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Sogni e Ripartenze Dei Profughi Dell'est Europa A Trieste

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«Qualestoria» n.2, dicembre 2021, pp.

173-184
DOI: 10.13137/0393-6082/33490
https://www.openstarts.units.it/handle/10077/21200 173

Beyond the border. Trieste: sogni e ripartenze dei profughi dell’est


Europa a Trieste (1950-1956). Riflessioni a margine di una mostra

di Lorenzo Nuovo

Beyond the border. Trieste: sogni e ripartenze dei profughi dell’est Europa a Trieste
(1950-1956). Thoughts from an Exhibition

After the Second World War, the Risiera di San Sabba, as other European concentration
camps, was converted into a reception centre for foreign refugees. In the case of the Risi-
era, most refugees came from the Yugoslavia of Tito. Photographic exhibition Beyond the
Border. Trieste: sogni e ripartenze dei profughi dell’est Europa a Trieste (1950-1956),
opened in the middle of October in the Sala delle commemorazioni del memoriale, gives
an account of the life within this and other refugee camps in and around Trieste.

Keywords: Risiera di San Sabba; Refugees; Istrian-Dalmatian Exodus; Postwar era: Fa-
miliar photos.
Parole chiave: Risiera di San Sabba; Profughi; Esodo giuliano-dalmata; Secondo dopo-
guerra; Fotografie familiari.

Le ragioni di una mostra

Si è aperta a metà ottobre, alla Sala delle commemorazioni del Memoriale della
Risiera di San Sabba, Beyond the border. Trieste: sogni e ripartenze dei profughi
dell’est Europa a Trieste (1950-1956). L’esposizione è corredata da un catalogo1
in cui, oltre al saggio di Maurizio Lorber, direttore del Civico Museo della Risiera
e curatore dell’iniziativa, compaiono quelli di Lorenzo Ielen e Francesca Rolandi.
Sono studi che permettono di fare luce su una vicenda poco nota, vale a dire quella
che ha riguardato la struttura subito dopo la fine della seconda guerra mondiale,
quando fu convertita da campo di detenzione a centro d’accoglienza per profughi.
La mostra triestina è nata quasi per caso, da una visita alla Risiera da parte di
Nic Butkov nell’estate del 2018. Dopo aver lasciato, come molti russi bianchi, la
Jugoslavia, nel 1950 i suoi genitori trovarono riparo proprio nel campo profughi
di San Sabba, dove Nic è nato il 9 febbraio del 1953. Lì sarebbe rimasto fino alla
partenza della sua famiglia per gli Stati Uniti, nel 1955. Lì, appunto, ormai maturo,
qualche anno fa è voluto tornare in visita. Proprio in occasione del suo viaggio a
Trieste, Butkov ha avuto modo di chiacchierare con Lorber, accennandogli all’al-
bum fotografico di famiglia di cui, nel corso della successiva corrispondenza via

1
Beyond the border. Trieste: sogni e ripartenze dei profughi dell’est Europa a Trieste (1950-1956), a c. di M.
Lorber, catalogo della mostra, Edizioni Civici Musei di Storia ed Arte, Comune di Trieste, Trieste 2021.
174 Lorenzo Nuovo

e-mail, gli ha inoltrato qualche scatto: non è passato molto tempo prima che fosse
chiara la rilevanza, sia affettiva che storica, di quei materiali. Proprio a quest’album
appartiene molto del materiale visibile ora alla Sala delle commemorazioni, che
illumina in particolare gli ultimi anni di gestione dei campi da parte del Governo
militare alleato. L’iniziativa in corso ha un antecedente nella mostra2 allestita nel
2012, sempre alla Risiera, però attorno a fotografie d’artista, quelle di Jan Lukas,
anche lui, subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale, rifugiato politico al
campo triestino.
Duecento scatti fotografici, corredati da esaurienti didascalie, informano la mo-
stra aperta oggi. Vale la pena ribadire come un approccio selettivo alla storia sia
proprio anche della cultura visiva, è sia alla base anche di ogni ricognizione su
immagini e figure del passato: è celebre la frase di Henri Focillon, secondo cui
«l’inquietudine delle generazioni esuma dal passato i maestri di cui ha bisogno»3. E
allora le fotografie recuperate da Lorber fanno parte di un progetto che costituisce
una risposta ad alcuni pressanti interrogativi del presente, un progetto che non po-
teva essere dilazionato o preceduto da una mostra diversa.
Lo conferma, nel saggio che chiude il catalogo della mostra, Francesca Rolandi4,
che spiega con chiarezza le ragioni per cui è importante, oggi, fare luce sulla vita
nei campi profughi per stranieri nella Trieste degli anni Cinquanta. C’è innanzitutto
l’attualità di un tema, quello della profuganza che, inserito nel quadro più ampio dei
fenomeni migratori5, conserva un fortissimo impatto mediatico. Un tema cruciale
anche nel dibattito politico del nostro paese, nelle cui logiche la portata drammatica
del fenomeno viene in vari casi smorzata o rimossa anche attraverso strumentali
confronti con le forme di sofferenza economica e sociale che interessano i cittadini
italiani, in un miserevole paragone tra chi nel nostro paese è nato e chi finisce per
arrivarci.
È chiaro che, nonostante una fetta non irrilevante di questi movimenti di persone
interessi ancora il confine orientale d’Italia, le migrazioni attuali hanno caratteristi-
che radicalmente diverse da quelle del secondo dopoguerra, a partire dagli elementi
più ovvi: tanto per cominciare, quelli della ex Jugoslavia sono oggi per lo più terri-
tori di transito per profughi asiatici. È tuttavia impossibile eludere il fatto che sono
proprio i princìpi giuridici internazionali stabiliti a difesa dei profughi nelle delicate
fasi postbelliche ‒ principi che servirono a regolare anche il fenomeno di cui la mo-
stra dà conto ‒ che oggi gli Stati spesso finiscono per violare6. La Convenzione sullo

2
Un tempo pieno di attese. Il campo profughi della Risiera di San Sabba nelle foto di Jan Lukas, a c. di F. Fait,
catalogo della mostra, Edizioni Civici Musei di Storia ed Arte, Comune di Trieste, Civici Musei di Storia ed arte,
Trieste 2012.
3
Ne ha recentemente discusso Piergiorgio Dragone nella postfazione a J. Rewald, Paul Cézanne. Una vita, Don-
zelli, Roma 2019, p. 252.
4
F. Rolandi, Il campo per profughi stranieri di San Sabba nell’Europa divisa della guerra fredda, in Beyond the
borders, cit., pp. 42-43.
5
L. Einaudi, Le politiche dell’immigrazione in Italia dall’Unità a oggi, Laterza, Roma 2007; P. Gatrell, L’inquie-
tudine dell’Europa. Come la migrazione ha rimodellato un continente, Einaudi, Torino 2020.
6
F. Rolandi, Il campo per profughi stranieri di San Sabba, cit., p. 43.
Beyond the border 175

status dei rifugiati, che appunto è formalmente ancora in vigore, impegnava gli stati
contraenti ad offrire asilo a coloro che si trovavano al di fuori dei confini del proprio
paese a causa di una persecuzione (o di una fondata paura che questa si sarebbe
potuta verificare) per ragioni «di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un
particolare gruppo sociale, opinioni politiche». Tuttavia, come ricorda Rolandi, è
un documento che oggi appare sempre più svuotato dei suoi significati costitutivi, e
necessiterebbe di una completa ridiscussione, nei suoi fondamenti culturali e ideali
prima ancora che sotto l’aspetto tecnico.
C’è poi almeno una seconda, e fondamentale ragione a monte di una mostra
come questa, ed è una lezione di cui ci ha ricordato la stringente attualità Piotr
Cywiński, direttore del Memoriale di Auschwitz. Nei frangenti in cui era in corso la
ricerca di un logo da utilizzare nel suo museo, egli scartò risolutamente l’ipotesi di
un disegno astratto e selezionò la fotografia di un ragazzo che scendeva da un carro
merci7: uno dei massimi obiettivi di un luogo come la Risiera è proprio quello di
ricordare le persone, le loro vicende, le loro storie (fig. 1)8.
Quella dell’edificio nato per la lavorazione del riso, diventato caserma dell’eser-
cito e, tra 1943 e 1945, campo di sterminio, infine convertito a centro di accoglienza
per profughi, è una storia meno eccezionale di quanto si pensi: basti menzionare il
caso del lager di Dachau, utilizzato prima dalle forze alleate come prigione per i
nazisti, poi per ospitare i tedeschi cacciati dall’Europa dell’est; oppure, per quanto
riguarda l’Italia, va segnalato il caso di Fossoli9, che finì per ospitare anche proprio
esuli fiumano-dalmati.
La mostra di Trieste è un importante passo verso la memorializzazione, in un
ulteriore senso, di una struttura la cui storia è tanto stratificata che le drammatiche
vicende della guerra civile e degli ultimi, drammatici anni del regime hanno finito
col relegare a una posizione marginale, anche nel senso comune, il ruolo del capo-
luogo giuliano come area di transito di uomini e donne nei delicati frangenti del
secondo dopoguerra.

Per una mostra di immagini: una riflessione preliminare

L’esposizione di Trieste, imperniata su un’ampia selezione di scatti fotografici


accompagnati da una piccola, ma interessante sezione dedicata a disegni e acque-
relli prodotti dagli ospiti del campo, è di fatto una mostra di immagini. Lorber lo sa
bene e, se i saggi di Ielen e Rolandi sono storici, il suo ha un approccio semiologico.
7
Lo ricorda Lorber in Immagini comuni per vicende straordinarie. La foto familiare: implicazioni semiotiche,
storiche ed emotive, in Beyond the borders, cit., p. 14. Le riflessioni di Cywiński si leggono ora anche in italiano:
Non c’è una fine: trasmettere la memoria di Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino 2017.
8
Proprio le persone e le loro storie sono protagoniste della mostra e del catalogo, con la sua consistentissima ap-
pendice di fotografie e documenti raccolti in undici sezioni che provano a dare conto di tutti gli aspetti, materiali,
culturali e psicologici della vita nei campi: Sezioni fotografiche, in Beyond the borders, cit., p. 81 e ss.
9
C. Di Sante, Stranieri indesiderabili. Il campo di Fossoli e i centri raccolta profughi in Italia (1945-1970),
Ombre Corte, Verona 2011.
176 Lorenzo Nuovo

Per uno storico dell’arte, fare i conti con la fotografia implica prima di tutto impo-
stare una riflessione sull’evoluzione del mezzo, connessa in particolare con la sua
dibattuta obiettività10.
Fin dalle origini di questa tecnica, si è acceso un dibattito scaturito dal tema
della verosimiglianza. Un dibattito che, prima che toccare la questione della foto
come documento storico, ha impattato su quella delle diverse finalità alla base del
lavoro di fotografi e pittori. Questi ultimi erano chiamati a scartare da quella che
sembrava la mera qualità meccanica dello scatto fotografico, dalla natura solo per-
cettiva delle sue immagini. In pittura andavano rifuggite le tentazioni mimetiche, e
sostituita l’imitazione della natura con l’invenzione. Anzi, nel secondo Ottocento la
somiglianza di un dipinto a un dagherrotipo veniva considerata squalificante anche
per quelli che, a posteriori e dentro altri orizzonti storico-critici, sarebbero stati
giudicati capolavori, come nel caso di uno dei quadri impressionisti più celebri,
l’Olympia di Manet, provocatoriamente costruita sull’esempio delle fotografie sulle
carte-de-visite delle prostitute parigine.
La fotografia era considerata un esercizio impersonale e privo pensiero. In realtà,
i primi reportage di guerra – si trattava di quella americana di Secessione11 ‒ testimo-
niarono non solo quanto l’impassibilità dell’obiettivo fotografico potesse potenzia-
re l’intensità espressiva di un’immagine, ma come esso stesso fosse il risultato della
scelta precisa di un punto di vista, il frutto di meditate scelte estetiche e addirittura
ideologiche: cos’altro erano, quelle sequenze di scatti dei cadaveri abbandonati nei
campi, in un silenzio assordante, quella immagini di muta violenza, quegli zoom
spietati sui corpi senza vita, se non un pugno nello stomaco dello spettatore, e una
risoluta presa di posizione nei confronti delle conseguenze del conflitto? Lo sguar-
do imperturbabile, anche ostentatamente impassibile di un fotografo può non solo
scuotere le coscienze, ma veicolare messaggi politici e civili. In ogni caso, porta
contenuti storici. Quello della view from nowhere12 è un problema che resta aperto.

Le foto e il loro significato affettivo

L’esposizione raccoglie fotografie provenienti, oltre che da qualche archivio


pubblico, dalle collezioni private di famiglie di ex rifugiati nei campi triestini, so-
prattutto quello di San Sabba. La domanda preliminare, per il curatore e i suoi
collaboratori, deve avere avuto per oggetto il tipo di materiali a disposizione: dalle
caratteristiche di questi ultimi discendono sempre le scelte relative all’allestimento,

10
Per i temi che seguono, si veda almeno la sintesi operata da F. Rovati, L’arte dell’Ottocento, Einaudi, Torino
2017, pp. 85-86. Circa il mezzo fotografico, e dall’ampia selezione di testi indicati anche da Lorber nelle note al
suo saggio, rimando in particolare alle sezioni dedicata in W. Benjamin, L’opera d’arte nell’era della sua ripro-
ducibilità tecnica, Einaudi, Torino 2000; A. Thomas, Time in frame: Photography and Nineteenth Century mind,
Shocken Books, New York 1977.
11
F. Rovati, L’arte dell’Ottocento, cit., p. 86.
12
T. Nagel, The view from nowhere, Oxford University Press, New York-Oxford 1986.
Beyond the border 177

le logiche espositive complessive. Il materiale con cui si sono misurati era costituito
per lo più dalle cosiddette foto d’ambiente o dagli scatti rubati, da foto identificative
realizzate per la produzione di documenti o da quelle di gruppo; altre sono familiar
photo opportunity, scattate in occasione di eventi come un matrimonio o il conse-
guimento di un diploma13. Se la maggior parte sono d’ambito familiare, alcune di
esse sono state scattate da fotografi piuttosto noti a livello locale come Mario Ma-
gajna, Erna Rausnitz Lasorte e i professionisti dell’agenzia Giornalfoto14.
In una cornice come quella di Beyond the border, le fotografie diventano senza
dubbio documenti storici; tuttavia non può essere sottovalutato come, prima di tut-
to, esse siano portatrici di un potente significato affettivo. Questo era evidente già
ai soggetti di quegli stessi scatti fotografici, uomini e donne che hanno sorriso, si
sono abbracciati o tenuti per mano mentre, dall’arte parte dell’obiettivo, a guardarli
e attendere il momento opportuno per lo scatto era un parente o un amico. Anche,
o forse a maggior ragione quando a immortalare quelle pose era un fotografo se-
miprofessionista, esiste negli sguardi e negli atteggiamenti una certa convenziona-
lità, da ricondurre senz’altro alla natura stessa degli album familiari, dentro i quali
prevalgono sempre le istanze di autorappresentazione, il tentativo di costruzione o
di adesione a un modello: sono meccanismi che in una società come quella attuale,
quella dei social media, non necessitano di ulteriori spiegazioni.
Di fronte a foto storiche, in bianco e nero e lontane, percettivamente e poi sen-
timentalmente, dalla nostra esperienza, ci si pone comunque le stesse domande:
chi sono i soggetti ritratti? Dove, quando, per quale ricorrenza è stata scattata la
foto? Proprio per questa ragione, gli scatti esposti in Risiera sono accompagnati
da didascalie che raccolgono quante più informazioni è stato possibile ottenere dai
prestatori.
Il ricorso alle didascalie serve anche a ovviare a quello che Walter Benjamin ha
chiamato l’“effetto shock”15 determinato da certe fotografie. Un effetto capace di
bloccare, in chi guarda, ogni meccanismo di associazione o di letteralizzazione: il
significato che lo spettatore ‒ suggestionato da uno sguardo e comunque dal primo
impatto con un dettaglio, una figura o un ambiente ‒ ricaverebbe dall’immagine re-
sterebbe, quindi, solo parziale o impreciso. Le immagini di sicuro più coinvolgenti
e, al contempo, più perturbanti sono, come ci dimostra anche la storia del cinema,
gli “sguardi in macchina”: il contatto visivo tra il soggetto e lo spettatore rende an-
cora più forte il coinvolgimento emotivo. Azzera, in particolare, lo scarto spaziale e
temporale: chi, per esempio, si trovi a guardare negli occhi i quattro ragazzini di una
delle più suggestive foto esposte a Trieste (fig. 2) si sentirà forse sfidato, canzonato;
oppure intenerito o divertito dalla ingenua sfrontatezza di quei “guappi”. Di certo,
anche solo per un attimo, sarà dentro a una piccola contesa di strada, catapultato nei
viottoli dei campi profughi della Trieste del secondo dopoguerra.

13
M. Lorber, Immagini comuni per vicende straordinarie, cit., p. 13.
14
Per l’ampia sequenza di fotografie scattate da professionisti come quelli menzionati, si rimanda alle citate Se-
zioni fotografiche del catalogo della mostra.
15
Sul tema e su quelli appena seguenti ragiona Lorber in Immagini comuni per vicende straordinarie, cit., pp. 13-15.
178 Lorenzo Nuovo

Accanto alle implicazioni emotive, psicologiche di queste fotografie, è impor-


tante capire quali informazioni storiche esse veicolino. Ciò proprio perché, in un
contesto come quello di una mostra, le fotografie perdono sempre una parte del loro
significato biografico e personale. È, tutto sommato, un processo che prende forma
già, dopo tre generazioni circa, all’interno del contesto familiare: i ricordi perdo-
no consistenza e pregnanza emotiva, e, nel “doppio” fotografico, i volti e i corpi,
sganciati dagli aneddoti e dalle memorie dirette, slontanano, svaniscono, diventano
impersonali. Dentro gli spazi di un museo, sui pannelli di una mostra, le foto, che
raccolte provengono da differenti album, perdono specificità, riconoscibilità fami-
liare e, veri documenti visivi, testimoniano agli spettatori codici sociali e culturali
di un intero momento storico e di un particolare contesto. Nel complesso sono, cioè,
frammenti di una storia collettiva16.
In primo luogo, nel caso dei materiali qui esposti, il visitatore viene a conoscen-
za dell’esperienza dei campi profughi e, in generale, della vita negli anni del dopo-
guerra. La consapevolezza della densità storica delle immagini sta alla base di tutte
le operazioni di catalogazione dei repertori fotografici presenti in archivi e musei:
con le dovute precauzioni relative alla particolarità del punto di vista e dell’artificio-
sità complessiva delle scene, la fotografia resta uno strumento importante per capire
le caratteristiche di un periodo e dei modelli identitari che lo contraddistinguono.

Le foto e il loro significato storico

La vicenda del campo di San Sabba si inserisce nel più complesso quadro del
secondo dopoguerra, tanto che non deve stupire se, anche strumentalmente, nella
comunicazione politica italiana di quegli anni si è spesso ricorso al confronto tra
Trieste e Berlino. La città giuliana era allora l’estremità meridionale della cortina
di ferro. La creazione del Territorio Libero di Trieste (TLT), Stato cuscinetto tra le
democrazie liberali e i paesi comunisti aveva fatto del capoluogo giuliano «uno dei
punti di faglia dell’Europa divisa»; ciò è valso anche dopo la frattura tra Jugoslavia
e blocco sovietico, quando si accesero le tensioni tra la prima e il governo italiano17.
La necessità di ospitare persone allontanatesi per le più svariate ragioni dai paesi
di provenienza esisteva a Trieste fin dai primi mesi dopo la conclusione del secondo
conflitto mondiale: allora tutti i profughi venivano accolti al silos di piazza Libertà.
Ad arrivare era un’umanità varia, che gli eventi bellici avevano costretto a riparare
altrove: dai campi nazisti arrivavano per esempio ex schiavi ed ebrei. Giungevano
in regione anche militari in fuga, cui si sommarono ben presto uomini e donne
provenienti dall’Europa comunista, in particolare dalla Jugoslavia; anche slavi che
si opponevano, non necessariamente con le armi, al regime comunista, o che erano
spinti da ragioni squisitamente economiche. Tra questi figuravano anche i cosid-
detti russi bianchi, per i quali la situazione si era fatta ancora più delicata dopo la

16
Ibid., pp. 19-20.
17
M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale 1866-2006, il Mulino, Bologna 2007, pp. 283-326.
Beyond the border 179

rottura tra Belgrado e Mosca del 1948, e la permanenza in quel paese era diventata
impossibile.
Alle autorità alleate non sfuggiva come un esodo così massiccio dal regime co-
munista di Tito potesse essere letto in chiave ideologica, come una scelta di cam-
po filo-occidentale. E anche proprio dentro alle logiche e agli opportunismi della
Guerra fredda è necessario contestualizzare un fenomeno del quale sono da evitare
interpretazioni mitizzanti, che esagerino cioè il peso delle istanze umanitariste. Allo
stesso tempo, però, dopo la sconfitta dei nazifascisti si stava affermando a livello
internazionale l’idea che fosse diritto di tutti scegliere dove vivere, e fuggire da
regimi che soffocano la libertà d’espressione e di voto: anche, in parte, sulla scorta
della consapevolezza maturata facendo i conti con fenomeni come quello di cui si
dà conto in mostra, in quegli anni furono redatti documenti come la dichiarazione
dei diritti dell’uomo (1948) o, più specificamente, la Convenzione sullo status dei
rifugiati (1951), che pure a lungo riguardò solo i profughi del continente europeo18.
Fu presto chiaro che il fenomeno della profuganza stava assumendo proporzioni
sempre più consistenti, e che il Governo alleato era chiamato a trovare soluzio-
ni nuove e immediate, a cominciare dal problema delle strutture19. Dopo le prime
soluzioni improvvisate e l’ampliamento dei locali già esistenti, si procedette alla
realizzazione di nuove strutture dedicate ai profughi, tra cui il campo di muratura di
Prosecco e il contiguo sanatorio antitubercolare. Entro la fine del 1953 i campi era-
no sei: si aggiunsero a quelli citati il campo di via Doberdò a Opicina, quello della
Risiera (con il relativo Annex, che pure è successivo, e nelle cui case prefabbricate,
a partire dal 1955, furono sistemati molti degli esuli istriani) e quello dell’ex carce-
re dei Gesuiti. Dall’inizio degli anni Cinquanta e fino al 1966, quando fu aperta la
nuova struttura di Padriciano, la Risiera fu il principale centro di prima accoglienza
per profughi stranieri20. Gestita prima dagli angloamericani, poi dagli italiani, la
struttura ospitò migliaia di profughi provenienti dalla Jugoslavia e da altri paesi
dell’est Europa. Nei campi i profughi erano alloggiati, nutriti e curati.
Risultò subito evidente che, anche per le citate ragioni di opportunità ideologica,
la linea del rimpatrio dei rifugiati era impraticabile; a essa cominciò così presto a
sostituirsi quella del ricollocamento. Quella triestina era, cioè, solo una tappa prima
della partenza verso le grandi mete dell’emigrazione, le Americhe o l’Australia. A
occuparsi del trasferimento erano varie organizzazioni internazionali con l’appog-
gio di alcune agenzie volontarie. Tale trasferimento, però, non era scontato né, in
molti casi, immediato. La permanenza nei displaced persons camps poteva durare
anni; per gli hard core cases, profughi su cui la violenza della storia aveva lasciato
segni profondi, in molti casi permanenti (handicap fisici o disturbi psicologici di va-
rio genere) la partenza verso la terra promessa era niente affatto scontata. Problemi
che finivano col sommarsi a quelli derivanti dalla promiscuità della vita in comu-

18
Dei passaggi fin qui dibattuti, e di quelli presentati nell’intera sezione Le foto e il loro significato storico, dà
conto esaustivamente Francesca Rolandi in Il campo per profughi stranieri di San Sabba, cit., p. 28 e ss.
19
I campi profughi del Governo Militare alleato, in Beyond the borders, cit., pp. 81-89.
20
L. Ielen, I campi per profughi stranieri del Governo Militare Alleato, in Beyond the borders, cit., pp. 49-78.
180 Lorenzo Nuovo

nità: non di rado nelle strutture di ricezione si registrava la diffusione di malattie


infettive come la tubercolosi.
I campi avevano anche il compito di preparare gli ospiti in vista del futuro ri-
collocamento: una formazione che avveniva prima di tutto in ambito professionale
e linguistico. Una formazione, inoltre, che aveva il compito di scuotere i profughi
dall’inerzia che le autorità alleate ritenevano da un lato congenita ai popoli dell’est,
dall’altro conseguenza “ambientale” dell’oppressione politica e dell’assenza di li-
bertà di iniziativa nei paesi di provenienza.
Grazie all’impegno di associazioni non governative, all’interno di queste strut-
ture trovavano spazio anche attività ricreative: erano formati per esempio dei cori, e
per gli ospiti c’era la possibilità di assistere a spettacoli di vario genere, tra cui pro-
iezioni cinematografiche21. Sicché i ricordi di alcuni ospiti sono non di rado positivi,
e non solo per la naturale tendenza a mitizzare la propria infanzia, o a ricordare con
affetto e orgoglio, una volta superate, le brutte esperienze.
Ai profughi che vivevano dentro i campi spesso si aggiungevano e, nel senso
comune dei triestini e nelle cronache dei giornali locali, si sovrapponevano, gli
stranieri che, in un numero non facilmente quantificabile e per lo più disoccupati
o lavoratori in nero, risiedevano “fuori campo”; spesso sbrigativamente definiti
“profughi balcanici”, essi erano poco o punto integrati nel tessuto sociale triesti-
no. Alle più diffuse forme di stereotipizzazione del profugo/straniero e, di con-
tro, agli atteggiamenti più accoglienti e solidali di una parte non irrilevante della
società triestina dell’epoca sono dedicate, nel catalogo, alcune righe di notevole
interesse22.
Quando agli angloamericani subentrarono le autorità della giovane repubblica
italiana, si spinse ancora più decisamente sul piano di evacuazione dei profughi
stranieri per lasciare spazio agli italiani provenienti dall’Istria, sistemati per lo più
nell’Annex situato proprio di fronte alla Risiera. Operazione strategica, che non in-
teressava solo la struttura di San Sabba, ma era volta ad affermare l’italianità delle
zone di confine che, come Prosecco, erano a maggioranza slovena, e a provare a in-
fluenzare le decisioni definitive sul TLT attese dalle autorità internazionali. L’arrivo
degli esuli si fece più massiccio nel momento in cui fu chiaro che la zona B sarebbe
diventata jugoslava, e si protrasse oltre la metà degli anni Sessanta. Per gli esuli e
quelli che venivano definiti “profughi stranieri” era previsto l’asilo in strutture dif-
ferenti, anche se non mancarono casi di temporanea convivenza23.

21
Tempo libero, giochi e spettacoli, in Beyond the borders, cit., pp. 139-148.
22
Oltre al saggio di Rolandi (pp. 34-35), per quanto riguarda la rappresentazione dei profughi sulla stampa triesti-
na si veda anche L. Ielen, “Prigionieri della libertà”: i profughi stranieri nelle pagine del “Giornale di Trieste”,
in «Qualestoria», n. 1, 2021, pp. 311-324.
23
R. Pupo, Il lungo esodo, Rizzoli, Milano 2005; sulle politiche di italianizzazione delle zone di confine, P. Puri-
ni, Metamorfosi etniche. I cambiamenti di popolazione a Trieste, Gorizia, Fiume e Istria, 1914-1975, Kappa Vu,
Udine 2010.
Beyond the border 181

Conclusioni

C’è, infine, un tema squisitamente legato alla cultura visiva, e all’impatto di


materiali come le fotografie e gli acquarelli su chi frequenta le sale di una mostra
come quella aperta alla Risiera. È, cioè, un’iniziativa che pone anche un proble-
ma estetico: vi allude Lorber, che non può fare a meno di notare come come ogni
esposizione pubblica di foto familiari diventa giocoforza «un’installazione artistica
inconsapevole», che induce nello spettatore in primo luogo un sentimento di ma-
linconia connesso con la consapevolezza della «caducità dell’esistente»24. Nei volti
fissati sul bianco e nero delle vecchie fotografie ciascuno spettatore coglie i segni
della propria impermanenza.
C’è, io credo, un altro elemento prettamente visivo da rilevare: un elemento de-
cisivo per chi visita la mostra aperta a Trieste, quello della relazione non solo tra i
materiali e lo spettatore, ma tra i primi e il contesto. Se restiamo fedeli al concetto
stesso di installazione, fruitore e immagini si relazionano per la definizione di un
ulteriore, e forse altro significato, proprio in triangolazione con lo spazio prescelto:
la struttura stessa, con la sua densità di significati storici, altera la percezione dei
materiali esposti e interferisce con l’interpretazione complessiva degli oggetti.
Ecco allora che chi sarà arrivato al cancello della Risiera, avrà oltrepassato l’an-
gusto e buio corridoio d’ingresso compresso tra i due altissimi muraglioni di ce-
mento, avrà svoltato a destra nel cortile e avrà raggiunto la Sala delle commemora-
zioni, sarà portato a andare ben oltre alla malinconica o tenera contemplazione di
scatti che catturano un mondo di vite ed esperienze consumate all’interno dei campi
di San Sabba nel secondo dopoguerra; sarà propenso, piuttosto e proprio sulla scor-
ta delle conoscenze pregresse, a confrontare, o addirittura a sovrapporre i destini
dei profughi a quelli dei detenuti dei drammatici anni di guerra, di confonderne gli
esiti. Era, di certo, e in un cortocircuito tra passato e presente indotto dalla storia
drammatica del luogo, una suggestione che non mancò di turbare alcuni degli ospiti
del campo: a distanza di anni alcuni di loro hanno ricordato come, tra i bambini già
disorientati dallo sradicamento, che per sua natura fa mescolare fantasmi del passa-
to e timori legati al futuro, corresse la voce che in quegli ambienti si muovessero i
fantasmi delle persone bruciate nei forni crematori25.
Per trovare un vero momento di redenzione, però, non è nemmeno necessario
fermarsi davanti ai volti, in molti casi sorridenti, che si ammirano nelle immagini
esposte. È, ancora una volta, il risultato della relazione delle immagini con l’am-
biente che li ospita a determinare questo nuovo scarto emotivo: la Sala delle com-
memorazioni è un vecchio garage annesso alla struttura principale che, negli anni
in cui fu incaricato di trasformare la Risiera in Museo della Resistenza, l’architetto
Romano Boico26 ripensò di modo che si aprisse agli occhi del visitatore come una
suggestiva chiesa laica. Una basilica a navata unica, spoglia, con un tavolo/altare

24
M. Lorber, Immagini comuni per vicende straordinarie, cit., p. 20.
25
F. Rolandi, Il campo per profughi stranieri di San Sabba, cit., p. 41.
26
Romano Boico architetto 1910-1985, a c. di M. Pozzetto, catalogo della mostra, Tipo/Lito Stella, Trieste 1987.
182 Lorenzo Nuovo

sistemato in fondo; soprattutto, con l’unica vera fonte luminosa posizionata in alto.
Un’apertura che fa entrare la luce e rompe la sensazione claustrofobica percepita
dal visitatore fin dal suo ingresso nel museo: proprio verso quella luce tendono, in
un anelito di liberazione, le mani delle figure del Progetto per un monumento ad
Auschwitz (1958) di Marcello Mascherini27, collocato nel 1975 al Museo della Ri-
siera (fig. 3) e, volenti o no, parte dell’allestimento. Mani che, in un primo tempo e
secondo logiche interne all’opera, provano a divincolarsi dalle gabbie; mani che, in
un secondo e simbolico slancio che pare coordinato con la forma e le dimensioni dei
sottili teli in PVC sistemati sulle tre aperture della parete sinistra (le loro superfici
microforate sono evocativamente attraversate dalla tenue luce proveniente dall’an-
gusto cortile esterno, fig. 4) rompono l’andamento orizzontale dell’allestimento, e
paiono indicare al visitatore una via di fuga nel soffitto trasparente.
Proprio la stratificazione storica e l’inedita, imprevedibile relazione semantica
tra la sala, il materiale fotografico e il bozzetto mascheriniano induce un’ulteriore
riflessione: se esista, cioè, anche sulla scorta del successo di questa mostra, la pos-
sibilità che un luogo della memoria come quello di San Sabba possa diventare uno
spazio in cui sistemare, appunto in relazione al contesto e nell’ambito di progetti
espositivi temporanei, anche quadri e sculture. Se, cioè, la mission del museo pos-
sa arrivare a comprendere anche la trasmissione di un sapere storico che non sia
collegato in maniera stringente alle vicende della Risiera, ma che sappia offrire, in
dialogo con queste ultime e anche attraverso le arti visive, una lettura di vicende
più o meno recenti della storia della città. Per una Trieste che ha, ora, un urgente
bisogno di mostre di ricerca o di idee.

27
Oltre che al catalogo generale dell’artista (A. Panzetta, Mascherini scultore 1906-1983. Catalogo generale
dell’opera plastica, Volume primo, Allemandi, Torino 1998, p. 257, n. 477), per il bozzetto rimando anche alle
considerazioni di M. de Sabbata, Le aspirazioni monumentali di uno scultore: un percorso tra le opere pubbliche
di Marcello Mascherini, in Marcello Mascherini e la scultura europea del Novecento, a c. di F. Fergonzi, A. Del
Puppo, catalogo della mostra, Electa, Milano 2007, pp. 40-41.
Beyond the border 183

Fig. 1: San Sabba Annex, 1954. I profughi bevono vino caldo attorno a una stufa
Becchi in cotto.

Fig. 2: San Sabba Annex, 1954. Bambini del campo ritratti prima della partenza per
la Svizzera.
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Fig. 3: Un particolare dell’allestimento della mostra con il Progetto per un monu-


mento ad Auschwitz di Marcello Mascherini.

Fig. 4: Le aperture ricoperte dai teli microforati sulla parete sinistra della Sala della
Commemorazioni.

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