Henry Dunant Un Ricordo Di Solferino
Henry Dunant Un Ricordo Di Solferino
Un ricordo di Solferino
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PUBBLICAZIONE:
Catia Righi, [email protected]
3
Indice generale
Prefazione.......................................................................7
Proemio dell’autore........................................................9
Un ricordo di Solferino.................................................10
Appendice...................................................................135
Società d’utilità pubblica a Ginevra. Conferenza
internazionale onde esaminare i mezzi di provvedere
alla insufficienza del servizio sanitario delle armate in
tempo di guerra.......................................................136
Progetto di concordato............................................138
Conferenza internazionale a Ginevra il 26 ottobre
1863. Società di soccorso internazionali e permanenti
pei militari feriti in tempo di guerra.......................141
Risoluzioni della conferenza internazionale di
Ginevra...................................................................146
4
UN RICORDO DI
SOLFERINO
DI G. ENRICO DUNANT
CAVALIERE DELL’ORDINE DEI SS. MAURIZIO E LAZARO
MILANO
TIPOGRAFIA GUGLIELMINI
1863.
5
ALL’ESERCITO D’ITALIA
GIÀ VETERANO SE ANCHE GIOVANE
PARTE SÌ VALIDA E GLORIOSA
DEL
24 GIUGNO 1859
ONDE PER SUA PROPRIA FORZA MAGGIORE
A PRO
DELLA NAZIONE DELLA FAMIGLIA DELLA
SOCIETÀ
SUI CAMPI CRUENTI
TANTE SE NE PRESERVINO VITE PREZIOSE
INTITOLA IL TRADUTTORE
QUESTE PAGINE.
6
Prefazione
7
dalla medesima han condotto l’Autore nello scriverne il
Ricordo.
Non tocca egli le cause della guerra combattuta, non
lo scopo della medesima, non le regole di strategia e di
tattica militare, secondo le quali fu condotta: ei non
iscrive dal punto di vista guerriero o politico; egli,
testimone di veduta, apre libera strada alla piena delle
impressioni dolorose e ambascianti, onde il suo cuore fu
compreso, fu come oppresso, ed invoca nella
descrizione di tanto sinistri avvenimenti la carità di tutti
quelli che hanno cuore e buon volere.
L’idea dell’Autore ha già fatto molto cammino, il suo
appello fu inteso e trovò in molti paesi d’Europa e fuori
la più viva simpatia: più di ottanta giornali ne hanno in
diverse lingue parlato a gara nel modo il più favorevole:
le più alte adesioni sonosi manifestate, non meno che la
più sollecita iniziativa particolare, patrocinando la
nuova questione i regnanti ed i principi insieme ed i
governi.
Milano, 12 novembre 1863.
IL TRADUTTORE.
8
Proemio dell’autore
ALLA 2.A
E 3. A
EDIZIONE.
9
Un ricordo di Solferino
10
che aveva il supremo comando, aveva dato ordini
precisi affinchè l’armata del re Vittorio Emmanuele,
accampata a Desenzano, e la quale formava l’ala sinistra
dell’armata alleata, si recasse il 24 a mattina sopra
Pozzolengo, il maresciallo Baraguey-d’Hilliers doveva
marciare sopra Solferino, il maresciallo Duca di
Magenta sopra Cavriana, il generale Niel doveva recarsi
a Guidizzolo, e il maresciallo Canrobert a Medole; la
guardia imperiale doveva dirigersi a Castiglione. Queste
forze riunite formavano un effettivo di centocinquanta
mila uomini e di circa quattrocento pezzi d’artiglieria.
L’imperator d’Austria aveva a sua disposizione in
Lombardia nove corpi d’armata, ascendenti insieme a
dugento cinquantamila uomini, essendosi la sua armata
d’invasione aumentata delle guarnigioni di Verona e di
Mantova. Giusta i consigli del feldzeugmeister barone
Hess, le truppe imperiali avevano infatti operato, da
Milano e Brescia in là, una ritirata continua il cui scopo
era il concentrare tra l’Adige e il Mincio tutte le forze
che l’Austria possedeva allora in Italia; ma l’effettivo
che stava per entrare in linea di battaglia, non
componevasi che di sette corpi, ossia di
centosettantamila uomini, sostenuti da circa cinquecento
pezzi d’artiglieria.
Il quartier generale imperiale era stato trasportato da
Verona a Villafranca, poi a Valeggio, e fu dato ordine
alle truppe di ripassare il Mincio a Peschiera, a
Salionzo, a Valeggio, a Ferri, a Goito e a Mantova. Il
11
grosso dell’armata si accampò da Pozzolengo a
Guidizzolo, onde attaccare, dietro le istigazioni di
parecchi de’ più esperimentati locotenenti
feldmarescialli, l’armata franco-sarda tra il Mincio e il
Chiese.
Le forze austriache, sotto gli ordini dell’imperatore,
formavano due armate. La prima aveva alla testa il
feldzeugmeister conte Wimpffen, che teneva sotto i suoi
ordini i corpi comandati dai locotenenti feldmarescialli
principe Edmondo Schwarzenberg, conte Schaffgotsche
e barone de Veigl, come pure la divisione di cavalleria
del conte Zedtwiz: era l’ala sinistra; essa aveva preso
posizione nei dintorni di Volta, Guidizzolo, Medole e
Castel-Goffredo. La seconda armata era comandata dal
generale di cavalleria conte Schlick, che aveva sotto i
suoi ordini i locotenenti feldmarescialli conte Clam-
Gallas, conte Stadion, barone Zobel e cavaliere
Benedek, non che la divisione di cavalleria del conte
Mendsdorff: era l’ala destra; essa teneva Cavriana,
Solferino, Pozzolengo e San Martino.
Tutte le alture tra Pozzolengo, Solferino, Cavriana,
Guidizzolo erano dunque occupate, il 24 di mattina,
dagli Austriaci, i quali avevano disposta la loro
formidabile artiglieria sopra una serie di rialti che
formavano il centro d’una immensa linea offensiva, la
quale permetteva alla loro ala destra ed all’ala sinistra di
ripiegarsi sotto la protezione di quelle alture fortificate
che essi consideravano come inespugnabili.
12
Le due armate nemiche, quantunque marciassero
l’una contro l’altra, non s’aspettavano però di doversi
attaccare ed urtare così prontamente. Gli Austriaci
avevano la speranza che una parte soltanto dell’armata
alleata avesse valicato il Chiese; essi non potevano
conoscere le intenzioni dell’imperatore Napoleone, e
non erano esattamente informati.
Gli alleati non credevano neppur essi di incontrar così
improvvisamente l’armata dell’imperator d’Austria;
poichè le ricognizioni, le osservazioni, i rapporti degli
esploratori e le ascensioni areostatiche che ebber luogo
nella giornata del 23, non avevano dato alcun indizio
d’un offensivo ritorno o d’un attacco.
Così dunque benchè si fosse, dall’una parte e
dall’altra, nell’aspettativa d’una prossima e grande
battaglia, lo scontro degli Austriaci e dei Franco-Sardi,
il venerdì 24 giugno, fu realmente inopinato, ingannati
com’erano sui rispettivi movimenti avversari.
Ognuno ha inteso, o ha potuto leggere qualche
racconto della battaglia di Solferino. Questo ricordo così
palpitante non è certamente cancellato dalla mente di
nessuno, tanto più che le conseguenze di questa giornata
si fanno ancora sentire in parecchi fra gli Stati d’Europa.
Semplice torista, interamente estraneo a questa
grande lotta, ebbi il raro privilegio, per un concorso di
circostanze particolari, di poter assistere alle scene
commoventi che mi sono deciso di rammemorare. Io
non racconto in queste pagine che le mie impressioni
13
personali; non si deve dunque cercarvi nè dettagli
speciali, nè informazioni strategiche che hanno loro
posto in altre opere.
In questa memoranda giornata del 24 giugno, più di
trecentomila uomini sonosi trovati in presenza: la linea
di battaglia aveva cinque leghe di estensione, e si ebbe a
battersi durante più di quindici ore.
L’armata austriaca, dopo aver sostenuta la fatica
d’una marcia difficile durante tutta la notte del 23, ebbe
a sostenere dall’alba del 24 l’urto violento dell’armata
alleata, e a soffrire in seguito il calore eccessivo d’una
temperatura soffocante, come pure la fame e la sete;
poichè ad eccezione d’una doppia razione d’acquavite,
la più gran parte di queste truppe non ebbero alcun
nutrimento durante tutta la giornata del venerdì. Quanto
all’armata francese, essa, già in movimento avanti i
primi albori del giorno, non ebbe altra cosa che il caffè
del mattino. Quindi l’estenuazione dei combattenti, e
sovratutto degli infelici feriti, era all’estremo alla fine di
quella terribile battaglia!
Verso le ore tre del mattino, il primo e il secondo
corpo, comandati dai marescialli Baraguey d’Hilliers e
Mac-Mahon, cominciarono a muoversi per portarsi
sopra Solferino e Cavriana; ma appena le loro teste di
colonna ebbero oltrepassato Castiglione videro di fronte
a loro gli avamposti austriaci che lor contendevano il
terreno.
14
Le due armate son pronte alle armi.
D’ogni parte le trombe suonano alla carica e
rintronano i tamburi.
L’imperatore Napoleone, che passò la notte a
Montechiari, si dirige in tutta fretta alla volta di
Castiglione.
Alle ore sei il fuoco è seriamente impegnato.
Gli Austriaci s’avanzano in un ordine perfetto sulle
strade disgombre. Al centro delle compatte loro masse
dalle tuniche bianche, sventolano i loro stendardi dai
colori giallo e nero fregiati collo stemma dell’aquila
imperiale di Germania.
Framezzo a tutti i corpi d’armata che van prendendo
parte al combattimento, la guardia francese offre uno
spettacolo invero imponente. Luminosa è la giornata, e
la splendida luce del sole d’Italia fa scintillare le
brillanti armature dei dragoni, delle guide, dei lancieri e
dei corazzieri.
Già dal principio dell’azione, l’imperatore Francesco
Giuseppe aveva abbandonato il suo quartier generale
con tutto il suo stato maggiore per recarsi a Volta; egli
era accompagnato dagli arciduchi della casa di Lorena,
tra i quali distinguevansi il gran duca di Toscana e il
duca di Modena.
In mezzo alle difficoltà d’un terreno interamente
sconosciuto agli Alleati ha luogo il primo urto. L’armata
francese deve aprirsi dapprima un passaggio attraverso
filari di gelsi intrecciati dalla vite e formanti dei veri
15
ostacoli; il suolo è spesso frastagliato da grandi fossati
disseccati, e da lunghe muraglie di tre a cinque piedi di
elevazione, larghissime alla loro base e restringentisi
all’alto: i cavalli sono obbligati di sormontare queste
muraglia e di valicare quei fossati.
Gli Austriaci, postati sulle eminenze e sulle colline,
fulminano bentosto colla loro artiglieria l’armata
francese sulla quale fanno piovere una grandine
incessante di obizzi, di bombe e di palle.
Ai densi nugoli del fumo dei cannoni e della mitraglia
frammischiansi la terra e la polvere che solleva,
battendo il terreno a colpi raddoppiati, questa enorme
nube di projettili. Si è affrontando il fulminìo di tante
batterie che romoreggiano vomitando sopra di loro la
morte, che i Francesi, come un altro uragano che si
scatena dalla pianura, si slanciano all’assalto delle
posizione di cui sono risoluti d’impadronirsi.
Ma è durante il torrido calore del mezzo della
giornata che i combattimenti che trovansi impegnati in
ogni parte divengono sempre più accaniti.
Colonne serrate gettansi, le une sulle altre,
coll’impeto d’un torrente devastatore che rovescia ogni
cosa sul suo passaggio; reggimenti francesi interi si
precipitano a tiragliatori sulle masse austriache del
continuo rinnovate, sempre più numerose e più
minaccianti, e che, simili a muraglie di ferro,
sostengono energicamente l’attacco; intiere divisioni
depongono il sacco a terra, onde meglio poter lanciarsi
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sul nemico, la bajonetta innanzi; se un battaglione è
respinto, un altro gli succede immediatamente. Ogni
rialto, ogni altura, ogni cresta di roccia è il teatro d’una
pugna ostinata: sulle colline e nei valloni sono a mucchi
i cadaveri.
Qui è una lotta corpo a corpo, orribile, spaventevole:
Austriaci ed Alleati si calpestano, si massacrano a
vicenda sopra cadaveri sanguinosi, si pestano a colpi di
calcio, si fracassano il cranio, si sventrano colla sciabola
o colla bajonetta, non v’ha più quartiere, è un macello,
un combattimento di belve feroci, furibonde ed ebbre di
sangue; i feriti medesimi difendonsi fino all’ultima
estremità, chi non ha più armi abbranca alla gola il suo
avversario e lo lacera co’ suoi denti.
Là è una lotta somigliante, ma che diventa più
tremenda per l’avvicinarsi d’uno squadrone di
cavalleria: esso passa a galoppo: i cavalli schiacciano
sotto i loro piedi ferrati i morti e i morenti; ad un povero
ferito è portata via la mascella, ad un altro frantumata la
testa, un terzo che sarebbesi potuto salvare, ha affondato
il petto. Ai nitriti dei cavalli si frammischiano
vociferazioni, grida di rabbia ed urli di dolore e di
disperazione.
Più lungi è l’artiglieria lanciata a tutta carriera e che
segue la cavalleria; essa apresi una strada attraverso i
cadaveri e i feriti giacenti indistintamente sul terreno:
allora schizzano le cervella, son rotte e fratturate le
membra, la terra s’imbeve di sangue, e la pianura è
cosparsa di umane reliquie.
17
Le truppe francesi salgono i rialti, danno la scalata col
più focoso ardore alle colline dirupate ed alle scogliose
balze sotto la fucilata austriaca e gli scoppi delle bombe
e della mitraglia. Appena un rialto è preso ed alcune
compagnie scelte han potuto giungere alla sua vetta,
affrante di fatica e grondanti di sudore, e già piombando
come una vallanga sopra gli Austriaci, li rovesciano, e
cacciandoli da un posto all’altro gli incalzano e gli
inseguono fino nel fondo dei burroni e dei fossi.
Le posizioni degli Austriaci sono eccellenti, ed ei si
sono trincerati nelle case e nelle chiese di Medole, di
Solferino e di Cavriana. Ma nulla arresta, nulla
sospende o diminuisce la carneficina: è un ammazzarsi
all’ingrosso, un ammazzarsi al minuto; ogni crespa di
terreno è presa a bajonetta, i posti sono contesi piede a
piede; i villaggi strappati al nemico casa dopo casa,
masseria dopo masseria; ciascuna di esse obbliga ad un
assedio, e le porte, le finestre, le corti non sono altro più
che un’orrenda mischia di sgozzamenti.
La mitraglia francese produce un terribile disordine
nelle masse austriache; essa copre le falde di corpi morti
e porta la devastazione, a distanze prodigiose, fino nelle
lontane riserve dell’armata tedesca. Ma se gli Austriaci
cedono il terreno, ei nol cedono che passo a passo e per
riprendere bentosto l’offensiva; le loro file si riformano
incessantemente per essere bentosto ancora affondate di
nuovo.
Nella pianura il vento solleva le onde di polvere di
cui le strade sono ricoperte, ne forma nubi compatte che
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oscurano l’aria e accecano i combattenti.
Se la lotta pare qualche istante piegare qua o là, non è
che per ricominciare con maggior forza. Le riserve
fresche degli Austriaci riempiono tostamente i vuoti che
fa nelle loro file la furia d’un attacco tenace non meno
che micidiale. Odesi continuo or da un lato, or d’un
altro rintronare i tamburi e suonare a carica le trombe.
La guardia si conduce col più nobile coraggio. I
volteggiatori, i cacciatori e la truppa di linea con essi
gareggiano in valore ed audacia. Gli zuavi si precipitano
a bajonetta, andando a balzelloni come fiere selvagge e
gettando grida feroci. La cavalleria francese piomba
sulla cavalleria austriaca: ulani ed usseri si passano da
banda a banda e si squarciano: i cavalli eccitati
dall’ardore del combattimento partecipano essi
medesimi a questo furore; essi gettansi sopra i cavalli
nemici cui mordono rabbiosamente intanto che i loro
cavalieri si atterrano a colpi di sciabola e a fendenti.
L’accanimento è tale che su alcuni punti, essendo
esauste le munizioni e spezzati i fucili, non è che un
accopparsi a colpi di pietra, un battersi corpo a corpo. I
croati sgozzano quanto loro si fa incontro; essi finiscono
i feriti dell’armata alleata e li fanno morire a colpi di
calcio, intanto che i cacciatori algerini, malgrado gli
sforzi de’ loro capi per calmare la loro ferocia,
colpiscono del pari gli infelici morenti, officiali o soldati
austriaci, e si avventano sui ranghi nemici con selvaggi
ruggiti e grida terribili.
Le più forti posizioni sono prese, perdute, poi riprese,
19
per essere perdute ancora e di nuovo riconquistate.
Dappertutto gli uomini cadono, a migliaja, mutilati,
trivellati da palle o mortalmente colpiti da projettili
d’ogni specie.
Quanto allo spettatore posto sulle alture che stanno
presso a Castiglione, s’ei non può seguire tutto lo
sviluppo della battaglia, comprende però che è il centro
delle truppe alleate quello cui gli austriaci cercano di
porre a sbaraglio, per rallentare e fermare gli attacchi
contro Solferino, cui la sua posizione ammirabile rende
il punto capitale della battaglia; egli indovina gli sforzi
dell’Imperatore de’ francesi per riunire i diversi corpi
della sua armata, onde possano sostenersi ed
appoggiarsi a vicenda.
L’imperator Napoleone, con un colpo d’occhio pronto
egualmente ed esperto, vedendo che le truppe austriache
mancano d’una direzione d’insieme forte ed omogenea,
ordina ai corpi d’armata Baraguey d’Hilliers e Mac-
Mahon, poi tostamente alla guardia imperiale
comandata dal bravo maresciallo Regnaud de Saint-Jean
d’Angely, d’attaccare simultaneamente i trinceramenti
di Solferino e di San Cassiano, e di sfondare così il
centro nemico composto dei corpi d’armata Stadion,
Clam-Gallas e Zobel, i quali non vengono che l’un dopo
l’altro a difendere quelle posizioni così importanti.
A San Martino, il valoroso ed intrepido
feldmaresciallo Benedek, con una parte solamente della
seconda armata austriaca, tien testa nella giornata
all’armata sarda, la quale combatte eroicamente sotto gli
20
ordini del proprio re che la elettrizza colla sua presenza.
L’ala destra dell’armata alleata, composta dai corpi
comandati dal generale Niel e dal maresciallo
Canrobert, resiste con una indomabile energia alla prima
armata tedesca, comandata dal conte Wimpffen, della
quale però i tre corpi Schwarzenberg, Schaffgotsche e
de Veigl non ponno giungere ad operare di concerto.
Per conformarsi puntualmente agli ordini
dell’imperatore dei francesi, conservando una posizione
d’aspettativa, la quale non è senza avere la sua ragion
d’essere affatto plausibile, il maresciallo Canrobert non
impegna dalla mattina le sue forze disponibili;
contuttociò la più gran parte del suo corpo d’armata, le
divisioni Renault e Trochu e la cavalleria del generale
Partonneaux finiscono per prendere una vivissima parte
all’azione.
Se il maresciallo Canrobert, è dapprima contenuto
dalla aspettativa di veder giungere sopra di lui il corpo
d’armata del principe Edoardo di Liechtenstein non
compreso nelle due armate austriache, ma che sortito la
mattina stessa da Mantova preoccupava l’imperator
Napoleone, il corpo Liechtenstein alla sua volta è
compiutamente paralizzato dal maresciallo Canrobert e
dalla apprensione che s’avanzi il corpo d’armata del
principe Napoleone, del quale una divisione veniva da
Piacenza.
Sono i generali Forey e de Ladmirault che, colle loro
valorose colonne, ebbero le primizie dell’attacco di
21
questa memoranda giornata; essi divengono padroni,
dopo indescrivibili combattimenti, delle creste e delle
colline che mettono al grazioso rialto dei Cipressi, reso
per sempre celebre, colla torre e il cimitero di Solferino,
per l’orrendo massacro onde quei luoghi furono gloriosi
testimoni e sanguinoso teatro; questo colle dei Cipressi
è finalmente preso d’assalto e sulla vetta il colonnello
d’Auvergne fa sventolare la sua pezzuola in cima alla
sua spada in segno di vittoria.
Ma questi successi son caramente pagati dalle perdite
sensibili che fanno gli Alleati. Il generale de Ladmirault
ha la spalla fratturata da una palla: a stento questo
eroico ferito consente di lasciarsi medicare in
un’ambulanza stabilita nella cappella d’un piccolo
villaggio, e malgrado la gravità della sua ferita, ei
ritorna a piedi sul luogo del combattimento ove continua
ad animare i suoi battaglioni, quando una seconda palla
lo colpisce alla gamba sinistra.
Il generale Forey, sempre calmo e impassibile in
mezzo alle difficoltà della sua posizione è ferito
all’anca, il mantello bianco ch’ei porta sopra la sua
divisa è traforato di palle, i suoi ajutanti di campo son
colpiti al suo fianco; ad un d’essi, il capitano de
Kervenoël, d’anni venticinque, è portato via il cranio da
una scheggia di granata.
Appiè del colle dei Cipressi e mentre conduceva
innanzi i suoi cacciatori, il general Dieu, rovesciato da
cavallo, cade ferito mortalmente; e il generale Douay è
pur ferito, non lungi dal suo fratello, il colonello Douay,
22
che è ucciso. Il generale di brigata Auger ha il braccio
sinistro fracassato da una palla di cannone e guadagna il
suo grado di generale di divisione su questo campo di
battaglia, che gli costerà la vita.
Gli officiali francesi, sempre davanti, agitando in aria
la loro spada e trascinando col loro esempio i soldati che
li seguono, sono decimati alla testa dei loro battaglioni
dove le loro decorazioni e i loro spallini li designano ai
colpi dei cacciatori tirolesi.
Quanti drammi, quanti episodi d’ogni genere, quante
peripezie commoventi!
Nel primo reggimento de’ cacciatori d’Africa, e allato
al locotenente colonnello Laurans des Ondes, che cade
istantaneamente colpito a morte, il sottotenente de
Salignac Fénelon, dell’età di soli ventidue anni,
sbaraglia un quadrato austriaco, e paga colla sua vita sì
brillante azione.
Il colonnello da Maleville che sotto il fuoco terribile
del nemico, alla masseria dalla Casa Nova, vedesi
oppresso dal numero, e il cui battaglione non ha più
munizioni, afferra la bandiera del reggimento a si
slancia innanzi esclamando: «Chi ama la sua bandiera,
mi segua!» I suoi soldati, benchè estenuati di fame e di
fatica, si precipitano sulle sue orme la bajonetta innanzi:
una palla gli rompe la gamba, ma ad onta di spasimi
crudeli, ei continua a comandare facendosi sostenere sul
suo cavallo.
Non lungi di là, il capo-battaglione Hébert è ucciso
23
nello avventarsi fra il più forte della mischia per
impedire la perdita di un’aquila; rovesciato e calpestato
sotto i piedi ei grida ancora ai suoi prima di morire:
«Coraggio, miei figliuoli!»
Sull’altura della torre di Solferino, il luogotenente
Monéglia, appartenente ai cacciatori a piedi della
guardia, s’impossessa da solo di sei pezzi d’artiglieria,
di cui quattro cannoni coi cavalli attaccati e comandati
da un colonnello austriaco che gli rimette la sua spada.
Il luogotenente de Guiseul, che porta la bandiera d’un
reggimento di linea, è preso in mezzo col suo
battaglione da forze dieci volte superiori; colpito da una
palla, stramazza sul terreno stringendo contro il suo
petto il prezioso deposito; un sergente afferra la
bandiera per salvarla dalle mani del nemico, ed ha la
testa squarciata da una palla di cannone; un capitano che
s’impossessa dell’asta, è colpito egli pure e tinge col suo
sangue lo stendardo che si rompe e lacera; tutti quelli
che lo portano, sottofficiali e soldati, cadono alla lor
volta, ma viventi e morti gli fanno attorno un ultimo
baluardo co’ loro corpi; infine quella gloriosa reliquia
finisce per restare, tutta mutilata, tra le mani d’un
sergente maggiore del reggimento del colonnello
Abattucci.
Il comandante de la Rechefoucauld Liancourt,
intrepido cacciatore d’Africa, si slancia contro dei
quadrati ungheresi, ma il suo cavallo è crivellato di
palle, ed ei medesimo, ferito da due colpi, è fatto
prigioniero dagli ungheresi che hanno richiuso il loro
24
quadrato1.
A Guidizzolo, il principe Carlo de Windisch-Grætz,
colonnello austriaco, affronta una morte sicura
cercando, alla testa del suo reggimento, di riprendere e
pigliar d’assalto la forte posizione di Casa Nova:
mortalmente ferito egli comanda ancora; i suoi soldati lo
sorreggono, lo portano sulla loro braccia e stanno
immobili sotto una grandine di palle, formandogli così
un ultimo riparo; essi sanno che andran cadendo, ma
non vogliono abbandonare il loro colonnello che
rispettano ed amano, e il quale spira bentosto.
Gli è pur combattendo col più gran valore che i
luogotenenti feldmarescialli conte di Crenneville e conte
Palffy sono gravemente feriti, e nel corpo d’armata del
barone de Veigl, il feldmaresciallo Blomberg a il suo
generale-maggiore Baltin. Il barone Sturmfeder, il
barone Pidoll e il colonnello de Mumb sono uccisi. I
luogotenenti Steiger e Fischer cadono valorosamente,
non lungi dal giovine principe d’Isemburg, il quale, di
loro più fortunato, verrà raccolto d’in sul campo di
battaglia ancora con un soffio di vita.
Il maresciallo Baraguey d’Hilliers seguito dai
generali Lebœuf, Bazaine, da Négrier, Douay, d’Alton,
Forgeot, dai colonnelli Cambriels, Micheler, è penetrato
nel villaggio di Solferino, che è difeso dal conte Stadion
1 Avendo sentito che un la Rochefoucauld era stato fatto
prigioniero ed era ferito, l’imperator d’Austria ordinò che
fosse trattato con ogni maniera di riguardi e attorniato d’ogni
cura migliore.
25
e dai locotenenti feldmarescialli Palffy e Sternberg, le
cui brigate Bils, Puchner, Gaal, Kolter e Festetics
respingono lungo tempo i più violenti attacchi, nei quali
si segnalano il generale Camou co’ suoi cacciatori e
volteggiatori, i colonnelli Brincourt e de Taxis, che son
feriti, e il luogotenente colonnello Hémard che ha il
petto trapassato da due palle.
Il generale Desvaux, colla sua prodezza abituale e il
suo ammirabile sangue freddo, sostiene alla testa della
sua cavalleria, e in una lotta spaventevole l’urto
formidabile della fanteria ungherese: sempre alla testa
della sua divisione nei luoghi i più esposti, egli seconda
collo slancio irresistibile de’ suoi squadroni la vigorosa
offensiva del generale Trochu contro i corpi d’armata de
Veigl, Schwarzenberg e Schaffgotsche a Guidizzolo e a
Rebecco, dove distinguonsi egualmente contro la
cavalleria Mensdorff i generali Morris e Partonneaux.
L’incrollabile costanza del generale Niel, che tien
testa, nella pianura di Medole, coi generali de Failly,
Vinoy e de Luzy alle tre grandi divisioni dell’armata del
conte Wimpffen, permette al maresciallo Mac-Mahon,
coi generali de La Motterouge e Decaen e la cavalleria
della guardia di contornare le alture che formano la
chiave delle posizioni di San Cassiano e di Cavriana, e
di stabilirsi su quella serie di colline parallele dove sono
agglomerate le truppe dei feldmarescialli Clam-Gallas e
Zobel; ma il cavalleresco principe de Hesse, uno degli
eroi dell’armata austriaca, ben degno di misurarsi
26
coll’illustre vincitore di Magenta, e il quale s’è messo
alle prese così intrepidamente a San Cassiano, difende
contro assalti raddoppiati le tre alture del monte
Fontana. Il generale de Sevelinges vi fa issare sotto le
palle austriache i suoi cannoni rigati, i granatieri della
guardia vi si attaccano, non potendo i cavalli ascendere
que’ declivi dirupati; e, affinchè le batterie trasportate in
modo così originale sopra quelle colline possano
lanciare la morte sul nemico, i granatieri
approvvigionano di munizioni gli artiglieri formando
tranquillamente la catena sino ai cassoni rimasti nella
pianura.
Il generale da La Motterouge rimane finalmente
padrone di Cavriana, malgrado l’accanita resistenza e
gli offensivi ritorni dei giovani ufficiali tedeschi che
riconducono a diverse riprese i loro distaccamenti alla
pugna. I volteggiatori del generale Manèque
riforniscono, col mezzo di quella dei granatieri, le loro
giberne vuote, ma ben tosto nuovamente stremi di
munizioni, si lanciano a bajonetta sulle alture tra
Solferino e Cavriana, e malgrado le considerevoli forze
che hanno innanzi a loro s’impadroniscono di quelle
posizioni coll’ajuto dal generale Mellinet. Rebecco
viene in poter degli alleati, poi ricade in mano agli
austriaci, per essere di nuovo preso d’assalto, poi
ripreso, e restare definitivamente occupato dal generale
Rénault.
All’attacco del colle Fontana i cacciatori algerini
sono decimati, i lor colonnelli Laure e Herment sono
27
uccisi, i loro ufficiali soccombono in gran numero, ciò
che raddoppia il loro furore: ei si eccitano a vendicarne
la morte, e si riversano, colla rabbia dell’africano e il
fanatismo del Mussulmano, sopra i loro nemici cui essi
massacrano con frenesia e come tigri sitibonde di
sangue. I Croati gettansi a terra, nascondonsi nei fossati
lasciando avvicinare i loro avversari, poi subitamente
rialzandosi li uccidono a bruciapelo.
A San Martino, un ufficiale de’ bersaglieri, il
Capitano Pallavicini, è ferito, i suoi soldati lo ricevono
nelle loro braccia, lo portano e lo dopongono in una
cappella dove riceve le prime cure, ma gli austriaci,
momentaneamente respinti, ritornano alla carica e
penetrano in quella chiesa. I bersaglieri, troppo poco
numerosi per resistere, abbandonano il loro capo; e tosto
i Croati, prendendo delle grosse pietre che raccolgono
alla porta, ne schiacciano la testa del capitano, le cui
cervella schizzano sopra le loro tuniche.
È in mezzo a tali combattimenti così diversi rinnovati
dappertutto e senza posa, che odonsi uscire
imprecazioni dalla bocca d’uomini di nazioni differenti,
molti dei quali sono costretti d’essere omicidi a
vent’anni!
Nel più forte della mischia, allora che la terra tremava
sotto un uragano di ferro, di zolfo e di piombo, le cui
salve micidiali spazzavano il suolo, e che da tutte le
parti, solcando furiosamente l’aria come lampi ogni
volta mortali, linee di fuoco aggiungevano numerosi
martiri a questa ecatombe umana, — l’elemosiniero
28
dell’imperatore Napoleone, l’abate Laine, percorreva le
ambulanze portando ai morenti parole di consolazione e
di simpatia.
Il comandante Menessier, i cui due fratelli, l’uno
colonnello, l’altro capitano, perirono già valorosamente
a Magenta, cade alla sua volta a Solferino. Un
sottotenente della linea ha spezzato il braccio sinistro da
un biscaglino e il sangue cola abbondantemente dalla
sua ferita; assìso sotto un albero è preso di mira da un
soldato ungherese, ma questi è trattenuto da un de’ suoi
ufficiali, il quale, avvicinandosi al giovane ferito
francese, gli stringe compassionevolmente la mano, ed
ordina di portarlo in un posto meno pericoloso.
Delle vivandiere s’avanzano come semplici soldati
sotto il fuoco del nemico, esse vanno rialzando de’
poveri soldati mutilati, i quali domandano con istanza
dell’acqua, ed elleno stesse sono ferite nel dar loro a
bere e nel provare di medicarli2. A lato si dibatte, sotto il
peso del proprio cavallo ucciso da una scheggia di
granata, un ufficiale degli usseri indebolito dal sangue
che sgorga dalle sue proprie ferite; e non lungi di là,
passa un cavallo sfuggito, trascinando nella sua corsa il
cadavere insanguinato del suo cavaliere; più oltre de’
cavalli, più umani di coloro che li cavalcano, evitano ad
2 Sono forse quelle che furono abbruciate dai Messicani il 9
giugno 1862, attaccate vive con catene a dei carri di polvere,
con dieci soldati che, conducendo da Vera-Cruz un convoglio
di viveri e di munizioni al campo francese, si trovarono
avviluppati da alcune guerriglie ad una lega circa da Tejeria.
29
ogni passo di calpestare sotto i loro piedi le vittime di
questa furibonda ed appassionata battaglia.
Un ufficiale della legione straniera è atterrato da una
palla; il suo cane affezionatissimo a lui, che lo aveva
condotto seco dall’Algeria e che era l’amico di tutto il
battaglione, marciava con lui; trasportato dallo slancio
delle truppe, è colpito alcuni passi più lungi esso pure
da una palla, ma trova ancora la forza di trascinarsi per
rivenire a spirare sopra il corpo del suo padrone. In un
altro reggimento, una capra, adottata da un volteggiatore
e benvoluta dai soldati, sale impunemente all’assalto di
Solferino attraverso le palle e la mitraglia.
Quanti coraggiosi militari che non sono punto
arrestati da una prima ferita, e che continuano a
marciare innanzi finchè di nuovo colpiti sono gittati a
terra e messi fuor di stato di proseguire la battaglia!
Altrove all’incontro battaglioni intieri, esposti al fuoco
il più micidiale, debbono attendere immobili l’ordine
d’avanzare, e sono forzati di rimanere spettatori
tranquilli, ma bollenti d’impazienza, d’un
combattimento che li va decimando.
I Sardi difendono ed attaccano con avvisaglie ed
assalti, ripetuti dalla mattina alla sera, i colli di San
Martino, del Roccolo, della Madonna della Scoperta, i
quali sono presi e ripresi cinque e sei volte di seguito,
finchè finiscono col restar padroni di Pozzolengo,
quantunque non operino che a divisioni,
successivamente e con poco assieme. I loro generali
30
Mollard, La Marmora, Della Rocca, Durando, Fanti,
Cucchiari, De Sonnaz, Cialdini, cogli officiali di tutte le
armi e di tutti i gradi, secondano gli sforzi del loro
intrepido re, sotto gli occhi del quale sono feriti i
generali Perrier, Cerale e Arnoldi.
Riassumiamo qui secondo documenti officiali i
movimenti e l’azione che più particolarmente
riguardano l’armata sarda.
Il 23 giugno le truppe del re Vittorio Emmanuele
formavano la sinistra dell’armata alleata; avean esse il
loro quartier generale a Lonato, la destra ala (divisione
Fanti) a Malocco, la loro sinistra (Mollard) a Rivoltella
e al monte Cavaga. L’ordine loro di marcia le dirigeva
sopra Pozzolengo. Appare a prima vista la
disseminazione di questi diversi corpi e la difficoltà di
imprimer loro una direzione comune: disegnavano un
angolo rientrante il cui capo è Lonato, e i di cui lati
s’allontanano fuor misura, l’uno (la destra)
perpendicolare per collegarsi al corpo del maresciallo
Baraguay-d’Hilliers (estrema sinistra dei francesi),
l’altro, orizzontale, per estendersi lungo la ferrovia che
va nella direzione di Lonato a Rivoltella e al lago di
Garda.
Dalla tre del mattino alle sei l’armata sarda, volendo
esplorare il suo cammino, spinge innanzi ricognizioni
d’ogni canto. La colonna mandata dalla prima divisione
(generale Durando), sboccando nella Valle dei Quadri,
trova occupata dagli Austriaci la posizione nota sotto il
31
nome di Madonna della Scoperta. Un combattimento
alla bersagliera s’impegna da questa parte. Il
luogotenente colonnello Cadorna, partito da Lonato alle
tre del mattino, marcia alle testa d’un altro
distaccamento (quinta divisione) verso Pozzolengo. Egli
segue la strada Lugana e si lascia indietro il villaggio di
San Martino, il quale diverrà bentosto il teatro del
valore delle truppe italiane. La divisione Mollard invia
due ricognizioni inutili dal lato di Peschiera, le quali
rimangono sopra luogo senza aver incontrato il nemico;
due altre, diretto verso Pozzolengo, combinano la loro
marcia con quella del distaccamento comandato dal
luogotenente colonnello Cadorna, e, come questi, dan
bentosto di cozzo negli avamposti austriaci dinanzi
Pozzolengo e Madonna della Scoperta. A Pozzolengo
trovasi l’ottavo corpo dell’armata austriaca (Benedek), a
Madonna della Scoperta una parte del quinto corpo
(Stadion), stabilito a Solferino, e il quale è unito a
quello di Benedek per mezzo delle brigate Gaal e
Koller.
Nelle ore successive l’armata piemontese accelera il
movimento delle sue divisioni per sostenerne le
vanguardie già molto strettamente alle prese. La
vanguardia della prima divisione, respinta da Madonna
della Scoperta, è costretta ripiegare verso Fenile
Vecchio; quella della quinta divisione (Cucchiari), alle
strette cogli avamposti di Benedek, manda a chiedere un
pronto appoggio che le è tosto recato dal generale
Mollard (terza divisione), che dirige da questa parte
32
tutte le forze che ha sotto i suoi ordini e prende
posizione sul fianco destro degli Austriaci. Invano tenta
egli però di ritardare le loro mosse d’offensiva già
troppo marcate. I Piemontesi, dovendo piegare innanzi a
forze assai superiori, eseguiscono in eccellente ordine il
loro movimento retrogrado, e vanno a riparare appiede
delle alture di Casetta e di San Martino, guarnite d’un
battaglione di bersaglieri a d’un battaglione d’infanteria.
È da rimarcare che la destra dei Piemontesi, comandata
dal general Fanti, non s’era peranco mossa innanzi; essa
sia immobile a Malocco aspettando ordini che non
giungono.
Ma essendo le ricognizioni piemontesi state rigettate
sulle loro rispettive divisioni, la battaglia impegnasi per
queste in condizioni disfavorevoli. Esse rimangon
disseminate; non si vedranno concentrarsi se non molto
più tardi, e sempre si troveranno dinnanzi forze
numericamente superiori. Il generale Durando,
provveduto di rinforzi e invitato dall’imperatore a
collegarsi al primo corpo dell’armata francese, tenta uno
sforzo vigoroso e s’impadronisce momentaneamente
della posizione occupata dagli Austriaci a Madonna
della Scoperta; ma, trascinato ad inseguire il nemico, è
ricondotto indietro da un nuovo movimento offensivo di
quest’ultimo, il quale gli fa perdere la posizione
conquistata e lo costringe a ritirarsi all’altezza di
Caselin-Nuova, dietro al secondo granatieri. Per
neutralizzare questo ritorno offensivo, ei manda verso il
monte Guca due battaglioni i quali cercano modo di
33
attaccare Madonna della Scoperta. Questi due
battaglioni incontrano colonne austriache che li forzano
a rifar cammino, e le quali anzi s’avanzano fino alla
Casa Sojeta, dove stabiliscono una batteria le cui palle
giungono a fermare il secondo granatieri in marcia verso
Madonna della Scoperta. Gli Austriaci respingono i
Piemontesi da San Martino e vi si stabiliscono
solidamente malgrado i vivi attacchi della brigata
Cuneo. E in questo momento che Vittorio Emmanuele,
sovraggiungendo a galoppo sul luogo dell’azione,
gridava allegramente alle sue truppe: « Su, figliuoli,
bisogna riprendere San Martino, o il nemico ce lo farà
fare a noi!...3» Due volte quella brigata penetra nel
villaggio, due volte ne è respinta, ed infine vedesi
ridotta a riorganizzare i suoi ranghi decimati dietro la
ferrovia. Il generale Cucchiari giunse bene a proposito
per proteggerne la ritirata, che il generale Benedek
aveva già fatto partire per Cavriana un ufficiale
incaricato d’informare l’imperatore Francesco Giuseppe
che prima delle dieci del mattino egli avrebbe tagliate le
comunicazioni tra l’armata sarda e la francese. Le
truppe del general Fanti cominciano a muoversi solo
verso le undici.
Fino quasi alle due del pomeriggio la situazione delle
truppe sarde continua ad aggravarsi. Tutti i conati del
general Durando non tolgono che gli Austriaci non
3 Far San Martino, in volgare italiano, è detto per isloggiare,
mutar domicilio, a cagione della data la più comune delle
locazioni.
34
guadagnino terreno. La brigata Savoja contiene le
truppe di Gaal; ma il general Koller continua a girare di
fianco sulla destra dei Piemontesi. È in questi istanti che
alcuni pezzi di artiglieria, messi in posizione,
soffermano la colonna di Koller; essi furono diretti da
questo lato dal generale Forgeot, comandante
l’artiglieria del primo corpo (Baraguay d’Hilliers), e,
quantunque tirassero a 1,600 metri, il loro fuoco ben
nutrito gitta lo scompiglio nei ranghi della brigata
Koller e la fa volgere addietro. Il generale Cucchiari
riprova ancora una volta di entrare a San Martino. Un
primo assalto eseguito dalla brigata Casale vien
dapprima coronato del più bel successo: la chiesa di San
Martino, la Contracania, parecchie masserie, cadono in
mano dei Piemontesi; ma gli Austriaci, riprendendo
l’offensiva, tempestano di mitraglia, a 200 metri, la
sinistra del general Cucchiari. I battaglioni piegano e
scuoprono le truppe poste alla loro destra, per cui è
necessario un nuovo movimento retrogrado ad onta d’un
reggimento fresco, il diciottesimo fanteria, che entra in
linea.
La divisione Fanti, mossasi alle undici, portavasi
dalla parte di Solferino, per concorrervi, dandosi il caso,
all’attacco delle posizioni centrali dell’armata Austriaca.
Dopo un’ora e mezzo di marcia in questa direzione, un
messaggio urgente del re Vittorio Emmanuele lo chiama
dalla parte di San Martino. La brigata Aosta vi si reca in
soccorso del generale Mollard; la brigata Piemonte
accorre a raggiungervi il general Durando verso
35
Madonna della Scoperta. In questo intervallo, la brigata
Savoja, entrata in linea tutta intiera, frena a grande
stento i progressi delle brigate austriache Gaal e Koller;
essa conserva però le sue posizioni ad onta dei loro
reiterati attacchi. Quanto al generale Durando, rimasto
solo dinnanzi a Madonna della Scoperta, dopo la ritirata
di Cucchiari, egli sta attendendo i rinforzi che Fanti gli
conduce, e procura, mantenendo vivo il combattimento,
d’impedire che il generale Benedek non distacchi alcune
delle sue sei brigate di fanteria in soccorso del conte
Stadion, al quale in quei momenti era tolto d’assalto
Solferino. Anche con ciò solamente, ei rende un servizio
reale alle truppe francesi. Verso le tre del pomeriggio, il
generale Mollard riceve dal re Vittorio Emmanuele
l’ordine d’attaccare ancora San Martino d’accordo colla
brigata Aosta, che è per arrivare, e di concerto in pari
tempo col quinto corpo (Cucchiari).
Da questo punto fino alla notte avvengono le mosse
che decidono della giornata. L’armata francese ha rotto
il centro degli Austriaci. I corpi d’armata Baraguay
d’Hilliers e Mac-Mahon hanno oltrepassato Solferino e
Cavriana. I generali Regnault e de Failly minacciano
Guidizzolo, ultimo punto ove gli Austriaci tengon fermo
ancora, all’estrema destra della battaglia. È a quest’ora
che, avvertito essere il quinto corpo (Cucchiari) in vista
avanzantesi in tutta fretta, il generale Mollard aveva
dato appunto il comando d’attaccare San Martino, di cui
era d’uopo, dicevano gli ordini reali, impossessarsi
36
prima della notte. Il segnale di quest’ultimo attacco:
Avanti! alla carica! fu dato del re medesimo, che così
gridava galoppando di fronte ai battaglioni che si
slanciavano innanzi. È poi per effetto di tutti questi
movimenti combinati, dell’ardore di questi ultimi
attacchi e del successo su tutta la linea degli alleati che
l’imperatore Francesco Giuseppe accetta fremente il
destino e si decide ad ordinare la ritirata generale; ed era
tempo, chè stava per iscoppiare quella tremenda
tempesta che ebbe poi tanto a favorire il movimento
retrogrado dell’armata Austriaca arrestando l’ulteriore
slancio vittorioso delle truppe alleate.
È qui mestieri di ricordare, che dal lato di Madonna
della Scoperta, l’ordine generale di ritirata avea già
determinato la brigate Gaal e Koller a volgere addietro,
e che il generale La Marmora, inviato dal re a dirigere
su questo punto le operazioni delle truppe sarde, si trovò
quindi libero, mercè il ritirarsi di queste due brigate, di
lanciare egli pure verso San Martino la divisione
Durando, rinforzata dalla brigata Piemonte. La fanteria
piemontese, avventatasi all’assalto delle posizioni, non
riuscì dapprima che ad impadronirsi delle masserie a
mezza costa. Sopravvennero a galoppo quattro batterie
d’artiglieria che fulminarono il villaggio. Sotto la loro
protezione la brigata Aosta ascese le costiere e riesciva
prima a coronare la spianata, su cui venne bentosto a
raggiungerla la terza divisione d’artiglieria della quale,
prontamente posta in azione, precipitò e scompigliò la
37
ritirata del nemico, cui il generale La Marmora
inseguiva fino a Pozzolengo ad onta di alcuni ritorni
offensivi.
La prima divisione, ritardata da una scaramuccia dal
lato del monte Fani, non aveva potuto giungere in tempo
per partecipare alla presa di San Martino.
Durante questa azione nella sola terza divisione
(Mollard), sopra quattro colonnelli, tre rimasero sul
campo di battaglia alla testa de’ loro reggimenti, il
quarto ed un generale di brigata (Arnaldi) rimasero
feriti. Alcuni reggimenti montarono per ben quattro
volte all’assalto di San Martino; il re, come a Palestro,
come dappertutto, era sempre nel più forte della
mischia, da cui invano tentavasi ritrarlo.
Tale è, ora per ora, passo per passo l’azione di San
Martino, la quale, se presenta sovente lo spettacolo
d’una difensiva fermamente e coraggiosamente
mantenuta, si illustra tanto più per gli ostinati e replicati
assalti di posizioni così formidabili4.
38
Nell’armata francese, dopo i marescialli e i generali
di divisione, come non menzionare la parte gloriosa che
spetta pure a que’ valorosi generali di brigata, a tutti
que’ brillanti colonnelli, a tanti bravi capitani e
comandanti che han contribuito così efficacemente al
risultato finale di quella grande giornata? E certo, eravi
gloria a combattere e vincere guerrieri come un principe
Alessandro de Hesse, uno Stadion, un Benedek, o un
Carlo da Windisch-Grætz!5
39
«Sembrava che il vento ci avesse spinti,» diceva
pittorescamente un semplice piccolo soldato della linea,
per darmi l’idea del brio e dell’entusiasmo de’ suoi
compagni nel gittarsi con lui nella mischia; «l’odore
della polvere, il rumore del cannone, i tamburi che
battono e le trombe che risuonano, tutto ciò vi anima, vi
eccita!» In questa lotta infatti ogni uomo sembrava
battersi come se la sua propria riputazione si trovasse
personalmente a periglio, e che dovesse far della vittoria
affare suo proprio particolare.
V’è realmente uno slancio e una prodezza tutta
speciale in quegli intrepidi sotto-officiali dell’armata
francese pei quali non esistono ostacoli, e i quali, seguiti
dai loro soldati, si lanciano ne’ luoghi i più pericolosi o i
più esposti, come se corressero ad una festa.
Le truppe dell’imperatore Francesco Giuseppe sonosi
ripiegate. L’armata del conte Wimpffen ricevette la
prima dal suo capo, l’ordine di cominciare la ritirata,
avanti ancora che il maresciallo Canrobert avesse
dispiegato tutte le sue forze; e l’armata del conte
Schlick, malgrado la fermezza del conte Stadion, troppo
debolmente secondato dal luogotenenti-feldmarescialli
Clam-Gallas e Zobel, salvo la divisione del principe de
Hesse, dovette abbandonare tutte le posizioni delle quali
gli Austriaci avean fatto altrettante fortezze.
Il cielo s’è oscurato e dense nubi coprono tutto a un
tratto l’orizzonte, il vento si scatena con furore e
insieme in qualche luogo entro due anni!»
40
trasporta nello spazio i rami degli alberi che si
spezzano; una pioggia fredda e cacciata dall’uragano o
piuttosto un vero tifone innonda i combattenti, già
estenuati di fame e di fatica, in pari tempo che bufere e
vortici di polvere accecano i soldati, obbligati di lottare
anche contro gli elementi. Gli Austriaci, battuti in viso
dalla tempesta, si riordinano nullameno alla voce de’
loro officiali; ma verso le cinque ore del pomeriggio
l’accanimento vien sospeso forzatamente d’ambe le
parti, dai torrenti di pioggia, dalla grandine, dai lampi,
dai tuoni e dalla oscurità che invade il campo di
battaglia.
Per tutto il tempo della durata dell’azione il capo
della casa di Absburgo mostra una calma e un sangue
freddo rimarchevoli; la presa di Cavriana lo trova, col
conte Schlick e il suo ajutante di campo il principe di
Nassau, sopra un’altura vicina, la Madonna della Pieve,
presso una chiesa circondata di cipressi. Allorquando il
centro austriaco ebbe piegato, e che l’ala sinistra non
conservò più alcuna speranza di forzare la posizione
degli alleati, la ritirata generale fu decisa, e
l’imperatore, in questo momento solenne, si rassegna a
dirigersi, con una parte del suo stato maggiore, dal lato
di Volta, intanto che gli arciduchi e il gran duca
ereditario di Toscana si ritirano a Valeggio. Sopra
diversi punti il timor panico invade le truppe tedesche, e
per molti reggimenti la ritirata si muta in una rotta
completa; invano i loro officiali, che si sono battuti da
valorosi, cercano di rattenerli; le esortazioni, le ingiurie,
41
i colpi di sciabola, nulla li arresta, il loro spavento è
troppo grande, e que’ soldati che han combattuto
coraggiosamente, preferiscono ora di lasciarsi battere ed
insultare piuttosto che non fuggire.
La disperazione dell’imperator d’Austria è immensa,
egli che si è condotto valentemente, e che ha veduto le
palle e i projettili piovere intorno a lui, non può
rattenersi dal piangere alla vista di questo disastro;
trasportato dal dolore, ei si slancia perfino davanti ai
fuggiaschi per rimproverarli della loro vigliaccheria.
Quando la calma successe alle esplosioni di questa
veemente esaltazione, ei contempla in silenzio quel
teatro di desolazione, grosse lagrime scorrono sulle sue
gote, e solamente pelle istanze de’ suoi ajutanti di
campo acconsente ad abbandonar Volta e partire per
Valeggio.
Nella loro costernazione v’hanno officiali austriaci
che si fanno uccidere per la disperazione e la rabbia, ma
non senza vender cara la loro vita; parecchi si uccidono
nell’eccesso della loro angoscia e non volendo
sopravvivere a quella fatale disfatta; la maggior parte
raggiungono i loro reggimenti tutto coperti del sangue
delle loro ferite o di quello del nemico. Rendiamo alla
loro bravura l’omaggio che merita.
L’imperator Napoleone si mostrò, durante tutta la
giornata, ovunque la sua presenza poteva essere
necessaria: accompagnato dal maresciallo Vaillant,
maggiore-generale dell’armata, dal generale de
42
Martimprey, ajutante-maggiore-generale, dal conte
Roguet, dal conte Montebello, dal generale Fleury, dal
principe della Moskova, dai colonnelli Reille, Robert,
da tutta la sua casa militare e dallo squadrone delle
cento-guardie, ei diresse costantemente la battaglia,
portandosi sui punti ove era mestieri trionfare degli
ostacoli i più difficili, senza inquietarsi del pericolo che
lo minacciava di continuo; al monte Fenile, il barone
Larrey, suo chirurgo, ebbe un cavallo ucciso sotto di lui
e parecchi delle cento-guardie della scorta furono
colpiti. Egli s’installò a Cavriana nella casa ove il
giorno medesimo erasi fermato l’imperator d’Austria,
ed è di là che indirizzò un dispaccio alla Imperatrice,
per annunziarle la sua vittoria.
L’armata francese si accampò nelle posizioni che essa
aveva conquistate nella giornata: la guardia bivaccava
tra Solferino e Cavriana, i due primi corpi occuparono le
alture vicine a Solferino, il terzo corpo era a Robecco, e
il quarto a Volta.
Guidizzolo rimase occupato fino a dieci ore della sera
dagli Austriaci la cui ritirata fu coperta all’ala sinistra
dal feldmaresciallo de Veigl, e all’ala destra dal
feldmaresciallo Benedek che, restato padrone di
Pozzolengo fino ad un’ora avanzata della notte, protesse
la marcia retrograda dei conti Stadion e Clam-Gallas. Le
brigate Koller e Gaal e il reggimento Reischach si
tennero con moltissimo onore, e sotto la condotta del
principe de Hesse le brigate Brandenstein e Wussin
43
eransi dirette sopra Volta, donde esse facilitarono il
passaggio del Mincio all’artiglieria per Borghetto e
Valeggio.
I soldati austriaci erranti sono raccozzati e condotti a
Valeggio; le strade sono coperte sia di bagagli
appartenenti ai diversi corpi, sia d’equipaggi di ponti e
di riserve d’artiglieria che si incalzano e si rovesciano
per raggiungere al più presto possibile il passo di
Valeggio; il materiale del treno fu salvato colla rapida
costruzione di ponti volanti. I primi convogli, composti
d’uomini leggermente feriti, cominciarono in pari tempo
ad entrare in Villafranca, i soldati feriti più gravemente
succedettero a loro, e per tutta la durata di quella notte
così triste l’affluenza ne fu enorme; i medici curavano le
loro piaghe, li riconfortavano con qualche alimento e gli
spedivano coi vagoni della ferrovia a Verona dove
l’agglomeramento divenne spaventevole. Ma
quantunque nella sua ritirata, l’armata abbia portati via
tutti i feriti che potè trasportare colle sue vetture e coi
carri di requisizione, quanti di questi infelici son lasciati
ancora giacenti e abbandonati sulla terra umida del
sangue loro!
Verso la fine della giornata e allorquando le ombre
del crepuscolo si stendevano sopra quel vasto campo di
strage, più d’un ufficiale o d’un soldato francese andava
quà e là cercando un camerata, un compatriota, un
amico; se egli trovava un militare di sua conoscenza,
poneasi in ginocchione presso lui, procurava di
rianimarlo, gli stringeva la mano, asciugava il suo
44
sangue, avvolgeva una pezzuola attorno al membro
fratturato, ma senza poter riuscire a procurarsi
dell’acqua per il povero paziente. Quante lagrime
silenziose furono sparse in quella sera lamentevole,
allora che ogni falso amor proprio, ogni rispetto umano
era posto da un canto!
Nel momento dell’azione ambulanze volanti erano
state stabilite in molte masserie, in case, in chiese e
conventi de’ dintorni, e perfino all’aria aperta, all’ombra
di alcuni alberi: là, gli ufficiali feriti nel mattino avean
subito una specie di fasciatura e dopo di essi i sotto
ufficiali e i soldati; tutti i chirurghi francesi mostrarono
uno spirito di sagrifizio infaticabile, e parecchi non si
permisero, per oltre a ventiquattr’ore, verun istante di
riposo; due di essi che erano nell’ambulanza posta sotto
gli ordini del dottore Méry, medico in capo della
guardia, ebbero ad amputare tante membra e a far tante
bendature che vennero meno; e in un’altra ambulanza,
uno dei loro colleghi, esausto di fatica, fu obbligato, per
poter continuare il suo ufficio, di farsi sostenere le
braccia da due soldati.
Nel tempo d’una battaglia una piccola bandiera
rossa6, fissa sopra un punto elevato, indica il posto dei
feriti o le ambulanze dei reggimenti impegnati
nell’azione, e per un tacito e reciproco accordo non si
appunta su quelle direzioni; cionullameno qualche volta
le bombe vi giungono, senza risparmiare gli ufficiali
45
computisti e gli infermieri, nè i forgoni carichi di pane,
di vino e di carne destinata a far del brodo per gli
ammalati. Quelli tra i soldati feriti che non sono
incapaci di marciare, recansi da sè medesimi a queste
ambulanze; si trasportano gli altri col mezzo di barelle o
di treggie, indeboliti ch’ei sono sovente da emorragie e
dalla privazione prolungata di ogni maniera di soccorso.
Su questa vasta estensione di paese così ineguale, di
oltre a venti chilometri di lunghezza, e dopo le fasi di
scompiglio, che apportava necessariamente un conflitto
così gigantesco, soldati, ufficiali e generali non ponno
sapere che d’un modo imperfetto l’esito di tutti i
combattimenti che furono dati e durante l’azione appena
potevano conoscere ed apprezzare affatto sicuramente
quello che accadeva a fianco a loro; questa ignoranza
erasi complicata nell’armata Austriaca per la confusione
o la mancanza di comandi generali, esatti e precisi.
Le alture che estendonsi da Castiglione a Volta
brillano di mille fuochi, alimentati con avanzi di cassoni
austriaci e con rami d’alberi che le palle o l’uragano
hanno schiantati; i soldati fanno asciugare a que’ fuochi
le loro vesti bagnate e s’addormentano, oppressi di
stanchezza, sopra i ciottoli o sul suolo; ma quelli che
son validi non riposano peranco, bisogna trovar
dell’acqua per fare la zuppa o il caffè dopo questa
giornata senza riposo e senza nutrimento.
Quanti episodi strazianti, quante commoventi
peripezie e disinganni d’ogni maniera! V’ha battaglioni
46
interi che non hanno bricciolo di viveri, e compagnie
alle quali s’avea fatto mettere zaino a terra e che sono
prive di tutto; altrove è l’acqua che manca, e la sete è
così intensa che ufficiali e soldati ricorrono a pozze
pantanose, limacciose e ripiene di sangue raggrumato.
Dagli ussari che ritornavano al bivacco, tra le dieci e
le undici ore dalla sera, perchè avean dovuto andar in
cerca dell’acqua e delle legne a grandi distanze per poter
fare il caffè, incontrarono tanti morenti strada facendo, i
quali supplicavano di dar loro a bere, che vuotarono
quasi tutti i loro bidoni adempiendo a questo dovere
caritatevole. Cionullameno il loro caffè potè finalmente
esser fatto, ma appena era esso pronto che, facendosi da
lontano sentire da’ colpi di moschetto, fu dato l’allarme;
gli usseri saltano lestamente a cavallo e partono
precipitosi nella direzione della fucilata, senza aver
avuto il tempo di bere il loro caffè che vien riversato nel
tumulto, ma bentosto s’accorgono che quel ch’essi
avevan preso per il nemico che tornasse alla carica,
erano soltanto colpi di fucile degli avamposti francesi,
le cui scolte facean fuoco sui loro propri soldati i quali
cercavano pure dell’acqua e delle legne, e che quelle
sentinelle avean preso per Austriaci. Dopo questo
allarme, i cavalieri tornarono spossati a gettarsi sul
terreno per dormirvi il resto della notte, ma il loro
ritorno non fu senza incontrare ancora numerosi feriti i
quali tutti chiedevano dell’acqua da bere. Un tirolese
che era steso non lungi dal loro bivacco, dirigeva loro
delle suppliche che non poteano essere esaudite, poichè
47
l’acqua mancava affatto; l’indomani fu trovato morto,
colla schiuma alla bocca e la bocca piena di terra; il suo
viso gonfio era verde e nero; egli erasi contorto fra
atroci convulsioni fin al mattino e le unghie delle sue
mani contratte erano arrovesciate.
Nel silenzio della notte odonsi per l’aria gemiti,
sospiri soffocati pieni d’angoscia e di dolore e voci
laceranti che chieggono soccorso: chi potrà mai ridire le
angonie di quella orribile notte!
Presso l’armata italiana, il re Vittorio Emmanuele,
d’animo sì eroico e pur tanto compassionevole di cuore,
faceva un rapido giro del campo a visitare le ambulanze:
quest’uomo che aveva sfidato impavido durante la
giornata i più gravi pericoli, si mostrava vivamente
commosso alla vista de’ suoi poveri feriti distribuendo
conforti e soccorsi. Ad un giovane volontario cui era
stata portata via una gamba da una palla di cannone,
appese di sua mano la medaglia del valor militare.
Pozzolengo, evacuata dagli austriaci per ultimo, era
ingombra principalmente dei loro feriti. Il medico in
capo dell’armata sarda, commendator Commisetti,
organizzò tostamente le ambulanze. Tutte le masserie
dei dintorni, Rivoltella, Desenzano, Lonato ecc. erano
zeppe di feriti: non bastando le chiese e le case dei
particolari, si improvvisavano ambulanze sotto i portici,
negli atrii; e gli abitanti gareggiavano di zelo e di
annegazione, e le donne furono angeli di consolazione e
48
di sacrificio.
Ma ad onta di ciò il lavoro è maggiore d’ogni buon
volere. I dottori militari, dopo aver prestata l’opera loro
sotto il fuoco nemico per tutto il tempo dell’azione,
passarono la notte, senza quasi toccare a cibo,
medicando i raccolti nella cascine, nella chiese,
all’aperto. Eppure l’indomani doveva mostrar loro che
molto e molto restava ancora a fare7! E notisi che
l’indomani parte dell’esercito sardo avea dovuto fare un
movimento avanti verso Peschiera, e che perciò i medici
addetti ai rispettivi reggimenti li dovettero seguire.
Non è qui forse fuor di luogo di porre in rilievo una
cosa che non fu mai abbastanza apprezzata nè presso
l’armata, nè generalmente. Si capisce come un soldato,
un ufficiale, che tiene un’arma in mano, eccitato dalla
voce de’ suoi superiori, dall’emulazione reciproca,
animandosi al suono delle belliche marce, possa
diventare anche un eroe; ma chi ha mai calcolato il
sangue freddo, il coraggio per così dire passivo, di cui
dev’essere dotato l’ufficiale di sanità, il quale sotto il
fuoco, tra il grido assordante dei combattenti, il
frastuono delle artiglierie, dei treni, e della cavalleria, in
49
faccia a membra palpitanti, chino per terra, disagiato, il
più di sovente stanco ed assetato, deve fare le più
delicate operazioni, le quali impongono talvolta anche ai
più pratici negli anfiteatri anatomici? Eppure come poco
è egli spesso apprezzato e ricompensato! E si pensi che
allora allora comincia soltanto la vera battaglia
dell’ufficiale sanitario, giacchè gli conviene sfidare i
miasmi, le malattie contagiose, e tutta la sequela degli
agglomeramenti d’uomini feriti o malati, stipati negli
ospitali volanti8.
Il sole del 25 illuminò uno degli spettacoli i più
spaventevoli che si possano presentare all’imaginazione.
Il campo di battaglia è in ogni parte coperto di cadaveri
d’uomini e di cavalli; le strade, i fossati, gli
avvallamenti, le macchie, i prati sono cosparsi di corpi
morti, e gli accessi di Solferino ne sono letteralmente
coperti. I campi sono devastati, i frumenti e il grano
turco sono calpesti, le siepi rovesciate, saccheggiati i
frutteti, di tratto in tratto s’incontrano pozze di sangue. I
villaggi sono deserti, e portan le tracce del guasto della
fucilata, dei razzi, delle bombe, delle granate e degli
obizzi; i muri sono squassati e bucati dalle palle di
cannone che vi hanno aperte larghe brecce; le case sono
foracchiate, piene di screpolature, deteriorate; i loro
50
abitanti che han passato quasi ventiquattr’ore nascosti e
rifugiati nelle loro cantine, senza lume e senza vitto,
cominciano ad escire, e il loro aspetto di stupore attesta
il lungo spavento ch’essi han provato. Ne’ dintorni di
Solferino, sopratutto nel cimitero di questo villaggio, il
suolo è coperto di fucili, di zaini, di giberne, di gamelle,
di sciacò, di elmi, di képys, di berretti da strapazzo, di
cinturoni, infine d’ogni maniera d’oggetti
d’equipaggiamento, e persino di squarci di vesti
imbrattati di sangue, come pure di mucchi d’armi
spezzate.
Gli infelici feriti che sono raccolti durante tutta la
giornata, sono pallidi, lividi, distrutti; gli uni, e più
particolarmente quelli che furono gravemente mutilati,
hanno istupidito lo sguardo, e pajono non comprendere
quello che loro si dice, ti piantano addosso occhi torvi,
ma tale apparente prostrazione non gl’impedisce di
sentire i loro dolori; gli altri sono inquieti ed agitati da
uno squassamento nervoso e da un tremito convulsivo;
ed altri ancora, colle piaghe spalancate nelle quali
l’infiammazione ha già incominciato a svilupparsi, sono
come dementi pel dolore, scongiurano che li si uccida,
e, col viso contratto, si contorcono nelle ultime strette
dell’agonia.
Altrove scorgonsi degli sventurati, i quali non solo
furono colpiti dalle palle e dalle schegge di granata che
li han gittati a terra, ma le cui braccia e le gambe furono
rotte dalle ruote dei pezzi d’artiglieria che son passate
sopra il loro corpo. L’urto delle palle cilindriche fa
51
scheggiarsi le ossa in tutti i sensi, di maniera tale che la
ferita che ne risulta, è sempre molto grave; le schegge
d’obizzo, le palle coniche producono esse pure fratture
sommamente dolorose e degli strazi interni spesso
terribili. Scheggiuole d’ogni sorta, frammenti di ossa,
brani di vesti, d’equipaggiamento o di calzatura, terra,
pezzi di piombo complicano e irritano la piaghe del
paziente e raddoppiano le sue angosce.
Colui che percorre questo immenso teatro dei
combattimenti della vigilia vi incontra ad ogni piè
sospinto, e in mezzo ad una confusione senza pari,
inesprimibili disperazioni e miserie d’ogni genere.
Reggimenti interi avean deposto gli zaini a terra, e il
loro contenuto per più d’un battaglione disparve,
paesani lombardi e cacciatori algerini essendosi
impadroniti di tutto ciò che loro cadde sotto la mano:
così i cacciatori e i volteggiatori della guardia che avean
dimesso il loro sacco presso Castiglione, per salire più
facilmente all’assalto di Solferino, recandosi in soccorso
della divisione Forey, e i quali avean passata la notte ne’
dintorni di Cavriana, dopo aver combattuto fino a sera
sempre avanzando, corrono l’indomani di buon mattino
ai loro zaini, ma li trovano vuoti, durante la notte tutto
era stato preso; la perdita era crudele per que’ militari, la
cui biancheria e le vesti d’uniforme sono sporche ed
imbrattate, o lacerate, e logore, e i quali si veggono
privati in pari tempo de’ loro effetti, fors’anco delle
modeste loro economie formanti tutta la lor picciola
52
sostanza, come eziandio d’oggetti d’affezione, che
ricordan loro la famiglia e la patria, o che loro furono
donati da madri, da sorelle, da fidanzate.
In più luoghi i morti furono spogliati da ladri, i quali
non rispettano nemmeno feriti ancora viventi; i
contadini lombardi sono sovratutto avidi di calzature,
cui essi strappano brutalmente dai gonfi piedi dei
cadaveri.
A queste deplorabili scene frammettonsi drammi
solenni e patetici. Quà il vecchio generale Le Breton
erra in cerca di suo genero, il generale Douay ferito, e il
quale ha lasciato sua figlia, la sposa del generale Douay,
ad alcune leghe di distanza, in mezzo al trambusto e
nella inquietudine la più angosciosa. Là è il corpo del
luogotenente-colonnello de Neuchèze, che avendo
veduto il suo capo, il colonnello Vaubert de Genlis,
rovesciato da cavallo e pericolosamente ferito, era stato
colpito d’una palla al cuore nel momento che si
slanciava a prendere il comando. Non lungi è il
colonnello de Genlis medesimo, agitato da una febbre
ardente, e al quale si prodigano le prime cure, e il sotto-
tenente de Selve de Sarran, dell’artiglieria a cavallo, il
quale, uscito un mese innanzi da Saint-Cyr, sta subendo
l’amputazione del braccio destro. Ecco un povero
sergente-maggiore dei cacciatori di Vincennes che ha le
due gambe traforate da palle, che io rivedrò in un
ospitale di Brescia, che io ritroverò ancora in uno dei
vagoni della ferrovia che mi ricondurrà da Milano a
Torino, e che deve morire pelle conseguenze delle sue
53
ferite nel passare il Moncenisio. Il luogotenente de
Guiseul, che credevasi morto, è rilevato sul posto dove,
caduto colla sua bandiera, era rimasto privo di sensi.
Vicino affatto e come nel centro d’un atterramento di
lancieri e cacciatori austriaci, di turcos e di zuavi, e
nella sua elegante divisa orientale, giace il cadavere
d’un officiale musulmano, il luogotenente dei cacciatori
algerini Larbi ben Lagdar, il cui viso abbronzato e
brunito riposa sul petto squarciato d’un capitano illirico
dalla casacca d’una splendida bianchezza; que’ mucchi
di umani avanzi esalano un vapore di sangue. Il
colonnello de Maleville, così eroicamente ferito alla
Casa Nova, rende gli estremi aliti; si sotterra il
comandante de Pongibaud che soccombette nella notte,
e ritrovasi il corpo del giovane conte de Saint-Paër, il
quale, da una settimana soltanto, aveva guadagnato il
suo grado di capo battaglione. Là pure il valoroso sotto-
tenente Fournier, dei volteggiatori della guardia,
gravemente ferito il giorno innanzi, termina a vent’anni
la sua carriera militare: preso ingaggio volontario a dieci
anni, caporale ad undici, sotto-tenente a sedici, egli
aveva fatto già due campagne in Africa, e la guerra di
Crimea nella quale era stato ferito all’assedio di
Sebastopoli9. È pure a Solferino che doveva estinguersi
9 Il sottotenente Gian Francesco Fournier, nato a Metz il 6
febbrajo 1839, erasi ingaggiato, come volontario, nella
legione straniera il 4 giugno 1849, ed era passato in Algeria;
fu nominato caporale il 6 aprile 1850, sergente il 1. aprile
1851, sergente foriere l’11 luglio 1852, e sergente-maggiore
54
uno dei nomi gloriosi del primo impero francese nella
persona del luogotenente-colonnello Junot, duca
d’Abrantès, capo di stato-maggiore del generale de
Failly.
La mancanza di acqua si fa sentire sempreppiù, i fossi
sono esausti, i soldati non hanno la maggior parte che
una bevanda malsana e salmastra per attutare la loro
sete, e quasi in ogni luogo ove trovasi una fonte, delle
guardie, coll’arma carica, ne custodiscono l’acqua pei
malati; presso Cavriana un padule, divenuto infetto,
abbevera per due giorni ventimila cavalli d’artiglieria e
di cavalleria. Tra questi animali quelli che sono feriti,
che han perduto i lor cavalieri ed andarono errando tutta
la notte, traggono verso i gruppi de’ loro compagni ai
quali sembran chiedere soccorso; si finiscon
d’ammazzare con una palla. Uno di que’ nobili corsieri,
magnificamente bardato, venne a recarsi in mezzo ad un
distaccamento francese; il porta-mantello, che rimase
attaccato alla sella, contiene delle lettere e degli oggetti
che danno a conoscere com’ei dovette appartenere al
valoroso principe di Isemburgo: si fa ricerca tra i morti,
e scopresi il principe austriaco ferito ed ancora svenuto
per la perdita del sangue; ma le cure le più solerti che gli
55
vengono prodigate dai chirurghi francesi, gli
permetteranno più tardi di ritornare in seno alla sua
famiglia, la quale, priva di sue nuove ed avendolo
considerato come morto, aveane vestito il lutto.
Fra i morti, alcuni soldati hanno un viso calmo, son
quelli che, d’improvviso colpiti, furono uccisi all’atto;
ma un gran numero rimasero contratti pelle torture
dell’agonia, rigide e tese le membra, coperto il corpo di
macchie livide, le mani escavanti il terreno, gli occhi
fuormisura spalancati, irti i mostacchi, un riso sinistro e
convulso che lascia vedere i lor denti serrati.
S’impiegarono tre giorni e tre notti a seppellire i
cadaveri rimasti sul campo di battaglia10; ma sovra uno
spazio così esteso, moltissimi uomini che trovavansi
nascosti entro fossati, fra solchi, o coperti da cespugli o
da avvallamenti del terreno, non furono discoperti che
assai più tardi; ei tramandavano, del pari che i cavalli
uccisi, fetide emanazioni.
Nell’armata francese, per riconoscere e sotterrare i
morti, vien designato un certo numero di soldati per
ogni compagnia; d’ordinario quelli di un medesimo
corpo raccolgono i loro compagni d’arme; prendono il
numero di matricola degli effetti dell’uomo ucciso, indi
56
ajutati in questo penoso dovere da contadini lombardi,
retribuiti per questo, depongono il cadavere colle
proprie vestimenta in una fossa commune.
Sventuratamente nella precipitazione di cui è cagione
questo lavoro, e per causa dell’incuria e della rozza
negligenza di alcuni fra que’ contadini, tutto porta a
credere che più d’un vivente sarà stato sotterrato coi
morti. Le decorazioni, il danaro, l’orologio, le lettere e
le carte trovate addosso agli ufficiali vengono più tardi
inviate alle loro famiglie; ma con una tanta massa di
corpi da seppellire, non è sempre possibile d’adempiere
fedelmente questo dovere.
Un figlio, idolo de’ suoi genitori, allevato e
accuratamente assistito per lunghi anni da una tenera
madre che si spaventava alla menoma di lui
indisposizione; un ufficiale brillante, passionatamente
amato dalla sua famiglia, e il quale lasciò a casa la sua
sposa e i suoi figli; un giovane soldato, che, per entrare
in campagna, abbandonava la sua fidanzata, e quasi
sempre la propria madre, delle sorelle, il suo vecchio
padre, eccolo steso nel fango, nella polvere e intriso nel
suo sangue; il suo maschio e bel viso non è
riconoscibile, la sciabola o la mitraglia non l’hanno
risparmiato; ei tormenta, egli spira; e il suo corpo,
oggetto di tante cure, annerito, enfiato, spaventoso, sta
per essere gittato, tale e quale, entro una fossa appena
scavata, non sarà ricoperto che da qualche palata di
calce e di terra, e gli augelli di rapina non rispetteranno i
suoi piedi o le mani sue che escono dal suolo intriso o
57
dal muriccio che gli serve di tomba: si ritornerà, si
riporterà della terra, si pianterà forse una croce di legno
sul sito ove riposa, e sarà tutto!
Quanto ai cadaveri degli austriaci che sono sparsi a
migliaja su per le colline, i contrafforti e le creste delle
alture, o che sono dispersi frammezzo ai gruppi d’alberi
o nelle pianure di Medole, vestiti di giubbette di tela
squarciata, di cappotti grigi lordi di fango e di tuniche
bianche tutto rosse di sangue, sciami di mosche li
divoravano, e gli uccelli di rapina si librano al disopra di
que’ corpi verdastri, nella speranza di farne loro pasto;
vengono ammassati a centinaja entro grandi fosse
communi.
Quanti giovani ungheresi, boemi o rumeni, arruolati
da alcune settimane, che sonosi gettati a terra affranti da
fatica e inanizione, appena fuor della portata del fuoco,
o che affiacchiti dalla perdita del loro sangue,
quantunque leggermente feriti, perirono miseramente di
estenuatezza e di fame!
Fra gli Austriaci fatti prigionieri ve n’ha di quelli che
sono ripieni di terrore perchè s’avea stimato bene di
rappresentar loro i francesi, gli zuavi particolarmente,
come demonj senza pietà; a segno tale che alcuni,
nell’arrivare a Brescia e nel vedere gli alberi d’un
passeggio di questa città, domandarono seriamente se
era a quegli alberi che sarebbero appiccati; e parecchi
che ricevettero cure generose da soldati francesi, ne li
ricompensavano, nell’accecamento ed ignoranza loro, in
58
una guisa molto insensata: il sabbato mattina, un
volteggiatore, mosso da compassione al vedere steso sul
campo di battaglia un austriaco in uno stato miserando,
gli si avvicina con un gamellone pieno d’acqua e gli
presenta da bere; non potendo credere a tanta
benevolenza, l’austriaco afferra il suo fucile cui teneva
allato, e, con tutta la forza che gli rimane, colpisce col
calcio il caritatevole volteggiatore che resta contuso al
tallone ed alla gamba. Un granatiere della guardia vuol
rialzare un altro soldato austriaco tutto mutilato; questi
che avea presso di sè una pistola carica, l’afferra e fa
fuoco, a bruciapelo, sul soldato francese che gli portava
soccorso11.
«Non siate meravigliato della durezza e della
ruvidezza di alcune delle nostre truppe, mi diceva un
ufficiale austriaco prigioniero, perchè noi abbiamo dei
selvaggi, venuti dalle provincie le più remote
dell’impero, in una parola dei veri barbari nella nostra
armata».
11 Prima della battaglia di Melegnano, 8 giugno 1859, una
sentinella sarda, in fazione agli avamposti, essendosi lasciata
sorprendere da un distaccamento di soldati austriaci, questi le
cavano gli occhi, per insegnarle, essi le dicono, ad essere più
chiaroveggente un’altra volta; e un bersagliere ch’erasi
scostato dalla sua compagnia, essendo caduto in mano d’un
pugno d’austriaci, questi tagliarongli le dita, poi lo lasciarono
libero dicendogli: «Va a farti dare una pensione» — Speriamo
che questi fatti, i quali sono autentici, sieno presso a poco i
soli di questo genere che sieno stati commessi durante la
guerra d’Italia.
59
Alcuni soldati francesi volevano alla lor volta mettere
a mal partito alcuni prigionieri ch’ei prendevano per dei
croati, aggiungendo con esasperazione che «que’
pantaloni incollati», com’essi li designavano,
uccidevano sempre i feriti; erano però degli ungheresi, i
quali, sotto una divisa somigliante a quella dei croati,
non sono però così crudeli; io pervenni abbastanza
presto, collo spiegare questa differenza ai soldati
francesi, a trar loro di mano quegli ungheresi tutto
tremanti. Appo i francesi non avvi però verso i prigioni,
se pochi ne eccettui, che sentimenti di benevolenza; per
tal modo degli ufficiali austriaci sono stati autorizzati a
tener la loro sciabola o la loro spada per una cortesia
che usarono loro i comandanti d’armata; essi hanno lo
stesso nutrimento che gli ufficiali francesi, e quei che
sono feriti sono curati dai medesimi medici, e si giunge
fino a permettere ad uno di essi di ritornare in cerca de’
suoi bagagli. Molti soldati francesi dividono
fraternamente i loro viveri con dei prigionieri morenti di
fame; altri caricano sulle loro spalle dei feriti della
armata nemica per portarli alle ambulanze, e prestano
loro ogni sorta di buoni offici, con altrettanto sacrificio
di sè stessi che compatimento. Sonvi ufficiali che
prendon cura essi medesimi di soldati austriaci, uno di
essi avvolge colla sua pezzuola la testa spaccata d’un
tirolese, che non avea per coprirsi che un vecchio brano
di tela lacerato e tutto insanguinato.
Se si può citare un infinito numero d’atti isolati e
d’incidenti che pongono in rilievo il gran valore
60
dell’armata alleata e l’eroismo de’ suoi ufficiali e de’
suoi soldati, convien menzionare eziandio l’umanità del
semplice soldato, la bontà sua e la sua simpatia verso il
nemico vinto o prigione, qualità che per certo hanno un
pregio non inferiore della sua intrepidità e bravura 12. È
un fatto riconosciuto che i militari veramente distinti
12 I soldati francesi mostrarono il più gran rispetto per tutto ciò
che era la proprietà degli abitanti del paese, e si può altamente
encomiare il loro spirito di disciplina, la loro civiltà, la
sobrietà loro e la loro buona condotta durante tutta la guerra
d’Italia.
Proclami del genere di quelli del maresciallo Regnaud de Saint-
Jean d’Angely o del generale Trochu sono, per questi diversi
titoli, degni d’essere ricordati, e meritano si considerino come
titoli di gloria per quelli che li diressero ai loro soldati.
«... Nella campagna che s’apre,» dice il generale Trochu nel suo
proclama del 4 maggio 1859, datato da Alessandria, e letto in
tutte le compagnie della sua divisione, raccolte sotto le armi,
«noi affronteremo con ardore le prove le più ardue, già
incominciate per noi; noi saremo disciplinati e sottomessi ai
regolamenti nell’esecuzione dei quali voi mi troverete
inflessibile, e, nel giorno della pugna, noi non soffriremo che i
valorosi sieno più valorosi di noi. Noi non dimenticheremo
che questi abitanti sono nostri alleati: noi rispetteremo le loro
costumanze, i loro beni e le loro persone; noi faremo la guerra
con umanità, con civilizzazione. Per tal modo, i nostri sforzi
saranno onorevoli, Dio li benedirà, ed io che vi comando, io
considererò come il più bel titolo della mia carriera quello di
comandante della seconda divisione.»
Il 18 maggio 1859, a Marengo, il maresciallo Regnaud de Saint-
Jean d’Angely si rivolgeva in questi termini alla guardia
imperiale: «Soldati della guardia, .... voi darete all’armata
61
sono dolci e civili, come tutte le persone realmente
superiori; ora l’ufficiale francese è, d’ordinario, affabile
in pari tempo che cavalleresco e generoso; egli non
cessò di meritare questo elogio del generale de Salm,
allorquando fatto prigione alla battaglia di Nerwinda, e
trattato dal maresciallo di Lussemburgo con una somma
cortesia, diceva al cavaliere de Rozel: «Quale nazione è
mai la vostra! voi vi battete come leoni; e voi agite
verso i vostri nemici, dopo averli vinti, come s’ei
fossero i vostri migliori amici!»
Il servizio dell’Intendenza continua a far raccogliere i
feriti, che, medicati o no, sono trasportati sovra muli
portanti delle lettighe o sedie a bracciuoli alle
ambulanze, d’onde vengon diretti ai villaggi ed ai
borghi i più vicini sia del luogo che li vide cadere, sia
del posto ove furono dapprima raccolti. In tali borgate,
chiese, conventi, case, piazze pubbliche, cortili vie,
passeggi, tutto è convertito in ambulanze provvisorie;
Carpenedolo, Castel Goffredo, Medole, Guidizzolo,
Volta e tutte le località circostanti riuniscono una
quantità considerevole di feriti; ma il numero maggiore
è condotto a Castiglione, ove i meno invalidi hanno già
potuto pervenire a trascinarsi.
62
Ecco la lunga processione delle vetture
dell’Intendenza, cariche di soldati, sottufficiali, ed
ufficiali di tutti i gradi confusi insieme, cavalieri,
fantaccini, artiglieri, tutto sanguinosi, estenuati, laceri,
coperti di polve; poi muli che giungono a trotto, e la cui
andatura strappa ad ogni istante acuti stridi agli infelici
feriti cui portano. La gamba di uno è fracassata e
sembra essere quasi distaccata dal suo corpo, ogni
sobbalzo del carretto che le trasporta gli cagiona nuovi
dolori; un altro ha un braccio spezzato, e con quello che
gli rimane sorregge e preserva il membro fratturato; un
caporale ha il braccio sinistro trapassato dalla verga
d’un razzo alla congrève, se la tragge egli medesimo, e
fatta questa operazione, se ne serve a modo di bastone
ajutandosi a giugnere a Castiglione; ma parecchi spirano
per istrada, i loro cadaveri sono deposti sul margine
della via, si verrà più tardi a sotterrarli.
Da Castiglione i feriti dovevano essere condotti negli
ospitali di Brescia, di Cremona, di Bergamo e di
Milano, per ricevervi finalmente cure regolari e subirvi
le amputazioni necessarie. Ma avendo gli austriaci
travolto seco, al loro passaggio, quasi tutti i carri del
paese colle loro requisizioni forzate, e i mezzi di
trasporto dell’armata francese essendo nulla affatto
bastanti in proporzione della orrenda massa dei feriti, si
fu costretti di farli attendere due o tre giorni, prima di
poterli depositare a Castiglione ove l’ingombro diviene
63
indescrivibile13. Questa borgata si trasforma tutta intera,
pei francesi e gli austriaci, in un vasto ospitale
improvvisato; già nella giornata del venerdì l’ambulanza
del gran Quartier-generale eravisi stabilita, cassoni di
filaccia eranvi stati aperti, come pure di apparecchi e di
medicamenti; gli abitanti hanno fornito tutto quello di
cui potevano disporre in coperte, biancheria, pagliericci
e materassi. L’ospitale di Castiglione, la chiesa, il
convento e la caserma San Luigi, la chiesa dei
Cappuccini la caserma della gendarmeria, come anche
la chiesa Maggiore, quella di S. Giuseppe, di Santa
Rosalia sono gremite di feriti, che vi sono ammassati e
stesi solamente sovra la paglia; si mette pure della
paglia nelle contrade, nei cortili, sulle piazze, dove
sonosi stabilite in fretta quà delle mense in tavolati, là
tese delle tele per preservare un po’ dal sole i feriti che
arrivano da tutte le parti ad un tempo. Le case
particolari non tardano ad essere occupate esse pure:
ufficiali e soldati vi sono accolti dai proprietari i più
agiati, che si affrettano di procurar loro tutti i lenimenti
64
che stanno in loro potere; alcuni tra i medesimi corrono,
tutto spaventati, per le contrade, in cerca d’un medico
pei loro ospiti; altri vanno e vengono per il borgo con
un’aria desolata, domandando con istanza che si levino
loro di casa dei cadaveri che non sanno come
sgombrare. A Castiglione furono portati i generali de
Ladmirault, Dieu e Auger, i colonnelli Broutta,
Brincourt e altri ufficiali superiori, ai quali è prestata
assistenza dall’esperto dottore Bertherand, il quale, dal
venerdì mattina in poi, fa amputazioni in San Luigi. Due
altri chirurghi maggiori, i dottori Leuret e Haspel, due
medici italiani, e gli ajutanti maggiori Riolacci e
Lobstein applicano apparecchi e fanno bendature per
due giorni continui, e continuano persino durante la
notte il loro penoso ministero. Il generale d’artiglieria
Auger, trasportato dapprima alla Casa Morino ove si
trovava l’ambulanza del quartier-generale del corpo del
maresciallo Mac-Mahon di cui faceva parte, fu in
seguito condotto a Castiglione: questo ufficiale così
eminente ebbe la spalla sinistra fracassata da una palla
da sei, che rimase per ventiquattro ore avviluppata nella
profondità dei muscoli dell’ascella: ei soccombette il 29
alle conseguenze dell’operazione della disarticolazione
del braccio, resa necessaria per l’estrazione di quella
palla, ed alla cancrena che aveva invasa la piaga.
Durante la giornata del sabato il numero dei convogli
dei feriti diviene tanto considerevole che
l’amministrazione, gli abitanti, e il distaccamento di
truppe lasciato a Castiglione sono assolutamente
65
incapaci di bastare a tante miserie. Allora cominciano
scene non meno lamentevoli che quelle della vigilia,
quantunque d’un genere affatto differente; vi sono acqua
e viveri, e pure i feriti muojono di fame e di sete; vi ha
filaccia in abbondanza, ma non mani abbastanza per
applicarla sopra le piaghe; la maggior parte dei medici
dell’armata ebbero a partire per Cavriana, fan difetto
gl’infermieri, e mancano le braccia in questo momento
così critico. Convien dunque o bene o male, organizzare
un servizio volontario, ma è molto difficile in mezzo ad
un tale disordine, che viene a complicarsi per una specie
di timor panico, il quale s’impadronisce degli abitanti di
Castiglione e produce i disastrosi risultati di aumentare
prodigiosamente la confusione e d’aggravare, per
l’emozione che loro cagionò, il miserabile stato dei
feriti.
Questo timor panico fu cagionato da una circostanza
in realtà assai futile. Mano mano che ogni corpo
dell’armata francese si riconosceva, dopo aver preso
posizione, si formarono già l’indomani della battaglia,
dei convogli di prigionieri, i quali venivano diretti a
Brescia per Castiglione e Montechiari. Uno di questi
distaccamenti, scortato da usseri, s’avvicinava, nel
pomeriggio, avanzandosi da Cavriana nella direzione di
Castiglione ove, dal punto più lontano che fu veduto,
venne scioccamente preso dagli abitanti per l’armata
austriaca che ritornasse in massa. Malgrado l’assurdità
di tale notizia, portata in giro dai contadini, dai
condottieri ausiliari di bagagli, e da que’ piccoli
66
merciajuoli ambulanti che seguono le truppe sul campo,
gli abitanti della borgata prestarono fede a questo
ridicolo rumore vedendo precipitarsi in mezzo a loro
quegli individui ansanti di spavento. Le case tostamente
si chiudono, gli abitanti formano barricate in casa
propria, bruciano le bandiere tricolori che pavesavano le
loro finestre, e nascondonsi nelle loro cantine e ne’
solai; questi fuggono pei campi colle loro mogli e i figli
loro, e portano seco tutto quello che hanno di più
prezioso; quelli, un po’ meno turbati, rimangono in casa,
ma v’installano i primi feriti austriaci che loro cadono
sotto mano, che essi raccolgono d’in sulle piazze, e cui
d’un tratto ricolmano di riguardi e di cortesie. Nelle
contrade e sulle vie, ingombre di vetture di feriti
incamminate per Brescia e di convogli destinati
all’approvvigionamento dell’armata e provenienti da
questa città, v’hanno carrettoni trasportati a tutta corsa,
cavalli fuggenti in ogni direzione fra grida di spavento e
di collera, vetture cariche di bagagli che sono
rovesciate, trasporti di biscotto che sono gettati nei fossi
che fiancheggiano la strada maestra. Infine i conducenti
ausiliari, presi sempreppiù da terrore, staccano i cavalli
e a briglia sciolta si slanciano sulla strada di
Montechiari e di Brescia, su tutto il cui tratto seminano
lo spavento producendo un incredibile tumulto, urtando
i carri di viveri e di pani che l’amministrazione
municipale di Brescia spedisce continuamente al campo
dell’armata alleata, trascinando seco tutto ciò che
incontrano, e calpestando i feriti che supplicano d’essere
67
trasportati via, e i quali, sordi ad ogni osservazione, si
disbarazzano delle loro fasciature, escono vacillanti
dalle chiese e si avanzano nelle contrade, senza sapere
fin dove potranno andare.
Quante agonie e quanti patimenti duranti le giornate
del 25, del 26 e del 27! Le ferite invelenite dal calore e
dalla polve e dalla mancanza d’acqua e di cure, sono
divenute più dolorose; esalazioni mefitiche viziano
l’aria, ad onta degli sforzi lodevoli dell’Intendenza per
far tenere in buono stato i locali trasformati in
ambulanze, e l’insufficienza del numero degli ajutanti,
degli infermieri e degli inservienti si fa sentire
crudelmente, poichè i convogli avviati a Castiglione
continuano a versarvi, di quarto d’ora in quarto d’ora,
nuovi contingenti di feriti. Per quanta attività
impieghino un capo-chirurgo e due o tre persone che
organizzano de’ trasporti regolari alla volta di Brescia,
col mezzo di carri tratti da buoi; per quanta sia la
premura spontanea di quelli tra gli abitanti di Brescia
che, possedendo vetture, vengono a reclamare degli
ammalati, e ai quali si confidano gli ufficiali, le partenze
sono di molto inferiori agli arrivi, di modo che
l’ammassamento non fa che aumentare.
Sui pavimenti degli ospitali o delle chiese di
Castiglione furono deposti, uno a fianco dell’altro,
uomini di tutte le nazioni, francesi ed arabi, tedeschi e
slavi; ve ne sono di quelli, che provvisoriamente celati
in fondo alle cappelle, non hanno più la forza di
68
muoversi, o che non ponno togliersi dallo stretto spazio
che occupano. Imprecazioni, bestemmie e grida che non
v’ha espressione a ridire, risuonano sotto le volte de’
santuari. «Ah! Signore, quanto soffro!» mi dicevano
alcuni di questi infelici; ci si abbandona, ci si lascia
miseramente morire, e pure noi ci siamo battuti bene!»
Ad onta delle fatiche che han sostenuto, ad onta delle
notti che han passato senza sonno, il riposo s’è
allontanato da loro; nella loro angoscia implorano il
soccorso d’un medico, o rotolansi disperati fra
convulsioni che finiranno col tetano e la morte. Alcuni
soldati, immaginando che l’acqua fredda che si versa
sulle loro piaghe già piene di marcia, produceva dei
vermi, rifiutano di lasciar umettare le loro bende, altri,
dopo aver avuto il privilegio d’essere medicati nelle
ambulanze, non lo furono più nel tempo della loro
stazione forzata a Castiglione, e quelle fasciature
eccessivamente strette a cagione degli scotimenti del
viaggio, non essendo state nè rinnovate nè slacciate,
erano per loro una vera tortura. Nero il viso di mosche
che si appiccano alle loro piaghe volgono questi da ogni
lato degli sguardi smarriti che non ottengono alcuna
risposta; il cappotto, la camicia, le carni e il sangue han
formato in quelli un orrendo e indefinibile miscuglio
ove i vermi si sono messi; molti fremono al pensiero
d’essere rosi da tali vermi, ch’essi credono veder uscire
dal loro corpo, e che provengono dalle miriadi di
mosche ond’è infestata l’aria. Qui è un soldato,
interamente sfigurato, la cui lingua esce fuor misura
69
dalla sua mascella lacerata e rotta; egli si agita e vuol
alzarsi, io bagno d’acqua fresca le sue labbra disseccate
e la sua lingua indurita; prendendo un pugno di filaccia,
la immergo nella secchia che si porta dietro a me, e
spremo l’acqua d’una simile spugna nell’apertura
informe che sostituisce la sua bocca. Là è un altro
infelice al quale è stata portata via una parte della faccia
da un colpo di sciabola; il naso, le labbra, il mento
furono separati dal resto del viso; nella impossibilità di
parlare e accecato per metà ei fa dei segni colla mano, e
con questa pantomima che trangoscia, accompagnata da
suoni gutturali, egli attira su di lui l’attenzione; io gli do
a bere e fo stillare sul suo viso sanguinolento alcune
goccie d’acqua pura. Un terzo col cranio largamente
aperto, manda l’ultimo anelito spargendo le sue cervella
sul pavimento della chiesa; i suoi compagni d’infortunio
lo rispingono coi piedi perchè egli impaccia il
passaggio, io proteggo i suoi ultimi momenti e ricopro
con una pezzuola la sua povera testa ch’ei muove
debolmente ancora.
Quantunque ogni casa sia divenuta un infermeria, e
ogni famiglia abbia abbastanza a fare nel dar cura agli
ufficiali che raccolse, io era però riuscito dalla domenica
di mattina, a riunire un certo numero di donne del
popolo, le quali secondano meglio che ponno gli sforzi
che si fanno per recar soccorso ai feriti; non trattasi
infatti nè di amputazioni, nè di alcun’altra operazione,
ma convien dar a mangiare e anzitutto a bere a della
gente che muore letteralmente di fame e di sete; poi
70
convien bendare le loro piaghe, e lavare que’ corpi
sanguinosi, coperti di fango e di pidocchiume, e convien
far tutto ciò in mezzo ad esalazioni fetide e nauseanti,
tra lamenti ed urla di dolore, e in un’atmosfera cocente e
corrotta. Un nucleo di volontari si è bentosto formato, e
le donne lombarde corrono da quelli che gridano più
forte senz’essere forse sempre quelli che più sono a
commiserare; io m’impiego ad organizzare, meglio che
è possibile, i soccorsi in quel quartiere che sembra
esserne più sprovveduto, adottando particolarmente una
delle chiese di Castiglione, situata sovra un’altura a
sinistra venendo da Brescia, e chiamata, io credo,
Chiesa Maggiore. Intorno a cinquecento soldati vi sono
stivati, ed avvene un centinajo almeno ancora sovra la
paglia davanti alla chiesa e sotto delle tele che furono
tese per proteggerli contro il sole; le donne che
penetrarono nell’interno, vanno dall’uno all’altro con
vasi e gamelloni ripieni d’acqua limpida che serve ad
estinguere la sete e umettare le piaghe. Alcune di queste
infermiere improvvisate sono belle e graziose fanciulle;
la loro dolcezza, la loro bontà, i loro begli occhi pieni di
lagrime e di compassione, e le loro cure così sollecite
rialzano un poco il coraggio e il morale degli ammalati.
De’ piccoli fanciulli del sito vanno e vengono dalla
chiesa alle fontane le più vicine con secchi, gamelloni o
inaffiatoi. Alle distribuzioni d’acqua succedono delle
distribuzioni di brodo e di minestra, di cui il servizio
dell’Intendenza è obbligato farne quantità prodigiose.
Enormi balle di filaccia veggonsi quà e là frapposte,
71
ognuno può adoperarne con tutta libertà, ma fan difetto
le benderelle, i pannilini, le camicie; le risorse in questa
borgata ove passò l’armata austriaca, sono sì meschine
che non si può più procurarsi nemmeno gli oggetti di
prima necessità; io vi compero cionnonostante delle
camicie nuove per l’intermedio di queste brave donne,
che han già portata e donata tutta la loro vecchia
biancheria, e il lunedì mattina io mando il mio cocchiere
a Brescia a cercarvi delle provvigioni; egli ne ritorna,
alcune ore dopo, colla vettura carica di biancheria, di
spugne, di bende, di tela, di spilli, di zigari e tabacco, di
camomille, di malve, sambuco, di aranci, di zucchero e
di limoni; ciò che mi mette in grado di dare una limonea
rinfrescante impazientemente aspettata, di lavar le
piaghe coll’acqua di malva, d’applicare dei cuscinetti
tiepidi e rinnovare le bende delle fasciature. Intanto noi
abbiamo guadagnato altre persone che inattese sonosi
aggiunte a noi: è un vecchio ufficiale di marina, poi due
turisti inglesi, i quali, volendo veder tutto, sono entrati
nella chiesa, e cui noi ratteniamo e custodiamo quasi a
forza; due altri inglesi al contrario mostransi, di bel
principio, desiderosi di ajutarci; essi distribuiscono degli
zigari agli austriaci. Un prete italiano, tre o quattro
viaggiatori e curiosi, un giornalista di Parigi, il quale
assume in seguito di dirigere i soccorsi in una chiesa
vicina, e alcuni ufficiali il cui distaccamento ha ricevuto
l’ordine di restare a Castiglione, ci prestano la loro
assistenza. Ma ben presto l’uno di questi militari sentesi
ammalato per l’emozione, e gli altri nostri infermieri
72
volontari si ritirano successivamente, incapaci di
sopportare lungamente la vista di patimenti che essi
ponno alleviare solo così leggermente; anche il prete ha
seguito il loro esempio, ma ei ricompare bentosto a farci
aspirare, con una attenzione delicata, delle erbe
aromatiche e delle boccette di sali. Un giovane turista
francese, commosso alla vista di tanti avanzi viventi,
scoppia improvviso in singhiozzi; un negoziante di
Neuchâtel si consacra per due giorni a fasciare le
piaghe, e a scrivere pei morenti lettere di addio alle loro
famiglie; si è costretti, per riguardo a lui medesimo, di
rallentare il suo ardore, come pure di calmare
l’esaltazione compassionevole d’un belga che era salita
ad un tal grado da far temere non fosse egli preso d’un
accesso di febbre calda, simile a quello onde fu côlto al
nostro fianco un sottotenente che arrivava da Milano per
raggiungere il corpo di cui faceva parte. Alcuni soldati
del distaccamento lasciato in guarnigione sul luogo
provansi a soccorrere i loro commilitoni, ma non ponno
nemmanco essi sostenere uno spettacolo che abbatte il
loro morale col colpire troppo vivamente la loro
imaginazione. Un caporale del genio, ferito a Magenta,
e ora quasi guarito, che ritorna al battaglione e a cui il
suo foglio di via accorda alcuni giorni, ci accompagna e
ci ajuta con coraggio, benchè due volte di seguito ei
venga meno. L’intendente francese che si è appena
stabilito a Castiglione, concede finalmente
l’autorizzazione di utilizzare, pel servizio degli ospitali,
alcuni prigionieri in buona salute, e tre medici austriaci
73
vanno secondando un giovane ajutante maggiore côrso,
il quale mi importuna a più riprese per ottenere da me
un certificato che constati il suo zelo durante il tempo
che io lo vidi operare. Un chirurgo tedesco, rimasto con
intenzione deliberata sul campo di battaglia per
medicare i feriti suoi connazionali, si consacra ora a
quelli delle due armate; per gratitudine l’Intendenza lo
rinvia, dopo tre giorni, a raggiungere i suoi compatrioti
a Mantova.
«Non lasciatemi morire!» gridavano alcuni di quegli
infelici che, dopo avermi presa la mano con una viva e
straordinaria emozione, spiravano tostochè questa forza
fattizia li abbandonava. Un giovane di forse vent’anni,
dal sembiante dolce ed espressivo, chiamato Claudio
Mazuet, ricevette una palla nel lato sinistro; il suo stato
non lascia più speranza, ed ei medesimo lo sente; perciò
dopo che io l’ebbi ajutato a bere me ne ringrazia, ed
aggiunge colle lagrime agli occhi: «Ah! signore, se voi
poteste scrivere a mio padre, che egli consoli la madre
mia!» Io presi l’indirizzo dei suoi genitori, e pochi
istanti dopo egli avea cessato di vivere14. Un vecchio
sergente, decorato di parecchie medaglie, mi diceva con
una profonda tristezza, con un’aria di convinzione ed
una fredda amarezza: «Se mi si avesse curato più presto,
io avrei potuto vivere, intanto che questa sera io sarò
14 I genitori che dimoravano Via d’Algeri, 3, a Lione, e de’ quali
questo giovane, ingaggiato come volontario, era figlio unico,
non ebbero altre nuove di lui che quelle che io diedi loro; egli
sarà stato messo in matricola «scomparso», come tanti altri.
74
morto!» La sera egli era morto.
«Io non voglio morire, io non voglio morire!» andava
dicendo con una feroce energia un granatiere della
guardia, pieno di forza e di vigore tre giorni prima, ma
che, ferito a morte e sentendo bene che i suoi momenti
erano irrevocabilmente contati, si scontorceva e
dibattevasi contro questa tetra certezza; io gli parlo, ei
mi ascolta, e quest’uomo, raddolcito, acchetato,
consolato, finisce per rassegnarsi a morire colla
semplicità e il candore d’un fanciullo. Mirate laggiù in
fondo alla chiesa, nella nicchia d’un altare a sinistra,
quel cacciator d’Africa steso sulla paglia; tre palle l’han
colpito, una al lato destro, una alla spalla sinistra e la
terza è rimasta nella gamba dritta; noi siamo alla
domenica sera, ed egli afferma di non aver mangiato
nulla dal venerdì mattina in poi; egli è ributtante per
fango e raggruppi di sangue seccatigli addosso, la sue
vestimenta sono lacerate, la sua camicia è in brani; dopo
aver lavate le sue piaghe, avergli fatto prendere un po’
di brodo, e dopo che l’ebbi avvolto entro una coperta, ei
si reca la mia mano alle labbra con una espressione di
gratitudine da non definirsi. All’ingresso della chiesa sta
un ungherese che grida senza tregua nè riposo,
reclamando in italiano e con parole laceranti un medico;
le sue reni che furono squarciate da schegge di mitraglia
o come solcate da raffi di ferro, lasciano vedere le sue
carni rosse e palpitanti; il resto del suo corpo gonfiato è
nero e verdastro; ei non sa come riposarsi nè sedere, io
75
tuffo una quantità di filaccia nell’acqua fresca, e mi
provo di fargliene un giaciglio, ma la cancrena non
tarderà a vincerla. Un po’ più lungi trovasi uno zuavo
che piange a calde lagrime, e cui bisogna consolare
come un piccolo fanciullo. Le fatiche precedenti, la
mancanza di nutrimento e di riposo, l’eccitazione
morbosa e il timore di morire senza soccorso
sviluppavano, anche presso soldati intrepidi, una
sensibilità nervosa che traducevasi in gemiti e singulti.
Une de’ loro pensieri predominanti, allorquando non
sono troppo crudelmente tormentati, è la ricordanza
della loro madre, e l’apprensione del cordoglio che essa
proverà nel sentire la loro sorte; si trovò il corpo d’un
giovane che aveva il ritratto d’una donna attempata, la
madre sua senza dubbio, appeso al collo; colla sua mano
sinistra ei sembrava comprimere sul suo cuore quella
medaglia.
Quà, contro il muro, un centinajo di soldati e di
sottufficiali francesi, ravvolti ognuno nella loro coperta,
stannosi presso su due ranghi paralleli, si può passare tra
queste due file; tutti sono stati fasciati, la distribuzione
di minestra ebbe luogo, eglino sono calmi e pacifici, mi
seguono coll’occhio, e tutte quelle teste si volgono a
destra se io vado a destra, a sinistra se io vado a sinistra.
«Si vede bene che è un Parigino15, dicono gli uni. —
15 Io ebbi la soddisfazione d’incontrare a Parigi l’anno appresso,
e specialmente nella Via di Rivoli, dei militari amputati ed
invalidi, i quali, riconoscendomi, mi fermarono per
esprimermi la lor gratitudine d’averli curati a Castiglione.
76
No, replicano altri, egli mi sembra del mezzodì. — Non
è vero, signore, che voi siete di Bordeaux?» mi
domanda un terzo, e ciascuno vuole che io sia della sua
provincia o della sua città. La rassegnazione di cui
faceano prova ordinariamente quei semplici soldati di
linea, è degna di rimarco e d’interesse. Presi
individualmente, che erano eglino, ciascuno d’essi, in
questo grande sconvolgimento? Ben poca cosa.
Soffrivano, spesso senza lamentarsi, e morivano
umilmente e senza strepito.
Di rado gli austriaci feriti e prigionieri ebbero a
bravare i vincitori; contuttociò alcuni rifiutano di
ricevere delle cure di cui diffidano, strappansi le
fasciature e fanno sanguinare le loro ferite; un croato
prende la palla appena estrattagli e l’avventa alla fronte
del chirurgo; altri rimangono silenziosi, concentrati e
impassibili; in generale, non hanno quella espansione,
quella buona volontà, quella vivacità espressiva e
affabile che caratterizza gli uomini della razza latina;
tuttavia, la maggior parte sono ben lungi dal mostrarsi
insensibili o ribelli ai buoni trattamenti, e una sincera
riconoscenza si dipinge sul loro sembiante meravigliato.
Uno di essi, d’anni diciannove, rincacciato, con una
quarantina de’ suoi compatrioti, nella parte la più rimota
della chiesa, è senza nutrimento da tre giorni in poi; egli
ha perduto un occhio, ha il tremito della febbre e non
«Noi vi chiamavamo il signore bianco, mi diceva uno di essi,
perchè eravate vestito tutto a bianco; e bisogna dirlo, vi faceva
proprio caldo!»
77
può più parlare, egli ha appena la forza di prendere un
poco di brodo; le nostre cure lo rianimarono, e
ventiquattr’ore più tardi quando si potè dirigerlo alla
volta di Brescia, ci abbandonò con rincrescimento, quasi
con crepacuore; l’occhio che gli restava, e che era d’un
magnifico azzurro, esprimeva la sua viva gratitudine ed
ei premeva alle sue labbra le mani delle donne
caritatevoli di Castiglione. Un altro prigioniero, in preda
alla febbre, attira gli sguardi, non ha vent’anni e i suoi
capelli sono tutti bianchi; divennero bianchi il giorno
della battaglia, a quanto affermano i suoi commilitoni ed
egli medesimo16.
Quanti giovani dai diciotto ai vent’anni, venuti
sventuratamente fino là dal fondo della Germania o
delle provincie orientali del vasto impero d’Austria, ed
alcuni fors’anco forzatamente, duramente, avranno a
sopportare, oltre ai dolori corporali col cordoglio della
cattività, la malevolenza proveniente dall’odio giurato
dai milanesi alla loro razza, ai loro capi e al loro
sovrano, e non incontreranno forse più alcuna simpatia
fino al loro arrivo sulla terra di Francia! Povere madri,
in Germania, in Austria, in Ungheria, in Boemia, come
non pensare alle vostre angosce allorquando voi saprete
che i vostri figli feriti, sono prigionieri in paese nemico!
16 Questo fatto che io ho citato in una seduta della Società di
Etnografia a Parigi, fu menzionato nella Revue orientale et
américaine (gennajo 1860) dal signor R. Cortambert, nel suo
rimarchevole articolo «Della capigliatura presso i diversi
popoli.»
78
Ma le donne di Castiglione, vedendo che io non fo’
alcuna distinzione di nazionalità, seguono il mio
esempio, professando la stessa benevolenza a tutti
quegli uomini di origini così diverse, e che per loro sono
tutti egualmente stranieri. «Tutti fratelli», ripetevano
esse con emozione. Onore a quelle donne
compassionevoli, a quelle giovanette di Castiglione!
nulla le ributtava, nulla le stancava o le scoraggiva, e il
loro modesto spirito di sacrificio non volle badare nè a
fatiche, nè a ripugnanze, nè a privazioni.
Il sentimento che si prova della sua propria grande
insufficienza in circostanze così straordinarie e così
solenni, è un cordoglio indicibile; ed è infatti di una
pena immensa il non poter sempre dar sollievo a quelli
che si hanno innanzi agli occhi, nè arrivare da quelli che
vi reclamano con suppliche, trascorrendo delle lunghe
ore prima di poter giungere là ove si vorrebbe andare,
soffermati dall’uno, sollecitati dall’altro, ed impediti ad
ogni passo dalla quantità d’infelici che vi si accalcano
innanzi e che vi circondano e poi, perchè dirigersi a
sinistra, intanto che a destra ve ne hanno molti che
stanno per morire senza un accento amichevole, senza
una parola di consolazione, senza un solo bicchier
d’acqua per ispegnere la loro sete ardente? Il pensiero
morale dell’importanza della vita d’un uomo, il
desiderio di alleggerire un poco le torture di tanti
infelici o di rinfrancare il loro coraggio abbattuto,
l’attività forzata e incessante che s’impone a sè
79
medesimo in momenti simili, danno una nuova e
suprema energia che produce come una sete di recar
soccorso al più gran numero possibile; non v’ha più
luogo a commozione davanti ai mille quadri di questa
formidabile ed augusta tragedia, si passa con
indifferenza davanti ai cadaveri i più orrendamente
sfigurati; contemplansi quasi freddamente, quantunque
la penna rifugga assolutamente dal descriverle, delle
scene persino ancora più orribili di quelle finora
delineate17; ma succede che il cuore si spezza talvolta
tutto a un tratto, e come colpito d’improvviso da
un’amara ed invincibile tristezza, alla vista d’un
semplice incidente, d’un fatto isolato, d’un dettaglio
inatteso, che va più direttamente all’anima, che
17 Come non è che dopo più di tre anni che io mi son deciso di
riunire delle penose ricordanze, che io non aveva avuto
l’intenzione di dare alla stampa, così si comprende che
fossero già qualche poco svanite e che sieno innoltre
abbreviate in ciò che concerne le scene di dolore e di
desolazione di cui sono stato testimonio. Ma se queste pagine
potessero sviluppare o affrettare la questione, sia dei soccorsi
da dare ai militari feriti in tempo di guerra, sia delle cure
immediate da prodigar loro dopo un combattimento, e se esse
potessero attirare l’attenzione delle persone dotate d’umanità
e di filantropia, in una parola se la preoccupazione e lo studio
di questo soggetto così importante dovessero, col farlo
avanzare di qualche passo, migliorare uno stato di cose nel
quale nuovi progressi e perfezionamenti non potrebbero mai
esser troppi benanco nelle armate meglio organizzate, io avrò
pienamente raggiunto lo scopo mio.
80
s’impadronisce delle nostre simpatie e che scuote tutte
le fibre le più sensibili del nostro essere.
Quanto al soldato rientrato nella vita giornaliera
dell’armata in campo, dopo le grandi fatiche e le forti
emozioni per le quali ei deve passare nel giorno e
nell’indomani di una battaglia come quella di Solferino,
le rimembranze della famiglia e del paese diventano più
impressive e più palpitanti che mai. Tale situazione è
vivamente pennelleggiata da queste toccanti linee d’un
bravo ufficiale francese, che scriveva da Volta ad un
fratello rimasto in Francia: «Tu non puoi figurarti
quanto è commosso il soldato quando vede comparire
l’ufficiale dei bagagli incaricato della distribuzione delle
lettere all’armata; si è ch’ei ci reca, tu vedi bene, delle
notizie della Francia, del paese, de’ nostri parenti, de’
nostri amici! Ognuno ascolta, guarda e tende verso di lui
avidamente le mani. I fortunati, quelli che hanno una
lettera, l’aprono precipitosamente e la divorano in un
batter d’occhio, gli altri, i diseredati, si allontanano col
cuore grosso; e si ritirano in disparte per pensare a quelli
che son rimasi laggiù. Qualche volta si chiama un nome
al quale non vien risposto. È un guardarsi, un
interrogare, un attendere: Morto! mormora una voce; e
l’ufficiale ripone quella lettera, che ritornerà, senza
essere dissuggellata, a quelli che l’avevano scritta.
Erano allegri allora quelli, si dicevano: come sarà
contento, quando la riceverà! E quando la vedranno
tornar indietro, il loro povero cuore si schianterà».
81
Le vie di Castiglione sono più calme, le morti e le
partenze han fatto del luogo, e ad onta dell’arrivo di
nuovi carri di feriti, l’ordine si stabilisce a poco a poco,
e i servizi cominciano a regolarizzarsi, non essendo
l’ingombro proveniente da cattiva organizzazione o da
imprevidenza dell’amministrazione, ma risultando dalla
quantità inaudita e inaspettata dei soldati feriti, e dal
numero relativamente insignificantissimo dei medici,
degli inservienti e degli infermieri. I convogli da
Castiglione a Brescia sono più regolari, compongonsi o
di vetture d’ambulanza, o di carri grossolani tirati da
buoi che camminano lentamente, molto lentamente,
sotto un sole cocente e in mezzo ad una polvere tale che
il pedone sulla strada affonda fino al disopra della noce
del piede in que’ mobili e solidi fiotti; ed allora pure che
questi veicoli, così incomodi, sono guarniti di rami
d’alberi, questi non preservano che molto
imperfettamente dall’ardore d’un cielo di fuoco i feriti
che sono, per così dire, accatastati gli uni sovra gli altri:
si può figurarsi le torture di questo lungo tragitto! Un
segno amichevole del capo, diretto a quegli infelici
quando si passa presso di loro, sembra far loro del bene,
e lo rendono con premura e coll’espressione della
riconoscenza. In tutti i borghi situati sulla strada che
conduce a Brescia, le contadine sono sedute davanti alle
loro porte facendo silenziosamente filacce: quando un
convoglio arriva, esse ascendono sulle vetture,
cambiano i cuscinetti, lavano le piaghe, rinnovano la
filaccia ch’esse imbevono d’acqua fresca, e versano
82
cucchiajate di brodo, di vino o di limonea nella bocca di
quelli che non hanno più la forza di levare nè la testa nè
le braccia. Le carra che recano senza posa al campo
francese i viveri, i foraggi, le munizioni e gli
approvvigionamenti di ogni specie che giungono dalla
Francia o dal Piemonte, invece di tornarsene vuoti,
conducono e trasportano gli ammalati a Brescia. In tutte
le borgate che attraversano i convogli, le autorità
comunali fanno preparare bevande, pane e carne. A
Montechiari, i tre piccoli ospitali di questo luogo sono
serviti da contadine del paese, le quali curano con
altrettanta intelligenza che bontà i feriti che vi sono
depositati. A Guidizzolo, un migliajo di essi furono
convenevolmente installati in un vasto castello,
quantunque in un modo affatto provvisorio; e a Volta è
un antico convento trasformato in caserma, che accoglie
centinaja d’Austriaci. A Cavriana, si stabilirono nella
chiesa principale di questa meschina borgata degli
Austriaci, tutto storpi, i quali erano rimasti distesi per
ben quarant’otto ore sotto le gallerie d’un cattivo corpo
di guardia; all’ambulanza del gran quartiere generale si
praticano operazioni, impiegando il cloroformio, il
quale produceva nei feriti austriaci una insensibilità
quasi immediata, e nei francesi delle contrazioni
nervose accompagnate da un grande esaltamento.
Gli abitanti di Cavriana sono interamente sprovveduti
di derrate e di provvigioni, sono i soldati della guardia
che li nutrono dividendo coi medesimi le loro razioni e
83
la loro gamella; le campagne furono devastate, e quasi
tutto ciò che poteva consumarsi in fatto di prodotti, fu
venduto alle truppe austriache, o sequestrato da esse
sotto la forma di requisizioni. L’armata francese, se ha
viveri da campo in abbondanza, mercè la saviezza e la
puntualità della sua amministrazione, ha però molta
pena a procurarsi il burro, il grasso e i legumi che di
solito sono aggiunti al vitto del soldato; gli Austriaci
aveano requisito quasi tutto il bestiame del paese, e la
farina di granoturco è la sola cosa che gli Alleati
possano avere facilmente nelle località ove trovansi ora
accampati. Contuttociò tutto quello che ponno ancora
vendere i contadini lombardi per ajutare il nutrimento
delle truppe, è da loro comperato a prezzi elevatissimi,
essendone sempre fatta la stima in maniera che i
venditori sieno soddisfatti; e le requisizioni per l’armata
francese, come foraggi, pomi di terra od altre derrate
sono largamente pagate agli abitanti del paese, i quali
vennero del pari indennizzati dei guasti inevitabili
cagionati dal battagliare.
I feriti dell’armata sarda, i quali furono trasportati a
Desenzano, Rivoltella, Lonato e Pozzelengo, vi si
trovano in condizioni meno svantaggiose che quelli di
Castiglione: le due prime fra queste borgate non essendo
state occupate, a pochi giorni d’intervallo, da due
armate diverse, vi si rinvengono viveri in maggiore
quantità, le ambulanze vi sono bene tenute, gli abitanti
meno disturbati e meno atterriti vi secondano
attivamente il servizio dell’infermeria, e gli ammalati
84
che si spediscono di là a Brescia, sopra buoni carri
forniti d’un fitto strato di fieno, sono riparati dal sole
con capannetti di rami fronzuti e intralciati, ricoperti da
una forte tela distesavi sopra.
Sovraccarico di fatiche, e non potendo più ritrovare il
sonno, io faccio attaccare la mia vettura, nel pomeriggio
del 27, e parto verso le sei ore per respirare all’aria
aperta la freschezza della sera, e onde prendere un po’ di
riposo, togliendomi per quel tempo alle scene lugubri da
cui si è circondato da ogni parte a Castiglione. Era un
giorno favorevole, non essendo stato ordinato per il
lunedì (come io lo seppi più tardi) alcun movimento di
truppe. La calma era dunque successa alle terribili
agitazioni dei giorni precedenti su questo campo di
battaglia, ora sì melanconico, e che la passione e
l’entusiasmo han lasciato e abbandonato affatto; ma vi
si veggono qua e là delle pozze di sangue raggrumato
onde il suolo rosseggia, e de’ tratti di terra di fresco
smossa, bianchi e aspersi di calce, che indicano i luoghi
ove riposano le vittime del 24. A Solferino, la cui torre
quadrata domina da secoli, impassibile e fiera, questo
paese, ove, per la terza volta, venivano ad urtarsi due
delle più grandi potenze dei tempi moderni, si rilevano
ancora numerosi e tristi avanzi che ricoprono, fino nel
cimitero, le croci e le pietre insanguinate delle tombe. Io
giunsi verso le nove ore a Cavriana: era uno spettacolo
unico e grandioso il treno di guerra che circondava quel
quartier generale dell’Imperatore de’ francesi. Io
85
cercava il maresciallo Duca di Magenta, che avea
l’onore di conoscere personalmente. Non sapendo
precisamente ove fosse accampato in quel momento il
suo corpo d’armata, fo soffermare la mia vettura in una
piccola piazza rimpetto alla casa ove abitava, dal
venerdì sera in poi, l’imperatore Napoleone, e mi trovo
in mezzo ad un gruppo di generali che, seduti sopra
semplici scranne di paglia o su sgabelli di legno,
fumavano il loro zigaro prendendo il fresco davanti al
palazzo improvvisato del loro Sovrano. Intanto che
m’informo della direzione assegnata al maresciallo di
Mac-Mahon, quegli ufficiali generali interrogano dal
canto loro il caporale che mi accompagna, e che, posto a
sedere sulla mia vettura presso al cocchiere, sembra loro
debba essere la mia ordinanza18; verrebbero sapere chi
io sono, e scoprire lo scopo della missione di cui mi
suppongono incaricato, poichè non potea quasi cader
86
loro in pensiero che un semplice turista avesse
intrapreso d’arrischiarsi solo in mezzo agli
accampamenti, e che, giunto fine a Cavriana, si
proponesse, ad un’ora così innoltrata, d’andar più
innanzi. Il caporale, che non ne sapeva di più, rimase
naturalmente impenetrabile, quantunque rispondesse
assai rispettosamente alle loro domande, e la curiosità
parve accrescersi allorquando mi si vide ripartire per
Borghetto, ove dovea essere il Duca di Magenta. Il
secondo corpo a cui comandava il maresciallo, avea
dovuto il 26 portarsi da Cavriana a Castellaro, che n’è
discosto cinque chilometri, e le sue divisioni erano
stabilite a destra e a sinistra della strada che conduce da
Castellaro a Monzambano; il maresciallo medesimo, col
suo stato-maggiore, occupava Borghetto. Ma la notte era
inoltrata: non avendo ottenuto che informazioni assai
incomplete, dopo un’ora di viaggio noi sbagliamo la
strada, e prendendo una via che mena a Volta, noi
andiamo a riuscire attraverso il corpo d’armata del
generale Niel, nominato maresciallo da tre giorni, e il
quale è accampato ne’ dintorni di quella borgata. I
rumori vaghi che fannosi sentire sotto questo bel cielo
stellato, que’ fuochi di bivacco alimentati con interi
alberi, le tende illuminate degli ufficiali, in una parola
quell’ultimo murmure d’un accampamento che veglia e
si addormenta, calmano gradevolmente l’imaginazione
tesa e commossa; le ombre della sera ed un silenzio
solenne han fatto luogo agli strepiti variati ed alle
emozioni della giornata, e l’aria pura e dolce d’una
87
splendida notte d’Italia si respira deliziosamente.
Quanto al mio cocchiere italiano, egli era in preda ad
un tale terrore in mezzo a quelle semitenebre, e all’idea
d’essere sì presso al nemico, che più d’una volta io fui
obbligato di torgli di mano le redini ed affidarle al
caporale o prenderle io medesimo. Questo povero uomo
che era fuggito da Mantova, otto o dieci giorni prima,
onde sottrarsi al servizio austriaco, erasi rifuggito a
Brescia per cercare di guadagnarvi di che vivere, ed
erasi accordato con un mastro vetturale che lo
impiegava come cocchiere. Il suo terrore erasi
considerevolmente accresciuto a cagione d’un colpo di
fucile tirato da lontano da un austriaco, il quale aveva
scaricato la sua arma fuggendo al nostro avvicinarci e
disparendo fra i cespugli: al momento della ritirata
dell’esercito austriaco, alcuni soldati fuggiaschi eransi
nascosti nelle cantine delle case di piccoli villaggi
abbandonati dai loro abitanti e mezzo saccheggiati;
isolati e tutto tremebondi, eransi dapprima dissetati e
nutriti o bene o male in quei sotterranei, poi dopo essere
furtivamente evasi nei campi, andavano errando alla
ventura durante la notte. Il mantovano, incapace di
rinfrancarsi, non poteva proprio più condurre il suo
cavallo in linea retta; volgeva continuamente la testa, da
sinistra a destra e da destra a sinistra, investigava
coll’occhio smarrito tutti i cespugli della strada;
nell’apprensione ad ogni istante di vedervi un austriaco
imboscato e pronto a prenderlo di mira, ricercava co’
suoi sguardi atterriti tutte le siepi, tutti i casolari; i suoi
88
terrori raddoppiavano al menomo risvolto della via, e
quasi cadde in deliquio quando il silenzio della notte fu
interrotto da un colpo di fucile d’una scolta, che
l’oscurità ci aveva impediti di scorgere, e alla vista d’un
grande ombrello teso aperto, traforato da tre palle di
cannone e da parecchie di schioppo, che si presentò a’
nostri sguardi sull’orlo d’un campo, presso al sentiero
che conduceva a Volta: quest’ombrello avea
probabilmente fatto parte del bagaglio d’una qualche
vivandiera dell’armata francese, alla quale l’uragano del
24 avea potuto portarlo via per aria.
Noi eravamo tornati indietro per riprendere la buona
strada per Borghetto; era già oltre le undici ore, noi
facevamo galoppare il nostro cavallo con tutta la
rapidità possibile, e la nostra piccola e modesta vettura,
varcando lo spazio, volava senza rumore sulla strada
Cavallara, quando un nuovo allarme ci venne a
sorprendere: «Chi va là, chi va là, chi va là, o io tiro!»
grida senza riprender fiato, e a bruciapelo, una sentinella
a cavallo. «Francia!» risponde con voce forte il militare
che aggiunge, indicando in pari tempo il suo grado:
«Caporale nel primo del Genio, settima compagnia....»
«Passate oltre,» ci fu significato. Infine, a mezzanotte
meno un quarto, nei giungiamo senz’altro incontro alle
prime case di Borghetto19. Tutto vi è silenzioso e tetro;
19 Borghetto è un paese di duemila abitanti circa, sulla riva
destra del Mincio, quasi dirimpetto a Valeggio. Nel 1848, le
truppe sarde, sotto gli ordini del re Carlo Alberto, passarono
colà il Mincio, ad onta della vigorosa resistenza degli
89
ciò non pertanto un lume brilla a un pian terreno della
via principale dove sono occupati, in una camera bassa,
degli ufficiali contabili, i quali, quantunque disturbati
nel loro lavoro, e molto sorpresi d’una apparizione così
inattesa, ad una tal’ora, mostransi pieni di cortesia; e
uno d’essi, il signor A. Outrey, ufficiale pagatore, prima
ancora d’aver veduto che io era munito di diverse
commendatizie di ufficiali-generali, mi offrì una
cordiale ospitalità: la sua ordinanza recò tosto un
materasso sovra il quale mi gettai così vestito per
riposare qualche ora, dopo aver preso un eccellente
brodo che mi parve tanto più refocillante, che da ben
molti giorni io non mangiava nulla di vaglia, e dormii
tranquillamente senza essere, come a Castiglione,
soffocato da malsane esalazioni e punzecchiato dalle
mosche che, satolle di cadaveri, venivano ancora a
torturare i viventi. Quanto al caporale e al cocchiere,
eglino si eran installati alla meglio entro la vettura
rimasta sulla via; ma lo sfortunato mantovano, in
continui terrori, non potè chiuder occhio tutta la notte,
ed io lo ritrovai più morto che vivo.
Il 28, alle sei del mattino, io riceveva la più
benevolente ed amichevole accoglienza dal buono e
cavalleresco maresciallo di Mac-Mahon, così
giustamente chiamato l’idolo dei soldati20; e alle 10, io
90
era in quella casa di Cavriana ormai divenuta storica,
per avere nell’intervallo, dalla mattina alla sera del 24,
accolto due grandi monarchi nemici. Alle tre del
pomeriggio dello stesso giorno, io era di ritorno dai
feriti di Castiglione, i quali mi esprimevano la loro gioja
di rivedermi, e il 30 di giugno io giungeva a Brescia.
Questa città, così graziosa e pittoresca, è trasformata,
non già in una grande ambulanza provvisoria come
Castiglione, ma ben piuttosto in un immenso ospitale: le
sue due cattedrali, le sue chiese, i suoi palazzi, i suoi
conventi, i suoi collegi, le sue caserme, in una parola
91
tutti i suoi edifici sono ingombrati dalle vittime di
Solferino; quindici mila letti vi sono improvvisati, in
qualche sorta, dall’oggi all’indomani; i generosi abitanti
han fatto più che non fecesi mai in nessun luogo a fronte
di simili avvenimenti. Al centro della città, l’antica
basilica chiamata il Duomo vecchio o la Rotonda, colle
sue due cappelle, contiene un migliajo di feriti; il popolo
accorre in folla presso di essi, e le donne di tutte le
classi portan loro a profusione aranci, gelati, biscotti,
dolci e ghiottornie; l’umile vedova o la più povera
vecchierella non credesi dispensata dal venire a far
accettare il suo tributo di simpatia e la sua modesta
offerta; le medesime scene accadono nella nuova
cattedrale, magnifico tempio in marmo bianco, dalla
vasta cupola, dove sono agglomerate centinaja di feriti,
e ripetonsi negli altri quaranta edifici, chiese od ospitali
che contengono tra tutti intorno a ventimila feriti ed
ammalati.
Il Municipio di Brescia elevossi tantosto e seppe
mantenersi degnamente al livello dei doveri straordinari
che gli imponevano circostanze così solenni; erasi
costituito in permanenza e attorniato de’ lumi e dei
consigli dei cittadini i più notevoli, i quali
l’appoggiarono efficacemente col loro concorso;
nominò per la direzione superiore degli ospitali, dietro
la proposta dell’eminente dottor Bartolomeo Gualla, una
commissione centrale, di cui fu egli il presidente, e che
fu composta dei dottori Corbolani, Orefici, Ballini,
Bonicelli, Cassa, C. Maggi e Abeni, i quali non
92
risparmiaronsi alcuna pena nè di giorno nè di notte.
Questa commissione stabilì alla testa di ogni ospitale un
amministratore speciale e un chirurgo in capo, ajutato da
alcuni medici e da un certo numero d’infermieri.
Facendo aprire un convento, una scuola ed una chiesa,
esso creava, in poche ore e come per incantesimo, degli
ospitali provveduti di centinaja di letti, d’una cucina
spaziosa e d’un luogo da bucato, e approvvigionati di
biancheria, come di tutto ciò che poteva essere utile o
necessario. Queste misure furon prese con tale premura
e con tanto cuore che in capo a pochi giorni si
maravigliava del buon ordine e dell’andamento regolare
di questi ospizi così moltiplicati, e questo stupore era
ben naturale quando si riflette che la popolazione di
Brescia, che è di quarantamila abitanti, trovossi, tutt’a
un tratto, quasi raddoppiata da più di trentamila feriti od
ammalati21. E come non ricordare qui che i medici, in
numero di centoquaranta, dimostrarono, durante tutto il
tempo delle loro funzioni, difficili non meno che
faticose, uno spirito di sacrificio ammirabile, senza che
alcuna suscettibilità o rivalità qualunque abbia alterato
un istante, in checchessia, la loro buona armonia pel
93
bene generale; essi furono secondati da studenti in
medicina, e da un buon numero di persone di buona
volontà. Essendosì organizzati dei comitati ausiliari,
venne nominata una commissione particolare per
ricevere i doni e le offerte in oggetti da letto, biancheria
e provvigioni di ogni specie, e un’altra commissione
ebbe la direzione del deposito o magazzino centrale22.
Nelle vaste sale degli ospitali gli ufficiali son
d’ordinario separati dai soldati, e gli Austriaci non sono
confusi cogli Alleati; le serie dei letti sembrano uguali,
ma su di uno stipetto al di sopra di ogni uomo, il suo
uniforme e il suo kepì fanno distinguere l’arma alla
quale egli appartiene. Si comincia ad impedire la
moltitudine di entrare; essa fastidisce e imbarazza il
servizio. A fianco di militari dal sembiante marziale e
rassegnato, veggonsi altri che mormorano e che si
lamentano; nei primi giorni tutte le ferite appajono
d’una eguale gravità. Rimarcasi nei soldati francesi il
carattere o lo spirito gallo vivace, netto, flessibile e
facile, benchè fermo ed energico, ma impaziente e
suscettibile d’adirarsi alla menoma contrarietà.
Inquietandosi poco, nè molto affliggendosi, la loro
94
noncuranza fa ch’eglino prestansi più volentieri alle
operazioni che non gli Austriaci, i quali, di meno
leggiero temperamento, temono assai le amputazioni, e
sono più disposti a rattristarsi nel loro isolamento. I
medici italiani, rivestiti delle loro grandi toghe nere,
curano i Francesi con tutti i riguardi possibili; ma il
modo di trattamento che tengono alcuni fra loro, desola
i loro ammalati, perchè prescrivono la dieta, la cacciata
di sangue e l’acqua di tamarindo.
Io ritrovo in queste sale parecchi de’ nostri feriti di
Castiglione, i quali mi riconoscono: essi sono ora curati
meglio, ma le loro prove non sono finite ancora. Ecco
uno di quegli eroici volteggiatori della guardia che fu
colpito da una palla alla gamba, e il quale soggiornò a
Castiglione ove io lo medicai per la prima volta: egli è
steso sul suo letticciuolo, l’espressione del suo viso
dinota un profondo dolore, egli ha le pupille incavate e
ardenti, il suo colorito giallo e livido annuncia che la
febbre putrida è venuta a complicare ed aggravare il suo
stato, le sue labbra sono arse, la sua voce tremolante;
all’arditezza del valoroso è successo un non so quale
sentimento d’apprensione temebondo ed esitante, le
cure medesime lo snervano, egli ha paura che altri
s’avvicini alla sua povera gamba già invasa dalla
cancrena. Il chirurgo francese, che fa le amputazioni,
passa davanti al suo letto, l’ammalato gli prende la
mano stringendola fra le sue, il cui tocco è come quello
d’un ferro rovente.
«Non fatemi male, è orribile quello che io soffro!»
95
egli esclama. Ma conviene agire e senza ritardo: venti
altri feriti vogliono si faccia loro l’operazione nella
stessa mattina, e centocinquanta stanno aspettando la
loro fasciatura, non si ha il tempo d’impietosirsi per un
solo, nè di fermarsi alle sue indecisioni. Il chirurgo,
buono di carattere, ma freddo e risoluto, risponde
solamente: «Lasciate fare a me», poi leva rapidamente
la coperta, la gamba fratturata ha raddoppiato di
volume, da tre luoghi scola una suppurazione
abbondante e fetida, macchie violacee provano che
un’arteria essendo stata rotta, il membro non può più
essere nutrito, non v’è dunque più rimedio, e la sola
risorsa, se ve ne ha una, e l’amputazione al terzo
superiore della coscia. Amputazione! tremenda parola
per questo infelice giovane, il quale d’altronde non
vedesi dinanzi altra alternativa che una morte vicina o la
miserabile esistenza d’uno storpiato. Ei non ha più il
tempo di prepararsi all’ultima decisione: «Mio Dio, mio
Dio! che volete voi fare?» egli chiede rabbrividendo. Il
chirurgo non risponde. «Infermiere, trasportate,
spicciatevi!» dice egli. Ma un grido straziante sorge da
quel petto ansante, l’infermiere malaccorto ha presa la
gamba inerte, e pure tanto sensibile, troppo vicino assai
alla piaga: gli ossi fratturati penetrando nelle carni han
cagionato un nuovo supplizio al soldato, di cui vedesi la
gamba piegare, dondolata dalle scosse del trasporto fino
alla sala delle operazioni. Orribile corteo! Sembra che si
conduca una vittima alla morte. Ei riposa finalmente
sopra la tavola delle operazioni, che è ricoperta d’un
96
sottile stramazzino; allato a lui e sovra un’altra tavola,
una servietta nasconde gl’istrumenti. Il chirurgo, tutto
intento alla bisogna, non intende e non vede più altro
che la sua operazione; un giovane ajutante-maggiore
tiene le braccia del paziente, e intanto che l’infermiere,
prendendo la gamba sana, tira di tutta forza l’ammalato
verso la sponda della tavola; questi atterrito esclama:
«Non lasciatemi cadere!» e stringe convulsamente colle
sue braccia il giovane dottore pronto a sorreggerlo, e il
quale, pallido pell’emozione ei medesimo, è quasi
altrettanto turbato. L’operatore si è cavato il suo abito,
ha rimboccate le sue maniche fin presso alla spalla, un
largo grembiale risale fino al suo collo; un ginocchio sul
pavimento della sala, e la mano armata del terribile
coltello, egli accerchia col suo braccio la coscia del
soldato e d’un colpo solo fende la pelle in tutta la sua
circonferenza; uno strido acuto risuona nell’ospitale; il
giovane medico, faccia a faccia col martire, può
contemplare sovra i di lui lineamenti contratti i minimi
dettagli di quella atroce agonia: «Coraggio», dic’egli a
mezza voce al soldato, del quale sente le mani contrarsi
sulla sua schiena, «due minuti ancora e voi sarete
liberato!» il chirurgo rialzatosi comincia a separare la
pelle dai muscoli che essa ricopre, e cui egli mette a
nudo; ei taglia a pezzi e pela in qualche sorta le carni
rimboccando la pelle all’altezza d’un pollice, come un
manichino; poi, ritornando all’opra, con una vigorosa
girata taglia col suo coltello tutti i muscoli fino all’osso;
un torrente di sangue zampillando dalle arterie che
97
furono aperte, innonda l’operatore e scorre sul
pavimento. Calmo e impassibile, l’esperto pratico non
profferisce parola, ma tutto a un tratto framezzo al
silenzio che regna nella sala, si volge con collera al
malaccorto infermiere: «Imbecille, gli dice, non sapete
voi comprimere le arterie?» Quest’ultimo poco
sperimentato non seppe prevenire l’emorragia
applicando convenientemente il pollice sopra i vasi. Il
ferito, al colmo del dolore, articola fiocamente: «Oh! è
abbastanza, lasciatemi morire!» e un sudore glaciale
scorre dal suo viso; ma gli tocca ancora di passare un
minuto, un minuto che è una eternità. L’ajutante-
maggiore, sempre pieno di simpatia, misura i secondi, e
lo sguardo fisso o sul medico che opera o sul paziente,
del quale tenta sorreggere il coraggio, gli dice: «Un
minuto solo!» In fatti è venuto il momento della sega, e
già si sente l’acciajo che stride penetrando nell’osso
vivo e che separa dal corpo il membro a metà marcito.
Ma il dolore fu troppo forte su questo corpo infiacchito
ed esausto, e i gemiti cessarono, perchè l’ammalato è
svenuto; il chirurgo che non è più guidato dalle sue
grida e da’ suoi lamenti, temendo che il suo silenzio non
sia quello della morte, lo guarda con inquietudine per
assicurarsi ch’egli non è spirato; i cordiali, tenuti in
serbo, pervengono a stento a rianimare i suoi occhi
appannati, semichiusi e come scoloriti: il morente
sembra però rinascere alla vita, egli è affranto ed
estenuato, ma almeno le sue grandi sofferenze sono
terminate.
98
Nell’ospitale vicino si adopera il cloroformio: allora
il paziente, specialmente il francese, attraversa due
periodi ben distinti; passa da una agitazione, che va
spesso fino al delirio furioso, ad un abbattimento e ad
una prostrazione completa, nella quale ei resta immerso
come in un letargo; alcuni militari, dediti all’uso de’
liquori forti, subiscono difficilissimamente l’azione del
cloroformio e dibattonsi lungamente contro questo
possente anestesico. Gli accidenti e i casi di morte col
cloroformio non sono così rari come potrebbesi
crederlo, ed alle volte si tenta invano di richiamare alla
vita colui che, pochi istanti prima, vi parlava ancora.
Conviene ora rappresentarsi un’operazione di questo
genere sovra un austriaco, che non sa nè l’italiano nè il
francese, e il quale si lascia condurre presso a poco
come un montone al macello, senza che gli sia dato di
scambiare una sola parola co’ suoi caritatevoli carnefici!
I Francesi incontrano dovunque simpatia, ei sono
accarezzati, avuti a cura, incoraggiati, e, quando si parla
loro della battaglia di Solferino, si animano e discutono:
quelle rimembranze, gloriose per essi, riportando i loro
pensieri altrove che sopra di loro medesimi,
raddolciscono un poco la loro posizione. Ma gli
Austriaci non hanno gli stessi privilegi. Nei diversi
ospitali ove sono stivati, io insisto per vederli, oppure io
penetro quasi a forza nelle loro camerate. Con quale
gratitudine quella povera gente accolgono essi le mie
parole di simpatia e il dono d’un po’ di tabacco! Sui loro
sembianti rassegnati, calmi e dolci, dipingonsi dei
99
sentimenti ch’essi non sanno come esprimere, i loro
sguardi dicono più che tutti i ringraziamenti possibili,
gli ufficiali si mostrano particolarmente sensibili alle
attenzioni che si hanno per loro. Eglino, come i loro
soldati, sono trattati con umanità; ma i Bresciani non
attestano loro alcuna benevolenza. Nell’ospitale ove è il
principe d’Isemburgo, egli occupa, con un altro principe
tedesco, una piccola camera assai comoda.
Per molti giorni di seguito io distribuisco del tabacco,
delle pipe e degli zigari nelle chiese e negli ospitali,
dove l’odore del tabacco, fumato da centinaja d’uomini,
era utilissimo a combattere le esalazioni mefitiche,
risultanti dall’agglomeramento di tanti ammalati in
locali soffocanti per calore; quanto v’era di tabacco a
Brescia venne bentosto ad esaurirsi, e si fu obbligati di
farne venire da Milano; era la sola cosa che diminuiva le
apprensioni dei feriti prima dell’amputazione d’un
membro; molti furono amputati colla pipa in bocca, e
molti sono morti fumando.
Un onorevole abitante di Brescia, il signor Carlo
Broghetti, mi conduce egli medesimo nella sua
carrozza, con una squisita gentilezza, agli ospitali della
città, e mi ajuta distribuire i nostri doni di tabacco,
accomodati dai mercanti in migliaja di piccoli cartocci,
portati, entro enormi ceste e panieri giganteschi, da
soldati di buona volontà. Dappertutto io sono bene
accolto. Solo tra tutti, un dottore lombardo, il conte
Calibi, non volle autorizzare i doni di zigari
100
nell’ospitale di San Luca affidato alle sue cure, mentre
gli altri medici, al contrario, mostraronsi riconoscenti al
pari dei loro ammalati pei doni di tal natura. Questo
piccolo contrattempo non mi rattenne, ed io debbo dire
che fu quello il primo ostacolo da me incontrato e la
prima difficoltà, benchè minima in sè stessa, che mi si
presentò; fino allora io non aveva provata alcuna
contrarietà di questo genere, e, ciò che è più
sorprendente, io non ebbi neppure una sola volta a dover
porgere il mio passaporto nè le raccomandazioni di
generali23 per altri officiali generali, lettere di cui era
guernito il mio portafoglio. Io non mi tenni dunque
battuto, e il giorno medesimo nel pomeriggio, in seguito
ad un nuovo tentativo a San Luca, mi venne fatto di
effettuare una larga distribuzione di zigari a quei bravi
giacenti a letto, ai quali io aveva, ben innocentemente,
fatto subire il supplizio di Tantalo; vedendomi ritornare,
non poterono contenersi dal far intendere delle
esclamazioni e dei gridi di soddisfazione e di gioja.
Nel corso delle mie peregrinazioni io penetro in una
101
successione di camere formanti il secondo piano d’un
vasto convento, specie di labirinto, il cui pianterreno e il
primo piano sono zeppi di ammalati; io trovai in una di
queste alte camere quattro o cinque feriti e febbricitanti,
in un’altra dieci o quindici, in una terza una ventina,
sdrajato ognuno nel suo letto, ma tutti lasciati senza
soccorso, e che si lagnavano amaramente di non aver da
più ore veduto alcuno infermiere; mi richiesero, con
vive istanze, che volessi far portar loro un po’ di brodo
in luogo dell’acqua ghiacciata che avevano per unica
bevanda. All’estremità d’un interminabile corridojo, in
una camera del tutto isolata, se ne moriva solo,
immobile sul suo letticciuolo, un giovane bersagliere,
preso dal tetano; quantunque sembrasse ancor pieno di
vita ed avesse gli occhi spalancati, ei non sentiva e non
comprendeva più nulla, e lo si aveva quindi già
abbandonato. Molti soldati francesi mi pregano di
scrivere ai loro parenti, alcuni al loro capitano, il quale
sostituisce ai loro occhi la loro famiglia assente.
Nell’ospitale di San Clemente, una dama di Brescia, la
contessa Bronna, si adopera con una santa annegazione
a curare gli amputati: i soldati francesi ne parlano con
entusiasmo, le più ributtanti particolarità non la
trattengono. «Sono madre», mi disse ella con una
sublime semplicità. Io sono madre! questa parola rivela
quanto aveva di completo e di materno il suo sagrificio.
Per le vie io vengo soffermato, cinque e sei volte di
seguito, da cittadini che mi supplicano d’andare a casa
loro, per servire di interprete presso dei comandanti, dei
102
capitani o de’ luogotenenti feriti, ch’eglino vollero avere
nelle loro abitazioni, e ai quali essi prodigano le cure le
più affettuose, ma senza poter comprendere ciò che lor
dice l’ospite loro, il quale non sa l’italiano;
quest’ultimo, agitato ed inquieto, si irrita perchè non è
capito a grandissimo rammarico della famiglia intiera, la
quale gli porge le più simpatiche attenzioni, e le vede
accolte col malumore che danno la febbre e il soffrire;
oppure è un ufficiale cui il dottore italiano vorrebbe
cavar sangue e che, imaginando lo si voglia amputare,
resiste con tutte le forze e riscaldandosi fa a sè
medesimo un gravissimo male: parole rassicuranti e
spiegative, pronunciate nella lingua della loro patria
giungono sole, framezzo a que’ lamentevoli equivoci, a
calmare o a tranquillare questi invalidi di Solferino. Con
quanta dolcezza e quanta pazienza gli abitanti di Brescia
non adopransi presso quelli che si sacrificarono per loro
e pel loro paese, onde liberarli dalla dominazione
straniera! È un vero cordoglio quello ch’eglino provano
quando il loro ammalato viene a morire. Quanto è
commovente il vedere queste famiglie improvvisate
seguire religiosamente, lungo la grande allea di cipressi
della porta San Giovanni, fino al Campo Santo,
accompagnandolo alla sua ultima dimora, il feretro
dell’ufficiale francese, ospite loro di alcuni giorni, cui
piangono come un amico, come un parente, come un
figlio, e del quale ignoravano fors’anco il nome!
È durante la notte che si seppelliscono i soldati che
muojono negli ospitali; ma si prende ricordo, il più
103
sovente almeno, del loro nome di famiglia e del loro
numero, ciò che non facevasi quasi affatto a Castiglione.
Tutte le città della Lombardia tennersi ad onore di
rivendicare i loro diritti nella ripartizione dei feriti. A
Bergamo, a Cremona, i soccorsi erano assai bene
organizzati, e le società speciali furono secondate da
comitati ausiliarj di dame, che curarono perfettamente i
loro numerosi contingenti di ammalati; e in uno degli
ospitali di Cremona avendo detto un medico italiano:
«Noi riserbiamo le buone cose pei nostri amici
dell’armata alleata, e diamo ai nostri nemici lo stretto
necessario, e se essi muojono, tanto peggio!»
aggiungendo per iscusarsi di queste barbare parole che,
a detta di alcuni soldati italiani ritornati da Verona e da
Mantova, gli Austriaci lasciavano morire senza soccorso
i feriti dell’armata franco-sarda; una nobile dama di
Cremona, la Contessa*** che le aveva intese, e la quale
erasi con tutto il cuor suo consacrata agli ospitali, si diè
premura di attestarne la sua disapprovazione,
dichiarando ch’ella dedicava le stesse cure affatto agli
Austriaci ed agli Alleati, e ch’ella non faceva differenza
alcuna tra amici e nemici, «perchè, aggiunse ella, il
nostro signore Gesù Cristo non ha stabilito simili
distinzioni tra gli uomini quando trattasi di far loro del
bene». Quantunque non sia impossibile che dei
prigionieri dell’armata alleata sieno per avventura stati
trattati un po’ duramente, tali relazioni erano però
inesatte ed esagerate, e in ogni caso nulla poteva
giustificare espressioni somiglianti.
104
Quanto ai medici francesi, essi fanno tutto quello che
loro è umanamente possibile, senza preoccuparsi delle
nazionalità, e gemono e affliggonsi per tutto quello che
non ponno fare. Ascoltiamo a questo proposito il dottor
Sourier: «Io non posso, dic’egli, senza profonda
rimembranza di tristezza, pensare ad una piccola sala di
venticinque letti assegnati a Cremona agli Austriaci i
più gravemente colpiti. Io vedo allora elevarsi innanzi a
me quelle figure macilenti, terrose, dal colorito sparuto
pel rifinimento e per una lunga dissoluzione marciosa,
implorando con una pantomima, accompagnata da grida
strazianti, come una grazia estrema, l’amputazione d’un
membro che aveasi voluto conservare, per finire con
una lamentevole agonia della quale noi siamo rimasi
impotenti spettatori».
L’intendente generale di Brescia, signor Faraldo, il
dottor Gualla, direttore degli ospitali di questa città, il
dottor Commisetti24, protomedico dell’armata sarda, e il
dottor Carlo Cotta, ispettore sanitario della Lombardia,
gareggiarono per lo spirito di sacrificio, e i loro nomi
24 Il Commendatore Commisetti spiegò in questa circostanza,
come in Crimea e sempre, un’attività e intelligenza senza pari,
istituendo ambulanze, portandosi dovunque, tutto disponendo,
in ciò mirabilmente secondato dall’eletta schiera de’ suoi
ufficiali. Sorto dalle file dell’esercito, di cui ebbe campo a
conoscere i bisogni e le varie contingenze, così in pace come
in guerra, si meritò d’essere innalzato al posto di Presidente
del Corpo Sanitario militare, a grande soddisfazione de’ suoi
subordinati.
105
debbono essere onorevolmente segnalati in uno a quello
dell’illustre barone Larrey, medico-ispettore in capo
dell’armata francese. Il dottore Isnard, medico
principale di prima classe, dimostrò una abilità
rimarchevole come pratico e come amministratore;
presso di lui, a Brescia, si distinse il signor Thierry di
Maugras, e tutta una falange di coraggiosi e instancabili
chirurghi, de’ quali volontieri citerebbonsi i nomi;
poichè certamente, se coloro che uccidono, ponno
aspirare a titoli di gloria, coloro che guariscono, e
spesso a rischio della loro vita, meritano bene la stima e
la riconoscenza. Un chirurgo anglo-americano, il dottor
Norman Bettun, professore d’anatomia a Toronto,
nell’Alto-Canadà, venne appositamente da Strasburgo
ad apportare il suo concorso a tali uomini di sagrificio.
Degli studenti di medicina erano accorsi da Bologna, da
Pisa, e da altre città d’Italia. Allato agli abitanti di
Brescia, alcuni Francesi di passaggio, degli Svizzeri e
dei Belgi, che erano pure venuti ad offrire i loro servigi,
si resero utili presso i malati e davano loro degli aranci,
dei gelati, del caffè, della limonea, del tabacco. L’un
d’essi cambiò un biglietto d’un fiorino ad un croato, il
quale, da ben un mese, scongiurava tutti quelli che
vedeva onde ottenerne un tal cambio, senza il quale non
poteva fare alcun uso di quel modesto peculio formante
tutta la sua sostanza.
Nell’ospitale di San Gaetano, un monaco francescano
distinguesi per il suo zelo verso gli ammalati, e un
giovane soldato piemontese, convalescente, il quale,
106
oriondo di Nizza, parla francese e italiano, traduce le
loro lamentele e le loro domande ai medici lombardi, ed
è quindi tenuto come interprete. A Piacenza, i cui tre
ospitali erano amministrati da privati e da signore che
facevano l’ufficio d’infermieri e d’infermiere, una di
quest’ultime, una giovane signorina, cui la sua famiglia
supplicava rinunciasse a passarvi le giornate intere, a
cagione delle febbri perniciose e contagiose che vi
regnavano, continuava cionnullameno il dovere ch’ella
si era imposto, con tanto buon cuore e con un trasporto
così amabile che ella era venerata da tutti i soldati: «Ella
spande, dicevan essi, la gioja nell’ospitale». Ah! quanto
preziosi sarebbero stati in queste città della Lombardia
qualche centinajo d’infermiere ed infermieri volontari,
sperimentati e ben qualificati per un’opera simile!
Eglino avrebbero raccolto a sè d’intorno de’ soccorsi
sparsi e delle forze disseminate che avrebbero avuto
bisogno dappertutto d’una direzione illuminata, poichè
non solo mancava il tempo a coloro che erano capaci di
consigliare e di guidare, ma le cognizioni e la pratica
facevan difetto alla maggior parte di quelli che non
potevano arrecare altro che la loro individuale operosità,
per conseguenza insufficiente e bene spesso sterile.
Infatti, che potevan eglino fare, a fronte di un’opera così
grande e così urgente, un pugno di persone isolate; da
qualunque buona volontà fossero esse animate! In capo
ad otto o dieci giorni, l’entusiasmo caritatevole di
Brescia, pur tanto così verace, erasi assai raffreddato; ei
sentironsi stanchi e affaticati, tranne eccezioni assai
107
onorevoli. Innoltre, essendovi dei cittadini inesperti o
poco giudiziosi, che recavano nelle chiese o negli
ospitali un nutrimento spesso malsano pei feriti, si
dovette loro vietarne l’entrata; parecchi che avrebbero
acconsentito di venire a passare un’ora o due presso gli
ammalati, vi rinunciavano dal momento che trattavasi di
avere perciò un permesso e di fare delle pratiche per
ottenerlo; e gli stranieri disposti a prestar servigio o a
rendersi utili incontravano ostacoli impreveduti, ora
d’una sorta or d’un’altra, tali da scoraggirli. Ma degli
infermieri bene scelti e capaci, mandati da apposite
società, avrebbero senza fatica superate tutte le
difficoltà e fatto senza paragone più di bene.
Durante gli otto primi giorni dopo la battaglia, i feriti
de’ quali i medici dicevano a mezzavoce nel passare
davanti ai loro letti e crollando la testa: «Non v’è più
nulla a fare!» non riceveano quasi più veruna cura e
morivano abbandonati e dimenticati. — E questo non
era egli affatto naturale, atteso il piccolissimo numero
d’infermieri a fronte della quantità enorme di feriti? non
era egli di una logica inevitabile del pari che desolante e
crudele di lasciarli perire senza più occuparsi di essi, e
senza loro consacrare un tempo prezioso che era tanto
necessario di riserbare ai soldati suscettibili di
guarigione? Erano ben numerosi quelli che si
condannavano per tal modo in anticipazione, e non
erano sordi gl’infelici sopra i quali pronunciavasi tale
inesorabile sentenza; bentosto accorgevansi essi del loro
108
abbandono, ed era, lacero ed ulcerato il cuore, ch’ei
rendeano l’estremo sospiro, senza che veruno se ne
commovesse o vi ponesse attenzione, e la fine di taluno
fra di essi era forse resa ancora più trista ed amara dalla
vicinanza di qualche giovane zuavo, leggermente ferito,
le cui facezie frivole e fuor di luogo, partenti dal letto
tosto a fianco al suo, non lasciangli nè tregua nè riposo,
e dalla prossimità d’un altro compagno di sventura
appena spirato, ciò che lo obbliga di assistere, lui
moribondo, ai funerali così lesti, tributati a questo
camerata defunto, e i quali pongono anticipatamente
sotto i suoi occhi quelli che subirà ben presto egli
medesimo; e non iscorge egli infine certa gente che,
vedendolo all’articolo della morte, approfitta del suo
stato di debolezza per andar rovistando nel suo sacco e
svaligiarlo di tutto quello che troverà di sua
convenienza; e questo morente ha da ben otto giorni
lettere della sua famiglia alla posta: se esse gli venissero
consegnate, sarebbero per lui una consolazione
suprema; egli supplicò i custodi di andargliele a
prendere, onde possa leggerle prima della sua ora
suprema, ma gli risposero duramente che non ne
avevano il tempo, avendo ben altro a fare.
Sembra che sarebbe stato meglio per te, povero
martire, che tu fossi perito bruscamente colpito da una
palla sul campo della carnificina, in mezzo a quegli
splendidi orrori che chiamansi la gloria! il tuo nome
almeno sarebbe stato coronato da un po’ di aureola, se tu
109
fossi caduto allato al tuo colonnello difendendo la
bandiera del tuo reggimento; ei sembra persino che
sarebbe per te stato meglio, che tu fossi stato sotterrato
vivo ancora dai rustici cui era devoluta la missione di
seppellire, allorquando, privo di sensi, tu fosti rilevato
esanime sull’altura dei Cipressi o nella pianura di
Medole: la tua agonia non sarebbe stata lunga; ma ora, è
una successione di agonie che tu devi sopportare; non è
più il campo dell’onore che ti si presenta, ma la morte
fredda e lugubre, accompagnata da tutte le sue paure, e
forse a stento il tuo nome sfuggirà all’epiteto così breve
di «scomparso» come unica orazione funebre!
Che era dunque divenuta quell’ebbrezza profonda,
intima, inesprimibile, che elettrizzava questo valoroso
combattente, in un modo così strano e così misterioso,
al momento dell’apertura della campagna, e nella
giornata di Solferino, negli istanti medesimi in cui
poneva a repentaglio la sua vita, e in cui la sua
intrepidezza andava in certo modo sitibonda del sangue
de’ suoi simili ch’ei correva a versare d’un piè sì
leggero? Che erano divenuti, come nei primi
combattimenti; od all’atto di quelle entrate trionfali
nelle grandi città della Lombardia, quell’amore della
gloria e quel rapimento così comunicativo, a mille doppi
accresciuti dai fieri e melodiosi concenti delle musiche
guerriere e dai suoni bellicosi degli oricalchi risonanti, e
ardentemente spronati dal fischio delle palle, dal fremito
delle bombe e dai metallici rombi dei razzi e degli
obizzi che scoppiano e che romponsi, in quelle ore in
110
cui l’entusiasmo, la seduzione del periglio ed un
violento ed inconscio eccitamento fanno perder di vista
il pensiero della morte?
Si è in questi numerosi ospitali della Lombardia che
potevasi vedere ed imparare a qual prezzo si compera
ciò che gli uomini appellano pomposamente la gloria, e
quanto questa gloria si paga cara! La battaglia di
Solferino è la sola che nel XIX secolo, possa essere
pareggiata, per l’estensione delle perdite che trasse seco,
alle battaglie di Borodino, di Lipsia e di Waterloo.
Infatti, come risultato della giornata del 24 giugno 1859,
contavansi tra morti e feriti, nelle armate austriaca e
franco-sarda, 3 feldmarescialli, 9 generali, 1566 ufficiali
di ogni grado, de’ quali 630 austriaci e 936 alleati, e
circa, 40,000 soldati e sottufficiali25. Due mesi dopo
conveniva aggiungere a queste cifre, per le tre armate
riunite, più di 40,000 febbricitanti e morti per malattie,
sia in conseguenza delle fatiche eccessive, sostenute il
24 giugno e i giorni che precedettero immediatamente o
seguirono questa data, sia per l’influenza perniciosa del
clima nel cuor dell’estate e i calori tropicali delle
pianure della Lombardia, sia infine per gli accidenti
25 Alcuni giornali francesi ed alcune pubblicazioni pretesero che
al momento di firmare il trattato di pace di Villafranca, il
Feld-maresciallo Hess avesse confessato che gli Austriaci
aveano avuto 50,000 uomini messi fuor di combattimento
nella battaglia di Solferino, perchè, avrebb’egli aggiunto, «i
cannoni rigati francesi decimavano le nostre riserve.» Ma è
permesso di dubitare dell’autenticità di queste parole.
111
derivanti dalle imprudenze che commettevano i soldati.
— Fatta astrazione dal punto di vista militare e glorioso,
questa battaglia di Solferino era dunque, all’occhio di
ogni persona neutra ed imparziale, un disastro per così
dire europeo26.
Il trasporto dei feriti da Brescia a Milano, il quale
26 Ascoltiamo Paolo di Molènes, il quale assisteva alla battaglia
come ufficiale superiore nell’armata francese, e a cui il nobile
suo cuore dettò le seguenti linee le quali sono affatto in
armonia col nostro soggetto:
«Dopo la battaglia di Marengo, quella del 1800, che fu ben lungi
però dall’eguagliare nella strage la battaglia di Solferino,
Napoleone I provò uno di quei sentimenti repentini e possenti,
estranei ai consigli della politica, superiori fors’anco alle
ispirazioni persino del genio, uno di quei sentimenti, segreto
delle anime eroiche, che schiudonsi sotto gli sguardi di Dio,
nei più alti e più misteriosi recessi della coscienza. — È sul
campo di battaglia, scrisse egli all’Imperatore d’Austria, in
mezzo ai dolori di una moltitudine di feriti, e circondato da
quindici mila cadaveri, che io scongiuro la Maestà Vostra di
ascoltare la voce dell’umanità. — Questa lettera dataci intera
da un celebre storico de’ nostri giorni, mi ha vivamente
colpito. Colui che l’avea vergata ne fu egli medesimo
commosso e sorpreso. La sua maraviglia non fu però turbata
dal rimorso onde sono penetrati, all’atto ch’ei dicono del loro
svegliarsi, quegli uomini che accusano il loro spirito d’aver
dormito quando lasciaron compiersi una qualche azione
generosa del loro cuore. Egli accettò, sotto la forma
impreveduta come gli si era offerto, un pensiero del quale ei
comprendeva e rispettava la sorgente.» — Ora la sorgente del
pensiero che strappò al vincitore di Marengo quello strano
grido di pietà e di tristezza, la battaglia di Solferino, aggiunge
112
avviene durante la notte (a cagione della torrida caldura
del giorno), presenta uno spettacolo sommamente
drammatico e angoscioso coi suoi treni carichi di soldati
mutilati, e l’arrivo alle stazioni, ingombre d’una
popolazione triste e silenziosa, rischiarata dai pallidi
splendori di torce a vento, e con quella folla compatta
che, tutta palpitante di emozione, sembra voglia
rattenere il suo proprio respiro per ascoltare i gemiti e i
lamenti soffocati che dai sinistri convogli giungono fino
ad essa.
Sulla ferrovia da Milano a Venezia, gli Austriaci,
ritirandosi, durante il mese di giugno, fino al lago di
Garda, avevano tagliata, in parecchi punti la parte della
strada che estendesi da Milano a Brescia e Peschiera;
ma questa linea fu prontamente ristaurata e riaperta alla
circolazione27 per facilitare il trasporto del materiale,
delle munizioni, dei viveri che si spedivano all’armata
alleata, e per permettere la evacuazione degli ospitali di
Brescia.
Ad ogni stazione delle baracche lunghe e strette
eransi costrutte per accogliervi i feriti, i quali, all’uscire
dai vagoni, venivano deposti sopra dei letti, o sopra
semplici stramazzi allineati gli uni dietro gli altri; sotto
tali tettoje sono disposte delle tavole sovraccaricate di
Paolo di Molènes, la faceva zampillare di nuovo.
27 Questo risultato è dovuto particolarmente alla attività e
all’energia del signor Carlo Brot, banchiere a Milano, unico
Membro del Consiglio d’Amministrazione delle ferrovie
lombardo-venete, che fosse rimasto in quella città.
113
pane, di brodo, di vino e sovratutto di acqua, come
eziandio di filaccia e di bende, delle quali non cessa di
farsi sentir il bisogno continuo. Una quantità di fiaccole,
tenute dai giovani del luogo ove il convoglio si ferma,
dissipano le tenebre, e i cittadini lombardi s’affrettano
d’apportare il loro tributo di attenzioni e di gratitudine
ai vincitori di Solferino; in un silenzio religioso
medicano i feriti, che estrassero dai vagoni con
precauzioni affatto paterne, per adagiarli con tutta cura
sui letti che loro hanno preparati; le signore del paese
offrono loro bevande rinfrescanti e commestibili di ogni
sorta, cui esse distribuiscono nei vagoni a quelli che, in
via di convalescenza, debbono andar fino a Milano. In
questa città, ove giungono circa mille feriti per notte 28,
durante parecchie notti di seguito, i martiri di Solferino
sono ricevuti colla stessa premura, colla medesima
affezione che lo furono quelli di Magenta e di
Melegnano.
Ma non sono più foglie di rose cui spandono, dai
balconi pavesati dei sontuosi palazzi dell’aristocrazia
milanese, sovra brillanti spallini e sovra croci marezzate
d’oro e di smalto, le graziose e belle giovani patrizie,
114
rese più belle ancora dall’esaltazione d’un entusiasmo
appassionato; sono lagrime cocenti, espressione di una
dolorosa ambascia e d’un compatimento che va
trasformandosi in uno spirito di sagrificio cristiano,
paziente e ripieno di annegazione.
Tutte le famiglie che tengono una carrozza vanno a
prendere i feriti alla stazione; il numero di questi
equipaggi mandati dai Milanesi oltrepassa forse i
cinquecento; i loro più splendidi cocchi, come le più
modeste carrozzette, sono avviate tutte le sere a Porta
Tosa (Porta Vittoria), ove è lo scalo della ferrovia di
Venezia; le nobili dame italiane reputansi ad onore di
riporre elleno stesse nei loro cocchi, cui guernirono di
materassi, di coperte e di guanciali, gli ospiti che loro
cadono in sorte, e i quali vengono trasportati in queste
opulenti carrozze dai signori lombardi, ajutati in tale
officio dai loro servitori non meno zelanti. La folla
acclama sul loro passaggio questi privilegiati del dolore,
essa scopresi rispettosamente, essa scorta la lenta marcia
dei convogli con torce che rischiarano i melanconici
sembianti dei feriti, i quali tentano di sorridere, e li
accompagna fino alla soglia dei palagi e delle case
ospitali, ove li attendono le cure le più assidue.
Ogni famiglia vuol avere in casa propria dei feriti
francesi, e cerca di scemare, mercè ogni sorta di buoni
trattamenti, la privazione della patria, dei parenti e degli
amici; nelle particolari abitazioni come negli ospitali, i
115
migliori medici sono occupati a fianco a loro29. Le più
grandi dame milanesi professano loro una sollecitudine
coraggiosa del pari che costante; elleno veglian
all’origliere del semplice soldato, come a quello
dell’ufficiale colla più incrollabile costanza; la signora
Uboldi de Capei, la signora Boselli, la signora Sala, nata
contessa Taverna, e molte altre dame, dimenticando le
loro eleganti e comode abitudini, passano mesi intieri a
fianco ai letti di dolore degli ammalati, de’ quali esse
116
diventano gli angeli tutelari. Tutti questi benefici sono
sparsi senza ostentazione; e tante cure, tanti conforti,
tante attenzioni di ogni istante hanno ben diritto, colla
riconoscenza delle famiglie di coloro che ne furono
segno, alla rispettosa ammirazione di ognuno. Alcune di
queste dame erano madri, i cui abbigliamenti a lutto
rivelavano perdite dolorose affatto recenti; ricordiamo la
sublime confidenza d’una di esse al dottore Bertherand:
«La guerra m’ha rapito, le disse la marchesa L..., il
primogenito de’ miei figli; egli è morto, sono otto mesi,
per le conseguenze d’una palla ricevuta combattendo,
colla vostra armata, a Sebastopoli. Quando seppi che
arrivavano a Milano de’ francesi feriti, e che io potrei
assisterli, sentii che Dio mi mandava la sua prima
consolazione...»
La signora contessa Verri-Borromeo, presidente del
comitato centrale di soccorso30, dirigeva il movimento
117
dei depositi di biancheria e filaccia, e seppe inoltre,
malgrado la sua età avanzata, trovare il tempo di
consacrare parecchie ore ogni giorno a fare delle letture
ai feriti. Tutti i palazzi contengono ammalati; quello dei
Borromeo (delle Isole) ne conta trecento. La Superiora
delle Orsoline, la suor Marina Videmani, amministra
uno spedale che è un modello d’ordine e nitidezza, e nel
quale disimpegna ella tutto il servizio colle suore sue
compagne.
Mano mano però veggonsi passare, prendendo la via
per Torino31, piccoli distaccamenti di soldati francesi in
118
convalescenza, col colorito abbronzato dal sole d’Italia,
gli uni portando il braccio al collo, gli altri
sorreggendosi sulle grucce, tutti con tracce di gravi
ferite; e i loro uniformi sono logori e lacerati, ma
portano magnifica biancheria, di cui i ricchi lombardi
gli hanno generosamente provveduti in ricambio delle
loro camicie insanguinate: «Il vostro sangue s’è versato
per la difesa del nostro paese, dissero loro questi
Italiani, noi vogliamo conservarne il ricordo». Quegli
uomini, forti e robusti poche settimane prima, ed oggi
privi d’un braccio, di una gamba, o la testa avvolta in
bende e sanguinolenta, sopportano i loro mali con
rassegnazione; ma incapaci oramai di proseguire la
carriera delle armi o di venir in ajuto delle loro famiglie,
si veggono già, con una dolorosa amarezza, diventar
oggetto di commiserazione e di pietà agli altri, di peso a
sè medesimi pel restante de’ loro giorni.
Io non posso far a meno di menzionare l’incontro che
feci in Milano, al mio ritorno da Solferino, d’un
venerando vegliardo, il signor marchese C. di Bryas,
antico deputato e già primo officiale del corpo
municipale di Bordeaux, e il quale, possessore d’una
grossissima sostanza, non era venuto in Italia che per
esservi utile ai soldati feriti. Io fui abbastanza fortunato
di poter facilitare a questo nobile filantropo la sua
partenza per Brescia: durante la prima quindicina di
luglio la confusione e l’ingombro furono tali alla
stazione di Porta Tosa, dove io lo accompagnai, che era
d’una inaudita difficoltà il pervenire fino ai vagoni; ad
119
onta dell’età sua, della sua posizione e del suo carattere
officiale (poichè egli era stato appunto, se non
m’inganno, incaricato dall’amministrazione francese di
una missione tutta di carità), ei non poteva riuscire ad
ottenere un posto nel treno su cui doveva salire. Questo
piccolo incidente può dare un’idea dell’affluenza
straordinaria che ostruiva lo scalo e i suoi accessi.
Un altro francese, quasi sordo, aveva del pari
percorse dugento leghe per venire ad assistere i suoi
compatrioti; giunto a Milano, e vedendo i feriti austriaci
meno curati, ei dedicossi più specialmente ad essi, e
cercò di far loro tutto il bene possibile, in ricambio del
male che a lui aveva fatto, quarantacinque anni addietro,
un officiale austriaco; nell’anno 1814; allorquando le
armate della Santa Alleanza avean invasa la Francia,
quest’ufficiale, avendo dovuto prender alloggio in casa
dei genitori di questo francese il quale, giovane affatto a
quell’epoca, trovavasi affetto di una malattia la cui
natura era pel militare straniero un argomento di
ripugnanza, ei mise rozzamente alla porta e fuor di casa,
senza che si potesse impedirnelo, il povero fanciullo al
quale questo atto di brutalità cagionò una sordità di cui
ebbe a soffrire per tutta la sua vita.
In uno degli ospitali di Milano, un sergente degli
zuavi della guardia, dal viso energico e fiero, cui una
gamba era stata amputata, e il quale aveva sopportata
questa operazione senza profferire un solo lamento, fu
preso, poco tempo dopo, da una profonda tristezza,
quantunque migliorasse il suo stato e la sua
120
convalescenza facesse progressi. Questa tristezza, che
aumentava di giorno in giorno, restava dunque
inesplicabile. Una suora di Carità, avendo sorpreso
persino delle lagrime negli occhi di lui, lo strinse con
tante dimande ch’ei finì per confidare alla buona
religiosa ch’egli era il solo sostegno della sua propria
madre attempata e inferma, e che, quando egli era sano,
le mandava ogni mese cinque franchi, frutto delle
economie ch’ei faceva sulla sua paga; ei vedevasi
attualmente nella impossibilità di venirle in ajuto, ed
ella doveva essere in un estremo bisogno di danaro,
poichè egli non avea potuto inviarle la sua piccola
rendita. La suora di Carità, tocca da commiserazione, gli
diede una moneta da cinque franchi, il cui valore fu
tosto spedito in Francia; ma quando la contessa T..., la
quale aveva preso interesse a questo bravo e degno
soldato, e che era stata informata della causa della sua
straordinaria mestizia, volle consegnargli una piccola
somma per la madre sua e per lui medesimo, egli rifiutò
d’accettarla, e rispose alla dama ringraziandola: «Tenete
questo danaro per altri che ne abbisognano più di me; e
quanto alla madre mia, io spero bene di poterle mandare
la sua pensione il prossimo mese, giacchè faccio conto
di poter lavorare ben presto».
Una delle grandi dame di Milano, la quale porta un
nome storico, avea messo a disposizione pei feriti uno
de’ suoi palagi, con centocinquanta letti. Tra i soldati
alloggiati in questo magnifico palazzo trovavasi un
121
granatiere del 70o, il quale, avendo subita
un’amputazione, era in pericolo di morte. Questa dama,
cercando di confortare il ferito, parlavagli della sua
famiglia, e questi raccontò ch’egli era unico figlio di
contadini del dipartimento del Gers, e che tutta la sua
angoscia era quella di lasciarli nella miseria, poichè egli
solo avrebbe potuto provvedere alla loro sussistenza;
aggiunse che sarebbe stato per lui una assai grande
consolazione quella d’abbracciare la madre sua prima di
morire. La dama, senza comunicargli il suo progetto, si
decide testo a lasciar Milano, vola sulla ferrovia, recasi
nel dipartimento del Gers presso quella famiglia della
quale ottenne l’indirizzo, s’impadronisce della madre
del ferito dopo aver lasciato duemila franchi al vecchio
padre infermo, conduce con lei la povera contadina a
Milano, e sei giorni dopo il colloquio di quella dama col
granatiere, il figlio abbracciava la madre piangendo e
benedicendo alla sua benefattrice.
122
volontarie di soccorso, le quali avessero per iscopo di
prestare o far prestare, in tempo di guerra, assistenza ai
feriti?
Poichè bisogna rinunciare ai voti ed alle speranze dei
membri della Società degli amici della pace, e ai sogni
dell’abate di Saint-Pierre e alle inspirazioni d’un conte
de Sellon; poichè gli uomini continuano ad uccidersi a
vicenda senza odiarsi, e l’apice della gloria è, nella
guerra, di esterminarne il più gran numero; poichè si
dichiara, come lo afferma il conte Giuseppe de Maistre,
che «la guerra è divina;» poichè si inventano ogni
giorno, con una perseveranza degna d’una meta
migliore, mezzi di distruzione più terribili di quelli che
già posseggonsi, e gli inventori di tali macchine
sterminatrici sono incoraggiti nella maggior parte dei
grandi Stati dell’Europa, nei quali si va armando a tutto
potere; perchè non profitterebbesi d’un tempo di
tranquillità relativa e di calma per risolvere una
questione d’una sì alta importanza, dal doppio punto di
vista dell’umanità e del cristianesimo?
Dato una volta alle meditazioni di ognuno, questo
soggetto provocherà senza dubbio le riflessioni e gli
scritti di persone più capaci e più competenti; ma non
conviene egli dapprima che questa idea presentata ai
diversi rami della grande famiglia europea, fissi
l’attenzione e s’acquisti le simpatie di tutti quelli che
hanno un’anima elevata e un cuor suscettibile di
commoversi alle sofferenze de’ loro simili?
Società di questo genere, una volta costituite, e con
123
una esistenza permanente, rimarrebbero in certo modo
inattive in tempo di pace32, ma esse troverebbonsi bell’e
organizzate a fronte di una eventualità di guerra; esse
dovrebbero ottenere la benevolenza delle autorità del
paese ove avessero preso nascimento, e sollecitare, in
caso di guerra, dai Sovrani delle potenze belligeranti,
autorizzazioni e facilitazioni per condurre l’opera loro a
buon fine. Queste Società dovrebbero dunque
comprendere nel loro seno, e in ogni paese, siccome
membri del comitato superiore dirigente, uomini
altrettanto onorevolmente conosciuti che stimati. Cotesti
comitati farebbero appello ad ogni persona che, spronata
da sentimenti di vera filantropia, consentisse a
consecrarsi momentaneamente a quest’opera, la quale
consisterebbe 1.o a recare, d’accordo colle Intendenze
militari, cioè col loro appoggio e occorrendo dietro loro
direzione, de’ soccorsi e delle cure su di un campo di
battaglia nel momento stesso d’un conflitto; poi, 2.o a
continuare, negli ospitali, quelle cure ai feriti fino
all’intera loro convalescenza. Tale sagrificio, affatto
spontaneo, incontrerebbesi più agevolmente che non
siasi portati a pensarlo, e molte persone, certe oramai
d’essere utili e convinte di poter fare qualche bene
essendo incoraggite e agevolate dall’Amministrazione
32 Queste Società potrebbero rendere grandi servigi in epoche di
epidemie, in grandi disastri, come innondazioni, incendj; il
movente filantropico, che le avrebbe fatte nascere, le farebbe
agire in tutte le occasioni in cui la loro azione potesse
esercitarsi.
124
superiore, accorrerebbero sicuramente, anche a proprie
spese, ad adempiere per un po’ di tempo un dovere così
eminentemente filantropico. In questo secolo accusato
di egoismo e di freddezza, quale attraimento pei cuori
nobili e compassionevoli, pei caratteri cavallereschi, lo
affrontare gli stessi perigli dell’uomo guerriero, ma con
una missione tutta volontaria di pace, di consolazione e
di annegazione.
Gli esempi cui fornisce la storia provano che non è
punto chimera il far calcolo su di uno spirito di
sagrificio di tal natura, e per non citarne che due o tre,
non è egli noto che l’arcivescovo di Milano, san Carlo
Borromeo, accorse in questa città, dall’estremo angolo
della sua diocesi, nello infuriare della peste del 1576
onde arrecare a tutti, affrontando il contagio, soccorsi e
incoraggimento? e il suo esempio non fu egli imitato nel
1627 da Federico Borromeo? Il vescovo Belzunce de
Castel-Moron non s’è egli immortalato per l’eroico
spirito di sagrificio dimostrato duranti le stragi di questo
crudele flagello a Marsiglia nel 1720 e 1724? Un John
Howard non ha egli percorsa l’Europa per visitare le
prigioni, i lazzaretti, gli ospitali? La suor Marta, di
Besanzone si è resa ben nota per avere, dal 1813 al
1815, medicati i feriti delle armate coalizzate del pari
che quelli dell’armata francese; e, prima di lei, un’altra
religiosa, suor Barbara Schyner, erasi distinta a
Friburgo, nel 1799, per le sue cure ai feriti delle truppe
che invadevano il suo paese, non che ai suoi propri
compatrioti.
125
Ma facciamo menzione sovratutto di due esempi di
spirito di sacrificio contemporanei, che si rapportano
alla guerra d’Oriente, e i quali sono direttamente in
relazione col soggetto che ci occupa. Intanto che le
suore di Carità assistevano i feriti e gli ammalati
dell’armata francese in Crimea, le armate russa e inglese
vedevano giungere, provenienti dal nord e
dall’occidente, due nobili legioni di generose infermiere
guidate da due sante donne. Infatti, poco dopo che la
guerra era scoppiata, la granduchessa Elena Paulowna di
Russia, nata principessa Carlotta di Würtemberg,
vedova del granduca Michele, lasciò Pietroburgo, con
circa trecento dame che la seguirono, per recarsi a fare
da infermiere negli ospitali della Crimea, dove elleno
furono benedette da migliaja di soldati russi33. Dal suo
canto miss Fiorenza Nightingale, che aveva visitati gli
ospitali d’Inghilterra, e i principali istituti di carità e di
beneficenza sul continente, e la quale erasi consecrata a
far del bene, rinunciando alle dolcezze dell’opulenza,
ricevette un premuroso appello da lord Sidney Herbert,
126
segretario della guerra dell’impero Britannico a
quell’epoca, che l’invitava d’andare ad assistere i soldati
inglesi in Oriente. Miss Nightingale, il cui nome è
diventato popolare, non esitò punto ad intraprendere
questa bella opera, cui ella sapea tornar simpatica
eziandio al cuore della sua sovrana, e partì per
Costantinopoli e Scutari, nel novembre 1854, con
trentasette dame inglesi, le quali già dal loro arrivo
porsero le loro cure ai numerosi feriti d’Inkermann; nel
1855 miss Stanley la venne a raggiungere con cinquanta
nuove compagne, il che permise a miss Nightingale di
recarsi a Balaklava per ispezionarne gli ospitali. È noto
quanto le fece intraprendere in Crimea il suo ardente
amore per l’umanità sofferente34.
Ma nella moltitudine infinita di tanti altri sagrifici di
sè medesimo, moderni o antichi e la parte maggiore dei
quali trascorsero oscuri od ignorati, quanti non rimasero
più o meno sterili, perchè erano isolati e non furono
sostenuti da simpatie collettive e organizzate!
Se a Castiglione ci fossero stati degli infermieri
volontari il 24, i1 25 e il 26 giugno, o a Brescia intorno
alla medesima epoca, come pure a Mantova e a Verona,
127
quanto bene inapprezzabile non avrebbero essi potuto
fare? non sarebbero eglino stati della più grande utilità
in quella notte nefasta dal venerdì al sabato, nel corso
della quale gemiti e suppliche strazianti erompevano dal
petto di migliaja di feriti, in preda ai più acuti dolori, e
torturati dall’inesprimibile supplizio della sete!
Se il principe d’Isemburgo fosse stato da mano
compassionevole raccolto più presto d’in sul terreno
umido e sanguinoso ove giaceva privo di sensi, ei non
soffrirebbe, ancora oggigiorno, di ferite che furono
pericolosamente aggravate da un abbandono di molte
ore; e se il di lui cavallo non l’avesse fatto discoprire in
mezzo ai cadaveri, non sarebb’egli perito per mancanza
di soccorso, con tanti altri feriti, i quali non erano però
meno creature di Dio, e la cui morte poteva essere
egualmente sensibile alle loro famiglie? Si rifletta che
quelle belle giovani e quelle buone donne di Castiglione
hanno salvata la vita a molti di que’ militari mutilati o
sfigurati, ma suscettibili di guarigione, ai quali elleno
porser assistenza. Erano duopo colà, non solo donne
deboli ed ignoranti, ma a fianco d’esse e con esse,
sarebbero stati necessari degli uomini d’esperienza,
capaci, fermi, e anticipatamente organizzati per agire
con ordine ed accordo, e far cansare quegli accidenti e
quelle febbri che, complicando le ferite, le rendono assai
prestamente mortali.
Se si avessero avuti ajutanti abbastanza per
provvedere al servizio del raccôrre i feriti nelle pianure
di Medole, e in fondo agli avvallamenti di San Martino,
128
e su pei dirupi del Monte Fontana o sulle alture di
Solferino, non avrebbesi lasciato, il 24 di giugno, per
lunghe ore di seguito, tra pungenti angosce e il timore
così amaro dell’abbandono, quel povero bersagliere,
quell’ulano e quello zuavo che, sforzandosi di sollevarsi
malgrado i suoi atroci dolori, faceva segno inutilmente
da lungi, colla mano, perchè si dirigesse una lettiga alla
sua volta. Infine non avrebbesi incorsa l’orribile sorte di
seppellire, l’indomani, com’è pur troppo probabilmente
avvenuto, de’ viventi coi morti!
Con mezzi di trasporto meglio perfezionati35, si
129
avrebbe risparmiato a quel volteggiatore della guardia la
dolorosa amputazione ch’egli ebbe a subire a Brescia, e
che fu resa necessaria da una deplorabile mancanza di
cure durante il tragitto dall’ambulanza del suo
reggimento fino a Castiglione. La vista di que’ giovani
invalidi, scemi d’un braccio o d’una gamba, e che
rientrano tristamente ne’ loro focolari, non deve essa far
nascere come un rimorso od un rincrescimento, per non
aver tentato di prevenire le conseguenze funeste di
ferite, che avrebbero potuto essere guarite con soccorsi
efficaci, spediti o pôrti a proposito? E quei morenti,
abbandonati nelle ambulanze di Castiglione o negli
ospitali di Brescia, e parecchi dei quali non sapevano da
chi farsi intendere nella propria lingua, avrebbero essi
reso l’estremo sospiro, maledicendo e bestemmiando,
s’eglino avessero avuto presso di loro alcuno ad
130
ascoltarli e consolarli36?
Malgrado tutto lo zelo delle città della Lombardia e
degli abitanti di Brescia, non è egli rimasto ancora
immensamente da fare? In nessuna guerra, ed in nessun
secolo, erasi veduto una così sublime espansione di
carità; eppure fu molto al disotto di ogni proporzione
colla estensione dei mali da soccorrere, e d’altra parte
non dimostravasi che inverso i feriti dell’armata alleata
e quasi nulla verso gli Austriaci: era la riconoscenza di
un popolo strappato alla dominazione straniera, che
aveva prodotto questo delirio momentaneo di
entusiasmo e di simpatia. V’ebbero, è vero, in Italia
donne coraggiose, la pazienza e la perseveranza delle
quali non istancaronsi punto, ma, ahimè! ponnosi
facilmente contare; le febbri contagiose allontanarono
molte persone, e gli infermieri e gl’inservienti non
corrisposero tutti a lungo a quanto potevasi da loro
attendere. Per un compito di questa natura non ci
vogliono mercenari, cui la ripugnanza allontana o la
fatica rende insensibili, duri e infingardi. Fanno
mestieri, d’altro canto, soccorsi immediati, poichè ciò
che può salvare oggi il ferito, non lo salverà più domani,
e perdendo tempo si lascia sopraggiungere la cancrena
che strugge il malato37. Per conseguenza, fa d’uopo di
36 Durante la guerra d’Italia, v’ebbero persino de’ soldati che
furono colti dalla nostalgia ad un grado tale che senz’altra
malattia, e senz’alcuna ferita, ne morirono.
37 Al principio della campagna d’Italia e prima che fosse data
veruna battaglia, la signora N.... avendo proposto in un salone,
131
infermiere e d’infermieri volontari, diligenti, preparati o
iniziati a quest’opera, e i quali, riconosciuti ed approvati
dai capi delle armate in campo, siano agevolati e
sostenuti nella loro missione. Il personale delle
ambulanze militari è sempre insufficiente, e lo sarebbe
ancora sempre, ov’ei fosse anco raddoppiato o
triplicato; conviene inevitabilmente ricorrere al
pubblico, vi si è costretti, e vi si sarà obbligati
costantemente, perchè non è che colla sua cooperazione
che si può sperare di raggiungere lo scopo di cui trattasi.
V’è dunque là un appello da indirizzare, una supplica da
presentare agli uomini d’ogni paese e di ogni rango, ai
potenti di questo mondo come ai più modesti artigiani,
poichè tutti ponno, in un modo o nell’altro, ognuno
nella sua sfera e secondo le proprie forze, concorrere in
qualche proporzione a questa buona opera. Un appello
di questo genere si rivolge alle donne come agli uomini,
132
alla principessa assisa sui gradini d’un trono, come
all’umile servente, orfana e animata dallo spirito di
sacrificio, o alla povera vedova isolata sovra la terra, e
che desidera consacrare le ultime sue forze al sollievo
delle sofferenze del suo prossimo; esso s’indirizza al
generale od al maresciallo di campo, come al filantropo
ed allo scrittore, che può dal recesso del suo gabinetto
sviluppare con talento, per mezzo delle sue
pubblicazioni, una quistione che abbraccia l’umanità
intiera, e, in senso più ristretto, ogni popolo, ogni
contrada, ogni famiglia perfino, poichè nessuno può
dirsi al sicuro dalle vicende della guerra.
Se un generale austriaco e un generale francese hanno
potuto trovarsi, dopo Solferino, assisi l’uno a fianco
dell’altro alla mensa ospitale del re di Prussia e
ragionare in buona amicizia, chi li avrebbe impediti
d’esaminare e discutere una questione così degna
dell’interesse loro e della loro attenzione?
In occasioni straordinarie, come quelle che
riuniscono, per esempio, a Colonia o a Châlons, de’
principi dell’arte militare, di differenti nazionalità, non
sarebb’egli a desiderare ch’essi approfittino di questa
specie di congressi per formulare qualche principio
internazionale, convenzionale e sacro, il quale, una volta
aggradito e ratificato, servirebbe di base a delle Società
di soccorso per i feriti nei diversi paesi dell’Europa?
Egli è tanto più importante di porsi d’accordo
133
d’adottare anticipatamente delle misure, che al
momento del principiare delle ostilità, i belligeranti
sono già maldisposti gli uni verso gli altri, e non trattano
più le quistioni che dal punto di vista unico de’ loro
attinenti38.
L’umanità e la civilizzazione domandano
imperiosamente un’opera come quella che qui viene
indicata; sembra che siavi anzi in ciò un dovere,
all’adempimento del quale ogni uomo che eserciti
qualche influenza deve il suo concorso, ed ogni uomo
dabbene almeno un pensiero. Qual principe, quale
sovrano negherebbe il suo appoggio a queste società, e
non andrebbe lieto di dare ai soldati della sua armata la
piena sicurezza che saranno immediatamente e
convenientemente assistiti se venissero ad essere feriti?
Quale Stato non vorrebbe accordare la sua protezione a
quelli che cercassero per tal modo di conservare la vita
di cittadini utili? Il militare che difende o che serve il
38 Tuttavolta, per la creazione medesima dei comitati, non v’è
bisogno che d’un po’ di buona volontà da parte di alcuni
uomini onorevoli, dotati di perseveranza, ma che non
parrebbero chiamati eglino medesimi a de’ sagrifici molto
straordinari. — Converrebbe formare dei quadri in istato
latente, ossia una specie di stato-maggiore composto d’un
piccolo numero di generosi filantropi e che, sempre pronto ad
agire, resterebbe, senza disciogliersi, più o meno inattivo in
tempo di pace. — Dei comitati, organizzati in differenti
contrade e in località diverse, quantunque indipendenti gli uni
dagli altri, saprebbero bene intendersi e comunicare insieme al
momento di una eventualità di guerra.
134
suo paese, non merita egli tutta la sollecitudine della sua
patria? Qual ufficiale, qual generale, se egli considera i
suoi soldati per così dire «come suoi figliuoli» non
sarebbe desideroso di facilitare l’opera di tali
infermieri? Quale intendente militare, qual chirurgo-
maggiore non accetterebbe con riconoscenza d’essere
secondato da una coorte di persone intelligenti,
chiamate ad agire con giudizio sotto una savia
direzione39? Finalmente, in un’epoca in cui si parla tanto
di progresso e di civilizzazione, e poichè le guerre non
ponno essere sempre evitate, non è egli urgente
d’insistere perchè si cerchi di prevenirne, ed almeno di
raddolcirne gli orrori, non solo sui campi di battaglia,
ma ben anco e sovratutto negli ospitali, nel corso di
quelle settimane così lunghe e così dolorose per i feriti?
Per essere messa in pratica, quest’opera esigerà un
alto grado di spirito di sacrificio dal canto d’un certo
135
numero di persone40, ma non è certamente il danaro
necessario che le verrà meno giammai. In tempo di
guerra, ognuno recherà la sua offerta o il suo obolo per
rispondere agli appelli che saranno fatti dai comitati; le
popolazioni non rimangonsi fredde ed indifferenti
quando i figli della patria si battono; il sangue che è
versato nei combattimenti, non è esso il medesimo che
scorre nelle vene di tutta la nazione! Non è dunque un
qualche ostacolo di questa specie che potrebbe arrestare
il cammino di una tale intrapresa. La difficoltà non è là,
ma la quistione stà tutta intera nella preparazione seria
ad un’opera di tal genere, e nella creazione stessa di
queste Società41.
Se i tremendi mezzi di distruzione onde i popoli
attualmente dispongono, sembrano dover per l’avvenire
136
accorciare la durata delle guerre, pare che le battaglie ne
saranno in ricambio tanto più sterminatrici; e in questo
secolo nel quale l’imprevisto rappresenta una sì gran
parte, non ponno esse sorgere delle guerre, da un lato o
dall’altro, in una maniera la più subitanea e la più
inattesa? Non v’ha egli, in queste sole considerazioni,
dei motivi più che bastanti per non lasciarsi cogliere alla
sprovvista?
137
Appendice.
138
Società d’utilità pubblica a Ginevra.
Conferenza internazionale onde esaminare i
mezzi di provvedere alla insufficienza del
servizio sanitario delle armate in tempo di
guerra.
SIGNOR
La Società ginevrina d’utilità pubblica, associandosi
al desiderio formolato dal Sig. Enrico Dunant in un libro
intitolato: Un ricordo di Solferino, ha costituito nel suo
seno un Comitato coll’incarico di procurarne
l’attuazione.
Questo Comitato, a sua volta, pensava che il miglior
cammino a percorrere per far passare le idee del Sig.
Dunant dal dominio della teoria in quello della pratica,
sarebbe di provocare una riunione delle persone che nei
diversi paesi hanno a cuore l’opera filantropica di cui
trattasi, affine d’esaminare entro quali limiti essa è
attuabile, e d’avvisare, se v’ha luogo, alle misure
d’esecuzione.
Gli è perciò che il Comitato ginevrino, dopo essersi
accertato che la sua proposta troverebbe eco da varie
parti, si è deciso a convocare una Conferenza
internazionale per il 26 dell’ottobre prossimo, e spera
che Vossignoria lo vorrà pure onorare d’assistervi.
Sarebbe a desiderar molto, specialmente, che i
governi volessero anco farvisi rappresentare essendo il
139
loro concorso indispensabile alla riescita dell’opera.
Il Comitato ha steso, sotto forma d’un progetto di
concordato, le proposte che desidera sottomettere alla
Conferenza. Il loro testo tien dietro.
Noi preghiamo caldamente V. S. di farci sapere più
presto possibile se dobbiamo far conto sulla sua
cooperazione, e, nel caso che non potesse recarsi a
Ginevra, le saremmo assai tenuti se ci comunicasse le
sue viste e le sue osservazioni sul progetto in questione.
Ci pregiamo assicurare V. S. della nostra distinta
considerazione.
I Membri del comitato ginevrino di
soccorso pei militari feriti:
Generale DUFOUR, presidente.
MOYNIER Gustavo, presidente della Società
d’utilità pubblica.
Dottor MAUNOIR.
Dottor APPIA.
DUNANT Enrico, segretario.
Ginevra, il 1.o Settembre 1863.
Nota. La Conferenza internazionale si riunirà a
Ginevra il lunedì 26 ottobre 1863, alle ore 9 ant., nel
Casino.
Le comunicazioni relative devono essere dirette al
Sig. Gustavo Moynier, 3, rue Neuve du Manège.
140
Progetto di concordato.
Titolo I.
Disposizioni generali.
ART. 1. Esiste in ognuno dei paesi concordatari un
Comitato nazionale, il cui mandato consiste nel
rimediare, con tutti i mezzi in suo potere, alla
insufficienza del servizio sanitario officiale nelle armate
in tempo di guerra.
Questo Comitato si organizza da sè medesimo nel
modo che gli sembra il più utile e più convenevole.
ART. 2. Sezioni in numero illimitato ponno formarsi
per secondare il Comitato nazionale. Esse sono
necessariamente poste nella dipendenza di questo
Comitato, al quale solo spetta la direzione superiore.
ART. 3. Ogni Comitato nazionale deve porsi in
rapporto col governo del suo paese, e accertarsi che le
proprie offerte di servizio saranno gradite in caso di
guerra.
ART. 4. In tempo di pace, i Comitati e le loro Sezioni
si occupano dei miglioramenti da introdurre nel servizio
di sanità militare, nell’installazione delle ambulanze e
degli ospitali, nei mezzi di trasporti dei feriti, ecc., e ne
procurano la effettuazione.
ART. 5. I Comitati e le Sezioni dei diversi paesi ponno
riunirsi in Congressi internazionali per comunicarsi i
loro esperimenti, e concertarsi sulle misure da prendere
nell’interesse dell’opera.
141
ART. 6. Nel mese di gennajo d’ogni anno, i Comitati
nazionali presentano un rapporto sul loro operato
durante l’anno precorso, unendovi le communicazioni
che reputano utile di portar a cognizione dei Comitati
degli altri paesi. Lo scambio di queste comunicazioni e
di questi rapporti si opera coll’intermedio del Comitato
di Ginevra al quale vengono diretti.
Titolo II.
Disposizioni speciali in caso di guerra.
ART. 7. In caso di guerra, i Comitati delle nazioni
belligeranti forniscono i soccorsi necessari alle armate
loro rispettive, e provveggono in particolare alla
formazione ed alla organizzazione di corpi d’infermieri
volontari.
Essi ponno sollecitare l’appoggio dei Comitati
appartenenti alle nazioni neutrali.
ART. 8. Gli infermieri volontari obbligansi di servire
durante un tempo limitato, e di non immischiarsi in
verun modo nelle operazioni della guerra.
Eglino sono impiegati secondo il loro desiderio, al
servizio di campagna o a quello degli ospitali. Le donne
sono necessariamente addette a quest’ultimo.
ART. 9. Gli infermieri volontari portano in tutti gli
stati, un uniforme od un segno distintivo identico. La
loro persona è sacra, e i capi militari loro debbono
protezione.
All’aprirsi di una campagna, i soldati dell’una e
dell’altra armata vengono informati dell’esistenza di
142
questi corpi e del loro carattere esclusivamente
caritatevole.
ART. 10. I corpi di infermieri o soccorritori volontari
marciano dietro le armate, alle quali non debbono dare
alcun imbarazzo, nè cagionare alcuna spesa. Essi hanno
mezzi di trasporto, viveri, provvigioni di medicamenti e
di soccorsi d’ogni genere loro propri.
Essi sono messi alla disposizione dei capi d’armata i
quali se ne giovano soltanto quando ne sentono il
bisogno. Durante il tempo del loro servizio attivo, sono
posti sotto gli ordini dell’autorità militare ed obbligati
alla medesima disciplina degli infermieri ordinari.
143
Conferenza internazionale a Ginevra il 26
ottobre 1863. Società di soccorso
internazionali e permanenti pei militari
feriti in tempo di guerra.
144
conosceva a fondo il piano proposto, lo svolgeva
all’assemblea ed invitava i membri del Congresso a
recarsi alla Conferenza di Ginevra il 26 ottobre.
Le conclusioni della 4.a Sezione furono adottate
all’unanimità con segni di viva approvazione.
In conseguenza dell’accoglimento favorevole fatto al
suo piano nel Congresso di Statistica, il Comitato di
Ginevra propone, oltre al Progetto di Concordato:
1.o Che ogni Governo dell’Europa degni accordare la
sua protezione speciale e l’alto suo patrocinio al
Comitato generale nazionale che deve essere creato in
ognuna delle capitali d’Europa e che sarà composto
delle più onorevoli e stimate persone.
2.o Che i medesimi Governi dichiarino, che d’ora in
poi il personale medico militare e quelli che ne
dipendono, compresivi i soccorritori volontari
riconosciuti, saranno riguardati come persone neutrali
dalle potenze belligeranti.
3.o Che, in tempo di guerra, i Governi si obblighino di
facilitare i mezzi di trasporto del personale e delle
provvigioni di soccorso che queste Società manderanno
nei paesi invasi dalla guerra.
Infine il Comitato di Ginevra desidera che la
Conferenza Internazionale studj e discuta i mezzi di
tradurre in atto quest’opera eminentemente umanitaria e
filantropica, rispettando sempre le leggi, le abitudini e
gli usi delle diverse nazioni d’Europa.
Esso desidera pure che la Conferenza esamini in qual
modo, in una lotta tra grandi potenze, si potranno recare
145
i soccorsi più efficaci sul teatro della guerra per gli
appartenenti dell’una e dell’altra armata, evitando con
tutta cura ogni idea di spionaggio e tutto ciò che fosse
fuor dello scopo specialmente caritatevole e cristiano di
quest’opera eccellente.
Il Comitato di Ginevra spera dunque che i Governi
d’Europa vorranno dare ai loro Delegati a questa
Conferenza, le necessarie istruzioni per tali diversi
argomenti.
Berlino, 15 settembre 1863.
Il Segretario del Comitato di Ginevra:
G. ENRICO DUNANT.
146
chirurgo maggiore dell’esercito; Francia da Préval, sotto
intendente della Guardia imperiale, e dal dottor Boudier,
medico principale; Gran Brettagna dal dottor
Rutherford, ispettore generale degli ospitali, e da
Makensie, console a Ginevra; l’Hannover dal dottor
Oelker; l’Assia da Brodbrüke, capo di battaglione;
l’Italia da G. Capello, console a Ginevra; l’ordine di S.
Giovanni di Gerusalemme dal principe Enrico di Reuss,
delegato dal principe Carlo di Prussia gran maestro
dell’ordine; i Paesi Bassi dal dottor Basting, chirurgo
maggiore dei granatieri e dei cacciatori della Guardia, e
dal capitano Van de Velde, ex-officiale di marina; la
Prussia dal dottor Hoxscalle, consigliere al ministero
degli affari medici, e dal dottor Löeffler, medico
generale e medico del re; la Russia dal capitano
Kireiew, aiutante di campo del granduca Costantino, e
da Issakoff, bibliotecario della granduchessa Elena
Paolowna; la Sassonia dal dottor Günther, medico in
capo dell’armata; la Svezia dal dottor Enrico
Skoeldberg, intendente del materiale medico
dell’armata, e dal dottor Edling, medico maggiore; il
Würtemberg dal dottor Hahn e dal dottor Wagner; la
Svizzera dal dottor Lehmann, medico in capo
dell’armata federale, e da Brière, medico di divisione.
Altre notabilità rappresentavano delle Società.
Dopo l’apertura della Conferenza fatta dal generale
Dufour, la presidenza fu da questo rimessa al signor
Gustavo Moynier, membro del Comitato ginevrino. In
seguito, il principe di Reuss fu chiamato alla presidenza,
147
come delegato d’un Ordine completamente neutrale in
mezzo ai rappresentanti di Stati o di Governi, di cui
l’assemblea era composta. La Conferenza continuò sino
al 29, in cui furono adottate le seguenti:
148
Risoluzioni della conferenza internazionale
di Ginevra.
149
per curare i feriti.
Essi ponno sollecitare il concorso dei Comitati
appartenenti alle nazioni neutrali.
ART. 6. Dietro la chiamata o coll’assenso dell’autorità
militare, i Comitati inviano infermieri volontari sul
campo di battaglia. Essi li pongono allora sotto la
direzione dei capi militari.
ART. 7. Gli infermieri volontari impiegati al seguito
delle armate devono essere provveduti dai loro rispettivi
Comitati di tutto ciò che è necessario al loro
mantenimento.
ART. 8. Essi portano in tutti gli Stati, come segno
distintivo uniforme, un bracciale bianco con una croce
rossa.
ART. 9. I Comitati e le Sezioni dei diversi paesi ponno
riunirsi in Congressi internazionali, per comunicarsi i
loro esperimenti e concertarsi sulle misure da prendere
nell’interesse dell’opera.
ART. 10. Lo scambio delle comunicazioni tra i
Comitati delle diverse nazioni si opera provvisoriamente
coll’intermedio del Comitato di Ginevra.
150
B. Che in tempo di guerra sia dalle nazioni
belligeranti proclamata la neutralizzazione per le
ambulanze e gli ospitali, e che la stessa venga del pari
ammessa nel modo il più completo per il personale
sanitario officiale, per gli infermieri volontari, per gli
abitanti del paese che andranno a soccorrere i feriti, e
per i feriti medesimi.
C. Che un segno distintivo identico venga ammesso
per i corpi sanitari di tutte le armate, od almeno per le
persone d’una medesima armata addette a questo
servizio.
Che un’identica bandiera venga pure adottata, presso
ogni Paese, per le ambulanze e gli ospitali.
FINE.
151