Tesi Giancarli Teodoreto e Il Cantico
Tesi Giancarli Teodoreto e Il Cantico
Università di Macerata
Facoltà di Lettere e Filosofia
Istituto di Filologia Classica
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Corso di dottorato di ricerca in
“Poesia e cultura greca e latina in età tardoantica e medievale”
Ciclo XX
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Esegesi e cristologia nel
commento al Cantico dei cantici
di Teodoreto di Cirro
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Tutor
Chiar.mo Prof. Claudio Micaelli
Dottorando
dott. Luca Giancarli
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Coordinatore
Chiar.mo Prof. Roberto Palla
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Anno Accademico 2006-2007
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Premessa
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Attualmente non esiste una edizione critica della ∆Ermhneiva eij~ to; ∆Aisma tw`n a/jsmavtwn di
Teodoreto, vescovo di Cirro1, pertanto il testo da noi consultato è quello stampato dal Migne nella
Patrologia Graeca, vol. 81, coll. 28-213: il curatore indicato è Johannes Ludovicus Schulze, che nel
1769 ha praticamente ristampato l’edizione del Sirmond (risalente al 1642 e redatta sui materiali del
Ducaeus) riportando in nota le varianti del Mon. gr. 5592; la traduzione latina, invece, è di Pier
Francesco Zini e risale al 1563, anno in cui l’umanista ha tradotto Teodoreto insieme con gli altri
Padri della catena nella quale compare l’opera3.
Esiste una traduzione molto recente in inglese a cura di Robert Hill4; a quanto ci consta, la
traduzione in italiano acclusa al presente lavoro è la prima in assoluto. Essa si attiene ad un livello
puramente essenziale, quasi di calco, non essendo finalizzata alla fruizione letteraria dell’opera
bensì alla comprensione più esatta possibile delle sue sfumature lessicali e stilistiche.
Esula dagli scopi di questa ricerca un approfondimento sulla storia della tradizione del testo,
tuttavia non possiamo esimerci dal riportare alcune acquisizioni molto recenti ad opera di Luciano
Bossina5.
Il testo del commento di Teodoreto ci è pervenuto non in tradizione diretta ma soltanto in edizione
catenaria, quella che contiene, oltre a Teodoreto, la Catena dei Tre Padri e la parafrasi poetica di
Michele Psello6 ed è il risultato della “scomposizione della grande catena bizantina, letta nel tardo
Vat. gr. 621, e condita da decine e decine di interventi di Matteo Devaris”7. Il Bossina afferma che
“un’indagine sinottica dei due testi [il commento di Teodoreto e quello dei Tre Padri] svela così una
serie di equivoci, una serie di verie e proprie mutilazioni, che hanno deturpato in vari punti
l’integrità e l’identità stessa dei commentari”8 e fa risalire la confusione di fogli al più antico codice
della catena, il Vind. theol. gr. 314 (= W, prima metà del XIV sec.); il problema sta nel fatto che
“l’intera tradizione manoscritta dipende da W: in modo diretto o indiretto tutti i codici della catena
sono dunque figli, nipoti o pronipoti di quell’antico archetipo, e tutti hanno ereditato per via
congenita i postumi dell’infortunio occorso al loro patriarca”9. W dunque è l’unica fonte attendibile
per ricostruire il commento al Cantico dei cantici di Teodoreto.
Il Bossina non si limita a segnalare le corruttele, ma ne presenta anche le correzioni, che noi
adotteremo nella traduzione e come base testuale per le ricerche:
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Espunzioni
1Da THDT, Commentary, 4, n. 8 apprendiamo che è in corso un’edizione critica del testo per la collana delle SC, ma
dalle nostre informazioni risulta che non è affatto imminente.
4 THDT, Commentary.
5 Oltre a Bossina 2002 e Bossina 2005 segnaliamo Bossina-Maltese 2002 e Bossina 2006.
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PG 81, 112: le righe da B4 a C1 appartengono al commento dei Tre Padri e pertanto vanno rimosse
dal testo di Teodoreto10.
PG 81, 116: tutta la colonna, da A1 a D8 (e D11), ricca di riferimenti cristologici, non è di Teodoreto e
pertanto va rimossa11.
PG 81, 212: la conclusione tra Teodoreto e i Tre Padri va invertita, pertanto da C6 fino al termine le
righe vanno rimosse12.
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Adiezioni
PG 81, 57: appartiene a Teodoreto un brano erroneamente attribuito ai Tre Padri13 che si trova in PG
122, 541B9-C14.
PG 81, 212: la conclusione dei Tre Padri è in realtà di Teodoreto e si può leggere nella edizione
critica (limitata a queste colonne) di Bossina 2005, 208-210.
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Non appartiene al commento al Cantico l’unico scolio attribuito a Teodoreto nella catena di
Procopio14 che è tratto, invece, dal commento ai Salmi15.
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Nel corso dell’elaborato le abbreviazioni degli autori riprendono quelle presenti in LAMPE G. W.
H., A Patristic Greek Lexicon; le abbreviazioni delle opere tengono conto – ove possibile – delle
più recenti edizioni. 16
I versetti del Cantico dei cantici commentato da Teodoreto sono citati secondo le indicazioni del
testo di PG, che perlopiù non coincidono per una unità con i versetti delle attuali edizioni; il
riferimento al testo è dato solitamente con colonna, lettera e riga.
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12Cfr. l’edizione critica a partire da PG 81, 209B2 fino alla conclusione in Bossina 2005, 208-210; cfr. anche Bossina
2002, 68-69.
14 PG 87/2, 1553D1-D6.
16Le citazioni dei versetti sono date secondo le indicazioni del testo di Teodoreto, che per lo più non coincidono per una
unità con i versetti delle attuali edizioni; tra parentesi le colonne di PG.
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La data di composizione del commento
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Numerosi nel tempo sono stati i contributi intervenuti in merito alla datazione dell’In Ct e che
hanno portato alla conclusione, ormai pienamente accettata, che essa sia la prima delle opere
esegetiche e che sia da collocare poco prima o poco dopo il Concilio di Efeso, quindi intorno al
43117. Sul primo punto è testimone Teodoreto stesso che, nella prefazione all’In Ps, scrive: “Alcuni
ci chiesero la chiarificazione del Cantico dei cantici, mentre altri desiderarono conoscere la profezia
dell’Uomo dei desideri, altri ancora del divino Ezechiele, altri reclamarono che le profezie dei
Dodici Profeti celate nell’oscurità divenissero per loro chiare e manifeste”18, da cui è possibile
anche definire il primo gruppo di opere esegetiche che, in qualche modo, potrebbero avere dei tratti
in comune: il commento al Cantico, al libro di Daniele, di Ezechiele, ai Dodici profeti.
Nella sua corrispondenza, soprattutto degli anni precedenti al Concilio di Calcedonia, troviamo
alcune indicazioni cronologiche, in taluni casi anche interessanti (ad esempio nelle lettere 8219 e
11620), ma alla prova dei fatti appaiono confuse e incapaci di apportare qualche certezza21.
Determinante nella precisazione della data potrebbe essere Richard 1936 che, sulla base della
assenza di terminologia concreta (ad esempio “l’homme assumé, l’homme visible, l’homme pris de
la race de David”22), fa pensare che sia da collocare dopo il 432: “Il n’est donc pas téméraire de
conclure qu’avant le concile et jusque’en 432, Théodoret, lorsqu’il écrivait sur le dogme de
l’Incarnation, se servait habituellement de ces formules concrete”23, e poi aggiunge: “Pour dater les
commentaires du Cantique des cantiques, de Daniel, d’Ézechiel et des douze petits prophètes, tous
antérieurs à celui du Psautier, les points de repère manquent complètement. Quoi qu’il en soit, en
aucun de ces ouvrages la nature humaine du Christ n’est désignée par un formule concrète”24.
Per venire a studi più recenti, non possiamo omettere i fondamentali lavori di Guinot, che, però, in
questo caso sono tra loro divergenti. In Guinot 1985, infatti, troviamo: “Nous situerions volontiers
la rédaction de ce commentaire juste avant le concile d’Éphèse ou dans les années qui l’ont
immédiatement suivi. Les «imprudences» de vocabulaire s’expliquent mieux si l’on retient cette
date un peu haute: l’âpreté de la lutte, dans les années suivantes, les fera éviter. D’autre part, ce
premier commentaire donne parfois l’impression d’une oeuvre de jeunesse; il trahit notamment un
influence d’Origène dont ne témoignent pas au même degré les commentaires postérieurs. Nous
n’aurions donc aucune réticence à le considérer comme antérieur au déclachement des hostilités
entre Antioche et Alexandrie, à l’occasion du concile d’Éphèse”25; ma il medesimo scrive dieci anni
dopo: “Mais, comme l’In Ez. et l’In XII proph. n’offrent pas un enseignement christologique
17 “Le premier en date des commentaires, sans doute antérieur au concile d’Éphèse ou rédigé immédiatement
aprés” (Azéma 1991, 421). Garnier invece scriveva: “Canticorum expositionem referri debere ad annum circiter 425,
nam praecessit commentaria in Danielem” (PG 84, 224A14).
18 860B3 (dove il volume di PG si evince chiaramente dal contesto riporteremo per brevità solo il numero della colonna,
la lettera e il numero di riga).
19 Corr. II.
20 Corr. III.
23 Ibid., 467.
24 Ibid., 470-471.
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beaucoup plus développé, et que l’In Cant. en revanche, le premier de tous les commentaires de
Théodoret, comporte plusieurs développements caractéristique de l’expression post-éphésienne de
sa christologie, il faut renoncer, nous semble-t-il, à situer la rédaction de ces premiers commentaires
avant 431”26 e, poche righe dopo, aggiunge che “l’In Cant. a pu être rédigé peu après le concile
d’Éphèse, peut-être à partir d’une ébauche antérieure”27.
Queste conclusioni di Guinot, dato lo spessore dei suoi studi e la loro profondità, meritano senza
dubbio di essere tenute in considerazione, nello stesso tempo però presentano – secondo noi – un
aspetto non del tutto convincente, da cui vorremmo partire per argomentare la nostra posizione.
Il punto focale del ragionamento è la presenza o meno di espressioni cristologiche tipiche del
periodo postefesino, e dallo studio che abbiamo condotto ci sembra di poter affermare che il
commento al Cantico sia privo proprio di quelle espressioni e, dunque, non troviamo pienamente
persuasiva l’affermazione “comporte plusieurs développements caractéristique de l’expression post-
éphésienne de sa christologie”.
Leggendo i vari brani cristologici, si colgono come temi principali la sottolineatura della umanità di
Cristo, l’immutabilità e l’impassibilità della natura divina, che sono abbastanza generici nella
riflessione antiochena, e manca invece tutta una serie di aspetti che sarebbero imprescindibili se
l’opera si collocasse dopo Efeso.
Anzitutto, notiamo che, nel commento a 1, 6 sono elencati sei nomi di eresiarchi, Ario, Eunomio,
Marcione, Valentino, Mani e Montano28, e inspiegabilmente manca il nome di Apollinare, che è
presente in Incarn. IX in compagnia della maggior parte degli stessi eretici29 e della cui eresia è
accusato Cirillo nella lettera a Giovanni di Antiochia che accompagna la Repr., dove viene definito
un secondo Apollinare30. Tra l’altro nella lettera ai monaci dell’inverno 431/432 Apollinare viene
citato due volte31 e compare quattro volte nei commenti successivi al Cantico (due nell’In Ez32, una
nell’In XII33 e una nell’In Ps34).
Confrontando poi la cristologia del Cantico con quella espressa dalla professione di fede redatta dai
vescovi antiocheni nel mese di agosto del 431 in vista della conferenza di Calcedonia35, che è
confluita nella lettera ai monaci di Costantinopoli dell’inverno 431/43236 e che costituisce il nucleo
27 Ibid.
28 73B14.
29 1428A13.
32 1248B-1256A; 1217AD.
33 1872B-1873A.
35All’indomani del fallimento del Concilio di Efeso, l’imperatore Teodosio II invita le parti contendenti – Cirillo di
Alessandria e Giovanni di Antiochia con i rispettivi entourage – ad un incontro fissato nella sede di Calcedonia: tale
incontro non si svolgerà mai ma nei mesi precedenti il gruppo del vescovo di Antiochia aveva preparato per l’occasione
una professione di fede da sottoporre all’avversario.
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del successivo Credo di unione del 43337, si vede bene che nel commento al Cantico alcune delle
espressioni fondamentali della definizione e del successivo accordo sono soltanto debolmente
riecheggiate e non sono certo presenti nella loro formulazione ufficiale, mentre altre – fondamentali
– non compaiono neppure a livello concettuale: tra le prime, non compare l’espressione della
perfezione delle due nature (Qeo;n tevleion kai; a[nqrwpon tevleion), né quella della oJmoousiva
(oJmoouvsion tw/` patri; kata; th;n qeovthta, oJmoouvsion hJmi;n kata; th;n ajnqrwpovthta), né quella
imprescindibile della unione (duvo fuvsewn e{nwsi~ gevgone), né della unità di Cristo (e{na Cristo;n,
e{na uiJo;n, e{na kuvrion), né della incarnazione (to; to;n Qeo;n Lovgon sarkwqhvnai kai;
ejnanqrwphvsai); tra le seconde non viene menzionato né semplicemente suggerito il concetto
dell’anima intellettuale, che pure è il focus dell’eresia apollinariana (ejk yuch`~ logikh`~ kai;
swvmato~), né quello della inconfusione (kata; tavuthn th;n th`~ ajsugcuvtou eJnwvsew~ e{nnoian)38,
né quello – assolutamente essenziale – della maternità divina di Maria (th;n a[gian parqevnon
qeotovkon), né quello assai significativo – perché accenna in qualche modo alla terminologia
concreta – del “tempio assunto” (ejx aujth`~ th`~ sullhvyew~ eJnw`sai eJautw/` to;n ejx aujth`~
lhfqevnta nao;n) su ispirazione di Gv 2, 19. Inoltre, rispetto all’aggiunta finale del Credo di unione
sulla questione delle espressioni evangeliche riferite a Cristo ora secondo la divinità, ora secondo
l’umanità (che costituisce una vera e propria conquista per le posizioni antiochene), non è
praticamente trattata nel commento al Cantico.
Un’altra mancata puntualizzazione ci sembra importante, quella che specifica con chiarezza che, nel
brano di Fil 2, 6-7 (particolarmente ricorrente nell’In Ct) la morfh;, lungi dal significare
semplicemente la “forma”, deve essere nettamente interpretata come fuvsi~, oujsiva, e la cosa non è
di poco conto se consideriamo l’accanimento con cui Teodoreto nella lettera ai monaci del 431/432
si scaglia contro ogni lettura che possa dare spazio al docetismo e all’incarnazione per fantasia.
In ultimo, aggiungiamo un’altra assenza che ci sembra eloquente, seppur non legata alla cristologia:
quando nella prefazione l’Autore elenca i numerosi impedimenti dovuti alla sua attività episcopale,
parla di generiche “preoccupazioni sulla città e sul contado, di tipo militare e civile, ecclesiastiche e
politiche”39 senza il minimo riferimento allo scontro teologico che ha rischiato la lacerazione nella
Chiesa orientale e che ha costituito motivo di grande dolore e smarrimento per i protagonisti, come
si evince dall’epistolario; la cosa appare un po’ anomala. Per tutte queste considerazioni ci
sentiremmo di concludere che una datazione posteriore al Concilio di Efeso sia difficilmente
sostenibile.
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Se, dunque, poniamo come terminus ante quem il 431 (nella prima parte dell’anno Teodoreto è
impegnato nella stesura della Repr., poi si svolge il Concilio di Efeso), possiamo dire qualcosa
anche sul terminus post quem, grazie alla dedica dell’opera stessa. Essa riporta in intestazione Tw/`
Qeofilestavtw ejpiskovpw/ ∆Iwavnnh/40 e il vescovo in questione è stato identificato in Giovanni di
Antiochia o in Giovanni di Germanicia: quest’ultima individuazione è quella che ha riscosso negli
ultimi decenni maggior favore41. Ora, poiché Giovanni di Germanicia diviene titolare di quella sede
37“Théodoret semble bien être à l’origine de cette profession de foi qui sera reprise par Jean d’Antioche et Cyrille au
moment de l’Union de 433” (Évieux 1974, 272 n. 18). Praticamente la differenza è l’aggiunta riguardante le espressioni
evangeliche, motivata dall’opposizione al IV anatematisma di Cirillo. Per il testo del Credo di unione cfr. Cristo, 384 ss.
38Guinot 1985, 265 lascia immaginare che nel commento al Cantico ci sia qualche riferimento alla inconfusione, ma ci
pare davvero vago e in ultima analisi quasi inesistente.
39 28B3.
40 28A1.
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nel 43142, egli, in base a quanto detto sopra, sarebbe automaticamente escluso dalla dedica del
Cantico, e, poiché Giovanni di Antiochia diventa vescovo a cavallo del 428/42943, ecco che
abbiamo una datazione più precisa, secondo la quale il commento al Cantico sarebbe stato scritto o
nel 429 o nel 430.
Fin qui i dati certi, ma possiamo aggiungere qualcosa, anche se ci addentriamo nel campo delle
supposizioni. Se prendiamo in considerazione la prefazione del commento ai Salmi troviamo che la
prima opera che Teodoreto avrebbe voluto commentare era il Salterio, ma non gli fu permesso di
portare a compimento l’impegno da alcuni che gli chiesero le interpretazioni di altri libri della
Bibbia, per primo il Cantico dei cantici44. Poiché riteniamo che, oltre ad una possibile dose di
manierismo tipico delle prefazioni, la ricostruzione dell’Autore abbia un buon fondo di verità (tanto
più che essa è confermata esplicitamente dalla prefazione dello stesso commento al Cantico45)
possiamo dedurre che sia stato Giovanni di Antiochia a richiedergli il commento al Cantico, magari
subito all’indomani del suo insediamento, e probabilmente Teodoreto non ha potuto opporre
resistenza (anche se aveva già cominciato a commentare l’altro libro biblico) sia in virtù della
autorevolezza del richiedente, sia in virtù della novità della sua nomina46.
Ora, perché Giovanni di Antiochia richiede espressamente quel libro e non si accontenta del
commento ai Salmi? La risposta ci pare agevole: nell’omelia del Natale del 428 Nestorio pronuncia
il famoso discorso che dà origine alla controversia, agli inizi del 429 Cirillo scrive la XVII lettera
festale47 (che rappresenta una prima risposta, seppur indiretta, al collega costantinopolitano),
intorno alla Pasqua dello stesso anno indirizza la lettera ai monaci dell’Egitto48 (seconda risposta
indiretta), poi, agli inizi del 430, scrive la lettera 2° a Nestorio (che inizia con Katafluarou`si49),
a cui quest’ultimo risponderà intorno alla metà dello stesso anno50; siamo cioè all’inizio della
diatriba cristologica sul termine Theotokos che cambierà per sempre la teologia cristiana e, in tale
contesto, non è inverosimile che Giovanni di Antiochia abbia chiesto a Teodoreto di commentare
un’opera, sicuramente per motivi mistici e spirituali, ma anche da cui fosse possibile attingere delle
mature riflessioni cristologiche51, tanto più che la presenza della cristologia è quasi inesistente nelle
opere esegetiche immediatamente successive, come se volesse omettere di affrontare temi così
delicati. Proseguendo nelle supposizioni (ma non ci paiono incredibili) possiamo immaginare che
Giovanni abbia fornito a Teodoreto anche alcuni dei testi appena ricordati (che senza dubbio
42 Cfr. Corr. I, 33; ma Stiernon D. e L. preferiscono un più generico “avant 433” (DHGE, s.v. Germanicie).
43 Nel 428 secondo DPAC (II, 1541); nel 428/429 secondo DHGE, (s.v. Antioche); nel 429 secondo Corr. IV, 32: “De
Jean, patriarche d’Antioche de 429 à 441, nous ne savons presque rien avant son élévation à l’épiscopat”. La lettera 83
di Teodoreto ci suggerisce il 429 (Corr. II, 208).
44 860AB.
45In due passi: “Poiché ci hai prescritto, o mio caro amico, di interpretare il libro del Cantico dei cantici” (28A14) e
“nella indagine di quanto richiesto” (28B9).
46È sintomatico anche il fatto che delle prime quattro opere esegetiche soltanto l’In Ct riporta la dedica (neppure le altre
opere di esegesi ce l’hanno e lo stesso Origene non dedica il suo commentario al Cantico a nessuno).
47 Contenuta in SC 434.
48 PG 77, 9-40.
49 Cristo, 354-360.
50 Cristo, 364-374. Per un’eccellente trattazione del periodo, dal punto di vista teologico e storico, cfr. Scipioni 1974.
51“Enfin, il n’est sans doute pas indifférent que Théodoret ait choisi comme premier travail d’exégèse le texte du
Cantique pour aller ou coeur du débat christologique de son temps […] le texte offre, sur la réalité des natures dans le
Christ et sur l’Incarnation, un enseignement parfaitement clair” (Guinot 1985, 267).
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circolavano anche ad Antiochia, probabilmente assai attenta a quanto si muoveva nella sede illustre
di Costantinopoli sulla quale si trovava un antiocheno), per aiutare l’opera del collega; quest’ultimo
non li ha utilizzati in senso strettamente teologico, visto che lo scopo del commento è
primariamente esegetico, ma magari ne ha subito alcune influenze.
È possibile, dunque, in base ad un confronto tra i testi, propendere per il 429 o il 430? In realtà,
poiché la trattazione cristologica di Teodoreto non è di tipo speculativo, ma semplicemente
esegetico, non è facile trovare delle somiglianze che appaiano incontrovertibili, però, forse, è
possibile ricostruire qualcosa di più di semplici suggestioni.
Il discorso di Nestorio del 428 sulla natività52 (origine della querelle e probabilmente ben noto
anche ad Antiochia) non ha uno scopo strettamente teologico, ma intende rispondere dal punto di
vista dell’economia della salvezza ai problemi rappresentati dalla concezione ariano-apollinarista
del Logos treptos53, per questo, “nel suo contesto antiariano … vuole la chiara definizione della
piena divinità e quindi della immutabilità assoluta del Verbo consostanziale al Padre”54, che è uno
dei tratti principali della cristologia nell’In Ct. Nestorio afferma anche che “ai cristiani non bisogna
predicare solamente che Cristo è Dio immutabile, ma anche che è benigno prendendo la forma di
servo pur rimanendo ciò che era (quod subsistebat existens): perché tu sappia non solo che non è
mutato dopo l’unione, ma anche che si è visibilizzato benigno e giusto”55 e praticamente queste
parole sembrano tratteggiare la linea espositiva del commento al Cantico: Teodoreto tratta
variamente della immutabilità, ma in due passi anche della filantropia divina (nel titolo e in 8, 1-2),
citando ripetutamente Fil 2, 6-7; manca in effetti il tema della giustizia, ma l’espressione ‘quod
subsistebat existens’ è utilizzata in due circostanze, probabilmente sul comune modello di Gregorio
di Nazianzo (senza dimenticare che riecheggia molto da vicino anche nella risposta al I
anatematismo). Oltre alle precedenti ci sono anche altre somiglianze che, in un certo senso,
costituiscono la trama dei ragionamenti di Teodoreto. “La prospettiva di Nestorio è …: Dio Verbo,
eternamente esistente presso il Padre, si è incarnato, ha assunto una umanità concreta, da uomo
della razza di Abramo”56 che ricorda l’insistenza con cui il commento al Cantico sottolinea l’origine
umana dello sposo; “Nulla è tanto estraneo alla preoccupazione attuale di Nestorio quanto il
problema del come le nature nel Cristo siano unite o del come Cristo sia uno solo. Che il Cristo sia
uno solo … è presentato come un dato di fatto ovvio, scontato, presupposto”57, e infatti Teodoreto
non affronta minimamente la questione della unione, non parlando di sunavfeia, né di e{nwsi~, ma
semplicemente presentando lo sposo come divino e umano. Non mancano elementi divergenti tra il
discorso di Nestorio e l’In Ct (come il tema del ‘tempio’, del ‘debito di Adamo’, ‘uomo assunto’,
‘yilo;~ a[nqrwpo~’, la ‘co-venerazione’ e l’a[nqrwpo~ come qeovthto~ o[rganon), ma altre
espressioni sono molto simili o identiche: a[nqrwpo~ qeodovco~ (1, 8: “Usò la forma dello schiavo,
quasi come se fosse un veicolo” - oi[on tini; ojchvmati); “rimanendo ciò che era” (4, 11: mevnwn o{ h\n);
Cristo;~ wJ~ tw`n duvo fuvsewn proshgorivan shmantikh;n, che è l’utilizzo di gran lunga presente
nel Cantico; la natura umana come veste indossata; l’umanità come soggetto delle proprietà umane
invece che della natura angelica di Cristo postulata dagli eretici; Cristo come a[nqrwpo~ oJmou` kai;
qeo;~. Sembra proprio che, quanto meno, Teodoreto abbia letto l’omelia di Nestorio.
52Cfr. Scipioni 1974, cui ci atteniamo: “Riprendiamo il testo secondo la ricostruzione del Loofs in Nestoriana…, pp.
249-264, indicando man mano le corrispondenze con l’edizione critica del Mercatore, in ACO” (Scipioni 1974, 71 n.
19).
54 Ibid., 72.
55 Ibid., 73.
56 Ibid., 77.
57 Ibid., 78.
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Inoltre, un altro tratto tipico del commento al Cantico (quello della impassibilità del Dio Verbo,
solennemente affermata in 5, 10-16), è presente anche nella risposta del vescovo di Costantinopoli
alle perplessità dell’ambiente monastico: “Pilato non uccise la divinità bensì il vestito della divinità;
non è Dio Verbo che viene avviato alla sepoltura avvolto da Giuseppe nella Sindone”58, che solleva
il tema dell’abito e della passibilità del corpo, con qualche menomazione della communicatio
idiomatum, proprio come abbiamo riscontrato nel commento al Cantico (cfr. infra). Nel medesimo
contesto Nestorio, appellandosi insistentemente ai testi sacri, dimostra la massima attenzione sulla
impassibilità di Dio in funzione antiariano-apollinarista, ispirandosi al pensiero trinitario e
soteriologico: ciò che più gli sta a cuore è controbattere l’Arianesimo, che fa del Logos incarnato
una identità creaturale. Ebbene questi medesimi caratteri sono nel Cantico.
Non stiamo dicendo, ovviamente, che l’opera di Teodoreto sia una pedissequa riproposizione di
quanto andava dicendo il suo collega della capitale imperiale, anche perché ci sono delle espressioni
utilizzate da Nestorio che non hanno spazio nell’Antiocheno, però è possibile che nello scrivere l’In
Ct, opera primariamente esegetica che teologica ma scelta per gli addentellati teologico-cristologici,
egli abbia avuto presente le omelie di Nestorio, anche manipolandone i materiali secondo le proprie
convinzioni e le proprie espressioni.
Spostandoci all’altro margine della datazione ipotizzata, il 430, anzitutto è possibile riscontrare dei
legami tra la 2° lettera di Cirillo a Nestorio e alcuni passi dell’In Ct (cfr. infra), che ci fanno
ipotizzare che, quanto meno, Teodoreto aveva letto anche questa59 e, allo stesso modo, riscontrare
significative differenze con la successiva lettera di risposta di Nestorio (della metà dello stesso 430).
Ma soprattutto possiamo confrontare l’In Ct con una lettera molto importante nella prima parte
della controversia, quella che Giovanni di Antiochia, sostenuto e consigliato da un gruppo di
vescovi, scrive a Nestorio nella seconda metà dell’anno per convincerlo a scegliere la via della
conciliazione60. L’importanza della lettera è data anzitutto dal fatto che nel gruppo di vescovi
eminenti che consigliano Giovanni è presente anche Teodoreto61 probabilmente con un ruolo non
secondario, visto che di lì a poco avrebbe ricevuto l’incarico di confutare i dodici anatematismi;
inoltre la lettera costituisce l’ultimo tentativo della parte antiochena di trovare una soluzione
condiscendente e riconoscente delle ragioni di Cirillo, anche con la richiesta rivolta a Nestorio di
ritrattare onorevolmente alcune posizioni in nome della pace; in seguito, invece, con la diffusione
degli anatematismi di Cirillo, Giovanni e i suoi consiglieri muteranno radicalmente atteggiamento62.
Ebbene, in questa lettera la posizione antiochena è apertamente favorevole alla definizione di Maria
Madre di Dio, poiché è stata usata dai Padri venerandi e non c’è motivo di abbandonarla; se la si
abbandonasse si negherebbe la stessa economia di salvezza, perché non sarebbe più Dio colui che si
è abbassato alla forma di schiavo per la grande filantropia63. Come si vede, si tratta di affermazioni
molto forti, di cui però non c’è eco adeguata nel commento al Cantico; anzi, nell’esegesi di 3, 11
scrive che “Secondo l’essere umano chiama ‘madre’ la Giudea”64, senza fare menzione del più noto
appellativo né della questione sorta intorno ad esso. Pertanto non è impossibile concludere che la
58 Ibid., 81.
59Scipioni sostiene che “questa è una lettera molto forte contro Nestorio, un rifiuto di qualunque dialogo e una aperta
proclamazione della miva fuvsi~” (Scipioni 1974, 109), posizioni ovviamente inaccettabili per Teodoreto, ma egli ancora
non ritiene di controbattere apertamente, cfr. infra.
62 “Fino al concilio di Calcedonia gli anatematismi rimasero la grande preoccupazione di Teodoreto” (Grillmeier, 884,
n. 4)
63 PG 77, 1456.
64 125D5.
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lettera sia successiva all’In Ct. Allo stesso modo ci sono tantissime diversità tra la cristologia dell’In
Ct e quella che esce al termine della querelle65, a partire, ad esempio, da almeno due punti della
tripartizione tematica66 presente nel florilegio preparato dagli Antiocheni in preparazione alla
Conferenza di Calcedonia e presente nella lettera a Rufo.
Rimane ancora una questione da affrontare, quella della terminologia concreta, che – sostiene
Richard – è presente fino al 432 e poi scompare per il desiderio di Teodoreto di non compromettere
la pace raggiunta con il Credo di unione e forse per un suo adeguamento concettuale e di
linguaggio. L’affermazione perentoria di Guinot (“Aucune des expressions rencontrées dans ses
commentaires pour désigner la double nature du Christ n’est à proprement parler une désignation
concrète”67) andrebbe forse un po’ mitigata, anche perché egli stesso dieci anni prima scriveva che
“plus encore que dans l’exemple précédent [5,10-16], les expressione concrètes prennent ici un
singulier relief [4, 11]”68. In ogni caso, la cosa non inficia il ragionamento, dal momento che lo
stesso Richard non ne fa una questione assolutamente dirimente, e poi, soprattutto, se l’In Ct si
colloca in questa fase iniziale in cui la posizione nestoriana e antiochena punta al chiarimento degli
equivoci e alla pacificazione, è probabile che Teodoreto stesso abbia voluto evitare tutto ciò che
poteva suscitare ulteriore discredito alla cristologia Verbo-uomo e alle posizioni dell’amico
Nestorio69 e che abbia rispettato alcune indicazioni di Cirillo, a partire dalla lettera XVII festale70
che “dénonce souvent la théologie de «l’homme assumé», chez Diodore de Tarse, Théodore de
Mopsueste ou Nestorius”71. Forse anche per questo, molti anni dopo, in occasione del Concilio di
Calcedonia, Teodoreto non inserirà il commento al Cantico negli elenchi di opere su cui chiede di
essere giudicato72, perché ricordava che la trattazione cristologica era molto conciliante e, per
questo, un po’ imprecisa.
Dunque, in conclusione, alla luce delle argomentazioni precedenti, è possibile determinare con una
certa precisione l’anno di composizione dell’In Ct e fissarlo tra il 429 e la prima metà del 430.
!
66Unione inconfusa delle due nature e diversità delle espressioni, spiegazione del versetto Et Verbum caro factum est e
impassibilità della natura divina in Cristo, cfr. Saltet 1905, 514.
69Fino alla fine del 430 Giovanni di Antiochia e Teodoreto cercano la pace (cfr. Richard 1935, 97), poi, dopo gli
anatematismi e dopo il sopruso di Efeso, si scontrano decisamente con Cirillo.
71 SC 434, 279 n. 2.
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Traduzione
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PREFAZIONE
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Dedica
[28] Teodoreto al vescovo Giovanni, carissimo a Dio.
!
Premessa. Caratteristiche necessarie per svolgere un commento
Il commento delle parole divine richiede un anima purificata e privata di ogni sudiciume; richiede
anche un pensiero alato e capace di scorgere le cose divine, e che abbia il coraggio di accostarsi ai
misteri inaccessibili dello Spirito; ha bisogno anche di una lingua che sostenga il pensiero e che ne
spieghi degnamente l’interpretazione.
!
Dichiarazione di umiltà
Io, invece, ho un anima accerchiata da grande immondizia di peccati, ho un pensiero sprofondato
nelle preoccupazioni degli affari a cui mi sono dedicato e per questo è meschino e mediocre,
incapace di osservare con precisione le parole divine e oltre a ciò la lingua è più fiacca e più lenta
del pensiero.
!
Motivo dell’opera: risposta alla richiesta dell’amico
Poiché ci hai prescritto, o mio caro amico, di interpretare il libro del Cantico dei cantici e di rendere
chiaro e manifesto il pensiero di ciò che è stato detto per enigmi e misticamente, abbiamo osato
grandemente, al di là della nostra forza, seppur circondati da innumerevoli preoccupazioni sulla
città e sul contado, di tipo militare e civile, ecclesiastiche e politiche; non tememmo l’abisso del
mare e abbiamo osato scendere nella profondità della lettera, per portare alla luce, per te, la perla
della meditazione.
!
Necessità delle preghiere e invocazione della grazia
Non prendemmo perciò l’olio in bocca, per usare una luce artificiale che mi aiutasse nella indagine
di quanto richiesto, ma [29] preghiere e suppliche, di cui necessitano il più possibile quanti
desiderano giungere nel pensiero delle parole divine. Il beato Davide ci ha insegnato a dire: «Apri i
miei occhi e comprenderò i miracoli della tua legge»73. Ammaestrati da ciò, chiederemo nella
preghiera che la grazia divina ci manifesti il pensiero di questo libro.
!
Scopo dello scritto: spirituale. Errate interpretazioni precedenti
Poiché74 alcuni di coloro che screditano il Cantico dei cantici, e non lo ritengono un libro spirituale,
tessono favole degne neppure di vecchiette deliranti e osano dire che il saggio Salomone lo ha
scritto per sé e per la figlia del Faraone75; e altri, facenti parte proprio di questa setta, inventarono
che la sposa fosse la Sunamita Abisai76, invece della figlia del Faraone; altri, invece, avendo
ragionato in modo più nobile di costoro, lo hanno definito un discorso regale e hanno designato il
popolo “sposa” e il re “sposo”; per questo credemmo necessario, accingendosi alla interpretazione,
anzitutto confutare questo pensiero falso e funesto, poi rendere chiaro il proposito dello scritto.
73 Sal 118, 18
75 Cfr. 1 Re 3, 1; 9, 16
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Canonicità del Cantico affermata dai Padri e dallo Spirito
Era necessario che considerassero con attenzione che i beati Padri sono di gran lunga più saggi e più
spirituali di loro, essi che hanno annoverato questo libro tra le Scritture divine, poiché lo
giudicarono spirituale e lo riconobbero degno della Chiesa. Se avessero supposto diversamente, non
avrebbero compreso nelle Sacre Scritture un testo che ha contenuti di sfrenatezza e di amore per il
piacere. In ogni caso, che bisogno c’è di invocare i Padri vicini a noi, visto che è possibile chiamare
a testimonianza lo stesso Spirito? Dopoché alcune delle Scritture divine furono bruciate da
Manasse, che superò tutti in malvagità ed empietà, prima e dopo di lui, e altre andarono interamente
disperse al tempo della prigionia, quando i Babilonesi bruciarono il tempio santo di Dio, distrussero
la città e schiavizzarono gli uomini per molti anni; al tempo in cui il popolo fu ricostituito, il beato
Esdra, uomo fulgido di virtù e pieno di Spirito Santo (come gli stessi avvenimenti testimoniano),
catalogò le Scritture necessarie per noi ed efficaci di salvezza: e non solo i libri di Mosè, ma anche
quelli di Giosuè, dei Giudici e la storia dei Re, e anche il racconto del nobile Giobbe, e il santo
canto di Davide, gioia della Chiesa, e i sedici Profeti e, di Salomone, i Proverbi, l’Ecclesiaste e il
Cantico dei cantici. O eccellenti, come potrebbe il libro avere il pensiero che dite voi, se Esdra
redasse queste cose, non scrivendole dalle copie ma poiché era pieno di Spirito Santo, affinché il
catalogo procurasse l’utilità per tutti gli uomini? [32] Gli scritti di intemperanza non provengono
dallo Spirito divino ma dallo spirito contrario: «Il frutto dello Spirito, secondo il beato Paolo77, è
amore, gioia, pace, pazienza, bontà d’animo, benevolenza, fede, mansuetudine, dominio di sé». Se
il frutto dello Spirito divino è il dominio di sé, evidentemente il contrario è la sfrenatezza; e voi dite
che il libro del Cantico dei cantici contiene occasione di sfrenatezza. Vedete in quale modo si dà
spazio alla blasfemia? In questo modo rivolgete anche allo Spirito Santo quell’oltraggio rivolto al
libro. Il beato Esdra, pieno della grazia dello Spirito, fece rivivere il libro che era, come dicevamo,
distrutto e i beati Padri, avendo capito ciò, lo hanno annoverato tra le Scritture divine.
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Interpreti precedenti ortodossi
Molti degli autori antichi, infatti, lo hanno anche interpretato; e coloro che non lo hanno fatto
regolarmente ornarono i propri scritti di citazioni tratte da lì. Non solo Eusebio di Palestina, Origene
d’Egitto e Cipriano di Cartagine, colui che anche si cinse della corona del martirio, e gli autori più
antichi di loro, più vicini agli apostoli; ma anche coloro che si distinsero nelle Chiese dopo di loro
lo riconobbero spirituale: Basilio il Grande commentando l’inizio dei Proverbi, i due Gregorio,
quello che si vanta della sua parentela e quello che si vanta della sua amicizia, Diodoro, nobile
difensore della vera fede, Giovanni, che sta irrigando con le correnti dell’insegnamento tutto il
mondo fino ad oggi e tutti quelli dopo di loro, per dirla in breve ed evitare la lunghezza del discorso.
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Esortazione
Consideriamo attentamente, dunque, se sia giusto seguire con il proprio pensiero tanti e tali uomini
che sputarono e disprezzarono lo stesso Spirito Santo, e non si fidarono di chi ha detto giustamente:
«I discorsi degli uomini sono vani e ingannevoli i loro pensieri»78 e non ascoltarono il beato Paolo:
«Hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrato il loro stupido animo»79. Per questo noi
gridiamo insieme con il beato Pietro: «Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini»80 e
77 Gal 5, 22
78 Sap 9, 14
79 Rm 1, 21
80 At 5, 29
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diremo loro: «Se è giusto davanti a Dio ascoltare voi piuttosto che lui, giudicatelo; noi non
possiamo non annunciare ciò che vedemmo e ciò che ascoltammo per mezzo dello Spirito»81.
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Cause degli errori: teoria dello svelamento delle Scritture a favore dell’interpretazione spirituale
Per non occuparci solo di noi stessi e non trascurare coloro che sbagliano, orsù cerchiamo di capire
da dove ha tratto origine il loro errore e troviamo loro il rimedio possibile dalle Scritture divine.
Leggendo, come penso, questo libro e vedendo in esso unguenti, baci, cosce, ventre, ombelico,
gote, occhi, gigli, mele, nardo, olio di mirra, mirra e cose simili, e non riconoscendo ciò che è tipico
della Scrittura divina, non vollero immergersi e superare il velo della scrittura82, entrare dentro lo
spirito e non vollero che la gloria del Signore fosse riflessa come in uno specchio a viso scoperto83:
[33] ma, poiché hanno compreso le cose dette come riferite alla carne, andarono a finire in quella
blasfemia.
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Definizione della interpretazione figurata
Essi dovevano considerare attentamente che nell’Antico Testamento la Scrittura divina dice molte
cose in modo figurato: avendo utilizzato dei nomi, attraverso di essi significa altro.
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Esempi di interpretazione figurata nei Profeti: Ez 17, 3-4; Zc 11, 1-2
Quando parla del re di Babilonia, non ha posto né il nome proprio, né il nome comune della natura,
infatti non nominò “Nabucodonosor”, né lo chiamò “uomo”, ma dice: «Un’aquila dalle grandi ali,
di larga estensione, piena di artigli; che ha il proposito di invadere il Libano, e prese le parti scelte
del cedro, strappò via le punte dei ramoscelli teneri»84. Nessuno interpretò mai l’aquila come aquila,
né il Libano come Libano, né il cedro come cedro, ma “aquila” come il re dal momento che è un
animale regale; “dalle grandi ali”, per la grandezza del potere; “piena di artigli”, per la moltitudine
dell’esercito. Disse che “ha il proposito”, per il fatto che è guidato da un comando divino a fare ciò
che ha fatto; chiamò “Libano” Gerusalemme, per la fitta abbondanza delle grazie spirituali. “Le
parti molli del cedro” sono gli uomini rammolliti e presi dal lusso, di elevata condizione sociale.
Ragionare in questo modo non è proprio solo di chi è stato allevato nella vera fede, ma anche degli
Ebrei, che solitamente interpretano le Scritture divine più grossolanamente e più carnalmente. E
quando il beato Zaccaria dice «Apri, o Libano, le tue porte e il fuoco bruci i tuoi cedri, gridi il pino,
perché il cedro è caduto»85, non pensiamo al “Libano” come Libano, né ai “cedri” come cedri, né al
“fuoco” come fuoco, né al “pino” come pino; ma “fuoco” è di nuovo il re di Babilonia, che
Ezechiele aveva chiamato “aquila”, anche “Libano” è di nuovo Gerusalemme, “cedri” sono gli
uomini carichi di ricchezza, ricchi di onori; “pino” coloro che sono inferiori ad essi; perciò
aggiunge “Gridi il pino, perché il cedro è caduto”, poiché soffrirono i potenti. Ma che bisogno c’è
di elencare tutti gli esempi in cui la Scrittura divina parla in modo figurato?
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Esempi di interpretazione figurata nei Profeti delle parti del corpo
Tralasciando gli altri esempi, mostriamo il Dio dell’universo che, anche nell’Antico Testamento,
parla al popolo di Israele come ad una donna e utilizza i nomi delle parti del corpo, quali Salomone
utilizzò scrivendo riguardo a questa sposa. Dice dunque il Dio dell’universo a Ezechiele: «Figlio
dell’uomo, fa’ conoscere a Gerusalemme tutti i suoi abomini. Dirai loro: Così dice il Signore Dio a
Gerusalemme: La tua radice e la tua origine sono nella terra di Canaan; tuo padre è Amorreo e tua
81 At 4, 19-20
83 Cfr. 2 Cor 3, 18
84 Ez 17, 3-4
85 Zc 11, 1-2
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madre Hittita. Alla tua nascita, quando fosti partorita, non ti fu tagliato l’ombelico e non legarono i
tuoi seni; e non fosti lavata nell’acqua per la salvezza; [36] non ti fecero le frizioni di sale, né fosti
avvolta in fasce. Occhio pietoso non si volse su di te per farti una sola di queste cose e usarti
compassione, ma come oggetto ripugnante fosti gettata via in piena campagna, il giorno della tua
nascita. Passai vicino a te e ti vidi sporcata nel tuo sangue e ti dissi: Dal tuo sangue la vita,
moltiplicati. Crescesti e ti facesti grande e giungesti al fiore della giovinezza: i tuoi seni si rizzarono
e la tua chioma è cresciuta; ma eri nuda e indecente. Passai vicino a te e ti vidi; ed ecco il tuo
momento, il momento di coloro che ti congedano; aprii le mie ali su di te e nascosi la tua indecenza;
giurai e scesi a patti con te, dice il Signore Adonai, e fosti per me. Ti lavai con acqua, pulii il sangue
da te e ti unsi con olio; ti vestii di abiti sgargianti, ti feci indossare calzature del colore del giacinto,
ti cinsi di bisso e ti ricoprii di veste tessuta di peli. E ti adornai di gioielli: ti misi bracciali ai polsi e
una collana al collo: misi al tuo naso un anello, orecchini alle orecchie e una corona di gloria sul tuo
capo»86 e poco dopo: «Fior di farina e miele e olio mangiasti. Diventasti molto bella; la tua fama si
diffuse fra le genti per la tua bellezza»87, e poco dopo ancora: «E avvenne dopo tutte le tue
malvagità, dice il Signore Adonai, e costruisti per te una casa di prostituzione, e facesti a te stessa
un proclama in ogni piazza e in ogni sommità di strada edificasti un postribolo, corrompesti la tua
bellezza e portasti le tue gambe su ogni strada e moltiplicasti la tua prostituzione, ti vendesti ai figli
d’Egitto, tuoi corpulenti vicini, e ti sei prostituita in molti modi per irritarmi»88. E ancora dopo: «Tu
non eri come una prostituta in cerca di guadagno; una donna che va in cerca di adulteri stranieri
oltre al marito; colei che prende il compenso da suo marito e lo dà a quelli che si prostituiscono con
lei. Ad ogni prostituta si dà un compenso, ma tu hai dato il compenso a tutti i tuoi amanti e hai
distribuito loro doni perché da ogni parte venissero da te nella tua prostituzione. E avvenne in te il
contrario delle altre donne nella tua prostituzione: nessuno è corso dietro a te, mentre tu hai
distribuito doni e non ne hai ricevuti: avvenne in te il contrario»89 e le cose che seguono del
medesimo tipo.
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Spiegazione in senso figurato di esempi riferiti a moglie fedifraga
Che cosa potrebbero dire coloro che dicono blasfemia del libro del Cantico dei cantici e osano
considerarlo con intemperanza, quando si imbattono in queste parole dette nell’Antico Testamento
riguardo al popolo degli Ebrei? [37] Ecco, anche qui troviamo seni, ombelico, gambe, mani, nasi,
orecchie, bellezza, amore, abbraccio, unione, e tutte le cose dette dal Dio dell’Universo, e non
pensiamo affatto così come leggiamo, né crediamo alla lettera che uccide90, ma entrando dentro essa
indaghiamo il pensiero dello Spirito e, illuminati da lui, comprendiamo spiritualmente le cose dello
Spirito91. Ascoltando Dio che dice a Gerusalemme: “Tuo padre è amorreo e tua madre ittita” non
pensiamo ad una parentela di sangue ma spirituale. Secondo la natura erano discendenti di Abramo,
che generò la stirpe da Sem, secondo la malvagità di vita, invece, sono simili alla stirpe esecrabile
di Canaan: per questo dice che il padre è amorreo e la madre ittita. Ottennero in sorte la parentela di
coloro dei quali imitarono la scelleratezza. Perciò anche il beato Giovanni Battista diceva a coloro
che si recavano presso di lui: «Prole di vipere, chi vi mostrò di fuggire dall’ira imminente? Fate
dunque frutti degni della conversione e non cominciate a dire in voi stessi: Abbiamo Abramo per
86 Ez 16, 2-12
87 Ez 16, 13-14
89 Ez 16, 31-34
90 Cfr. 2 Cor 3, 6
91 Cfr. 2 Cor 3, 18
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padre!»92. Nominò “prole di vipere” coloro che si vantavano di Abramo, per la parentela della
malvagità; il Signore stesso a coloro che avevano detto: «Abbiamo Abramo per padre», rispose:
«Voi siete dal vostro padre il diavolo» e, mostrando il motivo, aggiunse: «E volete fare le opere del
padre vostro»93, e volendo mostrare quali dice: «Egli era omicida fin da principio»94. Allo stesso
modo anche qui il Dio dell’universo disse: “La tua radice e la tua origine sono nella terra di Canaan.
Tuo padre è amorreo e tua madre ittita”. Poi, mostrando il modo di vivere dell’Egitto, negligente e
degno di nessuna cura: “Nel giorno in cui sei nata – dice – non legarono i tuoi seni”. Intese in modo
figurato i seni e anche i legami, dal momento che è costume per le ragazze prendersi cura dei seni
fin da piccole. Perciò anche attraverso il profeta Geremia Dio dice: «Forse che si dimenticherà una
sposa del suo ornamento, una vergine della sua fascia?»95. Le fanciulle si interessano di queste cose,
volendo piacere al proprio sposo. Poiché il popolo degli Ebrei non ha avuto nessuna attenzione
dopo il tempo dell’esilio in Egitto, né si curò degli elementi essenziali della virtù: «Nel giorno in
cui nascesti, – dice – non ti furono legati i seni», cioè non ti sei curata della virtù che ti alimenta,
che produce il latte nutriente, così da offrire i capezzoli dell’insegnamento al momento opportuno a
coloro che verranno dopo. E rimanendo nel linguaggio figurato: “Non fosti lavata nell’acqua”, dice,
cioè Non hai allontanato il sudiciume dell’idolatria egiziana, ma, [40] essendo uscita da quella
schiavitù, come se fossi stata partorita, porti ancora i segni del parto, non essendo lavata, immersa
nella sozzura materna. Coerentemente a queste parole aggiunge: “Non ti fecero le frizioni di sale”,
cosa che è abitudine fare da parte delle nutrici agli infanti. Capiremo questa frase secondo le leggi
dell’allegoria, conoscendo “sale” come l’intelligenza spirituale e l’insegnamento divino, che
astringono i marciumi e conservano sani. Perciò anche il Signore disse ai discepoli: «Abbiate
sale»96 e di nuovo: «Voi siete il sale della terra»97. E nell’Antico Testamento non troviamo nessun
sacrificio presentato senza sale98. Così pensiamo quel “Non ti fu tagliato l’ombelico”. Poiché come
l’ombelico, secondo quelli che sono esperti di tali cose, è in un certo senso la radice dell’embrione
(per mezzo di lui, infatti, come in un certo senso una radice, si attinge il nutrimento, si cresce e ci si
forma completamente), similmente lì disse che Gerusalemme non è stata tagliata: come se, essendo
generata dall’Egitto, prendesse ancora l’idolatria egiziana e così attingesse quel nutrimento
rovinoso dal seno materno. “E passai vicino a te – disse – e ti vidi sporcata nel tuo sangue”.
Significa i sacrifici offerti agli idoli. «E ti dissi: Dal tuo sangue la vita, moltiplicati». Poiché
acconsentì di sacrificare a loro, ma anche ordinò di sacrificare a lui, non perché avesse bisogno di
sacrifici, ma soccorrendo alla loro debolezza, disse: Ti rallegri di sangue e di sacrifici? Non
sacrificare ai demoni, ma offri a me i sacrifici. Lo tollero, infatti, non perché abbia bisogno di
vittime, ma per procurare a te la salvezza in tutti i modi. Per questo disse: “Dal tuo sangue la vita,
moltiplicati”. Così interpretiamo quel “I tuoi seni si rizzarono”, invece di “Caduti prima a causa di
molta intemperanza e sfrenatezza, e per la follia dietro agli idoli, dopo aver incontrato la mia
attenzione, si rizzarono e divennero come seni di fanciulle”. Manifesta la conversione al meglio, la
spinta verso l’alto e il raggiungimento del dominio di sé. “E la tua chioma è cresciuta” disse, cioè
tu, privata di ogni bellezza, all’improvviso hai avuto la possibilità di abbellire i capelli. “Tu eri nuda
e indecente”: non ti era ancora stata data la legge, né era stato preparato il tabernacolo, né ti erano
stati offerti regali di nozze. Per questo aggiunge: “Passai vicino a te e ti vidi, ed ecco il tuo
92 Lc 3, 7
93 Gv 8, 44
94 Gv 8, 44
95 Ger 2, 32
96 Mc 9, 50
97 Mt 5, 13
98 Cfr. Lv 2, 13
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momento, il momento di coloro che ti congedano”, invece di “Sei nell’età giusta per le nozze e
pronta per l’unione”. “Perciò aprii le mie ali su di te e nascosi la tua indecenza”. Con le ali significa
le grazie multiformi: il sacerdozio, la profezia, la guida del popolo, la regalità, i miracoli, quei doni
indicibili. “E lo giurai”. Questo è possibile trovare, secondo saggezza, negli scritti del grande Mosé.
«Alzerò, dice, fino al cielo la mia mano e giurerò con la mia destra, e dirò: [41] Vivo in eterno» e di
nuovo: «Io vivo, e vive il mio nome, e la gloria del Signore riempirà tutta la terra»99. Perciò dei
giuramenti che le ha fatto si ricorda e dice: “Giurai e scesi a patti con te, dice il Signore Adonai”. È
avvenuto un matrimonio legittimo, dice, e sono avvenuti degli accordi tra di noi; rimasero i contratti
della dote, contenenti decisioni legali, che significano che, se tu violassi gli accordi stipulati, sarai
scacciata di casa, sarai privata dei tuoi abiti e sarai allontanata nuda, come sei arrivata. Tu infatti
non ti sei offerta alle nozze. Io infatti ti ripulii insozzata, ti ho cosparso di sale quando non l’avevi,
ti ho rivestito quando eri nuda, e quando eri intemperante ho fatto in modo che i tuoi seni fossero
sodi. Perciò aggiunge: “Scesi a patti con te, dice il Signore Dio; e fosti per me, ti lavai con l’acqua,
pulii il sangue da te, ti unsi con olio, ti vestii di abiti sgargianti, ti feci indossare calzature del colore
del giacinto e ti cinsi di bisso” e ciò che segue. Questo è possibile cogliere attentamente dagli scritti
del divinissimo Mosè: egli prepara l’ornamento sacro e l’olio santo dell’unzione, ammaestrato dal
Dio dell’universo sul modo della preparazione100. Così dobbiamo comprendere i bracciali delle
mani, la collana, l’anello nel naso, gli orecchini alle orecchie e la corona di gloria sul capo. Nomina
“bracciali ai polsi” la virtù pratica; gli orecchini delle orecchie l’ascolto delle Sacre Scritture, a cui
bisogna rimanere attaccati come l’ascolto all’orecchino; “collana” l’ornamento della conoscenza
che brilla nella parte dominante, la quale si fonda sul cuore, appeso al collo; “anello posto nel naso”
il morso delle leggi divine, per metafora dei buoi che così sono guidati dai mandriani. E infatti, per
mezzo del profeta Osea, Dio parla di nuovo così: «Come giovenca ribelle Efraim si ribella»101 e, di
nuovo, «Ascoltai Efraim che si lamentava: Mi educasti, Signore, e non fui educato: come un vitello
non fui ammaestrato»102. Perciò ebbe necessariamente bisogno di un tale morso, affinché sia
allontanato per mezzo suo da un impeto sregolato. Così dobbiamo interpretare anche la casa di
prostituzione. Significò per mezzo di queste le case degli idoli. La chiama “casa di prostituzione”
perché, pur essendo congiunta a Dio, che chiama “marito”, amò i demoni malvagi e costruì ad essi
dei templi e ad essi diede i doni che Dio le aveva dispensato. Per questo aggiunge: “In ogni
sommità di strada edificasti un postribolo, corrompesti la tua bellezza e portasti le tue gambe su
ogni strada”, significando in questo l’eccesso dell’intemperanza. Non stavi solo con i tuoi familiari,
ma attirando tutti quelli che si avvicinavano, [44] ti univi con loro senza temperanza: di nuovo
nomina qui “l’unione” in modo figurato il culto degli idoli. Occorre notare attentamente quali
termini il Dio dell’universo usa per indicare la dismisura dell’idolatria: “Portasti le tue gambe su
ogni strada e moltiplicasti la tua prostituzione, ti vendesti ai figli d’Egitto, tuoi corpulenti vicini”; di
nuovo qui mostrò la grandezza dell’idolatria e l’eccesso dell’empietà con questi termini: «Tu non
eri come una prostituta in cerca di guadagno; una donna che va in cerca di adulteri stranieri oltre al
marito; colei che prende il compenso da suo marito e lo dà a quelli che si prostituiscono con lei. Ad
ogni prostituta si dà un compenso, ma tu hai dato il compenso a tutti i tuoi amanti e hai distribuito
loro doni perché da ogni parte venissero da te nella tua prostituzione. E avvenne in te il contrario
delle altre donne nella tua prostituzione: nessuno è corso dietro a te, mentre tu hai distribuito doni e
non ne hai ricevuti: avvenne in te il contrario». E con queste parole di nuovo significa che, pur
ricevendo da Dio il pane, il vino, l’olio, le greggi, i buoi e i vitelli, li sacrificarono come vittime agli
idoli, disprezzando Dio, da cui ricevettero questi doni, li offrirono a chi non aveva mai dato niente,
99 Nm 14, 21
100 Es 30
101 Os 4, 16-17
- 17
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mediatori soltanto di rovina, e porgendo il compenso agli amanti, non prendendolo da essi. Parole
simili a queste anche quelle del profeta Geremia: «Hai commesso adulterio con il legno e con la
pietra. Alza gli occhi sui colli e osserva: dove non ti sei disonorata? Tu sedevi sulle vie aspettandoli,
come fa il corvo nel deserto. Così anche la terra hai contaminato nella tua prostituzione»103. E il
beato Isaia: «Come mai è diventata una prostituta la città fedele di Sion, piena di giudizio? IN essa
fu accompagnata la giustizia; ora invece ci sono gli assassini»104 e subito dopo: «Qual è il
documento di ripudio di vostra madre? Oppure essendo obbligato a che cosa vi ho fatto? Ecco, per
le vostre iniquità siete stati venduti, per le vostre scelleratezze allontanai vostra madre»105. Ma
perché occorre elencare tutte le cose che sono state dette dal Dio dell’universo per mezzo dei
profeti? Le cose dette sono sufficienti perché noi capiamo come occorre comprendere le divine
Scritture, non seguendo solo la lettera, ma anche svelando il pensiero di essa.
!
Nel Cantico dei cantici lo sposo è Cristo e la sposa è la Chiesa
Essendo stati guidati dunque dall’antica sposa alla nuova, così dobbiamo pensare il libro del
Cantico dei cantici, e, tralasciando quelle opinioni false e ingannevoli, seguiamo i santi Padri e
pensiamo che una sola sposa sta parlando con un solo sposo e impariamo dai santi apostoli chi sia
lo Sposo e chi la Sposa. Ce lo insegna anche il divinissimo Paolo che scrive così: «Vi unii in
matrimonio ad un solo sposo, vi presentai a Cristo come vergine pura »106. E dice che la sposa è
stata battuta da molti. Ho sposato voi, dice, non te, evidentemente perché si riferisce alle anime pure
e perfette nella virtù. La Sacra Scrittura conosce la Chiesa come sposa e chiama “sposo” il Cristo, e
il grande Giovanni107, colui che ha mostrato il compimento [45] della legge e l’inizio della grazia,
che fu a metà tra il pedagogo108 e il maestro saggio, al tempo del quale l’ombra prese il corpo109,
disse: «Colui che ha la sposa è lo sposo, ma l’amico dello sposo, che è presente e ascolta i suoi
discorsi, gioisce di gioia per la voce dello sposo»110. E lo stesso Signore si definisce sposo, quando,
avendogli chiesto alcuni Farisei come mai i santi discepoli non digiunassero, rispose dicendo: «Non
possono i figli dello sposalizio essere in lutto finché lo sposo è con loro. Verranno però i giorni
quando lo sposo sarà loro tolto e allora digiuneranno»111.
!
Interpretazione allegorica degli altri personaggi
Dunque dobbiamo pensare la sposa come la Chiesa e lo sposo come Cristo, le fanciulle che
accompagnano la sposa come le anime pie e troppo impulsive, che non seguono ancora la virtù
della sposa e non sono ancora ritenute degne della perfezione; perciò seguono la sposa ma non sono
chiamate spose. Nello scritto vi sono anche dei personaggi che stanno con lo sposo, che si
potrebbero definire sia angeli che servono al comando del Sovrano, sia profeti che hanno
preannunciato queste cose da lungo tempo, sia apostoli che angelicamente e spontaneamente
servono ai cenni del Sovrano: in tutti questi casi non si sbaglierà il proposito della verità. A me
104 Cfr. Is 1, 21
105 Is 50, 1
110 Gv 3, 29
111 Mt 9, 15
- 18
-
!
sembra più opportuno che siano angeli, poiché le parole divine ci insegnano che le anime già
perfette nella virtù riconoscono la sposa, e niente è più compiuto degli apostoli e dei profeti se non
gli angeli. Per questo a me sembra più opportuno che siano angeli coloro che servono lo sposo e si
siano adoperati ad onorare la sposa. Troviamo infatti, appena nato lo sposo, un coro angelico
esultante, che, pieno di gioia, canta inni e proclama: «Gloria nel più alto dei cieli, pace sulla terra,
negli uomini felicità»112. Anche nel momento del concepimento l’arcangelo Gabriele prestò il suo
servizio113 e l’angelo sembra aver ordinato a Giuseppe la fuga in Egitto e il ritorno da là114; e dopo
le lotte con il diavolo, gli angeli, al loro arrivo, servirono colui che aveva combattuto in favore della
nostra debolezza e che aveva sconfitto l’avversario, benedicendolo, cantandogli inni e
onorandolo115; nel momento della passione gli angeli erano presenti guardando dall’alto l’essere
umano116; gli angeli, seduti sulla tomba, annunciarono la sua resurrezione117; e quando fu portato
fino ai cieli, gli angeli dissero: «Uomini di Galilea, perché state lì guardando verso il cielo? Questo
Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, egli tornerà di nuovo»118. Perciò mi sembra che ci
siano schiere di angeli con lo sposo, che obbediscono ai comandi dello sposo e stimano la sposa
degna di ogni cura.
!
Le tre opere di Salomone. Scopo dell’opera
È necessario, quindi, premettere che sappiamo che sono tre gli scritti di Salomone: i Proverbi,
l’Ecclesiaste e il [48] Cantico dei cantici. I Proverbi offrono utilità morale a chi la desidera;
l’Ecclesiaste spiega la natura di ciò che si vede e ammaestra sulla vanità della vita presente,
affinché, comprendendo che tutto è destinato alla morte, disprezziamo le cose perché passano e
desideriamo le cose future come durature; il Cantico dei cantici insegna l’unione mistica della sposa
e dello sposo; cosicché tutta l’opera di Salomone è in un certo senso una scala con tre gradini: lo
studio dell’etica, della fisica e della mistica. Occorre infatti che chi si avvicina alla religione
purifichi anzitutto il pensiero per mezzo delle opere buone; poi che disprezzi la vanità delle cose
che passano e la transitorietà di ciò che è ritenuto dolce; e, come ultima cosa, di qui si alzi in volo,
desideri ardentemente lo sposo, che annuncia i beni eterni. Perciò questo libro è collocato per terzo,
affinché percorrendo questa strada si arrivi alla perfezione.
!
Salomone fu ammaestrato da Davide
Penso che il saggio Salomone abbia scritto queste cose ammaestrato dal padre, poiché quest’ultimo
era un profeta, un grande profeta, e lo ascoltò certamente mentre cantava: «La regina sta alla tua
destra, avvolta in un mantello d’oro, adorna»119 e ancora «Ascolta, figlia, e guarda, e porgi
l’orecchio, e
dimentica il tuo popolo e la casa di tuo padre, e il re desidererà la tua bellezza, poiché egli è il tuo
Signore»120.
112 Lc 2, 14
113 Cfr. Lc 1, 26
118 At 2, 14
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!
!
Destinatari
Certamente non affidano la conoscenza di questo libro ai giovanetti, né a coloro che non hanno
ancora compiuto l’età; ma invitano a leggere solo coloro che sono diventati uomini e possono
raccogliere le cose che sono state nascoste, e possono interpretare spiritualmente gli scritti.
!
Motivo del libro; debito con i predecessori e originalità
Dunque, cessando di discutere, sia che questo libro sia stato scritto profeticamente, sia che spieghi,
ammaestrato dal padre, ciò che imparò, accingiamoci alla interpretazione; pregando coloro che si
imbatteranno in esso di non gridare ad un nostro furto, se trovassero nelle nostre interpretazioni
qualcosa detto dai Padri. Concordiamo anche noi di aver trovato gli spunti della chiarificazione da
loro: ma una cosa simile è possibile che non sia furto, bensì una eredità paterna. D’altronde
affermiamo alcune cose dopo averle prese da loro, ma ne affermiamo altre avendole trovate noi
stessi. Noi riduciamo quelle, poiché già dette da qualcuno estesamente; ampliamo le altre,
bisognose di approfondimento.
!
Fatica del lavoro e conclusione
Accettammo dunque la fatica, che non sarà inutile – credo – per coloro che si imbatteranno in essa.
Perciò invitiamo coloro che ricevono frutto senza fatica dalle nostre fatiche a contraccambiarci le
fatiche con delle preghiere. Se l’intrerpretazione apparisse non precisa, accogli dunque la fatica e
insegna tu stesso le cose che mancano.
!
!
- 20
-
!
!
LIBRO I
!
[49] Poiché, confidando nella grazia divina, osammo l’interpretazione di questo libro, orsù, come
prima cosa di tutte, esaminando il titolo del libro, rendiamolo chiaro.
! 121
[V. 1] Cantico dei cantici, che fu cantato da Salomone
!
Spiegazione del titolo “Cantico dei cantici”
!
Consideriamo perché mai il saggio Salomone lo definì non “Cantico” ma “Cantico dei cantici”. È
certamente chiaro a coloro che usano un ragionamento saggio e pio che niente è compiuto senza
motivo e invano dallo Spirito Santo. Stando così le cose, bisogna esaminare per quale motivo
questo scritto è chiamato “Cantico dei cantici” e non “Cantico”. Troviamo detti e scritti molti
cantici, salmi, inni e odi, presso il beato David e presso i profeti a lui anteriori o contemporanei;
anche il grande Mosè cantò come prima ode un epinicio, quando il mare diviso divenne strada per
gli Israeliti e tomba per gli Egiziani122; come seconda ode, cantò un canto di ringraziamento sul
pozzo123; come terza ode quella in cui ricordò i doni divini e rimprovera l’animo ingrato del
popolo124. Anche il beato David cantò sia gli inni epinici che quelli per la vendemmia, sia quelli
mattutini che quelli vespertini. Il saggio Salomone non scrive un epinicio, né un canto mattutino,
ma un cantico epitalamio. I cantici epinici mostrano la sconfitta dei nemici e la liberazione dei
prigionieri, come per esempio: «Allontanando le guerre sino ai confini della terra. Romperà l’arco e
spezzerà l’arma e
brucerà gli scudi nel fuoco.
Fermatevi e sappiate che io sono Dio,
sarò esaltato tra le genti, sarò esaltato sulla terra»125. Significa infatti che, avendo travolto lo
schieramento dei nemici e avendo liberato i prigioneri che da tempo sono nelle loro mani, [52] lo
pose sotto di sé e costituì il potere su tutti volontariamente. Perciò dice: «Sarò esaltato tra le genti,
sarò esaltato sulla terra». La stessa cosa è anche: «Voi tutti, popoli, battete le mani;
acclamate Dio con voci di gioia, poiché il Signore è altissimo, terribile,
re grande su tutta la terra»126. E di nuovo: «Cingi, prode, la spada al tuo fianco, per la tua floridezza
e la tua bellezza avanza, procedi e regna»127. E ancora: «Sollevate, porte, i vostri frontali,
alzatevi, porte antiche,
ed entri il re della gloria.
Il Signore forte e potente,
il Signore potente in battaglia»128. In questi cantici i profeti lasciano trasparire la vittoria del re e lo
celebrano con inni per la liberazione dei prigionieri. Il Cantico dei cantici raffigura le sue nozze e
121 Tra parentesi quadre il versetto così come compare nelle edizioni moderne del Cantico dei cantici, che non
corrisponde quasi mai a quello riportato nell’edizione Migne.
- 21
-
!
descrive l’amore per la sposa. Chiama “sposa” coloro che in quei canti sono stati liberati dalla
prigionia, hanno ottenuto la libertà e sono stati associati alla regalità, mantengono una riconoscenza
perenne dei benefici, mostrano verso di lui grande benevolenza e affetto e lo seguono fedelmente;
poi, chiedendo le potenze di lassù: «Chi è questo re della gloria?», è scritto che desiderano stare con
lui e non sopportano di essere separati nemmeno per una piccola parte del giorno da colui che li ha
salvati. A causa di ciò questo libro è chiamato “Cantico dei cantici”, e l’espressione significa che
quei cantici sono stati creati a causa di questo e conducono a questo.
Questo è il massimo dei beni e il culmine della filantropia divina, l’inesprimibile bontà, l’immensa
misericordia, l’incommensurabile compassione, l’inesprimibile amore, il fatto che il creatore, il
modellatore, il demiurgo, che è Signore, Dio, Sovrano, che è eternamente uguale a se stesso, abbia
sopportato non solo di liberare dalla morte e dalla tirannia del diavolo quest’essere di argilla,
soggetto a mutamento, corruttibile, crudele, inutile, ma anche gli abbia donato la libertà e non solo
li proclami liberi, ma anche li costituisca figli; e non solo doni la grazia dell’adozione a figli129, ma
anche lo proclami e lo renda “sposa”, e si unisca ad essa come fosse lo sposo in un matrimonio e
offra migliaia di regali di nozze e prepari prima la camera nuziale e il talamo; e, essendo lei nuda, la
rivesta, e divenga il suo mantello, cibo, bevanda, strada, scudo, vita, luce e resurrezione. Ma io, se
oso seguire con il discorso la filantropia divina, cerco di contare i granelli di sabbia, o le gocce di
pioggia, o di misurare il mare con una tazza. Per questo, dunque, il libro è chiamato “Cantico dei
cantici”, come se ci insegnasse le migliori immagini della bontà di Dio e [53] svelasse i misteri
intimi, impenetrabili e santissimi della filantropia divina.
!
Capitolo I
!
V.1 [2] Mi baci dai baci della sua bocca
!
Molti vissero nell’attesa del compimento delle promesse
!
Questo dice la sposa chiedendolo con preghiere al Padre dello sposo. Ascoltò, infatti, le promesse
date al patriarca Abramo e le profezie nelle benedizioni di Giacobbe130. Ascoltò anche il grande
Mosè che preannunciava riguardo a lui; ascoltò anche i Salmi che raccontavano la sua bellezza e la
sua forza: «Florido in bellezza presso i figli degli uomini. Sulle tue labbra è diffusa la grazia,
per questo Dio ti benedì in eterno.
Cingi la tua spada al tuo fianco,
o potente. Per la tua floridezza e la tua bellezza avanza, procedi e regna; a causa della verità, la
mitezza e la giustizia»131. Imparò che è anche Dio e Figlio eterno questo bell’uomo e mirabile. «Il
tuo trono, Dio, nei secoli dei secoli;
è scettro giusto lo scettro del tuo regno»132 e Isaia grida: «Chi è costui che viene da Edom,
il rossore dei suoi mantelli da Bosor?
Costui è grazioso nell’abito
con forza»133. Avendo conosciuto la bellezza dello sposo, la forza, la ricchezza, la regalità, la
potenza che è su tutto, l’eternità, l’immortalità, l’infinitezza, desidera vederlo, abbracciarlo e dargli
baci spirituali. Ma nessuno di animo basso e terrestre sia colpito dal nome dei “baci”: consideri che,
nel momento mistico, accogliendo le membra del corpo dello sposo, lo baciamo e lo abbracciamo,
- 22
-
!
con gli occhi lo poniamo sul cuore ed è come se ci immaginiamo una sorta di abbraccio nuziale, e
pensiamo di essere con lui, e lo abbracciamo e lo baciamo, mentre l’amore scaccia la paura,
secondo la divina Scrittura134. La sposa desidera essere amata dallo sposo, quasi dicendo al Padre di
lui: Inviami il tuo Figlio unigenito, o Sovrano e Padre; infatti vuoi ascoltare questo nome più di
quello; da molto tempo lo attendo, da molto tempo lo desidero. Mi spossai ricevendo le sue lettere
per mezzo dei patriarchi, dei legislatori, dei profeti; non sopporto più la fiamma della passione; è un
fuoco bruciante e divorante nelle mie viscere. Per mezzo di tutti i profeti promette di giungere, ma
fino ad oggi non volle compiere le promesse. Si impegnò per mezzo di Davide, di Geremia, di Isaia,
di Ezechiele, di Zaccaria, e Daniele, e i restanti profeti, ad essermi presente, e a [56] portare a
compimento le nozze. Non so perché tarda e perché disprezza me che lo desidero. Mi disse
attraverso Osea: «Ti farò mia sposa per sempre,
ti farò mia sposa
nella giustizia e nel diritto,
nella benevolenza e nell’amore,
ti fidanzerò con me nella fedeltà
e tu conoscerai il Signore»135. Mi disse attraverso Isaia: «Esulta, o sterile che non hai partorito,
prorompi in grida di giubilo e di gioia,
tu che non hai provato i dolori,
perché più numerosi sono i figli dell’abbandonata
che i figli di colei che ha il marito»136 e attendo tutti i giorni bramando di incontrare le promesse.
Queste cose dice per enigmi pronunciando: “Mi baci dai baci della sua bocca”. E affinché non
interpretiamo queste cose in modo categorico, ecco, chiamiamo il beato Paolo a testimone delle
cose dette. Egli, scrivendo agli Ebrei ed esponendo il discorso sulla fede, dice così riguardo ad
Abramo: «Per fede abitò nella terra della promessa come straniera, dimorando sotto le tende con
Isacco e Giacobbe, coeredi della medesima promessa. Egli aspettava infatti la città che ha
fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso»137 e poco dopo: «Nella fede morirono tutti
questi, non ricevendo le promesse, ma vedendole e accoglendole da lontano, riconoscendo di essere
stranieri e pellegrini sulla terra; coloro che dicono tali cose, infatti, dimostrano che cercano una
patria. Se si fossero ricordati di quella da cui erano usciti, avrebbero avuto possibilità di ritornarvi;
ora invece essi aspirano a una migliore, cioè a quella celeste. Per questo Dio non disdegna di
chiamarsi loro Dio: ha preparato infatti per loro una città»138. E riguardo al grande Mosè dice:
«Preferì essere maltrattato con il popolo di Dio piuttosto che godere per breve tempo del peccato.
Questo perché stimava l’obbrobrio di Cristo ricchezza maggiore dei tesori d’Egitto; guardava infatti
alla ricompensa.
Per fede lasciò l’Egitto, senza temere l’ira del re; rimase infatti saldo, come se vedesse
l'invisibile»139. E riguardo a tutti i santi che brillano nell’Antico Testamento dice così: «Eppure, tutti
costoro, pur avendo ricevuto per la loro fede una buona testimonianza, non conseguirono la
promessa: Dio aveva in vista qualcosa di meglio per noi, perché essi non ottenessero la perfezione
senza di noi»140. E il Signore nei sacri Vangeli dice tali cose agli apostoli: «Ma beati i vostri occhi
perché vedono e i vostri orecchi perché sentono. In verità vi dico: molti profeti e giusti hanno
134 1 Gv 4, 18
135 Os 2, 21-22
136 Is 54, 1
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!
desiderato vedere ciò che voi vedete, e non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, e non
l’udirono!»141 E parlando ai Giudei disse: «Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il
mio giorno; lo vide e se ne rallegrò»142. E il vecchio Simeone ricevette la profezia di non vedere la
morte, finchè non avesse visto il [57] Cristo del Signore. Una volta che nacque, fu portato nel
tempio e, avendolo preso in braccio, disse: «Ora lascia, o Signore, che il tuo servo
vada in pace secondo la tua parola; perché i miei occhi han visto la tua salvezza,
preparata da te davanti a tutti i popoli»143 con ciò che segue. È chiaro, dunque, che, confidando
nelle profezie divine, desiderarono vedere il compimento delle promesse, per questo il Cantico dei
cantici pone la sposa che dice: “Mi baci con i baci della sua bocca”. Noi pensiamo il bacio non
come unione delle bocche, ma come comunione dell’anima pia con la Parola divina. E la sposa
sembra dire così: Ho ascoltato i tuoi discorsi dalle Scritture; desidero ascoltare anche la tua stessa
voce; voglio apprendere il sacro insegnamento senza mediazione dalla tua bocca, e baciarla con le
labbra del mio pensiero. “Mi baci dai baci della sua bocca”. Dopo che la sposa ha pronunciato
queste parole, subito lo sposo appare a lei e compie quella promessa che dice: «Mentre ancora stai
parlando, eccomi!»144. E la sposa, avendo visto lo sposo desiderato, rimane sbalordita, ammira i
suoi seni e il suo profumo e grida:
V. 2 [2b-3a] I tuoi seni sono migliori del vino e l’odore dei tuoi unguenti supera tutte le
spezie
!
I seni sono le sorgenti del nutrimento della fede145
Di nuovo qui chiama “seni” i ricettacoli del latte, che il beato Paolo sa di offrire a coloro che sono
ancora imperfetti e bambini: “Vi diedi da bere, dice, il latte, non il cibo solido; infatti ancora non
potevate”146. Non solo per questo verosimilmente la sposa ricordò i seni; ma anche perché sono
vicini al cuore, nel quale è collocata la parte dominante, da cui sgorgano le sorgenti
dell’insegnamento. Ammira quindi i seni dello sposo, come se fossero sorgenti dei beni, e nutrissero
convenientemente sia coloro che sono ancora bambini, sia i perfetti; e dice che quelli sono migliori
del vino, che rallegra il cuore dell’uomo, secondo la divina Scrittura147. In senso figurato, infatti,
chiamò il vino “gioia”, volendo mostrare che la letizia generata dai suoi doni per i pii è migliore di
tutte le gioie negli uomini. Se invece vuoi interpretare anche misticamente le parole della sposa,
pensa che i seni ammirati più del vino siano le indicibili sorgenti dell’altare, per mezzo delle quali
siamo nutriti tutti noi, allievi della pietà.
!
L’odore dell’unguento spirituale
!
Conosco, dice, gli unguenti preparati da Mosè, l’olio dell’unzione e l’incenso della
composizione148; ma di tutte quelle spezie il suo unguento è il più profumato. Lei chiama qui
144 Is 58, 9
146 1 Cor 3, 2
- 24
-
!
“unguento” la grazia spirituale, di cui egli è pieno, e dalla sua pienezza ne ha dato a tutti noi, infatti
il beato Paolo grida: «Noi siamo infatti dinanzi a Dio il profumo di Cristo fra quelli che si salvano e
fra quelli che si perdono; per gli uni odore di morte per la morte e per gli altri odore di vita per la
vita»149: per gli avvoltoi che divorano i cadaveri infatti, i corpi puzzolenti sono cibo, mentre
l’unguento è rovina; così per gli empi, che preferiscono il fetore del peccato, il fetore della
intemperanza è dolcissimo, pesante e insopportabile è l’insegnamento di Cristo; perciò li conduce
anche ad una morte volontaria. «E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini
hanno preferito le tenebre alla luce»150. Ugualmente dice la sposa: “L’odore dei tuoi unguenti
supera tutte le spezie” e non dice “del tuo unguento” ma “dei tuoi unguenti”, mostrando che molti e
innumerevoli sono i carismi. «A uno, secondo il beato Paolo, viene concesso dallo Spirito il
linguaggio della sapienza; a un altro invece, per mezzo dello stesso Spirito, il linguaggio di scienza;
a uno la fede per mezzo dello stesso Spirito; a un altro il dono di far guarigioni per mezzo
dell’unico Spirito; a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di
distinguere gli spiriti; a un altro le varietà delle lingue»151. Per questo non dice “l’odore del tuo
unguento” ma “l’odore dei tuoi unguenti”. Avendo mostrato molti e diversi carismi, ci insegna che
provengono [60] da una sola fonte. Per questo aggiunge: “Unguento effuso è il tuo nome”152.
Le molteplici e varie fonti che riempono tutta la terra di profumo hanno una sola vena e origine, il
tuo unguento. «In lui abitò tutta la pienezza della divinità»153 ed egli, nello stesso tempo, accettò
tutti i doni dello Spirito secondo l’essere umano, perciò anche Isaia grida: «Un germoglio spunterà
dal tronco di Iesse,
un virgulto germoglierà dalle sue radici.
Su di lui si poserà lo spirito del Signore,
spirito di sapienza e di intelligenza,
spirito di consiglio e di fortezza,
spirito di conoscenza e di timore del Signore e lo Spirito del timor di Dio lo riempierà»154. Per
questo dice: “Unguento effuso è il tuo nome” e non dice semplicemente “unguento” ma “effuso”.
Come l’unguento è nascosto in un vaso, così è nascosta anche la fragranza; qualora, invece, sia
versata, si spande per l’aria; così il Sovrano Cristo era noto a pochi prima della passione; dopoché
invece affrontò la croce e la morte, e in un certo modo si aprì la brocca del suo corpo, subito i beati
apostoli furono pieni di quella fragranza; mettendosi a correre, viaggiando per mare e per terra e
portando a tutti l’annuncio, riempirono tutta la terra di quella fragranza. Per questo dice la sposa:
“Unguento effuso è il tuo nome”. Il nome di Cristo è come se fosse sufficiente a profumare e
riempire di ogni fragranza le anime dei giusti. Se tu volessi ragionare in modo anche più mistico,
ricordati della santa mistagogia, nella quale coloro che sono giunti a perfezione, dopo il ripudio del
tiranno e la confessione del re, riceveranno come un sigillo regale il crisma dell’unguento spirituale,
accogliendo come in un’impronta visibile, l’unguento, la grazia invisibile dello Spirito santissimo.
!
[3c] Per questo le giovinette ti amarono. V. 3 [4a ] Ti trascinarono, correndo dietro di te
verso l’odore del tuo unguento
!
153 Col 2, 9
- 25
-
!
La sposa accede ai misteri, non le fanciulle, ma corrono
!
Le anime vigorose e forti (infatti il testo le chiama “fanciulle”), cogliendo questa fragranza del tuo
unguento, cioè il tuo insegnamento divino e salvifico, ti amarono così caldamente, da tirarti a se
stesse e seguirti, ma anche da farlo di corsa, per non essere lasciate indietro né essere divise
dall’oggetto del loro desiderio. Spiega la corsa anche il beato Paolo dicendo: «Corro per afferrarlo,
poiché anche io sono stato afferrato»155 e di nuovo: «Correte anche voi in modo da conquistarlo!»156
e da un’altra parte: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la
fede»157. Corrono dunque le anime che possiedono [61] un pensiero gagliardo e fuggono una vita
molle, tiepida e fiacca, che preferiscono la fatica al lusso, affascinate dietro allo sposo e chiamate
dal profumo dell’incenso, e come catturate da una duro legame indicibile. Queste cose la sposa, non
ancora degna delle nozze, espone al Padre dello sposo e allo sposo stesso giunto da lei. È ritenuta
degna anche della camera nuziale, e del talamo e delle stanze segrete dello sposo e, orgogliosa, dice
al proprio coro: “Il re mi introdusse nella sua camera segreta”158, cioè Mi svelò i suoi
comandi segreti, mi fece conoscere il mistero celato dai secoli e dalle generazioni; mi aprì i tesori,
le oscurità, gli arcani, gli invisibili, secondo la profezia di Isaia159. E questo è possibile capire in
maniera più precisa dai Santi Vangeli, quando il Signore Cristo da un lato parlava ai Giudei in
parabole, dall’altro svelava ai santi discepoli il pensiero delle parabole: «A voi è dato di conoscere i
misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato»160. E il Signore designa il pensiero “camera
segreta” dicendo: «Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il
Padre tuo nel segreto»161. “Il re mi introdusse nella sua camera segreta”, quasi dicendo insieme al
beato Paolo che «
Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì,
né mai entrarono in cuore di uomo,
queste ha preparato Dio per coloro che lo amano.
Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito. Noi, infatti, abbiamo il pensiero di Cristo162,
nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza»163. “Il re mi introdusse nella sua
camera segreta”. È necessario ricercare per quale motivo la sposa sola è condotta, invece le
fanciulle non sono condotte, ma, rimaste fuori, aspettano la sposa che è entrata; e una volta che sia
entrata e che abbia esposto dettagliatamente come il re la condusse nella sua stanza, aggiungono:
“Orsù, siamo gioiose e rallegriamoci in te. Ameremo i tuoi seni più del vino. La
rettitudine ti amò”164. Non tutti coloro che credono ottengono lo stesso onore. «Nella casa del
Padre mio vi sono molti posti»165, cioè onori diversi. Uno è l’ordine dei patriarchi, un altro dei
- 26
-
!
profeti; uno degli apostoli, un altro dei martiri; uno di coloro che splendono nella verginità, un altro
di coloro che accedono secondo la legge al vincolo coniugale; uno di coloro che servono Dio nella
ricchezza e sono amministratori fedeli, un altro di coloro che sopportano strenuamente le diverse
sofferenze della povertà; uno di coloro che seguono la virtù politica, un altro di coloro che vivono
sui monti e preferiscono avere la sola contemplazione divina. [64] E in questi stessi ordini è
possibile trovare molte differenze: alcuni seguono ciò che seguono più ardentemente, altri più
blandamente; alcuni più impetuosamente, altri più distrattamente. Questo è possibile trovare anche
dalla parabola del Signore166. Parlando di dieci vergini, dice che cinque sono sagge e cinque stolte,
e le prime giudica degne dello sposalizio, alle altre chiude le porte; risponde ad esse, onorando la
verginità, ma non ritenendole degne dell’ingresso a causa della loro pigrizia riguardo alle altre virtù.
Poiché dunque così abbiamo esaminato nel dettaglio queste cose, orsù riteniamo che la sposa sia le
anime che sono perfette in tutte le virtù, e le fanciulle che la seguono sono le anime che amano lo
sposo e si sforzano di essere sue seguaci ma non imitano ancora la perfezione della sposa.
!
Prove bibliche dell’esegesi spirituale. Sposa: anime perfette
!
E che queste cose stanno così, lo testimonia lo Spirito Santo nel salmo 44, dicendo cose simili.
Dopo aver raccontato infatti la bellezza dello sposo e la grazia sulle labbra, la benedizione eterna, la
terribile armatura, la rovina dei nemici, la sottomissione e la prostrazione dei popoli da tempo
prigionieri, il suo trono regale ed eterno e gli scettri della regalità, ornati di giustizia; e oltre a ciò
anche la virtù umana, che ha cercato «quando, pur essendo in forma di Dio, non considerò l’essere
uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, ma spogliò sé stesso, prendendo forma di
servo, divenendo simile agli uomini»167; e l’unzione avvenuta secondo l’elemento umano e i doni
dati dai Magi168, introduce: «È presente la Regina alla tua destra, avvolta in un mantello dorato,
variopinta»169. E chiama “regina” le anime diventate perfette nella virtù, poiché anche Paolo dice
così: «Se aspettiamo, anche regneremo»170 e “mantello dorato e variopinto” gli stessi carismi
variegati dello Spirito. Poi le dà anche un consiglio: «Ascolta, figlia, guarda, porgi l’orecchio,
dimentica il tuo popolo e la casa di tuo padre;
il re desidererà la tua bellezza»171. Mostra se stesso non solo a lei congenito secondo l’essere
umano, ma anche Signore e Sovrano secondo la divinità nascosta e, ricordandole l’indicibile
filantropia, dice: «Poiché Egli è il tuo Signore e Dio e ti prostrerai a lui»172; le predice l’adorazione
vista non molto tempo dopo da parte di re e capi: «Tutti i ricchi del popolo supplicheranno la tua
persona»173. La persona della Chiesa, secondo ciò che si vede, ovvero la dignità sacerdotale, invece,
secondo ciò che si pensa, lo stesso sposo, che ha ritenuto opportuno di essere il suo capo, secondo la
voce dell’Apostolo174. [65] Poi racconta la gloria nascosta di lei: «Tutta la gloria della figlia del re è
168 Cfr. Mt 3, 11
170 2 Tm 2, 12
174 Cfr. Ef 5, 23
- 27
-
!
dentro»175. Poiché secondo il beato Paolo: «La nostra vita è nascosta con Cristo in Dio»176, nella
vita presente tutti coloro che vogliono vivere religiosamente in Cristo di Gesù saranno
perseguitati177. Perciò anche il beato Paolo grida: «Se abbiamo sperato in Cristo per questa vita
soltanto, noi siamo i più miseri fra tutti gli uomini»178. Per questo dice: «Ogni gloria della figlia del
re è dentro, avvolta in mantelli con frange dorate, variopinta»179 intendendo di nuovo con i vestiti
dorati e variopinti i diversi carismi. A queste cose aggiunge: «Seguita dalle vergini sue compagne,
che gli saranno presentate;
saranno condotte con gioia ed esultanza;
ed esse entreranno nel palazzo del re»180.
!
Continua l’interpretazione dei versetti del Cantico
!
È chiaro dalle parole dette che coloro che arrivarono prima alla perfezione umana e alla giusta età,
secondo il beato Paolo181, e possiedono la pienezza della virtù sono chiamati “sposa”; invece coloro
che non sono ancora giunti alla perfezione e che sono inferiori a loro seguono la sposa come delle
fanciulle, mostrando ogni benevolenza e ogni affetto verso di lei e verso lo sposo. “Il re mi
introdusse nella sua camera segreta, orsù, siamo gioiose e rallegriamoci in te”. Infatti non sono
gelose, né invidiano, pur rimanendo fuori e non avendo conosciuto la stanza nuziale, ma si
rallegrano e gioiscono, ed esultano per l’onore della sposa, e si accontentano di ricevere la sua
dolcissima voce. Per questo aggiungono: “Ameremo i tuoi seni più del vino”. E ciò che ella disse
allo sposo, esse dicono alla sposa, per la benevolenza e l’affetto verso di lei, attirandosi la
benevolenza dello sposo. Dice infatti Cristo agli apostoli: «Chi riceve voi, riceve me; e chi riceve
me, riceve colui che mi ha mandato»182 e «Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua
fresca a uno di questi piccoli, perché è un mio discepolo, io vi dico in verità che non perderà affatto
il suo premio»183. Di nuovo le fanciulle chiamano “seni della sposa” le fonti dell’insegnamento, che
versano per tutte le età ruscelli fruttuosi e promettono che ameranno i seni della sposa sopra ogni
gioia umana. È chiamato così, in senso figurato, il vino, che rallegra il cuore dell’uomo184. È
possibile vedere che queste cose sono presenti nell’Antico e nel Nuovo Testamento e vederle anche
accadere ogni giorno.
!
Anche altri santi uomini entrarono nelle stanze segrete
!
Nell’Antico Testamento Dio, svelando il futuro ai profeti, insegnava per mezzo di loro agli uomini
di allora ciò che era necessario. Ed essi, potendo accedere delle stanze segrete e nascoste di Dio e
uscendo da esse, dicevano agli uomini le cose svelate e chiare. Perciò anche David dice a Dio: «Tu
177 Cfr. 2 Tm 3, 12
181 Cfr. Ef 4, 13
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mi hai svelato [68] i misteri ed i segreti della sapienza»185. Coloro che attinsero alle correnti divine
per mezzo dei profeti obbedirono ad essi come a dei mediatori tra Dio e gli uomini, e gli apostoli,
ispirati da Dio allo stesso modo, perfezionarono l’annuncio della fede trasmettendolo a tutti gli
uomini. Anche gli apostoli ebbero accesso alle segrete stanze del sovrano e i loro discepoli
ottennero le fonti apostoliche come mammelle più onorevoli di ogni vino e di ogni gioia. E nel
momento presente i maestri della Chiesa offrono le sorgenti divine al popolo, come dalle stanze
segrete. Colui che vi accede, come ai seni, riceve un cibo spirituale e lo giudica migliore di ogni
gioia terrena. Per questo anche nei Cantici la sposa dice: “Il re mi condusse nella sua camera
segreta” e le fanciulle rispondono: “Orsù, siamo gioiose e rallegriamoci in te” e promettono
dicendo: “Ameremo i tuoi seni più del vino” e aggiungono la causa: “La rettitudine ti amò”. Se
infatti “propizio e retto è il Signore”, secondo il beato David, “e scettro di rettitudine è lo scettro del
tuo regno, e per questo ti amò”186 allora è giusto che anche noi pendiamo da te e ti seguiamo
strettamente e attingiamo ai tuoi seni. Poi di nuovo la sposa dice:
!
Vv. 4-5 [5-6] Nera sono e bella, o figlie di Gerusalemme, come i tendaggi di Kedàr,
come le pelli di Salomone. Non guardatemi perché io sono annerita, poiché mi fissò il
sole.
!
Spiegazione della negritudine
!
Penso che la sposa dica queste cose non alle fanciulle ma a quelle che si vantano nella legge e sono
orgogliose dell’Antico Testamento, insuperbiscono e la rimproverano, non perché è straniera
solamente, ma anche per la precedente superstizione e per la pelle diventata ora nera. Perciò dice
loro: Non solo sono nera, ma anche bella; una volta fissai lo sguardo mentre ero cieca e stavo in
vecchi stracci, ora avvolta in un mantello dorato, variopinta, ebbi dignità regale e sono posta a
fianco del re, avendo scacciato te folle d’amore per il re, che non solo lo hai dato alla morte ma
anche hai profanato la stanza nuziale con la moltitudine degli amanti. Non rimproverare a me il
nero della pelle e non portare alla luce i miei mali antichi. Sono nera, lo riconosco, ma bella e
piacente per lo sposo. Devi temere l’esempio di Maria: anch’ella infatti disprezzo Mosè, perché
prese una moglie etiope, e divenne lebbrosa, bianca come la neve187, e, poiché impura, fu scacciata
fuori dell’accampamento e non tornò finchè non rinsavì. Dunque anche io sono etiope, ma sposa del
grande Legislatore, e sono figlia del sacerdote di Madian, uomo adoratore degli idoli; ho
dimenticato il mio popolo e la casa di mio padre; perciò il re desiderò la mia bellezza188. “Non
guardatemi perché io sono annerita, poiché mi fissò il sole”; mi rivedrete tornata bianca, mentre
prima ero annerita, e griderete: “Chi è [69] costei che sale dopo essere stata resa bianca?” e
vi dirò anche la causa di questa negritudine. Divenni nera perché adoravo le creature invece del
creatore e adoravo questo sole che vediamo invece del sole di giustizia189. Ma vidi la differenza tra
quello e questo e, dopo aver lasciato la creatura, ho adorato il Creatore. “Non guardatemi perché io
sono annerita, poiché mi fissò il sole”, o, come dice Simmaco, “il sole mi toccò”. “Nera sono e
bella, o figlie di Gerusalemme”, nera per la precedente empietà, bella per la conversione; nera per la
mancanza di fede, bella per la fede. Ed ero così del tutto nera, come i tendaggi di Kedàr, che è
interpretato “oscurità”; così sono divenuta bianca, come le pelli di Salomone, invece di “come le
tende di Salomone”, come i mantelli di Salomone, riguardo ai quali dice il Signore: «Osservate i
185 ?
186 ?
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!
gigli del campo: non lavorano e non filano, e il Padre mio che è nei cieli li veste. Eppure io vi dico
che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro»190. Perciò poco dopo lo
sposo la chiama “giglio”, poiché pur non filando e non tessendo, pur conducendo una vita senza
preoccupazioni, è vestita e nutrita dal suo stesso sposo. Dice dunque la sposa che Un tempo simile
ai tendaggi di Kedàr, che è interpretato “oscurità”, schiava delle tenebre e adoratrice degli idoli, ora
all’improvviso sono cambiata e sono simile alle pelli di Salomone. Poiché infatti ella non è solo la
sposa, ma è diventata anche il tempio del Cristo della pace. “I figli di mia madre
combatterono dentro di me”191. Ci sono anche queste fra le cose dette prima. Spiega alle figlie
di Gerusalemme che, da nera e deforme, improvvisamente è divenuta bella, infatti dice: “I figli di
mia madre combatterono dentro di me”, chiamando “figli” i santi apostoli, riguardo ai quali, il
salmo 44, rivolto alla regina, dice: «Ai tuoi padri succederanno i tuoi figli;
li farai capi di tutta la terra»192. Chiama “madre sua e di loro” la Gerusalemme di lassù, riguardo
alla quale il beato Paolo: «La Gerusalemme di lassù è libera che è la madre di tutti noi»193. “I figli di
mia madre, dice, combatterono dentro di me”, ovvero la guerra combattuta dagli apostoli contro
l’idolatria e ogni trasgressione, i quali accettarono come una battaglia e guerra in ciascuno dei
seguaci, sforzandosi di scacciare le stirpi povere delle anime e di impiantare le leggi della vera
religione. E per impararlo ancora più chiaramente ascoltiamo dal beato Stefano, uomo combattente,
come i beati araldi della religione combatterono contro le anime dei discepoli [72]: «O gente
testarda e pagana nel cuore e nelle orecchie, voi sempre opponete resistenza allo Spirito Santo;
come i vostri padri, così anche voi»194 e il beato Paolo, scrivendo ai Corinzi, dice: «Si sente da per
tutto parlare di immoralità tra voi, e di una immoralità tale che non si riscontra neanche tra i
pagani»195 e di nuovo: «E che, alla mia venuta, il mio Dio mi umilii davanti a voi e io abbia a
piangere su molti che hanno peccato in passato e non si sono convertiti»196. Scrivendo ai Galati: «O
stolti Gàlati, chi mai vi ha ammaliati, proprio voi agli occhi dei quali fu rappresentato al vivo Gesù
Cristo crocifisso?»197. Così i primi profeti e araldi della religione, rimproverando e ammonendo,
stendendo le rughe dei peccati e raschiando i costumi invecchiati, mostrarono la sposa del Signore
nuova invece di antica, splendente invece di sgraziata e deforme, bianca invece di nera. Per questo
la sposa, volendo mostrare in quale modo è divenuta forte e bella, dice: “I figli di mia madre
combatterono dentro di me. Mi pòsero custode nelle vigne”198. Mi affidarono gli ordini divini
come una specie di vigna, e mi ordinarono non di lavorarla solamente e coltivarla, ma anche di
custodirla, affinché qualche animale selvaggio non ne guastasse il frutto. A questo aggiunge: “Non
custodii la mia vigna”199. L’espressione ha un doppio significato, in entrambi i casi santo e pieno
di utilità: o dice questo: La mia vigna precedente, che coltivavo prima della fede, quella che mi fu
data dal padre, ho lasciato trascurata e incustodita, cosicché dappertutto le cose di prima sono
andate in rovina e sono state consegnate all’oblio; o questo: “La mia vigna”, cioè avendo
193 Gal 4, 26
198 Ct 1, 6cd
199 Ct 1, 6e
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!
abbandonato l’utilità della mia anima e avendo preferito i guadagni altrui ai guadagni propri.
Questo infatti dice anche il beato Paolo: «La carità non cerca il proprio interesse»200 e di nuovo
«Nessuno cerchi il proprio vantaggio, ma ciascuno cerchi quello degli altri»201 e riguardo a se stesso
dice «Cercando non l’utile mio ma quello dei molti, perché siano salvati»202. Ho posto entrambe le
interpretazioni affinché coloro che leggono il versetto abbiano comprensione di entrambe e
prendano quella che ritengono più vera. Dopo queste cose la sposa, lasciando i discorsi rivolti alle
fanciulle e l’insegnamento per le figlie di Gerusalemme, si volge allo sposo e svela l’amore che
nutre per lui, dicendo:
!
V. 6 [7] Annunciami, tu che la mia anima amò, dove pascoli il gregge, dove riposi a
mezzogiorno; che io non sia mai come circondata presso i greggi dei tuoi compagni.
!
Riferimento alle eresie
!
Ansiosa e timorosa di essere abbandonata dallo sposo e cadere in altri greggi che non sono pascolati
da lui ma da altri, chiamati “suoi compagni”, non secondo la dignità né secondo il senso comune ma
[73] secondo la somiglianza dell’attività, supplica lo sposo dicendo: Poiché la mia anima ti ama,
dimmi nell’ora del mezzogiorno dove pascoli, o dove porti il gregge; affinché, ignorandolo, non
vaghi qua e là e, catturata e errando, mi imbatta in greggi non degni della tua autorità e che hanno
altri pastori e altri mandriani. Simmaco ha posto quel “circondata” come “vagando”. Giustamente
anche a mezzogiorno la sposa vuole sapere dove si trova lo sposo, poiché, pur divenuta forte la luce
della conoscenza, crebbero le eresie, che hanno il nome dei Cristiani, ma sono prive della verità. Per
questo, ansiosa, desidera conoscere il luogo dello sposo, dove accompagna il gregge a mezzogiorno,
per non imbattersi negli armenti dei cosiddetti compagni. Bisogna considerare che, come c’erano i
profeti e, contrari a loro, anche gli pseudoprofeti, e come c’erano anche gli apostoli e gli
pseudoapostoli che pensavano cose opposte, così anche la divina Scrittura parla di pseudocristi.
Perciò anche il Signore dice: «Molti falsi profeti sorgeranno e sedurranno molti»203. E il beato
Paolo non solo è capace di nominare gli pseudofratelli ma anche gli pseudoapostoli, per questo
dice: «Quei tali sono pseudoapostoli»204. La sposa prega di non cadere nelle loro mani, poiché
mostrano aspetto di pastore e sembrano avere allo stesso modo greggi e armenti: così sono coloro
che pensano le cose di Ario, Eunomio, Marcione, Valentino, Mani e Montano; hanno l’aspetto e il
nome di Cristiani, abitano la Chiesa, leggono le divine Scritture ai greggi erranti, pascolano male
coloro che si fidano di loro, sono detti compagni dello sposo, sono perfidi e funesti, offrono alle loro
pecore veleni invece di erba nutriente. Per questo la sposa prega lo sposo di mostrarle dove
accompagna il gregge a mezzogiorno, affinché non divenga “circondata”, o “vagando” secondo
Simmaco, verso le greggi di coloro che sono detti suoi compagni, ma in realtà le sono nemici.
Risponde dunque lo sposo alla sposa e dice:
!
V.7 [8] Qualora non conoscessi te stessa, o bella tra le donne, esci sulle orme delle
greggi e pascola i tuoi capretti nei tendaggi dei pastori.
!
Il Signore vuole che non solo i giusti ma anche i peccatori siano degni di ogni cura
!
200 1 Cor 13, 5 (traduzione CEI)
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!
Ciò che dice è questo: Guardando te stessa ed esaminando con attenzione le tue cose – sei divenuta
bella infatti e la più splendente fra tutte le donne –, riconosci quelle che sono simili a te. Qualora
invece non conoscessi te stessa, ricerca le impronte delle greggi e, accompagnandole, pascola non le
pecore solamente ma anche i tuoi capretti, nelle tende dei pastori. Il magnanimo Signore vuole che
non solo i giusti ma anche i peccatori [76] siano degni di ogni cura. Perciò dice: «Non sono i sani
che hanno bisogno del medico, ma i malati»205 e «Non sono venuto a chiamare alla conversione i
giusti ma i peccatori»206. E attraverso il profeta Ezechiele: «Non vorrò forse la morte del peccatore,
ma che si converta e viva?»207 e il beato apostolo Paolo riguardo a questo dice: «Colui che vuole
che tutti gli uomini siano salvati e vengano alla conoscenza della verità»208. Per questo vuole che
ella pascoli anche i capretti: la divina Scrittura presenta, in senso tipologico, i capretti come dei
peccatori: il Signore disse che essi saranno posti a sinistra, separati dagli agnelli che ebbero in sorte
il coro destro209. Poiché anche secondo la legge, in cambio del peccato non una pecora ma un capro
figlio di capre viene offerto210. Per questo dice lo sposo alla sposa: Segui le orme del gregge e
osserva la vita dei santi che ti hanno preceduto, e nelle tende di quei pastori, cioè nelle Chiese degli
apostoli, pascola i tuoi capretti, ascoltando nei santi Vangeli: «Guardatevi dal disprezzare uno solo
di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio
che è nei cieli»211.
!
V. 8 [9] Alla mia cavalla nei carri del Faraone io ti resi simile, o vicina mia.
!
Conforma la Chiesa al corpo della sua gloria
!
In modo figurato qui chiamò “Faraone” il demone della nostra natura, lo scellerato e nostro nemico
comune che, come il Faraone, è stato sommerso nelle sante acque del battesimo. Alla mia cavalla,
dunque, usando la quale sommersi i carri del Faraone212, ti giudico simile, tu che sei diventata
vicina a me e sei caduta nell’amore per me. Usò la forma dello schiavo, quasi come se fosse un
veicolo, la quale assunse avendo umiliato se stesso213, affinché costituisse la salvezza per ogni
popolo. A questa cavalla, dunque, assimila la sposa. Testimonia questo pensiero anche l’Apostolo,
dicendo queste cose riguardo a Cristo Salvatore: «Che trasformerà il corpo della nostra umiliazione
rendendolo conforme al corpo della sua gloria»214 e di nuovo: «E noi tutti, a viso scoperto,
contemplando come in uno specchio la gloria del Signore, siamo trasformati nella sua stessa
immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione del Signore, che è lo Spirito»215. Dalle parole
dell’Apostolo comprendiamo le parole mistiche del Cantico e ascoltiamo lo sposo che dice: Te che
205 Mt 9, 12
206 Mc 2, 17
207 Ez 18, 23
210 Cfr. Lv 9
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!
sei vicina a me e per questo sei chiamata “vicina”, guadagnando il nome dalla realtà, dico che sei
simile alla mia cavalla, usando la quale sommersi il Faraone intelleggibile con i suoi carri e ti donai
la libertà. A queste cose aggiunge:
!
V. 9 [10] Quanto furono graziose le tue guance, come di tortora! [77] Il tuo collo come
collanine.
!
Esempi di interpretazione non carnale nella Sacra Scrittura
!
Anche in questo caso non dobbiamo interpretare in modo carnale la guancia e il collo; poniamo
l’attenzione al fatto che spesso la divina Scrittura usa nomi corporei in riferimento all’anima, infatti
dice una volta il profeta Geremia: «Le mie viscere, le mie viscere! Sono straziato»216 e, mostrando
che non dice queste cose riguardo alle viscere, aggiunge «e i sensi del cuore». Un’altra volta il
beato Paolo dice: «Perciò rinfrancate le mani cadenti e le ginocchia infiacchite e raddrizzate le vie
storte per i vostri passi, perché il piede zoppicante non abbia a storpiarsi, ma piuttosto a guarire»217,
non riguardo alle mani, né riguardo ai piedi, né riguardo alla storpiatura esteriore esorta il beato
Paolo, ma chiama con questi nomi le energie pratiche dell’anima. Così dunque interpretiamo anche
“Quanto furono graziose le tue guance, come di tortora! Il tuo collo come collanine”. La Chiesa,
formata da molti uomini e da molte donne, ha alcuni chiamati “guance”, alcuni chiamati “occhi”,
alcuni “orecchie”, alcuni “bocca”, altri chiamati “mani” e altri “piedi”.
!
La Chiesa è una tortora e il suo collo ha il giogo della fede
!
Dunque lo sposo loda chi ricerca la verecondia e chi ha ottenuto il rossore della vergogna e dice:
“Quanto graziose le tue guance, come di tortora”. Coloro che hanno scritto della natura degli
animali dicono che la tortora non solo è amante della solitudine ma anche che è saggia e il maschio
si unisce ad una sola femmina, così come la femmina si accompagna ad un solo maschio e dopo la
morte non sopportano di essere uniti ad un altro o ad un’altra. Giustamente, quindi, dice che la
Chiesa unita a Cristo somiglia ad essa e che fugge la compagnia degli altri e che non sopporta, dopo
la sua morte, di lasciarlo, ma che, avendo aspettato la resurrezione, aspetta la sua seconda venuta. E
dice che il suo collo somiglia alle collanine. Si mettono intorno al collo e hanno la forma di un
ornamento che lo abbellisce. La loda perché tiene volentieri il giogo della vera religione, riguardo al
quale lo sposo dice nei Vangeli: «Prendete il mio giogo sopra di voi perché il mio giogo è dolce e il
mio carico leggero»218. Per questo nei Cantici ammira il collo che porta questo giogo, perché non ha
bisogno di ornamento esteriore e di eleganza apparente, ma ha la sua bellezza da dentro, cosicché,
pur essendo nudo, è raffrontato alle collanine che ornano i colli degli altri. Dopo che lo sposo ha
detto queste parole, rispondono le guardie dello sposo e i suoi scudieri e dicono alla sposa:
!
Vv. 10-11a [11-12a] Faremo per te oggetti simili all’oro, con marchi di argento. Fino a
che il re rimarrà nel suo stendersi.
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Gli angeli donano alla sposa mentre lo sposo è morto
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Mi sembra che questi versetti significhino qui il periodo prima della parusia del Sovrano Cristo [80]
e consolano la sposa dicendo: Noi saremo con te in ogni momento prima della resurrezione del re e
ti orneremo con ogni ornamento possibile e non ti lasceremo finché non sia risorto, ma ti offriremo
- 33
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!
oggetti simili all’oro e marchi d’argento. Giustamente dissero “oggetti simili all’oro” e non l’oro
vero e proprio, poiché sono più grandi i doni dello sposo e i doni dei suoi servitori non hanno la
stessa dignità. Perciò ai Vangeli divini noi attribuiamo un onore più grande, ma onoriamo anche la
legge, i profeti e gli scritti dei santi apostoli. Giustamente dunque dissero i servitori dello sposo:
“Faremo per te oggetti simili all’oro, con marchi di argento. Fino a che il re rimarrà nel suo
stendersi”. Intendiamo “marchi di argento e oggetti simili all’oro” come la varietà dei carismi e la
provvidenza divina nei nostri confronti. Godiamo infatti anche dell’aiuto degli angeli: «L’angelo del
Signore si accampa
attorno a quelli che lo temono e li salva»219 e «Egli darà ordine ai suoi angeli
di custodirti in tutti i tuoi passi»220. E fu data persino la legge dagli angeli servitori. Infatti dice
l’apostolo: «Se, infatti, la legge trasmessa per mezzo degli angeli fu salda»221. Per il tempo in cui,
dunque, il re si stende e risorge, noi, dice, offriremo ciò che potremo. Chiamano “il suo stendersi” la
morte. Perciò anche Balaam, profetando, dice: «Giungerà un uomo dal suo seme e regnerà su molti
popoli»222 e poco dopo: «Si è rannicchiato, si è accovacciato come un leone
e come una leonessa, chi oserà farlo alzare?
Chi ti benedice sia benedetto
e chi ti maledice sia maledetto!»223. È possibile trovare queste parole anche nella profezia del
patriarca Giacobbe detta a Giuda224. A queste cose dette in questo modo dai servitori dello sposo, di
nuovo risponde la sposa:
!
[12b] Il mio nardo mandò il suo odore. V. 12 [13a] Un sacchetto di olio di mirra è per
me il mio nipote.
!
Spiegazione di “nipote”
!
Occorre chiedersi per prima cosa perché mai lo chiama “nipote”: imparammo che la “sposa” è la
Chiesa delle genti, ma anche che il popolo dei Giudei è la prima “moglie” dello sposo, la quale
ricevette la dichiarazione di ripudio nelle sue mani, per la sua intemperanza. Esse sono sorelle:
entrambe si vantano di discendere dal padre Adamo; ma lo sposo nacque dalla prima secondo
l’essere umano. Dice il beato Paolo: «È noto infatti che il Signore sorse da Giuda»225 e di nuovo:
«Ad Abramo furon fatte le promesse e al suo discendente. Non dice: “e ai tuoi discendenti”, come a
molti, ma come a uno solo, “e al tuo discendente”, che è Cristo»226. E riguardo a Davide dice il
beato Pietro: [81] «Essendo profeta e sapendo che Dio gli giurò con un giuramento che dal frutto
della sua radice avrebbe suscitato Cristo rispetto a ciò che è secondo carne, prevedendo disse
riguardo alla morte:
questi non fu abbandonato negli inferi,
221 Eb 2, 2
225 Eb 7, 14a
226 Gal 3, 16
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!
né la sua carne vide corruzione»227. Poiché dunque sono sorelle, il popolo dei Giudei e la Chiesa
delle genti, di quello Cristo è figlio rispetto a ciò che è secondo carne228, e giustamente la sposa lo
chiama “nipote”, perché è figlio di sua sorella secondo l’elemento umano: Questo è mio nipote, ed è
nardo, ed è un sacchetto di olio di mirra; con molti nomi infatti lo chiamo, sedotta dalla fragranza
dell’unguento, e non posso usare un solo nome.
!
Spiegazione degli odori
!
Tuttavia, su tutti i nomi vince la potenza della sua fragranza, quindi, vinta dal suo amore, lo chiamo
“nardo” e lo dico “sacchetto di olio di mirra”. Nardo, infatti, perché fu unto dal nardo puro assai
costoso, l’odore del quale riempì tutta la casa229, che ha immagine per “il mondo”: infatti il servizio
al Signore dei pii riempì il mondo di fede profumata; chiamo “sacchetto di olio di mirra”, poiché
egli «Scese come pioggia sull’erba,
come acqua che irrora la terra»230. È stato chiamato dai profeti anche “goccia”: «Giacobbe sarà
radunato dalla goccia di questo popolo»231. Bisogna sapere che Simmaco e Aquila hanno nominato
“mirra” invece di “olio di mirra”. La mirra mostra la morte dello sposo e la fragranza derivata da lì
per la sposa. Aggiunse poi: «Dimorerà in mezzo ai miei seni»232, cioè nella parte dominante
della mia anima, quella che si posa nel cuore, che sta tra i seni. Mostra la conclusione della
profezia, quella detta da Dio: «Stabilirò la mia dimora in mezzo a voi e camminerò in mezzo a voi,
sarò vostro Dio e voi sarete il mio popolo, dice il Signore onnipotente»233. E lo stesso sposo
promette dicendo: «Io e il Padre verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui»234. Perciò anche
Paolo grida: «Cercate una prova che Cristo parla in me?»235. A causa di questo la sposa dice
“dimorerà in mezzo ai miei seni”.
!
V. 13 [14] Mio nipote è per me un grappolo di cipro nelle vigne di Engaddì.
!
Doppia interpretazione figurata delle vigne di Engaddì
!
Non sapendo quale nome dare allo sposo, la sposa vaga qua e là e, raccogliendo dappertutto i nomi,
li pone allo sposo, spinta dall’amore a chiamarlo e non potendo trovare un nome degno. Perciò di
nuovo lo nomina “grappolo di cipro”, cioè “fiorente”, invece di “che comincia a fiorire”. È
profumata, infatti, la vite in quel momento. Aggiunge [84] “nelle vigne di Engaddì”, tanto è
profumato. Se significa il territorio della Giudea, quello ornato da vigne meravigliose, si deve capire
in senso figurato, cioè “il tuo grappolo profumato supera quelle vigne”. Se invece pone il termine
“Engaddì” per il significato del nome, che è interpretato come “occhio della tentazione”, si deve
allora capire così, che Pur sottoposta a tentazione e combattuta da molti, avverto la tua fragranza;
231 Mi 5, 6
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-
!
pur fiorendo nel tempo presente le vigne, interpretate figuratamente, e sono nel mezzo della
tentazione (tentazione infatti è la vita dell’uomo sulla terra236), io scelgo la fragranza del tuo
grappolo fiorente.
!
Età spirituali
!
Se dunque colui che ora sta fiorendo è così, bisogna chiedersi come è colui che diventa maturo, e se
colui che diventa maturo è migliore di questo, bisogna considerare com’è chi è tanto maturo da
essere pronto per la vendemmia. Penso infatti che lui, in relazione alle età spirituali, per alcuni sia
in fiore, per altri sia acerbo, per altri inizi a maturare, per altri ancora sia maturo, dagli ultimi sia
bevuto: «Il suo calice inebriante è come ottimo»237. Dette queste cose dalla sposa, di nuovo lo sposo
risponde e dice:
!
V. 14 [15] Ecco sei bella, vicina mia; ecco sei bella; i tuoi occhi sono colombe.
!
Occhi spirituali della sposa
!
Loda di nuovo la sua bellezza e ammira la giovinezza, e con il raddoppiamento esprime il forte
stupore del suo splendore. Su tutto elogia i suoi occhi e dice “i tuoi occhi sono colombe”, cioè
spirituali; solitamente lo Spirito santo frequentò l’immagine della colomba e inabitò nello sposo.
Perciò non dice “come le colombe”, ma “sono colombe”, cioè spirituali, ripieni di grazia divina,
liberi dalla tenebra, riflettenti come in uno specchio, con il volto scoperto, la gloria del Signore,
trasformati nella stessa immagine di gloria in gloria, come dallo Spirito del Signore238 e capaci di
dire: «Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito»239. Risponde di nuovo la sposa e dice:
!
Vv. 15-16 [16-17] Ecco sei bello, nipote mio, e grazioso sul nostro letto ombreggiato. Le
travi delle nostre case sono cedri, nostro soffitto sono cipressi.
!
Unione spirituale
!
Finora continuava nell’ammirare la sua fragranza, ora invece è stupita per la sua giovinezza,
illuminata negli occhi che ha spirituali, tanto che sono stati chiamati “colombe”; per questo dice
“bello e grazioso mio nipote”. Chiama “letto”, come penso, la divina Scrittura, nella quale lo sposo
e la sposa distesa si uniscono secondo l’unione spirituale. Ed egli le dà i semi della parola, [85] ella,
ricevendoli, concepisce, e rimane incinta, soffre le doglie del parto e grida insieme con il profeta:
«Per la paura di te, Signore, accogliemmo nel ventre e soffrimmo le doglie del parto e generammo il
tuo spirito di salvezza, che concepimmo sulla terra»240. Definisce “ombroso” il letto, come protetto
dalla grazia dello Spirito e privo dell’onda del peccato. Quello che è stata la nube per Israele241,
questo è per noi l’aiuto dello Spirito. Per questo dice: “Sul nostro letto ombreggiato. Le travi della
nostra casa sono cedri, nostro soffitto sono cipressi”. Scelse queste immagini di alberi dal momento
che il cedro non subisce corruzione e il cipresso emana un soave profumo;
236 Cfr. Gb 7, 1
237 ?
240 Is 26, 18
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!
!
Divina Scrittura
!
è possibile trovare entrambi nella divina Scrittura, che per noi non è solo letto, ma anche casa,
tavola, cibo; e non solo emana profumo, ma anche promette incorruttibilità, incontaminazione e
immortalità. Se qualcuno poi volesse definire le Chiese che sono dappertutto, per terra e per mare,
“case della sposa”, non offenderebbe la verità, visto che i cedri e i cipressi sono interpretati in senso
figurato: i primi sono molto robusti, come le travi, che infatti reggono il tetto; gli altri sono inferiori,
chiamati “soffitto”. Così lodato dalla sposa, lo sposo dichiara che la sua vera bellezza non è stata
ancora vista, ma ancora ella si deliziò solo nell’ombra della bellezza.
!
Capitolo II
!
V. 1 Io sono un fiore della pianura, un giglio delle valli.
!
Resurrezione e salvezza per i morti
!
Hai visto la mia bellezza umana, dice, poiché «Dio nessuno l’ha mai visto»242. Io infatti divenni un
fiore della pianura, cioè assunsi un corpo terreno e nacqui nella terra, pur essendo eterno, eccelso e
soprattutto immenso. Divenni giglio non dei monti, né delle colline, né semplicemente delle
pianure, ma delle valli. Non solo annunciò la buona notizia della salvezza ai viventi, ma anche la
resurrezione ai morti243, giungendo nelle parti più basse della terra per riempirle tutte. Per questo
chiama se stesso “fiore della pianura, giglio delle valli”, cioè dei morti, e infatti ad essi annunciò e
realizzò il ritorno alla vita. Allora, poiché chiama se stesso con tali nomi, dice alla sposa:
!
V. 2 Come un giglio fra gli àcanti, così la mia vicina fra le figlie.
!
Chiese eretiche e anima
!
Quanta è la differenza tra il giglio e gli àcanti, tanto si è distinta la tua bellezza dalle figlie, che sono
ritenute degne della chiamata ma si sono private dell’essere scelte. «Molti sono i chiamati, ma pochi
gli eletti»244. [88] Anche il profeta Isaia chiama la sposa con questo nome dicendo: «Rallegrati,
deserto assetato, si rallegri il deserto e fiorisca come un giglio»245. Colei che è chiamata “sposa”,
infatti, prima era deserto, sterile, arido, senza letto ombroso, aveva sete dello sposo, perciò anche
grida “mi baci con i baci della sua bocca”. E il profeta, sapendo questo (infatti era spirituale), gridò:
« Rallegrati, deserto assetato, si rallegri il deserto e fiorisca come un giglio», per questo lo sposo le
dice: “Come un giglio fra gli àcanti, così la mia vicina tra le figlie”. Sembra che qui chiami “figlie”
le chiese degli eretici, per la sua chiamata e non per la eresia di quelle; paragona quelle agli àcanti
ed ella al giglio profumato, che emette splendore e contiene un fiore dorato. Ma tale è anche l’anima
che reca attorno la splendore della giustizia e porta dentro la grazia spirituale della sapienza e della
conoscenza nascosta nelle camere segrete. Contraccambia la sposa allo sposo e gli dice:
!
V. 3 Come un melo tra gli alberi della boscaglia, così il mio nipote tra i figli; nella sua
ombra desiderai e mi sedetti, e dolce è il suo frutto alla mia gola.
242 Cfr. Gv 1, 18
243 ?
244 Mt 20, 16
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!
!
Lo sposo è cibo
!
Grande è la differenza tra melo e giglio: quest’ultimo rallegra la vista e l’odorato, il melo, invece,
dà piacere, a chi vuole, alla vista, all’odorato e al gusto. Infatti è commestibile e viene mangiato.
Per questo la sposa è chiamata giglio e lo sposo melo. Egli è mangiato e diventa cibo per la sposa,
ella non è mangiata ma ha solo la fragranza. Per questo dice “come un melo tra gli alberi della
boscaglia, così il mio nipote fra i figli”. Dice “figli”, come là “figlie”, quelli che furono degni della
chiamata, ma essi stessi si resero indegni della scelta: la sposa dice che sono simili agli alberi della
boscaglia, e agli alberi senza frutto. Chiama lo sposo “melo”, che è liscio al tatto, dolce al gusto,
fragrante all’olfatto, graziosissimo e bellissimo alla vista, dolcissimo all’udito: infatti insieme con
l’ascoltare, applichiamo alla parola tutti i sensi. Tale è il nostro Sovrano, e Salvatore, e sposo,
preparando un banchetto raggiunge tutti i nostri sensi. Alla sua ombra la sposa dice di desiderare e
di sedere, e questo ha fatto. Dopo queste cose dice di prendere parte al frutto e che esso appare
dolcissimo alla sua gola. Vuole sfuggire ai raggi del sole che sanno bruciare, per non diventare di
nuovo nera; secondo il beato Paolo, l’ombra dello sposo sono le cose che appaiono ora in uno
specchio e in enigma: [89] «Ora vediamo per mezzo di uno specchio, in enigma; ma allora faccia a
faccia. Ora conosco dalle parti, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io fui conosciuto»246.
Per questo dice “nella sua ombra desiderai e mi sedetti, e dolce è il suo frutto alla mia gola”. E
infatti posta sotto l’ombra colgo il frutto e prendo parte di lui e lo testimoniano gli iniziati, che si
compiacciono delle membra dello sposo.
!
Vv. 4-5 Introducétemi nella casa del vino; ordinate amore su di me. Sostenetemi negli
unguenti, accumulatemi nei meli, perché sono malata d’amore.
!
Amore per lo sposo
!
Penso che chiama “casa del vino” i torchi divini, riguardo ai quali il profeta dice: «Quanto sono
amabili le tue dimore,
Signore degli eserciti!
L’anima mia languisce
e brama gli atri del Signore»247. Pose come intestazione del salmo l’espressione “Sui torchi”,
spiegando che chiama “torchi” le Chiese di Dio, nelle quali il vino spirituale, spremuto e come
pigiato nel torchio, rallegra le anime dei pii secondo la profezia che dice: «Saranno saziati dalla
bevanda della tua casa
e li disseterai al torrente delle tue delizie»248. Per questo la sposa reputa giusto arrivare alla casa del
suo vino ed esorta i servitori dello sposo dicendo “ordinate amore su di me”, cioè insegnatemi la
maniera dell’amore, affinché non ami il padre e la madre più dello sposo, o il campo o le viti, e non
appaia indegna dello sposo. Egli infatti dichiarò: «Chi ama il padre o la madre più di me non è
degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me»249. E la legge antica, quella
data ad Adamo, prescrisse tali cose: «Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si
unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne»250. “Ordinate dunque amore su di me”, affinché
sia unita allo sposo e onori lui più del padre, della madre e degli altri. “Sostenetemi negli unguenti”,
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-
!
cioè confermatemi nella fragranza dello sposo e sorreggetemi affinché niente mi faccia vacillare,
portandomi interamente quel profumo affinché, avendo preso dimenticanza dello sposo, non vaghi
verso altre cose. Ma anche “accumulatemi nei meli”, cioè caricatemi con i frutti dello sposo,
affinché seduta alla sua ombra, fiutando i suoi balsami e caricata del suo frutto, mantenga un ricordo
indelebile: “sono malata del suo amore”. Il suo dardo è scelto251 e ferisce le anime colpite.
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V. 6 La sua sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccerà.
!
Dimostrazioni tratte dalla Bibbia
!
Ma di nuovo non cadiamo in pensieri corporali, ascoltando sinistra e destra. Infatti riguardo alla
sapienza, che è condizione e non sostanza, [92] dice Salomone: «Lunghezza di vita e anni sono
nella sua destra; nella sinistra ricchezza e fama»252; e riguardo all’abbraccio di nuovo è possibile
trovare nei Proverbi il versetto: «Amala ed essa ti custodirà, circondala e ti esalterà, onorala
affinché ti abbracci»253. Traendo spunto da lì, riteniamo anche quelle in modo più spirituale,
credendo che l’abbraccio di cui si parla sia l’unione del Verbo divino e dell’anima pia; e si deve
interpretare la sinistra e la destra come è stato detto da noi.
!
Benefici e castighi
!
Dunque per non lasciarlo senza riflessione, così dobbiamo pensare: Dio sa beneficare e punire,
dispensando entrambi a chi ne è degno. Pensando che la grazia beneficante sia sulla destra e la
grazia punitrice sulla sinistra, ascolteremo la sposa dire “la sua sinistra è sotto il mio capo”, cioè
Sono al di sopra dei castighi, non sono sottoposto ad essi, a causa dell’essere vicino allo sposo e del
conservare la sua servitù. “La sua destra mi abbraccerà”, cioè Mi ornerà con i suoi benefici e mi
riempierà di essi, come abbracciandomi e stringendomi, e soddisfando il mio desiderio. Spiegando
questo anche il beato Paolo disse: «Così saremo sempre con il Signore»254. Accada anche a noi di
non sperimentare la sua forza castigatrice, né di subire le punizioni che ha minacciato, ma di gustare
i doni che ha promesso, la grazia e l’amicizia dello sposo Cristo e Signore nostro, al quale sono la
gloria e la potenza per tutti i secoli dei secoli. Amen.
!
!
252 Pr 3, 16
253 Cfr. Pr 4, 6
254 1 Ts 4, 17
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LIBRO II
!
V. 7 Vi feci giurare, figlie di Gerusalemme, nelle potenze e forze del campo, qualora
svegliate e destiate l’amore, finché lo voglia.
!
Amore carnale e amore spirituale
!
Coloro che amano ardentemente il corpo, si sforzano di godere da soli degli oggetti del desiderio e
scacciano con grande ardore quelli che tentano di approfittare delle donne che appartengono a loro
stessi. Invece coloro che amano spiritualmente e desiderano Dio, [93] esortano tutti gli uomini a
prendere parte con loro della passione d’amore. Per questo anche nel Cantico dei cantici, la sposa,
che descrisse l’abbraccio dello sposo dicendo “la sua sinistra è sotto il mio capo” e “la sua destra mi
abbraccerà”, non tollera di compiacersi lei sola dello sposo né pensa che sia sufficiente a lei sola di
godere di quei sacri amplessi, ma invita anche le altre fanciulle; non invita solo, ma anche esorta
con forza e pone la necessità del giuramento, affinché sveglino e destino l’amore, finché lo sposo
voglia. Le chiama “figlie di Gerusalemme”, evidentemente della Gerusalemme celeste, riguardo alla
quale il beato Paolo scrive: «Invece la Gerusalemme di lassù è libera che è la madre di tutti noi»255.
Chiama “campo” l’universo; così anche il Signore nei sacri Vangeli spiegando la parabola dice: «Il
campo è il mondo». Dice “potenze e forze del campo” le potenze angeliche, quelle che attraversano
il mondo secondo la volontà di Dio; oppure i profeti e gli apostoli che, ripieni di Spirito Santo e
vaganti per il mondo, scacciarono i demoni che si oppongono e odiano Dio e diffondono la vera
religione nelle anime degli uomini. Mentre, dunque, la sposa si trova nel godimento dello sposo e
impara per esperienza quella delizia indicibile, grida e dice: “Vi feci giurare, figlie di Gerusalemme,
nelle potenze e forze del campo, qualora svegliate e destiate l’amore, finché lo voglia”, cioè Non
lasciate che l’amore di Dio dorma in voi, ma svegliatelo e illuminatelo e spargete come olio la
memoria dei suoi benefici, affinché non sia detto anche riguardo a voi: «Dormirono il loro sonno e
non trovarono niente»256. Qualora non annunciaste di giorno in giorno il suo mezzo di salvezza e
non ricordaste i miracoli che vi fece, ma dimenticaste i suoi benefici, si spegnerebbe l’amore e
diventereste come cadaveri. Occorre che voi continuamente lo accendiate e lo svegliate e ne portiate
la fiamma in alto e che facciate misura dell’amore la volontà dello sposo. Non cessate di risvegliarla
e di accenderne la fiamma prima che lo sposo dica che essa ha raggiunto la misura. Somigliano a
queste le parole scritte dal beato Paolo ai Corinzi e, attraverso i Corinzi, a tutti: «Vigilate, state saldi
nella fede, comportatevi da uomini, siate forti. Tutto si faccia tra voi nella carità»257 e alla fine
dell’epistola dice: «Se qualcuno non ama il Signore sia anàtema»258. Coloro che amano
appassionatamente colui che li ha salvati lo amano così da detestare come corpi fetidi e putridi
coloro che non vogliono amarlo. Questo significa [96] il beato Davide quando dice: «Non odiai,
Signore, coloro che ti odiano e non mi consumai di fronte ai tuoi nemici? Li odiavo con odio
implacabile, divennero i miei nemici»259. E riguardo a quelli che lo amano dice: «Furono troppo
255 Gal 4, 26
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-
!
onorati da me i tuoi amici, o Dio, troppo prevalsero i tuoi comandi»260. Così gli uomini beati
impararono dal Dio dell’universo a voler bene a coloro che vogliono bene ai propri amici. Ed Egli
per primo disse ad Abramo: «Benedirò coloro che ti benedicono e coloro che ti maledicono
maledirò»261. Dice anche ad Israele: «Sarò nemico per i tuoi nemici e mi opporrò a coloro che si
oppongono a te»262. Perciò fu ammaestrato anche Davide a dire quelle cose e il beato Paolo a fare
anatema di coloro che non vogliono bene al Signore; per questo anche la sposa fa giurare alle figlie
di Gerusalemme di svegliare e risvegliare l’amore verso lo sposo, finché egli voglia. Mentre dice
queste cose alle fanciulle e le volge al medesimo amore, percepisce l’arrivo dello sposo e dice:
!
V. 8 [8a] La voce del mio nipote.
!
La sposa conosce la voce del nipote e prova orrore degli altri
!
Essendo abituata alle sue sacre parole, conosce la sua voce, come anche il Signore nei santi Vangeli
dice: «Le mie pecore ascoltano la mia voce»263. Non seguiranno un altro perché non conoscono la
voce degli altri264. La sposa dunque conosce la voce dello sposo, conosce la differenza tra l’adultero
e lo sposo. E prova orrore della voce degli adulteri, dei lupi e dei mercenari; desidera le parole dello
sposo e pastore. Perciò percependo la presenza di lui grida: «La voce del mio nipote» e non tollera
di rimanere seduta, ma si alza e aspetta con ansia, e scruta, e vedendolo grida:
!
[8bcd] Eccolo, viene saltando per i monti, balzando per le colline. V. 9 [9ab] Il mio
nipote è simile ad una gazzella e ad un cerbiatto sui monti di Baithèl.
!
Elenco delle imprese di Cristo
!
È opportuno cercare perché mai lo paragona ad una gazzella e ad un cerbiatto, e quali sono i monti
di Bethèl e quali sono i salti, e quali sono i balzi, quali le colline e i monti sui quali ciò avviene.
Dicono che la gazzella sia chiamata così per l’acutezza della propria vista, e a causa del vedere
acutamente abbia preso questo nome. Dicono inoltre che le cerve siano distruttive degli esseri
striscianti, come i serpenti, le vipere e altri simili, che li mangino come l’erba e non ne ricevano
nessun danno. Poiché dunque il Sovrano Cristo, secondo l’essere umano, è germoglio proveniente
dalla radice di Iesse, e si posò su di lui lo Spirito di Dio, spirito di sapienza e di intelligenza, spirito
di volontà e di forza, spirito di conoscenza e di pietà265, [97] e lo spirito del timor di Dio lo
riempirà, la sposa lo paragona ad una gazzella, a causa della vista acuta e della chiaroveggenza e
della preveggenza delle cose che accadranno. Di nuovo dice che è simile ad un cerbiatto perché
spezzò le teste dei draghi nell’acqua e schiacciò le teste del drago, e con una spada tolse di mezzo il
tortuoso serpente e parimenti anche il drago che stava nel mare266; e ha dato ai suoi discepoli la
facoltà di camminare su serpenti e scorpioni e su ogni potenza del nemico267; e, pur non avendo
262 Es 23, 22
266 Is 27, 1
- 41
-
!
commesso peccato268, si prese i peccati del mondo e li consumò come se fossero serpenti. Lo
paragona dunque al cerbiatto, cucciolo di cervo, poiché non solo “uomo” ma anche “Figlio
dell’uomo” è chiamato, e non solo “leone” ma anche “cucciolo di leone”. «Posandosi a terra, dice,
dormì come leone e come leoncino»269. È ovvio quindi che ella anche parli per enigmi, dicendo che
quando era ancora piccolo di età fisica, distrusse la potenza del diavolo come fossero serpenti270, e,
subito appena nato, costrinse alla adorazione i maghi, sacerdoti del diavolo271. Secondo la legge sia
la gazzella che la cerva fanno parte degli animali puri272, e la gazzella è stata indicata prima della
cerva, visto che, a causa dell’acutezza della vista, ha l’immagine della fede. «Chi infatti s’accosta a
Dio deve credere che egli esiste e che egli ricompensa coloro che lo cercano»273.
!
Altre interpretazioni dei cervi nella divina Scrittura
!
E anche la divina Scrittura nomina i cervi, e ora dice il beato Davide nel salmo 17: «Il Dio che mi
cinge di potenza, rese irreprensibile la mia strada; perfezionando i miei piedi come di cervo»274.
Divenne irreprensibile la mia strada, dice, poiché sono perfetti i miei piedi, come quelli di un cervo.
Infatti potei camminare su serpenti e scorpioni e su ogni potenza del nemico. Ora nel salmo 28 dice:
«La voce di Dio che crea i cervi e svela le foreste»275. Lì chiama cervi i santi apostoli, i cui piedi
sono graziosi, come di coloro che annunciano cose buone276, poiché calpestano i serpenti che fanno
morire e che tramano insidie contro le anime degli uomini; per mezzo di loro furono svelate le
foreste infruttuose, inganno degli idoli; per mezzo di loro nel tempio del Signore ognuno pronuncia
gloria. Tali cose il beato profeta Abacuc dice: «Il Signore mio Dio è la mia potenza, e condurrà i
miei piedi come di cervo e mi farà salire sulle alture del vincermi nel suo canto»277.
!
Sconfitta degli idoli
!
Ma è tempo di tornare all’argomento posto per primo. “Eccolo, viene saltando per i monti, balzando
per le colline. Il mio nipote è simile ad una gazzella e ad un cerbiatto sui monti di Baithèl”. Qui la
sposa ci spiega la sconfitta degli idoli inflitta dal suo sposo. [100] Chiama “monti e colline” i boschi
e i recinti sacri dei demoni, saltando e balzando per i quali con la sapienza dei discorsi e la potenza
dei miracoli prevalse e li distrusse interamente. Anche Simmaco, senza dubbio interpretando questo
passo più chiaramente, dice: «Ecco, Egli viene camminando per i monti, saltando per le colline». A
questo aggiunge di nuovo la sposa: “Eccolo, egli sta ritto dietro il nostro muro;
affacciandosi attraverso le finestre, sporgendosi attraverso le grate”278. Ci insegna che
270 Is 8, 3-4? (cfr. Ct 7, 5) o forse si riferisce all’episodio dei Magi indicato subito dopo
271 Cfr. Mt 2, 11
277 Cfr. Ab 3, 19
- 42
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!
egli, abbassando ogni montagna e ogni collina, secondo il profeta Isaia279, giunge a lei che una volta
era bassa e simile ad un burrone, e la riempe, e raddrizza i luoghi tortuosi e rende piane le strade
aspre280; e pone intorno a lei un muro come ad una città, affinché non sia conquistata dai nemici,
una difesa come ad una vigna, ad un giardino, ad un cortile, affinché non la saccheggino tutti coloro
che passano per la via, né la devasti il cinghiale della boscaglia, e l’animale selvatico la distrugga,
come era posta prima di venire dall’Egitto281. Significa dunque che è giunto a lei avendo annientato
i recinti sacri dei demoni, e i boschi e i templi di coloro che sono chiamati dei (questo infatti disse
per enigmi con “sui monti di Baithèl”: interpreta Baithèl come “casa di dio”; con lo stesso nome del
Dio dell’universo anche coloro che non sono dei vengono chiamati così dagli empi).
!
Le finestre e le grate dei sensi
!
Ma non è ancora arrivato al suo talamo; stando ritto fuori del muro si affaccia attraverso le finestre,
chiama “finestre” i sensi: infatti come attraverso le finestre dei sensi le cose buone e le cose cattive
fluiscono verso l’anima, e di nuovo fuoriescono da lì. Perciò anche il profeta Geremia dice: «La
morte sale attraverso le finestre»282. «Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha gia commesso
adulterio con lei nel suo cuore»283 e la morte arriva attraverso le finestre. E colui che ascolta una
voce inutile, accoglie la morte attraverso le finestre. Ma la sposa ora si rallegra della bellezza dello
sposo attraverso le finestre. E ci si deve chiedere come lo sposo si affacci attraverso le finestre, cioè
attraverso i nostri sensi. Quando meditando secondo la legge del Signore di giorno e di notte
godiamo delle divine parole e con muta meraviglia e conoscenza siamo tutti presi dagli scritti,
allora apriamo le nostre finestre e accogliamo il volto dello sposo; e quando mentre altri leggono le
divine parole o parlano di Dio, noi ascoltiamo attentamente, di nuovo lo sposo si affiaccia attraverso
le finestre e mostra a noi la propria bellezza. Non solo si affaccia attraverso le finestre ma anche si
sporge attraverso le grate; non abbandona infatti la propria sposa inseguita dai demoni insidiosi
[101] e circondata dalle grate, ma «egli la difende dal laccio dei cacciatori e dalla parola che
sconvolge»284. Anche nelle stesse tentazioni spunta dalle grate e guida la sua anima assediata e
raddrizza il suo pensiero.
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Esempi di salvataggi di Dio “attraverso le grate”
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Ed è possibile trovare questo nell’Antico e nel Nuovo Testamento, realizzato dal Dio dell’universo,
cioè che i pii trovano ogni conforto nel Dio dell’universo. Permise infatti che Sara fosse rapita dal
Faraone, si affacciò attraverso le grate e guidò l’anima del patriarca Abramo e, dopo aver abbattuto
le grate, gli restituì la preda sana e salva285. Fu catturata di nuovo da Abimelech e di nuovo si
affaccia attraverso le grate, e non solo restituì la preda ma anche beneficò il cacciatore286. Questo ha
fatto anche a Isacco: tali cose infatti ha sofferto riguardo a Rebecca, quali il padre ha sofferto
280 Cfr. Lc 3, 5
282 Ger 9, 21
283 Mt 5, 28
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!
riguardo a Sara287. Questo avvenne anche a Giacobbe: quando il suocero si adopera per catturarlo e
ha in animo di toglierlo di mezzo, fa capolino di nuovo dalle grate e, da un lato, rinfranca Giacobbe,
dall’altro spaventa Labano288. E quando di nuovo temette l’arrivo del fratello, gli appare e scaccia la
necessità e infonde coraggio289. E anche a Giuseppe catturato dai predoni e reso schiavo, seppure
fosse in una casa padronale, seppure fosse gettato in carcere, di nuovo affacciandosi dappertutto
attraverso le inferriate, continuava a guidare la sua anima. E, per tralasciare i santi che stanno nel
mezzo, tra i Patriarchi e gli altri, per evitare la lunghezza del discorso, così guidò l’anima di
Daniele, assai saggio, consegnato ai leoni e, affacciandosi attraverso le inferriate, gli donò di avere
coraggio290; così è venuto in aiuto ai tre beati giovani nella fornace terribile291; così ispirò di avere
coraggio ai santi apostoli gettati in prigione dai Giudei e di annunciare con coraggio la parola della
fede292; così dopo queste cose al beato Paolo rinchiuso a Gerusalemme e in attesa della morte,
suscitò coraggio dicendo: «Coraggio! Come hai testimoniato per me a Gerusalemme, così è
necessario che tu mi renda testimonianza anche a Roma»293. Questo anche la sposa parlando per
enigmi dice.
!
V. 10 Risponde il mio nipote e mi dice: «Alzati, vieni, o mia vicina, mia bella, mia
colomba».
!
La sposa come anima perfetta
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Lo sposo testimonia la bellezza della sposa; e non la chiama semplicemente “bella” ma “mia bella”;
facendo capire che a lui piace davvero la sua bellezza. La designa anche “colomba”, dicendo per
enigmi per mezzo di questo nome la grazia spirituale: [104] infatti in forma di colomba si recò
presso di lui lo Spirito Santo. Il beato Paolo è solito chiamare i perfetti “spirituali”, perciò scrivendo
ancora agli imperfetti dice: «Io, fratelli, sinora non ho potuto parlare a voi come a uomini spirituali,
ma come ad esseri carnali, come a neonati in Cristo»294, invece ai perfetti scrive: «Voi non siete
nella carne, ma nello spirito, se lo Spirito di Dio abita in voi»295. Similmente dunque lo sposo
chiama “colomba” l’anima perfezionata nella virtù: cioè spirituale e piena di Spirito santo. E infatti
il profeta Isaia, avendo previsto queste cose molto tempo prima e osservando i santi apostoli come
esseri alati che volavano intorno a tutto il mondo e osservando i loro discepoli e uditori, come degli
uccellini mentre li seguono, grida e dice: «Chi sono quelle che volano come nubi
e come colombe verso le loro colombaie?»296. Così anche qui lo sposo guidando l’anima della sua
Chiesa che si agita nelle tentazioni ed esortandola, e affacciandosi dalle finestre e sporgendosi dalle
grate, la sospinge a risorgere e a volare verso di lui. Le diede infatti le ali di quella colomba
riguardo alla quale il beato Davide disse: «Qualora voi dormiate tra le parti,
295 Rm 8, 9
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!
le ali della colomba coperte d’argento,
il suo dorso nel giallo dell’oro»297; chiamando “parti” i due Testamenti e “colomba” la grazia dello
Spirito, che ha “ali d’argento”, cioè la luminosità del discorso, “il dorso nel giallo dell’oro”, cioè la
vista dei misteri svelati. Qualora, dice, voi vi posiate nel mezzo dei due Testamenti, e prendiate
l’utilità da entrambi, troverete lì i doni variopinti dello Spirito. La sposa dunque, accettando
l’esortazione spirituale, e riposando nel mezzo delle parti, trovò le ali argentate, per mezzo delle
quali è esortata a volare verso lo sposo.
!
Vv. 11-13 [11-13a] Ecco, infatti, l’inverno se ne andò, la pioggia cessò, si allontanò. I
fiori furono visti nella terra; il tempo opportuno del taglio arrivò; la voce della tortora
fu ascoltata nella nostra terra. Il fico emise i suoi primi frutti, le viti fioriscono,
diedero fragranza.
!
Aggiungiamo a questo, se sembra opportuno, anche le parole evangeliche del Signore. Avendo
osservato una grande folla che scorreva dappertutto verso di lui, dice ai santi apostoli: «Il raccolto è
grande, ma gli operai sono pochi»298 e da un’altra parte: «Anche colui che miete riceve il compenso
e raccoglie frutto per la vita eterna»299. E di nuovo: «Uno è colui che semina, un altro colui che
miete, io vi ho mandato a mietere»300. Lì dunque capiamo quell’espressione “l’inverno se ne andò”.
[105] Chiama “inverno” il tempo prima della sua venuta, “primavera” quello dopo la sua venuta, il
culmine dell’estate è il tempo che stiamo aspettando. Perciò dice che “se ne andò l’inverno e la
pioggia”, le minacce della legge e le gravi vendette dei peccati. “Si allontanò”. L’ombra cede il
posto al corpo301 e il pedagogo302 al saggio maestro. “I fiori furono visti nella terra”. Bisogna
prestare attenzione alla esattezza delle parole, infatti non dice “i frutti” ma “i fiori”. La perfezione
dei beni è offerta ai giusti nel tempo che verrà. Parlano qui coloro che secondo il beato Paolo
dicono: «Ora vedo come in uno specchio, come in enigma; ma allora faccia a faccia»303. Ma anche
“il tempo opportuno del taglio è arrivato”, oppure, come dicono Simmaco e Aquila, “della
potatura”. Dopo l’arrivo del Cristo Sovrano tutti i popoli hanno incontrato proprio questa
purificazione. Perciò anche il Signore dice: «Io sono la vera vite e voi siete i tralci. Il Padre mio è il
vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota
perché porti più frutto»304. Per questo dice “il tempo del taglio è arrivato”, ma anche “la voce della
tortora fu ascoltata nella nostra terra”. Chiama di nuovo “voce della tortora” l’insegnamento dello
Spirito santissimo. Così infatti il beato Davide dice nel salmo detto “dei torchi”: dopo aver detto,
infatti, «Quanto sono amabili le tue tende,
Signore delle potenze!
Desidero e l’anima mia si abbandona verso le stanze del Signore.
Il mio cuore e la mia carne
298 Mt 9, 37
299 Gv 4, 36
300 Gv 4, 36
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esultano nel Dio vivente»305, mostra la causa della gioia e dice: «Anche il passero trovò la casa per
sé,
e la tortora il nido per sé,
dove porrà i suoi piccoli»306, e mostrandolo aggiunge: «I tuoi altari,
Signore delle potenze»307. E ci insegna che i piccoli sono coloro che hanno trovato la rigenerazione
attraverso il battesimo; il loro nido, il loro rifugio sono gli atri divini, nei quali sono allevati e nutriti
e mettono le piume e poco a poco giungono alla perfezione. La grazia dello Spirito santo è come la
loro madre che li genera, che è chiamata in modo figurato “tortora”, per la semplicità di vita e
l’amore per la solitudine e il porre nidi negli alberi ombrosi. “La voce della tortora fu ascoltata nella
nostra terra. Il fico emise i suoi primi frutti”, cioè il primo frutto della fede, per mezzo del quale
anche l’altro frutto, quello delle opere diventa duraturo, e non svanisce, ma cresce e giunge
dolcissimo a maturazione. “Le viti fioriscono, diedero fragranza”. Fiorirono, dice, quelli che in
senso figurato sono chiamati “viti” e spandono la fragranza. [108]
!
V.14 [13b-14ab] Sorgi dunque, vieni, mia vicina. Nel riparo della pietra, vicino alla
fortificazione esterna.
!
La sposa deve uscire dalla vita presente e andare verso le cose future
!
Dice che sta nel riparo della pietra, affinché non divenga di nuovo nera. Chiama “pietra” la retta
fede, la vera confessione. E al Signore che aveva chiesto ai discepoli: «Gli uomini chi dicono che
sia il Figlio dell’uomo?», il beato Pietro disse: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». A lui
rispose dicendo: «In verità, in verità ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa
e le porte degli Inferi non prevarranno su di essa»308. Vuole che ella sia anche fuori della vita
presente. Per questo il beato Paolo dice agli Ebrei scrivendo: «Usciamo dunque anche noi
dall’accampamento e andiamo verso di lui, portando il suo obbrobrio»309. Vuole che ella osservi
non le cose viste ma quelle non viste: «Le cose visibili sono d’un momento, quelle invisibili sono
eterne»310. Perciò dice che ella sta vicino alla fortificazione esterna, quasi dicendole: «Mortifica
dunque quella parte di te che appartiene alla terra»311. Prenditi a cuore la spiritualità nel corpo,
mostra assenza di passioni nelle passioni, esci dalla città presente e dalle sue mura. Qualora infatti
tu non sia presso la fortificazione esterna, non godrai della mia comunione, qualora tu non gridassi
con Paolo: «Pur vivendo nella carne, non combattiamo secondo la carne»312. “Nessuno infatti che
combatte, se vuole dare soddisfazione a colui che reclutò l’esercito, è invischiato negli affari della
vita”313. Se tu non combattessi come nello spazio tra due eserciti, tra le cose presenti e le cose future
(penso infatti che questo è mostrato con la “fortificazione esterna”), non ci potrebbe essere il nostro
313 2 Tm 2, 4
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matrimonio. Ti chiamo a venire lì, “mostrami il tuo viso”314; tu hai un pensiero puro, nulla dei
pensieri mondani ti oscura: “voglio ascoltare lì la tua voce”315; sarà pura anche essa lì, dopo
aver allontanato ogni intemperanza: “allora la tua voce sarà per me dolce e grazioso il tuo
aspetto”316; rispecchio infatti la mia bellezza in te e ascolto la tua voce abbellita dalle mie parole.
Lo sposo, dopo aver detto queste cose alla sposa, chiama i suoi servi dicendo:
!
V.15 Fermate per noi le piccole volpi, che rovinano i vigneti.
!
Contro le eresie
!
Alcuni dei commentatori unirono “piccole” alle “vigne”. Non c’è differenza sia che il pensiero sia
questo, sia l’altro. Chiama “volpi” coloro che possiedono un pensiero ingannevole e corrompono le
Chiese del Signore che hanno cominciato a fiorire da poco. Perciò dice: “E le nostre vigne sono
in fiore”317. Si riferisce per enigmi [109] attraverso le volpi agli eretici che combattono contro le
anime fedeli della vera chiesa e tentano di ingannare con astuzie e falsità coloro che non sono
ancora solidi nella fede. Costoro con la verosimiglianza dei discorsi e con i lacci e i nodi dei
sillogismi, ingannando i semplici, corrompono le vigne. Per questo esorta coloro che hanno preso il
carisma dell’insegnamento a catturarle e cacciarle con le prove della verità e a liberare le vigne in
fiore dalla loro rovina. La sposa, avendo ascoltato i discorsi, subito dice:
!
V. 16 [16a] Il mio nipote è per me e io per lui.
!
Contraccambio dell’amore da parte della sposa
!
Come infatti egli mi preferisce a tutti gli altri, così anche io lo considero prima di tutti e non
sopporto di essere unita ad un altro. Disprezzo coloro che portano addosso il nome e insieme la
malizia delle volpi. È assurdo infatti che io, amata e ritenuta degna di tali cose, non contraccambi
l’amante con i medesimi atteggiamenti secondo la mia possibilità. Somiglia a queste parole quello
che è stato scritto dal beato Paolo ai Corinzi: «Il corpo poi non è per l’impudicizia, ma per il
Signore, e il Signore è per il corpo»318, questa cosa di nuovo è stata detta da lui: «Ma quello che
poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto
ormai io reputo una perdita, al fine di guadagnare Cristo»319 e anche: «Sono stato crocifisso con
Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me»320, e anche: «Chi ci separerà dunque
dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la fame, la persecuzione, la nudità, il
pericolo, la spada?»321 e con quello che segue. C’è anche questo: «Quanto a me invece non ci sia
altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è
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!
stato crocifisso, come io per il mondo»322: è simile a queste cose ciò che è detto dalla sposa “Il mio
nipote è per me e io per lui.” Significa chi sia lui, e che cosa continua a fare, e dove, e quando, e
fino a quando.
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[16b] Colui che porta al pascolo fra i gigli. V. 17 [17ab] Fino a quando spiri la brezza
del giorno e si muovano le ombre.
!
Bisogna considerare che, per prima cosa, lo sposo chiamò se stesso “giglio”, parlando secondo
l’essere umano, quando dice “Io sono un fiore della pianura, un giglio delle valli”; in secondo luogo
chiama così anche la sposa: “Come un giglio fra gli àcanti, così la mia vicina tra le figlie”. Qui
invece chiamò la semplice erba “gigli”: “Colui che porta al pascolo tra i gigli”. Anche il cibo dato
agli armenti, infatti, è ricco di profumo. E questo si deve capire secondo i Settanta. Invece Simmaco
dice “coloro che portano al pascolo i fiori”, cosicché sono loro evidentemente che portano al
pascolo i fiori, [112] che chiamò “gigli”.
!
Gesù ci porta al pascolo tra l’inconsistenza delle gioie della vita presente
!
“Fino a quando spiri la brezza del giorno e si muovano le ombre”, chiama “ombre” le questioni
umane. Perciò anche il beato Davide dice: «Scompaio come l’ombra che declina»323 e di nuovo «I
miei giorni sono come ombra che declina»324. E il nobile Giobbe: «Un’ombra è la vita dell’uomo
sulla terra»325. Niente di stabile, di solido, di saldo, di duraturo, né di sostanziale, sono le gioie
apparenti della vita presente: non la ricchezza, né la fama, né il potere, né la salute dei corpi, né la
bellezza e nessun’altra di tali cose: sono cose fatte di ombra, che si dissolvono come le ombre. Lo
sposo dunque porta al pascolo noi, fino a che venga la fiamma del giorno e spiri la rugiada della
salvezza e, da un lato, si muovano le ombre, dall’altro appaiano le cose future che resistono e che
hanno una stabile e duratura esistenza. Poiché dunque le anime rese perfette e sposate a lui sono per
lo sposo come una sola, dicono rispondendogli unitariamente: “Ritorna, diventa simile, o mio
nipote, alla gazzella o al cerbiatto sui monti delle valli”326. Qui la sposa spinge lo sposo,
simile agli animali detti sopra, ad andare sui monti delle valli, volendo godere di ogni sua presenza.
“I monti delle valli” chiama qui coloro che sollevano il pensiero nel mezzo delle cose comuni e
misere, e che possiedono una mente superiore, e dice anche che costoro si rallegrano della presenza
dello sposo, cosa che lo sposo ha fatto, avendo ascoltato le preghiere della sposa. Abbandonata,
dunque, la sposa si dispera e soffre, e narra il dolore alle fanciulle, dicendo:
!
Capitolo III
!
Vv. 1-2 Sul mio letto nelle notti cercai colui che la mia anima amò. Lo cercai e non lo
trovai. Lo chiamai ma non mi ascoltò. Sorgerò e girerò nella città nelle piazze e nei
larghi e cercherò colui che la mia anima amò; lo cercai ma non lo trovai, lo chiamai
ma non mi ascoltò.
!
Dio permette le tribolazioni
!
322 Gal 6, 14 (traduzione CEI)
325 Cfr. Gb 8, 9
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[113] Il Dio dell’universo, mettendo spesso alla prova le anime dei pii, concede che cadano nelle
varie tentazioni e a volte dà la liberazione a chi lo chiede, altre volte ritarda il dono della liberazione
per procurare vantaggio per i suoi discepoli da tutte le cose. Tale è anche quello che è stato detto da
Davide: «Fino a quando, Signore, continuerai a dimenticarmi?
Fino a quando mi nasconderai il tuo volto?
Fino a quando nell’anima mia proverò affanni,
tristezza nel cuore ogni momento?
Fino a quando su di me trionferà il nemico?»327. Pur supplicando spesso, infatti, come è giusto, e
chiedendo la liberazione dalle sofferenze, non ottenne soddisfazione. Perciò essendo disperato per
aver avuto insuccesso ed essendo tormentato, ha utilizzato queste parole. E il beato Paolo dice:
«Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina
nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia. A
causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto:
“Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”»328. Paolo
invoca e non ottiene soddisfazione: infatti era più utile non accogliere la richiesta. Perciò imparando
ciò che prima non capiva, accetta con piacere di non ricevere ciò che aveva chiesto. E grida: «Mi
vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo»329. Ed
Elia, essendo molto spaventato per le minacce di Gezabel, fugge nel deserto e chiede un
soccorritore; e il saggio maestro e giudice dei fedeli, avendo lasciato che egli fosse per poco messo
alla prova dalla paura, si mostra a lui e, fingendo di non sapere, chiede la causa della fuga, non
deridendolo ma spiegandogli l’economia della fuga e insegnandogli che era perdonabile, visto che
porta con sé la natura umana ed è combattuto dalle sue passioni330. Ma è il momento di tornare
all’argomento precedente. Lì la sposa, essendo lo sposo separato anche se per poco, lo cerca nel
letto, non solo di giorno ma anche di notte, ma non trova lui che si sta riposando. E non solo lo
cerca ma anche lo chiama. Sorge, allora, e si mette in viaggio per la città, per le piazze, per i larghi:
il desiderio infatti la spingeva e la fiamma dell’amore non le permetteva di rimanere in casa;
incontra anche le guardie della città e chiede loro:
!
Vv. 3-4 Mi trovarono i sorveglianti, coloro che girano nella città. “Non vedeste colui
che la mia anima amò?” Per poco quando mi allontanai da loro, finché non trovai colui
che la mia anima amò. “Me ne impadronii e non lo lasciai andare finché non lo
condussi nella casa di mia madre, nella camera segreta di colei che mi concepì”331
!
E avendoli un poco attraversati, dice che lo ha trovato e non lo lasciò andare, [117] finché non lo
condusse nella casa di sua madre e nella camera di colei che l’ha concepita.
!
Interpretazione ecclesiologica
!
Chiama “città” la casa di Dio, che noi nominiamo “chiesa”, le “piazze” e i “larghi” sono le divine
Scritture, le “guardie della città” sono i santi profeti e i sacri apostoli che l’anima pia conosce
quando desidera la parola di Dio. Dopo di loro trova lo sposo, scortato dalle sentinelle e dai
mazzieri, e avendolo raggiunto lo trattiene, e non tollera di perderlo, finché non lo abbia condotto
nella casa di sua madre e nella camera segreta di colei che la concepì. Sappiamo che la madre dei
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pii è la Gerusalemme di lassù, riguardo alla quale il beato Paolo dice: «Invece la Gerusalemme di
lassù è libera che è la madre di tutti noi»332. Dunque la sposa, avendo raggiunto lo sposo, promette
che non lo lascerà più, finché giungano nella camera sponsale e nel letto nuziale preparato. Avendo
raccontato queste cose alle fanciulle, di nuovo le spinge ad un desiderio simile e dice:
!
V. 5 Vi feci giurare, figlie di Gerusalemme, nelle potenze e forze del campo, qualora
svegliate e destiate l’amore, finché non voglia.
!
Questo verso si chiarisce grazie alle cose dette al principio di questo libro: per due volte offre a loro
questo giuramento, volendo porre in loro l’amore caldo dello sposo. Avendo la sposa detto queste
cose e avendo ricevuto una bellezza indicibile dall’abbraccio dello sposo, stupite le potenze divine
dicono:
!
V. 6 Chi è questa che sale dal deserto, tronco di fumo, come avendo bruciato mirra e
incenso da tutte le nubi di polvere del profumiere?
!
L’Ascensione
!
Allo stesso modo di quando, vedendo lo sposo salire ai cieli, dopo la vittoria sul diavolo e la
liberazione dalla morte, si meravigliano e dicoro: «Chi è questo re della gloria»333 e imparano che
«È il Signore forte e potente,
il Signore potente in battaglia»334, e volendo sapere qualcosa di più preciso domandano di nuovo: «
Chi è questo re della gloria» e odono: «Il Signore degli eserciti è il re della gloria»335; così qui
meravigliandosi della bellezza della sposa dicono: “Chi è questa che sale dal deserto?”. Chiamano
“deserto” la natura degli uomini, per la precedente empietà. Perciò anche Isaia grida: «Rallegrati
deserto assetato; si rallegri il deserto e fiorisca come giglio»336. Come qui rimangono stupite dal
momento che è nata una tale bellezza dal deserto, così nella profezia di Isaia si meravigliano
vedendo lo sposo e dicono: «Chi è costui che viene da Edom,
il rossore dei suoi mantelli da Bosor?»337. [120] Edom significa la terra, Bosor la carne. E stupiti
gridano la sua bellezza: «Costui è grazioso nell’abito, violenza con forza»338. «Perché i tuoi
mantelli sono rossi come di un torchio pieno pigiato da un pigiatore?»339 E dicono: «Splende pur
essendo nel corpo». Hanno chiamato “abito” il corpo e ha una bellezza violenta, che colpisce tutti
quelli che la vedono.
!
La sposa è un tronco di fumo di un aroma che brucia
!
Così lì sono stupiti, non solo perché la sposa è bella, ma anche perché sta salendo dal deserto, cioè
si sta sollevando dalla profondità all’altezza e cammina dalle miserie alle stelle. «E somiglia, dice,
332 Gal 4, 26
336 Is 35, 1
337 Is 63, 1
339 Is 63, 2
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!
ad un tronco di fumo che brucia». La composizione è oscura: i Settanta, sottomettendosi alla lingua
degli Ebrei, non chiarirono il pensiero; Aquila e Simmaco ci chiarirono l’idea avendo detto: “A
somiglianza del fumo proveniente da un aroma che brucia”. Il fumo di un aroma che brucia spesso
imita, come in immagine, un tronco nel cielo. E similmente dicono che ella somiglia al fumo di un
aroma che brucia, lei che offre le sue membra, secondo il beato Paolo340, come sacrificio vivente,
santo, gradito a Dio, lei che presenta ininterrottamente il sacrificio della lode341, lei che fa morire le
proprie membra che appartengono alla terra ed è sepolta con Cristo, recando come dono se stessa a
Dio in olocausto. Insegnano anche a quale fumo di un aroma che brucia ella è simile: dicono infatti
“mirra e incenso da tutte le nubi di polvere del profumiere”. È chiaro che secondo la legge di Mosè
l’incenso è assegnato a Dio, la mirra invece è l’unguento dei cadaveri. Coloro che ammirano la
bellezza della sposa significano dunque attraverso questi nomi che ella è profumata e somigliante al
vapore di un aroma che brucia per il fatto che adora l’umanità e la divinità, e pur credendo nella
morte, ne accetta l’esistenza reale prima dei secoli. Fra tutte le nubi di polvere del profumiere
ammirano di lei la mirra e l’incenso. Infatti ha anche le altre virtù che raccoglie dalla divina
Scrittura come da un profumiere; ma speciali sono la mirra e l’incenso, cioè la teologia e
l’economia della salvezza. Ammirando così la bellezza della sposa, le raccontano la ricchezza dello
sposo e dicono:
!
Vv. 7-8 Ecco, la lettiga di Salomone: sessanta prodi le stanno intorno, dalle potenze
d’Israele. Tutti tenendo la spada, esperti nella guerra; ognuno porta la spada al fianco
dal timore nelle notti.
!
Perché lo sposo è chiamato “Salomone”?
!
Bisogna esaminare, anzitutto, perché mai chiamano lo sposo “Salomone”. “Salomone” significa
“pacifico”, ed è possibile trovare ciò nei Paralipomeni: dice infatti Dio al giovane David che voleva
[121] costruirgli una casa: «Ecco ti è nato un figlio: egli sarà uomo di pace; io gli concederò la pace
da parte di tutti i nemici che lo circondano poiché il suo nome è Salomone. Nei suoi giorni io
concederò pace e tranquillità a Israele. Egli costruirà una casa al mio nome; egli sarà figlio per me e
io sarò padre per lui. Stabilirò il trono del suo regno su Israele per sempre»342. È evidente che
Salomone è vissuto poco tempo e poi è morto, e che il suo trono ha avuto fine. Chiama Salomone
dunque il nostro Signore pacifico, riguardo al quale il beato Paolo dice: «Egli infatti è la nostra
pace,
colui che ha fatto dei due un popolo solo,
abbattendo il muro di separazione che era frammezzo»343. Perciò anche il beato David scrive il
salmo 71 “A Salomone” e racconta in esso le azioni di giustizia del nostro Salvatore: «Ai miseri del
suo popolo renderà giustizia,
salverà i figli dei poveri
e abbatterà l’oppressore.
Il suo regno durerà quanto il sole,
quanto la luna, per tutti i secoli dei secoli»344. Salomone non rimase quanto il sole, né quanto la
luna per tutti i secoli dei secoli. Ma queste cose promette a Cristo di Gesù, discendente da Salomone
secondo l’essere umano, il quale, pur esistendo prima dei secoli, «scenderà come pioggia sulla lana,
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!
come goccia che irrora la terra»345. Qui chiama “lana” la Vergine. Infatti come la piogga scende
sulla lana senza far rumore, così quel parto portò la salvezza a tutti gli uomini che non lo sapevano.
A queste parole aggiunge: «Nei suoi giorni fiorirà la giustizia
e abbonderà la pace,
finché non si spenga la luna.
E dominerà da mare a mare,
dal fiume sino ai confini della terra»346 e tutte le altre cose seguenti che contengono lo stesso
pensiero, infatti non è ora il momento di interpretare il salmo. Salomone non dominò sino ai confini
della terra, ma lo fece Gesù Cristo, che discese da Salomone secondo l’essere umano e che è
chiamato Salomone a causa della mitezza e mansuetudine, e perché ha realizzato la pace. Poiché
dunque abbiamo imparato chi sia Salomone, orsù, tocchiamo l’interpretazione. “Ecco, la lettiga di
Salomone”. Dobbiamo capire che le divine Scritture sono la lettiga dello sposo, e in quelle la sposa
sta come sdraiata con lo sposo e, ricevendo i semi dell’insegnamento, concepisce e rimane incinta e
soffre le doglie del parto e genera il frutto spirituale, cosicché grida insieme con il profeta: «Per la
paura di te, Signore, accogliemmo nel ventre e soffrimmo le doglie del parto e generammo:
producemmo il tuo spirito di salvezza sulla terra»347. Poi dice “sessanta prodi le stanno intorno,
dalle potenze d’Israele. Tutti tenendo la spada, esperti nella guerra; ognuno porta la spada [124] al
fianco dal timore nelle notti”. Penso che il numero di sessanta qui stia non per questa precisa
quantità, ma mostra con questo nome coloro che si sono distinti nell’Antico Testamento. Dicono
infatti che il dieci è il numero perfetto e che il sei è il numero che si riferisce a coloro che
obbediscono alla legge: «Per sei giorni farai i tuoi lavori»348. Dicono dunque che coloro che sono
perfetti nella legge stanno intorno alla lettiga, guidando il popolo da Israele, essendo potenti su tutti
e tenendo la spada, conoscendo l’arte militare e portando altre spade sul fianco. “Dal timore nelle
notti”. Simmaco lo ha reso più chiaramente avendo detto: “A causa dei timori notturni”. Dice infatti
che questi uomini forti camminano intorno alla sua lettiga proteggendo la sposa a causa delle
scorrerie dei nemici. Portano due spade, una nel fianco e una nella mano: il discorso confutativo e il
discorso nascosto e mistico, e quello confutativo sta in vista nella mano, quello mistico è nel segreto
del fodero.
!
Vv. 9-10 Una portantina fece per sé il re Salomone dagli alberi del Libano. Fece le sue
colonne come argento, e la spalliera d’oro; la sua salita è purpurea, dentro c’è un
pavimento a mosaico; amore dalle figlie di Gerusalemme.
!
Di nuovo qui dobbiamo comprendere la “portantina” come i santi apostoli, che esaltano il nome del
Signore trasportandolo di fronte ai popoli e ai re, e ai figli di Israele. E infatti riguardo al beato
Paolo Cristo dice ad Anania: «Va’, perché egli è per me uno strumento eletto per portare il mio
nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli di Israele»349. E lo stesso divino Paolo grida: «Se cercate una
prova che Cristo parla in me?»350. Il beato Abacuc li chiama anche cavalli: «Salirai infatti sui tuoi
cavalli e la cavalcata sarà la tua salvezza»351 e di nuovo: «Facesti salire i tuoi cavalli sul mare,
sconvolgendo molte acque». Chiama “mare” i popoli che un tempo furono sconvolti dall’annuncio
351 Ab 3, 8
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!
degli apostoli. Perciò anche coloro che non credettero loro dissero: «Quei tali che mettono il mondo
in agitazione sono anche qui e Giasone li ha ospitati»352. Quelli che Abacuc chiama “cavalli”
troviamo nel Cantico dei cantici definiti “portantina”. “Una portantina fece per sé il re Salomone
dagli alberi del Libano”. La divina Scrittura chiama spesso Gerusalemme e il popolo dei Giudei
“Libano” e ciò dimostrammo dagli scritti dei profeti nella prefazione di questo libro. Poiché dunque
i beati apostoli appartengono alla stirpe di quel popolo, [125] similmente dice che la portantina è
stata costruita con il legno del Libano; e fece le colonne come argento. Li troviamo chiamati anche
“colonne”; il beato Paolo scrivendo ai Galati dice: «Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne,
diedero a me e a Barnaba la loro destra in segno di comunione, perché noi andassimo verso i pagani
ed essi verso i circoncisi»353. Dicono anche che la spalliera è d’oro. Mostra l’annuncio evangelico,
nel quale il divino discorso si riposa. “La sua salita è purpurea”. A coloro che iniziano si addice
l’essere governati, a coloro che sono diventati perfetti si addice ornare la sposa. “Dentro c’è un
pavimento a mosaico”: le parole divine somigliano infatti alle perle e alle pietre preziose, secondo il
profeta che dice: «I giudizi del Signore sono veri, essenzialmente giusti, desiderabili più dell’oro e
di molte pietre preziose»354 e ancora: «Ecco, desiderai i tuoi comandi più dell’oro e del topazio»355,
e inoltre: «Il regno dei cieli, secondo la voce del Signore, è simile a un mercante che va in cerca di
perle preziose»356, e in un altro luogo dice: «Non gettate le vostre perle davanti ai porci»357. Avendo
dichiarato che tale è la portantina del re spingono le figlie di Gerusalemme ad uscire alla
conteplazione dello sposo e a vedere la corona posta su di lui, e dicono:
!
V. 11 Uscite e vedete Salomone, figlie di Sion, con la corona con cui sua madre lo
incoronò, nel giorno del suo sposalizio e nel giorno della gioia del suo cuore.
!
Per svolgere l’interpretazione brevemente e chiaramente, fuggendo la lunghezza, diciamo solo che
con queste parole intendono: “O figlie di Gerusalemme e di Sion”. Di nuovo la Sion celeste ce la
spiegò il beato Paolo dicendo: «Voi vi siete invece accostati al monte di Sion e alla città del Dio
vivente, alla Gerusalemme celeste e a miriadi di angeli in adunanza festosa e all’assemblea dei
primogeniti iscritti nei cieli»358. “Voi dunque, dicono, figlie di Sion e di Gerusalemme, uscite e
vedete”, infatti è impossibile che noi vediamo se non siamo fuori delle occupazioni terrene.
!
Il matrimonio è la passione e morte di Gesù
!
Osservate il re incoronato d’amore; amò così tanto il mondo che pur essendo nella forma di Dio non
considerò una rapina l’essere uguale a Dio, ma spogliò se stesso prendendo la forma di servo359;
amò così tanto il mondo che fu condotto al macello come pecora, e come agnello muto di fronte a
- 53
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!
colui che lo tosava360; e ci riscattò dalla maledizione della legge, diventando maledizione per noi361.
Perciò dice: «Nessuno può mostrare un amore più grande di questo, che qualcuno dia la vita per i
suoi amici»362. Così dunque sua madre lo incoronò. Secondo l’essere umano chiama “madre” la
Giudea, la quale, [128] pur non volendo, gli ha dato questa corona. Ella infatti lo incoronò di spine,
per disonorarlo, ma egli, attraverso le spine, accettò la corona dell’amore. Volentieri infatti accettò il
disonore e spontaneamente si offrì alla passione; perciò chiamò quel giorno “il giorno dello
sposalizio e giorno della gioia del suo cuore”. In quel giorno è avvenuta la comunione del
matrimonio. «Dopo la cena, dice, avendo preso il pane e avendo ringraziato con la preghiera, lo
spezzò e lo diede ai suoi discepoli dicendo: “Prendete e mangiatene tutti: questo è il mio corpo,
spezzato per voi in remissione dei peccati, fate questo in memoria di me”»363. Dunque coloro che
mangiano le membra dello sposo e bevono il suo sangue ottengono la comunione matrimoniale con
lui. Per questo i servitori dello sposo esortano le figlie di Sion e di Gerusalemme: Uscite e vedete la
sua corona d’amore, con la quale la Giudea sua madre lo ornò senza saperlo, e lo incoronò nel
giorno del suo sposalizio. Avendo quelli detto così queste cose, di nuovo lo sposo rivolgendosi alla
sposa dice:
!
Capitolo IV
!
V. 1 [1abc] Ecco, sei bella, vicina mia; ecco, sei bella; i tuoi occhi sono colombe, oltre al
tuo silenzio.
Sconvolto dalla sua bellezza, per due volte dice: “Ecco, sei bella”. Poi descrive la sua floridezza in
ogni parte del corpo: chiama anzitutto gli occhi “colombe”, celebrando la loro contemplazione
spirituale e lodandoli poiché non attendono le cose materiali a bocca aperta come gli sciocchi, ma
cercano le cose del cielo: «dove si trova Cristo – secondo Paolo – assiso alla destra di Dio».364
!
Lode del silenzio opportuno
!
Ammira anche il suo silenzio opportuno. Troviamo infatti che esso è lodato anche presso gli uomini
antichi, perciò anche nei Salmi ascoltiamo: «Porrò un freno alla mia bocca
mentre l’empio mi sta dinanzi»365 e salmodiando diciamo: «Poni, Signore, una custodia alla mia
bocca,
sorveglia la porta delle mie labbra»366. E troviamo il Signore, secondo la profezia di Isaia, che non
apre la bocca nel maltrattamento367 e, secondo la storia dei Vangeli, interrogato da Pilato, non
risponde niente. Lo sposo, dunque, loda l’opportuno silenzio della sposa, poiché anche lui lo ha
mantenuto nel momento opportuno. Loda anche i suoi capelli, ammira anche i suoi denti e dice:
!
362 Gv 15, 13
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-
!
[1de] La tua capigliatura come greggi di capre, che furono svelate da Galaàd. V. 2 I tuoi
denti come greggi di pecore tosate, che risalirono dal bagno, che tutte generano
gemelli e non ce n’è fra esse senza figli.
!
La sposa è perfetta anche nelle parti vili del corpo
!
Non si deve interpretare [129] “capelli” come capelli, né “denti” come denti, ma come ciò che è
superfluo e corporale della sposa: infatti i capelli mancano di vita e non hanno sensi. Mostra cioè
che Nelle cose in cui è inevitabile mescolarsi con gli affari umani, anche in quelle hai la lode e
l’ornamento, e somigli ad un gregge di capre, che pascola sul monte Galaàd ed è diventato insigne a
causa dell’altezza del monte. Riguardo a questo monte il profeta Geremia dice: «Non v’è forse
balsamo in Galaàd?
Non c’è più nessun medico?»368. Si deve esaminare se mai il gregge di capre non siano coloro che
passano dal peccato alla conversione e per questo pascolano sul monte Galaàd, affinché trovino la
medicina e i farmaci che guariscono; qui il discorso parla per enigmi e mostra che perfino le parti
vili della sposa e le sue membra infime, come quelle prive di vita e senza sensi, sono paragonate
alle perfezioni del gregge. I tuoi denti sono così puri, e rifuggono da ogni espressione sgradevole,
da ogni trivialità, sciocchezza, menzogna e parola turpe, che sono simili ai greggi di pecore tosate i
quali, deposta ogni cosa superflua, risalirono dal bagno. Penso che lo sposo mostri che i greggi di
pecore tosate siano coloro che si sono tagliati il peccato per mezzo del battesimo, purificati, secondo
il beato Paolo «per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola»369. Dice infatti che
rimanesti con i denti così puri e così privi della sporcizia di discorsi bassi che tu somigli a coloro
che recentemente sono stati reputati degni del battesimo salvifico. “Tutte generano gemelli e non ce
n’è fra esse senza figli”; infatti non ti paragono a coloro che ritornano alla malvagità dopo il
battesimo salvifico ma a coloro che custodiscono il dono che è stato donato e generano una virtù
doppia, quella della contemplazione e quella della azione. Così, lodando queste parti del corpo della
sposa, prosegue verso le altre e dice:
!
V. 3 Come una cordicella scarlatta le tue labbra, e la tua conversazione è graziosa.
Attraverso la cordicella scarlatta le riporta alla memoria la prostituta Raab nell’Antico Testamento,
che compì il senso tipologico di lei. E infatti ella, avendo accolto gli osservatori inviati da Giosuè
figlio di Nave, attraverso di loro è diventata degna della salvezza eterna; prese come segnale di
salvezza la cordicella scarlatta, essendole stato ordinato di esporre la cordicella attraverso la
finestra, affinché, dopo che fossero entrati gli Israeliti in città, il segnale apparso la proteggesse
dagli uccisori e portasse a lei la salvezza. Lo sposo contempla questo segnale nella bocca della
sposa, come posto nella finestra e dice: “Come una cordicella scarlatta le tue labbra, e la tua
conversazione è graziosa”. Prese il colore dal mio sangue e porta discorsi di verità, come se
catturassero e legassero gli ascoltatori con una corda: [132] la tua bocca deliziosa infatti li ammalia
e scalda il loro cuore e non permette che se ne vadano, ma li costringe a curarsi solo delle labbra.
Loda anche il pomo delle guance: “Come scorza di melagrana il pomo delle tue guance,
oltre il tuo silenzio”370. Significa che su di lei appare il rossore del pudore, attraverso il quale
anche tace al momento opportuno, tenendo nascosti i discorsi più mistici, come la scorza di
melagrana nasconde i granelli.
!
V. 4 Come torre di Davide il tuo collo, quella che è stata eretta a Thalpheiòth. Mille
grossi scudi sono appesi in lei, tutte lance dei potenti.
- 55
-
!
!
Con le tue lance sconfiggi i nemici
!
Aquila chiamò Thalpheiòth “baluardi”, Simmaco invece “elevazioni”. Come dunque, dice, la torre
eretta da Davide supera i baluardi sui quali è stata eretta, ed è elevata e visibile da tutte le parti, così
il tuo collo è elevato, proteso in aria, osservatore e indagatore delle cose di lassù. Infatti non attende
sulla terra a bocca aperta come gli sciocchi, né rimane piegato verso lo stomaco, imitando i porci,
ma sta alzato, proteso in aria, e reca mille grossi scudi e tutte le lance dei potenti. Il numero non è
stato stabilito su di una quantità precisa, ma sulla moltitudine; infatti il tuo collo, che porta la tua
testa e la bocca, ha tutte le spiegazioni degli altri, chiamate in senso figurato “lance”, con le quali
sconfiggi tutti i nemici. Ha anche molti grossi scudi, con cui ti proteggi intorno e spegni i dardi
infuocati del maligno371: tu porti addosso infatti l’armatura completa dello Spirito e, avendo tutte le
lance dei potenti, facilmente ferisci coloro che si oppongono a te, ora confutandoli attraverso i
profeti, ora attraverso gli apostoli, e mettendo a nudo la loro debolezza.
!
Vv. 5-6 I tuoi due seni, come due cerbiatti, gemelli di gazzella, che pascolano fra i gigli.
Fino a quando spiri il giorno e siano mosse le ombre.
!
L’insegnamento della Chiesa. L’accettazione della kenosis
!
Interpretiamo anche queste cose conformemente alle parole già dette: e sappiamo di nuovo che i
“seni” sono le sorgenti dell’insegnamento che si adattano convenientemente ad ogni età, e ad alcuni
offrono il latte, ad altri somministrano cibo solido372. Per questo li paragona ai cerbiatti di gazzella,
ammirando la sua acutezza di vista e la sua capacità contemplativa. Dice cerbiatti di gazzella,
poiché, secondo il beato Paolo: «Ora conosciamo dalle parti, ma allora conosceremo perfettamente,
come anche noi fummo conosciuti»373; e poiché ora conosciamo in maniera imperfetta, e in maniera
imperfetta profetiamo, cerbiatti di gazzella sono chiamati i seni dell’insegnamento: «Ma quando
verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà»374. E dice che essi “pascolano fra i
gigli”, [133] cioè colgono l’erba profumata: essa è l’insegnamento dello Spirito. Secondo Simmaco
dice: “condurre al pascolo i fiori”: i seni della sposa conducono e guidano al pascolo coloro che
sono ritenuti degni di diventare fiore dello Spirito, offrendo loro i pascoli dell’insegnamento, “fino a
quando spiri il giorno”, e finiranno le “vampe”, cioè la vita penosa; “e siano mosse le ombre”: gli
affari presenti, simili alle ombre, come è stato detto. Così, lodando le membra della sposa, dice:
“Andrò per me al monte della mirra e alla collina dell’incenso”375. Poiché, dice, sei così
incantevole, così graziosa, così rifulgi di bellezza, così fosti ferita dall’amore verso di me, accetto la
morte al tuo posto e me ne andrò al monte della mirra, e di nuovo risorgerò e ritornerò alla collina
dell’incenso. Già lo abbiamo detto: attraverso la mirra mostra la morte, attraverso l’incenso, invece,
la natura divina. Bisogna cercare, dunque, per quale motivo ha posto il monte sulla morte, ma la
collina sulla divinità. Perché grande e indicibile e irraggiungibile per il pensiero degli uomini è non
ritenere una rapina trovarsi nella forma di Dio, essere simile a Dio, ma, essendosi abbassato,
prendere la forma dello schiavo e diventato in somiglianza degli uomini e trovato nell’aspetto come
371 Cfr. Ef 6, 16
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-
!
uomo, essersi umiliato fino alla morte e alla morte di croce376. Invece, ritornare nella propria gloria,
ed essere glorificato della stessa gloria che aveva prima che fosse il mondo377, non era grande, né
penoso, ma fin troppo facile. Per questo dice “monte della mirra” ma “collina dell’incenso”,
indicando che quest’ultima è agevole per lui, e molto facile, quello invece è ripido a causa
dell’essere umano. Perciò avvicinandosi alla sua Passione dice: «Ora l’anima mia è stata scossa»378
e «Padre, se è possibile, si allontani da me questo calice»379, e di nuovo aggiunge: «E che devo
dire? Padre, salvami da quest’ora; ma per questo sono giunto a quest’ora»380. Mostrando proprio
questo anche qui dice: “Me ne andrò al monte della mirra e alla collina dell’incenso”. Entrambi
compio spontaneamente, non forzato né costretto da nessuno: «Io ho il potere di porre la mia anima
e ho il potere di riprenderla di nuovo. Nessuno infatti la strappa da me, io la pongo da me stesso,
affinché di nuovo la riprenda»381.
!
V. 7 Tutta bella tu sei, o mia vicina, tutta bella, e non c’è disonore in te.
!
La Chiesa è santa della santità dello sposo
!
Queste parole somigliano a quelle del beato Paolo, anche lui dice riguardo allo sposo: «Affinché
egli ponga davanti a se stesso la Chiesa illustre, senza macchia, ruga o qualcosa di simile, ma
affinché sia santa e senza disonore»382. Senza disonore [136] è diventata e bella colei che è vicina
allo sposo e che accolse i bagliori provenienti da lui e che è luminosa dalla luce. Accada che noi,
riflettendo in uno specchio a volto scoperto la gloria del Signore, assumiamo la medesima forma
dalla gloria alla gloria, come dallo Spirito del Signore383, insieme al quale, al Padre, con lo Spirito
Santo, sia la gloria, nei secoli dei secoli. Amen.
!
!
378 Gv 12, 27
379 Mt 26, 39
380 Gv 12, 27
381 Gv 10, 18
382 Ef 5, 27
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!
LIBRO III
!
Premessa: ispirazione divina per una esegesi corretta
!
Ci è necessaria la preghiera, e una preghiera premurosa e zelante, affinché i nostri occhi divengano
colombe che vedono spiritualmente, e che oltrepassano il velo384 dello scritto e che percepiscono
chiaramente i misteri nascosti. Non sarebbe altrimenti possibile capire il pensiero della divina
Scrittura, soprattutto quello del Cantico dei cantici, se colui che soffiò negli scrittori sacri non
illuminasse la nostra vista, inviando i bagliori della grazia e svelasse il pensiero nascosto. Ecco
dunque, chiamando come soccorso colui che svela i misteri, secondo il saggio Daniele385,
continuiamo l’interpretazione mantenendo l’ordine dello scritto. Al termine dello scritto prima di
questo, ascoltammo lo sposo che si meravigliava della bellezza della sposa, e che aggiungeva
l’encomio per ciascuna parte del corpo, e poi che la celebrava tutta, poiché senza disonore; il coro
delle anime perfette nella virtù non ha macchia, né ruga, né qualcosa di simile, secondo il beato
Paolo386. Qui la invoca dal Libano, chiamandola sposa, e dice:
!
V. 8 Qui dal Libano, o sposa, qui dal Libano verrai; e passerai dall’inizio della fede, dal
capo di Sanèr e dell’Ermòn, dalle tane dei leoni, dai monti dei leopardi.
!
Diverse provenienze dei salvati
!
Mi sembra che queste cose somiglino a quelle dette alla sposa nel salmo 44: «Ascolta, figlia,
guarda, porgi l’orecchio,
dimentica il tuo popolo e la casa di tuo padre; [137] al re piacerà la tua bellezza.
Egli è il tuo Signore»387. E infatti lì il discorso avanza anche per lei un invito e un consiglio, e la
esorta a dimenticare il suo popolo e la casa di suo padre, poiché lo sposo in nessun altro modo
desiderebbe la sua bellezza, se non facesse questo. Chiama “popolo e casa del padre” i costumi
antichi, riguardo ai quali il beato Paolo dice: «Anche noi un tempo eravamo insensati,
disobbedienti, traviati, schiavi di ogni sorta di passioni e di piaceri, e vivevamo nella malvagità e
nell’invidia, degni di odio e odiandoci a vicenda. Quando però si sono manifestati la bontà di Dio,
salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da
noi compiute, ma per sua misericordia mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento
nello Spirito Santo, effuso da lui su di noi abbondantemente»388 con quello che segue. In questi
versi dice che ella viene dal Libano e da Sanèr, significando attraverso il “Libano” la idolatria,
attraverso “Sanèr”, invece, che è interpretata “via delle lucerne”, la cittadinanza nella legge.
Lucerna infatti è la legge, che illumina di notte, ma il sole è Cristo, poiché brilla nel giorno. Perciò
anche Dio attraverso il profeta dice: «Per coloro che mi temono sorgerà il sole di giustizia e la
salvezza sarà sotto le sue ali»389. Aggiunge poi il monte Ermòn, mostrando anche attraverso di esso
la legge, dice infatti nei salmi il grande Davide: «È come rugiada dell’Ermon,
385 Cfr. Dn 2, 22
386 Cfr. Ef 5, 27
389 ? [Ml 4, 2]
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!
che scende sui monti di Sion»390, cioè gli insegnamenti della legge forniti ai monti di Sion. Si deve
capire i monti come coloro che sono perfetti nella virtù, poiché sono elevati e notevoli, e si ergono
per l’animo divino. Lo sposo dunque definisce “quelli che provengono dal Libano” come quelli che
hanno imparato a servire gli idoli, “quelli che provengono invece da Sanèr e dall’Ermòn”, come
quelli che accettano la rugiada della legge e sono illuminati dalle prescrizioni divine. A queste cose
aggiunge: “dalle tane dei leoni, dai monti dei leopardi”, intendendo le “tane dei leoni” come i più
arroganti e i più invasati fra gli Ebrei, i “leopardi” come i filosofi dei Greci, che con la varietà dei
discorsi e la tecnica dei sofismi, velando la falsità, la mostrano verosimile agli sciocchi. Così,
avendo chiamato la sposa e avendola condotta da monti diversi, e avendole procurato la salvezza
attraverso la fede, ammirando la bellezza che le è derivata da ciò, le dice:
!
V. 9 Tu ci hai rapito il cuore, sorella mia sposa, ci hai rapito il cuore con uno solo dei
tuoi occhi, in un solo ornamento del tuo collo.
!
Lo sposo ammira la carità e la contemplazione delle cose intellettuali
!
Quel “ci hai rapito il cuore”, Simmaco disse “ci hai resi arditi”. Ciò che intende è questo: I tuoi due
occhi sono meravigliosi, e spirituali, e detti giustamente colombe [140]; uno di loro mi riempe di
stupore, quello che osserva le cose divine, quello che ha imparato a parlare di Dio, quello che ha
visto i misteri nascosti. E ammiro tutti gli abbellimenti del tuo collo: attraverso questi intende per
enigmi la virtù pratica, poiché il collo, portando il giogo degli ordini divini, traccia e stende i solchi
della giustizia; lodo dunque anche gli altri abbellimenti della virtù che brillano nel tuo collo, ma
resto affascinato e ne ammiro soprattutto uno, e colpito dalla bellezza di una sola collanina e
dall’occhio che contempla le cose divine, fui ferito dalla passione per te. Chiediamoci dunque quale
sia mai quell’unico abbellimento posto nel collo superiore a tutti, e impariamolo dal beato Paolo
che dice: «Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più
grande è la carità»391, e di nuovo «Pieno compimento della legge è l’amore»392, e da un’altra parte:
«Tutta la legge e i profeti si concentrano in questo: Amerai il tuo Dio con tutto il tuo cuore e il
prossimo tuo come te stesso»393. Lo sposo dunque ammira questa collanina della sposa. Simmaco
infatti ha posto “collanina” invece di “ornamento”. Ammira di lei anche un solo occhio, pur non
deridendo l’altro: rivolse infatti ad entrambi la lode, ma sapendo che la contemplazione delle cose
spirituali è più ammirevole della conoscenza dei sensi. “Ci hai ferito il cuore”, cioè “ci svegliasti al
tuo amore e alla tua passione”, poiché hai un tale occhio e indossi una tale collanina.
!
V. 10 Come sono resi più belli i tuoi seni, sorella mia, sposa, come sono resi più belli i
tuoi seni dal vino? E l’odore dei tuoi mantelli supera tutte le spezie.
!
La sposa è rivestita di Cristo
!
Dal vino spirituale, e dalla bevanda mistica, i tuoi seni ricevettero maggiore eleganza; abbiamo già
detto che i seni sono le sorgenti dell’insegnamento. E l’odore dei tuoi mantelli è pieno di ogni
splendore e viene ad essere più profumato di ogni spezia; infatti ti sei rivestita di me, lo sposo;
parlando come testimone Isaia dice: «Esulti la mia anima nel Signore,
perché mi ha rivestito delle vesti di salvezza,
- 59
-
!
mi ha avvolto con il manto della gioia»394. Questi tuoi mantelli emettono un tale profumo, che la
fragranza che corre dappertutto dai tuoi mantelli vince la virtù della legge, nominata in modo
figurato “spezie”.
!
Sorella, sposa, vicina
!
La chiama non solo sposa, ma anche sorella, poiché il beato Paolo dice: «Perché egli sia il
primogenito tra molti fratelli»395. E lo stesso Signore risorto alle donne che si erano fermate al
sepolcro: «Andate ad annunziare ai miei fratelli che vadano in Galilea e là mi vedranno»396 [141] e
a Pietro: «Ecco, vi precedo in Galilea»397. Dunque è sua sorella, e sposa, e vicina: vicina secondo
quel «A te si stringe l’anima mia»398; sposa, perché ha ricevuto da lui i semi dell’insegnamento e
genera il frutto della fede; sorella perché ella porta addosso la sua medesima natura, secondo
l’essere umano. Insiste dunque riprendendo l’encomio di lei e dice:
!
V. 11 Le tue labbra, o sposa, versano un favo; miele e latte dalla tua lingua, e profumo
dai tuoi mantelli, come profumo d’incenso.
!
I maestri della Chiesa, nella metafora del miele, offrono il nutrimento adeguato
!
È necessario aggiungere a queste parole la spiegazione dell’apostolo, quella che dice: «Come infatti
il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo
solo, così anche Cristo. E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un
solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito. Ora il corpo
non risulta di un membro solo, ma di molte membra»399 e, poco dopo, «Se poi tutto fosse un
membro solo, dove sarebbe il corpo?»400. Dunque la Chiesa, pur composta da molte membra, forma
un corpo solo: pensiamo quindi che alcuni di lei sono gli occhi, altri le orecchie, altri le labbra; per
questo lo sposo le dice: “Le tue labbra, o sposa, versano un favo; miele e latte dalla tua lingua”.
Mostra qui i maestri della Chiesa, che offrono il retto insegnamento, e per così dire recano sulle
labbra il miele delle api, versando le gocce del miele; e hanno non solo il miele, ma anche il latte, e
offrono a ciascuno il nutrimento adeguato, ai fanciulli quello che si adatta a loro, ai perfetti quello
che conviene a loro. I favi del miele, recati sulle labbra dei maestri, sono le divine Scritture, che
hanno api che modellano la cera e che producono il miele: i santi profeti e apostoli; quelli infatti,
volando attorno ai prati del santissimo Spirito, e per così dire costruendo per noi i favi delle divine
Scritture e come riempiendoci del miele dell’insegnamento, ci procurarono il guadagno. E somiglia
lo scritto ad un favo e al miele il pensiero che vi è nascosto dentro; le labbra dei pii maestri
emettono le gocce di questo miele. Anche il latte è emesso dalla loro lingua, portato per coloro che
hanno bisogno di latte; si ferma di nuovo ammirando i mantelli della sposa e dice: “Profumo dai
tuoi mantelli, come profumo d’incenso”.
!
394 Is 61, 10
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-
!
Lo sposo diventa mantello per lei assumendo il corpo umano
!
Abbiamo detto sopra che lo stesso sposo è diventato mantello per lei401; ne è testimone il beato
Paolo dicendo: «Quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo»402. Lo sposo [144]
è sia Dio eterno sia uomo generato negli ultimi giorni dalla Santa Vergine e, rimanendo ciò che era
assunse la nostra natura e ricoprì la sposa che un tempo era stata denudata. Per questo le dice:
“Profumo dai tuoi vestiti, come profumo d’incenso”: ha indossato Cristo, che è Dio e uomo:
l’incenso è simbolo della teologia, poiché secondo l’antica legge era offerto a Dio.
!
V. 12 Giardino chiuso, sorella mia, sposa, giardino chiuso, fonte sigillata.
!
Giardino chiuso e fonte sigillata
!
La chiama “giardino”, perché non genera un solo frutto di religiosità e di virtù, ma numerosi e
diversi; e poi “chiuso” perché recintato e inattaccabile: «Le porte degli inferi non prevarranno
contro di essa»403, non è infatti come quella che è stata portata via dall’Egitto: «Di cui ogni
viandante fa vendemmia, e la devasta il cinghiale del bosco
e se ne pasce l’animale selvatico»404, ma è recintata, fortificata, e somiglia ad un giardino chiuso,
che anzitutto ha molti e vari frutti, e in secondo luogo non ammette ladri, ma sfugge a coloro che
allungano le mani. Ed è fonte sigillata, infatti non porge a tutti questi zampilli ma ai degni; riguardo
a questa fonte anche nei Vangeli il Signore dice: «Chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai
più sete, anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita
eterna»405. Giustamente dunque la chiama fonte sigillata, poiché a disposizione non di tutti, ma dei
degni. Infatti i divini misteri non sono a disposizione dei non iniziati ma di coloro che sono stati
iniziati, né a coloro che, dopo l’iniziazione, vagano nelle iniquità, ma a coloro che vivono nella
perseveranza o sono purificati dalla conversione; non solo dice “giardino chiuso, e fonte sigillata”,
ma anche:
!
Vv. 13-15 I tuoi germogli sono un giardino di melagrane, con frutto di noci, cipressi con
nardi. Nardo e zafferano, canna e cannella con tutti gli alberi del Libano: mirra, aloè
con tutti i primi unguenti. Fonte dei giardini, pozzo di acqua fresca che scorre dal
Libano.
!
La melagrana: amore; vari ordini. Le altre spezie
!
Tutte queste cose, dice, mi inviasti e mi fornisti nel tempo opportuno del matrimonio; e per prima
cosa il giardino delle melagrane, che non era privo neppure della altre noci; penso che consideri in
senso figurato “melagrana” come l’amore, poiché sotto una sola buccia sono compresi innumerevoli
chicchi, e gli uni dagli altri sono ridotti in unità, e gli uni schiacciano gli altri, e non si rovinano, se
rimangono sani e non nasce putrefazione in mezzo. È possibile anche dalle separazioni centrali
trovare un’altra interpretazione. Infatti vediamo molti ordini in coloro che sono salvati: uno è
l’ordine delle vergini, un altro di chi vive in castità, un altro [145] di coloro che trascinano il giogo
del matrimonio, un altro di coloro che sono circondati dalla ricchezza e un altro ancora di coloro
401 Ct 4, 10
402 Gal 3, 27
- 61
-
!
che vivono nella povertà; un altro degli schiavi che amano la vera fede e un altro dei padroni che
governano secondo la legge. Dunque anche la melagrana ha per così dire delle fortificazioni, che
dividono i chicchi in alcune compagnie. Per questo paragona i germogli della sposa ad un giardino
di melagrane: per prima cosa, infatti, ammira di lei il frutto dell’amore e dice che fiorisce anche
degli altri generi della virtù, “con frutto di noci”; poi esamina dettagliatamente queste cose secondo
il genere. “Cipressi con nardi”. Il cipresso è un tipo di albero, dal quale si ottiene un olio caldo. E il
nardo invece è una spezia profumata, dal quale di nuovo nasce un olio dello stesso nome, e
anch’esso caldo, e utile per la guarigione dei corpi. Ma dice che il giardino ha anche lo zafferano:
abbiamo necessità infatti non solo di coloro che ci scaldano e accendono in noi l’amore per Dio, ma
anche di coloro che raffreddano i nostri desideri dissoluti; lo zafferano infatti è tra le sostanze che
raffreddano. “Canna e cannella”. Anche questi sono generi di spezie, ma pensate in senso figurato.
Per mezzo della canna, infatti, significa gli scritti religiosi: «La mia lingua è canna di scriba
veloce»406. Profumata è la canna speziata, e infatti la lingua dei maestri della vera religione è piena
di ogni fragranza. Alla canna è accostata la cannella, che secondo l’antica legge era offerta a Dio,
affinché imparassimo che le scritture che riguardano Dio sono lodevoli, profumate e simili agli
aromi detti prima. Ad essi aggiunge: “Con tutti gli alberi del Libano”. Dice, infatti, che ha anche la
virtù che vive nella legge, non quella secondo la lettera, ma quella secondo lo spirito: ci è stato
insegnato infatti che con “Libano” è significata spesso Gerusalemme. Ha anche “mirra, aloè con
tutti i primi unguenti”. Cioè la mortificazione delle passioni: infatti la mirra è propria dei cadaveri; e
l’amarezza delle tentazioni: infatti l’aloè è amara. E in generale ha tutti i primi unguenti: non i
secondi, né i terzi, ma i primi; infatti i perfetti tra i perfetti. Ha anche una “fonte, pozzo di acqua
fresca che scorre dal Libano”. Non solo ha l’insegnamento evangelico che scorre chiaramente, ma
anche il pozzo della legge, che è pozzo di acqua fresca, con zampilli nascosti, sibilanti, che
emettono rumore e che scorrono dal Libano; a Gerusalemme fiorisce la cittadinanza della legge, che
è chiamata in senso figurato Libano; anche questo pozzo passò alla sposa del Signore, la Chiesa; ed
è nascosto ma condotto con sibilo ed irriga il giardino della Chiesa. La sposa, avendo ascoltato le
lodi di lassù, rallegrata e [148] gioiosa che non solo egli ammirò la sua bellezza, ma anche lodò i
suoi abiti, dice:
!
V. 16 Destati, Borea, e vieni, Noto, soffia nel mio giardino, si effondano le sue spezie.
!
Capitolo V
!
V. 1 [4, 16de] Scenda il mio nipote nel suo giardino e mangi il frutto delle sue noci.
!
Venti e cibo
!
Nella divina Scrittura Borea è fra quelli che sono condannati, perciò anche Dio per mezzo del
profeta Geremia dice: «Da Borea saranno accesi i mali»407, e di nuovo: «Le cose che provengono da
Borea scaccerò da voi»408, e da un’altra parte: «Ecco, viene da Borea il male e una grande
rovina»409. Comanda dunque a Borea di sollevarsi e di recedere, affinché soffi il Noto e scorra
attraverso le spezie del giardino; affinché il nipote goda dei frutti di lei. È chiaro che il Noto soffia
da mezzogiorno, ed è chiamato “Noto” perché è umido e riempe nel soffiare i corpi di umidità; da
mezzogiorno si diffonde più luce, perciò anche Abacuc dice che il Signore verrà da mezzogiorno:
407 Ger 1, 14
409 Ger 4, 6
- 62
-
!
«Dio verrà da Thaimàn»410: questo è interpretato anche dalla voce degli Ebrei e dei Siri. Comanda
dunque che ci sia lo Spirito contrario, che soffi la grazia divina, affinché suo nipote raccolga i frutti
maturi delle spezie di lei, e nessuno sia rovinato dal vento o cada prima della stagione. “Venni nel
mio giardino, sorella mia, sposa. Colsi la mia mirra insieme con le mie spezie,
mangiai il mio pane insieme con il mio miele, bevvi il mio vino insieme con il mio
latte. Mangiate, vicini miei, bevete, inebriatevi, nipoti miei”411. Sono venuto, dice, nel mio
giardino, quello offerto da te a me e colsi per prima la mirra, cioè quella che io piantai in te; io per
primo infatti accettai la morte in favore tuo, poi così tu desiderasti di morire con me e di essere
sepolta con me. Fosti sepolta infatti con me per mezzo del battesimo nella morte e facesti morire le
tue membra terrene412. “Colsi allora la mia mirra insieme con le mie spezie”, e intende: Raccolsi e
presi l’altra virtù, che imparasti da me; “mangiai anche il mio pane insieme con il mio miele”, cibo
solido e dolce, quello trovato presso i perfetti. “Bevvi il mio vino”. E bene ha posto il pronome.
Egli infatti è la vera vite, dalla quale fu colto questo vino. [149] “Bevvi il vino insieme con il mio
latte”. Non rifiuta infatti né i fanciulli, anche se sono poppanti, né i lattanti, ma riceve anche il frutto
adatto da loro, che è buono, e chiama gli amici al banchetto e dice: “Mangiate, voi che siete miei
vicini, bevete, inebriatevi, nipoti miei”. Sono vicini a lui i perfetti e si vantano della parentela con
lui coloro che ne custodiscono incorruttibile l’immagine. E non solo li esorta a bere, ma anche ad
inebriarsi: è possibile infatti un’ebbrezza che produce saggezza e non stoltezza, che non scioglie le
membra, ma le fortifica. «Il suo calice è inebriante tanto quanto è ottimo»413. Altrove il beato David:
«Si sazieranno dell’abbondanza della tua casa
e li disseterai al torrente del tuo cibo»414. Dette prima così queste cose, la sposa dice:
!
V. 2 Io dormo e il mio cuore veglia.
!
Lode dell’attesa vigile dello sposo
!
Anche se sono costretta dalla natura a chiudere gli occhi e ad accogliere il sonno, sono sveglia con
il pensiero e non accetto il sonno della debolezza, aspettando il ritorno dello sposo. Perciò
percepisco i suoi colpi. “La voce del mio nipote, bussa alla porta”415. Aggiungiamo, se
sembra opportuno, a queste le cose dette nei divini Vangeli dal buon pastore: «Le pecore ascoltano
la mia voce»416, e di nuovo: «Un estraneo invece non lo seguiranno, perché non conoscono la voce
degli estranei»417. Beato dunque colui che è al pascolo e conosce la voce del pastore. Beato colui
che è condotto in matrimonio e sa distinguere la voce dell’adultero e dello sposo. Beato colui che
dice: «Non concederò sonno ai miei occhi
né riposo alle mie palpebre»418 ma è sveglio ed aspetta lo sposo secondo l’esortazione dello stesso
410 Ab 3, 3
411 [5, 1]
412 Cfr. Rm 6, 4
416 Gv 10, 27
417 Gv 10, 5
- 63
-
!
sposo: «Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà»419. È sveglia
dunque la sposa, anche se dorme il sonno corporeo, sta nell’intendimento della voce dello sposo e
ascolta i colpi della porta: quali sono dunque le porte dell’anima se non i sensi del corpo, attraverso
le quali la sposa accoglie lo sposo non solo mentre bussa, ma anche mentre la esorta ad aprirgli la
porta? “Aprimi, sorella mia, vicina mia, mia colomba, perfetta mia; perché la mia testa
fu piena di rugiada, i miei riccioli di gocce della notte”420. Con “notte” significa la
sollevazione dei Giudei avvenuta di notte contro lui; con “rugiada” e “gocce”, la morte di tre giorni,
[152] che i riccioli della testa, e non lui, subirono. Poiché, dice, accettai la morte in favore tuo e per
te sopportai questo, aprimi e ospitami: amo infatti la tua bellezza spirituale e la tua perfezione nella
virtù. Perciò ti chiamo anche sorella mia, e vicina mia, e colomba mia e perfetta mia. “Perfetta”
perché hai raggiunto la perfezione stabilita da me, io infatti dissi: «Siate voi dunque perfetti come è
perfetto il Padre vostro celeste»421, e di nuovo: «Se vuoi essere perfetto, vendi le tue sostanze, dàlle
ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; e prendendo la tua croce, seguimi»422. Ti chiamo mia
“colomba”, perché sei spirituale, e ti sei spogliata dell’uomo vecchio con le sofferenze e i
desideri423 e puoi vedere spiritualmente. Mia “vicina” perché cammini sulle mie orme e desideri
essermi accanto, io infatti dissi: «Avvicinatevi a me ed io mi avvicinerò a voi»424. Ti chiamo anche
“sorella” mia: non solo per la parentela della natura, che assunsi, ma anche per la vicinanza della
vera religione. La sposa, ascoltando le parole dette sopra, rispondendo dice:
!
V. 3 Mi tolsi la mia veste: come la indosserò? Mi lavai i miei piedi: come li sporcherò?
!
I danni dell’esitazione
!
Impariamo da qui quanto danno generi l’esitazione e quanta fatica aggiunga a coloro che la usano;
la sposa, usando degli indugi e non volendo aprire immediatamente la porta allo sposo, è costretta
dopo non solo a recarsi velocemente alla porta, ma anche a correre per la città e vagare per le piazze
e imbattersi in alcune guardie, dalle quali riceve perfino delle ferite, e a trovare a stento lo sposo
desiderato. Se avesse obbedito prontamente a colui che la chiamava, avrebbe evitato tutte queste
fatiche; ora invece dice: “Mi tolsi la mia veste: come la indosserò? Mi lavai i miei piedi: come li
sporcherò?”. E certamente lo sposo non le ordina questo: non vuole infatti che ella, spogliatasi della
veste dell’uomo vecchio425, di nuovo la indossi, né desidera che ella, lavatasi i piedi, usando le sue
sante mani, di nuovo li sporchi, ma che gli apra senza fatica e senza contaminazione la porta
dell’orecchio e dell’occhio, affinché o attraverso la conoscenza o attraverso l’ascolto lo sposo,
essendo giunto, inabiti nelle anime santificate. E poiché ella, usando quelle scuse, rimanda, lo sposo
la sveglia in altro modo, non più bussando solo da fuori, ma anche introducendo la mano per una
apertura: pensiamo che la mano è il senso del tatto e la sua energia divina, nella percezione della
quale egli ha posto la sposa, così da gridare:
!
vv. 4-7 Il mio diletto introdusse la sua mano nello spiraglio; e il mio ventre si turbò per
lui. Io sorsi per aprire al mio nipote; [153] le mie mani stillarono mirra, le mie dita
424 Cfr. Gc 4, 8
- 64
-
!
mirra piena sulle mani del chiavistello. Io aprii al mio nipote; il mio nipote se ne andò;
la mia anima uscì per parlare con lui. Lo cercai, ma non lo trovai; lo chiamai, ma non
mi ascoltò. Mi trovarono le guardie che girano per la città; mi percossero, mi ferirono,
mi tolsero la mia veste leggera da me le guardie delle mura.
!
Inseguimento
!
Poiché non volle aprire immediatamente a chi bussava, la tocca attraverso qualcuno dei sensi,
quello che chiamò “spiraglio”, introducendo la mano, cioè l’energia. Scalda e accende il suo amore;
questo indica quel “il mio ventre si turbò per lui”, che Teodozione ha detto “fu scaldato”. Ella si
alza, inebriata dal desiderio, corre verso la porta e dice: Le mie mani, poste sul chiavistello per
aprire, stillarono mirra e le mie dita stillarono mirra piena, cioè sono circondata da mortificazione
totale, fin nelle parti più piccole. Avendo aperto la porta vedo il mio nipote che corre via da me e
non vuole entrare. Io, che ormai sono appesa alla passione e sospesa alle sue sante parole, mi rivolsi
alla ricerca e non smettevo di gridare e di chiamare insistentemente; egli non mi ascoltò né si
degnava della risposta; quindi, girovagando, e cercando il mio desiderato, cado nelle mani di coloro
che abitano la città e la custodiscono; essi non solo mi maltrattarono e mi colpirono, ma anche mi
infersero delle ferite e mi sottrassero la mia veste leggera.
!
Persecuzioni
!
Penso che la sposa chiami “guardie delle mura” e “guardie della città” i capi del popolo, i
comandanti, i tiranni, quelli che un tempo combatterono la sposa di Dio, e che uccisero e ferirono i
martiri gloriosi della vittoria, che li hanno dati alla morte e spogliarono le loro anime e tolsero il
corpo dalle anime come fosse una veste leggera. Essi infatti, desiderando lo sposo e annunciandolo
dappertutto, nelle città, nei campi, nei confini, sopportarono tutte queste cose. Impariamo dunque
dalle cose dette ad aprire subito a colui che bussa, affinché non siamo costretti a girovagare
dappertutto e a cercare colui che è desiderato e che se n’è andato.
!
V. 8 Vi feci giurare, figlie di Gerusalemme, nelle potenze e forze del campo, qualora
troviate il mio nipote, annunciategli che sono malata d’amore.
!
Esortazione all’amore rivolta ai non perfetti
!
Lo sposo appare spesso anche a coloro che non sono perfetti e che sono bambini, soccorrendo alla
debolezza e esortandoli alla perfezione: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma coloro
che stanno male»426. Fa giurare [156] allora le fanciulle, se trovassero il suo nipote, di annunciargli
quanta passione ha per lui e che è stata ferita dal dardo scelto427 dell’amore. Le fanciulle non
conoscono il nome del nipote, infatti non sono ancora perfette e non conoscono la profondità dei
misteri. Perciò dicono:
!
V. 9 Che cos’è tuo nipote dal nipote, o bella tra le donne? Che cos’è tuo nipote dal
nipote, poiché ci facesti giurare così?
!
Le fanciulle chiedono chi sia il nipote
!
Spesso infatti, dice, ti ascoltammo pronunciare: “Il mio nipote, del mio nipote” e non conosciamo la
potenza delle cose dette da te. Poiché dunque c’è un giuramento di mezzo, non possiamo rimandare
426 Mc 2, 17
- 65
-
!
in silenzio le cose ordinate da te; insegnaci dunque, o bella tra le donne: tu sei la più splendida sia
delle fanciulle che delle concubine: che cosa vuole per te questo nome? Dappertutto infatti aggiungi
ciò, dicendo ora “del mio nipote”, ora “il mio nipote”; se apprendessimo da te chi sia costui e di
quali segni si circondi, ti obbediremmo e compiremmo il tuo comando. Dunque la sposa insegna a
coloro che sono ammaestrate da lei i segni di riconoscimento dello sposo e dice loro:
!
Vv. 10-16 Il mio nipote è bianco e rosso, scelto fra miriadi. La sua testa è dorata di
Ophàtz; i suoi riccioli sono datteri; neri come corvo. I suoi occhi come colombe su
abbondanza di acque, bagnate nel latte, stando su abbondanza di acque. Le sue
guance, come coppe di spezia, che generano unguenti profumati; le sue labbra sono
gigli, che stillano mirra piena. Le sue mani sono cesellate, d’oro, piene di Tarsis; il suo
ventre è una tavoletta d’avorio su pietra di zaffiro. Le sue gambe sono colonne di
marmo, posate su basi d’oro; il suo aspetto è come incenso scelto, come cedri. La sua
gola è dolcezza; egli è tutto una brama: questo è il mio nipote, questo è il mio vicino,
figlie di Gerusalemme.
!
Spiegazione dei segni particolari del nipote
!
La sposa insegna alle fanciulle che le chiedono i segni di riconoscimento del nipote e dice: “Il mio
nipote è bianco e rosso”. Per primo pone il “bianco”, per secondo il “rosso”: Dio infatti era da
sempre, divenne anche uomo non avendo perduto ciò che era, né essendosi trasformato in uomo, ma
avendo indossato la natura umana. È dunque bianco, in quanto Dio: che cosa infatti è più luminoso
della luce? È la luce vera, secondo la voce dei Vangeli: «Era infatti [157] la luce, quella vera, che
illumina ogni uomo che viene al mondo»428. Non solo è bianco ma anche rosso: non solo infatti è
Dio ma anche uomo; il rosso mostra l’essere terreno. Perciò anche in Isaia le forze divine chiedono,
vedendolo salire dalla terra al cielo e dicono: « Chi è costui che viene da Edòm,
il rossore dei suoi mantelli da Bosòr?
Costui è grazioso nell’abito, violenza con forza?»429 e ammirano anche la sua bellezza nel corpo,
chiamandolo “suo abito”. «Grazioso è in bellezza tra i figli degli uomini»430, in quanto uomo; la sua
bellezza divina infatti è incomparabile, perché irraggiungibile. Lo interrogano quindi e dicono:
«Perché i tuoi mantelli sono rossi come di un torchio pieno pigiato da un pigiatore?»431. E insegna a
loro, desiderose di imparare, la causa del rossore: «Ho pigiato nel tino da solo e nessuno del popolo
era con me»432. «Non un inviato né un angelo,
ma egli stesso ci ha salvato»433, secondo la profezia di Isaia. «Io stesso pigiai nel mio sdegno e li
schiacciai nella mia ira»434, i demoni nemici della natura umana e il loro esercito. «I miei abiti
furono bagnati dalla loro sottomissione»435: infatti nel vincere e nel disperdere il loro vigore prese
alcune gocce di sangue: qui mostra la morte di tre giorni. Bisogna osservare attentamente che non
dice “io fui bagnato” ma “i miei abiti furono bagnati dalla loro sottomissione”, cioè il mio corpo;
428 Gv 1, 9
431 Is 63, 2
433 Is 63, 9
434 Is 63, 6
435 Is 63, 3
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-
!
infatti la natura divina è priva di dolore, ma il corpo subì la passione, poiché da un lato il Dio Verbo
unito trascinò il corpo come uno straccio, ma dall’altro non tirò da lì anche la passione, poiché per
natura l’essere divino è superiore alla passione. Per questo la sposa dice: “Il mio nipote è bianco e
rosso, scelto fra miriadi”. La primizia infatti è più grande di ogni natura436: «Non commise peccato,
né fu trovato inganno nella sua bocca»437. Perciò la vittima senza disonore fu offerta in favore di
ogni stirpe; per questo anche attraverso il profeta Isaia il Dio dell’universo afferma dicendo: «Ecco
il mio servo che io scelsi,
il mio eletto di cui si compiace la mia anima.
Porrò il mio spirito su di lui;
egli porterà il diritto alle nazioni»438. Giustamente dunque la sposa dice: “Il mio nipote è bianco e
rosso, scelto fra miriadi”. Era appropriato che colui che ha preso i nostri peccati, che erano rossi
come la porpora e come lo scarlatto, divenisse rosso e così fosse chiamato: “La sua testa è dorata di
Ophàtz”; secondo Simmaco: “come pietra preziosa”; secondo la Quinta edizione: “insigne per
l’oro”. Chiama in senso figurato “testa” l’essere divino, quella che sopra è chiamata “bianco” [160],
perciò la paragona all’oro e alla pietra e alle altre materie preziose presso gli uomini: non trovò
infatti un altro nome più nobile. “I suoi riccioli sono datteri, neri come corvo”. Penso che qui
“riccioli” siano definite le grazie che colano dalla sua testa, e sono chiamate “nere” per un motivo,
“datteri” per un altro. I datteri infatti sono un frutto dei maschi di palma, che, uniti alle femmine,
sono pronti a generare quei frutti maturi. Poiché dunque coloro che hanno fede in lui, godendo dei
suoi carismi variopinti, producono come frutto la vera religione, giustamente paragona i riccioli ai
datteri: li chiama “neri” a causa del colore scuro e profondo, indicando l’irraggiungibile
dell’economia della incarnazione. “I suoi riccioli sono datteri, neri come il corvo”. Qui ha preso il
corvo soltanto a causa del colore. “I suoi occhi, come colombe su abbondanza di acque”. Di nuovo
qui per mezzo degli occhi ammira la sua vista, per questo dice che sono come colombe
sull’abbondanza delle acque e ricorda la colomba che è scesa su di lui al fiume Giordano439. E
nessuno si scandalizzi perché è detto “come colombe” e non “come colomba”: troviamo infatti che
nella divina Scrittura non solo è detto “spirito”, ma anche “spiriti”, non perché ci siano molti santi
Spiriti, infatti è soltanto uno lo Spirito Santo Paraclito, ma il beato Paolo chiamare solitamente i
suoi carismi “spiriti”: «Gli spiriti dei profeti sono sottomessi ai profeti»440. Poiché dunque Cristo
Sovrano aveva tutti i carismi dello Spirito, secondo l’essere umano, per questo la sposa dice: “I suoi
occhi, come colombe su abbondanza di acque”. Continuamente dunque i suoi occhi guardano allo
spettacolo del battesimo, aspettando i salvati e desiderando la salvezza di tutti. Ma anche “bagnate
nel latte, le colombe stando su abbondanza di acque”. Nutrono con il latte alcuni, che hanno
bisogno di questo cibo, rigenerano e rinnovano altri, che sono invecchiati nel peccato; “stando su
abbondanza di acque”, santificandole. E giustamente dice “su abbondanza di acque”; non accetta
coloro che si sono procacciati una fede non perfetta e non giungono con una fede pura: quale fu
Simone,441 che, da un lato fu battezzato, dall’altro fu visto indegno della grazia, poiché non ne era
pieno, ma ne mancava, e non ne aveva la perfezione. “Le sue guance, come coppe di spezia, che
generano unguenti profumati; le sue labbra sono gigli, che stillano mirra piena”. Di nuovo chiama
“guance” e “labbra” l’insegnamento: sia le labbra che le guance infatti sono organi della parola,
poiché, muovendosi loro, si realizza la voce articolata; le chiama “coppe di spezia” a causa del
438 Is 42, 1
- 67
-
!
profumo dell’insegnamento; dice anche [161] che generano unguenti profumati: prendendo da qui i
princìpi dell’insegnamento, i maestri della Chiesa diventano come profumieri dell’annuncio e
preparano l’unguento dell’utilità. Somigliano, dice poi, le labbra ai gigli: splendono infatti le parole
divine, non avendo niente di umano: i gigli non filano e non tessono, secondo l’insegnamento del
Signore, ma il Padre che è nei cieli li veste442. Poiché le parole divine sono spogliate di ogni divina
sapienza e hanno soltanto la bellezza divina, giustamente dice: “le sue labbra sono gigli, che stillano
mirra piena”, cioè insegnano la mortificazione nella vita presente. Infatti sono questi gli
insegnamenti del Signore: «Chi non lascia il padre, la madre, la moglie e i campi e le viti per causa
mia, non è degno di me»443, e «Chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me»444,
poi: «Se vuoi essere perfetto, vendi le tue sostanze, dàlle ai poveri e prendendo la tua croce,
seguimi»445; per questo le sue labbra versano mirra piena. “Le sue mani sono cesellate, d’oro, piene
di Tarsìs”. Chiama “mani” la virtù pratica che ha cercato con grande ordine, come cesellando e
raddrizzando ciascuna operazione. Perciò disse anche a Giovanni: «Lascia fare per ora, poiché
conviene che così adempiamo ogni giustizia»446. Le chiama “d’oro” perché sono preziose e rare.
Prese Tarsìs per l’eccellenza dell’oro, infatti da lì la divina Scrittura dice che proviene l’oro non
falsificato, fino ed eccellente447. “Il suo ventre è una tavoletta d’avorio su pietra di zaffiro”. La
profondità dei suoi misteri e l’intimità della conoscenza, dove sono tutti i tesori della sapienza e
della conoscenza, sono una tavoletta d’avorio per coloro che sono degni della rivelazione. E per
natura sono inconoscibili; perciò “su pietra di zaffiro”, cosa che mostra il profondo e il nascosto
delle cose divine. Ma tuttavia questo profondo, nascosto ed oscuro, diventa per i degni una tavoletta
d’avorio; perciò il beato Paolo grida: «Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì,
né mai entrarono in cuore di uomo,
queste ha preparato Dio per coloro che lo amano.
Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito»448 e di nuovo: «Il suo mistero nascosto dai
secoli e dalle generazioni, che non è stato manifestato alle precedenti generazioni come al presente
è stato rivelato ai suoi santi apostoli e profeti»449. Perciò dice che il suo ventre è una tavoletta
d’avorio su pietra di zaffiro; e, da un lato, disse che i riccioli sono chiari, pur essendo neri, dall’altro
per coloro che non hanno mai incontrato la divina rivelazione, le cose che sembrano essere [164]
manifeste, sono oscure, e le cose sensibili sono incomprensibili, invece per coloro che sono stati
dentro i divini misteri anche le cose oscure diventano chiare. Perciò anche il beato Davide dice: «Le
cose oscure e nascoste della tua sapienza mi mostrasti»450. Questo dunque dice la sposa: “il suo
ventre è una tavoletta d’avorio su pietra di zaffiro. Le sue gambe sono colonne di marmo, posate su
basi d’oro”. Mostrò attraverso le colonne di marmo ciò che di lui è fermo, saldo, stabile e duraturo;
e definì le sue basi “d’oro”, mostrando attraverso questo la preziosità delle azioni. “Il suo aspetto è
come incenso scelto, come cedri”. Di nuovo qui intepreta il doppio delle nature: chiama “incenso”
la natura divina perché l’incenso, secondo la legge, era offerto a Dio; chiama “cedro” la natura
449 Ef 3, 5
- 68
-
!
umana, poiché non subì la corruzione del peccato: fra gli alberi, infatti, il cedro è immarcescibile.
“La sua gola è dolcezza”. Che cosa infatti è più dolce delle parole divine? Perciò anche il grande
Davide: «Quanto sono dolci al mio palato le tue parole:
più del miele e del favo per la mia bocca»451 e «I tuoi giudizi sono veri,
giusti per se stessi, desiderabili più di molto oro e pietra preziosa,
più dolci del miele e di un favo»452. Perciò i servi dei sommi sacerdoti, che furono mandati a lui e
che rimasero affascinati e catturati dal desiderio della dolcezza delle parole, dicono a coloro che li
mandarono: «Mai un uomo ha parlato come parla quest’uomo»453 e altri gridarono: «Beato il ventre
che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte»454. “La sua gola è dolcezza” dunque, ma anche
“egli è tutto una brama”: non sapendo aggiungere altre lodi, lo chiama con un solo nome. Perché
mai, dice, narro la sua bellezza nelle singole parti del corpo? “Egli è tutto una brama”, e trascina
tutti alla passione, costringe all’amore, emana brama, non solo a coloro che lo vedono, ma anche a
coloro che lo ascoltano; dopo aver detto queste cose, dice alle fanciulle: “Questo è il mio nipote,
questo è il mio vicino, figlie di Gerusalemme”455. Poiché non lo conoscevate e mi chiedevate “Che
cos’è tuo nipote dal nipote?”, ecco vi dico che tale è il mio nipote e tale è il mio vicino; abbiate cura
dunque del giuramento e non trascuratelo, ma cercatelo e annunciategli il mio desiderio. Avendo
quelle imparato i segni particolari dello sposo, di nuovo chiedono e si informano, dove cammini e
dove sia andato lontano, e dicono:
!
V. 16 [6, 1]Dove andò il tuo nipote, o bella fra le donne? Dove rivolse lo sguardo il tuo
nipote, e noi lo cercheremo con te.
!
Se imparassimo il luogo della lontananza, non lo disprezzeremo, ma [165] prenderemo parte alla
tua fatica e cercheremo colui che desideri. Di nuovo risponde loro, dicendo:
!
Capitolo VI
!
V. 1 [2] Mio nipote scese nel suo giardino, nelle coppe di spezia, a guidare al pascolo
nei giardini e a raccogliere gigli.
!
La Chiesa è una ma sono anche tante
!
Bisogna esaminare perché mai prima parla di “un” giardino e poi di “molti”: “Mio nipote scese nel
suo giardino, nelle coppe di spezia, a guidare al pascolo nei giardini e a raccogliere gigli”. Ma
perché una sola è la Chiesa, secondo il beato Paolo: «Vi promisi a un unico sposo, per presentarvi
quale vergine casta a Cristo»456, e di nuovo: «E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha
amato la Chiesa»457. Ma sempre il beato Paolo dice che sono molte, facendo questo non secondo
una suddivisione spirituale ma geografica: «Paolo, apostolo non da parte di uomini, né per mezzo di
455 Ct 5, 16cd
- 69
-
!
uomo, alle Chiese della Galazia»458; e scrivendo ai Corinzi dice: «Le vostre donne tacciano nelle
Chiese»459. Per questo la sposa dice: “Mio nipote scese nel suo giardino, nelle coppe di spezia, a
guidare al pascolo nei giardini e a raccogliere gigli”. Pasce infatti tutte le Chiese e gioisce per le
coppe di aroma, e raccoglie coloro che imitarono la sua fragranza, divenuti gigli, e si unisce alla
sposa. A queste cose la sposa aggiunge:
!
V. 2 [3] Io sono per il mio nipote e il mio nipote è per me; colui che guida al pascolo tra
i gigli.
!
Lo sposo rinnova la sposa
!
Io mi sono attaccata a lui e dedicai me stessa a lui. Egli preferì me a tutto il mondo, e mi unì a se
stesso e mi rinnovò, quando ero vecchia, e mi arricchì, quando ero impoverita, e mi rivelò graziosa,
pur essendo spregevole, e mi curò, pur avendo ferite inveterate e putride, e mi riempì di profumo;
per questo dico: “Io sono per il mio nipote e il mio nipote è per me; colui che guida al pascolo tra i
gigli” o, secondo Simmaco, “colui che guida al pascolo i fiori”: sia che dica che guida al pascolo
coloro che sono diventati gigli, sia che guida al pascolo tra i gigli coloro che sono degni, non c’è
niente di più profumato delle divine Scritture. Avendo lo sposo ascoltato le parole della sposa e
avendo misericordia di lei che lo desidera, e di notte e di giorno lo sogna e discorre di lui e ammira
la sua bellezza, le appare dicendo:
!
V. 3 [4] Sei bella, vicina mia, come un compiacimento, sei graziosa come
Gerusalemme; sei uno sbigottimento, come ordinata.
!
Esaltazione della bellezza e dell’ordine della sposa
!
Le dà questo nome per il fatto avvenuto per mezzo di lei: «Il Signore si compiacque della sua terra,
e ricondusse la prigionia di Giacobbe, e perdonò le iniquità del suo popolo,
e nascose tutti i suoi peccati»460, [168] giustamente la chiama “compiacimento”. Come ella lo
chiamò sopra “brama”, ponendo il nome dalla propria passione (poiché, infatti, lo brama
ininterrottamente, lo chiama “brama”), così anche lui essendosi compiaciuto e volendo sposarla e
unirla a sé, la chiama “compiacimento”. Così, dice, sei bella, perché gradita e amata da me; non
solo sei bella, ma anche graziosa e non semplicemente graziosa, ma come Gerusalemme, non quella
di quaggiù, ma quella di lassù riguardo alla quale il beato Paolo dice: «La Gerusalemme di lassù è
libera, che è la madre di tutti noi»461. Somigli a quella, o mia vicina; hai imitato la condizione
angelica; già sulla terra ti eserciti nelle cose del cielo e, pur vivendo nella carne, non lotti secondo la
carne e secondo l’obiettivo insegui la ricompensa della chiamata lassù462, e cerchi le cose di lassù,
dove io sono posto alla destra di Dio. Perciò “sei graziosa, come Gerusalemme” e non
semplicemente graziosa, ma generi sbigottimento in coloro che ti vedono; coloro che osservano il
tuo ordinamento rimangono sconvolti; niente infatti presso di te è disordinato, niente indeterminato,
né confuso, ma tutte le cose sono ordinate e distinte; e conosci attentamente la successione delle
azioni, hai imparato ad onorare lo sposo sopra ogni altra cosa e dopo lo sposo coloro che sono vicini
a lui. Aggiunge a queste cose:
461 Gal 4, 26
- 70
-
!
!
V. 4 [5ab] Distogli da davanti a me i tuoi occhi, poiché essi mi eccitarono.
!
Non superare i limiti per non riceverne danno
!
Ciò che dice è questo: La bellezza dei tuoi occhi e la contemplazione del tuo sguardo e l’acutezza
del tuo pensiero mi spinsero alla passione per te; ma non fissarmi oltre la giusta misura affinché tu
non attiri da lì la rovina: io sono infatti irraggiungibile e incomprensibile e supero ogni
comprensione, non solo quella umana ma anche angelica; anche se tu volessi superare i limiti e ti
affannassi ad investigare al di là della tua potenza, non solo non troverai niente ma anche oscurerai
lo sguardo e lo renderai assai debole. Tale infatti è la natura della luce: come illumina lo sguardo,
così ne punisce con il danno l’insaziabilità. “Distogli da davanti a me i tuoi occhi”, non investigare
cose più difficili di te e non cercare cose più forti di te: le cose progettate per te, su queste rivolgi il
pensiero. Di nuovo aggiunge a queste cose le lodi precedenti e dice:
!
Vv. 5-6 [5cd-7] La tua capigliatura come greggi di capre, che apparirono da Galaàd. I
tuoi denti come greggi di pecore tosate, che risalirono dal bagno, che tutte generano
gemelli e non ce n’è fra esse senza figli. Come una cordicella scarlatta [169] le tue
labbra, e la tua conversazione è graziosa. Come scorza di melagrana i pomi delle tue
guance, oltre il tuo silenzio.
!
Conservare integra la bellezza
!
Poiché abbiamo interpretato queste cose sopra, pensiamo sia superfluo interpretarle due volte; se a
qualcuno è sfuggita l’interpretazione, è possibile comunque risalire indietro verso quelle cose e
trovare la chiarezza. In ogni caso non rivolse per due volte alla sposa gli stessi complimenti senza
motivo, né casualmente, ma ricordandole la propria bellezza ed esortandola a conservarla integra e
a non accettare nessun disonore. Considera, dice, quale eri e quale ti feci, e di quale floridezza ti
feci grazia, e quale bellezza ti donai: proteggila senza danno fino alla fine. Essendo sempre con te,
esaminerò le tue membra per vedere se non siano state rovinate in qualche modo. Lo sposo, mentre
esorta la sposa a mantenere la bellezza, dice queste cose anche a quelle:
!
Vv. 7-8 [8-9] Sessanta sono le regine, e ottanta le concubine, e le fanciulle delle quali
non c’è numero. Ma una sola è la mia colomba, la mia perfetta, una sola è per sua
madre, è scelta per colei che la generò; la videro le figlie e le regine la diranno beata, e
le concubine, e la loderanno.
!
Imparammo che esistono molti e diversi ordinamenti di uomini pii; e insegnando questo il Signore
disse: «Nella casa del Padre mio vi sono molti posti»463 e nella distribuzione dei talenti: «Non tutti
insieme presero cinque talenti, ma uno cinque, un altro due, un altro uno, secondo la propria
possibilità»464, e nella parabola del seme dice: «Un’altra parte cadde sulla terra buona e diede frutto,
dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta»465 e chiama tutta la terra “buona”, non solo quella che
produsse cento, ma anche quella che produsse sessanta e quella che produsse trenta. Il numero di
trenta è tra quelli che sono lodati, infatti ha tre decadi unite in una triade; il numero di sessanta ha
un apprezzamento doppio, infatti il trenta raddoppiato genera sessanta; il cento è il numero più
compiuto, sia perché, separato dalla mano sinistra, ha l’inizio della destra, sia perché è compiuto da
- 71
-
!
dieci decadi: coloro che sono esperti di queste cose lo chiamano “tetragono”. Ma tuttavia se anche il
cento è perfetto, anche il sessanta e il trenta sono tra i numeri che sono lodati: infatti il Signore le
chiamò tutte “buona terra”.
!
Prevalenza su tutto dell’amore per lo sposo
!
Capiamo dunque che le anime perfette in ogni filosofia e virtù sono la sposa, quelle che a causa del
solo amore per lo sposo accettano le fatiche della virtù e scelgono di fare e sopportare ogni cosa.
Quale era il beato Paolo dicendo: «Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né Principati né
Forze, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà
mai separarci dall’amore di Dio, [172] in Cristo Gesù, nostro Signore»466. Ci insegna per mezzo di
queste cose che non desidera Cristo a causa del Regno dei cieli, ma che preferisce essere privato del
regno e cadere nella Geenna insieme con l’amore di Cristo piuttosto che regnare, privato di
quell’amore:
!
Diversi gradi della fede: sposa, regine, concubine, fanciulle
!
le anime che sono prese dal solo amore dello sposo costituiscono l’ordine della sposa; ci sono poi
alcuni che, come mercenari, tollerano di faticare per la virtù in vista dei beni futuri: penso che
costoro, nel nostro caso, siano chiamati “regine”, poiché desiderano il regno e a causa di quello
riescono a sopportare le fatiche della vera religione. Ci sono poi altri non ancora degni della libertà,
che vogliono ancora essere schiavi e rispettano le leggi divine per la paura della Geenna: suppongo
che costoro siano definiti “concubine”, lo sposo si unisce anche con costoro, essendo tutto in
tutti467. Ci sono poi altri che vivono nella indifferenza e non sono catturati né dalla passione
d’amore per lo sposo, né sono spinti dal desiderio del regno, né sono sensibili alla paura della
Geenna, e amministrano molto negligentemente le proprie cose; da un lato hanno una fede inerte,
dall’altro custodiscono al sicuro i dogmi della vera religione, dall’altro ancora abbandonano ogni
insegnamento eretico e di natura straniera, vivendo però molto negligentemente e talvolta
prendendo cura di se stessi, talvolta di nuovo oscillando verso l’indifferenza, talvolta peccando,
talvolta versando le lacrime della conversione. E poiché costoro sono di più delle regine e delle
concubine, dice: “E le fanciulle, che sono senza numero», non solo, a causa della loro moltitudine,
non è possibile contarle, dice, ma anche per il loro non essere degne di numero. Dei degni anche i
capelli sono contati dal Padre468. In verità tuttavia lo sposo talvolta si unisce anche a loro, volendo
allontanarle dalla indifferenza e conducendole alla perfezione, e predisponendo per loro la salvezza
dappertutto.
!
Spiegazione di sessanta e ottanta
!
Investighiamo perché mai disse sessanta regine e ottanta concubine. Il numero sessanta ha sei
decadi: la decade significa la perfezione e il sei è il numero della creazione, infatti in sei giorni il
Dio dell’universo realizzò tutto il creato. Dunque chiamò “regine” le anime perfette nella virtù che
stanno in questo mondo e sono desiderose del regno; la sposa abita sopra questo universo ed è fuori
di esso e vola sopra di esso, ed è tutta dello sposo e lo sogna continuamente, esse invece abitando in
questo mondo incontrano la perfezione della virtù il più possibile, tendendo ad incontrare il regno.
Quelle che sono piene di paura del giudizio, giustamente sono chiamate ottanta. [173] Infatti la
divina Scrittura chiama il tempo opportuno del giudizio “ottava”. Il beato Davide infatti, narrando
466 Rm 8, 38-39
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-
!
nei Salmi le cose relative al giudizio, scrisse quello “Sull’ottava” che comincia così: «Signore, non
punirmi nel tuo sdegno,
non castigarmi nel tuo furore»469 e poco dopo: «Nessuno tra i morti ti ricorda.
Chi negli inferi canta le tue lodi?»470, insegnando che nel momento opportuno del giudizio nessuno
spazio di conversione sarà dato per coloro che hanno peccato e non si sono pentiti. Poiché dunque
seguirono le leggi divine per timore di queste cose e non per desiderio del regno, né per amore dello
sposo, giustamente sono dette essere ottanta: infatti il numero otto significa l’ottava, il numero dieci
la perfezione.
!
La sposa è superiore a tutte
!
Ma dice che la sposa è migliore di esse, sia delle sessanta che delle ottanta: “Ma una sola è la mia
colomba, la mia perfetta”, di nuovo chiamandola spirituale e una sola. Più importante delle sessanta
e delle ottanta, “una sola è per sua madre”: ha come madre la sacra fonte battesimale, la
Gerusalemme di lassù. “Scelta per colei che la generò”. Anche quelle furono generate da lei: ma la
onora più di tutte le altre e ha una figlia scelta, perciò “la videro le figlie e la diranno beata”, cioè le
fanciulle, non solo quelle ma anche le regine e le concubine la loderanno. È posta sopra di esse,
poichè non per il compenso, né per la paura del giudizio, ma per il desiderio dello sposo incontra la
somma filosofia. Accada che noi, aiutati dalla divina grazia, giungiamo prima alla perfezione della
sposa! Se fossimo inadeguati almeno stessimo tra le regine; se anche non riuscissimo fra loro,
almeno stessimo non lontano dalle concubine; se anche apparissimo indegni di esse, almeno
fossimo eletti tra le fanciulle e custodissimo intatta la confessione della vera religione e non fossimo
privati del tutto dalla comunione con lo sposo ma godessimo della sua floridezza per la sua grazia:
perché a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen.
!
!
- 73
-
!
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LIBRO IV
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Premessa: chiedere la chiarezza del testo e rivelare la profondità del testo
!
Credendo in ciò che è stato detto: «Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà
aperto; perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova, [176] e a chi bussa sarà aperto»471,
chiederemo nel momento presente la chiarezza delle parole restanti del Cantico dei cantici e
grideremo dicendo: «Aprimi gli occhi, perché io veda le meraviglie della tua legge»472; egli stesso
dà la parola a coloro che evangelizzano con molta forza473. Egli disse: «Apri la tua bocca e la
riempirò»474. Infatti spesso, a causa dell’utilità di molti, comunica la grazia anche a coloro che non
sono degni. Noi abbiamo fiducia dunque che darà anche a noi nel momento presente la rivelazione
della profondità dell’espressione, non a causa della dignità nostra, ma a causa dell’utilità di coloro
che si imbatteranno o ascolteranno: affrontiamo, dunque, coraggiosamente le parti restanti.
!
V. 9 [10] Chi è costei che spunta come l’aurora, bella come la luna, scelta come il sole,
sbigottimento come schierate?
!
Bellezza della sposa
!
Nelle parole precedenti lo sposo descrisse la bellezza della sposa e separatamente si complimentò di
ogni singola parte del corpo, poi di nuovo aggiunge un complimento comune, per scrivere un
encomio secondo dottrina, e fece un confronto, avendo paragonato la sposa sia alle fanciulle, che
alle concubine, che alle regine, e giudicandola di gran lunga migliore. Disse che la sposa ha
un’eleganza tale che non è invidiata neppure da coloro che le sono paragonate; riconoscendo infatti
la sconfitta, la chiamano beata e tre volte beata; quindi i servitori dello sposo, avendo appreso da lui
l’eleganza della sposa, lo splendore, l’incanto, e spinti dalla sua grande letizia ad osservarla più
attentamente (infatti era stata svelata la sua bellezza spirituale nascosta nel velamento del corpo),
gridano: “Chi è costei che spunta come l’aurora?”.
!
Luce della bellezza spirituale nascosta sotto il velamento del corpo
!
Soltanto in parte finora era vista la luce, nascosta da questo corpo mortale; e come l’aurora è il
limite fra la notte e il giorno e annuncia di quella la fine e di questo l’inizio, e significa l’arrivo del
giorno, così nella vita presente le anime perfette nella vera religione e in ogni saggezza, le quali la
divina Scrittura chiama Chiesa e sposa, emanano alcuni brevi bagliori dalla propria virtù. «Quando
poi» secondo il beato Paolo «questo corpo corruttibile si sarà vestito d’incorruttibilità e questo
corpo mortale d’immortalità»475, ogni loro luce sarà messa a nudo.
!
Bella come luna scelta
!
E i servitori dello sposo, prevedendo questo, non solo la paragonano all’aurora, ma anche la dicono
bella come la luna scelta, e come il sole che produce terrore in coloro che osano fissarlo; hanno
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-
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aggiunto “scelta”, non solo significando la differenza con le stelle, ma anche mostrando la
perfezione della stessa luna: cioè, come la luna piena nel plenilunio non è a forma di falce, né
dimezzata, né [177] calante, ma è perfettamente intera, e non ha niente di incompiuto e mostra tutto
il cerchio illuminato. Così dunque dice “è bella, come luna scelta”. Coloro che sono esperti di
queste cose dicono che la luna riceve la luce dai raggi del sole: riceve poca luce quando una piccola
parte di lei vede il sole; quando invece, postasi di fronte, contempla il sole tutto intero, come uno
specchio ricevendo l’impronta del disco tutto intero, è illuminata tutta e non lascia buia nessuna
parte del corpo. Così anche la Chiesa di Cristo, sistema combinato delle anime perfette nella virtù,
«e noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore» secondo il beato
Paolo «veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione
dello Spirito del Signore»476; e diventa tutta luminosa, per somigliare alla luna, e alla luna scelta,
cioè piena. Non solo somiglia alla luna, ma anche al sole, e al sole che produce terrore in coloro che
lo vedono. Non penso che ci sia questa espressione senza motivo. Niente è detto dallo Spirito divino
per caso. Ma, poiché la vita è notte, secondo il beato Paolo: «La notte è avanzata, il giorno è
vicino»477, necessariamente la Chiesa è come in certo senso una luna nella notte, che illumina i
viaggiatori e mostra la retta via. Ma è anche come l’aurora: poiché il tempo dopo la venuta del
Signore è in un certo senso come l’aurora, significa, cioè, che la quiete che verrà è in un certo senso
come l’arrivo del giorno. «Come l’aurora lo troveremo pronto»478. Quando giunga il grande e
luminoso giorno del Signore, secondo la voce del profeta479, riguardo al quale il beato Paolo dice
«Il giorno è vicino»480, allorà non splenderà come luna, ma come sole che incute terrore non solo
agli uomini senza fede, ma anche alle fanciulle, e alle concubine, e alle regine e anche alle potenze
che non hanno corpo materiale. Ne è testimone lo stesso Signore, dicendo: «Allora i giusti
splenderanno come il sole»481, e il beato Paolo dice: «Altro è lo splendore del sole, altro lo
splendore della luna e altro lo splendore delle stelle: ogni stella infatti differisce da un’altra nello
splendore»482. Spunta dunque la sposa di Cristo come aurora: nel momento presente la bellezza è
riconosciuta soltanto in parte. “Ed è bella come luna scelta”, piena della luce del Signore e illumina
il mondo con i raggi di quella luce; perciò anche il Signore nei sacri Vangeli dice ai suoi santi
discepoli: «Voi siete la luce del mondo»483 e indicando quale tipo di luce aggiunge: «Così risplenda
la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro
Padre che è nei cieli»484. Non solo la sposa è [180] come luna scelta, ma anche come sole brillerà
nella vita futura, colpendo tutti con gli splendori. Ammireranno non solo la luce ma anche l’ordine:
infatti non c’è niente di disordinato nella sposa del Signore, niente di indeterminato, né confuso.
Regola ciò che si deve fare come, in un certo senso, con il filo a piombo, usando sia il regolo che la
squadra mette in ordine la propria vita. Dopo le lodi dei servitori dello sposo, la sposa raccontando
dice questo di se stessa:
!
476 2 Cor 3, 18 (traduzione CEI)
478 Os 6, 3 [4]
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!
Vv. 10-11 [11-12] Nel giardino del nocciolo scesi, per vedere nelle generazioni del
torrente, vedere se fiorì la vite, se fiorirono le melagrane; lì ti darò i seni. La mia
anima non conobbe, mi posero i carri di Aminadàb.
!
Gli uomini pii diffondono il Vangelo anche agli altri
!
Il pensiero è fortemente ostacolato dall’oscurità delle parole: ma avendo chiamato come
soccorritrice la grazia divina, scaveremo nella profondità e estrarremo il tesoro. Insegna che il
complesso degli uomini pii, che la divina Scrittura chiama “sposa”, non si accontenta della salvezza
di se stessi, né pensa che sia sufficiente che incontrino solo loro il matrimonio atteso, ma spende
contemporaneamente ogni zelo, cosicché anche tutti gli altri uomini rimangano lontani dalla
sterilità, e appaiano fecondi e generino il frutto della virtù; insegna poi che nel fare queste cose, e
nel portare l’insegnamento anche agli altri uomini, si scontrarono con i carri di Aminadàb, o, come
interpretò Simmaco, “con i carri di colui che guida il popolo”, o, come interpretò Aquila, “con i
carri di colui che comanda spontaneamente il popolo”.
!
Gioie presenti transitorie: metafora del nocciolo e del torrente
!
Chiamano “giardino del nocciolo” la vita presente, la quale è aspra e sventurata e penosa, ma
conserva nascosto dentro se stessa il frutto della virtù. E infatti il frutto del nocciolo ha anzitutto il
guscio esterno amaro, inoltre ha il secondo guscio duro e resistente; invece conserva la parte
commestibile, come giacente e nascosta in una parte segreta, e non raggiungibile senza fatica. Così
è la vita presente, che ha dolori amari e sofferenze, ha fatiche e sudori, ma non sterili, né senza
risultati, visto che hanno il frutto nascosto. Perciò anche il beato Paolo dice: «La vostra vita è ormai
nascosta con Cristo in Dio! Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete
manifestati con lui nella gloria»485. “Nel giardino del nocciolo scesi”, cioè nella vita umana. E
perché scendesti, o sposa? “Per vedere nella prole del torrente”. Di nuovo chiamò “torrente” le cose
presenti; infatti il torrente non è eterno, ma, portato in inverno, d’estate finisce e si secca. Tali sono
quindi le gioie della vita: come in un certo senso un torrente, nel momento presente è portata la
gloria, e la ricchezza, e il regno, e il lusso, e gli altri fiori della vita: venendo la vita futura, invece, si
consumano e finiscono e [181] cessano, al modo di un torrente. “Scesi dunque, dice, nel giardino
del nocciolo, per vedere nella prole del torrente, e volendo imparare se fiorirono le melagrane”. La
vita, infatti, ha alcuni uomini chiamati in senso figurato “viti”, altri invece chiamati “melagrane” per
le diverse azioni della virtù. Alcuni infatti generano l’amore e amano la concordia, uniti insieme
nell’animo come i chicchi della melagrana; altri anche coltivano il vino degno dei torchi paterni,
avendo fatto in modo di applicarsi alla contemplazione. Chiama “discesa” infatti l’adattamento; e
infatti il beato Paolo divenne debole per i deboli, affinché guadagnasse i deboli; e senza legge per
quelli senza legge, pur non essendo di fronte a Dio senza legge, ma anzi essendo nella legge di
Cristo, affinché guadagnasse i senza legge486.
!
Ingratitudine dei non cristiani
!
“Scesi” dice “nel giardino del nocciolo”, prendendosi cura della prole del torrente e dei frutti della
vite e della melagrana. Non mi terrò lontano da te neppure lì; ma “ti porgerò i miei seni”, cioè, le
sorgenti dell’insegnamento. Tu fai proprie le cose avvenute a quelli, e dici: «Ogni volta che faceste
a uno solo dei piccoli tra questi minimi, lo faceste a me»487. A queste parole aggiunge: “La mia
487 Mt 25, 40
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-
!
anima non conobbe, mi posero i carri di Aminadàb”. Simmaco interpretò questo più chiaramente,
avendo detto: “La mia anima mi mise nello sconforto dai carri di colui che guida il popolo”.
Facendo queste cose, dice, sono nello sconforto, e nel turbamento, poiché io arrecai loro la
salvezza; essi invece mi attaccarono, ubbidendo al diavolo come ad un generale, e in qualità di carri
di lui e condotti da lui; infatti “Aminadàb” è interpretato “di colui che guida il popolo”, o “di colui
che comanda il popolo”. È possibile comprenderlo precisamente da Aquila e Simmaco e dalla
Quinta edizione: dice dunque la sposa, cioè il coro di coloro che sono stati resi perfetti nella virtù,
che, mentre noi ci prendiamo cura degli infedeli, facendo in modo che giunga da ogni luogo a loro
la salvezza, alcuni di loro, diventati come i carri del comandante di questo mondo, che si agita ora
nei figli dell’incredulità, secondo il beato Paolo488, mi attaccarono, rendendo mali invece di beni; ed
è possibile trovare questo chiaramente anche negli Atti degli Apostoli e nelle lettere del beato Paolo.
Annunciando infatti il discorso della vera religione, convinsero alcuni a credere, dagli infedeli
invece furono scacciati, furono oltraggiati, furono torturati, subirono migliaia di tipi di morte489; e
ne è testimone il beato Paolo che dice: «Molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie,
infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte. Cinque volte dai Giudei ho ricevuto
i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte
ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli,
[184] pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani,
pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli»490 e le
altre cose. Dette queste cose dalla sposa, i servitori dello sposo rispondono e le dicono:
!
V. 12 [7, 1ab] Volgiti, volgiti, Sulammita; volgiti, volgiti; e guarderemo in te.
!
Aquila interpretò più chiaramente queste cose, infatti dice: “Volgiti, volgiti tu che sei in pace”.
Come lo scritto chiama nostro Signore “Salomone”, cioè “il pacifico”, così anche la sua sposa dice
che è in pace, perché ha incontrato la pace che proviene da lui e ha respinto la guerra precedente.
Vedendola dunque i servitori dello sposo mentre è scacciata e combattuta da quei carri,
incoraggiandola dicono: “Volgiti, tu che sei in pace, volgiti, volgiti, e guarderemo in te”, cioè non
temere coloro che ti inseguono, ma aggràppati all’insegnamento; mostra l’annuncio
dell’insegnamento; non aver paura dei carri, non temere la guerra, tu che sei chiamata “sei in pace”.
Qualora perservererai nell’annuncio, guarderemo il tuo regno. Somigliano a queste le cose dette dal
Signore al beato Paolo: essendo quello sfinito e avendo sofferto molte prove, dice: «Mi è stata
messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada
in superbia. A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me»491.
Gli risponde dunque dicendo: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente
nella debolezza»492. E questo qui dicono i servitori dello sposo: “Volgiti, volgiti, Sulammita; volgiti,
volgiti; e guarderemo in te”. Ai quali lo sposo dice:
!
Capitolo VII
!
V. 1 [1cd] Che cosa guarderete nella Sulammita, che viene come cori di schiere?
!
488 Cfr. Ef 2, 2
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-
!
I santi sono schiere militari e cori
!
Che cosa aspettate di vedere, dice, in colei che è in pace? Non sperate di osservare dei beni vili e
parziali; ecco infatti, “viene come cori di schiere”. E sembra che siano due nomi contrari gli uni agli
altri: infatti non si accordano i cori alle schiere; i primi sono tipici di una festa pubblica, le seconde
dell’esercito. Una festa è contraria alla guerra. Ma questa sposa, che è stata formata da molti santi,
sia somiglia alle schiere a causa della sua virilità e del suo pensiero nobile e del suo armamento
militare; sia è un coro che porta in bocca la divina lode. E questo mostra il beato Davide dicendo:
«Grida di giubilo e di vittoria,
nelle tende dei giusti»493 e di nuovo: [185] «Ordinate il corteo con rami frondosi
fino ai lati dell’altare»494. Il beato Paolo indica le schiere dicendo: «Infatti le armi della nostra
battaglia non sono carnali, ma hanno da Dio la potenza di abbattere le fortezze, distruggendo i
ragionamenti e ogni baluardo che si leva contro la conoscenza di Dio, e rendendo ogni intelligenza
soggetta all’obbedienza al Cristo»495 e di nuovo: «Prendete perciò l’armatura di Dio, perché
possiate resistere nel giorno malvagio e restare in piedi dopo aver superato tutte le prove»496.
Rifornisce i soldati, come un comandante, delle armi e dice: «State dunque ben fermi, cinti i fianchi
con la verità, rivestiti con la corazza della giustizia, e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per
propagare il vangelo della pace. Tenete sempre in mano lo scudo della fede, con il quale potrete
spegnere tutti i dardi infuocati del maligno; prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello
Spirito, cioè la parola di Dio»497. Che i santi non somigliano solo alle schiere ma anche ai cori,
ascoltiamolo dal Signore che dice: «Il regno dei cieli è simile a dieci vergini che, prese le loro
lampade, uscirono incontro allo sposo»498. Giustamente, dunque, lo sposo dice: “Che cosa
osserverete nella Sulammita, che viene come cori di schiere?”. E non disse “le schiere dei cori” ma
“i cori delle schiere”. Infatti dalle schiere provengono i cori, e quando vincono nelle schiere gli
atleti della virtù ritornano cantando il peana, e danzando cantano l’inno della vittoria. Avendo detto
lo sposo queste cose ai servitori, volge alla sposa il discorso e dice: “Come furono resi belli i
tuoi passi nei sandali, figlia di Nadàb!”499 Aquila disse “di colui che comanda”, mentre
Simmaco “del capo”. Chi altri potrebbe essere questo comandante, o questo capo, se non lo Spirito
Santo consolatore? Il quale anche nel salmo 44 le dice: «Ascolta, figlia, guarda, porgi l’orecchio,
dimentica il tuo popolo e la casa di tuo padre;
al re piacerà la tua bellezza.
Egli è il tuo Signore: pròstrati a lui»500. Che lo Spirito Santo abbia il nome di guida, lo insegna il
beato Davide dicendo: «Rendimi la gioia di te che salvi e sostienimi con lo Spirito che sta a
capo»501. Lo sposo loda anzitutto i passi della sposa che sono dritti e percorrono una via regale, e
brillano bene nei sandali. Quali sandali, ce lo insegna il beato Paolo dicendo: «Avendo come
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-
!
calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace»502. Della bellezza di questi piedi [188]
anche il profeta Isaia, preveggendo, parlò: «Come sono belli i piedi di coloro che annunciano la
pace, che annunciano cose buone!»503. Lo sposo in questo scritto avendo utilizzato le stesse parole,
dice: “Come furono resi belli i tuoi passi, figlia di Nadàb!”. Affinché conduciamo l’interpretazione
non solo sulla spiegazione del nome ma anche sul nome stesso, indaghiamo chi sia Nadàb. Fu il
figlio di Aronne504, che, per aver portato fuoco straniero nella tenda di Dio, fu colpito dalla morte.
Troviamo dunque anche la sposa del Signore, dico la Chiesa, che porta nella tenda divina non il
fuoco della legge, ma quello nuovo. Prese infatti questo fuoco dallo stesso sposo. «Sono venuto a
portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse gia acceso!»505. Avendo portato questo fuoco
nuovo nella tenda divina per mezzo del Nuovo Testamento, grida e dice: «Le cose vecchie sono
passate, ecco ne sono nate di nuove». Giustamente dunque la chiama “figlia di Nadàb”, dal
momento che bruciò in olocausto l’offerta sacrificale degli uomini con il fuoco nuovo. Se anche
infatti differiscono per lo spirito dello scambio del fuoco, unico è l’avvenimento compiuto da quello
e da questa. Abbiamo detto queste cose nel momento presente, affinché non lasciassimo neppure il
nome senza interpretazione. Di nuovo dunque lo sposo passa in rassegna ciascuna delle membra del
corpo della sposa, e a ciascuno aggiunge la lode conveniente, e dice:
!
[2cd] Le proporzioni delle tue cosce sono simili alle collanine, opera di mani d’artista.
Vv. 2-5 [3-6] Il tuo ombelico è un vaso cesellato non privo di vino speziato; il tuo ventre
è un cumulo di grano, recintato da gigli. I tuoi due seni come due cerbiatti gemelli di
gazzella. Il tuo collo come una torre d’avorio; i tuoi occhi sono come i laghi in Essebòn,
nelle porte della figlia di molti. La tua narice come torre del Libano che controlla la
facciata di Damasco. Il tuo capo come il Carmelo su di te; e la treccia del tuo capo è
come la porpora, un re preso nelle corse lungo la costa.
!
Contemplazione e virtù pratica
!
Prima dunque lo sposo avendo cominciato dalle membra della sposa che stanno in alto la lodò:
adesso invece, prendendo inizio dai passi e dai sandali è risalito fino alla treccia del capo. E
ammira, dopo i sandali e i passi, non le cosce ma le proporzioni delle cosce e dice che somigliano
alle collanine prodotte da un artista. Infatti, come quelle, dice, hanno pietre conficcate nell’oro con
grande armonia, cosicché coloro che le osservano ammirano non solo il materiale dell’oro e le
pietre, ma anche l’arte dell’orafo; così ciascuna delle parti della virtù pratica è ornata da
proporzione e armonia. Chiamò la virtù pratica in senso figurato “le cosce”, poiché, compiendo un
cammino per mezzo di queste, [189] andiamo dove vogliamo. Lo sposo ammira dunque la sposa,
avendo cominciato dalla virtù pratica, e risale verso la contemplazione, mentre fece il contrario
all’inizio: infatti avendo cominciato dalla contemplazione, giunse all’azione. “I tuoi occhi” disse
“sono colombe”, significando con questo lo spirituale della vista dell’anima; qui ammira per prima
la virtù pratica, e molto giustamente. Dunque per prima cosa essendo illuminati, e aprendo gli occhi
iniziati dell’anima, e accogliendo la luce divina, siamo confermati nella fede; poi così camminiamo
verso la virtù pratica. Per questo lo sposo tessendo il primo encomio, cominciò dagli occhi, che
ricevettero per primi l’attenzione. Ora invece, poiché la bellezza della sposa divenne perfetta,
cominciando dal basso dalla virtù pratica, risale verso la contemplazione, encomiando l’eleganza
503 Is 52, 7
- 79
-
!
della sposa. E prima infatti loda i passi e i sandali, poi la proporzione delle cosce, cioè ciascuna
delle cose compiute; dopo le cosce l’ombelico.
!
Spiegazione del brano
!
“Il tuo ombelico è un vaso cesellato non privo di vino speziato”. Aggiungiamo, se sembra
opportuno, le cose dette sull’ombelico della Giudea dal Dio dell’universo per mezzo del profeta
Ezechiele. Mostrando la sua intemperanza e rendendo pubblica la sua molta empietà, come
esponemmo dettagliatamente nel primo discorso, dice al profeta: «Fa’ conoscere a Gerusalemme
tutte le sue iniquità. Dirai loro: Così dice il Signore Dio a Gerusalemme: La tua radice e la tua
origine sono nella terra di Canaan; tuo padre è Amorreo e tua madre Hittita. Alla tua nascita, quando
fosti partorita, non ti fu tagliato l’ombelico »506. A quella dunque dice: “Non ti fu tagliato
l’ombelico”; a questa invece: “Il tuo ombelico è un vaso cesellato non privo di vino speziato”. Colei
che fu generata dall’Egitto non tagliò il proprio ombelico, ma come per mezzo di una radice
trascinò dall’Egitto la miseria di un insegnamento empio. Questa invece non semplicemente tagliò
il proprio ombelico, ma fece un taglio così profondo da estrarre ogni radice di idolatria, da essere
paragonato ad un vaso cesellato, e da avere continuamente il vino speziato della gioia, e non farle
mai venire meno il gaudio generato dalla vera fede. Ma anche “Il tuo ventre è un cumulo di grano,
recintato da gigli”. Cioè l’intimità della sua anima è piena dei misteri nascosti, di cui è nota soltanto
la fragranza a coloro che sono ancora imperfetti e bambini. “È stato recintato da gigli” dice,
affinché per mezzo della recinzione intendessimo ciò che è stato nascosto, per mezzo dei gigli
invece la fragranza che emana da lì dappertutto. “I tuoi seni, che sono due, somigliano a due
cerbiatti gemelli di gazzella”. Le fonti del tuo insegnamento, sgorgando nuove onde, insegnano
l’acutezza di vista e la contemplazione spirituale; infatti [192] la gazzella è eponimo di acutezza di
vista, e il cerbiatto è indicativo del giovane. “Il tuo collo come una torre d’avorio”. Cessò di essere
nero e fu reso bianco accettando il mio giogo; ed è terribile per i nemici, come una torre, e
desiderabile per gli amici come una luce che risplende. “I tuoi occhi sono come i laghi in Essebòn,
nelle porte della figlia di molti”. Aquila, interpretando questo, invece di “Essebòn”, ha posto
“riflessione”. Lo sposo dunque insegna che gli organi della vista delle anime pie sono “laghi”, che
ricevono le onde divine e continuamente ne sono riempite, poiché da molte “porte”, cioè bocche
(chiamò “porte” infatti in senso figurato le bocche), ricevono i flussi d’acqua. Infatti ricevono le
onde dell’utilità dal grande Mosè, e da Giosuè di Nave, e dal profeta Samuele, e da Davide, profeta
e re, e da Isaia, e Geremia, e Daniele, e Ezechiele, e dai dodici profeti, e dai divini Vangeli, e dai
santi apostoli, e dai maestri che erano con quelli. Perciò dice lo sposo: “I tuoi occhi sono come i
laghi in Essebòn, nelle porte della figlia di molti”. Le contemplazioni della tua anima, e
l’abbondanza delle tue pie riflessioni somigliano a laghi che ricevono acque dappertutto, poiché
accolgono per mezzo di molte bocche le onde dell’insegnamento. “La tua narice è come torre del
Libano che controlla la facciata di Damasco”. La narice della Giudea, a causa della disobbedienza e
del malcontento, ricevette come orecchino (al modo di una sorta di morso, come un toro che spinge
con le corna) la minaccia della legge, poiché Israele si infuriò come giovenca furiosa507. Egli dice
che “la narice della sposa è come torre del Libano che controlla la facciata di Damasco”. Infatti è
elevata e protesa in aria, e prende parte alla fragranza di lassù, ed è legata all’unguento dello sposo,
e grida: «Dietro di te correremo verso l’odore dei tuoi unguenti»508. Per questo è stata rassomigliata
ad una torre posta sopra il Libano, che controlla la facciata di Damasco. Poiché infatti il diavolo
508 Ct 1, 3 [4]
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-
!
mascherato da angelo di luce, secondo il beato Paolo509, si camuffa in unguento spirituale,
necessariamente la narice della sposa si è svegliata, ed è vigile, e controlla la facciata di Damasco,
affinché, ingannata, non abbandoni il vero unguento, e non segua la menzogna e il raggiro; spesso la
divina Scrittura infatti pone “Damasco” per i popoli e l’empietà che governava a quel tempo; senza
dubbio anche il beato Isaia profetizzando le cose sulla nascita del Signore e avendo detto dalla
persona dello Spirito Santo, che «Mi unii alla profetessa», cioè alla Vergine, «la quale concepì e
partorì un figlio»510, aggiunse dicendo: [193] «Il Signore mi disse: Chiama il suo nome:
Velocemente prendi il bottino, rapidamente deprèda; poiché, prima che il bambino sappia dire
babbo e mamma, porterà la potenza di Damasco e le spoglie di Samaria davanti al re degli Assiri».
Mostra che, essendo ancora bambino, abbatterà colui che è chiamato in senso figurato il re degli
Assiri, cioè il diavolo; conquisterà la potenza di Damasco, cioè avendo abbattuto la potenza
dell’idolatria, diventerà egli stesso padrone di coloro che sono stati resi prigionieri dal diavolo.
“Porterà la potenza di Damasco e le spoglie di Samaria”, avendo liberato sia quelli provenienti dai
Giudei che quelli provenienti dalle genti, e avendoli tenuti lontani dall’inganno, e avendo abbattuto
il tiranno, lo porrà sotto di sé. Giustamente dunque dice alla sposa: “La tua narice come la torre del
Libano che controlla la facciata di Damasco”. Guardati attorno affinché il diavolo, avendo imitato le
cose divine, non ti inganni, schierando la menzogna innanzi alla verità. “Il tuo capo è come il
Carmelo”, dice, cioè, riempito di ogni bene. Questo infatti il Dio dell’universo, biasimando per
mezzo del profeta la insensibilità dei Giudei, dice: «Vi condussi nel Carmelo, per mangiare i suoi
frutti e i suoi beni»511. Somiglia, dunque, il tuo capo, dice, al Carmelo, che genera ogni tipo di beni
e produce ogni frutto per me, che sono il contadino. Prosegue “E la treccia del tuo capo è come la
porpora; un re preso nelle corse lungo la costa”. I tuoi capelli un tempo sciolti e per questo
somiglianti alle greggi di capre che furono nascoste in Galaàd, ora furono attorcigliati e non solo
attorcigliati, ma mostrarono un colore mirabile, e somigliano ad un re esaltato da un abito di
porpora e che corre dappertutto. Chiama l’insegnamento portato con armonia “intreccio di capelli
somigliante ad una veste regale di porpora”, e ornata del sangue di Cristo; un re cinto di veste di
porpora non brilla infatti così come il maestro della vera fede che tesse l’annuncio della conoscenza
di Dio, e arreca l’annuncio della verità ai suoi discepoli.
!
Vv. 6-7 [7-8] Quanto sei resa graziosa e quanto sei resa dolce, amore, nelle tue delizie!
La tua statura diventò simile ad una palma e i tuoi seni ai grappoli.
!
L’amore per lo sposo ti ha reso dolce
!
Divenisti graziosa pur non essendo prima graziosa; e pur essendo priva di ogni dolcezza,
improvvisamente sei apparsa dolce; e hai incontrato queste cose compiacendoti dell’amore; avendo
amato lo sposo che ti amò e avendo stimato una delizia l’amore verso di lui, non ti prendesti cura
contemporaneamente di tutte le cose; perciò “Quanto sei resa graziosa e quanto sei resa dolce,
amore, nelle tue delizie! La tua statura diventò simile ad una palma e i tuoi seni ai grappoli”. Non
solo infatti hai bellezza, ma anche un’altezza somigliante alla palma. “I tuoi seni somigliano ai
grappoli di essa”. Pur essendo elevata [196] e protesa in aria, e giunta alle orbite celesti, scendi in
soccorso ai deboli e porgi i tuoi seni e le mammelle del tuo insegnamento a coloro che hanno
bisogno di insegnamento: infatti la palma ha grappoli che scendono dall’alto. Questo anche per
Is 8, 3-4
511 Ger 2, 7
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!
mezzo del beato Davide dice lo Spirito Santo: «Il giusto fiorirà come palma»512. La sposa, avendo
ascoltato dunque le lodi e avendo messo le penne di molti encomi e essendo stata infiammata
dall’amore, dice:
!
Vv. 8-9 [9-10] Dissi: «Salirò sulla palma, mi impadronirò delle sue altezze, e saranno i
tuoi seni come grappoli di vite e l’odore del tuo naso come mele. E la tua gola, come
vino buono che scorre per il mio diletto verso la rettitudine; bastevole per le mie
labbra e denti».
!
Innesto dei semi dello sposo nella sposa come datteri
!
È possibile da qui apprendere accuratamente quanto la sposa desideri lo sposo e ambisca
all’ascensione, e si immagini l’altezza e, secondo il beato Paolo, non pensa di aver preso, ma
insegue affinché prenda; e dimentica le cose che sono indietro, e tende a quelle che sono davanti513.
Bisogna chiedersi in che modo lo sposo è sia una palma che una vite: e da un lato non ha frutto di
palma, dall’altro produce grappoli di vite. Ci guiderà al pensiero nascosto l’interpretazione di
Aquila: invece di “mi impadronirò delle sue altezze” ha posto “mi impadronirò dei suoi datteri”. I
datteri sono i frutti delle palme maschili che, essendo innestati alle palme femmine, rendono stabili
e maturi i frutti di quelle. Si affretta dunque la sposa a prendere dallo sposo i princìpi di semi
religiosi e dice: “Dissi: «Salirò sulla palma, mi impadronirò delle sue altezze»”, o, come scrive
Aquila, “dei suoi datteri”.
!
Il vino dell’insegnamento
!
“E saranno i tuoi seni come grappoli di vite”. Tu sei la vera vite, dalla quale il vino di salvezza
coltivato è spremuto nei torchi spirituali, dai quali è riempito quel calice tanto inebriante quanto
ottimo514. “E l’odore del tuo naso somiglia al profumo della mela”. E lo stesso ricettacolo del tuo
odorato, proprio quello emana un profumo somigliante alle mele. Sono sufficienti le cose dette da
noi riguardo alle mele all’inizio del libro. “La tua gola, come vino buono che scorre per il mio
diletto verso la rettitudine; bastevole per le mie labbra e denti”. L’insegnamento prodotto dalla tua
gola è migliore di ogni vino fragrante e di ogni gioia terrena, l’insegnamento che tu proclami,
nipote mio, volendo raddrizzare le anime che hanno creduto in te; esso è sufficiente per me e
bastevole, affinché alcune cose proclami e annunci utilizzando come mezzo le mie labbra, altre cose
sorvegli e custodisca, avendo posto intorno i denti [197] invece di un muro. A ciò si accordano
anche le cose dette dal beato Paolo: «Udii parole indicibili che non è lecito ad alcuno
pronunziare»515. Per questo anche la sposa dice: “bastevole per le mie labbra e i miei denti”,
affinché alcune cose proclami, altre custodisca. A queste cose aggiunge:
!
V. 10 [11] Io per il mio nipote e la sua premura è verso di me.
!
Lo sposo è tutto per la sposa
!
Io dedicai me stessa a lui e disprezzai ogni altra comunione straniera: greca, giudaica, eretica; ed
egli infatti mi antepose a tutti gli altri, e ha inclinazione verso di me; non avendo infatti prima dove
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!
porre la testa516, trovò ora dove porre la testa; e pur avendo molte concubine, e regine, e fanciulle,
antepose me a tutte; ma non tollero di godere da sola della sua santa comunione.
!
Vv. 11-13 [12-14] Vieni, nipote, e andiamo nel campo, passiamo la notte nei villaggi. Di
buon mattino andiamo alle vigne, vediamo se la vite fiorì, o fiorì il bocciolo, se
fiorirono le melagrane. Là ti darò i miei seni. Le mandragore emisero odore; sulle
nostre porte tutte noci nuove oltre alle vecchie, quante mi diede mia madre, nipote
mio, serbai per te.
!
Esortazione a prendersi cura delle anime semplici
!
La sposa esorta lo sposo a prendersi cura delle anime ancora vili e misere, che in senso figurato
chiama “campo e villaggi”, perché miseri e piccoli. Non dice infatti “andiamo in città” ma
“andiamo nel campo, passiamo la notte nei villaggi. Di buon mattino andiamo alle vigne, vediamo
se la vite fiorì, o fiorì il bocciolo”. Esaminiamo, dice, coloro che accolsero l’annuncio da poco
tempo: “se fiorì il bocciolo”. Vediamo anche questi migliori, che produssero non solo le foglie ma
anche lo stesso fiore, che lì chiamò “bocciolo”. “Se fiorirono le melagrane”; se è avvenuto in
qualcuno, dice, l’inizio dell’amore: occorre infatti che noi andiamo in giro ad osservare e prestiamo
ogni attenzione opportuna. Facendo queste cose ti onorerò: “là” dice “ti darò i miei seni”. Tu fai
proprie le cose avvenute a quelli, e dici: «Ogni volta che faceste a uno solo dei piccoli tra questi
minimi, lo faceste a me»517. “Le mandragore emisero odore”. Sa che le mandragore inducono
sonno, come dicono i medici. Poiché ci è stato ordinato di “mortificare quella parte di noi che
appartiene alla terra”518, non per affidare quelle stessa membra alla morte, ma per apparire come
cadaveri alle energie malvagie, giustamente lì ha posto la mandragora e dice: “Le mandragore
emisero odore”, invece di “gli uomini cominciarono a dormire ai peccati”; e come coloro che hanno
bevuto la mandragora non sono consapevoli dei movimenti del corpo, così coloro che bevono il
calice del pio insegnamento, si sforzano di calmare [200] le passioni. Non solo le mandragore
emisero odore, ma anche “sulle nostre porte tutte le noci”. Coloro che accolsero il nostro
insegnamento producono frutti di ogni tipo. “Io serbai per te, nipote mio, noci nuove oltre alle
vecche, quante mi diede mia madre”. E infatti gli ordini dell’Antico Testamento e i consigli del
Nuovo Testamento, che accolsi da mia madre, che è la grazia dello Spirito, questi per te serbai, e
conservai integro il deposito della fede. Somigliano a queste le parole scritte dal beato Paolo a
Timoteo: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora
mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno»519.
E di nuovo ciò che fu detto nel Vangelo dal Signore, cioè che «Per questo ogni scriba divenuto
discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e
cose antiche»520.
!
Capitolo VIII
!
Vv. 1-2 Chi potrebbe darti, nipote mio, mentre succhi i seni di mia madre? Avendoti
trovato fuori, ti bacerò; e non mi disprezzeranno. Ti prenderò, ti introdurrò nella casa
517 Mt 25, 40
518 Col 3, 5
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!
di mia madre e nella camera segreta di colei che mi concepì. Mi insegnerai; ti berrò
dal vino aromatico, e dal succo delle mie melagrane.
!
Lo sposo tollerò di succhiare i seni come esempio
!
Secondo l’essere umano anche lui ricevette tutta la grazia dello Spirito. «Il fanciullo cresceva e si
fortificava nello spirito e la grazia di Dio era sopra di lui»521. Dunque la sposa, stupita per la
indicibile filantropia, dice: anche tu succhiasti i seni di mia madre. Affinché conserviamo la
coerenza e l’armonia delle parole, riprendendo un po’ dall’inizio, conduciamo il pensiero nel punto
principale. Accolsi, dice, non solo le cose nuove, ma anche le vecchie, di mia madre, e queste serbai
per te522. Perciò, a causa della grande filantropia, avendo assunto anche tu la mia natura, tollerasti di
succhiare gli stessi seni che ho succhiato io, affinché mostrassi anche in questo la fratellanza.
Succhiasti, infatti, non per necessità ma per insegnarmi come ho il dovere di succhiare, e per mezzo
di quale tipo di succhiata ottenere la grazia. Per questo ti sei accostato al battesimo, non per ripulirti
della sozzura dei peccati: infatti non commettesti peccato, né si trovò inganno sulla tua bocca523; né
certamente per ricevere la grazia del santissimo Spirito: ne fosti pieno, infatti; ma mostrando a me
quali sono i doni del battesimo e in quale modo posso succhiare la grazia dello Spirito. Per questo
scende lo Spirito santo sotto forma di colomba, non per fornirti le cose che non avevi: fosti pieno
infatti delle sue grazie; ma per mostrarmi quale sia il dono del battesimo. Per questo stupita [201]
dico: “Chi potrebbe darti, nipote mio, mentre succhi i seni di mia madre?”. Spinta da questa tua
filantropia, “Avendoti trovato fuori, ti bacerò; e non mi disprezzeranno. Ti prenderò, ti introdurrò
nella casa di mia madre e nella camera segreta di colei che mi concepì. Mi insegnerai; ti berrò dal
vino aromatico, e dal succo delle mie melagrane”; inebriata dalla passione d’amore per te, non solo
nel talamo, e nella camera nuziale ma anche nella piazza e pubblicamente, avendoti trovato ti
abbraccerò e ti bacerò; non mi biasimeranno mentre faccio questo coloro che mi osservano,
conoscendo la fiamma dell’amore. Avendoti preso da là, “ti introdurrò nella casa di mia madre e
nella camera di colei che mi concepì”. Qual è la dimora del santo Spirito (egli infatti generò la
sposa), se non il tempio divino, quello che imita la Gerusalemme di lassù, entrando nel quale
conversano liberamente con lo sposo, avendo ottenuto la dignità della sposa? “E lì” dice “ti berrò
dal vino aromatico, e dal succo delle mie melagrane”; chiama “vino aromatico” l’insegnamento
preparato con la grazia divina che è come mescolato all’unguento, e profumato. Chiama “succo di
melagrane” l’utilità generata dai frutti della carità. La sposa, dopo aver detto queste cose allo sposo,
conversa con le fanciulle e dice:
!
V. 3 La sua sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccerà.
Sono sopra la minaccia della punizione e raccolgo le benedizioni della tua destra; per questo pone la
sua sinistra sotto il mio capo, mi abbraccia con la destra.
!
V. 4 Vi feci giurare, figlie di Gerusalemme, nelle potenze e forze del campo, qualora
svegliate e destiate l’amore, finché lo voglia.
!
Occorre che voi continuamente la infiammiate e la svegliate, affinché caldamente lo desideriate e,
come vuole lui, tendiate alla perfezione. Essendo state dette queste cose da lei, ammirando quello la
sua superiorità, stupite dicono:
522 Si riferisce a Ct 7, 13 (parla la sposa). La “madre” è la grazia dello Spirito, le “cose antiche e nuove” sono l’Antico e
il Nuovo Testamento.
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!
!
V. 5 [5ab] Chi è costei che sale dopo essere stata resa bianca, appoggiata sul suo
nipote?
!
La sposa è stata resa bianca
!
Non dicono “bianca”, ma “dopo essere stata resa bianca”: infatti è nera. La sposa d’altronde dice
allo sposo “mio bianco nipote” e non disse “dopo essere stato reso bianco”: infatti per natura era
tale. Ella, da annerita (infatti il sole la fissò), fu resa bianca, e ha ottenuto la condivisione con la
bianchezza dello sposo. E come, essendo luce, la fece luce e così la chiamò, e essendo santo la fece
santa, e essendo risurrezione la reputò degna della resurrezione; così condivise con lei la propria
bianchezza. [204] Perciò le fanciulle che la vedono dicono: “Chi è costei che sale dopo essere stata
resa bianca, appoggiata sul suo nipote?”, condotta da lui e come portata per mano, e compie la salita
verso i cieli e il viaggio verso il suo amato, per mezzo della forte fede in lui. Dopo queste cose lo
sposo rispondendo dice: “Sotto il melo ti svegliai; là ti partorì tua madre, là ti partorì
colei che ti generò”524. Impareremo il pensiero di queste parole, se ricorderemo le cose dette
dalla sposa all’inizio dello scritto. Disse infatti allo sposo: “Come un melo tra gli alberi della
boscaglia, così il mio nipote tra i figli; nella sua ombra desiderai e mi sedetti, e dolce è il suo frutto
alla mia gola”. Poiché dunque le cose che ci donò nel momento presente sono l’ombra dei beni
futuri525, «Ora infatti» dice il beato Paolo «vedo come in uno specchio, come in enigma, ma allora
faccia a faccia»526, la sposa desiderò di sedere all’ombra dello sposo, la quale è ciò che fu dato ora
come pegno (chiamò lo sposo “melo” a causa dei motivi che dicemmo); quindi necessariamente lo
sposo dice: “Sotto il melo ti svegliai; là ti partorì colei che ti generò”.
!
Abbiamo ottenuto la rigenerazione
!
Credendo infatti nell’annuncio del nostro Salvatore, ci siamo accostati al divino battesimo e
essendoci accostati abbiamo ottenuto la rigenerazione. «Ci partorì la grazia dello Spirito»527,
testimonia la storia degli Atti. Parlando alla folla il divinissimo Pietro e porgendo ai convenuti
l’annuncio riguardo al Salvatore, dice lo scrittore che, avendo ascoltato il discorso, rimasero
commossi e dissero a Pietro: «Che cosa faremo, per essere salvati?». Egli disse loro: «Credete e
ciascuno di voi sia battezzato nel nome del nostro Signore Gesù Cristo, e riceverete l’annuncio
dello Spirito Santo»528. Giustamente dunque dice lo sposo alla sposa: “Sotto il melo ti svegliai; là ti
partorì tua madre, là ti partorì colei che ti generò” e il raddoppiamento non è messo senza motivo:
volendo infatti mostrare chi sia la madre, ricordò la prole. Dopo queste cose la esorta dicendo:
!
V. 6 Metti me come sigillo nel tuo cuore, come sigillo nel tuo braccio; perché forte
come la morte è l’amore, duro come gli inferi è l’ardore: le sue scintille come scintille
di fuoco, tizzoni di fuoco le sue fiamme.
!
Conformiamoci al Salvatore
!
524 [8, 5cde]
527 At 10, 45 ?
528 At 2, 37-38
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!
Alcune delle copie invece di “tizzoni di fuoco, sue scintille, scintille di fuoco” hanno “le sue faville
sono faville, tizzoni di fuoco le sue fiamme”. Dice dunque lo sposo alle anime pie, le quali la divina
Scrittura chiama “sposa”: “Mettimi come sigillo nel tuo cuore, nel tuo braccio”, chiamando “cuore”
la capacità contemplativa dell’anima [205] e “braccio” la capacità pratica; perciò anche per i
sacerdoti fu delimitato dal popolo il braccio destro e il piccolo petto529. Dunque il nostro Salvatore
vuole che noi abbiamo lui invece del sigillo, sia mentre parliamo che mentre meditiamo, e vuole
che conformiamo al suo modello sia le cose dette che le cose compiute; così saranno le monete
regali, non falsificate, ma contenenti il timbro regale. È più facile farlo per te, dice, se manterrai
l’amore verso di me. “Infatti è forte come la morte”. E come egli, dopo il responso divino, governò
tutte le cose; così anche costei governa tutte le cose ed è più forte della stessa morte. Ottieni anche
l’ardore; se infatti acquistasse questo in aggiunta, non tollererebbe che un’altra apparisse più
onorevole di te, e che da un lato tu fossi priva della libertà di parola, dall’altro che quella ottenesse
la mia comunione; “duro infatti è l’ardore, e difficile da combattere, come gli inferi”; chiamò
“inferi” la morte per l’opinione comune.
!
Teoria dell’amore
!
L’amore è così forte, poiché anzitutto è alato, poi intorno alla proprie ali ha una fiamma di fuoco, e
scintille che balenano. Che cosa dunque potrebbe essere più forte di quello che avanza in questo
modo? E il suo fuoco non è di quelli che si possono spegnere.
!
V. 7 Molta acqua non potrà spegnere l’amore, e i fiumi non la sommergeranno.
!
Rassegna di sofferenze occorse ai personaggi biblici
!
Lo testimoniano tutti i santi che si distinsero sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento: l’amore di
Abramo verso Dio, né la vita in terra straniera530, né la necessità della fame531, né il rapimento della
moglie532, né l’offerta del figlio533, né la battaglia per i pozzi534 poterono spegnerlo; né le sofferenze
occorse ad Isacco; né le continue fatiche di Giacobbe e i dolori attraverso la vita. Che cosa è più
violento delle prove di Giuseppe, che fu venduto dai fratelli535, fu privato della madre e del padre
che lo amava, e della casa paterna, e della libertà, e degli averi, e fu schiavo contro la dignità, e subì
l’ulteriore danno della calunnia in cambio della saggezza, e fu consegnato al carcere, e sopportò
migliaia di cose terribili? Ma l’amore per Dio fu mostrato più grande di tutte queste cose. E che
cosa occorre dire riguardo al grande Mosè, e al comandante Giosuè, e ai grandi profeti Samuele, e
Davide, e Elia, e Eliseo? Che cosa fu più furioso dei Babilonesi? Che cosa fu più tremendo della
fornace accesa da loro?536 Ma tuttavia né quella di quei tre giovinetti spense la fiamma dell’amore,
ma piuttosto la infiammò e la svegliò. Che cosa più orribile di quei leoni ai quali fu dato il grande
536 Cfr. Dn 3
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-
!
Daniele?537 Ma anche quella fornace rese più potente l’amore verso Dio. [208] E per tralasciare nel
momento presente gli altri santi, è sufficiente solo il beato Paolo a mostrare la forza di quello,
poiché ne fece esperienza più di tutti. «Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la
tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Com’è stato
scritto: “A causa tua siamo messi a morte tutto il giorno;
fummo considerati come pecore da macello” Ma, in tutte queste cose, noi siamo più che vincitori,
in virtù di Cristo che ci amò»538. Sono sufficienti dunque queste cose a mostrare la vittoria
dell’amore; ma altre cose dopo queste la annunciano più chiaramente. Aggiunge: «Infatti sono
persuaso che né morte, né vita, né angeli, né principati, né cose presenti, né cose future, né potenze,
né altezza, né profondità, né alcun’altra creatura potranno separarci dall’amore di Dio che è in
Cristo Gesù, nostro Signore»539.
!
L’amore è più forte di tutte le cose
!
E affinché lo mostri più forte di tutte le cose sia di quelle finite, che di quelle infinite, plasma con la
parola la creatura che non c’è, e di nuovo la pone a confronto con essa, e mostra l’amore verso Dio
più forte di essa. Giustamente dunque lo sposo dice: “Molta acqua non potrà spegnere l’amore, e i
fiumi non la sommergeranno. Qualora un uomo desse tutta la sua vita nell’amore, per il
disprezzo lo disprezzeranno”540. Disprezzeranno colui che dà tutta la vita in amore coloro che
sono stati privati e spogliati dell’amore; perciò anche il beato Paolo disse: «Ingiuriàti, benediciamo;
perseguitati, sopportiamo; diffamati, esortiamo; siamo diventati, e siamo tuttora, come la spazzatura
del mondo, come il rifiuto di tutti»541. Infatti in realtà questo sentimento è di coloro che soffrono le
vertigini: coloro che non sono stabili pensano che tutte le cose girino; così anche coloro che sono
stati privati dell’amore offendono i figli dell’amore come pazzi e stolti. Ma tuttavia neppure questo
offese l’amore, ma addirittura lo rese più caldo. Infatti gli apostoli, ingiuriati, benedicono, e offesi
esortano, e essendo come spazzatura del mondo, dicono che sono il rifiuto di tutti fino ad ora.
!
Vv. 8-9 Nostra sorella è piccola, e non ha seni: che faremo per la nostra sorella, nel
giorno in cui si parlerà a lei? Se è un muro, le costruiremmo sopra baluardi argentei;
se è una porta, scriveremo su di lei una tavola di cedro.
!
La sposa non è ancora pronta
!
Penso che i santi profeti, quelli che emergono nell’Antico Testamento, vedendo la piccolezza
dell’età spirituale della sposa e la incompiutezza e l’assenza dei seni, poiché sono mediatori e
informatori del matrimonio, dicano queste cose in se stessi: [209] del resto il re è in procinto di
prendere nostra sorella come sposa, ma è ancora piccola e priva di seni, non ha ancora la capacità di
procreare, né può fornire il latte dell’insegnamento, né porgere il cibo perfetto a coloro che ne
hanno bisogno; occorre dunque che noi ragioniamo su ciò che dobbiamo fare. E poiché è in
procinto di unirsi al grande re e di essere come muro della sua casa, proteggendo e custodendo ciò
che sta dentro, ed è in procinto di avere l’immagine della porta che sorveglia le cose conservate,
costruiamole come in un muro “baluardi argentei”, cioè razionali e luminosi nel discorso. «I
537 Cfr. Dn 6
538 Rm 8, 35-37
539 Rm 8, 38-39
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!
discorsi del Signore, discorsi santi, argento provato con il fuoco, saggiato con la terra»542, affinché,
posta su di essi, scacci i nemici, insegua i perfidi. Come ad una porta poniamole tavole fatte di
cedro, che non accettano la putrefazione del peccato; il cedro infatti non marcisce. A queste cose
risponde la sposa incoraggiata dalla munificenza e dalla ricchezza dello sposo:
!
V. 10 Io sono un muro e i miei seni sono come torri! Io ero nei suoi occhi come colei
che trova la pace!
!
Avendomi conosciuto prima, anche mi predestinò, e sapendo che cercherò e inseguirò la pace e
avendola inseguita la afferrerò, mi chiamò anche “pacifica” e “Sulammita”, e mi ha reso un muro
infrangibile, temibile per i nemici; i miei seni, cioè l’insegnamento etico e teologico, svegliò fino
alla sommità e mi mostrò vicino alla torre, affinché combattendo da lì sconfiggessi i traditori dello
sposo. Non solo un muro, dissi, sono, ma anche una vite.
!
V. 11 Una vigna fu a Salomone in Beleamòn. Diede la sua vigna a coloro che la
sorvegliano; un uomo darà in suo frutto mille monete d’argento.
!
La vigna del Signore
!
Simmaco invece di “in Beleamòn” ha posto “in possesso del popolo”; Aquila, invece, “nella
moltitudine che ha”. Un tempo Dio affidò proprio questa vigna ad Israele; dopoché esso non solo
lapidò ed uccise gli schiavi inviati per reclamare i frutti, ma anche crocifisse lo stesso erede543,
prima la vigna fu tolta a quelli secondo la parola del Signore, poi fu data ad un popolo che produce
il suo frutto. Per questo dice la sposa: “a Salomone”, cioè al pacifico, “una vigna fu in Beleamòn”,
cioè in possesso del popolo o nella moltitudine che ha, e “essa fu consegnata a coloro che la
sorvegliano”. Chiama “vigna” gli uomini che sono giunti alla vera religione; coloro che la
sorvegliano e la coltivano e la custodiscono, coloro che sono onorati del sacerdozio, e a cui è stato
ordinato di proporre l’irrigazione dall’insegnamento spirituale e nello stesso tempo la custodia. Dice
che “l’uomo darà come suo frutto mille monete d’argento”; il numero significa [212] l’unità della
mano destra; il frutto mostra la salvezza di colui che porta frutti; colui che piantò la vigna nessun
altro frutto da essa prende se non la salvezza proprio di colui che è stato piantato e porta frutto.
Perciò dice queste cose parlando la sposa:
!
V. 12 [12ab] La mia propria vigna di fronte a me, i mille a Salomone.
!
Vigna, custodi, ricompense, giardiniere
!
Ciò che dice è tale (occorre infatti per quanto è possibile ristabilire chiaro ciò che è oscuro). E la
vigna è mia, dice, e il frutto è mio. Coloro che sono soliti essere offerti al mio sposo pacifico, cioè a
Salomone, sono di fronte a me, mille di argento: me li darà di nuovo. E ora infatti reclama il frutto,
desiderando la mia salvezza, e vuole vedermi salvata. “La mia propria vigna di fronte a me; i mille
a Salomone, e i duecento a coloro che sorvegliano il suo frutto”544. I custodi ricevono il
compenso della vigna ed è un compenso definito. E poiché custodiscono i cinque sensi della vigna,
vista, e gusto, e odorato, e udito, e tatto, necessariamente riscuotono i duecento, i quali sono il
quinto di mille; coloro che custodiscono la vigna divina sono degni di ottenere il contraccambio dal
giardiniere: perciò non solo lo sposo, ma anche la stessa sposa, darà ad essi le ricompense. E il
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beato Paolo dice: «Se l’opera che uno ha costruita sul fondamento rimane, egli ne riceverà
ricompensa»545. E coloro che lavorarono nella vigna, venuta la sera, il padrone di casa ordinò che
fosse dato a ciascuno un denaro546. È chiaro dunque che niente è senza compenso da parte di Dio; se
infatti colui che offre un calice di acqua fresca ad uno dei piccoli tra i minimi certamente
guadagnerà il suo compenso547, molto di più colui che custodisce la vigna godrà dei contraccambi
dalla vigna. E la stessa vigna offrirà l’obbedienza per mezzo dei cinque sensi, e riempirà i duecento:
i quali, essendo tanti per cinque volte548, compiranno i mille.
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V. 13-14 Tu che stai seduto nei giardini, mentre i compagni prestano ascolto alla tua
voce; fammela udire. Fuggi, nipotino mio, e fatti simile alla gazzella o al cerbiatto sui
monti delle spezie.
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Lo sposo nei giardini
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Rivolge anche queste cose allo sposo, e dice che lui sta seduto nei giardini. I giardini sono i templi
divini, i santuari dei martiri, le comunità di coloro che hanno scelto la vita solitaria. Dice che Cristo
conduce la vita in questi luoghi, e lo esorta non solo a dialogare con le potenze di lassù, ma anche a
ritenerla degna della sua voce dolcissima; e a non disprezzare che ella desiderosa e assetata si delizi
delle sue parole. Lo invita anche a fuggire; a fuggire da chi, se non dalle sette malvage di eretici e
dalle lingue affilate contro la vera religione? Mentre fugge e prova disgusto di loro lo esorta a farsi
simile alla gazzella e al cerbiatto, e ad attraversare sui monti delle spezie, e distruggere, similmente
ad un cervo, le bestie spirituali della malvagità; a prevedere l’empietà di coloro che ciarlano della
malizia fino al sommo549, a giungere sui monti delle spezie, cioè gli eccelsi nel pensiero, che
protendono le vette come i monti e generano frutti che producono fragranza di aromi. E li dice
potenti, secondo il beato Paolo, “noi siamo il profumo di Cristo”550. Potessimo anche noi sfuggire i
morsi dei serpenti. Se invece fossimo morsi potessimo anche noi guardare a colui che è stato
sollevato e così ricevere la guarigione551. Accada anche a noi di essere monti degli aromi, affinché
riceviamo i passi dello sposo e cogliamo quella beatitudine. “Beato l’uomo la cui protezione è
presso di te, i tuoi viaggi nel suo cuore”552. A te la gloria nei secoli dei secoli. Amen.
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550 2 Cor 2, 15
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La questione della canonicità del Cantico
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Come “vecchiette deliranti”
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È Teodoreto stesso che nella prefazione, dopo le premesse tipiche, dichiara che il suo primo
compito è quello di chiarire lo scopo dello scritto (tou` gravmmato~ to;n skopo;n553), passando in
primis attraverso la confutazione delle errate interpretazione precedenti. La volontà di classificare
correttamente l’opera nasce dall’esigenza di comprendere il senso vero del testo554 e pone sotto una
luce di serietà e onestà intellettuale il commento al Cantico e, in senso più ampio, tutta la
produzione esegetica che ad esso segue. Si coglie da queste affermazioni il desiderio di realizzare
un commento il più vero e rispettoso possibile del testo sacro e, nello stesso tempo, esse ci mostrano
quali criteri ermeneutici Teodoreto ritiene necessari.
Queste riflessioni, apparentemente tecniche assumono una dimensione essenziale, dal momento che
se si intende il Cantico come un vero e proprio poema erotico che canta l’amore tra i due
protagonisti (uno sposo e una sposa), senza riconoscergli una dimensione spirituale, tutta l’esegesi
deve ispirarsi a criteri di stretta storicità e letteralità; se, al contrario, nella comprensione del libro
biblico deve prevalere il sovrasenso spirituale come vero piano di lettura, l’esegesi deve porsi su di
una dimensione allegorica e tipologica.
La questione affrontata da Teodoreto non è certo nuova, visto che è stata al centro di un ampio
dibattito che ha animato per molto tempo la riflessione attorno a questo famosissimo libro della
Bibbia e ha portato la teologia ebraica ad un riconoscimento netto della sua canonicità soltanto nel I
sec. d. C., soprattutto per opera di Rabbì Aqiba555, ma in Teodoreto assume un rilievo del tutto
particolare, che lo porta a polemizzare apertamente contro chi lo legge in senso esclusivamente
carnale. Il nostro Antiocheno assume da subito una posizione molto chiara e indiscutibile: egli
afferma anzitutto che il libro del Cantico dei cantici ha un senso indubitabilmente spirituale
(pneumatiko;n556, su cui ritorneremo), in secondo luogo che chi non lo riconosce compie una grave
azione di discredito contro il libro stesso e contro lo Spirito Santo, di fronte alla quale il suo
giudizio è molto sprezzante. Si tratta, evidentemente, degli esegeti letterali menzionati a 29AB.
Contrariamente a quello che generalmente è invalso presso i critici, però, Teodoreto non “vise …
trois catégories d’exégètes”557, che avrebbero offeso la sacralità del libro attribuendogli un senso
carnale, ma soltanto due. L’equivoco nasce dal fatto che egli materialmente enumera tre
interpretazioni storiche558, ma in realtà distingue soltanto fra due categorie di interpretazioni errate,
tra l’altro certamente molto diverse tra loro dal punto di vista della gravità, di cui la prima, contro
cui si scaglia decisamente perché, adottando un’interpretazione di tipo palesemente storico-letterale,
offende (diabavllw) il libro sacro, è ripartita in due. La colpa di questi interpreti è di ritenere il
Cantico un racconto veritiero della storia amorosa tra Salomone e una donna, la figlia del Faraone
553 29B6.
554Come si evince anche dalle ultime battute della prefazione, durante la spiegazione dei personaggi : “Nello scritto vi
sono anche dei personaggi che stanno con lo sposo, che si potrebbero definire sia angeli che servono al comando del
Sovrano, sia profeti che hanno preannunciato queste cose da lungo tempo, sia apostoli che angelicamente e
spontaneamente servono ai cenni del Sovrano: in tutti questi casi non si sbaglierà il proposito (skopov~) della
verità” (45B1).
556 29A9.
558 Tine~ (29A8) … a[lloi dev tine~ (29A13) … oiJ dev (29B1).
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per alcuni (secondo il racconto di 1 Re 3, 1; 9, 16), la Sunamita Abisai per altri (secondo 1 Re 1,
1-4; 2, 12-25559), contro i quali utilizza un’ingiuria particolarmente spregiativa, attinta al modello
biblico e variamente ripresa da Teodoreto e da altri, quella di “tessere favole degne neppure di
vecchiette deliranti” (muvqou~ oujde; grai>divoi~ paralhrou`sin ajrmottovnta~ uJfainovntwn560).
Notiamo che il sintagma muvqou~ u{fainon è presente già in Omero (Il. III 212), ma che, nello stesso
tempo, la fonte prima dell’idea delle “favole da vecchie” è la Sacra Scrittura, precisamente 1 Tm 4,
7 tou;~ de; bebhvlou~ kai; grawvdei~ muvqou~ paraitou`, cosa che non ci deve stupire, vista la
conoscenza profonda da parte di Teodoreto dei classici greci e la sua capacità di fonderli con la
familiarità biblica. A nostro parere, però, il sostrato intertestuale è un brano di Teodoro di
Mopsuestia, tratto dal commento a Mi 5, 5561, che presenta legami con questo passo quasi
sfuggevoli ma ripetuti. Il predecessore di Teodoreto accusa alcuni suoi avversari di aver inventato
“favole da vecchie” (ripresa puntuale del brano biblico sopra indicato, presente anche in Teodoreto)
in un contesto di critica, si badi, ad alcuni precedenti interpreti di Michea; essi hanno
“inventato” (ajnaplavssw, che è lo stesso verbo usato da Teodoreto tre righe dopo contro coloro che
ritengono che la sposa sia Abisai); “sono stati costretti”, dice Teodoro, perché non hanno osservato
il senso proprio della Scrittura, to; ijdivwma, che è la esatta motivazione addotta da Teodoreto
successivamente562 a conclusione della sua requisitoria; in ultimo notiamo una sorta di contrappasso
con Teodoro, il quale scrive che muqwdevsterovn tine~ nenohvkasin563, mentre Teodoreto nel parlare
del terzo tipo di interpretazione riporta oiJ de; touvtwn semnovteron nenohkovte~564. Sembra quindi
che il Nostro abbia ben presente il testo di Teodoro mentre scrive il suo.
Ma nel brano dell’In Ct l’eco letteraria non si ferma all’immagine delle vecchie e aggiunge altri
contenuti, anzitutto quello del verbo paralhrevw “delirare” e quello del diminutivo-dispregiativo
grai>diva “vecchiette”, cosa che ci fa identificare come fonte diretta Basilio di Cesarea, che, nelle
Omelie sull’esamerone, parla di “mu'qoiv tine" katagevlastoi uJpo; grai>divwn kwqwnizomevnwn
paralhrouvmenoi”565: in Teodoreto è assente il particolare della sbronza, ma i tre elementi “favole,
vecchiette, delirio” sono comuni. Il delirio di vecchiette ubriache ha comunque colpito Teodoreto
che lo riprende sia nel commento al Salmo 105 contro l’interpretazione giudaica o giudaizzante566,
sia, con le medesime parole, nella Storia ecclesiastica567 come dispregiativo dei culti pagani, in
particolare del tempo di Serapide568.
Tornando all’espressione paolina della lettera a Timoteo, ne ritroviamo un’eco sempre in Teodoreto,
nel commento a Ez 48, 35 (“godendo di favolette [muqologivai] e non differenziandosi per nulla
559In realtà siamo di fronte ad un caso di confusione onomastica, dal momento che il Cantico nomina una Sulammita,
ma nella storia raccontata da 1 Re l’amante di Salomone è chiamata Sunammita: la confusione è presente persino in
alcuni manoscritti della Settanta (cfr. Auwers 2002, 132 n. 1).
560 29A10 (ma il testo greco di queste righe presenta un’aporia di ordine grammaticale, cfr. la traduzione).
562 32D6.
563 377C7.
564 29B1.
566 1733D.
568 L’immagine delle “vecchiette ubriache” piace anche a Giovanni Crisostomo, che la usa in cinque passi.
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dalle vecchiette che raccontano favole”569), rivolta questa volta niente meno che all’eretico
Apollinare, come contro di lui sono rivolti altri attacchi, di nuovo nell’In Ez (Ez 39, 29: toi`~
∆Ioudai>koi`~ muvqoi~ ... muqologou`nte~570), nell’In XII (Ag 2, 24: lhrei`n571), nella HE (muvqou~ kai;
lhvrou~572) e nelle Domande sui Numeri (muvqon ajnevplase pollw/` muqwdevsteron573).
L’immagine delle vecchiette, dunque, per Teodoreto, caratterizza situazioni molto negative,
dall’esegesi giudaica o giudaizzante, al paganesimo, all’eresia (e del tipo peggiore come quella
apollinarista), così come in Paolo, d’altronde, essa si riferiva a profeti diabolici e menzogneri che
sviano il popolo di Dio: questo illumina il senso profondo di un’espressione che non deve apparire
semplicemente ridicola. In realtà, nel nostro passo Teodoreto accusa di una ignoranza e di una colpa
molto grave chi rifiuta l’interpretazione spirituale del libro, probabilmente perché pertiene al
fondamento stesso della fede cristiana che è il testo sacro, cosa che la dice lunga su quale sia la
gravità dell’errore che vuole stigmatizzare.
La cosa è tanto più significativa se riflettiamo sul fatto che il linguaggio utilizzato da Teodoreto per
colpire gli esegeti letteralisti è praticamente il medesimo che avevano utilizzato i suoi predecessori
Eustazio di Antiochia, Teodoro di Mopsuestia, Severiano di Gabala, Giovanni Crisostomo contro gli
eccessi degli allegoristi e di Origene in particolare: il vescovo di Cirro non si vergogna di
contraddire così illustri esegeti in un’opera in cui egli stessi adotta una esegesi allegorizzante574.
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I detrattori letteralisti
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Chi si celi dietro agli empi detrattori del Cantico è cosa davvero ardua da scoprire, dal momento
che Teodoreto non ci fornisce alcuna indicazione, tranne il fatto che siano molti e di qualche
importanza (tosouvtou~ kai; toiouvtou~575). Possiamo però dire che l’interpretazione storico-
letterale, nei primi secoli della cristianità, era più diffusa di quanto gli sviluppi esegetici successivi,
che hanno portato ad una normalizzazione, ci lascino intravedere. La stessa testimonianza di
Teodoreto ci fornisce indirettamente la prova che era necessario chiarire bene i termini della
questione, probabilmente perché molti mettevano in discussione la spiritualità del Cantico; Filastrio
di Brescia taccia di eresia chi ritiene i “Cantici dei cantici” non animati da spirito divino ma
humanarum rerum causa ac voluptatum hominibus ab eodem praedicata576; anche Gregorio di
Nissa, all’inizio della prefazione delle sue omelie al Cantico, ricorda che ci sono alcuni membri
della Chiesa che seguono in tutto la lettera della Sacra Scrittura577, di fronte ai quali avverte la
necessità di difendersi e di difendere la validità dell’interpretazione letterale (sembra però che
l’argomentare del Nisseno non riguardi espressamente l’opera erotica ma tutta la divina Scrittura);
569 1248C1.
570 1217AD.
571 1872B-1873A.
574Ad esempio Eustazio di Antiochia rivolge l’accusa di “vaneggiare al modo delle vecchie ubriache”, ma nel suo caso
è rivolta alla pratica allegorizzante di Origene (Eustazio di Antiochia, 29, 3; cfr. Guinot 2003, 1155-1159): sebbene il
vescovo sia uno dei predecessori della cosiddetta scuola letteralista antiochena, Teodoreto ne rovescia completamente il
pensiero.
575 32C1.
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Simonetti ci ricorda, inoltre, che “la posizione iconoclasta … era stata anticipata dall’ariano Sera di
Paretonio”578, il quale riconosce nella sposa celebrata dal Cantico la figlia del Faraone579.
Ce n’è quanto basta per comprendere che Teodoreto aveva in mente qualcuno di preciso, che forse
aveva anche letto. Universalmente, fin dai tempi più antichi580, almeno uno di loro è identificato nel
suo collega – e forse maestro – Teodoro di Mopsuestia581 e anche ai giorni nostri tutti i
commentatori riconoscono in Teodoro il destinatario degli strali del vescovo di Cirro.
Visto che “on peut douter que l’évêque de Mopsueste se soit appliqué à rédiger un commentaire
suivi du Cantique qui, du reste, est absent des listes anciennes de ses oeuvres”582, probabilmente
tutti i suoi avversari fondano le loro critiche su di una lettera583 che ci è pervenuta per brevi estratti
conservati tra gli atti del Concilio Costantinopolitano II del 553584 e che, a quanto ci risulta,
condannò il vescovo di Mopsuestia per motivi teologici legati alla sua cristologia e non per motivi
esegetici585.
Risulta difficile mettere in dubbio questa attribuzione così antica e che raccoglie tanti consensi586,
registriamo però che, se la critica di Teodoreto colpisce proprio l’impostazione di Teodoro, così
come traspare dagli estratti della lettera, e cioè l’esclusione da una delle tre categorie dei libri sacri
(i profeti, le storie sacre, i libri sapienziali587) e il rifiuto della canonicità dell’opera, in realtà
l’esclusione dal canone non è certa588. Allo stesso modo, Brunet afferma che “rien ne nous autorise
à croire que Théodore de Mopsueste ait rejeté le Cantique des Cantiques hors du canon sacré”589.
Per quanto ci riguarda, ci limitiamo quindi ad avanzare almeno un dubbio: abbiamo detto che
l’ingiuria che Teodoreto rivolge ai detrattori è quella che utilizza altre volte per l’interpretazione
giudaica o giudaizzante (accusa che comunque è indirizzata a Teodoro anche nella prefazione ai
Salmi), ma anche per il paganesimo e perfino per l’eresia (compresa quella terribile di Apollinare);
in più notiamo che il verbo utilizzato diabavllw “calunniare” appartiene alla famiglia semantica di
diavbolo~ “diavolo”; inoltre, nel prosieguo della prefazione lo stesso Teodoreto utilizza termini
578Simonetti 1985, 174 n. 257. Paretonio sta in Egitto, al confine con la Cirenaica. Secondo Teodoreto (HE, 2, 28), Sera
non riconosce le decisioni del sinodo di Costantinopoli del 360 che condanna Aezio, anche se non è un suo seguace.
579 Cfr. DID., Kommentar zu Eccl., edd. G. Binder and L. Liesenborghs, Bonn 1979, 6, 13 ss. (p. 6).
581Il papa Pelagio II, vissuto intorno al 580, scriveva ad Elia e ai vescovi dell’Istria che Teodoro, volendo esporre il
Cantico dei cantici, non si era dedicato ad un commento, quanto piuttosto ad un delirio, che richiama proprio le parole
della prefazione; d’altronde abbiamo la certezza che Pelagio II abbia letto il commento di Teodoreto perché ne cita
alcune righe in traduzione (PL 72, 736CD).
583“I pochi frammenti sul Cantico di Teodoro … piuttosto che da un commento sembrano provenire da una lettera, in
cui l’esegeta dichiarava la sua opinione su quel testo biblico” (Simonetti 1981, 920 n. 3).
585
“Rien n’autorise à soutenir que le Ve concile oecuménique, le 2e concile de Constantinople, a condamné l’opinion de
Théodore de Mopsueste sur le Cantique des Cantique” (Brunet 1955, 161).
588 Cfr. Auwers 2002, 134 n. 3. Nella medesima nota compaiono le divergenti posizione sulla questione.
589Brunet 1955, 165. Poco sopra lo studioso afferma che al massimo per Teodoro l’opera non ha valore profetico, cioè
non anticipa in theoria i beni futuri, ma è semplicemente un poema d’amore umano composto da Salomone.
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molto pesanti riguardo all’interpretazione letterale, come “blasfemia”590, “sputo e disprezzo dello
Spirito Santo”591, ecc.; ora, il dubbio è: può Teodoreto offendere in modo così pesante il suo collega
e ispiratore Teodoro?592 Colui che da alcuni è ritenuto perfino il suo maestro? E questo in un’opera
in cui, dal punto di vista cristologico, è ovviamente legato alle posizioni del vescovo di Mopsuestia?
E a pochi anni dalla sua morte, avvenuta nel 428? Non dimentichiamo che, una decina di anni dopo,
quando occorrerà difenderlo dalle accuse di Cirillo di Alessandria, non si esimerà dal comporre
l’apologia Pro Diodoro et Theodoro. Un interessante studio del Guinot ha dimostrato che, nel
rapporto di discepolato tra Teodoreto e Teodoro, “il faut absolument distinguer en Théodore le
docteur de l’exégète. Le premier a droit à une admiration sans réserve et à la vénération”593, ma il
medesimo continua “s’il faut renoncer à voir en Théodoret un disciple direct de Théodore, il en est
au moins l’héritier spirituel … il a forgé sa méthode exégétique au contact de la sienne et, influencé
sans doute par l’autorité du ‘maître’, il lui a emprunté bien des interprétations”594.
Lo stesso legame, a mio parere evidente, tra le “vecchiette deliranti” di questo passo e il commento
a Mi 5, 5 di Teodoro può essere intepretato o come ripresa antifrastica o come ispirazione
discepolare: ebbene, per i motivi appena espressi mi sembra difficile riconoscere una ironia così
forte, che arriverebbe al sarcasmo di rovesciare l’accusa stessa sul primo elaboratore dell’accusa;
dato che il contesto esegetico è il medesimo della “proprietà della Scrittura”, semmai è più
probabile pensare ad una ripresa discepolare.
Può essere, invece, che il Nostro abbia avuto sì una conoscenza delle idee di Teodoro sul
Cantico595, (che, non dimentichiamo, non hanno comunque animato un vero e proprio commento),
ma forse non abbia avuto modo di leggere la fantomatica lettera (scritta non si sa quando e non si sa
a chi, magari diversi anni prima), e invece, essendo a conoscenza di altri scrittori portatori di
argomenti simili – questi sì, formalmente eretici –, abbia voluto colpire loro.
L’altra faccia delle “favole di vecchiette deliranti” è quella che sostituisce la Sulammita Abisai alla
figlia del Faraone, chiaramente altrettanto biasimabile della prima; su questa interpretazione,
purtroppo, mancano del tutto gli appigli per ricostruire chi se ne fece sostenitore, però, leggendo
con attenzione il testo di Teodoreto, vediamo che egli la attribuisce alla stessa summoriva
dell’interpretazione precedente. Che cosa intende l’Antiocheno con questo termine? Semplicemente
un “gruppo”, magari in senso spregiativo, quindi una “congrega”? Forse qualcosa di più. È vero che
nelle opere esegetiche del vescovo di Cirro la parola significa semplicemente “compagnia,
drappello” e ha generalmente senso positivo596, ma nei contesti cristologici il significato è ben
diverso ed tecnicamente quello di “setta”597, ma soprattutto alla fine di questo stesso commento, nel
brano restituito da Bossina 2005, Teodoreto parla di ta;~ ponhra;~ tw`n aiJretikw`n summoriva~598,
591 32C1.
592 “On a peine à croire que Théodoret accable ici à ce point l’exégète qu’il révère si fort ailleurs” (Guinot 1984, 76).
595 Tanto che non lo inserisce nel catalogo di Padri a testimonianza della canonicità (32B).
596È la profhtikh` summoriva di In Dn 1261A12, oppure la summoriva dei santi (ibid., 1429) o dei più pii (In Ps,
1401A2).
597Ad esempio “Marcione, Mani e quella restante symmoria di empietà” (Incarn., 1428B2), oppure la “setta di
empi” (Repr., 413A1), oppure la symmoria di Apollinare (Eran., 152B); anche nella lettera 146 (Corr. III, 180, 20) e 113
(Corr. III, 62, 24) è usato in un elenco di eretici.
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che inequivocabilmente significa “setta”. Dunque, nel passo iniziale, sia che pensi ad una setta vera
e propria che sosteneva l’interpretazione letteralista sia del primo tipo che del secondo, sia che
genericamente pensi ad un contesto eretico, in ogni caso il senso è molto netto ed allontana
ulteriormente la possibilità che sotto questi eretici si celi Teodoro di Mopsuestia.
A quale setta eretica, o a quale eresiarca in particolare, stia pensando Teodoreto è domanda molto
affascinante, ma, allo stato della questione, quasi impossibile da risolvere, in ogni caso ricordiamo
che nella sua attività iniziale di vescovo egli combatté numerosi gruppi eretici presenti nella sua
diocesi, tra i quali soprattutto i quelli ispirantisi a Marcione, che, tra l’altro predicavano una radicale
distinzione tra Antico Testamento e Nuovo Testamento e specialmente del primo sostenevano
convintamente la lettura storico-letterale: forse Teodoreto è a conoscenza del fatto che alcuni di loro
andavano predicando proprio questo sul Cantico dei cantici.
L’autore riporta, poi, una terza interpretazione, che però, a nostro parere, non ricade sotto l’accusa
di “favole delle vecchiette deliranti”, poiché non si tratta di qualcosa di così empio: “altri, avendo
ragionato in modo più puro (semnovteron599)” vedono nel libro un canto d’amore tra il re e il suo
popolo, con l’ovvio riferimento al popolo ebraico. Lo scarto netto rispetto alle prime, dunque, sta
nel fatto che si tratta di una lettura allegorica, evidentemente apprezzata da Teodoreto, della quale
però non è accettato il contesto profano del rapporto tra il monarca e il popolo: in realtà gli Ebrei
hanno letto correttamente in chiave allegorica il Cantico, così come hanno letto correttamente in
chiave allegorica altri passi dell’Antico Testamento, quelli che saranno citati da Teodoreto600, e per
questo, nel corso del commento, la polemica antigiudaica (che pure è forte in Eusebio e lo sarà
nell’In Dn) risulta molto sfumata.
Allo stesso modo, si capisce perché non è citata l’interpretazione allegorica spirituale già presente
nel mondo ebraico (Dio e il popolo di Israele)601, semplicemente perché non di errore si tratta,
semmai di una imprecisione che verrà corretta nel corso del commento.
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La canonicità: Esdra
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Dopo aver denunciato la falsità e il pericolo costituito dall’interpretazione letterale, (th;n
dieyeusmevnhn tauvthn kai; blabera;n provteron dielevgxai)602, Teodoreto procede alla
confutazione vera e propria di detto pensiero, operazione che costituisce la prima e lunga parte di
questa introduzione, condotta attraverso la dimostrazione della canonicità dell’opera, cioè della sua
inclusione fra i testi sacri, attingendo a due santi esempi.
La prima testimonianza di canonizzazione tra i libri sacri è legata al ritorno in patria dopo la
cattività babilonese. Teodoreto racconta in un breve riassunto603 che, a causa dell’empietà
(dussevbeia) di Manasse e della conquista di Gerusalemme da parte dei Babilonesi, alcuni dei libri
sacri furono bruciati, perciò il beato Esdra, uomo brillante di virtù e pieno di Spirito Santo, dopo la
prigionia, catalogò (ajnagravfei) le Scritture necessarie ed efficaci di salvezza, cioè, evidentemente,
stabilì una sorta di canone, all’interno del quale comprese anche il Cantico dei cantici. Pertanto non
è possibile riconoscere al libro i contenuti immorali, perché lo Spirito santo, che non può
contraddire se stesso ed Esdra, riempito della grazia dello Spirito, non avrebbe fatto rivivere
(ajnenewvsato) il libro che era stato distrutto (diafqare;n). Questa conclusione è notevole se la
confrontiamo, ad esempio, con il medesimo riferimento storico che Diodoro fa nella prefazione al
commento ai Salmi: il predecessore di Teodoreto, lungi dall’attribuire un intervento divino alla
599 29B1.
600 33B9.
602 29B5.
603 29CD-32A.
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!
catalogazione di Esdra, afferma – almeno per quanto riguarda i Salmi – che sono stati ritrovati a
caso e così come sono stati ritrovati è stato ricostituito il salterio, che quindi non riporta più l’ordine
originario, inoltre non c’è traccia di ispirazione divina e le iscrizioni non sono tutte riconosciute604.
Si tratta di una posizione radicalmente diversa da quella di Teodoreto, che egli non confuta
apertamente, ma da cui prende nettamente le distanze.
Dunque il ragionamento di Teodoreto è limpido e lineare: se Esdra, mosso dallo Spirito, si è fatto
garante della canonicità del Cantico, come degli altri libri della Parola di Dio, evidentemente i
contenuti erotici non sono realmente immorali ma vanno compresi in senso puramente spirituale,
unico capace di condurre alla salvezza.
È interessante, poi, notare che questa ricostruzione del primo riconoscimento della canonicità del
Cantico ritornerà quasi identica nella prefazione dell’In Ps605 (collocabile nel decennio 441-450) nel
passo in cui Teodoreto intende dimostrare la veridicità delle iscrizioni dei Salmi (rafforzata anche
dalla loro traduzione da parte della Bibbia dei Settanta, che per il Nostro è un vero e proprio testo
sacro606): “il mirabile (qaumavsio~) Esdra, riempito di grazia divina, catalogò i sacri libri (iJera;~
ajnevgraye bivblou~), distrutti (diafqaireivsa~) in passato dalla incuria degli Ebrei e dall’empietà
(dussebeiva) dei Babilonesi … Egli fece rivivere (ajnenewvsato) il ricordo di questi sotto
l’influenza del Santissimo Spirito (uJpo; tou` Panagivou Pneuvmato~)”.
La strettissima relazione tra i due brani, tale da far pensare quasi ad una ricopiatura dal commento
al Cantico al commento ai Salmi, ci fa pensare anzitutto che, dal punto di vista scritturistico,
Teodoreto è convinto della sacralità dell’intervento di Esdra che ha riconosciuto e restituito dignità
ai libri divini (compreso il Cantico e le iscrizioni dei Salmi), sotto l’influsso dello Spirito; ma anche
che, dal punto di vista esegetico-compositivo, la sua tecnica non disprezza di attingere ad opere
precedenti nella stesura delle successive. Ci potrebbe essere anche un’altra spiegazione, suggerita
dal passo dell’introduzione dell’In Ps dove racconta di aver posto mano per prima alla
interpretazione dei canti di Davide e poi di averla interrotta per la richiesta ricevuta di commentare
altre opere607 (alla luce di quanto ha scritto nelle primissime righe dell’In Ct non abbiamo motivo di
dubitare di questo episodio, cfr. “Datazione”). È ragionevole pensare, dunque, che il processo di
ricopiatura non vada dall’In Ct all’In Ps, ma segua il percorso contrario: egli ha redatto la breve
storia della canonicità nella prima stesura dei Salmi, interrotta la quale ha riutilizzato il materiale
per il commento al Cantico; successivamente, ponendo mano alla seconda stesura del commento ai
Salmi non è intervenuto a modificare quanto aveva già scritto e, presumibilmente, conservato.
!
Conclusioni
!
In queste righe abbiamo un passaggio fondamentale nel ragionamento dello scrittore che ci illumina
anche compiutamente sulla sua posizione esegetica: egli dice, infatti, che sia Esdra sia i Padri608,
avendo giudicato il Cantico spirituale e degno della Chiesa, lo hanno annoverato tra le Scrittura
divine e per questo non hanno reputato il libro pieno di sfrenatezza e amore per il piacere609. Ora,
poiché era indubbio anche agli occhi di Teodoreto che il Cantico dei cantici tratta di argomenti
sentimentali ed erotici, evidentemente egli sostiene che la spiritualità dell’opera e la sua santità ne
abbattono il contenuto immorale, conducendo il lettore ad interpretarlo in modo allegorico. Dunque,
605 864AB.
607 860AB.
609 29B10.
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-
!
apprendiamo che, nel caso di questo testo, la lettura allegorica non è motivata esclusivamente da
ragioni di tipo concettuale-speculativo, ma è resa necessaria dalla particolare condizione del testo;
in altre parole per Teodoreto il problema non è esegetico, ma morale: egli, ritenendo assolutamente
inconciliabile il pensiero erotico con la santità della vera fede (∆Ekklhsiva/ prevpein610) – come si
evince anche da 32A con la citazione di Gal 4, 22 – non può accettare l’apparente celebrazione della
dissolutezza, e quindi la risolve con la ermeneutica spirituale.
Oltre a ciò, data l’accusa di empietà e il riferimento implicito alla eresia, non è escluso che
Teodoreto sia stato influenzato in questo convincimento anche dalle posizioni di alcune sette
eretiche, che come i Marcioniti, rifiutavano ogni procedimento allegorizzante e pretendevano
soltanto il letteralismo; non sappiamo nulla del pensiero di scrittori marcioniti sul Cantico, ma
sappiamo che Teodoreto li ha combattuti aspramente nella sua attività pastorale.
Il vescovo di Cirro nutre un vero e proprio rifiuto per la dimensione erotico-sentimentale, come la
stragrande maggioranza dei pensatori cristiani dei primi secoli, originato nel suo caso particolare
evidentemente anche dalla formazione monastica della giovinezza di circa quindici anni prima.
Oltre a ciò, possiamo puntualizzare altre conclusioni: tra le fonti di Teodoreto ci sono Teodoro e
Basilio, probabilmente gli strali di Teodoreto non si rivolgono contro il vescovo di Mopsuestia,
d’altro canto l’autonomia che egli avverte da Diodoro è tale che gli fa sostenere posizioni contrarie
a quelle del vescovo di Tarso.
!
!
610 29B12.
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!
!
La canonicità: l’elenco dei Padri
!
Prima di menzionare Esdra a fondamento della canonicità del Cantico, Teodoreto aveva già addotto
la testimonianza dei beati Padri, uomini molto più saggi e spirituali degli interpreti letteralisti,
testimonianza che è ripresa – di nuovo con lo scopo di rafforzare la sua dimostrazione della
canonicità del Cantico – riportando un elenco esplicito di otto teologi più altri due gruppi. Anche
intorno a questo elenco è sorto nel tempo un equivoco: l’elenco dei Padri non intende esplicitare gli
esegeti precedenti a cui Teodoreto si è ispirato o ha attinto (di nuovo non ha un interesse esegetico),
bensì è una rassegna di illustri cristiani che possano garantire la santità del Cantico e della sua
ispirazione; per questo sono citati interpreti che hanno svolto un commento completo, ma anche
coloro che semplicemente “ornarono i propri scritti di citazioni”:
!
Molti degli autori antichi (tw`n palaiw`n), infatti, lo hanno anche interpretato; e coloro che non lo hanno fatto
regolarmente ornarono i propri scritti di citazioni tratte da lì. Non solo Eusebio di Palestina, Origene d’Egitto e Cipriano
di Cartagine, colui che anche si cinse della corona del martirio, e gli autori più antichi di loro (oiJ touvtwn
palaiovteroi), più vicini agli apostoli; ma anche coloro che si distinsero nelle Chiese dopo di loro lo riconobbero
spirituale: Basilio il Grande commentando l’inizio dei Proverbi, i due Gregorio, quello che si vanta della sua parentela e
quello che si vanta della sua amicizia, Diodoro, nobile difensore della vera fede, Giovanni, che sta irrigando con le
correnti dell’insegnamento tutto il mondo fino ad oggi e tutti quelli dopo di loro, per dirla in breve ed evitare la
lunghezza del discorso611.
!
Teodoreto, dunque, dichiara di essere a conoscenza di numerosi commenti integrali del Cantico
(polloi; ... tw`n palaiw`n) e sembra dire che tutti quelli che non l’hanno commentato l’hanno
comunque citato; in più afferma che l’utilizzo del libro sacro è avvenuto sistematicamente dalle
origini della storia cristiana fino ai suoi tempi: come si vede ne traspare una conoscenza ampia e
generalizzata, e dettagliatamente articolata con l’elenco materiale dei nomi, limitata però soltanto al
mondo greco, visto che non si fa menzione di autori latini anche importanti – tranne Cipriano, ma
cfr. infra.
Di fatto, però, questa lista crea più interrogativi di quanti ne risolva, dal momento che,
primariamente, di tutti gli autori che conoscerebbe e anche dei numerosi autori citati Teodoreto con
tutta probabilità ha utilizzato solo Origene612; in più egli dimostra di non essere realmente informato
sulla esistenza di commenti al libro sacro (visto che sono menzionati soltanto Origene e il Nisseno
come commentatori integrali) e neanche sulla effettiva presenza del Cantico nelle opere degli
Antiocheni, cosa che, nelle parole di Voicu, fa passare il vescovo di Cirro per un vero
disinformato613; inoltre l’ordine presentato, apparentemente ricco ed esaustivo, ha qualcosa di
insolito: l’anteposizione di Eusebio a Origene è quanto meno impropria, la posposizione dei Padri
Apostolici è cronologicamente inaspettata, nell’elenco ci sono tre gruppi distinti di Chiese, ma le
prime tre (Palestina, Alessandria e Cartagine) non hanno grandi legami, mentre il secondo e il terzo
indicano ovviamente la Cappadocia e la Chiesa di Antiochia, ma l’ultimo gruppo comprende solo
611 32B.
612 Anche questo è un dato ampiamente riconosciuto dalla critica, cfr. ad esempio Simonetti 1985, 199: “[Teodoreto] ha
fatto tesoro soprattutto, se non esclusivamente, di Origene e l’ha utilizzato a piene mani, non solo per la simbologia di
bae, ma anche per i dettagli dell’interpretazione”.
613“Gli antiocheni sono oltremodo restii ad utilizzare questo libro biblico … Quindi Teodoreto di Ciro quando ricorda
Crisostomo fra gli utilizzatori del Cantico (PG 81, 32B) distorce la realtà in misura notevole. L’ostracismo al Cantico è
peraltro condiviso da altri antiocheni: nessuna citazione è stata rilevata nei Commentarii in Psalmos di Diodoro di Tarso
(Olivier 1980; quindi anche in questo caso sembra che la testimonianza di Teodoreto vada presa con le molle)” (Voicu
1986, 283, n. 2).
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due Padri, senza contare che, a parte Cartagine, non c’è rappresentanza del mondo latino; in ultimo,
la suggestione che la totalità dei Padri testimoni la canonicità del Cantico è, a dir poco, azzardata.
Cerchiamo dunque di rileggere tutto il passo per capirlo più esattamente.
Anzitutto, se leggiamo con attenzione il testo e modifichiamo la punteggiatura riportata
dall’edizione del Migne, noteremo che l’elenco è suddiviso in due grandi sezioni, la prima
comprendente Eusebio, Origene, Cipriano e gli autori precedenti, la seconda i Cappadoci, gli
Antiocheni e gli autori successivi, che sono simmetricamente delimitate ciascuna da un gruppo
generico (“gli autori più antichi” il primo, “tutti quelli dopo di loro” il secondo). Ciò fa pensare che,
quando Teodoreto afferma che molti degli autori “antichi” lo hanno interpretato e tutti gli altri lo
hanno citato, non si riferisce a tutti e otto gli autori elencati, ma soltanto alla prima ripartizione, cioè
a quella degli antichi: soltanto di loro Teodoreto afferma che l’hanno commentato integralmente o
citato. La prova sta nel fatto che di questo primo gruppo di tre scrittori si sottolinea l’antichità (tw`n
palaiw`n) e si sottolinea l’ulteriore antichità dei predecessori (oiJ touvtwn palaiovteroi), come a
dire che, per i primi tempi, non essendoci altri criteri per riconoscere la rispettabilità di un’opera,
vale il criterio della utilizzazione da parte di uomini santi. In questo senso si capisce l’esiguità dei
commentatori riportati (solo Origene): a Teodoreto non interessa riferire con dovizia chi lo
interpretò, ma interessa dimostrare che lo fu fin dai primi tempi, pertanto menziona Eusebio, come
esempio di autore che l’ha semplicemente citato, e Origene, come esempio di autore che l’ha
commentato – secondo un ordine inverso rispetto alla cronologia, su cui torneremo – e cita
Cipriano, come esempio di autore che l’ha citato, ma soprattutto come esempio di martire, dunque
come testimonianza massima e inoppugnabile della degnità del Cantico.
La seconda ripartizione, d’altro canto, non comprende chi l’ha commentato o citato, ma comprende
chi lo riconobbe spirituale tra “coloro che si distinsero nelle Chiese dopo di loro”614, dunque c’è un
mutamento di prospettiva: ora il criterio non è più la autorevolezza degli antichi, ma il
riconoscimento consapevole e motivato da parte di pastori santi. Pertanto, il primo autore citato è
Basilio, più vicino a Teodoreto, come se egli lo sentisse ancora attuale, di cui si presenta un
riferimento esplicito, l’opera Sull’inizio dei Proverbi615, in cui, si badi bene, il vescovo di Cesarea
non commenta il Cantico e neppure lo cita: allora, un caso di imprecisione da parte di Teodoreto?
No di certo: nella prefazione dell’opera in questione Basilio spiega che il Cantico “mostra la via
della perfezione delle anime, in quanto racconta l’unione della sposa e dello sposo, cioè,
l’inabitazione dell’anima nel Verbo Dio”616; quale testo migliore di questo da citare per dimostrare
che il Cantico è stato riconosciuto spirituale e per confermare l’interpretazione mistico-spirituale
che Teodoreto stesso sosterrà nel corso del suo commento? Pertanto la seconda ripartizione contiene
coloro che, famosi per la santità, hanno riconosciuto il carattere spirituale del libro sacro. Oltre
Basilio, segue Gregorio di Nissa, il cui commento è tutto di stampo allegorico-spirituale, Gregorio
di Nazianzo, Diodoro di Tarso, di cui però non siamo in grado di ricostruire niente617 e Giovanni
Crisostomo, che, almeno in un caso, ne afferma la spiritualità618. Secondo questa interpretazione,
diventa più comprensibile anche l’affermazione finale dell’elenco, kai; oiJ metæejkeivnou~
a[pante~619, nella quale, se ci fermassimo ad una lettura superficiale (cioè che dopo di loro tutti
l’hanno commentato o citato), il “tutti” suonerebbe un po’ pretenzioso e faremmo torto alla
614 32B6.
615 “La formule utilisée … rappelle directement le titre de l’homélie de BASILE” (Guinot 1995, 636).
618Eij dev ti" kai; ejk tw'n ∆AÊsmavtwn bouvloito ejklevgein, ajkouvsetai, mustikwvtera aujta; ejklambavnwn (CHRYS., Ad I
Thessalonicenses, PG 62, 434-41), cui segue la citazione di Ct 2, 10.
619 32B14.
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!
consueta precisione ed esattezza di Teodoreto. Più precisamente, invece, egli sta dicendo che dopo
Crisostomo, cioè pochi decenni prima della stesura del commento, un periodo a Teodoreto vicino e
quindi noto, nessuno di coloro che si è distinto nelle Chiese ha più negato la spiritualità del Cantico.
Ciò porta con sé due conseguenze importanti: in primis è confermata l’ipotesi che i detrattori del
Cantico siano esponenti di qualche eresia, o comunque sono così percepiti da Teodoreto, contro i
quali opporre il criterio della citazione e la santità cristiana; in secondo luogo Teodoro ottiene
un’ulteriore esclusione dal novero dei denigratori letteralisti, dal momento che o Teodoreto sta
dicendo che il vescovo di Mopsuestia non si è distinto nelle Chiese orientali (cosa difficile, vista la
sua autorevolezza e il carisma a lui riconosciuto da tutti nel panorama antiocheno) o ritiene che
Teodoro di Mopsuestia non abbia negato consapevolmente la spiritualità (certamente non lo
menziona, ma afferma che “tutti” l’hanno riconosciuta620).
!
Vediamo ora delle sottolineature su alcuni degli autori citati.
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Eusebio di Palestina
!
È difficile dire a quali citazioni del Cantico nelle opere di Eusebio Teodoreto stia pensando,
sappiamo comunque dalla Biblia Patristica che sono circa 25 in totale le occorrenze del libro negli
scritti del vescovo di Cesarea, soprattutto di EP, Is e Ps. D’altronde sono noti i legami tra la sua
lezione e l’attività culturale di Teodoreto, a partire senza dubbio dalla HE, ma anche per quanto
riguarda l’In Ps621 e l’In Is622 tanto da far dire a Simonetti che “oltre i Salmi Eusebio ha interpretato
in modo sistematico anche Isaia; e anche questo commentario è stato ampiamente sfruttato da
Teodoreto nel suo corrispondente commentario, ancora una volta in funzione soprattutto
dell’interpretazione cristologica”623; inoltre, Guinot 1987 ha dimostrato che già fin dall’In Dn
l’influsso di Eusebio è forte. Delle occorrenze del Cantico soltanto alcune mostrano delle
somiglianze con il commento al passo corrispondente di Teodoreto, somiglianze comunque
abbastanza generiche: in EUS., Is., II, 57624 i seni della sposa sono interpretati da Eusebio come
l’Antico e il Nuovo Testamento, in Teodoreto più genericamente come “fonti
dell’insegnamento”625; un po’ più cogente in DE626 in cui Eusebio, su Ct 1, 3b, scrive kai; muvron
oujc aJplw'", ajlla; kekenwmevnon e Teodoreto kai; ouj levgei muvron aJplw'", ajlla; ejkkenwqevn; ma il
legame più stretto è quello con le EP su cui ritorneremo.
Rimane una questione: perché nell’elenco dei Padri Eusebio anticipa tutti, visto che per vari motivi
sarebbe più logico che il primo nome dell’elenco fosse quello di Origene, sia per la precedenza
cronologica, sia soprattutto per la sua indiscussa autorità in fatto di commento al Cantico? Invece il
nome ritenuto più importante è quello del vescovo di Cesarea, anche se non ci risultano sue opere
generali di esegesi del libro. A che cosa si deve questa preferenza? Se è vero quanto abbiamo scritto
sopra, evidentemente Eusebio costituisce presso Teodoreto un modello più autorevole di Origene
per sostenere la spiritualità del Cantico (perfino nel commento al libro sacro, in cui Origene era
praticamente insuperabile), probabilmente per due motivi: all’epoca il vescovo di Cesarea è ormai
620Il fatto che non lo menziona depone ulteriormente a favore della onestà intellettuale di Teodoreto: egli sapeva
probabilmente dei dubbi del vescovo di Mopsuestia, pertanto non se la sente comunque di inserirlo.
624 404, 5.
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!
un riferimento imprescindibile nelle questioni teologiche (cosa che è dimostrata anche dal fatto che
fa parte del dossier preparato dai vescovi antiocheni nel 431 in risposta agli anatematismi di
Cirillo627), secondariamente non possiamo escludere che Teodoreto non abbia deliberatamento
posto come primo testimone dell’elenco Origene per mantenere una certa distanza con l’illustre
allegorista, forse perché, coinvolto nella disputa tra Nestorio e Cirillo, non vuole parteggiare troppo
per un vescovo di Alessandria.
!
Cipriano di Cartagine
!
Nell’elenco dei Padri che Teodoreto indica all’inizio della sua prefazione, compare anche,
apparentemente in modo un po’ insolito, Cipriano di Cartagine, “qui en tout cas n’a pas commenté
le Cantique et l’a même bien peu cité”628. Ma se l’elenco in questione non ha carattere esegetico, né
ha lo scopo di enumerare le fonti da cui Teodoreto ha tratto il suo commento, bensì intende
dimostrare, attraverso l’autorevole testimonianza dei predecessori che il Cantico ha carattere
ispirato e pertanto va letto in modo allegorico, è evidente che la menzione di Cipriano è
particolarmente importante, collocato al terzo posto dopo Eusebio e Origene, visto che egli “si è
cinto della corona del martirio”629 e pertanto costituisce una dimostrazione inoppugnabile che il
Cantico dei cantici sia un testo sacro630.
Se Teodoreto fa il nome del famoso vescovo di Cartagine, data la delicatezza del contesto
argomentativo, siamo autorizzati a pensare che egli sapeva con certezza che Cipriano ha
effettivamente quanto meno citato il Cantico e pertanto possiamo dedurre che egli ha avuto modo
di leggere personalmente qualcuno dei passi dove esso è riportato. Di fatto sono veramente pochi i
loci che ci interessano: Unit., 4; Dom. Or.; Epist., 69, 2, 1; Epist., 74, 11, 1-2 e una lettera di
Firmiliano, corrispondente di Cipriano dalla Cappadocia, pubblicata al numero 75 delle epistole del
suo più famoso interlocutore (Epist., 75, 14, 1-2). Questi loci attingono praticamente tutti agli stessi
versetti (4, 8; 4, 12; 5, 2; 6, 8) utilizzati come dimostrazione della unicità della vera Chiesa contro le
chiese eretiche e da inserire nel contesto della questione sul battesimo.
Quale di questi testi Teodoreto ha potuto leggere? Non è possibile rispondere ad una domanda del
genere, però qualche considerazione può avere spazio.
Anzitutto, se è vero che Ct 6, 8 “est évidemment un argument de poids en faveur du principe de
l’unité menacée en Afrique comme a Rome par le menées des dissidents de Novatien”631, ci pare
che il contesto nel quale opera Teodoreto, almeno nei primi anni di episcopato, sia non molto
diverso: presenza diffusa di comunità eretiche nella sua diocesi, tra le quali numerosi Marcioniti,
situazione effettiva di scisma, necessità di riportare i fedeli alla vera fede, con tutti i problemi pratici
che ciò comporta. Per questo non deve risultare strano che nella sua zelante attività si sia ispirato ad
ecclesiastici più famosi ed efficaci, alla ricerca di qualche ispirazione sul comportamento migliore
da tenere, che magari abbiano affrontato prima di lui i suoi stessi problemi. Di fatto, nella lettera
146 scrive di aver ricondotto al santo battesimo più di diecimila seguaci della rovina di Marcione632:
32B4. Un’espressione identica ritornerà nella lettera 146 del 451: “Kai; Kupriavnou tou' Karchdovno", o}" kai; tou'
629
marturivou to;n stevfanon ajnedevxato uJpe;r toutwni; tw'n dogmavtwn” (Corr. III, XXXX, [r. 213]).
630Oltre al fatto che Gregorio di Nazianzo, nel discorso 24, 12, dopo poche pagine da una citazione del Cantico, scrive
che “Cipriano diventa così uno dei nostri” (SC 284, 66, 26): egli, è vero, fa confusione tra Cipriano di Cartagine e
Cipriano di Antiochia di Pisidia, ma forse come lui anche altri.
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è possibile scorgere in questo piccolo accenno il problema del battesimo degli eretici? È possibile
pensare che per risolvere la questione abbia consultato qualche lettera di Cipriano? Ci pare di sì.
Un’altra somiglianza ci ha incuriosito. Abbiamo detto che l’insistenza adoperata da Cipriano per
difendere l’unicità della Chiesa è notevole, ad esempio “Quam unam ecclesiam etiam in Cantico
canticorum Spiritus sanctus ex persona Domini designa et dicit”633, “Quod ecclesia una sit declarat
in Cantico canticorum Spiritus sanctus ex persona Christi dicens”634, e, soprattutto, “Traditum est
enim nobis quod sit unus Deus et Christus unus et una spes et fides una et una ecclesia et baptisma
unum”635: ebbene, queste righe potrebbero essere illuminanti per capire un passo del commento di
Teodoreto un po’ oscuro. Dopo aver spiegato la causa degli errori degli interpreti letterali e aver
ampiamente argomentato con esempi presi dall’Antico Testamento, prima di spiegare i vari
personaggi del testo, scrive:
!
“Essendo stati guidati dunque dall’antica sposa alla nuova, così dobbiamo pensare il libro del Cantico dei cantici, e,
tralasciando quelle opinioni false e ingannevoli, seguiamo i santi Padri e pensiamo che una sola sposa sta parlando con
un solo sposo e impariamo dai santi apostoli chi sia lo Sposo e chi la Sposa”636.
!
Effettivamente la ripetizione rafforzativa di “una sola - uno solo” appare un po’ inaspettata e,
fondamentalmente, immotivata, tranne il caso in cui non sia stata influenzata dalla lettura proprio di
quei passi di Cipriano, tanto più che il brano biblico di 2 Cor 11, 2, addotto a prova dell’unicità,
compare anche nella lettera di Firmiliano per dimostrare che la sposa è una637; alla unicità della
sposa Teodoreto fa seguire la unicità dello sposo, magari con un sottinteso cristologico che non
sarebbe fuori luogo. Se tutto questo è vero, l’espressione generica “i santi Padri” rimandano proprio
al vescovo di Cartagine e al suo collega della Cappadocia.
La medesima lettera di Firmiliano riserva un altro indizio interessante: nell’elenco di brani volti a
sostenere che “sponsa Christi una est”638 troviamo la 2 Cor summenzionata, poi Sal 44, 11, il Ct 4,
8 e 5, 2; ora, se leggiamo il commento di Teodoreto al Ct 4, 8, ritroviamo proprio Sal 44, 11 (il testo
è comunque diffusissimo nel corso del commento) e l’idea del lavacro di rigenerazione, cioè del
battesimo, che è la questione dibattuta dai due vescovi del III sec. Nel commento al versetto 4, 12
Teodoreto introduce la differenza tra coloro che sono degni dei divini misteri e coloro che non lo
sono, o perché non hanno ricevuto l’iniziazione, o perché, pur avendola ricevuta, vagano nelle
iniquità, cioè hanno scelto la strada dell’eresia. L’argomento battesimale ritorna anche nel
commento a 6, 8, dove le regine e le concubine sono le anime non perfette nella fede, ma l’unica
sposa “ha come madre la sacra fonte battesimale (kolumbhvqra)”, la “Gerusalemme di lassù”639,
mentre in Firmiliano le regine e concubine sono le altre opinioni, ovvero le chiese eretiche.
Visto che Firmiliano, vescovo di Cesarea in Cappadocia, stette qualche tempo presso Origene a
Cesarea di Palestina640, potrebbe darsi che in questa città fossero conservate delle copie del
carteggio e che Teodoreto lì le abbia potute visionare.
!
633 Unit., 252, 98-104.
636 44C13.
639 173B4.
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-
!
Autori più antichi e più vicini agli apostoli
!
È difficile ricostruire chi si celi, nella mente di Teodoreto, dietro questa generica espressione; in
ogni caso apprendiamo dalla Storia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea641 che Melitone di Sardi ha
compreso il Cantico dei cantici in un elenco di testi canonici inviato a Onesimo, insieme a tutti
quelli normalmente e sicuramente accettati: può darsi che Teodoreto, da esperto conoscitore qual
era dell’opera di Eusebio, abbia attinto a questa fonte un’ulteriore garanzia di antichità e canonicità.
Inoltre, nalla lettera 146 ai monaci di Costantinopoli del 451, è presente un elenco di Padri della
Chiesa affine a quello summenzionato642: effettivamente è più lungo e riporta nomi anche di
vescovi minori, però lo scopo è quello di confermare le verità di fede con la testimonianza di illustri
predecessori (come quello dell’In Ct), ma soprattutto in conclusione riporta l’espressione oiJ touvtwn
presbuvteroi (quasi identica a 32B5) seguita, fortunatamente, dai nomi dei “più antichi”: Ignazio,
Policarpo, Ireneo, Giustino e Ippolito. Probabilmente ad essi pensava anche in occasione della
stesura del commento al Cantico.
!
Basilio Magno
!
Abbiamo già detto della possibile citazione da parte di Teodoreto dell’omelia Sul principio dei
Proverbi, per questo probabilmente egli è stato influenzato da tutto il passo basiliano in cui si
teorizza della “scala delle tre opere salomoniche”: i Proverbi, il Qoelet e il Cantico. In realtà la
fonte comune ad entrambi è il brano origeniano643 del commento al Cantico, però probabilmente
anche Basilio è presente tra i modelli di Teodoreto. Anzitutto dobbiamo registrare che il passo
origeniano è molto lungo ed articolato, mentre sia nel vescovo di Cesarea che nel suo collega di
Cirro esso viene enormemente sintetizzato, e poi è possibile cogliere qua e là delle trame comuni:
l’affermazione che ognuna delle tre opere è ordinata ad un proprio skopo;~644, che potrebbe
riecheggiare nella necessità teodoretana di riconoscere lo skopo;~ del Cantico645; l’espressione ta;"
pavsa" ... pragmateiva"646; il concetto della vanità (legato alla famiglia semantica di mavtaio~) e
della perfezione (tevleio~); in ultimo l’affermazione dell’unione mistica (in Basilio sumfwnivan
nuvmfh" kai; numfivou, in Teodoreto mustikh;n sunavfeian th'" nuvmfh" kai; tou' numfivou).
Aggiungiamo, poi, che, fra i vari riferimenti al Cantico disseminati nelle opere di Basilio647, una in
particolare ricorre nelle Omelie sull’Esamerone648: di fatto si tratta di una semplice citazione, priva
di commenti significativi, però, poiché nelle stesse omelie ricorre il riferimento alle “vecchiette
ubriache” e alle “leggi della allegoria” (cfr. supra e infra), ciò fa pensare che Teodoreto abbia
attinto almeno anche a quest’altra opera di Basilio: il vescovo di Cesarea aveva probabilmente un
forte ascendente su Teodoreto.
!
Giovanni Crisostomo
!
641 EUS., HE I, IV 26, 13, 1.
643 Tale brano costituisce un topos per molti autori, cfr. Harl 1987.
645 29B6.
648 Si tratta di Ct 5, 2a “Io dormo e il mio cuore veglia” (Hex., 426, 12).
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!
Non ci soffermiamo sulle citazioni del Cantico da parte del Crisostomo perché non hanno niente di
notevole rispetto al nostro obiettivo, ma su una particolare espressione usata da Teodoreto nel
presentare il personaggio: “Giovanni, che sta irrigando con le correnti dell’insegnamento tutto il
mondo fino ad oggi”649. A parte il fatto che una definizione simile ritorna anche nell’Eranistes e
nella lettera C’è un solo figlio650, notiamo che la celebrazione è abbastanza rituale (la metafora
dell’irrigazione rimanda alla prolificità compositiva e l’idea di “tutto il mondo” alla diffusione del
retore cristiano), ma nell’In Ct c’è un elemento in più che non ritorna negli altri testi, e cioè la
precisazione “fino ad oggi”, dove thvmeron (che etimologicamente è collegato a hJmevra) designa una
collocazione temporale precisa, “ora, nel momento presente”. Che cosa intende Teodoreto con
questa indicazione? È solo un modo un dire o sottintende qualcosa di più concreto?
Nell’altra occorrenza del termine nel commento al Cantico651 il significato è indubitabilmente
quello letterale, così come lo è nelle altre opere di Teodoreto652, pertanto sembra proprio che il
vescovo di Cirro si stia riferendo a qualche episodio particolare, legato a Crisostomo e accaduto alla
fine degli anni Venti del V secolo. Di fatto sappiamo che tra il 414 e il 421 il vescovo Alessandro di
Costantinopoli reinserì il nome di Crisostomo nei dittici e ritornò alla comunione romana, oltre al
fatto che nello scambio epistolare tra Cirillo e Acacio si fa riferimento proprio a quei dittici653, ma
per venire ancora più vicini alla data di composizione, secondo Scipioni il comportamento di
Nestorio appena insediato a Costantinopoli, convintamente moralizzatore della vita della capitale
ricorda quello che aveva tenuto Crisostomo654 e la sua predicazione gli era particolarmente
vicina655. Non è impossibile che Teodoreto se ne sia reso conto e a questo fa riferimento con
thvmeron.
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Tutti quelli dopo di loro
!
È quasi impossibile determinare chi avesse in mente Teodoreto quando scriveva dei successori dei
Cappadoci e degli Antiocheni, tanto più che egli non pensava esattamente a qualcuno che lo aveva
commentato (in tal caso potremmo fare i nomi di Filone di Carpasia o Nilo di Ancira), ma a coloro
che ne avevano affermato la canonicità. Possiamo comunque risalire al fatto che egli intendesse
scrittori autorevoli delle Chiese, vissuti e operanti nei primi decenni del V secolo (l’ultimo citato,
Crisostomo, muore nel 407), che avevano teorizzato la spiritualità del Cantico. Forse pensa a
Severiano di Gabala, omiletico costantinopolitano di cui riecheggia qualche passo (cfr. infra), forse
si riferisce all’opera di Cirillo di Alessandria, di cui omette il nome a causa della diatriba che stava
cominciando con Nestorio.
!
Conclusioni
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649 Kai; ∆Iwavnnh" oJ toi'" rJeuvmasi th'" didaskaliva" mevcri kai; thvmeron pa'san th;n oijkoumevnhn ajrdeuvwn (32B12).
650Rispettivamente “Giovanni, la grande lampada del mondo che irrigò la Chiesa di Antiochia” (Eran., 77C11) e
“Giovanni, il maestro di tutto il mondo” (PG 83, 1440C3).
651“Per mezzo di tutti i profeti promette di giungere, ma fino ad oggi non volle compiere le promesse” (53D3), è la
sposa che parla in Ct 1, 2.
652 Ad esempio, in Affect., I, 12, 2: in generale in tutte le numerose occorrenze che abbiamo esaminato il significato è
letterale.
653“Quelques années auparavant [del 433] ils [Acace de Berée e Cyrille d’Alexandrie] avaient échangé del lettres au
sujet de l’inscription du nom de saint Jean Chrysostome dans les diptyques” (Bardy 1938, 20).
655 "Il quale [Crisostomo], in questi temi, è da ritenersi la principale fonte di Nestorio" (Scipioni 1974, 44-45. 46).
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!
Dunque, dall’elenco dei Padri addotto a sostegno della canonicità del Cantico possiamo sintetizzare
alcune conclusioni cui siamo giunti: anzitutto che l’elenco stesso non ha risvolti esegetici, ma
eminentemente teologici, in cui il primo criterio è quello semplicemente della citazione del libro
nell’opera (secondo la tradizione ecclesiastica dei primi secoli) e poi quello della consapevole
teorizzazione. Poi vi ritroviamo un ulteriore salvataggio di Teodoro e la dimostrazione che Basilio è
tra gli autori che hanno influenzato direttamente il vescovo di Cirro. Poi che Teodoreto ritiene
Eusebio una fonte autorevole maggiore di Origene e che probabilmente conobbe il carteggio tra
Cipriano e Firmiliano sul problema del rientro degli eretici nella Chiesa.
!
!
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!
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I fondamenti dell’esegesi
!
La presenza di principi di esegesi nella prefazione dell’In Ct, così come la stessa applicazione della
esegesi vera e propria, è di notevole importanza, anzitutto perché, trattandosi della prima opera di
commento dopo una nutrita serie di testi dogmatici, evidentemente manifesta le posizioni teoriche
iniziali della esegesi di Teodoreto, e poi perché vi troviamo una netta diversità tra queste modalità
esegetiche e quelle propugnate dal pensiero della cosiddetta scuola di Antiochia, peraltro
significativo punto di riferimento per la spiritualità e la teologia di Teodoreto. Non dobbiamo
dimenticare, d’altronde, che la teorizzazione di principi di esegesi biblica gli serve primariamente
per confutare gli errori degli interpreti letteralisti e per dimostrare così la bontà della
canonizzazione del Cantico (che passa necessariamente attraverso una interpretazione spirituale
delle immagini sentimentali ed erotiche).
Pertanto dobbiamo aspettarci dalla prefazione una sorta di manuale chiarificatore, e, come vedremo,
il vescovo di Cirro non deluderà le aspettative.
!
Le premesse dell’esegesi
!
L’opera afferma fin dalla prima riga il suo carattere di esegesi della Sacra Scrittura (hJ tw`n qeivwn
logivwn eJxhvghsi~)656 per compiere bene la quale occorrono, secondo Teodoreto, tre caratteristiche:
anzitutto un’anima pura e priva di ogni sudiciume, poi un pensiero che voli alto e possa scorgere gli
inaccessibili misteri divini e, infine, una lingua che sostenga il pensiero e che ne spieghi
degnamente la contemplazione. Nel sottolineare l’ascendenza platonica di queste parole, secondo
cui l’anima deve essere purificata dalle sozzure (del peccato657 ma forse anche da ciò che la
incatena), notiamo che la fede incorrotta emerge come fondamento della esegesi, ma non meno
importante è l’intelligenza umana, indirizzata al rapporto con Dio e allo studio della teologia, per
terza, ma non certo per minore valore, una capacità espressiva degna della fede, dell’intelligenza e
soprattutto della theoria. La lingua, lo stile, l’espressione assumono il ruolo di una vera e propria
premessa necessaria all’esegesi.
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La theoria
!
La lingua, dunque, non deve solo sostenere il pensiero, ma ne deve anche spiegare l’interpretazione
(th;n ejkeivnh~ qewrivan eJrmhneuvein)658: fin da queste prime righe compare un termine essenziale
per la comprensione dell’esegesi antiochena, al centro di ampi dibattiti nell’antichità e ai giorni
nostri per poterne ricostruire appieno la valenza659, la qewriva. In tutta l’opera troviamo 16
occorrenze del termine, ma rimarremmo delusi se ci aspettassimo una spiegazione articolata
secondo i canoni dell’insegnamento antiocheno, soprattutto quello di Diodoro. In realtà su 16 casi,
in 13 il significato è quello puro e semplice di “contemplazione” come attività dell’anima,
prevalentemente riferita ai personaggi e variamente precisata (contemplazione divina, dello sposo,
delle cose spirituali, ecc.)660, altri 5 presentano la contrapposizione tra contemplazione e virtù
656 28A2.
658 28A7.
659Basta pensare ai lavori epocali di Vaccari 1920, Vaccari 1934 e Ternant 1953, oltre che alla buona sintesi di Margerie
1983.
660 8 casi: 61D8, 125B9, 128C2, 140B10, 168C1, 181A10, 189D7, 192B8.
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pratica (qewriva e pravxi~)661, senza legami con il fare ermeneutico; solo nei restanti 3 casi la sfera
semantica è quella della esegesi, ma anche qui, si badi, il livello è abbastanza superficiale, senza
risvolti figurati o tipologici, dal momento che il significato è semplicemente quello di
“interpretazione, spiegazione” in senso generico: uno è il primo esempio indicato; il secondo sta in
Ct 4, 13 (mentre sta considerando il senso figurato di “melagrana” Teodoreto spiega che, oltre
all’amore, è possibile trovare anche un’altra theoria662, e cioè la ripartizione della Chiesa in vari
ordini); infine, quando spiega l’espressione “figlia di Nadàb”, vuole “ottenere qualche theoria non
solo dalla spiegazione del nome ma anche dal nome stesso”663 e, dopo il chiarimento (la Chiesa
porta il fuoco nuovo nella tenda divina, come aveva fato Nadàb, figlio di Aronne), conclude di non
averlo lasciato ajqewvrhton664. Dunque, in queste tre circostanze, il termine è usato in senso
esegetico, con il valore generico di “interpretazione”, in particolare – almeno in due – di
“interpretazione che si aggiunge” ad un’altra, sempre rigorosamente in senso figurato. Ebbene,
sembra di essere molto lontani dalla teorizzazione diodorea del medesimo concetto665: il caposcuola
antiocheno, infatti, nella prefazione al commento ai Salmi intende la qewriva come un meccanismo
fondamentale dell’esegesi (mentre Teodoreto nel commento al Cantico non sembra conferirle
grande importanza) e la concepisce come una contemplazione più alta (uJyhlotevra/) della ijstoriva,
che risulta, così, il sostegno dei pensieri più elevati e da essi non può essere contraddetta, per questo
occorre guardarsi dalla theoria come sconvolgimento dell’argomento (sarebbe allegoria e non più
theoria). Nel commento al Cantico, invece, la realtà storica è del tutto negata e superata, a favore
della interpretazione allegorica, e per questo la theoria non risulta essere un significato che si
aggiunge, ma l’unica interpretazione possibile (seppur a volte articolata, come abbiamo visto).
D’altronde, anche l’utilizzo dello stesso termine nelle opere esegetiche di Eusebio – cui
probabilmente il vescovo di Cirro si sentiva vicino, come abbiamo visto – non sembra avere
relazioni con la theoria di Teodoreto nell’In Ct: in Eusebio il termine è sempre relativo alla esegesi
(soprattutto in Ps.), in Is. su 11 occorrenze significa una volta “significato letterale immediato”, due
volte “interpretazione figurata” (con tropikh;).
!
L’accuratezza ermeneutica
!
Dopo la menzione della theoria, Teodoreto ritorna sulle caratteristiche necessarie per l’opera che si
accinge a compiere e, fedele alla tradizione della adfirmatio modestiae, afferma che a quelle tre
prima enunciate corrispondono nel suo caso tre condizioni che non le soddisfano: l’anima è
accerchiata dalla immondizia dei peccati, il pensiero è sprofondato nelle preoccupazioni (quindi non
vola alto), la lingua è più fiacca e più lenta del pensiero. Al di là del topos della inadeguatezza,
segnaliamo che uno dei limiti del pensiero è di non poter osservare con precisione i discorsi divini
(katopteuvein ajkribw`~666), che ha delle riprese nel corso del commento: dirà infatti al termine
della prefazione che la eJrmhneiva dovrebbe essere accurata667, poi che bisogna prestare attenzione
(prosektevon)668 alla precisione delle parole, poi che si deve interpretare (noei`n e maqei`n)
662 144D6.
663 188A7.
666 28A11.
667 48D5.
- 107
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!
accuratamente669; in altri due passi preciserà che si può interpretare più accuratamente anche grazie
all’aiuto della Sacra Scrittura (un brano del Pentateuco e uno del Vangelo)670.
Tutto considerato, i passi non sono tantissimi, se solo volgiamo l’attenzione all’In Dn, dove le
medesime espressioni hanno circa 30 occorrenze, ma nella pratica l’accuratezza è una delle costanti
(cfr. infra).
!
L’eJrmhneuvein
!
Nelle righe successive a queste abbiamo una prima breve spiegazione di quello che Teodoreto
intende per “interpretare” (eJrmhneu`sai) un’opera: “rendere chiaro e manifesto il pensiero di ciò
che è stato detto per enigmi e misticamente”, dove è necessario porre l’attenzione sul concetto della
chiarificazione e dell’oscurità. Anche se non possiamo ignorare che queste parole si adattano
all’assoluta particolarità del testo del Cantico e alla sua carica erotica che deve essere superata, in
ogni caso esse di fatto costituiscono la definizione teorica dell’attività ermeneutica del vescovo di
Cirro, almeno nella sua fase iniziale. Vale la pena, dunque, esaminare attentamente tutta la frase:
tw`n aijnigmatwdw`~ kai; mustikw`~ eijrhmevnwn safh` kai; dhvlhn th;n diavnoian dei`xai671.
!
“Chiaro e manifesto”
!
“La question de l’obscurité de l’Écriture est évidemment devenue à l’époque de Théodoret un lieu
commun de toute exégèse, dont elle est par ailleurs la raison première. Il ne faut donc pas s’attendre
à trouver chez lui des vues originales, ni dans le constat qu’il établit de cette obscurité ni dans la
justification qu’il en donne: depuis Origène tout a été dit sur la question”672. Queste parole così
nette di Guinot, che si riferiscono a tutta la produzione esegetica di Teodoreto, vanno
contestualizzate per il Cantico.
Il primo concetto che troviamo in queste righe iniziali della prefazione è quello della “oscurità della
Sacra Scrittura”, che deve essere resa chiara e manifesta; safh` dei`xai th;n diavnoian è
un’espressione tecnica e la troviamo simile altre due volte a breve distanza, in 29A6 uJpodeivxai th;n
diavnoian e in 44C8 ajnaptuvssonta~ th;n diavnoian; come se non bastasse, il concetto viene
ripetuto subito all’inizio del libro I, eujkrinh` katasthvswmen673, e, con lo stesso verbo, in 212A8
katasth`sai ajsafe;~ o[n safe;~. È utilizzato anche il sostantivo astratto in alcuni passi in cui
l’Autore dichiara di cercare o di trovare la “chiarificazione” del testo (safhvneia: 48C10, 169A5,
176A3), e, in una occasione, il suo contrario (sugkevcwstai th/` ajsafeiva/ tw`n rhmavtwn hJ
diavnoia674). Il motivo della necessità di svelare la Scrittura e di renderla evidente e facilmente
comprensibile attraversa tutta l’opera: oltre a quanto appena indicato, nelle battute finali della
prefazione Teodoreto ammette di aver trovato “gli spunti della chiarificazione”675 dai Padri, come a
dire che questo è il principale scopo del libro; allo stesso modo, all’inizio del libro III e del libro IV
(che rappresentano due brevi prefazione interne, rispettivamente 136BC e 174D-175A) ritorna sul
671 28B1.
673 49A4.
674 180A13.
675 48C10.
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!
medesimo contenuto: a titolo esemplificativo, ton; kekrummevnon uJpodeivxeie nou`n676 in cui il verbo
è un composto di quello del passo iniziale).
L’insistenza del tema, dunque, ci fa concludere che rendere chiaro il testo è un vero e proprio scopo
del commento.
Rimarremmo delusi, però, se cercassimo nelle parole di Teodoreto la spiegazione del motivo della
oscurità biblica: anche se, leggendo con attenzione alcuni passaggi, è possibile capire che egli ne
attribuisce il motivo, da un lato, allo stesso genere mistico del Cantico677, dall’altro alla traduzione
della Settanta678, di fatto non affronta mai esplicitamente questo argomento679.
!
“Parlare per enigmi”
!
L’espressione, che si trova soprattutto coniugata nella forma verbale aijnivttesqai “parlare per
enigmi” (l’unico caso dell’avverbio è il brano citato, mentre il sostantivo ai[nigma di 88D9 è una
semplice parafrasi di 1 Cor 13, 12), è riferita sia alla sposa680 che allo sposo681. Si tratta di un verbo
tecnico che “laisse entendre que la réalité et la vérité du texte sont voilées par la lettre et sous-
jacentes. Toutefois ce verbe, si fréquent dans les commentaires de Théodoret, y sert très peu à
désigner le sens métaphorique … il a pour fonction de préciser la réalité, historique ou spirituelle,
théologique ou christologique, visée par le texte – son skopos”682. Nel caso del Cantico ci sembra
che quest’ultima precisione non valga molto, dal momento che, dei casi riportati, in 3 il verbo
introduce semplici corrispondenze (97B3 “cerbiatto” = quando lo sposo era piccolo; 100B9 “sui
monti di Bethèl” = recinti dei demoni; 140A5 “ornamenti del collo” = virtù pratica), mentre gli altri
5 sono lunghe spiegazioni di una espressione. Notiamo inoltre che nella stragrande maggioranza dei
casi il verbo è riferito direttamente ai due protagonisti, che hanno la funzione di soggetto683, e in
quattro casi il participio del verbo è completato da un altro verbo di dire (levgw, fhmi;,
prosagoreuvw), mentre, ad esempio, nel commento a Daniele, probabilmente di poco successivo, il
verbo non compare mai mentre il sostantivo ai[nigma risulta ben 66 volte (ciò probabilmente è
dovuto al fatto che il libro di Daniele contiene delle profezie e dunque delle immagini da decifrare).
Con “parlare per enigmi”, dunque, Teodoreto intende non tanto un’esplicazione immediata di una
parola difficile, neppure delle “realtà” da tratteggiare, bensì vere e proprie catechesi celate nella
oscurità del testo sacro ma di cui i protagonisti sono ben consapevoli: diremmo che il testo rivela
una vera e propria volontà allegorica da parte dello sposo e della sposa.
Anche nell’esegesi di Eusebio al testo di Isaia questo verbo “è il termine prediletto per indicare che
il testo profetico ha un significato coperto, di non evidente chiarezza. A volte questo termine
introduce un evidente procedimento allegorizzante … Qualche volta invece aijnivttesqai indica in
modo più generico che il profeta si esprime in termini di non immediata evidenza”684, ma l’utilizzo
676 136B10.
679Come invece farà in opere successive (cfr. Guinot 1995, 151 ss.), inserendosi in una lunga tradizione; comunque la
cosa è strana se pensiamo alla lunga spiegazione che fa Origene in Princ., cap. IV.
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-
!
in Eusebio è caratterizzato spessissimo dalla formula “mi sembra che” (moi dokei` o e[oike), senza
che ci sia un vero soggetto del “parlare per enigmi”, oppure a volte il soggetto è oJ lovgo~. Nello
stesso modo “in the Commentary on the Psalms the verb ainissomai and its derivatives occur fairly
frequently”685 e noi sappiamo che prima di comporre il commento al Cantico Teodoreto aveva
intenzione di comporre quello ai Salmi, e probabilmente per esso si era documentato. Secondo Sant,
però, l’enigma in Eusebio è un artificio letterario che ha lo scopo non di rendere più chiara
l’espressione della verità, bensì di celarla a coloro che le si potrebbero opporre o, paradossalmente,
di provocare e sfidare l’intelligenza dei lettori (il primo caso è quello dei profeti, il secondo quello
dei Proverbi di Salomone)686; il Cantico, invece, per Teodoreto non fa niente di tutto ciò, ma
esprime misticamente l’unione tra Cristo e la Chiesa. Pertanto sembra che non ci sia una influenza
esplicita di Eusebio su Teodoreto rispetto a questo verbo tecnico.
Il valore del verbo in Teodoreto ci sembra lontano anche dalla definizione di Origene, come “a
narrative which sets things down as having happened, though they have not happened, since they
are impossible”687, anche tenendo conto del fatto che “Origene adopera enigma e termini
apparentati molto meno di Clemente e quasi sempre come sinonimi di allegoria”688.
Per completare la rassegna ci rivolgiamo anche a Diodoro di Tarso, cogliendo, di nuovo, una grande
differenza: egli spiega che cosa siano gli aijnivgmata nella Sacra Scrittura citando come esempio
Gen 3 dove compare il serpente come personaggio che interloquisce con Eva e con Dio e sostiene
che il serpente è realmente esistito e ha parlato, ma il testo “laqraivw~ aijnivttetai” il diavolo689. Al
contrario, Teodoreto non crede certamente che lo sposo e la sposa siano due individui che realmente
dialogano, bensì l’immagine di Cristo e la Chiesa/anima.
!
“Misticamente e spiritualmente”
!
Sul valore dell’ avverbio mustikw`~ e sul senso del Cantico come opus mysticum è stato già
presentato un contributo dal Guinot, dal quale è difficile prescindere per l’accuratezza e la
chiarezza690. Secondo il critico francese “le terme mustikov~/-w`~ n’appartient pas véritablement à la
terminologie exégétique de Théodoret, pourtant souvent proche, dans la préface de ce commentaire,
de celle d’Origène”691, piuttosto ha più un valore misterico compreso alla luce del rapporto
spirituale tra Cristo e la Chiesa/anima: “le thème amoreux, transposé du domain charnel au domaine
spirituel, ne pouvait que conduire à l’interprétation mystique”692.
Il concetto di mustikw`~, comunque, è centrale, per Teodoreto, nella comprensione del Cantico,
soprattutto se lo confrontiamo con due passi simili dell’In Dn e dell’In Ez: mentre nell’In Ct
troviamo aijnigmatwdw`~ kai; mustikw`~, nell’In Dn il “parlare per enigmi” fa coppia con
profhtikw`~ , nell’In Ez con parabolikw`~ , evidentemente perché, pur nella comune
693 694
690 Guinot 1992, ma egli non poteva tener conto delle acquisizioni filologiche successive, cfr. Premessa.
- 110
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!
espressione “per enigmi”, di essi si sottolinea in più il carattere profetico e parabolico695, mentre del
Cantico si sottolinea precisamente il carattere mistico: tutta la Scrittura “parla per enigmi”, ma
quelli di un libro mistico sono diversi da quelli di un libro profetico.
Nel corso del commento troviamo varie espressioni che rimandano al carattere misterico (“unione
mistica”696, il “grado mistico”697 del Cantico rispetto a Qoèlet e Proverbi, “interpretare
misticamente”698, “ragionare in modo più mistico”699, le “parole mistiche del Cantico”700, il
“momento mistico”701, il “discorso nascosto e mistico”702, i “discorsi più mistici”703, la “bevanda
mistica”704), cosa che ci fa pensare che sia un tratto centrale nell’economia del racconto amoroso tra
lo sposo e la sposa. Questo ci sembra tanto più vero se esaminiamo la semantica di un concetto così
diffuso come ta; kekrummevna: nel Cantico compare una volta in questa forma705 che possiamo
intendere genericamente come “i segreti di Dio”, con riferimento alla sua assoluta trascendenza e
incomprensibilità, e una volta al singolare to; kekrummenon706, cosa che praticamente non differisce
dalle altre opere esegetiche del periodo (3 volte ciascuna); però, in più nell’In Ct troviamo 5 volte la
forma ta; kekrummevna musthvria707 (figura anche nella prefazione del III libro, diarqrou`nte~
ejnargw`~ ta; kekrummevna musthvria708, che ha un valore di ulteriore teorizzazione), la quale
focalizza l’argomento dell’opera non tanto su un generico “segreto della inaccessibilità di Dio”, ma
su di un segreto “misterico”, che può rimandare ai sacramenti o all’unione mistica di cui abbiamo
già parlato709. La centralità della mistica del Cantico ritornerà anche nei sermoni sulla Provvidenza,
dove, nell’unica definizione esplicita del Cantico nelle opere del decennio, lo presenta proprio come
un’opera mistica: ejn tw/` mustikw/` tw`n aj/smavtwn prosagoreuvei biblivw710
/ .
Inoltre, da un’analisi attenta di vari passi pare di capire che un altro gruppo semantico molto
importante nell’economia dell’In Ct, cioè quello legato a pneumatikov~ (“spirituale”), vada inteso
come sinonimo di mustiko;~: a parte l’esordio in cui Teodoreto dice che il Cantico è stato scritto
“per enigmi e misticamente” immediatamente prima della dimostrazione dei Padri, notiamo che il
695 “Le mode de l’expression scripturaire, particulièrement dans les prophéties, en est un facteur essentiel: il existe un
style prophétique, caractérisé par l’emploi de la «parabole» et de déclarations” (Guinot 1995, 156).
696 48A7.
697 48A11.
699 60B14.
700 76C13.
701 53C2.
702 124B3.5.
703 132A8.
704 140C5.
705 48C1, nel passo sui destinatari del Cantico che devono essere necessariamente maturi.
706 161C9.
708 136B4.
709 Anche Origene è convinto che totumque eius [Cantici] corpus mysticis formatur eloquiis (Cant. 1991, 82).
710 V, 628D.
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!
concetto di unione mistica ritorna nella “comunione spirituale dell’anima pia e del discorso
divino”711 che deve essere interpretata spiritualmente712; poi che, al grado mistico del Cantico713
nella tripartizione Qoelet, Proverbi, Cantico, corrisponde la necessità di porgere il Cantico agli
adulti nella fede capaci di interpretarlo spiritualmente714; che i “baci spirituali” di 1, 1715 sono
scambiato tra lo sposo e la sposa nel loro mustiko;~ kairo;~716; che i “misteri nascosti” della
prefazione al III libro devono essere contemplati da occhi divenuti “colombe spirituali”717; che il
vino di 4, 10 è detto testualmente “vino spirituale e bevanda mistica”718. Nel corso del commento,
in conclusione, Teodoreto spiega tante parti del corpo e tante situazioni narrate nel libro nella loro
valenza spirituale, oltre al fatto che la centralità dell’interpretazione spirituale è evidente sin dalla
parte iniziale del commento dove assume un rilievo quasi ossessivo: i detrattori “non lo ritengono
un libro spirituale” (29A4), “i Padri sono molto più spirituali” (29B8), essi “lo giudicarono
spirituale” (29B11), “lo ritennero spirituale” (32B7), bisogna “entrare dentro lo spirito” (32D8) e
bisogna “comprendere spiritualmente” (37A9) (queste ultime due occorrenze con riferimento a 2
Cor 3, 14-18, il passo principale che ha ispirato i fondamenti esegetici nell’In Ct).
Evidentemente proprio questo aspetto è quello che egli considera caratteristico, e forse la cosa ci
permette di comprendere meglio anche l’esigenza di chiarezza di cui abbiamo parlato sopra.
Sembra di capire, dunque, che il motivo della necessità del safh` dei`xai sia da ricercare nella
particolare condizione del Cantico, nel suo allontanarsi dal genere letterario profetico vero e proprio
e nell’essere il racconto dell’unione mistica tra lo Sposo e la sposa (th;n mustikh;n sunavfeian719),
cosa che appare, secondo Teodoreto, come il vero senso e il vero contenuto del libro720: nella
prefazione al III libro scrive, infatti, che bisogna conoscere il pensiero (diavnoia) della Sacra
Scrittura e aggiunge diaferovntw~ de; tou` a[/smato~ tw`n a/[smavtwn.
È chiaro che per Teodoreto il Cantico è anche un libro profetico, in quanto Salomone ha previsto in
maniera sovrumana la venuta del Cristo e la sua unione con la Chiesa, ne ha previsto anche alcuni
caratteri cristologici: in questo senso certamente il libro è una profezia. Ma non è sul valore dei
segreti del futuro – tipici della profezia comunemente intesa – che Teodoreto si concentra (e che, in
ogni caso, secondo il suo convincimento andrebbero interpretati in alcuni casi allegoricamente, in
712 92A7.
713 48A11.
71448C1. A questo probabilmente non è estraneo il pensiero di Origene: “Le théme de la trilogie salomonienne est donc
né du besoin d’affirmer la signification mystique du Cantique des cantiques. Origène atteste lui-même qu’une telle
signification existait chez les Juifs” (Harl 1987). In ogni caso segnaliamo che la tripartizione è presente anche nel
prologo del commento ai Proverbi di Basilio, che Teodoreto ha molto probabilmente letto (cfr. supra).
715 53B14.
716 53C2.
717 136B3.
718 140C4.
719 48A7.
720
Cfr. 44C ss. Probabilmente a questa posizione non è estraneo Eusebio che, nelle Eclogae propheticae, scrive che il
Cantico contiene “i misteri riguardo alla sposa spirituale”, III, 6 (1129D).
- 112
-
!
altri letteralmente), ma sul valore della esperienza di fede nel rapporto tra la sposa (Chiesa o anima)
e lo sposo721.
Questo è evidente anche da un passo abbastanza sibillino, al termine della prefazione:
!
Dunque, cessando di discutere, sia che questo libro sia stato scritto profeticamente, sia che spieghi, ammaestrato dal
padre, ciò che imparò, accingiamoci alla interpretazione.722
!
Teodoreto riconosce che il Cantico possa avere anche una valenza profetica, ma subito dopo
aggiunge l’altra, cioè quella della ispirazione del sublime cantore di Dio che fu il re Davide e di cui
Salomone avrebbe quasi raccolto le briciole.
!
La cinque cause dell’errore
!
Teodoreto non si limita a dimostrare la canonicità del Cantico e quindi la sua impossibilità teologica
ad essere interpretato letteralmente, ma formula un elenco di cinque errori723 che i letteralisti
avrebbero compiuto nell’accostarsi alla Sacra Scrittura e che per noi sono una preziosa sintesi dei
principi di fondo dell’esegesi.
Dice infatti che essi:
1) non riconobbero gli ijdiwvmata
2) non vollero immergersi (diaduvnai) nella profondità
3) non vollero superare il velo (uJperbhvnai to; kavlumma, ispirandosi a 2 Cor 3, 14-16)
4) non vollero entrare dentro lo spirito
5) “non vollero che la gloria del Signore fosse riflessa come in uno specchio a viso scoperto” (che è
una citazione di 2 Cor 3, 18).
Notiamo che, dopo la prima menzione delle espressioni tipiche della Bibbia, le altre riprendono il
tema dello svelamento e della necessità di oltrepassare l’esteriorità per giungere al cuore del
significato, con evidente richiamo alla lettera di san Paolo.
!
Le espressioni tipiche
!
Il termine ijdivwma nelle prime opere esegetiche di Teodoreto vale sempre come “espressione tipica”,
spesso della Sacra Scrittura724, ma anche della lingua ebraica (3 volte su 4 nell’In Dn) e, qualche
volta, del profeta. Al plurale lo troviamo in un passo del commento a Ezechiele molto affine a
questo: “È necessario conoscere le espressioni tipiche della Scrittura, altrimenti non è possibile
comprendere il suo obiettivo (skopo;~)”725 (il brano spiega che la profezia parla al passato per
indicare eventi futuri e viceversa). Visto che anche in questo caso l’obiettivo del testo sacro è il
punto di partenza irrinunciabile per la esegesi, come per il Cantico, è lecito ravvisare, almeno su
questo punto, una certa continuità delle premesse teoriche di Teodoreto.
Rimandiamo, poi, a quanto scritto nel paragrafo sulla canonicità, sulla somiglianza tra il brano di
commento a Mi 5, 5 di Teodoro di Mopsuestia e alcuni passi di questa prefazione: anche lì si
sostiene, per coloro che commettono errori di interpretazione, l’opportunità di valutare il senso
721 Anche per questo nell’In Ct la polemica antigiudaica è inesistente (mentre si fa feroce, ad esempio, già nell’opera
immediatamente successiva, l’In Dn), perché gli Ebrei ammettevano tranquillamente la lettura spirituale, anche se la
riferivano alla dialettica Dio-popolo ebraico.
722 48C.
723 32D.
- 113
-
!
proprio (ijdivwma726) della Scrittura, per non inventare “favole degne di vecchiette”: è probabile che
Teodoreto abbia ben presente questo testo.
!
Immergersi nella profondità
!
Anche questa immagine, assai significativa, è presente in cinque passi decisivi della teorizzazione di
Teodoreto: tre nella prefazione iniziale, uno nella prefazione al libro IV e un altro in un brano che
egli stesso definisce particolarmente difficile. Il concetto generale è quello (molto comune negli
esegeti, fin da Origene) della “profondità” in cui scendere, presente fin dalle prime righe dell’opera
(eij~ to; bavqo~ tou` gravmmato~ katabhvnai727) ed è ripreso quasi letteralmente nella prefazione al
IV libro (th`~ levxew~ bavqo~728): in entrambi l’azione esegetica è vista come uno qavrro~
(kateqarjrJhvsamen729 e qarjrJou`men730 ) e come una tolmh; (tetolmhvkamen731 e
katatolmhvswmen732). Inoltre fin dalle stesse prime righe – ma anche altrove – si aggiunge la
metafora assai espressiva del mare profondo da esplorare e della perla ivi celata: to;n buqo;n tou`
pelavgou~733 (questo nesso è molto diffuso nella precedente letteratura greca, nella variante th`~
qalavssh~, proprio con il valore di “abisso del mare”), tou` nohvmato~ margarivthn734, oujk
ejqevlhsan diaduvnai735 (il verbo è tipico dell’inabissarsi, ma con il preverbio dia- è insolito),
dioruvxwmen to; bavqo" kai; to;n qhsauro;n ajnaspavswmen736 (anche queste sono espressioni molto
rare), nella prefazione al IV libro la metafora del tesoro è sciolta nella utilità di tutti. Un’altra
occorrenza del concetto, seppur molto più sfumata, è a metà della prefazione, dove sta dimostrando
che il lessico carnale non va compreso in senso erotico, ma spirituale: ejnto;~ gravmmato~
genovmenoi737.
Medesime immagini troviamo, ad esempio, nella prefazione dell’In Ez, to;n me;n ga;r margarivthn oJ
qalavssio" katakruvptei buqo;"738 e in un passo dell’In XII (Amos), th'" qalavtth" katadu'nai
to;n buqo;n; ma quello che gli è più somigliante, tanto da far pensare ad una vera e propria
dipendenza, è sicuramente la prefazione del commento a Daniele, nelle primissime righe: “Se fosse
facile a tutti spiegare (ajnaptuvssein) gli oracoli dei divini profeti e penetrare (uJperbaivnein)
l’apparenza dello scritto (tou grammato~), immergersi in profondità (eij~ to; bavqo~ kataduvnein) e
727 28B5.6.
728 176A11.
729 28B5.
730 176A10.
731 28B7.
732 176A14.
733 28B5.
734 28B8.
735 32D6; è nel brano delle cinque cause dell’errore che stiamo commentando.
736 180A15.
737 37A6.
738 809A13.
- 114
-
!
recuperare la perla del pensiero lì nascosta…”739. Oltre all’utilizzo del verbo ajnaptuvssw,
particolarmente significativo nel commento al Cantico, le metafore della esegesi sono identiche:
l’idea dello svelamento ottenuto mediante la penetrazione, l’immersione in profondità e il recupero
della perla nascosta. Abbiamo di nuovo un caso di riutilizzo nelle opere successive di materiale
precedente.
Ma nell’In Ct il concetto di profondità è applicato in due passi anche ai misteri divini, cosa che, se
obbidisce comunque ad una lunga tradizione, alla luce di quanto detto sopra acquista un valore
particolare: tw'n musthrivwn to; bavqo" ajgnoou'sin740 e, nel medesimo contesto, oJ buqo;~ tw'n
musthrivwn e to; baqu; kai; kekrummevnon tw`n Qeivwn741.
Anche se lo spunto è largamente attestato negli esegeti precedenti742, né Eusebio, né Gregorio di
Nissa (neppure nelle omelie al Cantico) usano espressioni significativamente simili a queste di
Teodoreto.
!
2 Cor 3, 13-18
!
I tre successivi errori compiuti dai detrattori del Cantico rimandano parafrasticamente (almeno nei
primi due casi) ad una precisa citazione di Paolo: 2 Cor 3, 14-18, “e non facciamo come Mosè che
poneva un velo sul suo volto, perché i figli di Israele non vedessero la fine di ciò che era solo
effimero. Ma le loro menti furono accecate; infatti fino ad oggi quel medesimo velo rimane, non
rimosso, alla lettura dell’Antico Testamento, perché è in Cristo che esso viene eliminato. Fino ad
oggi, quando si legge Mosè, un velo è steso sul loro cuore; ma quando ci sarà la conversione al
Signore, quel velo sarà tolto. Il Signore è lo Spirito e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà. E
noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo
trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del
Signore” (trad. Cei). Il concetto dell’Antico Testamento coperto da un velo posto da Mosè, che è
stato tolto soltanto da Cristo (il quale dunque ci apre la comprensione e dell’Antico e del Nuovo)
appare ben diffuso nella tradizione esegetica: Origene (dal quale però Teodoreto si differenzia743),
Gregorio di Nissa (largamente anche nelle omelie al Cantico) e Giovanni Crisostomo lo riportano
spesso nei loro scritti e soprattutto Eusebio. È evidente che, quando Teodoreto parla di “oltrepassare
il velo della lettera” e di “entrare nello Spirito”, attinge al medesimo brano, citato più esplicitamente
nelle righe successive, di “non vollero che la gloria del Signore fosse riflessa come in uno specchio
a viso scoperto”744 che ci permette di reinterpretare le righe precedenti. L’espressione
tou` gravmmato~ uJperbaivnein to; kavlumma compare, oltre a questo passo della prefazione
739 1256C2.
741 161C4.9.
742“Origene ha dato spessore filosofico alla convinzione di Filone e Clemente che il senso più profondo delle Scritture
fosse quello nascosto sotto la lettera e inaccessibile ai più” (Simonetti 1987, 36).
743 “A 2Cor 3, 18 Origene si richiama frequentemente … Nel De principiis I 1,2 (cf. GCS 22, pp. 17-18) la
contemplazione si situa nell’interpretazione spirituale della Scrittura” (OR., Cant. 2005, 381), e in III 5, 1 scrive in
rebus mysticis et profundis velamine quodam litterae utatur (OR., Princ., SC 268, 218, cfr. la nota 3 - SC 269, 102 - per
una rassegna dei loci origeniani sull’immagine del velo). Ma cfr. la medesima opera (IV 2, 8) dove è scritto che il velo
(e[nduma) della Scrittura non è inutile perché comunque i molti lo comprendono come possono (SC 268, 335), posizione
assai diversa dalle idee di Teodoreto. Inoltre, secondo Cocchini 1992 (137), l’Alessandrino ritiene fondamentali
soprattutto 1 Cor 10, 1-11; 2 Cor 3, 6-18; Gal 4, 21-28; Eb 8, 5 ed Eb 10, 1, ma di tutti questi sono 2 Cor 3, 6-18 è citato
nell’In Ct.
744 32D.
- 115
-
!
iniziale745, anche nella prefazione al III libro746, in forma praticamente identica, e ciò mostra che
rappresentano un convincimento della modalità esegetica (non solo la profondità della Parola di
Dio, ma anche il nascondimento sono i motivi della sua oscurità). L’espressione è originata da una
leggera rielaborazione del testo di 2 Cor, che parla di “velo sulla lettura” e da cui, evidentemente,
Teodoreto ha dedotto che il velo è posto sulla lettera, ma reppresenta anche in un certo senso un
problema interpretativo, visto che di fatto l’espressione usata da Teodoreto costituisce una vera e
propria eccezione, sia nei confronti degli esegeti precedenti sia nei confronti della sua opera
successiva, dove non è più utilizzata in questa forma: il Nostro usa nell’In Ez747 direttamente il testo
originale periairei`n to; kavlumma, e l’unico passo accostabile che si trova in In Dn riporta tou`
gravmmato~ uJperbaivnein th;n ejpifavneian748, in cui non compare il “velo” effettivo e rimane solo
il concetto di “oltrepassare l’apparenza”.
“Essere dentro lo Spirito”749, chiaramente rielabora – seppur molto liberamente – il v. 17 ed è una
sottolineatura della necessità di seguire l’ispirazione nella esegesi del testo del Cantico, che non può
ingannarci e non può condurci a pensarlo come un testo erotico.
“Non vollero che la gloria del Signore fosse riflessa come in uno specchio a viso scoperto” è citato
altre cinque volte nell’In Ct, una volta750 con riferimento al procedimento ermeneutico (in modo
soltanto alluso, ma evidente dato il contesto), altre quattro per spiegare la trasformazione della
sposa verso la gloria di Dio751.
Alcune brevi conclusioni che possiamo trarre sono, anzitutto, che i detrattori del Cantico, in un
certo senso, non hanno ancora accettato la signoria di Cristo, che ha privato l’Antico Testamento del
suo “velo” posto da Mosè, non hanno accettato dunque l’illuminazione da parte dello Spirito e per
questo non hanno accesso alla vera contemplazione della gloria di Dio, quella che vede nella parole
del Cantico la trasfigurazione della sposa/Chiesa secondo le immagine già riportate, e questo
conferma ulteriormente che Teodoreto li considera come eretici. L’errore esegetico, visto che
l’esegesi è una reinterpretazione vitale e quasi sacramentale del testo mistico, porta in ultimo ad una
mancata crescita nella fede e nella salvezza.
L’elenco degli errori trattati da Teodoreto indubbiamente affonda le radici nell’esegesi origeniana,
però c’è forse un’altra fonte di questo passo che non è stata adeguatamente menzionata e
approfondita, ed è il brano di Eusebio di Cesarea delle Eclogae propheticae dove spiega che cosa
sia il Cantico dei cantici752, di cui diamo una traduzione di lavoro:
!
“Tutto il libro ha come argomento la passione della sposa per lo sposo, prima confessando lei di essere stata ferita
dall’amore per lui, poi a sua volta confessando lui che lei è l’unica tra molte, è la colomba perfetta a fronte di quelle che
sono dette regine, concubine e fanciulle. I circoncisi hanno creduto che anche questa Scrittura sia una delle 22 che sono
ritenute presso di loro ispirate da Dio, ma non so se trovano in essa qualcosa di degno della divina ispirazione, poiché
immaginano che, secondo i luoghi, non vi sia nulla di più del significato immediato (provceiron ejkdochv); colui che è
capace di sottrarre il velo (periairei`n kavlumma) posto anche su questa Scrittura, poi di volgersi al Signore che è lo
745 32D7.
746 163B3.
747 809A8.
748 1256C2.
749 32D8.
750 37A6.
75176D (la sposa è come la cavalla del Faraone), 84C (ha occhi spirituali), 136A (“tutta bella sei”), 177A (è come la
luna).
- 116
-
!
Spirito e osservare come in uno specchio a volto scoperto la gloria del Signore che sta anche in questi versi753,
contemplerà (qewrhvsei) in essa i misteri (musthvria) secondo il concetto di sposa spirituale, cioè la Chiesa di Cristo, e
le cose dette riguardo allo sposo perfetto di una tale sposa e la differenza della sposa con le regine, le concubine e le
fanciulle, e quanti altri insegnamenti più indicibili sono stati nascosti nel libro, i quali ricevettero già una chiarificazione
pienissima, quella che spiegò l’esegeta infaticabile delle divine Scritture” (si tratta di Origene).
!
Dopo la sintesi dell’argomento, Eusebio ammaestra i lettori sulla retta interpretazione del libro,
prima biasimando chi si ferma al significato letterale, poi ispirandosi espressamente al brano di
Paolo 2 Cor 3, 14-18: il senso del libro sacro è la contemplazione dei misteri della Chiesa, sposa di
Cristo (già evidenziati da Origene). Troviamo la medesima successione dei temi nella prima parte
della prefazione dell’In Ct di Teodoreto, che, pur ampliandola e arricchendola, di fatto sembra
proprio trarre ispirazione da essa. Anche il vescovo di Cirro affronta anzitutto la questione di coloro
che leggono il libro in senso carnale, e, mentre Eusebio cita soltanto l’ermeneutica ebraica
(evidentemente quella dei secoli anteriori a Rabbì Aqiba, cfr. supra), Teodoreto la estende agli
eretici, e in un certo senso corregge la dal momento che cita degli Ebrei la lettura allegorica ma
applicata al contesto regale: in ogni caso in lui rimane la necessità di confermarne l’ispirazione.
Successivamente anche in Teodoreto diventa centrale il riferimento al passo paolino nei tre aspetti
del velo, dello spirito e della osservazione della gloria del Signore. Notiamo che, a differenza della
Scrittura in cui il velo è tolto divinamente in seguito alla conversione a Cristo (c’è il cosiddetto
passivo divino), sia in Eusebio che in Teodoreto c’è una primazìa dell’azione del lettore, originata
dalla profondità delle fede nel primo (oJ de; duvnato~754) e, in negativo, da una specie di volontà
consapevole nel secondo (oujk ejqevlhsan755); inoltre, l’hysteron proteron del vescovo di Cesarea
(“togliere il velo, rivolgersi al Signore che è lo Spirito”, mentre in Paolo l’ordine è “rivolgersi al
Signore, sarà tolto il velo, il Signore è lo Spirito”) rimane anche in Teodoreto che però trasforma e
restringe l’eusebiano ejpistrevyai de; pro;~ to;n Kuvrion o{per ejsti; to; pneuma in ejnto;~ genevsqai
tw/` pnevumati756. Ma non basta. L’azione contemplativa, ritenuta da Eusebio una necessaria
conseguenza dello svelamento (che seppure non sia espressamente menzionata da Teodoreto, di
fatto è sottintesa a tutta l’opera esegetica) è rivolta espressamente ai misteri della Chiesa e di Cristo
(caposaldo della lettura teodoretana dal Cantico) e l’esplicito soffermarsi da parte di Eusebio, nella
sintesi iniziale, sull’unicità della sposa può avere definitivamente confermato Teodoreto che,
quando conclude la dimostrazione della allegoria della Sacra Scrittura, sintetizza l’argomento del
Cantico dicendo che “una sola sposa sta parlando con un solo sposo” 757 (influenzato in questo
anche dal carteggio Cipriano-Firmiliano758).
È difficile, dunque, non scorgere le somiglianze tra queste righe e lo svolgersi dei pensieri di
Teodoreto, ma c’è un’ultima considerazione, secondo me definitiva, e cioè il fatto che nell’elenco
dei padri addotti per dimostrare la canonicità del Cantico, Eusebio figura per primo, anche prima di
Origene (che pure Eusebio riporta come esegeta completo del Cantico) e sebbene non risulti che
abbia mai commentato per intero il libro divino: è probabile, quindi, che nel momento in cui ha
reperito materiali per l’In Ct, Teodoreto si sia rivolto alle Eclogae propheticae e lì abbia trovato il
fondamento teologico della sua interpretazione spirituale. Si sarebbe rivolto proprio a quest’opera,
754 1129D3.
755 32D6.
756 32D8.
757 44C13.
- 117
-
!
sia perché è nota la vicinanza di Teodoreto al vescovo palestinese759, sia perché, essendo le Eclogae
“un florilegio di passi veterotestamentari di significazione cristologica”760, potevano costituire
anche un buon repertorio per le dimostrazioni teologiche che erano una parte non secondaria del
commento di Teodoreto.
È molto probabile, quindi, che il brano di Eusebio sia una fonte diretta di Teodoreto.
!
Il procedimento della lettura spirituale
!
Il brano appena trattato è in evidente parallelo con un altro passo del commento, collocato dopo Ez
17, 3-4 e Zc 11, 1-2 per introdurre la spiegazione allegorica del brano di Ez 16, a carattere erotico:
!
“Non interpretiamo niente così come leggiamo, né crediamo alla lettera che uccide, ma, entrati dentro di essa,
indaghiamo il pensiero dello Spirito e, illuminati da lui, comprendiamo spiritualmente le cose dello Spirito”761.
!
Con la spiegazione di quest’ultimo passo siamo al centro delle argomentazioni di Teodoreto (ciò è
dimostrato anche dal fatto che la terminologia si fa più tecnica dei versi precedenti), oltre che
l’affermazione compiuta della necessità della lettura allegorica del Cantico dei cantici.
Appena conclusa la citazione di Ez e Zc, il vescovo di Cirro formula un’altra definizione del
corretto atteggiamento esegetico, che costituisce il corollario di quella di 32D come è evidente dai
legami concettuali: in entrambi i casi il contesto è la giustificazione del lessico erotico (sia il primo
che il secondo riportano un elenco di parti del corpo e termini erotici762) e in entrambi i casi
l’accusa è quella della “blasfemia”. Soprattutto in entrambi i casi la dimostrazione si fonda su 2 Cor
3, del primo abbiamo già detto, del secondo diciamo che la relazione è esplicitata dal concetto della
“lettera che uccide” tratto direttamente da 2 Cor 3, 6 cui si contrappone il “pensiero” dello spirito.
!
La lettera (gravmma)
!
Non è l’unico caso in cui Teodoreto usa il termine gravmma per indicare il senso letterale del testo,
anzi risulta essere l’espressione di gran lunga preferita e praticamente sempre con un valore
spregiativo763. In un caso il contesto è quello, comunissimo, della profondità della “lettera” (eij~ to;
bavqo~ tou` gravmmato~ katabh`nai764, cfr. supra) che è ripreso in parallelo da levxew~ bavqo~765
759“Il est en revanche assuré que l’interprétation de Théodoret emprunte beaucoup à celle d’Eusèbe sur Isaïe et sur le
Psautier, qu’il lui doit aussi une partie de sa critique textuelle, et qu’il utilise sa Démonstration évangélique pour
expliquer la prophétie de Daniel” (Guinot 1998, 69); ma cfr. anche Guinot 1993. Il medesimo arriva a dire che, nel caso
dell’In Ct, “il serait tentant, en effet, de croire che Théodoret n’atteignant l’interprétation d’Origène qu’à travers celle
d’Eusèbe, ce qui se vérifie presque tous les autres cas” (Guinot 1995, 644), anche se poi non giunge esplicitamente a
questa conclusione.
761 37A.
762“Unguenti, baci, cosce, ventre, ombelico, gote, occhi, gigli, mele, nardo, olio di mirra, mirra e cose simili” (32D);
“seni, ombelico, gambe, mani, nasi, orecchie, bellezza, amore, abbraccio, unione, e tutte le cose dette dal Dio
dell’Universo” (37A).
763Questo rimarrà anche nella sua esegesi successiva: “C’est en définitive le terme gravmma que Théodoret emploie le
plus volontiers pour désigner le sens littéral du texte, et cette désignation revêt souvent chez lui une connotation
péjorative” (Guinot 1995, 283).
764 28B6.
765 176A11.
- 118
-
!
nella prefazione al IV libro a dimostrazione che per Teodoreto c’è una sostanziale corrispondenza
tra gravmma e levxi~ (d’altronde usato solo in questa occasione in tutta la sua opera766).
In ben quattro casi è possibile cogliere l’ispirazione da 2 Cor 3 (brano biblico assai importante nella
teorizzazione esegetica): uno nel passo delle cause dell’errore (tou` gravmmato~ uJperbh`nai to;
kavlumma) e un altro, in chiarissimo parallelo, nella prefazione al III libro (tou` gravmmato~
uJperbaivnein to; kavlumma767), due in questo che stiamo commentando (“Credere alla lettera che
uccide” e ejnto;~ gravmmato~ genovmenoi768, in cui il secondo è abbastanza generico).
Ce ne sono, poi, altri due che vanno collocati nella comune tradizione esegetica di tipo allegorico, la
cui paternità è ovviamente origeniana: “Non volgendoci solo alla lettera ma anche alla diavnoia”769
e la contrapposizione di kata; to; gravmma, con kata; to; pneu`ma770, in un passo in cui sta spiegando
l’interpretazione di “Libano = Gerusalemme”.
Se mettiamo a confronto Teodoreto con altri autori, ricordiamo, anzitutto, che in Origene “il termine
comune per indicare il senso letterale è rhetón”771, Eusebio “per denotare il semplice senso letterale,
impiega generalmente levxi~”772 e l’unico che può essere accostato al vescovo di Cirro è, invece,
Gregorio di Nissa773, ma Teodoreto non mostra di essere stato influenzato da quest’ultimo in
nessuna altra parte del commento, pertanto, è probabile, nemmeno in questa.
Dunque, rimane da concludere che il valore spregiativo di gravmma viene al vescovo di Cirro
direttamente dal testo biblico, più che da altri esegeti.
!
In modo carnale (sarkikw`~)
!
Tornando allo sviluppo delle argomentazioni, dopo aver elencato le cinque cause dell’errore, il
vescovo di Cirro, afferma che l’esito dell’approccio sbagliato alla Sacra Scrittura è la comprensione
del testo “in modo carnale” (sarkikw`~774), avverbio che è usato da Teodoreto soltanto nel
commento al Cantico, sempre con il verbo noei`n e sempre con valore negativo, tanto che in questo
passo egli parla addirittura di blasfhmiva. Lo ritroviamo poco dopo riferito agli Ebrei, che
solitamente ragionano pacuvteron kai; sarkikwvteron775, ma non si tratta della tradizionale accusa
all’esegesi giudaica (assai diffusa presso i Padri della Chiesa – ad esempio Eusebio – e presso lo
stesso Teodoreto, ma non in quest’opera) perché egli spiega che certi passi dell’Antico Testamento è
normale che siano interpretati in modo figurato, perfino da parte degli Ebrei. Se teniamo presente la
32D7.
767 136B4.
768 37A6.7.
770 145C3.
771Simonetti 1985, 80, n. 46. L’Alessandrino usa ovviamente anche gravmma ma in modo abbastanza neutro (cfr. ad
esempio Princ., IV 1, 6).
772Curti 1987, 80-81 (che prosegue: “nell’opera in esame [il commento ai Salmi] lo troviamo attestato frequentemente,
per lo più contrapposizione a diavnoia, talvolta a tropikw`~, termini questi ultimi afferenti al senso spirituale che si cela
sotto il velo della lettera”), così anche Simonetti 2004, 326, n. 18.
774 33A1.
775 33B10. La terza ed ultima occorrenza è 77A2 noei`n sarkikw`~ (sulla interpretazione delle guance e del collo).
- 119
-
!
feroce polemica di Eusebio contro gli Ebrei776 e lo stesso Teodoreto che, ad esempio nell’In Ps,
accusa gli Ebrei di ragionare sarkinw`~ e swmatikw`~777, ci stupiamo del fatto che la polemica
antigiudaica sia qui di fatto sfumata, ma forse si deve a quanto dicevamo sopra del riconoscimento
dell’allegoria da parte degli Ebrei.
In ogni caso dobbiamo chiederci da dove trae l’avverbio in questione nella sua forma particolare,
usato insistentemente qui e poi mai più778, sottolineando che il senso è prettamente esegetico:
Teodoreto sta rimproverando la lettura “carnale”, cioè eccessivamente aderente alle parti corporee.
Probabilmente la fonte è Gregorio di Nazianzo, il quale, nelle lettere cristologiche, parla
dell’atteggiamento degli Apollinaristi nei confronti della Sacra Scrittura e li accosta agli Ebrei,
dicendo che interpretano pacevw~ kai; sarkikw`~779, espressione quasi identica a 33B10: abbiamo in
questo passo la polemica antiapollinarista (che Teodoreto conosceva sicuramente) unita alla
polemica esegetica.
!
Definizione dell’interpretazione figurata
!
A questo punto, Teodoreto formula una vera e propria definizione della interpretazione figurata,
unico strumento valido di lettura del testo dell’Antico Testamento, definizione che poi corroborerà
con alcuni esempi concreti. “Essi dovevano considerare attentamente che nell’Antico Testamento la
Scrittura divina dice molte cose in modo figurato (tropikw`~780): avendo utilizzato dei termini,
attraverso di essi significa altro (eJtevroi~ ojnovmasi kecrhmevnh, e{tera de; dia; touvtwn shmaivnei781).
Dunque abbiamo l’enunciazione di una precisa modalità espressiva della Sacra Scrittura782, seguita
dalla sua definizione. Analizziamo per ora quest’ultima, poi cercheremo di esporre l’effettiva
applicazione del principio di “interpretazione figurata” nel complesso del commento al Cantico.
La definizione è sostanzialmente molto generica ed è ampiamente presente in tutta la storia
dell’esegesi, notiamo comunque anzitutto che essa si riferisce soltanto all’Antico Testamento ed
esclude automaticamente il Nuovo Testamento (che complessivamente non è interpretato in modo
allegorico) e precisa che sono “molte” (polla;783) le espressioni dette in modo figurato, ma di fatto
non “tutte” (probabilmente sta pensando ai libri profetici). Ciò che però costituisce una tratto
distintivo, non di poco conto nell’esegesi di stampo antiocheno, è che la spiegazione sembra
indicare una vera e propria separazione tra il significante dei termini (eJtevroi~ ojnovmasi) e il
significato (e{tera), che è reso “per mezzo” del primo: sembra esserci, dunque, una sola
776 In Eusebio, c’è “un’evidente sfumatura dispregiativa con cui è adoperato l’agg. swmatiko;~, soprattutto al
comparativo, per indicare il senso letterale, in contrapposizione, esplicita o implicita, col senso spirituale … Per lui il
prototipo dell’uomo somatikoteros è il giudeo, e per i giudei la Scrittura ha fatto uso di quel modo d’espressione (373, 1
ss.), il solo che potesse riuscir loro accessibile per la sua materialità (pacevw~ ... swmatikw`~)” (Simonetti 2004, 327).
777 876-878.
778 Non da Eusebio, che non lo usa: “The terms for this [body] fall into two groups: the first one includes those relating
strictly to the nature of this reality such as: sômatikos, sarkinos, kata sarka, koinôteros, anthrôpinos; the second consists
of those terms denoting the quality or relation of this reality to the faculties of which it is the object: aisthêtos and
tapeinos. We may add the term: Ioudaikôteros linking it to Jewish interpretation” (Sant 1967, 23).
780 33A3.
781 33A4.
782“L’adverbe tropikôs, moins souvent l’adjectif ou le nom tropè, est la caractérisation la plus habituelle du discours
figuré, le tropikon schèma” (Guinot 1995, 292).
783 33A3.
- 120
-
!
interpretazione possibile, quella figurata che supera e rende inutile o sbagliata quella letterale.
Questo è confermato nettamente anche dagli esempi di Ezechiele e Geremia addotti nelle righe
successive nei quali l’unica interpretazione è quella figurata (la letterale è assolutamente da
scartare) e da un altro passo nel quale ritorna un’espressione simile, pollavki" hJ qeiva Grafh;
swmatikoi'" ojnovmasi kai; ejpi; th'" yuch'" kevcrhtai784, a cui adduce Ger 4, 19 e Eb 12, 12-13
(quest’ultimo, si noti, del Nuovo Testamento). La stessa conclusione vale per l’effettiva
applicazione del verbo shmaivnw nel corpo del commento. A proposito segnaliamo che a fronte
delle altre 20 occorrenze785 nella metà dei casi il verbo introduce una spiegazione più o meno
articolata di alcuni versetti biblici in senso praticamente allegorico (in quattro casi non sono versetti
del Cantico ma di altri libri, a testimoniare la continuità della interpretazione in tutto il libro sacro);
in 8 casi il verbo è in unione con il complemento di mezzo (nella forma dia; + genitivo), secondo la
modalità annunciata in 33A, in cui è evidente il rimando a qualcos’altro mediante l’espressione
concreta che così viene ad essere un puro strumento senza autonomia contenutistica; in 5 casi il
verbo regge un complemento oggetto. È possibile dunque pensare che dietro questa definizione si
celi una vera e propria allegoria.
Aggiungiamo subito che tale posizione è il contrario di quella sostenuta dalla scuola di Antiochia e
specificamente espressa da Diodoro nella prefazione ai Salmi, non solo perché egli spiega che il
senso figurato si aggiunge a quello storico senza annullarlo, ma anche perché in soli due casi egli
usa la formula e{tera ajnqVeJtevrwn (“una cosa invece di un’altra”) ed entrambi in senso fortemente
negativo, visto che si tratta di critiche alle posizioni eccessivamente allegoriste: prima parla della
kenodoxiva degli esegeti allegoristi che porta a stravolgere il senso della Scrittura (“fanno capire ai
lettori una cosa invece di un’altra”)786, poi accusa, nei medesimi termini, l’ellenismo787.
Dunque, Teodoreto sembra porsi in netta contraddizione con la tradizione antiochena, ma un
ulteriore dato pone qualche dubbio sulla presunta compatezza della medesima scuola.
Severiano di Gabala, scrittore di poco precedente a Teodoreto, appartenente alla sfera culturale
antiochena, usa un’espressione simile a quella che stiamo commentando per spiegare l’allegoria
(a[lla diæa[llwn eijsavgetai788) che di per sé non ha nulla di originale, però se poniamo l’attenzione
sul fatto che l’espressione si trova nel commento a Gal 4, 24 (notoriamente ritenuto un precedente
fondamentale, sia dagli allegoristi – come modello – che dai letteralisti – per confutarlo789) e sul
fatto che viene portato come esempio di testo pacificamente allegorico proprio il Cantico dei
cantici790 e sul fatto che Severiano scrive che “né il bacio, né la chioma, né il ventre, né le cosce, né
qualcos’altro” devono essere interpretate letteralmente (di cui può essere rimasta qualche eco
nell’elencazione di Teodoreto: “unguenti, baci, cosce, ventre, ombelico, gote, occhi, gigli, mele,
nardo, olio di mirra, mirra e cose simili”, che nei primi quattro elementi è identica791), deduciamo
che forse il passo di Severiano non era sconosciuto al vescovo di Cirro. Questo portà con sé una
conclusione notevole, su cui non possiamo soffermarci in questa sede: se Severiano di Gabala, duro
785 Sono 26 in tutto ma in 5 casi la valenza del verbo non è esegetica e uno è il brano che stiamo commentando.
791 Gli unguenti erano generalmente sparsi sui capelli. Cfr. anche Guinot 2003, 1162.
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-
!
antiallegorista e antiorigeniano792 ammette tranquillamente che il Cantico sia allegoria e se
Teodoreto, poco dopo, mantiene la stessa posizione, ciò significa che anche nell’ambiente
antiocheno tale libro era così interpretato e lo stesso ambiente utilizzava doviziosamente – almeno
in questo caso – il procedimento della allegoria.
!
Il modello eusebiano
!
Per tornare alla definizione dell’interpretazione figurata, non sfugga una forte somiglianza con il
passo proemiale dell’Is. di Eusebio:
!
“Lo Spirito a volte indicò chiaramente (ejdeivknu safw`~) al profeta le cose mostrate, così da non aver bisogno delle
figure della allegoria (trovpwn ajllhgoriva~) nella interpretazione delle parole e da utilizzare solo le uniche e semplici
espressioni letterali (yilai`~ tai`~ levxesin), altre volte per mezzo dei simboli (diav sumbovlwn) di altri fatti che, con
termini e nomi (ojnovmasin) espressivi suggeriscono un altro pensiero (eJtevrwn pragmavtwn ... eJtevran diavnoian), [Gen
37, 5-10], come espressa per enigmi (h/jnigmevnh~). Così da parte del profeta presente moltissime delle profezie sono
viste per mezzo di simboli, moltissime, invece, sono intessute in modo complicato nel medesimo passo sia alla lettera,
sia al pensiero, quali anche si trovano negli insegnamenti del Salvatore [Gv 4, 35]; di queste infatti una cosa è
l’espressione, un’altra è secondo il pensiero, e potresti trovarne altre migliaia …”
!
Questo passo di Eusebio ispira la riflessione di Teodoreto sui principi di esegesi anzitutto nella
distinzione tra interpretazione letterale di alcuni brani e interpretazione figurata di altri: allo stesso
modo Teodoreto riconosce che non tutti i brani biblici (infatti dice “molti”) necessitano di lettura
figurata, perciò ve ne sono alcuni semplicemente letterali (ovviamente non è il caso del Cantico di
cantici). Nella spiegazione della lettura figurata Eusebio si esprime con parole molto simili a quelle
di Teodoreto: “altri fatti che, con termini e nomi (ojnovmasin) espressivi suggeriscono un altro
pensiero (eJtevrwn pragmavtwn ... eJtevran diavnoian)” dice il primo, eJtevroi~ ojnovmasi kecrhmevnh,
e{tera dev diav touvtwn shmaivnei793 dice il secondo; certamente Eusebio parla di “simboli” ma essi
sono tipici della profezia, mentre per Teodoreto il Cantico dei cantici non è un libro profetico, ma
un libro mistico. Inoltre anche in Eusebio grande importanza è data dal “parlare per enigmi” e dalla
convinzione che una è l’espressione materiale, ciò che è detto, un’altra è l’espressione secondo il
vero significato (concetto ampiamente diffuso nel pensiero di Teodoreto, ad esempio in 44C8, “non
seguendo solo la lettera, ma anche svelando il pensiero di essa”).
!
Il significato di tropikw`~
!
I verbi utilizzati con l’avverbio in questione sono ojnomavzw (9 volte), nohtevon (4), kalevw (4),
prosagoreuvw (3), levgw (2) e nomivzw (1), mentre in 11 casi l’equivalenza tra la parola o
l’immagine del testo e il tropo è spiegata in modo sufficientemente articolato, in 5 casi la
spiegazione è ridotta ma comunque presente. Analizzando dettagliatamente i passi in cui Teodoreto
menziona il concetto di “figura” veniamo a scoprire che il significato è molto generico e che per la
stragrande maggioranza dei casi si tratta di metafore in cui il tropo subisce un salto di significato
dovuto ad una caratteristica simile, in qualche caso si tratta di simboli ormai divenuti topici (come il
Faraone per il diavolo), in qualche caso di allegorie più articolate; troviamo anche una similitudine,
una metonimia, una spiegazione fondata sull’etimologia e un’altra su un passo biblico: tutte queste
per Teodoreto sono espresse genericamente “in modo figurato”.
793 33A.
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!
Dopo aver analizzato – secondo le conclusioni di Guinot794 – i successivi 23 casi in cui ritorna
l’interpretazione “figurata”795, abbiamo ricostruito che in soli 2 casi796 si tratta di un significato
molto vicino al senso letterale, in 2797 di una vera e propria metafora (ma senza riferimento
all’antropomorfismo di Dio798), in ben 7 di un valore simbolico799, in altri 6800 di una vera e propria
allegoria, in altri 5801 di un senso spirituale che non deve stupire nel contesto del commento; in
questa opera l’avverbio non è utilizzato nei passi di esegesi numerale o cromatica; aggiungerei una
settima modalità che non è presente nell’elenco di Guinot, che è quella di un’interpretazione
figurata espressamente motivata dalla citazione di un testo biblico: commentando 4, 13-15802, ad
esempio, spiega che la canna e la cannella sono generi di spezie interpretabili in senso figurato
come la Sacra Scrittura in forza del salmo 44, 2 “la mia lingua è canna di scriba veloce”.
Dunque 18 sono assimilabili all’interpretazione allegorica803, ma probabilmente la migliore prova di
ciò che Teodoreto intenda con tropikw`~ è data dall’esame delle sue prime due occorrenze, quella
di 33A3 e quella di 33C8 che chiudono ad anello la citazione dei due brani biblici addotti per
dimostrare la tesi del vescovo di Cirro: i due brani sono Ez 17, 3-4 e Zc 11, 1-2 e di essi
indiscutibilmente egli dà una lettura allegorica, ricordando che perfino gli Ebrei li considerano in
questo modo, pur interpretando essi solitamente le Scritture divine più grossolanamente e più
carnalmente; inoltre a conclusione degli esempi biblici (oltre i due appena ricordati ne figura un
terzo), Teodoreto riprende la terminologia di questa definizione, dimostrando chiaramente che tout
se tient: toiouvtoi~ oJnovmasi ... kecrhmevnon, oJpoivoi~ oJ Solomw;n ... ejcrhvsato804. Quindi la
definizione è esplicitata dai tre brani, che sono delle vere e proprie allegorie, pertanto la definizione
stessa è quella di una allegoria, anche se non compare espressamente il nome.
Inoltre, poiché la definizione è posta alla conclusione del passo 32D, assai significativo nella
teorizzazione esegetica e ispirato da 2 Cor 3, essa va compresa alla luce del passo parallelo (37A),
la cui conclusione dichiara espressamente che la “lettera uccide” e le cose dello Spirito devono
essere comprese spiritualmente805: dunque tropikw`~ significa anche questo.
Questa conclusione non è molto difforme dalle posizioni di altri autori: ad esempio in Origene
“tropologia è adoperato con lo stesso significato di allegorìa”806, fenomeno identico si verifica in
802 145B6.
803“Il [Théodoret] ne semble pas établir entre ces termes [ajllhgoriva e tropikw`~] une différence bien nette” (Guinot
1995, 272, n. 44).
804 33C11.
805 37A8.
806 Simonetti 1985, 80, n. 46 (e Simonetti 1987, 38-39); così anche in Curti 1985, 461.
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!
Eusebio807, nel cui Ps., comunque, diavnoia e tropikw`~ sono “maggiormente ricorrenti”808. Nel
prologo al salmo 118 di Diodoro, invece, troviamo una spiegazione articolata di che cosa sia la
tropologiva (insieme con altri termini tecnici): dislocazione dei significati evidenti delle parole per
accrescere il senso generale, fermo restando che il testo sacro stesso deve chiarire il procedimento
(l’esempio riportato è quello della vigna: il termine è chiaro e comprensibile, va inteso con “il
popolo di Israele” grazie alla esplicitazione di sal 80, 9). Ebbene i due aspetti della spiegazione non
collimano con l’operazione attuata da Teodoreto nel Cantico: egli non solo usa tropikw`~ anche
quando il significato dei termini non è di per sé chiaro e evidente, ma soprattutto non crede che la
Sacra Scrittura dovrebbe portare una qualche chiarificazione. Non possiamo dimenticare poi che
non compare mai nella sua opera la parola tropologiva.
!
Due esempi di interpretazione figurata
!
Per dimostrare la legittimità dell’interpretazione figurata di fronte agli interpreti letteralisti,
Teodoreto usa un argomento ampiamente diffuso nella esegesi di tutti i tempi, e cioè il reciproco
sostegno della Sacra Scrittura: la Parola di Dio chiarisce se stessa. In questo caso, in realtà, non si
tratta di spiegare un passo oscuro per mezzo della citazioni di altri brani (questo sarà il modo
sovrano nel corso del commento), ma di ricordare che ci sono passi biblici che sono
automaticamente compresi in senso allegorico, senza nessun tipo di problema, neppure da parte
degli Ebrei, solitamente più aderenti alle parole.
Il primo brano è Ez 17, 3-4: “Un’aquila dalle grandi ali, di larga estensione, piena di artigli; che ha
il proposito di invadere il Libano, e prese le parti scelte del cedro, strappò via le punte dei
ramoscelli teneri”809; il secondo Zc 11, 1-2: “Apri, o Libano, le tue porte e il fuoco bruci i tuoi
cedri, gridi il pino, perché il cedro è caduto”; in entrambi i casi la spiegazione, che passa in rassegna
ogni singolo termine, è di tipo puramente allegorico.
!
L’esempio di Eusebio
!
Se è vero quanto abbiamo scritto sopra sui rapporti tra le Eclogae propheticae di Eusebio e questo
commento al Cantico, allora molto probabilmente Teodoreto ha tenuto presente l’opera del vescovo
di Cesarea laddove egli cita810 proprio Ez 17, 3-4 e dove lo riporta, come testimonianza del parlare
figurato nella Sacra Scrittura, per confermare il significato di “Libano = Gerusalemme”811 mentre
spiega il senso cristologico di Is 11, 1 ss. (la celeberrima immagina del “germoglio di Iesse” citata
da Teodoreto due volte nel seguito dell’In Ct). Eusebio giunge quasi a provocare coloro che non
interpretano in senso figurato i passi di cui sta parlando: eij de; pro;~ tau`ta; ti~ duspeiqw`~ e[coi,
legevtw eij oi\ovn te a[llw~ kata; th;n provceiron diavnoian swvzein th;n levxin812; la requisitoria
contro i letteralisti non ha ispirato direttamente il Cirrense dal punto di vista terminologico, ma
809 “Un exemple traditionnellement invoqué par les exégètes pour justifier le recours à l’interprétation
métaphorique” (Guinot 1995, 266, n. 33).
810 Ecl. PG, 1212-1213 (IV, 8): è il commento di brani tratti da Isaia.
811Teodoreto riprende questa corrispondenza nel commento a 3, 9-8 e da lì rimanda direttamente alle spiegazioni
contenute nella prefazione; però poi la cambia in 4, 8 dove “dal Libano verrai” è interpretato “passerai dall’idolatria alla
fede”.
812 1212B7.
- 124
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!
probabilmente ne ha animato il fervore allegorico. Inoltre Eusebio adopera il verbo tropologevw813
e parla addirittura di trovpo~814 per indicare l’operazione intellettuale di Isaia e di Ezechiele, e
questo potrebbe essere alla base dell’insistenza di Teodoreto sul tropikw`~. Non ultimo, mentre la
profezia di Ezechiele non si ferma ai versetti 3-4 ma prosegue per altri sei, è però soltanto ad essi
che Eusebio si rivolge, e ugualmente fa Teodoreto (ignorando il seguito che è altrettanto
allegorico)815.
È vero che tra i due brani c’è un elemento incongruente notevole, cioè l’assenza della citazione di
Zc in Eusebio, che costituisce invece in Teodoreto parte integrante della dimostrazione, però, visto
che il brano delle Eclogae risulta davvero simile ad un altro del medesimo autore (c’è un evidente
influsso del primo sul secondo) appartenente alla Demonstratio evangelica816 e visto che
quest’ultimo parte da Zc817, molto probabilmente sono entrambi alla base del testo di Teodoreto818:
egli avrebbe dunque unito i due brani traendone le fonti per argomentare la lettura allegorica,
partendo dalle Eclogae in cui compare Ez a cui avrebbe aggiunto Zc preso dal passo parallelo della
Demonstratio. Ad ulteriore riprova, in particolare del legame con il brano della Demonstratio,
notiamo che Eusebio, dopo aver ricordato che “Libano” di Zc 11, 1-2 è sunhvqw~ interpretato
allegoricamente come tempio, aggiunge che tou`to de; kai; aujtoi; pai`de~ ∆Ioudaivwn eijsevti nu`n
oJmologou`sin819, che potrebbe aver influenzato il ajlla; kai; ∆Ioudaivoi~ suvnhqe~ ... noou`si di 33B9.
Altre assenze sono notevoli: la medesima citazione di Zaccaria compare in Eusebio anche un po’
prima del passo indicato820, dove l’autore spiega che nella Sacra Scrittura alcune cose sono dette
“di∆aijnigmavtwn” e altre “ajkaluvptw~”; il passo è riportato come esempio di espressione “per
enigmi” di cui Eusebio è convinto, dal momento che lo ripete anche in VIII 4, 17821, ma di questo e
della doppia lettura (usuale in Eusebio) non c’è traccia in Teodoreto, che invece parla
genericamente di tropikw`~. Allo stesso modo non ha lasciato traccia in Teodoreto il termine
tecnico parabolh; presente nel testo biblico di Ez 17, 2 come introduzione dei versetti successivi e
ripreso da Eusebio822. Le omissioni non sono senza valore: anche se il parlare figurato “per enigmi”
appartiene alle categorie interpretative di Teodoreto che lo usa non di rado nel commento al Cantico
e l’idea di un duplice piano espressivo del testo sacro non gli è affatto estranea, tuttavia
evidentemente il vescovo di Cirro vuole fugare ogni dubbio sulla allegoria di alcuni passi biblici (e
dunque del Cantico)823 pertanto ne scarta ogni riferimento; identico ragionamento vale per
parabolh;, che tra l’altro nell’In Ct vale solo come “parabola”.
813 1212B11.
814 1212C11.
815Guinot invece crede che “la plupart de ces équivalences métaphoriques, codifiées et légitimées par la tradition,
constituent à l’époque de Théodoret un fonds commun, si familier à tous les exégètes qu’ils n’ont nul besoin de
consulter un ouvrage de référence pour les établir” (Guinot 1995, 268).
818Guinot 1987 ha dimostrato che la Demonstratio è una fonte esplicita del commento di Teodoreto al libro di Daniele:
poiché esso è di poco successivo al commento al Cantico, non è impossibile che già lo conoscesse.
821 “hj/nivxato”.
823 Non dimentichiamo che in Diodoro il “parlare per enigmi” salva il senso letterale di un testo.
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!
Rimangono altri due elementi che figurano nei due brani di Eusebio ma non sono presenti in
Teodoreto: la citazione di Is e l’indicazione che la lettura allegorica di Ez 17, 3-4 è chiarificata
espressamente dallo stesso testo sacro al v. 12 (anche in DE VIII 4, 4 il brano di Zaccaria è spiegato
a partire dalla Bibbia che in Zc 12, 2-3 esplicita l’allegoria). Quest’ultima è un’assenza di peso, dal
momento che, se lo scopo di Teodoreto è argomentare l’allegoricità della Bibbia, quale occasione
migliore per riportare che la Bibbia stessa dice di sé di parlare in modo figurato e così fugare ogni
dubbio?
A ben vedere, però, le due assenze non sono affatto casuali e hanno una spiegazione logica. Della
seconda diciamo che Teodoreto non poteva menzionare anche il v. 12, pena esporre il fianco ad una
critica abbastanza ovvia: i sostenitori della interpretazione letterale avrebbero certamente ammesso
che in Ez 17, 12 la Bibbia dice di sé di essere allegorica, ma proprio perché nel Cantico non lo dice
affatto, allora quest’ultimo non può essere interpretata in tale modo; sarebbe stato un colpo duro per
la dimostrazione di Teodoreto. Ed essi avrebbero trovato un valido aiuto negli scritti di Giovanni
Crisostomo, il quale, commentando Is 5, 7 riporta il brano di Ez 17, 3-4 come esempio di allegoria,
ma sostiene convintamente che “la Sacra Scrittura ha dappertutto questa regola: quando allegorizza,
ne spiega anche l’interpretazione, cosicché la mania sfrenata di quelli che vogliono allegorizzare
non può sbagliare e vagare senza motivo e dove capita”824: forse Teodoreto conosceva questo testo
e si guarda bene dall’alludere ad esso. Per quanto riguarda la prima assenza, notiamo che Teodoreto,
al termine di questo paragrafo, scrive che vi sono anche altri esempi in cui la Sacra Scrittura parla in
modo figurato e forse si riferisce al brano di Isaia, che viene scartato plausibilmente perché il
vescovo di Cirro non vuole affrontare in questa sede l’argomento spinoso della interpretazione
tipologica, quale è evidentemente quella del brano in questione.
Ci sono altri due brani di Eusebio dove compaiono le due citazioni di Ez e Zc. Uno è tratto dal
commento ai Salmi825, per spiegare di nuovo la corrispondenza “Libano” = Gerusalemme, dove
torna Is 10, 33 e figura anche Sal 28, 5-6; ma un passaggio dove dice “coloro che provengono dalla
circoncisione” dubitano di questa spiegazione pone tutto il brano lontano da quello di Teodoreto.
L’altro appartiene al commento a Isaia826, ma vi si trova una spiegazione della lettura allegorica di
“Libano” per Gerusalemme che non corrisponde affatto a quella che Teodoreto dà nel commento al
Cantico: o ancora non conosceva le due opere (ma successivamente saranno indiscutibilmente tra le
sue fonti827) o comunque non ha considerato i passi degni di nota.
Ad ulteriore conferma del procedimento allegorizzante adottato implicitamente da Teodoreto,
ricordiamo che la corrispondenza “Libano”=Gerusalemme per Eusebio è esplicitamente
un’allegoria828; allo stesso modo il Crisostomo commento Ez 17, 3-4 (scritto prima del 386): “Di
nuovo quando Ezechiele dice che una grande aquila dalle grandi ali entra nel Libano e scuote la
cima del cedro non lascia al lettore di porre l'interpretazione dell’allegoria ma lui stesso dice che
cosa sia l’aquila e che cosa sia il cedro”829.
!
Analisi dettagliata
826Is., 215 (Is 33, 9). In tutti i quattro passi la coppia dei profeti è citata per ricordare che nella Bibbia “Libano”
significa “Gerusalemme”.
827“Il est en revanche assuré que l’interprétation de Théodoret emprunte beaucoup à celle d’Eusèbe sur Isaïe et sur le
Psautier, qu’il lui doit aussi une partie de sa critique textuelle, et qu’il utilise sa Démonstration évangélique pour
expliquer la prophétie de Daniel” (Guinot 1998, 69).
828 Livbanon de; th;n ∆Ierousalhm ajllegorikw`~ sunevqe~ ejsti;n ajpokalei`n, DE, VI 21, 5 (Is 35, 1-5)
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!
!
Teodoreto non si ferma alle semplici citazioni dei due brani per testimoniare inoppugnabilmente la
allegoria biblica, ma li analizza dettagliamente, immagine per immagine, ricostruendo che tipo di
tropo ha in mente l’autore sacro (e che Teodoreto comunque denomina genericamente con
tropikw`~) e così fornendo una base scientifica al processo ricostruttivo della comprensione del
testo biblico830.
!
Figura Significato Motivo Tropo
Ez 17, 3-4
“Aquila” Re Nabucodonosor dal momento che è un metafora-simbolo
animale regale
“dalle grandi ali” grandezza del potere metafora
“piena di artigli” m o l t i t u d i n e metafora
dell’esercito
“ha il proposito” è guidato da un
comando divino
“Libano” Gerusalemme p e r l a fi t t a metafora
abbondanza delle
grazie spirituali
“Le parti molli del uomini rammolliti e metafora
cedro” presi dal lusso, di
elevata condizione
sociale
Zc 11, 1-2
“fuoco” il re di Babilonia metafora
“Libano” Gerusalemme metafora
“cedri” gli uomini carichi di metafora
ricchezza, ricchi di
onori
“pino” coloro che sono metafora
inferiori ad essi
!
830Oggi noi chiamiamo questo procedimento “allegoresi”, ma Teodoreto è convinto che l’agiografo del Cantico abbia
deliberatamente composto un’allegoria (cfr. Simonetti 2004, 52-53).
- 127
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!
Nel corso del commento Teodoreto ritorna sul significato figurato di “Libano”, che compare altre
quattro volte: due volte significa “Gerusalemme” (in un caso con un rimando esplicito a queste
righe della prefazione831), una volta “idolatria”832 e una volta corrisponde al nome dell’incenso833.
Ricordiamo che la metafora continuata altro non è che allegoria.
!
Un esempio di interpretazione figurata di argomento erotico
!
In questa lunga dimostrazione della legittimità della sua interpretazione spirituale Teodoreto
argomenta con la precisione e la razionalità che gli sono abituali: dopo aver dimostrato in generale
che la Bibbia contiene delle allegorie, riporta un brano caratterizzato da quello stesso lessico erotico
che compare nel Cantico, è Ez 16, 2-14.24-26.31-34 in cui Gerusalemme è paragonata ad una
prostituta che ha tradito il legittimo matrimonio come metafora dell’unione tra Dio e il popolo
ebraico e l’idolatria conseguente834. È significativo che l’interpretazione di Teodoreto non sia
animata dalla tipologica cristologica ma rimane nell’ambito della storia del popolo ebraico. Il
contesto erotico è particolarmente vicino a quello del Cantico ma Teodoreto non si sofferma su
questo, quanto su un’ulteriore analisi, molto più dettagliata e minuziosa della precedente, di ogni
singola parola o espressione del testo sacro. Anche in questo caso la dovizia esplicativa si deve alla
necessità di dimostrare razionalmente il suo assunto, oltre che alla vera e propria modalità esegetica
del vescovo di Cirro.
C’è però un elemento di novità molto importante in questo brano, su cui forse Teodoreto non ha
riflettuto abbastanza, ed è costituito dalla sua premessa: “Figlio dell’uomo, testimonia a
Gerusalemme le sue iniquità … la tua radice e la tua nascita. Così dice il Signore Dio a
Gerusalemme”, ecc. Il v. 2 praticamente fornisce immediatamente la chiave di lettura allegorica di
tutto il brano: se le parole successive sono rivolte a Gerusalemme, è chiaro che esse vanno
interpretate in senso allegorico; in altre parole Teodoreto sta cadendo nella contraddizione esegetica
che ha voluto evitare per Ez 17, 3-4: mentre cita questo per la sua somiglianza con il Cantico, non si
rende conto che il Cantico non fornisce chiavi di lettura allegoriche e pertanto il paragone non è
molto convincente. È vero che gli antichi non facevano distinzione tra i casi e molto spesso
facevano allegoresi laddove l’agiografo non aveva la minima intenzione, però, in questo
svolgimento delicato e argomentativo, la svista non è di poco conto.
!
Figura Significato Motivo Tropo
Ez 16, 2-14.24-26.31-34
“Tuo padre è amorreo malvagità di vita
parentela spirituale antonomasia
e tua madre ittita” Lc 3, 7
Gv 8, 44
“non ti legarono i tuoi stile di vita negligente
in modo figurato
metafora spirituale
seni” disprezzo della virtù le ragazze si
prendono cura di sé
Ger 2, 32
832 137B4.
833 192C6.
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!
“non fosti lavata p e r m a n e n z a d e l in modo figurato
metafora spirituale
nell’acqua” s u d i c i u m e
dell’idolatria egiziana
“non ti fecero le perspicacia spirituale e secondo le leggi della metafora spirituale
frizioni di sale” insegnamento divino
allegoria
Mc 9, 50
il sale astringe il
Mt 5, 13
marciume
Lv 2, 13
“non ti fu tagliato p e r m a n e n z a d e l secondo quelli che metafora spirituale
l’ombelico” legame idolatrico con sono esperti di tali
l’Egitto cose
ombelico fisico
“ti vidi sporcata nel sacrifici offerti agli metafora spirituale
tuo sangue” idoli
“i tuoi seni si conversione verso metafora spirituale
rizzarono” l’alto
“e la tua chioma è metafora spirituale
cresciuta”
“tu eri nuda e non ti era stata data la metafora spirituale
indecente” legge né il tabernacolo
“ecco il t u o età delle nozze con metafora spirituale
momento” Dio
“aprii le mie ali su di grazie multiformi metafora spirituale
te”
“bracciali ai polsi” virtù pratica metafora spirituale
“orecchini” ascolto delle Sacre l ’ o r e c c h i n o è metafora spirituale
Scritture attaccato all’orecchio
“collana” conoscenza sta sul cuore metafora spirituale
“anello posto nel il morso delle leggi per metafora dei buoi metafora spirituale
naso” divine
Os 4, 16-17
Ger 38, 18
“ c a s a d i case degli idoli matrimonio e metafora spirituale
prostituzione” adulterio
“in ogni sommità” e c c e s s o metafora spirituale
dell’intemperanza
“unione” culto degli idoli in modo figurato metafora spirituale
“tu hai dato doni” hai donati agli idoli i metafora spirituale
beni dati da Dio
!
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-
!
Il ragionamento di Teodoreto dunque è molto chiaro: la Sacra Scrittura fa uso abbondante di
metafore e allegorie e “spesso usa nomi corporei in riferimento all’anima”835. Quest’ultima
affermazione è formulata nel commento al v. 1, 9, in cui sono addotti Ger 4, 19 e Eb 12, 12-13; di
nuovo però Teodoreto compie uno scivolone, visto che almeno nella prima citazione egli stesso
ricorda che Geremia esplicita la lettura metaforica, e nel secondo caso è abbastanza ovvio che Paolo
intenda le facoltà spirituali attraverso l’immagine delle gambe.
!
Un esempio di spiegazione dal Vangelo
!
Per spiegare l’interpretazione figurata, Teodoreto non attinge soltanto all’Antico Testamento, ma
anche al Nuovo, laddove è Gesù stesso che, utilizzando l’espressione “prole di vipere”836 e “siete
figli del diavolo”837, spiega che sta utilizzando delle immagini per accusare gli ascoltatori di opere
peccaminose. Questi passi servono per collocare nella giusta luce la definizione di Gerusalemme
come “figlia di Amorrei e di Ittiti”, di fronte alla quale egli afferma che “non dobbiamo pensare ad
una parentela di sangue ma spirituale”838. È molto significativa la formula di passaggio tra questa
spiegazione e il ritorno al testo di Ezechiele (ou{tw~ toigarou`n kai; ejntau`qa839, “così dunque
anche qui”), che stabilisce una corrispondenza esatta, da un lato, tra il Nuovo Testamento e l’Antico
Testamento (fin qui nulla di nuovo), ma dall’altro tra le allegorie dell’Antico Testamento e del
Nuovo Testamento.
!
“Le leggi dell’allegoria”
!
Kai; tou`to de; kata; tou;~ th`~ ajllhgoriva~ novmou~ nohvsomen840, “comprenderemo ciò secondo le
leggi della allegoria”. Un’espressione veramente inaspettata nell’opera di un autore antiocheno che
chiama in causa addirittura il concetto di “allegoria” e le leggi che la governano. Il contesto è la
spiegazione del brano di Ez 16, che da un lato si riallaccia ai brani precedenti che devono essere
interpretati tropikw`~, dall’altro circoscrive la loro dimostrazione al lessico erotico, che è la prova
principale della lettura spirituale del Cantico. Alla luce di queste considerazioni Teodoreto afferma
chiaramente che l’unica lettura possibile del Cantico è quella allegorica, ed essa garantisce
l’autenticità della divina ispirazione, che sarebbe negata dalla lettura storico-letterale e in questo
mostra la propria autonomia intellettuale e la propria maturità esegetica, fin dalla prima opera, se
pensiamo che pochi decenni prima di lui, presso tutti i suoi predecessori esegeti, “le terme
d’«allégorie» est désormais condamné: quoi qu’il puisse recouvrir, il est synonyme de sens
extérieur au texte, ajouté sans fondement, inventé comme le sont les fables”841.
Dal punto di vista tecnico l’esortazione è generata dall’immagine del sale di Ez 16, 4842 che viene
chiarificato con una precisa puntualizzazione: “il sale è la perspicacia spirituale e l’insegnamento
835 77A3.
836 Lc 3, 7.
837 Gv 8, 44.
838 37A11.
839 37C1.
840 40A5.
- 130
-
!
divino”843, il quale astringe ciò che è marcio e lo conserva sano. La stessa immagine ritornerà nel
commento a Ezechiele, ma molto più semplificata e senza spiegazione: a fronte delle due righe e
mezzo dell’In Ct corredate dalla citazione di due brani del Vangelo, nell’In Ez Teodoreto scrive
soltanto “Non ricevesti il sale dell’insegnamento”. Dovremmo pensare all’esistenza di repertori di
corrispondenze allegoriche a cui Teodoreto ha attinto nell’uno e nell’altro caso? La spiegazione
articolata del commento al Cantico ce lo farebbe escludere. Piuttosto, è probabile che, mentre qui
egli ritiene opportuno spiegare adeguatamente l’allegoria, nel momento di scrivere il commento a
Ezechiele, invece, tiene presente il lavoro precedente senza necessità di tornarvi sopra.
Il “sale”=perspicacia spirituale è un tropo con valore spirituale che viene giustificato anzitutto con
due citazioni del Nuovo Testamento (Mc 9, 50 “abbiate sale in voi stessi” e Mt 5, 13 “voi siete il
sale della terra”), la cui presenza dimostra che anche nei Vangeli compaiono delle allegorie e
implicitamente Teodoreto ammette che le faceva Gesù in persona. Inoltre, a partire da Lv 2, 13,
Teodoreto ricorda che nell’Antico Testamento ogni sacrificio prevedeva l’utilizzo del sale,
evidentemente come simbolo del suo significato allegorico.
Sembra di capire, inoltre, che Teodoreto non si riferisca soltanto a questa immagine, ma, quasi
sicuramente, almeno anche alla successiva, ou{tw~ noou`men to; Oujk ejtmhvqh oJ ojmfalo;~ sou844 (che
tecnicamente è una similitudine) e probabilmente a tutto il passo, che viene analizzato e traslato
minuziosamente.
L’utilizzo di questa terminologia (del tutto estranea ad un antiocheno) è rarissimo in Teodoreto, che
si limita a questo unico caso nel Cantico, e ad altri 3 passi tutti nel commento a Ezechiele,
dopodiché mai più se non in tono polemico845. Il primo caso, assai significativo, è nel commento a
Ez 23, 18, in un contesto manifestamente erotico, nel quale la lettura in chiave allegorica è
esplicitamente suggerita dallo stesso testo sacro (si tratta del racconto di due sorelle prostitute,
allegoria di Israele e Samaria), ma propriamente la spiegazione allegorica, kata; to; th`~
ajllhgoriva~ ei\do~846, che non ha altri riscontri in Teodoreto e in altri autori a lui vicini, è riservata
all’anima di Dio di cui si dice essere immagine della Provvidenza, perché “l’Elemento divino è
incorporeo e incomposto”. Il riferimento cristologico e la motivazione dell’allegoria (Dio, per
soccorrere la debolezza degli uomini, parla con immagini umane) sono particolarmente interessanti,
ma ancora più interessante, diremmo quasi dirimente di eventuali ultimi dubbi, è l’affermazione
successiva, secondo cui “di nuovo [la Bibbia] menzione la idolatria in modo allegorico e
figurato”847, da cui si evince definitivamente che nel vescovo di Cirro i due concetti si equivalgono.
Medesime conclusioni sono possibili leggendo un’altra occorrenza di allegoria, che compare nella
profezia contro l’Egitto di Ez 29, dove spiega complessivamente tutto il brano a partire dalla
rappresentazione del fiume848 e dove gli affianca troph; e aijnivssomai; aggiungiamo che anche in
questo caso il testo sacro fornisce una implicita chiave di lettura allegorica, laddove, al v. 3, accosta
la metafora del coccodrillo alla invocazione del Faraone.
L’ultima occorrenza è nel commento a Ez 31, 9 che viene spiegata prima dal punto di vista storico,
poi, senza particolari autointerpretazioni bibliche, dal punto di vista spirituale: il cedro corrisponde
al diavolo e gli albero del paradiso sono, kata; tou;~ th`~ ajllhgoriva~ novmou~849, le nature
843 40A7.
844 40A12.
845 Cfr. Guinot 1995, 293; egli cita solo due passi dell’In Ez ma ce n’è un terzo.
846 1040B8.
847 1040C10.
848 “E come per la profezia su Tiro ha tratto l’origine della allegoria dal mare (infatti è una città costiera), così qui ha
utilizzato il traslato dal fiume” (1105A1).
849 1124AB Questa è quella del commento al Cantico sono le uniche due occorrenze del sintagma.
- 131
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!
incorporee; anche in questo caso di lì a poco la spiegazione viene avvalorata da un brano di Paolo
che, a giudizio di Teodoreto, “parla per enigmi”.
Di nuovo il commento al Cantico emerge nella sua assoluta particolarità: non solo l’utilizzo della
parola allegoria è all’inizio della sua produzione esegetica, ma nell’unica altra opera, in due casi la
Bibbia fornisce direttamente la chiave di lettura allegorica e nel terzo questa si affianca a quella
storica, che la precede. Dunque mai più come nell’In Ct Teodoreto ammetterà l’allegoria.
Ma da dove ricava Teodoreto l’espressione “secondo le leggi dell’allegoria”? È difficile dare una
risposta definitiva, prendiamo atto però che l’idea delle “leggi della allegoria”, sia nella forma
all’accusativo preceduto da kata;, sia nella forma al dativo plurale semplice, non appartiene alle
abitudini della esegesi origeniana850, ritorna una volta in Basilio851 per difendere l’interpretazione
letterale degli animali terrestri della genesi e ben 6 volte in Eusebio. Una volta nelle Eclogae
propheticae, con riferimento alla benedizione di Isacco su Giacobbe (Gen 27) in chiave cristologica
illuminata da Gal 3, 26: oJ filomaqh;~ eJkavsthn levxin novmoi~ ajllhgoriva~ ejxetavsa~ ei[setai852,
in cui però “this is typology bordering on rhetorical allegory”853. Due volte nella Demonstratio
evangelica, dove spiegano l’immagine delle forze invisibili854 (forse percepite da Teodoreto affini
alle nature incorporee di Ez 31, 9) e dove intervengono nella chiarificazione del salmo 44855 (cui
Teodoreto attinge ripetutamente nel commento al Cantico). Due volte nel commento ai Salmi: in
particolare in un caso856 nella spiegazione di “Etìopi” come “forze invisibili” (a cui segue poco
dopo l’avverbio tropikw`~). Una nel commento a Isaia, in un passo dove è spiegata l’immagine del
Libano857.
Oppure, l’espressione “secondo le leggi della allegoria”, può alludere a Diodoro e alla sua
spiegazione articolata dei vari procedimenti: Diodoro, infatti, aveva parlato di un’allegoria che
attribuisce un altro significato, che annulla il valore letterale. In tal caso, visto che Teodoreto, in
questo passo, attribuisce all’allegoria un altro significato che annulla il senso letterale (poco prima
ha scritto che “la lettera uccide”), è evidente che si tratti di allegoria pura in senso diodoreo e
Teodoreto consapevolmente la applica, anche perché i brani della prefazione sono una lunga lettura
metaforica, quindi una vera e propria allegoria.
Non passeremo in rassegna il significato di “allegoria” negli altri esegeti, data la sua valenza ovvia e
generalizzata, ci limitiamo però a ricordare che in Teodoro di Mopsuestia è definita come un
“paragone tra i fatti avvenuti e i fatti presenti”858, che non ha attinenza rilevante con il contesto del
Cirrense.
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La metafora
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850“Le espressioni legge, norma dell’allegoria mi sembrano assenti sia in Clemente sia in Origene; sono invece ben
rappresentate in Didimo, origeniano e influenzato anche da Filone” (Simonetti 2004, 55, n. 19).
856 864, 22. L’altra è 649A1, “il corpo umano è chiamato salterio”.
857 376.
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!
Nella lunga spiegazione di Ez 16 Teodoreto adopera anche un altro termine tecnico della analisi
esegetica, metafora;859, con il valore generico di “traslato, trasformazione”. Questo è l’unico
utilizzo nell’In Ct e il termine non figura nemmeno nel commento a Daniele, che probabilmente gli
è di poco successivo, mentre diventa più comune nel commento a Ezechiele dove lo troviamo 8
volte860: la formula quasi del tutto generalizzata è ejk metafora`~ + genitivo861 (a volte retta dal
verbo tevqeike), in tre casi l’espressione è accompagnata da altre determinazioni, precisamente hj/
nivxato e tropikw`~ in 841A12 dove spiega che la profezia di genti infuriate è immagine tratta dal
comportamento dei buoi (gli stessi animali, ma in contesto diverso, del passo citato nell’In Ct),
tropikw`~ in 932C8 (In Ez 16) e 1844, 20. Come ulteriore prova, se ce ne fosse bisogno, che in
Teodoreto questi termini tecnici sostanzialmente si equivalgono.
Nella spiegazione di Ez 16 presente nel commento generale al profeta troviamo molti elementi di
somiglianza con quella presente nella prefazione dell’In Ct, tanto da far pensare ad una derivazione
diretta (vv. 2-3: la citazione biblica di Lc 3, 7, i concetti e la struttura sintattica; v. 4: la spiegazione
dell’ombelico; v. 6: la spiegazione dei sacrifici; vv. 11-12: le singole corrispondenze delle
immagini; vv. 23-26: la spiegazione della prostituzione come idolatria – di per sé abbastanza
comune – è però nei due passi espressa praticamente con le stesse parole862 e nell’In Ez sembra
quasi di trovare un ripresa e ampliamento dell’In Ct863).
Notiamo, in ogni caso, che nella spiegazione dell’In Ez la chiave di lettura ejk metafora`~ compare
ben 4 volte864, di cui due volte espressamente arricchita da tropikw`~ (che, insieme ad aijnivttetai,
caratterizza la chiarificazione di questi versi) e che, in generale, troviamo un parallelo continuo tra
storia e interpretazione figurata, come se la lettura storica illuminasse e chiarisse la stessa
interpretazione figurata, e questa modalità è molto diversa da quella dell’In Ct che dà solo
interpretazione allegorica.
È difficile ricostruire da dove Teodoreto abbia attinto l’utilizzo di questo termine in questo passo
particolare; forse non direttamente da Eusebio, visto che nell’autore palestinese “con metaforikw`~
è introdotto un senso che si sovrappone alla lettera pur non negandola del tutto, un senso che
tuttavia a buon diritto entra nella sfera dell’allegoria”865. Probabilmente è da ricondurre ai suoi
maestri antiocheni, dal momento che “il termine metafora si sarebbe imposto nella terminologia e
nella prassi esegetica soltanto con Diodoro, nella seconda metà del IV secolo”, però “in opposizione
a allegoria”866 e in Teodoro viene utilizzato nel commento ai Salmi decine di volte, nella forma ejk
metafora`~ + genitivo. In ogni caso il loro utilizzo non corrisponde a quello del Nostro nell’In Ct
che comunque è limitato, come abbiamo visto, ad una sola volta.
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Iperbole
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859 ∆Ek metafora`~ tw`n tauvrwn (41C5).
860 Ritorna 4 volte nel commento ai XII profeti, nel commento ai Salmi, invece, ben 33 volte.
861Una sola volta dia; th;n metafora;n in un contesto in cui non ha neanche valore esatto di figura retorica (PG 81,
1637, 39
).
863 Non è questa la sede di un confronto approfondito, che peraltro sarebbe molto interessante.
864Delle 8 complessive, evidentemente questo passo è ritenuto da Teodoreto particolarmente allegorico. Cfr. 932C7.12,
933C13, 937A4.
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!
Nella spiegazione di Ez 16 c’è spazio anche per il termine uJperbolh; che costituisce un
meccanismo di theoria negli Antiocheni. Ma a ben vedere in Teodoreto le cose stanno
diversamente, dal momento che la doppia citazione867 non esprime tanto una modalità della
interpretazione quanto la spiegazione pura e semplice del testo, in altre parole non è l’eccesso delle
immagini che conduce ad una lettura figurata, ma è il testo vero e proprio che contiene l’immagine
di un eccesso di sfrenatezza e impurità.
!
Duplice interpretazione della Scrittura
!
Al termine di questa lunga spiegazione dei principi esegetici applicati al Cantico dei cantici, volta a
dimostrare irrefutabilmente la legittimità della interpretazione allegorico-spirituale, Teodoreto
conclude con l’enunciazione di un principio, assai chiaro868 ma anche abbastanza generico.
“Le cose dette sono sufficienti perché noi capiamo come occorre comprendere le divine Scritture,
non seguendo la lettera solamente, ma anche svelando il pensiero di essa”, mh; tw/` gravmmati movnon
prosevconta~, ajlla; kai; th;n touvtou diavnoian ajnaptuvssonta~869, dove l’antitesi stilistica in
questo caso ha un valore particolare, infatti l’avverbio di negazione e movnon comprendono il
termine tw/` gravmmati che dunque risulta in qualche modo messo in evidenza. Dalle altre 9
occorrenze della medesima struttura870 (un termine è evidenziato dai due avverbi che lo chiudono
ad anello) si evince che questo procedimento è adottato da Teodoreto non semplicemente quando
vuole porre in relazione due elementi, fra loro sostanzialmente equipollenti, ma ogni qual volta egli
intenda che il primo termine è quello più prevedibile e scontato, quindi meno importante a fronte
del secondo che assume invece una maggiore pregnanza e robustezza espressiva. Ad esempio nel
commento a Ct 1, 6 “Mi posero custode delle vigne”, Teodoreto scrive che la sposa riconosce
l’incarico di coltivazione e custodia della vigna, ma soprattutto di custodia (“Mi affidarono gli
ordini divini come una specie di vigna, e mi ordinarono non di lavorarla solamente e coltivarla, ma
anche di custodirla, affinché qualche animale selvaggio non ne guastasse il frutto”), o a 1, 7
“pascola i tuoi capretti nei tendaggi dei pastori”, laddove troviamo “ricerca le impronte delle greggi
e, accompagnandoli, pascola non le pecore solamente ma anche i tuoi capretti, nelle tende dei
pastori”, è chiaro che l’attenzione maggiore, sulla base del versetto, è rivolta ai capretti e non alle
pecore.
Dunque, tornando alla formula esegetica, il senso più veritiero della correlazione è che, nell’attività
interpretativa, non dobbiamo fermarci solo sulla lettera (come farebbero gli interpreti letteralisti, in
particolare del Cantico), ma piuttosto svelarne il pensiero profondo, in cui la lettera non viene
automaticamente annullata nella sua valenza, ma certamente viene fortemente destituita di
fondamento e viene radicalmente superata dal senso spirituale, come si capisce, d’altronde, da tutti
gli altri passaggi della lunga prefazione e in modo da contrapporsi nettamente alle affermazioni di
Diodoro nella prefazione ai Salmi. Registriamo, poi, che una simile contrapposizione di gravmma e
diavnoia è stata già formulata da Teodoreto qualche riga prima, quando esortava a indagare il
“pensiero dello Spirito”871.
Se spostiamo l’attenzione alla seconda parte della correlazione, troviamo che il senso è quello già
noto di “svelare il pensiero”, ma la scelta lessicale è interessante. Il verbo adoperato è ajnaptuvssw,
usato dagli autori della tragedia classica con il significato di “dispiegare, estendere”, non in contesti
869 41C8.
870 68B16, 72B8, 73D4, 77,26, 93,9, 152,30, 152,48, 164,36, 193-32 su un totale di a fronte di 54 occorrenze della coppia
ouj/mh; movnon ... ajlla; kai;.
871 37A7.
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-
!
esegetici o letterari, ma con espansioni concrete (una clamide, l’esercito, le mani, la porta, ecc.) e
non è affatto escluso che da essi Teodoreto ne abbia appreso l’uso, data la sua ricca preparazione
letteraria; riscontriamo infatti l’espressione thn; diavnoian ajnaptuvssonte~ anzitutto in un passo
della Curatio872 in cui parla di filosofi neoplatonici, che, “presentando il pensiero di Platone”
congiunto alla teologia ebraica e cristiana, formulano l’esistenza di tre elementi divini molto affini
alle persone della Trinità (e poi circa una ventina di volte nelle opere posteriori al Cantico).
Il medesimo nesso è utilizzato una volta da Eusebio873 e da Basilio874; altri autori cristiani – come
Gregorio di Nissa e Giovanni Crisostomo – qualche volta adoperano il verbo in un contesto
esplicativo.
Dunque, secondo Teodoreto, l’operazione di esegesi è volta alla illustrazione ampia e profonda del
significato spirituale della lettera, che risulta essere – almeno nel Cantico dei cantici – l’unico vero,
in questo caso senza nemmeno una particolare sottolineatura dello “svelamento”.
A questo punto vale la pena soffermarci su un altro termine dell’esegesi in generale molto
ricorrente, che non di rado si incontra anche nel commento al Cantico di Teodoreto, ed è la parola
diavnoia, dal valore generico di “pensiero, intelligenza, significato, senso”. Diciamo subito,
comunque, che essa non risulta essere un vero e proprio termine tecnico, dal momento che a fronte
di 27 occorrenze totali, ben 15 sono interpretabili nel valore generico di “pensiero” e non
presentano particolari risvolti legati alla riflessione esegetica. Nei restanti 12 casi, invece, è
possibile cogliere qualche sfumatura più importante, soprattutto perché essi si trovano per lo più in
passi notevoli dal punto di vista teorico: nella prefazione compare 6 volte875 (di cui ben 4 nelle
prime righe), una volta nella prefazione al III libro876, una nel commento ad un salmo
cristologico877, 4 in passi dichiarati di difficili comprensione dallo stesso Teodoreto878, a cui
aggiungiamo due occorrenze di e[nnoia879 e una di nou`~880 che sembrano essere comunque semplici
sinonimi. Una ipotetica traduzione dei termini in questi contesti potrebbe oscillare tra
“significato” (7 volte) e “vero significato” (6 volte) che ci sembra essere quello più determinante
rispetto ad un uso esegetico del termine, in un caso “contenuto” (pw'" toivnun tauvthn e[cei th;n
diavnoian, h{n fate, to; biblivon…881) e in un altro “pensiero” (th;n tou' Pneuvmato" ejreunw'men
diavnoian882) ma il passo è chiaramente esegetico, visto che rimanda a 2 Cor 3, 6; una lettura attenta
ci permette anche di capire a quale specificazione l’autore li riferisce: 3 volte con “il (vero)
significato delle parole” o simili (tw`n eijrhmevnwn, to; rJhto;n, tw`n rhvmatwn), 3 volte con “il (vero)
873 Ecl., 191, 14, sta commentando Is 19, 19; con mustikh'" de; kai; ajporrhvtou qewriva" in I, 2 (ibid., 6, 16).
874Ep., I, 27 (ep. 8, 4, 5); Basilio sta combattendo l’uso distorto che gli eretici fanno della Sacra Scrittura, piegandola ai
propri errori e, per questo, vuole “presentarne” adeguatamente il pensiero (ma è lecito dubitare della paternità basiliana
della lettera).
876 136B6.
880 139B10.
881 29D6.
882 37A7.
- 135
-
!
significato della Sacra Scrittura”, 4 volte con il “(vero) significato/contenuto dello scritto” o simili
(to; biblivon, tou` gravmmato~, hJ sunqhvkh), 3 volte con valore assoluto.
Il fatto è che questo termine anche in altri esegeti ha una valenza abbastanza generica883; Origene,
ad esempio, “fa uso di una terminologia di tipo platonico, caratteristica della conoscenza e
conteplazione del mondo ideale: qewriva noevw novhsi~ e[nnoia diavnoia”884 e “in tutti questi termini
l’accezione esegetica, anche se tende a divenire tecnica, coesiste con gli altri, più generici
significati”885; in Eusebio invece diavnoia è più ricorrente (insieme con tropikw`~), ma spesso
utilizzato in antitesi con levxi~886 ed è un “termine che da solo, senza aggiunta di altra
qualificazione, Eusebio (e non solo lui) impiega a designare il senso più profondo, quello che si cela
sotto il velo della lettera, in definitiva il senso allegorico”887, come avviene, ad esempio,
esplicitamente nel proemio del commento a Isaia, ma di questa coppia non c’è traccia nell’In Ct.
!
Utilità
!
Anche un altro tema tipico della esegesi antica è risolto da Teodoreto in modo molto rapido e quasi
scontato, quello della utilità della Scrittura. Invece di farne una trattazione degna e articolata, egli vi
accenna in soli tre passi, il cui primo888 è inserito nel corso del commento senza particolare
attenzione da parte dell’esegeta e gli altri due, contestuali nella prefazione al IV libro, richiamano
l’idea della utilità del commento pur in presenza della indegnità dell’autore889.
!
Il termine tuvpo~
!
Seppur non compaia nella trattazione contenuta nella prefazione, è necessario menzionare un altro
termine tradizionalmente centrale nella attività esegetica: tuvpo~.
Anche in questo caso non ci dobbiamo aspettare un utilizzo tecnico particolare di questo vocabolo
da parte di Teodoreto, che, quando lo usa, lo fa in senso molto generico.
!
Passo Testo Tropo Significato
[1, 3b]
wJ" ejn tuvpw/ tw/' muvrw/ th;n ajovraton tou' unguento = tipologico
60C panagivou Pneuvmato" cavrin uJpodecovmenoi Grazia non
immediato
1, 7
ejn tuvpw/ de; aJmartwlw'n tou;" ejrivfou" hJ capretti = no tipologia
76A qeiva paralambavnei Grafhv peccatori
883
“The term dianoia was used by all exegetical schools to designate a meaning deeper than the obvious one, no matter
what its nature would be” (Sant 1967, 98).
888 “L’espressione ha un doppio significato, in entrambi i casi santo e pieno di utilità” (72B13).
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-
!
1, 11b-12
Navrdon me;n, wJ" kai; ajlifevnta th/' navrdw/ th/' casa = mondo no tipologia
81B pistikh/' th/' polutivmw/, h|" hJ ojsmh; o{lon to;n
oi\ k on ej p lhv r wse, tuv p on e[ c onta th' "
oijkoumevnh"
[2, 8bcd]
wJ" tuvpon e[cousa dia; th;n ojxudorkivan th'" gazzella = fede no tipologia
97B pivstew"
3, 6
Mimei'tai de; kai; stelevchn pollavki" fumo = colonna no tipologia
120B qumiavmato" kapno;" ejn tw/' ajevri oiJonei;
tupouvmeno"
4, 3
D i a ; t o u ' k o k k i v n o u s p a r t i v o u Raab = Chiesa tipologico,
129C ajnamimnhvskei aujth;n th'" to;n tuvpon aujth'" ma al
plhrwsavsh" ejn Palaia/' Diaqhvkh/ ÔRaa;b contrario:
th'" povrnh"
sembra dire
che Raab ha
“compiuto” il
senso
tipologico
205A kai; tw/' aujtou' carakth'ri tupou'n tav te no tipologia
legovmena
8, 8-9
kai; quvra" tuvpon e[cein frourouvsh" ta; sorella = porta no tipologia
209A ajpokeivmena,
!
Come si vede dalla tabella delle 8 occorrenze del gruppo semantico (6 volte il sostantivo, 2 volte il
verbo) soltanto in un paio di casi si può scorgere una valenza realmente tipologica al contesto, ma
nel primo essa non è comunque immediata, nel secondo scambia i termini soliti del rapporto: non è
la Chiesa a compiere l’anticipazione tipologica, ma è Raab che compie il senso tipologico, indizio,
quanto meno, di una certa imprecisione. La rassegna mostra, dunque, che nel vescovo di Cirro il
termine non ha alcuna valenza particolare, anzi significa genericamente “immagine, esempio”.
D’altronde, anche in altri autori la parola non gode di particolare fortuna: in Origene si affianca a
skia; con il significato di “mistero cristiano nascosto nell’Antico Testamento”890, ma sono entrambi
poco usati891; in Eusebio ne riscontriamo un uso limitato, con il valore di “appartenenza al piano
delle realtà materiali dell’Antico Testamento in contrapposizione all’aletheia del Nuovo
Testamento”892 ma in questi casi “si accompagna con skià e symbolon”893 (Teodoreto nell’In Ct usa
solo una volta symbolon: “l’incenso è symbolo della teologia”); Diodoro è poco interessato alla
esegesi tipologica894. Ma, a partire, da quest’ultima considerazione, notiamo un ulteriore differenza
tra Teodoreto e Diodoro, dal momento che, seppure nell’In Ct la parola ha un valore generico, di
fatto possiamo dire che tutto il commento sia una lunga e intera tipologia895, visto che in varie
situazione egli ci ricorda che il testo va letto alla luce del mistero dell’amore tra Cristo e la Chiesa/
895Guinot sostiene invece che “elle [la lecture typologique] intervient très peu dans l’In Cant.” (Guinot 1995, 306): in
un certo senso abbiamo ragione entrambi, molto poco esplicitamente ma praticamente sempre con significato generale.
- 137
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!
anima: ad esempio, per limitarci alla prefazione, dove afferma chiaramente che nel Cantico lo sposo
è Cristo e la sposa è la Chiesa896, oppure in 52A13 (“In questi cantici i profeti lasciano trasparire la
vittoria del re e lo celebrano con inni per la liberazione dei prigionieri. Il Cantico dei cantici
raffigura le sue nozze e descrive l’amore per la sposa”), o in 61 (“Mi svelò i suoi comandi segreti,
mi fece conoscere il mistero celato dai secoli e dalle generazioni; mi aprì i tesori, le oscurità, gli
arcani, gli invisibili, secondo la profezia di Isaia”. Non possiamo comunque dimenticare che, non
esseno il libro un testo profetico nel senso pieno del termine, non dobbiamo aspettarci una lettura
propriamente tipologica di compimento delle profezie in senso cristologico.
!
Conclusioni
!
L’In Ct è un’opera tutta e ampiamente allegorica, in cui il vescovo di Cirro non si fa scrupolo di
interpretare in senso figurato il testo senza lasciare nessuno spazio al valore storico-letterale, ma
dall’analisi della terminologia possiamo comprendere la giusta luce nella quale collocare questa
scelta.
Teodoreto non è affatto interessato ad intervenire a livello teorico nella disputa sulla esegesi, dal
momento che anzitutto non si preoccupa di definire e argomentare con completezza la sua
terminologia esegetica, in secondo luogo non la usa neanche in tutta la sua ampiezza, visto che
alcuni termini importanti (come iperbole, metafora o il concetto di utilità) ne sono praticamente
esclusi, in terzo luogo ne usa alcuni termini in modo abbastanza generico (l’idea di troph;
formulata nella stragrande maggioranza dei casi sottoforma di avverbio che pure è la sua modalità
di gran lunga privilegiata, diavnoia, il concetto di svelamento); in compenso ne usa altri in modo
particolare e proprio (il verbo aijnivttomai in maniera diversa dagli altri esegeti e con esso intende
una precisa volontà allegorica nei discorsi dello sposo e della sposa, sarkikw`~, gravmma, le
espressioni relative alla profondità del significato). Il fatto è che a Teodoreto interessa
esplicitamente riconoscere che il Cantico non può avere nessun’altra interpretazione se non quella
figurata e il vero e proprio scopo del commento è rendere chiaro il testo: non c’è un interesse
speculativo ma puramente comprensivo, che ben si addice alla sua dimensione di vescovo e pastore.
Pur di far questo non esita a prendere le distanze anche nettamente dalla tradizione antiochena: il
concetto di theoria non è praticamente affrontato, né attuato, molte posizioni sono contrarie a quella
sostenuta in primis da Diodoro e poi da Teodoro (anche se, come abbiamo visto, in Severiano di
Gabala egli potrebbe trovare un valido precedente). In questo egli dimostra grande maturità e una
propria autonomia intellettuale, anche considerando il fatto che almeno in un passo applica il
concetto di iperbole come dimostrazione tipologica tipico della tradizione antiochena897. C’è da
dire, poi, che la sua propensione alla allegoria è limitata a quest’opera e nelle successive non
tornerà più, almeno con questa nettezza terminologica, visto che le successive non correranno rischi
di espunzione dal canone o di lettura empia.
La novità del Cantico e il fondamento della lettura allegorica è che l’opera narra l’amore tra lo
sposo e la sposa: non si tratta di un libro profetico, bensì un libro mistico e come tale gode di un
status particolare.
Da dove trae i fondamenti della sua novità? Molto probabilmente e con una certa sicurezza da
Eusebio di Cesarea, il quale viene ad essere un vero e proprio ispiratore, non certamente dei
contenuti della esegesi ma dei princìpi fondanti: vari brani, tra cui quello topico delle Ecl., mostrano
diverse somiglianze con Teodoreto (anche dalla DE e dalle opere di esegesi); non a caso il vescovo
di Cesarea apre l’elenco dei Padri fondatori della canonicità. Assieme ad Eusebio vi troviamo anche
Gregorio di Nazianzo e, di nuovo, Basilio.
!
896 44C.
8973, 7 (120-121) “Ecco, la lettiga di Salomone”, dove le promesse fatte a Salomone non sono riconducibili, per la loro
estensione, al figlio storico di Davide, ma devono essere applicate a Cristo.
- 138
-
!
!
- 139
-
!
!
La prassi dell’esegesi
!
Al di là delle riflessioni teoriche, svolte sostanzialmente nella prefazione generale, è di estrema
importanza analizzare nel dettaglio la prassi vera e propria dell’esegesi di Teodoreto, ovverossia
quali sono i suoi atteggiamenti, le sue modalità, le sue predilezioni nell’applicarsi alla sua prima
opera esegetica (fattore che ne aumenta l’importanza).
!
Accuratezza testuale
!
Esortazione all’indagine
!
Quello che colpisce maggiormente leggendo il commento al Cantico è l’accurata precisione
nell’esaminare dettagliatamente il testo sacro, una vera e propria passione per la Scrittura nella sua
totalità e completezza. Dal punto di vista teoretico troviamo due affermazioni di principio
sull’importanza globale della Sacra Scrittura e dunque sulla necessità di esaminarla nel dettaglio:
uno all’inizio del primo libro per spiegare il senso del titolo “Cantico dei cantici”, oujde;n eijkh` kai;
mavthn uJpo; tou` qeivou Pneuvmato~ ejnergouvmenon legetai898, e una nel commento a 6, 9, oujc
ajplw`~ de; tauvthn hJgou`mai kei`sqai th;n levxin. Oujde;n ga;r w`~ e[tucen uJpo; tou` qeivou levgetai
Pneuvmato~899. Affermazioni di questo tipo sono largamente presenti in tutti gli autori di esegesi e
in altre opere di Teodoreto900, ma nel Nostro si affiancano ad una precisa volontà di indagine
scandita da formule che si ripetono e che compaiono ogniqualvolta gli sembri necessario
approfondire con attenzione che cosa significa il testo del Cantico. Per 15 volte, in passi particolari,
l’esegesi è introdotta da una formula come “bisogna cercare”, che, nella prefazione è espressa con il
verbo skopevw901, ma in seguito praticamente sempre con il verbo zhtevw902, che è il verbo tecnico
dell’indagine, spesso in senso filosofico o giuridico. Queste espressioni hanno sicuramente un
carattere di convenzionalità, ma ricoprono un ruolo del tutto particolare nell’In Ct, sia perché
ricorrono tutte all’inizio di brani che meritano un certo approfondimento data la loro formulazione
insolita o significativa (ad esempio che cosa significhi “nipote”, o perché lo sposo chiama se stesso
giglio, o perché lo chiamano Salomone), sia perché nei commenti successivi sono quasi
inesistenti903.
!
Accuratezza testuale
!
A questa dichiarazione di intenti segue una analisi dettagliata e minuziosa del testo sacro che,
letteralmente, non risparmia nessun termine ma procede rigorosa e regolare a spiegare ogni parola,
soprattutto quelle ritenute più bisognevoli di chiarificazione. Sarebbe lungo rendere conto con
completezza di un procedimento davvero sistematico, ma alcuni esempi risulteranno esaustivi:
898 49A7.
899 177B5.
900“L’Écriture offre toujours un sens: rien n’y est dit au hasard, tout y a une finalité, rien n’y est déporvu d’intérêt et
d’utilité” (Guinot 1995, 254).
7 volte zhthtevon, 2 volte zhthvswmen, 2 volte ajnagcai`on e a[xion zhthvsai (poi 1 volta prosektevon e 1 volta crh;
902
safe;~ katasth`sai).
Zhthtevon 2 volte nell’In Dn e mai nell’In Ez e nell’In XII; nohtevon 0 - 0 - 2; prosektevon mai; ijstevon 0 - 0 - 6;
903
skophvswmen 0 - 1- 1.
- 140
-
!
Teodoreto spiega con precisione perché il testo pone prima la “gazzella” e poi parla di “cucciolo di
cervo” e non genericamente di “cervo” (2, 8); perché dice “non semplicemente «bella» ma «mia
bella»” (2, 10)904; in 3, 11 si sofferma sull’imperativo ejxevlqete; spiega perché è ripetuto “Ecco sei
bella” (4, 1); perché lo sposo specifichi “ci hai ferito il cuore con uno solo dei tuoi occhi” (4, 9); in
4, 13-15 spiega dettagliatamente ogni tipo di pianta (melagrana, cipressi, nardo, zafferano, canna,
cannella); in 5, 10-15 il motivo del plurale “colombe”; in 6,1 perché nello stesso versetto prima dice
che il giardino è uno e poi sono molti; in 8, 5 sottolinea che “non dicono «bianca» (leukh;n), ma
«dopo essere stata resa bianca» (leleukanqismevnhn)” e ne spiega il motivo. Gli esempi potrebbero
moltiplicarsi, ne riportiamo un ultimo per mostrare la pignoleria esegetica dell’Antiocheno:
!
“Il tuo ombelico è un vaso cesellato non privo di vino speziato; il tuo ventre è un cumulo di grano, recintato da gigli. I
tuoi due seni come due cerbiatti gemelli di gazzella. Il tuo collo come una torre d’avorio; i tuoi occhi sono come i laghi
in Essebòn, nelle porte della figlia di molti. La tua narice come torre del Libano che controlla la facciata di Damasco. Il
tuo capo come il Carmelo su di te; e la treccia del tuo capo è come la porpora, un re preso nelle corse lungo la costa”905
!
in cui la spiegazione passa in rassegna doviziosamente tutte le immagini e quasi tutte le parole,
soffermandosi su quelle più difficili.
Quando il testo riporta espressioni impreviste o non del tutto chiare, c’è un altro procedimento
messo in atto da Teodoreto per rinforzarne la credibilità, ed è l’utilizzo dell’avverbio eijkovtw~
(“giustamente”) dopo la spiegazione, per riprendere e confermare il testo, come, ad esempio, in 1, 6
!
“Annunciami, tu che la mia anima amò, dove pascoli il gregge, dove riposi a mezzogiorno, affinché io non sia come
vagabonda dietro i greggi dei tuoi compagni” 906
!
in cui Teodoreto specifica che “giustamente anche a mezzogiorno la sposa vuole sapere dove si
trova lo sposo” perché, pur essendo divenuta forte la luce della conoscenza (previene la perplessità
di chi non capisce perché la sposa debba cercare lo sposo quando c’è la luce e non quando sia buio),
si moltiplicano le eresie; o in 1, 9
!
“Quanto furono graziose le tue guance, come di tortora! Il tuo collo come collanine”907
!
in cui, dopo aver dissuaso il lettore dal comprendere in senso carnale e aver diffusamente spiegato
l’immagine della colomba, conclude “giustamente, quindi, dice che la Chiesa unita a Cristo
somiglia ad una colomba”908. La ripresa del testo originale, corroborato e dimostrato nella sua
esattezza e accompagnato dall’avverbio “giustamente”, avviene 20 volte.
Un’altra dimostrazione di accuratezza è data dalla precisione con cui assegna i versetti del Cantico
agli interlocutori del dialogo: egli sistematicamente specifica chi sono i personaggi parlanti, o lo
sposo, o la sposa, o i compagni dello sposo, o le guardie, o le fanciulle, fino a precisare in 8, 8-9 che
sono i profeti a pronunciare tra sé quelle parole perché parlano di una sposa ancora bambina, non
ancora giunta alla perfezione dell’amore, e quindi non assimilabile alla Chiesa fondata da Cristo, e a
non presentarli semplicemente come i “compagni dello sposo” cosa che avrebbe potuto fare se
avesse voluto semplificare e generalizzare, ma perfino a problematizzare la questione dei
personaggi parlanti, perché in quel caso il testo non fornisce chiarificazione.
904 La formula ouj ajplw`~..., ajlla;.... per introdurre la precisazione figura sette volte.
906 73A9.
907 76D6.
908 77B14.
- 141
-
!
Per gestire al meglio questa messe di stimoli spirituali e morali la prassi esegetica di Teodoreto
procede analizzando uno o due versi per volta, senza ovviamente dimenticarne nessuno e spesso
suddividendoli ulteriormente in brevi cola. Ci sono alcuni passi offerti al commento in forma più
lunga, ma sono tutti nella seconda parte del libro (forse a dimostrare un po’ di stanchezza) e di fatto
corrispondono a momenti notevoli della descrizione dello sposo (5, 10-16 con importanti risvolti
cristologici) o della sposa (6, 5-6 e 7, 2-5) la cui unità non potrebbe essere spezzata, o a un passo
mistico molto bello, quello dello sposo che introduce la mano nello spiraglio della porta, dopo il
rifiuto della sposa, e poi scompare (5, 4-7). Fa parte della dimensione mistica e spirituale
dell’esegesi anche la ripresa dei singoli versetti all’interno del commento, certamente per motivi
legati alla funzione chiarificatrice, ma anche per una dimensione orale e meditativa del commento
stesso, come accade in 1, 3909.
L’accuratezza e la puntualità con cui svolge il commento al Cantico lo differenziano da altre opere
esegetiche, in cui la brevità lo spinge a spiegare soltanto i passi difficili, a non attardarsi su altri già
spiegati, a riassumere, a tralasciare alcune parole troppo difficili910. Tutto questo non è
minimamente riscontrabile nell’In Ct.
!
La credibilità del testo sacro
!
Un aspetto importante della prassi esegetica di Teodoreto verte intorno alla credibilità del testo
sacro. Ovviamente essa non è mai messa in discussione dal vescovo di Antiochia e difatti troviamo
due affermazioni sulla esattezza dell’ispirazione (cfr. supra), ma pare di capire anche da alcuni
atteggiamenti esegetici che egli voglia dimostrare la verosimiglianza del testo contro eventuali
detrattori; a questa preoccupazione non è certamente estranea la polemica sulla ispirazione e sulla
canonicità del Cantico che occupa gran parte della prefazione. Concretamente troviamo cinque
occorrenze di un concetto fondamentale nella esegesi antica, quello della ajkolouqi;a, la “coerenza”
dell’interpretazione911, ma, a ben vedere, esse sono tra loro un po’ diverse: anzitutto in un caso la
coerenza non è attribuita al Cantico ma al brano di Ez 16912; in un altro caso913 l’avverbio
ajkolouvqw~ sembra non avere il significato di “coerentemente”, ma quello più generico di
“giustamente”; in 4, 5-6 “Interpretiamo anche queste cose conformemente alle parole già dette”914,
probabilmente intende riferirsi ai versi precedenti del Cantico, ma non è escluso che si riferisca
anche alle parole del commento; rimangono due casi un po’ particolari: nella prefazione al libro III
e all’inizio del capitolo 8 egli parla di fulavttein th;n ajkolouqivan (tou` suggravmmato"915 e tw'n
rJhtw'n916), da dove si coglie chiaramente che non sta trattando della coerenza della interpretazione
bensì dell’ordine dei versetti del testo, in altre parole della successione letterale così come è
presente nel libro sacro, e questo in due passi in cui sta riprendendo le fila del discorso per
procedere con ordine. Si capisce dunque che a Teodoreto non sta a cuore l’ajkolouqiva del Nisseno,
909 61.
911 Presente soprattutto in Gregorio di Nissa: “Gregorio assegna ad ogni sua opera esegetica un fine specifico, che non
sia soltanto quello usuale di interpretare quel dato testo sacro per metterne in rilievo il significato più o meno profondo;
e in funzione di questa finalità ne interpreta in modo coerente e organico i dettagli” (Simonetti 1985, 147).
912 40A3.
913 80A6.
914 132C7.
915 136B13.
916 200C3.
- 142
-
!
seppure sia in lui una pratica largamente applicata nel commento ma la esattezza testuale per
garantire una più chiara e corretta comprensione del libro sacro: di nuovo siamo in presenza di un
interesse testuale che mira a salvaguardare l’esattezza e la credibilità della Sacra Scrittura.
!
Rafforzamento biblico
!
È noto che uno dei principi cardine della esegesi è quello secondo il quale la Bibbia si spiega con la
Bibbia e neppure Teodoreto si sottrae a questa abitudine, anzi le citazioni della Sacra Scrittura sono
abbondantissime sia dell’Antico Testamento che del Nuovo Testamento. La citazione serve per
chiarire e confermare l’interpretazione del vescovo di Antiochia, altre volte per arricchirlo
spiritualmente (come in 2, 15), ma ci sono alcuni esempi in cui si può parlare di un vero e proprio
“rafforzamento biblico”, cioè dell’utilizzo della Sacra Scrittura per spiegare doviziosamente un
passo o un’espressione difficoltosa, che potrebbe scandalizzare il lettore – non tanto per il
contenuto, ma per la sua incomprensibilità. Almeno in sette casi abbiamo riscontrato
l’atteggiamento di Teodoreto che, in presenza di un testo particolarmente insolito, attinge
abbondatemente da altri passi, con lo scopo di rendere credibile e fugare ogni dubbio di
incongruenza: è dunque un rafforzamento che non mira semplicemente a chiarire o ampliare, ma a
confermare la credibilità del testo del Cantico. Ad esempio in 1, 3 dove, per confermare
l’interpretazione della sposa come “anime perfette” e delle fanciulle come “anime fedeli ma non
perfette” è riportato quasi per intero il salmo 44 (parte in parafrasi, parte direttamente), un salmo
centrale in questo commento e qui preceduto da una frase molto eloquente:
!
“E che queste cose stiano così, lo testimonia lo Spirito Santo nel salmo 44, dicendo cose simili”917;
!
o in altri passi dove spiega per quale motivo lo sposo parli di “un unico abbellimento posto nel
collo, superiore a tutti”918 o dica
!
“Mio nipote scese nel suo giardino, nelle coppe di spezia, a guidare al pascolo nei giardini e a raccogliere gigli”
!
parlando prima di ‘un’ giardino, poi ‘nei giardini’919, o perché accosti, nel parlare della sposa, ‘cori’
e ‘schiere’, essendo i primi pacifici e le seconde militari. Bisogna notare che, nelle prime
occorrenze, il rafforzamento biblico è la risposta a quelle formule di indagine di cui abbiamo parlato
sopra, ma nell’ultimo esempio parte dal riconoscimento di una vera e propria incongruenza:
!
“E sembra che siano due nomi contrari gli uni agli altri: infatti non si accordano i cori alle schiere”920,
!
cui risponde con sei citazioni bibliche in poche righe.
L’esigenza di conferire credibilità al testo si manifesta anche nella citazione di altri traduttori, oltre
alla Settanta, e nella rara abitudine di attribuire significati diversi ai medesimi simboli, seppure
questa sia una prassi ampiamente attestata nella esegesi degli altri autori. Di fatto Teodoreto è
sempre molto preciso nello spiegare gli stessi elementi (piante, parti del corpo, ecc.) nello stesso
modo lungo il commento, anche invitando a riprendere la spiegazione precedente e non esercita la
fantasia di aggiustare secondo il contesto le interpretazioni già date: i seni della sposa sono sempre
le sorgenti dell’insegnamento, mirra e incenso rappresentano la morte e la divinità, il cedro è
l’incorrutibilità, la colomba è sempre legata alla spiritualità, ecc. Soltanto in un caso offre una
917 64B1.
918 140A12.
919 165A6 .
920 184C12.
- 143
-
!
interpretazione difforme, ma è necessario e ben motivato: mentre in tre passi (tra cui uno molto
importante nella prefazione) identifica il Libano con Gerusalemme, in 4, 8 la spiegazione prevede
che “Libano” corrisponda all’idolatria, ma ciò è necessitato dal contesto, poiché, mentre sta
spiegando la provenienza della sposa prima della conversione, trova già un’indicazione geografica
che corrisponde alla fede ebraica (Sanèr e Ermon), e dunque il Libano non può significare
Gerusalemme, ma deve significare l’altro luogo nemico del cristianesimo, e cioè il paganesimo.
Dunque è possibile cogliere una grande attaccamento alla coerenza del testo e alla sua esattezza dal
punto di vista testuale e contenutistico, cosa che si deve molto probabilmente al desiderio di
superare le preoccupazioni espresse dagli interpreti letteralisti cui risponde nella premessa.
!
Le tecniche esegetiche
!
Il discorso diretto esplicativo
!
!
Seppur nel reciproco influsso, ogni esegeta ha un suo stile nell’applicarsi al commento del testo
sacro, ed anche Teodoreto rivela alcune sue peculiarità. Abbiamo già detto che le sue spiegazioni
sono sempre molto precise e puntuali e procedono parola per parola, ma un altro tratto della sua
modalità esegetica è il “discorso diretto esplicativo”, cioè la ripresa parafrastica dei versetti del
Cantico decodificati della allegoria e spiegati nel loro significato spirituale e mistico.
Ad un calcolo sufficientemente attento sono emersi circa 30 casi di discorso diretto esplicativo
diffusi in tutto il commento, tali da far pensare ad una tecnica esegetica consapevolmente adottata
dall’Antiocheno921. La loro caratteristica determinante è quella di riprendere il contenuto del
versetto in 1° persona, per lo più singolare se parla uno dei protagonisti ma anche al plurale quando
parlano i compagni dello sposo o le fanciulle. Si tratta dunque di un vero e proprio discorso diretto
che però scioglie il linguaggio figurato ed è messo in bocca al personaggio parlante; nella maggior
parte dei casi è retto da una formula di “dire” (fhsi;, levgei, ecc.), a volte con l’introduttore o{ti ma
anche in questo caso mantiene la forma del discorso diretto, altre volte con la formula toutevsti
(che è preferita in altre modalità). Un esempio tipico può essere al v. 1, 4-5922
!
“Nera sono ma bella, o figlie di Gerusalemme, come i tendaggi di Kedàr, come le pelli di Salomone. Non guardatemi
perché io sono annerita, poiché mi fissò il sole”
!
il cui commento inizia con una contestualizzazione:
!
“Penso che la sposa dica queste cose non alle fanciulle ma a quelle che si vantano nella legge e sono orgogliose
dell’Antico Testamento, insuperbiscono e la rimproverano, non perché è straniera solamente, ma anche per la
precedente superstizione e per la pelle diventata ora nera”
!
e poi prosegue con il discorso esplicativo:
!
“Perciò dice loro: Non solo sono nera, ma anche bella; una volta fissai lo sguardo mentre ero cieca e stavo in vecchi
stracci, ora avvolta in un mantello dorato, variopinta, ebbi dignità regale e sono posta a fianco del re, avendo scacciato
te folle d’amore per il re, che non solo lo hai dato alla morte ma anche hai profanato la stanza nuziale con la moltitudine
degli amanti. Non rimproverare a me il nero della pelle e non portare alla luce i miei mali antichi. Sono nera, lo
riconosco, ma bella e piacente per lo sposo”
!
cui aggiunge la citazione di Nm 12, 1-15.
921 La tecnica è presente anche nel commento di Origene ma con una frequenza molto minore.
922 68-69.
- 144
-
!
In alcuni casi il discorso esplicativo conclude la spiegazione precedente, come ad esempio in 1, 1
!
“E la sposa sembra dire così: Ho ascoltato i tuoi discorsi dalle Scritture; desidero ascoltare anche la tua stessa voce;
voglio apprendere il sacro insegnamento senza mediazione dalla tua bocca, e baciarla con le labbra del mio
pensiero”923;
!
in altri casi è posta subito all’inizio del commento e ad essa segue la spiegazione (ad esempio in 1,
2). La lunghezza di questi discorsi esplicativi è in genere breve, ma talora è più ampia (come in 7,
6-7), e talaltra reca anche un approfondimento mistico e spirituale: commentando 6, 4
!
“Distogli da davanti a me i tuoi occhi, poiché essi mi eccitarono”
!
scrive:
!
“Ciò che dice è questo: La bellezza dei tuoi occhi e la contemplazione del tuo sguardo e l’acutezza del tuo pensiero mi
spinsero alla passione per te; ma non fissarmi oltre la giusta misura affinché tu non attiri da lì alla rovina: io sono infatti
irraggiungibile e incomprensibile e supero ogni comprensione, non solo quella umana ma anche angelica; anche se tu
volessi superare i limiti e ti affannassi ad investigare al di là della tua potenza, non solo non troverai niente ma anche
oscurerai lo sguardo e la renderai assai debole. Tale infatti è la natura della luce: come illumina lo sguardo, così ne
punisce con il danno l’insaziabilità: “Distogli da davanti a me i tuoi occhi”, non investigare cose più difficili di te e non
cercare cose più forti di te: le cose progettate per te, su queste rivolgi il pensiero”.924
!
In alcuni casi contiene anche delle spiegazioni letterali, come in 4, 9
!
“Tu ci hai ferito il cuore, sorella mia sposa, ci hai ferito il cuore con uno solo dei tuoi occhi, in un solo abbellimento del
tuo collo”.
!
Quel “ci hai ferito il cuore”, Simmaco disse “ci hai resi arditi”. Ciò che intende è tale: I tuoi due occhi sono
meravigliosi, e spirituali, e detti giustamente colombe; uno di loro mi ha sconvolto, quello che osserva le cose divine,
quello che ha imparato a parlare di Dio, quello che ha visto i misteri nascosti. E ammiro tutti gli ornamenti del tuo collo:
attraverso questi dice per enigmi la virtù pratica, poiché il collo, portando il giogo degli ordini divini, traccia e stende i
solchi della giustizia; poi lodo anche gli altri ornamenti della virtù che brillano nel tuo collo, ma resto affascinato e ne
ammiro soprattutto uno, e stupito dalla bellezza di una sola collanina, e dell’occhio che contempla le cose divine, fui
rapito dalla tua passione.925
!
Parafrasi
!
Accanto alla forma del discorso diretto esplicativo troviamo anche la semplice parafrasi del
versetto, che non scioglie il linguaggio figurato, non spiega dal punto di vista letterale, ma ripete in
prima persona come discorso diretto ciò che hanno detto lo sposo o la sposa e lo modifica per
renderlo più comprensibile, come ad esempio in 1, 6:
!
“Annunciami, tu che la mia anima amò, dove pascoli il gregge, dove riposi a mezzogiorno, affinché io non sia come
vagabonda dietro i greggi dei tuoi compagni”.
!
Ansiosa e timorosa di essere abbandonata dallo sposo e cadere in altri greggi che non sono pascolati da lui ma da altri,
chiamati “suoi compagni”, non secondo la dignità né secondo il senso comune ma secondo la somiglianza dell’attività,
supplica lo sposo dicendo: Poiché la mia anima ti ama, dimmi nell’ora del mezzogiorno dove pascoli, o dove porti il
923 57A11.
924 168CD.
925 137D.
- 145
-
!
gregge; affinché, ignorandolo, non vaghi qua e là e, errando e vagando, mi imbatta in greggi non degni della tua autorità
e che hanno altri pastori e altri mandriani.926
!
Come si vede, ad una breve introduzione per contestualizzare il brano segue la parafrasi che
semplicemente ne riprende il contenuto e lo ripropone con altre parole per chiarificarlo; per fare un
altro esempio, notiamo che in 1, 7 la parafrasi è introdotta da una formula o{ de levgei toiou`tovn
ejstin927 che qualche volta introduce anche il discorso diretto esplicativo. A differenza del discorso
diretto esplicativo, la tecnica della parafrasi è molto più rara928 (fenomeno in controtendenza
rispetto ad altre opere esegetiche929), dal momento che essa non rilegge spiritualmente il brano
biblico ma ne conserva la letteralità, cosa che non è certo tra gli scopi del commento
dell’Antiocheno, il quale è molto più interessato alla spiegazione mistica.
!
Ampliamento
!
Oltre alle due precedenti forme di esegesi, possiamo identificarne un’altra, anch’essa non
certamente specifica di Teodoreto, ma interessante nell’economia generale del commento: si tratta
di un ampliamento del testo sacro a carattere mistico e spirituale. Da un lato l’ampliamento non è
una digressione perché trae origine direttamente dal versetto commentato, ne riprende i termini e le
espressioni, quasi sempre riprende il discorso in 1° persona e non si allontana dallo sviluppo
tematico e contenutistico del Cantico, dall’altro però non si può parlare né di parafrasi, né di
discorso diretto esplicativo, visto che l’approfondimento e la spiegazione di Teodoreto procedono
liberamente e arricchiscono non poco il brano di partenza. Un esempio tipico è presente fin
dall’inizio del Cantico, al v. 1, 1:
!
“Mi baci dai baci della sua bocca”
!
Dopo una introduzione chiarificatrice che attinge anche largamente alla Sacra Scrittura, Teodoreto
riprende il versetto e lo spiega così:
!
La sposa desidera essere amata dallo sposo, quasi dicendo al Padre di lui: Inviami il tuo Figlio unigenito, o Sovrano e
Padre; infatti vuoi ascoltare questo nome più di quello; da molto tempo lo attendo, da molto tempo lo desidero. Mi
spossai ricevendo le sue lettere per mezzo dei patriarchi, dei legislatori, dei profeti; non sopporto più la fiamma della
passione; è un fuoco bruciante e divorante nelle mie viscere. Per mezzo di tutti i profeti promette di giungere, ma fino
ad oggi non volle compiere le promesse. Si impegnò per mezzo di Davide, di Geremia, di Isaia, di Ezechiele, di
Zaccaria, e Daniele, e i restanti profeti, ad essermi presente, e a portare a compimento le nozze. Non so perché tarda e
perché disprezza me che lo desidero. Mi disse attraverso Osea: «Ti farò mia sposa per sempre,
ti farò mia sposa
nella giustizia e nel diritto,
nella benevolenza e nell’amore,
ti fidanzerò con me nella fedeltà
e tu conoscerai il Signore»930. Mi disse attraverso Isaia: «Esulta, o sterile che non hai partorito,
prorompi in grida di giubilo e di gioia,
tu che non hai provato i dolori,
perché più numerosi sono i figli dell’abbandonata
926 72D.
927 73C15.
929 “Les passages du texte dont la clarté est suffisante feront l’objet d’une simple paraphrase” (Guinot 1995, 328).
930 Os 2, 21-22
- 146
-
!
che i figli di colei che ha il marito»931 e attendo tutti i giorni bramando di incontrare le promesse. Queste cose dice per
enigmi pronunciando: “Mi baci dai baci della sua bocca”.932
!
Come si vede, il vescovo di Cirro riprende il versetto iniziale ponendo la spiegazione in 1° persona,
ma la amplifica misticamente e la approfondisce spiritualmente così tanto che diventa difficile
ritrovarci le parole del testo sacro.
Il procedimento è più o meno lo stesso nei 14 casi che ci sembra di aver identificato, tra i quali
spesso è introdotto da toutevsti; quasi in tutti la dimensione mistica è preponderante, in genere è
abbastanza lungo, in qualche caso è molto ardito, come in 6, 12:
!
“Volgiti, volgiti, Sulammita; volgiti, volgiti; e guarderemo in te”.
!
Più chiaramente queste cose Aquila interpretò: “Volgiti”, infatti dice, “volgiti tu che sei in pace”. Come lo scritto
chiama nostro Signore “Salomone”, cioè “il pacifico”, così anche la sua sposa dice che è in pace, perché ha incontrato
la pace che proviene da lui e ha respinto la guerra precedente. Vedendola dunque i servitori dello sposo mentre è
scacciata e combattuta da quei carri, incoraggiandola dicono: “Volgiti, tu che sei in pace, volgiti, volgiti, e guarderemo
in te”, cioè Non temere coloro che ti inseguono, ma aggrappati all’insegnamento; mostra l’annuncio dell’insegnamento;
non aver paura dei carri, non temere la guerra, tu che sei chiamata “sei in pace”. Qualora perservererai nell’annuncio,
guarderemo il tuo regno.933
!
Toutevsti letterale
!
Abbiamo già accennato all’uso di toutevsti, evidenziando che può introdurre sia il discorso diretto
esplicativo, sia la parafrasi, sia l’ampliamento, anche se non è la forma privilegiata. Di fatto tale
introduttore è usato 50 volte, un numero certamente non basso, probabilmente su influenza di
Origene, ma anche per una scelta personale, visto che di queste 50 circa 20 sono le occorrenze di
“cioè” con valore immediatamente letterale, cioè per spiegare singole parole o una espressione. Il
senso di questo utilizzo è mantenere il commento snello e asciutto ma non lasciare nessuna parola
senza spiegazione. Ad esempio in 1, 3 th'" eujosmiva" tou' muvrou sou è spiegata semplicemente
toutevsti th'" qeiva" kai; swthriwvdou" sou didaskaliva"934, o in 1, 7 “nelle tende di quei pastori”
è spiegato con toutevstin ejn tai`~ ajpostolikai`~ ejkklhsivai~935.
!
Duplice spiegazione
!
In sei circostanze lo zelo interpretativo di Teodoreto presenta due spiegazioni dello stesso passo,
non per porle in contraddizione ma per ampliare la ricchezza esegetica e il messaggio del testo
sacro.
!
Prefazione 45BC “Nello scritto vi sono anche dei personaggi che stanno con lo sposo”
!
La prima duplice spiegazione si trova fin dalla prefazione, quando, passando in rassegna i
personaggi del Cantico dei cantici Teodoreto ricorda che vi sono altri (eJtevrou~ tina;~) che stanno
in compagnia dello sposo: in prima battuta spiega che sono gli angeli, oppure potrebbero essere
anche profeti o apostoli, in ogni caso tutte e tre le interpretazioni sono giuste e non falliscono lo
931 Is 54, 1
932 53CD.
933 184AB.
934 60C8.
935 76B3.
- 147
-
!
skopo;~ th`~ ajlhqeiva~. Poi, proseguendo, precisa che ritiene più opportuno spiegarli come
“angeli”936 ed elenca una serie di episodi evangelici nei quali gli angeli hanno affiancato Gesù
Cristo. Origene si sofferma meno sulla spiegazione di questi personaggi maschili e commentando 1,
11-12, dice che possono essere interpretati come angeli o come profeti e patriarchi937.
L’ovvietà della interpretazione è troppo grande per poter dire che Teodoreto sia stato influenzato
dall’Alessandrino, in ogni caso notiamo che in quest’ultimo non c’è menzione degli apostoli, cioè
di quella attenzione alla Chiesa che sembra essere prioritaria in Teodoreto.
!
1, 4-5 (1, 6e) “Non custodii la mia vigna”
!
In questo brano alla enumerazione delle due spiegazioni si accompagna anche una chiarificazione
teorica sul motivo dell’aggiunta, che sostanzialmente è valida anche per le altre:
!
L’espressione ha un doppio significato (e[nnoia), in entrambi i casi santo (eujsebh;~) e pieno di utilità (wjfevleia). ... Ho
posto entrambe le interpretazioni affinché coloro che leggono il versetto abbiano comprensione di entrambe e prendano
quella che ritengono più vera938.
!
Secondo Teodoreto, dunque, i due significati hanno praticamente lo stesso valore religioso e
l’aggiunta del secondo non è dovuta ad una particolare intuizione dell’esegeta, ma è insita nel
versetto, il quale, per la ricchezza intima del testo sacro, può essere compreso almeno in due modi:
la spiegazione di entrambi aumenta l’utilità del lettore. In realtà Teodoreto sta coinvolgendo il
lettore nella esegesi perché, al termine del passo, lo invita a scegliere quella che ritiene non tanto
più coinvincente o più utile, ma ajlhqevsteron “più vera”, cioè più conforme alla verità della Sacra
Scrittura.
Secondo Teodoreto, il primo significato di “vigna” corrisponde alla vita precedente alla
conversione, che poi, giustamente, è andata in rovina, sopraffatta dalla vera fede; il secondo, invece,
rimanda al generoso atteggiamento di chi cerca il guadagno degli altri e non il proprio, e la “vigna”,
quindi, è “il proprio vantaggio religioso” (per suffragare questo secondo significato cita 1 Cor 13, 5;
1 Cor 10, 24; 1 Cor 10, 3); qui l’accento esegetico è posto sull’aggettivo possessivo ed
evidentemente “vigna” attinge al significato tradizionale di “fede, vita religiosa”.
Per quanto riguarda il primo significato, egli coglie lo spunto dal brano corrispondente di Origene,
che scrive “illam possumus eruditionem dicere, qua unusquisque exercebatur ante fidem, quam sine
dubio credens Christo relinquit ac deserit”939, ma la somiglianza con l’Alessandrino si ferma qui,
dal momento che quest’ultimo inserisce la spiegazione del versetto nel più ampio contesto del brano
(mentre Teodoreto sembra trattarlo in modo autonomo) e ne presenta tre intepretazioni, di cui la
prima e la terza (rispettivamente “le vigne” come la Sacra Scrittura e “la vigna” come l’uomo
vecchio) non hanno seguito in Teodoreto. È probabile dunque che l’Antiocheno abbia tratto dal suo
modello l’idea della vita precedente (in Origene è menzionato sia il paganesimo, sia il giudaismo di
Paolo), ma poi abbia ampliato di suo.
!
1, 13 “Nelle vigne di Engaddì”
!
936Quando Teodoreto usa formule come «on ne s’écarterait pas de la vérité» in qualche modo intende orientare la scelta
del lettore (cfr. Guinot 1995, 454).
937“Qui secundum intelligentiam mysticam, ut et supra iam diximus, aut angeli vel etiam prophetae aut patriarchae
possunt intelligi” (SC 375, 406).
938 72C.
- 148
-
!
Anche in questo caso la doppia spiegazione si equivale quanto a validità spirituale e giovamento,
ma viene presentata con una alternativa, visibile nella formula eij me;n shmaivnei ... eij de; ...
tevqeiken ...940. “Engaddì” dunque è interpretato da Teodoreto anzitutto con il facile riferimento
geografico alla regione della Giudea, famosa per le sue vigne profumate, poi con il significato
etimologico “occhio della tentazione”, che rimanda a Gb 7, 1: in questo secondo caso la spiegazione
si dilunga in un discorso diretto esplicativo; di entrambe chiama in causa il significato figurato
(tropikw`~).
La lettura del passo corrispondente di Origene è interessante: anch’egli inizia con il riferimento
geografico alla regione della Giudea, ma precisa che la sua produzione speciale non è tanto delle
vigne ma dei balsami941 (di cui rimane eco nel brano in oggetto, centrato sul profumo dello sposo,
chiamato “grappolo di cipro”), poi aggiunge la spiegazione etimologica, “occhio della mia
tentazione” e la medesima citazione di Gb 7, 1; è vero che della doppia spiegazione di “cipro” di
Origene non c’è traccia in Teodoreto, così come non ritorna il tema della vera vite, ma, se leggiamo
le righe successive dell’In Ct, vi ritroviamo il riferimento ai processi graduali delle età spirituale
che è anche nell’Alessandrino942.
Pare chiaro, dunque, che anche in questo caso il modello di riferimento sia stato il testo di Origene,
seppur adattato.
!
2, 7 “Nelle potenze e forze del campo”
!
Si tratta, in questo versetto, di spiegare chi siano “le potenze e le forze” visto che “campo”, sulla
scorta di Mt 13, 38, è il mondo.
!
Dice “potenze e forze del campo” le potenze angeliche, quelle che attraversano il mondo secondo la volontà di Dio;
oppure i profeti e gli apostoli che, ripieni di Spirito Santo e vaganti per il mondo, scacciarono i demoni che si
oppongono e odiano Dio e diffondono la vera religione nelle anime degli uomini.943
!
Le due spiegazioni vertono sulle potenze angeliche o sui profeti/apostoli, ma poiché nella
interpretazione di 3, 5 (versetto identico a questo) Teodoreto parla semplicemente di “potenze
divine”944, probabilmente l’aggiunta dei profeti/apostoli ha un carattere di estemporaneità ed è
influenzata dalla interpretazione che egli dà dei “compagni dello sposo” nella prefazione. Di fatto
c’è una certa assimilazione tra angeli/profeti/apostoli, tutti accomunati dall’essere inviati da Dio.
Il passo di Origene è difforme da Teodoreto: il primo riferisce “campo” soltanto alla vita spirituale,
si dilunga sul tema del “destare l’amore”, e effettivamente menziona le “virtutes caelestes et vires
spiritalium gratiarum945” ma in modo molto cursorio.
Dal frammento del medesimo versetto pubblicato recentemente da Barbàra, veniamo a sapere che
l’Alessandrino in questo passo aveva citato la traduzione alternativa di Aquila, Simmaco e la
Quinta946, di cui non c’è nessuna menzione in Teodoreto.
!
4, 13-15 “I tuoi germogli sono un giardino di melagrane”
940 84A.
941 “Engaddum autem ager terrae Iudaeae est non tantum vineis quantum balsami florens” (Cant. 1991, 456)
943 93B.
944 117B17.
- 149
-
!
!
Penso che consideri in senso figurato “melagrana” come l’amore, poiché sotto una sola buccia sono compresi
innumerevoli chicchi, e gli uni dagli altri sono ridotti in unità, e gli uni schiacciano gli altri, e non si rovinano, se
rimangono sani e non nasce putrefazione in mezzo; è possibile anche dalle separazioni centrali trovare un’altra
interpretazione (qewriva); e infatti vediamo molti ordini in coloro che sono salvati: infatti uno è l’ordine delle vergini,
un altro di chi vive in castità, un altro di coloro che trascinano il giogo del matrimonio, un altro di coloro che sono
circondati dalla ricchezza e un altro ancora di coloro che vivono nella povertà; un altro degli schiavi che amano la vera
fede e un altro dei padroni che governano secondo la legge. Dunque anche la melagrana ha per così dire delle
fortificazioni, che dividono i chicchi in alcune compagnie. Per questo paragona i germogli della sposa ad un giardino di
melagrane: per prima cosa, infatti, ammira il suo frutto dell’amore, e poi dice che lei fiorisce di altri generi della virtù:
“Con frutto di noci”.947
!
In questo passo la duplice spiegazione si deve, probabilmente, alla difficoltà esegetica del testo
sacro, di cui spia sono hJgou`mai iniziale e la precisazione del senso figurato. In tal caso, la seconda
spiegazione è introdotta per rendere più facile la comprensione (conduce il piano di lettura dal
livello spirituale e mistico a quello ecclesiologico, di fatto più semplice), oppure, alla luce dei passi
precedenti e della formula con cui è introdotta (e[sti ... kai; eJtevran euJrei`n qewrivan948), potrebbe
provenirgli dal commento di Origene, anche perché, al termine della spiegazione, predilige l’idea
iniziale dell’amore. Purtroppo non ci è d’aiuto il modello origeniano, dal momento che, come è
noto, non possediamo la traduzione di Rufino di questi capitoli né il passo compare in Cant. 2005.
!
6, 2 “Io sono per il mio nipote e il mio nipote è per me”,
!
“Colui che guida al pascolo tra i gigli” o, secondo Simmaco, “colui che guida al pascolo i fiori”: sia guida al pascolo
coloro che sono diventati gigli, sia guida al pascolo tra i gigli coloro che sono degni: non c’è niente di più profumato
delle divine Scritture.
!
L’alternativa è fornita mediante la traduzione di Simmaco, che soccorre Teodoreto e risolve
un’espressione percepita come un po’ strana, infatti nella spiegazione il vescovo anticipa la versione
simmachiana, perché la ritiene più semplice; in ogni caso la conclusione è rivelatrice
dell’atteggiamento di Teodoreto: entrambe sono del tutto accettabili, l’importante è cogliere il senso
generale (e raccoglierne il frutto spirituale).
!
Conclusioni della duplice spiegazione
!
Sostanzialmente il comportamento tenuto da Teodoreto nel presentare due spiegazione è quello
enunciato apertamente in occasione della prima: non c’è contraddizione o antitesi tra le due, esse
sono entrambe valide dal punto di vista religioso e spirituale, esemplificano la profondità e la
vitalità della Sacra Scrittura e, di fatto, non modificano il senso complessivo del testo sacro (cfr. 6,
2); l’esegeta si limita ad indicarle, poi sta al lettore scegliere non tanto quella che superficialmente
preferisce, ma quella che ritiene più vera (la verità è il principio cardine anche della Sacra
Scrittura). Notiamo, comunque, che nei passi delle potenze e della mandragora egli
successivamente riprende la prima delle due, da cui si evince che egli la ritiene più vera e che la
seconda è una semplice aggiunta zelante. Esaminando il procedimento tenuto da Teodoreto, inoltre,
sembra di capire che egli inserisce per prima quella suggerita da Origene, che risulta, però, insolita
e non del tutto di immediata comprensione; ad essa, allora, ne aggiunge un’altra più semplice, o più
naturale, probabilmente frutto del suo ragionamento e finalizzata ad agevolare il lettore; quando si
tratta di scegliere, comunque, si rifà alla prima. I casi della prefazione e di 1, 13 sono un po’
particolari, dal momento che, nell’un caso, l’interpretazione “compagni = angeli” è ovvia, nell’altro
947 144D-145A.
948 144D5.
- 150
-
!
il significato più ovvio di Engaddì è il primo (la regione della Giudea) che è anche quello
irrinunciabile: in ogni caso sono entrambi tratti da Origene.
In realtà non abbiamo la controprova per 4, 13-15 e 6, 2, ma nel primo il procedimento sembra
essere quello appena descritto, nel secondo non è impossibile che abbia ricavato da Origene la
versione di Simmaco.
Lo spunto origeniano alla esegesi, comunque, non è pedissequamente riproposto, ma subisce dei
tagli o degli approfondimenti che mostrano una vera maturità nell’opera interpretativa di Teodoreto
e che fanno onore a quanto egli stesso ha scritto nella prefazione:
!
D’altronde affermiamo alcune cose dopo averle prese da loro, ma ne affermiamo altre avendole trovate noi stessi. Noi
riduciamo quelle, poiché già dette da qualcuno estesamente; ampliamo le altre, bisognose di approfondimento949.
!
La brevità espositiva
!
Vale anche per l’In Ct quando detto da Guinot sulla abitudine alla sintesi e alla brevità da parte del
vescovo di Cirro950, sia in senso relativo che in senso assoluto: il commento di Teodoreto è molto
più breve, ad esempio, rispetto a quello di Origene, ma lo è anche se lo consideriamo in senso
assoluto nell’approfondimento dei singoli versetti. In Teodoreto non ci sono digressioni, il
commento procede lineare e molto aderente al testo, gli approfondimenti spirituali ci sono ma sono
solo accennati, sovente vengono spiegate le singole parole con delle istantanee equivalenze
allegoriche.
Nel corso dell’opera, di fatto, sono tre le occorrenze in cui dichiara di optare per la sintesi: nella
prefazione quando elenca i Padri che testimoniano della canonicità del Cantico (la circostanza è
particolarmente significativa dell’attaccamento alla brevità perché la questione è centrale nella sua
introduzione), i{na sunelw;n ei[pw, kai; tou' lovgou diafuvgw to; mh'ko"951, nel commento a [2, 9cdef]
feuvgwn tou' lovgou to; mh'ko"952 e in 3, 11, in cui dichiara, di nuovo che fuggirà il mh`ko~ e che
procederà suntovmw~ kai; safw`~953 (l’accostamento dei due avverbi – presente solo in questo passo
di tutta l’opera esegetica – rivela che, secondo Teodoreto, la prolissità, oltre che disturbare il lettore,
è fonte di oscurità della spiegazione, pertanto assolutamente da rifiutare).
Data l’importanza del tema ci aspetteremmo qualcosa di più di semplici espressioni stereotipate954
e magari ci aspetteremmo una formulazione teorica esplicita della necessità della brevità, invece, un
po’ sorprendentemente, essa non compare, anzi, in un passo Teodoreto sostiene che diminuirà
qualcosa ma amplierà qualcos’altro955: ciò non significa che non questo non sia un reale
convincimento di Teodoreto, ma probabilmente più che un consapevole criterio esegetico, in lui si
tratta di un vero e proprio modus operandi che rifugge dall’abbondanza e dal peso eccessivo delle
parole (anche di quelle teorizzatrici), a tutto vantaggio della praticità chiarificatrice e della
spiegazione della Sacra Scrittura.
949 48C13.
950“Il se fait, là comme ailleurs, une règle de la concision et s’y tient généralement” (Guinot 1998, 71), d’altronde la
“tendenza alla brevitas … non è prerogativa usuale del solo Teodoreto, ma anche di Teodoro e degli altri
antiocheni” (Simonetti 1981, 926).
951 32B15.
953 125B14.
954“Pourrait n’être qu’un «topos» rhétorique: elle est pourtant chez Théodoret bien réelle. Il sait qu’un commentaire
trop abondant risque de décourager le lecteur” (Guinot 1995, 329).
955 48C13.
- 151
-
!
In realtà, anche nelle opere immediatamente successive all’In Ct ritorna l’abitudine ad essere breve,
senza precise formulazioni teoriche (così nel commento a Daniele e nel commento a Ezechiele),
mentre in quelle successive concede un po’ di spazio anche alla promessa di brevità
(nell’introduzione a Zaccaria teme di infastidire i lettori con la lunghezza della prefazione, nel
commento ai Salmi dichiara di unire brevità e utilità, sia nel commento a Geremia che a quello a
Isaia ribadisce la formula già presente nell’In Ct, cioè quella di restringere quanto è già lungo o non
ha bisogno di lunghezza e di approfondire quanto meritevole di approfondimento956, ma nei due
profeti maggiori aggiunge anche che si impegna a rimanere breve il più possibile): probabilmente
ciò si deve al fatto che i primi testi sacri commentati sono in effetti più brevi degli altri (e in questo
l’esegeta trovava già una garanzia), sia perché, essendo all’inizio, forse deve ancora misurarsi con il
nuovo genere letterario.
!
Rimandi ad interpretazioni precedenti
!
Un atteggiamento che dimostra inequivocabilmente il suo desiderio di concisione è quello dei
rimandi alla interpretazione di versetti precedenti, laddove si ripeta il versetto o le immagini
associate ai termini; ciò non accade soltanto – come ci aspetteremmo – nella parte finale del
commento, ma fin dal terzo capitolo del Cantico: in tutto abbiamo contato circa 17 occorrenze in
cui, con formule simili, l’esegeta ricorda di aver già parlato dell’argomento o invita esplicitamente
il lettore a ritornare su passi precedenti.
In 11 di queste occorrenze il motivo dominante è il desiderio di brevità e la convinzione che il
dilungarsi eccessivo sia inutile: ad esempio in 3, 9-10 la precisazione “lo abbiamo già mostrato
nella prefazione”957 sottintende che non è necessario ritornarci sopra; oppure in 7, 8-9 “sono
sufficienti le cose dette sulle mele all’inizio del libro”958 è una implicita dichiarazione che non ha
intenzione neanche di ampliare ciò che ha già detto; in altri sei casi la formula è più semplicemente
“abbiamo già detto”959, che non suona, comunque, come un semplice rimando informativo960, bensì
come una tacita excusatio di non aggiungere altro. Ma l’affermazione più significativa sta in 6, 5-6
tau'ta eJrmhneuvsante" a[nw, peritto;n hJgouvmeqa di;" eJrmhneuvein961, dove peritto;n (che
significa “eccessivo, superiore alla norma”, quindi, in questo passo, “inutile, vano”) ci fa capire
meglio di altri passi la posizione di Teodoreto sulla estensione dell’esegesi: essa deve essere snella,
breve, sostanziosa, deve rifiutare la sovrabbondanza inutile e spiegare asciuttamente la verità del
testo; per l’Antiocheno, insomma, non è vero che quanto più si dice tanto più si giova, neanche
spiritualmente.
Inoltre, un altro motivo dell’abitudine di rimandi interni e che essi, grazie al rinvio incrociato di
spiegazioni, facilitano quella chiarificazione del testo che è lo scopo principale del vescovo: chi
volesse comprendere meglio – sembra essere il suo pensiero – può rileggere quanto già detto. E
questo emerge chiaramente da dh'la dh; tau'ta ejk tw'n ejn th/' ajrch/' tou'de tou' lovgou
eJrmhneuomevnwn962, o da iJkana; de; ta; peri; tw'n mhvlwn eijrhmevna hJmi'n ejn th/' th'" bivblou ajrch/':
dunato;n ga;r, ka]n ejpilavqhtaiv ti" th'" eJrmhneiva", eij" ejkei'na ajnadramovnta th;n safhvneian
956 I loci presentati sono già in Guinot 1995, 329, n. 18, per parte nostra non ne abbiamo trovati altri.
957 124D5.
959 133A9 wJ" proeivrhtai, 133B3 kai; h[dh proeirhvkamen, 140C7 proeivpomen, 141D5 proeirhvkamen, 169B9
ejdidavcqhmen, 204A22 di∆ a}" e[fhmen aijtiva".
960 Come può essere il caso di 7, 2-5 wJ" kai; ejn tw/' prwvtw/ lovgw/ diexelhluvqamen (189, 26).
961 169A3.
962 117B12.
- 152
-
!
euJrei'n963, o soprattutto da toutwni; tw'n rJhmavtwn th;n diavnoian maqhsovmeqa, eij tw'n eijrhmevnwn
uJpo; th'" nuvmfh" ejn th/' ajrch/' tou' suggravmmato" ajnamnhsqeivhmen964.
Dal primo esempio possiamo comprendere un ulteriore aspetto dei rimandi: essi non solo hanno la
funzione di garantire quella brevità dell’esposizione che abbiamo detto e di fornire elementi di
chiarezza alla spiegazione, ma di fatto rivelano anche l’intima convinzione di Teodoreto sulla
coerenza interna della Sacra Scrittura. Se il passo 3, 5 si fa chiaro “grazie alle cose già dette”, se in
5, 10-16 chiama “di nuovo”965 guance e labbra l’insegnamento, se in 6, 12 o 8, 10 la sposa dice di
essere in pace perché Salomone significa “pacifico” e perché prima era detta “Sulammita”966 (cioè
pacifica), cioè significa che nel Cantico tout se tient.
Oltre alla coerenza della Sacra Scrittura, i rimandi dimostrano anche la coerenza della esegesi:
ajkolouvqw" kai; tau'ta toi'" eijrhmevnoi" noou'men967, non c’è contraddizione tra le spiegazioni dei
vari versetti, non c’è confusione e dunque si può interpretare un passo successivo “coerentemente”
con quanto già detto.
!
Le fonti del commento
!
Sulla presenza di varie fonti che ispirano il commento al Cantico dei cantici, alle quali Teodoreto
attinge, Jean-Noël Guinot ha dedicato un articolo968 e ampi capitoli nel suo manuale L’exégèse de
Théodoret de Cyr969, cui è impossibile non rinviare e le cui conclusioni possiamo sommariamente
presentare (ad esse faremo seguire una applicazione dettagliata sull’In Ct):
• Teodoreto non ha potuto consultare direttamente gli Esapla di Origene970
• Non ha avuto come modelli che uno o due commenti precedenti971
• Per l’In Ct il modello è con tutta probabilità il commento di Origene972
• Forse c’è anche una influenza eusebiana, ma, per il caso specifico del Cantico, non si sa sotto
quale forma973
• In ogni caso il suo modello viene assunto con molta libertà e autonomia974
• L’argomento più convincente per il legame con Origene è il riferimento alla traduzione della
Quinta975
964 204A9.
- 153
-
!
• In ogni caso la critica testuale di Origene976 non lascia molte tracce
• Forse prende le varianti dal suo modello di commento977 (ma nel caso dell’In Ct lo stesso
Guinot afferma: “Si Théodoret emprunte beaucoup à l’interpretation d’Origène, il retient
finalement assez peu d’éléments de son travail critique”)978
• La conclusione più probabile è che egli abbia avuto una Bibbia con glosse e altri esemplari
leggermente differenti del testo della Settanta979
• Probabilmente lavora anche con degli strumenti enciclopedici980
!
Altri commentatori
!
L’unico passo in cui Teodoreto dichiara esplicitamente di conoscere il testo di altri interpreti (tine;~
tw`n eJrmhneukovtwn981) è 2, 15 “Fermate per noi le piccole volpi, che rovinano le vigne”, riguardo
al quale Guinot ha scritto che è evidente l’ispirazione da Origene, anche se, mentre
nell’Alessandrino la spiegazione più ampia si fonda sull’accostamento tra “piccole” e “volpi”, in
Teodoreto accade il contrario982.
Sembra di ravvisare una sorta di strabismo nell’atteggiamento di Teodoreto, il quale in un primo
momento accetta la lezione “piccole volpi” e semplicemente riporta che altri, invece, hanno
accostato “piccole” alle vigne, poi riconosce la sostanziale equivalenza di “questo pensiero e
quello” (che non sono proprio coincidenti), poi però di fatto sviluppa la sua interpretazione solo
sulla seconda concordanza: un atteggiamento davvero strano.
Se leggiamo bene il testo, però, ci si renderà conto che lo strabismo è solo apparente e che
Teodoreto non si sta confondendo affatto. In realtà, egli, come è suo solito, non propende né per
l’una né per l’altra spiegazione e crede davvero che non ci sia sostanziale differenza tra le due, dal
momento che egli non fonda la propria interpretazione su 2, 15a, bensì su 2, 15b “e le nostre vigne
sono in fiore”983, e da questa seconda parte del versetto trae il concetto che le “vigne” minacciate,
cioè le Chiese, siano quelle ancora giovani e deboli. Come è abitudine fare per lui, il versetto
successivo illumina il senso di tutto il passo, che, pertanto, veramente non fa differenza sia che si
intenda “piccole” con “volpi” o con “vigne”, tanto per lui le vigne sono comunque piccole.
Egli non propende né per l’uno né per l’altro, ma semplicemente parte dal nesso “piccole volpi”
probabilmente perché così lo coglie nel testo originale984 e registra la possibilità della seconda
concordanza. Da dove trae l’informazione degli “altri traduttori”? Secondo Guinot – come abbiamo
detto – da Origene, ma lo stesso studioso francese ravvisa qualche stranezza nella difformità tra lo
979Cfr. Ibid., 251: “Il faut admettre qu’il travaille à partir d’une Bible «glosée», portant dans les marges d’un texte en
usage dans la région d’Antioche diverses notations empruntées aux versions d’Aquila, Symmaque et Théodotion, mais
aussi à l’hébreu et au «Syrien», ainsi qu’à d’autres exemplaires de la Septante” (Guinot 1995a, 224-225).
981 108C14.
983 108D5.
984 Rimane il problema della concordanza tra hJ ajlwvphx e il maschile mikrou;~, ma si deve al fatto che nel testo del
Cantico è usato nel genere maschile, come anche nel commento di Origene presente nelle catene: cfr. Cant. 2005, 198,
15.
- 154
-
!
spazio dato alle due diverse lezioni nei due commentatori e conclude che, nel momento in cui si
trova una somiglianza, immediatamente essa risulta non determinante985. Per parte nostra possiamo
avanzare un’altra ipotesi.
Tra gli scrittori cappàdoci contemporanei a Basilio di Cesarea si trova anche Anfilochio di Iconio, il
quale, nella sua opera contro gli eretici, ad un certo punto986 riporta il passo del Cantico 2, 15a in un
contesto di notevole somiglianza con Teodoreto, soprattutto da un punto di vista lessicale.
Anfilochio non si sofferma sul senso di mikrou;~ concordato con ajlwvpeka~, ma ne commenta
globalmente l’immagine e al termine aggiunge che è possibile riferire l’aggettivo anche a
ajmpelw`na~ (“senza che il significato generale muti”, proprio come dice Teodoreto). Alcuni termini
ritornano sia nell’uno che nell’altro autore (peirw`ntai, ajpata`n, frovnhma), forse non
determinanti, ma significativi; così anche l’immagine delle volpi come “ladri”987. La causa
principale addotta da Anfilochio per spiegare l’arma degli eretici è l’astuzia (to; dolero;n988),
proprio come in Teodoreto la spiegazione dell’allegoria delle volpi è resa con coloro che possiedono
un pensiero astuto (dolero;n frovnhma989) e poco dopo che ingannano dolerw`~990. Alle righe 7-10 il
Cappàdoce allude all’utilizzo delle Scritture che può essere – come per un medicinale – salutifero se
attuato con saggezza o velenoso se attuato con leggerezza (alludendo chiaramente alle menzogne
degli eretici), proprio come Teodoreto, nell’unico altro passo in cui si sofferma sulle eresie, dice che
gli eretici “offrono alle loro pecore veleni invece di erba nutriente”991. Ma la somiglianza più
cogente ci sembra un’altra. Nello spiegare la minaccia delle eresie Anfilochio scrive: ta;" me;n ou\n
loipa;" aiJrevsei" e[stin euJrei'n o{ti kai; lovgon kai; piqanovthta e[cousi kai; sullogismoi'" kai;
sofivsmasiv tinwn aJploustevrwn perigivnontai992; il brano ha straordinari legami con il medesimo
brano di Teodoreto sulle eresie: ou|toi ga;r th/' piqanovthti tw'n lovgwn, kai; tai'" tw'n sullogismw'n
pagivsi te kai; plokai'", tou;" aJplouvsteron diakeimevnou" ejxapatw'nte" lumaivnontai tai'"
ajmpevloi"993, tanto da far pensare ad un modello esplicito.
Dunque, Teodoreto legge l’opera di Anfilochio contro gli eretici (per documentarsi nella sua
pastorale apologetica antieretica dei primi anni di episcopato, o in occasione della querelle sul
theotokos), vi trova il versetto del Cantico, se ne ricorda quando scrive il commento. Questo
certamente non esclude che abbia trovato la fonte della concordanza alternativa presso Origene, ma
ne pone ulteriormente in dubbio la certezza, anche perché sembra che l’Antiocheno si rifaccia più
ad Anfilochio che ad Origene. Ciò significherebbe che, nell’unico passo in cui egli cita altri
commentatori, di fatto la fonte sia non il commentatore noto e indiscusso, ma un antieretico.
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Altri traduttori
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986 Haer., 181 (è nelle prime righe di quanto ci è pervenuto, ma non sembra essere l’inizio del libro).
989 108D3.
990 109A2.
993 109A4.
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!
Seppure la Bibbia dei Settanta costituisca per Teodoreto un riferimento imprescindibile (cui
riconosce l’ispirazione sacra, la paternità dello Spirito e la santa omogeneità tematica994), egli fa
ricorso a varianti di altri traduttori lungo tutto il commento al Cantico (il primo caso è a 1, 4-5,
l’ultimo a 8, 11), con una frequenza complessiva molto alta: ci sono 18995 citazioni della traduzione
di Simmaco, 10 di Aquila, 2 della Quinta, 1 di Teodozione, 1 di alcuni ajntivgrafa996 della Settanta;
in totale 31 riferimenti esterni alla Settanta. Alcuni di questi sono compresenti: 6 volte Simmaco e
Aquila (3 volte premette Simmaco, 3 volte Aquila), 1 volta Simmaco e la Quinta, 1 volta Simmaco,
Aquila e la Quinta.
La presenza è enorme se solo pensiamo al commento a Daniele in cui compare una sola citazione di
Simmaco e una dei traduttori della Bibba dall’ebraico al greco997; anche nel commento ad Ezechiele
sono 31, ma – per operare empiricamente un confronto – mentre l’In Ct occupa circa 100 colonne
dell’edizione PG, l’In Ez ne occupa circa 215; allo stesso modo nell’In XII ve ne sono circa 70, ma
il numero di colonne è 220. Dunque il commento al Cantico mostra un grande interesse da parte del
suo autore per la critica testuale: questa non sarà una novità per lui998, ma lo è se consideriamo,
come detto, il commento immediatamente successivo e gli altri di poco posteriori999 e se
consideriamo che il suo modello non è pedissequamente l’unico commento che ha letto, quello di
Origene (cfr. supra). Forse non è estranea a questo l’influenza di Eusebio1000, o forse il motivo sta
proprio nell’accuratezza terminologica e nel bisogno di fondare perfettamente la chiarificazione del
Cantico in risposta ai detrattori letteralisti: in altre parole, l’interesse esegetico del Cantico è
profondo in Teodoreto, rivolto a dimostrare in tutti i modi possibili la coerenza e la credibilità del
testo, laddove, invece, tale interesse assume altre forme nei commenti successivi.
!
Semplice locus parallelo
!
Come accade generalmente nell’opera esegetica dell’Antiocheno, anche nel caso del Cantico “ce
que Théodoret demande le plus souvent à ces versions, c’est un texte plus clair que celui de
Septante”1001, ma l’affermazione merita di essere approfondita perché non va applicata
indistintamente.
Anzitutto notiamo che in 7 passi si tratta di una semplice indicazione del locus parallelo: Simmaco,
in 1, 4-5, traduce – secono Teodoreto –, riguardo al sole, kaqhvyato1002 invece di parevbleye (la
variante è introdotta da un semplice h[ w`~); in 2, 11-13 Simmaco e Aquila traducono
994 Cfr. Guinot 1984a, 337-338; cfr. soprattutto Guinot 1995, cap. II, par. 2 (102-110).
996 “Il ne s’agit pas, à proprement parler, d’une version biblique originale, ekdosis, mais plutôt, comme l’indique
l’appellation d’antigrapha, d’un ensemble de manuscrits qui ne paraissent pas, du reste, former un groupe
homogène” (Guinot 1984a, 342).
997 Rispettivamente1273D e 1512C. Compaiono anche due riferimenti ad altri interpreti. Cfr. Guinot 1995, 832 (anche
tutto l’Annexe I. Versions bibliques et critique textuelle, Ibid. 829-845).
998“[Théodoret] est au Ve siècle l’un des rares exégètes à ne pas négliger cet élément fondamental de l’interpétation du
texte biblique”, Guinot 1993, 247.
999
“La place réservée par Théodoret à la critique textuelle dans ses commentaires est cependant loin d’être uniforme”,
Guinot 1995a, 219.
1000 Ma lo stesso Guinot conclude che “il est difficile d’en décider” (Guinot 1995a, 224).
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-
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kladeuvsew~1003 “potatura”, invece di tomh`~ “taglio” (l’introduttore è di nuovo h[ w`~); nel noto
passo 4, 9 ejqavrsuna~1004 invece di ejkardivwsa~ (la variante è introdotta da e[fh)1005; in 8, 6 invece
la semplice indicazione parallela è attribuita ad alcuni ajntivgrafa: perivptera1006 invece di
spinqhvre~1007. Il quarto caso è legato al versetto “colui che porta al pascolo tra i fiori”, che si ripete
per tre volte nel corso del Cantico e in tutte e tre le occorrenze Teodoreto non manca di segnalare la
variante di Simmaco, semplicemente accostandola; l’insistenza con cui la ripropone e la spiega
(quando, secondo le sue abitudini, sarebbe bastato anche un semplice rimando), tradisce l’attrazione
che essa esercita su di lui, come se il testo della Settanta non fosse pienamente soddisfacente, anche
perché già nel primo caso ([2, 16b]) la lezione di Simmaco viene quasi contrapposta a quella della
Settanta, esplicitamente menzionati (sono soltanto due le menzioni della Settanta): dopo aver
ricordato che “giglio” ha tutt’altro significato quando lo sposo lo attribuisce a sé e alla sposa, spiega
cursoriamente che in questo caso i gigli significano semplicemente “l’erba”, perché “anche il cibo
dato agli armenti è ricco di profumo”1008, poi aggiunge che si deve capire così secondo la lezione
della Settanta, “invece Simmaco dice (fhsi;): Coloro che portano al pascolo i fiori”1009, il cui
significato rimane un po’ oscuro. In 4, 5-6 “I tuoi due seni, come due cerbiatti, gemelli di gazzella,
che pascolano fra i gigli”, riprende il significato dei gigli come “erba profumata”, che corrisponde
in questo caso all’insegnamento dello Spirito, cui aggiunge subito, kata; to;n Suvmmacon, la variante
a[nqh nevmein1010 e la spiegazione dei beni terreni, che contiene però un rimando ai versi già
commentati. In 6, 2 “Io sono per il mio nipote e il mio nipote è per me; colui che guida al pascolo
tra i gigli”, non si esime dal ripresentare la variante kata; to;n Suvmmacon1011 “colui che pascola i
fiori” e, a questo punto, le accosta definitivamente ritenendole entrambe importanti:
!
[lo sposo] sia guida al pascolo coloro che sono diventati gigli, sia guida al pascolo tra i gigli coloro che sono degni; in
ogni caso non c’è niente di più profumato delle divine Scritture.1012
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Indicazione arricchente
!
In altri due passi si tratta di una indicazione tesa ad arricchire in qualche modo il testo della
Settanta: esso è chiaro ed è spiegato, però l’aggiunta di un’altra traduzione aumenta la profondità
del commento. In 1, 6 Simmaco “ha posto” (tevqeiken) rembomevnh1013 il periballomevnh della
1003 105B1.
1004137D6. “La catena E 19v trasmette la versione th;n kardivan hJmw`n e[trwsa~, che non trova riscontro in Field, ma
può aver lasciato traccia nell’Explanatio di Teodoreto: cfr. PG 81, 140A12 ejtrwvqhn sou tw`/ e[rwti” (Cant. 2005, 410).
1005“La catena E 19v trasmette la versione th;n kardivan hJmw`n e[trwsa~, che non trova riscontro in Field, ma può aver
lasciato traccia nell’Explanatio di Teodoreto: cfr. PG 81, 140A12 ejtrwvqhn sou tw/` e[rwti” (CoCan 2005, n. 39, 410)
1006 204D2.
1008 109D3.
1009 109D6.
1010 133A3.
1011165C9. La semplicità della formula introduttiva (identica a quella del precedente passo) si deve al fatto che la
variante è già nota.
1012 165C9.
1013 73A8.
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!
Settanta: invece che “circondata” egli ha tradotto “vagante”1014; mentre, per la nostra logica, le due
varianti si escludono automaticamente e Teodoreto dovrebbe accettarne una (quella ritenuta in
qualche modo più giusta) e scartare l’altra (oppure, al limite accettarle entrambe ma tenendone
distinta la spiegazione), in realtà egli le fonde insieme nel commento e spiega – con due sinonimi –
che la sposa non vuole essere ajlwmevnh kai; planwmevnh (“catturata mentre erra”), praticamente
accogliendole entrambe e fornendo una maggiore ricchezza di commento. Ciò significa che la
traduzione di Simmaco ha, in un certo senso, lo stesso valore della Settanta ed esse non sono in
contrasto l’una con l’altra. In 1, 11b-12, invece, la traduzione di Simmaco e Aquila aggiunge
semplicemente un surplus di significato, senza fondersi con l’altra, che mantiene tutta la sua dignità,
tanto che la spiegazione è incentrata su di essa: essi traducono stakth`n (“sacchetto di olio di
mirra” su cui Teodoreto fonda l’interpretazione legata a Cristo come “goccia”) con smuvrnan1015,
che è interpretato, brevemente, con il riferimento alla morte (l’elemento introduttore è wjnomavkasi):
questo dato è in aggiunta all’altro, anche se è ritenuto importante, visto che la formula con cui lo
ricorda è ijstevon “bisogna sapere”, forse con l’intenzione di dare un contributo alle questione
cristologica.
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Indicazione chiarificatoria
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Quattordici passi (più della metà dei 23 passi complessivi nei quali introduce una traduzione
parallela) effettivamente sono motivati dal desiderio di chiarificazione di cui parla Guinot1016, ma
vale la pena esaminarli nel dettaglio.
Anzitutto registriamo che in cinque casi la menzione della traduzione parallela svela la propria
natura prettamente chiarificatrice: 4 volte grazie all’avverbio safevsteron che la accompagna (a
fronte della lezione della Settanta, altri traduttori l’hanno resa “più chiaramente”: sono 2 occorrenze
relative a Simmaco, 1 a Simmaco, Aquila e la Quinta,1 soltanto ad Aquila1017); ad esse aggiungiamo
la sottolineatura paredhvlwsan eijrhkovte~, sempre di Aquila e Simmaco1018.
Occorre, poi, precisare un dato molto significativo: di questi quattordici passi, in realtà 10
coincidono con un problema di tipo etimologico dell’Ebraico e soltanto 4 sono passi chiarificatrici
del testo della Settanta, ma, inoltre, più apparentemente che realmente.
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Apparente chiarificazione del testo
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Di questi ultimi, il primo che si incontra è [2, 8bcd] “Eccolo, viene saltando per i monti, balzando
per le colline”, per il quale Teodoreto, peraltro dopo una lunga spiegazione dell’immagine del
cerbiatto e della gazzella (che è il versetto successivo) aggiunge con una certa convinzione: aJmevlei
tou`to safevsteron eJrmhneuvwn fhsi;n1019; ma, se andiamo a controllare, vediamo che la
traduzione di Simmaco differisce ben poco da quella dei Settanta, e[rcetai baivnwn kata; tw`n
ojrevwn, diaphdw'n kata; tw`n bounw`n invece di h{kei phdw'n ejpi; ta; o[rh, diallovmeno" ejpi; tou;"
bounouv"1020 (scompare diavllomai a favore di baivnw e la preposizione ejpiv a favore di kata;,
1014 La variante è ripetuta al termine del commento del passo: h[ kata; ton; Suvmmacon (73C10).
1015 81B13.
1016“La leçon des «Traducteurs» permet une meilleure intelligence d’un mot ou d’un verset, obscurs dans la traduction
des Septante ou de compréhension difficile” (Guinot 1995, 203).
1018 120B1.
1019 100A5.
1020 96C5.
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mutamenti minimi, come si vede) e che, soprattutto, non dà luogo a nessuna ulteriore spiegazione,
né approfondimento.
Il secondo riguarda 3, 7-8 “ognuno porta la spada al fianco dal timore nelle notti”, in cui è
necessario sciogliere l’espressione un po’ sibillina “dal timore delle notti” , e lo fa con l’aiuto di
Simmaco, il quale safevsteron pepoivhken eijrhkw;~1021 – di nuovo “più chiaramente” – “ a causa
dei timori notturni”, cui segue una breve spiegazione.
Il terzo passo è 5, 4-7 “il mio ventre si turbò per lui” che Teodozione1022 “ha detto (ei[rhken) «si
scaldò per lui»”1023 e che fonda tutta l’interpretazione del passo, evidentemente perché il concetto
del “ventre che si turba” gli risulta, nel contesto, un po’ oscuro.
Il quarto passo chiarificatore non coinvolto in un problema di tipo etimologico si differenzia dai
precedenti, dal momento che, mentre essi erano funzionali ad una retta comprensione, ma tutto
sommato accessori, quest’ultimo risulta necessario per una cognizione anche minima del testo.
Stiamo parlando di 7, 8-9 “Salirò sulla palma, mi impadronirò delle sue altezze”. Teodoreto pone un
problema di ordine logico: come mai la sposa chiama lo sposo “palma” e “vite” ma cita soltanto i
frutti della vite e non anche quelli della palma? Questo interrogativo rientra nella abitudine del
vescovo di Cirro di esaminare dettagliatamente il testo, a partire da una credibilità e una logica
interna che esso deve avere. Non è un accostarsi alla Sacra Scrittura astrattamente devozionale o
cieco, ma un cercare tutti i vantaggi spirituali che si fondano sul testo sacro. Per risolvere la
questione si rivolge ad un altro traduttore: “ci guiderà al pensiero nascosto l’interpretazione di
Aquila”, il quale ajnti; tou` ... u{yewn “altezze” ... tevqeiken ... ejlatw`n “datteri”1024, cui segue una
spiegazione di media lunghezza.
Ovviamente Teodoreto non pensa che la Settanta sia sbagliata, ma soltanto un po’ più oscura del
solito e prova ne è che, al termine della spiegazione, egli riprende il versetto di partenza (come è
solito fare) e riporta sia il testo della Settanta, che dunque mantiene tutta la sua validità, che quello
di Aquila. In altre parole, la posizione di Teodoreto nei confronti della traduzione alessandrina è di
riconoscere che in qualche passo non è chiara, addirittura non si capisce proprio ciò che significa,
che bisogna, per questo, sostituirla con un’altra traduzione, ma di ritenere constestualmente che sia
assolutamente giusta1025.
!
Chiarificazione etimologica
!
Il concetto di “necessarietà” della traduzione parallela ci introduce alla seconda categoria di questa
abitudine, legata alla terminologia ebraica.
In 3, 6 “Chi è questa che sale dal deserto, tronco di fumo ... ?” dopo aver illuminato
abbondantemente il versetto con l’aiuto del salmo 23 e di Is 53, ammette che, nell’espressione
“tronco di fumo”, la composizione è oscura perché i traduttori della Settanta hanno seguito troppo
da vicino il testo ebraico e per questo ricorre ad Aquila e Simmaco che paredhvlwsan
eijrhkovte~1026 “A somiglianza del fumo proveniente da un aroma che brucia”, cui segue una
spiegazione di media lunghezza.
Allo stesso modo si comporta di fronte alla onomomastica ebraica, che ricorre in 8 casi:
1021 124A
12.
1023 153A15.
1024 196B9.
1025 “[La Septante] est tenue pour inspirée, au même titre que l’original” (Guinot 1995, 253).
1026 120B1.
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!
1. In 1, 4-5 dove Teodoreto spiega l’espressione “Sono nera ... come i tendaggi di Kedàr”
precisando (per due volte) che Khda;r eJrmhneuvetai skotasmo;~1027, cioè “oscurità”; la fonte
della traduzione è Simmaco ma egli non lo precisa1028.
2. 4, 4 Thalpheiòt: Aquila e Simmaco wnovmasen1029
3. 4, 8 Sanèr
eJrmhneuvetai “via delle lucerne”1030: non è riportato alcun nome ma la modalità
espressiva è evidentemente quella di una traduzione parallela1031
4. 5, 10-16 Ophatz: kata; Suvmmacon kai; Pevmpthn1032
5. 6, 10-11 Aminadàb: Simmaco, Aquila e la Quinta hJrmhneuvsen safevsteron eijrhkw`~1033
6. 6, 12 Sulammita: Aquila safevsteron hJrmhvneusen1034
7. [7, 2ab] Nadàb: Aquila e Simmaco ei[pen1035
8. 7, 2-5 Essebòn: Aquila eJrmhneuvwn ajnti; tou` ... tevqeiken1036
9. 8, 11 Beelamone: Simmaco e Aquila tevqeiken1037
!
Queste citazioni hanno dei tratti in comune: tutte si mostrano con la necessità dovuta alla difficoltà
di comprensione della parola ebraica conservata nella traduzione della Settanta; i termini ebraici
sono tutti nomi propri; nessun passo spiega il nome proprio ebraico dal punto di vista etimologico
ma semplicemente lo traduce con altre espressioni (Teodoreto la definisce eJrmhneiva tou`
ojnovmato~1038); tutte recano una spiegazione media o ampia, conseguenza del fatto che sono esse, in
un certo senso, il testo sacro da comprendere; in 5 casi su 7 l’esplicazione dell’onomastica ebraica è
data per mezzo della traduzione di almeno due interpreti (Aminadàb riporta Simmaco, Aquila e la
Quinta); in questi 5 casi la spiegazione fonde le traduzioni plurime traendone un messaggio globale;
la Settanta mantiene tutta la sua dignità e la sua importanza (questo è evidente, ad esempio, in [7, 2]
quando, dopo aver spiegato il nome proprio Nadàb con altre due traduzioni, vi ritorna e ricorda che
effettivamente è il nome di un personaggio della Bibbia1039, e su questo dato svolge un ulteriore
spiegazione; perché non inizia con questa spiegazione, che salva la valenza del testo della Settanta?
Probabilmente perché non è ritenuta comunque chiara, rispetto all’altra).
1027 69A13.B11.
1029 132A13.
1030 137B5.
1031Purtroppo il passo non è sopravvissuto né nella traduzione di Rufino, né nel commento tratto dalla catene, quindi
non possiamo svolgere confronti con Origene.
1032157D7. Nella esegesi di Dan 10, 4 (In Dn, 1492D) non compare alcun riferimento ad altri traduttori e ‘Ophatz’ è
spiegato come “oro splendente e purissimo”.
1033 181BC.
1034 184A9.
1035 185C5.
1036 192A8.
1037 209C5.
1038 188A6.
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!
Inoltre, il fatto che sistematicamente per spiegare i nomi di origine ebraica ricorra all’ausilio di altri
traduttori, conferma le conclusioni cui è giunto Guinot nel suo volume sull’esegesi di Teodoreto1040,
anzi ci porta a dire che al tempo del commento al Cantico essa era davvero limitata.
!
Indicazione sostituente
!
Rimane un ultimo passo da esaminare, che, a nostro parere, svolge una funzione leggermente
diversa rispetto agli altri. Si tratta di 4, 9 “in un solo ornamento del tuo collo”, in cui il problema
nasce dal senso troppo generico di e[nqema “ornamento”: il termine si comprende bene nel contesto,
ma effettivamente con il significato di “ornamento per il collo” si trova soltanto in questo passo del
Cantico, tanto che Teodoreto gli sostituisce nel commento il più adatto kovsmo~. Pertanto, non si può
parlare propriamente di chiarificazione, perché la lezione della Settanta più che oscura è generica,
né si può parlare di semplice aggiunta, perché la traduzione di Simmaco (oJrmivskon anti;
ejnqevmato~ tevqeike1041) ha qualche influsso sul commento di Teodoreto, che ad un certo punto
abbandona e[nqema e utilizza direttamente oJrmivskon: dunque si tratta di una indicazione precisante
che sostituisce il testo della Settanta.
!
Introduttori
!
La scelta delle formule introduttorie delle traduzioni parallele è molto varia, però è possibile
ricostruire qualche abitudine. Le prime due indicazioni semplici hanno h[ w`~, senza precisazione del
verbo, forma che è ritenuta evidentemente un introduttore elementare1042; la locuzione kata; to;n,
invece, è riservata alle semplici ripetizioni di traduzioni già fornite (accade 3 volte su 4).
La forma tevqeike (con quelle che possono essere considerate delle semplici varianti, come e[cousi
e pepoivhke) è adoperata 7 volte, e reca 4 volte il complemento oggetto puro con una sorta di
predicativo dell’oggetto (es. to; ga;r periballomevnh, rJembomevnh oJ Suvmmaco" tevqeiken1043), 3
volte la precisazione ajnti; tou`.
Un’altra formula abbastanza comune è quella legata all’ambito lessicale di ejrmhneuvw: in totale
sono 8 occorrenze (di cui una è il sostantivo eJrmhneiva), che ricorrono per tre volte nelle circostanze
in cui Teodoreto, per mezzo dell’avverbio safevsteron, specifica la volontà di chiarificazione1044:
sembra quindi che questo verbo rappresenti per lui la definizione ufficiale dell’attività dei traduttori,
ed è molto significativo ricordare che, se tra i suoi significati è compreso anche quello generico di
“tradurre”, in realtà il primo valore è “interpretare”, come verbo tecnico dell’operazione esegetica;
dunque per Teodoreto i traduttori (ivi compresi i Settanta, ovviamente) non soltanto traducono, ma
mentre svolgono l’opera di vertere dall’ebraico al greco, di fatto, in qualche modo, interpretano
anche il testo sacro.
Per due volte utilizza il verbo ojnomavzw (all’aoristo e al perfetto), ma il modo più diffuso è il verbo
di “dire” in senso ampio: per 8 volte incontriamo fhmi;, eijrhkw;~, ei[pon.
Non c’è traccia delle forme verbali di ejkdivdwmi che sono molto diffuse nel commentario di Origene
edito dalla tradizione catenaria1045.
1040“Comme celle de la plupart des Pères, la sienne [conoscenza dell’ebraico] ne fut sans doute que superficielle et
limitée” (Guinot 1995, 197).
1041 140B7.
1042 Ricorre anche in 180B11, come anticipazione della successiva ripresa e spiegazione.
1043 73A8.
1044 Le altre cinque occorrenze sono comunque in contesti di traduzione parallela necessaria.
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!
!
Ebraico e Siriano
!
Nel commento al Cantico è presente anche un riferimento al testo ebraico e al testo siriano1046, uniti
nel medesimo sintagma, ma espressi in una formula non tradizionale rispetto al caso1047: kai; th/'
ÔEbraivwn kai; th/' Suvrwn eJrmhneuvetai fwnh/1048
' . Il contesto è il versetto 4, 16 “Destati, borea, e
vieni, noto, soffia nel mio giardino, si effondano le sue spezie”, in cui Teodoreto spiega che dietro
alla metonimia dei venti si cela lo Spirito divino che soffia da mezzogiorno per scacciare Borea,
simbolo del male. Dopo la citazione di Ab 3, 3 “Dio verrà da Thaiman”1049 per confermare
l’equivalenza Noto = Sud = provenienza di Dio = bene, Teodoreto aggiunge che “questo è
interpretato sia nella lingua degli Ebrei che dei Siri”. Il commento non è di pronta comprensione:
probabilmente non si riferisce al versetto di Abacuc immediatamente precedente, perché non se ne
capirebbe il significato, si riferisce, invece, al testo del Cantico in cui la parola ebraica tradotta in
greco con “Noto” e la sua traduzione in siriano probabilmente rimanda all’idea di Sud. A
complicare ulteriormente le cose sta il fatto che nel testo delle catene di Origene compare la
citazione di Ab 3, 3 con la spiegazione “cioè da mezzogiorno” (che è la traduzione di
Teodozione1050 di cui non c’è eco in Teodoreto): sembra chiaro che Teodoreto prenda da Origene
l’indicazione, ma allora perché citare il testo ebraico e siriano e non magari direttamente
Teodozione?
È difficile da una singola citazione dedurre qualcosa del rapporto tra Teodoreto e la versione ebraica
e quella siriana, segnaliamo però che il ricorso al testo ebraico è rarissimo e quasi inesistente nelle
prime opere esegetiche1051, allo stesso modo anche “le témoignage du « Syrien » est
exceptionnellement invoqué”1052. Nel medesimo capitolo Guinot giunge alle conclusioni che,
almeno nel caso del Siriano, non può certamente essere stato influenzato da Origene né da
Eusebio1053 e che probabilmente, essendo il siriano la sua lingua materna, consultava personalmente
la Peshitta1054. Per quanto riguarda la conoscenza dell’ebraico, essa è ancora materia di discussione
ma Fernández Marcos afferma che egli non lo conosceva1055.
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Conclusioni
!
Abbiamo detto che Simmaco è il testimone più utilizzato (17 esempi contro 10 di Aquila, di cui 7
insieme a Simmaco, 2 della Quinta, 1 di Teodozione e 1 degli antigrafi), e sicuramente è quello più
stimato da Teodoreto, ma non sarei così categorico nel dire che, nell’In Ct, “ses préférences sont
1048 148B10.
1049 Nell’In Ez (1005A3) Teodoreto scrive “Thaiman nella lingua greca è mezzogiorno”.
1051 Cfr. Guinot 1985, 184 n. 47: mai nell’In Dn, raro nell’In Ez, eccezionale nell’In XII; nella nota egli afferma che
nell’In Ct non c’è nessun ricorso all’Ebraico ma si tratta di una inesattezza: c’è almeno questo.
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nettes”1056 a suo favore, visto che Aquila gode di tre citazioni solitarie, di tre citazioni in cui precede
Simmaco e di 7 casi riguardanti la traduzione di espressioni ebraiche, e i 2 della Quinta occorrono
in circostanze di importanza speciale: uno quando il passo è particolarmente oscuro1057 e la
traduzione, in particolare, di “Aminadàb” viene fornita sull’esempio dei 3 traduttori (Simmaco,
Aquila e la Quinta) e viene ripetuta in tre momenti diversi della spiegazione del passo; l’altro nel
caso della spiegazione di Ophàtz, in un contesto cristologico: come se, nei passi più importanti,
Teodoreto attingesse a tutte le risorse che ha a disposizione. Inoltre, spesso, quando le traduzioni
sono doppie, il loro commento le unisce, a dimostrare che vige una ispirazione generale e comune
che le uniforma di importanza e di valore.
Per quanto riguarda gli elementi che sono motivo delle traduzioni parallele possiamo dire che la
presenza di gran lunga più registrata è costituita dalle singole parole: 11 casi1058, oltre a 6 dei nomi
ebraici, soltanto 4 sono dei sintagmi un po’ più lunghi, di cui l’unica vera frase, possiamo dire, non
appartiene neanche ad uno dei traduttori, ma ad uno degli antigrafi della Bibbia dei Settanta.
Poiché questo comportamento sarà assai diverso nel commento ai Salmi1059, siamo indotti a credere
che nel momento della redazione dell’In Ct Teodoreto sia ancora profondamente attaccato alla
veridicità del testo della Settanta, tanto che esso mantiene sempre tutta la sua validità, anche se gli
si aggiunge un altro traduttore, infatti la traduzione della Bibbia alessandrina non è mai negata, né
scartata, al massimo si dice di lei che non è molto chiara1060 e comunque la sua lezione permane nel
commento e sovente viene ripresa.
I passi paralleli, allora, hanno un duplice significato: o sono semplicemente accostati, e in tale caso
hanno una funzione esornativa o di tipo erudito, laddove con questi aggettivi non si intende dare un
giudizio negativo; oppure sono presentati non tanto quando la Settanta semplicemente non è chiara,
ma quando la sua comprensione, anche elementare, è compromessa (emblematico è il caso dei
termini in ebraico), in tal caso hanno una dimensione di necessarietà1061.
!
Origene fonte dei traduttori?
!
Si diceva sopra che, sulla scorta delle conclusoni di Guinot, probabilmente il commento di Origene
è servito da modello a quello di Teodoreto, ciò sarebbe dimostrato sia da alcuni sviluppi
esegetici1062 che dall’influsso delle traduzioni parallele, tra le quali una prova convincente sarebbe
la doppia citazione della Quinta edizione; in entrambi i casi, comunque, occorre specificare che
Teodoreto l’avrebbe utilizzato con grande libertà. Al termine dell’esame delle traduzioni parallele,
forse si può dire qualcosa di più sulla fonte origeniana, utilizzando l’edizione catenaria del
Commentario al Cantico dei cantici di Origene, curata da Maria Antonietta Barbàra ed edita nel
2005 a Bologna che Guinot non ha ovviamente avuto a disposizione per l’edizione dell’Exégèse de
Théodoret de Cyr che è del 1995.
Abbiamo operato un confronto incrociato: prima siamo partiti dai passi in cui Teodoreto nomina
altri traduttori e li abbiamo confrontati con i frammenti corrispondenti di Origene di Cant. 2005, poi
siamo passati ai frammenti di Cant. 2005 non precedentemente esaminati e abbiamo cercato la
1058 Anche quando la diversità della traduzione riguarda il sintagma (cfr., ad esempio, per 4, 9, OR., Hex., II, 418).
1060 Come è noto, per gli antichi questa non è una colpa.
1061 Guinot invece parla di uno scopo quasi puramente chiarificatore (cfr. Guinot 1995, 206).
- 163
-
!
controprova nell’In Ct. A fronte di 43 occorrenze tra citazioni esplicite e riferimenti complessivi (22
citazioni esplicite da Teodoreto e 21 ulteriori passi tra citazioni e riferimenti nei frammenti di
Origene), abbiamo riscontrato alcuni legami, mentre in molti altri casi le strade degli esegeti
divergono chiaramente1063.
!
Le citazioni esplicite o implicite nell’In Ct
!
In 1, 4-5 forse possiamo risalire alla provenienza dell’informazione della traduzione parallela: in
Origene di fatto abbiamo lo stesso termine skotasmo;~ che chiarifica Kedàr1064. Forse Origene è
anche origine del fatto che un’altra traduzione dello stesso termine sia “nerezza”, ma Teodoreto non
la riporta.
La fonte del significato Kedàr = “oscurità” potrebbe però anche risalire a Eusebio, ma non
all’Onomasticon, come suggerisce Guinot1065, bensì nell’Is., dove in due passi il vescovo di
Cesarea, dopo una spiegazione di carattere geografico (che risulta quella principale), aggiunge: kai;
a[llw~ de; Khda;r eJrmhneuvetai skotasmo;~1066; in nessuna delle due citazioni fa menzione di un
significato etimologico.
!
Ancora più sfumato è il legame in 2, 11-13, sebbene non impossibile. Simmaco in luogo di kairo;~
th`~ tomh`~ e[fqase ha tradotto th`~ kladeuvsew~ h[ggiken1067: mentre in Teodoreto è presente la
variante di tomh`~ e quella del verbo1068, in Origene si verifica il dato contrario1069, però, nel
complesso di omissioni e semplificazioni della catena non è impossibile pensare che
nell’Alessandrino vi fossero entrambi. Perché Teodoreto avrebbe dimenticato la traduzione parallela
del verbo? Forse la risposta sta nel fatto che il testo della Settanta riporta non e[fqase, bensì
e[fqake: Teodoreto non avrebbe ritrovato la lezione proprio identica, e per questo avrebbe scartato
la variante.
!
Nel versetto 4, 4 la doppia citazione di Teodoreto, oltre a mantenere il medesimo ordine di Origene
(prima Aquila, poi Simmaco, anche se Teodoreto predilige anteporre Simmaco1070), gli è
complessivamente molto simile: to; de; Qalfeiw;q oJ me;n ∆Akuvla" ejpavlxei" wjnovmasen: oJ de;
Suvmmaco", u{yh1071, mentre Origene scrive ∆Akuvla" to; Qalpiw;q ejpavlxei" ejkdevdewken, oJ de;
Suvmmaco~ u{yh1072; l’Alessandrino riporta nelle righe successive anche la lezione della Quinta, che
non figura affatto nell’In Ct, ma forse la cosa è plausibile per due motivi: anzitutto perché non si
tratta di un passo particolarmente difficile o significativo (come gli altri due in cui è presente la
Quinta), poi soprattutto perché lo stesso Origene commenta che essa ha tradotto il senso profondo,
1063Come nell’esempio limite di 2, 4-5 in cui il commento di Teodoreto si basa sul testo sterivxate me ejn muvroi~
(89A10), laddove il testo riportato nei frammenti Origene reca sterivsate me ejn ajmuvrai~.
1065 Guinot 1995, 859: a quando ci consta, nel passo esplicativo non figura il significato “oscurità”.
1066 Is., II, 23, 44 e p. 373, 22 pavlin de; kai; Khda;r eJrmhneuvetai skotasmo;~.
1068 105B1.
1071 132A13.
- 164
-
!
più che la lettera, e questo per Teodoreto sarebbe difficilmente accettabile. Di fatto, però, il
commento dei due esegeti è ben diverso l’uno dall’altro.
!
Anche in 6, 2 il legame è molto leggero, sebbene, alla luce degli altri, non inconsistente: Teodoreto,
commentando il passo “porta al pascolo tra i gigli” riporta la traduzione parallela di Simmaco
“porta al pascolo i fiori (ta; a[nqh)”; questa versione ha lasciato un’eco anche in Origene, che scrive
“se c’è un fiore bello nelle anime umane, (lo sposo) lo coglie”1073.
!
Anche nel versetto 6, 10 alcuni elementi sono simili, ma altri divergono nettamente: Origene spiega
con una certa precisione che Aminadàb, cui riconosce la funzione di soggetto, ha fatto essere la
sposa come dei carri; egli è il padre di Nasson, “capo del mio popolo” (a[rcwn tou` laou`), che è a
sua volta capo del popolo della sposa, di cui si parla in Nm 1, 7, ed è anche figura di Cristo, così
Aminadàb viene ad essere figura di Dio. In Teodoreto, invece, Aminadàb è complemento di
possesso ed è praticamente il diavolo, che ostacola l’opera di evangelizzazione della Chiesa; in più
Origene non cita espressamente gli altri traduttori.
Ci sono però delle somiglianze, anzitutto perché, seppure Origene non citi Simmaco, Aquila e la
Quinta, di fatto ne adotta evidentemente la traduzione nello spiegare i due personaggi ed è
plausibile che il catenario non li abbia riportati; ma, soprattutto, in un versetto precedente della
medesima pericope c’è il riferimento a Simmaco, di cui è rimasta un’eco in Teodoreto: il traduttore,
invece di ijdei`n ejn genhvmati tou` ceimavrrou1074, pone katamaqei`n ta;~ ojpwvra~ th`~ favraggo~ e
Teodoreto dice proprio che la sposa è scesa nel giardino per vedere (katamaqei`n1075) se fiorirono le
melagrane.
!
In 6, 12 sia Origene che Teodoreto riportano la traduzione di Aquila del nome “Sulammita”;
Origene aggiunge la medesima traduzione della Quinta (che Teodoreto potrebbe aver omesso
perché superflua) e la traduzione ejskulmevnh di Simmaco, che per l’Antiocheno non è da prendere
in considerazione.
!
In [7, 2ab], il testo del Cantico riportato da Teodoreto parla della “figlia di Nadàb”, mentre quello
dei frammenti di Origene “figlia di Aminadàb”, però, oltre a notare che questa volta anche per
l’Alessandrino il nome indeclinabile ∆Aminada;b ha funzione di complemento di possesso,
segnaliamo che sia l’uno che l’altro riportano la stessa traduzione a[rcwn o hJgemw;n, anche se
Origene non menziona alcun traduttore, ma sappiamo che le due forme risalgono rispettivamente ad
Aquila e Simmaco (di nuovo in quest’ordine). In più è comune ad entrambi la puntualizzazione che
“il principe” è lo Spirito santo, in quanto “padre della sposa” (di cui è detta figlia) sulla scorta del
Sal 44, 11 “Ascolta, figlia, guarda”.
!
Andiamo a 7, 2-5, dove “i laghi di Essebòn” sono spiegati con l’aiuto di Aquila, che traduce, per
Teodoreto, ejpilogismo;n1076, per i frammenti di Origene – che non fanno nomi – eJrmhneuvetai
logismoi;1077; inoltre, nel prosieguo del commento Teodoreto riprende la spiegazione di Origene
(che dice che il pensiero della sposa è piena di riflessioni pie “eujsebw`n logismw`n” giocando sul
1074 Ct 6, 11.
1075 181A3.
1076 192A8.
- 165
-
!
nome Essebòn) scrivendo che l’anima della sposa ha abbondanza di riflessioni pie (eujsebw`n
logismw`n1078).
!
In 8, 6, dopo aver riportato il testo biblico nella lezione spinqh're" aujth'" wJ" spinqh're" puro;",
a[nqrake" puro;" flovge" aujth'"1079, Teodoreto ricorda che “altre copie” dei Settanta scrivono
perivptera aujth'" perivptera, a[nqrake" puro;" flovge" aujth'"1080; se andiamo a leggere il testo
del Cantico nel frammento corrispondente di Origene troviamo proprio perivptera aujth'"
perivptera puro;", flovge" aujth'"1081, che forse ha costituito la fonte dell’Antiocheno.
!
In ultimo, in 8, 11, a ben vedere, è possibile scorgere una spia della fonte origeniana in Teodoreto:
quest’ultimo precisa che la traduzione parallela di Aquila è ejn e[conti plhvqei, se dunque andiamo a
cercare qualche indizio in Origene, troviamo che nella spiegazione di Beelamòn egli usa proprio
l’espressione toutevsti tou` e[conto~ plh`qo~ ajqroivsmato~1082, probabile spia del fatto che egli
riporta la lezione di Aquila.
!
Le citazioni recuperate da Origene
!
Ci è sembrato molto interessante non solo controllare quali fonti potrebbero aver avuto le citazioni
parallele di Teodoreto a partire dal testo di Origene, ma anche svolgere il confronto incrociato, e
cioè partire dalle citazioni di Origene e vedere se avevano lasciato un’eco nel testo di Teodoreto.
Delle 22 menzioni dei traduttori trovate nell’edizione di Barbàra, ne abbiamo scartate subito 18
perché non ci sono sembrate caratterizzate da nessun legame, compatibilmente con quanto è rimasto
nelle catene, anche se in questo caso il termine di riferimento principale è il testo di Teodoreto, delle
restanti 1 è una citazione sicura ma in Teodoreto non figura il nome del traduttore, 3 sono degli echi
molto probabili.
La citazione sicura è quella relativa all’espressione wJ~ devrrei~ Solomw;n ajnti; tou` wJ~ skenai; tou`
Solomw`nto~1083: Teodoreto, per spiegare che cosa siano le “pelli”, precisa che bisogna leggere
devrrei~ (che egli trova nel testo) e non skenai; e utilizza la formula ajnti; tou` che altrove introduce
una traduzione parallela, pertanto sembra di capire che proprio in una traduzione parallela egli abbia
trovato il secondo termine anche se, poiché nel commento dell’Alessandrino la spiegazione di
devrrei~ rimanda alla tenda della testimonianza1084, o Teodoreto parte dalla fonte trovata in Origene,
che omette ma di cui riporta la traduzione, ovvero si contrappone apertamente alla sua
interpretazione. È difficile risalire alla fonte nella quale egli ha letto la seconda versione, dal
momento che, questa volta, né in Origene, né in altri commentatori – a quanto mi consta – essa
compare.
!
1078 192B9.
1079 204C14.
1080 204D2.
1083 69A14.
1084 Molto divergente è quella di Teodoreto, per il quale sono i mantelli di Salomone.
- 166
-
!
[Eco probabile] In [2, 9cdef] l’espressione “Bethèl interpreta «casa di Dio»”1085 sembra riprendere
esattamente “Bethel domus Dei interpretatur”1086 di Origene, senza rimando alla fonte. Il fatto è che,
anche in questo caso, il senso complessivo è contrario: mentre in Origene “casa di Dio” = legge,
profeti, Nuovo Testamento, in Teodoreto “casa di dio” = monti degli idoli.
!
[Eco probabile] In 8, 1-2 come Origene nel commento si richiama alla lezione di Simmaco
hjrtuvmeno~1087, così Teodoreto parla dell’insegnamento dihrtumevnhn1088, ma per il primo il vino è
il Logos, per il secondo è l’insegnamento.
!
[Eco probabile] In 8, 8-9, la lezione di Simmaco è perisfivgxwmen aujth;n sanivsi kedrivnai~, di
cui è rimasto il verbo in Origene1089, e l’espressione ejpiqw`men aujth`/ sanivda~1090 che richiama il
senso del verbo, ma soprattutto volge al plurale quello che nel testo della Settanta è al singolare, e
questo, se fosse senza motivo, sarebbe insolito per Teodoreto che commenta con precisione anche i
singolari e i plurali.
!
Conclusioni
!
In conclusione, questi elementi non appaiono certamente decisivi, ma potrebbero fornire un
ulteriore contributo alla questione se l’origine delle citazioni parallele di Teodoreto è da riscontrarsi
nel commento dell’Alessandrino: considerando che i frammenti di Origene ovviamente possono
aver perduto in quei passi e in altri il riferimento a Simmaco, Aquila o ad altri, e considerando che
l’abitudine esegetica di Teodoreto lo porta a sintetizzare e a mantenere soltanto ciò che è
importante, il fatto che ci siano altri nove passi che, con una certa evidenza, stabiliscono dei
rapporti tra Teodoreto e Origene, oltre ai due più netti a partire da Origene, può farci ulteriormente
riflettere, ma visto che le somiglianze sono sempre molto sfumate e che ce ne sono almeno altre 19
completamente scartate ci conferma che Teodoreto avrà pure letto il commento di Origene ma con
una grande autonomia intellettuale e con una grande libertà di pensiero, senza sentirsi in alcun
modo vincolato al pur illustre e famoso predecessore.
!
Altre fonti: gli esperti
!
Per poter fornire un commento il più possibile razionale e fondato Teodoreto non manca di attingere
alle conoscenze di alcuni “esperti” nelle varie discipline, cui rimanda in modo abbastanza generico.
Per quanto ne sappiamo, un fenomeno simile non si verifica nei commenti immediatamente
successivi a quello al Cantico (primariamente l’In Dn, poi l’In Ez e l’In XII), ciò significa che
l’interesse per la fondatezza delle spiegazioni e per la credibilità delle medesime non rientra,
almeno nella fase iniziale, in un atteggiamento generale dell’esegeta, ma è dovuto al tipo di opera
che sta commentando e ai problemi di canonicità da essa posti.
Troviamo, dunque, otto riferimenti a scrittori che si sono occupati di discipline esterne all’esegesi,
introdotti da formule ricorrenti: per tre volte centrate sul termine deinoi; “esperti”, che sembra
quella da lui preferita, due volte un semplice fasi;, in un paio di casi i loro studi vengono precisati:
1085 100B10.
1088 201B7.
1090 209A15.
- 167
-
!
“coloro che hanno scritto della natura degli animali” (ovviamente gli studiosi di zoologia) e i
“medici”. In un caso non sono menzionate esplicitamente fonti esterne, ma la dovizia con cui
descrive le proprietà di diverse piante ci fa ritenere che si sia documentato appositamente.
La scelta di ricorrere a questi ausili si deve, in una certa misura, alla disponibilità che trovava nel
modello esegetico utilizzato, ma più probabilmente è frutto anche di una ricerca personale, non
semplicemente casuale, per costituire i fondamenti del commento o per documentarsi in passi
particolari. Gli ambiti dei riferimenti sono afferenti alla medicina (2 casi), alla zoologia (2 casi), alla
numerologia (2 casi), alla astronomia (1 caso) e alla botanica (1 caso): nel citare questi esperti
Teodoreto riporta le informazioni tratte da loro in forma molto compendiata ma non minima e su
queste informazioni costruisce il commento.
Nel caso della zoologia, potremmo dire che il ricorso all’autorità degli esperti è, nel contesto
dell’esegesi di Teodoreto, doveroso, visto che con esso fonda la spiegazione di “tortora” fin dal
primo versetto in cui compare l’animale (centrale nell’esegesi della sposa1091), e di “cerbiatto/
gazzella” (altrettanto centrale nella esegesi dello sposo1092).
!
Nel caso della medicina, la prima citazione si trova nella prefazione, allorché, utilizzando Ez 16 per
dimostrare la fondatezza della interpretazione allegorica (momento essenziale di tutta la sua opera)
deve spiegare l’immagine dell’ombelico; la seconda al termine di un passo che racconta del
desiderio di ascensione della sposa verso lo sposo, quando lo esorta a prendersi cura anche degli
altri. I due passi sulla numerologia testimoniano del suo bisogno di documentarsi in questa forma
dell’esegesi “assez inhabituelle chez Théodoret”1093. La botanica interviene quando lo sposo
descrive la sposa con una serie ricca ed espressiva di nomi di piante. L’astronomia lo soccorre nel
passo molto importante dell’accostamento della sposa alla luna.
Dunque sono per la maggior parte contesti nodali nell’economia dell’esegesi o comunque molto
significativi.
Se ci interroghiamo sui testi effettivi da cui Teodoreto ha attinto le informazioni, non possiamo
ignorare che gli studi di Guinot hanno portato alla conclusione che Teodoreto non accede mai a veri
e propri manuali esterni ma trae le informazioni addotte dalla sua fonte esegetica, praticamente dal
commentario di Origene:
!
Passo Argomento Formula Disciplina Fonte secondo Passi catenari
Guinot
Prefazione ombelico kata; tou` ~ ta; medicina
40A toiauvta deinou;~
(Ez 16, 4b)
1, 9
tortora oiJ ta; ~ fuv s ei~ zoologia “ L ’ a u t e u r d e Riporta il dato
77B tw`n zww`n l’information est ... zoologico
suggegrafovte~ bien plutôt le
commentaire
d’Origène”
- 168
-
!
2, 8
gazzella
fasi; zoologia “Théodoret emprunte Riporta il dato
96C cerbiatto sans doute ces deux zoologico
remarques à
Origene”
Nelle Omelie sono
citati qui de naturis
omnium animalum
disputant
3, 7-8
numeri 10 e fasi; numerologia “Il est assez vain de Non è pervenuto
124A 6 chercher à identifier
ce fasiv” (forse a
Origene per il tono
alessandrino)
4, 13-15
serie di botanica Non è pervenuto
145 piante
6, 7-8
numero 100 oiJ peri; tau` t a numerologia “Théodoret n’est Non c’è niente di
169C deinoi; kalou`si certainement pas allé significativo
lire un traité de
mathématique ...
Beaucoup plus
vraisemblablement,
elle lui a été inspirée
par son modèle”
6, 9
luna oiJ peri; tau` t a astronomia “Peut-être s’agit-il ... Non c’è niente di
177A deinoi; fasi; d u c o m m e n t a i r e significativo
d’Origène”
7, 11-13
mandragore wJ~ iJatrw`n pai`dev~ medicina Non proviene da Non è pervenuto
198C fasi un’opera di medicina
!
Non figura nell’elenco di Guinot il passo 4, 13-15, dal momento che non è introdotto da nessuna
formula, ma, come detto sopra, ci pare plausibile che, visti gli altri passi, Teodoreto si sia ispirato a
qualche fonte di botanica, forse anche al commentario stesso di Origene ma non è possibile
verificarlo, poiché il passo non ci è pervenuto, né nella traduzione di Rufino, né nelle catene.
Nell’elenco di Guinot non figura neppure il passo della prefazione, su cui vale la pena spendere
qualche considerazione interessante: ammettiamo pure che negli altri casi Teodoreto si sia ispirato a
ciò che trovava nel commento di Origene, detto passo però non poteva certamente trovarlo, visto
che è una novità assoluta di Teodoreto, dunque abbiamo almeno una citazione esplicita di “esperti”
che non può essere stata tratta dal Cant. di Origene. Forse proviene da dei repertori, oppure da altri
commenti (di Origene o di altri autori1094), certamente non da commenti al Cantico, per il motivo di
cui sopra.
Oltre a ciò, nel commento di Eusebio al celeberrimo salmo 41, 2 “Come la cerva anela alle fonti
delle acque, così la mia anima ti desidera, o Dio”1095, troviamo che egli usa il femminile hJ e[lafo~
(anche Teodoreto declina al femminile plurale, probabilmente per l’influenza di questo brano), che
la cerva uccide i serpenti e distrugge (ajnairetiko;~, stesso termine di Teodoreto) anche gli altri
animali striscianti (anche Teodoreto non limita il potere delle cerve ai soli serpenti) e, soprattutto, in
conclusione della spiegazione troviamo la citazione proprio del versetto del Cantico: sono semplici
1094 Non abbiamo trovato niente in Eusebio, né in Basilio, né in Gregorio di Nissa, né in Gregorio Nazianzeno.
- 169
-
!
suggestioni ma forse l’affermazione categorica di Guinot (“Théodoret emprunte sans doute ces
deux remarques à Origene”) è da ridimensionare.
!
I nomi propri
!
Nel corso della lettura del Cantico dei cantici, Teodoreto incontra 48 volte un nome proprio (alcuni
nomi evidentemente si ripetono, come Salomone, Libano, Gerusalemme, ecc.), di tipo
prevalentemente geografico (35 casi), poi personale (11 casi) e in due casi sono nomi di vènti; il suo
atteggiamento esegetico di fronte a questi nomi è, di fatto, molto vario, anche se, naturalmente,
qualunque sia il tipo di spiegazione adottato, lo scopo è comunque quello di chiarificare il testo e
arricchire l’esegesi1096: ogni intepretazione del nome confluisce nella spiegazione spirituale del
versetto.
!
Etimologia
!
La spiegazione etimologica vera e propria viene utilizzata soltanto in tre casi tra tutti i nomi propri
incontrati, oltre ad un quarto che è un nome comune: in 1, 13 Engaddì è interpretato come “occhio
delle tentazione” in senso etimologico, per stessa ammissione dello scrittore: dia; th;n tou`
ojnovmato~ shmasivan1097; in 2, 9, invece, è il nome comune dorka;~ ad essere ejpwvnumon th`~
oijkeiva~ ojxudorkiva~1098 (anche in questo caso Teodoreto dichiara la modalità interpretativa); in 3,
7-8 il nome del re d’Israele Salomone significa (il termine utilizzato è prosagoreuvei1099)
“pacifico” – probabilmente lo collega a shalom – e, sulla scorta di 1 Cr 22, 9-10, è interpretato in
senso figurato come Cristo, lo sposo1100; per ultimo, troviamo in 5, 1 la spiegazione del nome del
vento del Sud, il Noto, chiamato così (prosagoreuovmeno~1101) in relazione al fatto che porta
l’umidità, noti;~.
Nei primi tre casi la fonte della etimologia è chiaramente Origene, del quarto non possiamo dire
niente.
!
Senso letterale
!
Contrariamente a quanto ci si aspetterebbe – data l’impostazione allegorica del commento –, in ben
9 casi Teodoreto rispetta il senso letterale del nome proprio, sia esso geografico che personale, e di
fronte a versetti come [4, 1de] “La tua capigliatura come greggi di capre, che furono svelate da
Galaàd” afferma che Galaàd non è altro che il monte di cui ha parlato Ger 8, 22, sulla base del quale
conduce il commento1102; oppure in 5, 10-16 “Le sue mani sono cesellate, d’oro, piene di Tarsis”, il
riferimento è alla città famosa per le sue ricchezze, di nuovo per mezzo di un testo biblico1103. Nel
caso dei nomi naturali, è interessante notare che, nello stesso versetto e nello stesso commento, è
1096“Le nom propre prend aussi dans le verset un relief particulier et autorise un commentaire dont l’intérêt dépasse
ordinairement celui d’une remarque érudite” (Guinot 1995, 357).
1099 120D6.
1101 148B5.
1103 161BC.
- 170
-
!
riservato un trattamento diverso ai due venti, visto che Borea è preso per il suo valore letterale (è un
vento del Nord di cui la Sacra Scrittura dice che porta il male), mentre Noto è interpretato per
mezzo dell’etimologia come lo Spirito contrario, apportatore di grazia divina1104. Ma il senso
letterale è applicato anche ai personaggi più facili da interpretare in modo figurato: Salomone in due
circostanze è il re di Israele1105, mentre in altre tre è “il pacifico = lo sposo = Cristo”; Gerusalemme
è, all’inizio del libro, la città di mattoni (1, 4-5), poi, ovviamente, è la città celeste; in ultimo, lo
stesso Davide non è interpretato in senso cristologico, come ci aspetteremmo, ma è il personaggio
storico che ha costruito la torre1106.
Ciò si deve al fatto che l’interpretazione allegorica del Cantico non è motivata da una reale passione
da parte di Teodoreto per questo tipo di lettura, ma dalla necessità del libro sacro, pertanto essa
viene meno in quelle circostanze in cui non risulta essenziale.
!
Senso figurato
!
Una terza categoria di interpretazione possiamo definirla “figurata” in senso ampio: vi fanno parte
alcuni nomi summenzionati e anche altri, come Damasco, Carmelo, ecc., dei quali Teodoreto non
precisa alcun aspetto, ma si limita a spiegarli con immagini spirituali e religiose1107. Tra di essi
spicca “Libano”, che significa nella maggior parte dei casi “Gerusalemme”1108, ma una volta
“idolatria” e un’altra “incenso” secondo il senso letterale1109. Vi troviamo anche Edòm e Bosòr, che
non compaiono nel testo del Cantico, ma nella citazione di Is 63, 1 ss. riportata per tre volte: dopo
aver semplicemente riportato la citazione, in un secondo passo Teodoreto scrive che Edòm e Bosòr
“significano” (shmaivnei) rispettivamente th;n gh;n e th;n sa;rka1110, poi, in 5, 10-16 “Il nipote è
bianco e rosso”, formula l’equivalenza to; de; purro;~ paradhloi` to; gh;i>non e unisce
genericamente “rossore” con Edòm e Bosòr. Da ciò è possibile concludere che Teodoreto non dà
esattamente una spiegazione etimologica (Edòm = rosso, come farà invece nell’In Dn1111, mentre
nell’In Is “terra rossa”1112, poi solo “rosso” con riferimento al Ct 5, 10-16) e Bosòr = carne, ma
nella seconda citazione viene data per sottintesa l’equivalenza Edòm = rosso = terra e dice che
Edòm “significa” terra, non precisando l’etimologia. La terza citazione esplicita il collegamento “il
fuoco mostra l’elemento terrestre”, mentre il significato Bosòr = carne non è mai chiarito, anche se
probabilmente è inteso come semplice sinonimo; comunque il piano cristologico è chiaro. Da dove
trae queste spiegazioni? Probabilmente da Eusebio, che nelle Eclogae propheticae precisa che
1104 148AB.
1105 Nel primo versetto “Cantico dei cantici che è di Salomone” e in 1, 4-5.
1107“Le recours à une geographie symbolique, très souvent fondée sur l’étymologie est une tradition ancienne de
l’exégèse biblique, notamment en milieu alexandrin. Entre l’In Is d’Eusèbe et celui de Théodoret, on constate sur ce
point aussi un certain nombre d’affinités, en particulier dans la manière de traiter la relation Carmel/Liban” (Guinot
1995, 434, n. 435).
1110 120A1.
- 171
-
!
“Edom, mantello rosso” corrisponde a “terra”1113 e nel commento a Isaia spiega che Bosòr significa
carne e Edòm terra, in un contesto cristologico1114.
!
Tornando ai nomi propri, ricordiamo, in conclusione, che in 10 casi Teodoreto li sostituisce con
delle traduzioni parallele (cfr. supra).
!
Conclusioni
!
Nello stesso versetto la modalità esplicativa cambia; lo stesso nome può avere varie spiegazioni nel
corso del testo; spesso la spiegazione ricorre ad un testo biblico, a volte ad Origene, a volte ad
Eusebio.
L’interesse etimologico per i nomi propri in Teodoreto è molto limitato; quando essi hanno un
significato abbastanza semplice (Libano = Gerusalemme, Gerusalemme = Gerusalemme celeste)
vengono semplicemente spiegati in senso figurato, altre volte non vengono quasi nemmeno
concepiti come nomi propri, ma l’esegesi lavora sulla loro traduzione. È significativo, però, il
valore letterale dato ad alcuni di loro. Questo ci fa ridimensionare l’interesse allegorico di
Teodoreto, che di fronte alla possibilità molteplice fornita dal nome proprio di fatto la applica con
grande parsimonia.
!
Esegesi numerologica
!
Ha scritto Guinot che la presenza dell’esegesi numerologica nel commento al Cantico è molto
insolita per un antiocheno e per Teodoreto stesso, che non si ripeterà più in questo senso nei
commenti successivi1115, ed egli stesso ne ha esaminato i passi in cui ricorre, giungendo alla
conclusione che si deve all’influsso esercitato da Origene. Le pagine dello studioso francese sono
molto interessanti come analisi sul tema1116, ma purtroppo egli non poteva tenere conto delle
conclusioni di Bossina sulla paternità di alcuni passi1117 e analizza anche il brano finale che non
appartiene al vescovo di Cirro ma alla catena dei Tre Padri. Tolto questo brano, che indubbiamente
è quello più audace in senso numerologico-allegorico, tanto da far dire allo stesso Guinot che “si fa
fatica a credere che l’autore sia Teodoreto”1118, rimangono alcune considerazioni valide sulla prassi
numerologica di Teodoreto, che però ne ridimensionano la stranezza.
Dalla lettura dei 6 passi in cui Teodoreto, sullo spunto del testo del Cantico, spiega la presenza dei
numeri emerge anzitutto l’applicazione di conoscenze abbastanza generiche, come 10 = numero
perfetto1119, 6 = giorni della creazione, 100 = numero più compiuto, 1000 = unità della mano destra;
queste spiegazioni non danno luogo ad approfondimenti spirituali di grande spessore, né ad agganci
con questioni gnostiche o neoplatoniche; in due circostanze, il numero 60 e il numero 1000, per
stessa ammissione di Teodoreto, non esprimono una “precisa quantità”1120, ma, addirittura, nel
1114 Is II 7.
1116 Guinot 1992, 441-446: ad esse rimandiamo per i particolari sui vari passi.
1119
“La perfection du nombre dix, comme plus haut celle du nombre cent, est un idée communément admise par les
exégètes” (Guinot 1992, 442).
- 172
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!
secondo caso, una generica “moltitudine”. Dunque l’esegesi numerologica è quasi inesistente e ciò
non può stupire nella penna di un antiocheno.
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Esegesi sacramentale
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Nel commento al Cantico sono presenti otto passi in cui l’esegesi del vescovo di Cirro si volge ad
un approfondimento sacramentale e mistagogico1121, mediamente con un certo approfondimento.
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Passo Testo Tropo Sacramento
PG 122, Se invece vuoi interpretare anche misticamente le seni > altare comunione
541C parole della sposa, pensa che i seni ammirati più del
vino siano le indicibili sorgenti dell’altare, per
mezzo delle quali siamo nutriti tutti noi, allievi
della pietà.
1, 2
Se tu volessi ragionare in modo anche più mistico, profumo > crisma c r e s i m a
60C ricordati della santa mistagogia, nella quale coloro (battesimo)
che sono giunti a perfezione, dopo il ripudio del
tiranno e la confessione del re, riceveranno come un
sigillo regale il crisma dell’unguento spirituale,
accogliendo come in un’impronta visibile,
l’unguento, la grazia invisibile dello Spirito
santissimo.
88CD Chiama lo sposo “melo”, che è liscio al tatto, dolce melo > dolce al comunione
al gusto, fragrante all’olfatto, graziosissimo e gusto
bellissimo alla vista, dolcissimo all’udito: infatti
insieme con l’ascoltare, applichiamo alla parola
tutti i sensi
2, 4
casa del vino: Chiesa che produce il vino spirituale casa del vino comunione
89B (vino)
3, 11
Dunque coloro che mangiano le membra dello sposalizio e gioia c o m u n i o n e
128B sposo e bevono il suo sangue ottengono la > giorno della (corpo e sangue)
comunione matrimoniale con lui. Per questo i morte e della
servitori dello sposo esortano le figlie di Sion e di eucaristia
Gerusalemme: Uscite e vedete la sua corona
d’amore, con la quale lo ornò senza saperlo la
Giudea che lo generò, e lo incoronò nel giorno del
suo sposalizio.
4,2
Penso che lo sposo mostri che i greggi di pecore pecore che escono battesimo
129B tosate siano coloro che si sono tagliati il peccato per dall’acqua
mezzo del battesimo
4,10
Dal vino spirituale, e dalla bevanda mistica, i tuoi vino spirituale, c o m u n i o n e
140C seni ricevettero maggiore eleganza; bevanda mistica (vino)
1121
“On relève naturellement dans l’In Cant. un certain nombre de références à la liturgie eucharistique ou baptismale,
mais il s’agit le plus souvent de brèves remarques à partir d’un mot du texte” (Guinot 1992, 447).
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7, 8-9
“E saranno i tuoi seni come grappoli di vite”. Tu sei seni come comunione
196CD la vera vite, dalla quale il vino di salvezza coltivato grappoli di vite (vino)
è spremuto nei torchi spirituali, dai quali è riempito
quel calice inebriante tanto quanto ottimo
8, 5
melo: Credendo infatti nell’annuncio del nostro m e l o , battesimo
204B Salvatore, ci siamo accostati al divino battesimo e rigenerazione
essendoci accostati abbiamo ottenuto la
rigenerazione.
!
Notiamo che, anche in questo caso, non troviamo nessuna particolare attitudine allegorica, né
qualche volo esegetico, visto che i collegamenti sono tutti molto ovvi e spontanei: le colombe e le
pecore nell’acqua rimandano al battesimo (come anche la rigenerazione), la menzione del vino alla
comunione sotto la specie del sangue, il melo (che genera frutti noti per la dolcezza) alla eucaristia.
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Esegesi escatologica
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Passo Testo Tropo
2, 11-13
Chiama “inverno” il tempo prima della sua venuta, “primavera” quello Culmine dell’estate
105A dopo la sua venuta, il culmine dell’estate è il tempo che stiamo
aspettando.
2, 14
Se tu non fossi a combattere come nello spazio tra due eserciti, tra le Fortificazione esterna
108B cose presenti e le cose future (penso infatti che questo è mostrato con la
“fortificazione esterna”), non ci potrebbe essere il nostro matrimonio.
2, 17
Lo sposo dunque porta al pascolo noi, fino a che venga la fiamma del Ombre
112A giorno e spiri la rugiada della salvezza e, da un lato, si muovano le (coprono le cose
ombre, dall’altro appaiano le cose future che resistono e che hanno una future)
stabile e duratura esistenza.
6, 9
Non solo la sposa è come luna scelta, ma anche come sole brillerà nella Luna/sole
180A vita futura, colpendo tutti con gli splendori.
6, 9
Tali sono quindi le gioie della vita: come in un certo senso un torrente,
180D nel momento presente è portata la gloria, e la ricchezza, e il regno, e il
lusso, e gli altri fiori della vita: venendo la vita futura, invece, si
consumano e finiscono e cessano, al modo di un torrente.
[8, 5cde]
Poiché dunque le cose che ci donò nel momento presente sono l’ombra Ombra dei beni
204B dei beni futuri [Cfr. Col 2, 17], «Ora infatti» dice il beato Paolo «vedo futuri
come in uno specchio, come in enigma, ma allora faccia a faccia» [1
Cor 13, 12], la sposa desiderò di sedere all’ombra dello sposo, la quale
è ciò che fu dato ora come pegno (chiamò lo sposo “melo” a causa dei
motivi che dicemmo); quindi necessariamente lo sposo dice: “Sotto il
melo ti svegliai; là ti partorì colei che ti generò”.
!
I riferimenti alla escatologia in questo commento sono veramente pochi e, di questi, soltanto quattro
contengono contengono un vero e proprio tropo che prelude alla lettura escatologica; in più notiamo
che tre su sei si concentrano praticamente negli stessi versi, così gli altri due, mentre l’ultimo è
obiettivamente un po’ forzato.
In realtà il testo sacro si presterebbe molto più abbondantemente ad essere interpretato in senso
escatologico, ma evidentemente questo aspetto non rientra negli interessi specifici di Teodoreto.
!
- 174
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!
La Sacra Scrittura
!
In tutto il commento al Cantico abbiamo contato circa 460 riferimenti a testi biblici1122, di cui circa
130 sono allusioni (in genere ben riconoscibili), mentre le restanti sono citazioni vere e proprie1123,
molto fedeli rispetto alle edizioni odierne del testo greco per quanto riguarda il Nuovo Testamento,
con delle discrasie per quanto riguarda l’Antico Testamento.
Le lettere di San Paolo hanno la presenza largamente più diffusa (circa 140 citazioni), senza
distinzione tra i vari destinatari, ma con una generica attribuzione a Paolo1124, cosa che permarrà
anche nei commenti successivi1125; vi sono comprese tutte le lettere, tranne la 2° ai Tessalonicesi e
la lettera a Filemone, con una frequenza ben diversa, però: 1° e 2° Corinzi totalizzano da sole più di
50 presenze ciascuna, poi Galati (16), Efesini, Romani, Colossesi, Ebrei (poco più di 10 ciascuna),
fino ad una sola di 1 Tm, 1 Ts e Tt. Invece il libro singolo preferito da Teodoreto è certamente
quello dei Salmi, che vanta più di 70 citazioni1126, come accade anche negli altri commenti: “La
priorité absolue revient au Psautier. Rien de plus naturel, si l’on considère que les psaumes tiennent
une grande place dans la vie liturgique et même dans la vie quotidienne” 1127, ma per questo
commento probabilmente bisogna considerare sia il fatto che Teodoreto stava componendo il
commento ai Salmi che poi ha interrotto per dedicarsi al libro d’amore, sia la vicinanza tra la poesia
salmica e la poesia del Cantico, sia la parentela tra Davide, autore dei Salmi, e Salomone, autore del
Cantico, anche perché è Teodoreto stesso che nella prefazione stabilisce un legame tra Davide e
Salomone e i Salmi e il Cantico, in particolare con il salmo 44 (che è quello di gran lunga più
menzionato, 17 volte):
!
Penso che il saggio Salomone abbia scritto queste cose ammaestrato dal padre, poiché quest’ultimo era un profeta, un
grande profeta, e lo ascoltò certamente mentre cantava: «La regina sta alla tua destra, avvolta in un mantello d’oro,
adorna» e ancora «Ascolta, figlia, guarda, porgi l’orecchio,
dimentica il tuo popolo e la casa di tuo padre;
al re piacerà la tua bellezza.
Egli è il tuo Signore».1128
!
Dopo i Salmi, segue il vangelo di Matteo, con circa 55 citazioni, altro testo cui Teodoreto rimarrà
molto affezionato anche in seguito, assieme con il vangelo di Giovanni1129, che ha 25 citazioni; il
primo dei profeti è ovviamente Isaia (circa 35), poi, fatto un po’ insolito rispetto agli altri commenti,
troviamo più di 15 citazioni della Genesi ma questo si deve principalmente alle due enumerazioni di
episodi della storia dei patriarchi che servono a Teodoreto per ricordare le meraviglie di Dio.
1122 Di cui circa dieci sono state aggiunte da noi all’apparato di note amplissimo di PG.
1123 “L’abondance de citations scripturaires pourrait tenir au fait qu’il s’agit là d’un premier travail d’exégèse et à
l’influence sur Théodoret du commentaire d’Origène où elles sont encore beaucoup plus nombreuses” (Guinot 1995,
150, n. 82).
1124 In quattro casi Teodoreto specifica “ai Corinzi”; in due “ai Galati”; in due “agli Ebrei”; una volta “a Timoteo”.
1125“L’autre référence néo-testamentaire constamment présentées par Théodoret pour mettre en évidence l’unité des
Écritures est la référence paulinienne: «l’Apôtre» dit lui aussi la même chose que le prophète” (Guinot 1995, 148).
1126 Alcuni vengono menzionati con il loro numero o intestazione: 17, 28, 44, 71, “dei torchi”.
1128 48B.
1129 “Certaines évangiles sont plus fréquemment cités que d’autres – ceux de Matthieu et de Jean” (Guinot 1995, 148).
- 175
-
!
Non sono mai riportati i titoli dei libri ma soltanto gli autori tradizionalmente riconosciuti
(Salomone per i Proverbi, Mosè per il Pentateuco, ecc.); gli stessi Vangeli non sono mai distinti
rispetto all’agiografo, ma ad essi Teodoreto si riferisce sempre al plurale, in molti casi anche
accostandone diversi, come in 1, 1 in cui accosta Mt e Gv1130.
L’unico titolo utilizzato per onorare gli agiografi è praticamente quello di makavrio~1131, con
l’eccezione di Mosè, verso il quale è preferito mevga~1132: la differenziazione si deve, forse, al fatto
che di Mosè non sono riportate delle citazioni vere e proprie, ma soltanto due o tre allusioni a brani
particolare (dell’Esodo) e altrettante in generale ai suoi scritti. L’utilizzo di makavrio~ è conforme ai
commenti successivi, almeno a quello a Daniele1133 e a Ezechiele1134, mentre nel commento ai XII
qualcosa cambierà1135, dunque forse si può ipotizzare una concidenza tra l’utilizzo di makavrio~ e i
primi commenti, un po’ come è stato studiato per Cirillo1136.
!
L’abitudine di Teodoreto è di accumulare due o tre citazioni per volta, anche mescolando i
Testamenti e i generi diversi, a riprova della sua convinzione della sostanziale unità della Scrittura,
abitudine cui, probabilmente, non è estranea anche la carica apologetica antimarcionita1137 che
predicava, al contrario, la netta distinzione tra Antico e Nuovo Testamento.
Le formule introduttive delle pericopi citate sono molto semplici: “dice”, “grida”, “secondo...”,
“scrive”, spesso non sono introdotte da niente ma sono armonicamente inserite nel contesto.
!
I motivi delle citazioni scritturistiche
!
Contrariamente a quello che avviene in altri commenti1138, l’impressione che si ha nel leggere le
citazioni scritturistiche è che esse sovente hanno la funzione di confermare il testo del Cantico, più
che di spiegarlo, come se Teodoreto intendesse fondarne la credibilità e la legittimazione:
spessissimo sono introdotte dalle congiunzioni gavr oppure dio; con evidente valore asseverativo; ad
esempio, in 1, 1 Teodoreto afferma: “Chiamiamo il beato Paolo a testimone delle cose dette”1139;
oppure in 4, 10: “Parlando come testimone Isaia dice”1140.
Ovviamente la funzione chiarificatrice è molto diffusa ed evidente: come in 1, 3 “E questo è
possibile capire in maniera più precisa dai Santi Vangeli”1141 o in 2, 11-13 “Lì dunque capiamo
1130 56D.
1131Per Paolo 71 volte contro 1 qeiovtato~, 1 qespevsio~ e 5 volte niente; per Davide 16 volte contro 2 mevga~ e 8
niente; per Pietro 3 volte contro 1 qeiovtato~; per Isaia 2 volte contro 7 niente. Inoltre, makavrioi sono anche gli
Apostoli.
1138“Révélatrices de la cohérence du texte biblique en chacune de ses parties, elles [les citations] sont aussi un moyen
privilégié d’explication” (Guinot 1995, 149).
1139 56A12.
1140 140C10.
1141 61B1.
- 176
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!
quell’espressione «l’inverno se ne andò»”1142, tanto che per due volte usa l’espressione tecnica
safevsteron1143 che altrove denota l’aiuto dato dalle traduzioni alternative; anche l’Antico
Testamento ha questa funzione esplicativa, sebbene non sia generalmente esplicitata: i profumi di
Mosè di Es 30 spiegano il versetto 1, 2, l’episodio della prostituta Raab di Gs 2 spiega la cordicella
scarlatta di 4, 3, ecc.1144 Altri passi hanno una funzione arricchente del contenuto spirituale del
Cantico1145.
La convinzione profonda di Teodoreto, ovviamente, è il totale accordo scritturale tra tutti i libri
sacri (per esempio nel passo 1, 3: “Quasi dicendo insieme al beato Paolo”1146), che permette una
lettura trasversale dell’Antico e Nuovo Testamento ([2, 9cdef] “Ed è possibile trovare questo
nell’Antico e nel Nuovo Testamento”1147), evidente nelle formule come “somigliano a queste le
parole dette da…” (5 volte), “a ciò si accordano le parole di…” (1 volta). Questa unità di fondo del
testo biblico non è certo una novità né per gli esegeti, né per Teodoreto1148, lo è però in un certo
senso perché, contrariamente ad altre opere esegetiche, non viene mai utilizzata la famiglia lessicale
sumfwvnia, sumfwnevw che, invece, suona come termine tecnico, ad esempio nel commento ai
Salmi1149, ma anche fin dall’opera esegetica immediatamente successiva al Cantico: spia forse di un
linguaggio esegetico che si va ancora formando.
In ogni caso, che ci sia continuità tra i libri sacri per Teodoreto, è un dato evidente1150, anche se egli
stesso ad un certo punto stabilisce una implicita gerarchia al loro interno che pone i Vangeli al
primo posto e al secondo tutti gli altri libri, con un ordine che, probabilmente, va in senso
tradizionale1151.
Da alcuni accenni è possibile anche comprendere il senso dell’ispirazione divina della Sacra
Scrittura per Teodoreto. Troviamo tre passi molto significativi in questo senso, da cui si evince
anzitutto che lo Spirito Santo ha ispirato gli autori sacri, secondo la categoria del
“soffio” (ejmpneuvsa~1152), ma più precisamente è il vero e proprio autore della Bibbia, di fronte al
quale gli agiografi ricoprono poco più che un ruolo di meri esecutori: “E che queste cose stanno
così, lo testimonia lo Spirito Santo nel salmo 44, dicendo cose simili”1153, e anche: “Questo anche
per mezzo (dia; tou`) del beato Davide dice lo Spirito Santo”1154.
!
1142 104D9, la citazione è Gv 4, 36.
1146 61B11.
1147 101A
5.
1150In 2, 7 viene addotta una serie di brani che, iniziando da Abramo, tramite Israele, Davide e Paolo, attraversa tutta la
storia della salvezza (97AB).
1151“Perciò ai Vangeli divini noi attribuiamo un onore più grande, ma onoriamo anche la legge, i profeti e gli scritti dei
santi apostoli” (80A9).
1152 136B8, l’affermazione si trova nella prefazione del libro III, un passo metodologico notevole.
1153 64B2.
1154 196A5.
- 177
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!
La struttura dell’opera
!
La prefazione
!
È noto che la prefazione del Cantico abbia le caratteristiche di grande originalità e sostanziale
unicità nell’ambito delle altre opere, se non altro per la lunghezza e per la ripartizione degli
argomenti. Da essa, comunque, traspare la mentalità razionale e improntata alla essenzialità che è
tipica della esegesi di Teodoreto, dal momento che la struttura è saldamente e chiaramente articolata
secondo le suddivisioni canoniche:
!
1) Dedica
2) Premesse
a) Caratteristiche necessarie per svolgere un commento
b) Dichiarazione di umiltà
3) Motivo del commento
a) Risposta alle preghiere di un amico
b) Invocazione della grazia (citazione di Sal 118, 18)
Fino qui il testo occupa in tutto circa mezza colonna (28AB-29A)
!
4) Dimostrazione della canonicità del libro
a) Errate interpretazioni precedenti
b) Testimonianza dello Spirito e dei santi scrittori precedenti
5) Teoria dello svelamento delle Scritture
a) Definizione della interpretazione figurata
b) Esempi di interpretazione figurata nei profeti
Questa è la parte più cospicua della prefazione: 8 colonne (29A-44C)
!
6) Il testo
a) Personaggi
b) Scopo dell’opera: il Cantico dei cantici insegna l’unione mistica della sposa e dello sposo
c) Autore (le tre opere di Salomone1155)
d) Destinatari
7) Debito con i predecessori e originalità
Questa parte occupa poco più di due colonne (44D-48D) e con essa termina la prefazione
!
8) Spiegazione del titolo
Con la spiegazione del titolo siamo già nel primo libro (49A-53A)
!
Come si vede dallo schema, la struttura della prefazione rispetta la tassonomia tradizionale (non
solo delle opere di esegesi, ma anche di quelle filosofiche del tardoantico1156) visto che presenta,
oltre alla dichiarazione di umiltà e alla necessità della preghiera, il motivo dell’opera, la
teorizzazione del metodo, i dettagli sul testo, lo scopo dell’opera, il riferimento ai predecessori1157;
ciò che colpisce è semmai la mancanza di un chiaro riferimento all’utilità dell’esegesi (c’è solo un
1156Cfr. Viciano 1992, che parla, tra l’altro, della “existence d’un sens littéraire du livre” (433), oltre a quello spirituale,
riconoscibile nella precisazione da parte di Teodoreto del genere letterario e dell’autore.
- 178
-
!
essenziale povnon oujk a[crhston1158), la mancanza della hypòthesis, cioè dell’inquadramento
storico, ma questo è ovvio, data la natura spirituale e allegorica del Cantico, e la sproporzione della
sezione sulla canonicità e sul metodo esegetico, per cui Guinot ha parlato di “ipertrofia”1159.
Aggiungiamo che la parte relativa al testo (autore, destinatari, ecc.) è quella più vicina di tutte
all’introduzione di Origene, di cui ne presenta un sunto estremo, ma sostanzialmente identico.
!
Il commento
!
Come tutte le altre opere esegetiche di Teodoreto, anche l’In Ct è suddiviso in parti: una prefazione
e quattro sezioni ben identificabili e concepite come ben distinte dalla prefazione. La loro
estensione è molto regolare, dal momento che, mentre la prefazione occupa circa 12 colonne di
PG1160, i quattro libri occupano circa 20 colonne ciascuno, cosa che fa pensare ad una ripartizione
fondata più su motivi di equilibrio compositivo e di regolarità formale, che, contrariamente ad altri
commenti1161, sui contenuti del libro da commentare. Ciò è confermato anche dall’esame delle
cesure al testo sacro apportate dalla divisione in libri. Il I libro termina al v. 2, 6 dopo pochi versi in
cui la sposa racconta di un’esperienza di contatto con lo sposo, e il II riprende con il suo appello
alle compagne: la separazione, se c’è, è molto debole. Il II, invece, termina al v. 4, 7, dopo una
lunga lode dello sposo alla sposa, il quale successivamente la invita a recarsi presso di lui: anche la
separazione non è affatto netta. Dopo il III libro, invece, sembra che ci sia uno stacco più forte,
visto che dopo un’ulteriore lode dello sposo alla sposa che si conclude ai vv. 6, 7-8, prima
intervengono i servitori dello sposo, poi prenderà la parola direttamente il personaggio femminile.
Dunque, sembra che l’equilibrio strutturale prevalga sui contenuti, e la cosa è un po’ strana dal
momento che, per stessa ammissione di Teodoreto, il Cantico è un dramma, e come tale si presta
bene ad essere suddiviso in scene, ma Teodoreto sembra non tenerne conto.
In cinque passi il vescovo di Cirro menziona la suddivisione in parti della sua opera, in modo non
del tutto coerente. “Questo verso si chiarisce grazie alle cose dette al principio di questo libro”1162,
in cui il termine usato, lovgo~, evidentemente intende il II libro. “La divina Scrittura chiama spesso
Gerusalemme e il popolo dei Giudei «Libano» e ciò dimostrammo dagli scritti dei profeti nella
prefazione di questo libro”1163, in cui con prooivmioi evidentemente intende la prefazione, con il
medesimo lovgo~ intende, questa volta, tutto il commento (da qui si coglie anche che Teodoreto
concepisce i quattro libri del commento come distinti dalla prefazione). Nella prefazione al III libro,
scrive: “Al termine dello scritto precedente a questo”1164, cambiando termine tecnico e adoperando
suvggramma, con cui intende – forse, cfr. infra – il “libro II” del commento. All’inizio del libro IV,
invece, scrive: “Nelle parole prima di questo”1165, dove il pro; touvtou sottintende, probabilmente,
lovgou o forse suggravmmato~, in ogni caso si riferisce al libro IV. In ultimo, nel commentare i vv.
7, 8-9, quando arrivo allo stico “l’odore del tuo naso come mele” rimanda ad una precedente parte
1158 48C1.
1161
“Le commentaire linéaire se caractérise … par une étendue raisonnable qui se règle sur celle du texte à
commenter” (Guinot 1995, 335).
1162117B12 (è il v. 3, 5 “Vi feci giurare, figlie di Gerusalemme, nelle potenze e forze del campo, qualora svegliate e
destiate l’amore, finché non voglia” che rimanda a 2, 7 che è il primo versetto commentato nel II libro).
1163 124D5.
1164 136B13.
1165 176B3.
- 179
-
!
dell’opera: “Sono sufficienti le cose dette da noi riguardo alle mele all’inizio del libro”1166, dove
bivblo~ non può valere per tutta l’opera, compresa la prefazione, perché in tal caso non sarebbe
“all’inizio”, vale dunque per i quattro libri del commento. A meno che non significhi direttamente il
“testo sacro”, cosa che sarebbe sostenuta dal fatto che biblivon significa praticamente sempre il libro
del Cantico (due volte vale per “libretto di ripudio” in un contesto molto particolare) e l’unica altra
occorrenza di bivblo~ si riferisce proprio al libro del commento. In entrambi i casi, comunque, non è
del tutto esatto parlare di “inizio del libro”, visto che il versetto è il 2, 3 e il passo sta in 88B.
!
Come abbiamo detto, la suddivisione in parti interne è facilmente riconoscibile, grazie alle righe di
passaggio che Teodoreto appone a ciascun libro. La prefazione termine con la previsione della
fatica da compiere e con l’ammissione di umiltà, mentre il libro I comincia con una formula
brevissima di fiducia nella grazia; esso si conclude con una preghiera legata al versetto finale e con
la dossologia1167. Il secondo libro comincia con una breve riflessione sulla differenza tra amore
carnale e amore spirituale motivata dal contesto e un semplice aggancio ai versetti precedenti, e si
conclude con una preghiera legata al versetto, nella stessa forma ottativa già incontrata nel primo
libro, e con la dossologia rivolta alla Trinità. Il terzo libro presenta una vera e propria piccola
prefazione che riprende succintamente i temi della prefazione generale: la necessità della preghiera,
il velo della Scrittura, l’ispirazione e la grazia, concludendola con un breve riassunto dei versi
precedenti; a sua volta si conclude con la stessa preghiera ottativa, e con la dossologia rivolta allo
sposo. Anche il libro IV comincia con una piccola prefazione, meno teorica dell’altra, ma altrettanto
ricca di riferimenti alla necessità della grazia, alla indegnità di Teodoreto, alla chiarezza del testo,
all’utilità dell’opera, cui segue un lungo riassunto della parte precedente; si conclude allo stesso
modo delle altre: preghiera ottativa e dossologia a Cristo.
Si nota subito la coerenza delle righe finali di ogni libro, che sono praticamente identiche1168, ma
anche, nei contenuti, delle righe iniziali che ruotano intorno agli stessi temi. Le recenti acquisizioni
di Bossina1169 hanno fatto luce su una incongruenza già notata da Guinot sul fatto che l’In Ct non si
sarebbe concluso con la dossologia1170, in realtà il testo di PG non è quello originale di Teodoreto
ma un brano dei Tre Padri erroneamente attribuitogli, dunque anche il commento al Cantico ha la
dossologia finale. Questo rende ancora meno plausibile l’ipotesi di Hill secondo la quale in origine
la lunga prefazione sarebbe stata in realtà una appendice e avrebbe avuto la sua collocazione al
termine dei quattro libri e non all’inizio1171.
!
In base a quanto Teodoreto scrive in incipit e in explicit delle suddivisioni, forse si può ricavare
qualcosa rispetto alle sue modalità compositive.
È impossibile calcolare i tempi precisi della sua scrittura, ma la nostra idea è che egli abbia
composto in forma continuata, cioè in un determinato lasso di tempo senza particolari interruzioni,
1166 196C14. Ha già spiegato il v. 2, 3 “Come un melo tra gli alberi della boscaglia”.
1167“Accada anche a noi di non sperimentare la sua forza castigatrice, né di subire le punizioni che ha minacciato, ma di
gustare i doni che ha promesso, la grazia e l’amicizia dello sposo Cristo e Signore nostro, al quale sono la gloria e la
potenza per tutti i secoli dei secoli. Amen” (92B10).
1170“Ce qu’elle a de systématique chez Théodoret rend tout à fait surprenante l’absence de la doxologie après la
parénèse, à la fin du livre IV de l’In Ct” (Guinot 1995, 336).
1171“The conclusion [quella non ristabilita da Bossina] seems particularly abrupt, even by the standards of Theodoret’s
suntomiva and his practice in closing his volumes: even the customary doxology is missing. But perhaps we should see
following immediatly here the long dedicatory piece which now stands as a preface, though composed on
completion” (THDT., Commentary, 119, n. 22).
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-
!
il gruppo prefazione-libro I-libro II; dopo una certa pausa (forse collegata con la querelle
cristologica che nel frattempo stava montando) abbia scritto il libro III; poi, forse, dopo un’altra
pausa, il libro IV. È nulla più che una semplice ipotesi, naturalmente, ma ad essa ci conducono
alcune considerazioni: anzitutto l’introduzione quasi inesistente del libro I1172, come se fosse una
semplice prosecuzione di tutta la lunga prefazione iniziale (pur se da essa separata); poi il fatto che
tra il II e il I non ci sia vera separazione, né ci sia un riassunto dei versi precedenti, ma solo un
semplice riferimento1173, come se tutto fosse ancora ben presente nella mente dello scrittore;
viceversa il III libro inizia con una prefazione (seppur non lunga), svolge un vero e proprio
riassunto dei versi precedenti, come per riandare con la memoria a quanto si stava dicendo e utilizza
il termine suvggramma che forse non significa tanto il “libro II”, ma “tutto quanto è stato scritto
prima”, cioè la parte già scritta, e magari avvertita come altra cosa rispetto al seguito, perché un po’
distante nel tempo; inoltre notiamo che nel III libro la trattazione cristologica si fa più ampia e
articolata. Allo stesso modo, anche il libro IV ha all’inizio una introduzione e un lungo riassunto
degli ultimi versetti e, quando rimanda “alle mele all’inizio del libro”, di fatto commette una certa
imprecisione, dal momento che – come abbiamo detto – il versetto del melo non è esattamente
all’inizio e forse egli si confonde per il tempo trascorso.
In ogni caso, nelle ultime pagine del commento il ritmo si fa più veloce e l’andamento sintattico più
essenziale e sintetico, come se avvertisse la stanchezza della composizione o l’accelerazione di chi
è quasi giunto al termine.
!
Conclusioni
!
Riteniamo, anzitutto, che la primaria importanza di questo capitolo stia nel suo svolgimento vero e
proprio, che permette una conoscenza più approfondita della prassi esegetica del primo commento
di Teodoreto: le tecniche di analisi e di interpretazione, il rapporto con le citazioni bibliche, la
ripartizione del testo sono acquisizioni interessanti che potranno anche essere approfondite in
futuro.
Nello stesso tempo è possibile pervenire anche a delle conclusioni sull’esegesi del vescovo di Cirro.
Quello che traspare evidente dal commento è che Teodoreto è interessato massimamente a spiegare
il testo sacro, a chiarificarlo, a permetterne una piena e corretta fruizione: questo è il suo punto di
partenza e il senso del commento. Pertanto nella sua opera l’esortazione morale e
l’approfondimento spirituale rimangono in secondo piano (ad esempio rispetto ad Origene). Questo
è evidente nell’uso delle citazioni bibliche, che hanno lo scopo di chiarire e sostenere la spiegazione
del testo sacro, non tanto quello di nutrire la fede dei lettori; oppure nella meticolosità con cui
affronta ogni termine e ogni espressione del testo sacro; oppure nella stessa brevità e asciuttezza del
commento, che, complice l’assenza di una formulazione teorica, è un vero e proprio modus
operandi volto alla chiarezza e animato dal convincimento che la prolissità sia causa di oscurità. È
come se Teodoreto si limitasse a spiegare il testo e poi le conseguenze per la vita di fede fossero
lasciate ai lettori, e forse a questo atteggiamento non è estraneo il fatto che il destinatario sia un
vescovo, perdipiù il patriarca di Antiochia, di fronte al quale Teodoreto poteva sentirsi indegno di
impartire lezioni di spiritualità.
Diversamente dalle opere successive, in questa lo scrittore non riassume, non sintetizza, non omette
(al massimo sfrutta i rimandi interni al commento), non svolge troppe parafrasi, o troppo lunghe,
cosa che fa pensare ad una particolare attenzione rivolta al testo sacro, probabilmente dovuta al tipo
1172
“Poiché, confidando nella grazia divina, osammo l’interpretazione di questo libro, orsù, come prima cosa di tutte,
esaminando il titolo del libro, rendiamolo chiaro” (49A1-4).
1173 93A.
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di opera che sta commentando e ai problemi di canonicità da essa posti1174: questa è la seconda
conclusione che si può trarre dalla sua prassi esegetica. Il timore di mettere in discussione la
canonicità del Cantico lo spinge, da un lato, a motivare e spiegare ogni passo e ogni immagine,
richiamandosi insistentemente alla loro credibilità (ad esempio nell’utilizzo di parecchi passi
biblici; oppure nell’esortazione a ricercare l’interpretazione più vera), dall’altro ad insistere sui
rimandi interni al testo sacro e sulla giustezza e quasi ovvietà di tante interpretazioni.
Non rientra negli obiettivi di questo lavoro indagare in che modo Teodoreto si sia posto nei
confronti di Origene e in che misura abbia attinto alla sua opera (che abbia attinto è ormai condiviso
e accettato da tutti), però possiamo dire che Teodoreto avrà pure letto il commento
dell’Alessandrino ma lo ha fatto con grande autonomia intellettuale: il modello origeniano non è
semplicemente riproposto ma costantemente ripensato e adattato, tante volte la sua esegesi trova
nell’altro il punto di partenza ma ad esso aggiunge sempre una chiarificazione, una precisazione,
una personalizzazione. Egli non trattiene tutto, semplifica e conduce all’essenziale, applica la sua
volontà di concisione, arricchisce di suo con la tecnica della contaminazione, riprende e si smarca
nello stesso tempo con molta libertà, se imitazione c’è, non è certamente servile, fino al punto che
nell’unico passo in cui menziona, seppur genericamente, altri commentatori abbiamo molti motivi
per pensare che non sia affatto Origene, bensì l’opera antieretica di un Antiocheno. Tutto ciò ci fa
dire che il vescovo di Cirro mostra, fin dalla sua prima opera di commento biblico, una grande
maturità e autonomia, sia nei confronti dei suoi predecessori di Antiochia che nei confronti del
grande maestro (che, non a caso, risulta secondo nell’elenco iniziale): a questo atteggiamento
potrebbe non essere estranea la querelle cristologica che stava iniziando, come se Teodoreto non
volesse in ogni caso propendere eccessivamente per un vescovo di Alessandria, parte avversa a
Nestorio.
Soprattutto ci fa dire qualcosa anche sull’allegorismo di Teodoreto. È indubbio che nel commentare
il Cantico egli applichi abbondantemente e senza remore l’allegoria, ma si tratta di un’allegoria
niente affatto posseduta o introiettata, è una allegoria che non gli appartiene1175. Essa non è praticata
– come pure ci si aspetterebbe – nel commentare i nomi propri, nella numerologia, nei riferimenti
sacramentali e in generale la semplicità e la agilità del commento le nuocciono, a tutto vantaggio
della razionalità e della schematicità tipiche della sua esegesi.
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!
1174C’è un unico passo in cui il testo sacro è parafrasato in un paio di versetti e non è riportato puntualmente, ed è [3,
4cde] (113D-117A), ma, oltre ad essere investito da un grave problema filologico (cfr. premessa) pare che sia coinciso
con una pausa nella stesura del commento (cfr. anche La cristologia).
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!
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La cristologia nel Cantico dei cantici
!
I brani cristologici
!
Passiamo in rassegna analiticamente tutti i brani nei quali, a vario titolo, Teodoreto affronta la
questione cristologica, non omettendo quelli in cui il riferimento è più trinitario che cristologico,
visto che, almeno in 3, 3-4, “l’Époux n’y semble plus perçu tout à fait comme le Verbe incarné,
mais bien comme la seconde hypostase trinitaire”1176.
!
Prefazione (44D-45A.C)
!
«La Sacra Scrittura conosce la Chiesa come sposa e chiama “sposo” il Cristo»: con questa solenne
affermazione Teodoreto dichiara i fondamenti della sua interpretazione, poggiandosi anche su Gv 3,
29 e Mt 9, 15 e ponendosi subito in un’ottica cristologica, visto che nella sua concezione ‘Cristo’ è
il termine con cui indicare la persona del Salvatore contemporaneamente nelle sue due nature (cfr.
infra); ciò è evidente anche perché, sebbene la derivazione dell’interpretazione sia chiaramente
origeniana, in realtà nel testo dell’esegeta alessandrino, tradotto da Rufino, troviamo che lo sposo è
il Verbo di Dio1177, cosa che nel V sec., in ambiente antiocheno, non è più accettabile: Teodoreto
usa, non a caso, il termine “Cristo”, per indicare umanità e divinità. Inoltre, sembra di capire che la
coincidenza tra ‘sposo’ e ‘Cristo’ sia avvenuta al momento dell’incarnazione, visto che Giovanni
Battista dichiara di esultare di gioia perché il tempo è compiuto e “l’ombra prese corpo”1178 e poco
dopo si parla della ‘nascita dello sposo’1179: in questo caso si può dedurre che Teodoreto non
riconosce al Verbo-Figlio in quanto tale il primato della salvezza, ma alla persona di Cristo con la
sua componente sia divina che umana.
Proseguendo con la spiegazione dei personaggi, lo scrittore interpreta i compagni dello sposo come
angeli e passa in rassegna alcuni episodi biblici in cui si sono fatti presenti a Cristo, tra i quali
notevole è il passo che richiama Lc 22, 43, «nel momento della passione gli angeli erano presenti
guardando dall’alto l’elemento umano (to; ajnqrwvpinon)»1180: questa è la prima menzione della
natura umana di Cristo, e – cosa altrettanto significativa – è riferita ad un momento di debolezza
della persona di Cristo, dal momento che è normale per Teodoreto, convinto assertore della
impassibilità del divino, esplicitare che il sostegno spirituale e morale degli angeli è dato alla
componente umana, non certo a quella divina.
L’espressione al neutro singolare sostantivato to; ajnqrwvpinon ricorre in questo passo della
prefazione e altre 8 volte, sempre nel complemento di limitazione kata; to; ajnqrwvpinon1181 (riferita
alla ricezione dei doni dello Spirito Santo, alla parentela con la sposa, alla nascita dal popolo dei
Giudei, alla discendenza da Salomone); l’espressione parallela to; ajnqrwvpeion è presente 6 volte,
1180 45C12.
118160A7 (1, 2); 64B14, C11 (1, 3); 80D1, 81A9 (1, 11); 96D4 (2, 9); 109C11 (2, 16); 121B8 (3, 7); c’è poi l’espressione
della th;n ajnqrwpivnhn eujmorfivan dello sposo contrapposta alla bellezza divina imperscrutatibile (85,29 [2, 1]).
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!
di cui 5 al complemento di limitazione (kata;)1182 e una al complemento di causa (dia;)1183. La cosa
strana è che la loro occorrenza è nettamente separata, anche se i contesti di applicazione sono simili:
fino al versetto 3, 7 Teodoreto preferisce la prima forma, poi la abbandona e sceglie la seconda
forma fino alla fine, come se avesse avuto un ripensamento sul sinonimo migliore da usare1184.
Se esaminiamo altre forme, vediamo che sono di gran lunga sottoutilizzate rispetto a quanto già
visto: a fronte di 14 occorrenze del neutro sostantivato abbiamo una volta to; kata; savrka1185 e una
volta ajnrqwpovth~1186 in parallelo con qeovth~ come complementi oggetto della adorazione. Dal
punto di vista della divinità, troviamo un’altra occorrenza di qeovth~1187 in parallelo con kata; to;
ajnqrwvpinon e due occorrenze del neutro sostantivato to; Qei`on1188.
L’espressione all’aggettivo neutro sostantivato non è un’invenzione di Teodoreto, dal momento che
la troviamo anzitutto in Gregorio di Nazianzo, nella lettera 202 a Nettario (gli Apollinaristi
sostengono che in Cristo ci sarebbe ‘secondo l’elemento umano’ anima e corpo, ma non la
mente1189), poi in Teodoro di Mopsuestia quando parla della adozione a figli, gloria che noi abbiamo
avuto ma che Gesù ha ricevuto per primo kata; to; ajnqrwvpinon1190. Ma soprattutto anche Cirillo di
Alessandria lo usa, nella lettera ai monaci egiziani degli inizi del 429 (oujdæau\ th;n th`~ qeovthto~
fuvsin gegennh`sqai dia; gunaiko;~, ou[pw proslabou`san to; ajnqrwvpinon1191) e nella lettera 2° a
Nestorio (al paragrafo 4), parlando della unione ipostatica: eJnwvsa~ eJautw/` kaqæuJpovstasin to;
ajnqrwvpinon1192 e poco sotto usa anche il to; Qei`on1193 in un passo che potrebbe avere qualche
legame con 5, 10-16 (cfr. infra).
Per quanto riguarda i precedenti di Teodoreto stesso, la vediamo in Incarn. XXIX, dove, in un
contesto che tratta della communicatio idiomatum, scrive: dia; th;n prov~ to; ajnqrwvpinon
e{nwsin1194. Ci risulta che questa sia l’unica occorrenza dell’aggettivo sostantivato nelle opere
cristologiche precedenti al Cantico.
Un’analisi delle opere esegetiche successive rivela qualche dato interessante. Nel commento a
Daniele troviamo una sola volta kata; to; ajnqrwvpinon1195 nella profezia di 2, 34 “una pietra si
staccò dal monte” dove ‘monte’ è la stirpe di Davide, ‘pietra’ è Cristo secondo l’elemento umano,
1182 121C7 (3, 7); 125D6 (3, 11); 141A8 (4, 10); 160C2 (5, 10-16); 200B11 (8, 1-2).
1184Il passaggio avviene nel medesimo versetto 3, 7 a poche righe di distanza, nello stesso contesto (Gesù discende da
Salomone): quella che può sembrare una semplice variazione sinonimica, è in realtà una vera e propria scelta espressiva
che può aver adottato dopo un’interruzione della composizione (cfr. anche La prassi…).
1185 81A3 (1, 11): sarebbero due ma la seconda è una semplice ripetizione.
1194 1469C11.
1195 1301C2.
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poi troviamo la forma parallela kata; to; ajnqrwvpeion1196 in un contesto di unzione dello Spirito
santo, simile ad almeno quattro passi del Cantico, di cui uno esplicito dell’unzione (th;n crivsin th;n
kata; to; ajnqrwvpinon gegenhmevnhn1197) dove si parla dei doni ricevuti dallo Spirito (1, 2; 5, 10-16;
8, 1-2); essa ritorna poco dopo: [Cristo;~] hJgouvmeno~ hJmw`n ejsti kata; to; ajnqrwvpeion, wJ~
protovtoko~ pavsh~ ktivsew~1198, che richiama ajpavsh~ fuvsew~ kreivttwn hJ ajparch; di 5, 10-16
(cfr. infra). Per quanto riguarda la forma corrispondente to; Qei`on, notiamo che essa compare due
volte, la prima con l’attributo ajswvmaton1199, la seconda con l’attributo ajpaqev~1200, non tanto nel
senso del dolore o della passione, ma nel senso dei sentimenti.
Passando al commento a Ezechiele, vediamo che l’espressione “secondo l’elemento umano” è
utilizzata soltanto due volte, nel medesimo passo (17, 22-23): “Lo chiama ‘cedro’ secondo
l’elemento umano (kata; to; ajnqrwvpinon), poiché chiamò cedro anche la regalità davidica: il cedro
infatti ha l’immarcescibilità, come anche il Sovrano, e secondo l’elemento umano (kata; to;
ajnqrwvpeion) ha avuto l’assenza di peccato”1201. Non possiamo fare a meno di indicare che il
contesto è simile ad altri del Cantico, ad esempio 5, 10-16 dove kevdron de; kalei` th;n ajnqrwvpeian
[fuvsin], wJ~ shpedovna th`~ ajmartiva~ ouj dexamevnh1202 e che anche in questo caso le due forme
ricorrono in coppia, ma qui forse per semplice variazione sinonimica. Se esaminiamo le occorrenze
dell’aggettivo sostantivato to; Qei`on rimaniamo colpiti da una dato: esso compare in 1, 27-28 con
un elenco di 8 attributi, tra cui ajswvmaton, ajsuvnqeton, ajovraton1203, in 3, 13 ajpaqe;~ to; Qei`on1204
in un contesto di sentimenti umani e in 9, 18 di nuovo con ajswvmaton e ajsuvnqeton, praticamente
con lo stesso valore del commento a Daniele. Allo stesso modo anche nell’Incarn. X compariva con
una serie di aggettivi determinanti la divinità, tra cui aJplou`n kai; ajsuvnqeton1205.
Per completare l’esame aggiungiamo che in 37, 25 troviamo la contrapposizione kratei` de; wJ~ ejk
Dabivd me;n kata; savrka, UiJo;~ Qeou` kata; th;n qeovthta1206 e in 43, 16 troviamo la
contrapposizione ouJ ga;r movnh/ th/` qeovthta, ajlla; kai; th`/ proslhfqei`sh/ ajnqrwpovthti1207. Nel
commento ai Dodici profeti non troviamo mai questa terminologia.
Ci pare non inutile ricordare che nel Credo di unione (433) e nelle varie dichiarazioni cristologiche
che lo precedono e che ne costituiscono il nucleo fondante, non compare mai il neutro sostantivato
ma soltanto kata; th;n ajnqrwpovthta e kata; th;n qeovthta.
Dunque, seppur nei commenti successivi la terminologia osservata viene adoperata, di fatto è
evidente la sproporzione dei rapporti: nell’In Ct la presenza dell’aggettivo neutro sostantivato
‘elemento umano’ è di gran lunga più diffusa che negli altri commenti (14 volte a fronte di 3, 2, 0) e
1197 64B14.
1199 1465C11.
1200 1525C5.
1201 969C10.
1202 164B1.
1203 833D1.
1204 868A5.
1205 1432B5.
1206 1197B7.
1207 1232C13.
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il corrispettivo ‘elemento divino’, se pure ha una diffusione quasi identica, nel Cantico è usato in un
senso cristologico profondo (“impassibile” rispetto all’economia della salvezza), mentre nell’In Dn
e nell’In Ez sembra avere un valore più formulare. Ciò si deve al fatto che nel commento al Cantico
la preoccupazione cristologica è molto più marcata e attenta e forse anche ad un ripensamento di
carattere terminologico.
!
Titolo (52C-53A)
!
Dopo la spiegazione del titolo “cantico dei cantici” (che richiama da vicino quella di Origene),
Teodoreto celebra l’amore di Dio per gli uomini che si è manifestato nel suo disegno di salvezza: la
liberazione dalla morte, l’adozione a figli e l’unione sponsale. Il tono è decisamente molto solenne,
caraterizzato da tre enumerazioni sinonimiche: la prima sulla bontà di Dio (anche con climax), la
seconda sui titoli di Dio e la terza sulla condizione di nullità dell’uomo (anche questa con climax).
Il tema della filantropia divina riconoscibile nella salvezza non è nuovo in Teodoreto, visto che gli
dedica un paragrafo dell’Incarn., seppur non molto lungo1208, nel quale utilizza la medesima tecnica
della enumerazione, ma centrata sui titoli del Verbo di Dio, ed esplicita nettamente i concetti
dell’incarnazione sino a farne una piccola trattazione1209.
Nel nostro caso, invece, la spiegazione cristologica non è affatto chiara e il tono è più che altro
trinitario, visto che a tutto il passo è sottesa l’identità delle prime due persone della Trinità: la
filantropia divina ha portato il creatore – Signore, Dio, Sovrano – eternamente uguale a se stesso a
liberare dalla morte l’essere di argilla, gli ha donato la libertà (questi sono gli attributi di Dio
Padre), lo ha costituito figlio e si è unito a lui come lo sposo con la sposa (questi sono gli attributi
del Figlio, anche considerando l’eco biblica di Rm 8, 15). Il Figlio-sposo, inoltre, prepara la camera
nuziale e il talamo; è possibile interpretare questi due luoghi, alla luce di Ct 1, 31210 dove è scritto, a
proposito di “Il re mi introdusse nella sua camera segreta”: “Mi svelò i suoi comandi segreti, mi
fece conoscere il mistero celato dai secoli e dalle generazioni; mi aprì i tesori, le oscurità, gli arcani,
gli invisibili”. Ora, mentre “i comandi, i tesori, le oscurità, gli arcani, gli invisibili” sono spiegabili
in senso molto generico come le ricchezze della santità e della sapienza, to; musthvrion to; ajpo; tw`n
aijwvnwn kai; ajpo; tw`n genew`n è molto probabilmente il mistero dell’incarnazione.
1, 1 (53) Mi baci dai baci della sua bocca
!
Come in altri passi, anche in questo non è facile distinguere nel commento il momento mistico da
quello più strettamente cristologico, visto che Teodoreto non ha intenzione, con quest’opera, di
scrivere un trattato di cristologia ma si lascia trasportare dall’afflato della spiritualità. Quindi,
mescolate a generiche considerazioni mistiche1211, troviamo anche delle idee sulle due nature dello
sposo.
Anzitutto dobbiamo sottolineare lo stretto legame che esiste, per Teodoreto, tra il salmo 44 e il
Cantico dei cantici: nella prefazione troviamo che “il saggio Salomone ha scritto queste cose [cioè
il Cantico] ammaestrato dal padre, visto che era un profeta, un grande profeta, e lo ascoltò
certamente mentre cantava” e qui Teodoreto riporta alcuni versetti tratti dal salmo 44; nella
spiegazione del titolo il salmo compare tra i cantici epinici, che costituiscono pendant con il
Cantico (i primi narrano la vittoria del re e la liberazione dei prigionieri, il secondo le nozze –
ovviamente tutto in senso mistico); in questo passo e nel successivo 1, 3 è utilizzato come prova
biblica – di tipo profetico – della dualità di nature in Cristo (sembra quasi che sia una delle prove
1210 61A10.
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determinanti, insieme a pochi altri passi biblici); complessivamente viene citato nell’intero
commento circa 17 volte (in questo caso assieme ad un’altra citazione notevole: Is 63, 1). Quello
che abbiamo del commento al salmo 44 di Teodoro di Mopsuestia non sembra aver influenzato il
pensiero di Teodoreto, anche perché l’unico versetto interpretato in senso cristologico da Teodoro
(il versetto 9, dove Vestimentum hic corpus appellat … murra autem amica funeribus indicat
passionem1212) non è recepito nel Cantico. L’importanza del salmo 44 per Teodoreto sta nel fatto
che esso afferma con certezza che lo sposo è un figlio dell’uomo1213, carico di bellezza e forza, ed
anche che è Dio e Figlio eterno1214, con accento evidentemente trinitario; è assai significativo,
nell’ottica antiochena, che il salmo prima menzioni l’umanità, poi la divinità.
Le righe successive del commento, dove l’Autore immagina la sposa che si rivolge al Padre e lo
esorta “Pevmyon moi to;n monogenh` sou UiJo;n”1215, possono essere interpretate in senso
genericamente mistico e in tal caso sarebbe una preghiera di contatto spirituale; oppure,
probabilmente, vanno intese in senso letterale, come a dire che la sposa, dopo la lunga attesa degli
annunci dei profeti, reclama che il Figlio si incarni. In ogni caso non dimentichiamo che in questo
libro senso mistico e senso specifico si confondono spesso. Se è vera l’interpretazione letterale,
soprattutto alla luce delle righe successive dove stabilisce una differenza tra le profezie e il
compimento in Cristo1216, sembra di capire che la sposa si collochi prima dell’incarnazione e invoca
il Padre di inviare il Figlio unigenito; unendo questa considerazione al fatto che abbiamo qui l’unica
occorrenza in tutto il commento dei titoli cristologici di “Figlio” e “Figlio unigenito” deduciamo
che per Teodoreto il “Figlio” è tale solo prima dell’incarnazione, almeno nella sua esclusività, e che
dopo l’incarnazione abbiamo soltanto l’Incarnato (Figlio di Dio e uomo), a cui il narratore e la
sposa si rivolgeranno sempre con il titolo di “sposo”.
Alla luce di quanto è scritto dopo (“Noi pensiamo il bacio non come unione delle bocche, ma come
comunione dell’anima pia con il discorso divino”1217), capiamo che in questo caso la sposa è
l’anima pia (non la Chiesa, che, a rigor di logica prima dell’incarnazione non esiste).
!
1, 2 (60) Unguento effuso è il tuo nome
!
“Le molteplici e varie fonti che riempono tutta la terra di profumo [sono i vari carismi, spiegazione
degli “unguenti” del versetto precedente] hanno una sola vena e origine, il tuo unguento” e per
dimostrare che in Cristo c’è la fonte di tutte le grazie, Teodoreto utilizza Col 2, 9 “in lui abitò tutta
la pienezza della divinità”, poi, per bilanciare quella che poteva sembrare una dichiarazione troppo
spinta sulla natura divina, aggiunge immediatamente che la pienezza della divinità non ha annullato
l’elemento umano, visto che, secondo Is 11, 1-2 (un brano ricorrente nell’opera), egli ha accettato i
doni dello spirito e lo ha potuto fare – aggiunge il vescovo di Cirro – kata; to; ajnqrwvpinon.
L’accostamento di questi due brani è motivato dal fatto che Teodoreto sta spiegando il rapporto tra
l’unica grazia di Cristo e le molteplici grazie come si manifestano ed afferma che i due aspetti sono
compresenti nella persona del Salvatore, il quale ha dunque l’unica fonte delle grazie, in quanto
possiede la pienezza della divinità, e nello stesso si manifestano in lui, secondo l’elemento umano, i
vari carismi, elencati nel brano di Isaia: sapienza, intelligenza,
1213 53A13.
1214 53B6.
1215 53C11.
1216 57A6.
1217 57A11.
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!
consiglio, fortezza,
conoscenza, timore del Signore e timor di Dio.
Non possiamo ignorare, però, che questi due brani fanno parte di un florilegio biblico utilizzato per
argomentare il problema della crescita della persona di Cristo, che occupava le riflessioni di non
pochi teologi dell’epoca: come spiegare le frasi del Vangelo per le quali Cristo “non sapeva” o
“cresceva”?
In Incarn. XX il gruppo di brani è costituito da Col 2, 9 e Lc 2, 40; 2, 52 dove si afferma che la
crescita non può essere di Dio che è saggio e sempre perfetto, ma deve essere della mente
umana1218; i medesimi brani, insieme con Is 11, 1-2 tornano nel Pentalogium e vi rappresentano una
sorta di summa delle posizioni di Teodoreto sull’argomento (purtroppo, come è noto, l’opera è
gravemente deficitaria): vi è scritto che non può crescere la divinità che è dotata di tutto, ma la
fuvsi~ fainomevnh1219 e poco dopo oJ oJrwvmeno~ naov~1220.
Rispetto a queste fonti le posizioni di Teodoreto nel Cantico sono leggermente diverse: la sua
attenzione è concentrata sulla realtà divina di Cristo, tanto che, se nel testo originale di Col 2, 9 si
parla di pa`n to; plhvrwma th`~ qeovthto~ swmatikw`~ (e così compare nell’Incarn. e nel Pent.1221),
nel Cantico è assente proprio l’avverbio swmatikw`~, scelta un po’ strana dato il contesto
cristologico, ma probabilmente ritenuto non strettamente pertinente al tema divino che in questo
caso sta a cuore a Teodoreto; in 1, 2, quindi, c’è una semplice influenza del florilegio sul tema della
crescita, ma esso non è affrontato. Il riferimento alla crescita di Cristo torna in altri passi del
commento, i versetti 2, 9; 5, 10-16; 8, 1-2, ma nei primi due soltanto con la menzione di Is 11, 1-2
(prima esplicita, poi implicita), che non è quello preferito nelle altre opere, mentre i brani più
evidenti, Lc 2, 40 e 2,52, compariranno soltanto nel terzo dei passi riportati, per giustificare
esplicitamente la crescita ma soltanto come breve riferimento. In tutti i casi, comunque,
l’interpretazione è chiarita dalle formule kata; to; ajnqrwvpinon o kata; to; ajnqrwvpeion alla luce
delle quali va compreso il messaggio e che non compaiono nelle altre opere. In altre parole, sembra
proprio che in quest’opera a Teodoreto non interessi espressamente trattare della questione della
crescita di Cristo, probabilmente perché essa era particolarmente spinosa e, in un testo forse
concepito anche per mediare tra le posizioni alessandrine e antiochene, non era ritenuta opportuna.
“La divinità è racchiusa nel vaso dell’umanità: è particolarmente sottolineata la passione-morte,
dalla quale scaturisce l’universalità della salvezza. Il fatto che l’umanità di Cristo si sia spezzata e
spalancata con la passione e la morte è la garanzia che il profumo della divinità può giungere a tutto
l’universo. Gli apostoli furono i primi ad essere pervasi dal profumo divino, perciò percorsero tutte
le strade della terra per diffondere il profumo del Vangelo. In Cristo il vaso umano, che era pieno di
divinità, se n’è svuotato nella morte e ha riempito di divinità il mondo. L’ejkkenwqevn del Cantico
significa qui soprattutto la morte, laddove in Fil 2, 7 lo stesso verbo significava l’incarnazione. Di
fronte al pericolo che venga ancora negata l’umanità di Cristo, è sottolineato il segno più tangibile e
profondo di questa umanità: il fatto che egli sia morto. La sottolineatura della divinità non è
comunque a scapito della divinità, anche se fa dimenticare a Teodoreto di parlare della
resurrezione”1222.
!
1, 3 (61) “Il re mi introdusse nella sua camera segreta. Orsù, siamo gioiose e rallegriamoci in te.
Ameremo i tuoi seni più del vino. La rettitudine ti amò”
!
1218 1453C14.
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-
!
Come in tanti altri passi del commento al Cantico, anche in questo caso l’origine delle
considerazioni cristologiche è squisitamente esegetica, infatti, dopo aver affermato che sono
chiamate “sposa” le anime perfette in tutte le virtù, adduce come prova anche la testimonianza del
salmo 44 (all’importanza del quale abbiamo già accennato). I due concetti non sono esattamente
una innovazione di Teodoreto visto che già in Origene compare la medesima interpretazione della
sposa (peraltro molto diffusa anche in altri autori) e il riferimento al salmo 44: ma mentre
l’Alessandrino si limita ai vv. 10 e 15, che gli servono per parlare della sposa/regina, Teodoreto
prende spunto da questo tema per ampliarlo personalmente con considerazioni cristologiche.
Quindi, utilizzando il salmo 44 per spiegare chi sia la sposa1223, ci ricorda che dentro questo testo è
contenuta la descrizione della divinità e della umanità dello sposo: i tratti della prima sono
l’eternità, la regalità, la potenza, la bellezza (corrispondono ai vv. 1-7), mentre i tratti della seconda
sono la ricerca della virtù, la benedizione di Dio e i doni dei Magi (vv. 8-9).
Assai importante in questo passo è il riferimento a Fil 2, 6-7 (semplicemente citato, ma
insistentemente ripreso in seguito), da cui si evince che il brano di Paolo è praticamente la
definizione dell’incarnazione.
Proseguendo nel commento al salmo, per mezzo dei versetti 11-12a ribadisce che esiste un
elemento umano che rende lo sposo parente della sposa (è chiamata “figlia”) e un elemento divino
(v. 12b) che però rimane nascosto (intende “nascosto dentro l’umanità di Gesù”), tema molto
comune negli scrittori dell’epoca. Poi fa coincidere la “persona” o “volto” della Chiesa con lo
sposo: lo sposo, quindi è una persona (probabilmente una persona della Trinità), paragone che
ritorna anche nell’In Ps.1224
!
1, 6 (73) “Annunciami, tu che la mia anima amò, dove pascoli il gregge, dove riposi a mezzogiorno,
affinché io non sia come vagabonda dietro i greggi dei tuoi compagni”.
2, 15 (109) “Fermate per noi le piccole volpi, che rovinano le vigne”.
!
Sebbene in questi versetti del Cantico non vi siano riferimenti espliciti alla concezione cristologica
di Teodoreto, vale la pena spendere su di essi qualche parola dal momento che indicano e
descrivono indirettamente alcune eresie che Teodoreto ha in animo di ricordare al lettore.
La definizione di ‘eresia’, che è possibile ricavare dal commento, trae spunto esplicitamente dai
versetti del Cantico e non ha addentellati in altre opere del medesimo autore (abbiamo esaminato le
opere cristologiche coeve al commento al Cantico, le lettere della controversia monofisita,
l’Haereticarum fabularum compendium); si articola nel commento al v. 1, 6 attraverso una lunga
metafora legata al “Buon pastore”: gli eretici portano il medesimo nome di ‘Cristiani’1225, mostrano
un aspetto di pastore e sembrano avere allo stesso modo greggi e armenti, ma in realtà pascolano
per il male chi si affida loro, sono perfidi e funesti e offrono alle pecore il veleno invece dell’erba
nutriente. Nel commento al secondo versetto, invece, la metafora trae spunto dalle volpi che
rovinano le vigne, e quindi degli eretici viene stigmatizzato l’atteggiamento cavilloso e parolaio che
convince gli sprovveduti: “Tentano di ingannare con astuzie e falsità coloro che non sono ancora
solidi nella fede … Con la verosimiglianza dei discorsi e con i lacci e i nodi dei sillogismi,
ingannano i semplici”1226.
Nel primo versetto citato troviamo anche un breve elenco di sei eresiarchi, senza la minima
spiegazione dei loro errori né altre indicazioni di sorta, per questo è lecito pensare che Teodoreto
voglia soltanto esemplificare i cattivi pastori senza alcun intento esplicativo o argomentativo (anche
1223 “E che queste cose stanno così, lo testimonia lo Spirito Santo nel salmo 44, dicendo cose simili” (64B1).
1224 1196B1.
1226L’attacco alla retorica ingannatrice non è insolito in Teodoreto, cfr., almeno per quanto riguarda i filosofi greci,
Prov. I (CTP 75, 66)
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!
questa scelta è indicativa della collocazione cronologica del commento, visto che è difficile credere
che, in piena controversia cristologica, non specifichi niente delle eresie). Non per questo l’elenco è
privo di importanza, però, poiché la sua improvvisazione e la sua spontaneità possono dirci molto
sul pensiero dell’autore riguardo alle eresie nell’epoca di composizione dell’In Ct, a pochi anni
dall’inizio del suo episcopato.
L’elenco riporta semplicemente i seguenti sei eresiarchi senza nessuna precisazione: Ario, Eunomio,
Marcione, Valentino, Mani e Montano; di per sé sarebbe abbastanza rudimentale ma confrontandolo
con elenchi di eretici presenti in altre opere possiamo ricostruire una piccola mappatura; gli elenchi
più interessanti sono quello contenuto nell’Incarn. IX e X1227, quelli della lettera ai monaci
dell’inverno 431/4321228, quello del Prov.1229 e un ultimo contenuto nella lettera 1461230.
Dal confronto tra loro si coglie anzitutto che i primi due eretici citati sono ovviamente da
considerare assieme: Ario ed Eunomio (possiamo aggiungere Aezio) costituiscono una sorta di
paradigma delle eresie (il primo come iniziatore e il secondo come devoto quanto infame discepolo)
e sono ovviamente presentati per primi perché contro di essi si era diretta la lunga polemica
antieretica che aveva preso le mosse dal concilio di Nicea; l’eresia ariana, che andava a colpire la
Trinità e di riflesso la persona di Cristo, era quella contro cui si erano battuti instacabilmente i
grandi Padri latini e greci e anche i pensatori antiocheni, tra cui Teodoreto; sappiamo, infatti, dalle
sue lettere che combattè aspramente l’eresia ariana diffusa nella sua diocesi1231 e che scrisse
un’opera contro di essa1232. Come estremi interpretativi del pensiero di Teodoreto rispetto all’eresia
ariana assumiamo la spiegazione che ne dà nell’Incarn. e nella lettera del 431/432, scritta
all’indomani dello strappo di Efeso con Cirillo e in una situazione gravemente compromessa e
pericolosa per l’unità della Chiesa. Nella prima opera Ario ed Eunomio sostengono che a[yucon
a[nqrwpon ajneilh`fqai para; tou` Qeou` Lovgou; nella seconda, che contiene la sintesi esplicativa
delle principali eresie poste a confronto con gli anatematismi di Cirillo e volta a dimostrare che in
tale opera – e conseguentemente nel vescovo di Alessandria – si concentrano tutti gli errori dei
nemici della vera Chiesa, l’eresia dei due viene chiamata in causa in riferimento al quarto
anatematismo (quello della distinzione delle espressioni apostoliche) e viene sintetizzata nell’idea
che, per loro, il Dio Verbo è una creatura originata dal non essere, pertanto non consustanziale al
Padre: Ario e Eunomio ktivsma kai; ejx oujk o[ntwn kai; dou`lon to;n monogenh` UiJo;n tou` Qeou` ei\nai
favskonte~, ta; tapeinw`~ uJpo; tou` Despovtou Cristou` kai; ajnqrwpivnw~ eijrhmevna th/` qeovthti
auj t ou` prosav y ai tetolmhv k asi: to; eJ t eroouv s ion ej n teu` q en kai; to; aj n ov m oion
kataskeuavzonte~1233.
Ai due famosi eresiarchi del IV sec. segue Marcione, e anche questa scelta non è per nulla insolita,
se conosciamo la biografia del vescovo di Antiochia. Egli infatti almeno in due occasioni ricorda la
sua accanita azione antieretica contro i Marcioniti che a decine di migliaia infestavano la sua
diocesi: nell’Ep. 113 a Leone, vescovo di Roma, scrive di aver “liberato dalla malattia di Marcione
più di mille anime”1234, e nella 146 di aver ricondotto al santo battesimo più di diecimila di coloro
1231 “Ho condotto al Sovrano Cristo molti altri dalla setta di Ario e Eunomio” (ep. 113, SC 111, 62, 23).
1232 Cfr. Ep. 82 (SC 98, 202, 12); ep. 113 (SC 111, 64, 12); ep. 116 (SC 111, 70, 26); ep. 146 (SC 111, 176, 25).
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!
che avevano accolto la rovina di Marcione1235; allo stesso modo delle eresie precedenti, anche
contro i Marcioniti ha scritto dei trattati1236.
Ma probabilmente, nel nostro elenco dell’In Ct il teorizzatore della insormontabile distinzione tra
Antico e Nuovo Testamento non deve essere considerato singolarmente, alla luce di quanto
Teodoreto scrive nell’Incarn. IX e X, in due interessanti espressioni: “Marcione e Mani e quella
restante setta (summoriva) di empietà”1237 e “Marcione e Mani, e gli iniziati e i discepoli della loro
cattedra pestilente”1238. A partire da questi passi, scopriamo che Teodoreto è solito considerare della
medesima setta Marcione e Mani (probabilmente perché tale era stata la sua esperienza pastorale
apologetica) e anche qualcun altro. Nella lettera ai monaci di Costantinopoli, attaccando il primo
anatematismo (quello della trasformazione in carne), afferma che si tratta della empietà di
Marcione, Mani e Valentino1239 e lo ripete poco dopo, ritenendoli tutti e tre i primi inventori
dell’empietà1240. È evidente, dunque, che si tratta di una triade così concepita da Teodoreto, che
prima omette Valentino (nell’Incarn.), poi lo esplicita a partire dal commento al Cantico e
successivamente. Ma in che cosa consiste per Teodoreto la loro eresia? Sostanzialmente nella
concezione che l’incarnazione del Figlio sia soltanto una fantasiva, skia;, ajevrion i[ndalma1241, e
nella lettera ai monaci di Costantinopoli distingue con qualche sottigliezza tra Marcione e Mani, per
i quali “il Dio Verbo schmatisqhvnai in immagine umana ed è apparso come uomo, più per
apparenza (fantasiva)/ che verità”1242, e Valentino e Bardesane, che dicono che “il Figlio di Dio ha
usato la Vergine come una specie di canale (oi|on tini swlh`ni)”1243.
Ma perché a partire dal Cantico viene esplicitato il nome di Valentino, e non solo esplicitato ma
anche anteposto a Mani?1244 Ci torneremo, perché ora preme affrontare un’altra questione
importante, l’ultimo nome della lista.
In coda ai ben noti Ario ed Eunomio e alla schiera dei Marcioniti (rappresentata dai tre nomi), nel
Cantico compare un sesto eresiarca, quel Montano fondatore dell’eresia frigia. La stranezza è che
Montano non è presente in nessun altro dei numerosi elenchi di eretici coevi al Cantico1245 e figura
soltanto qui in tutta l’opera esegetica di Teodoreto1246 e, oltre all’Haereticarum fabularum
compendium, soltanto un’altra volta nella lettera 811247. Teodoreto nelle sue lettere non dice di aver
combattuto l’eresia montanista, non dice di aver scritto trattati contro Montano e i suoi discepoli,
1236 Cfr. Ep. 82 (SC 98, 202, 14); ep. 116 (SC 111, 70, 26); ep. 146 (SC 111, 176, 21).
1237 1428B1.
1238 1432B14.
1243Ibidem, 195. Diversi anni dopo, anche nell’Eranistès scriverà che l’opinione dei Valentiniani, Marcioniti e Manichei
è che il Dio Verbo si sia incarnato solo in apparenza [CTP 135, 67].
1244Nella lettera ai monaci Mani viene addirittura omesso: “Le idee [di Cirillo] … non sono estranee all’empietà di
Valentino e Marcione” (SC 429, 98, 37).
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!
non lo prende mai considerazione nell’attacco a Cirillo; qual è il motivo di questo inatteso
inserimento?
Forse ci viene in soccorso la lettera di Firmiliano a Cipriano, di cui abbiamo già discusso1248. In
detta lettera, nei paragrafi centrali, sono ricordate alcune famose eresie e la loro prassi in funzione
strumentale per opporsi alle indicazioni sacramentali di Stefano, vescovo di Roma, contro cui è in
corso la disputa sui battesimi; la prima eresia ricordata è quella di Marcione1249, assai diffusa e assai
temuta (come abbiamo visto, anche da Teodoreto), poi i suoi discepoli Valentino e Basilide1250, poi
l’eresia dei Catafrigi1251, cioè di Montano e dei suoi seguaci. Come mai, dunque, assieme ai ben più
noti Ario, Eunomio, Marcione e Mani, Teodoreto esplicita il nome di Valentino (mentre in
precedenza scriveva un generico “con gli altri”) e indica l’unicum di Montano? Forse per
l’influenza di questo carteggio del III secolo tra Cipriano e Firmiliano che aveva letto e ben presente
nel periodo della stesura del commento al Cantico1252.
!
1, 8 (76) “Alla mia cavalla nei carri del Faraone io ti paragonai, o vicina mia”
!
In questo brano, un po’ complicato nel suo sviluppo esegetico, il concetto principale è
l’assimilazione da parte dello sposo del corpo della sposa-Chiesa, che è “vicina” (plhsivon) a lui, al
proprio corpo glorioso, attraverso la metafora della cavalla-sommerse-Faraone e corpo di Gesù
nella passione-sommerse-Diavolo. L’idea del Faraone “spirituale” è già in Origene, così come
l’accostamento cavalla-corpo di Gesù, ma mentre nell’Alessandrino troviamo una molteplicità di
interpretazioni solo accennate (corpo, anima, corpo-anima), tra cui prevale quella della cavalleria-
Chiesa, in Teodoreto quest’ultima non è contemplata affatto.
Dal punto di vista cristologico appare chiara l’immagine della forma di schiavo usata per la
salvezza, come fosse un veicolo, ma nello stesso tempo termine di assimilazione della gloria:
evidentemente la forma dello schiavo a contatto con la forma divina diventa anch’essa corpo della
gloria; sembra di poter cogliere un legame vago con la communicatio idiomatum ma, nello stesso
tempo, ci sembra di capire che non ci sia netta distinzione tra i due, quasi come se l’assimilazione
della umanità alla divinità si ripeta nell’assimilazione della sposa a Cristo.
Occorre ricordare che, almeno nell’Incarn., Teodoreto dichiara apertamente che la morfh; è ouj to;
fainovmenon tou` ajnqrwvpou ajlla; pavsan th;n ajnqrwvpou fuvsin1253 e che mentre essa è shmantikhv
della oujsiva, l’oJmoivwma e lo schvma non sono nomi della natura (fuvsi~) ma della ejnergeiva1254; ma
non compaiono nel Cantico affermazioni di questo tipo.
!
1, 10 (80) “Fino a che il re rimarrà nel suo stendersi”
!
È affrontato in questo passo il tema della morte, che appartiene a quello più generale della
impassibilità di Cristo. A chiare lettere Teodoreto interpreta “il suo stendersi” con la morte
seguendo la tradizione iniziata da Origene e quindi riconosce nel testo sacro del Cantico
1249 Epist., 75 V 2.
1252Segnaliamo che in Eusebio (HE, V, 13 ss. [SC 41, 42 ss.]), dopo la menzione delle varie correnti interne all’eresia
marcionita, è trattata abbastanza diffusamente l’eresia di Montano, ma non vi sono particolari somiglianze con altri
passi dell’In Ct.
1253 1425D12.
1254 1428C13.
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!
l’affermazione della morte di Cristo; dal medesimo Origene ricava anche la profezia di Balaam di
Nm 24, 7-9 in cui ritorna l’idea dell’accovacciarsi. Ciò che è significativo, però, è la lettura che
Teodoreto implicitamente dà al v. 7 di Nm “Giungerà un uomo dal suo seme e regnerà su molti
popoli”, da dove appare evidente che è l’uomo proveniente dallo spevrma quello interessato dalla
morte, salvando così l’impassibilità di Dio ma anche adombrando la terminologia concreta che è
tanto diffusa in altre opere coeve al Cantico.
!
1, 11 (80CD-81A) “Un sacchetto di mirra è per me il mio nipote. Dimorerà in mezzo ai miei seni”
!
I temi esegetici di questo brano sono ispirati al commento di Origene: la spiegazione
dell’appellativo “nipote” dato allo sposo (è figlio di Israele, sorella maggiore della Chiesa) è la
medesima; l’odore del nardo che si diffonde in tutto il mondo richiama in entrambi Gv 12, 9; la
citazione di Mi 5, 6 sulla goccia come metafora dell’incarnazione (ma in Origene compare l’idea
della kènosis della goccia, che in Teodoreto non c’è); la mirra come simbolo della morte dello sposo
(interpretazione comunque molto diffusa).
Fra le differenze dei due brani, notiamo anzitutto che Teodoreto sembra confondere il Cristo-sposo
della Chiesa con Dio-sposo di Israele, tanto che, nella logica del ragionamento, figurano come la
stessa persona (mentre in Origene non c’è il riferimento alla prima sposa): probabilmente
nell’Antiocheno è presente la reminiscenza trinitaria della identità di natura (non rara nella globalità
del commento). Inoltre è netta l’affermazione di Teodoreto sulla componente umana di Cristo (oJ
numfivo~ ejk th`~ provtera~ ejblavsthse kata; to; ajnqrwvpinon)1255 che non deriva affatto da
Origene. Per terzo, il florilegio biblico scelto da Teodoreto come fondamento della derivazione
dello sposo-Signore-Cristo dal popolo dei Giudei è abbondante (Eb 7, 14; Gal 3, 16; At 2, 30-31) e
non ha legami con il testo dell’Alessandrino, che riporta soltanto Rm 9, 5 (ejxæw|n oJ Cristov~ to;
kata; savrka); probabilmente ciò si deve al desiderio del primo di dimostrare la linearità della
discendenza dal punto di vista umano, ma forse la foga lo porta a confondersi, visto che la citazione
di At 2, 30-31 non è del tutto conforme al testo filologicamente ricostruito: il testo più diffuso
riporta ejk karpou` th`~ ojsfuvo~ aujtou` kaqivsai ejpiv tovn qrovnon aujtou`, mentre in Teodoreto figura
ejk karpou` th`~ ojsfuvo~ aujtou` to; kata; savrka tovn Cristovn; se consideriamo che l’espressione
to; kata; savrka è quella di Rm 9, 5, forse la confusione si deve alla imitazione del modello
origeniano e questa sarebbe una prova della lettura di Teodoreto del testo di Origene. La svista è
confermata dal fatto che nella lettera ai monaci dell’inverno 431/432 egli riporta un altro florilegio
per sostenere la provenienza secondo la carne in cui figurano i tre brani sopra menzionati ed
altri1256, e nel quale la citazione di At 2, 30 rispetta il testo a noi noto1257.
La formula kata; savrka1258 di questo passo è l’unica in tutto il commento al Cantico, non compare
affatto nel commento a Daniele, mentre risulta a Guinot 9 volte nel commento ad Ezechiele1259 (ben
5 volte l’espressione è in combinazione con ejk tou` Dabi;d, in un contesto di profezia messianica) e
7 nel commento ai Dodici profeti1260 (in cui l’utilizzo è quasi sempre strettamente legato all’origine
concreta dal popolo di Israele, sia esso rappresentato da Davide, Betlemme, Zorobabele; nel caso di
Os 9, 12 le citazioni bibliche, sono, non a caso, Eb 2, 16; Gal 3, 16; Rm 9, 5). Se la nostra indagine
è esatta, in altre opere cristologiche precedenti al Cantico è attestata solamente nell’Incarn. XXI
1256 2 Tm 2, 8; Rm 1, 3; Rm 9, 5.
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-
!
Spevrma ∆Abraa;m oi\den oJ makavrio~ Pau`lo~ to;n Swth`ra Cristo;n kata; savrka1261 in
collegamento con Gal 3, 16, ciò a dire che al tempo della composizione dell’In Ct non è una
formula particolarmente amata da Teodoreto, anzi sembra quasi espressamente rifiutata,
probabilmente perché troppo connotata dal punto di vista alessandrino.
Il commento si conclude con due lievi indicazioni ai misteri di Gesù, l’incarnazione (il cui spunto è
dato dalla goccia dell’olio di mirra sostenuto da Sal 71, 6 e Mi 5, 6) e la morte (il cui spunto è la
mirra); ritorna anche l’idea della fragranza del Cristo che si spande dopo la morte.
!
2, 1 (85) “Io sono un fiore della pianura, un giglio delle valli”
!
Da questo esempio si può cogliere la tipologia di contenuti cristologici dell’In Ct: essi traggono
origine quasi sempre da un elemento esegetico e citano alcune verità di fede con la massima
semplicità. Da un lato questo atteggiamento mostra quali siano le convinzioni profonde dello
scrittore e per lui accertate, ma dall’altro spesso esprimono dei concetti generici e assai diffusi nel
contesto antiocheno.
Dal brano in oggetto emerge l’idea che l’umanità di Cristo rappresenta l’aspetto esteriore (carico di
bellezza), che ci permette il contatto con l’Incarnato (th;n ajnqrwpivnhn eujmorfivan teqevasai1262),
visto che la divinità è imperscrutabile (il rimando è a Gv 1, 18): quest’ultimo concetto è
ampiamente diffuso nei teologi precedenti e nello stesso Teodoreto.
Ma il seguito è ancora più interessante, visto che abbiamo una netta affermazione del difisismo di
stampo antiocheno, non elaborato né spiegato, ma assai chiaro: lo sposo divenne “un fiore della
pianura”, cioè (ad un certo punto della storia, “nella pienezza dei tempi” è la formula invalsa nei
vari simboli della fede) assunse un corpo terreno (ghvi>non1263) e nacque (ejblavsthsa) nella terra,
pur avendo le caratteristiche divine della eternità (proaiwvnio~), della eccellenza (uJyhlov~) e
soprattutto della immensità (ajmevtrhto~). Questa è un’innovazione di Teodoreto, visto che non
compare affatto in Origene né in altri commentatori greci precedenti all’Antiocheno: soltanto nel
primo c’è un riferimento al “rivestimento di carne” dello sposo ma è strettamente in relazione con
Mt 6, 28 (tra l’altro questa citazione, presente anche in Nilo e Filone e comunque molto intuitiva,
non figura stranamente in Teodoreto, probabilmente perché la sua attenzione va qui direttamente al
risvolto cristologico).
!
2, 8 (96CD-97AB) “Eccolo, viene saltando per i monti, balzando per le colline”
!
Anche qui lo spunto per i brevi accenni cristologici è di tipo meramente esegetico. Teodoreto
intende spiegare esattamente l’accostamento dello sposo alla gazzella e al cerbiatto e lo fa
riprendendo due citazioni precedenti: Is 11, 1-2 e Nm 24, 9.
La prima è notoriamente interpretata come profezia messianica e l’abbondanza dei doni dello
Spirito, ricevuti “secondo l’elemento umano”1264 permette di comprendere la virtù della
preveggenza (tipica della gazzella); la seconda gli serve per spiegare minuziosamente come mai la
sposa lo paragoni non tanto ad un cervo, ma proprio ad un cucciolo di cervo, un cerbiatto (animale
che può distruggere gli esseri striscianti).
1261 1460A3.
1262 85B14.
1263 85C3.
1264 96D5.
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!
La spiegazione zoologica della gazzella e del cerbiatto è del tutto tradizionale e probabilmente a
Teodoreto proviene da prontuari esegetici (la ritroviamo in Origene e nel commento di Gregorio di
Nissa)1265.
!
2, 16 (109) “Colui che porta al pascolo fra i gigli”
!
Questo passo è una semplice ripresa del v. 2, 1.
!
3, 6 (117-120) “Chi è questa che sale dal deserto, tronco di fumo, come avendo bruciato mirra e
incenso da tutte le nubi di polvere del profumiere?”
!
Grazie all’ascesi mistica, la sposa riceve una bellezza indicibile dall’abbraccio dello sposo, per
questo le potenze divine prorompono in un grido di ammirazione del suo splendore; in questo
contesto sembra proprio che la sposa sia tornata ad essere controfigura della Chiesa. La modalità
espressiva permette a Teodoreto di accostare il versetto ad altri due brani in cui le potenze divine si
stupiscono della bellezza di Cristo, Sal 23, 8-10 e Is 63, 1-2: il primo è profezia della Ascensione
(presumibilmente con riferimento alla natura divina del Cristo) e compare all’inizio del I libro come
cantico epinicio, il secondo è profezia della incarnazione (evidentemente con riferimento alla natura
umana del Cristo).
È chiaro che nel pensiero di Teodoreto c’è una circolarità tra la divinità di Cristo, la sua umanità e
l’umanità della sposa/Chiesa/genere umano che, in un legame prodigioso di grazia, sono avvolti
dalla stessa bellezza. Teodoreto sottolinea come miracolo, motivo dello stupore, il fatto che essa
proviene dal deserto, cioè dalla “natura umana, a causa della precedente empietà”1266, simbolo o del
peccato originale prima della salvezza, ovvero della situazione di peccato prima dell’abbraccio
mistico con lo sposo; in entrambi i casi si inscrive nella tradizione esegetica di Origene (fugou`sa
ta; para; toi`~ polloi`~ ajmarthvmata1267) e di Nilo di Ancira.
Ma, allo stesso modo, non è meno insolita la bellezza di Cristo che “splende, pur essendo nel
corpo”.
I caratteri peculiari dell’Ascensione sono quelli della gloria, della forza e della potenza (tipici della
divinità), mentre della profezia di Is 63, 1-2 è sottolineata l’origine terrena dello sposo: “Edom
significa terra, Bosor significa carne”1268, e poco dopo aggiunge che “hanno chiamato ‘abito’ il suo
corpo”1269. Il tema dello stupore sta molto a cuore all’autore, visto che il commento a questo brano
conclude la prima parte con “[egli] ha una bellezza violenta, che colpisce tutti quelli che la
vedono”: per Teodoreto il mistero dell’incarnazione è carico di un fascino straordinario.
Il seguito del commento è particolarmente istruttivo delle idee cristologiche di Teodoreto, visto che
afferma un difisismo netto e chiaro, espresso, però, attraverso una terminologia astratta: il Cantico
scrive che la sposa è simile ad un tronco di aroma che si eleva al cielo, prodotto da mirra e incenso,
e ciò per Teodoreto significa chiaramente che la Chiesa adora (proskunei`) nello stesso tempo
l’umanità (ajnqrwpovth~) e la divinità (qeovth~), cioè, “pur credendo alla morte, ne accetta
1266 117C14.
Anche il commento di Cirillo (PG 70, 1381BC) ha una interpretazione simile ma è quasi impossibile dire in che
relazione sia con quello di Teodoreto.
1268 120A1.
1269 120A6.
- 195
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!
l’esistenza prima dei secoli”1270 e ribadisce il concetto parlando di “teologia” (Trinità e divinità) e
“economia” (economia della salvezza, cioè incarnazione)1271.
Il tema dell’adorazione è molto sentito nella disputa nestoriana, tanto che è affrontato in due
risposte agli anatematismi di Cirillo, con una terminologia che non ha particolare vicinanza a questa
del Cantico (la quale, però, è sempre molto essenziale), la VII e l’VIII, e in quest’ultima troviamo
una vera e propria affermazione di fede, mivan th;n doxologivan prosfevromen tw/` Despovth/
Cristw`/, kai; to;n aujto;n Qeo;n oJmou`, kai; a[nqrwpon oJmologou`men1272 in risposta al rifiuto di Cirillo
di “con-adorare” l’uomo assunto: il problema per Cirillo è il prefisso ‘con-’ che fa pensare alla
giustapposizione, ma di questo non v’è traccia in questo passo, nel quale, invece “l’épouse adore
conjointement les deux natures du Christ e confesse conjointement sa mort en tant qu’homme et son
éternité en tant que Dieu”1273. Teodoreto ha due attenzioni nel precisare questo concetto
fondamentale: usa il verbo semplice proskunei` e non sumproskunei` e parla di categorie astratte
come “umanità” e “divinità”.
!
3, 7 (120-121) “Ecco, la lettiga di Salomone”
!
Ecco un ottimo esempio di esegesi teodoretana, intrecciata a considerazioni di carattere
cristologico.
Le potenze divine, proseguendo nella celebrazione, menzionano il personaggio di Salomone e
Teodoreto, che è affascinato dalla esegesi testuale, si chiede perché chiamino lo sposo “Salomone”:
zhthtevon pro; pavntwn ti; dhvpote Solomw`nta to;n numfivon prosagoreuvsi1274.
Il primo passo della indagine esegetica si fonda sulla ricostruzione etimologica che interpreta il
nome con il significato di “pacifico”, adducendo il brano di 1 Cr 22, 9-10; ma in tale brano sono
presenti anche le promesse formulate da Dio al figlio di Davide, promesse che, nel contesto della
iperbole profetica non sono certamente riconducibili al figlio storico di Davide, bensì a Gesù Cristo
(tale criterio è tipico della esegesi antiochena), soprattutto nel caso del versetto “Stabilirò il trono
del suo regno su Israele per sempre”; inoltre – egli aggiunge – il Cristo stesso, in Ef 2, 14, è detto
espressamente “pacifico”. Pertanto il ‘Salomone’ del Cantico non può essere che Gesù e le potenze
divine lo chiamano così perché è pacifico.
Ma la spiegazione prosegue riportando un altro fondamento biblico, il Sal 71, 1-5, che è di nuovo
dedicato da Davide a Salomone, in luogo del quale evidentemente, per la profezia iperbolica,
intende Gesù: le opere di giustizia attribuite a Salomone sono in realtà di Cristo, l’eternità è di
Cristo.
A questo punto intervengono le considerazioni cristologiche, probabilmente per anticipare il dubbio
del lettore: come è possibile che le profezie, almeno quello del Sal 71, rivolte al figlio di Davide –
notoriamente Salomone – siano in realtà riferite a Cristo? Ma qual è il legame reale tra Salomone e
Cristo?
1270 120C5.
1271 “Les termes de «théologie» et d’«économie», qui désignent respectivement, dans leur sens général, la connaissance
de Dies dans son unité et dans sa trinité, et l’ensemble de son dessein pour le salut de l’humanité, designent souvent
chez les Pères, de façon plus étroite, la nature divine et l’Incarnation ou la nature humaine du Christ” (Guinot 1985, n.
38).
1274 120D4.
- 196
-
!
La risposta è semplice, sembra dire Teodoreto: Cristov~ ∆Ihsou` ejk Solomw`nto~ blasthvsa~ katav
tov ajnqrwvpinon1275, Cristo è discendente di Salomone, secondo l’elemento umano, si è incarnato nel
tempo e la profezia del Sal 71, 6 lo dice chiaramente: «Scenderà come pioggia sulla lana,
come goccia che irrora la terra», pur esistendo prima dei secoli.
Ritorna il doppio concetto della eternità prima dei secoli e della discendenza da stirpe umana,
espressa qui con la metafora della nascita come goccia sulla Vergine.
La conclusione della spiegazione fa sintesi di tutto il ragionamento: “Salomone non dominò sino ai
confini della terra, ma lo fece Gesù Cristo, che discese da Salomone secondo l’elemento umano, che
è chiamato Salomone a causa della mitezza, mansuetudine e realizzazione della pace”1276.
!
3, 11 (127-128) “Uscite e vedete Salomone, figlie di Sion, con la corona con cui sua madre lo
incoronò, nel giorno del suo sposalizio e nel giorno della gioia del suo cuore”
!
Ritorna il tema della filantropia di Dio, spiegato con maggiori dettagli: l’amore manifestato dallo
sposo è quella della incarnazione (espressa attraverso la kènosis di Fil 2, 6-7) e della passione e
morte, tanto che proprio quest’ultima corrisponde al matrimonio d’amore. Teodoreto non ricorda la
Resurrezione come parte dell’economia della salvezza, ma questo non è insolito.
Come aveva anticipato in 1, 11 anche in questo caso insiste sul fatto che la madre, secondo
l’elemento umano, sia la Giudea: forse è possibile leggere in controluce un accenno al problema
scatenato da Nestorio? Sembra quasi accettare la distinzione proposta da Nestorio tra Qeotovko~ e
ajnqrwpotovko~ e, non entrando in merito alla questione teologica della “madre dello sposo”, la
accenna riferendosi all’umanità e affermando che è la Giudea.
D’altronde, poco dopo, soffermandosi sulla volontarietà della incarnazione e della passione (ejkw;n,
ejqelonti;1277) sembra riecheggiare la questione posta da Nestorio sulla unione kata; qevlhsin
h[ eujdokivan e ripresa da Cirillo nella Seconda lettera a Nestorio1278.
!
4, 6 (133) “Me ne andrò al monte della mirra e alla collina dell’incenso”
!
L’esegesi del versetto si svolge su due livelli: il primo immediato e intuibile (la mirra corrisponde
alla morte-umanità e l’incenso alla divinità), il secondo più complicato, secondo l’abitudine di
Teodoreto di esaminare il testo dettagliatamente: perché – si chiede – la mirra, pur corrispondendo
ad un elemento più basso, è posta sul monte (quindi ad un livello superiore e più difficile) e,
viceversa, l’incenso sulla collina (ad un livello inferiore e più facile)? La risposta è arguta e
articolata: perché l’incarnazione, condotta attraverso la kènosis di Fil 2, 6-7, comporta sofferenza e
difficoltà, viceversa, ritornare nella gloria eterna è assai facile per chi dalla gloria eterna è
provenuto.
Accostiamoci con intenti cristologici all’interessante esegesi. Anzitutto non possiamo non
sottolineare l’ennesima affermazione di difisismo e la conseguente implicita compresenza delle due
nature nell’unico sposo; i due termini del difisismo sono, da un lato, la “morte”, che
1275 121B7.
1276 121C7.
1277 128A4.5.
Primi mesi del 430. Cfr. Cristo, 356, 22. Invece, la spiegazione di che cosa sia la eujdokiva per Teodoro di
1278
1279 133B4.
- 197
-
!
emblematicamente rappresenta la natura umana del Cristo, e dall’altro la qeiva fuvsi~1279 e la
qeovth~1280.
L’incarnazione è espressa (quasi assiomaticamente) con la consueta citazione di Fil 2, 6-7.
Segue poi l’affermazione della incomprensibilità del mistero della incarnazione e della morte, in cui
il linguaggio scelto da Teodoreto è costruito sulla climax di mevga kai; a[rrhton kai; dianoiva~
ajnqrwvpwn ajnevfikton1281 (“grande, indicibile, irraggiungibile per il pensiero degli uomini”) che
ricorda una espressione del Pentalogium sulla incarnazione di Cristo: mevga tw/` o[nti kai;
ajkatavlhpton kai; lovgou duvnamin uJperbaivnon1282; d’altronde a[rrhto~ era già usato nell’Exp. e
nell’Incarn. riferito al mistero dell’incarnazione1283.
In questo passo ci sono praticamente gli unici riferimenti espliciti alla debolezza e sofferenza di
Cristo, che pure costituivano oggetto di grande disputa teologica (cfr. supra): Gv 10, 18; Mt 26, 39;
Gv 12, 27. Come al solito Teodoreto non compie una indagine teologica, però afferma con quel dia;
to; ajnqrwpeivon1284, che è l’elemento umano di Cristo che quasi gli impedisce la risalita verso la
gloria.
Conclude il brano una seconda affermazione della volontarietà della passione, contro ogni ipotesi di
necessità che, per Teodoreto, suonerebbe come punitiva dell’assoluta libertà divina: “Entrambi
compio spontaneamente, non forzato né costretto da nessuno”1285.
!
4, 10 (140-141) “Sorella mia sposa”
4, 11 (141-144) “E profumo dai tuoi mantelli, come profumo d’incenso”
!
In questi versetti ritorna con insistenza l’idea del “vestirsi” applicata alla natura umana, ma
Teodoreto esprime il concetto in senso inverso a quello che ci aspetteremmo, ossia non scrive che lo
sposo si è rivestito della natura umana, ma che la sposa è rivestita della natura medesima dello
sposo. I termini utilizzati sono fra i più comuni, ad esempio in 4, 10 troviamo ejme; ejndevdusai to;n
numfivon1286 con la testimonianza di Is 61, 10. Il versetto prosegue con l’encomio della sposa che si
svolge attraverso i tre appellativi di “sorella, sposa, vicina”1287 che sono spiegati precisamente da
Teodoreto in ordine inverso, ma quello che ci interessa di più è il primo: ajdelfh; wJ~ th;n aujth;n
aujtw`/ fuvsin perikeimevnh kata; to; ajnqrwpeivon1288. Per mezzo dell’espressivo poliptoto aujth;n
aujtw/` l’Antiocheno riesce a raffigurare pienamente l’identità totale della natura umana dello sposo
con quella della sposa, quindi a sottolineare che è la totalità della natura umana quella assunta, tanto
che la sposa è letteralmente “sorella di Cristo”, aggiungendo che questo è relativo soltanto
all’elemento umano dello sposo: come si nota, anche in questo caso, il rivestimento è della sposa.
1280 133B6.
1281 133B7.
1282 68A5.
1284 133C4.
1285 133C12.
1286 140C10.
1287 141A2.
1288 141A7.
- 198
-
!
In 4, 11 leggiamo che aujto;~ aujth/` gevgonen iJmavtion oJ numfivo~1289, e la prova sta in Gal 3, 27,
dove ritorna Cristo;n ejneduvsasqe; la spiegazione cristologica che Teodoreto dà è molto semplice:
nel contesto di un netto difisismo e unità della persona di Cristo (oJ numfivo~ kai; Qeo;~ ejsti
proaiwvnio~, kai; a[nqrwpo~ ejpæejscavtwn hJmerw`n ejk th`~ ajgiva~ Parqevnou gennhqeiv~1290, formula
riecheggiata, nella seconda parte, dal Credo di unione del 4331291), lo sposo “ricoprì (hjmfivase) la
sposa che un tempo era stata denudata”1292; conclude il commento con un esplicito to;n Cristo;n
ejndevdutai1293.
Ma qual è il senso di questo pensiero, e quali sono le conseguenze? In 4, 10 i mantelli della sposa
emettono una “fragranza che corre dappertutto …e vince la virtù della legge, detta in modo figurato
«spezie»”1294, cioè lo sposo, con l’incarnazione, è diventato mantello e vestito per la sposa e l’ha
ricoperta con un odore sconosciuto al tempo della Legge, praticamente l’ha ricoperta con la
completezza del proprio essere, che è la propria doppia natura (ejsti Qeo;~ kai; a[nqrwpo~1295); ella,
quindi, ha ottenuto l’unione completa con lo sposo e il “profumo dai suoi mantelli, come profumo
di incenso”1296, ossia della divinità (qeologiva~ suvmbolon oJ livbano~1297). Il mantello corrisponde
alla umanità assunta, l’incenso alla divinità.
“When they become as one in catholic harmony then they will come to consummation ‘in Him’: the
Groom-Word’s earthly humanity has the function of being the locus of the address by the Word
(crudely put, his mouthpiece) and the Groom’s glorified humanity that of being the soul-Church’s
locus of consummation with the Word”1298.
!
5, 2 (149-152) “Aprimi, sorella mia, vicina mia, mia colomba, perfetta mia; perché il mio capo si
bagnò di rugiada, i miei riccioli di gocce notturne”
!
Ecco un altro esempio di esegesi dettagliata, addirittura parola per parola, come ce ne sono
numerosi nel Cantico, in più, in questo caso abbiamo dei chiari risvolti cristologici, che riguardano
prima il tema della impassibilità (che sarà poi ampiamente approfondito in 5, 10-16) poi riprendono
l’idea della “sposa-sorella”.
L’impassibilità della natura divina è una convinzione profondamente radicata in Teodoreto e in tutto
il pensiero antiocheno, tanto che costituisce la più valida risposta alla eresia ariana e eunomiana. In
questo caso l’affermazione di Teodoreto è netta e chiara: la morte è stata subita dai riccioli della
testa, cioè dal corpo, dalla parte esteriore dello sposo e non da lui nella sostanza, oiJ bovstrucoi th`~
kefalh`~ kai; oujk aujto;~ uJpedevxato1299. Potremmo anche pensare che la posizione così sicura non
è esente da qualche sospetto di docetismo o dalle critiche tradizionali della parte alessandrina.
1289 141D5.
1290 144D8.
1292 144A3.
1293 144A5.
1294 140D1.
1295 143A6.
1296 144A5.
1297 144A6.
1299 152A1.
- 199
-
!
Al termine del commento ritorna il concetto della “sposa-sorella”, che rafforza la spiegazione
precedente, visto che il motivo ribadito è to; suggene;~ th`~ fuvsew~1300, in più Teodoreto aggiunge
anche la affinità della vera fede (come in Trin. X: Tino;~ ga;r kata; fuvsin ajdelfoi; oiJ
pisteuvonte~… Ouj tou` Qeou` Lovgou, ajlla; th`~ oJmofuou`~ ajnqrwpovthto~1301).
!
5, 10-16 (156-160) “Il mio nipote è bianco e rosso, scelto fra miriadi. Il suo capo è oro di Ophatz; i
suoi riccioli sono datteri; neri come corvo”
!
Dal punto di vista cristologico questo è il brano più importante, visto che non contiene
semplicemente degli spunti, ma, per espressa dichiarazione di Teodoreto, ha valore oggettivamente
chiarificatore; l’affermazione “La sposa insegna alle fanciulle che le chiedono i segni di
riconoscimento del nipote”1302 è notevole, poiché trasforma il Cantico in una fonte biblica
autorevole sulla persona dello sposo/Cristo.
La prima definizione che incontriamo è esemplare dell’incarnazione, pur nella sua sintesi, e ci
permette di enucleare con una certa chiarezza il livello di maturazione del pensiero cristologico di
Teodoreto al momento del commento al Cantico: “Dio infatti era da sempre, divenne anche uomo,
non avendo perduto ciò che era, né essendosi trasformato in uomo, ma avendo indossato la natura
umana”1303; da cui è agevole ricavare i principi della cristologia sottesa: duplicità della natura,
unicità del soggetto (si sta parlando dello sposo), eternità e immutabilità di Dio (in chiave
antiariana), indossamento della natura umana. Qeov~ ajeiv h\n, ejgevneto dev kai; a[nqrwpo~1304 risente
del paragrafo VIII del Trin. secondo cui h\n si riferisce alla divinità, ejgevneto alla umanità1305, e
probabilmente risale all’importante “divenne uomo” che sta, tra gli altri, in Atanasio1306 (anche
Cirillo la usa spesso, ad esempio nella lettera ai monaci egiziani1307). Si noti, tra l’altro, il contesto
trinitario dell’affermazione, poiché non si fa menzione né del Figlio né del Verbo ma,
genericamente, è Dio che è divenuto uomo, cosa che fa pensare ad una elaborazione della frase
prima dell’esplodere della controversia nestoriana.
L’ordine degli aggettivi “bianco e rosso” è messo in evidenza dall’Autore: prima esiste la natura
divina, da sempre, eterna, che non perde nulla, né si modifica, ma indossa la natura umana (in
questo caso il verbo “indossare” non è tanto una spiegazione dell’assunzione ma una sottolineatura
della immutabilità). Inoltre è presente un rafforzamento della divinità dello sposo con riferimento
trinitario a Dio e al tema della luce vera di Gv 1, 9: chiaramente ciò che preme a Teodoreto è
difendere espressamente l’immutabilità della natura divina di Cristo, come aveva già affermato in 4,
11, ma mentre lì si sottolinea la permanenza e l’assunzione, qui la non perdita e la immutabilità
nonché l’indossamento, ed entrambe rimandano a Gregorio di Nazianzo, che evidentemente è il
modello di questi passi1308 e di quelli di altre opere di Teodoreto.
1300 152B5.
1301 1160B8.
1302 156C11.
1303 156CD.
1304 156C14.
1305 1156D-1157B.
1306 “Une expression très fréquente dans les écrits postérieurs d’Athanase” (SC 199, 98).
1308“La formule de Théodoret semble faire directement écho à celles qu’utilise Grégoire de Nazianze” (Guinot 1985,
271 n. 45).
- 200
-
!
Scrive infatti Gregorio in Or., 29, 19, 2-3: o{ mevn h\n, dievmeinen: o{ dev oujk h\n, prosevlaben1309 che è
diretto ispiratore di mevnwn o{ h\n, prosevlabe to; hJmevteron1310; così come oujc o{ h\n metabalw;n,
a[trepto~ ga;r, ajllæo{ oujk h\n, proslabw;n, filavnqrwpo~ ga;r1311 è diretto ispiratore di oujk ajfeiv~
o{ h\n, oujdev trapeiv~ eij~ a[nqrwpon1312, che aggiunge però ajllæajnqrwpeivan ejndusavmeno~ fuvsin,
molto vicino all’Incarn. VIII ouj th;n qeivan fuvsin eij~ ajnqrwpeivan metabalw;n, ajlla; th`/ qeiva/ th;n
ajnqrwpeivan sunavya~: mevnwn ga;r o{ h\n, e[laben o{ oujk h\n1313. D’altronde anche altri passi di varie
opere di Teodoreto sembrano richiamarsi a queste parole di Gregorio: ad esempio Exp. XV
(1233C3), la confutazione al I anatematisma (393A4), In Ez 37, 23-27 (vicino più a questo passo del
Cantico che al Nazianzeno, cfr. 1196C11), fino ad arrivare a Prov. X (756B).
L’espressione to; hJmevteron di 4, 11 non è unica del Cantico, visto che è utilizzata anche in Incarn.
XXIX, tov hJmevteron ejdikaiwvqh diav tou` ejn aujtw/` fanerwqevnto~ Qeou`1314, nella lettera ai monaci
del 431/432 ejbaptivsqh uJpov tou` Iwavnnou: tou`to deivknusi tov hJmevteron1315, e in un brano del
commento a Ezechiele che contiene qualche somiglianza con 4, 11 e con le lettere di Gregorio
ejnanqrwvphsa~ oJ Qeov~ Lovgo~, oujk ajpobalwvn o{ h\n, ajlla; th/` pro;~ th;n qeivan fuvsin eJnwvsei to;
hJmevteron dovxasa~1316: più che pensare al termine sw`ma sottinteso, in questo caso Teodoreto usa
l’aggettivo possessivo sostantivato con il valore di “ciò che è nostro, che ci appartiene come esseri
umani, che è tipico della nostra natura”.
Non solo è bianco, cioè Dio, ma è anche rosso, cioè uomo, terreno, con una espressione chiara e
indiscutibile, ouj movnon ejsti; Qeo;~ ajlla; kai; a[nqrwpo~1317, visto che to; purro;n paradhloi` to;
ghvi>non1318. La menzione del colore rosso costituisce il collegamento con una citazione biblica,
quella di Is 63, 1-5 (era stato citato già in 3, 6), il cui commento arricchirà non poco la riflessione
cristologica di questo passo del Cantico. Is 63, 1-5 è profezia dell’ascensione e dimostrazione della
umanità di Cristo: le potenze divine ammirano la sua bellezza umana, perché quella divina è
incomprensibile; chiamano l’elemento umano “abito”; le terre nominate di Edòm e Bosòr
significano la prima la “terra” e la seconda la “carne”1319. Le medesime spiegazioni si trovano anche
nel commento di Teodoreto al profeta Isaia, che contiene il riferimento al Sal 44, e addirittura cita
Ct 5, 10, che dimostrerebbe la doppia natura (diplh` hJ fuvsi~) di Cristo: il bianco è la luce
inaccessibile della divinità, mentre il rosso è l’apparenza umana; diverso invece è lo sviluppo del
ragionamento.
1310 144A2.
1312 156C15.
1313 1425D3.
1314 1469B7.
1317 157A3.
1319“Il est probable che le sens de « chair » donné a Bosor par les deux exégètes [Teodoreto e Cirillo] résulte d’une
confusion entre ce mot, qui est unve mauvaise transcription de l’hébreu « Bosra » (forme attestée par d’autres mss de la
Septante), et le terme hébreu « basar » qui signifie précisément « chair ». Cette intérpretation ne provient pas d’EUSÈBE”
(THDT., In Is 1984, 286, n. 1).
- 201
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!
Nel Cantico Teodoreto procede alla interpretazione del colore “rosso” degli abiti e dice che si tratta
della morte di tre giorni che è stata subita dal corpo e non dalla natura divina (nel resto del
commento al Cantico è sottolineata a più riprese la “morte di tre giorni”, probabilmente come eco
della formula del Credo niceno “il terzo giorno è risuscitato secondo le Scritture”). In questo brano
l’Antiocheno affronta e chiarisce il tema della impassibilità della natura divina: prosektevon
ajkribw`~, wJ~ ouj levgei katerravnqhn ejgw;, ajlla; katerravnqh tw/` katanikhvmati aujtw`n ta; iJmavtiav
mou, toutevsti to; sw`ma mou: ajpaqh;~ ga;r qei`a fuvsi~, to; de; sw`ma to; pavqo~ ejdevxato1320. Anche
in questo caso, lo zelo con cui difende la separazione della passibilità e impassibilità potrebbe
indurre qualche sospetto in un alessandrino coerente, ad esempio rispetto alla menomazione della
communicatio idiomatum.
Ci fa capire la solennità dei contenuti di questo brano anche il fatto che per l’unica volta in tutto il
Cantico Teodoreto usa l’espressione Qeo;~ Lovgo~1321 (in un genitivo assoluto): suvronto~ me;n to;
sw`ma tou` ejnwqevnto~ Qeou` Lovgou, pavqo~ de; ejkei`qen oujc eJlkuvsanto~, ejpeidh; fuvsei to; Qei`on
pavqou~ uJpevrteron. Il Dio Verbo è stato reso uno con la natura umana, trascina il corpo, ma non
tira anche la passione: il primo “trascinare” (suvrw) ha valore di violenza ed è riferito spesso ad
abiti, quindi significa più “strascicare”; il secondo (e{lkw, eJlkuvw) ha valore di “tirare” spesso
riferito a cose astratte o incorporee1322.
Poiché lo sposo non subì dolore (probabilmente inteso qui come frutto del peccato), Teodoreto
interpreta la sposa che dice “Il mio nipote è bianco e rosso, scelto fra miriadi”1323 riferendolo a 1
Cor 15, 20, però mentre “primizia” è termine usuale per indicare la natura umana assunta, che in
Cristo è più grande di ogni altra persona1324 (in tal senso è presente anche nella lettera ai monaci
dell’inverno 431/4321325), qui sembra piuttosto che esprima Cristo nella sua interezza di umano e
divino, la sua persona totale; “natura”, invece, nella frase “La primizia infatti è più grande di ogni
natura”1326 ha semmai valore di “individuo”. Non è escluso che in questa frase l’autore sia stato
indirettamente influenzato – una specie di reminiscenza inconscia – dal versetto di Col 1, 15
prwtovtoko~ pavsh~ ktivsew~, che sembra aderire meglio al senso delle parole di Teodoreto.
Oltre queste definizioni ci sono altri spunti cristologici nel medesimo brano. Poco dopo,
commentando “La sua testa è dorata di Ophatz” scrive Kefalh;n aujtou` tropikw`~ kalei` to;
Qei`on1327, dai cui riccioli neri provengono le grazie e il cui dono maggiore (l’incarnazione) rimane
oscuro e incomprensibile. Ritorna il tema della crescita dell’umanità in Cristo espresso ancora con
l’idea dei carismi dello spirito, conferiti secondo l’elemento umano; ritorna anche il tema della
inconoscibilità per natura delle cose divine e conclude idealmente il lungo commento un’ulteriore
netta affermazione del difisismo espressa di nuovo con la metafora dell’incenso e del cedro (“Il suo
aspetto è come incenso scelto, come cedri”1328): pavlin ejntau`qa to; diplou`n eJrmhneuvei tw`n
1320 17B14.
1321 157C4.
1322Per dovere di completezza ricordiamo la congettura di Cotelier che preferisce sunovnto~ a suvronto~ (157, n. 16),
ma, oltre al fatto che dovrebbe seguire un dativo, non esistendo un’edizione critica, manteniamo la lezione tràdita.
1323 157C7.
1326 157C8.
1327 157D9.
1328 164A12.
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!
fuvsewn1329. Del cedro si dice che è immarcescibile, come la natura umana di Cristo è immune dal
peccato, e lo stesso concetto compare nel commento a Ezechiele 17, 23: kevdron aujto;n
proshgovreuse kata; to; ajnqrwvpinon, ejpeidh; kai; th;n Dabitikh;n basileivan kevdron wjnovmasen:
e[cei de; kai; a[shpton hJ kevdro~, w[sper kai; oJ Despovth~, kai; kata; to; ajnqrwvpeion, to;
ajnamavrthton e[schke1330.
Gli innumerevoli spunti offerti da questo brano ci costringono ad una sintesi di confronti. Anzitutto
non possiamo ignorare che abbiamo qui l’unica occorrenza (doppia) dell’aggettivo sostantivato to;
Qei`on per indicare l’elemento divino. Dal punto di vista grammaticale esso è il corrispettivo di to;
ajnqrwvpinon-ajnqrwvpeion che invece è diffusissimo; dal punto di vista della frequenza ricorre una
volta nella Repr. proprio all’inizio del I anatematisma (a[trepton to; Qei`on kai; ajnalloivwton1331)
e qualche volta nei commenti immediatamente posteriori al Cantico: 2 nell’In Dn dove afferma che
è ajswvmaton1332 e ajpaqev~1333, 3 nell’In Ez dove è oggetto di vari aggettivi tradizionalmente riferiti
alla divinità tra cui ajswvmaton1334, ajpaqev~1335 e ajsuvnqeto~1336, mai nel commento ai Dodici
profeti. Lo usa anche Cirillo, di cui vogliamo senza meno ricordare un passo della 2° lettera a
Nestorio (§5) dove dice: ajpaqe;~ ga;r to; Qei`on, o[ti kai; ajswvmaton ... to; gegono;~ aujtou` i[dion
swvma pevponqe ... h\n ga;r oJ ajpaqh;~ ejn tw/` pavsconti swvmati1337, da cui si evince chiaramente il
legame con Teodoreto, sia del Cantico che delle altre opere.
Per tornare al tema della impassibilità, vediamo qualche somiglianza tra questo passo del Cantico e
la risposta al XII anatematisma che affronta apertamente questo problema (“Se uno non professa
che il Logos di Dio ha patito nella carne, è stato crocifisso nella carne, ha provato la morte nella
carne e si è fatto primogenito dai morti, dato che in quanto Dio è vita e vivificatore, sia
anatema”1338). La risposta contiene alcuni spunti rintracciabili anche nel Cantico ma nulla di
determinante: Teodoreto scrive1339 che oJ ajpaqh;~ paqw`n ejstin uJyelovtero~, e[paqe toivnun hJ tou`
douvlou morfh;, sunouvsh~ aujth/` dhlonovti th`~ tou Qeou` morfh`~, e aggiunge che oujc oJ Cristo;~
paqw;n, ajlla; oJ ejx hJmw`n uJpo; tou` Qeou` lhfqei;~ a[nqrwpo~. Le somiglianze sono riscontrabili tra la
prima frase e ajpaqh;~ ga;r qei`a fuvsi~ ... fuvsei to; Qei`on pavqou~ uJpevrteron, tra la seconda e to;
de; sw`ma to; pavqo~ ejdevxato, forse il sunouvsh~ può aiutarci nello sciogliere il dubbio filologico cui
accennavamo prima, senza dimenticare che se la forma è simile, l’applicazione è opposta, perché
nel Cantico sarebbe il Dio Verbo che “si trova con” il corpo, mentre nella Repr. è la forma dello
schiavo che si trova con la forma di Dio. Non possiamo ignorare, inoltre, che la terminologia
concreta della Repr. non figura minimamente nel commento al Cantico.
1329 164A13.
1330 969C10.
1331 392B10.
1332 1465C11.
1333 1525C5.
1334 833D1.
1335 868A5.
1336 1040B10.
1339 449BC.
- 203
-
!
Indubbiamente un collegamento maggiore e, direi, indiscutibile, sussiste tra il commento a 5, 10-16
e un brano del capitolo X del Prov.1340 dove, spiegando Is 53, 6-7 scrive: oujk eij~ provbaton
metablhqei;~, oujde; troph;n uJpomeivna~, oujde; th`~ oijkeiva~ oujsiva~ ejksta;~, tou` probavtou th;n
fuvsin safw`~ ejndusavmeno~; poi prosegue con Qeo;~ h[n kai; a[nqrwpo~, tou` swvmato~
sfattomevnou, ajpaqh;~ e[meine hJ qeiva fuvsi~, citando Gal 3, 13. A parte il fatto che nel nostro
brano non compare il riferimento a Isaia (ma figura comunque in 3, 11 insieme con Gal 3, 13), è
difficile non scorgere i seguenti parallelismi:
!
Ct 5, 10-16 Prov. X
oujde; trapei;~ eij~ a[nqrwpon oujk eij~ provbaton metablhqei;~
nel testo di Gregorio compare oujc o{ h[n metabalw;n
ajllæajnqrwpeivan ejndusavmeno~ fuvsin tou` probavtou thvn fuvsin safw`~ ejndusavmeno~
ejstiv Qeov~ kaiv a[nqrwpo~ Qeov~ h[n kaiv a[nqrwpo~
ajpaqh;~ ejsti; qei`a fuvsi~ ajpaqh;~ e[meine hJ qeiva fuvsi~
to; de sw`ma to; pavqo~ ejdevxato tou` swvmato~ sfattomevnou
!
Oltre a queste somiglianze, è significativo anche che i discorsi sulla Provvidenza contengano
l’unica menzione del Cantico dei cantici e lo definiscano “libro mistico”1341, proprio come riporta la
prefazione al Cantico: “rendere chiaro e manifesto il pensiero di ciò che è stato detto per enigmi e
misticamente”1342. La somiglianza è tale da costringerci ad una spiegazione. Quando Teodoreto,
dopo la tempesta della controversia cristologica e dello scontro all’interno dello stesso partito
antiocheno sul trattamento riservato a Nestorio, si riconcilia con Giovanni di Antiochia (alla fine del
434), si reca nella città patriarcale a tenere le omelie sulla Provvidenza. Non è escluso che in quella
circostanza abbia riletto o manipolato in qualche modo l’opera che qualche anno prima aveva
dedicato al medesimo Giovanni e per questo ne abbia subito il modello.
!
6, 4 (168C) “Distogli da davanti a me i tuoi occhi, poiché essi mi eccitarono”
!
Anche in questo passo c’è una breve affermazione di carattere cristologico, motivata, come è
usuale, non da un desiderio argomentativo, ma da considerazioni di tipo mistico-parenetico. Dopo
aver ricordato che cercare di comprendere il mistero di Dio è foriero di rovina più che di salvezza,
Teodoreto così predica della natura umana dello sposo: è irraggiungibile e incomprensibile al di là
di ogni natura, sia umana che angelica (ajnevfikto~, ajkatavlhpto~, pa`san uJperbaivnwn
katavlhyin1343) con una ripetizione etimologica che non fa molto onore alla tradizionale purezza
del suo stile.
!
8, 1-2 (200) “Chi potrebbe darti, nipote mio, mentre succhi i seni di mia madre?”
!
Manifestando esclusivamente un intento esegetico, Teodoreto cerca di rispondere al dubbio che
sorge di fronte al versetto del Cantico: perché lo sposo dovrebbe succhiare gli stessi seni della
sposa? Quale bisogno avrebbe di attingere alle fonti della Sacra Scrittura (i seni sono generalmente
interpretati così nel Cantico)? In pratica ritorna la questione della crescita della natura umana di
1340 756B.
1341 ∆En tw/` mustikw/` tw`n aj/smavtwn prosagoreuvei biblivw/ (V, 628D).
1342 28B1.
1343 168C5.
- 204
-
!
Cristo, che si manifesta in determinati episodi della sua vita. Dopo una prima spiegazione in
sintonia con quella già offerta (Cristo cresce secondo l’elemento umano e accoglie le grazie dello
Spirito, con la citazione del brano tipico della questione, che è Lc 2, 401344), in questo caso
Teodoreto ne introduce anche un’altra, meno teologica e più spirituale, che celebra la filantropia
dello sposo, declinata in questo caso nell’esempio dato ai fedeli, in nome della fratellanza
(ajdelfovth~1345): “Succhiasti, infatti, non per necessità ma per insegnarmi come ho il dovere di
succhiare, e per mezzo di quale tipo di succhiata ottenere la grazia. Per questo ti sei accostato al
battesimo”1346.
!
Sintesi della cristologia nel commento al Cantico
!
Alla luce dei brani esaminati è possibile trarre alcune conclusioni sui contenuti del pensiero
cristologico di Teodoreto nel commento al Cantico dei cantici.
Anzitutto occorre dire che nella stragrande maggioranza dei casi il motivo originante dei riferimenti
cristologici è di tipo esegetico: a Teodoreto interessa prevalentemente spiegare il testo sacro e per
una spiegazione completa non può omettere anche considerazioni sulla figura dello sposo-Cristo;
soltanto in un caso la trattazione si fa un po’ più articolata, ed è in occasione del versetto 5, 10-16,
quando, per rispondere alla domanda delle compagne della sposa “Che cos’è tuo nipote?” (5, 9),
ella illustra alcuni tratti della divinità-umanità.
Quindi siamo in presenza di un opera intrinsecamente esegetica che riporta diversi agganci con la
cristologia, i quali, inevitabilmente, sono per lo più estemporanei e abbastanza generici, e per
questo non permettono una seria analisi delle posizioni dell’autore; vale, quindi, quello che Scipioni
ha scritto a proposito dei primi discorsi di Nestorio: “La terminologia è strettamente biblica e negli
sviluppi concettuali la prevalenza è data coscientemente alle figurazioni scritturistiche e alle forme
ed immagini da esse suggerite. Sarebbe estremamente arduo attribuire a questa terminologia un
vero contenuto metafisico e ricavarne dei sensi specifici veramente significativi in ordine a quello
che sarà il problema delle due nature nell’unica persona e delle posizini ideologiche che lo
proporranno”1347. Inoltre, i commenti precedenti al Cantico che Teodoreto potrebbe aver consultato
(ma sappiamo che probabilmente lesse soltanto quello di Origene) non costituiscono una fonte
sensibile per i temi cristologici, oltre al fatto che, vista la genericità dei legami, è difficile
distinguere quella che può essere una imitazione da quella che è semplice coincidenza.
Detto questo, non possiamo ignorare che il Cantico si presta molto bene a sostenere le articolazioni
cristologiche, ed è un luogo di messe abbondante. Tra le prime quattro opere di esegesi scritte da
Teodoreto (In Canticum, In Danielem, In Ezechielem, In XII prophetas), la prima è quella
caratterizzata da un maggior numero di riferimenti alla cristologia: a fronte di 2 soli riferimenti
nell’In Dn, 7 dell’In Ez , 5 dell’In XII1348, nell’In Ct ne ho potuto considerare ben 21. È vero che
alcuni di essi hanno un tratto più trinitario che cristologico (che ho trovato comunque significativo
nell’analisi) e che in qualche caso si tratta di approfondimenti di cenni già formulati, ma in generale
sono riferimenti validi e credibili (il commento ai versetti 5, 10-16 assume i toni di una vera e
propria teorizzazione cristologica), il numero dei quali ci deve far riflettere1349.
1344 200B11.
1345 200C9.
1346 Ibidem.
1348Cfr. Guinot 1995, 877 con un paio di imprecisioni nell’In Ez: 34, 23 (invece di 24, 23) e 37, 23-24 (invece di 38,
23-24).
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-
!
A che cosa si deve questa sproporzione tra commenti che tradizionalmente vengono ascritti ad un
medesimo periodo della vita del vescovo di Cirro? Indubbiamente il soggetto del Cantico, con la
centralità dello sposo, si presta meglio degli altri alla focalizzazione intorno alla persona di Cristo (e
comunque la profezia del Figlio dell’Uomo di Daniele non sarebbe da meno), ma forse determinanti
sono le diverse circostanze nelle quali sono state composte le opere1350.
!
I tratti tipici
!
La questione dell’incarnazione del Cristo viene trattata da Teodoreto da diversi punti di vista, in
generale abbastanza diffusi nel dibattito dell’epoca (da quando Atanasio con il suo Tomo agli
Antiocheni dà origine alla riflessione particolare sulla persona di Cristo), mentre altri sono tipici
della tradizione teologica di Antiochia; ci pare, comunque, di poter identificare come princìpi
fondanti e specifici (almeno per la loro frequenza, se non per l’originalità) alcuni elementi chiari,
certamente non dimenticando che non ci troviamo in presenza di un trattato di cristologia ma di
un’esegesi biblica, pertanto tutti i riferimenti – tranne uno – hanno una genesi episodica.
!
L’origine umana e terrestre
!
Nei vari passi a carattere cristologico questo è il concetto di gran lunga più ricorrente, proprio a
voler dimostrare la profonda convinzione dell’antiocheno per la dignità dell’elemento umano in
Cristo, che non è certamente un semplice aspetto esteriore, né viene assorbito dalla natura divina.
Fin dall’inizio, nel commento a 1, 11, spiegando il motivo dell’appellativo “nipote” (in questo
riprende la spiegazione che era stata già di Origene), afferma che oJ numfivo~ ejk th`~ provtera~ (è il
popolo dei Giudei) ejblavsthse kata; to; ajnqrwvpinon1351, adducendo come prova la testimonianza
di Eb 7, 14; poi, subito dopo, citando At 2, 30-31 (con la difformità di cui abbiamo parlato), dice
che ejk karpou` th`~ ojsfuvo~ aujtou` (di Davide) ajnasthvsein to; kata; sarka tovn Cristovn1352;
assumendo posizioni anche più decise, in occasione del versetto 2, 1 (“Io sono un fiore della
pianura, un giglio delle valli”), spiega che ghvi>non ajnevlabon sw`ma kai; ejn th`/ gh`/ ejblavsthsa1353;
basandosi di nuovo su un famosissimo brano profetico (Is 11, 1-2) in 2, 8 scrive che oJ Despovth~
Cristo;~ rJavbdo~ ejsti; kata; to; ajnqrwvpinon ejxelqouvsa ejk rJivzh~ ∆Iessai;1354; e commentando Is
63, 1-ss. ci spiega che ∆Edw;m = gh` e Boso;r = savrx1355; invece in 3, 7 collega l’origine di Cristo alla
stirpe davidica, nel quale Cristo si sarebbero compiute le profezie riguardo alla discendenza di
Davide: tw`/ ejk Solomw`nto~ blasthvsanti ∆Ihsou` Cristw`/ kata; to; ajnqrwvpinon1356 (nelle opere
precedenti all’In Ct spesso il personaggio a cui collegare l’origine del Salvatore è Davide in
persona, come sarebbe più prevedibile, ma nel Cantico – proprio in questo passo – Teodoreto
ravvisa una identificazione tra Salomone e Cristo, perciò ne fa prevalere la figura); poco dopo
afferma con decisione che mhtevra dev th;n ∆Ioudaivan kalei` kata; to; ajnqrwvpeion1357; e finalmente,
adottando un’espressione che sarà resa famosa dal Credo di unione del 433, dichiara che lo sposo è
1351 80C15.
1352 81A2.
1353 85C3.
1354 96D3.
1356 121B7.
- 206
-
!
a[nqrwpo~ ejpæejscavtwn hJmerw`n ejk th`~ ajgiva~ Parqevnou gennhqei`~1358; concludiamo questa
rassegna con la solita menzione al passo 5, 10-16 dove, prendendo spunto direttamente dal Cantico,
afferma che to; dev purrovn paradhloi` to; ghvi>non1359.
!
L’immutabilità dell’elemento divino
!
Anzitutto dobbiamo indicare l’affermazione netta della immutabilità della natura divina: ajeiv
wJsauvtw~ e[conta1360 (è un’espressione attribuita a Dio, in un brano in cui non compare la
distinzione tra il Padre e il Figlio), poi mevnwn o{ h\n1361 e, nello stesso brano, oujk ajfeiv~ o{ h\n1362,
oujdev trapeiv~ eij~ a[nqrwpon1363.
Il concetto è largamente diffuso negli scrittori tradizionali, nonché nel pensiero antiocheno (tra i
frammenti dell’Incarn. di Teodoro di Mopsuestia il primo del libro IX è dedicato a questo, dove è
scritto che “divenne carne” va interpretato in riferimento all’apparenza, perché ouj gavr metepoihvqh
eij~ savrka1364); ne parla anche Cirillo nella 3° lettera a Nestorio con la quale gli invia i dodici
anatematismi e lo stesso Teodoreto, ad esempio nel Trin., dove scrive – con la medesima
attribuzione a Dio in generale – Qeov~ dev ajswvmato~, kai; ajpaqhv~, a[treptov~ te, kai;
ajnalloivwto~, ajeiv wJsautw~ e[cwn1365. Il concetto compare anche nella Repr., proprio in risposta al I
anatematisma (oujdev eij~ savrka metablhqh`nai tovn Qeovn Lovgon famevn: a[trepton gavr to; Qei`on
kai; ajnalloivwton1366) e in risposta al X anatematisma (oujk eij~ sarkov~ fuvsin hJ a[trepto~
ejtravph fuvsi~1367); compare anche nella lettera ai monaci dell’inverno 431/4321368 quasi nei
medesimi termini.
Tra i passi del Cantico notiamo, comunque, l’assenza di due termini altrove molto ricorrenti tanto
da essere considerati tipici del dibattito: ajnalloivwto~, che possiede la sfumatura di “diventare
diverso”, e a[trepto~, che possiede quella di “mutare”; essi non compaiono mai neppure nelle
opere di esegesi vicine al Cantico. Ciò significa, da un lato, che la questione cristologica non è
affrontata da un punto di vista strettamente teologico, dall’altro che la querelle nestoriana deve
ancora esplodere.
Unitamente a questo concetto, troviamo quello della eternità di Dio, chiaramente in chiave
antiariana.
!
L’impassibilità dell’elemento divino
!
1358 144A1 (4, 11).
1359 157A4.
1364 981D4.
1366 392B9.
1367 436B6.
- 207
-
!
Anche questo tratto attinge ad una vasta tradizione precedente (Nestorio lo formula nella risposta
alla seconda lettera di Cirillo, §4: [oJ Cristov~] ajpaqhv~ mevn qeovthti, paqhtov~ dev tou` swvmato~
fuvsei1369) ma nel Cantico ha meno ricorrenze, e comunque l’importanza è innegabile, soprattutto
per la sua presenza e insistenza nel brano 5, 10-16: tovn trihvmeron qavnaton oiJ bovstrucoi th`~
kefalh`~ kai; oujk aujtov~ uJpedevxato1370 e, nello stesso brano, ajpaqhv~ ejstiv qei`a fuvsi~ e fuvsei
to; Qei`on pavqou~ uJpevrteron1371. Altrove compare nel Trin. nel passo sopra citato, nell’Incarn.
XXI ajpevqane oujc oJ ajqavnato~ Qeo;~ Lovgo~, ajlla; hJ qnhth; fuvsi~1372, nella Repr. al X1373 e al XII
in termine vicini a quelli del Cantico: oJ ajpaqhv~ paqw`n ejstin uJyelovtero~1374. Dobbiamo notare
che pochissime righe dopo (di una risposta peraltro molto breve, ma centrale nell’argomentazione
di Teodoreto) è riportata una delle famose espressioni concrete che servono a Marcel Richard per
collocare le opere anteriori al concilio di Efeso1375 (oujc oJ Cristov~ paqwvn, ajlla; oJ ejx hJmw`n uJpo;
tou` Qeou` lhfqeiv~ a[nqrwpo~1376) ed il riferimento a Gv 2, 9, un caposaldo nell’argomentazione
antiochena: di tutto questo non c’è traccia nel Cantico, come se Teodoreto volesse, in questa fase,
sfumare la terminologia troppo antialessandrina.
Merita di notare che Cirillo, nella lettera 2° a Nestorio (Katafluarou`si) del febbraio 430, si
esprime in modo vicino a queste righe di Teodoreto: ajpaqev~ gavr to; Qei`on, kai; ajswvmaton ... to;
gegonov~ aujtou` i[dion swvma pevponqen1377.
Tra i precedenti illustri non possiamo non ricordare che Gregorio di Nazianzo, nella lettera 202 a
Nettario di Costantinopoli presenta la credenza nella passibilità di Dio come la peggiore idea che
Apollinare abbia concepito, to; pavntwn calepwvtaton1378.
!
“Cristo”
!
Tra le caratteristiche della cristologia nel Cantico non possiamo tacere un segno particolarmente
evidente e significativo: il termine “Cristo” viene utilizzato ben 38 volte1379 mentre la più comune
espressione “Dio Verbo”, che era utilizzata ampiamente in ogni dibattito cristologico, soltanto una
volta, nel passo 5, 10-16 dove Teodoreto formula una sorta di definizione ufficiale; una volta anche
“Figlio Unigenito (di Dio)”1380 e due volte nell’espressione della comunione tra l’anima pia e il
“Verbo di Dio”1381. Che “Dio Verbo” venga utilizzato in 5, 10-16 non ci deve stupire, per i motivi di
ufficialità menzionati, diverso è invece il fatto che “Cristo” è utilizzato per tutto il resto dell’esegesi,
1372 1457B1.
1373 436D6.
1374 439B7.
1376 439B12.
- 208
-
!
anche nei passi più teologici. Con tutta probabilità la scelta si deve alla centralità del personaggio
dello sposo che assume una vera e propria personificazione del Salvatore Gesù (piuttosto che di un
astratto “Verbo”), ma è evidente che affonda le radici nel tradizionale orientamento filoumano del
pensiero antiocheno e di Teodoreto. D’altronde il problema del soggetto a cui corrisponde “Cristo”
è alla base dello scontro tra Nestorio e Cirillo, ben evidenziato nella 2° lettera di risposta del
vescovo di Costantinopoli al vescovo di Alessandria (su cui fonda la preferenza per cristotovko~):
Cristo;~ è to; koino;n tw`n fuvsewn o[noma1382 e, aggiunge, ce lo dimostra bene Paolo che lo usa in
Fil 2, 5-6 (un brano biblico fondamentale nella cristologia del commento al Cantico di Teodoreto),
visto che è il termine significativo per indicare la sostanza impassibile e quella passibile in un’unica
persona (provswpon)1383 ma presente anche negli scritti precedenti, ad esempio nel Discorso sulla
natività del 4281384. Anche nel commento al Cantico di Teodoreto “Cristo” esprime l’unicità della
persona e la dualità delle nature1385, anche se il vescovo di Cirro non teorizza mai questa verità di
fede e non usa mai la parola “persona” nelle varie forme possibili del dibattito a lui contemporaneo
(non usa mai provswpon, né uJpovstasi~): ne è prova anzitutto il fatto che faccia coincidere lo sposo
(di cui si dice insistentemente che è Dio e uomo) con Cristo1386, poi ci sono numerose attestazioni,
ad esempio nel commento a 1, 2; 1, 11; 2, 8; 3, 7-8; 4, 111387; 5, 10-16; 8, 12. D’altronde
affermazioni incontrovertibili in questo senso erano contenute già nell’Incarn., ad esempio al
capitolo XXIV1388 e XXX1389.
Dobbiamo aggiungere che Euterio di Tiana scriverà dopo il concilio di Efeso che Cirillo, “fedele
alla sua idea di una e{nwsi~ kaqæuJpovstasin, parlando del Cristo, introduce una specie di terza
natura risultante dall’unione e confusione delle due nature e con il termine ‘Verbo’ vuole indicare
proprio questa speciale e blasfema terza natura”1390, ma non sembra che ci sia eco di questa accusa
nell’In Ct.
!
L’abito
!
Ecco un’altra caratteristica che non è certo innovazione del vescovo di Cirro, e comunque nel suo
commento appare attestata; in due occorrenze, mentre spiega il brano di Is 63, 1 ss. (interpretandolo
come profezia dell’Ascensione1391) troviamo la corrispondenza stolhv = sw`ma1392 di cui si
1385“La dualité des natures est clairement exprimée et c’est à ce point surtout che l’exégète consacre volontiers un
développement” (Guinot 1985, 262).
1386 “Dunque dobbiamo pensare la sposa come la Chiesa e lo sposo come Cristo”, 45A13 (prefazione).
1388 1461B9: Cristo;n, o{ eJkatevran quvsin thvn te labou`san kai; th;n lhfqeivsan dhloi`.
1389 1472B1.
1391Ci sono legami molto stretti tra questi brani dell’In Ct e l’interpretazione ripresa nell’In Is. Evidentemente
Teodoreto aveva l’abitudine di rimanere fedele alle proprie idee.
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!
sottolinea la bellezza prorompente; in 5, 10-16 troviamo direttamente la formula ajnqrwpeivan
ejndusavmeno~ fuvsin1393.
!
Altri caratteri
!
Dunque, è del tutto evidente che nel pensiero cristologico sotteso all’esegesi al Cantico dei Cantici
prevalgono di gran lunga le dichiarazioni relative alla umanità di Cristo1394, soprattutto dal punto di
vista della provenienza dal popolo dei Giudei, dalla radice davidica e dalla terra; compaiono alcuni
riferimenti alla crescita umana (tema affrontato un po’ più compiutamente negli ultimi versetti
commentati), cosa che permette di concludere che si tratta di un’impostazione generale della
riflessione antiochiena. A fronte di questo pare di capire che l’elemento guida della persona di
Cristo sia la divinità, che assume il corpo e lo anima e lo guida, conformemente ai forti timori
antiariani e antieunomiani che animano il vescovo. Abbiamo riscontrato, poi, pochissimi riferimenti
all’anima umana di Cristo e alla assunzione della sua totalità (che invece è ampiamente trattata nel
Incarn.), e questo ci suggerisce che non ci sia una espressa volontà antiapollinariana e che il
commento al Cantico non risenta della disputa nestoriana (nella quale l’accusa più grave contro
Cirillo era di essere un nuovo Apollinare1395), d’altro canto ci sono numerose e nette affermazioni
del difisismo, visto anche come mistero indicibile (anche questo motivo è abbastanza comune).
Gli unici caratteri ampiamente messi in luce della natura divina sono la impassibilità e la
immutabilità (manca la inconfusione, che invece sarà il terzo tratto imprescindibile nell’Eranistes, e
lo è già in alcune opere cristologiche precedenti al Cantico).
Per quanto riguarda l’unità di Cristo, abbiamo trovato poco materiale che sia nitido e ben definito,
sebbene emerga implicitamente dalle tante affermazioni del difisismo; in ogni caso sembra chiaro
che Teodoreto non avverta l’esigenza di teorizzare sull’unità. Un ultima considerazione interessa il
termine sw`ma che viene menzionato espressamente e ripetutamente, senza temere rischi di
docetismo.
!
Schema
!
Schematizziamo ora i termini della cristologia:
!
1) Natura umana
a) Il corpo nasconde la divinità (come un vaso con l’unguento) [1, 2] et alibi
b) Elemento umano parente della sposa [1, 3]
c) Fil 2, 6: definizione dell’incarnazione [1, 3]
d) Forma dello schiavo è veicolo di salvezza ma anche assimilato al corpo glorioso [1, 8]
e) At 2, 30-31 Cristo (divino e umano) è figlio di Israele relativamente a ciò che è secondo la
carne [1, 11]
f) Lo sposo è della terra [2, 1]
g) Cristo è germoglio di Iesse secondo l’umanità [2, 8]
h) Is 63, 1-2: stupore per l’incarnazione [3, 6]
i) La madre dello sposo è la Giudea [3, 11]
j) Natura umana congenita alla sposa [5, 2]
k) Crescita della natura umana
i) Is 11, 1-2 crescita secondo l’umanità [1, 2]
1393 157D1.
1394“Beaucoup plus fréquentes en revanche sont les allusions à la nature humaine assumée par le Verbe. Très souvent,
l’éxègete se contente de signaler qu’il faut rapporter tel verset ou tel mot à l’umanité du Christ” (Guinot 1985, 260).
1395 Cfr. Epistola a Giovanni di Antiochia, SC 429 64, 20-ss. (è quella che introduce la risposta agli anatematismi).
- 210
-
!
ii) Crescita secondo l’umanità [2, 8]
iii) Crescita di Cristo [5, 10-16]
iv) Crescita secondo l’umanità [8, 1-2]
l) Debolezza della natura umana
i) Cristo ha provato la morte, ma è l’uomo dal seme di Nm 24, 7-9 [1, 10]
ii) Gv 12, 17 e Mt 26, 39: Cristo, secondo l’umanità, ha provato turbamento e dolore [4, 6]
m) Bellezza umana dello sposo
i) L’umanità dello sposo è carica di bellezza
ii) Si vede la bellezza esteriore [2, 1]
iii) Bellezza umana = abito [5, 10-16]
n) Totalità della natura umana [4, 10]
o) Abito:
i) Abito = corpo [3, 6]
ii) Bellezza umana = abito [5, 10-16]
2) Due nature
a) Lo sposo è uomo e Dio [Sal 44 1, 1] con accento trinitario
b) Sal 44: divinità e umanità dello sposo [1, 3]
c) Eternità e discendenza [3, 7]
d) Morte e natura divina: difisismo e compresenza [4, 6]
e) Difisismo [4, 11 e 5, 10-16]
f) Dio e uomo [5, 10-16]
3) Mistero indicibile
a) Mistero indicibile [titolo e 4, 6]
b) Il corpo nasconde la divinità (come un vaso con l’unguento) [1, 2]
c) Elemento divino nascosto [1, 3]
d) Dio non si vede [2, 1]
e) Incomprensibile della divinità [5, 10-16]
4) Natura divina
a) Col 2, 9 pienezza della divinità [1, 2]
b) Lo sposo è anche eterno, eccellente, immenso [2, 1]
c) Immutabile [[1, 1], 4, 11 e 5, 10-16]
d) ajpaqhv~
i) Impassibilità della natura divina [5, 2]
ii) Impassibile [5, 10-16]
5) Unità di Cristo
a) Ogni volta che dice Cristo (cfr. Mandac 1971, 90)
b) Unità di Cristo: è lo sposo (45A)
c) Morte e natura divina: difisismo e compresenza [4, 6]
6) Dimensione trinitaria
a) Dimensione trinitaria [titolo]
b) Dimensione trinitaria [1, 1]
c) Cristo-sposo e Dio-sposo sono la stessa cosa [1, 11]
d) Riferimento trinitario [5, 10-16]
e) Lo sposo è una persona della Trinità [1, 3]; lo Spirito Santo è una persona della Trinità [7,
2-5]
!
Fonti bibliche principali
!
Per esaminare anche le fonti bibliche principali che sostengono Teodoreto nei suoi cenni
cristologici, sia in senso quantitativo che qualitativo, dobbiamo menzionare anzitutto Fil 2, 6-7 (di
- 211
-
!
gran lunga il più presente, ma spesso con toni ovvi1396), il Sal 44 (epinicio parallelo all’epitalamio
che è il Cantico), Is 11, 1-2 per dimostrare che l’elemento umano ha avuto bisogno dei doni dello
Spirito, Is 63, 1-4 come testimonianza della carnalità dello sposo (soprattutto nel momento
dell’Ascensione), Is 53, 7-9 (agnello immolato), Nm 24, 7-9 (profezia del leone e leoncello che si
addormentano), Sal 71 e Sal 23 (ancora un epinicio).
!
Elementi assenti
!
Crediamo che al pari della rilevazioni degli elementi cristologici presenti sia importante la
sottolineatura degli elementi assenti, soprattutto per il periodo storico particolarmente controverso
nel quale Teodoreto vive e opera.
Per questo non possiamo fare a meno di notare che praticamente non v’è traccia di terminologia
concreta1397, che ricopre per Richard il ruolo di criterio determinante sulla datazione (tranne forse
ejsti; Qeo;~ kai; a[nqrwpo~, ma per Guinot – e nemmeno per noi – questo non è un esempio di
terminologia concreta); inoltre non compare mai l’idea dell’elemento umano come “tempio” (Gv 2,
19), che pure è determinante in altre opere cristologiche (ad esempio Exp. X1398, nella risposta al II
anatematisma1399, nella lettera ai monaci1400) e nella risposta di Nestorio alla 2° lettera di Cirillo1401;
non troviamo il concetto della inconfusione, né l’equivalenza morfhv = fuvsi~ che pure è
ampiamente sostenuta nell’Incarn. (ad esempio nel paragrafo X1402). Non troviamo un termine
importante nel dibattito come provswpon1403, magari scarsamente attestato in Teodoreto, ma
centrale, ad esempio nell’In Ez dove troviamo addirittura l’affermazione e{n provswpon1404, neppure
termini doviziosamente utilizzati come ejnanqrwpevw-ejnanqrwvphsi~, o oJrwvmeno~-ajovrato~, o assai
importanti nel contesto della crisi, come e{nwsi~ e sunavfeia; curiosamente, poi, Teodoreto non
afferma mai che Cristo è del seme di Davide (altro concetto largamente presente nelle opere), ma di
Salomone (probabilmente perché è quest’ultimo l’autore-protagonista del Cantico). In ultimo non
affonta mai in modo esaustivo la spiegazione della unione dei due elementi nell’unica persona:
“aucun des ces développements relatifs à la dualité des natures ne s’accompagne d’une mention qui
mette en évidence, sans équivoque, l’unité de la personne du Christ”1405.
Non ci sono legami particolari con Teodoro, anzi certe sue posizioni non sono affatto presenti
(come il concetto di synapheia al quale Teodoreto sembra preferire henosis, almeno nel passo 5,
1396 “È la dossologia che egli [Nestorio] predilige e costantemente ripropone per esprimere in sintesi l’opera di
Cristo” (Scipioni 1974, 41).
1398 1224CD.
1399 400ABC.
1402 1428C10.
1403
A dire il vero figurano due occorrenze, ma non sono collocate in un contesto di riflessione cristologica: la prima è
motivata dalla citazione di Sal 44, 13 (64D5), la seconda si riferisce allo Spirito Santo (192D6).
1404Si trova invece una netta affermazione nel commento a Ezechiele: kaiv tav~ duvo fuvsei~ ejniv deivxa~ proswvpw
(901D1).
- 212
-
!
10-16 dove parla di eJnwqevnto~, o quello di provswpon1406, o l’assenza – notevole – della
terminologia concreta, o l’assenza dello schema della inabitazione). Il fatto è che Teodoreto
aderisce pienamente alla cristologica antiochena, nella pari dignità di umano e divino, nella loro
compresenza nel Cristo, nella netta affermazione della impassibilità di Dio, nella accettazione della
crescita di Cristo dal punto di vista dell’elemento umano, nel rifiuto della distinzione Logos-sarx.
!
!
1406“L’elemento più significativo nella terminologia di Teodoro è indubbiamente l’uso della parola provswpon. Questo
termine gli serve per spiegare il risultato dell’unione di Logos e uomo. Ma un altro termine importante fa parimenti la
sua comparsa: uJpovstasi~” (Grillmeier XXX, 812).
- 213
-
!
!
Lo stile
!
La prosa del commento al Cantico dei cantici è caratterizzata da un andamento regolare ed
equilibrato, costruito su anafore e su scansioni sistematiche, come si vede, ad esempio, dalle righe
iniziali:
!
Il commento delle parole divine richiede un anima purificata e privata di ogni sudiciume; richiede anche un pensiero
munito di penne e capace di scorgere le cose divine, e che abbia il coraggio di accostarsi ai misteri inaccessibili dello
Spirito; ha bisogno anche di una lingua che sostenga il pensiero e che ne spieghi degnamente l’interpretazione1407.
!
Certamente in questo caso la letterarietà è dovuta al contesto proemiale, ma, seppur il resto
dell’opera risulti più semplificato, la struttura espositiva permane identica; spesso la regolarità è
data dalle correlazioni (“come…così”; “non solo…ma anche”), altrettanto spesso da vere e proprie
enumerazioni, esplicite o implicite.
Le frasi sono sempre brevi e lineari, rarissimamente si verifica quella ramificazione di subordinate
tipica dello sviluppo classico. Lo stile è chiaro, limpido, ma nello stesso tempo moderatamente
elegante e non si abbassa mai alla sciatteria. Naturalmente, in alcuni passi più significativi
l’educazione classica permette al vescovo di Cirro di sollevare retoricamente lo stile, come accade
ad esempio, al termine della spiegazione del titolo:
!
Ma io, se oso seguire con il discorso la filantropia divina, cerco di contare i granelli di sabbia, o le gocce di pioggia, o di
misurare il mare con una tazza. Per questo chiamo il libro Cantico dei cantici, come se ci insegnasse le migliori
immagini della bontà di Dio e svelasse i misteri intimi, impenetrabili e santissimi della filantropia divina1408.
!
Lessico
!
Il lessico di Teodoreto subisce ovviamente l’evoluzione della lingua greca e accetta le infiltrazioni
di registri linguistici non del tutto classici.
Abbiamo notato non di rado forme dialettali (ad esempio lo ionico plhvqu~1409 e wJravto1410) e, nello
stesso tempo, qualche eccesso di atticismo, come thvmeron1411 per shvmeron e la forma dei verbi in -
ttw, praticamente sempre preferita.
Non mancano espressioni influenzate dall’ebraico, come la evidente ijatrw'n pai'de"1412, né,
ovviamente, termini del lessico cristiano, spesso generalizzati nei Padri precedenti a Teodoreto:
nekrobovro~1413, promnhvstwr1414, ajntidovsi~1415 con il significato di “ricompense”, ecc. Allo stesso
1407 28A.
1408 52D-53A.
1409 36D9.
1410 176C5.
1412 197C13.
1413 57C4.
1414 208D7.
1415 212B9.
- 214
-
!
modo, tante parole appartengono al lessico di età imperiale: ad esempio bivblo~1416 invece di
bublo~. Altre volte la terminologia è presa dal lessico filosofico: lamphdwvn1417 (splendore, con
influssi gnostici e cristiani), katorqwvmata1418 (“azioni virtuose”, è un termine stoico).
!
Morfologia
!
Nel testo del commento sono presenti diverse forme configurabili come errori rispetto alle regole
del greco classico, come aumenti e raddoppiamenti anomali, ma, in assenza di edizione critica, è
difficile valutare quanto siano idiotismi veri e propri e quanto siano, invece, corruzioni testuali.
D’altro canto, a quanto ci risulta, non ci sono altre forme di imperfezioni morfologiche nel
commento, sicuramente non evidenti o reiterate, ma neanche di piccolo calibro: ciò dimostra la
grande attenzione di Teodoreto alla purezza della lingua.
Notiamo, in ogni caso, oltre a certe forme normalizzate del greco tardo (come oi[dasi1419) la
frequentissima concordanza del verbo alla 3° persona plurale con soggetto neutro singolare e
un’abitudine un po’ curiosa: il modo congiuntivo è praticamente sempre coniugato nel tempo
aoristo e quasi mai al presente.
!
Sintassi
!
Conformemente al desiderio di purezza e ed esattezza grammaticale, registriamo che anche la
sintassi, pur semplice, è sempre regolare e classica, non vi sono forme imbastardite, la
corrispondenza tra introduttori e modi e sempre rispettata, come di consueto nel greco il participio è
la modalità preferita per rendere tante subordinate, ma si trovano anche comunemente finali,
consecutive, temporali, causali esplicite.
!
Figure retoriche
!
La ricerca di semplicità e linearità fa sì che l’autore rifiuti l’utilizzo di figure retoriche ardite o
complicate, che infatti non sono presenti generalmente nel commento, così come mancano,
comunque, anche figure retoriche più semplici e ordinarie: non ci sono particolari figure di ordine,
né di significato, né di significante. Ovviamente, nei passi in cui il tono si fa più elevato, troviamo
qualche volo retorico, come nel proemio, dove figurano metafore e iperboli. Fra i casi che meritano
di essere menzionati, segnaliamo una metafora molto forte, proprio all’inizio della prefazione, dove
Teodoreto dichiara di non aver preso “l’olio in bocca”1420 per illuminare con una luce artificiale, ma
di ricercare l’illuminazione nelle preghiere: è evidente l’incrocio di immagini tra lampada e lingua,
entrambe illuminano, la prima materialmente, la seconda spiritualmente. Un altro caso è un esempio
di enallage disseminato nel commento ordinario, quando Teodoreto scrive murivwn qanavtwn
ei[dh1421 concordando l’aggettivo al genitivo plurale, piuttosto che con il più regolare ei[dh.
!
!
1416 Ad esempio, 22A15.
1417 180A2.
1418 181A6.
1419 96B10.
1420 28B9.
1421 181D3.
- 215
-
!
!
Bibliografia
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Teodoreto di Cirro (Thdt.)
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Affect.
Thérapeutique des maladies helléniques, (Pierre Canivet), SC 57.1-57.2, Paris 1958
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Eran.
Eranistes, PG 83, 27-336
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Exp.
Expositio rectae confessionis, PG 6, 1208-1240
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HE
Kirchengeschichte, (L. Parmentier and F. Scheidweiler), GCS 44, Berlin 1954
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HFC
Haereticarum fabularum compendium, PG 84, 336-556
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Commentary
THEODORET OF CYRUS, Commentary on the Song of Songs, Translated with Introduction and
Commentary by Robert C. Hill, Brisbane 2001
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Incarn.
De incarnatione Domini, PG 75, 1420-1477
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In Ct
Explanatio in Canticum canticorum, PG 81, 28-213
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In Dn
Commentarius in visiones Danielis prophetae, PG 81, 1256-1546
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In Ez
Interpretatio in Ezechielem, PG 81, 808-1256
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In Ps
Explanatio in Psalmos, PG 80, 857-1997. PG 84, 19-32
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In XII
Commentarius in XII prophetas, PG 81, 1545-1988
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In Is 1980-1982-1984
Commentaire sur Isaie, (Jean-Noël Guinot), SC 276-295-315, Paris 1980-1982-1984
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Pau
Interpretatio in xiv epistulas sancti Pauli, PG 82, 36-877
!
Pent. 84
Pentalovgion periv ejnanqrwphvsew~, PG 84, 65-88
!
- 216
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Prov.
De providentia orationes decem, PG 83, 556-773
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Prov. 1988
Discorsi sulla provvidenza, (Marco Ninci), CTP 75, Roma 1988
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Repr.
Reprehensio XII capitum, PG 76, 392-452 (contenuta dentro Apologeticus contra Theodoretum pro
XII capitibus di Cirillo di Alessandria)
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Corr.
Correspondance I, (Yvan Azéma), SC 40, Paris 1955
Correspondance II, (Yvan Azéma), SC 98, Paris 1964
Correspondance III, (Yvan Azéma), SC 111, Paris 1965
Correspondance IV, (Yvan Azéma), SC 429, Paris 1998
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Trin.
De Trinitate, PG 75, 1148-1189
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Edizioni di altri autori
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ACO
Acta Conciliorum Oecomenicorum, (E. Schwartz), Berlino 1971
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Cristo
Il Cristo. Volume II. Testi teologici e spirituali in lingua greca dal IV al VII secolo, Milano 1986
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Synodicon
Testi teologici e spirituali in lingua greca dal IV al VII secolo, PG 84, 551-864
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Anfilochio di Iconio (Amph.)
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Haer.
Contra haereticos, CCG 3, 181-214
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Atanasio di Alessandria (Ath.)
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Sur l’incarnation du Verbe (inc.), SC 199, Paris 1973
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Basilio di Cesarea (Bas.)
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Hex.
Homélies sur l’hexaéméron, (S. Giet), SC 26bis, Paris 1968
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Ep.
Lettres, (Yves Courtonne), 3 voll., LBL, Paris 1957-1961-1966
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Prov.
Homilia XII in principium Proverbiorum, PG 31, 385-424
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Merk
- 217
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Novum testamentum Graece et Latine, (Augustinus Merk), editio altera, Roma 1935
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Cipriano (Cipr.)
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Unit.
De catholica Ecclesiae unitate, CCL III
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Dom. Or.
De Dominica oratione, CCL IIIA
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Epist.
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Cirillo di Alessandria (Cyr.)
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Epist.
Epistulae, PG 77
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Discours
Discours 38-41, SC 358, Paris 1990
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LF
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Diodoro di Tarso (Diod.)
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Proem. Ps. 118
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Eusebio di Cesarea (Eus.)
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DE
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HE
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Eustazio di Antiochia (Eust.), Origene, Gregorio di Nissa
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La maga di Endor, a cura di Manlio Simonetti, Firenze 1989
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Filone di Carpasia (Ph. Carp.)
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Giovanni di Antiochia (Jo. Ant.)
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Nestoriana
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Teodoro di Mopsuestia (Thdr. Mops.)
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Ct
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Harl 1982
HARL MARGUERITE, Origène et les interprétations patristiques de l’obscurité biblique, in “Vigiliae
Christianae”, 36 (1982), 89-126
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Harl 1987
HARL MARGUERITE, Les trois livres de Salomon et les trois parties de la philosophie dans les
Prologues des commentaires sur le Cantique des Cantiques (d’Origène aux chaînes exégétiques
grecques), in Texte und Textkritik. Eine Aufsatzsammlung, hrsg. von J. Dummer, Berlin 1987,
249-270
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Kerrigan 1952
KERRIGAN ALEXANDER, St. Cyril of Alexandria Interpreter of the Old Testament, Roma 1952
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Lacocque 1962
LACOCQUE ANDRÉ, L’insertion du Cantique des Cantiques dans le Canon, in “Revue d’histoire et
de philosophie religieuses”, 42 (1962), 38-44
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Lausberg 1969
LAUSBERG HEINRICH, Elementi di retorica, Bologna 1969
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Mandac 1971
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MANDAC MARIJAN, L’unione christologique dans les oeuvres de Théodoret antérieures au concile
d’Éphèse, sta in “Ephemerides Theologicae Lovanienses”, 47 (1971), 64-96
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Margerie 1983
MARGERIE BERTRAND DE, Introduzione alla storia dell’esegesi, Roma 1983.
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Meloni 1975
MELONI P., Il profumo dell’immortalità. L’interpretazione patristica di Cantico 1, 3, Roma 1975
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Richard 1935
RICHARD MARCEL, L’activité littéraire de Théodoret avant le concile d’Éphèse, in “Revue des
sciences philosophiques et théologiques”, 24 (1935), 83-106
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Richard 1936
RICHARD MARCEL, Notes sur l’évolution doctrinale de Théodoret de Cyr, in “Revue des sciences
philosophiques et théologiques”, 25 (1936), 459-481
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Saltet 1905
SALTET LOUIS, Les sources de l’ERANISTES de Théodoret, in “Revue d’histoire ecclésiastique”, 6
(1905), 289-303.513-536.741-754
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Sant 1967
SANT CARMEL, The Old Testament Interpretation of Eusebius of Caesarea, Malta 1967
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Scipioni 1974
SCIPIONI LUIGI I., Nestorio e il concilio di Efeso, Milano 1974
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Simonetti 1981
SIMONETTI MANLIO, Teodoreto e Origene sul Cantico dei cantici, in Letterature comparate.
Problemi e metodo (Studi in onore di Ettore Paratore), III, 919-930, Bologna 1981
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Simonetti 1984
SIMONETTI MANLIO, Uno sguardo d’insieme sull’esegesi patristica d’Isaia fra IV e V secolo, in
Annali di storia dell’esegesi, 1 (1984), 23 ss.
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Simonetti 1985
SIMONETTI MANLIO, Lettera e/o allegoria, Roma 1985
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Simonetti 1986
SIMONETTI MANLIO, La tecnica esegetica di Teodoreto nel «Commento ai Salmi», in Vetera
Christianorum, 23 (1986), 81-116
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Simonetti 1987
SIMONETTI MANLIO, Sul significato di alcuni termini tecnici nella letteratura esegetica greca, in La
terminologia esegetica nell’antichità, (Quaderni di “Vetera Christianorum” 20), Bari 1987
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Simonetti 2004
SIMONETTI MANLIO, Origene esegeta e la sua tradizione, Brescia 2004
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Ternant 1953
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TERNANT PAUL, La theoria d’Antioche dans le cadre des sens de l’Ecriture, in “Biblica”, 34 (1953),
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Vaccari 1920
VACCARI ALBINO, La «théôria» nella scuola esegetica d’Antiochia, in “Biblica”, 1 (1920), 3-36
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Vaccari 1934
VACCARI ALBINO, La «teoria» esegetica antiochena, in “Biblica”, 15 (1934), 94-101
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Viciano 1992
VICIANO ALBERTO, JO SKOPOS THS ∆ALHQEIAS: Théodoret de Cyr et ses principes
herméneutiques dans le prologue du commentaire du Cantique des cantiques, in Letture cristiane
dei libri sapienziali, Roma 1992, 419-435
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Voicu 1986
VOICU SEVER J., Uno Pseudocrisostomo (cappadoce?) lettore di Origene alla fine del sec. IV, in
“Augustinianum”, 26 (1986), 281-293
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Riepilogo delle abbreviazioni più comuni
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I libri della Bibbia sono citati secondo le abbreviazioni della Bibbia di Gerusalemme.
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BP = Biblia patristica, Paris
CCG = Corpus christianorum. Series graeca, Turnholti
CCL = Corpus christianorum. Series latina, Turnholti
CP = Corona Patrum, Torino
CTP = Collana di testi patristici, Roma
DHGE = Dictionnaire d’histoire et de géographie ecclésiastique, Paris
DPAC = Dizionario patristico e di antichità cristiane, Casale Monferrato
DSp = Dictionnaire de spiritualité ascétique et mystique, Paris
GCS = Die Griechischen christlichen Schriftsteller der ersten drei Jahrhundert, Leipzig-Berlin
LBL = Les belles lettres, Paris
PG = Patrologia Graeca
PL = Patrologia Latina
SC = Sources Chrétiennes, Paris
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Indice
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