Lauriola - (N.D.) Il Cristocentrismo Di Giovanni Duns Scoto
Lauriola - (N.D.) Il Cristocentrismo Di Giovanni Duns Scoto
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Premessa
1- Significato di cristocentrismo
A una lettura veloce della storia recente della Chiesa si può notare una
preoccupazione costante e uno sforzo diuturno di mettere sempre più in evidenza
la centralità di Cristo nella sua vita come nella storia degli uomini e nella stessa
esistenza del cosmo. Tale processo è evidente principalmente nel e dopo il
concilio Vaticano II che ha messo in evidenza a tutto tondo la centralità di Cristo
come centro e fondamento del discorso su Dio, sull’uomo e sul mondo.
Questo rapporto Cristo-uomo-mondo non è una esigenza di momento o di
moda, ma è essenziale al Cristianesimo, che si presenta storicamenete come
religione dell’incarnazione, il cui posto centrale è occupato da Cristo come causa
efficiente formale e finale dell’intera creazione. Primato che comporta molti
elementi esclusivi e caratteristici:
1) Cristo non solo è fondatore e predicatore di un messaggio di salvezza, ma si
identifica anche con il contenuto di tale messaggio;
2) Cristo si trova al centro della storia della salvezza, nel senso che la storia
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precedente l’ha atteso e preparato; mentre la storia che segue, ne sperimenta la
presenza e ne prepara il ritorno come coronamento della stessa storia;
3) Cristo continua la sua opera nella nella Chiesa con cui s’identifica;
4) Il ritorno di Cristo deve essere preparato con la lenta costruzione del suo
Corpo mistico, dal momento che il Cristo totale abbraccia l’unione in lui
dell’umanità redenta: totus Christus, caput et membra.
5) La legge suprema della morale cristiana si riassume nell’amore di Dio e
nell’amore del prossimo, attuata non solo come un comando di Cristo, ma
realizzata in Cristo; e trova la sua massima espressione nella comunione con Dio e
con il genere umano in Cristo, con Cristo e per Cristo.
Questi brevissimi tratti dottrinali sono più che sufficienti per affermare che il
problema della centralità di Cristo non può essere più presentato come una
questione marginale della teologia, legata alla polemica sul “motivo
dell’Incarnazione”; ma occorre farne il centro della stessa teologia, ripensando la
dottrina rivelata e la speculazione teologica alla luce delle nuove indicazioni
fornite dall’esegesi e delle nuove concezioni dell’uomo e del cosmo.
1 Es 3, 14.
2 1Gv, 4, 16.
3 Ord III, 28, un., 9: «patet qualiter habitus charitatis sit unus, quia non respicit primo plura obiecta, sed
solum Deum respicit pro primo obiecto, ut in se bonum primum, et secundario velle cum diligi, et per
dilectionem haberi a quocumque, quantum est in se, quia in hoc est perfecta et ordinata dilectio eius; et hoc
volendo diligo me, et proximum ex charitate volendo mihi, et sibi velle, et per dilectionem habere Deum in
se, quod est bonum simpliciter iustitiae, ita quod primum obiectum est solus Deus in se, omnia autem alia
sunt quaedam obiecta media, quasi actuum reflexorum, mediantibus quibus tendo in infinitum bonum, quod
est Deus; idem autem est habitus actus recti et reflexi»; Ord III, 26, un., 51: «sine tali desiderio potest esse
actus charitatis intensus et remissus et medius. De remisso patet, quia possum remisse velle Deum in se esse
bonum, non desiderando illud mihi. Similiter patet de medio. De supremo patet, quia summe diligit se Deus,
et summe Beatus est, et tamen in hoc non desiderat formaliter se esse bonum alii amanti; nec oportet
potentiam libere agentem necessario agere quantum potest. Probantur etiam haec membra omnia per hoc,
quod non est necesse voluntatem habere duos actus in se; sed actus amandi Deum in se, et desiderandi cum
amanti sunt; duo igitur unus potest esse sine alio»; Lect I,17,1,un.13: «ostenso obiecto supernaturali ipsi
voluntati constitutae in puris naturalibus, sine fide et spe, voluntas potest habere actum diligendi illud sine
habitu medio, quia Deus ibi ostenditur ut infinitum bonum»; Lect I,8,1,3,106: «quidquid est in divinis, vel
est formaliter infinitum vel non determinatur ad esse finitum; igitur nihil formaliter dictum de Deo est per se
in genere. Sapientia igitur et bonitas et cetera huiusmodi, quae dicuntur formaliter de Deo, non sunt in
genere»; QQ 1,56: «Deus comprehendit essentiam suam ut infinitam, sub ratione qua est comprehensivum,
est infinitum, quia infinitum obiectum ut infinitum comprehendi non potest aliquo actu nisi infinito ut
infinito; ergo, cum infinitum simpliciter in perfectione non includat per se aliquid cui intrinsece repugnat
infinitas, sequitur quod infinitum simpliciter non est ens rationis nec includit per se primo ens rationis».
4 Ord I, 17, 1, 2, 171: «omnis autem diligens dilectionem suam formaliter, diligit Spiritum Sanctum qui
est dilectio per essentiam; ergo omnis diligens fratrem suum, diligit Spiritum Sanctum qui est dilectio per
essentiam»; Ord I, 17, 1, 2, 171’: «omnis ordinate diligens minus bonum, magis debet diligere aliquid magis
bonum, praecipue quando in minore bono non est ratio diligibilitatis nisi a maiore bono; dilectio autem mea
formaliter est minus bonum quam dilectio illa per essentiam quae est Spiritus Sanctus, et praecipue ab illa
dilectione habet rationem diligibilitatis»; Ord I, 17, 1, 2, 173: «Deus sit formaliter caritas et dilectio, non
tantum creative, sicut est effective ‘spes’ vel ‘patientia mea’, quia efficit patientiam tamquam non
perfectionem simpliciter, et ideo non convenientem sibi formaliter; sed caritatem efficit in anima - et
dilectionem - tamquam perfectionen simpliciter, et ideo convenientem sibi formaliter»; RP III, 19, un., 39:
«quia Deus retribuit secundum iustitiam distributivam, considerando conditiones non tantum formales ex
storia con l’esperienza dell’amore donativo in Cristo Gesù, che scientificamente
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ho chiamato il big-bang divino.
Dalla convinzione che Dio può essere amato adeguatamente solo da un altro
Dio, secondo la testimonianza di Platone nel mito della creazione5, Duns Scoto
afferma categoricamente: «Solo Dio ama Dio. Dio vuole essere amato da altri
condiligenti, vuole cioè che altri abbiano in sé il suo amore; e per questo
eternamente predestina chi lo deve amare adeguatamente e infinitamente di un
amore estrinseco»6.
E con perfetta e stringata logica continua: «Chi vuole ragionevolmente, vuole
in primo luogo il fine; in secondo luogo, i mezzi che permettono di raggiungere
immediatamente tale fine; in terzo luogo, tutto ciò che consente di raggiungerlo
remotamente. Ora, anche Dio, vuole in modo ordinatissimo, e, quindi, vuole
dapprima il fine, benché non con diversi atti ma con un’unico atto, in quanto il
suo atto tende in diverso modo e ordinatamente verso gli oggetti. In secondo
luogo, Dio vuole ciò che è ordinato immediatamente a tal fine, predestinando gli
eletti alla gloria... In terzo luogo, Dio vuole ciò che è necessario per raggiungere
questo fine, cioè i beni di grazia. In quarto luogo, Dio vuole per questi
condiligenti tutto ciò che è più lontano dal fine, ad es. il mondo sensibile che deve
a loro servire»7.
Dal contesto, emerge chiaramente la presenza di una gerarchia nell’ordine
degli esseri voluti e amati da Dio da sempre e con il medesimo e unico atto
infinito d’amore, secondo il principio biblico «Dio compie tutto per la sua
gloria»8. Dalla gerarchia degli esseri, Duns Scoto ricava a tutto tondo che la serie
dei condiligentes è fatta da Cristo e a Cristo finalizzata. Cristo costituisce
realmente il concetto di “mediazione universale” sia nel campo della grazia che in
quello dell’essere. Ecco l’ordine dell’essere: Cristo-Maria angelo uomo materia.
E’ la scala dell’essere che Duns Scoto, sull’insegnamento di Paolo9, vede
presente nella mente di Dio da sempre.
Lo svolgimento del pensiero del Dottor Sottile, per volute armoniche e
armoniose, evidenzia sempre meglio la centralità di Cristo nel mistero rivelato da
parte actus merendi, sed ex parte agentis, ideo potuit acceptari passio, quae erat actus meritorius finitus ad
praemium infinitum propter infinitam dilectionem et acceptationem personae merentis».
5 Timeo, 41, a3-42 e 8.
6Ord, III, d. 32, q. un., n. 6: «Primo Deus diligit se. Secundo Deus vult alios habere condiligentes, et haec
est praedestinare eos, si velit eos habere huismodi bonum finaliter et aeternaliter, praedestinat qui potest eum
summe diligere, loquendo de amore alicuius extrinseci».
7Ibidem.
8Prov 16, 4.
9Ef 1, 3-14.
Dio nella gerarchia degli esseri. E in un raptus d’amore esclama:
8 8
«Nell’interpretare Cristo, io preferisco più eccedere nella lode che essere
difettoso»10. Il calore del suo cocente amore, illuminato e inquadrato dall’acume
speculativo, si galvanizza sul mistero di Cristo, chiedendosi il motivo della sua
esistenza.
E dalle sue profonde e silenziose meditazioni sul dato rivelato, lo scopre nel
rendere la somma gloria a Dio, che tutto vuole per se stesso e per la sua gloria. E
così Duns Scoto getta le basi per il primato e la centralità di Cristo. Elabora la
sua dottrina intorno al mistero dell’Incarnazione, partendo direttamente da Dio e
non dall’uomo, e trasforma con abilità di consumata perfezione speculativa lo
pseudo-problema ipotetico “Se Adamo non avesse peccato...”, nella concreta e
reale domanda: “Perché c’è Cristo? Perché è stato predestinato...?”; “Qual è il
primo amore di Dio?”; “Qual è il posto di Cristo nel disegno concreto di Dio?”...
La praticità della speculazione di Duns Scoto emerge con evidenza proprio
nell’evitare l’aspetto ipotetico della questione “se Adamo non avesse peccato...”,
e nel prendere in seria considerazione il fatto inconfutabile della presenza reale e
storica di Cristo. E anticipando l’intuizione vichiana del verum et factum
convertuntur pone le domande “perché c’è il Cristo?”, “qual è la ragione della
sua esistenza”? e risale dal factum al verum, sviluppando tutta la sua indagine in
stretta armonia con il concetto di predestinazione, vera novità dell’analisi
scotiana, una tesi non può reggersi senza dell’altra.
1- Definizione di predestinazione
Duns Scoto utilizza per definire la posizione di Cristo nel piano divino diverse
definizioni, per es., una recita: «l’ordine di elezione attraverso la volontà divina di
una creatura intellettuale o razionale alla grazia e alla gloria»11; e un’altra: «il
libero ed eterno decreto di Dio che preordina qualcuno alla gloria, e a tutto il resto
26Col 1, 15-17.
27Cf Ef 1, 3-14; Fil 2, 6-11; Rm 8, 29.
28 Metafisica, VI, 7, 1032b 1517; Bonnefoy G., La primauté du Christ selon l’Ecriture et la tradition,
Roma 1959, 11s.
l’uomo è stato creato a “immagine di Cristo venturo”. La lettura della gerarchia
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dell’essere è fatta da Duns Scoto in chiave ontologica: Dio manifesta al di fuori
di sé la pienezza della vita e dell’amore, così da perpetuare quello stesso amore
che scaturisce perpetuamente tra i Tre che sono Uno.
In questo meraviglioso disegno d’amore, Duns Scoto intuisce con l’aiuto della
fede la presenza di Cristo sia come cuore di Dio che come mistero da conoscere.
Nella gerarchia dell’essere, perciò, Cristo occupa il primo posto perché tutto è
stato creato da lui e per lui, e tutto dipende da lui, e Cristo non dipende da
nessuno. Questo significa che Dio per primo ama Cristo e in lui tutto ciò che
viene dopo di lui. E’ in forza del primato ontologico di Cristo che Duns Scoto non
può accettare in nessun modo la sua occasionalità, anzi afferma l’assoluta gratuità
della predestinazione di Cristo, che, pertanto, corona tutto l’ordine creato ed è
indipendente da tutto e tutto dipende da lui come causa finale efficiente ed
esemplare.
Pur affermando il primato dell’Incarnazione sulla Redenzione, Duns Scoto ha
un grandissimo concetto della Redenzione. Difatti, la redenzione, più che
un’azione dovuta dall’uomo, è l’azione più grande e più libera dell’amore
misericordioso di Cristo, che per questo merita il massimo riconoscimento e
ringraziamento da parte dell’uomo. Per quanto riguarda il termine “misericordia”
30
, Duns Scoto dice che esso è più in relazione al dono che al perdono, per cui la
grandezza della misericordia di Cristo si misura dalla gratuità del dono, dato due
volte: scelto e redento, perché non c’era nessuna necessità a redimere il genere
umano31.
B - CRISTO MEDIATORE
29Cf 1 Cor 3, 2.
30Ord IV 46, 2, 50: «misericordia inclinat ad passionem illam, non est in Deo; et ab illo videtur imponi
principaliter nomen misericordiae, exponendo misericors etymologice, id est, miserum cor habens, quia
compatiens miseriae alienae in hoc habet cor miserum, hoc est communicans in miseria».
31Ord III, 20, un., 25: «nulla est necessitas genus humanum reparari; igitur nec Christum pati.
Consequentia de se patet. Antecedens probatur, quia si sic, hoc non est nisi quia homines praedestinati sunt
ad gloriam, et lapsi non possunt intrare nisi per satisfactionem; sed modo ita est, quod praedestinatio hominis
contingens est et non necessaria; sicut enim Deus ab aeterno contingenter praedestinavit hominem, et non
necessario, quia nihil necessario operatur respectu aliquorum extra se, ordinando illa ad bonum, sic potuit
non praedestinasse; nec est inconveniens hominem frustrari a beatitudine, nisi presupposita praedestinatione
hominis, igitur nulla fuit absolute redemptionis eius necessitas, sicut nec praestinationis eius».
Dio invisibile in quanto è in relazione perfetta con Dio, e il “Primogenito di tutte
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le creature” in quanto è in relazione di causa con tutte le creature.
32Eb 8, 6.
33Eb 9, 15; 12, 24.
341Tm 2, 5.
35Gal 3, 19-20.
Nel testo ai Galati 36, Paolo vuol dire che il tempo del mediatore Mosè è
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passato ed è cominciato quello del Figlio di Dio Incarnato, cioè di Cristo37.
Di tutt’altro significato è il termine “mediatore” nelle lettera agli Ebrei, che ha
come tema centrale la “garanzia per il raggiungimento della patria celeste”. Oltre
al significato di “garante”38, il termine “mediatore” assume anche quello di colui
che “assicura la salvezza”39.
Soltanto nel passo della prima lettera a Timoteo, Cristo viene espressamente
definito unico mediatore tra Dio e gli uomini: «Uno solo, infatti, è Dio e uno solo
è il mediatore tra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù»40. Questo testo sembra
faccia da cerniera tra Romani 3, 30 e Efesini 4, 6, che fondano l’universalità
della salvezza nell’unità di Dio, e tra Galati 3, 12-19 e 2Corinzi 5, 14, che la
fondano invece nell’unico uomo Cristo Gesù.
Il motivo per cui Cristo Gesù viene designato una sola volta come unico
Mediatore poggia certamente sul fatto che solo lui conosce il Padre, per cui
vengono esclusi tutte le altre forme di mediazioni. E tutte le volte che vengono
utilizzati altri titoli analoghi, come sacerdote profeta re..., Gesù viene direttamente
identificato con i relativi titoli. In altre parole, Gesù Cristo viene presentato come
unico Mediatore, nel senso che toglie a ogni altra possibile mediazione il valore
salvifico, perché solo lui è il Salvatore.
Certamente, l’unicità dell’azione salvifica di Cristo dimostra anche la liberalità
con cui Cristo ha voluto sacrificarsi per l’uomo, facendogli il dono più grande che
si possa immaginare. Discutendo, infatti, la tesi di Anselmo circa tale mistero
redentivo41, Duns Scoto prima esclude la necessità da parte dell’uomo di dover
essere redento42, e poi ne afferma la gratuità del dono da parte del Cristo stesso43,
necessitas consequentiae, sed antecedens est simpliciter contingens, et similiter consequens, scilicet me
currere et me moveri. Similiter Christum pati mortem, fuit contingens, sicut contingens fuit ipsum praevideri
passurum; nulla, est ergo necessitas nisi consequentiae, scilicet si praevisus fuit pati, patietur, sed tam
antecedens quam consequens fuit contingens».
43Cf per es. Ord III, 20, un., 31: «dico quod omnia huiusmodi, quae facta sunt a Christo circa
redemptionem nostram, non fuerunt necessaria, nisi praesupposita ordinatione divina, quae sic ordinavit fieri,
et tunc tantum necessitate consequentiae necessarium fuit Christum pati, sed tamen totum fuit contingens
simpliciter et antecedens et consequens. Unde credendum est, quod ille homo passus est propter iustitiam;
vidit enim mala Iudaeorum, quae fecerant, et quomodo inordinata affectione et distorta afficiebantur ad
legem suam, nec permittebant homines curari in Sabbato, et tamen extratiebant ovem vel bovem de puteo in
Sabbato, et multa alia»; Ord III, 9, un., 22: «tunc argumentum applicatum ad Christum, ut redemptorem, non
concludit, quia illa natura in qua exercuit opera redemptionis, non habet istam bonitatem infinitam
intrinsecam, qualitercumque ipsa esset ratio vel principium conferendi nobis maximum bonum»; Ord IV 15,
1, 18: «Fuit quidem ei [scil. Christi] alius modus nostrae redemptionis possibilis, scilicet quam per
incarnationem ei passionem; sed nullus nostrae miseriae sanandae convenientior»; ergo lapsus videtur posse
sanari alia via, quam per incarnationem et passionem Christi».
44 Ord III, 9, un., 19: «cum Christus fuerit redemptor secundum naturam humanam, quod secundum
illam ut secundum rationem adorandi, non absolute, sed ut ipsa fuit ratio redimendi, debetur Christo adoratio,
quae et creatori»; RP IV, 2, 1, 36: «de Christo offerente suo Patri, a quo in summo diligit, se ipsum in
mortem ad offensam nostram redimendam»; RP IV, 48, 1, 13: «dicitur quod Christus iudicabit in forma servi,
sive hominis; secundo dicunt quod Christus in illa forma omnibus apparebit; tertio quod non apparebit
omnibus secundum formam deitatis, quia non nisi Beatis. De primo assignatur duplex ratio, prima est, quia
secundum formam hominis Christus est Dominus omnium, et Redemptor omnium. Si igitur Christus ut
homo, est Dominus et Redemptor, ei competit iudicare secundum quod homo, et ideo Apostolus dicit,
Romanis 14, quod «Christus resurrexit, ut dominetur vivorum et mortuorum»; Domino autem, ut dictum est,
congruit iudicare»; RP IV, 48, 1, 14: «iudicium est secundum illam formam, sive per illud per quod aperitur
regnum caelorum vel clauditur; sed per Christum, ut Redemptor est. Ianua est nobis aperta, scilicet per
Passionem, et hoc est secundum formam hominis»; RP IV, 48, 2, 30: «quando dicitur quod Christus
secundum formam humanitatis est Dominus omnium et redemptor, et introductor ad regnum, dicendum quod
Dominus et principalis Dominus est in illa persona, sed non est principalis Dominus secundum naturam
humanam, nec Dominus. Illa tamen natura humana est ratio et principium cuiusdam dominii, scilicet
principium reparationis nostre redemptionis in ratione causae meritorie, non in ratione causae effectivae, ut
dictum est; meritum enim erat animae Christi, non Verbi, nisi concomitanter. Unde illi naturae humanae in
Christo obligamur sicut dominae, naturae tamen sub domino, quia adhuc est sub supremo domino, in
quantum Deus est Dominus omnium».
45Ord III, 7, 3, 58”: «Ergo a primo prius vult animae Christi gloriam, quam praevideat Adam casurum.
Omnes autem auctoritates possunt exponi sic, scilicet quod Christus non venisset ut redemptor, nisi homo
cecidisset, neque forte, ut passibilis, quia non fuit aliqua necessitas, ut illa anima a principio gloriosa, cui
Deus praeoptavit non tantum summam gloriam, sed etiam coaevam illi anima, quod unita fuisset corpori
passibili, nisi redemptio fuisset facienda».
46RP III, 20, un., 38: «Christus voluit sic pati, processit ex amore intenso finis et nostri, quo dilexit nos
propter Deum»; Ord III, 20, un., 35’: «Quod ergo Christus voluit sic pati, processit ex amore intenso finis et
nostri, quo dilexit nos propter Deum».
47Col 1, 15.
divina di Cristo: Unigenito, Verbo, Immagine di Dio ecc. I titoli del primo gruppo
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fanno di Cristo il “primo” del genere umano; i secondi, invece, innalzano Cristo al
di sopra di tutte le cose e quindi come “unigenito”.
La comprensione dei titoli sopra indicati emerge meglio se si tien presente ciò
che Duns Scoto dice intorno ai termini di imago e di similitudo. In un testo delle
Collationes48 dopo aver detto che c’è differenza tra “immagine ombra vestigio e
similitudo”, perché dicono relazione a qualcosa di diverso, sembra utilizzare come
sinonimi i due termini imago e similitudo, secondo la tradizione, a cominciare
da Cirillo49. Secondo il Dottor Sottile «la similitudine appartiene alla realtà che
appare»50, mentre applicata quelle divine «esprime sempre una relazione reale» 51.
E il motivo è dato dal fatto che la similitudine non esprime rapporto causale come
invece esprime il vestigio52.
L’immagine può essere di due tipi: di “derivazione” dalla stessa natura, e di
“riproduzione” della stessa natura. L’immagine di derivazione o di generazione si
ha quando colui che è immagine esprime la stessa natura di colui di cui è
immagine, in questo modo l’immagine s’identifica con la copia di cui è immagine,
e si chiama anche perfetta o diretta, come nel caso del Verbo che, sussistente nella
natura umana di Cristo, è della stessa natura del Padre. Così, per es., il testo
paolino, «Cristo è l’immagine di Dio invisibile», si riferisce proprio a questo
senso perfetto dell’immagine che riproduce l’originale, cioè esprime l’identità di
natura.
L’immagine di riproduzione, invece, si ha quando colui che è immagine
riproduce qualcosa dell’originale semplicemente per partecipazione e non
naturalmente, come per es., tra il progetto e la sua realizzazione, nel senso che
l’immagine partecipa della natura di colui di cui è immagine, come quando si
afferma che l’uomo è immagine di Cristo.
Il significato dell’”immagine” in Cristo si realizza nella “natura” e non nella
“persona”. Il perché è ovvio. Il concetto di immagine richiama più ciò che unisce
che ciò che divide. Difatti, può essere più o meno perfetta rispetto all’originale.
Ora, per fede, si ammettono in Cristo due nature, quella divina e quella umana, e
una sola persona, quella del Verbo. In forza delle tre divine persone, si afferma
che nel mistero di Dio ci sono delle differenze, nel senso che il Padre non è il
48Col 35,2,10: «est differentia inter imaginem, umbram, vestigium et similitudinem. Ad cuius
intellectum sciendum est, quod omnia ista importat relationem et respectum».
49 Cf Adversus Anthropomorphitas, cap. 5.
50ELENCHI 24, 15: «omne quod apparet, habet aliquam similitudinem illius quod apparet».
51Lect I, 31, un., 19: «dico quod similitudo est relatio realis in Deo».
52Col 35, 2, 11: «‘Similitudo’ non importat causalitatem, sed vestigium importat causalitatem».
Figlio e il Figlio non è il Padre, così dello Spirito Santo. Mentre ciò che unisce le
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tre persone divine è l’identica e comune “natura”. E’ il concetto di natura allora
che può comunicarsi o per generazione o per riproduzione, e non il concetto di
persona che invece caratterizza e singolarizza una natura.
Altra caratteristica dell’immagine, nel testo paolino, è che essa rende “visibile”
una realtà che per sua natura è invisibile, Dio. Il soggetto dell’immagine non può
essere il Verbo perché, in quanto seconda persona della Trinità, è “invisibile”
anche lui. Bisogna intendere allora il Verbo “incarnato”, che, unito
ipostaticamente alla “visibile” natura umana, rende visibile ciò che è invisibile. In
questo modo, l’Invisibile diventa visibile non in sé e per sé, ma unicamente
nell’Uomo-Cristo, ossia nel Verbo “incarnato”. E’ chiaro, quindi, che Dio
«invisibile» si manifesta e parla all’uomo per mezzo della sua «Immagine»
visibile, cioè del Verbo incarnato.
Dall’immagine perfetta di Dio, Cristo, derivano tutte le altre immagini
imperfette sia negli esseri razionali sia negli esseri irrazionali, a seconda del grado
di vicinanza che hanno a Cristo stesso. Si ha così la scala discendente dell’essere:
Dio Cristo-Maria Angelo Uomo e Mondo. Negli esseri razionali si realizza il
concetto dell’immagine imperfetta di Cristo; negli esseri irrazionali, il concetto di
“vestigio” di Cristo. Così in tutta la creazione è assicurata la presenza di Cristo,
sia come vestigio sia come immagine, che viene a costituire la scala per risalire a
Dio stesso. Cristo, in quanto immagine perfetta diviene anche il prototipo non
solo della creazione, ma anche fulcro della risalita all’originale, Dio. In questa
salita, per visibilia s’intende Cristo e non le cose create! E’ in Cristo e per Cristo
che si sale a Dio: la via dell’immagine di Cristo è più sicura del vestigio di Cristo,
come nel testo ai Romani 1, 1-23.
Su questa scia ermeneutica scotiana si trova anche il concilio Vaticano II, che
in più documenti attesta l’attribuzione del titolo paolino dell’«Immagine» a
Cristo, Verbo incarnato.
53Col 1, 15-18.
viene storicamente per ultimo quando tutto è pronto per accoglirlo, cioè nella
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pienezza del tempo; e un principio speculativo di Duns Scoto, che afferma: tutto
il mondo fisico è stato creato in funzione dell’uomo, il quale ne costituisce anche
il fine, perché Dio vuole l’ordine del mondo finalizzato a Cristo l’uomo
predestinato, il vero uomo, il nuovo uomo.
Dal contesto delle sue ardite meditazioni, si deve concludere che questo tipo di
“uomo” è soltanto Cristo. Difatti, presupponendo la predestinazione di Cristo,
Paolo proclama: «tutto è dell’uomo, l’uomo è di Cristo e Cristo è di Dio»54,
quindi, secondo Duns Scoto, Cristo è l’uomo primo predestinato e anche l’uomo
creato a immagine di Dio, il vero autentico e prototipo dell’uomo umano. Queste
affermazioni scotiane sono in perfetta sintonia con la Scrittura e con la
Tradizione.
Applicazione. Per es., le prime parole del testo sacro suonano: «In principio
Dio creò il cielo e la terra»55 . Come intendere l’espressione “in principio”? Non
può essere intesa in senso temporale come “di un principio nel tempo o del
tempo”, perché il tempo non ancora esisteva, anzi il tempo nasce proprio con la
stessa creazione. Si tratta invece di un inizio assoluto che non sopporta alcuna
connatazione temporale. E’ proprio l’agire di Dio.
Tenendo presente i testi paolini sopra citati, si può tentare una lettura
cristologica dell’espressione “in principio”. Paolo ha più volte affermato che tutta
la creazione è stata fatta “per mezzo di Cristo”, cioè da Cristo, che viene definito
anche come il “Principio di tutte le cose”. Importante è la precisazione fatta da
Duns Scoto circa il valore della preposizione “per”, se usata con verbi transitivi o
intransitivi. Nel primo caso viene espressa una certa subordinazione al soggetto
principale, nel secondo caso con il verbo alla forma intransitiva invece esprime la
causalità efficiente principale della proposizione56. Cristo è presentato da Paolo
come la causa efficiente della creazione. Se è così, l’interpretare “in principio”
con “in Cristo” non dovrebbe meravigliare più di tanto. Il primo versetto biblico,
quindi, suonerebbe: «In Cristo Dio creò». E’ una interpretazione che non contrasta
con nessun testo sacro, anzi trova conforto proprio dall’insieme della Rivelazione
e anche dalla Tradizione.
- Per i testi della Scrittura è sufficiente citarne alcuni tra i più comuni:
541Cor, 3, 22-23.
55Gen 1, 1.
56Ord I, 12, 2, 66: «ad Hilarium, quando dicit quod Spiritus Sanctus est a Patre per Filium. Distinguitur
tamen quod aliquid determinatum per hanc praepositionem ‘per’, cum suo casuali, comparatur ad verbum
transitivum, vel intransitivum: si ad transitivum, tunc notatur in casuali huius praepositionis subauctoritas, ut
‘Pater creat per Filium’; si ad absolutum vel intransitivum, tunc notatur in casuali huius praepositionis
«In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli
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era presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato
fatto di tutto ciò che esiste»57 ; «Ciò che era fin da principio... noi lo annunziamo
anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è
col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo»; «Avete conosciuto colui che è fin da
principio»58 ; «Cristo è il Principio, il Primogenito di coloro che risuscitano dai
morti»59; «Io sono l’Alfa e l’Omega»; «Io sono il Primo e l’Ultimo»; «Così parla
il Primo e l’Ultimo»; «Così parla il Principio della creazione di Dio»; «Io sono
l’Alfa e l’Omega, il Principio e la Fine»; «Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e
l’Ultimo, il Principio e la Fine»60.
Per quanto riguarda la Tradizione, che interpreta l’espressione “in principio”
come sinonimo di “in Cristo”, è sufficiente citare qualche testimonianza più
significativa:
Zeno afferma: «Indubbiamente per “Principio” s’intende Cristo»61; Agostino
scrive: «”Principio” nel quale Dio ha fatto cielo e terra, indubbiamente si riferisce
allo stesso Figlio [incarnato]»; e in polemica con i Manichei afferma alquanto
seccato: «In principio Dio ha creato cielo e terra, non in principio del tempo, ma
in Cristo»62; Cirillo Alessandrino: commentando il testo di Giovanni (8, 25),
afferma la divinità di Cristo con il verbo “sono”, e continua facendo parlare lo
stesso Gesù dicendo: «Sono Principio di tutte le cose, dal quale esse ricevettero
l’inizio e per il quale tutte furono create; Principio, per mezzo del quale, tutto fu
fatto; per mezzo del quale Dio creò i secoli; nel quale creò il cielo e la terra»63; e
commentando anche il testo dei Proverbi, 8, 22, scrive: «La Sapienza ossia il
Figlio di Dio, incarnandosi, non cominciò a esistere, né Egli fu posto a
fondamento delle cose come Verbo in sé, ma come Verbo incarnato»; e ancora
dichiara che Cristo è «Principio e Fondamento dell’esistenza», perché in quanto
vero Uomo è identico alla natura umana64; Girolamo in più parti afferma: «In
Principio significa in Cristo Signore»65; Origene: commentando il primo versetto
del Genesi scrive: «Che cosa significa il principio di tutte le cose, se non il
auctoritas, et hoc vel efficientiae, sicut ‘homo vivit per Deum’, vel causae formalis, ut ‘homo sapit per
sapientiam’».
57Gv 1, 1-2.
581Gv 1, 1-3; 2, 13.
59Col 1, 18.
60Ap 1, 8; 1, 17; 2, 8; 21, 6; 22, 13.
61Zeno, Sermones, 2, tractatus 3.
62Agostino, Sermo, I, cap. 5.
63Cirillo d’Alessandria, In Ioannem Evangelium V, cap. 24.
64Cf Cirillo d’Alessandria, Tesaurus, XV, 170.
65Girolamo, Breviarum in Psalmos, 39.
Signore nostro e Salvatore di tutti Cristo Gesù, Primogenito di ogni creatura?
22 22
Dunque in questo Principio, cioè nel Verbo suo, Dio ha creato cielo e terra, come
dice l’Evangelista “In Principio era il Verbo”»66; Metodio: nel commento alla
parabola delle dieci vergini, scrive: «Chi non crede a Cristo, non può
comprendere che egli è il Principio e il Fondamento della vita»67; Massimo di
Torino: in polemica contro i Giudei, scrive: «’In principio Dio creò il cielo e la
terra’... Osserva subito questo, perché [Mosè] ha cominciato dal Principio a
nominare il Principio, che noi intendiamo Cristo, detto il Principio, in cui Dio ha
creato il cielo e la terra...»68; Isidoro di Siviglia: nel commento al primo versetto
sacro, scrive: «’In principio Dio creò...’ il Principio è il Cristo...»69.
Tale interpretazione si trova nei documenti del concilio Vaticano II e anche in
Paolo VI nel discorso di apertura della seconda sessione del Concilio, quando
esclama: «Cristo! Cristo, nostro Principio, Cristo, nostra via e nostra guida!
Cristo, nostra speranza e nostro termine... Cristo nostro Fondatore, nostro
Capo»70. Parole che espromono molto bene la dottrina del “Principio” e del “Fine
“ di tutte le cose con Cristo “Principio” di tutte le cose.
Interessante è anche il confronto che i Padri stabiliscono tra Colossesi: «Tutte
le cose sono state create per mezzo di Cristo e in vista di Cristo»71 e Giovanni:
«Tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò
che esiste»72, leggendo tutto il “prologo” giovanneo in chiave cristologica. Essi
leggono Giovanni con Paolo.
Per esempio, Agostino, dopo aver precisato e distinto che la Scrittura presenta
Cristo sia in ordine alla predestinazione (cioè prima dell’assunzione della carne) e
sia in ordine storico (cioè con l’assunzione della carne), scrive: «Chi ha detto che
“In Principio era il Verbo...” inutilmente predicherebbe la divinità del Verbo, se
del Verbo tacesse dell’umanità»73. E lo stesso Cirillo afferma apertamente che
l’intento del “prologo” è la dimostrazione della divinità di Cristo, contro qualsiasi
errore presente o futuro. E il testo di Giovanni, nota ancora Cirillo, si può usare
tranquillamente contro gli Ariani, i quali, per poter negare la divinità di Cristo,
erano ricorsi alla distinzione del doppio Figlio: del Figlio di Dio, in senso
naturale, e del Figlio adottivo; l’uno eterno il Verbo, e l’altro storico il Verbo
80Rm 8, 29.
812Cor 3, 18; Col 3, 10.
821Cor 15, 49; Fil 3, 21.
83Gen 1, 26.
così da uno solo dipendono tutti gli uomini. Tutta la Tradizione patristica utilizza
25 25
la chiave di lettura cristologica nell’interpretazione del testo della creazione
dell’uomo. Interpretazione che è in perfetta sintonia con quanto afferma Paolo:
«Quelli che ha egli [Dio] da sempre ha conosciuto li ha predestinati ad essere
conformi all’immagine del Figlio suo...»84. Non dice: “conforme al Figlio suo”;
ma: “all’immagine del Figlio suo”. Come a dire che altra cosa è la realtà del
Figlio e altra cosa è la realtà dell’immagine del Figlio. Dal complesso del testo
biblico (Gen, 1, 26) si ricavano elementi dottrinali molto importanti, messi in
luce dai Padri. Si afferma principalmente: la Trinità di Dio, l’Unità di Dio e la
divinità di Cristo.
Nella lettura cristologica del testo biblico (Gen, 1, 26), Adamo viene a essere
creato a immagine di Cristo venturo, come afferma Paolo ai Romani : «Adamo è
figura di colui che doveva venire»85. Dal testo paolino, si ricava che il “Figurato”
(colui che deve venire) preesiste al “figurante” (Adamo), e influisce nell’atto della
sua creazione. L’immagine di Adamo, perciò, altro non è che una semplice
immagine dell’immagine di Cristo, cioè una copia dell’immagine.
La dottrina dell’immagine di Cristo, così come viene prospettata da Duns
Scoto, oltre che fonte di ulteriori altri misteri, quali il “sacerdozio”,
l’”immortalità” e la “gloria”, è la più sicura garanzia di autenticità della dignità
dell’uomo. La vera grandezza dell’uomo riposa sull’immagine di Cristo che
orienta verso l’eternità e verso la gloria, il vero fine della sua esistenza. E’ da
notare, tuttavia, che esplicitamente tale dottrina non si trova nel Maestro
francescano, ma è un logico sviluppo e una normale applicazione della sua
dottrina intorno al Cristocentrismo. E questo a causa della diversa concezione
metodologica esistente tra il moderno e il medievale86.
84Rm 8, 29.
85Rm 5, 14.
86 Per ulteriori chiarimenti si rimanda al paragrafo specifico dell’Introduzione.
come sinonimi, è bene ricordare che il termine “Salvatore” viene inteso sempre in
26 26
senso stretto, cioè come colui che salva l’uomo dal peccato e dalla morte; mentre
il termine “Redentore”, che si riferisce all’applicazione dei meriti di Cristo
all’angelo, all’uomo e al creato, ha un senso più esteso o meno esteso a seconda
del modo come viene applicato.
Dall’applicazione dei meriti di Cristo, il concetto di “redenzione” si può
chiamare “positiva” o “assoluta” se i meriti vengono applicati indipendentemente
dai meriti o demeriti delle creature; oppure “negativa” o “relativa” se i meriti di
Cristo vengono applicati dipendentemente dai meriti o demeriti della creatura. Nel
primo caso, l’azione di Cristo si estende non solo all’ordine morale della creatura,
donandole il dono della “beatitudine”, ma anche all’ordine metafisico della
creatura, donandole il dono dell’”immortalità”; nel secondo caso, l’azione di
Cristo può essere di “preservazione” se conserva alcuni (Maria e Angeli buoni)
nello stato di grazia originale, e di “riparazione” se ristabilisce nello stato
originale di grazia chi l’ha perduto con il peccato; e abbandona gli esseri che
hanno rifiutato il perdono alla loro sorte di Angeli cattivi e di dannati.
Nel VT il concetto di “redenzione” viene espresso in modo perfetto
dall’esperienza religiosa che Israele fece nell’essere liberato dalla schiavitù
egiziana per costituire l’alleanza, cioè Dio strappa il suo popolo alla schiavità per
legarlo a sé. Difatti, nell’Esodo è scritto: «Io sono il Signore! Vi sottrarrò ai
gravami degli egiziani, vi libererò dalla loro schiavitù e vi libererò con braccio
teso e con grandi castighi. Io vi prenderò come mio popolo e diventerò il vostro
Dio»87. In virtù dell’Alleanza, Israele diventa un popolo “santo”, “consacrato a
Dio” e il popolo particolare di Dio88. Tra i Profeti merita una particolare menzione
Ezechiele che sottolinea l’assoluta gratuità della “redenzione” accordata ai
peccatori: «stabilirò una alleanza eterna»89; e precisa la natura della “nuova
alleanza” non più dono della legge, ma la comunicazione dello spirito di Dio: «vi
aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre
sozzure e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno
spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne»90.
Nel NT il riferimento a questo contesto messianico è molto esplicito,
specialmente nell’episodio di Zaccaria, il quale celebra il Dio che «ha redento il
87Es 6, 6-7.
88Es 16, 5ss.
89Ez 16, 60.
90Ez 36, 25-26.
suo popolo»91 ; e nella profetessa Anna che «parlava del bambino a quanti
27 27
aspettavano la redenzione di Gerusalemme»92. La “novità” della nuova alleanza
viene puntualizzata nella morte volontaria di Cristo. Difatti, Gesù «non è venuto
per essere servito, ma per servire e per dare la sua vita in riscatto per molti»93. Il
sacrificio cruento di Gesù è lo strumento della nostra liberazione. Tutto il
racconto giovanneo della passione vuol mettere in rilievo questo carattere
volontario della morte di Cristo94.
Nel piano divino - secondo Paolo ai Galati 4, 4 - tutti gli uomini dovevano
diventare figli di Dio. Storicamente, però, l’uomo è “sotto la legge”, cioè nella
condizione che da solo non può uscirne. Se Dio pertanto aveva in mente di
elevarlo alla condizione di figlio, doveva Egli stesso diventare un Uomo, e così
da farlo uscire da “sotto la legge” e collocarlo al di “sopra della legge”. Da questo
schema divino emerge la necessità unica dell’azione mediatrice di Cristo, che per
questo nasce “dalla donna”, “per riscattarlo”, cioè “redimerlo” (ut redimeret). Il
passaggio di condizione costituisce la vera natura della redenzione, che abbraccia
sempre due elementi: sottrarre l’uomo dalla condizione inferiore, ed elevarlo alla
condizione superiore. In Paolo, perciò, è presente il pensiero: Dio, che è “sopra la
legge”, nasce “sotto la legge”; affinché l’uomo, che è “sotto la legge”, possa
elevarsi al di “sopra della legge”.
Anche in altri luoghi95, Paolo presenta il mistero della redenzione sempre
prospettando il piano divino, al cui centro c’è unicamente Cristo: da Cristo e per
mezzo di Cristo derivano tutti i benefici divini, da quelli della creazione ed
elevazione di tutti gli esseri razionali (compreso gli angeli), a quello della
redenzione, ossia alla remissione dei peccati e riguarda solo l’uomo. Il mistero
della redenzione, perciò, è a vantaggio unicamente degli uomini, e in essi della
creazione in genere, dal momento che vengono esclusi gli Angeli, come si legge
nella seconda lettera di Pietro: «Dio non risparmiò gli angeli che avevano peccato,
ma li precipitò negli abissi tenebrosi dell’inferno, serbandoli per il giudizio»96 , a
cui fa seguito la lettera di Giuda: «gli angeli che non conservarono la loro dignità
ma lasciarono la propria dimora, egli [il Signore] li tiene in catene eterne, nelle
tenebre, per il giudizio del gran giorno»97.
91Lc 1, 68.
92Lc 2, 38.
93Mt 20, 28; Mr 10, 45.
94Cf per es., Gv 18, 4-8.
95Col 1, 16-17; Ef 1, 4-6.
962Pt 2, 4.
97Gd 6.
28 28
II. LA REDENZIONE NELLA STORIA
99 RP III, 7, 4, 65-66: «Dicitur quod lapsus hominis est ratio necessaria huius praedestinationis (scilicet
Christi). Ex hoc quod Deus vidit Adam casurum, vidit Christum per hanc viam redempturum, et ideo
praevidit naturam humanam assumendam, et tanta gloria glorificandam. Dico tamen quod lapsus non fuit
causa praedestinationis Christi, imo si nec fuisset Angelus lapsus, nec homo, adhuc fuisset Christus sic
praedestinatus, imo, etsi non fuisset creandi alii quam solus Christus. Illud probo, a) quia omnis ordinate
volens, primo vult finem, deinde immediatus illa quae sunt fini immediatioria; sed Deus est ordinatissime
volens; igitur sic vult; igitur primo vult se et omnia intrinseca sibi; immediatius quantum ad extrinseca est
anima Christi; igitur ante quodcumque meritum, et ante quodcumque demeritum, praevidit Christum sibi esse
uniendum in unitate suppositi.b) Item [...]. Primo est ordinatio et praedestinatio completa circa electos, quam
aliquid fiat circa reprobos in actu secundo, nec aliquis gudeat ex perditione alterius, quasi sibi sit lucrum;
igitur ante lapsum praevisum, et ante omne demeritum, fuit totus processus praevisus de Christo. c) Item, si
lapsus esset causa praedestinationis Christi, sequeretur quod summum opus Dei esset occasionatum, quia
gloria omnium non erit tanta intensive quanta erit Christi, et quod tantum opus dimisisset Deus propter
bonum factum Adae, puta, si non peccasset; videtur valde irrationabile.Dico igitur sic: primo Deus diligit
se;secundo diligit se aliis, et iste est amor castus;tertio vult se diligi ab alio, qui potest eum summe diligere,
loquendo de amore alicuius extrinseci;et quarto praevidit unionem illius naturae, quae debet eum summe
diligere, etsi nullus cecidisset».
100Ord III, 19, 1, 19: «Iste fuit ordo in praevisione divina: primo enim Deus intellexit se sub ratione
summi boni; in secundo signo intellexit omnes alias creaturas; in tertio praedestinavit ad gloriam et gratiam,
et circa alios habuit actum negativum, non praedestinando; in quarto praevidit illos casuros in Adam; in
quinto praeordinavit sive pravidit de remedio quo modo redimerentur per passionem Filii, ita quod Christus
in carne, sicut et omnes electi, prius praevidebatur et praedestinabatur ad gratiam et gloriam, quam
peccato] possono essere intese nel senso che Cristo non sarebbe venuto come
31 31
redentore, se l’uomo non fosse caduto; né forse [sarebbe venuto nella carne]
passibile, perché non c’è necessità alcuna che l’anima gloriosa [di Cristo],
gloriosa e preordinata da Dio da sempre non soltanto alla somma gloria, ma anche
all’unione con il corpo passibile, se non ci fosse stato bisogno della
redenzione»101.
«Inoltre, non c’è nessuna necessità di redimere il genere umano, e che, quindi,
Cristo patisse. La conseguenza è chiara per se stessa. Si prova l’antecedente così:
la redenzione sarebbe stata necessaria, se l’uomo fosse stato predestinato
[necessariamente] alla gloria, e questa, data la caduta, non si potesse conseguire
che per mezzo della soddisfazione [di Cristo]. Ora la predestinazione dell’uomo
[alla gloria] è contingente e non necessaria. Dio, infatti, ha predestinato l’uomo
contingentemente e non necessariamente, perché niente opera Dio fuori di sé
necessariamente [ma sempre contingentemente, ossia liberamente]. [Quindi, come
Dio] ha ordinato l’uomo alla gloria [contingentemente], così poteva anche non
predestinarlo. Né sarebbe inconveniente che l’uomo fosse deluso di tale
beatitudine, a meno che non fosse [necessariamente] predestinato. Perciò, come
non vi fu assoluta necessità di predestinare l’uomo [alla gloria], così non era
assolutamente necessaria la sua redenzione»102.
«Lo provo principalmente dal fatto che l’uomo poteva essere redento
diversamente che per mezzo della morte di Cristo. Agostino, nel XIII libro della
Trinità, capitolo 10, scrive: «A Dio non mancava davvero un altro modo di
redimere l’uomo, poiché tutto è sottomesso al suo potere». Dunque, non c’è
alcuna necessità nella conclusione.
D’altra parte, non c’è alcuna necessità che Cristo redima l’uomo per mezzo
della sua morte, se non per la necessità di conseguenza, cioè posto che [Dio] abbia
ordinato che così egli lo redimesse. La necessità di consequenza è questa: se
corro, mi muovo. Il muovermi è una conseguenza del mio correre; ma il correre è,
praevideretur passio Christi, ut medicina contra lapsum, sicut medicus prius vult sanitatem hominis, quam
ordinet de medicina ad sanandum».
101 Ord III, 7, 3, 64: «Omnes autem auctoritates possunt exponi sic, scilicet quod Christus non venisset
ut redemptor, nisi homo cecidisset, neque forte ut passibilis, quia non fuit aliqua necessitas, ut illa anima a
principio gloriosa, cui Deus praeoptavit non tantum summam gloriam, sed etiam coaevam illi animae, quod
unita fuisset corpori passibili, nisi redemptio fuisset facienda
102 Ord III, 20, q. un., 27: « Praeterea, nulla est necessitas genus humanum reparari, igitur nec Christum
pati. Consequentia de se patet. Antecedens probatur, quia si sic, hoc non est nisi quia homines praedestinati
sunt ad gloriam, et lapsi non possunt intrare nisi per satisfactionem; sed modo ita est, quod praedestinatio
hominis contingens est et non necessaria; sicut enim Deus ab aeterno contingenter praedestinavit hominem,
et non necessario; quia nihil necessario operatur respectu aliquorum extra se, ordinando illa ad bonum, sic
potuit non praedestinasse; nec est incoveniens hominem frustrari a beatitudine, nisi praesupposita
praedestinatione hominis; igitur nulla fuit absolute redemptionis eius necessitas, sicut nec praedestinationis
eius».
senza dubbio, contingente, ossia sia il mio correre che il mio muovermi [sono
32 32
contingenti].
Ugualmente, la morte di Cristo fu un atto contingente, come contingente fu la
previsione della sua passione. Niente dunque è necessario se non di una necessità
di conseguenza; se fu previsto che [Cristo] doveva patire, [di fatto] ha patito, ma
sia la previsione che l’esecuzione sono contingenti»103.
«Si dice: Non si soddisfa a Dio, se non si offre a Dio qualcosa che formalmente
[essentialmente] sia più grande [dell’offesa fatta a Dio]; l’offerente, quindi,
dev’essere più grande di ogni creatura [nella dignità e nella perfezione].
Con tutto il rispetto a chi lo dice, io credo ciò non sia vero!
Per soddisfare il peccato del primo uomo non è necessario che la creatura sia
totalmente e formalmente più grande in dignità e in perfezione, perché sarebbe
stato sufficiente offrire a Dio un bene maggiore del male commesso dal primo
uomo.
Pertanto, se Adamo, per grazia e carità di Dio, avesse fatto uno o più atti di
amore di Dio per se stesso, con uno sforzo di volontà superiore a quello fatto nel
compiere il peccato, [certamente] tale dilezione sarebbe stata sufficiente alla
remissione del suo peccato, e avrebbe così soddisfatto […].
Come per l’amore della creatura, oggetto amabile, [l’uomo] non avrebbe
dovuto peccare, così nel soddisfare [il suo peccato] avrebbe dovuto offrire a Dio
qualcosa di più grande da attingere per mezzo di un atto [d’amore] oggettivo, per
quanto [possibile] a creatura, cioè un atto di amore rivolto a Dio stesso e per se
stesso, e quest’amore oggettivo in quanto termina in Dio, supera l’amore della
creatura, come Dio supera la creatura.
E come [l’uomo] peccò infinitamente amando l’oggetto più ignobile, così
doveva soddisfare infinitamente amando l’oggetto più nobile [cioè Dio]. E ciò
sarebbe bastato [alla soddisfazione] almeno in linea di possibilità.
Inoltre, un semplice uomo avrebbe potuto soddisfare per tutti, se fosse stato
concepito senza peccato. Possibilità possibile a verificarsi per opera dello Spirito
103Ord III, 20, q. un., 25-26: «Primo probo quod aliter potuit homo redimi, quam per mortem Christi.
Augustinus De Trinitate, capitulo 10: «Alius modus redemendi hominem Deo non defuit, eius enim
potestati cuncta subiacent». Non ergo fuit necessitas in conclusione. Praeterea, non est aliqua necessitas quod
Christus-homo redimat hominem per mortem, nisi necessitas consequentiae, scilicet posito quod ordinaverit
sic illum redimere; sicut si curro, moveor, haec necessitas est necessitas consequentiae, sed antecedens est
simpliciter contingens, scilicet me currere et me moveri. Similiter Christum pati mortem fuit contingens,
sicut contingens fuit illum praevideri passurum; nulla ergo est necessitas nisi consequentiae, scilicet si
praevisus fuit pati, patientur, sed tam antecedens quam consequens fuit contingens». Nel IV libro
dell’Ordinatio (trattato sulla Penitenza) si discute se l’uomo possa riconciliarsi con Dio senza dare [nessuna]
soddisfazione. Ammesso che la soddisfazione fosse richiesta [per la redenzione del genere umano], tuttavia
essa non richiedeva necessariamente che il soddisfattore fosse Dio stesso. Né questo si può provare. Ord III,
20, q. un., 28: «an homo possit reconciliari sine satisfactione, tangetur in quarto [cf Ordinatio, IV d. 15, q. 1],
Santo e della madre, come fu Cristo, e Dio gli avesse donato la grazia più grande
33 33
che potesse ricevere, come la diede a Cristo, senza meriti precedenti e per sua
[pura] liberalità. Un tale uomo, infatti, avrebbe potuto meritare la distruzione del
peccato e anche la felicità eterna.
E se dici che per questo saremmo obbligati a quest’uomo, quanto [siamo]
obbligati ti a Dio, è falso. Al contrario [saremmo obbligati] semplicemente a Dio
[e non all’uomo], perché tutto ciò che egli avrebbe, sarebbe [dono] di Dio.
Tuttavia saremmo obbligati a quest’uomo, come siamo obbligati alla Vergine
Beata e ai Santi, che meritarono per noi, [riferendo] però sempre costantemente e
sommamente [tutto] a Dio, come a colui dal quale procedono i beni degli altri.
Ancora, (parlo sempre di possibilità). Sembra che ciascuno possa soddisfare
per se stesso. Se a qualcuno fosse [possibile] dare la prima grazia senza meriti,
allo stesso modo, benché qualcuno fosse figlio dell’ira, a lui tuttavia sarebbe data
la prima grazia senza meriti propri, [cioè gratuitamante], e così potrebbe meritare
la beatitudine. Dunque, potrebbe meritare anche la distruzione della [sua] colpa.
Non sembra, poi, assolutamente necessario che soltanto l’uomo potesse offrire
soddisfazione. Chi non è debitore, infatti, può soddisfare per un altro, come può
pregare per un altro.
Perciò Cristo che non era debitore potè, come uomo senza colpa, soddisfare
[per gli altri]. Se fosse piaciuto a Dio, anche un Angelo buono avrebbe potuto
soddisfare, offrendo per noi a Dio qualcosa che Dio avrebbe accettato per tutti i
peccati, poiché una cosa creata offerta a Dio tanto vale, quanto Dio l’accetta e non
più»104.
tractatu “de poenitentia”; sed dato quod satisfactio requiratur, non tamen requiritur necessario, quod
salisfaciens sit Deus, nec hoc probatur.»
104Ord III, 20, q. un., 28-32: «Dicitur, quod non satisfacit quis Deo, nisi offerat Deo aliquid maius
formaliter, quam pro quo peccare non debuit, quod est maius tota creatura. Credo, salva reverentia sua, quod
hoc non est verum.Non enim oportuit satisfactionem pro peccato primi hominis excedere totam creaturam
formaliter in magnitudine et perfectione; sufficisset enim obtulisse Deo maius bonum, quam fuerit malum
illius hominis peccantis.Unde si Adam, per gratiam datam et charitatem, habuisset unum vel multos actus
diligendi Deum propter se, ex maiori conatu liberi arbitrii, quam fuit conatus in peccando, talis dilectio
suffecisset pro peccato suo remittendo, et fuisset satisfactum [...].Sicut pro amore creaturae, ut obiecti
diligibilis, non debuit peccare, ita satisfaciendo debuit offerre Deo aliquid maius attingendo per actus
obiective, quam sit creatura, scilicet amorem attingentem Deum propter se, et ille amor obiective, ut
terminatur in Deum, excedit amorem creaturae, sicut Deus creaturam.
Unde sicut peccavit per amorem ignobilioris obiecti in infinitum, ita debuit satisfacere per amorem
nobilioris in infinitum, et hoc suffecisset saltem de possibili.Praeterea, unus purus homo potuisset satisfacere
pro omnibus, si fuisset conceptus sine peccato, sicut potuisset fieri de possibili operatione Spiritus Sancti et
matris, sicut fuit Christus, et Deus dedisset sibi summam gratiam quam potuisset recipere, sicut dedit Christo
sine meritis praecedentibus ex liberalitate sua; talis enim potuisset mereri deletionem peccati, sicut et
beatitudinem. Et cum dicit, quod tunc obligaremur ei tantum quantum Deo, falsum est, imo simpliciter Deo,
quia totum quod ille haberet esset a Deo; obligaremur tamen multum sibi, sicut obligamur Beatae Virginis et
aliis Sanctis, qui meruerunt pro nobis, semper tamen finaliter et summe Deo tamquam ei a quo aliorum bona
procedunt.
Praeterea, videtur, (de possibili dico) quod quilibet potest satisfacere pro se, quia si data fuisset cuilibet
prima gratia sine meritis, sicut modo, licet quilibet sit filius irae, cuilibet tamen dat primam gratiam sine
meritis propriis, et tunc meretur beatitudinem; igitur potuit etiam meruisse deletionem culpae. Quod nullus
nisi homo debuit satisfacere, hoc non videtur absolute necessarium, quia unus qui non est debitor, potest
«Tutto ciò che è stato fatto da Cristo per la nostra redenzione, non fu di
34 34
necessità se non in quanto conseguente a deliberazione divina, che così dispose;
perciò solo in quest’ordine di necessità conseguente, Cristo patì. Tutto fu
essenzialmente contingente: l’antecedente [cioè la preordinazione] e il
conseguente [cioè il fatto]»105.
«Questo è il motivo per cui noi siamo ancor più obbligati a Cristo. L’uomo,
infatti, poteva essere redento diversamente, e invece [Cristo] per sua libera
volontà ha voluto redimerlo così. Gli siamo obbligati ancor più che se fosse stato
necessario redimerci così, e non altrimenti. Io credo che volle redimerci così
principalmente per avvincerci al suo amore, e perché l’uomo si sentisse
maggiormente obbligato verso Dio»106.
Secondo Duns Scoto, quindi, Dio non aveva bisogno di nessuna
“soddisfazione”, né tanto meno di una soddisfazione “di sangue”. Difatti, senza
offendere la giustizia divina, la redenzione avrebbe potuto farsi in qualsiasi altro
modo, dice Duns Scoto. Pur rendendo in questo modo indipendente l’Incarnazione
dalla Redenzione, Duns Scoto ha un grandissimo concetto della stessa
Redenzione.
Da questo pensiero di Duns Scoto si possono ricavare alcune costanti che sono
state fatte proprie dalla teologia moderna: a) la redenzione come libera azione di
Dio; b) la funzione redentrice di Cristo.
Dalla dottrina biblica emerge l’assoluta libertà di Dio nell’offrire all’uomo
l’iniziativa del suo amore misericordioso e redentivo. Benché dal punto di vista
umano, la redenzione fosse necessaria onde poter ristabilire il giusto rapporto con
Dio, Dio non era affatto obbligato a redimere gli uomini. La necessità dell’uomo a
essere redento si trova di fronte all’assoluta libertà di Dio. In altre parole,
supposta la divina deliberazione a redimere l’uomo, l’Incarnazione del Figlio di
Dio non era assolutamente necessaria a tal fine.
Per quanto riguarda la funzione redentrice di Cristo la teologia oggi ritiene a
buon diritto la dottrina dell’Incarnazione del Figlio di Dio come indipendente dal
peccato di Adamo, secondo la teoria del cristocentrismo. Immagine di Dio e
satisfacere pro alio, sicut pro alio orare. Unde sicut Christus Homo innocens, non debitor, satisfacit, sic si
placuisset Deo, potuit unus bonus Angelus satisfecisse, offerendo aliquid placitum Deo pro nobis, quod ipse
acceptasset pro omnibus peccatis, quia tantum valet omne creatum oblatum, pro quanto Deus acceptat illud,
et non plus».
105Ord III, 20, q. un., 35: «Tunc [..] dico, quod omnia huiusmodi, quae facta sunt a Christo circa
redemptionem nostram, non fuerunt necessaria, nisi praesupposita ordinatione divina, quae sic ordinavit fieri,
et tunc tantum necessitate consequentiae necessarium fuit Christum pati, sed tamen totum fuit contingens
simpliciter et antecedens et consequens [...]».
106 Ord III, 20, q. un., 36: «Et ideo multum tenemur ei. Ex quo enim aliter potuisset homo redimi, et
tamen ex sua libera voluntate sic redemit, multum ei tenemur, et amplius quam si sic necessario et non aliter
prototipo della creazione, e in particolare dell’uomo creato a sua immagine, Cristo
35 35
è apparso nella carne dell’uomo, assumendo cioè la natura umana nell’unità con il
Logos divino. In questo modo, Cristo ha dato inizio al movimento di ritorno
dell’intera creazione, e dell’uomo in particolare, a Dio, realizzando cioè la
cosiddetta “ricapitolazione” di tutto e di tutti a Dio. Dal Cristo immagine di Dio e
vero Uomo deriva l’uomo creato da Cristo a sua immagine: l’uomo pertanto si
può considerare immagine dell’immagine.
Sul rapporto Redenzione ed Incarnazione le opinioni dei teologi moderni non
sono concordi: alcuni sostengono la teoria “amartiocentrica” (= peccato al centro
del disegno di Dio), altri la teoria “cristocentrica” (= Cristo al centro del disegno
di Dio). Quest’ultima teoria si appoggia soprattutto a Duns Scoto e sembra
prevalere nell’opinione dei teologi.
D - CRISTO GLORIFICATORE
potuissemus fuisse redempti; ideo ad alliciendum nos ad amorem suum, ut credo, hoc praecipue fecit, et quia
voluit hominem amplius teneri Deo».
raggiungere, e che fanno sentire il loro influsso anche sul concetto del desiderio
36 36
naturale.
Tenendo presente un principio classico della filosofia che «ogni ente che
agisce, agisce per un fine»107, Duns Scoto prima definisce il desiderio come
«l’atto emesso dalla volontà e che, forse, non rimane con l’oggetto desiderato»108;
e tale desiderio verte più verso le sostanze materiali che verso quelle spirituali109;
passa poi a descriverlo come un atto possibile e aperto a ogni conoscibile con la
precisa inclinazione a conoscere la causa delle cose e lo stesso Dio110.
Come un atto si dice “virtuoso” se segue l’inclinazione della virtù, così si
chiama “naturale” un atto emesso dalla volontà, se segue l’inclinazione della
natura111. E l’inclinazione naturale dell’uomo è quella di conoscere112. Descrive la
caratteristica fondamentale del desiderio naturale «nella conoscenza dell’oggetto
beatifico, come una presenza di una visione chiara e distinta; e poiché il desiderio
naturale non può essere vano, l’uomo è capace di questa beatitudine...»113.
Identifica poi tale oggetto con l’Essere primo o con il concetto di Dio, che attira
come amore114 o come fine115 l’uomo, al quale è aperta la via della conoscenza di
Dio proprio attraverso il desiderio naturale116. Certo, si tratta di una conoscenza
indistinta o generica, ma sempre di Dio117, che cresce e aumenta attraverso
107 Ord I, d. 2, pars 1, q. 1-2, n. 61: «Omne per se agens agit propter finem».
108MET I, 2, 33: «loquitur de desiderio quod est actus elicitus a voluntate, et illud forte non manet cum
desiderato».
109DE ANIMA 16, 23: «magis desideramus scire modicum de substantiis separatis, quam de inferioribus».
110 DE ANIMA 19, 15: «sed naturale desiderium non est ad impossibile; igitur Deus etiam naturaliter,
aliqualiter potest a nobis cognosci»; DE ANIMA 19, 15: «anima naturaliter desiderat, cognito effectu,
cognoscere causam»; DE ANIMA 15, 25: «desiderium naturale habet ad omnia intelligibilia intelligenda, et ad
beatitudinem consequendam».
111MET I, 2, 30: «aliquod velle elicitum a voluntate, praesupposita cognitione, potest dici naturale, quia
est secundum inclinationem naturae; sicut velle dicitur virtuosum, quia est secundum inclinationem virtutis.
Sed iste non est propriissimus modus desiderii naturalis voluntatis ».
112MET I, 2, 13: «naturaliter desideramus scire».
113RP IV, 49, 7, 240: «desiderium naturale est ad cognoscendum illud obiectum beatificum, ut praesens
clara et nuda visione; cum igitur desiderium naturale non sit frustra, tunc natura humana videtur esse capax
beatitudinis secundum propriam eius rationem, sicut nos ponimus, et quod hoc est probabile per rationem
naturalem, quia ad hoc est desiderium naturale».
114DE ANIMA 17, 63: «de primo movente, quod movet ut amatum et desideratum per modum finis
allicientis appetitum, propter eius bonitatem; nihil tamen appetitui imprimendo».
115 MET V, 1, 32: «finis autem efficientis in quantum desiderabile»; MET V, 1, 20: «finis secundum quod
futurus non movet agentem, quia idem argumentum potest fieri de futuro et de fine secundum quod est
potentia, nec aliis modis. Sed finis, secundum quod est in intentione agentis, movet agens ut desiderabile et
bonum, quia si sit nude apprehensum et non movet affectum, non habet rationem finis et causae».
116DE ANIMA 19, 15": «desiderium ad ipsum Deum cognoscendum habet naturale desiderium: sed
naturale desiderium non est ad impossibile; igitur Deus etiam naturaliter, aliqualiter potest a nobis cognosci»;
DE ANIMA 19, 15: «sed naturale desiderium non est ad impossibile; igitur Deus etiam naturaliter, aliqualiter
potest a nobis cognosci».
117 RP IV, 49, 7, 242: «contra, appetis et scis Deum, et tamen non habes, nisi notitiam confusam et
obscuram de Deo; eodem modo potest esse desiderium naturale beatitudinis secundum rationem propriam
eius»; RP prol 3, 220: «naturale desiderium inest nobis ex effectu cognoscere causam primam; sed
desiderium naturale non quiescit, si Deus non cognoscitur per effectum, sicut quilibet experitur in seipso;
cum igitur desiderium naturale non sit, frustra sequitur quod possumus cognoscere Deum in sua actuali
existentia»; Ord IV 49, 8, 414: «desiderium naturale hominis est ad cognoscendum illam substantiam in se et
l’esperienza118. Simpatica è anche la scala metodologica che indica nel processo
37 37
della conoscenza tramite il desiderio naturale, che dall’effetto risale alla causa119,
che muove come muove amore120.
Da questo concetto generale di “desiderio naturale” come tendenza alla propria
perfezione121, Duns Scoto passa a parlare del desiderio naturale di Dio nell’uomo,
concepito agostinianamente come capax Dei. Tra i molteplici fini presenti
nell’essere umano, il Dottor Sottile distingue i fini che perfezionano la
dimensione fisica o corporea dell’uomo, dai fini che lo perfezionano nella sua
dimensione spirituale, cioè, nell’intelletto e nella volontà, che tendono
all’infinito, perché solo l’Infinito acquieta il loro intrinseco desiderio. Difatti,
scrive: «Nell’intelletto che conosce un effetto, c’è il desiderio [naturale] di
conoscere la causa; e nell’intelletto che conosce la causa nella sua universalità
astratta, c’è il desiderio naturale di conoscere tale causa nella sua realtà concreta e
distinta»122. Per l’intelletto, la causa ultima in astratto è l’essere in quanto essere,
in concreto invece è lo stesso Essere Infinito, nel quale conosce tutto il resto
dell’essere: «L’intelletto non si acquieta (non si riposa o non si appaga)
conoscendo la stessa essenza divina, se non la conosce nella sua infinità»123. Lo
stesso modo di argomentare Duns Scoto lo applica anche alla volontà: «la volontà
creata è così fatta naturalmente che non può essere acquietata ( saziata o appagata)
clare; ergo quandoque videbitur in se, alias esset ille appetitus in natura frustra; non valet, quia loquendo de
desiderio mere naturali, debet pro quod tale insit homini; si autem accipias desiderium naturale, pro actu
elicito secundum rectam rationem, hoc non vidit ipse, nec potuit videre alium statum secundum rationem
naturalem, in quo videret clarius; nec ultra appetiit, nec scivit quod secundum rectam rationem, est plus
desiderandum quam hic cognoscitur».
118Ord I, 3, 1, 3, 116: «desiderium naturale est in intellectu cognoscente effectum ad cognoscendum
causam, et in cognoscente causam in universali est desiderium naturale ad cognoscendum illam in particulari
et distincte; desiderium autem naturale non est ad impossibile ex natura desiderantis, quia tunc esset frustra;
ergo non est impossible intellectum, ex parte intellectus, cognoscere substantiam immaterialem in particulari
ex quo cognoscit materiale, quod est effectus eius, et ita primum obiectum intellectus non excedit illud
immateriale».
119Ord I, 3, 1, 3, 116: «desiderium naturale est in intellectu cognoscente effectum ad cognoscendum
causam, et in cognoscente causam in universali est desiderium naturale ad cognoscendum illam in particulari
et distincte; desiderium autem naturale non est ad impossibile ex natura desiderantis, quia tunc esset frustra;
ergo non est impossible intellectum, ex parte intellectus, cognoscere substantiam immaterialem in particulari
ex quo cognoscit materiale, quod est effectus eius, et ita primum obiectum intellectus non excedit illud
immateriale»; RP IV, 49, 7, 242: «contra, appetis et scis Deum, et tamen non habes, nisi notitiam confusam et
obscuram de Deo; eodem modo potest esse desiderium naturale beatitudinis secundum rationem propriam
eius»; RP prol 3, 220: «naturale desiderium inest nobis ex effectu cognoscere causam primam; sed
desiderium naturale non quiescit, si Deus non cognoscitur per effectum, sicut quilibet experitur in seipso;
cum igitur desiderium naturale non sit, frustra sequitur quod possumus cognoscere Deum in sua actuali
existentia».
120DE ANIMA 17, 63: «de primo movente, quod movet ut amatum et desideratum per modum finis
allicientis appetitum, propter eius bonitatem; nihil tamen appetitui imprimendo».
121 Ord IV, d. 49, q. 10, n. 2: «Quid ergo [est appetitutus naturalis]? Dico quod est inclinatio ad propria
perfectionem suam, scilicet voluntatis, sicut in aliis non habentibus appetitum liberum; et de illo appetitu
loquitur Philosophus I Phisicorum, quod materia appetir formam et, universalite, imperfectum suam
perfectionem».
122 Ord I, d. 3, pars 1, q. 3, n. 116: «Desiderium naturale est in intellectu cognoscente effectum ad
cognoscendam causam; et in cognoscente causam in universali est desiderium naturale ad cognoscendam illa
in particulari et distincta».
dagli esseri naturali, perché non può essere appagata se non dal Bene Infinito»124 .
38 38
Solo in Dio, perciò, trovano appagamento adeguato l’intelletto e la volontà
dell’uomo.
Il desiderio naturale della beatitudine non risolve completamente tutti i
problemi inerenti alla stesso concetto di beatitudine, dal momento che, per Duns
Scoto, il fine ultimo dell’uomo non appartiene all’ordine della ragione, bensì a
quello della fede.
Qual è, allora, la natura di questa beatitudine, naturale o soprannaturale,
filosofica o teologica? Quella che l’uomo naturalmente raggiunge con le proprie
forze razionali, oppure quella che Dio stesso partecipa e completa la prima? In
che modo, l’uomo può desiderare naturalmente ciò che supera tutte le sue forze
naturali?
In altre parole, Duns Scoto da un lato afferma che «la natura ha dato all’uomo
dei mezzi per raggiungere la beatitudine, come le potenze passive e attive»125, che
sono intelletto e volontà: si dicono “passive”, perché da sé non sono in grado di
conoscere e amare Dio come Dio; invece, “attive”, perché, mediante la loro
azione, collaborano con Dio alla conoscenza e all’amore di Dio stesso; dall’altro
lato, nelle Collationes afferma invece che «l’uomo non ha in sé il principio attivo
sufficiente per raggiungere la beatitudine»126. Due affermazioni che sembrano
contraddire il pensiero del Filosofo scozzese.
La contraddizione è solo apparente. La soluzione di Duns Scoto è una
soluzione di qualità: passa dal piano filosofico a quello teologico, o meglio alla
sua possibilità: ciò che non può essere raggiunto dalla natura in senso stretto, può
essere raggiunto in modo soprannaturale, ammettendo la possibilità di un Essere
che completa perfezionando l’azione naturale della natura. Scrive: «Ammetto che
Dio sia il fine naturale [del desiderio] dell’uomo; tuttavia tale fine non può essere
raggiunto naturalmente, ma solo in modo soprannaturale»127.
La risposta di Duns Scoto è corretta filosoficamente? A primo acchito sembra
di no, se lui stesso scrive che «a ogni potenza passiva corrisponde un principio
attivo naturale; altrimenti sembra che codesta potenza passiva sia vana nella
123 Col 20, n. 2: «Intellectus non quietatur videndo essentiam divinam nisi videat eam sub ratione
infiniti».
124 R P II, d. 23, q. un., n. 6: «Omnis voluntas creata est talis naturale quod non potest ex naturalibus
esse satiata, quia non potest quietari nisi in bono infinito».
125 R P IV, d. 49, q. 10, n. 10: «Dicendum quod natura dedit homini organa ad consequendam
beatitudinem, ut potentias receptivas et activas...».
126 Col IV, n. 12: «Homo non habet ex se sufficiens principium activum ad attingendum beatitudinem».
127 Ord Prol., pars 1, q. un., n. 32: «Concedo Deum esse finem naturalem hominis, sed non naturaliter
adipiscendum sed supernaturaliter».
natura, se nulla nella natura può realizzarla»128. Se, invece, nell’ordine generale
39 39
dell’essere c’è la possibilità di poterla realizzare, o come potenza obbedienziale o
come agente superiore, allora la risposta è ineccepibile filosoficamente. In questo
modo, Duns Scoto ammette la possibilità che la natura naturale dell’uomo possa
aprirsi sull’orizzonte del soprannaturale o verso l’Essere Infinito concreto e
distinto, con cui entra in collaborazione. Scrive: «Dico che la potenza non è vana
nella natura, anche se non può essere realizzata principalmente da un agente
naturale, purché da questo agente possa essere realizzata una disposizione all’atto
e da un altro agente in natura -cioè nel coordinamento dell’essere o degli enti-
per esempio dalla causa prima o soprannaturale si possa condurre perfettamente
all’atto [la potenza]»129.
Anche all’obiezione dei filosofi che un simile ragionamento possa costituire
uno svilimento per la natura, che si vede completata da una forza soprannaturale,
Duns Scoto pensa che più che svilimento si debba parlare di nobilizzazione della
natura, perché così porta a termine il suo intrinseco desiderio, che, come si vedrà,
è soprannaturale. La preoccupazione del Dottor Sottile è sì dettata da una visione
teologica dell’essere della natura, ma senza alcuna forzatura, perché tale
possibilità è già insita nel concetto dell’essere in quanto essere, oggetto proprio
dell’intelletto, in cui essere finito ed essere infinito sono uniti filosoficamente.
Possibilità che viene realizzata con una scelta di qualità in modo concreto dallo
stesso Essere Infinito. Così scrive: «Se si obietta che si vilifica la natura
ammettendo che questa non possa realizzare la sua perfezione da se stessa,
rispondo che, anzi, nobilita la natura il fatto che sia possibile che una natura
suprema si ponga naturalmente; né fa meraviglia che la capacità passiva della
natura sia maggiormente perfezionata da un’altra natura [superiore] verso cui
estende la sua causalità»130.
Per meglio comprendere la risposta di Duns Scoto, bisogna accennare anche se
velocemente al concetto di “natura”. Al suo tempo, per un rispetto eccessivamente
acritico verso Aristotele, si concepiva la natura in modo “pura” o astratta. Il
Dottor Sottile, insieme alla tradizione francescana, più vicina ad Agostino, la
128 Ord Prol., pars 1, q. un., n. 7: «Omni potentiae naturali passivae correspondet aliquod activum
naturale, alioquin videretur potentia passiva esse frusta in natura si per nihil in natura posset reduci ad
actum».
129 Ord Prol., pars 1, q. un., n. 75: «Dico quod potentia passiva non est frustra in natura quia etsi per
agens naturale non possit principaliter reduci ad actum, tamen potest per tale agens dispositio ad ipsum
induci, et potest per aliquod agens in natura -id est in tota coordinatione essendi vel entium- puta per agens
primum vel supernaturale complete reduci ad actum».
130 Ord Prol., pars 1, q. un., n. 75: «Et si obicitur quod istud vilificata naturam quod ipsa non possit
consequi perfectionem suam ex naturalibus, cum natura minus deficiat in nobilioribus, respondo quod in hoc
magis dignificatur natura quam si suprema sibi possibilis poneretur illa naturalis; nec est mirum quod ad
maiorem perfectionem sit capacitas passiva in aliqua natura quam eius causalitas se extendat».
concepisce invece come “storica” o “ordinata al soprannaturale”. Questo significa
40 40
che la natura per sé - così come la Bibbia insegna - può raggiungere il suo fine,
senza cadere in contraddizione, per via soprannaturale, perché il desiderio
naturale di Dio non deriva direttamente dalla “natura pura”, bensì dalla “natura
storica”. Difatti scrive Duns Scoto: «Di fatto, nessun uomo nasce nello stato di
natura pura e Dio condurrà ogni natura ragionevole al suo fine, a meno che essa
non ponga volontariamente ostacoli»131.
Con il concetto della natura “storica”, il desiderio naturale, anche se non viene
realizzato alla perfezione in modo naturale, trova la sua realizzazione in modo
soprannaturale, senza cadere in contraddizione, perché la stessa natura è ordinata
a un fine soprannaturale, e, quindi, necessariamente dotata per raggiungere il suo
fine: possiede una capacitas Dei o una potentia obedientialis in quanto imago
Christi. Per questo intrinseco motivo Duns Scoto applica il principio delle
Confessiones: «l’uomo [intelletto] non avrà riposo finché non vedrà l’essenza
divina nella sua infinità»132.
A questo punto, Duns Scoto si chiede come l’uomo entra in possesso di questa
concezione “storica” della natura che comporta con sé anche il modo diverso di
interpretare il desiderio naturale dell’uomo ordinato al mondo soprannaturale?
La sua risposta non può non essere che attraverso la Rivelazione e quindi la
fede. Difatti, nella questione della prima parte del prologo all’Ordinatio scrive:
«Con la ragione naturale non si può dimostrare che nell’uomo ci sia qualcosa di
soprannaturale, né [che qualcosa di soprannaturale] sia richiesto dalla sua natura;
e neppure colui che possiede [qualcosa di soprannaturale] può averne
conoscenza»133. Come a dire che il soprannaturale lo si conosce soltanto con
mezzi soprannaturali, cioè per mezzo della Rivelazione. E in questo c’è la
differenza tra il teologo e il filosofo: il teologo è illuminato dalla Rivelazione,
mentre il filosofo solo dalla ragione. Con l’illuminazione della Rivelazione, il
teologo può dimostrare anche filosoficamente che l’uomo possiede il desiderio
naturale della beatitudine, che trova la sua perfetta realizzazione nella
partecipazione alla beatitudine infinita di Dio. Ed è la posizione di Duns Scoto.
Come si realizza il piano di glorificazione di Cristo?
131 Ord II, d. 33, q. un., n. 5: «Tamen de facto nunquam erit aliquis in puris naturalibus, quia Deus
naturam rationalem, quam fecit, semper producit ad finem, si non fuerit ex parte illius impedimentum vel
defectus».
132 Col 20, n. 2: «Intellectus non quietatur videndo essentiam divinam nisi videat eam esse ratione
infiniti».
133 Ord Prol., pars 1, q. un., n. 12: «Nullum supernaturale potest ratione naturali ostendi inesse viatori,
nec necessario requiri ad perfectionem eius; nec etiam habens potest cognoscere illud sibi inesse».
Mediante due doni, quello dell’immortalità e quello della beatitudine, che
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sono essenziali all’uomo per raggiungere il suo fine. E tutti e due provengono dai
meriti di Cristo, e, quindi, da lui donati liberamente e gratuitamente, e come tali
sono anche soprannaturali. Il dono dell’”immortalità” viene detto tecnicamente
gratis datum, “dato liberamente”, per indicare la sua esclusiva e assoluta
donazione di Cristo; il dono della “beatitudine”, invece, gratum faciens , “che ti
fa grato”, indica che tale dono ti rende grato e accetto davanti a Dio. Il dono
dell’”immortalità” è fondamento e supporto al dono della “beatitudine”.
134Lattanzio, De opificio Dei, cap. 17: «Quid sit anima, nondum inter philosophos convenit, nec unquam
fortasse convenit».
135Atanasio (Pseudo), Liber de definitionibus, 5: «Tria sunt secundum substantiam hominibus ignota et
indefinita: Deus, angelus et anima, quae soli Deo secundum substantiam cognita sunt».
136Agostino, De Genesi ad litteram, 6, 29: «Quaestio de anima valde difficilis».
137Duns Scoto, Lectura, I, prologus, n. 16.
138Duns Scoto, Ordinatio, I, prologus, pars 1, q. unica, n. 28.
1391Cor 15, 51-53.
1401Tim 6, 16.
1411Tim 1, 17.
142Ef 6, 24.
1432Tim 1, 9-10.
gli altri, perché siete stati rigenerati non da un seme corruttibile, ma immortale,
43 43
cioè dalla parola di Dio viva ed eterna»144.
Di tutti questi testi scritturistici, quello che viene preso in considerazione
maggiormente dai Padri è certamente il passo della prima lettera a Timoteo di
Paolo «[Dio è] il solo che possiede l’immortalità»145.
Il principio che guida la riflessione patristica e scotiana è questo: per natura
solo Dio è semplice e, quindi, immortale; tutto ciò che è fuori di Dio, invece, è
composto e, quindi, mortale. L’immortalità per sé appartiene soltanto a Dio,
mentre la creatura razionale la riceve solo per grazia di Cristo.
1441Pt 1, 22-23.
145 1Tim 6, 16.
146Agostino, De civitate Dei, IX, cap. 15, n. 2.
147Ireneo, Adversus haereses, III, cap. 19, n. 1: «Proprte hoc Verbum Dei homo et qui Filius Dei est
Filius hominis, factus est, ut homo, commixtus Verbo Dei et adoptionem percipiens, fiat filius Dei».
Quando ascolti [nel Vangelo] che il Figlio di Dio sia anche figlio di Davide... puoi
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dubitare che egli abbandoni te, o figlio di Adamo, per diventare figlio di Dio?»148.
In altri termini, se Dio ha deciso nella sua liberissima volontà di elevare
l’uomo alla gloria e quindi all’immortalità, doveva anche fornire il mezzo adatto
per conseguirla, cioè metterlo nelle condizioni oggettive di poter raggiungere con
la grazia il suo fine ultimo. Unico mezzo possibile è quello dell’unione ipostatica,
per la quale Dio assume l’uomo e l’uomo può diventare Dio nella Persona che lo
personalizza. Solo attraverso l’unione ipostatica tra Dio e uomo c’è scambio di
caratteristiche essenziali, come quella dell’immortalità. L’immortalità per sé del
Verbo viene comunicata anche alla natura umana, personalizzata dalla Persona del
Verbo.
Gli effetti dell’unione ipostatica sono da considerarsi sia in ordine all’uomo-
Cristo e sia in ordine all’uomo-uomo. L’esigenza all’immortalità compete
principalmente all’uomo assunto dal Verbo, perché, in forza dell’unione
ipostatica, la natura umana viene personificata dalla Persona del Verbo, che, come
tale, le comunica la sua perpetua stabilità. La natura umana di Cristo, perciò, non
diviene per sé immortale, ma, conservando la sua mortalità, acquista l’esigenza
all’immortalità.
Tale interpretazione poggia sulle testimonianze dei Padri. Così per esempio,
Atanasio scrive: «[Il corpo di Cristo] per sua natura non si corrompe di più per
l’ingresso del Verbo divino, ma è senza corruzione per l’inabitazione del Verbo di
Dio»149; Cirillo: «Dopo che il Verbo inabitò nella carne [di Cristo], le concesse
l’immortalità, non il contrario dal fatto che il Verbo è [immortale] per natura»150;
Ambrogio: «Cristo poté non morire»151.
Dall’insieme delle testimonianze si ricava che Cristo diviene il depositario
dell’immortalità ricevuta dal Verbo e anche il primo a riceverla. In quanto
depositario, Cristo ha ricevuto il dono dell’immortalità non solo per sé, ma anche
per gli altri. In questo senso si realizza la sua unica Mediazione: quanto ha
ricevuto lo trasmetterà ai suoi “fratelli”. L’immortalità umana, quindi, riposa
sull’immortalità di Cristo, che ne è la sorgente e la radice.
155Gen 2, 16-17.
L’istante logico dell’autoposizione, nello stato naturale o in quello immortale,
47 47
di Adamo coincide con l’atto della sua creazione, e, per analogia, corrisponde
all’istante esistenziale di Cristo, in cui unione ipostatica e istante concezionale
coincidono. L’elevazione allo stato di gloria dell’uomo, perciò, è strettamente
legato con l’atto della sua creazione e della sua decisione di fede obbedienziale.
In forza di quest’istante logico della creazione-elevazione, si può parlare sia di
stato naturale che soprannaturale dell’uomo. Mi spiego. Nell’uomo, l’immagine di
Cristo può dirsi “naturale”, in quanto è stata inserita nella natura e con la natura,
all’istante della creazione, e non dalla natura; e anche “soprannaturale”, in
quanto insieme all’anima costituisce la stessa naturale natura umana. Ciò significa
che la prima grazia santificante non trasformava la natura umana da mortale a
immortale, ma le concedeva soltanto la possibilità di non morire.
Peccando, Adamo ha perduto questa possibilità e non l’ha potuta trasmettere
alla sua discendenza. Anzi, Adamo trasmette un corpo, non soltanto mortale per
legge di natura, ma anche “morto” spiritualmente, come dice Paolo156, cioè
l’uomo eredita un corpo già morto. Di conseguenza, la perdita in Adamo della
possibilità di morire, si traduce per l’uomo nella necessità di morire. Così come
per il peccato di uno solo tutti ricevono la morte, così per la risurrezione di Uno
solo tutti riceveranno la vita alla fine dei tempi.
Come si spiega questo misterioso scambio?
Il Verbo, assumendo la natura umana, si è fatto in tutto simile all’uomo eccetto
il peccato, cioè ha assunto un corpo “mortale” per legge di natura, ma
“immortale” per l’immagine di Cristo. Cristo, pertanto, aveva la possibilità di
non morire, eppure ha voluto subire l’umiliazione della morte, per sconfiggere la
stessa morte con e nella sua morte libera e volontaria. Onde Paolo può scrivere:
«La morte è stata ingoiata per la vittoria»157.
In breve, la realtà dell’immortalità alla luce di Cristo si rivela un vero e proprio
mistero. Solo per Cristo le creature partecipano dell’immortalità. E poiché
l’immortalità è prerogativa esclusiva della divinità, le creature vi partecipano
soltanto in forza dell’unione ipostatica. Cristo partecipa all’uomo l’immagine sua
di Dio, da cui scaturisce l’immortalità e la beatitudine. Pur ricevendo
l’immortalità, non tutte le creature ricevono la beatitudine finale.
156Cf Rm 8, 10.
1571Cor 15, 54.
Insieme all’immortalità, la “beatitudine” costituisce il fine della creazione
48 48
umana, nel senso che l’uomo è stato creato per partecipare alla gloria di Dio.
Tenendo presente che la sede dell’immagine è l’intelletto, e la sede della
somiglianza la volontà, ne scaturisce che il dono dell’immagine rimane in sé
sostanzialmente inalterato, mentre il dono della somiglianza è in continuo
progresso in sintonia con il grado di virtù o di perfezione che l’uomo riesce a
raggiungere. Come a dire: l’uomo è ad immagine e progredisce nella somiglianza;
oppure: il dono dell’immagine è gratis datum, mentre il dono della somiglianza è
gratum faciens. La vita eterna, perciò, abbraccia il binomio dell’immortalità e
della beatitudine.
Prima di esporre il pensiero scotiano circa il concetto e la realtà della
beatitudine, sembra utile tener presente anche la spiegazione del termine che ne fa
seguendo le indicazioni provenienti sia da Aristotele che da Agostino. «Il termine
beatitudine indica un bene sufficiente che esclude ogni indigenza; è un bene
perfetto che esclude ogni imperfezione; è un bene ultimo che esclude ogni
tendenza verso un altro bene superiore; è un bene completo sia soggettivamente
che oggettivamente»158. Ancora, afferma che «il termine beatitudine è equivoco
perché o riguarda la perfezione finale-completa sia in modo estensivo o in modo
intesivo...»159.
Tenendo presente, inoltre, le diverse indicazioni sulla definizione di
“beatitudine”160, Duns Scoto, da parte sua, la definisce semplicemente e
158Ord IV 49, 2, 92: «de nomine beatitudinis, hoc supponitur notum apud Philosophos, loquentes de ea,
quod beatitudo est bonum sufficiens, excludens scilicet defectum vel indigentiam; est bonum perfectum vel
completum excludens imperfectionem seu diminutionem; est bonum ultimatum excludens tendentiam et
ordinabilitatem, ad aliud completius bonum; est bonum, quo habito complete bene est habenti. Hoc modo
miseria completa est indigentia firmata, est etiam carentia perfectionis secundae, et in hoc diminutio boni
secundi, et etiam exclusio illius, quod propter se amaretur, si haberetur, tandem misero complete male est».
159Ord IV 49, 2, 103: «oportet exponere: vel quod hoc nomen beatitudo est aequivocum, vel ad
perfectionem finalem seu completivam extensive, sive intensive acceptam; et ista est descriptio beatitudinis
acceptae secundum totalitatem extensivam. Vel oportet dicere, si accipiatur pro totalitate intensiva, quod est
status perfectus aggregatione omnium bonorum in uno bono eminenter et unitive continente, vel si in illo non
est aggregatio propter simplicitatem, tunc tertio modo aggregative debet intelligi, tanquam praecedens vel
concomitans illum statum perfectum, non autem de eius essentia».
160 RP IV, 21, 1, 13: «beatitudo est status omnium bonorum aggregatione perfectus, ubi deest omne
malum, et adest omne bonum», secundum Boetium et Augustinum. Sed ille ratione gratiae, quam habuit, est
dignus gratia et gloria beatifica, et ratione peccati obligatus ad poenam aeternam; nullus autem pro illo
tempore pro quo est debitor poenae aeternae potest habere beatitudinem, nec per se, nec per accidens, et tale
debitum ad mortem aeternam est peccatum mortale, et peccatum mortale non potest stare cum beatitudine,
nisi mors aeterna stet cum vita aeterna»; RP IV, 49, 1, 27: «Beatitudo est status omnium bonorum
aggregatione perfectus», scilicet status, in quo habet in aggregatione omnia sibi convenientia, et quae
desiderare potest. Istae autem definitiones datae sunt de beatitudine secundum quid»; RP IV, 49, 1, 26:
«Beatus est, qui habet omnia, quae vult, et nihil mali vult»; ibi accipit omnia non distributive pro singulis,
sed unitive, et excellentius in illo optimo cui coniungitur, quam in se, et ideo beatus non est simpliciter, qui
habet quae vult in vita ista, quia non habet omnia, quae potest velle, et ideo dicitur quae vult, id est, ordinate
potest velle; simpliciter enim mali habent quae volunt, sed non aliud, et ideo additur nihil mali vult»; RP IV,
49, 2, 39: «Beatus est, qui habet, quidquid vult, et nihil mali vult». Si enim aliae potentiae animae haberent
quidquid competit eis, tamen per hoc voluntas non habet quidquid vult; igitur in actu intellectus non erit
ultimata perfectio beatitudinis»; RP IV, 49, 1, 28: «felicitas est operatio optima in vita perfecta». Dicitur
autem operatio optima quia coniungens secundum se ultimate perfecte obiecto. De perpetuitate autem non
curavit, quia illa non est essentialis operationi et beatitudini secundum eum, ita quod ante operationem non
sinteticamente come «il godimento del sommo Bene, il cui atto risiede nella sola
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volontà»161 . All’osservazione proveniente dal Vangelo: «Questa è la vita eterna:
che conoscano te, l’unico vero Dio e colui che hai mandato»162, all’interpretazione
del termine “conoscere” in senso strettamente gnoseologico, il Dottor Sottile
oppone invece l’interpretazione in senso biblico o plenior, cioè come sinonimo di
“amore”; per cui la vita eterna o la beatitudine consiste nell’amare e godere
Dio163.
Come in tutti i problemi inerenti al mistero della vita, anche in questo della
beatitudine, Duns Scoto nei Theoremata afferma che «non si dimostrare
naturalmente, cioè scientificamente, che l’uomo sia stato ordinato alla beatitudine
eterna»164. E ciò sempre a conferma della sua posizione circa i così detti
preambula fidei che appartengono alla fede e non alla ragione. E in questo il suo
pensiero è fortemente traumatico e novativo.
Circa la natura della beatitudine, Duns Scoto non ha alcuna esitazione a
individuarla nella partecipazione alla bontà dell’ultimo e ottimo fine dell’uomo,
che è Dio stesso, conosciuto e amato dall’uomo. Molteplici sono i testi che
parlano in tal senso, se ne scelgono alcuni come indicazione. Prima di tutto
afferma che il vero fine ultimo è anche ottimo165 e che il bene non in astratto o
generale ma concreto e particolare166, il cui possesso lo distingue in estensivo e in
intensivo, a seconda che il possesso della beatitudine sia per sempre o per un
istante167. Esclude che l’atto d’amore verso Dio sia un atto di concupiscenza168,
est potentia, nisi aliquid in se sed post operationem, potentia est bonum in se, et in alio. Sic igitur patet, quod
beatitudo est alicui ultimate bene esse, et non est nisi per operationem, secundum quam liberationem vel
descriptionem beatitudinis»; «Sicut principium in speculabilibus, ita finis in operabilibus»; RP IV, 49, 8, 268:
«Sed intellectus necessario et summe appetit ultimum finem, quia est beatitudo. Quod appetat summe, ait
Philosophus I Ethicorum, cap. 1: «Bene dixerunt antiqui, quod bonum est quod omnia appetunt»; RP IV, 49,
2, 40: «Sed sicut simpliciter ad simpliciter, et magis ad magis, ita et maxime ad maxime, igitur maximum
bonum, quod est beatitudo, maxime omnes appetunt». «summa merces [scil. beatitudo] est inherere Deo»,
hoc est fruitio per amorem ».
161 RP IV, 49, 4, 131: «Beatitudo est frui summo bono»; sed actus fruitionis est in sola voluntate».
162 Gv 17, 3.
163 RP IV, 48, 2, 23: «Et si dicas, ‘haec est vita aeterna’, hoc est, beatitudo, concedo; sed diligere Deum
ita est beatitudo, sicut intelligere vel cognoscere, sive videre, et tunc ratio nihil facit pro eis; igitur sicut tu
glossas, videndo te, similiter ita glosso ego: haec est vita aeterna, ut cognoscant te, id est, diligendo te, et ad
litteram ita debet exponi Evangelium, nec est ex torta expositio secundum hoc, magis quam secundum illud,
quod tu dicis».
164THEO 14, 19: «Non potest probari [naturaliter] hominem esse ordinatum ad aliquam beatitudinem in
hac vita, non attingibilem».
165Lect II,26,un.,11: «beatitudo non est antequam attingatur obiectum [ultimum]»; RP IV, 49, 1, 22:
«beatitudo non est sine coniunctione ultimata ad suum optimum»; RP IV, 49, 4, 137: «beatitudo non potest
esse in aliquo actu, qui ex sua ratione formali non est optimus, quia actus beatificus, ex hoc quod unit bono
et optimo, formaliter est optimus».
166 Ord I, 3, 1, 3, 194: «Beatitudo non est in bono universali sive ‘indeterminato privative’»; Ord IV 43,
2, 131: «conceditur quod verum est beatitudinem non solum in universali, sed etiam in speciali appeti
naturaliter ab homine, sicut inferius patebit distinctione 49. Sed non est notum naturali ratione, quod ipsa in
particulari, quae scilicet consistit in illo, quo nos credimus illam consistere, appetitur naturaliter ab homine;
oporteret enim esse notum per rationem naturalem, quod ille actus nobis est conveniens tanquam finis».
167 RP IV, 49, 5, 180: «Ad quaestionem igitur istam respondeo, quod beatum esse non est, nisi cum
ultimate bene est in coniunctione perfecta ad optimum. Ista autem coniunctio perfecta potest intelligi
ma soltanto un atto d’amore di amicizia169. E seguendo la teoria dell’amore di
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Ugo di san Vittore, dichiara che «la beatitudine consiste nel conoscere e
nell’amare il bene ottimo sommo e sufficiente»170. E nel precisare tale natura
afferma che «la beatitudine umana è partecipazione formale all’essenza divina»171
o agostinianamente è «il summo guadagno» che s’identifica con Dio e non
dipende da alcunché di estrinseco a Dio stesso172. Tra le caratteristiche della
beatitudine, quella dell’eternità o perpetuità è la più suffragata173 e anche la
dupliciter, intensive vel estensive. Loquendo de perfectione unionis intensive, sic dico quod potest esse in
instanti, vel cum instanti temporis, sive mensuretur aevo, sive non, Deus potest eam tantum conservare pro
tunc, et non plus, et sic est ita perfetta beatitudo pro illa hora, sicut si semper duraret, et sic in raptu posset
aliquis esse beatus. Accipiendo autem perfectionem beatitudinis extensivam, dum natura manet, et ad quam
est inclinatio naturalis potentiae, sic beatitudo est perfetta et perpetua non solum raptim, sed semper»; Ord IV
49, 6, 350: «Alio modo potest accipi beatitudo pro aliqua perfectione permanente et intensa, non tamen
praecise sistendo in perfectione intensionis, sed includendo etiam perfectionem extensionis; et hoc vel
proprie ponendo aevum esse successivum vel eminenter, scilicet negando omnem desitionem, ponendo
aevum esse indivisibile. Et illo secundo modo nihil est extensivum perfectum extensive, nisi quod durat,
quantum potest durare, sive illa duratio sit extensa realiter vel virtualiter vel imaginabiliter. Beatitudo autem
patet quod nata est perpetuo manere; ergo ipsa sic accepta pro perfectione summa intensive et extensive,
includit perpetuitatem».
168 Ord IV 49, 5, 253: «non consistit beatitudo in actu concupiscentiae, tum quia licet finis posset esse
bonus, si sit debite circumstantionatus, tamen non est bonus ex ratione sui, vel obiecto, etiam Deo, quia
potest esse immoderatus».
169 RP IV, 49, 4, 138: «Si autem loquamur de velle amore amicitiae, quo vult sibi bene esse propter
bonum voliti, sic dico quod talis actus volendi [scil. beatitudo] est bonus ex se formaliter ex illo solo obiecto
quo vult frui, et non potest esse actus malus in volendo illud»; in perfectiori autem affectivae est beatitudo»;
RP IV, 49, 4, 140: «ista passio, quae est securitas, sive tentio, non sequitur operationem virtutis
concupiscibilis, quia amare Deum, in quo consistit beatitudo, non est actus concupiscentiae, sed amicitiae, ut
dictum est supra. Sed dico quod ista passio, quae sequitur spem, est in virtute irascibili, sicut spes qui
succedit, quae non est de essentia beatitudinis, sed concomitans, vel consequens ad ipsam».
170Ord IV 49, 2, 49: «perceptio beatitudinis principaliter competit potentiae, videtur concludere
oppositum propositi, quia perceptio obiecti beatifici videndo et degustando, non est accidentalis, vel
adveniens beatitudini, sicut dicit Hugo [scil. de Sancto Victore] in auctoritate, quam adducit: «In his, inquit,
beatitudo conistit in cognoscere et amare bonum»; RP IV, 49, 6, 222: «quando dicitur quod beatitudo
essentialiter unit bono ultimo, dicendum quod non omne ultimum est finis, sed optimum, et ideo beatitudo
non est de bono ultimo, nisi sit optimum. Ad delectationem autem non ordinatur fruitio, sed delectatio
sequitur fruitionem; igitur fruitio magis unit optimo quam delectatio»; RP IV, 49, 6, 221: «quando dicitur
quod beatitudo est ultimatum bonum, et delectatio est istud bonum, dico quod nunquam quietatio in se est per
quietationem in alio»; Ord IV 49, 4, 161: «I Ethicorum: «Beatitudo est bonum sufficiens»; sed huiusmodi est
visio secundum illud Philippi Ioannis 14 [8] «Domine ostende nobis Patrem, et sufficit nobis».
171Ord I, 3, 3, 2, 474: «beatitudo nostra erit formaliter essentia divina»; Ord III, 2, 1, 40: «beatitudo est
in essentia».
172 Augustinus I De doctrina christiana cap. 6: «Summa merces est ut ipso perfruamtur», Deo scilicet;
Ord IV 49, 1, 11: «summa autem merces est beatitudo secundum ipsum; ipso autem perfrui est operatio»;
:«Augustinus I De doctrina christiana cap. 6: «Summa merces est, ut ipso perfuamur»; Ord IV 49, 4, 164:
«frui est actus voluntatis, quia est amore inhaerere; summa merces nostra est beatitudo»; Ord IV 49, 7,
376:«Augustinus X de Confessionibus dicit: «Beatitudo est gaudium de vita beata»; Ord I, 8, 1, 4, 171:
«beatitudo autem Dei a nullo respectu extra dependet».
173 Ord IV 49, 6, 338: «beatitudo autem excedit naturalem potentiam creaturae, cum ad eam nulla
creatura ex suis naturalibus possit attingere; unde propria mensura eius est aeternitas; ideo beatitudo est vita
aeterna»; RP IV, 43, 3, 107: «de beatitudine sic: non est vera beatitudo, nisi sit sempiterna et perpetua; aut
igitur credit, illam beatitudinem esse sempiternam, quae est per talem circulationem, et tunc anima eius falso
errore beata erit, quod est impossibile; aut timet quod sit aliquando finitura, sed quomodo tunc est beata cum
tali poena et timore, quasi dicat, nullo modo»; Ord IV 49, 6, 278: «Hic duo sunt videnda: primo, de
perpetuitate beatitudinis; secundo, de securitate beati. De primo patet, quia ita est ex Scriptura Matthaei 25
[46]: «Ibunt iusti in vitam aeternam», et 22 [30]: «Erunt sicut angeli Dei»; et in Psalmo 89 [2]: «In saecula
saeculorum landabunt te», et alibi saepe»; Ord IV 49, 6, 343: «Quod additur beatitudo est vita aeterna;
aeternum non accipitur ibi stricte, sicut distinguitur contra aeviternum, sed pro aeviterno perpetuo
permanente: sic quippe frequenter accipitur aeternum in Scriptura, ut ibidem Matthaei 25 [41]: «Ite
maledicti in ignem aeternum», et statim post, «ibunt hi in supplicium aeternum», cum tamen non sit aeternum
aeternitate distincta ab aevo, vel a tempore perpetuo»; RP IV, 49, 5, 181: «Unde igitur haec perpetuitas? Dico
quod sola causa est voluntas divina, quae sicut disposuit beatificare hominem, ultima perfectione intensiva,
ita et ultima perfectione estensiva; opera enim Dei nesciunt imperfectionem, quia omnia sunt perfecta, et
sicut volontarie Deus disposuit beatificare naturam intellectualem pro instanti, ita et conservat perpetuam pro
massima tranquillità dello spirito174 e l’impeccabilità175. Circa la sede della
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beatitudine, se l’intelletto o la volontà, Duns Scoto è molto esplicito nell’indicare
la volontà come sede propria della beatitudine176
Alla domanda: è possibile disgiungere i due doni, cioè avere l’immortalità
senza beatitudine, e la beatitudine senza dell’immortalità?
Il Dottor Sottile distingue la volontà divina dalla volontà umana. In ordine alla
volontà divina non è possibile la divisione dei due doni. Lo è invece in ordine alla
volontà negativa o incredula dell’uomo. E questo perché Dio, in quanto Bene per
essenza, comunica soltanto il bene alle creature. Nella creatura, invece, possono
essere separati dalla stessa volontà creata che non accetta la volontà di Dio, e si
cade nell’errore e nella condanna. Perciò, le creature ribelli a Dio -angeli e
uomini- si privano della somiglianza con Dio, pur conservandone l’immagine.
Nell’ipotesi tomista in cui l’immortalità è naturale, si restringe l’influsso di
Cristo sulle creature; nell’ipotesi scotista, invece, si mette più in auge l’azione di
mediazione di Cristo, che come dona l’immortalità così dona anche la beatitudine.
Tutto è “dono” nella visione Cristocentrica scotiana. Cristo è tutto.
toto aeterno; perficit enim naturam ut est perfectibilis; sed natura humana perfectibilis est utroque modo,
scilicet beatitudine intensiva et estensiva»; RP IV, 49, 5, 184: «Aliud dubium est, quod si perpetuitas non sit
de ratione beatitudinis, igitur in ratione praemiorum non cadit perpetuitas, nisi concomitanter; nec est in
ratione meritorum, et tunc non meretur homo praemium aeternum; hoc autem non videtur probabile
[dubium]»; Ord IV 43, 2, 135: «beatitudinem non posse esse, nisi sempiternam, dabitur illud medium ab illo
qui tenet beatitudinem humanarn posse haberi in vita ista, quod volens amittit eam, quia debet secundum
rectam rationem velle propriam conditionem naturae suae; recta autem ratio ostendit isti non habenti fidem,
ut videtur sibi, quod conditio naturae suae est mortalitas, tam animae quam corporis; et ideo debet velle, sicut
vitam amittere, ita vitam beatam. Et cum dieis, non est vita beata, quae non erat amata ab habente, vellum
est, si non esset amata pro quando est possibilis, et conveniens illi amanti, sed sic esse convenientem pro
semper non est notum per rationem naturalem»; Ord IV 49, 6, 279: «Beata vita esse non potest, nisi sit
immortalis». Quod probat, quia si amitti potest, aut ergo beatus amittit eam nolens, et tunc non est beatus,
quia non habet quidquid vult; aut volens; aut neque volens, neque volens. Et ad utrumque illorum duorum
membrorum sequitur quod non est beatus, quia non amat beatitudinem; imo si volens amittit, odit eam. Si
neuter, non appretiat eam; nec ergo est vita beata».
174Ord IV 49, 3, 134: «beatitudo est perfecta quies naturae intellectualis in Deo»; Ord IV 50, 6, 113:
«beatitudo includit quietationem appetitus naturalis in quolibet beato».
175RP IV, 49, 5, 185: «Respondeo ad primum dubium, et dico quod impeccabile non est aliud, quam non
posse peccare. Hoc autem dupliciter potest intelligi; primo, quod possibilitas peccandi intelligatur excludi a
causa secunda, propter aliquid intrinsecum, vel propter aliquid extrinsecum, scilicet ex parte causae primae.
Si primo modo, sic dico quod quelibet beatus erit impeccabilis natura sua, quia ex sua voluntate habet quod
non possit in aliquid oppositum beatitudini; tunc enim non poterit uti voluntate potestate sua ad oppositum,
sicut poterat prius in via. Quod autem non possit uti potestate sua ad opposita beatitudinis, hoc propter
actionem superioris causae moventis ad oppositum»; Ord IV 49, 6, 313: «Respondeo, patet quod beatus est
impeccabilis in sensu composionis, hoc est, non potest simul esse beatus et peccare, sed in senu divisionis,
quod manens beatus non habeat potentiam et possibilitem ad peccandum, potest intelligi dupliciter; vel per
aliquid sibi intrinsecum, quod excludit potentiam talem; vel per causam extrinsecam, quod excludit
potentiam propinquam ab illo».
176Ord I, 10, un., 7: «beatitudo autem non est sine voluntate, vel sine actu voluntatis»; Ord IV 49, 5,
268: «Beatitudo autem voluntatis non est aliquo actu, nisi supremo quem potest habere circa obiectum taliter
sibi praesentatum»; RP IV, 49, 2, 95: «beatitudo simpliciter est essentialiter et formaliter in actu voluntatis,
quo simpliciter, et solum attingitur bonum optimum quo fruatur»; Lect II,26,un.,16: «beatitudo consistat non
in actu videndi Deum, sed diligendi simul»; Ord IV 49, 3, 133: «beatitudo consistit sicut in actu intellectus et
voluntatis. Ratio ad hoc, quia beatitudo consistit in perfecta unione beatificabilis cum Deo; haec autem
includit unionem secundum omnem potentiam, secundum quam natura illa est immediate unibilis Deo.
Huiusmodi est tam intellectus quam voluntas, quia sicut Deus sub ratione qua summum veram, est
immediatum obiectum intellectus, ita sub ratione qua summum bonum, est immediatum obiectum voluntatis
[opinio Richardi]».
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CONCLUSIONE
Questo, in breve, lo schizzo cristologico, elaborato secondo il pensiero di
Duns Scoto e confermato dalla Tradizione e dal Magistero. Costituisce il fiore
all’occhiello del francescanesimo. L’Ordine, purtroppo, è molto in ritardo in
questo campo sia a livello giuridico sia a livello speculativo. O si accetta il
Cristocentrismo in toto come rivoluzione copernicana in campo teologico, o è
meglio ignorarlo e desistere dal gloriarsi inutilmente.
Costituisce una vera miniera ancora del tutto vergine che aspetta d’essere
utilizzata. E’ la materia prima e anche il segreto della nuova evangelizzazione e
della nuova riproposizione del cristianesimo a livello europeo. E’ la sfida del
nuovo secolo. E’ l’arma moderna del francescanesimo per il nuovo secolo: tutto si
gioca su Cristo. O con Cristo o contro Cristo.
Duns Scoto è veramente il Dottore del Christus totus, del Cristo totale!
A lui la gloria nei secoli. Amen.