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Riassunto Storia Della Filosofia Mediavale

storia medievale

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Riassunto Storia della filosofia mediavale

Storia della filosofia medievale (Università degli Studi di Torino)

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INTRODUZIONE

La filosofia medievale presenta un'impronta strettamente cristiana, conseguente al fatto che, all'epoca,
l'unica forma di erudizione e di istruzione era quella impartita dagli ordini religiosi e dalle universita.
Per questo motivo gran parte degli argomenti trattati riguardano la discussione di dogmi religiosi.
Gli ostacoli da superare per capire a pieno il pensiero dei filosofi medievali sono prevalentemente
quattro:

• Ostacolo linguistico: utilizzo di neologismi latini che, pur essendo presenti anche in epoca
moderna, sono difficilmente traducibili e comprensibili a pieno in altre lingue;

• Ostacolo professionale: come detto in precedenza, la filosofia era appannaggio (prerogativa)


di una determinata classe sociale: quella degli universitari (da qui il termine “scolastica”). Per
questo motivo, oltre alla monotonia dei contenuti, i trattati, frutto di numerosi dibattiti,
presentavano un linguaggio strettamente specialistico, non accessibile ai non praticanti. La
filosofia poteva dunque essere praticata solo da “professionisti”, ovvero uomini celibi e
appartenenti in vario grado alla gerarchia ecclesiastica;

• Ostacolo confessionale: filosofia spesso vista come una branca della teologia o
dell'apologetica (difesa ed esaltazione della fede);

• Ostacolo “campanilistico” (attaccamento esagerato e gretto al proprio paese): ovvero


l'ostacolo legato alla natura degli ordini a cui appartenevano i singoli pensatori, che
presentavano caratteristiche differenti e che portavano gli altri adepti a seguire e studiare solo
i filosofi della stessa “casata” ecclesiastica.

SANT’AGOSTINO
1. IL PROBLEMA DEL MALE
Perché facciamo il male?
Inizialmente agostino aderisce all’ideologia del manicheismo che prevede una netta distinzione tra i
due principi fondamentali, bene e male; ma se Dio trova contrapposto a sé un principio del male, è
segno che egli ne subisce l’azione, ma come è possibile ce Dio subisca mutamenti o addirittura soffra?
La conclusione di Agostino è che non possono esistere due principi contrapposti, tanto meno due
principi corporei: la divinità è unica, incorporea e incorruttibile.
In un primo momento la risposta di Agostino è vicina alla soluzione del neoplatonismo; questa tesi
comporta un giudizio di valore, per cui essere è meglio che non essere e se il bene coincide con
l’essere, il suo contrario, il male, coinciderà con il non essere. Esiste però una gerarchia dei beni, che va
dal Sommo Bene, Dio, a ciò che è soltanto corporeo.
Per via puramente razionale Agostino è poi pervenuto a riconoscere la non esistenza reale del male: il
male non è altro che mancanza, non essere.

Ciò che singolarmente preso può apparire male all’uomo, visto nell’insieme ordinato delle cose si
configura come bene. Resta allora da chiarire che cosa sia il male fisico e quello morale. L’azione
malvagia consiste nel dirigersi della volontà dal bene eterno a un bene temporale, nell’amare un bene
che è inferiore al Sommo Bene; in ciò consiste il peccato. È la volontà umana che peccando rende male
ciò che di per sé non è male: in essa dunque è l’origine del male, non in Dio. Orientandosi verso ciò che
è inferiore a Dio, la volontà malvagia si oppone a Dio. Chi commette una colpa ha già in ciò la sua
punizione, in quanto si priva del Sommo Bene. I mali fisici a loro volta non sono altro che conseguenze
del male morale, punizioni per i peccati commessi.

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SI pone poi il problema del perché Dio abbia dato all’uomo la libertà. La risposta di Agostino è che
senza la libertà non sarebbe possibile azione retta da parte dell’uomo. Dio prevede la nostra azione,
ma la prevede come dovuta alla nostra volontà, se non fosse in nostro potere; ma essa è in nostro
potere, se noi siamo liberi; dunque Dio prevede la volontà come in nostro potere e pertanto la sua
prescienza non ci sottrae la libertà
2. RICERCA DELLA VERITA’ E INTERIORITA’
La conversione al cristianesimo significa fiducia di poter proseguire l’indagine intellettuale con l’aiuto
di Dio; filosofia ed esperienza religiosa si fondano in un insieme inscindibile. Nel periodo della
conversione Agostino è convinto che gli antichi filosofi, se rinascessero, diventerebbero cristiani; la
felicità risiede in primo luogo nella sapienza.
Per dimostrare l’esistenza della verità e criticare lo scetticismo Agostino spiega che l’evidenza
dell’esistere e del vivere dimostra che qualcosa di evidente nel mondo sussiste ed è comprensibili;
dunque chi esercita il pensiero deve esistere e vivere per certo. “Si fallor sum”, anche nel caso di errore
l’inganno dimostra la certezza almeno di esistere. Questa argomentazione ha la peculiarità di cercare
la garanzia della verità e della certezza non nel mondo esteriore, bensì nell’interiorità. La verità
dunque non è altro che il pensiero; entro di sé l’uomo ricava la verità, del quale non può ulteriormente
dubitare. Per Agostino è inoltre essenziale ammettere che la verità è eterna in modo da svincolarla
dall’esistenza dei fenomeni esterni.
Come avevano insegnato i platonici, anche per Agostino l’anima è il luogo della vera conoscenza. Ogni
processo educativo ha soltanto una funzione esterna di preparazione all’avvento della ragione: il vero
apprendimento avviene all’interno, dove l’anima entra in contatto con quel maestro interiore che è il
Cristo. Il ponte tra Dio e l’uomo è colmato dalla Bibbia con le sue immagini e il suo linguaggio di segni
dai molteplici significati. La Bibbia è la base della dottrina cristiana, che per intendere la parola di Dio
depositata in essa utilizza tutti gli strumenti utili, dalla grammatica alla dialettica, elaborati dalla
cultura pagana. Il mondo delle scienze profane può in tal modo essere riassorbito e posto al servizio
dello studio della Bibbia

3. ILLUMINAZIONE E DIALOGO CON DIO


La verità è eterna, mentre l’anima umana è una sostanza immortale, indipendente dal corpo, ma non
eterna. La verità non proviene dai sensi, né è prodotta dall’uomo, altrimenti essa sarebbe effimera
come i corpi. La verità è qualcosa che l’anima trova dentro di sé, non fuori, nel mondo. È solo
l’illuminazione, l’irradiarsi della parola divina, che può condurre alla conoscenza oggettiva.
Grazie a questa luce interiore l’anima può recuperare le “regole eterne”, i principi universali o criteri di
verità. Platone aveva identificato la fonte di quella luce che è la verità con l’idea del Bene. Agostino,
sulla scorta del Vangelo di Giovanni, può ravvisarla nel Verbo che “illumina ogni uomo che viene in
questo mondo”. Le idee non hanno esistenza autonoma ma esistono nel Logos come modelli della
creazione delle cose.
“Voglio conoscere Dio e l’anima”, ma la ricerca dell’uno è indistinguibile da quella dell’altra. Di
conseguenza l’anima che conosce se stessa, riconosce in sé Dio come sua origine. Per conoscere è,
dunque, necessario non uscire fuori di sé, perché la verità abita nell’interiorità dell’uomo.

Per Agostino il pensiero diventa dialogo interiore tra l’uomo e Dio. Questa impostazione dà origine a
un tipo nuovo di scritto, emblematicamente rappresentato dalle Confessioni.

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4. IL PROBLEMA DEL TEMPO


Il problema del tempo è affrontato nell’undicesimo libro delle Confessioni. Secondo Agostino l’errore
comune consiste nel pensare l’eternità divina partendo dalla nozione umana del tempo, che include
anche passato e futuro, come se anche per Dio esistessero passato e futuro. Piano divino e umano sono
incommensurabili; nell’eternità c’è una simultaneità, un essere tutto presente, mentre il tempo è un
fluire incessante. Più propriamente si dovrà dunque dire che Dio è fuori del tempo, è l’eternità e non
crea le cose nel tempo: tempo ed eternità sono due termini incompatibili e pertanto non ha senso
parlare di “tempo eterno”, perché tempo è per definizione ciò che non è eterno né stabile.

Con la creazione delle cose Dio crea anche il tempo, che quindi non esiste prima della creazione. Per
cogliere la vera realtà del tempo occorre guardare nell’interiorità di se stessi. Se il passato è oggetto di
ricordo e questo ricordo è vero, chi lo ricorda deve vederlo e quindi in qualche modo il tempo deve
essere. La memoria risulta essere nient’altro che presente del passato. Un discoro analogo valer anche
per il futuro che non è altro che attesa presente di ciò che sarà.
Agostino inoltre capovolge e critica la prospettiva tradizionale che prevede la determinazione del
tempo a partire da fenomeni esterni, quando in realtà è il tempo ad essere il fondamento della
determinazione della durata di questi stessi fenomeni. È erroneo dunque far dipendere l’esistenza
delle tre dimensioni temporali dall’esistenza degli oggetti esterni all’anima. Il tempo è distensio animi,
ed è questo che ci fornisce la misura del tempo. Ciò che viene misurato dall’anima non sono le cose nel
loro trascorrere, ma l’affezione che lasciano e che permane nella nostra anima anche quando esse sono
trascorse.
Se non ci fosse l’anima non ci sarebbe dunque il tempo; l’unità dell’anima rinvia all’unità divina la
quale comprende nel presente stabile della sua eternità tutto ciò che è stato, e che sarà.

5. L’ANIMA E LA TRINITA’
La ricerca di Dio è anche amore di Dio e della verità. Essa non è soltanto una ricerca intellettuale, ma
coinvolge l’intera dimensione affettiva dell’uomo. Amare il prossimo è una preparazione ad amare il
Sommo bene attraverso l’altro. La fede è pensiero accompagnato dall’assenso della volontà.
La posizione di Agostino può essere compendiata nell’affermazione: “intelligo ut credam, et credo ut
intelligam”. In questa prospettiva, indagine filosofica e indagine teologica fanno tutt’uno, non
costituiscono ambiti separati e autonomi. L’esperienza che l’anima fa di sé nella propria interiorità
consente di raggiungere conoscenze che possono illuminare la natura stessa di Dio. In questa
esperienza di sé è riscontrabile una tripartizione fra essere, sapere e amore.
Agostino collega l’uso dei contenuti del sapere alla volontà: usare infatti è mettere una cosa a
disposizione della volontà. Rispetto all’uso le cose si suddividono in mezzi per raggiungere altre cose
oppure in fini, nei quali ci si acquieta, una volta che siano stati raggiunti. Agostino distingue tra uti e
frui, tra “usare” e “fruire”. Quest’ultimo include entro di sé l’usare, ma aggiungendovi il gaudium, la
gioia per la cosa stessa di cui si fruisce.

L’unità dell’anima umana nell’insieme delle sue articolazioni dinamiche risulta allora essere immagine
di Dio stesso, uno e trino. Dio infatti creò l’uomo a propria immagine e somiglianza: Padre, Figlio e
Spirito Santo.
L’analogia tra lo spirito umano e la Trinità divina è però soltanto parziale, perché mentre nell’uomo le
tre funzioni o relazioni non sono di volta in volta tre persone, in Dio sono una sola sostanza che si
articola in tre persone.

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6. LA PREDESTINAZIONE E LA GRAZIA
In una prima fase Agostino difende la libertà del volere: la volontà è in nostro potere ed è essa la causa
del male. Contro l’ottimismo dei filosofi, che credono nell’onnipotenza della ragione e nelle sue
capacità di autodeterminarsi con piena libertà, Agostino si viene via via persuadendo della fragilità
umana. La volontà non gode di completa libertà; sull’agire umano esercita grande forza l’abitudine,
fondata sul ricordo del piacere. Alla superbia dell’uomo Agostino oppone la virtù dell’umiltà, il peccato
originale di Adamo ha contaminato la natura umana, l’uomo pertanto non è in grado di redimersi da
sé. Al centro dell’esperienza cristiana si collocano dunque l’incarnazione e la resurrezione di Cristo, da
cui dipende la redenzione degli uomini. Il baricentro si sposta nel futuro, nella resurrezione finale:
soltanto allora sarà possibile la piena felicità.

Agostino in questa fase di pensiero si distingue radicalmente dalle comunità settarie dei donatisti e dei
pelagiani. Per i donatisti nessun peccatore può far parte della Chiesta che è santa, evitando ogni
mescolanza con il mondo esterno e impuro. Per Agostino invece è essenziale vivere con i peccatori,
rimproverandoli e correggendoli.
Per Agostino inoltre determinati atti ecclesiastici sono validi indipendentemente dalla condizione
morale di chi li compie. È Cristo che dà efficacia al sacramento, anche se il sacerdote è peccatore. La
lettura di San Paolo contribuisce ad accentuare agli occhi di Agostino la tensione e il dissidio tra la
carne e lo spirito. Egli giunge a una concezione dell’uomo come essere totalmente dipendete da Dio: la
salvezza dell’uomo dipende dalla grazia concessa da Dio. Questa convinzione diventa dominante
soprattutto nell’ultima fase della sua vita quando a partire dal 412 egli deve affrontare le dottrine
pelagiane. Pelagio partiva dall’assunto che l’uomo è creato da Dio per conseguire la perfezione e,
quindi, come essere totalmente libero e responsabile delle sue azioni. Quindi non esiste propriamente
un peccato che da Adamo sia stato trasmesso ereditariamente a tutti gli uomini e ogni uomo è
responsabile soltanto dei propri peccati. Di qui scaturisce la tesi che l’uomo è in grado di acquisire la
salvezza soltanto mediante le proprie opere buone, senza l’intervento diretto di Dio e la mediazione
della Chiesa. Per Agostino invece appartengono alla chiesa anche i peccatori: la fede stessa sorge
nell’uomo per grazia divina. Prima che la grazia sia concessa, la volontà umana non è propriamente
livera. In seguito al peccato di Adamo, con il quale e nel quale non un singolo uomo, ma l’intera natura
umana ha peccato, l’umanità è diventata una “massa dannata”, meritevole di punizione. Per spiegare la
trasmissione ereditaria del peccato originale Agostino riprende la dottrina del traducianesimo,
secondo cui l’anima è trasmessa di padre in figlio insieme con la generazione del corpo. La dottrina del
peccato originale accentua in Agostino il disprezzo per la sessualità: a causa della concupiscenza tutto
ciò che viene generato partecipa del peccato originale. Solo Cristo ne è rimasto immune. Con il peccato
di Adamo l’umanità ha perso la libertà del volere e solo Dio nella sua misericordia può salvare
l’umanità dannata.
Per Agostino, Dio è onnipotente, quindi nulla accade se Egli non lo provoca o non lo permette. Com’è è
possibile allora che un Dio sapiente, che ha creato l’uomo, voglia che ci siano azione cattive da parte
degli uomini?
Libertà secondo Agostino possibilità di scegliere indifferentemente il bene o il male. Col peccato infatti
l’uomo ha acquisito la libertà solo nel senso di “non poter non peccare”. La volontà deve essere salvata
per diventare libera dal peccato: libero è appunto colui che è chiamato dalla grazia divina alla vera
libertà, consistente nel sottomettersi al bene. La volontà che ha ricevuto la grazia, possiede l’amore, la
caritas, la quale fa sì che l’anima preferisca ciò che è un bene maggiore rispetto a un bene minore. Ma il
sommo bene è appunto Dio e la vita felice diventa allora un dono che Dio accorda indipendentemente
da qualsiasi merito. La dottrina della grazia è strettamente connessa in Agostino alla dottrina della
predestinazione. È Dio che stabilisce colore che si salveranno e colore che saranno dannati. Sapere che
tutto dipende dalla predestinazione divina non rende tuttavia inutili gli sforzi umani. Ciò contribuisce
a far assumere un atteggiamento combattivo, interpretando ogni evento come un atto deliberato, da
parte di Dio, di misericordia per l’eletto e di condanna per il reprobo.

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7. LE DUE CITTA’ E LA STORIA


Verso il 400 Agostino pareva convinto che il potere politico fosse al servizio del cristianesimo: Dio ha
convertito e sottomesso a sé l’impero. Dopo il 410 ciò è solo una speranza. Gli imperatori di Occidente
appaiono sempre più incapaci di difendere i cristiani dai barbari. Tra fine del IV e l’inizio del V secolo il
“mito di Roma” è sotto processo negli ambienti cristiani. Roma sembra accettata soltanto perché in
essa riposano i corpi di Pietro e Paolo.
Agostino a questo punto ritiene che le vicende della vera Chiesa non siano e non possano essere
condizionate dalle vicende umane. Per dimostrare ciò Agostino elaborato una teologia della storia
strutturata dai momenti salienti della creazione del mondo. Agostino ritiene che la storia abbia una
durata limitata e che la sua epoca sia ormai vicina alla fine. Le vicende storiche hanno per lui un
andamento lineare il quale sfocia in un evento finale ultraterreno, che dà senso a tutto quanto precede.
Questa la prospettiva escatologica di Agostino. Il filo rosso della storia è dato invece dalla lotta tra il
bene e il male, che si costituiscono in due regi; in tal modo egli riprende alcuni aspetti del suo
manicheismo giovanile.
Agostino distingue storia sacra e storia profana, questa distinzione si traduce in quella tra due città: la
città di Dio, ossia la città celeste retta dall’amore di Dio, e la città terrena, dominata dall’amore di sé.
Sin dalla caduta di Adamo la razza umana è stata divisa in due città: l’appartenenza a ciascuna delle
due dipende soltanto dalla grazia divina.
Un popolo si definisce in base a ciò che ama: sulla base di ciò che ama esso fonda la propria unità e
costruisce rapporti di subordinazione e di obbedienza. La città terrena non deve dunque essere
identificata con lo Stato; essa è piuttosto la società che venera i falsi dei, i demoni, e perciò non vive
secondo i veri valori. Nasce qui la libido dominandi, il desiderio del potere su cui si fonda la città del
diavolo, ossia gli imperi umani, che coltivano i culti pagani.

Negli ultimi decenni della sua vita Agostino tende a scorgere nello Stato una sorta di braccio secolare
della Chiesa, ma ciò non lo porta a sostenere che la Chiesa come istituzione visibile debba esercitare il
dominio sulla città terrena, come avverrà poi durante la lotta tra il Papato e l’Impero nell’età
medievale.
Secondo Agostino in questo mondo non si potrà mai realizzare pienamente il desiderio umano
fondamentale: il desiderio di pace. Agostino definisce la pace come “tranquillità nell’ordine”,
intendendo per ordine una disposizione delle cose simili e dissimili che attribuisce a ciascuna il suo
posto. Ma quest’ordine non è mai pienamente instaurato ed operante in terra, per cui nella città
terrena e nell’intera vicenda storica non sarà mai possibile raggiungere la vera pace. La pace raggiunta
in terra è soltanto strumentale ed effimera, conseguita soltanto attraverso l’imposizione e quindi con
danno e dolore di qualcuno. L’unico modo nel quale la vera pace, quella celeste, può già esistere in
terra è nella forma della speranza. Solo la resurrezione finale apporterà la risoluzione di ogni tensione
e di ogni conflitto, tra carne e spirito e tra uomo e uomo. Il bene trionferà completamente soltanto alla
scomparsa della storia, come si dice a conclusione della Città di Dio.

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1.VERA PHILOSOPHIA

È necessario che la fede penetri per prima nel monumento della Scrittura, e che poi seguendola entri
anche l’intelletto, il cui accesso è reso possibile proprio dalla fede (vedi esempio di Pietro come
modello della fede e Giovanni come simbolo della scienza).
La fede e la ragione corrono assieme verso la pagina sacra, nell’intento di penetrare all’interno del suo
significato letterale e accostarsi all’unione di divino e umano. La conoscenza teoretica è perfezionata
dall’esercizio della scienza che l’ha resa immune alle ombre ingannevoli della corporeità, e corre più
velocemente, dirigendosi con sicurezza verso l’intelligibile. Ma è costretta a fermarsi sulla soglia della
verità, che le rimane incomprensibile: le secolari indagini dei filosofi in cerca di risposte per i loro
interrogativi sull’origine e sul senso della vita sono destinate ad approdare solo a risultati incompleti e
non verificabili, se l’intelletto non accetta di farsi precedere dal passo più lento, ma sicuro, della fede.
La ragione natura deve essere attivata dal credente sia prima dell’atto di fede, per giustificarlo, e sia
successivamente, per consolidarne i contenuti. Una misurata complementarità di fede e intelligenza
era apparsa molti, fin dai primi secoli della speculazione cristiana, in quanto veniva già percepita dai
pagani la cronica debolezza delle loro indagini dalla costatazione del contraddirsi reciproco.
La Vera philosophia, o rectissima disciplina, è solo quella dei cristiani, che hanno compreso a chi si
debba preliminarmente chiedere la verità. Come dice Giovanni Scoto, poiché la verità è unica, dal
momento che la verità è Dio, non può esserci contraddizione tra verità della religione e quella della
filosofia, e dunque la vera philosophia è la vera religio.
La vera philosophia produce nel soggetto credente l’acquisizione di una notio, ossia di una conoscenza
certa, più solida di qualsiasi costruzione scientifica. L’atto fondamentale del pensiero medievale
d’Occidente consiste nella scelta di portare pregiudizialmente il pensiero ad aderire a una “parola” la
cui attendibilità è verificabile soltanto sulla base di quanto essa stessa afferma, e di muovere di qui alla
ricerca di ulteriori conoscibilità. Come un viaggiatore che conosce la propria destinazione, ma non le
vie che dovrà seguire per arrivarci, così la ragione speculativa medievale conosce in partenza la
propria meta, coincidente con la Rivelazione e con le prime interpretazioni che ne hanno proposto i
Padri, ma è suo compito perseguirne la dimostrabilità, approfondirne il significato ed evidenziarne le
possibili conseguenze.

2. SANA DOCRTINA
La razionalità filosofica antica ha mostrato la propria incapacità di comprendere una verità che aveva
saputo soltanto intravedere nel corso dei secoli (episodio di Paolo all’Areopago di Atene e Dionigi il
primo membro convertitosi).
Gli uomini del Medioevo partono dal presupposto che i Padri della Chiesa abbiano già portato a
compimento il progetto di lasciare in eredità la christiana docrtina, la cui veridicità è garantita dal
duplice confronto dell’origine rivelata e dalla stabilità razionale.

La crisi dell’impero romano ha accennato l’esigenza di consolidare su una comune comprensione dei
dogmi l’unità della civiltà cristiana nascente. Resta dunque valido l’invito dei Padri ad attingere alle
scuole antiche, scegliendone i migliori insegnamenti: facendo propri fra gli insegnamenti di Socrate,
Platone e Aristotele, quelli più consoni ai fondamenti della religione.
L’oro rubato agli egiziani dagli israeliti prima di partire per la terra promessa allude al diritto da parte
dei seguaci di Cristo di impadronirsi delle arti pagane: chi usa tale ricchezza per soddisfare le illecite
aspirazioni conoscitive della razionalità potrà soltanto forgiare l’icona idolatrica del vitello d’oro, ma
chi la purifica e la riversa nella vera sapienza per comprendere la Rivelazione ubbidisce alla legge
divina e con l’oro fuso degli antichi può decorare l’arca dell’alleanza che conserva le tavole della Legge;

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la tentazione di anteporre interrogativi umani all’adesione totale al mistero della fede, genera solo
dottrine false.

La sana docrtina è tale in quanto è assolutamente una e indiscutibile, e questo carattere di unicità le
deriva proprio dal suo essere compiuta grazie all’origine divina; proprio questo suo distinguersi
dall’incompiutezza degli insegnamenti umani è segno di riconoscimento della superiorità anche
intellettuale del messaggio divino.

Rispetto ai neoplatonici, i cristiani hanno validi argomenti per giustificare tale scelta: dopo avere
accolto l’invito a lasciarsi guidare dalla verità rivelata, la ragione dianoetica non sarà più orientata al
vagheggiamento di una intuizione superiore, in sé non esprimibile. Il cristianesimo assicura a chiunque
crede la possibilità di prendere parte all’accadimento storico di un incontro reale tra divino e umano,
compiutosi nel tempo, secondo la fede, con l’incarnazione di Cristo, e promesso per la fine dei tempi
con la resurrezione universale.
La sana docrtina cristiana si propone dunque come una sintetica rivalutazione di tutto il reale,
corporeo e intelligibile, e acquista dalla veriditcità assoluta e totalizzante della Rivelazione quella
medesima sistematicità cui il sapiente neoplatonico poteva accedere soltanto a costo di una
svalutazione irreparabile del sensibile, del molteplice e dell’accidentale. La philosphia christiana può
effettivamente aspirare a proporsi come una docrtina compiutamente sistematica, comprensiva della
verità del reale scaturita dall’atto creatore di Dio.

3. SACRA ELOQUIA
Il magistero ecclesiastico ha fissato nel corso dei primi secoli un criterio di riconoscimento della
comune verità nel principio della tradizione. Ogni progresso speculativo, per essere accolto, deve
essere armonizzabile con l’insegnamento concorde di tutti i Padri (principio del “consensus unanimis
Patrum”) e con l’insegnamento della tradizione ecclesiastica universale (principio del “magisterium
Ecclesiae). L’unanimitas del mondo cristiano deve dunque essere edificata sulla Scrittura e sulla
tradizione.
Gli scritti dei Padri e ei testi dei canoni conciliari sono utilizzati dagli autori medievali per reperire
conferme, ma più spesso come principio argomentativo; la sapientia dei padri è perciò accolta come un
ampliamento della Rivelazione.
La grande fortuna medievale del corpus di scritti falsamente attribuiti a Dionigi Areopagita è stata
favorita dall’efficacia della sua perentoria esortazione a comporre sempre il linguaggio positivo della
dottrina con le profonde ricchezze di una teologia del silenzio. L’autorità dello pseudo-Dionigi orienta
in modo decisivo, nell’intera civiltà medievale latina, qualsiasi aspirazione umana a parlare di Dio e a
parlare con Dio, innestandola sulla distinzione e complementarietà di una teologia affermativa
(catafatica), che predica del divino tutti i termini desumibili dal linguaggio biblico e dalla tradizione, e
una teologia negativa (apofatica) che nega la possibilità di questa stessa predicazione per proiettare
qualsiasi tentativo di comprensione della fede verso l’impenetrabilità ultima di cià che è vero in sé.

La dinamica delle due teologie, che continuamente si confutano l’una con l’altra fino a rendere la non-
comprensione come la più efficace rappresentazione possibile dell’essere di Dio, conduce quindi nel
breve ma densissimo trattato sulla Teologia mistica: dove solo l’abbandono mistico consente all’anima
di perdersi nella migliore acquisizione possibile della verità religiosa.
Questa comunicazione teologica è il fondamento su cui poggia la costruzione della Christianitas.

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In età carolingia il dono di un codice di lusso contenente le opere dello pseudo-Dionigi fu accolto dai
latini come un momento di particolare valore sacrale. Il monaco Ilduino, abate di Saint-Denis,
incaricato della prima traduzione latina dei testi pseudo-dionisiani, inventò la leggendaria
identificazione del convertito dell’Areopago con il “Dionysius” vescovo di Parigi, nella cui biblioteca fu
conservato il prezioso codice: sembra di assistere, in quest’invenzione che fonde in un solo
personaggio la sapienza filosofica dell’intellettuale dell’Areopago, l’autorevolezza teologica del corpus
di scritti a lui attribuito e il merito di avere diffuso il cristianesimo nelle Gallie. Come Virgilio aveva
celebrato il diritto divino di Augusto cantand la sua discendenza da Enea, così la leggenda di Ilduino
consacra per i secoli seguenti il legame che, congiungendo la nuova Christianitas carolingia con le
radici apostoliche della religione universale, e autorizza il compito degli intellettuali che, al suo
interno, si incaricano di chiarire e approfondire con la ragione i contenuti della verità rivelata.

4. DIVINA DISPOSITIO (L’ORDINE DEL CREATO); essenze, idee, numeri, intelligenze


Altre due opere del corpus pseudo-dionisiano, La gerarchia celeste e la Gerarchia ecclesiastica,
influenzano la prospettiva speculativa dell’intero Medioevo proponendo una descrizione dell’universo
creato come ordinata distribuzione discensiva di gradi dell’esistenza dalla potenza creatrice.
Gli angeli trasmettono agli uomini le inesauribili verità dei segreti divini, recepite per primi dai
vescovi, e diffuse, ma sempre con maggiore dispersione, ai successivi gradi della scala sacerdotale. Si
deve attuare una riconduzione sacrale dell’essere al suo principio divino attraverso la purificazione,
l’illuminazione e la perfezione.

Anche in questo caso la fortuna del pensiero teologico dello pseudo-Dionigi introduce nel mondo
cristiano una tematica neoplatonica: la teoria del descensus gerarchico del molteplice dall’Uno. Il
cristianesimo aggiunge però la nozione di creazione dal nulla, inconcepibile per la filosofia pagana, in
base al principio logico secondo cui dal nulla non può scaturire qualcosa (“ex nihilo nihil fit”). L’idea
della creazione ex nihilo si traduce nella derivazione di tutte le cose dall’Uno, in quanto assicura
l’inalterabile perfezione del Principio nel suo dare origine al molteplice. La dipendenza del creato da
una libera scelta divina implica inoltre che la sua esistenza come derivato non sia ne è eterno né
necessitata e consente di ritenere sempre possibile che da un momento determinato della storia la
derivazione degli effetti dal Principio possa convertirsi in un universale ritorno (discesa, prodos, e
conversione, epistrophé). Tutto questo consente infine di spiegare, sconfiggendo le tentazioni dualiste,
la presenza del male nel creato non come una sussistenza reale, ma come una riduzione della
perfezione divina lungo i gradi della derivazione dell’essere.

5. CHRISTIANA ISTITUTIO, LE DUE BIBLIOTECHE: litterae humanae e litterae divinae


Il nuovo programma filosofico-teologico si fonda sul percorso parallelo della comprensione del dato
rivelato da una parte e dello studio dei fenomeni naturali dall’altra. La complementarità di ragione e
fede determina necessarie interconnessioni tra questi due percorsi: una corretta esegesi biblica non
può prescindere dall’osservanza delle regole delle scienze della natura, ma le discipline naturali non
possono non subordinare l’esisto delle loro indagini a un confronto finale con la fede. Gli intellettuali
cristiani devono allineare i documenti della loro sapienza in due distinte biblioteche, rispettivamente
costituite dai testi dei maestri di scienza e filosofia antica e da quelli della Bibbia e dei Padri, per avere
a disposizione una completa documentazione er lo studio della verità. Cassiodoro, all’inizio del VI
secolo articola le sue Institutiones in humanarum e divinarum.

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Agostino progetta una personale esposizione manualistica rimasta incompiuta che testimonia
l’avvenuto fissarsi di sette distinti ambiti di studio: le sette arti dette Liberales, disposte in un ordine
scalare ascendente che consente il passaggio dalla comprensione delle realtà visibili a quella della
realtà invisibile. La prima è la grammatica, che, oltre a definire i fondamenti espressivi della lingua,
evidenzia i fondamenti linguistici che assicurano compiutezza e significanza. Poi viene la Logica, o
dialettica alla quale è affidato un ruolo fondamentale nella formazione scientifica del sapiente. Il
compito della Retorica è infine di insegnare come si induce l’ascoltatore all’adesione o al rifiuto dei
contenuti dell’insegnamento. In quanto scienze della quantità e dei numeri che le designano, le arti del
quadrivio assumono per il medioevo un ruolo che dalla sapienza antica era affidato alla fisica:
descrivere gli elementi dell’ordine cosmico e la loro armonia come attuazioni del modello ideale da cui
derivano. L’aritmetica studia il numero in sé; la geometria indaga il numero esteso nello spazio; la
musica studia il numero in riferimento al tempo; e l’astronomia considera il numero disposto nello
spazio e nel tempo, ossia nel movimento, ma con esclusivo riferimento a quello perfettamente
circolare dei corpi celesti.
Si sviluppa poi nel corso di tutto il medioevo la tecnica della glossa, ossia il commento ragionato che
rende i testi meglio avvicinabili al lettore.

Le arti dunque sostengono e producono la filosofia, e poiché la filosofia è subordinata alla conoscenza
teologica, sostengono la vera philosophia che nasce dalla sintesi di fede e ragione.
Secondo un’idea incontrata nel secondo libro del De docrtina christiana di Agostino e più volte ripetuta
dagli scrittori medievali, i sapienti del passano che hanno “inventato” le arti non le hanno fissate in
base a una convenzione, ma ne hanno riconosciute le regole nella natura (“in natura rerum”) quale
vestigio della superiore razionalità ordinatrice divina. Quale splendida illustrazione di questa
integrazione di filosofia e fede, a partire da Cassiodoro innumerevoli autori medievali suggeriscono
l’identificazione allegorica delle artes con le sette colonne che sostengono il tempio della Sapienza di
Salomone. L’intelligenza umana anticipa e sostiene la verità divina, ma non deve cede alla presunzione
di potersi sostituire a essa. Agostino non si stanca mai di avvertire i suoi lettori che anche quando la
scienza naturale mette l’uomo in condizione di attingere conoscenze necessarie, tutte le sue certezze
scaturiscono sempre da una partecipazione all’intelligenza divina, che si produce o in forma diretta
nell’anima o in forma mediata attraverso la contemplazione della perfezione del creato. Ogni
avvicinamento dell’anima alla natura immutabile della verità è dunque per lui spiegabile come l’effetto
di una illuminazione. Questa fortunata metafora agostiniana della luce divina che si accende nella
conoscenza intrecciandosi con alla teoria pseudo-dionisiana dell’illuminazione come operazione
gerarchica, traspone nella speculazione cristiana la dottrina platonica della reminiscenza,
svincolandola però dalla necessità di ammettere una preesistenza dell’anima rispetto al corpo.
Con la progressiva maturazione della coscienza epistemologica medievale, si assisterà al prendere
forma di un’autentica elaborazione metodologica della conoscenza della fede: una meditazione
normativa su tecniche e procedimenti della riflessione teologica, che prenderà soltanto allora il nome
di theologia.
Nel parallelismo delle due biblioteche sembra dunque concretizzarsi una delle tante forme del
ricorrente dualismo, originariamente platonico anch’esso tipico del cristianesimo medievale dualismo
di spiritualità e fisicità, di anima e corpo, di essere e materia, di Città di Dio e città dell’uomo.

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6. REGULA SERMONIS E LEX PULCHRITUDINIS, DAL MOLTEPLICE ALL’UNITA’

Filastrio di Brescia denuncia come eretici coloro che ritengono che prima della caduta della torre di
Babele tutti gli uomini avrebbero parlato un'unica lingua. Ai tempi di Babele l’umanità era
numerosissima e dispersa sulla terra e non poteva non esserci già stata una variazione e
moltiplicazione dei linguaggi: solo che le parole profetiche della Scrittura impongono di credere che
tutti gli uomini godevano allora della capacità di comprendere tutte le lingue, nonostante le diversità.
La filosofia del linguaggio dei secoli medievali è finalizzata alla ricongiunzione di umano e divino. Non
è ammissibile nel medioevo la traduzione della Bibbia in lingue locali, ma solo le due grandi sfere
linguistiche, greco e latino, hanno dovuto usufruire della circolazione del testo. Questa esigenza di
coesione linguistica si impone poi nei secoli medievali con l’utilizzazione comune del greco e del latino
come linguaggi unici ammessi negli ambiti intellettuali e nelle funzioni istituzionali di ogni ordine e di
ogni grado, determinando in modo evidente anche la fisionomia formali della letteratura filosofica,
scientifica e teologica di questi secoli.
L’intelligenza umana è invitata ad avviare sul piano naturale la ricerca delle comuni radici originarie
da cui deriva e cui rimane allacciata nei secoli la capacità espressiva di tutte le lingue degli uomini. Le
regole delle arti del trivio in particolare, grammaticali, retoriche e logiche sono il riflesso della
legislazione cosmica imposta al creato dal Logos, che è pensiero, Parola e Sapienza di Dio, come leggi
eterne della natura, che pongono la mente dell’uomo a contatto diretto con i principi fondativi del più
intimo accostamento della ragione creata alla verità.
Fra l’ordine cosmico che Dio ha stabilito per l’insieme delle creature, in necessaria dipendenza dalla
piena coerenza organizzativa delle sue perfette volontà ideali, eternamente concepite ne Verbo, e
l’ordine strutturale del linguaggio umano, è dunque compito del filosofo delineare un rapporto
armonico, che vale quale regolamento fondativo di ogni autentico sapere.

Le parole sono per l’uomo medievale i più naturali ed efficaci tra i signa che conducono l’intelligenza
alla comprensione delle verità immutabili. Agostino all’inizio del secondo libro del De Doctrina
christiana dice: “è segno una cosa che, considerata a prescindere dalla superficie corporea con cui si
presenta ai sensi, introduce nel pensiero qualcosa di altro e diverso, da essa stessa suggerito”.
Nella prospettiva teologica cristiana questa definizione si applica in prima istanza ai sacramenti, la cui
realtà materiale è finalizzata a evidenziare per il credente la presenza di realtà spirituali nascoste;
“tutto ciò che proviene da dio parla con Dio”.
Il linguaggio è sempre inteso dalla mentalità medievale come condivisione di qualche conoscenza da
parte di due soggetti intelligenti, che entrano in comunione reciproca fino a fondersi in una unità
spirituale. Parlare è dunque sempre una forma di insegnamento, un docere, che trasmette e consente
di condividere l’apparire della verità: cosicché per la creatura umana ogni suo tentativo di parlare di
Dio, che è sempre un parlare con Dio, equivale ad avviarsi a conoscere il vero, nella misura in cui ciò le
è consentito.
La prima e fondamentale regola del vero linguaggio coincide allora con il rispetto della dottrina di Dio;
l’insegnamento che Dio impartisce agli uomini parlando loro mediante i segni che ha disseminato nella
natura e mediante le parole con cui è scritta la sua Rivelazione.

L’uomo è il signum più significante dell’intero cosmo creato. E poiché, come insegna fin dalle prima
pagine la scrittura, è stato veramente fatto a immagine di Dio, si può dire pienamente che l’uomo sia
signum di Dio.
Ogni creatura è come una parola che rinvia a qualcosa di superiore ed è come un’immagine dipinta che
rappresenta quel qualcosa di eterno e di vero cui corrisponde il suo essere particolare.

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Ma ancora più esplicitamente il criterio fondamentale dell’estetica medievale, che invita a ricercare
l’eterna verità eidetica delle forme divine, perfette e originarie, avviene tramite la contemplazione
delle bellezze particolati.

Mai come nel contesto religioso cristiano la considerazione del bello, nascosto tra le cifre del sistema
del cosmo, è strumento adeguato e indispensabile per volgere l’anima alla contemplazione del Sommo
Vero e Sommo Bene.

La verità e la vita del corpo sono nell’anima, la verità e la vita dell’anima sono in Dio, che le parla
attraverso le vestigia del proprio operare scarse nella creazione, richiamandola dall’esteriorità del
molteplice per ricondurla alle forme eterne e unitarie che interiormente le appagano: “scoprirai così
che tutto quello che tocchi con i sensi corporei non può essere approvato o disapprovato”, ossia
considerato bello o brutto, “ se non avrai recuperato dentro di te quelle eterne leggi della bellezza alle
quali devi sottoporre tutto ciò che di bello tu senti esternamente”.
Nell’Esamerone Ambrogio dice che la vera bellezza è essere, sia nelle singole parti, sia nel tutto, ciò che
si deve essere; solo in questa “decenza”, in questa appartenenza adeguata a un complesso che impone
le proprie regole a tutte le parti che lo compongono, diventa possibile ammirare “nella singolarità delle
parti l’avvenenza misurata e nell’insieme la piena convenienza della forma complessiva.

7. LEX VITAE, DISCIPLINA MORUM: la filosofia pratica del medioevo


Concepita come accordo del singolo con l’ordinata armonia complessiva del cosmo, la giustizia è, nel
panorama culturale fin qui descritto, il criterio ultimo e indispensabile anche per assicurare una
risposta solida e condivisibile ai quesiti che la razionalità pone e affronta sul versante pratico.
Anche la regolamentazione etica e giuridica degli atti umani è quindi affidata, al rispetto di una
regolamentazione universale delle azioni, formalizzata come riflesso dell’ordinamento cosmico di tutte
le res. Cosicché, simmetricamente ai criteri valutativi della scienza e della bellezza nell’ambito
conoscitivo, la differenza tra meriti e demeriti in quello pratico appare misurabile con chiarezza nella
capacità che hanno le azioni di volgere l’anima verso le mete spirituali, le più inalterabili e durature: è
degno e virtuoso ogni atto che ricongiunge le cose visibili a quelle invisibili; è invece immorale e
peccaminosa ogni opera che distoglie l’anima dall’equilibrio e dal retto governo delle realtà spirituali,
sprofondandola nell’indocile incostanza degli stimoli corporei e degli inappagabili desideri terreni. È
evidente quanto anche sotto l’aspetto del sapere pratico, il vangelo si imponga al credente come
risposta risolutiva ed esaudiente a qualsiasi interrogativo; l’intera vita di cristo rappresenta una vera e
propria disciplina etica (disciplina morum).
Anche nella sua elaborazione più matura e complessa la filosofia pratica medievale si pone dunque
costantemente quale strumento al servizio del sapere teologico, indispensabile per confortare il
credente e stabilizzarlo nella sua aspirazione alla cessazione di ogni insaziabile desiderio terreno.
L’eudemonia che gli intellettuali greci ponevano quale criterio ultimo di ogni valutazione pratica, tanto
etica quanto politica, si traduce alla lettera, nel concetto di beatitudo: quella certezza cristiana della
inequivocità della remunerazione finale, in quanto proveniente da Dio, che è principio di ogni verità,
“la vita beata” non può però che diventare inequivocabilmente “eterna”, in modo tale che l’esito finale
dell’impegno morale dei filosofi venga pienamente a coincidere con la risposta certa delle promesse
della fede. Cosicché il bene, fine di ogni disciplina etica, si identifica anch’esso con il principio primo di
ogni realtà, con il vero e con il bello, ossia con l’Uno originario dei filosofi, che la legge primordiale
Verbo divino, rivelandosi nella Scrittura sacra.

La corrispondenza tra l’assolutezza delle norme evangeliche e la specificità particolareggiata di quelle


filosofiche è dunque assicurata dal comune orientamento dei due ordini etici verso l’obbiettivo del
ricongiungimento di ogni molteplicità e diversificazione nell’unitarietà del comportamento di ogni

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singolo essere umano. Le motivazioni particolari si risolvono così in leggi universali, la paura del
giudizio sulle azioni del singolo si placa nell’aspettativa di una comune giustificazione redentiva
universale, la classificazione dei comportamenti individuali si uniforma a un ordine superiore
eternamente prestabilito. Persino la fondamentale regola del conoscere se stesso, si concilia con il
precetto di conoscere ciò che Dio ha voluto per ogni singolo uomo, proprio in quanto creato come
uomo. Ebbene, la legge generale cui ogni uomo è sottoposto “tutto ciò che in noi è più basso deve
obbedire alla ragione, e la ragione a sua volta con diligente sollecitudine, deve obbedire al comando
divino”.
Filippo ritiene che il clero abbia l’imposizione di norme più rigorose di quelle che devono rispettare i
fedeli, in quanto ha il compito di amministrare la grazia e i sacramenti.

Decisivo, in questo progetto di ascensione etica della materia alla piena spiritualità dell’Uno, che deve
volgere al giusto esito, tutte le molteplici aspirazione e finalità dell’agire creaturale, è dunque il ruolo
delle virtù, disposte in una complessa ed esauriente sacralità armonica indispensabile per condurre il
soggetto umano alla realizzazione della propria autentica natura e quindi del compito per il quale è
stato creato.
Agostino esplicita e teorizza la regola della funzione anagogica (espressione di valori e verità
trascendenti tramite figurazioni allegoriche) e ascensionale delle virtù; la prudenza indica uno stato di
solidità etica, la temperanza sottrae l’anima all’amore della bellezza carnale, la fortezza sconfigge la
paura delle avversità e della morte; la giustizia ordina le anime al servizio dell’unico Dio sigillando
l’equilibrio finale tra esse e la purezza degli intelligibili in cui risiedono il bene e la verità.
Fine unico della vicenda umana è, per l’intera tradizione politica ed ecclesiastica medievale, la
coesione di tutte le intenzioni particolari nell’unica aspirazione alla eterna stabilità del Bene sommo.
Conseguentemente, la societas medievale è globalmente avviata al superamento in prospettiva
escatologica del modello dualistico di una città dell’uomo contrapposta per interessi e finalità
all’inalterabile perfezione della città di Dio.
BOEZIO
Boezio ha l’intento di recuperare e ordinare l’intero patrimonio filosofico dell’antichità, esponendone
sistematicamente i contenuti in lingua latina; Boezio traduce e commenta tutte le opere di Platone e
Aristotele, per mostrare, interpretandole nel modo corretto, come il pensiero dei due fondatori della
filosofia classica fosse caratterizzato da una assoluta concordia di fondo.
Egli vuole assicurare al mondo antico, il riferimento certo al possesso inalienabile di un sapere unitario
e certo, che colloca l’uomo in una condizione di assoluto privilegio rispetto a tutti gli esseri creati, in
quanto gli consente di dialogar con la stessa intelligenza divina. Proprio di tale sapientia è
incarnazione la figura femminile che appare a Boezio nel carcere in cui trascorre gli ultimi giorni di
vita.
Le singole scientiae o disciplinae descrivono i diversi percorsi che consentono alla mente di accostarsi
alle verità non apparenti, guidandola dal mondo della mutevolezza a quello delle forme eterne o
essenze prime. Così in particolare le quattro discipline del quadrivio descrivono le maniere in cui tali
essenze si fanno conoscere, secondo le diverse manifestazioni della quantità.

Sono numerosi gli scritti dedicati anche alla Logica; le traduzioni di testi dell’Organon aristotelico e i
relativi commenti. Egli propone una sintesi di dottrine non proveniente soltanto dall’Organon, ma
anche dalla logica stoica e da quella neoplatonica: cosicché l’intera sistematizzazione della disciplina
che egli trasmette ai secoli seguenti si propone come un tessuto unitario sul quale si intrecciano e si
compenetrano tutti gli strumenti formali elaborati da varie scuole e correnti di pensiero dell’antichità
per consentire alla ragione di organizzare e dominare i possibili riflessi delle essenze prime nel

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discorso e nel pensiero dell’uomo. Dai testi matematici emerge invece una considerazione molto più
essenzialista ed esemplarista, di tipo platonico-pitagorico, delle essenze prime.

L’organica ricomposizione degli ambiti del sapere e delle diverse discipline filosofiche presuppone
dunque una teoria dei fondamenti del vero corrispondente a ciò che gli antichi hanno chiamato
metafisica o teologia. La vera comprensione della realtà in sé è sempre per Boezio un atto di
conoscenza di ordine teologico: divina, in quanto eterna e immutabile, è infatti la natura originaria
delle cose, perseguita dall’intera ricerca sapienziale umana nei diversi ambiti della loro manifestazione
alla mente creata.

I dubbi sull’adesione di Boezio al cristianesimo scaturiscono soprattutto dall’assenza nel testo della
Consolatio e delle opere logiche e scientifiche, di riferimenti espliciti alla fede e alla Bibbia. Ma Boezio è
autore anche di cinque Opuscula sacra, brevi tratttati teologici, quattro dei quali sono esplicitamente
dedicati all’interpretazione della dogmatica cristiana.
In Boezio non si tratta di relativismo, ma di comprensione e coordinamento dei distinti gradi
dell’accostamento dell’uomo alla verità.
Boezio differenzia, senza contrapporle, la teologia naturale, cioè la metafisica di Aristotele, dalla fede,
come gradi diversi, distinti ma non contraddittori, della unitaria sapientia, che conduce l’uomo verso la
verità. La chiama precisamente theologia, e la considera scientia: una delle scientiae in cui si divide la
filosofia, costitutiva anch’essa della vera sapientia.

Boezio ricorre inoltre alla dottrina neoplatonica della tripartizione gerarchica delle facoltà della
conoscenza umana: sensibilità, ragione discorsiva, intelletto intuitivo. Per poter cogliere l’oggetto
divino, incommensurabilmente superiore alle sue capacità naturali, la mente umana si sforza dunque
di elevarsi al grado sommo delle sue facoltà conoscitive, tentando di penetrare in una visione intuitiva
e totalizzante dell’essere in sé, più vicina al modo in cui le cose sono conosciute dalla divinità che a
quello in cui esse appaiono nell’ordine della finitezza e della particolarità.
Questo è dunque il fine più alto della vera filosofia, quello che hanno perseguito per tutta la loro vita i
più attendibili tra i suoi cultori, come Socrate, Platone e Aristotele prima di altri cercando di elevare le
loro anime fino a mettere in moto la pura intuitività dell’intellectus, per poi ridiscendere sul piano della
razionalità discorsiva e comunicare il contenuto della propria intuizione del vero alle menti umane
ancora immerse nel tempo e nello spazio. È a queste altezze che Socrate e Platone hanno contemplato
il Sommo bene, è qui che Aristotele ha scoperto che Dio è puro pensiero e che Pitagora ha colto la
perfezione matematica del principio ordinatore del cosmo.
Nelle pagine centrali della Consolatio, la stessa Filosofia insegna a Boezio che tra ratio e intellectus
sussiste una relazione simile a quella che distingue l’essere e il divenire, il centro di un cerchio e la sua
circonferenza, l’eternità e il tempo. E chiarisce che, poiché “tutto ciò che è oggetto di conoscenza viene
conosciuto non secondo la sua natura, ma secondo la natura e le capacità del soggetto conoscente”,
l’innalzarsi della mente umana allo sguardo intuitivo dell’intellectus assomiglia a un tentativo di
assimilarsi alla condizione conoscitiva che è propria di Dio, e dunque alla scienza con cui Egli conosce
le cose.
L’assolutezza del vero, che è uno e medesimo nonostante le diverse prospettive che consentono di
intravederlo, invita il seguace di Filosofia a compiere l’ultimo, coraggioso sforzo, il cui premio è la
conquista della sola autentica felicità, di cui gode in eterno la semplicità delle mente divina.

Ma se è vero che solo Dio possiede pienamente la verità, al di sopra di questo ultimo sforzo filosofico,
che conduce alla felicità nella vita eterna, ma che rimane in questa vita sempre un tendere che non può
avere conclusione, la sapientia può ascendere ancora a un ulteriore grado di perfezione conoscitiva, al
vertice della scala delle scienze, accogliendo per fede i contenuti della Rivelazione cristiana.

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La scrittura mette gratuitamente la ratio umana in condizione di acquisire dalla fonte stessa del vero
contenuti conoscitivi che da sola non sarebbe mai stata in grado di cogliere, e che superano nell’ordine
della veridicità anche le più elevate intuizioni intellettuali. La scienza della fede consisterà dunque
nell’assicurare, con strumenti e tecniche presi in prestito alla logica e alla filosofia naturale, questa
adesione della ragione ai misteri divini in sé incomprensibili, come Boezio scrive alla fine del De
Trinitate, da tutte le “rappresentazioni mentali legate alle condizioni del mondo sensibile” e
inversamente, a tutto ciò che, tra le cose che si credono per fede, “nel modo più adeguato possa essere
accolto come oggetto di intelligenza”.
Così la ragione dianoetica è messa in grado di accertare anche se non può comprenderlo, il fatto che la
predicazione trinitaria in Dio è sì significativa di una relazione, ma tale da non implicare alcuna
molteplicità di soggetti sostanziali.

La congiunzione di umano e divino in un unico soggetto, incomprensibile e impossibile per la logica


razionale, viene qui illuminata da una definizione rigorosa dei termini implicati nella sua formulazione,
natura e persona. Per cui siccome il corretto significato di natura è in questo contesto quello di
“differenza che consente di distinguere una realtà da un'altra dotata di una diversa forma specifica”,
tutti i credenti saranno d’accordo sull’ammissione di due diverse naturae di Cristo. E siccome con
persona i filosofi intendono “una sostanza individuale dotata di propria intelligenza e una propria
specifica volontà”, sarà l’uso di questo termine ad assicurare nella formula cristologica l’unità delle
nature nella reale sussistenza di un unico individuo, a un tempo umano e divino.
IL SESTO SECOLO E GIOVANNI FILOPONO
Nell’area area del Mediterraneo le istituzioni imperiali romane continuano con relativa stabilità a
governare la vita pubblica. Anche la vita culturale di caratterizza entro i confini dell’impero come una
continuazione della tradizione romana tardo-antica.

Di ancora maggiore libertà dai condizionamenti politico religiosi gode la scuola di Alessandria, dove è
meno radicale anche il conservatorismo dei filosofi pagani; sedate le tensioni dei secoli precedenti,
come l’assassinio di Ipazia.
Ad Alessandria studia il maggior pensatore cristiano del secolo VI, Giovanni il Grammatico,
soprannominato Filopono (amante della fatica), autore di molteplici commenti alle opere di Aristotele
e di scritti matematici e teologici. La peculiarità della sintesi speculativa di Filopono è la sua continua
preoccupazione di sottoporre a una corretta reinterpretazione in chiave cristiana l’insegnamento dei
grandi filosofi del passato, e in particolare di Aristotele, ottenuta mediante verifiche razionali delle
loro dottrine, ispirate al loro stesso pensiero e finalizzate a evidenziare l’armonia interna del sistema
cristiano del reale.
Inoltre anticipando in un certo senso la teoria tardo-medievale dell’impetus, Filopono suggerisce di
correggere il meccanismo della fisica aristotelica spiegando il movimento dei proiettili in base a una
relazione causale tra il movente e il mosso che consente di ricondurre ogni moto all’efficienza causale
di Dio. Lo spazio non è un contenitore del corpo ma una sua proprietà, acquisita nel momento stesso
della creazione, cui il corpo tende naturalmente a ritornare per riprendere la posizione originaria
stabilita dalla volontà divina.
L’identificazione del significato di ousia con quello di physis porta Giovanni Filopono a considerare la
natura come un genere universali e conseguentemente ad avvicinarsi alle tesi del monofisismo.

L’UNANIMITAS CAROLINGIA
Con Carlo Magno la rifondazione ufficiale del sistema della Christianitas imperiale, a imitazione del
modello costantiniano, si innesta infine esplicitamente sul programma di realizzazione dell’uniformità
morale e ideale dei sudditi che viene assicurato, più che da qualsiasi altro strumento di persuasione,

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dalla fede nella verità rivelata. Per potersi però tradurre in una reale e sincera subordinazione delle
anime ai fondamenti di un credo comune, tale unanimitas deve essere innanzi tutto di ordine spirituale
e quindi scaturire da un’adesione spontanea e convinta della volontà. Il fondamento di tale adesione
dovrà quindi essere l’educazione culturale e religiosa.
L’imposizione con la violenza della dottrina cristiana è inutile, l’uomo può essere costretto al
battesimo, ma non alla fede. Come afferma Alcuino di York, Carlo dovrà costruire scuole nei paesi
conquistati e inviare sapienti che vi insegnino le arti e la filosofia a pagani ed eretici, per illustrare loro
le parole della Scrittura: solo educando e persuadendo la razionalità che è in ogni uomo sarà possibile
dare vita a un regno terreno veramente cristiano.

La restaurazione dell’impero è dunque strettamente legata al realizzarsi di una rinascita della cultura e
della religione, inizialmente fondata soprattutto sul recupero della tradizione letteraria, scientifico-
filosofica e teologica del passato. Nel presupposto cosciente che tali letture sono sempre finalizzate alla
conoscenza e comprensione della Bibbia, un’importanza anche superiore ed essenziale è attribuita in
questa ricerca al ritrovamento e alla diffusione delle opere dei padri della Chiesa.
Una schola palatina si apre presso la corte itinerante di Carlo, il quale ama circondarsi di maestri che
insegnano e dialogano, anche con lui e con i suoi congiunti, di letteratura, arti liberali, filosofia e
religione.
La forma letteraria del dialogo è spesso quella prescelta per comporre, come fa soprattutto Alcuino
con intenti esplicitamente pedagogici. Lo stesso Carlo Magno, primo studente dell’impero, è spesso
raffigurato in questi dialoghi nei panni di un diligente ma colpo apprendista che interroga il maestro e
reagisce con competenza alle sue sollecitazioni.

Il mondo colto carolingio scaturisce dunque dalla fertile confluenza di molteplici tradizioni; questo
comporta la necessità di pianificare energiche misure di intervento per assicurare la coesione come
l’unificazione linguistica, l’unitarietà grafica e la divulgazione di un comune testo della Bibbia. Cultura
classicheggiante, unità della fede e riforma morale e istituzionale sono insomma gli elementi portanti,
strettamente intrecciati, del rinnovamento della Cristianità occidentale. Si persegue così la coincidenza
del regnum con l’ecclesia, ossia dell’organismo politico romano carolingio con il corpo mistico della
tradizione apostolica. La realizzazione di queste finalità è subordinata al compiersi operante nel
popolo cristiano di una convergenza assoluta di fides e ratio.

GIOVANNI SCOTO ERIUGENA


“Eriugena” ossia nato in irlanda; l’unico dato cronologico certo è quello del suo intervento nella
polemica sulla predestinazione, nel 851. Autore che ha molta familiarità con gli autori di lingua greca
che influenza in maniera determinante il suo pensiero. La formazione erudita di Scoto non trascura il
contributo di una nutrita seire di attente letture delle opere dei Padri latini: Agostino, Ambrogio,
Girolamo, Gregorio Magno e Ilario di Poitiers. Sulla base di questo solido e inconsueto corredo di
conoscenze flosofiche e teologiche Scoto progetta negli anni della maturità la composizione della sua
opera maggiore, il Periphyseon (sulle nature): un lungo e articolato dialogo tra maestro e discepolo in
cinque libri. Il testo dell’opera è infarcito di ampi estratti delle opere dei Padri; l’intero progetto
speculativo in essa racchiuso si risolve in effetti nel tentativo di esplicitare, con gli strumenti a
disposizione dell’intelligenza creata, tutte le diverse manifestazioni della verità che le si fanno incontro
nello studio delle realtà visibili e di quelle invisibili.

L’intero impianto formale dell’opera è in sostanza quello di un grande, minuzioso e fertilissimo


commento delle parole scritturali, cominciando da quelle che aprono la Genesi.

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a) La natura e le sue divisioni


Fin dalle prime righe del Periphyseon, il personaggio del maestro suggerisce l’individuazione di una
sola parola che sia adatta a significare universalmente tutto ciò che è pensabile, ossia tutte le cose che
sono e, insieme, tutte le cose che non sono. Tale termine onnicomprensivo è Natura, il nome di un
genere tale da dover essere accolto come il più esteso che sia pensabile, per cui non è possibile
formularne una definizione. In quanto genere la natura potrà dividersi in più specie (formae) mediante
l’individuazione di adeguate differenze. È allora necessario ricorrere al contributo informativo della
verità che proviene dalla Rivelazione cristiana. Nella Scrittura la ragione trova in effetti un elemento
concettuale che consente di acquisire la comprensione di una differenziabilità logica e reale, e quindi
di una divisione, tra ciò che è divino e ciò che è diverso dal divino: il concetto di creazione. Con
l’introduzione della predicabilità del verbo “creare” all’interno del soggetto “natura” diventa così
possibile avviarne una divisione logicamente corretta.

Una mente colta non ha difficoltà a riconoscere almeno le prime tre delle quattro specie di natura così
individuate: natura che crea e non è creata, cioè Dio; natura creata e che crea; cioè le idee eterne,
modelli e cause primordiali; natura creata che non crea, cioè gli individuo molteplici. Più difficile da
riconoscere e comprendere è invece la verità del quarto livello, dove la natura non è creata e non crea,
la cui necessità logica è però presupposta dal rigore argomentativo della quadripartizione: divina in
quanto increata, tale ultima natura dovrà essere qualcosa di estraneo al tempo creato, e dunque
pensabile come il punto di arrivo dell’intera storia dell’essere e del creare, quando Dio sarà soltanto
Dio, e ogni cosa troverà in Dio la propria verità. Ma un’adeguata comprensione di questo ultimo grado
del reale non è per il momento ancora possibile: soltanto dopo avere a dondo indagato il senso dei tre
momenti precedenti e della loro successione, l’intelligenza umana sarà forse in grado di accostarsi alla
profonda verità del quarto, postulata per ora come necessaria dalla convergenza concorde di
razionalità e rivelazione.
Tale complessità emerge anche dal fatto che fin dalle prime righe del Periphyseon, pirma della stessa,
quadripartizione, Scoto ha introdotto anche un’altra diversa divisione del medesimo concetto di
natura, bipartita in cose che sono e cose che non sono. Scoto presenta così si auna quadripartizione e
sia una bipartizione.
L’intelletto superiore consentito dall’opera della percezione intuitiva dell’altissima verità del concetto
di natura, trasmettendone una formulazione più accessibile, mediante la biartizione di quae snt e quae
non sunt, alla ragione dianoetica, strumento inferiore ma indispensabile anche all’intelletto per
l’esplicazione discorsiva delle sue stesse intuizioni.
b) Conoscibilità e predicabilità di Dio

Il primo libro del Periphyseon è interamente dedicato alla misurazione della conoscibilità della prima
specie di natura, quae creat et non creatur, ossia dell’essere divino in quanto causa incausata, e dinque
princiipio del tutto. Quale principio non derivato da altro, Dio è eterno e immutabile. In Dio non c’è
nulla di accidentale, ma per questo stesso motivo non c’è nella semplicità della sua perfezione neanche
alcun aspetto di conoscibiltà che possa essere inteso come sostanza, perché la mente umana non può
concepire sostanze che non siano sottoposte o sottoponibili all’inerie degli accidenti. Non si può
dunque parlare di Dio come simile ad altro, né come distino o dissimile da altro. È qui palese
l’influenza della teolgoia negativa dello pseudo-Dionigi: Dio è assoluta semplicità e assoluta perfezione,
e, in quanto tale, e profondissima e impescritabile oscurità, proprio in quanto è peinezza di essere. È
quindi impossibile e illecit qualsiasi tentativo da parte dell’intelligenza creata di elaborare una
concetto corrispondente alla verità del divino.
E la scienza degli uomini, quando si è sforzata di parlare di Dio, è riuscita a dire pur sempre qualcosa di
vero: come quando afferma che è causa di tutte le cose e fine ultimo di tutto ciò che è. È dunque
possibile e opportuna, come insegna lo stesso pseudo-Dionigi, l’elaborazione di una teologia

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affermativa, che compensi il divieto di formulare predicazioni significanti su Dio mediante


l’introduzione dei nomi delle perfezioni divine suggeriti dalla Rivelazione o dalla ragione umana, ma
con l’avvertenza che a tutti deve essere attribuita sempre e soltanto una valenza puramente
metaforica e mai propria. Questa necessaria contemperanza dinamica tra teologia affermativa e
negativa viene perfeziionata da Scoto con l’introduzione di una terza forma di predicabilità della verità
di Dio, risultante da una produttiva combinazione delle prime due: una teologia superlativa, che si
realizza predicando di Dio i nomi che ne esprimono le perfezioni correggendoli con l’aggiunta di
prefissi come plusquam o super, che affermano un significato proprio mentre negano possiboli
paragoni o riferimenti alle imperfezioni creaturali. Così è possibile affermare che Dio non è essenza ma
neanche non-essenza, bensì è più che essenza, che è qualcosa in più dell’essere e del non-essere,
persino più che natura, puù che creatore e più che Dio.
Risulta così che in nessuna categoria è possibile collocare parole che esprimano correttamente il
divino, perché da una parte nulla di accidentale può essere in Dio, e dall’altra persino la sostanza e la
relazione non sono predicabili di Dio in modo direttamente affermativo. Questo significa che in Dio
non c’è veramente alcun significato qualitativo, né di azione, np vermente Dio. E poiché la conoscenza
stessa appare in tal modo essere non una perfezione ma una conseguenza dell’imperfezione
creaturale, ci si può spingere fino ad affermare che la perfetta sapienza di Dio non è altro che una non-
conoscenza, cioè una divina ignoranza.

Non c’è nulla cui l’intelligenza umana possa accostarsi adeguatamente senza collocarlo entro
coordinate spazio-temporali. Questo significa che lo spazio e il tempo più che un modo di essere
oggettivo della reltà sono le necessarie condizioni a priori in cui è realizzabile per la mente la
conoscibilità di qualsiasi oggetto. Anche Dio, dunque, per essere in qualche modo pensabile pur nella
sua assoluta indeterminabilità concettuale, deve essere da noi collocato entro parametri spazio
temporali aventi un valore al tempo stesso massimamente affermativo e massimamente negativo:
come quando la Scrittura proclama che Dio è “semper” (cioè né in un tempo determinato, né in nessun
tempo) e “ubique” (né in uno spazio limitato, né in alcuno spazio).
In pieno accordo con i fondamenti della gnoseologia neo-platonica è quindi confermato come i modi
della conoscenza vera siano determinati dalle capacità del soggetto che conosce, costretto ad articolare
la rappresentazione della cosa conosciuta secondo le sue possibilità di recepirla e rappresentarla. E
allora è sempre vero che Dio è Dio, è uno e trino, è creatore, buono, giusto e grande non in sé, ma per
noi che lo conosciamo. La corretta teologia deve sempre guidare la mente in queste sue operazioni,
correggendola e avvertendola de suoi limiti e degli errori in cui potrebbe incorrere, per eccesso di
presunzione realistica.

c) Conoscibilità delle creature: la triade sostanziale

Nessuna res è veramente conoscibile dalla mente umana così come essa è in sé, nella sua profonda
substantia o ousia: la sua realtà può apparire infatti alla nostra mente solo in quanto è circondata alle
apparenze fenomeniche dell’accidentalità categoriale. Nessuna sostanza creata è conoscibile in sé, ma
soltanto attraverso la rete delle relazioni spazio temporali, qualitative, quantitative e così via, che
l’intelligenza conoscente instaura, per conoscerla, tra essa e le altre sostanze. Questo apparire delle res
sotto il velo delle accidentalità è sempre un prodotto dell’interiorità, una phantasia. La verità
sostanziale delle cose in sé sussiste invece veramente soltanto nella mente eterna di Dio, ossia nel
Verbo, che è veramente il “principio” nel quale, Dio fece il cielo e l terra, ossia tutte le cose.
La seconda specie della natura, quae creatur et creat, cui è dedicato il secondo libro del Periphyseon, è
dunque Dio, in quanto pensiero divino creatore, ed è creatura, in quanto le idee (nozioni divine, cause
primordiali) sono l’essere vero, immutabile e antecedente a ogni manifestazione accidentale, ossia la
vera sostanza degli effetti molteplici, individuali e visibili che da esse derivano.

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Rationes (ossia logoi) della mente divina, pur essendo da essa prodotte sono a loro volta creatrici e
produttrici di realtà, in quanto divine e connaturali al Verbo (Logos o Ratio di Dio), persona trinitaria la
cui operazione consiste nel volgersi divino alla progettazione e alla produzione della realtà creata.

In ogni res creata è riconoscibile una perfetta triade di componenti metafisiche, universale vestigio
della manifestazione trinitaria del divino: sostanza (ouisia), potenza (dynamis) e atto (energeia).

La terza specie della natura, quae creatur et non creat, si risolve appunto in questo manifestarsi
imperfetto e frantumato della molteplicità di potenze che diventano atto, dietro cui è nascosta e resta
invisibile la vera sostanzialità originaria delle res. Persino quando di volge a conoscere se stessa, la
creatura umana si trova dinanzi soltanto a imperfette manifestazioni esteriori della propria ousia.
Nella mente di Dio invece tutte le res sono perfettamente colte in nozioni eterne, nella piena armonia
di potenza e atto, ossia nella compiutezza dell’attualità perfetta (entelecheia).
Poiché gli effetti sono il manifestarsi delle cause divine alla mente creaturale, e poiché le cause divine
sono una manifestazione del pensiero divino, Giovanni Scoto può affermare che in assoluto tutto ciò
che è, ed è vero, è una theophania, una manifestazione di Dio: un apparire di ciò che è in sé indivisibile,
un articolarsi nell’imperfetta successione di potenzialità e attualità molteplici della perfetta
sussistenza sostanziale. Ogni phantasia è ingannevole solo in quanto il soggetto la considera come il
manifestarsi di qualcosa di singolo, di separato da Dio e di autosussistente come singola res; mentre è
veramente theophania in quanto è un apparire di Dio in ciò che da Dio è derivato. Dunque si può dire
che ogni cosa è Dio. Solo nel divino ogni articolazione di molteplicità e diversità è risolta in uno,
mentre le creature sono tali in quanto perpetuano la scissione tra l’essere potenziale e quello attuale.

d) Creazione e processio: l’Esamerone eriugeniano


La storia dell’opera divina è per Giovanni Scoto un doppio processo, di discesa (processio) delle cause
agli effetti e di ritorno (reditus) dalla molteplicità all’originaria causalità divina. Il terzo libro del
Periphyseon è dedicato alla descrizione del processio, incorniciato in un ampio commento ai sei giorni
della creazione secondo la narrazione della Genesi: un Esamerone, che l’Eriugena affronta con grande
dispiegamento di raffinate conoscenze scientifiche, fisiologiche e astronomiche.
Così nel primo giorno la creazione della luce allude alla discesa delle cause negli effetti; mentre la
presentazione dell’antropologia eriugeniana, introdotta dall’esegesi del sesto giorno, è denominata
dalla concezione dell’uomo come creatura centrale del cosmo, fine dell’opera divina, verso il quale
tutta la realtà creata tende e nel quale tutta è compresa e risolta: vero centro (medietas) del cosmo e
laboratorio metafisico dell’universo (officina mundi) in cui si compendiano tutte le vite creaturali.
L’uomo è veramente immagine di Dio, in quanto la sua intelligenza è modellata sull’archetipo del
Verbo. Mentre però in Dio le creature sono colte nella perfezione ideale della loro entelecheia, la
conoscenza umana è solo un’immagine potenziale di quella divina: l’imago Dei che l’uomo, con la
creazione, riceve il compito di portare ad atto, realizzando la similitudo con Dio, che segnerà il
definitivo convergere della conoscenza umana in quella divina.

e) Il peccato originale e l’interruzione del processo creativo


Con la collocazione di Adamo nel paradiso terrestre la Scrittura racconta simbolicamente tale
attribuzione all’uomo del compito centrale a lui spettante nell’economia della creazione: risalire a Dio
dal mondo per raggiungere in Lui la perfetta conoscenza del mondo e aspirare così alla conoscenza di
Dio medesimo.
Il compimento di tale percorso era possibile soltanto come esito di una autonoma scelta della volontà
creaturale, così voluta da Dio proprio perché liberamente scegliesse di amarlo: il peccato originale,
raccontato nelle pagine della Genesi alla cui esegesi è dedicato il quarto libro del Periphyseon,

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interrompe e arresta il progetto divino, deviando l’uomo, e con esso tutta la creazione che in lui si
riassume, dal percorso che lo doveva condurre alla realizzazione della similitudo Dei, ossia della
propria entelecheia.

Giovanni Scoto forgia qui una suggestiva interpretazione allegorica dal racconto biblico del peccato dei
progenitori, che ne illustra la natura di tragica interruzione del processo che li doveva portare alla
capacità di conoscere in Dio la verità di tutte le cose, Adamo è simbolo dell’intellectus, inviato da Dio a
contemplare la verità del creato dietro la promessa di poter gustare i frutti dell’albero della Vita, che è
il Verbo stesso, nel quale sussistono le sostanze ideali eterne. Ma Eva, che rappresenta la conoscenza
inferiore di lascia contagiare e trascinare dalle apparenze fantastiche della sensualità, di cui è simbolo
il serpente, che la invita a cogliere il frutto dell’albero della Scienze del bene e del male: un frutto
proibito da Dio perché rappresenta la confusione conoscitiva che è all’origine dell’imperfetta scientia
naturale degli uomini, continuamente in cerca di distinzioni tra la verità e la falsità.

Adamo ed Eva si accorgono di essere nudi perché spigliati della verità che li proteggeva, come una
monda tunica, dalle nefandezze dell’errore. Dio li ricopre di abiti fatti di pelli, ossia del corpo sensibile,
che assoggetta ormai le facoltà superiore della conoscenza.
Il serpente è maledetto da Dio perché il predominio della sensualità irrazionale sull’anima non fa parte
dell’ordine della natura: striscerà dunque, la passione sensuale, nutrendosi di appetiti terreni, ma solo
fino a quando verrà ristabilito l’ordine della conoscenza e il suo capo sarà schiacciato dal piede della
donna.
Fino ad allora Eva dovrà partorire con dolore e fatica le conoscenze particolari (i suoi figli, o
“conceptus”, come recita il latino della Genesi, alludendo ai “concetti” delle scienze particolari
faticosamente elaborati dall’indagine dialettica). E Adamo dovrà lavorare la terra, che, come si è visto,
significa l’ousia, la vera sostanza delle cose, coperta dalle spine delle apparenze conoscitive che non
consentono più all’intelletto di accostarsi alla verità delle essenze primordiali.

f) La redenzione del peccato e il reditus


L’incarnazione di Cristo è la via, la sola possibile, che consente il riavvicinamento tra la creazione
allontanatasi da Dio e il Verbo in cui continuiamo a risiedere le sue radici di primordiale verità; in
quanto si incarna in uomo, officina mundi, il Verbo riassume in sé non solo l’intero genere umano, ma
l’intero creato.
Proprio perché tale conclusione comporta il ritorno all’autentico ordine della conoscenza, la formula
che alludeva nell’esordio del Periphyseon a tale condizione di superamento delle coordinate
gnoseologiche creaturali non poteva che esprimersi in una forma logicamente negativa: la natura quae
nec creatur nec creat, alla cui complessa trattazione è dedicato il quinto libro dell’opera. La quarta
specie di natura, che si realizzerà alla fine dei tempi, non sarà infatti creata, perché l’intero universo
delle cose visibili e non visibili fatte da Dio (universitas condita) sarà tornato alle cause primordiali che
sono in Dio stesso, e nulla sarà ulteriormente creato; e non sarà creante, perché sarà contenuta nella
propria pienezza, e Dio sarà “tutto in tutte le cose”: la creazione avrà allora raggiunto il proprio fine in
una unione definitiva, ma non sterile bensì dinamica e appagante per tutta l’eternità, di finito e infinito
Grazie alla discesa di Cristo nella creazione, avvenuta per risanare la frattura del peccato e riaprire la
possibilità della beatitudine per tutti gli uomini, l’umanità potrà ripercorrere in senso inverso i gradi
della discesa che l’hanno allontanato da Dio.
Nella vittoria finale della natura sulla dispersione e sulla lontananza da Dio, anche la sostanza dei
peccatori sarà redenta, e coloro che continueranno a rifiutare l’universale concessione della grazia, se
ve ne saranno, verranno puniti non nella loro ousia ma nella loro libera volontà, che continuerà a
ostinarsi nella limitatezza e nell’imperfezione dell’individualità, mentre tutto il cosmo parteciperà
della visione beatificante di Dio in tutte le cose.

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In un armonico concerto di diverse forme di remunerazione, la visione beatificante sarà distribuita in


gradi diversi, a seconda della maggiore o minore compiutezza cui saranno giunte le capacità potenziali
di ciascuno. Così tutti saranno avvolti dal trionfo della luce divina nel sabato eterno che concluderà la
storia della creazione.
Al di là dunque del reditus generalis, comune perfezionamento di tutte le capacità naturali, Giovanni
Scoto prevede per alcuni privilegiati lo sposalizio mistico con il Verbo: nel solo reditus specialis dei
pochi prescelti, che avranno pienamente meritato la partecipazione diretta all’unione di umanità e
divinità che tornerà a realizzare nell’eterno la condizione storica del Cristo incarnato, sarà possibile
contemplare Dio in Dio stesso. E come il Verbo è divenuto effettivamente uomo nella storia, così questi
veri seguaci di Cristo diventeranno effettivamente Dio nell’eternità: e partecipi degli effetti della sua
inhumanatio realizzeranno in se stessi la finale deificatio.

g) Oltre la teologia
Giovanni Scoto ha offerto elementi utili per chiarificare il ruolo e le finalità dell’elevatissimo sapere
con cui l’uomo si sforza, equilibrando fede e razionalità, di anticipare con la comprensione teologica
attuale i contenuti della visione beatificata futura: un Commentarius incompiuto al Vangelo di Giovanni
e un commento al primo trattato dello pseudo-Dionigi. Quest’ultima opera illustra le diverse possibili
gradazioni della conoscenza creaturale del divino, che è necessariamente imperfetta e quindi sempre
di tipo teofanico. Nella condizione attuale, dopo il peccato originale, lo strumento teofanico essenziale
che consente all’uomo di avere una corretta conoscenza della realtà divina è la lectio scritturale. A un
primo, più basso livello, la parola divina si esprime affissandosi ai significati naturali del linguaggio,
comprendibile e analizzabile, con il supporto delle scienze filosofiche, della ratio dianoetica.
Ma la scrittura si esprime anche in modo alogico e artificioso come un soprannaturale arte poetica
capace di sollevare le menti create al di sopra dell’immediatezza del significato letterale: espressioni
simboliche, parabole, allusioni anagogiche, talvolta persino immagini teratologiche, elevano
l’intelligenza del credente verso altezze spirituali più dense e mistiche, che il linguaggio umano non è
in grado di significare direttamente. Infine al di sopra della stessa fruizione del testo rivelato, scritto
con le parole degli uomini, si colloca la comprensione del divino riservata alle intelligenze angeliche,
che colgono intuitivamente la verità. A tale massima perfezione conoscitiva naturale l’uomo riesce a
congiungersi solo episodicamente, quando con l’esercizio costante delle facoltà inferiori è in grado di
elevarsi fino alle capacità intuitiva e unificante del puro intellectus. Questa è la conoscenza che nel
Periphyseon è promessa ai beati che parteciperanno del comune reditus generalis.
In un caso unico in tutta la storia del cosmo, eccezionalmente e gratuitamente per suprema
concessione divina ad una mente creata è stato possibile elevarsi fino alla visione con Dio, ovvero
Giovanni l’evangelista.
IL CONFINE TRA ARTI LIBERALI E TEOLOGIA
Si sviluppa in questi anni in Italia settentrionale una fertile tradizione di studi giuridici e retorici; in
questo contesto cominciano ad apparire le prime forme di rivendicazione di autonomia da parte dei
maestri delle arti liberali dalla esclusiva funzione propedeutica al perfezionamento della conoscenza
teologica.
Tra i più vivaci rappresentanti c’è Anselmo di Besate che stila un manifesto sull’autonomia pratica
delle discipline umane. Negli stessi anni, in Franci, anche Adalberone è un cultore delle arti liberali che
testimonia la necessità di operare precise delimitazione delle aree di competenza di ciascun sapere.
Tali arti ricondotte entro i limiti delle loro effettive competenze possono mettersi al servizio della
conoscenza teologica, ma nel totale rispetto della verità, assoluta e superiore, dei dogmi.

Altro autore significativo per questo argomento è Notkero di Labeone che testimonia nelle sue pagine
il maturarsi di una pur primitiva coscienza epistemologica, che lo porta a definire non soltanto

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l’estensione ma anche i limiti delle capacità regolative del pensiero e del linguaggio umano. In una sua
glossa egli distingue la filosofia in tre scienze, ovvero fisica, etica e teologia; mentre i cultori delle
prime due si servono della razionalità discorsiva e argomentativa, i theologi, che indagano non le
creature ma le realtà divine, non necessitano del supporto delle dimostrazioni logiche e si fondano
semmai solo sulla superiore efficacia intuitiva che è propria delle più alte aperture sovrarazionali
dell’animo umano.
LA DISPUTA SULL’EUCARESTIA: Berengario di Tours e Lanfranco di Pavia

Maestro di arti liberali a Tours, cuore del tradizionalismo filosofico carolingio, Berengario prende le
mosse dal più genuino realismo delle essenze (ossia gli universali o idee divine), per affermare la
necessità di un’interpretazione simbolico-spiritualista dell’eucarestia: nel mondo della corporeità
nessuna trasformazione è possibile senza una divenire della sostanza; è indispensabile negare che nel
mistero avvenga una trasformazione sostanziale e assestarsi sul più radicale spiritualismo eucaristico.
La presenza reale del corpo, e del sangue di Cristo è dunque la più vera e la più reale possibile per un
filosofo platonizzante: quella dell’essenza eterna, invisibile e immutabile, che è l’autentica res
sacralmente di cui pane e vino, dopo la celebrazione, sono sacrum signum, simbolo sacro.
Berengario si era però reso colpevole con la presunzione di dare sostanza alle essenze pensate
dall’intelletto, che dovrebbe invece soltanto limitarsi a indagarle e conoscerle. Berengario ritrovò nella
biblioteca di Tours un manoscritto contenente il De corpore et sanguine Domini di Ratramno di Corbie,
che aveva goduto fino a quel momento di assai scarsa diffusione, ma che egli credette, forse per un
errore di intestazione, opera di Giovanni Scoto; pensò cos’ di diffonderlo, fondando sull’autorità del più
grande pensatore del recente passato carolingio la propria difesa dello spiritualismo eucaristico. Ebbe
inizio da questo momento una lunga serie di prese di posizioni polemiche sia contro Berengario, sia
contro il presunto “Giovanni Scoto”.
Berengario fu condannato a più riprese; fu costretto a rinnegare la propria dottrina e professare
formalmente la verità di formule eucaristiche di forte impostazione realista.
Incautamente coinvolto nella polemica dallo stesso Berengario fu Lanfranco di Pavia che si accanì
contro quella che egli considerava una inescusabile alterazione della verità del sacramento; egli preferì
scendere direttamente sul piano stesso dell’avversario, quello dell’analisi dialettica del testo della
rivelazione, per mostrare, sulla base di raffinate competenze scientifico-logiche, quale possa e debba
essere il reale contributo delle arti liberali e del sapere filosofico alla chiarificazione della fede. Il
resoconto della contrapposizione diretta tra i due resta affidato alle loro due opere più importanti
sull’argomento, il De corpore et sanguine Domini di Lanfranco e il Rescriptum contra Lanfrannum di
Berengario.

Convinto che non solo i padri della Chiesa, ma persino san paolo sia stato un abile conoscitore della
dialettica, Lanfranco rimprovera Berengario per avere prima cercato di indagare con la pura
razionalità quale possa essere la natura del sacramento e poi avere imposto i risultati di tale indagine
alla Rivelazione. In questo modo egli ha invertito la corretta relazione tra ragione e fede: il mistero è
tale proprio perché non è conciliabile con le aspettative della scienza umana, dunque l’atto del credere
deve essere libero da ogni preconcetto logico e filosofico. Successivamente al nascere e allo
stabilizzarsi della fede nel credente, però, diviene non solo legittimo, ma essenziale il ricorso agli
strumenti della razionalità, per descrivere con esattezza e coerenza non come sia possibile ciò che il
dogma enuncia, ma cosa effettivamente significhi tale suo enunciato.
Una volta restaurato il corretto ordine vigente tra la dialettica e le fede, Lanfranco può passare al
momento costruttivo della sua requisitoria, e mettere in campo una sottile abilità dimostrativa al fine
di chiarire in modo definitivo e inequivocabile cosa accade quando il pane e il vino, come assicura la
fede, diventano corpo e sangue.

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Il miracolo consiste in un’alterazione della realtà naturale; normalmente secondo le leggi del mondo
sensibile, tale alterazione avviene mediante un variare degli aspetti accidentali della cosa, mentre la
sua sostanza, che rimane in sé invisibile perché i sensi percepiscono soltanto gli accidenti, non muta.
Con queste premesse, ma sulla base dell’accettazione preliminare del dato di fede che enuncia una
deroga incomprensibile alle leggi di natura, Lanfranco può concludere che, per un potere superiore a
tutti quelli naturali introdotto dalla grazia sacralmente, nell’eucarestia mutano miracolosamente le
sostanze del pane e del vino mentre le loro apparenze accidentali permangono e restano visibili d0opo
l’avvenuta trasformazione sostanziale. La dottrina così formulata da Lanfranco fu approvata in forma
definitiva, e sarebbe stata poi ripresa da Tommaso D’Aquino con la precisazione del concetto di
transustanziazione.

PIER DAMIANI
La presunzione di poter determinare con le regole delle arti liberali la presenza e l’efficacia del divino
nell’ordine del creato è combattuta, a vantaggio di un’adesione spassionata alla dimensione
autenticamente religiosa, da Pier Damiani, che è anche stato uno tra i più decisi promotori della
correzione morale del clero negli anni che precedettero il pontificato di Gregorio VII.
La sua produzione letteraria è assai vasta: un Vita Romulandi, molti sermoni, composizioni poetiche e
numerosi trattati su tematiche inerenti alla dogmatica, all’ecclesiologia e all’esegesi. Tutta l’esistenza
di Pier Damiani è una testimonianza di come per lui la santità sia un obbiettivo che il monaco deve
perseguire sempre durante tutta la sua vita terrena senza mai poterla considerare acquisita.

Tale percorso di conoscenza deve essere subordinato esclusivamente alla fede, che deve pervadere
tutta l’anima del credente senza cedere a compromessi con le ambizioni conoscitive della scienza
umana. Il monaco che pratica le arti si rende impuro come colui che si accosta a una donna non
purificata dal sangue mestruale, così recita nel De perfectione monachorum. E chi indulge al desiderio
di conoscere ciò che non è alla sua portata ricordi che la caduta di Adamo ed Eva fu causata dall’invito
del serpente a conoscere il bene e il male. Così ammonisce l’esordio dell’opuscolo significativamente
intitolato De sancta simplicitate scientiae inflanti anteponenda: le ragioni della scienza gonfia d’orgolio
non dovranno mai prevalere sulla simplicitas della fede; le arti devono tacere dinanzi al disvelarsi del
divino, che p sempre al di sopra della loro portata.
Soltanto rivestendosi della pura stoltezza del credere, la sancta simplicitas salva chi si affida a essa,
accettando senza discutere le formule e le nozioni imposte dall’autorità della Scrittura e dei Padri e
della continuità della tradizione liturgica. La pretesa di far dipendere la fede dalla ragione è il principio
insanabile dell’errore.
Nonostante ciò Pier Damiani è un sottile conoscitore di quelle stesse arti liberali di cui contesta e
reprime l’abuso, e in particolare della dialettica. Tale arte serve a definire in modo rigoroso i limiti
della conoscenza umana, secondo quella che è la sua fondamentale e quasi ossessiva preoccupazione
teologica. Il suo più importante contributo in questo senso è anche il suo testo più noto è il trattato De
divina omnipotentia. La necessità di combattere la tentazione di porre domande ed esprimere giudizi
sulla pretesa ragionevolezza dell’incomprensibile verità divina viene qui evidenziata per contrasto
portando fino alle più esasperate conseguenze l’atteggiamento peccaminoso della ingiustificata
curiositas intellettuale.
A seguito di una discussione tenutasi con l’abate Desiderio a riguardo di un’iperbolica espressione di
Girolamo (Dio non potrebbe restaurare la purezza in una vergine caduta) Pier Damiani dice che Dio
precede ontologicamente la creazione e il tempo, e il suo operare è esterno a qualsiasi determinazione
temporale e modale. E la compresenza nella sua volontà di aspetti contraddittori è impossibile solo per
la nostra logica che ha il compito di denunciare come falso ciò che non può sussistere nelle cose create,

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ma non nella natura superiore che le ha prodotte. Dovere della logica umana è infatti di giudicare in
quale modo sia vero o possibile ciò che Dio vuole che sia vero o possibile. Per questo è corretto
affermare che l’unico limite ammissibile per l’onnipotenza divina sia volere il male: perché, se Dio
volesse il male, l’oggetto di questa sua volontà sarebbe inevitabilmente il bene. E allo stesso modo, Dio
può l’impossibile, perché egli stesso, ed egli soltanto ha stabilito ciò che è impossibile: ma se egli lo
volesse, allora l’impossibile diventerebbe, anche per la nostra logica, possibile.
La dialettica umana non è affatto commisurabile allo sguardo divino, e alle verità che esso contempla.
Le nostre domande sono semplicemente sbagliate, non adeguatamente formulate o niente affatto
formulabili. Con questa radicale conclusione, la constatazione dell’impossibilità di commisurarsi con
l’onnipotenza divina diventa per l’intelletto umano un vero e proprio principio regolativo del suo
funzionamento: un criterio della vera conoscenza, scientifica e teologica, che impone di considerare la
costruzione dell’ordo verborum come un percorso mai esaurito di avvicinamento dalla creatura
all’oggettiva ma sempre superiore e irraggiungibile verità dell’ordo rerum o dell’ordo idearum che ne è
causa.

ROSCELLINO DI COMPIEGNE: i moderni contro gli antichi


La demolizione del platonismo come fondamento speculativo del sapere filosofico e teologico giunge
alle sue estreme conseguenze con Roscellino di Compiegne; sostenitore di un radicale nominalismo sul
versante della questione relativa alla natura degli universali e di un’empia considerazione della
dottrina trinitaria che lo portava, secondo le critiche rivoltegli, ad ammettere un pericoloso triteismo.
Le più importanti notizie a nostra disposizione vengono dagli scritti dei suoi avversari; delle sue opere
sopravvive soltanto un’Epistola ad Abelardo, in cui difende la propria lettura del dogma della Trinità.

Questo negativismo logico portava insomma secondo Abelardo a una “insana” deontologizzazione
dell’intera scienza umana, ossia all’impossibilità di attribuire al pensiero la capacità di corrispondere
oggettivamente alla realtà, riducendo ogni forma di sapere a una organizzazione puramente pratica, in
quanto convenzionale e arbitraria, dei dati provenienti dall’esperienza.
La cattiva concezione della dialettica porterebbe dunque Roscellino al triteismo, secondo Anselmo
sarebbe un “eretico della dialettica”, e per Abelardo un “falso cristiano” proprio in quanto falso
maestro di logica. Roscellino ha affidato alla stesura della sua Epistola la propria giustificazione;
Rilanciando sugli avversari le accuse di empietà e rivendicando invece la propria ortodossia di
interprete della verità cristiana, egli assicura di essere stato riconosciuto in tutto il mondo quale
maestro stimato e difensore della fede. Egli insiste sulla sincera armonizzabilità della sua dottrina
trinitaria con i contenuti della Rivelazione, proclamando anzi che la sua è la sola lettura del mistero
che consente di evitare di concludere che il padre e lo Spirito Santo si siano incarnati e abbiano patito
con il Figlio sulla croce.
Nell’Epistola de Incarnatio verbi Anselmo completava la propria requisitoria nei confronti di Roscellino
accusandolo esplicitamente di appartenere alla categoria dei dialectici moderni, che introducono gravi
errori nella comprensione della verità della fede in quanto non capiscono che è opportuno ammettere
in Dio, come anche nella realtà naturale, una distinzione tra le proprietà degli individui e le proprietà
della sostanza comune.
La militanza di Roscellino tra i moderni lo accosta dunque sotto più aspetti alla posizione asistematica
e anti-platonica dei riformisti radicali come Pier Damiani, impegnato sul fronte del rinnovamento
morale come su quello della liberazione della teologia dagli schematismi dialettici dei filosofi.

Questo suo allineamento con i teologi moderni della precedente generazione si armonizza d’altronde
perfettamente con la sua difesa di una concezione puramente strumentale e vocale della logica,
contrapposta alla dottrina tradizionale platonico-agostiniana, ripresa e consolidata dai maestri del

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classicismo altomedievale, secondo cui gli insegnamenti delle arti liberali non sono un artificio della
mente umana ma il riflesso intellettuale di un ordine necessario imposto da Dio all’interno del creato.

I moderni riconducono invece la scienza umana a una pura funzione di registrazione ordinata di ciò
che non è comprensibile per il tramite dell’esperienza: per questo “non credono”, come ribadisce
Anselmo, “se non a ciò che possono comprendere per mezzo di indagini sensibili”.

La “via” degli antichi (impostazione speculativa e metodologica) fonda la possibilità stessa della
collaborazione di ragione e fede sul presupposto del vincolo tra verità logica e verità ontologica,
stabilito da Dio creando l’universo; la “via” dei moderni inversamente orienta alla difesa dell’integrità
della fede dalle prevaricazioni del pan-logismo platonizzante e a un dissolvimento incondizionato delle
corrispondenze oggettive tra nomina e res.
Roscellino non è stato un avventato razionalista che pretendeva di imporre le regole delle arti alla
verità di fede. Al contrario, appare evidente come egli sia stato un teologo radicale, avverso a ogni
contaminazione di ragione e fede, dotato però di una profonda competenza professionale nel campo
delle arti liberali in generale e della dialettica in particolare, che erano oggetto del suo insegnamento.
Proprio da questa sua seria preparazione scientifica egli traeva infatti la convinzione che le regole
delle scienze umane abbiano un valore sempre e soltanto relativo e una funzione puramente
strumentale per orientare gli uomini in una realtà fisica dinamica e libera, fatta di indivisibili
singolarità ed effetto dell’infinità e indagabile causalità divina: una natura rerum non controllabile
mediante gli schemi organizzativi e deduttivi dell’intelligenza, ma fonte continua di stimoli per
un’osservazione scientifica empirico-deduttiva.
Roscellino è dunque un maestro di arti liberali ma anche l’intransigente difensor fidei ; come in Pier
Damiani, l’affermazione assoluta della divina onnipotenza è dunque anche per lui il solo principio che
consente di spiegare i misteri della fede. Appare così evidente che Roscellino non è mai stato
sostenitore e predicatore di un effettivo triteismo o di altre erronee e sovversive novità teologiche:
affermando che la ragione umana non può rappresentarsi la realtà del divino se non come la
giustapposizione di tre res; egli ha voluto sottolineare l’incapacità di esprimere un giudizio
sull’ineffabilità dei misteri teologici, se non con il ricorso a spiegazioni dottrinali la cui funzionalità è
puramente strumentale e relativa, in quanto esplicativa di qualcosa che comunque supera e trascende
tutte le limitazioni connaturali al linguaggio umano.
Roscellino ha poi accettato di ritrattare le proprie formule trinitarie perché consapevole della labile
convenzionalità della terminologia umana, quanto mai evidente soprattutto in ambito teologico, è stata
per lui un motivo più che sufficiente per mostrarsi disponibile a mutare linguaggio dottrinale e non
arroccarsi, nelle questioni religiose, sulla correttezza di una parola o sulla sua univoca corrispondenza
a un concetto.

ANSELMO D’AOSTA
Anselmo nasce ad Aosta verso il 1033; entra a Bec nel 1059 per studiare con il famoso Lanfranco.

Il famoso trattato di Anselmo conduceva un’indagine sulla natura di Dio, dalla sua eternità e
spiritualità e dalla creazione alla stessa trinità della persona. Anselmo proclamava di fanno un rispetto
assolto della verità della Rivelazione, ma lo svolgimento del suo intero discorso su Dio era affidato
all’esercizio di una razionalità pura, autonoma da ogni presupposto e condizionamento esterno (“sola
ratione”). E anche se questo metodo conduceva a esiti sempre concordanti con i contenuti della
catechesi cristiana, l’autonomia con cui l’intelligenza umana pretendeva di averli raggiunti non poteva
non apparire come un preoccupante riemergere della temerarietà di chi reclamava il diritto di
elaborare con le leggi della dialettica una completa ricostruzione mentale della realtà, pretendendo
che fosse in tutto e per tutto a immagine dell’ordine cosmico eternamente fissato da Dio.

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Anselmo replicò immediatamente che nessuna sua affermazione poteva essere interpretata come un
tentativo di sminuire la superiorità e l’anteriorità della fede e dell’auctoritas scritturale e patristica su
tutti i percorsi e tutti gli esiti dell’intelligenza naturale.

Lanfranco non ordinò la distruzione dell’opuscolo anselmiano, ma allo scopo di evitare


fraintendimenti sul concetto di ratio fidei, Anselmo ne dovette soltanto mutare il titolo in Monologion,
ossia con un neologismo ellenizzante, “riflessione” o “meditazione interiore”; e un suo secondo
opuscolo, che Anselmo aveva originariamente intitolato La fede in cerca di intelligenza, diventò
Proslogion, “colloquio” dell’anima con Dio.

Più che la pretesa di assoggettare i misteri della fede al giudizio della razionalità, l’arcivescovo di
Canterbury deve aver dunque riconosciuto la sincerità del progetto anselmiano di condurre la mente a
una sistemazione logica delle verità teologiche senza farla dipendere dalla fede, e tuttavia
presupponendo la verità della fede.
a) La verità come rectitudo dell’intelligenza alla fede
Nel loro insieme i suoi trattati costituiscono un organico tentativo di dare concretezza al progetto di
indagine teologica annunciato fin dai primi due opuscoli. Anselmo ha l’aspirazione fondamentale di far
emergere la profonda necessità logica degli enunciati della fede. È vero per Anselmo tutto ciò che gode
di una rectitudo formale, ossia che è esattamente nel modo in cui è “retto” che sia, in riferimento alla
volontà divina in cui ogni cosa trova il proprio principio. Il “vero” uomo è colui che è uomo nel modo in
cui Dio ha stabilito che sia; un termine o una proposizione sono veri quando esprimono correttamente
l’accordo tra il pensiero e la res corrispondente. Con questo fondamentale e fondante presupposto
speculativo, Anselmo mostra di essere un perfetto discepolo della concezione platonizzante e
agostiniana della verità dell’intelligere come riflesso dell’ordine cosmico voluto da Dio fin dall’inizio
della creazione: le arti liberali in generale, e la dialettica in particolare hanno il compito di garantire
all’intelligenza umana, che rispetta le loro regole, la coerenza e la correttezza della sa ricostruzione
della verità, che è tale perché Dio ha volto che fosse. La dialettica è dunque per Anselmo la scienza
della rectitudo delle cose conosciute, in quanto garantisce l’assoluta corrispondenza tra la res,
l’intellectus, ossia il pensiero interiore che la rappresenta, e la vox, la parola o l’espressione che la
denota nella comunicazione linguistica o scritta. Il progetto teologico anselmiano, iniziato con la
composizione del Monologion consiste nel perseguire fino in fondo il tentativo dell’intelligenza umana
di parlare di Dio.
La ragione umana è però limitara, e agisce sempre all’interno di un sistema di conoscenze finito.
Questo spiega per quale motico la ragione creata nel momento stesso in cui si interroga sulla realtà di
Dio, vagando all’iinterno di un sistema di conoscenza che è per se essa infinito, deve subordinarsi a
quella altissima verità che soltanto Dio conosce, ma che Dio stesso ha messo a sua disposizione con l
dono della Rivelazione. Credo ut intelligam, il credere è anteriore alla ragione, la verità della
Rivelazione è anteriore alla verità della filosofia; una volta compiuto l’atto di fede la ragione è in
condizione di poter riconoscere la rectitudo dei suoi percorsi argomentativi su Dio, per uesto
l’intelligenza può ora anche operare dimostrazioni puramente dialettiche, a partire dalla fede e in
accordo con la fede, ma senza utilizzare la fede come strumento, o principio, o supporto delle
dimostrazioni stesse, dunque intelligo ut credam.

Perciò all’inizio del Proslogion Anselmo si rivolge a Dio come “colui che concede l’intelligenza alla
fede”, perché l’intelligere non sarebbe possibile se non fosse preceduto dalla fede. Soltant perché Dio lo
concede l’uomo può accogliere il vero; il metodo anselmiano della sola ratio consiste dunque nel
procede nella comprensione dei contenuti della fede mettendo la fede tra parentesi, per aggiungere
alla fede una conoscenza che è qualcosa in più ma sempre complementare rispetto a ciò che la fede
afferma.
b) Il Monologion, modello di meditazione sulla verità di Dio

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La comprensione della rectitudo della parola “Deus” è l’obbiettivo comune dei due opuscoli che aprono
l’elenco degli scritti anselmiani. Con linguaggio filosofico moderno potremmo dire che si parla di un
procedimento “a priori”, in quanto l’intero sviluppo argomentativo del Monologion prende le mosse
dalla nozione del divino come è recepibile dalla mente, per dimostrare quanto sia necessario
ammettere l’esistenza di ciò che in essa è significato.
Anselmo mostra come la rectitudo della nozione corrispondente all’esistenza di Dio consiste nel suo
essere supremo oggetto del nostro desiderio. In tutte le cose che desideriamo noi non desideriamo le
cose stesse ma il loro essere buone. Dunque desideriamo ciò che le fa essere buone, e questo è il bene;
se lo cerchiamo nelle cose è perché esso esiste, e ci fa riconoscere che tutte le cose sono
imperfettamente buone, mentre esso soltanto è il bene più grande: ovvero il bene in sé, che esiste
proprio perché fa essere buone le cose e le fa desiderare in quanto tali. Il supremo bene, conoscibile
perché esiste e non ha bisogno di altro per essere desiderato, è Dio.

Con una seconda ricerca della rectitudo fra le cose finite e conoscibili Anselmo ci dice che conosciamo
in ogni cosa qualcosa che fa essere grandi le cose, e questo qualcosa non è conoscibile come grande
perché è qualcosa lo fa essere grande, ma è la grandezza in sé. Il sommo grande non è altro che il
sommo bene che necessariamente esiste perché f essere grande tutto ciò che conosciamo come
grande, e dunque è Dio. È evidente in queste due prime argomentazioni l’impostazione platonica del
procedimento.
Le argomentazioni del Monologion non scaturiscono dunque da una catena di passaggi causativi che
risalgono dall’esistenza di ciò che è certo a ciò che è necessario: l’intelligenza teologica anselmiana
parte invece dalla conoscibilità del finito per capire che tale conoscibilità non sarebbe possibile se non
scaturisse dalla certezza di una superiore verità, perfetta e pienamente determinata nel suo
corrispondere in tutto e per tutto a ciò che essa è e deve essere.

Sia nella qualità che nella quantità la mente è ascesa dalla predicazione per aliud, ossia dalla
predicazione di una qualità riconoscibile come tale per il riferimento a una qualità superiore e di una
quantità riconoscibile come tale per il riferimento a una quantità superiore, alla predicazione per se,
quella della qualità in sé e quella della quantità in sé, tale perché coincidono con la sostanza divina, con
Dio per se ipsum.
La terza argomentazione si sviluppa allora indagando la categoria della relazione; ogni cosa conosciuta
dalla mente è qualcosa che è. L’essere è predicabile come tale o perché qualcosa lo fa essere o perché
nulla lo fa essere. Ma ciò che non è in relazione a qualcosa che è, sarebbe l’essere in sé; il principio
dell’essere di tutte le cose che sono, che esiste proprio perché è per se, si dice vis existendi, mentre
tutte le cose che sono in relazione all’essere in sé si dice per aliud.
La quarta argomentazione parte dall’osservazione che nella natura delle cose molteplici è possibile
apprezzare diversi gradi di dignità, e che ogni volta che la mente giudica le cose articola il suo giudizio
tra i diversi livelli di una gerarchia logica di dignità o perfezione. Se alla fine di questa gerarchia di
perfezioni per aliud non ci fosse come limite qualcosa la cui perfezione è superiore a tutte le altre
perché la perfezione pe se, la serie di perfezioni non sarebbe pensabile, perché nulla consentirebbe di
orientarre la relazione dalle perfezioni inferiori a quelle superiori e non in senso inverso. Esiste
dunque un grado massimo di perfezione, una natura superiore a tutte le altre la cui perfezione è la
perfezione per se, ed è Dio.

Mentre si negheranno di Dio tutti quegli attributi che esprimono al meglio la finitudine delle creature
in quanto le definiscono come tali dovranno essere invece predicati alla massimo potenza quelli che
esprimono una perfezione nelle creature rinviandola a qualcosa di superiore.

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Anselmo approfondisce la propria comprensione della realtà di Dio con ulteriori argomentazioni
deduttive che valgono tutte come altrettante esplicitazioni necessarie della ratio che poco a poco si va
evidenziando in tutte le affermazioni della fides. Dio è ingenerato, perché il suo esistere non può
dipendere, per aliud, da una causa preesistente. Egli è eterno e onnipresente, perché non può essere
subordinato a una misurazione spazio-temporale, che è sempre una valutazione relativa; e poiché tutte
le cose che sono, sono in quanto hanno l’essere da Dio, ogni causalità, materiale e formale, scaturisce
da Dio: che però non è in sé materia e forma perché non è corruttibile né molteplice, ed è dunque
autore di tutta la materia e di tutte le forme, ossia è il creatore del tutto. Ed è questa nella storia della
teologia cristiana la prima dimostrazione rigorosamente razionale della necesità della creatio ex nihilo.
La creazione ex nihilo è infatti qualcosa di incomprensibile e contraddittorio per l’intelligenza umana,
perché ogni parola che significa qualcosa deve corrispondere a qualcosa che è: se dunque tutto viene
dal nulla anche il nihil deve essere qualcosa, e questo vuol dire che le cose erano in qualcosa prima di
essere qualcosa. Ma prima delle cose non c’era che Dio, dunque le cose erano in Dio, ma non erano Dio.
Allora prima di esistere le cose erano necessariamente pensiero divino, ossia erano Logos, la mente
eterna che ne proteggeva l’esistenza. Il verbo è la locutio, la Parola con ci Dio dice se stesso e le cose
che crea: in quanto tale è generato dal Padre. Ma il generato e il generante non sono in un rapporto di
alterità o di subordinazione, perché sono uniti da un amore identico da entrambe le parti: tale Amor è
dunque una cosa sola con la sostanza divina, ed è esso stesso Dio, ed è lo spirito Santo che procede dl
Padre e dal Figlio.

c) Il Proslogion, dalla fede all’intelligenza della verità di Dio

La composizione del Proslogion è alimentata dal successivo emergere in Anselmo dell’aspirazione a


ricondurre la conoscenza del divino all’efficacia di un solo atto di pensiero, che sia unitario e
immediato, e che non richieda di essere ulteriormente compenetrato e consolidato da altri percorsi
argomentativi, come accade invece in modo naturale alle quattro dimostrazioni sull’esistenza di dio
nel Monologion.
È così emerso nella sua mente il progetto di un unum argumentum, un argomento unico e
autosufficiente, “che non necessiti di essere collegato ad altri elementi dimostrativi all’infuori di se
stesso per essere provato e che sia dunque sufficiente da solo ad ammettere che Dio veramente esiste”.
La parola latina argumentum rinvia direttamente alla nozione tecnica di topos, che corrisponde nei
trattati di dialettica a quei “luoghi” intuitivi della mente la cui percezione consente il disvelamento
persuasivo e intuitivo di una verità generale.
Un episodio della vita di Anselmo che lo vede protagonista della difficoltosa espressione dei suoi
pensieri dimostra con efficacia la condizione di intuitività noetica in cui la comprensione
dell’argomentum si genera antecedente alla traduzione discorsiva con cui esso diventa argumentatio.
Il significato del nome di Dio gli viene suggerito esclusivamente e chiarissimamente dalla fede; la
formulazione anselmiana dell’argumentum parte dalla riflessione su una nozione che non è e non
potrebbe essere l’esisto di un’invenzione umana, non dipende da informazione proveniente
dall’esperienza, non è il prodotto di un’astrazione concettuale, ma viene comunicata dall’espressione
della verità della fede. Questo vuol dire che solo colui che crede può essere in grado di escogitare

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l’argomento, che è tuttavia un argomento razionale avente un’efficacia dimostrativa propria a


prescindere dalla fede.

La formula fides quarens intellectum conferma che soltanto la fede suggerisce alla mente quale sia
l’oggetto che essa dovrà ricercare nel suo “dialogo” con Dio. L’ispirata preghiera o esortazione della
mente e contemplare Dio con cui si apre l’opuscolo esprime un’appassionata meditazione sulle
condizioni dell’intelligenza umana posta in relazione con le verità della fede, in cui l’anima, invitata a
entrare nel silenzio della propria intimità, può rivolgersi al suo Creatore che concede l’intelligenza alla
fede.

L’intero argomento si risolve nella semplicità dell’atto di pensiero con cui si comprende la sua
premessa, l’identità tra Deus e aliquid quo maius cogitari nequit: il che equivale a comprendere con
l’intelletto, con un atto unico e diretto, il significato stesso della parola “Deus”, ossia la sua rectitudo.
Tale affermazione della coincidenza della pensabilità di Deus con quella del quo maius è una perfetta
espressione di teologia negativa, che impone di escludere che in Dio possa non essere presente una
qualsiasi perfezione, oppure che una qualsiasi perfezione sia posseduta da Dio in grado inferiore
rispetto ad altri esseri che la possiedono.
L’intuizione del significato di tale espressione (”Dio è ciò di cui non è possibile che sia pensato niente
di maggiore”) implica in se stessa anche il riconoscimento della sua esistenza: perché se Dio non
esistesse, non sarebbe ciò di cui non è possibile che sia pensato niente di maggiore, in quanto sarebbe
comunque pensabile qualcosa avente tutte le perfezioni riconosciute in Deus più la perfezione
dell’esistere. E ciò di cui non è possibile che sia pensato niente di maggiore sarebbe qualcosa di cui è
stato pensato qualcosa di maggiore, il che è contraddittorio, quindi impossibile. Dunque non solo
nell’intelletto, ma anche nella realtà Dio esiste.
Mentre nel Monologion la mente percorreva più vie affermative per dire cosa è Dio, qui ha
rapidamente imboccato il vertice della via negativa, per riconoscere che Dio, se è veramente Dio, non
può non esistere. Uno dei migliori interpreti dell’argomentum anselmiano è stato Bonaventura di
bagnoregio, quando ha riformulato in maniera ancora più immediata il pensiero del Prologion: “ se Dio
è Dio, Dio esiste”.

L’insipiens che continua ad affermare “Deus non est” può farlo soltanto perché è un non-sapiens: non è
o non è soltanto un non credente, ma un non sapiente, un uomo non-razionale che non comprende il
significato delle parole che pronuncia e non conosce le regole della dialettica che lo sostengono e lo
confermano.

La critica di Gaunilone illustra il fatto che l’avere qualcosa in intellecto non ne implica necessariamente
l’esistenza in re, Egli introduce l’esempio di una leggendaria isola perduta, piena di tutte le perfezioni,
che la mente può rappresentarsi con un concetto chiarissimo ed efficace senza che questo la obblighi
ad ammetterne l’esistenza.
Per Anselmo è evidente che Gaunilone non ha capito il suo invito a risalire con la formulazione del quo
maius a una delle più elevate verità intuitive cui possa pervenire l’intelligenza umana, la cui
comprensione comporta insieme la verità e la necessaria realtà di ciò che esse esprimono.
Soltanto il quo maius è qualcosa la cui necessaria esistenza è rivelata dal fatto che non potrebbe essere
pensato nulla di più perfetto: perché l’esistenza è implicata necessariamente dalla sua stessa
pensabilità come quo maius, che se non fosse realmente esistente non potrebbe neanche essere
pensato.

Il disconoscimento della verità è possibile in una mente non informata dalla Rivelazione, come quella
dell’insipiens. Gaunilone invece è cristiano e dovrebbe in quanto tale ammettere l’esistenza di un
ordine logico della realtà, pensato e voluto da Dio nel suo Verbo e messo a disposizione
dell’intelligenza umana per conoscerlo, indagarlo e ricostruirlo.

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Passando a replicare punto per punto alle osservazioni di Gaunilone, Anselmo si dilunga ad
argomentare una serie di articolare e concatenate argumentationes, in forma sillogistica, obbligando
l’avversario all’ammissione di conclusioni che conducono tutte all’inevitabile impossibilità di unire una
proposizione di senso compiuto il soggetto “Deus” con il predicato “non est”.
d) Il sistema della verità cristiana

Le opere della maturità speculativa anselmiana sono ordinatamente finalizzate a un’analisi concettuale
dei principali temi della fede successivi al riconoscimento dell’esistenza di Dio e alla prima
determinazione dei suoi fondamentali attributi naturali.
Se il pensiero con cui Dio conosce se stesso e il creato non può che essere un unico e totalizzante atto
di vera conoscenza, il tentativo umano di elaborarne una rappresentazione comprensibile con il
concorso di fede e intelligenza conduce inevitabilmente a una esposizione organiza, fatta di diversi
elementi e momenti, ma adeguata alla fonte da cui emana e dunque necessariamente unitaria e
armonica in tutte le sue parti.
Il rispetto delle norme della scienza rende il pensiero umano e il linguaggio che lo esprime carapaci di
godere di una rectitudo sufficiente nei confronti degli oggetti naturali finiti. La fede garantisce
l’estensione di questa capacità nei confronti di tutto ciò che Dio ha stabilito che debba essere vero e
necessario e che l’uomo debba conoscere in quanto tale, compresi dunque tutti i misteri rivelati.

Anselmo ha combattuto il nominalismo di Roscellino; il suo errore non sarebbe diverso da quello
commesso da Gaunilone quando si è rifiutato di riconoscere la realtà oggettiva di ciò che è significato
secondo verità dal pensiero umano. Se tutte le formulazioni logico linguistiche vere fossero soltanto
convenzionali e pratiche, e non denotassero altra realtà se non quella degli individui corporei
conosciuti attraverso l’esperienza, allora i pensieri umani e le parole non potrebbero essere mai dotati
di rectitudo, ossia di corrispondere al modo di essere vero e immutabile delle idee divine e della realtà
che esse governano. Non sarebbe quindi possibile all’uomo avere scienza di alcuna cosa e della natura
divina, ossia dei modi di essere del Creatore.
Anselmo ha invece cercato di difendere la capacità umana di esprimere verità eterne e immutabili
mediante una corretta organizzazione del linguaggio.
La ragione umana deve utilizzare nei propri percorsi argomentativi sempre e soltanto elementi
logicamente determinati, la cui rectitudo sia stata verificata da precedenti passaggi mentali e che siano
così divenuti un corretto riflesso della verità eterna, dei corrispondenti significativi nel pensiero di
Dio. Anselmo evoca e insegue tali principi eterni della verità che designa con il nome di necessariae
rationes: rationes perché determinano la verità delle cose rinviando a quella immutabile delle loro
cause nel Verbo; necessariae perché la determinano nel modo necessario ed eterno stabilito da Dio con
la creazione.
L’acquisizione sistematica della verità teologica consiste nel reperimento, dopo l’esistenza di Dio, di
ulteriori e a essa collegate necessariae rationes che assicurino la corrispondenza oggettiva del pensiero
umano con la eterna volontà divina del Verbo. In sostanza la metafisica anselmiana si risolve nel
tentativo di far corrispondere il nostro pensiero su Dio a ciò che Dio è nel suo Pensiero.
Anselmo dimostra che il male non esiste perché non è pensabile, e che non è dato reperire nel Verbo
divino alcuna necessaria ratio della sua realtà; qualcosa di cui si può sempre pensare qualcosa di
migliore o maggiore è priva di rectitudono, nel senso che a essa non può corrispondere alcuna realtà
voluta da Dio. Si tratta dunque solo della negazione del positivo corrispondente. Dio non è causa del
male.
Il peccato è l’attuarsi della non rectitudo di qualcosa, l0essere in modo diverso da come Dio vuole che
sia: una necessaria ratio fissata da Dio per le creature intelligenti vuole che esse siano dotate di libertà,

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condizione fondamentale perché possano essere felici come conseguenza di una volontaria adesione
all’ordine divino.

Dio non ha perciò necessitato la libertà delle creature, ma ha imposto che la loro libera scelta portasse
quale conseguenza il bene, o l’assenza di bene: la libertà è la possibilità di realizzare o no,
volontariamente, le perfezioni previste dalle necessariae rationes delle creature razionali. La libertà è
la possibilità di mantenere la rettitudine della volontà determinata solo dalla volontà della rettitudine,
e non da altro movente.

e) Il Cur Deus homo, dalla fede all’intelligenza del mysterium di Cristo


Anche Dio è libero, di una libertà che è causa di se medesima, in quanto è in Lui naturale. Anselmo si
chiede quali siano state le ragioni di Dio e quale sia stata la sua libertà nell’attuare la redenzione del
genere umano; tratta di questo argomento nel Cur Deus homo (perché Dio si è fatto uomo). Il metodo è
anche qui quello delle prime opere; egli si propone di evidenziare le rationes del mistero centrale della
Cristianità sulla base di una pura indagine mentale, mettendo tra parentesi la verità conosciuta per
fede, nonostante proprio da tale credere l’indagine scaturisce.
L’uomo si è allontanato da Dio per una libera scelta della sua volontà con la quale non ha realizzato la
rectitudo. Era però necessario che fosse chiesto perdono, e che fosse stato fatto da qualcuno che
partecipasse della natura contaminata dal peccato, e dunque da un uomo. Ma al tempo stesso nessun
uomo avrebbe mai potuto ottenere il perdono per una colpa liberamente commessa da una volontà
opposta a quella divina. Soltanto un uomo che fosse anche Dio poteva impetrare il perdono per
l’umanità. E poiché ciò era possibile, ed era bene, non poteva non essere voluto da Dio, e dunque
l’incarnazione di Cristo è stata necessaria, la scelta dell’incarnazione del proprio Figlio per redimere
l’umanità è stata assolutamente libera da parte di Dio: perché la vera libertà di Dio è la realizzazione
necessaria della sua volontà.

f) Verità, necessità e preghiera: la fede come esperienza conoscitiva


La moltiplicazione delle argomentazioni razionali consente di sottolineare in modo ancor più chiaro
quanto sia inadeguato trasportare in Dio ogni affermazione teologica di necessità o possibilità o
impossibilità, perché tali modalità sono invece esclusivamente relative al modo di agire imperfetto e in
sé non efficace delle creature. Anselmo si sofferma perciò sulla opportuna precisazione di quale sia il
loro significato nella condizione dell’agire creaturale; e distingue tra due forme e due diversi significati
del concetto di necessità: una necessitas praecedens, che è quella della causa che fa essere
inevitabilmente una cosa; e una necessitas sequens, che è quella dell’effetto che segue inevitabilmente
una causa.
La necessitas praecedens comporta sempre una necessitas sequens; viceversa la necessitas sequens non
è sempre inevitabile e determinata da una necessitas praecedens.
La necessità argomentativa della dialettica è allora rispetto alla verità della fede soltanto una
necessitas sequens, mentre la verità oggettiva delle res create e volute da Dio secondo le sue
necessariae rationes vale rispetto alla verità della dialettica come una necessitas praecedens.

E allora non è la dialettica che rende necessaria la fede, ma è la verità oggettiva del reale, che la fede
enuncia e che è eternamente pensata e voluta dal Logos, che rende necessaria la verità conquistata
dalla dialettica.

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PIETRO ABELARDO

Nato verso il 1079 in Bretagna; giunge nel 1095 a Parigi dopo aver viaggiato in varie scuole per
apprendere la dialettica.
Quando pubblica la prima versione del Tractatus de unitate et de trinitare divina, Abelardo inizia a
divulgarlo con il nome più generico di Theologia, “discorso su Dio”. Abelardo carica però questo
termine di un nuovo significato, unendolo all’aggettivo christiana. In questo modo il termine entra
definitivamente nella storia del pensiero occidentale per designare invece la comprensione
intellettuale della verità rivelata da Dio ai suoi profeti, conservata nel dettato dei libri sacri e
tramandata dalla tradizione ecclesiastica.
Con implicito riferimento a una compiuta convergenza di intelligere e credere, il sintagma Christiana
Theologia evidenzia la specificità di una conoscenza di Dio, che per essere veramente tale viene
fondata su una partecipazione dell’intelligenza creaturale, tramite la Rivelazione di Cristo, alla vera
conoscenza che ha Dio di se medesimo e della sua creazione.
Con questa concezione, Abelardo si allinea ai principi gnoseologici del neoplatonismo, contribuendo
alla loro introduzione e diffusione nel pensiero religioso del dodicesimo secolo. Poiché infatti non è la
conoscenza ad adeguarsi alla natura dell’oggetto, ma è l’oggetto che si fa conoscere in modi diversi a
misura delle diverse facoltà conoscitive messe in atto dal soggetto conoscente, la teologia cristiana può
nascere dall’illuminazione con cui Dio consente all’uomo di ascendere alla sua visione della verità in
questa vita in modo ancora imperfetto e nella beatitudine in proporzione ai meriti di ciascun
individuo.

È dunque evidente che per Abelardo la conoscenza del Sommo Bene perseguita durante la vita terrena
dai filosofi con gli strumenti della loro dottrina naturale potrà condurli a una comprensione soltanto
creaturale del divino, non per questo falsa, ma non ancora vera perché realizzata da una mente in sé
incapace di cogliere la natura ultima dell’oggetto.
Per Abelardo l’impegno dell’indagine dialettica è quello di indagare il significato e i contenuti della
sacra lectio, nell’intento di avvicinare l’intelligenza creaturale a quella divina. La ratio dialettica potrà
così condurre a un’ancora più motivata adesione alla Rivelazione, generando una fides più solida e più
radicata.
Abelardo ritiene inoltre di poter estendere la dialettica alla guida della ricerca umana di un intellectus
fidei; meglio ancora, è la stessa ricerca filosofica sul vero che, nel suo insieme, deve essere intesa come
argumentum fidei, un’attività di ordine razionale finalizzata in primo luogo a generare e favorire
l’assenso dell’intelligenza alla fede e poi a sostenerla, svilupparla e difenderla.
a) Gli universali e la verità del conoscere

Abelardo entra il conflitto critico con il maestro Guglielmo di Champeaux; La questione è alimentata
dalle discussioni sulla dialettica e sugli universali. Il testo principale di dialettica letto nel Medioevo è
l’Isagoge di Porfirio che pone all’inizio dell’opera tre fondamentali domande che sono evidentemente
non di ordine logico, ma metafisico, dalle quali scaturisce l’intera problematica sull’argomento: gli
universali esistono, e quindi sono realtà? Se esistono, sono separati dagli individui? Se sono separati,
sono conoscibili a prescindere dagli individui? È allora chiaro come dalla risposta a queste tre
domande dipendano per Abelardo la giustificazione e la possibilità stessa dell’intero sapere scientifico
umano: non ultima della stessa scienza teologica.
Abelardo critica il nominalismo moderno, ma comprende anche come l’esagerato realismo di
Guglielmo di Champeaux presti il fianco alle critiche di antropomorfismo e riduzione dell’universo a
immagine della mente umana. Ancorato al platonismo teologico, Guglielmo proponeva di considerare
l’universale come il sostrato ontologico degli individui, e dunque come una sostanza reale: una res di

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ordine spirituale. La critica di Abelardo punta direttamente sull’insostenibilità del realismo dal punto
di vista logico. Una res non può essere predicata di altre res, ossia la fisica, ha bisogno di presupporre e
utilizzare le regole della dialettica per determinare il modo in cui il linguaggio esprime la verità dei
predicati che informano sull’essere delle res. Queste regole e questi predicati sono gli universali logici,
che dunque non sono res. Tuttavia hanno torno i nominalisti quando negano che la dialettica sia
scienza di qualcosa del reale: perché se è scientia veritatia e non semplicemente scientia vocum essa
deve necessariamente fondare le proprie asserzioni sulla realtà di qualcosa, e più precisamente di
qualcosa che non muta, che non nasce e non muore, e che è reale in modo permanente. A conferma di
ciò Abelardo aggiunge una quarta domanda alle tre di Porfirio: l’universale continuerebbe a essere
reale anche se non esistessero più le rose? La risposta è affermativa, perché sarebbe sempre vera
l’asserzione “non ci sono più rose”. Dunque l’universale è reale, ma non come sono reali gli individui, le
res, ossia con il connotato dell’esistenza particolare.
La veritas è per lui sempre l’esito di una relazione che si produce tra un soggetto conoscente e un
oggetto conosciuto. Ma proprio questa è allora la risposta corretta alle domande sulla realtà degli
universali. L’universale è la realtà di tale relazione quando essa è vera: quando cioè l’intellectus, l’atto
con cui l’intelligenza riconosce un modo di essere della cosa, corrisponde effettivamente e pienamente
allo status, alla condizione in cui esteriormente la res si trova. La logica è dunque per Abelardo scientia
intellctum, ossia conoscenza rigorosa che consente di cogliere con il pensiero nelle res, e di esprimere
con voces a esse corrispondenti, la formae.

La verità ultima degli universali è allora, anche per Abelardo come per Agostino, Boezio e Anselmo,
quella delle idee divine, modelli reali di tutta la creazione eternamente sussistenti nel Verbo e
riprodotte dall’intelligenza creaturale con l’elaborazione dei propri oggettivi intellectus delle res
create.

b) Veri logici e veri philosophi


La tragica storia dell’amore per Eloisa ferocemente punito con la mutilazione della virilità colpevole di
Abelardo, si svolge proprio negli anni di maturazione del suo pensiero teologico e condiziona
pesantemente l’evoluzione della sua carriera: Spinto dal dolore e dalla vergogna ad abbracciare la vita
monastica, Abelardo sembra inutilmente mendicare la pace tra le continue opposizioni e persecuzioni
che suscitano i suoi scritti e l’inutile tentativo di trovare una collocazione definitiva, in una sede
monastica a lui adeguata, fino alla fondazione della scuola spirituale della Santissima Trinità, da lui
stesso ribattezzata il Paracleto, che avrebbe poi accolto nell’ala femminile anche Eloisa.
Sullo sfondo di questi drammi personali colpisce la lucidità con cui il Maestro traspone dal piano logico
a quello teologico la propria concezione della conoscenza umana della verità; un’ansiosa ricerca delle
condizioni che rendono possibile la conoscenza umana della verità e la costruzione disciplinata del
linguaggio teologico, sola via di consolazione per la drammaticità dell’esistenza e strumento adeguato
per esaudire l’aspirazione insopprimibile dell’uomo a rivolgere a Dio le proprie più intime preghiere.
La legittimazione della pretesa creaturale di parlare di Dio e di parlare con Dio discende in effetti
proprio dalla scienza della logica. È una certezza limpidamente espressa nel prologo al primo libro
della Dialettica.

Se la logica, replica Abelardo, è una scientia, allora ha a che fare con la veritas, non meno della stessa
fede: anche la fede è produttrice di scienza, perché consente di conoscere la verità. E due verità non
potranno mai essere contraddittorie, come non possono esserlo due scientiae, se sono entrambe
veridiche.

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Abelardo è stato anche il primo autore dell’Occidente cristiano ad avere esplicitamente teorizzato una
giustificazione speculativa sull’etica. Egli è stato il primo ad aver sentito l’esigenza di fissare
nell’interiorità della coscienza umana principi che assicurino l’adesione non soltanto formale, ma
sostanziale alla legge di Cristo. Non a caso, ha imposto all’opera il titolo di Ethica ovvero Scito teipsum,
“conosci te stesso”: poiché peccare per l’uomo significa porre in se stesso il fine delle sue azioni
anziché in Dio, è fondamentale per evitare il peccato conoscere la bontà della legge divina e orientare
nel modo giusto la propria disposizione nei confronti di essa.
I veri logici sono sempre veramente filosofi e veramente teologi, e anzi i veri logici e veri philosphi
sono i veri Christiani, seguaci del Logos sul cui ordinamento e sulla cui verità si fonda la logica, e
amanti della vera Sophia, che è la Sapienza divina, ossia Cristo.

Nell’opera Sic et non Abelardo raccoglie una serie di Sententiae scelte e accostate in modo tale da
evidenziare palesi casi di contraddizione tra le tesi dei Padri su un medesimo argomento teologico.
L’intento dell’autore non è tuttavia dissacrante, in quanto scopo diretto di tale confronto non è
disorientare il lettore, quanto invitare la sua intelligenza a farsi promotrice di un superamento
metodico del contrasto, elevandosi su un piano superiore, dove la molteplicità delle opinioni dovrà
risolversi nell’indubitabile unitarietà del vero.
c) La logica della trinità
La razionalità scientifica viene così legittimamente introdotta all’interno della meditazione teologica.
Soltanto una coerente regolamentazione del pensiero e delle sue procedure può consentire un
accostamento dell’intelligenza umana a quella che è forse la più alta e complessa fra le immagini
utilizzate dalla lectio scritturale per parlare agli uomini di Dio.

Abelardo accosta la visione di Dio dei filosofi, come unità di potenza, sapienza e bontà, a quella dei
profeti, come unità di padre, figlio e spirito santo. In questa teoria i censori di Abelardo vedono l’eresia
di subordinazionismo e modalismo; eppure proprio per aggirare questi pericoli la teologia abelardiana
chiarisce che le determinazioni trinitarie non sono indicative di “relazioni” ma di proprietà della
sostanza. Potenza, sapienza e bontà sono tre voces distinte, il cui significato non è comprensibile a
prescindere dal contesto semantico cui appartengono, e tale contesto è quello dell’unica sostanza.
Abelardo chiarisce che ciascuna di esse corrisponde a un diverso status dell’unica sostanza divina: e
quindi da una parte ciascuna di esse ha una definizione propria, dall’altra ciascuna ne esprime
compiutamente l’unitaria realtà.
Abelardo ha spostato la valenza del problema dal piano della logica del termine al piano della logica
proposizionale: qui infatti è possibile verificare la correttezza di affermazioni come “ciò che è il Padre è
il Figlio”. Tale nuova contestualizzazione semantica del problema trinitario consente ora di operare
nello sesso modo anche parlando delle tre proprietà divine intuite dai filosofi antichi; tali proprietà
sono infatti sono predicati della sostanza e non delle persone divine, esse corrispondono dunque a tre
diversi status della sostanza divina.
Abelardo escogita una nuova immagine atta a esprimere in forma traslata il dogma trinitario,
evidenziandone la compatibilità delle due soluzioni. È la metafora del sigillo di bronzo, nel quale la
mente riconosce la presenza di tre diversi status o modi di essere, ossia l’essere bronzo, l’essere
capace di sigillare e l’essere sigillo in atto, ed elabora tre diversi intellectus a essi corrispondenti che le
consentono una migliore comprensione.

LA SCUOLA DI SAN VITTORE


La scuola di San Vittore, fondata nel 1108 da Gugliemo di Champeaux, attua un approfondimento degli
studi filosofici e teologici in una comunità caratterizzata da uno stile di vita intermedio tra canonico e

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regolare, ma aperto, a differenza delle tradizionali scuole monastiche, anche a un pubblico


ecclesiastico esterno.

Ugo di San Vittore, allievo e primo successore di Guglielmo, nella sua raccolta Sententiae de divinitate,
enuncia la certezza che i grandi pensatori dell’antichità abbiano potuto percepire con la sola
razionalità la verità del mistero trinitario.

La conoscenza è per questo autore un processo continuo, che proprio per essere tale deve rispondere a
una legge di gradazione: non si può accedere ai piani più alti se non salendo da quelli più bassi che li
preparano e che in essi si inverano, e dei quali la vita contemplativa è l’esito finale. Bisogna
apprendere tutto perché nulla è superfluo.
L’insegnamento di Ugo è stato apprezzato molto per la completa e sistematica pedagogia del sapere. La
nascita della philosophia si innesta sul dipanarsi di un duplice processo storico: di perdita del sapere
iniziato con la caduta di Adamo.
Per ricongiungersi con la dimensione originaria, Dio ha dotato l’uomo della filosofia, che mette in atto i
rimedi necessari per i mali. Il primo rimedio è insegnato dalla filosofia teoretica, ovvero arte di
conoscenza del vero; poi c’è l’esercizio della virtù per il conseguimento del bene, ovvero filosofia
pratica; poi viene il reperimento di strumenti pratici contro l’infermità della natura umana, ovvero
della mechanica; e infine la logica, che assicura la metodologia corretta a tutte le acquisizioni umane di
conoscenza, naturale e rivelata, e il cui studio si colloca quindi alla base della preparazione del
sapiente.

Ma significativo è soprattutto l’orientamento ascensivo di tutta questa sistemazione del sapere, che
pone sempre le discipline inferiori al servizio delle finalità più alte della conoscenza, a conferma della
considerazione, delle scienze profane come propedeutiche alla comprensione della verità divina.
L’attuazione del passaggio conoscitivo può essere avviata solo dalla parte più alta della filosofia
teoretica, ossia la teologia naturale o “mondana”. Dalla theologia mundana si ascende così a quella
divina con un preciso mutamento di procedimenti conoscitivi.
“La fede è necessaria per vedere le cose che non si vedono”. La teologia naturale può anticipare la fede,
grazie alla partecipazione all’illuminazione divina, che secondo Ugo si attua quando l’uomo contempla
la propria somiglianza con le cose superiori, mentre nella conoscenza del mondo sensibile si serve
della propria somiglianza con le realtà corporali. Posto così al punto mediano tra spirito e materia,
l’uomo è il principale sacramentum, la prima manifestazione del divino. La prima forma della
conoscenza teologica naturale è dunque l’autocoscienza o cognitio sui.
Colta in questa stretta relazione di dipendenza ontologica dall’originaria causalità divina, la creazione
appare a Ugo come una realtà organica in continuo perfezionamento, che il Creatore conduce dal chaos
originario all’ordine compiuto mediante la presenza operante continua dello spirito santo tra le cose
finite.
La theologia divina appare nei testi di Ugo anche come sinonimo di divina scriptura, in quanto si risolve
nella comprensione di ciò che Dio fa conoscere di se stesso nella Bibbia, e in particolare la dispensatio
della sua opera efficace nell’orientamento della storia della salvezza. Questo ruolo primario
dell’esegesi come elemento costitutivo del sapere teologico giustifica il fatto che la lectio biblica sia
stata un esercizio fondamentale nel progetto di studio di tutti i maestri della scuola di San Vittore.

La produzione spirituale, teologica e filosofica di Ugo esercita un’influenza significativa nella seconda
metà del secolo XII. La comprensione storico-letterale è al centro della vasta opera esegetica
dell’inglese Andrea di San Vittore che si è confrontato anche con la tradizione interpretativa vetero-
testamentaria delle scuole rabbiniche, fino all’introduzione di proposte esegetiche innovative. Andrea

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giustifica queste sue scelte in base alla convinzione dell’opportunità di accettare molteplici soluzioni
esegetiche, anche relative all’unico piano di lettura del senso storico-letterale: per esempio, accanto a
quelle immediatamente cronachistiche, possono essere accolte anche interpretazioni di ordine
naturalistico-scientifico. Tale metodo consente per altro di superare l’eventuale disparità tra distinte
letture reperibili negli scritti dei Padri della Chiesa, che possono essere tutte accolte e composte in
unità, purché non siano mai in contraddizione con gli insegnamenti fondamentali della fede.
Partendo anch’egli dall’esegesi biblica un altro autore della scuola di San Vittore, Riccardo, privilegia la
lettura allegorico-spirituale. L’approfondimento simbolico della verità rivelata, epurato dagli eccessi
immaginifici e dunque non in contrapposizione con il senso letterale ma semmai a completamento di
esso, è in effetti per lui lo strumento fondamentale per l’approfondimento dottrinale della Rivelazione.

GILBERTO DI POITIERS
Nato a Poitiers intorno al 1080 studia a Chartre e ne rimane magister per circa dieci anni.

La novità del suo linguaggio dottrinale ha suscitato perplessità in non pochi tra i teologici
tradizionalisti che condussero Gilberto a ritrattare alcune delle sue idee.
L’accanimento degli avversari si concentrava sull’opera teologica principale, Commento ai cinque
opuscola sacra di Boezio.
Per Gilberto l’esempio di Boezio insegna che per rendere comprensibile la fede è necessario che tutti,
maestri e discepoli, sappiano farsi a un tempo competenti e ignoranti, superbi e umili, capaci tanto di
applicare le regole del linguaggio scientifico quanto di riconoscere il loro inevitabile infrangersi e
mutare di valenza semantico-definitoria dinanzi alla superiore dicibilità del divino. Boezio è un auctor,
ossia uno scrittore di cose sacre al quale viene riconosciuta una auctoritas inferiore a quella del
profeta, ma a essa subordinata e da essa sostenuta, e dunque, in quanto tale, inoppugnabile. Gilberto
propone se stesso come un lector, un commentatore il cui compito è portare a compimento l’opera
dell’auctor, esponendo correttamente il significato delle sue parole ed evidenziandone gli intenti: non
si limiterà perciò a esporre e ripetere le dottrine di Boezio, come farebbe un recitator, ma sarà un vero
interpres, in grado di approfondire e chiarire ogni volta che sarà necessario i contenuti della sua
scrittura servendosi dei suoi stessi strumenti, ossia le competenze della razionalità, specialmente
logiche e grammaticali, e facendo propria la disponibilità a essere corretto, se necessario, dal
magistero della Chiesa. Il contributo boeziano all’interpretazione della fede, affidato a un linguaggio di
difficile comprensione, viene così dal commentatore reso disponibile per tutti i credenti, in forma
accessibile e consolidata contro fraintendimenti e mistificazioni.
Gilberto decide di sottomettersi ad una metodologia rigorosa per evitare errori o divagazioni
dall’impostazione originale e per poterla tuttavia, a un tempo, approfondire e arricchire, facendosene
contemporaneamente difensore e re-inventore.

Gilberto chiarisce che si ha un questio ogni volta che deve essere risolta una contradictio tra due tesi
che sembrano entrambe riposare su ragioni valide per essere accolte come vere, ossia quando su una
determinata asserzione dottrinale sembrano esistere contestualmente argomenti pro e argomenti
contra. Per avviare la soluzione è necessario presupporre che una di esse lo è soltanto in apparenza e
ciò dipende dalla presenza in essa di un’ambiguità semantica che deve essere individuata ed eliminata.
La verifica di tale errore è sempre affidata a una distinctio, mediante la quale si evidenzia
l’appartenenza delle due tesi, e quindi dei termini in esse utilizzati, a diversi generi o ordini semantici e
argomentativi, ovvero a diversi loci.
Si tratta di un notevole passo avanti lungo il cammino che porta la theologia ad acquisire lo statuto di
conoscenza scientifica e una degna collocazione nel sistema delle scienze umane, in quanto chiarisce

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come l’ambito di conoscenze relativo ai contenuti della fede possa essere aperto all’indagine e
all’approfondimento razionale purché adeguatamente supportati da una strumentazione corretta, a
garanzia della coerenza e della necessità dei percorsi compiuti, le cui conclusioni dovranno sempre
essere interne a consonanti a quanto già e esplicito nella Rivelazione.
a) il metodo della transumptio teologica

La terminologia logica è inevitabilmente portata ad assumere una valenza specifica, non


sostanzialmente diversa ma in qualche modo deviata dalle sue originali finalità, quando viene adattata
al sapere teologico, il cui oggetto è una res superiore a ogni realtà naturale.
Il teologo dovrà saper operare un correcta distinctio tra il valore del termine quando è adoperato per
designare una realtà creata e quando invece risulta utile per esprimere il modo di essere del divino.
Nel secondo capitolo del primo opuscolo teologico Boezio divide la filosofia teoretica in tre scienze:
fisica o naturalis, mathematica e theologia, che hanno tre diversi campi di indagine.
Ci sono strumenti concettuali peculiari di ciascuno dei tre ambiti, la cui valenza è strettamente
dipendente dalla rispettiva ratio scientifica. La conoscenza teologica non dispone di strumenti propri
adeguati, così come la Scrittura stessa utilizza immagini e metafore, ossia termini sottoposti a una
parziale traslazione del loro significato originale, deve ricorrere agli strumenti delle scienze inferiori,
matematica e fisica, ma sottoponendoli necessariamente a un’alterazione o transumptio della loro
funzionalità semantica. Proprio non tenendo conto di tale transumptio si cade negli errori degli eretici,
che hanno preteso di argomentare sui misteri della fede applicando a essi in tutto e per tutto la ratio,
ossia la metodologia atta a indagare le realtà naturali.

Gilberto era convinto della necessità di passare da una primitiva concezione della teologia come
semplice riflesso nella mente umana della verità del discorso della fede a una precisazione
dell’adeguatezza dell’apparato strumentale che consente la corretta percezione di tale verità mediante
la composizione di un adeguato discorso sulla fede.
b) La realtà del singolare e la composizione ontologica
La concezione porretana della scienza, in quanto si fonda sulla distinzione delle proprietà degli oggetti
propri di ciascuna delle tre discipline indicate da Boezio, impone la necessità anche di scendere sul
versante di indagine di ciascuna di esse. Con questo Gilberto è obbligato a prendere posizione sulla
disputata questione della realtà degli universali.
Il realismo di Gilberto consiste nell’avere indicato una precisa forma di sussistenza propria
dell’oggetto di ciascuna scienza teoretica, dell’individuo naturale, dell’universale e del divino, e di
avere poi applicato a ciascuno di questi tre oggetti il procedimento logico e conoscitivo a esso
corrispondente e adeguato per definirli e studiarli. La soluzione delle domande porfiriane sulla natura
degli universali deve dunque scaturire innanzi tutto dall’ammissione della loro realtà, e poi dal
riconoscimento che poiché tutto ciò che esiste come reale è qualcosa di singolare allora non soltanto
gli individui, ma anche gli universali, come del resto la sostanza divina, sono sempre realtà singolari.
Ogni individuo è singolare, ma non ogni singolare è individuo, perché anche gli universali e anche Dio
sono singolari. È dunque possibile ridisegnare la gerarchia delle sostanze reali: al vertice la substantia
simplex, quindi la sostanza universale (dividuum); la sostanza individuale e indivisibile o individuum,
che come nella specie uomo, può essere razionale e non.
La non conformità appartiene a quell’insieme di caratteri che sono propri di un individuo e di nessun
altro, mentre la conformità è propria di quell’altro insieme di caratteri che nell’individuo evidenziano
la sua somiglianza con altri individuo. La difficoltà di far comprendere come il quo est possa essere una
sussistenza reale viene risolta da Gilberto ricorrendo alla dottrina delle formae nativae, modelli
incorruttibili dell’essere distinti però dalle idee divine eternamente pensate nel verbo e intermedi tra
esse e le entità individuali. Le idee divine, che Gilberto chiama sincerae substantiae, sono gli universali

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eterni e non si distinguono dal pensiero e dalla volontà di Dio. Le formae nativae sono invece singole
realtà universali, forme che riproducono modelli superiori per diventare a loro volta i modelli, cioè le
forme formatrici delle realtà inferiori.

c) La distinctio trinitaria
È ora chiaro quali siano il compito, l’oggetto e il procedimento propri della scienza del teologo: per
comprendere la natura di Dio egli deve utilizzare il linguaggio scientifico attinto dalle discipline
inferiori, ma deve sforzarsi di trascendere tutte le formalità limitanti appartenenti al concreto
creaturale, fisico e matematico, ossia all’individuale e all’universale. Tutte le tesi teologiche porretane
devono essere comprese alla luce di questa precisa scansione di ordini conoscitivi e di transumptiones
terminologiche.
Dio è una singolarità, dunque un id quod est, ma una singolarità assolutamente semplice, ossia in tutto
e per tutto identica al quo est che lo fa essere Dio.
Affermare che “Dio è” non può non essere equivalente ad affermare che “Dio è per la sua essenza”,
ossia “per la deità”: perché il pensiero umano può comprendere l’essere di qualcosa soltanto grazie a
una distinzione logica tra ciò che è predicato da ciò di cui si predica.

Gilberto non ha difficoltà ad ammettere con i suoi avversari che in Dio ogni predicazione è sempre e
soltanto predicazione del suo essere Dio: ma non avere capito che questo è reso possibile proprio dal
passaggio analogico da un piano all’altro del conoscere è stata secondo lui la causa del loro
fraintendimento delle sue dottrine e del misconoscimento della sua ortodossia.

LA SCUOLA DI CHARTRES
La scuola di Chartres da origine nel dodicesimo secolo a un importante filone di indagine più
direttamente orientato verso lo studio della natura, che viene considerata, accanto alla scriptura, come
l’altro libro scritto da Dio e messo a disposizione delle intelligenze umane per risalire dalla realtà
visibile alla perfezione delle realtà invisibili. In questa prospettiva il legame tra ordo rerum e ordo
idearum viene indagato mediante una più diretta verifica sulle forme e le concatenazioni delle entità
naturali, fondata sulla competenza nelle arti del quadrivium: accanto alla classificazione formale e
all’operatività argomentativa regolamentate dalla logica, le matematiche offrono un’ulteriore struttura
formale del sapere.
Particolare importanza riveste dunque in questo contesto l’attribuzione all’intelligenza umana della
capacità di penetrare sotto il velo delle apparenze sensibili. La rimozione di tale velo, spesso indicato
con il termine di integumentum o involucrum, è dunque un momento indispensabile per il
dispiegamento della vera philosophia o comprensione della verità ultima delle cose.
Questo principio giustifica in particolare il grande interesse che suscita in molti maestri il Timeo di
Platone; questo testo si propone infatti quale documento esemplificativo di come i filosofi pagani siano
riusciti a intuire e rappresentare qualcosa della vera natura di Dio: un sapiente architetto che plasma
ordinatamente, ispirandosi a modelli ideali eterni, la materia primordiale da cui si originano tutte le
res naturali. Sotto l’integumentum mitologico di questo racconto, il credente informato dalla verità
superiore della fede potrà allora attingere alla dottrina di Platone alcune attendibili idee filosofiche
particolarmente preziose per passare alla comprensione dell’altro integumentum, teologico, che vela
nel libro della Genesi le più incomprensibili profondità dell’opera creatrice divina.
Grazie all’esegesi allegorica del Genesi, le indagini compiute dai filosofi sull’opus naturae possono
risultare conciliabili, almeno in parte, come le meditazione teologiche sull’opus creatoris, l’opera divina
produttrice di realtà narrata dalla Rivelazione: e un’ampia serie di principi e nozioni utilmente
elaborati dalla razionalità filosofica possono essere acquisiti e impiegati per continuare l’opera,

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descrivendo e indagando il nexus causarum del mondo visibile come un sistema di segni che consente
di decifrare nel suo manifestarsi nel libro della natura l’inaccessibile e perfetta volontà creatrice di Dio.
L’intera realtà visibile viene in questo modo riconosciuta come portatrice di quei signa che Agostino
aveva racchiuso nella sola Rivelazione scritta e nella tradizione liturgico- sacramentale della Chiesa
cristiana.
a) Bernardo di Chartres e le formae nativae

Volta alla ricerca di efficaci indizi della presenza operante del divino nell’universo, la mente cristiana
arricchisce in questo periodo il proprio bagaglio di immagini significanti con una nuova, ricchissima
costellazione di segni e allusioni, di simboli capaci di evocare principi invisibili e forze efficaci nascoste
dietro le evidenze sensibili.
La pietra si assoggetta docilmente alla mano dell’artista per imitare l’arte del poeta e la sapienza del
filosofo nel coprire di integumentum meravigliosi le profondità misteriose della bellezza del creato. Tra
le più grandi costruzioni religiose elevate in terra di Francia svetta la splendida cattedrale della città di
Chartres, la cui costruzione è stata iniziata dal 1020. Il primo fautore della modernizzazione della
scuola è stato il vescovo Ivo, che ha promosso inoltre il reclutamento presso la scuola dei più noti
maestri di arti liberali del tempo.
Tra questi vi era Bernardo; secondo Giovanni di Salisbury, che offre le poche informazioni che ci siano
pervenute sul suo insegnamento, proprio Bernardo di Chartres avviò la riflessione degli chartriani sul
problema dell’esemplarismo, tentando una mediazione tra l’elemento ontologico e quello teologico
implicati entrambi nella dottrina del realismo delle essenze.

Inoltre Bernardo introdusse per primo la distinzione tra le idee in quanto divine, ossia increate ed
eterne, e le idee create, anch’esse eterne, ma non del tutto coeterne e per ciò non del tutto identiche
con il divino. E trovando la nozione di formae nativae nel commento di Calcidio al Timeo di Platone,
dove indica le forme nella congiunzione con la materia, utilizzò questo nome per designare i principi
ideali intermedi tra quelli divini e l’elemento materiale.
Bernardo insegnava che lo studio delle arti liberali accende nell’anima la capacità di ascendere alla
comprensione della verità intelligibile; e distingueva tre diverse specie di ingegno umano e di
disponibilità alla comprensione: l’ingegnum advolans era quello inquieto che von la stessa facilità con
cui acquisisce conoscenze altrettanto facilmente le abbandona; quello infimum, materialista incapace
di sollevarsi alle altezze della contemplazione del vero; e infine quello mediocre, che usa la conoscenza
come fondamento su cui basarsi per sublimare le proprie capacità, ed è il vero ingegnum adatto al
lavoro di chi fa filosofia, capace di coltivare le scienze che svelano e indagano nella natura la realtà non
visibile che presiede alla formazione di quella visibile.
Si inserisce anche la famosissima immagine dataci da Bernardo secondo la quali gli intellettuali dell’età
presente rispetto ai grandi auctores dei secoli passati devono essere considerati “come dei nani seduti
sulle spalle dei giganti”. Questa immagine compendia il significato migliore di quello che è stato
chiamato l’umanesimo degli chartriani: l’aspirazione a poter giungere con lo sguardo intellettuale a
vedere ancora più in profondità dei maestri del passato, ma grazie proprio al contributo che viene
dalla messa in pratica dei loro insegnamenti, che è stato di fatto armonico, organico e costruttivo,
nonostante le apparenti differenziazioni.
b) Guglielmo di Conches e la philosophia mundi

Guglielmo di Conches è il più rappresentativo allievo di Bernardo; le sue opere comprendono tre
trattati sistematici, la Philosophia mundi, il Dragmaticon philosophiae e il Moralium dogma
philosophorum, e poi una serie di glosse e commenti agli auctores antichi. In Guglielmo è dominante
l’intento programmatico di sollevare l’integumentum del mito platonico per raggiungere una corretta
spiegazione scientifica dell’origine del cosmo, accordarla con la narrazione della creazione nel Genesi,

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anch’essa ricca di immagini simboliche e allusive, e scoprire quanto gli enunciati dei filosofi possano
essere consoni e armonizzabili alle parole dei profeti.

Guglielmo chiarisce che oggetto dell’analisi fisico-matematica di spettanza della razionalità non
possono essere i principi puri, che sono di natura divina, ma le cause secundae, che sono poi le formae
nativae di Bernardo, intermedie tra Dio e la creazione. Le forme native hanno dunque la funzione di
portare a compimento quello che Guglielmo chiama l’opus naturae, distinto dall’opus Dei e a esso
assoggettato, e consiste nel realizzare e conservare l’ecornatio naturae, l’ornamento esteriore
dell’ordine naturale. La natura, in base a una concezione meccanicistica di vago sapore presocratico, è
dotata secondo Guglielmo di una specifica capacità causativa, che deriva dalla volontà divina ma dalla
cui mobilità ed efficacia molteplice Dio resta distinto e incontaminato.

L’immagine mitica introdotta da Platone nel Timeo per esprimere la potenza auto-organizzativa della
natura è quella dell’anima mundi. Guglielmo sembra in più di un’occasione allinearsi alla proposta
abelardiana di identificare tale entità con lo Spirito Santo. È però essenziale evitare qualsiasi rischio di
confondere il Creatore, e la stessa anima mundi, con la natura creata e con i principi intermedi che la
governano: e introduce a questo scopo una precisa distinzione tra aeternitas e perpetuitas, per
accentuare la separazione tra le cause divine, veramente eterne, da una parte e le cause seconde e la
materia dall’altra, che hanno un inizio causale che le rende derivare dall’efficacia superiore di ciò che è
divino ed eterno.
La conoscenza della natura è da lui esplicitamente finalizzata a produrre un’intelligenza cosmologica
del divino capace di confrontare la verità del dogma rivelato.
Guglielmo vuole dimostrare a partire dall’ordine naturale delle cause l’esistenza di Dio quale
soprannaturale causa efficiente, prerogativa specifica della persona del Padre; quindi per evidenziare
la sovrapponibilità del mondo delle idee divine ed eterne di Patone con l’Intelletto divino, che è la
seconda persona trinitaria e dunque causa formale dell’universo, e infine indicare nella Bontà divina , e
dunque nello Spirito Santo, la causa finale perseguita dall’intero creato, e perciò, il principio che senza
alterare la propria immutabilità rende efficaci le forme native e, per il loro tramite, muove il mondo e
le anime dei viventi.

Secondo Guglielmo il rapporto tra gli antichi e i sapienti cristiani è completo: come insegnano i Padri,
la sapienza antica supporta l’interprete nel chiarire ed esplicitare i misteri del dogma, mentre la fede
illumina, conferma e consolida i processi razionali elaborati dai filosofi.
La scienza umana può dunque soltanto chiarire, e mai contraddire la verità della fede, proprio perché
quello della fede è un altro ordine di verità rispetto a quello della scienza. E questo è incontestabile
anche se i teologi moderni gridano allo scandalo ogni volta che odono gli scienziati affermare qualcosa
che non riescono a trovare negli scritti degli autori sacri, senza tenere conto che questo accade
esclusivamente perché non sono pertinenti alla edificazione della fede, di cui quegli autori si occupano.
c) Teodorico di Chartres e la physica della creazione
Teodorico adotta la tipica metodologia chartriana di rivisitazione e collegamento della riflessione
teologica con le testimonianze dei filosofi del passato con una specifica attenzione per le discipline del
quadrivio. Quella della filosofia naturale è a suo parere la sola prospettiva corretta per comprendere il
rapporto tra la creazione e il suo creatore.

Teodorico è convinto che la sapienza umana sia sostanzialmente la somma dei comuni progressi nella
comprensione scientifica della natura acquisiti dall’uomo con l’esercizio della ragione fin dai primordi
della sua storia; e che il possesso di questa sapienza sia la base indispensabile per accostarsi
adeguatamente, oltre il semplice piano narrativo ma senza abbandonarsi alla sola interpretazione etica
e spirituale, alla lettura anche del significato scientifico di ciò che la Rivelazione racconta, nel ritmo
cadenzato dell’opera dei sei giorni, sull’origine del cosmo invisibile e di quello visibile.

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A differenza di Gilberto, Teodorico tende a ridurre le distinzioni delle metodologie tra le diverse
scienze, in quanto preferisce subordinarle tutte a un comune procedimento argomentativo.

Posta l’impossibilità umana di giungere fino al principio divino in quanto tale, questo obbiettivo finale
della ragione si risolve nelle rationes primordiali, cause formali che presiedono all’intera articolazione
dell’essere reale e alle quali deve essere ricondotta ogni verità riconoscibile dall’intelligenza umana.

L’Heptateuchon, ampia e complessa raccolta enciclopedica di testi e informazioni sullo studio delle arti
liberali, si inoltra maggiormente nel dettaglio della diversificazione delle procedure specifiche delle
varie forme di organizzazione del sapere umano, senza però mai perdere di vista la fondamentale
unitarietà metodologica dell’attività intellettuale che percorre la scalarità di queste discipline per
operare la ricostruzione interiore dell’ordine della realtà creata.
In quanto è l’unità, Dio è la forma veritatis di ogni conoscenza proprio in quanto è la forma essendi di
tutto ciò che ha creato ed esiste. Una conoscenza coerente del Creatore è dunque essenziale per
avviare la mente alla corretta comprensione della creazione. Perciò nell’Hexameron, a completamento
della propria esegesi dei sei giorni, Teodorico si sofferma su una dimostrazione razionale, di impianto
squisitamente matematico, dell’esistenza di Dio. Come il molteplice presuppone il semplice, e i numeri
presuppongono l’unità, così l’universo si risolve in un universale rinvio di ogni esistenza al principio
indistinto e immutabile di cui tutto è partecipazione e da cui tutto deriva: l’Uno che produce l’infinità
dei numeri, e dunque in quanto tale non ha alcun limite alla sua potenza ed è infinito proprio in quanto
uno, ed è onnipotente proprio in quanto creatore di tutto ciò che è numerico e numerabile. E in quanto
è tale, esiste in modo necessario e sommo.
Ogni numero presuppone l’unità, e l’unità moltiplicata per ogni numero produce l’infinita serie
numerica: dunque tutte le cose sono in Dio, ma in quanto unità. Questo giustifica l’ammissione
dell’esistenza in Dio delle idee, modelli eterni di tutto il reale, senza alcuna riduzione della sua perfetta
semplicità essenziale. L’unità identica a se stessa è il Padre, la conoscenza della molteplicità nell’unità
è il Figlio, la presenza operante dell’unità nella molteplicità è lo Spirito Santo. E per questo il Padre è la
potentia assoluta e senza limiti. Il Figlio o Verbo è la sapientia che reca in sé la nozione di tutte le cose;
e lo Spirito Santo è infine espressamente identificato con l’anima mundi dei platonici.

Teodorico è stato tra i partecipanti al concilio di Reims che ha condannato Gilberto di Poitiers; la
semplicità della forma divina è garantita dal fatto di essere assolutamente non formata da altro,
dunque non è possibile alcuna distinzione nella natura di Dio tra formato e formante, come non è
possibile tra l’eterno e l’eternità, e dunque tra Dio e divinità. L’esistere di Dio è un atto senza
potenzialità, in quanto è il puro atto di essere, l’ego sum qui sum.

BERNARDO DI CLAIRVAUX
Bernardo di Clairvaux, dalla sua semplice posizione di abate, fu quasi pontefice, e non di rado
mediatore tra pontefici e imperatori, guida spirituale dei vescovi e cardinali, implacabile baluardo
contro i nemici della Chiesa e sostenitore della seconda crociata. Meritano di essere ricordate tra le sue
opere quelle che documentano il suo impegno nella riforma ecclesiastica; scritti dedicati a una
celebrazione della fede come tensione disinteressata e pura per il divino.
La sintesi di amore e fede, ossia l’atto del crede portato a essere motivazione profonda ed esclusiva di
se stesso, non può non risolversi in una riconduzione radicale di tutti i saperi e di tutte le aspirazioni
umane alla pietà religiosa. Tutto ciò che non conduce alla verità superiore non è necessario alla
salvezza: e in quanto tale può tradursi in un danno per l’anima, se distrae della vera scientia, che è
quella ella bibbia, dei Padri e della tradizione della Chiesa. La ragione deve essere utilizzata non per
indagare ma per esporre e chiarire ciò che nella Rivelazione è non incerto, perché nulla di rivelato può
essere soggetto al dubbio.

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Questi principi del suo animo spiegano la profonda ostilità con le dottrine teologiche di Abelardo e
Gilberto di Poitiers.

Bernardo offre particolare interesse per la mariologia; la Vergine è modello assoluto e incontaminato
della perfetta vita monastica. Maria è custode di tutte le virtù che accostano l’uomo alla condizione di
beatitudine eterna.

Con questi presupposti e queste finalità la conoscenza teologica non può allora che risolversi per
Bernardo in uno stato di contemplazione mistica della verità che soltanto la fede da comprendere e
interiormente rivivere nell’anima del credente. L’uomo, come conseguenza del peccato originale, si
trova al recupero della perduta similitudo Dei, reso possibile dalla conservazione della imago Dei che
coincide con i fondamenti caratterizzanti della natura umana, e quindi con il libero arbitrio.
Il grado massimo dell’esperienza mistica è così la totale disponibilità dell’anima a godere dell’oggetto
amato e quindi a fondersi con esso, ossia come insegnano i più alti testimoni dell’ascesi patristica, a
essere “deificata”.
GIOVANNI DI SALISBURY

Nell’atmosfera di critica pacata alla ragione, un grande contributo intellettuale è dato da Giovanni di
Salisbury, che ripresentò il probabilismo filosofico degli antichi Accademici raccomandato da Cicerone.
Giovanni di Salisbury dimostra un forte interesse per il versante etico-pratico della riflessione
filosofica, sfociato nella composizione del Polycraticus: un approfondito manuale per l’educazione e la
riforma morale dei principi terreni.
Sposando l’antico ideale della virtù con i principi fondamentali della morale cristiana, egli fa del
perfezionamento pratico il fine dell’intera attività intellettuale umana e della ricerca filosofica: questo
principio lo ispira anche nella composizione dei suoi principali scritti, l’Entheticus e il Metalogion.

Quest’ultima opera consiste in una difesa dello studio della logica; come ogni altra scienza la logica
trae la sua vera forza dal riconoscimento dei propri confini; la prima, fondamentale limitazione
all’esercizio della logica viene dal fatto che essa non può rinunciare ad avere una utilità pratica. Al di
sopra di tutte le regole e gli schemi concettuali di cui si serve, il logico collocherà dunque il principio
regolatore di tutta la sapienza pratica nel Sommo bene, che è di natura divina e soprannaturale.
Giovanni dichiara dunque che la logica, e le scienze, sono tanto più vere e più feconde quanto più
riconoscono che il loro compito consiste nell’avvicinarsi a una probabilitas, una dimostrabilità
verosimile di ciò che non potrà mai essere colto in modo definitivo.
*Cornificio: i cornificientes svalutavano l’intera disciplina del linguaggio riducendone l’efficacia a un
semplice formalismo verbale e depauperando così l’intero studio delle arti del trivio, a vantaggio di un
sapere fondato piuttosto sull’esperienza sensibile.
Giovanni di Salisbury vedeva messa a rischio dai Cornificientes la moralità e la fondatezza della
convinzione umana. Difendendo il sistema teologico cristiano egli si propone di fondare con la propria
opera una risolutiva riconduzione della dialettica alle autentiche capacità dimostrative. Difendere la
logica significa assicurare capacità semantica del linguaggio e la sua corrispondenza alle res. Una
lettura completa dell’Organon aristotelico Permette a Giovanni di Salisbury di fare propria una
concezione assai più articolata e precisa delle parti costitutive del sapere logico.

Le discipline di questo ambito secondo Aristotele sono: scienza della dimostrazione probabile; scienza
della dimostrazione necessaria (apodittica); scienza della dimostrazione imperfetta (sofistica).
Rispetto ad Aristotele, Giovanni preferisce indicare la prima di queste tre discipline della
dimostrazione con il nome di probabilis; l’apodittica si chiamerà invece demonstrativa, e avrà vigore
esclusivamente nell’ambito delle indagini matematiche; la sophistica invece sarà quella disciplina che

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falsifica intenzionalmente la struttura delle proprie dimostrazioni proprio per mostrare come l’errore
logico consista nell’alterare la corrispondenza tra le parole e la verità. La dialectica indica
essenzialmente la disciplina di quella argomentazione probabile che tende al vero pur non essendo in
grado di raggiungerlo mai in forma definitiva.
La scienza del reale è sempre scienza probabile. Ogni atto di comprensione scientifica è sempre un
traguardo verosimile, che va accolto come un avvicinamento alla verità, ma, in quanto tale, sempre
preferibile e foriero di ulteriori conoscenze probabili.

Non sarà mai vero filosofo chiunque si illuda di poter esprimere giudizi necessari su qualcosa la cui
necessità è in ultima analisi nota soltanto a Dio. Non possono che avere risposte provvisorie tutte le
domande umane sulla realtà soprasensibile della cui esistenza informa la Rivelazione.
Ben a ragione Aristotele che definisce la fede come una opinio, ma non perché questo implichi un suo
deprezzamento rispetto alla scientia: bensì perché è sempre opinabile per l’uomo tutto ciò cui egli
crede con certezza. Una fede solida da sembrare scienza è la fides cristiana, che dà vita alla forma di
conoscenza teologica, intermediaria tra l’imperfetta scienza umana e la perfetta e irraggiungibile
scientia divina.
L’INCONTRO CON IL PENSIERO GRECO-ARABO ED EBRAICO

La storia del pensiero medievale è in fondo una storia di continua translatio di conoscenze dal mondo
antico, iniziata, negli anni stessi del dissolvimento dell’istituzione imperiale in Occidente e della
definitiva interruzione dei contatti culturali con l’Oriente greco. Il processo storico della trasmissione
medievale di conoscenze filosofiche, scientifiche e teologiche è stato però un fenomeno articolato e
complesso, prolungato nel tempo, progressivo anche se discontinuo.
In seguito alla chiusura della scuola di Atene nel 529, su decreto di Giustiniano, gli ultimi Neoplatonici
dopo un passaggio ad Alessandria, trovano una nuova sede nella città mesopotamica di Harran. Qui
aprono un centro di studi dove continuano a utilizzare e trascrivere i testi fondamentali del pensiero
classico, soprattutto di Aristotele e Platone e dove rifiorisce il curriculum filosofico praticato nelle
scuole tardo antiche.
La conquista araba della Siria e della Persia, nel secolo VII, porta la civiltà dell’Islam a contatto con
questo patrimonio filosofico pagano. Si avvia così una fervida opera di traduzione, che spesso
contempla anche un doppio passaggio dal greco al persiano e dal persiano all’arabo, successivamente
estesa anche ad altri testi, cercati e direttamente importati dai territori bizantini.
La ricerca razionale, ossia con un nome generico, la filosofia, che conserva anche il nome grecizzante di
falsafa, mantiene dunque nel mondo mussulmano la propria originale matrice laica, che la caratterizza
come un’indagine rivolta ad ambiti specifici e non confrontabili con l’oggetto della fede. Nella cultura
islamica avvina il contrario di quella tipica del pensiero latino altomedievali dove fin dall’età patristica
dominava la costante ricerca di armonia e compenetrazione di intelligere e credere. La ricerca
razionale indaga il mondo finito e visibile, parte dall’esperienza, procede per via di dimostrazione
necessaria e rispetta le norme della codificazione logico-matematica del pensiero; la conoscenza della
fede ha come oggetto primo ed esclusivo la volontà onnipotente di Dio, ne cerca testimonianza nel
testo sacro del Corano, che è la parola profetica dettata da Dio stesso, ed è guidata dal principio di
autorità in quanto rispetta l’ispirazione del Profeta e dei suoi primi seguaci e interpreti.

1. La teologia islamica o kalam


Nella sua impostazione originaria, e in particolare nel suo contrapporsi al cristianesimo, l’Islam si
presenta ai credenti come una fede non complicata dai misteri che possono suscitare dubbi o
perplessità nella mente dei credenti e alimentare l’aspirazione a qualsiasi ulteriore forma di
intellegibilità o chiarificazione razionale. Il sapere teologico islamico, che ha il nome di kalam, è perciò

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innanzi tutto una esposizione apologetica della verità rivelata e della Legge in essa contenuta; suo
principale oggetto è la pura comprensione del fondamento dell’unità divina.

L’Islam concepisce la guerra santa (jihad, che vuol dire impegno personale nella diffusione della parola
divina), come il dovere permanente, da parte di colui che crede, di estendere la vera religione al
mondo intero. Ma la guerra santa deve favorire l’attuarsi delle condizioni politiche e sociali della
conversione degli infedeli, non ottenendola necessariamente con la forza, ma tollerando e dialogando
con le culture differenti.

Pur sempre orientato dal prevalere politico e ideologico della comprensione islamica, si è così
instaurato un relativo dialogo interreligioso, fatto in parte di un moderato scrutarsi reciproco, in parte
di animati dibattiti apologetici, che ha dato un contributo significativo all’elaborazione delle dottrine
costitutive del kalam in riferimento all’approfondimento di tematiche teologiche comuni alle tre
confessioni.
I teologi islamici che per irrobustire le loro tesi di servirono coraggiosamente di strumenti di
riflessione provenienti da contesti estranei alla pietà religiosa, presero il nome di Mu’taziliti; essi
diedero un contributo notevole alla traduzione del kalam in un organico sistema di conoscenze, il cui
nucleo essenziale era ricondotto al purissimo principio dell’unità e della trascendenza assoluta di Dio.
I Mu’taziliti furono spesso rigidi e intransigenti difensori di questa loro teologia, soprattutto contro i
“letteralisti”, ancorati alla semplice lettura tradizionale dei dati di fede e contrati alla sottigliezza di
questioni speculative. A partire dalla seconda metà del secolo IX questo loro atteggiamento suscitò non
poche tensioni.

Fra i teologi moderati che favorirono nelle generazioni seguenti una mediazione tra l’ortodossia
radicale e alcune posizioni del Mu’tacalismo, si distingue la figura di al-Ash’ari, il vero fondatore della
dottrina teologica dell’Islam. Con la sua opera il kalam progredisce dunque significativamente verso
una illustrazione apologetica dei dati rivelati.
Il più rappresentativo e profondo esponente del pensiero teologico arabo medievale è stato al-Ghazali.
Il kalam è per al-Ghazali la conoscenza che ha per oggetto Dio in sé e nei suoi attributi, nelle sue azioni
e nei suoi profeti; tale conoscenza non è la fede, e non è, come la fede, sufficiente alla salvezza. L’utilità
del kalam concerne dunque coloro che sono buoni credenti ma in difficoltà per l’insorgere di dubbi
intellettuali che devono essere messi al riparo dagli errori ereticali (carattere curativo del pensiero
teologico).
Gli scritti teologici di al-Ghazali sono veri trattati di dogmatica, dove la parte più importante del sapere
è quella che egli chiama lo “svelamento”, che è pura conoscenza dell’oggetto divino nella
contemplazione mistica, non comunicabile con lezioni o libri.
Il suo contributo alla storia e allo sviluppo del kalam ha avuto perciò soprattutto il valore di un
richiamo limitativo ai compiti e alle competenze reali del teologo, che deve utilizzare la razionalità
logica solo come utile supporto per una difesa delle verità della fede.

Non è casuale dunque che l’opera più fortunata di al-Ghazali sia stata l’Autodistruzione dei filosofi , in
cui egli polemizza direttamente con i partigiani di una falsafa che pretende di porsi non come
strumento ma come autonoma conoscenza di verità. Al-Ghazali afferma che un’esposizione dottrinaria
al cui interno è possibile constatare contraddizioni e dissensi interni è evidentemente falsa. Questo
argomento è allora sufficiente a confutare e quindi a mostrare l’empietà di tutte le dottrine che i
filosofi hanno preteso di formulare argomentando su temi di spettanza della religione.

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2. La filosofia Araba

a) La formazione della falsafa


La biblioteca filosofica degli intellettuali arabi è in effetti caratterizzata da una cospicua presenza di
testimonianze del pensiero neoplatonico: a parte il corpus degli scritti platonici e aristotelici, essi
hanno potuto abbastanza presto disporre nella loro lingua di altri importanti testi di metafisica, come
le Enneadi di Plotino o gli Elementi di Teologia di Proclo. Fra i dialoghi platonici, la particolare fortuna
toccata anche in area islamica al Timeo ha favorito il sedimentasri dell’idea di una distinzione
fondamentale tra il mondo visibile e imperfetto dei corpi e quello intelligibile degli esemplari eterni.
Da De anima i falasifa hanno tratto l’idea della distribuzione cosmica delle intelligenze celesti che si
trasmettono la conoscenza di grado in grado, identificando l’intelletto agente di cui Aristotele parla nel
terzo libro dell’opera con l’ultima intelligenza separata, unitaria per tutti gli individui umani, distinta
dai loro intelletti personali e non sottoposta al divenire.
La maggior parte delle traduzioni e degli adattamenti di testi neoplatonici che contribuirono a
consolidare questo sincretismo filosofico proviene dal circolo di studiosi guidato da al-Kindi, uno dei
primi importanti maestri attivi a Bagdad.
Lo scritto principale di al-Kindi, la Filosofia prima, si apre proprio con un’apologia della falsafa mirante
e evidenziarne la natura di sapere unitario, fondamentalmente orientato alla conoscenza della verità
soprasensibile e intellegibile, nella misura in cui ciò è consentito al genere umano.

La sintesi di causalità filosofica e creazionismo è l’elemento dominante anche del pensiero di al-Farabi.
Egli ha proseguito il lavoro di esplicitazione dell’unitarietà di fondo del pensiero filosofico greco;
l’attenzione di al-Farabi si concentra soprattutto sul problema della spiegazione dell’origine del
mondo. Secondo una lettura del Timeo diffusa in area islamica, egli è convinto che Platone abbia
considerato l’universo come iniziato nel tempo, e dunque creato da un principio intelligente.
Trovandosi nella necessità di armonizzare questa tesi con la negazione di un inizio temporale del
movimento che si legge nel De caelo di Aristotele, egli assicura che la vera opinione di quest’ultimo è
che il tempo e il mondo siano entrambi derivati e abbiano avuto inizio insieme: per cui non c’è un
prima temporale del mondo anche se tutto è stato creato da Dio.
La congruenza così raggiunta tra la teologia aristotelica e quella platonica è in pratica il segno evidente
dell’ormai avvenuta assimilazione sincretistica della metafisica greca.
Le linee fondamentali di questa organica falsafa di al-Farabi emerge soprattutto dal suo capolavoro,
Opinioni degli abitanti della città perfetta, originale rilettura della Repubblica platonica adattata alla
concezione politico-religiosa dell’Islam. In questa ideale società i cittadini condividono le idee
teologiche dei filosofi, che offrono la migliore esplicitazione dei fondamenti della religione.
Il Dio-pensiero di Aristotele si fonde dunque mirabilmente con il Dio-Uno dei neoplatonici: in quanto
autosufficiente, non deve pensare altro per essere pensiero, ma sarà pensiero della sua propria
essenza, ossia il migliore oggetto intelligibile, e in quanto tale, vive di una vita eternamente beata; in
quanto perfetto, tale pensiero non può non estendersi comunicando al di là della propria essenza il
perfetto risultato del suo sapere, ossia l’unità: e così il pensiero unità di Dio produce le molteplici unità
derivate, la cui esistenza nulla aggiunge alla sua perfezione ma che tutte procedono dalla sua essenza.
E mentre l’essenza di Dio è semplicemente e totalmente esistente in atto, tutti gli esseri derivati
esistono in atto solo realizzando in modo sempre incompiuto la loro essenza. Questa è dunque la
prima enunciazione della distinzione di essenza ed esistenza che influenzerà sensibilmente il pensiero
teologico latino del secolo XIII.

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AVICENNA: metafisica e teologia

Le concezioni teologiche di Ibn Sina sono espresse nella sua opera maggiore, Il Libro della guarigione;
egli è stato un uomo di vasta e poliedrica erudizione. La sua opera maggiore è una grandiosa
enciclopedia filosofica e scientifica, sostanzialmente proposta nella formati una complessa parafrasi
degli scritti dei falasifa, e in particolare di Aristotele.

Anche Ibn Sina si incontra con la necessità di risolvere il problema del passaggio dal non essere
all’essere delle cause secondarie, ossia dalla creazione: se infatti la Causa prima è essenzialmente, e
dunque necessariamente causatrice, come può ciò che è scaturire dal non-essere, ossia da una
situazione, precedente all’essere, di non causatività di Dio?
La soluzione avicenniana di questo problema consiste nell’introduzione in ambito teologico della
distinzione aristotelica di potenza e atto. Se Dio è il principio dell’essere e punto d’arrivo del regresso
di causa in causa, egli è essere necessario, perché il suo essere come Causa prima è l’essere steso della
necessità dell’essere, e in quanto tale necessariamente in atto. La creatura è invece ciò che acquisisce
essere da altro, e dunque che non è necessariamente in atto: è un essere possibile, la cui essenza è tale
possibilità stessa, e la cui esistenza è portata ad atto dall’efficacia del primo necessario.
L’impredicabilità di Dio consegue alla sua semplicità, a sua volta assicurata dal coincidere della sua
essenza e della sua esistenza: non avendo una quiddità (potenziale e dunque possibile) diversa dal suo
esistere, l’essere di Dio non ha un genere superiore di cui possa essere predicato, non rientra quindi in
alcuna categoria, né in alcuna opposizione: dunque si può parlare di Dio solo negando ogni
somiglianza con l’essere delle creature.

Un intelletto puro non dipende da alcun oggetto intelligibile esterno a esso, ed è perciò oggetto della
propria stessa intellezione. L’intelligenza non comporta dunque in Dio alcuna scissione o
moltiplicazione.
Nella metafisica di Ibn Sina il modello aristotelico si sposa perfettamente con l’emanazionismo
neoplatonico quando si passa a spiegare la derivazione dell’essere creato da Dio. Dio non ha “deciso” di
creare, dunque non ha creato perché “libero” di farlo, ma neanche perché “necessitato a farlo: la sua
essenza coincide infatti con la sua necessità, e la sua necessità con la sua essenza. Dio crea perché è
Dio, e da lui scaturisce il bene per via di una diffusione tanto inarrestabile e inevitabile quanto
assolutamente non condizionata, in quanto non causata da altro.
Semplicemente, in Dio, non si danno né l’opposizione tra libertà e necessità, né quella tra conoscenza e
non conoscenza, o tra volontà e costrizione, perché non si dà in lui alcuna distinzione creaturale.
Il primo effetto del principio primo non potrà che essere un Intelletto primo, puro e assolutamente
separato dalla materia; questo intelletto primo, guardando a Dio che lo fa essere necessario, si conosce
come tale, e genera un’intelligenza inferiore, il secondo Intelletto, che dal primo trae la necessità-
attualità del proprio essere, ma contestualmente, guardando a sé come creato, ossia come possibile, si
riconosce come capace di portare ad atto qualcosa d’altro fuori di sé, e genera un’Anima prima:
all’efficacia dell’anima sarà quindi sottoposto un corpo celeste, che si muoverà di un movimento
perfetto (circolare) tenendo a essa.
Gli esseri corporei e visibili non intelligenti, collocati nel mondo sub lunare e sottoposti
all’accidentalità e a una continua mutevolezza, esistono infine soltanto in quanto possibili e non
necessari: così il corpo, anche quello dell’uomo, è una pura potenzialità destinata a dissolversi,
lasciando dietro di sé soltanto l’immortalità intellegibile dell’intelletto acquisito.

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AVERROE’: l’accordo di filosofia e religione

Il pensiero avicenniano è stato oggetto diretto della polemica teologica; tale polemica ebbe comunque
un effetto decisivo sull’evoluzione successiva della falsafa. I falasifa si preoccuparono da questo
momento in poi di ritagliare per la loro speculazione e per le loro ricerche un oggetto e uno spazio di
indagine rigorosamente distinto e autonomo da quello della fede, nell’intento ultimo di dimostrare
l’impossibilità della contraddizione di ragione e religione.
È al filosofo di Cordova Ibn Rushd, divenuto Averroè per il mondo latino, che spetta il merito di avere
tentato di orientare la questione dei rapporti tra conoscenza filosofica e conoscenza fondata sulla
Parola rivelata verso una soluzione, nelle sue intenzioni concordistiche, che egli propone come certa e
decisiva in una delle sue opere essenziali, Trattato decisivo sull’accordo della religione e della filosofia.
La fortunata diffusione del pensiero di Ibn Rushd è stata però legata, soprattutto in area latina, alla sua
grande opera di commento dell’intero corpus aristotelico, che gli meritò presso gli scolastici il nome di
Commentator.
Egli ritiene indispensabile individuare ed epurare le contaminazioni con il pensiero platonico e
neoplatonico che si sono sovrapposte nel corso dei secoli allo spirito originario dell’aristotelismo. Il
pensiero avicenniano è per lui il tipico esempio di tali devianze interpretative, il cui principale difetto
consiste nel non avere adeguatamente compreso e rispettato la distinzione e la reciproca limitazione
tra filosofia e teologia.

Ibn Rushd è però un convinto assertore della possibilità e anzi della necessità fondamentale
dell’accordo tra fede e ragione, ossia tra comprensione della vera profondità del Corano, e pura lettura
razionale dei dati della realtà creata e conoscibile; questo accordo dipende dunque dal riconoscimento
della rigorosa distinzione tra i campi di azione.
I ragionamenti degli uomini non hanno alcuna possibilità, né alcuna competenza, per descrivere e
comprendere le vie per la salvezza che si aprono soltanto per chi rispetta la Parola divina. Il senso più
profondo del tawhid, fondamento della verità islamica, è nell’assoluta unità, e quindi nella alterità di
Dio rispetto al mondo. La pretesa dei filosofi di penetrare in questo mistero è la radice dei loro errori.
La filosofia deve essere praticata esclusivamente da chi è in grado, per adeguata formazione e capacità
personali, di comprenderne i contenuti, che sono tutti orientati alla conoscenza del mondo creato.
Riprendendo da un suggerimento di Ibn Baijja la divisione degli uomini in tre cassi (fedeli, teologi e
filosofi), Ibn Rushd la da corrispondere alla tipologia tripartita delle argomentazioni indicate da
Aristotele nei Topici: retorica, dialettica e apodittica.
I falasifa non fanno il loro mestiere quando sconfinano con le loro dimostrazioni verso le dottrine
inerenti alla salvezza ultima dell’uomo, sulle quali non è possibile formulare argomentazioni
scientifico razionali certe. Ma anche i seguaci del kalam non fanno il loro mestiere ogni volta che si
sostituiscono ai filosofi e pretendono di esprimere giudizi sulle verità naturali che non sono contenuti
nelle parole della Rivelazione: perché il fine perseguito da Dio nel comunicare agli uomini la sua parola
è condurli al rispetto della sua volontà, non certo abolire le indagini della loro razionalità.
Aristotele ha dato dunque un contributo significativo; di fatto però egli ha introdotto nella scienza
umana alcune tesi presentare come necessarie, ma che sono in contraddizione con la verità della
religione. Tra queste le più gravi sono l’affermazione dell’eternità del mondo, e la negazione
dell’immortalità individuale.

Dal fatto che tali tesi sono state sostenute come scientificamente vere e necessarie da Ibn Rushd
commentando Aristotele è scaturita l’accusa contro lui e i suoi seguaci di avere sostenuto la legittimità
dell’impossibile coesistenza di due verità contraddittorie. Ma come è evidente dalla distinzione delle
tre classi di uomini, la scissione di ragione e fede non è che la distinzione tra diverse espressioni della
medesima verità: non c’è dunque possibilità che siano tra loro in contraddizione.

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Nel sostenere però che la conclusione logica impone il riconoscimento della sua necessità, ma che
ciononostante la fede deve comunque essere accolta dall’uomo, per la sua salvezza, c’è anche qualcosa
di più profondo: c’è l’idea chiara che la verità, che in fondo è nota in quanto tale soltanto a Dio, possa
essere espressa e interpretata dall’intelligenza umana in gradi diversi.
Se dunque le verità scientifiche possono contrastare con la Rivelazione è perché Dio ha una
conoscenza e un sapere della realtà superiore a quella degli uomini: e quello che gli uomini conoscono,
o indagando la natura, oppure interpretando la Rivelazione, è un vero, ma relativo alla loro condizione
conoscitiva; sia le verità di ragione, sia quella pratiche della fede, sono sempre relative al modo di
conoscere umano. Soltanto Dio conosce in modo completo, esauriente e assoluto.

Laddove la ragione non arriva, o perché alcuni uomini non sono in grado di indirizzarla nel modo
giusto, o perché la verità stessa è inesauribile, può e deve avere vigore la fede.
IL PENSIERO FILOSOFICO E TEOLOGICO EBRAICO
Ancora un fondamentale anello della translatio studiorum verso l’occidente medievale è quello delle
opere teologiche e scientifiche provenienti dalle grandi scuole rabbiniche delle comunità ebraiche.
Sostanzialmente fondata sulla missione di assicurare la conservazione, la trasmissione e la corretta
interpretazione della Legge (Torah), l’elemento di coesione fondamentale un tale tradizione è stata la
costituzione e la diffusione del testo del Talmud, una illustrazione articolata della Torah, nel suo
insieme e nelle sue molteplici applicazioni alla vita quotidiana.

Nella sua prima fase di crescita la sapienza talmudica si è astenuta da speculazioni sul divino, sulla
creazione e sul destino dell’uomo, e ha privilegiato gli aspetti giurisdizionali e narrativi della lettera
della Scrittura. Un primo modello di riflessione intellettuale sui modi in cui si è compiuta l’opera divina
della creazione narrata nelle prime pagine della Rivelazione è offerto dal Libro della creazione, un
breve opuscolo di impostazione gnostica, non esente di influssi grecizzanti.
In quanto elementi costitutivi della Scrittura in cui la Parola divina prende corpo per comunicarsi agli
uomini, le trentadue “vie” sono i cardini dell’universo creato.
Era però essenziale una coesione tra razionalità e fede, che appare presto indispensabile quale
strumento per la difesa della tradizione contro le prime preoccupanti avvisaglie di altre tendenze
religiose.

L’accordo di fede e ragione, fondato sul presupposto che la Torah esprima la verità in piena armonia
con le aspettative della razionalità, percorre per esempio l’opera di uno dei primi significativi
pensatori ebrei, Saadyah Gaon.

È invece il neoplatonismo dei falasafi la fonte principale dei due scritti di Yshaac Israeli, Isacco Giudeo,
di principi filosofici ed elaborazioni concettuali che compendiano interessanti idee plotiniane in ordine
a una sistemazione razionale dell’universo biblico.
La più importante testimonianza del maturo platonismo teologico ebraico è un dialogo, intitolato Libro
della fonte della vita, particolarmente apprezzato dai maestri cristiani di teologia, che lo conobbero
come opera di un maestro di nome Avicebron (Shelomoh ibn Gebirol). L’elemento caratterizzante del
suo pensiero è quello che i filosofi chiamano ilemorfismo universali: ogni sostanza diversa da quella
divina non è semplice ma composta, e in quanto tale nasce sempre dall’incontro di una materia con
una forma, anzi, nella maggior parte dei casi, con una pluralità di forme. Secondo i principi
dell’emanazionismo platonico, la materia universale e la forma universale sono le due prime creature,
le più vicine alla perfetta e semplice volontà creatrice di Dio, che è l’unica fonte di vita. Dalla loro
commistione nascono, lungo una gerarchia discendente, tutte le realtà composte: l’intelletto, l’anima e
la natura, che dà origine a molteplici sostanze spirituali. L’anima dell’uomo ha il compito di risalire tale
scala mediante la conoscenza, che è sempre un’opera di riconoscimento delle composizioni

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ilemorfiche, fino alla comprensione della materia e della forma universale, la più aòta conoscenza
naturale che le sia consentita: percezione di ciò che si trova al di là di esse e la ricongiunzione finale
con la Volontà di Dio potranno compiersi soltanto come effetto di un non meritabile e soltanto
sperabile dono gratuito.
Tale impostazione è attestata anche in un altro autore ebreo vissuto all’inizio del dodicesimo secolo:
Giuda Levita, autore del Kuzari, uno splendido ed equilibrato dialogo interreligioso tra un filosofo, un
cristiano, un islamico e un rabbino, interrogati sulle verità metafisiche e religiose del re dei Khazari, il
quale al termine della discussione esprime la propria preferenza per il monoteismo rigoroso e
superiore a ogni tentativo de razionalismo antropomorfico degli Ebrei.

Ancora in Spagna nasce il più celebre filosofo e teologo ebraico del dodicesimo secolo, Mosheh ben
Maymon, chiamato dai latini Maimonide. Medico e giurista, poté nella seconda parte della sua vita
dedicarsi alla stesura dei suoi principali scritti di argomento teologico, il Codice delle prescrizioni e La
guida dei perplessi. I “perplessi” di cui Maimonide si assume la guida sono gli interpreti della Bibbia che
avendo studiato le opere della filosofia non sanno orientarsi correttamente nella costruzione della loro
fede e oscillano tra i due pericoli. Il suo scopo è educare i credenti ad ascendere verso il significato
allegorico del testo sacro senza perdere di vista i principi fondamentali della fede: l’esistenza di Dio, i
suoi attributi, la creazione, la provvidenza e la libertà dell’uomo.
La premessa necessaria e indimostrabile di tutto il pensiero umano è che la torah è un dono certo,
libero e assoluto di Dio, compiutosi in un momento preciso della storia sul monte Sinai. Il vero
pensatore è colui che anziché perseguire la verità con indagini filosofiche sforzandosi poi di mostrare
il loro concordare con la Bibbia, riesce invece a far scaturie la filosofia dalla Rivelazione; “Aristotele
non si è ingannato per tutto ciò che esiste al di sotto del cielo e della Luna”.
Ma la ragione naturale è intrinsecamente debole, e se vuole assicurarsi la veridicità dei propri percorsi
deve necessariamente lasciarsi ammaestrare dalla verità biblica, assumendola quale principio di
verifica e di conforma di tutti i passi che ritiene di poter compiere da sola; essa deve apprendere a
valutare correttamente la terminologia della Scrittura e apprezzarne nel modo corretto le espressioni
allegoriche che se intese alla lettera lascerebbero nella più sconvolgente confusione.

Maimoniche chiude rigorosamente entro i confini della teologia negativa qualsiasi affermazione
razionale scientifica sulla natura degli attributi di Dio, vietando in assoluto ogni possibilità di
esprimere con il linguaggio della scienza la realtà trascendente, nella quale alcun intelletto creato
potrà mai penetrare con le sue complicate e povere definizioni. La scienza della vera fede si colloca qui
al vertice della scala delle conoscenze umane.

La purificazione dell’intelligenza conduce l’uomo solo fino alla posizione di disponibilità della mente e
possesso della sapienza che è condizione necessaria ma non sufficiente per poter recepire il dono delle
profezie, che soltanto Dio potrà liberamente e gratuitamente accordare.
Maimonide non è stato però esente da critiche e da proposte di revisione; Gersonide ha criticato la
dottrina degli attributi negativi di Dio, proponendo un recupero dell’autentico pensiero aristotelico
con la difesa di una teologia positiva che attribuisce a Dio qualità che sono vere solo in quanto
perfettamente realizzare nella purezza della sua attualità.
Tanto il mondo culturale ebraico, quanto quello cristiano latino, sono stati toccati dal fascino e dagli
orientamenti speculativi della tradizione mistico-religiosa della Cabbala. Nata sul prolungamento della
più antica sapienza teosofica giudaica, la Cabbala è una “tradizione” nel senso autentico del termine,
ossia una dottrina trasmetta lungo un complesso confluire di insegnamenti mistici che hanno al centro
del loro interesse le singole parole della Scrittura, i Nomi di Dio. Il modello classico del sistema
cabbalistico è probabilmente quello documentato dallo Zohar, ossia il Libro dello splendore. Del tutto
indifferente ai problemi teologici più dibattuti nel secolo la riflessione mistica si concentra sul

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simbolismo; l’efficacia durevole del suo richiamo al metodo simbolico e per l’aspirazione alla
descrizione dei gradi che conducono allo schiudersi della vera vita contemplativa, le hanno assicurato
un’ampia diffusione.

LA CIVILTA’ DELL’UNIVERSITAS STUDIORUM


Le universitas studiorum sono un centro di studi unitario, una vera e propria città scolastica, nata dalla
confluenza di più istituti in un unico organismo giuridico, che accoglie professionisti dello studio ma
anche tecnici che svolgono funzioni partiche e organizzative. Dalla diversificazione delle competenze
dei maestri nasce la divisione in più faculatates. La pratica dell’insegnamento è ancora quella della
lectio di un testo fondamentale per le specificità della materia insegnata, affrontato attraverso
l’esercizio della questio. Da questa tecnica dialettica nasce il genere letterario delle quaestiones
disputatae.
A parte il precedente di Bologna, lo studium che per primo documenta la massima maturazione è
quello di Parigi. Dal 1231 lo studium è considerato una istituzione direttamente al servizio della chiesa.
Lo studente medio entrava all’Università verso i 14-15 anni, iscrivendosi obbligatoriamente come
primo corso alla facoltà delle Arti. Al termine di questo ciclo i migliori venivano promossi al grado di
baccalaureatus, ossia baccelliere. Superando la prova di licentia docendi, il baccelliere diventava
magister. Continuando gli studi ci si specializzava; In Teologia, considerata il grado massimo della
formazione universitaria, dopo aver seguito per sette anni le lectiones sulla Bibbia lo studente
diventava baccelliere biblicus. Solo dopo un tirocinio di almeno quattro anni in qualità di baccelliere
formatus, si poteva ascendere al titolo di magister theologiae.

Nel suo complesso, l’universitas studiorum è una istituzione rigorosamente comunitaria: le iniziative
personali sono assai ridotte.
a) Philosphi e theologi
Maturarono presto ragioni di scontro sulla definizione degli spazi di intervento tra la facoltà di
Teologia e quella delle Arti. Il programma didattico delle arti si spostava progressivamente verso un
intenso approfondimento delle ricerche logico-linguistiche. L’ampliamento del quadrivio con
l’introduzione della fisica di Aristotele porta a un’estensione delle pretese di giudizio, tanto che la
facoltà di Arti si appropria della Metaphysica e dell’Ethica.

La problematicità del nuovo confronto fra filosofia e fede è accresciuta dal fatto che la propedeuticità
della didattica delle Arti alla Teologia prevista dagli ordinamenti universitari introduce l’effetto pratico
he i maestri di teologia sono tutti già familiarizzati con le philosphicae rationes e difficilmente
rinunciano a praticarle e ad applicarle nelle loro quaestiones.

Nonostante i richiami a non mescolare l’insegnamento della teologia con le dottrine dei filosofi e a
mantenere, secondo la classica metafora dell’oro degli Egiziani, il ruolo subalterno delle arti rispetto
alla sacra docrtina, dagli interventi di Gregorio IX trapela l’urgenza di una presa d’atto di come ormai
da anni i diversi ambiti disciplinari insegnati nel mondo universitario avessero assunto fisionomie
diverse, autonomia e dignità di scientia.
Era oramai essenziale ricorrere a un altrettanto rigorosa precisazione di oggetto, termini e autonomia
della conoscenza teologica. Proprio perché essa potesse mantenere le sue prerogative di fonte e guida
degli altri saperi.
La dottrina che ne è scaturita, la sacra doctrina che si identifica con la verità stessa della sacra scriptura
esposta in forma didattica, è dunque a tutti gli effetti una conoscenza organizzata secondo moduli
metodologicamente consolidati e nel rispetto di norme obbligatorie.

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b) I maestri secolari

I maestri secolari di teologia sono stati i primi a sentire il dovere di farsi promotori di una presa di
coscienza della delicatezza e pericolosità della trasformazione culturale in corso: soprattutto per
fronteggiare la rivalità ideologica dei Mendicanti, essi si impegnarono perciò programmaticamente ad
assicurare la coerenza del loro insegnamento con i presupposti formali della sintesi di razionalità e
fede che ereditavano dalla precedente tradizione di scuola, mirando a precisare la superiorità, ma
anche la onnicomprensività degli studi di teologia rispetto alle altre discipline del sapere (Alano di
Lilla e Simone di Tournai). Il merito peculiare dei secolari è stato di avere portato la concezione antica
della razionalità posta al servizio della fede alle nuove precisazioni metodologiche e speculative
divenute necessarie in seguito all’apparizione di nuove e ancora non domate suggestioni filosofiche:
ossia di avere studiato e individuato la possibilità di esporre le grandi problematiche del pensiero
cristiano, corredandole di nuove soluzioni, in base all’apporto proveniente dalla recenti acquisizioni di
strumenti filosofici, coraggiosamente estratti dalle lezioni di metafisica o di filosofia naturale.

c) La teoria dei trascendentali


Il termine trascendentalia appare per la prima volta nella Summa del domenicano Rolando da
Cremona. Essi sono i più alti e onnicomprensivi tra i nomi Divini, ma sono anche i più generali tra i
nomi creaturali. Sono dunque trascendentali perché non si può andare oltre con la conoscenza: al di là
di esse c’è solo il trascendente, dunque l’inconoscibile.
La teoria dei trascendentali diventa l’insostituibile raccordo speculativo della verità di filosofia
teoretica, etica e teologica: senza la corretta conoscenza dei trascendentali non è possibile alcuna
ulteriore conoscenza particolare.

L’INTRODUZIONE DEL PENSIERO GRECO, ARABO ED EBRAICO NEL MONDO LATINO

L’opera ininterrotta (per circa due secoli) di attive scuole di traduttori e poi anche di commentatori,
riversa i suoi prodotti nelle biblioteche e negli scriptoria della latinità; il nuovo sapere non è soltanto
filosofico o teologico: è un sapere scientifico complesso, comprensivo di testi originali, commenti e
rielaborazioni, di età antica o del più recente passato arabo ed ebraico, relativi ad ogni campo di studi.
Da Toledo parte l’acquisizione e divulgazione del sapere degli “ellenizzanti islamici che si riversano in
Europa con molteplici traduzioni letterali dall’arabo; anche se è evidente quanto difettose sul piano
filologico dovessero essere queste prime versioni.
Gli scritti scientifici e logici di al-Kindi e al-Farabi, e gli scritti di entrambi sulla natura dell’intelletto,
consentirono al mondo cristiano un primo determinato sguardo sulla psicologia del De Anima
aristotelico.
La storia delle traduzioni della letteratura greco-araba si complica con l’opera di nuovi personaggi e
l’apertura di ulteriori centri di irradiazione della nuova cultura. Alcuni di questi passaggi interessano
da vicino la successiva maturazione del pensiero teologico medievale. Giunto da Toledo, vero il 1160,
Gerardo da Cremona, instancabile traduttore di opere aristoteliche, arabe ed ebraiche, ha portato a
compimento la disponibilità dell’Organon in latino con la traduzione degli Analitici Secondi, che
consentono l’acquisizione della teoria aristotelica della scienza come rigorosa dimostrazione deduttiva
e mediata a partire da premesse necessarie e avente sempre oggetti universali.

Si intensificarono i contatti diretti con l’oriente greco, i viaggi a Costantinopoli di intellettuali, filosofi e
traduttori latini in cerca di testi originali. Nella prima metà del tredicesimo secolo inizia quindi un
percorso di revisione delle traduzioni dall’arabo e di allestimento di nuove versione fondate sugli

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originali greci oltrepassando la mediazione araba: è da segnalare in questo senso il contributo in


ambito scientifico, filosofico e patristico di Roberto Grossatesta.

I MAESTRI FRANCESCANI DI OXFORD: ROBERTO GROSSATESTA


Un orientamento particolare caratterizza il magistero dei Francescani nelle scuole e nei centri di
cultura in Inghilterra; qui l’assenza di proibizioni nei confronti dei libri di Aristotele ha favorito una
decisa accentuazione del ruolo conoscitivo dell’esperienza e una notevole apertura di interessi per il
versante fisico-naturalistico della ricerca scientifica.
Gli studiosi inglesi si trovano a loro agio in questa impostazione naturalistica, innanzi tutto per la
possibilità di riflettere in essa la celebrazione del creato come testimonianza dell’opera divina. Non è
un caso che nella prima metà del secolo proprio in Inghilterra venga sottoposta a una attenzione
particolare da parte dei maestri delle Arti di Oxford e Cambridge il testo degli Analitici secondi. In
quest’opera i maestri latini trovano infatti indicazioni precise sulla concezione aristotelica della
scientia, che consentono la determinazione delle condizioni entro le quali d’ora in poi sarà consentito
definire un sapere come “scientifico”: 1. Che sia avviato dall’acquisizione dei dati per mezzo dei sensi;
2. Che sia assicurato esclusivamente dalla comprensibilità di dati universali; 3. Che sia articolato per
via deduttiva a partire da definizioni sempre universali; 4. Che sia sempre una conoscenza per causa.

Il primo commento latino agli Analitici secondi è composto verso il 1230 da Roberto Grossatesta. In
una questio centrale del suo commento, il primo avvertimento aristotelico secondo cui la conoscenza
scientifica deve basarsi sempre sui dati forniti dalla sensazione viene corretto, anzi integrato
dall’osservazione che l’intelletto divino possiede, senza essere subordinato all’esperienza sensibile,
una conoscenza eterna di tutte le cose, universali e individuali. È quindi opportuna, per la costruzione
di una epistemologia compiuta, una maggiore apertura gnoseologica rispetto all’aristotelismo,
partendo dall’ammissione che sia sempre possibile per qualsiasi intelligenza finita ricevere la
conoscenza della verità da una fonte superiore, di ordine intelligibile, oppure divina. È anche
necessario che nella mente umana tutte le nozioni provenienti dall’esperienza sensibile siano
trasportare, mediante processo dell’astrazione, in termini universali, ossia purificati dalla contingenza
e dalla particolarità.
La correttezza conoscitiva può provenire anche dall’illuminazione divina, l’astrazione dei dati empirici,
indispensabili per la produzione della scienza, viene subordinata da Grossatesta all’intervento della
luce interiore che discende dall’alto. In questo modo la verità particolare di ogni nozione
compiutamente scientifica dipenderà da una sua effettiva partecipazione alla Verità divina in sé,
ovvero agli esemplari ideali eterni della creazione che eternamente sussistono nell’Intelletto di Dio.
È necessario individuare un tramite conoscitivo tra la verità degli esemplari e l’esperienza sensibile,
che espliciti e confermi la partecipazione della conoscenza umana agli uni e all’altra, conservando
tanto la necessità e l’inalterabilità dei primi, quanto la capacità informativa della seconda. Questo
perfetto modello di conoscenza, verso tramite tra l’illuminazione divina e l’esperienza sensibili, è
offerto, secondo Grossatesta, dalla matematica.
“Solo nelle matematiche si dà scienza e dimostrazione in senso proprio”, perché solo nella conoscenza
matematica l’oggetto è correttamente colto come risultante dalla confluenza di notizia sperimentale e
formazione astrattiva consentita dall’illuminazione divina.

Ogni conoscenza scientifica deve essere perciò ricondotta a una formulazione matematica, che ne
assicuri certezza e necessità. L’importanza di tale riconduzione è evidente soprattutto nel caso della
conoscenza naturale, che viene così completamente assorbita dallo studio dell’ottica, in quanto scienza
della trasmissione della luce, che avviene sempre in modi immediati e facilmente riducibili a verità

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astratte e universali ma fondate sul riflesso dei dati empirici, nel rispetto delle più semplici e
sostanziali direttive della matematica.

Mettendo in pratica questi principi Grossatesta realizza la complessa architettura di un sistema delle
discipline scientifiche, tutto fondato sul comune principio unificante della luce; egli espone la propria
concezione della luce come prima forma di tutte le cose. Principio di verità, la luce è tale in quanto è
anche principio dell’essere. La creazione della luce è stato il primo atto compiuto da Dio e da esso ha
avuto inizio e condizionamento l’intera produzione discensiva, matematicamente ordinata, della realtà
degli esseri finiti. Nella semplicità dell’atto luminoso si vengono così distinguendo tre momento: la lux,
che esprime la realtà dell’essere, lo splendor, che la diffonde, il fervor, ossia il calore che la riveste e la
riflette distinguendola dalla fonte da cui è emanata. Essendo una sostanza semplice e in sé inestesa, la
luce si diffonde per sua stessa virtù combinandosi fin dal primo istante dell’universo con l’altro
principio secondo creato da Dio, che è il suo opposto, ossia la materia prima, e da tale combinazione
scaturisce l’alterità dell’essere finito. Questa dottrina di Grossatesta è stata chiamata “metafisica della
luce”.

Particolare importanza ha avuto, nel suo perfezionamento di questa tematica, l’incontro con il corpus
delle opere dello pseudo-Dionigi da lui sottoposto a nuova traduzione: poiché tutte le creature
intelligenti, angeli, e uomini, hanno conoscenza della verità partecipando della luce divina e
riconoscendo la presenza della luce nel creato, e poiché tutto ciò che Dio produce reca l’impronta del
suo modo di essere, allora Dio stesso è conoscibile come luce.
Secondo i principi della sua gnoseologia, l’ascesa della conoscenza umana verso l’incontro con
l’illuminazione divina non può che partire da un dato sperimentale. Ma la fede nella Rivelazione, come
insegnava Anselmo d’Aosta, è fonte diretta di esperienza della verità: soltanto partendo da tale
esperienza l’intelligenza può dunque giungere all’illuminazione totale, in cui si compie il
perfezionamento della verità teologica.

ALBERTO MAGNO
a) Filosofia aristotelica e teologia cristiana
L’aspirazione a una sistemazione completa di tutti i migliori risultati del pensiero umano è l’obbiettivo
di Alberto Magno. Il desiderio di “rendere intelligibile Aristotele ai Latini” alimenta e caratterizza in
modo particolare il suo contributo sul piano filosofico.
Alberto è dunque il primo maestro che intende la speculazione aristotelica non più come un deposito
di idee e informazioni più o meno coordinate fra loro, cui attingere episodicamente, ma come
un’espressione compiuta dell’organicità stessa del sapere filosofico scientifico: un sistema di pensiero
dotato di una sua metodologia peculiare (la logica) e orientato a tutte le sfere di indagine della ricerca
umana, teoretiche e pratiche.

Alberto vuole considerare la filosofia come un ambito di studio necessariamente propedeutico e


complementare alla sapienza teologica; egli era già un teologo rinomato e competente, quando si
trasferisce in Germania, per applicarsi metodicamente allo studio della filosofia, cui dedica molti anni
della sua vita senza però mai perdere di vista il collocarsi della sapienza teologica quale punto di
arrivo di ogni evoluzione intellettuale.

Tornato negli anni conclusivi della sua carriera allo studio della teologia, dopo essere stato vescovo ed
essere rientrato in Colonia per chiudere con tale messa a punto la propria parabola di studioso e

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ricercatore, Alberto compone a coronamento del proprio progetto speculativo la sua ultima grande
opera, la Summa Theologiae (rimasta incompleta).

b) Il sistema filosofico della realtà


La metafisica, secondo Abelardo, condivide con la logica il titolo di scienza dei principi primi; per
essere vera la filosofia deve godere di assoluta libertà di giudizio, senza sottomettersi ad alcuna
autorità esterna: ma è in grado di farli legittimamente appunto perché riconoscendo i propri limiti,
può tranquillamente ammettere che una forza esterna alla natura, quale è la volontà divina, possa
interrompere l’ordine naturale e porre termine all’universo, così come ha potuto dargli inizio.
Alberto elabora il suo sistema razionale della realtà, articolato nei diversi ambiti disciplinari in base
alle metodologie specifiche delle varie scientiae particolari, che costituiscono, in uun organico insieme,
la scientia filosofica.
Accogliendo dalle fonti arabe la concezione discensiva dell’essere nell’universo, Alberto colloca al
vertice del suo sistema filosofico della realtà un Dio il cui esse si identifica con il quod est, e che è per
questo puro intelletto e libera volontà operante, quanto mai assimilabile, dunque, al Dio creatore della
religione.

Per spiegare come tale influenza formale avvenga senza modificare la natura del causante ma soltanto
quella del causato, Alberto introduce l’idea di una potenzialità a essere formato che è propria, a suo
parere, di qualsiasi essere determinato, e che egli chiama inchoatio formae.
Dio è dunque l’intelligenza pura che contiene le forme esemplari, verso la quale tutte le forme
particolari delle cose create, presenti nella materia in modo disordinato e confuso, tendono
necessariamente per il tramite dell’attrazione esercitata dalle cause superiori. Con tale attrazioni Dio
regola l’intero ordine dell’universo: “l’opera della natura è l’opera di una intelligenza”. Il movimento
dei corpi è un tendere subordinato a quello dei cieli e così via.
L’universo è un sistema di dipendenza dalla causalità di una forma superiore che agisce da sé in
assoluta libertà, senza presupporre alcun soggetto preesistente sul quale agire.

Gli influssi formali provenienti dall’alto sono infatti in sé necessari, ma la diversa disponibilità delle
imperfezioni materiali li recepisce e li rende efficaci in maniera del tutto imprevedibile e contingente.
c) L’antropologia e l’ascesa della conoscenza
La funzione intellettiva, nella quale secondo Aristotele si realizza la vera natura dell’uomo, pur
essendo potenzialmente presente nell’anima sensitiva non può derivare soltanto dalla disponibilità
alla forma propria del suo corpo, perché è dotata di una libertà di conoscere e di agire che ne assicura
la non dipendenza dal sistema causale fin qui descritto: dunque la sua formazione in atto avviene
direttamente per opera efficace dell’intelletto primo, ossia divino, che irradia in essa la sua luce.
L0anima umana p dunque originata in parte “ab intrinseco” e in parte “ab extrinseco”: è colloca sulla
linea dell’orizzonte che separa l’eternità e il tempo, assolutamente livera rispetto al fato, in parte
dipendente e in parte autonoma dalle diverse funzioni della corporeità. Questa dottrina è esposta da
Alberto nel De natura et originae animae.
Come le intelligenze separate, l’anima umana deve essere dotata della capacità di conoscere gli
universali in modo oggettivo. Tale capacità consiste in una produzione intellettiva di forme per
conoscerle, orientata dall’attrazione formale delle intelligenze superiori: questa attività è ciò che
Aristotele ha chiamato intelletto agente. L’anima umana è però unita al corpo, che la immerge
nell’accidentalità spazio-temporale, e quindi non può contemplare direttamente le forme, come fanno
le intelligenze superiori. L’intelletto agente deve dunque sollecitare, nell’anima, una disponibilità
rappresentativa interiore a ricevere le forme e ad attuarle in atti intellettivi particolari: questa sua
recettività si chiama intelletto passivo o possibile.

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La distinzione di intelletto attivo e passivo non è però soltanto funzionale alla spiegazione di come
avviene la conoscenza e di come si spiega la compresenza in essa di dati universali e operazioni
particolari: essa ha un suo importante risvolto etico nell’invito, rivolto a tutti gli uomini, a liberare
progressivamente l’intelletto passivo dai limiti della corporeità e orientarsi con un approfondimento
dello studio e dell’attività teoretica verso la sua assimilazione con quello agente, che è la vera sostanza
dell’uomo, “intelletto in quanto intelletto”.
Così il vertice della perfezione dell’attività intellettuale descritta da Aristotele coincide
sorprendentemente con le soluzioni contemplative del più puro platonismo teologico, caratterizzato
da espliciti riferimenti a pseudo-Dionigi e a Giovanni Scoto Eriugena: una visione mistica che si
produce quel esito conclusivo dell’ascesa razionale, ma che vale quale esplicazione piena della
definizione aristotelica della metafisica come “scienza divina che perfeziona l’intelletto umano secondo
ciò che in noi c’è di divino. L’antropologia albertina si chiude con una perfetta coincidenza di scienza
filosofica e sapienza religiosa

d) Il sistema della verità teologica


Alberto si sofferma a descrivere le tappe dell’ascesa scalare dell’anima verso la conoscenza della
verità, collocando l’adesione ai contenuti della Rivelazione al vertice e quale completamento delle
indagini naturali.
Non si tratta di accogliere semplicemente la fede come la più alta fonte della verità, ma di porla quale
principio e fondamento di qualsiasi approfondimento argomentativo su di essa. Il confronto tra fede e
filosofia impone ora immediatamente la domanda sulla compatibilità tra la normativa epistemologica
messa in atto dai filosofi nella loro organizzazione delle scienze e la particolarità di una disciplina che
pone il proprio principium a priori nella natura trascendente e non verificabile della Rivelazione. La
messa a punto di tale questione è stata approntata da Alberto sia nel Commento alle Sentenze, sia nella
Summa thelogiae.

È allora innanzi tutto opportuno distinguere la teologia dalle altre scientiae in base al differenziarsi del
rispettivo subiectum. Tale termine indica in tale contesto non il “soggetto” dell’attività conoscitiva, ma
il “contenuto” di essa, l’argomento di cui parlano le varie articolazioni di una precisa forma di
conoscenza; il subiectum è dunque il sostrato o sostanza del conoscere. Con questo chiarimento si
capisce perché Alberto si ritenga autorizzato ad affermare senza esitazioni che la theologia, in pieno
rispetto del significato del proprio nome, ha quale suo subiectum in primissimo luogo direttamente
Dio, fine ultimo cui tende la comprensione della fede anche se mai compiutamente raggiungibile in
questa vita. La teologia tratta di tutto ciò che esprime in qualche modo le verità contenute nella fede, e
dunque di tutte le res e i signa contenuti nella Rivelazione: in questo senso generale è insomma
subiectum della teologia la Scrittura.
La conoscenza della fede è per Alberto conoscenza del Logos, ed è quindi principio di una vera e
propria logica della verità, che consente ai credenti di essere i veri philosophi, che ora, con la nuova
terminologia scolastica si scoprono veri theologi, praticanti della dottrina il cui fine naturale è di
congiungere il logos umano, ossia l’intellectus, con quello divino.
Come non è un oggetto evidente per la fede, così non è un principio razionalmente evidente neanche
per la teologia: per cui non avendo un oggetto conoscibile in quanto tale ma piuttosto un fine verso cui
tendono tutte le sue affermazioni, la teologia non sarà scienza speculativa ma pratica; vero sapere
affettivo. La teologia invita a cercare la verità della fede nel finale congiungimento con Dio che per
potersi compiere dovrà coinvolgere la sostanza intera del credente, il suo intelletto e la sua volontà.
È possibile mantenere per la teologia lo statuto di scienza speculativa proprio mentre si afferma quello
di scienza pratica ma è evidente la subordinazione del primo al secondo: Dio sarà conoscibile anche

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nella visione beata non come essenza in sé, ma come fine dell’orientamento dell’affetto di ogni
creatura, mediante una manifestazione della sua essenza quale volontà attraente.

La teologia può condurre l’intelligenza fino a immergersi nel gaudium che scaturisce solo da quella
pienezza di verità conosciuta e desiderata che è partecipazione alla verità in sé, resa possibile dalla
discesa del verbo nell’anima, fine assoluto e universale della conoscenza e inizio della beatitudine: a
conferma di come, al di sopra della filosofia e quale esito dell’illuminazione proveniente dalla grazia, la
contemplazione mistica caratterizzi e orienti in modo fondante l’intera concezione albertina del
sapere, portandola a compimento.

BONAVENTURA DI BAGNOREGIO
Con le parole scritte in margine al Prologo del Breviloquim, Bonaventura riassumeva nel 1257 il suo
programma di costruzione di una scienza teologica.
L’introduzione all’opera ha quindi il sapore di una piccola summa riassuntiva dei caratteri e delle
condizioni fondamentali della teologia. Nel sapere teologico appaiono congiunti la forma rigorosa della
scientia profana e il carattere sapienziale della docrtina cristiana: “scienza e dottrina altissima”.

La teologia è un “discorso su Dio” (sermo de Deo), in quanto il Dio della Rivelazione è argomento delle
sue indagini e dunque suo subiectum; ed è anche un discorso sul primo e più alto principio di tutto ciò
che è, e questo la fa essere dunque una scienza. In quanto scienza essa ha il dovere di far apparire le
condizioni che consento di esprimere un giudizio razionale sul modo di essere dell’oggetto divino:
ossia di assegnare le rationes a esso relative.
Come hanno intuito anche altri teologi di quest’epoca, in Dio si riassumono perciò le quattro cause che
secondo la metafisica aristotelica sono alla base dell’essere realtà e dell’essere verità di qualsiasi cosa:
agente, materiale, formale, e finale. Se perciò Dio riassume in sé tutte le cause che la fanno essere, la
teologia è soltanto in quanto è scientia divina.
Bonaventura chiarisce anche cosa sia la verità per il cristiano; la teologia è vera se il suo conoscere è
vero. La verità in sé è senz’altro superiore alla verità di qualcosa, in quanto è la ragione che la fa
essere; ma, come insegna Agostino, la verità in sé è Dio: e allora la teologia, scienza di Dio, è scienza
della verità in sé. E questo la rende assolutamente superiore a tutte le altre scienze che sono scienze
della verità di qualcosa, dell’essere e delle sue manifestazioni particolari. È in questo trionfo
dell’agostinismo sull’aristotelismo il senso ultimo della vita theologica francescana.
Poiché la vita e la dottrina di Cristo sono l’unico fine cristiano, Bonaventura ha assunto per sé il
compito “di mostrare che in Cristo sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza di Dio, e
che in quante tale Egli è il centro di convergenza di tutte le scienze”.

Nel corso di tutta la produzione teologica di Bonaventura, il più autentico, e dunque l’unico modo di
realizzazione della propria vita è l’imitatio Christi raccomandato da Francesco d’Assisi.
a) La scienza teologica come reductio ad unum
Il riferimento finale all’unità del Prologo del Breviloquium non è soltanto l’applicazione alla teologia di
uno dei più importanti sigilli dell’epistemologia aristotelica per garantirne la scientificità. Alla
conoscenza teologica spetta infatti proprio il compito di assicurare l’unità non soltanto delle opinioni
sulla fede, ma di tutte le opinioni sulla verità: e potrà riuscire a svolgerlo solo uniformandosi alla
perfetta e unitaria sapienza di Cristo.

Nato nel 1217 a Civita di Bagnoreggio nel Viterbese, Bonaventura è stato votato a Francesco dalla
madre in seguito alla guarigione da una malattia mortale. Per lui essere francescano non è solo un
abito di vita, ma una vocazione dai confini quanto mai ampi, che lo spinge costantemente a dedicare
tutto il proprio impegno al servizio dell’ideale della pace universale. Se è stato teologo è perché lo

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studio della teologia è il più alto strumento per avvicinare gli uomini alla verità. Con perfetta adesione
alla spiritualità di Francesco, questo unum non può essere altro che Cristo, che unisce divino e umano
e congiunge l’uomo alla propria divinità.

Perché tale progetto possa compiersi, una sola certezza assiste l’opera del teologo, quella della
veridicità della Scrittura. Solo nella Rivelazione la verità divina è presente con tutta la sua fondata
solidità e la sua feconda inesauribilità.
Una dottrina dello pseudo-Dionigi descrive la più evidente traccia della trinitarietà del vero nella
universale composizione di ogni cosa in unità essenza (substantia), potenza (virtus) e atto (operatio): il
subiectum della teologia è Dio secondo la substantia, Cristo secondo la virtus, l’opera di redenzione
secondo l’operatio, e poiché tutto questo è distinto in una assoluta unità, secondo la congiunzione in
uno di queste tre realtà il subiectum è il dato di fede, ossia il credibile.
Questo procedimento bonaventuriano non è soltanto un connotato di ordine stilistico, ma una vera e
propria metodologia, finalizzata a una organizzazione mentale della verità scritturale che facilita
l’accesso della razionalità: e lo accompagna nel corso di tutta la sua produzione magistrale, fino a
trovare la sua migliore espressione in quel capolavoro di rigore formale e densità spirituale che è
l’Itinerarium.
b) La teologia come determinatio distrahens

La scientia Christi è la vera teologia, che porterà a compimento la sintesi di ragione (intelligentia) e
fede (scriptura). La lettura mediata del testo biblico ne è il punto di partenza.
tra conoscenza umana e quella divina si colloca il cammino del teologo verso la scienza eterna, avviato
e guidato dalla manifestazione del Verbo, che è duplice in quanto rivelazione eterna intra-trinitaria
della natura divina (Verbum increatum) e rivelazione storica al mondo creato nell’incarnazione
(Verbum incanatum)
La lectio biblica e la determinatio teologica (ossia la soluzione della questio) hanno il medesimo
oggetto, il vero rivelato: ma nel primo caso se ne ha una esposizione chiarificatrice, finalizzata a
comunicarlo e illustrarlo ai credenti; nel secondo se ne produce una comprensione scientifica che va
oltre la pura enunciazione del credibile, in quanto lo trasforma, per opera concomitante della grazia e
della ragione umana in un intelligibile.

In questo senso il sapere teologico si propone, secondo la famosa formula bonaventuriana, come una
determinatio quodam modo distrahens della Rivelazione: dove “distrahens” ha il significato non di
allontanamento o confusione del giudizio, ma di “ciò che conduce altrove”, perché quello
dell’intelligibile è un dominio conoscitivo altro rispetto al credibile.

La ragione che opera nella Rivelazione, per apprendere, consolidare e confermare la fede, è proprio lo
strumento messo a punto dai filosofi, antichi e arabi: ed è tale intervento di un elemento estraneo alla
fede ma finalizzato al perfezionamento di essa che causa la natura “dis-traente” della teologia. Così si
giustifica il fatto che la filosofia viene a collocarsi secondo Bonaventura come seconda tappa
dell’ordine conoscitivo che conduce dalla Scrittura alla teologia o scientia Christi, passando, appunto,
per la scientia, imperfetta ma necessaria, dell’uomo.
c) Dalla scientia alla sapientia
La dignità delle scienze cui può aspirare l’uomo è, secondo Bonaventura, proporzionale all’incidenza
specifica che ciascuna di esse può avere sulla sua esistenza e sul suo desiderio di conquista della
felicità. La sola scienza che soddisfa pienamente tale requisito è la scientia Christi.

Le scienze umane introducono invece nel sapere la diversificazione degli obiettivi e l’imperfezione dei
risultati. Dopo il peccato e la corruzione dell’immagine divina l’umanità è stata condannata a una

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conoscenza indiretta e frammentaria del vero, non solo parziale ma anche irrisolta; e questa è la
tipologia di conoscenza propria della scienza naturale.

Il non fermarsi alla sola filosofia, l’essere disponibili a correggerla con la fede per rinforzare poi la fede
con la stessa filosofia non è solo buono e giusto, ma necessario.
Quale contrappunto continuo a queste esortazioni alla perfezione teoretica e pratica della teologia,
Bonaventura denuncia con amarezza l’inversione dell’ordine della verità di cui si sono macchiati i
teologi universitari che si sono fatti attrarre dalla vana curiosità dei filosofi.
Se Cristo è unico vero magister, il titolo di cui si gloriano i docenti delle moderne sedi universitarie
spetta dopo di lui soltanto a chi segue e fa sua la dottrina cristiana. La facoltà di Teologia deve essere
veramente la nuova casa della Sapienza, contrapposta alle false scuole della filosofia dell’uomo.
La dottrina dell’illuminazione permette a Bonaventura di perfezionare la dottrina filosofica sulla
funzione dell’intelletto agente, che è di recepire grazie a una informazione illuminativa superiore e
fare proprie le regulae fondanti della conoscenza universale.

L’illuminazione garantisce l’oggettività della conoscenza, e l’intelletto agente e quello possibile non
sono due sostanze separate, ma due distinte disposizioni dell’anima: non del tutto pura dalla passività
di prima, altrimenti non potrebbe ricevere l’illuminazione, e non del tutto esente da attività la seconda,
perché è in grado di applicare le forme astratte che riceve alle informazioni provenienti
dall’esperienza sensibile.
La filosofia può dunque essere riconosciuta come portatrice di verità; ma sempre e soltanto in quanto
accetta di essere reducta alla superiore unità della teologia.
Bonaventura si allinea alla prospettiva agostiniana della sacralità della conoscenza per cui ogni vero è
tale soltanto in subordine a una verità più alta, e tutte le verità lo sono in subordine alla più alta di
tutte, che è quella della Rivelazione; se abbandonata a se stessa la filosofia è dunque causa di errore.

“L’anima vorrebbe descrivere tutto il mondo entro di sé”, ma senza la luce unificante di Cristo non è in
grado di cogliere neanche la verità di una singola cosa. Lo dimostra anche l’esito fallimentare della
coraggiosa impresa di Platone che ha cercato di sostituire all’illusione di conoscere in modo sufficiente
e autonomo il mondo naturale l’intuizione di una verità trascendente: ha scoperto che tale verità
esiste, ma la ragione non è in grado di coglierla.; la rinuncia da parte della ragione a cogliere la
superiore verità che sussiste in sé.
d) La teologia speculativa
L’invettiva bonaventuriana nei confronti dei seguaci dell’aristotelismo non è dunque indizio di un suo
rifiuto della filosofia, ma è anzi il fondamento di una nuova proposta speculativa.
Nelle Quaestiones sulla Trinità il tema conduttore la complementarità indispensabile di dimostrazione
e fede, nella ricerca di rationae necessariae che soggiacciono alla formulazione del dogma. La feconda
convergenza di “conoscenza nella certezza” razionale e “conoscenza nella fede” è scandita in ogni
quaestio dal confronto di due successivi articuli. L’articolarsi di queste domande si conclude
mostrando in un unico articolo la convergenza assoluta di ragione e fede che produce una perfetta
“circolarità intelligibile” che scaturisce dalla presenza conoscibile dell’universo del medesimo divino
che si rivela nel credere, e prendendo atto di come il mistero trinitario non sia più tale, perché è ora
l’esito evidente di un percorso che ha mostrato come pensare la fede sia conoscerla e indagare la verità
sia riconoscere la presenza nella fede.

Alla base della teologia speculativa bonaventuriana si evidenzia quindi la ricorrente presenza di un
fondamento intellettivo, palesemente scaturito dalla convergenza appena illustrata di razionalità e
fede, che viene accolto come elemento costitutivo dell’intera speculazione cristiana: la nozione di

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primitas divina.
La primalità divina è l’esistenza dell’essere che non si può pensare che non sia ciò che è.

Nella perfezione come primitas, l’essere divino non può che essere produttivo, proprio per essere
primario rispetto ad altro. Tale produzione si attua necessariamente nella perfezione della conoscenza
del produrre in cui si riflette l’amore per il produrre.

Al liber naturae della razionalità e al liber scripturae della fede si aggiunge per l’intelligenza credente il
terzo documento della manifestazione divina, il liber vitae in cui riconosce che la perfezione divina non
è uno stato acquisito, ma una forza che si realizza eternamente in un dinamismo che non cessa mai.
Tutti i modi che l’intelligenza scopre nelle determinazioni naturali si trovano perfettamente realizzate
nell’eterna vita del Verbo che è Dio.
Il liber vitae è dunque la sintesi di perfezione di intelletto e perfezione di volontà, di intelligenza e fede.
La vita veramente francescana, il cui modello autentico ed eterno è Cristo, ha come unico scopo la
realizzazione, nel pellegrinaggio verso Dio che gli uomini chiamano vita mortale, di questa ben più
autentica e perfetta vita immortale, che è la vita cristiana.

d) La reductio teologica della filosofia e l’itinerarium della teologia


Bonaventura descrive la scalarità della razionalità filosofica come un percorso storico dell’intelligenza
umana verso la verità comunicata con la Rivelazione, lungo nove gradi che corrispondono ad
altrettante scienze particolari e sono ripartiti nelle tre categorie generali della divisione classica delle
scienze filosofiche: naturalis, rationalis e moralis.
“La scienza filosofica è la vita a ogni altra scienza, ma chi vuole trattenersi in essa cede nelle tenebre”,
afferma Bonaventura i una delle sue Collatio. Il “restare” o “trattenersi dei filosofi nella terra
dell’errore è una discesa verso la dispersione e la molteplicità.

Come è oramai evidente, nel vocabolario bonaventuriano “re-ducere” non significa “ridurre”, ma
“ricondurre”: non quindi una sottovalutazione e una repressione delle possibilità conoscitive della
ragione umana, ma una vera esaltazione delle capacità intellettuali dell’uomo, messe in grado, nel
concorso di grazia ed esercizio razionale, di ritornare alla condizione naturale, antecedente al peccato i
Adamo.
L’itinerarium, capolavoro della teologia bonaventuriana che racchiude l’intera vita conoscitiva, attiva e
contemplativa dell’uomo, costituisce il compendio, la guida narrativa del percorso che compie
l’intelligenza in cerca della mistica deiformitas. Sette capitoli, come i gradi necessari all’ascesa
produttiva di contemplazione prima indiretta poi compiuta solo in conclusione, nel transitus
dell’anima in Dio.
Tra vocabolario agostiniano e linguaggio biblico, al primo livello la conoscenza di Dio è descritta come
vestigium, nel secondo come imano, nel terzo come similitudo. Il primo grado è il sensus, il secondo è
l’imaginatio, il terzo è la ratio, il quarto è l’intellectus, il quinto l’intelligentia, il sesto l’apex mentis, e al
di sopra di ogni conoscenza, al settimo grado, si compie il rapimento dell’anima, nell’eccesso mentale e
mistico, in cui, come Dio al termine della creazione, l’intelletto conclude la sua opera, raggiunge la
requie e l’affectus che ne scaturisce può gettarsi pienamente nell’estati.

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TOMMASO D’ACQUINO

“Tutti gli uomini per natura desiderano conoscere la verità”


Ma cos’è conoscere la verità? È sempre, come vuole Agostino, conoscere Dio, oppure è possibile avere
conoscenza di forme particolari di verità senza inoltrarsi sul terreno della teologia?
Tommaso si domanda se la mente umana sia in grado di conoscere la verità soltanto se partecipa
dell’illuminazione divina. E risponde che, a ben leggere le dottrine dei filosofi, ossia di Aristotele, si
capisce che c’è un lume insito naturalmente nell’uomo, che coincide con l’efficacia dell’intelletto
agente. Ci sono però aspetti della verità che questi principi conoscibili non riescono a contenere, come
le verità della fede che eccedono quelle della ragione, e tutte queste la mente umana non può
conoscerle se non viene divinamente illuminata da una nuova luce, che si aggiunga a quella naturale.
Nelle prima delle Questiones disputate de veritate Tommaso chiarisce che il vero è sempre in relazione
a qualcosa, in quanto consiste in una adaequatio rei et intellectus (come formulava Isacco Israeli). E
dunque ci sono tante verità quante cose che l’intelletto può conoscere, mentre nessuna res può essere
in sé falsa perché la falsità consiste soltanto nella inaequalitas tra la cosa e l’intelletto.

Si capisce allora che, come ogni altra scienza, anche la teologia è vera, per Tommaso, se consente
all’uomo di vedere con l’intelletto la cosa che è oggetto delle sue affermazioni: per la teologia questo
vuol dire conoscere con l’intelletto la cosa che è oggetto della fede, riconoscendo che è vera, ossia
realizzando, per quanto possibile, l’adaequatio conoscitiva con essa.
a) Magister in sacra pagina
Tommaso è nato a Roccasecca, ai confini tra Lazio e Campagna, intorno agli anni 1224-1225. La sua
conversione all’Ordine domenicano suscita l’ostilità dei familiari; ricondotto a forza dai fratelli nella
casa paterna, egli approfitta di questo soggiorno obbligato per continuare a studiare; legge
analiticamente la Bibbia e comincia a meditare le Sentenze. La sua ostinazione supera le resistenze e
nel 1245 torna al convento dominicano di Napoli. Nello stesso anno è invitato a Parigi per studiare
ancora. Il magister di cui ascolta e in parte ricopia le lezioni è Alberto Magno.

Diventato poi magister in teologia, Tommaso commenta in maniera analitica la sacra pagina, Vecchio e
Nuovo Testamento.
L’intera opera di Tommaso non sarebbe spiegabile se si perdesse di vista, fermando l’attenzione al
rigido formalismo delle sue procedure mentali e dei suoi argomenti, la sua fondamentale prospettiva
ermeneutica del Testo Sacro. La collocazione della lectio biblica a fondamento della speculazione
teologica giustifica l’importanza decisiva che Tommaso accorsa al senso letterale, esplicitamente
confermata anche nella prima questio della Summa theologiae.
Nel prologo al commento dei Salmi anche Tommaso sottolinea la funzionalità della lectio biblica allo
studio teologico fondandosi sulla teoria aristotelica delle quattro cause: materia della Scrittura è
l’opera di salvezza realizzata da Cristo.; la causa efficiente è Dio medesimo; la causa finale è la
preghiera e l’elevazione dell’anima a Dio; la forma è infine fondamentale per comprendere la
differenza tra la Rivelazione e il discorso teologico, distinti essenzialmente per la diversità dei
rispettivi modi espositivi delle verità di fede.
Verso l’inizio del 1252 il Generale dei dominicani chiede ad Alberto magno di segnalare un giovane
teologo meritevole di poter essere nominato baccelliere a Parigi.

b) Sancti e philosophi
Frutto delle letture da baccelliere, lo Scriptum super Sententis è la prima grande sintesi teologica di
Tommaso. Uno degli elementi che caratterizzano la novità del suo progetto di lavoro è l’utilizzazione,

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in ordine all’andamento della discussione teologica, di autorità filosofiche. La sua citazione delle opere
di Aristotele è elevata numericamente; ciò non altera però la sostanza: il costante rispetto per il
pensiero dei Padri è palese.

I philosphi cominciano a diventare per Tommaso una fonte legittima di pensiero, accanto ai sancti, i
Padri e i teologi del passato.

Proprio perché il possesso della verità assoluta è assicurato dalla Rivelazione, il cristiano Tommaso
non può non dedicare tutte le proprie forze a una nuova fondazione della metafisica: che assicuri un
solido sistema organico di verità liberamente inquisite con le sole forze della razionalità naturale, ma
profondamente radicare in un accordo di fondo con l’altra verità di cui il filosofo cristiano da di poter
usufruire continuamente e gratuitamente, senza alcuno sforzo inventivo. L’amore per la verità
autorizza a cercarla e riconoscerla ovunque essa possa manifestarsi, ma impone di accogliere tra le sue
manifestazioni solo quelle effettivamente oggettive e universali. Per essere autenticamente teologo,
Tommaso sente l’improrogabile necessità di essere anche metafisico.
c) I principi della metafisica: essere ed essenza
Tommaso redige due importanti opuscoli filosofici intitolati tradizionalmente De principiis naturae e
De ente et essentia. Il primo può essere considerato una preparazione all’approccio tematico e agli
sviluppi del secondo. È un’esposizione compendiaria sulle chiavi ermeneutiche introdotte da
Aristotele per spiegare l’essere e il divenire delle cose. Secondo Tommaso queste molteplici strutture
complicano notevolmente l’esplicazione razionale della natura dell’essere; è dunque necessario
tentare di risolvere in una ulteriore distinzione concettuale che sia a tutte anteriore e che consenta un
più diretto approccio alla realtà dell’essere.

È ad Avicenna che si deve attingere per una soluzione più generale ed esauriente della pensabilità
dell’essere derivato in relazione alla pura semplicità dell’Uno; secondo lui i primi concetti
dell’intelletto sono l’ens e l’essentia.
L’essentia è la verità di ciò di cui si predica l’essere. Coincide dunque sempre con una definizione, se
questa definizione è vera. L’esse è invece ciò di cui si predica tale definizione. Dunque l’essentia
(quidditas) si predica di ciò che è, ossia di un ens. E allora si dice ens tutto ciò di cui si predica
correttamente l’atto di essere, ossia che esiste ed è qualcosa. Questo qualcosa che l’ens è in atto, ossia
in un modo determinato che ne esclude altri, è l’essentia.
È significativa la distinzione di essenza ed essere nelle sostanze separate (opposte alle sostanze
composte che risultano dalla combinazione di forma e materia), come l’anima e l’intelligenza.
Tommaso nega che la capacità intellettiva possa essere affetta dalla materia, come affermava
Avicebron, altrimenti non sarebbe capace di cogliere l’universalità. Ma sarà pur sempre necessario
ammettere nell’anima e nelle intelligenze una composizione, altrimenti sarebbero identiche alla Causa
prima ce è somma semplicità. Escludendo la materia, sarà allora necessario riconoscere nelle sostanze
separate create una composizione di forma e di essere e avranno come loro essentia soltanto la forma.
Il loro essere non è assoluto, ma “ricevuto”, e in quanto tale è limitato e finito.
Come le intelligenze, l’anima è determinata in quanto è composta di essentia ed esse; ma, a differenza
delle intelligenze, è individuata perché il suo atto di essere è predisposto a realizzare l’essenza soltanto
in unione con un corpo individuale.

Soltanto la Causa prima universale gode invece di un esse che realizza in atto in modo pieno e assoluto
la sua essentia, ed è ens in forma totale e assoluta senza alcuna potenzialità irrisolta. In Dio essentia e
esse coincidono; la deità non è infatti un genere che si realizza in atto in una specie o in un individuo,
ma è l’essere stesso in atto. È escluso che Dio possa essere considerato l’essere universale che fa essere
le altre cose, l’essere comune che implica nel suo concetto l’aggiunta di qualcosa d’altro per essere

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esistente. In quanto essere in atto, Dio possiede tutte le perfezioni che possono essere realizzate in atto
nell’essere, dunque non gli manca alcun attributo indicante perfezione.

Tommaso passa poi a studiare l’essenza degli accidenti: perché anche di essi viene espressa una
definizione, e quindi è naturale che abbiano una essenza. Ma poiché l’accidente esiste sempre in
quanto inerisce a una sostanza, nella sua definizione deve essere posto qualcosa d’altro cui inerisce
come a un soggetto. Dunque la definizione degli accidenti è sempre imperfetta, e la loro essenza è
incompleta e relativa.

In conclusione, la distinzione di esse e di essentia ha consentito a Tommaso di delineare una


architettura articolata e completa della realtà, ribadendo l’assoluta semplicità divina; la natura
composta di essenza ed esistenza negli esseri creati; la composizione di sostanza e accidente come
attualizzazioni diverse dell’essenza nell’esistenza, l’una compiuta e pienamente definibile (la sostanza)
e l’altra imperfetta e accessoria (l’accidente).
d) Filosofia e teologia: dai commenti di Boezio alla Summa contra Gentiles
Gli anni del primo magistero parigino di Tommaso, dal 1256 al 1259, sono particolarmente intensi,
soprattutto per l’impegno didattico dominante della disputatio.

Tommaso ha soprattutto occasione di evidenziate la distinzione tra la metafisica, cui secondo


Aristotele spetta il nome di philopsophia prima, ma anche di scientia divina e quindi theologia, e la
teologia più propriamente detta, che è la theologia christiana, identificabile anche come sacra pagina
(poiché di risolve nella comprensione della Rivelazione).
La teologia può essere o filosofica o fondata sulla fede: la prima ha per subiectum l’ente in quanto tale e
studia le res divinae come principio del suo stesso subiectm; l’altra ha come subiectum il divino in sé.
La novità introdotta da Tommaso sta nel fatto che se la teologia vuole essere scienza non basta più
radicarne la verità sulla Rivelazione, accolta come credibile prima di diventa intelligibile. Ora deve
essere chiarito come il diritto a essere una scienza le spetti non perché è fondata sulla fede, ma
nonostante il fatto che sia fondata sulla fede. Sarà di qui poi necessario mostrare come la natura
rivelata della teologia cristiana sia compatibile con l’epistemologia aristotelica, dal momento che è
necessariamente una scienza.

Tommaso si trova ora dinanzi al compito più delicato e centrale del suo sistema: fondare la conoscenza
cristiana della verità entro il paradigma delle scienze razionali umane.
Nel 1259 Tommaso lascia Parigi, nel 1261 rientra in Italia, e in questo anno gestisce la composizione
della Summa contra Gentiles.
Quest’opera può essere considerata il punto di arrivo dell’evoluzione scolastica del genere del dialogo
con le altre religioni; uno strumento apologetico-razionale per convincere colo che appartengono ad
altre confessioni religiose dell’opportunità di convertirsi.
Tommaso introduce l’espressione Ea quae sunt preambula fidei per indicare nel loro insieme le verità
teologiche conoscibili con la filosofia, che sono anticipatrici o precorritrici rispetto alla fede, e non
sono perciò ancora articoli di fede ma nozioni filosofico-naturali, vere, introduttive e propedeutiche
rispetto alla fede e alla teologia. In quanto tali sono condivisibili da tutte le intelligenze umane,
indipendentemente dal credo religioso in cui sono state educate: cosicché sono correttamente
preparatorie per tutti alla conversione alla vera fede.

Ciò equivale a dire non soltanto che la teologia porta a compimento ciò che la filosofia avvia, ma anche
che proprio tale avvio rende conto delle autentiche finalità teologiche, dato che la perfezione non può
non compiersi se non su una imperfezione di partenza.

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Al margine iniziale e a quello conclusivo dell’opera si pone così l’argomento fondamentale, la


celebrazione dello studium sapientiae, antico nome della filosofia, ora nome anche della teologia nata
dalla migliore utilizzazione possibile della ragione filosofica: che è tra tutte le attività umane la più
perfetta, perché consente all’uomo di partecipare della beatitudine, perché lo porta alla somiglianza e
all’amicizia con Dio.
La dimostrazione dell’esistenza di Dio è la prima fondamentale verità dimostrabile per via razionale,
ed è dunque il necessario fondamento dell’opera intera, senza il quale svanisce ogni possibilità di
parlare delle cose divine.

Si passa quindi a verificare come dell’esistenza di Dio sgorghino con rapida concatenazione
dimostrativa le altre fondamentali condizioni della sua conoscibilità. Non c’è in Dio alcun accidente,
alcuna differenza sostanziale. Dio non rientra in alcun genere, non è forma delle cose, ma è assoluta
perfezione: in accordo con i fondamenti della nuova metafisica cristiana, Dio è semplicemente la sua
essenza.
Come risulta evidente, la premessa logica della sovrapponibilità di teologia razionale e teologia
fondata sulla fede è principio per cui tutto ciò che può essere predicato di Dio è sempre e soltanto
esprimibile per via negativa (via remotionis).
Se dunque la predicazione teologica non può essere né univoca, né puramente equivoca è necessario
concludere che ogni predicazione teologica, ossia ogni denominazione divina comune anche alle
creature, è sempre e soltanto di valenza analogica. L’analogia implica la possibilità di predicare di cose
distinte uno stesso nome per ragioni diverse.

L’introduzione dell’analogia nel discorso teologico è uno strumento di grande potenza argomentativa
per Tommaso, in quanto consente un più agevole ricorso a strumenti e termini espressivi propri della
filosofia naturale o della metafisica per descrivere la perfezione divina.
e) Tra Roma e Parigi, aristotelismo contro averroismo: angelogia e antropologia
Nel mese di settembre del 1265 Tommaso viene incaricato di dirigere uno studium teologico
dominicano a Roma. A quest’epoca risale l’inizio della composizione delle Summa theologiae, ma
vedono la luce anche importanti Questiones disputatae. Sul versante filosofico, prende corpo il suo
progetto di pubblicare un commento integrale del corpus degli scritti di Aristotele.

Anche se profondamente ispirata al pensiero aristotelico, Tommaso elabora in questo contento una
dottrina antropologica che i suoi stessi contemporanei celebreranno come “nuova”; questa concezione
filosofico-cristiana dell’uomo è coerentemente fondata sui temi portanti della sua metafisica: la
materia signata come principio dell’individuazione, il rifiuto dell’ilemorfismo universale e la
composizione universale di essenza e atto di esistere.

Poiché l’intero progetto divino ha come fine l’assimilazione delle creature al Creatore, è necessario che
essa possa realizzarsi in tutte le possibili attuazioni. E poiché l’intelligenza non è una funzione del
corpo, esistono certamente creature che possono realizzare l’assimilazione a Dio per mezzo di
un’intelligenza assolutamente spirituale: tali sono gli angeli, pure sostanze intellettive, esenti da
composizione con la materia e la corporeità.
Tommaso si dice convinto che la natura delle sostanze angeliche sia la prova principale
dell’ordinamento gerarchico dell’universo liberamente voluto da Dio come una scalarità di perfezioni
per dare vita a tutte le possibili forme di partecipazione creaturale alla sua perfezione. In questa stessa
prospettiva si spiega anche la sua polemica contro l’ilemorfismo universali di Avicebron.
L’uomo è certamente dotato di un’anima, ossia di una sostanza intellettiva e spirituale come sono gli
angeli, perché svolge con il suo pensiero alcune funzioni vitali, quelle legate alla conoscenza, che
condivide soltanto con essi. Almeno le operazioni che l’anima svolge in quanto intellectus non sono

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quini dipendenti dalla corporeità, come non è corporeo l’universale, che è il loro oggetto: il soggetto
che le compie deve quindi essere incorporeo. Tra queste operazioni dell’intelletto c’è inoltre anche la
conoscenza di sé, che avviene senza alcun intermediario corporeo.

L’anima è forma perché conosce come una sostanza intellettiva: e in quanto tale, come tutte le sostanze
intellettive, è incorruttibile è dotata di volontà e di intelletto e la sua determinazione sostanziale è data
dalla composizione di essenza ed esistenza.

Poiché ciascuna sostanza celeste è una specie diversa, le anime umane non sono della stessa specie
degli angeli. Poiché l’intellezione è diversa in ciascun individuo umano è necessario che ogni anima
entri in composizione con il corpo individuale, contro l’opinione degli averroisti che per salvare
spiritualità e oggettività dell’intelligere affermano che il principio intellettivo è uno solo per l’intera
specie umana. La risposta è ora semplice: poiché la conoscenza intellettuale, principio formale
dell’umanità, è ciò che rende l’uomo uomo, se il principio intellettuale fosse comune a tutti gli uomini
sussisterebbe un solo uomo. In conclusione, poiché l’uomo è individuo umano, ed è la forma che fa
essere uomo il corpo individuale: dunque l’anima è la forma sostanziale dell’uomo in quanto è
individuo umano. La precisazione più importante che Tommaso introduce a questo punto è che il
carattere di sostanza non contraddice quello di forma anzi scaturisce proprio dalla perfezione della
forma.
Tommaso non considera dunque anima e corpo come due sostanza accidentalmente unite ed esistenti
in atto anche quando sono separate, ma come i principi costitutivi dell’unitaria sostanza individuale
esistente in atto.
Dall’anima intellettiva, unica sua forma sostanziale, il composto umano ha dunque anche il suo essere
sensibile, vivente, corporeo, e anche il suo essere sostanza ed ente. E proprio questa complessità e
unicità della forma sostanziale garantisce l’unità dell’individuo umano, che sarebbe invece
compromessa dal concepire platonicamente l’unione dell’anima con un corpo-sostanza già orma senza
di essa.
Tommaso parla inoltre di primato dell’intelletto sulla volontà, che però non si risolve in un
intellettualismo deterministico: la volontà è mossa in modo “conforme”, non necessariamente
“subordinato” all’atto di intelligenza, e può orientarsi liberamente verso l’oggetto per il semplice fatto
che lo conosce sempre come un bene soltanto parziale e finito, dunque più o meno desiderabile.
Anche l’immortalità individuale dell’anima è argomentabile a partire dalla capacità propria della forma
intellettiva di conoscere le forme astratte indipendentemente dalla rappresentazione corporea che le
occasiona durante la vita terrena: quando si separa dal corpo morto, l’anima continua a conoscere
traendo direttamente le species dal mondo intelligibile, il che le era finora impedito proprio dal legame
con il corpo. Non soltanto dunque l’anima incorruttibile non perde la propria individualità con la
morte corporale, ma conserva la natura di forma, ossia di capacità di dare vita, movimento e
conoscenza al corpo anche quando è separata da esso.
L’antropologia tomista raggiunge uno dei vertici della coniugabilità di fede e ragione, in quanto la
risurrezione dei corpi, dogma imposto dalla Rivelazione e apparentemente inconciliabile con la
filosofia naturale, diventa invece un corollario perfettamente dimostrabile della concezione
aristotelica dell’anima.

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f) La Summa theologiae e la “teologia dell’Esodo”

L’evidenziarsi nel corso dell’analisi filosofica della ragionevolezza di alcuni dogmi consolida la certezza
della univoca e totale convergenza tommasiana di verità razionale e verità teologica.
L’accostamento dell’intelligenza alla fede però non è privo di limiti. Lo chiarisce il caso limite della
creazione: per quanto infatti sia possibile dimostrare che ogni ens diverso da Dio è creato da Dio, la
ragione non riesce affatto a considerare evidente che il mondo, come vuole la Bibbia, abbia avuto un
inizio.
Tommaso contribuisce alla discussione di questo problema con la pubblicazione, verso il 1271,
dell’opuscolo De aeternitate mundi, in cui assume una posizione neutra, sanzionando l’impossibilità di
elaborare argomenti filosofici definitivi né a favore né in contrario dell’eternità del mondo.
L’incidenza sul discorso teologico di questo caso limite però rinforza la sintesi di ragione e fede, perché
assicura a entrambe distinzione e autonomia proprio nel momento in cui è portata all’estremo la
possibilità di riconoscerne la convergenza. Le prime quaestione della Summa mirano dichiaratamente
a evidenziare tale situazione.

Iniziata nell’anno di insegnamento 1265-1266, la composizione della Summa si snoda lungo gli ultimi
sette anni della vita di Tommaso: la Prima pars, in cui si para di Dio, della natura, della Trinità, della
creazione; nella Secunda pars viene studiato il relazionarsi delle creature razionali a Dio; nella Tertia
pars si parla della redenzione e della grazia.
Nell’autunno del 1273 interrompe per motivi di salute l’attività didattica, per morire poi pochi mesi
dopo nel 1274.
La Summa rimane incompiuta alla novantesima questione della Tertia; discepoli e amici, lavorando in
equipe, ne completarono il testo secondo il suo progetto originale redigendo un Supplementum.

La Summa è una esposizione completa della theologia, l’impostazione sistematico-enciclopedica spiega


il fatto che tutte le più importanti concezioni dottrinarie tommasiane trovino qui la loro più corretta e
compiuta esposizione.
Nella seconda questio della prima parte Tommaso espone con incisiva rapidità le cinque viae per
scolpire nella mente l’indubitabilità di una asserzione che non è di per sé nota ma che scaturisce
necessariamente dal conoscere e dalla necessità di giustificare ciò che ci è noto, ossia le creature,
sempre e soltanto conoscibili come risultato di qualcosa. Il principio di causalità impone di riconoscere
l’esistenza di un primum che, per essere tale, deve essere trascendente.
Nel respondeo al terzo articolo della quaestio, Tommaso elenca i cinque percorsi che sono distinti e
non riconducibili l’uno all’altro.
La prima via è la via del motus: ogni cosa che è in movimento passa dalla potenza all’atto, quindi non
può essere mossa da sé, ma sempre da qualcosa che è in atto.
Seconda via è quella della ratio della causa efficiente: tutte le cose sono sottoposte all’efficacia di
qualche causa efficiente del loro essere, ma nessuna può essere causa efficiente del proprio essere,
altrimenti sarebbe anteriore a se stessa, il che è impossibile.
Terza via è quella dal possibile al necessario: alcune cose sono possibili, ma se tutte le cose lo fossero si
dovrebbe ammettere la possibilità di un momento in cui nulla era: ma l’essere scaturisce solo dal
qualcosa, dunque c’è qualcosa di necessario nelle cose.
Quarta via è quella dai gradi delle cose: si trova che le cose siano più o meno buone, vere, nobili e così
via: ma il più o il meno sono sempre in riferimento all’avvicinarsi o all’allontanarsi rispetto a qualcosa
che è in massimo modo.
Quinta via è quella dal governo delle cose: tutte le cose creare, non soltanto quelle dota di capacità

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conoscitiva, operano sempre secondo un fine per conseguire ciò che è lo scopo della loro nature,
dunque nell’universo nulla è casuale ma tutto è ordinato secondo un fine.

Il Dio primum cui si riconduce la causalità universale è dunque una potenza assoluta, motrice,
ordinatrice, governatrice dell’intera realtà. Questo è il massimo cui giunge, da sola, la ragione dei
filosofi, ma ancora non è la conoscenza del quid del divino, ossia di ciò che è Dio.

Mentre la razionalità si sforza di raggiungere per questi passi fondamentali e obbligati la conoscibilità
del come è Dio, essa è obbligata a rinviare tutta la valenza semantica e una efficacia superiore a ogni
impatto naturale: affidando ogni conoscibilità teologica al discorso analogico, che nel momento stesso
in cui coglie le sue perfezioni le coglie come “invisibilia”.
Nessun concetto formabile a partire da ciò che è visibile può pretendere di valere come
esaurientemente significativo di ciò che non è visibile. Si è giunti con questo sul limitare di quella che è
stata definita la “teologia dell’Esodo”, in riferimento al nome unico che Dio stesso si è dato quando ha
risposto alla domanda di chi gli chiedeva chi fosse: “ego sum qui sum”. La formula dell’Esodo afferma a
un tempo l’essere divino e la sua assoluta semplicità, un essere privo di determinazioni o qualificazioni
perché assolutamente esistente, dunque assolutamente primo in tutti gli ordini della determinazione o
della qualificazione dell’esistere. Un essere puramente in atto non è realizzazione di un’essenza
distinta dal suo esistere, di una divinitas diversa dall’esse Deus, ma è necessario perché è assoluto est.
g) La teologia come scienza

Conoscenza vera la teologia è scientia. L’ultima, fondamentale domanda speculativa che il pensare
teologico di Tommaso deve risolvere è la domanda sul quid della teologia, sul suo perché, sul suo
essere scienza.
Così posta, tale quaestio equivale al problema della possibilità di incorporare la theologia all’interno
della concezione aristotelica della scientia.
Muovendosi su queste basi, Tommaso sa che il conoscere scientifico concerne solo la comprensione di
verità universali.

L’ideale perfetto della scienza aristotelica non è però realizzabile come tale in tutti gli ambiti
disciplinari. A parte la matematica e la logica, in tutte le altre scienze è necessaria l’introduzione di dati
provenienti dall’esperienza, che in quanto legati al particolare, non sono sempre costitutivi di una
assoluta coerenza tra intellectus e res.
Questa situazione impone una deroga al rigore dei criteri epistemologici di base, inevitabile in tutte le
forme di conoscenza che hanno a che fare con il mondo della contingenza, come le scienze naturali e la
stessa metafisica.
Dalla constatazione di questo alternarsi del quadro epistemologico di base nei distinti ambiti di
indagine trae un preciso giovamento, secondo Tommaso, la possibilità di definire la scientia teologica.
La questio de sacra doctrina assume così l’aspetto di un vero e proprio discorso sul metodo teologico.
Prima di tutto è essenziale definire il concetto che Tommaso, oltre che sacra doctrina, chiama sacra
scriptura, intendendo dunque qualcosa di più ampio rispetto a ciò che i suoi contemporanei
descrivono come teologia.
La domanda se la teologia sia una scientia va posta perciò in modo più preciso: la sacra doctrina,
conoscenza indispensabile alla salvezza, possiede in una delle sue modalità le qualità che
caratterizzano un sapere scientifico?
Il problema non è tanto nell’ammettere che la teologia abbia i suoi principi negli articoli di fede,
quanto nella opportunità di accogliere tali certezze di partenza della conoscenza teologica come

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principi produttivi di un conoscere che scaturisce da essi come da qualcosa di “per se notum”. Sotto la
prospettiva della scienza teologica, agli articoli di fede spetta la funzione di principi primi.

Con ciò siamo introdotti nella teoria della subalternazione. In logica si chiamano “subalterne” le
proposizioni che traggono il principio della loro veridicità da proposizioni a esse superiori. Alcune
scienze procedono da principi noti per l’intelletto naturale, come l’aritmetica e la geometria; altre
procedono invece da principi resi noti dalla luce proveniente da una scienza superiore, nei confronti
della quale sono dunque subalternae.

La sacra doctrina è allora scientia esattamente in questo second modo, perché procede da principi resi
noti dalla luce proveniente da una scienza superiore, alla quale è “subalternata”.
Il fatto di essere fondata su una conoscenza proveniente da una fonte esterna non sminuisce la
scientificità della teologia. È quindi confermato che quello proprio della teologia è un metodo
artificialis, ossia adattato alla sola materia di cui tratta, e a essa essenziale. Sarà perciò lecito
ammettere nella sacra doctrina anche una serie di procedimenti che le sono peculiari, come quello
metamorfico, simbolico e narrativo; ma tutto questo non esclude, anzi conferma la liceità del metodo
argomentativo proprio della theologia in senso stretto.
Tommaso chiarisce infine che la sacra doctrina è senza dubbio una scienza pratica, in quanto incide
sull’orientamento etico degli uomini per farli partecipare dei frutti della redenzione: ma pria di essere
tale è anche una scienza speculativa, interessata alle realtà divine nella misura in cui sono rese
conoscibili dall’illuminazione divina. Questo non compromette però la sua natura unitaria.

E qui si evidenzia anche la distinzione naturale tra teologia sacra e filosofica: ambedue hanno per
oggetto Dio, ma non secondo la stessa ratio formalis, in quanto la teologia filosofica non parte dai
presupposti della fede. È qui necessario distinguere tra subiectum e obiectum del sapere scientifico.
Si comprende allora che teologia sacra e teologia filosofica hanno in pratica lo stesso subiectum, ma si
differenziano per la ratio formalis del rispettivo obiectum, in quanto i risultati conseguiti dall’una e
dall’altra nell’avvicinarsi al subiectum variano in riferimento alla radicale distinzione metodologica che
le caratterizza, poiché l’una è fondata sulla Rivelazione, l’altra no. Tommaso può quindi affermare che
il subiectum della sacra doctrina è in tutto e per tutto Dio.
Così proprio mentre apprezza il conseguimento dei propri traguardi, la teologia riconosce al tempo
stesso i propri limiti e mentre percepisce l’infinità del proprio compito ne ammette anche
l’inesauribilità.
Transustanziazione: mentre in ogni forma di alternazione naturale la sostanza non muta mentre
cambiano gli accidenti, nel sacramento eucaristico avviene un mutamento delle sostanze del pane e del
vino in quelle del corpo e del sangue di Cristo accanto a un permanere degli accidenti visibili delle
sostanze trasformate.

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ENRICO DI GAND

Numerosi autori di sermoni universitari lamentano la paralisi dell’attività universitaria determinata


dall’accentuarsi dei conflitti ideologici e dottrinari. Sull’onda della discussione viene incaricata di
analizzare e contestare tali dispute una commissione di teologi cui prende parte anche il più noto
maestro secolare di questi anni, il fiammingo Enrico di Gand. Inevitabilmente il confronto si estende
anche su tempi più strettamente dottrinari e speculativi, e sono soprattutto le tesi aristotelizzanti dei
Dominicani a essere immediato oggetto di critica.

a) I fondamenti teologici del pensiero


L’opera teologica di Enrico è la Doctor Sollemnnis; c’è poi una Summa quaestionum ordinariarum che
risponde al progetto di fondare la scientificità del sapere teologico sulla base di un ordine
epistemologico del tutto distinto da quello aristotelico. Questa fondazione di un’autentica
epistemologia cristiana si contrappone apertamente alla teoria tomassiana della teologia come scienza
subalterna.
La posizione di Tommaso comporta per Enrico un ingiustificato condizionamento delle possibilità
conoscitive assicurate dalla Rivelazione a schemi mentali che sono a essa estranei. E inversamente
l’inclusione della teologia in un sistema di scientificità naturale impone un ingiustificato confronto tra
dati della fede e dottrine naturalistiche che potrebbe causare gravi dubbi ed errori nelle menti dei
fedeli.

Dio è a un tempo soggetto e oggetto della theologia, in quanto è Dio che sa e fa sapere ciò che su Dio
deve essere saputo.
Il problema fondamentale di Enrico è quello di riuscire a portare la teologia al livello degli uomini,
ossia di condurre, mediante la Rivelazione, la conoscenza che Dio ha di sé e della verità a essere
praticabile e praticata da parte dell’intelligenza umana, anche come principio, posta l’assolutezza della
sua verità, di una regolamentazione delle scienze inferiori.
b) La composizione “intenzionale” dell’essere

Enrico è costretto ad allargare il proprio discorso a una nuova precisazione di cosa sia l’essere e di
quale sia la sua conoscibilità. Tommaso ha introdotto la distinzione di essentia ed ens, ossia di essenza
in sé ed essenza esistente in atto per l’aggiunta di qualche perfezione formale mancante all’essenza in
sé; Enrico teme però che la distinzione tomassiana, troppo orientata verso la metafisica di Avicenna,
possa essere intesa come la giustapposizione di due res, l’una necessaria in sé, l’essenza, e l’altra
possibile e derivata dall’essenza, ossia l’ente o esistente. La dottrina di Tommaso cade nel
necessitarismo deterministico, che è uno dei peggiori errori della filosofia a parere di Enrico, perché
compromette non soltanto la libertà divina, ma anche la stessa realtà delle res finite come tali, che alla
luce della vera metafisica cristiana devono essere concepite come res dotare di piena dignità
ontologica. La composizione dell’esse va dunque intesa non come la differenziazione di qualcosa che è
in modo autentico e qualcosa che è soltanto in modo derivato, ma come la distinzione concettuale di
due maniere entrambe autentiche di essere: l’essere di Dio, che è in quanto è l’essere in sé, e l’essere
delle creature, che è ciò che è in quanto Dio ritiene giusto e conveniente che sia.

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L’essere si predica dunque in modo non univoco: in Dio si ha qualcosa che non è altro che l’essere, e
può anche chiamarsi Bene o Vero, perché è l’Essere di pieno diritto; nelle creature si realizza invece,
come esito di un processo creativo sia pure istantaneo ma pur sempre temporale, un esistere che può
compiersi in più modi e che tra le varie sue caratterizzazioni, che corrispondono alle distinzioni
categoriali comporta anche, ma non esclusivamente, l’essere. In sostanza questo significa che ciò che fa
essere la res creata è semplicemente il fatto che la res increata e necessaria la fa esistere.
Esemplarismo teologico: ammettere le idee come intermediari della creazione nella mente divina; ciò
equivale ad affermare che il creatore prima pensa l’essenza, quindi porta ad atto l’esistenza con la
propria onnipotente volontà creatrice.

c) La dottrina della conoscenza


Perché l’uomo conosca la verità è necessario un intervento dall’altro, con il quale Dio stesso evidenzai
alla mente umana la veridicità del dato conosciuto mettendolo a confronto con una verità superiore.
Ne segue una riconsiderazione filosoficamente fondata della dottrina dell’illuminazione, che non sarà,
come ritiene la maggior parte degli autori francescani, una funzione regolativa del pensiero umano, ma
una condizione formale e costitutiva indispensabile della conoscenza vera, capace di operare anche sul
versante pratico e di rendere la volontà autonoma dall’intelletto in base a una trasmissione di efficacia
agente che viene direttamente da Dio. L’illuminazione equivale a un orientamento aprioristico del
conoscere e dell’agire, consentito da una mistica congiunzione dell’anima con il Verbo. Enrico dà a tale
principio a priori della conoscenza il nome di illustratio specialis. Ogni scienza dunque è tale nella
misura in cui nel suo specifico ambito di conoscenza è assicurata dall’illustratio specialis la coerenza
tra le verità da essa formalizzate nell’intelletto e la legge eterna degli universali divini.
d) La scienza teologica e la nuova epistemologia cristiana

La dottrina dell’illuminazione spiega l’inadeguatezza dei criteri epistemologici aristotelici, che sono
fondati sul principio dell’astrazione e dunque adeguati esclusivamente per le scienze de naturalibus.
Decisamente superiore alla scienza conseguibile per via astrattiva e dimostrativa è invece la scienza
aperta da un’illuminazione superiore, capace di mettere in contatto l’intelligenza con la realtà
soprannaturale. E questa è la scienza teologica, il cui subiectum, Dio, non è certo conoscibile o
indagabile con gli strumenti della scientificità naturale. L’intera articolazione del sapere teologico
dipende dalla fede nella Rivelazione. Il subiectum della teologia coincide pienamente con il suo
obiectum.
La teologia è superiore alla fede stessa, perché arricchisce la semplice acquisizione informativa del
credere con un intelligere garantito dall’intervento dell’illustratio superiore che rende intelligibile le
verità di fede.
Enrico propone di considerate la teologia come una scienza assolutamente veridica, che mette l’uomo
in condizione di partecipare della verità divina, in sé impraticabile, agendo nello stesso modo n cui
l’ispirazione dello Spirito Santo ha illuminato i profeti nel redigere i testi sacri. Il che significa che la
teologia umana può realizzare eccezionalmente rispetto a qualsiasi altra forma di sapere umano,
quella perfezione gnoseologica che la rende simpliciter speculativa, ossia speculativa in modo assoluto
e perfetto, come secondo lo stesso Aristotele soltanto la scienza divina può essere.

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EGIDIO ROMANO

Nato a Roma tra il 1243 e il 1247, Egidio entra nell’Ordine nel 1258; ancora baccelliere commenta
Aristotele e si inserisce nella battaglia contro l’averroismo. Muore ad Avignone nel 1316.
Il suo contributo speculativo è stato oggetto di interpretazioni contrapposte: per certi versi il suo
pensiero sembra svilupparsi in una accentuata dipendenza dall’insegnamento dell’Aquitane, per altri
appare come un tenace avversario di alcune fra le tesi difese con più accanimento dai suoi seguaci
dominicani. Di fatto entrambe queste interpretazioni non tengono conto dell’effettiva originalità del
suo pensiero: quella della fondazione di un sapere autenticamente agostiniano ma reso
speculativamente solido dall’apporto della ragione filosofica, al cui concordismo con la fede Tommaso
ha dato un contributo essenziale. Questa restaurazione dell’agostinismo non dovrà dunque essere
operante soltanto sul piano teologico, ma anche sul quello filosofico, perché la nuova teologia
agostiniana, fondata sulla sintesi di credere e intelligere, deve essere ripensata alla luce delle nuove
potenzialità aperte per l’intelletto umano dalla filosofia pagana e di cui Agostino non poteva disporre.
La forte accentuazione realistica che Egidio ha proposto si manifesta nella distinzione tommasiana di
essenza ed esistenza; egli afferma che i due elementi da cui è composta ogni creature sono due vere e
proprie res, effetto l’una e l’altra della creazione, la cui unione non produce una effettiva unità. L’atto
creatore divino ex nihilo è infatti un’azione immediata e uniforme, e coincide immediatamente con la
connessione dell’esistenza alle essenze.
Egidio è inoltre costante nel suo insistere sulla reificazione tanto dell’esse essentiae quanto dell’esse
existentiae, come tappe successive del processo di derivazione delle cose create dalla semplicità priva
di composizione dell’essere divino. Sarebbe però banalizzante, e non corretto, ridurre le essenze agli
esemplari eterni e le esistenze agli effetti che ne partecipano.

È soprattutto sul piano gnoseologico che Egidio trae le conseguenze più significative della propria
metafisica, in quanto la conoscenza vera non può essere per lui altro che l’espressione di un giudizio
sulla composizione reale di essenza ed esistenza in ogni essere. Soltanto Dio è però in grado di
conoscere pienamente tale composizione, ossia l’effettivo esistere dell’essenza. Nel soggetto umano,
invece, il cui conoscere muove sempre dall’esperienza del singolare per passare all’astrazione
dell’universale, la percezione dell’effettivo esistere dell’essenza è possibile soltanto attraverso la
mediazione del senso corporeo.
Il pensiero umano non può dunque mai cogliere la composizione effettiva di essenza ed esistenza in
una determinata res, ma soltanto rappresentarne diversi gradi di manifestazione, corrispondenti a un
articolato moltiplicarsi dei livelli di approccio conoscitivo.
L’anima si articola in molteplici facoltà, ognuna delle quali si rivolge all’oggetto con una diversa
capacità intenzionale.
La conoscenza è l’esito del riflettersi complesso e scalare nell’anima di diversi modi di essere della res.
Ogni atto di conoscenza ha a che fare con la medesima realtà, ma coglie in essa diversi modi di
presenzialità dell’essenza nell’esistenza.

Dinanzi a questo continuo incremento di nozioni l’anima è totalmente recettiva. Il rifiuto


dell’illuminazione come funzione conoscitiva trascendente e la riconduzione di essa all’opera
dell’intelletto attivo valgono per Egidio come recupero della vera gnoseologia agostiniana, fondata
sulla moltiplicazione e distinzione delle facoltà conoscitive e sul conseguente ritorno, rispetto
all’aristotelismo.
La teoria egidiana della conoscenza teologica dipende chiaramente da questa impostazione
platonizzante della sua gnoseologia. Come ogni atto conoscitivo, così ogni scienza ha, secondo Egidio,
una sua maniera speciale di rappresentare il relativo oggetto. La metafisica e la teologia si occupano

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ambedue di Dio, ma la prima solo in quanto è causa universale degli enti, la seconda in quanto è
principio della restaurazione e della glorificazione dell’umanità. Né la metafisica, né la teologia
possono aspirare a una perfetta considerazione dell’attualità della res divina, perché ogni conoscenza
è sempre riconduzione della verità dell’oggetto alla misura delle capacità di accoglierla proprie del
soggetto.
A maggior ragione vale dunque per la teologia che considera Dio nell’infinità dei suoi attributi in modo
sempre relativo alle ridotte capacità del conoscente. Egidio ritiene dunque essenziale prendere
apertamente le distanze dalla pretesa di fare di Dio il subiectum della conoscenza teologia come se
fosse una res conoscibile. Dio è il fine irraggiungibile di un continuo impulso di conoscenza e di
desiderio da parte dell’anima umana.

La teologia è finalizzata a una speculatio che è a un tempo produttiva di un’operatio, orientate


entrambe a un fine superiore, che è la dilectio; è dunque speculativa in quanto pratica e pratica in
quanto speculativa.

L’ARISTOTELISMO DEGLI ARTISTAE E LA CONDANNA DEL 1277

Tra la seconda metà degli anni ’60 e la prima degli anni ’70 si moltiplicano gli interventi polemici dei
docenti della facoltà di Teologia contro la spregiudicatezza intellettuale dei loro colleghi delle Arti; In
Hexameron di Bonaventura, il De unitate intellectus e il De aeterniate mundi di Tommaso segnano
soltanto i momenti salienti di una più articolata e lunga serie di interventi censori.
In meno di un ventennio le tesi aristoteliche dei più radicali fra gli artistae si sono progressivamente
consolidate e radicalizzate e sono sempre più apertamente proclamate, difendendo l’autonomia e la
liceità dell’attività speculativa. Punto fermo della maturazione di questo programma, le Quaestiones sul
terzo libro del De anima del maestro alle Arti Sigeri di Brabante, sono probabilmente il bersaglio
diretto del De unitate intellectus tommasiano.
Nel dicembre del 1270 il vescovo di Parigi, Stefano Tempier, già maestro di teologia emana un decreto
censorio con il quale vieta l’insegnamento di tredici tesi filosofiche, tutte di ispirazione averroista e
sostanzialmente riconducibili a un ceppo dottrinario composto di tre tematiche fondamentali: eternità
del mondo e della specie umana, determinismo e negazione della provvidenza, unicità dell’anima
intellettiva.
Sigeri fu convocato con due suoi colleghi dinanzi al tribunale dell’Inquisizione come responsabile dei
disordini. Nel 1277 il pontefice Giovanni XXI sollecitò Stefano Tempier a indagare nuovamente sugli
errori che si diffondevano. Una commissione di sedici teologici, di cui faceva anche parte Enrico di
Gand, lavorò alacremente preparando un analitico dossier di errori dottrinali e testi sospetti. Il 7
marzo il vescovo emanò un decreto di condanna per eresia nei confronti di chi insegnasse e
professasse come vere una serie di ben 219 proposizioni filosofiche. La condanna era rivolta a tutti
coloro che svolgendo attività intellettuale presso le Arti ardiscono travalicare i limiti spettanti alla loro
facoltà; peggio ancora mentre tentano di giustificare il loro errore ne producono un altro peggiore,
perché affermano che queste dottrine sono vere secondo la filosofia come se possano esserci due
verità tra loro contraddittorie, e come se negli scritti dei pagani dannati si possa trovare una verità
contraria quella della Sacra Scrittura.

a) Il sistema di pensiero degli Aristotelici delle Arti


Se la condanna ebbe effetti concreti, il più evidente è che la carriera accademica di Sigeri appare da
questo punto in poi irrimediabilmente interrotta, fino a che lo si ritrova a Orvieto dove è stato ucciso
pugnalato da un clericus impazzito.

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Soltanto Dio è pura attualità, mentre tutti gli altri esseri sono composti di potenza e atto. Sigeri esclude
da questa lineare descrizione della realtà altre forme di composizione ontologica sovrabbondanti
rispetto alla semplicità della pura legge della causalità naturale. Tutto ciò che accade nell’universo
creato è un effetto necessario e fa parte di un meccanicistico circolo eterno di avvenimenti che si ripete
all’infinito. Questo processo universale è però caratterizzato dalla contingenza, che scaturisce
dall’impotenza naturale della materia a ricevere efficacemente le forme necessarie provenienti dalle
sfere superiori.
L’anima è forma del corpo e tutte le sue proprietà sono finalizzate a esserne il principio motore e
vivificante. Quest’ultima dottrina subisce però una certa evoluzione in conformità delle accuse
ricevute, fino ad ammettere che la funzione intellettiva faccia parte della forma psichica personale e
che sia garante dell’individualità dell’intendere, ma rifiutandone la natura di forma e la composizione
con la corporeità.

Altro condannato è Boezio di Dacia che in alcuni dei suoi opuscoli filosofici esplicita le coincidenze con
gli articoli della condanna, in particolare quelli relativi da uan parte all’eternità del mondo e dall’altra
alla possibilità di conseguire la beatitudine durante la vita terrena, mediante l’esercizio delle virtù
etiche.
b) La “doppia verità” e le distinzioni epistemologiche degli artistae
In nessuna pagina scritta da Sigeri o da Boezio si trova però un’esplicita difesa della possibilità di
coesistenza di verità diverse e contraddittorie. Gli aristotelici non dichiarano mai di considerare le
conclusioni raggiunte, qualora siano contrarie ai dati di fede, come se fossero verità assolute
alternative a quelle della Rivelazione. Sigeri afferma di volersi affidare come criterio ultimo delle sue
indagini alla verità rivelata: denuncia e contesta egli stesso la piaga del dissenso tra i filosofi. In
conclusione di uno dei suoi trattati egli evidenzia come non possono essere considerate decisive né le
argomentazioni di chi vuole sostenere che il mondo sia eterno, né quelle contrarie, ma che resta
comunque un obbligo per ogni credente ammettere con la fede che il mondo abbia avuto un inizio.
Dinanzi al dubbio della razionalità è sempre necessario aderire alla fede, che è sempre superiore alla
ragione.

Sigeri e Boezio ammettono che può esserci armonia tra diverse forme e sorgenti di conoscenza, purchè
sia chiaramente evidenziata una distinzione degli ambiti di studio e degli oggetti conosciuti. Questa
posizione degli averroisti latini è direttamente fondata sulla dottrina epistemologica degli Analitici
secondi.

Affermare che eventuali conclusioni orientate l’una contro l’altra ma appartenenti a due ordini distinti
di scienza sono vere ciascuna nel suo ambito non significa dunque ammettere la coesistenza
contraddittoria di più verità, perché per essere in contraddizione due affermazioni distinte devono
appartenere necessariamente al medesimo ambito disciplinare; non è dunque una doppia verità, ma il
riconoscimento di diversi ordini di verità.
Boezio rivolge contro i suoi stessi avversari l’accusa di stoltezza o di empietà; nessuno ha il diritto di
complottare contro i filosofi, purché conceda loro di fare soltanto il proprio mestiere.
È compito dello scienziato mostrare in ogni preciso ambito la sostenibilità dei veri a esso relativi, se è
giusto che la scienza deve aiutare l’uomo a conoscere il mondo, e mostrargli come funzionano le leggi
necessarie della natura. Chiunque sostiene invece che il cristiano non possa essere filosofo perché la
legge di Cristo distrugge i principi della filosofia, dice il falso. Il fedele deve concedere che le cause
naturali vengano studiate e comprese esattamente per quello che sono, proprio perché la verità della
fede sono superiori alla necessità naturale; “la fides non est scientia”.

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RUGGERO BACONE

Tentato di percorrere vie inesplorate e di elaborare nuove metodologie per la ricerca intellettuale
della verità, Ruggero Bacone, francescano nato nel 1214, introduce grandi novità nel sistema teologico
del tempo. Egli annuncia una totale reformatio del sapere cristiano in tutte le sue componenti,
scientifiche, filosofiche e teologiche, di cui si fa personalmente profeta e promotore e che dovrebbe
diventare, nei suoi intenti, lo strumento voluto dalla provvidenza per condurre l’intera cristianità al
perfezionamento etico e spirituale e alla guida universale del mondo con la conversione di tutti gli
infedeli.

Bacone compone un Compendium studii philosophiae, numerosi trattati su specifici che avrebbero poi
dovuto rifluire nell’unitarietà dell’opera maggiore, la Scriptura principalis. Fatto oggetto di
contestazione all’interno dell’Ordine per le sue simpatie per l’astrologia, Bacone lancia con il
Compendium studii theologiae un’ultima riproposta dei suoi ideali riformistici nel 1290, due anni prima
della morte avvenuto nel 1292.
Bacone era deluso e disgustato dalla letteratura teologica contemporanea e della rigida e faziosa
sistematicità speculativa che la caratterizzava; questo è ciò che di fatto gli ispira una famoso elenco di
sette peccati capitali della theologia delle scuole: Il primo peccato, che è il più grave ed è la sorgente
degli altri, è l’invasione del metodo filosofico proprio degli artistae nelle trattazioni teologiche; il
secondo è l’ignoranza delle vere scienze che sarebbero utili alla spiegazione delle scritture; terzo
peccato è l’ignoranza, ossia la parzialità e la limitatezza delle conoscenze in generale; quarto peccato è
l’avere sostituito nella lectio il libro delle sentenze alla stessa scrittura divina, la cui pratica è ridotta
all’esercizio didattico dei baccellieri, e che nessuno conosce più in modo adeguato; quinto peccato è la
corruzione del testo sacro; il sesto è l’incapacità, per l’ignoranza sia delle lingue bibliche, sia delle vere
proprietà delle cose di cui la Bibbia parla, di porre una corretta esegesi con la corretta distinzione di
senso letterale e spirituale; infine settimo peccato la mancanza di una vera eloquenza, efficacia e
persuasiva, insegnamento sostituita dalla verbosità dei sinonimi universitari, ridondati di divisioni
logiche e distinzioni terminologiche.
La duplice critica del sapere ostentato dai contemporanei, teologico e filosofico, evidenzia secondo
Bacone gli ultimi effetti del peccato originale di orgoglio compiuto da Adamo, la cui radice era la
presunzione del conoscere la verità con una sapienza assoluta simile a quella con cui la conosce Dio.
Da questo errore primordiali sono nati i tre principali e generali offendicula sapientiae, gli ostacoli per
l’acquisizione del vero da parte dell’uomo: il falso principio del auctoritas, la comoda regola del
traditio, l’ignava adesione alla communis opinio, cioè a qualche dea artificiosamente nata in una
maggioranza di soggetti, ma accolta come se fosse provata dall’esperienza di tutti.
La vera scienza è sempre e soltanto la scientia experimentalis, come suggerisce Grossatesta, fondata
sull’osservazione diretta e sull’immediata razionalizzazione dei dati dell’esperienza. La conoscenza
experimentalis è la scienza primaria, i cui fondamenti metodologici devono essere applicati a tutte le
altre scienze inferiori perché siano attendibili.

Questo capovolgimento della prospettiva epistemica ricollega evidentemente Bacone alla tradizione
scientifico-sperimentale dei francescani di Oxford.
È famoso un testo dell’epistola De Secretis Operibus Artis in cui Bacone profetizza grazia a tale
impostazione scientifica la possibilità per l’uomo di dotarsi di utilissimi strumenti per dominare la
natura, come carri che corrono senza essere trainati da cavalli, navi che solcano il mare senza rematori
e senza vele, macchine per sollevare i pesi e per viaggiare in fondo agli abissi e così via.
Se è vera, ossia, se è fondata sui principi della scientia experimentalis, la conoscenza contribuisce a
migliorare le condizioni dell’uomo, e non soltanto in questa vita, rendendo più sano e facoltoso, ma
anche e soprattutto per avviare la società umana verso la meta ultima cui tutti tendono per natura,

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ossia il conseguimento della salvezza eterna. È chiaro come l’effettiva valorizzazione di questo compito
soteriologico del sapere dipenda dalla possibilità per l’uomo di riuscire a partecipare realmente della
scienza divina. Il senso complessivo del progetto riformistico esposto nel Opus Maius, finalizzato a
dotare l’umanità di una concreta e definitiva sapienza, comprensiva di tutte le forme particolari di
scientificità possibili alla mente creaturale.
Scientia fondamentale consiste nella sua diretta identificazione con la matematica, la più generale tra
le scienze, che pone l’intelligenza direttamente a contatto con il modus essendi in sé delle cose. Sulla
matematica si fondano e si innestano dunque le successive elaborazioni disciplinari della conoscenza.
La prima è l’ottica o perspectiva; seguono l’astronomia e la magia “buona” (ossia distinte dalle arti
magico-demoniache); si colloca infine l’etica, che ha come oggetto la finalità stessa della vita umana,
ossia la felicità.

Ma proprio nella sua più alta realizzazione indagativa, quella della scienza morale, la razionalità
umana assapora per Bacone la coscienza dei propri limiti e della propria incapacità di ricongiungere
l’uomo con la sapienza del conoscere divino: l’esito finale della restaurazione della scienza naturale è
dunque l’apprendimento definitivo dell’impossibilità, dal peccato di Adamo in poi, di comprendere e
conseguire la vera felicità separatamente da Dio. Con questo la sete umana di conoscenza è allora
immediatamente congiunta a quella che è, nelle condizioni attuali, l’unica sorgente che in assoluto sia
capace di dissetarla: la Rivelazione con cui Dio ha fatto di sé stesso l’oggetto di una conoscibilità messa
nuovamente alla portata del genere umana.
La teologia, che tramite la Rivelazione si radica su questa conoscenza divina, è allora la più vera e
compiuta forma di scientia experimentalis possibile per l’uomo.
Per il tramite di Grossatesta, anche Bacone risale al modello teologico di Anselmo d’Aosta, che ha
concepito per primo la fede come una experimentia altissima, e diretta del vero, sostitutiva e
completativa di quella sensibile. Punto d’arrivo e di partenza insieme all’intera riforma baconiana, la
teologia è la realizzazione più piena e perfetta della sciantia experimentalis. Ma la teologia è infine nella
sua essenzialità più pura, una conoscenza autenticamente matematica, in quanto è la ratio sciendi, non
astrattiva ma immediata e intuitiva dell’ordine fissato da Dio quale ratio essendi di tutta la realtà.

Ispirandosi alle suggestioni dell’ermetismo, Bacone suppone poi un percorso di trasmissione


sotterranea, presso i soli iniziati, di tale verità, che fu oscurata e progressivamente corrotta per i
peccati degli uomini, mentre a partire da Mosè ne veniva affidata la conservazione del testo scritturale.
Con il formarsi della sapientia teologica dalla base dell’esegesi scritturale, le imperfezioni della
filosofia teoretica e di quella pratica, sono risolte dall’illuminazione divina che comunica tutte le
notizie utili per l’uomo relative da una parte all’essere del mondo e di Dio stesso, e a nuovi principi di
legislazione morale dall’altra. Questo perfezionamento conoscitivo si compie lungo sette gradi, che
orientano, con simmetria inversa ai sette peccati della teologia delle scuole, lo sperimentalismo di
Bacone verso l’ascesi mistica. La perfezione conoscitiva si esprime alla meglio nelle lezioni o nei
sermoni, e neanche negli eccessi di fervore dell’evangelismo pauperistico, ma solo nell’autentico
profetismo escatologico.

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GIOVANNI DUNS SCOTO

Intraprendendo percorsi nuovi, divergenti dalle vie comuni e dalle consolidate correnti dottrinali del
loro tempo, a Giovanni Duns Scoto spetta il merito di aver fondato un nuovo sistema di pensiero
destinato a fare scuola. Originario di Duns, in Scozia , viene inviato dall’Ordine di Parigi nel 1291 per
studiare teologia dopo essersi formato a Oxford; svolge il magistero teologico tra il 1305 e il 1306,
quindi si trasferisce a Colonia dove muore nel 1308. Le sue opere sono tutte legate alla didattica
universitaria.

Fin dal prologo della sua opera Ordinatio, Scoto concentra la propria attenzione su quello che egli
riconosce essere il nodo nevralgico intorno al quale si è svolto negli ultimi decenni l’intero dibattito
universitario sulla legittimità della sintesi di ragione e fede.
a) Theologia in se e Theologia in nobis
Tutte le verità teologiche sono virtualmente presenti in Dio, che deve dunque essere l’oggetto primo
del conoscere teologico, considerato in sé come tale, ossia come essenza: la deitas sub ratione deitatis.
Ma l’essenza di Dio è perfetta in quanto non circoscrivibile in alcuna limitazione conoscitiva, ossia in
quanto è infinita. Dunque solo un intelletto capace di conoscere l’infinita essenza divina può essere un
intelletto adeguatamente teologico. Ma nessun intelletto creato è capace di commisurarsi a ciò cui non
è assolutamente proporzionato.

La prima necessaria distinzione tra la theologia in se, che è quella conoscenza che l’oggetto teologico,
ossia Dio, è atto a suscitare in un intelletto che sia a esso proporzionato, e la theologia in nobis, la
teologia nostra, la conoscenza relativa di questo medesimo oggetto che il nostro intelletto è idoneo a
ricevere.
La theologia nostra si orienta dunque verso Dio; tale è la nozione di ens infinitum, ossia il concetto di
essere preso nella sua purezza e semplicità massima. L’ens infinitum dovrà essere considerato come
portatore di ogni perfezione, in quanto comprensivo di tutto ciò che entra in relazione con il divino
senza implicare alcuna imperfezione.
Con la sola ricerca filosofica, procedendo per via analogica, l’intelligenza umana non potrebbe però
mai giungere a esaurire la pensabilità delle perfezioni dell’essere, in quanto ogni oggetto conosciuto
nel mondo della finitudine rinvia sempre a qualcosa di più compiuto e di meno imperfetto. Per il
credente, la massima estensione della pensabilità dell’essere infinito si è di fatto realizzata nella Sacra
scrittura: con questo attendibile racconto l’uomo viene informato della loro pensabilità e in questo
modo raffina la propria capacità di riconoscere la natura corrispondente al concetto di ens infinitum.
b) Teologia e filosofia

Si fa qui necessaria una seconda distinzione, quella tra la teologia e la filosofia; ossia tra metaphysica e
theologia in nobis.
La Rivelazione è presupposta dalla theologia nostra non soltanto come ampliamento informativo sulla
pensabilità delle prerogative dell’ens infinitum, ma come sorgente di conoscenza atta a supplire
l’inadeguatezza delle capacità naturali di indagarne la verità. Proprio le ragioni che portano i filosofi a
rifiutare la validità di una conoscenza rivelata ne impongono invece l’accettazione in ambito teologico:
solo rompendo i limitati parametri della metafisica la teologia può aprirsi a informazioni di ordine
superiore, provenienti sotto forma di dono gratuito da quello stesso soggetto divino che è il solo che
sia in grado di cogliersi perfettamente come oggetto. La Rivelazione funziona dunque come una
illuminazione globale del pensiero umano relativa all’oggetto teologico, in quanto mette in atto la
potenza passiva dell’intelletto umano con una informazione attuativa di ordine soprannaturale. Scoto
dà a tale potenza passiva il nome di potentia oboedientialis, ossia capace di divenire ciò che Dio vuole o
vorrà che essa diventi.

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c) Lo statuto scientifico della teologia

Bisogna innanzi tutto precisare che le nozioni provenienti dalla Rivelazione sono sempre “verità
complesse” ossia dal punto di vista logico espresse sempre in forma di complexiones (proposizioni
costituite dalla congiunzione di termini concettuali).
La teologia in nobis si risolve allora nell’analisi strumentale dei contenuti di ogni complexum formulato
nella Rivelazione, compita con il supporto delle categorie logiche. Ma allora la conoscenza che la
Rivelazione introduce nel sapere teologico rispetto quella naturale è una conoscenza “ulteriore” anche
dal semplice punto di vista logico, in quanto consente all’intelletto creato una acquisizione connotativa
dell’oggetto che gli sarebbe possibile per via naturale soltanto se potesse averne una esperienza
evidente.
Con ciò egli può illustrare anche il concetto di beatitudine come visione perfetta del divino: la theologia
dei beati sarà la più perfetta theologia possibile sul piano creaturale, anche se resta diversa da quella
in sé perché il loro intelletto, anche se portato alla massima intenzionalità possibile, sarà pur sempre
finito e incapace di cogliere l’infinità divina come essenza.
Dio come essere perfetto conoscibile per via di illuminazione è il subiectum della teologia degli angeli e
dei beati; mentre Dio in quanto essenza infinita e sussistenze come tale è subiectum della teologia in se
di cui Egli soltanto può godere.

Scoto esclude che la theologia in se possa essere considerata scientia. Per quanto riguarda la theologia
nobis invece Scoto ritiene che si possa parlare di scientia in senso pieno, in quanto in essa il soggetto
sarà sempre in grado di distinguere tra la natura dell’oggetto divino in quanto tale e le sue proprietà.
Se per scientia si intende una conoscenza del necessario caratterizzata da certezza ed evidenza e
procedente per via deduttiva, forse non è possibile, ma certo non è necessario considerare la teologia
come scientia a tutti gli effetti; ma se scientia significa piuttosto un sapere vero contrapposto
all’opinione, allora la conoscenza dei contingenti in teologia deve evidentemente essere accolta come
un elemento integrativo della sua capacità di affermare il vero in modo determinato. Essa è dunque
qualificabile come scientia.
Ancora una volta si conferma la scissione di piani tra la scientificità propria dell’ordine naturale, e la
compiutezza della acquisizione di verità in ordine alla realtà soprannaturale consentita dall’eccesso
gratuito dell’intelletto alla Rivelazione. Non si può essere aristotelici in teologia.
La peculiarità assoluta della teologia emerge infine per Scoto dalla sua natura pratica e soteriologica,
evidente accanto e al di sopra di quella conoscitiva.

d) Metafisica e ontologia: l’univocità dell’essere


La considerazione della teologia in nobis come collocata tra la fede e la visione beata restituisce una
specifica validità e autonomia alla filosofia. Questa infatti, anche se non è abilitata a dare risposte sui
fini soprannaturali della storia, ha tuttavia pieno diritto di giudicare l’ambito della conoscibilità
naturale dell’essere, riservato alla sua stretta competenza.
Nella distinzione di metafisica, messa in risalto da Scoto, fatta da Avorroè, secondo il quale oggetto
della metafisica sarebbe Dio come causa prima dell’universo, e Avicenna, per il quale la metafisica ha
per oggetto l’essere in quanto essere, Scoto opta decisamente per la soluzione avicenniana, in quanto
assicura alla metafisica uno statuto scientifico distinto e peculiare.

In questo modo la metafisica potrà anche parlare dell’essere come Dio, ma senza per questo diventare
portatrice di praeambula fidei e senza dover essere sottoposta al vaglio della regula fidei, esterna alle

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sue competenze e al suo ambito di indagine. Potrà dunque dire su Dio tutto ciò che è possibile indicare
per via razionale.

Scoto rifiuta la tesi tomista per cui l’oggetto diretto dell’intelligere è la quidditas intelligibile delle cose
materiali conosciuta mediante l’astrazione; rifiuta anche la tesi agostiniana fondata sull’illuminazione,
secondo la quale l’intelletto partecipando della sua luce conosce l’essenza di Dio e si adegua alla sua
verità. Scoto intende invece rivendicare per la metafisica la prerogativa di conoscere un oggetto che le
è sempre e immediatamente noto, in ogni suo atto di intellezione. Dunque l’essere è esattamente
coestensivo alla ragione: tutto ciò che la ragione conosce è essere, e l’essere non può sfuggirle in
alcuna sua manifestazione: questo comporta necessariamente il riconoscimento che l’essere sia
univoco.

Scoto recide ogni ultimo legame con la metafisica tomista; egli avverte infatti che un discorso analogico
è possibile soltanto se si possiede una conoscenza adeguata e diretta dell’analogato. Ma poiché l’essere
di Dio è superiore a quello delle creature, queste ultime non possono essere l’analogato, a costo di
introdurre in Dio analogiche imperfezioni. È quindi escluso che la metafisica possa conoscere il
proprio oggetto per vie analogiche. L’essere è colto dalla metafisica in tutta la sua univocità; l’essere
univoco è dunque il concetto primo dell’intelletto, e precede qualsiasi determinazione che assume in
quanto esistente.
e) L’essere infinito
l’esplorazione metafisica degli attributi di Dio non dovrà partire a posteriore, ma dovrà direttamente, a
priori, puntare sulla considerazione stessa dell’ens infinitum in quanto tale. Pensare l’essere, infatti,
non è possibile a partire da qualcosa che non sia l’essere, pensare l’essere è possibile soltanto a partire
dalle sue stesse modalità in quanto essere. Tale operazione, riproposta da Scoto in molteplici passaggi
delle sue opere, equivale a una dimostrazione dell’esistenza di Dio composta da passaggi logici
successivi determinati dalle condizioni stesse di concepibilità dell’essere infinito. L’esistenza di Dio
non è infatti una verità evidente: se fosse evidente sarebbe anche indimostrabile; invece l’esistenza di
Dio è una nozione conseguente alla sua concepibilità come infinito.

La concepibilità dell’essere infinito implica la coincidenza in esso di tutte le possibili predicazioni


positive che scaturiscono dalla sua infinità. I trascendentali rientrano dunque per Scoto nella piena
trascendenza dell’essere infinito che è univoco proprio in quanto trascendente.
La pensabilità dell’ente primo significa pensarlo come causa efficiente assoluta, come ultimo fine e
come somma perfezione. Ogni essere finito, in quanto tale, è producibile, dunque ha una causa, e
pensare a una causa prima è meglio che risalire all’infinito di causa in causa.
Per argomentare la necessità dell’essere infinito, Scoto suggerisce invece di procedere per viam
eminentiae: basta pensare all’infinita verità degli intelligibili che il nostro intelletto trova
progressivamente conoscendo, per scoprire che se essi sono veri è perché sono tutti pensabili e
pensati in un intelletto perfetto infinito.
Ed ecco allo riproporsi inevitabilmente in questo argomento dell’infinità che scaturisce dalla
pensabilità dell’essere infinito, il cuore dell’unum argumentum anselmia, che Scoto intende valorizzare
sottoponendolo a un perfezionamento formale, con la precisazione che il quo maius cogitari nequit
esiste se può essere pensato “sine contradictione”: perché l’essere infinito è veramente infinito se si
dimostra la sua pensabilità come veramente infinito, e tale pensabilità consiste esattamente nella sua
non-contraddittorietà. Il finito ammette sempre qualcosa di superiore, l’idea dell’infinito non è
contraddittoria, quindi il finito rimanda sempre a qualcosa di infinito: questa è la semplicissima
chiarificazione di quale sia l’oggetto in cui l’intelletto trova la sua massima soddisfazione, perché
perfetto ed è possibile, e quindi esiste. In realtà Scoto utilizza questa sua precisazione per dimostrare
non l’esistenza bensì l’infinità di Dio.

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f) Il volontarismo divino e le sue conseguenze

La causa divina, se è infinita, deve essere infinitamente libera, dunque solo l’onnipotenza divina, intesa
come attuazione dell’infinita e assolutamente incondizionata volontà dell’essere primo. Le idee non
limitano ma orientano la libertà divina, che sceglie l’ordine e il bene dell’universo facendoli essere tali
proprio perché li sceglie.

Dio ha fissato due legislazioni nell’universo: la prima corrisponde alle leggi naturali che ha creato e
determinato come tramiti per realizzare il proprio libero volere nell’ordine creaturale (potentia
ordinata); l’altra riflette invece lo stesso volere in modo assoluto e diretto (potentia absoluta).
Ne segue una concezione dell’intero reale come assolutamente dipendente dalla sola volontà divina,
sia come principio necessario ordinato, sia come principio di ogni possibile non contraddittorio con
esso. Ogni determinazione dell’essere, infinito e finito, dalla più rigorosa e rigida alla meno complessa,
dipende dal fatto che Dio la vuole.
Dal volontarismo radicale che in questa rinnovata prospettiva ontologica caratterizza tutte le relazioni
possibili tra Dio e l’universo creato scaturiscono alcune importanti conseguenze per l’intero sistema
del reale. La prima è che l’unica determinazione possibile dell’essere finito nella sua realtà è il suo
essere finito stesso, voluto come tale dal Creatore. Una seconda conseguenza, di ordine gnoseologico
ed epistemologico, è allora appunto l’ormai evidente e indispensabile distinzione e diversa
valorizzazione del conoscere mediato per via di astrazione e con l’elaborazione di concetti universali
da una parte e del conoscere immediato e diretto dall’altra.

Per Scoto l’evidenza più efficace è quella dell’intuizione; ciò permette di diffondere una concezione
delle scienze naturali completamente nuova e diversa da quella aristotelica: una scienza di tipo
sperimentale, che prescinde da astratti tentativi di ricostruire una struttura oggettiva delle
connessioni tra le realtà. Oggetto di questo tipo di scienza saranno dunque non le connessioni causali
tra le res, ma le loro relazioni di compossibilità, espresse mediante proposizioni complesse la cui
evidenza è sostenuta dalla semplice intuizione.
Secondo la terminologia usata da Scoto, tra gli elementi costitutivi di ogni res non c’è dunque né una
distinzione reale, né una né una distinzione puramente razionale, ma una distinzione formale
(distinctio formalis).
g) La distinctio formalis e le sue conseguenze

Questa stessa dottrina della distinctio formalis è stata anche da lui utilizzata e sottoposta a interessanti
elaborazioni e perfezionamenti in ambito teologico. L’impossibilità per il nostro intelletto di
rappresentare e comprendere l’ente infinito trova intanto un primo soccorso proprio nel delinearsi di
una distinctio formalis tra le perfezioni divine. Ma non è soltanto la teologia trinitaria a trarre
vantaggio; anche le operazioni divine ad extra, ossia nei confronti della creazione, possono infatti
essere in questo modo precisare e distinte. la predestinazione di Cristo non soltanto non è necessitata
dal peccato dell’uomo, ma addirittura la stessa creazione è una conseguenza di essa, perché il mondo
viene creato allo scopo di accogliere il Verbo che si distingue dalle altre persone divine proprio in
quanto è formalmente caratterizzato rispetto al padre e allo Spirito dal perfetto relazionarsi ad extra
dell’amore divino. La redenzione è quindi un carico accessorio del Verbo incarnato, che scende in terra
ance per correggere l’orientamento deviante della storia umana causato dal peccato di Adamo.

h) La volontà umana e la sua libertà


Un ultimo riflesso del volontarismo teologico di Scoto è l’accentuato volontarismo psicologico ed etico
delle sue concezioni antropologiche. La volontà umana, il cui fine è raggiungere Dio, Sommo Bene,
agisce secondo Scoto con autentica libertà a partire dalle informazioni conoscitive provenienti
dall’intelletto. Distinguendo tra atto di natura e atto di volontà Scoto concepisce l’atto volontario come

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il moto autonomamente razionale di una potenza capace di scegliere fra oggetti distinti e anche
opposti, e persino di non scegliere affatto. La volontà è dunque livera da parte sua di “specificare”
invece il proprio atto di scelta nei gradi intermedi del suo tendere al fine ultimo. Anche sul piano
morale, come nell’ordine della natura, esistono però due legislazioni: la legge naturale corrispondente
alla potentia ordinata, e la legge divina corrispondente all’efficacia indeterminabile della potentia
absoluta. La Rivelazione guida la volontà nel suo perfezionamento, e solo essa può mostrare, al di
sopra di quanto possa riconoscerla l’intelletto, la loro maggio o minore coerenza con il Bene supremo.
GUGLIELMO DI OCKHAM

Nel prologo della Summa logicae, di Guglielmo, scritto dal confratello Adamo di Wodeham, viene
indicata la causa principale delle incertezze e dei dubbi che minano le radici della sapienza cristiana e
impediscono la comprensione della stessa Rivelazione divina, ovvero l’abbandono della logica.
Solo la capacità della logica consente di indagare il vero in qualsiasi ambito di problemi, poiché, come
la luce dissolve la tenebra degli errori e dirige le opere della ragione umana. A queste parole del
giovane collaboratore e discepolo, Guglielmo medesimo fa eco nel suo proemio alla stessa Summa,
affermando che la logica è lo strumento fedelissimo di tutte le arti, in quanto senza di essa nessuna
scienza può essere veramente “scientifica”.
Il suo progetto è quello di portare a compimento la restaurazione, già avviata da Duns Scoto, di un
sapere autenticamente cristiano, svincolato, in nome del fondamentale principio dell’onnipotenza
divina. Fondandosi sul riconoscimento preliminare della libertà assoluta della causa creatrice, la nuova
logica sarà orientata a riconoscere verità soltanto in ciò che è per il fatto di essere stato così portato
all’esistenza dal volere divino.

a) Il “Venerabilis inceptor”
Gugliemo è nato verso il 1280 a Ockham; il titolo di “Venerabilis inceptor” allude al fatto che non ha
mai conseguito la licenza magistrale in teologia. Nel 1321 fu inviato dallo studium generale
francescano di Londra, dove tenne lezioni di filosofia e teologia fino al 1324, quando, in seguito ad una
denuncia formale da parte di Lutterell, fu convocato ad Avignone per difendersi dall’accusa di eresia.
Nel 1328, quasi contestualmente al verdetto di condanna per eresia Ockham fuggiva dalla città
pontificia con i confratelli più coinvolti e raggiungeva Ludovico il Bavaro a Pisa, seguendolo poi a
Monaco. In questa città spese quasi un ventennio fino alla morte avvenuta intorno al 1347,
nell’elaborazione di un’ampia trattatistica teologico- politica sulla povertà e sul confronto tra il potere
pontificio e imperiale.
b) La teoria della verità

Lo studio della logica comincia dunque con quello dei termini significanti non soltanto in quanto sono
costitutivi dei successivi momenti dell’analisi del linguaggio mentale, ossia delle proposizioni (o
giudizi) e delle dimostrazioni (cioè le argomentazioni deduttive), ma soprattutto perché è soltanto nel
modo di significare proprio del termine logico, con la sua immediatezza e semplicità, che possono e
debbono essere ricercate e verificate le condizioni di corrispondenza tra pensiero, linguaggio e realtà.
D’accordo con Scoto, egli non può non riconoscere che tra notitia intuitiva e notitia abstractiva,
soltanto la prima abbia il diritto di porsi come apprensione immediata di un esistere concreto e quindi
come preliminare a ogni ulteriore acquisizione di verità da parte del soggetto. Scoto sbaglia però nel
considerare intuitiva soltanto la percezione diretta della presenza esterna dell’oggetto: il soggetto ha
infatti capacità di intuire, ossia di riconoscere immediatamente come realtà, anche i propri atti
interiori, sia le operazioni intellettuali sia i moti immediati dell’anima.
Dai principi prima scaturiscono per via di rigorosa concatenazione deduttiva anche proposizioni
universali e necessaria, e sono anch’esse evidenti.

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È intuitiva per Ockahm ogni apprensione semplice che consente di sapere come realmente stanno le
cose, e dunque che mette il soggetto in grado di formulare giudizi veri di esistenza oppure di non
esistenza. Sarà invece astrattiva ogni conoscenza che nel cogliere l’oggetto “prescinde dalla sua
esistenza o non esistenza e dalle altre condizioni che in modo contingente ineriscono alla cosa o sono
predicabili di essa”.
La distinzione tra coscienza intuitiva e astrattiva non dipende perciò da una diversità di un oggetto
conosciuto, ma dalla loro modalità, dal diverso habitus, o modo di cogliere l’oggetto da parte del
soggetto. Causa determinante del conoscere non è la presenza dell’oggetto, ma l’habitus che pone il
soggetto conoscente in rapporto con esso e nelle condizioni di riconoscerlo come presente.

c) La dottrina della suppositio e il nominalismo


La teoria della suppostio riguarda soltanto i termini capaci di esprimere autonomamente un significato
compiuto, utili per congiungere altri elementi del discorso e quindi chiamati sincategorematici .
Secondo Ockham la suppositiones è una proprietà del termine solo quando entra nel discorso: il che
significa che la teoria della suppositio è operativa esclusivamente nella logica della proposizione.
Originale quindi anche la classificazione che Ockham propone delle tipologie di suppositio,
strettamente funzionale alla propria concezione della forma della conoscenza. Escludendo le varie
forme di suppositio impropria, secondo le quali il termine è usato con finalità metaforiche o comunque
indirette, egli propone di accogliere tre forme di suppositio propria: materia, semplice e personale.

Si ha una suppositio materialis ogni volta che il termine è utilizzato per significare la sua stessa
materialità vocale, o grafica o verbale; SI ha invece una suppositio personalis quando il termine sta per
ciò che esso è chiamato a significare in base ad un atto elementare di imposizione di significato; Nella
suppositio simplex il nome non sta per il suo significato naturale e primario, non significa qualcosa che
corrisponde a tutti gli individui uomini collettivamente presi, ma tende a esprimere qualcosa di
comune alle cose che rientrano nel suo significato personale, e che è diverso da ciò che esse sono.
Passando dalla suppositio simplex a quella personalis, si produce per Ockham una vera e propria
discesa dall’universo puramente mentale dei concetti puri di cui si serve la mente alla realtà concreta
significabile con i termini logici delle res particolari da cui è costituito il mondo. L’universale è tale
soltanto nell’anima, dunque non ha realtà, ma quando, con la suppositio personalis, viene utilizzato per
indicare qualcosa fuori dall’anima allora significa la realtà di tutti gli individui concreti, realmente e
singolarmente esistenti, che rientrano nel significato del termine usato.
È dunque confermato, dall’analisi stessa della capacità umana di parlare della verità, che fuori
dall’anima non esiste alcun prodotto dell’anima. Nella realtà esistono soltanto le opere di Dio, le
creature nella loro distinta e irripetibile singolarità assoluta l’universale è conosciuto come tale è
soltanto un atto con cui la mente tende verso l’oggetto nel significarlo, un intentio che orienta il
conoscente verso la somiglianza tra due o più cose.
Questa concezione della verità logica viene tradizionalmente e genericamente designata come
nominalismo di Ockham. Al cuore di tale opzione dottrinaria, la negazione della realtà dell’universale si
traduce nell’assoluto rifiuto di qualsiasi universalità del reale: non c’è nulla nel creato che possa essere
fatto oggetto di un riconoscimento di sussistenza generale, e oggettivamente riconoscibile come
eternamente e immutabilmente sussistente per autonoma capacità di essere. Il nominalismo è dunque
in Ockham soprattutto un’affermazione del primato dell’individuo.

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d) Il primato dell’individualità e i “rasoi di Ockham”

In pratica la logica è lo strumento per conoscere l’opera di Dio come tale. Qualsiasi tentazione ad
ingabbiare la verità irriducibile del creato entro le maglie di uno schematismo astratto che pretenda di
assimilare antropomorficamente l’onnipotenza divina al pensiero umano è per ciò necessariamente
dissolta dalla riduzione della portata giudicativa di ogni strumento logico all’effettualità di un
terminismo puro e radicale, capace di esprimere esclusivamente la realtà del singolare.
Tutti i problemi speculativi che la filosofia si propone di risolvere debbono essere ricondotti
all’immediata considerazione del significato singolare dei termini che ne consento la formulazione e
insieme pongono le condizioni di verità delle proposizioni in cui sono espressi e con le quali sono
affrontati.
Le non poche formule che enunciano tale metodico riduzionismo concettuale nell’opera di Guglielmo
hanno tradizionalmente preso il nome di “rasoi di Ockham” in quanto decretano l’eliminazione di tutto
ciò che è superfluo. SI tratta di due principi essenziali: il principio dell’assolutezza incondizionata
dell’onnipotenza divina, e a esso inversamente simmetrico, il principio dell’economia.
Due normative che discendono da un unico presupposto, quello dell’assoluta libertà divina dai
condizionamenti che presume di imporre la mente umana.
e) La nuova concezione della scienza
La scientia non è ovviamente più concepibile come l’esito di una adaequatio rei et intellectus, ma è
sempre e soltanto la formulazione di un discorso sulla verità delle proposizioni.
Ockham non intende rivoluzione l’aristotelismo, bensì il modo in cui esso viene letto dai
contemporanei: e anzi, proprio per mantenere l’esigenza che ha portato Aristotele a negare che si
possa dare scienza dei particolari, egli conferma che la scienza non concerne i singolari in quanto
mutevoli ma le intenzioni dell’anima che suppongono per le cose corruttibili, ossia universali, che
suppongono per i singolari. La dottrina della supposizione chiarisce però che è assolutamente esclusa
qualsiasi possibilità di riconoscere realtà agli universali in quanto tali. Si dovrà allora distinguere tra le
scienze reali, come la fisica, e le scienze mentali, come la logica stessa. La logica è scienza di oggetti
mentali, o meglio delle proposizioni che possono essere formate su oggetti mentali.

f) La teologia come sapienza


C’è però un terzo ambito di conoscenza dal quale emergono verità certe, ed è quello della fede.
Ockham esclude immediatamente la proposta scotista di considerare scienza reale un’ipotetica e non
verificabile teologia in sé, tutto ciò che potremmo dire su modi, contenuti e forme della teologia in sé
comporterebbe una riduzione di essa alla teologia in nobis.
Priva di dipendenza informativa dalle certezze di un sapere superiore, la verità della teologia nostra,
che dunque è l’unica teologia possibile, è esclusivamente ricondotta a dipendere dalla conoscenza della
Rivelazione. Ma la conoscenza scientifica è conoscenza di proposizioni evidenti, ed è chiaro che le
verità comunicate dalla rivelazione non sono evidenti né per sé né per experientiam, ossia in base a
una conoscenza intuitiva mediata o immediata. Inoltre, per il principio di economia è impossibile che
Dio abbia proposto all’uomo come oggetto di fede qualcosa che potrebbe essergli noto in modo
evidente anche per altra via. Dunque le verità teologiche non sono mai evidenti sul piano conoscitivo, e
non potranno diventare principi di argomentazioni deduttive di tipo sillogistiche. In conclusione, la
teologia dell’homo viator non può e non potrà mai essere una scientia, ma soltanto una conoscenza
fondata sul credibile.

La teologia, che non è scienza, è qualcosa di più della scienza, in quanto è una conoscenza vera e
complessa, di ordine sapienziale. Ma la verità di tale sapientia, che può essere incrementata da

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molteplici contributi differenziati, è comunque profondamente unitaria, in quanto si riassume tutta, di


fatto nell’ultimativa considerazione di ogni vero teologo come sempre significativo della simplicitas dei
assoluta. Questa conclusione è il cuore stesso della teologia di Ockham e si lega intimamente con il
principio dell’economia.
Nell’assoluta perfezione del divino, il vero non può che essere assolutamente semplice e indistinto;
ogni predicazione teologica trova quindi la massima veridicità nell’indicare ciò che è proprio
dell’essenza divina, senza rinviare ad altro proprio perché distinta da ogni altro significabile.

La pluralità degli attributi di Dio non esprime altro che la sua unica e indistinguibile essenza. ED ecco
allora riemergere con certezza la più evidente delle verità teologiche: Dio non è conoscibile da parte
degli uomini, questa è infatti la verità che dice al meglio l’essenza stessa di Dio. La teologia dell’uomo
viator viene così ultimamente al suo stesso principio: la Sacra Scrittura, che sola indica le vie per
parlare veramente di Dio, e per dare al termine una capacità suppositiva esplicabile in un discorso sul
suo significato.
g) La libertà della fede
Al radicalismo volontaristico della sua teologia e ai suoi decisivi riflessi in ambito fisico e metafisico,
non poteva non corrispondere un altrettanto incisivo volontarismo morale che, portando anche qui
alle estreme conseguenze le posizioni rivoluzionarie di Scoto, pone al centro dell’universo l’uomo
come atomo indivisibile mosso da un’incondizionata e incondizionabile volontà, libera di orientare
tutti i suoi atti e le sue determinazioni esistenziali verso le finalità che può indicare al suo assenso
soltanto una fede altrettanto libera e incondizionata nell’autenticità del messaggio di speranza
liberamente rivelato da Dio.

La libertà della fede è per Ockham il fondamento della sua aspirazione a svincolare e purificare la
chiesa dai condizionamenti terreni. La stessa radicalità della povertà francescana trova la sua
legittimazione nella libertà assoluta, di cui deve godere l’uomo redento da Cristo, di realizzarne i
comandamenti nelle forme indicate dai testi evangelici.
Nel cuore di questa stessa rigenerazione ideale della chiesa storica, brillano ancora una volta, con
chiarezza, gli effetti del principio di economia che demolisce ogni struttura falsa e falsificante
sovrapposta dagli uomini con i loro artifici e le loro astrazione all’ordine autentico della verità.
L’ordine del cosmo non dipende dalla mente umana ma dalla volontà divina.

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