa dimenticare, unendo testi differenti – in un altro manoscritto il Liber circolava

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con sezioni dell’Eneide: quest’ultima opera era dunque intesa dai Franchi come un testo storico – e
presentandoli materialmente con spaziature, caratteri o colori diversi si costruivano prodotti
totalmente nuovi, grazie ai quali l’élite franca trovava una definizione di sé, costruendo la sua
memoria condivisa. Una memoria che le consentiva, riscrivendo il passato, di superare anche il
trauma del colpo di stato del 751: e per questa via anche lo studio della deposizione dell’ultimo
merovingio, Childerico III, da parte di Pipino, esempio classico di una histoire événementielle
apparentemente ormai superata, acquista invece un nuovo interesse4 6 .
Alla base di tutti questi ragionamenti c’è la considerazione di quanto la scrittura, la registrazione
scritta degli avvenimenti (la literacy), sia diffusa all’interno delle élites altomedievali: anche il caso
del famoso codice miscellaneo lucchese scritto tra la fine dell’VIII e l’inizio del IX secolo, con la sua
versione “pro-longobarda” del Liber pontificalis è, al riguardo, significativo dell’importanza del
testo scritto in relazione alle élites e al loro porsi in rapporto alla politica e alla memoria (alla
storia)4 7 . In questo campo di studio, infine, torna in primo piano, come abbiamo visto, il tema
classico della disseminazione dei manoscritti. Così si può proporre ad esempio, con una tesi
originale e audace (visto il ruolo di Paolo Diacono nella cultura dell’Italia meridionale longobarda)
una nuova interpretazione dei motivi che stanno alla base della redazione della Historia
Langobardorum, spostandola dalla corte longobarda di Benevento a quella franca di Pavia e
trasformandola, da rivisitazione nostalgica del passato di un popolo sconfitto, in proposizione
dinamica di un modello di storia longobarda compatibile con la storia, e l’impero, dei Franchi; da
voce di un ghetto periferico a proposta di integrazione delle élites franche e longobarde nel nuovo
regno italiano del giovane Pipino4 8 .

6. Nuove prospettive: l’archeologia


La nuova interpretazione delle fonti altomedievali, e non solo di quelle narrative, dipende anche
dall’incontro tra storia e scienze sociali, un incontro che ha cambiato molte prospettive
interpretative consolidate. Ma, prima ancora di occuparci di questo, bisogna considerare il
rapporto sempre più stretto che si sta instaurando tra i dati forniti dalle fonti scritte e da quelle
archeologiche: e forse in questo caso si potrebbe parlare di una vera rivoluzione, anche se tutti i
suoi effetti devono ancora essere ben valutati. Poiché comunque gli stessi dati archeologici vanno
letti in molti casi con gli strumenti che forniscono le scienze sociali, in parte almeno il cerchio si
chiude.
Negli studi altomedievali è un dato ormai acquisito la necessità di procedere nell’indagine storica
tenendo presenti al tempo stesso fonti scritte ed evidenza archeologica, anche se la connessione
reciproca tra le due discipline, un tempo distanti, appare molto meno stretta nella pratica
storiografica a mano a mano che ci si avvicina al mille (nonostante il pur non recentissimo
dibattito sull’incastellamento ne suggerisca l’utilità anche nel caso di quegli studi che più si
avvicinano al Medioevo centrale). Ma per il periodo della trasformazione del mondo romano,
scendendo fino alla stessa età carolingia, il difficile confronto fra i linguaggi dell’archeologia e della
storia rappresenta da tempo un nodo ineludibile per tutti gli studiosi. Appare ormai una banalità,
ad esempio, sostenere che una storia della fine del Mediterraneo antico non può più essere
condotta senza i dati archeologici, a partire da quello notissimo legato alla diffusione della
ceramica – e in particolare di quella africana – come indicatore dei circuiti di traffico delle merci4 9 .
In tal modo è stato possibile seguire, ad esempio, la progressiva localizzazione dei circuiti
commerciali, premessa e conseguenza ad un tempo della creazione di aree economiche (e dunque
di società) costruite su base regionale e non più mediterranea: società che dal punto di vista degli
standard di vita civile, assai più modesti di quelli antichi, possiamo senz’altro definire
altomedievali.
Se questo esempio vale dal punto di vista della storia economica, quella culturale, in riferimento a
un fenomeno di portata globale come la cristianizzazione del mondo tardoantico e altomedievale,
non può fare a meno dell’evidenza archeologica riguardo a chiese, monasteri, sepolture, topografia
urbana. E le due tematiche, economica e culturale, si intrecciano ad esempio anche in una
questione quale quella della morte o sopravvivenza delle città. Qui il dibattito, particolarmente
acceso negli anni Ottanta, si è in parte acquietato. Non solo i nuovi scavi ma anche in generale gli

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orientamenti rinnovati della ricerca – di nuovo la trasformazione del mondo romano – hanno
smussato le posizioni estreme, per cui il fenomeno cittadino è adesso maggiormente investigato
nelle sue concrete, e differenti, manifestazioni, anche se rimangono sempre divergenze di
impostazione teorica sul rapporto fra città antica e altomedievale (estensione, densità e
consistenza demografica, dislocazione del centro cittadino), sui modi con cui si passa
dall’evergetismo laico al patronato ecclesiastico e sui rispettivi modi con cui essi si sono
manifestati (e qui l’epigrafia, scienza relativamente giovane per l’Altomedioevo, gioca un ruolo
importante), sul ruolo delle sepolture (non sintomo di abbandono quanto, piuttosto, di un
mutamento culturale e di sensibilità religiosa nel rapporto con i defunti) 5 0 . E, almeno in Italia, solo
di recente si sono fatti i conti, si spera definitivamente, con la tesi dell’alterità “germanica” (leggi:
longobarda) nei confronti delle città, esempio classico di interpretazione a priori delle fonti –
quando non si tratta addirittura di fantasia pura e semplice – dal quale la storiografia e
l’archeologia italiane altomedievali, inchiodate a lungo alle posizioni di un Bognetti o di un
Cagiano de Azevedo, hanno fatto molta fatica a liberarsi5 1 .
Pure lo studio dei sepolcreti di età barbarica ha conosciuto significative trasformazioni, anche in
questo caso incontrando numerose resistenze ancora non del tutto superate. Le teorie tradizionali
si basavano infatti sul presupposto che fosse possibile attribuire una caratterizzazione etnica ai
reperti funerari tramite i corredi. La presenza nei cimiteri barbarici di un particolare tipo di
ceramica, di fibule o gioielli, o più ancora di armi di un certo tipo, portava a costruire una specifica
“cultura archeologica”, che veniva a sua volta identificata con un popolo nominato dalle fonti
storiche 5 2 . Così, tra l’altro, venivano seguiti i movimenti di popoli e si tracciavano i percorsi delle
migrazioni preistoriche delle varie stirpi (gentes) barbariche: un’operazione che è invece da
ritenere scorretta anche perché, come abbiamo detto sopra, i popoli che si stanziarono nell’impero
erano popoli “nuovi”. E la nuova archeologia può servire proprio a rinforzare quest’ultima
interpretazione – ossia il carattere recente delle gentes altomedievali –, che fino ad ora abbiamo
presentato solo a partire dalle fonti scritte: basterà un esempio. È stato effettuato di recente uno
studio comparato fra i cimiteri dei Longobardi nel Friuli, la prima regione d’Italia che fu da loro
occupata a partire dal 569, e quelli ungheresi anch’essi tradizionalmente attribuiti ai Longobardi,
giacché quella regione era occupata da loro fino al momento in cui, spinti dalla pressione dei
nomadi Avari, invasero l’Italia. Questo studio mostra come, nonostante la distanza di appena una
generazione fra gli ultimi cimiteri ungheresi e i primi italiani, il quadro dei ritrovamenti nelle due
regioni sia profondamente diverso, tanto nella selezione degli oggetti che compongono i corredi
quanto nella struttura dei cimiteri5 3 . Ciò da una parte sembra confermare il racconto di Paolo
Diacono, secondo il quale tanti brandelli di popoli si unirono ai Longobardi per la loro spedizione;
ma dall’altra ci rivela – ci torneremo subito appresso – che la conquista d’Italia innescò mutamenti
tali da trasformare completamente, nell’arco di una sola generazione, il quadro dei ritrovamenti. E
d’altra parte si comincia pure a considerare, sul versante ungherese, che forse non è così chiaro il
confine fra cimiteri longobardi e cimiteri avari.
Torniamo al paradigma tradizionale, definibile “storico-culturale”; anche dal punto di vista teorico
i suoi presupposti non appaiono corretti. Da una parte, i medesimi oggetti si possono trovare
anche in zone che certamente non sono state occupate da uno stesso popolo: commercio, scambio,
bottino sono mezzi ovvi con cui oggetti e motivi decorativi si diffondono. Probabilmente nemmeno
nella più lontana preistoria è possibile identificare con assoluta sicurezza come “marcatore etnico”
un qualche oggetto, dato che è innegabile anche allora l’esistenza di contatti fra i vari gruppi
umani: ma è comunque del tutto irrealistico postulare questo isolamento culturale in epoche
relativamente recenti. Tutt’al più si possono identificare aree in cui certi oggetti sono prevalenti e
che tramite ampie zone intermedie finiscono per trasformarsi in zone in cui altri sono gli oggetti
che si impongono; ad esempio nelle tombe in Gallia, dunque nell’area franca, prevalgono asce e
punte di lancia, mentre in quelle fra il Reno e il Danubio, che appartengono all’area alamanna,
sono più diffuse spade lunghe e sax (una specie di sciabola). Ma queste diversità dipendono da
mutamenti etnici fra gli occupanti delle varie zone, o dal peso delle tradizioni preesistenti, o ancora
dall’esistenza di confini politici o di circuiti commerciali5 4 ? Difficile dirlo. Inoltre, tanto poco gli
oggetti di corredo sono espressione di culture etniche che, studi recenti ce lo dimostrano, essi

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possono essere tranquillamente prodotti in zone culturalmente diverse: è il caso delle spade
longobarde di Castel Trosino, prodotte a Roma nella Crypta Balbi5 5 .
E comunque, la scorrettezza di questo modello interpretativo, il cosiddetto “paradigma storico-
culturale”, le cui radici sono nell’archeologia preistorica di lingua tedesca e nei lavori di Gustav
Kossinna – che lo aveva elaborato nella versione della Siedlungsarchäologie (‘l’archeologia degli
insediamenti’) –, risiedeva anche nella pretesa di risalire sempre, dal dato della “cultura
archeologica”, al nome di popoli storicamente noti dalle fonti scritte, un’operazione oggi respinta
come non scientifica5 6 . Dominante fino alla seconda guerra mondiale, nel dopoguerra i toni
dell’interpretazione etnica sono stati attenuati, e in particolare il metodo “genealogico” di Kossinna
è stato abbandonato, tuttavia l’archeologia di scuola tedesca – molto influente fino all’inizio degli
anni Ottanta dal punto di vista metodologico – ha continuato a utilizzare il paradigma etnico. Le
culture materiali venivano pur sempre classificate in gruppi definiti “culture archeologiche”, più o
meno esplicitamente intese come espressione di differenti popoli. Solo lo sviluppo della new
archaeology di stampo anglosassone, in stretto collegamento con le scienze sociali, ha permesso il
superamento di questo stadio della ricerca, abbandonando il tradizionale metodo descrittivo e
puntando più sullo studio dei processi sociali e dell’evoluzione economica e culturale 5 7 . Ciò ha reso
anche i sepolcreti molto più interessanti dal punto di vista della ricostruzione storica e
dell’interpretazione delle società postromane.
In particolare, l’abbandono della sterile ricerca delle attribuzioni etniche aiuta a far cadere la
barriera fra barbari e romani, nelle varie regioni dove si formano le nuove società occidentali. Del
resto, va anche detto che in generale sono difficilmente distinguibili le tombe barbariche da quelle
degli autoctoni romani, giacché anche costoro seppellivano con oggetti di corredo benché fossero
tutti (più o meno) cristiani. La differenza fra i corredi sarà da attribuire non tanto all’appartenenza
ad una determinata etnia, quanto piuttosto al rango sociale e alla ricchezza, identificati dalle armi,
dai gioielli, dai tessuti preziosi.
È precisamente qui il punto importante. Grazie all’antropologia, sappiamo che il funerale è un rito
di passaggio di primaria importanza, e che tutto lo spazio della morte occupa un posto di rilievo
nelle società tradizionali, in quanto rappresenta un momento critico in cui è necessario ribadire i
rapporti sociali (e lo status patrimoniale) e preservare la stabilità della comunità. Da questo
discende la considerazione che i corredi non sono espressione di ancestrale paganesimo, derivanti
da una crassa concezione materialistica della vita nell’aldilà; al contrario, essi hanno un ruolo nel
rituale funebre, in quanto, intesi come “segni di distinzione” secondo la definizione di Pierre
Bourdieu5 8 , esprimono visibilmente, davanti a tutta la comunità, il rango sociale del defunto e
dunque della sua famiglia, dei suoi discendenti viventi. Nella Gallia merovingia come nell’Italia
longobarda, è questo il ruolo che assolvono i corredi, tanto più forte in fasi storiche (come il V, il
VI, il VII sec.) nelle quali il possesso della terra – base della società – è più incerto per l’arrivo
recente di nuovi padroni, e l’uso della scrittura per certificare i diritti di proprietà meno diffuso5 9 .
Dunque i mutamenti fra i cimiteri pannonici dei Longobardi e quelli italiani non solo provano la
fluidità etnica dei gruppi barbarici che entrarono nella penisola nel 569, ma corrispondono anche
alla maggiore competizione sociale che si sviluppò in Italia, paese molto più ricco e di recente
conquista, e alla corrispettiva trasformazione delle gerarchie sociali, rivelataci dai raggruppamenti
di tombe intorno a un antenato fondatore, o dalle tombe di cavalieri (non si tratta, dunque, di
“nomadi”!) che compaiono in Italia nel corso del secolo VII6 0 .
Tutto questo, infine, per affermare un fatto: che i corredi non sono la fotografia della società dei
vivi, ma rappresentano una cosciente selezione di oggetti finalizzati al rito di passaggio della
sepoltura. Così si è potuto constatare, ad esempio, che i periodi nei quali nelle tombe anglosassoni
si seppelliscono i defunti con le spade corrispondono ai periodi di minore attività bellica: dunque
quei defunti non erano dei grandi guerrieri, ma i membri di un’élite che, per essere riconosciuta
come tale nei regni anglosassoni, doveva necessariamente presentarsi come guerriera, e nei periodi
di pace questo andava ribadito con dei rituali pubblici, uno dei quali era appunto la sepoltura6 1 .

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7. Nuove prospettive: le scienze sociali
Lo studio della fine dei corredi e della cristianizzazione della morte6 2 ha consentito di mettere al
centro di società ormai non più definibili semplicemente postromane, ma francamente
altomedievali, le questioni della diffusione degli atti scritti, del ruolo sociale della chiesa e della
natura dei meccanismi di trasmissione della proprietà. Simili studi presuppongono una
compenetrazione tra storia e scienze sociali che, per quanto riguarda l’alto Medioevo, è un fatto
che può essere ormai considerato acquisito: sociologia, antropologia, economia hanno rinnovato
completamente l’approccio metodologico ai vari problemi dello studio delle società altomedievali,
dei loro modi di funzionamento e dei loro sistemi di rappresentazione.
Fondamentale, in questa rinnovata tavola di problemi, è lo studio dei meccanismi dello scambio,
che nelle società altomedievali – ad esempio in quella franca, indagata da Régine Le Jan6 3 – si
situano nel cuore delle relazioni sociali, stabilendone le gerarchie. Lo scambio è regolato dal
principio della reciprocità, e riguarda non solo beni, terre o oggetti, ma anche rituali, feste
(banchetti, caccia) o donne. Un approccio questo antropologico, memore della lezione di Marcel
Mauss6 4 ; anche se, come nota sempre Régine Le Jan, non va mai dimenticato che la società
carolingia – ma lo stesso si può dire per le società postromane che l’hanno preceduta – deve fare i
conti anche con una struttura statale di derivazione romana, coordinata in vario modo con le
strutture ecclesiastiche anch’esse eredi della tradizione istituzionale di Roma: non siamo quindi in
Polinesia, e tuttavia l’approccio antropologico fornisce una prospettiva nuova che arricchisce
quella tradizionale. Lo scambio stabilisce le gerarchie sociali e rende manifesta la competizione per
occupare i vertici della società.
Lo scambio chiama in causa la questione più generale del ruolo dei rituali, che sono da ritenere
centrali nell’interpretazione delle società altomedievali. Per la verità, quest’interpretazione è stata
messa in dubbio da una critica decostruzionista che ha ripreso la tematica del linguistic turn.
Veicolando modelli storiografici nordamericani, infatti, Philippe Buc ha criticato di recente
l’approccio antropologioco-funzionalista applicato allo studio dei rituali. Non sarebbe possibile,
scrive, una lettura antropologica dei rituali descritti nelle fonti medievali, ma solo una lettura
antropologica delle “pratiche testuali” medievali: così, ancora una volta, rimaniamo prigionieri
della gabbia del testo. Ad esempio, la pluralità delle fonti di età carolingia relative ai rituali – una
pluralità che è in sintonia con la progressiva frammentazione politica di quel mondo, a mano a
mano che ci si inoltra nel secolo IX – sarebbe più il risultato di un conflitto per il controllo
dell’interpretazione dei rituali che il sintomo di una proliferazione dei rituali stessi nella realtà
sociale e politica del tempo; insomma per Buc la presenza o assenza dei rituali nelle fonti narrative
è interpretabile esclusivamente nell’ambito della cultura politica dei vari autori, tutti appartenenti
all’élite ecclesiastica6 5 . Così, ad esempio, la presenza molto più massiccia di rituali regi nelle fonti
di età ottoniana, rispetto al precedente periodo carolingio, si spiegherebbe con la diversa ideologia
propria della corte ottoniana, interpretata in primo luogo da uno scrittore come Tietmaro che dà
loro risalto nella narrazione, ma non necessariamente corrisponde ad un aumento effettivo dei riti
praticati. È una critica da non sottovalutare, quella di Buc, che ci ricorda ancora una volta la non
neutralità delle nostre fonti, e al tempo stesso la differenza fra realtà e rappresentazione; ma – se
ammettiamo che le società del passato oggetto del nostro studio siano realmente esistite, anche al
di fuori della “prigione del linguaggio” – essa non ci può portare a rifiutare la fonte in sé come
mezzo che, con tutte le mediazioni possibili, ci avvicini alle società altomedievali consentendoci di
indagarne funzionamento e sistemi di valore.
In questa direzione, un buon esempio è rappresentato dai rituali del dono in età carolingia, che si
manifestavano in occasione delle grandi assemblee del regno. Essi sono stati uno dei mezzi con i
quali i sovrani hanno ordinato – per governarla – la società; mediante l’offerta di doni si
rinsaldavano infatti pubblicamente i legami e si consolidavano le gerarchie. Ma il rituale del dono
poteva manifestare anche una dura competizione reciproca, come avvenne, alle soglie dell’anno
Mille, per Ottone III e Boleslao di Polonia. Nel suo tentativo di dimostrare di essere degno della
corona regia, Boleslao, secondo quanto racconta Gallo Anonimo, sommerse Ottone di doni, dando
prova inoltre, nella sua ospitalità, di uno sfarzo e di una prodigalità che arrivarono fino al punto di
sfiorare, simbolicamente, la ritualità autodistruttiva del potlach; l’imperatore tedesco però ripagò

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solo in parte il principe polacco, limitandosi a consegnargli una copia della sacra lancia e a
nominarlo “fratello e cooperatore dell’impero”: in questo caso dunque lo scambio dei doni
maschera appena un aspro confronto politico6 6 . Un altro campo d’indagine di grande interesse è
poi costituito dai cosiddetti bad rituals: secondo Buc, più che veri rituali “alla rovescia”,
effettivamente svoltisi, essi sarebbero stati fondamentalmente delle manipolazioni letterarie, il cui
scopo era quello di denigrare un avversario politico. Essi sarebbero quindi è una delle prove più
evidenti della pericolosità dei rituali, la cui efficacia può sempre essere manipolata o distorta dai
propri nemici6 7 .
I concetti di conflitto e negoziazione – anch’essi di derivazione antropologica – vanno tenuti
saldamente al centro della scena come strumento di analisi. Essi permettono ad esempio di
utilizzare le fonti relative alle controversie giudiziarie, documentate in modo relativamente
abbondante a partire dal secolo VIII, in un modo diverso dal passato. Entrambi i concetti, inoltre,
fanno sempre in qualche modo riferimento allo scambio6 8 . Scambio, conflitto e negoziazione
consentono di interpretare pure i trasferimenti di patrimonio, sia all’interno della famiglia
(eredità) sia al suo esterno: essi riguardano le vendite, le donazioni, ma anche i matrimoni,
coinvolgendo dunque alcuni dei momenti chiave della vita sociale. L’analisi dei meccanismi dei
legami matrimoniali, condotta con un approccio socio-antropologico e non più solo giuridico, ha
consentito di analizzare meglio le regole del mercato matrimoniale e di mettere in luce
l’interazione reciproca fra strutture ecclesiastiche e strutture familiari, analizzando la legislazione
(precarolingia e carolingia) e la documentazione d’archivio6 9 . In questo ambito, lo studio dell’agire
femminile, nucleo di una nuova stagione di gender studies7 0 , ha acquisito spessore: si pensi solo al
ruolo femminile nei rituali funerari e di conservazione della memoria familiare, ben noti grazie alla
documentazione almeno dal secolo VIII in avanti, e a quello di gestione effettiva da parte delle
donne, nei momenti di trapasso generazionale, del patrimonio di famiglia 7 1 .
Nelle società altomedievali, il patrimonio familiare rappresentava il mezzo per mantenere e
riprodurre nel corso del tempo l’identità delle famiglie aristocratiche: di qui l’interesse che esso
riveste per gli storici. Inoltre, come si è già accennato prima, lo studio del patrimonio e,
parallelamente, quello della famiglia è strettamente collegato a quello della memoria, e tutti questi
temi tornano – oltre che nello studio del ruolo delle donne – in quello dei rapporti con le
istituzioni ecclesiastiche 7 2 . Monasteri e chiese di famiglia erano luoghi di conservazione della
memoria, di cristallizzazione del patrimonio e anche, al tempo stesso, mezzi di accrescimento dei
legami sociali orizzontali (ossia di parentela, amicizia, vicinato) e verticali (ovvero di
subordinazione). Tutto ciò avveniva ancora una volta attraverso il meccanismo dello scambio: dal
patrimonio della fondazione familiare alle élites locali, oppure da queste alla chiesa o al
monastero7 3 . L’analisi di simili movimenti di beni ci consente di ricostruire delle reti di rapporti
personali che – in un’epoca in riferimento alla quale, con qualche ragione, la storiografia tedesca
parla da sempre dell’esistenza di un Personenverbandstaat (‘stato’ – ma anche società –‘fondato
sui legami fra le persone’) – sono di importanza decisiva per analizzare il funzionamento della
società altomedievale e in particolare delle sue élites. Un concetto, quest’ultimo, che è relazionale e
non assoluto, è di chiara origine sociologica e si sta imponendo nello studio delle aristocrazie
altomedievali (entrambi i termini, élite e aristocrazia, sono da utilizzare preferibilmente al plurale,
vista appunto la loro molteplicità: barbariche e postromane, guerriere e burocratiche, laiche ed
ecclesiastiche, rurali ed urbane, fondiarie e mercantili, “vicine al re” o meno) 7 4 . Lo stesso studio
della cristianizzazione, ossia la riflessione sui modi effettivi di elaborazione del Cristianesimo nelle
sue varie forme da parte delle società altomedievali7 5 , riceve nuova luce dall’analisi di questi
processi, la cui fonte-chiave è rappresentata da quelli che ormai tutti accettano di chiamare
testamenti altomedievali: una definizione che invece era stata a lungo respinta sulla base di una
comparazione astratta con il modello “perfetto” di testamento, che sarebbe stato rappresentato da
quello romano, e che consente di ricondurre sotto un’etichetta unica tutte le manifestazioni di
ultima volontà – in particolare le innumerevoli donazioni pro anima – indipendentemente dalla
loro veste giuridica formale 7 6 .
Infine, pure il fondamentale discorso già sviluppato in precedenza sui simboli di status (i ‘segni di
distinzione’) fa riferimento a tematiche sociologiche ed antropologiche. Le scienze sociali dunque

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innervano profondamente la ricerca altomedievistica in tutti i suoi aspetti ed hanno finito per
rinnovarla profondamente, al punto che oggi si affaccia persino la possibilità di avviare uno studio
delle emozioni nell’alto Medioevo7 7 . Incrociandosi con l’altro potente veicolo di rinnovamento
rappresentato dalla ricerca archeologica –autentica frontiera mobile nel campo delle fonti, le cui
acquisizioni successive cambiano di continuo i nostri punti di vista anche su temi di primaria
importanza –, le scienze sociali contribuiscono a formare l’immagine di un settore di studi, quello
altomedievistico, che appare dinamico e in forte trasformazione. E una causa non ultima del suo
dinamismo è dovuta anche al fatto che esso negli ultimi anni, più di altri campi della ricerca
storica, si è dimostrato in grado di reimpostare in modo totalmente nuovo il vecchio problema
delle identità nazionali, ancorandolo a un ripensamento generale delle identità barbariche e del
mondo romano e dando così delle prime risposte –provvisorie certo, ma stimolanti – all’esigenza
sempre più avvertita della costruzione di un’identità europea, barbarica ma al tempo stesso anche
postromana. Ed è in una simile chiave di lettura che è stato proposto il quadro, inevitabilmente (e
volontariamente) parziale, delineato in queste pagine.

8. Bibliografia
Senza nessuna pretesa di esaustività, si ripropone qui un percorso ragionato della bibliografia
citata nelle note, talvolta opportunamente sfrondata o aumentata.
Se il punto di partenza storiografico sul problema della fine del mondo antico non può non essere
S. Mazzarino, La fine del mondo antico, Milano, Rizzoli, 19882 (1 a ed. 1959), e il primo capolavoro
della storiografia moderna in tal senso è rappresentato da E. Gibbon, History of the Decline and
Fall of the Roman Empire, 6 voll., London, Methuen, 1776-1788, tuttavia la fase moderna del
dibattito inizia con H. Pirenne, Mahomet et Charlemagne, Bruxelles, Nouvelle Société d’Édition,
1937; come riferimenti utili si propongono G. Petralia, A proposito dell’immortalità di ‘Maometto
e Carlomagno’ (o di Costantino), in “Storica”, n. 1 1995, pp. 38-87, e P. Delogu, Reading Pirenne
again, in The Sixth Century, a cura di R. Hodges, W. Bowden, Leiden-Boston-Köln, Brill, 1998, pp.
15-40; va segnalato infine, per una prima reinterpretazione alla luce dei nuovi dati forniti
dall’evidenza archeologica, R. Hodges-R. Whitehouse, Mohammed, Charlemagne & the Origins of
Europe. Archaeology and the Pirenne Thesis, London, Duckworth, 1983.
I volumi della Transformation of the Roman World importanti per le tematiche trattate in questo
saggio sono molti; quelli citati sono: The Sixth Century, a cura di R. Hodges, W. Bowden, Leiden-
Boston-Köln, Brill, 1998; Kingdoms of Empire. The Integration of Barbarians in Late Antiquity, a
cura di W. Pohl, Leiden-New York-Köln, Brill, 1997; Strategies of Distinction: The Construction of
Ethnic Communities, 300-800, a cura di W. Pohl, H. Reimitz, Leiden, Brill, 1998; Towns and their
Territories between Late Antiquity and the Early Middle Ages, a cura di G.P. Brogiolo, N.
Gauthier, N. Christie, Leiden-Boston-Köln, Brill, 2000.
Una presentazione dei fondamenti teorici del progetto è fornita da I. Wood, Report: The European
Science Foundation’s Programme on the Transformation of the Roman World and the
Emergence of Early Medieval Europe, in “Early Medieval Europe”, a. vi 1997, pp. 217-27. La
storiografia di Peter Brown rappresenta una delle basi partenza del progetto: oltre a P. Brown, Il
mondo tardoantico. Da Marco Aurelio a Maometto, Torino, Einaudi, 1974 (ed. or. 1971), si
possono citare almeno, fra i lavori di questo autore tradotti in italiano, Id., Il culto dei santi, ivi, id.,
1983 (ed. or. 1981); Id., La società e il sacro nella tarda antichità, ivi, id., 1988 (ed. or. 1982); Id.,
Potere e cristianesimo nella tarda antichità, Roma-Bari, Laterza, 1992 (ed. or. 1992).
La posizione continuista più estrema è ben rappresentata da J. Durliat, Les finances publiques. De
Dioclétien aux Carolingiens (284-888), Sigmaringen, Thorbecke, 1990. Un continuismo di tipo
differente è rappresentato invece dai lavori di Walter Goffart, fra i quali vd. W. Goffart, Barbarians
and Romans, A.D. 418-584. The Techniques of Accommodation, Princeton (N.J.), Princeton Univ.
Press, 1980; Id., The Narrators of Barbarian History: Jordanes, Gregory of Tours, Beda and
Paul the Deacon, ivi, id., 1988; Id., Does the distant past impinge on the invasion age Germans?,
in On Barbarian Identity. Critical Approaches to Ethnicity in the Early Middle Ages, a cura di A.
Gillett, Turnhout, Brepols, 2002, pp. 21-37. Si veda anche il volume, dedicato allo stesso Goffart,
After Rome’s Fall: Narrators and Sources of Early Medieval History, a cura di A.C. Murray,

14
Toronto-Buffalo-London, Univ. of Toronto Press, 1998.
A sé vanno considerati i numerosi interventi di Chris Wickham, fra i quali ricordiamo: C.
Wickham, La chute de Rome n’aura pas lieu, in “Le Moyen Age”, a. lxxxxix 1993, pp. 107-26; Id.,
The Other Transition: from the Ancient World to Feudalism, in “Past & Present”, n. 103 1984, pp.
3-36; Id., Framing the Early Middle Ages. Europe and the Mediterranean, 400-800, Oxford,
Oxford Univ. Press, 2005. A quest’ultimo lavoro va accostata l’altrettanto poderosa sintesi di M.
McCormick, Origins of the European Economy. Communications and Commerce, AD 300-900,
Cambridge, Cambridge Univ. Press, 2001.
A partire dal libro di Reinhard Wenskus si sviluppa il contributo della scuola di Vienna, sempre più
concentrata, con il passare del tempo, sulle questioni dell’identità etnica. Ricordiamo dunque
dapprima R. Wenskus, Stammesbildung und Verfassung. Das Werden der frühmittelalterlichen
Gentes, Köln-Graz, Böhlau, 1961. A seguire: H. Wolfram, Origo et religio. Ethnic Tradition and
Literature in Early Medieval Texts, in “Early Medieval Europe”, a. iii 1994, pp. 19-38; Id., Das
Reich und die Germanen. Zwischen Antike und Mittelalter, Berlin, Siedler, 1998. Poi si vedano i
numerosi studi di Walter Pohl, fra i quali: Telling the difference: Signs of ethnic identity, in
Strategies of Distinction, cit., pp. 17-70; Le origini etniche dell’Europa. Barbari e romani tra
antichità e medioevo, Roma, Viella, 2000; Paolo Diacono e la costruzione dell’identità
longobarda, in Paolo Diacono. Uno scrittore fra tradizione longobarda e rinnovamento
carolingio, a cura di P. Chiesa, Udine, Forum, 2000, pp. 413-26; Memory, identity and power in
Lombard Italy, in The Uses of the Past in the Early Middle Ages, a cura di Y. Hen, M. Innes,
Cambridge, Cambridge Univ. Press, 2000, pp. 9-28; History in fragments: Montecassino’s politics
of memory, in “Early Medieval Europe”, a. x 2001, pp. 344-74; Ethnicity, theory, and tradition: A
response, in On Barbarian Identity. Critical Approaches to Ethnicity in the Early Middle Ages, a
cura di A. Gillett, Turnhout, Brepols, 2002, pp. 221-39. Si tenga presente anche il volume
Integration und Herrschaft. Ethnische Identitäten und soziale Organisation im frühen
Mittelalter, a cura di W. Pohl, M. Diesenberger, Wien, Österreichische Akad. der Wissenschaften,
2002.
Ricollegabili alle tematiche dell’etnicità sono anche, in tutto o in parte, i seguenti studi: S.
Gasparri, Prima delle nazioni. Popoli, etnie e regni fra Antichità e Medioevo, Roma, Carocci, 1997;
P. Geary, Before France and Germany. The Creation and Transformation of the Merovingian
World, Oxford-New York, Oxford Univ. Press, 1988; Id., The Myth of the Nations: The Medieval
Origins of Europe, Princeton, Princeton Univ. Press, 2002; J. Jarnut, Germanisch. Plädoyer für
die Abschaffung eines obsoleten Zentralbegriffes der Frühmittelalterforschung, in Die Suche nach
den Ursprungen. Von der Bedeutung des frühen Mittelalters, a cura di W. Pohl, Wien,
Osterreichische Akad. der Wissenschaften, 2004, pp. 107-13 (ma l’intero volume è molto
interessante nella prospettiva di studi cui si riferisce questo paragrafo); I. Wood, Defining the
Franks, in Concepts of National Identity in the Middle Ages, a cura di S. Forde, L. Johnson, A.
Murray, Leeds, Univ. of Leeds, 1995, pp. 47-57.
Reagiscono in modo diverso alle posizioni elaborate da molti degli autori dei libri citati nei parr.
precedenti su continuità, etnicità, ruolo dei barbari, sia B. Ward-Perkins, The Fall of Rome and the
End of Civilization, Oxford, Oxford Univ. Press, 2005, che P. Heather, The Fall of the Roman
Empire. A new History of Rome and the Barbarians, London, Macmillan, 2005. In precedenza,
prime riserve erano state espresse da P. Delogu, L’Editto di Rotari e la società del VII secolo, in
Visigoti e Longobardi, a cura di J. Arce, P. Delogu, Firenze, All’Insegna del Giglio, 2001, pp. 329-
55, in partic. alle pp. 329-31.
Tradizione e rinnovamento della storiografia italiana passano al più alto livello per gli studi
altomedievali di Giovanni Tabacco, fra i quali sono importanti almeno, nelle prospettive prevalenti
in questo saggio: Alto medioevo, in G. Tabacco-G.G. Merlo, Medioevo, V-XV secolo, Bologna, Il
Mulino, 1981, pp. 15-343; La città italiana fra germanesimo e latinità nella medievistica
ottocentesca, in Italia e Germania. Immagini, modelli, miti fra due popoli nell’Ottocento: il
Medioevo. Atti della Settimana di studio, Trento, 16-20 settembre 1985, a cura di R. Elze, P.
Schiera, ivi, id., 1988, pp. 23-42; Latinità e germanesimo nella tradizione medievistica italiana,
in “Rivista storica italiana”, a. cii 1990, pp. 691-716; Sperimentazioni del potere nell’alto

15
medioevo, Torino, Einaudi, 1993.
Un altro punto di partenza della storiografia italiana, tuttavia da rielaborare criticamente, è l’opera
di G.P. Bognetti, L’età longobarda, 4 voll., Milano, Giuffrè, 1966-1967. Per una tale rielaborazione,
si vedano S. Gasparri, Roma e i Longobardi, in Roma nell’alto medioevo. Atti della xlviii
Settimana del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto, Cisam, 2001, pp. 219-47, e Id., I
Germani immaginari e la realtà del regno. Cinquant’anni di studi sui Longobardi, in I
Longobardi dei ducati di Spoleto e Benevento. Atti del xvi Congresso internazionale di studi
sull’alto Medioevo, Spoleto, 20-23 ottobre 2002, ivi, id., 2003, vol. i pp. 3-28.
Costruzione del passato, memoria sociale: oltre ad alcuni dei lavori di Walter Pohl citati in
precedenza (fra i quali soprattutto History in fragments, cit.), si vedano: J. Fentress-C. Wickham,
Social Memory, Oxford, Blackwell, 1992; J. Assman, La memoria culturale. Scrittura, ricordo e
identità politica nelle grandi civiltà antiche, Torino, Einaudi, 1997 (ed. or. 1992); L’invenzione
della tradizione, a cura di E.J. Hobsbawm, ivi, id., 1987 (ed. or. 1983). Dedicati a periodi
determinati dell’alto Medioevo sono P. Geary, Phantoms of Remembrance. Memory and Oblivion
at the End of the First Millennium, Princeton (N.J.), Princeton Univ. Press, 1994, e R. McKitterick,
History and Memory in the Carolingian World, Cambridge, Cambridge Univ. Press, 2004. Uno
degli episodi-chiave sui quali si esercita la manipolazione del passato è il passaggio dalla dinastia
merovingia a quella carolingia, su cui, oltre al libro della McKitterick, vd. Der Dynastiewechsel von
751. Vorgeschichte, Legitimationsstrategien und Erinnerung, a cura di M. Becher, J. Jarnut,
Münster, Scriptorium, 2004, e anche P. Fouracre, The Long Shadow of the Merovingians, in
Charlemagne. Empire and Society, a cura di J. Story, Manchester, Manchester Univ. Press, 2005,
pp. 5-21.
Per il contributo dell’archeologia ai temi trattati qui, dal punto di vista teorico vd. Archaeological
Approaches to Cultural Identities, a cura di S. Shennan, London-New York, Unwin Hyman, 1989,
e S. Jones, The Archaeology of Ethnicity. Constructing Identities in the Past and Present, London-
New York, Taylor & Francis, 1997; in entrambi i libri si critica a fondo il modello dell’archeologia
degli insediamenti proposto in G. Kossinna, Die Herkunft der Germanen. Zur Methode der
Siedlungsarchäologie, Würzburg, C. Kabitzsch, 1911. Su questo tema vd. anche in generale
Archaeology, Ideology and Society: the German Experience, a cura di H. Härke, Frankfurt, Lang,
2000; per un caso specifico, S. Brather, Ethnic Identites as Construction of Archaeology: The Case
of the Alamanni, in On Barbarian Identity, cit., pp. 149-75.
Importante, dal punto di vista teorico, per lo studio dei sepolcreti, è H. Blake, Sepolture, in
“Archeologia Medievale”, a. x 1983, pp. 175-97. Studi particolari: per gli Anglosassoni, H. Härke,
Warrior graves? The background of the Anglo-Saxon weapon burial rite, in “Past & Present”,
1990, n. 126 pp. 22-43; c’è poi il fondamentale libro di G. Halsall, Settlement and Social
Organization: The Merovingian Region of Metz, Cambridge, Cambridge Univ. Press, 1995. Infine,
per l’Italia longobarda, C. La Rocca, Segni di distinzione. Dai corredi funerari alle donazioni ‘post
obitum’ nel regno longobardo, in L’Italia centro-settentrionale in età longobarda, a cura di L.
Paroli, Firenze, All’Insegna del Giglio, 1997, pp. 31-54, e Ead., L’archeologia e i Longobardi in
Italia, in Il regno dei Longobardi in Italia. Archeologia, società, istituzioni, a cura di S. Gasparri,
Spoleto, Cisam, 2004, in partic. alle pp. 212-17; in ultimo, un paragone fra cimiteri pannonici e
friulani è in I. Barbiera, Changing Lands in Changing Memories. Migration and Identity during
the Lombard Invasions, Firenze, All’Insegna del Giglio, 2005. Le stesse prospettive di ricerca,
applicate agli Slavi, sono in F. Curta, The Making of the Slavs. History and Archaeology of the
Lower Danube Region, Cambridge, Cambridge Univ. Press, 2001.
Dal punto di vista della storia della città, per una bibliografia relativa al dibattito precedente, per
l’Italia, si rinvia a G.P. Brogiolo-S. Gelichi, La città nell’alto medioevo italiano. Archeologia e
storia, Roma-Bari, Laterza, 1998; su scala più ampia, Town and their Territories, cit. Più di
recente, si segnala C. La Rocca, Lo spazio urbano tra VI e VIII secolo, in Uomo e spazio nell’alto
medioevo. Atti della l Settimana del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto, Cisam,
2003, pp. 397-436.
Gli studi sulle società altomedievali che riflettono il contributo delle scienze sociali (sociologia e
antropologia soprattutto) sono debitori innanzitutto a M. Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo

16
dello scambio nelle società arcaiche, in Id., Teoria generale della magia, Torino, Einaudi, 1965,
pp. 153-292, e a P. Bourdieu, La distinction, Paris, Minuit, 1979. Un esempio importante è in R. Le
Jan, Famille et pouvoir dans le mond franc (VIIe -Xe siècle). Essai d’anthropologie sociale, Paris,
Sorbonne, 1995. Si vedano poi i quattro volumi pubblicati dal gruppo di ricerca sui transferts
patrimoniaux: Les transfert patrimoniaux en Europe occidentale, VIIIe -Xe siècle, in “Mélanges de
l’École Française de Rome. Moyen Âge”, a. cxi 1999, n. 2; Dots et douaries dans le haut Moyen
Âge, a cura di F. Bougard, L. Feller, R. Le Jan, Roma, École française, 2002; Carte di famiglia.
Strategie, rappresentazione e memoria del gruppo familiare di Totone di Campione (721-877), a
cura di S. Gasparri, C. La Rocca, Roma, Viella, 2005; Sauver son âme et se perpétuer.
Transmission du patrimoine et mémoire au haut Moyen Âge, a cura di F. Bougard, C. La Rocca,
R. Le Jan, Roma, École française, 2005. Su scambio e negoziazione dello status sociale: W. Pohl,
Konfliktverlauf und Konfliktbewältigung: Römer und Barbaren im frühen Mittelalter, in
“Frühmittelalterliche Studien”, a. xxvi 1992, pp. 165-207 (parzialmente rist. in Id., Le origini
etniche dell’Europa, cit., pp. 199-240); C. Wickham, Problems of comparing rural societies in
early medieval western Europe, in Id., Land and Power. Studies in Italian and European Social
History, 400-1200, London, British School at Rome, 1994, pp. 201-26. Per una riconsiderazione
delle fonti giudiziare, F. Bougard, La justice dans le royaume d’Italie de la fin du VIIIe siècle au
début du XI e siècle, Roma, École française, 1995.
Per la controversa questione dei rituali, P. Buc, The Dangers of Ritual. Between Early Medieval
Texts and Social Scientific History, Princeton (N.J.), Princeton Univ. Press, 2001, e M. Fiano, Il
banchetto nelle fonti altomedievali. Tra scrittura ed interpretazione, in “Mélanges de l’École
Française de Rome. Moyen Âge”, a. cxv 2003, n. 2 pp. 637-82. Infine, un vasto tentativo di
interpretazione della società altomedievale alla luce dei nuovi orientamenti storiografici è in
J.M.H. Smith, Europe after Rome. A New Cultural History, 500-1000, Oxford, Oxford Univ.
Press, 2005.
Tematiche toccate solo di sfuggita in questo saggio sono infine la storia di genere, su cui è
sufficiente indicare Gender in the Early Medieval World. East and West, 300-900, a cura di L.
Brubaker, J.M.H. Smith, Cambridge, Cambridge Univ. Press, 2004; nel testo del presente saggio è
cit. J. Nelson, The wary widow, in Property and Power in rhe Early Middle Ages, a cura di W.
Davies, P. Fouracre, ivi, id., 1995, pp. 82-113, e va ricordato almeno anche P. Stafford, Queens,
Concubines and Dowagers. The King’s Wife in the Early Middle Ages, London-Washington, Univ.
of Georgia Press, 1983. In stretto collegamento con i temi trattati precedentemente, R. Le Jan,
Femmes, pouvoir et société dan le haut Moyen Age, Paris, Picard, 2001. Alla storia di genere sono
inoltre dedicati molti saggi pubblicati su “Early Medieval Europe”; infine, si segnala che sono in via
di pubblicazione gli Atti del Convegno tenutosi a Padova nel 2005, Impari opportunità. L’agire
femminile nell’Europa altomedievale come paradigma politico e sociale, a cura di C. La Rocca.
Un forte valore innovativo hanno gli studi di B.H. Rosenwein, To Be the Neighbor of Saint Peter.
The Social Meaning of Cluny’s Property, 909-1049, Ithaca-London, Cornell Univ. Press, 1989, e
Ead., Negotiating Space. Power, Restraint and Privileges of Immunity in Early Medieval Europe,
Ithaca (N.Y.), Cornell Univ. Press, 1999. Sulla “storia delle emozioni”, oltre al volume Anger’s past.
The Social Uses of an Emotion in the Early Middle Ages, a cura di B.H. Rosenwein, Ithaca-
London, Cornell Univ. Press, 1998, si veda anche The history of the emotions: a debate, a cura di
C. Cubitt, in “Early Medieval Europe”, a. x 2001, pp. 225-71.
Sul grande tema della cristianizzazione, che qui è stato appena sfiorato ma che è in forte
rinnovamento, si è citato in generale C. La Rocca, Cristianesimi, in AA.VV., Storia Medievale,
Roma, Donzelli, 1998, pp. 113-39; la stessa autrice è tornata di recente sull’argomento in Ead., La
cristianizzazione dei Barbari e la nascita dell’Europa, in “Reti Medievali Rivista”, a. v 2004, n. 2
pp. 1-38; sono stati poi citati Y. Hen, Culture and Religion in Merovingian Gaul, Leiden-New
York-Köln, Brill, 1995, e M. De Jong, In Samuel’s Image. Child Oblation in Carolingian Times,
Leiden-New York, Brill, 1995, e Ead.,
Religion, in The Early Middle Ages, a cura di R. McKitterick, Oxford, Oxford Univ. Press, 2001,
pp. 131-64. Ad essi va accostato almeno il volume, relativo non solo all’alto Medioevo,
Christianizing Peoples and Converting Individuals, a cura di G. Armstrong, I. Wood, Turnhout,

17
Brepols, 2000.

Note
1. S. Mazzarino, La fine del mondo antico, Milano, Rizzoli, 1988 2 (1 a ed. 1959), p. 19.
2. E. Gibbon, History of the Decline and Fall of the Roman Empire , 6 voll., London, Methuen, 1776-1788.
3. H. Pirenne, Mahomet et Charlemagne , Bruxelles, Nouvelle Société d’Édition, 1937. Sulla “tesi Pirenne”, vd. G.
Petralia, A proposito dell’immortalità di ‘Maometto e Carlomagno’ (o di Costantino), in“Storica”, n. 1 1995, pp. 38-87,
e P. Delogu, Reading Pirenne again, in The Sixth Century , a cura di R. Hodges, W. Bowden, Leiden-Boston-Köln,
Brill, 1998, pp. 15-40; un primo tentativo di revisione della tesi alla luce dell’archeologia è R. Hodges-R. Whitehouse,
Mohammed, Charlemagne and the Origins of Europe. Archaeology and the Pirenne Thesis, London, Duckworth,
1983.
4. È questo – The Transformation of the Roman World – il titolo di una serie di volumi frutto di un lungo progetto di
ricerca di respiro europeo, alcuni dei quali saranno citati nelle note di questo lavoro.
5. P. Brown, Il mondo tardoantico. Da Marco Aurelio a Maometto , Torino, Einaudi, 1974 (ed. or. 1971), p. 5. Le
suggestioni della storiografia di Peter Brown rappresentano una delle basi partenza del progetto di ricerca citato alla
nota precedente.
6. B. Ward-Perkins, The Fall of Rome and the End of Civilization, Oxford, Oxford Univ. Press, 2005.
7. Il riferimento è a P. Heather, The Fall of the Roman Empire. A new History of Rome and the Barbarians, London,
Macmillan, 2005.
8. C. Wickham, La chute de Rome n’aura pas lieu, in “Le Moyen Age”, a. lxxxxix 1993, pp. 107 -26. La definizione “altra
transizione” è di C. Wickham, The other Transition: from the Ancient World to Feudalism, in “Past & Present”, n. 103
1984, pp. 3 -36.
9. P. Geary, The Myth of the Nations: The Medieval Origins of Europe, Princeton, Princeton Univ. Press, 2002.
10. Si veda, per l’Italia, l’esemplare bilancio di G. Tabacco, Latinità e germanesimo nella tradizione medievistica
italiana, in “Rivista storica italiana”, a. cii 1990, pp. 691 -716.
11. M. Bloch, Apologia della storia o Mestiere di storico, Torino, Einaudi, 1969 4 (1 a ed. 1949), pp. 43-48.
12. Non si può non citare qui almeno un altro importante saggio di G. Tabacco, La città italiana fra germanesimo e
latinità nella medievistica ottocentesca, in Italia e Germania. Immagini, modelli, miti fra due popoli nell’Ottocento:
il Medioevo. Atti della Settimana di studio, Trento, 16-20 settembre 1985, a cura di R. Elze, P. Schiera, Bologna, Il
Mulino, 1988, pp. 23-42.
13. Si veda su questo la grande sintesi di G. Tabacco, Alto medioevo, in G. Tabacco-G.G. Merlo, Medioevo, V - XV
secolo , Bologna, Il Mulino, 1981, pp. 15-343.
14. R. Wenskus, Stammesbildung und Verfassung. Das Werden der frühmittelalterlichen Gentes, Köln-Graz, Böhlau,
1961.
1 5 . Si vedano, ad es., le critiche a Wenskus mosse da W. Pohl, Ethnicity, Theory, and Tradition: A Response, in On
Barbarian Identity. Critical Approaches to Ethnicity in the Early Middle Ages, a cura di A. Gillett, Turnhout, Brepols,
2002, pp. 221 -39.
16. Pe r una comprensione dell’approccio al problema germanico da parte della cultura tedesca si deve passare
obbligatoriamente per l’archeologia; cfr. Archaeology, Ideology and Society: the German Experience, a cura di H.
Härke, Frankfurt, Lang, 2000.
17. Tutto ciò è spiegato molto chiaramente in W. Pohl, Le origini etniche dell’Europa. Barbari e romani tra antichità e
medioevo, Roma, Viella, 2000, pp. 5 -8.
18. Al dibattito sul filone viennese di studi sull’identità barbarica, a partire dai lavori del suo primo e sponente, Herwig
Wolfram, è dedicato il libro On Barbarian Identity, cit., al cui interno vd. in partic. il saggio di W. Goffart, Does the
Distant Past Impinge on the Invasion Age Germans?, pp. 21 -37, e la risposta già menzionata di Pohl, Ethnicity, cit.
1 9. Pohl, Ethnicity, cit., pp. 224-25.
20. F. Curta, The Making of the Slavs. History and Archaeology of the Lower Danube Region, Cambridge, Cambridge
Univ. Press, 2001.
21. Pohl, Le origini etniche, cit., pp. 5 -9.
22. P. Geary, Before France and Germany. The Creation and Transformation of the Merovingian World, Oxford-New
York, Oxford Univ. Press, 1988.
23. Quadri d’insieme: oltre a Pohl, Le origini etniche, cit., si possono vedere S. Gasparri, Prima delle nazioni. Popoli,
etnie e regni fra Antichità e Medioevo, Roma, Carocci, 1997, e Geary, The Myth of the Nations, cit.
24. Su questo si veda H. Wolfram, Origo et religio. Ethnic Tradition and Literature in Early Medieval Texts, in “Early
Medieval Europe”, a. iii 1994, pp. 19-38.
25. Pohl, Le origini etniche, cit., pp. 41 -57, e Kingdoms of Empire. The Integration of Barbarians in Late Antiquity, a
cura di W. Pohl, Leiden-New York-Köln, Brill, 1997.
26. Si tratta di uno schema riscontrabile un po’ ovunque nei lavori di Gian Piero Bognetti, per tutti cito G.P. Bognetti,
S. Maria foris Portas di Castelseprio e la storia religiosa dei Longobardi, in Id., L’età longobarda, vol. ii, Milano,
Giuffrè, 1966.
27. S. Gasparri, Roma e i Longobardi, in Roma nell’alto medioevo. Atti della xlviii Settimana del Centro italiano di
studi sull’alto medioevo, Spoleto, Cisam, 2001, pp. 219-4 7 .
28. H. Wolfram, Das Reich und die Germanen. Zwischen Antike und Mittelalter, Berlin, Siedler, 1998.
18
29. J. Durliat, Les finances publiques. De Dioclètien aux Carolingien (284-888), Sigmaringen, Thorbecke, 1990.
30. W. Goffart, Barbarian and Romans, A.D. 418-584. The Techniques of Accommodation, Princeton, Princeton Univ.
Press, 1980, p. 35.
31. Ward-Perkins, The Fall of Rome, cit., in partic. i capp. intitolati The Horrors of War, pp. 13-3 1 , e The
Disappearance of Comfort, pp. 87 -120.
32. Si veda Goffart, Does the Distant Past, cit., e anche il volume dello stesso autore citato sopra, alla n. 30.
33. Pohl, Le origini etniche dell’Europa, cit., soprattutto pp. 183 -98 e 241 -61. Sulla fluidità e c omplessità etnica delle
gentes altomedievali vedi anche Id., Telling the difference: Signs of ethnic identity, in Strategies of Distinction: The
Construction of Ethnic Communities, 300-800, a cura di W. Pohl, H. Reimitz, Leiden, Brill, 1998, pp. 17 -7 0 .
34. Bibliografia critica sulle reazioni al nuovo modello interpretativo in Ward-Perkins, The Fall of Rome, cit.; si veda
anche P. Delogu, L’Editto di Rotari e la società del VII secolo , in Visigoti e Longobardi, a cura di J. Arce, P. Delogu,
Firenze, All’Insegna del Giglio, 2001, pp. 329-55, in partic. pp. 329-31.
35. S. Gasparri, I Germani immaginari e la realtà del regno. Cinquant’anni di studi sui Longobardi, in I Longobardi
dei ducati di Spoleto e Benevento . Atti del xvi Congresso internazionale di studi s ull’alto medioevo, Spoleto, 20-23
ottobre 2002, Spoleto, Cisam, 2003, vol. i pp. 3 -28.
36. J. Jarnut, Germanisch. Plädoyer für die Abschaffung eines obsoleten Zentralbegriffes der
Frühmittelalterforschung, in Die Suche nach den Ursprungen. Von der Bedeutung des frühen Mittelalters, a cura di
W. Pohl, Wien, Österreichische Akad. der Wissenschaften, 2004, pp. 107 -13.
37. G.M. Spiegel, History, Historicism and the Social Logic of the Text in the Middle Ages, in “Speculum”, a. lxv 1990,
pp. 59-86.
38. W. Goffart, The Narrators of Barbarian History: Jordanes, Gregory of Tours, Beda and Paul the Deacon,
Princeton, Princeton Univ. Press, 1988. Sviluppi successivi del dibattito in After Rome’s Fall: Narrators and Sources
of Early Medieval History , a cura di A.C. Murray, Toronto, Buffalo and London, 1998.
39. W. Pohl, History in fragments: Montecassino’s politics of memory , in “Early Medieval Europe”, a. x 2001, pp.
344-74. Altri testi fondamentali: J. Fentress-C. Wickham, Social Memory , Oxford, Blackwell, 1992; per il mondo
antico, J. Assman, La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, Torino,
Einaudi, 1997 (ed. or. 1992). Prima ancora, centrato sull’Età moderna e contemporanea, si veda il classico L’invenzione
della tradizione, a cura di E.J. Hobsbawm, ivi, id., 1987 (ed. or. 1983).
40. W. Pohl, Paolo Diacono e la costruzione dell’identità longobarda, in Paolo Diacono. Uno scrittore fra tradizione
longobarda e rinnovamento carolingio , a cura di P. Chiesa, Udine, Forum, 2000, pp. 413-26.
41. Id., Memory, identity and power in Lombard Italy, in The Uses of the Past in the Early Middle Ages, a cura di Y.
Hen, M. Innes, Cambridge, Cambridge Univ. Press, 2000, pp. 9-28. L’intero volume è importante anche nella
prospettiva più g enerale cui fa riferimento la bibliografia della n. 39.
42. Pohl, Ethnicity, cit., pp. 228-29.
43. I. Wood, Defining the Franks, in Concepts of National Identity in the Middle Ages, a cura di S. Forde, L. Johnson,
A. Murray, Leeds, Univ. of Leeds, 1995, pp. 47 -5 7 .
44. Cfr. anche Pohl, History in fragments, cit., in partic. alle pp. 372-73.
45. ‘La definizione di un popolo per mezzo della sua storia’ (R. McKitterick, History and Memory in the Carolingian
World, Cambridge, Cambridge Univ. Press, 2004, p. 9).
46. A questo tema è stato dedicato recentemente un congresso, i cui Atti sono editi in Der Dynastiewechsel von 751.
Vorgeschichte, Legitimationsstrategien und Erinnerung, a cura di M. Becher, J. Jarnut, Münster, Scriptorium, 2004.
47. McKitterick, op. cit., pp. 51-52.
48. Ivi, pp. 60-83.
49. C. Wickham, Framing the Early Middle Ages. Europe and the Mediterranean, 400-800, Oxford, Oxford Univ.
Press, 2005, pp. 693-824 (è il cap. dedicato ai sistemi di scambio).
50. Per un bilancio del dibattito relativo all’Italia, con la bibliografia relativa, G.P. Brogiolo-S. Gelichi, La città nell’alto
medioevo italiano. Archeologia e storia, Roma-Bari, Laterza, 1998; su scala più ampia, Towns and their Territories
between Late Antiquity and the Early Middle Ages, a cura di G.P. Brogiolo, N. Gauthier, N. Christie, Leiden-Boston-
Köln, Brill, 2000.
51. C. La Rocca, Lo spazio urbano tra VI e VIII secolo , in Uomo e spazio nell’alto medioevo, Atti della l Settimana del
Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto, Cisam, 2003, pp. 397 -436.
52. Cfr. Archaeological Approaches to Cultural Identities, a cura di S. Shennan, London-New York, Unwin Hyman,
1989, e S. Jones, The Archaeology of Ethnicity. Constructiung Identities in the Past and Present, London-New York,
Taylor & Francis, 1997.
53. I. Barbiera, Changing Lands in Changing Memories. Migration and Identity During the Lombard Invasions,
Firenze, All’Insegna del Giglio, 2005.
54. S. Brather, Ethnic Identites as Construction of Archaeology: The Case of the Alamanni, in On Barbarian Identity,
cit., pp. 149-7 5 .
55. M. Ricci, Relazioni culturali e scambi commerciali nell’Italia centrale romano -longobarda alla luce della Crypta
Balbi di Roma, in L’Italia centro -settentrionale in età longobarda, a cura di L. Paroli, Firenze, A ll’Insegna del Giglio,
1997, pp. 239-73.
56. G. Kossinna, Die Herkunft der Germanen. Zur Methode der Siedlungsarchäologie , Würzburg, C. Kabitzsch, 1911.
57. Si parla, non a caso, anche di “archeologia processuale”: cfr., oltre ai lavori citati sopra, alla n. 52, H. Blake,
Sepolture , in “Archeologia Medievale”, a. x 1983, pp. 175-9 7 .

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58. P. Bourdieu, La distinction, Paris, Minuit, 1979.
59. G. Halsall, Settlement and Social Organization: The Merovingian Region of Metz, Cambridge, Cambridge Univ.
Press, 1995; C. La Rocca, Segni di distinzione. Dai corredi funerari alle donazioni ‘post obitum’ nel regno longobardo,
in L’Italia centro -settentrionale , cit., pp. 31 -54.
60. Per una critica dell’identificazione delle sepolture di cavalieri come prova della presenza di nomadi, con
riferimento in particolare alla necropoli trovata in località Vicenne presso Campochiaro in Molise, C. La Rocca,
L’archeologia e i Longobardi in Italia, in Il regno dei Longobardi in Italia. Archeologia, società, istituzioni, a cura di
S. Gasparri, Spoleto, Cisam, 2004, in partic. alle pp. 212-1 7 .
61. H. Härke, Warrior graves? The background of the Anglo -Saxon weapon burial rite, in “Past & Present”, n. 126
1990, pp. 22-43.
62. Cfr. soprattutto, per l’Italia, La Rocca, Segni di distinzione , cit. sopra, alla n. 59.
63. R. Le Jan, Famille et pouvoir dans le monde franc (VII e -Xe siècle). Essai d’anthropologie sociale, Paris, Sorbonne,
1995.
64. M. Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, in Id., Teoria generale della
magia, Torino, Einaudi, 1965, pp. 153-292.
65. P. Buc, The Dangers of Ritual. Between Early Medieval Texts and Social Scientific History , Princeton, Princeton
Univ. Press, 2001.
66. M. Fiano, Il banchetto nelle fonti altomedievali. Tra scrittura ed interpretazione , in “Mélanges de l’École
Française de Rome. Moyen Âge”, a. cxv 2003, n. 2 pp. 637 -82.
67. Buc, op. cit., passim, ma soprattutto il cap. i su Liutprando di Cremona.
68. Su scambio e negoziazione dello status sociale, un esempio è nel lavoro di C. Wickham, Problems of comparing
rural societies in early medieval western Europe, in Id., Land and Power. Studies in Italian and European Social
History, 400-1200, London, British School at Rome, 1994, pp. 201-26. Conflitto, negoziazione e scambio di doni
possono essere riferiti anche ad un periodo più antico: W. Pohl, Konfliktverlauf und Konfliktbewältigung: Römer und
Barbaren im frühen Mittelalter, in “Frühmittelalterliche Studien”, a. xxvi 1992, pp. 165-207 (parzialmente rist. in Id.,
Le origini etniche dell’Europa, cit., pp. 199-240). Sulle fonti giudiziare, F. Bougard, La justice dans le royaume d’Italie
de la fin du VIII e siècle au début du XI e siècle , Roma, École française, 1995. Infine, un’applicazione dei concetti di
negoziazione, conflitto, m anipolazione alle immunità ecclesiastiche è nei libri di Barbara Rosenwein citati sotto, alla n.
73.
69. Si vedano i quattro volumi pubblicati dal gruppo di ricerca sui “trasferimenti patrimoniali”: Les transfert
patrimoniaux en Europe occidentale, VIII e -Xe siècle , in “Mélanges de l’École Française de Rome. Moyen Âge”, a. cxi
1999, n. 2; Dots et douaires dans le haut Moyen Âge, a cura di F. Bougard, L. Feller, R. Le Jan, Roma, École française,
2002; Carte di famiglia. Strategie, rappresentazione e memoria d el gruppo familiare di Totone di Campione (721 -
877), a cura di S. Gasparri, C. La Rocca, Roma, Viella, 2005; Sauver son âme et se perpétuer. Transmission du
patrimoine et mémoire au haut Moyen Âge, a cura di F. Bougard, C. La Rocca, R. Le Jan, Roma, École française,
2005.
7 0 . Gender in the Early Medieval World. East and West, 300-900, a cura di L. Brubaker, J.M.H. Smith, Cambridge,
Cambridge Univ. Press, 2004.
71. P. Geary, Phantoms of Remembrance. Memory and Oblivion at the End of the First Millennium, Princeton,
Princeton Univ. Press, 1994, in partic. pp. 51-73; per l’età carolingia, J. Nelson, The wary widow, in Property and
Power in the Early Middle Ages, a cura di W. Davies, P. Fouracre, Cambridge, Cambridge Univ. Press, 1995, pp. 82-
113, e cfr. anche il saggio di Cristina La Rocca cit. sopra, alla n. 59.
72. Oltre a Le Jan, Famille et pouvoir, cit., vd. anche Ead., Femmes, pouvoir et société dan le haut Moyen Age, Paris,
Picard, 2001.
73. Cfr. B.H. Rosenwein, To Be the Neighbor of Saint Peter. The Social Meaning of Cluny’s Property, 909-1049,
Ithaca-London, Cornell Univ. Press, 1989. Di grande importanza è anche lo studio della stessa Rosenwein su immunità
ed esenzioni ecclesiastiche, analizzate come strumenti flessibili di vita sociale e politica: Ead., Negotiating Space.
Power, Restraint and Privileges of Immunity in Early Medieval Europe, Ithaca, Cornell Univ. Press, 1999.
74. Sulle élites si è avviato di recente un progetto di ricerca che coinvolge diverse università europee (e italiane). L’uso
dei nuovi strumenti mutuati dalle scienze sociali non deve comunque far dimenticare quanto di buono aveva elaborato
la ricerca storica nei decenni passati nel campo dello studio delle aristocrazie, in particolare il metodo prosopografico
caro alla storiografia t edesca. L’esempio più famoso in questo campo, in relazione alla storia altomedievale italiana, è
senza dubbio E. Hlawitschka, Franken, Bayern und Alemannen in Oberitalien (774-962), Freiburg im Breisgau,
Albert, 1960; un libro che, nonostante alcuni limiti di impostazione, rimane ancora oggi un punto di riferimento
importante.
75. Queste ultime sono talvolta così diverse fra di loro che si può parlare addirittura di “cristianesimi” al plurale: C. La
Rocca, Cristianesimi, in AA.VV., Storia Medievale , Roma, Donzelli, 1998, pp. 113-39. Importanti in questo campo
sono gli studi di Y. Hen, Culture and Religion in Merovingian Gaul, Leiden-New York-Köln, Brill, 1995, e M. De Jong,
In Samuel’s Image. Child Oblation in Carolingian Times, Leiden-New York, Brill, 1995, e Id., Religion, in The Early
Middle Ages, a cura di R. McKitterick, Oxford, Oxford Univ. Press, 2001, pp. 131 -64.
76. Questa prospettiva di ricerca è ben rappresentata dal volume Sauver son âme, cit., alla n. 69. 77. Si veda il volume
Anger’s past. The Social Uses of an Emotion in the Early Middle Ages, a cura di B.H. Rosenwein, Ithaca-London,
Cornell Univ. Press, 1998.

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