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La Musica Rinascimentale Riassunto

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La musica rinascimentale

Il primo Quattrocento
Johannes Ciconia da Liegi è il primo compositore a combinare elementi stilistici di varia provenienza, in
particolare quelli francesi e italiani. I suoi dati biografici sono incerti, così come quelli di buona parte dei
compositori medievali o rinascimentali, si colloca la sua nascita a Liegi nel 1370 circa, negli anni ’90 si stabilì
a Roma come parte del seguito del cardinale Philippe d’Alençon, si spostò poi a Pavia, sotto Giangaleazzo
Visconti, per trasferirsi poi, nel 1401 a Padova, sotto la protezione di Francesco Zabarella, dove morì nel
1412.
Il mottetto francese era prevalentemente in latino, politestuale, aveva una funzione celebrativa ed era
isoritmico; il termine isoritmia fu coniato da Johannes Boen nel descrivere nel suo trattato Ars musicae il
trattamento del cantus firmus mediante la segmentazione in taleae e colores. Le ripetizioni del color
potevano essere identiche o potevano subire interventi mensurali, il trattamento isoritmico del cantus
firmus poteva inoltre estendersi anche alle altre voci e non solo al tenor (panisoritmia).
Il mottetto italiano invece fu definito equal discantus motet da Robert Nosow per la struttura delle voci
superiori, poste nello stesso registro, che con un gioco imitativo producono un “effetto eco”.
Ciconia riuscì a fondere i due stili: per esempio, in Ut te per omnes celitus si nota la presenza di due taleae e
la funzione celebrativa, tipiche del mottetto isoritmico, e l’utilizzo delle due voci superiori allo stesso
registro, caratteristica dell’equal discantus.
Ciconia, nelle sue composizioni, adopera ancora solo consonanze perfette (8°, 1°, 4°, 5°).

Con la Guerra dei Cent’anni (scambio tra Inghilterra e Continente) e i numerosi Concili che ebbero luogo nel
primo Quattrocento, in primis quello di Costanza (1414-1417), si ebbe uno scambio di idee musicali, dovuto
all’incontro dei musici delle varie corti che vi parteciparono. Così si inclusero le tecniche compositive inglesi
(contenance angloise) in quelle continentali, arrivando all’uso delle consonanze imperfette (3° e 6°) tipiche
inglesi che ammorbidiscono le sonorità.
Il manoscritto dell’Old Hall è la principale testimonianza che abbiamo sulle tecniche e sugli stili compositivi
della contenance angloise: attesta 147 brani composti fra il 1370 e il 1420 afferenti al Rito di Sarum, ovvero
quello della cattedrale di Salisbury. Le composizioni sono raggruppate in sezioni omogenee e si nota
l’assenza dei Kyrie, probabilmente perché in questo rito erano tropati, quindi appartenenti al Proprio e non
all’Ordinario. Il manoscritto ha però perso circa ¼ della sua consistenza originaria e tra i brani mancanti ci
potrebbe essere una sezione di Kyrie.

Una prassi tipicamente insulare è il faburden, ovvero un’esecuzione a 3 voci, in parte improvvisata, a
partire dalla lettura del cantus firmus, l’unica voce scritta e collocata in mezzo (mene). La voce superiore
(treble) canta il c.f. partendo dall’unisono e poi spostandosi alla 4° superiore, la voce inferiore (faburden),
invece, visualizza la linea melodica che parte all’unisono col c.f. alla 3° superiore ma poi canta una 5° sotto
rispetto alla linea visualizzata. Si ottiene così il moto parallelo tra le voci, la cui sovrapposizione è
paragonabile a un accordo in un moderno primo rivolto.
I compositori francesi importarono questa tecnica nel continente modificandola. Il faulx bourdon oltre al
nome cambiò anche la struttura: il c.f. infatti non sta nella voce centrale ma in quella più acuta, la voce più
grave è anch’essa scritta, solitamente una 6° sotto il c.f., e il faulx bourdon è quindi la sola voce
improvvisata e viene cantata una 4° sotto il c.f.
Il faburden, con il suo andamento accordale, si connette all’english discant, nonostante quest’ultimo non
sia improvvisato. Nel discanto continentale il tenor, che canta il c.f., è la voce più grave, in quello inglese è
la voce centrale e ha la stessa velocità delle altre voci, spesso inoltre elementi tematici del c.f. vengono
condivisi con altre voci, creando il cantus firmus migrante.
Opposto allo stile dell’english discant è quello della cantilena: il c.f., quando presente, è ornato e spesso
trasportato all’ottava superiore, mentre la seconda voce, ritmicamente costante, si posiziona una 5° sotto,
nello stesso ambito della terza voce, con scopo riempitivo.

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La musica rinascimentale

Un ulteriore contributo inglese alla musica polifonica è la messa polifonica, ovvero la realizzazione
polifonica dei canti dell’ordinario. La presenza della polifonia nella messa non è una novità, ma per avere
una messa i cui 5 canti fossero opera dello stesso compositore bisogna aspettare la Missa de Notre Dame di
de Machaut, che però non aveva un intento unitario interno. Solo nel XV secolo la messa diventa un vero e
proprio organismo musicale dotato di una propria struttura, alla cui base c’è la condivisione dello stesso
materiale melodico tra i vari movimenti. Ad essere andati in questa direzione sono due compositori inglesi,
Leonel Power e John Dunstable, che composero rispettivamente le messe Alma Redemptoris Mater e Da
gaudiorum praemia, a 3 voci e col tenor al grave, nelle quali ogni movimento riproponeva la stessa melodia
gregoriana.
La messa che viene però presa come modello per la composizione di cicli polifonici è l’anonima Missa
Caput, composta negli anni ’40 del Quattrocento, è costruita sul melisma della parola “Caput” dell’antifona
Venit ad Petrum. Il c.f. viene assegnato al tenor e viene ripetuto in ogni movimento, compreso il Kyrie. La
novità sta nel fatto che si tratta di una composizione a 4 voci: la voce aggiunta è un contratenor bassus.
Inoltre si ha la presenza dello stesso incipit per ogni movimento, il che dà un ulteriore senso di unità.
Grazie a questa messa nasce una nuova tipologia compositiva, la messa su tenor o su cantus firmus; il tenor
inizialmente avanzava a valori molto più lenti delle altre voci, poi nel corso del Quattrocento assunse una
fisionomia sempre più simile a quella delle altre voci. Il cantus prius factus poteva essere preso o da una
melodia gregoriana o dal tenor di una composizione polifonica, nel primo caso gli si conferiva un assetto
ritmico, nel secondo si poteva mantenere quello originale o modificarlo.

John Dunstable (1390-1453, Londra) è il compositore più rappresentativo del panorama inglese della prima
metà del Quattrocento. Egli fu parte dell’entourage del fratello di re Enrico V, Giovanni di Lancaster duca di
Bedford, e compose messe, intonazioni polifoniche di antifone mariane, inni, sequenze e altre composizioni
liturgiche e mottetti isoritmici a 2 o 3 voci. Della sua produzione profana ci restano solo 3 brani in francese,
1 in inglese e 1 in italiano.
All’interno del manoscritto dell’Old Hall è attestato inoltre un suo mottetto panisoritmico a 4 voci, Veni
Sancte Spiritus, scritto per Pentecoste. La struttura del mottetto è attenta e rigorosa dal punto di vista
contrappuntistico, matematico e anche simbolico; infatti a ogni talea corrispondono 11 note, forse rimando
al numero degli Apostoli presenti alla discesa dello Spirito Santo.

Il mottetto nella prima metà del XV sec.


All’inizio del XV sec. il mottetto era isoritmico e funzione celebrativa, nonostante cominciasse a mescolarsi,
grazie a Ciconia, con lo stile italiano. Du Fay (1397, Hainaut-1474, Cambrai) rivoluzionò il mottetto con i
nuovi elementi musicali arrivati dall’Inghilterra fino al suo quasi completo affrancamento dall’impostazione
su cantus firmus. Egli collaborò con contesti di prestigio, come la corte dei Malatesta a Rimini e Pesaro, la
cappella papale e, al termine della sua carriera, la maitrise di Cambrai.
Johannes Tinctoris nel suo Liber de arte contrapuncti testimonia che fu considerato anche dai suoi
contemporanei come uno dei fautori della rinascita musicale del Quattrocento. Un’altra testimonianza in
questo senso ci viene data dal mottetto Omnium bonorum plena di Compère, che contiene una preghiera
alla Vergine a nome di cantori che costituivano il gotha della musica tardo-quattrocentesca, tutti considerati
tributari del magistero di Du Fay.

Anche Du Fay al suo esordio era influenzato dallo stile isoritmico e simbolico dell’estetica del primo
Quattrocento, dove le strutture formali arricchite da elementi paratestuali non percepibili all’ascolto
(implicazioni numerologiche o acrostici) erano alla base di quasi tutte le composizioni. Un esempio è il
mottetto Nuper rosarum flores (1436) che al suo interno nasconde implicazioni numeriche scaturite grazie a
un’attenta progettazione isoritmica; infatti in questo mottetto si ha un forte incremento dell’interesse di Du
Fay per la forma e l’isolamento ritmico dei due tenores viene ridimensionato.

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La musica rinascimentale

Un altro rapporto matematico interessante è la sezione aurea, così definita dal matematico Luca Pacioli,
che consiste nella divisione di un segmento A in altri 2 (B e C) per ottenere la proporzione A:B=B:C e
compare nel mottetto Lamentatio Sanctae Matris Ecclesiae Costantinopolitanae.
Il più antico mottetto giuntoci di Du Fay è Vassilissa ergo gaude, un mottetto a 4 voci, monoritmico e
monotestuale, composto nel 1420 in occasione del matrimonio tra Cleofe Malatesta e Teodoro II Paleologo,
figlio dell’imperatore di Bisanzio.

Le prime innovazioni che Du Fay apporta si notano nel mottetto Ecclesie militantis: l’organico passa da 4 a 5
voci, si ha un secondo tenor e la funzione strutturale dei tenores viene surclassata dal contratenor, la cui
melodia è ripetuta 3 volte. Le opinioni sulla destinazione di questa composizione sono diverse: alcuni la
considerano composta per l’intronizzazione di papa Eugenio IV (3 marzo 1431), per le allusioni al nome
secolare del papa presenti nei due canti fermi. Il tono plumbeo del mottetto e la mancanza di una cornice
gratulatoria fanno però pensare a un’altra occasione; pochi anni dopo l’intronizzazione del pontefice Roma
fu invasa per conto del duca di Milano e il papa fu costretto ad abbandonare l’Urbe, così come tutti i
compositori e i musici, e il mottetto potrebbe quindi essere stato composto in quel periodo con una forte
connotazione propagandistica, come emerge dal testo del contratenor, fortemente critico.

Insieme all’isoritmia Du Fay sperimentaò altre tecniche compositive, molte delle quali ereditate dalla
contenance angloise. Per esempio, nell’Ave Regina Caelorum (1430) utilizza uno stile di discanto, seppur
differente da quello inglese per la posizione del tenor. Mentre in Flos florum, a 3 voci (1425-1430), la voce
superiore è fortemente ornata, mentre tenor e contratenor procedono con valori larghi.
La vera innovazione ebbe luogo con la terza intonazione dell’Ave Regina Caelorum, a 4 voci, nella quale il
cantus prius factus viene parafrasato in tutte le voci (parafrasi e cantus firmus migrante di tradizione
inglese), il tenor abbandona l’isolamento ritmico e non è più la voce più grave.

La musica profana nella prima metà del Quattrocento


Le composizioni profane, avendo una finalità diversa da quelle liturgiche e devozionali, hanno anche criteri
compositivi differenti: la struttura contrappuntistica è più semplice, trasparente e di dimensioni più ridotte.
Si tratta di composizioni volte all’intrattenimento e indirizzate a una committenza colta, la struttura quindi
non era complessa per non appesantire l’ascolto.
La musica vocale profana del Quattrocento si basa sulle formes fixes francesi il cui schema musicale era
modellato su quello poetico. Questo repertorio ci è trasmesso dagli chansonniers, di cui ricordiamo lo
Chansonnier Cordiforme, il Ms. Copenhagen 291, Dijon 517, Paris 57, Wolfenbüttel 287 e lo Chansonnier
Laborde, francesi; per quanto riguarda l’Italia i codici sono il Ms. Banco Rari 229 e il Ms. Pixérécourt, il Ms.
El Escorial, lo Chansonnier Mellon, e lo Chansonnier Casanatense.

Un compositore rappresentativo di questo repertorio è Gilles Binchois, colui che formalizzò la chanson
borgognona a 3 voci con superius cantabile, poggiante su tenor e bassus sine litteris. I temi trattati possono
essere diversi, le chansons courtoises hanno temi amorosi mentre le chansons de mai e le chansons à boire
hanno tema bacchico.

La forme fixe di maggior successo nel Quattrocento è il rondeau, articolato in 8 unità poetico-musicali
secondo lo schema A-B-a-A-a-b-A-B. Se A e B hanno un verso ciascuno si tratta di un rondeau simple, se
hanno 3 versi di un rondeau tercet, poi quatrain e cinquain.
Un’altra forme fixe è la ballade, codificata da Eustache Deschamps alla fine del Trecento nell’Art de dictier.
La sua struttura è tripartita: la sezione A è composta da 2 distici omogenei metricamente e rimicamente, la
sezione B è composta dai restanti versi eccetto il refrain, che forma la sezione C e che ricorre al termine di
ogni strofa. La sezione A ha 2 intonazioni identiche, diverse solo per la cadenza ( ouvert la prima e clos la

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La musica rinascimentale

seconda), mentre la sezione B ha un’intonazione diversa, spesso introdotta da un cambio metrico, e anche
la sezione C ha un’intonazione autonoma.
La terza delle formes fixes più praticate nel Quattrocento è la bergerette o virelai, la cui struttura si basa
sull’alternanza tra strophe e refrain. Quest’ultimo è di lunghezza variabile, apre la composizione e ritorna
ciclicamente fino alla fine del brano. La strophe è divisa in 2 parti, con lo stesso schema ritmico e una
sequenza di versi quantitativamente e ritmicamente omogenea al refrain; la struttura è quindi refrain –
strophe – refrain – strophe – refrain. L’intonazione musicale si divide in sezione A, assegnata al refrain e alla
seconda parte della strophe, mentre le sezioni B (ouvert e clos) sono assegnate ai versi restanti.
La bergerette è un virelai con una sola strophe (refrain – strophe – refrain).

La forma più nobile della lirica italiana era invece la ballata, formata da una ripresa di 2, 3 o 4 versi, 2 o più
piedi metricamente e rimicamente identici e una volta metricamente identica alla ripresa. L’intonazione
musicale è bipartita: A per ripresa e volta e B per i piedi.
Ci sono diverse categorie di ballate:
• Ballata grande: ripresa di 4 vv. endecasillabi
• Ballata mezzana: ripresa di 3 vv. endecasillabi
• Ballata minore: ripresa di 2 vv. endecasillabi
• Ballata piccola: ripresa di 1 v. endecasillabo
• Ballata minima: ripresa di 1 v. settenario
• Ballata stravagante: ripresa di 5 vv.

Nella monografia Il segreto del Quattrocento (1939) di Fausto Torrefranca egli si interroga sul perché in
questo secolo la prassi musicale fosse delegata ai compositori franco-fiamminghi e che cosa facessero quelli
nostrani. La risposta alla mancanza di testimoni scritti della prassi compositiva italiana di questo periodo
risiede in un tratto distintivo degli ambienti cortesi nei quali era praticata, cioè l’improvvisazione. Questa
poteva essere esclusivamente strumentale, vocale con accompagnamento strumentale o solo vocale: a
corte inoltre potevano avvenire esecuzioni strumentali e vocali o solo strumentali per accompagnare la
danza.
La prassi estemporanea si basava sugli aeri, moduli musicali trasmessi oralmente che costituivano il
bagaglio melodico attraverso il quale l’esecutore sviluppava le proprie intonazioni; si trattava di formule
melodiche che venivano trattate con elasticità in modo che fossero adattabili a testi diversi. Spesso i poeti-
cantori si accompagnavano con il liuto o la viola e alcuni assunsero un certo prestigio, come Leonardo
Giustiniani, Serafino Aquilano e Pietrobono del Chitarrino.
Oltre al canto accompagnato ci sono altri repertori improvvisati, come le basses danses, un insieme di
melodie strumentali a destinazione coreutica; l’unica voce scritta era il tenor, che necessitava
dell’integrazione estemporanea delle altre voci. Queste pratiche improvvisate furono descritte nel
Tractatus de contrapuncto di Prosdocimo de Beldemandis (1412) e nel secondo libro del Liber de arte
contrapuncti di Tinctoris (1477), dove si trova la formalizzazione teorica della res facta (elaborazione
polifonica scritta) e del cantare super librum (elaborazione polifonica improvvisata a partire da una
monodia scritta).
Inoltre, il cantare super librum era una prassi molto frequente nelle corti italiane e questo portò alla nascita
di un nuovo strumento per l’accompagnamento, la lira da braccio.

La messa
La Missa Caput fu la composizione che attorno agli anni ‘40 del Quattrocento diede luogo a un nuovo
genere compositivo, la messa su tenor o su cantus firmus: la realizzazione polifonica dell’Ordinarium
missae, dunque organizzata in 5 movimenti (che usano tutti lo stesso cantus firums) a loro volta suddivisi in
sottosezioni. Il Kyrie è solitamente tripartito (Kyrie I – Christe – Kyrie II), il Sanctus pentapartito (Sanctus –
Pleni – Osanna I – Benedictus – Osanna II) e l’Agnus tripartito (Agnus I – Agnus II – Agnus III). Gloria e Credo,

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La musica rinascimentale

invece, sono sempre preceduti dall’incipit gregoriano e sono trattati diversamente in ogni messa e per finire
l’avvicendamento delle diverse sezioni viene accompagnato con variazioni di organico.
Una messa che può essere considerata come punto di partenza di questo genere è la Missa Se la face ay
pale di Du Fay, composta nel 1452 per le nozze di Iolanda di Francia e Amedeo IX di Savoia. Qui il cantus
firmus è preso dal tenor dell’omonima chanson dal contenuto amoroso (profano) di Du Fay mantenne
l’assetto ritmico trattandolo solo dal punto di vista proporzionale.

L’utilizzo di un cantus firmus profano diventa una prassi sempre più frequente e dà luogo alla tradizione
delle messe super l’homme armé, formata da almeno 36 messe composte nell’arco di 2 secoli, dalla metà
del XV fino al XVII sec.
La melodia dell’homme armé compare all’interno della chanson combinativa borgognona Il sera pour vous
canbatu/l’ome armé, che combina 2 diverse intonazioni musicali: il superius è un rondeau, mentre tenor e
contratenor cantano un testo diverso. Questa chanson è presente a 3 voci nel Codice Mellon e con
l’aggiunta di un bassus strumentale nel Canzoniere Casanatense.
La melodia è organizzata in 2 sezioni, A, B e A’; A e A’ si muovono in un ambito inferiore ( sol-re) e
cominciano e terminano sulla finalis, B invece si sposta al tetracordo superiore (re-sol) e scende per 3 volte
dalla finalis alla repercussio. Ogni compositore fa poi scelte differenti per quanto riguarda la segmentazione
interna e le eventuali omissioni.
La fortuna di questa chanson è probabilmente dovuta al sentimento antiturco che proliferava all’epoca in
Europa dopo la caduta di Costantinopoli; il rondeau della chanson è infatti un invito a lottare contro i turchi.
Sorsero molti programmi cavallereschi volti alla riconquista della città, il più importante tra questi era
sicuramente l’ordine del Toson d’Oro, a una cui adunata a Lille nel 1454 il duca di Borgogna Filippo il Buono
fece voto di promuovere una crociata per la liberazione dell’Oriente. Nel corso di questa riunione e di altre
simili vennero eseguite delle messe polifoniche, tra cui alcune missae l’homme armé.
Le messe di Busnoys, Ockeghem e Du Fay fanno probabilmente parte della prima generazione di questa
tradizione, anche se si tende a considerare quella di Du Fay la più tarda delle 3 vista la disinvoltura nel
trattamento del tenor.
Un ulteriore codice contenente 6 messe l’homme armé è il Ms. VI.E.40, conservato alla Biblioteca Nazionale
di Napoli, copiato all’interno della Cappella di Carlo il Temerario come dono per le nozze di Beatrice
d’Aragona (1476). Queste messe hanno un uso intensivo dei canoni enigmatici. La melodia dell’homme
armé è suddivisa in 5 frammenti che costituiscono i cantus firmi di 5 messe, la 6° utilizza la melodia per
intero.

Specialmente in ambito fiammingo, l’utilizzo dei canoni enigmatici come indicazione del trattamento
melodico e mensuralistico del cantus firmus è molto frequente; questi possono essere formule verbali o
veri e propri indovinelli. Un esempio è il canone enigmatico presente nell’Agnus Dei III della Missa
L’homme armé di Du Fay.

La messa di Du Fay che costituisce il risultato di tutte le sue esperienze compositive è la Missa Ave Regina
celorum, composta sull’omonimo mottetto a 4 voci. Il trattamento del cantus firmus è più moderno rispetto
alle messe precedenti, riscontra molti interventi ornamentali e un’inedita esuberanza melodica. Forse
questa messa è stata concepita per il proprio servizio funebre.

Johannes Ockeghem è uno dei più illustri esponenti musicali del secondo Quattrocento: la sua opera
contempla tutti i generi musicali dell’epoca e sua è la prima messa da requiem giuntaci. Tipici della sua
scrittura sono escamotages teorici che si allontanano dal modello della messa su tenor. La Missa
prolationum, per esempio, tocca vertici di grande complessità essendo imperniata su due diverse linee
melodiche a loro volta da duplicare e differenziate mensuralmente.
Un altro importante compositore della sua generazione è Antoine Busnoys, rappresentativo della cappella
musicale borgognona, che compose numerosi mottetti e solo 2 messe.

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La musica rinascimentale

Il secondo Quattrocento
Heyne van Ghizeghem nacque nei pressi di Gand, fu cantore presso la corte di Carlo il Temerario duca di
Borgogna, per il quale svolse anche altre mansioni (chantre et valet de chambre e soldato). È noto per
essere un compositore di chansons, tra cui due in particolare ebbero molto successo, Allez regrets e De
tous bien plaine. Quest’ultima fu utilizzata anche come cantus prius factus di messe e del mottetto Omnium
bonorum plena di Compère. In De tous bien plaine le due voci inferiori sono sine litteris e tutte le parti
godono della medesima dignità musicale.

Loyset Compère (1445, Artois o Hainaut-1518) fu uno dei compositori franco-fiamminghi che contribuì
all’arricchimento delle forme di polifonia. Nella sua vita si spostò tra Francia e Italia come membro della
corte reale del re di Francia Carlo VIII. Della sua produzione l’opera più ricordata è il mottetto a 4 voci
Omnium bonorum plena, probabilmente scritto per la cerimonia di dedicazione alla Vergine della
cattedrale di Cambrai nel 1472. Egli utilizzò il tenor della chanson De tous bien plaine come cantus firmus,
utilizzandone il materiale melodico anche per il superius; il cantus firmus risulta suddiviso in 2 parti, nella
prima il tenor ha valori ampi, mentre nella seconda è ritmicamente assimilato alle altre voci.
Due ulteriori forme compositive praticate da Compère sono:
• mottetto-chanson, a 3 voci, con testo in francese alle 2 voci superiori e in latino al bassus, fu praticato
anche da Josquin
• motetti missales

Nella cappella ducale milanese si avvicendarono eccellenti rappresentanti del panorama musicale franco-
fiammingo ma il più importante compositore dell’ambiente musicale milanese di fine XV sec. fu Franchino
Gaffurio (1451, Lodi- 1522): dopo la sua formazione conobbe Tinctoris a Napoli e fu maestro di musica al
castello di Monticelli d’Ongina, dove iniziò a scrivere il trattato Practica musicae, divenne poi maestro di
cappella della cattedrale di Milano. Compose prevalentemente musica sacra ma ebbe grande fama per la
sua attività trattatistica: Theorica musicae (1492), Practica musicae (1496) e De armonia musicorum
instrumentorum opus (1518). Fu anche incaricato di organizzare e sovrintendere il confezionamento di 4
volumi corali (4 libroni di Gaffurio), contenenti il repertorio in uso nella cattedrale, tra cui i motetti missales:
cicli di mottetti geograficamente e cronologicamente circoscritti e connessi alla prassi liturgico-musicale
ambrosiana. Questo corpus consta cicli composti solo da musici afferenti all’ambiente musicale di Milano
che dovevano essere cantati durante la messa in sostituzione dei consueti momenti liturgici, sono a 4 o 5
voci e di modeste dimensioni, di libera composizione e con inserimento episodico di melodie liturgiche
spesso parafrasate. I testi sono prevalentemente centonizzazioni di devozione mariana o del Cristo.

Un altro compositore franco-fiammingo del XV sec. è Johannes Regis, menzionato da Compère nel mottetto
Omnium bonorum plena come eccellente musicista afferente alla scuola di Du Fay e con cui ebbe costanti
rapporti grazie alla sua attività a Cambrai. La sua reputazione è anche testimoniata da due trattati di
Tinctoris: Proportionale musices e Liber de arte contrapuncti.
Nella sua Missa L’homme armé/Dum sacrum mysterium combinò 2 cantus firmi, uno profano e l’altro
liturgico. Inoltre formalizzò una nuova tipologia di mottetto a 5 voci, strutturato in 2 parti mensuralmente
diverse, la prima ternaria e la seconda binaria, elaborato su cantus firmus: un esempio è Clangat
plebs/Sicut lilium: il tenor è una sorta di asse di separazione fra 2 coppie di voci che si muovono nello stesso
ambito. Una caratteristica di questo modello mottettistico è il gioco di effetti concertanti dovuto alla
continua alternanza di organico e a quella tra contrappunto e omofonia. Tecnicamente è ancora un
mottetto su tenor, ma ormai il cantus firmus è un primus inter pares nella compagine polifonica.

La terza generazione di fiamminghi


Nel 1477 la Borgogna fu annessa al Regno di Francia e i Paesi Bassi divennero parte dei domini Asburgici: si
creò un grande fenomeno migratorio di fiamminghi e uno sviluppo della musica nei Paesi Bassi.

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La musica rinascimentale

Il più rappresentativo di questa generazione è Josquin Des Pres, compositore che traghettò la musica da
una concezione quattrocentesca venata di reminiscenze gotiche a una più moderna dimensione
compositiva. Riguardo al luogo e la data di nascita non abbiamo dati certi, da alcune dichiarazioni di Josquin
stesso si pensa che provenga da l’Eau Noire nelle Ardenne; un’altra possibile ipotesi è che provenga dalla
contea di Vermandois, la cui principale città è Saint Quentin, informazione presente nello Tschudi
Liederbuch (1540), quest’ipotesi sarebbe supportata da un acrostico presente nella seconda parte del
mottetto Illibata Dei virgo nutrix, da cui si evince il nome del fiume Escaut, che scorre nei pressi di Saint
Quentin.
L’incertezza sulla data di nascita è data dalla sovrapposizione onomastica con un cantore omonimo al
servizio di Ascanio Sforza, ma il 1450 ca. è la data più ragionevole.
Il primo documento sicuro è una registrazione del 1477 che lo cita come cantore nella cappella musicale di
Renato d’Angiò ad Aix-en-Provence, dove restò probabilmente fino al 1480, quando si trasferì alla Sainte
Chapelle del re di Francia Luigi XI. Nel 1483 entrò probabilmente a far parte della cappella sforzesca, dove
entrò in contatto con il cardinale Ascanio Sforza, che seguì per un periodo a Roma. Fu anche al servizio di
Gian Galeazzo Sforza e in questo periodo entrò anche in contatto con Franchino Gaffurio. Tra il 1480 e il
1482 si ipotizza un primo contatto con la corte ferrarese e nel 1504 fu maestro della cappella musicale di
Ercole d’Este. Nel 1489 entrò nella cappella papale, dove restò fino al 1494/95. Nel 1504 egli si ritirò nella
collegiata di Notre Dame a Condé-sur-l’Escaut fino alla sua morte il 27 agosto 1521.
Josquin godette di una grande reputazione mentre era ancora in vita, come ne è testimone la prima stampa
monograficamente dedicata a un solo compositore, che fu appunto la Misse Josquin (1502) di Petrucci. Egli
praticò tutti i generi musicali e dal punto di vista stilistico è noto per la sua versatilità nel recupero di
strategie compositive desuete e della loro fusione con altre moderne, questo fattore rende molto difficile la
datazione delle sue opere.

Col mottetto Ave Maria… Virgo serena Josquin inaugurò un innovativo formato mottettistico la cui novità
risiedeva nell’ampio utilizzo dell’imitazione. Questa è estesa a tutta la composizione, assumendo un rilievo
strutturale. Il mottetto si costruisce quindi non per la presenza di un cantus firmus, ma sulla base della
successione di nuclei melodici posti in imitazione, ne consegue un flusso ininterrotto e sempre mutevole in
cui le sequenze imitative si concatenano generando un decorso fluido, non mancano però anche passaggi
omofonici. Per i primi due versi del mottetto Josquin utilizzò il materiale melodico di una versione della
sequenza Ave Maria… virgo serena, estrapolandone l’incipit, parafrasandolo e assegnandolo alle diverse
voci, un po’ come avveniva nella messa parafrasi.
Un altro mottetto mariano di Josquin è Illibata Dei virgo nutrix, in questo caso il cantus firmus è ricavato
dalla tecnica del soggetto cavato.
Un mottetto della fine del Quattrocento è Nymphes des bois, composto su testo di Jean Molinet, per la
morte di Ockeghem. In questo caso si ha un ampliamento dell’organico a 5 voci: il tenor II ha testo e musica
dell’introito Requiem aeternam, mentre le altre voci hanno il testo francese.

Josquin continuò a praticare la messa su tenor, facendo in alcuni casi delle modifiche, come nel caso della
Missa Hercules dux Ferrarie, basata sul soggetto cavato.
Con la Missa Pange lingua invece Josquin inaugurò la nuova tipologia della messa parafrasi: una
composizione basata su un cantus prius factus monodico ripartito tra tutte le voci.

Nel 1587, con la pubblicazione della Missa Parodia mottetae Domine da nobis auxilium, Jacob Paix inaugurò
il termine parodia e una tipologia di messa imitativa dove l’intera trama polifonica del cantus prius factus
viene trasferita, opportunamente rimaneggiata, nella nuova composizione. Per parlare di missa parodia
devono essere rispettati alcuni requisiti:
• acquisizione della trama polifonica del cantus prius factus con una valenza strutturale
• cantus prius factus polifonico (anche se poteva avere meno voci della messa)

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La musica rinascimentale

L’adattamento del cantus firmus alla trama polifonica prevedeva anche una sorta di amplifcatio e l’aggiunta
si nuove parti di libera composizione. La Missa Mater Patris di Josquin viene di norma citata come prima
vera messa parodia. Il processo parodistico comporta anche l’adeguamento della messa all’ambito sonoro
complessivo del modello; nella Missa Mater Patris, il mottetto originale ha come voci superiori 2 tenores,
quindi il superius della messa ha la chiave ottavizzata.

Alla fine del Quattrocento le scholae annesse alle grandi cattedrali delle più importanti città dei Paesi Bassi
continuarono ad esercitare un ruolo rilevante sulla scena musicale internazionale, centri fiamminghi di
particolare importanza furono:
• Cattedrale di Utrecht
• Notre-Dame di Bergen-op-Zoom
• Cattedrale di Cambrai
• Notre-Dame di Anversa

Assieme a queste maitrises, anche la corte musicale di Massimilano I d’Asburgo (Grande chapelle) fu un
importante centro di aggregazione di grandi musicisti. Così, mentre nelle corti del nord d’Italia s’imponeva
la frottola, la chanson si trasformò in un gioco compositivo raffinato che si tradusse in una sorta di
competizione che siglava l’appartenenza al medesimo milieu.

La musica profana in Italia alla fine del Quattrocento


L’affermazione e la diffusione del repertorio frottolistico fu una delle tappe più importanti nel percorso
della storia della musica italiana del Quattrocento. Il termine frottola ha due significati: nell’accezione
generica indica una grande varietà di forme poetiche-musicali e identifica un repertorio distinto sia da
quello improvvisativo che da quello fiammingo (un corpus profano in lingua italiana) e deriva da frocta, che
indica l’assemblaggio di metri e pensieri diversi rappresentati da differenti strutture metriche e formali. In
un’accezione più specifica, indica la denominazione alternativa della barzelletta, una delle forme musicali
del corpus. Sotto il profilo musicale le frottole si caratterizzano per un contrappunto semplice, incline alla
verticalità delle parti, in modo da indirizzare l’attenzione sulla voce superiore: infatti il superius era cantato,
mentre le altre parti venivano suonate da diversi strumenti o erano intavolate per liuto o tastiera.
I centri propulsivi di questo genere furono Mantova (Isabella d’Este) e Ferrara (Lucrezia Borgia). La frottola
ebbe così tanto successo che anche i compositori franco-fiamminghi in Italia ne composero e gli stampatori
Petrucci e Antico ne fecero svariate raccolte. Con la diffusione del pensiero di Bembo, inoltre, si ebbe
l’elevazione dell’idioma italiano anche nei testi frottolistici. La fine del repertorio frottolistico si ha nel 1520,
data di stampa della raccolta Musica sopra le canzone del Petrercha di Messer Bernardo Pisano (Petrucci).

Le principali strutture poetiche componenti il repertorio frottolistico sono:


• barzelletta (forma più frequentemente associata a questo repertorio): il testo è una struttura strofica
organizzata in ripresa (abba o abab), una o più stanze di 6/8 versi formate ciascuna da 2 o 3 piedi (cd-cd)
e una volta (da o deea) che funge da raccordo tra ultimo piede e ripresa. Per quanto riguarda la musica,
invece, la struttura è bipartita: A per il primo distico della ripresa e per i piedi, B per il secondo distico
della ripresa e per la volta. Si trovano frequentemente composizioni di questo repertorio non
pienamente inquadrabili negli schemi formali.
• strambotto (in Toscana rispetto): 8 endecasillabi in ottava toscana (abababcc) o ottava siciliana
(abababab), la forma musicale prevede 4 sezioni identiche, ognuna ripartita in 2 frasi (A e B) separate da
una cadenza.
• sonetto: 2 intonazioni, A per ciascuna quartina e B per ogni terzina
• canzone (forma particolarmente nobile, utilizzata per soggetti di particolare rilievo come Petrarca): è
costituita da un certo numero di stanze metricamente uguali (endecasillabi e settenari), ciascuna divisa
in 2 parti, fronte e sirma.

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La musica rinascimentale

A volte si attingeva a testi poetici in altre lingue, tra cui il latino: Isabella d’Este per esempio commissionò
realizzazioni musicali di alcuni dei passi più classici.
La tradizione frottolistica, con andamento omoritmico e la messa in evidenza della voce superiore, penetrò
anche nel repertorio nordico.
Nel XV secolo anche la musica strumentale godette di uno statuto differente da quello della musica scritta,
l’uso improvvisativo degli strumenti era previsto per il canto al liuto e per le basses danses.
Nella seconda metà del secolo cominciarono ad apparire le intavolature: sistemi notazionali per liuto e
tastiere, due esempi ne sono il Fundamentum organisandi di Conrad Paumann (1452) e il manoscritto
Buxheimer Orgelbuch (1460/70), entrambi attestano composizioni vocali rielaborate per tastiera.
L’improvvisazione strumentale fu all’origine dello sviluppo di una forma musicale scritta e legata alle
possibilità tecniche ed espressive dello strumento. Il termine ricercare definisce brani intavolati liberi sia
per quanto riguarda la forma sia nella sostanza accordale-contrappuntistica.
Tra i più celebrati liutisti del XV secolo c’è Francesco Canova, molto attivo a Roma: lavorò per Leone X e i
cardinali Ippolito de’ Medici e Alessandro Farnese. Ricercari e fantasie sembrano essere la trascrizione delle
performances improvvisative per cui era celebre.
Da fonti secondarie si evince inoltre che nel Quattrocento iniziarono a costituirsi ensembles differenziati dal
volume sonoro emesso: haute e basse chapelle. Gli strumenti appartenenti alla haute chapelle (tromba,
trombone e bombarda) sono usati preferibilmente all’aperto.
Verso la metà del Quattrocento si affermò la lira da braccio, verso la fine del secolo, invece, in Spagna
comparve la viola da gamba.

Il Cinquecento: riforma, controriforma e nuove tecniche


I primi anni del Cinquecento si accompagnarono a importanti cambiamenti politici e religiosi in Europa: fu
scoperta l’America, gli Asburgo aumentarono il loro potere e l’Italia cadde sotto il dominio di Francia e
Spagna. In Germania, il 31 ottobre 1517 Martin Lutero affisse sulle porte della cattedrale di Wittemberg le
95 tesi con le quali prendeva le distanze dalla Chiesa di Roma, gesto che portò alla creazione di altre
scissioni analoghe, come il Calvinismo in Svizzera e la riforma anglicana in Inghilterra. La dottrina luterana
ebbe delle conseguenze anche sulla prassi religiosa: la Bibbia fu tradotta in tedesco e fu introdotto un
nuovo patrimonio di canti a sostituire il repertorio gregoriano, i Kirchenlieder (canti luterani), che vennero
regolarmente stampati dal 1523. L’assetto ritmico-melodico dei corali è semplice, strofico e semplice da
intonare, in modo da permettere ai fedeli di partecipare al canto e per incrementare il corpus di corali si
fece ricorso anche alla tecnica del contrafactum. Le riforme si fecero sentire anche in Italia, dando luogo
alla Controriforma.

Nonostante le difficoltà politiche che gravavano sulla penisola italiana, è proprio qui che nacque e si diffuse
la stampa musicale, il cui primo artefice fu Ottaviano Petrucci che nel 1498 ottenne da parte del Senato di
Venezia un privilegio ventennale per stampare musica polifonica e intavolature d’organo e di liuto. Nel
1501 diede alle stampe Harmonices musices odhecaton A, una raccolta di 96 composizioni a 3, 4 e 5 voci di
autori franco-fiamminghi. Fino al 1503 Petrucci stampò a triplice impressione (tecnica dei caratteri mobili),
prima le note, poi il pentagramma e per finire gli elementi testuali, in seguito invece passò a una duplice
impressione, per cui unì pentagramma e testo, a cui poi aggiungeva le note. L’elenco delle pubblicazioni
petrucciane funge da specchio dei gusti musicali dell’epoca: dal 1504 infatti vennero pubblicate 11 raccolte
di frottole.
Anche Andrea Antico nel 1510 ottenne, dopo la pubblicazione a Roma di Canzoni nuove, un privilegio di
stampa da papa Leone X.
La stampa si diffuse poi in tutt’Europa, come nei Paesi Bassi, Tielman Susato e Pierre Phalèse, e in Francia,
Pierre Attaignant.

La Francia fu anche protagonista della diffusione del nuovo genere della chanson parigina, ovvero
composizioni profane caratterizzate da:
• ordito polifonico semplice per favorire l’aderenza al metro del testo cantato

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La musica rinascimentale

• architettura organizzata in sequenze musicali e testuali


• presenza di un effetto concertante tra coppie di voci
• ritmo iniziale dattilico

Questo genere di chanson fu coltivato dai compositori della corte francese di Valois, come Claudin de
Sermisy e Clément Janequin, il secondo godette di particolare fama grazie alla sua chanson La guerre (o La
bataille de Marignan), brano dall’impostazione marcatamente descrittiva con un forte intento narrativo, nel
quale le 4 voci ricreano squilli di trombe e spari di cannone.

In Inghilterra la fioritura delle arti rinascimentali coincise con il regno di Elisabetta I Tudor (1558-1603). Sul
fronte della musica sacra il principale esponente fu Thomas Tallis che compose perlopiù anthems, ovvero
composizioni corali su testo inglese: sono composizioni polifoniche dall’assetto prevalentemente
omoritmico e con una tessitura normalmente piuttosto grave, poiché pensata per una compagine maschile.
Nel breve periodo in cui Maria I ristabilì il cattolicesimo, Tallis passò alla composizione di Inni in latino, ma
con l’ascesa al trono di Elisabetta I riprese la composizione di espressioni musicali di marca anglicana.
Per quanto riguarda la musica profana, nel 1588 venne pubblicata la raccolta Musica transalpina, una
raccolta di madrigali italiani a 4, 5 e 6 voci tradotti in inglese. Protagonista di questo orientamento fu
Thomas Morley, specializzato in madrigali e in ballet, brani vocali ispirati alla forma dei balletti italiani di
Gastoldi. Il repertorio che più caratterizzò l’età elisabettiana fu quello del canto e liuto, rappresentato da
John Downland le cui ayre (o song) erano composizioni su testi poetici di qualità superiore a quella dei
ballet, a 4 voci e con una doppia possibilità performativa, interamente vocale o per voce e liuto. La sua
marca distintiva era una particolare nuance malinconica presente in tutte le sue composizioni.
Gli ayre venivano stampati sotto forma di libro da tavolo (vedi immagine p. 158 del libro).

L’ascesa di Carlo V al governo dell’impero coincise con la quarta generazione di fiamminghi che acquisirono
l’eredità dei maestri precedenti coniugandola con una sensibilità verso il rapporto testo-musica. Ne derivò
un aumento dell’interesse verso il mottetto e un nuovo orientamento nei confronti della musica profana:
venne infatti avviato un rinnovamento della chanson che si indirizzò verso la resa espressiva del testo
poetico con partecipazione egualitaria di tutte le voci. La cura della resa musicale portò anche alla
madrigalizzazione del mottetto.

Anche l’attività editoriale nei Paesi Bassi crebbe sempre più, il principale esponente fu probabilmente Ubert
Waelrant, che fondò anche una scuola di musica dove insegnò un nuovo sistema di solmisazione ( bo-ce-di-
ga-lo-ma-ni). Fece poi il proprio ingresso sulla scena anche il canto in lingua fiamminga nel 1551.

Anche la musica strumentale si delineò in maniera più chiara che del secolo precedente e gli strumenti
acquistarono un proprio repertorio, specialmente dopo la pubblicazione del Musyck boexkens di Susato,
dove comparve la frase “ancora più piacevoli se cantati e suonati su ogni sorta di strumenti”.
Con la raccolta Hortus musarum (1552) Phalèse diffuse la prassi del duo strumentale, che portò alle
composizioni per 3 e 4 liuti nel Novum Pratum Musicum del 1584.
Il ricercare liutistico era già in auge ma in questo periodo fu formalizzato anche sull’organo e Willaert fu tra
coloro che coniugarono lo spirito improvvisativo con un rigoroso impianto imitativo.

Con Carlo V i Paesi Bassi erano una semplice provincia di un impero gestita da un reggente, in questo caso
Maria d’Ungheria, che vi organizzò una cappella musicale. Carlo V invece portò con sé la propria cappella
musicale, composta da soli musicisti dei Paesi Bassi, che prese il nome di Capilla flamenca, mentre le
tradizioni musicali iberiche venivano praticate da una seconda cappella musicale, chiamata Capilla
española.
Oltre a Willaert e Cipriano de Rore, anche Jacques Arcadelt trovò occupazione in Italia, frequentando
Firenze e divenendo cantore papale a Roma.

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La musica rinascimentale

Il mottetto nel Cinquecento seguì il solco tracciato da Josquin, con un organico di 5/6 voci e un decorso
polifonico caratterizzato dall’incessante gioco imitativo. Un rappresentante di questo genere fu Nicolas
Gombert, indicato in Practica Musica di Finck come allievo di Josquin. Il suo stile è caratterizzato da un
flusso contrappuntistico denso, senza pause e scandito dalle imitazioni, tecnica di cui fu maestro, tanto che
il suo mottetto In illo tempore fu preso da Monteverdi come ispirazione per la sua omonima messa.
Sempre sull’imitazione si basa il genere di messa più praticato nel Cinquecento, la messa parodia, i cui
esponenti principali furono, dopo Josquin, Antoine Févin, Antonius Divitis, Jean Richafort e Jean Mouton, la
cui Missa Quem dicunt homines ne è un esempio perfetto. L’architettura della messa è organizzata
progettando ogni movimento su una sequenza di fughe dell’omonimo mottetto di Richafort intervallate con
elementi di nuova composizione.

Il Madrigale
Carlo VIII re di Francia conquistò nel 1495 il regno di Napoli, aprendo la stagione delle guerre d’Italia del XVI
sec. che afflissero la penisola fino alla pace di Cateau-Cambrésis nel 1559. A Napoli cominciò nel 1503 una
reggenza di viceré spagnoli, che durerà fino alla pace di Utrecht del 1713, quando la capitale partenopea
passerà sotto il controllo austriaco. La stessa sorte toccò al ducato di Milano nel 1714, col trattato di
Rastadt, mentre Venezia mantenne la sua indipendenza nonostante le forti perdite territoriali. Firenze e
Mantova si mantennero controllate da Medici e Gonzaga, mentre Ferrara fu controllata dagli Este fino al
1598. Il quadro politico non certo positivo non arrestò però lo sviluppo artistico-musicale della penisola.
Nel Cinquecento nacque un nuovo genere compositivo: il madrigale, la cui novità consisteva nell’avere un
nuovo rapporto tra musica e testo poetico. Il madrigale trecentesco era l’intonazione musicale
dell’omonima forma poetica (2 intonazioni: A per le due terzine e B per il distico finale), il madrigale
cinquecentesco invece si inserì in una nuova dialettica focalizzata sui significati e sui contenuti delle liriche
che non dovevano però necessariamente essere madrigali (nel senso poetico-formale). Il madrigale del XVI
sec. aveva un organico esclusivamente vocale e un contrappunto ricco e variabile che illustrasse
sonoramente il contenuto del testo messo in musica, inoltre non aveva alcuna forma predefinita ma era
durchkomponiert.

Nel 1504 Isabella d’Este-Gonzaga scrisse a Niccolò da Correggio chiedendo consigli per “fare el canto sopra
una canzone del Petrarcha”, allargamento poetico del repertorio frottolistico che iniziò a concretarsi nel
1505 nelle Frottole Libro III di Petrucci, dove fece la propria comparsa la poesia petrarchesca avviando un
percorso che durò fino al 1520, anno della pubblicazione della raccolta Musica di Messer Bernardo Pisano
sopra le canzone del Petrarcha. Quando poi dal 1530 si affermò il madrigale, la poesia petrarchesca impose
alla composizione la sua più profonda sostanza semantica.
Il madrigale fu la forma musicale italiana per eccellenza che oltrepassando i confini cronologici del XVI sec.
arrivò fino al barocco. Riguardo lo sviluppo di questo genere ci sono 3 ipotesi:
• Alfred Einstein nel 1949 nel suo studio in 3 volumi, The Italian Madrigal sostiene che tra il 1520 e il 1530
(dopo la pubblicazione della Musica di Messer Bernardo Pisano sopra le canzone del Petrarcha) in Italia
non fu stampata alcuna raccolta di musica profana. Egli considera quindi il madrigale come punto di
arrivo di una gestazione che ebbe la frottola in questo decennio, dovuto anche al rilancio della poesia
petrarchesca da parte di Pietro Bembo. Di pari passo nella formazione del madrigale ebbe grande
importanza anche l’incontro della frottola con il mottetto. Il 1530 è l’anno della pubblicazione della
raccolta Madrigali de diversi excellentissimi musici, Libro Primo de la Serena.
• Iain Fenlon e James Haar nel 1988 sostennero che il madrigale non nacque dalla nobilitazione della
frottola ma ebbe luogo a Firenze, grazie a Philippe Verdelot e alla sua collaborazione con Niccolò
Machiavelli nel 1526, per il quale compose canti polifonici per La Clizia e La Mandragora, cosa che
proverebbe la circolazione di madrigali a Firenze già da questa data. Essi confutarono l’ipotesi
einsteiniana in 3 punti:

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La musica rinascimentale

• non c’è dipendenza tra frottola e madrigale perché la prima si sviluppa nelle corti del Nord Italia e non è
documentata la sua diffusione nell’Italia centrale, dove si sviluppa il madrigale
• l’ipotesi della stasi decennale dal 1520 al 1530 considera solo le stampe e non i manoscritti
• Il ruolo della Musica di Messer Bernardo Pisano sopra le canzone del Petrarcha va ridimensionato in
quanto corrisponde a un gusto tipicamente romano
• Francesco Luisi e Francesco Saggio definiscono meglio il ruolo della stasi tra 1520 e 1530. Luisi prese in
esame le Canzoni nove con alcune scelte de varii libri di canto stampate da Antico nel 1510, ritenendola
la risposta editoriale a una nuova sensibilità musicale. Il termine canzone, così come il frontespizio,
rimanda infatti a un’esecuzione polivocale (novità rispetto alla frottola). Saggio invece ha approfondito
“l’età della canzone” (1520-1530), quando la pratica della canzone operò su un repertorio preesistente
modificandone la prassi esecutiva. Il luogo di incubazione di questa pratica fu Roma, dove la pratica
polivocale era molto apprezzata. Inoltre Che debb’io far di Tromboncino, ci è giunta a stampa nelle
Frottole Libro VII (1507) e nel manoscritto Magliabechi, anteriore alla stampa petrucciana: nell’edizione a
stampa i valori lunghi del manoscritto risultano scissi in durate inferiori per aumentare il numero di note
e permetterne l’enunciazione vocale.

Verdelot non fu l’unico protagonista dello sviluppo del madrigale nell’asse Firenze-Roma, ci furono anche
Costanzo Festa, anch’egli attestato nel volume della Serena, che contribuì alla diffusione del madrigale a 3
voci, e Jacques Arcadelt, considerato l’eccellenza madrigalistica del momento, che pubblicò a Venezia nel
1539 il Primo libro di madrigali a 4 voci, dov’è attestato Il bianco e dolce cigno.

Bembo in un suo trattato descrisse la poesia petrarchesca segnalandone 3 escamotages per dar vita alla
miscela di gravità e piacevolezza che la caratterizza, questi sono:
• suono (selezione di termini scelti anche in base alla sonorità)
• numero (scelta metrica, mutevole in ragione di cambi espressivi)
• variazioni (avvicendamento di sonorità verbali ora morbide, ora ruvide)
Questi possono essere applicati anche alla musica, dove il suono corrisponderebbe alla condotta melodica e
alla sonorità dell’impasto polifonico, il numero all’assetto ritmico e la variazione all’alternanza di
consonanze e dissonanze.
Per poter comporre madrigali i compositori dovevano entrare nelle più minute pieghe del testo poetico,
comprendendone tutti i significati, fino a trasgredire le regole compositive dell’epoca per rendere in musica
il testo. Adrian Willaert deliberatamente infranse le regole del buon contrappunto per rendere al meglio il
significato dei versi poetici, tali “infrazioni” non venivano però considerate errori se inserite nel giusto
contesto espressivo.

La ricerca del rapporto tra testo e musica e la volontà di sperimentare sempre nuove strategie compositive
si tradusse in un continuo arricchimento del lessico espressivo del madrigale che andò di pari passo con
l’ampliamento degli orizzonti letterari di riferimento: accanto a Petrarca si fecero strada nuovi protagonisti,
come Ariosto, Tasso e Guarini (soprattutto Il pastor fido).
La traduzione musicale del testo poetico avveniva tramite i “madrigalismi”, un complesso di artifici
compositivi per illustrare con la musica le immagini verbali presenti nel testo poetico. Questi potevano
consistere anche in delle libertà contrappuntistiche, a volte accettate, altre rifiutate dalla critica, come nel
caso della querelle che vede protagonista Monteverdi e il canonico bolognese Giovanni Maria Artusi.
L’allargamento progressivo di risorse espressive del madrigale costituì la seconda pratica, formalizzata da
Monteverdi stesso.
Nella polemica con Artusi prese parte anche il fratello di Monteverdi, Giulio Cesare, che citò Cipriano de
Rore, “primo rinovatore” della seconda pratica. Nato nel 1515 a Ronse, nelle Fiandre, pare che abbia
studiato con Willaert, si insediò a Ferrara presso il duca Ercole II d’Este nel 1547, alla morte del duca (1559),
andò al servizio di Margherita d’Austria a Bruxelles e di suo marito Ottavio Farnese (1560-1563). Nel 1562,
alla morte di Willaert, divenne maestro di cappella di San Marco a Venezia, nel 1564 tornò quindi a Parma
fino alla sua morte. Egli scrisse 107 madrigali di sicura attribuzione (5 libri a 5 voci e 2 a 4 voci), la

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La musica rinascimentale

predilezione per la tessitura a 5 voci è dovuta alla possibilità di accentuare la drammaticità. De Rore si
distinse anche per un arricchimento ritmico che lo portò nel 1544 a rivedere il proprio primo libro a 5 voci
(1542), trasformandolo in una raccolta di madrigali cromatici, alludendo con tale denominazione
all’abbondante uso di crome anche nei passaggi sillabici. Egli praticò anche il madrigale spirituale, mettendo
in musica con un intento devozionale tutte le stanze della Vergine bella di Petrarca.

L’epoca di Palestrina
Giovanni Pierluigi da Palestrina, compositore ammirato in tutt’Europa e desiderato da tutte le cappelle
musicali più prestigiose, fu un’icona del rinascimento musicale. Egli nacque tra il 1525 e il 1526 a Palestrina,
dove iniziò i suoi studi musicali ed ebbe il suo primo ruolo di maestro di cappella. Dopo il matrimonio e la
nascita dei primi figli si trasferì a Roma, dove nel 1551 divenne magister cantorum della Cappella Giulia, e
nel 1553 magister cappellae. La pubblicazione del Missarum liber primus (1554) con dedica a papa Giulio III
diede inizio alla sua ascesa verso la cappella papale, di cui entrò a far parte, sebbene sposato e con figli, nel
1555. 3 mesi dopo l’insediamento di Palestrina il papa morì e il suo successore, papa Marcello II, ebbe un
pontificato di sole 3 settimane. Come nuovo papa fu eletto Paolo IV: egli licenziò Palestrina che divenne,
nell’ottobre dello stesso anno, maestro di cappella di San Giovanni in Laterano. Nel 1560 si licenziò e
ritornò alla Basilica di Santa Maria Maggiore, dove si trattenne fino al 1566, quando accettò un posto di
maestro nel Seminario Romano. Nel 1568 gli fu offerto un posto presso la cappella imperiale di Vienna da
parte dell’imperatore Massimiliano II ma Palestrina domandò un compenso esorbitante, probabilmente
non volendo lasciare Roma, che fu rifiutato. Guglielmo Gonzaga invece allettò Palestrina con una
commissione che sfociò nella composizione delle messe mantovane. Nel 1571 tornò a lavorare come
maestro nella Cappella Giulia. Nel frattempo pubblicò importanti volumi, non solo di messe, ma anche di
madrigali e mottetti. Negli ultimi anni della propria vita era già diventato una vera e propria leggenda, tanto
che nel 1592 gli fu dedicata una raccolta di salmi a 5 voci. Morirà nel 1594.
Palestrina fu uno dei più celebrati compositori della storia, sia per il suo corpus, che per la sua particolare
tecnica contrappuntistica, ricca e tecnicamente solida ma al contempo estremamente trasparente. Egli
visse nel contesto della Controriforma che si concretizzò nel Concilio di Trento (1545-1563) e che alimentò
ancor più il mito attorno alla sua figura, secondo quanto detto in un trattato di Agostino Agazzari (1607).
Infatti sarebbe stato grazie alla sua Missa Papae Marcelli che la musica polifonica non fu bandita dalla
Chiesa, poiché il papa giudicava intollerabile la non intelligibilità delle parole. Sebbene questa notizia ebbe
un’enorme diffusione e venne ripresa da molti scrittori, non ha fondamento; infatti si baserebbe su un testo
che critica l’utilizzo di cantus prius facti profani per composizioni liturgiche, non l’utilizzo della polifonia.
Anche sotto il profilo cronologico si tratta di una notizia senza fondamento, perché Marcello II morì nel
1555, mentre la Missa Papae Marcelli fu copiata in un manoscritto del 1565 e stampata 2 anni dopo nel
Missarum Liber Secundus. Inoltre, questa messa non risponde ai requisiti di chiarezza testuale; infatti, per
esempio, l’Agnus Dei II ha un allargamento dell’organico da 6 a 7 voci e un canone a 3 parti.
Una messa polifonica con un testo comprensibile era solo una delle possibilità, come si evince da una
lettera del 1568 in cui Palestrina domanda al duca di Mantova se egli desiderasse una messa corta, lunga o
composta in modo che si capissero le parole.
Dopo la pubblicazione nel 1568 del Breviarium e del Missale da parte di papa Pio V, papa Gregorio XIII
decise di armonizzare i testi riformati con la musica liturgica, incaricando nel 1577 Palestrina e Annibale
Zoilo. Il lavoro fu però interrotto a causa di pressioni del re di Spagna Filippo II, probabilmente sotto
richiesta del musicista spagnolo Fernando de las Infantas. L’opera venne ripresa nel 1611 da Felice Anerio e
Francesco Soriano e diede luogo nel 1614 all’Editio Medicaea.

Palestrina compose 104 messe (oltre a 375 mottetti e altre 300 composizioni liturgiche o paraliturgiche), di
cui 43 furono pubblicate quando era ancora in vita, i libri dall’ottavo al dodicesimo furono pubblicati
postumi (1599-1601). Il genere che più praticò fu quello della messa parodia, di cui si contano 53

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La musica rinascimentale

composizioni, di cui 22 su cantus prius facti propri; scrisse poi 35 messe parafrasi, delle messe libere e solo
7 su tenor, tra cui 2 Missae L’homme armé.

Nell’aprile del 1565 si tenne una riunione che coinvolse prelati di alto lignaggio, tra cui il cardinale Carlo
Borromeo e alcuni cantori romani, nella residenza del cardinale Vitellozzo Vitelli. Carlo Borromeo,
segretario di papa Pio IV e cardinale e arcivescovo di Milano, in previsione di questo incontro aveva
commissionato a Vincenzo Ruffo, maestro del Duomo di Milano, una messa esemplare dalla forte
comprensibilità testuale. Una volta rientrato permanentemente a Milano l’arcivescovo si appoggiò sempre
a Ruffo nell’applicazione di questi principi; egli, anche dopo aver lasciato Milano, continuò a comporre in
questo “stile tridentino” prevalentemente omofonico.

Il coté profano della produzione palestriniana ha lo stesso pregio di quello liturgico: nel 1557 il Secondo
libro di madrigali a quattro voci di Cipriano de Rore ospitò un particolare ciclo madrigalistico (Pace non
trovo) di un certo Giannetto, ovvero Palestrina. Si tratta di un ciclo di 14 madrigali imperniati su altrettante
stanze di una lirica che la poetessa Virginia Martini de Salvi aveva composto ispirandosi al sonetto Pace non
trovo di Petrarca; ogni stanza del ciclo poetico si conclude con un verso in successione della lirica
petrarchesca.
Questo ciclo di madrigali di inserisce in un reticolo che coinvolge altri due compositori, Yvo Barry e Jahn
Gero. Il confronto tra le composizioni di questi due compositori mette in luce una parodia “da manuale”,
non si conosce però la direzione del percorso parodistico. Per il verso conclusivo del primo madrigale del
ciclo Palestrina utilizza il materiale polifonico del corrispondente endecasillabo di Yvo/Gero; il travaso
motivistico proseguì anche negli altri madrigali del ciclo limitatamente all’ultimo verso di ogni
composizione. Si tratta dunque di un trasferimento di tecniche compositive dalla messa al madrigale.
Il madrigale Vestiva i colli di Palestrina, è uno dei madrigali più eseguiti di tutto il secolo; ben 62 testimoni a
stampa o manoscritti lo attestano, intavolano o semplicemente lo citano. Fu anche parodiato da Adriano
Banchieri nella raccolta La pazzia senile, riducendone la sostanza musicale agli elementi strutturali. Una tale
ironia ne testimonia indirettamente la sua grande diffusione.

Scuola Veneziana e scuola Romana


Le disparità amministrative dell’Italia del Quattrocento si riflessero anche sugli orientamenti delle relative
cappelle musicali. In genere i gusti musicali andavano adattati in base ai gusti del potere signorile a cui
erano legati. Anche nella cappella papale le scelte musicali non dipendevano dal magister ma dal pontefice
stesso. A Venezia, invece, sorgeva la Basilica di San Marco con annessa la cappella istituzionale del doge;
quindi, la componente religiosa si legava strettamente a quella politica e si concretizzava in processioni che
associavano la ritualità civile e religiosa con una grande spettacolarità molto utile all’autocelebrazione
repubblicana. Lo stretto legame tra la gestione delle cappelle musicali e i relativi centri di potere fu però un
grande limite alla loro sopravvivenza: alla fine del Quattrocento la dissoluzione della Lega Italica e il crollo
delle dinastie signorili provocarono la dissoluzione delle cappelle musicali con funzione di rappresentanza
governativa e il patronage divenne un fatto privato. Solo Roma e Venezia conservarono il ruolo istituzionale
dei propri ensemble.
La Scuola Veneziana era caratterizzata da liturgie musicali sfarzose e ricche di policromia strumentale. Il suo
avvio si fa coincidere con l’insediamento in basilica di Adrian Willaert (maestro di cappella dal 1527 al
1562), a cui succedette Cipriano de Rore (1562-1564) e, poi, Gioseffo Zarlino (1565-1590). I due scrittori più
rappresentativi di questa scuola furono Andrea Gabrieli e il nipote Giovanni Gabrieli, entrambi organisti,
insieme a Claudio Monteverdi, maestro di cappella dal 1613 al 1643. Nel 1550 Willaert pubblicò I salmi a
uno et duoi chori con cui impiantò ufficialmente a Venezia la pratica della policoralità (o dei cori spezzati),
associata quindi a due o più cori. Questa prassi in realtà era già stata sperimentata in Veneto da
compositori come Gaspare de Albertis, Fra Ruffino e Francesco Santacroce. Willaert portò questa pratica a
Venezia che ne fece il proprio marchio di fabbrica e, sfruttando l’architettura di San Marco (con due

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La musica rinascimentale

cantorie opposte, ciascuna con organo), potenziò al massimo le risorse espressive di questo tipo di
scrittura. L’effetto stereofonico che si otteneva nelle esecuzioni, caratterizzate da effetti di eco e parziali
sovrapposizioni, guidò la definitiva codificazione teorica di questa fisionomia armonica da parte di Zarlino
ne Le istitutioni harmoniche (1558). Egli sosteneva che soprattutto negli episodi di eco, ma anche in quelli a
organico pieno, ciascun coro doveva essere autosufficiente dal punto di vista armonico e avere quindi
accordi in primo o, al massimo, secondo rivolto, per evitare sensazioni di incompiutezza. Willaert trasformò
questa prassi da un assetto sillabico (tipico di Santacroce) a uno più contrappunitisticamente elaborato. In
seguito questo modello compositivo fu perfezionato e solennizzato grazie all’ampliamento dell’organico da
2 a più cori, e maestri al riguardo furono i due Gabrieli: Andrea allargò l’organico fino a 4 voci e con
Giovanni la policoralità raggiunse la piena maturità. Le composizioni per due o più cori erano caratterizzate
da:
• alternanza tra sezioni a ritmo binario e a ritmo ternario
• segmentazione tra segmenti omoritmici con altri contrappuntisticamente ricchi e di effetti concertati
derivanti dall’avvicendamento dei diversi cori
Spesso l’esecuzione policorale utilizzò anche il raddoppio strumentale. D’altronde la pratica strumentale
era molto viva a Venezia, tanto che verso la metà del Cinquecento nacque lì una nuova forma musicale, la
canzone da sonar. La sua origine sta nella trascrizione delle chansons parigine (La guerre di Janequin
godette di grande popolarità), caratterizzate dall’alternanza di due coppie di voci. Dalle trascrizioni si passò
poi alla creazione ex novo di composizioni legate a organici strumentali ma sempre poggianti sulle
caratteristiche della chanson parigina:
• multisezionalità
• contrasto omoritmia-polifonia
• alternanza di ritmi binari e ternari
• inizio dattilico
In San Marco questa nuova tipologia compositiva strumentale si fuse con la prassi policorale e i due o più
cori furono sostituiti da altrettanti ensembles strumentali, chiamati chori. Fino a quel momento, però, la
scelta degli strumenti da utilizzare era legata al gusto e alla disponibilità degli esecutori, poiché mancava
una vera e propria scrittura idiomatica, che si formalizzerà nel Seicento barocco. Tuttavia, nel Cinquecento
si avvertono i primi segni di questo cambiamento: nella raccolta Sacrae Symphoniae (1597) di Giovanni
Gabrieli è attestata anche la Sonata pian e forte che prevede una precisa assegnazione strumentale di ogni
parte e, inoltre, le indicazioni dinamiche sono indicate in partitura. La composizione è a 2 chori a 8 parti così
organizzate: I choro (cornetto, trombone I, II, III) e II choro (viola, trombone IV, V, VI).

L’espressione “Scuola Romana” indica il complesso e multiforme panorama sonoro della città nel XVI
secolo. Roma, come Venezia, nel Cinquecento godette di una situazione politico-amministrativa sui generis
e non soffrì della perdita del potere che investì le varie signorie italiane. Tra la fine XV e l’inizio del XVI
secolo vi fiorirono moltissime istituzioni che diventarono centri musicali di primaria importanza, come la
Cappella Sistina, fondata nel 1483 da Sisto IV, e la Cappella Giulia (già Cappella di San Pietro). Anche altre
chiese si dotarono di cori rinomati, come San Giovanni in Laterano e Santa Maria Maggiore. Palestrina
lavorò in queste quattro istituzioni. Inoltre, a Roma erano presenti anche ensemble corali più modesti di
altre chiese; Roma a metà del Cinquecento era la capitale europea più ricca di istituzioni musicali religiose.
Qui la circolazione della musica fu garantita anche dalle numerose confraternite cittadine e da varie
istituzioni culturali gesuitiche. Nel 1584 fu istituita la Virtuosa Compagnia de li Musici di Roma (odierna
Accademia di Santa Cecilia) a cui aderirono tutti i maggiori compositori della città e che si pose in
competizione con i cantori papali.
Oltre alla polifonia sacra, a Roma si sviluppò anche un repertorio profano grazie ai cardinali che, da perfetti
cortigiani, promuovevano il più aggiornato repertorio madrigalistico e strumentale. Fra questi si distinse il
mecenatismo dei cardinali della famiglia d’Este che arruolarono anche musicisti come Willaert, Palestrina e
Marenzio. Anche i pontefici praticarono il mecenatismo privato: accoglievano nei propri appartamenti
privati piccoli gruppi di musicisti impegnati nella “musica segreta”, priva di intenti religiosi. Ci furono circoli

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La musica rinascimentale

musicali antiprogressisti, come il milieu del cardinale Vitellozzo Vitelli ma in minore numero rispetto a quelli
aperti alla novità, come il circolo di San Filippo Neri che introdusse a Roma la pratica policorale veneziana.
Altri compositori che animarono la vita musicale di Roma del XVI secolo furono Francesco Soriano e Tomàs
Luis de Victoria. Tra tutti spicca poi Luca Marenzio che, dopo aver assimilato l’atmosfera veneziana, si
trasferì a Roma, dove rimase fino alla morte (con un’interruzione in cui lavorò presso la corte polacca): qui
proseguì nella composizione di marca veneziana, potendo contare sulle cappelle sopra menzionate e sulla
Chiesa Nuova (Santa Maria in Vallicella), sede di sperimentazioni musicali. L’attività di questa chiesa era
legata a quella oratoriale di un gruppo di religiosi che sotto la guida di San Filippo Neri vi tenevano
quotidianamente riunioni spirituali. Questa pratica fu formalizzata nel 1575 da Gregorio XIII con la
fondazione della Congregazione dell’Oratorio e la concessione ufficiale dell’uso della chiesa. Inizialmente
Filippo Neri commissionò al direttore della Cappella Giulia (Giovanni Animuccia) un corpus di laudi e, dopo il
1575, edificò un nuovo edificio al cui interno raccolse un cenacolo dei migliori musicisti del momento che
perfezionarono anche la pratica della policoralità, favorita dalla separazione spaziale delle compagini corali
all’interno della chiesa.

Orientamenti madrigalistici del tardo Cinquecento


La querelle Artusi-Monteverdi denunciò da un lato l’ottusità di una parte del mondo accademico riguardo
l’innovazione della seconda prattica, ma dall’altro mise in evidenza le potenzialità della vocazione spirituale
del madrigale. In questo contesto si innestò anche la riflessione sull’espressione madrigalistica,
introducendo nella musica testi retorici importati dalla retorica classica; questa riflessione venne fatta da
Jean Taisnier con i Praecepta musicae poeticae (1563) e da Joachim Burmeister, nei cui scritti vengono
associati gesti melodici e contrappuntistici a formule retoriche desunte dall’Institutio oratoria di
Quintiliano, come il noema che rendeva, secondo Quintiliano, chiare e comprensibili le frasi tradotte in
passaggi musicali omofonici. La più usata delle figure retoriche fu la pathopeia, ovvero l’impetuoso moto
degli effetti che con Burmeister divenne l’espressione di sentimenti patetici realizzati per mezzo del
cromatismo; un utilizzo eccelso di questa figura avviene nel madrigale Solo et pensoso di Luca Marenzio.
Egli fu un compositore centrale per il madrigale del secondo Cinquecento, di cui ne pubblicò 18 libri, in
maggioranza a 5 voci, tra il 1580 e il 1599. Il suo stile cambiò nel corso della sua carriera, dall’iniziale
atmosfera bucolica e pastorale deviò verso un contrappunto più denso, ricco di contrasti, dissonanze e
cromatismi, il tutto all’insegna di una mesta gravità. Dal 1587 al 1589 fu al servizio del cardinale Ferdinando
I de’ Medici a Firenze e da quest’esperienza incamerò il culto per la parola che vediamo nel Sesto libro de
madrigali a cinque voci (1594), dove regna un linguaggio più declamatorio. Il Nono libro de madrigali a
cinque voci (1599) segnò però il ritorno a un contrappunto denso e ancora più drammatico. In relazione a
quest’ultima fase si parla di adesione ai princìpi della musica reservata, ovvero la tendenza a rappresentare
gli affetti poetici con un’inedita intensità e un utilizzo di strategie compositive tanto estreme da rasentare
l’astrazione ed essere comprese solo da circoscritte élite di intellettuali.

Anche Carlo Gesualdo principe di Venosa si distinse per astrazione ed ermetismo musicale. Nato a Venosa,
si dedicò fin da piccolo agli studi musicali, nel 1586 si sposò con Maria d’Avalos, che uccise, dopo averla
colta in flagrante tradimento, assieme all’amante. A questo punto Gesualdo si ritirò nel suo castello per un
anno, dedicandosi esclusivamente alla musica che da questo momento non fu più un interesse segreto.
Trasferitosi a Ferrara, nel 1593 sposò Eleonora d’Este, ristabilendo la sua reputazione pubblica ed entrando
in contatto con gli ultimi albori del brillante milieu musicale ferrarese, di cui ammirò particolarmente la
produzione di Luzzasco Luzzaschi. Nel 1594, nonostante la nascita di un figlio, egli si ritirò nuovamente nel
suo castello abbandonando consorte e prole che lo raggiunsero poi nel 1597, dopo numerose richieste
rifiutate dal principe di tornare a Ferrara. Questo periodo fu marcato dalle sofferenze di Eleonora d’Este,
dovute ai maltrattamenti che riceveva da parte del marito, e dalla perdita del figlio nel 1600.
Nell’isolamento Gesualdo continuò a comporre, dedicandosi anche alla musica religiosa; pubblicò 6 libri di
madrigali a 5 voci e 1 volume a 6 voci edito postumo, nel 1626. Egli morì l’8 settembre 1613.

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La musica rinascimentale

Le liriche scelte spesso sono di qualità mediocre ma concise e dai marcati contrasti espressivi; la
stringatezza delle poesie consentiva a Gesualdo di intervenire con manipolazioni interne creando molteplici
ripetizioni testuali la cui portata drammatica veniva amplificata dalla polifonia, caratterizzata da scarti
cromatici e violenti contrasti tra contrappunto e omoritmia. Esemplare dello stile di Gesualdo è Moro, lasso
al mio duolo.

Sul finire del Cinquecento la spinta verso l’esecuzione a voce sola, che sarebbe sfociata nella monodia
accompagnata del secolo successivo, divenne sempre più forte e investì anche il madrigale; questo nuovo
orientamento ebbe luogo alla corte di Ferrara, in particolare grazie all’incontro tra Luzzasco Luzzaschi e il
concerto delle dame.
Luzzaschi (1545, Ferrara-1607, Ferrara) fu allievo di Cipriano de Rore. Nel 1561 divenne cantore nella
cultura ducale estense e nel 1570 pubblicò il Primo libro di ricercari, l’anno successivo il Primo libro de’
madrigali a 5 voci, seguito nel 1576 dal Secondo libro de’ madrigali a 5 voci. Nell’ottobre 1597 il duca
Alfonso II morì senza eredi per cui papa Clemente VIII si riappropriò di Ferrara e gli Este si trasferirono a
Modena con tutta la corte. Nel 1601 Luzzaschi si trasferì a Roma per poi tornare a Ferrara. La sua
produzione madrigalistica consta di 7 libri a 5 voci e una raccolta, pubblicata nel 1601, che ci mette in
contatto con il concerto delle dame.
Questa era una compagine musicale femminile dedita a esecuzioni private per una cerchia strettissima di
cortigiani. Inizialmente il gruppo era formato da cantanti amatoriali, a volte affiancate dal basso Giulio
Cesare Broncaccio, ma questo verrà sostituito da un nuovo ensemble gestito drittamente dalla duchessa
Margherita Gonzaga e composto dalle cantanti professioniste:
• Laura Peperare (o Peverara)
• Livia d’Arco
• Anna Guarini
• Tarquinia Molza (incarico di istruttrice)

Le cantanti suonavano anche il liuto, l’arpa e la viola, ma soprattutto eccellevano nel virtuosismo vocale.
Luzzaschi collaborò con le cantatrici ferraresi come clavicembalista e compositore, dando vita a madrigali
solistici (o a 2/3 voci) accompagnati dal cembalo. L’edizione dei Madrigali per cantare e sonare del 1601 ci
fornisce una testimonianza del passaggio del madrigale dalla polivocalità a una dimensione monovocale (es.
O primavera). Il tradizionale tessuto polifonico ha qui un andamento omoritmico nell’intavolatura per
tastiera e lascia alla voce sopranile la possibilità di replicarne la parte superiore. Inoltre, cade lo statuto
retorico del madrigale affidato all’eufonia o alle dissonanze tra le voci; l’interesse è spostato verso la
bellezza della tornitura melodica di una singola voce (l’ensemble è famoso per le diminuzioni melodiche).

I madrigali drammatici non hanno contenuti esclusivamente tragici ma una spiccata vocazione farsesca e
un orientamento rappresentativo. Sono composizioni polifoniche raggruppate in cicli per ricreare un
dialogo sebbene non siano destinate alle scene. Non c’è la corrispondenza tra cantante e personaggio ma le
battute di ogni protagonista sono cantate dell’intero blocco polifonico, perciò queste composizioni, seppur
teatrali nell’impianto generale, non sono destinabili alla scena. Questo genere madrigalistico fu praticato
anche nel Seicento da Adriano Banchieri.

Uno dei più prolifici compositori del XVI sec. fu Orlando di Lasso (1530/1532, Mons (odierno Belgio)-1594).
A soli 12 anni entrò al servizio di Ferrante I Gonzaga, nel 1551 arrivò a Roma dove tra il 1552 e il 1553 fu
maestro di cappella in San Giovanni in Laterano. Nel 1555 si recò ad Anversa, dove stampò Il primo libro
dove si contengono madrigali, vilanesche, canzoni francesi e mottetti a 4 voci. Dal 1556 entrò al servizio del
duca Albrecht V di Baviera come cantor, poi dal 1563 come maestro di cappella. La sua attività in Germania
si svolse nel pieno dei conflitti religiosi che agitavano la nazione e la sua opera assunse anche un rilievo
politico; le sue composizioni sacre intendevano costruire un’alternativa cattolica al proliferare della musica
luterana.

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La musica rinascimentale

Nel 1606 Joachim Burmeister nel proprio volume Musica poetica pubblicò un’analisi del mottetto di Lasso
In me transireunt, rilevandone una totale aderenza ai princìpi dell’Institutio oratoria di Quintiliano; i versetti
della composizione corrispondono ad altrettanti affetti trasformando In me transireunt nel coté sacro del
madrigale (madrigalizzazione del mottetto).

Il madrigale spirituale si appropria di testi devozionali in italiano. Un esempio è il ciclo Lagrime di S. Pietro
di Lasso. Anche Palestrina vi si dedicò, pubblicandone 2 libri: questi contengono cicli e composizioni isolate,
8 intonazioni di altrettante stanze di Vergine bella di Petrarca nel primo libro e 30 afferenti alla Priego alla
Beata Vergine, di origine sconosciuta, nel secondo. Anche Cipriano de Rore compose dei madrigali spirituali
su Vergine bella, mettendo in musica stanza per stanza l’intera canzone. Una compositrice nota per la
composizione di madrigali spirituali fu Vittoria Aleotti, per la quale Giovanni Battista Guarini scrisse alcuni
componimenti di argomento religioso che Vittoria tradusse in musica, e nel 1593 furono dati alle stampe col
titolo di Ghirlanda de madrigali.

Verso il Barocco
Nel 1556 il trono di Spagna passò a Filippo II: con lui comincia la quinta generazione di musicisti fiamminghi
ed egli mantenne in vita la Capilla flamenca. Le guerre che ebbero luogo in quegli anni nei Paesi Bassi
spagnoli ebbero ripercussioni anche in ambito musicale: nel 1566 il calvinismo sfociò nel movimento
dell’iconoclasmo che distrusse moltissime istituzioni ecclesiastiche cattoliche e, con loro, le raccolte di
musica sacra. L’infiltrazione del calvinismo favorì la formazione di nuovi canti protestanti in fiammingo
(souterliedekens): un corpus di Salmi, Cantici e e Te Deum che costituirono il salteiro fiammingo e che
vennero poi armonizzati a 3 voci da Clemens non Papa. Le lotte religiose si conclusero con la divisione dei
Paesi Bassi in Provincie del Nord (indipendenti e protestanti) e del Sud (dipendenti da Madrid e cattoliche).
Raggiunta la pace, si assistette a una ripresa anche artistico-musicale caratterizzata dalla diffusione della
musica madrigalistica.
Ad Anversa si diffusero invece i mottetti dipinti che prevedevano la collaborazione tra il compositore e il
pittore che copiava parti della musica in una composizione pittorica da incidere su lastra e stampare.
Questa manifestazione è un esempio della versatilità che i compositori fiamminghi avevano mostrato già
dalla prima generazione.
L’impennata madrigalistica e l’insorgenza di nuovi generi provocarono la fine del contrappunto fiammingo,
la cui stagione terminò quindi con Filippo II. Nelle Provincie del Nord Jan Peterszoon Sweelinck segnò la
chiusura di quest’epoca e il passaggio verso il Barocco. Le nuove tendenze si allontanarono sempre più dal
contrappunto puro e lo stile italiano prese il posto delle polifoniche cattedrali sonore del secolo
precedente.

Dal XV secolo la musica era diventata un importante complemento del teatro e da questa collaborazione
era nato anche l’Orfeo di Angelo Poliziano ma delle cui intonazioni non è rimasta traccia perché afferente al
canto improvvisato. L’associazione tra musica e teatro, molto spettacolare, divenne molto importante nella
politica di autocelebrazione politica, soprattutto presso la corte dei Medici a Firenze che ospitava
regolarmente questi spettacoli e nel 1589, per le nozze del granduca Ferdinando e Cristina di Lorena, al
teatro mediceo degli Uffizi andò in scena la commedia La pellegrina di Girolamo Bargagli. L’opera era
intercalata da 6 intermedi di argomento mitologico ricchi di musica e danza (scritti anche da Marenzio e
Caccini).
Nel XVI secolo si cominciò a voler conferire alla musica per il teatro un ruolo primario e a Firenze nacque un
dibattito in merito, sviluppato soprattutto nella Camerata dei Bardi, che si concentrava sullo sbocco
rappresentativo della musica e sulla superiorità espressiva della monodia rispetto alla polifonia. Vincenzo
Galilei nel Dialogo della musica antica et della moderna (1581) ufficializzò lo stile monodico e creò un
nuovo genere rappresentativo affine a quello dell’antica Grecia e così, nel 1600, a Palazzo Pitti fu

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La musica rinascimentale

rappresentata la più antica opera a noi pervenuta, Euridice, con musiche di Jacopo Peri e Giulio Caccini su
libretto di Ottaviano Rinuccini. Così iniziava ufficialmente il Barocco.

Claudio Monteverdi (Cremona, 1567-Venezia 1643) si trasferì prima presso i Gonzaga a Mantova per poi
diventare maestro di cappella in San Marco a Venezia. A Mantova mise in scena nel 1607 l’ Orfeo,
esperienza teatrale che arricchì ulteriormente la portata sperimentale del suo innovativo linguaggio
musicale. L’elemento scenico si addentrò anche nella composizione cameristica, come nel Combattimento
di Tancredi e Clorinda, nominalmente un madrigale ma, di fatto, un’azione rappresentativa. Di converso,
sulla musica operistica influiscono l’osservanza della parola e una propensione al descrittivismo sonoro.
Infatti lo stile monteverdiano fu una continua osmosi di codici espressivi da un genere all’altro. Le tre opere
pervenuteci sono l’Orfeo, Il ritorno di Ulisse in Patria e L’incoronazione di Poppea.
Nel 1598 si celebrò lo spostamento della corte estense a Modena con una serata musicale in cui furono
eseguiti madrigali di Monteverdi, tra cui Cruda Amarilli. Artusi critica le infrazioni del contrappunto, prima
in Delle imperfettioni della moderna musica (1600) e poi nella Seconda parte dell’Artusi (1603). Monteverdi
avrebbe voluto rispondere con il trattato Seconda pratica, overo Perfettione della moderna musica, come
scrive nella Lettera agli Studiosi Lettori del Libro V (prefazione al Libro V, 1605) ma questo trattato non fu
mai scritto e, al suo posto, suo fratello Giulio Cesare replicò alle accuse dell’Artusi nella prefazione degli
Scherzi musicali a tre voci (1607). Egli spiega che, mentre la prima prattica verteva sul rispetto totale delle
regole del contrappunto, la seconda prattica ribalta il rapporto tra testo e musica; quest’ultima è
sottomessa al significato testuale.
Dai 9 libri di madrigali di Monteverdi emerge una grande varietà di atteggiamenti compositivi, oltre al suo
caratteristico sincretismo. Per esempio, il Lamento di Arianna, nato come brano monodico nell’opera
perduta, nel Sesto Libro di madrigali viene elaborato e trasformato in un madrigale a 5 voci. Nelle mani di
Monteverdi i madrigali divennero composizioni versatili che egli adattava a diverse esigenze espressive. Nei
madrigali rappresentativi (come Il combattimento di Tancredi e Clorinda), ciascun personaggio è affidato a
un cantante a cui si aggiunge un terzo soggetto (Testo) che con le proprie descrizioni surroga la mancanza di
una vera esibizione scenica. Il Combattimento è inoltre in pieno stile concertato (dialogo tra parti vocali e
strumentali; gli strumenti diventano soggetti attivi con un proprio idioma.
Monteverdi esordì sul fronte della musica sacra nel 1583 con le Sacrae cantinculae (23 cantiones) e i
Madrigali spirituali a 4 voci. Nel 1610 fu stampata da Amadino a Venezia la sua successiva raccolta sacra,
contenente la Missa in Illo tempore e il Vespro della Beata Vergine, dedicata a papa Paolo V e composta con
l’ambizione, delusa, di entrare nella cappella papale. Egli si orientò da un lato verso la grande messa in stile
antico (dedicata alle cappelle musicali ecclesiastiche), dall’altro verso la più moderna concezione
compositiva dei Vespri (per le cappelle di corte, come recita il titolo ufficiale in latino). Nel ciclo del Vespro
mancano però le antifone per intercalare i salmi, poiché appartenevano al proprio di una particolare
celebrazione mariana; per rendere la raccolta versatile Monteverdi le sostituì con i concerti sacri. Il cantus
firmus costituisce la spina dorsale dell’intera raccolta, con l’eccezione dei mottetti. Nel Vespro il gregoriano
ha però una funzione virtuosistica: per evitare la monotonia Monteverdi applicò al massimo i princìpi di
variazione.
Diventato maestro di cappella in San Marco, pubblicò nel 1640 la Selva morale e spirituale, una
monumentale silloge (40 composizioni) di musica sacra e spirituale ma senza un preciso indirizzo liturgico:
contiene una sezione dal tono edificante ma non marcatamente religiosa e un’altra più legata all’ambito
sacro (composizioni liturgiche).
Il duca di Mantova assistette alla messa in scena del 1600 dell’Euridice e decise di impiantare questa forma
di spettacolo musicale anche nella propria città. Così nel 1607 a Palazzo Ducale ebbe luogo la prima
rappresentazione dell’Orfeo per un cenacolo di intellettuali. Poco dopo venne replicata per i cortigiani
mantovani con il finale modificato (l’assalto delle baccanti fu sostituito dall’arrivo di Apollo). L’opera è
formata da 1 prologo e 5 atti e la destinazione strumentale è sempre indicata precisamente in partitura.

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