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Dispensa Di Storia Giuliano Dalmata

esodo giuliano dalmata

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Dispensa di Storia

Giuliano Dalmata
da Nesazio alla pulizia etnica

Comitato A.N.V.G.D. di Torino


Consulta Regionale A.N.V.G.D. del Piemonte
A cura di:

Direzione Coordinamento Politiche e Fondi Europei

Settore Comunicazione, Ufficio Stampa, Relazioni Esterne e URP

In collaborazione con:

Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia


Comitato Provinciale di Torino
Presidente: Antonio Vatta

Consulente storico: Federico Cavallero


Coordinamento editoriale: Angelo Aquilante

Aggiornamento riveduto e corretto “Dispensa di storia Giuliano Dalmata” Edizione 2020

Editing e stampa:
Istria, Fiume, Dalmazia. La storia degli italiani che furono cacciati da
quelle terre, che furono perseguitati, uccisi, infoibati da miliziani che
seguivano un preciso progetto di pulizia etnica voluta dal Maresciallo
Tito, è stata per troppi anni dimenticata. Oltre ai corpi di questi nostri
connazionali, gettati a migliaia nelle foibe dopo sommarie fucilazioni, ad
aver subito l’oblio forzato della memoria sono state anche le loro storie.
Dell’esodo giuliano-dalmata, per lungo tempo, non si è potuto parlare.

Oggi le istituzioni hanno il dovere di tornare ad accendere i riflettori su


quella tragica vicenda che non fu solo omicidio di massa e pulizia etnica
ma anche esodo di tantissime persone che persero le loro attività, i loro
averi e le loro tradizioni e dovettero scappare dalle loro case. Molti di
loro arrivarono qui, in Piemonte, dove trovarono una nuova abitazione
senza però dimenticare la loro provenienza. È nostro dovere ricordare
quanto accaduto, per fare in modo che orrori simili non capitino più.

A questo servono le testimonianze raccolte: a fare in modo che


quella violenza e quella sopraffazione condotta contro innocenti
colpevoli di essere italiani possa finalmente emergere dagli
abissi in cui qualcuno voleva gettarla, per nasconderla a tutti.

L'Assessore Il Presidente
Fabrizio Ricca Alberto Cirio
DISPENSA DI STORIA GIULIANO DALMATA

Questo progetto nasce ed è rivolto come approfondimento all’interesse destato


dal Giorno del Ricordo verso i terribili fatti che portarono all’Esodo le popolazioni
delle terre Istriane, Fiumane e Dalmate. Un articolo di giornale od un servizio in
televisione suscitano sicuramente interesse in una grossa platea, ma le questioni
che ci riguardano non sono condensabili in pochi minuti di cronaca, alle volte
lacunosa, incompleta o ancor peggio superficiale. Sappiamo che gli impegni di
ciascuno portano ad avere poco tempo da dedicare alla lettura ed all’approfondi-
mento, ancor di più per chi ricopre impegni istituzionali.
Abbiamo quindi pensato di concentrare in questo percorso un discorso che, per
chi lo vorrà, potrà essere approfondito ulteriormente, sia personalmente che con
il nostro contributo, grazie alla collaborazione della Dirigenza dell’Associazione
Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia e della sua Comunità di Esuli. La scelta biblio-
grafica alla quale attingere è numerosa e ogni anno si arricchisce di testimonianze
e opere, anche perché per oltre sessanta anni di esodo, foibe e pulizia etnica si
parlava liberamente solo nelle enclaves dei villaggi di esuli giuliano dalmati, men-
tre la storiografia ufficiale ignorava (e peraltro, in parte, continua a farlo ancora
oggi) cosa successe sul confine orientale dell’Italia. Ad oggi la stessa opinione
degli esuli è ancora tabù, come se noi, testimoni e vittime di quei giorni, non esi-
stessimo, come se per qualche oscuro motivo non potessimo parlare del passato
e dalla storia che ci riguarda. Su di noi sembra che siano autorizzati tutti a dire la
loro opinione come se non avessimo diritto alla parola, pertanto rivendichiamo e
rivendicheremo in ogni sede dove si dibatta di noi di esserci e di poter essere pro-
tagonisti nello stesso modo e nella stessa misura in cui lo sono indiani d’America,
ebrei, palestinesi, armeni ed ogni popolo che è stato perseguitato.
“Noi Esuli” scrive Luigi Tomaz “abbiamo atteso l’istituzione del Giorno del Ricordo in
primo luogo per poter riaffermare l’italianità storica delle nostre terre d’origine onde
farla rientrare nella memoria nazionale condivisa da tutti gli Italiani e nella più vasta
memoria condivisa da tutti gli Europei.” “Questo mio non è uno sfogo retorico... ma
è un incitamento all’azione e alla protesta senza temere di derogare, se è necessa-
rio, dalle buone maniere soprattutto con chi crede di poter approfittare dei nostri
modi educati e responsabilmente cauti per sostituirsi grossolanamente nella dife-
sa del nostro legittimo diritto all’autotutela”.

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Italiani due volte
di Gianna Calcagno

II termine profugo, usato dalla burocrazia ufficiale, indica chi è costretto ad


abbandonare il proprio paese in seguito a calamità naturali, ad eventi militari,
a persecuzioni politiche; nella memorialistica giuliano-dalmata prevale la pa-
rola esodo che indica sia l’emigrazione di un popolo o di un gruppo etnico sia,
per estensione, la partenza da un luogo di un gran numero di persone. Una
delle tante pagine della nostra storia recente è l’Esodo di 350 mila fiumani,
istriani e dalmati che dal 1945, si riversarono in Italia con tutti i mezzi possibili:
vecchi piroscafi, macchine sgangherate, treni di fortuna, carri agricoli, barche,
a nuoto e a piedi. Una fuga per restare italiani, un vero Esodo biblico, affron-
tato con determinazione, verso un’Italia sconfitta e semidistrutta, quale rea-
zione al violento tentativo di naturalizzazione voluta nella primavera del 1945,
dalla ferocia dei partigiani slavi. Ad ondate successive, quasi trecentocinquan-
tamila persone, appartenenti ad ogni classe sociale, fuggono dalla terra dove
sono nati. L’Italia, nella quale i giuliano- dalmati si erano trasferiti, non era un
paese straniero, ma lo stesso Stato nazionale nel quale essi erano nati o cre-
sciuti, diventato tale solo in seguito al Trattato di pace del 10 febbraio 1947.
Soltanto l’Esodo degli abitanti di Pola si svolse sotto la protezione inglese con
navi italiane. Tutti gli altri istriani, fiumani e dalmati dovettero abbandonare le
loro case e i loro averi sotto il controllo poliziesco dei partigiani slavi. Coloro
che ottenevano il visto per la partenza potevano portare in Italia 5 kg di indu-
menti e 5 mila lire. Dopo lunghe settimane di attesa e dopo implacabili con-
trolli, si poteva salire su un convoglio diretto al confine, cioè verso la libertà. Il
viaggio era breve, ma diventava lungo per le continue verifiche dell’O.Z.N.A.
(Odeljenje za Zaštitu Naroda - l’efficiente polizia segreta di Tito) che aveva oc-
chi e orecchi fino a Trieste. “Nessuno - ha scritto Amleto Ballerini - era mai certo
di arrivare alla meta. C’era sempre qualche infelice, ad ogni viaggio, che doveva
tornare indietro senza fiatare, con tutti i suoi miseri bagagli, stretto da due agen-
ti, e gli altri italiani, muti, stavano là a guardarlo dai finestrini del treno mentre
s’allontanava, curvo come Cristo sotto il peso della croce”. A moltissimi il visto
venne negato per ragioni politiche, per vendetta, per odio, per non privarsi di
personale specializzato, ma soprattutto perché ogni partenza era la conferma

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di una condanna per il nuovo regime. Ebbero inizio le fughe drammatiche, di
giorno e di notte, fra le doline del Carso, attraverso passaggi clandestini noti
solo ai contrabbandieri, fughe verso la libertà che spesso si concludevano
con una raffica di mitra, con lo scoppio di una mina o sul filo spinato. Alcuni
affrontarono l’Adriatico con fragili barche a remi e raggiunsero le coste italia-
ne stremati dalla fatica e dalla sete, con le mani spellate e sanguinanti. Spesso
però l’approdo rimase un sogno: catturati dalle motovedette slave, furono
condannati a lunghi anni di lavoro forzato. Talvolta la spiaggia romagnola e
marchigiana restituiva le salme dei fuggiaschi travolti da un’improvvisa bufe-
ra. L’esule prima saluta i suoi morti nel cimitero, poi raccoglie povere cose in
una grossa valigia. Con le lacrime scruta le cose più care, i ricordi di ieri, quelli
del tempo felice. Poi addio alla casa, alla terra lavorata fino al giorno prima. In
silenzio verso l’ignoto, mentre la stampa slava sghignazzava: “I fascisti scap-
pano come ladri di galline”. L’alternativa storicamente proposta agli italiani fu
quella tra rinunciare alla propria identità o abbandonare la propria terra. Fu
scelta o costrizione? Entrambe le cose, naturalmente, ma credo che il giudizio
più lucido su questo nodo fondamentale sia stato dato ancora nel 1987 da
uno storico tedesco, Theodor Veiter: “La fuga degli italiani, secondo il moderno
diritto dei profughi, è da considerare un’espulsione di massa. È vero che tale fuga
si configura come un atto apparentemente volontario. Ma colui che, rifiutandosi
di optare o non fuggendo dalla propria terra si troverebbe esposto a persecuzioni
di natura personale, politica, etnica, religiosa o economica, o verrebbe costretto a
vivere in un regime che lo rende senza patria nella propria patria di origine, non
compie volontariamente la scelta dell’emigrazione, ma è da considerarsi espulso
dal proprio paese”. Questa quindi è, di fatto, la natura dell’esodo istriano: un
fenomeno di espulsione di una componente nazionale, realizzato non per
forza di legge, ma come effetto di pressioni ambientali prolungate. Ecco al-
lora che le vicende dell’area alto-adriatica ci appaiono come un elemento,
una scheggia, di un fenomeno di scala continentale. La processione in Italia
riguarda 109 campi raccolta in tutte le regioni dove esuli vi rimarranno dai 5
ai 10 anni. Essi volevano restare uniti, creare nuove città che ricordassero nei
nomi e nella vita quelle lasciate oltre l’Adriatico. Il governo italiano, invece,
preferì disperderli, perché li considerava dei nazionalisti e li divise negli ex
campi di prigionia e caserme di soldati. Se in Germania (si parla del più gran-
de esodo della storia compiuto da dodici milioni di profughi) furono la leva

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del miracolo tedesco, in Italia si misero in fila dietro gli altri poveri. I profughi
vissero in una situazione di totale emergenza, nella più assoluta provvisorietà
e promiscuità, attorniati da un clima di avversione o indifferenza. L’esodo e la
disperazione sono state ignorate dai nostri governanti, coperta da un velo
di silenzio che per sessanta anni ha tenuto l’opinione pubblica all’oscuro di
quel dramma, mentre gli esuli iniziavano il faticoso cammino per conservare
la propria identità storica e culturale. Storia di miserie e di abbandoni, di vio-
lenza fisica e di violenza politica, di malinconie e di amarezze, ma anche storia
di dignità morale: le comunità istriane e dalmate hanno saputo ancorarsi alla
cultura d’origine, custodita come gelosa difesa della propria identità, evitan-
do così la deriva.

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Dall’antichità precristiana
alla vigilia del secondo conflitto mondiale
di Carlo Montani

La prima impronta che abbia lasciato una traccia fondamentale nella cultura
dell’alto e medio Adriatico è quella greco-romana, anche se, in precedenza,
l’insediamento degli Illiri e dei Veneti aveva dato luogo a testimonianze avan-
zate di civiltà e di organizzazione sociale, come quelle dei castellieri.
La colonizzazione ellenica, di maggiore rilevanza sul piano economico ed ar-
tistico, che non su quello strettamente politico, ebbe inizio nel quarto secolo
avanti Cristo con l’avvento di comunità greche nelle isole di Curzola e Lesina.
Si trattava di trasferimenti indotti da ragioni prevalentemente mercantili, e
talvolta, effettuati per iniziativa di importanti nuclei urbani della Magna Gre-
cia: primo fra tutti, quello di Siracusa, che per impulso di Dionisio il Vecchio
ebbe ad installarsi anche in terraferma, con la fondazione di Traù.
A partire dalla seconda metà del terzo secolo, la presenza di Roma si fece
apprezzabile, inizialmente con alleanze locali in funzione anti-cartaginese,
poi con vere e proprie colonie, come quella di Corcyra Nigra fondata nel 228
a.C., ed infine con manifestazioni militari, a cominciare dalla campagna illirica
avviata nel 221 a.C., e culminata nella conquista di Lesina ad opera di Lucio
Emilio Paolo.
Da questo momento, il segno di Roma diventa una realtà costante in tutto
il territorio giuliano-dalmata, trovando esplicazione, dopo le lotte vittoriose
contro Etoli ed Istriani agli inizi del secondo secolo a.C., nella nascita di Aqui-
leia, avvenuta nel 181 a.C., e quattro anni dopo, nella creazione della prima
provincia latina. La campagna, condotta da Claudio Fulcro, si risolse con la
distruzione di Nesazio ed il suicidio di Epulo, mentre l’Urbe decretava gli onori
del trionfo al vincitore, ed il poeta Ostio gli dedicava il “De bello histrico”.
Sarebbe passato molto tempo, peraltro, prima che la “pax romana” si esten-
desse a tutta la regione. Perché ciò avvenisse, sarebbero occorsi nuovi conflit-
ti: nel 129 a.C., la campagna di Caio Sempronio Tuditano contro i Giapodi; nel
119 a.C., la spedizione illirica di Lucio Cecilio Metello; nel 115 a.C., la conquista
della Carnia ad opera di Emilio Scauro; nel 35 a.C., l’intervento di Ottaviano
Augusto, esteso a vaste zone dell’interno; nel 6 a.C., l’impegno di Germanico

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e Postumio contro gli insorti dalmati. Soltanto all’inizio dell’era volgare le resi-
due sacche di resistenza furono domate da Tiberio.
Gli ultimi due secoli dell’era pre-cristiana sono caratterizzati, nella sostanza, da
uno sforzo militare di Roma particolarmente cospicuo ma, nello stesso tempo,
dalla diffusione a macchia d’olio della civiltà latina, che avrebbe lasciato una
traccia fondamentale nella storia giuliano-dalmata, non foss’altro per avervi
diffuso, prima ancora delle arti e della cultura, una sensibilità innovatrice per
le istituzioni politiche e giuridiche, e in definitiva, un senso della comunità e
dello Stato profondamente avvertito.
Già nel 117 a.C., Jadera divenne Municipio romano, mentre le avanguardie del-
la colonizzazione si spingevano alla stessa Belgrado. Qualche decennio dopo,
Giulio Cesare, la cui presenza ebbe un significato di grande rilievo, tra l’altro
per la fondazione di Forum Julii, l’odierna Cividale, destinato a trascendere
le contingenze del momento, avrebbe ottenuto il Governatorato dell’Illiria,
mentre Ottaviano Augusto, nel 33 a.C., le avrebbe dato la suddivisione defini-
tiva in cinque province. Nel 27 a.C., la regione acquisì il diritto alla cittadinanza
romana, e nel 12 a.C. venne costruito il Vallo di Fiume; frattanto, procedevano
i lavori per la realizzazione dell’Arena di Pola, che sarebbe stata inaugurata
nel 14 d.C., e che esprime
ancor oggi, quale massimo
monumento dell’antichità
giuliano-dalmata, un se-
gno indelebile di Roma.
In sostanza, l’epoca pre-
cristiana ha un significato
storico che si accentra,
essenzialmente, nella pro-
gressiva accessione dell’al-
to e medio Adriatico, e dei
territori circostanti, all’orga-
nizzazione statuale dell’Ur-
be. Le civiltà precedenti, e
non soltanto quella elleni-
Pola 1947:
l’esodo ca, ebbero un impatto non
all’ombra della
romanità. trascurabile, testimoniato,

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fra l’altro, dal valore con cui si batterono contro forze man mano preponde-
ranti, e di ben diversa organizzazione militare, ma i primi tre secoli di Roma
costituirono una svolta decisiva nella storia della regione: innanzi tutto, per
avere creato la coscienza di una civiltà fondata sul diritto, e per avere promos-
so un senso di appartenenza istituzionale di grande importanza psicologica
e politica.
Non c’è dubbio sul fatto che la presenza di Roma sia stata caratterizzata da
momenti di grande durezza, soprattutto nelle fasi della conquista e della
sottomissione, in specie se interpretati alla luce della sensibilità moderna.
Nondimeno, il giudizio storico non può non ricondursi allo spirito dell’epo­
ca, astraendo da valutazioni indotte da esperienze successive, e dalla stessa
concezione cristiana, che è conquista di un momento posteriore. Dopo tutto,
lo “jus romanum” prevedeva istituti che al giorno d’oggi sembrano addirittura
efferati, ma che godevano, all’epoca, di un’accettazione universale, indotta da
una spiccata “opinio necessitatis”.
Da questo punto di vista, la storia antica della regione giuliano-dalmata deve
essere riconsiderata in un quadro oggettivo, e quindi, in un’interpretazione
della sovranità di Roma avulsa da tesi precostituite che ne facciano un model-
lo di virtù, ovvero una giustapposizione di nequizie, ma propensa, più sem-
plicemente, a considerarla per quello che fu: un momento fondamentale di
evoluzione umana e civile, la cui traccia è pervenuta sino ai nostri giorni.
Dopo la fine di ogni resistenza contro Roma, gli anni di pace, nella regione
giuliano-dalmata, non furono molti. Alla metà del secondo secolo, i barbari
erano alle porte, tant’è vero che sin dal 169 a.C. i Quadi e i Marcomanni furono
sconfitti presso Aquileia dagli eserciti imperiali: la loro forza non era ancora in
grado di competere ad armi pari con quella di Roma, e tuttavia la loro presen-
za sul confine di nord-est divenne una realtà con cui fu necessario confron-
tarsi ripetutamente. Quelle barbariche erano genti nomadi e bellicose, che
avevano adottato, non senza successi tattici di qualche rilievo, la tecnica di
una guerriglia “ante litteram”, riassumibile in scorrerie improvvise, ed in veloci
rientri nelle selve orientali.
Fino al quarto secolo, la capacità di aggregazione che Roma era in grado di
promuovere, non disgiunta da una forza militare preponderante, impedì ai
popoli dell’Est di dilagare verso Occidente, pur dovendosi impegnare a tut-
to campo, come accadde nel 269 a.C., quando l’imperatore dalmata Claudio

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mise in rotta i Goti, ma dopo la di visione dello Stato che ebbe luogo nel
395 a.C., la crisi si diffuse rapidamente, e le invasioni barbariche divennero
un’angosciosa realtà, soprattutto ad opera dei Visigoti, degli Unni, ed infine,
degli Eruli. Le legioni romane si batterono con grande coraggio, esaltando le
capacità di generali come Silicone, che riuscì a fermare Alarico, ma il progres-
sivo collasso istituzionale condusse, nel 476 a.C., alla deposizione di Romolo
Augustolo.
Nel frattempo, lo sviluppo del cristianesimo lasciava un marchio più impor-
tante di quello pur significativo di Roma. Già nel 45 a.C., San Pietro giunse in
visita ad Aquileia, che era diventata la capitale religiosa della provincia, con
oltre centomila abitanti, e competeva egregiamente con gli altri agglome-
rati della regione, cominciando da Salona. Da quel momento, la nuova fede
si sarebbe diffusa con progressione crescente, nonostante le persecuzioni e
l’impegno tradizionalista di molti imperatori come Vespasiano, che volle il
completamento dell’Arena di Pola, e Diocleziano, grazie al quale l’impronta
romana in Dalmazia assunse un impatto destinato a durare nei secoli, non
foss’altro nel campo artistico ed architettonico.
Al trionfo del Cristianesimo giovarono i successi politici, non meno del san-
gue dei martiri: si pensi all’Editto di tolleranza voluto dall’imperatore dalmata
Costantino il Grande, od al “vade retro” pronunciato da San Leone Magno nei
confronti di Attila. Le leggi romane avevano favorito la distribuzione della ter-
ra ai reduci, e la creazione di nuovi nuclei urbani sulle coste istriane e dalmate,
ma il verbo del Salvatore trovava un ascolto sempre maggiore, e certamente
non effimero, in vaste schiere di pescatori, contadini, artigiani, e soprattutto
diseredati.
Schematizzando al massimo l’andamento storico dei primi cinque secoli “vol-
gari”, è facile evidenziare che anche nella regione giuliano-dalmata questo pe-
riodo fu caratterizzato da una parabola discendente e da una seconda in rapida
ascesa: quelle di Roma e del Cristianesimo. Dapprima, le progressioni furono
lente, e non avulse da fasi di ripensamento e di stallo, ma poi l’accelerazione dei
fenomeni divenne inarrestabile. Né si può dire che la sostanziale unità del com-
prensorio fosse messa in forse dalla crisi delle istituzioni: la lingua e la cultura
rimasero le stesse, senza dire che l’impegno anti-barbarico, sia pure in un’ottica
ben diversa di lotta militare e di assimilazione non violenta, avrebbe finito per
accomunare romanità e nuova fede. Nel 380 d.C., quando il Vescovo di Zara

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partecipò al Concilio di Aquileia, la coesione religiosa, e conseguentemente,
psico-sociale, delle genti giuliane e dalmate ne trasse, per così dire, una codifi-
cazione definitiva.
La storia successiva avrebbe portato discrasie di rilievo, ed avrebbe imposto il
confronto con situazioni di estrema difficoltà, ma la matrice latina e cristiana,
comune ai popoli della zona, avrebbe creato un senso di riferimento a valori
perenni, e la coscienza che valeva la pena di battersi per la loro difesa.
La ricorrenza delle invasioni e la consapevolezza di un pericolo proveniente
dall’Est con caratteristiche di angosciosa sistematicità costituirono un motivo
di ulteriore avvicinamento, e nello stesso tempo, di quella scelta di campo
in favore dell’Ovest che si è protratta fino alla nostra epoca, e deriva da esi-
genze di sicurezza, non meno che da opzioni di tipo etnico e culturale. Da
questo punto di vista, lo sfascio della Roma dei Cesari non ebbe conseguenze
apprezzabili, perché fu contestuale alla comparsa della Roma cristiana sulla
scena del mondo: una realtà intelligibile a tutti, e proprio per questo, capace
di infondere nel cuore degli uomini speranze nuove, adesioni convinte e cer-
tezze non effimere, di cui fu testimonianza politica, già dalla fine del quarto
secolo, la decisione di affidare all’Occidente tutta la Dalmazia.
La caduta di Roma non pose termine alle invasioni, che nella regione giulia-
no-dalmata continuarono con maggiore frequenza, dando luogo a scontri
ricorrenti. Già nel 493 d.C. il dominio degli Eruli fu sostituito da quello degli
Ostrogoti, sotto il comando di Teodorico, mentre nel secolo successivo com-
parvero i Longobardi, dapprima in Friuli, e poi nella stessa Trieste. Sia gli uni
che gli altri dovettero confrontarsi coi Bizantini, che esprimevano la continuità
della tradizione, del classicismo e della cultura giuridica di Roma, e che dopo
alterne vicende riuscirono a restaurare l’autorità imperiale nell’alto Adriatico.
Ancora una volta, la calma ebbe durata estremamente circoscritta, perché alla
fine del sesto secolo la regione fu investita dagli Sloveni, scesi dalla Carniola,
e poco dopo, dagli Avari, che misero a ferro e fuoco la Dalmazia, provocando
una forte reazione dei popoli autoctoni. Nel 630 d.C., la prima ondata delle
invasioni slave si concluse, infine, con l’arrivo dei Croati.
I primi trent’anni del settimo secolo determinarono una svolta storica di par-
ticolare importanza: se le invasioni precedenti avevano avuto un carattere
sostanzialmente transeunte, quelle di matrice slava diedero luogo ad un inse-
diamento stabile, per lo meno in Dalmazia, dove ebbe inizio una difficile con-

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vivenza con le genti di origine latina, e dove si creò la base per il successivo
balzo verso Venezia Giulia ed Istria, concretizzatosi nel Basso Medioevo per
iniziativa della Serenissima.
È inutile sottolineare che, nonostante la loro propensità ad abbandonare il
nomadismo quando le condizioni politiche e le possibilità di sviluppo agro-
pastorale lo consentivano, gli slavi non andarono troppo per il sottile, iteran-
do un comportamento pressoché identico a quello degli altri barbari. Non
a caso, già dal 640 d.C. il Pontefice dalmata Giovanni IV si vide costretto ad
aprire una trattativa con il nuovo invasore, per riscattare i prigionieri che co-
stui aveva ridotto in schiavitù.
Da quel momento la realtà etnica della Dalmazia cominciò a modificarsi, seb-
bene la presenza latina si giovasse di un’evidente priorità culturale, destinata,
peraltro, ad influire positivamente sull’evoluzione dei popoli slavi, ed a favori-
re un’osmosi che divenne più intensa a partire dal nono secolo, quando com-
parve il pericolo turco, rimettendo in discussione i precari equilibri nel frat-
tempo raggiunti. La stessa Ragusa, che era stata fondata duecento anni prima
per iniziativa di esuli cacciati dall’invasione avara, fu assediata dai Saraceni fin
dall’868 d.C., dopo che costoro avevano distrutto Brazza, Cattaro e Ossero.
Verso la fine del nono secolo, l’opera di slavizzazione ebbe un nuovo impulso
con l’attività missionaria di Cirillo e Metodio, che fu determinante per il nuovo
assetto linguistico e religioso, nonostante l’opposizione romana, culminata
nell’879 d.C. in un indirizzo pontificio ai Vescovi dalmati, con il quale Papa Gio-
vanni VIII assicurava l’aiuto vaticano contro gli slavi, e ribadita nel 925, quando
il sinodo di Spalato si pronunciò contro la promozione della nuova lingua ad
iniziativa ecclesiastica. Né si può dire che la civilizzazione dei nuovi abitanti
procedesse con particolare rapidità: essi appresero dai turchi l’arte della pira-
teria, e nel 964 d.C. saccheggiarono Rovigno, dove, secondo una testimonian-
za attendibile come quella del Patriarca Rodoaldo, si abbandonarono ad ogni
genere di nefandezze.
Nel frattempo, sul versante giuliano i Longobardi erano stati sostituiti dai
Franchi, e l’impronta carolingia aveva lasciato una traccia importante anche
dal punto di vista istituzionale, riconoscendo, sin dall’804 d.C., le autonomie
locali, e ponendo la prima base della successiva fioritura comunale. Subito
dopo, la pace di Aquisgrana ribadiva la sovranità bizantina sulla Dalmazia, an-
che se il suo esercizio effettivo era largamente limitato da turchi e slavi, ma

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nello stesso tempo, dalla crescente tendenza all’autogoverno cittadino, più
spiccata a Zara, capoluogo regionale dal 752 d.C.
Dal canto suo, il ruolo adriatico di Venezia andava facendosi man mano più
importante. Nel 726 d.C. l’imperatore Giovanni Comneno le aveva concesso
il controllo di tutta la costa da Duino alle foci del Po; nell’837 d.C. un istriano,
Pietro Tradonico, veniva preposto alla suprema Magistratura dello Stato; e
nella prima metà del decimo secolo iniziava il controllo politico dell’lstria,
dapprima con la sottomissione di Ossero, poi col possesso di Capodistria,
ed infine, col trattato di Rialto. Alla vigilia del secondo millennio, Venezia era
un punto di riferimento per molte comunità giuliane e dalmate, anche se
non mancavano i contrasti: nel 991 d.C.la Serenissima intervenne in favore
di Zara presso Dircislao di Croazia; nel 998 d.C. Pietro Orseolo giunse a Pa-
renzo siglando una comune intesa contro i pirati: l’anno successivo racco-
glieva l’atto di donazione da parte di Cherso, e nel 1000, quasi a suggello di
un’epoca, combatteva contro gli slavi in difesa delle città istriane ed assu-
meva il titolo di “Dux Dalmatiae”.
Il primo Medioevo, in sostanza, ebbe un rilievo determinante nella storia
giuliano-dalmata, da una parte perché coincise con l’insediamento slavo pro-
trattosi fino ai nostri giorni, e dall’altra, perché vide lo sviluppo della potenza
veneta. erede di quella latina, custode degli antichi valori culturali, e baluardo
preponderante contro le scorrerie dall’Oriente. D’altro canto, la pur difficile
cristianizzazione slava, avviata da Cirillo e Metodio, costituì il presupposto di
una convivenza meno drammatica, ancorché sempre competitiva, ed attras-
se i nuovi popoli nell’orbita civile, sottraendoli a suggestioni barbariche altri-
menti più lunghe a scomparire.
Lo scorcio conclusivo del periodo medioevale fu contraddistinto, anzitutto,
dall’ulteriore afferma-
zione di Venezia nella
zona istro-dalmata.
Nel 1150 il Doge ot- Le città
dell’Istria e della
tenne il titolo di “Dux Dalmazia si
distinguono dal
totius Istriae”: nel caratteristico
1176 la discussa bat- campanile, il
cui riferimento
taglia navale di Salve- è quello di
San Marco a
rò suggellò il contri- Venezia.

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buto veneto alla lotta contro l’imperatore Federico Barbarossa; nel 1267 co-
minciò l’esercizio della sovranità veneziana in Istria, in luogo del precedente
controllo politico-mercantile; nel 1331 detto processo si completava con
l’acquisizione diretta di tutta la costa e di gran parte dell’entroterra. L’ecce-
zione più significativa fu quella di Zara, che si ribellò più volte al predominio
veneto, affermando in ogni occasione la propria autonomia.
Il basso Medioevo vide la comparsa di altri fenomeni importanti, quali i Liberi
Comuni, che, pur senza raggiungere il rilievo conseguito in altre regioni, die-
dero luogo ad esperienze di autogoverno destinate a lasciare un segno dura-
turo, come accadde a Trieste, Parenzo e Buie, ed ovviamente, a Zara. Per certi
aspetti, il motivo autonomistico raggiunse le espressioni più alte a Ragusa,
ponendo le basi di una lunga indipendenza, chiamata a confrontarsi in modo
prioritario con turchi e serbi.
Nello stesso periodo, le monarchie di Vienna e Budapest si affacciarono nella
regione giuliano-dalmata, dando luogo ad una presenza che si sarebbe pro-
tratta fino al 1918. Toccò prima agli Ungheresi, il cui re Colomano cinse dai
1102 la corona di Croazia, dopo avere sconfitto ed ucciso il sovrano locale,
Pietro Zvacic; successivamente, fu il turno degli Asburgo, che nel 1278 si im-
padronirono della Slovenia, e nel 1330 della Contea di Gorizia.
È il caso di rilevare che l’occupazione magiara in Croazia si rivelò subito una
spina nel fianco della Repubblica veneta, tant’è vero che la ribellione zaratina
del 1242 ebbe un aiuto decisivo proprio da parte ungherese.
I legami con l’Occidente rimasero particolarmente stretti in campo religioso,
come dimostrano diversi episodi significativi. Nel 1154 il Papa Anastasio IV
elevò Zara a sede arcivescovile, con giurisdizione su gran parte delle isole; nel
1177, il suo successore Alessandro III si recò in visita pasquale nel capoluogo
dalmata istituendovi la cerimonia delle quarantore; e nel 1254 l’Abate di San
Grisogono affermò che il primato zaratino era dovuto all’intercessione divina.
Ciò, senza dire che nel 1212 lo stesso San Francesco, “felicibus auris appulsus”,
era approdato nell’antica Jadera, e vi aveva fondato un convento.
Sul piano mercantile, la subordinazione alle potenze esterne, comincian­do
da quelle imperiali, per finire a Venezia, rimase pressoché totale, dando luogo
ad una diffusa debolezza politica: è vero che nel 1251 l’imperatore Corrado IV
concesse al Comune di Parenzo il diritto di libero traffico fino alla Sicilia, ma è
altrettanto vero che si trattò di un’eccezione, determinata dal “motu proprio”

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sovrano. Se si prescinde dal caso di Ragusa, la parcellizzazione delle entità
socio-politiche giuliano-dalmate, ed i loro vincoli a Soggetti extra-regionali,
furono causa determinante, ancorché non unica, delle condizioni di vassal-
laggio che ne caratterizzano, in misura significativa, buona parte della storia
moderna.
Nel 1338, un evento particolarmente doloroso venne a colpire l’Istria: la peste.
Il terribile morbo avrebbe investito a più riprese l’intera regione, raggiungendo
le 31 epidemie nel giro di tre secoli, e spopolando rapidamente città e cam-
pagne, tanto da ridurre a poche centinaia i residenti negli stessi agglomerati
urbani maggiori. Le conseguenze furono decisive anche sul piano politico,
perché i Veneziani dovettero colmare i vuoti che si venivano a determinare
nella difesa antisaracena, e ricorsero al male minore, che venne ravvisato nella
colonizzazione slava: non a caso, già dal 1349 i primi gruppi di bosniaci, croati
e morlacchi si accamparono in agro di Capodistria, per iniziativa diretta della
Serenissima. Fu l’inizio della seconda migrazione, dopo quelle che avevano
investito la Dalmazia tra la fine del sesto secolo e le prime decadi del settimo.
Il fenomeno sarebbe durato più a lungo, ed avrebbe indotto conseguenze
non meno significative, fino alla nostra epoca.
Il Medioevo giuliano-dalmata si chiude col 1350. quando Venezia consegue
l’appellativo di “Maris Adriatici dominatrix”. che parrebbe coincidere con l’av-
vento di una lunga pace sotto le insegne di San Marco. Ma nello stesso tempo,
a parte i pericoli orientali e l’insicurezza delle rotte adriatiche, insidiate anche
dai Genovesi, il Patriarca Bertrando di Aquileia veniva ucciso dagli uomini del
Conte di Gorizia, vassallo degli Asburgo, quasi a rammentare che la pace era
destinata a rimanere, chissà per quanti secoli, nella sfera dell’utopia.
I quattrocento anni che intercorrono tra la metà del quattordicesimo secolo
e quella del diciottesimo non portarono fatti sostanzialmente nuovi, a diffe-
renza di quanto era accaduto nei periodi precedenti. La penetrazione slava
in Istria si fece più capillare, le scorrerie turche continuarono a seminare il
terrore, con l’aggiunta di quelle uscocche, e le epidemie di peste falcidiarono
in modo tremendo le comunità giuliane e dalmate da Trieste a Ragusa. Caso
mai, il fatto nuovo maturato lentamente nel corso degli anni fu il senso della
loro appartenenza ad un contesto unitario, in cui i residui conati di municipa-
lismo finirono per sublimarsi.
Nel 1453, quando Costantinopoli venne conquistata dai turchi, e l’Impero

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d’Oriente cessò la sua millenaria esistenza, la Dalmazia si aprì agli esuli bizan-
tini, e Ragusa, che già dal 1416 si era proposta all’attenzione civile eliminando
il traffico degli schiavi, meritò l’appellativo di “’Atene dalmata” per avere ospi-
tato il maggior numero di fuggiaschi, spesso oltremodo dotti e versati nelle
lettere e nelle arti. Nel 1571 la fortuna turca cominciò a declinare, a seguito
della sconfitta di Lepanto, in cui la flotta cristiana poté contare su una rap-
presentanza significativa di navi da guerra inviate dalle città dalmate, ed un
secolo dopo Eugenio di Savoia, quando stroncò definitivamente le velleità
egemoniche dei Saraceni, poté contare sulla collaborazione di quelle città,
oltre che, beninteso, su quella di Venezia.
II pericolo ottomano, esaltato da vicende oltremodo tragiche, come la pre-
sa di Zara del 1499, che era stata preceduta dalle distruzioni di Duino e
Monfalcone, e dal tristemente famoso sacco di Otranto, costituì, insomma,
un formidabile momento di aggregazione, a cui fece riscontro, peraltro, un
autentico stillicidio di migrazioni slave verso Occidente, favorite, come s’è
detto, dai vuoti creati dalla peste, e dalla necessità di colmarli, per una lunga
serie di ragioni politiche, militari ed economiche.
L’espansione slava
sembra mutuata
Rovigno: da un bollettino di
il porto è
elemento guerra: nel 1465
dominante che
ha permesso,
aveva raggiunto il
da sempre, di Carso; nel 1500 è
relazionarsi
via mare segnalata in agro
con tutte
le genti del di Gorizia; nel 1501
Mediterraneo.
si registra l’insedia-
mento delle nuove comunità nel territorio di Montona: nel 1526 il Comune di
Rovigno le accoglie ufficialmente nel proprio circondario: nel 1556 il Podestà
di Parenzo Bernardo Pisani è invitato da Venezia a promuovere il trasferimento
degli slavi; nel 1561 analoga procedura viene seguita a Pola: e l’elenco potrebbe
continuare. Del resto, qualche voce critica nei confronti di un fenomeno così
ricorrente, provocato, tra l’altro, dalla maggiore pressione demografica slava
rispetto a quella latina, si levò soltanto alla fine del sedicesimo secolo, quan-
do Dignano d’Istria fece rilevare le distruzioni boschive che ne erano derivate,
o quando Cittanova, ancora più tardi, riuscì a pronunciare la decadenza delle

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concessioni slave, a causa dei danni che avevano apportato all’agricoltura. Ma.
ormai, si trattava di un processo irreversibile, giunto a conclusione verso la metà
del diciassettesimo secolo, quando i pericoli della peste e delle incursioni pira-
tesche si fecero meno virulenti.
L’epoca moderna conobbe anche momenti di euforia “occidentale”, come nel
1409, quando Zara dopo un cinquantennio di dominazione ungherese tomo
definitivamente a Venezia, a cui sarebbe rimasta legata nella buona e nella
cattiva sorte per circa quattro secoli, ed il Doge concesse ai suoi abitanti la
cittadinanza veneta; nel 1577, allorché Curzola resistette con valore all’asse-
dio turco e guadagnò analogo riconoscimento da parte della Serenissima, e
nel 1617, quando si riuscì a debellare il terrorismo uscocco, che aveva imper-
versato fino al punto da indurre Venezia ad istituire un’apposita Magistratura
preposta alla lotta contro i pirati. Non c’è dubbio, tuttavia, sul fatto che le
ricorrenze più festeggiate abbiano coinciso con le vittorie riportate sui turchi
a Lepanto ed a Vienna, di cui s’è detto in precedenza.
Nel frattempo, era cessato il potere temporale del Patriarca di Aquileia, e l’Au-
stria, insediatasi anche a Trieste, aveva cominciato a far sentire il peso di una
dominazione reazionaria. destinata a protrarsi nei secoli, come accadde in
occasione dei moti del 1478. Ma ciò non significa che fin da allora nella città
di San Giusto non si parlasse l’italiano, lingua assolutamente dominante, se è
vero che nel 1537 era quella appartenente al 96 per cento dei suoi abitanti.
Soltanto nel diciottesimo secolo, cessata la pressione turca e migliorate le con-
dizioni generali di vita, a cominciare da quelle sanitarie, la regione giuliano-
dalmata poté conoscere un periodo di relativa tranquillità, che coincise col tra-
monto dorato di Venezia, e con l’assolutismo illuminato degli Asburgo, allorchè
Carlo VI proclamò la libertà di navigazione in Adriatico e conferì il privilegio di
porto franco a Trieste e Fiume. Si ebbero, in conseguenza, alcuni decenni di
sviluppo economico e sociale, che si tradussero in un incremento demografico
senza precedenti, tant’è vero che la popolazione dalmata poté quasi triplicare
in meno di un secolo, e che ebbero molta importanza per le vicende successi-
ve, perché crearono i fondamenti umani e culturali su cui avrebbero tatto presa
le grandi idee rivoluzionarie, e più tardi, il principio di nazionalità.
La figura più significativa di questa fase di transizione, ma nello stesso tempo,
di costruzione, è quella di Gianrinaldo Carli, che ebbe i natali nel 1720, e che fu
il tipico esponente del secolo dei lumi, impegnandosi nei settori più disparati,

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come la ricerca filologica, l’azione politica e le stesse attività imprenditoriali,
ed anticipando con singolare lungimiranza alcuni temi che, più di cent’anni
dopo, sarebbero stati riproposti dall’irredentismo.
In conclusione, l’epoca moderna, con le sue contraddizioni e le sue lotte
drammatiche, ha posto nella regione giuliano-dalmata alcuni dei problemi
più significativi che si sono manifestati fino ai nostri giorni, ad iniziare da quelli
della convivenza italo-slava e della priorità di un equilibrato sviluppo econo-
mico: non a caso, i soli momenti di pur circoscritto progresso furono quelli in
cui, cessato il clamore delle armi e messo un freno al trauma ricorrente delle
migrazioni, si poté rivolgere l’attenzione alle infrastrutture, alle bonifiche, alle
opere agricole, ed ai primi timidi tentativi di industrializzazione. In questo sen-
so, si può ben dire che. dopo tanti secoli di lutti e di devastazioni, il diciottesi-
mo secolo avesse aperto il cuore agli uomini a nuove speranze.
I fremiti rivoluzionari che pervasero l’Europa al seguito delle armate napoleo-
niche, ed i nuovi principi di libertà ed uguaglianza che l’Imperatore contribuì
a diffondere, suo malgrado, con singolare accelerazione, giunsero rapida-
mente nella regione giuliano-dalmata, dove gli ambienti più aperti ed impe-
gnati sul piano culturale erano già sensibili all’idea di una comune matrice di
lingua, tradizioni e attese, ben sintetizzata nel pensiero del Carli. Nel caso di
specie accadde qualcosa di più, perché Napoleone provocò la caduta della
Repubblica di Venezia, in cui le genti istriane e dalmate riconoscevano il va-
lore di una continuità politica che trascendeva il mero ambito istituzionale: in
altri termini, la coscienza dell’usurpazione e l’esosità del nuovo potere, prima
francese e subito dopo austriaco, favorirono una maturazione più spiccata
dell’idea nazionale italiana.
II dominio napoleonico, che dette luogo anche alla fine di Ragusa, non fu
lungo, ma indusse ugualmente conati di forte resistenza, come quello cul-
minato nella congiura di Montechiaro. e spunti favorevoli alla futura crescita
dell’irredentismo, soprattutto a Trieste, dove già dal 1810 sorse la “Minerva”,
per iniziativa di Domenico Rossetti. I patrioti locali, del resto, trovavano un
punto di riferimento nella figura di Antonio Piatti, caduto nella repressione
del moto napoletano di fine secolo, ed avevano assorbito compiutamente le
nuove idee, combattendo per tutta l’Europa nelle armate francesi.
Fu così che dopo la Restaurazione il giogo austriaco apparve insostenibile,
soprattutto nelle zone che avevano conosciuto il governo di Venezia, sostan-

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zialmente elastico e tollerante, e che, nonostante la patente asburgica per
l’uso esclusivo dell’italiano, promulgata nel 1815, videro comparire immediati
segni di insofferenza, di cui sono prova i processi contro i Carbonari ed i Guelfi
di Zara, e le costanti attenzioni della polizia per gli intellettuali italiani, nelle cui
file fece presto spicco la figura di Niccolò Tommaseo. D’altra parte, la regio-
ne conobbe un relativo benessere, tanto
più apprezzabile dopo i disastri dei secoli
Niccolò
precedenti di cui era ancor viva la me- Tommaseo nato
moria, mentre lo sviluppo mercantile fa- a Sebenico nel
1802, linguista,
ceva passi significativi con l’avvento del- scrittore e
patriota è
le linee marittime a vapore, e nel 1836, l’autore del
Dizionario della
con la costituzione del Lloyd Triestino: lingua italiana e
pertanto, l’opposizione intransigente il Dizionario dei
sinonimi.
proliferava negli ambienti più impegna-
ti, e forniva nuovi martiri alla causa nazionale, come quel Giulio Ascanio Ca-
nal che doveva pagare con la vita l’aiuto prestato ai fratelli Bandiera, ma non
aveva ancora raggiunto la diffusione capillare derivatale, nella seconda metà
dell’Ottocento, dal giro di vite austriaco e dalla scelta di campo compiuta da
Vienna a favore dell’elemento slavo.
Prima del 1848, non erano mancati segnali di qualche rilievo, in una linea di
discriminazione a danno di tutto ciò che implicasse concessioni al movimento
liberale, o peggio ancora, alle speranze italiane, ma dopo la prima guerra d’indi-
pendenza e l’epopea di Venezia conclusa con le proscrizioni, quando fu chiaro
che le istanze patriottiche non erano affatto velleitarie, e cominciavano a gode-
re di significativi appoggi internazionali, il vento cambiò, ed il nuovo imperatore
Francesco Giuseppe non trascurò di promuovere legami sempre più intensi con
la regione giulia, ma nello stesso tempo, di soffocare ogni potenzialità deviante
dal progetto conservatore, a cominciare dalla libertà di stampa, fatta eccezione
per la breve parentesi del 1850 in cui comparve “La Favilla”.
A più forte ragione, la politica asburgica si orientò in senso reazionario, sia
pure nei soli confronti della componente italiana, dopo la proclamazione del
nuovo Regno di Vittorio Emanuele II, allorché i patrioti friulani e giuliani dimo-
strarono tangibilmente quali fossero le loro preferenze ed i loro auspici. Da
questo momento, ebbe inizio uno stillicidio di misure imperiali a favore degli
slavi, che si videro privilegiati per la maggiore docilità, indotta da condizioni

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culturali mediamente inferiori, e soprattutto, per la carenza di un senso na-
zionale analogo a quello che caratterizzava, ormai da tempo, la componente
italiana.
La terza guerra d’indipendenza, seguita dalla liberazione del Veneto e del
Friuli, e da un plebiscito che diede, significativamente, la minore incidenza
di suffragi contro l’unione, pari allo 0,1 per cento, non fece che accelerare il
processo in atto. Da una parte, si susseguivano le elezioni di “Nessuno”, come
quelle di Fiume nel 1861 e di Parenzo nel 1868, e dall’altra si insisteva nelle
misure restrittive, cominciando dalla politica dell’insegnamento, ovviamente
decisiva. Per di più. non mancarono atti di violenza indiscriminata contro gli
italiani, come accadde a Zara nel 1867 ed a Sebenico nel 1869.
Il colpo di grazia alle speranze di un’evoluzione equilibrata del rapporto italo-
slavo venne nel 1870 dalla presa di Roma, perché l’elemento ecclesiastico,
fino a quel punto non ancora coinvolto direttamente nella vicenda politica,
non poté essere insensibile alle motivazioni che avevano condotto alla fine
del potere temporale. Dal canto suo, l’Austria sfruttò con accortezza questo
nuovo strumento, ad onta dei tentativi italiani di avviare una politica di buon
vicinato, culminati nel 1873 con la visita di Vittorio Emanuele II a Vienna, tant’è
vero che, appena ciò fu possibile, un prelato slavo venne insediato sulla stessa
Cattedra vescovile di San Giusto. Analoghe misure erano già state assunte in
campo amministrativo, come era accaduto nel 1870, allorché il croato Rodi e
fu nominato Luogotenente imperiale per la Dalmazia.
Gli Asburgo non avevano compreso che sarebbe stato impossibile, a lungo
andare, combattere con successo contro le idee. Anzi, il loro comportamento
avrebbe finito per favorire i conati democratici, come si verificò nel 1875 con
la spedizione garibaldina in Erzegovina, e nel 1876, allorché Benedetto Cairoli,
commemorando il settimo centenario della battaglia di Legnano, riconobbe
esplicitamente le ragioni dell’irredentismo giuliano-dalmata. Di fatto, il princi-
pio di nazionalità aveva giù vinto la propria battaglia.
L’Associazione “Italia Irredenta”, fondata nel 1877 sotto gli auspici di Matteo
Renato Imbriani e di Giuseppe Avezzana. costituisce un salto di qualità nella
storia del movimento di redenzione giuliano-dalmata, sebbene già caratte-
rizzato da una milizia secolare. In effetti, nello scorcio finale del secolo e nei
primi anni del Novecento l’impegno irredentista si fece più incisivo e consa-
pevole non tanto per il maggiore contributo dei patrioti e per l’adesione di

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vaste schiere popolari, quanto perché divenne un preciso punto di riferimen-
to dei partiti di Estrema Sinistra, ed in particolare di repubblicani e radicali,
che lo associarono all’esigenza di distruggere l’oscurantismo asburgico, sim-
bolo di un regime illiberale, e per tanti aspetti, tuttora assolutista. Cavallotti
aveva sostenuto l’estensione delle rivendicazioni irredentistiche alla Corsica, a
Nizza ed a Malta, ma in questi casi la mancanza della componente libertaria le
circoscrisse ad un fenomeno di “élite”, che sarebbe rimasto tale anche quando
furono riproposte dai nazionalisti.
Per la Venezia Giulia e la Dalmazia la questione fu diversa. La polizia austriaca
costituiva una dura realtà da cui non era possibile prescindere; le restrizioni
a danno degli italiani si moltiplicavano a vista d’occhio: la somma delle pro-
vocazioni diventava sempre più insostenibile. La firma della Triplice Alleanza,
che fu posta nel 1882 e mirava a ridurre l’isolamento internazionale dell’Italia.
tanto più evidente dopo la conquista francese della Tunisia, venne accolta
con scarsa simpatia, ed apparve iniqua pochi mesi più tardi, quando Gugliel-
mo Oberdan decise di “gettare” la propria vita sulle forche dell’Austria, e fu
condannato a morte dopo un processo all’intenzione. Che, non foss’altro in
quanto tale, risultava particolarmente odioso. Da quel momento, l’estrema
sinistra non avrebbe dato tregua, tanto più che da lì a non molto fu rafforzata
dalla prima pattuglia socialista, ed in primo luogo da Andrea Costa, uomo di
proverbiale onestà e di grande coraggio nell’affrontare il potere, e quando fu
necessario, le stesse prigioni governative. In queste condizioni,l’irredentismo
ebbe vita politicamente difficile, ma riuscì a far presa sulle coscienze in manie-
ra irripetibile, tanto più che le gesta dei patrioti, anche a prescindere dall’eroi-
smo di Guglielmo Oberdan, sembravano fatte apposta per trascinare all’entu-
siasmo i dubbiosi e gli scettici. È ciò che accadde nel 1878, quando un pugno
di animosi riuscì a far sventolare il tricolore sul Monte Calvario e sul Duomo
di Gorizia, e che si ripeté in maniera ancor più beffarda nel 1903, allorché il
vessillo italiano fu innalzato sul pennone del Municipio di Trieste.
All’ascesa dell’irredentismo non mancarono, com’è naturale, motivazioni più
concrete di politica interna. Ad esempio, nel 1890, quando Francesco Crispi
fece dimissionare in modo autoritario e clamoroso il proprio Ministro delle
Finanze Seismit – Doda, il dalmata già proscritto a Venezia, reo di non essersi
dissociato da un brindisi che auspicava la redenzione della sua terra, gli stessi
ambienti moderati non furono insensibili al richiamo delle tradizioni e della

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civiltà occidentale. Del pari, l’anno successivo, allorché la questione di Pela-
gosa, indebitamente occupata dall’Austria, fu oggetto di un infruttuoso passo
diplomatico presso il governo di Vienna, non mancarono le perplessità sulla
politica triplicista, ben oltre l’opposizione pregiudiziale dell’estrema sinistra.
Intanto, dalla regione giuliano-dalmata il “grido di dolore”, come avrebbe ri-
conosciuto Paolo Borselli nel 1911, non accennava a placarsi. Zara doveva
assistere alla chiusura delle Società e dei Centri culturali di lingua italiana; Spa-
lato era protagonista, suo malgrado, di nuovi episodi di cupa violenza; Pirano
insorgeva contro le iniziative austriache in favore degli slavi; Rovigno vedeva
la mobilitazione delle sue sigaraie contro la tracotanza asburgica; Fiume or-
ganizzava ripetute manifestazioni dichiaratamente irredentiste; e cosi via. In
sostanza, la questione veniva tenuta all’ordine del gioco in modo continuo
del pervicace impegno patriottico, dalle dispute di politica interna, e non per
ultimo, dalla miopia del regime austriaco.
All’inizio del nuovo secolo, la scelta di campo dei nazionalisti a favore dell’ir-
redentismo, ancorché non unanime, e tutto sommato sofferta fino ai giorni
dell’intervento, portò nuove adesioni alla causa giuliano-dalmata; tra le più
significative, è da menzionare quella di Gabriele d’Annunzio, che nel 1902
si era recato in visita a Trieste e in Istria e si era reso conto delle attese che
animavano tutta la regione. D’altro canto, sul fronte opposto, il movimento
irredentista perdeva l’adesione socialista in favore dei primi spunti di inter-
nazionalismo proletario, ma guadagnava imprevisti supporti tra gli studenti
croati, in funzione anti-asburgica.
In occasione del catastrofico terremoto di Messina nel 1908, e del conflitto ita-
lo-libico nel 1911, gli ambienti militari austriaci più in vista propugnarono l’idea
di scendere in campo contro l’Italia, e di liquidarla approfittando della “congiun-
tura” favorevole, ma questi progetti, che naturalmente furono conosciuti sol-
tanto a posteriori, non incontrarono l’approvazione imperiale. Nondimeno, il
fatto stesso che siano stati concepiti non giova ad un giudizio storico capace di
rivalutare la politica austriaca durante la stagione dell’irredentismo.
Dopo il 1910, una soluzione traumatica del contenzioso apparve sempre più
probabile, non tanto perché si era giunti a conclusioni analoghe per quello
balcanico, dove la Serbia era riuscita a strappare all’Impero ottomano, nel bre-
ve svolgere di un anno, prima il Kossovo e poi la Macedonia, quanto perché
le disponibilità manifestate dall’Austria furono decisamente tardive, e quindi,

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incapaci di fermare una progressione che vecchi auspici e nuovi interessi ren-
devano ormai irrefrenabile. Del resto, già dal 1913 le ordinanze apertamen-
te vessatorie a danno degli italiani, emanate a Trieste e Fiume, e pochi mesi
dopo, la pletora di lavoratori rientrati precipitosamente in Friuli e nel Veneto,
facevano comprendere da quale parte pendesse la bilancia. L’epoca dell’ir-
redentismo, nella sostanza delle cose, si concludeva con la costituzione del
primo battaglione di volontari giuliano-dalmati, e lasciava il campo a quella
del cannone.
Le giornate del maggio 1915, quando l’Italia scese in campo contro gli Im-
peri Centrali a fianco dell’Intesa, apparvero veramente “radiose”, se non altro
al vasto schieramento di forze politiche favorevoli all’intervento: liberali, ra-
dicali, repubblicani, nazionalisti. La tesi neutralista, appoggiata da giolittiani,
cattolici e socialisti, pareva meschina e vile, e per taluni aspetti lo era davvero,
in specie nell’ottica irredentista, decisa come non mai ad affrancare Venezia
Giulia e Dalmazia dal giogo asburgico.
La realtà del conflitto, lungo, difficile e sanguinoso, avrebbe finito per delude-
re tutti, e per far comprendere quanto sarebbe stato alto il prezzo da pagare,
anche in caso di vittoria. I giuliano-dalmati, comunque, non si tirarono indie-
tro, e quando ne ebbero la possibilità, combatterono con valore sul fronte
della redenzione, offrendo all’epopea nazionale figure eccelse, come quelle di
Nazario Sauro e Fabio Filzi, che furono accomunati a Cesare Battisti nella glo-
ria dei Martiri; ma nello stesso tempo, come quelle di Francesco Petric, Emilio
Cravos, Antonio Grabar e Giovanni Maniacco, che sfidarono il boia austriaco
nella certezza di avere compiuto il proprio dovere.
La guerra mondiale, secondo la pertinente definizione datane dal Papa Be-
nedetto XV, fu veramente una strage senza senso, tanto più che nel primo
triennio venne condotta in modo scriteriato anche dal punto di vista mili-
tare. In una visione di assoluta sintesi, si può affermare che il solo vantaggio
politico veramente duraturo derivatene per l’Italia sia stata la maturazione di
un effettivo senso unitario, determinata da quattro anni di trincea e di dolori
ineguagliabili. I giuliano-dalmati pagarono un contributo assai pesante, non
soltanto per le distruzioni materiali e le perdite umane sull’uno e sull’altro
fronte, ma prima ancora, per le deportazioni nei campi d’internamento or-
ganizzati in maniera spesso primordiale dall’Austria, dove la mortalità, com’è
immaginabile, fu particolarmente elevata.

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Non mancò qualche fatto esaltante, come il volo dannunziano su Vienna o
l’attacco della corazzata Viribus Unitis nel porto di Pola, ma si trattò di episodi
sostanzialmente isolati. D’altra parte, la resistenza dell’esercito italiano sul Pia-
ve dopo la ritirata di Caporetto si avvalse dell’adesione di tutto il Paese, com-
presa quella dei neutralisti della prima ora, e costituì un fattore importante di
riscatto, ed alla fine, di una vittoria che era costata tanti lutti ed apparve a più
forte ragione splendida: soprattutto per i giuliano-dalmati, che vi ravvisarono
il trionfo conclusivo dell’irredentismo, e per gli stessi fiumani, che nonostan-
te le statuizioni del Patto di Londra si affrettarono a proclamare l’annessione
all’Italia della propria città.
Le cose sarebbero andate diversamente, e la Conferenza della pace avrebbe
visto la penalizzazione delle attese italiane, anche a prescindere dal proble-
ma fiumano, alimentando il mito della vittoria mutilata, ma avrebbe assistito,
nello stesso tempo, ad un comportamento della delegazione italiana guidata
dal Presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando, quanto meno opi-
nabile. Nel frattempo, la situazione economica e sociale del Paese diventava
esplosiva per il ritorno dei reduci e l’incapacità governativa di mantenere le
promesse che erano state fatte, soprattutto ai contadini, quando era stato
chiesto loro di combattere per obiettivi spesso incomprensibili.
Nel settembre 1919, allorché venne firmato il trattato di Versailles, che asse-
gnava all’Italia il Trentino-Alto Adige, la Venezia Giulia e Zara, ma non Fiume, e
riconosceva ufficialmente il nuovo Stato jugoslavo, i motivi di scontentezza e
disagio erano diffusissimi, e trascendevano il fatto meramente politico. Per il
piccolo esercito legionario fu quindi facile rispondere al “grido di dolore” che
si era levato dalla città di San Vito, ed impadronirsene senza colpo ferire, gio-
vandosi dell’acume psicologico del Comandante Gabriele d’Annunzio, non
meno spiccato dell’audacia e delle indubbie capacità militari.
Inizialmente, l’Impresa di
Ronchi non ebbe contenu-
ti rivoluzionari, perché fu
diretta a mettere il mondo
davanti al fatto compiuto,
Il palazzo del ed a prendere possesso di
governo sede
della Reggenza
Fiume in nome dell’Italia.
del Carnaro. D’altra parte, il Governo

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centrale, presieduto da Francesco Saverio Nitti prima, e da Giovanni Giolitti
poi, non poteva cedere a quella che veniva chiamata una “sedizione” perse-
guibile a norma di legge, non tanto per l’incapacità di comprenderne i valori
di base, quanto per i vincoli internazionali a cui era tenuto, e che erano a più
forte ragione inderogabili, perché erano stati accettati in sede di Conferenza
per la pace. Ne nacque una situazione di stallo che si protrasse a lungo, fino
a quando, nel settembre 1920, Gabriele d’Annunzio si decise a proclamare la
Reggenza di Fiume: in pratica, uno Stato che aspirava ad esprimere la vera Ita-
lia, in luogo di quella ufficiale, “rinunciataria e proclive”, e che fu caratterizzato
nella sua Carta fondamentale, opera prevalente del sindacalista Alceste De
Ambris, da contenuti molto avanzati anche in campo sociale.
D’Annunzio era riuscito ad organizzare approvvigionamenti precari ma so-
stanzialmente continui, e ad espandere il proprio tentativo fino a Zara, ma
gli vennero meno aiuti che avrebbero potuto essere decisivi, a cominciare
da quello di Benito Mussolini, capo riconosciuto del movimento fascista, non
ancora trionfante, e peraltro sufficientemente forte. Giovanni Giolitti, che nel
frattempo aveva definito le intese con la Jugoslavia firmando il trattato di
Rapallo, istitutivo dello Stato libero di Fiume, decise di chiudere la partita in-
viando alla Reggenza un “ultimatum” respinto dal Comandante. Fu lo scontro
fratricida, che passò alla storia col nome del “Natale di sangue”.
Nel 1921, l’anno della scissione socialista al Congresso di Livorno (con la na-
scita del Partito Comunista) e della Repubblica rossa di Albona, che operò per
oltre un mese sulla falsariga dell’esempio dannunziano, occupando le minie-
re dell’Arsa, si ebbe la costituzione del Governo autonomista fiumano, presie-
duto da Riccardo Zanella, ma anche questo ebbe vita breve, in primo luogo
per ragioni di carattere organizzativo e funzionale, ma nello stesso tempo,
perché il nuovo Gabinetto Mussolini, formato nell’ottobre 1922 all’indomani
della Marcia su Roma, non avrebbe potuto tollerare moralmente il permanere
del problema di Fiume. Non a caso, già dall’inizio del 1924 la questione veni-
va diplomaticamente conclusa, dopo accordi tra il nuovo Governo italiano
e quello di Belgrado, con l’annessione all’Italia, mentre la Dalmazia restava
irredenta.
La guerra mondiale aveva richiesto tanti sacrifici, da cui erano derivate troppe
delusioni, ed il progetto dannunziano, obiettivamente ardito per molti aspetti
socio-economici, era rimasto nel libro dei rimpianti. Ancora una volta, molte

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speranze, pur confortate dalla liberazione delle città giuliane, venivano ripo-
ste in un futuro quanto meno incerto.
II breve periodo compreso fra le due guerre mondiali, visto a posteriori, può
essere giudicato alla stregua di un quindicennio preparatorio, ma non fu pri-
vo di avvenimenti specificamente interessanti la situazione giuliano-dalmata.
L’Italia, che aveva acquistato il controllo dell’Istria fino al Quarnaro, e la Jugo-
slavia, cui competeva quello della Dalmazia fatta eccezione per Zara, non tra-
scurarono di infastidirsi reciprocamente, ma non ci furono eventi traumatici.
Anzi, verso la fine degli anni trenta, dopo l’avvento del Governo Stojadinovic
e la firma del Patto di Belgrado, che ebbe luogo nel 1937, il contenzioso tra i
due Paesi parve definitivamente risolto.
La Jugoslavia, dopo la Convenzione di Nettuno del 1925, che aveva messo
a punto in modo più sistematico gli accordi dell’anno precedente, aveva ri-
tardato in modo abnorme la ratifica ed alimentato l’attività terroristica nella
Venezia Giulia e in Istria, dimostrando che i suoi gruppi oltranzisti erano ben
lontani dal considerare chiusa la partita. Dal canto suo, l’Italia non era andata
per il sottile nell’opera di repressione, incarcerando molti esponenti di “Orju-
na” (organizzazione dei nazionalisti jugoslavi di ispirazione fascista) e metten-
do al muro i responsabili delle azioni contro il Faro della Vittoria ed alcuni
giornali triestini.
Bisogna pur dire che in Dalmazia gli italiani rimasti dopo il “grande esodo” del
1921 si erano trovati a fronteggiare una situazione estremamente difficile. Nel
1927 gli slavi avevano chiuso la “Lega Nazionale” e persino gli Istituti di carità
di espressione italiana, e nel 1930, dopo la distruzione dei Leoni veneti di Traù,
avevano ucciso un italiano a Veglia. In effetti, la Jugoslavia affrontò i primi
anni dell’unità in un clima confuso e violento, dominato dalle fazioni estremi-
ste, caratterizzato da ripetuti scioglimenti del Parlamento, ed improntato ad
un sistema oligarchico, reso più precario dai contrasti fra le varie nazionalità,
immediatamente affiorati: non a caso, nel 1931 gli esuli croati presentarono
un “memorandum” alla Società delle Nazioni, in cui si evidenziavano gli abusi
commessi dal regime nella loro patria, riassumigli in una lunga serie di ves-
sazioni, a cominciare dalle carcerazioni senza processo, triste ricorrenza della
storia dalmata dagli Asburgo a Tito. L’anno successivo, i moti contadini della
Croazia furono brutalmente stroncati dalla polizia, e molti fuggiaschi si videro
costretti a riparare a Zara, che doveva apparire un’oasi di tranquillità civile.

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Dal canto suo, il Governo Mussolini, se si eccettua la breve parentesi del 1932,
mantenne un atteggiamento di disponibilità, e più tardi di amicizia, nei con-
fronti della Jugoslavia. Dopo avere messo il mordacchie alle attività terroristiche
protrattesi sino alla fine degli anni venti, aveva preferito dedicare energie allo
sviluppo economico della Venezia Giulia, ed aveva praticamente ignorato le ri-
vendicazioni slovene, emerse dal Congresso di Maribor del 1934. Al contrario, di
lì a non molto l’ambasciatore Viola di Campalto avrebbe assicurato al Gabinetto
Stojadinovic che l’Italia non intendeva compromettere la crescita civile della
Jugoslavia, né tanto meno la sua integrità territoriale, e nel 1936, in occasione
della stipula di un accordo economico, lo stesso Mussolini avrebbe rincarato
la dose, parlando di “amicizia concreta”, e disponendo affinché il Governo di
Belgrado ricevesse garanzie diplomatiche sul fatto che l’Italia non avrebbe più
rivendicato la Dalmazia.
Il fuoco covava tut-
tavia sotto le ceneri.
L’irredentismo alba-
nese si faceva vivo
concretamente nel
Mosca: Tito
Kossovo, e Josip Broz alla presenza
di Stalin e del
detto Tito, dopo la ministro degli
sua formazione sta- esteri Molotov.

linista nell’Unione Sovietica, organizzava l’invio dei volontari jugoslavi in Spa-


gna e nel 1937 rientrava in patria per assumere, nella clandestinità, la guida
del partito comunista. Nuove nubi di tempesta si addensavano sulla regione
giuliano-dalmata, tanto più che Mussolini, dopo la conquista dell’Etiopia, as-
sumendo una politica antibritannica si era progressivamente avvicinato ad
Adolf Hitler.
L’Italia, nel 1939, alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, scelse tuttavia di
stare alla finestra, come era accaduto nel 1914, quando mettendo a frutto la
sua non belligeranza, gli Anglo-Francesi, nell’estremo tentativo di scongiu-
rare l’intervento, ipotizzarono concessioni jugoslave a suo favore (Trattato di
Londra).
Ormai, il dado era tratto. Già dall’aprile. Mussolini aveva occupato l’Albania,
né le iniziative diplomatiche di Francia e Gran Bretagna furono caratterizzate
da una particolare incisività, anche perché il mondo assisteva con stupore

29
ad eventi traumatici come il Patto Molotov-Ribbentrop e, subito dopo, alla
potenza bellica germanica della “blitzkrieg”. Il problema adriatico diventava
sostanzialmente marginale in una dialettica dalle dimensioni planetarie, e le
genti della Venezia Giulia e della Dalmazia si apprestavano ancora una volta,
loro malgrado, a vivere una pagina tragicamente sconvolgente della loro sto-
ria.

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I cognomi italianizzati dal regime italo - fascista
e la storpiatura dei cognomi nei registri parrocchiali
di Gigi Tomaz

Tra le menzogne antitaliane straripetute e purtroppo finora poco e non ef-


ficacemente contraddette dalla nostra controparte, c’è quella dei cognomi
slavi che il governo fascista avrebbe italianizzato autoritariamente d’ufficio.
Il cognome se lo fece italianizzare soltanto chi presentò regolare domanda
per se e discendenti, in virtù di due Regi Decreti pubblicati nella Gazzetta
Ufficiale e perciò facilmente reperibili. Chi non presentò la domanda si tenne
il suo cognome con grafia e desinenza patronimica slava. Famiglie di grande
notorietà come i Tripcovich e i Cosulich, grandi armatori, hanno continuato
a portare i cognomi pre-fascisti e l’onorevole Augusto De Marsanich, col suo
ich, non solo è stato ministro della Repubblica Sociale Italiana presieduta da
Benito Mussolini, ma ha tranquillamente poi fondato il Movimento Sociale
Italiano, nostalgico del “ventennio fascista”, del quale è stato il primo segreta-
rio nazionale. Il professore Gabriele Goidanich ha tenuto a Pisa e a Bologna la
Cattedra prestigiosa di storia comparata delle lingue classiche e neolatine ed
ha diretto l’Archìvio glottologico italiano, ed è stato sempre un grande patriota
istro-dalmata senza sentire il bisogno di cambiare il cognome pur portando
il distintivo del Partito Nazionale Fascista. Tanto valga anche per tanta gente
comune, di basso ceto, come risulta dagli archivi dello stesso Regio Esercito e
della Regia Marina di tutto il periodo fascista.
Il primo atto governativo fu il Regio Decreto Legge 10 gennaio 1926, n° 17.
pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n° 2 del 15 gennaio 1926. Riguardava la
restituzione informa italiana dei cognomi deformati con grafia straniera nella
provincia di Trento. Ovviamente si trattava di grafia tedesca. Il secondo atto fu
il Regio Decreto 7 aprile 1927, n° 494, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del
22 aprile 1927. Estendeva la possibilità di restituire in forma italiana i cognomi
deformati con grafia straniera (evidentemente slava, cioè slovena, croata e
serba) ma anche tedesca, agli altri territori di recente annessi al Regno d’Italia
cioè alle province di Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Zara.
Si può essere verificata qualche intimidazione da strapaese ma certo non pa-
ragonabile a quanto accaduto in tutta la Dalmazia dopo la consegna al Re-

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gno dei Serbi Croati e Sloveni - Jugoslavia, contemporaneamente al regime
fascista nella Venezia Giulia e a quanto poi accaduto dopo il 1945 anche nella
Venezia Giulia occupata dalla Jugoslavia del maresciallo Tito.
A chiedere al governo italiano il Decreto Legge, i redenti furono spinti proprio
dalla propaganda nazional-razzista degli slavi che, dalla metà del 1800 conti-
nuava a considerare slavi tutti coloro che portavano cognomi di suono slavo
ereditati ormai da generazioni o slavizzanti d’ufficio dai parroci, come vedre-
mo. Chi con un cognome così si considerava per lingua, cultura e sentimenti,
e di famiglia italiana. era considerato traditore della propria razza.
I Regi Decreti non furono un’imposizione, ma una vera e propria liberazione.
II forsennato razzismo slavo, non dimentichiamolo, ha ribattezzato arbitra-
riamente nomi e cognomi di scrittori, artisti, filosofi e scienziati italianissimi
unicamente perché di nascita giuliano - dalmata. Ci basti ricordare i purissi-
mi architetti e scultori del primo Rinascimento Luciano e Francesco Laurana
e Giorgio Orsini Dalmatico, il filosofo e letterato Francesco Patrizio-Patrizi da
Cherso e addirittura il veneziano Marco Polo perché una leggenda lo vorreb-
be nato a Curzola, isola dalmata venezianissima dal 1001 fino al 1920.
Si è arrivati, ancora nell’Ottocento, al paradosso di dividere in due le stesse fa-
miglie: i Bianchini sono rimasti, com’erano, italiani di Dalmazia, mentre i Bian-
kini sono diventati esponenti anche rumorosi del razzismo dalmato - slavo. A
voce il cognome è rimasto lo stesso, mentre per iscritto ha cambiato sangue,
Dna, razza e storia !
A smentire autorevolmente la menzogna anti-italiana dei cognomi alterati
dal fascismo, è venuta la recente riscoperta di un libro che sbugiarda oltre un
secolo di mistificazioni, coinvolgendo purtroppo ancora una volta la respon-
sabilità del clero slavocattolico. Nel numero di luglio - dicembre 2003 della
rivista storica Quaderni Giuliani di Storia, della Deputazione di Storia Patria per
la Venezia Giulia, il valente ricercatore e storico AImerico Apollonio, ha pub-
blicato un articolo intitolato: Le memorie di Luigi Lasciac. Un quarantennio di
governo Asburgico nel “litorale”. L’articolo contiene la recensione appassionata
del libro Erinnerungen aus meiner beamtencarrière in Osterreich in den Jahren
1881 - 1918, di Alois Lasciac, Trieste 1939. L’Apollonio ha riscoperto il libro nella
biblioteca dell’Archivio di Stato di Trieste.
Dall’Archivio di Trieste io ho ottenuto, tramite l’amico Alvise Bommarco, fra-
tello del compianto Arcivescovo di Gorizia, le fotocopie delle pagine che ci

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interessano di più e che, essendo scritte in tedesco, mi son fatto tradurre dalla
professoressa Nada Madronich.
Il dottor Alois Lasciac, già Vicepresidente della Luogotenenza imperial regia
di Trieste ed ex Presidente della Commissione amministrativa del Margraviato
(Marca) d’istria, ci presenta uno spaccato efficacissimo della lotta politica tra ita-
liani e slavi già negli anni ‘80 dell’800 nelle isole di Cherso - Lussino e Veglia che
costituiscono da sempre il ponte di congiunzione tra Istria e Dalmazia
Quanto scrive l’alto funzionario absburgico a riposo, giunto alla conclusione
della sua esistenza (morirà alla fine dello stesso 1939) è la verità della vita
politica intensissima non solo delle tre isole, ma di tutto il Litorale che noi
chiamiamo Giuliano - dalmata.
Gli lasciamo la parola senza interromperlo. Non è possibile intatti raccontare
meglio di lui il clima forsennato nel quale frati esagitati trascinavano gli elettori
alle urne, preti parrocchiali alteravano sistematicamente i cognomi delle fami-
glie e fratelli di Vescovi inscenavano gazzarre intimidatorie in Parlamento:
“Nel luglio 1887, su mia domanda sono stato trasferito a Lussinpiccolo (in italiano
nell’originale) un distretto plurilingue (italiano e croato) con una popolazione che
si agitava in lotte nazionaliste da molti anni [...] Le città hanno costumi e usanze
veneziane, come hanno in uso la parlata di Venezia. A Lussinpiccolo, a Lussin-
grande, a Cherso e a Veglia alcune famiglie usano un bruttissimo dialetto croato
traboccante di espressioni italiane. La gioventù d’altronde è totalmente italiana
perché nelle scuole si insegna l’italiano. Invece in chiesa le prediche e le confessioni
sono fatte anche in croato. [...]
C’erano due partiti elettorali, italiano e croato, che lottavano per il primato. Né
l’uno né l’altro dei due partiti aveva fiducia del commissario governativo manda-
to a presiedere le elezioni. Lo consideravano infatti come la creatura dell’odiato
governo centrale. [...] Gli italiani avevano a disposizione, per agitare la gente, mez-
zi finanziari, invece i croati avevano efficacissimi agitatori -propagandisti: preti,
insegnanti e soprattutto i frati dei conventi di Veglia i quali anche se non avevano
diritto di votare (perché erano forestieri) accompagnavano i votanti fino al seggio
elettorale e alle urne per controllare come votavano. In molti casi era costretta
ad intervenire la Gendarmeria per allontanare gli intrusi dal seggio elettorale. Na-
turalmente ciò provocava grandi proteste che denunciavano l’impar­zialità della
gendarmeria contro il clero. Le proteste consistevano in interpellanze sia al parla-
mento centrale sia all’assemblea regionale [...]

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A Bescanova c’erano due locande, una era gestita e frequentata da gente del par-
tito italiano e l’altra dai croati, lo perciò fui costretto a pernottare in un edificio
nuovo, ancora umido che apparteneva al maestro di posta [...]
Anche in quel terreno neutrale non ero protetto dalle dimostrazioni di protesta di
ambi i partiti. Verso le 10 di sera infatti, durante un corteo di votanti croati, sono
stati scagliati contro le mie finestre diversi sassi grandi come uova, con grida di
“abbasso il commissario”.
Poco prima della Pasqua 1888, il dr. Vitezìc di Veglia, deputato al Parlamento
di Vienna presentò in seduta aperta un’interpellanza accusandomi non solo di
tendenze irredentiste (italiane) ma anche di aver fatto propaganda irredentista
continua e pressante tra la gente del distretto. Durante l’illustrazione dell’interpel-
lanza in aula si è levato un putiferio di disapprovazione, non solo dai banchi dei
deputati italiani di Trento, Trieste, Istria e Dalmazia, ma anche da deputati di lin-
gua tedesca. [...] Il presidente ha minacciato di sospendere la seduta ma Vitezìc,
incurante dell’ammonizione, ha continuato i suoi falsi attacchi aggiungendo che
il Commissario distrettuale [...] frequentava compagnie di pessimi individui che
avevano rinnegato Religione e Patria [...] L’aula parlamentare esplodeva in grida
da ogni parte: Basta! Fai schifo! Vattene via! Buttatelo fuori! Sicché il Presidente si
è visto costretto di sospendere la seduta per dieci minuti. Riaperta la seduta, il dr.
Vitezìc ha ancora ripreso la parola per continuare imperterrito il suo attacco diffa-
matorio riuscendo però a dire soltanto: “Si, lui (Lasciac) perseguita e punisce il cle-
ro slavo e condanna i preti a pesanti multe perché i preti hanno scritto nei registri
parrocchiali i nomi delle famiglie (cognomi) nella nuova grafia croata.” A causa
del baccano il Presidente è stato costretto a chiudere la seduta parlamentare. Se-
gue per una pagina e mezza il capitolo intitolato “Storpiatura dei cognomi nei
registri” (“Verstiimmelung der Familiennamen in den Pfarrmatriken”).
Il dottor Lasciac, allora Commissario distrettuale imperial-regio austro-ungari-
co ci dà la seguente testimonianza autorevolissima:
“A questo punto devo spiegare che alcuni dei compilatori dei registri usavano le
forme grafiche della scrittura slava introdotte dal linguista Gaj nell’anno 1835. Al-
tri continuavano ad usare le forme latine fino allora tradizionali [...] finche l’auto-
rità provinciale, all’uopo autorizzata dal Ministero degli interni, è stata costretta a
diramare una circolare a tutti i commissari distrettuali incaricandoli dì ispezionare
tutti i registri allo scopo di eliminare gli abusi che creavano confusione e proteste e
di ripristinare le forme di scrittura dell’antichissimo uso latino-veneto.

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In occasione di una ispezione dì tali registri presso la parrocchia di Chiunschi
sull’isola di Lussino fatta personalmente, ho potuto constatare che l’amministra-
tore parrocchiale dall’anno 1881 non aveva scritto un solo atto nei registri di bat-
tesimo, matrimonio e morte, ma soltanto in foglietti volanti mescolati in confusio-
ne. Si è scusato di questa grave mancanza al dovere di incaricato statale, dicendo
che d’inverno aveva i geloni alle mani e perciò non era in grado di scrivere.
Gli ho prescritto di completare tutto quanto non aveva fatto, entro due mesi, pena
la multa di 50 Gulden. Siccome in detti foglietti volanti figuravano scritti in grafia
slavica nomi tradizionalmente scritti alla latina, gli ho ordinato di attenersi alla
circolare che era stata appena diramata dalla citata Autorità superiore.
Dato che lui mi ha promesso tutto senza tentennamenti, credetti di non dover
adottare ulteriori provvedimenti. [...] Questo episodio, che tutti dovrebbero consi-
derare corretto, benevolo e moderato, ed inoltre il mio rifiuto di aderire ad un circo-
lo di lettura croato appena fondato, per rispetto alla preponderante maggioranza
di sentimenti italiani di Lussinpiccolo, sono stati ritenuti sufficienti al dr. Vitezic per
diffamarmi ed insultarni brutalmente quale nemico della religione e del clero e
quale irredentista “puro sangue”.
Dunque i cognomi venivamo alterati dal clero slavo già prima del 1888, nei
registri di battesimo, dei matrimoni e dei morti compilati e custoditi dalle
Parrocchie per conto dello Stato austriaco. Il clero ci teneva tanto a slavizzare
i cognomi da ricorrere al Parlamento quando un funzionario solerte tentava
di ristabilire la legalità nelle registrazioni demografiche. Il Dottor Lasciac con-
clude anche, piuttosto amareggiato, che dopo un primo tentativo, le stesse
autorità statali, ovviamente cedendo ai Vescovi, lasciarono fare. L’Italia scon-
figgerà l’Austria dopo venti anni dall’interpellanza del deputato Vitezìc ed il
Fascismo, che nascerà in seguito, non potrà inventare niente di quanto viene
accusato perché nei territori redenti troverà giù tutto inventato, anche l’arte di
trasformare i cognomi, autoritariamente d’ufficio e senza Regi Decreti Legge.

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Gli eccidi in Venezia Giulia e Dalmazia (1943-1950)
di Lucio Toth

II tema delle «Foibe» ha sollevato negli ultimi anni polemiche e interesse. Po-
lemiche sul piano politico. Interesse sul piano storico e scientifico. Anzi, spes-
so i due piani si sono intersecati acuendo contrasti e pregiudizi. Il che non
sempre è un bene. Ma nemmeno un male. È un bene infatti se l’approfondi-
mento storico degli avvenimenti e delle possibili cause aiuta ad illuminare il
dibattito politico sul passato. È un male se le argomentazioni vengono usate
come clave nella lotta politica, ingarbugliando con interpretazioni controver-
se sul passato le problematiche attuali.
D’altra parte è bene che la ricerca storica non sia soltanto un campo lasciato
agli storici, ma trovi un contatto con la realtà del presente, aiutando i giovani,
che non sono portati a perdere tempo nella collezione di notizie non utilizza-
bili oggi, nella valutazione delle tematiche del nostro tempo e del prossimo
futuro.
È sintomatico sotto questo aspetto che proprio il tema delle foibe in Istria e
nel Carso e dell’esodo della popolazione italiana dalla ex-Venezia Giulia, cioè
dalle sue province orientali (che ne costituivano i tre quarti), sia tornato di
attualità dopo le pulizie etniche che si sono riprodotte nella ex-Jugoslavia al
momento della dissoluzione della Federazione delle Repubbliche Socialiste
degli Slavi del Sud, fondata dai diversi partiti comunisti iugoslavi, unificati
sotto la guida del maresciallo Tito.
Si è visto cioè nel cuore dell’Europa - anche se in quel «cuore di tenebra» che
sono sempre stati i Balcani - riesplodere un odio etnico e religioso, o pseudo-
religioso, che avrebbe dovuto essere incompatibile in un’epoca come la no-
stra, dopo tanti decenni di propaganda di ideologie universaliste per defini-
zione. Ma è proprio questo ritorno al passato atavico delle contrapposizioni
razziali e religiose, o supposte tali, uno dei caratteri del post-moderno, cioè
della crisi dei valori universali che hanno prevalso nella cultura europea dall’Il-
luminismo fino alla caduta del Muro di Berlino.
La crisi delle ideologie, e del pensiero forte che ne era alla radice, se da un lato
produce scetticismo e relativismo etico, la morte stessa della filosofia e - si è
detto - della storia, dall’altro provoca il riaffiorare di impulsi sepolti nell’incon-

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scio collettivo dei popoli e rimossi proprio in forza di quell’apparente trionfo
della ragione che sono stati il XIX e il XX secolo.
Eliminata dalla storia dell’uomo l’esistenza di un filo conduttore degli eventi,
come voleva o pretendeva la filosofia della storia, sembra quasi che la storia
sia precipitata in un non-senso, in un’assenza totale di razionalità. Questa
perdita del senso dell’esistenza si impone come una sfida tanto ai credenti
in realtà ultraterrene e in una salvezza da perseguire attraverso questa vita,
quanto ai laici convinti di un cammino di progresso perseguibile razional-
mente. Entrambi si vedono negata ogni chiave di interpretazione dei fatti
che non sia pura casualità, e conseguentemente la possibilità stessa di un
giudizio morale su quei fatti. Si assiste cosi a impietosi dialoghi tra sordi, che
si rinfacciano orrori e colpe senza una bussola che aiuti a percorrere i labi-
rinti della realtà. E della coscienza degli uomini che di quella realtà si sono
resi protagonisti.
La vicenda delle Foibe, della loro negazione o del revisionismo che ne può di-
scendere, è un prisma rivelatore delle contraddizioni passate e presenti della
società europea, della sua incapacità di fare i conti con il proprio passato.
Pur sapendo che un’obiettività assoluta non esiste, perché ogni ricostruzio-
ne storica riflette esperienze e forse pregiudizi di chi vi si accinge, per dare a
questo scritto una sua convincente attendibilità lo dividerò in tre parti: una
definizione storico-temporale dei fatti considerati, secondo la documenta-
zione finora acquisita; le diverse interpretazioni della cause di essi offerte
dalla storiografia; la valutazione conclusiva di chi scrive.

1. L’AREA GEOGRAFICA INTERESSATA

Una prima difficoltà è la definizione dell’ambito geografico del fenomeno


considerato: se infatti si deborda dal suo ambito territoriale il fenomeno cam-
bia immediatamente di aspetto e conseguentemente ne può mutare il giu-
dizio. La polemica spicciola e di parte ama questi sconfinamenti perché con-
sentono scorribande ideologiche e moralistiche, del tutto fuorvianti rispetto
ad un giudizio sereno.
Valgano due esempi. Se nel fenomeno Foibe facciamo rientrare anche la stra-
ge di Porzus, nell’Alto Friuli, non facciamo che forzare l’aspetto ideologico del
fenomeno, ma ne attenuiamo l’aspetto etnico perché fu strage fra italiani.

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Altrettanto accade se vi comprendiamo le stragi di Kocevije, nella Carniola
transalpina: anche qui l’aspetto ideologico prevale e quello etnico è quasi del
tutto assente, perché fu strage fra slavi.
Ciò non significa che sia l’uno che l’altro avvenimento, verificatisi entrambi ai
limiti dell’area geografica considerata e a breve distanza di mesi, non possano
servire ad illuminare la vicenda che qui esaminiamo. Purché sia chiaro che ne
sono fuori.
L’area geografica entro la quale gli eventi studiati devono essere circoscritti
è quella parte della Venezia Giulia e della Dalmazia ove esistevano insedia-
menti autoctoni italiani, radicati da secoli, se non da millenni, se si vuole
considerare una continuità storica con l’antichità e l’Alto Medio Evo (dalla
X Regio augustea Venetia et Histria al Regno longobardo e franco). Di una
soluzione di continuum etnico per località come Pola, Capodistria, Pirano o
Parenzo non v’è prova alcuna. Se mai dai documenti bizantini al Placito del
Risano e oltre v’è prova del contrario.
Quindi una parte delle province di Gorizia, Trieste e Fiume (con le tre città ca-
poluogo), quasi intera la provincia di Pola, e quasi tutta la minuscola provincia
di Zara, che comprendeva l’enclave continentale dell’antica città e le due isole
di Lagosta e Pelagosa al centro dell’Adriatico. Tutti territori riconosciuti all’Ita-
lia dai trattati internazionali di Rapallo del 1920 e di Roma del 1924.
A queste province del territorio nazionale italiano, riunite nella regione del-
la Venezia Giulia (secondo l’accezione dello studioso israelita Graziadio Isaia
Ascoli) e Zara, vanno aggiunte le zone della Dalmazia assegnate nel 1920 al
Regno di Jugoslavia, e quindi le città di Sebenico, Spalato, Ragusa e Cattaro
e le isole dell’arcipelago dalmata (Arbe, Veglia, Curzola, Lesina, Lissa, Brazza),
ove esistevano tuttora nel 1941 minoranze italiane autoctone, sia pure som-
merse, insieme alle enclaves albanesi, nella popolazione maggioritaria croata
e serba. Anche gli italiani, rimasti in queste zone dopo il primo esodo tra le
due guerre, furono oggetto di eccidi, del tutto assimilabili a quelli verificatisi
in Istria e nel retroterra triestino e goriziano. Non per niente molti civili e molti
appartenenti alle forze dell’ordine italiane, originari della Dalmazia meridio-
nale e sfuggiti alla prima ondata di massacri del settembre 1943, furono poi
trucidati a Fiume e nei pressi di Trieste, ove i loro uffici e i loro reparti si erano
trasferiti, nel maggio 1945.
Nella memoria collettiva dei dalmati e dei giuliani queste minoranze avevano

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le stesse caratteristiche antropologiche, linguistiche e culturali e la stessa ra-
dice storica latino-veneta della penisola istriana e delle altre aree italiane della
Venezia Giulia.
Nel fenomeno Foibe vanno quindi compresi anche gli eccidi di italiani avve-
nuti in Dalmazia, cioè esecuzioni di massa che si verificarono a Veglia, a Zara,
a Spalato e altri omicidi isolati in varie località della costa e delle isole, unificati
dalle stesse finalità, modalità e tempi (cioè dopo l’armistizio dell’8 settembre
e al momento dell’occupazione-liberazione da parte delle truppe comuniste
partigiane tra il 1944 e il 1945, a seguito della ritirata tedesca dai Balcani). Una
«liberazione» assai simile a quella subita dalla Polonia, dalla Romania, dai Paesi
Baltici, dall’Ungheria e da altri paesi dell’Est.

2. L’ESTENSIONE DEL TERMINE “FOIBE”

Quando si parla quindi di tragedia delle Foibe non ci si riferisce esclusiva-


mente alle persone gettate, già uccise in vario modo o ancora vive, nelle ca-
vità carsiche di tale nome diffuse nella regione, secondo lo stretto significato
del termine nel lessico geologico o speleologico, ma a tutte le esecuzioni e
sparizioni di persone avvenute in quel torno di tempo, cioè dal settembre
1943 fino ad oltre il maggio-giugno 1945, nelle zone considerate, ad opera
delle formazioni partigiane iugoslave o della polizia segreta (O.Z.N.A.), che
accompagnava e controllava l’intero movimento «di liberazione» iugoslavo
(A.V.N.O.J., Consiglio antifascista di liberazione popolare della Jugoslavia, di-
partimento per la sicurezza del Popolo), nel passaggio dalla lotta armata con-
tro gli invasori stranieri e i nemici interni, che con essi avevano collaborato,
alla costruzione del nuovo stato comunista a partito unico che alla fine della
seconda guerra mondiale sostituisce il defunto Regno di Jugoslavia.
A questa nuova entità stata-
le infatti, dopo la svolta del
primo ministro del Regno
Unito Winston Churchill nel
1943, venne riconosciuta
Londra 1966:
Tito sempre dagli Alleati la rappresen-
gradito ospite
di Churchill e
tanza degli interessi dei
del ministro popoli iugoslavi, togliendo
Eden.

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ogni appoggio al governo del re Pietro Karageorgevic, in esilio a Londra, e
conseguentemente alle formazioni partigiane etniche, che si erano costituite
nell’estate 1941 e combattevano in suo nome.
Allo stesso fenomeno Foibe si possono infatti ascrivere le migliaia di deportati
civili di nazionalità italiana dai territori considerati e di militari italiani apparte-
nenti a reparti della R.S.I. (Repubblica Sociale Italiana), ivi dislocati, carabinieri,
finanzieri, ma anche a reparti partigiani italiani del C.L.N. (Corpo di Liberazio-
ne Nazionale), disarmati o soppressi negli stessi territori alla fine delle ostilità
(aprile-maggio 1945), che risultarono ufficialmente scomparsi dopo la cattu-
ra. Di essi infatti non è dato conoscere se siano stati trucidati e gettati nelle
foibe, nelle cave o miniere abbandonate o nelle fosse comuni sparse un po’
ovunque sul territorio, o siano morti per le privazioni e le sevizie nei campi
di concentramento iugoslavi o durante i trasferimenti a marce forzate da un
lager all’altro, negli anni successivi.
Solo di una minima parte dei «desaparecidos» italiani dalle città e dalle cam-
pagne della regione considerata si conosce la causa precisa della morte: per
essere stata riconosciuta la loro salma nei mesi immediatamente successivi
agli eccidi (ritrovamenti in Istria nell’inverno 1943-’44 e sull’altopiano triestino
e nei pressi di Gorizia sotto controllo delle truppe anglo-americane nell’estate
1945); per essere stati giustiziati a seguito di processi sommari di cui è rimasta
traccia documentale; per essere stati identificati i loro resti in epoche anche
recenti attraverso la riesumazione delle salme nei vari cimiteri iugoslavi (dalla
Croazia alla Slavonia, alla Bosnia) vicini ai campi di detenzione o in fosse co-
muni scoperte più o meno casualmente; per notizie sporadiche pervenute ai
parenti attraverso testimonianze di compagni sopravvissuti.
Di migliaia di prigionieri e deportati è rimasta invece ignota la sorte finale e di
essi è stata registrata, nelle anagrafi italiane e iugoslave, la «morte presunta»,
collocandola nel periodo successivo al loro prelevamento da parte delle for-
mazioni militari iugoslave o degli agenti dell’O.Z.N.A.
Occorre quindi distinguere all’interno dello stesso fenomeno diverse vicende
collettive, che ebbero come conclusione l’eliminazione fisica di cittadini italia-
ni di nazionalità italiana. Perché anche questa distinzione è doverosa.
Nelle province italiane della Venezia Giulia di allora erano compresi centinaia
di mi­gliaia di sloveni e croati (indicati come «alloglotti» nei censimenti) che
abitavano quasi compattamente le valli dell’Alto Isonzo, dell’ldria, del Vipacco

41
e del Timavo, e l’interno del Carso triestino e istriano. Erano cittadini italiani e
molti di essi militarono con lealtà nelle campagne di guerra italiane (dall’Etio-
pia alla Spagna, alla Russia, ai Balcani, all’Africa settentrionale), come appar-
tenenti, anche volontari, alla forze armate o alla M.V.S.N. (Milizia Volontaria
Sicurezza Nazionale), fino all’8 settembre 1943.
La loro sorte successiva a tale data e le scelte da essi operate (deportazione
in Germania, adesione alle formazioni partigiane italiane sul territorio italia-
no, arruolamento nelle formazioni partigiane comuniste iugoslave o in altre
formazioni militari operanti sul territorio iugoslavo) meriterebbero un appro-
fondimento storico adeguato: uno dei tanti approfondimenti che sarebbero
necessari per eliminare un’altra zona d’ombra di queste complesse vicende.
Per quanto riguarda il fenomeno che qui esaminiamo, ossia gli eccidi di citta-
dini italiani che si consideravano italiani di lingua e di nazionalità e - quel che
più conta - tali erano considerati dai loro persecutori, i dati acquisiti sul piano
storiografico consentono di circoscrivere il relativo fenomeno con sufficiente
approssimazione.
L’eliminazione fisica degli italiani al confine orientale ebbe quindi tre modalità
di fondo: 1) l’uccisione a gruppi di più persone, facendole precipitare, spesso
ancora vive, nelle cavità carsiche delle foibe; 2) l’uccisione a gruppi o individual-
mente, a seguito di processi più o meno sommari o senza alcun processo, me-
diante fucilazione e seppellimento in fosse comuni o mediante annegamento
e conseguente scomparsa dei cadaveri; 3) la morte nei campi di concentra-
mento o nelle marce forzate di trasferimento da un campo all’altro di deportati
o prigionieri, militari e civili, alcuni condannati da tribunali speciali «del popolo»,
altri scomparsi senza processo e senza darne notizia ai familiari.
La diversità delle modalità della eliminazione spiega la divergenza delle cifre
che vengono fissate circa le «vittime delle Foibe»: da un minimo di 5/6.000
persone ad un massimo di 20/21.000.
La diversità dei conteggi deriva appunto dal numero delle salme che non si
sono potute identificare, dagli elenchi parziali dei «giustiziati» e di deportati
che si sono potuti rinvenire negli archivi iugoslavi o in quelli italiani, relativi
questi ultimi ad appartenenti alle forze armate o alle forze di polizia; dalle
notificazioni pubbliche di esecuzioni, che le stesse autorità titine affiggevano
ai muri delle città e dei paesi, in testi bilingui o trilingui, a titolo di esempio per
tutta la popolazione.

42
Si deve notare al riguardo che, a differenza della metodica “contabilità” e della
diligente documentazione anche fotografica e cinematografica che lo zelo
della macchina criminale nazista ci ha lasciato, i comandi militari partigiani
di Tito, i tribunali speciali, l’organizzazione del gulag iugoslavo e della polizia
segreta non seguivano criteri scientifici di raccolta dei dati relativi alle esecu-
zioni.
Anzi, nella grande maggioranza dei casi le esecuzioni stesse avevano, e do-
vevano avere, un carattere di segretezza. La scomparsa delle persone indivi-
duate come meritevoli di eliminazione doveva avvenire con modalità di una
certa oscurità e mistero. È questa una delle caratteristiche peculiari del feno-
meno in esame, che dovrà essere valutata ai fini stessi della “razionalità” e della
finalità dell’operazione complessiva, secondo le intenzioni degli esecutori e
dei mandanti.
Un altro elemento che introduce ampi margini di approssimazione contabile
è la natura stessa delle cavità, naturali (foibe) o artificiali (pozzi di miniere),
in cui le vittime sono state gettate e il lungo tempo trascorso dalla morte al
ricupero nelle salme.
Se infatti per le prime foibe del settembre 1943 fu possibile in molti casi un
ricupero dei resti nei mesi immediatamente successivi, ciò non è stato pos-
sibile per le stragi del 1945, in quanto gran parte delle foibe e delle fosse
comuni si trovavano in territorio controllato dalle truppe d’occupazione iu-
goslave. Soltanto nei pressi di Trieste, dove ai «liberatori» iugoslavi si sostitu-
irono dopo quaranta giorni le truppe anglo-americane (fino alla cosiddetta
Linea Morgan), fu possibile effettuare qualche ricerca - come a Basovizza e a
Monrupino - resa anche essa difficile dal rapido processo di decomposizione
dei cadaveri, che risultarono ammucchiati a migliaia, così da renderne impos-
sibile l’identificazione e costringere le autorità alleate ad ordinare la chiusura
delle aperture per motivi di igiene pubblica.
Sia le cavità naturali che quelle artificiali, infatti, sono in gran parte percorse
da corsi d’acqua sotterranei, tipici dei terreni carsici, cosicché i resti umani
vengono dilavati e trasportati a valle anche per molti chilometri. Tali sono
state quasi ovunque le constatazioni degli speleologi che, a distanza di anni
o di decenni, si sono avventurati nella profondità di tali voragini, trovando
resti umani appartenenti spesso a centinaia di individui, con scarsissimi ele-
menti di riferimento alla loro identità (indumenti civili, maschili o femminili o

43
di bambini di ambo i sessi, uniformi e distintivi militari, cinture o calzature o
rari oggetti metallici). Si tenga presente che secondo molte testimonianze,
concordanti sul punto, le vittime venivano preventivamente spogliate di ogni
oggetto di valore e spesso di qualsiasi indumento, anche intimo, e precipitate
nude nelle voragini.

1946, linea di
demarcazione
tra Italia e
Jugoslavia
presidiata da
militari anglo-
americani. Si
sta innalzando
la “cortina di
ferro”.

3. PERCHÈ NON FURONO PROMOSSI PROCEDIMENTI GIUDIZIARI

Un’altra domanda che è lecito porsi è perché nessun procedimento giudizia-


rio sia stato intrapreso per tali fatti negli anni immediatamente successivi agli
avvenimenti stessi, come invece avvenne per i crimini di guerra commessi
dalle truppe tedesche del III Reich in Italia e negli altri paesi dell’Europa occu-
pata o da quelle giapponesi in Cina, in Manciuria e altrove.
Domanda alla quale vengono date riposte diverse. In primo luogo occorre
osservare che la Jugoslavia di Tito era tra i paesi vincitori al tavolo della pace,
protetta dall’U.R.S.S. prima e dagli alleati occidentali dopo il 1948. Controllava
militarmente e politicamente con un pugno di ferro i territori dove la maggior
parte di questi eventi si erano verificati. Quindi ogni possibilità di ricerca sul
campo di prove materiali o documentali era preclusa. E tale rimase per de-
cenni fino al 1991, cioè al crollo del regime comunista iugoslavo.
I territori considerati inoltre avevano subito un’autentica pulizia etnica, es-
sendo stati svuotati in gran parte della loro popolazione, le città quasi inte-

44
ramente. Se si considera che le cinque province contavano circa un milione
di abitanti nel 1940; che i territori rimasti all’Italia dopo il 1954 (la stretta
striscia triestina fino a Muggia e il Basso Isontino) ne avevano circa 300.000
e i profughi furono intorno ai 350.000; tolti gli sloveni e i croati degli al-
tipiani interni e i circa 60/70.000 italiani «rimasti» sul territorio ceduto, si
ha un’idea concreta dello spopolamento subito dalle città costiere e dalla
penisola istriana; prima che i nuovi immigrati dalla vecchia Jugoslavia ne
riempissero i vuoti.
Mancava quindi un habitat umano e sociale capace di chiedere giustizia per
le violenze e le stragi subite. L’Heimat [vocabolo tedesco che sta a indicare il
territorio in cui si sente tradizionalmente a casa propria perchè si è nati, vi si è
trascorsa l’infanzia e si parla la propria lingua] degli istriani era stata sconvol-
ta e distrutta e non c’era sul territorio, che era stato teatro degli eventi, una
collettività capace di reagire. Chi era rimasto nelle province invase e cedute o
era in qualche modo coinvolto con qualche responsabilità personale - magari
non voluta - negli eventi stessi o ne subiva il clima di intimidazione che quegli
eventi avevano determinato. L’esodo aveva lasciato anche gli italiani che resta-
vano senza un retroterra umano che li proteggesse. Essi si sentivano in balia
dei nuovi padroni. Ne sopportavano la presenza; erano obbligati a marciare
dietro i cartelli per sostenerne le imprese e giustificarle. L’esodo alimentava la
paura, ne era causa ed effet-
to. E a sua volta l’isolamento
dell’italiano, nei villaggi, nei
quartieri cittadini, negli am-
bienti di lavoro - ove poco
prima era stato in maggio-
ranza - ne spezzava ogni
volontà di resistenza, se
non nel profondo silenzio
del suo cuore, come si verrà
a sapere dalle loro stesse te- 1947 A Pola
la quasi
stimonianze cinquant’anni totalità della
dopo. La propaganda ideo- popolazione
abbandona
logica, tipica di quei regimi, la città che, in
breve, diventa
faceva il resto. deserta.

45
Perché i profughi in Italia non reagivano? Perché non adivano le Procure e
i Tribunali per chiedere giustizia? Domanda questa ancora più impietosa
dell’altra. Come stavano i profughi nell’amata «madrepatria»? Come erano
stati accolti?
Molti ebbero esperienze positive. Ma in altri casi non fu così. E furono questi
episodi a contrassegnare l’impressione negativa che si diffuse tra le ondate di
profughi. Ad Ancona e a Venezia manifestazioni ostili di militanti di sinistra. I
profughi scendevano sulla banchina a baciare la terra italiana. E ricevevano
fischi e sputi e insulti e inviti a tornare da dove venivano. A Bologna chiusero
i lucchetti dei vagoni-merci dove stava transitando un carico di profughi ne-
gando loro per ore acqua, cibo e latrine, finché la pietà del capostazione non
li fece partire. La stampa iugoslava prese a deriderli, pubblicando con grande
risonanza i casi di suicidio nei campi-profughi.
A spiegare la nomea di «fascisti» che veniva propagandata, determinando sif-
fatte accoglienze, organizzate, può aver contribuito la circostanza che i primi
flussi di profughi avvennero già nell’inverno 1943-1944, a seguito dei primi
eccidi di civili italiani in Istria e in Dalmazia e dei pesanti bombardamenti alle-
ati su Zara. La città fu quasi distrutta in 54 incursioni. All’Epifania del 1944 era
già una distesa di rovine devastate dagli incendi. Tutta la popolazione ne era
uscita e quasi il 70% degli abitanti aveva raggiunto Trieste e l’Italia centro-set-
tentrionale (un altro 20%, rimasto imbottigliato, partirà tra il 1948 e il 1954).
Avvenne cosi che le prime notizie sui massacri e l’esodo apparvero sul “Cor-
riere della Sera” e sugli altri giornali italiani pubblicati sotto la R.S.I. Quindi non
potevano essere, questi profughi, che «tutti fascisti!», dato che il Governo di
Salò li accoglieva come fratelli. E questa etichetta rimase sulla schiena di tutti
loro, come un marchio di infamia per la sinistra italiana del dopoguerra: pos-
sidenti e operai, casellanti e ingegneri, contadini e pescatori, e le loro famiglie
fino ai vecchi e ai bambini, che rischiavano di essere insultati dai compagni di
scuola. Fu cosi che si cominciò a non capire. E si continuò per decenni, alme-
no in una parte della cultura politica italiana. Fino a pochi anni fa.
Alloggiati in caserme diroccate o disastrate da precedenti usi o in ex-campi di
con­centramento, i profughi erano spesso oggetto di aggressioni e pestaggi
da parte di militanti-attivisti e in alcuni casi di assalti ai campi-profughi (La
Spezia, Mantova, Padova, ecc.). Tanto che si recavano al lavoro o alle mense
della P.O.A. (Pontificia Opera di Assistenza) in gruppi per non essere sorpresi

46
isolati; la notte si autoimponevano il coprifuoco e si era arrivati a dover costi-
tuire delle squadre, più o meno armate, che si davano il turno nello scortare i
ragazzi a scuola e i camion che portavano vettovaglie ai campi. A volte erano
le stesse autorità a fornire ai profughi per vie traverse armi per l’autodifesa.
Era questa l’Italia tra il 1945 e il 1950. Banditismo residuale, pestaggi e omicidi
politici, specie a danno di esponenti e attivisti delle associazioni cattoliche,
cui molti giovani profughi avevano aderito.

Torino, arrivo
alla stazione
dei profughi;
prima
accoglienza.

Avevano problemi di sopravvivenza, fisica ed economica, cui dedicarsi con


priorità. A questo si diedero le prime associazioni sorte spontaneamente fra i
profughi a Milano e poi estese a tutta Italia, dove il flusso veniva diretto (Pie-
monte, Veneto, Liguria, Puglia, Campania, Lazio, Sicilia, Sardegna).
Un’altra osservazione va fatta. Le vecchie classi dirigenti giuliane, sia chi aveva
collaborato nel ventennio - spesso solo per patriottismo e senso dello Stato
(cosi diffuso nell’educazione austro-ungarica) - sia chi si era ritirato o aveva
subito persecuzioni dal regime fascista, erano state già indebolite dalle de-
portazioni tedesche e furono falcidiate dalle repressioni iugoslave. L’effetto
voluto degli eccidi comunisti era proprio questo: privare la popolazione italia-
na autoctona dei suoi dirigenti, dai più autorevoli ai più umili, fino ai parroci.
In quattro anni furono uccisi trentanove sacerdoti, di cui trentasei italiani del
luogo. Alcuni dopo orrende sevizie.

47
Infine la maggior parte degli adulti maschi della generazione di mezzo, tra i
venti e i cinquant’anni, erano mobilitati sui fronti di guerra (il più alto tasso di
mobilitazione tra le regioni italiane) e i superstiti dai campi di prigionia rim-
patriarono solo alla fine del 1945 e i rientri si protrassero - secondo le diverse
strategie dei paesi detentori - fino a oltre il 1950. In sostanza questa massa di
rifugiati era priva di una guida politicamente sperimentata.
Alcune denunce furono presentate all’autorità giudiziaria. Ma nessuna si tra-
sformò in azione penale, tranne per i fatti di Porzus, che - come abbiamo visto
- sono fuori della nostra prospettiva. Non si rinvennero estremi di reato? Non
fu possibile raccogliere prove? È un campo aperto all’indagine, un’indagine
approfondita che ancora non è stata fatta.
Nella pubblicistica più recente viene dato risalto a motivazioni di ordine politi-
co generale, sia interno che internazionale. Sul fronte interno bisognava fare i
conti con le soppressioni di migliaia di fascisti «repubblichini» e di altri cittadi-
ni da parte di alcune formazioni partigiane alla fine delle ostilità, senza valide
giustificazioni militari. Sopraggiunse la nota amnistia voluta dal ministro della
Giustizia Palmiro Togliatti, che pose termine o comunque vanificò centinaia di
processi in corso. Nella logica politica di quella amnistia c’era anche la volontà
di porre fine ad un clima da guerra civile che avrebbe potuto essere alimentato
dalla prosecuzione dei procedimenti penali in corso contro gli appartenenti alle
forze armate della R.S.I. accusati di crimini di guerra. Sul piano internazionale
l’apertura di indagini sui crimini commessi contro gli italiani dai partigiani iugo-
slavi avrebbe obbligato ad accogliere le richieste iugoslave e greche di perse-
guimento di crimini attribuiti alle truppe d’occupazione italiane in quei paesi tra
il 1941 e il 1943, eventualità che gli Alleati non desideravano e che certo nessun
governo o partito italiano avrebbe visto con favore, per le ripercussioni politi-
che negative sulla pubblica opinione. Di questa generale volontà di “passar so-
pra” avrebbero beneficiato anche molti appartenenti alle forze armate tedesche
accusati di crimini nell’Italia occupata.
In definitiva a chi cerca di insinuare che dei massacri delle Foibe non si era
parlato semplicemente perché non erano avvenuti, c’è una serie fondata di
ragioni da contrapporre tutte valide e degne di considerazione, sul piano del-
la logica storica e politica e alla luce delle notizie raccolte dagli studiosi. Certo
non erano stati i profughi giuliano-dalmati a tacere, perché le pubblicazioni
delle loro associazioni abbondano di denunce documentate fin dal 1945. Ba-

48
stava che qualcuno le leggesse e volesse trarne le conseguenze giuridiche in
materia di obbligatorietà dell’azione penale.

4. LE TRE FASI DEGLI ECCIDI

Secondo le ricerche storiche si possono distinguere tre fasi degli eccidi di


italiani da parte delle formazioni partigiane di Tito e del suo regime:
1) settembre-ottobre 1943 in Istria e in Dalmazia centrale (Spalato e Baia del-
le Castelle);
2) ottobre-novembre 1944 a Zara;
3) maggio-giugno 1945 e oltre, a Fiume, in Istria, a Trieste e a Gorizia.

La prima fase
La prima fase seguì alla drammatica dissoluzione dell’apparato militare ita-
liano, dopo la dichiarazione dell’armistizio dell’8 settembre 1943, non solo in
Dalmazia e nelle zone occupate dei Balcani, ma in tutto il territorio metropo-
litano, Venezia Giulia compresa.
Per quanto riguarda le zone che qui interessano, i tentativi di organizzazio-
ne di una difesa compatta da parte dei comandi italiani fallirono del tutto.
I reparti in massima parte si sbandarono e i singoli militari cercarono di rag-
giungere con ogni mezzo i luoghi di residenza nel territorio nazionale. Alcuni
reparti in Dalmazia passarono con i partigiani iugoslavi. Altri, a Zara, tentarono
di difendere la città dai tedeschi, conservandovi un’amministrazione italiana
fedele al Governo del re. Tentativo irrealistico, date la prevalenza e l’efficienza
delle truppe tedesche presenti e l’ovvia mancanza di collaborazione da parte
dei comandi partigiani iugoslavi.
La maggior parte dei militari finì prigioniera dei tedeschi e avviata nei la-
ger dell’Europa orienta-
le, come disponevano
le preventive direttive
germaniche. Altri si or-
ganizzeranno più tardi Al centro Ante
Pavelic, capo
in reparti della R.S.I., che di stato della
vennero impiegati in altri Croazia, ospite
di Adolf Hitler
scacchieri. alla sua destra.

49
Il governo croato guidato da Ante Pavelic reclamò subito da Adolf Hitler tutta
la Dalmazia e gran parte della Venezia Giulia, fino a Trieste compresa.
In Istria già nella notte fra l’8 e il 9 settembre i reparti partigiani si infiltrarono
dal vicino confine e nelle settimane successive presero a percorrere le campa-
gne e le cittadine minori arrestando civili italiani e passandoli per le armi. Così
avvenne a Cittanova, a Parenzo, a Rovigno, a Pisino, ad Albona e altrove.
Questi prelevamenti riguardavano centinaia di persone, appartenenti a tutti i
ceti sociali, dai possidenti terrieri agli impiegati, ai ferrovieri, ai contadini, agli
insegnanti, ai messi comunali.
Sul criterio di scelta delle persone da eliminare si è molto discusso. Ma risulta
evidente che non si trattava di persone che potessero aver commesso azioni
criminali nei confronti della resistenza iugoslava, per il semplice motivo che
in Istria non esisteva alcuna attività militare partigiana fino a quella data (9
settembre 1943).
Né è facile capire di quali crimini potessero essere accusati ex-podestà
dell’epoca austriaca, mutilati della prima guerra mondiale, donne di ogni età,
con i loro figli di pochi anni. Nella stragrande maggioranza dei casi si trattava
di italiani autoctoni, dato che le campagne e le cittadine minori dell’lstria non
avevano registrato negli anni 1920-1943 sensibili immigrazioni di italiani da
altre regioni.
Pola e Fiume questa volta rimasero fuori della portata dei partigiani di Tito,
come Gorizia e Trieste. Un simulacro di autorità italiana vi era rimasto e i co-
mandi iugoslavi non avevano la forza di penetrarvi. Successivamente queste
province verranno sottoposte dal Reich a un regime d’occupazione militare,
l’Adriatische Küstenland che comprendeva anche la provincia di Udine, con
autorità civili italiane spogliate di gran parte delle loro prerogative.
Se un criterio distintivo e razionale si può riconoscere in queste liste di elimi-
nazione è quello di individuare le persone che potessero avere una qualche
influenza sul contesto sociale delle località di residenza, per il loro passato
familiare di irredentisti, le loro idee patriottiche apertamente manifestate, an-
che la semplice parentela con volontari di guerra. Qualsiasi motivo quindi
che potesse conferire a queste persone, anche umili, come un casellante, uno
stradino, o una studentessa universitaria, iscritta o meno alle organizzazioni
giovanili fasciste (disciolte con la caduta del fascismo il 25 luglio 1943), una
qualche autorevolezza a livello locale.

50
Scrive Roberto Spazzali che si era diffusa la notizia «che erano stati predi-
sposti elenchi con non meno di 16.000 nomi di persone da arrestare con
l’accusa di collaborazionismo. Se questi erano gli obiettivi della lotta di libe-
razione slovena e croata, allora le istanze erano inconciliabili per gli antifa-
scisti italiani e le distanze davvero incolmabili».
Voci di dura polemica si levarono all’interno del movimento partigiano tra
italiani e slavi, che culminò in episodi tragici, come quello avvenuto a Pisino
durante uno degli ultimi comizi prima dell’occupazione tedesca. Un comu-
nista italiano di Pisino insorse denunciando le violenze e le soperchierie cui
erano sottoposti indiscriminatamente i suoi compaesani e connazionali e al
temine del suo dire si gettò a precipizio nella Foiba Grande, che era alle sue
spalle, sfracellandosi contro le rocce del baratro.
Questa prima ondata di violenza cessò con l’occupazione della penisola istria-
na da parte delle truppe tedesche (operazione Wolkenbruch, ovvero diluvio),
che si concluse a metà ottobre.
Iniziarono in quelle settimane le prime operazioni di recupero delle salme, so-
prattutto da parte dei vigili del fuoco di Pola sotto sicurezza tedesca. Furono
individuate 26 cavità, in gran parte foibe e alcune cave di bauxite e miniere di
carbone (Vines, Lindaro, Villa Suranì, Abisso Bertarelli, San Bortolo, Villa Catuni,
Terli, Cave di Gallignana, San Giovanni della Cisterna, ecc.). Si trovano concen-
trate in una vasta area intorno a Pisino, ove era stato insediato un «tribunale
del popolo», e più a sud tra Pola e Albona.
Gli uccisi provenivano da tutte le parti della penisola istriana: le salme identi-
ficate furono circa 550. Molte recavano segni evidenti di sevizie e nei cadaveri
di sesso femminile di stupri ripetuti. Si constatò anche la tecnica di legare
insieme con il filo spinato due o più giustiziandi, sparando solo al primo e
lasciando che gli altri precipitassero ancora vivi nelle voragini quindi, per con-
cludere, venivano lanciate bombe a mano.
Alcuni episodi divennero tristemente emblematici nella memoria degli esuli:
quello delle tre sorelle Radecchi, Fosca, Caterina e Albina, quest’ultima in sta-
to avanzato di gravidanza, e quello di Norma Cossetto, che girava le campa-
gne istriane per preparare una tesi di laurea in geologia su l’Istria Rossa (una
delle tre ripartizioni classiche della penisola). Dopo la guerra il suo professore,
Concetto Marchesi, noto per le sue idee comuniste, volle conferirle la laurea
«honoris causa».

51
Non è questa la sede per enumerare la lunga sequela di orrori. I libri editi dalle
maggiori case editrici italiane, soprattutto negli ultimi anni (quando si scoprì
la stretta parentela con le stragi degli anni Novanta in Bosnia e nelle Kraijne),
ne reca l’elenco documentato, nei limiti in cui è stato possibile documentare
fino ad ora questa pagina di storia.
Bastino per tutte la testimonianza di Don Francesco Dapiran e la relazione
di un ufficiale dell’esercito contenuta nella pubblicazione del Ministero degli
Esteri italiano «Trattamento degli Italiani da parte iugoslava dopo l’8 settem-
bre 1943» (1946-1950).
Nella relazione del capitano Ermacora si legge: «Gli arrestati, le mani legate con
filo di ferro, caricati su camion, venivano condotti a Pisino, centro dei partigiani.
Nelle prigioni il trattamento era disumano, gli arrestati non avevano neanche la
possibilità di stare seduti talmente erano pigiati. Come vitto avevano una volta al
giorno un poco di brodaglia, per i bisogni corporali un recipiente in un angolo il
cui fetore era insopportabile. La notte veniva attesa con terrore. Ogni notte i par-
tigiani si presentavano alle carceri con elenchi di nomi. I chiamati, legate le mani
col filo di ferro, venivano caricati su camion per ignota destinazione. Ai rimasti si
diceva che venivano inviati in campi di concentramento in lugoslavia» (pagina
31 della citata relazione).
Don Francesco Dapiran, giovane sacerdote istriano, assistette a molte ope-
razioni di riesumazione. «In tre mesi si andò in tutte le foibe dell’lstria [...].
Scoprimmo noi la voragine di una cava di bauxite a Lindaro a 500 metri da
Villa Bassotti [...]. Scavati trenta centimetri di bauxite, apparvero le prime teste.
Chiamati i pompieri di Pisino, in giornata estrassero oltre una trentina di cada-
veri [...] tutti evirati e con le mani legate dietro la schiena e con evidenti segni
di tortura. È facile imma-
ginare lo strazio di mogli
e mamme quando final-
mente riconoscevano il
loro caro, ormai sfigurato
dopo oltre un mese dalla
morte e dalle torture su-
bite prima di morire» (da
Italiani
“L’Arena dì Pola”, n. 3102
soppressi dalle
milizie titine.
del 18 settembre1999).

52
Analoghe testimonianze si possono rinvenire negli atti del processo iniziato
davanti alla Corte d’Assise di Roma nel 1996 e riportati nelle diverse sentenze
che si sono susseguite, senza pervenire alla condanna di alcuni imputati indi-
viduati dall’accusa perché deceduti nelle more del giudizio o beneficiari della
storica amnistia Togliatti.
L’altra sede di una autentica tragedia nazionale fu Spalato. Fatti che merite-
rebbero di essere conosciuti come le stragi di Cefalonia e sui quali invece si è
steso il silenzio, che ha finito per coprire gli eccidi nazisti e quelli comunisti.
A Spalato nei giorni successivi all’armistizio le pur numerose truppe italiane
non furono in grado di controllare la situazione. Mentre alcuni reparti riusciva-
no a imbarcarsi, gli altri si lasciarono disarmare dai partigiani iugoslavi, dopo
laboriose trattative tra i nostri comandi e quelli partigiani, con la mediazione
degli ufficiali inglesi dell’Intelligence Service, distaccati da Churchill presso le
basi titine. Ammassati dai partigiani sulle banchine del porto, i militari italiani,
ormai disarmati, furono spezzonati e mitragliati dagli Stukas dell’aeronautica
tedesca subendo oltre duecento morti e trecento feriti. Presa la città dalle
truppe tedesche il 27 settembre (ai combattimenti avevano preso parte mili-
tari italiani dall’una e dall’altra parte), tre generali e 46 ufficiali italiani vennero
fucilati come «traditori», per avere affermato la loro obbedienza ai governo
del re.
Le formazioni Ustascia croate dal canto loro perseguitarono i civili italiani
presenti in città, dove all’epoca la nostra minoranza autoctona contava 3.000
persone. I loro proclami sono un delirio di odio sciovinista.
Durante le settimane di occupazione partigiana furono uccise molte decine
di italiani, in gran parte civili. Se alle vittime di Spalato si aggiungono quelle
delle varie località della vicina Baia delle Castelle, si arriva ad oltre cento perso-
ne, di cui solo una parte fu identificata, fra i quali i due dalmati italiani Giovan-
ni Soglian, Provveditore agli Studi della provincia spalatina, e il preside Eros
Luginbuhl, insieme ad altri italiani della città, agenti di polizia e carabinieri.
Alla riesumazione molti crani risultavano fracassati e alcuni cadaveri recavano
impressioni a fuoco sulla pelle (stelle a cinque punte e altro).

La seconda fase
Anche questa seconda fase si verifica in Dalmazia. Nell’ottobre 1944, mentre
gli Alleati hanno raggiunto la Linea Gotica, liberando Rimini, le armate tede-

53
sche si ritirano dai Balcani a seguito dell’avanzata da est dell’Armata Rossa.
Alla fine del mese sgomberano Zara per attestarsi a Sud di Fiume, ove reste-
ranno fino al maggio 1945.
Il 31 ottobre i partigiani di Tito entrano a Zara. Un Comitato di Liberazione,
formatesi nei giorni precedenti, tenta di assicurarsi garanzie dal comando titi-
no per l’incolumità della residua popolazione civile, ricoverata tra le rovine o
attendata nella cerchia dei fortini. I primi a scomparire saranno proprio alcuni
membri del Comitato.
Si calcola che a Zara dopo quella data le esecuzioni sommarie, o a seguito di
rapidi processi, abbiano coinvolto 372 persone nominativamente accertate,
di cui 33 cittadini iugoslavi del territorio annesso e il resto italiani della città,
finanzieri e agenti di polizia. Alcuni furono annegati in mare con pietre legate
al collo o precipitati dalle scogliere del Canale di Zara. Altre centinaia di citta-
dini italiani furono prelevate nei mesi successivi e scomparvero per sempre.
Furono individuate nei dintorni della città cavità naturali con cadaveri di giu-
stiziati, ma ricerche accurate non sono state effettuate. Sembra che in alcune
di queste voragini siano state gettate anche le vittime delle recenti pulizie
etniche tra il 1991 e il 1995.
Di questi avvenimenti i comandi militari del Sud e gli stessi comandi alleati
erano edotti, tanto che sono frequenti i messaggi tra membri del Governo
Bonomi e il comando supremo alleato nei quali si esprime preoccupazione
per quanto potrebbe avvenire – e in effetti avverrà - nella Venezia Giulia al
momento della «liberazione», se ad arrivare per prime saranno le truppe co-
muniste di Tito.
Al principio di novembre del 1944 il capo della O.S.S. (Office of Strategic Ser-
vices), Vincent Scamporino, invia un rapporto a Washington al suo direttore
Earl Brennan in cui riferisce che «i titini hanno massacrato centinaia di italiani
buttandoli nudi nelle foibe del Carso solo perché erano italiani. E hanno com-
pilato liste di proscrizione a Trieste con migliaia di nomi». Il rapporto aggiun-
ge: «II P.C.I. (Partito Comunista Italiano) recluta giovani per la Jugoslavia a Napoli
e a Bari [tra i militari delle forze armate italiane originari della Venezia Giulia e
della Dalmazia] ma il loro trattamento da parte dei titini è tale che una volta sul
posto molti si ribellano o scappano». La testimonianza di un ufficiale e agente
dell’O.S.S., i servizi segreti americani dell’epoca che ha trascorso dieci mesi
con le forze iugoslave è decisiva. Il testimone racconta che «tra i militari italiani

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passati a Tito ne vengono eliminati in media due al giorno» (dall’articolo di Ennio
Caretto, Salvate Trieste... apparso sul Corriere della Sera il 3 settembre 2003).

La terza fase
La terza fase, la più cruenta perché esercitata sull’intero territorio dell’allora
Venezia Giulia, inizia ai primi di maggio del 1945 e si protrae per anni, anche
quando all’occupazione partigiana si sostituirà in Istria e a Fiume un’ammini-
strazione civile iugoslava. I picchi più alti, con migliaia di scomparsi, si registra
nei mesi di maggio e giugno di quell’anno.
E noto ormai, attraverso la storiografia inglese e americana, che la corsa per
Trieste delle avanguardie neozelandesi del generale Bernard Freyberg fu fre-
nata dai Governi di Londra e di Washington per il timore di scatenare un con-
flitto con l’U.R.S.S. Come si è visto, il pericolo di massacri da parte iugoslava
era previsto sia dai governi alleati che dal Governo di Roma, attraverso i suoi
Servizi.
Resta comunque ancora da chiarire perché l’azione di Freyberg non fu più
decisa (come lo era stata quella del generale britannico Harold Alexander in
Grecia nel dicembre 1943-gennaio 1944); perché non si lasciarono avanzare
le divisioni polacche del generale Wladyslaw Anders, che erano ansiose di
precedere le armate comuniste, nella speranza di salvare la loro patria dall’oc-
cupazione sovietica; perché le divisioni italiane del Corpo dì Liberazione Na-
zionale furono fermate al Piave, lasciando andare avanti soltanto delle staf-
fette, che incapparono nelle avanguardie iugoslave. Il tenente Vinicio Lago,
triestino del C.L.N., fu ucciso proprio ad un posto di blocco titino sulla via di
Trieste il 1 maggio 1945.
Al momento del crollo dei III Reich, Tito non esitò a concentrare il suo sforzo
militare sulla Venezia Giulia, malgrado il suo impegno contrario assunto con
il generale Alexander nell’incontro di Bolsena. Lasciò Lubiana e Zagabria in
mani tedesche, mentre le sue truppe cercavano di raggiungere le posizioni
più avanzate possibile fino al Tagliamento. Si fermarono a Romans, nella Bassa
Friulana.
È assodato che il P.C.I. guidato da Palmiro Togliatti, pur non avendo sciolto il
nodo della definizione del nuovo confine orientale, era favorevole a questa
profonda penetrazione in territorio italiano di un’armata che era comunque
un esercito comunista.

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Trieste, Gorizia, Fiume e tutta l’Istria furono quindi «liberate» in questo modo.
I C.L.N. dei quattro capoluoghi dovettero subito affrontare la difficile situa-
zione. Alcuni dei loro membri rientrarono subito in clandestinità e dovettero
abbandonare le zone occupate dalle forze iugoslave. Altri furono prelevati
e scomparvero, come due esponenti socialisti del C.L.N. di Gorizia, o furono
subito uccisi, come i dirigenti autonomisti zanelliani di Fiume. La Brigata Trie-
stina, che aveva partecipato agli ultimi combattimenti contro i tedeschi, fu
subito disarmata dal comando del IX Corpus sloveno. Alle Brigate Garibaldi
del Friuli fu intimato di non avvicinarsi alla aree occupate dalle forze titine.
Durante i primi quaranta giorni della occupazione iugoslava di Trieste, Fiu-
me e Pola vennero arrestate migliaia di persone di nazionalità italiana di ogni
sesso e condizione. Alcuni appartenevano ai corpi armati della R.S.I. (come il
Reggimento Istria, Decima Mas, Milizia Difesa Territoriale, bersaglieri, alpini).
Della maggior parte di loro non si ebbero più notizie. Di recente sono state
scoperte nelle doline oltre il confine goriziano e nel Carso istriano numerose
fosse comuni, contenenti resti di soldati italiani.
Ma la maggior parte dei prelevati erano civili italiani delle province invase.
Il criterio di scelta degli arrestati era lo stesso delle prime fasi di eccidi: per-
sone che in un modo o nell’altro avrebbero potuto costituire un punto di
riferimento per la popolazione italiana delle città e dei comuni minori. Senza
distinzione di appartenenza politica.
Alcuni degli uccisi erano carabinieri, finanzieri e agenti di polizia che i comandi
partigiani ritenevano responsabili di torture o altri crimini (ricatti, grassazioni,
ecc.) a danno dei partigiani sloveni e croati o genericamente della popolazione
slava della regione. Le testimonianze raccolte a Basovizza e a Monrupino danno
notizie di tribunali del popolo che si riunivano di notte ed emettevano le sen-
tenze di morte contro centinaia di persone che, portate con i camion da Trieste
o da altre località della provincia, venivano poi avviate a piedi, incatenate, verso
le cavità dove sarebbero stati precipitati. Le esecuzioni si protrassero per molte
notti di seguito. Le stesse testimonianze si hanno per i dintorni di Pola, di Fiu-
me e di Gorizia. Una pattuglia neozelandese, che ebbe la sventura di trovarsi
presente a una esecuzione, subì la stessa sorte. I cadaveri dei soldati alleati furo-
no ricuperati quando, ai primi di giugno, Churchill e il presidente statunitense
Harry Truman ottennero da Stalin che Tito si ritirasse oltre la «Linea Morgan»,
abbandonasse cioè le città di Gorizia e Trieste e l’enclave di Pola.

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Trieste,
maggio 1945:
finanzieri,
carabinieri
e militari
dell’esercito si
consegnano
alle forze
armate
partigiane
comuniste di
Tito; la loro
sorte è già
segnata.

Nella sola cava di Basovizza i resti umani occupavano 500 metri cubi della ca-
vità rocciosa, coperti da pietrame e residuati bellici, cosicché fu impossibile la
riesumazione delle salme, calcolate in alcune migliaia. Di recente è stata sco-
perta nei pressi di Fiume la foiba di Costrena, contenente decine di cadaveri
di italiani scomparsi in quei giorni dal capoluogo quarnerino.
Le notizie dei crimini iugoslavi erano giunte ai parlamenti inglese e americano,
suscitando lo sdegno dell’opinione pubblica di quei paesi e in particolare degli
ambienti cattolici e protestanti. Tra gli uccisi infatti vi erano - come si è detto - 39
sacerdoti cattolici.
Fu in questa terza fase che la quantità delle vittime superò abbondantemente
le migliaia di persone, se tra esse si comprendono anche quelle scomparse
negli anni successivi, o per soppressioni individuali o collettive eseguite dalla
polizia segreta di Tito: O.Z.N.A. nelle campagne istriane controllate dalla Jugo-
slavia o nei campi di concentramento sparsi sul territorio della Federazione
(Borovnica, Stara Gradiska, Lepoglava, ecc.).
Molte perdite di vite umane furono dovute alle condizioni dei trasferimenti
dei pri­gionieri, quasi sempre a piedi, che venivano trascinati attraverso le città
e i paesi come trofei davanti alla popolazione, che in gran parte assisteva sbi-

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gottita al triste spettacolo, soccorrendo spesso, anche a suo rischio, i prigio-
nieri anziani o malati o feriti dalle percosse delle guardie.
Negli anni 1945-’50 bastava ben poco per essere dichiarati «nemici del po-
polo» e mandati a morte. Molte persone risultarono fucilate per aver aiutato i
concittadini a espatriare dopo la chiusura del termine per le opzioni previsto
dal Trattato di pace del 10 febbraio 1947. Altre furono uccise in quegli stessi
anni dalle guardie di frontiera o dalle motovedette nel tentativo di espatriare.
Solo nel 2003 è stata scoperta a Lussino la fossa comune di sei pescatori italia-
ni dell’isola che, come centinaia di altri, avevano tentato di raggiungere l’Italia.
L’esecuzione, senza nessun processo, era avvenuta nel 1956!
Un’altra isola del Quarnaro ove si registrarono eccidi di italiani nel 1945 fu
l’isola di Veglia, dove la comunità italiana era già minoranza nel 1918.
Per le considerazioni svolte in premessa i fatti qui narrati non si riferiscono
allo spe­cifico fenomeno della persecuzione titoista contro i comunisti italiani
della regione dopo la rottura di Tito con il Comintern (Internazionale comu-
nista) nel 1948. Migliaia di dirigenti e di militanti furono rinchiusi in prigioni
dalle condizioni durissime, come l’Isola Calva (Goli Otok) nella Dalmazia set-
tentrionale, ove molti trovarono la morte per privazioni e torture. Ma questa
è un’altra storia.

5. LE INTERPRETAZIONI DEL FENOMENO

Diverse sono state e sono tuttora le interpretazioni degli eventi che abbiamo
riassunto. Diverse le possibili spiegazioni che storici e commentatori politici
hanno voluto dare a questi eccidi. Esse dividono ancora opinioni e giudizi.
La prima di queste è la tesi giustificazionista, o se si vuole riduzionista, diffusa
ancora non solo in una parte della sinistra comunista, ma anche in altri settori
dell’opinione pubblica italiana non ideologizzata. È stata anche la tesi prevalen-
te nella cultura politica iugoslava (croata, serba e slovena) fino a pochi anni fa.
Secondo questa interpretazione l’ondata di violenze che si abbatté sugli ita-
liani della Venezia Giulia tra il 1943 e il 1945 fu una reazione alle prevaricazioni
e alle violenze del regime fascista durante il ventennio contro le popolazioni
slavofone della regione e, ancor più, ai crimini di guerra commessi nelle zone
di occupazione in Jugoslavia dalle truppe italiane (camice nere, carabinieri,
reparti dell’esercito e della marina) tra il 1941 e il settembre 1943.

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L’elenco dei misfatti italiani comincia con l’incendio dell’albergo Balkan, dove
era insediato il centro culturale sloveno di Trieste, nell’estate del 1920 e conti-
nua fino ai rastrellamenti e alle rappresaglie che le truppe italiane avrebbero
perpetrato in Carniola (provincia di Lubiana), in Dalmazia (province di Spalato
e Cattaro, zona di Sebenico) e altrove contro civili inermi.
Presupposto di questa reazione sarebbe stato l’odio che questi comporta-
menti avrebbero suscitato nella coscienza collettiva iugoslava, giustificando
le spontanee istanze popolari di giustizia. «Se un militare ha torturato mio
fratello perché appartenente alla resistenza o un finanziere ha taglieggiato
mia sorella, bene ha fatto la folla inferocita di qualche paese sloveno o croato
a buttarlo in una foiba». Ragionamento brutale, ma indubbiamente sincero,
che personalmente ho sentito più volte, con un brivido di orrore. Perché,
bene o male, finiva per giustificare tutto: le evirazioni, i genitali in bocca, il
gioco del calcio con le teste degli uccisi, gli stupri di 20 o 30 partigiani su una
ragazza vergine o una donna incinta, i preti seviziati, le stelle impresse a fuoco
sulla pelle degli insegnanti, ecc. «Erano spie, informatori, propagandisti!» si
può rispondere.
È la legge del taglione, applicata alla spiccia o con caricature di processi po-
polari, contrassegnati da linciaggi e da insulti triviali peggiori della morte stes-
sa. Mai sentito di cose simili in Russia, in Ucraina, in Cina o in Cambogia? O
magari in Bosnia o in Uganda nel 1994?
Non credo che questo tipo di giustificazione vada nel senso di un progresso
della coscienza civile e giuridica. «Nunca mas» può valere ad ogni latitudine.
E va verificata l’entità del fenomeno. Quanti potevano essere questi criminali:
soldati, ufficiali, agenti delle forze dell’ordine, che si erano macchiati di delitti
meritevoli di una giusta sanzione? E le migliaia di altri uccisi? Persone certa-
mente innocenti. E i tanti appartenenti alla resistenza antifascista? Quali colpe
dovevano pagare?
Non per niente i Presidenti della Repubblica Italiana, nel dichiarare le foibe di Ba-
sovizza e Monrupino monumenti di interesse nazionale, hanno affermato che
esse contengono le salme di persone «colpevoli soltanto di essere italiani».
Cerchiamo allora di capire: quali sono i crimini dell’Italia fascista?
La snazionalizzazione delle minoranze slovene e croate della Venezia Giulia è
il primo punto. L’accusa è di avere abolito con provvedimenti legislativi e am-
ministrativi nelle scuole pubbliche statali (non in quelle religiose) l’uso e l’in-

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segnamento di lingue diverse dalla lingua nazionale. Provvedimento illiberale
e sciovinista, senza ombra di dubbio. Ma che dobbiamo dire allora di tutti i Pa-
esi europei mono-etnici che hanno fatto lo stesso fin dall’Ottocento: Francia,
Germania, Romania, Ungheria, Grecia, Turchia, Bulgaria, Polonia, la Iugoslavia
stessa? Dove nel XX secolo sono state rispettate le lingue minoritarie, dopo la
caduta dell’impero asburgico che era, nella sua essenza vitale, plurietnico? E
questo processo di snazionalizzazione ha sortito un qualche risultato? Sono
scomparsi in quei vent’anni sloveni e croati dalle Alpi Giulie e dagli altipiani
del Carso? Pare di no. Invece gli italiani dell’Istria e di Fiume, per maggioritari,
sono stati ridotti a una minoranza quasi insignificante. Come mai? La vessata
questione dei cognomi cambiati. È sempre successo in quelle zone. Lo faceva
anche l’anagrafe austriaca. L’italianizzazione non è mai stata obbligatoria. Mi-
gliaia di famiglie hanno conservato il cognome di prima. Con quel cognome
di origine slava hanno combattuto come italiani su tutti i fronti meritando
medaglie e gridando nell’assalto o davanti al plotone d’esecuzione tedesco
“Viva l’Italia!” ( si leggano le relative motivazioni). Solo una concezione razzista
del sangue può far leva su simili argomenti. Come si chiamavano Oberdank,
Slataper, Stuparich? Erano slavi o tedeschi per questo?Quando una recente
legge della Repubblica italiana ha consentito di ritornare alla forma originaria,
lo hanno chiesto poche decine di persone.
Le persecuzioni. L’incendio dell’Hotel Balkan (o Balcania – come scriveva “Il
Piccolo”), ove gli attivisti iugoslavi avevano concentrato armi e munizioni, av-
venne nel clima esagitato dell’estate 1920, dopo l’eccidio a Spalato di due
marinai (il Capitano di corvetta Tommaso Gulli e il suo motorista) da parte
di un gruppo di slavi non identificati. Erano anni contrassegnati dalle violen-
ze reciproche nei territori contesi, dal Goriziano alla Dalmazia, con incendi di
fattorie, devastazione di negozi, ecc. Migliaia di italiani lasciarono già allora
Selenico, Traù, Curzola, Lesina, Cattaro, Perasto, ecc. Erano gli anni della Reg-
genza del Carnaro a Fiume, dove molti caduti furono legionari e civili italiani
uccisi dalle navi e dalle truppe regolari mandate contro Gabriele d’Annunzio
dal governo italiano.
Non c’era ancora il fascismo al potere in Italia e nemmeno il comunismo in
Iugoslavia. Era un conflitto etnico tra italiani e slavi che si protraeva dalla metà
dell’800, con tafferugli in occasione delle elezioni, pestaggi, brogli elettorali,
navi austriache che bloccavano le rade per sorvegliare le città (come a Spa-

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lato all’inizio degli anni 1880, per battere l’autonomismo dalmata del pode-
stà Antonio Baiamonti), incendio di circoli cittadini e di teatri, come Zara nel
1870, considerati focolai di propaganda italiana, o il massacro di Sebenico del
1869, dove furono uccisi 14 marinai della nave “Monzambano”, ospiti dell’al-
lora Comune Italiano. Gli italiani della regione difendevano la loro identità
culturale con i mezzi a loro disposizione: i giornali, l’editoria, le Assicurazioni
Generali, il Lloyd austriaco. L’egemonia economica in Dalmazia, la difesa della
lingua nelle scuole e nei pubblici uffici con appelli a Vienna, rivolte popolari,
come quella di Pirano negli anni 1880, contatti con gli ambienti liberali e re-
pubblicani italiani.
Le nascenti borghesie croata e slovena cercavano di sensibilizzare le masse
contadine per sottrarle all’influenza italiana. L’amministrazione austriaca e il
clero cattolico croato e sloveno aiutavano questa crescita culturale e politica.
I serbi della Dalmazia la osteggiavano, allineandosi spesso con gli altri italiani.
L’amministrazione ungherese a Fiume seguiva una linea di apparente equidi-
stanza, ma cercava di contenere la spinta croata verso la città, garantendone
l’indipendenza da Zagabria e il carattere italiano. Era un gioco, a volte pesan-
te, ma sempre all’interno di una civiltà, che era quella asburgica: paternalistica
e reazionaria, ma sempre civiltà.
C’era odio etnico? Generalizzato, come dato di fondo della vita locale? Non
pare onesto affermarlo. C’era un contrasto frontale, ma anche una ricerca dì
convivenza, di tolleranza reciproca.
L’ideologia fascista degli anni 1922-1943 non era certo la più adatta a gettare
acqua sul fuoco, con la sua esaltazione nazionalista e il culto della violenza
come levatrice della storia. Sarebbe tuttavia poco obiettivo negare che in al-
cuni periodi il regime era riuscito ad ottenere un certo consenso popolare
anche tra le popolazioni cosiddette alloglotte, soprattutto con le provvidenze
sociali e sanitarie.
Nei venti anni tra il 1920 e il 1941 furono eseguite nel distretto della Corte
d’Appello di Trieste, che comprendeva il territorio in questione, dieci condan-
ne a morte per atti di terrorismo (uccisione di civili durante una festa paesana
e in un attentato a un giornale di Trieste) commessi da nazionalisti croati, non
comunisti. Nelle statistiche del tempo questa Corte d’appello non era la più
insanguinata d’Italia, dopo la reintroduzione nel nostro paese della pena di
morte, già abolita dal Codice Zanardelli.

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Che cosa avvenne poi nella lugoslavia occupata dall’esercito italiano tra il 1941
e il 1943? Di fronte ad alcuni episodi particolarmente efferati di agguati a re-
parti dell’esercito o della marina (con sevizie in vita e squartamento dei cada-
veri dei militari catturati dai partigiani) - con i quali si dava inizio alla guerriglia
- alcuni comandi dell’esercito e della marina reagirono con rappresaglie nel
corso delle quali furono certamente superati i limiti dettati dal codice militare
di guerra e dalle convenzioni internazionali, colpendo anche civili inermi. Le
inchieste al riguardo furono promosse quasi subito dalle stesse autorità mili-
tari, di fronte alle rimostranze delle autorità religiose e civili. Si hanno notizie
dell’esecuzione di alcune centinaia di civili, anche donne, bambini e anziani,
in villaggi che avevano ospitato guerriglieri e dove erano stati rinvenuti armi
e resti umani dei militari, dispersi nelle porcilaie e nelle soffitte.
Anche se nessun processo ha accertato giudiricamente tali comportamenti,
contrari all’onore militare e alla dignità delle divisa italiana, non esiste ovvia-
mente per essi alcuna giustificazione. Ma furono simili fatti così generalizzati
da indurre all’odio contro i soldati italiani le popolazioni croate e slovene?
Sembra di no, se al momento del collasso dell’8 settembre la popolazione dei
paesi e delle città iugoslave occupate (da non confondere con i centri italiani
della Venezia Giulia) aiutò i militari italiani sbandati a sottrarsi alla cattura dei
tedeschi e addirittura li protessero di fronte alle bande partigiane di Tito da
un lato e agli ustascia di Pavelic dall’altro, nascondendoli nelle case e nei fienili
di montagna.
Era noto a tutti nei Balcani che i comandi italiani avevano svolto anche azione di
moderazione per attenuare il conflitto etnico serbo-croato nelle zone mistilin-
gui e per salvare gli ebrei che fuggivano dalle zone controllate dal Reich, dove
le direttive di Eichmann venivano eseguite alla lettera. La storiografia israeliana
e serba hanno riconosciuto quest’azione mediatrice delle truppe italiane.
Va anche rilevato che all’atto della dissoluzione e resa dell’esercito iugoslavo
nel 1941 i suoi componenti non furono rinchiusi in campi di concentramento,
ma lasciati liberi di rientrare a casa, secondo le clausole armistiziali. Cosa che
fecero, salvo poi alimentare le varie forme di resistenza (comunista, monarchi-
ca, ecc.) o costituire le formazioni ustascia e belagardiste, che collaborarono
con i comandi germanici fino al maggio 1945. In Dalmazia molti ex-militari
croati e serbi si arruolarono nei reparti V.A.C. (Volontari Anti Comunisti), che
operarono a fianco delle truppe italiane.

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Si impone infine una considerazione di stretto rigore giuridico. Le rappresaglie
italiane si verificarono, ancorché condannabili, nel contesto di operazioni anti-
guerriglia, che avevano il solo scopo di intimidire i partigiani e incutere rispetto
per controllare le zone occupate, dove le prime vittime della guerriglia (o «re-
sistenza») erano spesso le stesse popolazioni croate e serbe, esposte a incur-
sioni, rapine, arruolamenti forzati da parte delle opposte formazioni politiche e
militari. Resta da vedere se tali azioni fossero efficaci o controproducenti. Molti
comunque degli internamenti di civili iugoslavi in Italia erano volontari, richiesti
dalle stesse popolazioni, che seguivano la ritirata dei reparti italiani, per sfuggire
a vendette e rappresaglie. Tali richieste sono documentate.
Questo non toglie che in molti campi di concentramento italiani i prigionieri
civili iugoslavi (ad esempio Gonars e Arbe) siano stati sottoposti in alcuni pe-
riodi a trattamenti assai duri, e quindi incivili, con alti tassi di mortalità. Non si
vuole coltivare il mito di «Italiani brava gente». Ma nemmeno capovolgere un
giudizio popolare, che proprio perché popolare (dalla Grecia all’Ucraina), ha
accompagnato le sventurate odissee dei nostri soldati nell’Europa orientale.
L’ondata di violenza in Dalmazia e nella Venezia Giulia sia nel 1943 che nel
1945 non rispondeva più a nessuna esigenza militare. Le popolazioni italiane
dell’lstria non alimentavano nessuna guerriglia o contro-guerriglia, né erano
minimamente in grado di farlo, sia nel settembre 1943, nel vuoto totale di
ogni struttura militare italiana, sia nel 1945, dopo due anni di occupazione
tedesca, spesso sofferta allo stesso modo delle popolazioni slave (arresti de-
gli italiani appartenenti alla Resistenza, deportazioni in Germania, fucilazioni,
bombardamenti aerei alleati). E che cosa avrebbero potuto fare di male alle
divisioni partigiane i residui abitanti di Zara, frastornati e sopravvissuti a 54
bombardamenti? E quelli di Fiume, di Trieste, di Gorizia, di Capodistria e delle
altre città e dei borghi italiani nel maggio 1945, a guerra finita? Quando tut-
ti aspettavano soltanto le truppe alleate, vere, per porre fine ad un incubo
durato 20 mesi. A chi serviva più ucciderne uno per spaventarne venti? Lo
esamineremo in seguito.
Un’altra tesi è quella ideologico-politica. Le stragi sarebbero avvenute nel
quadro di un generale rendimento di conti a livello europeo tra ideologie
contrapposte. Da un lato lo scontro - il più cruento della storia - fra il sistema
totalitario comunista e quello nazifascista, con le loro ideologie antitetiche e
la loro pretesa di dominare il mondo (salva la parentesi 1939-1941 del patto

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Ribbentrop-Molotov, che tenne le organizzazioni clandestine comuniste fuo-
ri della resistenza in Francia, in Belgio, in Polonia, in Grecia, fino all’autunno
1941).
Dall’altro quello, che si era già preannunciato ai tempi delle guerra civile spa-
gnola, tra il sistema delle dittature del proletariato, le «democrazie popolari»,
e il sistema democratico-liberale occidentale, definito anche «imperialismo
capitalista». La propaganda anti-capitalista e anti-borghese era un pilastro dei
valori di tutte le formazioni partigiane europee controllate dai «commissari»
comunisti, sul modello appunto della Spagna del 1936 e della guerra civile
russa.
Il caso iugoslavo obbediva a questa logica generale. L’azione partigiana do-
veva essere quindi il preludio alla rivoluzione politica che avrebbe instaurato
il nuovo sistema di modello staliniano. L’eliminazione fisica e la messa in con-
dizione di non nuocere doveva quindi investire tutti i «nemici del popolo»,
dai nemici di classe (proprietari terrieri, industriali, dirigenti d’azienda e tutti
gli altri «servi dei padroni», dagli ufficiali delle forze armate ai componenti dei
corpi dì polizia, strumenti cechi dell’oppressione capitalista) ai nemici ideo-
logici (liberali borghesi, socialisti non allineati, intellettuali filo-inglesi o filo-
monarchici, dirigenti e sacerdoti delle diverse confessioni religiose: cristiani
ortodossi, cattolici, protestanti, mussulmani, ecc.).
Poco rilevava se erano rimasti a guardare dalle finestre o avevano parteci-
pato attivamente alla resistenza, a fianco dei comunisti. Anzi il nemico più
pericoloso era proprio l’antifascista non disposto ad accettare il nuovo ordine
sociale e politico. E una logica totalitaria ormai ben nota agli storici e che in
alcuni ambienti rivoluzionari residuali funziona ancora.
Le «Foibe» non sarebbero altro che l’applicazione di questi principi generali di
lotta di liberazione universale alla piccola realtà della Venezia Giulia.
Gli eccidi rientranti nel fenomeno qui considerato andrebbero quindi in-
quadrati e compresi nel quadro di analoghe operazioni di epurazione degli
avversari accadute o tentate nel resto d’Italia e nel resto d’Europa, ove era
arrivata o poteva arrivare la ventata liberatrice delle armate rosse. E si pensa
quindi alle stragi di fascisti e di altri oppositori nel Veneto, in Emilia, in Roma-
gna e nel resto della pianura padana, nelle settimane e nei mesi successivi al
25 aprile 1945.
Nonché alle analoghe purghe, in stile più ampio, avvenute in altre nazioni li-

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berate, come l’Ucraina, la Polonia, i Paesi Baltici, la Romania, l’Ungheria, la Ger-
mania orientale del 1945 (Prussia orientale, Pomerania, Slesia, Sudeti, ecc.).
O a quanto avvenuto in Grecia nel dicembre del 1944, che presenta tante
analogie con gli eventi giuliani: eliminazione dei collaborazionisti (Tàgmata
Asfalìas), che avevano aiutato le truppe d’occupazione straniere (italiane, te-
desche e bulgare), delle formazioni partigiane monarchiche e di tutti i diri-
genti «borghesi» e i proprietari terrieri che si sarebbero certo opposti alla ri-
voluzione proletaria. Tutti questi nemici del popolo furono prelevati dalle loro
abitazioni e scomparvero nelle cavità naturali, del tutto simili alle foibe, sparse
nei territori carsici del Peloponneso, dell’Attica, della Tessaglia, ecc. Nell’im-
maginazione popolare tali stragi presero il nome di «Dekembrianà» («fatti di
dicembre») e le cavità ove venivano gettate le vittime vennero chiamate «Ta
Pigàdia» (letteralmente «i pozzi»). Furono questi fatti tra l’altro a convince-
re Churchill a stroncare questo tentativo di insurrezione comunista inviando
prontamente al Pireo, dal fronte italiano, un corpo di spedizione britannico,
composto da reggimenti indiani e scozzesi, nonché dalla Brigata Ellenica,
filo-monarchica, che aveva appena partecipato alla liberazione di Rimini. Il
contingente si aprì la strada per Atene con aspri combattimenti casa per casa
contro i partigiani comunisti dell’ELAS e dell’EAM (movimenti partigiani gre-
ci). Fu questa esperienza tragica che indusse Stalin, e quindi Togliatti, a non
ripetere niente di simile in Italia, dato che la penisola italiana non rientrava,
come neppure la Grecia, nella sfera di influenza sovietica decisa nella confe-
renza alleata di Teheran.
Per la Venezia Giulia invece si poteva tentare. E Tito tentò. È in questo quadro
che si può inserire l’episodio di Porzus, del febbraio 1945.
Il P.C.I. dispose che le brigate partigiane italiane non solo della Venezia Giu-
lia, ma anche della Pola 8 maggio 1945,
provincia di Udine, sfilata del Battaglione
partigiano
fossero poste alle garibaldino
Pino Budicin. In
dipendenze dei testa marciano
comandi sloveni e l’ufficiale operativo
(primo a destra),
croati dell’Anvnoj il commissario
politico della prima
(il movimento di compagnia, il
rovignese Francesco
resistenza comu- Sponza. Quest’ultimo
nista iugoslavo). Il esoderà in Italia nel
1951.

65
C.L.N. istriano protestò. Le Brigate Garibaldi Natisone, controllate dai commis-
sari comunisti, obbedirono. Le formazioni della «Osoppo», di indirizzo demo-
cristiano e liberale, si ribellarono. Bisognava punirle. E fu mandato un com-
mando della «Garibaldi» ad eseguire l’ordine. Italiani che uccidevano italiani
per ordine di Tito.
Quella ideologico-politica è una tesi suggestiva, che viene seguita non solo
da stu­diosi e commentatori imparziali, o di indirizzo di sinistra, ma anche da
molti studiosi di destra, che assimilano le «Foibe» alle stragi di Oderzo, di Cor-
nacchie, del Triangolo della Morte, e ad altre.
Vedremo di seguito quali possono essere le obiezioni a questa tesi ragione-
volmente sostenibili.
Una terza interpretazione è quella etnico-nazionale. Gli eccidi avvenuti in Ve-
nezia Giulia e in Dalmazia in quegli anni sarebbero uno dei tanti fenomeni
che oggi si chiamano di «pulizia etnica» e di «trasferimento forzato» di popo-
lazioni autoctone, di cui è costellata la storia del Novecento.
Il fenomeno quindi prescinde dallo scontro ideologico comunismo-fascismo
e stalinismo-democrazia occidentale. Rientra piuttosto in tutti quei casi in cui
una nazione, che desidera annettere nel suo Stato un territorio pluri-etnico,
lo ripulisce preventivamente delle popolazioni alloglotte, senza valutare se
esse siano o meno autoctone, cioè ivi insediate da secoli o da millenni, mag-
gioritarie o minoritarie. Sono «altri» e se ne devono andare, con le buone o
con le cattive.
E le maniere cattive, si sa, funzionano sempre meglio.
E pertanto il fenomeno in questione potrebbe essere assimilato alle pulizie
etniche subite dagli armeni e dai greci in Anatolia agli inizi del secolo e negli
anni 1922-1924, che produssero esodi di milioni di persone verso il territorio
rimasto alla madrepatria dopo la guerra perduta del 1922, nel caso dei greci
dell’Asia Minore, o verso altri paesi, come nel caso degli armeni, fuggiti in tutta
Europa e nelle Americhe.
Analoghe situazioni si sarebbero prodotte anche durante le due guerre balca-
niche del 1912-1913, costringendo anche qui, a seguito di eccidi più o meno
di massa e di persecuzioni di vario genere, centinaia di migliaia di persone
(di nazionalità turca, greca, bulgara, serba, albanese) ad abbandonare la terra
natia per rifugiarsi nel territorio dello Stato nazionale cui si sente e si desidera
di appartenere.

66
E cosi si fugge, sotto la spinta delle baionette, da Erivan e da Trebisonda, da
Smirne e da Bursa, da Adrianopoli e da Salonicco, da Skopje e da Giannina, da
Argirocastro e da Adrianopoli. Si svuotano intere città, interi quartieri. I luoghi
cambiano di nome e si va in prigione soltanto per aver indicato un luogo con
il nome di prima anziché con quello nuovo (Smirne invece di Izmir, Filippopoli
invece di Plovdiv, Vòdena invece di Edessa, ecc.)
E le scuole naturalmente seguono le lingue imposte dal vincitore e del pas-
sato non resta spesso nessuna traccia, nemmeno nelle chiese, nelle moschee
e nei cimiteri.
Perché la pulizia etnica è retroattiva. Si estende anche alle generazioni passate
e quella città una volta mistilingue, o dove una etnia era maggioritaria, risulta
nei libri di storia, nelle enciclopedie, nei dépliant turistici come se non fosse
mai stata abitata da quella nazionalità. La propaganda dello Stato si mangia
tutto: vivi e morti, biblioteche e archivi, albi di famiglia e lapidi sulle strade che
segnalavano la nascita di un musicista o di un poeta, o di un eroe dell’etnia
sconfitta.
Non è successo cosi anche in Istria, in Dalmazia, a Fiume?
Secondo queste interpretazioni le truppe partigiane di Tito non si sarebbero
comportate diversamente dalle truppe di Ataturk in Armenia, in Cappadocia
e nella Jonia egea negli anni Venti, o dalle bande di patrioti greci, bulgari,
serbi che si contendevano trent’anni prima le montagne dei Rodopi e la valle
del Vardar (o Axios). Né diversamente dalle truppe polacche o ungheresi o
rumene nelle terre contese della Bessarabia, della Podolia, della Galizia, della
Transilvania.
Anche questa tesi presenta qualche solido fondamento. Pulizie etniche, cui
sono seguiti esodi e diaspore dì massa. La forza attrattiva di questa interpre-
tazione è nello scaricare gran parte della responsabilità dalle ideologie del
Novecento e anche dalla cultura europea occidentale. Sono cose balcaniche,
caucasiche, anatoliche! Non hanno nulla a che fare con le civilissime nazioni
occidentali.
Questi fenomeni si sono verificati addirittura prima che nascessero il fascismo
e il comunismo. Prima che queste ideologie arrivassero al potere in un paese
europeo.
Tanto è vero che si sono riprodotte nella ex Iugoslavia e nel Caucaso negli
anni Novanta del XX secolo, al crollo dei regimi comunisti della Repubblica

67
Federativa Iugoslava e dell’U.R.S.S. che, bene o male, erano riuscite a garantire
- o quasi - gli equilibri inter-etnici. Più si allarga il discorso e si alza lo sguardo
dal piccolo quadrato geografico tra le Giulie e l’Adriatico, più l’interpretazione
e la comprensione del fenomeno «Foibe» rischia di sfuggire perdendosi in
una nebbia in cui tutte le vacche sono grigie.
Eppure non si può rinunciare, per rigore di ricerca., ad approfondire contigui-
tà e somiglianze che ci aiutino a capire una pagina dimenticata della storia
italiana.

6. LE RAGIONI DEL SILENZIO

La diversità delle interpretazioni che si danno del fenomeno è alla radice di


un altro problema nel problema. Perché di questi eventi, che hanno una loro
obiettiva gravità e che sono l’unico esempio di esodo collettivo nella storia
del popolo italiano, si è taciuto per tanti anni, fino a poco tempo fa? È la do-
manda che si sono posti storici, politici, giornalisti.
Le risposte sono anche qui diverse. Se ne è già accennato più sopra a propo-
sito dei mancati processi.
Ma alla fine finiscono per concordare su un punto essenziale. La situazione
dell’Europa durante la guerra fredda e quella interna dell’Italia in particolare
avevano instaurato, a partire dal 1954 - anno della restituzione all’Italia della
sola Trieste con il Memorandum di Londra - una sorta di conventio ad silen-
tium, che coinvolgeva un po’ tutti i partiti del cosiddetto «arco costituziona-
le», nonché le opinioni pubbliche del resto d’Europa e degli Stati Uniti. A chi
del resto poteva interessare la storia di un piccolo popolo di neanche mezzo
milione di persone?
Della cosa non aveva interesse a parlare il P.C.I. e la vasta area culturale che lo
circonda, tanto meno quella politica alla sua sinistra, perché significava non
solo ammettere i crimini di un regime comunista - che in qualche momento
era stato anche lodato (il Presidente della Repubblica italiana Sandro Pertini
era andato, con tutti i grandi del mondo, al funerale di Tito) - ma ancora peg-
gio un indubbio margine di corresponsabilità da parte del P.C.I. di allora e del
suo capo in particolare, Palmiro Togliatti, che non aveva esitato ad abbando-
nare al loro destino i suoi stessi compagni di partito nell’area giuliana, prima e
dopo il 1948, anno della rottura della lugoslavia con l’U.R.S..S.; cui i comunisti

68
italiani erano rimasti legati, fino alla svolta Del loro capo Enrico Berlinguer, e
in parte anche dopo.
Ma nemmeno i partiti cosiddetti centristi, o il P.S.I. (Partito socialista italiano),
impegnato a lungo in una diffi­cile marcia di smarcamento dal P.C.I. e di avvici-
namento alla N.A.T.O. (North Atlantic Treaty Organization) avevano interesse
a sollevare veli impietosi sulla sorte di italiani la cui morte e la cui vicenda
umana avrebbero potuto alimentare revanscismi nazionalisti e derive perico-
lose sul piano internazionale, finendo per spiacere a quegli alleati occidentali
(U.S.A. e Gran Bretagna) da cui bene o male dipendeva il loro destino politico
e, in definitiva, la relativa indipendenza del nostro Paese e il suo innegabile
benessere economico. Dopo il Trattato di pace del 1947 non era stato facile
entrare nella N.A.T.O. e nell’O.N.U. (Organizzazione delle Nazioni Unite): far di-
menticare in qualche modo il nostro passato di paese fascista, responsabile
con altri della seconda guerra mondiale, e uscitone sconfitto.
Certamente non sarebbe stato gradito né a Londra né a Washington che l’Ita-
lia tirasse fuori dal cassetto queste stragi, che in fin dei conti, quei governi, pur
prevedendole, non avevano voluto - come si è visto - impedire. La lugoslavia
di Tito era un pezzo prezioso
sulla scacchiera degli equilibri
internazionali. Aveva spezzato
la morsa dell’URSS sull’Europa
balcanica. La sua posizione di
«non allineato» aveva permes-
so alle diplomazie occidentale
manovre diversive altrimenti
impossibili nel quadro interna-
zionale, non solo europeo, ma
del Medio Oriente e dell’Asia
(l’amicizia con Nasser e con Tito è celebrato
nella rivista LIFE.
Nehru).
E poi era l’intera coscienza morale del paese a rifiutare questo ricordo. Come
rilevò per primo Galli della Loggia e successivamente Sergio Romano, Pao-
lo Mieli e oggi lo stesso Gianni Oliva da una posizione di sinistra moderna,
quei massacri incrinavano l’illusione di un’Italia uscita vittoriosa dalla seconda
guerra mondiale. Mentre era vero il contrario. Le Foibe, l’esodo dalle province

69
perdute, il trattato del 1947 erano il segno traumatico della realtà: cioè della
sconfitta dell’Italia. Dell’incapacità dell’Italia del 1946-1948 di difendere una
parte del suo territorio di insediamento storico, al di là degli inevitabili aggiu-
stamenti di frontiera, che non potevano non seguire a una guerra perduta e
alle prevaricazioni imperialiste del regime fascista.
E quella sconfitta nazionale metteva a nudo un equivoco su cui si reggeva la
retorica ufficiale della Repubblica: la natura immacolata della Resistenza. Era-
no o non erano le formazioni partigiane di Tito alleate del nostro movimento
di liberazione? Chi le aveva lasciate arrivare oltre l’Isonzo? Chi aveva in fondo
tradito i partigiani italiani del confine orientale, rendendo vana la loro lotta
contro il nazi-fascismo?
Se una resipiscenza si è prodotta nella coscienza storica del paese in questi ul-
timi anni è perché ci si è resi conto che amputando dal passato recente della
Nazione gli eventi di queste province, si veniva a perdere il senso della nostra
stessa identità nazionale, del nostro cammino di unificazione nazionale, dal
Risorgimento alla Costituzione repubblicana, attraverso quella prima guerra
mondiale, che aveva segnato il compimento dell’unità nazionale voluto dai
padri del Risorgimento.
L’Italia rischiava di diventare un Paese senza memoria, proprio nel momento
in cui i processi di globalizzazione e di integrazione europea richiedono una
giusta dose di consapevolezza nazionale per reggere le difficili competizioni
che ci attendono.
Ed è sintomatico che sia proprio la sinistra a rievocare oggi questo ricordo,
quasi a legittimarsi davanti alla storia come idonea a reggere e rappresentare
la comunità nazionale.

70
CONCLUSIONE

Non potendosi sottrarre ad un giudizio conclusivo, il risultato di questa rifles-


sione porta ad escludere la prima delle tre interpretazioni: quella della rap-
presaglia postuma o della vendetta per i crimini commessi dai governi italiani
fascisti e prefascisti.
Questa esclusione deriva dalla considerazione che lo scopo essenziale che
la classe dirigente comunista di Tito si proponeva era quello di compiere
finalmente un’antica aspirazione dei popoli croato e sloveno, divenuta dal
1919 comune a tutti i popoli della lugoslavia: raggiungere la frontiera almeno
dell’lsonzo, nella convinzione - storicamente e culturalmente errata - che fino
a lì si estendesse lo «spazio etnico» dei popoli slavi del Sud. Senza voler di-
stinguere la diversa realtà degli insediamenti rurali delle regioni alpine e degli
altipiani interni da quella concorrente e preesistente della penisola istriana,
delle città costiere e delle isole del Quarnaro. Inoltre per la coscienza nazio-
nale iugoslava era un’aspirazione condivisa liberarsi dell’ipoteca storica delle
pretese italiane sulla costa dalmata, derivanti dalla tradizione degli antichi Co-
muni latini e della lunga appartenenza alla Repubblica Veneta.
Questo non significa necessariamente che la cultura slovena, croata o ser-
ba desiderasse raggiungere questi risultati cancellando con la violenza la
presenza autoctona italiana. E neppure che lo volessero i popoli iugoslavi.
Anche se, alla luce degli avvenimenti di metà Novecento, drammaticamente
profetiche appaiono le parole del Podestà di Spalato Antonio Baiamonti nel
suo ultimo discorso davanti alla Dieta Dalmata nel 1887: «Gli italiani, anziché
combattere le vostre aspirazioni, anziché calpestare i vostri diritti e schiacciare il
vostro avvenire, si sono prestati, con interesse leale e vero, perché la lingua slava
fosse modestamente introdotta nelle scuole e negli uffici». «Noi fin dai primi tempi
vi abbiamo accolto sui nostri lidi con affetto e sincerità e voi ce ne discacciate, con
poco patriottismo e ci assegnate come unica dimora il mare: ‘u more’ - che è il
vostro programma». «Noi vi abbiamo dato istruzione e voi ci volete condannare
all’ignoranza; noi non abbiamo mai pensato di sopprimere in voi il sentimento di
nazionalità, né la lingua, ed alcuni di voi raccoglierebbero tutti noi in un cumulo
per farci saltare in aria con un paio di chilogrammi di dinamite». «Noi, minoran-
za, saremo sempre lieti e felici se col nostro obolo potremo concorrere a formare

71
la felicità della patria [la Dalmazia]: ma quando si sconosceranno i nostri diritti,
Quando si farà strazio di questa povera lingua, voi avrete sempre di fronte avver-
sari vigorosi e pronti a ribattere le vostre improntitudini, le vostre ingiustizie».
Questa era l’occasione storica che si offriva a Tito nel 1943-’45: la sconfitta mi-
litare e politica dello Stato italiano. Era un’occasione da non lasciarsi sfuggire.
E questa finalità prevaleva su qualsiasi altra per la sua incombente priorità. Il
resto, a cominciare dall’alimentazione propagandistica di un odio popolare
inesistente, era solo pretesto.
A questo punto entra in scena la tipica mentalità del comunista staliniano,
quale Tito autenticamente era, che sposa un’aspirazione nazionale ad un
disegno di egemonia ideologica e politica, ad una concezione dello Stato
totalitario e prevaricatore, per assicurarsi un vasto consenso nelle masse, umi-
liate da secoli di dominazioni straniere. O vissute come tali nella propaganda
social-nazionalista.
Che cosa di meglio per assicurarsi il risultato che ricorrere alla «violenza di
Stato»? Per imprimere, con persecuzioni mirate, una spinta decisiva a far si
che gli italiani abbandonassero la loro secolare pretesa di essere padroni della
penisola istriana e delle città della costa dalmata?
Milovan Dilas Gilas, uno dei principali collaboratori del Partito comunista
iugoslavio, ha riconosciuto apertamente che tale era il disegno di Tito sulla
Venezia Giulia: indurre il maggior numero di italiani ad andarsene e assogget-
tare gli altri, così da renderli innocui.
Il piano di persecuzioni e di eccidi di persone scelte preventivamente con
liste di proscrizione era il metodo tipico di tutte le dittature rivoluzionarie co-
muniste. Perché non applicarlo alla realtà giuliana?
E perché non ap-
profittare dell’aiuto
anglo-americano per
far bombardare Zara,
I grandi che
l’ultima cittadina an-
segnarono cora italiana del lito-
i confini
e la sorte rale dalmate, fino alla
dell’Europa alla
conferenza di sua distruzione?
Yalta: Stalin,
Roosevelt e
C’è stata quindi una
Churchill.. combinazione di na-

72
zionalismo espansionistico e di metodologia comunista nell’intera strategia
che presiedette all’occupazione iugoslava della Venezia Giulia.
Di qui la somiglianza impressionante - che si è riscontrata più sopra - con
altre strategie poste in essere dai partiti comunisti in altri paesi dell’Europa
orientale contro i nemici interni della «rivoluzione». Stesso modus operandi
per obiettivi diversi. Del resto lo stesso partito comunista iugoslavo usò le sue
divisioni partigiane su vasta scala per eliminare centinaia di migliaia di nemici
interni (cetnici e ustascia, domobrani e belagardisti), come vanno scoprendo
gli storici e i tribunali della Croazia e della Slovenia di oggi. L’obiettivo interno
non escludeva l’altro, esterno, contro la popolazione italiana, magiara e tede-
sca delle frontiere settentrionali.
Nella Venezia Giulia i due scopi si sommavano: instaurazione del regime tota-
litario e cacciata degli italiani, capovolgendo l’equilibrio etnico delle aree più
italiane.
In un senso più ampio la sorte degli italiani della costa orientale adriatica è
un paradigma della barbarie ideologica del Novecento. Essi hanno pagato
lo scontro tra due ideologie totalitarie, senza le quali il conflitto etnico italo-
slavo si sarebbe potuto risolvere in altro modo, senza una tragedia e un’ingiu-
stizia collettive di tali proporzioni.
Il modello di vita di quegli italiani era legato alla sopravvivenza del senso del-
la legge e della libertà individuale, che è il cardine della civiltà occidentale.
Con le loro tradizioni municipali di autonomia erano rimasti come sospesi in
una dimensione ideale, fra tradizione e modernità. «Order of law» è l’essenza
stessa del progresso umano dell’Occidente, fondato sul prevalere della legge,
come patto tra uguali, rispetto ai vincoli di sangue, di etnia, di tribù, di clan.
È il segno distintivo della civiltà greco-romana, il fondamento della Civitas,
della Polis; la base giuridica e filosofica della futura democrazia liberale.
È il Nomos a dettare le regole, l’ordine su cui si fonda la convivenza tra eguali,
il patto di tutti i cittadini che vivono su uno stesso territorio intorno alla Polis,
che di questo Nomos è depositaria.
In questo senso le città italiane della Dalmazia e della Venezia Giulia sono sta-
te le vittime di uno stravolgimento epocale che voleva riportare l’umanità a
una situazione di pre-civiltà, cioè di barbarie tribale, in cui finisce per risolversi
ogni nazionalismo razzista, come si è rivisto nei recenti conflitti balcanici del
decennio appena trascorso.

73
Le ideologie totalitarie del Novecento si fondavano sui miti della razza e del-
la classe, finendo per esasperare in conflitti etnici le concezioni nazionaliste
dell’Ottocento, che pur avevano avuto il merito di creare gli Stati nazionali
indipendenti.
La pulizia etnica subita dagli italiani della Venezia Giulia e della Dalmazia trova
la sua interpretazione più convincente in un incontro perverso tra naziona-
lismo esasperato e ideologie totalitarie, che si proponevano la soluzione dei
problemi delle aree mistilingui attraverso l’eliminazione fisica del «nemico to-
tale» (del popolo o della razza) e l’espulsione delle popolazioni non desidera-
te dal territorio dello Stato totalitario.

Pola 11 febbraio
1947, l’esodo:
saluto davanti al
piroscafo Toscana.

74
Un ringraziamento particolare va al nostro socio Angelo Aquilante
che ha curato questo progetto e per la consulenza storica Federico
Cavallero: vorremmo che questa dispensa diventasse sempre più
uno strumento di incontro e di riflessione per tutti gli insegnanti, gli
studenti e gli amministratori, di ogni schieramento politico.

Primo
dopoguerra,
manifestazione
di italianità
a seguito
della perdita
dei territori
sul confine
orientale.

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