TRENTO - Italiani A Sao Paulo Tra Lavoro e Tempo Libero - 1880-1940
TRENTO - Italiani A Sao Paulo Tra Lavoro e Tempo Libero - 1880-1940
Riassunto: Oltre un terzo dei residenti de fruição do tempo livre, com centenas
nella città di São Paulo tra la fine del XIX de círculos recreativos, companhias de
secolo e il 1915 era italiano e gli teatro amadoras, bandas de música,
immigrati monopolizzarono molti associações esportivas, difusão de
mestieri, avendo spesso come clientela i espetáculos de ópera ou teatro por
propri connazionali o lavorando per essi. companhias peninsulares em tournée, que
Questa massiccia presenza trasformò il utilizavam, continuamente, a língua
paesaggio anche architettonico della italiana, bem como as festas anarquistas
capitale paulista, descritta spesso come do fim de semana. A partir dos anos 30,
città italiana, come dimostravano la o panorama foi enriquecido pelas
diffusione della lingua di Dante o dei vari atividades da Opera Nazionale Dopolavoro,
dialetti e la presenza di svariati quartieri criada na pátria do fascismo.
etnici, nonché le forme di fruizione del PALAVRAS-CHAVE: Imigração –
tempo libero, con centinaia di circoli Ocupações urbanas – Tempo livre – São
ricreativi, compagnie filodrammatiche Paulo – Identidade étnica.
dilettanti, bande musicali, associazioni
sportive, dffusione di rappresentazioni Abstract: More than one third of the
operistiche o teatrali da parte di residents in the city of São Paulo between
compagnie peninsulari in tournée, con the end of the nineteenth century and
utilizzazione continua della lingua 1915 were Italian and the immigrants had
italiana, come, d’altronde, nelle feste monopolized many professions,
anarchiche del fine settimana. Negli anni frequently having their fellow
’30, poi, il panorama si arricchì delle countrymen as clients and bosses. This
attività dell’Opera Nazionale massive presence transformed the city’s
Dopolavoro, creata in patria dal architectural landscape, described many
fascismo. times as an Italian city, well demonstrated
PAROLE CHIAVE: Immigrazione –
by the diffusion of Dante’s language or
Occupazioni urbane – Tempo libero – of the many dialects and the presence of
São Paulo – Identità etnica. several ethnic neighborhoods, as well as
the forms of enjoyment of free time, with
Resumo: Mais de um terço dos hundreds of recreational circles,
residentes na cidade de São Paulo, entre dilettante theater companies, bands,
o final do século XIX e 1915, era italiano sports associations, propagation of opera
e os imigrantes monopolizavam muitas or theater spectacles by peninsular
profissões, tendo, frequentemente, como companies in tour, continually using the
clientela os próprios compatriotas ou Italian language, like, by the way, in the
trabalhando para eles. Essa presença de weekend anarchist parties. From the
massa transformou a paisagem 1930’s ahead, that scenery was enhanced
arquitetônica da capital paulista, descrita by the activities of the Opera Nazionale
muitas vezes como cidade italiana, como Dopolavoro, created in the fascism’s
demonstraram a difusão da língua de fatherland.
Dante ou os vários dialetos, além da KEYWORDS: Immigration – Urban
presença de diversos bairros étnicos, bem Occupations – Free Time – São Paulo –
como de formas Ethnical Identity.
Del milione e mezzo di italiani che sbarcarono in Brasile tra il 1870 e il 1970 oltre il
70% si diresse verso lo stato di São Paulo, avendo spesso come meta sino agli anni
’20 le fazendas, destinazione totalmente congrua con la caratterizzazione rurale della
grande maggioranza di coloro che alimentarono l’esodo. Tuttavia, le difficili e a
volte drammatiche condizioni nella lavoura spinsero una quota consistente di questi
coloni ad abbandonarla alla fine di ogni anno agricolo (e possibilmente anche
prima) per cercare improbabili miglioramenti in altre proprietà oppure per
rimpatriare o per riemigrare ma soprattutto per trovare rifugio nei centri urbani, di
preferenza nella capitale, dove si affiancavano a quel contingente – sempre meno
minoritario via via che trascorrevano gli anni – di connazionali, prevalentemente
meridionali – al contrario dei precedenti, provenienti soprattutto dal Nord Italia,
in particolare dal Veneto – che non erano passati per l’economia caffeicola,
approdando direttamente in città. Che si trattasse di cifre significative è
indirettamente dimostrato dalla crescita di São Paulo, un borgo di 26.000 abitanti
nel 1872 che vide aumentare la propria popolazione a 65.000 nel 1890, a 240.000
nel 1900 e poi a quasi 530.000 nel 1918 e 1.120.000 nel 1935,1 con incrementi più
consistenti proprio nel periodo in cui vi si riversò il maggior numero di italiani.2 In
effetti, la popolazione straniera, che nel 1871 rappresentava solo l’8%, passò al
26% nel 1886 e al 55% nel 1893, e nel 1895 di tali immigrati quasi il 65% era nato
in Italia all’ultima di queste date.3 Per tutto il quindicennio successivo i peninsulari
non scesero mai sotto il 35% del totale dei residenti (superando in alcuni momenti
il 40 e anche il 45%) e alcuni autori hanno calcolato che rappresentassero oltre la
metà degli abitanti adulti.4 Solo dal 1910 tali percentuali cominciarono a declinare,
sino a rappresentare appena il 5% nel 1940.
Nel crogiuolo urbano, non solo trovarono spazio coloro che giunsero avendo alle
spalle una qualche esperienza lavorativa extra-agricola ma anche i numerosissimi
profughi dalle fazendas, che finirono per riconvertirsi professionalmente,
dirigendosi verso settori spesso estranei ai propri orizzonti culturali (intesi anche in
chiave di cultura materiale) prima ancora che lavorativi, ma che certamente
risultavano più diffusi nella loro nazione di origine che nella São Paulo dell’ultimo
quarto dell’Ottocento, consentendo a essi una familiarità maggiore con tali attività
di quella che potessero attribuirsi i nativi. Oltre a ciò, appariva quasi palpabile la
decisa preferenza che le classi dirigenti brasiliane accordavano agli stranieri, visti
non solo come lavoratori ideali ma anche come fattori di progresso, elementi
affidabili e concreti, mentre la manodopera nazionale veniva classificata come
inadeguata; una posizione, questa, che non differiva granché dalla formulazione di
Sarmiento, nella contigua Argentina, che contrapponeva civilización y barbarie.
Rimane il fatto che, in una fase storica in cui il lavoro schiavo stava per essere
abolito o era da poco superato, la manodopera italiana poté inserirsi in un mercato
che offriva un ampio spettro di occupazioni, ancora in fase di definizione proprio
durante questo afflusso di massa, senza perciò espellere quella locale da attività che
essa esercitava precedentemente, anche se non è escluso che ciò si sia verificato nel
caso della piccola borghesia urbana. In tali condizioni, i peninsulari finirono
sovente per riempire spazi ancora vuoti e, soprattutto, ne crearono di nuovi, in un
processo che non è errato definire cumulativo e di autoalimentazione, come
dimostrava la diffusione non solo di sbocchi lavorativi legati all’edilizia, ma anche
al commercio e ai servizi – pensioni, caffè, trattorie, botteghe di barbieria,
calzoleria, camiceria, sartoria ecc. – e all’artigianato – mobilifici, cappellifici,
produzioni alimentari e via dicendo – che avevano in buona parte come clientela
esattamente i connazionali, di cui si cercava di soddisfare, con profitto, gusti,
abitudini e bisogni coltivati da secoli nella nazione, nella regione e nel borgo di
origine di tali popolazioni e poi trapiantati in Brasile. Non era quindi casuale che,
tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’10, gli immigrati rappresentassero tra il
70 e l’80% della manodopera nei trasporti, nell’industria e nel terziario e che, di tale
popolazione lavorativa, gli italiani costituissero la grande maggioranza, anche
perché molte industrie di dimensioni apprezzabili – come quelle che
appartenevano ai nomi più illustri della collettività, a partire da Matarazzo e Crespi
– continuarono a lungo a preferire manovalanza della propria nazione quando non
della propria località di nascita, rafforzando il già diffuso fenomeno delle catene
migratorie.
Parallelamente, però, a questa sorta di monopolio etnico che caratterizzò molti
settori lavorativi, che richiedessero un minimo di mestiere oppure no, un
esclusivismo dello stesso segno si registrò anche nella sfera della marginalità e della
sottoccupazione; erano, così, italiani quasi tutti gli acquaioli, i rigattieri, i suonatori
ambulanti, gli arrotini, i venditori di biglietti della lotteria, i giovani strilloni che
vendevano giornali e i lustrascarpe, mestiere esercitato prevalentemente da minori
tra i 10 e i 14 anni, che vagavano senza sosta per vie e piazze paulistane. La
precocità di tale esclusivismo è testimoniata già da un brano giornalistico del 1878,
che illustrava caricaturalmente questa figura e il suo linguaggio: “Signori?... –
Engraixate... – Doi vintina tutti due… - Ecco!... – Venga per cá…”.5
Il proliferare di queste attività marginali era favorito dal continuo afflusso di
immigrati che fuggivano dalle fazendas e cui l’economia cittadina non era in grado di
far fronte in termine di creazione di posti di lavoro strutturato. Certo è che tutte
queste occupazioni facevano imporporare di vergogna ma anche di rabbia le
guance di molti viaggiatori peninsulari, i quali stigmatizzavano, spesso con toni
collettivo delle classi popolari (non solo immigrate) rimasero impressi soprattutto i
grandi costruttori di fortune, così esaltati dalla pubblicistica dell’epoca, il fenomeno
più rilevante fu piuttosto quello della scalata a posizioni medie e medioalte nella
piramide sociale. Coloro che raggiunsero le vette erano in genere sbarcati in Brasile
con un qualche (eventualmente modesto) capitale, un certo livello di istruzione,
una precisa conoscenza dell’economia di mercato, un’esperienza commerciale
pregressa. Il mito del self made man da essi alimentato (con il sostegno della stampa
etnica) evocava false doti che venivano presentate come insite in ciascun
connazionale, inculcando in esso la convinzione di poter percorrere lo stesso
cammino. Esse potevano riassumersi nella totale dedizione al lavoro, nella spartana
capacità di risparmio, nel fiuto per gli affari, nel sano e indefesso spirito di
sacrificio, nella perseveranza, mentre si bollavano come inutili e dannose le
soluzioni di mobilità non rigorosamente individuali, quali, ad esempio, il
coinvolgimento nelle lotte sul lavoro e l’adesione a organizzazioni sindacali. Dal
momento che il proletariato di fabbrica era anch’esso prevalentemente italiano,
l’accettazione di queste edulcorate versioni rendeva più agevole, per gli
imprenditori immigrati, il ricorso a una prassi di paternalismo, in fabbrica e fuori,
basata sulla propagandata condivisione di un comune destino, giacché comune era
l’origine, come se la nazionalità condivisa potesse cancellare la contrapposizione di
classe, di interessi, di vita quotidiana, come si affannava a sottolineare
costantemente la dirigenza operaia, non a caso anch’essa a maggioranza italiana.
Ad ogni modo, i grandi flussi registratisi a partire dagli anni ’80 determinarono
nella capitale paulista una radicale (e non sempre apprezzabile) trasformazione del
paesaggio architettonico. Vecchio e nuovo per un po’ si accalcarono e si
sovrapposero, poi il secondo spazzò via il primo, esprimendo una varietà
incredibile di stili che rispondevano a ispirazioni, a trasposizioni o, semplicemente,
a capricci tra i più diversi, ma quasi sempre legati ai modelli che gli improvvisati
muratori e capimastri (a lungo massicciamente presenti nelle rispettive categorie)
avevano portato dalla propria regione d’origine, dando tra l’altro una mano ad
amici, parenti e compaesani nella costruzione delle loro abitazioni. “San Paolo
moderna” scriveva, esagerando, un osservatore della madrepatria “è uscita dalle
loro mani: i muratori, gli scalpellini, i marmisti, i braccianti impiegati nei lavori di
sterro, d’incanalamento delle acque sono quasi sempre italiani”.8 E, accanto a
questi lavoratori manuali, un ruolo importante giocarono i non pochi architetti
giunti dalla penisola, che lasciarono un’impronta meno erratica della loro opera
progettando e realizzando sino alla seconda guerra monumenti e soprattutto ville e
palazzetti per i ceti benestanti, italiani e non, nei nuovi quartieri residenziali.9
Non sorprende, quindi, che nel 1894 il giornalista e più volte deputato al
parlamento di Roma, Ferruccio Macola, affermasse che lo stile predominante a São
Paulo era quello di una città italiana di provincia10 e che, qualche anno dopo, vi
fosse chi parlasse di grazia architettonica e di carattere di fondo esclusivamente
italiani.11 D’altra parte, se è vero che il grande flusso di immigrati di ogni
nazionalità che vi si riversò forniva l’impressione di trovarsi in un centro urbano
multietnico se non addirittura straniero ancora alla vigilia della seconda guerra
mondiale,12 non c’è dubbio che almeno sino al 1920 si poteva tranquillamente
sottoscrivere l’impressione suscitata in Luigi Einaudi da Buenos Aires e cioè che
l’ambiente fosse saturo di italianità,13 come d’altronde sottolineavano persino con
un certo stupore i viaggiatori dell’epoca14 e non mancava di registrare la stessa Seção
de Estatística Demográfico-Sanitária nel 1917, riconoscendo che il maggior centro
urbano paulista si era trasformato “numa grande cidade italiana”.15 Questa etnicità
permeava la vita quotidiana: “per andare al lavoro, c’erano molte probabilità di
prendere un tram guidato da un autista italiano o discendente di italiani […]
entrando poi in un ristorante o in un bar per prendere un caffè si aveva a che fare
con un cameriere con l’accento italiano”16 o se ci si serviva da un sarto, da un
barbiere, da un orologiaio, o si varcava la soglia di in un esercizio commerciale o ci
si faceva scattare una fotografia c’era quasi la certezza che tutti questi servizi
fossero prestati da immigrati peninsulari.
Già la denominazione di alcune strade (rua Veneza, rua Principe di Napoli, rua
Lombardia, rua dos Italianos) dava la sensazione di una etnicità diffusa, ma per
averne una ancora più persuasiva bastava percorrere le vie della città e sentire i
passanti esprimersi, in larga maggioranza, in italiano o nei vari dialetti oppure
soffermarsi sulle insegne dei negozi, mentre persino gli avvisi comunali potevano
essere bilingui. Si trattava, probabilmente, di una leggenda metropolitana, ma è
significativo che, all’inizio del XX secolo, circolasse l’aneddoto che, nel cuore del
Brás, a un uomo di colore che con il suo carretto (peraltro della Padaria Itália) aveva
tagliato la strada a una carrozza, facendo imbizzarrire i cavalli, il cocchiere di
quest’ultima, ovviamente italiano, “gritou para o negro […] ‘Eh… Strunzo!...’. Ao
que o negro, parando a carrocinha e encarando o cocheiro, respondeu: ‘Parla
sfaccimme!’...”.17 Ciò stava a dimostrare la necessità, per la popolazione locale, di
apprendere quantomeno i rudimenti di lingua e dialetti peninsulari nelle zone a più
massiccio insediamento di immigrati; l’incontro tra due culture diede comunque
origine, soprattutto tra i ceti popolari, a un processo di simbiosi linguistica, a una
koiné in cui vocaboli, costruzioni e codici idiomatici si sovrapponevano e si
mischiavano.
L’italianità a São Paulo faceva capolino nelle sfilate a passo di corsa di bande
musicali in divisa da bersaglieri e nell’incedere di venerandi garibaldini abbigliati di
tutto punto con camicie rosse e berretti18 come all’epoca del Risorgimento. Ma tale
italianità solo raramente dava adito a motivi di vera apprensione tra i locali,
provocando loro la sensazione di essere sul punto di perdere la nazionalità
brasiliana.19 Pur permeando l’intera città e esprimendosi visivamente attraverso una
proliferazione di associazioni etniche (prevalentemente di mutuo soccorso), scuole
(quasi esclusivamente elementari, con l’eccezione dell’Istituto Dante Alighieri sorto
nel 1911) e giornali (primo fra tutti il Fanfulla, vero organo ufficioso della
collettività), la caratterizzazione descritta era, ovviamente, più marcata in alcuni
quartieri, quasi tutti dislocati lungo la cintura industriale e abitati da ceti popolari,
non necessariamente operai. Queste little Italies avevano a volte, ma non sempre,
precise connotazioni regionali: così se il Bom Retiro rimase sempre un quartiere a
forte presenza veneta, il Brás si spopolò di settentrionali a favore di campani e
pugliesi e il Bexiga vide la massiccia prevalenza di calabresi e pugliesi, mentre
Móoca, Barra Funda e Belénzinho presentarono una maggiore eterogeneità di
provenienza.20 Dove si ebbero prevalenze regionali molto accentuate, si registrò
l’imposizione di santi patroni regionali di matrice localistica: nel Brás, i campani
festeggiavano e festeggiano ancora la Madonna di Casaluce e i pugliesi San Vito
Martire, mentre la protettrice del Bexiga finì per essere una Madonna calabrese –
quella di Achiropita – assai più nota a São Paulo che in Italia.
La quotidianità dei quartieri italiani verrà magistralmente illustrata sul piano
letterario da Antônio de Alcântara Machado, ricostruita sul piano del ricordo
affettuoso da Zélia Gattai e riproposta sul piano delle testimonianze da Ecléa Bosi
e da Suzana Barreto Ribeiro, con una vasta documentazione anche fotografica.21
Ad ogni modo, malgrado le situazioni di compattezza etnica territoriale e benché
l’esperienza migratoria si fosse rivelata per un certo numero di peninsulari una
prova difficile, traducendosi in un’esistenza stentata, la maggior parte di loro la
visse positivamente, almeno nel senso che, di norma, non si registrò alcun conflitto
– né dentro di sé né fuori di sé – tra le possibilità di inserimento nella nuova realtà
e la perpetuazione di vincoli di ogni natura con la madrepatria. Se questa fu la
condizione prevalente, entrambi i soggetti potevano vantare dei meriti: i brasiliani
per avere ridotto al minimo atteggiamenti realmente sciovinisti e ostilità manifesta
(se non forse nell’ambito delle oligarchie, che rimasero a lungo impermeabili ai
nouveaux riches immigrati), gli italiani per aver dimostrato grande adattabilità. Si
trattò, in sostanza, del continuo susseguirsi di una prassi multiculturale, per cui se
gli immigrati giunsero a un certo grado di “brasilianizzazione”, i nativi si
diffuse soprattutto nel primo ventennio del Novecento, erano finalizzate alla
raccolta di fondi e rivolte a un pubblico familiare (le donne non pagavano
l’ingresso). Gli incassi avevano, da una parte, la funzione di finanziare scuole e
periodici operai, di assistere compagni ammalati, arrestati o espulsi, ovvero le loro
famiglie, di sostenere scioperi e rimpinguare casse di resistenza, di promuovere
campagne di solidarietà internazionale e, dall’altra, di scuotere coscienze. Le feste
in questione erano infatti rigidamente strutturate, con una precisa gerarchia di
eventi in termini di propaganda: conferenza di un relatore poco noto, eventuale
recitazione di poesie, serie di canzoni o brani di opere, lavoro teatrale “edificante”
in termini di contenuti sociali, conferenza di un personaggio più noto in ambiente
operaio, farsa (o atto unico ideologico), il tutto magari inframmezzato da giochi di
prestidigitazione e concluso con riffa e ballo. A volte la raccolta di fondi risultava
insufficiente, essendo necessario pagare un’orchestra e affittare un salone. Anche in
ambiente operaio, il più utilizzato era il Celso Garcia (che, tra l’altro, apparteneva
alla Associação das Classes Laboriosas) ma tanti altri si prestarono a ospitare tali serate,
dal Lira al Carlos Gomes, dal Gil Vicente all’Eden, dal Cassino Paulista al Cassino
Penteado.
Il teatro sociale, che affondava le sue radici in Europa, divenne un elemento
importante per la creazione di una coscienza popolare, vera operazione catartica
che faceva leva su una “fácil comunicação com a platéia”.29 Queste
rappresentazioni, veri strumenti di emancipazione e di indottrinamento politico
oltre che di crescita culturale, per lungo tempo vennero messe in scena a São Paulo
soprattutto da filodrammatiche che presentavano un vasto repertorio di autori
italiani o di altra nazionalità (in particolare francesi) ma tradotti, oppure di
improvvisati commediografi immigrati o di loro discendenti. Così, in queste recite,
comparivano due tipi di appelli: “um de caráter evocativo, que preserva o espírito
de italianidade, e o outro de natureza ideológica, procurando criar uma consciência
de classe”.30 Gli autori più rappresentati erano esponenti della produzione militante
europea: Felice Cavallotti, Francesco Grippiola, Demetrio Alati, Vera Starkoff,
Jean Grave, Octave Mirbeau, ma sopra a tutti spiccava Pietro Gori con tutta la sua
produzione, da Gente Onesta a Ideale, da Proximus tuus a Alla conquista dell’avvenire e a
Senza patria, lavoro in cui, non solo in Brasile ma un po’ovunque, “migliaia di
spettatori immigrati videro riflessa la propria storia”.31 Una buona accoglienza
ebbero anche gli sforzi di intellettuali immigrati vincolati al movimento operaio a
São Paulo: Bandiera proletaria e Militarismo e miseria di Marino Spagnuolo, Gli
immigrati e Leone di Mario Rapisardi, Il giustiziere di Giulio Sorelli, Gabriella e Per la
libertà di amare di Teodoro Monicelli, La miseria di Angelo Bandoni, Il viandante e
casa, al caffè o nella sede di uno dei tanti sodalizi italiani, dove gli iscritti avevano
spesso a disposizione alcune strutture destinate allo svago, comprese piccole
biblioteche. Si trattò di un fenomeno esteso, tanto che nello Stato di São Paulo
esistevano, nel 1908, ben 182 sodalizi del genere (che dovevano raddoppiare dopo
alcuni anni, secondo alcune stime assai probabilmente esagerate, del Departamento
Estadual do Trabalho), in prevalenza di mutuo soccorso, in alcuni dei quali
funzionavano scuole elementari per i figli degli iscritti. Tali strutture mantennero in
piedi interessanti forme di sociabilità, ma per la tematica che stiamo analizzando è
importante sottolineare soprattutto il ruolo svolto in tal senso dalle associazioni
sportive, le più affollate in termini di partecipanti. In effetti, l’attività fisica conobbe
un certo slancio tra gli immigrati già dall’ultimo decennio dell’Ottocento, prima
con il ciclismo (quasi un’estensione nel tempo libero dell’abituale sistema di
locomozione delle classi popolari) e poi con il canottaggio, il nuoto, il calcio,
l’atletica, il tennis e altre specialità ancora. Troviamo così vari circoli polisportivi
italiani sino alla seconda guerra, nati soprattutto dopo il 1900: l’Atletico Italia, il Club
Atletico Fiorentino, il Centro Ricreativo Sportivo Piemonte, l’Atletico Club Lazio, la Società
Sportiva Forza e Coraggio, l’Associazione Sportiva Asso di Cuori. Alcuni di questi sodalizi
emersero, grazie alla qualità dei servizi e alle buone prestazioni di alcuni dei loro
campioni, nel panorama locale e nazionale. Tale fu il caso del Club Esperia, sorto
nel 1899 sulle rive del Tietê, in una località affollata la domenica dagli italiani che vi
si recavano per organizzare picnic e per fare gite in barca. Inizialmente destinato
solo al canottaggio, il circolo promosse presto altre attività e si trasformò in uno
dei principali sodalizi sportivi a São Paulo, contando a metà degli anni ’30 circa
5.000 soci, non tutti italiani, favorendo in tal modo integrazione e
multiculturalismo.
Ovviamente, ciò che più attirava le classi popolari era il gioco del calcio, che anche
gli italiani cominciarono qui a praticare dalla fine del XIX secolo o magari solo ad
apprezzare come spettatori prima nei tanti campi periferici e polverosi (várzea) poi
in stadi strutturati. Benché alcuni giornali etnici lamentassero che il football andasse
affermandosi tra gli immigrati a scapito di altri sport (che gli italiani avevano
“splendidi e utilissimi”) per un’ansia di imitazione che favoriva “un gioco
grossolano e pericoloso per l’avvenire fisico dei nostri figli”34 (critica condivisa, per
motivi politici, anche dagli anarchici), nel giro di qualche anno queste testate
incrementeranno le vendite poroprio inaugurando rubriche sportive. Tale fu la
passione e l’interesse che nel 1914, anche in seguito all’entusiasmo suscitato da una
tournée nella capitale paulista della squadra di calcio del Torino, alcuni immigrati
decisero di fondare il Palestra Italia come squadra composta solo da italiani e figli
per farla iscrivere alla Liga Paulista. In tempi brevi fu acquistato il Parque Antártica
assorbendone le funzioni e creando una sorta di monopolio del tempo libero delle
classi popolari, anche se, nei fatti, finì per indirizzare i suoi sforzi anche verso i ceti
medi, delineando così una sorta di interclassismo dello svago. Nel corso degli anni
’30, pur diventando uno dei principali canali di organizzazione del consenso,
sosterrà “capillarmente il tempo libero dei lavoratori, rappresentando l’unica
occasione di ritrovo collettivo [e in seguito] patrocinerà i primi episodi di turismo
di massa, amplierà l’accesso agli spettacoli teatrali e cinematografici e agli sport
popolari”.37 L’ottima riuscita di queste strutture in patria indusse a trasferirle fuori
dai confini nazionali, là dove gli italiani erano numerosi, tanto che, alla fine degli
anni ’30, le loro sezioni sparse per il mondo ammontavano a 332.
Il caso della capitale paulista appare emblematico di questo successo: sorta nel
1931 (in ritardo rispetto a Rio, dove aveva aperto i battenti nel 1929), l’OND
vantava 1.500 iscritti l’anno della fondazione, 7.000 nel 1935 e addirittura (ma
sicuramente con parecchia esagerazione nella compilazione di tale stima) 40.000 nel
1938, secondo il DOPS paulista.38 Oltre agli evidenti compiti di propaganda,
l’organizzazione era strutturata, come sinteticamente affermava la stessa polizia
politica alla fine degli anni ’30, in quattro sezioni: educazione artistica, istruzione,
educazione fisica, assistenza.39 In realtà, restavano fuori da questa classificazione le
funzioni meramente ricreative, dalle gite domenicali, in genere a Santos, alle feste
danzanti, dalle cene sociali ai balli in maschera, dalla commemorazione di date
patriottiche e fasciste alla proiezione di pellicole italiane. In effetti, pur non
risultando del tutto assente, la circolazione di film provenienti dalla penisola era
piuttosto limitata in un circuito commerciale dominato già allora da Hollywood. Il
Dopolavoro (insieme al Fascio e a gran parte delle associazioni, ormai sostenitrici del
regime fascista specie dall’inizio degli anni ’30) consentì che gli immigrati potessero
assistere a lungometraggi, documentari e cinegiornali prodotti dall’Italia
mussoliniana.
I compiti delle OND attinenti alla sfera dell’istruzione si risolsero nel sostegno a
scuole esistenti, nella apertura di lezioni serali di italiano ma soprattutto
nell’istituzione di corsi professionali. La cultura venne promossa mettendo a
disposizione una sala per le conferenze e una biblioteca, nonché mantenendo una
filodrammatica e organizzando recite teatrali e concerti. L’assistenza di cui parlava
il DOPS fu, in verità, quasi esclusivamente di tipo sanitario, con la creazione di un
piccolo ambulatorio e con l’impegno profuso nel combattere l’alcolismo e le
malattie veneree e nel propagandare i vantaggi dell’igiene personale. Ma la sfera di
gran lunga più popolare fu quella dell’educazione fisica e della pratica sportiva, con
la promozione di attività per ogni classe di età e con il periodico svolgimento di
gare e tornei in una serie di sport: calcio, pallacanestro, tennis, scherma, pugilato,
Notas e referências
1 Maria Aparecida de SOUZA. “Metrópole e Paisagem: Caminhos e Descaminhos da Urbanização”.
In: Paula PORTA. (Org.). História da Cidade de São Paulo. Vol. 3. A Cidade na Primeira Metade do Século
XX, 1890-1954. São Paulo: Paz e Terra, 2004, p. 520.
2 Sulle tappe dello sviluppo demografico e urbano di São Paulo, vid: Richard MORSE. Formação
Histórica de São Paulo. São Paulo: Difel, 1970.
3 Carlos José Ferreira dos SANTOS. Nem Tudo Era Italiano: São Paulo e Pobreza (1890-1915). São
Paulo: Annablume/Fapesp, 1998, p. 35.
4 Samuel H. LOWRIE. Emigração e Crescimento da População no Estado de São Paulo. São Paulo, Escola
Livre de Sociologia e Política, 1938, pp. 42-43.
5 Oscar PEDERNEIRAS. “O engraixate”. A Provincia de São Paulo. 14/04/1878. Sui mestieri
marginali urbani degli italiani, vid: Ernani SILVA BRUNO. História e Tradições da Cidade de São Paulo.
Vol. 3. São Paulo: Hucitec, 1984, pp. 1131-1139; Jorge AMERICANO. São Paulo Naquele Tempo,
1895-1915. São Paulo: Saraiva, 1957, pp. 118-120 e 188-189.
1908, p. 532.
9 Tra i tanti lavori sulla presenza italiana in campo edilizio e architettonico, vid: Emma
DEBENEDETTI; Anita SALMONI. Architettura italiana a San Paolo. São Paulo: Instituto Cultural
Italo-Brasileiro, 1953; Pietro BARDI. Contribuições dos Italianos na Arquitetura Brasileira. São Paulo:
Fiat do Brasil, 1981. Per una breve sintesi dei processi di trasformazione urbanistica durante
l’immigrazione di massa, vid: Carlos A. LEMOS. O Morar em São Paulo no Tempo dos Italianos. In: Luis
A. DE BONI. (Org.). A Presença Italiana no Brasil. Vol. 2, Porto Alegre: Escola Superior de
Teologia/Fondazione Agnelli, 1990, pp. 401-409.
10 Ferruccio MACOLA. L’Italia alla conquista dell’America Latina. Venezia: Ongania, 1894, p. 384.
11Alfredo CUSANO. L’Italia d’oltremare. Impressioni e ricordi dei miei cinque anni in Brasile. Milano,
1900, p. 29.
14 Gina Lombroso FERRERO. Nell'America meridionale (Brasile-Uruguay-Argentina). Milano, Treves,
1908, p. 34.
15 Carlos José Ferreira dos SANTOS. Nem Tudo Era Italiano: São Paulo e Pobreza (1890-1915). São
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17 Geraldo SESSO JR. Retratos da Velha São Paulo. São Paulo: Maltese, 1995, p. 123.
18 Alfredo ELLIS JR. Populações Paulistas. São Paulo: Nacional, 1934, p. 206; Ernani Silva BRUNO.
História e Tradições da Cidade de São Paulo. vol. 3. São Paulo: Hucitec/Prefeitura do Município, 1984,
p. 1304.
19 Aureliano LEITE. “Italianos em São Paulo”. O Estado de S. Paulo, 20 de abril de 1954.
20 Su questa tematica e su quella della caratterizzazione sociale, vid. Luigi BIONDI. “‘Le Quartier que
Je Admire le Plus, C’Est Bom Retiro’: l’archipel tropicale urbain des Petites Italies de São Paulo
(1880-1940)”. In: Marie-Claude BLANC-CHALÉARD et.al. (Dir.). Les Petites Italies dans le monde.
Rennes: Presses Universitaires de Rennes, 2007, pp. 105-119.
21Antônio de Alcântara MACHADO. Brás, Bexiga e Barra Funda: Notícias de São Paulo, São Paulo:
Imprensa Oficial do Estado 1983 (1a ed. 1927); Zélia GATTAI. Anarquistas, Graças a Deus. Rio de
Janeiro: Record, 1979; Ecléa BOSI. Memória e Sociedade: Lembranças de Velhos. São Paulo: Queiroz
1979; Suzana Ribeiro BARRETO. Italianos do Brás: Imagens e Memórias. São Paulo: Brasiliense
1994.
22Vid. Angelo TRENTO. “Tarefas da mulher na análise dos anarquistas italianos no Brasil”. In:
como práticas imorais que visam enfraquecer e entorpecer a classe operária, desviando-a do
cumprimento de sua função histórica revolucionária”, facendo perdere ai singoli la propria dignità
(Margareth RAGO. Do Cabaré ao Lar: A Utopia da Cidade Disciplinar. Brasil 1890-1930. Rio de
Janeiro: Paz e Terra, 1985, p. 111.
23Emilio FRANZINA. L’immaginario degli emigranti. Miti e raffigurazione dell’esperienza italiana
nazionale nelle società filodrammatiche italiane a São Paulo (1890-1920)”. In: FONDAZIONE
CASA AMERICA. Il Risorgimento Italiano in America Latina. Ancona: Affinità Elettive, 2006, p. 323.
26 Fernando J. DEVOTO, Storia degli italiani in Argentina. Roma: Donzelli, 2007, p. 59.
27 Angelo TRENTO. “Organização Operária e Organização do Tempo Livre entre os Imigrantes
Italianos em São Paulo (1889-1945)”. In: Maria Luiza Tucci CARNEIRO; Federico CROCI;
Emilio FRANZINA. (Org.). História do Trabalho e Histórias da Imigração. São Paulo: Edusp/Fapesp,
2010, p. 241).
28 Emilio FRANZINA. L’immaginario degli emigranti. Miti e raffigurazione dell’esperienza italiana
Paola CORTI e Matteo SANFILIPPO. (a cura di). Storia d’Italia. Annali 24: migrazione. Torino:
Einaudi, 2009, p. 352.
32 Maria TherezaVARGAS. Teatro Operário na Cidade de São Paulo. São Paulo: Secretaria Municipal de
Cultura/Idart, 1980, p. 24; Alessandra VANNUCCI. “La patria in scena. Mobilitazione politica e
costruzione di una identità nazionale nelle società filodrammatiche italiane a São Paulo (1890-
1920)”. In: FONDAZIONE CASA AMERICA. Il Risorgimento Italiano in America Latina. Ancona:
Affinità Elettive, 2006, p. 327.
33 Sul teatro operaio, cfr. oltre ai lavori già citati, “Operários e Anarquistas Fazendo Teatro”. Cadernos
AEL. Campinas, 1, 1992; VARGAS. “O Teatro Operário em São Paulo”. In: Antônio Arnoni
PRADO. (Org.). Libertários no Brasil: Lutas, Memôrias, Cultura. São Paulo: Brasiliense, 1987 e, per
ciò che riguarda i soli italiani, Edgar RODRIGUES. Os Anarquistas: Trabalhadores italianos no
Brasil. São Paulo: Global, 1984, pp. 144-153.
34 “Lo sport”. Fanfulla, 7.9.1903. Istituto Italiano di Cultura / Instituto Cultural Italo.
35 Sul “Palestra Italia”, vid. oltre a Franco CENNI. Italianos no Brasil. Andiamo in ‘Merica…”. 2a ed..
São Paulo: Martins/Edusp, 1975, pp. 242-243; José Renato de Campos ARAÚJO. Imigração e
Futebol: O caso Palestra Itália. São Paulo: Sumaré/Idesp, 2000; Vincenzo FRATTA, Palestra Italia.
Quando gli italiani insegnavano il calcio in Brasile. Roma, Lit, 2014.
36 Angelo TRENTO. “Fasci in Brasile”. In: Emilio FRANZINA; Matteo SANFILIPPO. (a cura di).
in America Latina”. In: Vanni BLENGINO; Emilio FRANZINA; Adolfo PEPE. (a cura di). La
riscoperta delle Americhe. Milano: Teti, 1994, p. 381.
41 BRASIL. Arquivo do Estado de São Paulo/Departamento de Ordem Política e Social. Prontuário