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Elia Benamozegh Storia Degli Esseni

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Elia Benamozegh

Storia degli Esseni

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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Storia degli Esseni


AUTORE: Benamozegh, Elia
TRADUTTORE:
CURATORE:
NOTE: Il testo è tratto da una copia in formato
immagine presente sul sito ”Internet Archive”
(http://www.archive.org/).
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CODICE ISBN E-BOOK: n. d.

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza


specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Storia degli Esseni : lezioni / di Elia


Benamozegh - Firenze : F. Le Monnier, 1865 - ca IV,
522 p. ; 19 cm

CODICE ISBN: n. d.

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 2 febbraio 2016

INDICE DI AFFIDABILITA': 1
0: affidabilità bassa
1: affidabilità media
2: affidabilità buona
3: affidabilità ottima

SOGGETTO: n. d.

DIGITALIZZAZIONE:
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REVISIONE:
Giovanni Fini
Enrico Segre

IMPAGINAZIONE:
Giovanni Fini
Enrico Segre
Online Distributed Proofreading Team

PUBBLICAZIONE:
Claudio Paganelli, [email protected]

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[i]
NOTE DEL TRASCRITTORE:
—Corretti gli ovvii errori di stampa e
punteggiatura.
—Le note a piè di pagina, che nell’opera
originale erano raccolte alla fine di ogni
capitolo (lezione) sono state trasferite dal
Trascrittore all fine del libro.
—Sono presenti in questa opera una quantità di
dizioni multiple, in specie per le
traslitterazioni dall’Ebraico; considerata anche
la singolarità dell’ortografia utilizzata
dall’Autore e nell’impossibilità di stabilire
univocamente la corretta dizione, tali forme
multiple sono state conservate.
—Gli accenti, l’ortografia e la sintassi utilizzate
dall’Autore sono alquanto ricercate e
rispondenti alla forma erudita della lingua
italiana in uso all’epoca della stesura
dell’opera. Tale forma prevede anche una
variabilità nelle forme che sono state in
massima parte conservate laddove non siano
state considerate palesi errori tipografici.
—L’indice non è presente nell’opera originale;
ne è stato prodotto ed aggiunto uno a cura del
Trascrittore.
—L’immagine di copertina è stata prodotta dal
Trascrittore usando l’immagine del
frontespizio dell’opera originale. L’immagine
è posta in pubblico dominio.
[ii]
Proprietà letteraria.
STORIA
DEGLI ESSENI

LEZIONI

DI

ELIA BENAMOZEGH
RABBINO-PREDICATORE
E PROFESSORE DI TEOLOGIA NEL COLLEGIO RABBINICO DI
LIVORNO.

FIRENZE.
FELICE LE MONNIER.
1865.
[iii]

Tipografia dei Successori Le Monnier.


[iv]
PREFAZIONE.

Le Lezioni che ora si pubblicano, risalgono all’epoca per me


tuttavia di dolce rimembranza, in cui mi era dato esporre alcune
parti della Storia della Teologia ebraica ad una eletta schiera di
giovani livornesi, i quali, con perseveranza non comune in questa
nostra città dedita ai traffici, seguirono le mie conferenze per
circa tre anni.
Queste cose stimava opportuno premettere, a spiegare la
forma non troppo consueta di questa Storia, ed a giustificarla
eziandio. Perciocchè non mancherà taluno, e forse non senza
fondamento, il quale osservi che più acconcia sarebbe stata la
forma semplicemente espositiva. Ma oltrechè per satisfare a
questo bisogno sariami stato d’uopo rifare quasi interamente il
mio lavoro, parevami ancora che ciò non sariasi potuto operare
senza compromettere in qualche modo le sue sorti. Chè il subietto
presente sia per sè grave, e forse arido per i lettori comuni, non vi
ha, credo, chi nieghi. L’erudizione storica, e teologica in ispecie,
è cibo di pochi; e per farlo accetto ai più, sarà forse senza niuna
utilità uno stile men disadorno, più drammatico e vivace quale
s’addice a Lezioni? I fatti e le idee che altronde riescirebbero ai
schifiltosi indigesti, non divengono pascolo più gradito, ove ai
condimenti si mescano della imaginazione e del sentimento? Non
solo, e il dico a costo di parer puerile, gli Esseni studiando con
amore e con fede, perciocchè in essi intravvedeva i predecessori
della buona nostra Teologia, io sentiva nella nobile indagine
impegnate la Ragione e la Critica, ma la imaginazione altresì e il
sentimento, e spontanea dal labbro sgorgavami la parola viva e
affettuosa. Mai parvemi così vera ed[v] acconcia la sentenza
platonica, non essere il bello che lo splendore e la veste del vero.
A che però, diranno altri, venir fuori con questi vecchiumi?
Appena trovano venia presso i comuni lettori le politiche o
letterarie lucubrazioni:—qual sorte mai dovrà toccare agli opliti
della scienza, alle scritture gravemente armate, alle dotte e severe
indagini della Storia e della Teologia?—La Dio mercè però,
questo linguaggio diventa di giorno in giorno più raro. A dispetto
di chi vorrebbe confinare la mente umana nello studio e
nell’amore delle quisquiglie letterarie e degli arcadici vezzi, come
i tiranni invitano il popolo a seppellire le più generose potenze
nelle tazze soporifere di Bacco, di Momo e di Venere, l’uomo
anela a cose più alte. Gli argomenti che, or si può dire pochi
lustri, erano il patrimonio di pochi, diventano ogni giorno più,
quasi comune proprietà. Le menti s’iniziano alle più alte e
scabrose indagini. Libri che altra fiata sariano giaciuti in eterno
polverosi negli scaffali delle Biblioteche, girano adesso per le
mani di tutti: avidamente si leggono, in ogni lingua si traducono:
ed ove per mole e scienza soverchie disdicano ai comuni
intelletti, epitomi se ne fanno e compendi. La scienza si fa piccina
per trasfondere la vita nel popolo, come Elia si contrae sul corpo
morto del figlio della vedova, a comunicargli la vita.
La storia presente non solo prende a considerare serio
argomento, ma è parte nobilissima e tema di gran momento nella
questione religiosa che ora preoccupa e divide gli animi nel
mondo intero. La Storia degli Esseni è fonte ricchissima di
documenti atti a spiegare l’origine del Cristianesimo; e qualunque
concetto di questo si formi, niuno vi ha che si attenti di negare per
la Storia di questa religione, la importanza dello studio dello
essenico Istituto. Perciò tu vedi tutti i libri che prendono a trattare
di quelle origini, assegnare posto segnalatissimo all’esame
dell’Essenato. Parevami dunque non fare, anche per questo verso,
inutile opera, mandando fuori questi miei pensieri intorno una
Scuola tanto studiata[vi] e tanto degna di studio; e sopratutto non
venire meno alle leggi di opportunità. Un altro resultato, o ch’io
m’inganno, mi sarà lecito sperare da questo mio lavoro.—Nelle
ebraiche scritture da me finora pubblicate, vuoi in forma
polemica come le repliche contro l’antico Leone da Modena e
l’illustre amico professor Luzzatto, vuoi nelle mie Note al
Pentateuco, vuoi infine nel mio Essai sur l’origine des Dogmes
et de la Morale du Christianisme premiato dall’Alliance israélite
di Parigi, pienamente soscrissi e, quanto seppi e potei, crebbi
forza alla sentenza intorno a cui convengono non che gli scrittori
ortodossi, ma i critici eziandio più indipendenti, come Munk,
Frank e Jost ed altri moltissimi, che, cioè la Teosofia cabbalistica,
che coltivò il nostro gran Pico Mirandolano, ebbe per antichi
rappresentanti gli Esseni e lo Essenato. Questa Storia è destinata
a porgere nuovo tributo a questo gran vero, mercè un perpetuo
confronto che si va facendo fra le une e gli altri.
E non meno parevami adempiere all’officio di buon italiano.
Che se ogni individuo ed ogni ceto debbono contribuire, per ciò
che lor spetta, a maggiore onoranza e gloria della Patria comune,
perchè questo dovere non incomberà egualmente agli Israeliti e
alla scienza israelitica? L’Italia ha il diritto di avere una Scienza
ebraica filologica, storica, teologica, erudita, quale da gran tempo
posseggono altre Nazioni sorelle; e in special modo la Germania.
Ma a chi spetta principalmente arricchire di questa gemma la sua
corona, se non agli Israeliti per cui l’Italia tanto fece e fa tuttavia?
E chi tra gli Israeliti più debitore di questo giusto tributo se non il
Rabbinato? Il quale in tanto lume di pubblicità, in tanto nobile
pugnare di dottrine e sistemi, in tanto strenuo combattere a
trionfo del vero, deve a sè, all’Italia, al mondo, alle sorti avvenire
del genere umano, di alzare la voce a proclamazione e difesa del
suo Credo.
Nell’adempire però, nei limiti delle mie scarse forze, a questo
dovere, un pericolo sopratutto mi toccava cansare, quello cioè di
venir meno al rispetto delle altrui[vii] opinioni e di religioni dalla
mia diverse. L’ho io sempre felicemente evitato? Certo che
costante mio intendimento fu di fuggirlo, e certo del pari che per
le continue e delicate occasioni che ad ogni tratto mi si paravano
dinanzi, ardua impresa era il superarlo continuamente. Se mai
talvolta la parola o il pensiero suonano, più che non s’addice,
liberi e severi, spero non mi si vorrà apporre a colpa quando si
rifletta che tra la tolleranza fraterna da una parte, e la libertà dello
speculare e la veridica parola dall’altra, angusto e difficile è il
calle, e rado è che tu non pieghi talvolta o a un linguaggio
alquanto severo, o a qualche dissimulazione del vero. Fra i due
mali, qual’è il lettore illuminato che non preferisca il primo? La
vera reciproca tolleranza è quella che sa amare e stimare gli altri,
pur serbando intatto il culto delle proprie dottrine. Anzi, vero
amor fraterno non si dà quando alto non proclamisi ciò che vero
si crede. Il primo diritto dei nostri simili, è quello di udire da noi
la verità.
Dopo le cose esposte, non mi rimane che a dire intorno i
motivi di questa pubblicazione. Non è sete di onoranza, che
scarsa mi riprometto, sì pel picciol merito dell’opera, come pel
poco conto in cui questi studii si tengono generalmente; non è
amor di guadagno, che non si trova per queste vie; non è vanità
letteraria, che più agevolmente e più sicuramente si può satisfare
con più amene produzioni; non è nemmeno quello che tanti autori
protestano, la pressa dei loro amici che non gli dan tregua se non
ne veggono le opere su per le stampe. È lo stesso motivo che
m’indusse a sobbarcarmi spontaneo al ministero religioso, che mi
fe’ e fa lavorare intorno a subbietti difficili, ingrati, spinosi; senza
altro rimerito che il buon testimonio della coscienza: l’amore del
sapere e della verità.
Livorno, Maggio 1865.
ELIA BENAMOZEGH.
INDICE

Pag.

PREFAZIONE iv
LEZIONE PRIMA 1
LEZIONE SECONDA 10
LEZIONE TERZA 19
LEZIONE QUARTA 34
LEZIONE QUINTA 45
LEZIONE SESTA 66
LEZIONE SETTIMA 75
LEZIONE OTTAVA 101
LEZIONE NONA 119
LEZIONE DECIMA 137
LEZIONE DECIMAPRIMA 152
LEZIONE DECIMASECONDA 185
LEZIONE DECIMATERZA 203
LEZIONE DECIMAQUARTA 236
LEZIONE DECIMAQUINTA 247
LEZIONE DECIMASESTA 261
LEZIONE DECIMASETTIMA 271
LEZIONE DECIMOTTAVA 284
LEZIONE DECIMANONA 292
LEZIONE VENTESIMA 300
LEZIONE VENTESIMAPRIMA 311
LEZIONE VENTESIMASECONDA 323
LEZIONE VENTESIMATERZA 335
LEZIONE VENTESIMAQUARTA 346
LEZIONE VENTESIMAQUINTA 357
LEZIONE VENTESIMASESTA 368
LEZIONE VENTESIMASETTIMA 378
LEZIONE VENTESIMOTTAVA 388
LEZIONE VENTESIMANONA 399
LEZIONE TRENTESIMA 409
LEZIONE TRENTESIMAPRIMA 419
LEZIONE TRENTESIMASECONDA 430
LEZIONE TRENTESIMATERZA 437
LEZIONE TRENTESIMAQUARTA 446
LEZIONE TRENTRESIMAQUINTA 457
LEZIONE TRENTESIMASESTA 468
LEZIONE TRENTESIMASETTIMA 478
LEZIONE TRENTESIMOTTAVA 483
LEZIONE TRENTESIMANONA 495
LEZIONE QUARANTESIMA 502
LEZIONE QUARANTESIMAPRIMA 512
[1]
LEZIONE PRIMA.

Io debbo, diletti giovani, nell’esordire, revocare alla vostra


mente quei giorni al mio cuore carissimi, in cui per la prima volta
erami conceduto, la parola mia indirizzarvi. Voi il rammentate.
Non appena i primi passi muovevamo pel lungo e difficil
sentiero, che il bisogno faceasi sentire imperiosissimo, di una
logica e razionale divisione del nostro assunto. Simile alle
colonne miliarie, che all’animoso viandante additano il cammino
percorso, e nuova lena gl’infondono e nuova speme; noi pure, o
signori, il cammino nostro in tre grandi stadj, in tre grandi
epoche, in tre grandi divisioni partimmo.
Nulla per ora delle ultime due calendoci, diremo solo della
prima epoca, del suo principio, del suo termine.
Quale era, o signori, la prima epoca della storia della ebraica
teologia?—Era quella che dalla Mosaica rivelazione partendo, si
stende per tutto quello immenso intervallo, che da quel fatto
memorando trascorre, sino alla cessazione della nostra vita
politica, sino, che dico, o signori? sino al suggello dei Profeti e
delle tradizioni, sino alla compilazione del Talmud. In questa
epoca, o signori, noi risalimmo sin dove alcuna traccia per noi si
scorgesse di movimento religioso, di dogmatica vicissitudine; sin
dove un sistema ci apparisse che un compiuto avesse e particolare
sembiante, di Dottrina e[2] di pratica. In quei remotissimi tempi,
una setta ci fermava, ed era quella dei Samaritani.
Noi togliemmo ad esame tutto ciò che ad essa appartiene, e
comecchè parecchie cose fossero da noi e per brevità, e per
incompleta notizia pretermesse, non è sì, o signori, che una
cognizione voi non ne abbiate acquisita generale e sommaria.
Mestieri è ora muovere il piede in cerca di nuovi liti e nuove
genti, mestieri è, discendendo per la serie dei secoli, quella setta,
quella scuola tôrre a subbietto di studio che prima si presenti,
dopo i discorsi Samaritani. Voi ricordate, o signori, di questa setta
il nascimento. Ella sortì i natali in quella epoca al popol nostro
esiziale, quando la sua nazionalità venne per la prima volta
vulnerata, quando la via si apriva dell’esilio, quando le dieci tribù
schiudevano quel cammino di dolori e di spine, che le rimanenti
due tribù non avriano tardato a calcare.
Le ricerche nostre, o signori, debbono dunque oggimai da
quell’epoca in poi esercitarsi. Dobbiamo i tempi a quelli
posteriori interrogare, e le voci studiosamente raccogliere che ci
porge la istoria. Quali furono le vicende della ebraica religione
nei secoli a quello successivi? La risposta, o signori, troppo più
tarderà ad udirsi, che alla vostra impazienza non si convenga.
Invano il chiederete all’esistenza incerta e languente del primo
tempio; invano alla cattività babilonese, invano ai primi periodi
del tempio secondo. Egli è, o signori, nei tempi di mezzo della
nuova Restaurazione, egli è durante le lotte fraterne degli
Asmonei, che la nuova scuola, la nuova setta apparisce con
Giuseppe, sul teatro della istoria. Egli è allora soltanto che la
presenza ci è dato costatare d’una forma nuova in seno alla
ebraica religione.
Non vorrei però, o signori, che le parole mie fossero[3] da
taluno fraintese. Quando io parlo di questo protratto silenzio,
quando noto una sì grande lacuna nella storia religiosa del popol
nostro, quando dico che solo collo storico Giuseppe la esistenza
ci si appalesa di nuova scuola; dire non intendo, o signori, che per
tutto questo lungo intervallo, le sètte da Giuseppe rammentate
esistito non abbiano; che quella specialmente che offrirà tra non
molto al mio dire subbietto, non spinga alte e profonde le sue
radici in una ben altrimenti remota antichità; che più vetusta
esistenza non conti di quella che la istorica menzione parrebbe
assegnarle. No, o signori, questo nè dico io nè penso. Che anzi le
successive nostre conferenze vi chiariranno abbastanza, come, a
senso mio, certe scuole, certi istituti a cui i documenti non
porgono che una età posteriore, spingano oltre le loro barbe negli
strati, per così dire, più profondi del suolo ebraico; che altro la
cronologia dei documenti, altro quella sia veramente della storica
esistenza; che, benchè per nomi, per forme, per sembianze
diversi, i moderni agli antichi istituti si riappicchino mercè
l’unico genio, l’unica mente e, come oggi si dice, l’unico spirito.
Ma questo, o signori, sarà piuttosto corollario ultimo e postulato
supremo dei nostri studj, anzichè premessa da noi gratuitamente
anteposta al nostro discorso; sarà frutto anzichè radice; sarà
comignolo anzichè base e fondamento al nostro edifizio. Per ora,
o signori, l’ordine delle nostre trattazioni sarà quello ch’emerge
dall’esame eziandio più superficiale dei monumenti esistenti, sarà
quello che scaturisce dall’ordine, dalla successiva menzione delle
sètte. Per ora, o signori, quella stimeremo più antica che anzi le
altre figura nelle istorie dei tempi. Per ora quel nascimento
soltanto le supporremo che la età ci concede, della istorica
menzione. Criterio falso, arbitrario, siccome vedete, e che tanto
vale a parer mio[4] quanto il fissare che uom volesse
d’un’individuo i natali in quell’ora, in quella epoca, che le forze
sue attuava sul teatro del mondo.—Ma noi, o signori, mentre ogni
altro sussidio ci vien meno, di questa data ci staremo contenti.
Quale è la setta che, nell’ordine di storica menzione, dopo quella
immediatamente figura che non ha guari insieme studiammo? Per
ritrovarla, mestieri è non solo valicare, siccome dissi, molti secoli
e regni, ed imperi diversi vederci prima scomparire dinanzi; ma
penetrare eziandio è mestieri nella santa città di Solima, e
penetrarvi come vi dissi mentre la guerra è bandita tra i due
contendenti e rivali Asmonei. Che spettacolo, o signori, non ci
offre allora la santa città! Direste una grande, una immensa
officina in cui le arti tutte si adopran solerti di guerra e di pace.
Vedreste le divisioni politiche armare l’animo, il braccio dei
cittadini. Vedreste il fratello contro il fratello, e talvolta, oh
sciagura! il fratello ligio a strana signoria, contro il fratello della
patria libertà difensore. Vedreste alle politiche, le religiose
dissenzioni innestarsi, e quelle a dismisura esacerbare; per quella
legge che fa più vive ed accanite le lotte di religione, quanto più il
subbietto intimamente ci appartiene, e nulla più intimo di ciò che
ha seggio nel più segreto dell’animo; d’onde, o signori, la ferocia
unica anzichè rara delle guerre di religione. Vedreste tutte le forze
morali, religiose, intellettive, nazionali, civili, del popol nostro in
uno stato di aperta tenzone, di febbrile e prodigiosa esaltazione.
Vedreste un disordine, un antagonismo, un’anarchia; vedreste un
caos da cui il Fiat divino dovrà forse a suo tempo suscitare un
nuovo mondo, e tutti gli elementi più generosi fervere in uno
stato di soluzione, nell’aspettativa di quel disegno, di quella
forma, che tutte dovrà forse comporle e armonizzare in
bell’ordine.—In mezzo, o signori, a Gerusalemme in[5] travaglio,
in mezzo al romore delle armi, al disputar dei Dottori, al piatire
dei rivali, al ruggito delle fazioni, inoltratevi, se vi dà l’animo,
per le vie mal sicure di Gerusalemme, impegnatevi per le sue vie,
e se il pugnale non paventate dei sicarj,[1] i più cospicui luoghi
visitate della città e dei suburbj. Qui è la setta dei Sadducei, e
queste le sue aule. Nuovi giardini d’Epicuro, primi furono tra noi
a preludere a coloro che l’anima col corpo morta fanno.—Non
son questi che noi cerchiamo. Ecco, o signori, i centri, le
accademie ove rivive la sementa santa, del Farisato, eccone le
porte, ecco a traverso le grate le immagini austere, le fronti
sublimi dei Dottori e dei Scribi.—Inchiniamo e passiamo.
Ma ecco, o signori, nella parte più queta, nella regione più
silente della città rumorosa, pacifico presentarsi e maestoso
abituro. Qui un alternarsi di silenzio e di canto. Qui l’ordine, qui
la regola, qui la misura presiedere ad ogni atto, e tutta la interna e
la esterior vita informare. Qui le tempeste muggono alle porte
incatenate; qui si frangono impossenti i marosi delle civili
discordie; qui l’animo si leva a quelle alture in cui le nubi, come
accade sulla cima dei monti, ti si addensano ai piedi anzichè sulla
testa, e quasi partecipe della gloria di Dio, l’uomo assunto a tanta
altitudine cavalca le nubi e calpesta le folgori. Qui si maturano i
grandi pensieri, qui si elaborano le grandi dottrine, che esciranno
salve ed illese dal gran naufragio.—Che casa è questa, o signori,
che gente è cotesta che l’abita? È cielo questo, è questa
anticipazione di Paradiso? Sono angioli cotesti, sono mortali?
—.... Sono gli Esseni.—Esseni! nome nuovo, inaudito forse per
alcuni di voi.—Nome che l’Ebreo non dovrebbe mai obbliare,
come a delitto imputeriasi al Greco Platone disconoscere e
l’Accademia; come all’Italo, Pitagora [6]e gli Stoici; come ad
ogni popolo la più grande gloria, e il prisco vanto intellettuale de’
suoi proavi.
Gli Esseni!—Venerando nome per tutti quelli appo i quali
sono in onore Sapere e Virtù. Nome carissimo per noi figli, per
noi eredi di loro fama. Nome, lasciatemi aggiungere, nome santo
per chi in essi vede, come io già veggo, come voi spero tra non
poco vedrete, negli antichi, nei venerandi Esseni il fiore, il
Patriziato, il Grado supremo nella Gerarchia Farisaica;—Il
Farisato rivolto alla speculazione del sommo vero e alla pratica
del sommo bene; la falange, come la Macedone, degli Immortali[2]
che tra le fila si reclutava della comune farisaica milizia.—Io so,
o miei giovani, che sì dicendo, io proclamo cosa che il mondo
non era usato sin qui ad udire; so che, come ogni idea nuova, avrà
pregiudizj, errori e rispettabili convinzioni da combattere. Io so, o
signori, che grave debito io mi assumo di somministrare a questa
mia teoria, carte e diplomi in regola per viaggiare pacificamente
per il mondo. Per ora mi contento di un salvo condotto. La
identità dell’Essenato col Farisato negli ultimi e supremi suoi
stadj, sarà, spero, frutto di una continua dimostrazione nel corso
di questa istoria; anzi, la storia stessa ne sarà la più concludente
dimostrazione. Epperò, appunto, egli è questo tema siffatto, a cui
troppo disconviene tempo e spazio ristretto. Il suo tempo, è tutto
quello che noi spenderemo intorno gli Esseni. Il suo spazio, tanto
si allargherà, quanto lungi andranno di questa storia i confini.—
Per ora, il nostro passo dee procedere regolato e metodico. Noi
abbiamo pronunziato un nome bello, un nome onorando, e, se mel
permettete, dirò ancora onorante. Ma che vuol dire questo bel
nome? Che significa la gran parola di Esseni?—Il suo significato
logico, dottrinale, storico, provvidenziale, non ha che una sola
possibile definizione.—La[7] storia stessa della bella scuola, così
da or innanzi la chiameremo. Il significato però che adesso
cerchiamo è quello più ristretto del vocabolo stesso; il significato
gramaticale, filologico della parola, il valore suo puramente
etimologico. Questa è la definizione che noi andiamo cercando.
Ma questa, qualunque essa sia, non è tale che non debba
necessariamente colla prima connettersi; che anzi, l’armonia tra le
due definizioni, è tale criterio, che la verità dee porre in sodo dei
nostri resultamenti. Noi cerchiamo la definizione del vocabolo,
ma questa, per essere vera, dee armonizzare colla definizione
della setta, che è l’istoria. Una definizione gramaticale che non
fosse la natia espressione, e quasi lo invoglio naturale della
definizione logica, un nome che non esprimesse lo Essere,
sarebbe improprio, sarebbe supposto, sarebbe falso.—Il nome è il
Corpo, l’esteriorità dell’Idea, come il Corpo è l’esteriorità dello
Spirito.—Ecco il criterio che noi dobbiamo a guida proporci nelle
ricerche che saremo per fare sul nome di Esseni, nella cerna che
fare dovremo degli infiniti supposti, delle origini multiformi a
quel nome assegnate.
Egli è perciò, o signori, che prima meta ci proporremo nelle
nostre ricerche il nome di Esseni. Stabilita di questo nome la
definizione, discorreremo delle origini dell’Essenato; cercheremo
di stabilire una data almeno approssimativa del suo nascimento,
di additare le fasi più cospicue della sua esistenza, di seguirne le
vestigia più o meno sensibili pel corso dei secoli. Determinata
degli Esseni la origine e la Istoria, parleremo delle loro istituzioni
e di tutto quello che queste concerne, delle leggi loro costitutive,
della loro organizzazione, del loro genio, delle lor costumanze,
insomma, o signori, della loro vita sociale.—Dopo la vita sociale,
altra vita non meno della prima preziosa, sarà subbietto delle
indagini nostre;[8] voglio dire, o signori, la loro vita intellettuale;
le loro credenze, i loro dogmi, i loro principj. Qui è, o signori, ove
meno pienamente potremo appagare la nostra sete di cognizioni;
qui è ove una grande lacuna romperà in gran parte il filo coerente
della nostra esposizione; qui è dove chiaro apparirà negli effetti
quel sistema prediletto agli Esseni di sottrarre agli sguardi curiosi
parte almeno delle dottrine più riservate. Qui è ove noi, giunti alla
soglia del tempio, dovremo se non indietreggiare sconfortati,
certo non più che pochi e timorosi passi avanzare nel recinto del
Santo, e solo, a così dire, di sbieco gettare di tratto in tratto
qualche sguardo furtivo per entro alla cortina, che la piena ed
intera fruizione ci contende degli inviolati misteri. Esaurito, o
signori, il Dogma, narrata quanto meglio si può la vita
intellettuale degli Esseni, quella prenderemo a descrivere che
pratica o, come dire vogliate, rituale si appella, ove i riti, la forma
del loro culto, il numero, l’indole delle loro osservanze tutte,
l’esercizio pratico delle loro credenze, tutti in bell’ordine ci si
offriranno dinanzi schierati. Noi avremo allora tutta intera
ricostituita la personalità degli Esseni.—Esistenza, Pensiero,
Azione, tre sommi indivisibili elementi di ogni Ente morale, che
nella Origine, nel Dogma e nel Culto, ogni volta si convertono
che di Setta o religioso Sodalizio è discorso.
Per ora, o signori, del nome degli Esseni.—Una falange di
dotti si contenderà la gloria di averne l’appellazione decifrata. Voi
ascoltateli con quella riverenza che si deve all’ingegno, e col
rispetto che esigono le loro fatiche spese a restaurare una gloria
che a voi, giovani israeliti, più che ad ogni altro appartiene. A noi,
il falso dal vero discernere, a noi raccorre gli elementi del vero
disseminati talvolta per entro i falsi sistemi; a noi il rintracciare in
tanta distanza, in tanto pugnare di ostili[9] pareri, il primitivo e
genuino senso del vocabolo Esseni.—E dove a noi il cielo arrida
propizio, potrò dir di me stesso, come per Laura il Petrarca:
Forse avverrà che il bel nome gentile
Consacrerò con questa stanca penna.
[10]
LEZIONE SECONDA.

Vi promisi, o signori, che subbietto della presente conferenza


saria stato la origine, il significato di questo nome di Esseni, di
quel nome col quale venne la scuola presente invariabilmente
contraddistinta. Aggiunsi, o signori, che molte sono, che sono
discordi le congetture che di questo nome furono in tutti i tempi
proposte. Io vengo ad adempire la mia promessa, vengo a
schierarvi in bell’ordine innanzi le moltissime congetture che
nella presente disquisizione il primato contendonsi.—Uomini
celebri ci hanno trasmesso delle loro meditazioni il portato; nomi
cari e venerati alla scienza non esitarono disputare lungamente
intorno l’origine di questo vocabolo. Saremo noi rispetto ad essi
più avari di attenzione, di quello ch’essi il furono verso di noi di
lucubrazioni e di veglie? Io dico, o signori, per voi che nol
saremo.—Levino, dunque, la voce e ci dicano dei loro studi il
portato. Ci dica per primo il Salmasio in qual guisa egli giunse a
credere il nome di Esseni da quello derivato di una città e regione
che questo nome portava di Essa. Ci dica poi il Basnage su qual
fondamento egli la opinione del Salmasio negava, affermando a
dirittura, nulla traccia averci l’antica geografia tramandato della
esistenza della supposta regione. Ci dica, infine, la buona critica
tra il Salmasio che afferma e il[11] Basnage che dinega, chi
meglio al vero si sia apposto. Cel dica, o signori, la Rabbinica
Enciclopedia, e in particolare il Talmud. Cel dica, in secondo
luogo, il deposto degli antichi geografi e l’autorità dei viaggiatori.
Cel dica e la paziente disamina dei Filologi, e la scienza
talmudica (e nello invitarvi a bere con me a questo fonte, nel
potere ad autorità invocare il libro che tanti e tanti ebbero ed
hanno in dispetto, difendere io non mi so da un innocente
sentimento di orgoglio, che il rigoroso ascetismo del Passavanti
non temeva qualificare di santa superbia): cel dica il Talmud in
quei tanti e concludentissimi passi da me con grande studio
raccolti, ove, ad onta dell’asserzione del Basnage, la esistenza di
una regione così chiamata vien posta in splendidissima luce. Cel
dica il trattato di Sanhedrin, ove di due Dottori si narra che, a
determinare le Neomenie e le feste, convenivano insieme a
moltissimi altri, in una spezie di concilio che una città vedeva
allor celebrare, la quale il nome reca veramente di ‫ צסיא‬Asia: cel
dica ivi stesso, ove di un altro Dottore si narra R. Meir, il quale in
altra congiuntura si recava nella stessa ‫ אסיא‬Asia all’effetto
medesimo. Cel dica nel trattato di Mesiha, ove invitando un
Dottore alla fuga, onde all’obbligo sottrarsi di ministrare a certi
offici edilizj, Tuo padre, così gli dicono, rifugiossi in Asia, e tu
cerca riparo in Laodicea. Che più, o signori? Cel dicano quei
passi ove, volendo far comprendere ai contemporanei a quali
popoli, a quali terre corrispondono i popoli, le terre nel Genesi
rammemorati, ci offre il più curioso ed interessante spettacolo dei
primi degli iniziali conati che la scienza etnografica andava
facendo per organo dei Dottori, e nuovo lustro e nuovi raggi
aggiunge se è possibile alla loro corona. Il Talmud babilonico—il
gerosolimitano, il Comento perpetuo che si chiama Medrasce,
opera pur essa Palestinese, la Parafrasi[12] di Gerusalemme, tutti,
o signori, i primi albori ci offrono della Etnografia nascente,
cresciuta, come sapete, ai nostri tempi gigante; e tutti della
presenza attestano della contesa ‫ צסיא‬Asia. L’attesta il
Babilonico in Batra, laddove ingegnandosi tradurre con nomi
nuovi l’antico Cheni, Chenizi, Cadmoni, da Dio ad Abramo
promessi nella sua discendenza, ci offre nel secondo di questi
nomi il desiderato Asia. L’attesta il Talmud di Gerosolima,
laddove a Cheni sostituisce Asia,—a Chenizi Apamea,—e
Damasco al Cadmoni. L’attesta il Medras alla sezione 44, ove si
riproducono i nomi stessi se non l’ordine istesso del
Gerosolimitano. L’attesta infine il Parafrasta di Gerusalemme,
ove il nome istesso ci porge di Asia, in ciò solo però dagli altri
discorde, che lo equivalente egli ne fa dello antico Aschenaz.
Innanzi, o signori, a questo bello e generoso adoprarsi dei Dottori
a far convergere al luminoso centro delle Scritture tutti i rai dello
scibile, due pensieri l’animo mio tutto intero si assorbivano. Io
dissi da principio: È egli possibile, dopo tanti e solenni esempj,
più a lungo il divorzio protrarre tra la scienza e la fede; e protrarlo
(lo che è a dismisura più enorme) sull’autorità fondandosi e
sull’esempio degli stessi dottori? Ripiegando poi l’animo mio
verso il subbietto in discorso, io dissi a me stesso: Volle il
Salmasio il nome Esseni da quello di Essa originare.—Lo negò il
Basnage, e solo il Talmud parve al primo dei due consentire.
Dovrà ella la questione rimanere in pendente? Dovremo noi la
sola autorità del Talmud opporre al Basnage, a costo di udirci
intimare solenne declinatoria? Immaginate voi, o miei giovani,
l’ansia che assalisce il viatore quando, dopo mille disinganni,
qualche caro pronostico gli ripromette la terra vicina? Or bene,
tale io mi feci nella ricerca di una rovina, di una memoria, anzi di
un vocabolo solo. Questo nome, o signori,[13] finalmente spuntò.
Non solo Tolomeo asserisce essere stato il nome di Asia
particolarissimo alla Frigia, ma l’autorità eziandio mi soccorse
ben tosto di nomi, di autorità ben altrimenti sonori, che non è in
oggi l’esautorato Tolomeo. Egli fu il celebre orientalista
Klaproth, che mi mise il primo sulla buona via. Egli, nella
Cronaca caucasiana da esso pubblicata, mostra lo stabilimento in
quelle regioni sino da epoche remotissime di un popolo detto Osi,
o meglio Asi, come piuttosto crede il suddetto Klaproth. Non
basta. Il Dubois era più esplicito; egli, nel suo Voyage autour du
Caucase, questo formalmente ci fa sapere, cioè che il nome di
Asia ha esistito in epoca remotissima, qual denominazione locale
particolarissima della parte settentrionale della catena caucasiana.
[3]
Perchè tanto studio a rivendicare la esistenza di tale sconosciuta
regione? Forse, o signori, perché io soscriva interamente alla
origine dal Salmasio immaginata? Il processo del mio dire vi
mostrerà che così non è veramente. E perchè? Perché niuno, che
io mi sappia, antico, originario legame il nascimento della Setta
congiunge colle province dell’Asia minore. Ora, o signori, chi
non lo sa? egli è proprio delle sètte quel nome assumere che più
aperto n’esprima il genio, e il principio nativo, in quella guisa
istessa che ognuno di noi quel nome porta con sè chè recò in sul
nascere. E tanto esser dee avvenuto per quel degli Esseni. E poi, o
signori, quante altre e potentissime ragioni non avversano la
ipotesi del Salmasio! L’avversa il costume che ebbero, sto per
dire generale, tutte quante le Sette, di tôrre a preferenza quel
nome o che il fondatore ricordasse, o che più alla mente pingesse
l’indole, il carattere, il genio ideale, anzichè il luogo, la patria, il
paese ove prima ebbe i natali. Così voi dite, o signori,
Platonismo, Epicureismo tra i pagani, e voi leggete tra le cristiane
eresie i nomi[14] di Ario e Nestorio, le dottrine del Triteismo e del
Monoteismo, e tra le filosofiche scuole voi usate rammemorare
l’Idealismo, il Sensualismo, il Panteismo.[4] L’avversano, o
signori, tutte quelle buone e salde ragioni che ci consigliano,
come in seguito vedrete, a preferire diversa sentenza; e
finalmente, l’avversa la più seria, la meno oppugnabile difficoltà
che si potria contro un sistema suscitare. E sapete qual’è?—La
prova del contrario. Invero, che dicono, le più antiche memorie
della setta? Ove per la prima volta lo storico con gli Esseni
s’imbatte, ove li trova, ove ne nota la prima presenza, i primi atti,
la prima dimora? Altro che Frigia o Bitinia o altra qualsivoglia
gentilesca contrada! E’ sarebbe come chi cercasse fuor di Roma il
Campidoglio, l’Acropoli fuori di Atene, e il cuore umano fuori
del centro vivificatore ove ha stanza ed imperio. La patria
naturale, dirò anzi, necessaria dell’Essenato, è Palestina; e
Palestina registra veramente la istoria qual primo teatro della loro
storica apparizione. A Palestina aderirono costantemente gli
Esseni, in quella guisa istessa che la più nobile parte di noi al
frale aderisce per conservarlo in vita sin dove il militar le fu
prescritto. Egli n’era l’anima, il genio personificato, condensato,
ristretto; quindi tanto più espressivo: genio nazionale e religioso,
ma religioso e ieratico sovra tutto, per i tempi volgenti a politico
sfacelo, e pel predominio da lungo tempo avverantesi negli ordini
ebraici dello spirito sulla materia, del generale sul particolare,
dell’eterno sul temporaneo, del Cielo sopra la terra. Egli è quindi
nel giro della patria Palestinese che l’origine e il significato
dobbiamo cercare del nome di Esseni.
Ma per entro agli stessi confini di Terra santa, non è così
unanime il sentire, che tutti in una origine si quietino gli
indagatori delle Esseniche antichità, nei confini[15] di Palestina.
Tra le quali, una mi piace per questa sera considerare, che non
piccola fama nè piccolo stuolo di seguaci si trasse dietro nel
consorzio degli eruditi. Chi il merito vanti del primato non so, ma
egli è un fatto però che non pochi furono di coloro a cui tra gli
Esseni e i Baitusei, altra religiosa setta di Palestina, parve vedere
una perfetta identità. L’udì forse per la prima volta l’Italia, e dalla
bocca l’udì di un Ebreo, di un Rabbino, di un Italiano. Egli era il
nostro concittadino Azaria De Rossi, o, com’egli si diceva
ebraicamente, Min aadomim, che nel secolo decimosesto seppe
coltivare con tal successo la storia e l’erudizione Greca e
Romana, che la fama ne corse e dura tuttavia onorata nel mondo
erudito. Or bene, o signori, Azaria De Rossi fu quello che
propose la identificazione perfetta dei Baitusei del Talmud
coll’istituto degli Esseni. Non basta; egli ne vide il nome nel
nome dei Baitusei. Questo nome di Baitusei, si scrive in ebraico
Baitusim, o Betusim, secondo altra lezione. Or bene, l’occasione
era troppo bella per un ingegnoso etimologista, e il De Rossi non
era uomo da lasciarla fuggire. Egli scrisse in due parti il vocabolo
Baitusim; divise Bet da Usim. Di Bet egli fece Casa, Istituto,
Sodalizio, Società; di Usim fece il nome proprio, l’appellativo
istesso di Esseni. Ecco che cosa fece il De Rossi, schiudendo in
questa via la strada a quelli che in processo di tempo la
percorsero intiera. Vi entrò per primo il Fuller, che alla sentenza
soscrisse del nostro Rabbino. Vi entrò quasi ai nostri tempi il
Gfroëre, dotto tedesco, nella celebrata sua isteria, Critica del
cristianesimo primitivo, a pagine 347; e tanto reputò la congettura
avverata, che precipuo argomento ne trasse a provare tra le due
sètte perfetta, intera omogeneità di carattere. Convien dire però, o
signori, che tale non sembrasse a parecchi altri, nè di minore
rilievo, che delle origini Esseniche[16] presero a trattare. Io non
dirò di altri che il precessero; ma se ultimo fu, certo non meno
formale si pronunziò contro l’asserta origine Baitusea, l’illustre
Franck, che onora in Parigi il nome e la dottrina Israelitica. Egli,
il Franck, nella terza parte dell’opera sua la Kabbale, ou
Philosophie religieuse des Hébreux, formalmente la respinge. Io
credo che in questa, come in altre cose moltissime, abbia colto
nel segno.—No, o signori, fintanto che luce non sarà tenebre, nè
il giorno in notte converso, Baitusei ed Esseni non saranno
giammai una cosa sola, un istituto, un sodalizio. Riflettete
all’opinione costante universa prevalente negli antichi e nei
moderni tempi della esistenza di un individuo, di un eresiarca
famoso per nome Baitos, fondatore o vogliam dire caposetta della
fazione Baitusea;[5] esistenza, o signori, che, come vedete, la
possibilità perfino ci toglie di scindere, di notomizzare l’indiviso
e personale distintivo dell’eresiarca Baitos.[6] Riflettete, infine,
che i Baitusei non sono tali sconosciuti e incompresi settarj, che
sia lecito alla ventura fantasticare sul conto loro; che note non ci
sieno le lor dottrine, note le divergenze dal centro ortodosso, noti
i caratteri, note le costitutive e naturali fattezze,[7] e troppo
ristretto quindi e troppo angusto il vallo riservato ad arbitrarii
connubii.
[17]

[18]
[19]
LEZIONE TERZA.

Vi dissi, o signori, come il Fuller aveva dapprincipio


sottoscritto alla opinione del nostro De Rossi, e come esso prestò
omaggio alla etimologia Baitusea. Ma che? ben presto s’avvide
su quanto fragile fondamento posasse la preaccennata opinione.
Narrò ai dotti impazienti come il vocabolo Esseni significasse
uomini ritirati, ascosi, e poco mancò non dicesse solitarj e romiti.
Non è difficile ch’egli dedotto avesse il nome Esseni dal
vocabolo Asam, che in ebraico significa ripostiglio; o, meglio,
che dalla radice ne ripetesse l’origine, che l’idea esprime
veramente di tesaurizzare e nascondere, siccome Isaia (XXIII)
aveva detto, di questo vocabolo giovandosi, lo ieazer veló
iehasen. La nuova etimologia del Fuller riunisce ella, o signori,
tutte le desiderate condizioni di credibilità? Rispond’ella a tutte le
esigenze grammaticali, critiche, storiche e dottrinali? Quanto alla
prima, io vo’ dire alla convenienza grammaticale, sarebbe
ingiustizia il dirne male. Ben altre etimologie, e ben altrimenti
arbitrarie, furono propalate qual prezioso e pellegrino trovato. Ma
potranno dirsi egualmente contenti la critica, la istoria, e il genio
e l’indole generale delle sètte? La critica potria invero, ponendoci
un poco di buona volontà, chiamarsi contenta; potrebbe ricordarsi
la critica come i Talmudisti dicessero[20] appellativo glorioso
quello di hobesé bet amedras, che suona gli studiosi reclusi;
come uno tra essi celebratissimo recasse il nome di Hanen il
recluso, Hanen anehba; come di parecchi si narri nel Talmud di
Gerusalemme, avere eglino menato della vita gran parte, nel
fondo di una grotta, tamir bimhartà: e infine potrebbe con
cert’aria di trionfo notarsi come i diletti di Dio, i suoi servi, i suoi
fedeli, siano detti a dirittura nei Salmi, i reclusi di Dio, i nascosi
di Dio. (Salmo 83.)
Ma che per ciò, o signori? Io ripeterò ciò che parmi aver detto
altre volte. Questi curiosi ravvicinamenti, questi tratti di luce,
queste inaspettate e brillanti conferme, possono, in progresso di
tempo, avere sovrapposto sul fondo primitivo un nuovo senso che
nè al vocabolo ripugnava nè al costume degli Esseni. Ma può
esserne stato, o signori, cotesta la naturale e propria e primitiva
intelligenza? Io non lo credo; e per addurre due potentissime
ragioni, ella è, in primo luogo, la considerazione per me capitale
che gli Esseni così facendo, dissentito avrebbero dall’andazzo
comune di ogni setta, la quale quel nome a preferenza si appone
che il genio intimo e la natura sua propria e il carattere
prominente stia a significare, anzichè un uso o una qualunque
consuetudine, per quanto grande e peculiare si voglia imaginare.
Ella è, in secondo luogo, la formale e contradittoria deposizione
della istoria, la quale, siccome a suo tempo vedremo, non solo
della vita reclusa, del genio cenobitico non fa costume proprio
inseparabile dagli Esseni, ma gli Esseni stessi ci addita talvolta
negli affari e nelle transazioni mischiati della umana società, e
bella e grande parte sostenere sì nelle politiche, come nelle
religiose faccende.—Il fatto, o signori, la reclusione, la vita
cenobitica, cade qual integral requisito dell’Essenato; e con esso
cade la etimologia del Fuller sur esso fondata.[21] Altra ne
escogitò lo Scaligero, e fu quella di Santi. Che ciò significhi il
nome di Esseni, non oserei sostenere, comecchè io vada
persuasissimo che tra i nomi che recarono gli Esseni, fu quello di
Santi; come, da un lato, ne fanno fede le numerose menzioni che
sotto questo nome appunto ne fa il Talmud, segnatamente là ove
si parla della Santa Società, Keilla caddiscia di biruslem; e come,
dall’altro, non meno concludenti ne soccorrano all’uopo i tanti
passi degli Evangeli, in cui i primitivi cristiani, usciti senza meno
dagli essenici chiostri, s’intitolano Santi; e Santi è tra i nomi che
gli storici attestano avere i cristiani nei primi tempi recato, molto
prima che cristiani si dicessero in Antiochia.
Strana cosa avvenne poi ad un antico padre della Chiesa
cristiana, a S. Epifanio. Non è già che la cognizione della vera e
sana etimologia gli facesse difetto, che anzi egli la conoscea
benissimo, egli la propose, la insegnò; ma non quotando nel
possedimento del vero, cercò il nuovo ed incappò nell’errore.
Stava a cuore ad Epifanio, siccome stette di poi ad altri
moltissimi della sua religione, di noverare il nobilissimo Istituto
tra quelli che la chiesa generò nei primi secoli; di cristianizzare,
per così dire, lo Essenato, di svellere la gloriosissima pianta dal
Monte Sion per innestarlo al tronco cosmopolita del
cristianesimo, e questa cara e bella gemma strappare alla corona
di Giuda. Però non rifinirono antichi e nuovi dottori cristiani di
cercare alle loro pretensioni argomento; cercarlo nei fatti, cercarlo
nelle dottrine, e di queste vedremo; cercarlo poi nell’etimologia, e
di questa adesso vediamo. Il primo a dar il segno della
propaganda retrospettiva, fu, come dissi, Epifanio. Egli nel nome
Esseni trovò Iesse genitore di Davide; anzi, in grazia di esso, il
nome di Esseni in quello mutò più alle sue viste affaciente di
Iesseni. Gli parve poco. Gli parvero troppo[22] remoti, troppo
indiretti i rapporti coll’oggetto che preso si aveva di mira. Egli
osò; e di un balzo superò ogni distanza, e di un balzo strinse,
confuse, identificò l’Essenato o il Cristianesimo; e quello, come
questo, derivò dal nome di Gesù, e gli Esseni disse da Gesù
appellati, siccome quelli che alle dottrine sue preso avevano ad
ubbidire. Dante, o miei giovani, disse in alcun luogo della
Commedia, negarsi talvolta dagli uomini ossequio a quel ver che
ha faccia di menzogna; nè la mente errò, così dicendo, del divino
Poeta. Dante, avria potuto dire con egual verità, che spesso
quest’ossequio si concede, si prostituisce a quella menzogna che
ha faccia di verità. Ma quella di sant’Epifanio ha ella almeno, o
signori, di verità la sembianza? Io dico che ella reca distinto il
suggello dell’errore, dell’arbitrario. Chi mi sa dire, invero, quale
delle due sue interpretazioni riesca più a udir tollerabile? È ella
forse la prima, è ella quella che da Iesse padre di Davide
l’appellazione ripete degli Esseni? Ma qual rapporto, di grazia,
fra l’antico Betlemmita, e il grande e il dotto istituto degli Esseni?
È ella la seconda che da Gesù, il nome conia di Esseno, di
Essenato? Ma vuol dunque egli, sant’Epifanio, la baia dei fatti
nostri? Che un padre della chiesa, che un Epifanio non voglia
soscrivere alla sentenza di parecchi tra i moderni che Gesù
vogliono anzi educato, ispirato nella società degli Esseni, questo
di leggieri si comprende; ma quello che non si comprende, questo
si è, o signori, cioè come ignorasse Epifanio, che mentre gli
Esseni mangiavano, bevevano e panni vestivano, il modello
d’onde tolsero, al dire di lui, a foggiare il nome loro, il preteso
denominatore della setta, giaceva tuttavia latente in grembo al
futuro; ch’è quanto dire che Gesù Cristo non esisteva: e non
occorre aggiungere che, salvo quei rarissimi casi in cui tutto
collima ad attestare la verità di[23] un supposto, non è concesso a
chicchessia, fosse pure un santo, detrarre o aggiungere una jota,
siccome egli fa, veramente nel nome che si vuol decifrare. Or, chi
ha egli abilitato Epifanio a cangiare il nome di Esseni in quel di
Iesseni? Ecco, o signori, le cause, le gravissime cause che ci
interdicono lo assentire alle arbitrarie interpretazioni di Epifanio.
Vi fu, o signori, chi accettando la lezione di questo Padre, e
chiamando lo antico sodalizio Iesseni piuttosto che Esseni, una
interpretazione v’innesta che ha, se non altro, l’apparenza di
plausibile. Volle il Nilo che Esseni si dicessero nel significato di
Dotti e di Savi. D’onde una siffatta etimologia? Egli vide la
Sapienza denominata nelle sacre scritture col nome implicito di
Ies; dico, o signori, implicito, perchè la forma e lo involucro
esteriore suona piuttosto Tuscia, comunque universa predomini la
opinione, inchiudervisi qual radice il vocabolo significantissimo
di Ies. Che vuol dire Ies, o signori?—Ies è il vocabolo che
esprime l’Idea più astratta, l’Idea, sto per dire, più ideale—l’Idea
massima—l’Essere—l’Essere metafisico, incondizionato,
indeterminato, e come direbbe il Rosmini, l’Ente Possibile.—Ma
Ies esprime eziandio, voi già l’udiste, l’Idea di Scienza, di
Dottrina, di Pensiero per eccellenza; attalchè, per una ammirabile
e notevolissima sinonimia, acchiude nel proprio senso il duplice
significato di Essere e di Pensiero. Voi non potreste misurare la
immensa importanza di questo bellissimo trovato filologico senza
molte indispensabili precognizioni filosofiche; che dico? senza
alle più alte cime poggiare della odierna filosofia Alemanna,
senz’almeno toccare del rinnovatore delle filosofiche discipline,
di Cartesio, che poneva a base del suo sistema il famoso Cogito,
ergo sum: Penso, dunque esisto;—senza risalire almeno a Platone
che, nel decimo delle leggi, domandava[24] che cosa è l’Essere
Primo? e rispondeva l’Essere Primo, è l’Idea—è il Pensiero;—
senza accennare almeno ai Dottori, i quali videro nel Ies
promesso ai giusti in Paradiso, leanhil oabai IES, l’Essere Perfetto
e il Perfetto Pensiero, cioè la Visione.[8]
È egli questo lavoro, o signori, che intraprendere si possa e
compire tra due parentesi? Il vostro buon senso ha già risposto
per me. Io voglio soltanto che impariate da questo esempio, quale
sterminata latitudine abbracciano le lettere ebraiche; come in
fondo ad un oscuro vocabolo ti si apra non di rado agli sguardi
atterriti tale profondo e smisurato abisso, da darti, al solo vederlo,
il capo-giro; come gli spregiatori di queste frasche pretese, sieno
tanto savi quanto il villano che d’uno sguardo non degna la
minutissima polve stellare che si chiama Nebulosa, alcune poche
palate anteponendole invece del suo caro concime. Fatto è, o
signori, che Ies adombra l’Idea di una scienza sublime, di una
scienza nella sua perfezione immanente; e chi solo ne dubitasse
potria vedere i più rigidi ed esclusivi gramatici, il Kimhi tra gli
altri, nei suoi Radicali.
Si apponeva egli, o signori, il nostro Erudito nel derivare da
questo vocabolo, l’origine di quel di Esseni? Senza dubbio, che
qualche giusta e calzante analogia milita in favor suo. Il
favorisce, o signori, l’Ebraico Jesciscim, al plurale Vecchi, o
come altrimenti si voglia, Anziani, nei quali, dicono i Proverbi,
posta ha seggio la Sapienza: bisciscim hohma. Il favorisce lo
esempio dei Pitagorici, coi quali non pochi nè lievi riscontri ci
offrirà il nostro Essenato, che il nome i primi coniarono ed
assunsero eglino stessi per tempissimo, di filosofi, ossia cultori ed
amanti della sapienza: e quando ogni altra analogia venisse meno,
quella sorgerebbe viva e parlante di tutto il Dottorato Ebraico, che
la caratteristica[25] distinse mai sempre di Hahamim, savi. Dirò
anzi di più, che per questa come per alcuna fra le altre etimologie
da noi rigettate, noi rechiamo sentenza che i nomi che vi si volle
trovare, se non esprimono il senso di Esseni, pure tornano in
acconcio al grande Istituto, e per, alcuni almeno, probabilmente il
contraddistinsero. Di questo novero è il nome di Savi, di Dotti;
diciamolo a dirittura, di Gnostici. Noi che crediamo gli Esseni
antenati dei Cabbalisti, la cui scienza essi chiamarono Gnosi o
Scienza per eccellenza, come chiamarono la propria e il
Cristianesimo e le prime Eresie; noi che ricordiamo nel Talmud
cento parlantissimi casi in cui il nome di hohma o Gnosi è usato
manifestamente nel senso di Dottrina Acroamatica, non
potremmo negare la convenienza di questo nome all’istituto degli
Esseni. Ma è egli questo che il nome loro significa? Chi non lo
vede? Ies, Iascisc, Tuscià, nel senso pure più favorevole alla
imaginata derivazione, sono vocaboli che appartengono
principalmente al linguaggio sublime, allo stile, per così dire,
nobile, poetico, aulico, aristocratico della Scrittura. È ella questa
la officina ove i nomi si coniano per l’ordinario, che scuole e sètte
contraddistinguono? La Storia vi risponde al contrario. Parole
vive, parole usate, correnti sulle labbra del popolo; parole pregne
di senso, multiformi, multilatere e in sommo grado comprensive;
ecco, o signori, il materiale donde si foggiano i nomi, le
qualificazioni delle sètte. E tale non è la proposta derivazione.—
Ella è troppa dotta, troppo classica, troppo studiata, per esser
vera. È anche, dirò di più, troppo biblica, troppo scritturale, per
tornare in acconcio nella epoca Rabbinica per eccellenza, nella
quale sotto questo nome ti apparisce a prima volta lo Essenato;—
per consuonare con quella lingua dai Dottori parlata, che se non è
il dialetto Ebraico-rabbinico[26] dei tempi posteriori, è certo
immensamente distante dal biblico purismo; con quella lingua
insomma che mirabilmente tramezza
Fra lo stil de’ moderni e ’l sermon prisco.

Ancora, o signori, ulteriore esame ci attende, e noi abbiamo


finito.
Egli è un curiosissimo passo che la mia stella propizia mi
parava dinanzi nel volgere e rivolgere a questo uopo le carte; un
passo, io dico, sugli Esseni rilevantissimo, nella più dotta
descrizione che della Grecia vetusta ci abbia tramandata
l’antichità, in un autore greco egli stesso, in Pausania. Egli, nella
descrizione dell’Arcadia, discorrendo del celebre Tempio di
Diana Imnia nella regione degli Orcomeni, alcune cose va
esponendo di cui disconoscere non si potrebbe la importanza.
Narra Pausania, come stabilito fosse dalla legge che la
sacerdotessa e il sacerdote, non solo circa il commercio carnale,
ma in tutte le altre cose ancora dovessero serbare la castità per
tutto il tempo di vita loro; che nè il bagnarsi, nè vivere secondo
gli altri, nè entrare nemmeno nella casa di un privato fosse loro
consentito. Giunto a questo punto, Pausania esce fuori con queste
parole che io vi raccomando, che riproduco testualmente, ed alle
quali vi prego attendere tutti in orecchi.—Io so, dice Pausania,
che queste cose (ch’è quanto dire il celibato, la solitudine e la vita
in tutto singolare di sopra rammentate) osservano presso gli
Efesi, per un anno non per tutta la vita coloro i quali sono
Estiatori di Diana Efesina, e che dai cittadini, Esseni, sono
chiamati Tanto è. Pausania ha pronunziata la gran parola! La
parola di Esseni! e l’ha profferita a proposito non già di Solima e
delle sue sètte, ma di Efeso, ma del culto di Diana, ma del prisco
Politeismo.
[27]
Ove siam noi, o signori, e che cosa significa questo
stranissimo incontro? Siamo in Efeso? Siamo in Palestina? È
Diana che qui si adora, è l’Eterno che qui si cole? Sono Ebrei
cotesti, sono Pagani? Voi siete già, o miei giovani, non è egli
vero, alquanto sorpresi. Or bene, permettete che vi dica che tutto
non avete udito. Avete udito, è vero, i sacerdoti di Diana Efesina
qualificati Esseni; intenderete adesso, cosa più strana, intenderete
un Dio, un Dio del Paganesimo, il più grande degli Dei
dell’Olimpo, l’Ottimo, il massimo Giove, Esseno egli stesso esser
chiamato. Chi gli diede questo nome inatteso? Chi operò questo
strano connubio? Egli è il poeta Callimaco, a cui gli antichi e i
moderni tempi concessero fama di dottissimo nelle greche
antichità. Egli è Callimaco che così si esprime nell’Inno a Giove
che reca il suo nome. Callimaco, che insieme a Pausania ci attesta
la presenza in seno al paganesimo di un istituto, dirò di più, di
uno stato di straordinaria perfezione che dai popoli, dai poeti,
Esseni ed Essenato eran chiamati. Che vuol dir ciò, o signori, e
quale è dello Essenismo la chiave? La chiave, o signori, è pronta.
L’Edipo si è trovato. Egli è lo Scoliaste, ch’è quanto dire l’autore
delle Scolie o commenti alle Poesie di Callimaco. Egli lesse come
noi il Giove Esseno di Callimaco; ad esso, come a noi, sembrava
strano, incompreso l’epiteto; ma egli meglio di noi nelle greche
lettere erudito, potè coglier più davvicino nel segno.—Narra lo
Scoliaste, come il vocabolo Esseno—notate, o signori,
singolarità,—fosse vocabolo vecchio, usitato in Efeso; e di che
lingua credereste? Forse della lingua greca? della lingua
popolare? Signori no, dice lo Scoliaste, della lingua Religiosa. E
che significa in questa lingua, di grazia, il nome Esseno?—
Significa, ripiglia il nostro chiosatore, significa Re delle Api, e in
questo senso fu conosciuto, fu[28] usato nei prischi tempi. Però
non guari andava, continua lo Scoliaste, che il senso assunse di
Re, di Monarca in generale, e Monarchi e Re furon detti Esseni.
Ma una nuova trasformazione il vocabolo Esseni attendeva, e non
è la meno importante. Venne tempo in cui per dir Re, Sacerdote,
Principe dei sacrifizj, Preside nei sacri agapi o nei religiosi
conviti, Esseno generalmente solea dirsi. Esseno, quando l’officio
si voleva indicare che in Atene eserceva il Re Arconte; Esseno,
quando quello che in Roma sosteneva il Rex Sacrificulus.
Questi sono i fatti, o signori, e dei fatti interprete fedelissimo
finora mi sono reso. Èmmi dato perciò muovere un passo più
oltre? potrò io scoprire quali relazioni possono avere stabilito
questa comunanza di nome, e in parte questa comunanza d’idee,
tra l’Essenato Palestinese e il sacerdozio dell’Asia Minore? Io
confesso che non mi sento da tanto, nè tanto mi consentono le
notizie di cui io dispongo, nè le forze nè il tempo nè la già
stancata pazienza vostra. Il fatto, o signori, è grande e vistoso, e
tale da provocare gli ingegni più felici, e da meritare le indagini
più accurate. Noi lo lasceremo per altra volta intentato: forse non
ci sarà disdetto rivolgerci sopra altra fiata la mente. Per ora mi
basta chiamare la vostra attenzione sopra questi tre punti, secondo
me, capitali. Il primo riguarda il luogo. Quale è il luogo ove
udiste risuonare il nome di Esseni? È, voi lo sapete, l’Asia
Minore; quell’Asia, cioè, ove vedemmo sin dalla prima lezione
sorgere una città per nome Asia, da cui fu creduto per alcuni
derivato il nome di Esseni; ove traevano, come avete veduto, i più
eletti campioni del nostro Dottorato a celebrarvi la fissazione e la
proclamazione delle feste, e la intercalazione del nuovo mese.
Questo è, o signori, il primo punto. L’altro fatto di non minore
rilievo, è il vocabolo ebraico[29] Hassen, il quale non solo, come
l’Efesiano Esseno, suona in genere forte, illustre, magnifico; non
solo è posto al fianco di Nezer, Corona, e vi officia qual sinonimo,
secondo il genio del parallelismo ebraico, chi lo leolam hasen
veim nezér ec. ec.; ma, ciò che pone il colmo alla nostra
ammirazione, è il vedere nei salmi Dio, Dio nostro, il Dio vero
chiamato Dio Hassin, in quella guisa che facendosi organo del
pensiero ieratico dei sacerdoti di Diana, chiamava Callimaco il
greco Giove, Giove Esseno; parola non greca, non popolare, ma
vocabolo vecchio, ma vocabolo della lingua religiosa, siccome
udiste dalla bocca di Callimaco stesso.[9] E questo è il secondo
punto. Venga il terzo adesso, e chiuda di queste riflessioni la
serie.
Il terzo è quell’accordo mirabile di cui misurare non potete
sin d’ora la estensione, ma che vedrete tra non molto evidente tra
parecchi dei costumi agli Esseni di Efeso da Pausania assegnati, e
quelli di cui la Storia favella degli Esseni Palestinesi. Il Celibato
—La Solitudine, e sopratutto l’officio, il genio religioso che
rappresentano, sono altrettanti legami che l’una all’altra stringono
le due lontane e sconosciute istituzioni. Quale è la conseguenza
che da tali fatti scaturisce spontanea? Io dissi come troppo
soffriamo inopia di ulteriori notizie per decidere autorevolmente
delle origini recondite, per assegnare di queste curiose
coincidenze la prima cagione. Noi da questa doverosa riserva non
ci partiremo. Hanno sempre, hanno tutti a questo proposito
seguita una sì facil a un tempo e sì difficil virtù? Mi duole dirvi
che non fu sempre seguita. Sedotti da queste parventi e preziose
analogie, si attentarono alcuni autori a sentenziare a dirittura la
medesimezza, che dico, o signori? la filiazione e derivazione
immediata della società degli Esseni palestinesi dalla
corporazione sacerdotale degli[30] Esseni di Efeso; e ciò che vi
parrà senza dubbio enorme, non temettero di asserire l’origine e il
carattere intimamente pagani del grande, del bello istituto degli
Esseni. Siamo noi condannati a sottoscrivere ciecamente ai
costoro novellamenti? Siamo noi così al verde di prove, di
argomenti, che dobbiamo accettare l’origine pagana che agli
Esseni si vuole assegnare? Fortunatamente, nol siamo; e che nol
siamo veramente, non è da ora che il potete vedere; non è da ora
che noi dobbiamo affrontare la grande questione della origine. Se
ne ho fatto menzione da ora, sapete, o signori, perché? Perché
questa strana, questa folle pretensione, non d’altro prendeva, a
così dire, le mosse, che dal fatto di una concordanza etimologica,
da una pretesa identità di vocabolo. Vedete che cosa vuol dire una
falsa etimologia. Eccone, gli effetti. E quali effetti! La più grande
mentita alla istoria; la più solenne contradizione ai principii più
ricevuti; la più grande eresia storica che sia mai uscita da labbro
mortale. Aveva io ragione di crollare, anzi tutto coll’etimologia,
le basi degli avversi sistemi? Aveva io ragione di attaccarmi
corpo a corpo alle parole, e bandire, per così dire, una guerra
gramaticale? Guerra che ha forse avuto presso di voi l’aria di
puerile, di sofistica, di pedantesca; ma che pure è suggerita
imperiosamente dall’assunto, e che noi con queste parole abbiam
condotto a buon fine.
Prima però di chiudere questa discussione sul valore del nome
Esseni, non possiamo tacere di un dotto Israelita vivente, distinto
non meno per l’insigne officio che egli onora, che per la scienza e
l’erudizione sua vastissima. Egli è questo l’illustre signor S. J.
Rapoport, Rabbino maggiore di Praga. Egli, nel suo gran Lessico
Rabbinico, Ereh Millim, e di cui solo una brevissima parte mandò
già alla luce, tocca del significato del nome[31] Esseni ove
ragiona del vocabolo Iso, che s’incontra di frequente nel Talmud;
ch’egli fa derivare dal greco [Greek: isos] Amico, Confidente, e
da cui, egli dice, si trae a buon diritto uno dei due soli significati
plausibili del nome dell’antica società degli Esseni.[10] Egli ci
promette di meglio svolgere il suo concetto al vocabolo Haber. A
noi torna sommamente gradevole il poter annoverare il dottissimo
uomo tra quei che vorrebbero vedere nei Haberim del Talmud gli
Esseni medesimi, siccome pare volere accennare l’illustre
israelita, e se male non ci apponiamo, egli è questo un nuovo
omaggio a quella identità essenico-farisaica che sarà obbietto di
perpetua dimostrazione nel presente lavoro. Quanto al nome di
Iso, amico, confidente, d’onde il nome di Esseni sarebbe derivato,
non parmi trovato così felice come pare al dotto autore. Scarsa e
dubbiosa consonanza col nome di Esseni o Essei concordemente
usato dagli antichi; improbabilità che per designare un
particolare sodalizio, quel termine si sia adottato che vale a
significarne ognuno qualsiasi; le allusioni che sotto il nome di
Assé o Asia vedremo fare dal Talmud alla società degli Esseni,
locchè prova come nella mente dei contemporanei meglio da Asia
medico, che da qualunque altro il nome suo derivasse; sono
queste, o signori, considerazioni, e tutte gravissime, se non erro,
che ci tolgono di potere sottoscrivere alla sentenza del signor
Rapoport. Non pertanto, ella è quella che noi abbracceremmo
volentieri, se altra non fosse che meglio ci paresse riunire le
condizioni della verosimiglianza, e s’ella non è la vera, ella è
certo la migliore di quante abbiamo udito sino qui profferire.
Che ci resta ora, o miei giovani? Saziare gli occhi nel dolce
aspetto di verità. Trovare, additarvi che cosa intesero gli Esseni
dandosi questo bel nome che la virtù e la sapienza loro han
renduto immortale.
[32]

[33]
[34]
LEZIONE QUARTA.

Io vengo, o signori, a mantenere la mia promessa. Il nome di


Esseni deporrà questa sera ogni velo che ne contende la vista, e
tutto ci apparirà quale prima immaginaronlo gli antichissimi
Esseni. Che cosa significa questo nome? Esseni (diciamolo una
volta, ed all’asserzione seguano immediatamente le prove) Esseni
fu detto da Assia, o Asse, che nella lingua Aramea, nella lingua
talmudica, nella lingua da Babilonia a Gerusalemme importata e
quivi a favella promossa pressochè generale, significava Medico,
Risanatore, o come dire vogliamo in greco idioma, Terapeuta. Voi
fate, o miei giovani, le meraviglie ed avete ragione. Io non mi
sono ancora abbastanza spiegato per avere il diritto d’essere a
prima fronte creduto da voi; la mia ipotesi non ha fatto ancora le
sue prove, non vi ha presentato i suoi certificati in buona regola
per concederle incontrastato della mente vostra l’accesso. Il
vostro pensiero europeo, occidentale, positivo, analitico, non può
farsi issofatto un’idea degli arditi, dei bruschi passaggi, delle
repentine conversioni dal senso proprio a quello improprio di una
parola; e tanto meno potrebbe al primo sguardo afferrare tutta la
serie infinita di applicazioni, di accessorj, di ramificazioni, in cui
l’Idea madre si traduce di mano in mano; in cui, quasi in un
ampio ed opaco[35] mantello, si va sempre più nascondendo
all’occhio dei riguardanti. Leviamo un lembo di questo velo,—
mostriamo un raggio di quell’evidenza di cui brilla, a senso mio,
la presente interpretazione. Io dissi esser ella eminentemente
consentanea alle idee, alle forme dei sommi, antichi predicatori
dell’Ebraismo. Ma che cosa è l’Ebraismo? L’Ebraismo non solo è
una Religione, non solo una Civiltà, non solamente una politica,
una legislazione, una letteratura; ma, tollerate che io lo dica, ed
ho prove nelle mani, è anche una Terapeutica, un’arte, una
scienza salutare. Lo è dei corpi,—lo è degli spiriti. Lo è dei corpi
in doppio modo, in doppio senso, per doppio scopo. Pel primo,
ella non fa che antivenire coi suoi celesti preservativi i mali onde
i popoli vanno afflitti; ella promette per bocca di quanto ha di più
adorabile, che tutte le piaghe, le infermità dell’Egitto sarebbero
senza possa sopra i suoi fidi seguaci; che Dio, ne sarebbe il
grande archiatro, il gran medico, il gran Terapeuta.[11] Ella
annunzia, qual conseguenza del culto di Dio, il pane e l’acqua
salutiferi, la remozione d’ogni malore, non orbamento, non
sterilità, e sopratutto una vita longeva; ella, infine, tutto il suo
culto adombra sotto una frase che l’idea ci offre viva, spiccata, di
una salutar disciplina; anzi, che significa a dirittura Terapeutica
nel nome, o signori, di Terafim, la quale comecchè rivolta fosse
ad uso idolatrico, pure in principio alla fede vera appartenne, e il
magistero degli oracoli divini e tutto l’insieme del culto valse a
designare;—in quella guisa che Kesem, e forse per avventura
anche Nahas, prima di essere espressioni colpevoli e termini
idolatrici, furono vocaboli innocentissimi di religione;—in quella
guisa che l’idolatria stessa non è che abuso e adulterazione ed
apoteosi parziale di un principe ortodosso. Ella annunzia per
bocca di Salomone, che le sue[36] dottrine, il suo culto, sarebbero
il palladio della salute corporea, e l’antidoto più efficace contro di
ogni maniera infermità,[12] ed in questo senso, o signori, ella è
interna, occulta, indiretta operatrice di sanità. Chi volesse di
questo pronunziato sindacare il valore, chi volesse, al lume
eziandio naturale, indagare di questi influssi le cause, troverebbe
occasione di belle e amabili speculazioni. Montesquieu, e prima e
dopo di esso moltissimi come lui, comecchè non così di reciso,
videro nel clima, e poi nelle Istituzioni, la causa delle grandi e
delle infinite varietà etnografiche fra popolo e popolo.
Curiosissimo, poi, sarebbe studiare delle varie Religioni gli
svariatissimi influssi sul corpo dell’uomo, e quella predicare
sovrana tutrice dell’umano benessere, che più al segno si
avvicina. Dico cotesto per persuadervi come le vantate
pretensioni che udiste poc’anzi, non siano aerei edifizi che non
poggino sovra basi reali e ferme.
Certo, o signori, questa Igiene per così dire trascendentale,
estolle il capo sino al più sublime dei cieli, e certe segrete
armonie suppone tra il corpo e lo spirito, le quali la scienza non
sospetta nemmeno: ma se il capo si erge al cielo, i piedi posano in
terra; se i suoi principj sono sovraumani e sovrasensibili, i suoi
effetti, le sue leggi di second’ordine, il suo teatro, la sua
applicazione sono sensibili, sono palpabili, nè la scienza li revoca
in dubbio. Ma qui non si ferma il carattere per così dire terapico
di nostra fede. Ella non è soltanto come vedeste un’Igiene, non
solamente contra i morbi assicura e guarentisce, ma i morbi
combatte sopravvenuti, ma la salute restituisce perduta, ma ella è
una vera e propria Terapeutica che lo scopo suo prosegue con due
ordini di mezzi.—Sono i primi mezzi naturali, scoperti, naturali
medicamenti che il genio enciclopedico universale delle antiche
Religioni restrinse ed accolse in grembo ai[37] tempj, fece
banditori primi i Sacerdoti, ed a cui il carattere sacro appose, al
primo apparire, di religioso e divino trovato. Sono i secondi quei
mezzi cui l’arte umana verrebbe meno; sono quella dittatura
instantanea che l’uomo ispirato assume, Dio consenziente, sopra
il Creato; sono la taumaturgia propriamente detta; sono le
guarigioni prodigiose del Vecchio Testamento; è Elìa, è Eliseo
nell’atto di riaccendere la fiaccola che è per spegnersi nel povero
infante. Chi furono, di questa doppia Terapìa, umana e divina, gli
organi, i professori? Furono i Sacerdoti ed i Profeti.—I Sacerdoti,
che più dimessamente procedono, e l’arte principalmente
considerano e praticano dal lato umano; i Profeti a cui spetta per
eccellenza la medicina straordinaria taumaturgica, che, nuovi
Prometei, rapiscono di tratto in tratto il foco celeste per
riallumare la lampada della vita. Vedete però, o miei giovani!
sacerdozio e profetismo conscj ambedue delle prerogative, non
vogliono rivali, non tollerano che altri l’impero divida che
esercitan sui corpi. Non fu accademia così ostile alla
importazione di nuove teorie, alla consecrazione di nuovi
farmachi, che più nol fossero Sacerdoti e Profeti contro la
medicina non officiale, non sacra, non religiosa. I Re d’Israele
sono presi a biasimare perchè, piuttosto che consultare il Signore,
gissero a interrogare la scienza spuria dei medicastri (Croniche II,
Cap. XVI, 12), e, se crediamo ai nostri dottori, Ezechia Re santo
avrebbe soppresso un intero trattato di Medicina che sotto il gran
nome si ammantava di Re Salomone; ed allo stesso Ezechia
affetto di scabbia, non sdegna il grande Isaia di prescrivere egli
stesso quell’impiastro di fichi che ridonargli doveva la sanità. Ma
Profeti e Sacerdoti cessarono.—Cessò forse la Medicina
religiosa, nel doppio suo genio naturale e divino? si estinse forse
con essi, o trasmigrava nei successori[38] dei Profeti, dei
Sacerdoti? Così è, ai Profeti, al sacerdozio tenne dietro il
Dottorato, e il Dottorato raccolse di ambedue il retaggio nella
doppia Medicina naturale e miracolosa che insegnava ed
esercitava congiuntamente. Naturale nelle infinite vestigia che di
essa reca il Talmud, e tutta l’enciclopedia rabbinica dei primi
secoli; arte se volete meglio che scienza, cieco empirismo anzi
che principj e metodiche deduzioni, ma pure, o signori, tutti di
medicina gli officj e tutte le parti; prodigiosa però in quelle
guarigioni portentose taumaturgiche che sono, a così dire, uno
strascico dell’Èra profetica, e che l’impero rivelano non del tutto
dismesso dell’uomo perfetto sovra le forze create, che la Genesi
augurava sin da principio (Genesi I, 28).[13] Ora, questa duplice
Terapia, quest’uso simultaneo di mezzi così dispari, di semplici e
di scongiuri, di virtù naturali e di angeliche potestà, questa terrena
e celeste farmacopea, ella è, sappiatelo a dirittura, ella è il più
vistoso, il più manifesto distintivo della scuola che togliemmo a
studiare. Non è da ora, o miei giovani, che a noi è dato il vederlo;
ma verrà tempo, e non è lontano, in cui queste cose ci saranno
manifeste. Vedrete gli Esseni a questa duplice Terapia dar opera
solerte; li vedrete studiar sulla natura, sulle virtù dei semplici e
sulla composizione dei farmachi; li vedrete studiosi sui libri della
recondita Medicina dagli avi loro trasmessa; li vedrete in una
parola Esseni in tutta la forza della parola, che è quanto dire
Medici—Medici, risanatori per eccellenza.
Questo è il primo senso in cui si dissero gli Esseni medicatori
e Terapeuti. Ma non vi fu un altro, che il primo immensamente
sopravanza in altezza, in nobiltà? Sì, vi fu; e tanto il primo
trascende per ogni verso, quanto l’animo il corpo trascende,
quanto la sanità,[39] la purità e la interna armonia dello spirito,
quelle vincono di gran lunga che il frale riguardano. Gli Esseni
non furono soltanto i Medici del corpo, ma Medici si dissero pure
dell’animo umano. Era egli cotesto nuovo officio, nuovo
vocabolo nella lingua religiosa dell’Ebraismo? Dite piuttosto che
era antichissimo; che la Bibbia rigurgita di simili esempi; che lo
spirito non meno che il corpo fu sempre dall’Ebraismo
considerato siccome un ente che a tutte le vicissitudini soggiace,
buone e triste, della vita; che ha la sua salute, le sue infermità, le
sue crisi, le sue cadute, le sue ristorazioni, e quindi una vera e
propria scienza mediatrice. Ma dite piuttosto che univoci
attestano di queste idee predominanti i Profeti; che lo attesta
Davide quando chiedendo la remissione delle colpe, e la
rigenerazione dell’animo suo, chiede farmaco e guarigione,
Guarisci l’anima mia, chè a te peccai;[14] che il Perdono è da Isaia
dichiarato qual suprema sanatoria;[15] che lo stesso Isaia parlando
nel nome di Dio, ci presenta il peccatore amnistiato qual malato
medicato e guarito[16], che lo attesta, infine, Geremia e quasi al
sommo reca la forza dell’argomento, quando il Profeta istruttore
chiama col nome istesso di Rofé, Medico; e farmaco dice per
avventura e teriaca preziosa la dottrina di lui.[17] Sono elleno men
di questi frequenti, meno di queste eloquenti le prove che dai
Rabbini si traggono? Hanno eglino con manco predilezione usate
in questo senso traslato, in questo senso metaforico l’idea, il
vocabolo di Medicina e i suoi derivati? Sarebbe ignorare
assolutamente dei Dottori la fraseologia, il disconoscere di questa
Idea, di questi traslati, gli esempj parlanti. Volete sapere che cosa
sono le religiose dottrine per i nostri Rabbini? Sono potentissimi
cardiaci pei cuori infermi; sono collirj pegli occhi oftalmici, e
antidoto, in breve, efficacissimo[40] contro ogni malore. Ho io
bisogno di avvertirvi che così magnificando delle religiose
dottrine i privilegi a tutt’altro intendevano che ad una vera e
propria virtù curativa? Voi già comprendete, o signori, a che cosa
si allude. Si allude sotto il corpo allo spirito, si mira a traverso le
infermità corporali, a quelle infermità che affliggono la parte
migliore di noi medesimi: all’occhio della mente ottenebrato, al
cuore fatto recesso d’ogni vizio. Che più, o signori? Se un dottore
trova agli ignoranti della legge difesa nel dì della Resurrezione,
egli chiama questo trovato Medicina, e trovai per loro guarigione
nella legge:—se il pregio si vuol accennare trascendente di uno
studio disinteressato, Farmaco si dice cotesto di vita Eterna, Sam
haim; come tossico mortale si dice il suo contrario, ch’è quanto
dire ministero religioso sostenuto per argento, Sam ammavet. Che
volete di più? Non solo è il linguaggio tal quale ve lo descrivo,
non solo idee siffatte di Terapia ricorrono ad ogni tratto, e più che
non dissi ne riboccano gli antichi rabbinici monumenti; ma ciò
che infinitamente si lascia dietro ogni prova, ciò che è lo specchio
vivo e parlante dell’Essenato salutare e medicativo, è l’attitudine
esteriore—sono le forme curiosissime, sono gli atteggiamenti
espressivi, parabolici, figurativi, che prendeva talvolta il dottorato
insegnante. Avete udito d’Isaia che seminudo percorre le vie di
Gerusalemme, ed in sè raffigura gli Ebrei da esso vaticinati, che
fuggono dalla spada babilonese? Avete mai letto di Ezechiele che,
in realtà o in visione, si giace or da un fianco or da un altro, e i
cibi ingolla che l’umor satirico divertirono per lungo tempo del
filosofo di Ferney? Or bene—non dissimili da queste immagini
parlanti ci offre talvolta il dottorato mimiche rappresentazioni, e
la medicina n’è il subbietto. Vedete questo rivendugliolo che,
andando attorno[41] per i villaggi che coronano Sippori, non
rifinisce di gridare a squarciagola e quasi con piglio ciarlatenesco
—chi vuol della vita lo elisire, venga e compri? Man bae
lemizban sam haim. Chi è costui e quale è il mirabilissimo
specifico che proferisce? È un farmacista, dice semplicemente il
Medrasce, e nulla dell’esser suo aggiunge di più. Ma il farmaco
che cosa è? Il farmaco ve lo darei in mille a indovinare. Pure se
punto vi cale saperlo, salite qui.—Il pseudo farmacista è già nelle
stanze entrato di un dottore il quale affacciatosi al noto grido, gli
fece cenno dalla finestra, salisse pur su, che un confratello avria
trovato con cui alternare i saluti e le soavi parole. Che cos’è, o
gentil farmacista il Farmaco che tu ci vendi? Alla quale domanda
ratto trasse fuora un salterio che sottopose agli occhi del dottore,
dove questi detti si leggono significanti—chi è l’uomo che ami la
vita, che giorni chiegga per esser felice? La lingua sua guardi
dal male, le labbra dalla menzogna, ec. (Vaicra Rabba, sez. XVI.)
Ecco il farmaco vantato. E pure, qual vero e proprio farmaco lo
bandiva per terra e castello. E pure, a quel grido gran calca
fattaglisi intorno di incettatori, la innocente frode per avventura
disvelava, e testo prendeva di là ed occasione a moralizzare le
turbe, in quella guisa che il fondatore del Cristianesimo ci
dipingono gli Evangeli andando attorno per le campagne e le
moltitudini accorrenti concionando di tratto in tratto dalla
sommità di un poggio.[18] Vi pare che sia abbastanza decisivo
cotesto esempio? E pure una circostanza vi manca sapere, ed è la
più concludente. E quale è, o signori? É il nome vero, il vero
ufficio e il vero carattere dello pseudo farmacista. Già voi
sospettate che qualche cosa di più nobile sotto i panni si asconda
del cerretano: già i fatti presenti parlano troppo in favor mio; ma
la provvidenza ci serbava ancor più.—Per[42] una di quelle
singolari coincidenze che nei libri rabbinici si dànno in mille
volte, ciò che implicito rimase nel Medrasce, trovammo esplicito
nel Talmud; ciò che col nome fittizio, supposto, quivi si designa
di Rohel, col vero e genuino nome si accenna nel Talmud. In una
parola, nel fatto stesso, ma più brevemente dal Talmud
raccontato, il Rohel non è più Rohel, il cerretano non è più
cerretano, ma è un vero e proprio dottore, un vero e proprio
Fariseo, nomato Alessandro.
Aveva io ragione quando diceva, il concetto che suggerì
l’appellazione di Esseni, profonde, vaste gettare le radici nei
Profeti e nei Rabbini, nella Bibbia e nella tradizione? Io credo, e
non è troppo presumere, che queste prove da sè basterebbero. E
pure non sono le sole; vi sono analogie, vi sono concetti, vi sono
appellazioni non dissimili nell’istesso paganesimo. Che dire della
Biblioteca Egiziana? Domandatene ad Orapollo e poi a Bossuet,
che la narrazione ne riferiva. Essi attestano concordi, come le
Biblioteche si chiamassero in Egitto con nome che in quella
lingua suonava medicina dell’anima. Domandatene Diodoro
Siciliano. Egli parlando del sepolcro di Osimandia, vi dirà che tra
gli appartamenti di quel palazzo era una sacra Biblioteca alla
quale queste parole soprastavano incise: Medicina dell’anima. E
per ultimo, le buone ragioni si guadagnarono i buoni autori;—la
buona causa trovò buoni avvocati che la difendessero. S.
Epifanio, che conobbe il vero, e amore del nuovo trasse fuori del
cammin dritto; il sig. Munk, che nella Palestina alla
interpretazione nostra fa ossequio; il Salvador, che esplicitamente
vi assente nella grandiosa sua opera J. C. et sa doctrine, ed altri
molti che sarebbe lungo annoverare; tutti intesero egualmente nel
vocabolo di Esseni quel concetto di sublime, di superlativa
Terapeutica, che noi v’intendemmo;[43] tutti vi prestarono ferma
e ragionevol credenza: a guisa del ver primo che l’uom crede.
Ella è, infine, una deposizione il cui valore non sarebbe possibile
dissimularsi. Non è da ora che non possiamo insistere sulla
identità originaria degli Esseni coi Cabalisti. Sull’autorità di
scrittori gravissimi, ci permettiamo aggiungere quanto verrà più a
lungo trattato nel corso di questa istoria, ponendone i titoli in una
luce che non si potrebbe più sfolgorante. Intanto non è fra gli
ultimi indizii che a questa identità ci conducono, il fatto per più
d’un verso eloquentissimo, che nel Zoar il nome di Assia vien
conferito a un dottore Cabbalista; e ciò che è più, nel senso che
qui si accenna, di medico spirituale, di Risanatore delle anime. E
tanto si legge in quell’opera a proposito di R. Samlai (Zohar, vol.
III, 75, 2.)
[44]
[45]
LEZIONE QUINTA.

L’origine degli Esseni doveva essere, voi lo sapete, subbietto


delle nostre ricerche, quando il nome fosse stato da noi
rintracciato che il nostro istituto contraddistinse. Questo nome, o
Signori, la derivazione di questo nome fu da noi recata a quella
evidenza che si poteva maggiore. Qual’è ora il compito nostro? Io
già vel diceva. Ella è la origine, la origine storica dell’Essenato,
l’epoca della sua formazione, le cause che precedettero al suo
nascimento, il luogo d’onde prima trasse i natali. Era la prima
disquisizione, più ch’altro, gramaticale. È la presente, ricerca
storica, e ricerca gravissima.
Noi abbiamo di fronte, non amici da abbracciare, ma nemici
da combattere. Noi avremo il paradosso, il pregiudizio, la mala
fede da superare, pria di poter penetrare nei vestiboli di verità.
Quali sono questi pregiudizj? Eglino sono così svariati di forme,
come sono eguali in bruttura. Egli è, in primo luogo, il
pregiudizio Pagano; che è quanto dire l’origine pagana gratificata
allo istituto più ebraico che abbia mai esistito. Chi lo avrebbe
pensato? Chi avrebbe detto che di origine pagana dovesse
supporsi lo Essenato? E pure nulla di più vero, di più dimostrato.
Egli è il Buhl, il celebre storico della Filosofia, che ne fa fede.
Grazie al cielo, non è il Buhl che noi dobbiamo combattere. Non
è egli l’autore di paradosso siffatto; ma egli lo ha registrato,[46]
gli ha dato luogo nella sua istoria; e se la memoria non erra, non
l’ha, come pure avrebbe dovuto, sotto il peso schiacciato della
sua autorità. Quale è la causa di tale aberrazione? Su quai
fondamenti, su quai pretesti riposa la pagana derivazione? Io
credo che non sia difficile indovinarlo. Voi vedrete quando del
culto ragioneremo, e delle adorazioni degli Esseni, come fuggito
non abbiano costoro ai morsi della più svergognata calunnia. Voi
li vedrete, sopra basi inconsistenti accusati, processati e per
peccato condannati d’Idolatria; li vedrete posti al bando del
Giudaismo, e le note contender loro e le prerogative di Monoteisti
e di Ebrei. Li vedrete, in una parola, accusati di prestare idolatrico
omaggio al Sole nascente. Noi vedremo allora di che sappia
l’accusa inconsiderata; noi rivendicheremo la bontà, la purità
della loro credenza. Ma che cosa si esigeva di più per porre gli
intemerati Esseni in mala voce, per additarli al mondo quali
idolatri, e la fama accreditare tra i contemporanei, tra i posteri, di
una origine viziosa, di una origine pagana? Voi vedete le basi
vacillanti dell’accusa. Avrò io mestieri di spendere parole
soverchie a giustificarli? Dovrò io ricordare le atroci calunnie
onde furon bersaglio le israelitiche credenze, siccome allora vi
accennai, che del culto Samaritano tenevamo parola? Dovrò dirvi
dell’adorazione del firmamento che non pochi tra i Poeti Latini
favoleggiarono dei nostri proavi; del teschio che, al dire di essi,
nel recesso si adorava del Tempio di Dio, del famoso Asino che il
gran Tacito non dubitava di erigere a sommo obbietto del nostro
culto?
Or, che miracolo se gli Esseni pur essi del grande onore
parteciparono di subire le accuse pagane, e se nell’accusa furono
involti pur essi del popolo nostro, essi che del popol nostro la più
eletta parte formavano e la più santa?
[47]
Ma un altro, credo, e non lieve pretesto, potè l’adito schiudere
alla imputazione mostruosa; voglio dire, o miei giovani, di un
passo di Flavio concernente gli Esseni, che tratto a peggior
sentenza ch’egli non dice, commentato dall’ignoranza e dalla
malizia, potè per un istante autorizzare la insensata imputazione.
E quale è il passo di Flavio? Egli è quello ove, parlando della
essenica scuola, e precisamente nel lib. XII delle Antichità, quella
definisce come una setta di Giudei Pitagorici. Il nome di
Pitagorici non fu invano pronunziato. Egli avrà sedotte le menti
superficiali, egli avrà fatto vedere ciò che Giuseppe non vi ha
posto giammai, ch’è quanto dire l’origine pagana. E pure,
quant’era facile comprendere Giuseppe senza costituirlo reo di
tanta enormità! Che voleva dire Giuseppe? Egli voleva far
comprendere ai suoi lettori, ch’è quanto dire al mondo pagano, ai
Romani, ai Greci, a tutti quelli che degli Ebrei nulla sapevano che
non fosse dalla passione travisato, che cosa fosse quel bellissimo
istituto di cui egli, il grande istorico, si professava il
ferventissimo ammiratore. Egli lo dice un Istituto Pitagorico
foggiato all’ebraica. Egli lo dice un Pitagorismo israelitico, un
Pitagorismo ortodosso, siccome Filone fu detto Platone
filonizzante, siccome Porfirio chiamò lo stesso Platone un Moisè
atticizzante.
Aveva egli ragione così giudicandolo, è ella esatta la sentenza
di Flavio? Noi in seguito lo vedremo. Ma quanto non dobbiamo
noi l’ignoranza ammirare, ammirare la mala fede di chi le parole
di Giuseppe innocentissime torse a così rea sentenza?
Noi non saremo i detrattori degli Esseni. Non saremo
nemmeno i loro adulatori. Non diremo neppure come da taluno fu
detto, che Pitagora essendosi recato, come ognun sa, in Oriente,
colà cogli Esseni s’incontrasse, che ne adottasse i principj, che
l’Italico sodalizio erigesse[48] poi sul modello di quel di Solima.
Questo fu detto, e caldamente propugnato dai Frati Carmelitani, i
quali vedendo nell’Essenato l’origine del loro ordine, vollero fare
altresì di Pitagora un copista dei loro supposti antenati, e
Carmelitano pur esso coi tria vota substantialia: obbedienza,
povertà e castità.[19] Novelle son queste da muovere a riso, nè più
seria meritano veramente nè più lunga disamina.
Potremo dire lo stesso di altra origine che l’ingegno moderno
pegli Esseni fantasticava? Io credo che più profonda cotesta si
esiga e più protratta disquisizione. Il nome, il tempo, la fama
dell’autore vogliono che noi alcune parole ci spendiamo
d’intorno. Qual’è il nome? Il nome non potrebbe essere nè più
famoso nè più interessante, e (aggiungo volentieri) nè più
specchiato nè più caro al popol nostro. Egli è il Salvador, che
primo tra gli Israeliti francesi dei tempi nostri, salì sulla breccia, e
tutto il fuoco sostenne il primo delle falangi avversarie. Il tempo
fu quello dei grandi religiosi dibattimenti della Francia moderna.
L’opera è quella che più fama destò di sè in Europa, e soprattutto
in Allemagna, ove precorse, ove augurò la terribilissima scrittura
dello Strauss.
Or bene, nella Vita di Gesù e la sua Dottrina, il nostro
Salvador dal proprio têma? condotto, scende a parlar degli
Esseni. Egli chiede a sè stesso degli Esseni l’origine; e qual ne
segue risposta? Certo non tale quale per noi si vorrebbe. Egli
chiede del tempo, ed il tempo egli lo vede, durante la invasione
Siriaca, quando i successori di Alessandro osteggiarono
aspramente il popolo nostro, e sotto Antioco in ispecie. «Son
origine la plus probable, dice il Salvador, remonte à l’époque de
l’invasion des Syriens.» Quali le cause che allora lo istituto
creavano? Non sono cause propriamente, dice il Salvador, ma
piuttosto fortuito concorso di circostanze.[49] «È una turba, sono
sue parole, è una turba di famiglie che rovinate dalla guerra,
desolate dalla continua violazione dei luoghi sacri, e degli atti
alla credenza loro oltraggiosi, ai quali venivano costretti; vanno
in cerca di un asilo nelle regioni alpestri della Giudea.» Quale è
l’origine del loro culto? Eccolo qual ei ce lo narra. «È
l’impossibilità di compiere in quelle solitudini, riti e sacrifizj, o,
come dire si voglia, il culto esterno, ella è cosifatta impossibilità
che l’animo rivolse ad un’altra specie di culto, ad un culto più
interno, alla continua elevazione dello spirito, mercè la pratica
della giustizia e gli offici di carità.»—D’onde poi, secondo il
Salvador, quella singolare comunanza di beni, che fu peculiare
distintivo dell’Essenato? Quali le cause che la produssero?
Furono, ad udirlo, «l’incertezza della vita, minacciata mai
sempre dalla spada nemica, fu la necessità di provvedere di
sostentare tanti vecchi, tante donne, tanti fanciulli.»—Ecco le
cause, conclude trionfalmente il Salvador, che ispirarono loro la
comunanza dei beni, che la stabilirono allora e poi in seno agli
Esseni, e ch’egli dice nel suo idioma «ne tarda pas à devenir une
règle principale de leur institut.»—Noi abbiamo parlato del
Salvador, come d’uomo si conviene della sua tempra, del suo
ingegno. Noi gli abbiamo tributato elogi non ipocriti, non servili e
non avari. Ma noi abbiamo perciò stesso la libertà pienamente
acquistata di sindacare la bontà, la ragionevolezza delle sue
dottrine. Mi duole il dirlo, il Salvador ha soggiaciuto al genio
predominante del suo paese, del suo tempo, e più assai al genio
dei suoi vicini Tedeschi. Egli sente, come essi, alto profondo
orrore di tutto quello che per poco trascende le età più moderne
della istoria; egli è uno di quelli che i tempi, gli uomini, gli istituti
più antichi modernizzarono; egli è uno dei grandi atleti che
stringendo[50] a così dire tra poderose ritorte le statue, i
monumenti, che sorsero all’aurora dei secoli, si sforzano e sudano
e si affaticano a tirarli a tempi a noi più vicini; egli è uno di quelli
che fanno vedovi i primi secoli dei fatti più illustri, degli uomini
più venerandi; che fanno, nell’ordine della cronologia, ciò che le
moderne nazioni civili fanno in ordine allo spazio, togliendo
obelischi, sfingi, sarcofagi e d’ogni maniera anticaglie, a quei
paesi ove l’arte li generava, e decoro illustre ne fanno di musei, di
biblioteche, di capitali. Egli è di quelli che fanno il vuoto nelle
origini, e gli uomini e i fatti condensano, accalcano in
angustissimo spazio di tempo, con quanta sapienza e ragione, non
so.
Fuori dei tempi antichi, ogni romanzo è buono a costoro.
Anzi, la storia sol perchè è antica, è romanzo, e il romanzo solo
perchè è moderno, è la istoria.—Io ho detto romanzo, e lo
mantengo. La teoria del Salvador, con sua buona pace, non è che
romanzo. E se vi aggrada come me osservarlo, vedetelo
immantinente. Io potrei appuntare per primo il Salvador, non di
plagio, chè la di lui probità letteraria me lo contende, ma di aver
disdetto, voglio credere involontariamente, l’onor del trovato a
chi si appartiene. Potrebbe dire una critica meticulosa, che male
non avrebbe fatto il Salvador a narrarci chi fu il primo a porre
innanzi la ipotesi menzionata; a dirci, che fu il Drusio colui che
primo gliene offriva l’idea; che fu esso che andando in cerca,
siccome noi dell’origine degli Esseni, insegnava come questa si
dovesse riporre ai tempi d’Ircano Asmoneo, quando la parte
perseguitata si ricovrò nei deserti, e colà di buon’ora s’assuefece
ad un tenore di vita durissimo, nel quale dipoi perseverò
volentieri. Il sistema del Drusio non è quello, ben io m’avveggo,
del nostro Salvador, il quale differisce siccome udite in ordine al
tempo, e risale ad un’epoca[51] non di poco anteriore a quella dal
Drusio seguita. Ma finalmente, che cosa non hanno di comune i
due sistemi, ove si eccettui la differenza notata? Io ardisco dire
che hanno tutto in comune, e che bene avrebbe fatto il Salvador a
dividere con chi di ragione la responsabilità del sistema. Egli però
nol fece, nè io insisterò di soverchio. È egli almeno probabile, è
egli almeno accettabile il sistema dal Salvador propugnato? Io gli
chieggo del culto essenico la origine, ed egli l’impossibilità mi
addita dei sacrifizj e del culto esteriore; al quale ei dice, un culto
più elevato si sostituì in ispirito e verità.—Di buona fede è egli
questo raziocinare per filo e per segno? Che cosa suppone il
ragionamento Salvadoriano? Suppone, se io non erro, che nè
sacrifizj nè culto esteriore appo gli Esseni esistesse. Che se così
non fosse, che cosa suonerebbe questa sognata sostituzione? Io
dico dunque che lo suppone.—Ma che dice la Istoria, alla quale
ogni reverenza si dee ed ogni ossequio? Conferma ella la ipotesi
del Salvador, ed una setta negli Esseni ci raffigura quale egli ce la
dipinge, destituita di culto esteriore e di sacrifizio? Nulla affatto.
La storia parla alto, parla solenne contro la teoria irriflessiva del
Salvador, ed un amore ed uno studio ci offre presso gli Esseni del
culto esterno, da disgradarne ogni più raffinata e squisita pietà.
Ma che volete? Il Salvador pecca per troppa bontà. Egli ama gli
Esseni, egli li stima, nè confine egli pone alle lodi che al bello
Istituto profonde nel suo libro: epperò gli dà troppo del suo,
epperò di quelle vesti li abbiglia che più talentano al suo genio
filosofico, al suo gusto, al suo favorito sistema. Epperò li va
profumando con quegli unguenti razionalistici che ponno farli
accogliere, festeggiare nei dotti consessi. Rimane però a sapersi
se del presente generoso gli Esseni si chiameranno contenti.—Io
proseguo e chieggo al Salvador:[52] d’onde, secondo voi, la
comunità degli averi? Che cosa risponde il Salvador?—Dalla
incertezza della vita, dalla necessità di provvedere a tanti vecchi,
a tante donne, a tanti fanciulli.—Eppure il mondo non l’aveva
finora capita così. Si credeva finora che nulla vi fosse di più
egoista della necessità, nè di più avaro della miseria. Si credeva
finora che l’abnegazione, la generosità, e soprattutto il
rinunciamento assoluto di ogni bene, non albergassero
precisamente colà, ove la fame manda i suoi orribili latrati, e dove
la prepotente mano del bisogno, stringe i cuori ad ogni senso di
pietà, e non occorre dire d’abnegazione. Benedetti razionalisti!
Quanti miracoli non sanno fare! Eglino ti cavano un effetto dal
suo opposto con quella disinvoltura con cui Mosè trasse dalla
rupe le acque. Ma eglino, i razionalisti, ci hanno insegnato a
dubitar dei miracoli, e questo basti perché i loro miracoli eziandio
da noi si rifiutino.
Ma su.—Io voglio menar buone al Salvador tutte le anzidette
repugnanze. Voglio dire che il culto esterno tra gli Esseni non vi
fosse, e che dalla brutta fame sia uscito fuora il più sublime
prodigio di carità. Ma il nodo gordiano non è qui. Sapete invece
dov’è? È nel passaggio da questo stato temporario, provvisorio,
forzato, ad uno stato durevole, ad uno stato definitivo, ad uno
stato volontario. Mi spiegherò ancor più. Bisogna che ci dica il
Salvador in qual guisa, per quale sconosciuta ragione, una
condizione così miserevole, così eccezionale, così a malincuore
subìta dai poveri emigrati, si tramutò, ad un colpo di magica
verga, in un’associazione regolare, stabile, religiosa, dotta e
venerabile, come fu quella che veggiam negli Esseni. Se questo il
Salvador non ci narra, se egli non ci svela il transito miracoloso,
sapete che cosa io crederò? Io crederò che non appena rimossi gli
ostacoli, non appena gli impedimenti sgombrati, non[53] appena
restituita la pace e la libertà, non appena le vie si dischiusero del
ritorno ai poveri fuoriusciti, che ognuno riedendo pacificamente a
casa sua, avrà ripreso il godimento degli antichi diritti; e
l’esercizio delle prische faccende. Ecco che cosa credo, ecco
quello che suggerisce il più comunale buon senso. Per
trasformare un’orda di fuorusciti in un istituto ammirando quale
fu l’Essenato, ci vuol altro che parole! Ci vuol ragioni! E che
cosa ci dà in compenso il Salvador? In qual guisa si districa egli
dagli intricatissimi lacci?—Ecco, come: Quello stato, egli dice,
era provvisorio, era precario, ve lo confesso. Udite pellegrinità di
trovato. Ma, egli aggiunge in sua favella: «Mais ne tarda pas a
devenir une des règles principales de leur institut.» Volete più?
Se più esigete, sareste davvero indiscreti. Quel ne tarda pas, ch’è
l’anima del concetto, è fatto proprio per contentare anco gli
ingegni più schizzinosi. Egli è proprio un miracolo; ma un
miracolo di coreografia, non dialettico procedimento. Questo si
chiama in Parigi glisser sur les questions. Ma io dico piuttosto,
che fa scivolare, che fa sdrucciolare gli inesperti, e che il minor
pericolo che può incoglierci, sia quello di nulla imparare.
Noi abbiamo, se ben mi appongo, abbastanza crollato il
sistema del Salvador. Or bene, lo credereste? Egli è ancor più
fragile di quel che credete, e quando pure potesse avere le
superiori sembianze del colosso di Nabucco, certo che i piedi, che
le basi di creta non mancheriano. Tali le prove, tali i fatti sono che
vi addurrò, che il sistema del Salvador riporrete certo tra gli
onorati defunti. Non lo credete?—Ebbene, o miei giovani,
togliete in mano il libro del Salvador, e la citazione osservate alla
quale tutto egli affida il peso del suo sistema, e ditemi che ve ne
pare. Non dovrebbe essere, non è egli vero, una colonna, una
piramide, un atlante? Oibò, è[54] canna, e fragil canna. Qual’è la
citazione del Salvador? Egli è un passo del libro dei Maccabei,
ove si narrano i primi effetti della irruzione Siriaca in Palestina.
Come suona quel passo? Dice per l’appunto così: «E si ridussero
gli sbandati Israeliti ad abitar nelle caverne ed in ogni luogo ove
potessero un asilo trovare...... Allora parecchi tra quelli che
cercavano giustizia, trassero al deserto onde abitarvi.»—Qui
finisce la citazione Salvadoriana, che dal 1º e dal 2º Capitolo fu
tratta del primo libro dei Maccabei. Ma noi non sbaglieremo
dicendo che il Salvador così facendo, si affidò più a quanto di
proprio avrebbe supplito il lettore, a quanto avrebbe la
immaginazione suggerito in compimento, che a quanto sta
veramente registrato nei Maccabei. Diffatti, a questo punto
arrivati della istoria, allo spettacolo di tanta gente che fermano
stanza nel deserto, dopo le parole in ispecie del Salvador, che
cosa vi suggerisce la fantasia? La fantasia s’impadronisce di
questo dato, di questa emigrazione dalla storia narrata, e
vestendola secondo il suo stile di colori fittizj, ed allargandola ed
ampliandola, e preoccupando il campo dell’avvenire, e parlando
ove la storia si tace, già dimostra in questo pugno di fuorusciti il
germe della grande istituzione; già ve li addita stanziati
definitivamente in quelle solitudini; già li stringe in religiosa
consorteria; già dal semplice soggiorno alla convivenza trapassa,
quindi dalla convivenza alla scelta di una vita comune, da questa
all’organamento sociale, al culto, alle dottrine; e così di grado in
grado salendo, ed elemento ad elemento soprapponendo, fa
sorgere quasi per incanto il grande, il bello istituto degli Esseni.
Io non so se mi vorreste più generoso; ma io tutto ammetterei,
quanto può di fantastico offrirci, di gratuito, questa ipotesi,
quando almeno la base istorica, quell’esilissimo storico
addentellato, che pur or ricordammo, rimanesse[55] saldo,
inconcusso, rimanesse in piedi. Che sarebbe però, dilettissimi, se
pur esso svanisse; che sarebbe se il gigantesco edifizio tutto
vedessimo sull’arena fondato; che sarebbe se tutte le nostre
immaginarie scoperte andassero miseramente in frantumi, come
le fantastiche supputazioni di colui che sopra pochi miseri
vetrami la fortuna sua fondava?—Certo che bene avremmo di
maraviglia argomento, come un ingegno svegliato, probo, erudito
come il Salvador, si lasciasse tanto aggirare dall’orror dall’antico,
tanto dagli spiriti razionalistici, sino a disconoscere la inanità del
sistema proposto. Quale è di questo sistema la base; quel quid
senza di che sarebbe a zero ridotto; quel polline, quell’embrione
d’onde si vuol tutto l’Essenato prodotto? Egli è senza meno, e voi
lo sapete, quel nucleo d’Israeliti i quali dalla Macedone spada
incalzati si ridussero raminghi per lo deserto. Or bene. Mi spiace
per voi, mi spiace per il Salvador, mi spiace per quei poveri
Israeliti. Il preteso embrione non giunge alla prima fase di
gestazione. Il polline muore sullo stelo per effetto di una brinata.
Senza figura, quel pugno d’Israeliti su cui si fondava così alto e
immenso edifizio, non scorsero pochi giorni che raggiunti,
circuiti, assaliti, ed infine distrutti dai Macedoni persecutori,
spariscono miseramente dalla superficie della terra. Dove son iti i
germi dell’Essenato, dove sono i primi rudimenti, dove i
portentosi sviluppi? Se ne desiate novelle, chiedete piuttosto ai
generali Siriaci, che vi mostreranno in risposta la spada tinta di
sangue. Chiedetene, se ne volete più mite responso, alla storia
stessa dei Maccabei, allo stesso 2º Capitolo citato dal Salvador, ai
versi stessi che quasi immediatamente conseguitano a quelli dal
Salvador indicati; e queste parole vi leggerete, che pur esser
dovrebbero suggel ch’ogni uomo sganni:
«Coloro dunque (cioè i soldati Siriaci) gli assalirono[56] con
battaglia in giorno di sabato, sì che morirono, essi e le loro
mogli, e i lor figliuoli e i lor bestiami, fino a mille anime umane.»
Avete inteso?—Non uno rimase vivo; non uno da cui potesse
sorger per miracolo l’Istituto degli Esseni; non uno di coloro che
furono, secondo il Salvador, semenzajo del grande Istituto.
L’esito, la catastrofe sarebbe veramente comica, sarebbe ridicola,
se tetra e lagrimevole troppo non fosse.
Giunti a questo punto, in presenza a questa terribile e
sanguinosa confutazione, che cosa più dovremo aggiungere?
Certo che noi potremmo dire al Salvador, che pria della origine
supposta, pria che di questa emigrazione si narri nel libro dei
Maccabei, già di una valorosissima consorteria ivi stesso è
menzione, che si noma dei Hassidim, e che tutti i segni reca
manifestissimi dell’Essenato, onde cerchiamo l’origine. Ma
innanzi alle ricordate deposizioni dell’istoria, ogni argomento
vien meno. Egli è per questo che noi abbiamo il fine raggiunto
della nostra via? Debbo dirvi che no. L’argomento che ci siamo
proposti vuole che ancora altre origini consideriamo, altre
opinioni. Non è invano che si prende grave argomento a trattare.
Dirò a voi come Dante ai suoi lettori:
Conviene ancor seder un poco a mensa,
Perocchè il cibo rigido ch’ho preso,
Richiede ancora ajuto a sua dispensa.
[57]

[58]
LEZIONE SESTA.

Qual’è l’origine, la origine storica degli Esseni? Ecco


l’oggetto delle nostre passate, delle nostre presenti ricerche. Noi
movevamo, nella lezione passata, in traccia di questa origine; noi
vedevamo il Salvador riporla nella invasione dei Siriaci, nelle
emigrazioni specialmente che questa invasione cagionava tra gli
Ebrei di Palestina. Noi domandavamo a noi stessi quanto si
apponesse il Salvador così sentenziando, e la risposta fu tale, se
ben ricordo, che male potrebbe il sistema del Salvador riaversi.—
Mestieri è oggi proseguire nel divisato cammino; mestieri è pure,
quelle qualunque opinioni che a spiegare l’origine degli Esseni
furon proposte, chiamare egualmente a sindacato. Qual’è il
sistema che noi dobbiamo oggi esaminare? Egli è un sistema che
se l’ingegno, la fama, il sapere, fossero sempre infallibile criterio
di verità, solo vero e legittimo sistema dovrebbe cotesto da ora
bandirsi. Noi abbiamo dinanzi uomini cari a noi e onorandi per la
fede comune, per servigj segnalatissimi ai buoni studj prestati;
abbiamo tra i nostri l’illustre autore della Kabbale, il Frank;
l’autore chiarissimo della Palestina, il Munk; e infine abbiamo
tale che torreggia gigante fra tutti quanti gli si appropinquino,
abbiamo un uomo che vale per mille, un uomo, (tollerate la
riabilitazione di una frase) un uomo che si chiama Legione,
abbiamo Vincenzo Gioberti.
[59]
Il Munk, il Frank, il Gioberti, ecco i grandi, i terribili
avversarj che dobbiamo questa sera combattere. E che cosa, di
grazia, dicono i tre chiarissimi uomini dalla origine degli Esseni?
Tutti egualmente in una sentenza convengono, tutti in una origine
consentono l’origine Greca, l’origine Alessandrina, l’origine
Egiziana. Che cosa s’intende dire per questa origine da me con
triplice nome designata? S’intende dire che gli Esseni o, per dir
meglio, l’Essenato, ch’è quanto dire l’Istituzione, le Dottrine, il
Genio degli Esseni, siano tutti provenuti da quella filosofia, da
quella scuola, che parte greca, parte orientale, avea posto da
lungo tempo suo seggio nella Metropoli dell’Egitto, nella erede di
Atene, in Alessandria. Ecco che cosa vuol dire origine
Alessandrina. E dove professano i tre insigni uomini
rammemorati la opinione ch’io dico? La professa il Munk nella
bell’opera che sulla Palestina dettava (a p. 519), laddove, dopo
aver con succinte indicazioni degli Esseni trattato, conclude
dicendo, molto andare la loro Istituzione debitrice agli istituti;
alle scuole dei filosofi egiziani. Lo confermava poi in una nota
alla pagina istessa ove a buon diritto redarguendo la teoria del
Frank, ci dipinge gli Esseni quasi mediatori e sensali tra le
dottrine in Egitto imperanti, e la ebraica ortodossia di Palestina.
Noi avremo in avvenire occasione di noverare il Munk tra i più
valenti propugnatori di non poche capitalissime verità riguardanti
gli Esseni. Noi avremo luogo di tributargli largo, sincerissimo
ossequio per essere stato animoso banditore di tre principj che
crediamo nella Storia degli Esseni rilevantissimi, per aver
apertamente insegnata la filiazione e quasi la identità degli Esseni
col Farisato, per aver sanzionata l’antichità, la contemporaneità
della teologia Cabbalistica, e sopratutto per avere tra questa
teologia e la scuola degli Esseni dimostrate[60] quelle intime,
profondissime attinenze che sono, secondo me, uno dei pregj più
esimj della scrittura del Munk. L’occhio della mente sua, sempre
veggente,[20] travide queste attinenze, le notò, le insegnò; e i germi
da esso deposti nella opera sua, debbono quando che sia larga
messe fruttare di preziosissime conclusioni. Noi non saremo tra
gli ultimi a secondarne il dettato, a riconoscerlo, a salutarlo qual
possente alleato. Per ora, come dicemmo, nella questione presente
della origine, èmmi forza trattarlo quale avversario. Io dissi che
non è il solo, ma poderosi atleti accompagnarlo. Uno di essi è il
Frank. E dove soscrisse il Frank alla origine in discorso?
Nell’opera già ricordata della Kabbale. Egli, nella terza parte del
suo libro, in quella cioè da esso alla comparazione dedicata tra la
dottrina dei Cabbalisti ed i sistemi affini contemporanei, sembra
inchinare assolutamente alla origine Alessandrina. Parlando degli
Esseni e dei Terapeuti, egli dice apertissimo: l’une et l’autre (che
è quanto dire Esseni e Terapeuti) l’une et l’autre étaient nées en
Egypte. L’una e l’altra, sortito avere i natali in Egitto. Io vi dico
forse cosa che vi stupirà. Voi udite quanto esplicito si pronunzj il
Frank in favore della tesi avversaria, quanto deliberato consenta
all’origine Egiziana. Eppure (stranissima anomalia!) egli sarà il
Frank istesso, egli sarà lo stesso libro della Kabbale, e la stessa
parte sarà del suo libro, e senza forse la pagine istessa, che i più
forti, i più saldi argomenti ci forniranno ad infermare, a
distruggere la teoria prediletta, la origine fantasticata. Io credo
che gli argomenti perchè tratti dall’avversario nulla scapiteranno,
se non invece immensamente più ratti e più infallibili ci
meneranno allo scopo. Ma chi è il terzo, che sovra gli altri come
aquila vola? Io dissi che è V. Gioberti.—E dove toccava il
Gioberti della istituzione degli Esseni? Egli ne parlò[61] nella
Filosofia della Rivelazione; in una di quelle opere che la morte
non concessegli di pubblicare, e che i postumi anatemi non
valsero che a render più cara, più ricercata. In quest’opera della
Filosofia della Rivelazione (a p. 181 dell’opera stessa), laddove
prende colla sua usata grandiosità a trattare della pretesa missione
unificatrice del Cristianesimo, e quindi (quali rappresentanze di
due opposte idee) della presenza in Palestina della dualità Ebraica
e Gentilesca, che dovevasi pel futuro Cristianesimo unificarsi,
così il grande intelletto si esprimeva: «Presso i Giudei a’ tempi di
G. C. vi eran due scuole. L’Alessandrina, filosofica, acroamatica,
sottile; la Palestina, tradizionale, positiva. La prima esprimeva il
genio Indopelasgico e Greco; l’altra, il genio Semitico.»
Voi l’udite, Gioberti sta risolutamente per la origine
Alessandrina; imperocchè di null’altro egli può aver inteso colla
sua scuola acroamatica e sottile, rappresentante il genio Greco o
Indopelasgico, tranne della scuola della Consorteria degli Esseni.
Noi avremo, dunque, a lottare non solo coi due preclari
scrittori il Frank ed il Munk, ma ancora contro la mente più
vigorosa che generato abbia l’Italia moderna. Fortunatamente
però non è così. Noi possiamo a buon diritto declinare Gioberti
quale avversario, noi possiamo rimuoverlo rispettosamente dallo
steccato, noi possiamo risparmiarci il pericolo, e non è lieve, di
tenzonare con atleta siffatto. E perché? Per una ragione
semplicemente, e che voi di leggieri comprenderete. Perché
Gioberti non è responsabile della verità dell’asserto; perché egli,
a guisa di tutti quelli che versando sopra una particolar disciplina,
si giovano delle ricerche e dei trovati altrui, qualora di altre
discipline si tratti, tolse agli uomini, agli scrittori speciali; tolse,
per esempio, al Munk, tolse al Frank; come ad altri di simil fatta
tolse per avventura[62] il supposto sul quale la teorica sua fondava
della unificazione Cristiana; ch’è quanto dire, toglieva da essi la
origine Greca Alessandrina dell’Essenato, senza porsi per questo
mallevadore della verità del supposto, come fatto non si sarebbe
mallevadore se tolto avesse, verbigrazia, al Champollion la
notizia dei Monumenti Egiziani, o dai Fisici imparato avesse cosa
che fosse dipoi chiarita fisicamente inesatta. Sapete sopra chi
gravita intera la responsabilità dell’asserto? Sovra coloro che
tolsero a subbietto delle loro ricerche, disquisizione siffatta; sovra
di quelli che ne trattarono exprofesso. Sopra gli scrittori Israeliti
in ispecie, siccome quelli che più eruditi si suppongono nelle
proprie antichità; ed ai quali più facilmente che ad altri si presta
credenza, i quali dovrebbero, se non isbaglio, penetrarsi più che
non fanno di questa verità; cioè, che gli occhi, che le menti dei
dotti sono più che ad altri, ad essi rivolti, siccome ad organi ed
interpreti fedelissimi e naturali di tutto lo scibile israelitico, e che
grave però loro incombe il dovere di procedere circospetti non
poco nelle loro sentenze. Non sono eglino i rappresentanti
legittimi, e quasi non dissi gli oratori d’Israele nel consesso dei
dotti? Tali almeno sono dall’universale estimati.—Che cosa
dicono il Frank ed il Munk? Dicono che il nostro Essenato deve
all’Egitto, alle idee dell’Egitto, il suo nascimento. Porganci
dunque le fedi di nascita, che le vediamo; porganci, cioè, quelle
prove che a così credere li inducevano, e se ne vegga il valore.
E prima, difendere non mi so da un pensiero che vulnera, a
parer mio nella parte più sensibile la opinione in discorso. E
qual’è? È il superfluo, è il vano, è l’inutile di tale opinione.
Voglio dire che questa ipotesi che combattiamo, ove pure si
prescinda dal suo intrinseco[63] valore, manca senza meno del
primo e indispensabile requisito di ogni asserto, la sua necessità.
È egli necessario per ispiegare l’origine degli Esseni, fare
siccome fanno costoro un’escursione in Egitto? Fermamente io
credo che non lo è.—E chi è quello che me lo insegna?—Strana
cosa, ma pure verissima. È il signor Frank istesso, è quello istesso
volume ov’egli di volo depose la sua professione di fede riguardo
agli Esseni. Ed in qual guisa ce lo insegna il signor Frank?
Disputando intorno all’antichità delle dottrine, della scuola dei
Cabbalisti. Egli fu quello, e già ve lo dissi, che più risoluto tra i
moderni scese nello steccato a propugnarne l’antichità. Egli non
si diè posa fintantochè non rimise l’antichità della scienza in
quella evidenza intuitiva che era stata pria delle moderne
discettazioni. Ciò fece il signor Frank, e saviamente faceva, a
parer mio. Perché non fu conseguente? Perchè avendo in casa più
che non era mestieri a rendersi conto della derivazione degli
Esseni, andò attorno a cercarne la culla sulle rive del Nilo?
Perché non quetare nella origine propria e casalinga, quando tutti
gli elementi ei ne chiudeva in pugno coll’antichità cabbalistica?
Perché torcere gli occhi da quelle strette attinenze alle quali
ossequiava sinceramente la buona fede del Munk, nè il signor
Frank istesso osava negare? Ecco la prima lagnanza che contro
l’origine Alessandrina mi è dato rivolgere. Si comprende in una
parola, in una frase; cioè, non è necessaria.
Non basta questo. Un argomento vi ha che, a senso del signor
Frank, dimostra l’autonomia delle dottrine cabbaliste, cioè la loro
origine indigena, nazionale, Palestinese; e questo argomento è la
lingua.
La lingua, egli dice, di quella dottrina, è l’ebraica, e l’ebraica
aramea, ch’è quanto dire, la lingua allora usitata in Palestina.
Qual’era, per contro, la lingua dei filosofi Alessandrini? Era il
greco idioma, il greco[64] esclusivamente. Non è questa, dice il
Frank, prova dell’autonomia Cabbalistica? Io non voglio
discutere l’argomento del signor Frank, ma lo prendo per quel che
vale, e così argomento. O la lingua prova, o nulla dice. Se prova,
perché non vale egualmente rispetto agli Esseni, dei quali non si è
mai detto nè si poteva dir veramente che altra lingua usassero in
Palestina, che non fosse l’ebraica, o quella qualunque allor
usitata?—O non prova; ed allora, perchè concedergli di prova le
sembianze e gli effetti?—Pare impossibile! Vi sono nel libro
prelodato del signor Frank, nella scrittura della Kabbale, e in
quella parte istessa, e quasi a contatto della malaugurata origine
Alessandrina, tali inattese, tali decisive confessioni, e tale offrono
manifesta repugnanza colla origine istessa, che davvero non si
comprende come uno scrittore illustre, qual’è il filosofo francese,
non l’abbia avvertita.
Vedete, in fatti, il signor Frank precludersi colle sue mani la
via a spiegare non solo, ma nemmeno a comprendere la sognata
origine Alessandrina. Vedete egli stesso elevare una barriera
materiale, insormontabile, che il passaggio persino contende,
onde prendere nello Egitto lo Essenato. Vedete egli stesso porci le
armi alla mano, con queste parole: «Dallo istante (egli dice, e
traduco a verbo), dall’istante in cui la scuola Neoplatonica prese a
fiorire nella nuova capitale dell’Egitto, sino alla metà del secolo
IV dell’E. V.; epoca nella quale la Giudea vide morire le sue
ultime scuole, i suoi ultimi Patriarchi, le ultime faville della sua
vita intellettuale e religiosa; quali rapporti troviamo tra i due
paesi, tra le due civilizzazioni da essi paesi rappresentate? Ove,
durante questo tratto di tempo, la filosofia pagana fosse penetrata
nella Terra Santa, e’ bisognerebbe naturalmente supporre la
intromissione degli Ebrei di Alessandria.[65] Ma gli Ebrei di
Alessandria sì scarsi rapporti aveano coi loro fratelli di Palestina,
che assolutamente ignoravano le istituzioni Rabbiniche, le quali
tra gli ultimi occuparono luogo così cospicuo, e che trovavansi
già radicate tra essi oltre due secoli innanzi l’E. V.»—E quali
prove reca in mezzo il sig. Frank ad avvalorare l’asserto?
Prove reca, bisogna pur dire, che desiderar non potrebbonsi
più luminose. Egli reca la intera Enciclopedia ebraica
alessandrina, ove assoluta campeggia la ignoranza delle cose e
degli uomini Palestinesi. Reca, tra gli apocrifi, il libro della
Sapienza, di origine, di autore Alessandrino. Reca l’ultimo libro
dei Maccabei, foggiato come pare indubitato sulle rive del Nilo,
ed il silenzio ci addita e la ignoranza assoluta di tutto quello che
Palestina riguarda. Ignoranza dei più grandi uomini, che alta e
sonora levarono fama di sè; ignoranza di Simone il Giusto, dei
più celebri tra i Tannaiti; delle grandi scuole di Hillel e Sciammai;
e sovra tutto, ei dice, ignoranza di costumi, d’idee, di tradizioni.
Ma il Frank non è uomo da darci dimostrazioni incompiute. Egli
prova, e si può dire con egual nerbo, con egual verità, la
ignoranza reciproca nella quale gli Ebrei di Palestina vivevano di
tuttociò che in Egitto avveniva, di tuttociò che concerneva i loro
fratelli di Alessandria. Lo prova la oscura, l’alterata cognizione
che i dottori possedevano della traduzione dei Settanta; lo prova il
silenzio strano, incomprensibile, nella Misnà e nel Talmud dei
nomi più insigni, delle grandi, delle somme illustrazioni
israelitiche dell’Egitto; silenzio di Filone, silenzio di Aristobulo,
e silenzio infine di tutte le opere anzidette, concette e partorite
all’ombra delle scuole Egiziane. Lo credereste? Egli è in mezzo a
quest’osanna perpetuo, alla impossibile comunicazione tra
Palestina ed Egitto, egli è in[66] mezzo a questo concorso
imponente, maestoso di prove, contro l’origine Alessandrina, egli
è qui, qui per l’appunto che l’origine Alessandrina degli Esseni si
pone dal signor Frank siccome quel vero, che mestieri non ha di
esser provato.
Voi lo udiste; voi vedeste con quanta urgenza di prove
l’illustre autore innalzi tra Palestina ed Egitto tale una muraglia,
rispetto alla quale, quella famosissima della Cina ti pare un
trastullo. Che credereste ora che faccia il sig. Frank? Egli crede
citare la massima delle prove, e cade invece, se così è lecito
pensare di un tant’uomo, nel massimo degli equivoci. Egli cita in
prova della non avvenuta comunicazione tra Palestina ed Egitto,
il silenzio dei Rabbini intorno gli Esseni, intorno i Terapeuti.
Perchè, egli chiede, perchè questo silenzio? Perchè gli Esseni, ei
dice, origine avevano egiziana, e nulla che fosse egiziano dai
Rabbini si conosceva.—Sogniamo o siamo desti?—È egli il sig.
Frank che tale profferiva sentenza? E pure, dovuto avrebbe ad
una piccola circostanza avvertire, che tutta avrebbe mandata a
soqquadro la sua argomentazione; ch’è quanto dire, avria dovuto
avvertire, che se la ragione può valere pei Terapeuti dimoranti in
Egitto, non lo può in nessun modo pegli Esseni in Palestina
stanziati; pegli Esseni che viveano tra le stesse mura e sotto gli
occhi stessi dei dottori, i quali se non ne fecer menzione, a
tutt’altra cagione bisogna imputarlo, che non a quella della
pretesa origine egiziana. La quale origine egiziana tuttochè fosse
vera addimostrata, nulla avrebbe impedito che dai dottori gli
Esseni si conoscessero, e di essi a dilungo favellassero, siccome
quelli che comune con essi avevano e patria e soggiorno e
convivenza. Che se non lo fecero, non ci dite, di grazia, perchè
traevano dall’Egitto la origine; chè così dicendo, offendete, non
ch’altro, il più comunale[67] buon senso.—Ma che dico il buon
senso? Dovrei dire la vostra istessa teoria, il vostro sistema
istesso d’isolamento, di separazione dell’Egitto. E come no? Voi
dite gli Esseni Egiziani. E bene sta. Ma dove abitavano cotesti
Esseni? Abitavano pure in Palestina; dunque di Egitto trasmigrati
si erano in Palestina, o almeno le idee loro dall’Egitto passate
erano in Palestina, perchè uomini od idee, nel caso nostro, è
tutt’uno. Ma se passarono, se dall’Egitto trasferironsi in Palestina:
che segno è? È segno che questi rapporti da voi negati, esistevano
veramente. È segno che le dottrine cabbalistiche possono avere
quelle stesse vie percorso, che lo Essenato percorse. È segno che
tutto l’apparecchio dialettico da voi posto a sostegno della
autonomia, della originalità cabbalistica, ruina ad un tratto. È
segno che coteste due cose da voi sostenute, non possono insieme
capire. È segno che bisogna scegliere, che bisogna ottare.—
Volete gli Esseni derivati d’Egitto? Ed allora non negate tralle
due regioni i rapporti. O meglio vi talenta ricusare tra Palestina ed
Egitto ogni legame, ed allora rinunziate alla origine alessandrina
dello Essenato. Volere e l’uno e l’altro, è al di sopra di ogni creata
possanza: stare, per così dire, sulle due sponde a cavallo, è opera
più che umana; conciossiachè del solo colosso di Rodi, si narri
poggiare ad un tempo i suoi piedi sulle due opposte rive. Ma il
colosso di Rodi è favola meglio che storia. E bene, o miei
giovani, se ne accorse quel perspicace intelletto del Munk, il
quale nella sua Palestina (a p. 519) tali parole dettava sul conto
del Frank, le quali comecchè di gentilezza condite, non lasciano
per questo di contenere l’avvertenza che noi al signor Frank
dirigiamo. «Sembra, dice, in verità avere il signor Frank
indebitamente negletto l’officio che gli Esseni ponno aver
sostenuto, quali mediatori e sensali, tra l’Egitto e Palestina.»
[68]
Questa si chiama conseguenza, e noi volentieri la ossequiamo,
quale diretta e legittima illazione del principio da ambidue
consentito, cioè della origine alessandrina dell’Essenato. Noi
possiamo però separarci dalla costoro sentenza, senza per questo
incorrere nella taccia di contraddizione. Noi neghiamo col signor
Frank la comunicazione tra Palestina ed Egitto; ma neghiamo
altresì ciò ch’egli non fa veramente, cioè la origine alessandrina
dello Essenico istituto.[21]
Io vi dissi che gli argomenti dal signor Frank invocati a
sostegno della autonomia cabbalistica, militavano con non minor
urgenza in favore dell’autonomia degli Esseni. Giudicatene voi
stessi.—Ignoravano, egli dice, i dottori di Palestina, i loro
confratelli di Egitto. In qual guisa le scuole pagane avriano
conosciuto? Non è egli, io aggiungo, cotesto validissimo
argomento in favor eziandio della originalità degli Esseni? Ma
più. La lingua greca, dice il signor Frank, era in onore: sì, ma
appo gli Israeliti di Palestina non era però familiare. Vedete, egli
aggiunge, vedete Flavio che pure nella scienza pagana ci sembra
tra i coetanei il più erudito. E pure, chi il crederebbe? è Flavio
stesso che ne depone, è la sua confessione, sono le sue parole:
Mestieri egli ebbe di chi nella greca favella lo erudisse, quando
prese a dettare le sue istorie.—Mestieri ebbe di porsi al fianco
tale, che nella lingua dei Greci quelle nozioni possedesse, di cui
egli era digiuno. Mestieri fu che le istorie sue al costui sindacato
sottoponesse.—Non basta. Flavio non recita sol di sè stesso la
confessione, ma la ignoranza egli autentica altresì di tutti i suoi
contemporanei, i quali al dire di lui poco in generale delle lingue
curandosi, poco eziandio coltivavano lo idioma dei Greci; e se
l’idioma, dice il Frank, era così trascurato, come potevano meglio
conoscere le dottrine in esso[69] idioma vergate? Bene, a parer
mio, argomenta il signor Frank, e non meno bene noi stessi
argomentiamo.
Io torno e domando. Avvi nulla in questo raziocinio che a
capello non si acconci alla istituzione degli Esseni? Avvi nulla
che più manifesto resulti della loro autonomia?—Ma più oltre
spinge il signor Frank la intrapresa argomentazione, e più oltre
con esso noi pure procederemo. Che cosa dice il signor Frank?
Poniamo, egli dice, che la lingua si conoscesse. Poniamo che
queste materiali difficoltà che noi vedemmo frapporsi alla
comunicazione dei due paesi, non esistessero; mettiamo anzi, che
liberamente le idee alessandrine in Palestina circolassero, e quelle
di Palestina nello Egitto avessero accesso. Sarebbe per questo più
probabile l’adozione delle dottrine dei Greci tra gli Ebrei, tra i
dottori di Palestina? Lo nega il signor Frank per ciò che le
dottrine cabbalistiche concerne, ed ha ragione. Chiama il Frank a
rassegna, e concludenti ed infiniti sorgono alla sua voce, fatti,
assiomi, decreti, anatemi, che tutti attestano concordi l’errore, la
repugnanza in cui si avevano tra i dottori antichissimi le dottrine
dei Greci. Egli chiarisce assurda, impossibile la pretesa
consecrazione di teorie forestiere; egli restituisce alla teologia
cabbalistica i suoi titoli, la sua ingenuità, la sua cittadinanza.
Io credo che niente più grecizzante sia il nostro Essenato, il
quale, come vi accennai sino dall’esordire, tra le più distinte file
si reclutava del nostro dottorato; che n’era, a così dire, il
substratum, la quintessenza, il patriziato, e quindi doveva tutte
parteciparne le viste, tutte le repugnanze. Finalmente, vi ha un
argomento al quale come ad ultima ratio ricorre il signor Frank;
nè male veramente si appone, sendo questo, e per esso e per noi,
decisivo. Egli è l’argomento cronologico. Prova il Frank che R.
Iohanan Ben Zaccai, grande Patriarca della misteriosa[70]
Mercabà, molto tempo innanzi fioriva che una scuola si
schiudesse in Alessandria, che un solo filosofo vi facesse udire
delle sue dottrine la voce. E non solo R. Iohanan Ben Zaccai, ma
un dottore ad esso posteriore, R. Gamliel, quella scuola
alessandrina precedette di tempo, conciossiachè da lunga pezza
egli fosse già morto quando i primi albori spuntavano di filosofia
nella città di Alessandria. Or bene (cosa meravigliosa e pur
vera!), non si avvide il signor Frank, che questa stessa
cronologica repugnanza si oppone a dirittura a qualunque preteso
rapporto tra l’Essenato e gli Alessandrini; che questa anteriorità
ch’egli a buon diritto conferisce ai dottori sulle scuole di
Alessandria, di gran lunga maggiore, vantano meritamente gli
Esseni, siccome quelli che, a confessione del medesimo signor
Frank, erano, come attesta Giuseppe, generalmente conosciuti
non solo ai tempi superiormente indicati di R. Gamliel e di R.
Iohanan, ma in tempi assai più per antichità ragguardevoli, ch’è
quanto dire ai tempi di Gionata Maccabeo, quando 150 anni
dovevano ancora passare pria che di Cristiani si parlasse, pria che
le scuole alessandrine risuonassero di quelle dottrine, che si
vogliono generatori, balj del grande Essenato. E questo è
argomento che davvero vi sembrerà categorico. Nè ciò basta.
Quando più saremo innoltrati nelle presenti esposizioni, molte
cose vedremo che a confermare varranno la impossibile
derivazione straniera del grande istituto degli Esseni. Vedremo la
loro forte e rigida organizzazione, i gelosi insegnamenti, le
lunghe prove, le incomunicabili dottrine, la perpetuità, la
immutabilità dei dettati e tutto; insomma, vedremo quello che
costituisce una forte, un’autonoma personalità, ove il genio spicca
della originalità anzichè della imitazione, del profondo e
concentrato sentire anzichè della espansione, della interiorità
anzichè[71] della esteriorità. In una parola, noi vedremo come non
solo tutti gli argomenti dal signor Frank accampati, ma ben altri
ancora rendano sommamente improbabile quella greca paternità,
che pel Munk, pel Frank e per V. Gioberti si volle agli Esseni
assegnare. Adesso venga pure avanti nella prossima conferenza
l’origine cristiana, che non la temiamo. Faccia pure l’estremo di
sua possa, chè rimarrà ancor essa sconfitta. Tutti i campioni che
ella potrà mettere in campo, non salverannola dall’ultimo eccidio.
Dirò come David nell’atto di affrontare Golia: «Ed io pure il
Leone, ed io l’Orso percossi a morte.»—Quando si è avuto
l’onore di convincere d’inesattezza gli autori questa sera
rammemorati, si può a buon diritto sperare di venire a capo di
altri eziandio. E sin da ora ai difensori della origine Cristiana
potrò dire con Dante:
Ch’a più alto lion trassi lo vello.

[72]
[73]
[74]
[75]
LEZIONE SETTIMA

Movendo in cerca della origine storica, della derivazione


degli Esseni, due furono finora i sistemi che abbiamo discusso.
Quali questi sistemi si fossero, voi certo lo ricordate. Fu quello in
primo del Salvador, che questa origine pone durante la invasione
dei Siriaci sul suolo Ebraico. Fu quello in ultimo che sotto gli
auspizj ci si offriva del Frank e del Munk, i quali la origine
veggono entrambi dell’Essenico istituto nelle scuole, nelle idee,
che la greca civiltà trapiantato si ebbe sulla terra di Egitto. Qual
fu il giudizio che emerse dal duplice esame? Io non so se sbaglio,
ma parmi avere abbastanza dimostrata la improbabilità di
ambedue i sistemi.—Avvi ancora un terzo da esaminare; e quello
si è che agli Esseni, all’Essenato un’origine attribuisce, un
carattere assolutamente cristiano. Potremmo noi senza citarlo in
giudizio procedere risolutamente alla dimostrazione di quella
origine che crediamo più vera? Io credo che nol possiamo. Nol
possiamo, perché troppo si disdice ad accorto strategico, lasciarsi
fiero e numeroso nemico dopo le spalle. Nol possiamo, per le
smodate pretensioni che accampa, per la fama, per l’autorità dei
suoi campioni; ed infine, permettete che io aggiunga, per il
legittimo e dolce desio di un trionfo. Io ricordo però come il
Profeta ammoniva, non prima doversi celebrare[76] vittoria, che
l’arma non si discinga debellatrice. Mestieri è dunque combattere,
e combattere virilmente. Il campo conoscete, conoscete del litigio
la causa; solo vi manca di conoscere gli avversarj, e dopo gli
avversarj, le armi, gli argomenti proposti, e infine i poderosi
argomenti della difesa.—Quali sono gli avversarj? Si può dire
arditamente che nè maggiori potrebbero essere nè più cospicui.
Qui è per primo Eusebio, il quale nel secondo libro delle Istorie
Ecclesiastiche non dubita di affermare, non altro aver voluto
Filone ritrarre, laddove degli Esseni prese a discorrere, che la
Chiesa Cristiana allora nascente. Eusebio che aggiunge (e di che
sappia l’asserzione vedremo fra poco) che il nome di Terapeuta
vale a dire il nome in Egitto equivalente a quel di Esseni, anzi la
greca traduzione del vocabolo Esseni, fosse comune appellativo
dei primi Cristiani, anzi che questo nome di Cristiani
assumessero.—Qui Epifanio che dice risolutamente, aver Filone
nei Terapeuti dipinto il modello e i prischi tentativi del monacato
cristiano; qui S. Girolamo che, per andare per le corte, converte di
motuproprio al Cristianesimo il nostro Filone, che storico degli
Esseni, Egiziani ed Essena egli stesso, fu quello le cui memorie
togliamo anch’oggi qual guida, almeno principalmente nella
cognizione dell’antico Essenato; qui il pseudo Dionigi
Areopagita, che seguendo ciecamente l’andazzo dei suoi, giunge
sino a chiamare un monaco a cui scrive, col bel nome di
Terapeuta; qui Sozomeno, storico dei primi secoli dell’E. V., che
alla sentenza medesima aderisce, solo per correttivo aggiungendo
aver forse gli Esseni qualche vestigio conservato di riti giudaici;
qui un cardinale, il Baronio, che a dimostrare la verità dell’antico
Cristianesimo dei Terapeuti, così argomenta. Egli avverte il
silenzio che degli Esseni si conserva assoluto per tutto il corso
degli Evangelj, ed a[77] questo silenzio non trova il Baronio che
altre cause si possa assegnare, tranne coteste due. È la prima, dice
il Baronio, la identità degli Esseni colla chiesa Cristiana. È la
seconda la posteriore loro apparizione alla predicazione
evangelica. Ma la seconda, aggiunge il Baronio, si oppone alla
storia, che la esistenza degli Esseni ricorda sin da’ tempi anteriori:
dunque, sola è vera la prima, solo il Cristianesimo degli Esseni
basta a spiegare il silenzio evangelico. Voi udiste l’argomentare
del Baronio; udrete tra poco, come dice l’Alighieri, l’argomentar
che gli farò avverso. Per ora seguitiamo la nostra rassegna. Io
debbo un solo ancora ricordarvi degli avversarj, e questi è il P.
Montfaucon. Chi era il Montfaucon? Egli appartenne al
dottissimo ordine fratesco, alla regola di quel grande che fondò
Cassino, e fu Benedetto. Il Benedettino Montfaucon, che visse
nel secolo erudito del 700, lasciossi così appieno infatuare dal
preteso Cristianesimo dei Terapeuti, che a provarne ad esuberanza
la verità, si accinse, siccome credo per primo, alla traduzione di
quelle opere di Filone ove dei pretesi Cristiani, dei Terapeuti, è
parola.
Ecco gli avversarj. Quali sono i loro argomenti? Parte ve ne
dissi, e questi più particolarmente appartengono agli autori
rammemorati. Parte adesso ne udirete, e sono quelli che più di
frequente si veggono dagli avversarj imbranditi.—Quali sono
questi argomenti? Sono tutti, si può dire, fondati sopra qualche
supposta analogia fra i costumi, le leggi, la società, il genio dei
primi Cristiani, e quelle dipinture che degli Esseni ci lasciava
Filone. Ella è ora la gerarchia che s’invoca dei Terapeuti, ove tutti
i diversi ordini sembra a costoro vedervi della Chiesa nascente;
ora le guarigioni dagli uni e dagli altri miracolosamente operate, i
beni ai poveri distribuiti, l’erario e gli averi comuni, l’amore delle
chiose, dei commenti allegorici, il predominio del[78] senso
mistico sul letterale; eglino sono i digiuni, le macerazioni; ed
infine, egli è il celibato. Ecco gli argomenti nemici; ed ecco i
nostri. Egli è, in primo luogo, la contraddizione in cui cadde
Eusebio, quegli stesso che primo vedemmo accreditare tra i
Cristiani la voce del Cristianesimo Terapeutico. Or bene, tanto fu
possente la verità, che lo stesso Eusebio non potè in qualche
luogo dell’opera sua contrastargli l’ossequio. Voleva Eusebio
provare come tra gli stessi Ebrei, nella stessa chiesa primitiva,
allignasse lo spirito, la tendenza al ritiro, alla vita solitaria, alla
contemplazione. Or che credete che faccia Eusebio? Egli cita gli
Esseni; gli Esseni che, a senso suo, attestano l’antichità del genio
cenobitico in Israel; gli Esseni che, per provare l’assunto, devonsi
supporre Israeliti eglino stessi; gli Esseni, infine, che lo stesso
Eusebio dovrà tra non molto dichiarare Cristiani. Si può dare
contraddizione maggiore di questa? Eusebio però non si contenta
di asserire, egli pretende inoltre provarne il Cristianesimo. Quali
sono le prove? I Cristiani, egli dice, ebber nome Terapeuti,
anziché quello assumessero definitivo di Cristiani. È egli vero,
costante, il fatto da Eusebio allegato? Parecchi antichi ne
mostrarono la falsità. Lo mostrò, tra gli altri, il Basnage provando
sino all’evidenza, come il nome Cristiani venisse dalla Chiesa
adottato anziché il menomo sentore avessero i nuovi credenti
della esistenza nemmeno del nome Terapeuti; ch’è quanto dire
che i cristiani tal nome ricevessero nella città di Antiochia, prima
che altrove fosse predicato il Vangelo, pria che Marco Apostolo
fondasse la Chiesa Egiziana, della quale si volle trovare i primi
elementi nella scuola, nell’istituto dei Terapeuti. Che se il nome
di Terapeuta lo vediamo tra i Cristiani usitato, siccome veramente
il vedemmo, a denotarsi scambievolmente, che prova ciò? Prova
soltanto che la parentela,[79] che la consanguineità Terapeutica fu
antico vanto, vanto preteso della Chiesa Cristiana; prova soltanto
che imbevuti siccome erano della origine Terapeutica, si
gratificavano scambievolmente di sì bel nome per una illusione
che io chiamerei volentieri illusione retrospettiva; prova soltanto
che il credersi dai Terapeuti originato, era un onore che
avidamente si agognava. E poi, chi meglio di voi conosce il senso
lato, vasto, capacissimo del nome Terapeuta, del nome di Essena?
Voi sapete che cosa significa; significa Medico, Risanatore, e
Risanatore dell’anima, delle passioni; ch’è quanto dire un
concetto vi presenta che ogni religione, ogni setta, ogni scuola,
per poco che abbia amore di sè, per poco che alto voglia
infondere in altri il senso della sua eccellenza, si approprierà
volentieri, siccome quello che meglio adempie all’officio
nobilissimo per quel vocabolo additato. Che maraviglia, dunque,
che il Cristianesimo se l’appropriasse e che il togliesse, senza per
questo accennare precisamente ad una origine, ad una filiazione
qualunque? Vi ha ora l’argomento del Baronio, che dobbiamo
giudicare con processo sommario. Che cosa diceva il gran
cardinale? Egli argomentava il Cristianesimo degli Esseni dal
silenzio degli Evangelj. Diceva il Baronio: due sono le sole cause
plausibili di questo silenzio: o gli Esseni sono Cristiani, o ai
tempi evangelici non esistevano.—Ma l’ultimo dei supposti è
falso, perché gli Esseni esistevano veramente, dunque è
dimostrato che gli Esseni sono Cristiani.—Dante, quando
nell’VIII canto del Paradiso volle parlare di Sigieri, che insegnato
aveva logica in Parigi, disse di lui che nel vico degli Strami
Sillogizzò invidïosi veri.
Io non so in qual vico abbia sillogizzato il Baronio. Certo che
i suoi non sono invidiosi veri; piuttosto invidiosi[80] falsi. Io
potrei, a combattere il Baronio, valermi degli argomenti del
Basnage; ma non me ne valgo per la ragione semplicissima, che
credo un solo il vero, il massimo degli argomenti, e questo non
lessi scritto in alcun luogo. Non dirò con Basnage al Baronio:
badate che la rete del vostro dilemma, non abbia in alcun punto a
smagliarsi; badate che la setta degli Esseni non era numerosa, e
quindi può essere passata inavvertita; che il ritiro in cui vivevano
li sottraeva al rumore, alla pubblicità, e quindi agli affari ed alla
conversazione degli uomini. Ciò non dirò perchè credo questi
argomenti insussistenti; perché credo che le sètte, le scuole, non
si contino ma si pesino, che non valgano per quantità ma per
qualità; perché credo che il ritiro negli Esseni non fosse così
assoluto quanto si vuol far credere; perché credo che il ritiro, la
solitudine, serva talvolta a farti più rimarcare, e come oggi si
dice, a farti brillare per la tua assenza; e perchè, finalmente, il non
imbarazzarsi nelle faccende altrui, non è sempre infallibile
preservativo onde tu non sia molestato, accadendo infinite volte
che per quanto tu ami cansare piati o litigj, pure tanto frastuono e
baccano ti fanno d’intorno, che sei costretto finalmente a metter
fuor dell’uscio la testa per chiedere di grazia che cosa si voglia
del fatto tuo. E per questo non vo’ che il Baronio abbia facil
vittoria dei miei obbietti. Piuttosto vorrei sapere in qual guisa non
siasi degnato nemmeno considerare una terza alternativa, la quale
rispettando la storia e spiegando il silenzio degli Evangelj, non
costringa per questo a cristianizzare il grande istituto. E qual è
l’alternativa in discorso? È la possibile, la pensabile identità
dell’istituto Essenico con uno di quelli che il Vangelo rammenta,
e che vissero cogli Esseni ad un tempo, coi Sadducei, cogli
Scribi, cogli Erodiani, coi Farisei, con una insomma di quelle
sètte di cui è[81] menzione negli Evangelj. Io credo, e voi già da
un pezzo il presentite, come il più bello e più grande resultato
delle nostre conferenze, la dimostrazione perpetua di queste mie
lezioni, sarà il ritorno dell’Essenato in grembo a quella scuola più
vasta che ha nome dai Farisei; e questa identità, la ragione, la
storia, l’eloquenza dei fatti ci faranno debito di consentire. Ma se
per noi è dovere di ammetterla, pel Baronio era dovere il
discuterla. Perché non la discusse? Perchè propose dilemma che
non è dilemma? È inutile il cercarlo. Il perché voi già lo sapete,
perchè voi già ripeteste con me le parole di Dante.—Il Baronio,
come Sigieri, ma in senso molto diverso Sillogizzò invidiosi veri.
[22]

E non solo il Baronio, ma moltissimi altri vedeste sotto quel


vessillo raunati. Quali sono le loro prove? Io ve l’esposi di già ad
una ad una, e ad una ad una verranno qui invocate in giudizio. Si
parlò di gerarchia, si vide tra quella dei Terapeuti e quella dei
Cristiani analogia di nomi, di officj, di organismo. Che vuol dire
ciò? Vuol dire, dicono gli avversarj, che i Terapeuti sono
Cristiani: vuol dire, aggiungo io, che questi tolsero a imitare i
Terapeuti, in quella guisa che tutte le idee e istituzioni, e il
sacerdozio e i riti e tutto, tolsero ad imitare dell’Ebraismo; vuol
dire almeno che Terapeuti e Cristiani, sendo da un corpo solo
concetti e partoriti, offrono tra loro quelle affinità di sembianze
che sono proprie dei fratelli, dei consanguinei. Ma non è sola la
gerarchia: si citano le guarigioni miracolose, si dice che proprie
furono dell’una setta e dell’altra, dei Cristiani e dei Terapeuti; e
da questa comunanza la identità si conclude dell’uno e dell’altro.
Parvi che rettamente concludasi? Io credo fermamente che a
questa stregua, che a questa misura, poco meno di mezzo mondo
diverrebbe Cristiano; che il diverrebbero i Dottori, i Farisei
grandi[82] taumaturgi, come ognuno conosce; che il diverrebbero
i sacerdoti pagani, che di simili guarigioni andavan superbi; che
lo diverrebbe Vespasiano, di cui si narra la portentosa restituzione
della vista ad un cieco mercè la saliva; che il diverrebbe
Apollonio Tianeo, che circa quel torno empieva il mondo dei suoi
miracoli. Ma più ci dicono: vi è di più; vi è la repartizione dei
proprj beni ai poverelli, vi è l’erario comune o, in termini
moderni, il comunismo, quale si praticava dalla Chiesa Cristiana.
Ci chieggono; vi par cotesto argomento che basti? Sì, io rispondo,
se la povertà volontaria fosse nata col Cristianesimo, e pria e
fuori di esso non se ne vedessero gli esempj. Sì, se il monacato
Buddistico, se i Bonzi, se i Fachiri non lo praticassero in Oriente.
Sì, se tutto lo stato ebraico non fosse stato una spezie di pacifico
comunismo, il cui alto proprietario o signore supremo era Dio. Sì,
se i dottori non ce ne offrissero l’esempio proprio siccome quello
che nei Cristiani si ammira; e se, finalmente, il Cristianesimo non
potesse aver tolto anche quest’idea in prestanza all’antico
Essenato. Che diremo poi dell’amore, delle allegorie, della
esegesi mistica che si cita per quarto? Sarà egli più stringente
argomento dei suoi confratelli? L’esegesi mistica! Ma l’esegesi
mistica era il vezzo, era l’andazzo, era il gusto comune dei tempi
d’allora. Lo era presso i pagani, quando si accostavano a spiegare
i capolavori dei loro poeti; lo era presso i dottori, e le traccie ne
durano immense, ne durano sensibilissime nei grandi monumenti
che ci trasmisero, dove ad ogni piè sospinto ti si accalcano in
folla le allegorie, le parabole, i miti, le tropologie, infine tutto
quello che la veste esteriore costituisce delle dottrine riservate, e
come dice Gioberti, della scienza acroamatica dell’Ebraismo.
Dovremo noi soffermarci ai digiuni, alle macerazioni, che si
dicono comuni? Noi questo solo diremo,[83] che se digiuni e
macerazioni dovessero essere assunti a criterio d’identità,
l’origine degli Esseni non dovrebbe a lungo cercarsi, perchè bella
e pronta noi l’avremmo tra i dottori trovata, ove in un ramo
soltanto, notate bene, in un ramo soltanto della loro scuola, tali si
vedono prodigiosi e prodigati digiuni, da disgradarne le più
raffinate macerazioni della Tebaide. Sarà egli più felice
argomento il celibato, che qual distintivo comune a provarne
s’invoca l’identità? Il celibato, per ciò che riguarda gli Esseni,
non può essere inteso assolutamente ma parzialissimamente;
quindi non prova. Quanto ai Terapeuti, che sono gli Esseni
Egiziani, il fatto corre alquanto diverso; epperò il raziocinio offre
alquanto più del verosimile. Ma quanto a veder bene non è
fallace! Non tanto perchè i Terapeuti non praticassero il celibato,
chè veramente il praticavano, ma sopratutto (curiosissimo a
dirsi!) perchè i Cristiani allora nol praticavano, perchè tempi eran
quelli ancor distanti dal fervor religioso che spinse gli uomini nei
chiostri, nei cenobj, nei romitaggi; perchè Paolo allora bandiva,
dovere il vescovo vivere senza colpa colla donna sua; insomma,
perchè il celibato cristiano non era ancor nato.
Gli argomenti a favore sono caduti: adesso cominciano gli
argomenti contrarj: la guerra difensiva è terminata, adesso si vuol
prendere energicamente la offensiva. Quali sono di oppugnazione
le armi? Sono parecchi pensieri, e tutti serj, e tutti stringenti. Ella
è, in primo luogo, le tendenza di ogni parte, di ogni setta
osteggiante ad appropriarsi quanto vi ha di bello e di buono nella
setta, nella parte rivale. Dante è guelfo per i guelfi; è ghibellino
pei ghibellini. Maimonide è cabbalista pei cabbalisti, è
antimistico pei loro nemici. Aristotile, Platone ed altri ancora, se
fossero stati conosciuti, sarebbero stati dai nostri dabben proavi,
giudaizzati e colle debite forme[84] circoncisi. Seneca fu
battezzato da S. Paolo, o da chi per esso, e tanto eco ebbe di sua
conversione la fama, che la tesi fu trattata di recentissimo innanzi
l’illustre Accademia Parigina in un libro che vide poi per le
stampe la luce; nè di questo dirò più sillaba, avendone io a
dilungo parlato, in una lettera che or sono alcuni anni, pubblicava
l’Educatore. Nè agli Esseni incolse dissimile ventura. Parevano
così santi, così dotti, così esemplari, che non si potè più a lungo
tollerare il loro Ebraismo. E così un bel giorno furono presi e fatti
Cristiani; come Cristiano fu fatto Giuseppe, come Cristiano fu
fatto Filone, e come Gamliel e come Akiba furono debitamente
cristianizzati e in terra santa seppelliti nella chiesa di S. Francesco
di Pisa.
Ma di queste fole più non si parli. Diciamo piuttosto di
argomenti più serj. E serissimo, a parer mio, è quello che si trae
da Giuseppe e Filone[23] Io già ve lo dissi, Giuseppe e Filone
furono i due scrittori che tolsero con qualche diffusione a narrare
della scuola, delle dottrine degli Esseni; e l’ultimo in spezial
modo, che due interi libri dettava a descriverne lo istituto, oltre
quelle diffuse nozioni che qua e colà sparse si trovano per
avventura nelle opere rimanenti. Or bene, Giuseppe e Filone non
sono soltanto gli storici, gli espositori, i descrittori del grande
istituto, ma ne sono eziandio, e in grado eminente, i panegiristi,
gli encomiatori, i lodatori. Non cessano e Giuseppe e Filone di
laudarne la virtù, di celebrarne le dottrine, di encomiarne il
costume; e tanto profuse e tanto magnifiche riescono di costoro le
lodi, che grave ingenerarono sospetto nell’animo ai posteri, non
forse più che verità consentisse, di gioconde e gaie tinte
spargessero il quadro ad attirare la stima, l’ammirazione,
l’ossequio del mondo gentile. Dite di grazia. Potevano e
Giuseppe e Filone con tanta pompa favellare di un istituto[85]
Cristiano, d’un Istituto che cattedre ed altari elevasse contro la
pristina fede; il potevano essi che nacquero e vissero e morirono
nella più pura ortodossia?[24] Il poteva Giuseppe, che non rifinisce
di laudare la scuola farisaica, ch’è quanto dire la scuola che più
apertamente si osteggiava dal Cristianesimo; il poteva Filone, che
la vita consacrò e gli studj e le fatiche alla esaltazione del nome,
della fede ebraica, e che la età senile non trattenne dalla famosa
ambasceria a Cajo Caligola, dove alta e solenne levò la voce in
difesa dei patrj riti e della patria salute? Che se Filone e
Giuseppe, Ebrei pronunciati, non potevano tante lodi prodigare se
non ad Ebrei; se gli Esseni, ebrei essendo, non lasciavano di
possedere parecchie doti, qualità, costumi, istituzioni che il
Cristianesimo si appropriò, come desumere da queste simiglianze
la identità? Come non avriano potuto essi che queste cose
possedevano di proprio in antico, come non avriano potuto
continuare a ritenerle senza farsi Cristiani? Certo che il potevano
e certo ancora che i generosi encomj dei due grandi Israeliti fanno
fede pienissima contro ogni supposta apostasìa. Però Filone di
lodarli non si contenta. Due libri ei scrisse, come vi ho detto, di
cui il primo consacrò agli Esseni, l’altro dedicò ai Terapeuti. Il
primo suona: Ogni onest’uomo è libero, il secondo si chiama, De
vita contemplativa. Or bene, il prima è prova come a senso di
Filone, Ebrei fossero gli Esseni, poichè di costoro favellando, il
nome apertamente e la qualificazione gli assegna di Ebrei. Si può
dire altrettanto dei Terapeuti che prese a têma della seconda opera
sua? Certo che sarebbe meno esplicita la deposizione Filoniana,
se non sapessimo che la vita contemplativa forma come una parte
seconda del primo libro rammentato; più, se nel passare dagli
Esseni ai Terapeuti, se nel prendere di quest’ultimi a favellare,
una frase ei non usasse ove i[86] legami, la parentela delle due
sètte apparisce manifestissima; se, infine, concorde non sorgesse
oggimai una voce ad ammettere tra Terapeuti ed Esseni, non solo
alcun tratto di somiglianza, ma salvo qualche varietà d’indirizzo,
una sostanziale e perfetta identità; se di questo universale
ossequio facendosi interprete, non ci ammonisse il Jules Simon,
nella Istoria della scuola di Alessandria, così dicendo: Il est plus
que vraisemblable que les Thérapeutes sont des Esséniens voués
à la contemplation; e ciò che più monta, se queste parole
precedute non fossero da un coscienzioso esame sul preteso
cristianesimo dei Terapeuti. Che se Ebrei sono gli Esseni a
confessione di Filone, se i Terapeuti altro non sono che Esseni
contemplativi, chi non vede come le insegne di Ebrei più ai
Terapeuti non disconvengano, che non agli Esseni?
È egli Filone il solo a proclamare degli Esseni lo ebraismo?
Per ventura, non è il solo. Una voce vi ha, s’è possibile, più
autorevole, che l’attesta. E qual è? La voce della cronologia.
Attendete, e con qualche diligenza mi seguite, chè si tratta di
cifre. Quando nacque Filone? Nacque, e ne abbiamo certezza,
l’anno 724 dalla fondazione di Roma. Quando scrisse le opere in
discorso, quando parlò, quando l’elogio compose dei Terapeuti?
Egli dice che era, allor giovanissimo. Giovanissimo,
accennerebbe ai 20 a 30, ma pure diamogli, se così volete, anni
40, i quali addizionali ai 723 dalla fondazione di Roma,
costituirebbero la somma di 763. In che anno della romana
fondazione nacque Gesù? Nacque il 753, ch’è quanto dire non più
di anni dieci pria che Filone a scriver si accingesse le opere sue;
non più che dieci anni prima del grande e sublime ritratto che ci
porge Filone dell’Essenato Egiziano, coi suoi romitorj, colle sue
leggi, colle sue tradizioni, col suo culto purissimo, e, ciò che[87]
più urge al fatto nostro, colle sue istorie, coi suoi libri antichi,
colla venerata memoria dei suoi predecessori.
È egli possibile, dopo prove siffatte, parlare di Terapeuti
Cristiani? Però vedete astuzia! Noi citammo Filone e i suoi
encomj; encomj incomprensibili in bocca ad un Ebreo, ove i
Terapeuti supporre si vogliano cristianeggianti. Or bene, che
credereste che facciano gli avversarj! Con un colpo di mano ci
rapiscon Filone. Audacia direte enorme, se altra fu mai. Ma pure
la è così. Se Filone credeste finora Ebreo, disingannatevi. Egli è
Cristiano, e davvero Cristiano, testimone S. Pietro che in Roma
vedutolo, lo convertì. Ma la buona gente non guarda tanto per la
sottile, nè spinge più che tanto le sue indagini. Non cerca, per
esempio, se il preteso Cristiano ci abbia di cristianesimo alcuna
traccia tramandato nelle opere sue; che strana cosa ed incredibile
veramente sarebbe questa, se tutto lo zelo ed il fervor del neofita
una sola parola posta non gli avessero in bocca, non dico di
elogio, di venerazione, di fede, ma nemmeno di semplice
ricordanza, di semplice citazione. Non veggon cotestoro che
invano tutto questo si chiederebbe alle opere Filoniane, che per
quanto si stendono, non menzione vi ha di G. C., non di Pietro il
conversare preteso, non dei Vangeli, non dei dogmi cristiani; ove
dogma cristiano non vogliam dire la teoria del Verbo, comune non
solo alle religioni orientali, ma propria altresì di Platone suo
donno e maestro; non infine di quel dogma menzione, sul quale
tutto s’appunta l’edificio cristiano, voglio dire l’Incarnazione o,
come Gioberti il chiama, il dogma teandrico. Che se occhi non
han costoro per vedere, non hanno nemmeno orecchi per udire;
per udire, per esempio, Giuseppe quando, sopravvissuto a Filone,
di Filone parla con la riverenza ch’ei sentiva per un tant’uomo;
quando lo dice insigne nella sua nazione, quando leva a cielo
l’attaccamento[88] di Filone alla fede, alla patria, a tutto Israele.
Avria così di Filone favellato Giuseppe, se Filone conchiuso
avesse la vita nella apostasia, nella fede cristiana? Certo che non
avrebbe; e certo egualmente che le lodi di Filone sul labbro a
Giuseppe, come quelle degli Esseni in bocca a Filone, come tutti
gli altri accennati argomenti, sono una catena ben connessa, ben
stretta, ben coerente, che c’interdicono, degli Esseni parlando, i
limiti varcare e i confini dell’Ebraismo. Io potrei valermi del
dritto di rappresaglia; potrei sotto ai vessilli riparare del Salvador
e sancire quella derivazione che egli propone delle idee cristiane
dall’Essenato; potrei dire con esso: son organisation et ses mœurs
occupent un rang très élevé parmi les causes qui pendant la
jeunesse de Jésus imprimèrent la première impulsion à sa pensée;
potrei far eco ad Adolfo Esquirol, il quale non dubitò sentenziare:
«Les Evangélistes se rattachent par leur Maître à la secte des
Esséniens.»[25] Potrei tutte queste cose togliere a dimostrare; e
comecchè tornerebbe agevole con corredo non esiguo di prove
sussidiarle, ciononostante mi rimarrò, che dette influenze
esteriormente esercitate dall’Essenato, qui non è luogo a trattare.
Ci basti che inviolati ne sieno i sacri recinti, ci basti che pura ed
intemerata e legittima ne sia la origine, ci basti che del più puro
sangue sia egli concetto del corpo ebraico.
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LEZIONE OTTAVA.

Grande ricerca, o signori, imprendevamo, ed è questa la


origine degli Esseni. Noi esautorammo le false, le spurie
derivazioni che pregiudizi multiformi ci volevano imporre, noi
respingemmo là dove il sole tace di verità l’origine pagana, e
dopo questa l’origine alessandrina, e per ultimo vedemmo di che
sapesse la cristiana paternità. Mestieri è ora rivolgere a migliore
indirizzo le nostre forze, mestieri è pure ch’a correr miglior
acque alzi le vele omai la navicella del mio ingegno. Però se il
còmpito nostro riesce tuttavia grave e scabroso, quanto però non
ci si presenta e più piana e più secura la via! Noi conosciamo gli
scogli e li eviteremo; noi sappiamo come circoscritta, e per ciò
stesso più sicura sia al presente l’opera nostra, noi sappiamo
come esclusi, eliminati per sempre il Paganesimo, la filosofia, e il
cristianesimo quai padri presunti del grande Essenato, non ci resti
che una fede a cui chiederlo, un popolo ove cercarlo, una filosofia
a cui riferirlo, e questa è la filosofia, la fede, il popolo Ebraico.
Ma se sappiamo che il campo ove nacque fu l’Ebraismo, ci resta a
conoscere il dove, il quando, il come e quel germe particolare e
quel particolare terreno conoscere ove il gloriosissimo albero
allignava; ch’è quanto[102] dire la origine propria, la origine
propriamente detta del grande istituto degli Esseni. Però due cose
si distinguono in ogni corporazione, in ogni istituto, e quindi
duplice è il modo con cui considerare se ne può la origine. Dissi
due cose, e ve lo provo. È la prima la parte per così dire ideale,
rudimentale, gli elementi che costituiscono ogni corpo sociale, le
pietre a così dire distaccate del grande edifizio, le molecole
primitive di cui è composto, i materiali di cui fu fatta la fabbrica.
—L’altro aspetto, è la fabbrica in sè stessa, e il tempo, la data,
l’origine, della sua esistenza complessiva indivisa, definitiva;
l’origine, starei per dire, della combinazione dei diversi elementi
costitutivi in un tutto ordinato, organico, positivo, esteriore.
Quindi due origini quando degli Esseni si parla: origine degli
elementi delle parti loro costitutive, e questa è l’origine prima:—
Origine poi della personificazione della incarnazione di questi
elementi in un ente sociale, e questa è l’origine seconda. Io
chiamerò la prima origine dell’Essenismo o Essenato in quanto
accenna ai caratteri ed alla genealogia storica dei principj; io
chiamerò la seconda origine degli Esseni in quanto meglio allude
agli uomini in cui l’Essenato divenne persona, e alla genealogia
storica dei suoi professori. Facciamoci dalla prima di queste
origini, dall’origine dell’Essenato ossia dei caratteri, delle idee,
del genio delle istituzioni degli Esseni. Io credo che voi non
disconoscerete la importanza di questa ricerca. Quando pure
avverso fato ci contendesse il rintracciare la seconda di queste
origini, cioè l’incominciamento storico, individuo, complessivo
della setta, ei sarebbe acquisizione preziosissima la storia, la
origine degli elementi di cui si compose. Ma il fato ci arriderà
benigno meglio che non estimate; e lo studio che siamo per fare
al presente, verrà compito, integrato da quello che faremo[103] di
poi; e l’origine delle idee vedrà immediatamente seguirsi
l’origine della loro personificazione in un sodalizio. Io chiedo
adunque all’Ebraica antichità gli elementi dell’Essenato, e che
cosa mi risponde l’Ebraica antichità? Ella mi risponde,
offrendomi una istituzione in cui, siaci lecito il dirlo, gran parte si
dipinge dei caratteri e dell’Essenato, ed ove tranne l’associazione,
l’organizzazione sociale, e tranne il celibato, la fisonomia
splendidamente rifulge di precursori, di preparatori del grande
Istituto. Qual’è questa istituzione? Ella è l’istituzione del
Nazirato. Non so se voi quanto sia mestieri conosciate che cosa è
Nazirato: fatto è che nè conosciuto nè apprezzato egli è a parer
mio quanto pure si dovrebbe. Nazirato era quello stato di
religiosa separazione in cui volontariamente si poneva ognuno
che più particolarmente si volesse a Dio dedicato. Si dedicava, o
miei giovani, al Signore con tre specie di voti che i precipui
obblighi costituivano dei Nazirei. S’interdiceva in primo luogo
non solo il vino ma l’aceto, ma l’uva istessa, e stando alla parola
Scehar ogni bevanda eziandio inebriante. S’interdiceva in
secondo di rader un sol capello della chioma, la quale doveva al
termine del suo voto recidersi tutta ed al fuoco bruciarla del
sacrifizio che il Nazireo offeriva; s’interdiceva per ultimo di venir
menomamente a contatto con un cadavere, nè qualunque altro
genere contrarre di impurità che da quel derivasse. Di questi tre
voti, di questi tre obblighi, due vediamo comuni agli Esseni;
comune cioè la interdizione del vino, siccome a suo luogo
vedremo, comecchè da talun contestata; comune l’orrore da ogni
corporea impurità, come più estesamente sarà da noi dimostrato;
e se comune non vediamo egualmente la intangibilità della
chioma, egli è perchè la perpetua consacrazione, il vincolo non
temporaneo degli Esseni la rendeva impossibile, e soprattutto
perchè[104] la legge dei Nazirei formalmente ne assolveva coloro
che la intera vita sacravano, siccome meglio dalle cose sarà
chiarito, che in appresso diremo. Voi comprendete già come
questi strettissimi obblighi, uno stato costituissero pegli Esseni di
particolare santità; ma quanto più questi voti non acquisteranno
valore se li vedrete dovunque applicati ove una maggiore si esiga
o più esquisita perfezione religiosa! Se li vedeste per esempio
iterati e tra i doveri annoverati dei sacerdoti; se esplicita invocassi
l’inibizione che ai sacerdoti interdice l’uso degli inebrianti ogni
qual volta l’alterno servigio li chiamava attorno il santuario: se vi
mostrassi Nadab e Abiù, i due infelici figliuoli di Aaron, divorati
da un fuoco miracoloso solo per aver, secondo la tradizione,
libato del vino al loro ingresso nel tempio; se vi citassi infine la
legge che vuole i giudici pro tribunali, sedenti sobri per tutto quel
giorno di liquore ebriante; se vi dicessi con Ezechiele che i
sacerdoti non debbano radersi assolutamente la testa, ma sì tanto
della chioma rispettare che bella mostra faccian di sè nel pubblico
servigio; se tale vi citassi una frase in Geremia ove la
capigliatura, la lunga chioma è detta serto, è detta corona; se
passando poi al tema delle impurità, vi mostrassi i Nazirei
equiparati nelle rigide osservanze non solo al volgo dei sacerdoti,
ma al grande, al sommo pontefice egli stesso il quale solo esso in
questo ai Nazirei somigliante, doveva non solo da ogni impurità
tenersi lontano, ma nemmeno gli estremi offici rendere ai
prossimi parenti, al padre, alla madre, al fratello, alla sorella, pei
quali invece al sacerdote volgare era conceduto immondarsi.[26]
Che più? Se vi mostrassi a certi effetti, in certi casi e secondo
certe opinioni, il Nazireo allo stesso pontefice sommo in santità
sovrastare, quando cioè pontefice e Nazireo imbattutisi per caso
in cadavere derelitto[105] era imposto al sommo pontefice
rispettare la santità del Nazareo e la propria dignità obliare per
rendere gli ultimi doveri a quel corpo infelice. Certo, che dopo
avere tutte le anzidette cose udito a ricordare, certo esclamerete
che ben grande doveva essere nella mente del divino leggidatore,
del Nazireo il concetto. Che sarà poi se i termini intenderete con
cui sul conto suo si esprime? E quai termini! La corona di Dio è
sul capo suo, vi dice aperto il sacro testo.[27] Non basta: Per quanto
dura il suo Nazirato sacro è desso al Signore. Termini che nè
diversi, nè più pomposi suonano pel sacerdozio, termini chè
chiaramente la parentela, l’affinità ti rivelano, che volle Iddio
stabilita tra il Nazirato e il sacerdozio, tra il Nazirato sacerdozio
incoato, virtuale, temporario, e il sacerdozio Nazirato attuale e
perpetuo. Voi udiste parlare di corona sacra a proposito del
Nazareo, e di sacra corona intenderete parlare a proposito del
sommo pontefice. Voi udiste il Nazareno qualificato sacro al
signore, e sacro al signore recava in lettere d’oro sul frontale
inciso il sommo pontefice. I sacerdoti sono ministri dei sacrifizi, e
ministri esclusivi, chi non lo sa? Ma pure se vi fu uomo che tutte
le ordinarie regole conculcando dei sacrifizii, si sia eretto a
pubblico, a solenne immolatore, e se eretto si sia comecchè nè
sacerdote nè in luogo celebrante al culto di Dio dedicato; se uomo
cotale vi fu, ei fu un Samuele, ei fu un semplice levita, ei fu un
Nazareno; e se in progresso di tempo, e se dei redivivi Nazareni,
e se infine degli Esseni fu detto siccome da Giuseppe apparisce,
che fuori del tempio sacrificavano, chi sa che lo esempio di
Samuele ad accreditare non sia valso una opinione siffatta! Fatto
è che il carattere sacro, religioso e quasi ieratico non fu mai ai
Nazarei disdetto: non lo fu nemmeno ai tempi malaugurati della
invasione siriaca. Quando, secondo un preziosissimo[106] testo
dei Maccabei, nel primo di questi libri al capitolo 3º, ritiratisi gli
Ebrei fuori di Solima seco recano dalla santa città a Maspa, ove
s’adunano e si accampano, tutto chè di più sacro e prezioso
avessero nel tempio di Dio; quando siccome si esprime il testo
istesso dei Maccabei, bandito un generale digiuno e postisi dei
sacchi attorno e della cenere in sul capo, spiegano i libri della
legge, arrecano le vesti sacerdotali, le primizie e le decurie e
fanno venire innanzi i Nazirei, quando non sapendo in qual luogo
più sicuro riparare tanto tesoro, esclamano, dice il testo, con gran
voce dicendo: Che faremo a costoro e dove li meneremo?
Conciossiachè il tuo santuario sia calpestato e profanato, e i tuoi
sacerdoti sieno in cordoglio e in afflizione.
Io credo che non pochi insegnamenti abbiamo fin qui
acquistato; abbiamo veduto tra gli antichi Nazirei e gli Esseni
parecchi correre luminosissime attinenze, e tra ambedue altresì, e
il sacerdozio costituito in Israele; abbiamo in tanta antichità
rinvenuti parecchi degli elementi onde si formò di poi il nostro
Essenato. Ma qui non finisce la vena feconda del Nazirato
vetusto, qui non hanno fine i mirabili riscontri tra esso e’ moderni
Nazirei che si chiamano Esseni. Solo che meglio vi piaccia la
natura indagarne, solo che le frasi dei nostri Profeti, laddove dei
Nazirei tolgono a ragionare, non vadano, come avviene, perdute
nel torrente di una irreflessa e precipitosa lettura. Un passo
principalmente vi ha di cui non si potrebbe ragionevolmente
inforsare la importanza. Egli è il Profeta Amos quando rinfaccia
ai coetanei suoi la ingratitudine onde ripagavano le insigni
beneficenze di Dio, quando ricorda loro il portentoso riscatto, le
spirituali divise con cui rivestilli, quando in ispecie ricorda i doni
profetici, le fatidiche ispirazioni; quando esclama[107] in nome
d’Iddio, E pure io fui quello che i figli vostri costituiva profeti e i
giovani vostri costitutiva Nazareni. Non è forse così, o Popolo
d’Israel, dice il Signore? Ma voi che faceste? Voi propinaste ai
Nazareni il vino conteso, ed ai profeti intimaste dicendo: Non
profetate. O io m’inganno, o nuova sembianza è cotesta che
assumono i Nazareni. Non solo gente sacra e quasi sacerdotale,
siccome vedemmo, ma gente, si può dire arditamente altresì,
gente profetica. Chi conosce il genio della lingua Ebraica, la
replicazione del concetto, nelle due metà del versetto, le predilette
sinonimie, il parallelismo frequentissimo, non porrà
menomamente in dubbio che nella mente di Amos, Profeti e
Nazireni, il vino dai Nazareni libato, e la esautorazione del
Profetismo non si unificassero a dirittura in un solo concetto. Per
chi è autonomo nei giudizi questo è d’avanzo. Per chi ama invece
poggiare sulle autorità ne avremmo a citare di soverchio.
Potremmo dire del Parafrasta Caldeo che con significantissima
sostituzione pone invece della parola Nazireni il vocabolo
Arameo Malfin che suona insegnatori; potremmo invocare il
venerabile Rasci che tale ci offre definizione di cotesti del
profeta, che più acconcia, più precisa, più completa non si
potrebbe dare degli Esseni medesimi; quando dice cioè ch’erano i
Nazirei separati dalle comuni costumanze, e tutti dediti alla legge
di Dio. Potremmo dal labro pendere di Abenesra ove col consueto
laconismo, ma altamente espressivo pel caso nostro, Nazirei dice
che consacrai a riprendervi, a santificarvi. Potrei chiamare a
testimonio l’Abrabanel che dice il Nazireato esser preparazione
allo spirito santo, che aggiunge essergli stato il vino propinato
onde lo spirito divino non scendesse sopra di essi, nè quindi
potessero vaticinare.[28] Or che cosa sarà s’io vi dicessi che gli
Esseni andavano celebri per i loro vaticini[108] e che non poche
delle loro predizioni ci sono da Giuseppe riferite, siccome a suo
luogo vedremo? Certo che vedreste allora nell’antico Nazirato,
nelle doti profetiche di cui va insignito un elemento nuovo
dell’Essenato moderno, una pietra nuova del grande edifizio, un
preludio alle Esseniche predizioni: e che sarà poi se vi farò
toccare con mano nuovi riscontri nelle circostanze più particolari
della vita, nell’abito per esempio, nel regime tra l’Essenato e i
Nazirei; il sacerdozio antico e il Profetismo? Certo non negherete
che sarà un passo di più verso la mèta a cui aneliamo, il
ritrovamento delle parti integrali, degli elementi del grande
Istituto. Or bene, volete sapere degli Esseni l’abbigliamento?
Mirate ai Profeti ed ai Nazirei; due luoghi vi sono aurei tutti e
due, luminosi tutti e due per chi ha gli occhi per vedere, dove il
costume esteriore ci vien dipinto, ma di volo con un sol tratto, di
Profeti e di Nazirei. Costume uniforme dei Profeti, colà abbiamo,
laddove predicando Amos il discredito in cui saria caduta
l’ispirazione, tanto vil cosa aggiunge sarà reputata, che niuno
vorrà simulare nemmeno il portamento esteriore di un Profeta,
che niuno più addosserà un mantello peloso.—Chi ha orecchi
ascolti: un mantello peloso, ecco dei Profeti la divisa, il
destintivo. Che se non contenti di aver trovato, se così è lecito
dire, dei Profeti il figurino, ne voleste uno proprio di carne e
sangue in cotal foggia vestito, potrei io esitare un istante, potrei io
non vedere sorgere immantinente ai miei sguardi il severo,
l’ispido Elia, l’uomo come il descrive il sacro storico, l’uomo
peloso, l’uomo dalla cintura pelosa, Elia il Jesbita; Elia il solo
superstite tra i Profeti di Dio, Elia che al sol vederlo in questo
arnese caratteristico esclamano tutti? Elia attisbi u?[29] Ebbene
mirate nell’autobiografia di Flavio Giuseppe ciò che del costume
va esprimendo dei più rigidi tra gli Esseni, e mi saprete[109] dire
se troppo disforme da quello procedesse tra i profeti usitato. Ma i
men rigidi, i più urbani tra gli Esseni come vestivano essi? Ah!
egli è qui ove ritornano in campo non solo i sacerdoti come gli
Esseni bianco vestiti, ma ciò ch’è più, ritornano in campo gli
stessi Nazirei e un nuovo e parlante rapporto ci offrono colla
società degli Esseni. È tal cosa la Scrittura, o miei giovani, che se
uomo non tende l’orecchio del continuo a spiarne non ch’altro le
più fuggevoli espressioni, gran parte sperpera, miseramente
perduta, delle sue ricchezze. È un mondo che si rivela per cenni
ed enigmi, è la figlia del Re, secondo la magnifica parabola
Zoaristica, che solo rivela la faccia sua bellissima, dopo avere con
ripetuti cenni ed ammicchi l’attenzione e l’ansia provocate del
suo amadore.[30] Testimone l’esempio che abbiam tralle mani. Chi
avrebbe detto che la Bibbia contenesse perfino l’antico costume
dei Nazirei? Eppure nulla di più esatto, la Bibbia lo contiene, in
una locuzione, in una idea incidentale, ma pure lo contiene.
Povero Geremia! Ei lamenta perdute tante cose e carissime! Ma
non dimentica, credete per questo, cose di men rilievo, per
esempio i bellissimi Nazireni e le loro vesti. Dove n’andaste,
sclama nel dolor suo, Dove, o Nazareni dalle candidissime stole
più della neve bianche, bianche meglio del latte? (Treni cap. IV,
v. 7.) Perocchè glossa il venerando Rasci i Nazirei e i Farisei
(notate questo contatto e ponetelo in serbo per altro tempo) i
Nazirei e i Farisei mostravansi al di fuori tersi e puri COLLE
BIANCHISSIME LORO VESTI, alla neve somiglianti, siccome alla neve si
assimigliano le vesti dell’antico dei giorni, e siccome infine è
costume dei Ilasidini; ed anche quest’ultima frase ponete in serbo,
giovani miei. Ed ecco il costume degli Esseni, il costume dei più
miti tra essi somministratoci dall’antico Nazirato, dal Nazirato
consenziente anco in[110] questo col sacerdozio ministrante nel
tempio di Dio.[31] Ma io dissi che negli antichi profeti un vestigio
ritrovato avremmo della tavola degli Esseni, del regime degli
Esseni. Dissi ben poco; doveva dire e la dietetica e la dimora e la
scelta del luogo. Vi è un passo nel secondo dei Re ove la scuola
dei profeti, i figli dei profeti come allor si dicevano, banchettando
a cielo aperto ci permettono di osservare di che cosa si
formassero le consuete imbandigioni. Io veggo primi rammentati
i legumi; e legumi pure erano il cibo favorito nell’essenico
refettorio, veggo radiche ed erbe qua e colà dai Profeti stessi
raccolte su per i campi; ed erbe e radiche alternavansi talvolta
negli essenici prandi. Che più? La scuola profetica abita non solo
sotto il medesimo tetto, tralle stesse pareti, ma soggiorna eziandio
lungi dall’abitato presso le rive del Giordano; e non sarebbe
temerità s’io dicessi che non del tutto andò errato Gerolamo
quando nelle frasi del testo intravide eziandio la costruzione di
separate cellette.
Aveva io ragione di sperare larga suppellettile di elementi, di
preludi, di presentimenti Essenici nella storia dei Nazireni, in
quella del sacerdozio, in quella dei profeti che tanta parte offron
pur essi della fisonomia dei Nazireni? Ma vi ha un’obbiezione
che voi potreste fare e ch’io perciò appunto amo di prevenire.
Potreste dire: il Nazirato era voto e vincolo; ma voto e vincolo a
tempo, ch’è quanto dire era assai diverso dall’Essenato che una
consacrazione importava la quale continuar doveva quanto la vita
lontana. E benissimo vi apporreste se tra Nazirato ed Essenato
non corresse a senso mio divario alcuno; se io dicessi le stesse
forme, le stesse leggi essersi per tanto corso di secoli dall’uno
all’altro tramandate senza alterazione alcuna. Ma ciò nè dissi nè
poteva io dire in verità. Sebbene che dico? È egli poi vero che il
voto[111] dei Nazireni fosse sempre temporaneo come voi dite?
Certo che così pensò e scrisse un uomo dottissimo il Munk nella
Palestina. Ma con sua buona pace sia detto: il Munk s’ingannò a
partito. Non solo la tradizione attesta il contrario, non solo esempi
vi sono luminosissimi di Nazirato perpetuo, e basti citare i nomi
famosi di Sansone, di Samuele, e nei tempi Rabbinici di Elena la
pia Regina degli Adiabeni;[32] ma sopratutto il testo stesso su cui
pare il Munk affidarsi, se non dice aperto di un Nazirato a vita,
non parla nemmeno di tempo, non prescrive termine, nè
limitazione prefigge. Si dirà ancora che non vi fu Nazerato
perpetuo? Io credo che la sua esistenza non possa revocarsi in
dubbio, e quindi un nuovo elemento, un nuovo apparecchio emmi
lecito intravedervi della grande e dotta congregazione degli
Esseni.
Io non lascerò, o miei giovani, l’argomento dei Nazireni, anzi
che non vi abbia fatto toccar con mano come oltre le regole, le
leggi, le istituzioni, il nome stesso di Nazireno sinonimizzi
mirabilmente con tutti quelli che in ogni tempo recarono gli
Esseni, con tutta la ricca suppellettile di nomi con cui a senso mio
furono contradistinti. Primo tra questi, e già in parte ve lo
accennai altra volta, si è quello di Fariseo; nome che nella sua
vastissima comprensione anco l’Istituto abbracciava degli Esseni
siccome quello che dei Farisei era culmine ed apogeo. Or che
vuol dire Fariseo? Vuol dire separato. E come direste separato
nella lingua biblica, nella lingua della scrittura? Direste
precisamente Nazir; col qual nome avrebbe qualificato Mosè i
Farisei se al tempo suo fossero esistiti, in quella guisa che Farisei
avrebbero potuto qualificare i dottori i Nazireni?[33] Vi pare assai?
Udite ancora. Io vi dissi altra volta e ve lo proverò in seguito,
come speciale designazione degli Esseni fosse ai tempi Rabbinici
il nome di Hasidim. Volete ora vedere i Hasidim trasformarsi[112]
in Nazireni? Certo che la metamorfosi vi parrà avventata. Pure
nulla di più preciso se aprite il Talmud al primo di Nedarim. Dove
leggerete questa confessione preziosissima; che i primitivi
Hasidim solevano di frequente votarsi a Dio in Nazireni.[34] Volete
più? Certo che voi discretissimi non esigereste di più: ma pure
proviamoci: proviamoci a recare il sinonimo di Nazir con Essena
a quella evidenza che si può desiderare maggiore. Voi vedrete tra
non molto come il Talmud, come i monumenti Rabbinici più
antichi tracciano, siccome fu creduto finora sul conto degli
Esseni, come questo silenzio formasse sempre argomento di
legittima sorpresa per chiunque si facesse ad osservarlo, e come
questo preteso silenzio, fosse creduto, fosse ammesso non solo
dai dotti, dagli eruditi di ogni maniera, ma eziandio dai
succedituri Rabbini, dai dottori che sursero e scrissero dopo il
Talmud i quali quando ebbero contezza, strano a dirsi! per mezzo
dei moderni scrittori della esistenza di un antica setta fra loro per
nome Esseni, quando di essa ebbero come di peregrina e inaudita
scuola a favellare, che nome credereste che gli apponessero? il
nome di Nazireni! Tanto pareva loro confacersi agli Esseni
l’antico nome di Nazireo, tanto al genio rispondere il genio, la
vita, le leggi alle leggi e alla vita.
Un grande insegnamento emerge, se io non sbaglio, dalle cose
dette sin quì, ed è questo: che senza ammettere una generazione
diretta od omogenea, grande però, massima parte di tutti gli
elementi che la vita composero e la esistenza dell’Essenato si
trovano contenuti e come in germe rinchiusi in seno al Nazirato
ed al Profetismo. Purità, sobrietà, dottrina, ispirazione, vita
solitaria e cenobitica, costume, dietetica e persino il nome loro
caratteristico. Si può dire per questo che tutte abbiamo le parti
costitutive dell’Essenato? Io non oso dir tanto:[113] vi ha un
elemento nella organizzazione degli Esseni di cui traccia non solo
nei Nazireni non si discopre, ma che pure ardua, se non
impossibile impresa, sembra trovarne vestigia nella ebraica
antichità; che dico? Che pare a dirittura contraddire alle leggi, ai
costumi, allo spirito generale dell’Ebraismo. E questo è il
Celibato. Il celibato fu egli dagli Esseni praticato? Ove sia stato
praticato, ha egli radici, ha egli origine nel genio, nella storia, nel
passato dell’Ebraismo? Io mi affretto a dirvi per ciò che concerne
la prima dimanda, come il celibato fosse istituzione sì degli
Esseni; non tale però che da tutti fosse egualmente praticata.
Quando delle leggi loro favelleremo e del loro Istituto, vedremo
come gravi restrizioni debbano accompagnare la divulgata
sentenza che a tutti gli Esseni indistintamente attribuisce il
celibato. Pure si praticò; e se non tutti come il più perfetto
consideravanlo degli stati, certo che appo taluni era in grande
onore. D’onde quest’onore? D’onde questa dissonanza dalla voce
dei secoli che proclamava invece tra gl’Israeliti maledetto, infame
il celibato? Ardisco dire che l’ebraica antichità non è sorda
assolutamente al nostro dimando. Io vi so dire che certi fatti vi
sono e certe frasi i quali attestano manifestissimo che se pel
comune degli uomini, per le condizioni più comuni della vita
sociale, lo stato coniugale è lo stato più onesto, più meritorio, più
religioso, pure si dànno certi stati così sublimi, certi uomini così
trascendenti, certi momenti così augusti, in cui la virtù della
continenza, temporaria e passeggiera talvolta, si stende però altre
fiate ad un epoca così vasta, e talvolta abbraccia così una vita
intera, che male il nome si potrà contrastargli ed il carattere di
Celibato. Quali sono questi fatti e questi precetti? Un occhio
penetrante li scuopre a prima giunta nel gran campo delle
scritture; una mente alquanto erudita li ritrova nel[114] grande
emporio delle Tradizioni. Ecco i Dottori cui amore stringe della
vita speculativa, della vita ipermistica dispensati formalmente dal
matrimonio: ma di questo non dirò di vantaggio, perciocchè non
appartiene a rigore all’epoca delle origini. Ecco un colloquio
interessantissimo tra il sacerdote di Nobbe e David che chiede
cibo per sè e pei suoi. Ecco il sacerdote obbiettare come i sacri
pani non potessersi offerire a coloro che da contatto donnesco
non si fossero astenuti. Ecco David replicare essersi tutti da tre
giorni serbati continentissimi. Ecco Giobbe che pria di bandire i
Riti e il sacrifizio domestico, impone ai figli, apparecchiarvisi
con rigorosa castità. Che più? Ecco il gran fatto, il fatto più
culminante nella storia dell’Ebraismo, ecco la promulgazione
della legge ed ecco ciò che impone Moisè? Egli comanda si
separi ognuno dalla donna sua e tre giorni di severissima
continenza li predispongano al condegno accoglimento della
parola di Dio. Volete più? Vi ha una tradizione preziosissima
certo non coniata in grazia dell’Essenato, ma che pure torna
mirabilmente in acconcio pel caso nostro, e la tradizione riguarda
Moisè. Si volle, si disse, che da quel punto in cui Dio fece
suonare quelle parole sacramentali «Ed ora qui rimanti con me;»
il gran profeta avesse letto nel volere divino l’obbligo di
sequestrarsi da ogni carnalità e di vivere oggimai la vita dei
Celesti, e le sole voluttà omai pregustare che il novello stato gli
offriva nel consorzio di Dio.[35] Che volete? Fosse consiglio della
solitudine, fosse desio di scuotere a dirittura ogni polve terrena,
fosse vaghezza di una perfezione superlativa, fosse persuasione di
esquisita misticità, gli Esseni nostri, allo stato aspirarono
eccezionale dei grandi uomini e dei grandi momenti nella vita
dell’Ebraismo; aspirarono a fare una regola, una legge
dell’anormale e dell’eccezione, agognarono ad ottenere del
continuo quella[115] istantanea elevazione in cui si tennero i santi
antichissimi in breve ora del viver loro; e invece di libare un
sorso della vita beata, vollero votare interamente la tazza.
L’erezione dello stato eccezionale in regola inflessibile, del
transitorio nell’immanente costituì tra gli Esseni il Celibato.[36]
Questi sono i germi, questa l’origine che ci offre la Bibbia.
Quando parleremo della istituzione in se stessa, avremo un altro
termine fecondissimo di raffronto, i Dottori e le Tradizioni; e il
Celibato diverrà allora se occorre anco più comprensibile. Per ora
noi abbiamo fornita parte non indifferente di nostra via, abbiamo
notati, registrati nell’antichità Ebraica gli elementi dell’Essenato.
Abbiamo descritta la embriogenia del grande Istituto. Otto giorni
ancora e gli elementi disgregati, inorganici, impersonali
diverranno un ente vivo, storico, parlante, organico, personale; in
cui tutti o quasi tutti s’incarneranno i discorsi elementi. Noi
possiamo dire oggi: questi sono gli elementi dell’Essenato. Noi
potremo dire allora: questi sono degli Esseni i progenitori, gli
antenati. Noi diciamo oggi, ecco le pietre, ecco i materiali: noi
diremo allora, ecco la fabbrica, ecco il palagio, o almeno: ecco le
fondamenta.

[116]
[117]
[118]
[119]
LEZIONE NONA.

Se prepotente io non sentissi il bisogno di giungere più ratto


che ci è dato a la mèta prefissa, la tela che noi andremo questa
sera svolgendo troppo maggiore argomento ci offrirebbe che
quello di una sola conferenza. Le cose che ho a dirvi sono molte,
sono gravi, sono di grande momento, sono la ricostruzione storica
dell’Essenato per tutti i tempi favolosi, incerti, storici della sua
esistenza, sono la storia della sua incarnazione durante i lunghi
secoli che precederono l’Essenato propriamente detto, egli è
infine l’albero genealogico del grande istituto. Io stringerò il
molto in brevissimi termini, io vincerò il desiderio che pur provo
vivissimo di farvi assaporare di ogni parte il valore di farvi
misurare sol collo sguardo gli amplissimi orizzonti che ad ogni
tratto ci si schiuderanno dinanzi, nè a questo bisogno meglio che
desiderio, verrei men di certo se io non contassi sulla vostra
penetrazione, sul vostro acume. Supplite voi al manco del mio
dire; intendete meglio che io non possa spiegami. Fecondate colla
mente ingegnosa i dati che vi vado porgendo, indovinate quello
che per brevità io taccio, andate più lungi colla mente di quel che
a me sia conceduto lo andare colle parole; e sopratutto stringete
tutte in un fascio le cose che sono per[120] dirvi: sia la vostra
mente un filo, anzi sia poderosissima catena che tutte unifichi le
cose che sono per dire; alla seconda vi ricordate la prima, alla
terza prima e seconda; nè giunga del mio dire la conclusione,
senza che le precedenti cose vi stiano tutte dinanzi all’occhio
della mente schierate, così io sarò breve senza pericolo, e voi
istruiti sarete senza disagio.
Voi lo ricordate. Abbiamo trovato nelle passate conferenze gli
elementi dell’Essenato, adesso ci è d’uopo trovare l’Essenato
medesimo. Abbiamo veduto i suoi principii, adesso ci è mestieri
vedere i suoi antenati; veduto abbiamo la storia delle sue idee, ci
conviene adesso la storia studiare dei suoi precursori. Dove
cercarla? Non vi dirò le laboriose investigazioni che emmi costata
la costatazione di questa origine, la sua ordinazione, la sua
confermazione. Voi stasera, o miei giovani, coglietene il frutto, ed
il saperlo sarà il mio premio. Dove cercarla? Cercarla io dico colà
ove l’origine si cerca di quanto vi ha di più nobile e venerando in
Israele, dove si cerca l’origine della Reale Dinastia Davidica cioè
nell’innesto di un ramo pagano sul ceppo ebraico,[37] nella
Moabita Rut che fu madre del Regno siccome leggiadramente
chiamaronla i Dottori; dove si cerca l’origine di alcuno tra i
Profeti stessi, siccome Obadia che di pagano che era si fece ebreo
secondo i Dottori, dove si cerca l’origine dei più illustri tra i
Dottori i quali pressochè tutti sortirono a confessione di loro
stessi i natali da progenitori pagani: tra i quali si potrebbe citare
per tutti il gran Proselita Onchelos, il più popolare tra tutti i
Dottori. Cercarla infine tra i Pagani al Giudaismo conversi,
cercarla nella nobil famiglia dei Proseliti. Perchè così abbia
disposto il Signore, perchè non sia gentil pianta nell’ebraico
giardino che un ramo non rechi innestato dell’agreste e selvatico
Gentilesimo; troppo vorrebbesi lunga e protratta[121] disamina
perché ci sia qui lecito il tentarla. Io domando solamente se
l’Essenato deve al Proselitismo la sua origine, se in questo solo
senso avvera l’opinione di coloro che gli Esseni dichiararon
Pagani. Quale è tra i Proseliti che ricorda la Storia, il santo seme,
onde poi allignò il rigogliosissimo albero? Io non so se ben
m’apponga, ma io credo che il nome non vi riesca ignoto. Avete
mai, o miei giovani, udito parlare di Jetro, di Jetrò il sacerdote di
Madiani, il suocero di Mosè, il suo consigliere, lo approvato dal
Signore, il primogenito tra i conversi, e secondo un antico
Rabbino spagnuolo David di Leon, l’iniziatore di Mosè alla vita
religiosa, alla propedeutica religiosa; tanto che se Mosè dir si può
il padre di nostra fede, Jetrò se ne può dire l’avo? Io dissi
primogenito tra i conversi e n’ho ben d’onde. Ho per me la
tradizione che lo attesta, ho per me la formula quasi della sua
abjura laddove all’udire il portentoso egresso di Egitto esclama
ammirato: Ora sì riconosco che grande è l’Eterno al di sopra
degli altri Dei. Ho per me l’atto istesso con cui al culto s’inizia
nuovamente abbracciato, quando a Dio appropinqua olocausti ed
ostie pacifiche, quando alla sacra mensa banchettan festanti
assieme al Neofita, Mosè, Aronne e gli anziani tutti d’Israele; ho
per me l’onore unico da nessun altro partecipato, tranne Jetro, di
essere istitutore della Ebraica Magistratura, Dio consenziente non
solo, ma encomiante; ho per me le parole mirabilissime di Mosè
ove si confessa, quasi non dissi al grande suocero inferiore,
quando cioè istantemente lo supplica di procedere seco lui per lo
deserto, quando Jetro rifiuta dicendo: No, che solo al paese mio
tornerommi e alla mia patria; quando senza lasciarsi ributtare al
primo rifiuto torna Mosè e prega e scongiura, quando il titolo
onorandissimo prodigagli il gran Profeta di suo duce, di suo
conduttore e, secondo la forza[122] dell’ebraico vocabolo, di
occhio suo. Ho per me i dottori quando dicono che ridottosi al
suo paese non quietò il gran Proselita sino a tanto che non ebbe il
culto degli idoli estirpato dalla sua famiglia; e questo è Jetro, e
questa è la sua conversione. Ma della sua famiglia altresì io parlai
e della di lei conversione. Dove ne sono le prove? Parlai dei
dottori e delle lor tradizioni, ma io doveva dire la scrittura, la
Bibbia in quei fatti momentosissimi ove si fa parola della
discendenza del gran Proselita, ove ti apparisce la sua figliolanza
costituita veramente in società distinta, sì, ma pure dimorante in
seno agli Ebrei, ove per gran fortuna possiamo passo a passo
seguire le vicissitudini tutte dei Jetroiti, ove al tempo istesso che
vi leggiamo la loro storia, una esatta dipintura ci si porge altresì
della successiva, della lenta formazione di un dotto di un
Religioso Istituto in quella famiglia. Io oso dire che non è senza
una particolare provvidenza che la Bibbia ci ha serbato memoria
di questo fatto, che di tratto in tratto ha deviato dal suo prescritto
cammino per toccare delle fasi in vari tempi percorse dai
discendenti di Jetro. Quali sono questa fasi? In qual guisa vi si
può come in ispecchio mirare la secolare concezione
dell’Essenico Istituto? Ecco il come ed ecco i fatti.
Ecco il libro dei Giudici che non appena pochi passi ha mutati
nella sua narrazione, non appena alle conquiste ha esordito dopo
Giosuè operate, esce fuora con queste parole: Ora i figli di Cheni
suocero di Mosè trassero dalla città dei Palmizi coi figli di Giuda
al deserto di Giuda che è posto a mezzodì di Arad, e andò e pose
stanza appresso al popolo.—Che parole son queste e che
significano? Se io non erro, non troppo vi saranno riuscite per ora
accessibili. Però tranquillizzatevi; questa difficoltà non è in voi, è
piuttosto nel testo istesso, è la mancanza[123] di antecedenti che
spianino la via alla sua intelligenza, è l’isolamento in cui il verso
stesso si trova in seno al contesto, è quel piombare che ti fa
subitaneo in sulla testa senza troppo sapere d’onde provenga, è
quell’apparire istantaneo a guisa di lampo che pare scaturir di
seno alle tenebre, per ricadere nelle tenebre, è quell’oscurità
innanzi a cui resta perplesso, esitabondo ognuno comecchè
erudito proceda nel sacro Idioma; nè se dovessi tutte le cause
narrare di questa oscurità non saprei veramente venirne a capo.
Però l’oscurità sentiamo, e la sentiamo gravissima; proviamo a
diradarla. Si parla qui dei Cheniti, dei figli di Cheni. Chi sono i
Cheniti? Sono certo Cheniti quei popoli di cui Dio accenna ad
Abramo nella solenne promessa. Ma Cheniti sono, si chiamano
pure i discendenti di Jetro, vuoi che Jetro appartenesse all’antico
popolo dei Cheniti, siccome vuole il Munck, vuoi come meglio a
parer mio opinarono il Gesenius, il Bohlen, il Tahu, come ad essi
la tradizione consente, che Cheniti si dicessero da Jetro, appellato
esso pure Cheni, vuoi finalmente che Cheni si dicessero da Chen
nido, pel nido che facevano per campi e per selve siccome
comprese il Zoar. Fatto è che i discendenti di Jetro si dicono
Cheniti e che sotto il nome stesso ci si riveleranno in appresso i
loro successori. Ma che cosa è la Città dei Palmizi? Città dei
Palmizi è Gerico; Gerico chiamata negli ultimi versi del
Pentateuco col nome istesso usato dai Giudici; Gerico situata
poco lungi dalle sponde del lago Asfaltide. Ma in qual guisa li
Jetroiti veggiamo stanziati in Gerico? Come dalla città
lontanissima di Madian loro patria nell’Arabia Petrea, le orme
seguirono di Israel sino nel cuore di Terra Santa? Nessuno lo
spiega, e nessuno il narra, tranne la Tradizione. Ma quanto bene
la Tradizione! Per la tradizione Jetro dopo i primi rifiuti, cesse
finalmente alle istanze del divino[124] Mosè. Jetro, i suoi figli, la
sua famiglia ricovrarono all’ombra del popolo Ebreo,
battagliarono nelle sue battaglie, trionfarono nei suoi trionfi e le
piagge dilette vider pur essi della Cananea conquistata. Ma quale
gli attendeva laggiù guiderdone? In qual guisa si sdebitarono
gl’Israeliti della promessa Mosaica che Jetro voleva a
compartecipe dei beni, delle terre acquisite? Coi suburbi, colle
campagne di Gerico, dice la Tradizione; le quali terre dovuto
avrebbero li Jetroiti serbare in custodia sino a tanto che fosse il
Tempio edificato, e la metropoli destinata, la quale, proprietà
nazionale dovendo essere meglio che tribunizia, mestieri pure era
porgere alla Tribù spodestata una adeguata indennità, e questa
doveva essere il territorio di Gerico, la stanza antica dei Jetroiti.
Ma questi, voi lo vedeste, partiti da Gerico traggono altrove.
Dove vanno? Vanno, dice il testo, nei deserti di Giuda che sono a
mezzodì di Arad, e in mezzo al popolo fermano stanza. Che
luoghi sono cotesti? Voi vedeste poc’anzi come Gerico fosse
posta sulle rive o a quel presso, del lago Asfaltide. Or bene; il
deserto di Giuda, Arad istesso, la nuova dimora dei Jetroiti, non
piega sulla carta dalla linea contrassegnata, e l’epoca stessa
gloriosissima di Debora troveralli abitare sui luoghi medesimi.
Che monta ciò, potreste dire? Nol direste però se tutto aveste già
ascoltato; nol direste se io vi mostrassi come gli Esseni di cui
adesso cerchiamo l’origine, quegli stessi luoghi abitassero in
tempi tanto più posteriori, che gli antichi Jetroiti occuparono in
tempi così antichi; nol direste se vi ripetessi le parole di Plinio nel
Cap. 17 del libro 5, laddove degli Esseni parlando, li qualifica
Gens socia Palmarum, gente dei Dattolari amica, nè più celebre
di Gerico e della riva del Giordano s’ebbe giammai in fatto a
Palmizi; nol direste se vi mostrassi in Plinio stesso al luogo
istesso, come la città ove ai suoi[125] tempi abitavano gli Esseni
fosse Engaddi, Engaddi posta essa pure sull’Asfaltide sulla linea
stessa di Gerico e Arad, come vi mostra la carta, Engaddi famosa
pur essa pei suoi Palmizj d’onde il nome derivolle più antico di
Kazazon Tamar; nol direste finalmente se udiste Plinio istesso
additarvi qual residenza altresì degli Esseni moderni Masada,
città anch’essa meridionale di Palestina, anch’essa posta in riva
all’Asfaltide, come di leggeri potete osservare nella Geografia del
Dufour. Attalchè Gerico, Masada, Engaddi, Arad formano sulla
carta una linea continuata che rasenta il Mar Morto, muove
dall’ovest in direzione del Sud, e dove negli antichi e moderni
tempi ebbero stanza gli Esseni ed i loro proavi Jetroiti. Ed a che
fare traggono i Cheniti ad Arad? Ad abitare, dice il Testo, in
mezzo agli Ebrei, a convertirsi, dice il Gersonide, definitivamente
all’Ebraismo. E presso chi particolarmente riparano gli emigrati?
presso Jahbez, dice la Tradizione, presso Jahbez, conferma la
Bibbia nel 1º delle Cronache, come fra poco vedrete. Chi era
Jahbez? Era Dottore, era Scriba, era Profeta, chè tutti e tre i
caratteri solevano a quei tempi andare congiunti,[38] ed alla Tribù
dotta, massima, reina, apparteneva di Giuda; in cui doveva
secondo l’antica benedizione perpetuarsi lo scettro, e l’oracolo
promulgarsi della legge di Dio, a cui il titolo di maestra
leggidatrice si concedeva nel libro dei Salmi; Jehuda mehokeki in
cui rifulse mai sempre il primato sulle sorelle Tribù. Che se tale
era pure l’origine, qual’è il Ritratto che di lui medesimo ci fa la
Scrittura? Io oso dire che il libro delle cronache tali usa gravi,
significantissime espressioni sul conto suo, che in tutto il corso
dell’opera stessa, non se ne veggono per alcuno altro le
simiglianti. E bene le avvertirono i nostri Dottori i quali
osservarono e giustamente; come da Adamo da cui esordiscono le
cronache sino a Jahbez, niuno si trovi che[126] abbia fatto così
nobilmente favellare di sè. E come favellano intorno a Jahbez i
libri summentovati? Essi dicono E fu Jahbez sopra i suoi fratelli
onorandissimo. Non basta. Il testo biblico reca manifeste le tracce
di un gran VOTO da Jahbez pronunziato, voto che rimane per
sventura incompreso poichè la promessa fatta al Signore restò
implicita, restò sottintesa, ma che tutti i caratteri porge, come
diceva, visibilissimi di un gran voto. Jahbez, dice il Testo, invocò
il Dio d’Israel e così disse: Se tu mi benedirai, o Signore, se
amplierai i miei confini, se la mano tua sarà in mio aiuto, se mi
camperai dal male, onde non abbia a dolorare..... Ebbene che cosa
aggiunge, che cosa promette Jahbez ove Dio lo ascolti? Vano il
cercarlo! Il Testo lo tace, gli Interpreti non sanno dirci se non che
voto vi fu, ma rimane ignorato; e lo stesso Rasci non seppe
dettare che le frasi seguenti ed egli votò quel che votò, ch’è
quanto dire come più non c’è dato sapere. Sebbene questo
sappiamo; che Dio ne adempì pienamente le voglie, e quindi se
voto vi fu, siccome par dimostrato, se la preghiera fu accetta, il
voto fu anch’esso adempiuto. Ma perchè traggono i Cheniti a
fianco a Jahbez? I Giudici tacciono; ma la tradizione e le
cronache lo dicono esplicito. Che dice la Tradizione? A imparare
la legge, a fondare una scuola. Che aggiungono le cronache?
Parole aggiungono che tutto il valore hanno di una grande
conferma, di una grande rivelazione; un tratto di luce, vivo,
acceso, che balena e sparisce; una stella che brilla un istante e
quindi la ricuopre la nube, un suono che rompe per un istante la
monotonia di un canto uniforme, parole ed idee che non siamo
usati incontrare in mezzo le viete ed aride genealogie delle
cronache e che rivelano la presenza dell’elemento scientifico
intellettuale teologico, nell’epoche più remote della nostra
esistenza.[127] E quali parole poi perciò che riguarda i Cheneti e
la origine degli Esseni!
Prende il Cronista a narrare le genealogie di Giuda, a
ricostituire il passato d’ogni famiglia, a riconnetterla cogli antichi
anelli di cui si parla nel Pentateuco. A un certo punto della
genealogia ascendente, esce fuora con queste parole: Ora
famiglie di Scribi di Dottori abitavano presso Jahbez le quali
dicevansi, le quali sono i Cheniti che discendono dal fondatore
dei Recabiti. Gran parole, o signori, e quante cose non s’imparano
dalle parole citate! Vedete le famiglie di Scribi Solferim da Sefer
libro in quella guisa che Letterato si disse un tempo ognuno che
legger sapesse; Soferim che i Lessici interpretano coloro che
espongono e spiegan la legge, QUI LEGE DESCRIBENDA ET ESPLICANDA
VACAT, Soferim che lo stesso Kimhi al luogo istesso delle cronache
non può a meno di comentare che scribi erano e Dottori della
legge. Vedete i nomi stessi delle famiglie discorse, tutti
significanti e parlanti secondo il valore che traggono dal sacro
idioma. Vedete Tirhatim da tarha porta sinonimo in Ebraico,
siccome è noto, di Aula, di Corte, di Magistrato e che noi
Europei usiamo ancora quando diciamo la Porta Ottomanna, e
quindi vedrete nei Soferim la gente Aulica, magistrale e Patrizia.
Vedete la Mehiltà di Rabbi Ismael libro più antico del Talmud e
forse più venerando, ove della parola tirhatim come delle altre
che seguono tali si offrono graziosissime etimologie che più in
acconcio non potrebbero tornare ai predecessori degli Esseni;
anzi che dico? che a niun altro possono attagliarsi se non a
costoro. Tirhatim dice la Mehiltà da tarha porta, conciossiachè
abitassero alle porte di Gerusalemme. Meraviglioso a dirsi!
Sappiamo da Giuseppe che una porta eravi ai tempi suoi in
Gerusalemme che si chiamava la porta[128] degli Esseni. Che
più? Tirhatim dice la Mehiltà da strepito, suono, preghiera, perchè
le preghiere loro eran accette. Giuseppe vi citerò e Filone dai
quali sappiamo come in altissimo pregio fossero tenute le costoro
intercessioni. Volete piuttosto, continua la Mehiltà, che significhi
i Chiomati non Rasi ed allora vi ricorderò ciò che, non è molto, io
vi diceva intorno al costume dei Nazareni Jesco più antico, e dei
Cheniti ed un tempo e degli Esseni medesimi. Ma ecco gli altri
nomi, ed ecco non meno belle ed appropriate derivazioni secondo
la Mehilta: ecco Scimhatim da Sciamah ascoltare, ubbidire, e
quindi gli ubbidienti, i sommessi, come a dilungo discorrono gli
storici intorno agli Esseni, reverenti sovra ogni altro, all’autorità
dei maggiori e dei capi, siccome a suo luogo vedremo. Ecco
Suhatim e con bello e significante corteo di preziosi sensi che a
nessun altro, ardisco dire, possono tornare confacenti se non agli
Esseni. Suhatim che deriva, dice la Mehilta, da Saha
conciossiachè da ogni unzione si astenessero; e mirabile
veramente! la storia tutta attesta concorde essere stato l’orror
degli unguenti costume peculiarissimo del nostro Istituto, come
anche questo a suo luogo vedremo. Ecco lo stesso Suhatim
derivare da Capanna Succa perchè vita menavano, dice la
Mehilta, solitaria e romita; ed a chi meglio potria l’indicazione
tornare a capello se non agli Esseni?
Questi sono i nomi delle famiglie. Voi li udiste: Tirhatim,
Simhatim, Succatim. Ma quale n’è il nome di stirpe, il nome
generico? Il testo lo dice, nè tollera dubbiezza: sono essi i
Cheniti, i Cheniti che, come veduto abbiamo nel libro dei
Giudici, sono i discendenti di Jetro, e più specialmente, aggiunge
il testo, sono tutte da quel derivati che la grande famiglia fondò
dei Recabiti, Abbahim me-hamà abi bet rehab. Quando più oltre
avrem proceduto, vedremo chi sono i Recabiti; li vedremo[129]
famosi solitari ai tempi di Geremia, li vedremo in una società
costituiti che tutte reca in rudimento le future sembianze della
società degli Esseni, in quella guisa che nel fanciullo stanno
ascose in potenza le fattezze, le membra dell’uomo adulto. Per
ora le cose dette ci bastino; e più oltre proseguiamo nel corso dei
secoli a trovarne i vestigi. Li vedemmo ai tempi dei primi
Giudici. Ma Giudici a Giudici si succedono; ed una donna, donna
di genio, una donna profeta sorge in Israel. Voi la nomaste, ella è
Devora. Dove sono li Jetroiti? La storia ne parla, e ad una nuova
emigrazione accenna, operata dal centro della Palestina
meridionale alle regioni del Nord. Voi conoscete la storia di
Devora, i suoi giudizi, le sue battaglie, i suoi trionfi. Ma non so se
ricordate egualmente Jaele, Jaele l’ucciditrice di Sisara, Jaele che
volle essere infame per tradita ospitalità, pure di salvare la patria
diletta, Jaele che fu benedetta in quel canto famoso ch’irruppe dal
petto della gran donna vittoriosa Taelmoghe, come udiste di
Heber il Chenita che insieme ai fratelli viveva allora in Israel. E
dove sono i fratelli, la famiglia, la società? in questo verso sono
che la narrazione precede delle battaglie di Devora, dei suoi
trionfi. Come suona il verso? Ora Eber il Chenita separato si era
dai Cheniti fratelli, dai figli di Obab suocero di Mosè e tese
aveva le sue tende nella pianura di Sananim ch’è presso Chedese,
ch’è quanto dire all’estremità boreale di Palestina, nel Territorio
di Zebulun e di Neftali e presso quel Chedes istesso che fu patria
al capitano Barac. Voi l’udiste, i tempi dai primi Giudici trascorsi
non estinsero la nobilissima stirpe. Vivono i Cheniti, vivono in
Israel, nella loro fede, nella loro alleanza, in loro ausilio; e
vivono, ciò ch’è degno di nota, sotto le tende e vivono nelle
campagne.[39] Vedremo più tardi i loro ultimi successori ai tempi di
Geremia viversene pur essi per[130] valli e per monti, e nella
quiete riparare pur essi di pacifiche tende.
Ma il gran fiume della Istoria Giudaica ripiglia il suo corso, e
noi pure con esso. Dopo Devora e Giudici, e guerre, e pace, e
servitù, e riscatti, si succedono incessanti. Ecco Elì, ecco
Samuele, ecco l’antica ebraica repubblica in monarchia
trasformata, ed ecco Saul il monarca novello, ed ecco infine la
guerra di Amalek. Tempi ed eventi sono trascorsi in gran numero.
Sarebbe mai per avventura de’ Jetroiti smarrita la traccia?
Tranquillatevi, essi vivono, e vivono quali i loro antichi
predecessori vedeste poc’anzi. Dove sono? Sono qui, sono nel
centro tuttavia da’ proavi abitato, sono a mezzogiorno di
Palestina, a mezzogiorno di quell’istesso Arad di cui fu menzione
nel libro dei Giudici, sono come allora sulle rive del mar Morto, e
come allora precisamente sono anche adesso limitrofi, finitimi a
Amalek. Ma la guerra santa contro Amalek è bandita; al nuovo re
n’è commessa l’impresa: ed egli già scende a fare strenua prova
di sè contro ai nemici di Dio. Che farà Saul? Rivolgerà egli
contro i Cheniti le armi? Forzerà il passaggio? La quiete dei loro
abituri conturberà col romore di guerra? No! pieno di rispetto pei
figli di Jetro non forza il passaggio che sarìa? violenza; non lo
chiede nemmeno poichè di guerra non vuole offrirgli nemmeno
l’aspetto, la mostra; non li invoca in suo aiuto, non li spinge alle
armi conciossiachè egli sappia troppo alieno officio essere a quei
solitari i ludi di Marte: ma che fa Saul? Fa ciò che qualunque
capitano avria fatto con religiosi, con sacerdoti, con solitari.
L’invita a sgombrare. E disse Saul ai Cheniti: su via partitevi da
Amalek onde con esso non siate involti, conciossiachè tu abbia
usato carità con tutti i figli di Israele, quando trassero fuori della
terra d’Egitto: e si partirono i Cheniti d’infra Amalek.
[131]
Ma che? E Saul e Cheniti e Amalek rapiti sulle ali del tempo,
più non si lascian vedere ai nostri sguardi: quella generazione è
passata, e tempi sorgon ed uomini e fatti nuovissimi. Ecco David,
ecco Salomone, ecco il reame d’Israel scisso in due parti, ecco i
re di Giuda e i re d’Israello. Ecco Elia profeta, ecco Acabbo, ecco
Jehu, che dal profeta Eliseo riceve missione cruenta, missione di
lavare nel sangue l’onta della famiglia di Acabbo. Ecco Jehu
accingersi all’opera di sangue, ecco il trono di Ahab rovesciato e
Jezabele che dall’alto di un balcone Salve! dice, o Jehu! Omicida
del suo Signore; ecco Jehu che dopo avere il trono purificato si
prepara a purificare gli altari, che verso Samaria s’incammina per
farvi la immane ecatombe dei 400 falsi profeti trucidati nel
tempio, nella festa di Baal. Gran cose, gran fatti, grandi vicende,
ma dove sono li Jetroiti? Eccoli nel personaggio più cospicuo dei
suoi tempi, in quello che farà mutare sembiante a tutti i Cheniti,
che li stringerà finalmente in un sodalizio, che sarà, se non il
Fondatore, il Restauratore di quell’Istituto, che lor darà leggi, e
regole, e divieti che saranno di poi rigorosamente osservati. Chi è
costui? Egli è Jonadab figlio di Rehab che in un memorabile
incontro strinse amicizia e patto fraterno col rammentato Jehu.
Muoveva questi a Samaria, e nella mente volgeva, come vi dissi,
terribili progetti contro i profeti di Baal. Muoveva superbo dei
riportati trionfi, della dinastia rovesciata, del regno conquiso. Chi
è questo che gli si fa incontro? Egli è Jonadab Ben Rehab,
Jonadab a cui Jehu siccome a maggiore fa riverenza il primo, da
cui chiede l’amicizia, la stima, l’ausilio, da cui riceve lieta
testimonianza d’affetto e con cui infine trattolo in sul carro si
avvia insieme alla capitale del regno.
Quante cose da osservarsi! Il primo salutare di Jehu[132] che
non isdegna, comunque altero per i recenti successi, inchinare
l’umil privato Jonadab ben Rehab; protestargli devozione ed
affetto, ed affetto eguale da Jonadab supplicare; la risposta
amorosa sì, ma laconica dignitosa oltremodo di Jonadab ben
Rehab; il volerlo al fianco suo compagno, auspice dell’opera che
imprende; ed infine una forse meno interessante analogia, ma pur
curiosissima tra il fatto presente e quello tanto più antico di
Melchisedech ed Abramo, Jehu è l’Abramo moderno come
Jonadab vi rappresenta Melchisedech: Abramo e Jehu riedono
trionfanti, e Jonadab e Melchisedech, gli uomini di Dio, i devoti
all’Altissimo, ne ricevono gli ossequi; e Jonadab infine e
Melchisedech, per completare il raffronto, sono ambedue di
sangue, di origine pagana.
Ma che più tardiamo? Il tempo volge di nuovo le sue ruote
veloci. Qual mutamento! Quanto vuoto, quanta emigrazione,
quante rovine! Il regno d’Israele è caduto, le dieci tribù vanno
schiave in esilio e solo come capanna in vigna, come giaciglio in
campo di cocomeri[40] resta ultimo baluardo di libertà la figliuola
di Sionne. Dove sono li Jetroiti? Il nome qui, confessiamo il vero,
non si trova; ma si trova qualcosa più, si trova il ritratto, si
trovano i caratteri. Chi n’è il pittore, chi li descrive? Maestro e
sommo pittore delle memorie antiche e dei fatti avvenire, il
profeta Isaia. Egli è un passo dell’ultima parte del suo libro di cui
non seppi giammai rendermi conto abbastanza, e che solo
principiai a comprendere quando il pensiero rivolsi a’ Jetroiti, ai
Recabiti che tra poco ci descrive Geremia, in una parola, agli
antenati dei nostri Esseni. Si apre il capitolo 55 con una profezia
consolante pei profughi di Babilonia. Osservate giustizia, grida
Isaia, operate equità; conciossiachè è prossima la mia salute e la
giustizia mia a comparire. Beato [133]l’uomo che farà questo, che
a quel che dico si atterrà, che si guarderà da profanare i sabati,
che la mano sua tratterrà dal fare ogni male. Ecco però il punto
oscuro, anzi a parer mio il centro luminosissimo. Continua Isaia:
Non dica il FIGLIO DELLO STRANIERO CHE AL SIGNORE SI È UNITO:
separato mi ha il Signore dal popolo suo; non dica l’EUNUCO:
ecco io sono albero che non fa frutto: perciocchè così dice il
Signore agli EUNUCHI che osserveranno i miei sabati, che
ameranno ciò che io amo, che si atterranno al mio patto; io darò
loro NELLA CASA MIA E TRALLE MIE MURA seggio e fama migliore di
figli e di figlie; fama eterna darò loro, che non avrà fine.
Ecco il testo d’Isaia ed eccone il senso. Per chi parla il
Profeta? A chi allude? Chi è lo straniero unitosi al Signore che
rassicura? Che sono questi eunuchi sconosciuti, inauditi in tutta la
Bibbia? Che cosa sono questi sabati, in cui particolarmente si
ripone degli eunuchi la speme? Qual’è la casa, quali le mura di
Dio ove agli stessi eunuchi seggio si ripromette e fama
imperitura? E che cosa è la fama istessa e le generose promesse, e
la perpetua durazione della gloria del nome di questi eunuchi? Io
chiesi tutto questo agli interpreti, ai glossatori antichi e moderni,
e che cosa risposermi glossatori ed interpreti? Nulla che non sia
comune, vago, generalissimo; nulla che solva condegnamente e
pienamente i gravissimi problemi accennati; nulla che dia moto,
vita e senso alle parole del gran profeta, nulla che non riveli in
tutti un grande imbarazzo. Niuno pensò ai Cheniti, niuno pensò ai
Recabiti che Geremia ci ritrarrà, da lungo tempo stretti
organizzati in società; niuno s’avvide che qui il profeta
evidentemente favella di proseliti ab antico vissuti in Israel, di
proseliti tratti seco loro in esilio, involti nella stessa sventura, ed a
cui il bisogno[134] si sente di far suonare alta e solenne la parola
della speranza; niuno disse: Ma gli eunuchi sono gente ignota in
Israel: non di essi menzione in tutti i libri ispirati: non possibile
nemmeno la loro esistenza in Israel, di fronte al solenne
inviolabile disposto della legge di Dio, che interdice
assolutamente ogni evirazione; niuno concluse: Mestieri è dunque
intendere di un Eunucato volontario di un voto di continenza;
niun ricordò come il nome di eunuco usasse una religione insigne
a denotare il celibato dei sacerdoti, niuno avvertì come Policrate
vescovo di Efeso nella sua Epistola a papa Vittore, il chiamasse
recisamente eunuco e uomo pieno di Spirito Santo; e per ultima
negligenza niun pose mente al titolo che volontari assumevansi i
Farisei di eunuchi comecchè nè evirati fossero nè il celibato
guardassero così rigorosamente siccome gli Esseni,[41] ma solo per
il costume come dissi continentissimo; niuno attentamente badò
all’espressioni del profeta, ove eunuco e proselita sono posti non
solo a contatto ma considerati i medesimi nei timori, nelle
promesse, nelle speranze; e tranne i predecessori degli Esseni, io
non so veramente dove eunucato e proselitismo siansi insieme
trovati; non videro come qui si vuol dire che il rimanersi senza
prole non minacci la loro esistenza, conciossiachè questa si
fondasse non già sulla procreazione materiale ma sulla perpetua
aggregazione di nuovi fratelli, dei discepoli, dei seguaci, dei figli
nello spirito e nella fede; non notarono poi come il vaticinio sia
mirabilissimamente commentato dalla storia, e Isaia giustificato
da Plinio. Da Plinio che in quel famoso passo del 5º libro, dove,
come udiste, degli Esseni discorre, queste parole lasciò scritte
memorandissime. Essi, dice Plinio, (gli Esseni) non vengon mai
manco, perché tutto giorno si riducono a viver presso di loro
quelli che tirati sono ai loro costumi; e così (gran parole!),[135] e
così per migliaia di anni (che diranno Munk, il Franck, il
Salvador che li fan giovanissimi?), e così per migliaia d’anni,
cosa incredibile a dirsi (è Plinio che si stupisce), QUESTA NAZIONE È
ETERNA DOVE NON NASCE PERSONA.[42] Isaia Profeta! sono profezie le
tue o sono storie? E tu Plinio, è la storia che tu ci narri o il
vaticinio che ripeti del grande Isaia? Tanto, e Profezia e Storia, e
Plinio ed Isaia, procedono mirabilmente concordi.
Io vorrei stasera spingere più oltre le nostre ricerche, e il
preziosissimo frammento studiare con voi di Geremia profeta.
Egli è un gran cap. il cap. 35 di Geremia per la quistione che ci
preoccupa! ed agio vuole e sviluppo maggiore meglio che ora nol
consentan le forze. Io farò punto: ma prima di accommiatarvi,
un’altra volta ancora vo’ ripetervi le parole di Plinio. Ricordatevi,
o miei giovani, dell’aureo detto. E così per migliaia di anni, cosa
incredibile a dirsi! questa nazione è eterna dove non nasce
persona.

[136]
[137]
LEZIONE DECIMA.

Muovendo dai tempi più antichi della Istoria del popolo


nostro, noi chiedemmo ad ogni secolo, ad ogni grande epoca,
degli Esseni contezza. La storia ebraica, la scrittura, i profeti, ci
risposero in guisa che non avremmo forse sperato in quistione che
le vicende proprie nazionali degli avi nostri non toglie di mira.
L’ultimo ad erudirci nell’ultima nostra conferenza, l’ultimo a
mostrarci degli Esseni o meglio dei loro precursori il passaggio,
si fu Isaia. Isaia vide più regi succedersi sul trono di Giuda, e
l’ultimo che la voce udì del sommo ispirato, anzi, che ne riportò,
come non è molto vi accennai, guarigione completa, si fu
Ezechia. Ma come tetri e procellosi procedono i tempi dopo
Ezechia! Dopo di esso Manasse, dopo di Manasse Amon e dopo
Amon un re pio, un re che le tradizioni riprese del suo bisavo, il
re Iosciau, Iosciau è sul trono, e alla restaurazione si adopra, si
affatica del culto di Dio. Ma chi regna nella pubblica piazza, chi
conciona le moltitudini, chi fulmina i vizi e la idolatria imperante,
chi fa suonare alta, paurosa minaccia di guerra, chi predice
servitù e quindi riscatto; in una parola, chi profetizza? Il profeta è
Geremia e i suoi discorsi, i suoi scongiuri, i suoi anatemi, i suoi
vaticini sono in quel libro raccolti[138] che s’intitola da Geremia.
Ma un capitolo in questo libro vi ha che dissi altamente
interessare la origine degli Esseni, e questo è il capitolo 35. Là,
gli antenati degli Esseni ti appariscono davvero costituiti
regolarmente in società, con una regola particolare di vita, con
memorie, con tradizioni, e quel che più monta, con voti, voti
solenni, inviolabili, imprescendibili che egualmente avvincono
ogni suo membro. Là tu vedi i Cheniti sinora da noi contemplati,
meglio come nomade e separata tribù che qual religiosa società,
tutte di società e religione assumere qualità e sembianze. E chi lo
dice? Lo dice Geremia; anzi egli è Dio stesso che quasi in mostra
offre i gran Recabiti ai contemporanei ed ai posteri. Va’, dice il
Signore a Geremia, (udite che tutto in nostra favella trasferisco il
capitolo rammentato perché tutto da capo a fondo rigurgita di
preziose indicazioni): Va’ alla casa dei Recabiti e parla ad essi, e
menali alla casa del Signore in una delle stanze laterali, e porgi
loro a bere del vino. E presi Jazania figlio di Geremia figlio di
Abazinia e i suoi fratelli e tutti i suoi figli, e tutta la famiglia dei
Recabiti e menali alla casa del Signore; nella stanza del figlio di
Amon figlio di Igdeliau, l’uomo di Dio, ch’è presso le aule dei
principi, ch’è sopra alla stanza di Maseiau, figlio di Sciallum il
tesoriere. E posi innanzi ai figli della casa dei Recabiti ampolle
piene di vino e tazze; e dissi loro: bevete del vino. E’ risposero:
non beremo del vino, perciocchè Ionadab figlio di Rehab il padre
nostro c’impose dicendo: non bevete vino voi ed i vostri figli in
eterno. E case non fabbricate, nè grani seminate, nè vigne
piantate, nè possedete alcun che, ma in tende abiterete tutti i
vostri giorni affinché viviate molti dì sulla faccia della terra ove
siete pellegrini. Ed ascoltammo la voce di Ionadab figlio di
Rehab padre nostro, in tutto quello che ci comandò,[139] di non
bere vino tutti i nostri giorni, noi, le nostre donne, i nostri figli e
le nostre figlie; e di non fabbricare case, per abitarvi nè vigna, nè
campo, nè sementa alcuna possedere. Voi udiste parlar di donne e
di figlie, voi udiste ancora nelle passate lezioni di donne Nazaree.
Troppo, direte pertanto, siam lungi dal celibato degli Esseni.
Eppure le donne non furono al tutto escluse dal nostro istituto.
Nol furono nello stato di matrimonio per moltissimi degli Esseni
siccome ne ammonisce Giuseppe, i quali il matrimonio anzi
praticavano e pregiavano assaissimo. Nol furono poi per gli stessi
celibi contemplativi; i quali schiudevano di frequente le porte
loro alle donne affiliate che chiamavano, come dice Filone, col
nome di Terapeutidi (Pridaux 5. 92.) Ed abitammo, continuano i
Recabiti, entro alle tende, ed ascoltammo e facemmo quello che
comandò Ionadab nostro padre. E fu quando salì Nebuhadrezar
re di Babel contro la terra, e dicemmo: andiamo, entriamo in
Gerosolima per causa dell’esercito dei Casdei, e dell’esercito di
Aram; ed abitammo in Gerusalemme. E questa risposta per
l’appunto voleva il profeta. Egli si volge allora al popolo che
udito aveva sino all’ultimo i Recabiti, e dall’esempio loro trae
argomento ad acerbe rampogne. Vedessero, ei dice, i fedelissimi
uomini come i comandamenti serbati avessero di un mortale, di
Ionadab Ben Rehab; vergognassersi di avere eglino le volontà di
Dio derelitte, le parole del padre immortale tenute a vile, ed altre
simili querele che si omettono per brevità. Solo vi piaccia udire la
conclusione; quando cioè Geremia, finito che ha di favellare al
popolo, si rivolge di nuovo ai Recabiti e così dice: Ed alla casa
dei Recabiti, disse Geremia, così parlò il Signore degli eserciti
Dio d’Israele. Poiché ascoltato avete il comando di Ionadab
vostro padre ed osservaste i suoi[140] precetti, ecco così dice il
Signore degli eserciti Dio d’Israele: non mancherà uomo a
Ionadab Ben Rehab che ministri innanzi a me per tutti i tempi.
Qui termina il capitolo 35 e qui finisce ancora tutto quello che
intorno ai Recabiti ci offre il libro di Geremia. Io volli
testualmente riprodurre l’intero capitolo, sì perchè pare a me nella
nostra indagine rilevantissimo; sì perché possiate adesso con più
vantaggio seguirmi mentre andrò a parte a parte sponendovene i
singolari documenti, e le preziose notizie sprigionando che in
seno racchiude. E quante e di qual peso notizie! Lo è persino il
nome che recano, il nome di Recabiti il quale attesta, se non
m’inganno, come la loro esistenza sociale rimonti ad epoca ben
più antica di Ionadab che fu sol discendente di quel Recab da cui
s’intitolarono i Recabiti, che diede probabilmente una forma che
molto si avvicinava a quella che assunser di poi, e che finalmente,
siccome chiaro apparisce dal 1ºo delle Cronache, visse in epoca
che non ardisco determinare, ma che pure di molto precesse e
Ionadab e i Recabiti di Geremia. Voi l’udiste: per comandamento
di Dio alle loro stanze questo si conduce, e intimato loro la
commissione che ricevuto aveva, tutti dal primo all’ultimo li
conduce a offrire di sè grandioso spettacolo negli atrii di Dio. Che
bel momento fu questo! che scena! che solennità imponente! in
cui fu visto il tenero, il patetico Geremia, messosi alla testa della
nobilissima schiera, apporre come a dire il divino suggello alla
loro istituzione; ed essi offerire a modello di fedeltà, di
obbedienza, di costanza al popolo riunito: costanza vera,
perpetuazione quasi incredibile in mezzo ad una società più vasta
qual era l’Ebraica, che da ogni parte li circondava. Poichè,
sappiatelo una volta, i Recabiti di Geremia sono i discendenti di
quei Cheniti che vedeste ai tempi di Devora, i pronipoti di quei
medesimi che ai[141] tempi dei primi giudici lasciarono i palmizi
di Gerico; e per dir tutto in una parola, sono la vera e legittima
figliolanza di Jetro, il grande, il vetusto proselita. Ma quanto
diversi però dai loro proavi! e quanto più ai figli loro, agli Esseni,
somiglianti che non ai padri! Qui vedete l’astinenza dal vino che
data da Jonadab; il quale secondo la legge del Nazirato che vi feci
conoscere, ne trasmise, come pare, di mano in mano gli obblighi
nella sua discendenza; siccome dato era veramente a ogni padre
di così praticare; siccome fece Anna per lo infante Samuele;
siccome i genitori, auspice l’angiolo, fecer pel famoso Sansone; e
siccome infine, ne convengono autori gravissimi, tra gli altri il
Pastoret il quale a dirittura asseriva: i Nazirei senza dubbio
diedero l’idea dei Recabiti. Ma qui oltre al Nazirato altre cose
vedete e di non manco rilievo. Qui la vita solitaria e campestre
che menavano costantemente i Recabiti, anzichè le cause da loro
stessi accennate, le invasioni nemiche non fossero venute a
strapparli alla loro solitudine per riparare ai tempi di Geremia
entro le mura di Gerusalemme; qui il voto di povertà, o per dir
meglio il voto di nulla possedere in proprio, ma tutto avere in
comune fra loro, che chiaro in quella frase breve ma esplicita,
velò hiè lahem ti apparisce; qui l’impronta di virtù, di santità, che
loro appone il profeta per bocca di Dio, e la sanzione che loro
reca in premio dal Cielo, del loro istituto, di loro vita, tali frasi
usando sul conto loro che altro senso tollerar non potrebbero,
siccome avvertiva il De Jurieu, se non quello di apertissima
commendazione; qui un carattere che fu particolare agli Esseni e
per cui furono ad una voce celebrati da Giuseppe, da Filone e da
quanti degli Esseni presero a trattare, io vo’ dire la riverenza ai
maggiori, il culto che professavano verso i loro antenati, del quale
veggiamo il primo esempio e forse il primo tipo[142] in quella
venerazione onde son laudati, per Ionadab, figlio di Rehab, pei
suoi dettati, per le sue leggi; e quando partitamente discorreremo
delle qualità delle virtù degli Esseni noi vedremo Giuseppe e
Filone tenere un linguaggio che per poco differisce da quello di
Geremia, l’uno e l’altro levando a cielo, come diceva, il loro
rispetto ai maggiori: e qui infine la promessa di Dio. E qual
promessa! La quale sarebbe andata fallita, se poco stante dai
tempi in discorso quella società allora così illustre non avesse di
sè lasciato vestigio alcuno, se riprodotta non si fosse sotto il nome
di Hasidim, se quindi l’altro non avesse assunto di Esseni e
Terapeuti, e se infine la scuola, la società degli Esseni non si
fosse perpetuata in tutti i secoli, e se al presente non durasse
tuttavia, se la esistenza augurata da Geremia non si verificasse
sempre, dopo mille trasformazioni nella esistenza dei Farisei. Io
dissi esistenza, ma questa è la parte men grande del vaticinio,
doveva dire anco il modo, anco lo stato che Geremia gli promette.
Qual’è il modo, qual’è lo stato? Voi l’udiste. Che parole! che
officio, che grandezza! Io ardisco dire che se l’idioma ebraico
non lascia di essere ebraico, se un concorso innumerevole
imponente di esempi non dice il falso, se le analogie più parlanti
non c’inducono in errore, se v’è criterio in una lingua per
discernere acconciamente il preciso significato di una frase, io
oso dire che male non mi apposi nel traslatarlo quando parlai di
offici, di ministerio, di sacerdozio, giacchè tutte queste tre cose,
ma queste tre cose soltanto, accenna la locuzione in discorso. E se
vaghezza vi prendesse di fare con me escursione pei campi della
scrittura, oh quanti non avreste a raccorne luminosissimi esempi!
Volete sacerdozio? E qui avete per la tribù di Levi, pel suo officio
sacro sacerdotale la frase stessa, le stesse parole, siccome[143] pei
Recabiti leggete: Laamod lifnè adonai lesciaredò ec. O meglio vi
talenta l’idea di intercessori? Ed allora ve l’offrirà Ezechiele
quando dice: se pure Mosé e Samuele intercedessero appo me
non più accetterei questo popolo, come appunto pei Recabiti
leggete: im iaamod Moscè usmuel lefanai; ec.; o vi piace meglio
un’altra volta udire del sacerdozio? E ve l’offriranno i Giudici
quando parlando del pontefice, di Pinehas: E Pinehas, dicono,
figlio di Elazar omed baiamim aem come per l’appunto dei
Recabiti si legge omed lefanai. Volete profezia, volete udire come
qualifica la scrittura l’officio del profeta? ve lo dirà Elia nel
celebre suo giuro quando esce fuora inaspettato dicendo: Viva il
Signore innanzi a cui ministrai; non vi sarà per questi anni nè
rugiada nè pioggia che io nol voglia; in quella guisa che udiste
per Recabiti.[43] E la profezia si è adempiuta alla lettera.
Sacerdozio, profetismo, tutto fu riposto, fu concentrato nei
successori e poi nei continuatori dei Recabiti, prima nei Hasidim,
primo nome che assunsero dopo quello di Recabiti, quindi negli
Esseni, parte eletta, parte dotta e santa e ieratica del Farisato,
quindi negli eredi degli Esseni, nei professori delle loro dottrine,
nella scuola speculativa ascetica superlativa dei Farisei, nei Ben
Iohai, nel Rabbeno Aj Gaon, nel Nacmanide, nel Cordovero, nel
Loria ed in quanti altri le orme calcarono di quei Santi, di quei
Dottori.
Ma noi siam lungi ancora da questi modernissimi tempi; ed a
quelli convienci restituire che a Geremia seguitarono. Geremia
visse non poco dopo la distruzione del primo Tempio; però la
riedificazione del Tempio non vide. Da Geremia alla prima
apparizione degli Esseni sotto tal nome, poniamo che ci corra un
dugent’anni, quali sono gli anelli che questi due estremi
congiungono della catena? Quali gl’intermedi che possan dare
alla storia[144] che costruimmo, quella continuità che, diciamo il
vero, non le mancò sino all’istante presente? Egli è doloroso ma
pur necessario il confessarlo: è questa l’epoca che più povera
resulta di documenti per la storia degli Esseni: è quasi una lacuna
nel loro passato, tanto più deplorabile quanto i cenni che
immediatamente avrebbero preceduto la loro apparizione
nell’Essenato, avrieno mirabilmente giovato a cogliere il punto di
passaggio dall’antica alla forma novella; e porto avrebbero ultima
e solenne conferma a tutte le cose precedentemente discorse. Però
è necessario fare tre specie di avvertenze che immensamente
diminuiranno la vostra sorpresa; e se non colmeranno interamente
il vuoto, almeno lo spiegheranno e tutto ciò gli torranno che può
avere di ostile, di negativo alla tesi da noi sostenuta, alla
genealogia degli Esseni. La prima è che mentre sino ad ora
avevamo documenti contemporanei, adesso mancano
assolutamente, nè la Bibbia nè la Tradizione contengono alcun
volume che a quell’epoca appartenga, attalchè non so vedere
veramente in qual guisa degli Esseni o dei loro predecessori si
poteva fare menzione. Nulla dunque di più naturale, di più
necessario della mancanza di questa menzione. La seconda
avvertenza si è, che per quanto io abbia detto assolutamente che
di questi tempi non esiste memoria, pure non si vuol intendere la
mia sentenza in guisa che qualche lembo non si sollevi, che un
barlume non ti apparisca dell’Essenato nell’epoca in discorso. Io
chiamo un barlume il fatto di Daniel che per 23 lunghissimi anni
stando a Rasci, di pane eletto non si ciba, non mangia carne, non
beve vino, nè usa nessun unguento dal quale rifuggivano, come
udiste, gli Esseni. E questo faceva Daniele per carità della patria
infelice, e per chiedere fine alle sue desolazioni, in guisa che in
questo senso soltanto può essere vera l’ipotesi del Salvador[145]
che le patrie desolazioni abbiano dato l’origine all’Essenato. Un
barlume poi io credo che abbiamo nei Paralipomeni. I
Paralipomeni sono opera di Esra posteriore a Daniele, ed è
probabile sentenza quella in cui oggi conviensi, e di cui è qualche
cenno nel Talmud, che dopo Esra i più antichi della magna
congregazione recato abbiano a compimento il libro delle
cronache. Or bene, in guisa si esprimono le cronache intorno ai
Recabiti, che pare veramente come a quei tempi tuttavia
sussistessero. Vuol far capir l’autore quali fossero le tre famiglie
Tirhatim, Simahtim, Succatim che presero stanza presso Iahbez, e
lo vuol far capire con allusione più moderna. Che dice per
questo? Dice che sono identici ai Chinnim: ma i Chenim stessi
possono essere ignorati, quindi necessità di riferirli a nome anche
più moderno, a nome contemporaneo. E qual è questo nome? È
quello di Recabiti. Abbaim mehamat abi BET REHAB.
Però queste cose andavamo tra noi meditando pria che ci si
partisse dinanzi nell’atto stesso di dettare la presente lezione, una
breve ma significante indicazione rabbinica, poi un frammento
preziosissimo di un autore il cui nome non suonerà io spero
sconosciuto ai vostri orecchi. Qual’è in primo luogo
l’indicazione? Ella è quella contenuta nella sezione 98 del
Berescit Rabba, opera anteriore al Talmud, e dove chiaro
apparisce che tra i primi Tanaiti eranvi alcuni che, come si
credeva generalmente, discendevano da Jonadab Ben Rehab.—
Dunque io dico: i Recabiti non cessarono di esistere anco in
tempi posteriori agli Esseni, e nulla pertanto si oppone che questi
da quelli sieno derivati. Ma v’è di più: voi ricordate come io
avessi luogo parlandovi dei Samaritani di rammentarvi
Beniamino di Tudela, i suoi viaggi, il gran conto che si fa
generalmente dai dotti delle sue relazioni. Or bene, egli è un
passo nel Pellegrinaggi di Beniamino[146] dove prende a narrare
di ciò che vide, di ciò che osservò nel Iemen, nell’Arabia Felice.
Lo credereste? Egli parla dei Recabiti, egli li vide, egli ne
osservò, ed egli ne narra altresì i costumi. Le sue parole sono
troppo preziose perchè io non ve le citi. Di là movemmo ei dice
verso la Terra del Iemen a settentrione, e dopo un viaggio di 21
giorno pei deserti, pervenuto essendo in quella regione, vi trovai
i Giudei che si chiamano RECABITI e in Ieman hanno imperio.
Aron il Nasi vi risiede ed è grande città. Narra poi Beniamino i
loro commerci, le loro scorrerie, e quindi aggiunge: E danno poi
la decima di tutto quanto posseggono ai Dottori della legge che
stanno del continuo nei pubblici studi, ai poveri d’Israele ed ai
loro Farisei che fanno lutto per Sionne e Gerusalemme, che non
mangiano carne, non beono vino, e vestono logori abiti; ed
abitano in spelonche, e tutti i giorni digiunano, tranne i Sabati e
le Feste. Ecco le parole e l’attestato di Beniamino. Quando
viveva il famoso spagnuolo? Certo nel mille o a quel torno; che è
quanto dire in tempi infinitamente posteriori a Geremia ed alla
società degli Esseni; in tempi che provano come lungi dall’essersi
precedentemente estinta la famiglia e l’istituto dei Recabiti,
perdurasse invece non solo dopo il profeta che li descrisse, non
solo in epoca immediatamente anteriore e contemporanea ai
nostri Esseni, ma per secoli eziandio parecchi dopo di essi; cioè
prova in una parola come la filiazione da noi voluta degli Esseni
dai Recabiti riceva quella conferma che noi credevamo invano
desiderare, ma che pure la Provvidenza ci porse, quando meno
l’attendevamo.[44]
La terza ed ultima avvertenza è quest’una. È lo stato in cui
lasciammo i Recabiti ai tempi di Geremia, stato se altri fu mai
rigoglioso, florido, vivacissimo; stato che a tutt’altro accenna che
a deperimento e rovina; stato[147] che ove pure ad una
declinazione accennasse, questa declinazione si sarebbe
naturalmente protratta tant’oltre da ricongiungere l’estinguentesi
Recabismo col nuovo, col nascente Essenato. E queste sono le tre
avvertenze che vi promisi.
Giunto a questo punto, e quasi meco stesso meravigliato del
gran compito che ho fornito, che altro mi resta a fare per condurre
a fine l’impresa? Null’altro a parer mio che citar le autorità che
militano a favor mio, che per diretto o per indiretto fanno risalire
l’Essenato agli antichi Cheniti, ai discendenti di Jetro. Primo tra
le autorità io annovera Plinio; Plinio nella Storia Naturale in
quelle parole ove agli Esseni attribuisce un’esistenza di secoli,
Plinio che in tal guisa alla origine apre le porte da me sostenuta
sinora. Io pongo poi per secondo il Serrario il quale, è giusto il
convenirne, diede il primo il segno di questo sistema e forse con
buoni argomenti il convalidava comecchè condannato io fossi a
rifare il lavoro, non potendo dell’opere sue giovarmi, che non
posseggo. Io pongo infine per ultimo un inatteso alleato, la
Mehilta. Voi udiste finora da me, voi avrete certo udito da ognuno
e gli autori tutti vi avrebbero a gara ripetuto, come i libri
Rabbinici tacciano assolutamente dell’Essenato, e grave problema
riuscisse a risolvere ognora, questo silenzio. Or bene voi potete
dire adesso ad ognuno che vi dimandasse, che questa menzione
esiste veramente, che gli Esseni non sono ignorati dai nostri
Dottori; non basta; potete dire che il cielo ci riserbava due
scoperte ad un tempo, che gli Esseni presso i nostri Dottori non
solo eran conosciuti; ma, lo che più monta pel fatto nostro, erano
come legittimi e diretti successori considerati degli antichi
Recabiti. Potete dire che queste cose si trovano certo per vie non
troppo comuni e battute, ma non per questo men belle e men
importanti;[148] potete dire che se ai grandi intelletti è dato
scoprire nei cieli immensi un astro novello, al mio umilissimo
quest’onore solo fu conceduto di scuoprire nel cielo Ebraico la
società degli Esseni. Io dissi la Mehilta. Ma che cosa è la
Mehilta? È un opera più antica del Talmud, opera di un Tanna
antichissimo, di R. Ismael, opera di cui solo una parte è giunta
sino a noi sul libro dell’Esodo. Aprite la Mehilta alla sezione di
Jetro e vi troverete, come dice Vico, un luogo d’oro che suona
così. Avvenne una volta che uno DI COLORO CHE BEONO ACQUA
avendo fatto nel tempio un sacrifizio si udì una voce dal
santissimo che diceva così, colui che accettò i loro sacrifizi nel
deserto accetterà anche questo in quest’ora.
E notatelo bene, giovani miei, queste parole non sono isolate;
il passo che avete udito non è senza precedenti e conseguenti. Lo
precedono immediatamente tutte le indicazioni da voi udite sui
Cheniti che abitavano pei deserti, che tolsero poi a dimorare
presso Iahbez nel deserto di Giuda, e lo seguono immediatamente
le parole di Geremia sui Recabiti, sul loro avvenire. Il fatto che
udiste narrato è un fatto ai Dottori contemporaneo, è una
allusione agli Esseni allora esistenti, è una identificazione di
questi Esseni coi Cheniti, coi Recabiti; è insomma tutto quello di
che noi bisogniamo. Questo breve frammento è un prezioso e
grande trovato; ma non è il solo. Quando meglio ci addentreremo
nella società degli Esseni, uno o due altri ne rinverremo ove non
più colla perifrasi testè udita i bevitori di acqua si additano gli
Esseni, ma colla vera e propria loro denominazione. Questi pochi
e sparsi frammenti sono il più bel gioiello delle nostre
conferenze; e se io ne ho potuto adornare le mie lezioni, a voi si
deve in gran parte che a queste indagini rivolgeste l’animo mio; e
sopratutto a quel padre[149] dei lumi senza di cui niuna cosa che
valga si può fare in niuna disciplina, e molto meno nel culto delle
lettere sacre, ove prima condizione è il culto e la stima del suo
grandissimo obbietto, e nelle quali meglio che in niuna altra cosa
si può dire con Petrarca:
Non si fa ben per uom quel che il ciel nega.

[150]
[151]
[152]
LEZIONE DECIMAPRIMA.

Io vengo a proseguire l’opera incominciata. Noi abbiamo


degli Esseni studiato già e il nome e quello che più c’interessava,
l’origine loro. Noi abbiamo, a parer mio, trovato in mezzo a tante
etimologie la vera etimologia, e tralle tante congetturate origini la
vera origine. Per svolgere ordinatamente il nostro assunto
conviene che io vi riduca a memoria il piano, l’ordine, la
seguenza che imponemmo al nostro dire. Io vi promisi sin dalla
prima lezione che dopo il nome, dopo l’origine degli Esseni noi
avremmo preso ad esame la loro costituzione, le loro leggi, le lor
sociali discipline; e le loro costituzioni, leggi e discipline
formeranno oggi il soggetto che io prenderò a trattare. Egli è
naturale che dopo avere conosciuta per nome la cosa che
vogliamo studiare, se ne cerchino le leggi costitutive, le leggi che
presiedono, che regolano la sua esistenza. L’Essenato è persona,
persona sociale, collettiva, morale, certamente, ma pur persona.
Noi sappiamo come si chiama, sappiamo d’onde tratto si abbia il
nascimento; che ci resta ora a sapere? Le leggi della sua
esistenza, i principii regolatori della sua associazione. Però, vi ha
uno studio che deve per sua natura andare innanzi alle cose
accennate, ed è lo studio, ed è l’esame del teatro in cui sorse, in
cui ebbe[153] stanza il grande Essenato, in cui scelse, in cui fermò
la sua residenza. In questa guisa, procedendo noi dalle cose, dalle
circostanze più generali a quelle più proprie, più intime, più
speciali al grande istituto; andremo sempre più intorno ad esso
stringendo il cerchio delle indagini nostre: in questa guisa
potremo dire che nulla di quello ci può sfuggire che può per
diretto o indiretto riguardare l’Essenica associazione.
Qual è dunque il teatro in cui nacque, in cui crebbe, in cui
ebbe vita il grande Istituto? Notate, o miei giovani, che io non
chiedo la loro patria. La loro patria è conosciuta, e questa è la
Palestina. Chiedo la loro residenza, il loro soggiorno che dal
concetto di patria molto come sapete è diverso. Lo chieggo in
primo luogo a Filone siccome quello che tanto studio pose nella
storia dei suoi cari, dei suoi ammirati Esseni. E che cosa mi
risponde Filone? Mi risponde con un passo dell’opera sua, che se
non coglie precisamente nel segno, pure non lascia di avere il suo
valore e grande valore nella presente quistione. Egli addita gli
Esseni ai suoi lettori Pagani, e se riscontrare, ei dice, volete la
fedeltà della mia dipintura, mirateli ovunque sono diffusi pel
grande, per l’immenso vostro impero; mirateli tra i Greci e tra i
barbari, ove vivono dispersi. E così dicendo Filone, voi di leggeri
comprenderete come venga a stabilire senza meno la loro
universale diffusione non solo nell’Impero Romano ma eziandio
al di là dei suoi confini, fra quei popoli che i Romani seguendo
l’esempio dei Greci qualificavan col nome di Barbari: (cioè
secondo la genuina sua significazione forestieri forse da vocabolo
Arameo, siccome io da molti anni congetturai che suona uomo di
fuori, gente straniera.) Gran parole son coteste di Filone e che
compiono il concetto vero, storico degli Esseni qual ce lo aveva
Plinio accennato nella sua storia. Plinio e Filone sono[154] i due
Restitutori del vero carattere della società degli Esseni. Plinio
dove pone in sodo la loro antichità, dove, come udiste altra volta,
gli assegna un’antichità di secoli e secoli, Filone in questo luogo
dove sancisce, autentica la loro universalità, Plinio restaura
l’Essenato nel tempo gli rende la sua antichità, Filone lo restaura
nello spazio, cioè gli rende la sua universalità. Ma in qual guisa
cotesta universalità, cotesta diffusione si acconcia al nostro
Istituto? come a quelle idee che pure da parecchi storici si
avvalora d’isolamento, di concentrazione, di particolarismo?
Come a quel concetto sinora predominante che volle gli Esseni
limitati, circoscritti ai confini Palestinesi? Come? intendendo
pegli Esseni ciò che noi intendiamo, ciò che essi son veramente,
ciò che sarà continuamente dimostrato dal corso di questi studi.
Intendendo cioè per Esseni la parte più alta, più nobile, più dotta,
più spirituale del Farisato pel quale veramente e pel quale
soltanto è vera alla lettera la sentenza Filoniana; pei quali, e pei
quali soltanto, si poteva dire che sparsi, che diffusi, vivevano tra
Barbari e Greci. Il poteva Filone se gli Esseni fossero diversa
scuola, diverso Istituto da quel Farisaico? Poteva dire per essi che
eran diffusi tra Barbari e Greci; poteva dirlo di fronte al silenzio
generale, al silenzio specialmente di Plinio, e di fronte infine
all’esempio degli altri settari i quali, vuoi pel numero scarso, vuoi
per poca virtù espansiva, se ne vissero sempre ristretti,
rannicchiati tra i patrii confini? Ma quanto bene poteva dirlo se
gli Esseni non sono altro che il più bel fiore che il patriziato dei
Farisei! Quanto appropriate per essi le parole tra i Barbari e
Greci! Essi col grand’Illel in Babilonia anzichè in Palestina non
emigrasse, e essi in Damasco con Rabbi Iose il Damasceno; essi
in Egitto con Filone stesso, coi Terapeuti e coi Dottori Egiziani
che figurano nella Misna come Anael l’Egiziano, e con[155] quelli
che ivi stesso si narrano pellegrinanti in Egitto; essi in Nisibi in
Persia con R. Ieuda ben Betera che è il discendente di quegli
Eroici Betera che allo straniero Illel cessero la posseduta dignità
di Nasi, solo perché più d’essi erasi mostrato nelle patrie leggi
erudito; essi in Media con Nahum il Medo; essi in Arabia, in
Grecia e in Italia con Ribbi Akibà che queste regioni visitò e che
lascio ricordate; ed essi nell’Asia minore in Laodicea, in
Antiochia, in Assia dove traevano, come altra volta vi dissi, a
sedere in concilio, e dove morì il grande Rabbi Meir, come più
tardi vedremo; essi nelle Gallie non solo col rammentato Rabbi
Akibà che ne ricorda i paesi, i costumi, la lingua, ma anche con
Dottori, dalle Gallie denominati demin gallià; ed essi infine in
Roma. In Roma non solo colla sinagoga già lungo tempo
stabilitavi, non solo coi più celebri nostri Dottori che la visitarono
e preziosissime indicazioni ne lasciarono scritte, ma
principalmente per due tra essi, per due grandi Farisei che da
Roma s’intitolarono e in Roma ebbero stanza durevole e cattedra
e maestrato. L’uno è Todos o Teodozio che il Talmud chiama
Todos Is Romi, Teodozio il Romano, quel desso di cui si narra nel
Talmud di Pesahim, come a ricordare forse il sacrifizio pasquale,
istituito avesse tra i fratelli di Roma l’uso di cibarsi d’agnello
arrostito nei vespri di Pasqua; quel desso a cui s’intimava, pena la
scomunica, di cessare da quell’uso; quel desso che per animare i
Fedeli al martirio soleva citar loro l’esempio dei Zefardehim
Rane o Coccodrilli, che al cenno di Dio, comecchè irragionevoli
fossero, si gettano nei forni ardenti del popolo Egiziano. L’altro
poi è Rabbi Mattia ben Haras ch’ebbe seggio e cattedra in Roma
e fu per lunghi anni Pastore e Dottore di quella chiesa con tanta
celebrità, che quando volle il Talmud offrire l’idea di una cattedra
e di un pastore modelli disse fra gli[156] altri: Zedek Zedek tirdof;
ahar R. Mattià ben haras leromì.
Se qui, o miei giovani, fosse il luogo, vorrei mostrarvi come il
soggiorno di Roma, il suo consorzio, la sua civiltà inspirassero
talvolta il linguaggio di R. Mattia, siccome il registra il Talmud;
vi mostrerei le nozioni mediche che vi raccolse e che bellamente
applicava all’osservanza dei riti, lo specifico contro la idrofobia
che egli addita nel fegato del cane idrofobo, la gravità somma
ch’ei concedeva alle infiammazioni della trachea onde voleva il
sabato per quelle impunemente violato, la indicazione del salasso
nelle tracheiti istantanee da eseguirsi anche di sabato; e sopratutto
mostrarvi come cogliesse nell’esperienza degli uomini e delle
cose romane, nelle repentine cadute e nelle repentine elevazioni
dei Cesari, quella sentenza che voi recitate al tornare di ogni
primavera e che suona; fatti coda ai leoni e non capo alle volpi; e
come infine dallo stesso soggiorno di Roma gli fosse quel detto
suggerito troppo necessario a praticarsi nella città delle continue
rivoluzioni: Sii il primo a salutare ogni uomo. E dove non
recarono le loro idee, la loro presenza i Dottori antichissimi?
Persino qui nella nostra Toscana, e come a me fu dato, ch’io mi
sappia il primo, notare in Pitiliano quando muovendo inverso
Roma ne traversavano le vie d’onde, dice il Medrase, udendo il
frastuono, il trambusto lontano della città lasciva, sclamarono:
se questa è la grandezza, o Dio! dei riprovati, qual è quella che
tu tieni in serbo pei tuoi eletti?[45]
Che se gli Esseni erano universalmente diffusi, se questa
diffusione ad altri non può convenire che ai più illustri membri
del Farisato, se la identità ne rimane perciò stesso sempre più
confermata, vogliam dire per questo che un centro non vi fosse
dal quale raggiassero per ogni dove[157] i grandi lumi
dell’Essenato, e dove vivessero secondo le norme del loro
Istituto? Ciò non si vuol dire, che anzi la storia attesta il contrario,
attesta cioè come vedemmo, che patria del nobile sodalizio fosse
la patria Palestinese; non basta: attesta ancora che dell’istessa
Palestina una parte sola fosse quella ove la società a preferenza
abitava, e dove le sue scuole e dove fossero tutti i suoi centri, i
suoi romitaggi. E qual’è questa parte? È la parte meridionale, è
tutto quel tratto di paese che lasciando al nord Gerusalemme, è
circoscritto a levante dal Lago Asfaltide, in ripa al quale, o poco
stante, si ergeva anticamente Gerico la città dei palmizi dove
abbiamo veduto abitare i Cheniti e dove infine più al sud è notata
sulla carta Arad dove prese succesivamente ad abitare la
discendenza di Jetro. Colà, dice Plinio nel quarto libro, si
vedevano gli Essenici abituri. Non basta: egli accenna per nome
alcune città ove a preferenza avevano stanza Masada p. e.
Engaddi l’antica, detta pur essa così pei palmizi che vi
abbondavano; d’onde poi quella celebre frase con cui Plinio
caratterizza gli Esseni, gente dicendoli delle Palme amica. Gens
socia Palmarum. Io dissi che in quei dintorni preso avevano
eziandio antichissimamente ad abitare i progenitori degli Esseni, i
vetusti Cheniti. Doveva dire di più; doveva dire che su quelle rive
vissero, fiorirono le più distinte scuole dei profeti, siccome
abbiamo dai Re, che su quelle piagge sorgeva prima della
conquista di Giosuè, una città che il nome reca caratteristico di
Kiriat Sefer la città dei libri, il quale poi in quello fu tramutato di
Debir non meno del primo significante, perciocchè suona il
seggio della parola, dell’oracolo; siccome egualmente
appellavasi il Santo dei santi il seggio dell’oracol di Dio,
l’oracolario, appunto perchè di là emanavano i venerati responsi.
Gioberti lo notava scrivendo: Fra le città cananee vinte da
Giosuè[158] vi è Chiriat Sefer detta poscia Debir; questo nome
può farci subodorare un antica cultura. Forse era l’Archivio
dello Stato (Protologia 371).[46] Doveva dire che tutta quella
regione andò celebre per l’ingegno, pel sapere dei suoi abitanti;
che là sorgeva Patria di quella donna che i profeti dicono savia,
forse una Terapeutide, la quale col dolce parlare placò il paterno
risentimento di Davide, quella stessa città di Tekoa che per l’olio
che produce squisito fu creduta perciò stesso dai Dottori educare
la più colta e svegliata popolazione. E qual meraviglia se nello
stato medesimo una regione si distingueva per ingegno ferace, se
Cicerone diceva l’aria di Atene sottile e quindi più degli altri
popoli greci gli Ateniesi vivaci e briosi, se diceva l’aria di Tebe
pesante, quindi ottusi e rozzi i Tebani? Se Platone ogni giorno
ringraziava gli dei per averlo fatto Ateniese e non Tebano,
comecchè Tebe ed Atene città fossero, come sapete, ambedue di
una stessa provincia?
Che se il mezzogiorno di Palestina fu soggiorno gradito,
ordinario della società degli Esseni, del dottissimo Istituto, che
l’antica fama d’ingegno accrebbe a quelle regioni, ci sarà egli
dato rintracciare come nella Bibbia le antiche, così nei Dottori le
moderne vestigia del loro passaggio? Io ardisco dire che lo
potremo. Voi udiste come per noi fu altra volta falso addimostrato
il parere di coloro che dicono tacersi affatto i Rabbini della
società degli Esseni. Voi udirete in avvenire citazioni, se è
possibile, anco più concludenti. Quelle però che adesso vi
espongo ne sono un preludio, un apparecchio di cui non potreste
disconoscere la gravità. Vuoi tu veramente far acquisto di
scienza? dice il Talmud: volgiti a mezzogiorno. Che vuol dire
volgiti a mezzogiorno? Vuol dire forse tenere la persona
nell’orare rivolta da quella parte? Così certo la intesero alcuni,
ignari come io[159] credo, del vero senso. Ma quanto meglio i più
antichi! Quanto meglio, p. e., l’autore del Aruch Rabbi Natan
figlio di Iehiel tesoriere di papa Bonifazio! Quanto meglio, dico,
R. Natan non coglieva nel segno quando diceva interpretando il
passo Talmudico: Vuoi tu fare di sapere tesoro? Va’ presso i
Dottori che hanno stanza a mezzogiorno di Palestina e impara
da essi la scienza. Udite ora Simeone il Giusto, Simone che per
tanti anni gloriosamente ministrò nel sommo pontificato.
Giammai, egli diceva, io volli le labbra accostare al sacrifizio dei
Nazirei, tranne una volta quando vidi al tempio presentarsi un
Nazireno dal mezzogiorno (e voi sapete quali rapporti stringano,
secondo me, gli Esseni al Nazirato) il quale, continua Simone
narrando per filo e per segno tutto lo accaduto, mi disse come
simile a Narciso, specchiatosi un giorno in una fonte
s’innamorasse del suo bel volto; come indi vergognandosi del
vano sentire, facesse voto di Nazirato, e come infine venisse
adesso a bruciare l’antico oggetto del suo orgoglio, la bellissima
chioma, nelle braci ardenti del sacrifizio. Ma poco è questo. Voi
udiste poc’anzi l’autore del Lessico Aruh parlare dei Dottori più
insigni che vivevano nel Darom, a mezzogiorno di Palestina. Or
bene uditene adesso menzione dalle labbra istesse dei Talmudisti;
e dove, o miei giovani? Nell’ultimo capitolo di Tamid. Là si narra
di un famoso abboccamento intravvenuto tra Alessandro il
Macedone e alcuni tra i più illustri dottori in Israel: e come si
chiamano questi Dottori? Si chiamano i savi del mezzogiorno. E
su che cosa si aggira il loro favellare? Sopra parecchi e gravi
argomenti in cui Alessandro la celebrata sapienza loro pone al
cimento, e che troppo attestano l’indole, il genio speciale dei
gravi studi dell’Essenato. Chiede Alessandro le relative distanze
dal Sole alla[160] Terra; chiede quale creato prima, se il Cielo o la
Terra; chiede quale dei due abbia preceduto, la luce o le tenebre; e
se a tutte le precedenti inchieste ottenne risposta, a quest’ultima
però si udì intonare un modestissimo Nescio. Perchè non
risposero gli Esseni mentre il testo mosaico sì chiaro favella? E
qui permettete una piccola digressione che pure ha la sua
importanza. Perchè io ridomando non risposero al testo
conforme? Il Talmud tanto posteriore all’avvenimento, ne chiede,
ne indaga il perchè, ma mestieri è pur confessarlo, troppo mostra
nella risposta l’incertezza, l’imbarazzo nelle idee, troppo nella
risposta si scorge la distanza dei luoghi e dei tempi.[47] Perchè
veramente non risposero? Il perchè ce lo dirà Aristotile, il
maestro di Alessandro, l’interrogante. Ci dirà Aristotile, per
parlare col linguaggio del Ritter, que les anciens Théologiens
étaient en général persuadés que le meilleur sort du pire, l’ordre
du désordre, puisqu’ils faisaient naitre toute chose de la nuit et
du chaos. Avete inteso? Dalla notte e dal caos, ch’è quanto dire
ch’erigendo in persone reali questi Enti fantastici, ne crearono
altrettanti primi principii, altrettante Divinità cosmogoniche, e
Notte e Caos adorarono quai numi. Poteva darsi silenzio più
opportuno? Potevano essi i Dottori del mezzogiorno, che sono a
parer mio gli Esseni, risolvere secondo Mosè la quistione,
concedere cioè alle Tenebre il primato di creazione senza
concedere perciò stesso il principio d’onde la Teogonia greca
prendeva le mosse, senza pericolo, senza conferma d’Idolatria?[48]
Io vorrei, o miei giovani, più a dilungo soffermarmi a studiare
con voi altre cose e bellissime che contiene il precitato
frammento del Talmud.[49] Mel contende il bisogno di procedere
ordinato e spedito alla mèta proposta, mel contendono gli altri
non meno gravi, i[161] parlanti attestati che degli Esseni del Sud
ci porge il Talmud. E dove? È il primo a pagina] 70 di Pesahim,
dove si narra di un Ieuda ben Dostai che, sendo venuto a contesa
intorno alla convenienza del sacrifizio in giorno di sabato, si
separò, dice il Talmud, dal centro Gerosolimitano, ritirossi egli e
il figlio suo nella Palestina Meridionale dove assieme ai Farisei
ivi stanziati, notate la frase, protestò contro la decisione dei
Colleghi e più assai contro Semaja e Abtalion due antichissimi
Dottori anteriori di assai all’E. V; lo che prova quanto antico
fosse Ieuda ben Dostai e quanto la raccontata sua separazione. È
il secondo a pag. 23 di Zebahim dove e’ s’introducono ad
esprimere una opinione circa la materia delle impurità di cui
sapete omai i nostri Esseni tanto gelosi.[50] E infine è il terzo se
non erro nel Rabba, e non temo di aggiungere il più interessante,
il più prezioso di tutti. Io vorrei, o miei Giovani, che sapeste che
vuol dire Aggadà, vorrei potervi esporre a parte a parte tutti i dati
che mi hanno da lungo tempo persuaso non altro essere in bocca
ai Dottori che la veste, la forma popolare, esoterica, parabolica,
dirò anche iperbolica delle dottrine loro più riservate, la
Mitologia nel cui seno vive rinchiusa la Teologia,[51] vorrei sapeste
da ora, come gli Esseni, e specialmente quelli tra essi che si
dicevan contemplativi, andassero sopra ogni altro famosi per lo
studio, per la cultura, di una gelosa e segreta Teologia come più
tardi intenderete. Or bene! Che cosa dice il Medras? Dice non
solo come disse il Talmud che al mezzogiorno di Palestina una
scuola intera vivesse di Dottori illustri; ma dice di più, dice cioè
che loro speciale, loro precipua occupazione era la coltura
dell’Agadà, e dice infine che i più eruditi Rabbini non
isdegnavano ad essi ricorrere per la interpretazione dei Testi; e in
queste parole lo narra: Disse Rabbi Ieosciuah ben Levi: di
queste[162] verso richiesi tutti i maestri dell’Agadà che vivono in
mezzogiorno, e niuno me ne porse risposta adeguata. Che più?
Non è persino il Zoar istesso, che altra non cen fornisca e solenne
conferma, il Zoar l’Emporio delle idee Cabbalistiche, il
Repositorio delle più recondite tradizioni, il Zoar che in più
luoghi appella ad una scuola di Teologi Mistici che abitavano il
Sud e che chiama apertamente, i compagni nostri, i soci nostri,
che abitano il mezzogiorno. Compagni, soci! Che gran parola!
Non vi dice punto alla mente la bella frase? Non vi accenna ad
una consorteria, ad un corpo, ad una società, a cui tutti
appartenevano egualmente? di cui tutti si dicevano
indistintamente i compagni, i soci, i fratelli? Io avrò luogo più
tardi di ritornare su questa frase preziosa, e la Misna e il Talmud e
il Zoar ne proveranno ad esuberanza, se già non l’hanno provato,
il significato che per noi gli è concesso, e che suona sì favorevole
come vedete alla identità Essenico-Cabbalistica da noi
propugnata.
Noi dicevamo in principio di volerci occupare del luogo, del
teatro ove ebbe stanza principale la società degli Esseni. Noi
sappiamo già qualche cosa della loro dimora; sappiamo da Filone
che per quanto un centro di convergenza avessero, pure i loro
raggi si estendevano, voi lo udiste, tra Barbari e Greci; sappiamo
da Giuseppe che questo centro era in Palestina e nella parte
meridionale di Palestina; sappiamo in ultimo che queste due
indicazioni, ve l’ho provato, si attagliano a meraviglia ai Farisei,
alla parte speculativa filosofica mistica dei Farisei.[52] Ma se la
parte abitavano gli Esseni di mezzogiorno, quale presero ad
abitare a preferenza, le città o i campi? qual vita menarono a
preferenza, solitaria od urbana? cittadinesca o anacoretica?
Solitaria, vi risponde Giuseppe nel secondo delle Guerre
Giudaiche, ove dice amare costoro a preferenza la solitudine, i
campi ove avevano[163] eziandio domicilio; solitaria, vi risponde
Filone (De vita contemplativa) quando dice dei Terapeuti che per
la massima parte vivevano fuori di Alessandria presso ad un lago;
solitaria, vi dice Plinio quando li pone ad abitare poco lungi dal
lago Asfaltide; e solitari pure ragion vuole che fossero i grandi
contemplativi; che non a caso scelsero gli Esseni per loro stanza
la quiete, la pace, il silenzio dei campi. È là, è nella solitudine, è
nel libero e forte ripiegamento dell’animo sovra sè stesso, è nella
concentrazione di tutte le nostre morali facoltà, tanto lungi dallo
sperperamento cotidiano della vita cittadinesca, è là che l’anima
si tempra a forte, a maschio sentire, che lo spirito si eleva nei
grandi pensieri, che l’immaginazione spicca libero e naturale il
suo volo, ed è là che si educavano, che si dovettero educare gli
Esseni contemplativi. Credete che siano ubbie coteste mie, che
faccia a guisa dei poeti il panegirico della solitudine, e come i
poeti, ponga i piedi sul vano, sull’aereo, sull’imaginario? Io ne
voglio a giudice, a testimone l’uomo più competente, la scienza
più positiva e per ciò stesso più decisiva; voglio che lo udiate per
me da un medico, e da un medico filosofo, e chi è questo? È il
Descuret in quell’aureo trattatello della Medicina delle passioni.
Sentite come si esprime il Descuret. Lo scrittore, ei dice, può
acquistare in società facilità e stile brillante, eleganza e
gentilezza di frasi, ma giustezza di vedute, profondità e
concatenazione di pensieri, fuoco e vita nel discorso, trovano
origine per consueto nel ritiro, nella meditazione. I più grandi
scrittori hanno creati i loro immortali capolavori nella pace della
solitudine, tanto atta ai concepimenti del genio. Che cosa si
contiene in questo squarcio, che io non abbia detto, e che cosa
che a capello non si acconci al nostro Istituto? Il quale non solo
nel preferire e rive e campi, obbediva al proprio[164] genio, ma sì
ancora si conformava fedelmente al genio ebraico, alle tradizioni
ebraiche, ed agli esempi ebraici. Io dico cosa che forse parravvi
strana, e appunto per questo non la direi, se non avessi argomenti
di avanzo, e se tanti non ne avessi da dovere perciò stesso
affrettare anco più il mio passo. Dissi il genio ebraico, la fede
ebraica, amare i campi; e come no? Abramo prega e sacrifica
all’aria aperta sopra un monte; nel silenzio, nella solitudine pianta
boschetti, e là sacrifica e là adora il Signore, nel che è imitato di
poi dal suo figlio Isacco: Isacco per pregare lascia l’abitato e trae
su per i campi orando dice il Testo, orando conferma la tradizione
e orando, conferman pure essi i Samaritani per quanto non ligi al
certo alle nostre tradizioni. Giacobbe ha visioni, prega, fa voti in
una solitudine nelle vicinanze di Luz o Bet El. Agar ha visioni
promesse e prodigii nel deserto di Beer Scebah; Mosè pascola,
medita per quarant’anni, e poi ha visioni, rivelazioni portentose
nelle solitudini dell’Oreb; se Mosè vuol orare al Signore, egli trae
fuori dall’abitato e colà alza all’eterno le palme; se ha in Egitto
rivelazioni, le ha nei campi lungi dalla città. La legge, la legge di
Dio non è data nè in Egitto nè in Palestina, ma nel deserto, per
accennare, dicono i Dottori, alla copia che gratuitamente fa di sè
ad ognuno; per non far nascere, dicono altri, tralle tribù gelosia,
rivalità. Eliseo fonda la sua scuola profetica nelle prossimità del
Giordano, e quivi vedeste in altra lezione adunarsi la bella scuola
di quel Signore dell’altissimo canto, i Recabiti di Geremia,
progenitori a senso nostro degli Esseni, Ezechiele, che fuori di
Terra Santa patisce difficoltà a profetare, trae fuori pei campi e
profetizza. Che diremo poi se dai Bibblici trascorreremo agli
uomini e ai tempi rabbinici? Qui gli esempi si accumulano, si
affollano e in guisa tale che appena è tempo di accennarli; qui nel
Ieruscialmi (Scebihit[165] 6.) parecchi esempi come di Ieuda Js
Cozi, che si ritira in una spelonca e dice addio al mondo per
viversene a Dio soltanto;—qui nel 2º di Sciabbat il fatto più
cospicuo, il fatto modello, il tipo degli anacoreti, il grande Essena
Rabbi Simone ben Iohai che per tredici anni vive solitario in una
grotta, ove si fa così perfetto nella legge di Dio, che al rivedere il
suocero dopo tanti anni, tutto che estenuato si fosse nella persona,
non potè a meno di esclamare: Beato me che malconcio mi rivedi,
poichè ricco cotanto esco dal mio romitorio; ed ove infine
secondo i Cabbalisti meditò gran parte delle cose contenute nel
Zoar. Qui il Zoar istesso, e questo è grave assai, poichè attesta
sempre più quella conformità di genio che è base all’identità da
me sostenuta, qui il Zoar, ove si può dire senza tema di errore,
non è colloquio, non è incontro, non è polemica, non esposizione
che non avvenga o all’ombra di un palmizio, o presso i recessi di
una spelonca, o in un campo seduti, o sul ciglio di un fiume, o in
una rustica abitazione. Non basta; qui il Zoar che non solo vi dice
essere tutte queste cose avvenute laddove avvennero, ma che il
fatto vi offre altresì preziosissimo di stanza, di soggiorno, di
domicilio che in quelle solitudini avevano i soci, i fratelli come
tra essi si chiamavano, della società cabbalistica. Egli è questo un
fatto, un gran fatto a cui non si potrebbe prestare abbastanza
attenzione, nè io dubito che un dotto di buona fede non ne
trarrebbe argomento a gravissime reflessioni. Aprite il Zoar,
apritelo nel vol. 2º a pagina 13, dove non solo vedrete come i
Cabbalisti dimorassero nella pace dei campi, ma le vestigia vi
troverete eziandio luminosissime di ben altre sorprendenti
analogie che vorrei tutte analizzare, ma che per ora non mi è dato.
Troverete consorteria, organizzazione sociale, e sopratutto vi
troverete libri acroamatici ove i misteri si contenevano della
Religione; i quali libri[166] non si mostravano che di volo e ai
meglio provati, appunto come accadeva in seno al nostro
Essenato;—apritelo nello stesso volume 2º, a pag. 183. Che cosa
vi vedrete? Vedrete Rabbi Simone, Rabbi Eleazar suo figlio,
Rabbi Abba, Rabbi Iose che procedono per via. Chi è questo che
gli si fa incontro? È un vecchio ed ha per mano un fanciullo: al
solo vederlo dice Rabbi Simon a Rabbi Abba: Cose nuove
apprenderemo da questo vecchio. Chi sei tu, gli chiede quando è
vicino, e d’onde sei? Ebreo io sono, risponde l’altro, E LA MIA
DIMORA è TRA I FARISEI DEL DESERTO OVE DO OPERA ALLO STUDIO DELLA
LEGGE. Gioì Rabbi Simone e disse: Sediamo; conciossia che Dio a
noi t’abbia inviato, deh! non ti spiaccia farci udire delle parole
nuove, ma antiche (Che bell’antitesi novità e antichità ad un
tempo!) che piantaste laggiù nel deserto intorno a questo settimo
mese. Allora sorge il vecchio e colle parole esordisce di Mosè ove
agli Israeliti ricorda l’assistenza divina per lo deserto, e in mezzo
alla sua sposizione esce fuori con questa aperta allusione ai suoi,
alla setta di cui era parte: E noi egualmente ci separammo
dall’abitato per vivere nei deserti onde meditarvi la legge,
CONCIOSSIACHÈ NON SI COMPRENDANO DAVVERO LE PAROLE DI DIO SE NON
NEL DESERTO; quindi riprende il santo vecchio il divisato
argomento, e tante e sì belle cose va dimostrando sui giorni e sui
riti pasquali che l’anima elevano ed il pensiero al solo
fraintenderle; tanto vanno improntati di una sublime e
trascendentale metafisica. Che sarà poi quando udirete il termine
con cui il Zoar conchiude la narrazione? Intanto, dice il Zoar,
piangeva Rabbi Simone; ed era pianto di gioia: levarono tutti gli
occhi e videro cinque di quei Farisei che dietro al vecchio
procedevano per raggiungerlo; alzaronsi tutti. Disse Rabbi
Simon: Dinne il nome tuo—Rispose lo straniero: Neorai il
vecchio, conciossiachè altro[167] più giovane Neorai sia fra noi.
—Disse Rabbi Simone ai nuovi venuti: Qual’è il vostro
cammino?—Noi seguiamo, risposero, il santo veglio le cui acque
noi beviamo del continuo per lo deserto. Allora gli si appressò
Rabbi Simone e baciollo,[53] e disse: Luce tu ti appelli, e luce è
con te: nè guari andò che accommiatitosi da quei solitari ripresero
i tre Dottori il loro cammino. Questi sono i due fatti che volli
citarvi appunto perchè sendo registrati nel libro più illustre dei
Teosofi nostri o cabbalisti, tolgono sempre più a confermare
quella identità che fu ed è mio officio il dimostrarvi fra l’antica
scuola dei nostri Teologi e l’Istituto degli Esseni.
Egli è forse per questo che gli altri rabbinici monumenti ci
porgano meno significanti gli esempi di questa predilezione
dell’amore del ritiro, della quiete dei campi e del sommo suo
confacimento agli studi ed agli atti di Religione? Tutt’altro. Vi
dissi, non è molto, come esempi non pochi vi fossero d’insigni
Dottori in ambedue i Talmud che chiesero al silenzio, al ritiro,
l’acquisizione dei misteri e delle religiose dottrine,[54] e solo
perchè meglio gli individui riguardavano le istituzioni, gli usi e i
generali costumi, ne feci separata e preventiva menzione. Ma
quanto più non tornan all’uopo efficaci gli esempi generali, gli
usi, le istituzioni, le leggi stesse da questo spirito informate! Le
leggi, quando sentenziano che ove tra i coniugi sorgessero
contestazioni sulla scelta del domicilio, a quella parte si debbe
piuttosto attendere che preferisce alla città i villaggi,
conciossiachè, dice il Talmud, il soggiorno delle grandi città
torni non poco alla morale periglioso, pei costumi pel solito più
molli e più rilassati. Le idee più intime dei nostri Dottori quando
ponendo in bocca alla Chiesa Israelitica quelle parole di
Salomone: Deh, gli fan dire (Talmud Tract Irrubin) al Signore;
deh non giudicarmi come gli abitanti[168] delle grandi città, tra i
quali è violenza, lussuria e maldicenza; ma usciamo ai campi,
(notate queste parole) ove ti mostrerò i cultori della tua legge che
meditano del continuo e tra angustie la tua parola, mattiniamo
alle vigne, cioè (continua il Talmud) ai tempj ed agli studi dove
vedremo la vite fiorire, cioè la Bibbia coltivarsi: e così via
discorrendo. Ma quali parole quelle che attribuisce alle città i vizi
discorsi! E quanto bene consuonano con quel che dice Filone a
proposito del ritiro e delle solitudini dei Terapeuti; maravigliosa
consonanza in verità! Primieramente, dice Filone, abitano in
campagna e schivano le città grandi, a cagione del mal costume
che in esse regna per ordinario, persuasi che siccome si contrae
una malattia col respirare un aria infetta, così i mali esempj
degli abitanti fanno impressione indelebile sull’animo nostro. Ma
io dissi anche gli usi generalissimi, anche istituzioni permanenti.
Potrò io dimostrarlo? Sarei io in grado di provarvi che tanto
spinsero oltre l’amore pei campi, da farne il prediletto, il
durevole, il venerato soggiorno? Facilmente, solo che io vi
rammenti la benedizione di Meen Scebach. Che cosa è questa?
Voi lo sapete, perciocchè l’udite la vigilia di ogni sabato. È quella
benedizione che dopo la preghiera sommessa pronunzia il
Ministro e che non è, a veder bene, che un compendio o
sommario della istessa Amida. Che cosa è questa benedizione e
perchè istituita? Chiedetene al Talmud, ai Ritualisti, chiedetene
ad ognuno, ed ognuno vi dirà quello che andiamo cercando; cioè
vi dirà che ai tempi misnici, ai tempi talmudici gli oratorii, gli
studi sorgevano tutti in mezzo ai campi, lontano dall’abitato, nella
solitudine e nel silenzio; vi diranno che all’orazione vespertina
convenivano da ogni parte i fedeli, che parte solerti giungevano a
tempo e la preghiera cominciavano[169] e finivano col popolo
tutto, parte trattenuti dai negozi o dal cammino protraevano le
loro orazioni alquanto più tardi. Perché non rimanessero soli
costoro fuori dell’abitato, che cosa fecero? Istituirono il Meen
Scebah che mandando un poco più alla lunga la orazione offriva
agio ai ritardanti di terminare prima che il popolo si partisse. Un
gran fatto emerge da tutto questo; ed è la presenza delle antiche
sinagoghe e dei pubblici studi nella solitudine; ch’è quanto dire
un nuovo riscontro col costume presso che generale degli Esseni,
dei Terapeuti.
Io non vi dirò adesso ciò che scrisse Beniamino di Tudela
nelle sue peregrinazioni. Ebbi luogo di ricordarvelo quando
voleva provare la provenienza Recabitica del nostro Istituto, e
spero che non l’avrete obliato. Narra Beniamino di aver veduto
nel Iemen tra le numerose popolazioni israelitiche di quella
regione, uomini, Dottori, Asceti che perseveravano nell’antico
costume degli Esseni, nella solitudine e nel ritiro. Non vi dirò
nemmeno come i nostri meno antichi moralisti, p. e., il Hobod
Allebabod, che fu non ha guari trasferito in italiano, il Rescit
hohma di un Cabbalista discepolo del Rabbi Isaac Loria, facciano
tutti e due menzione di una scuola di religiosi che predilegeva
l’isolamento e la vita anacoretica, l’ultimo in ispecie che fa
menzione siccome tale di un Rabbi Abraham apparus che vita
menava non disforme da quella più sopra descritta. Queste cose
pretermetterò volentieri poichè ho fretta di giungere all’ultima
quistione; non ultima però al certo per lo interesse che desta, ed è
quest’una. Rimane egli tra noi tuttavia traccia veruna di questi
antichissimi costumi e degli Esseni e di una frazione dei Dottori?
cioè, v’è nulla che tragga l’Israelita dal romore delle città per
levare la sua mente colla vista della natura, col silenzio, colla
maestà del creato, a pensieri più celestiali? Io ardisco dire che vi
è, vi è almeno nei libri, conciossiachè e belle e nobili[170]
istituzioni sien cadute fra noi in disuso, ed un gran brivido mi
mettesse un giorno per l’ossa il Lamennais, quando lessi nel suo
Romanzo les Amshaspandas et les Darvands quella frase terribile
les Hébreux ont perdu le sens de leurs institutions. Dopo avere
tante cose perduto, perdere ancora il senso delle proprie
istituzioni pareami troppo orribile cosa in verità; e vedendo tanti e
tanti inconsci assolutamente di aver perduto il senso delle nostre
istituzioni, pensai non forse avvenisse nella perdita del senso
morale, come avviene nei sensi del corpo che non sappiamo
d’averla perduta. Fatto è che la memoria, che la reliquia esiste; ed
esiste in un uso a noi incognito, ma che pure praticato fu dai
Talmudisti, e che solo fu in progresso ed è forse in qualche parte
ancor praticato dalla scuola Cabbalistica, io vo dire il
Ricevimento del sabato. Che cosa è ora? Egli è ora pei più un
canto incompreso, egli è per pochissimi lo stare per qualche
istante ritto colla persona, l’inclinare un poco a destra, un poco a
sinistra, un leggiero dimenare di capo; e tutto è detto. Che cosa
era e che cosa dovria essere? Era purificarsi anzi tratto il corpo,
era vestirsi di candidissimi pannilini, (vi ricordi il bianco
uniforme dei Nazarei, le stole dei sacerdoti, le candide vesti degli
Esseni, e tra poco, vedrete anco le bianche insegne degli Esseni
moderni, dei Cabbalisti,) e sopratutto egli era uscire all’aperto,
rinfrancare lo spirito coi vastissimi orizzonti, colle aure
purissime, colla maestà del tramonto, rannodare le antichissime
tradizioni patriarcali, salutare il sabato imminente, la sposa
mistica che s’avvicina. Così fecero i Talmudisti quando dicevano
l’uno all’altro esciamo ad incontrare la sposa. Così il verace
continuatore delle loro tradizioni l’Aari, quando per attestato dei
suoi discepoli (conciossiachè egli o poco o nulla abbia scritto),
vestito di quattro abiti bianchi a guisa dei sacerdoti, traeva fuori
per le campagne di Safet, città[171] boreale di Palestina, e
alternando i salmi di David e il mistico poetare, riceveva il
sabato. Così a tempi più tardi i Dottori di Sionne perseverando
nell’uso antico cercavano pei campi la mistica sposa. L’autore del
Hemdat iamim, Cabbalista se altri fu mai, gran scrittore, gran
moralista, dolorando come divelto dalla cara Sionne non potesse
dar opera, come l’usato, all’amabile rito, così si esprime in suon
di lamento: e nei giorni del mio esilio quando la sorte mi divelse
dalla Eredità del Signore, nei luoghi ove ramingai pellegrino,
non fummi per molte cause conceduto di proseguire nell’antico
costume; sibbene questo io faceva: traeva fuori al vestibolo della
sinagoga ove vasto e libero ti si schiude l’orizzonte, ed atto
all’accoglienza della sposa, e colà io leggeva il Ricevimento del
sabato. Avete inteso? È l’aria aperta, è il libero orizzonte, è la
vista del creato che sta a cuore al pio Dottore; egli a questo
spediente si appiglia non potendo far meglio: ma ciò ch’ei fare
vorrebbe, ei lo ha detto, ei lo dirà anche meglio nelle parole che
seguono: Ed ove ti sia conceduto, ascendi sulla cima di alta
montagna, provvedi che il luogo sia puro, e colà recita il
Ricevimento del sabato. Quanto diversi i tempi presenti! Le
persecuzioni, le reclusioni, le tirannie fecero certo gran male e più
male alle anime che ai corpi, perciocchè se la Religione si
conservava nei Ghetti, a caro prezzo si conservava; a prezzo di
divenire rachitica, atrofica, impotente, ingenerosa, a prezzo di
perdere quel fare nobile, grandioso, poetico, sentimentale che le è
proprio. I Ghetti caddero, è pur vero; e gli uomini ne uscirono
frettolosi, ma vi dimenticarono preziosissima gemma, la
Religione. La Religione è sempre in Ghetto; e sempre tra le
angustie, tra le tenebre, tra la melma di quei schifosi meati. Meno
infelici i soggetti dello Islamismo! i quali le pratiche religiose
spiegano impunemente alla luce del sole; i quali possono
mostrare davvero che[172] sia, che possa la fede ebraica. Il
Fariseo Cabbalista che ascende la montagna per salutare il giorno
santo, è cosa grandiosa per chi la intende, per chi non ha perduto
il senso delle nostre istituzioni; è più grande di Byron che si
affida su barca leggera al mar tempestoso per essere spettatore e
forse vittima della natura infuriata, che vuol assaggiare la morte
tanto per poterla descrivere; è più grande di Iacopo, la creatura
del Foscolo, che cerca per balzi e dirupi emozioni fortissime. E
perchè dico più grande? Perchè i poeti cercan nella natura, nelle
sue grandi scene, le sorgenti del Bello, mentre i poeti teologi
dell’Ebraismo ve lo recano, ve lo diffondono: conciossiachè vi
rechino, non vi cerchino le grandi idee ed i grandi effetti;
conciossiachè viva nel loro petto Dio creatore della natura, fonte
suprema del bello e del sublime; conciossiachè abbiano in petto il
tipo increato del Bello al cui raffronto sorgono giudici meglio che
spettatori del Bello creato. In una parola, i poeti ricevono il
raggio di Dio riflesso dalla natura, i poeti teologi dell’Ebraismo
diffondono sulla natura il divin raggio riflesso dall’anima loro.—
La natura divinizza i poeti—non è così? ma i poeti teologi
dell’Ebraismo divinizzano la natura.

[173]
[174]
[175]
[176]
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[185]
LEZIONE DECIMASECONDA.

Parecchie cose furonvi conte finora intorno agli Esseni. Oltre


il nome, l’origine, di cui a dilungo parlammo, sappiamo dove
abitavano—il mezzogiorno di Palestina—sappiamo ancora, lo
abbiam veduto nell’ultima lezione, come abitavano, ch’è quanto
dire solitari nella quiete dei campi. Se queste cose come le
avvenire, maggior tempo richiesero a trattarsi che per avventura
non sembra dicevole, lieve è lo scuoprirne la causa. Ella è quel
duplice e complessivo lavoro che noi imprendemmo, e quel
volere ad ogni passo, ad ogni nuovo elemento della loro
esistenza, trovare nuova conferma a quel postulato supremo che
vi enunciai dapprincipio, la restituzione dell’Essenato a quella
scuola più vasta che s’intitola dai Farisei; e più specialmente a
quella frazione che dagli altri si distingueva e per l’austerità della
vita e per la sublimità degli studj. Rinunciare a questo scopo
nobilissimo sarebbe certo ridurre a più angusti termini il nostro
lavoro, ma sarebbe altresì rinunciare a quel benchè modesto
resultato che ci è concesso sperare dalle nostre fatiche, a
quell’unico titolo che possono queste lezioni vantare alla
estimazione dei dotti. Ella è dunque stasera una nuova circostanza
di lor vita esteriore che noi dobbiamo apprezzare. È quella
predilezione e quell’amore[186] che gli Esseni ebber mai sempre
per le piagge, per le rive dei fiumi. Se meno gravi, se meno
concordi fossero gli attestati degli antichi autori, io dubiterei non
forse il caso meglio che la elezione avesseli per ordinario fatto
stanziare sulla ripa dei fiumi. Ma il potremmo pensare, dopo che
Plinio e Filone abbiamo ascoltato? Che dice Plinio? Plinio parla
specialmente degli Esseni di Palestina, e quanto ei dice al
capitolo 5 del libro XVII solo ad essi dobbiam riferire. Ora, se
non m’inganno, io ebbi luogo di accennarvi in altra lezione,
quanto Plinio ci narri in proposito. Egli asserisce come gli Esseni
vivessero tutti quanti in riva al Lago Asfaltide ossia Mar Morto, e
solo egli aggiunge tanto se ne discostavano quanto tornava
indispensabile a cansare le mefitiche esalazioni di quel lago
insalubre. Or che sarà se intenderete Filone lo storico dei
Terapeuti dirci altrettanto dei suoi solitari? Certo direte che non è
senza grave cagione che così accadeva. Or bene; aprite Filone
nella Vita contemplativa, e poichè vi avrà dette come taluni di
quei religiosi dimorassero qualche volta nelle città, queste parole
nonostante ne intenderete apertissime. Ma i principali, dice
Filone, si ritirano quasi tutti in un luogo che hanno fuori di
Alessandria vicino al Lago Mereotide sopra un’eminenza, che fa
il luogo securo e dove l’aria è salubre. E qui i Terapeuti non
potrebbero mostrarsi più che non si mostrino conformi ai loro
fratelli palestinesi. Com’essi parte vivono in società e parte in
ritiro, com’essi amano le campagne, i luoghi salubri, sopratutto
com’essi ancora prediligono le rive. Havvi a quest’uso un perchè?
Erano eglino gli Esseni, i Terapeuti nella scelta di questi luoghi
guidati da un principio, da una tradizione, da un esempio che
glieli additasse? La storia, il culto, la religione, la letteratura
ebraica ci rispondono propizi. Non dirò come le acque fossero
sempre[187] simbolo, immagine venerandissima in bocca ai
profeti, simbolo d’Ispirazione quando alludono alla futura
effusione dello spirito, simbolo di Beatitudine quando Dio è
presentato qual sorgente perenne di acque vive, simbolo di
Dottrina quando spargansi, dice Salomone, le tue acque per ogni
dove, intendendo della propagazione dei buoni studi. Non dirò
nemmeno come non solo atto si stimano a lavare di ogni corporea
impurità, d’onde le infinite e multiformi abluzioni di ogni
maniera immondizia, ma bensì la virtù lor si conceda altresì di
santificare e predisporre ai più nobili offici di religione, siccome
vediamo aperto nelle ripetute abluzioni del sommo Pontefice nel
giorno di Espiazione. Non dirò come la vista del mare, la
navigazione si dican capaci di preparare gli animi all’acquisizione
del (Hassidut), e già sappiamo gli Esseni dirsi Hasidim d’onde
l’adagio i marinari per la massima parte essere Hasidim. Non
dirò infine come le rive fossero dai Dottori desiderate dopo la
Terra Santa, siccome il più puro ricetto a ospitarne le ossa,
siccome vediamo in Ribbi Meir, il quale per attestato del Talmud
di Gerusalemme essendosi addormentato (bella metafora[55] per
dir trapassato!) in Assia, luogo come altra volta intendesse
dell’Asia minore, lasciò detto ai Discepoli Deh! vogliate
seppellirmi in riva al mare. Che se questo brevemente trapasso
per non tediare, come potrei tacere di cose che tanto a questo
sovrastano per gravità? Come tacere che per dottrina tradizionale,
per esempi grandi cospicui della Bibbia, il solo luogo atto dopo la
terra santa alla fruizione di profezia, sono i lidi del mare o le rive
dei fiumi? Come non dire che se Ezechiele profetò, tutto che
fosse oltra i confini di Palestina, ei fu solo perchè, dice la
tradizione, acconciamente vi si dispose stando in luogo purissimo
cioè sulla riva del fiume Chebar? Come non dire che se Daniel
ebbe visione, e non[188] in Palestina, ei fu, dice egli stesso al cap.
VIII, sul fiume Ulai? Come tacere del capitolo X dove, se ci si
narra l’ultima sua visione, ella è pure in riva ad un fiume, il fiume
Tigri? Come tacere che se festa vi era in cui si stimava potere
l’ispirazione conseguire, quella si era in cui le libazioni di acqua
si praticavano;[56] non troppo dissimile da quanto i Pagani
favoleggiarono intorno la profetica virtù dell’onda Castalia,
dell’Ippocrene, dell’Aganippe e del Lebitrio? Come non ricordare
ciò che dice Massimo Tirio parlando dell’oracolo Jonico. Lo
Ipopteta, ei dice, della Jonia dopo avere attinto e bevuto l’acqua
del sacro fonte predice lo avvenire? E come infine tacere dell’atto
più importante della monarchia israelitica della unzione del
nuovo Re? La qual cerimonia, è la Bibbia che lo attesta, si faceva
e doveva sempre farsi, aggiunge il Talmud (in Oraiot), sulla riva
di un fiume, in quella guisa appunto che vediamo nei Re
praticato, in Salomone, il quale per ordine di Davide condotto
presso a Ghihon, piccola riviera che scorreva vicino a Solima, vi
fu solennemente sacrato e proclamato monarca? Ma quanto non
riescono al confronto insignificanti cotesti esempi ove ad un fatto
grande significantissimo si riferiscano, di cui la Tradizione ci ha
serbato memoria! Perocchè tra i Pagani, nei tempj loro più
venerandi, negli oracoli più famosi, non altrove, sorgesse l’altare,
non altrove si locasse la Pila, a inspirarsi del Nume che colà
abitava se non sull’orifizio di un pozzo, questo sapevamo e per
storici antichi e per moderni: sapevamlo sopratutto dal Clavier
(Les oracles des anciens) di cui non ha guari scorsi le pagine, ove
in una dotta Memoria presentata all’Accademia sugli Oracoli
degli antichi tolse a dimostrare con squisita erudizione, il fatto da
me accennato nei due più famigerati tempj ed oracoli di Grecia
antica, in quello cioè antichissimo di Dodona e in quello[189] di
Delfo. Il sapevamo da Origene il quale dice la Pitia essere posta
sull’orifizio della fonte Castalia; da Euripide nella Ifigenia in
Tauride, dove facendo Apollo parlare, sì gli fa dire: Il mio
Santuario divino sulla corrente Castalia.—Da Temistio che
scrive: Gli Anfizioni furono i primi fondatori di Delfo, un pastore
del Parnaso sendosi trovato invaso dallo spirito profetico del
fonte Castalio; da Nonnio nei suoi Dionisiaci, che disse: L’acqua
divina della previdente Castalia era in ebullizione; da Ovidio che
all’antro della Pitia dà il nome di antro Castalio; e infine da
Pausania che così si esprime nella descrizione di Delfo: Volgendo
a sinistra all’uscire dal tempio di Delfo voi trovate la tomba di
Neottolemo; un poco più in alto si vede una pietra che non è
grandissima. È unta con olio; ogni giorno ed i giorni di festa è
coperta di lana grassa. Questa pietra è, dicesi, quella che fu fatta
inghiottire a Saturno invece del figlio e che poi in questo luogo
rejesse. Ritornando di là verso il tempio, tu osservi la fontana
Cassoti (altro nome della sorgente Castalia) essa è circondata di
un muro poco alto, in cui è praticata una porta per cui si crede
che quest’acqua si conduce per vie sotterranee nel santuario del
Dio e ch’è dessa che ispira le donne che vaticinano lo avvenire.
Così tutti gli scrittori summentovati dell’oracolo Delfico.
Possiamo dire altrettanto di quel di Dodona? Sì, se portiam fede a
Servio nel commento a Virgilio, il quale al libro terzo dell’Eneide
sopra il v. 406 così si esprime: Questo paese di Dodona è sui
confini della Etolia. Gli antichi vi consacrarono un tempio a
Giove ed a Venere. Presso al tempio, immane quercia sorgeva, a
quanto sen dice, dalle cui radici una fonte scaturiva, il cui
mormorio per divina ispirazione una vecchia donna per nome
Pelia interpretava. Ex cuius radicibus fons manabat qui suo[190]
murmure instinctu deorum diversis oracula reddebat. E questi
furono i due più celebri oracoli della greca antichità, e questo il
modo dei loro responsi; nè da questi differirono altri infiniti,
comunque meno famosi; non quello dei Branchidi nell’Asia
minore di cui così favella Jamblico nel libro sui Misteri: Una
donna appo i Branchidi predice lo avvenire, vuoi tenendo la
verghetta in origine donata da qualche Iddio, vuoi assisa sopra il
tripode, forse ancora i suoi piedi o il lembo del suo vestito stanno
immersi nell’acqua, e infine il Dio a lei si comunica col vapore di
quest’acqua. Nè quello differiva dei Colofoni, al dire di Jamblico,
che ne discorre in questa guisa: Quanto all’oracolo dei Colofoni,
ognuno conviene che egli è per mezzo dell’acqua che ci si
annunzia lo avvenire. Una fonte vi ha in un edifizio sotterraneo.
In certa notte dopo parecchie cerimonie e sacrifizj, il Profeta bee
l’acqua del fonte, e non veduto da quelli che vennero a
consultarlo predice lo avvenire.
Ma quello che colmare vi dovrà di stupore, quello che io temo
forte vi sarà riuscito sinora ignoto, siccome quello che poco
eziandio è divulgato tra i cultori delle lettere sacre, egli è questo
fatto curiosissimo, il fatto cioè che non altrove era situato il
grande altare dei sacrifizj nel tempio di Dio, tranne sulla bocca di
un pozzo, pozzo, dice Rascì nel Talmud (14º di Succa), che
riceveva tutte le libazioni che si versavano sull’altare; pozzo che
si chiama Scitin nel Talmud e che si proclama antico quanto il
mondo, Scitin nibrau miscescet ieme berescit, d’onde il curioso
anagramma berescit bera-scit; pozzo, secondo i dottori accennato
da Isaia, ove paragonando Israele ad una vigna dice: e vi fabbricò
il suo padrone una torre, e questo è l’altare; un pozzo vi scavò, e
questo è la cavità sottostante; pozzo, interpreta il[191] Moarscià,
ch’era come la scaturigine di tutte le acque mondiali, ristretta,
contenuta ai piedi dell’altare, sì perchè (stupendo pensiero)
imponendovisi sopra quasi suggello l’altare di Dio, rispettin le
acque i naturali confini, nè più irrompino a inondare la terra; sì
perchè vengano benedette le acque dalla sorgente di ogni
benedizione, e le libazioni scorrano all’oceano quasi sangue
novello perpetuamente infuso nelle arterie del Globo. E questa è
parlantissima analogia oltre le altre già menzionate, oltre altri fatti
in gran numero che ometto per brevità col costume che vediamo
prevalso tra gli Esseni di ogni colore di abitare le rive. Ma quanto
non amerei che più a lungo mi fosse dato d’insistere sull’ultimo e
supremo fatto da me accennato di sopra—il pozzo sacro su cui
poggiava l’altare! Non solo i tempj e gli oracoli greci potrei
chiamare, come dissi, a rassegna, ma molte altre idee con questa
principalissima concomitanti potrei accordare, vedreste le idee
dei Pagani su quel pozzo, su quelle acque poco procedere
dissimili da quelle da Moarscià enunciate, comecchè il solo genio
delle dottrine talmudiche gliele abbia ispirate; potrei mostrarvi
come ogni qual volta si dava ai Pagani un pozzo profetico, non
mancava un idea, una tradizione che lo accompagnasse, voglio
dire la credenza comune in Grecia, comune in Fenicia che da
quell’orifizio, da quel condotto, fossero tutte scolate e tutte
inghiottite le acque del Diluvio quando si ritirarono; e che il
tempio e l’altare e l’oracolo quivi eretto, fosse un perpetuo
religioso scongiuro contro le onde frementi; vorrei dirvi come
quell’intimo comunicare dello altare di Dio colla profondità della
terra, quel veicolo che univa l’ara alle viscere più segrete del
Globo, riceva lume e tolga senso principalmente dalle dottrine dei
Pitagorici. I quali non solo chiamavano il fuoco centrale torre di
fortezza (Pyrgos) come i dottori appunto,[192] cosa sorprendente!
chiamarono il centro della terra il sito dell’altare col nome
Migdal, torre di fortezza, ma ciò che più monta chiamavano i
Pitagorici quel centro stesso altare dell’universo come appunto
nel centro della terra secondo i Dottori, sorgeva l’altare e il fuoco
perpetuo quasi vampa projetta e quasi prolungamento del fuoco
centrale di cui favellano i Pitagorici. Ma di questo basti per ora;
basti lo avere provato come nemmeno in questa circostanza, in
questo costume, nell’amor delle rive si dipartissero gli Esseni dal
comune pensare e dalle idee predominanti tra i Farisei.[57]
Rimettiamoci dunque in cammino e procediamo spediti. Che
cosa abbiam fatto sinora? si può dire senza errore che poco più
abbiam fatto fuorchè aggirarci intorno agli Esseni senza mai
investirli. Nome, Origine, Patria, Regione, Solitudine, Sito
particolare, tutte cose senza meno opportune, ma che non sono
ancora gli Esseni. Tempo è che gli Esseni stessi consideriamo più
davvicino. Ma anche adesso conviene procedere ordinatamente e
a grado, conviene sapere se sono tutti omogenei o in qualche
parte diversi fra sè; in altri termini conviene sapere se classi vi
erano, e quali, e quante nel grande Istituto. E qui non potrei senza
colpa dissimularvi che le notizie che intorno al subbietto ci son
pervenute, procedono a senso mio così confuse e talvolta eziandio
così contraddittorie, che dura cosa è mettere ordine e luce in tanta
repugnanza di idee.
Voi non volete certo sobbarcarvi a una sottile disamina, nè io
lo esigo. Vi risparmierò dunque il Processo, vi risparmierò altresì
i considerandi della mia sentenza; questo solo vi dirò, che a
quanto ho potuto capire dal confronto dei Testi, due
classificazioni debbono ammettersi nel nostro Istituto. Notate che
dico due classificazioni e non due classi, dico due ordini di classi,
due[193] gradazioni, due gerarchie. La prima riguarda la maggior
o minor purità a cui s’obbligavano nel contatto delle cose
esteriori, e si deve intendere in quel senso tutto ritualistico e
positivo a cui accennano i Trattati sulla materia. E in quest’ordine
d’idee, in questa gerarchia quattro gradi o classi rammenta la
storia in seno agli Esseni. E principalmente ne favella Giuseppe
nel libro secondo delle Guerre Giudaiche, dove così si esprime:
«V’ha d’essi secondo il tempo della loro professione quattro
differenti classi; e i più giovani sono talmente inferiori agli
anziani, che se accade che uno di classe più alta ne tocchi uno
della più bassa, convien che si lavi come se avesse toccato un
incirconciso.» Resta ora a parlar della seconda classificazione
della seconda gerarchia. Ma prima di procedere più oltre, e
seguendo il nostro stile, domandiamo a noi stessi: se egli è vero
che gli Esseni non altro sono che una frazione, la più sublime
frazione dei Farisei, siccome per me si estima; mestieri è pure che
di questa quadruplice divisione non solo appo i Farisei resti
serbata memoria, ma che i Farisei stessi a dirittura se
l’approprino, voglio dire che di se stessi narrino i Farisei ciò che
degli Esseni i loro storici ci raccontano. Dov’è questa menzione,
e in qual guisa se la appropriano i Farisei? Voi comprendete che
ove la divisione esista realmente, laddove poi ai Farisei istessi sia
applicata, fatto non indifferente sia cotesto in verità, per la
identità da noi propugnata tra Essenato e Farisaismo. Ora dov’è la
quadruplice divisione? Voi la troverete a capello nel 2º capitolo di
Haghiga dove leggerete le seguenti espressioni: bigde am aarez,
medras lapparuschem, bigde paruscum medras leohele maaser
scheni, bigde, ooele maaser sceni medras leohele teruma, bigde
ohele teruma, medras lacodes, bigdes codes medras lehattat.
[194]
Dove più cose sono da osservarsi; prima la quadruplice
gradazione di purità rispondente ai quattro gradi di purità nella
società degli Esseni, per ciò che riguarda il reciproco contatto; e
dico quattro nel testo Misnico; giacchè ognuno comprende come
coloro che sono al di fuori del farisato, cioè bigde amaarez, non
possano ammettersi in conto. Il fatto poi dalla Misna rivelatoci
come vi fossero uomini tra i Farisei che senza appartenere al ceto
sacerdotale, come Iohanan Ben Gudgheda ivi stesso
rammemorato, od anche al ceto sacerdotale appartenendo come
Iose ben Ioezer che vien chiamato col nome significantissimo di
Hasid, come dico, tali vi fossero che in tutti i loro rapporti quella
rigida osservanza serbassero di purità, ora qual si conviene al
sacro cibo di Teruma come Iose il Hasid, ora qual si addice anzi
alle offerte stesse approssimate agli altari, come l’altro, Iohanan
Ben Gualgheda. E questa è la prima classificazione e la memoria
ed il segno che di essa è rimasto nei libri rabbinici. Ma io dissi, se
ben vi ricorda, come duplice classificazione distinguesse gli
Esseni. Qual’è la seconda classificazione? Ella è quella che
riguarda, non già come la prima il diverso grado di purità, ma ciò
che più monta, il genio riguarda e l’officio diverso delle classi
che la società componevano. E quante erano queste classi? Eran
due. Si dicevano i primi Esseni pratici, si dicevano i secondi
Esseni contemplativi. Che cosa erano gli Esseni pratici? Eran
coloro che senza troppo gittarsi nel turbine delle faccende
mondane non lasciavano però di conversare familiarmente cogli
uomini in società; che non solo praticavano il matrimonio, ma lo
predicavano eziandio santo e legittimo, e conforme sopratutto alle
mire provvidenziali per la conservazione della specie umana;
erano coloro di cui così favellava Giuseppe nel 2º delle Guerre:
«V’è ancora un altro ordine di Esseni che ha l’istesso[195]
metodo di vita, i medesimi costumi e le medesime regole, toltone
l’articolo delle nozze, questi dicono che sia tôrre alla vita umana
una delle sue parti più considerabili, lo impedirne la successione
col non ammogliarsi, e che se tutto il mondo fosse di questo
parere il genere umano presto correrebbe al suo fine. Ma
spendono tra anni ad esplorare gli animi delle lor spose; e
quando sono state tre volte in questo tempo purgate conchiudono
che sono atte ad aver figliuoli, e le sposano.» Queste sono le
parole di Giuseppe intorno agli Esseni che si dicono pratici. Se
fossero a voi famigliari i libri e le sentenze dei nostri Dottori,
trovereste siccome io trovo, una mirabile uniformità di linguaggio
tra gli Esseni, secondo Giuseppe e i Dottori più celebrati, intorno
la necessità, il dovere del matrimonio; tantochè se non mancano
esempj, come altra volta vi dissi, di celibato volontario ascetico in
seno ai Dottori, non si può negare che il comun genio e le
prevalenti dottrine non consentano piuttosto col genio, colle
dottrine di quella parte di Esseni che si nomano pratici. Ma una
seconda divisione nell’Essenato vi additava, ed è quella degli
Esseni contemplativi. Che cosa sono gli Esseni contemplativi?
Sono quelli che ponevano ogni amore nello studio e nella vita
contemplativa, quelli che passavano i loro giorni, dice Filone, a
meditare i libri sacri e la filosofia dai maggiori imparata; che
continuamente rinchiusi nelle loro cellette, nè uscivano, nè
parlavano con chicchessia, e che di fronte alle speculazioni e allo
studio, continua Filone, ogni altro religioso dovere tenevano a
vile. Queste sono le due classi, e questo il ritratto che ce ne offre
principalmente Giuseppe. Filone istesso non lascia di autorizzare
la esistenza di questa duplice classe. Filone, come altra volta vi
dissi, scritto aveva due libri l’uno «ogni uomo onesto è libero» e
parlava degli Esseni[196] l’altro, de vita contemplativa e vi
trattava dei Terapeuti; ma ciò che grandemente interessa la
questione presente, si è il modo, si è la frase con cui Filone
trapassa dal 1º libro al 2º da quello cioè che concerne gli Esseni a
quello che riguarda i Terapeuti. Egli usa parole che non solo
confermano la esistenza della duplice classe da noi accennata, ma
ci additano altresì la speciale composizione dello Essenato
Palestinese ed Egizio e quale e nell’uno e nell’altro predominasse
degli accennati elementi, Pratico o Contemplativo. Avendo già,
così dice Filone all’esordire del 2º libro, avendo già fatto parola
degli Esseni (e già aveva detto precedentemente come cotesti la
Palestina avessero a patria), i quali menano una vita pratica e
attiva, conviene al presente ch’io tratti di quelli che si danno alla
Contemplazione. Che cosa vedete in queste parole? Non solo
vedrete la identità generica, la suprema medesimezza degli Esseni
e dei Terapeuti che taluno volle revocare in dubbio; non solo vi
vedrete la distinzione delle due classi, ma ciò che al tempo stesso
non vi potrà non apparire manifesto si è, come benissimo
avvertiva l’illustre sig. Munk, il prevalere del pratico elemento tra
gli Esseni di Palestina come la preponderanza che aveva la parte
contemplativa tra i Terapeuti, ch’è quanto dire tra gli Esseni di
Alessandria. Nè altrimenti poteva procedere la bisogna. L’Egitto,
e specialmente l’Egitto siccome fatto lo avevano la greca filosofia
e le religioni orientali, era la patria naturale, propria di ogni
ascetismo comecchè trasmodante. Il celibato, la solitudine, il
disprezzo del mondo, il divorzio di ogni civile consorzio, erano
piante che in niun altro terreno meglio avriano potuto attecchire
che nel terreno egiziano. Non così per Palestina, dove se la vita
contemplativa non cessava di essere in onore grandissimo, non
era di quella tempra viziosa, esclusiva che colpisce di[197] paralisi
ogni più attuosa facultà, e le più prestanti e rigogliose aspirazioni
consuma in un misticismo vaporoso. La vita contemplativa dei
Dottori non procedeva per lo più scompagnata dall’esercizio della
umana attività, dalla santificazione del corpo, mercè il culto
esteriore, dalla santificazione del mondo e dei piaceri e delle
occupazioni del mondo, mercè il suggello e quasi non dissi il
crisma che gl’imponeva la fede. Misticismo, vi era chi lo nega?
Ma era quello di buona lega, quello che non scinde, non
smembra, non mutila l’uomo a favore delle facoltà sue
superlative, ma che tutto l’uomo, i pensieri come le opere, gli
studj come la pratica, il corpo come lo spirito, prende a
santificare, e tutto, anche le opre più vili, gli fa praticare in
ispirito e verità; era quel misticismo sincero, di cui
nobilissimamente discorreva Vincenzo Gioberti presso a cui
s’impara più d’Ebraismo che non per avventura presso a tanti
sedicenti israeliti scrittori, quando nella Filosofia della
Rivelazione dettava queste parole, a cui ogni buon Israelita
potrebbe soscrivere «La vera vita contemplativa implica l’attiva,
o esterna e sensata. L’attiva perchè la somma anzi l’unica
attività, è quella del pensiero. L’esterna perchè questa è
necessaria a svolgere l’intelligente e a passare allo stato di
mentalità pura; gli orientali e gli ascetici che rigettano la vita
esterna e collocano la vita contemplativa nella mera passività,
non s’intendono di vera contemplazione.» E Gioberti ha ragione
per l’oriente eterodosso. L’oriente ortodosso però, i Profeti e
Dottori, comecchè recassero la vita contemplativa sino alle sue
ultime conseguenze, non la fuorviarono mai dalla via che
conduce al perfezionamento dell’uomo intero, e Paradiso e
Civiltà se non eran per essi due termini sinonimi, certo eran
strettamente correlativi. Moralmente parlando l’Ebraismo
aveva[198] collocato da lungo tempo la terra in cielo, pria che
nascesse Copernico. E questo era il misticismo palestinese, e
questo principalmente il suo Essenato, in cui la parte maggiore si
componeva, voi la udiste, di quei Dottori, di quei fratelli, che
tutto che vivessero e conversassero tra gli uomini in società, e
nozze contraessero, e gioje e dolori e vicende coi fratelli tutti
dividessero, ciononostante tale inflessibile regola presiedeva ad
ogni loro atto, tali i vincoli che li univano comecchè disgregati
talvolta, tale l’unità di vita e di mire a tutti comune, che per essi
non sarebbe profanazione ripetere ciò che fu detto per quel Dio
che sì nobilmente adoravano: che la sua circonferenza non è in
nessun luogo e che il suo centro è da per tutto. Non si vuol dire
con ciò che contemplativi veri, proprj, esclusivi, non esistessero
in Palestina, e se io lo dicessi, non solo Giuseppe, ma i Dottori
stessi, ma il Talmud, ma il Zoar sorgerebbero a smentirmi. Ciò
che dico questo si è, ch’eran pochi, non solo, ma che anche nel
concetto universale era quello uno stato di sovrumana perfezione,
a cui non avrebbero potuto senza periglio aspirare che pochissimi,
a cui natura avesse conceduto la forza di vivere sulla terra la vita
dei Celestiali. Ma pure esistevano, e se esistevano, mestieri è per
essi come pei Pratici, rinnovare quella inchiesta che non
cessammo di ripetere ad ogni nuovo elemento che ci si porse
dinanzi della Essenica esistenza. Havvi di questa distinzione
memoria tra i nostri Dottori, consuona questa duplice divisione di
Pratici, di Contemplativi, con quel che di sè narrano i Dottori
delle proprie divisioni? Abbiamo insomma, anche da questo
verso, ragione di credere alla identità da noi propugnata delle due
scuole di Esseni e di Farisei? La prossima conferenza ce ne darà
adeguata risposta.
[199]
[200]
[201]
[202]
[203]
LEZIONE DECIMATERZA.

Di due sorta classificazioni studiammo nella società degli


Esseni nella conferenza passata: abbiamo veduto in che cosa
consistesse la prima, e come getti le sue radici in una identica
distinzione che la Misna ci additava in seno al Farisato. Abbiamo
veduto in che cosa consistesse e su che principalmente si
fondasse la seconda distinzione; distinzione di officio, di genio, di
peculiare indirizzo, per cui in due principalissime categorie si
dividevano tutti gli Esseni, in Pratici, in Contemplativi. Erano i
pratici coloro che del tutto non si separavano dal mondo. Eran i
contemplativi coloro che all’amor dello studio, al ritiro, alla
contemplazione sacrificavano ogni altro culto, ogni affetto, ogni
ambizione: di queste due classi noi abbiamo costatato, quanto era
mestieri, l’indole, il carattere particolare; abbiamo veduto come
più si affacesse ai primi la patria Palestinese, e come piuttosto si
acconciasse ai secondi il soggiorno di Egitto. Se questa fosse
semplice e nuda esposizione della Essenica organizzazione, se
non ci fossimo sin da principio proposti di restituire il nostro
Essenato al più vasto seno, alla più vasta scuola dei Farisei, se
non dovessimo porre questa identità al raffronto di ogni fatto che
si presenta, e da quello nuovo argomento derivare[204] in favor
nostro; se questa restituzione non fosse di sommo, di capitale
interesse nella storia religiosa del popolo nostro, forse noi,
postergato questa sera l’argomento presente, procederemmo
difilati più oltre. Però grave debito c’incombe e lo adempiremo.
Noi dobbiamo sperimentare quanto e come regga al confronto dei
fatti il nostro supposto, dobbiamo vedere se la distinzione di cui
si favella nella società degli Esseni, risponde ad altrettale
distinzione in seno al Farisato; in una parola, dobbiamo anco una
fiata vedere se la propugnata identità non è una favola. Io chieggo
dunque: conobbe egli il Farisato distinzione siffatta? Havvi tra
esso una scuola, un sistema che sia e che si appelli
contemplativo? Havvi al tempo istesso un altro che le dottrine
professi e il titolo rechi di Pratici? Io oso dire che la distinzione
esiste, e tale esiste che meglio non potrebbe allo scopo conferire.
Esiste in tutta la estensione della Enciclopedia Rabbinica dei
primi secoli, esiste nei fatti, negli uomini, nelle dottrine e infine
sotto due principalissime forme due modi di storica rimembranza.
Prima forma io chiamo quei casi innumerevoli in cui l’una o
l’altra scuola, i Pratici o i Contemplativi s’introducono ad agire, a
parlare isolatamente, separatamente dalla scuola e dal sistema
contrario, così che noi esamineremo successivamente, passando
prima in rassegna tutto ciò che nella Rabbinica Enciclopedia
allude agli uomini, ai fatti, alle dottrine dei Pratici, e poi ai fatti e
agli uomini che si dicono Contemplativi. Ma quanto più vivo
interesse, quanto più efficacia nella forma seconda! In questa
Pratici e Contemplativi, sistema e sistema, dottrina e dottrina più
non ti appariscono lontani e disgiunti; ma con bella e parlante
antitesi interloquiscono ambedue ad un tempo; e fede fanno ad un
tempo della loro esistenza, e la distinzione pongono più
chiaramente in rilievo in[205] virtù del contrasto. E prima, che
nome recano negli scritti Rabbinici le due scuole? Che nome pei
primi i Pratici?—Ora il nome di Iere het, che temono il peccato,
ora quello più espressivo di anse maase, gli uomini della pratica,
i Pratici, come udirete dagli esempj. Che nome recano i
Contemplativi?—Il nome principalmente di Hasidim. Noi
dell’uno e dello altro conosciamo i nomi; dove ora le dottrine,
dove i fatti e dove gli uomini? Dove in primo luogo i Pratici?—
Eccoli quando predicano l’insufficienza della sola speculazione;
quando vogliono lo studio delle cose divine congiunto alla pratica
dei doveri sociali iafe talmud tora im dereherez, im en dereherez
en tora; quando dicono l’uomo non doversi dalla società
sequestrare leolam tee datho sceladam meurebat im abiriot;
quando insegnano nessuna virtù tornar gradita comecchè
trascendente; quando dal centro vivificatore si sequestri, dalla
religiosa comunanza, dalla chiesa di Dio; quando levano a cielo la
necessità del lavoro ghedola melaha scemehabbedet bealea;
ghedolim baale umaniot l’amore dell’industria, la fatica del corpo
e i benefici influssi di una vita laboriosa ed attiva alla salute
dell’anima. Dove sono i Contemplativi? Vedeteli nel Talmud in
Sotà ove coi più celebri Dottori si lamentan perdute altresì le più
rare virtù, e dove specialmente con Iose ben Catnuta si dice
oscurato il lustro dei Hasidim; vedeteli nel Talmud
Gerosolimitano, ove di un’opera e di un titolo si accenna, che non
so come si potrebbe desiderare più appropriato pel caso nostro; è
la menzione di un’opera che il titolo reca di Misnat hasidim, ed in
cui tutto ed al sommo c’interessa, persino una curiosa variante.
Interessa una citazione che ivi stesso è riprodotta dell’opera in
questione, e dove in brevi ma espressivi tratti ti si dipingon le
fattezze dei Contemplativi; ove si legge, p.e.: se tu per un solo
giorno mi abbandoni,[206] io ti abbandonerò per due, volendo
dire come l’assiduità e la perseveranza sia precipua somma
condizione nei sacri studj; e noi sappiamo qual ritratto ci abbia
Filone lasciato della applicazione istancabile dei Terapeuti ai cari
studj. Dissi persino una variante, e ve lo provo. Io lessi Misna
hasidim Lettura o tradizione dei Hasidim per che così recano
parecchi autorevolissimi testi, per che così par confermato da altri
passi talmudici, come tra poco intenderete, e perchè finalmente,
quando pure si meni buona la diversa lezione, pure il senso
rimarrebbe a parer mio invariato. Ma qual è la seconda lezione?
Leggono invero alcuni testi Meghillat Setarim invece di Misnat
hasidim. Ma che vuol dire Meghillat Setarim? Vuol dire il volume
dei Misteri. Io non so s’è dato afferrare da ora l’attinenza che
corre strettissima fra le due lezioni. Bisognerebbe che precorso
aveste in parte il mio dire. Bisognerebbe che voi sapeste come i
libri degli Esseni fossero tenuti in gelosissima custodia, nè ad
altri ne fosse comunicata contezza, tranne ai più fidi, ai meglio
provati. Comprendereste allora l’origine di questa variante;
vedreste siccome io veggo come naturalmente siensi presentate
ambedue le lezioni, e vedreste ancora come se la vera e originale
lezione non è al certo che una, pure non può essere senza grave
cagione ammessa, introdotta la seconda lezione, e questa cagione
e questa origine e la somma convenienza di libri, di opere
esotteriche quando si parla di Esseni; siccome quelli che la storia
accenna veramente possessori e custodi di libri siffatti.[58]
Ma in altre parti ancora della Rabbinica Enciclopedia
lasciarono di sè vestigia i hasidim. Lasciaronle nel Talmud
Babilonico ove a chiunque, ed eziandio a quei Dottori che alle più
rigide regole non soggiacquero del Hasidut, e solo allo
strettissimo Jure mostrino di attenersi,[207] si suole maravigliando
interrogare, ella è forse cotesta la Misna dei hasidim? Quasi
dicessero, egli è questo il fare severo, irreprensibile dei hasidim?
—Lasciaronla nel trattato Berahot, dove degli antichissimi
hasidim si narra il lungo orare, e le protratte preparazioni, e la
giornata quasi interamente sacrata agli uffici di devozione quando
si dice: Gli antichi hasidim un’ora spendevano in preludio a
preghiera, un’ora nell’orare, un’altra pria di congedarsi da Dio
e così facevano tre volte al giorno. Ove dunque gli studi e dove
l’industria per vivere?—Si ripiglia lo stesso Talmud: sendo
costoro hasidim, il poco studio fruttava assai e lo scarso
industriarsi sopperiva al bisogno. O io sbaglio, o questo passo del
Talmud è un bizarro accozzamento di antiche tradizioni e di più
moderne spiegazioni. Mestieri è che sappiate che cosa sia il
Talmud Babilonico; come fuori fosse compilato di terra santa,
come gli autori che dierongli la forma sua definitiva, nè la
Palestina per avventura vedessero mai, nè i partiti, nè le vicende
più importanti gli fossero conte di Palestina; quindi i non rari
anacronismi nella storia palestinese, i fatti storici a quella relativi
narrati in confuso, e quindi infine il sentenziare presente. Per
tradizione conoscevano per avventura gli antichissimi Hasidim e
li ricordano, udito avevano la vita a perfezione religiosa
atteggiata, e così la dipingono; le orazioni lunghissime, la
giornata spesa in devozioni e tale la narrano in verità, obbliarono
però o non udirono come la speciale loro organizzazione, la
comunanza dei beni, il lavoro in comune, questo tenore di vita
straordinario gli consentissero, cioè le lunghissime ore trascorse
in offici pietosi, quindi le più tarde e forzate spiegazioni, il
ricorrere al prodigio, l’attribuire ad una grazia ognor rinnovata
ciò ch’era effetto della loro istituzione, e quindi il bizzarro
accozzamento di un fatto vero e di una ragione arbitraria,[208] di
una tradizione verace e di una interpretazione gratuita.[59] E
lasciarono di sè manifeste vestigia in Hasidim, in quella
eccezione singolare per cui un ceto intero dei cultori della legge
viene formalmente dispensato da ogni pratica religiosa, siccome
apertamente dispensa il Talmud da ogni religioso dovere coloro
che fanno unica somma loro occupazione la meditazione della
legge, o come dice il Talmud, che altra professione non eserce
tranne lo studio; e quando infine per colmo di maraviglia volendo
citare il Talmud un uomo, una scuola che alle condizioni tutte
abbia adempito necessarie a questa dispensa, il gran nome cita e
la gran scuola ad esempio.[60] R. Simon ben Johai e i suoi
compagni, insegnandoci al tempo stesso nella citazione
preziosissima e il carattere ascetico, speculativo, studioso,
eccezionale di quella famiglia e la preziosa indicazione della
esistenza istessa di una scuola da quel gran nome capitanata, e
infine la bellissima coincidenza delle due dispense, quella che il
Farisato consentiva al Ben Johai ed alla scuola sua da ogni pratica
osservanza, e quella che gli Esseni rispettavano nel più perfetto
del loro Istituto da ogni pratica esteriore;[61] e quindi nuova e
preziosissima conferma e della identità generale della Farisaica
colla Essenica scuola, e tra i medesimi Farisei una più speciale
affinità colla scuola mistico-teologica, dei cabbalisti di cui fu
principe e restauratore Simon Ben Johai. Ma io vi dissi che non
solo disgiuntamente lasciarono di sè vestigio nei Rabbinici
monumenti ed Esseni pratici ed Esseni contemplativi; dissi
ancora, e vado a provarlo, che la coesistenza in seno al Dottorato
di questa duplice ramificazione, resulta anco più spiccata, anco
più manifesta in tutti quei luoghi, e sono molti e sono parlanti, nei
quali gli uni figurano a costa degli altri, in cui Pratici e
Contemplativi si fanno lume, si spiegano, si suppongono
scambievolmente, ora[209] Dottrina contrapponendo a Dottrina,
ed ora professori a professori. E dove fan questo? Dove in primo
luogo l’antitesi delle dottrine? Antitesi, io dico, chiarissima nel
Talmud Berahot, dove Pratici e Contemplativi scendono a
disputare.—E qual’è del disputare l’obbietto? Niente meno che la
quistione grandissima che tra essi verteva, voglio dire la
eccellenza maggiore di ambo le vite, della vita pratica e della vita
contemplativa. Voi comprendete il gran momento di questo
trovato. Ma che sarà poi se il nome intenderete dei disputanti, se
vi dico, per esempio, che l’avvocato della vita pratica, della vita
socievole è Ribbi Ismaele, e se aggiungessi di più che
l’apologista della vita contemplativa è R. Simon Ben Iohai? Certo
che in questa disputa, in questi nomi vedreste l’impronta del vero.
—Certo direste, ma non invano, il Ben Iohai è sempre nelle
pagine del Talmud l’infallibile rappresentante della vita, delle
dottrine, della società degli Asceti. Certo, direte, che i vincoli che
le sua alla scuola stringevan degli Esseni, vincoli dovevano essere
forti, numerosi, strettissimi. Ma che? La verità si fa strada da sè, e
non fa d’uopo che lasciarla parlare per rimanere convinto. Udiste
poc’anzi un cabbalista, un Fariseo, R. Simon Ben Johai,
attribuirsi, patrocinare il sistema, la vita, le idee degli Asceti.
Udite ora un altro Fariseo, un altro Cabbalista gli stessi principii
propugnare e le stesse dottrine: e chi è cotesto? Egli è Ribbi
Akiba, il cui nome nei fasti cabbalistici suona non meno celebre
del suo celebratissimo discepolo Ribbi Simon Ben Johai. Ma
quanto del disputare il campo non si estende! Quanto più
ampliata la discussione! Quanto più il tema elevato! Non si tratta
già di sapere soltanto se la vita pratica, la pratica sociale debba
entrare qual elemento, qual ausiliare alla vita dell’anima; ma si
tratta sapere se la pratica in generale, la sociale come[210] la
religiosa, la civile come la spirituale, se sottostia, se sovrasti alla
vita speculativa, studiosa, contemplativa. Era pur grande consesso
cotesto ove siedevano i più illustri tra i Tanaiti, tra le mura di
Lydda in Palestina dove il gran tema fu proposto—Qual sia delle
due più eccellente, la vita pratica o la vita contemplativa.
Chi sostenne la prima, chi difese la pratica? R. Tryphon. Chi
antepose la contemplativa? Voi l’udiste. Egli è R. Akiba, il
visitatore del mistico Pardes,[62] il maestro di Ben Iohai, il corifeo
del Misticismo. Or che sarà se vedremo la caratteristica del
Hasidut apposta a R. Akiba in tre luoghi del Talmud, vale a dire il
distintivo e l’appellazione essenica come noi presumiamo? Nel
primo (Berahot 27), secondo la lezione di R. Nissim
nell’Ammafteah (25. 2), in cui si dice che chiunque vede R. Akiba
in sogno aspiri al hasidut. Nel secondo (Sanedrin XI), ove il verso
dei salmi: radunatemi i miei pii (hasidai) s’interpreta per R.
Akiba e suoi compagni. Il terzo infine ove per significare, come
quel Dottore si dilunghi talvolta dalle abituali sue dottrine, si
dice: Abbandonò R. Akiba il suo hasidut.
E non sono persino le più minute circostanze che non abbiano
in questo racconto il lor valore. Per esempio quel Mesubbin,
quello stare a mensa seduti, quello alternare il pane del corpo col
pan dello spirito, quel discutere a mensa, quanto non vi
riescirebbe prezioso se potessi dir tutto! Se vi dicessi che questo
era il costume proprio, proprissimo della società degli Esseni, a
quanto ne attestan Filone e Giuseppe; che dico? se vi narrassi
come non dissimile procedesse il costume dei Zoaristi i quali per
lo più, mentre a mensa sedevano, un testo togliean a interpretare
della legge, e il sobrio pane mescevan col più soave dei
condimenti, la scienza.[63] Ma di questo più diffusamente a suo
luogo. Dovrò io citare[211] dopo questi luminosissimi, esempi per
avventura di men rilievo? Dovrò dire di due altri campioni che la
pratica o la contemplativa vita tolgono a propugnare nel 4º di
Kidusin? Difende la prima R. Meir quando l’obbligo inculca ai
genitori d’insegnare al figliuolo un mestiere: propugna l’altra ivi
stesso Ribbi Neorai quando dice: Ogni arte rigetto, ogni
mestiere, e solo il figlio mio inizierò allo studio. E chi è Ribbi
Neorai? singolare a dirsi. Vedeste R. Akiba, vedeste Ben Iohai,
ambo Farisei non solo, ambo cabbalisti, farsi organi, farsi
rappresentanti delle idee degli Esseni. Vedetene ora un terzo!
Poche, forse non altre volte è di questo Dottore menzione tra i
Rabbini, tranne questa ed altra fiata nella Misna di Abot. Ma
quanto però e come significativamente nelle pagine del Zoar! Ove
R. Neorai è uno dei più famosi anacoreti, anzi è quegli stesso che
voi, non è molto, udiste rammemorare tra coloro che il Zoar ci
narra abitare la solitudine, e solo nelle feste solenni alla città
convenire. E quella fiata istessa che n’è parola in Abot, quanto
non ha ella la fisonomia e il linguaggio di un Essena! Curioso a
dirsi! Niuno, che io mi sappia, lo notò; eppure notabilissime
suonano le sue parole. Chiede R. Neorai che muovasi esule
lontano per istudiare la legge, e oh meraviglia! nel Zoar è egli
stesso Ribbi Neorai che la gran sentenza profferiva che con
questa torna a capello, cioè non altrove potersi con frutto
meditare la legge se non nell’esilio, se non nella solitudine. È la
menzogna, è il caso che ha create siffatte armonie? No, è la verità
che solleva un lembo del suo velo, è l’armonia che, tolto
l’ostacolo, prorompe sonora fra la Misna e il Zoar, fra tutte e due
poi è la società degli Esseni in quella guisa che due stromenti
accordati all’unisono, mandano l’un l’altro amica risposta.[64]
Dissi nella passata lezione come non solo le dottrine[212]
degli Esseni, ma gli uomini eziandio sono posti nel Talmud
talvolta in contrasto; non solo la Pratica e la Contemplazione
figurano una a fianco dell’altra, ma i Pratici eziandio, ma i
Contemplativi vengono ad un tempo designati, e in bella e
parlante antitesi presentatici quasi due ordini diversissimi. E
dove? Tempo è che il veggiamo, che il veggiamo in Abot, ove il
Bur è detto non potere essere Jèré het (che teme il peccato), nè
l’ignorante poter farsi (Hasid). Ma che cosa è Bur? Chiedetelo a
tutti gli interpreti, e tutti vi risponderanno concordi, vi diranno
che Bur è colui non solo che di ogni scienza procede destituito,
ma le attitudini e qualità eziandio non ha dell’uomo civile.—E
che cosa si dice del Bur?—Che non sarà Ièré het, che è quanto
dire che non sarà non solo negli studi felice, ma nemmeno uomo
civile, uomo pratico, uomo socievole. Che cos’è il Am Aarez? Voi
l’udiste, egli è l’idiota, egli è l’ignorante. E che cosa non sarà il
Am Aarez? Non sarà, dice il Misnico testo, hasid, ch’è quanto dire
non sarà uomo studioso, dotto, contemplativo, e ciò che più fa
bella l’evidenza di questa chiosa, si è il nome hasid, nome che voi
da lungo tempo udiste qual sinonimo di Essena, nome che quello
precesse eziandio di Esseni, siccome gravi autori, e tra altri
Scaligero, ce lo attestano, e nome infine che quale specialissima
designazione di una setta viene ricordato nei Maccabei.[65] Vi par
egli che io proceda nel ragionare stringato? Vi par piuttosto che
troppo generosa conceda significazione all’appellativo di Ièré het.
Vi par egli che non sia ancora troppo la sinonimia dimostrata,
colla parte pratica del nostro Istituto? Or bene udite ancora, e
continuate poi se vi dà l’animo, a dubitare. Udite pria in Sotà
dove tra i mali che la Era, che la venuta precederanno del re
Messia, due ceti, due ceti religiosi si ricordano che dal loro antico
lustro miseramente decaderanno. E come si chiamano i due ceti?
Si chiamano[213] i primi Soferim, e ad essi si attribuisce la scienza
che allora sarà invilita vehohmat soferim tisrah. Si chiamano i
secondi Ièré het e si dice che allora saranno in obbrobrio. Non vi
dice nulla questo nome di Soferim? Eppure i Soferim di Jah bez, i
Nazirei chiamati dal Targum Soferim, il vederli procedere qui di
conserva coi Ièré het, dovrebbero a creder mio farvi pensare. Ma
voi chiedete più, e la verità non dice mai, basta. Havvi nella
Misnà (per altri è Barraità) un frammento antico, preziosissimo
che sotto il nome corre di R. Pinehas Ben Iair e che si chiama
Barraita di R. Pinehas Ben Iair. Si può chiamare in verità la
Scala dei santi. È una descrizione dei gradi per cui dalle più
infime virtù si può raggiungere le più eccelse, le più trascendenti
senza interruzione, senza salto, ma per una transizione naturale,
facile, necessaria. Di tutti i gradi di santità ivi notati, che sono
assai, due osserviamone tra i più cospicui, i quali sono il Hasidut
e l’Irat het, la pietà eroica e il timore del peccato. Qual posto
occupano nella scala dei santi, e quale l’una rispetto all’altra? Il
loro posto è il massimo, e dopo il culmine della scala che è lo
Spirito Santo, io trovo come gradi sottostanti, più alto il Hasidut,
la pietà eroica, quindi più basso lo Irat het, il timor del peccato.
Ma non solo massimi ambedue, ma ciò che troppo più monta pel
caso nostro, sono contigui, l’Irat het timor del peccato precede, il
Hasidut vi conduce, vi predispone. Hasidut n’è lo stadio
successivo, la fase ultima, conducente, educante al Ruah acodesc,
spirito santo. Che cosa si volle dunque per Irat het? Non certo
quel timor del peccato, come ognuno intende, ch’è virtù di nome
e di fatto puramente negativa, che consiste meglio nello scansare
il male, che nello esercitare il bene. E perché dico questo nostro
Irat het virtù non volgare? Per molte ragioni che me lo
persuadono. Me lo persuade in primo la sua[214] contiguità al
Hasidut, grado se altro fu mai eccellentissimo e che, come udiste,
mena direttamente allo spirito santo, Ruah Acodesc. Me lo
persuade poi eziandio non solo le virtù che conseguitano, ma le
virtù ancora che lo precedono, ma i gradi eziandio inferiori, i
quali tutti, troppo, come vedrete, sovrastano al volgare timore,
perchè possano di quello meritamente considerarsi preparazione.
Precede non solo il Farisato, lo stato dei Farisei, le virtù
farisaiche, lo che già accenna, come intendete, a una parentela
strettissima tra ambidue; ma il precede anche la anava, come
udiste, l’umiltà, sublime se altra fu mai nella gerarchia teologica
delle virtù e appo a cui il timor di Dio è chiamato altrove dai
Dottori suo vile calzare, achob lesandelà; e il precede insieme
anche la santità, siccome del timore del peccato essa pure
avviamento e prodromo. Che cosa dunque vuol dir ciò? Vuol dire,
se io non erro, che colle parole che teme il peccato intesero i
Dottori uno stato morale che generato è pure dal Farisato, e che di
gran lunga eccede tutte le virtù sottostanti, la purità, la umiltà, ed
anche la santità, e che è affine, e ch’è contiguo, e ch’è
conducente al Hasidut cioè a quello stato, a quel grado onde ebbe
nome la società degli Esseni Contemplativi negli antichissimi
tempi. O io erro, o fatti sono cotesti che altamente depongono in
favor mio. Che sarà poi se il nome intenderete dell’autore della
Barraità in discorso? Voi vedeste e vedrete costantemente i
Dottori più insigni della scuola cabbalistica farsi nelle pagine del
Talmud gli oratori, gli avvocati delle idee, delle massime
dell’Essenato, vedeste Rabbi Simon Ben Iohai, contro a R.
Ismael, Rabbi Akiba contro Ribbi Tryphon, Rabbi Neorai contro
R. Meir, e Ben Iohai e Ribbi Akiba e R. Neorai al tempo stesso
cabbalisti e rappresentanti e organi dei principi dell’Essenato.
Vedetene adesso un altro nell’autor[215] della Barraità. E chi è
l’autore della Barraità? Voi l’udiste: è Rabbi Pinehas Ben Iair,
non solo il suocero di R. Simon Ben Iohai, non solo
veneratissimo nel Talmud, ma quel che più monta, celebratissimo
nel Zoar, le cui parole, le cui dottrine sono ivi con venerazione
registrate, e le parole e le dottrine sono esse pure della scuola
teologico-mistica dei Cabbalisti. E tutto questo a caso? È a caso
che di tratto in tratto sorgono nel Talmud due idee parallele,
concomitanti, talvolta opposte, antitetiche, ed alle idee
corrispondono dei pratici, dei contemplativi? È a caso che gli
avvocati della contemplazione nel Talmud sono sempre quegli
stessi che più vanno rinomati pel loro ascetismo? È a caso che
tutti i loro nomi primeggian nel libro del Zoar? È a caso che
niuno al contrario vi figuri dei loro avversari, non Ismael, non
Tryphon, non Meir? Io credo che non è caso. Quel che non è certo
a caso son le parole che seguono: e chi ne è l’autore? È lo stesso
Pinehas Ben Iair. Dal giorno ei dice, che fu il tempio distrutto
furono confusi I SOCI, I FRATELLI E I LIBERI e cuoprironsi il capo e
decaddero I PRATICI. Chi sono i soci, i liberi, e chi sono i pratici?
Io lo chiesi agli antichi interpreti e quale n’ebbi risposta? Per
pratici l’idea vaga generalissima di religiosi; pei soci o pei liberi
sensi che, o nulla significano, o se qualcosa significano, giovano
non poco al mio assunto. Ma quanto bene nel nostro sistema!
Soci (Haberim), sono i Soci i fratelli della società e della Essenica
Frateria; i Pratici, sono i Pratici la frazione più urbana, più
cittadinesca dell’Essenato. Ma chi sono i liberi. Benè-horin? Ah
chi sono i liberi? Ve lo dica per me un’aurea indicazione da
Filone serbataci; quando parlando della costituzione degli Esseni
narra di quelli che di fresco introdotti nella società, consumavano
il noviziato nel servire, nel ministrare ai provetti, ai maggiori.
[216][66] E come dice Filone che si chiamavano dagli Esseni,
cotesti? Si chiamavano Liberi, sì, si chiamavano Liberi volendo,
siccome ei dice, con un nome contraddistinguerli, che ogni
carattere servile escludesse dalla loro persona al quale non poco
avrìa indotto a credere i riguardanti, l’officio veramente servile in
cui ministravano. Ma liberi essi erano, Benè-horin, e dicevansi
liberi comecchè umilmente ministrassero a mensa ai veri soci, ai
veri fratelli.[67]
Voi vedeste già molte volte ed ora stesso aperta vi fu mostrata
la esistenza di Pratici, di Contemplativi in seno ai Dottori. Non
mi resta che chiamare la vostra attenzione sopra un altro fatto
soltanto, ma cospicuo, ma rilevantissimo fatto; ove non solo
questa duplice ramificazione riprodurrassi e più distinta e
spiccata; non solo vedremo Esseni Pratici ed Esseni
Contemplativi; ma ciò che a dismisura più monta, li vedremo
parlare, agire e certi atti caratteristici eseguire che Filone ci narra,
propri, particolari agli Esseni. Dissi un fatto perchè invero ambi
s’identificano, si confondono, si unificano in un solo fatto, ma per
ora sono due, l’uno fornitoci dagli Esseni è narrato da Filone,
l’altro fornito dal Farisato è raccontato dalla Misnà. Qual’è il
fatto da Filone narrato? È una festa ed una festa da ballo, ma di
quelle ch’è capace di dare un Istituto religioso, un sodalizio quale
era l’Essenico. Narrarvi per filo e per segno tutte le circostanze di
questa festa da Filone descritta, troppo più a lungo ci menerebbe
che nol consentan l’ora e le forze. Pure mestieri è che le cose più
rilevanti vi sien conte. Festa era questa che celebravano i
Terapeuti, in una delle solennità religiose che resta difficile
determinare, ma che ogni analogia ci persuaderebbe essere i
Tabernacoli. E dove si celebrava cotesta festa? Si celebrava, dice
Filone, nell’aula del chiostro che lor serviva di Tempio. Colà si
riuniva la numerosa famiglia dei Terapeuti, e indossata[217]
ognuno la bianchissima stola, sedeva ad una mensa, donne ed
uomini separatamente da ambo i lati, dove tutti prendevano cibi
parchissimi, d’onde carne e vino erano assolutamente banditi, ove
ministravano quei Liberi di cui vi discorsi, ed ove i sacri
ragionamenti allietavano ed istruivano i commensali. Soddisfatto
il bisogno del corpo, ognuno levavasi. Il Presidente intonava un
Inno alla gloria di Dio composto da esso o da qualcuno dei
predecessori, e tutta la compagnia lo cantava con lui, quindi i
giovani recavano in mezzo una tavola, per memoria di quella
ch’era in Gerosolima nel vestibolo del Tempio; quindi i balli, e al
ballo uniti e suoni e canti; e ballo e canto protraevasi insino a
giorno. All’alba, tutti come un sol uomo volgevansi al sole
nascente, e supplicato da Dio il buon giorno e la luce della verità,
ognuno si ritirava nella sua cella ove riprendeva le usate
occupazioni. Questa è la festa che narra Filone, e questo è il fatto
che vuole essere adesso paragonato alla storia che di una gran
festa ci han trasmesso i Rabbini. Qual’è questa festa? Ella è
quella che si celebrava, dice la Misnà, (in Succà) nei vespri del
primo giorno dei Tabernacoli, e che fama altissima lasciò di sè in
tutta la Rabbinica Enciclopedia sotto il nome di Simhat bet
Ascioaba e di cui il nostro Simhat Attora non è che pallida copia e
debile reminiscenza. Dove si celebrava il Simhat bet Ascioaba?
Si celebrava in quella parte del Tempio che si chiamava l’Atrio
delle donne perché alle donne era quello il limite assegnato, che
non poteano valicare. In quell’atrio, dice la Misnà, stabilivasi
grandissimo ordine, Ticun gadol. Che vuol dire quest’ordine, dice
il Talmud? Vuol dire, risponde, che l’atrio stesso in due parti era
diviso ove uomini e donne potuto avrebbero assistere alla festa
separatamente. Ma quanto splendido non c’è descritto
l’apparecchio! specialmente perciò che riguarda i candelabri,[218]
i doppieri, i lampadari infiniti che gettavano per ogni parte del
Tempio, degli atrî e di tutta la montagna d’intorno, torrenti di
luce. Vi basti dire, dice la Misnà, che non v’era casa, non cortile,
comecchè distante dal Tempio in Gerosolima, che un raggio non
ricevesse della sacra montagna che tutta pareva divampare in un
mare di fuoco. Piacerebbevi egli, o miei giovani, che ove
conceduto ne fosse l’accesso, quelle aule visitassimo e quegli atrî
santissimi? Orsù, entriamo ed osserviamo. Che spettacolo è
questo! Non solo la vastissima sala splende per miriadi di luci,
non solo un dolce suono mandano i Leviti, oggi in gran completo
dalla loro numerosa e svariatissima orchestra, non solo il caro
idioma dei sacri libri risuona in bocca agli astanti nelle lodi, negli
inni che celebrano all’Altissimo; ma che cos’è quest’agitazione
che veggo: sogno io o son desto? È pure un ballo! Un ballo nella
casa del Signore! Un ballo che al canto si marita, si marita al
suono istesso dei sacri strumenti, dei sacri cantici, e che pare ad
un culto rivolto, ad un oggetto pur esso santissimo! Tersicore
negli atrî del severo Dio di Solima non avrei pensato io giammai.
Eppure è così. E chi sono i danzanti? giovani forse? adolescenti?
pensate! Altro che giovani! Ravvisateli bene, sono venerabili
aspetti, sono canuti, sono Dottori, sono le stelle più fulgide del
Farisato, ogni altro eccettuato, dice Maimonide, sono essi
soltanto, essi soli; sono, diciamolo una volta colle parole testuali
della Misnà, sono due ordini di Dottori, i Hasidim e i Pratici,
sono essi i quali, in uno slancio di gioja celeste, in un’estasi di
mistico amore, intrecciano dotte e mistiche danze, raffigurando
nelle armoniche cadenze quello che gli antichi tutti vollero
raffigurato nelle danze religiose, vuoi l’armonie delle sfere, vuoi
l’armonia più segreta dell’animo umano e delle sue facoltà, vuoi
insomma qualche altro[219] consimile intendimento, che lungo
sarebbe voler constatare. Sì, sono essi, sono i Hasidim, i
Contemplativi e gli Anscè Maasè, alla lettera i Pratici, i quali
santificavano, riabilitavano nel culto del vero Dio le danze che
narrava il Paganesimo dei Dattili, dei Telchini, dei Coribanti,
delle Baccanti. Non sappiamo noi da Luciano egual costume
appresso ai Greci? Non è il più bel premio di una mente culta e
religiosa quello di potere riposare in una uniformità ammirabile
tra il mondo Ebraico e il fiore del Paganesimo? Non abbiamo
bisogno in mezzo a tante discrepanze, a tanti antagonismi, un po’
di armonia, un po’ di pace tra Ebraismo e Paganesimo che
valgano a costatare che ogni filo non era spezzato tra l’uno e
l’altro? Oh! come è bello, per tanto, udire Luciano a descriverci le
paganiche danze! «La danza di Bacco (ei dice) specialmente nella
Jonia e nel Ponto è esercitatissima; e vi ballano persone
nobilissime e i principali della città, che lungi d’averne punto
rossore, si compiacciono meglio di questo esercizio, che della
nobiltà degli uffici e della dignità dei maggiori.» (ed. Capol., vol
3, 206) Non par egli udire l’apologia di David che danza innanzi
l’arca, e i Dottori che lo imitano nella festa della Scioaba?[68]
Sublime invero, santo Coribante R. Simon Ben Gambliel, il
quale, dice il Talmud, quando tripudiava nel tripudio della
Scioaba, otto faci teneva in mano e l’una e l’altra
successivamente scagliava in aria e tutte in cadenza regolarmente
riafferrava, senza che niuno dei moti complicatissimi fallisse il
segno. Ma non solo io li veggo con ordinate movenze menare un
ballo, ma parole io odo e canti dal labbro loro sgorgare. Che
parole son coteste? Porgete l’orecchio e l’eco lontano ne addurrà
la Misnà—Dicono i Contemplativi, dicono i Pratici che incanutiti
eran nella fede, nello studio—o felice gioventù, che la vecchiezza
nostra non fai arrossire! Ma[220] altri pure altra lode
proferiscono, e lode diversa—Che lode è questa? Felice
vecchiezza, che il fallo emendasti di gioventù.
È questa la festa, e questo il ballo, e queste sono le parole
della Scioabà. Qui separate le donne,—qui il tempio convertito in
sala da ballo,—qui musica, qui canto, qui ballo e qui infine
cantanti e danzanti; chi? I Hasidim e Anscè Maasè, cioè quei due
ordini che abbiamo superiormente veduto per altri fatti moltissimi
corrispondere al doppio essenico ordine di Pratici e
Contemplativi, che da Filone nella succitata descrizione della
festa ci vengono nella stessa attitudine raffigurati, nello stesso
luogo, allo stesso oggetto, nell’atto istesso di cantare e ballare.
Ma quando avviene questa festa? Avviene di notte, avviene
durante una festa religiosa, e di notte e durante una festa religiosa
quella avveniva da Filone descritta. E quanto dura la festa? Tutta
la notte, dice Filone, sino all’alba spuntata; e tutta la notte
risponde per la sua, la Misnà; e ne fa fede—non vaga lontana
tradizione, ma uno degli assistenti, uno dei santi danzatori,
quell’eccellentissimo Dottore che i colleghi soprannominavano
grecamente lo Scolastico scolastica deoraità: io vo dire R.
Ieosciua Ben Hanania il quale nel Talmud si esprime così: Dice
Ribbi Ieosciuah Ben Hanania quando gioivamo nella festa della
Scioaba (che sublime mestizia in queste parole. Il tempio non era
più!) non vedevamo (traduco a verbo), non vedevamo sonno cogli
occhi nostri: e come? La prima ora del giorno pel sacrifizio
cotidiano, di là all’orazione mattutina, di là al sacrifizio
addizionale, di là all’orazione dei Musafim, di là alle accademie,
di là alla mensa festiva, di là ai vespri, di là al sacrifizio
vespertino, e di là sino al mattino seguente nei tripudi della
Scioabà. Ed anche in questo, voi lo vedete, la festa di Alessandria
e[221] quella di Solima procedean conformi. Che facean poi al
mattino? Per quei di Alessandria così dice Filone: All’alba tutti
volgonsi verso il sole nascente, e pregano Dio che conceda loro
una buona giornata e la luce della sua verità. Così gli
Alessandrini. Che cosa facean in Solima? La Misnà ce ne ha
serbata fedelissima memoria. Al canto del gallo, ella dice, il
corno mandava un triplice suono,[69] e così suonando e
strepitando, procedeva la comitiva muovendo verso la porta che
guarda ad Oriente. Giunti che erano alla porta che guarda ad
Oriente, volgeansi tutti da Oriente a Occidente; e così diceano: I
padri nostri che vissero in questo luogo volgeano, come dice
Ezechiele, il tergo alla casa del Signore e la faccia loro
indirizzavano ad Oriente, all’astro del giorno: ma Noi a Jah
sono rivolti i nostri occhi; e ripetevan dicendo: Noi a Jah, ed a
Jah i nostri occhi.
Che cosa vedete qui? Tutto procedere appunto come tra i
Terapeuti procedeva; tranne una cosa, la parte a cui si volgeano.
Gli Ebrei, i Dottori, gli Esseni di Palestina, memori della
profanazione che i loro proavi fatto avevan del tempio del
Signore, l’idolatrico culto introducendovi delle stelle del cielo,
memori dell’attitudine che prendevano nell’adorazione del
maggiore astro, che Ezechiele descrive e rinfaccia; giunti
ch’erano al punto in cui dovevan pregare, prendevano la contraria
positura e il tergo volgeano al sole nascente e gli occhi miravano
e la persona al Santo dei Santi che la parte più occidentale
occupava del santuario. Pegli Ebrei invece, pei Terapeuti
Alessandrini avveniva il contrario. Fosse che a guisa di tutti
quelli che vivono fuori di Terra Santa, a guisa nostra anch’oggi, si
volgessero nel pregare ad Oriente, fosse che inesatta giungesse
loro contezza del modo di pregare della Metropoli, fosse eziandio
che il lungo soggiorno[222] dello Egitto, la lunga conversazione
cogli infedeli, la diuturna separazione dal cuor della fede, facesse
prendere al loro culto una tinta d’Idolatria, siccome l’eco ne
perdurava e perdura in scrittori gravissimi che l’adorazione del
Sole gli attribuiscono; fatto è, che in questo sol punto tra il culto
Essenico di Palestina e quello dei Terapeuti d’Egitto tu ravvisi
un’antitesi. Del resto, la somiglianza non potrebbe più esser
perfetta, e sopratutto non potrebbe più che in questa festa spiccare
il doppio ordine di Pratici e Contemplativi che fu mio officio
sinora mostrarvi nella storia, nella discussione, negli atti, nel
culto, com’ora vedeste degli antichi Dottori.—E quindi sempre
più splendida sorgerà quella conclusione che viene dimostrata
perpetuamente dalla nostra esposizione; la identità dell’Istituto
degli Esseni colla parte più dotta e più santa del Farisato.

[223]
[224]
[225]
[226]
[227]
[228]
[229]
[230]
[231]
[232]
[233]
[234]
[235]
[236]
LEZIONE DECIMAQUARTA.

Noi dobbiamo oggi proseguire nello studio delle esseniche


istituzioni per passare quindi alle dottrine e quindi al culto. Si
parli dunque delle Istituzioni, e per procedere con quell’ordine
che più io stimo acconcio, cominceremo da onde appunto
cominciava l’Essena nell’atto di votarsi alla società, ch’è quanto
dire cominceremo dal Noviziato. Ebbero eglino, gli Esseni, un
noviziato? Imposero eglino ai nuovi venuti, un tirocinio speciale,
una propedeutica religiosa prima di largir loro il nome e le
prerogative di socio e fratello? Ebbero eglino un noviziato a guisa
di pressochè tutti i religiosi istituti antichi e moderni, a guisa
segnatamente del Pitagorico istituto, col quale tanto amava di
raffrontarli il nostro Giuseppe? Sì, rispondono le più autorevoli
testimonianze, le quali non solo di questo noviziato attestano la
esistenza, ma la durata ancora ne ricordano, la divisione, le prove
a cui sopponevansi, lo scopo a cui si mirava. Il noviziato durava
tre anni, ma questo periodo di anni tre si distingueva in due parti,
o per dir meglio abbracciava due gradi che successivamente
percorreva lo iniziato. Durava il primo un anno intero, e in
quell’anno le virtù che più si volevano splendidamente provate,
erano continenza e temperanza, nè per luminosa che[237] ne
emergesse la prova, poteva dirsi ancora assolutamente qualificato
fratello. La più intima comunanza che conoscessero gli Esseni, la
tavola comune, il refettorio, non si asseguiva che dopo altri due
anni dl tirocinio più severo. Pria di sedere al fianco a’ fratelli nei
sacri agapi intorno al desco venerato, due altri anni dovevano
ancora trascorrere dove, come pare probabile, nulla di sè lasciar
doveva desiderare il nuovo fratello. A capo di due anni diveniva
Essena compito. Noi abbiamo di sopra toccato del noviziato
religioso nelle antiche consorterie, noi abbiamo detto come da
quelli non differisse il nostro Istituto. Che dico? Noi potevamo
farvi toccare con mano non solo i rapporti che da questo lato lo
avvicinano ai Pitagorici, ma ad altri infiniti istituti accennare,
antichi e moderni. Potevamo dire della iniziazione sacerdotale
dello Egitto, del Noviziato tuttavia superstite nel sacerdozio
Braminico, ove una rigida preparazione si esige da coloro tra i
Brami, che all’amministrazione voglion dedicarsi del sacro culto,
e sopratutto avrei potuto additarvi nelle società religiose derivate
dal Cristianesimo una immagine fedelissima di quello che tanto
tempo innanzi praticavano i nostri Esseni. Ma questi riscontri,
comecchè non destituiti di alta e feconda significanza forse più
chè non credesi, debbono ad altri cedere il campo che di gran
lunga sovrastano e che compiono quanto abbiamo a dire intorno
l’essenico noviziato. Io spero che non l’avrete dimenticato. Fu e
sarà nostro officio, ad ogni passo che muoviamo nella
esposizione della scuola, trarre dalle viscere del subbietto, sempre
nuove, sempre maggiori conferme, a quel fatto rilevantissimo che
resulta a parer mio dalla più scrupolosa disamina dello Essenato,
la identità dell’Essenato medesimo colla parte più dotta e più
squisita dei Farisei. Voi lo ricordate; il metodo da noi prescelto a
provare siffatta identità[238] fu, se non isbaglio, il più rigoroso.
Chiedere al Farisato tutto che di proprio, di organico si trova
nell’Essenato, e ove nulla si trovi nel secondo che il primo non
contenga, chiarire vera e fondata la propugnata identità. Il
noviziato sarà egli occasione di conferma o di dubbio? si trova
egli tra i Farisei come la storia ce lo addita in seno agli Esseni? Se
non il chiedessimo che alla Bibbia, la Bibbia ce ne offrirebbe un
esempio, un tipo parlante nel sacerdozio. Il sacerdozio aveva un
noviziato, e se questo noviziato anzichè tre durava invece cinque
anni, non cessava per questo di essere vero e proprio noviziato. E
d’onde questo noviziato resulta nei libri sacri? Implicitamente dal
testo; esplicitamente poi dalla tradizione. Ella è nel testo una di
quelle contradizioni che non tollerano conciliazione se non mercè
il dettato della tradizione. Sono due testi che sembrano escludersi
a vicenda. Per l’uno il sacerdote ministra nei sacri offici all’età di
venticinque anni, per l’altro solo ai trenta adempie agli offici del
sacerdozio. Che cosa sono questi cinque anni di differenza? Sono,
dice la tradizione, il periodo di noviziato. Ma noi dobbiamo
chiederlo altresì ai dottori, dobbiamo cogliere nei loro usi, nei
loro dettati l’essenico noviziato almeno in germe. Saremo noi
tanto felici di rinvenirlo? Io spero che voi non esigerete una
perfetta e circostanziata identità. Comprenderete benissimo come
una frase, un cenno sia d’immenso rilievo quando si tratta, come
in questo caso, di due scuole che non fu mai usato di confrontare,
di cui niuno sospettò o almeno asserì non solo la identità ma
nemmeno la somiglianza. Ora, io oso dire che questo cenno
esiste, ed esiste nel Talmud di Hollin, ove togliendo a ragionare
del tempo in cui il discente può veder dei suoi studj profitto
alcuno, altri fondandosi sul noviziato sacerdotale, questo tempo
pongono dopo anni[239] cinque; altri in più brevi termini
restringendolo lo limitano a soli tre; e tre erano, come udiste, gli
anni di noviziato prescritti al nuovo Essena.
Ma questi anni vedeste in due periodi partirsi; ed il secondo
che dicemmo più lungo, nuova prova e solenne preparazione al
cibo comune, al refettorio. Che cosa significa questa speciale
importanza alla tavola conceduta? Solo allora la comprenderete
quando lo spirito della antichità e lo spirito dei rabbini vi sarà
familiare; quando li udirete proclamare la tavola, imagine,
ricordo, rappresentanza dello altare di Dio; quando la mensa
santificata dalla legge divina li udirete parificare alla mensa dello
Eterno, e i commensali qualificare commensali di Dio; quando
vedrete queste idee a maggior altezza poggiare per opera e nel
sistema dei cabbalisti successori legittimi, a parer mio, dell’antico
Essenato. I quali parecchi usi e procedimenti ebbero a mensa che
poi vedremo radicarsi negli antichissimi istituti dell’Essenato, e
più solenne appalesare fra essi quella identità che è perpetuo
subbietto del nostro argomentare. Intenderete allora come
supremo onore e grado supremo d’iniziazione fosse tra essi la
commensazione in comune, e come niuna prova per essi si
trascurasse onde riconoscere se degno fosse l’ospite nuovo di
questo onore. Il volevano sapere perchè delle idee partecipavano
gli Esseni e dei costumi dei Farisei; perchè i talmudisti, i farisei
primo studio ponevano, quando trattavasi di banchettare, nel
sapere chi avrebbe a fianco loro seduto a mensa, perchè questa
indagine solevano fare immancabile coloro che i talmud
designano col nome di Nekiè adaat sce-biruscialaim gli animi
delicati di Gerusalemme; perchè i farisei avarissimi erano della
loro persona, quando si trattava di porsi a tavola con chi
castigatissimi non avesse i costumi e l’animo culto; perchè
carattere precipuo si predica nel fariseo, il non prodigarsi[240] in
conviti plebei; perchè il farisato irrideva con appellazioni
derisorie a quei degeneri dottori che ponevano cattedra nei Prandj
e aringo prediletto agognavano le laute imbandigioni perchè li
chiama in suon di scherno scaldaforni e leccapignatte.[70]
Nè questi titoli avriano certo convenuto agli austeri membri
dell’Essenato. Ma provatane, come dissi, la continenza, trovato
degno di sedere alla mensa fraterna, nel novero senza più era
introdotto dei fratelli e dei socj. Allora un bel nome lo attendeva
ed oh quanto da quelli testè citato diverso! Lo attendeva il nome,
il titolo di libero; e perché? Perché libero solo allora estimavasi
l’uomo che i vincoli più forti avea se non rotti, allentati, che alla
terra lo avvincevano; perchè libero si diceva, come disse Platone,
eziandio quello soltanto che alla legge subordinava il volere; e
forse come altra volta accennai, libero altresì si diceva perchè gli
uffici umilissimi in cui i giovani ministravano un carattere a torto
lor non annettessero di mercenari o di schiavi. Ma quanto non
consuonano coteste idee colle idee dei farisei! La libertà vera
riposta nell’affrancamento dello spirito da ogni maniera
mondanità, è teoria se altra fu mai farisaica per eccellenza; liberi
Benè korim udiste chiamati dai Dottori nel Talmud (Sotà) coloro
che a fianco essendo posti dei Kaberim, a ragione, come dissi
altra volta, ci rappresentano i giovani Esseni, i neofiti della setta,
coloro che Filone espressamente insegna liberi dagli Esseni
appellarsi, liberi di quella libertà che i dottori dissero discesa,
scolpita sulle tavole della legge; duplice libertà per cui l’uomo e
lo spirito si affranca dal giogo di morte, ed il corpo si sottrae alla
signoria dei Potenti del Mondo harut mimmalach amavet
umiscibud malkijot. Libertà che gli Esseni conseguivano e colla
perfezione dello spirito e colla fuga e coll’abbandono[241] del
mondo, libertà di cui i dottori favellarono quando dissero che
chiunque si toglie il giogo della legge di Dio si affranca al tempo
stesso di ogni giogo terreno, delle terrene dominazioni che nulla
ponno oggimai su quello che nulla più chiede alla terra, e tra gli
uomini vive come se non vivesse; giogo sociale che dissero hol
derek erez, in cui i bisogni e la servitù si compendia, che la
società impone ai membri suoi e dai quali l’Essena solo poteva
dirsi affrancato, e quindi dello Essena soltanto deggiono aver
inteso i dottori quando quello dissero andare immune da ogni
peso, da ogni legame sociale, ol dereh erez, il quale sobbarcato si
sia al giogo della legge di Dio, ch’è quanto dire, siccome io
intendo, che abbia, siccome l’Essena faceva, tutto l’esser suo
consacrato ad una vita di ritiro, d’abnegazione, di abbandono.
Che il sottrarsi ad ogni giogo sociale a niun altro può si bene
attagliarsi come all’Essena che fugge il mondo nel silenzio e nella
pace del sacro chiostro. Oh quanto bene ancora non si addice al
carattere alla storia dell’Essenato quella virile indipendenza da
ogni umana podestà, ol malhut! Oh! quanto acconcie non
soccorrono all’uopo le parole di Giuseppe lo storico, quando
degli Esseni favellando, non rifinisce di esaltare la fortezza
dell’animo, la imperturbabile resistenza che seppero ognor
contrapporre alle sevizie, alle persecuzioni, ai martirj di Roma
imperante! E queste stesse laudazioni di Giuseppe non sono
elleno la miglior conferma di quella identità d’Esseni e Farisei
ch’è perpetua dimostrazione di queste conferenze? E chi altro se
non i Farisei saranno questi audaci sfidatori della romana
tirannia? Chi se non quelli che gli annali empierono del
giudaismo della eroica loro resistenza, delle lotte incessanti, dei
trionfi, dei supplizi più ammirandi delle stesse vittorie,[242] delle
morti cento volte più invidiabili della vita più prosperosa? Chi se
non i Farisei, chi se non gli stoici di Palestina con cui ama tanto
di compararli Giuseppe lo storico, e con cui tanti e sì profondi ci
offrono punti di attinenza non meno di questo rilevantissimi,
voglio dire il durare impavidi di fronte al fantasma terribile,
implacabile, della romana tirannide? E chi tra i Farisei medesimi
meglio in sè riproduce la bellissima caratteristica; chi più altiero
levossi sulla mala signoria; chi profferiva più terribile sentenza
sui vizi del governo imperiale; chi meglio resisteva al prestigio, al
bagliore di quella ipocrita civiltà, se non quella parte di Farisei
con cui, a parer mio, più specialmente, più intimamente
s’identifica il nostro Essenato, ch’è quanto dire la parte teologica,
mistica, ascetica del dottorato ebraico? Singolare a dirsi! Il
Talmud ci ha conservato un frammento prezioso in cui il carattere
e le opinioni politiche si dipingono di tre tra i più grandi dottori in
Israele; in cui tu puoi vedere di ognuno il vario sentenziare su
quell’impero, che teneva allora il mondo sotto i suoi piedi; in cui
ognuno rivela le proprie impressioni tali quali internamente
esperimentavali a quello spettacolo di grandezza, di forza, di
ricchezza, di lusso, di sapere governativo, di polizia cittadinesca!
E chi sono i grandi interlocutori? Sono Rabbi Jeudà
soprannominato lo eloquente o meglio il primo tra i parlatori, Ros
amedabberim; è l’altro Rabbi Iosè; ed il terzo è R. Simon Ben
Iokai. Favellavano essi dell’impero romano, delle sue leggi, dei
suoi usi, della sua civiltà. Sorge R. Jeudà ed esclama: Oh quanto
sono belle le opere di questo popolo! Quanto senno nel governare
i sudditi! Quanta cura del loro ben essere! Qui aprono strade che
la città in se stessa e le città le une alle altre e tutto l’impero
congiungano fra le sue parti; qui a valicare fiumi erigono[243]
ponti; qui di ogni maniera comodità arricchiscono il paese, e
bagni e teatri e passeggi aprendo a ristoro, a vaghezza, a diporto
degli abitanti. Il cuore di R. Jeudà era ebreo; chi ne dubita? Ma la
mente sua non poteva non ossequiare quel prodigio di arte, di
grandezza che l’impero ostentava agli occhi dei popoli vinti. Alla
generosa apologia tace R. Iosè, ma Simone favella, anzi Simone
rugge, Simone tuona e come terribilmente! Sì; elevano costoro
ponti ma per preporvi commissari all’esazione dei pedaggi! Sì;
aprirono strade, ma per gettarsi come torrenti sul mondo intiero.
Sì; schiusero vie, ma per alloggiarvi i loro agenti, i loro
proconsoli, le loro meretrici. Sì; aprirono bagni, teatri, passeggi,
ma per snervarvi i popoli colle blandizie, e per conchiudere colle
parole del testo, tutto che fecero, a pro di sè operarono. Ma Roma
era tutta in orecchi, e in ogni angolo, in ogni città, in ogni ritrovo
protendeva la rete del suo spionaggio.—Insieme ai tre dottori
eravi un quarto, e questo quarto era Ebreo, e questo quarto era il
delatore di Roma. Roma seppe poco stante ogni cosa, seppe la
lode, il silenzio, la invettiva, e Roma di li a breve sentenziò:
Giuda che esaltò sia esaltato, Jeudá sceillá itallé; Iosè che tacque,
tragga in esilio, ighlé lezzipori; Simone che sparlò, perda la vita.
Narrarvi le cose che seguirono, la fuga di Simone, la caverna, gli
studi e probabilmente la coordinazione delle sue dottrine; non è di
questa conferenza l’officio. Ma che animo, che mente, che cuore,
che indipendenza di spirito! E che riscontro mirabilissimo colla
nota caratteristica che Giuseppe attribuisce agli Esseni!
L’indipendenza di Simone lo condusse se non al supplizio
estremo, a vita peggiore che morte per tutt’altri che lui; ma qual
conforto! Nella sua solitudine ei poteva dire a sè stesso: quando i
secoli avranno delle cose presenti abolita ogni traccia, Roma non
sarà più;[244] ed uno dei miei più tardi discepoli narrerà ai fratelli
ammirati le mie prove, i miei dolori, il mio coraggio, la mia
gloria. Questo discepolo non oso dire chi sia, ma questi fratelli
siamo noi, siete voi stessi.[71]
[245]
[246]
[247]
LEZIONE DECIMAQUINTA.

Noi abbiam detto nella passata lezione, come il noviziato


degli Esseni constasse di due parti o periodi che dir vogliamo, e
come secondo fosse quello che preceder soleva l’ammissione al
refettorio. Noi abbiamo così conosciuto la durata, la gradazione
del noviziato; ne abbiamo, a così dire, veduta sinora la parte
esteriore. Mestieri è che meglio in esso ci addentriamo a
scuoprirne la verace natura; mestieri che il valore, la guarentigia
morale ne sindachiamo; mestieri che al fatto più cospicuo
assistiamo che la intima essenza costituiva del noviziato. Qual’è
questo fatto, qual’è l’atto più solenne a cui il nuovo Essena era
chiamato a adempiere? Egli era in una parola, un giuramento.
Non so se io vada errato, ma il giuramento per se stesso, la sua
formula avventurosamente conservataci per intero, le parti tutte di
cui è composto, la precisa e minuta descrizione di tutti gli
obblighi che il Neofita si assume, la viva dipintura che vi si
asconde della vita e del genio dell’Essenato, il suo carattere
insomma, di sommario, di catechismo, di compendio di tutte le
esseniche istituzioni ne fanno, se io non erro, un documento unico
nel suo genere e di una tale significanza che vano sarebbe il
disconoscere. Potremo noi a tanto trovato rimanerci indifferenti?
[248] Potremo non istudiarne a parte a parte gli articoli di cui è
composto? Potremo noi non rimirare quasi in vivo speglio la
società degli Esseni nell’atto più espressivo e più compendioso
della vita sociale, e come a dire nel suo credo, nel suo atto di
fede, nel suo programma? Ecco perchè ho meco stesso deliberato,
a costo ancora di mandare più che non volessi per le lunghe il
nostro corso, esaminare partitamente il giuramento in discorso;
ecco perchè senza por tempo in mezzo mi accingo a dirittura al
lavoro. Ma prima siamo con noi medesimi conseguenti. Noi
vogliamo, non è egli vero, gli Esseni per nulla diversi, anzi
identici assolutamente a quel farisato in cui si contengono come
parte nel tutto? Ora se questa identità non è menzognera, non solo
i Farisei avranno pure essi un noviziato, e ciò vi fu (cred’io)
abbastanza dimostrato, ma avranno ancora, lo che più monta,
l’equivalente della essenica iniziazione; avranno un atto per cui
noverati venivano nel bel numero, per cui al patto sociale, ai suoi
doveri, ai suoi dettati promettevano leale osservanza. Eravi nulla
di questo in seno al farisato? Se vi era! Basta gettare ancorchè
superficiale uno sguardo sulle pagine talmudiche per
convincersene immantinente. Basta aver udito a parlare dei Dibrè
habrut, e della iniziazione a questa consorteria chiamata cabalat
dibrè habrut, l’assunzione, l’accettazione dei doveri sociali. È
vero che la memoria che ne serbò il Talmud va quasi sempre
improntata di quel carattere pratico, esecutivo, rituale, ch’è genio
specifico di quasi tutto il Talmud; è vero che non conosciamo
siffatta consorteria che dal lato suo positivo cerimoniale; è vero
che la parte organica, ideale, dottrinale di questo habrut, è rimasta
nel Talmud ricoperta da densissimo velo; ma quante d’altra parte
non ci offre col nostro Essenato parlantissime analogie! Basti
accennarvene le più cospicue, intorno[249] alle quali mi
abbisognerebbe dettare un trattato per esaurir tutta quanta la
vastissima materia. Vi basti in primo luogo che le più ovvie
resultanze delle memorie talmudiche altamente ci attestano come
nel mentre che cotesti haberim o soci si radicavano
profondamente in seno ai Farisei, e da essi, vita, dottrine, soci,
indirizzo e tutto accogliessero onninamente, cionnonostante del
farisato medesimo formassero quasi elettissima schiera, ed a certi
doveri e pratiche gissero sottoposti a cui sottoposti non erano il
comune dei Farisei. Testimone quel rilevantissimo passo della
Misnà ove a chiare note si distingue il semplice Fariseo, il
semplice Talmid haham, da quello che ivi stesso si noma Haber;
e le norme ivi stesso si dettano e le regole che dovranno
all’ammissione presiedere dello stesso Talmid haham, prova se
altra fu mai irrecusabile, a parer mio, come a senso della Misnà
Talmid-Haham e Haber non sono sinonimi; ma il primo di
semplice Fariseo alla più elevata condizione può trapassare di
Haber, e come io intendo di Essena di Terapeuta. Curiosissima
indagine sarebbe, tutte le parti della rabbinica enciclopedia
perscrutare ove dei Haberim è menzione, ove questa società
innominata, indeterminata, ha lasciato di sè traccie sensibili.
Vedreste in primo affaticarsi i tardi comentatori come il
Maimonide a giustificare l’appellazione di Haber ai Farisei
conceduta, e ragioni così esigue, sì aeree allegare che dopo il
pasto hai più fame che pria. Siccome quella V. G. che il
Maimodine proponeva non per altro, dicendo, chiamarsi i dottori
Haberim o soci se non per che fida e durevol società è la loro,
quasichè non resultasse da tutto il Talmud lo speciale e
superlativo indirizzo dei Haberim; e quasi infine generale
denominazione fosse cotesta dei Farisei, e non piuttosto ad una
parte di essi peculiarissima, siccome ho abbastanza, se non erro,
provato. Vedreste[250] poi la memoria dei Haberim tornar
frequente e rinomata nelle pagine del Talmud, li vedreste nel
trattato Niddà, comechè fosse da lungo tempo il sacrifizio abolito,
nelle antiche lustrali aspersioni perseverare colle ceneri della
vacca rossa. I Haberim, dice il Talmud, tuttora aspergono di
acque lustrali in Galilea. Vedreste dottori contraddistinguersi con
questi nomi e intitolarsi come dai Haberim Zeirà demin Habrajà.
Vedreste in altri luoghi i dottori dirsi in generale Haberim, non
perchè tutti lo fossero attualmente, ma perchè tutti erano capaci di
divenirlo. «Haberim Machscibim elu Talmidim scemachscibim zè
lazè baalakà» Vedresti nel trattato Sciabuot, cap. 4, i dottori l’un
l’altro scrivendosi, col noto nome appellarsi di Haber e con
quello diverso sì, ma equivalente, di Amit. Vedreste due fatti che
più davvicino ci accostano alla consorteria degli Esseni: in primo
luogo nel Talmud quelle larve, quei fantasmi che in sembianza
umana era dato di suscitare apertamente dirsi fattura dei
Haberim, lo che a dirittura ne mena il pensiero al carattere
ascetico taumaturgico del nostro istituto. Vedreste poi non più nel
Talmud, ma lo che è più, lo che è tutto nella nostra disquisizione,
vedreste nel Zoar, che è quanto dire nell’Emporio del cabbalismo,
un fatto semplicissimo ma d’una immensa rilevanza a parer mio,
ed è questo: che la sola, la comune, la indistinta denominazione
che tutti recano i dottori cabbalisti, quella e non altra si è di
Haberim, o come in dialetto arameo ivi costantemente si legge,
Habrajà.
Io non so se mi faccio illusione, ma più che non fôra mestieri
parmi aver argomenti accumulato a provare l’esistenza di un
legame, di un vincolo sociale in seno al farisato. Lo prova il
carattere e il nome tanto significantemente ripetuto di Haber, lo
prova di più l’atto di ammissione di iniziazione, che i libri
rabbinici chiamano,[251] come vi dissi, cabbalat dibrè Habrut e
di cui le norme, le forme tutte sono prescritte nella Misnà e nel
Talmud.
Abbiamo perciò esaurito quanto di più concludente ci offrono
gli antichi rabbinici monumenti? Oso dire che rispetto alle cose
che intenderete, poco parrarvi l’udito sin ora. Io vi dissi, e non è
molto, che sino quasi ai nostri tempi non si credeva in generale
che le opere rabbiniche dei primi secoli dell’Era volgare niuna
traccia contenessero di Esseni e di Essenato. Oggi però si
comincia a sospettare il contrario e non poco studio si rivolge a
quante vestigia per avventura ne conservano i libri talmudici. Io
credo aver posto la mano su tale memoria che mentre attesta
come vedrete la identità degli Esseni e dei Haberim, ci fa udire
forse per la prima volta sul labbro ai dottori vivo e parlante il
nome di Essena, ed in circostanze e ad uno intendimento siffatto
che il valore ne accrescono a mille doppi. Giudicatene voi stessi.
Narra il Talmud gerosolimitano come un Assià (alla lettera
medico o terapeuta) chiedesse ad un dottore la comunicazione del
nome di Dio, come questi lo interrogasse se mai avvenuto gli
fosse di profittare degli averi altrui, come a ciò replicasse l’Asseo
dicendo essere uso cibarsi della decima che si prelevava sulle
derrate, e come infine concludesse il dottore dicendo: non potersi
comunicare il santo nome di Dio a chi riceva d’altri qualsiasi cosa
in dono. Quanti dubbi, quante domande non provoca il
frammento citato! Chi è questo medico o Terapeuta così voglioso
di conoscere addentro i nomi di Dio quasi fossero aforismi
ipocratici? Che è questo inaudito cibarsi della decima in chi non
appartiene alla tribù di Levi? Che cosa significa questa
condizione posta alla desiderata comunicazione—il nulla ricevere
in dono? Ma quanto bene, se si accettano le nostre premesse!
Avremmo[252] allora nell’Assià del Talmud il vero e proprio
nome dei nostri Esseni; nella sua domanda, una domanda che
nulla più confacente ad uomini che studiavano le arcane cose
contenute nella legge di Dio, e sopratutto i nomi divini, i nomi
degli angioli che apertamente impromettono di gelosamente
custodire nel loro giuramento d’amissione, e tanto più a costoro
conveniente s’egli è vero ciò che noi reputiamo verissimo, che
non altro fossero gli Esseni che gli antenati dei cabbalisti ai quali
mirabilmente si acconciano siffatte speculazioni. Ma che cosa,
direte, è la decima di cui si cibano? Ovvio lo intenderla purchè vi
piaccia con me convenire che non altro sono gli Esseni, non altro
quindi il nostro Assè o Assià del Talmud, che i Haberim o soci
talmudici, gli uomini delle raffinate purità. Perciocchè di questi si
legge nello stesso Talmud di Gerosolima (Sota cap. 9) che della
decima si cibavano al pari dei poveri e dei leviti.
Non solo: ma il nome di Haberim soci è dato dallo stesso
Talmud (Nedarim VI) a quei Harasc e Masgher (alla lettera
falegnami e fabbriferrai) che si narra nei Re essere stati trasferiti
in numero di mille per ordine del vincitore da Gerusalemme a
Babilonia. E finalmente un visitatore d’infermi, anzi un loro
assistente, era detto nel Medrasc (Berescit Rabbà sez. XIII)
appartenente al ceto dei Haberim; senza dire di altri luoghi
moltissimi in cui tal nome ritorna; segnatamente nel Talmud già
citato (Ghittim Iº) ove i Haberim o soci si fanno interpreti delle
dottrine di R. Jeosciuah. Ben Levi, uno dei dottori i più
manifestamente cabbalisti di tutto il Talmud.
Io dissi non ha guari come il carattere di questa iniziazione
talmudica partecipi in grado eminente del carattere generale del
Talmud, che mira unicamente ad un complesso di osservanze più
minute, più rigorose, alla costituzione di una frateria vivente con
regole più severe[253] di purità religiosa; dissi in fine che la
iniziazione onde è discorso non si mostra nei libri talmudici, che
dal lato suo rituale e positivo, per la semplicissima ragione che il
lato rituale e positivo è quello che universalmente primeggia nelle
pagine talmudiche. Quindi è, che solo brevi fugacissimi lampi ci
è dato vedere per entro al Talmud della interiorità, del midollo del
lato ideale dottrinale dogmatico, dell’istituto medesimo e sotto
l’opaco velo talvolta adombrato dell’essoterismo dei riti. Egli è
per questo che dovremo credere null’altro esser i Haberim del
Talmud che uomini più gelosi degli altri del governo del corpo,
dei reciproci contatti, del lecito e dell’illecito? Io credo che la
conclusione sarebbe assurda in principio ed assurda in fatto, e
come oggi si dice a priori ed a posteriori. Perchè dico assurda in
principio? Perchè egli è contro ogni sana induzione il supporre
un’organizzazione, vuoi sociale, vuoi religiosa, un complesso di
pratiche, una regola di azioni senza alcuni grandi principî che
siano di quell’organismo la vita, l’anima, il pensiero, il genio
supremo; perchè non appena mi vien fatto di udire il verbo
dell’uomo, di assistere all’esercizio ragionevole dei membri suoi,
di udirlo parlare, muoversi, agire, io sono senz’altro e per questo
solo criterio fondatissimamente autorizzato a supporre in lui
comechè invisibile, un principio ragionevole che le azioni ne
governi, un complesso di idee di pensieri che sieno come le molle
dell’azione che mi si spiega dinnanzi, in una parola l’anima di
quel corpo. Ho detto che sarebbe anche un errore di fatto. Perchè
s’egli è vero, come ho già detto, che l’elemento dottrinale del
talmudico Haberut sia in gran parte invisibile, non è sì che altri
monumenti, altri attestati, altre sorgenti non soccorrano all’uopo;
non suppliscano a quanto ha di manchevole la storia talmudica
del haberut; non completino di esso la verace fisonomia e quella
non[254] restituiscangli che nei libri talmudici fu unicamente
abbozzata. E dove si trova questo? Lo si trova ove deve
naturalmente, ove non potrebbe a meno di trovarsi: nel libro del
Zoar: che è quanto dire in quel libro che adempie verso le
dottrine, il dogma, la teologia, l’acroamatismo, quell’ufficio
medesimo che il Talmud verso la pratica, il rito, l’essoterismo.[72]
Per modo che il Zoar e il Talmud ci forniscono per parte loro una
metà per ognuno della fisonomia del Haberut, e quella appunto
che alla indole speciale si attiene di ognuno: le quali parti poi
insieme combinate non solo bellamente si connettono, si
completano, si integrano, prova se altra fu mai della loro intima
originaria unità, ma ci danno ancora il vero e fedele ritratto che
andiamo cercando. Che voglio dire pertanto? Voglio dire che il
Zoar ci offre la iniziazione al Habrut da quel lato che manca
precisamente nel talmud dal lato dogmatico, voglio dire che il
Zoar contiene per gran ventura pochi, ma preziosissimi fatti, in
cui la iniziazione di cui si parla assume il colore proprio al genio
dell’opera; e più palesi ne rivela le armonie coll’istituto che
studiamo colla società degli Esseni.[73] Io lo credo fermamente.
Percorrendo con occhio diligente le pagini del Zoar, parecchie
altre non meno gravi dimostrazioni, non meno appropriati esempj
si potrebbe scuoprire. Ma chi potrebbe a tanta opra non venir
meno? Io non pretendo aver ogni ricerca esaurita; e pure due
grandi esempi mi fu dato trovare, due grandi scene di cabbalistica
iniziazione, due ritratti parlanti dello Epopsi essenico-
cabbalistico, l’ultimo specialmente che per la maestà e stupenda
semplicità vince ogni credere. E il primo al vol. 2º p.
decimoquarta, ove tu vedi il maggiore dei Hyà, Rabbi Hyà
Rabbà, tutte subir le prove, le esitanze, le trepidazioni; e infine il
premio dei nuovi iniziati; ove lo vedi soffermarsi alla porta del
capo-scuola[255] e per parlare il linguaggio dei misteri, del
Jerofante; qui naturalmente non altri che R. Simhon ben Johai
ove una cortina il divide dal seggio e dalla scuola venerata, ove
ode la voce delle sacre dottrine e vaghezza il prende di penetrare,
ove l’esitazione s’impadronisce dello stesso ben Iohai non
sapendo se degno sia il nuovo venuto di partecipare ai santi
misteri, ove tu vedi il figlio suo R. Eleazar profferirsi di fare da
Epopta, da introduttore al dotto straniero, dovesse ancora,
siccome testualmente si legge, restarne incenerito; ove una voce
si dice allora essersi udita la quale con parole che tuttavia riescon
dure ad intendersi, sembra volere il soverchio zelo affrenare del
giovane dottore; ove lo straniero rinnuova il pianto e le suppliche;
ove aperta infine la cortina, si rimane nonostante lo straniero
esitabondo non osando penetrare; ove infine levatosi R. Simone,
egli stesso introducelo, e vedendo il nuovo iniziato gli occhi
tenere sommessi e il capo chino per timidezza soverchia, ordina
al figlio suo, udite singolarità! di fare a R. Hyà quell’atto così
celebre, così comune a tutte le società che vivono di segreto,
voglio dire, la chiusura e l’aperizione della bocca.
Ma quanto il secondo sovrasta d’incomparabile maestà! Egli
appartiene a uno di quei due antichissimi frammenti la cui
autenticità l’ossequio ebbe eziandio di coloro che più dubitosi
procedevano intorno all’opera in generale; e che sotto il nome
sono conosciuti di due Iddarot.[74] È in quella che il titolo riceve di
maggiore, che il venerato maestro R. Simone intendendo i più
sublimi misteri ai discepoli rivelare, è sovrappreso dapprincipio
da cruda perplessità; non sa se parlare o tacersi; chiede una parola
che a dire lo conforti; e questa parola si fa finalmente sentire. Egli
è R. Abbà il futuro scriba e compilatore del Zoar[75] che
supplicante[256] gli dice: Deh! o maestro, ti piaccia liberamente
favellare perciocchè si trova scritto: «I misteri del Signore sono
per coloro che lo temono» e cotesti fratelli tutti timorosi sono di
Dio; e in altri augusti consessi sedettero e felicemente ne
uscirono. Sedette R. Simone e pianse. Quindi sclamò: Guai se
svelo e guai se mi taccio! I soci che si trovavano là si tacquero.
Ma sorse R. Abbà e disse: «Piaccia a te, o maestro, di svelarci i
misteri, perciocchè dice la scrittura: il mistero di Dio è per chi lo
teme. Ora questi nostri compagni tutti temono Iddio e già furono
introdotti nella camera del tabernacolo.» Allora dopo avere tutti
gli assistenti passati in rassegna, tutti in circolo si posero intorno
al maestro. Le mani loro ei raccolse e fra le sue le strinse, e poi
quasi in atto di giuramento tutti levaronle al cielo, il cielo
chiamando a testimone della sete che tutti consumava per la
parola di Dio. Quindi, dice il Zoar, trassero ai campi la prediletta
dimora, e là, dice il testo, all’ombra degli alberi sedettero tutti; e
il venerato maestro dopo avere in piedi orato, sedette pur esso.
Ma egli è qui dove si vede quel riscontro che io dapprincipio
avvertiva tra il giuro degli Esseni e il sacramento dei cabbalisti.
Perciocchè, dice il Zoar, non appena seduti impose loro il maestro
che le mani di nuovo ognuno fra le sue ponesse,[76] sul suo petto
come legge un testo, sul proprio cuore dei giuranti come legge un
altro; e dopo aver tutte in un fascio strette le mani ai discepoli,
terribilmente prorompe con quella spaventosa imprecazione con
cui i leviti sulla montagna di Ebal dovevano la vendetta di Dio
invocare sul capo degli Idolatri, e maledetto con essi ci grida
colui che immagine o scultura facesse opera di arte e tenesse
celata; volendo con questo premunire i discepoli contro ogni
arbitraria e personale intrusione di umani opinamenti, di umane
innovazioni nel giro del[257] misterioso insegnamento: prova tra
mille come da ogni straniera importazione profondamente
abborrissero i Patriarchi del cabbalismo, e come stranamente
vadano errati coloro che la origine del cabbalismo ripongono
nelle anteriori e contemporanee scuole di filosofia orientale.
Ma la fedeltà non è unico dovere che il maestro imponga ai
discepoli: egli ricorda loro immantinente come la riserva, il
segreto comandato dalla legge nelle cose del mondo, nelle
cordiali espansioni dell’amico che il cuore ci apre; a mille doppi
allora più doveroso che Dio stesso ci apre, a così dire, la mente
sua sacrosanta, ci inizia ai suoi misteri, ci fa copia dei suoi
segreti, i quali voglionsi con quella gelosia custodire che basti
agli sguardi sottrarli dei curiosi, degli indegni e dei profani.
Quante cose egualmente preziose contenute in questo mirabile
esordio! Quale inesausta miniera di peregrine indicazioni! Oltre
la maestà del quadro, e a tutto dire il pregio estetico di questo
prologo sublime, innanzi a cui impallidiscono le più vivide
gemme della classica antichità; quanti bellissimi documenti per
noi per la società degli Esseni, per la identità da noi propugnata!
Prima di tutto il giuramento; tema della presente lezione, il
giuramento che chiaro spicca e luminoso dal fondo del quadro. E
poi quante conferme, quanta maniera di prove, quante nuove e
minute attenenze! Il grado più eccelso della iniziazione
cabbalistica, il nome di soci, di fratelli così parlante, così
chiaramente alludente ad una consorteria, ad un legame sociale.
L’amore dei campi e degli alberi ombrosi, il mistero comandato,
l’orrore delle innovazioni così proprio, come vedremo, agli
Esseni medesimi; e finalmente quella attitudine con cui si
dipingono colla mano sul petto. Verrà tempo, quando parleremo
del culto e delle pratiche[258] degli Esseni, che la storia antica,
ignara assolutamente del Zoar e delle sue dipinture, ci parlerà di
una attitudine curiosa inesplicata che soleano prender gli Esseni,
una mano lasciando andare sul fianco, l’altra al cuore premendo,
allora il ravvicinamento fra il Zoar e la vita degli Esseni si farà
spontaneamente, naturalmente nell’animo vostro; si farà senza
neppure che a così fare siate guidati per mano, ed allora crederete
anche voi alla identità delle due scuole.
«A guisa del ver primo che l’uom crede»

[259]
[260]
[261]
LEZIONE DECIMASESTA.

Noi abbiamo nelle passate conferenze accennato all’Essenico


giuramento. Dobbiamo adesso questo giuramento osservare più
da vicino; dobbiamo brano a brano sottoporlo a disamina;
dobbiamo al tempo stesso a quell’ufficio comparativo adempire
che imprendemmo a principio, rilevarne cioè le idee, gli obblighi
in seno al Farisato nei suoi volumi, nei suoi dottori, onde quella
identità emerga sempre più luminosa che fu nobilissimo compito
di queste lezioni.
Principalmente dicono le istorie: giurava il nuovo Essena
Adorare e onorare Iddio, e giustizia e carità serbare alle sue
creature.
Parvi egli sterile insegnamento cotesto?
Parvi egli che queste idee a prima vista sì ovvie, sì comunali,
così oggi universalmente consentite—non offrano per nulla
argomento alla critica ed alla istoria? Così veramente sarebbe se
le glorie nostre, le nostre dottrine fossero state sempre nostre
credute, se niuno avesse preteso redare l’unico retaggio glorioso
che i padri nostri ci trasmisero, il maestrato di Religione; se il
primato niuno ci avesse conteso nella proclamazione delle più
sacrosante verità religiose e morali; se quando lo Evangelo
insegnava Ama Dio sopra ogni cosa e il prossimo[262] tuo come
te stesso, ognuno applaudendo alla santità della massima, all’eco
fedele della ebraica morale, non si fosse l’ebraismo fraudato della
legittima priorità che gli spetta; se si fosse ognuno di Mosè
ricordato quando l’amore prescrive di Dio al disopra di ogni cosa
terrena più degli averi, più degli affetti, più della anima nostra;
quando imprecando alle vendette private prescrive l’amore del
prossimo come se stesso, fosse pur egli nemico nostro, siccome
manifesto appare dal contesto; se rammentato avesse Illel, lo
stipite glorioso del Dottorato palestinese; quando al gentile che
anelava alla cognizione della legge—Ama, gli rispondeva, il
prossimo tuo come te stesso. Ecco tutta la legge. Il resto n’è la
chiosa; di Rabbi Hachibà quando insegnava: Ama il prossimo tuo
come te stesso; ecco della legge l’assioma supremo «Ze Kelal
Gadol battorà» di Ben Azzai quando riponeva cotesto assioma
nel dettato mosaico: Ama il Signore Iddio tuo come tutto il tuo
cuore, l’altro elemento in tal guisa fornendo della morale
evangelica. Se infine, per tornare agli Esseni, obliato non si fosse
il giuramento che tra essi il novizio prestava ove la morale
evangelica costituisce il prodromo, la base dell’Etica degli
Esseni.—Proseguiamo l’esame intrapreso. Essi giuravano dopo le
cose anzidette di non nuocere a chicchessia, sia per propria
volontà, sia per dovere di ubbidienza, e noi vedremo in seguito,
quanto fedelmente osservassero gli Esseni gli obblighi assunti,
vedremo quant’oltre spingessero l’orrore del nuocere altrui sino
al punto d’interdirsi il maneggio e la fabbricazione delle armi da
guerra; sino al punto di non offrire ad altri ne manco
indirettamente i mezzi di distruzione; e nuova e inaspettata
armonia allora sorger vedremo tra Esseni e Farisei. Per ora una
idea, una parola sorge degnissima di nota nel paragrafo ricordato.
[263] Voi l’udiste, il dovere dell’ubbidienza. Come intendevano
gli Esseni il dovere dell’ubbidienza? In quella guisa appunto che i
Farisei. L’obbedienza non cieca, non gesuitica, non assoluta, non
la teoria assurda, immorale, che annulla l’arbitrio, la libertà, la
responsabilità umana sotto il giogo macchinale inintelligente di
una autorità collettiva. L’obbedienza sino all’ara, sino al dovere,
sino al santuario della coscienza e come dicevano gli antichi
Usque ad aram. Obbedienza ove cose non s’impongano contro la
voce di Dio e della coscienza En scialiah lidbar aberà.
Obbedienza che al suddito, alla creatura non conceda quel
primato che si deve al Creatore Dibré arab vedibré attalmid,
dibré mi sciomein? Obbedienza che ha un limite insuperabile
nella nozione chiara del dovere che favella alla coscienza; tanto,
che ove il sommo magistrato della nazione imponga l’esecuzione
di cosa che osti direttamente ai principj ricevuti, la rivolta, la
disubbidienza, non solo è chiarita giusta e legittima, ma pur anche
doverosa, Bet din scesciaghegù veorù laakor guf migufé torà
veasa akaal al piem, bet din peturem, vehol ehad veehad haiabim.
Obbedienza che non solo la conformità per tal guisa ci manifesta
tra Farisei ed Esseni, ma quella non meno tra ambedue e i
Pitagorici; dei quali dopo aver alquanto discorso l’illustre
Gioberti nella Protologìa, così seguitava dicendo:—Ciò basta a
mostrare, che intento del pitagorismo non era di spegnere e
snervare il genio individuale nazionale e le virtù native dei soci,
ma di avvalorarle, che l’individuo non ci era soggetto a una
obbedienza cieca, nè immolato a una falsa unità innaturale, e
che insomma la compagnia di Pitagora non era come quella di
Gesù. Obbedienza infine che svela quanto erroneamente si vada
del continuo identificando spirito farisaico e spirito gesuitico,
quasi due aspetti di[264] un sol tutto, mentre nulla havvi, a mirar
bene, di più ostile, di più repugnante.
Giuravano poi di serbar la fede ai magistrati, ai rettori dello
Stato, conciossiachè senza la volontà di Dio stimavano non fosse
stabilita la loro potestà. Che cosa s’intende per Maggiori, per
Magistrati e per Rettori? S’intenderà forse pegli Esseni, i principi
e dominatori stranieri che Dio prepose al governo di Palestina;
dei principi tra cui gli Ebrei emigrarono dopo la distruzione del
Tempio? Io non saprei categoricamente rispondere: ma se pure
così s’intendeva, ella non è la prescrizione degli Esseni senza
precedenti, senza esempj grandi autorevoli nella ebraica antichità.
Non lo è nei profeti, dove Geremia il popol suo premunisce
contro la disperazione, la irritazione e le tentazioni vane
perigliose dello esilio, siccome quello che voluto e preordinato
era da Dio pietosissimo alle mire ultime e adorabili della sua
provvidenza, dove li esorta di cercare nella salute del popolo, tra
cui emigrarono, la propria salute, nel suo bene il proprio bene, e
una seconda patria riconoscere ovunque li balestrasse fortuna,
preludendo con questo consiglio a quel genio cosmopolitico che i
padri nostri spiegarono nella loro dispersione; genio e fattezze
assumendo secondo lo speciale asilo in cui ripararono senza
pregiudicare però all’intima propria speciale caratteristica di
ebreo; e con maraviglioso magistero in uno accoppiando e il
cosmopolitismo più generale e il più stretto e rigido
particolarismo di nazione e di fede. Non lo è in secondo luogo nei
dottori fedeli in tutto e continuatori legittimi dei profeti loro
predecessorj, quando sotto il flagello eziandio della spietata
dominazione romana ammonivano i fratelli a pregarne da Dio la
salute, la conservazione per quella ragione grande, filosofica,
umanitaria, che sotto alla più orribile tirannide vede[265] sempre
la fautrice dell’umano e civile consorzio, l’ultimo vincolo della
società perigliante, e che ogni più barbaro reggimento preferisce
alla sociale dissoluzione e alla vita ferina e eslege delle genti
selvagge.—Raro esempio di meravigliosa abnegazione e di
stupenda imparzialità di giudizio che fa tacere i più legittimi
nazionali risentimenti di fronte all’ultimo e supremo bene della
società in pericolo, quando nel Medrasc Coelet in nome di Dio
scongiuravano i fratelli a tollerare pazientemente i decreti, fossero
pure dei più acerbi che loro imponessero i nuovi padroni, che non
ne scuotessero insofferenti il giogo comunque durissimo.—Che
se poi per l’autorità a cui giuravasi dagli Esseni obbedienza,
vorremo piuttosto intendere l’autorità religiosa, i maggiori, gli
anziani, i principi della Scuola, e’ non sarà senza grave autorità
fra gli antichi che a così intendere ci ammonisce. Io vo’ dire di
Filone; il quale parlando del giuramento essenico, lo spiega
appunto in quel senso che non ha guari udiste, che è quanto dire
degli anziani, dei dottori, dei sacerdoti, ed al voto dei più tra i
soci, tra i riuniti fratelli. In questo senso sarà egli mestieri
cercarne esempj precedenti, similitudini nelle dottrine, nei fatti
della storia dell’Ebraismo? Io oso dire che nulla havvi di più
naturale, di più proprio, di più speciale nell’Ebraismo, non solo
dell’ossequio, della riverenza dovuta ai grandi, ai dotti, ai
magistrati della nazione; ma quello che più amo farvi notare
perchè men conosciuto, si è l’ossequio, si è la deferenza
all’opinione comechè dalle proprie, dalle comuni differenti.
Testimone R. Josè che, interrogato come avesse da Dio meritato
di vivere così longevo, rispose tra le altre cose di non aver mai
preso a vile i dettami dei suoi colleghi comunque dal parer suo
differissero; che così oltre ei spingeva l’ossequio, al parere altrui,
che non ostante destituito ei fosse di carattere sacerdotale,
esercitato nonostante[266] ne avrebbe i pubblici offici, quando
così fosse piaciuto ai colleghi. Testimone R. Achibà, quando
sostenuto da lungo tempo in prigione, e vedendosi venire allo
stremo quel poco d’acqua che giornalmente gli si forniva, preferì
piuttosto impiegarla all’abluzione delle mani come volevano i
colleghi, che valersene ad estinguer la sete che il divorava, come
aveva egli stesso altra volta opinato. Testimone il discepolo suo,
R. Simone, quando uscito dopo 13 anni di reclusione da una
oscura caverna, sgridò colui che in onta all’opinione dei suoi
colleghi andava mietendo alcune spiche cresciute nell’anno
sabbatico, nonostante che si giovasse, come ei si scusava,
dell’autorità dello stesso Simone. Testimone Accabià figlio di
Maalalel, che dopo avere in onta ai colleghi costantemente
sostenuto alcuni principj, sendo vicino a morire chiamò il figlio
suo, e l’abbandono gli impose delle tesi proposte.
Ma gli Esseni non si contentavano di praticare il rispetto ai
maggiori, alle autorità vuoi politiche o religiose; essi ne davano la
teoria. Ei dicevano, e voi l’udiste, che l’autorità era
essenzialmente d’istituzione divina, e come quella che era da Dio
preposta al governo degli uomini tributavangli reverenza. Il
credereste! Erano i Farisei non solo nella pratica agli Esseni
conformi, ma lo erano eziandio in teoria. Ei credevano niuno
poter venire assunto al reggimento degli uomini, se a questo
officio non fosse stato anzi tratto destinato dal cielo; ei credevano
che non solo a questa prerogativa partecipassero i principi e
rettori delle nazioni, ma qualunque altra benchè subordinata
autorità, e come essi testualmente si esprimono, eziandio gli
esattori di balzelli, e come allor si diceva, i Pubblicani.—
Noi abbiamo veduto quali principj professassero gli Esseni
sulle autorità costituite: vediamo adesso come[267] ne
intendessero e praticassero l’esercizio. Giurava l’Essena nella sua
ammissione, che ove egli dovesse un giorno comandare ad altrui,
si guarderebbe dall’imperare con fasto, con alterigia. Come
intendevano i Farisei l’esercizio dell’autorità? Ei volevano nel
soprastante scopo nobile e puro, e tutto rivolto a gloria e a
servigio di Dio, vehol aosechim ghim azibur ijù osechim
immaeim lescem sciamaim. Essi esigevano una pazienza, una
longanimità nei Rettori del popolo a tutta prova; di subire dei
soggetti i capricci, le rivolte, gli scherni e l’odio ancora; e per
tutto in breve compendiare, di sostenere imperterrito quel
fantasma che spaventa i falsi amici del popolo, e che è sfidato e
vinto dai suoi amici veraci, la impopolarità «Al menat
sceischehlù ethem; al menat sceibzù ethem,» essi imprecavano a
quei maestrati, a quei superiori che spargono di sè terrore e
spavento in cuore ai soggetti, veassotem resciaim ascer natenú
hittitam beerez haim; zè parnas amattil emà al azibur. Essi
benedicevano invece alla memoria di quelli che il gregge di Dio
pascolavano con verga di mansuetudine e di clemenza, col
parnas scemanhig et azibur benahat, zohè umanigam leolam
abbà. Essi proclamavano, or sono 30 secoli, quando la forza
reggeva a sua posta i popoli soggetti, quando l’unico diritto
degl’imperanti era il diritto del più forte, quando si credeva
generalmente il popolo esser fatto pei principi anziché i principi
pei popoli; essi quella teoria politica proclamavano onde si onora
il secolo nostro, che è base dei governi più civili, e che nel
principe considera unicamente il più eccelso ministro, il più
eminente servitore dello Stato, della nazione, vehi serarà ani
noten lahem? Scihbud ani noten lahem.
Giuravano poi d’amare sempre la verità, e di svelare i
mentitori.—La verità! Niuna cosa più amarono nè più[268]
riverirono in atti e in parole i Farisei.—La verità impone Mosè
proseguire in ogni cosa «Midebar scecher tirhak.» La veracità
posero per condizione i dottori onde conseguire la visione di Dio,
da cui dissero separati in eterno i mentitori. Verità praticarono, e
verità rigidissima, nelle civili transazioni; testimone quel Rab
Safraà che avendo in cuore aderito ad un prezzo propostogli,
ricusò quell’aumento che immediatamente profersegli il
compratore standosi contento di quello che aveva per lo innanzi
in cuor suo accettato. Testimone quell’altro, che essendo uscito a
diporto fuori della città, ed essendosi con altro dottore a caso
imbattuto che tolse a ringraziarlo per essergli, siccome credeva,
uscito ad incontrare, ingenuamente confessò non aver egli avuto
siffatto intendimento. Testimone quell’orrore in cui ebbero ogni
ipocrisia e simulazione alla quale sotto il nome imprecarono di
«Goneb dahat Abiriot.» Sino al punto d’interdire ogni apparenza
che un simulacro offrisse di Pietà o Religione non sentite; che
dico? che ponesse in luce o divulgasse pratiche eziandio
realmente osservate; testimone tra gli altri lo esempio di quel
dottore non troppo dai nostri tempi remoto, che trovandosi in
amica brigata un certo giorno che trascorreva in digiuno, ed
essendosi ad ognuno presentata ospitale bevanda, amò meglio
troncare, che palesare la particolare sua devozione ai circostanti.
Tanto è vero che a niuno meno che ai nostri antichi dottori si
potrebbero quelle accuse attagliare che una Religione rivale non
cessò di scagliare in capo ai Farisei. E quanto non riesce la loro
veracità più ammirabile al confronto! Al confronto dico di un
popolo allora esistente che lo stringeva da ogni parte colle sue
leggi, colle sue istituzioni, coi costumi; che aveva dato al mondo
la sua letteratura, la sua scienza, la sua lingua, e che maestro
sedeva allora di civiltà alle genti. Voi l’avete nomato: ella[269] è
la Grecia, la Grecia il cui carattere del mendacio, dice uno
scrittore inglese, passò perfino in proverbio, che Luciano e
Giovenale rimeritarono colla ironia e col vilipendio; e che in niun
luogo così manifestamente si appalesa come in un passo di
Plutarco, ove togliendo a dimostrare la opportunità di vincolarsi
talvolta con certi voti agli Dei, egli novera tra i voti, possibile tra i
laudabili, quello di astenersi per un anno dal vino e dalla lussuria,
e quello infine di interdirsi per un certo tempo ogni menzogna:
prova a parer mio manifesta come l’eloquio dei Greci ordinario,
abituale, non solamente tollerasse, ma quasi non dissi esigesse,
l’ingrediente indispensabile della bugia. Ecco quale era
l’ambiente morale in cui vivevano i Farisei, ecco l’esempio che
porgeva la pagana civiltà, ed ecco quali seppero in mezzo a sì
grand’infezione conservarsi; puri, veridici, odiatori del falso e del
simulato, della maschera d’ogni maniera. Ed ecco nobilissimo
pregio ove, a differenza dei popoli dominanti, convengono
insieme Esseni e Farisei.
Ma gli Esseni non solo vogliono che si ami, che si pratichi
veracità; esigono ancora, e voi l’udiste, che si svelino i mentitori.
E i mentitori svelati vogliono essi pure i Farisei quando
insegnano mizvà lefarsem et ahanefim, quando dicono cioè
dovere ognuno strappare la maschera di faccia agli ipocriti,
doverne mostrare i vizi e l’abiezione denudata, dovere trarre
d’inganno coloro che presi sono dal fàscino dal bagliore di una
falsa virtù.
Giuravano gli Esseni di serbare le mani incontaminate da
ogni illecito lucro, che è quanto dire da quei raggiri, da quelle
trappole che pur sono tollerate in società, e che non sono
giudicabili che dal fòro interiore. Il nostro Farisato non ha
bisogno di chiarirsi innocente di siffatte bassezze: quindi in fatto
di lealtà non può subire comparazione: egli aspira al primato. È
egli per ciò che[270] questo brano dell’essenico giuramento nulla
dice, nulla ammaestra, nulla insegna? E pure preziosissimo
documento vi è racchiuso, nè a voi perspicaci sarà difficile lo
scuoprirlo. Vedrete in quello la prova come quella Comunanza di
beni, onde andarono così famosi gli Esseni, non fosse così
universalmente dagli Esseni praticata, che una parte almeno di
essi non si permettessero di possedere; vedrete in esso le traccie
sensibili di una privata proprietà a cui si giurava inviolabilità e
rispetto.—Vedrete infine quella istituzione attenuata che può a
prima giunta parervi ostacolo alla perfetta e intera identificazione
tra Farisei ed Esseni, la Comunanza di beni.
Noi siamo giunti quasi alla fine dell’essenico giuramento. Se
le cose che intorno ad esso mancano a dirsi fossero di più lieve
momento che non lo sono, noi avremmo quest’oggi al tutto
esaurito l’esame proposto.—Ma le ultime formule del giuramento
dell’iniziato accennano a fatti, a costumi imponentissimi.
L’arcano delle dottrine.—Il silenzio e il segreto ai profani.—
L’insegnamento agli iniziati.—I libri.—I nomi degli angioli.—
Cose tutte il cui nome soltanto accenna la importanza. Egli è per
questo che ad altra volta ne serbo la trattazione, e che intorno a
queste mestieri è, come Dante diceva, un’altra volta ancora
«sedere a mensa.»

[271]
LEZIONE DECIMASETTIMA.

Il giuramento degli Esseni fu da noi nelle precedenti lezioni


sottoposto ad esame, e trovato in ogni sua parte conforme alle
idee, alle pratiche di que’ Farisei dai quali crediamo avere gli
Esseni tratta l’origine. Pure una parte tuttavia restava a vedersi
dell’essenico giuramento, che è quella per cui l’istituto Essenico
sino adesso veduto quale sociale sodalizio si palesa dal suo lato
scientifico religioso dottrinale; in cui l’insegnamento, il mistero
era carattere precipuo solenne peculiarissimo; per cui spiegasi più
luminosa quell’attenenza da noi certamente propugnata fra la
scuola farisaica e la società degli Esseni. Giuravano gli Esseni di
nulla nascondere ai fratelli dei misteri della setta, di nulla agli
altri rivelare ove n’andasse eziandio della vita, e nei casi di
legittimo insegnamento di non comunicare le dottrine sociali se
non nella guisa in cui fur ricevute, e finalmente di conservare
studiosamente i libri della setta e i nomi degli angioli. Gran
parole son queste, vuoi per la intrinseca loro significazione, vuoi
per i preziosissimi ravvicinamenti che ci offrono col sistema dei
Farisei. Permettete che noi riandiamo gli articoli a parte a parte.
In primo luogo, l’obbligo di insegnamento di comunicazione
ai fratelli delle dottrine sociali. Avvi nulla che meglio consuoni
colle teorie dei Farisei? Io oso dire[272] che non si potrebbe dare
analogia più manifesta. Per essi il maestro, il dottore, chi avaro
procede degli ammaestramenti ai discepoli, triste messi
raccoglierà di maledizioni dalle labbra dei pargoli, e da quelli
eziandio che stanno ascosi nell’alvo materno. «Col ammoneagh
alakà, mippi talmid, affilù obarim» ecc. ecc. ei frauda lo
innocente del retaggio dei padri suoi, della legge, patrimonio
comune di tutto Israel. Per essi quella solamente si chiama Legge
di Grazia (torat hesed) che ama diffondersi, che si spande, che si
comunica, (Torà al menat lelamed zò torà scel hesed) titolo che a
sè unicamente arrogava una religione che da noi trasse l’origine.
[77]

Per essi colui all’opposto che si fa de’ figli altrui istruttore


meriterà di sedere nel consesso e delle speculazioni fruire dei
celesti: «col ammelamed et ben haberò terà zoké veiosceb
biscibà scel maghta» i egli potrà ogni più duro decreto
squarciare col merito suo, «affilù gozer ghezerà mebattelà.» Per
essi il vanto maggiore onde possa andare glorioso un Dottore,
quello si è di aver molto insegnato, testimone il maggiore Eliezer,
che prossimo a morire levò al cospetto dei discepoli radunati le
due braccia in suono mestamente esclamando: O braccia mie che
quasi due aste del santo volume, poichè la lettura si è consumata,
siete prossime a ripiegarsi![78] Molto a svolgere vi stancaste i sacri
libri per imparare, molto più vi affaticaste nello insegnare. Deh
sia la pace nel mio riposo!
Che se santo è l’obbligo d’insegnare a chi indegno non sia, se
dal lato positivo tanta veggiamo conformità col giuramento e
colla pratica degli Esseni, sarìa egli lo stesso in ciò che il
giuramento contiene di negativo, nel divieto cioè di comunicare
le dottrine religiose agli indegni, agli stranieri. E questo pure[273]
a veder bene è comune ai Dottori; comune quando pronunciavano
il divieto di comunicare la legge, le sue dottrine, i suoi misteri
agli idolatri, non già perchè avari procedessero dei veri posseduti,
ma per la ragione semplicissima che i Gentili volevano e
credevano salvi senza le speciali conoscenze dell’ebraiche
dottrine, le quali l’officio e il carattere sostenevano verso i Gentili
di dottrine jeratiche sacerdotali, e di inviolabile acroamatismo, a
cui accostarsi solo era lecito per le vie gelose e riservate di una
regolare iniziazione; comune quando ci narrano di un discepolo
cacciato per indiscreta propagazione di cose udite già erano
vent’anni, come dei Pitagorici si narra che parecchi soci ebbero
espulsi per indiscreta divulgazione dei loro misteri. (Ritter, I, 300)
Comune quando la legge comunicata allo indegno, alla pietra
parificavano, che gli adoratori di Mercurio o del Siro Meeracles
deponevano sui mucchi a loro onore innalzati nei capi strada. E
quando più specialmente togliendo di mira quelli che
espressamente si dicono Sitrè Torà, Misteri della Legge, e che
sono appunto a parer mio le dottrine di cui eran pubblici
depositari e cultori gli Esseni, precise e severe regole imponevano
alla loro trasmissione, virtù, qualità richiedendo particolarissime
nello iniziato, come a dilungo può dimostrarsi in Haghigà, e di
cui non è qui luogo a discorrere. Che sarà poi se gli specialissimi
libri rammenteremo e le regole dei cabalisti? Certo che l’analogia
sarà più parlante, se vera è quella identità che non ho cessato di
propugnare fra le due sette; certo che troveremo allora nel Zoar
frasi siccome quelle che nel terzo volume si leggono della
grand’opera ove il verso dei Proverbi chebod eloim aster dabar
«si onora Iddio serbandone i santi misteri» ai misteri si applica ed
all’insegnamento dei cabalisti, nè troppo saprei dire veramente a
chi altro si potrà meglio[274] riferire che agli arcani di religione,
alle norme eziandio attenendosi della Esegesi più imparziale.
Troveremo nell’istesso volume un verso solo che sembra suonare
contradditorio, autorizzando e vietando al tempo stesso la
propagazione dei misteri d’Iddio, seco stesso pacificato,
distinguendo gl’iniziati, i soci kabrajà, gli entrati ed esciti a
salvamento, come si esprime il Zoar per l’ordinario, dagli
indegni, dai profani, dagli inesperti, leekol lesobà velimhassè
attik. Troveremo a coloro imprecato che trasmettono (per tradurre
testualmente) i misteri delle leggi, i misteri della tradizione della
Genesi, e della ortografia dei misteri di Dio ad uomini indegni;
troveremo infine l’essenico divieto ripetuto ad ogni tratto e qual
tutela e palladio raccomandato per la conservazione delle riposte
dottrine.
Ma il giuramento degli Esseni un’altra clausola conteneva che
noi dobbiamo esaminare. Non solo volevano generosa
trasmissione agli iniziati, non solo volevano ogni cognizione
interdetta a chi nol fosse; ma volevano fedele eziandio ed
inalterato lo insegnamento; ma giuravano eziandio di comunicare
le dottrine religiose nella guisa stessa che erangli state insegnate.
Potrebbe darsi riscontro più evidente coi costumi, colle regole,
colla pratica dei Farisei? Havvi nulla di più provato, di più
costante della fedeltà, quasi non dissi servile, che ponevano i
Farisei nella trasmissione delle ricevute dottrine? Eppure non si
comprese come cotesta bellissima sia e perentoria dimostrazione
della veracità della tradizione; e pure gli uomini che si facevano
scrupolo di ripetere perfino gl’idiotismi dei loro maggiori, si
accusarono di inventori e falsari; eppure non si vide infine quanto
Esseni e Farisei procedano per questo verso eziandio per
conformità ammirabili; eppure le infinite prove che ne
somministrano i Farisei furono travolte in oblio; si
obbliarono[275] quelle formule che tornano ad ogni passo nel
Talmud; che sono il preludio obbligato di ogni recitata tradizione;
che di maestro in maestro, di trasmissore in trasmissore risalendo,
ascendono sin dove le superstiti memorie lo permettono; si
obliarono quei dottori che per niuna cosa andarono tra i posteri
così famosi come per essersi ogni opinione interdetta che dal
proprio maestro non avessero ricevuta come si narra in Succà, se
non erro, per Eliezer il maggiore: sciellò amar dabar sciellò
sciamagh mippi rabbò micòdem. Si obliò come tra i peccati che
causa sono della cessata insidienza di Dio in Israel quello si
annoveri, la propagazione di dottrine non ricevute; e nulla, a
mirar bene, di più ragionevole; conciossiachè la tutela e la
possessione del vero eterno siano il segno della presenza di Dio
infra gli umani; si obliò lo scongiuro che il restauratore della
Teologia, Ben Johai, il Socrate del cabbalismo, dirigeva ai
discepoli, ai suoi Kabrajà, instantemente esortandoli non
volessero lasciarsi di bocca uscire una parola di religione, che
saputa ed udita non avessero da uomo autorevole, o come dice il
Zoar, da Albero magno. Bemattutà minaiku de la tafcum
mipummaihu milà deoraità dilà scemahtun meillanà rabrebà; e
quel titolo obbrobrioso si obliò che ai propagatori di novità
imponevano i dottori, adoratori chiamandoli di Simulacri veri e
propri, e di quel comando violatori che è secondo nel Decalogo,
dove la fattura s’interdice di imagini e sculture; dehol man
demappich beoraità ma delà jadagh vela chibbel merabbò alé
chetib lo taasé lekà pessel, la taghbed lak oraità ahrà delà
jadagh velà amar lah rabbah.[79]
Ma gli Esseni, voi lo udiste, volevano esatta e fedele la
trasmissione delle loro dottrine, e quindi a questo fine
preordinarono il giuramento. Perciò imposero la fedeltà della
orale trasmissione come abbiamo veduto, e perciò[276] stesso
introdussero quell’altro inciso che di conservare imponeva, di
custodire con cura, con fedeltà i libri e scritture dell’Essenato.
Che vi par egli che abbia pensato e praticato a tal proposito la
scuola dei Farisei; che idea vi formate della loro fedeltà
bibliografica? Ah! che se io volessi trattare dell’argomento in
tutta la sua ampiezza bene più oltre ne spingeremmo i confini che
l’ora ed il tema non lo consentano. Ricorderemmo il deposto
biblico, il suggello di autenticità che reca manifesto, ed a cui
piacquersi di porgere ossequio i dottori eziandio della Chiesa
cristiana, ed una schiera infinita di critici di ogni stirpe e
religione; i lavori prodigiosi colossali dei Massoreti che resero
ogni alterazione impossibile col tessere l’elenco minuto
circostanziato delle frasi, delle parole, delle lettere di tutta la
Bibbia, e queste ed altre infinite cose riandando, potremmo offrire
della farisaica fedeltà luminosa testimonianza. Ma noi ci
contenteremo di scendere da tanta altezza, e le più antiche e gravi
prove trasandando ci acqueteremo nelle più modeste.
Ricorderemo il divieto soltanto di conservare eziandio un libro
che non fosse corretto, e quindi l’obbligo della rettificazione, e
della soppressione. Assur leasciot sefer sceeno mugghè miscium
al taschen beaoleha avlá, e soprattutto ricorderemo un passo del
Talmud di Gerosolima nel trattato di Chetubot, che mentre
conferisce da un lato a sempre maggiore dimostrazione dello
scrupolo e delle esattezze bibliografiche dei Farisei, ci offre da un
altro lato tutto il carattere ed il valore di una vera Rivelazione. Io
non oserei questo vocabolo adoperare se non avessi sempre letto
in autori gravissimi, qual fatto costante dimostrato, il silenzio dei
Dottori intorno gli Esseni; se le ricerche eziandio più moderne
non si fossero arrestate innanzi questo fatto strano
incomprensibile, se infine il luogo da me citato del Jeruscialmi a
quei[277] pochi ma rari e preziosi luoghi non appartenesse, che
nella rabbinica enciclopedia alludono, a parer mio,
manifestamente alla società degli Esseni. Giudicatene voi stessi.
Vuole il Talmud accennare quei libri, quegli esemplari da cui si
può impunemente togliere criterio per la trascrizione dei libri
sacri, accennarli insomma quai libri modelli. Rab Kannà amar
lemedin misefer mugghé. E quali sono, credereste, quei libri
modelli? Sono quelli, aggiunge il Talmud, quei libri che libri
s’intitolano da un Esseno o Esseo come più precisamente legge il
Talmud. «Chegon illen deamrin sifroi de Assè.» Strano a dirsi!
Quando i chiosatori tolsero a darci di questa frase l’intelligenza,
che cos’avvenne? Essi ignoravano o in quel punto obliarono che
nei secoli misnici, talmudici, eravi una scuola famosissima che si
diceva degli Esseni, che come gli stessi farisei avevano libri; che
come essi scrupolosamente ne praticavan la custodia, che la
gelosa conservazione eragli imposta per giuramento e tutte queste
cose obliando, girono in cerca di meschine, di assurde
interpetrazioni. Si disse: eravi allora celebratissimo scriba che il
nome portava di assè, i cui libri si prendevano per modello delle
copie trascritte, e di quest’uomo intese favellare il Talmud
quando disse Sifroi de Assè. Ma dov’è questo Assè nella storia?
Dove sono i luoghi in cui di esso si ragioni nel Talmud? Come il
singolare parlante nome reca egli appunto di Assè, e come infine
il solito inseparabile aggiuntivo non si legge di Maestro o di Rab?
Ma quanto meglio nel nostro sistema! quanto più naturale,
storica, espressiva, piena di vita e di verità la frase talmudica ove
degli Esseni s’intenda, ove si ammetta niun più acconcio esempio
aver potuto citare il Talmud di esattezza e religione bibliografica,
che lo esempio pubblico famosissimo della bibliografia degli
Esseni! Il qual esempio vediamo citato in verità nella[278] frase
summenzionata, che mentre conferma la fama di periti e probi
bibliografi che vantavano gli Esseni, e che è l’oggetto specifico di
questa lezione, ci offre al tempo stesso uno dei più pellegrini
luoghi che la storia degli Esseni vanti nelle pagine Rabbiniche,
siccome quella che prova contro l’opinione generalmente
accettata, la cognizione degli Esseni presso i Dottori.
Ma gli Esseni promettevano nel loro giuramento altra cosa
non meno preziosa conservare, e voi lo udiste, il nome degli
angioli. Chi è che questo giuramento ci ha trasmesso e quindi
anco la frase presente? Egli è Giuseppe Flavio che grecamente
dettava le opere sue, e grecamente in pari modo narrava
dell’essenico giuramento. Come suona nell’originale la frase di
Flavio? Suona ella così chiara, così formale che nè incertezza nè
contradizioni abbia tra gli interpreti ingenerato? Io vel debbo
confessare. Le parole di Giuseppe furono diversamente comprese
dai suoi traduttori. Ove Basnage, ove Munk, ove altri moltissimi
leggono, come udiste, il nome degli angioli, l’antico traduttore
francese Arnauld d’Andilly, e forse altri che io non conosco,
intesero e tradussero, il nome di coloro dai quali furono i libri
ricevuti, che è quanto dire il nome dei loro antichi autori. A quale
delle due diverse lezioni dobbiamo attenerci? Io non vi
obbligherò a sì lungo e duro processo; piuttosto più breve e
spedito cammino preferiremo, e prendendo in esame or l’una or
l’altra lezione, dimostreremo come qualunque versione ci piaccia
anteporre, sempre naturale e luminosa sorgerà tra gli Esseni e i
Farisei nuova e concludentissima attinenza. Piacevi la versione
d’Arnauld d’Andilly? Volete che si tratti degli scrittori, degli
autori antichissimi della scuola il cui nome si volle
scrupolosamente conservato? Ed allora potrei io tacere quei
luoghi autorevolissimi, ove di questa regola[279] e costume si
costituisce obbligo, dovere impreteribile? Non sono i Dottori che
insegnarono che chi degli antichi autori i nomi ricorderà, è fattore
di Redenzione? Non sono essi che ammaestrarono desiare
ardentissimamente le anime dei trapassati udirsi ricordate in
quanto insegnarono in questo mondo? Non imposero essi ad
ognuno immaginare presente nell’atto d’insegnare l’autore
dell’antico dettato. Leolam jekaven adam baal scemuà lefanav.
Non posero eglino stessi il precetto in pratica risalendo per lo
usato nella recitata tradizione, di autore in autore, tutti per nome
distinguendo sin dove la superstite memoria lo permetteva? Io
vorrei potere farvi qui apprezzare il doppio oggetto che, sì
facendo, si proponevano i Farisei; l’ossequio che in tal modo
amavano prestare agli antichi maestri, lo spediente che per tal
guisa usavano efficacissimo a serbare inalterate le religiose
tradizioni perpetuando le vetuste trasmissioni, e quasi i titoli e
diplomi di legittimità invariabilmente accompagnando alle loro
dottrine. Ma questo troppo più oltre ci menerebbe che il tempo ed
il tema non lo consentano.
Voi lo udiste; udiste come non sia la sola versione che si
ammise in Flavio. Si volle e per moltissimi e forse pei più
autorevoli, che la frase di Flavio suoni diversamente cioè nome
degli angioli. Io vorrei che poteste quanto è d’uopo misurare tutta
la importanza di questa frase, che ricordaste come la esistenza,
nei tempi di cui parliamo, di una scuola che professasse il culto di
una recondita teologia, fu subbietto ed è tuttavia di lunghe,
ostinate e dottissime controversie, e come in ultimo questa frase
gettata nella bilancia non può non farla, a creder mio, inclinare
dalla parte del vero, del diritto. Ma queste preziosissime
circostanze basti lo avervi accennato. Noi dobbiamo solo
domandare: Saremo noi così[280] felici nel rinvenire di questo
giuramento il riscontro nei Farisei, come non infelici fummo, se
io non erro, nelle cose discorse? Troveremo noi l’obbligo tra i
Farisei di conservare dottrine arcane e certi nomi di Dio venerati?
Io non rifinerei giammai se qui dovessi tutto quello esporvi che ci
porge di analogia il Talmud; e benchè di significato fecondissimo
e di momento stragrande meglio che altri non crede, nonostante
non riguardando da presso l’argomento presente, e potendo con
un singolo esempio tutto ad un tempo provare, ogni altra
talmudica citazione preteriremo.[80] E qual è questo esempio di cui
favello? Egli è tratto da quel libro che nell’officio comparativo
che abbiamo intrapreso non potremmo desiderarsi più
concludente. Egli è il Zoar al volume 3º sul fine, ove oltre
moltissime attinenze che è facile notare colla società degli Esseni,
oltre il narrarvi di un libro di un Asseo per nome Cattinà, oltre il
citarne le parole che a guisa di commento pare avesse dettato
sull’ultimo canto di Moisè, oltre il riferirvi tutto quanto in
quell’opera si prescriveva sui doveri del medico, oltre il
rivendicarvi la legittimità dell’arte salutare contro i sofismi che in
nome di una religione fatalistica ne proscriveva l’esercizio, oltre
lo accoppiarvi nella stessa persona, mirabile a dirsi! la cura del
corpo e la cura dell’anima, carattere precipuo distintivo della
società degli Esseni, oltre il parlarvi di un medico o Assià
celebratissimo che più si diceva operare guarigioni colla
preghiera che non colle arti sue, qualità se altra fu mai
convenientissima agli Esseni, oltre a tutto questo, ed è già molto e
rilevante, si aggiunge: quel libro esser stato veduto, esaminato
prima da un Nomade, da un Solitario. Tajaha il quale redatolo
dall’avo suo, dice tutte le dottrine mediche contenute fondarsi sui
misteri della legge, prescriversi certi mezzi curativi che non
sono[281] precisamente nè umani nè scientifici; e poi lo stesso
libro veduto, esaminato per ben dodici mesi da uno dei più celebri
dottori Zoaristici, da R. Eleazar, che da quella lettura riportò,
siccome egli narra, un senso di venerazione e terrore. Ma ciò che
più davvicino riguarda l’argomento presente, la gelosa
conservazione dei nomi degli angioli è il fatto, di cui depone il
Zoar istesso.—Il contenervisi in quel libro registrato il nome
degli angioli, l’aggiungersi da R. Eleazar, vero e scrupoloso
Essena, che quei nomi non parevangli esattamente ordinati, cose
tutte che rispondono pienamente a quello che vedemmo praticato
presso gli Esseni.
Noi abbiamo esaurito il tema del Giuramento, abbiamo parte
per parte esaminato questa specie di programma che ogni Essena
dovea soscrivere e giurare al suo nascere all’Essenato, e lo esame
intrapreso tornò, come dovea, a sempre maggior conferma di
quella identità tra il Farisato Cabbalistico e gli Esseni, che fu
costante argomento delle nostre dimostrazioni. Adesso un nuovo
lavoro ci chiama, un nuovo esame; l’esame delle istituzioni
organiche, fondamento del nostro istituto. La comunicazione dei
beni, il celibato, gli usi e la vita pratica del chiostro. Ecco gli
argomenti che ci occuperanno nelle successive lezioni.—Prove
maggiori ci attendono, a me di studio, di indagini serie, a voi di
cortesia sempre crescente. A chi valica un mar tempestoso nulla
più vale a ispirargli coraggio che una voce amica, che un volto,
un’espressione che gli auguri dalla riva propizie le aure.
[282]

[283]
[284]
LEZIONE DECIMOTTAVA.

Il sistema che abbiamo seguito nella esposizione della storia


degli Esseni ha almeno il pregio, se io non erro, di essere
naturale. Noi abbiamo quell’ordine esterno seguito che l’Essena
seguiva nel passaggio che dalla vita faceva del mondo alla vita
ascetica e contemplativa del chiostro. Passava dal mondo
all’Essenato con un tirocinio di tre anni, e questo tirocinio
studiato abbiamo sotto il nome di noviziato. Varcato così le soglie
dell’istituto, un atto secondo e più intimo celebrava soscrivendo
agli obblighi che lo attendevano nella vita claustrale, e questi
obblighi e questo impegno abbiamo considerato sotto il nome di
giuramento. Entrato così nel novero dei soci e tutti i doveri
adempiendo, e che cosa dovrà formarne delle nostre ricerche
subbietto? Certo, i doveri appunto che adempiva, le istituzioni a
cui s’uniformava, le leggi che ne regolavano la vita. Ma in questa
stessa disquisizione un qualch’ordine dobbiamo pure serbare.
Dobbiamo da quelle istituzioni esordire, che prendevano lo
iniziato al suo entrare; dobbiamo poi a quelle volgere la mente
che lo iniziato accompagnavano, e che gli atti tutti informavano
della sua vita sociale.
Una istituzione, singolare istituzione, attendeva lo Essena[285]
alla porta. Al suo giungere non solo i vizj, non solo l’errore
doveva deporre, ma una mano invisibile lo spogliava di tutti i
beni eziandio, e questi ora alla comunità appartenevano, all’erario
sociale, ora in favore ai congiunti quasi per morte si
rinunciavano: così Giuseppe nelle Guerre giudaiche. Ma lo
Essena se di ogni presidio terreno si spogliava, ci trovava nella
società una madre la quale per mezzo di socj a questi uffici
preposti, e che la storia rammenta sotto il nome di Economi,
provvedeva incessante agli abiti, al vitto, ai bisogni dei figli. E
questa istituzione si dice Comunanza di beni. Furono in questo
senza predecessori gli Esseni? Non ebbero modelli, esemplari tra
il fiore dei Pagani, nelle patrie ricordanze e nei Dottori
contemporanei? Vediamo gli uni e gli altri. I Pagani! Chi
potrebbe dimenticarlo?—Chi potrebbe porre in oblio a questo
proposito i Pitagorici? I quali oltre le altre moltissime analogie,
in parte vedute e che in parte vedremo ancora colla società degli
Esseni, questo pure parlantissimo riscontro porgevano col nostro
istituto nella Comunanza di beni. Il Ritter, I, 299, crede che la
comunità dei beni sia piuttosto dei moderni Pitagorici che degli
antichi; ad ogni modo non nega l’istituzione. Ed ai Pitagorici
somigliavagli pure il nostro grande correligionario Flavio
Giuseppe quando ai suoi lettori pagani voleva porgere un termine
di comparazione coi suoi cari solitarj.—Che Flavio Giuseppe non
a torto, così sentenziando, si apponesse, abbiamo veduto altre
volte e vediamo oggi non meno; ma forse altro meno atteso
resultamento racchiudesi nel citato ravvicinamento, se gli Esseni
sono ragionevolmente posti a fianco dei Pitagorici, se il carattere
e le istituzioni hanno comuni indivisi. Se i Pitagorici, a
confessione di valentissimi autori, hanno comuni le fattezze coi
cabbalisti, chi non vede per nuova via accostarsi, abbracciarsi,
[286] confondersi in uno Cabbalisti ed Esseni? Se è vero in
matematica che due quantità uguali a una terza sono uguali fra
loro, chi non vede la verità di questo altro ragionamento? Esseni e
Cabbalisti sono eguali a Pitagorici—dunque Esseni e Cabbalisti
sono eguali fra loro—sono sopra un tipo stesso, un’idea sola
improntati?
Il Paganesimo, noi lo abbiamo veduto, ci ha dato i Pitagorici
quale ordine, quale istituzione affine alla società degli Esseni.
Che cosa ci darà l’Ebraismo, la storia dell’Ebraismo? Voi lo
sapete; parliamo qui di una linea sola della fisonomia degli
Esseni, della comunanza dei beni, del voto di povertà. E dove
meglio potrìaquesta istituzione ravvisarsi che trai Leviti ed i
Sacerdoti? Sacerdoti e Leviti secondo le leggi mosaiche nulla
possedevano.—Sola fra tutte, la tribù di Levi fu di ogni retaggio
in terra santa destituita, sola fra tutte vivea del Tempio e dei
proventi del Tempio, sola fra tutte avea per ogni avere sortito
l’Eterno, la sua Dottrina, il suo Culto. E questa è visibilissima
attinenza tra Esseni e Leviti. Ma non è sola, voi lo ricordate.
Quando parlavamo dell’astinenza dal vino, quando degli abiti, dei
candidi pannilini, quando degli studj e della vita contemplativa, ei
furono sempre i Leviti che tutti questi caratteri ci offrirono
comuni agli Esseni. A questi caratteri un nuovo dobbiamo
aggiungere, e questo è il voto di povertà, la comunanza dei beni. I
Leviti appartengono alla biblica antichità e quindi recano i
caratteri ed il genio essenico nelle epoche più vetuste di nostra
esistenza. Sono soli i Leviti in quel periodo di nostra storia a
offrire cogli Esseni questa nuova similitudine? Sarebbe errore il
crederlo, riflettendo ai Recabiti dei quali parecchie cose udiste
per lo passato. Certo spero non avrete dimenticato come nelle
espressioni di Geremia[287] io vi facessi osservare una frase la
quale altro senso non può avere che il voto di povertà, che la
comunanza di beni. Così prima Leviti e Sacerdoti e poi i Recabiti
di Geremia preludono, come in altri infiniti anco in questo
carattere, alla società degli Esseni.
Ma l’Ebraismo, voi lo sapete, ha due ère, due grandi, e come
oggi si dice, organici periodi; Bibbia e Talmud, Profeti e Dottori,
ispirazione e scienza, parola scritta e parola parlata. Abbiamo
veduto della comunanza di beni gli avvisi nell’epoca prima;
vediamone adesso i segni, il passaggio nella seconda. Questi
segni e queste vestigia di due constano principalissimi ordini:
idee e fatti, teorie ed esempj, principj e pratica applicazione. Si
trova la povertà insegnata in principio, si trova poi in fatto
applicata, esercitata. La povertà proclamata in principio, e questo
è già molto; ma assai più sarà, se non sbaglio, quando vedremo a
chi riferita, quando vedremo qual portano nome i suoi professori.
Io ebbi parecchie volte occasione di ripeterlo, l’ho secondo me
innalzato al grado di fatto presso che dimostrato. Il nome con cui
pei rabbini si distingue l’Essena è quello di Kassid, e riandando
tutte le prove da me in mezzo recate, troppo più oltre la bisogna
procederebbe che non fa di mestieri. Questo per certo riteniamo,
come l’abbiamo ad esuberanza provato, che il nome Hasid è
sinonimo in bocca dei Dottori a quello che Giuseppe Flavio ci
trasmise di Essena e Terapeuta.
Or che sarà se oltre i contrassegni infallibili onde questi nomi
per noi si confusero, s’identificarono, questo pur esso si
aggiungesse della comunanza dei beni? che sarà se oltre le
condizioni tutte che abbiamo veduto comporre la personalità del
Hasid, quello pur esso udissimo annoverarsi della povertà
volontaria? E pure oso dirlo, nulla di più ovvio, dirò anche, di più
ripetuto. E[288] la parte più popolare del testo Misnico, e il
trattato più accessibile, più conosciuto, più recitato di tutta la
vasta raccolta, è quello che ricorre eziandio sulle labbra dei
parvoli, che prezioso ne acchiude e perentorio insegnamento. E
pure non si comprese; e pure tanto può di luce ed evidenza
diffondere uno storico ravvicinamento. E pure era tanto facile
comprenderlo quando si fosse agli Esseni pensato, quando si lesse
nel Testo: Colui che dice il mio è tuo, il tuo è tuo, egli è Hasid; vi
fu nessuno che dubitasse che sì dicendo si alludesse ad alcun che
di storico, di reale, di organico istituto? Quando si lesse ivi stesso
per contrapposto: Colui che dice il mio è tuo e il tuo è mio; vi fu
nessuno che pensasse a quei famosi progetti che dopo Platone e
Licurgo correvano per il mondo di repubbliche, di città
socialistiche; chi esaminasse se in questa frase approvato o
riprovato fosse il sistema dai nostri dottori? Certo ch’io mi
sappia, nessuno: e se qui il luogo fosse di trattarne per disteso,
quanto non riescirebbe interessante l’ultimo di tai raffronti
eziandio? Platone, Licurgo, Fourier, Saint-Simon, Blanqui, Owen,
giudicati dai dotti Ebrei non sarebbe tema di piccol momento
senza dubbio. Ma di questo si taccia per lo migliore. Solo ci piace
insistere sulla prima parte del testo Misnico, su quel
rinunciamento a cui s’allude dei proprj beni in favore dei poveri.
Strana, insulsa, parassita allusione ove un fatto non vi fosse stato
contemporaneo a cui si riferisse, quando si fosse di una virtù
favellato che nessuno praticava, quando si fosse voluto soltanto
un ideale tratteggiare a cui niuno si fosse accostato, quando a
fianco delle altre tre classi reali, esistenti, positive, si fosse una
quarta accompagnata che condannata fosse stata a rimanere
esclusivamente teorica.
Ma noi dobbiamo mostrarla questa virtù in azione, dobbiamo
passare nel dominio dei fatti, dobbiamo toccare[289] degli uomini,
degli atti, delle circostanze che di questa essenica istituzione ci
offrono in numero infinito ad esempio i dottori, e così avremo le
due grandi parti della storia ebraica poste a contributo. E prima
un tratto caratteristico che si legge in Cammâ. Si narra d’un
uomo, che le pietre che la casa ingombravangli, andava rotolando
sulla pubblica via. Chi passa, direste, in quel mentre? Passa, dice
il Talmud, un Hasid, ch’è quanto dire tale che il titolo stesso
recava che noi abbiamo altravolta ad esuberanza provato, proprio
propriissimo degli Esseni, e con mal piglio apostrofandolo si
narra che così gli dicesse, o Raca, o Sciocco! per che le pietre
sgombri dal dominio nostro per gettarle nel tuo verace dominio?
Voi lo udiste. Egli il haisid chiama suo dominio il dominio
comune, la via pubblica, la proprietà comunale; egli chiama
invece dominio non suo la casa, la propria dimora, la privata
proprietà, in quella guisa a un dipresso che quel poderoso
intelletto di Proudhon difiniva un furto la proprietà. La propriété
c’est le vol, e spiegava il Lo tignob del Dicalogo come se dicesse
piuttosto non possedere. Chi avrebbe pari linguaggio tenuto se
non un Essena, ch’è quanto dire appunto un Hasid, uno di quei
cotali che sotto questo medesimo nome di Hasid ci palesarono in
mille incentivi la società degli Esseni? Ma gli esempj non
scarseggiano, che anzi ve ne sono di avanzo. Fra gli antichi un
Monobaze principe degli Adiabeni, che si dice avere i suoi averi
ai poveri distribuito, e Monobaze era, curiosissimo a dirsi! figlio
di quella Elena regina degli Adiabeni che noi, favellando altra
volta del Nazirato, trovammo affiliata all’ordine dei Nazirei,[81]
che è quanto dire, quell’ordine che tante e sì parlanti analogie
vedemmo offrire colla società degli Esseni; alla quale il figlio suo
Menobaze avrebbe in quella guisa aderito che i principi e
monarchi aderiscono alle più[290] illustri consorterie del loro
Stato. E qui pure un Ribbi Isbab di cui si dice essersi di ogni
avere spogliato in favore dei poveri; qui Ribbi Iohanan che
traendo da Tiberiade alla vicina Zippori e giunto presso un
campo, voltosi al suo compagno di viaggio, questo, disse, era
mio e lo sarebbe tuttora se non avessi ad esso preferita la vita
studiosa, contemplativa. E qui un fatto, un gran fatto che solo
dalla storia dell’Essenato, delle sue istituzioni, del suo voto di
povertà, può ricevere lume adeguato, ed aspetto di verosimile,
voglio dire la manìa che invase, l’andazzo, il trasporto generale ai
primi albori del cristianesimo, di togliersi indosso il grave giogo
di povertà, ed eleggersi volontaria indigenza; che dico? il genio
stesso, le parole formali dell’autore del nuovo culto quando
diceva: più agevole il passare di un elefante per la cruna d’un
ago che un ricco varcare le soglie del cielo. Quando alle turbe di
seguirlo desiose, imponeva dicendo: Dividete tutto il vostro ai
poverelli e seguitatemi; quando gli ultimi diceva dovere essere i
primi nel regno dei Cieli; ed altre infinite somiglianti sentenze
che tutte, consuonano coi principj dello Essenato allora in fiore.
Potremo dubitarne? Potremo dire che il Cristianesimo, che il
suo autore non abbia volgarizzato le teorie ed i precetti del grande
istituto? Potremo appuntare coloro di errore che colsero tanti
strettissimi legami fra le due sette? Potremo dire che non bene si
apponesse un poeta francese, non ha guari tolto alla patria,
quando il fondatore del Cristianesimo chiamava recisamente un
philosophe Essénien? Certo che non potremo, se punto ci cale
della verità; ma tutti intenti nello spettacolo di sì gran filiazione,
diremo ai grandi fondatori del nuovo culto, ai figli un poco
degeneri degli Esseni, ai nipoti un poco ingrati dei Farisei, ciò
che Dante disse dei grandi ingegni, che vostra arte a Dio quasi è
nepote.
[291]

[292]
LEZIONE DECIMANONA.

Se la comunanza dei beni fu propria istituzione della società


degli Esseni, come veduto abbiamo nella passata lezione, non
meno tralle altre distinta procedeva, per un altro suo particolare
istituto, il celibato. Il celibato fu ed è tuttavia fama avere
appartenuto, come ad altri, così a quello antichissimo istituto
eziandio, e gli appartenne in verità, purché si voglia in questa
sentenza procedere colle debite distinzioni. Che il celibato
praticassero una parte, la più ascetica delli Esseni, nessuno negò,
anzi formalmente asserironlo tutti quelli che degli Esseni presero
a trattare da Giuseppe sino ai nostri giorni. Ma quanto a partito
s’ingannerebbe chi volesse a questa regola astretti tutti quanti gli
Esseni! Vi confesso il vero, giovani miei, quando le prime, le più
superficiali nozioni acquistando del grande istituto, mi venne
fatto di leggere questa regola severissima; quando pensai tutti
dover gli Esseni rigorosamente conformarvisi; un dubbio mi
assalì, e dissi fra me: che sarà del mio elaborato sistema, dei
raffronti perpetui dei Farisei, della strettissima parentela, anzi
della perfetta identità tra i due Sodalizj, se il celibato fu invero
proprio costitutivo elemento di quello istituto? In qual guisa gli
Esseni identificare con quei Dottori, che levavano al cielo il
matrimonio,[293] che il gridavano mezzo, condizione di spirituale
eccellenza? Ed allora un certo scoramento mi prese, e dubitai un
istante della bontà del sistema. Ma quanto ingiustamente! La
contradizione che si parava gigante a traversarmi la via, veduta
più davvicino, meglio studiata, meglio analizzata, simile ai
giganti che vide l’Eroe della Mancia, si convertiva in mulini. E
per due ragioni e per due diversi lati deponeva lo scoramento, e
quello immenso intervallo che pareva il celibato frapporre tra le
due sette sorelle, era in parte da ognuna di esse superato e
ricolmo. Farisei ed Esseni che il celibato faceva così discrepanti
si porgevano da lungi una mano fraterna, e muovendo ognuno
verso dell’altro fornivano una parte di quella distanza che
dividevali. Si accostavano gli Esseni ai Farisei togliendo al
celibato quel carattere organico, fondamentale che parevagli
attribuito, nè i Farisei meno davvicino agli Esseni si
appressavano, parecchi e grandi e autorevoli esempj porgendosi
non solo di celibato fortuito, involontario, ma di celibato
studiatamente voluto, e amato e osservato; e qual grado
eminentissimo reputato di spirituale perfezione. Ma parlino i fatti
più di me eloquenti. Parli Giuseppe che la preziosa distinzione
stabilisce tra Esseni ed Esseni, tra quelli che al celibato si
attenevano, e quelli che, comunque veracissimi Esseni, non
pertanto non solo il celibato non professarono, ma il matrimonio
ad esso preponevano per molti rispetti. Havvi, dice Giuseppe,
altra specie di Esseni che convengono coi primi, nell’uso degli
stessi cibi, negli stessi costumi e nelle stesse leggi, e in nulla ne
differivano, notate preziosissime parole, tranne perciò che
riguarda il matrimonio, a cui il rinunciare stimano quanto
estinguere dalla faccia del mondo la specie umana. E questo è il
punto in cui Esseni al centro farisaico convengono. Ma Esseni,
voi direte, vi furono[294] nonostante i quali il celibato praticarono
ed a regola parziale sì, ma pure venerata eressero del loro istituto.
Nè io lo nego, nè il potrei. Lo attesta Giuseppe, come vi dissi; lo
attesta Filone pei suoi Terapeuti, e lo attestano infine i due pagani
Plinio e Solino. Ma quanto lo stesso attestato di questi due ultimi,
che pure sembra osteggiarne, non reca un’aspettata conferma al
nostro sistema! Quale è questo sistema? Voi lo sapete; l’identità
suprema tra Esseni e Farisei. Ma chi erano i Farisei e qual
concetto di sè porgevano al mondo pagano? Certo di quelli che la
immensa maggioranza rappresentavano della nazione, il fondo a
così dire della Ebraica società, il popolo vero, il popolo Ebreo.
Udite ora le parole di Plinio. Egli non rifinisce dallo stupirsi, egli
celebra quale inaudita meraviglia che una nazione per secoli e
secoli si perpetui, nella quale, per dirla colle sue parole stesse,
non nasce nessuno. Che cosa vi dicono queste parole di Plinio?
Certo che un attestato vi porgono rilevantissimo, come altra volta
vi feci osservare, della rispettabile antichità dello Essenico
istituto, e come stranamente siano andati errati coloro che circa a
quel torno gli assegnarono il nascimento, mentre Plinio favella di
secoli e secoli. Ma non vi pare che le parole citate confermino la
propugnata identità? Vi par egli che Plinio avrebbe così favellato,
che avrebbe ad una setta, e scarsissima di numero, il pomposo
nome assegnato di popolo e nazione; vi par egli che del suo
perpetuarsi avrebbe fatto le meraviglie, se gli Esseni come i
Sadducei fossero uno scisma, un membro putrido e divelto,
anziché il fiore e la eletta della nazione? se nel concetto di Plinio
e Solino, Essenato ed Ebraismo farisaico non fosse tutt’uno? Vi
par egli che luogo vi fosse a gridare mirabilia pel durare,
comunque lunghissimo, di uno Istituto ove, s’egli è vero che
niuno nasceva corporalmente, pure moltissimi erano[295] i
nascenti per le vie di affiliazione e di noviziato? Se d’altra parte
Essenato ed Ebraismo non fossero stati nel concetto di Plinio una
sola cosa, e se il suo errore da questo appunto provenuto non
fosse, dalla naturale identità tra gli Esseni, espressione più alta
dell’Ebraismo Farisaico, e lo istesso Farisaico Ebraismo?
Ma nè queste nè altre simili inattese conferme da un obbligo
ci dispensano imperiosissimo; dallo spiegare in qual modo il
celibato, almeno parziale, si concilia colla identità dei due Istituti.
E qui mestieri è di buon grado il concediate. Se ci volessimo di
una semplice analogia accontentare, egli è gran tempo che sarìa
stata da noi indicata; se ci bastasse il dimostrare che i Farisei se
non ebbero il celibato, n’ebbero almanco lo spirito, n’ebbero
almeno le lunghissime astinenze, n’ebbero almeno l’applicazione
temporanea ai grandi stati, ai grandi momenti della vita religiosa;
gli esempj altra volta da noi ricordati sorgerebbero all’uopo
opportuni, ed il Farisato di nuovo ricondurrebbero tra le braccia
dell’Essenato; sorgerebbero gl’Israeliti separati da lunga mano
dalle loro donne nell’aspettazione di Dio rivelato; sorgerebbe
Mosè sacratosi secondo i dottori a perpetuo celibato perchè la
voce udì che gl’intimava Rimanti con me, e di cui bello indizio
comecchè indiretto ci fornirà il gran fatto, che dopo i due figli
avuti pria della sua vocazione, niuna altra prole di lui
rammemorino le istorie. Sorgerebbe David, il quale al sacerdote
di Nob ripugnante di ammetterlo alla mensa d’Iddio protesta esso
ed i suoi da parecchi giorni da ogni venere astinenti. Sorgerebbe,
lo che è più, una schiera di Dottori Talmudici dei quali si narrano
le lunghe separazioni dalle donne loro, sino ai dodici, sino ai
venti e più anni, per vivere della vita studiosa appo qualche
famoso dottore lontano; nè tra questi sarìa da[296] pretermettere
Rabbi Achibà che un carattere particolare ci offre notabilissimo
nello appartenere a quei quattro privilegiati che si dicono
ammessi al Pardès; ch’è quanto dire iniziati alle più alte
speculazioni di una recondita Teologia. E questo, ne converrete,
sarìa già molto, e molto del còmpito nostro noi avremmo fornito.
Ma se il sistema nostro è vero, se resiste a tutte le prove,
dobbiamo volere di più: dobbiamo chieder una precisa e formale
dispensa dal matrimonio, dobbiamo chiedere una precisa e
formale sanzione del celibato: Non basta; dobbiamo chiedere,
perchè sia congenere e quindi identificabile perfettamente
coll’Essenico celibato, dobbiamo chiederla quale virtù ascetica,
trascendentale, qual mezzo di superlativa perfezione religiosa,
quale sacrifizio di ogni affetto carnale ad un affetto morale
sopramondano. Parvi egli che io proceda meco stesso più che non
s’addica indulgente? Parvi egli che più potrebbe esigere il più
severo Aristarco? Parvi egli che se questo trovato avremo,
avremo tutto trovato? Ebbene, noi lo abbiamo trovato; abbiamo il
Talmud, e dopo di esso un lungo ordine di Trattatisti, i quali tutti,
dopo avere tra i precetti di Dio annoverato il matrimonio, pure
stabiliscono una eccezione, e questa eccezione è pegli Asceti, è
pegli uomini che pongono ogni loro amore nella Contemplazione,
per quelli, dice il Talmud, che lo esempio vogliono seguire di Ben
Azai. Che nome è questo, e qual nuovo raggio di luce diffonde
sull’argomento? Chi era Ben Azai? Il credereste! Era anch’esso
uno dei quattro che sopra gli altari si dicono nel Talmud ausati a’
più eccelsi voli della speculazione teologica; era pur esso uno dei
quattro che entrarono nel Pardès, ed esso, oh meraviglia! è Ben
Azai, è il modello del celibato in bocca ai Dottori, ed egli stesso
fu celibe, come celibe o quasi celibe fu Rabbi Achibà, come
celibe fu Ben Zomà, se non[297] erro, tutti componenti il gran
consesso del Pardès. È egli a caso cotesto? È a caso che non
solamente si trova il celibato autorizzato praticato nel Talmud, ma
lo che è di gran lunga più importante, si trova appunto, si trova
esclusivo in quel consesso, in quei Dottori che se antenati ebbero
i Cabbalisti negli antichi tempi, sono dessi di certo? È egli a caso
che lo stesso argomento che prova la presenza del celibato trai
Farisei, prova egualmente la particolare affinità degli Esseni con
quella parte di Farisei che furono precursori, progenitori della
grande scuola di Cabbalisti, tanto che si può dire che lo
argomento che a noi saria bastato, sorge di nuova luce rivestito
che ne prova la verità e meglio e più urgentemente conclude di
quello che chiedevamo? Io credo che uno dei migliori criterj di
verità, per giudicare di un sistema sia appunto cotesto, quando
cioè affaticandoti a solvere una repugnanza apparente, non solo il
filo trovi che ti trae d’impaccio, ma quasi per mano ti riconduce a
rivedere, a riconoscere, a ricostatare tutte le altre parti del visitato
edifizio provando al tempo istesso il tutto colla parte e la parte col
tutto, e intimamente armonizzando non solo colla idea in
controversia, ma con tutti gli altri caratteri del tuo sistema.
Abbiamo veduto lo stato economico degli Esseni, la
comunanza di beni, il loro stato, in parte coniugale in parte
celibatario. Adesso dobbiamo più davvicino osservare la vita
privata, le costumanze, le abitudini. E prima di ciò che riguarda il
loro esteriore, la loro persona. Quali erano i loro abiti? Noi
abbiamo di questo argomento toccato laddove della origine
discorrevamo del nostro Istituto. Voi lo ricordate. Questi abiti non
erano per tutti uniformi, e forse cercando di questa diversità la
origine, la troverete per avventura in quel doppio ordine di Esseni
che abbiamo veduto comporre[298] il grande istituto Pratici e
Contemplativi. Vestivano altri di ruvide pelli, secondo ne
ammonisce Giuseppe nell’Autobiografia, altri poi procedevano
ammantati di bianchissimi lini. Noi chiedevamo, voi lo
rammentate, all’antichità ebraica, alla storia, al culto ebraico di
questo duplice costume i precedenti. Vedevamo l’origine del
primo nell’uso generalmente adottato dai profeti, e che n’era
siccome pare il principal distintivo. Vedevamo l’origine, il
modello dei candidi lini, in parecchi e venerande istituzioni in
Israel; il vedevamo tra i sacerdoti che di bianco lino vestivano
nell’interno del Tempio; il vedevamo tra i Leviti, tra i Nazirei,
presso i quali un verso preziosissimo delle Lamentazioni ci
attestava egual costumanza; il vedevamo nelle rappresentazioni
degli esseri angelici quando i profeti ce li dipingono biancovestiti,
quando in Daniel l’antico dei giorni ci è presentato cuoperto di
veste bianca qual neve; il vedevamo tra i Dottori, specialmente in
uno tra essi celebratissimo R. Iehudà Bar Ilhai, del quale si narra
che approssimandosi il sabbato indossava candida veste onde non
dissimile, dice il Talmud, appariva dagli Angeli. Che sarà pure se
lo epiteto intenderete, col quale questo santo Dottore vien
designato? Certo non negherete che niuno più parlante modello
da paragonarsi agli Esseni. L’epiteto di cui si parla egli è quello
col quale, a senso nostro, si designava dai Dottori lo Istituto degli
Esseni, l’epiteto di Hassid. E Hassid è detto nel Talmud questo
stesso Ribbi Ieudà Ben Ilaì di cui vediamo la singolare
conformità esteriore col costume degli Esseni. Fatto di gran
rilievo ove specialmente si consideri che a detta del Talmud, ogni
qual volta il nome, l’epiteto ricorre presso gli antichi, di Hasid,
egli è di questo stesso Dottore di cui si è voluto parlare. Ma non è
egli il solo di cui si narri il bianco vestire. I Dottori di
Babilonia[299] si distinguevano pei candidi manti; onde erano
detti, perciò appunto Malahè asciaret, secondo avverte il Talmud
in Chiduscim ed in Nedarim. Ed oh quanto non torna all’uopo
nostro significante la voce Hassid! Voi lo vedeste le mille volte
come l’uso storico speciale che di questo vocabolo fecero gli
antichi consuoni sempre coll’istituto degli Esseni, tanto che, ciò
che i Dottori dissero, narrarono dei Hassidim, è vero alla lettera,
dei grandi solitari. Ma non è perfino il nome stesso di Hassid che
non acchiuda in seno una squisita convenienza coll’uso, col
costume in discorso. Il senso suo cotanto vago, cotanto generale,
pure talvolta si determina, si fissa, si circoscrive e l’idea ci offre
bene chiara, bene specchiata di candore e bianchezza. Ce l’offre
quando è adoperato in senso di onta siccome quella che in ebraico
si dipinge col pallore e la bianchezza del volto; Malbin. Ce l’offre
poi nel nome Hassidà che il traduttore Arameo traslata a dirittura
la bianca; Havarità per il bianco colore delle sue penne.
Sono queste alcune linee di quel grande sistema d’identità che
abbiamo cercato di dimostrare del continuo in queste Lezioni; ma
la precipua sua forza sta nell’insieme, nell’armonia delle sue
parti; in quel vicendevole connettersi, spiegarsi, completarsi, che
fanno tutti i suoi elementi, ed in cui l’animo non può fare a meno
di ammirare o uno strano capriccio del caso, o un titolo ed un
carattere innegabile di evidenza.

[300]
LEZIONE VENTESIMA.

Dopo avere nella passata lezione descritto l’esteriore costume


degli Esseni, le loro vesti ora candide quai sacerdoti, ora aspre e
pelose quai solitari e profeti, diremo adesso degli usi loro, della
pratica della vita privata. Grande era il conto che gli Esseni
facevano della mensa comune, delle comuni imbandigioni. E nel
farlo fedeli erano alle patrie idee, alle patrie tradizioni, e fedeli
eziandio a’ più cospicui, a’ più religiosi istituti della pagana
antichità. Delle prime faccia fede la Bibbia che ove avvenga chi
di solenne banchetto faccia menzione, sempre un gran nome, un
nome santo, gli conferisce, quello di sacrifizio,[82] faccian fede i
dottori che a dirittura asseriscono, la mensa ove presiede la fede
tenere degnamente le veci dello altare di Dio, e le imbandigioni il
luogo tenere di sacrifizio espiatorio. Le quali idee comecchè
leggansi nelle più autorevoli opere de’ prischi dottori, pure e forse
per ciò stesso, consuonano a maraviglia colle teorie cabbalistiche;
prova ad un tempo che tralle prime e le seconde anziché divario,
come altri presume, grandi invece ci corrono e sensibili affinità, e
che gli Esseni anche per questo verso esprimono con mirabile
fedeltà il genio non solo della scuola de’ Farisei, ma più
specialmente di quelli che la età moderna distinse sotto il nome di
Cabbalisti.
[301]
Dissi però di costumi, eziandio, di idee pagane da queste non
dissimili de’ nostri Esseni. E qui potrei, le greche e le barbariche
istorie invocando, far mostra di facile erudizione. Potrei citare e
Persia e Atene e Sparta e le Repubbliche pressochè tutte di Grecia
antica, ove i pranzi comuni, ora al grado si elevarono di pubblica,
di sociale istituzione, ora, lo che è più, di religioso cerimoniale.
Ma su queste e altre simili ricordanze trapasseremo per brevità.
Solo dirò con Plutarco che la mensa dice rappresentazione e
figura della Terra; l’una e l’altra di forma sferica concepite. Ma
Plutarco dice di più: egli aggiunge che perciò stesso, Vesta da
taluno si appellava la mensa, e Vesta era simbolo di fuoco
centrale, dell’altare, della torre di fortezza, come altra volta
vedemmo appellato esso fuoco centrale; e quindi al nome
mirabilmente corrispondente di Mizbeak che reca ne’ nostri libri
la mensa, ed ambedue e mensa ed altare come tra i pagani così tra
noi indicanti un unico principio. Tra i primi Vesta, il fuoco
centrale, la vita del mondo, e tra noi l’Ente Metafisico che i
Dottori chiamano Malhut, e che tutti i caratteri offre appunto or
ora discorsi. Sono questi arbitrari accozzamenti o armonie
spontaneamente prorompenti dal cuor del subbietto? Per ora ci
basti il fatto enunciato, il concetto uniforme che della tavola
formaronsi, e la Bibbia e i migliori tra i pagani, e gli Esseni, e i
più eruditi scrittori del paganesimo quale Plutarco. Nè Plutarco è
il solo. Cicerone prende a posta sua la parola, ed arguto quale egli
esser suole in fatto di etimologia, accenna la superiorità del latino
che convivio chiama il banchetto quasi vivere insieme, sul greco
che lo qualifica simposio quasi bevere insieme. Ma che avrebbe
Cicerone pensato se del nome ebraico avesse avuto contezza?
Egli avrebbe certo trovato lo equivalente di simposio nell’ebraico
nome di mistè,[302] e quindi inferiore anch’esso al convivio latino.
Ma quanto più splendida qualificazione avrebbe egli ravvisato nel
nobilissimo Zebach? Che se il primo ogni volgare accenna ed
anche licenzioso banchetto, il secondo ai grandi, a’ solenni allude
e religiosi convivj.
Nè quelli degli Esseni avrebbero questo nome demeritato.
Non lo avrebbero pel silenzio profondo che durante il pranzo
regnava d’intorno, e di cui celebre esempio ci offrono pur essi i
Farisei, quando esigono in principio non doversi per ragione di
igiene conversare mangiando; del qual divieto solo allora
comprenderemo lo spirito che a memoria ci ridurremo l’attitudine
che prendevano a quei tempi sui letti loro i commensali. Non lo
avrebbe poi, aggiunge Filone, pei dottrinali trattenimenti che,
conchiuso il pranzo, si intavolavano tra i commensali. Ma quanto
non suonano preziose le frasi Filoniane, specialmente ove si badi
alle circostanze a cui si accenna. Non solo ei dice che si
proponeva a mensa una questione tratta da’ libri sacri; ma egli ne
addita l’indole peculiare, ei dice quei discorsi composti di
allegorie sulle sacre scritture. Nè di questo si accontenta Filone:
ma trapassando al criterio generalissimo con cui dagli Esseni si
procedeva nella interpretazione delle scritture, la legge dice
considerano pur essi qual’Ente animato i cui precetti sono il
corpo; e spirito e mente, le allegorie. Abbiamo ben udito? Sono
elleno coteste le espressioni testualissime di Filone? È egli questo
il concetto che della scrittura formavansi Terapeuti ed Esseni?
Che se così è, che cosa resta per identificarli a’ Teologi del
Farisato, ai Cabbalisti? Non sono essi che lo esempio ci offrono
continuo luminoso di dotti ragionamenti a tavola intrapresi? Non
ne riboccano ad ogni pagina e Talmud e Medrascim ed il Zoar
sopratutto? Che dico? Non sono eglino soli, soli i Cabbalisti gli
autori, e propugnatori del gran principio esegetico dagli
Esseni[303] bandito, la duplice natura della legge di Dio
spirituale e corporea? Non sono eglino appunto che all’animale
somigliandola (nel 3º Volume del Zoar) i precetti dicono appunto
come gli Esseni dicevano, il corpo della legge, e le allegorie, non
meno com’essi ancora ne dicono, lo spirito?
Ma se la teoria degli uni a quella degli altri perfettamente
risponde, ciò che aggiunge Filone, non pare, se ben si mira, di
manco rilievo, e forse meglio che le grandi affinità varrà a
stabilire tra i due istituti la medesimezza, siccome quello che
poggia non già sopra certe somiglianze che possono essere effetti
di cause congeneri, ma sopra alcune circostanze singole arbitrarie
che rivelano una medesima provenienza. Egli è Filone che parla,
Filone che dice come, conchiusa la sposizione allegorica quando
trovata sia laudabile, ognuno applaude. E questa circostanza ove
la troveremo? Nel Zoar se la cercherete, ove vedrete non una nè
dieci, ma cento e mille volte seduti i dottori Cabbalisti al desco
comune, lunghi e dotti tessere ragionamenti, i quali conchiusi,
sono ora i baci fraterni che fanno fede del cuore appagato, ora
certe frasi che tornano immancabilmente dopo ogni festeggiato
discorso, e che suonano, a mo’ d’esempio: Se la vita ci fosse stata
solo, per questo udire, largita, già ne sarìa di avanzo. «Illù la
atena leàlmà ella lemiscmagh dà, dai.»
Nè i dotti ragionamenti nè gli applausi erano la sola parte che
negli Essenici banchetti si dava alle lettere, si dava allo spirito.
Eranvi altresì i canti, vi erano gli inni. I quali, dice Filone,
coronavano gli Essenici Agapi colle lodi di Dio, e colla memoria
de’ suoi benefici. Questo inno era tal fiata opera personale del
Patriarca, del Presidente; tal’altra era dettato di qualche antico
poeta, perocchè i poeti, dice Filone, hannoci lasciato de’ versi
metrici spondei[304] esametri ed inni che accompagnano le sacre
danze. Dove sono gli inni a mensa cantati nell’antico Farisato? Il
Talmud non li disconosce in verità, per quanto per la indole
dell’opera stessa non troppo, se non isbaglio, ne son numerosi gli
esempi.[83] Pure già ne è dato l’uso travederne sino da remotissimi
tempi: che dico? sino da’ tempi profetici, sino nella Bibbia. La
quale volendo dire come nell’ultimo nazionale esizio cessato
sarebbe ogni tripudio, annunzia come non più a suon di canto,
sarìa il vino ne’ conviti libato: d’onde traevano i dottori argomenti
a interdirne l’uso dopo l’esilio. Pure la interdizione non è tale che
l’uso non ti apparisca di quando in quando nell’istesso Talmud:
testimone quel banchetto ove invitato Rab Hasdà a sciogliere
giojoso un canto trista invece intonava e lugubre elegia. Ma
questi, per quanto non ispregevoli esempj, poco sono, se gli
Esseni sono non solo Farisei ma Farisei cabbalisti, se la identità
di cui abbiamo finora discorso non è una favola.
Ebbene il Cabbalismo, i suoi usi, i suoi personaggi ne danno
la più parlante, la più espressiva imagine della Essenica
costumanza. Io non so se sbaglio, ma se il Talmud, se tutta la
biblioteca rabbinica de’ primi secoli fa per avventura menzione di
un poeta rabbino, di un poeta fariseo, questi è un solo, chiaro,
celebre se volete, ma pure un solo. E questo unico poeta chi è
egli? Egli è uno de’ più eminenti della teologia cabbalistica, egli è
il cervello, la mente della scuola, come Ribbi Abbà ne fu lo
scriba, ne fu lo scrittore; egli è in una parola il figlio stesso del
grande maestro, egli è Ribbi Eleazar figlio di Simone che fu, dice
il Medrasc, Carobì vetanoi upoeti. E ciò che più monta, egli è che
di questo officio, di questo carattere di poeta non fa fede il Zoar,
parte interessata nella questione e monumento esautorato dagli
anticabbalisti, ma fanno fede libri a niuno sospetti,[305] di
indubitata autenticità, di imparzialità manifesta. I quali lo dicono
fregiato delle triplici doti, come vedemmo, di Poeta, Oratore e
Rapsoda tradizionale e il vogliono ancora perito cantore e
identico a Ribbi Elleazar Hisinà per non parlare della tanta
controvertita identità col poeta nostro, conosciuto più tardi sotto il
nome di Callir o di Calliri, intorno al quale tanto dottamente
s’affaticarono i nostri moderni eruditi. E questo è senza meno
antichissimo e per ciò stesso concludentissimo esempio di
analogia, Esseno-Farisaica ed Esseno-Cabbalistica. Ma quanto
più prossimi e più comuni gli esempi se per poco scendiamo in
ordine di tempo! Quanto illustre ce n’offrirebbe l’esempio dico di
magnifiche poesie, parte più specialmente consacrate alla mensa,
parte alla preghiera, alla liturgia, e tutte stupendamente
improntate di una siffatta elevazione che rende a mille doppi
mirabile il poetico magistero. Fra i primi non si potrebbe non
menzionare il Loria principe de’ moderni Cabbalisti, prodigio di
speculativa fecondità, comecchè nulla abbia scritto ma tutto lo
insegnamento suo abbia trasmesso oralmente. Che dico nulla
scritto? Egli scrisse pure qualche cosa, e queste sono brevi e
mistiche poesie dettate in linguaggio Arameo e destinate alla
mensa sabbatica. Gli altri poi sono egualmente Cabbalisti ma
scrittori esimj nella purissima favella della scrittura. Possiamo
dire che se a ragione vi ha chi possa dire di aver generato la
mistica poesia ebraica, la più bella che io conosca, ella è senza
meno la Italia nostra. La quale se non avesse in questo genere
dato la vita che a Moise Zaccut di Venezia, avrebbe già un titolo
glorioso alla riconoscenza de’ cultori della santa lingua. Bisogna
leggere le poesie del Zaccut e persuadersene. Bisogna avere
qualche sentore delle Dottrine cabbalistiche, bisogna avere anche
il gusto dell’ebraica poesia,[306] per ammirare il magistero
stupendo, con cui concetti sublimissimi sono vestiti di forma non
meno sublime, ed in cui non sai veramente discernere se più
l’idea conferisce alla venustà della forma, o la squisita
magnificenza di questa alla grandezza e nobiltà del concetto. A
me poi la lettura di quelle poesie cabbalistiche dettate nel più
puro idioma della scrittura produce un effetto singolarissimo. Mi
pare che un grande abisso sia ricolmo, mi pare un grande
intervallo superato, mi pare in un istante la distanza soppressa,
che i Profeti divide da’ Dottori, da’ Dottori cabbalisti. E quando
vedo quanto la forma profetica scritturale si attagli al concetto
cabbalistico, quando vedo e l’uno e l’altro immensamente più
belli, più grandi farsi al contatto, e quasi la parola biblica
incarnarsi, immedesimarsi col concetto cabbalistico, allora la
unità primitiva e della parola e dell’idea rivelata, la sintesi che ha
preceduto l’analisi, la separazione sofistica, mi si rivela in una
luce, in una evidenza intuitiva che non si potria la maggiore.
Ora di due altri punti che il sistema, che la forma e l’ordine
concernono della tavola essenica. Questi due punti sono in primo,
l’ora, e poi l’abito che a tavola indossavano. L’ora dicono gli
storici era la sesta. Dopo avere, dicono essi, lavorato sino a 5 ore
si bagnavano nell’acqua diaccia, e bagnati che erano si riunivano
per il pasto. Entravano nell’aula ove cibavansi, con aria solenne,
quasi fosse in un tempio; sedevano nel più profondo silenzio, e
prima e dopo il pasto i sacerdoti pronunziavano una preghiera. Le
parole udite sono pregne di allusioni, di reminiscenze, di analogie
farisaiche; analogia l’ora al cibo assegnata; questa ora era pegli
Esseni la 6ª e lo era egualmente pei Farisei; i quali, prescrivendo
e determinando a ciascuno l’ora di sedere a mensa, assegnano a’
Farisei la 6ª ora[307] del giorno, quella stessa che udiste sulle
labbra di Filone particolare agli Esseni; analogia la lavanda,
l’abluzione che gli Esseni praticavano nella sua forma più
religiosa, Tebilà, e che i Farisei non imposero che nella sua forma
più mite l’abluzione delle mani Tebilat Iadaimi; analogia il
concetto grande ed augusto che si formavano del refettorio al
quale si accostavano come ad un tempio, consuonando in tal
guisa col farisaico dettato che la tavola parificano all’altare, e il
carattere gli assegnano espiatorio che era proprio all’ara di Dio.
Sciulkan scel Adam mechap per ghalav. Analogia infine la
benedizione che si dice pronunziata prima e dopo il convito, e di
cui abbiamo continuo quotidiano l’esempio innanzi gli occhi.
L’ultimo de’ punti accennati non merita meno la vostra
attenzione. Se gli Esseni indossavano abiti particolari durante il
pasto egli è perchè nobilissimo siccome udiste si formavano
concetto della mensa comune, alla quale siccome i sacerdoti
all’altare, così essi non si appressavano che con abiti
specialissimi; egli è perchè, nè si dee dissimularlo, tale correva
allora comunissimo l’uso tra i più distinti Romani i quali
andavano, dice uno storico, al pranzo vestiti di un abito più o
meno leggiero secondo le stagioni e che serviva solamente per la
tavola. E nomi pure recava distinti, pomposi: si diceva vestis
cœnatoria, triclinaria, convivalis e in una parola sintesis.
Presentarsi al festino senza quest’abito sarebbe stata inescusabile
malcreanza. Cicerone fa un delitto a Vatinio di esservi venuto in
abito nero comecchè convito funebre fosse quello. Quando il
convitato avesse mancato d’indossare l’abito comune, il padron
di casa glielo prestava come prestavanlo, al dire di Capitolino,
Alessandro e Settimio Severo ai loro commensali. Ma l’uso in
discorso è di gran lunga più rilevante ove ad un uso si raffronti,
bello per mirabile identità de’ dottori Cabbalisti.[308] I quali
appunto come gli Esseni, appunto come i più grandi tra i Gentili,
non si avvicinavano alla mensa che dopo aver vestito abiti
esclusivamente alla mensa sacrati, applicando all’atto della
commestione ciò che i Farisei del Talmud praticavano in ordine
alla preghiera, per la quale lindi e puri serbavano abiti peculiari.
Ma ciò che più mi ha colpito, che meglio ha posto agli occhi miei
in rilievo questo nuovo argomento d’identità fra le due scuole, si
è appunto, vel confesso ingenuamente, ciò che per altri sarebbe
stato per avventura soggetto di dubbio e di esitazioni, voglio dire
quell’apparente mancanza di continuità nella pratica di quest’uso
tra i Farisei, quella lacuna storica che tu ravvisi tra l’antichissimo
Essenato e i moderni Cabbalisti, e per cui dopo aver letto di
quest’uso la pratica in una società da tanto tempo estinta, tu lo
ritrovi senza che ti sia dato discuoprirne le orme, vivo, attuato
nella scuola cabbalistica. Se i Farisei, dissi fra me, da’ quali
potuto avrebbero i cabbalisti quest’uso imparare non lo
conobbero; se i Cabbalisti non si addarono unqua dell’esistenza
neppure, e tanto meno delle istituzioni degli Esseni in quella
guisa che niuno di se stesso può vedere il sembiante; e se non
ostante gli antichi usi degli Esseni si riproducono senza il vincolo
farisaico in seno a’ Cabbalisti e si riproducono ne’ dettagli
eziandio più minuti della pratica giornaliera, egli è segno che la
vita de’ primi si è ne’ secondi trasfusa, che cambiando nome,
forma e certi caratteri altresì deponendo, si perpetuò l’Essenato, si
rinnovò ne’ Cabbalisti moderni, tra i quali tu ravvisi certi usi i cui
storici precedenti mancano affatto nei predecessori naturali degli
Esseni, nella Bibbia, ne’ profeti, ne’ Farisei, e di cui tu trovi
invece il tipo antichissimo nella società degli Esseni.
Che se questo fatto ed altri di simil tempra non
provassero[309] l’identità, che cosa proverebbero e quale più
rimarrebbe spiegazione escogitabile? Certo che altra sola
rimarrebbe possibile, ma tale che per la sua assurdità niuno vorria
menar buona. Bisognerebbe supporre che in seno ad una stessa
nazione, gli Ebrei; sotto gli influssi di una medesima religione,
l’Ebraismo, in breve sotto l’azione di un concorso di cause
identicissime, due istituti siensi generati, che tutto o pressochè
tutto vantano comune, dottrine, genio, pratica giornaliera, usi,
costumi e nonostante non si tocchino, non si combacino, non
s’identifichino fra di loro, e nonostante sieno due riproduzioni fac
simili di uno stesso tipo, due manifestazioni successive di uno
stesso principio, di uno stesso genere. Io credo questa ipotesi
inammissibile. Io credo che nella stessa guisa che nella vita di un
popolo, di una fede, di una scienza, ogni principio, ogni germe
nasce una sola volta, vive di una sola vita, e morto ed esaurito
mai più comparisce in quella guisa medesima che la Grecia ebbe
un sol Platonismo, una sola Stoa, un sol Peripato; l’età moderna
un sol Cartesio, un sol Leibnizio, un sol Spinoza, un sol Kant, nè
saria stato possibile che due ve ne fosse perchè nulla d’insulso, di
inutile si produce in natura, così io credo che l’Ebraismo non
ebbe nè poteva avere che un sol Essenato, come non ebbe che un
sol Farisato, un solo Sadduceismo, un sol Caraismo; e che questo
Essenato cangiò sì di nome col cangiare de’ secoli, senza cangiare
però di natura, e le fattezze antiche serbando tutt’ora
riconoscibili.
[310]

[311]
LEZIONE VENTESIMAPRIMA

Le istituzioni degli Esseni ci hanno sinora occupati. Celibato,


comunanza di beni, abiti, refettorio furono da noi nel novero posti
delle loro istituzioni; e come tali studiati. Potremo noi obliare il
lavoro l’esseniche occupazioni? Potremo noi il carattere e
l’esame disdirgli di organica istituzione quando le regole
dell’istituto come tale lo consideravano, come tale ai socî lo
imponevano? Io credo che nol possiamo. Troppo era per essi
essenziale il lavoro perchè possa da noi pretermettersi. Il lavoro,
dice il Salvador, era una delle tre basi su cui la società si fondava,
e queste basi erano Lavoro, Carità, Contemplazione. Le quali basi
attentamente osservando, mi venne fatto dimandar a me stesso:
sarebbe egli possibile che di questa triplice caratteristica si faccia
parola nelle antichissime sentenze di Abot? Sarebbe possibile che
un equivoco, sino adesso perpetuato, ci abbia conteso la vera e
genuina intelligenza della parola Abodà, e che non ad altro se non
alla essenica organizzazione allude il testo antichissimo, quando
tre dice essere le basi su cui poggia il mondo, il sociale edifizio,
Carità, Lavoro, Contemplazione? Io non ardirei asserire che così
sia veramente, che a questo e non ad altro abbia alluso la Misna e
che la parola Abodà sin ora intesa come il culto esprimente e il
servigio di Dio, stia piuttosto[312] a significare lavoro, come pure
il potrebbe. Tanto io non ardisco, ma ciò che si può a dirittura
affermare, egli è che la congetturata interpretazione può stare a
fronte di altre mille che la critica moderna partorisce ogni giorno;
egli è sopratutto il conto grandissimo in cui il lavoro si tenne
presso gli Esseni.
Ma qual lavoro? certo non il commercio per cui gli antichi
professarono dispregio anziché altro; per cui parve condegno agli
Egizj, agli Indiani, antichissimi popoli, rilegarne i professanti
sino alle ultime classi sociali. Per cui i Greci stessi non ebbero
che parole di biasimo e di sdegno, che lo dissero proprio
peculiare officio della classe servile, e non solo in pratica
l’ebbero a vile, ma vile ancora l’ebbero in teoria i filosofi, i
publicisti, come a bastanza apparisce nel 7º libro della Politica di
Aristotile, e come dal nostro stesso Flavio Giuseppe apertamente
risulta, il quale più obbediente ai paganici pregiudizj che alla
storica verità, disse che gli stranieri soltanto praticarono appo noi
il commercio ai tempi di Salomone; troppo disdicendo a popolo
nobilissimo inchinare la mente ai pensieri, agli officï della
mercatura. Queste frasi provano almeno una cosa, provano il
concetto che del commercio prevaleva, ai tempi dello Essenato, il
quale, siccome quello che aspirava a sovrumana perfezione, non
poteva a quegli offici ossequiare che dallo universale e dal volgo
medesimo erano dispetti.
Che se il commercio non era la occupazione prediletta dei
rigidi solitarj, potremo dire lo stesso dell’agricoltura? Egli è certo
che Filone attesta il contrario. Ricorda Filone come gli Esseni si
compiacessero attendere eglino stessi ai rusticani lavori, e le terre
eglino stessi coltivare alla società pertinenti. Nè certo
consuonavano, in questo, i lor costumi con quelli dei più
famigerati popoli del mondo antico. I quali non meno che il
commercio[313] ebbero a vile l’agricoltura, e l’uno e l’altra
affidarono a mercenarj, a schiavi. Testimoni gli Indiani che solo
all’infime classi sociali concessero il lavoro dei campi; testimone
l’Egitto, la Grecia, e Sparta segnatamente; e se una eccezione
dovesse farsi fra i popoli antichi, ei sarebbe senza meno pei
Cinesi e pei Romani. Ma dove oblio il popolo nostro? Che
agricola per eccellenza, non alle conquiste, non alle arti, non alle
scienze, poco ai commerci rivolse la mente, ma tutte si ebbe le
sue cure la coltivazione della terra: e le terre feconde e le mèssi e
i frutti abbondanti, si udì per secoli e secoli riprometter qual
premio della sua fedeltà, e per contro suonar terribile, continua
minaccia al peccato, la sterilità e la terra ingrata ai prodigati
sudori.
Nè l’agricoltura fu meno in reverenza appo i Dottori. I quali
non solo la consigliarono qual onesta, utile occupazione; non solo
eglino stessi talvolta la praticarono (nella più corrotta epoca dello
Impero romano rinnovando le virtù dei Cincinnati), ma
preludendo alle grandi e famose quistioni, sorte ai nostri giorni
tra i più celebri Economisti, in due campi, in due scuole si
divisero; l’una il primato concedendo all’agricoltura, l’altra a
questa anteponendo i commerci e le industrie; l’una vaticinando
il definitivo trionfo dell’agricoltura, l’altra all’aspetto florido dei
campi anteponendo il fervore, l’attività dei commerci e
dell’officine. (V. Talmud Mezihà.)
Ma gli Esseni, e voi l’udiste, l’agricoltura onoravano ed
esercitavano come esercitata ed onorata fu in progresso di tempo
da illustri e famosi sodalizi che sul tipo dell’antico essenico
istituto si modellarono nella Chiesa cristiana, a ritiro, a solitudine,
a contemplazione. E non solo ricorda la storia onorata, e praticata
da essi l’agricoltura, ma ricorda altresì lo studio che gli Esseni
facevan solerte delle virtù e proprietà dei semplici, dei vegetabili
specialmente[314] in quanto potevano offrire di terapeutico, di
curativo, dediti, come veduti li abbiamo, non meno a risanare gli
spiriti che a restaurare nei corpi la perduta salute, siccome la
doppia significazione ce lo avvertiva da bel principio del loro
nome di Esseni o Essei, palesemente originato da quel di Assia
medico e terapeuta. Nel quale studio ebbero non so dire se a
imitatori o modelli la setta dei Pitagorici, che non solo della
origine si occupò e della cura dei morbi, ma che lo studio e
l’applicazione predilesse dei semplici e della musica, della prima
specialmente, per la epilessia o morbo sacro, e per i morsi dello
scorpione.
E che diremo dei Dottori? Se di questi volessi distintamente
favellare, e se troppo la materia non soverchiasse, questo sarebbe
il luogo di riandare quei molti e preziosi esempj che per entro si
colgono alle pagine del Talmud, ove i semplici, i rimedj tratti dal
regno vegetabile, si veggono studiati, celebrati e costantemente
messi in opera dai più antichi Dottori; sarebbe il luogo di fare
nell’ordine botanico ciò che il dottore Rabbino Levinson fece,
non ha guari, rispetto alla zoologia, e dettare una Botanica
talmudica siccome egli scriveva una Zoologia talmudica, che
ebbe l’onore di essere letta e pubblicamente laudata dal principe
dei naturalisti moderni, dal venerabile Alessandro di Humboldt.
Ma coteste sono opere meglio che lezioni, meglio che
digressioni, e noi dobbiamo stimarci felici di costeggiare le rive
anziché ai pericoli avventurarci di lunghe navigazioni.—Ci basti
che il Talmud, che i Medrascim ci porgono di questo studio e di
queste terapeutiche applicazioni l’esempio, e sopratutto ci basti
che l’uno e l’altra ci sieno porti dal Zoar. Il quale siccome quello
che rappresenta il Cabbalismo e i suoi Dottori, meglio torna
all’uopo opportuno per quella identità dimostrare, che è[315]
costante e prediletto argomento delle nostre lezioni. E che il Zoar
ce lo porga, ne son testimoni quelle frequenti allusioni alla natura,
alla proprietà delle piante, degli alberi in ispecie, e del palmizio
segnatamente, del quale si descrivono le maravigliose proprietà
sessuali così esattamente dai moderni chiarite, e presentite se io
non erro, sino dall’antichissimo Empedocle, filosofo greco delle
scuole antisocratiche: testimone il 2º vol. a pag. 15, ove si tenta
una classificazione dei vegetabili improntata, non v’ha dubbio, di
caratteri mistici, trascendentali, ma pure senza meno un tentativo
di classificazione: testimone il fatto di cui vi feci non ha guari
menzione, in cui di un medico si favella, di un Asia, che un libro
possedeva preziosissimo per lo studio dei semplici, e per la cura
dei morbi; e infine, testimone lo stesso 2º vol. a pag. 20, ove si
parla in termini apertissimi della distillazione. Gran che! quando
rilessi di recentissimo questa pag. 20, quando intesi a favellare di
distillazione non era molto tempo trascorso dacchè le pagini
aveva svolto di un trattato di Fisica elementare, ove con termini
più che non era mestieri laconici, si attribuiva l’origine, l’onore
della distillazione agli Arabi, ai Musulmani. Io dico il vero;
quelle parole mi avevano tratto in errore: aveva creduto che gli
Arabi, della distillazione inventori, fossero gli Arabi del Medio-
evo, i conquistatori della Spagna e della Sicilia, i coetanei di
Averroe o di Avicenna. Epperò dissi fra me: qual occasione, qual
festa, qual trovato non sarebb’egli cotesto per gli anticabbalisti?
Come facile il provare la età modernissima del Zoar che del
moderno trovato favella, della distillazione? Perciò, che feci?
Usai, perdonate la mia franchezza, usai un’astuzia; ma non
temete; una pia e religiosa astuzia, pia et religiosa calliditas,
un’astuzia innocente; scrissi all’illustre amico Professor Luzzatto,
siccome a quello che più splende tra[316] i moderni cospicuo per
la guerra intimata al Zoar e ai Zoariti; e senza favellargli del Zoar
e del suo contenuto gli chiesi semplicemente se nulla poteva
dirmi della origine della distillazione; e se i libri rabbinici più
antichi ne facessero, ch’egli sapesse, menzione alcuna. Mi rispose
con quella sincerità che lo distingue: della distillazione non ne so
nulla. Io non aveva nulla guadagnato; e i miei dubbj
perseverarono, più che mai fastidiosi, quando una buona ventura
venne a tempo a togliermi d’imbarazzo. Le indicazioni da me pur
lette nel trattato di Fisica elementare erano incomplete. Non gli
Arabi del Medio-evo, ma i più antichi loro predecessori, eran
quelli di cui si era voluto favellare, e questi stessi appreso
avevano l’arte del distillare dalle orde tartariche. Ecco il Zoar
tutelato, ed ecco al tempo istesso riprova degli studj e delle
cognizioni comuni tra Esseni e Cabbalisti.
Io dissi non ha guari come larga mèsse di cognizioni, d’idee
mediche, potria dai libri talmudici raccòrsi e dalle opere
contemporanee, e come tanta ne sia la copia, che da ogni
particolar citazione mi saria rimaso. Pure egli è un passo tra mille
che sarebbe colpa tacere, perchè più davvicino riguarda i nostri
Esseni: che dico? egli è uno di quei pochissimi in cui a parer mio
i Dottori alludono manifestamente all’Essenato ed ai suoi
costumi. E dove è? È nel trattato Sciabbat a pag. 133, ove
parlando di un farmaco composto di cera e resina e per non so
quale malore indicato, si aggiunge che questa indicazione fu
comunicata da Rabbà ai suoi uditori in un pubblico sermone, ma
che (udite, significantissime parole!) a quella indiscreta
propalazione, la scuola di Beniamino l’Asseo die’ segno di dolore
e di sdegno squarciandosi persino le vesti, ch’è quanto dire, come
io intendo, che uno dei farmaci che formavano parte della
Materia[317] medica riservata gelosa dell’Essenato fu propagato,
vuoi a pubblico vantaggio, vuoi per indiscreta osservanza degli
Statuti sociali, da Rabba in Mahoza, e tanto più mi confermo in
questa sentenza, in quanto veggo lo stesso Raba nella stessa
Mahoza, esporre al pubblico la misteriosa lettura del nome di
Dio, ed esserne ripreso da un Sabà, da un Dottore anonimo, lo
che prova e la indole di Rabà, e il suo sistema di propalare i
segreti della scuola, e la presenza nell’uno e nell’altro caso, di
persone, di Dottori che protestano contro la divulgazione delle
dottrine sociali.
Ma di questo basti per ora. Bisogna dire degli altri offici a cui
sacravano le ore i nostri Esseni, come detto abbiamo sinora,
dell’agricoltura, dello studio dei semplici, e della pratica medica.
Gli Esseni non abborrivano dai mestieri. Filone ci ammonisce
come parecchi di loro si dessero ad opere manuali non
isdegnando passare dallo studio al lavoro, e dal lavoro allo studio;
ed altra e parlantissima analogia al tempo istesso offerendo coi
più antichi e venerandi tra i Farisei. I quali ogni arte o mestiere
reputavan nobile purchè onestamente esercitato: nè di tanto è
mestieri che io vada oggi esempj accumulando, sì perchè è il fatto
per se stesso notorio, sì perchè non è molto che fuori di qui ne
parlai pubblicamente a disteso, esempj recando sì numerosi e
autorevoli da persuaderne, se bene estimo, i più dubitosi. Ed
altrettanto fecero pur essi gli Esseni al dir di Filone. Non sì però
che certi mestieri severamente non s’interdicessero, nè a niuno di
essi fosse dato rivolgere lo ingegno e la mano. E quali erano i
mestieri interdetti? Ve lo dica Filone colle parole stesse del testo.
«Tu, egli dice, non troverai tra costoro niuno artista che voglia
lavorare intorno una freccia, un dardo, una spada, un elmo, una
corazza, uno scudo nè di alcuna spezie di armi, di macchina, o
strumento che serva alla guerra.»
[318]
Che vi dirò? Quando lessi queste] parole in Filone io
ringraziai Iddio, e lo ringraziai di cuore. Lo ringraziai in primo
per avermi posto nella buona via inspirandomi il mio favorito
sistema d’identità essenico-farisaica; e poi lo ringraziai di non
avere comunicato vana infondata congettura ai miei uditori. E se
di tanto lo ringraziai, ne ho ben d’onde. Perocchè egli è questo
uno dei punti più culminanti ove Esseni e Farisei s’incontrano, si
abbracciano, s’identificano. Come gli Esseni, aborrivano i
Farisei, come un antico Baraita lo attesta, dal fabbricare, dal
vendere, dallo affilare spade o armi qualsiasi, da vendere o
fabbricare ceppi, catene, collari, ad uso di guerra; e se qualche
contestazione si produce egli è a proposito degli scudi.—Ne
vogliono gli uni lecita la vendita, la fabbricazione perché armi
sono puramente difensive. Ne vogliono gli altri interdetto lo
spaccio perchè, notate singolare ricordo, perché, dice il Talmud,
quando nel bollor della pugna ogni arma è spezzata, è caduta, si
suol non di rado battagliare cogli scudi; che dico? non è lo scudo
soltanto che fu subbietto di disparere tra i Farisei, egli è il cavallo,
il cavallo che per alcuno si dice strumento di guerra, per altri
come tale non si qualifica. Vogliono i primi che venderlo non sia
lecito, perciocchè, notate quest’altra storica singolarità, egli
avviene non infrequente, dice il Talmud, che il prode cavaliero
ammaestri il focoso animale a finire con calci e coll’orribile
calpestare i nemici caduti in battaglia, e quindi a buon diritto
estimare si debba bello e forte arnese di guerra, e terribile guerra.
Ecco due capi soltanto intorno a cui si avvolsero discordi le
dottrine, le opinioni farisaiche; lo scudo e il cavallo; pel resto per
le altre armi o strumenti qualsiansi, che a strage, a schiantare, a
oppressar possano essere rivolti, una fu la voce, una la sentenza
per interdirne la fattura, la propagazione.
[319]
Nè qui si fermava lo scrupolo farisaico: vollero all’israelita
interdetto il vendere ai Pagani orsi, leoni, pantere, elefanti, che
facevano allora frequenti comparse negli stadj, nell’anfiteatro e
nel circo, a sollazzo della plebe corrotta e servile; e sotto ai cui
morsi, ai cui artigli cadevano trafitte, sanguinose, migliaja di
vittime; vollero interdetta la cooperazione dell’Ebreo alla
edificazione di quelle basiliche o tribunali ove si rendevano allora
iniqui e ipocriti giudizj; di quei luoghi di supplizio ove tanti
innocenti sostenevano crudeli martirj; di quegli stadj ove l’uomo
contro l’uomo, o la belva contro dell’uomo venivano scatenati a
trastullo di un popolo feroce e corrotto; e infine di quelle cupole
balnearie che ornavano gli edifizi destinati ai pubblici bagni, e
che la Misnà chiama chippà; volta o cupola dove pare che la
imagine fosse sculta o dipinta di qualche paganica divinità,
spesso di Venere afrodisea, come mi è dato dedurre da una
preziosissima Misnà in Aboda Zarà. Ed egli è là che Raban
Gamieil vediamo alle prese con un Proclo detto filosofo, che io
dissi, se non erro, altra volta identico per avventura a quel Proclo
che fu seguace di Iamblico e di Plotino nella schiera dei nuovi
Platonici.—Questo orrore di ogni arme, di ogni strumento di
omicidio vediamo altresì in due leggi, in due pratiche, biblica
l’una, rabbinica l’altra, prova tra altre mille della medesimezza
del genio, dello spirito che informa ambidue. È la prima la
prescrizione che si legge nell’Esodo per cui a comporre l’altare di
Dio, pietre s’impongono intiere e dal contatto immuni di ferro o
scalpello: è l’altro il consiglio di rimuovere ogni ferro, ogni arma
dalla mensa privata quando conchiuso il pasto ci accingiamo a
benedire, appunto per quell’analogia che abbiamo altra volta
notata tra l’altare e la mensa, nel concetto, nei principj e nelle
pratiche eziandio di Esseni e di Farisei.
[320]
Ma questi abbiam veduto non solo abborrire dal nuocere al
corpo, interdicendosi il commercio dell’armi, ma dal nuocere
altresì allo spirito, ai costumi, astenendosi da por mano a
basiliche, a cappelle, a tempj pagani. E del come osservassero il
presente divieto, illustre ce n’offre un esempio lo storico
Giuseppe, anzi Ecateo Abdiretano dallo stesso Giuseppe
rammemorato nella risposta ad Apione, quando narra di un
governatore di Babilonia per nome Alessandro, che volendo
riedificare il tempio di Belo ed obligati avendo i suoi soldati a
cooperarvi colla persona recando i mattoni necessarj allo edifizio,
gli Ebrei furono i soli che a quest’opra si ricusarono; nè minaccie
poterono nè castighi persuaderli; tanto che furono alla perfine
dispensati. Nè meno scrupolosi osservatori ci appariscono infatto
dell’armi, non solo ogni fabbrica o vendita interdicendosi di armi
da guerra, ma anche il portarne indosso considerando qual
disdicevole cosa. E chi lo dice? Egli è lo stesso Giuseppe che ce
lo attesta e con parole non meno formali: «Dal divieto delle armi
nasce, egli dice, che quando vanno attorno da una città in un altra,
per i latrocini solamente si armano, e da questo caso in fuori
niun’arme recano indosso.» Voi lo udiste, Giuseppe è esplicito.
Gli Esseni non recano armi tranne in luogo di imminente
pericolo. Ma ciò che non meno riesce esplicito, egli è la doppia
bellissima analogia che ne offrono i Farisei e i Farisei Cabbalisti.
La prima ci è offerta dalla Misnà, la seconda ci è porta dal Zoar.
È la prima in Sciabbat laddove indagando quali sono gli arnesi
d’impune trasporto fuor del recinto murato, s’interdice la spada,
l’asta, la alabarda e non sì tosto mostra R. Eliezer di volere
assolto chi li trasportasse, perchè egli dice tornano spesse fiate ad
ornamento, che i Dottori ad una voce insorgono, e non
ornamento, gridano, ma disdoro sono coteste, conciossiachè sia
scritto. E nei giorni del Re[321] Messia le spade saranno in
vanghe converse, le aste in falci mutate, perchè le armi più non
impugnerà popolo contro popolo, e l’arte disimpareranno del
guerreggiare. Se l’Abate di S. Pietro, se Cobden, se Bright, se
tutto il congresso della pace fosse stato a quei tempi, e Cobden e
Bright e tutti i promotori della pace universale sariano stati
Farisei.
Ma io dissi di un secondo esempio che il Zoar ci porge, e
questo è di gran lunga più interessante perciocchè ci offre ad un
tempo e la regola e l’eccezione; la regola di non impugnare le
armi nei tempi e luoghi quieti, normali, la eccezione nei luoghi e
nei tempi torbidi ed anormali, e l’uno e l’altro si veggono come
dissi nel Zoar in un fatto ivi narrato. In cui R. Hja e Ribb Josè per
via procedendo veggono un uomo venire a loro incontro.—Egli
recava indosso un manto sacro ornato nei quattro angoli delle
frange di obbligo.—Però sotto a quello si travedeva una cintura e
dalla cintura pendergli di ogni maniera micidialissime armi. A
quella vista sclama R. Hija: grande giusto è cotesto, o grande
impostore—e qui notate come potesse e dovesse a senso di R.
Hija essere giusto e pio in sommo grado cotesto che pure in sì
strana guisa se ne giva armato di tutto punto.—Ma l’incognito si
appressa, e salutato dai due Dottori, al saluto non risponde.
Discostatisi dallo straniero i Dottori, ripigliano le dotte e sante
consuete conversazioni.—Ciò che non potè il saluto poterono le
parole sante dai Dottori profferite. A quel suono gli si fà lo
straniero dappresso, e salutatili come l’usato: Deh mi dite, lor
chiede, o Maestri, qual giudizio vi formaste della mia scortesia
quando da voi salutato, al saluto non corrisposi?—Forse,
dicemmo, pregavi, forse meditavi, ripresero i Dottori. Allora
datosi a conoscere, prese lo straniero a narrargli le sue avventure;
come andando un[322] dì per cammino e imbattutosi in un
masnadiero ne ricevesse molestia, come non conoscendo chi essi
si fossero avere di essi pure sospicato, come da ciò provenisse il
tacer suo, e dallo essere in quello istante immerso in qualche
meditazione. E volendo dar loro prova, chi egli si fosse, prende a
ragionare sur un verso dei Salmi ove si palesa veramente per ciò
che era, per Dottore, e Dottore cabbalista.—Qual fatto e qual
comento! qual comento dico all’uso, alla pratica da Giuseppe e da
Filone narrata pei nostri Esseni, di non gire mai colle armi sulla
persona tranne ove muovendo di luogo in luogo se ne munissero
per propria difesa.—E qual eloquente conferma della identità
essenico-cabbalistica, se ben si mira agli autori del Zoar ignari al
tutto della esistenza degli Esseni se essi medesimi nol sono, e
quindi alla impossibile imitazione! Nè più bella infine potrebbe
sorgere presunzione in favore dell’autenticità di quel libro ove
schiette e genuine si son dipinte le figure, i costumi delle sètte
contemporanee, tali quali il nostro tardissimo confronto li fa
sorgere dopo 18 secoli vivi e parlanti al paragone, e che niuna
impostura avrebbe potuto togliere a contraffare perchè mancava il
tipo istesso da imitare nella mente del falsario, nulla cognizione
particolare avendo avuto i posteriori Dottori dell’antica società
degli Esseni, e nulla quindi di essi avendo potuto prendere ad
imitare.—Bacone diceva: Poca filosofia fa l’uomo incredulo,
molta lo fa religioso. Noi diremo a nostra posta: Poca critica fa
credere apocrifo, falsato lo Zoar, molta critica lo chiarisce
autentico.

[323]
LEZIONE VENTESIMASECONDA.

Colpa sarebbe, e colpa non lieve, se discorrendo degli Esseni


e delle loro occupazioni quella trasandassi che agli studj si
riferisce, specialmente, quando di un Istituto si parli
eminentemente studioso qual fu l’Essenato. Degli studj dunque si
parli e tanto più a proposito in quanto avendo in animo di toccare
dei dogmi loro, delle loro credenze, saranno gli studj, se io non
erro, facile e naturale transizione per cui dai lavori e dalle
occupazioni loro trapassiamo a ragionare delle dottrine e dei
dommi; participando gli studj e del carattere di occupazione e di
quello di dottrine e credenze.
E prima del modo. Il quale facile torna lo argomentare quando
si pensi alla vita solitaria ed agreste che menava la parte
contemplativa dell’Essenato, nella pace dei campi, all’ombra
amica degli alberi e sulle rive che tanto vedemmo altravolta la
società prediligere. Il qual modo era pur quello che vediamo ai
Dottori seguire non rade volte nel Talmud, quasi sempre nel Zoar,
che maggiori deve per sua natura offrirci analogie, e maggiori
infatto le offre col nostro istituto; dove i Dottori, i Maestri
affidano i loro misteri alle tacite rive dei fiumi, all’ombra dei
boschi ed al cupo orrore delle caverne, o alle falde inaccesse di
qualche altissimo monte. Sistema tanto dal nostro diverso cui la
vita cittadinesca stringe da ogni lato[324] colle sue braccia di
ferro, e che tanto conferisce non solo alla elevazione e
perfezionamento dello intelletto, ma alla conservazione,
all’incremento della salute corporea. Nè voglio altri a testimone
che il più grande pensatore d’Italia moderna, Vincenzo Gioberti,
che nel 2º della Protologia tali dettava concise ma eloquenti
parole. L’uso, diceva, la vivacità, la celerità della mente giovano
alla salute, non le nocciono come si crede. Rousseau disse:
L’homme qui réfléchit est un animal dépravé. Falsissimo.
Esempio di Giulio Cesare e in generale degli antichi. Non lo
studiare, ma il modo dello studiare moderno rovina il corpo.
Elementi necessarj allo studio, l’aria e la luce. L’aria e la luce
giovano alle facoltà dell’intelletto ed al corpo unitamente.
Studiare a cielo aperto fra gli arbori, lungo le acque correnti o
almeno in camere ben areate. I nostri dotti sono più dilicati delle
donne. Fin qui Gioberti.—Voi l’udiste, egli voleva lo studio a
cielo aperto fra gli arbori e tale era appunto lo studio degli
Esseni e dei Cabbalisti. Egli lo vuole lungo le acque correnti e
non solo gli Esseni prediligevano le rive, ma i Dottori notarono
come lo spirito profetico riempia, ispiri, i suoi ministri a
preferenza lungo le acque correnti, sicura prova come tutto ciò
che valga ad esaltare le potenze dell’intelletto conferisca eziandio
in sommo grado alla più facile fruizione della profetica
intuizione, testimone per tutte la musica di cui si valsero qual
prima promozione alle cose celesti i profeti d’Israele, di cui gli
effetti psicologici sono da ognuno esperimentati, e per cui non
pare sia al tutto menzognero il dettato dei Pitagorici: L’anima
essere un’armonia.
Che se questo è il modo dagli Esseni seguito, vediamo
l’oggetto, e a così dire la materia dei loro studj. Bisogna pur
confessarlo. Vi è una disciplina, per cui gli Esseni[325] non
professavano nè stima nè amore, e questa è la logica. Ecco come
ne parla Giuseppe: Quanto allo studio della filosofa, dice lo
storico illustre, lascian la logica a quelli che si dilettano di
quistioni di parole, e la tengono per inutile affatto all’acquisto
della virtù.—La logica, pria si può dire dei nostri tempi, non fu
che un’arte, e bella pagine di storica filosofia; sarebbe quella che
notasse le vicende, per cui l’arte logica ascese per gradi a quel
posto eminentissimo che occupa oggi nei sistemi eziandio più
trascendentali formandone poco meno che la volta suprema, e il
sostegno massimo dello edifizio. Lungo il discorrere le ragioni
del mutamento e come la logica dallo essere un semplice interno
regolamento del pensiero, sia divenuta la legislatrice suprema
dello scibile e tutte da essa s’informino le parti della universal
metafisica. Ma se in antico era un’arte, non sempre era arte
ragionevole ed onesta. Testimone Socrate che coll’arguto suo
conversare confuse, vinse la logica dei sofisti, e per parlare di
cose meno dall’Essenato remote, anzi a dirittura contemporanee,
testimone la logica delle scuole accademiche ed in ispecie dei
Pirronisti che se ne valsero a detrimento di ogni sapere e di ogni
virtù, togliendo, col dimostrare il pro e il contro, valore alla
umana ragione, ed ogni autorità ed ogni sanzione alla morale.[84] E
questo è già prezioso rilievo per ciò che riguarda gli Esseni,
mostrandoci a dito l’origine di quel dispetto, in cui ebbero gli
Esseni la logica così abusata. Ma egli è nulla, di fronte alla
mirabile conformità che in questo come in altre infinite occasioni
veggiamo sorgere tra gli Esseni e i Farisei. I quali ultimi non
meno che i primi, severamente imprecarono contro la logica
depravatrice del secolo, esortando a tenere discoste
dall’attossicata bevanda le labbra dei giovanetti. Minhù benehem
min Aeghion. Singolare a dirsi! questa[326] voce Eghion che unica
suona, se non erro, in tutto il Talmud, fu torta dal suo verace
senso a significare ora lo studio della Bibbia ed ora altra cosa. E
pure il suo senso di logica è innegabile, e se non sempre fu dai
posteriori dottori confessato n’avevan ben d’onde. Erano eglino
filosofi di professione e la logica studiavano ed amavano qual
nobilissima scienza. Ma devoti eran pure al Talmud ed
osservatori sopratutto delle sue prescrizioni. Il Talmud, aveva
detto Eghion e se per Iggajon inteso si fosse qual veramente
dovuto avrebbero la logica colle sue pretensioni, coi suoi abusi,
che sarìa stato dei nostri platonici, dei nostri peripatetici, dei
nostri insomma filosofi di ogni ordine, d’ogni colore? Certo che
sarebbero stati in odore tenuti di Eterodossi. Ma se Iggajon
volesse dire altra cosa, se dire volesse lo studio biblico, la
grammatica, come oggi si dice l’Esegesi biblica, allora la Logica
sarebbe salva, e i suoi scrittori potuto avrebbero svolgere in pace i
suoi volumi. Ecco l’origine della fraintesa interdizione, l’origine
istessa che fece intendere nell’istesso Talmud per hohmà ievanit
tutt’altro di ciò che significa veramente, vale a dire, la scienza, la
cultura, la civiltà tutta del popolo greco.
Ma non solo della Logica furono poco studiosi ed amanti gli
Esseni, ma se le mie congetture non son temerarie del tutto, un
altro genere pure di disciplina non raccolse per avventura la stima
e l’attenzione dell’Essenato. Se un passo del Talmud Babilonese
non m’induce in errore, tanto poco studiosi si mostravano gli
Esseni della rituaria quanto poco di attenzione concessero alla
Logica istessa. Io vel dissi, or non è molto, e spero ne avrete
conservata memoria. Un tratto vi è nel Talmud ove ci è sembrato
vedere apertissima allusione agli studj medici dell’Essenato. Egli
è là ove a proposito di certi misteri terapeutici svelati da un
dottore, a pubblico benefizio,[327] si narra che la scuola di
Beniamino l’Asseo squarciossi per dolore le vesti: indicazione se
altra fu mai parlantissima del genio terapico e riservato della
Società degli Esseni. Or bene, un altro luogo si ha nel Talmud ove
la stessa scuola di Beniamino l’Asseo è ricordata. Ed a che
proposito, se il sapete? A proposito del poco conto che per taluno
si faceva della scienza dei riti e di chi la coltiva. E chi ci è offerto
di tal disistema ad esempio? Ci è offerta la scuola appunto di
Beniamino l’Asseo la quale, dice il Talmud, quando voleva porre
la inferiorità in rilievo dello studio dei Riti: a che giovano,
esclamava, i suoi cultori? Forse hannoci mai permesso un
corvo? Forse ci hanno unqua interdetto una colomba? Non so se
io erro, ma il passo in discorso parmi a quel novero appartenere
di prove, di memorie, di documenti, i quali provano come antica
perpetua sia stata tra noi quella gara legittima, nobile, religiosa
tra i cultori del Rito, e i cultori del Dogma, tra i Teologi e i
Ritualisti, gara di cui si veggon le traccie nello stesso Talmud, ove
il Maasè mercabà, ossia la scienza del Dogma è talvolta chiamata
Dabar gadol di fronte a quella dei Riti che il nome reca di Dabar
Caton; gara che trasparisce nel Zoar ove i Marè Misnà sono posti
a riscontro, in grado però inferiore ai Marè Cabbalà, questi
chiamati Efrohim, i primi chiamati Bezim quasi a indicare uno
stato spirituale embrionico; ove la scienza dei riti è chiamata il
Corpo della legge mentre quella del dogma si è appellata
l’Anima, lo Spirito; ove la dialettica dei talmudisti è presentata
qual duro e scabro esercizio dell’intelletto e personificata nei
durissimi offici che sostennero gli Israeliti in Egitto, la forma del
Calvahomer nel homer e nei lebenim, il libbun alaha lo
sceveramento e ultima formulazione della legge. E gara per
ultimo i cui effetti veggonsi tuttavia[328] perdurare non solo nei
dissensi che sorgono talora tra i dogmatici e i ritualisti, ma
eziandio in quella non dirò antipatia ma certo non piena cordialità
nè stima soverchia che invano si desidera tra i cultori dei due
studj, e il cui difetto non è l’ultimo tra le cause che ostano alla
perfetta riabilitazione degli studj dogmatico-cabbalistici.
Ma queste sono le parti a cui meno gli Esseni sacravano il
loro tempio e il loro studio: egli è d’uopo vedere quali quelli si
fossero, e quale il metodo a cui a preferenza si applicavano.
Possiamo dirlo arditamente; le preferenze non meno che la
educazione, gli studj adottati non meno che i rejetti provano
sempre più la identità tra Farisei ed Esseni da noi propugnata.
Precipua e diletta occupazione era pegli Esseni la
interpretazione delle Sacre Scritture, la Sacra Esegesi, come oggi
direbbesi. Ma quale Esegesi? Egli è quì ove la parentela più
chiaramente si mostra tra Farisei ed Esseni. L’Esegesi, la
interpretazione allegorica, ch’è quanto dire quella istessa che
formava e forma le delizie del più puro Farisato e in ispecial
modo di coloro tra essi che si dicono Cabbalisti. E non solo gli
Esseni nella pratica, ai dottori nostri si conformavano, ma ciò che
merita tutta l’attenzione dei dotti, quello che suona veramente
significante egli è il rapporto che gli Esseni, al dire di Filone,
stabilivano tra la lettera della legge ed il suo spirito, o per dir
meglio tra la chiosa letterale e la interpretazione allegorica. Essi,
dice Filone, comparano la legge ad un animale i cui precetti sono
il corpo, e l’allegoria lo spirito, in quella guisa che lo stesso
Filone, terapeuta esso pure, chiamava nella Migrazione
d’Abramo l’allegoria anima, e la lettera corpo della legge; e in
quella guisa pure che Aristobulo, ebreo filosofo contemporaneo,
seguiva il sistema delle allegorie scritturali, e Aristea, che
volendo dipingere il genio ebraico dei[329] tempi suoi, ci offre nel
Sommo Pontefice Eleazaro un modello degli interpreti allegoristi
della Scrittura. Ora ch’il crederebbe? Gli Esseni, Filone,
Aristobulo, sembra quasi che abbiano veduto lo Zoar, e lo abbian
copiato, tanto il loro dire suona conforme alle parole dello Zoar, il
quale non solo è quasi una perpetua conferma del loro dettato,
mettendolo continuamente in pratica coll’allegorizzar la scrittura,
ma questa pratica stessa erige in Teoria: non basta, si vale della
stessa imagine, della stessa similitudine di cui si valse Filone, si
valser gli Esseni, a indicare la relazione tra i due sensi scritturali,
il litterale e lo allegorico. Pel Zoar sezione Beaàlotèha come per
Filone e gli Esseni i precetti della legge ne sono il corpo, gufà
deoraità, l’allegoria ne forma lo spirito, Nismeta de-oraita. Anzi
per far più completa la similitudine imagina lo Zoar una veste che
tutta ricuopre il corpo della legge, santissima veste tessuta dei
racconti, delle istorie, degli episodj, onde tutto va cosparso il
divino volume, e che ne formano quasi il manto e l’involucro
esteriore come i precetti ne sono il corpo, e come le allegorie ne
sono lo spirito.[85] Non è questo il luogo di occuparci più
specialmente di questo senso scritturale che diciamo allegorico,
della sua origine, della sua legittimità, delle vicende che ha
subìto. Se questo ne fosse il luogo, io dovrei additarvi nella storia
della esegesi scritturale due specie di allegorismi, l’uno, il buono,
il legittimo, l’ortodosso che anziché colla lettera pugnare e tanto
meno escluderla, con essa si concilia e armonizza perfettamente,
e questo è l’allegorismo del Zoar e degli Esseni, l’altro lo spurio,
l’eterodosso che pugna anzi colla lettera e col corpo della legge, e
sulle rovine s’inalza del senso pratico, letterale, storico della
scrittura, ogni loro realtà dileguando nel vaporoso orizzonte di un
fantastico allegorizzare; e questo è il simbolismo[330] di Filone
tra gli Ebrei; di Origene tra i Cristiani e più o meno di tutti i Padri
ed Esegeti della chiesa, i quali stretti, più che loro non talentasse,
dal senso preciso, pratico, esecutorio, positivo delle leggi e dei
Profeti dissero, figure parabole, similitudini ciò che l’Ebraismo
credette sempre e sempre seguitò a credere e praticare quale
propria e formale indicazione di fatti o di azioni materiali e
positive. Gioberti distinse il duplice allegorismo, ma non si
accòrse la sua gran mente, siccome quello che egli chiarisce
ostile, anticristiano, eterodosso, sia stato per primo introdotto,
praticato, e qual arma di guerra impugnato dal Cristianesimo
contro l’antica ortodossia, esautorando di ogni senso reale ed
esecutorio tutti i precetti di Dio, e reducendo a vani tipi, e figure e
parabole, la storia, i riti, i precetti; insomma tutta la parte reale e
positiva della antica alleanza.[86]
Ma ciò che abbiamo superstite della Esegesi degli Esseni, non
si stringe soltanto alle cose suesposte. Altri punti culminanti ci
rimangono avventurosamente da porre a confronto col sistema dei
dottori e nuove conferme dedurne della propugnata identità.
Testimoni le etimologie greche, il senso greco che gli Esseni al
dire di Filone solevano assegnare a certe frasi, a certe parole della
Scrittura. Per Filone, Piscion, Havilà, che quai nomi l’un di fiume
e l’altro di paese, si leggono nei primi del Genesi, sono
grecamente foggiati e quai vocaboli grecizzanti, intesi,
interpretati dallo stesso Filone. E non solo i due ricordati
vocaboli, ma per dirla colle parole del Frank, c’est généralement
sur les termes de la traduction des LXX et des étymologies
purement grecques que se fondent ses interpétrations mystiques.
Ma ciò che non vide o non notò il professore di Parigi, ella è la
consonanza perfetta col sistema d’esegesi farisaica. Curiosissimo
a dirsi! Un fatto vi ha che non abbastanza[331] riscosse sin’ora
l’attenzione dei dotti, ma che pure la merita in sommo grado. I
Farisei, i Dottori, i Rabbini di Palestina, non v’è cosa che più
prediligano nel deciframento delle espressioni scritturali, che il
ricorrere alla lingua greca, alle greche etimologie. Se la parola
Nof non suona loro abbastanza intelligibile, il greco idioma gli
porgerà nel vocabolo Ninfa il senso di vergine, di fanciulla, di
amante. Se il vocabolo Meherote-em, suona loro duro a
intendersi, la lingua greca glielo farà aperto col vocabolo
Mahaera, Spada, o arme qualunque da taglio. Che più? Una
disposizione legale di prim’ordine, una questione di vita e di
morte, una dispensa dalla pena capitale si deve nel Talmud, a una
greca etimologia, e per non dire ancora di altri moltissimi, se il
cedro ebbe tra tutti gli altri frutti benché formosi, la preferenza
nella festa di Sucot, egli è perchè la parola Adar suona affine
coll’Idro greco, acqua, e quindi accenna al cedro che al dire del
Talmud cresce a preferenza in riva alle acque sulle sponde dei
fiumi. Ed ecco, se io non erro, abbastanza espressiva analogia nel
sistema interpretativo, considerato eziandio nei suoi più minuti
dettagli.[87]
Che se ciò paresse scarsa affinità tra le due scuole, non lo
sarebbe certo lo spirito, il genio esegetico che si mostra in
ambidue improntato di un sol conio. E chi un esempio ne volesse
quanto più si può categorico, il chieda a Filone. Il quale,
Terapeuta egli stesso, e del sistema dei Terapeuti illustre modello,
non solo nel sistema etimologico concorda coi Farisei, ma ben
anche nello spirito, nel genio delle interpretazioni scritturali.
Testimone per tutti quel passo nella vita di Mosè, ove toglie ad
esporre le cause per cui tacque il divino legislatore sui diritti dei
padri alla successione dei figli. Le Législateur se tait, per dirne il
senso con un autore francese, sur le droit des pères à hériter des
enfans.[332] Mais, dit Philon, comme la loi de la nature veut que
les enfans soient héritiers des parens, et non les parens ceux des
enfans, la législation se tait sur ce qui serait désastreux et
malsonnant. La legge tace, secondo Filone, ciò che suonerebbe
sinistro e ingiocondo a udirsi. Or bene. Io affermo arditamente
che se vi sono interpretazioni che vadano di questo spirito, di
queste tendenze informate, elleno sono senza meno quelle dei
nostri dottori, pei quali se il testo accenna con una perifrasi,
anzichè in modo più diretto, gli animali impuri, egli è per istudio
ed amore di castigato linguaggio; se lo stesso giaciglio si noma
per l’uomo letto, per la donna sedile, egli è per rimuovere ogni
pensiero di oscenità; se l’imbrunire luce si chiama anziché
tenebre, egli è per esordire con meno tristo vocabolo; e pei quali
finalmente è principio ammesso, accettato, doversi ogni idea
trista, luttuosa, inonesta circondare di ombre discrete, che ne
velino la bruttezza e l’orrore. Petah debareha iair. Che dico? Non
è persino il caso di successione quello appunto che forma
subbietto dell’osservazione Filoniana che non si contempli dai
Dottori in Batra; e cosa assai più singolare, ella è la stessa
ragione da Filone messa innanzi, che i dottori assegnano al caso
stesso ivi considerato, argomento che più non potrebbesi
concludente in favore dell’indole comune delle due scuole.
Che se poi dagli studj per sè già abbastanza conformi,
vogliamo al sistema trascorrere di esposizione, alla forma
esteriore, al metodo dei loro studj; non solo troveremo questo
metodo, punto da quello dissimile dei dottori in generale, ma più
specialmente simigliante a quello dei Cabbalisti. A noi più non
rimangono i libri degli Esseni; ma ci resta Filone, il quale, e degli
Esseni ci narra il costume, e nei suoi libri ci offre, Essena egli
stesso, un autorevole esempio del far comune dei suoi confratelli.
[333] Ci narra il metodo di esposizione, agli Esseni peculiare, nel
libro da esso dettato sulla vita di Mosè, lib. 7, e lib. 2, pag. 81,
dove dice che la tradizione orale conservata appo gli anziani
d’Israel Presbiteron (d’onde il prete cristiano) era comunemente
insegnata sul testo della Scrittura; che è quanto dire lo stesso
ordine assumeva della medesima Scrittura, e di essa forma
vestiva e ordine di comento. Ci offre pur Filone in sè stesso
l’esempio di questo generalissimo costume, non seguendo nei
suoi libri un filo logico e ordinato di pensamenti, ma piegando
piuttosto l’ordine alla successione dei testi od argomenti
scritturali. Filone, dice un illustre scrittore, Filone non ha un
corpo completo di dottrine; espone i suoi pensamenti in ordine
d’interpretazioni simboliche alla Scrittura. Ora che altro è lo
Zoar? Egli è appunto ciò che or ora udiste qual definizione delle
opere Esseniche e di quelle di Filone, una serie di pensieri esposti
in ordine d’interpretazioni simboliche alla Scrittura. Tanto è vero
che ciò che all’uno conviene, non meno conviene all’altro
eziandio, e che la gran scuola farisaico-cabbalistica è quel mare
vasto ove il sistema di Filone mette la foce, e dove l’intero
Essenato «ha pace con i seguaci sui.»

[334]
[335]
LEZIONE VENTESIMATERZA.

Istituzioni, dottrine, e pratiche, furono la triplice divisione da


me sino da principio assegnata alla storia degli Esseni. Noi
abbiamo coll’esame delle occupazioni loro chiusa la prima parte
di questa storia: la storia delle esseniche istituzioni. Delle
occupazioni degli Esseni ultimi comparivano all’esame gli studj,
lo spirito, il metodo da essi negli studj seguito. Tempo sarebbe
quindi che passando alla seconda parte di questo lavoro noi
citassimo a giudizio le loro dottrine, i dogmi e le credenze al cui
esame ci ha in qualche modo spianato la via la conoscenza dei
loro studj, del loro genio esegetico, dei loro metodi. E pure,
un’ultima ricerca rimanci ancora ad esaurire pria di tôrre ad
esame i dogmi e le credenze degli Esseni. Questa ricerca si
attiene ancor più davvicino alle loro dottrine, siccome quella che
anzichè trattare della forma degli studj si occupa piuttosto della
materia, dell’oggetto dei loro studj; in una parola delle sorgenti,
delle fonti dalle quali attinsero com’è naturale le loro dottrine.
Egli è questo, se non isbaglio, un punto di contatto e di natural
transizione tra la prima e la seconda parte di questa storia, tra la
storia delle loro istituzioni e quella non meno interessante, delle
loro dottrine. A chi chiederemo le sorgenti, le fonti da cui gli
Esseni attinsero le loro dottrine? Chi ne darà contezza dei libri da
cui tolsero gli Esseni, la regola del loro credere? Questa
notizia[336] ce la darà pel primo Filone, tanto col suo proprio
esempio, quanto coi preziosissimi ragguagli che più direttamente
egli stesso ci offre dei libri, delle fonti dell’Esseniche dottrine. Ce
la dà, col suo proprio esempio quando, Essena egli stesso, ci offre
in sè la imagine, il modello dei meno celebri confratelli. Filone
era Essena, e da chi tolse Filone principalmente le sue dottrine?
Certo che molto egli deve alla greca filosofia, alla Platonica in
ispecie, perciò che riguarda sopratutto la forma, ma ove si voglia
nelle viscere penetrare del suo sistema quali ne diremo le fattezze,
e quale l’origine? Certo che alla sentenza soscriveremo di un
autore tanto più nelle asserzioni sue autorevole, quanto niuno
altro si prefisse scopo al suo lavoro, se non quello di storica
verità. E questi è il Frank, il quale colpito dalle profonde analogie
che al sistema dei Cabbalisti congiungono le dottrine degli
Esseni, e dopo avere escluso che i primi siensi fatti imitatori o
plagiarj dei secondi, queste parole dettava significanti che
raccomando alla vostra attenzione: Ne serait-il pas juste de
penser que Philon a trouvé ces doctrines toutes faites dans
certaines traditions conservées parmi ses corréligionnaires, et
qu’il n’a fait que les parer des brillantes couleurs de son
imagination? E quanto il Frank si apponga in questo giudizio, il
vegga ognuno in questa apertissima confessione di Filone
medesimo; il quale in modo che non si potrìa più esplicito va egli
stesso additando ciò che per il Frank non era sinora che nudo e
mero conghietturare. Philon lui-même nous assure avoir puisé à
la tradition orale conservée par les anciens de son peuple. E
questo dice Filone nella Vita di Mosè sul principio del 1º libro,
ove veramente appella ad una tradizione orale conservata appo gli
anziani d’Israele ch’egli qualifica Presbiteron, d’onde il prete
cristiano, e ch’era comunemente insegnata sul testo della
Scrittura. Ed ecco[337] una prima capitalissima fonte
all’Esseniche dottrine, la tradizione.
Ma questa non è sola fonte, o per dir meglio non veste sempre
esclusivamente la sua forma verbale che più gli è comune. Pegli
Esseni non è sempre come pei semplici primitivi Farisei, una
orale trasmissione che sarìa sacrilegio deporre per iscritto. Ella
veste, anzi ella assume la forma scritta; e mentre la voce del
Maestro era il solo organo che avesse nei prischi tempi
l’insegnamento farisaico, gli Esseni per contro vantavano libri, e
libri che spingevano anche a tempi a quelli anteriori la loro
origine. E questa preziosa contezza n’è data da uno che
nell’esseniche vicende non si potria più esperto, da Filone
medesimo, il quale attribuisce alla setta dei Terapeuti dei libri
mistici di una remotissima antichità. Parole testuali e di senso
fecondissime delle quali impareremo fra poco ad apprezzare il
valore. E non solo Filone, ma Giuseppe nelle Guerre Giudaiche,
al libro 20, al § 12, degli Esseni favellando, dice a dirittura che
studiavano con zelo i libri degli antichi, parole che suonano
esplicita conferma a quanto disse Filone dei suoi Terapeuti. E
questa è la seconda sorgente dell’Esseniche dottrine, i libri dei
loro antichissimi, o per dir meglio la tradizione stessa deposta e
formulata per iscritto.
Ora che abbiamo veduto, constatato questo duplice fatto,
l’esistenza e la formulazione di una religiosa tradizione presso gli
Esseni, tollerate che solo vi accenni da lungi la importanza e la
grandezza delle sue conseguenze. Due poi ne emergono
capitalissime, di cui siate, se vi piace, giudici voi medesimi.
Riguarda l’una la tradizione rabbinica in generale; contempla
l’altra più specialmente quella che mistica o cabbalistica si
appella. Chi non vede la prima? Ella è una prova estrinseca e
tanto più concludente della necessità e legittimità di una
tradizione; ella[338] è un attestato dai rabbini indipendente, di
quel principio in ogni tempo dai rabbini sostenuto, la tradizione;
ella è un ausiliare, non cerco, non provocato, non interessato,
della tradizione e dei tradizionalisti. E pure ammirate la forza del
pregiudizio! Il Franck, che queste cose riferisce, non vide o
vedere non volle la conseguenza che ne deriva, chiara,
limpidissima in favore dell’antichità della tradizione. Per esso
come per il Jost, celebre storico, come per altri nostri e non nostri
dottissimi della Germania, le tradizioni nostre, le tradizioni
rabbiniche non più oltre risalgono di due secoli innanzi l’E. V.
Due cento anni prima del cristianesimo nacquero, se lor si crede,
quelle tradizioni che poi fecero e fanno tanta parte integrale
dell’ebraismo. E pure gli Esseni, e quel ch’è più i Terapeuti
d’Egitto, accennano, alludono e religiosamente inchinano a una
tradizione, a libri tradizionali. D’onde in essi della tradizione
contezza, se alle origini non risale dell’ebraismo? forse glie ne
giungeva notizia allora allora di Palestina? Mai no, dice il Frank,
e dice bene, perchè tra Palestina ed Egitto relazioni intime
dottrinali non esistevano; ed anche perchè, aggiungo io, un
sistema specialmente religioso ch’è in sul nascere, una tradizione
che manda allora appena i suoi vagiti, che s’insinua allora allora
di contrabbando nelle antiche credenze, non può avere tanto di
credito, d’influenza, d’autorità da trapiantarsi in regioni lontane e
barbe gettare così profonde come tra i Terapeuti ha gettato; e
sopratutto per che i Terapeuti spingon tant’oltre l’antichità dei
loro libri tradizionali da trascendere di gran lunga quella data che
pel Jost, pel Franck e per altri, segna delle tradizioni rabbiniche il
nascimento. Ma di queste cose si taccia per ora per brevità, e solo
ci basti avere come da lungi accennato a un ordine di prove che
nuovo e vastissimo campo ci apre d’apologetica tradizionale.
[339]
Che diremo poi del secondo passo, della esistenza in tanta
antichità, di libri, di opere tradizionali appo gli Esseni? E pure
nulla di più provato, e nulla al tempo stesso di più sorprendente.
E perchè dico sorprendente? perchè, vera verissima anomalia è
cotesta ed eccezione alla regola farisaica; perchè rovescia da capo
a fondo quel principio così trito così comune per cui si credeva e
si crede assolutamente interdetta ai primi tempi rabbinici la
redazione tradizionale; perchè inconcusso, generale, inviolato
pareva quell’assioma rabbinico che suona le orali cose non
potersi scrivere, e le scritte non potersi oralmente insegnare;
perchè infine prima della Misnà, prima di tutte le opere
talmudiche, prova il fatto presente la esistenza di libri tradizionali
presso gli Esseni. E se mestieri fosse di prova dopo le citazioni
ricordate, allegheremmo il Jost nella recentissima Storia del
giudaismo e delle sue sètte. Il Jost è vivente autore
consultatissimo, e per quanto non mi fu dato leggerne le scritture
perchè dettate in tedesco, non è sì che oltre la conoscenza
personale dell’uomo insigne, e di cui mi onoro, qualche contezza
non siami pervenuta delle idee nell’opera contenute. Ecco che
cosa dice il Jost: Les Esséniens (ei dice) n’observaient pas si
rigoureusement les scrupules rabbiniques sur la transcription de
la loi orale, et les Meguillat Setarim mentionnés dans le Talmud
ont été écrits par des Esséniens. Non dirò dell’ultima congettura
dei Meghillat Setarim, di cui spero avere non ha guari mostrato la
ragionevolezza e probabilità quando mi fu dato produrre quella
parlantissima variante che alle parole Meghillat Setarim
sostituisce, come nel Jeruscialmi, Meghillat hasidin, nome, come
ognun vede, più direttamente allusivo alla società degli Esseni.
Ma quanto più non avrebbe il Jost al suo assunto giovato, se oltre
ai Meghillat Setarim da esso allegati, citato avesse qual[340]
vestigio della essenica bibliografia, nel Talmud quei casi
numerosi parlanti, che nei due Talmud, nei Medrascim, in tutta, a
dir breve, la biblioteca rabbinica de’ primi secoli, fanno fede
apertissima di altre opere, di altri libri. E forse li avrà il Jost
rammentati, forse non avrà obliato quei Sifrà deagadtà che
ricorrono tanto di frequente nei libri talmudici, che figurano quali
opere di gran lunga più antiche della stessa Misna, che il Talmud
ci mostra in mano dei più antichi Tanaiti, e che collo stesso
carattere, colla stessa vetustà figurano, mirabile a dirsi! nel Zoar
medesimo, che li cita, li commenta ed ai più antichi e venerandi
uomini ne attribuisce la redazione. Le quali cose potuto avrebbero
più urgentemente concludere in favore del Jost, e più luminoso
farci apparire il gran fatto di Libri tradizionali esistenti pria
dell’epoca comunemente assegnata alla redazione delle tradizioni.
Alla luce di questo gran fatto, che cosa diviene una delle più forti
obiezioni, e quasi a dire l’Achille che contro lo zoar e le sue
dottrine sieno state dirette dagli avversarj? Pareva a costoro
impossibile che sotto l’impero di una legge così severa che ogni
scrittura interdiceva delle tradizioni, mentre niuno ancora pensava
a violarne il rigore, colle prime raccolte della Misnà non solo le
tradizioni si scrivessero, ma quelle in ispecie che più sembravano
segrete e gelose, le parti più sublimi della religione, i terribili
misteri della Mercabà. E pure quest’argomento, che anche senza
il fatto presente della società degli Esseni non saria rimasto senza
risposta, al confronto di questo fatto, a paragone dello esempio
illustre, provato, del nostro Essenato, nulla più conserva di
terribile, e quella confutazione riceve più concludente, che mai
sariasi potuto desiderare.
Che se provato non ostante il fatto, pur si volesse di[341]
questo fatto medesimo, di questa strana eccezione indagare le
cagioni, facile sarebbe le cause additarne più verosimili. Se
diceste in qual guisa quel mistero, serbato per la tradizione
comune, non lo fu per le più gelose e per le più rispettate, ecco
che cosa risponderei. Vi mostrerei la forma nella quale queste
ultime tradizioni furono dettate, la forma che assunsero in tutte le
opere scritte, forma se altra fu mai metaforica per eccellenza, in
cui l’allegoria procede così uniforme, così complicata, e in cui sì
denso velo ricuopre il pensiero recondito, che tutta la
penetrazione sfida dei più oculati ove alla parola scritta non
soccorra l’insegnamento orale del maestro, a tal chè si può dire
che niuna maggiore divulgazione procurare poteva la scrittura a
cotal tradizione, che già non avesse pria di essere per iscritto
deposta.—E non è questo il luogo di maggiormente diffondersi
intorno questo argomento; ma se lo fosse, facil sarebbe mostrarvi
di questo procedere dei dottori parlantissima analogia nei primi
tentativi di redazione tradizionale, nei primi saggi Misnici
talmudici ove questa stessa forma parabolica vediamo prevalere,
ed ove le più antiche formule suonano brevi, oscure, talvolta
metaforiche siccome i famosi Simanim di cui va copiosa la
Biblioteca Rabbinica dei primi secoli.
Ma di questo si taccia per lo migliore, ed il corso riprendiamo
della nostra storia. Noi sappiamo le fonti d’onde i dogmi loro
attinsero gli Esseni: giusto è che alla cognizione dei dogmi stessi
trapassando, quel cenno ne facciamo che le scarse memorie e il
mistero appunto ond’erano circondati, ce lo consenton maggiore.
E quando si parla di credenze, mestieri è pure di quelle eziandio
favellare che falsamente agli Esseni si attribuirono, sì perchè
mondati procedano d’ingiuste imputazioni, e sì perchè non è raro
il vedere che sotto una[342] calunniosa imputazione alcun che si
asconda di vero e di fondato, d’onde a guisa di malinteso abbia
rampollato l’errore, il dogma supposto, e quindi la fama che
accusava, in documento si converte in qualche guisa di storica
verità.—Gli Esseni, come gli Ebrei in generale, furono appuntati
di supposte adorazioni. Lo furono di adorare il Sole, e sopra un
passo di Giuseppe Flavio fu fondata l’accusa. Io non istarò a
decifrare il vero senso delle parole flaviane. Grecisti insigni vi si
provarono, e quanto vi siano riusciti lo dicano i dubbj tuttavia
perseveranti. Io farò meglio. Io supporrò chiara e limpida
l’espressione di Flavio; io dirò che a dirittura egli attribuisca agli
Esseni, siccome veramente io credo che gliele attribuisca,
l’adorazione del Sole. Saranno per questo gli Esseni idolatri?
dovremo intendere Flavio come lo intese il Prideaux, a rigor della
lettera? Io credo che sia avvenuto al Prideaux ed a chi lo segue,
ciò che avvenne agli antichi Missionarj Gesuiti nell’Impero
cinese. Dove avendo udito i più famigerati filosofi insegnare la
fede nel nulla, tornarono pieni di sorpresa e di ira raccontando
dovunque in Europa che i filosofi Cinesi facevano pubblica
professione di ateismo e nullismo. E quanto i buoni Padri
andassero errati, quanto goffamente frantendessero la fraseologia
dei Cinesi, facile sarebbe qui dimostrare se l’ora e l’argomento lo
permettessero. Io credo che un qualcosa di simile sia pegli Esseni
avvenuto. E a così credere già sarebbermi argomento sufficiente
le tante prove e gli esempj cospicui che il Sole ci mostrano sotto
un senso allegorico, lo mostrerebbe il Pastoret quando, a
proposito degli Esseni, il Sole dice non essere stato per molti
popoli che il Rappresentante dell’Ente Supremo; lo proverebbe
l’uso, onde parla il De Jurieu nei termini seguenti: «De là est
venue la coutume de se tourner toujours du côté de[343] l’orient
dans tous les sacrifices qui se faisaient aux dieux célestes,» e di
cui è discorso nel XII dell’Eneide, v. 172; lo proverebbe il
costume prevalso nei prischi tempi nella Chiesa cristiana, di
volgere verso l’oriente, e che solo Leone I condannò come
intollerabile superstizione; lo proverebbe Fausto Manicheo
quando compara Cristo a Mitra, il Sole Persiano, e dice, i doni
recati dai Magi all’infante Gesù quelli essere appunto che gli
orientali al Sole offerivano come oro, mirra ed incenso; lo
proverebbe Ermogene che alla fine del II secolo referiva il culto
di Cristo a quello del Sole, e il corpo di Gesù credeva assunto
nell’astro del giorno; lo proverebbe Dante quando al Iº del
Paradiso chiamava poetando Dio Sole degli Angioli:
E Beatrice cominciò: Ringrazia,
Ringrazia il Sol degli Angeli, che a questo
Sensibil t’ha levato per sua grazia;

lo proverebbe la Bibbia quando Dio chiama Sole il Talmud,


quando narra di chi ad un Cesare che richiese di vedere Iddio
mostrò il Sole ultimo dei suoi Ministri; e tutte queste prove già
grandemente infermerebbero l’accusa contro gli Esseni articolata
di adorazione del Sole. E poi quanti fatti nel culto ebraico potuto
avrebbero dare origine a quest’accusa! Basti dire dell’orazione al
cui proposito appunto, e tanto più è notabile, rammenta Giuseppe
l’adorazione in discorso. Basti dire dei Vatichin, forse altro nome
degli Esseni, che studiavansi principiare col sorger del Sole la
prece di mattutino in adempimento del verso; basti dire della
perfetta orientazione del Tempio di Gerosolima, intorno a cui,
dice il Talmud, tanto affaticaronsi gli antichi Profeti affinchè la
porta di Oriente ricevesse i primi raggi del sole; basti dire il nome
stesso che quella porta recava[344] di porta del Sole; basti la lastra
d’oro tersissimo che votò Elena regina e Nazirea, affinchè in
luogo si situasse che ai primi raggi del sole infinite mandasse
scintille nunziatrici ai sacerdoti del rito che cominciava. E se
questo fosse il luogo di tal raffronto, aggiungerei della perfetta
orientazione, oggi costatata, delle Piramidi, che oltre il loro
carattere funerario, fa grandemente dubitare non forse qualche
rapporto possano offrire col culto del Sole, con Osiri Dio
infernale e Giudice delle anime nello Amenti come Cristosole
scende in Inferno e ne trae le anime dei giusti, e giudice sederà
de’ risorti nel giudizio finale.
Ma mirate la forza del vero! Egli è soltanto, egli è
principalmente al confronto della simbologia cabbalistica che
cessa ogni possibil recriminazione, che tacciono, anzi, e ciò di
gran lunga più monta, che si spiegano, che s’intendono le accuse
in discorso e che con tutta verità, con tutta precisione, si può dire
degli Esseni che adoravano il Sole.—E certo lo adoravano perchè
furono dei Cabbalisti progenitori, e certo ne fecero, come ne
fanno i Cabbalisti, emblema, simbolo, principalmente nella loro
Teologia; e certo non solo il sole, ma la luna, ma i pianeti tutti
fecero parte della loro simbologia, siccome S. Girolamo lo
attesta, rincarando sopra Giuseppe e dicendo gli astri tutti avere
gli Esseni adorato.—S. Girolamo pare che compia l’accusa, ed
invece non fa altro che finire il ritratto degli Esseni, che
identificarli assolutamente coi Cabbalisti, che porre, a dir breve,
l’ultima mano a quella identità da noi propugnata. Perciocchè
mestieri è che il sappiate, non solo il Sole, simbolo fra ogni altro
cospicuo, ma la Luna, ma Giove, ma Marte, ma Venere, ma
Mercurio, e se ai tempi loro conosciuto fosse stato Urano, anche
Urano avrebbero tolto a far parte della ricca e complicatissima
loro Simbolica. Ecco[345] i veri astri, il vero sole, la vera luna che
adorarono gli Esseni, il sole e la luna e gli astri del cielo dei
Cabbalisti, ecco l’accusa; che accusa si, ma solo la identità dei
due sistemi e delle due scuole, al difuori della quale io oso dire
che ogni sforzo spenderebbe invano la critica a dare una
spiegazione plausibile a questo culto strano idolatrico, che austeri
gravi autori non temono di attribuire alla più scrupolosa e severa
scuola che sorta sia nel seno dell’ebraico monoteismo. Ecco la
chiave per capire ciò che ha di vero il sistema del Dupuis che
trova in Cristo il sole, e negli apostoli i 12 segni dello Zodiaco; la
chiave ne è la parentela tra Cristiani ed Esseni, e tra questi ed i
Cabbalisti.
[346]
LEZIONE VENTESIMAQUARTA.

Sotto le forme di un’adorazione idolatrica, di un’apparente


astrolatria del culto del Sole, noi abbiamo trovato una nuova
analogia coi Cabbalisti, e al tempo stesso l’origine di
quest’accusa, della supposta adorazione del Sole. Possiam dire
che non è persino l’errore che non rechi in qualche modo il suo
tributo al nostro sistema, e non concorra esso pure al più grande e
più luminoso trionfo del vero. Noi abbiamo iniziato un sistema di
critica storica intorno agli Esseni che, spero, vedremo parecchie
altre volte vittorioso alla prova, dileguando quelle nubi che si
frappongono alla contemplazione del vero, additando la sorgente
di altri malintesi, e sotto l’aspetto paradossale di altri culti, di
altre formule non meno strane nè indecifrate, accennandoci la
equivocata e malcompresa simbologia dei Cabbalisti. Noi
andiamo a vederne prova novella. Noi abbiamo un altro culto,
un’altra accusa, un’altra idolatria da spiegare, la quale non
reggerà, spero, al contatto del criterio da noi assunto alla storica
interpretazione dell’Essenato, più che non resse l’altra accusa
d’astrolatria, l’adorazione del Sole. Strano a dirsi! furono accusati
gli Esseni d’adorare creature mortali, individui umani quali siam
noi; di adorare due fratelli, il cui nome ci fu per ventura
conservato, Elxai e Jessaus, di adorare eziandio le due loro
sorelle, Marta e Martana. Queste cose udiva l’antichità e non ne
stupiva.[347] Erano ancora poco distanti i tempi nei quali il cielo
si popolava d’intere famiglie di dèi e di dee, di padri e figliuoli, di
fratelli e sorelle; nè mancavano nella mitologia orientale e in
quella di Grecia e di Roma gli esempj di numi scesi incarnati, e
cogli uomini stessi conversanti in guerra, in amore, in politica,
coi legislatori, coi guerrieri e colle ninfe dei boschi. L’Oriente ce
ne porge tuttavia distinte le traccie. Il Lama, il gran Lama del
Tibet, chi non lo sa? è creduto incarnazione perpetua di Budda, e
ciò che non è men vero per esser men conosciuto, egli è che al
fianco del Lama si adora dai Tibetani la Lamessa, incarnazione,
siccome egli di Budda, così essa della sua virtù, del principio suo
femminile, della sua energia, di quella che i Cabbalisti dicono
Coah. Nè i tempi dei nostri Esseni correvano meno propizi a
siffatte aberrazioni, e le incarnazioni erano, si può dire, allora le
credenze alla moda. Testimonio, per non dire di altri, quel Simon
mago da Dante nostro apostrofato coi miseri seguaci, il quale non
solo adorato era qual uno degli Eoni o delle emanazioni di Dio,
ma la donna sua modello, siccome dicono, non troppo specchiato
di onestà, riscoteva eziandio al suo fianco pubblici divini omaggi
qual Dea; reputata essendo qual sua virtù e qual emanazione ella
stessa del femminile principio. Ho io mestieri parlare del
cristianesimo? Religione all’Essenato contemporanea, ella si
fonda sul dogma capitale della incarnazione dell’uomo-Dio, che
contiene, come dice Gioberti, in germe tutto il cristianesimo, e
questo tutti sanno e perfettamente concordano. Ma se il
cristianesimo ebbe il suo Elxai, ebbe ancora il suo principio
femminile, la sua Martana, la sua incarnazione femminile. Chi il
crederebbe? Si accusano oggi i Gesuiti di aver effemminato il
cristianesimo introducendovi il culto di Maria, e troppo più alto
elevando,[348] che non s’addica, il seggio di Colei che fu a Cristo
e figlia e sposa e madre, secondo la sentenza Manzoniana. Tuona
contro di essi Gioberti, e adulteratori li chiama insieme ad altri
del dogma e della fisonomia del cristianesimo. E pure, sel tolleri
in pace la sua grand’anima, i Gesuiti, se non hanno ragione, non
hanno nemmeno tutta la colpa che gli si vuol affibbiare. Il culto di
Maria è antico antichissimo più che non si crede. E non solo fu
culto secondario e di dulia, ma primario e di latria, se si risale a’
prischi secoli e presso i cristiani d’Oriente, specialmente fra gli
Arabi. Perciocchè non solo ci parla S. Epifanio della setta dei
Colliridi, che ponevano la Vergine Madre al pari di Dio e culto
rendeangli di vera divinità, offrendogli una focaccia in forma di
serpe, d’onde il nome loro di Colliridi: ma sino nel famoso
concilio Niceno furono padri che sostennero la divinità della
Vergine dicendo, due divinità doversi adorare, oltre il Padre, il
Cristo e la Vergine. La quale associazione del culto di Dio a
quello di Maria diede origine alla setta dei Marianiti, e che sotto
questo nome figura nel concilio di Nicea, e più o meno prospera
protrasse la sua esistenza fino al 6º secolo dell’èra volgare, in cui
eranvi tuttavia cristiani che facevano della Vergine una Dea,
chiamandola membro e compimento della Trinità. Il quale errore,
come quello di Simone il Mago, come quello attribuito agli
Esseni, fu una deviazione e una corruzione dei principj
Cabbalistici; come deviazione congenere, benchè serotina, fu
quella che eresse in oggetto di culto divino il Pseudomessia
Sciabetai Zebi, e ciò ch’è di gran lunga più degno di nota, la sua
donna istessa, quale incarnazione femminile di una delle divine
emanazioni, come probabilmente frutto dello stess’albero fu il
culto della Dea ragione, o sapienza, o Hohmà, personificata in
una prostituta per quella corrente segreta che[349] univa le
Francomassonerie allora erompenti alla luce cogli antichi istituti
Pitagorici e Cabbalisti. E come finalmente un esempio preclaro ci
s’offre ai tempi profetici dell’adorazione di una Dea, della Regina
dei cieli, Regina coelorum, come oggi è chiamata la Dea Maria, e
contro di cui tuona Geremia dicendo: I figli raccolgono legna, i
padri accendono il fuoco, e le donne con grano e farina
compongono focaccie e fanno libazioni alla Regina dei cieli.
Posto ciò che hanno di comune tutti questi culti diversi,
dobbiamo domandare a noi stessi: caddero eglino gli Esseni in
questo culto idolatrico che gli s’attribuisce; adorarono essi in due
fratelli in due donne carnali, in una creatura mortale la
incarnazione di un principio divino? precipitarono essi nell’errore
di Simon Mago, dei Marianiti, di Sciabetai Zebi, e di tutti i
fautori in generale delle avatara o incarnazioni indiane, orientali,
greche, cristiane; o non piuttosto mantennero il dogma
cabbalistico nella sua purità, serbando inviolati i confini tra
l’ideale e il reale, tra la mente e il corpo, tra il divino e l’umano; e
se accusa vi fu, solo a malinteso, solo ad equivoco si dovrà
imputare? Io credo che nulla ci autorizzi a menare l’imputazione
per buona. Se gli Esseni parlarono di fratelli e di sorelle, se ne
dierono i nomi, se ossequiaronli quai numi, nulla ha tutto questo
di sorprendente per chi per poco abbia svolto le pagine dei
Cabbalisti, presso i quali, come Oromaze e Arimane tra i
Persiani, come Osiri e Tifone tra gli Egizj, come Giove e Plutone
tra i Greci, tutti fratelli ma nemici ed antagonisti tra loro, così tra
essi Jacob e Esau, personaggi storici quanto altri fur mai,
prendono nonostante veste simbolica e stanno a significare due
idee, due principj tra essi contraddittorj, e che non è qui luogo di
costatare, di definire. Non sono persino i due nomi che la
tradizione ci trasmise dei due fratelli dagli Esseni adorati,[350] che
non stiano in qualche modo a provare la bontà del supposto. Elhai
è nome mirabilmente conservato, ed oltre il suo senso biblico
usitatissimo di Dio vivente, appartiene alla nomenclatura
cabbalistica delle Sefirot, e sta a significare quella in ispecie che
il nome reca di Jesod, il qual nome a parer mio fu riprodotto nel
nome essenico di Jesseus, se pure lo stesso essenico Jesseus,
come par più probabile, non sia il José Rabbinico identico al
biblico Josef, che è lo schema storico rappresentante appunto la
Sefirà di Jesod. Che se questi sono i fratelli Essenici e il loro
nome, che diremo delle loro sorelle adorate, Marta e Martana?
Non solo qui ritornano non meno espressive in campo le analogie
pagane, Isi e Nefti in Egitto, Giunone ed Ecate in Grecia, e via
discorrendo, ma tornano non meno e forse anche più parlanti le
analogie cabbalistiche. Marta e Martana sono nomi quasi
integralmente conservati, e ci offrono le fattezze quasi inalterate
dei nomi cabbalistici Martà e il Meerat del Zoar, come Mariana è
corruzione della Matranita Cabbalistica, la prima accennata,
secondo il Zoar, nel Jei Meerat, l’altra sinonimo di donna e
signora; come, mirabile a dirsi, il nome greco di Giunone, Hera,
fu sinonimo di donna e signora, ed ambo sorelle; l’una buona e
l’altra rea; l’una autrice di bene, l’altra di male; l’una identica a
Lilit regina delle tenebre, l’altra identica alla talmudica Scehinà;
l’una nel suo nome istesso recante il segno della esecrazione
Meerat da Meerá, anatema maledizione, l’altra Matranita, da
Matar, guardiana e custode. Però, affrettiamoci a dirlo, gli Esseri
or ora ricordati non furono solo enti metafisici e mere astrazioni;
per quella concordanza che è propria dei Cabbalisti trovare tra
l’ideale e il reale, essi, gli Esseni, tolsero dalla storia i personaggi
rammentati, e ne fecero copie e rappresentanze dei loro esemplari
e prototipi celestiali. E[351] comecchè non sia officio di queste
lezioni discorrere della storia degli Esseni, ma solo della loro
teologia, pure per quella connessione che vedemmo or ora tra la
storia e il dogma, ed anche pel valore secondo me insigne di
questo tratto della loro istoria, non sarà male che per noi se ne
faccia qui stesso breve menzione. Egli è a S. Epifanio che noi
dobbiamo le presenti indicazioni. Nel suo libro delle Eresie egli
rammenta come, imperante Trajano, l’istituto degli Esseni subì
una modificazione, o come oggi direbbesi, una riforma. E chi ne
fu, al dir d’Epifanio, l’autore? Ei fu un Essena per nome Elxai,
del quale ci referisce il Padre istesso in tre sommi capi le riforme
introdotte. Egli è gran ventura per la storia degli Esseni, che un
momento così interessante della loro esistenza ci sia stato
conservato colle sue più minute circostanze, e fra poco vedremo
di quante conseguenze sia fecondo per il sistema nostro d’identità
cabbalistica. Ci narra Epifanio le riforme introdotte, e queste sono
in numero di tre. Consiste la prima nello insegnare ch’ei fece ai
seguaci a giurare per le cose create, pel sale, per l’acqua, per la
terra, come se fossero, dice Epifanio, altrettante divinità. Consiste
la seconda nella condanna ed abolizione del celibato e quindi
nella riabilitazione del matrimonio. La terza poi suona alquanto
più dura ad intendersi, ma spero riceverà non scarso lume dal
nostro sistema. Secondo S. Epifanio, Elhai, il riformatore della
scuola, avrebbe insegnato ai seguaci la dissimulazione idolatrica,
che è quanto dire, a simulare culto, ossequi, adorazione ai numi
del Paganesimo quando altrimenti non potesse farsi senza
presentissimo pericolo della vita. Noi abbiamo qui nelle parole di
Epifanio un documento importantissimo, i cui rilevantissimi
insegnamenti mestieri è analizzare a parte a parte. Abbiamo in
primo luogo cenno, memoria di un’epoca[352] di crisi religiosa
per lo Essenato, in cui gli ordini antichi subirono una qualunque
siasi metamorfosi per opera d’un capo-scuola, d’un riformatore
per nome Elhai; e questo fatto non potrebbe non consuonare
mirabilmente col maestrato cabbalistico che si assegna nel Zoar a
R. Simone Ben Johai, e coll’immenso impulso che si dice da esso
alla teologia comunicato, onde il suo secolo qual secolo ci si offre
impareggiabile negli Annali dello istituto. Ed abbiamo la data. La
quale, fissata da Epifanio sotto l’impero di Trajano, consuona con
quella che segna il fiore, l’apogeo della scuola cabbalistica, e
colla predicazione e riforma di R. S. B. J.; fatto altresì di massimo
rilievo in quanto stabilisce eziandio una concordanza cronologica,
fra la riforma di una parte dell’Essenato e quella narrata dal Zoar
della scuola cabbalistica per opera di R. S. B. J. Ma qual’è della
Essenica riforma l’autore, e qual nome ei reca in bocca ad
Epifanio? Egli è Elhai, che oltre l’offrirci non ispregevole
concordanza di suono con Ben Johai, col qual nome
semplicissimo è designato non rade volte nel Talmud e nel Zoar, è
nome pregno altresì di altre preziose indicazioni, che tutte alla
persona collimano e ne riconducono di R. S. B. J. Poiché, s’egli è
vero che voi udiste, or non è molto, essere questo nome divino, e
speciale appellazione della ottava Sefirá o Eone, non è men vero
che anche nel suo senso più ovvio di Dio vivente si addica in
sommo grado al principe dei Cabbalisti, a R. S. B. J. Non voglio
qui confortare l’asserto con lontane ma pur vere analogie bibliche
e talmudiche, comechè grandemente ne rimarrebbe giovato
l’assunto; ma mirando senza più al cuor del subbietto, io recherò
in mezzo tali prove ed esempj tolti a dirittura al Zoar istesso, dei
nomi cioè di Dio applicati per magnificenza di traslato al
divinissimo uomo, che ognuno, spero, dovrà[353] dirsi
dell’argomentare contento. Or eccone uno. Se la mente non erra,
è il caso in cui il Zoar chiama con nomi divini il gran maestro
della scienza divina, ed è là ove chiedendo Man aadon adonai?
risponde a dirittura, Da ù R. Simone ben Johai, testo empio,
scandaloso, e degno subbietto alle recriminazioni infinite che
levarongli contro, ove colla grossolana s’interpreti e inescusabile
ignoranza dei tempi, degli uomini, del linguaggio, delle dottrine,
ma innocentissima e naturalissima espressione, se di tanto
vorremo consultare la Bibbia, che appunto per avere prodigato gli
epiteti celestiali agli uomini, alle cose terrene, fu causa benchè
innocente che altri fraintendendone il significato ne torcessero il
senso fino a trovarci le traccie di dottrine dall’Ebraismo le più
aliene.
Abbiamo veduto la data, il personaggio, il nome del
riformator degli Esseni, e tutti coincidono col riformatore dei
Cabbalisti. Troveremo egual concordanza nella materia stessa
della riforma?—Veggiamo i particolari conservatici da Epifanio.
Insegnò, ei dice, ai seguaci a giurare per le creature, pel sale, per
l’acqua, per la terra, quasi fossero Enti divini, parole che suonano
strana, mostruosissima accusa, ove alla lettera si capiscano per un
dottissimo e nobilissimo istituto del quale ci trasmisero gli antichi
i sensi più elevati monoteistici, in fatto di religione. Ma il sistema
nostro, oso dirlo apertamente, è il solo che lasci un senso
possibile alle parole di Epifanio, che purghi gli Esseni dalla taccia
d’idolatria senza distruggere d’altra parte, anzi confermando e
spiegando un attestato così esplicito, così grave qual è quello di
Epifanio. La simbologia, le figure, i tipi cabbalistici saranno per
noi il filo conduttore, il filo d’Arianna. Nella cui varia e
ricchissima nomenclatura i nomi di sale, di acqua, di terra,
figurano tra[354] i primi quai terreni rappresentanti e tipi e figure
delle virtù, degli attributi, delle emanazioni divine, e di cui facile
sarebbe qui riprodurre le rispondenze cabbalistiche, se opera vana
non mi paresse avvolgermi in ricerche puramente nominali, il cui
senso non è qui certo il luogo di sindacare, di stabilire. Per lo
scopo nostro, per la interpretazione del documento di Epifanio,
bastano le cose discorse riguardo al primo soggetto delle
rammentate riforme. E basterà non meno ricordare la seconda
innovazione rammentata da Epifanio. La quale consiste nella
condanna e abolizione del Celibato. Io vi prego ridurvelo alla
memoria. Quando passavamo in rassegna le istituzioni degli
Esseni, quando in queste volevamo trovare quell’identità da’
nostri perpetuamente propugnata tra Esseni e Cabbalisti, quando
ci imbattemmo nel Celibato, un ostacolo ci parve sorgere a
proseguire nella favorita nostra dimostrazione, e a rimuoverlo
adoperammo fatti, argomenti che non sono, se io non erro, da
prendersi a vile: ma quanto meglio non riesce allo scopo, quanto
più naturale e piena eliminazione della difficoltà in discorso non è
egli il fatto presente, la condanna, l’abolizione del Celibato? La
quale non solo meglio identifica l’Essenato coi Farisei, ma più
specialmente lo immedesima coi Farisei Cabbalisti, i quali a
segno tale rincararono nel Zoar sulle prescrizioni del matrimonio
e della propagazione della specie, che certe frasi così severe vi
corrono, che ebbero bisogno di miti ed attenuanti interpretazioni?
Ed ecco il secondo capo della riforma di Elhai coincidere
appuntino colle idee e col sistema dei Cabbalisti. Che sarà poi del
terzo punto della Essenica riforma, della dissimulazione idolatrica
che si dice ammessa, sancita dal riformatore Elhai? E in qual
guisa potrà una sì strana concessione consentire colle idee e coi
principj di Ben Johai,[355] di quegli che crediamo identico
all’Essenico Elhai e che è uno dei più grandi e famosi dottori tra i
Farisei? E pure io non credeva a me stesso quando l’opinione
testè udita io lessi nelle Agaot Maimoniot, attribuita a R. S. B. J. E
perchè meglio comprendiate di chi si tratta, mestieri è sapere
come, secondo le opinioni più comuni, più accettate, tutti i
precetti di Dio, vuoi positivi vuoi negativi, possono impunemente
prevaricarsi quando vero e presentissimo si corra pericolo della
vita, tranne tre soli, la cui osservanza deve anteporsi alla vita
istessa e sono: Idolatria, Incesto ed Omicidio. Ora aprite
Maimonide nel trattato d’Idolatria, e mentre nel testo
Maimonideo troverete la decisione formulata nel senso appunto
or or ricordato, volgendo per poco gli occhi alle note che vanno
attorno al testo, e che si dicono Agaot o Scoree Maimonidee,
leggete a proposito delle tre eccezioni rammentate: Ad onta
dell’opinione di R. Simone che disse prevarichi e non muoja, ch’è
quanto dire, per parlare col linguaggio di Epifanio, ad onta del
riformatore degli Esseni Elhai che insegnò fra l’altre cose ai
seguaci dissimulazione nella Idolatria.
Noi abbiamo compiuta gran parte del nostro assunto; abbiamo
trovato l’origine delle voci accusatrici che corsero nell’antichità
contro l’idolatria degli Esseni; abbiamo trovato l’Edipo della
pretesa loro astrolatria; e della loro antropolatria eziandio, ossia
dell’adorazione degli esseri umani. I quali furono ad un tempo
virtù divine e storici personaggi, ma l’uno e l’altro furono senza
mischianza idolatrica, senza incarnazione alla foggia del
Cristianesimo e del Buddismo, ma in virtù di quel rapporto che
insegnarono i Cabbalisti esistere fra un grand’uomo e una grande
idea, fra l’ideale divino e il sensibile umano, fra le idee eterne che
risiedono in Dio e la loro esplicazione e sviluppo mondiale per
opera[356] or di questa or di quella espressione e veste finita di
una idea infinita.—E tutte queste cose vedemmo e vediamo
sempre più ridondare al trionfo di quella identità che stimammo
guida sicura e fedele in queste nostre ricerche. Ma Epifanio con
una frase compie il ritratto di R. S. B. J. quando dice che Elhai
lasciò un libro ai seguaci delle sue profezie, e questo libro, se il
giudizio non erra, non è certo il Zoar tal quale ora si trova, in cui
tanti diversi e posteriori vestigi tu riconosci al grande Teosofo,
ma è certo la prima idea, il primo saggio, il primo nucleo, il
primo germe di essa opera, e sopratutto i pensieri, le dottrine e la
distribuzione fra i discepoli dei vari offici di redazione; è
quell’opera per cui disse il gran maestro nell’ultima
grand’assemblea: Rabbi Abbà scriva, ed Eleazario mio figlio
mediti o detti; è l’opera da cui potrebbe uscire ed uscirà la
restaurazione e il rinnovellamento dell’Ebraismo.
[357]
LEZIONE VENTESIMAQUINTA.

Escluse, spiegate le credenze ingiustamente attribuite agli


Esseni, trovata l’origine degli errori che gli si apposero, noi
dobbiamo procedere all’esame delle loro dottrine, di quelle
intorno a cui niun dubbio sorse a impedirci l’ammissione.—Noi
cominceremo da quella parte che riguarda l’uomo, la sua natura,
il suo destino, i dogmi tutti che si attengono all’uomo, ai suoi
rapporti con Dio e col Mondo; da quella parte insomma delle
scienze filosofiche che si chiama Antropologia. La quale formò
sempre parte di tutte le religioni, quando si studiarono sopratutto
di conciliare la libertà dell’uomo e la potenza di Dio, l’arbitrio e
la grazia, l’azione di Dio e la responsabilità dell’uomo.—Il quale
problema essendo stato subbietto di una triplice soluzione, così dà
origine a tre scuole, a tre sistemi, a tre modi di concepire i
rapporti morali, etici di Dio coll’uomo. Fu per gli uni la libertà
immolata all’azione di Dio; fu dagli altri ogni influenza negata al
divino volere; fu pei terzi l’azione di Dio e quella dell’uomo in
guisa contemperate che la responsabilità intera rimanesse
all’uomo, senza ledere la universalità e pienezza dell’azione
divina. Ora queste tre soluzioni che si verificano in ogni età, in
ogni religione, che ebbero rappresentanti in seno al
Cristianesimo, nei cattolici, nei giansenisti e calvinisti, e nei
pelagiani, si verificò, dice Giuseppe, nel giro delle[358] credenze
ebraiche, e furono dalle tre scuole rappresentate che più illustri
sorsero nell’Ebraismo.—Proclamava il Farisato destino ed
arbitrio—grazia e libertà. Volere di Dio e volere dell’uomo, quali
forze insieme cooperanti all’atto dell’uomo. Pretesero i Sadducei,
autonomo assoluto il libero arbitrio.—Vollero per ultimo gli
Esseni, aggiunge Filone, che ogni atto dovesse referirsi al destino.
—Qui vediamo cosa che sembra a prima vista osteggiare il nostro
sistema d’identità essenico-cabbalistica. Vediamo gli Esseni
procedere distinti dai Farisei: non basta, li vediamo discordi in
una delle quistioni più capitali che siensi divise le coscienze negli
antichi e odierni tempi, e se dovessimo stare alla scorza delle
espressioni flaviane, ne dovremo concludere non solo la
distinzione delle due scuole, ma la loro ostilità eziandio. Ma
quanto ingiustamente! Egli è certo che bene s’appone Giuseppe
quando i Farisei disse conciliatori e partigiani della grazia e
dell’arbitrio. Basta volgere uno sguardo alle pagine talmudiche
per vedervi alternativamente costatata l’azione reciproca
combinata dell’arbitrio e del volere di Dio nelle azioni
dell’uomo, e che parrebbemi opera soverchia in questo lungo
rammemorare. Ma non meno, a veder bene, s’appone Giuseppe
quando gli Esseni dice, tutte le umane azioni riferire al destino.—
Ma qual destino? Io non so che cosa abbia inteso così dicendo
Giuseppe.—Forse concepì il destino degli Esseni, nel senso
volgare, dello stoicismo contemporaneo e del paganesimo, forse a
significare cosa ben diversa di una cieca fatalità, si valse di un
vocabolo che forse il più acconcio, benchè inadeguato, suonava
allora a significare l’essenico concetto. Checchè ne sia, la formula
essenica non potrebbe meglio consuonare colle dottrine dei
Cabbalisti, i quali soli proclamarono in seno dell’Ebraismo
un[359] principio che vano sarebbe cercare nel Talmud, cercare
nei Medrascim, ed in qualunque altro libro estraneo alla scienza
dei Mistici; forse perchè solo armonizzando colle rimanenti loro
dottrine può deporre quel senso immorale e fatalistico che
altrimenti avrebbe immancabilmente. Quando il Zoar, referendosi
a libri e dottrine ad esso anteriori, insegnava: Tutto dipendere dal
Mazal—fosse ancora la Legge di Dio deposta nell’Arca—
annunciava quel principio che meglio consuona col dogma
essenico asserito da Flavio, e tanto più intimi ne svela i rapporti
quanto più speciale e peculiarissimo ai Cabbalisti appartiene.
Se questo ne fosse il luogo, non malagevole tornerebbe il
mostrare quanto il Cabbalistico Mazal si dilunghi da quello che
comunemente s’appella Destino. E forse non andrebbe errato chi
volesse trovare nell’antico Fato dei Greci alcun che di consimile
al Mazal cabbalistico, non essendo, a quel che pare dalle antiche
teogonie, destituito il greco di ogni intelligenza e volontà, e solo
in tanto distinguendosi dalla folla degli Dei, che a differenza di
essi siedeva il Fato in regioni ove le passioni e le lotte umane non
giungevano a disturbarne gli impassibili e sovrani decreti. Quello
ch’è certo si è, che il senso, la etimologia della parola Mazal bene
dà a divedere a chi la intende quanto intimamente si connetta
colla Dottrina dell’Emanazioni, null’altro a mirar bene
significando che influsso, emanazione, o come dire vogliamo
discorrimento.
Ma noi dobbiamo procedere oltre nell’esame degli essenici
dogmi, e poichè dell’anima umana abbiamo preso in prima a
discorrere, dopo avere stabilito quei rapporti che a Dio la
congiungono, al dire degli Esseni, mestieri è pure che di quei
rapporti pur noi si favelli che, secondo gli Esseni, al suo corpo
istesso la congiungevano.[360] E intorno a questo, Giuseppe e
Filone son categorici. Per essi, o per dir meglio per gli Esseni di
cui ci riferiscono le credenze, se l’anima al corpo si unisce egli è
a suo malgrado, egli è, dicono essi, per una certa invariabile
attrattiva che la spinge a subire tutte le vicende della vita terrena
insieme al corpo. Ora chi potrebbe negarlo? Chi potrebbe dire che
non siano queste le idee, e i più ovvj insegnamenti dei Farisei?
Non solo la Misnà, e la più popolare della intera compilazione, ne
intima la verità del principio al corhah attà nozar, ma i Rabbini
posteriori prendendo a svilupparne i dettati, siccome è loro stile, e
drammatizzando la troppo austera semplicità del placito minico,
dicono di un Angiolo che invita le anime a rinserrarsi nel
femminil chiostro, nell’atto della concezione; dicono delle
repulse, delle resistenze che l’anima gli oppone, siccome quella
ch’è rifuggente dalle turpezze e infermità della carne; e dicono
infine che agli inviti ed alle esortazioni succede la forza, un vero
compelle intrare, ma intimato questa volta dal Dator della vita. E
qui sarebbe il luogo, dopo le mostrate analogie col farisato, di far
scendere in campo Platone e la sua scuola, da cui appunto
s’intitola principalmente la discorsa teoria della unione forzata
col corpo; e tra i Dottori e gli Esseni da una parte e Platone
dall’altra, quei rapporti additarne che corrono forse speciosi e
parventi meglio che profondi e reali. Ma di rammentare Platone
un dotto rabbino olandese mi dispensa, l’antico Menascè ben
Israel. Il quale nella dotta e pia sua opera, Nismat Haïm, non
mancò di notare, versato qual egli era nelle filosofiche discipline,
come la Misnà, come il Medrass, quello stesso insegnavano che
aveva insegnato Platone quando dicevano che gli spiriti
scendevano riluttanti a rinserrarsi nel corpo. Il Menascè ben
Israel avrebbe potuto aggiungere anche i Pitagorici,[361] i quali,
come avvertiva il Ritter nel primo volume della Storia della
filosofia, precorsero a Platone in questo modo di concepire
l’unione dell’anima col corpo. Se non che, come io dissi non ha
guari, l’analogia tra Platone e gli Esseni e i Farisei è più
apparente che reale; e se questo fosse il luogo di rilevare la
distinzione profonda che divide le due Teorie, tanto più volentieri
lo farei quanto più la Teoria platonica ci offre della vita terrena un
concetto punitivo e sinistro, che non entrò giammai nei
pensamenti dei Farisei e tanto meno dei Cabbalisti. Ma di queste
cose ci basti qui lambire soltanto la superficie, dovendoci pel
compito nostro interdire ogni benchè seducente digressione che
troppo lungi ci meni dal subbietto in discorso.
Che se questi sono dell’anima i rapporti con Dio e quelli col
corpo, in qual guisa ne compresero gli Esseni la natura e
l’essenza? Distinsero, se bene m’appongo, la sua parte materiale
da quella che dissero il Noo, ovvero intelletto. E la parte materiale
dissero essere il sangue.—A queste parole chi non ricorda Mosè?
Aveva pur egli stabilito, in termini che più non si potriano
formali, l’anima essere il sangue. E non solo Mosè, che della
immaterialità delle anime umane o si tace, o di oscuri accenni si
accontenta; ma i Rabbini pur essi, che questa immaterialità
riconobbero, dissero come Mosè l’anima, l’anima del corpo, il
principio vitale, il pneuma, come oggi si direbbe, essere nel
sangue; prova se altra fu mai concludente come a torto si
vorrebbe intendere l’espressione mosaica com’escludente la
immaterialità delle anime, dappoichè i Rabbini che a questa
formalmente ossequiarono, non si astennero dall’usare la stessa
espressione che Mosè aveva usato prima di loro. E non solo la
riproduzione della frase mosaica n’esclude la interpretazione
materialistica, ma[362] quel senso ce ne offre più adeguato che i
Dottori intesero nell’adoprarlo. Il quale si connette colla triplice
divisione che fecero dell’anima i Dottori, i Cabbalisti;
distinguendone tre gradi o tre parti, la prima che dissero
vegetativa, l’altra sensitiva, la terza intellettiva. E la prima forse è
quella che dissero parte materiale, e posero il suo seggio nel
sangue. Ma non solo sentenziarono del principio di vita e del suo
seggio, ma di questo seggio istesso, ma del sangue ancora dierono
la teoria fisiologica. Il sangue pegli Esseni era composto di due
elementi, di aria e di fuoco. Il quale principio non solo meglio si
comprende al paragone dei sistemi medici agli Esseni
contemporanei, ma se io troppo non oso, un senso tuttavia
potrebbe avere anco nei sistemi dei giorni nostri. La storia della
antica medicina, specialmente quella dottissima di Giusto Hecker
professore berlinese, ricorda sistemi pressochè agli Esseni
contemporanei, che ammettevano nelle arterie circolante una
specie di pneuma o spirito vitale, rispondendo con singolar
disinvoltura a coloro che obbiettavano l’esperienza la quale
mostra l’arteria ferita mandare sangue. Chi volesse poi in
linguaggio moderno tradurre l’essenica dottrina, la combinazione
di aria e di fuoco, potrebbe pensare alla combustione ed
all’ematosi, ambidue effetto della respirazione, la prima
palesantesi nella emissione del carbonio, la seconda consistente
nella ossigenazione, ch’è quanto dire nell’introduzione
dell’ossigeno nella massa sanguigna.
Ma gli Esseni, noi lo abbiamo veduto, riponevano in un
principio diverso la causa, l’origine del pensiero. Questo
principio immateriale è chiamato da Filone il Noo e talvolta
Pneuma o spirito divino, ed in mancanza di ragguagli più diretti
della essenica nomenclatura dobbiamo contentarci delle
indicazioni di Filone, che può[363] avere, come dicemmo
altravolta, rivestito di forme greche l’ebraico pensiero, ma che lo
mantenne, così è lecito credere, immune di sensibile alterazione.
Però non è sì che questa fedeltà filoniana qualche volta non si
smentisca, e che obbedendo forse alla necessità in cui era di far
comprendere ed accettare dal mondo pagano le dottrine
dell’ebraismo, non si valga talvolta di espressioni un po’
equivoche, testimone quando parla della natura dell’anima,
quando dice le anime umane della stessa natura essere degli
angioli; anzi quando null’altra differenza addita tra le une e gli
altri, se non la discesa ed il soggiorno nel mondo dei corpi.—Per
Filone può l’anima discendere ed abitare nei corpi una sol volta,
può altre fiate ripetutamente vestire la forma carnale, può infine
restare in eterno immune da ogni coabitazione e commercio coi
corpi.—E in quest’ultimo caso, dice Filone, ei sono gli angioli,
anzi e’ sono i genii di cui parlano i filosofi.—Se Filone intese
parlare con filosofico rigore, egli ha torto nel senso
dell’ebraismo. Il quale tanto profondamente distinse la natura
dell’angelo da quella dell’uomo, che niuna più famosa
disputazione narrano gli annali dell’ebraismo di quella che a
proposito s’impegnava della preminenza dell’una e dell’altra.
Nella quale i nomi più famigerati figurano non solo del Talmud e
dei Medrascim, ma dei più celebri posteriori Dottori eziandio,
quali furono, a mo’ d’esempio, Rabbenu Saadia, Abenesra, ed
una schiera illustre di dottori cabbalisti. Ma quanto ad un tempo
fedele e felice interprete ai Pagani non si mostra Filone delle
antiche dottrine degli avi suoi, quando parla del soggiorno delle
anime!—Udito avevano i Pagani i lor filosofi insegnare, avere le
anime dei trapassati per abituale loro soggiorno l’atmosfera, o
come allor si diceva l’aria intermedia; e basta leggere il Ritter e i
cenni ivi contenuti sulle scuole[364] antisocratiche, per vedere
quanto comune fosse tra gli antichi questo pensiero sulla sede
degli spiriti. Or bene che credete che faccia Filone? Egli traduce
nel linguaggio del paganesimo ciò che aveva letto nella Bibbia,
non già delle anime de’ giusti ma di quelle dei riprovati, ciò che
disse Abigaille accennando alle sorti eterne dei nemici di David, i
quali dic’ella: Andranno balestrati in qua e in là, come pietra
nella balestra, ciò che gli era giunto da Palestina qual eco della
mitologia rabbinica, che ripone nell’aria intermedia gli spiriti che
vi nuotano, dice il Talmud, in numero infinito; e per toccare di
alcun che di più serio, ciò che aveva imparato nelle dottrine
essenico-cabbalistiche, avere le anime residenza nella sefirà che
si chiama Jesod, e che per colmo di maraviglia, reca in quelle
dottrine il nome di Rakia, di atmosfera, alla quale, dicono essi,
alluse Mosè quando parlò degli uccelli che volano per l’aria pei
quali intesero le anime che hanno sede e radice nell’atmosfera
divina cioè nel Jesod, come Dante chiamò l’angelo, nella
Commedia, divino uccello. E siccome tutte queste cose aveva
udito e imparato Filone, così quando scrivendo per i Pagani volle
dire del seggio delle anime, dir volle in guisa che la terminologia
convenzionale restasse intatta, che udito avea dai maestri di
religione, in guisa che rispondesse alle idee che d’abantico
avevano i Pagani addottato forse per un’equivocata
interpretazione dell’antica simbologia patriarcale, e disse, come
udito avete poco anzi, aver le anime seggio nell’atmosfera. Ma se
i dotti intendevano per rakia, atmosfera, tutt’altro che l’aria che
ne circonda, se intendevano la matrice, il repositorio delle anime
umane, anzi l’anima universale, il Paramatma degli Indiani, la
Psiche di Platone, non è sì che il popolo non intendesse della vera
e propria aria che ne circonda, non è sì che gli stessi
cabbalisti[365] segnatamente l’Aari non dicesse di vedere le
ascensioni e le discese degli spiriti umani nell’aere circostante,
non è in somma che Filone non fosse interprete fedele, ancorchè
alla lettera interpretato, delle credenze almeno popolari degli avi
nostri.—Però eran tra i due popoli, tralle due mitologie una
differenza essenziale. Pei Pagani era l’aere seggio delle anime
indistintamente, fossero esse buone o ree uscite da questa vita.
Pei nostri, per l’Aari, per i cabbalisti, egli è seggio soltanto di
quegli spiriti che la sorte balestra errabondi e incerti negli spazzi
infiniti, indegni del cielo per che non l’han meritato, indegni
ancora dell’inferno e de’ demonj che vi soggiornano per che
troppa onoranza avrian d’elli. Io vorrei che tutto comprendeste il
poetico magistero dei teologi nostri ed insieme la profondità
filosofica che vi si acchiude: prova, se pur altra ne occorresse, che
la poesia non è che una filosofia potenziale e implicata, come la
vera filosofia non è che poesia esplicita ed attuale, ed altra
differenza non correndo tra esse se non quella che corre fra il
pensiero intuitivo e il pensiero riflesso.—Chi non vedesse di
questi pensieri e teorie cabbalistiche che la corteccia, chi non
risalisse ai principj che dominano tutta la scienza, altro non si
vedrebbe che vaghe sì e piacevoli finzioni in cui il cielo, l’aria e
l’inferno sono designati qual triplice seggio delle anime beate,
sospese, e di quelle penanti: ma per poco che si risalga ai principj,
qual metamorfosi! Fra i quali, principio capitalissimo per l’ordine
morale cosmologico, provvidenziale, egli è quello che ogni cosa
terrena dice copia, ombra, riflesso di una idea che vive eterna e
sta nella mente divina, principio che ammette anteriore e
superiore a questo mondo dei corpi, in Dio, cioè nell’assoluto,
nell’infinito, un mondo ideale che è la parola interna di Dio, il
Logos endiatetos di Filone, il piano architettonico,[366] il
prototipo celeste, il disegno infinito anzi la verace realità, l’essere
verace di cui le esistenze corporee non sono che ombre che si
proiettano dalla mente di Dio, che figure che passano come le
ombre degli astri che si proiettano nell’ecclisse come le vesti di
cui parla il Salmista, che i rami estremi del grand’albero della
creazione il quale ha le sue radici nell’intelletto divino nell’eterno
esemplare, vero Olam abbà, vero paradiso, vera beatitudine. Ora,
se rispetto al nostro pianeta, tre si distinguono principalissime
regioni; se vi ha la regione celeste dimora degli astri; se vi ha
l’aria intermedia, l’atmosfera che tramezza tra il cielo e la terra;
se vi ha, come è provato in Geologia, un fuoco centrale, un centro
incandescente che è il centro terreno perpetuamente in fusione, e
se, ricordatelo bene, il mondo fisico è esemplato sul modello
divino; se tutto ciò ch’esiste quaggiù ed ogni forma e relazione
delle esistenze tra loro, ed ogni stato terreno risponde a uno stato
celestiale supremo che lo ha generato, come l’originale crea la
copia; se è vero che non è che il pensiero di Dio estrinsecato,
come il pensiero di Dio non è che la creazione stessa
mentalizzata; se è vero che la internità del Cosmo è l’idea di Dio,
come la esternità dell’idea è il Cosmo, è la creazione; chi non
vede la efficacia, la verità del simbolo, quando tolsero a
significare lo stato dei Beati, il cielo o la regione suprema, lo
stato dei sospesi, l’aria intermedia, e quello dei riprovati
l’inferno, o come suona il vocabolo stesso, le regioni infere
ultime, fisicamente incandescenti, del nostro pianeta? Egli è
questo uno dei simboli che dovrebbe piuttosto, secondo Gioberti,
nomarsi Tecmirio, dappoichè fra il simbolo e la cosa
simboleggiata non corre solo una relazione e similitudine
arbitraria e puramente fantastica, ma una relazione intima, logica,
soprasensibile,[367] appunto come la relazione ch’esiste fra
l’originale e il ritratto.
Noi abbiamo gran parte esaurito di ciò che concerne la
psicologia degli Esseni, le credenze intorno l’anima umana, i suoi
rapporti con Dio, quelli che ha col corpo che veste quaggiù, la sua
essenza, la divisione delle sue forze, e infine il suo soggiorno. Io
vorrei potere porre compimento a questa parte della Dogmatica
degli Esseni, se non che l’ora breve mi fa protrarre ad altro giorno
lo studio di altri due punti non meno interessanti, la metempsicosi
e la resurrezione, secondo gli Esseni. I nuovi studj non faranno
che confermare l’antico nostro sistema d’identità essenico-
cabbalistica. Noi udiremo, come abbiamo udito sinora, l’eco
lontana delle dottrine cabbalistiche ripercuotersi a traverso dei
secoli, e giungere sino a noi che eravamo sinora assuefatti al
silenzio di quelle dottrine nei primi secoli dell’E. V. Quel sistema
che pareva non esistere in quell’antichità, si mostrerà per organo
degli Esseni non solo esistente, ma vivente e parlante, e tanto più
andremo persuasi col Frank, con il Munk, col Ritter, coi dotti
veramente nella questione imparziali, quanto antico sia quel
sistema teologico nel nostro popolo.

[368]
LEZIONE VENTESIMASESTA.

Prendendo noi a trattare della Dogmatica Essenica, e di questa


avendo anzitratto discorso di quella parte che si attiene alla
Psicologia ossia alle dottrine sull’anima, noi abbiamo, se ben vi
ricorda, due punti riservati alla odierna trattazione, e sono la
metempsicosi, vale a dire la trasmigrazione delle anime, e la
risurrezione dei corpi, quali furono intese e credute dalla società
degli Esseni. Io oso dire che se altro punto di contatto non fosse
tra Cabbalisti ed Esseni che la credenza alla metempsicosi, se
questo solo ci rimanesse documento dell’illustre sodalizio, egli
sarebbe già un gran passo compiuto in questa via d’identità
essenico-cabbalistica, in cui ci siamo impegnati. E pure nulla di
più provato per ciò che riguarda gli Esseni. I quali ossequiarono,
al dir di Filone, al dogma anzidetto quando discorrendo della
sorte divina che incogliere può agli spiriti immortali, parte
dissero, lasciare la vita terrena per mai più ritornarvi, parte
iteratamente vestire queste carni mortali, secondo una legge
providenziale diversamente dispone. Io farei opera interminabile
se qui dovessi il solo novero ricordare dei popoli illustri antichi e
moderni, di sistemi filosofici, di teorie eziandio socialistiche che
al dogma inchinarono della metempsicosi, e comecchè opera non
vana, ma utilissima e profonda sarebbe questa, ciononostante
rimarrommene per brevità, sì perchè[369] mestieri è pure che
entro i limiti di una storica esposizione mi circoscriva, sì perchè è
tale questo delicatissimo argomento, intorno a cui ogni ragione ne
comanda riserva. Ma io non posso da due cenni astenermi che
troppo degni mi sembrano invero di ricordanza. È il primo quella
bella conferma che dalla descrizione di Filone emerge, pel
concetto che degli Esseni offriva ai suoi lettori Flavio Giuseppe
quando li diceva simili, affini ai Pitagorici. Giuseppe, che io mi
sappia, non dice esplicito ciò che disse Filone; non assevera
formalmente la metempsicosi presso gli Esseni, ma dice solo
essere costoro i Pitagorici dell’ebraismo, come i Farisei ne dice
gli Stoici, e come i Sadducei seguaci egli dice di Epicuro. Ma
quanto è il suo dire eloquente! Poichè il nome solo dei Pitagorici
fa fede, se io non erro, a bastanza della presenza della
metempsicosi in seno agli Esseni, non essendo dogma a parer mio
per cui siano andati più distinti e famosi i Pitagorici, di quello
appunto della trasmigrazione delle anime. E se alcuno di ciò
dubitasse, ogni dubbio svanirebbe, ne son certo, dopo la lettura
del Ritter. Il quale è il solo, se io non sbaglio, fra gli storici della
filosofia che più proceda meticoloso, e secondo me, spesso
ingiusto per troppa esigenza nella critica dei testi, nella scelta dei
fonti, quasi interamente esautorando di ogni critico valore gli
scrittori tutti che per poco furono posteriori agli immediati
successori di Socrate; i quali pure sono, come ognun sa, le più
ricche e preziose miniere di storici ragguagli intorno le più
antiche scuole eziandio antisocratiche, qual fu per esempio quella
appunto italo-greca che si disse dei Pitagorici. E pure al Ritter
non bastò l’animo negare l’esistenza del dogma della
metempsicosi fra i Pitagorici; tanto sembrava a lui stesso
caratteristico della scuola, e tanto altresì a fortiori sembrar
doveva[370] al nostro Giuseppe che questo special distintivo della
scuola aveva, senza meno, presente quando diceva ai suoi lettori
pagani essere i nostri Esseni, i nostri Cabbalisti i Pitagorici
dell’ebraismo. L’altro punto che voglio toccare di volo, riguarda
più davvicino il dogma in se stesso, ed a cose ed a uomini si
riferisce a noi coetanei. Io non uscirò riguardo al dogma dalla
riserva che mi sono imposto: ma chi potrebbe al tutto trattenere le
parole quando il più imponente e vasto pensiero che capir possa
nella mente dell’uomo si vede ad una critica soggiacere frivola,
superficiale e buona appena per una finzione da romanzo? Ciò
che non posso tacere è lo strano spettacolo che mi si offerse non
ha guari nel Journal des Débats. In Parigi, nel secolo
decimonono, nel grande trambusto e commovimento di religioni,
di filosofia, di sistemi d’ogni maniera, si udì una voce che sorse a
rivendicare l’antico dogma della metempsicosi, e questa voce fu
del Martin, nell’opera che chiamava Cielo e Terra. Ma il Martin
doveva subire pena condegna al grave fallo. Nella terza pagina
del Débats ove si fanno le apoteosi e gli autodafè delle opere
nuove, un filosofo, uno dei guerrieri riservati per le grandi
occasioni, doveva fare del Martin e della opera sua adeguata
vendetta. Io vorrei potervi qui proporre le obiezioni colle quali si
pretese schiacciare l’opera del Martin, e giacchè le mille voci del
giornalismo recarono dovunque l’eco ripetuto della disputa
insorta, io non so chi ci tenga di mescere a quelle infinite voci
anco la nostra. Ma io nol farò, solo per non protrarne all’infinito
l’opera assunta. Questo solo dirò, che ciò che tornavami a vedere
più doloroso si è il nome che sottostava a quel lavoro di critica
filosofica. Io ebbi parecchie volte occasione di nominare il
Franck, e con quale stima e venerazione per me si facesse, ditelo
voi che ne foste le mille volte i testimoni.[371] Io credo e crederò
sempre l’opera del Frank sulla Kabbale ottimo servigio reso alla
scienza e alle credenze ebraiche, e Dio volesse che l’illustre
Luzzatto e consorti, anziché occuparsi a denigrarla, mirassero a
compirla, a perfezionarla. Ma se gli antichi dissero sed magis
amica veritas, io non posso questa volta trovare nè bello nè serio
l’officio dal signor Frank adempito. Non bello, perchè male
s’addice allo storico e apologista dei Cabbalisti, al discendente
degli Esseni, stendere l’atto d’accusa della metempsicosi; non
serio, perocchè non è difficile trionfalmente replicare alle
obiezioni ivi stesso suscitate dal Sig. Frank. Le quali, parte
consistono nelle antiche e più comuni confutazioni del dogma,
parte nuove ma tutt’altro che inoppugnabili. Ma questo ed altro
simile abbiamo detto trapassare in silenzio, ed al proposito nostro
ci atterremo. Solo piacemi ora toccare del secondo dogma in
questione: è il dogma della Risurrezione. Per non avere trovato
esplicitamente insegnata l’esistenza di questo dogma presso gli
Esseni, alcuni moderni critici specialmente imbevuti del genio
ipercritico dell’Allemagna lasciarono libero il freno al loro
congetturare a priori, e dalle idee che formavansi gli Esseni dei
rapporti primigeni dell’anima col corpo, crederono poter dedurre
la negazione del dogma resurrezionale in seno agli Esseni. Vi ha
in Parigi un giornale letterario che si è tolto l’assunto d’informare
la Francia dotta, religiosa, letteraria dei grandi lavori che
giornalmente s’imprendono, si compiono nella vicina Germania,
che per ciò appunto si noma Rivista Germanica e che per ciò
appunto dovrebbe ricercarsi e possedersi dovunque, che per
mancanza di rapporti più immediati, non è concesso attingere
direttamente alle vive e abbondanti fonti della scienza ed
erudizione germanica. Or bene; nel nono numero di quest’anno
istesso 1858,[372] trovai inserito un articolo di sommo interesse
per le nostre ricerche, e che all’autore Michel Nicolas, professore
di Teologia in Montauban, piacque d’intitolare Gli antecedenti
del Cristianesimo. In un articolo che si chiama degli antecedenti
del Cristianesimo, il nome degli Esseni non poteva non figurare
in luogo eminentissimo, come difatto vi figura; e molte delle
questioni da noi lambite, vi sono profondamente e
maestrevolmente trattate. Ma sia vaghezza di fare meno che è
possibile tributario il Cristianesimo della società degli Esseni; sia
non avere compreso le strettissime affinità tra gli Esseni ed i
Farisei; sia la mania di argomentare per vie insolite e non battute
trasandando i raziocinii più ovvii e più alla mano, fatto sta che
secondo Michel Nicolas gli Esseni non conobbero o negarono il
dogma risurrezionale. E perché così giudica il Nicolas? Perchè
egli crede incompatibile il principio della unione forzata col
corpo, col ritorno dell’anime a vivificare i corpi una volta
abbandonati, perchè egli crede il distacco da tutte le cose
corporee essere stato il perpetuo conato, e la perfezione ideale che
l’Essenato si proponeva senza pensare che le tendenze
anticorporee dell’anima a sè stessa lasciata, non montano nulla nè
agli ordini universali della Provvidenza di Dio, la quale può
volere la seconda e ultima volta come volle la prima,
quell’unione che non si compiva nè compirassi che a malgrado
dell’anima; senza pensare che il dogma risurrezionale implica per
sè stesso la rigenerazione, e per dirla tecnicamente la Palingenesi
dell’Universo, e quindi il ritorno alla purità primigenia di quella
carne che non è, secondo l’Ebraismo, rea per sè stessa ma che tal
divenne per un principio a lei esteriore; e quindi per ultimo
corollario che l’antipatia o antagonismo fra lo spirito e la materia
potrà e dovrà cessare allora, quando la primigenia[373] armonia
sarà ridonata, della quale furono preludii e quasi presentimenti
Mosè sul monte e soprattutto Elia, Elia che s’incielò vestendo
tuttavia carne mortale, per lo cui insigne privilegio io credo che
presegga alla culla dell’uomo come angiolo della creazione, ed
alla sua tomba come angiolo della resurrezione, quasi perpetuo
iniziatore e ierofante della vita mortale, identico al greco
Mercurio, all’Erme egiziano, al Sireo o Cane Celeste, guida e
conduttore delle anime. E, mirabile a dirsi, i Cabbalisti dierono il
cane per simbolo ad Elia e nel nome suo trovarono
aritmeticamente il nome Cheleb, ambedue sommando egualmente
cinquantadue, e prima di essi i Talmudisti muovendo
evidentemente dagli stessi principj dissero le grida gioiose e gli
scherzi dei cani annunziare Elia che entra in città. Ma io mi sento
trascinare senz’addarmene punto, da digressioni certo nè inutili
nè volgari, ma che troppo il libero corso arresterebbero dei nostri
studj. Noi dicevamo come a torto negasse agli Esseni il Nicolas il
dogma di risurrezione. E fortunatamente non siam soli a così
opinare. Il Nicolas stesso s’incarica d’informarcelo. Telle n’est
pas, egli dice, l’opinion de M. Hegenfield, qui dans un ouvrage
récent (e che si chiama l’Apocalittica ebraica) attribue aux
Esséniens la composition des Apocalypses Juives, ou du moins
les range parmi les Juifs qui s’occupèrent le plus des idées
apocalyptiques. Ora le apocalissi, le idee apocalittiche
importando per lor natura il supposto di un ciclo apocalittico, di
un cielo palingenesiaco, ossia di rigenerazione cosmica,
universale, egli è chiaro come gli autori delle apocalissi non
potevano disconoscere un dogma che tanto davvicino si attiene
alle loro teorie, anzi che n’è parte inseparabile, che vediamo
immancabilmente figurare in tutte le superstiti apocalissi, vuoi
spurie o legittime, quali sono, a mo’ di[374] esempio, il libro di
Daniel e l’apocalissi o rivelazione di Giovanni. Ma contro
l’opinione ricordata, e ch’è la nostra, potrebbe alcuno
argomentare; potrebbe dirsi: Filone e Giuseppe sono i soli o
almeno i principali storici dell’Essenato. Ora Giuseppe e Filone
quando favellano degli Esseni non parlano della Risurrezione,
non l’annoverano tra le loro credenze, non ne fanno parte del
sistema lor teologico, con qual diritto attribuirgliele, e come la
lacuna colmare di nostro arbitrio? Ma quanto labile
quest’obiezione! Se io volessi, per sovrabbondanza di prova, far
tesoro di argomenti, di repliche vittoriose, sareste voi piuttosto
stanchi d’udire, che non io di favellare. Potrei citare l’autorità del
medesimo Nicolas quando, in altro punto del suo lavoro mi porge
egli stesso le armi onde al nulla ridurre la forza della sua
negazione, quando misurando il grado di contezza che
dell’illustre istituto possedevano Giuseppe e Filone, dice del
primo: «Joseph, qui avait passé un an dans la société, n’avait pas
franchi le premier degré de Noviciat, et ne connaissait pas par
conséquent le fond de ses doctrines;» e del secondo aggiunge non
men categorico: «et Filon, comme Neander le fait remarquer, les
présente non tels qu’ils étaient en réalité, mais tels qu’il lui
convenait qu’elles fussent pour que les Grecs éclairés vissent
dans les Esséniens des modèles de sagesse pratique.» Il Nicolas
dice assai, dice anche troppo secondo me, nè io accetterei in tutta
la sua estensione il suo asserto se non colle più delicate restrizioni
e riserve. Ma finalmente che valore dopo queste parole può avere
il silenzio di Giuseppe, di Filone quando tacciono della
Risurrezione, perchè veramente di silenzio si tratta anziché di
esplicita e formal negazione? E quante cause non possono avere
questo silenzio cagionato, anche allora che gli Esseni avessero
ossequiato, come hanno a[375] parer mio veramente ossequiato, al
principio di Risurrezione. Può esserci stata ignoranza in Giuseppe
e Filone, come il Nicolas istesso ci autorizza a supporlo,
comecchè poco invero io inclinerei ad ammetterla trattandosi
specialmente di dogma popolare ed esoterico anziché di
insegnamento acroamatico.—Può essere stato studio, desio
sincero di non urtare violentemente i pregiudizj pagani ai quali
nulla più tornava assurdo e mostruoso ad udirsi che il
risorgimento dei morti a vita eterna, testimone il riso, lo scandalo
che suscitarono nel mondo pagano le prime predicazioni del
Cristianesimo, quando annunziarono Cristo risorto dai morti, e
primogenito, come gli Apostoli dissero, del Regno futuro, e se
non temessi di riuscire troppo diffuso, non mi sarebbe difficile
recare in mezzo prove ed esempj di silenzii discreti, di opportune
varianti, di calcolate infedeltà, concesse, ammesse, usate in grazia
appunto dell’opinion dominante di cui, per non dire di altri, fu
cospicuo e manifesto esempio, ed è tuttavia, la traduzione dei
Settanta.—Ma le cose anzidette, che molto han pur di probabile,
del verosimile, debbono cedere il luogo al provato ed al vero, alla
ragione che io credo solo storica, solo reale, che può essere stata
coadiuvata sì dalle altre citate, ma che sarebbe egualmente vera,
decisiva, perentoria, quando pure fosse sola. Ed è questa che
Giuseppe principalmente ed anche Filone, quando parlano degli
Esseni, quando dei Sadducei, Farisei ed altre sètte dell’Ebraismo,
solo quelle cose ricordano che distinguono la setta in discorso,
dal comune dell’Ebraismo, solo quella parte pongono in luce
della sua fisonomia, che discorda dalle generali fattezze
dell’Ebraismo; quello in somma che hanno di speciale, di
esclusivo. E poi, chi volesse con un sol fatto spogliare di ogni
valore il silenzio di Giuseppe e Filone, chi volesse sin dalle
barbe[376] sradicare la negata resurrezione degli Esseni,
basterebbe citare i Farisei, ai quali non è nessuno che negar possa
il dogma della risurrezione, tanto vanno colmi i loro libri di
espliciti insegnamenti di questo dogma. E pure, guardate
Giuseppe. Egli parla a lungo dei Farisei, come parla degli Esseni,
dei Sadducei; ne narra i costumi, le credenze, le somiglianze colle
scuole analoghe del Paganesimo, ma nè un sol cenno nè un sol
motto avviene che dalla penna gli sfugge intorno il dogma in
discorso. Per certo questo silenzio non è a caso, sia che tacere
abbia voluto ai Pagani un dogma che destato avrebbe il riso e lo
scherno dei loro filosofi, sia, come dissi poc’anzi, che di quelle
cose soltanto abbia preso a favellare che eran subbietto di
controversia, tacendo delle altre generalmente consentite; sia
infine ambedue le ragioni anzidette, fatto è che il silenzio di
Giuseppe nulla prova riguardo ai Farisei, e nulla egualmente
conclude rapporto agli Esseni, i quali come tutti gli Ebrei, e forse
più di tutti gli Ebrei, diedero, come fecero i Cabbalisti, luogo
eminente al dogma resurrezionale. Che se a tutte le ragioni finora
discorse aggiungete il silenzio del Talmud, che nel mentre narra
le dispute dai Dottori sostenute contro i settarj d’ogni maniera in
favore di questo dogma, non è mai che tra essi faccia menzione
dei nostri Esseni; se aggiungete il dogma della metempsicosi che,
per chi bene lo intende, suppone qual ultimo suo corollario la
immanente ultima e definitiva unione delle due nature; se pensate
a certi fatti e credenze generali dell’Ebraismo che gli Esseni non
potevano ricusare sendo esse il fondo e il patrimonio comune
dell’Ebraismo, e che menano difilati, per poco che vogliamo
essere logici, al dogma in discorso; se pensate, a mo’ di esempio,
ad Adamo, creato in principio immortale, a Henoh di cui si tace,
[377] anzi si nega fino a un certo segno la morte, ad Elia rapito in
corpo ed anima, nella vita celeste, ai singoli fatti dalla Bibbia
narrati, di uomini da morte a vita risuscitati, a Mosè che disse:
Ani amit va-ahaié, ad Anna che cantò: Morid sceol vaiaal, che
cala nel sepolcro e ne riscuote i caduti, a Isaia che poetò: Ihiù
meteha ec. a Ezechiele che profetò: Inneni poteah et Kibrotehem,
per non dire di Daniel, che una critica troppo ardita potrebbe dire
sconosciuto o non ammesso dai nostri Esseni, e che è il profeta
della risurrezione per eccellenza. Se pensate a tutti i fatti e alle
credenze narrate, chiaro vedrete come troppo precipitosa sentenza
abbia proferito il Nicolas, quando volle la Risurrezione ignota,
negata dall’Essenato e come per esso e per chi opina con lui
potrebbe dirsi con Petrarca:
Ben fa chiunque impara sino al fine.

[378]
LEZIONE VENTESIMASETTIMA.

Se degli Esseni abbiamo studiato sinora ciò ch’insegnarono,


rapporto all’anima, alla sua natura, ai suoi destini, parmi questo
luogo conveniente di studiare altresì ciò che insegnarono delle
straordinarie manifestazioni delle facoltà psicologiche nelle
predizioni, nelle profezie di cui andarono gli Esseni celebri per il
mondo. Giacchè narra la storia parecchi e famosissimi casi, in cui
gli Esseni annunziarono da lungi un avvenire, che non mancò
giammai, dice Giuseppe, di avverarsi.—Si avverò, dice Flavio nel
decimoterzo delle Antichità, quando Giuda, Essena di nazione,
per esprimermi com’esso s’esprime, predisse la morte d’Ircano
nella torre di Stratone; e tanto superlativo si formava concetto del
medesimo Giuda, che non teme Flavio di aggiungere, per valermi
della traduzione francese di Arnauld d’Andelby: que ses
prédictions ne manquaient jamais de se trouver véritables.—Si
avverò, oltre altri casi moltissimi narrati da Flavio, in quello
veramente memorabile d’Erode il Grande, quando un Essena per
nome Menahem che menava, dice Flavio, una vita sì virtuosa che
lodato era da ognuno e che aveva da Dio ricevuto il dono di
profezia, vedendo Erode ancor fanciullo studiare insieme coi
bambini dell’età sua, gli disse che avrebbe un giorno regnato
sopra gli Ebrei. Quando Erode inalzato al trono si vide al colmo
della prosperità,[379] ricordossi di Menachem e delle sue
predizioni, e chiamatolo presso di sè, trattò da quind’innanzi con
segnalato favore tutti gli Esseni. Sono queste parole pressochè
testuali di Flavio Giuseppe, nelle quali misi uno studio particolare
di fedeltà onde le conseguenze storiche dottrinali che ne
dedurremo, sieno sopra basi fondate, solide, incrollabili.—Questi
fatti provano, non è dubbio, come gli Esseni s’occupassero di
predizioni; e qual credito insigne godessero tra i lor coetanei
eziandio più illustri, di veridici vaticinatori delle cose avvenire.
Ma l’ultimo dei fatti narrati, l’episodio dello inalzamento di
Erode al trono di Giuda, prova inoltre due cose; prova quanto
ingiustamente sia stato sinora creduto tacersi affatto gli antichi
Dottori della società degli Esseni, dacchè, singolare a dirsi, al
fatto or’ora discorso si allude manifestamente nel Talmud, come
fra poco vedremo. E prova poi altra cosa. Prova quella identità
che non ho cessato un istante di proclamare tra gli Esseni ed il
Farisato, non altro essendo i primi, a parer mio, che la parte eletta
ed i teologi della scuola. Ora chi non vedrà e l’una e l’altra cosa
nel Talmud di Kaghigà? Ove descrivendo le prime primissime
origini delle controversie dei Farisei, e i primi tra i Dottori ad
erigersi tra essi antagonisti, narra qual prima coppia ch’ebbe
discorde il sentire in fatto di religione, un Illel, l’antico il famoso
Illel, che il chiarissimo Luzzatto crede identico al Pollione di
Giuseppe, e per secondo non già Sciammai che non intervenne
che tardi, ma il nostro, lo storico, l’Essena Menachem che
precorse a Sciammai nel rabbinico patriarcato e che solo a
Sciammai cesse il luogo, l’ufficio, quando la sorte chiamollo
altrove, come vedremo. E perchè dico il talmudico Menachem
identico al nostro, all’Essena Menachem di cui parla Giuseppe?
Perchè è il Talmud stesso[380] che ce lo insegna, per chi bene lo
intenda, il quale, dopo aver detto che a Menachem sottentrò
nell’officio Sciammai, chiede a se stesso.—Che cosa avvenisse di
Menachem leehan iazà.—E Dio volesse che fosse la risposta
concorde. Ma no! Da Menachem al Talmud, o per dir meglio, ai
personaggi che qui interloquiscono nel Talmud, Abaje e Rabbà,
non solo più di tre secoli eran trascorsi, ma l’esilio, lo
spostamento delle accademie e dei centri studiosi avevano di tale
dubbiezza avviluppate le cose che immediatamente precessero la
grande catastrofe, che si vedevano sì, ma come gli obbietti si
veggono per l’aer caliginoso. Che volete pertanto? Abajè e Rabbà
rispondono sì, ma onninamente discordi, alla domanda del
Talmud. Dottori ambidue Babilonesi, nati, cresciuti lungi da
Palestina patria di Menachem, ognuno di essi narra le cose tali
quali le aveva udite per avventura da una tradizione discorde. Per
Abaje, Menachem uscì letarbut rahà, frase talmudica che vale
quanto apostatare od uscire dal grembo della ebraica ortodossia.
—Per Rabbà invece se Menachem non è più tra i Dottori
annoverato, egli è perchè (notate prezioso ricordo!) fu assunto al
servigio e ministero del Re, il quale come ora vedremo non è, nè
può essere altri se non Erode il Grande.—Ora di fronte al dubitar
del Talmud chi oserà asserire che le cose avvenissero come noi le
dicemmo avvenute? Quando due opinioni tenzonano, come
vediamo, con egual forza, chi ci autorizza a stare piuttosto alla
seconda che non alla prima, e soscrivere alla versione favorevole
di Rabbà, piuttosto che a quella a noi ostile di Abaje?—Ah! il
perchè è facile a dirsi, e voi uditolo, spero, mi darete ragione. Due
sono gli argomenti capitalissimi che ci persuadono vera,
preponderante la tradizione di Rabbà. È il primo un principio che
corre comune e divulgato assai tra gli studiosi[381] del Talmud,
che ovunque cioè una controversia si verifichi tra Abajè e Rabbà,
egli è al secondo che dobbiamo attenerci, tranne pochi singoli
casi nominativamente eccettuati dallo stesso Talmud. Che nelle
quistioni critiche storiche, anco dogmatiche, questo criterio non
abbia avuto sempre forza di legge, concedo anch’io volentieri, ma
con qual giustizia, con qual coerenza?—Certo con quella stessa
giustizia e coerenza che manomise nello studio del Talmud
tuttociò che non ha rapporto immediato colla pratica religiosa,
senza pensare che ove di un albero tu trascuri le radici, il tronco, i
rami ed anco le foglie, è vana opera occuparsi del frutto che non
crescerà mai, o crescerà misero e tristanzuolo, quale lo fece il mal
governo dello stupido cultore.
A noi però che recammo sempre nell’animo la sintesi, la
reintegrazione della scienza ebraica in tutte le svariatissime sue
parti, teoriche e pratiche, non è lecito adottare criterio diverso nel
rito da quello che nella storia, nel domma, nell’esegesi adottiamo,
e in queste come in quelle diciamo e continueremo a dire Ilheta
che rabà. E questo è argomento che abbastanza identifica il
Menachem del Talmud coll’Essena Menachem, di cui Flavio
discorre. Ma qual’è il secondo? Il secondo è lo stesso Talmud che
ce lo fornisce, ed è tale, che ove pure si volesse niun valore
concedere alla massima già esposta che dà ragione a Rabbà
contro Abajè, basterebbe per se solo a far prevalere l’opinione del
primo contro il dir del secondo. E perchèé? Perchè reca un
inaspettato ed autorevolissimo ausilio alla tradizione del primo, in
un’antica Barraità, che oltre essere opera di Dottori Palestinesi
conterranei di Menachem, è di gran lunga più antica del Talmud e
dei suoi autori, e quindi maggiormente si avvicina all’epoca di
Menachem, e più veridica e sincera ne ragguaglia dell’avvenuto.
La Barraità o[382] testo misnico si pronunzia a dirittura in favor di
Rabbà, e quella ragione assegna al ritiro di Menachem che Rabbà
assegnava, vale a dire i nuovi offici che fu chiamato a sostenere
in corte di un Re che non può essere altro che Erode, TANA
nammè akì iazà Menahem laabodat ammelech. Non basta. La
Barraità ci conserva memoria di una circostanza taciuta dallo
stesso Rabbà, e che più compiutamente risponde alla narrazione
di Giuseppe. Certo voi non lo avete obbliato. Oltre i favori
personali che asseguì Menachem, narra Giuseppe il credito,
l’estimazione in cui salirono, la mercè sua, gli Esseni: e come
(sono sue parole) da indi innanzi trattasse con segnalati favori i
nostri Esseni. Or bene, la Barraità pare che faccia eco alle parole
di Flavio, e dopo aver detto come udiste di Menachem che passò
al servigio del Re, queste parole aggiunge memorandissime che a
voi raccomando: E con esso passarono allo stesso servigio
ottanta coppie di giovani dottori in serico ammanto—segno della
nuova dignità a cui furono assunti, secondo era stile degli antichi
principati rivestire i nuovi eletti di abiti distinti, secondo si legge
in Assuero e in Faraone. Ma questi due argomenti, per quanto
grandi, non sono i soli: ve ne sono altri due che grandemente
favoriscono il nostro sistema: l’uno è la concordanza cronologica
dei due fatti, l’altro è la produzione di un’autorità tanto più
concludente quanto più inconsapevole e spontanea. Che cosa è la
prova cronologica? È quella che dimostra come il Menachem, di
cui parla il Talmud, visse appunto in quel tempo in cui visse, al
dir di Giuseppe, il Menachem degli Esseni, il favorito di Erode,
rendendo tanto più probabile la loro identità, quanto più strano
sarebbe ammettere al tempo istesso due Menachem ambo dottori,
ambo favoriti da Erode, ambo seguiti da lunga schiera di Dottori
favoriti[383] com’essi. Or bene: noi abbiamo un punto fisso di
partenza nel calcolo cronologico, ed è la data dell’esistenza d’Illel
collega di Menachem. Il quale visse e sostenne il patriarcato
cento anni prima della distruzione del tempio, nel quale tempo
deve aver vissuto e figurato lo stesso Menachem che gli fu
collega nel dottorato, anzi capo della scuola avversaria, alla cui
testa si pose, dopo di esso Menachem, il più famoso Sciammài.
Questo punto dimostrato costante, che cosa ci resta a fare per
compire la dimostrazione e provare sincronici i due Menachem?
Dobbiamo, se non erro, provare che il Menachem di Giuseppe
visse, fiorì giusto cento anni prima dello esilio. Or bene: aprite
Giuseppe, e dove è menzione del fatto della predizione di
Menachem troverete notato dall’Arnauld d’Andelby essere ciò
appunto avvenuto nell’anno 40 prima dell’era volgare, la quale
avendo preceduto circa un 60 anni la distruzione del tempio,
torna l’istesso che dire cento anni prima della distruzione, ch’è
quanto dire quella stessa data in cui, secondo il Talmud, veduto
abbiamo esistere, fiorire il talmudico Menachem.
Ci resta ora ad allegare l’autorità la quale indirettamente, e
per ciò stesso tanto più concludentemente, depone in favor della
identità dei due Menachem. Io non so se ne abbiate contezza. Ma
oltre le opere di Giuseppe in greco dettate, e che furono tradotte,
si può dire, in quasi tutte le lingue dell’Europa, ve ne ha un’altra
in puro ebraico distesa, che mostra di appartenere allo stesso
autore, ma della cui autenticità molti dubbj sorsero e durano
tuttavia. Or bene in quest’opera ebraica, nel Josifon, al cap. 55,
dove si parla della restaurazione del Tempio per opera di Erode,
narra pure la famosa predizione del regno fatta da Menachem ad
Erode ancor fanciullo.—Ma come la narra? Certo come la
narrava[384] l’antico Giuseppe, tranne solo una frase che nel
primo non esiste e ch’è per noi il più luminoso attestato della
identità dei due Menachem. E là, ove nominando per la prima
volta il profeta Menachem, oltre porlo nel novero dei hasidim e
hahamim, cenno, come vedete, di gran rilievo, lo qualifica a
dirittura collega di Sciammai, lo che è appunto ciò che andiamo
cercando, null’altro potendo essere un Menachem collega di
Sciammai se non quello che appunto come collega di Sciammai è
qualificato dai Talmudisti. Se poi a tutto questo aggiungete che
Erode fu, secondo il Josifon, secondo il Talmud, e secondo il
greco Giuseppe intimo dei Farisei, sotto le cui bandiere acquistò e
conservò la corona; che fu stile generale, costante dei Dottori
farisei l’annunziare da lungi i grandi destini, specialmente ai
fanciulli come Gamaliel a Giosuè ancor fanciullo prigioniero in
Roma, come Rabba di cui leggesi in Berahot ai due discepoli che
aveva commensali; che più particolarmente si occuparono di
vaticinare il regno ai futuri monarchi, come Rabban Joanan
Benzaccai a Vespasiano ed a Tito, come Ribbi Achiba a
Barcohaba, l’Arminio di Palestina, se pensate che tutti i Rabbini
posteriori come il Seder Adorot che lessero nel Josifon il fatto di
Menachem, l’intesero qual personaggio identico di fatti al
Talmudico Menachem; se tutto questo aggiungete, avrete un
fascio di prove così stretto, così aderente, che insieme al racconto
talmudico, rispondente al racconto flaviano, insieme alla
concordanza cronologica dei due avvenimenti, forma tale
congerie di fatti così cospicui da costituire una vera e propria
dimostrazione evidente, da provare soprattutto questi due fatti
capitalissimi: la conoscenza che ebbero degli Esseni i Dottori
nostri contro la sentenza comunemente adottata, e la identità
appunto di Esseni e di Farisei, dappoichè questi ultimi dei
primi[385] favellano in guisa nel loro Talmud, come se proprj
fossero del Farisato gli Esseni, propria la loro storia; proprie le
glorie, e proprio tutto ciò che ad essi si attiene.
E poichè abbiamo preso a narrare le loro predizioni, mestieri è
pure che d’altro qui si favelli che merita pure tra quelle narrate
luogo cospicuo; e forse pegli autorevoli deposti, merita anzi sovra
tutte il primato. Voi avete udito Giuseppe narrare delle esseniche
predizioni. Or bene: Giuseppe, siccome quello che visse un anno
nella società degli Esseni, doveva pure pretendere al Profetismo,
e difatti Giuseppe apertamente v’aspira. Che dico? Narra egli
stesso nel 3º libro delle Guerre Giudaiche come, stretto d’assedio
in Jotapat, predisse agli abitanti che la città cadrebbe dopo 47
giorni di resistenza in poter dei Romani, e ch’egli stesso sarebbe
caduto vivo in poter loro. Non basta.—Ciò che il Talmud narra di
R. Johanan Ben Zaccai, ciò che udiste poc’anzi da questo Dottore
qual presagio di prossimo regno a Vespasiano, ed a Tito,
Giuseppe di sè stesso lo narra. Racconta Giuseppe come condotto
nel campo nemico, e presentato a Vespasiano, questi deliberasse
inviarlo a Nerone allora imperante; come a sua notizia pervenuto
l’intendimento di Vespasiano, alla presenza di Tito e di altri due
testimoni lo ammonisse dicendo, lasciasse pure d’inviarlo a
Roma perciocchè Nerone ed i suoi successori poco avrebbero
ancora da vivere; sapesse che egli solo dovrebbe ormai
riguardarsi qual Cesare, giacchè egli, Vespasiano, e dopo di esso
Tito suo figlio sarebbero saliti sul trono. Mentiva nel racconto
Giuseppe, e fama volle usurpare di profeta agli occhi dei posteri?
Così sentenzierebbe una critica superficiale, ma quanto
ingiustamente! Poichè se il caso favorisse il temerario annunzio
del prigioniero, o piuttosto, le potenze recondite dell’Essena,
dell’iniziato, si risvegliassero[386] all’occasione, questo non
saprei accertare; ma che Giuseppe non abbia peccato per frode,
ella è tal cosa che sfida ogni dubbio in contrario. E sapete chi me
lo dice? I contemporanei o poco posteriori a Giuseppe, i Pagani
nemici del nome ebraico, quelli che raccolsero di bocca alla fama
il prodigioso vaticinio, come correva allor rumoroso sulle labbra
di tutti; egli è Dione Cassio nel libro 66; egli è Svetonio nella vita
di Vespasiano al 12º libro; e se Tacito non si può annoverare qual
testimone della profezia di Giuseppe, si può qual autorità allegare
di una predizione almeno congenere. Ella è quella di cui favella
nel 2º libro delle Storie, parag. 78. Sorge, egli dice, tra la Giudea
e la Siria un monte che si chiama Carmelo, il Dio che in quel
luogo si adora reca il nome stesso (qui Tacito sentenzia a
sproposito). Nulla statua di quel Dio e niun tempio: un altare
solo si erge e il rispetto lo circonda. Vespasiano vi andò e
sacrificò. E mentre volgeva nella mente i suoi piani, il sacerdote,
consultate le viscere dell’animale, gli disse: Qualunque sia il
pensiero che ti preoccupa sappi che ti attendono un vasto
palagio, senza limiti possedimento, e lo imperio di genti
innumerevoli. Ecco ciò che Tacito racconta. E certo qui di
Giuseppe non è memoria; ma se tutte le circostanze valutate del
racconto di Tacito; se fate la parte dell’ignoranza nel Dio
Carmelo, che non ha mai esistito; la parte del paganesimo nelle
consultate viscere dell’animale Beto, sconosciuto e riservato
nell’Ebraismo; se cernete infine la narrazione tacitiana di quanto
v’ha d’inesatto, d’eterogeneo, rimarrà questo fatto per sè stesso
parlante, la predizione del regno a Vespasiano annunziata in
Giudea da un Ebreo, da un sacerdote. Il quale fatto posto a
confronto colla predizione attribuita dal Talmud a R. Johanan
Ben Zaccai, con quella che a sè stesso[387] attribuisce Giuseppe,
verrà con essi fuso, assimilato e tutt’insieme faranno un solo
fatto, un sol vaticinio, le cui varianti sono in Giuseppe, in Tacito,
e nel Talmud, in cui ardua opera sarebbe quella parte d’onore
assegnare ad ognuno, che per diritto gli spetta.
Checchè ne sia, gli Esseni si occupavano di predizioni. Ma gli
Esseni vantano un testimone di gran lunga più illustre, un pagano
dottissimo, un celebre filosofo, il quale conferma le avverate
predizioni degli Esseni, e che interdice a chi glie ne pigliasse
vaghezza, di prendere non troppo sul serio le esseniche
predizioni. E questi è Porfirio, uno dei più grandi neoplatonici
che siano sorti nei primi secoli del Cristianesimo. Il quale al dire
di Giulio Simon nella Storia delle Scuole di Alessandria, non solo
conobbe gli Esseni e le loro predizioni, ma le confessò veridiche
e confermate dal fatto. Confessione di gran rilievo, e per la
religione e per l’ingegno non comune del filosofo pagano, il
quale meritò che nel Trionfo d’Amore di esso poetasse il Petrarca:
Porfirio, che d’acuti sillogismi
Empiè la dialettica faretra.

[388]
LEZIONE VENTESIMOTTAVA.

La storia delle predizioni degli Esseni ci ha occupato nella


passata lezione, qual corollario della loro antropologia, qual parte
della loro dogmatica. Ma di queste predizioni noi non abbiamo
fatto che la storia reale esteriore, particolare, di alcuni singoli
fatti. Ci manca saperne la teoria, la forma con cui procedevano gli
individui che se ne occupavano a preferenza. La forma prediletta,
peculiare agli Esseni, era l’interpretazione dei sogni. E chi ne
ammonisce è Flavio Giuseppe nel 17º delle Antichità, cap. 15,
dove narra di Archelao che esposto il suo sogno ad un’Essena, ne
ode la predizione della sua futura caduta la quale avvenne
veramente com’era stata dall’Essena vaticinata, sendo stato
all’epoca prefissa relegato da Cesare in Vienna città delle Gallie.
E non solo gli altrui sogni toglievano a subbietto delle loro
predizioni, ma di una spezie di rivelazione fornivano altresì nei
loro sogni medesimi.—Alla quale e’ pare che si preparassero con
le diurne meditazioni, se prestiam fede a certe parole che sul
proposito ne trasmise Giuseppe. Pensano, egli dice, a Dio del
continuo, attalchè nei loro sogni altro nella fantasia non sorge
loro che le bellezze e le eccellenze delle perfezioni divine, e bene
spesso dormendo fanno discorsi mirabili di questa divina
filosofia. Queste sono testualissime[389] parole di Giuseppe. E
benché siamo nella regione dei sogni, si tratta di cose seriissime
più che non credesi, e da fare molto a lungo vegliare. Noi non
solleveremo le gran questioni psicologiche, religiose e
fisiologiche altresì, che emergono naturalissime da quel curioso
fenomeno che si chiama il sogno. Il volgo che crede ovvio,
semplicissimo tuttochè non comprende, crede il sogno uno stato,
una condizione fisico-morale, spiegabilissimi. Ma per i dotti! I
dotti sieno essi filosofi, moralisti, medici, fisiologi, non hanno
creduto il fatto così semplice come il volgo s’immagina. I loro
libri, le congetture, i dispareri, e specialmente la grandissima
questione si può dire odierna del sonno magnetico e quella più
antica dei sonnambuli, fanno fede come qualche cosa vi sia là
entro che resta tuttavia indecifrato. Ma queste cose basti
accennare, e come da lontano additare, senza più oltre
soffermarvici che l’argomento non comporta. Piuttosto diremo
dei sistemi delle scuole, che credettero i sogni capaci, suscettibili
d’interpretazione, fra le quali quella figura per prima che fu tanto
meritamente da Giuseppe equiparata all’istituto degli Esseni, la
scuola dei Pitagorici. E chi ce lo insegna è tale che già altre volte
abbiamo veduto anche troppo circospetto nella scelta e nella
critica delle memorie antiche, è il Ritter nella Storia della
filosofia. I Pitagorici dunque anche per questo verso porgono la
mano ai nostri Esseni, e nuovo punto ci offrono di contatto col
grand’Istituto nella interpretazione dei sogni. E se io dovessi di
tutto discorrere di quei tempj, di quegli oracoli, che in Grecia
tutta, e fuora eziandio, girono famosi per sogni, che colà si
procuravano, s’interpretavano, io farei opera interminabile
benchè grandemente curiosa e istruttiva. Piuttosto è da vedersi il
Clavier nella Memoria letta all’Accademia di Francia sugli
oracoli antichi;[390] e se non fosse troppa temerità per me
l’esprimere un voto il quale è forse a quest’ora adempito, io
vorrei che qualche scienziato, appo il quale non sono in conto di
fole le prodigiose indicazioni di alcuni malati sottoposti al sonno
magnetico, studiasse i rapporti di questi sogni, di queste cure
istintive, e quasi direi autoterapie, colle famose cure di Epidauro,
ove i malati dopo diuturne preparazioni ricevevano la notte in
sogno i presagi e le indicazioni dell’esito finale dei loro morbi.
Ma gli Esseni non hanno solamente l’antichità a complice del
loro sistema di predizione. I tempi moderni ci somministrano
esempj grandi, cospicui, vuoi di uomini gravi che non del tutto
rifiutarono le indicazioni dei sogni, vuoi di fatti storici
straordinarj che molto dànno da pensare sulla natura e sul valore
dei sogni. Fra i primi non citerò Menasceben Israel che un
capitolo dottissimo consacrava dell’opera sua alla materia dei
sogni, e solo nol citerò perchè sendo egli alla perfine Teologo e
Rabbino, meglio alle sacre autorità appartiene che alle profane,
delle quali soltanto per adesso ci occupiamo. Nemmeno citerò
Galeno che narra di un uomo, al quale parevagli in sogno avere
una coscia di pietra e che divenne dopo pochi dì paralitico.—
Nemmeno dirò di Plinio il quale riferisce di Cornelio Rufo, a cui
avvenne di credere in sogno d’aver la vista perduta, e che si destò
cieco per amaurosi; nemmen parlerò di Corrado Gemed, che
sogna d’essere morso in seno da un serpente, e che gli nasce in
fatti sotto l’ascella un bubbone pestilenziale che lo rapisce in
cinque giorni di vita; e di questi ed altri simili tacerò, perchè
sanno sempre alcun poco d’antico e perciò stesso per i più sanno
ancora di incredibile, di stravagante. Ma quanto più singolare a
vedersi non è l’ossequio di alcuni dei più illustri moderni! Fra i
quali riluce per splendore d’animo e di[391] mente Beniamino
Franklin di cui così parla il materialista Cabanis. «Io conobbi,
egli dice, un uomo savissimo e istruitissimo, l’illustre Beniamino
Franklin, che credeva essere stato più volte ammonito in sogno
degli affari che l’occupavano. La sua testa forte e d’altronde
libera di pregiudizj, non aveva potuto premunirsi da ogni idea
superstiziosa quanto a questi interni avvertimenti.» Così sentenzia
Cabanis. E pur, vedete curiosissimo scherzo di fortuna, o
piuttosto grave monitorio di provvidenza! Era riserbato al corifeo
del materialismo moderno, a Voltaire, all’uomo che involse ogni
cosa in un riso universale, il porgere, e porgere, lo che più monta,
nella sua stessa persona luminoso attestato della efficacia o
almeno della tuttor enigmatica natura dei sogni. Tutti sanno come
opera sua sia la Enriade; ma non tutti sanno un curioso episodio
nella genesi di quel Poema. Vi è un capitolo che è opera sì di
Voltaire, ma non già di Voltaire desto, ma di Voltaire dormiente.
Anzi di Voltaire che sogna, e nel sogno prosegue l’opera
incominciata nel giorno, e destato si trova più ricco di un capitolo
nella tessitura di quel Poema. Non si legge che Voltaire abbia
preso da indi innanzi a rider meno dei sogni; la sua filosofia non
era ancora passata allo stato di pregiudizio, perch’egli come degli
altrui pregiudizj se ne facesse irrisore: ma si legge bensì di un
altro, di un vivente, che io non metto certo a paro di Voltaire,
perchè troppo lo amo e rispetto, ma che pure non ci offre a veder
bene meno sensibile anomalia. E quando dico anomalia per
Luzzatto il prestar fede ai sogni, non è certo per quei sogni storici
straordinarj, profetici in cui Dio parla all’uomo che sogna, come
parlar può e parla difatti all’uomo ch’è desto; ognuno che creda
alla rivelazione, che creda alla Bibbia, non può senza incoerenza,
senza empietà, discredere a questa[392] specie di sogni; ma dico
dei sogni in generale, di quelli che tutti possiam conseguire, della
natura loro semiprofetica, del valore loro proprio naturalissimo, e
non solo qual mezzo, qual veicolo d’ispirazione. Le quali cose, se
non ammesse, quasi consentite dal nostro Luzzatto provano due
cose ad un tempo, che le idee Cabbalistiche quando non entrano
in certi spiriti per la gran porta, vi entrano per certi calli obliqui
ed oscuri pertugi, e quasi non dissi di contrabbando.
Che se dalle autorità e dagli esempi scientifici trapassiamo
agli esempi, ai precedenti, ed alle autorità bibliche talmudiche
cabbalistiche, vedremo come sempre gli Esseni radicarsi nella più
venerata e autorevole antichità ebraica. Io stimo soverchia opera
citare gli esempi e le autorità della Bibbia, tanto mi sembrano
ovvii e conosciuti. Il sogno non solo lo vediamo figurare in fatto
quale suprema manifestazione dei divini voleri, e presagi
dell’avvenire in Giacobbe, in Giuseppe, in Faraone, ma egli è
altresì, qual grado infimo sì, ma pur legittimo annoverato di
profezia, ogni qual volta della gerarchia si favella dei veggenti, e
della profetica gradazione; testimone il verso ove Dio parlando ad
Aronne e Miriam, chiama a fruire delle sue ispirazioni chiunque
per visione o per sogno si sentisse capace di aspirarvi; testimone
Saulle, che consultò invano il Signore, dice la Bibbia, per tutte le
vie per le quali è consultabile, per la via dei sogni, della profezia
e dell’oracolo degli Urim, testimone Giobbe ove qual mezzo di
cui Dio si vale per svelare agli uomini le sue intenzioni, parla dei
sogni e delle visioni notturne, e di questi tratti chi volesse nella
Bibbia raccôrre, ne troverebbe più ch’io non dica espliciti e
numerosi. E il Talmud in questo come in altre cose procede alla
Bibbia conforme. Non solo il carattere semiprofetico del sogno vi
è confessato halom ehad miscisceni bannebuà; non solo[393] il
rimanere per sette giorni senza sognare vi è chiarito qual indizio
di anima non buona; non solo un lungo novero vi è tessuto delle
cose che indicano in sogno lieto o sinistro presagio; non solo i
sogni vi si dicono subordinati alla loro interpretazione, massima
incomprensibile se non si intende alla luce della pratica essenica
che i sogni considerava qual esteriore incentivo, alla mente
ispirata dello interprete, non solo si narra de’ Cesari che ai Dottori
ricorrevano per la interpretazione dei sogni; non solo
mirabilmente conferma il deposto rabbinico una satira di
Giovenale, la VI se non erro, ove racconta degli sciocchi Romani
che la interpretazione dei sogni chiedevano agli Ebrei colà
dimoranti; non solo tutto questo, ma quello speciale carattere
eziandio da Giuseppe attribuito alle esseniche visioni quali
ispiratrici di discorsi e ragionamenti filosofici, dottrinali, rifulge
non meno nei sogni dei Farisei. Nei quali non è raro il vedervi
Dottori ammoniti a ritrattarsi di una interpretazione, a più esatta
formarsi l’idea di una impurità, a meglio comprendere la pratica
di un rito; e ciò che più fedelmente riproduce la fisonomia dei
sogni profetici dell’essenato, è quello che vediamo tra i cabbalisti
e tra quei Dottori eziandio che senza fare del misticismo precipuo
scopo dei loro studj, ne ammettono almeno la veracità e i titoli.
Singolar cosa ma pur verissima, oltre gli esempi non oscuri, non
scarsi che ne porge lo Zoar, di sogni istruttivi, dottrinali,
rivelatori, quali appunto furon quelli dei nostri Esseni, ella è una
pratica tra i cabbalisti e tra i loro aderenti, che meglio a capello
non potrebbe ritrarre la pratica degli Esseni.—Se qualche urgente
bisogno li spinge a consultare l’avvenire; non basta, se qualche
dubbio in capo gli tenzona intorno ad un subbietto vuoi
dogmatico, vuoi rituale, o in qualche siasi maniera religioso, ella
è una via autorizzata, accreditata in cui si[394] mettono
speranzosi, anzi fiduciosissimi nella bontà del responso, ed è
quella che dicesi sceelat halom.—Nel riposo dei loro sensi, nella
concentrazione delle forze loro psichiche, spirituali, eglino
credono l’anima capace di comprendere cose che nello stato di
veglia saria tornato loro duro a comprendere. E ciò che non è
meno singolare a notarsi egli è, come questa specie di responsi
siano stati disposti in iscritti e per le stampe eziandio pubblicati,
siccome fa fede, per non dire di altro, la edizione non ha guari
mandata fuori in Conisberga di un’antichissima compilazione di
tai consulti, e di cui informava il mondo israelitico, nel prezioso
suo giornale bibliografico Mazchir, il mio dotto amico Marco
Steischneider di Berlino.
Ma noi abbiamo detto, se non erro, abbastanza della forma
particolare che assumevano a preferenza le predizioni dei nostri
Esseni, la forma di sogni profetici: dobbiamo dire ora chi erano
coloro che nell’Essenato più credeansi capaci di tale straordinaria
irradiazione profetica. Giuseppe, il grande storico dell’Essenato,
quì pure soccorre all’uopo opportuno, e naturali e più consultati
interpreti dell’avvenire ci addita quei fanciulli che sino, egli dice,
dalla loro tenera età venivano alla profezia educati collo studiare
dei sacri libri dell’Essenato.—Voi l’udiste, sono i fanciulli al dire
di Giuseppe che rendono i responsi sulle cose avvenire in seno
agli Esseni, o per dir meglio ei sono i profeti tra gli Esseni, che
sino dalla loro fanciullezza si vanno al grande officio educando di
profetare. Se vaghi voi foste di pellegrina erudizione, se vi
piacesse nella esposizione nostra soprassedere, onde a popoli e a
religioni antichissime chiedere esempi e fatti, analoghi a quello
che vediamo tra i nostri Esseni, ci converrebbe fare in questo
punto lunghissima sosta, e tutte citare le istorie che i fanciulli ci
narrano, consultatissimi[395] nel mondo pagano, e ciò che sarebbe
più curioso ad udirsi, in seno eziandio del Cristianesimo. Se v’ha
scrittura che abbia tolto a insegnare exprofesso i vari modi di
consultare lo avvenire, egli è il Clavier che ebbi luogo di citarvi
altravolta. Se le sue pagine svolgerete, troverete copia più ch’io
non dico di fatti, di esempi, in cui erano i fanciulli quai veridici
oracoli, stimati e consultati eziandio delle cose avvenire. E
specialmente tra gli Egizi ed i Greci.—Ma ciò che più davvicino
s’attiene ai nostri Esseni, egli è la storia dell’ebraismo. La quale
nelle due sue grandissime epoche, Biblica e Rabbinica, non
scarsi, non oscuri ci offre esempi congeneri a quelli che udiste
nell’Essenato. Che i profeti sin da fanciulli si arrolassero nella
sacra milizia, che prendessero sino dalla più tenera età ad
esercitarsi nel sacro aringo di profezia, ella è cosa che emerge dai
sacri libri per poco che si consultino. Basta pensare ai Bene
annebiim, che a suono di musica sacra, concitatrice, magistrale
schiudevano il petto ai grandi pensieri, ai grandi affetti, scala e
prodromo di profezia; basta pensare a Samuello, votato dalla
madre sua appena trienne al servigio e al culto di Dio, che
ignorando ancora che ci fosse al mondo profezia, ispirazione,
ebbe in quella scena di una sublimità ed amabilità senza pari, il
primo assaggio di quella profetica elevazione che dovea
collocarlo a fianco di Mosè ed Aronne; pensare a Giosuè, che
tuttavia fanciullo, siccome io interpreto, già ministrava nel divin
culto; pensare a Giuseppe che ebbe sogni e visioni profetiche,
mentre inconsapevole del loro senso, andava ingenuamente
riferendoli a chi lo astiava; pensare ai Nazirei che si reclutavano
principalmente tra i giovanetti, e che non alieni procedevano,
siccome vedemmo altra volta, dal profetico officio, e soprattutto
pensare a un verso di Joele, ove presagendo i doni profetici
restituiti in Israel, augura i[396] figli nostri e le figlie e gli
impuberi stessi, ai gradi eccelsi, sublimati di profezia.
Ma l’epoca Rabbinica non meno feconda procede di analogie
e di esempj parlanti, che tanto più intima provano la parentela tra
Farisei ed Esseni.—Chi per poco volse lo sguardo al Talmud, già
comprende quello che io dico, già le citazioni previene, e già
corre colla mente alle legittime conseguenze. Non si potrebbe
tanto esigere di somigliante, d’identico tra Farisei ed Esseni, che
più la storia, che più il Talmud generoso non porga. Se il fanciullo
è proclamato stromento condegno di profezia dai nostri Esseni,
tale non meno è gridato dai dottori, dai talmudisti. Se gli Esseni i
fanciulli profeti consultavano a divinazione del futuro, ed essi
pure i Farisei li consultavano, dei quali infinite si narrano nel
Talmud le domande ai fanciulli rivolte, colla frase solita
sacramentale: Pesok li pesukih. E chi volesse riandare nel Talmud
tutti i singoli fatti che depongono della esistenza di tal costume,
opera farebbe lunga interminabile, tanto ne vanno gremite le
pagine di quella grande compilazione. Nè io il farò, troppo
standomi a cuore la speditezza di questa istoria. Solo,
ingenuamente ve lo confesso, vi ha un fatto nel Talmud
Babilonico che grave troppo sarebbemi sotto silenzio trapassare,
e di cui pertanto piacemi fare in questo luogo breve menzione.
Egli è là, ove si narra di alcuni fanciulli che sendo entrati secondo
il solito nella scuola, nell’accademia e tardando tuttavia a venire i
loro maestri, si dierono a favellare sull’alfabeto, sul nome, sulla
forma eziandio delle lettere ebraiche; a trovare cenni, allegorie,
moralità nella figura e nella posizione relativa delle lettere
nell’alfabeto, tralle quali non poche si leggono locuzioni,
sentenze che duro riesce, malgrado gli interpreti, tuttavia ad
intendere, e che a parer mio non altrove possono trovare
intelligenza adequata[397] che nel sistema e nella terminologia dei
cabbalisti. Or bene, se a prima giunta cotesti potessero parere non
altro, che felici o forse anco capricciosi trastulli, non così dopo
avere udito il maestro che sopravvenne. Il quale, presa ch’ebbe
contezza delle costoro combinazioni alfabetiche, non ebbe
scrupolo di sentenziare a dirittura, cose simili non essersi unqua
udite dai tempi di Giosuè figliuolo di Nun. Ei pare che noi
assistiamo ad un consesso, ad un esercizio di giovani Esseni, il
luogo sacro, la solitudine, l’abbandono di quei fanciullini, e
quindi lo spontaneo sbocciare delle loro idee, l’alfabeto, testo
della puerizia, tolto a materia, a incentivo di più serie
lucubrazioni, le parole glorificanti del maestro sopravvenuto; e
sopratutto la convenienza anch’oggi sensibilissima delle frasi,
delle imagini di quei parvoli colle frasi e colle imagini dei
cabbalisti, ci sono altrettante linee, espressioni, fattezze
riconoscibilissime della grande scuola dell’Essenato, ed altrettanti
diplomi di consanguineità tra Farisei ed Esseni, tra questi ed i
cabbalisti. I quali, e questo fia suggel ch’ogni uomo sganni,
ammisero, celebrarono nei loro annali fanciulli celebri,
straordinarj che verificarono nell’ordine religioso quei portenti
che le passate e le moderne età, videro non infrequenti nei
fanciulli, prodigiosi per ingegno prematuro, specialmente in
matematica, qual fu a mo’ di esempio il Mangiamele. E benchè
copiosa messe mi si offrirebbe dinanzi, se tutti volessi percorrere
i vasti campi dei cabbalisti, pure di due fatti, di due fanciulli
porteni farò menzione, l’uno antico, l’altro moderno. È il primo
quel famoso Ienocà di cui si legge nello Zoar, nella lezione
Balac; e l’altro quel Gaddiel Naar, non meno celebre per la
precoce santità. E questo è, se non erro, abbastanza per
confermare anche per questo verso l’identità Essenico-
Cabbalistica. E qui pertanto potrei far punto, ma nol farò
sintantochè[398] non vi abbia un’altra non meno preziosa storica
attinenza, additata nel fatto suaccennato dei fanciulli talmudici.
Voi non avete certo obliato la filiazione o almanco le grandi
attinenze tra Cristianesimo ed Essenato. Or bene, fra i Vangeli
apocrifi ve ne ha uno, se non erro l’arabo vangelo, ove il fanciullo
Gesù, non solo è presentato disputante coi dottori della legge, ma
nell’atto ci è mostrato altresì di studiare, di scuoprire ancor
fanciullo, nella forma, nel nome delle lettere ebraiche, i misteri
della legge di Dio, ch’è quanto dire quello stesso esercizio che
vedemmo prediletto dai fanciulli talmudici, e che noi crediamo
esatto esempio, e pratica essenica per eccellenza, e come tale tolta
a modello dal fanciullo Gesù, allievo dei nostri Esseni, o almeno
dai vangelisti che ne scrisser la vita.
Quest’ultimo riscontro non è men prezioso degli altri
precedentemente ricordati. Egli è indizio, sintoma, di
quell’armonia che solo il vero può produrre nell’esame e nella
considerazione dei fatti, ed alla cui vista s’ingenera nell’animo
dello studioso quel senso medesimo indefinibile di ben essere,
che s’ingenera nel corpo dall’armonico funzionare di tutti i
visceri, che non sapresti dire se risieda in questa parte od in
quella, ma ch’è la resultante, ossia il quoziente della simultanea
azione e riazione di tutte le parti.

[399]
LEZIONE VENTESIMANONA.

Le predizioni degli Esseni, da noi studiate nelle passate


lezioni, chiusero quella parte dell’Essenica dogmatica che noi
dicemmo antropologia, ossia la scienza dell’uomo.—Egli è
pertanto nella sfera istessa delle dottrine degli Esseni tale un
subbietto, che se non è del dominio istesso dell’antropologia,
molto a questa si avvicina, e gli è per questo che un luogo gli
assegneremo immediatamente successivo, e che dopo le cose
discorse stimiamo qui opportuno doversi a dirittura trattare. E
questo è la Morale, l’Etica degli Esseni. L’Etica, la scienza dei
costumi, forma parte integrale di ogni sistema vuoi filosofico,
vuoi religioso; nè si può dare religione, filosofia completa che
nella stessa guisa che le basi propone della Metafisica, quelle
eziandio non fondi della Morale, stringendo in alcune formule
supreme generalissime, il primo principio, l’Idea madre, da cui
tutto il sistema s’ingenera dei diritti e dei doveri dell’uomo.
Qual’era l’etica degli Esseni, e quai furono i suoi principii, o
come detto abbiamo, le supreme sue generalissime formule? Qui
è ove Filone ci trasmise memoria preziosa dei suoi Terapeuti, gli
Esseni d’Egitto.—Filone che i Terapeuti conobbe, e nel novero di
essi professò e praticò i principii della scuola, Filone può
insegnare ed essere udito. I Terapeuti, dice Filone, triplice
base[400] assegnarono alla morale, o per dir meglio in tre principii
generali compendiarono la scienza dei costumi. E questi tre
principii erano appunto tre amori.—Insegnarono l’amore di Dio,
l’amore della virtù, l’amore degli uomini; e dall’amore triplice
che tutto congiunge e stringe ed unifica, fecero derivare tutta la
serie dei morali principii, ed il mondo crearono sociale, politico,
morale, religioso, in quella guisa che le antiche cosmogonie e la
nostra eziandio riserbatissima, tutto l’universo fecero emergere
dall’amore eterno. Fedele al sistema sin dall’origine intrapreso, io
dovrei qui citare Bibbia e Rabbini, dovrei cercare i precedenti, i
germi, le segrete radici dell’essenato nella Bibbia e nei Dottori. E
pure l’esame di questi ultimi basterà al duplice intento: i Rabbini
per sè risponderanno non solo, ma pur anco per la Bibbia, anzi le
idee bibliche che nel codice santo vestono forma popolare
oratoria esortativa, prendono nelle loro labbra la forma severa di
dottrina.—Quando Mosè nelle bellissime concioni del
Deuteronomio spandeva fiumi di eloquenza,—aveva pure dopo la
confessione di Dio Uno, insegnato l’amore di Dio, profondo,
attuoso, illimitato; aveva pure altrove, dopo imprecato alla
vendetta, favellato dell’amore fraterno; ma dov’è in questi due
principii la maggioranza incontrastabile, la legittima preminenza,
e quella paternità che vantano a buon diritto su tutti gli altri
sociali e religiosi doveri? Certo che nullo esteriore distintivo per
tali costituisceli nelle pagine bibliche: e forse se a questi esteriori
contrassegni si avesse rispetto, ei converrebbe l’officio di
assioma, di principio assegnare a tanti comandi che un seggio
occupano più illustre, che più enfatica hanno l’enunciazione, e
che duplice e triplice vantano ripetizione nelle pagine del
Pentateuco. Ma quanto facile tutto questo a intendersi, quando di
esso libro si sia la natura e destinazione compresa![401] Il quale, e
questa è convinzione che profondissima io reco da molti anni,
essendo un libro meglio oratorio, esortativo, politico, ceremoniale
che scientifico, dommatico e dottrinale, non serba appunto,
secondo è stile degli oratori, dei politici, quell’ordine e
successione logica rigorosa tra principio e conseguenza, quella
gerarchia di idee, di pensieri che solo ha luogo nei trattati
didascalici, insegnativi, ma le idee, i principii, le conseguenze, gli
assiomi, i corollarj si affollano promiscuamente sulle labbra
dell’oratore, dell’ispirato, del politico, e rompono in lampi e tuoni
di eloquenza, o in formule e prescrizioni politiche cerimoniali;
solo quell’ordine e successione serbando meramente esteriori, che
son richiesti dal subbietto pratico, sociale, politico, cerimoniale a
cui i grandi principii della religione e della morale sono applicati.
Ora quest’officio d’ordinazione, di ricostituzione logica della
Bibbia egli è ai dottori che appartiensi; ei sono i dottori che vi
dierono opera, sì perché rappresentando eglino, per rapporto
all’Ebraismo, l’epoca della riflessione succedanea a quella
dell’intuito, ad essi per diritto appartiene la gerarchia delle idee,
sì perché sendo eglino depositarj della tradizione retrosalgono in
certa guisa ai biblici primordii, assistono alla genesi delle idee,
ricollocano ogni cosa al suo posto naturalissimo, sono per sè
stessi anacronici anzi omnicronici; e sono sotto questo rispetto
più antichi dei tempi biblici, e i padri e genitori spirituali dei
contemporanei eziandio di Geremia e di Ezechiello.
Or bene: i tre amori che gli Esseni posero a base della loro
morale, quelli che vi feci conoscere in germe, in confuso, nelle
parole mosaiche, sono quelli che i dottori eressero a principio, a
formula suprema non solo delle umane e sociali, ma delle
religiose virtù eziandio: e se fra gli Esseni e i dottori corre una
differenza qualunque,[402] ella è questa sola. Egli è lo avere
questi ultimi divisamente considerato ciò che gli Esseni
considerarono indiviso; egli è il proporre che fecero or l’uno or
l’altro dei tre grandi amori qual unico supremo criterio di morale;
egli è il dividersi le opinioni sulla preminenza dell’uno, e
dell’altro; egli è il contrastarsi che fanno la morale sovranità,
quando gli Esseni, invece, indiviso, collettivo ne volevano
l’impero. Pei dottori se tutti convengono esservi un principio
regolatore di nostre azioni, non tutti convengono sulla scelta di
questo. Se per l’uno è l’amor di Dio indicato nel Deuteronomio,
per l’altro è l’amor del prossimo nel Levitico comandato, pel
terzo è il sacrifizio adombrato nei Numeri, per l’ultimo infine è
l’unità di origine, e la fraternità universa insegnata nel Genesi.—
Per tutti è una formula generalissima da cui tutti emergono sociali
e religiosi doveri, e forse non andrebbe errato chi dicesse non
escludersi per l’uno il principio dall’altro proposto, ma potersi
tutti questi criterj conciliare in sintesi amica, non altro avendo
ognuno proposto che una parte della comun tradizione.
Che se l’Etica farisaica e l’Etica degli Esseni si congiungono,
si unificano in tant’altezza e sublimità di pensieri, chi potrà
vantare più al lor confronto primato, sovreccellenza di dottrine
morali?—Certo non il Vangelo, il quale è di tanto posteriore agli
Esseni, anzi sua creatura e figlio, e che nelle scuole crebbe, si
educò dei nostri dottori, come fedele ne abbiamo espressione in
Gesù disputante coi dottori nel Tempio.—Ciò ch’è vero, ciò che
ingiusto sarebbe disdire al Cristianesimo, egli è in primo luogo la
figliuolanza, la derivazione dell’Essenato fatta eziandio più chiara
dall’uniformità dei morali principj; egli è in secondo luogo la
propagazione che per il mondo gentile avvenne la mercè sua della
purissima morale essenico-ebraica, facendo patrimonio di tutti,
ciò ch’era stato sin[403] a quel punto tra i Pagani retaggio
esclusivo di pochi eletti.
Giunti a questo punto, l’ordine di questa istoria ci
condurrebbe naturalmente a parlare dei dogmi delle dottrine
teologiche dei nostri Esseni. E qui invero vasto, e qui nobilissimo
aringo ci si schiuderebbe dinanzi. Ma perchè nol poss’io tutto
percorrere? Gli Esseni che chiusero ai profani l’accesso delle loro
credenze, poco o nulla lasciarono agli storici tralucere delle loro
dottrine. Egli è per questo che quelle tenebre istesse che
contendevano ai coetanei la cognizione dei loro dogmi, a noi pur
la contendono: egli è per questo che anzichè lasciare il freno alle
ipotesi, io amo meglio confessarmi ignorante. Certo non si
potrebbe negare. Vi sono due sistemi grandi, celebri, antichissimi
che gran parte potrebbero restituire delle dottrine dell’Essenato,
in cui le idee, lo spirito, si trasfusero del grande istituto, e che
perpetuarono sino a noi non pochi di quei segreti di cui furono
gelosi i nostri Esseni. Questi sistemi veduto abbiamo parecchie
volte soccorrerci all’uopo nelle lacune storiche dell’Essenato;
questi sistemi sono quel di Filone, e l’altro di gran lunga più
momentoso dei Cabbalisti, ambidue intimi dei nostri Esseni,
ambedue risponderebbero eloquenti ove interrogati fossero, con
scienza, con critica imparziale, con quel tatto particolare che sa
ricostituire i sistemi mutilati corrosi dal tempo, come in
paleografia si ricostituisce una iscrizione con parole e frasi
mutilate e sconnesse. Il faremo noi? Io confesso l’opera al di
sopra delle forze mie; e se non infelice provammo qualche
tentativo di siffatta ricostituzione nel corso lungo di queste
lezioni, ciò nonostante ella è tale la generale restituzione del
dogma essenico, che infinite vi si oppongono e gravissime
difficoltà, il campo vastissimo delle indagini, la miscela nel
filonismo operatasi[404] di idee greche e platoniche, le tenebre
densissime che involgono tuttora la teologia dei cabbalisti, e
sopratutto le difficoltà proprie naturali di questo genere di lavori.
—Egli è per questo che lasciando a tempi, a ingegni meno infelici
il gigantesco lavoro di cui parlo, non più oltre spingerò per ora le
mie indagini che le dirette notizie a noi pervenute non lo
consentano. E queste, bisogna dirlo, sono poche se non al tutto
insignificanti. Riguardano esse meglio la espressione, la veste
esteriore che la sostanza delle idee; meglio l’imagine che involge
il pensiero che non il pensiero medesimo. E pure, forse sbaglierò,
ma credo fermamente che allo scopo da noi prefisso, alla
dimostrazione della identità essenico-cabbalistica più monti la
omogeneità della forma, che la medesimezza delle dottrine,
meglio la imagine che è per sua natura meramente arbitraria che il
pensiero che può nascere spontaneamente uniforme in scuole
diverse. Ora io oso dirlo. Chi cercasse nel superstite simbolo già
degli Esseni le imagini, i tipi che ha comuni coi Cabbalisti, larga
mèsse raccoglierebbe di parlantissime analogie: testimone ciò che
dice Filone avere appreso da un seguace di Mosè intorno un
uomo che si diceva Oriente; ove per seguace di Mosè egli senza
meno intende uno dei nostri Esseni. I quali, oltre alla somma
venerazione che professavano per quell’uomo di Dio, come
attestano in molti luoghi Giuseppe e Filone dal nome suo
intitolandosi, meglio vi sembreranno il gran titolo meritare di
Mosaiti, se ciò che dissi nelle prime lezioni ritornerete alla
memoria, ed ove seguendo le traccie ultime che gli Esseni
lasciarono nelle istorie, mi avvenne, se ben vi ricorda, di
rammentare Beniamino di Toletola ed i suoi viaggi. Vi dissi allora
come narrando egli le pellegrine cose da lui vedute sulle rive
dell’Eufrate e del Tigri, di uomini pure va raccontando ch’ei vide
menare vita[405] austerissima, anacoretica; ch’ei chiama a
dirittura Benè Moscè ossia Mosaiti, e che pel ritratto
somigliantissimo noi dicevamo allora ultimo vestigio lasciato
nelle istorie dalla primitiva forma del grande istituto.—Io non
aveva allora letto per anco uno degli ultimi numeri del buono e
dotto giornale Magghid. Ma quale fu la mia sorpresa scorrendo
un recentissimo articolo di quel periodico! In esso con bella e
giudiziosa erudizione si prova appunto ciò che io non osava
proporre che quale ipotesi; si prova cioè non altr’essere i Bene
Mosciè di cui favellarono i nostri viaggiatori del Medio evo, di
cui parlò Beniamino di Toletola, di cui parlava eziandio Eldad
adani; che gli ultimi e sbandati successori dei nostri Esseni. Ch’io
mi sappia, niuno finora recò in mezzo il nome che loro impone
apertamente Filone, niuno avvertiva qual peso immenso rechi
nella critica bilancia la deposizione di tal uomo. E pure Filone
non potrebb’essere più esplicito, tanto più che di niun altri può
intendere Filone per Mosaìti che dei nostri Esseni; e pure nulla
più osta all’uso, allo stil di Filone che il supporre in questo nome
significato il popolo ebraico ch’egli mai sotto il nome non
designava di Mosaìti. Ma se Mosaìti sono indubbiamente, come
vediamo, gli Esseni, che cosa di essi dice il nostro Filone? Ei
dice, e voi l’udiste, che un uomo, un essere riconoscevano, che si
chiamava Oriente. Io vorrei che voi aveste potuto leggermi in
cuore quando la prima volta imbattevami in questa frase, la
sorpresa, la dolce sorpresa che provai in quell’istante.—Ma
quanto per voi facile ora stesso l’imaginarlo!—Pensate ai gravi
dubbii promossi sull’antica data del Cabbalismo; pensate al
confronto non mai intrapreso tra gli Esseni d’indubitata antichità,
ed i Kabbalisti gridati da alcuno modernissimi; pensate che una
delle emanazioni divine si chiama appunto nella fraseologia
cabbalistica ora CHEDEM, ora[406] MIZRAH, ch’è quanto dire
Oriente; pensate che nei libri Talmudici che alludono ad ogni
tratto, checchè ne dicano critici ingiusti, alle idee cabbalistiche,
che nel Talmud, io dico, Dio stesso è chiamato a dirittura Chedem
Oriente; pensate a questo e poi mi dite che cosa avreste provato al
mio posto leggendo dei Mosaiti di Filone, che dicevano esserci
un essere che si chiamava Oriente. Certo che la sorpresa,
l’aspettazione sarebbe stata già grande. Ma quanto più grande
dopo lette le parole gravissime di Filone, che seguono!—Nelle
quali dopo aver detto testualmente che questo nome non s’addice
ad uomo mortale, che si parla della imagine immateriale di Dio,
dimostra poi a lungo non altro essere quest’Oriente che il
Pensiero e la Parola eterna di Dio, che l’archetipo delle cose
create, che il mondo intelligibile, modello, come vi dissi in una
recente lezione, del mondo sensibile. A queste parole chi per poco
abbia fruito della riposta nostra teologia, non può a meno di
sentirsi colmo il petto di soavità ineffabile, la quale sempre e
sempre più andrà crescendo colla lettura di Filone quando dirà
essere questi il verace uomo, come verace Adam il chiamano i
cabbalisti, Adam aelion, e nella parola Adam trovano il Scem Ma
che si appunta nello stesso principio; quando lo chiama sommo
sacerdote, come sacerdote supremo Coen gadol il chiamano i
Cabbalisti, e più altre infinite cose che per la natura loro
astrusissima e gelosa bello è il tacer, siccome il parlar colà
dov’era. Ora, da tant’altezza conviene calare a regioni più basse;
e pure nuovo documento ne trarremo a provare, mercè la identità
dei segni tra le due Scuole, l’unità, la medesimezza della origine.
Quando parlerò delle pratiche esseniche, e sarà questa l’ultima
parte di questa istoria, ne farò allora, siccome a luogo opportuno,
nuova menzione; ma egli è un uso, una pratica degli Esseni, che
esprimendo una[407] delle forme, uno dei segni più comuni del
loro pensiero, mestieri è pure che qui abbia luogo condegno. La
destra, dicevano buona, sacra, fausta eziandio; la sinistra gridando
invece rea, impura e nefasta: quindi alcune regole pratiche che
muovevano dallo stesso principio: quindi lo sputare a destra
interdetto: quindi la destra qual segno di onore conceduta al
maggiore. Queste pratiche verranno in campo a tempo opportuno,
e vedrete quanto in esse eziandio vi sia di Biblico, di Rabbinico,
di Farisaico; ma ciò che si vuole qui apprezzare, è il simbolo la
destra e la sinistra, tolte, l’una qual sinonimo di bene, l’altra qual
imagine rappresentatrice del male.—Nel qual simbolo, due
ebbero famosissime scuole i nostri Esseni.—Certo più a discepoli
che a maestri ebbero in primo luogo i Pitagorici che nella loro
Decade posero Destra e Sinistra quali idee ed espressioni
antagonistiche. Ebbero poi, e questo è più rilevante, i teologi
cabbalisti, i quali come gli Esseni, come appunto i Pitagorici,
posero a loro posta nella Decade loro il Jamin e il Semol, quai
principj avversi antagonistici, nella guisa stessa dei due principj
del dogma iranico Otmuzd e Arimane; ma colla gran differenza
che mentre i Persiani ne costrussero il Dualismo facendo due
Esseri, due Dei, due principj indipendenti, l’Ebraismo serbò
intatta l’unità suprema di azione, di piano, di ultimo fine, come lo
stesso simbolo il prova di Destra e Sinistra, quasi due braccia che
si radicano nell’unità del corpo, e ad una mente sola obbediscono,
ad un solo volere. Io potrei qui, a proposito di Destra e Sinistra,
recare in mezzo due luoghi d’oro che attestano la presenza fra noi
delle idee cabbalistiche nei tempi talmudici—l’uno tratto dal
Talmud in Scebuot, l’altro, non v’imponga il brusco passaggio,
nelle Clementine—opera semiapostolica di cui fu fatta
recentissima edizione, non saprei dire se in Berlino[408] o Parigi.
Fatto è che tutti i lettori del Debats del 25 di agosto passato,
potuto avrebbero avvertirlo in un seguito di articoli, se anche i
giornali fossero letti con quel nobilissimo intendimento di trovare
dovunque le sacre vestigia della verità.

[409]
LEZIONE TRENTESIMA.

Questa Lezione chiude la seconda parte della Storia degli


Esseni, quella che riguarda la loro dogmatica. E comunque troppo
più a lungo sarebbe proceduta la presente trattazione, se completo
ci fosse stato trasmesso il sistema lor teologico, ciononostante e
perchè ciò non è avvenuto, e perchè duro troppo tornerebbe al
presente ricostituirlo per intero coi frammenti del Filonismo e del
Cabbalismo, egli è perciò che, più breve forse che il tema non
comporta, riesciva l’esame, la sposizione della loro dogmatica.
Questa lezione dirà quel poco che ci rimase dei nomi divini tra gli
Esseni gelosamente serbati, della loro Fisica o Cosmogonia, del
concetto nobile superlativo che si formavano gli Esseni delle
proprie dottrine, e in ultimo quell’autorità sarà qui riprodotta, che
attesta in generale la concordanza da noi propugnata fra il sistema
degli Esseni e quello dei Cabbalisti.
Voi non lo avete certo dimenticato. Quando parlavamo della
istituzione degli Esseni, quando toccavamo degli Iniziati, del
giuramento che lor s’imponea, noi trovammo, nella formula del
loro giuro, l’obbligo di conservare scrupolosamente i nomi degli
Angioli.—Non basta: io vi feci notare allora come sempre le
intime corrispondenze fra Cabbalisti ed Esseni; ma se luogo vi è
di questa menzione meritevole, egli è senza meno il presente, nel
quale si favella della Dogmatica degli[410] Esseni, e dove per
diritto debbono entrare i sacri nomi onde si parla; i quali benchè
rechino il titolo di nome degli Angioli, pure per poco che le frasi
si conoscano, e le appellazioni dei Cabbalisti, alludono
manifestamente ai nomi, agli attributi di Dio e delle sue
emanazioni. Non per questo ripeterò le cose già dette, ma se oltre
le discorse analogie in proposito, oltre la nomenclatura angelica
solo esistente nei due sistemi che diciamo identici se oltre il
carattere fra loro comune di nomenclatura gelosa, riservata, vi
può essere qualche cosa che meriti ancora attenzione, che destar
possa la curiosità degli studiosi, che sappia, se non erro, di novità,
che sia, se oso dir tanto, una verace scoperta, ella è la citazione
presente, che appunto pel suo insigne momento vi ho serbato per
la presente lezione. Quante volte non abbiamo udito gli storici
sentenziare, della niuna contezza che i dottori nostri si ebbero
dell’Essenato; quanto subbietto di meditazione e sorpresa e
quante volte altresì abbiamo côlto in fallo la pretesa ignoranza e
mille cenni ed allusioni rintracciato fra i dottori dei nostri Esseni.
Io credo che i dotti di buona fede non ne ricuseranno la
importanza, le conseguenze. Ma per la citazione che qui si dice, il
potrebbero quando pure il volessero? potrebbero continuare come
s’è fatto finora a proclamare muti, inconsapevoli, i Rabbini dei
nostri Esseni. Il provino se pure il possono. Provino a cancellare
quanto è scritto nel III di Jomà nel Talmud di Gerusalemme.
Provino a far sì che non si legga come vi si legge—di un Asseo di
Sipporì in Palestina che disse a Rab Papà figlio di Hamà: Vieni e
ti comunicherò i santi nomi di Dio.—Rispose l’altro: Nol posso.
E perchè? Perchè mi cibo delle decime; e chi li apprende, non
può mangiare il pane di nessuno. Qui tutto parla con eloquenza
irresistibile dei nostri Esseni. Il nome di Assè più
manifestamente[411] e irrecusabilmente essenico dello usato,
perocchè scritto in guisa (Assé) che non si potrebbe confondere
con Asiâ medico il quale esigerebbe un Alef finale che qui non
esiste; lo assurdo che semplicissimo medico s’intrometta nei
nomi di Dio, e tanto addentro se ne addottrini da erigersi a
maestro di teologia di un dottore; il luogo patria dell’Essenato, la
Palestina Sipporì in ispecie, nelle cui vie per singolare
coincidenza abbiamo veduto nelle prime lezioni aggirarsi un
Rohel,—venditore di farmaci, sotto la maschera del farmascita
riconosciuto abbiamo un della setta;—nomi di Dio che
gelosamente si comunicano, come si comunicavano tra gli
Esseni; e per ultimo, il gran rifiuto fatto da R. Papà per la
eloquentissima ragione, ed essenica per eccellenza, che non
essendo egli della scuola, non vivendo della vita sociale, vale a
dire, com’egli dice, cibandosi alla tavola altrui, non sentivasi
degno aderire all’offerta.
Ora di ciò che insegnavano gli Esseni, dell’origine delle cose,
degli elementi primitivi della fisica o cosmogonia che facevano
parte del loro sistema. E qui mestieri è prendere a guida Filone, e
ciò ch’egli sul proposito insegnava. Filone professò la fisica della
scuola Jonica di Talete di Mileto; e se di Grecia e Talete
unicamente favellò, non è già che l’Oriente non offra esempj più
antichi ed illustri; ma solo perchè la scuola Jonica esercitò più
diretta influenza sulla formazione dei sistemi successivi, e
protrasse la sua azione sino ai tempi di Filone, che in Grecia e in
Palestina attinse gli elementi della sua filosofia. Filone dichiarò
l’acqua materia prima di tutte le cose, e se Defendente Sacchi
disse deridendo avere così detto Talete perchè l’acqua vedeva
entrare in gran parte nella vegetazione delle zucche, il principio di
Talete, non solo offre grandi analogie colle cosmogonie antiche
Orientali, ma si riappicca[412] alla cosmogonia mosaica, si riflette
nel sistema dei dottori.—Ciò che più monta, nel sistema e nella
simbologia dei Cabbalisti, e non lascia di avere un senso, un
valore, una riproduzione nei sistemi scientifici odierni di geologia
e cosmogonia.—Delle prime, delle affinità, delle relazioni colle
cosmogonie dell’Oriente, non parlerò perchè troppo vasto il
campo delle ricerche. Ma come tacere delle altre! Della
cosmogonia Mosaica che chiaro e spiccato offre il principio
Essenico che mostra nell’acqua lo stato primigenio e l’origine di
tutte le cose.—Dei dottori Talmudisti che ragionando sul Genesi,
meglio ancora posero in luce e più precisamente formularono il
principio cosmogonico di Mosè; che fecero uno studio geloso,
riservato, formulato dei primi capitoli della Genesi, che
chiamarono Maasè Berescet; che oltre al senso fisico,
cosmogonico che ha il racconto Mosaico, ne rivolsero le frasi, e il
vocabolo acqua rivolsero a significare l’idea filosofica
astrattissima di sostanza, quando dissero dei Maim aelionim e dei
Maim attahtonim, quando Rabbi Achibà, in un dettato aureo
momentosissimo ed attamente deponente in favore dell’antichità
cabbalistica, diceva ai discepoli: Quando a contemplare
giungerete le pietre marmoree purissime, non dite: acqua! acqua!
—Dei dottori Cabbalisti che fecero eco alla simbologia dei
dottori e del vocabolo acque fecero applicazione estesissima in
senso multiforme; e infine del senso che potrebb’aver tuttavia
nella scienza moderna. La quale si divide anch’oggi in due campi
nemici, sull’origine delle cose; e dà quindi luogo a due diversi
sistemi di geologia. Si forma il primo di quei geologi che credono
la terra avere ab ovo presentato una massa fluida, che andò di
mano in mano indurando, e che per questo appunto si chiamano
Oceaniti o Nettuniani. Si forma l’altro di quei geologi invece, che
ammettono nell’origine[413] uno stato di incandescenza, che andò
di mano in mano raffreddandosi e che per questo appunto si
dicono Plutonisti.
E non solo gli Esseni, e con essi Filone e con essi Talete, e la
scuola Jonica in generale, e con essi per avventura i Talmudisti e
la Genesi, ma con essi ancora, se ben lo intendo, il Signor
dell’altissimo canto, l’antichissimo Omero. Il quale con una frase
che diè molto a pensare agli interpreti, e che parvemi sempre
cosmogonica e geologica per eccellenza, chiama
frequentissimamente gli Dei col titolo d’oceaniti; null’altro
volendo significare a parer mio, che lo stato primitivo della
materia caotica dalla quale sursero le forze tutte della natura o,
per parlare colla lingua dei Greci, gli Dei maggiori e minori, i
quali com’è facile provare coi filosofi e coi poeti alla mano, altro
non erano in verità che quelle forze istesse personificate,
primogenite sì della creazione, ma figliuole pur esse della gran
madre natura, che nel suo stato primitivo, confuso, disordinato,
portava il nome di Caos; il quale Caos vediamo infatti figurare a
capo delle greche teogonie, anteriore agli immortali medesimi,
padre e generatore antichissimo di tutte le cose. E questo basti
della fisica e cosmogonia degli Esseni, potendo ognuno, che più a
lungo sedere volesse a mensa sull’argomento, consultare Filone
da cui i brevi cenni abbiamo imparato che qui si espongono.
Ora che conchiuso abbiamo quel che concerne la dogmatica
degli Esseni, o per dir meglio, quel poco che di essa ci resta,
dobbiamo far due cose: dobbiamo prima dire del concetto che
delle proprie dottrine si formavano gli Esseni; dobbiamo dire in
ultimo, del concetto che noi stessi ce ne dobbiamo formare. Voi lo
avete le mille volle udito. Se v’è nulla di vero, di dimostrato nella
storia degli Esseni, è la loro parentela coi Cabbalisti.—Se[414] i
Cabbalisti ebbero padri antecessori, ei sono gli Esseni. Se gli
Esseni ebbero figli discendenti continuatori, ei sono i Cabbalisti.
Or bene: questa verità che non ho cessato di proclamare, è posta,
se è possibile, in luce ancor più sfolgorante dal giudizio, dalla
stima, dal concetto che di sè, che delle proprie dottrine si
formavano gli Esseni.—Ch’è quanto dire il giudizio che di sè
tuttavia e delle proprie dottrine si formano i Cabbalisti. Concetto
grande, altero, superlativo, se altro fu mai; concetto che fa della
loro dogmatica, la sola vera, la sola divina, la sola rivelata;
dogmatica che ingenera nei suoi professori il vanto
pubblicamente spiegato di possedere intiero, esclusivo il midollo,
il secreto, la vera essenza del Mosaismo, che fa loro riguardare
come profani i fratelli loro di religione che discredono o
disconoscono la verità dei loro dogmi, e che per stringere tutto in
breve detto, gli meritava e gli merita tuttavia dagli avversarj
l’epiteto di esclusivi, d’intolleranti, mentre, com’ho provato nella
mia ebraica operetta, niuno più meritossi invece il nome di
tollerante, se si tratta delle persone; e niuno più legittimamente di
essi mostrossi intollerante se si tratta delle avverse dottrine. Or
bene questo giudizio qualunque esso sia, egli è quello, ve lo
diceva, che di sè e delle proprie dottrine si formavano gli Esseni.
E nel riferirvelo userò parole non mie, non arbitrarie, non
parafrastiche, ma rigorose, testuali, quali uscivano da penna per
nulla interessata nella presente questione, e che consuona
mirabilmente coi vanti poc’anzi uditi dalle labbra dei Cabbalisti.
E questa penna è quella del Nicolas, professore in Strasburgo, che
tali scrive nella Revue Germanique memorande parole, nelle quali
vi scongiuro ammirare la perfetta conformità coi vanti dei
Cabbalisti:—Les Esséniens prétendaient avoir le secret du
Mosaïsme:—non basta—et regardaient comme[415] des profanes
ceux de leurs corréligionnaires qui étaient privés de cette
connaissance.—Ma volete di più? volete misurare il valore
dell’argomento, volete vederne la forza probatoria? Or bene;
riprendete il Nicolas, e vedrete che da questo fatto medesimo, da
questo vanto, da questo concetto, che di sè formavansi gli Esseni,
egli prova, egli conclude trionfalmente, e che? forse la
derivazione stessa dei Cabbalisti? No! ciò è poco, perchè il
proverebbe nella questione parziale; ma prova e conclude da
questo fatto la derivazione dall’Essenato, di quella setta di
filosofi che si dissero Gnostici, i quali non dissimile vantazione
menavano pur essi delle loro dottrine: la illazione pare evidente;
l’argomento che vale pel Nicolas, vale anche per noi, e se si può
dimostrare la derivazione del Gnosticismo dai più antichi Esseni,
potrà quella eziandio dimostrarsi dei dottori Cabbalisti.
Ma io vi diceva che oltre il concetto che di sè formavansi gli
Esseni, e questo abbiamo veduto, quello altresì, quel giudizio,
quella sentenza avremmo dovuto non meno esaminare, che noi
stessi ragionevolmente dobbiamo recare sulla dogmatica degli
Esseni. Io credo che sia necessario formarsene un concetto
generalissimo, e tanto mi par necessario, quanto non avendo
potuto noi esaminarne i dogmi, parte per parte ci convenga più
precisa, ed accertata, formarsi una idea dello insieme in quella
guisa che Mosè non potendo entrare nella terra promessa, si
fermò a lungo a contemplarla sopra i monti di Moab, e in quella
guisa medesima che un pittore non potendo studiare per minuto
una fisonomia che gli fugge, cerca di cogliere in
quell’apparizione fugace l’espressione generale e il tipo supremo
sul qual è coniata. Ora questo concetto, questo giudizio
generalissimo non sarem noi che il proporremo. Dopo tutte le
cose anzidette,[416] dopo avervi tutta la mente mia fatta aperta,
sulla consanguineità cabbalistica, troppo parrebbemi aver
sembianza di giudice parziale e troppo quindi disdicevole a me
stesso proporvi un giudizio.—Ve lo proporrà un filosofo, un
libero pensatore—un francese del secolo XIX, ve lo proporrà il
Frank. E ve lo proporrà a proposito di Filone e del suo sistema,
del quale le intime attinenze conosciamo da lungo tempo colla
scuola degli Esseni, tantochè, ciò che di Filone favella il Frank
dovrà essere intesa quasi degli Esseni istessi ei favellasse,
null’altro essendo, a veder bene, Filone, che il filosofo della setta,
l’interprete dell’essennato al mondo pagano, e se così emmi lecito
esprimermi, l’Apostolo dei Gentili. Ora udite come intende il
Frank i rapporti tra Filone ed i Cabbalisti. Come si esprima
reciso, e com’egli, d’altronde se riservato, non tema di usare
niente meno che queste parole: Tous les principaux traits de la
philosophie de Philon se retrouvent dans le Zohar avec moins
d’éclat et de profondité.—Sì, se intende metodo ed arte—no, se
intende splendore e altezza d’idee e di eloquio. Ma il signor
Frank non è uomo da sentenziare senza un perchè, ed eccolo
testuale: Comme Philon, le Zohar s’appuie sur les traditions
juives interprétées symboliquement; comme lui, il est tout à la
fois mystique et panthéiste. Cet Eusoph supérieur à l’Être et à
l’intelligence, le mystère des mystères, l’inconnu, l’ineffable,
rappelle le Theos Agnostos de Philon: le Juif Alexandrin et
helléniste a dit en grec ce que les Juifs de Jérusalem ont dit en
hébreu; e così via discorrendo, ponendo continuamente a
riscontro i due sistemi. Ma il signor Franck non è solo a pensarla
siffattamente. Il signor Frank che, per lo assunto da lui intrapreso,
per quella specie di riabilitazione che tentava del Cabbalismo,
potrebbe sembrare a taluno pregiudicato, e forte nonostante[417]
di tutta la forza della scienza germanica contemporanea, ed ha per
se il fiore, l’eletta dei più valenti e autorevoli critici
dell’Alemagna. Il Nicolas, di cui udiste non ha guari menzione, e
che compendiava quanto di meglio provato resulta dalle ricerche
di quei dottissimi, usa parole che non la cedono certamente a
quelle che udito avete del signor Frank, e che a parer mio anco
più urgentemente concludono in favore dell’assunto, avendo
preso il Nicolas a parlare non già di Filone singolarmente, ma di
tutti gli Esseni, e della scuola direttamente. Della quale così si
esprime: Deux philosophies, fort analogues, me paraissent être
sorties de l’Essénisme: le Gnosticisme et la Kabbale. On peut
supposer que les Esséniens qui embrassèrent le Christianisme,
s’en firent une conception conforme à leurs principes antérieurs,
et ce fut le Gnosticisme; et que ceux des Esséniens qui restèrent
Juifs, continuèrent les spéculations de leur secte, et ce fut la
Kabbale. Parole vere e belle, e che compensano con usura le
pretese ingiuste, mel perdoni la sua amicizia, del nostro illustre
Luzzatto.—Ma contro di questi non abbiamo solo i nomi
ricordati;—abbiamo tale che, per quanto suoni nuovo per
avventura ai vostri orecchi, si levò altissimo fra tutti i moderni
filologi tedeschi, e questo è il Baur. M. Baur, continua il Nicolas,
les regarde (riguarda Gnosticismo e Cabbalismo) comme deux
productions semblables, qu’on est obligé de ramener à une
source commune.
Ora chi potrebbe dubitarne più oltre? L’esame analitico da me
intrapreso e in quella parte attuato che era possibile, l’idea
generale che alla sua vista ci si ingerisce, le autorità più
competenti, più spassionate, tutto prova la identità da noi
propugnata. E questa identità fu da noi perpetuamente dimostrata
nella sposizione delle[418] due prime parti di questa Storia,
Istituzioni e Dottrine; e che qui hanno termine. La terza parte
della storia dell’Essenato che ci rimane a vedere, ella è, e voi lo
ricordate, la storia del culto, degli usi, delle pratiche del nostro
istituto, ed alla quale colla successiva lezione daremo principio.
Esaurita questa ultima parte, e spero tra breve, noi avremo
terminato lo studio di una gran scuola, risoluto, quanto lungi si
stesero le nostre forze, un problema difficilissimo; e con amore e
studio grandissimo notomizzato il corpo venerandissimo, le cui
istituzioni sono l’organismo, le cui dottrine sono il cervello e la
mente, le cui pratiche sono il cuore e la volontà. Ma in questa
autossia, ciò che abbiamo trovato, non fu tutto materia. Broussais,
così narra la fama, sendo prossimo a finire, stupiva i circostanti
con queste parole: Infiniti corpi notomizzando e di tutti le segrete
parti collo scalpello ricercando, mai mi avvenne trovare l’anima
dell’uomo. Infelice! che s’ei l’avesse trovata, l’anima non
sarebbe. Noi però siamo più felici di Broussais.—Abbiamo
trovato nelle indagini nostre l’anima dell’Essenato, il suo spirito,
il suo genio, la carne delle sue carni, l’ossa delle sue ossa, il
sangue delle sue vene, l’alito, come dice la Bibbia, delle sue nari,
e questi è il genio, lo spirito cabbalistico.—L’Essenato è morto;
ma il cabbalismo, intima essenza dell’ebraismo, per quanto a terra
disteso e di sudario funebre rivestito, e le nenie li facciano intorno
e mortorio stragrande gli avversarj di ogni colore, e i neri fraticel,
e i bigi e i bianchi, ciononostante come il profeta sepolto, di cui si
narra nei Re, non solo vive d’una vita interiore, ma ai grandi
morti eziandio la comunica al solo contatto.—Noi abbiamo posto
gli Esseni al contatto del grande sepolto; al contatto del
cabbalismo; ed a quel contatto, oh miracolo! l’Essenato è risorto.

[419]
LEZIONE TRENTESIMAPRIMA.

S’egli è vero che ai sospirosi naviganti l’animo si rinfranca al


pensiero della meta vicina, egli non è senza più celere fiducioso
muovere il passo verso il termine desiato, che io tocco stasera la
terza parte della Storia degli Esseni; dopo avere studiate le loro
istituzioni e i loro dogmi, io chiamo a rassegna le loro pratiche, la
loro vita. Ma la vita sociale come la vita dello individuo, gli atti
dell’una come gli atti dell’altra, possono in tre grandi ordini e
sommi capi dividersi secondo il triplice oggetto a cui la vita e gli
atti si riferiscono; vi è la vita religiosa che comprende gli atti, le
opere che hanno Dio e la Religione per obbietto; vi ha la vita
privata che le opere inchiude che all’uomo istesso si riferiscono, i
suoi abiti, le sue virtù, le regole che a sè medesimo s’imponeva, e
che hanno per ultimo fine lo individuo, la persona medesima; vi
ha infine la vita pubblica, la vita esteriore, quelle opere tutte
abbraccia nel proprio seno, che al prossimo, alla città, al mondo
intero si riferiscono. Egli è per questo che per amore di ordine, di
chiarezza, di brevità, io ho in tre parti distinto lo studio della
essenica vita. Vita religiosa, ossia culto: Vita privata, ossia abiti e
virtù: Vita pubblica, ossia rapporti esteriori. Di queste tre parti, la
prima, vuoi per l’argomento fecondo, vuoi per dignità, vuoi per
logica preminenza, merita il primo posto, e volentieri glielo
concedo.[420] La vita religiosa dell’Essenato si esamini dunque
nelle sue parti. E perchè l’ordine si ramifichi nelle più minute
parti eziandio del subbietto, si dica in primo del culto che a Dio si
rendeva, e del culto istesso quella parte in prima si consideri che
riguarda i luoghi religiosi, i tempi, gli oratorj.
Vi è una frase in Giuseppe, che per bene intendere ci conviene
che vi riduciate a memoria i tempi in cui visse, in cui fiorì il
grande istituto. Qual fu il secol d’oro dell’Essenato? fu quello, si
può dire, che più famoso rimase per le calamità infinite che
piovvero sul nostro popolo, il primo secolo dell’era volgare. Ei fu
allora, nel precipite declinare del nostro sole all’occaso, nella
dissoluzione estrema di ogni legame politico, all’ombra del
tempio che minacciava rovina, che lo spirito, il pensiero, il genio
dell’ebraismo, come fiamma che stia per ispegnersi, mandò pria
di finire un ultimo raggio, e quel raggio fu l’Essenato. Ora tra gli
Esseni che sopravvivono alla morte di ogni nobil cosa fra noi, e
lo eccidio ultimo che minaccia la patria, vi è un testimone;
testimone della grandezza degli uni e della miseria dell’altra,
della vita possente, rigogliosa del primo, e della disperata e
violenta agonia dell’ultima; e questo testimone è Giuseppe. E che
cosa dice Giuseppe che dell’uno e dell’altro stato fa nei suoi libri
fede continua? Dice parola che mi fece per non brev’ora
meditabondo; e il cuore m’empiva di poi eziandio d’ogni
indicibile melanconia. Quando Giuseppe, parlando delle pratiche
esseniche, dice che gli Esseni non entravano nel tempio per
timore di profanarsi al contatto della folla che ingombravalo,
parevami nell’udirlo una cosa:—Mi pareva vedere nell’Essenato
il genio irato dell’ebraismo trarsi in disparte dall’orribile
scompiglio sopravvenuto; parevami trincierato nella sua
solitudine imprecare alle passioni, ai peccati, al disordine[421] che
infuriavano; parevami, preso in dispetto il tempio, fuggirsene
lungi, come fuggita se n’era la gloria di Dio ai tempi di
Ezechiele; e come fuggire accennava dal secondo tempio
eziandio quando per entro alle sue mura, come narrano Ebrei e
Pagani, udissi quel suono, quel calpestio, quella voce di partenza
che disse: Esciamo da questo luogo. Io vel confesso
ingenuamente. Il primo senso che io colsi nelle parole flaviane,
non fu sì vero, sì profondo, non fu questo che io dico: parevami, e
male parevami, che qui si trattasse di qualche cosa di ordinario, di
normale; parevami volesse dirmi Giuseppe, non riconoscere gli
Esseni, non ossequiare almeno in pratica, il culto pubblico, la
casa di Dio, il tempio di Gerosolima. Ma quanto ingiustamente! E
non solo perchè gli Esseni, Ebrei quanti altri mai, non potevano
ragionevolmente disertare tempio ed altari; non solo perchè le
cause da Giuseppe assegnate, accennano manifestamente a
temporaneo ed eccezionale abbandono, per istudio eccessivo di
purità, ma soprattutto perchè la storia parla eloquente, perchè
troppo anzi giustifica il ritiro e la diserzione dell’Essenato.
Bisogna leggere le storie per persuadersene. Bisogna leggere
delle passioni che si scatenavano ignobili, brutte, furiose nel
sacro recinto, del sacerdozio venale, ambizioso, intrigante,
vendereccio, lussurioso; bisogna leggere degli eccidj commessi
sui gradini del tempio, degli altari di Dio conversi in campo di
battaglia dalle fazioni che laceravano la patria; delle bruttezze,
delle enormità d’ogni maniera che un popolo, che un sacerdozio
feroci, farneticanti commettevano all’ombra del tempio. È
miracolo dunque se gli Esseni quando Giuseppe parlava, ch’è
quanto a dire, allora appunto che le scene discorse si spiegavano
in tutta la lor turpitudine, fuggissero lungi da quelle mura
contaminate, dalle mura del tempio? È miracolo, quando
sapremo[422] le regole rigorose inflessibili che avrebbero dovuto
vegliare, e che avevano infatti in altri tempi vegliato alla purità di
quel tempio, quando sapremo dalla tradizione che ce lo narra, che
tante parti eranvi nel tempio quanti gradi vi erano nel popolo di
purità, che altro per esempio era il luogo ai Gentili dischiuso,
altro agli immondi per contatto di morti, altro ai Tebulè jom, altro
ai Mehusserè caparà, altro alle donne, altro agli uomini riservato,
ed altro infine ai sacerdoti? E quando pure queste regole comuni,
per ognun doverose, non fossero state ad ogni istante manomesse
dal disordine, dall’anarchia imperante, non avevano eglino, gli
Esseni, specialissime regole di purità, che non essendo
generalmente osservate avrebbero pericolo corso di violazione
quando commisti alla folla dei devoti fossero entrati nel tempio?
(Vedi Lezione XII.) Ma se Giuseppe accennava di porci in
imbarazzo coll’asserzione che abbiamo adesso storicamente
giustificata, non meno a prima vista riesce duro a comprendersi
quanto egli aggiunge immediatamente. Quando Giuseppe dice
apertissimo che gli Esseni sacrificavano nelle case loro, nei loro
chiostri, nel loro ritiro, non vi par egli che osti, non solo al
deposto della tradizione, ma eziandio ad un testo formale, ove
s’interdice il sacrifizio fuori del recinto sacrato? E veramente
all’uno e all’altro osterebbe Giuseppe, e non solo dalla legge
ingiustificato, ma contraddetto parrebbe ancora dalla storia
contemporanea, che non ci mostra in Palestina a fianco del
tempio pubblico nazionale di Gerosolima, nè altri tempj, nè altro
altare, nè altro culto. Che cosa dunque volle dire Giuseppe
quando parlava dei privati, dei domestici sacrifizi dell’Essenato?
Io ci ho lungo tempo riflettuto, e solo due possibili spiegazioni mi
sovvenivano all’uopo opportuno. Voi lo avete udito più volte.
Oltre gli Esseni di Palestina, oltre gli Essenici Chiostri di[423]
Terrasanta, vi erano gli Esseni di Egitto, quelli che udito abbiamo
chiamar Terapeuti, erano le case, i ritiri di Egitto. Or bene, la
storia ci ha serbato un fatto, un gran fatto, per la storia degli
Esseni, per la questione presente segnatamente. E questo fatto è la
esistenza di un tempio in Egitto, foggiato appunto su quello che
inalzavasi in Palestina, di esso contemporaneo e rivale, ed ove il
sacerdozio, il culto e sacrifizj e le forme istesse architettoniche
dell’edifizio porgevano imagine fedelissima del modello
palestinese. Furono eglino al tutto estranei i Terapeuti di Egitto,
se non altro alla elevazione, alla conservazione almeno
dell’ossequio, che ivi riscoteva generalissimo il tempio egiziano,
il tempio di Onia? Io non lo credo: non lo credo, perchè i
Terapeuti avrebbero fatto allora scissura ai fratelli alessandrini, nè
la storia ci autorizza a menar buono il supposto: nol credo, perchè
l’Esegesi tradizionale del verso citato può non aver esercitata, a
tanta distanza del centro ortodosso, l’azione sua proibitiva; non lo
credo, perchè i Terapeuti di Egitto, per quanto a parer mio Esseni
trapiantati in terra straniera, ciononostante come pianta divelta dal
suolo natio, non lasciava di offrire sembianza alquanto degenere
dall’originario sodalizio per la miscela di idee greche od egizie
colà operatesi; e non lo credo infine per un curioso cenno che la
mia stella propizia mi offriva in Maimonide. Maimonide, oltre la
grand’opera rituaria che lo ha fatto sì celebre nel Rabbinato, è
autore di un comento misnico che scrisse all’età di venti anni, e
che dettava come altre sue opere, in purissimo arabo. Or bene, in
questo comento che io dico, al 13º di Menahot, e là appunto ove
nella Misnà si favella del tempio egiziano, del suo fondatore per
nome Honiò, io trovo in Maimonide preziosissima indicazione.
Quando dice della fuga di Honiò in Egitto, quando narra del
favore trovato da esso nella[424] corte dei Tolomei, della
grand’opera intrapresa, del nuovo tempio, dei seguaci, degli
aderenti che secondaronlo, sapete chi egli annoveri tra i
cooperatori e ajutatori del nuovo Esra? Egli annovera una sètta,
sono sue parole, Kaptzar. Un pensiero mi sorrideva, mi tentava, e
comecchè da principio non osassi confessare nemmeno a me
stesso, pure a poco a poco presi coraggio, ed ora a voi lo espongo.
Sarebbe egli possibile che nell’informe vocabolo si nascondano i
Copti?[88] Ma io oso dire di più: oso dire che non al tutto sarebbe
oggi stesso difficile seguire quello strano rivolgimento di casi per
cui gli antichi Terapeuti di Egitto divennero in bocca a
Maimonide la sètta dei Copti. E questo filo conduttore, questo
filo d’Ariana nel nerissimo laberinto ce lo porge la storia. La
quale ci addita nei Copti l’antichissima, la primitiva chiesa
cristiana di Alessandria fondata da Marco; che ci narra la
confusione sino ab antiquo avvenuta, e di cui vi tenni parola nelle
prime lezioni, tra i Cristiani di Egitto e i Terapeuti colà stabiliti: le
strane pretese d’identità spiegate sino ai nostri giorni dai dottori
della Chiesa, e fondate unicamente sopra tale confusione; e infine
il nome di Terapeuta usato positivamente nei primi secoli qual
sinonimo di cristiano, di monaco, di solitario. Che cosa dunque
avvenne a parer mio? Vi era una tradizione sino a Maimonide
perpetuata, del concorso prestato ad Onio, al suo tempio, al suo
culto, dai terapeuti di Egitto. Di questa tradizione Maimonide
ebbe contezza. Maimonide che dimorava in Egitto, ch’è quanto
dire nella patria stessa dei Terapeuti, nell’antica sede del tempio
Onico, colse in Egitto stesso dalla storia, dalle tradizioni egiziane
il fatto in discorso; ma lo colse corrotto, alterato, degenere, quale
i secoli e la ignoranza lo avevan ridotto. E così alterato e
degenere lo trasmise ai nipoti. Di Terapeuti ebrei si era fatto
Terapeuti cristiani[425] di questi, con facile e legittimo transito, e
solo l’antico nome traducendo con più moderno vocabolo, si era
fatto i Copti.—E i Copti appunto disse Maimonide cooperatori di
Onio. E i Copti, ch’è quanto dire i Terapeuti, gli Esseni d’Egitto,
ebbe forse di mira Giuseppe quando parla dei privati, dei
domestici sacrifizj da loro praticati. E questo è uno dei due
sistemi possibili per ispiegare Giuseppe. L’altro è più breve, e non
vi so dire se meglio persuasivo. I sacrifizj di cui parla Giuseppe
sarebbero patrj, indigeni, palestinesi, sarebbero proprj degli
Esseni di Gerosolima; e se la legge a tali sacrifici si opponeva
non è tale nè sì generale il divieto che un caso solo non se ne
eccettui, che non sia anzi permesso raccomandato, ed a cui potuto
hanno dar opera i nostri Esseni secondo Giuseppe. E questo caso
è quando non l’Ebreo, ma è il Gentile, ma è il Pagano che offre.
Allora ogni barriera si abbassa; allora non più tempio, non più
recinto, non più limiti che circoscrivino l’adorazione umanitaria;
allora la natura quanto è vasta, un campo, una riva, la cima d’un
colle, son tempio condegno al culto di Dio; allora, secondo nostra
fede, non solo il gentile può scegliere luogo a sacrificarsi qual più
gli talenta, ma ciò ch’è sovrammodo degno di nota, egli è il
permesso all’Ebreo conceduto, di dirigerne, di regolarne
l’esecuzione, di prescriverne i modi più accetti, di additarne il rito
voluto, legittimo e già determinato dalle nostre leggi;[89] allora
vediamo i Dottori Talmudisti sul fine di Zebahim, mettersi tutto
cuore e tutta anima a secondare le pie vedute di nobili e signori
pagani della madre di Sapore, monarca di Persia, insegnar loro il
modo di sacrificar più accetto, ad assistere personalmente al
sacrifizio, a predicarlo meritorio, e in certa guisa parzialmente
antivenire quel ministerio sacerdotale che sarà proprio e naturale
d’Israele, alla fine dei tempi.
[426]
Ma noi dei sacrifizj essenici ragionando, abbiamo trovato, se
la congettura non erra, un loro tempio, il tempio di Onio in
Egitto. È questi il solo che pretenda all’onore dell’Essenato? Io
credo che di due altri tempj ragioni la storia che più o meno
possan vantare essenica cittadinanza. È l’uno quella famosissima
Proseuca o Sinagoga che sorgeva, non saprei dire se presso a
Tebe o nelle mura di Alessandria, e di cui è menzione
pomposissima nel Talmud di Succà, con qualche curiosa variante,
tra il Babilonese e il Gerosolimitano, e che rovinò per ordine,
dice il Babilonico, di Alessandro, per ordine, dice il
Gerosolimitano, e dice meglio, di Trajano l’empio, Traghianos
arasciah. Sono le altre quelle sinagoghe di cui udiste parlare in
altre lezioni a proposito della vita campestre dell’Essenato, quelle
Proseuche campestri, come le chiamano i dottori, ed in cui
parevami e parmi ancora vedere memoria degli antichi oratorj
dell’Essenato.
Ora una parola della Preghiera Essenica ed avremo finito.
Pregavano gli Esseni, dice Giuseppe, al sorger del sole, gli è
quanto dire in quell’ora istessa in cui pregavano i Vatichim del
Talmud, altro nome dei nostri Esseni, e di cui videro i dottori
nostri cenno in quel verso che dice Irauka im Sciamesc. Non
basta: Giuseppe ci porge nuovo riscontro colla preghiera dei
dottori. Gli Esseni, ei dice, non parlano di alcun affare prima del
sorger del sole. E i Farisei pure, e lo dicono e lo raccomandano e
lo osservano. Per essi, non solo gli affari, ma il conversare, ma il
saluto istesso è interdetto pria che il sole risorto e l’anima ridesta
mandino il saluto alla eterna fonte di ogni salute: tanto che vi
furono e vi sono tanti Esseni senza saperlo, che imbattutisi per via
prima di orare in un amico, usano frase che non è saluto ma è
preghiera. Ma ciò che l’animo non ardiva sperare,[427] ciò che
parrebbe superare ogni aspettazione, egli è la esistenza, la
conservazione tuttavia nella Liturgia ortodossa di un Inno, di un
Canto superstite dell’Essenato. E pure di questi miracoli, ed altri
maggiori, è capace la bella e feconda per quanto ardita erudizione
germanica. Se uomo vi è capace di dar credito e faccia di verità
ad una ipotesi egli è senza meno il Nestore dei Rabbini tedeschi,
il dotto e celebre Rapaport, gran Rabbino di Praga. Ora secondo il
Rapaport vi è una preghiera tra quelle che si recitano nel sabato,
che appartiene all’antica Liturgia degli Esseni; ed è quello un
ordine alfabetico che incomincia El adon. Credo l’opinione del
Rapaport assai verosimile, e ciò che vi parrà singolare, per quelle
ragioni appunto che altri la osteggiò. E questi è un dotto e
piissimo Rabbino Tedesco, tolto, non è molto, ai vivi, il Zebi Tro
Haiot. Il Haiot nell’Imrè Binà trova la congetura del Rapaport
inverosimile, e per quella ragione appunto la credo tale, che
dovuto avrebbe persuadergli il contrario. Egli trova nel Fur una
diversa lezione nella preghiera in discorso, trova che là ove
leggiamo Raà veitkin, vide e formò, leggere si debba invece raà
veictin, vide e impicciolì la forma lunare; e siccome tale lezione si
fonda sopra un’Agadà del Talmud babilonico, ove si dice che la
luna dicadde nella gerarchia degli astri, e di stella che era divenne
satellite, egli crede che non si possa a buon diritto supporre nelle
preghiere esseniche menzione di questa leggenda. Dico il vero, il
raziocinio del Haiot, non dirò mi sorprese, sarebbe poco, mi empì
di stupore. Possibile dissi fra me! Possibile che tanto abbia egli
negletto ed obliato così scrivendo! che abbia obliato come alla
perfine la lezione di cui favella non é la sola; ed ove l’altra, punto
all’Agadà allusiva, si addottasse, resterebbe la congettura del
Rapaport incrollata! Possibile che abbia posto in oblio, come
l’Agadà[428] della degradazione lunare sia eminentemente
Cabbalistica: e come tale, e come uno dei punti più culminanti del
Cabbalismo talmudico, sia portata in trionfo dai teosofi antichi e
moderni. Possibile che non siasi ricordato come appunto la
lezione da lui proposta prevalga tra essi alla lezione contraria;
possibile che abbia posto in non cale un fatto momentosissimo, e
che solo basterebbe a dar ragione a Rapaport; voglio dire la
importanza conceduta, i lunghi ragionamenti, le speculazioni
Cabbalistiche che fa il Zoar su questa preghiera di EL ADON: è
possibile infine come non abbia veduto che non altro essendo gli
Esseni che i Cabbalisti antichissimi, se vi è scuola a cui s’acconci
la preghiera in discorso che possa dire altamente vide e impicciolì
ec.; eglino sono senza meno i nostri Esseni, a cui in verità e tanto
meritamente l’attribuiva il rabbino di Praga. Ma se causa vi è di
tanto oblio, ella è questa una: il non avere a bastanza il Haiot
riconosciuto la identità da noi propugnata tra Esseni e Cabbalisti;
l’aver trovato disdicevole ai primi ciò che avea trovato
dicevolissimo ai secondi; e se il Haiot vivesse ancora, tanta era la
sua pietà e la dottrina, che, oso dirlo, egli avrebbe plaudito ai
nostri sforzi, e trovato avrebbe col Rapaport essenica per
eccellenza la preghiera di El adon, perchè potuto non avrebbe
negare essere la sua lezione per eccellenza cabbalistica.
[429]

[430]
LEZIONE TRENTESIMASECONDA.

I tempi, i sacrifizj, le preghiere dell’Essenato ci occuparono


nelle passate Lezioni. Noi dobbiamo con passo misurato e rapido
a un tempo procedere oltre; dobbiamo di quell’argomento
favellare che più dappresso si attiene alle cose discorse;
dobbiamo, a dir breve, ragionare delle Feste. E prima del Sabato
Essenico, siccome quello che torna più di frequente e in cui più
luminose spiccano le analogie farisaiche. E queste sono parecchie
e di non lieve momento. È la prima quella che riguarda il Muczè.
Che cosa è il Muczè? È quel divieto pel quale ogni uso e contatto
eziandio ci è interdetto di quegli oggetti, che un officio
adempiono proibito nel sabato.—Qual sarebbe a mo’ di esempio
una vanga, una scure, delle legna, delle monete, divieto
principalmente farisaico e tradizionale. E pure, gli Esseni il
conobbero, e non solo conosciuto ma praticato era dal grande
istituto, se stiamo a Giuseppe, il quale, con parole che più non si
potrebbero esplicite, asserisce a dirittura non solo astenersi gli
Esseni nel sabato da ogni opra servile, ma non osare cambiar
nemmeno un utensile di posto, ch’è quanto dire il vero e preciso
Muczè farisaico. Ma le cose che seguono non solo offrono nuova
conferma alla identità favorita, ma anche solo da questa traggono
la sola luce e intelligenza possibile; tanto senza la tradizione
nostra tornerebbero incomprensibile. Quando[431] Giuseppe,
dell’Essenico Riposo favellando, dice che da ogni necessità
naturale si astenevano se non costretti, che cosa volle dire
Giuseppe? Oso dire che le parole di Flavio riuscirebbero strane,
ridicole eziandio, ove al contatto non siano poste della tradizione
farisaica.—Ma poste di questa a riscontro, qual cambiamento!
Non è dessa che l’uso interdiceva dei purganti nel sabato ove
pericolo non corrasi della salute? non è dessa, che alludendo ad
uso allor comunissimo, proibiva eziandio quegli emetici che non
solo a ristoro della salute perduta, ma per istudio eziandio di
crapula, d’intemperanza solevano prendere i parassiti romani?
Certo che è dessa, è la tradizione che di tali cose ragiona, ed essa
pertanto ci offre quella sola intelligenza possibile all’uso essenico
che ricorda Giuseppe.—Ma il terzo punto che concerne il sabato
essenico, non meno degli altri eloquente depone in favor nostro.
Se gli Esseni, come attesta Giuseppe, portavano abiti distinti nel
sabato, se onoravano anche nella loro persona il riposo sabbatico,
che segno è? Egli è segno che gli usi, che le pratiche, che le
interpretazioni eziandio adottavano dei Farisei, perchè appunto
egli è da una interpretazione a Isaia, che trassero i Dottori
l’obbligo di recare vesti distinte particolari nel sabato.
Per le Feste, non è questa la prima volta, che ne udite parlare.
—Quando cercavamo la derivazione essenica dagli antichi
Hasidim, voi lo ricordate. Noi parlavamo di una festa Terapeutica
in cui mille spiccavano analogie colla festa della Scioabà; e noi
lasciavamo allora indeciso se, salvo il ceremoniale e il
solennizzare che era senza dubbio conforme, la stessa festa, lo
stesso giorno fosse dagli uni e dagli altri in modo così conforme
solennizzato. Ciò che allora mi pareva dubbioso, mi sembra oggi,
non so se a torto, indubitato. Io credo che[432] salvo il Rito, e lo
ripeto che era conforme, la Festa di cui parla Filone, quella non
sia di cui parla il Talmud, non sia cioè la festa dell’autunno, la
Scioabà, ma sia per contro la Festa delle Settimane del Pane
terreno e del Pane celeste, della terra e del cielo fecondi, la festa
di Sciabuot. Io oso dire che se avessi dovuto scegliere a libito
mio, qual festa tornar potesse più acconcia al mio sistema, quale
più di ragione mi fornisse nelle mie congetture, io non avrei altra
festa potuto scegliere se non questa. E pure non l’arbitrio mio, ma
le autorità irrecusabili degli antichi ce lo attestano.
E non solo attesta, come dissi, che quella festa era la festa
delle Settimane, ma due grandi insegnamenti eziandio ne
somministra nell’esporne in primo luogo la teoria e in secondo
luogo nel narrarne la pratica. La teoria! Io oso dire che non
potrebbe essere più consentanea al vero spirito della Bibbia, e alle
più famigerate teorie cabbalistiche. Quando Filone espone le
Dottrine terapeutiche sulla festa del Sciabuot, ci pare l’eco fedele
delle idee più frequenti e più proprie dello Zoar; ci pare, ciò che è
veramente, che uno sia l’insegnamento, una l’origine, una la
scuola. Quando Filone fa dire ai Terapeuti il Sette numero
santissimo, e quindi santissima la Settima Settimana dopo l’èra
nazionale della Pasqua, quando lor fa dire la Settima Settimana
casta e sempre vergine, dice cosa che inchiude un mondo d’idee
cabbalistiche, che accenna in mille guise a quelle riposte dottrine,
che riproduce in modo esattissimo, non solo i simboli e le
espressioni più favorite, ma li produce in modo che più non si
potrebbe opportuno. Perocchè egli è appunto intorno
all’argomento del Sciabuot, che si accumulano, che si affollano
nei libri teosofici le idee, i simboli uditi poc’anzi in nome dei
Terapeuti, che tu odi, come udito abbiamo dagli Esseni
preconizzare, glorificare[433] il Settenario, e quello venerare nella
Settima settimana, che ricorrono, come ricorsero appo gli Esseni,
i nomi, gli appellativi per la Settima settimana di casta e vergine
Bat Scebah, Betulat israel; e che la festa del Sciabuot tu odi come
intendevamo or ora dagli Esseni, chiamata il Settenario Sacro e
solenne nel Ciclo Annuale.
Ma io dissi che non solo la teoria, ma anche la pratica da
Filone narrata non riuscisse meno preziosa pel nostro assunto. Io
vorrei avere tra i miei uditori coloro che tolsero a testo delle loro
declamazioni l’uso prevalso tra noi di vegliare la notte intera in
letture, in meditazioni devote, la notte di Pentecoste, la notte, dice
il Zoar, in cui la Sposa s’apparecchia pel talamo nuziale; vorrei
che fosse tra gli altri il nostro venerando Luzzatto, e ch’egli, a cui
niuno può far da maestro, vedesse quanto giova lo studio
dell’Ebraismo extrarabbinico, qual’è a mo’ d’esempio la storia
delle sètte, per la rivendicazione di certi veri che non prendono
faccia di menzogna se non quando sono isolati da tutte le
manifestazioni contemporanee dell’idea religiosa. Egli che nel
suo recente vicuah apriva la scena con un pio consesso, con una
veglia religiosa per mostrarne, s’intende, la inanità e la fatale
rovina col rovinare della base che è lo Zoar che la preconizza;
egli così schietto e disinteressato cultore del vero, venga e veda.
Veda i Terapeuti, che noi abbiamo sempre predicato antenati dei
Cabbalisti, darsi in quella sera istessa in cui si danno i loro tardi
nipoti, non già a quelle letture, a quelle pratiche istesse, a quel
programma inalterato che vediamo oggigiorno seguito, perchè chi
questo esigesse, esigerebbe l’assurdo; ma darsi a preci, a canti; e
poichè nel recinto del Tempio di Gerosolima i Hasidim si davano
pure alle danze, ed essi ancora i Terapeuti, come attesta
Filone[434] medesimo, intrecciare parole, e poi all’alba, come
udiste altra volta, di nuovo orare, e tutta insomma quella notte
trascorrere in offici che se non hanno la forma istessa dei tempi
moderni, ne hanno lo spirito. E poi, potrò io tacerlo per timor di
sorprendervi? potrei negare che quella danza istessa, che urta
tanto gli abiti, le idee, i pregiudizj contratti, che vi sembra, me lo
figuro, sfidare tutti gli sforzi che io spendo a trovarne le vestigia
fra noi, è tuttora visibile in qualche parte di mondo, ove si voglia
frugare per entro ai costumi dell’universal ebraismo. E perchè
dovrò tacere ciò che io ho veduto? Perchè non dirvi non solo che
l’uso di danzare in Simhat torà è costume predominante tra gli
Ebrei di Africa e di Oriente, ma che nella mia più tenera infanzia
io stesso ne fui spettatore? E il santo e pio Coribante era un
dottore che Livorno vide prima opulente e generoso sino alla
prodigalità, e poi povero e anche più generoso, che amai
fanciullo, e stimai e rispettai giovinetto siccome quello che mi
parve di cuore e mente nobili elevatissimi, e che, a rovescio del
ritratto di Petrarca che disse sotto biondi capei canuta mente,
conservò già vecchio la candida, la fervida poesia del cuore: egli
dotto, ingenuo, facondo, civilissimo familiare in Londra de’ lord
John Russel e del Duca di Cambridge, cultore anzi adoratore di
ogni sapere, ma più adoratore della patria nostra antichissima che
sospirò negli anni suoi tardi, dove trasse, stanco dei favori e dei
disfavori della fortuna, e dove pochi giorni dopo il suo arrivo
morì di morte repente, per un bacio divino dicono sublimemente i
dottori, Mitat Nescicà il giorno stesso di Sciabuot mentre
compieva l’atto suo più favorito, mentre parlava. Ed ei danzava e
nel suo privato oratorio con leggiadrissimo e piccolissimo
Pentateuco alla mano, rinnovava la scena dei Terapeuti, ed io
fanciullo stupefatto guardava, e poi risi, e più tardi[435] pensai, ed
ora intendo.—E voi pure, ne son sicuro, intendeste. Intendeste
come la danza dei Hasidim veossè Maasè nel tempio di
Gerosolima, la danza dei Terapeuti che narra Filone, la danza del
santo dottore che ora udiste, sia un atto solo ripetuto in luoghi e
tempi diversi, l’espressione identica di un sol culto, di una sola
scuola, che si chiama ora Hasidim, or Esseni, or Terapeuti, ora e
proprio ora Cabbalisti sempre gli stessi e sempre diversi, sempre
gli stessi nella sostanza, sempre diversi nella forma e nei nomi. E
sopratutto intenderete il solenne insegnamento, ch’emerge dal
soggetto principale del confronto presente, le veglie esseniche e
cabbalistiche di Sciabuot in pari modo osservate dalle due scuole
tra i primi, tra gli Esseni in alta e incontestabile antichità, tra i
secondi in tempi a noi più vicini, ma che posti coi primi al
contatto ne formano seguito e anella indivisibili, osservate da
entrambi per le stesse ragioni, espresse da entrambi cogli stessi
simboli, trascorse da entrambi in atti religiosi se non al tutto
conformi.
E ciò che vi parrà, ne sono certo, aperto contrassegno di verità
è il linguaggio che tiene lo Zoar a proposito delle veglie
medesime. Non basta allo Zoar datare le veglie in discorso da R.
Simone e dai suoi colleghi, ciò che bastato sarebbe a un
impostore. Lo Zoar con uno sguardo retrospettivo, che non è
comune troppo nelle sue pagine, ricorda tempi, uomini, esempj,
più antichi come più antichi certo del Ben Johai furono gli
uomini, i tempi, gli esempj dell’Essenato, nei quali e pei quali le
veglie in discorso erano già state introdotte in Israel. E con quali
parole ricorda lo Zoar quei tempi più antichi! Con frase che
designa direttamente il grande Istituto, se le tante cose dette in
queste lezioni sul vocabolo Hasidim non furono invano. E se nol
furono, come non credo, chi non sarà di dolce sorpresa assalito
leggendo[436] nello Zoar di Emor queste parole: E per ciò i
Hasidim antichissimi non dormivano in questa notte: in cui la
parola Hasidim non comune nello Zoar è acconcia propria
speciale che nulla più all’epiteto Cadmaè antichi che segue
dappresso, essendo, come dissi più volte, il nome di Hasid
proprio ai Cadmaè cioè agli antichi progenitori dei Zoaristi, agli
Esseni e Terapeuti, anteriori certo allo Zoar e allo stesso R. S. B.
J. E non solo il passo citato favella dell’uso in discorso, ma la
Prefazione eziandio dello Zoar a pagina 8 diffusamente ne parla.
Parla dell’uso come da lungo tempo introdotto, degli uomini che
si davano opera, e che sono evidentemente non già i Farisei
indistintamente, ma quella parte più eletta che si chiamano
habrajà dibnè ekalà deeallà. Si parla di nozze, di tripudj nuziali e
quindi l’idea risveglia di danze e di canti; si parla di paraninfi,
della mistica sposa che sono i dottori rammemorati; si parla nei
libri posteriori della recitazione del Cantico dei Cantici mistico
Epitalamio, e quindi sommamente consenziente alle idee
preaccennate. Si parla di Tebilà nel mattino seguente di Sciabuot,
come abbiamo veduto i Terapeuti di Filone dopo i riti notturni
purificarsi con generale abluzione, e questo è notevolissimo
riscontro come vedete. Infine uno dei punti delle pratiche stimate
meno autorevoli dei Cabbalisti riesce così storicamente
rivendicato.

[437]
LEZIONE TRENTESIMATERZA.

La prima parte della essenica vita, della essenica pratica,


vuole essere qui terminata, la vita, la pratica religiosa.—Dopo i
tempj, i sacrifizi, le preghiere studiate nella prima Lezione, dopo i
sabati, le feste studiate nella successiva Lezione, vuolsi qui far
menzione di due fatti che la storia degli Esseni ci ha tramandati, e
che possono agevolmente in un fatto convertirsi. Riguardo al
primo, l’essenico giuramento, non quello che lo iniziato
pronunziava al suo ingresso, ma quello comune, ordinario, legale
che si prestava innanzi ai giudici. Se stiamo a Giuseppe, gli
Esseni reputavano spergiuro il giuramento istesso comunque
veridico.—Giuseppe non si spiega di più, ma le analogie
farisaiche, la legislazione ebraica del giuramento non solo
spiegano, ma limitano e circoscrivono nei termini del vero, del
verosimile l’asserzione di Giuseppe. Gli Esseni non possono
avere considerato spergiuro quel sacramento prestato in modo
legittimo pro tribunali, ed in quei casi, in cui non solo la legge il
consente ma imperiosamente lo esige. Se questi pure avessero
involto gli Esseni nella comune riprovazione, se detto avessero
colpevole un atto chiarito da Moisè innocente, e talvolta altresì
doveroso, potrebbero più dirsi veraci Ebrei, come pure lo erano
eminentemente i nostri Esseni? potuto avrebbero al tempo
stesso[438] tributare quella venerazione stragrande all’uomo
divinissimo che pur tributavano a segno, come dice Giuseppe, di
proclamare sacrilego chiunque meno che reverente favellasse
dell’uomo di Dio.—Che se la ragione, la storia, i fatti più ovvj
escludono questa lata, assurda interpretazione di Flavio, che cosa
resta nella sua asserzione? Nulla a parer mio che mai sia, non solo
in grado sommo conciliabile colla legge e le tradizioni farisaiche,
ma anche che da esse e solo da esse tragga luce ed intelligenza
adequata. Restano i giuramenti insulsi comunque veridici, lo
affermare con sacramento fatti notorj incontestati, di colonna
marmorea, come dice il Talmud, che è di marmo, di fatti pubblici
incontesi che sono avvenuti, e quella insomma molto diversa dal
falso giuramento che reca il nome di vano ed insulso e si dice
legalmente Sebuat Sciav. Ma questo stesso quanto non giova al
nostro assunto! Se ricusato avessero gli Esseni la tradizione
farisaica, se dello spirito dei dottori non fossero pieni, se una sola
scuola non avessero con essi formato, avrebbero eglino col solo,
col nudo testo alla mano, il giuratore insulso dichiarato
spergiuro? Io ne dubito, e tanto più esiterei ad ammetterlo quanto
più i testi sembrano favorire l’equivoco tra il Sciav e il Sceker, e
presentarle ambidue come identiche espressioni di un sol giuro. E
se ogni altra prova mancasse, basterebbe questo fatto soltanto,
basterebbe vedere la duplice versione del Decalogo servirsi
sempre del vocabolo Sciav nel quale non potrebbe non vedersi il
vero spergiuro, il falso giuramento. Che se la sola tradizione, il
solo farisaico può avere agli Esseni amministrata la legale
nozione del giuramento insulso, che sarà poi ove nello stesso
giuramento vero legittimo, necessario vedeste le due scuole
porgersi amica la mano, e se i Farisei non disdicendo, come disdir
non potevano, il giuramento legale, pure li vedeste[439] ristringere
nei limiti che più poterono angusti. Se ne circoscrissero
l’applicazione, ed anco nei casi indispensabili lo infamarono? Vi
è un luogo d’oro nel Tanchumà ove il prescritto del
Deuteronomio «ad esso ti attaccherai e pel suo nome giurerai»
ove l’autorevole, il legittimo giuramento è a tali e tante
condizioni subordinato, di morale, di religione, di virtù
pellegrine, che pochi sarebbero coloro che nei secoli più perfetti
ne sarebbero degni.
E sono quelle che precedono il verso citato, il pel nome suo
giurerai.—Il timore di Dio nella sua più vasta e nobile
significazione—il culto perfetto—l’attaccamento, l’amore in cui i
dottori pongono il colmo della perfezione religiosa. Ecco secondo
i dottori chi può impunemente subire del giuramento la prova. Ma
oltre i limiti e la repugnanza nell’applicazione, oltre le condizioni
di morale squisito imposte al giuramento,—i dottori nostri ai
litiganti che invocavano in causa il giuramento, imposero il titolo
infamante di Resciaim, empj, e non solo tali li dissero sui loro
libri, nel loro foro interiore, ma legale e pubblica sanzione
dierono a questo titolo ingiurioso nel fôro esteriore, e lo dierono
quando statuirono tra le formalità del giudizio civile, che dopo
avere il giudice colla solenne formola del Scun o vuoi Monitorio,
intimato alla coscienza del giurante le gravi pene dalla legge
sancite, e la voce del Sinai minacciosa ripetuta ancor una volta al
cospetto dei litiganti, che ove, dico, le parti insistessero
nullaostante nelle loro pretese, che tutti ad una voce intuonassero
i presenti quel verso con cui Mosè allontanava dalle tende ribelli
turbe innocenti e: Lungi, dicessero, lungi dalle tende di cotesti
malvagi; nè vi appressate a cosa che loro spetti, affinchè involti
non siate nel loro sterminio, volendo alludere alla colpa presunta
di ambo le parti, colpa d’insulso[440] o di falso giuro, nel
debitore, colpa d’irregolare procedimento e d’imprudente fiducia
nel reclamante, e tutti e due causa più o meno colpevole della
invisa e dolorosa necessità di giurare.
E queste paionmi già abbastanza eloquenti antologie tra
Farisei ed Esseni. Ma ciò che vado ad aggiungere è, oso dirlo, di
bene altra importanza. Se ciò che prova la identità generica
dell’Essenato colla scuola de’ Farisei, egli è, com’è veramente, di
non lieve momento, che saranno quelle prove che distinguendo
l’Essenato dal comune dei Farisei lo confondono, l’identificano
specialmente con quella parte di essi che si dicono Cabbalisti? Se
tra il silenzio del farisato talmudico e la formale e solenne
asserzione del farisato cabbalistico, vedremo gli Esseni a questi
ultimi associarsi e con essi alta e solenne levare la voce in favore
di un principio, di un divieto, di una legge taciuta dei Farisei, non
sarà egli il più bello, il più urgente, il più irrecusabile argomento
in favor della identità propugnata? E che direste se questo
singolare fenomeno si avverasse, se un divieto sconosciuto al
Talmud, strano, paradossale eziandio secondo il Talmud, fosse
dagli Esseni e insieme dai Cabbalisti, e da essi solo,
solennemente affermato? E pure nulla di più vero, di più
dimostrato. E pure, se ognuno volesse dire a sè stesso, tutto il
valore della concordanza presente la identità essenico-
cabbalistica, non sarebbe più un problema, e pure se questo fatto
solo emergesse dal confronto delle due sètte, bastare dovrebbe a
ingenerare grave sospetto d’identità, alla critica più severa. E
questo fatto spicca luminoso in Giuseppe, in Filone e poi nel gran
Codice Cabbalistico, nel libro del Zoar. In Giuseppe quando
interpreta il verso dell’Esodo Eloim lò tekallel quando vi trova,
singolare a dirsi! il divieto di maledire, di bestemmiare eziandio i
numi gentili. In Filone quando il verso stesso[441] nel modo
istesso interpretando, ci trova il rispetto dovuto eziandio alle
straniere divinità. E nel Zoar infine, in quel luogo d’oro ove R.
Abbà, il compilatore stesso della grand’opera, scrive parole
memorandissime che nessuno sospetterebbe potere trovare in
libro così ascetico; e che perciò stesso si può credere informato di
uno spirito di gretta, di meschina, di esclusiva osservanza. E pure
quanto vaste e grandi sono le idee! E non solo la teoria il fatto
viene ivi stesso a confermare ed attuare il principio; e la conferma
e l’attuazione per felicissima coincidenza, è opera non di uno, di
sei dottori Cabbalisti, e tra questi più esplicito proclamator del
principio, il dottore dei dottori, R. Simon Ben Johai. Io traduco e
voi giudicate, e giudicando spero non troverete troppo enfatico il
mio annunzio. Disse R. ABBÀ: «Ognuno che bestemmiato abbia
lo suo Iddio, ricade sopr’esso il suo peccato. Vieni e vedi;
quando furono gli Israeliti in Egitto, conobbero quei duci della
natura che presiedono sopra i popoli universi, ed ognuno di essi
fatto se n’era un Dio speciale. Quando furono a Dio stretti col
vincolo della fede.—(vera etimologia di religione, come dice
Cicerone, a ligando), ed appressolli Iddio al suo servigio, da quei
numi si separarono ed avvicinaronsi alla fede suprema e santa. E
perciò è scritto: Ognuno che bestemmiato abbia lo suo Iddio,
ricade sovr’esso lo suo peccato; imperocchè comunque Iddii
alieni siano cotesti, cionnonostante avendoli io costituiti a duci
per governare la terra, chiunque bestemmi, o dispregi il nome
loro, certo sovr’esso ricade il suo peccato, perciocchè miei servi
e ministri sieno essi nel governo delle cose create: ma chiunque
bestemmia il nome di Dio, non solo come gli altri iniquamente
opera, ma la presente e la eterna morte sarà al suo fallir pena
condegna. E questo è il principio ben chiaro, bene esplicito, bene
eloquente, e[442] per eccellenza essenico, come vedete, senza che
io spenda altre parole per comentarlo. Ma io vi dissi che, per non
comune ventura, alla teoria seguiva nel Zoar immediatamente la
pratica, ed il fatto viene in buon punto a dare il più bel comento al
principio. Ed eccolo testualissimo. R. Simone procedeva per via,
e con esso erano R. Eliazar, R. Abbà, R. Hijà, R. Josè e R. Jeudà.
Giunti che furono ad un laghetto di acqua (notate che le parole
testuali sono orribilmente oscure e i più grandi interpreti eziandio
confessano di andarci a tentoni), stese la mano R. Josè per
raccogliere nel pugno acqua per bere, sendo egli assetato, ma
preso da impazienza, forse per l’acqua melmosa, o perchè stette,
come vogliono altri, per sdrucciolare: O Lago! sclamò, deh tu
non fossi!—Dissegli R. Simone: Reo è il tuo parlare; ministro è
questo della natura, e rea cosa è il vilipendere i ministri di Dio, e
tanto meno si dee farlo, per quelle creature veracissime
ch’esistono per legge del supremo imperante. Nel quale passo per
cogliere tutti i preziosi reconditi documenti, mestieri è molte cose
ricordare; ricordare il culto paganico dei fiumi e dei laghi, e
meglio dei genj che ai fiumi e ai laghi presiedevano e in grazia
del qual culto proibirono i dottori macellare animali di ogni
maniera in riva all’acqua, quasi fosse omaggio prestato alle
Najadi, e ai Tritoni; ricordare poi il culto in genere all’acqua
prestato dagli Arabi contemporanei che i dottori dicono Cadriim;
ricordare il conto grandissimo che gli Esseni facevano delle rive,
lo spirito profetico che si sviluppa secondo i dottori più
agevolmente sull’acque correnti, e di cui a dilungo parlammo;
ricordare le acque, simbolo veneratissimo, come dicemmo in non
remote lezioni, presso i Talmudisti, i Cabbalisti in ispecie; e
soprattutto notare quel bel pensiero di R. Simon Ben Johai, che
non è persino i più vili oggetti della natura corporea, su cui
un[443] raggio non si diffonda, benchè pallido e lontano, della
gloria di Dio, nella quale tanto più davvicino si illustrano, si
beatificano quelle che il Zoar dice Creature veraci, che vivono
nella legge del Supremo Imperante, ch’è quanto dire gli Esseri
Ideali, gli intelletti separati, come dicea la scolastica, i quali
vivono in Dio come Paolo disse in Dio viviamo.
Noi abbiamo conchiuso quanto a dir avevamo sul culto
religioso degli Esseni, o per dir meglio di quella parte delle loro
pratiche, che a Dio si riferisce. Però mestieri è che io ricordi,
quando nelle primissime lezioni favellavamo dell’origine
dell’istituto, molte cose discorse abbiamo al culto di Dio attinenti,
che per non menare troppo a lungo la nostra istoria, o furono qui
per brevità trapassate, o solo un cenno ne fu dato a rinnovarne la
rimembranza. Fra questi sono gli Inni religiosi che la storia narra
posseduti dai Terapeuti, che dicevano redati dai loro antichissimi,
che cantavano, come vedemmo, nelle feste e nei pranzj, e di cui
trovammo corrispondenza tra i Cabbalisti antichi e moderni, e
specialmente in uno dei grandi protagonisti del Zoar, nel figlio
stesso di R. Simone Ben Johai che non il Zoar, sarebbe poco, ma
il Jerusaalmi chiama Pajat e Carob. e Tannaj.
Fra queste le danze sacre, non quelle dei Terapeuti di cui
discorso abbiamo anche troppo ora a dilungo, ma quelle dei
Hasidim Veaosè Maasè, di cui favella la Misnà, che avevano a
teatro le aule del tempio, quella di Illel che diceva danzando Im
aní can accol can, parole pregne rigurgitanti di sensi cabbalistici
siccome vorrei dimostrarvelo, se l’ora lo consentisse; quelle che
dice il Talmud meneranno gli spiriti beati intorno all’Eterno, Sole
della vita, come la Rosa dantesca si muove in giro danzando
intorno il sole degli angioli, come Dante diceva, e se più oltre
volessimo spingere lo[444] sguardo, le danze astronomiche degli
antichi, siccome astronomiche erano quelle dei Terapeuti, quali
raffigurano, dice Filone, nelle loro danze, udite bene una imagine
dei cori e delle armonie celesti, lo che solo potremo intendere
quando sapremo la Teoria dei Pitagorici, coi quali tanto confonde
e assimila Ilario i nostri Esseni, e che vollero gli astri muoversi
secondo le leggi della musica, e tra pianeta e pianeta viddero
quelle stesse distanze musicali che Pitagora il fondatore si dicea
avere trovato, tantochè il roteare degli astri formava, a detta dei
Pitagorici, quella che essi chiamavano, e che restò celebre nella
storia della filosofia, col nome di armonia delle sfere. Ora il
nostro secolo—gli Arago, gli Herschell, i Leverrier non credono
più all’armonia delle sfere. Ma l’armonia pitagorica, a cui niuno
secolo potrà discredere se non è suicida, è quella che i pitagorici
annunziarono al mondo quando dissero anche per l’anima umana
essere l’Anima un’Armonia. Parola profonda che vorrebbe un
volume per comentarla, e che basterebbe a provarla quella divina
potenza che è in noi d’intendere, di cogliere ogni maniera di
logica, di musica, di morali armonie. E voi ne date prova
luminosissima comprendendo sì bene quelle che io tanto
disarmonicamente vo proponendovi tra le grandi scuole del
nostro popolo, tra gli Esseni, i Farisei e Cabbalisti, i quali sono i
veri astri che si muovono nell’orbita eterna, che Dio loro ha
segnato negli splendidi, nei sereni cieli del vero e del santo.[445][90]

[446]
LEZIONE TRENTESIMAQUARTA.

L’ultima parte della Storia degli Esseni, quella che riguarda il


loro culto, la loro pratica, fu da noi in tre parti secondarie divisa,
parte religiosa, parte privata, e parte pubblica. Della prima
abbiamo parlato quanto meglio ci è stato concesso: ora diremo
della seconda, di quella che ci narra i costumi e le virtù eziandio
private dei nostri Esseni. Egli è d’uopo poi che d’una cosa io vi
prevenga. Molti fatti vi sono alla privata vita appartenenti dei
nostri Esseni, che in questa parte della loro storia non avranno
menzione, e non l’avranno per la semplicissima ragione che per la
natura loro organica fondamentale l’ebbero, e l’ebbero
diffusissima, allorchè della prima parte ci occupavamo di questa
storia della istituzione dell’Essenato. Allora, voi, lo ricordate, la
tavola e i particolari tutti ad essa attinenti, gli abiti e le loro
varietà, il celibato, e lavori, le occupazioni, gli studj furono
subbietto, che a dilungo trattammo, ma che non lasciano per
questo di essere vere e proprie esseniche pratiche. Per che allora
piuttosto che adesso ne facemmo menzione? Perché meglio tra gli
istituti annoverati che tra le pratiche? Io già ve lo dissi, perchè
non solo mere e nude pratiche son esse, ma vere e proprie
istituzioni, ma elementi integrali della essenica esistenza, e perciò
tra le istituzioni le abbiam collocate. Di queste[447] dunque più
non si parli, e sol di quelle si faccia menzione che questo carattere
non ci offrono organico, fondamentale.
E prima, la nettezza, la proprietà.—Era essa, dice Giuseppe,
studio precipuo dei nostri Esseni; e ad essa particolarmente
miravano nel sodisfare ai naturali bisogni. Noi siamo in pien
Mosaismo, quando Moisè raccomanda di tener sgombro il campo
di ogni immondizia, quando vuole che niuna traccia rimanga alla
luce del sole, delle impurità corporali, quando, ciò che più monta,
la scrittura designa l’atto vilissimo con una parola che dipinge
l’attitudine stessa che prendevano i decentissimi Esseni, quando
lo chiama Cuoprimento di piede, leassek et raglau, non fanno
altro e Scrittura e Mosè che preludere alla rigida proprietà o
decenza dei nostri Asceti. Ma che direte quando vedrete, siccome
è proprio di ogni idea primitiva, radicarsi l’elogio, il dovere della
proprietà, in una parlante e bellissima sinonimia? Vi è una parola
nella lingua ebraica che attesta quale idea nobile elevatissima si
formassero i primi suoi parlatori della proprietà corporale, e
questa parola è Nachi. Nachi in ebraico vuol dir certo proprio,
netto, decente, ma sapete che altra idea eziandio vi si acchiude?
L’idea di una nettezza ben altrimenti superlativa, l’idea di purità,
d’innocenza, di morale irreprensibilità. Avvi forse lingua che
offra fenomeno così fatto? Or che diremo dei nostri dottori? I
quali s’ebbero in pregio la proprietà corporale; lo dicano quei
placiti infiniti che si leggono nei loro volumi, e per tutti lo dicano
quei due eloquentissimi testi che vado ad esporvi.—È l’uno quel
tratto curiosissimo del Medrasc ove traendo partito dagli usi
contemporanei, dalla custodia gelosissima che si faceva su per le
piazze, delle imagini, delle statue, dei ritratti dei Cesari, conclude
a fortiori, quanto più ragionevolmente si debba[448] il corpo
nostro serbare netto, proprio, decoroso, poichè il nome pure
meritossi d’imagine e similitudine di benaltro Augusto, di Dio
sempiterno. Ma se il passo, esso citato, è ammirabile per
leggiadro confronto, per storiche allusioni, per un sapore di
contemporaneità che solletica piacevolmente, quanto l’altro non
sovrasta per più speciale attinenza coi nostri Esseni? Spero che
non l’avrete obliato. Vi è in fondo al Talmud di Sotà un
frammento preziosissimo per questa storia che porta il nome di
Barraità, di R. Pinechas Ben Jair. In questa Barraità non è frase,
non parola che non interessi, e grandemente, il nostro istituto. E
in parte lo vedeste voi stessi quando vi additai in quella scala, che
tale è veramente, di morale perfezione, il Hasidut (che è lo stato
in cui vissero i nostri Esseni) occupare quasi la cima di quella
morale gerarchia, e condurre immediatamente al Ruah acodes o
Spirito Santo, che è quasi la transumanazione dell’anima umana,
mentre vive nel corpo. Or bene: il primo grado di quella mistica
scala, la porta quasi che mena alle aule celesti, è appunto la virtù
che ora ci occupa, la proprietà. E se a questo aggiungete il nome
che porta in fronte scritto la citata Barraità, quel nome che tanto
dice di R. Pinechas Ben Jair, il suocero amatissimo di R. Simone
Ben Johai principe dei Cabbalisti e Cabbalista egli stesso, e dei
più insigni come si vede nello Zoar; se aggiungete le altre non
meno belle analogie discorse in altre lezioni, ei non sarà senza
grande ammaestramento che la proprietà, virtù tanto Essenica per
eccellenza, forma quasi il vestibolo per cui si entra nelle più
segrete parti del grande edifizio. Ma i dottori non si limitarono a
predicare e celebrare la proprietà in modo generalissimo:—la
loro mente così alta non sdegnò scendere basso, molto basso; e le
più minute applicazioni studiare, e tutto prescrivere[449]
determinare nella vita dell’uomo la proprietà consentanea.[91]
Ma Giuseppe un’altra minuzia ci ha pure conservata della
essenica vita, che ha certo il suo pregio. Quando noi ragionavamo
dei superstiti simboli dell’Essenato, di quelle forme a così dire
oggi vuote di senso, ma ove il pensiero essenico si era una volta
rinchiuso, voi lo ricordate certamente, noi facevamo allora
menzione di quel principio di antagonismo, che gli Esseni
esprimevano coi nomi di destra e sinistra, la prima chiamando
fausta e buona, l’altra rea e veramente sinistra; nè posso qui
tacere, giacchè l’omisi a suo luogo, che questo antagonismo
venivano eziandio esprimendo talvolta coi nomi di giorno e di
notte, simbolo se altro fu mai cabbalistico per eccellenza, come fa
fede la celebre dualità o Sigezie che il nome reca appo i mistici di
Giorno e di Notte, Middat iom umiddat lailà. Or bene: quando di
Destra e Sinistra favellava, io vi dissi allora che una pratica
essenica da quel principio s’ingenerava, e di cui a luogo suo ne
avrei tenuto proposito. Questo luogo è il presente, e la pratica
essenica, onde si parla, ci offre nuova occasione di ammirare lo
spirito e gli atti uniformi di due scuole che furon sin’oggi credute
diverse, e che l’esperienza e l’esame intrapreso perpetuamente
identifica. Quando Giuseppe ci parla del rispetto che gli Esseni
avevano per la destra, quando dice che si astenevano dallo sputare
da quel lato, fu nessuno che sospettasse le analogie bibliche e
farisaiche? Delle prime non dirò, che troppo più lungi ci
condurrebbero che non vorremmo. Ma come tacere delle altre? E
se pure tacere volessi di quei tanti infiniti casi, in cui negli atti di
religione la destra vantò il primato, come tacere del caso in
termini da Giuseppe accennato? Chè tale esiste veramente, e per
perfetta medesimezza ammirabile[450] nelle pratiche farisaiche.
Pei dottori, pei Farisei lo sputare, specialmente nella preghiera, se
è concesso di dietro, se è concesso a sinistra non è concesso a
destra; e il divieto più che non si crede antico muove non solo dai
più antichi Trattatisti, quali sono Maran e Muram, ma vanta
esplicita menzione nel Jeruscialmi, che è quanto dire nel più
antico dei due Talmud. Ma il rispetto alla destra non finiva con
questo e Giuseppe stesso ce lo ammonisce. Reputavasi, ei dice,
grande increanza porsi in mezzo o a destra dei lor maggiori. E
quest’uso, perpetuatosi fino a noi, ha antica e manifesta sanzione
nel Galateo dei dottori. Per essi, tre che vadan per via, in mezzo si
ponga il maestro, a destra il maggiore, a sinistra il minore. E non
solo il consiglio non potrebb’essere più perentorio, ma il titolo
con cui infamano chi lo prevarichi, conferma, se è possibile,
l’indole essenica di tal prescritto.—Chi procede, dicono altrove, a
diritta del suo maestro, è Bur. Ora che cosa è Bur? Noi il
chiedemmo altra volta, e la risposta ci venne eloquente da un
frammento d’Abot.—È l’opposto di Jerè ket; e Jerè ket, e questo
non meno ci fu fatto palese, è il primo grado che all’altro più
eccelso mena di Hassid.
Ma le cose discorse finora debbono cedere il luogo a
considerazioni di gran lunga più rilevanti. Il silenzio essenico, il
silenzio imposto ai suoi membri come dovere sociale, è più che
un uso, più che una consuetudine; e non poco ristetti dubbioso se
tra le istituzioni meglio che fra le pratiche non avessi dovuto
annoverarlo. Dovunque però collocare si voglia, non si potrebbe
disconoscerne la importanza; basta ricordarsi ciò che disse
Giuseppe. Quando Flavio, porgendo ai Pagani una imagine delle
sètte ebraiche, diceva gli Esseni i Pitagorici dell’Ebraismo,
diceva una breve parola: ma quanto eloquente! Noi abbiamo le
mille volte veduta l’asserzione[451] flaviana alla prova, noi la
vediamo anch’oggi a proposito del silenzio, e sempre vera e
sempre confermata dai fatti. L’istituto dei Pitagorici è celebre per
la virtù del silenzio comandata ai suoi membri, ed a niuno
meglio, a parer mio, se ne addice la pratica, siccome quello che, a
somiglianza delle consorterie sacerdotali antiche di Oriente e di
Occidente, serbò sempre inalterate le fattezze ieratiche
tradizionali, religiose per eccellenza, che in parte ma meno
profonde si trasfusero nei sistemi susseguenti dei Platonici, e
degli Stoici antichi e moderni. Ma se Pitagorici erano gli Esseni,
al dire di Giuseppe, Pitagorici, erano a detta sua, dell’Ebraismo,
ed è in questo, ed è nelle viscere dell’Ebraismo, nella sua storia,
nelle sue idee, nei suoi dottori che dobbiamo investigare le origini
del lor silenzio, e tanto più imperiosamente a noi ne corre
strettissimo l’obbligo, siccome quelli che abbiamo
incessantemente proclamata la identità generale di Esseni e di
Farisei, e quella specialissimamente di Esseni e di Cabbalisti.—
La storia ebraica consta di tre grandi momenti—Bibbia, Dottori
esoterici e Cabbalisti; ed è in tutti che noi dobbiamo cercare le
segrete radici del Silenzio dell’Essenato. La Bibbia è il tesoro del
pensiero antico nazionale dell’Ebraismo, ed è appunto siccome
tesoro che solo nelle parti più ascose, nelle segrete profondità
della lingua, nei misteri della grammatica, nella genesi ideologica
delle idee nazionali, che tu trovi, ardisco dire, tutta la successiva
esplicazione della dogmatica ebraica, e come mi è avvenuto non
poche volte di avvertire, anche i riti e le leggi tradizionali. Ora la
lingua ebraica porge colla sola denominazione del Silenzio una
idea che si trova poi espressa, formulata nelle opere dei Rabbini;
e cosa veramente ammirabile, senza che gli stessi Rabbini vadano
minimamente consapevoli del possente ausilio; e[452] nemmeno
che sappiano lo affratellarsi delle due idee in seno al vocabolo
sinonimo; prova, se altra fu mai, della ingenuità e schiettezza e
autorità della parola tradizionale. Io potrei sin da ora additare il
vocabolo in discorso, ed insieme scendere come si fa negli scavi
scientifici al lume di una critica sagace nelle più profonde sue
viscere; ma a costo di stancare la pazienza, ne differisco
l’enunciazione sino a tanto che le cose che ho a dire ne facciano
più innegabile, e il senso e le conseguenze che ne deduco.
Ma oltre il vocabolo in discorso, Salomone celebra la virtù
del Silenzio.—Oltre alcune idee, disseminate nei proverbi,
l’Ecclesiastico par che preluda a quel dettato che corse
famosissimo per le contrade di Europa, e che suona parum de
Principe, nihil de Deo. Salomone però è più discreto, ei vuole che
poco se ne favelli. Non ti affrettare a pronunciare sentenza
intorno a Dio, perchè Dio è in cielo, e tu sei sulla terra; però sieno
poche le tue parole. Ma quanto ingiusto sarebbe confondere il suo
consiglio col proverbio rammemorato, e quanto più ingiusto
confonderlo con quell’ipocrita e vile e codardo e irreligioso
silenzio sulle cose divine, che molti predicano, non solo savio e
prudente consiglio, ma anche per colmo di sacrilegio, religioso
dovere! Questa specie spuria, vigliacca, degenere di Silenzio non
è ebraica. Ella è propria di quelle Fedi le quali, inalzandosi sulle
rovine della ragione, non trovano nè trovar possono salute che nel
silenzio, che nel mutismo della ragione; di quei dogmi che
esigono, che predicano la fede cieca, termine assurdo,
contraditorio, sconosciuto nell’Ebraismo, il quale nè comprende,
e nè pure il potrebbe, in qual modo la fede che vuol dire consenso
dell’intelletto, e quindi razionale, possa essere al tempo istesso
cieca, che è quanto dire irrazionale. Ella è propria di quei[453]
tempi, di quelle età infelici in cui la ragione fuorviata dichiara
guerra alla fonte d’ogni ragione, a Dio eterno; ai tempi di
Voltaire, di Diderot, di Holback, e quindi scusabile in qualche
modo, almeno nei timidi intelletti, nel secolo che ci ha preceduto;
e quindi scusabile ancora nella bocca di quell’animo più
intemerato che fu Salomone Fiorentino. Il quale ben fece ad
essere così ricco come lo narra la fama di preziose virtù, di pietà
ingenua semplice veracissima, di costumi specchiati, di probità
senza pari, per fare almeno ai posteri obliare che ei fu autore di
quell’assurda, vile, blasfematrice sentenza che suona, adora e
taci. Ah! in quell’istante Fiorentino non fu ebreo, se pure non
vuolsi a sua discolpa allegare che ei fece virtù in quell’istante di
una dura necessità, non potendo libera, irrefrenata muovere la
lingua contro di quello che lo spingea a battaglia. Ma ebreo,
almeno nell’espressione, non fu. Non fu interprete veridico
dell’Ecclesiastico, perchè solo le umane speculazioni
l’Ecclesiastico interdice, e quelle temerarie e folli irruzioni nei
campi del Divino, che la ragione tenta tal fiata senza guida, senza
norma, senza la stella polare della parola rivelata; siccome
appunto l’indole dell’opera e le idee tutte che entrano
nell’Ecclesiaste mirano, com’è noto, a sfiduciare la mente umana
nelle sue proprie ingenite forze, e ad ispirare uno scetticismo
salutare che può senza fallo paragonarsi a quella specie di
scetticismo religioso che professarono Biagio Pascal e Michele
Montaigne. Non fu consentaneo allo spirito dei dottori che se il
silenzio levano al cielo, e questo è il punto ove volevamo venire,
egli è il silenzio delle cose vane, terrene, puramente mondane;
egli è quello di cui intesero quando dissero: Mà ummanutò scel
adem baolam azzè iassim azmò cheillem, non quello che
eccettuarono in termini apertissimi quando aggiunsero: Jakol af
ledibrè torà[454] chen, talmud lomar teddaberun; egli è quello a
cui accennarono quando dissero ogni parola che esca dal labro
dell’uomo un’eco avere nello eterno ed ogni pensiero aspirare, e
come il fuoco secondo gli antichi, come vuole la sua natura alle
cose del cielo, egli è quello che un dottore in Abot (notate luogo
acconcissimo alle esseniche memorie, siccome quello che codice
udimmo altravolta chiamato dei hasidim) proclama, dopo la lunga
sua esperienza e conversazione farisaica, il farmaco più salutare,
frase se altra fu mai opportuna al genio medico, terapeutico; come
anche questo vedemmo dell’antico istituto, egli è il silenzio che
nel medesimo Abot, notate indizio sopra indizio, un gran dottore
R. Achibà, che per colmo di maraviglia è dottore insigne dei
Cabbalisti, ed uno dei quattro visitatori del mistico giardino, egli
è il silenzio che ivi è detto—siepe e riparo alla scienza—non
antidoto e spegnitoio, come altri vorrebbe farne, e di cui
bellamente interpretando, ce ne porge circoscrivendolo una idea
adeguata il Bartenora, dicendolo silenzio sì ma solo delle cose
mondane bedibrè aresciut; ed egli è quello infine che i dottori
consigliavano agli esordienti, come appunto i Pitagorici lo
consigliavano dicendo Asket, as veahar eah Kattet. Silenzio tutto,
come vedeste, di cose, di bisogni, d’interessi, di avvenimenti, di
pensieri mondani, non di bisogni, d’interessi, di pensieri
comunque morali scientifici dottrinali teologici e per tutto dire
religiosi. Nei quali beni lungi d’imporre un codardo mutismo,
vuoi per raffinata superstizione, vuoi per timidezza di cuore,
lasciarono libero il pensiero e libera la parola purchè i semiti non
travalichi della rivelazione, e tanto liberi lasciarono e l’uno e
l’altro, e tanto profondo scolpirono l’abito di libertà nell’animo
del nostro popolo, che un bel giorno questo si è creduto potere in
piena sicurtà di coscienza-dogmatizzare a sua[455] posta, e purchè
il corpo assoggettasse ai precetti di Dio, scotere impunemente lo
spirito, foggiarsi dogma come Parigi si foggia i suoi figurini; e
questa libertà dissero non solo filosofica, ma religiosa e
sopratutto, vedete pregio che ignoravamo! privilegio tutto proprio
ed esclusivo di nostra fede. Noi abbiamo posto il dito sopra una
cangrena terribile che consuma e rode la vita superstite in Israele,
e se questo il luogo fosse di chiamare com’Elia i falsi Profeti alla
prova, fossero presi costoro come gli antichi a centinaia,
mandassero pure grida come gli antichi forsennate, il fuoco
celeste non sarebbe per loro. Ma l’anarchia dogmatica, a cui
pretendono costoro, prova una cosa, e i miseri non se n’addanno;
prova che la libertà è passata per quella via.—Come le ceneri che
attestano la preesistenza del fuoco,—come il corpo esanime fa
fede che vi abitò uno spirto immortale, così l’anarchia presente fa
fede dell’antica libertà. E quale libertà! Pei dottori, il dettato che
udiste poc’anzi Parum de principe, nihil de Deo, se sarebbe stato
nella prima sua parte un consiglio di prudenza, saria stato senza
meno nella seconda un consiglio d’inferno—pel quale solo disse
Dante luogo d’ogni luce muto, e la parola è luce del Mondo.—Per
essi nella sfera vasta, vastissima della Bibbia e della tradizione, la
parola umana, è giusta, legittima anzi regina e sovrana, e se gli
imposero silenzio, come vedeste, nelle mondane faccende, ei fu
fra le altre cagioni perchè non un atomo spendesse delle sue forze
che non fosse per Dio, nè vollero che pel mondo molto tacesse se
non per che di Dio e della fede sua molto parlasse.—In quella
sfera se i dottori rifar dovessero il verso di Fiorentino, se crear
dovessero un grido, una parola d’ordine, come si dice, non
sarebbe adora e taci, ma adora e parla. In quella sfera la libertà è
santa intangibile, anzi a Dio carissima anco nei suoi voli audaci,
[456] anche allora che ignara, come dice Omero, della lingua degli
Dei, ne strazia le forme e le locuzioni bellissime, vale a dire
quando erra involontaria, quando merita di essere molto
perdonata perchè molto ha amato. Allora dicono i dottori, Iddio
non solo perdona, ma infinito amore lo prende per quell’anima
che balbetta il suo verbo immortale in quella guisa che un padre
non rifinisce di baciare e ribaciare il piccioletto figliuolo quando
le prime voci emettendo sciupa le forme del linguaggio nativo.
Vediglò alai aabà. Nè altrimenti avviene allora che agli spiriti
audaci ai quali disse il mondo sorridere sempre benigna fortuna
ed amore, ed a cui dicono i dottori sorridere non meno Dio verace
fortuna e primo amore. Noi abbiamo veduto il Silenzio essenico
approvato, predicato dai Farisei in teoria. In quest’altra Lezione
lo vedremo in pratica.

[457]
LEZIONE TRENTESIMAQUINTA.

Trovare le idee, i costumi degli Esseni conformi alle idee


bibliche e, ciò che più monta, ai costumi, alle idee farisaiche,
trovare come trovato abbiamo nell’ultima Lezione il Silenzio
essenico in quei Farisei d’onde trasse, a parer mio, l’Essenato
l’origine, egli è certo assai per la storia dello Istituto, è poco per
noi che nel Farisato medesimo abbiamo specialmente identificato
i nostri Esseni con quella parte di Farisei che si chiamano
Cabbalisti. Se il nostro sistema non è bugiardo, le analogie tra le
due scuole dovrebbero, nè meno esplicite apparire nè men
numerose. Se Esseni e Cabbalisti sono tutt’uno, gli ultimi non
meno che i primi deono avere come squisita virtù proclamato il
Silenzio. E proclamato l’hanno quanto basta a darci piena,
assoluta ragione. E tanto iterati e diffusi ne sono gli elogi, i pregi,
le utili conseguenze, che io farei opera interminabile se qui tutti
volessi i testi riprodurre che negli antichi e nei moderni libri del
Cabbalismo parlano in favor del Silenzio. Pegli uni come per gli
altri due sono gli atti dell’umana generazione, corrispondenti alla
doppia natura dell’uomo, la Parola ed il Coito, il germe
spermatico ed il germe ideale, la concezione della carne e la
concezione dello spirito, ambo unificati nelle lingue moderne,
nella parola Concetto, ambo, e ciò che è più ammirabile, confusi,
identificati[458] nelle parole Jadagh, Pensiero e Coito.—
Generazione di carne e generazione di spirito e quindi dal seno
istesso della lingua ebraica, intera e splendida sprigionasi la teoria
cabbalistica.[92] Per essa due sono i segni dell’alleanza, due i patti,
due gli organi fecondatori, il Berit allasaon e il Berit amaor, ambi
porgenti vana e colpevole ridondanza, ambi recanti da natura
prepuzio, come stupendamente accenna la Scrittura medesima nel
Aral Sefataim, ambi suscettibili di emendazione e circoncisione;
anzi, notate meraviglioso riscontro, ambidue chiamati nel loro
stato perfetto con una sola parola che suona milla, quasi dicesse
la Corretta, la Circoncisa, nulla ostando la più lieve o più grave
pronunzia, perchè ambidue unificati gramaticalmente in una sola
radice, perchè d’ambi dicono i Lessici tedeschi Fortasse Malat
idem facit quae mul abscindere: e noi possiam dire dopo le cose
discorse senza forse, senza fortasse, e perchè finalmente l’organo
della parola e l’organo della generazione oltre essere unificate
nelle antiche pagane rappresentazioni del Fallo, parola
generatrice, sono manifestamente adombrate nella prima Misnà
dell’antichissimo Sefer Jezirà, ove sono posti in armonico
contrapposto, il Milat alascion e il Milat amaor, nella quale
iterazione della parola Milat volle senza meno l’antichissimo
autore accennare a quella comunanza di espressione, quella di cui
adesso parliamo. Ed ambi, sommessi a gelosa custodia, tanto che
pei Cabbalisti non meno è colpevole chi la parola invano
disperde, che chi spreca inutilmente il liquor seminale, ambi
sendo egualmente colpevoli di fallita generazione, che è mira
suprema di natura, nel mondo dei corpi come nel mondo delle
idee; nè qui certo avrebbero fine le bellissime analogie se a
talento mio potessi nell’argomento spaziare. Non tacerei di
quell’aureo riscontro che ci porge tra le altre la Mitologia[459] dei
Greci in Mercurio Dio della parola e del Fallo fecondatore, che
Cicerone chiama per ciò stesso itifallico, e ch’era adorato in
Samotracia, in Beozia, nell’Attica, e nel Peloponneso, identico
all’Erme itifallico dei Pelasgi, rappresentato nell’Attica e
nell’Arcadia col simbolo del Fallo che Creuzer crede identico a
Pane suo figlio (di cui tutti sanno l’officio e i simboli
fecondatori), e ch’egli chiama principe de fécondité et source de
toute vie, de la vie physique et animale aussi bien que de la vie
intellectuelle! (Religions des Antiq. Hermes, in Mercur. 676.) Ma
perchè troppo è per sè l’argomento fecondo, di queste come di
altri non men leggiadri relievi, si taccia per lo migliore.
Ma i Cabbalisti parlano di una virtù del Silenzio, che troppo
parmi accennare al carattere dottrinale degli Esseni, dei
Pitagorici, perchè io possa senza colpa tacerla. È l’efficacia che
gli assegnano al conseguimento dei misteri divini; è l’economia
delle forze intellettuali serbate tutte alla contemplazione di quegli
altissimi veri; è lo accesso che forzano col loro concentramento
nelle parti più recondite della scienza religiosa; è insomma una
sublimazione straordinaria dell’Intelletto, parole son queste del R.
Loria. Umittenaè assagat akokma scezarih lemaet beddiburò
velistok col mà sceiuhal chedè scelò leozi sikà betelà. La quale
virtù del Silenzio, dicono essi, può giungere sino alla fruizione
dello Spirito Santo, sino a quel grado di Ispirazione che è Ruak
Acodes, sino a rapire la mente in quella regione beatissima della
scienza divina in cui la mente non ode, nè vede, nè sente più
nulla, o per dir meglio sente ed ode il silenzio, la quiete, la pace,
che sono proprie di quelle attitudini dove l’anima resta assorbita
in estasi soavissima al santuario del silenzio della Mahasabà,
della suprema Kokmà, dove tutta la scienza dell’uomo si
risolve[460] in una grande ma soavissima interrogazione, e dove al
Mi (chi?) infinito che l’anima manda in uno slancio d’amore, non
s’ode che un’eco eterna che replica Mi, come l’unico obbietto
omai conoscibile.[93]—Ed a chi vera e santa non credesse la
teologia dei Cabbalisti e che pure nel giro si rimangono
dell’Ebraismo, la Bibbia si leverebbe, e insegnando loro ciò che i
Cabbalisti insegnano: Uomini, gli griderebbe, di poca fede, venite
e vedete. Vedete il Silenzio indicatore della presenza di Dio.—
Nella poeticissima e profondissima ad un tempo visione di Elia,
in cui il vento, il fuoco, il tremoto, non sono che precursori del
Nume che s’avvicina, che esteriori vestiboli del riposto Sacrario,
e solo nel Silenzio, anzi per antitesi maravigliosa, nella voce del
Silenzio col demama stare la maestà dell’Eterno, la essenza di
Dio, appunto come il Silenzio dicono i Cabbalisti stare in cima
alla scala delle cognizioni celesti. Vedete la intima identità, dai
Cabbalisti ravvisata, fra la scienza ultima estatica, intuitiva e il
Silenzio, sola condegna espressione di quella nella lingua stessa
dei Profeti, nell’idioma antico d’Israel, siccome quello che è
semenzajo, come non mi stanco di dire, delle antiche credenze
dell’Ebraismo. Ora nell’idioma ebraico v’è una parola, e questa
parola è Haras, e Haras, ammirate la forza del vero, è radice
significante in pari modo Silenzio e saper magistrale, tacere e
meditare. Pensiero e Silenzio, perchè il pensiero per eccellenza è
tacito e silente, e perchè come udite dai Cabbalisti, la sede del
Silenzio è altresì sede della Mahasciabà e della suprema Kokmà.
Ma la pratica farisaica, ed è tempo che ne parliamo, attesta in
modo ben altrimenti eloquente la identità che non cessammo di
propugnare tra le due scuole, e ciò che tornerà di gran lunga più
rilevante, la identità specifica peculiare fra Cabbalisti ed Esseni.
Obliamo per[461] un istante la Storia e domandiamo a noi stessi:
Se il nostro sistema non è bugiardo, se i dottori Cabbalisti del
Talmud sono veramente, come crediamo, i medesimi Esseni, che
cosa dovrebbe mostrare la Storia? La Storia, in mezzo alla gran
corrente del Farisato, dovrebbe mostrare, come ci mostra natura
in alcuni vastissimi mari, una corrente secondaria, distinta,
particolare, che segue inalterata sua via, in mezzo a mille correnti
paralelle o traverse, e in questa corrente mostrar dovrebbe non
solo i caratteri del Cabbalismo Talmudico, è questa impreteribile
condizione, ma per finire di persuaderci, anche la pratica del
Silenzio distinta, costante, particolare e pressochè esclusiva in
questa istessa corrente. Noi abbiamo formato un voto, abbiamo
detto ciò che la mente più esigente potrebbe chiedere al sistema
che abbiamo adottato. I fatti ci daranno ragione? La Storia dei
Farisei accenna a molti centri, a molte linee, a molte scuole di
dottori diversi, e se tra questi ve ne sono tali che i caratteri, che i
contrassegni ci porgan legittimi incontestabili della linea del
centro, della scuola Farisaico-Cabbalistica, ella è quella senza
meno, che incominciando coll’antichissima R. Johanan Ben
Zaccai e poi con R. Eliezer Agadol, segue con R. Akibà suo
discepolo, continua con R. Simone Ben Johai discepolo del
medesimo Akibà, e ferma almeno, a quello che io ora mi sappia,
con Rab o R. Abbà scolaro di R. Simone. Ora vi è un fatto
luminoso a cui vano sarebbe chiudere gli occhi, e questo fatto è la
celebrata e particolare virtù in questa serie di Farisei Cabbalisti,
in queste cinque generazioni di Farisei nell’amore del Silenzio. E
chi lo attesta non è lo Zoar, non è uno dei parziali a quella
teosofia, è il Talmud, quel solo giudice competente fra noi e gli
avversarj del Misticismo.—Egli è il Talmud in Succà che narra
dello stipite della gran scuola di R. Johanan Ben[462] Zaccai non
aver egli parlato mai parola profana; egli è il Talmud che pone in
bocca al suo discepolo Eliezer la stessa lode; egli è il Talmud che
chiama R. Akibà Ozar Balum; tesoro chiuso; egli è il Talmud che
di R. Simone Ben Johai dice tohen arbé umozé chimhà, macina
molto e poco espone, vale a dire, molto medita e poco parla, o
come di sè medesimo ei dice nello stesso Talmud: Figli miei,
imparate le mie regole perch’esse sono—prelevazione di
prelevazione—vale a dire, le più elette delle regole di R. Akibà; e
se non è il Talmud che narra la stessa pratica di Rab, perchè, della
teoria niuno di esso più esplicito, è qualche cosa, oso dire, più del
Talmud concludente.—Voi lo ricordate, per completare la serie ci
manca un anello, ci manca Rab; e non narrandolo il Talmud, non
ammettendo noi qual parte interessata la deposizione dei
Cabbalisti, non ci resta che una sola possibile autorità, e questa,
grandissima, irrecusabile, gli avversari del Cabbalismo. Ci accade
in questa ricerca, come altre volte non poche ci era accaduto: che
andando in cerca di una prova, ne abbiamo trovate altre ancora
che non cercavamo.—Ei fu quando arrivammo alla persona di
Rab che assistemmo al più singolare spettacolo che sin ora ci si
fosse parato dinanzi.—Trovammo prima diffusa comune nei
posteriori libri la memoria di Rab come celebre per la virtù del
Silenzio, e volendo, siccome è mio stile, risalire alle fonti, ne
chiesi vestigia ai libri talmudici, ma senza frutto. Allora tenendo
una via opposta, scesi dal Talmud ai succedanei scrittori, e il
primo in cui trovassi menzione del Silenzio di Rab, il primo che
mi fornisse l’ultimo anello della serie farisaico-cabbalistica, ei fu
il più grande avversario del cabbalismo, ei fu Maimonide. E non
solo, come dissi, completa la genealogia cabbalistica col ritratto
di Rab, ma il modo, le frasi con[463] cui ne favella sono
sommamente eloquenti per chi le intende. Attesta in primo luogo
il Silenzio di Rab, quando scrive nel Comento di Abot: E fu detto
per Rab, discepolo di R. Hijà, che non profferì parola inutile tutti
i giorni di vita sua. Il qual deposto formulato in Abot, ripetuto e
destituito essendo nell’Opera Magna, nel 2º dei Morali (Deot),
come dissi di ogni sanzione scritta nei libri talmudici, e parendo
quindi inesplicabile al Caro, gli suggeriva ivi stesso queste parole
di sorpresa, d’ignoranza: Ma per quello che a Rab si attiene, non
saprei dire per adesso ove ne sia l’origine. Pure, Maimonide lo
asserì formalmente non solo in due libri diversi, ma ciò che parrà
ancor più rimarchevole, in due epoche non poco distanti di vita
sua, avendo il Comento intrapreso all’età di 20 anni, e il testo
Maimonico a quella dei trenta.
Ma tutto questo è poco, di fronte a quello che segue,
malgrado la mancanza di sanzione talmudica, malgrado la
rispettosa denegazione del Caro, un altro antico, meno certo
antico di Maimonide, ma più antico del Caro, il luminare
dell’Africa, Ribbi Semhon bar Zemak, nel Comento ad Abot
ripete alla lettera le parole maimoniche riguardo a Rab, benchè
suo stile non sia copiare servilmente il gran Cordovano, e benchè
vada egli distinto per una solida e smisurata erudizione talmudica.
Ma io dissi che non solo la tradizione estratalmudica rispetto a
Rab si trova in Maimonide, ma che eziandio qualcosa trovato
avremmo soprammercato. E questo è il preambolo che precede
l’asserzione in discorso. E l’epiteto con cui qualifica gli antichi
dottori distinti per la virtù del Silenzio, è lo appellativo che noi
dicemmo storico antichissimo della scuola degli Esseni,
l’appellativo di Hasidim allorchè non poteva tanto mostrarsi
Maimonide avverso alle dottrine dei Mistici, che ei non
soggiacesse[464] talvolta, come altre fiate eziandio, alla forza del
vero, e non divenisse organo inconsapevole di una verità utile e
preziosa alla causa loro. Noi potremmo dire qui terminato ciò che
a dire avevamo intorno l’essenico silenzio, trovato, come vedeste,
conforme in teoria e in pratica al silenzio dei Farisei, e dei Farisei
Cabbalisti; pure vi è qualcosa di più, e di più concludente. E se
delle cose dette una sola non resistesse alla prova, ciò che io vado
a dire basterebbe non solo a provare la comun pratica del silenzio
tra Esseni e Farisei, ma formerebbe prova bella, benchè indiretta,
della somma omogeneità di pensieri e di genio fra il Ben Johai
del Talmud, e il gran dottore del Misticismo. Se io mi illuda,
giudicatelo voi. Voi sapete i dubbi suscitati sulla legittima
figliolanza del Misticismo dalla sacra antica fonte Ben Johai.
Sapete quindi qual valore immenso prezioso abbia per noi ogni
tratto che nel Ben Johai del Talmud ci rivelavano somiglianza
coll’ispiratore del Zoar. Sapete eziandio qual’opera bella,
decisiva, per quanto erculea, sarebbe quella che facendo
astrazione dal Zoar come se non esistesse, ricomponesse coi soli
esclusivi elementi talmudici la gran figura di R. Simon Ben Johai,
e da quel sacro capo sempre col martello talmudico facesse
emergere, come Pallade bella e armata dalla testa di Giove, il
sistema intero del Zoar, almeno nelle linee sue più preminenti,
opra a cui vorrei volgesse qualcuno il pensiero, poichè le forze
mie piegano non solo sotto il peso dell’opre, ma persino sotto il
peso dei desiderj. Ora, questo desio generalissimo applicabile a
tutte le parti, vuoi teoriche, vuoi pratiche, del gran sistema, ci è
dato vedere adempiuto in due luoghi d’oro del Jeruscialmi, ove
nell’uno si legge il pensiero, nell’altro la pratica di Ben Johai. Voi
udiste come del santo dottore dicesse il Babilonese: molto egli
meditare, poco favellare. Ora udite come egli[465] stesso della
parola umana sentenziò nel Jeruscialmi. Se presente io fossi stato
presso il Monte Sinai, avrei chiesto al Signore che altra fosse la
bocca con cui uom parlasse delle cose del mondo—altra quella
con cui delle cose di Dio. Qual idea della parola! E quanto
feconda anche nelle minime sue parti l’enunciazione! In primo io
veggo tutta la mente ardita taumaturgica del principe dei
Cabbalisti in questo ardito consiglio—veggo la teoria massima
dei Cabbalisti dell’officio di Concreazione all’uomo assegnato—
il principio eminentemente farisaico e cabbalistico della rettificata
natura, vale a dire della emendazione che all’uomo incombe nelle
parti anormali imperfette delle cose create, e da cui trae origine
l’ARTE nella sua più lata significanza, la quale non sarebbe
pertanto una semplice imitazione di natura, come vorrebbero i
Realisti in Estetica; ma meglio un ritiramento della natura istessa
alle eterne norme del bello ideale, come vogliono gli Idealisti, e
veggo sopratutto l’idea ch’entro vi sta, come seme racchiusa, che
il Silenzio è l’atto più nobile e naturale per tutto quel che
concerne le cose mortali.
Ma queste cose basti lo accennare, ed il cenno già troppo
grave ne offre materia a pensare perchè di soverchio ci
estendiamo. Questo solo non tacerò; quando lessi il voto che
formava R. Simone Ben Johai delle due bocche, sovvenivami in
quel punto, non di un voto, ma di un presagio che fece Fourier.
Fourier, che tante cose predisse in avvenire, diverse da quelle che
oggi vediamo in natura, disse fra le altre, come natura avrebbe un
giorno pagato un antichissimo debito che aveva coll’uomo
contratto, dandogli un occhio di dietro come ben due ne aveva
davanti, e che tanto dovrà tornargli in acconcio per cansare i
pericoli che lo minacciano di dietro eziandio: io non so quanto
valga il presagio di[466] Fourier, ma il voto, il rammarico di R.
Simone Ben Johai suona ben altrimenti nobile e grande.
Ma io dissi come non solo la teoria ne porgesse del Silenzio il
Jeruscialmi sulle labbra del gran Maestro, ma ben anco la pratica.
E la pratica splendida emerge da quel fatto ivi stesso narrato,
quando il signor Dottore considerando, specialmente nel sabato,
quanto indegna e servil opra fosse ogni discorso profano, pregava
silenzio ai domestici, e perfino alla madre sua, fatto più che non
credesi significante, non solo per lo studio che ci preoccupa e con
cui chiare si vedono le attinenze, ma ancora perchè mi offriva, già
sono molti anni, l’unico mezzo che io trovassi a spiegarmi quel
concetto, quella dipintura maninconiosa che del sabato ebraico
fecero i Poeti latini, mentre tutto pare per contro spirare festa,
spirare allegria. Ma anche questo è nuovo campo che noi
rasentiamo e fuggiamo di volo.
Ciò che resta innegabile è la nuova e non meno parlante
analogia, non solo fra la teoria, come veduto abbiamo nella
passata Lezione, ma ancora nella pratica del Silenzio fra Esseni e
Cabbalisti, come abbiamo veduto nella presente. E comunque
questo nuovo amplesso fra le due scuole si operi in seno al
Silenzio, e comunque per onorare il Silenzio essenico troppo più
di parole abbiamo speso che il nome non tolleri, non meno
provata però ne emerge la suprema identità tra Esseni e Farisei.
[467]

[468]
LEZIONE TRENTESIMASESTA.

Noi dobbiamo ora occuparci degli essenici libri, di quelli di


cui usavano e di quelli da cui s’astenevano, del numero dei loro
pasti, del regolato alternare del mangiare e digiunare, e infine del
sistema dell’imbandire. Io sarò breve, non già perchè la materia
scarseggi, ma piuttosto perchè troppo di soverchio ne abbonda, e
quindi è mestieri riguadagnare in brevità e speditezza
d’esposizione quel tempo che non si può senza ingiustizia
fraudare ai fatti, ai rilievi interessantissimi onde avremo da
favellare.—Ma la brevità perchè non torni pregiudicevole, due
esige impreteribili condizioni. Bisogna che sia chiara, ed a questo
m’ingegnerò provvedere. Bisogna poi che l’attenzione e la
perspicacia, l’ingegno degli uditori ne colmi le lacune, ne svolga i
germi, e intenda in un cenno un pensiero, in un pensiero un
argomento, un raziocinio, in un raziocinio tutte le conseguenze
potenzialmente in quello racchiuse. E questo è officio vostro, a
cui non vorrete venir meno di certo quando più ne urge il
bisogno. E prima dei cibi;—di quelli onde gli Esseni si
guardavano come da cosa vietata.—È fama, e voi spesso l’avrete
udito, ed io stesso ne reco ferma credenza, avere gli Esseni dalle
loro mense bandita la carne ed il vino. E pure se le prove dirette
si consultano, se le memorie e gli espliciti attestati, non vi è cosa
forse meno provata[469] di questa. Se io non erro, egli è San
Girolamo pel primo che favella di questo astenersi da carne e da
vino. E Dio volesse che San Girolamo così parlando si facesse
organo egli stesso di un’opinione, di una tradizione allora
corrente. Avrebbe almeno tutta l’autorità e tutto il critico valore
che può aver San Girolamo. Ma no; sventuratamente San
Girolamo, parlando in questo caso degli Esseni, accenna a
Giuseppe; a Giuseppe, il quale, a detta di lui, avrebbe quest’uso,
quest’astinenza attribuita agli Esseni nel Trattato ch’ei scrisse
contro Apione. Io vel confesso, non ebbi io stesso la pazienza di
scorrere di nuovo da capo a fondo la non breve Apologia flaviana:
ma autori, ma testimoni gravi, asseriscono formalmente che
questo fatto, questa memoria nel Trattato contro di Apione, per
quanto si cerchi, non si trova. Dovremo perciò negare e dubitare
del fatto? Io credo che non lo dobbiamo. In primo luogo chi ne
assicura che il Trattato contro di Apione non sia in qualche parte
manchevole, che non sia stato in qualche parte mutilato, che le
frasi insomma da San Girolamo accennate non esistessero,
siccome egli asserisce, negli antichissimi manoscritti? E San
Girolamo è per sè autorevole non poco, autorevole pel tempo in
cui visse non tanto dagli Esseni remoto, che la contezza veridica
se ne potesse alterare; autorevole per la dimora, il teatro stesso
delle esseniche gesta, in Terra Santa; autorevole poi e in grado
eminente per la familiarità, sto per dire, in cui visse quel Padre
coi più dotti Rabbinici dei tempi suoi, tra i quali scelse maestro
nelle Scritture: e tanto addentro entrò nei pensieri, nella
conoscenza dei dottori contemporanei, che ebbe fama e meritossi
rimproveri da Agostino di giudaizzante. Taccio poi della intima
filosofica convenienza di quest’uso presso gli Esseni, perchè
essendo questo argomento, come si dice, a priori, può parere a
taluno[470] arbitrario, comunque sia stile dei più grandi storici dei
sistemi supplire alle parti manchevoli coll’analogia dell’insieme,
in quella guisa istessa che in una iscrizione a metà cancellata dal
tempo, si suppliscono le lettere dileguate coll’ajuto di quelle che
precedono e di quelle che seguono. Ma come tacere dei
precedenti biblici tradizionali, d’onde l’essenico uso può aver
germinato, e che servono eziandio fino a un certo punto di
argomento in favor della sua esistenza? Biblico precedente io
chiamo quell’implicito divieto ad Adamo imposto da ogni cibo
animale, al quale solo si veggono conceduti i vegetabili, quale
alimento, ed al quale primitivo sistema dietetico possono avere
voluto gli Esseni restituirsi, siccome quello che anteriore al
peccato, meglio pareva loro consentire a quel grado di perfezione
a cui aspirava lo Essenato. Biblico precedente l’astinenza onde fa
fede la tradizione, e fino a un certo segno confermata dal testo, e
dagli Israeliti osservata per lo deserto da ogni cibo animale che
non fosse stato all’altare appressato qual sacrifizio, attalchè per
questo tempo poteva dirsi a rigore ogni banchetto essere un vero
zebah, un sacrifizio. Biblico precedente l’astinenza da ogni
inebriante licore imposta ai sacerdoti durante il servizio, imposto
altresì, come ricordammo altre volte, a coloro che voti facevano
di Nazirato e Nazirei si appellavano; e biblico precedente
finalmente la storia grande interessante dei Recabiti di cui
abbiamo, non ha guari, mostrato le intime attinenze col nostro
istituto. Tra le quali primeggia l’astinenza, onde qui si favella;
l’astinenza dal vino da Jonadag recabita imposta a tutta la sua
discendenza. Che sarà poi se dagli esempj biblici trascorriamo ai
tradizionali disposti? I quali il vino vietarono al giudice prima che
sieda pro tribunali a pronunziare giudizio, non solo nelle
criminali ma nelle civili e rituali cause eziandio;[471] il vino
vietavano egualmente a quello che si accinge alla preghiera, e
abominazione quella prece qualificarono che da una mente
scaturisce conturbata dal vino. Ma i dottori ci offrono un
documento ben altrimenti prezioso: ci offrono memoria non solo
di leggi antiche che a certi offici, a certe situazioni interdicono
l’uso del vino, come vedemmo, ma la memoria ci porgono
eziandio di una sètta, di una scuola la quale, dice il Talmud, non
appena colse al nostro popolo l’estremo esizio, crebbesi
grandemente di seguaci, che l’uso s’interdicevano di carne e di
vino. Misceharab bet ammicdas rabbù paruscim scellò ehol
basar vescellò listot iain nitpal laem R. Jeosciua veaamar laem
ec. E come si chiama questa sètta in bocca ai dottori? Mirabile a
dirsi! Il nome ella reca appunto di Farisei, e la frase ebraica
Rabbù paruscim, crebbero i Farisei, se bene la intendi, rivela
abbastanza come la esistenza dello istituto risalga più oltre
dell’epoca indicata, e quindi consuona anche per questo verso
colla società degli Esseni la quale, come i Farisei del Talmud, si
asteneva da carne e da vino, com’essa si reclutava cotidianamente
di nuovi membri, e com’essa finalmente possono dirsi, siccome
ad esuberanza fu per noi continuamente dimostrato, veri e proprj
Farisei.
Ma i dotti indagatori delle sètte vi troveranno altra cosa
eziandio. Vi troveranno ciò che finora fu creduto impossibile a
trovarsi: una memoria, un vestigio, una abbastanza chiara e
manifesta allusione a quell’Essenato che finora si disse dai
talmudisti ignorato; a niuno allor che io sappia potendo meglio
convenire che agli Esseni in discorso, i caratteri dal Talmud
assegnati ai rigidi Farisei che da carne si astenevano e da vino,
come appunto gli Esseni. E non solo la carne e il vino
s’interdicevano, ma se prestiam fede a Filone che dei più
rigidi[472] dei Terapeuti narra i costumi, un solo pasto facevano in
tutto il giorno, e questo per lo più composto di radiche, e di pane
e sale. E chi a queste parole non lo ricorda; chi non ricorda il
pane, il sale e l’acqua colla misura, a cui ogni studioso deve
starsi contento, secondo i morali di Abot? E come poi parlante,
espressivo, e di nuova analogia fecondo, l’uso comune necessario
del sale negli essenici prandi. Perocchè ei fu da lungo tempo
notato come costoro tenessero quale inviolabile costumanza lo
accompagnare la imbandigione, il loro pane in ispecie, con due
condimenti indispensabili, il sale e l’issopo, attalchè la presenza
di questi due ingredienti si può stimare a buon diritto qual pratica
obbligatoria seguita sempre, ed allora segnatamente seguita che
solenne si imbandiva la tavola nei giorni di festa. Ora la
importanza rituaria del sale nelle pratiche nostre, non vi sarà chi
neghi ove sentore abbia alcuno delle nostre leggi. Ricorderanvi il
sale da Mosè comandato qual compagno indispensabile di ogni
sacrifizio, sia pubblico sia privato, e col pomposo nome fregiato
di patto ed alleanza del Signore. Che dico? a significare elevato
quale acconcissimo simbolo l’alleanza eterna, la legge da Dio
sancita, che appunto col nome vien designata di Patto di sale,
Berit melah. E siccome non tanto quanto altri s’imagina, distà
dalla legge di Dio la primitiva e semiortodossa gentilità,
ricorderravvi altresì e con un senso di maraviglia a quelle grandi
prove ripenserete, che in seno ai Pagani medesimi non solo l’uso
istesso ti rivelano comune e rispettato, ma il concetto altresì te ne
mostrano riprodotto nella sua interezza. Ripenserete alla così
detta mola salsa, che Eustazio definisce farina di orzo mista con
sale, e di cui si aspergeva la vittima intiera; cerimonia tanto
essenziale ad ogni specie di sacrifizio, che di essa parlando non
temeva Plinio di asserire: Maxime[473] in sacris intelligitur salis
auctoritas; quando nulla conficiuntur sine mola salsa: parole che
suonano quasi identiche a quelle del Levitico. Ripenserete a
Omero, che non è quasi descrizione di sacrifizio che di questa
salagione non favelli: a Virgilio che nelle Egloghe e nel 4º della
Eneide ne fa esplicita menzione il testo, che da mola salsa deriva
il vocabolo Immolatio, tanto stimavasi questa cerimonia
essenziale, da qualificarne come qualifica Immolatio tutta
l’azione del sacrifizio: a Ovidio nel 1º dei Fasti che alla
cerimonia del salare attribuisce una particolare virtù a render i
numi propizj
Ante deos homini quod conciliare valeret
Far erat, et puri lucida mica salis.

Ma ciò che è più, ma ciò che di molto maggior rilievo è per noi,
ripensar ai Farisei ed ai Cabbalisti,—ai Farisei, che nel Talmud
rammentano, consacrano l’uso di porre il sale a mensa; ai Tosafot
nel trattato di Berahot, che sull’opinione raziocinando di alcuno
dei talmudisti che la presenza del sale verrebbe omessa quando il
pane bianco e sano non lo richiegga, voglion essi, i Tosafot, e
concludono impreteribile la presenza del sale, che in termini
apertissimi dicono Sacra e palladio di purità, leaabir ruach raà, e
soprattutto ai Cabbalisti che alle tutte anzi dette cose lo
soscrissero, e sulla necessaria presenza del sale rincararono
eziandio. E non solo da questo lato si manifestano i Cabbalisti
insieme ai Farisei parenti e consanguinei all’antico Essenato, ma
tali pure per un altro verso si manifestano i Cabbalisti, e tanto più
concludentemente quanto più soli ed esclusivi. E quando?
Quando sul vegetabile presero a ragionare che insieme al sale
udiste accompagnare il pane essenico, quando ragionarono
sull’issopo. Del quale mentre tacciono, a quanto io mi sappia, i
Talmudisti, nè si leggono[474] per contro certe parole nello Zoar,
che non solo la lode ne contengono, e tale che a dirittura le stesse
qualità purificanti gli comunicano che al sale furono attribuite,
ma che eziandio, e per ciò stesso fanno grandemente dubitare non
forse i Cabbalisti lo stesso uso ne facessero a mensa, che degli
Esseni ci fu narrato, il sale, udiste, fugare ogni malefizio; e
dell’issopo ecco che cosa si legge nel Zoar:—L’issopo rimuove
ogni spirito malefico, e lungi ne caccia ogni influsso colla sua
virtù salutare. Ma che dico lo Zoar? Doveva dire la Bibbia;
doveva dire Mosè, che forse in niuno altro argomento più
chiaramente ci apparisce informato dallo spirito medesimo dei
Cabbalisti: nè meglio addimostra che il genio della Bibbia e dei
dottori è unico, medesimo, indivisibile. E quanto nella Bibbia
frequente, raccomandato, solenne l’uso, la virtù del vegetabile
ricordato! Ecco il primo sacrifizio dagli Ebrei celebrato in Egitto,
ed ecco l’Issopo, eccolo intinto nel sangue dell’agnello, e gli
stipiti con esso contrassegnati ed i battenti delle israelitiche
dimore. Ecco il sacrifizio del lebbroso, ed ecco egualmente
l’Issopo. Ecco il rito della Vacca rossa, e non meno interessante
ecco l’issopo. E non solo è vero che l’issopo spiccava qual
principale disinfettante nei riti biblici, che di esso fu fatto nelle
locuzioni poetiche il simbolo più espressivo della virtù
purificativa, del lavacro spirituale, della morale disinfezione. Così
David penitente quando esclamava: Purificami con issopo e
diverrò mondo. Quando prova con questa sola eloquentissima
allusione, e la virtù che a quel vegetabile s’attribuiva, sino al
punto di farne simbolo del perdono di Dio, e nel tempo istesso la
perpetuità, la continuazione ai tempi davidici dei riti, delle leggi
mosaiche, in quella forma appunto in cui si leggono scritti oggi
stesso nel Pentateuco.
Ma il pane onde cibavansi gli Esseni, almeno quelli[475] che
abitavano l’Egitto e che si dicevano Terapeuti, merita che
speciale considerazione gli si conceda, grazie a una singolare
circostanza che lo distingueva. Il credereste? Gli Esseni, quelli in
ispecie che si dicevano Terapeuti, si cibavano giornalmente,
regolarmente, di quel pane stesso onde noi ci nutriamo otto giorni
dell’anno, di pane senza lievito, in una parola, di pane azzimo.—
Io non istarò a speculare filosofiche teorie: starò contento ai fatti,
ed i fatti parleranno eloquenti abbastanza; sorgerà la storia
patriarcale e dirà come comune alimento fosse tra i patriarchi il
pane azzimo; sorgerà tutto il levitico, tutta la legislazione
sacerdotale, e dirà come tutti i pani, tranne uno, che sotto
qualunque forma e per qualunque oggetto si offrivano a Dio, e
sull’altare e sulla mensa di preparazione, fossero tutti di pane
azzimo; e il lievito qual abominato presente fosse bandito
severamente dall’altare; dirà ancora come i sacerdoti in officio
non d’altro pane si cibassero ogni giorno che di azzimo pane,
sendo loro nutrimento i pani di proposizione che toglievansi ogni
sabato dalla mensa di Dio; sorgerà la pratica secolare che ci fa
vivere ogni anno per otto giorni della vita degli Esseni, della vita
dei sacerdoti, e del pane esclusivamente ci nutrisce che stimavasi
solo degno di essere a Dio presentato, del pane azzimo. E sorgerà
in fine lo Zoar.—Dico il vero. Non fu senza qualche trepidazione,
che io presi a svolgere le pagine di quel libro, temendo non
dovesse nel maggior uopo venir meno lo storico raffronto, tanto
più che niuna memoria sovvenivanci di simile pratica o teoria
nella scuola dei Cabbalisti. E la pratica non vi era veramente, ma
vi era la teoria. Non vi era la pratica, perciocchè, siccome ebbi
luogo sin da principio di accennarvi, dividevansi gli Esseni in due
ordini distinti, Pratici e Contemplativi, e i dottori nostri al primo
dei due appartenevano, mentre[476] l’altro figura sì nel libro di
Zoar, ma solo in distanza, e quale maggior raffinamento del
medesimo sodalizio, di cui solo di tratto in tratto vediamo i
membri entrare in scena, quando dal fondo delle loro solitudini
passano qual ombra fugace in mezzo ai loro colleghi della città. E
tra questi più rigidi probabilmente si praticava l’uso del pane
azzimo per cotidiano alimento. Ma ciò che io non osava sperare, e
che pure apparvemi luminoso nel libro Zoar, si è la teoria mercè
la quale in termini apertissimi si conclude che dovriasi a rigore
tutti i giorni invariabilmente imbandire sulle nostre tavole il pane
azimo. Anzi lo Zoar stupisce, lo Zoar ricerca per qual motivo
quel pane eletto non sia il pane giornaliero di ogni israelita, e la
risposta è tale, che lascia intatto il principio, anzi che più e più lo
conferma, ed oso dire ancora che il filo preziosissimo ci porge per
cui dalla teoria zoaristica, la parte forse più ascetica
dell’Essenato, scese alla pratica di cui si favella. Lo Zoar
risponde, ma come? con una similitudine. Egli imagina un Re che
un servo suo fedelissimo abbia insignito di un titolo onorando, e
che a questo titolo, a quest’officio vadano annessi certi segni,
certi fregi particolari. Quando dovrà il servo i gloriosi segni
indossare? Certo, ripiglia lo Zoar, che per quanto a suo talento
possa quandochessia rivestirsene, ciononostante ei non avviene
per l’ordinario che la persona se ne adorni se non nelle
grandissime e solennissime congiunture, quale sarebbe a mo’ di
esempio il giorno anniversario della sua assunzione a tanta
dignità. E pongasi pure, secondo lo Zoar, che il pane azimo,
segno distintivo della nostra elezione, non debbasi, appunto qual
abito peculiare e distinto, indossare se non nelle grandi, nelle
grandissime occasioni. Ma siamo coerenti, e dal principio
deduciamo, se vi piace, sino all’ultima conseguenza. Chi potrà
negare al servo premiato di[477] recare, se così gli piace, indosso i
segni continuamente della sua dignità? chi potrà negare uno stato
di perfezione religiosa in cui ciò che per altri si fa per breve tratto
di tempo ed a lungo intervallo, si faccia per contro da chi vive in
quello stato, in modo continuo, regolare, abituale; e ciò ch’è stato
eccezionale pegli uni, sia normale pegli altri? Certo che la
conseguenza emerge chiara e legittima dalla teoria stabilita, e
chiara quindi e legittima emergeva pei più spirituali tra gli Esseni,
quel cibo cotidiano di pane azzimo a cui il resto dei fedeli non è
astretto che per pochissimi giorni.

[478]
LEZIONE TRENTESIMASETTIMA.

Che più? Una religione che secondo ogni probabilità trasse le


sue prime ispirazioni dalla società degli Esseni, che stende oggi i
suoi influssi sul mondo civilizzato, il Cristianesimo, ci offre il più
illustre vestigio dell’antica essenica costumanza esaltata,
divinizzata, ed al grado assunta del più sublime dei sacramenti,
nel sacrifizio dell’ Eucaristia. Il pane eucaristico è pane azzimo,
nè potrebbe essere da questo diviso; e per quanto la storia delle
Eresie ci offra memoria delle quistioni a questo proposito
suscitate, ciononstante, l’uso prevalse sempre conforme alla
vetusta pratica degli Esseni.
Tra essi i più austeri tutti i loro giorni trascorrevano in
digiuno, e solo a sera prendevano il loro parchissimo pasto. Nella
quale rigorosa astinenza ebbero a compagni non solo i più austeri
dei Farisei talmudisti, ma quelli eziandio che del Zoar sono autori
od attori. L’ebbero nei Talmudisti a cui ci si offre ad esempio un
figlio di Rabbinà, del quale si narrano i giorni tutti trascorsi in
digiuno, salvo il giorno della Pentecoste e la vigilia del giorno
d’espiazione. L’ebbero nel Zoar e più illustri e più numerosi, in
tutti quei dottori che si veggono passare parecchi giorni senza
prendere alcun nutrimento, assorti com’erano in profonde
meditazioni, di cui la storia dell’antica filosofia ci porge esempi
non pochi[479] e tra gli altri di Socrate. Del quale si narra che non
solo, mentre assisteva ad un banchetto, era sì vivamente colpito
da un pensiero che ogni moto perdeva e lungo tempo immobile
perdurava, ma che in mezzo eziandio al romore dei campi restava
dall’uno all’altro mattino immobile al luogo istesso, e solo i raggi
solari gli ricordavan l’ora della preghiera. Nè qui vuolsi due
circostanze della essenica vita pretermettere perchè più o meno
all’ordine, alle regole della mensa si riferiscono. È la prima quel
divieto che interdiceva agli Esseni ogni specie di unzione dalla
quale si riguardavano come d’abominevole cosa. Nè la menzione
volli di questo divieto disgiunta dall’argomento presente per una
semplicissima ragione, perchè appunto le unzioni odorifere
entravano tra le generali costumanze dei tempi dopo il pasto
conchiuso, come fra poco vedremo. Ora dobbiamo domandare a
noi stessi. D’onde e perchè questa interdizione fra gli Esseni?—
Quale l’origine e quale lo spirito; e quest’ultimo costatato, più
agevole, cred’io, scuopriremo la prima. Lo spirito è l’orrore di
ogni mollezza, di ogni effeminato costume, è quel medesimo che
non pochi precetti informa della legge di Dio, quello che la
interdizione suggeriva onde all’uomo si fa divieto indossare
femminile costume, di radersi i segni della virilità, l’onor del
mento; e non solo come udiste di avvolgersi in ammanto
donnesco, ma di addottare eziandio modi, ed usi, ed acconciature
di donna. Testimone lo specchio proibito dai Talmudisti, perchè
lo specchio a quei tempi era peculiare costume di femmina,
siccome la pagana letteratura lo attesta, e come in ispecie si vede
da Apuleio. Al quale un suo censore rinfacciando l’uso di quel
arnese troppo a filosofo disdicevole, sclamava meravigliato:
habet speculum philosophus; possedit speculum philosophus. Ma
ciò che più interessa a sapersi, egli è in qual[480] guisa la
pensarono i dottori intorno all’argomento presente, intorno
all’unzione. Si può dire generalmente come i dottori distinsero in
fatto di unzione quelle che dalla nettezza sono richieste, dalle
altre che hanno la mollezza per consigliera. Le prime ammisero;
nè forse, se il tempo lo concedesse, tornerebbe ingrato
rammemorare come tra queste noverare si debba l’uso dagli stessi
Romani adottato di ungersi dopo il pasto con olj odoriferi, e che
ripetutamente vediamo ricordato nei libri Talmudici. Le altre che
mirano, come dissi, a semplice diletto carnale interdirono
specialmente a coloro che professione fanno dei sacri studj, pei
quali reputarono abominevole il mostrarsi per le pubbliche vie
per profumi olezzanti e per olj odoriferi, consentendo in questo
come in infinite altre cose colle esseniche osservanze.
Ma io dissi di un’altra circostanza, alla mensa attinente, e di
cui vado a darvi immediatamente contezza, singolare a dirsi!—
Non vi è pratica dell’essenico istituto, non è parte della loro
istoria che meglio la consanguineità manifesti tra esso e lo antico
istituto dei Cabbalisti. Egli è quì che si vede ad un tempo come
l’ultimo spinga le sue radici sino alla più alta e profonda
antichità, ed egli è quì egualmente che i due istituti si porgono sul
capo ai semplici Farisei amica la mano, e ciò che il comune dei
Farisei rigettava e rigetta ammettersi, sanzionarsi, e con ogni
possa difendersi da Esseni e da Cabbalisti, prova manifesta come
gli Esseni non siano Farisei se non in quella misura, e sino a quel
punto che i Cabbalisti lo sono, nè temano da quelli dissentire
quando nè dissentano i Cabbalisti, nè separarsene quando i
medesimi se ne separano. Io non ne chieggo ad esempio che il
fatto presente ove vediamo i Cabbalisti permettere, anzi
comandare ciò che i Farisei interdicono, e gli Esseni ad
imitazione dei primi egualmente permettere[481] e comandare.
Vietarono i Farisei tenere la tavola con pane imbandita dopo il
pasto conchiuso, temendo non forse potesse cotesto uso
precipitare in una pratica idolatrica, di cui si fa veramente
menzione nel culto di Roma, e di cui le traccie risalgono sino ai
Profeti che simil pratica rinfacciano ai coetanei loro, che la
tavola, dicono essi, imbandivano oziosa in onore di Gad,
Ahorekin laggad sciulkan. Ora, sia diversa tradizione, sia
interpretazione più larga dello antico divieto, sia meno timore di
trascorsi idolatrici; fatto è che i Cabbalisti a quest’uso non si
oppongono. E non che opporvisi, instantemente lo raccomandano
per la sera e pel giorno di sabato, volendo la mensa in quel giorno
continuamente imbandita con pane dopo il pasto rinnovato:
d’onde un disputare infinito tra i semplici Farisei e i Farisei
Cabbalisti, e d’onde in fino nuova arme portai ai nemici dello
Zoar a osteggiarne la santità e il valore. Ma io vorrei invitare
amici e nemici a legger Filone. Il quale nè più nè meno una
eguale identica pratica narra dei nostri Esseni, la cui mensa, egli
dice, vedevasi specialmente nei dì festivi perpetuamente
imbandita, e pane vedevasi sopra ordinato a somiglianza della
mensa ch’era nel Tempio, e ch’è tipo che i Cabbalisti stessi
tolgono ad imitare nella mensa loro.—Se gli avversarj dello Zoar
hanno imparzialità ed amor del vero, come hanno scienza ed
erudizione insigne, riflettano a questo fatto, a questo gran fatto.
Pensino allo Zoar che in onta al Talmud, in onta alle sue esplicite
interdizioni, in onta agli interpreti, ai ritualisti antichi e moderni,
proclama innocente, pia, autorevole una costumanza che gli altri
dicono vana, perniciosa, paganizzante. Pensino alla ignoranza
certa, provata in cui vissero i nostri dottori di questo inaspettato
ausiliare, cioè della società degli Esseni. Pensino all’ esplicita
menzione che veggiamo in Filone dell’uso[482] contrastato; alla
indubitata antichità, al potentissimo ausilio che questa conformità
reca ad un tempo ed all’antichità delle teorie zoaristiche ed alla
loro identità, colle dottrine e colle pratiche esseniche: pensino a
tutto questo, e poi ci dicano se le stesse anomalie che a suo danno
impugnarono, non riescano a prova maggior dell’antichità di quel
libro, e se di esso, come Dante di San Domenico, dire non si
potrebbe acconciamente che percosse
L’impeto suo più vivamente quivi
Dove le resistenze eran più grosse.
Parad. XII.
[483]
LEZIONE TRENTESIMOTTAVA.

La seconda parte della Storia dell’essenico culto, quella che


riguarda gli abiti e le virtù della setta, ci occupava nelle
precedenti lezioni, e ci occuperà eziandio nella presente. E
particolarmente diremo delle virtù per cui andavan distinti.—
Quando parlammo delle dottrine degli Esseni, toccammo altresì
della loro morale, e i principj indicammo speculativi dei loro
costumi.—Ora dobbiamo dire in ispecie di quelli che a se
medesimi si riferiscono, e che hanno principio e termine
nell’uomo interiore.—Quando vollero gli Esseni insegnare la
legge generale di ogni virtù personale, dissero che la maggiore tra
esse virtù, la più generale, la più comprensiva consista nel
domare le proprie passioni, nell’imperio di se medesimo. E se
l’illustre signor Munk, il quale ci narra degli Esseni la morale
suprema, si fosse dei Farisei ricordato, e delle sentenze in ispecie
consegnate in Abot, trovato avrebbe la formula essenica in quel
dettato degli antichi padri, ezeu ghibbor accobes et izrò, come in
altri moltissimi forse anco più espressivi, che qui lungo saria
ricordare.
Ma se ogni rea passione volevano domata, ve n’era una che
più ispirava orrore agli Esseni, e che credevano il più grande
nemico da superare; e questa era la collera. Nè potrebbe essere
diversamente, se i Pitagorici[484] sono gli Esseni del Gentilesimo,
come gli Esseni i Pitagorici dell’Ebraismo, al dir di Giuseppe,
niuna passione più della collera doveva essere da loro abominata.
La quale vincere era còmpito particolare di ogni buon Pitagorico;
e tanto innanzi vennero i seguaci di Pitagora nel conseguimento
di questa virtù, che la memoria restonne celebre nei filosofici
annali, e che Carlo Ritter non temeva di asserire: Le triomphe des
Pythagoriciens sur la colère est célèbre.
Mostrato abbiamo la verità dell’asserto flaviano, la
pitagorica parentela; sarà d’uopo che la bontà proviamo ora del
nostro sistema? Secondo il quale, e voi il sapete, oltre l’origine
che con tutte le ebraiche scuole vanta l’Essenato, comune
nell’epoche e nelle opere della Bibbia, più specialmente
s’identifica, a parer mio, colla grande scuola dei Farisei, e in
questa stessa segnatamente, colla frazione più eletta dei Teosofi o
Cabbalisti. Or bene, se il nostro sistema non è erroneo, la collera
dovrà apparirci esecrata non solo nei libri biblici, ma nei farisaici
e cabbalisti eziandio; anzi in quest’ultimi specialmente un
carattere particolare dovrà assumere, che meglio consuoni col
genio e colle virtù degli Esseni, mostrandoci l’ira avversa
specialmente a quella eccellenza contemplativa, a quella santità e
purezza di speculazione ch’era il più proprio e più grato officio
dei gran solitarj. Io oso dire che tutti i tratti anzidetti escogitati
soltanto in desiderio si verificano storicamente a cappello. Non
dirò lungamente della Bibbia, la quale siccome libro popolare e
soterico non mira, almeno esteriormente, che alla morale o
sociale pervezione dello individuo, e solo per via di accenni
allude, di tratto in tratto, ai lati più nobili e segreti della umana
coscienza, all’intelletto, alle sue leggi, al suo culto, alle dottrine
che ne formano lo alimento. Pure[485] la Bibbia, i Proverbi in
particolare ci presentano la collera, non certo sotto quei varj,
moltiformi e veracissimi punti di vista, sotto cui i dottori la
presentano nei loro libri, ma sempre quale passione esiziale
all’uomo sociale, al suo corpo, ai suoi amici, ai suoi interessi, al
suo onore. Ma i dottori vengono, e le parole bibliche, e i fatti
stessi, come quadri, dalle tenebre sottratte, acquistano luce colore
verità e merenza. Vengono i dottori, e la collera non solo è
predicata micidialissima all’uomo corporeo, come la Bibbia
stessa pareva indicarlo, come la Storia e la Medicina concordi lo
attestano, ma, siccome non è vero scientifico che non abbia il suo
limite in un vero contrario, così non tardarono a trovare nella
collera stessa un farmaco alla salute, quando la fiamma onde
l’anima s’avvampa, è accesa, dicono essi, non già nel fuoco
d’inferno, ultima e vile teoria, Zoamà dell’igneo torrente, Near di
Nur che traversa il Creato, ma in quello puro della celeste
scaturigine, vale a dire nello sdegno generoso a difesa del vero,
dacchè, per un concetto bellissimo, l’Inferno stesso pigli origine
dal Cielo, e il fuoco che vi consuona non sia altro che il sudore
delle Hajot ch’estollono il trono di Dio, vale a dire la Cloaca
massima dell’Universo.—Or quest’effetto terapico di una collera
nobile generosa, la Medicina lo ha notato, e molte cure si notano,
come asseriva il medico Dementi, conseguite di vecchie e
croniche malattie per l’effetto subitaneo salutare di un accesso di
collera. Ma la collera non meno all’anima, secondo i dottori, che
al corpo è nociva, e non meno alla morale che alla intellettuale
perfezione. Alla morale, quando dissero: Dio stesso è preso a vile
dall’iracondo, Afillù schehinà ena hasciubà chenegdò; quando
aggiunsero tanto empio essere lo iracondo quanto lo idolatra;
quando insegnarono sommo antidoto al peccato il non adirarsi.
Che diremo[486] degli effetti sull’intelletto? Per essi l’iracondo
non potrà mai istruire, e questo notate trovarsi in Abot, vale a
dire nel Codice dei Hasidim, e sommamente confacente al genio
studioso e contemplativo degli Esseni. Per essi la collera mette in
bando la scienza, e intorpidisce lo intelletto.—Per essi Mosè
stesso non si sottrasse da questi effetti della collera e vide venir
meno il suo saper rivelato dopo un moto di sdegno.—Per essi, e
ciò più davvicino s’attiene alla società degli Esseni, se tra le due
scuole rivali di Sciammai ed Illel la seconda prevalse qual norma
suprema in Israel, egli è perchè tra le altre virtù della scuola
Illeliana, quella splendeva massimamente di una mansuetudine a
tutta prova; fatto di gran rilievo, se ponete mente come la
mansuetudine degli Illeliani e il carattere opposto dei Sciammaiti
non siano, a ciò che pare, un fenomeno accidentale, ed uno
scherzo del caso, ma parte integrale del loro genio speciale,
poiché rimonta ai due grandi fondatori di ambo le scuole; e la
docile natura degli Illeliani come il genio severo e sdegnoso dei
Sciammaiti si vedono già spuntare in tutta la loro interezza nel
docilissimo e mansuetissimo Illel come nello sdegnoso e severo
Sciammai.—Ma se ciò è già molto per condurci bel bello dalle
idee farisaiche alla società, alle leggi dell’Essenato, un passo più
grande avrem compito quando ricordato avremo ciò che si legge
in Sciabbat a proposito della mansuetudine Illeliana. Fra poco,
quando toccheremo della collera qual aborrita passione dai
Cabbalisti, vedremo le prove che i più venerandi tra essi
imponevano ai nuovi venuti, contro la passione odiatissima in
tempi in cui le dottrine loro erano chiuse ancora in istrettissimo
cerchio, e che di uno o due secoli precedono il Mille dell’Èra
Volgare. Ma dall’8 o 900 dell’Era Cristiana ai giorni dell’antico
Illel corrono più di mille anni,[487] e nonostante vi è un fatto
narrato nel Talmud Babilonico nel 2º di Sciabbat in cui, ove tu
guardi con occhio fermo penetrante e scevro di pregiudizj, non
potrai non ravvisare le fattezze comuni, alle posteriori prove dei
Cabbalisti, alle prove più antiche che imposero certo gli Esseni ai
loro seguaci.—Ma io però lo confesso, il mio modo d’intendere il
fatto in discorso immensamente si dilunga da quello che fu
ammesso sin’ora dai chiosatori; e s’egli è vero, com’è verissimo,
che a niuno sia interdetto proporre nuovi e più acconci sensi alla
parola tradizionale, altro non resta, per assicurare il trionfo del
vero, se non vedere ove più sia di ragione, di critica, di
plausibilità, di carattere storico. Il fatto in discorso è ovvio e trito
fatto tra i Talmudisti. Sono due uomini, dice la Barraità, che
scommettono di venire a capo della pazienza e mansuetudini
Illeliane; che prendono tutte le loro misure per riuscirgli in mille
modi importuni, che scelgono un giorno di venerdì mentre Illel si
radeva i capelli, che bussano alla porta sua e con gran pressa
chiedono se a caso vi fosse Illel. E Illel, che ricompostosi in fretta
gli esce incontro festoso, che chiede a loro che cosa desiino; sono
essi che gli propongono una serie di domande degnissime di nota,
in quanto preludono alla bellissima moderna scienza etnografica,
vale a dire allo studio dei popoli in relazione alla regione da essi
abitata, e di cui, se io non erro, solo in Aristotile si vede tra gli
antichi un primo albore.—Ma queste domande sono fatte ad Illel
in guisa che un moto ne provochino d’impazienza, una parola, un
accento; perchè fatte dopo iterato congedo, con intervallo
dall’una all’altra, e coi ripetuti preamboli ad ogni novella
domanda. Ma nè moto, nè accento, nè segno alcuno dà a divedere
Illel d’animo concitato, ma sempre a metà raso accorse alla porta,
sempre dolce favella, col nome[488] di figlio sempre li chiama,
sempre cortese risponde, e non solo cortese, ma ragionevole e
sapiente, come mi fu dato osservare non so se più lieto o
sorpreso, in guisa che mille offre analogie colle soluzioni che
Aristotele stesso, se non erro, nella Politica, propone agli stessi
problemi.—Lo dissi e lo ripeto, il senso storico ch’io veggo nel
fatto di Sciabbat, non è quello che tutti intesero i chiosatori
finoggi, e forse gli ultimi compilatori del Talmud che tanto
vissero lontani e dai luoghi e dai tempi dell’antico Illel, non si
addarono o poco del carattere verace del fatto narrato, ed in guisa
lo presentarono che nè mostra in essi una coscienza chiara
luminosa del suo vero senso, nè è capace nemmeno d’ingenerarla
ad una lettura superficiale, e senza il concorso di dati, di elementi
estratalmudici. Pure io non m’astenni nè mi astengo dal
proporvelo, sì perchè è principio di critica liberalissimo nei nostri
studj—potere ognuno liberamente discutere sul senso talmudico
—, sì perchè se non al tutto andava errato Ernesto Renan, quando
disse potere la ebraica filologia moderna più e meglio penetrare la
biblica intelligenza che non i secoli per avventura men
dall’origine discosti, egli è certo però che, vuoi nella Bibbia, vuoi
nei Dottori, questo fatto si verifica allora, e solo allora che il
nuovo senso è tratto dall’Emporio tradizionale che è la corrente
perenne ed il pensiero intimo nazionale, che precede,
accompagna e segue tutte le opere scritte, l’atmosfera in cui
nuotano, la luce in cui sono rischiarate. Nel giro tradizionale la
ragione ha libero il moto, libera scelta, libera adozione, e mentre
gli è dato produrre ivi quel giro con quei dati, con quegli
elementi, tutte le combinazioni, tutte le forme, le figure possibili,
che sono Scibghim Panim, e l’immenso Poligono di cui favellano
i Dottori, non può a buon diritto creare nè nuovi dati, nè nuovi
elementi appunto[489] come nella materia, ove libero s’esercita
nel combinare incessante l’ingegno del chimico, ma in cui vano
sarebbe tentare la creazione eziandio di un atomo.—Sendo il
corpo e l’idea, la materia fisica e la materia ideale campo e limite
nel tempo stesso alla ragione dell’uomo,—campo ove libero si
muove—limite ove libero si ferma, e campo e limite adombrati
nel bel vocabolo Ghebul, che con mirabile sinonimia significa a
un tempo limite e campo.
Noi però siamo ancora nei confini del puro e semplice
farisaismo talmudico. Prima di passare alla più speciale
considerazione del farisaismo cabbalistico, che è quello con cui in
ispecial modo s’identifica la società degli Esseni, mestieri è che
di due altri rilevantissimi cenni favelliamo altresì, tratti dal seno
del farisato talmudico, e che serviranno di naturalissima
transizione al campo alla scuola più speciali del farisato
cabbalistico. Questi cenni non sono di eguale significanza, troppo
il secondo sovrastando, come agevole comprenderete. È il primo
una frase che precede una sentenza, che non ha guari udivate
quando per sommo preservativo al peccato additavano i dottori
l’allontanamento dall’Ira, Lò tirtah velò tehetà. E il nome del
dottore, a cui si dirige l’insegnamento e il titolo di Hasid che reca
manifesto e che non troppo frequente ritorna nelle pagine
talmudiche, Rab Sallà Hasida. Ma che cosa è il nome del dottore
ammonito di fronte a quello di chi ammonisce;—che cosa è Rab
Sallà Hasida di fronte al nome di Elia, del profeta immortale che
di un balzo leva la mente a una visione semiprofetica, che ci
rapisce di un tratto nel vero e naturale orizzonte dell’Essenato,
delle sue visioni, della sua vita contemplativa, che un nuovo
anello ci porge tra i due istituti, tra Esseni e Cabbalisti, nelle
comuni visioni, nelle comuni apparizioni di[490] Elia profeta; e
che dopo avere insieme stretti Esseni e Cabbalisti, insieme poi gli
radica, li riappicca nelle più vive e pure fonti del farisato
antichissimo. Oso dire che lo incontro di questi nomi di Elia e
Rab Sallà Hasida, è lo incontro di due idee che insieme si
spiegano, s’illustrano di bellissima luce, la quale poi è levata a
grado ancor maggior di potenza dall’oggetto istesso che pone a
fronte i due individui; oggetto, legge, precetto essenico per
eccellenza, l’orrore, l’esecrazione della collera. E questo, come
vedete, è già transito facilissimo dal puro e semplice farisato al
farisato cabbalistico, in quanto ne porge nel titolo di Hasid
nell’incontro dello Essena con Elia, e sopratutto nell’idea che li
pone a contatto, altrettanti sbocchi e riuscite naturalissime alla più
speciale scuola dei Cabbalisti.
Ma che parlare di questi transiti, quando una via regia ci si
para dinanzi nello stesso Talmud? Formiamo secondo il solito un
voto, e vediamo se sarà adempito. Imaginiamo che cosa di più
preciso, di più parlante potremmo desiderare nel Talmud, che
nell’odio stesso alla passione dell’ira ci offrisse un mezzo nuovo
d’identificare Cabbalisti ed Esseni.—Diciamo a noi stessi: Se il
Talmud suppone, come non è dubbio, una scienza segreta
acroamatica che si chiama ora Sitrè torà, ora Maase Mercabà, ora
Pardes, ora la trasmissione del nome Mesirat ascem; s’egli è
vero, come dicemmo le tante fiate, che quella scienza, quella
scuola segreta, è la scienza e la scuola dell’Essenato; se è provato
come gli Esseni imponessero la fuga dell’ira qual morale
apparecchio indispensabile alle dottrine gelose; se in pari modo
l’imposero i Cabbalisti; se l’uno e l’altro sono quegli stessi nel
Talmud designati, come cultori del Pardes, della Mercabà, dei
Sitrètòrà o qual altro nome si abbia la riposta teologia; in una
parola se il sistema[491] nostro non è bugiardo, che cosa dovrà
trovarsi nel Talmud? Dovrà trovarsi, se non erro, la fuga,
l’astensione, l’orrore della collera qual condizione impreteribile
alla comunicazione della Mercabà, dei Sitrè torà e sopratutti dei
Nomi sacrosanti che tanto gelosamente vedemmo custoditi
eziandio dagli Esseni. Questo, nulla di più nulla di meno,
dovremo trovare nel Talmud, ed ove realmente si trovi, ed ove
l’ira vi sia additata qual sommo ostacolo da superare nello
ingresso del Pardès, o la logica e la critica non sono più che nomi
privi di senso, o il sistema nostro riluce di nuovo, d’inusitato
fulgore. Ora l’ipotesi escogitata in desiderio è una bella e preziosa
realità. È un testo chiarissimo e luminosissimo in Kedduscin ove
aperto s’impongono fra le altre, qual condizione indispensabile
alla comunicazione dei nomi divini, l’età virile, e poi la fuga
dell’ira. Queste parole non hanno bisogno di chiose perchè
troppo eloquenti depongono in favor nostro. Egli è per ciò che per
la porta che dischiudono, pel passaggio che ci offrono alle idee
cabbalistiche, noi entreremo difilati ad udire dalle costoro labbra
non meno solenne ed esplicita la condanna dell’Ira. Ora del Zoar
e del suo attestato. Chiede il Zoar a qual segno si debba cercare o
fuggire la compagnia di un uomo, e risponde: nell’ira. Se l’anima
santa ei dice, custodisce illesa nell’ira, se non la divelle dal suo
riposo, se in luogo suo non vi pone un Dio alieno, un idolo,
questi è l’uomo perfetto, questi è il servo fido al suo Signore, ma
ove fosse al contrario, ci sarà l’uomo ribelle al suo Signore, ed a
cui (notate le seguenti parole che l’idea ci destano dei Habrajà
Zoaristici che rispondono, come dissi altra volta, ai socj
dell’Essenato), ed a cui è interdetto avvicinarsi nè con esso
associarsi. Ma ciò che altrove dice lo Zoar merita più attenzione.
—Dopo aver chiamato, come udiste, la collera[492] vera idolatria,
Èl Zar, Sitrà okarà, conclude con parole che, oso dire, sono a
parer mio un lampo vivissimo di luce che progettandosi a traverso
i secoli frapposti sulle antiche linee del grand’Essenato, ce ne fa
cogliere in un amplesso istantaneo di luce le vere fattezze e i fili
segreti che lo congiungono agli uomini, alle teorie del Zoar. E per
comprendere questo tratto di luce, due parole d’indispensabile
prefazione. Ricordatevi di un fatto, e questo fatto sarà la chiave
con cui potrete penetrare nell’intelligenza del Zoar. Il fatto e l’uso
che abbiam veduto presso gli Esseni di cibarsi cotidianamente di
pane azzimo, e questo è il punto di partenza.—Ma ciò non
basterebbe senza che una idea intermedia non venisse a stringere,
a legare tra essi l’uso essenico del pane azzimo e parole che
udirete del Zoar, e questa idea è idea farisaica per eccellenza, è il
lievito preso, considerato qual simbolo naturalissimo di ogni
passione che suoni tumore, gonfiezza, la collera, la superbia
particolarmente.—Da questo punto di vista, con questo duplice
filo alla mano, udite le parole dello Zoar a cui accennava. La fuga
dell’ira era l’oggetto delle più calde sue esortazioni. Per mostrare
l’Ira qual vera e propria idolatria, il Zoar invoca l’autorità della
Bibbia, e per ciò, ei dice, egli è scritto: Eloè Massehà lò taase
lah, e poi si legge immediatamente: Et kag amazzot tismor. Ma
che intenda lo Zoar con queste parole, qual rapporto abbia
l’idolatria col kag amazot, qual rapporto abbiano ambedue col
soggetto in discorso, coll’Ira; nè il Zoar lo dice, nè i più
autorevoli commentatori lo spiegano, nè troppo parmi suoni
agevole a comprendersi.—Solo ha un senso se ci torniamo alla
mente e l’uso essenico di cibarsi di pane azzimo, e il simbolo del
lievito qual espressione di collera e superbia. Premessi i due fatti
ricordati, quanto non riesce piano e naturale il ragionamento
dello[493] Zoar! Ei vede nella Contiguità ossia Semikut dei due
comandi il cenno del principio suo favorito.—L’iroso essere
idolatra—; egli vede il testo esordire colla idolatria materiale
esteriore, sensibile nell’Eloè masseha, e senza sbalzo e senza
lacuna proseguire nella idea stessa d’idolatria, non più fisica certo
ed esteriore, ma morale e interna nel divieto di ogni lievito, Et
kag amazot; ch’è quanto dire, oltre il suo senso positivo e
letterale, lo schifo, la fuga della collera, della superbia da cui gli
Esseni si guardavano, e in figura e in realtà; in figura coll’odio
che ispiravano per la passione dell’ira, in realtà colla massima
estensione che davano al precetto in discorso, cibandosi, come
vedemmo in fatto che si cibavano, cotidianamente di pane
azzimo. Il Zoar con una frase suppone, e la significanza
simbolica del lievito qual simbolo di collera, e ci addita al tempo
stesso la via per la quale poterono gli Esseni allargare il precetto
in discorso sino a formarne regola comune ordinaria di loro vita.
Ora dagli antichi ai più moderni Cabbalisti trapassando, seguiamo
di queste idee le vestigia sempre più manifeste. Non solo per essi
le virtù alla collera opposte, la dolcezza, la mansuetudine, la
sopportazione delle ingiurie, sono apparecchio a ricevere lo
spirito divino, sono anzi i più eloquenti maestri della scienza
riposta; non solo si legge in nome dei più antichi Cabbalisti quai
furono i Cichittilia spagnuoli; non solo eglino stessi dicono
averlo trovato scritto nei libri dei Cabbalisti, che meritarono di
pervenire alla scienza divina; non solo, dico, per essi uno dei
preliminari più grandi e più necessarj è la sopportazione delle
ingiurie, è la fuga della collera ma ciò che più monta, è quello che
segue, ove risalendo a un’epoca antichissima, al mille dell’Era
volgare, vediamo la prova contro la collera prevaler qual uso tra i
più grandi dei Cabbalisti. E grandi invero sono per esempio[494]
Rabbi Jeuda chased, più antico di Rasci, e grande non meno il
maestro suo Rabbi Jaacob Eschenazi. E dell’uno e dell’altro ecco
ciò che si legge nel Rescit Kokmà, libro prezioso non solo per la
dottrina morale, ma per i frammenti e le memorie di gran lunga
più antiche che di frequente racchiude:—«Avvenne che il hasid
Rabbi Jacob Eschenazi, che era straordinariamente erudito nella
scienza (intendi la Teosofia o scienza per antonomasia), volendo
insegnare la sua dottrina a Rabbi Jeudà chasid, provollo prima
riguardo alla collera.—» Ma ciò è poco rispetto a quello che
segue: «Ed era tradizionale costume appo loro (intendi Teosofi)
di non trasmettere la scienza, se non a chi provato essendo negli
effetti dell’ira, non s’adirasse. Ora fu provato pertanto R. Jeudà
chasid il quale, per molte volte riuscito vittorioso, la settima però
restò soccombente.» Queste parole brillano di una luce propria
innegabile, nè bisogno hanno di venire illustrate, ogni parola o
comento non facendo che oscurarle. Solo piacemi additarvi un
punto, non men bello nè luminoso, ma che nel fulgore
dell’insieme potrebbe sfuggirvi, come le stelle si ecclissano alla
luce del sole. Ed è l’epiteto Hasid invariabilmente appiccato al
nome dei due Cabbalisti, del dottore e dell’addottrinato del Hasid
R. Jacob Eschenazi, il maestro; e del hasid R. Jeudà suo
discepolo. Se tutte queste cose sono a caso, io mi taccio; e solo
dirò che se ciò è a caso, non è più assurda quella ipotesi che altri
mise in campo per provare la necessità di un ordinatore del
mondo, e che non è più impossibile che imborsando tutte le
parole del vocabolario latino ed estraendole ad una ad una, ne
venga fuori il capo d’opera della letteratura latina, L’Eneide di
Virgilio.—Se il caso può partorire le armonie che vediamo nello
studio degli Esseni, non v’è nulla di assurdo che possa fare
ancora il prodigio indicato.

[495]
LEZIONE TRENTESIMANONA.

La storia della vita essenica costava di tre parti distinte. La


vita religiosa, la vita interna, la vita pubblica esteriore. Delle
prime due parti abbiamo ragionato abbastanza, rimane a vedere
della terza ed ultima che dicemmo vita pubblica ed esteriore. Vi
ha però un tratto della vita loro, intima privata, che serve quasi di
ponte e di transito naturalissimo allo studio, dei loro rapporti
esteriori, ed è il rispetto reciproco che professavan tra essi i
membri dell’Essenato. Questo rispetto fu sì grande, sì costante,
così proprio all’Essenato, che un tratto forma sensibilissimo della
essenica fisonomia, che menzione segnalatissima meritava dallo
storico della setta, Flavio Giuseppe. Giuseppe vide il rispetto, la
deferenza che usavansi tra essi i membri dell’Essenato, ed ai
posteri lo trasmise, e trasmettendolo, nuovo e parlante argomento
ci porse della identità tra Farisei ed Esseni, da noi propugnata. Se
v’ha carattere deciso spiccato prominentissimo nella scuola dei
Farisei; egli è questo senza meno, egli è il rispetto che la scuola
imponeva tra colleghi e compagni; egli è il precetto che si legge
in Abot, il Codice dei Hasidem, di amare, riputare qual proprio
l’onor del compagno; egli è l’onoranza dovuta al compagno qual
duce e maestro per quello inevitabile incremento di scienza che si
consegue negli studj, nelle disputazioni[496] comuni; egli è il
titolo di familiare all’Esterno conceduto in Pesahim a quelli che
tributano lode e dimostrazioni onorevoli ai compagni loro nei
dotti, consessi; egli è il vanto che menavano i più grandi tra i
Tanaiti, di non aver mai tolto a vile l’opinione dei colleghi, sino
al punto, dice alcuno tra essi, di officiare qual sacerdote abbenchè
sacerdote non fosse; egli è il flagello che dicesi menò strage nella
immensa scolaresca di Akibà, sol per aver un solo istante obliato
il dover sommo del Farisato, il rispetto reciproco e per cui dura
tuttavia un vestigio di lutto tra la Pasqua e la Pentecoste; ei sono
infine gli esempj grandi cospicui che ci offrono del reciproco
rispetto i lumi più grandi del Farisato, e ciò che più monta, per
eloquentissima coincidenza, i dottori più celebri del Cabbalismo,
Rabbi Akibà quando profonde in carcere la scarsa misura d’acqua
per bere, ad uso di un lavacro doveroso soltanto, a detta dei suoi
colleghi, perchè, com’egli disse, meglio era subire le torture della
sete che dar pubblico segno di indisciplina e disobbedienza; R.
Simon, il corifeo del cabbalismo, quando sgrida, non appena
uscito dal suo più che decenne nascondiglio, colui che contro la
volontà dei colleghi, e ciò che più monta, in coerenza alla sua
propria opinione, raccoglieva poche spiche spontaneamente
cresciute nell’anno sabbatico. Ma tal rispetto, comunque
osservato universalmente tra i nostri Esseni, non era tuttavia in
pari modo distribuito tra loro. Fra gli Esseni d’Egitto, che la
Storia conosce col nome di Terapeuti, v’era una classe che forse
non differisce dai sacerdoti stessi che ministrarono nel Tempio di
Onia, di cui ebbi luogo non è molto di favellare e che il nome
reca appo Filone di Presbiteroi, d’onde, come dissi altra volta, il
prete cristiano. Ora i Presbiteroi di Filone erano i più degni e più
meritanti di tutta la scuola, certo i più dotti, e ciò che più
monta[497] è ciò che aggiunge Filone, concedersi quel titolo al
merito senza riguardo di età. E questo è pretto e puro farisaismo.
Presso i quali se la vecchiezza è in somma onoranza, come presso
la Bibbia, come appresso i più civili e più nobili popoli dei tempi
antichi, non è sì che la scienza non faccia venerando per
prematura canizie anche l’uom giovanissimo, che non lo
anteponga al vecchio ignorante, e che per tutto ciò che s’attiene ai
consessi studiosi, unico criterio di preminenza non sia la scienza
maggiore, e solo nei mondani convegni si accordi alla vecchiezza,
comunque indòtta, la preminenza.
Ora lo studio della vita esteriore ci dee le soglie far varcare
del grande Istituto, e dall’esame dei rapporti reciproci dobbiamo
procedere a quelli che gli Esseni legavano cogli uomini, col
mondo, colla Società esteriore. La storia ci ha conservato
memoria di due rapporti, che due Stati contrassegnano opposti,
estremi nelle sorti dell’Essenato, la libertà, la grandezza, il potere
da una parte, la sventura, la persecuzione, il martirio dall’altra.
Nell’uno come nell’altro, nella trista e nella lieta fortuna, uno è il
volto, uno il carattere, uno il tipo, quello dei Farisei. Come gli
Esseni, dei quali chiaro attesta Giuseppe le civiche e governative
dignità, le città governate, come Giovanni Essena governatore di
Jamna, come gli Esseni ebbero i Farisei onori, potenza, impieghi,
uffici pubblici, edilizj politici eziandio dal governo romano, o
dagli efimeri principati della Giudea; e senza ripetere ciò che fu
detto di Menahem, chiamato, dice il Talmud, insieme ai discepoli
al servigio di Erode, parecchi esempj si potrebbero fra i dottori
citare non solo di regie e imperiali amicizie, ma di offici pubblici
sostenuti, e di cui lo esempio non è raro vedersi anco nella storia
moderna, nelle corti d’Europa, nei ministri dei Re di Francia, nei
tesorieri e medici della corte[498] papale, tra i quali splende qual
vivido astro, Rabbenu Iehiel del 9º secolo dell’Era Volgare,
tesoriere del Papa allora regnante. Ma le cariche, di cui parla
Giuseppe, datano da tempi più antichi, da quando ogni barlume
d’indipendenza non era svanito, dai primi tempi del dottorato
talmudico, e forse dai tempi gloriosi della guerra d’indipendenza.
Di tempi così antichi, scarsi sono ed incerti le memorie
talmudiche, e quindi scarse ed incerte le analogie che andiamo
cercando. Non sì però che qualche vestigio non ne rimanga.
Testimoni Menahem e la sua scuola di cui abbiamo parlato, e
testimoni quei primi venerandissimi Tanaim che aprono la serie
del dottorato in Abot, un Antignos Is soho, vale a dire Signore
rettore di Sohò, un Joseben soezer rettore di Zeredà, un Rabb
Halafta rettore di Chefarhanama, un Rabb Eliezer rettore di
Bartota, un Rabb Levitas rettore di Jabuc, un Nehunià capo di
Chefarabatli; tutti, come concordi attestano i chiosatori, investiti
di pubblico, di civile officio, indicato nel vocabolo Is, Signore e
Duce. Ma gli esempj e la pratica non solo all’uopo soccorrono, vi
è anco il principio, il costume, l’enunciazione generalissima del
fatto dai dottori proclamato. Il fatto voglio dire di Dottori, di
Farisei, di Esseni, che son tutt’uno per noi, preposti al governo, al
maneggio de’ pubblici affari. E non solo una volta, ma bene tre
esplicite e chiarissime menzioni ne ricorrono nei libri talmudici, e
non solo i Farisei in generale ne sono, come dissi, gli enunciatori,
ma quelli in specie che recano manifesti i segni dell’affiliazione
cabbalistica, e di cui udito abbiamo altra volta la voce e veduto
gli esempj preziosi, autorevoli. Ma uno poi di questi luoghi
accennati brilla di una luce tutta propria, speciale,
sfolgorantissima, ed al novero appartiene di quei pochi, ma
salienti tratti di luce che ci rivelano nel Talmud le traccie[499]
dell’Essenato, e che se non soli perchè corredati, accompagnati da
quelle costanti e perpetue analogie da noi additate, sono però
come soli in mezzo agli astri minori, come i visceri vitali, come i
centri organici nervosi in mezzo al continuato organismo, come i
nuclei stellari nella materia delle nebulose, come i grandi
avvenimenti nella istorica successione, come le epoche organiche
genesiache nella formazione della terra; un concentramento di
luce, di forza, di vita, di azione e di pensiero. Io dissi che tre sono
i luoghi in discorso. Ma se tre sono i luoghi e tre le forme, uno
solo è il pensiero, uno solo il fatto che sotto vi giace, ed a cui si
allude; il fatto della presenza dei Dottori, dei Farisei al governo
della città, il pensiero di fuggire la città da essi governata. Io non
starò a notare le grandi riflessioni che questo pensiero ci
suggerisce, le vere cause che condussero i più grandi tra i Farisei
ad abdicare ogni politica superioranza, ma il fatto resta, ed il fatto
ci basta. Quando Rabbi Akibà volle lasciare al figlio alcune regole
di condotta per bene vivere nel mondo, fralle altre cose che
raccomandògli sì è quella di non abitare un luogo al cui governo
siano Talmide hahamim, vale a dire veri e proprj Farisei. Quando
Rab volle fare nel Talmud di Sciabbat una scala, una gradazione
di merito fra le umane signorie, pose in primo luogo l’araba
signoria, dopo l’araba la romana, dopo questa la persiana o
cabaritica, e dopo questa la farisaica. Ma il terzo luogo vince di
gran lunga i due ricordati; ed è, come dissi, un dei fari, dei punti
luminosi che guida chiunque si faccia a cercare nel mare
talmudico l’antica scuola degli Esseni. L’autore è quel medesimo
della scala politica testè udita, è il medesimo Rab, il pensiero è il
medesimo, ma l’espressione, ma la forma, quanto più eloquente!
Esorta egli com’esortava Akibà il figlio suo, ma invece[500] del
vocabolo Talmid Haham un altro è posto in luogo suo, e questo è
il nome di Assè. Non abitare città alla cui testa sia un Assè.
Parola grande storica che suona rarissima in tutto il Talmud, e che
doveva quindi tornare strana, bizzarra all’orecchio dei chiosatori
ignari o incuranti della esistenza stessa di una scuola per nome
Essenato. Quindi in Rasci e nel Karuh, un linguaggio perplesso e
come a tentoni: ma poi la mente loro dopo breve bagliore, mirate
forza del vero! si fissa come aquila nel sole, nella contemplazione
dell’unico senso, vero, storico, razionale, e la gran parola
pronunziano d’identità fra Talmid haham e Assè, e nell’Assé del
Talmud non altro veggono che lo stesso Talmid haham, vale a
dire veri e proprj Farisei. Ei fu per me un conforto, un diletto che
non saprei dirvi. Oltre il passo talmudico che ha un’importanza
senza pari per la storia dell’Essenato, e che è come il suggello
posto al nostro sistema d’identità, e che niuna umana potenza ci
può rapire, mi doleva non poco dover anch’oggi scostarmi da
quegli uomini santi e venerandi che sono Rasci, e l’autore del
Lessico Aruh e in genere i Rabbini del Medio-evo. Da oggi in poi
potremo dire senza che niuno sia oso di contraddirci, che per
l’uno come per l’altro Assè vuol dire e può voler dire ch’egli è
uno dei nomi con cui il Fariseo si distingue, ch’è quanto dire, per
assumere un linguaggio storico, che gli Esseni non sono che parte
nobile sì, ma pur parte del gran corpo dei Farisei.
Ma la considerazione di questo gran fatto non vorrei ci
togliesse vaghezza di volger il pensiero a cose men grandi; la
beltà delle forme si vede nelle grandi come nelle piccolissime
linee, e ciò che è vero, è vero in tutto, nelle massime come nelle
minime parti. Se il fatto che ci narra il Talmud, se il nome nuovo
che accampa, quale denominazione dei Farisei, sono, più che dir
si può,[501] eloquenti, non lo è meno il nome degli uomini che il
fatto proclamano. L’uno è R. Achibà, il maestro del Ben Iohai,
grande e felice visitatore del Pardes, ed egli stesso vivente
esempio della ingerenza politica dei Farisei, nella parte
grandissima che prese, nel supremo ed infelice conato
d’indipendenza, in cui Ben Cozibà fu il braccio glorioso, in cui
Achibà fu il capo, il pensiero, il profeta, l’ispiratore, e che soleva
dire per l’infelice Barcocheba avere di esso pronosticato Balaamo
quando disse: Ecco spunta una stella (Cokab) da Giacobbe.
L’altro che abdica il valore politico è Rab, vale a dire R. Abbà lo
scriba, il redattore, il collaboratore anzi dello Zoar, il discepolo
prediletto di R. Simon, il Beniamino della scuola, il portavoce del
gran maestro tanto nella tradizione comune, quanto nella
recondita, tanto nel Rito come nel Dogma, nel rito colla redazione
del Sifrè, opera di Rab, pensiero del Ben Johai Setam Sifré R.
Simon Ben Johai, nel dogma colla redazione dello Zoar, opera
egualmente di R. Abba o Rab che è pensiero egualmente del Ben
Johai. E ambidue eloquentissimi nomi perchè appartenenti al
maestrato supremo del cabbalismo, i quali uniti all’idea che
esprimono, essenica per eccellenza perchè allusiva agli storici
esteriori rapporti dell’Essenato, formano un concorso di prove, di
memorie innegabili in primo luogo della identità tra Esseni e
Farisei cabbalisti, e in secondo luogo delle vestigia tuttavia
sussistenti nei libri talmudici del grande Istituto. Vedremo nella
seguente lezione quanto gli Esseni abbiano comuni coi Pitagorici,
il genio, gli uffici, la vita politica, e come grandi si mostrino nella
sventura e nel martirio, non meno che nella prosperità e nella
gloria.
[502]
LEZIONE QUARANTESIMA.

Se gli Esseni prendevano parte al governo dello Stato, se


molti offici sostennero, come disse Giuseppe, non fecero, come
veduto abbiamo nella passata Lezione, nulla di cui esempio
illustre non c’offrano i Farisei, e nulla altresì, come vedremo in
questa lezione, che non facesse il grande istituto dei Pitagorici, ai
quali paragonavali Flavio. Voi lo ricordate, Giuseppe disse gli
Esseni i Pitagorici dell’Ebraismo, e quanto bene si apponesse
così dicendo, voi lo vedeste in quei casi infiniti in cui le leggi, i
costumi, il genio delle due scuole s’incontrano nel corso di queste
lezioni, e lo vedrete eziandio nell’argomento presente, sol che vi
piaccia invocare le più accertate e comunali nozioni intorno la
storia antica dei Pitagorici. Se v’ha punto incontroverso nelle
vicende di quella scuola, se v’ha cosa che costituisca profondo
reciso, divario tra gli antichi e i moderni Cenobj, egli è il genio
pratico, attivo, sociale, politico dei Pitagorici; la parte grande,
eminente che presero sino dall’origine nelle sorti, nelle
costituzioni della patria loro; delle città in ispecie di Magna
Grecia, ove ebbero sede famosa e illustre. Basta dire di Pitagora
stesso, tra i cui caratteri splende quello di legislatore degli Italioti;
di Archita, di Eudosso, pitagorici antichi essi pure, i quali, al dire
di Diogene Laerzio, dierono leggi a parecchie città che abitarono.
[503] Il quale genio ed officio politici perpetuaronsi nella scuola
sino agli ultimi giorni della sua esistenza. Se v’ha scuola antica
che meglio le fattezze riproduca dei Pitagorici, che più abbia di
somiglianza, d’affinità coll’Essenato e col Cabbalismo, ella è
senza meno la scuola dei Platonici. Ed a Platone non è niuno che
negar possa il carattere, il genio e la scienza di statista, di cui fece
studio precipuo nelle Leggi, nella Repubblica, ed è a Platone che
il gran placito si attribuisce: Non potersi dare stato perfetto se non
dove il principe è filosofo o il filosofo principe; ed è di Platone
che il Ritter, dopo costatato il pregio e la inclinazione politica,
conchiude in questa guisa: On voit donc que Platon considère la
société civile comme quelque chose d’utile au particulier, et qu’il
croit que c’est une œuvre louable que de prendre part aux
affaires de l’État. Queste cose ci diano una idea più adequata
dell’Essenato, se frainteso avessimo sino adesso il suo genio, se
creduto avessimo gli Esseni non dissimili da quegli asceti antichi
e moderni, che maledicendo il mondo e la vita mondana, fuggono
lungi dall’umano consorzio solo per piangerne e imprecarne i
vizj, i delitti; che non dànno niun valore alla vita politica, che
stillano nei cuori l’indifferenza, l’apatia, lo scetticismo politico,
che aprono quindi il varco a sensi abbietti e servili, e quindi
operando contro il proprio scopo, non offrono più per cibo alle
menti che il più vile materialismo; oh quanto non saremmo
andati, così giudicando, lungi dal vero! L’Ebraismo, che è il più
perfetto e sublime connubio tra la politica e la religione, era là per
evitarne gli eccessi; e gli Esseni e i Terapeuti e qualunque altra
scuola che nel suo seno sorgesse, non poteva a meno di essere
ebrea, e quindi eminentemente pratica e politica per eccellenza.
Perchè non lo fosse, perchè facesse divorzio dalla vita esteriore,
bisognava che[504] prima facesse divorzio dallo stesso ebraismo,
che si separasse dal suo grembo, che ne rompesse la possente
unità; e, mirabile a dirsi! la storia ci conferma il dettato della
ragione, e ci mostra nel cristianesimo la prima setta che fatto
abbia divorzio dall’ebraismo, e nello stesso tempo che abbia fatto
divorzio dalla vita politica.
Ma la ingerenza politica che la storia ci mostra nella società
degli Esseni, mise in luce quella virtù più preziosa che gli fece
magnanimi, eroici, tetragoni nelle persecuzioni, e che nuovo e bel
riscontro ci offre colla setta madre dei Farisei. Se Farisei ed
Esseni vedemmo confusi, immedesimati nelle opere del pensiero,
delle leggi, delle pratiche, della morale, delle storiche vicende,
confusi ancora e immedesimati li vedremo nella sventura; e se
comuni ebbero gioje, sapienza e virtù, comuni avranno ancora
dolori e martirio. Giuseppe che ci narrava le prime, ci narra i
secondi; e in seno alla sventura, in mezzo ai roghi e sotto le crudi
bipenni, ci fa vedere gli Esseni e’ Farisei stringersi ancora una
volta, unificarsi in un amplesso di amore. E non solo il fatto
principale da Giuseppe narrato lo attesta ad evidenza, ma le
circostanze tutte eziandio che ne costituiscono l’epoca, i caratteri,
le cause dei gloriosi martirj. E se io vado errato così
giudicandolo, ditelo voi, quando udito avrete le parole di Flavio
che io tolgo testuali dal traduttore francese. «La guerre que nous
avons eue contre les Romains a fait voir en mille manières que
leur courage est invincible. Ils ont souffert le fer et le feu, et vu
briser tous leurs membres plutôt que vouloir dire la moindre
parole contre leur Législateur, ni manger de viande que le
Seigneur défend, sans verser une larme pour tâcher d’adoucir la
cruauté de leurs bourreaux.» Qual ritratto, e quale più proprio e
conveniente ai Farisei! Se ad una ad una tu togli ad esame[505] le
circostanze da Giuseppe narrate, non una vedrai che non si attagli
mirabilmente al lungo e glorioso martirio dei Farisei. Se all’epoca
tu guardi, ed è la guerra d’indipendenza, egli è appunto nelle
nazionali riscosse, nelle crude rappresaglie dei vincitori, che il più
puro e sacro sangue si versava dei Farisei; se al genere guardiamo
di morte, al ferro, al fuoco, ai membri lacerati, ove è strazio che
meglio lo strazio riproduca dei Farisei? se la costanza religiosa
nell’indurarlo, ove è, non dico costanza, ma sereno, ilare e quasi
esultante coraggio che quello superi dei Dottori farisei menati al
supplizio? se al ciglio asciutto, all’orrore di ogni supplica, di ogni
bassezza, ei furono tali nei Farisei, fu sì grande l’animo
impavido, ei fu tale il prestigio del sovrumano contegno che il
cuore ammolliva eziandio dei manigoldi; e non pochi casi si
leggono nella storia del martirio, di Dottori che vinsero i loro
carnefici, che ricevendone la morte del corpo, li ripagarono colla
vita dell’anima, e di pagani carnefici ne fecero, per prodigio di
fede, martiri pur essi alla volta loro, e martiri israeliti.
Un’altra storica indicazione della scuola, e avrà termine
l’esame del grande Istituto. Come tutti gli uomini sobri,
temperanti e viventi di una vita spirituale, come tutti i Cenobj
antichi e moderni, l’Essenato esso pure andò famoso per la vita
singolarmente longeva dei suoi seguaci. E chi lo attesta è lo
stesso Giuseppe, quando dice che la maggior parte degli Esseni
perveniva all’età di cento anni; e così dicendo non fa che
preludere ai cenni, agli attestati talmudici sui Farisei. Chi volse
solo per poco lo sguardo al Talmud, sa quanto suoni preziosa pel
nostro sistema la deposizione di Flavio; chi lesse nel Talmud
quant’oltre giunse per l’ordinario la vita dei Farisei; chi reca
ancora l’eco distinto di quella frase così ripetuta nei due Talmud:
Per qual merito vissuto hai vita[506] così longeva; chi vide quella
straordinaria durata attribuita ai più celebri tra i farisei, e innanzi
a cui resta sgomenta e perplessa la critica istessa; chi queste cose
ebbe per un istante considerato, vedrà nella longevità essenica
narrata da Flavio un nuovo e non lieve riscontro colla scuola
madre dei farisei.
E qui ha termine l’esame intorno dell’Essenato. Nell’ufficio
da noi assunto duplice fu il nostro scopo. Esporre la storia tutta
dell’Essenato, e al tempo stesso trarre a mano a mano dalle
viscere stesse di essa storia le prove, i titoli, gli argomenti di
quella identità da me propugnata tra Farisei ed Esseni, e più
specialmente tra gli Esseni medesimi e quella classe di Farisei
che si dicono Cabbalisti. Quanto lungi si stese l’esame
dell’Essenato, quanto profondo s’addentrava l’occhio nella
contemplazione della sua origine, delle sue istituzioni, dei suoi
dogmi, delle sue pratiche, nelle grandi come nelle piccole parti
del grande edifizio, nelle sue piccole e minute ramificazioni,
continuo, splendido, eloquentissimo risultava il fatto, il gran fatto
da noi proclamato, la identità essenico-cabbalistica. Io non
presumo avere il grande subietto esaurito; credo però avere la
buona via additata a chi più pronto l’ingegno, più propizie le
occasioni da natura abbia sortito. Però, coll’esame interno, colle
prove intrinseche dell’Essenato non finisce la dimostrazione della
identità essenico-cabbalistica da noi proclamata. Conclusa
eziandio la storia loro, resta un ordine di prove, che non ha nè
può avere attinenza coll’esame interno del grande Istituto, e che si
fonda sempre sopra poche ma momentose circostanze, che solo
esteriormente all’Essenato si riferiscono. Si possono queste prove
dividere in tre capi distinti. Si fondano le prime sopra il silenzio
di antichi autori e monumenti intorno l’Essenato, silenzio che
torna eloquentissimo in favore[507] della identità in discorso,
come vedremo tra breve. Consistono le seconde in alcune frasi
preziosissime degli antichi storici delle nostre sètte, le quali
depongono, come vedremo, non meno in favore del nostro
assunto. L’ultima e terza prova è tutta cronologica, ch’è quanto
dire, si fonda sopra la durata che narra la storia delle due scuole, e
mostra un sincronismo significantissimo tra Esseni e Cabbalisti,
un sorgere, un declinare o piuttosto un ascondersi simultaneo che
depone altamente in favor nostro. E prima del silenzio: del quale
vorrei che comprendeste pienamente il valore. Che vuol dire un
argomento tratto dal silenzio semplicissimo dei monumenti? Vuol
dire consultare gli storici, i monumenti contemporanei,
interrogare coloro che per officio storico, per posizione, per
carattere, per rapporti necessari, sono i naturali e proprj narratori
delle sètte contemporanee; vuol dire cercare tra le scuole, di cui
v’è menzione, la scuola degli Esseni, ed ove solo degli Esseni si
serbi un singolare silenzio, ove ogni altro motivo di questo tacere
sia eliminato, concludere logicamente, trionfalmente la identità
della setta della scuola taciuta, con quella fra le scuole
rammemorate colla quale maggiori e più sentite corrono le
somiglianze, le analogie. Determinato così il valor teorico
dell’argomento in discorso, vediamolo alla prova nel presente
subietto. Due sono i libri ove a buon diritto ci dovremmo
attendere una esplicita e diffusa menzione della società degli
Esseni, per i tempi, per le lotte, per il subbietto istesso che
evocare dovrebbero ad ogni istante la presenza, la memoria
dell’Essenato. E questi due libri sono i monumenti ebraici e
cristiani contemporanei, il Vangelo e il Talmud; e per Vangelo
intendiamo tutti gli scritti evangelici, e per Talmud le opere tutte
della Enciclopedia Rabbinica dei primi secoli dell’E. V. Parlano
eglino i Vangelisti, parlano eglino i[508] Dottori nostri del grande
Istituto? Sì certo che ne favellano ove il nostro sistema si adotti;
quando si vegga cioè in tutti quei luoghi ove è menzione degli
asceti talmudici, un vestigio dell’Essenato; ma ciò che chiediamo,
è diretto agli avversarj; a coloro che tentati fossero di ricusare la
identità da noi proclamata, ove chiariti fossero inefficaci gli
argomenti sin qui allegati, egli è a costoro che noi chiediamo, se
il nome essenico vi è pronunziato, se diretta propriissima
rimembranza ricorre nei libri citati, e la risposta non potria essere
dubbiosa. Tacciono i Vangelisti tutti della società degli Esseni;
tacciono gli immensi volumi talmudici; e se il silenzio loro è rotto
tal fiata da quei brevi comunque parlanti accenti in cui il nome si
ode, per un istante, del nostro istituto, egli è da una parte troppo
scarsa memoria di tanta scuola, egli è dall’altra così spiccante il
carattere farisaico in tal menzione, che anzichè rivocare in dubbio
la identità tra le due scuole ne formano invece la più bella
conferma. In una parola: il silenzio è generale e costante nei
Vangeli, presso che generale eziandio e costante nei libri
talmudici. Donde questo fenomeno singolarissimo, d’onde
quest’anomalia storica, questa lacuna nella schiera numerosa,
illustre delle sètte che intervengono, che parlano, che agiscono,
che disputano, che si laudano, che s’infamano scambievolmente,
nei Vangeli, nei libri talmudici? Grande è il problema e tale che
l’attenzione si meritò dei più grandi scrittori. Non dirò che del
Basnage, il quale, siccome noi, chiedeva a sè stesso in qual guisa
si tacesse il Vangelo, della società degli Esseni. Come rispose il
Basnage alla grave domanda? In modo, è uopo dirlo, ch’è ben
lungi dal sodisfare, benchè duplice soluzione abbia proposto alla
presente ricerca. Disse in primo luogo come gli Esseni non
uscendo dai loro ritiri per disputare con Gesù, non fossevi quindi
occasione di rammentarli[509] nelle dispute evangeliche. S’appose
egli il Basnage così sentenziando? Io forte ne dubito. Che gli
Esseni amassero la vita contemplativa non si nega, ma quanto
andrebbe errato chiunque far ne volesse altrettanti solitarj e
anacoreti della Tebaide! Lungi dal separarsi dal consorzio sociale,
lungi da fuggire il mondo e la sua vita, niuno meglio di essi
conciliar seppe la vita attiva e la vita contemplativa, niuno più
volontario si sobbarcò ai doveri, agli offici politici, sociali; e se
v’è carattere che più distingua gli Esseni di Palestina dai
Terapeuti d’Egitto, egli è appunto quel genio, più spiccato nei
primi, quella speciale predilezione per la vita pratica, esteriore ed
attiva. D’onde dunque il silenzio degli evangelici? Dallo scarso
insignificante numero degli Esseni, dice in secondo luogo il
Basnage. Ma quanto inconsideratamente! Non vide il Basnage
come menzione vi sia negli scritti evangelici di sètte ben
altrimenti oscure che non gli Esseni, qual fu a mo’ di esempio
quella degli Erodiani ivi rammemorata: non vide, come
l’Essenato sia, a detta di Flavio, insieme ai Farisei ed ai Sadducei,
una delle tre grandi divisioni in cui si partiva l’Ebraismo
contemporaneo: non vide come le sètte non si contino ma si
pesino; e non vide infine come l’Essenato, sendo per sua natura
ascetico superlativo, non poteva non offrirsi numericamente
inferiore alle altre sètte, perchè non molti sono gli uomini i quali
aspirano a una vita, a una perfezione straordinaria.
Ma per tacere del Basnage, io lessi del silenzio degli Evangeli
una ragione che, se non è certo più solida di quelle esposte sin
ora, è certo più di esse speciosa, e poco manca che a prima giunta
non ti seduca.—Ad udire certuni, se gli Evangeli non favellano
degli Esseni, egli è perchè mentre il Cristianesimo pugnava colle
altre scuole, mentre dichiarava la guerra agli Scribi,[510] ai
Farisei ed ai Sadducei, fu tutto stima, amore, concordia colla
società degli Esseni, da cui nacque, con cui ebbe comuni e la
sostanza e la forma esteriore, il dogma, il culto, le istituzioni.—
Non è ella cotesta la parodia, e la contraffazione del vero? Noi
diciamo tutto questo dei Farisei, noi spieghiamo il silenzio
farisaico colla identità essenico-farisaica, come il sistema che
combattiamo spiega il silenzio evangelico colla identità fra
Cristiani ed Esseni, e forse potrebbe credersi che non possiamo
combattere la identità essenico-cristiana senza per ciò stesso
ferire la identità essenico-farisaica, ambe poggiando sullo stesso
argomento, il silenzio talmudico e il silenzio evangelico. Se così
fosse, io mi troverei in un bivio pericoloso: non potrei impugnare
l’arme contro il nemico senza ferire me stesso, senza soffocare
prima di nascere uno degli argomenti più concludenti del mio
sistema. Saremo noi condannati a rinunciarvi? Io non lo credo,
purchè si voglia mirare a una radicale differenza che corre tra i
due casi. S’egli è vero che il Cristianesimo ebbe rapporti
strettissimi coll’antico Essenato, se s’inspirò in quella scuola, se
ne trasse i caratteri più prominenti, se tutto questo e anco più
concedessimo agli avversarj, ci rimarebbe sempre un punto di
divergenza che eglino stessi non ci potrebber negare. Che dico?
che non potrebbero contestare senza moralmente suicidarsi,
senz’abdicare a ogni titolo di storica, di religiosa considerazione;
vale a dire la rottura, lo scisma dall’antico ebraismo. Se il
Cristianesimo non si separò dagli Esseni, se rimase una sol cosa
con essi, se non dilungossi dal grembo ortodosso, e se per questo
ne tacciono gli Evangeli, ch’ei rifaccia tutta la via che da noi lo
divide, che risalga la corrente che lo ha recato da noi sì lontano,
che si riduca infine nella ebraica periferia, se pure la pretensione
ei vuol mantenere di essere[511] lo stesso Essenato.—Ma se
nuova è la legge, nuovo il testamento, se proclamò sino dal
nascere falso ciò che vero confessavano gli Esseni, e vero quello
che falso, se rigettò la tradizione ch’era l’anima dell’Essenato, se
dichiarò irrite le leggi cerimoniali, se annunciò l’umanazione del
verbo incognita e blasfematoria agli Esseni, perchè dunque degli
Esseni non si favella, perchè non si veggono con essi quelle
dispute, quelle lotte che cogli altri si vedono così frequenti?
Ma su, pognamo che vero sia tutto quello che dagli avversarj
si chiede, che nulla ci corra tra Cristiani ed Esseni, che il
Cristianesimo sia lo stesso che l’Essenato, e che per questo non vi
fosse luogo di farne menzione negli Evangeli. È egli per questo a
bastanza spiegato il silenzio evangelico? Non dovrebbe anzi per
ciò stesso invocare a ogni tratto gli Esseni? Non dovrebbe
fondarsi sopra un passato venerabile, ammesso ortodossissimo,
qual fu l’essenico Istituto? Non dovrebbe cuoprirsi colla sua
egida? Non dovrebbe valersi del loro nome per mostrare com’ei
fosse meno novatore di quel che lo reputavano?
Che se le ragioni allegate dal Basnage non valgono a spiegare
il silenzio evangelico, se tutte le ragioni anzi avrebbero dovuto
indurre gli Evangelisti a parlarne, se nonostante niuna menzione
se ne legge, non resta che una possibile spiegazione, ed è quella
che si fonda sulla identità degli Esseni con una di quelle scuole di
cui è veramente menzione negli Evangeli. Tra le quali niuna più
offre caratteri innegabili d’identità col nostro Istituto di quella dei
Farisei. Il nostro sistema dunque non ha soltanto i caratteri
intrinseci di verità; ma giova ancora a spiegare alcuni problemi
storici finora insoluti.

[512]
LEZIONE QUARANTESIMAPRIMA.

Nella passata Lezione veduto abbiamo il silenzio degli


Evangeli intorno la società degli Esseni e la sua spiegazione. Ma
il silenzio evangelico non è il solo a deporre in favor nostro. I
libri talmudici, noi lo abbiamo veduto, non sono certo così sterili
di dati, di cenni più o meno diretti della società degli Esseni,
come sinor fu creduto, ma non ci porgono però le esseniche
allusioni che ove siano secondati dal nostro sistema, e pertanto ne
suppongono fino a un certo segno la verità. Possiamo però
supporre per un istante che tutti i cenni, le allusioni talmudiche
siano come non fossero; possiamo dire che il silenzio talmudico
sia così profondo, così completo come finora fu ammesso. In
questa ipotesi stessa, come spiegarne il silenzio? Come avvenne
che il Talmud così pieno di allusioni alle sètte contemporanee, ai
Sadducei, ai Minei, ai Galilei, alle divisioni e suddivisioni dei
Farisei, ai Cuttei o Samaritani, ai Dualisti, alle sètte primitive del
Cristianesimo, niuna ci offra menzione di quella ben altrimenti
nobile illustre famosissima dell’Essenato? Il nostro sistema ha già
risposto al grande problema. Ma ove pure negar si volessero i
resultati, in qual guisa spiegarne il silenzio? O io erro, o l’unica
possibile soluzione è la identità degli Esseni con una delle scuole
del Talmud rammentate, per cui di questa favellando, di
quella[513] pure implicitamente si favelli. Ed ove tra quelle di cui
si parla nei libri talmudici discernere si voglia quella che meglio
ai caratteri risponde dell’Essenato, io credo che ogni critico di
buona fede non esiterà a rispondere; e nella eletta parte dei
Farisei, nei Teologi della scuola, vedrà i fedeli rappresentanti
dell’Essenato nei libri talmudici. Ed ecco come per due vie
opposte si giunga alla mèta medesima, come tanto nell’ipotesi del
silenzio talmudico, quanto in quella della esistenza, ivi stesso di
parlantissimi cenni giungere si debba inevitabilmente al
medesimo resultato, vale a dire alla identità degli Esseni colla più
eletta parte dei Farisei.
Ma il Vangelo e il Talmud non sono i soli ad attestare col loro
silenzio la identità da noi propugnata. Vi è un altro non meno
significante documento in proposito che col suo silenzio
egualmente depone in favor nostro, e questi è Giustino. S.
Giustino, da cui molto si può imparare intorno la polemica
ebraico-cristiana dei primi secoli, ci offre un elenco delle sètte
allora esistenti nell’Ebraismo. S. Giustino conosceva gli Esseni;
non basta; ei fa l’onore di annoverare tralle sètte dell’ebraismo
quelle eziandio che infinitamente più oscure dell’Essenato non
lasciarono, si può dire, di sè memoria se non il nome; e pure gli
Esseni soltanto sono quelli di cui si tace assolutamente da
Giustino. Questo silenzio non può avere altra causa tranne quella
da noi accennata; vale a dire l’identità degli Esseni con alcuna
delle sètte ivi stesso da Giustino rammemorate, e pei caratteri
innegabili di strettissima affinità con quella dei Farisei, di cui
sono gli Esseni la parte più nobile e più illustre.
Ma oltre le prove tratte dal silenzio degli Evangeli, del
Talmud e di Giustino, vi è un passo nel nostro Giuseppe che, per
chi ben lo intenda, depone altamente in favor della identità da noi
propugnata. Ed è quello[514] nelle Guerre Giudaiche al Cap. XII,
ove narra Giuseppe il nascimento di una quarta setta creata da un
Giuda, del quale egli narra le gesta e la vita. Giuseppe così si
esprime: Questo Giuda fu autore di una quarta setta di cui la
prima è quella dei Farisei; la seconda dei Sadducei; la terza
degli Esseni, ch’è di tutte la più perfetta. Giuseppe, voi lo udite,
chiama la setta degli Esseni, di tutte quante la più perfetta.
Giuseppe ne loda, ne esalta i pregi singolarissimi; Giuseppe, il
Fariseo confessato, il Fariseo illustre, l’apologista eziandio dei
Farisei. Io lo chieggo agli uomini di buona fede: avrebbe egli così
parlato Giuseppe, avrebb’egli chiamato la setta essenica di tutte
la più perfetta, se gli Esseni come i Sadducei dissentito avessero
profondamente dai Farisei, se formato avessero una scuola
nemica, se la parte anzi non fossero stata più eletta, più illustre
del farisato medesimo?
Noi abbiamo finora veduto quanto valga il silenzio degli
Evangeli, del Talmud, di S. Giustino, e quanto le parole stesse di
Giuseppe in favore della identità da noi propugnata. Qui non
hanno però termine gli argomenti estrinseci che formano di
questa lezione il subbietto. Vi sono quelli che abbiamo detto
cronologici e storici, e di cui vado adesso a darvi contezza. E
sono a due punti riferibili, i più prominenti della essenica
esistenza, a due momenti principali di loro vita, a quelli che
contrassegnano l’apogeo e il perigeo, lo stato più florido e la
decadenza, o per dir meglio la scomparsa dello istituto dalla scena
del mondo. Ed ambi ci forniscono novello argomento in favore
del nostro sistema. Il momento più bello della esistenza
dell’Essenato egli è quello senza meno, in cui scrisse Filone, vale
a dire il primo secolo dell’Era Volgare. Allora l’Egitto e la
Palestina offrivano, nel duplice ramo di Terapeuti ed Esseni, tutte
quelle istituzioni, dottrine, tutti i costumi di cui si fecero[515]
storici Giuseppe e Filone, e le offrivano in tutta la pompa e la
forza del loro sviluppo. Allora Esseni e Terapeuti avevano e
studiavano, al dire dei medesimi, libri speciali, veneratissimi
trasmessigli dai loro maggiori. Ma che dico? Scorrono già due
secoli: siamo ai tempi di Alessandro Severo, e di Porfirio
filosofo; e Porfirio non rifinisce di laudare l’istituto degli Esseni,
e tante sono le lodi che gli profonde, che il cardinale Baronio non
esitava di asserire, confortato eziandio da altri indizj, non potere
non essere esso Porfirio di origine, di nazione israelitica. Tanto
che non si può muover dubbio che sino nel terzo secolo dell’Era
Volgare vi era l’Essenato, pieno di vita ed in perfetta possessione
delle sue istituzioni e dei suoi libri. In qual guisa sì repentina
scomparsa? In qual guisa si ecclissò il sole essenico, si può dire
in sul meriggio? In qual guisa scomparvero ad un tratto le sue
istituzioni ed i suoi libri? Che lo istituto siasi spento senza seguire
le leggi regolari, ordinarie di ogni vita sociale, senza percorrerne
le fasi tutte di declinazione e di decadenza, è già tal supposto che
nulla può darsi di più strano, di più inverosimile, è già per se
stesso uno dei più parlanti riscontri colla parte più eletta,
superlativa, teologica, della scuola dei Farisei. La quale presente
nei libri più antichi del Rabbinato talmudico, presente nella
Misna, nei Medrascim, nell’uno e nell’altro Talmud, sparisce poi
dalle scritture rabbiniche posteriori, sparisce collo sparire del
Dottorato talmudico, e sparisce, lo che più monta, in quel punto
istesso in cui sparisce dalla storia la società degli Esseni, e col
simultaneo suo sparire giova mirabilmente ed al sistema
d’identità da noi propugnato, ed a rispondere trionfalmente allo
argomento degli avversarj i quali trar vorrebbero dal silenzio del
Rabbinato postalmudico nuovo pretesto a negare l’antichità,
l’autenticità cabbalistica.[516] Noi torneremo sull’argomento
presente quando il secondo punto toccheremo della loro
scomparsa. Noi dobbiamo notare adesso un nuov’assurdo
ch’emergerebbe dal rifiuto del nostro sistema. Se gli Esseni e i
Terapeuti non sono i medesimi Cabbalisti; se la scuola non si è
perpetuata sott’altro nome nella scuola dei Cabbalisti; se i loro
libri, le loro opere, i loro scritti, che redato avevano, come dice
Filone, dai loro maggiori, che formavano, come attesta egli
stesso, oggetto precipuo, amatissimo dei loro studj, non si
perpetuarono, non si trasfusero in quelle opere che la scuola serbò
gelosamente dei Cabbalisti; se questi libri ai tempi di Filone, ai
tempi eziandio di Porfirio, erano in fama grandissima, e
oltremodo studiati e venerati presso gli Esseni, in qual guisa
spiegare la loro subitanea e completa scomparsa dalla superficie
del mondo; in qual guisa libri diffusi, meditati, venerati non
lasciarono di sè traccia veruna? Io comprendo che libri preziosi
celebratissimi siensi in breve ora perduti, che sieno stati anzi
distrutti, o per scarsezza di esemplari svanissero dalla faccia del
globo; ma che libri, non solo religiosi, non solo autorevoli, ma
libri eziandio incarnati colla esistenza stessa di un istituto
vivacissimo, anzi, colla fede, colle dottrine di un popolo tuttavia
vivente; che libri i quali esprimono, senza meno, il grado più
eccelso del suo intellettuale sviluppo, siensi perduti in modo sì
intero, sì assoluto, sì irreparabile, egli è tal fenomeno
bizzarrissimo ch’io non riesco a comprendere. Ma se i libri
essenici sono quei medesimi che compongono la Biblioteca
cabbalistica, o almeno se le idee, se le dottrine che li
contessevano, si travasarono sott’altra forma nelle opere e negli
scritti dei teosofi; in fine se il nostro sistema non è bugiardo,
l’asserzione di Filone non è più contraddetta dai fatti, e il più
strano fenomeno che siasi mai dato nella istoria cede il luogo al
più normale[517] e verosimile andamento nella seguenza dei fatti.
Ora diremo del secondo punto di contatto che ci offre la
Storia tra le due scuole nel momento in cui spariscono dalla scena
del mondo; gli uni, i Cabbalisti, dai libri posteriori al Talmud; gli
altri, gli Esseni, dagli storici, dai cronisti posteriori a Giuseppe e
Filone, ai primi Padri della Chiesa e Porfirio. Io dissi, non ha
guari, che meglio che scomparsa, meglio che estinzione, si
dovrebbe chiamare questo sottrarsi degli Esseni cabbalisti dalla
scena del mondo un’ecclissi temporaria, un ritiramento nelle più
segrete latebre dell’Ebraismo, uno ascondimento precario a guisa
di quei fiumi che ad un tratto avvallando e sprofondandosi nelle
viscere della terra, si aprono una via sotterranea per miglia non
poche, onde erompere di nuovo alla superficie del globo e lo
antico corso seguire alla luce del sole. Due cose sono da notarsi
in questo fatto importante: la causa che lo ha prodotto; lo
insegnamento prezioso che ci porge, e i nuovi riscontri in favore
della identità da noi sostenuta. Della causa si vorrebbe discorrere
con ampiezza maggiore di quella che qui è concessa, tanto parmi
rilevante e connessa coi più grandiosi problemi della storia
contemporanea. Pure è bene che qui ne abbiate almeno un cenno.
E per averlo meno inadeguato che è possibile, mestieri è che vi
riduciate a memoria come tre grandi avvenimenti segni la Storia
circa all’epoca istessa, vale a dire, nel terzo o quarto secolo
dell’èra volgare. Il primo è il trionfo definitivo del Cristianesimo.
Il secondo è la formulazione definitiva della tradizione nei libri
talmudici. Il terzo è la scomparsa, è l’eclissi di una dottrina che
fatto aveva per lo mondo romore stragrande sotto tre forme
particolari, ma una sempre, e la stessa nella sostanza; e le tre
forme sono l’Essenato, il Cabbalismo e la Filosofia alessandrina
rappresentata da Ammonio[518] Sacca, da Platino, da Porfirio, da
Samblico e da Proclo. Questo sincronismo, questa
contemporaneità dei tre grandissimi eventi, non è a caso. In gran
parte, si può dirlo arditamente, i due ultimi fatti, la formulazione
della tradizione, e la scomparsa dell’Essenato, del Cabbalismo e
dell’Alessandrinismo, essere conseguenza più o meno diretta del
primo e momentosissimo fatto, voglio dire il trionfo del
Cristianesimo. Il quale dopo avere a lungo lottato coll’Ebraismo
da cui tratto avea il nascimento, colla civiltà e colla filosofia
alessandrina con cui ebbe più di un tratto di somiglianza, finì col
prevalere sulle due forme rivali, sulla forma religiosa trionfando
dell’opposizione del Giudaismo, sulla forma civile e filosofica
trionfando della opposizione dell’Essenismo. Vinti nel mondo
esteriore, spodestati dal Cristianesimo trionfante, Essenismo e
Giudaismo, disperando oggimai di lottare e di vincere, pensarono
almeno a conservarsi, a custodire pei tempi avvenire il pensiero,
l’idea di cui erano depositari. Ambi lo fecero, ma ognuno in quel
modo che più tornava acconcio al suo genio, ai suoi destini:
l’Essenismo depose la stola di sacerdote e ispirò le lettere, le
scienze, la filosofia della società riformata per comparire di
nuovo ed invadere, ad èra meglio opportuna, il dominio istesso
della religione e del culto. L’Ebraismo, che il trionfo veduto
aveva della forma sorella, ma non meno per questo rivale, che
appunto per le affinità che tra esse correvano, doveva
ragionevolmente temere di essere da quella avvolto, circonfuso,
assorbito, che vedeva il mondo confonderli, immedesimarli nella
stessa esecrazione o nello stesso rispetto; l’Ebraismo avendo
invano combattuto, osteggiato ciò che dal Cristianesimo lo
divideva, pensò a difendersi, a premunirsi contro di quello che al
Cristianesimo il congiungeva. Se durante le lotte ci furono le
discrepanze a temere, ci furono[519] per contro dopo il trionfo le
somiglianze. Quell’ombra vana, quel ricordo lontano, quel
simulacro di Ebraismo che la Chiesa ostentava, era il pericolo
massimo per la esistenza del nome ebraico. Quel centro possente
di Pseudo-Ebraismo che si andava formando in Costantinopoli e
in Roma, era un’aperta voragine dove precipitate sarebbero il
nome e la fede ebraica, dove gli animi ebraici inquieti, perplessi
in quell’istante critico di rottura fra le due forme, e non sapendo
da qual parte fosse il vero, l’antico Ebraismo avrebbe con facile
apostasia disertato gli antichi vessilli. Quindi nei Dottori, nei
Padri del popolo, il grande studio di definirsi, quando quello
spettacolo grande che somiglia ad un esercito avvolto nelle
tenebre per vie nuove e inesplorate, che per riconoscersi, per
distinguersi dagli inimici, moltiplica i contrassegni con assise,
con motti, con armi diverse; quindi in una parola lo studio, come
dissi, di definirsi: definirsi nelle leggi, negli usi, nelle credenze
colle più precise e formulate sanzioni dell’opere scritte, e al
tempo istesso con concentramento, con ritiramento della vita e
del pensiero ebraico nelle più segrete latèbre del popolo nostro. A
quel moto di espansione che prodotto aveva i Filoni, gli
Aristobuli, i Flavii e le lotte rabbiniche colle sètte contemporanee,
sottentrò un moto contrario di ripiegamento sopra se stessi, e per
meglio conservarsi, e per meglio serbarsi intatti e possenti per
l’avvenire. Ma questo internamento del pensiero ebraico si
verificò in quella misura che più si richiedeva, secondo
l’importanza e la gelosia delle dottrine. S’egli è sensibile in tutte
le parti dello scibile ebraico, egli è sommo e cospicuo per ciò che
riguarda la parte più riservata di quelle dottrine, la riposta
teologia che si chiama Essenato nella Storia, che ha nome tra i
Rabbini di Cabbalismo. Dopo il trionfo del Cristianesimo il
silenzio è completo[520] intorno gli Esseni, non meno completo
intorno la scuola i cui fasti sono contenuti nel Talmud sotto il
nome di Pardes, Sitre tera Maase Mercaba. Se questo è il fatto, e
fatto accertato, non meno ovvia riesce la spiegazione dopo le cose
discorse. Ambi, Essenato e Cabbalismo, o per dir meglio il
Cabbalismo sotto il duplice nome, non appena fatto avevano di sè
mostra nel mondo, non appena ne furono alquanto divulgati i
misterj, non appena si fe segno di voler deporre i veli opacissimi
che il nascondevano, che il romore si levò grande tra gli Ebrei e
fuori, che i dogmi ne furono fraintesi, che gli insegnamenti
abusati, che le teorie mischiate a teorie sconosciute e straniere, e
che dallo strano mescuglio sorse un Pseudo-Essenato, un
Pseudo-Cabbalismo che si disse Cristianesimo, e che non fu altro
in origine che un Cabbalismo equivocato. Quando la lotta
pubblica esteriore finì col trionfo del Cristianesimo, videro i
Dottori nostri quali amari frutti raccolto avevano dalla non troppo
gelosa custodia dei loro misteri, dalla non troppo gelosa scelta dei
loro cultori. Quindi l’antico e vero Cabbalismo si ritira innanzi il
più fortunato rivale, quindi un silenzio, un segreto più assoluto, e
per cansare ogni contatto col Cristianesimo vittorioso, e per
togliere ogni causa di nuovo abuso, di nuovi errori, di nuovi
scismi e quindi quell’ecclissarsi instantaneo dal mondo rabbinico
del Cabbalismo talmudico, che sarebbe il più difficile e insolubile
problema se non avesse la più ovvia e natural spiegazione nei
fatti e nei pensieri discorsi.
Ma non solo perdiamo il Cabbalismo di vista col trionfo del
Cristianesimo, ma l’Essenato eziandio cessa di comparire sulla
scena del mondo, nell’epoca istessa in cui l’altro scompare;
grande insegnamento, e che sarebbe già per sè stesso fecondo,
ove ancora ogni altra circostanza mancasse che nel tramontare
delle due scuole[521] nuovo segno non ci additasse d’identità. Ma
questa circostanza esiste, ed esiste troppo eloquente perchè qui
non si accenni. È il nome che narra la Storia aver recato gli
Esseni sul declinare di loro esistenza, è il nome che unanimi gli
assegnano gli ultimi storici della scuola, il nome di ABITANTI DEL
CIELO. Se gli Esseni si dissero abitanti del Cielo, se la Storia
fedele registrava questo epiteto, ci pare che abbia voluto fornirci
la più bella gemma con cui suggellare possiamo questo
monumento di amore, di studio, di ammirazione ch’elevato
abbiamo in onore della gran scuola. Non dirò del nome già
abbastanza parlante di Angioli, Malahe, Aseiaret, recato
indistintamente dai più dotti dei Farisei, e che veduto abbiamo
usato eziandio dal Cristianesimo nascente, quando i suoi vescovi
chiamavansi col nome di Angioli. Ma tacere non si deve di una
più propria, più speciale, più decisiva appellazione; e più decisiva
perchè unica in tutta la Biblioteca talmudica, e sopratutto perchè
quell’unica volta è posta in bocca di quello, che se Esseni v’ha tra
i Dottori, è l’Esseno per eccellenza, voglio dire R. Simone Ben
Jhoai. Egli è là ove, deplorando lo scarso numero dei seguaci, le
fila diradate del Pardes, il declinare sempre più sensibile della
scuola, pronunziava la grande, la eloquente parola. Diceva R.
Simone Ben Jhoai: Veggo gli ABITANTI DEL CIELO in numero scarso.
Se dieci sono, io e il figlio mio siamo tra i dieci. Se due sono, io e
il figlio mio, siamo quei due. E questo nome di ABITANTI DEL CIELO
l’usa Ben Jhoai, l’Essena per eccellenza, l’usa allora appunto che
vuol accennare alla decadenza della scuola, vale a dire allora
appunto quando la Storia accenna averlo assunto lo Essenato, e
l’usa nel Talmud, libro non dubbio, non controverso, e che
autorevole favella agli amici come agli avversari della verità
cabbalistica.
Ah! dopo questo prezioso trovato, possiamo chiudere[522]
contenti questa Storia dell’illustre Istituto; possiamo dire addio
contenti a quegli spiriti beatissimi; possiamo togliere commiato
da costoro che nel dipartirsi ci invitano a salutarli col titolo di
ABITANTI DEL CIELO; possiamo riconoscere in essi, i nostri Dottori
più illustri e più santi; e col dolce nome salutarli di Padri e
maestri del nostro popolo.
Ed a voi una parola ancora pria di separarci. Se fu bello ed
onorevole, se fu soave all’animo mio il vedere i miei esordj
incoraggiti con tanta affluenza di uditori; se titolo giusto si
acquistarono pur essi alla mia gratitudine, egli è certo che l’onore
più grande, che l’affetto più sentito spetta a coloro che
perseverarono. Grazie vi sien rese, e grazie sincere. Voi muoveste
costanti nella via in cui m’inoltrava; voi porgeste assidui
l’orecchio alle mie Lezioni; voi comprendeste quanta importanza
si nascondesse per entro a certi studj, che ai frivoli, ai semidotti,
agli ameni anco nelle lettere e negli studj, potrebbero sembrare
per avventura destituiti di ogni momento; voi toglieste a cuore
l’onore di questa città che dopo essersi annunziata al mondo
iniziatrice di nuovi studj, imitatrice della seria letteratura
germanica, riscuotitrice del sonno che ne gravava le ciglia,
sarebbe caduta senza di voi, in onta e in deriso presso l’Ebraismo
universale. Imperciocchè, s’ella è vera sentenza per ogni culto,
ella è verissima e santissima pel culto ebraico. Il vero Tempio, le
vere glorie, le vere bellezze, il vero decoro meglio che nei marmi
e nei fregi esteriori, sono nell’uomo interno, nel suo sapere, nella
sua cultura, negli studj in cui si adopera, nel Tempio, a tutto dire,
dell’animo suo, senza di cui ogni pompa esteriore è vana e
ridicola ostentazione di Fede, di Religione bugiarda.
FINE.
NOTE:

[1] Sicarj si chiamavano i terroristi ebrei che volevano spinger la


resistenza alla signoria straniera sino all’estremo e con tutti i
mezzi. I Vangeli, se non erro, vi alludono.

[2] Udremo fra non molto Plinio, qualificare gli Esseni col nome
di gente che non muore mai, e tra cui niuno nasce.

[3] A quai paesi corrisponde la nordica regione del Caucaso? Se


io non vado errato, ai paesi anticamente conosciuti sotto i nomi di
Frigia e Bitinia. E questi paesi che nomi recano nella Santa
Scrittura? Null’altro, dice il Bochart, e dopo di esso autori
parecchi, che quello di Aschenaz. E per quanto Askenaz suoni
diverso nella lingua ultima dei Rabbini, e nel valore che l’uso da
lungo tempo gli annette, quello cioè di Germania; nonostante, ai
Dottori, organi veri, legittimi di tradizione, non mai avvenne usare
per Germania Askenaz. Che dico? Sono essi per contro che il
suggello appongono alla Interpretrazione del Bochart, e tutto il
peso vi aggiungono del numero e della tradizione. Abbiamo detto,
non è molto, il Parafrasta di Gerusalemme tradurre Aschenaz per
Asia: ora non è egli solo che all’uopo ci ajuti. Egli è il Rabba, che
l’Askenaz della Scrittura ci presenta in Asia. Egli è altresì il
Talmud di Gerusalemme, che Asia egualmente sostituisce ad
Askenaz. Non basta: ma, cosa più sorprendente, vi ha un nome
d’un popolo tra i figli di Jafet e tra i popoli Giapetidi, che il nome
reca di Tubal. Ora, o signori, che cosa è Tubal? Bitinia, vi
risponde aperto il Talmud Jerosolimitano; Essenia, vi risponde
aperto egualmente il Medras. Duplice asserzione che a vicenda si
rischiara, che a vicenda s’illustra, che ci rimena col pensiero alla
Bitinia, che, secondo Tolomeo, il Klaproth e il Dubois, fu
specialmente contrassegnata col nome di Asia. Egli è, insomma,
quel cumulo maggiore di prove che sia lecito desiderare onde
mettere in sodo la esistenza di una particolare regione denominata
Asia, e per giustificare il Talmud.

[4] Si dice, è vero, Scuola eleatica, cirenaica ed itala; ma non si


dice, od appena, eleati, cirenaici ed itali.

[5] Vi sono alcuni testi rabbinici antichi, che farebbero credere


essere stati piuttosto i discepoli di Zadoc e Baitos, ch’eglino
medesimi, i fondatori delle sètte di questo nome. Ma posto ciò
eziandio, riman ferma la esistenza storica di Baitos, e la
derivazione da esso del nome della setta. Quanto ai Sadducei,
setta a questa collaterale, la critica moderna si è permessa da poco
in qua un congetturare senza limiti e senza freno. Lo spirito
caraitico e antitradizionale che informa alcuni distinti suoi corifei,
fece trovare nel nome di Sadducei un senso eminentemente
encomiastico, facendolo derivare da Zaddik, giusto. Altri fece
risalire i Sadducei a Zadok, antico sacerdote a’ tempi di
Salomone, e vide per conseguenza in essi un partito sacerdotale.
Il Sig. Renan, nella recente sua opera Vie de Jesus, fece altrettanto
rispetto al Baitusei, che volle derivati da un Böethus pontefice di
questo nome. Sarebbero, dunque, e Sadducei e Baitusei della
famiglia sacerdotale. Qualunque sia il fondamento di questa
congettura, egli è certo che il sacerdozio costituiva ai tempi di G.
C. un partito ostile ai Farisei, tanto per le tendenze politiche,
quanto per le dottrine religiose. E di ciò abbiamo autorevoli
documenti nel Talmud, nè il sig. Renan ne dissente minimamente.
Solo ci pare ch’ei non tragga tutte le conseguenze che da questo
fatto derivano, nella discussione dei grandi problemi ch’ei si è
proposto. Ma qui non è luogo a parlarne.

[6] Il nome talmudico Baitos è identico al Bœthus pagano. Vi fu


un Bœthus stoico, contro cui scrisse Porfirio un Trattato
sull’Anima. V. Enneades de Plotin, trad. par Bouillet: Paris . Vol.
II, p. 68.
[7] Il Talmud è pieno di allusioni alla setta dei Baitusei; e quanto
di essa si legge, delle dottrine e costumanze, nulla offre di
analogo a quanto sappiamo d’altronde di certa scienza intorno la
società degli Esseni.

[8] L’illustre sig. Frank, autore della Kabbale, notò a buon diritto
come nella identificazione suprema dell’Essere e del Pensiero
precorresse la Teologia ebraica alle ultime dottrine prevalse in
Germania. Ciò che ci reca ad una più alta antichità, che ne fa
risalire alle Bibliche sorgenti, e che perciò stesso rivela nelle
viscere dell’idioma biblico l’arcana dottrina teosofica che per
entro vi circola, è questa sinonimia profonda di Essere e Pensiero
nella radice Ies, onde qui si discorre. In un ordine poco diverso
d’idee abbiamo, nel verbo Iadah, conoscere, un’altra non meno
ammirabile sinonimia di Conoscenza e Amore. Noi renunciamo a
citare il nome di Benedetto Spinosa, e ciò che nella sua Etica
pertratta. È noto come i due attributi della Sostanza sieno per esso
il pensiero e la estensione; e ciò che vi ha di acroamatismo
ebraico nelle dottrine di Spinosa, ciò che costituisce la sua
deviazione dall’acroamatismo ortodosso, ci studiammo di porre in
luce in un articolo in idioma francese dettato, nel quale
prendemmo a rilevare alcune mende nelle quali ci sembrò
incorrere l’illustre sig. Emilio Saisset, nell’egregio suo lavoro
pubblicato dalla Revue de deux Mondes intorno a Maïmonide et
Spinosa.

[9] Solo nel secolo scorso, e tra gli Enciclopedisti sarebbe suonata
una eresia filologica l’additare nell’Ebraico l’origine di un
vocabolo greco. Erano costoro così lungi dall’immaginarne
perfino la possibilità, che tra le più speciose obbiezioni che
mossero contro la originalità e santità delle sacre scritture, sì fu il
nome di Giove pagano, che dissero origine e modello del nome
ineffabile del Dio d’Israel, senza riflettere che gli Ebrei avrebbero
dovuto andare a cercare il tipo immaginario non già in Grecia ove
Giove ebbe nome Zeus, ma in Roma, anzi in Etruria, sin dove lo
raggiungono gli studj moderni. Per essi, il Sole delle origini non
sorgeva più dall’oriente; e bene stava cotesto ragionare in bocca
di chi cantò per Caterina Seconda:—
C’est du nord qu’aujourd’hui nous vient la lumière.
I progressi della scienza hanno ricollocato nell’oriente la
sorgente della luce morale, siccome non cessò mai di essere
il fonte della luce che ci rischiara; e basta aprire un lessico
moderno per comprendere ad un solo sguardo qual parte
segnalatissima sostenga l’idioma ebraico, e in generale
sostengono le lingue semitiche, nella formazione delle
lingue occidentali; comecchè si collochino nella famiglia
delle indo-germaniche, e se ne cerchi la prima derivazione o
almeno la forma loro più antica, nella lingua sanscrita.

[10] Quanto volentieri rendiamo omaggio alla non infelice


interpretazione del nome Esseni dal greco Isos amici, confidenti;
altrettanto ci ripugna il credere, come vorrebbe persuadercene
l’illustre Rabbino, che lo stesso vocabolo greco abbia derivazione
ebraica, e tragga origine dall’incertissimo Hoze o Hazut d’Isaia,
XXVIII, 15, 18, spiegato nel senso greco di Amicizia e
Confidenza. Basti dire che l’esempio ebraico è unico in tutta la
Bibbia in questo senso, mentre appena un uso frequente, quasi
universale, basterebbe ad autorizzare il supposto di un passaggio
dall’ebraico al greco; che questo senso stesso è almeno
problematico, stando il Gesenius per altro, il quale non tollera
questa assimilazione coll’Isos greco; e che infine meglio che la
interpretazione dell’uno o dell’altro a noi arriderebbe l’ipotesi che
qui non si tratta, nel Hoze o Hazut d’Isaia, che di un sinonimo
assai più antico, più nobile e più puro del Galui di Geremia, Cap.
XXXII, 11, che vale probabilmente quanto attestato, o almeno
documento pubblico che accerti la esistenza di un contratto: e vale
alla lettera, Scuoperto o Aperto, come Hoze o Hazut suona pure
alla lettera, quello per cui si vede, o veduta. Ove non si voglia dire
piuttosto che il patto per eccellenza, l’alleanza con Dio, essendo
sancita per opera di una rivelazione, questa viene usata come
sinonimo di patto nella parola Hoze o Hazut, per indicare
l’alleanza col genio della Morte o dell’Inferno. Inoltre, parci
l’illustre Rapoport caduto in una strana illusione quando trova
affine al Hoze d’Isaia, l’arabo Haz, stringere patto, unirsi; mentre
è evidente che questo verbo arabo non ha rapporto che coll’ ahaz
ebraico e coll’ahad arameo, stringere, unire.

[11] Esodo, cap. XV, v. 26.

[12] Proverbi, cap. III, v. 8.

[13] Vi fu tra i Dottori chi intese in questo senso la signoria


predetta dal Genesi all’uomo sopra le altre creature. Non si può
negare che la frase nulla scapita, così intesa, della sua sublimità.

[14] Salmo XXXXI, v. 5.

[15] Isaia, VI, v. 10.

[16] Isaia, LVII, v. 18.

[17] Geremia, VIII, v. 22.

[18] Opera infinita e certo non capace di stringersi in una nota noi
faremmo, ove volessimo tutte riandare le analogie che la
predicazione evangelica, il primitivo cristianesimo, ci offrono
colla società degli Esseni. Forse ne sarà dato accennarne alcune, e
solo di volo nel seguito di questa istoria. Ciò che possiamo sino
da ora additare al lettore istruito, sono le numerose figure,
imagini, locuzioni tratte dall’esercizio della medicina che
ricorrono in bocca al Fondatore del Cristianesimo, le cure ch’egli
prodiga agli infermi, la Salute onde s’intitola la nuova dottrina;
indizj tra altri infiniti, che persuasero gravissimi autori antichi e
moderni a vedere nell’Essenato la prima origine d’onde uscì il
Cristianesimo evangelico. Nello scorso secolo, Bahrdtt e
Venturini furono i più eminenti rappresentanti di questo sistema; e
gli studj susseguenti nulla valsero a renderlo meno probabile.
[19] Amici solo del vero, e rinunziando alla spuria gloria di aver
ammaestrato Platone e Pitagora che alcuni Padri sognarono in
favore dell’Ebraismo, ci acquistiamo il diritto di ripudiare
egualmente una non meno falsa sentenza; cioè che l’Oriente
semitico sia andato a scuola dei Greci, dei Romani, e anche degli
Etruschi e antichi Italiani. Sistema dismesso dopo i tentativi
invano assaggiati dal Biscioni, dal Mazzoldi, in favore delle
origini italiche; ma che il sig. Gherardi tentò d’inverdire in
un’opera recente, che ha, se non altro, il merito dell’eleganza e
della erudizione. Ci duole aggiungere che non ne ha altri, e che vi
manca quella nota impreteribile in ogni storica pertrattazione non
solo, ma anche di un buon romanzo, la verosimiglianza.
L’ebraismo ha una gloria più legittima e non men bella da vantare;
quella di aver ammaestrato per mezzo della primitiva rivelazione i
maestri stessi di Pitagora e di Platone, i legislatori, i Tesmofori e i
poeti-teologi di Grecia e d’Italia: e questa e la Grecia a loro posta
hanno titoli più legittimi che non il primato sull’oriente semitico;
quello di avere sviluppato quei germi che l’Oriente vi dispose, in
guisa che invano sariasi desiderato da popoli diversamente
temprati, conciossiachè, nella guisa stessa che non ogni terreno è
capace di fare allignare ogni sorta di pianta, così non ogni popolo
è capace di fare fruttificare certi principj. I Dottori nostri, colla
teoria loro dei Sarim o genj de’ popoli tutti necessarii e che nel
loro insieme costituiscono la vera e completa Mercabà, cioè il
carro che Dio stesso conduce e guida, gittarono le basi della più
alta filosofia della storia che capir possa in mente mortale.

[20] Il dotto signor Munk è sventuratamente afflitto da quasi


completa cecità.

[21] I fatti dall’illustre sig. Frank allegati, se provano


improbabilissima un’influenza decisiva tra le due capitali e le due
civiltà, non bastano però ad escludere ogni qualsiasi ascendente.
Questo anzi è provato da quelle non scarse nozioni che di
Alessandria e del suo ebraismo tralucono negli scritti dei dottori, e
da quelle comunicazioni che la mercè dei viaggi intrapresi da varj
cospicui dottori, non cessarono di rinnovarsi di tratto in tratto tra i
due paesi. Il Talmud è ricco di notizie intorno all’organamento
dell’ebraismo nella capitale dei Tolomei. Si rende ragione dei
tribunali ebraici di Alessandria (Talmud Ketubot 25, 1), si
magnifica la ricchezza delle sue Basiliche e delle Cattedre su cui
siedevano pro-tribunali settanta dei più cospicui fra i cittadini; si
descrive la magnificenza e le forme del culto, sino ai più minuti
particolari della costruzione di quel tempio (Talmud Succa
Babilonico e Gerosolomitano). Si mostra contezza delle loro arti
(Moed Katan 26), degli abusi, delle prepotenze che si usavano
sulle fidanzate altrui (Mezihà 104, 1), dei loro costumi dissoluti
(Medras Ester in principio), della loro propensione alla magia
(Ibidem e Kidduscin 49, 2). Ma ciò che più monta, sono i viaggi
che si narrano dal Talmud colà intrapresi in varie epoche dai
dottori Palestinesi. Non parleremo di Onia, che sugli esordj del
secondo tempio, si recò dalla Palestina in Egitto, e vi fondò quel
tempio che ne porta il nome. Si disputa nel Talmud se il tempio
elevato da Onia in Egitto fu tempio dedicato al culto del vero Dio,
o a un culto idolatrico. La prima opinione sembra prevalere. Ciò
che importa non meno sapere, è una curiosa aggiunta che il
Maimonide si permette fare nella storia del soggiorno di
quest’Onia in Egitto, della quale, a quanto io mi sappia, non vi ha
memoria negli antichi monumenti rabbinici. Il Maimonide, nel
suo comento alla Miscnà (Trattato Menahot), ragionando di Onia,
ne fa sapere che trovato avendo costui in Egitto una setta per
nome Kabtazar, con essa si accontò o per dir meglio si fece suo
capo. Kabtazar è invero il nome che si legge almeno nel comento
stesso voltato dall’arabo all’ebraico. Però era naturale in me il
dubbio che qualche altro nome ben altramente storico, sotto
queste mentite sembianze si nascondesse. Infatti, la idea mi
occorse che per questo nome guasto e corrotto di Kabtazar, si
volesse significare per avventura i Copti; e per quanto la
congettura mi sembrasse non infelice, pure non mi attentai a
soscrivervi seriamente se prima non ebbi e l’attestato di antico
documento e l’adesione di uomo competentissimo. Questo è
l’illustre amico mio sig. Salomone Munk, socio dell’accademia
delle Iscrizioni e belle lettere di Parigi, al quale m’indirizzai in
cerca di notizie; e che con isquisita benevolenza risposemi nei
termini seguenti: «Quant au mot Kabtazar, sur le quel vous me
faites l’honneur de m’interroger, c’est tout simplement une faute
d’impression, ou une faute de copiste dans la version hébraïque de
commentaire de Maïmonide. La véritable leçon est Kobt Masr, et
comme vous l’avez bien deviné dans un premier moment il s’agit
ici des Coptes anciens ou des Egyptiens indigènes, par opposition
aux Grecs qui depuis Alexandre s’étaient établis en grand nombre
en Egypte. Maïmonide veut dire qu’Onia gagna un grand nombre
d’Egyptiens indigènes, qu’il convertit au Judaisme. (È questo
fatto principalmente che Maimonide introduce nella istoria, senza
che si possa scuoprire d’onde derivato). Les mots Kobt Masr, sont
généralement employés par les auteurs arabes pour désigner les
anciens Egyptiens sous les Pharaons ou leurs déscendants à
l’époque des Grecs et celle des Arabes. Encore aujourd’hui on
appelle ainsi les chrétiens d’Egypte que nous designons
ordinairement par le nom de coptes, et que descendent d’une race
mêlée? d’anciens Egyptiens et de Grecs. (Qui il dotto sig. Munk
trascrive il testo arabo, e aggiunge.) J’ai fait copier ces mots
arabes d’un manuscrit de la Bibliotheque imperiale que j’ai
apporté moi même d’Egypte en 1810.» Senza più oltre aggiungere
di Onia, è celebre il viaggio di Jeosciuah Ben Perahia, quegli
stesso che a detto del Talmud fu precettore di Gesù, il quale
insieme al maestro si sarebbe recato pur esso in Alessandria. Il
Talmud ci conservò la Epistola che da Gerusalemme fu spedita
alla Sinagoga d’Egitto per affrettare il ritorno del prenominato
dottore. Ella è così concepita: Da me, Gerusalemme città santa, a
te Alessandria. Lo Sposo mio dimora presso di te, ed io me ne sto
in solitudine. Il dotto sig. rabbino Rapoport, nel suo Erech Millin
altra volta citato (pag. 101), pare volere confermare questo
viaggio di Gesù in Egitto con quanto narrano i Vangeli della fuga
in quel paese. È noto però come questa avvenisse nella più tenera
infanzia del fondatore del Cristianesimo; mentre il viaggio onde si
narra nel Talmud sarebbe stato eseguito nella sua gioventù, anzi
poco prima della sua rottura colla Sinagoga. Tuttavia non è a
tacersi che di questo viaggio eseguito da Gesù nella età virile,
narravano i Carpocraziani, antichissimi eretici, quando dicevano:
«Que J. C. avait choisi dans ses 12 disciples, quelque fidèles amis,
auxquels il avait confié toutes les connaissances qu’il avait
acquises dans le Temple d’Isis, ou il etait resté près de treize ans a
s’exercer à une étude pratique, dont on lui avait donnée la théorie
pendant son enfance instruite et formée par les Prètres egyptiens.»
(La Maçonnerie considerée comme le resultat de la Relig. egypt.
juive et chrét., par R. D. S.; vol. I, pag. 289). Ciò pone almeno in
salvo la buona fede dei Talmudisti, e l’antichità della tradizione di
cui si fecero interpreti. Ella è attestata da un documento non meno
antico, l’Evangelo di Nicodemo. In questo, tra le altre cose, gli
Ebrei accusano Gesù che «arrivé à certain âge fut contraint de
chercher fortune en Egypte, ou il apprit quelque secret ; qu’il
retourna dans son pays en Judée, et que par ce moyen il fit de la
magie» (Ibid. vol. I, pag. 445). Il Talmud Gerosolimitano racconta
di un altro viaggio posteriore, che Jehouda Ben Tabai ed un suo
discepolo intrapresero nell’Egitto. Simone Ben Sciattah, capo dei
Farisei, fuggì in Egitto per torsi alla persecuzione del cognato suo,
il Re Janneo, amico dei Sadducei. Quindi R. Jeosciuab Ben
Hanania, soprannominato lo Scolastico, visitò pur esso l’Egitto; e
il Talmud racconta dei colloqui avvenuti colà tra il dottore
Palestinese e gli Ebrei ivi stabiliti. Un altro dei più illustri Tanaiti,
R. Johanan Asandellar, era di Alessandria (Talmud
Gerosolomitano, Haghiga cap. III). Più tardi, troviamo domande
in fatto di riti, dirette da Alessandria ai dottori di Palestina
(Talmud Gerosolomitano, Kidduscin cap. III), e circolari da questi
alle Sinagoghe di Alessandria (Talmud, Irrubin cap. III). R. Abhu,
familiare nella Corte di Cesare, vi si recò esso pure e v’introdusse
l’uso delle Palme nel primo giorno dei Tabernacoli caduto in
Sabato (Ibidem). Tutti questi viaggi, dei quali il più antico è
appena contemporaneo a Filone, non possono avere esercitato
un’influenza decisiva nè sopra la di lui filosofia, nè sulla
istituzione dei Terapeuti, che Filone descrive come da lungo
tempo ivi stanziati e stretti in consorteria; e la ignoranza almeno
parziale di quanto accadeva in Palestina, è prova in Filone di non
aver subìto se non indirettamente l’ascendente palestinese. Forse
anche meno probabile è l’altra ipotesi di un’azione qualunque
esercitata dalle dottrine alessandrine sulle idee in Palestina, e
quindi nella formazione della dottrina cabbalistica e
dell’Essenato. Chi rifletta alle rare occasioni di contatto tra i
pensatori delle due sinagoghe; all’autorità e preminenza che
dovevano avere necessariamente i dottori di Palestina sulle
sinagoghe straniere; alle antichissime menzioni che vengono fatte
di una scienza acroamatica nei libri talmudici, rappresentandola
come già esistente fin dai tempi d’Iliel; soprattutto alle
antichissime tracce dell’Essenato non solo in Giuseppe Flavio e in
Plinio, ma, ciò che più monta, in Filone e forse anco nei
Maccabei; agevolmente andrà convinto, che se molte strettissime
attinenze, se molte somiglianze parlantissime si rinvengono tra
Filone e i Cabbalisti da una parte, e tra Terapeuti ed Esseni
dall’altra, si debbono fare risalire a quell’epoca più antica in cui
gli Ebrei si staccarono dal centro palestinese per andare ad abitare
le sponde del Nilo, ove recarono seco, insieme al Testo della
Legge, i germi di quelle tradizioni, che subirono poi sì ricca e
rigogliosa vegetazione sul patrio suolo di Palestina.

[22] La identità suprema di Esseni e Farisei che la storia presente


contribuirà spero in parte a mettere in sodo, e che antichi e
moderni autori di buon grado consentirono, non ne toglie di
considerare la prima di queste scuole siccome quella parte che per
le sue dottrine e le sue tendenze, diede più particolarmente origine
alle istituzioni e ai dogmi cristiani; ed anche di questo sembra che
la critica indipendente vada sempre più convincendosi. Questa
prerogativa degli Esseni-Kabbalisti di aver generato il
Cristianesimo da ma diffusamente trattata nel mio Essai sur
l’origine des dogmes et de la morale du Christianisme ci porge
una naturalissima spiegazione di questi due fatti accennati nel
testo; il primo è il nome di Terapeuti preso dai primi Cristiani, il
secondo molto più momentoso è il silenzio degli Evangeli intorno
la Società degli Esseni, silenzio non altrimenti esplicabile. Ma
agevole torna il comprenderlo purchè si ammetta ad un lato che
gli Esseni non erano che la parte più eletta, la frazione speculativa
del Farisato, e che era quella da cui meno dessentiva la nuova
dottrina. Non è nemmeno improbabile che i Dottori della Legge
di cui si parla ripetutamente nei Vangeli siano la indicazione di
questa parte del Farisato. Nel Saggio sopra rammentato mi sono
ingegnato di porgere di questa congettura non pochi nè lievi
indizi, tratti dai Vangeli e dai libri rabbinici.

[23] Opera infinita, certo non capace di stringersi in una nota noi
faremmo, ove noi volessimo tutte riandare le analogie che la
Predicazione evangelica e il primitivo cristianesimo ci offrono
colla società degli Esseni. Forse ne sarà dato accennarne alcune, e
solo di volo nel seguito di questa istoria. Ciò che possiamo sino
da ora additare al lettore istruito, sono le numerose figure,
immagini, locuzioni, tratte dall’esercizio della Medicina, che
ricorrono in bocca al Fondatore del Cristianesimo; le cure che egli
prodiga agli infermi, la Salute onde s’intitola la nuova dottrina,
indizj tra altri infiniti che persuasero gravissimi autori antichi e
moderni a vedere nello Essenato la prima origine d’onde uscì il
Cristianesimo Evangelico. Nello scorso secolo Bahrdt e Venturini
furono i più eminenti rappresentanti di questo sistema, e gli studi
susseguenti nulla valsero a renderlo meno probabile.

[24] Questo fatto, segnatamente per ciò che s’attiene a Filone,


torna tanto più ammirabile quanto più erano tempi i suoi di gravi
dissidenze religiose in Palestina. L’essersi serbato puro il nostro
Filone di ogni labe eretica, non è ella nobilissima testimonianza
dell’antichità e verità dell’ortodossia farisaica che Filone redò dai
suoi maggiori trasportata in tempi più antichi in Egitto? Quanto al
fatto stesso, vale a dire l’ortodossia di Filone, ci sembra
indisputabile. Può trovarsi qua e colà nelle sue opere alcune, vuoi
dottrine o interpretazioni che dissentono dalle dottrine e chiose
prevalenti tra i Farisei; ma in primo non si può negare che il
Farisaismo stesso era a quei tempi scisso in cento diverse frazioni
le quali, tenendosi fra loro in bilico creavano in seno
all’uniformità generale una varietà così pronunziata nei
particolari, che avrebbe oggi faccia di paradosso e di eresia. In
secondo luogo non è lecito pretermettere che Filone vivendo
lontano, e ciò ch’è più, sequestrato dal centro religioso di
Palestina, non poteva a meno di offrirci nelle opere sue qualche
dissonanza colle idee colà dominanti. Nè faremo caso di altre
cagioni non meno urgenti che produssero questo cotal disaccordo;
la traduzione greca dei sacri libri diversa in gran parte dal Testo
ebraico e sola conosciuta da Filone, lo scopo da esso propostosi
nel dettare le opere sue, quello cioè da far conoscere le dottrine e
la storia ebraica ai Pagani e che ispiravagli tal volta un linguaggio
più acconcio a persuadere i suoi lettori pagani, che fedele alle
vetuste dottrine degli avi suoi. Nonostante è innegabile che il
genio, la sostanza, le tendenze di Filone e delle sue opere sono a
dirittura farisaiche. Opera immensa sarebbe il raffronto tra le
dottrine dell’uno e quelle degli altri. Momentosissima poi quella
che si assumesse l’officio di trovare nelle costui dottrine i
principali lineamenti, e non poche volte le formule istesse della
teologia farisaica, o acroamatismo (Cabbalà) impresa che il
signor Frank tentò in parte nella sua Kabbale, éd. de Paris.
Basterà qui che noi facciamo un breve assaggio delle strettissime
attinenze che corrono fra Filone, e i Farisei o la tradizione in
generale e ciò in una delle meno illustri delle opere filoniane la
vita di Moisè che noi preferiamo, trovandosi più agevolmente in
mano ad ognuno per le recenti edizioni che ne vennero fatte. Ora
noi mostreremo in brevissime note ciò che di singolarmente
somigliante si trova in quest’opera tra le nozioni storiche, i
giudicj, le dottrine eziandio di Filone, e quelle che suonarono
famose tra i Farisei e che solo i loro libri, posteriori di gran lunga
a Filone, ci attestano; prova se altra fu mai che la loro data risale
molto più alto dei libri che le contengono, e che la lealtà dottrinale
e religiosa dei Farisei repugna al supposto di una invenzione e
alterazione per parte loro.—Divideremo i nostri rilievi in due parti
—prima tutti quelli che si riferiscono a storia—poi quelli che si
attengono a dottrine.
A pag. 3. Dice di Moisè «Allora nato questo bambino pareva
che dallo aspetto promettesse non so che più dell’ordinario.» Non
si dee tacere che idee conformi si leggono nei monumenti
tradizionali sul testo che dice E vide, (la madre) ch’egli era bello.
Ora si dice, che nacque circonciso; ora che al suo nascere un gran
splendore invase la stanza; ora che fu veduta con esso la
Schehina. Tob che qui significa probabilmente bello, ha pure il
senso di buono, e buono è nome che Dio ha nella teologia riposta
dei Farisei, come il Primo e l’uno di Plotino corrispondente al
Padre del Cristianesimo, e alla Sapienza o Sofia dei Teosofi ebrei
(Kabbalisti) ha esso non meno il nome di Buono (Agathos).
A pag. 18 «Dopo le quali nozze egli incominciò ad essere
pastore preparandosi in cotal guisa al principato, perciocchè
l’arte pastorale ci dispone al regno, cioè al regime di uomini,
greggia mansuetissima; siccome quelli che hanno i loro animi
inchinati alle cose della guerra prima si esercitano nella
cacciagione.... onde il Pastore ha certa somiglianza col Re. Anzi,
per quanto io ne sento, non seguendo la comune opinione ma
ricercando la verità, e rida chi vuole, solo colui può essere
perfetto Re che ottimamente sa quello che si richiede a governare
un gregge. Ora chi non resterà sorpreso leggendo nel Scemot
Rabbà le parole seguenti. Come fu provato Moisè? Nell’arte sua
di Pastore. Così pure fu provato David e fu trovato egregio
pastore conciossiachè egli traesse addietro i più forti tra il gregge
per dar luogo a’ più deboli di cibarsi; mandava pure innanzi al
pascolo le più tenere pecorelle perchè trovassero l’erba più
delicata; quindi le vecchie a pascere l’erba mezzana, infine le
giovani e forti a cibarsi della parte più dura. Ciò vedendo disse
Iddio; questi che sì bene sa appropriare ad ogni età e
temperamento il suo cibo sarà pastore del mio popolo. Così Mosè
non fu altramente esperimentato. Dissero i nostri maestri: mentre
stava Mosè pascolando la gregge di Ietro per i campi, fuggigli un
agnello, ed avendolo rincorso lo trovò mentre si dessetava in un
laghetto d’acqua. Disse allora Moisè: Non sapeva che tu corressi
per la sete che ti molestava. Sei tu stanco? e così detto, lo prese, e
messoselo sulle spalle se ne ritornava. Lo che veduto Dio, disse:
Poichè tanto hai di pietà nel governo del gregge degli uomini, tu
sarai pastore del mio popolo Israel.» e più oltre, «Dio non
concede agli uomini grandezze se prima non sono provati
nell’infime cose. Così due grandi uomini furono in vili offici
esperimentati, e trovati fedeli, salirono a’ più magnifici stati. Fu
David esperimentato nella pastorizia, e vedendo come ad ogni
poter suo evitasse i colti onde di rapina non si cibassero le sue
pecore, fu fatto pastore di popoli. Moisè pur esso, dice il Testo,
pascolava le gregge dietro il deserto perché le pecore sue non
vivessero sugli altrui campi; quindi fu chiamato a pascere Israel,
essendo scritto: Tu guidasti qual gregge il tuo popolo per mezzo
di Mosè e Aaron.» I fenomeni portentosi che accompagnarono il
nascimento di Mosè possono essere suggeriti dal desio comune di
dare una tinta maravigliosa all’origine di uomini comunemente
venerati. Ma il presente raffronto ci sembra ancor più significante.
A pag. 41. Era l’acqua del fiume mutata in sangue, ma non agli
Ebrei perciocchè attingendovi questi, diventava buona da bere.
Quest’ultima circostanza taciuta dal Testo si trova solo nella
Tradizione.
A pag. 78. Perciocché allora più mostrava di veder la bestia
che l’uomo, il quale si dava vanto di vedere non pure le cose
mondane, ma esso rettore e creatore dell’universo. Al vanto dl
Balamo che si dice conoscitore della Mente di Dio (Veiodea daat
Elion) i Dottori domandano or come conosce la Mente di Dio
colui che nè anco sa cosa voglia la sua giumenta?
A pag. 108. Quivi (I Dottori interpetri della legge per ordine di
Filadelfo) rapiti dallo spirito, profetavano non diversamente, ma
tutte colle medesime parole non altrimenti che se alcuno avesse
dettato a ciascheduno invisibilmente. Il Talmud parecchi secoli
dopo Filone, e ignaro certamente dell’attestato di questi, ripete le
stesse cose. Non è prova il deposto di Filone della preesistenza
delle medesime tradizioni ai Dottori talmudici e non pone
suggello alla loro veracità? Questa esattezza nel riferire le
tradizioni storiche ci è arra della dote medesima nel riferire le
tradizioni dottrinali. Ognuno comprende come la verità del fatto
sia considerazione estranea alle conclusioni che qui si traggono,
perocchè la lealtà farisaica rimarrà dimostrata ogni qualvolta le
loro narrazioni si palesino concordate dai più valenti scrittori, non
pochi secoli vissuti innanzi a loro.
A pag. 119. Di tale affetto di conversar con donna erasi
spogliato Mosè già molto innanzi, quasi infin da quel tempo che
incominciò a ricevere lo Spirito Divino, per esser sempre
apparecchiato ad ascoltare gli oracoli della voce divina.
Circostanza taciuta assolutamente nel Testo mosaico, nè vi ha
frase che l’autorizzi. I soli a parlarne, a giovarsene eziandio per
ispiegare non pochi passi del Pentateuco sono i Dottori. Donde
tolse Filone questa circostanza? Io non so imaginare altra fonte
che quella d’una tradizione nazionale anteriore alla emigrazione
degli Ebrei in Egitto. Avesse anco attinto Filone nel centro
Palestinese, rimarrebbe tuttavia verissimo che i Dottori talmudici
nulla dissero che non corresse per le bocche ad ognuno, parecchi
secoli innanzi; e che non pochi dettati i quali sembrano
appartenere al patrimonio letterario dell’epoca loro, hanno radici
in un’antichità che non eravamo usi sospettare. Alla pagina istessa
Mosè è dichiarato, bello e forte di corpo. Ed anco di questo, solo
la tradizione è maestra che appunto in Mosè trova il prototipo di
tutti i Profeti siccome quello che era forte ricco e sapiente.
A pag. 120. In quei giorni ch’egli (Moisè) nel monte dimorò,
imparava tutti i misteri del Sacerdozio. E questo è purissimo
farisaismo, che vuole la Legge e i misteri della Legge imparati da
Moisè nei giorni ch’ei stette sul monte.
A pag. 137. Esse dunque (le Donne) avevano dedicati a Dio
spontaneamente gli specchi avanti i quali erano avvezze ad
abbellire la faccia come primizie dell’onestà del matrimonio. Che
dal Testo apparisca essere veramente specchi cotesti, e dalle
donne offerti, può darsi, ma l’intenzione e il pregio di tale offerta
quali si descrivono qui da Filone, non si leggono che nei Dottori i
quali vi veggono come Filone il simbolo e lo Stromento dell’amor
coniugale onde tanto crebbe il popolo di Dio in Egitto.
A pag. 161. Insegnando (nel sabato) il principe (Moisè) a
guisa di Dottore ammaestrando e dimostrando a ciascuno
l’officio suo il quale uso dura anche al dì d’oggi presso i Giudei.
Nessun vestigio nella Bibbia di questa pratica; sibbene nella
tradizione la quale fa risalire a Mosè la istituzione di cui si tratta e
l’insegnamento al popolo nei Sabati e nelle Feste del Riti odierni.
A pag. 162. Stando Moisè sospeso nè sapendo con qual
maniera di morte che a lui si convenisse, dovesse punirlo. Il Testo
dice semplicemente che non sapeva qual pena dovesse
infliggergli. Ella è solo la tradizione che ponendo in Mosè la
certezza della pena di morte, gli fa sol dubitare in qual maniera
dovesse essere eseguita. Le parole di Filone consuonano quindi
perfettamente colla tradizione, meglio assai che col Testo il quale
tollera che si supponga in Mosè il dubbio piuttosto, se fosse o no
reo di morte. Ma la mèsse che noi andiamo a raccogliere del
raffronto fra dottrine e dottrine è di gran lunga maggiore e più
importante.
A pag. 3. Filone fa notare come Mosè fu il settimo per ordine
dal primo il quale venuto da straniere contrade diede principio al
popolo ebraico. Qui tutto è farisaico 1º L’importanza conceduta ai
Numeri. 2º La Santità del numero Sette. 3º L’osservazione
medesima per ciò che riguarda Mosè è non meno esplicita nei
Dottori, i quali adducono qual prova della stima in cui questo
numero è tenuto, la elezione di Mosè settimo nella serie dei
Patriarchi.
A pag. 20. Filone trova nella visione del pruno che arde senza
consumarsi un senso allegorico «il fuoco che non consumava la
materia, dimostrava che coloro non dovevano morire i quali dalla
violenza dei nemici erano calcati.» Questa interpetrazione è
proposta e autorizzata dai Dottori.
A pag. 22. Dirai primieramente loro, che Io sono colui che è,
acciocchè imparino la differenza tra colui che è, e quello che non
è; nè verun nome potersi convenevolmente dire di me del quale
solo è l’Essere. E se egli avvenisse che per essere essi d’ingegno
tardo, volessero sapere come io mi chiamo, mostra loro non
solamente me esser Dio, ma Dio ancora di tre personaggi ec. Qui
si noti:
1º Filone dà perfettamente ragione alla più antica sentenza che
vide nei due nomi più augusti di Dio— Ehie—Avajà—il concetto
dell’Essere; e vince colla sua luce il falso bagliore di
interpretazioni quali sono quelle proposte dal Prof. Luzzatto vuote
di ogni merito, tranne quello, di essere da lui derivate.
2º L’Essere, qual nome di Dio e superiore a quello stesso
quadrilettere, consuona mirabilmente con quanto insegnano i
Teosofi ebrei (Kabbalisti) i quali veggono nell’ Ehie o Essere, la
denominazione di una Sefirà o Emanazione superiore a quella che
reca il secondo di questi nomi.
3º Tanto conferma Filone aggiungendo che ove per ingegno
tardo volessero saper come Io mi chiamo mostra ec. , dove si
allude manifestamente al quadrilettere usato dal Testo in quella
circostanza e chiamato Dio d’Abramo ec.
A pag. 28. Dieci afflizioni caddero sopra il paese, acciocchè
quelli che avevano commesso ogni scelleraggine con perfetto
numero di flagelli fossero battuti. Qui non solamente torna in
campo il valore dei numeri, non solo il numero dieci è il prediletto
dai Dottori e dalla Bibbia eziandio, ma ciò ch’è più, la teosofia
recondita degli Ebrei trova nei dieci flagelli d’Egitto,
l’espressione, la imagine delle dieci emanazioni impure, specie di
Antischemi ch’essi oppongono alle divine emanazioni.
A pag. 29. Cotali (flagelli) però in tre ordini furono divisi.
Ogni Israelita legge nei vespri pasquali l’antica sentenza di R.
Iehuda che divide i dieci flagelli in tre serie, Dezah, Adas,
Beahab. Questa gratuita partizione diventa così, più vecchia di
circa due secoli.
A pag 54. La vitale virtù della palma non come le altre piante
e riposta nelle radici ma nel sommo messa, come ii cuore nel
mezzo dei Rami la quale intorno intorno è custodita, come un Re
dalle sue genti. Osservazioni dei Dottori a proposito della Palma
festiva i quali aggiungono volere essa per questo significare
l’unità d’aspirazione d’Isdrael verso l’Altissimo . Quanto alla
Palma, ecco come si esprime il Sharon Turner I, 122, nota: «Vi è
una tribù di piante chiamate monocutiledone dove dall’avere un
solo lobo per seme, appartiene a questo, l’ordine naturale delle
Palme.»
A pag. 82. È sensibile in Filone una interpretazione farisaica di
un locuzione di Balaam. Questi aveva detto per Israele « popolo
che qual lione si alza, nè riposa finché abbia divorato la preda . I
Dottori spiritualizzando il verso lo applicarono alle preghiere,
alla Confessione di Dio che l’Israelita ripete, nel levarsi e nel
coricarsi. Si oda ora Filone: nè ciò fatto anderà a riposare, ma
vigilando canterà versi che significheranno la sua vittoria.» Ecco
altri tre secoli di antichità alle più umili o neglette tradizioni
farisaiche.
A pag. 104. Il Testo Biblico vieta le opere nel giorno di Sabato.
Una esegesi razionalistica potrebbe non vedervi, che le opere le
quali affaticano il corpo, non atti che si compiono quasi per
trastullo, quale sarebbe cogliere un frutto, strappare una fronda ec.
Filone però non è tra questi. Concede ancora il settimo giorno
agli alberi e a tutte le piante qualche alleggiamento, perciocché
in tal dì è vietato levarne le frondi e le foglie e raccorre alcun
frutto.
A pag. 120. Filone traduce il Micdas di Mosè (Tempio) per
città sacra. Donde ciò? Una delle tradizioni farisaiche nella
Misna vuole appunto che tutta la città di Gerusalemme sia detta
Micdas e ne abbia a certi effetti le prerogative.
A pag. 122. Il numero Cinquanta santissimo. Eccolo dunque
col sette e col dieci, terzo tra i più venerati numeri nella teosofia
tradizionale: degno pure è di nota l’epiteto di santissimo. Infatti il
numero cinquanta appartiene alla emanazione Bina che ha per
distintivo la santità Kodes, come altre, la verità (Emet), la carità
(Hesed) e via discorrendo.
A pag. 124. Il giacinto rassembra nel colore l’Aere. E questo è
il Tehelet del Pentateuco e appunto come Filone dissero i Dottori,
il Tehelet somiglia all’Aere. Pare dunque che a questa doppia
autorità dobbiamo starcene, piuttosto che a problematiche
analogie tratte dall’Etiopico come vorrebbe un Filologo scrittore
del giornale Ebraico. Maghid. Anno 7º 13 e 14.
A pag. 127. In tali figure (dei Cherubini sovrapposti all’arca)
crederò che dimostrino le due antichissime ed incomprensibili
potenze di colui che è la vera essenza, una delle quali crea,
l’altra governa; per quella vien chiamato Dio, con cui tutto
l’universale fabbricò ed adornò ma per la regale è chiamato
Signore. Testo preziosissimo perchè informato senza meno delle
idee teosofiche farisaiche. Basti dire (senza grandi sviluppi che il
luogo non consente) che della sacra decade o dieci Emanazioni
divine, la sapienza ch’è la vera essenza, come dice Filone, e
appunto per ciò chiamata Ies, Essenza, si parte nei suoi due
attributi, o in un figlio ed una figlia come si esprime il linguaggio
simbolico di essa teosofia, e questi figli appunto sono in quella
scienza stessa rappresentati dai due Cherubini che poggiavano sul
arca del Patto. Or quali idee esprimono essi? Tali osiam dirlo, che
concordano mirabilmente con quanto Filone va significando. Il
primo portato o figlio, è appunto la potenza creatrice che
l’universo fabbricò ed adornò il Demiurgo dei Platonici e come
Creatore è pur anco Rivelatore e fonte dei prodigii, conciossiachè
egli abbia dato le leggi al mondo; anzi che per esse leggi lo
governi; ed è rappresentato dal nome tetragramma di Avoja, il
secondo attributo o figlia, è alla lettera la potenza regale, come
dice Filone il Regno, Malhut, e come il nome lo significa,
presiede al governo del mondo. Per questo officio lo chiama
Filone Signore e appunto per ciò ha per suo distintivo in quella
Teosofia il Nome d’Adonai o Adon, e per far più mirabile
l’analogia, il nome persino onde nel Testo Greco si vale Filone il
greco titolo di Kirie Signore, e appunto nel suo senso greco di
Signore, conciossiachè sia cotesto uno dei residui della lingua
greca di cui si giovò lo stile familiare e la teosofia dei Farisei.
A pag. 130. Aveva (il sommo Pontefice) una piastra d’oro a
guisa di corona scolpita di quattro lettere, di quel nome il quale è
lecito d’udire e nominare nel sacrificio, solamente a quelli che gli
orecchi e la lingua hanno colla sapienza purificato. Da cui tolse
Filone questo divieto di profferire il nome quadrilettere se non nel
Tempio? Non certo nella Bibbia che di ciò non favella; sibbene
nella tradizione farisaica che appunto dispone doversi nel Tempio
invocare Dio col nome suo quale si scrive, e fuor del tempio con
quel di Signore e che per l’autorità di Filone si palesa veridica e
più antica di parecchi secoli.
A pag. 131. Ciò che segue è d’importanza ancor maggiore.
«Tal nome dicono i Teologi essere di 4 lettere forse perché
significa i primi numeri, uno, due, tre, quattro, perciocchè nel
quaternario tutto si contiene, e punto, e linea, e superficie, e
solidità.» Si noti in primo luogo come Filone non sia tanto qui
originale spositore, ma si faccia bensì interprete di ciò che dicono
i teologi. Non sembra con queste parole mostrarci a dito la
sorgente a cui attinse? Che sarà se troveremo pure gli
insegnamenti conformi? In fatti i Teologi ebrei veggono nelle
quattro lettere del nome divino, nè più nè meno di ciò che vi trova
Filone, o per dir meglio, ciò che vi trovano i Teologi a cui
accenna. Queste lettere sono la Iod, la E, la Vau e la E. Ora per la
prima intendono la emanazione Sapienza detta ora, Uno (ed in ciò
consuona coll’Uno, o Buono di Plotino e dei Neoplatonici) ora,
punto, (Nekudda;) per la seconda, vogliono significare la
emanazione Bina o intendimento, chiamata per la stessa
simbologia matematica ora due ora linea (Kau;) per la terza
accennano alla sesta emanazione il Logo, Daat o Bellezza,
Tifheret, che è detto il terzo patriarca, Israel a cui è promessa
larghezza senza confini (Nahala Beli Mesarim) la quarta lettera,
raffigura il Regno ultima emanazione, (Malhut) chiamata Guf....
Corpo Solido, Profondità (Omek) ed anche quarto sostegno del
trono, reghel rebihi. Aggiungiamo per i dotti, che qui in Filone
come nelle prime evoluzioni del domma cristiano le due triadi
principali della serie emanativa, Corona, Sapienza, Intendimento
da un lato, e Sapienza, Logo e Regno dall’altro, si
compenetrarono e confusero in guisa da sostenere talvolta
l’officio gli uni degli altri.
A pag. 136. Parimente nel Razionale, il quale alla regione
(Logos) ogni cosa disponente, si rassomiglia, perciocchè faceva
mestieri che il sacerdote che all’universal Padre porta preghi,
adoperasse per avvocato il perfettissimo suo figliuolo, ad ottenere
degli errori perdono. Il razionale è come ognuno sa un quadrato
di porpora giacinto ec., che il sommo pontefice recava sul petto.
Questo come tutte le altre parti del culto ha un senso simbolico,
teosofico nella scienza recondita e nel suo gran codice il Zohar.
Qual è questo senso nel razionale? Non so se m’illuda, ma parmi
l’identità e non solo l’analogia d’idee, evidentissima.
L’emanazione Tifheret, o Logos è per i Teosofi la ragione ( Daat,
Logos) il figlio, e per aggiunta perfettissimo (Ben, Tam, Tamim.)
Chi direbbe che ciò appunto significa il Razionale per i Teosofi?
Eppure nulla di più dimostrato per chi legga nel Zohar, vol 2, pag.
230 e nel Meore Or. Di fronte a questa splendida conformità non
insisteremo sull’officio di Difensore e per dirla nel linguaggio
cristiano e che probabilmente Filone adoperò, di Paracleto
attribuito a esso figlio, Ragione. Diremo solo che neppur esso
manca per completare la rassomiglianza fra il Logos o Ragione di
Filone e il figlio o Ragione dei Teosofi Ebrei. Notiamo ancora di
fuga che il nome di Razionale derivò, a quanto pare, a questa
veste dall’epitetto Mispat di giustizia che porta nel Pentateuco.
A pag. 145. Nè potendo fare di non credere all’oracolo, come
mezzano e arbitro del divino concetto. Fraseologia
incomprensibile se non si raffronti allo stile ed ai simboli teosofici
dei Farisei, pei quali l’oracolo o l’eco, è lo Spirito Santo il Regno,
chiamato appunto Mezzano (Sirsur, emzahi, Malah) Interprete,
Turcimanno (Torgheman) del divino concetto, cioè dell’Idea del
Logo, della Ragione.
A pag. 157. Più oltre passando ed il TUTTO bestemiando, niente
addietro lasciò. Bestemmiare il tutto è frase che vuole
spiegazione. Se la traduzione del greco è esatta, non è possibile
astenersi dal vedere in questo tutto o Pan, uno dei nomi più
legittimi di parecchie tralle emanazioni farisaiche col tutto.
Ibid. La legge del Sacrilegio interpretata dai Dottori esige che
il bestemmiatore si faccia ad esecrare il nome dl Dio, col nome di
Dio stesso, Dio invocando contro Dio medesimo; e come dice il
Talmud (Iacchè Iosà et Iosè) forma che altra non fu mai non so se
più mostruosa o paradossale. Ma tanto più concludente se si
troverà in Filone. Si oda lo stesso, a pag. 157.... la sfrenata bocca
obbedendo ec., sogliono senza dubbio bene spesso, o uomo,
qualche mostruosa sceleraggine commettere. Or dimmi saravvi
chi esecrerà Dio? Quale altro Dio a questa esecrazione
chiamerà? Non chiamerà egli stesso contro lui stesso? Queste
parole non han bisogno comento. Offrono un eloquentissimo
indizio di quella fratellanza d’idee che noi asserimmo tra Filone e
i Farisei.
A pag. 158. Quando Moisè dice «Ognuno che avrà maledetto
il suo Dio porterà il suo peccato.» Filone intende pegli Dei dei
Gentili, aggiungendo, acciocchè nessun discepolo di Mosè si
avvezzi a stimar poco il nome di Dio che sempre stimò . Giuseppe
Flavio consente in quella intelligenza del Testo Mosaico col
nostro Filone; ma finchè non fossero che questi due scrittori, un
dubbio naturalissimo potrebbe sorgere non forse volessero per
siffatta guisa amicarsi la opinione dei Pagani, e fare da essi
estimare la legislazione mosaica. Ciò che ne interdice di così
giudicare ella è l’autorità del Zohar, doppiamente preziosa, vuoi
perchè chiarisce ingenua e spontanea la interpretazione dei due
scrittori greci con essi consentendo, vuoi perchè ne porge un
nuovo anello onde connettere costoro, e specialmente Filone,
colla teologia acroamatica e coi principii che ispirarono al zohar
la stessa interdizione di Giuseppe e Filone. Vedi mie note critiche
al Pentateuco nell’opera mia Ebraica Em lamicra, Levitico Cap.
24.
A pag. 159. La tradizione trova mal fatto chiamare il proprio
genitore per nome, sia egli presente o lontano, e quando pure si
qualifichi con qualsiasi titolo onorifico. Non è egli in sommo
grado parlante trovare la stessa inibizione in Filone? « Perciocchè
(egli dice) neppure il nome dei mortali genitori, QUELLI CHE
OSSERVANO LA PIETÀ ardiscono nominare, ma lasciando per
riverenza i nomi propri, dei naturali si servono, chiamandoli
Padre e Madre.
A pag. 160. Chiama vera filosofia, alla quale l’Ebreo attende il
giorno del Sabato, quella che in sè questi soli tre capi contiene,
opinioni, detti, ed opere. È degno di nota, da una parte come la
tradizione esiga il riposo sabbatico, non solo nelle opere ma
eziandio nei detti e nel pensiero, astenendosi da parole o
cogitazioni che non siano di preghiere o di studio; e dall’altro
come il culto perfetto secondo i Teosofi ebrei consista appunto
nella consacrazione dei pensieri, dei detti, delle opere, al servizio
divino Mahasabà, Dibbur, Maasè.
A pag. 170. La legge di successione registrata nel Libro dei
Numeri, tace del Padre, come erede del proprio figlio. Si oda
Filone.... perciocchè pazzia sarebbe credere che lo Zio come
fratello del Padre fosse erede del figliuolo ed il proprio padre non
fosse erede del figliuolo; ma perché la legge di natura comanda
che i figliuoli succedano nei beni dei padri e non i padri in quei
dei figliuoli, di questi non parlò come di cosa di tristo augurio e
contrario all’amore paterno. ACCENNÒ nondimeno tacitamente che
quel benefizio che ai zij permette doversi ai Padri ancora esser
conceduto: Triplice conformità coi Talmudisti. 1º Nel riconoscere
nel Padre il diritto di successione al figlio, nonostante il silenzio
del Testo. 2º Nel valore conceduto alla causa di questo silenzio;
cioè come cosa di tristo augurio; ragione che il Talmud stesso
invocava nel trattato Batrà, Cap. 3º.—; 3º nel convenire che fa
Filone, avere Mosè tacitamente accennato questo diritto del
Padre; sistema d’interpretazione in uso presso i Farisei i quali dal
proibito incesto colla nipote, traggono per illazione de minori ad
majus quella della figlia stessa e dalla parola Scèero che si legge
nel Testo Mosaico concludono doversi attendere anzi tutto al
diritto del padre, verace parente e carnale come Scèero appunto
significa.
Noi abbiamo fin qui indagato nella intima natura di questi
raffronti, il pensiero comune tra la tradizione farisaica e Filone; e
crediamo avere il risultato risposto pienamente alla nostra
aspettazione. Rimarrebbe però a desiderarsi che oltre queste
concordanze di fatto che offre Filone colla tradizione, ci ponesse
egli stesso sulla via per risalire alla origine della tradizione e
qualche cosa dicesse che accennasse appunto avere egli da questa
fonte attinto che noi presumiamo. Ognun vede la grande
importanza di questo deposto di Filone, se pur vi fosse.
Avventurosamente egli esiste ed è nei termini seguenti ai quali
vuolsi gran peso concedere. «Ma io la invidia di costoro
trapassando desidero esprimere di un tal uomo quello che mi
hanno insegnato i Sacri libri che egli lasciò.... e che IO HO APPRESO
DA ALCUNI VECCHI DELLA NOSTRA GENTE I QUALI SEMPRE ALL’ANTICA
LETTURA, ALCUNA COSA SOLEVANO AGGIUNGERE, ONDE MAGGIORMENTE LA
VITA DI LUI HO POTUTO CONOSCERE.» Questa preziosissima confessione
pone il suggello a quanto fu da noi intieramente dimostrato per
via di raffronti e la sorgente tradizionale non poteva essere meglio
dimostrata a dito, di ciò che si fa in queste parole.
(Vita di Mosè in principio.)

[25] Revue des Deux-Mondes, V, 745.


[26] Questo studio rigorosissimo di purità sino al punto di
preterire doveri sì sacrosanti ci può far comprendere il valore di
certe parole del Fondatore del Cristianesimo. Lasciate i morti
seppellire i loro morti. Chi non odierà il Padre, la Madre, il
fratello per amor mio non sarà degno di seguirmi. Donna, questi
sono mia Madre e questi i miei fratelli. Non è nostro officio
sindacare di queste sentenze il valore morale; sibbene il critico.
Ora noi fondatamente asseveriamo non d’altronde derivare se non
da quel concetto che di se medesimo mirava a far prevalere e che
altrove abbiam già veduto informare le sue parole; quello cioè di
Tempio vivo e vero ed erede delle prerogative tutte del Tempio
reale allora esistente. Quindi per naturale illazione tutti i doveri
che cessavano alle soglie del Tempio non potevano più avere niun
diritto alla sua osservanza nè a quello dei seguaci. Vediamo infatti
non per altro motivo giustificarsi da Gesù le infrazioni del sabato
e delle leggi dietetiche se non dicendo esservi allora presente.
Qualcheduno maggiore del Tempio. Notabilissimo poi è che il
Zoar dà la qualità di Tempio al Dottore Cabbalista (Vol 3º Sez.
Zau); nuovo indizio delle origini essenico-cabbalistiche del
Cristianesimo.

[27] Risulta dal Testo sacro per duplice motivo e in duplice senso,
chiamarsi il Nazireo con questo nome, nel senso di separazione e
nel senso di corona. Ciò prova come la nomenclatura biblica sia
polisensa, e come bene si appongano i dottori, cercando, oltre la
indicazione biblica, altro senso nel nome di quei personaggi. Non
meno questo fatto resulta evidente nei nomi apposti ai figli di
Giacobbe; per esempio, Giuseppe, ove anche il senso di ritrarre,
cessare l’onta dell’orbamento, è accennato dal Testo stesso, allato
dell’altro più appariscente di aggiungere, aumentare; e di altri non
meno, come avvertimmo nelle nostre note al Pentateuco in lingua
ebraica (Em lammicrà, Genesi, cap. I). Questa multiformità di
sensi può darci la chiave di alcune anomalie, non ancora
perfettamente risolute; qual è, a mo’ d’esempio, la poca
convenienza che si nota tra certi nomi biblici nella loro attual
giacitura, e la etimologia che ne assegna la stessa Scrittura; così
Cain mal consuona col Canisti, da cui si vuole derivato; Noè con
Jenahamenu, Samuel con Seiltiv, ed altri, che nel nostro sistema
avrebbero avuta altra significazione, eziandio taciuta dal Testo. Si
spiegherebbe ancora come siano rimaste in credito certe
derivazioni pugnanti colla esplicita dichiarazione del Testo, qual
è, ad esempio, la origine del nome Mosè, secondo la Scrittura, dal
verbo ebraico Masa e secondo Filone (Vita di Mosè) dal nome
egiziano d’acqua, mos. Non è improbabile l’ipotesi che i primi
cristiani siansi detti Nazareni, nel senso di Nazirei, piuttosto che
in quello di originarj della città di Nazaret, etimologia poco
ammissibile, e per avventura immaginata quando l’antica origine
dell’Essenato, cominciò a venir meno nella memoria degli
uomini.

[28] Chi sa che l’atto di Geremia nel propinare il vino ai Recabiti


non sia una di quelle solite parodie onde i profeti solevano
contraffare le prevaricazioni del popolo per fargliene rimprovero.
Avremmo quindi l’iniziazione e il magistero profetico nei
Recabiti eziandio, ai quali era dato il vino come antidoto, siccome
ai suoi coetanei rimprovera Amos; e intenderemmo meglio le
promesse fatte ai Recabiti da Geremia che suonano così
magnifiche. È strana dopo le cose dette fin qui l’opinione di
coloro che si ostinano a vedere nell’uso generoso del vino una
preparazione necessaria e consueta all’officio di profezia tra il
popolo nostro.

[29] L’origine essenica del cristianesimo trova un eloquente


riscontro nella foggia di vivere e di vestire del Precursore che da
un lato risponde al suo prototipo di Elia di cui adempie le parti;
dall’altro non meno bene si confà all’antico uso dei profeti e degli
Esseni.

[30] Dante è Maestro in siffatte similitudini; solo che alla


Sapienza rivelata, alla Teosofia si sostituisca la filosofia detta da
esso «la bellissima e famosissima figlia dell’imperadore
dell’universo.»
[31] A chi volesse vedere nella purità e bianchezza dei Nazirei
in Geremia, la delicatezza o candor della pelle, dimanderemmo ci
dicesse perchè singolarmente si specificano qui i Nazirei. La
similitudine poi della Neve, usata, come nota Rasci in Daniel, a
indicare la purità delle vesti, non è tralle menome prove che
mostrano quanto bene il padre di tutti i chiosatori si sia
egregiamente apposto nell’interpretare per le vesti.

[32] È questo uno degli infiniti esempj in cui la Pratica posteriore


a Mosè soperchiandone i dettati o diversificandone l’indizio
manifesto di una tradizione è coimperante in Israel colla legge
scritta. Infatti la Storia biblica ci mostra in pratica il Nazerato
perpetuo. Ma dov’è egli preveduto e regolato nel testo mosaico?
In nessun luogo.

[33] Abbiamo udito la scrittura parlare di santità a proposito dei


Nazirei. Ora è bene che si sappia che ogni qualvolta il nome di
santo è usato nel senso di astinenza o di perfezione religiosa la
traduzione aramea è sempre Parus. L’atto stesso del votarsi al
Nazirato Iafli è tradotto dal Parafrasta Caldeo Jefares; da ciò il
nome dell’angiolo apparso al padre di Sansone se in ebraico è
detto Peli in arameo è tradotto Meforas; nè altro è da intendersi
nel titolo di Meforas dato dai Rabbini al titragramma se non il
nome separato e distinto per eccellenza. Qui sarebbe luogo di
diffondersi sopra una obiezione speciosa che questo nome di
Parus potrebbe suscitare contro l’antichità del Zohar. Tra le tante
vestigia di tempi moderni che i critici vollero trovarvi, ora nello
stile ora nelle dottrine, non mi venne fatto d’imbattermi in una
che tutte le vince in speciosità e verosimiglianza e che pure
mirabilmente si solve alla luce delle cose accennate. Le
intelligenze superiori angeliche sono dette nel Zoar Periscian:
vale a dire intelligenze separate. Ora per poco che si abbia
contezza della filosofia aristotelica, specialmente del
peripatetismo arabico, facile sarà ricordarsi come in questi
sistemi, intelligenze separate siano dette le intelligenze angeliche
perchè immateriali e incorporee. Come non dubitare di una traccia
della filosofia araba e della sua fraseologia nelle pagine del Zoar?
Nelle mie note su quel libro in lingua ebraica osservai che non
v’ha ragione di credere piuttosto a una derivazione arabo-
aristotelica e quindi posteriore, che ad una origine greca, platonica
o aristotelica e quindi più antica, ove meglio non si accetti la
originalità del Zohar nel coniare questo epiteto. Ora aggiungo che
il Parus, usato dalle tradizioni aramee per indicare la santità in
genere, conviene che nulla più, alla frase ed all’uso che il Zohar
ne ha fatto, trattandosi d’intelligenze angeliche chiamate dai
Profeti antonomasticamente Santi; e che il Mefaras del Parafrasta
Ionatan applicato all’angiolo è di una convenienza difficile a
vulnerarsi col Perisan del Zoar inteso per gli angioli.

[34] Il Talmud pare, è vero, non alludere che ad un oggetto


speciale esclusivo, cioè di porsi in grado di offrire una specie di
sacrifizio che solo la merce del Nazirato avrebbe potuto
presentare. Tuttavia chi conosca come il Talmud Babilonico sia
stato scritto più di sei secoli dopo i più bei tempi dell’Essenato; in
terra, e tra costumi tanto dai loro diversi, non stenterà a credere
che lo scopo universalissimo del Hasidim nel farsi Nazirei, o per
dir meglio la medesimezza dei due personaggi siasi circoscritta
nel Talmud e considerata da un solo punto di vista.

[35] Vegga il lettore tra i raffronti da noi stabiliti nella nota 3, pag.
90, tra Filone e la tradizione farisaica, la memoria di questa
volontaria continenza mosaica nel filosofo alessandrino. Ragion
di più per farle acquistare peso e autorità.

[36] Questa stessa trasformazione dell’eccezione in regola del


precetto morale in Cerelo, costituisce uno dei passaggi originarj
dall’Etraesmo al Cristianesimo.

[37] Questa bellissima idea, che Paolo presentò ai Pagani nella


similitudine dell’ulivo selvatico, appartiene in origine ai dottori
interpretanti la promessa ad Abraham: E saranno in te benedette
tutte le genti della terra. Il verbo ebraico venibrehu, che suona
saranno benedetti, è suscettibile dell’altro senso d’innesto, ed è
appunto su questo che i Dottori insisterono veggendovi l’ innesto
di tratto in tratto operatosi, di un ramo gentile sul tronco ebraico.

[38] Le istituzioni e gli offici sono come le scienze. Dapprima


confusi e concentrati in una sola persona, non cominciano a
distinguersi che in progresso di tempo. Perciò il sacerdozio fu
anticamente centro in cui conversero tutti i rami del sapere e tutti i
sociali maestrati, appunto siccome quello che tutti sovrasta.
L’ebraismo stesso, per quanto non abbia seguito la legge comune,
lenta, regolare del progresso, e sia sorto, come avverte l’autore del
Kuzari (libro meditato pure da Guido Cavalcanti, come ci
ammoniva l’illustre Mamiani), a guisa delle creazioni in un Fiat;
pure non è sì che la legge di unione primitiva non si verifichi in
esso ancora comecchè per breve istante. Difatti è sentenza dei
dottori corroborata eziandio da qualche cenno del Testo che nei
sette giorni d’inaugurazione del tabernacolo il ministero
sacerdotale fosse assunto e concentrato temporariamente in Mosè
siccome Jerofante e Iniziatore, il quale da quell’ora in poi tornò
semplice Levita e subordinato ad Aaron.

[39] Non si attribuisca questo vivere nelle tende a costumi tuttavia


rozzi e primitivi. Nè i Cananei sposseduti, nè gli Israeliti erano
allora in tal grado di barbarie da non aver ancora case costruite.
Esempj di case anteriori a questi fatti non mancano nella Bibbia.
Sin dai tempi di Mosè egli promette loro nella Palestina Case
piene di ogni bene che voi non avrete ricolmo; prevede e regola la
costruzione di nuove case e impone il riparo sul tetto. Contempla
e prescrive le regole per purificare le case colla demolizione delle
antiche mura, e colla introduzione di nuovo materiale. Egli è
quindi indispensabile credere che se ai tempi tanto più posteriori
di Devora i Cheniti abitavano sotto le tende, così facessero non
per altra cagione di quella che indusse a così fare i loro nepoti a’
tempi tanto più moderni di Geremia, che il vide e li lasciò viventi
fuori della città sotto le tende.

[40] Isaia, cap. 1.


[41] Lo avere questa sentenza origine nel Zohar, lungi dal detrarre
del suo valore ne accresce anzi il pregio per ognuno che ricordi
essere a senso nostro non altro gli Esseni che i predecessori dei
Kabbalisti o Teosofi moderni, appo i quali si troverebbe pertanto
la stessa denominazione di Eunuchi.

[42] Questa lezione era da lungo tempo scritta quando mi venne


fatto d’imbattermi nel florilegio talmudico (En Israel), ediz.
Königsberg, e preceduto da bella e dotta introduzione di scrittore
moderno. L’autore, ragionando intorno ai versi d’Isaia di cui è
parola, esce fuora con questa interpretazione, che se non coincide
appuntino colla intelligenza che qui si attribuisce al Testo, pure di
molto le si avvicina, e stabilisce un principio e accenna una idea
generale che non può trovare la sua realtà concreta, il suo
adempimento storico, che nella ipotesi nostra. Ecco le sue parole:
«Vuole Isaia significare come allora vi fossero uomini assai che
renunciato avevano ad ogni piacere mondano, nè tolto avevano
donna; ma attendevano in solitudine con grande amore al culto
religioso, nel Tempio divino, e tanto avveniva altresì degli
stranieri, vale a dire dei Gabaonti.»

[43] Pel lettore che sa di ebraico non fan mestieri spiegazioni.


Pegli altri, diremo solo che tutto il ragionamento presente tende a
provare come il verbo Omed lefanai usato in Geremia a proposito
degli Esseni, è suscettibile, in forza degli arrecati esempi, dei
sensi che qui si accennano.

[44] Tra i trasportati in Babilonia, la storia biblica annovera


charas veamasgher alla lettera falegnami e fabbroferrai. La
tradizione ne fa altrettanti maestri e dottori; ed è notabile: primo,
che Masgher può avere senso di claustro, di reclusione, e poi che
il Talmud Gerosolimitano su questo verso (Nedarim, IV) chiosa
Ellu ahaberim, Sono questi i soci. Quanto questa frase convenga
agli Esseni ognuno il vede; e non si sarà dileguato dalla memoria
dei lettori quanto congetturava il dottissimo R. Rapoport intorno
al senso della parola Esseni che vale al dire di lui quanto socio,
compagno da Jso Arameo. Sotto altra forma l’appellativo di socio
è attribuito ai Farisei nel nome Amit (Talmud Tract Sciabuot, cap.
IV). Quanto alla identità originaria di Esseni e di Recabiti non
d’altronde sembra muovere l’Heckers, (Istoria della medicina, 42)
se non da tale premessa, quando scrive: « Gli Israeliti, spezzato il
giogo di Babilonia, si dedicarono alla vita contemplativa e
solitaria e fondarono la setta degli Anacoreti (Geremia XXXV), i
quali privi delle scienze naturali operano colla fede e cogli
scongiuri cure portentose.» Qui ognun vede come Recabiti ed
Esseni pongano in comune i loro caratteri.
Prima di abbandonare la questione dell’origine degli
Esseni, facciamo qui alcuni rilievi che recenti letture ci
suggerivano. Il senso da noi dato agli Eunuchi d’Isaia,
quello di precursori ed antenati degli Esseni, fu avvertito da
un Critico alemanno autore del Biccoret Attalmud, pag. 273;
se non che non diè valore ai Proseleti che allato degli
Eunuchi figurano nello stesso luogo d’Isaia (cap. 56), e ch’è
indizio eloquente dell’origine da noi propugnata. Quanto
all’origine dai Nazereni, mentre è consentita da valenti
scrittori tra cui il Graetz, è invece combattuta dall’autore
sopra ricordato. Ond’è che non sarà discaro udirne le
ragioni, e pesarne la forza. Egli si giova di quanto si legge
nel Talmud (Nedarim X) essere usi gli antichi Hasidem di
far voto di Nazer; dunque ei conclude, eran costoro Kasidim
(cioè Esseni) prima che si votassero Nazirei. Il lettore
ricorda come cotesto passo fosse da noi noverato tra gli
indizi che ci favoriscono. Questo senso ostile che gli si vuol
dare non ci par serio; sia perchè può avere appunto inteso il
Talmud di svelarci l’origine e il carattere primitivo dei
Hasidim; sia perché il Talmud stesso per le ragioni altrove
accennate, può non aver avuto un’idea assai chiara di una
origine puramente storica e di piccolo o niuno religioso
momento. Il Talmud altrove (Chidduscin, 71) offre un
curioso passo che diè luogo ad un antico comentatore
(Moarscia) a trovarvi un’allusione agli Esseni sotto il nome
di Nazirei. Il Talmud così si esprime «Colui che dicesse:
Sarò Nazireo se non svelo i vizj di origine delle famiglie, sia
Nazireo e non le sveli.» Qui il Moarscia chiosa dicendo: Si
dee intendere mercè quanto scrive Giuseppe, esservi stato
durante il secondo Tempio una setta detta dei Nazirei, che
amavano la solitudine e i deserti per non cadere nel peccato
di maldicenza. Perciò si legge che se taluno dicesse sarò
Nazireo se non svelerò ec. sia Nazireo, poiché tale n’è
invero il costume per quanto sia cotesto un voto non da tutti
laudato a cagione delle astenenze che importa. Tuttavia
peggior cosa sarebbe se per annullarlo si permettesse la
maldicenza. Quindi si taccia e sia Nazireo. Questo senso dà
noia all’autore rammemorato del Biccoret Attalmud: (pag.
279) ma s’è vera la intelligenza ch’egli ci porge, non si
comprende come rimanga fermo il voto e sia Nazereo
mentre la condizione apposta, cioè quella di propalare le
turpitudini delle famiglie non si verifica nè si permette che
si verifichi. Quindi ci pare probabile il cenno agli Esseni che
vuol trovarvi il Moarscia; ed in ogni caso, è questa prova
novella come non appena i nostri scrittori ebbero a narrare o
a ragionare degli Esseni, li qualificarono senza esitanza
quali veri e propri Nazirei, ossequio spontaneo e tanto più
concludente in favore della loro affinità originaria. L’autore
medesimo, non a bastanza penetrato dei vincoli strettissimi
che uniscono il Farisato nei suoi gradi più eminenti colla
società degli Esseni, va in cerca di contradizioni tra l’uno e
l’altra. Fra queste pone il bianco vestire in onore nella
seconda, in odio presso i primi, e cita il Talmud Sota 22 e
Meghilla 24. 2. Ma che cosa si legge invero in ambo i
luoghi? Nel primo: Il tribunale supremo si vendichi di
coloro che si cuoprono di Gundé? Che cosa è Gundé? Per
l’autore, così pare, abito bianco. Non così però per Rasci il
quale chiosa addirittura abito nero. Volesse pur dire bianco;
non sarebbe altro che un denunciare la ipocrisia di coloro
che prendevano le sembianze esteriori degli Ottimi senza
averne le virtù. Il secondo suona Chi dicesse non officiero
nel Tempio con abiti di colore non officii nemmeno coi
bianchi. E i comentatori: perché era il bianco vestire
costume dei Minim (eretici); ma 1º Non si vuol egli
distinguere tra il bianco vestire volontario degli Esseni e
l’obbligatorio di questi Minim? Sappiamo non meno che gli
Esseni vestivano talora diversamente; di sacco p. e. 2º
Probabilissimo è poi che in Minim s’intenda i primi cristiani
come talvolta significa veramente; e se così fosse, nulla di
strano che il costume adottato da costoro tornasse odioso a
quegli stessi che lo avevano usato poc’anzi. È questo nella
natura dell’uomo, e corroborato da esempi? nostrali. Il
Decalogo fu soppresso nella orazione del mattino a cagione
dei Minim; anche qui probabilmente cristiani, che ridussero
tutta l’antica legge al solo Decalogo. 3º Infine insigni
Farisei vestono di bianco nel Talmud e ne vanno ivi stesso
celebrati, come ragionando del costume vedremo. Si dirà
ancora ch’era tal costume in odio?

[45] Un fatto generale ci avrebbe forse potuto dispensare da tutte


queste particolari citazioni; ed è la presenza di Sinagoghe
ebraiche per tutta la distesa del romano impero , le quali
supponevano certo a capo loro Rettori e Dottori. La storia
evangelica ed apostolica è piena di fatti che provano questa
presenza, dovunque l’Evangelio fu predicato.

[46] La tradizione che ha per stile di trasformare nell’antica storia


ebraica gli avvenimenti guerreschi e politici in fatti dottrinali, o in
morali controversie, vede nella promessa di Caleb. Chiunque
avrà battuto Kiriat Sefer e l’avrà presa, daragli Ahsà la figlia
mia in donna, una ricompensa promessa a chiunque avesse molte
leggi restituite che erano cadute in oblio dopo la morte di Mosè.
Nulla di più paradossale a prima giunta di questa interpretazione;
ma quando riducasi a memoria che cosa questo nome di Kiriat
Sefer vuol significare, e quanto saviamente avvertiva Gioberti,
facile lo accorgersi come i dottori non abbiano inteso che
appigliarsi ad un felice addentellato in cui la espressione storica si
presta mirabilmente alla chiosa tradizionale; anzi con questo
senso sino a un certo punto s’identifica; volendo dire che colui
che sarà da tanto da sottentrare nell’officio che Kiriat Sefer
adempiva nel concerto o Antizionato dei popoli Cananei come
Archivio dello Stato, e potrà essere utilmente consultato in quella
città come lo erano i suoi abitanti Cananei, sarà rimunerato ec.
Potremmo aggiungere che in questa trasformazione di guerre
politiche in lotte spirituali i dottori nostri non si dilungarono
punto dal genio che predomina nelle più antiche epopee orientali.
—Ma qui lasciamo per brevità; fidente che il lettore compia il
nostro pensiero, solo che attenda per breve istanti a ciò che sono i
poemi indiani del Mahabaratta e del Ramayana.

[47] Vedi per la giustificazione di questo supposto, quanto è


riferito più oltre in nota a proposito di ciò che narra il Talmud
sulle occupazioni dei Hasidim.

[48] Simile circospezione ci viene narrata nel Talmud (Meghilla)


dei Traduttori del Pentateuco in greco per ordine di Filadelfo.

[49] Il citato frammento del Talmud forma subbietto di profonda


indagine nel rammentato Lessico Ereh Millim del dottissimo sig.
Rapoport Rabbino di Praga. Ci sia permesso anzitutto costatare
coll’illustre autore la grande antichità di quel frammento, ch’egli
crede redatto o almeno formulato molto innanzi al Talmud in
qualche raccolta d’Agadot, che, come è noto, precorse il Talmud,
e da cui questo l’avrebbe copiato. Sono fondamento a questa
plausibilissima congettura, varie singolarità filologiche proprie ai
libri Agaditici, e che l’autore saviamente pone in luce. Quello che
non potremmo mai consentire al gran critico, si è la pretensione
da esso accampata di vedere nei savj e dottori del mezzogiorno,
con cui Alessandro favella, uomini pagani anzichè ebrei, e più
specialmente sacerdoti etiopici o Brami indiani. Il testo ha un bel
opporsi a questa interpretazione mercè le parlanti intercalazioni
che corrono fra domanda e risposta. Il nostro autore con un colpo
di magica verga le dichiara posteriori addizioni al testo più antico;
nel quale egli non crede doversi ravvisare niuna traccia
d’Ebraismo. Questo concetto che l’illustre autore si forma degli
interlocutori di Alessandro, capovolgendo le basi su cui poggia
tutto il nostro argomentare nel testo, e facendo sparire una delle
vestigia più splendide, che a senso nostro abbiano lasciato gli
Esseni nella Biblioteca rabbinica, merita, anzi esige, che con
qualche pazienza vi ci soffermiamo d’intorno, e lo esaminiamo
più davvicino. Si noti anzi tratto come:
Fra i neologismi nota il Rapoport Atristun di cui dice non
esservi la radice nell’antico lessico Aruh. E pure egli non avrebbe
dovuto che gettare lo sguardo sopra taris (bis) per vedere (in fine)
il verbo taras col suo esempio tratto dal Talmud (Jevamot 121. 1).
Osserviamo ora le traccie d’ebraismo nel racconto Talmudico
che il Rapoport crede estraneo alla primitiva leggenda, e solo
aggiunto, vuoi nell’atto della redazione Talmudica, vuoi da copisti
posteriori. Lasciamo per ora quanto vi ha di arbitrario a priori
nello scindere una narrazione omogenea in tanti frammenti di cui
altri avrebbero appartenuto al tessuto primitivo, ed altri sarebbero
stati introdotti posteriormente. Guardiamo solo se questo criterio
comunque inverosimile, è applicabile al fatto concreto.—In primo
luogo, la locuzione Ziknè Anegheb non contiene veruna
indicazione che miri piuttosto ai pagani che ebrei.—Anzi il nome
Ziknè implica una idea di venerabilità che male si affà, in bocca ai
dottori, ai savj gentili. Essi hanno altre locuzioni per indicare
questi ultimi, e non si comprende come qui se ne siano discostati;
per esempio quella di savj gentili, hahme umot Aolam; Flosofim,
che sarebbero state qui tanto più opportune, quanto meglio
avrebbero posto in rilievo l’opposizione che segue dei dottori
israelitici (Vakakamim omerim) intorno alla distanza dal cielo alla
terra. Non ne conviene lo stesso autore quando confessa che
l’epiteto di Zikné Anegheb ad indicare i sacerdoti etiopi ed i
brami, è nuovo ed unico nello stile rabbinico? Egli, è vero, non ne
conclude che una maggiore antichità; ma non so quanto sia lecito
trovare anormalità, laddove la locuzione sembrerebbe
regolarissima ove intesa come noi la intendiamo, pei dottori
dimoranti nel sud di Palestina.
Potremo dunque noi vedere in questi Zikné Anegheb altri che i
dottori meridionali celebri appo i Rabbini, par la loro squisita
sapienza, come attestano le citazioni, recate nel corpo dell’opera?
Il Rapoport crede che ciò non solo si possa, ma si debba. Per esso
altro è Negheb (mezzogiorno) da cui qui s’intitolano, altro Darom
(altro nome di mezzogiorno) da cui altrove si qualificano. (op.
cit., pag. 73, 1). Con quanta ragione però non saprei dire,
dappoichè è ovvio, che Negheb e Darom son due nomi
egualmente approvati per mezzogiorno o sud; come Iam e Maarab
per occidente; e come levante e oriente nel nostro idioma, onde,
tanto vale Ziknè Anegheb quanto Zikné Darom. Si dirà che
altrove dissero per la parte meridionale di Palestina piuttosto
Darom che Negheb? Ciò non si nega, ma se prova qualcosa, ei
prova piuttosto l’antichità di questa tradizione che usa di un
vocabolo che sa di Arcaismo. Ma vi è nel Talmud un caso a cui
pur non badò il Rapoport per triplice ragione, conchiudente in
favor nostro, non solo perchè Negheb vi è usato per mezzogiorno
di Palestina; non solo perchè tutto il frammento affetta uno stile
ricercato e arcaico, ma anche perchè fu usato appunto quando
s’intese a significare (come nel nostro caso) la gran scienza dei
dottori meridionali. Narra il Talmud (Irubin pag. 53) di varj
dottori che affettarono talvolta uno stile figurato e antiquato, e tra
gli altri accennando ad un collega che si era ritirato nel Darom
presso quei valenti teologi, per impararne la dottrina, si dice
«Nitiaaz bemahtir veinghib limfiboscet» si volse al sud verso
Mefiboscet, lochè, secondo comenta Rasci, vuol dire:—Si partì
pel mezzogiorno di Palestina verso i Zikné Darom sopra gli altri
tutti dottissimi, e perciò detti Metiboscet per la sua gran scienza
ch’era causa a David di vergogna. Le conseguenze si fan vedere
ad ognuno. 1ª Negheb, pel mezzogiorno di Palestina. 2ª Impronta
di vetustà come nel nostro caso. 3ª Infine usato ad indicare, a
celebrare i dottori di quelle regioni.
Il sig. Rapoport, come dicemmo, crede che questo sia uno dei
casi in cui si riferiscono dal Talmud le dispute o le divergenze
occorse fra i savj gentili e quelli d’Israel. Ma se questa fosse la
intenzione talmudica, non già colla semplice designazione di
Vakahomim omerim avrebbe indicata la dottrina israelitica, che
ritorna solo allora che sorge controversia fra i dottori israeliti
medesimi, ma coll’altra più peculiare ed esclusivamente usitata di
vekakmè israel omerim come ad esempio nel Talmud (Pesakim)
ove è questione del moto delle sfere e degli astri.—Non si nega
per questo che la menzione della dottrina del Kakamim ed il
ragionamento che segue non possano essere stati aggiunti
posteriormente al racconto primitivo, ma in ogni caso provano ad
esuberanza come a senso di chi operò tale aggiunta, e che non può
esser posteriore al Talmud, i savj con cui parlò Alessandro fossero
israeliti. E se ciò resulta da una aggiunta, resulta non meno da una
frase inseparabile dal tessuto primitivo, ed è quella di Ziknè
Anegheb come abbiamo veduto. Altro indizio non meno
appartenente al tessuto primitivo è la prova che i savj del
mezzogiorno traggono dalla genesi (Scenneemar) a provar
l’anteriore creazione del cielo. Avrebbero ciò fatto savj gentili? Il
sig. Rapoport dirà che anche questa è una intercalazione
arbitraria. Ma in primo, ella fa troppo parte integrale della
redazione primitiva, per autorizzare il supposto; e poi, prova ad
ogni modo come il Talmud, anzi le versioni anteriori al Talmud
tenessero per fermo non altro essere i Zikné Angheb, che dottori
israeliti.—Questi alla domanda di Alessandro, quale tra luce e
tenebre abbia preceduto, si tacciono. Il Talmud dà a questo
silenzio un motivo che non si acconcia che ad uomini israeliti. E
qui come ognun vede il carattere israelitico investe l’ordine stesso
dei fatti, ed appare manifesto in uno dei suoi più singolari
incidenti. Si dirà qui pure che il silenzio loro ebbe altro motivo, e
che il Talmud ne escogetò tale che consuonasse colla origine
israelitica degli interrogati? Ma allora conviene trovare quale sia
questo altro motivo: e in ogni modo sarà una conferma di più, che
il Talmud non dubitò mai dell’ebraismo di quei dottori.
Ecco però l’argomento capitale, l’Achille dell’illustre
Rapoport; ma che però, come l’eroe di questo nome, ha
veramente vulnerabile il calcagno.
Alessandro nel dialogo in questione conclude con questa
domanda: «Perchè ci avete voi combattuto?» E i dottori:—Satan
vinse.—Ebbene, dice Alessandro, voi sarete uccisi per regio
comando.—Ed essi:—Il potere è in mano dei Re; però ai Re non
si addice mentire.—Qui il sig. Rapoport pone, e non a torto, in
rilievo quanto la opinione che in questo combattere intende un
dissenso religioso, il perseverare nell’Ebraismo, sia comento
piuttosto forzato; ma non avremo però bisogno per fuggire da
questa chiosa improbabile ricorrere ad una vera e propria guerra,
la quale verrebbe, a senso suo, da Alessandro rimproverata ai
sacerdoti indiani, quali istigatori di quella tra esso e Poro
combattuta. Perocchè noi diciamo: Come non un cenno, nè del
teatro, nè della causa di questo rimprovero, nella narrazione
talmudica? Bisogna dire o che di gentili qui non si può parlare, o
almeno che gli autori della redazione che noi abbiamo sott’occhio
intesero per questi savj del mezzogiorno, veri e proprj Israeliti;
resultato al quale inevitabilmente riusciamo, da qualunque parte
prendiamo le mosse. Ma è poi inesplicabile la conclusione del
dialogo senza la divergenza religiosa, o la vera e propria guerra?
A credere mio, una terza via, ed è la buona, ci viene indicata dal
Moarscià, il quale vede nel rimprovero d’Alessandro un lamento
superbo della libertà colla quale avevano avvilito ogni più cara
cosa, onde egli andasse superbo;—la Scienza, quando risposero
che il vero savio è l’uomo previdente, e quanto poco egli lo fosse,
gli avvenimenti il dimostrano; il valore, il coraggio, quando
dissero vero prode colui che vince le passioni, nè di questa
maniera di prodezza ebbe Alessandro. Gli averi, i beni, la
potenza, quando chiamarono, solo ricco colui che è lieto e
sodisfatto di quanto possiede.—Qual più amara ironia della vita e
delle idee di Alessandro! Ma esso è preso più evidentemente di
mira in altre loro sentenze. S’ei chiede qual sia il modo di goder
la vita essi rispondono di mortificarla. S’ei cerca il mezzo di
tornare agli uomini accetto, essi gli additano il sistema opposto a
quello che ei seguiva, quello cioè d’odiare il regno ed il potere.
Ed è appunto per questa costante censura di tutti i suoi atti, e del
suo genio, ch’ei chiede: «Perchè mi combatteste?»—E si noti che
Atrastun, che è il verbo che noi traduciamo per combatteste,
deriva da Taris, scudo, arma esclusivamente difensiva, ed ha un
senso peculiare che si addice molto più a una lotta verbale, a una
ardita confutazione o meglio apologia o diatriba, che a una lotta a
mano armata. Basta dire che il Talmud chiama Targati (Baalà
Terissin) i campioni più abili nella controversia religiosa (Talmud
Berakot) e che quell’altra sola volta in cui questo verbo è usato
nel Talmud (Jevabot, 121) è appunto nel senso che noi crediamo,
vale a dire di un’ardita opposizione scientifica, come a un
dipresso noi diciamo oggi Polemica da Polemo guerra in Greco a
significare ogni maniera di Controversia. Che rispondono i Zikné
Anegheb ai lagni del Macedone? Satan vinse.—Per quelli che
veggono nella sua domanda un senso religioso ciò vuol dire:
—«Satan vi vince e seduce coi sui errori, quindi fra noi
opposizione nel sentire religioso»—e questa interpretazione,
come si disse delle orazioni di Demostene, pute di lucerna. L’altra
del Moarscià non è meno infelice; il senso suo significa, Noi tuoi
avversari (Satan) ti vincemmo colle ragioni. E pel sig. Rapoport
che vuol Alessandro lamentarsi delle loro istigazioni alla guerra,
che cosa significa? Egli nol dice. Per noi il senso ci pare ovvio.
Alessandro si lagna del loro ardito linguaggio. Essi si scusano
dicendo. «Satan vinse.» Vale a dire, fu un mal genio che c’ispirò
questo parlare a te increscioso.—L’idea del predominio di Satan
per significare una sventura che incoglie è usata nel Talmud dal
medico e astronomo Samuel, Satanà bitrè ummé la sciallit; e ciò
che più monta, ragionando come ragionano i dottori del mezzodì,
con un pagano, vale a dire coll’amico suo Ablat, che noi abbiamo
gravi motivi per credere non altri essere che lo stesso celebre
Plotino fondatore della scuola Neoplatonica di Alessandria.—Un
altro segno che questi savj sono sacerdoti tebani, è pel Rapoport
(pag. 71) il suggerimento che porgono ad Alessandro per poter
penetrare senza pericolo nei deserti affricani. Notiamo come poco
innanzi (pag. 69) ei vi vedesse piuttosto etiopi o brami, e che ora
divengono sacerdoti tebani come più atti a porgere di questa
specie consigli. Non sarebbe però questa la prima volta che nel
Talmud, filosofi e principi pagani ricorrono ai dottori ebrei per
lume e direzione; testimone fra gli altri i messaggi che Antonino
inviò ripetutamente a Giuda il santo per consultarlo intorno ad
affari di stato.—Ciò che non dee tacersi però si è, come per
espressa dichiarazione del Talmud questi suoi consiglieri, con cui
di nuovo confabula al suo ritorno, sono Rabbanan, vale a dire i
nostri maestri. Sono essi che vedendolo sorpreso perchè tutto il
suo argento e l’oro non bastasse a contrappesare un occhio che
aveva riportato dalla sua visita in paradiso, gli porgono il
consiglio di provare a porvi sopra un po’ di terra.—Lo che fatto,
torna al suo peso naturale. Ora non è difficile scuoprire in questo
significantissimo consiglio la impronta della precedente
conversazione con Alessandro, lo stesso indirizzo morale, che in
quella apparisce. E se autori del primo sono Rabbanan, mestieri è
credere che eglino stessi siano i primi interlocutori.
Fosse pure provato che un doppio strato d’idee, di locuzioni si
distinguono nella redazione talmudica, che il primo appartiene ad
età più antica e nulla abbia di ebraico, l’altro ad epoca più
moderna e abbia israelitica impronta: ciò che non potrà in ogni
caso negarsi si è, che a senso dell’ ultima e definitiva redazione
talmudica tutte le cose quivi narrate si riferiscono ai dottori ebrei
abitanti nel mezzogiorno. Ora quando pure ciò non avesse
nessuna realtà storica, basterebbe, nonostante, al nostro supposto,
e bisognerebbe vedervi egualmente un’allusione all’ Essenato colà
abitante. Giacchè non è possibile che il Talmud attribuisca tutti i
fatti e gli incidenti occorsi tra Alessandro e i sacerdoti tebani, ai
dottori abitanti del mezzogiorno, se ai tempi medesimi che
quest’alterazione si operava, nella tradizione più antica, non
fossero esistiti dottori i quali tutte le qualità riunissero atte a
rendere verisimile l’applicazione che ad essi si faceva di ciò che
spettava in origine ai brami o ai sacerdoti d’Egitto. Non è
possibile, in una parola, che il Talmud rapisca ai suoi veri
proprietarj una veste per ricuoprirne un Ente imaginario. E ciò
basta, come diceva, per vedere nella intenzione dei redattori del
Talmud una allusione trasparente allo Essenato. Questo resultato,
non è critica che ci possa rapire, ove pure si meni buona la ipotesi
dello illustre Rapoport.

[50] Il comento Tossafot osserva (loc. cit.) come dal contesto


apparisca esser gli anziani del mezzogiorno, dell’ordine dei
Taneiti. Il sig. R. Rapoport Erek Millin, alla parola Alessandro a
p. 73.—crede poter fondarsi su quanto si legge (Talmud ivi pag.
22.) Tacah lehu Res Lachis lidromaé; per dedurne che
appartengono piuttosto all’ordine successivo degli Emoraiti.
Veramente la frase Talmudica non prova; e tanto meno, quanto
non si osserva nel contesto quella forma dialogica che sarebbe
stata seguita ove Res Iachis (degli Emoraiti) avesse coi dottori del
mezzogiorno confabulato. Ma ove pure fosse provato che vi erano
dottori meridionali che appartenevano all’ordine e all’epoca degli
Emoraiti, ciò non osta affatto al supposto che fossero Esseni,
siccome noi veramente crediamo, poichè Esseni esistevano in
Palestina tanto ai tempi tanaitici quanto a quelli più tardi degli
Emoraiti. Anzi, a veder bene, questo trovarsi nel Talmud dottori
designati coll’epiteto semplicissimo di meridionali, tanto in tempi
antichi che in altri posteriori, prova che si volle con ciò alludere
piuttosto a una famiglia di savj che aveva stanza comune e legale
e conosciuta in quella contrada, che non a una dimora arbitraria
che avrebbe lasciato sempre incerto, di quai dottori a preferenza si
favellasse.

[51] L’ebraismo biblico non ha mitologia. Ciò fu da lungo tempo


notato e valse a provare sempre più la sua divinità e la superiorità
dei nostri sacri libri sulle mitologie paganiche. Però di questo
fatto vero in generale non è qui luogo a parlare. In ogni modo
questo invertimento d’epoche nella storia dall’ebraismo, questo
precedere inatteso, irregolare del vero, e dello storico, del proprio,
—al mito, alla finzione, al figurato;—questo tardo comparire
della mitologia nello Ebraismo che non comincia fra noi a
spuntare che colla cessazione dell’era profetica, e col principiare
dell’era rabbinica, è fatto eloquentissimo che dovrebbe dare
grandemente a pensare. Non par egli mostrarci a dito che fino a
quest’epoca ultima, la mente ebraica, il pensiero umano si rimase
ozioso, supplito com’era da una potenza superiore che ispirandolo
a suo grado, gli risparmiava naturalmente quelle fasi, quelle
transizioni che lasciato a se stesso non può a meno di percorrere;
e che appena cessata questa azione straordinaria sul pensiero
ebraico, vale a dire al cominciamento dell’era rabbinica, la mente
ebraica si trovò a quel punto istesso in cui la mente pagana si sentì
all’esordire della sua civiltà, e cominciò allora soltanto a svolgersi
per tutte le fasi che le sono naturali? Noi non facciamo qui che
accennare una idea, la quale esigerebbe il massimo sviluppo, a cui
siamo certo preparati, ma che il luogo non comporta. Ciò valga
soltanto a spiegare la parola Mitologia di cui ci siamo valsi ad
indicate la Letteratura Agaditica del Talmud.

[52] Vi è in ambo i Talmud un frammento che sembra ostare alla


superiorità da noi attribuita ai meridionali, nella scienza
dell’Agadà, e quindi sopprimere uno dei punti di contatto che tra
gli Esseni abitatori di quelle regioni, e la scuola dei teosofi
cabbalisti, abbiam creduto ravvisare. Pure dopo breve esame
parvemi vedervi piuttosto ragione di confermarmi sempre più in
questo supposto. Ecco i due frammenti preziosi anche per altre
conclusioni che sarebbe ovvio inferirne, se qui ne fosse il luogo.
—Nel Babilonese si legge (Pesakim V. 62). R. Samlai presentossi
e R. Johanan dicendogli: Insegnarmi, ten prego, il libro delle
Genealogie. (Sefer Johassin). Risposegli: D’onde sei tu? da
Lydda. E ove dimori? In Neardeà. Non è lecito dunque (replicò)
insegnarlo, ne a quei di Lyddà, ne a quei di Neardeà. —E nel
Gerosolimitano al luogo istesso.—R. Samlai presentossi a R.
Jonatan dicendogli: Insegnami, ten prego, l’Agadà. Risposegli:
Ritengo per tradizione dei miei maggiori, di non insegnare
Agadà, nè a’ Babilonesi nè ai meridionali, perchè sono alteri, e
nella legge dappoco. Tacciamo di molte altre rivelantissime
considerazioni che il confronto dei due testi ne suggerisce;—della
equivalenza di Sefer Jokassin (Talmud Gerosolimitano) e
d’Agadà (Babilonese); di una non meno pronunciata avversione
pei Babilonesi che si riscontra nel Zohar; dell’ alterigia, ostacolo
all’insegnamento della Agadà; come la umiltà fu titolo e pregio
singolarissimo per penetrarne i segreti come più oltre vedremo;
della importanza che assume l’Agadà in ambo i frammenti; del
carattere tradizionale e antico di questa trasmissione a segno
d’avere ricevuto per tradizione le regole della trasmissione
medesima; del personaggio di R. Samlai—qui studiosissimo
dell’Agadà, e celebre nelle pagine del Zohar (76, 2.) come
maestro di penitenza, sotto il nome eloquentissimo di Asià,
medico o terapeuta;—della identità del Darom (mezzogiorno) del
Gerosolomitano con Lydda (Lud) del babilonese frequente
soggiorno dei teosofi nel Zohar, e d’altre per avventura non meno
importanti considerazioni. Domanderemo soltanto come
conciliare la scienza, la celebrità altrove vantata dei dottori
meridionali nelle dottrine dell’Agadà con questo rifiuto
d’insegnarliela, che sorprendiamo in bocca a R. Jokanan o
Jonatan? Specialmente ove si abbia occhio al motivo che di
questo rifiuto si narra—l’alterigia loro e la inferiorità nella
scienza religiosa. Ma la obbiezione si tramuta in prova, solo che
si attenda al comento di Rasci, il quale, non saprei dire troppo il
perchè, non vede nel motivo allegato al rifiuto che un pretesto, e
riduce per conseguenza la negata trasmissione a un giudizio poco
favorevole che dell’attitudine personale del richiedente, avrebbe
fatto R. Jokanan o Jonatan. Difatti si legge in Rasci— che non
ebbe di mira così dicendo che a respingerlo con un pretesto—o
meglio perchè Babilonesi e meridionali non hanno sicura
genealogia in Israel.—Ognun vede come nella prima alternativa
l’ostacolo è scomparso; ma non tutti veggono a prima giunta
come nella seconda sia trasformato in appoggio. Non si
comprende invero come Babilonesi e meridionali non hanno
sicura genealogia in Israel, dappoichè sappiamo che Essa non si
partì da Babilonia, finchè non la lasciò quasi farina schiettissima ;
come si esprime il Talmud e che il Darom o Lud era parte di
Palestina ove pare inconcepibile che vivessero uomini
interamente d’origine spuria o dubbiosa. Ma si comprende
benissimo ove in questi meridionali almeno si veggano i nostri
Esseni, discendenza, siccome più sopra vedemmo, dei Recabiti e
ramo gentile innestato in Israele, la gente aliena Benè Nekar di cui
parla Isaia. Può darsi dunque che dopo tanti secoli scorsi dai
Recabiti e dopo il continuo incorporarsi alla società loro di tanti
elementi israelitici, quelli che erano conosciuti per discendenti da
quei proseliti (che allor ve ne fosse lo sappiamo da R. Iosè, che è
detto nel Talmud apertamente della prole di Jonadab ben Rekab)
fossero tenuti in conto di meno degni di penetrare le dottrine
agaditiche.
Checchè ne sia, ci sia lecito prima di passare ad altri fatti di
osservare alcuni indizj che nel testo talmudico di Zebakim ove si
parla di Jeudà Ben Dostai, e di cui si fe’ parola nel testo, ci
conducono per altre vie alla società degli Esseni.—È il primo il
nome peculiare che il Talmud dà a questo Ieudà ed ai suoi, di
Parouscim farisei per eccellenza, nome che essendo comune a
tutti i dottori, e che da se stessi si dànno, non può essere inteso
che come una più onorifica designazione: quasi i più farisei tra i
farisei. Il secondo è il fatto che il comento di Rasci pone in luce
quando dice che Ieoudà e il figlio elessero stanza lungi da
Gerusalemme per non recarvisi nelle feste, nè sacrificare
l’agnello pasquale, nè gli altri sacrificj di Haghigá . Non par egli
porgerci la chiave di quel dato singolarissimo che ci somministra
Giuseppe intorno gli Esseni dicendoci che non entravano nel
tempio per sacrificarvi; e che tanto sembra opporsi alla
identificazione loro colla parte più eletta dei farisei? Avremmo
dunque nel fatto di Jeoudà ben Dostai la spiegazione di questo
astenersi, e in guisa l’avremmo da dissipare ogni nube che sembra
elevarsi sulla identità da noi propugnata. Non si dimentichi che
Jeoudà è più antico di Giuseppe, di quasi un secolo e mezzo.

[53] Poche linee più sopra, il gran maestro della Teosofia piange
di un pianto di gioja. Qui è il bacio che officia come segno di
fraterna approvazione. Ambo, a parer mio, indizj
significantissimi. L’uno e l’altro provano come questi farisei così
posti in mala voce per formalismo, per insensibilità, per ipocrisia,
fossero d’una sensibilità, così esquisita da prorompere
frequentissimamente in quelle dimostrazioni spontanee che ne
sono il più efficace argomento; e che d’altra parte tanto bene si
acconciano a quel Misticismo che noi vediamo nelle loro dottrine.
Chi scinde i dottori zoaristici, i mistici dai dottori talmudici, non
poco dee durare fatica a spiegare quella pronta, vivace, energica
estrinsecazione dei proprj affetti che negli uni come negli altri
apparisce ad ogni tratto.
Ma se la gioja, il pianto, il bacio fraterno, attestano
indistintamente qual cuore si avessero questi farisei calunniati,
l’ultimo specialmente, il bacio fraterno, ha una significazione
particolarissima in quanto accenna a quella filiazione di cui altre
volte toccammo del primitivo cristianesimo, e dei suoi più
eminenti rappresentanti, dalla famiglia dei mistici farisei e dei
teosofi, si appellino essi Esseni o Kabbalisti. Non è troppo il dire
che spesso più nelle piccole analogie che nelle grandi, più nelle
minute circostanze che nelle linee più prominenti, si vede la vera
affinità e derivazione dei sistemi; perciocchè le prime come più
particolari più urgentemente ne fanno fede che non le seconde,
siccome quelle che essendo più generali, è più agevole il supporne
la fortuita apparizione simultanea in varj sistemi. Così, a mo’
d’esempio, il bacio di cui è discorso. Chi conosce il Zoar sa che
non v’è cosa che vi torni più di frequente.
Ma ciò che più monta si è che negli altri monumenti rabbinici
come Misnà Talmud, ecc. o non vi si nota, o se tu ve lo scorgi,
egli è solo in quei casi in cui dei Misteri è parola .—Per esempio
della Mercabà o carro di Ezechiele (V. Talmud trat. Heghigà, 14).
Non è questo eloquente indizio che questa forma di approvare e di
salutare era peculiarissimo un genere di studj, a quelli cioè dove
ebbe culla il Dogma Cristiano? Che sarà se vedremo poi il bacio
fraterno apparire nei Vangeli e tra i fondatori della fede cristiana
come saluto consigliato e approvato? Salutatevi, dice Paolo, (Ep.
ai Rom. sub fine) gli uni gli altri con santo bacio.—E così I.
Corint. XVI, 20.—2ª Corint. XIII, 12.—1ª Tessal. V, 26.—I. Piet.
V, 14.—Nè mancò neppure chi lo avvertisse. «Dès l’origine de
l’Eglise la coutume s’introduisit parmi les Chrétiens dans leurs
Assemblées de se donner le baiser de paix. (Bergier. Diction. de
Theolog. III. 571.)» Forse non sarebbe erroneo aggiungere che
quest’uso fa fede d’un’antichità particolare di quel consorzio, se
si dee giudicare dagli esempi della nostra Europa, in cui non è
raro vedere il bacio essere il saluto per eccellenza e la forma di
esso più antica. Oggi pure in Inghilterra tanto è dire salutare che
baciare. «Sous le règne de Henri VII, quand les arrières grand’-
mères des douairières actuelles d’Angleterre saluaient un parent,
un ami, ou même un étranger, c’était en échangeant avec lui un
innocent baiser. Le mot salute est resté en anglais comme
synonime de Kiss ou de baiser.—Revue Britannique, Mars 1860,
p. 91.

[54] La mèsse è talmente abbondante, che non crediamo con


quanto fu detto averla esaurita. Plinio aveva detto (lib. V, VIII,)
degli Esseni, Gens socia Palmarum. Ora, oltre la residenza che
abbiamo veduto scelta dai Teosofi nella regione delle Palme, il
mezzogiorno di Palestina, non si dee tacere come nel Zoar ci si
offrano spesso que’ contemplativi a ragionare all’ombra dei
palmizj tuté diclé; che notarono la sessualità di quei vegetabili
non solo, ma di tutte le creature dell’universo in questi termini. R.
Eleazar e R. Hisà andavano per via, e vedendo due palmizi, l’uno
maschio l’altro femmina, disse R. Eleazar a R. Hisà: Certo,
tuttociò che vegeta sulla terra, è maschio e femmina non solo, ma
eziandio tuttociò che cresce in seno al mare. È noto come
Empedocle fosse il primo ad osservare la sessualità delle piante;
ed Empedocle presenta più di una analogia nelle sue dottrine in
generale coi teosofi nostri, sulle quali ameremmo fermarci, ma
che i limiti di quest’opera ci contendono. Diciamo solo come il
gran poeta e filosofo nostro Ben Gabirol, conosciuto e citato da
tutto il Medio Evo sotto il nome di Avicebron, come con
grandissima sodisfazione dei dotti, avvertiva l’illustre sig. Munh
di Parigi, è reputato dal suo abbreviatore e traduttore Ben Falakira
seguace fra tutti gli antichi a preferenza di Empedocle. E ciò torna
tanto più verosimile in quanto sappiamo per confessione dei
critici stessi più indipendenti, che tra Ben Gabirol e la Dottrina
Cabbalistica o teosofia corrono numerosissime affinità a tal punto
che fu creduto il primo modello e la seconda la copia. Ma ciò non
toglie che questa particolare conformità del Zoar alle teorie
botaniche di Empedocle, non abbia il suo valore. Quanto ai
Dottori Essoterici abbiamo già avuto luogo di vedere nel raffronto
da noi istituito tra le loro dottrine e quelle deposte nel libro di
Filone de vita Mosys come della intima struttura delle Palme
favellassero come favella la scienza odierna. È inoltre narrato nel
Medras Rabbà, il fatto di due Palmizj che divennero fecondi
quando ogni ostacolo fu rimosso che li divideva, lo che consuona
mirabilmente con quanto narra il Verati, vol IV, p. 268. «È
veramente degno di attenzione, scrive il Prof. Gaetano Savj, ciò
che si racconta della Palma maschio di Brindisi e della Palma
femmina di Otranto. Questa da lungo tempo pareva ed era sterile,
ma allorquando ambedue furono cresciute a segno che gli spadui
si trovassero al di sopra degli ostacoli che si frapponevano alla
diretta comunicazione fra loro, la femmina abbonì dei frutti.»
Abbiamo nel testo veduto gli oratorj posti in mezzo ai campi.
Là pure si studiava e s’insegnava ai discepoli. E nulla vi ha di più
frequente non solo nel Zoar, ma nei libri essoterici non meno, che
i Dottori meditanti o insegnanti ai discepoli all’ombra di un
palmizio o di un fico. E molto sarei inclinato a credere che da
questo uso derivarono le similitudini tolte dalla vita dei campi a
significare la scienza sacra, le sue parti, e i suoi cultori. Forse
anche altre allusioni si annodano nel nome Pardes, giardino, dato
alla Teologia arcana, ma è probabilissimo che tanto esso quanto
l’idea correlativa di guastare o sbarbicare le piante per indicare la
introduzione d’errori, o la negazione di alcune verità, non
d’altronde abbiano presa occasione a così dirsi. Non è da questo
diverso il nome di Cherem (Vigna) dato alle scuole, ed alle
accademie. Se pure non vogliasi vedervi una Vigna vera e propria
ove si studiava, lo che non pare affatto inverosimile, egli è certo
però che la interpretazione che si dà a questo nome, (antichissima,
a dir il vero, perché origina dal Talmud Gerosolomitano) e che
significherebbe un luogo distribuito e diviso a guisa di Vigna, non
è molto atta a sodisfare la buona critica. Non sarebbe piuttosto
una derivazione o una reminiscenza della situazione delle scuole e
delle accademie in mezzo a campi ed a vigne? Nè la similitudine
quietò in questa idea generale, ma scese analiticamente a
distinguere parte a parte i prodotti delle vigne e dei campi, ed a
designare col nome di ognuna di esse, una delle parti più cospicue
della scienza religiosa. Così il fiore della vite adombra la bibbia.
—L’agresto la Misnà.—Il melogranato il Talmud (Irubim, Cap.
II, V, ivi Moarscià che connette questa similitudine coll’altra
generica della Vigna.) E altrove il grano Dagan significò l’Alakà,
il Rito la legge, e il vino Tiros l’Agadà (si noti come Agadà a
senso nostro sia la veste leggendaria della Teosofia; e come la
Dottrina evangelica che non fu in origine che una Teosofia
propalata prenda il nome nei vangeli stessi di Vino): Infine l’uomo
pieno di scienza varia fu detto Escol Grappo (Sotà sub fine), come
l’indotto, il volgo fu chiamato col nome di pampani che valgono a
conservare e difendere i grappoli (ibhun rahamé aalaia
deitcaiemùn atcalajà.) E per quanto valenti critici come il
Rapoport vogliano vedere negli Aschelot (Sotà ibid) una
corruzione o ebraizzamento di scuole, pure, tutto considerato, non
si può a meno di conservare a questa locuzione, almeno come
senso fondamentale e primitivo, quello proprio di Grappolo.

[55] Questa locuzione è comunissima nei due Talmud, e in


generale nell’antica Biblioteca Rabbinica. Egli è da quest’uso che
Gesù apprese a dire a proposito di Lazzaro morto, Lazzaro nostro
amico dorme. (Gio. XI, 11). Ma ciò che torna incomprensibile
egli è che uomini israeliti com’erano i discepoli, abbiano potuto
fraintendere, e capire vero e proprio sonno, replicando: Se egli
dorme sarà salvo (anche così dicendo si mostrano seguaci della
terapeutica talmudica). Questo equivoco non troppo naturale in
uomini che ascoltavano tuttodì dormire per morire e che
dovevano in quest’ultimo senso tanto più interpretarlo, essendo
Gesù a quell’ora troppo da Lazzaro lontano, per saperne tutte le
più minute vicende (la morte siccome cosa troppo più importante
poteva da essi presumersi conosciuta per chiaroveggenza
profetica), farebbe credere che ei fu soltanto appo lo scrittore del
quarto Evangelo, siccome dai tempi alieno e dai luoghi ch’ebbe
nascimento, e ch’egli per induzione analogica pose a carico dei
discepoli.

[56] Questo avveniva nella festa dei Tabernacoli, ed era in quei


giorni che ricorreva la straordinaria esultanza ove, dice la
tradizione, prendevano parte quasi esclusiva i Hasidim (nome a
senso nostro più antico degli Esseni) ed i Pratici come fra poco
vedremo; lo che ci riconduce per altra via, alla predilezione degli
Esseni per le acque. Il Talmud dice apertamente che si nomava
festa della Scioabà perchè di là attingevano (Scioabim) lo Spirito
Santo, siccome è scritto: Attingerete acqua con esultanza dalle
fonti della salute; e questo fatto come queste parole stringono in
un sol fascio. Hasidim antica appellazione degli Esseni, la
libazione delle acque; e la ispirazione onde furono celebrati gli
Esseni, unione sopra ogni altra eloquentissima. Non taceremo
come questa festa e questo Testo Rabbinico spargano gran luce
sopra un passo del quarto Evangelo. (Cap. VI, V. 37.) Or
nell’ultimo giorno, che era il gran giorno della festa (dal V. 2
apparisce che questa festa era quella dei Tabernacoli) Gesù
stando in piè gridò dicendo: se alcuno ha sete, venga da me e
bea. V. 38. Chi crede in me, siccome ha detto la Scrittura, dal suo
ventre coleranno fiumi d’acqua viva. V. 30. Or egli disse questo
dello Spirito il quale riceverebbero coloro che credono in lui.
1º Si noti la qualificazione di grande data all’ultimo giorno dei
Tabernacoli, appunto come i Dottori lo chiamano il giorno del
grande Osanna. Ma questo titolo ha un valore speciale in bocca a
Gesù, perciocchè prova come non siamo andati errati in una
Scrittura Ebraica, diretta a confutare le idee del Signor professore
Luzzatto, quando asserimmo che il carattere penitenziale e
solenne di questo giorno risale a tempi antichissimi. Fra gli altri
cenni, questo dei Vangeli non è l’ultimo, mostrando Gesù, che
invita in quel giorno a convertirsi alla sua fede, e chiamandolo
GRAN GIORNO appunto come il Talmud Gerosolimitano chiamato
GIORNO per eccellenza, e lo pone al fianco del Capo d’Anno (vedi
mia opera citata). Non è da trascurarsi neppure come il gran
giorno dei Vangeli per l’ultimo dei Tabernacoli, abbia non poca
analogia col nome gran digiuno Zomà Rabbà dato dal Talmud al
10 di Tisri.
2º Gesù dice Se alcuno ha sete, venga a me e bea . Come non
vedere in queste parole un’allusione, vuoi alle acque che si
pregavano in quei giorni copiose per tutto l’anno, vuoi alla
libazione delle acque nel Tempio che non si faceva mai, tranne
quei giorni istessi? E si noti che Gesù proclama questo nel Tempio
(V. Giov. VII, verso 14-28), ove questo rito si celebrava, e si
mostra per ciò stesso fedele a quella trasformazione ch’egli
mirava a operare nel culto ebraico sostituendo sè stesso al
Tempio, e appunto chiamando sè medesimo col nome di Tempio,
tanto quando promette distruggere e rifabbricare il Tempio in tre
giorni, quanto allora che per giustificare i discepoli che
profanavano il sabato, cita l’esempio dei Sacerdoti che
eseguivano ogni illecita opera nel Tempio, e aggiunge: « Ora io vi
dico in verità che vi è qui qualcuno maggiore del Tempio. » Gesù
trasporta dunque nel senso figurato delle sue proprie dottrine il
rito materiale che allora si celebrava, e neppure così facendo si
dilunga dalle dottrine farisaiche, conciossiachè siano esse appunto
che hanno detto «chiamarsi quella festa Scioabà perchè vi si
attingeva lo Spirito Santo.» Ecco il senso metafisico innestato sul
rito delle libazioni. E qual è il verso che s’invoca dai Dottori a
sostegno? Quello appunto che dà Gesù. È vero che verso come
quello da Gesù rammentato, non si trova affatto nella sua
giacitura in tutta la Bibbia, ma è innegabile del pari che il verso a
cui si mira (per qualsiasi ragione alterato) è quel che si legge in
Isaja XII, V. 3 (non X, 4 come vuole Diodati) vale a dire
attingerete acqua con esultanza dalle fonti della salute , che
diventa in bocca a Gesù, dal suo ventre coleranno fiumi d’acqua
viva. A spiegare la quale differenza, basta osservare che Gesù
applica a sè stesso, ciò che il profeta intende per la salute politica
e la morale, e i Dottori per la ispirazione. Quindi è che le frasi
ebraiche prestandosi mirabilmente a tal metamorfosi—le fonti
(Mahianè) da cui si attingerà l’acqua divengono—il Ventre del
Messia—dicendosi in ebraico per ventre Mehé per fonte Mahian
—ed anche Mahiane;—e la salute Jesciuha è sostituita dal
sottinteso Messia Gesù—chiamato Jeosciua che suona
all’orecchio come all’intelligenza, quanto Jeseuha (Salute).
L’imagine poi di ventre ricettacolo di dottrina, se suonerebbe
impropria nelle nostre lingue, che per la scienza progredita
esprimono più esattamente la situazione d’ogni viscere, è per
contro comune e approvata nel biblico e nel rabbinico idioma,
dicendosi nel primo: la tua legge nel mio ventre. (Salm.)
Vetorateha betoh meai e nel rabbinico: Gioisci, o mio ventre, per
dire vo superbo di aver raggiunto la verità.—Questa
trasformazione torna tanto più accettabile, ove si riduca a
memoria quanto più sopra dicemmo, dell’intendimento a cui
mirava Gesù di sostituire o anteporre Sè stesso, le sue dottrine e la
sua autorità al Tempio. Ma sopratutto torna qui opportuno notare,
come la teosofia cabbalistica, che a senso nostro forma il fondo
delle dottrine degli Esseni, e del primitivo cristianesimo, chiami
fonte o pozzo di acqua viva Beer maim haim non solo il Tempio
di Gerusalemme, (V. Naemanide e com. al Pent. Sig. Vojerà) ma il
suo prototipo, emanatistico—la Sefirà chiamata Regno Malhut e
Tempio che è nella serie delle emanazioni—il principio della
incarnazione, la umanazione del Verbo o Logo (Tilheret) lo che
spiega come Gesù Avatara, chiami sè stesso Tempio, e a sè stesso
arroghi l’epiteto di fonte o pozzo d’acqua viva. Si vegga anche
nello stesso Vangelo di Giovanni, il colloquio di Gesù colla
Samaritana e le parole significantissime che Ei vi pronunzia.
Soprattutto non si dimentichi che lì come qui, è Gesù che
proclama sè vera sorgente salutare, vera acqua, vero pozzo
capace di dissetare. Nella scena del Tempio, come in quella del
pozzo colla donna Samaritana, non saria possibile disconoscere le
allusioni ai fatti, e alle dottrine dell’Ebraismo, e l’influenza mitica
apparisce qua e colà evidente. Nel Tempio non solo, come
dicemmo, Gesù ha di mira la ispirazione che in quei giorni
reputavasi diffondersi sulle menti a guisa delle acque, che allora
appunto l’unica volta in tutto l’anno si spargevano appo
dell’altare; ma non si può negare nemmeno che qualche allusione
non voglia egli fare eziandio al pozzo, su cui posava l’altare e di
cui toccammo nel Testo. Nel colloquio colla Samaritana al pozzo,
il Mito non è a parer mio meno sensibile. Chi ne voglia diffusa
dimostrazione la troverà nel mio Essai sur l’origine des dogmes
et de la morale du christianisme (Manoscritto premiato nel
concorso dell’Alliance israélite universelle di Parigi). Solo ci
piace qui di aggiungere, come la donna Samaritana si dica avere
avuto sette mariti, numero e circostanza di conto indubitatamente
cabbalistico, onde il principio d’Incarnazione, il Regno chiamato
anche Pozzo, si dice il principio femminile di tutte le Sètte
superiori emanazioni, e perciò stesso chiamata ora figlia dei Sette
Bat Sebah, ora l’ottava (Sceminit. Esmun egizio). Quanto al
pozzo, un autore che se ne intendeva appartenendo egli alla
Società dei liberi muratori, così s’esprime «Les puits étaient des
emblèmes communs à toutes les initiations. Dans tous les temples
égyptiens où on initiait, il y avait le puits où descendait le
néophyte.... La Maçonnerie considérée comme le résultat ec. per
R. D. S. vol. 2. p. 65.» La esistenza dei segni dell’esoterismo e
della iniziazione nel Tempio di Gerusalemme, malgrado le
apparenze contrarie, dovrebbe ammonirci come sia verissimo ciò
che altrove dicemmo, cioè che la sola differenza tra il metodo
pagano e l’ebraico in ciò consiste, che il primo pose l’esoterismo
e il mistero nella teologia e la divulgazione nella mitologia,
mentre il secondo fa patrimonio comune della teologia e pone il
mistero nella mitologia, siccome quella che serve d’ involucro non
alla sostanza ma alla scienza dei Dogmi. Per modo che si può dire
che il paganesimo non è che un ebraismo a rovescio.

[57] Alle cose esposte nel Testo vogliamo aggiungere come della
sorgente che era nel Tempio ragioni eziandio Aristea nei
frammenti riportati da Eusebio. (Prep. evang. ed Paris, vol. 2, pag.
51) Cette eau (che terge il sangue delle vittime) provient d’une
source placée dans l’intérieur: source intarissable et abondante
ec.; come i Dottori eziandio predilegevano le Rive come sede atta
ai buoni studi, leggendosi nel Talmud Oraiot 3: quando leggete o
meditate, fatelo, presso ai fiumi; così, in quella guisa che
scorrono le acque, scorreranno pure le vostre cognizioni ; e
finalmente come questa simpatia e quest’uso condusse i primi
cristiani a prediligere essi pure le rive, di cui non vogliamo citare
qui che un solo esempio. E nel giorno del Sabato (si legge negli
Atti, cap. XVI, V. 13) andammo fuor della città presso del fiume
dove SOLEVA ESSERE IL LUOGO DELL’ORAZIONE, e postici a sedere,
parlavamo alle donne quivi raunate. Una lettura del Vangelo
mostrerà come quest’amor delle rive risalga sino allo stesso
fondatore del Cristianesimo, il quale tolto lo ebbe senza meno alla
Scuola Essenico-farisaica a cui appartenne.
[58] Queste cose andavamo tra noi stessi conghietturando privi,
come siamo, del gran sussidio della letteratura germanica, quando
la sorte ci fe’ imbattere in un illustre ausiliare, dell’amicizia del
quale ci onoriamo, ed è il sig. Jost nella Storia del Giudaismo e
delle sue sètte. Ecco la traduzione delle sue parole recate in
idioma francese: «Les Esséniens n’observaient pas si
rigoureusement les scrupules rabbiniques sur la transcription de la
loi orale, et les Meghillat Setarim mentionnés dans le Talmud ont
été écrits par des Esséniens.» Il Redattore dell’Univers israélite,
che riproduce queste parole, a torto aggiunge: «Nous ne
connaissons quant à nous que les Meghillat Setarim de R. Hija:»
dico a torto, perché altre pure ve ne sono, e la nostra del Talmud
Gerosolimitano è tra queste. Che si tratti poi di volumi scritti e
non di libro ed opera, lo attesta il verbo Catub che nel citarli si
adopera, come il nome di Meghillà indicante invariabilmente
volume e non opera, come saviamente avvertiva giù Rasci sul
Talmud (Irrubin).
Come astenerci dal rammentare altro autorevolissimo erudito
tedesco (specialmente in tutto che tende a favorire l’antichità della
teosofia ebraica, alla quale si protessa avverso), ed è lo Zünz di
Berlino il quale così esprimesi, Cap. VII.: Altra opera
pregerolissima andò perduta la quale ragionava di Morale e di
Civiltà (Dereh Erez): è chiamata talvolta Meghillat Setarim vale a
dire libro in cui si ragiona di misteri; tal altra Meghillat Hasidim,
il libro dei Hasidim. Quindi apparisce come questa opera non di
leggi rituali soltanto favellasse, secondo che altri pensò, ma più e
meglio di Morale e di Dottrina; e tanto significa il nome che reca,
e quello eziandio che per entro vi è contenuto. Due punti pertanto
emergono dall’opinione del Zünz 1º Che Meghillat Setarim e
Meghillat Hasidim non sono due opere, ma una soltanto; 2º Che
reca il nome di Setarim pei misteri ch’ella conteneva. L’autore del
Rabia ed. Ofen, 1837, benché di gran lunga più ortodosso del
Zünz, non consente nelle conclusioni rammentate, e crede che lo
Zünz siasi indotto a credere alla identità delle due opere pel fatto
che il Ialcut Simeoni, pag. 73. 2, chiama Meghillat Setarim ciò
che altre opere (Talmud Gerosolimitano e Sifré) chiamano
Meghillat Hasidim. È lecito credere però che non solo questo sia
il motivo che della identità fece persuaso lo Zünz; sibbene ancora
l’intima convenienza di libri misteriosi ai Hasidim noti nella
storia come proavi degli Esseni, come accennammo e
accenneremo più volte. Ma il nome di Meghillat Setarim significa
veramente libro de’ misteri, come vuole lo Zünz, o piuttosto libro
apocrifo (naseoso), come pare intendere Rasci ed altri, e come
oppone il Rabia? Noi inclineremmo a credere come il primo, per
certe analogie rabbiniche che lo persuadono. Difatti Meghillat
Setarim ha la stessa forma che Bet Assetarim. Ora è indubitato
che quest’ultimo lungi da significare il luogo riposto, suona
invece il luogo ove stanno le parti riposte; così Meghillat Taanit,
significa il libro ove sono descritti i digiuni, e non il libro digiuno.
—Meghillat Joasin suona il libro che contiene le Genealogie e
non il libro Genealogico,—Meghillat Sammamanim vuol dire il
libro ove sono descritti i profumi e gli aromi , e non il libro
profumato.—Meghillat Kinot, il libro che contiene le elegie e non
il libro elegiaco. Non si vuol dire con questo che il Meghillat
Setarim non fosse libro riposto oltre il contenere dottrine riposte,
che ansi il primo fatto è conseguenza del secondo; nè si vuol
negare che contenesse anche disposizioni rituali, ma non si deve
nè si può concludere, come fa il Rabia, dal fatto che non sono
citate che queste nel Talmud, che altro non vi si contenesse, stante
che il supposto da cui si muove, cioè il carattere misterioso delle
altre dottrine, impediva che queste pure si citassero. Inoltre vi
sono certi caratteri persistenti in tutte le citazioni che del
Meghillat Setarim si fa nel Talmud, che formano a parer mio
grave indizio della sua parentela Essenico-cabbalistica. Basti
osservare: 1º Che nei tre luoghi onde di essa è menzione nel
Talmud (Sciabbat p. 6, 2, e 96. 2 Mezia 92, 1) egli è sempre Rab
o R. Abba, che dice averla letta e ne riferisce i dettati; ed è sempre
presso R. Hija ch’ella fu trovata. Ora Rab e R. Hija sono due
personaggi eminentemente teosofici, l’uno come redattore
presunto da Zoar di parte di esso, l’altro come uno del soci
(Haberim) e interlocutorio. 2º Il Mazati (trovai) onde si vale
invariabilmente Rab nel riferirne il contenuto, tanto poco
conviene ad una raccolta di ricordi rituali che dovevano essere
frequentissimi e molto letti e studiati, quanto bene si acconcia a
libri e dottrine per loro indole misteriose. Altrettanto si dica del
Vecatub ba (Ed era in quello scritto) locuzione che torna nel
Talmud solo allora che si tratta di libri esoterici come il libro di
Balaamo (Sanhedrim XI), e quando la citazione non è
consentanea al subbietto generale dell’opera. Lo stesso Isi ben
Ieuda le cui parole si citano registrate in quel volume: vi è grave
ragione di credere che sotto uno dei sette nomi che reca in
Pesahim (113, 2) appartenga agli studiosi dell’ Agadà, vale a dire
della scienza esoterica.

[59] I dottori Talmudici, se quando ripetono le ricevute tradizioni


sono Autorità religiosa nell’Ebraismo, non così quando spiegano,
e sono allora discutibili come qualunque altro dottore. Ciò
intesero ab antico i più antichi loro successori, i quali spinsero
soventi volte l’ardimento sino ad interpetrare il testo misnico
diversamente da ciò che fecero i Talmudisti, lo che è bene
altrimenti grave che non il trovare inesatta la spiegazione di un
fatto per loro stessi remoto, e del quale non era imposto loro il
ricordo quai maestri di religione. Di questa e maggior libertà
usarono anche largamente i moderni, comecchè in fama di
Ortodossi quale il Rapoport nel suo Ereh Millim altra volta citato.
Quanto all’orazione protratta e quasi continua che nel Talmud
si attribuisce ai Hasidim, non è a tacersi un curioso raffronto che
ci porge la storia delle Eresie. S. Epifanio rammenta due ordini di
Messaliti, nome notoriamente derivato dall’Arameo Zalla o Zalle
pregare (V. Bergier Dict. de Theologie vol. 3º p. 246), i quali
s’imponevano la preghiera continua, che credevano adempisse le
veci di ogni altro dovere. Non è difficile ravvisare nel più antico
di questi due ordini le fattezze dei nostri Hasidim, coi quali se non
s’identifica assolutamente, pare senza meno un ramo Cristiano del
più antico ceppo Ebraico. È vero che S. Epifanio dice di questo
più antico ordine nè Cristiano essere, nè Ebreo, nè Samaritano;
ma si rifletta alla distanza di luogo e di tempo che divideva
Epifanio dai nostri Hasidim, alla vita eccezionale e in tante parti
discordante dalla comune Ebraica che menavano i nostri Hasidim,
o Messaliti, e chiaro si vedrà come l’asserzione di Epifanio non ci
toglie la pensata affinità tra i suoi Messaliti ed i Hasidim del
Talmud; onde non è da redarguirsi Scaligero se negli stessi eretici
vede una frazione degli Esseni. (V. Bergier, Ibid.)
A costo poi di precorrere in parte le cose che saremo per dire,
il testo talmudico, onde qui si ragiona, ci mena irresistibilmente,
per l’affinità delle idee che qua e colà si acchiudono, a far
menzione sino da ora di parecchi e preziosi testi antichissimi
riferiti nel Talmud, ove sotto un altro nome eloquentissimo si
allude, a creder mio, alla società degli Esseni; e che sono da porsi
fra quelle tante memorie che debbonsi oggi restituire alla storia
degli Esseni contro la divulgata sentenza che l’Enciclopedia
rabbinica dei primi secoli non rechi della società degli Esseni niun
vestigio. Questo nome che offre invariabilmente l’idea comune e
in sommo grado rilevante di Società, di Sodalizio assume non
dimeno tre forme: differenza che a senso mio ad una sola cagione
debbesi ascrivere, alla diversa origine e stile dei testi che ne fanno
menzione. Queste tre turme sono: 1º Cheillà Caddescià di
beruslem (Santa Società ch’è in Gerusalemme); 2ª Edà Chedoscià
(Santa Società); 3ª Bene Akeneset (figli della Società).
Incominciamo per dire (e per quanto negativo, ci sembra fatto di
gran calibro) che le interpretazioni date sinora o sono vaghe o mal
sicure; che p. e. per la Keillà Caddiscià mentre il Talmud
Gerosolimitano (Mahaser Sceni, cap. 2º) intende due soli dottori
ivi nominati (interpretazione, come ognun vede, tutt’altro che
seria o verosimile), il Talmud Babilonico ci pone nella
impossibilità di sottoscrivervi porgendoci non pochi esempi in cui
la stessa Santa Società (Keillà Kaddiscià) si distingue
evidentemente da uno almeno de’ due Dottori, onde a detta dello
altro Talmud è composta, a segno di figurare al suo fianco come
indipendente e distinta (Vedi Talmud Bezà e Iohasin Lettera Iod al
nome Iose ben Mescuillam). Che per la Edà Chedoscià (Santa
Società) il suo nome si legge nel Medras koelet, ove, oltre altre
preziose indicazioni che proveremo fra poco convenientissime ai
nostri Esseni, si domanda: E perchè si chiamano Santa Società?
Dopo queste parole occorrono due varie lezioni. La prima è quella
del Lessico Aruh (alla parola Kaal) ove si risponde e perchè
dividevano in tre parti la loro giornata, la prima dedicavano alla
preghiera, la seconda allo studio, la terza al lavoro, altri dicono
perchè studiavano nell’inverno e lavoravano nella state.» L’altra
versione legge dopo la domanda ricordata: Perchè sono R. Iose
ben Mesciullam e R. Simon ben Manasia i quali tripartivano la
loro giornata ec. L’autore dell’Aruh non ha i nomi proprj
rammentati, e niun dubbio che la sua lezione sia da preferirsi non
essendo luogo a rammentare chi fossero, dopo aver domandato
perchè si nomassero Santa Società. Checchè ne sia, abbiamo qui
un motivo del nome loro che mirabilmente si addice al nostro
Istituto del quale sappiamo come la preghiera, lo studio ed il
lavoro dividesse tutto il loro tempo, come più oltre vedremo. Si
avverta però che mentre queste indicazioni si attagliano agli
Esseni, non è possibile convenire col Medras Koclet che per ciò
solo prendessero il nome di Santi, non essendovi in questo tenore
di vita niun carattere che meriti il nome di Santo per eccellenza, e
che non sia comune ad altra maniera di dottori. Infine il terzo
nome ch’è quello Bene Akeneset ricorre come abbiamo detto nella
misna Zabim 3, p. 2. E qui ancora, siccome quello che suona
straordinario ed eccezionale, non solo creò interpretazioni
disparate, ma diè luogo a differenti versioni. Così il Maimonide
nel Comento legge Bet Akenesset il Tempio; ma chi legga
attentamente il testo di leggieri s’accorgerà come il senso venga
da questa interpretazione forzato, non essendovi memoria che i
lebbrosi e gli affetti di gonorrea avessero luoghi apportati nei
tempj. Assai meglio però l’altro comento di R. Simson che legge
come noi Bene Akenesset e intende oheli hulleen betaará vale a
dire coloro che non si cibavano che di cose pure, alieni da ogni
immondo contatto; lo che da una parte identifica i Bene Akenesset
con altro ordine e nome molto più comune nel Talmud, quello di
Haberim o Socj che avremo luogo di ripetutamente citare in
questa storia, i quali appunto questo tenore di vita conducevano, e
dall’altra porge la mano ad un preziosissimo passo del Talmud
Gerosolimitano ove un Asseo (Asia) possessore e insegnatore di
nomi divini misteriosi si dice cibarsi di Maaser.
[60] Possiamo ragionevolmente esitare a riconoscere sotto questi
varj nomi la società degli Esseni? La loro convenienza non
potrebbe essere più manifesta. Il nome di Keillà Caddiscià, Santa
Società, che fra gli altri luoghi si legge nel Talmud di Ioma 69, 1,
reca tutti gli elementi necessarj a costituire il nome vero e proprio
dei nostri Esseni. Chi ha sentore dello stile misnico e talmudico
non può non fermarsi al nome di Keillà, unico, meglio che raro,
per designare una Società qualunque, e che nel nostro caso tanto
per la sua anormalità, come per la identità costante dei suoi
supposti componenti, accenna meglio ad un consorzio regolare ed
organico, che ad un adunamento precario e accidentale. Quanto
poi eloquente l’epiteto di santo che in tutte le lingue sta ad
indicare una perfezione religiosa, superlativa, e che nell’Ebraico è
l’equivalente dell’Arameo Faruscim, Farisei. Potremmo d’altra
parte tacere che il più antico nome onde si distinsero i Cristiani,
propaggine secondo noi dell’antico Essenato, fu appunto quello di
Santi come sovrabbondantemente attestano Vangeli ed Epistole ad
ogni tratto? Nè recar deve fastidio la indicazione topografica di
Biruslem in Gerusalemme, poichè se è indubitato che gli Esseni
ponessero stanza sulle rive del Giordano sappiamo non meno di
certa scienza, come Gerusalemme ne ospitasse parecchi
specialmente dei Pratici. Che anzi, a parer mio, tale indicazione
lungi dal dilungarci dall’Essenato, più e più ce ne avvicina, non
potendosi comprendere come in un’epoca qual è quella in cui si
fanno le citazioni in discorso, in cui Gerusalemme avea cessato di
essere sede della autorità Rabbinica sottentrandogli in questo
ufficio or Tiberiade ed ora altra città di Palestina, venga indicata
costantemente Gerusalemme qual centro della Santa Società, se
questa non si distinguesse spiccatamente dalla comune scuola dei
Farisei, e non fosse per natura più aderente ai luoghi antichi,
meno nomade di quello che erano le grandi individualità, ma pur
non altro che individualità del comune Farisato.—Il secondo
nome di Edà Keduscià, Santa Società offre lo stesso senso e torna
egualmente a capello ai nostri Esseni. Più curioso e più nuovo è
quello di Benè Aheneset, gli uomini della Società, abbandonato,
se non erro, sinora in un canto nell’oscuro e negletto trattato
Misnico di Zabim cap. 3º e che non meno si acconcia al nostro
consorzio come evidentemente si ricusa ad ogni altra
interpretazione, come più sopra accennammo.
Che se i nomi suonano in sommo grado espressivi al nostro
uopo, ciò che più monta però, e che non mi è dato qui che in parte
lambire, si è una indagine delle dottrine che in nome di questa
Keillà Kaddiscià, o Edà Caddiscià o Benè Akeneset si recano in
mezzo negli antichi libri Rabbinici onde si vegga sino a qual
segno queste dottrine o idee si attaglino alla persona degli Esseni.
Il secondo di questi nomi figura nel Medrasc Koelet; e ciò che
merita di avvertire si è che qui come in Ioma, pag. 69, 1, Bezà, p.
27, egli è Giuda il santo, il Redattore della Misnà che riferisce la
loro dottrina, lo che prova la grande loro autorità ed antichità ed
insieme la identità della Keillà Kaddiscià del Talmud colla Edà
Chedoscià del Medrasc; e che tanto in Rosc Ascianà 19, 1, quanto
in Iomà (loc. cit.) egli è R. Ieosanah Ben Levi il personaggio più
Cabbalistico e misterioso di tutto il Talmud, che è l’ultimo
depositario delle loro tradizioni insieme a R. Simon Ben Pazl,
altro dottore il cui nome e la cui storia sono celebri nelle pagine
del Zoar. In due luoghi poi (Berahot, cap. I Rosc Ascianà, 19, 1.)
ricorre la forma autorevole ed antica ehid, attestò, che non si usa
se non quando è riferibile ad antichi personaggi. Non sono
nemmeno da pretermettersi le dottrine che in nome loro si recano
in mezzo.—Il lavoro raccomandato insieme allo studio, e la vita
loro stessa porta ad esempio (Medras Koelet) il nome di sposa che
ivi reca la legge, e sopratutto le decisioni attenenti al Calendario e
ai computi Astronomici (Rosc Ascianà, 19, 2.) che non vanno mai
disgiunti nei libri Talmudici dalla scienza Acroamatica, che ne
hanno tutta la riserva e il mistero e che per ciò stesso sono detti
pur essi (Sod) Mistero.

[61] Ei fu sempre e dovunque proprietà inseparabile dal


Misticismo, la incuria e il dispregio delle pratiche. Il Talmud
rivelandoci in seno ai Farisei una scuola che ad ogni pratica si
credeva ed era stimata superiore, ci attesta per ciò stesso la
presenza del Misticismo, non potendosi mai credere che se altri
studj non si conoscessero tra essi se non quelli che il Talmud
acchiude in seno, e che si riferiscono unicamente alla pratica,
tanta fosse la stima che se ne faceva da anteporli alla pratica
stessa, il mezzo non potendosi mai qualificare superiore allo
scopo al quale conduce. Nonostante se il fenomeno comune ad
ogni misticismo si verificò pure nel misticismo Palestinese, come
vediamo, saria ingiusto disdirgli un’indole al tutto diversa da
quella prevalsa in altre parti di Oriente. Mentre in queste era la
contemplazione oziosa talvolta ridicola, la inerzia delle facoltà
mentali, o come con più nobile nome si chiama la estasi, la quale
era il sommo grado della perfezione perché conducente
all’assorbimento in Dio, o Nirvana; in Palestina invece era lo
Studio, la Scienza, la speculazione attiva, il moto mentale, il
discorso nel suo doppio senso, l’Alaha in una parola, sia che si
riferisse alla pratica, sia che alle dottrine, la quale sola aveva virtù
di dispensare, quando diveniva Abito permanente, dalla pratica
dei doveri religiosi specialmente ove avea per obbietto
l’acromatismo, la parte più nobile dei sacri studj. Non potrebbesi
mai abbastanza insistere sulla presenza di questi fatti e queste
dottrine in Palestina nel secolo che il Cristianesimo cominciò ad
operare il suo distacco dal centro Ebraico, proclamando prima con
Gesù e poi con Paolo la inutilità della legge e delle opere. Più
bello, indizio non potrebbe darsi di quella verità perpetuamente da
noi dimostrata nell’Essai sur l’origine des Dogmes et de la
Morale du Christianisme (premiato nel concorso dell’Alliance
Israélite 1863), vale a dire che non d’altronde originarono le
dottrine cristiane se non dal centro Essenico-Cabbalistico ove il
Cristianesimo imparò di buon’ora ad anteporre la scienza
teosofica alla pratica dei precetti, la quale scienza ei propose
all’universale sotto il nome di Fede ( Pistis), agli eletti, sotto
quello di Gnosis come superiore e dispensatrice di ogni dovere, e
costituendo così, mercè la divulgazione dei dogmi riposti, tutto il
mondo Ebraico e gentile in quello stato di perfezione peculiare ed
anormale in cui l’Esseno-Kabbalismo poneva pochissimi eletti. Se
qualche cosa ci sembra dimostrato, nelle tenebre delle origini
Cristiane, questo transito ora accennato ne pare dimostratissimo, e
lo stimiamo chiave unica capace di aprirci il senso di quella
rivoluzione che scisse il Cristianesimo primitivo dalla Ebraica
ortodossia. Basti per ora questo cenno del vasto e nobilissimo
subbietto.

[62] Nome di origine persiana che i Greci adottarono, tipo del


nostro Paradiso e che fa parte della lingua Biblica e Rabbinica. In
questa ultima sta sovente a indicare la scienza o teologia
recondita, e genera una sequela di metafore secondarie come ad
esempio lo strappare le piante ecc. Facendo la scienza sinonimia
di Paradiso, i dottori identificarono in guisa mirabile la
beatitudine e la contemplazione, e furono in ciò imitatori e
seguaci di Mosè che nel suo Paradiso pose la scienza, con tutti i
suoi pericoli e con tutti i suoi diletti. Forse non si andrebbe lungi
dal vero dicendo che il Paradiso Mosaico porse ai dottori la prima
idea del loro Pardes, che vale quanto il Gan o Ganeden della
Genesi.
Sarebb’egli possibile disconoscere nei vangeli la traccia
dell’antico essenico costume, quando Gesù volendo col suo
esempio mostrare come i maggiori debbano farsi servi ai minori,
lava egli stesso i piedi ai discepoli, primo atto a cui procede
l’ospite innanzi di sedere a mensa? A noi pare vedervi una
reminiscenza della scuola Essenica in cui il fondatore del
Cristianesimo era stato educato, come un fatto congenere ci pare
ravvisare in quegli esempj che ci offre il Talmud di antichi dottori
che a segno di umiltà ministrano a mensa ai loro colleghi seduti,
esempj che se da una parte si collegano alle esseniche
costumanze, dall’altra ci additano nell’Ebraismo rabbinico le
origini delle scene evangeliche.

[63] Il sacrifizio ebraico come il pagano erano una vera e propria


Comunione eucaristica, una partecipazione alla mensa di Dio in
quanto il fedele e i sacerdoti si cibavano di parte dell’animale
immolato, mentre l’altra era arsa sugli altari. Per tal guisa l’ ara
era una mensa religiosa, e il nome di mensa porta veramente in
Ezechiele, come per converso la tavola ivi stesso porta il nome di
altare. Egli è per ciò che i dottori furono interpreti fedelissimi
delle idee bibliche quando la mensa comune dissero stare invece
dell’altare, e la scienza farvi la parte del fuoco sacro o della
presenza del nume, quando la fecero come l’altare propiziatrice
ed espiatrice, e sopratutto levaronsi ad altissimo e nobilissimo
pensiero i Teosofi nostri quando videro nella commestione l’atto
per cui la materia si eleva allo stato di mentalità mercè il processo
di Assimilazione onde i corpi inferiori si assimilano all’organismo
dell’uomo. Non d’altronde hanno origine le metafore evangeliche,
se pure dapprincipio non furono intese alla lettera, della Tavola in
cui Cristo berà del frutto della vite insieme ai discepoli; che ha il
suo tipo e la sua fonte in una identica metafora dei Rabbini i quali
dicono l’Eden essere il vino conservato nei suoi grappi sino da sei
giorni della creazione, che la coppa ne sarà benedetta da David
(Padre e tipo del Cristo) nel banchetto finale, ed altre simili.
Potrebbesi tacere a questo proposito del sacrifizio eucaristico, e
de’ suoi strettissimi vincoli con tutte le idee sopraccennate? Il
lettore già ne coglie le grandi attinenze, e ci dispensa dal
maggiormente diffonderci nell’ampio e nobile argomento.

[64] R. Neorai nei varj luoghi in cui di esso è menzione offre tutti
i caratteri dell’Essena Kabbalista. Egli ha un giuramento poco
noto altrove: pel Cielo Asciamaim! (Berahot, 53), che ci spiega
come Gesù il condannasse appunto vedendola usata tra i suoi
quando disse non giurate nè pel Cielo nè per la terra ec. e si
connette mirabilmente colla supposta adorazione del Cielo che
agli Ebrei in generale ed agli Esseni in particolare fu attribuita dai
Pagani chiamandoli persino col nome di Cœlicoles, onde poi si
distinse una setta Cristiana che come le altre non rappresenta che
una setta frammentaria dell’antico complesso organico, delle
dottrine e della simbologia dei Teosofi Esseni (V. per la storia fra
noi del simbolo Cielo, mie note al Pentateuco, Em Lammicrà,
Genesi Cap. I.). Egli è identificato con R. Elazar Ben Arah
personaggio eminentemente teosofico o Kabbalistico nel 2º di
Haghiga (V. Talmud Sciabbat p. 147); egli ha gli istinti
democratici come tutti i Farisei (Sanhedrin 20), ei predice pei
tempi messiaci, discordie intestine tra figlia e madre, tra suocera e
nuora, quali si leggono nei Vangeli espressioni Cristiane dello
Spirito Essenico (Ibid. 97), e infine egli ammette una sovrumana
efficacia ai nomi divini tratto ad un tempo Essenico Kabbalistico
e, oso dire, anche cristiano; perocchè al nome Gesù si attribuisca
sino nei Vangeli una straordinaria e miracolosa potenza.

[65] Il Nicolas (Des doctrines qui ont précédé etc., T. 6º p. 86)


non sa come porre d’accordo l’identità degli Esseni cogli antichi
Hasidim rammentati nei Maccabei, quali strenui difensori della
patria libertà, coll’orrore per la guerra e l’esclusivo studio delle
arti pacifiche che Giuseppe appone agli Esseni suoi
contemporanei. Vi sono pure due fatti che attenuano grandemente
il valore dell’obbietto. In prima, non si può negare che la difesa
nazionale sia tale dovere religioso eziandio nell’Ebraismo, da
obbligare chiunque ad esso appartenga; e più chi più rigorosa se
n’è imposta la osservanza. E poi Giuseppe stesso attesta che gli
Esseni procedevano armati, del quale uso siamo in procinto di
trovare un maraviglioso riscontro nel Zoar e nei suoi personaggi,
e tale da rendere quasi inevitabile la parentela dell’Essenato coi
Teosofi Ebrei o Kabbalisti. Non possiamo tacere di un autorevole
ausiliare che troviamo nell’illustre amico nostro signor S. Munk
socio dell’Istituto; il quale nei suoi Mélanges de philosophie juive
et arabe, pag. 468, ci offre da un lato una dichiarazione preziosa
intorno la identità originaria della Kabbale o Teosofia Ebraica e
dell’Essenismo; dall’altro ci reca la testimonianza di un dotto
correligionario tedesco, essere gli Esseni i Hasidim del Talmud.
La prima così suona: «Les Esséniens avaient donc une doctrine
dans laquelle à côté de certaines spéculations métaphysiques,
l’Angélogie jouait un rôle important. Il est probable qu’ils
cultivaient certaines doctrines qui plus tard FAISAIENT PARTIE DE LA
KABBALE, doctrines puisées à des sources diverses et qui ont
inspiré les premiers fondateurs de la gnose. » La seconda così si
esprime: (ivi in nota) «M. le D. Frankel a essayé de démontrer
que les Esséniens sont souvent mentionnés dans le Talmud sous le
nom de Hasidim (pieux), et il a fait d’ingénieux rapprochements
entre les notices de Joseph et divers passages talmudiques. Voy.
Zects Christ für die religiosen interessen des Iudenthums 1847,
Décemb., p. 441 et suiv.» Noi non conosciamo gli studj del Sig.
Frankel.
[66] Le qualità di Ministro e Discepolo andarono riunite
nell’antichità Biblica e Rabbinica. Nella prima Giosuè discepolo
di Moisè è chiamato suo Ministro (Mesciret), e nella Rabbinica
abbiamo la esortazione al maestro di non astenersi dal fare
ministrare il discepolo a proprio servigio; anzi lo studio della
legge orale che più dell’altra esige e suppone l’addottrinamento
magistrale, è chiamato Scimmusc Ministerio. In senso opposto il
Maestro riunisce le due caratteristiche di precettore e maggiore, e
la parola Rab tanto significa. Non ne abbiamo noi pure Europei
un esempio eloquentissimo nel nostro Maestro, Maître, Signore e
Precettore ad un tempo? Si vede nel testo come questi iniziati e
novizj si dicessero liberi per torgli ogni imputazione servile. Basti
pure ricordare come i figli si dicessero latinamente liberos e come
figli chiamino egualmente i Profeti e i Dottori i loro discepoli
(Banim). Ma se nell’officio servile dei discepoli convengono
Esseni e Dottori, non meno convengono nello studio di escludere
il sospetto di condizione servile gli Esseni e i Farisei, nel dar loro
il nome antonomastico ai Liberi e più ai Farisei particolarmente
nell’escludere dagli offici in cui il discepolo ministrar debbe,
quelli che sono per lor natura esclusivamente servili. Entro questo
limite, l’antico costume essenico-farisaico ebbe imitatori in Parigi
nel secolo decimoquarto quando gli scolari di quella Università
servivano come di paggi ai professori.

[67] Vedremo più oltre quando e come acquistassero gli Esseni


questo nome di liberi, e vedremo non meno come per altri rispetti
oltre quello qui menzionato si meritassero tal nome. A questi altri
motivi vogliamo qui preludere con quanto si legge in Plotino
(Enneades, vol. I, pag. 472, e pag. 185, nota 1ª): « L’homme est
libre quand il exerce la faculté de l’âme raisonnable, quand il
s’élève de l’ordre physique qui règne dans l’univers aux choses
intelligibles qui ne dépendent de rien. Il est soumis à la nécessité
et il devient une partie de l’univers quand il exerce les facultés de
l’âme raisonnable et du corps. La Nécessité ou Fatalité est
l’ensemble des circonstances extérieures, savoir l’influence des
astres.» E (vol. 2º, 3ᵐᵉ Enneades, pag. 17): «Quand l’âme prend
une détermination et l’exécute parce qu’elle y est poussée par les
choses extérieures, qu’elle cède à un entraînement aveugle, sa
détermination et son action ne doivent pas être regardées comme
libres..... Au contraire, quand elle suit son guide propre, la raison
pure et impassible, la détermination qu’elle prend est vraiment
volontaire, libre, indépendante, l’action qu’elle fait est réellement
son œuvre, et non la conséquence d’une impulsion extérieure. » E
più oltre: «Donc quand elle manque de prudence, les
circonstances extérieures sont cause de ses actes: on a raison de
dire alors qu’elle obéit au destin comme une cause extérieure. »
Per meglio comprendere ciò che Plotino intende per destino,
eccone la definizione di Iamblico, che il sig. Bouillet (Enneades.
Paris, 1859, vol. 2º, pag. 16, nota 1ª) dice potere servire di
Comento alle frasi di Plotino: «Toute l’essence du Destin consiste
dans la Nature: j’appelle nature la cause qui est unie au Monde,
et qui contient unies au monde toutes les causes de la génération
etc.» Plotino stesso avverte come si debba «compter au nombre
des causes extérieures l’influence qu’exerce le cours des astres. »
S. Agostino che, come dimostrò altrove il Bouillet, si valse
grandemente delle idee di Plotino, scrisse pur esso: Libertas nulla
vera est nisi beatorum et lex divina adhærentium . Gli stoici pure
avevano detto: Solum sapientem esse liberum. E persino Aristotile
disse con frasi più peculiari: Homo sapiens dominabitur astris.
Non sono quasi le stesse parole dei Dottori nostri, che udremo fra
poco?
In ciò dunque consentono egualmente gli scrittori
rammemorati:
1º In quanto ripongono la vera libertà nella conformità del
volere alla legge divina.
2º In quanto considerano lo stato opposto come stato di
subbiezione al destino.
Ora è innegabile che oltre al consenso che ofirono queste
dottrine col nome di liberi che gli Esseni si davano, e di cui
vediamo traccia nel Benè horim del Talmud (in Sotà), tornano a
capello con moltissime altre idee e dottrine che i pratici del
Talmud e dei Rabbinici dettati in generale incontrano ad ogni
passo. Così in Abot la libertà è detta retaggio esclusivo di chi
accetta il giogo della legge. Così la classica distinzione rabbinica
tra figlio e schiavo, la quale, ove si comprenda alla foggia dei
Kabbalisti o Teosofi ebrei che veggono nel figlio quello che non
accettando che l’imperio divino è superiore alla natura e al
destino, e nello schiavo il suo contrario o un grado almeno
inferiore, presenterà un’affinità ancor più singolare colla teoria
morale di Plotino; ed è che l’uomo, che colle opre e coi pensieri si
è fatto superiore alle attrattive, alle forze esteriori, non è più
soggetto alle leggi della natura e del fato, e in premio e in
conseguenza della libertà morale da sè procacciata, acquista una
libertà più sublime sul mondo fisico ch’ei domina, anzichè
esserne dominato. Ciò inteso i dottori, sia quando fecero da Dio
dire ad Abramo, già circonciso e tuttora ossequiente alla scienza
astrologica, Esci dai tuoi pensieri, Abramo non generava,
Abraham genererà, sia quando aggiunsero che Dio nella visione
in cui gli promise la prole lo elevò al di sopra delle stelle, per
significare la libertà da esso acquistata dalle leggi e indicazioni
degli astri; infine quando aggiunsero non vi essere fato o legge
astrologica per Israel; che rappresentano i liberi i veri figli di Dio.
Non sarebbe difficile che anche queste ultime idee si trovassero in
Plotino. Ciò ch’è innegabile, si è come il primo Cristianesimo
abbia attinto a queste sorgenti, alle sorgenti Israelitiche, tanto il
concetto di figli di Dio in opposizione a schiavi della Legge e del
Peccato, quanto l’idea concomitante di libertà dalla legge e dal
mondo, doppio pensiero che in niuna parte meglio traluce che
negli scritti e nelle parole di Paolo, il più dotto Israelita del
primitivo Cristianesimo, quegli che studiò la Legge ai piedi di
Gamaliel, il Fariseo figlio di Fariseo com’ei si qualifica. Però il
concetto nel passare nel Cristianesimo subì una modificazione;
anzi si arricchì di un elemento al tutto nuovo, cioè la Libertà dalla
Legge invece della libertà della Legge, la quale fu considerata
insieme col Mondo come la potenza che la virtù del Redentore
avea vinto ed abolito sulla terra. Chi si faccia a studiare con
occhio critico le epistole di Paolo, chiaro vedrà come Legge e
Mondo procedano appo lui di conserva, e siano in pari modo
bersaglio delle sue invettive. D’onde questa dilatazione
dell’antico concetto Ebraico e se abbia o no radici nell’Ebraismo
stesso, è subbietto grave troppo perchè qui si tratti, e di cui altrove
abbiam disputato. Aggiungiamo solo come l’adagio stoico: il solo
sapiente essere libero abbia riscontro con altro della stessa setta:
il solo sapiente essere re ed entrambi nei Dottori, gli stoici
dell’Ebraismo, come li chiamava Giuseppe.
Gli antichissimi Esseni Kabbalisti, e quindi i primitivi
Cristiani, sono creduti da alcuni autori progenitori della
Francomassoneria e Frammassoni eglino stessi. Questo sistema
ch’ebbe ed ha dotti patroncinatori, non manca di verosomiglianza
solo che si ammetta o che le dottrine riposte dei Massoni sono
quelle stesse dei Dottori, o che quelle degenerarono col lungo
avvicendarsi di secoli. Ove ciò si consenta, non negheremo che vi
sono non solo nei libri esoterici ma negli essoterici eziandio dei
primi Farisei, curiosissimi indizj di quest’antica identità. Non è
qui luogo a farne menzione. Solo diremo alquanto di ciò che si
attiene al soprannome di Liberi, dato agli Esseni, ai Terapeuti
nello stesso Talmud come si vede nei testo. Ora è noto come i
Frammassoni dicansi Liberi Muratori o Francs-Maçons. Quale è
l’origine di questo epiteto di Liberi o Franchi che tanto già suona
conforme ai Liberi dei Terapeuti ed ai Benè horim del Talmud?
Sentiamo un dotto scrittore della Società, in un’opera che, se
avesse tanto ordine quanto mostra ingegno e dottrina, potrebbe
noverarsi tra le prime del genere; il Reghellini di Scio nella
Maçonnerie considérée comme le résultat de la Religion
égyptienne, juive et chrétienne. Ei crede (vol. 2, pag. 97) che i
Liberi Muratori cominciassero ad esserlo di fatto dando opera ai
lavori architettonici, e che quindi alla loro corporazione si
aggiungessero soci liberi, o come si dice onorarj: «Après ce qu’on
vient d’exposer, la corporation des Maçons étant la plus illustre,
elle devait être par conséquent la plus recherchée: il était facile à
des hommes de qualité et à des lettrés de s’y faire admettre; et
comme ces individus n’étaient pas de la profession, ils furent
distingués des autres par le titre qu’on leur donna de libres ou
francs.» Potrebbe forse escogitarsi simile ragione pel nome di
liberi dato agli Esseni; e dire che così fossero chiamati perchè non
Medici Assia eglino stessi e non ancora astretti a tutti i doveri
sociali? O per avventura non sarebbe meglio intendere nei Liberi
Muratori o nei Francs-Maçons lo stesso senso che si annette a
quel degli Esseni, vale a dire o un epiteto che stia ad escludere la
vera e propria servitù nei novizj, come vuole Filone, o che
accenni a quella libertà morale spirituale che campeggia così
solenne nelle dottrine kabbalistiche, neoplatoniche, gnostiche e
cristiane come più sopra dicevamo? Al lettore l’ardua sentenza.

[68] Platone non isdegnò occuparsi nelle leggi (lib. VII) delle
danze sacre. «Le legislateur, egli dice, assortira ces danses, aux
autres parties de la musique, les distribuira en suite entre toutes
les fêtes et les sacrifices, donnant à chaque fête la danse qui lui
est propre ec.» (edit. Paris, 1842).
Il concetto del Ballo fu preso a simboleggiare il moto,
l’aspirazione delle anime verso Dio, il perpetuo conato dei Beati;
—e ciò nei Dottori ebrei, nei Padri della Chiesa, e finalmente in
Dante. Nei primi quando dissero Dio intimerà un ballo ai beati in
Paradiso e stando egli nel centro, ognuno mirerà ad esso
dicendo: Ecco Dio a cui aspirammo «Atid acadosc baruh u laasot
Mahol lazadichim—be—gan—eden ec. Nei Padri, là ove si legge
in S. Basilio (Omil. sul rendimento di grazie). Ti manca alcun
figliuolo? Ti restano gli angioli coi quali menerai danza intorno
al trono di Dio.—E il gran Dante nel Paradiso, come è noto.
L’Israelita che nel santificare tre volte Dio ogni giorno solleva il
Corpo da terra tre volte, è erede e discepolo senza saperlo di tutta
la grande e buona antichità ebraica e gentile. Tanto è vero che
l’ebraismo adempie mirabilmente a quell’officio di Nido di Neno
che è distintivo di vera religione (religio a ligando) come volle
Cicerone.

[69] Non sarebbe inverosimile che la predizione di Gesù a Pietro


Prima che canti il gallo tu mi avrai rinnegato tre volte —sia una
applicazione a se stesso, vero e nuovo Tempio—com’egli altrove
si chiama, di ciò che ivi si praticava nel culto di Dio: volendo dire
che il canto del gallo anzichè schiudere la giornata religiosa ad
essere il segnale degli officii del tempio che cominciavano con
triplice suono di corno, sarebbe stato anzi preceduto da triplice
rinnegamento: tanto la Divinità da lui rappresentata sarebbesi
inchinata alle più profonde umiliazioni. Non dimentichi il lettore
quanto fu da noi provato (Lezione XII, Nota 2) intorno la
sostituzione che Gesù insegnava di se stesso al Tempio, qual fonte
d’ispirazione.

[70] Ecco la chiave dei lamenti e rimproveri che i vangeli ci


narravano dirigere i Farisei contro il costume di Gesù, di sedere
cioè a mensa con pubblicani e con malfattori. Nessuno più dei
Farisei si adoperava alla conversione dei peccatori; opera che
magnificarono nei loro libri più di qualsiasi altro ufficio di pietà;
ma non credevano che si potesse senza imprudenza, e senza fallire
lo scopo istesso che proponevansi, scender fino a tanta familiarità.

[71] Nessuno negherà che la vita contemplativa ed ascetica non


sieno sommi educatori dell’animo a libertà e indipendenza di
sensi, siccome quella che insegna a vincer gli altri col lottare con
se stesso. Da ciò nacque la gran forza di resistenza che spiegò il
Cristianesimo nel suo nascere e che imparò là dove attinse tutto
ciò che forma il suo corredo dommatico e il suo pratico indirizzo.
Vi è però un pericolo a cui rado è che fuggano i mistici, e che solo
l’ebraico per la sua intima connessione con una religione che era
al tempo stesso una norma civile e politica, potè
avventurosamente cansare. Difatti gli spiriti mistici onde si prova
in varj tempi il nostro popolo, e più in quelli di cui discorriamo,
non lo spinsero mai a quegli eccessi in cui caddero tutti quelli che
calcarono le stesse orme; ma seppe mantenere più o meno
l’equilibrio fra la vita attiva e la vita speculativa, fra la mente ed il
corpo. Quanto al fatto di cui si fa menzione nel testo, alla
conversazione tra i dottori risaputasi dal governo di Roma, e della
successiva fuga di R. Simone, e della lunga dimora in una grotta,
vogliamo solo aggiungere che forse in questo cenno troverebbe
largo campo di esercitarsi una parte dei critici moderni i quali
affermarono che lungi da morire Gesù sulla croce, sopravvisse
lunghi anni a quel supplizio, protetto e nascoso dal silenzio e dal
mistero degli essenici chiostri. Chi sa che non si dica altrettanto
dei tredici anni che visse R. Simone Ben Johai lungi e salvo dal
decreto romano che l’aveva condannato a morire? Certo che
questo scampo prodigioso non si presta meno acconciamente
all’ipotesi di un rifugio in qualche riposto asilo degli Esseni
fratelli, tanto pel tempo non breve, quanto per i mezzi ch’ebbero
esso e il figlio di vivere in tanto abbandono. Quando ciò possa
consentirsi, tanto più intelligibile parrà la tradizione corrente tra i
cabalisti che là meditasse e coordinasse R. Simone le sue dottrine
e la sua teosofia. Ed oltre al tempo, all’ozio, all’asilo,
specialmente se essenico che tanto bene si presta, non mancano
nel testo talmudico e medrascico cenni che provino come ben
altro uomo uscì il nostro dottore dal suo asilo di quello che vi
fosse entrato, specialmente per ciò che si attiene alla dottrina,
santità e religiosa eccellenza.
È degno di nota il rifugio che anzi tratto si procurano nel Be
Medrascià, nell’accademia secondo il Talmud Babilonese
(Sciabbat cap. 2), e che dee esser stato luogo e rifugio di un indole
affatto speciale per poter sfuggire alle ricerche del governo
romano.
Il genio ascetico e taumaturgico si palesa nel padre e nel figlio
appena usciti dopo tredici anni dal loro asilo, quando si sdegnano
al solo vedere uomini occuparsi di lavori agricoli (Ibid), nelle
punizioni che infliggono e nelle guarigioni che operano
egualmente prodigiose; nella figlia della voce ( Berat Calà) che
odono annunziare tanto la caduta di un uccello nelle reti del
cacciatore quanto il suo scampo (Medrasc Scemot Rabbà sez. 79),
e che ha un eloquente riscontro in voci ed annunzj consimili che
si narrano uditi dagli uomini stessi nel Zoar; mentre malagevole
sarebbe trovarne dell’indole stessa nei libri talmudici. Nè è da
tacersi la singolare conformità della illazione, che da questi fatti
trae Simone con un analogo pensiero dei Vangeli. Se un uccello
non cade nella rete senza espresso decreto di Dio sarà egli
possibile che ciò avvenga per l’uomo? Gesù si valse dello stesso
esempio degli uccellini per assicurar ai suoi discepoli il
sostentamento per la domane. La grandezza religiosa e scientifica
a cui s’inalzò dopo il lungo ritiro, si mostra nel vanto che di sè
proferisce, dicendo al figlio: Bastiamo noi due pel mondo intiero e
che ha riscontro e interpretazione eloquente in altra sentenza da
lui profferita in altra occasione quando disse: Veggo che gli
uomini della Camera (Benè Alià) sono scarsi. Se sono due, noi
siamo quei dessi. (La Camera di cui qui si parla è lo stesso delle
Camerette dei Vangeli, in cui Gesù dice che si comunicano le
cose segrete); si mostra nella replica che ci fa a R. Pinehas Ben
Jair il quale deplorava vederlo nella persona così malconcio:
Beato te che tale mi vedi, che se così non mi vedessi, tale io non
mi sarei a quest’ora; e il Talmud chiosandone il senso aggiunge
che prima del suo ritiro, ad ogni domanda che Simone faceva, R.
Pinehas dava 12 risposte; ma dopo quello, ad ogni domanda del
secondo opponeva Simone 24 risposte, lo che nel linguaggio
iperbolico talmudico significa che la scienza di questi,
sopravanzava di gran lunga quella del suocero.

[72] Questo riempire che fa il Zoar la lacuna istorica che offre il


Talmud in fatto dei Haberim, il cui carattere, officio, definizione
riuscirebbero vaghi incompleti senza il soccorso del primo, è
prova tra mille altre che l’uno e l’altro non formano che un solo
corpo di dottrina e si appellano e si completano scambievolmente.
È questa in piccolo una immagine dell’officio che sostiene la
dottrina cabbalistica o teosofia verso tutto l’ebraismo pratico, cioè
quello di fornirlo di una originale e connaturale dogmatica.

[73] Talmid—Kaham—titolo che si danno i Farisei negli antichi


monumenti Rabbinici (Misnà, Talmud ec.) e significa scolaro;—
discepolo di dottore meglio che dottore. È espressione suggerita
da umiltà; e non si comprende come uomini siffatti potessero
agognare al titolo di Rabbi, e ad essere tali chiamati su per le
piazze, siccome di tanto li appuntano i Vangeli. Altra importante
considerazione ci offre il tempo in cui predicava Gesù. Poichè,
secondo attestano memorie autenticissime, il titolo di Rabbi lungi
dall’essere allora comune fra i dottori, si veggono anzi i più
famigerati capiscuola che in quel torno fiorirono, recare nelle
opere rabbiniche il nudo e semplicissimo loro nome. Quindi grave
dubbio ne emerge che anche da questo lato meglio che la
impronta dei tempi in cui quei discorsi si dicono proferiti, quella
rechino invece dell’epoca in cui i Vangeli furono redatti; e gli
autori di questi facciano usare a Gesù un linguaggio che solo ai
loro proprii tempi si addiceva. Checchè ne sia, il nome Talmid
Kaham ha molta analogia, quanto allo intendimento che lo
dettava, con quello di Filosofo o amante di sapienza che si
davano i savi pensatori di Grecia, differenti dagli altri che per
presunzione diceansi Sofi o Sofisti.

[74] Non ha guari ricordavamo le parole di Simone Ben Johai nel


Talmud in cui se erano due gli uomini della Camera, questi egli
diceva essere esso ed il figlio. Or chi non rimarrà sorpreso
vedendo il consesso più augusto del Zoar designato collo stesso
nome di Camera Iddarà? Può darsi conferma più bella di questa?
E si può ancora ragionevolmente dubitare che R. Simone Ben
Johai non sia la stessa mente che informa lo Zohar? Si dirà che
l’autore qualsiasi di questo libro si prefisse studiatamente un
linguaggio che si affacesse al supposto autore? Ma questo studio
contrasta con altre dissonanze cronologiche, storiche e filologiche
che escludono nel suo redattore l’intenzione di crearsi una forma
ed uno stile artificiale; e tanto più rimane escluso nel nostro caso
che il senso di Camera nel nome Iddarà fu poco avvertito
generalmente ed altre interpretazioni ebbero corso le quali però
non reggono ad una indagine severa. Non vogliamo infine tacere
di un’altra curiosa analogia che ci offre il nome stesso di Benè
Alià con cui nel Talmud si designano, secondo me, gli speculatori
e teologi del Farisato. Questo nome alla lettera significa quelli del
luogo alto o delle regioni superiori, nè per altro fu così la Camera
chiamata se non perchè occupava appunto la parte più alta
dell’abitazione. Ora chi non troverà mirabilmente a queste idee
conforme, la seguente di Platone nel Teeteto (Ediz. Paris, pag.
64). Mais, mon cher, lorsque le philosophe peut à son tour attirer
quelqu’un des hommes vers la RÉGION SUPÉRIEURE etc.

[75] L’illustre amico mio, signor professor S. D. Luzzatto,


scriveami non è guari, e credo anche stampasse, non potersi
credere autentico un libro ove si parla di Compilazione scritta,
quando ogni redazione tradizionale era tuttavia interdetta
nell’ebraismo. Risposi: doversi distinguere la tradizione legale e
rituale dalla tradizione teologico-agaditica: se per la prima è lecito
affermare (comechè forse non senza gravi restrizioni) che si
mantenesse esclusivamente orale per assai tempo ancora; non così
per la seconda, della quale sappiamo avere esistito per tempissimo
varie compilazioni, di cui a dilungo si ragiona nel libri talmudici.
Ora s’egli è vero, come è indubitato, che l’ Agadà non è, come
altrove notammo, che il nome e la forma mitica e leggendaria
della recondita teologia, ognuno comprende come a nulla approdi
la ricordata obbiezione.

[76] Non dimentichi il lettore:


1º Che ogni qualvolta narra il Talmud una cura prodigiosa
operata a contatto; è sempre la mano porta e ricevuta.
2º Che Epifanio V ci ammonisce come «les gnostiques (i quali
non sono, come provammo nell’Essai sur l’origine des Dogmes
ec., che la parte cabbalistica o Essenica degli Ebrei convertiti al
Cristianesimo) se connaissaient entr’eux à leurs manières de se
prendre la main.»

[77] Chi sa ancora se questo nome di legge di grazia non deriva


nei Vangeli appunto da quella divulgazione che Gesù operò fra le
moltitudini pagane e israelitiche delle dottrine misteriose dei
Farisei, come non ci stancammo di dimostrare nell’opera francese
altrove citata.

[78] Quanto è bella la imagine del libro divino a indicare l’uomo


dotto e virtuoso! Galileo chiamò la natura il libro di Dio. L’uomo
non meritò meno questo nome in specie appo gli antichi che lo
dissero Microcosmo. Nè questo è solo il luogo ove il Codice della
Rivelazione e l’uomo vengono dai Dottori ravvicinati. La
separazione dell’anima dal corpo è comparata al volume rivelato
che va preda alle fiamme; quindi l’obbligo dei segni di lutto che
s’impongono agli assistenti.—Sulla bara dell’uomo dotto si
poneva ab antico, quale insegna del suo nobile officio, il codice
mosaico, e dicevasi:—Costui ha osservato quanto in questo libro
è scritto.—Ed ove tu sottilmente consideri, vedrai come il dogma
del verbo incarnato non sia che una esagerazione del principio
incessantemente proclamato dai Dottori, la immanenza nel cuore
e nella mente dell’uomo del Verbo Divino.

[79] Vorremmo che i negatori della tradizione, vuoi talmudica,


vuoi teologica, riflettessero seriamente a questo orrore di novità
che trasparisce in questi luoghi, e in altri infiniti che si omettono,
e si domandassero in qual guisa è compatibile tal ripugnanza col
supposto di origine moderna nell’una e nell’altra. In qual guisa
l’una e l’altra tradizione appena nate, avranno potuto spacciarsi
quali antichissime, rigettare ogni aspetto di novità, chiudere per
sempre quella fonte da cui scaturirono, senza contraddire al
proprio principio e senza temere di essere volti in deriso? I
Dottori chiamano altrove quest’obbligo di far risalire, quanto più
si può, ai primi autori la dottrina che si espone «lescialscel et
ascemuà» svolgere la tradizione.

[80] Senza impegnarci in diffuse dimostrazioni accenneremo qui


di volo le massime capitali conclusioni a cui riuscimmo ed a cui
riescir deve a parer nostro, ogni spassionata indagine sugli
Elementi d’Angelogia, e dei nomi divini che contiene il Talmud.
1º I confini che separano i nomi angelici dai divini sono
tutt’altro che fissi e insuperabili, ma anzi mobili e permutabili;
onde ogni ostacolo è rimosso alla identificazione dei nomi degli
Angioli essenici, coi divini ed angelici talmudici .
2º Che la scienza di questi nomi costituisca nel Talmud una
dottrina gelosa ed acroamatica, anche questo non patisce
eccezione per chi ne abbia consultate le pagine: nè patisce
eccezione pertanto la identità di metodi in ambo le scuole.

[81] Fra i Terapeuti, si trovavano le Terapeutidi, donne iniziate;


nell’istituto pitagorico eranvi le numerose e celebri Pitagoresse.
Vedi Ritter, Hist. de la phil. ancienne, vol I, 298.
[82] Questa designazione ha origine in seno all’Ebraismo dal
divieto di cibarsi di carne che non fosse stata sacrificata, ma è
certo del pari che presso tutti i popoli le prime immolazioni, e
quindi le prime imbandigioni di carne furono conviti sacri.
Sterminata opera sarebbe se tutto volessimo dire che a ciò si
attiene.

[83] Nel Talmud si condanna l’uso di prendere i versi del Cantico


dei Cantici e piegarli a uso di Epitalamio nei banchetti, nuziali o
no.—Si tratta di applicazioni ad amori umani? Si tratta invece di
poesie mistiche intessute di quelle frasi?

[84] Preziosa per quanto non avvertita menzione della Setta


Accademica nella Misnà di Chelim nelle parole Scel cat cademin
i Zò. Ci basti accennarla soltanto, troppo oltre conducendoci una
piena dimostrazione, che ad altro luogo serbiamo.

[85] Ciò ch’è anche più degno di nota egli è, come questo
ricorrere al greco qual fonte di ebraiche etimologie, è seguito
anche dai teologi cabbalisti nella nomenclatura delle loro
emanazioni. Vogliamo qui citare un solo esempio ma
singolarissimo. È noto come Platone e i nuovi platonici eziandio
chiamassero Dio come Primo, come Ente col nome di En. Ed egli
è questo il nome che il principio equivalente porta in quella
nomenclatura e nel senso stesso di Unità. Ecco uno degli anelli
che congiungono i moderni teosofi coi loro più antichi
predecessori.

[86] Fatto che nulla più avverato e che resulta luminoso nella
enciclopedia rabbinica da un complesso imponente di fatti e
considerazioni che ci siamo studiati porre in luce in una nostra
Introduzione generale storico-critica a tutti i Monumenti della
tradizione. Un solo fatto citeremo qui ad esempio, il nome di
Misnà che sempre recò la tradizione e che suona quanto
Ripetizione appunto per che lo insegnamento se ne faceva
ripetendo il testo.
[87] Giusto però è confessarlo. Il Cristianesimo non sempre
fuorviò dall’antico sistema esegetico, non sempre immolò,
almeno in teoria, il senso litterale all’allegorico. Il Medio-evo
cattolico ammise il quadruplice senso dei Dottori, non solo
interpretando la Scrittura, ma nelle opere di grande calibro quale,
ad esempio, la Divina Commedia. Ed anche il Protestantesimo nel
suo inizio. In due versi furono compendiati i quattro sensi
Littera gesta docet, quid credas allegoria,
Moralis quid agas, quid speres anagogia.

[88] Questa mia congettura intorno alla vera lezione di


Maimonide otteneva, poco dopo scritte le presenti pagine, una
splendida conferma. Ognuno sa come l’originale del Comento
Maimonideo sia stato scritto dall’autore in lingua Araba. Ora
essendomi io diretto all’illustre orientalista Sig. Salomone Munk,
attualmente Professore di lingue Orientali nella Sorbonne, per
qualche schiarimento senza tacergli però la ipotesi mia, n’ebbi per
gran ventura a risposta come in un Manoscritto Arabo del
Comento stesso, da lui recato dall’Egitto nel 1840, si leggeva
anzichè l’enigmatico Cabtazar, Copt-maser, vale a dire i Copti di
Egitto.

[89] Nel caso che qui si contempla, il Rito è noachide. Vi è però


dottrina nella Misnà secondo la quale il rito stesso israelitico può
essere praticato fuori del Tempio e cooperante un Israelita: e
l’autore di questa dottrina è R. Simon Ben Iohai. Qual nome
eloquente!

[90] Abbiamo taciuto di un uso essenico che ricorda Giuseppe,


quello cioè di portar le mani, l’una tra la barba ed il petto, l’altra
sospesa ai fianchi. È questo un punto che mi affaticai invano a
chiarire. Forse qualche analogia ci offre Champollion Figeac
quando nell’Egypte scrive dei sacerdoti egiziani: «Les anciens
disent qu’il résultait de ce costume éclatant de blancheur, de la
gravité habituelle de la physionomie, de la démarche et des
paroles des prêtres, un extérieur imposant que complétait le repos
forcé des bras et des mains habituellement cachés dans les plis
des vêtemens. Les Monumens confirment cette observation faite
par les anciens (p. 113).» Aggiungasi che nei Monumenti egiziani
si veggono i subordinati presentarsi al loro superiore e signore
«ayant, dice Champollion (Egypte, 185. I.) leur main droite posée
sur l’épaule gauche, et leur autre bras pendant en signe de
respect.»

[91] Una gran parte di queste Regole portano nel Talmud un nome
pregno di senno, quello di Cabbalà. Si legge in Berahot queste
parole che porgiamo alla meditazione degli ebraizzanti Annan
Cabbalà debet akissè seniutà usticutà. I forzati e inutili tentativi
degli interpreti, e tra gli altri di Rasci, provano ch’egli è solo dal
nostro ordine d’idee che la frase in questione può ricever lume e
verità.

[92] I termini che si riferiscono alle fasi dell’uno e dell’altra


generazione seguitano correlative. Così Ara si dice per gestazione
e meditazione, onde l’Irur rabbinico.

[93] Per bene comprendere tutto questo, si avverta come una delle
emanazioni cabbalistiche porti i nomi ad un tempo di Mi (chi?), di
Sceticà (Silenzio), di Mahasabà e Kohmà (Pensiero e Sapienza).
Chi subodorò alcun che della teologia dei Gnostici sa benissimo
come i nomi di Sofia Superiore e di Sige o Silenzio sieno proprj
dei più supremi Eoni o Emanazioni. E poi si dica che la teosofia
cabbalistica è cosa moderna!

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