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(P. Coda) Fraterna Dilectio Non Solum - Il de Trinitate Di Agostino

[P. Coda] Fraterna dilectio non solum - Il De Trinitate di Agostino

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Yousef Ibrahim
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Piero Coda

«Fraterna dilectio non solum ex Deo


sed etiam Deus est».
L’ontologia trinitaria
nel Libro VIII del De Trinitate di Agostino

Estratto

Trinità in relazione
Percorsi di ontologia trinitaria
dai Padri della Chiesa all’Idealismo tedesco
a cura di Claudio Moreschini

«Theánthropos» - 2
Testi e studi
sul cristianesimo antico

Edizioni Feeria
Comunità di San Leolino
Il volume raccoglie i contributi presentati in occasione
del Convegno di Ontologia trinitaria, tenutosi presso
l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano
(28-30 aprile 2015), ed è stato pubblicato
grazie al contributo e al patrocinio
di Genesis. Centro di Studi Patristici “Luigi Maria Verzé”.

La redazione del volume è stata curata da:

V. Limone, G. Maspero, C. Moreschini


(sezione patristica),
A. Gatto
(sezione medioevale)
V. Cicero
(sezione moderna e contemporanea).

I contributi sono stati sottoposti al processo di double peer-review.

© Edizioni Feeria 2015


Via S. Leolino 1 – 50022 Panzano in Chianti (Firenze)
Tel. e fax 055 852003 – e-mail [email protected]
ISBN 98-88-6430-109-9

Distribuzione
Città Ideale
Via Goldoni 30 – 59100 Prato
tel. 0574 691312 – fax 0574 698182
[email protected] – www.cittaideale.info

Progetto grafico e impaginazione


Comunità di San Leolino – Panzano in Chianti (Firenze)
Piero Coda

«Fraterna dilectio non solum ex Deo


sed etiam Deus est».
L’ontologia trinitaria
nel Libro VIII del De Trinitate di Agostino

1. In Agostino d’Ippona assistiamo dal vivo all’inventio


dell’ontologia trinitaria nell’Occidente cristiano. Egli scopre,
infatti, nelle viscere stesse della rivelazione cristiana e dell’e-
sperienza che vi corrisponde – in dialogo con la filosofia greca
–, quella specifica forma del pensare che, appunto, possiamo
con pertinenza definire con questo nome. Klaus Hemmerle, nel
1976, quando pubblica le Tesi di ontologia trinitaria1 ne inaugura
di fatto una nuova stagione: che però, assai più di quanto pos-
sa apparire di primo acchito, è in continuità nella novità con
l’opera di Agostino. Basti dire che Hemmerle, rinviando nelle
Tesi ad Agostino, sottolinea che un’ontologia trinitaria non può
che scaturire da una fenomenologia dell’amore di agápe.
Su questa base, con Hemmerle si annuncia una triplice
novità: 1) il rilancio dell’ontologia trinitaria dopo la moderni-
tà, con tutti i guadagni e le problematiche che ciò comporta:
penso, in particolare, all’accesso trascendentale dell’“io pen-
so”; 2) nell’orizzonte del dialogo con il pensiero che scaturisce
dall’esperienza mistica dell’Oriente; 3) a seguito e grazie
all’intensa maturazione della tradizione mistica cristiana e, di
conseguenza, all’intelligenza della fede che ne viene: France-
sco d’Assisi, Bonaventura da Bagnoregio, Tommaso d’Aqui-
no, Teresa d’Avila, Giovanni della Croce, Ignazio di Loyola...
sino a Chiara Lubich.

1
K. Hemmerle, Thesen zu einer trinitarischen Ontologie (1976), Johannes Verlag
Einsiedeln, Freiburg 1992; tr.it., Tesi di ontologia trinitaria. Per un rinnovamento del pensiero
cristiano, Città Nuova, Roma 19962 [d’ora in poi indicato con l’abbreviazione Tesi].

3
Torno qui ad Agostino ancora una volta2, per fissare l’at-
tenzione sul Libro VIII del De Trinitate, il libro cerniera che
descrive il passaggio tra la prima e la seconda parte del De Tri-
nitate, la cui rilettura è stata per me foriera di preziosi e rile-
vanti guadagni in ordine all’istituzione di un’ontologia trinita-
ria, di cui qui vorrei almeno in parte dar conto.

Fino al Libro VIII – come noto – Agostino ha esposto la doc-


trina fidei, la fede in Dio Trinità trasmessa dalla Chiesa, svilup-
pando di qui uno straordinario esercizio d’intelligenza della
fede che illustra come la dottrina della fede sia intellettualmen-
te pertinente, anzi per sé muova il pensiero dischiudendogli
possibilità nuove, come si evince soprattutto dal Libro V, gra-
zie all’ontologia della relatio in Deo. A partire dal Libro VI, Ago-
stino fa un passo ulteriore: l’esperienza o esercitazione della fede.
Non semplicemente come qualcosa di esistenzialmente coin-
volgente, ma come il luogo e la via per un’intelligenza più pro-
fonda della fede – un’intelligenza pneumatica, afferrata cioè e
trasfigurata dallo Spirito Santo.
È come se Agostino volesse mostrare che per intelligere Tri-
nitatem devi infine toccarla, “vederla” – la Trinità. Che cos’è
infatti questa visio – che è la finalità di tutto il De Trinitate, come
Agostino attesta nel Libro XV: «desideravi intellectu videre quod
credidi» – se non incontrare faccia a faccia quel Dio-Trinità in
cui ho creduto, che ho accolto nella fede della Chiesa e che ora,
appunto, desidero incontrare a tu per tu? Di qui la tensione a
far sì che l’intelligentia fidei diventi un incontro, un’esperienza:

2
Su di lui, in effetti, mi sono soffermato in più di un’occasione: Il “De Trinitate” di
Agostino e la sua promessa, in «Nuova Umanità» XXIV, n. 140-141 (2002) 219-248; Agostino,
l’interiorità e l’esperienza dell’altro, in «Adultità» n. 22 (2005), 77-85; L’anima e il suo oltre. La
teologia trinitaria di Agostino tra interiorità e reciprocità, in AA.VV., Luoghi del pensare.
Contributi in onore di Vincenzo Vitiello, Mimesis, Milano 2005, 117-128; Agostino e la “via
caritatis”. Rileggendo il “De Trinitate”, in L. Alici – R. Piccolomini – A. Pieretti (edd.), La
filosofia come dialogo a confronto con Agostino, Città Nuova, Roma 2005, 19-36; L’esperienza e
l’intelligenza della fede in Dio Trinità. Da Sant’Agostino a Chiara Lubich, in «Nuova Umanità»
XXVIII (2006/5) n. 167, 527-552; Sul luogo della Trinità: rileggendo il “De Trinitate” di
Agostino, Città Nuova, Roma 2008; Visio Trinitatis. Il “De Trinitate” di Agostino tra desiderio e
interruzione, in “Sophia”, IV (2012/1), 17-33; Se l’uno è anche il suo altro, in P. Coda - M.
Donà, Pensare la Trinità. Filosofia europea e orizzonte trinitario, Città Nuova, Roma 2013, 9-96.

4
«Il tuo volto, Signore, io cerco», fammi conoscere il tuo volto
(cf. Sal 27,8).
Questo percorso trova il suo focus decisivo nell’amore di
caritas – l’agápe neotestamentaria. Non di un fatto emozionale
soltanto si tratta: ma ontologico. Dice l’essere. Non va ridotto
all’affettività, anche se la implica. Per Agostino, l’amore si dà
come il nome dell’essere. Perché è il nome di Dio. In realtà, il
senso profondo dell’incontro con Dio, il suo fine ultimo, altro
non è appunto se non l’unità nell’amore.

2. Prima d’abbordare il Libro VIII, cerchiamo di fare una


rapida sintesi, in sei punti, del cammino che Agostino ha sin
qui percorso.

a) Dio è Essentia, e cioè la Verità in quanto è e si dà a cono-


scere: ecco il primo punto. Ricordiamo il libro VII delle Confes-
sioni, quando Agostino esclama: metterei in dubbio la mia esi-
stenza piuttosto che l’esistenza di Colui che son stato fatto
capace di vedere «cum primum te cognovi»3. Dio, in realtà, è l’o-
rizzonte d’esistenza e di verità di tutto ciò che è. Egli non è
l’essere assoluto che se ne sta da qualche parte in una galassia
metafisica inaccessibile, ma l’orizzonte entro cui si danno l’esi-
stenza e la verità di tutto ciò che è.
Ciò significa che Dio non è l’innominabile nascosto nel
silenzio che non conosce parola, l’uno irrimediabilmente al di
là dell’essere: ma è l’orizzonte dell’essere che è la verità di ciò
che io sono, di ciò che noi siamo, di ciò che tutto è, in un modo
che certamente trascende la comprensione che ne possiamo
avere ma – poiché ne siamo creatura – possiamo e dobbiamo in
libertà fare quest’affermazione semplice e decisiva: Dio è. È
questa la scintilla della verità di tutto ciò che è possibile dire,
essere, fare. Questa verità s’offre e s’intensifica e si dischiude in

3
Agostino d’Ippona, Confessioni, VII, 10,16; testo latino dell’ed. di M. Skutella riveduto
da M. Pellegrino, (Opere di Sant’Agostino), Città Nuova Editrice, Roma 20007, 200.

5
luce nuova nella rivelazione, quando Dio entra in rapporto con
Israele e, infine, quando s’incarna in Gesù Cristo.

b) Secondo. Dio – come appunto attesta la rivelazione neo-


testamentaria raccolta e trasmessa dalla doctrina fidei della
Chiesa – è in Sé Altro (Padre), Altro (Figlio) e Altro (Spirito
Santo), essendo così Se stesso. L’alterità, dunque – così si evin-
ce dalla rivelazione –, è misteriosamente inscritta nell’Essentia
che è Dio.

c) Terzo. L’alterità in Dio è diversità, e cioè alterità relazio-


nale. Di per sé, diversus – parola che Agostino consapevolmen-
te impiega in proposito –, da divergere, significa andare in dire-
zione opposta. Ora, invece, la diversità in Dio è una diversità,
per dir così, “convertita”: è andare in un’altra direzione non
per distanziarsi ma per camminare insieme, per incontrarsi
pur essendo distinti – perché anzi, si è distinti. L’Altro, in Dio,
è Dio: essendo Altro in quanto relazione. L’alterità, in Dio, è
dunque diversità che è relazione.

d) Quarto punto: la relazione, in Dio, determina l’alterità in


quanto diversità nella direzione della reciprocità. Così nel rap-
porto Padre-Figlio.

e) Quinto: il “non”, per sé implicato dall’alterità in Dio –


per cui l’Uno non è l’Altro –, non connota un fatto solo lingui-
stico ma ontologico. È un “non” identificante in quanto rela-
zionante, un “non” positivo. Non esclude, relaziona. Dio è Uno
non perché in Se stesso non è Altro, ma è Uno perché in Se stes-
so è Altro e Altro e Altro. L’alterità è originaria benedizione
ontologica.

f) Infine, sesto punto: la reciprocità non s’esaurisce nella


polarità dei due, Padre-Figlio, ma s’esprime, anzi sussiste,
come tertium: lo Spirito Santo.

6
3. È quest’ultimo guadagno che apre al cammino che, dal
Libro V porta al Libro VIII. La reciprocità tra Padre e Figlio –
spiega Agostino – non è una reciprocità a due termini. Si dà
infatti, tra loro, un terzo termine, il quale non è esterno a essi
due: è Altro dall’Uno e dall’Altro essendo ciò (Chi) mediante
cui si realizza la loro reciprocità. L’intuizione che Agostino
afferra dalla rivelazione è che non solo in Dio si dà l’alterità,
non solo quest’alterità è relazione, non solo questa relazione è
reciprocità, ma questa reciprocità è sussistente. La reciprocità è
qualcosa, meglio Qualcuno d’Altro che fa possibile la sussi-
stenza di Ciascuno che si dona all’Altro come relazione.
Il punto verso cui s’indirizza, dunque, l’intentio di Agosti-
no a partire dal Libro V è lo Spirito Santo: 1) come il terzo in
cui la relazione si dà; 2) come colui nel quale si gioca, così, la
dialettica tra interiorità ed esteriorità. Lo Spirito Santo, infatti,
è interiore a ciascuno dei due, Padre e Figlio, ed è esteriore
(altro) rispetto a ciascuno di essi. Descrive, in Dio, un’interiori-
tà che non è contraddittoria all’esteriorità e un’esteriorità che
non è contraddittoria all’interiorità.
Così, lo Spirito Santo, proprio perché è il terzo e perché
media tra interiorità ed esteriorità, esercita una mediazione
altra da quella di Gesù, il Verbo di Dio che si è fatto carne. Nel
Libro IV, Agostino ha descritto il Verbo fatto carne come il
mediatore tra Dio e gli uomini4. Ora, la mediazione viene guar-
data da un altro punto di vista, quello dello Spirito Santo: Cri-
sto è il mediatore, perché vero Dio e vero uomo, lo Spirito
attua e articola la mediazione su tre livelli: 1) la mediazione tra

4
Agostino d’Ippona, De Trinitate, IV, 7.11: «Quia enim ab uno Deo summo et vero
per impietatis iniquitatem resilientes et dissonantes defluxeramus, et evanueramus in
multa discissi per multa et inhaerentes in multis, oportebat nutu et imperio Dei miserantis
ut ipsa multa venturum conclamarent unum, et a multis conclamatus veniret unus, et
multa contestarentur venisse unum, et a multis exonerati veniremus ad unum, et multis
peccatis in anima mortui e propter peccatum in carne morituri ameremus sine peccato
mortuum in carne pro nobis unum, et in resuscitatum credentes et cum illo “per fidem”
spiritu resurgentes iustificaremur in uno iusto facti unum, nec in ipsa carne nos
resurrecturos desperaremus cum multa “membra” intueremur praecessisse nos “caput
unum” in quo “nunc per fidem” mundati et “tunc per speciem” redintegrati et per
Mediatorem Deo reconciliati haereamus Uni, fruamur Uno, permaneamus Unum»; testo
latino dall’ed. maurina confrontato con l’ed. del Corpus Christianorum, (Opere di
Sant’Agostino) Città Nuova Ed., Roma 1973.

7
il Padre e il Figlio, in Dio; 2) la mediazione tra Dio e gli uomini,
in Cristo; 3) la mediazione tra gli uomini, in Cristo.
Lo Spirito Santo, dunque, è mediatore universale in Dio tra
Padre e Figlio, tra Dio e la creazione in Cristo, tra le creature in
Cristo. Potremmo dire, con più precisione, che Gesù è il media-
tore, mentre lo Spirito è la mediazione: in quanto agisce facen-
do “capaci” gli esseri che partecipano della mediazione d’esse-
re attivamente mediati. Non è questo un piccolo tema: è, in
fondo, il tema del significato ontologico, trinitario e universale,
dell’unione ipostatica. Non mi ci avventuro. Ma prima o poi
bisognerà affrontarlo.

4. Già nel Libro V, vi sono due passaggi in cui Agostino


comincia a puntare l’attenzione sullo Spirito Santo, introdu-
cendolo nel discorso che fa a proposito della relazione. Dice:

Ma tuttavia quello Spirito Santo, che è compreso non come la Tri-


nità ma nella Trinità in ciò che propriamente si dice Spirito Santo, si
dice relativamente in riferimento al Padre e al Figlio, perché lo Spirito
Santo è Spirito del Padre e del Figlio5.

Lo Spirito Santo, dunque, è detto “relativamente” essendo


lo Spirito del Padre e del Figlio. Continua Agostino:

La relazione stessa però non appare in questo nome, appare invece


nell’appellativo dono di Dio. Infatti è un dono sia del Padre che del
Figlio, perché procede dal Padre, come dice il Signore, e ciò che afferma
l’Apostolo: Chi non ha lo Spirito di Cristo, non è di lui, concerne certamen-
te lo Spirito Santo. Così quando diciamo: “dono del donatore”, e:
“donatore del dono”, usiamo l’una e l’altra espressione in senso reci-
procamente relativo6.

5
De Trin., V, 11.12: «Sed tamen ille Spiritus Sanctus, qui non Trinitas, sed in Trinitate
intellegitur in eo quod proprie dicitur Spiritus Sanctus, relative dicitur cum et ad Patrem
et ad Filium refertur, quia Spiritus Sanctus et Patris et Filii Spiritus est».
6
Ibid.: «Sed ipsa relatio non apparet in hoc nomine; apparet autem cum dicitur
donum Dei. Donum enim est Patris et Filii, quia et a Patre procedit, sicut Dominus dicit, et

8
Dal punto di vista lessicale, la denominazione Spirito San-
to non dice relazione, che appare invece nell’appellativo “dono
di Dio”, usato in riferimento allo Spirito Santo nel Nuovo
Testamento. Infatti, lo Spirito Santo è dono sia del Padre sia del
Figlio. Inoltre, quando si parla di “dono”, si allude al “dono
del donatore” e al “donatore del dono”. E l’una e l’altra espres-
sione è detta in senso reciprocamente relativo.
Ma allora, lo Spirito Santo, propriamente, che cosa o
meglio Chi è? Una specie di “ineffabile comunione” tra il
Padre e il Figlio – risponde Agostino – ciò che tra loro è comu-
ne: ciò che esprime la loro unità nella loro distinzione. Anzi, è
forse chiamato così –­ Spirito Santo – proprio perché questa
denominazione può convenire sia al Padre che al Figlio: perché
il Padre è Spirito ed è Santo e il Figlio è Spirito ed è Santo, la
loro comunione la posso chiamare Spirito Santo! Agostino
sembra così suggerire che lo Spirito Santo dice l’essenza di
Dio, il “Chi è” di Dio – Communio, Unitas. Per lui, infatti, è
nome proprio quello che per gli altri due è nome comune.
Lo Spirito Santo, in una parola, è il dono che accade nella reci-
procità del donarsi tra Padre e Figlio. Non è che il Padre dona lo
Spirito al Figlio senza che il Figlio risponda nell’accogliere il
dono riconoscendolo come dono e così restituendolo. Lo Spiri-
to è il dono comune dei due.

5. Una maturazione di questo pensiero la troviamo nel


Libro VI:

Per questo anche lo Spirito Santo sussiste insieme in questa


medesima unità e uguaglianza di sostanza. Sia egli infatti l’unità degli
altri due, o la loro santità, o il loro amore, sia la loro unità, perché è il
loro amore, e sia il loro amore perché è la loro santità, è chiaro che non
è affatto uno dei due colui per il quale entrambi sono congiunti, colui

quod Apostolus ait: Qui Spiritum Christi non habet, hic non est eius; de ipso utique Spiritu
Sancto ait. “Donum” ergo “donatoris”, et “donator doni”, cum dicimus, relative utrumque
ad invicem dicimus».

9
per il quale il generato sia amato dal suo generante ed ami il suo
generatore, colui per il quale tutti e due conservino, non per parteci-
pazione, ma per loro essenza, non per il dono di un essere superiore,
ma per il dono suo proprio, l’unità di spirito nel vincolo della pace7.

Lo Spirito Santo – dice innanzi tutto Agostino – sussiste,


come il Padre e il Figlio, nell’unità dell’Essentia che è Dio: la
Communio dei due è in sé sussistente, non si esaurisce in uno
dei due (Padre e Figlio) o in tutti e due insieme. È in un Altro:
nel terzo, che sussiste come Dio al pari dei due.
Forte davvero, quest’affermazione! Lo Spirito Santo è Uni-
tas Amborum. «Sia la loro unità, perché è il loro amore, e sia il
loro amore perché è la loro santità». Egli è l’unità dei due, per-
ché è l’amore dei due, e ne è l’amore perché ne è la santità. La
santità di Dio è il suo essere amore e il suo essere amore s’e-
sprime nell’unità dei due che è il terzo. L’unità si realizza dun-
que in lui, nel terzo. «Manifestum est quod non aliquis duorum est
quo uterque coniungitur»: quo, un ablativo, che dice il luogo e il
mezzo nel quale e attraverso il quale gli altri due sono uno.
Ma Agostino non si ferma qui. I due sono un solo Spirito –
Agostino cita in proposito la Lettera agli Efesini (4,3) – non per
partecipazione a qualche cosa che hanno in comune, ma per il
dono reciproco di Sé. Dono che è uguale al loro essere. Certa-
mente, questo dono di Sé si riferisce al Padre e al Figlio: è nel
dono di Sé che essi diventano uno nello Spirito. Ma questo
dono di Sé è anche il dono dello Spirito: lo Spirito Santo è il
dono donato che dona l’unità. È il “dono donato”: perché è il
dono che i due donatori si fanno, ma è lui, a propria volta, che
“dona l’unità” al Padre e al Figlio. Egli è il dono donato che
dona l’unità perché il dono è dono, nel suo esser dono, donan-
dosi a propria volta. Anzi, la cosa più alta che si può donare è

7
De Trin., VI, 5.7: «Quapropter etiam Spiritus Sanctus in eadem unitate substantiae
et aequalitate consistit. Sive enim sit unitas amborum, sive sanctitas sive caritas, sive ideo
unitas quia caritas et ideo caritas, quia sanctitas, manifestum est quod non aliquis duorum
est quo uterque coniungitur, quo genitus a gignente diligatur generatoremque suum
diligat, sintque non participatione, sed essentia sua, neque dono superioris alicuius sed
suo proprio servantes unitatem spiritus in vinculo pacis».

10
il donare di donarsi, il far dono, cioè, della capacità di donarsi.
Lo Spirito Santo è il dono che dona l’unità: vuol dire che dona
la capacità di donarsi che si attua nell’unità. In ciò è la santità
di Dio – la sua Essentia che è Communio, Caritas, Unitas8.

6. Proseguendo il discorso, sempre nel Libro VI, Agostino


dice altre due cose di peso. Innanzi tutto, che noi siamo chia-
mati a imitare per grazia – per dono, dunque – quell’unità tra il
Padre e il Figlio che è realizzata in Dio dallo Spirito Santo. Imi-
tari per gratiam. Non si tratta d’una somiglianza esteriore, ma
di una partecipazione: lo Spirito Santo diventa così, in noi, il
principio attivo che ci fa vivere secondo quella stessa dinamica
di unità che accade, in e per Lui, tra il Padre e il Figlio.
Spiega Agostino: noi riceviamo il comando di imitare per
grazia questa unità sia in riferimento a Dio, quindi ciascuno in
sé e per sé, sia in riferimento gli uni agli altri, e quindi insieme,
nel vicendevole amore. E infatti questi sono i due precetti che
riassumono la Legge e i Profeti: “ama Dio con tutto il tuo cuo-
re” e “ama il prossimo come te stesso”. Ora, “amare il prossi-
mo come te stesso” vuol dire partecipare per grazia, mediante
lo Spirito, allo stesso rapporto d’amore che c’è tra il Padre e il
Figlio. Il rapporto per grazia – in Gesù mediante lo Spirito –

8
Cf. su tutto ciò (e su quanto segue) le acute riflessioni di J. Ratzinger nel
suo Lo Spirito Santo come “communio”. Sul rapporto tra pneumatologia e spiritualità
in Agostino, in AA.VV., La riscoperta dello Spirito. Esperienza e teologia dello Spirito
Santo, a cura di C. Heitmann – H. Mühlen, tr.it., Jaca Book, Milano 1975, 251-267.
Scrive tra l’altro Ratzinger: «La peculiarità dello Spirito Santo è evidentemente
nel suo essere la realtà comune fra Padre e Figlio. La sua peculiarità unica è di
essere unità. Quindi è proprio la denominazione generica “Spirito Santo” il
modo più adeguato, nella sua generalità, di esprimere paradossalmente quanto
egli ha di più proprio, che è appunto la comunanza. Io credo che in questa
analisi si verifichi qualcosa di oltremodo importante: il comporsi di Padre e
Figlio in perfetta unità viene visto non in una consubstantialitas ontica generale,
bensì come communio, diremmo quasi non in una sostanza essenziale in senso
generalmente metafisico, bensì, in forza delle persone, conforme alla natura di
Dio, è esso medesimo personale. Nella Trinitas la Diade volge all’unità senza
annullare il dialogo, che, invece, proprio per questo viene rafforzato. Un
ricomporsi nell’unità, che non fosse esso medesimo persona a sua volta, non
potrebbe non annullare anche il dialogo in quanto tale. Lo Spirito è la persona in
quanto unità, l’unità in quanto persona» (254).

11
d’amore reciproco tra i discepoli è imitatio Trinitatis, in quanto
partecipazione alla vita trinitaria.
Di qui la seconda cosa: Padre, Figlio e Spirito Santo, se
sono questa relazione d’amore che nello Spirito Santo è Unità,
sono un solo Dio non per qualche cosa d’altro, ma perché nello
Spirito Santo sono Uno nell’amore. Dio è Uno nell’amore e da
Sé, cioè dal Padre, per mezzo di Sé, cioè per mezzo del Figlio,
in Sé, cioè nello Spirito Santo, noi veniamo resi partecipi della
sua stessa vita e dunque diventiamo uno con lui anche inter
nos. Diventiamo un solo Spirito perché la nostra anima è
“agglutinata” a Lui per grazia.
La vita trinitaria, perciò, è la grammatica dell’essere uno.
Sembra paradossale: ma è la Trinità che fa uno! Perché la Trini-
tà è uno essendo amore, la sua è l’unità dell’amore: così che la
partecipazione alla vita dei tre rende partecipi di quella vita
dell’amore che fa uno come Dio è Uno.
Lo Spirito Santo – continua Agostino – «è la stessa comunio-
ne consustanziale ed eterna; se il nome di amicizia le si addice, la si
chiami così, ma è più esatto chiamarla carità» (VI, 5.7). Lo Spirito
Santo è l’unità tra il Padre e il Figlio che sussiste dalla stessa
sostanza del Padre e del Figlio. Questa comunione – che Lui è
e che non è qualcosa in cui naufraga l’identità degli altri due,
ma in cui gli altri due sono se stessi – si può chiamare amicizia.
Per dire, appunto, che si tratta dell’unità in cui i due che stan-
no in relazione tra loro sono se stessi, eppure sono uno, essen-
do ciascuno così se stesso. L’amicizia, infatti, è riconoscere
nell’altro un altro se stesso9. Qui Agostino ha dietro di sé, evi-
dentemente, la grande lezione greca e latina sull’amicizia, e la
sua intensa esperienza in proposito10.
Lo Spirito Santo, dunque, è l’amicizia del Padre e del Figlio
o se dobbiamo dirlo ancora meglio – precisa Agostino – è cari-
tas, traduzione del neotestamentario agápe, quel tipo d’amore
de Deo che Gesù ha attestato e comunicato agli uomini nello

9
Cf. Aristotele, Ethica Nicomachea, IX, 12.
10
Cf. M.A. McNamara, Friendship in Saint Augustine, Editions Universitaires,
Fribourg 1958; tr. it., L’amicizia in S. Agostino, Editrice Ancora, Milano 1970.

12
Spirito Santo11. L’agápe, la caritas, è l’amicizia nella sua essenza
ultima: la perfezione dell’amicizia.
E questo è neotestamentario. La Prima Lettera di Giovanni,
ad esempio, parla della perfezione (teleíosis) dell’amore: dove?
quando? nella reciprocità che sboccia nell’unità (cf. 1Gv 4,16-
17). L’unità è qualcosa di più della reciprocità. La reciprocità è
quella del Padre e del Figlio, lo Spirito Santo è l’unità nella
distinzione di Padre e Figlio che vivono nella e della loro reci-
procità d’amore. E ciò è antropologicamente significativo:
guardando al mistero di Dio s’illumina infatti dall’interno il
mistero dell’uomo, perché l’uomo è sé quando vive l’amicizia
che è la reciprocità che fiorisce nell’essere uno essendo ciascu-
no se stesso. La Trinità è lo spazio che, per grazia, introduce
nella possibilità d’attuare pienamente la vocazione inscritta nel
più profondo dell’essere uomo.
Ovviamente, detto che lo Spirito Santo manifesta e parteci-
pa l’essere di Dio come carità, da qui s’illuminano l’essere del
Padre e l’essere del Figlio. Il Padre è amore nel suo modo, il
Figlio nel suo modo, lo Spirito Santo nel suo modo. Sono i tre
modi dell’essere amore: «Di conseguenza non sono più di tre:
uno che ama colui che ha origine da lui, uno che ama colui dal
quale ha origine, e l’amore stesso. E se questo è niente, in che
modo Dio è carità? E se questo non è sostanza, in che modo Dio
è sostanza?»12.

7. A chiusura del Libro VI, Agostino si riferisce a Ilario di


Poitiers: «Uno scrittore, volendo far comprendere in poche paro-

11
Leggiamo nel Sermo 34 di Agostino: «amemus Deum de Deo, Immo quia Spiritus
Sanctus Deus est, amemus Deum de Deo. Quid enim plus dicam: amemus Deum de Deo?
Certe quia dixi: Caritas Dei diffusa est in cordibus nostris per Spiritum Sanctum qui datus est
nobis; ideo est consequens, ut quia Spiritus Sanctus Deus est, nec diligere possumus Deum
nisi per Spiritum Sanctum, amemus Deum de Deo» (Sermo habitus Carthagine ad Maiores de
responsorio psalmi CXLIX: “Cantate Domino canticum novum”, in Id., Discorsi, I [1-50], [Opere
di Sant’Agostino, XXIX] Città Nuova Ed., Roma 1979).
12
De Trin., VI, 5.7: «Et ideo non amplius quam tria sunt: unus diligens eum qui de
illo est, et unus diligens eum de quo est, et ipsa dilectio. Quae si nihil est, quomodo Deus
dilectio est? Si non est substantia, quomodo Deus substantia est?».

13
le le proprietà di ciascuna delle Persone della Trinità disse: L’e-
ternità è nel Padre, la forma è nell’Immagine, la fruizione nel Dono».

Di questi termini: Padre, Immagine, Dono, eternità, forma, frui-


zione, ho scrutato – spiega Agostino –, per quanto ne sono capace, il
senso nascosto e non credo di essermi discostato dal suo pensiero a
proposito della parola “eternità” intendendola così: il Padre non ha
un Padre da cui procede, il Figlio invece riceve dal Padre e la sua esi-
stenza è la sua coeternità con lui. Se l’immagine infatti riproduce per-
fettamente la realtà di cui è immagine, è essa che si eguaglia alla realtà
e non questa all’immagine13.

L’immagine, il Figlio, è la riproduzione visibile di colui che


è nascosto, il Padre. In essa vi è perfetta proporzione, suprema
uguaglianza senza alcuna differenza, corrispondenza fino all’i-
dentità con la realtà di cui è immagine. L’immagine è la perfet-
ta espressione di Colui di cui appunto è immagine, il Padre. In
essa – Agostino l’ha descritto nel Libro IV – c’è la vita primale
e suprema, nella quale vivere non è diverso da essere.
È come un verbo perfetto cui nulla manca, perché esprime
l’eterno: una specie di ars aeterna, pregna di tutte le ragioni
immutabili degli esseri viventi. In essa tutte le cose sono un’u-
nica cosa come essa è qualcosa di uno che origina dall’Uno,
con il quale è una sola cosa. L’immagine è una perché è l’im-
magine dell’eternità, del Padre, ma allo stesso tempo è molte-
plice perché è la radice di tutte le cose.
Ora, quest’ineffabile amplesso del Padre e della sua Imma-
gine, il Figlio, non è senza fruizione. La gioia sigilla la relazio-
ne riuscita. È lo Spirito Santo, che non è generato, ma è la soa-
vità del genitore e del generato e inonda con la sua liberalità
tutte le creature secondo la loro capacità, affinché conservino il
loro ordine e riposino nei loro luoghi. Lo Spirito è l’amplesso,
13
De Trin., VI, 10.11: «Horum verborum, id est Patris et Imaginis et Muneris,
aeternitatis et speciei et usus, abditam scrutatus intellegentiam quantum valeo, non eum
secutum arbitror in aeternitatis vocabulo, nisi quod Pater non habet Patrem de quo sit,
Filius autem de Patre est, ut sit atque ut illi coaeternus sit. Imago enim si perfecte implet
illud cuius imago est, ipsa coaequatur ei, non illud imagini suae».

14
la gioia, il soffio, la vita che sgorga dal e sigilla il rapporto tra il
Padre e il Figlio.
Tutte le opere dell’“arte divina” che è espressa nella creazione
presentano dunque in sé una certa unità, forma e ordine. L’unità è
riferita al Padre, la forma al Figlio, l’ordine allo Spirito. Ogni cosa
è qualcosa di uno, ha una forma, si tiene in un determinato ordi-
ne. Se è così, se tutte le cose sono create dal Padre per mezzo del
Figlio nello Spirito Santo, esse tutte portano un’impronta trinita-
ria, in sé e nei loro vicendevoli rapporti. E allora è possibile e
necessario che conoscendo il Creatore per mezzo delle sue opere
celebriamo la Trinità di cui la creazione in una certa proporzione
vera reca in sé la traccia: il vestigium – parola magica che diventerà
un leit-motiv di tutta la tradizione cristiana.
Di lì, dal vestigium, posso risalire alla Trinità. Ecco il circolo
ermeneutico del procedere di Agostino: è partito dalla Trinità,
ha contemplato come la creazione avviene quale espressione
della Trinità, così che in essa se ne rinviene il vestigium. Un
discorso cosmologico. Ma la pagina precedente era più radical-
mente antropologica: intuiva l’accadere nelle relazioni tra le
persone – per lo Spirito Santo – non solamente del vestigium
ma dell’imitatio Trinitatis, dove entra in gioco la libertà della
persona che assume la grazia, si sintonizza con lo Spirito Santo
e vive in e per Lui nella Trinità e come Trinità.

8. Ecco la duplice via dell’ontologia trinitaria: quella dell’a-


more che è lo Spirito Santo e quella del vestigium. Il legame è
nel concetto di ordo, riflesso, anzi accadimento dello Spirito
Santo nella relazione tra tutto ciò che è. All’inizio del Libro
VIII, Agostino fa un riassunto di quanto sin qui ha detto.

Queste verità sono già state dette e se, volgendole e rivolgendole


vi ritorniamo sopra molto spesso, ci diventeranno più familiari, ma
bisogna anche usare una certa misura (modus) e supplicare Dio con
pietà e con grande devozione perché apra la nostra intelligenza ed eli-
mini dalla nostra ricerca ogni senso di ostinazione, affinché il nostro

15
spirito possa discernere l’essenza della verità pura da ogni materia,
da ogni mutevolezza14.

Dire che bisogna trovare “una certa misura” (modus) signi-


fica che occorre fare le cose con metodo. E però tale metodo
dev’essere colto in relazione a Dio. Occorre quindi pregare Dio
stesso perché apra la nostra intelligenza, tanto più che essa, in
definitiva, vuol conoscere Lui e tutto in Lui. Non altro.
Per far questo – precisa Agostino – affidandoci a Dio, dobbia-
mo considerare «modo interiore quam superiora tractabimus». Ciò
che abbiamo considerato finora: la Trinità, le relazioni, lo Spirito
Santo... dobbiamo considerarlo ora modo interiore. Ecco il punto di
passaggio. Ma che cosa vuol dire “modo interiore”? “Modo” riman-
da al metodo, alla misura; “interiore” invita a scavare dentro la
nostra interiorità. L’invito, dunque, è a scavare dentro di sé per
“vedere” come l’essenza della verità che è la Trinità sia la luce
interiore che abita l’anima e l’abilita a “vedere” ogni cosa in Dio.
Finora Agostino ha esercitato l’intelligenza speculativa come
chiarificazione dei concetti che permettono di articolare una
costellazione di significati atti a esprimere, in qualche modo, la
verità della Trinità. Ora, la Trinità vuole in qualche modo “toc-
carla”, “vederla”, e cioè percepirla ed esercitarla dentro di sé.

Il problema consiste nel chiedersi a partire da quale similitudine,


da quale comparazione con cose da noi conosciute crediamo in Dio ed
anche lo amiamo prima ancora di conoscerlo15.

Agostino vuole giungere a mostrare agli altri e a sé come di


fatto, in ciò che muove la nostra interiorità, noi siamo per sé in
contatto con Dio ancora prima di conoscerlo e di amarlo esplicita-
mente. Questo è il primo passaggio. Fatto questo, occorrerà fare

14
De Trin., VIII, 1.1: «Dicta sunt haec, et si saepius versando repetantur, familiarius
quidem innotescunt; sed et modus aliquis adhibendus est Deoque supplicandum
devotissima pietate ut intellectum aperiat et studium contentionis absumat quo possit
mente cerni essentia veritatis, sine ulla mole, sine ulla mutabilitate».
15
De Trin., VIII, 5.8: «Sed ex qua rerum notarum similitudine vel comparatione
credamus, quo etiam nondum notum Deum diligamus, hoc quaeritur».

16
un secondo passaggio: contemplare come questo Dio è il Dio tri-
nitario. Nel senso che l’intenzionalità della mia interiorità, nella
sua realtà profonda, è quella tale intenzionalità che è messa in
movimento dal ritmo stesso della vita di Dio che è la Trinità.

9. Il primo passaggio. Prendiamo – esemplifica Agostino –


l’esperienza dell’amore per l’uomo giusto, ad esempio l’apo-
stolo Paolo: che cos’è che fa sì che io stimi e ami un uomo,
come lui, perché giusto? Il fatto che riconosco in lui la qualità
della giustizia. Qui giustizia, per Agostino, non è tanto suum
unicuique tribuere, ma ordo amoris: vivere nel rapporto giusto
con Dio, con sé e con gli altri. Che cosa amo, dunque, nell’apo-
stolo Paolo? La sua giustizia, e cioè il fatto che lui vive secondo
l’ordine giusto dell’amore. Ma come faccio a riconoscere in
Paolo questa giustizia? La posso riconoscere perché dentro di
me conosco l’idea della giustizia – anche se io non sono giusto.

Ciò che stupisce – osserva Agostino – è che un’anima veda in se


stessa ciò che non ha visto in nessun’altra parte, se ne faccia un’idea
vera e veda un’anima veramente giusta sebbene essa sia sì un’anima,
ma non l’anima giusta che vede in se stessa16.

È – questa – una verità interiore presente all’anima. Agosti-


no sottolinea che la giustizia, che è la misura con cui misuri e
che è misura a se stessa, non può essere misurata da qualche
cosa che sia altro o fuori di essa. Ciò significa che, mettendo in
atto il criterio della giustizia nei confronti degli altri, di fatto
sto conoscendo e amando Dio: perché conosco, in qualche
modo, il principio e la sorgente della giustizia e mi muovo ad
agire corrispondendovi.
La Trinità è la misura che misura il vivere in quanto vivere
nell’amore, ma è misura oltre misura, spazio entro il quale

16
De Trin., VIII, 6.9: «Illud mirabile ut apud se animus videat quod alibi nusquam
vidit, et verum videat, et ipsum verum iustum animum videat, et sit ipse animus et non
sit iustus animus, quem apud se ipsum videt».

17
sempre di nuovo si entra e dal quale sempre di nuovo si è
superati e si è rimessi per strada. La misura rinvia sempre
oltre, è sempre al-di-là: l’attui, e nel momento in cui l’hai attua-
ta, non la possiedi, devi rimetterla in moto.
In te stesso, dunque, ma al di là di te stesso, rinvieni la misu-
ra del rapporto con ciò che è fuori di te stesso. In te stesso, al di là
di te stesso, fuori di te stesso. La trovi in te stesso, la misura, ma in
qualche cosa che è al di là di te stesso, in un confine che ti supera
dall’interno di te. In te stesso, ma al di là di te stesso, rinvieni
infatti quella misura che ti permette di giudicare con verità e
giustizia ciò che è fuori di te stesso – l’altro. Il rapporto di verità
e di giustizia con te e con l’altro, da te è misurato in Chi è al di là
di te. Tu sei attraversato da Chi ti trascende nella misura di te
stesso e dell’altro da te. Questo significa conoscere Dio non
conoscendolo ancora e amare Dio non conoscendo ancora di
amarlo: perché non conosci il volto di questa misura di giustizia
che scopri in te al di là di te. La giustizia, però, così non solo la
conosci perché è attraverso la sua misura che misuri te stesso e
misuri l’altro da te, ma anche l’ami, perché vi aderisci.
La misura è: veritas interior praesens. Agostino la chiama
anche “forma”, ciò che dà significato a quello che sei e a quello
che fai, il principio strutturante e identificante e orientante. La
verità s’esprime in una forma, ha una dinamica interiore che ne
esprime il significato di verità. «Dunque l’uomo che è ritenuto
giusto è amato secondo la verità che contempla ed intuisce in sé
colui che ama; questa forma e verità (ipsa vero forma et veritas)
però non si ama per un motivo diverso, ma per se stessa»17.
La verità, la forma, la misura che trovi al di là di te stesso e
che misura te stesso e l’altro da te è misurata solo da se stessa,
non ha fuori di sé un criterio di misura che la misuri – è misura a
se stessa. Sentenzia perciò Agostino: «Quidquid enim tale aspexe-
ris, ipsa est; et non est quidquam tale, quoniam sola ipsa talis est»18:

17
De Trin., VIII, 6.9: «Homo ergo qui creditur iustus, ex ea forma et veritate
diligitur, quam cernit et intellegit apud se ille qui diligit; ipsa vero forma et
veritas non est quomodo aliunde diligatur».
18
De Trin., VIII, 6.9.

18
ciò che tu vedi in essa come suo proprio, ciò che intuisci in que-
sta forma come forma, che cos’è? ipsa est, è essa stessa. Essa stes-
sa è la misura di se stessa che ti viene partecipata per grazia.
Ciò significa, ad esempio, che per capire che cos’è la giusti-
zia, devo entrare nella giustizia, devo lasciarmi docilmente
insegnare dalla giustizia stessa che cosa essa è: lo intuisco, ma
non è che io possa dire che c’è una forma di giustizia alla luce
della quale io giudico che cos’è la giustizia. La giustizia è giu-
stizia in se stessa, io partecipo della luce di che cos’è la giusti-
zia e in base a questa posso giudicare che cosa è giusto.
Ma tutto questo discorso non è che una preparazione alla
rivelazione che Dio fa di Se stesso come giustizia che è amore e
come amore che è Trinità.

10. Prosegue infatti Agostino: «Perciò in questa questione sul-


la Trinità e la conoscenza di Dio, dobbiamo principalmente indagare
che cosa sia il vero amore, o meglio, che cosa sia l’amore»19.
La transizione dalla giustizia all’amore avviene sotto due
profili. Il primo: la giustizia di cui qui si parla – come diceva-
mo – è ordo amoris, l’ordine giusto dei rapporti. La perfezione
dell’idea di giustizia, quindi, è l’amore, che è la relazione giu-
sta con Dio, con se stessi, con l’altro. La transizione dalla giu-
stizia all’amore, dunque, è intrinseca al concetto di giustizia.
Il secondo profilo è quello trinitario. Non è facile esprimer-
ne il tenore, perché per Agostino stesso si tratta di un sentiero
inesplorato. Direi così: la misura che è misura a e da se stessa, e
grazie alla quale misuro me stesso e l’altro da me, posso intuire
com’è misurata in se stessa se mi si mostra, se mi si dice, se mi
si dà. Ecco: la Trinità, in cui Dio mi si rivela, è la misura con cui la
misura della giustizia che è l’amore misura se stessa. Questa l’intui-
zione di Agostino. Non c’è una misura fuori di questa misura,
non posso infatti trovare una similitudine adeguata di Dio fuo-

19
De Trin., VIII, 7.10: «Quapropter non est praecipue videndum in hac quaestione,
quae de Trinitate nobis est, et de cognoscendo Deo, nisi quid sit vera dilectio, immo vero
quid sit dilectio».

19
ri di Dio. Dio in Se stesso mi dice qual è la misura di Se stesso,
la sua veritas, il suo ordo: la Trinità. La misura di amore, o di
giustizia o di verità, con cui misuro me stesso e l’altro da me,
ha la sua misura in Dio in quanto Egli è Trinità.
Rivelandosi Trinità, quel Dio che non conosco e che pure già
conosco ancora non conoscendolo, si mostra pertanto come l’oriz-
zonte entro il quale progressivamente acquisto la luce per misura-
re il mio rapporto con Lui, il mio rapporto con me e il mio rappor-
to con l’altro. La Trinità non è un meteorite che cade dal cielo e
che è periferico o accessorio alla mia vita: ma è piuttosto quello
spazio nel quale «vivimus, movimus et sumus» (cf. Atti 17,28).
Nella fede in Dio Trinità, in Gesù, il mediatore, mi è donata
e dunque anche richiesta una misura nel rapporto con Dio, con
me stesso e con l’altro che per grazia attinge la misura non
misurata di ciò che è al di là di me: la Trinità – che si rende pre-
sente a me per diventare la misura del mio rapporto con Dio,
con me stesso, con l’altro.
Questa misura è l’amore di Dio, l’amore che è Dio, Dio che
essendo amore è Trinità. È questo che riconosce l’atto di fede:
quando il mio spirito è toccato dall’esperienza in cui avverte
d’essere amato da Dio fino al punto che Dio, in Gesù, muore
per lui. «Noi abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha
in noi» (1Gv 4,15): questo l’incipit e la summa della fede cristia-
na. La misura di questa giustizia è questo Dio che ti ama senza
se, senza ma, con una misura che è senza misura, dando la vita
per te. Quando sono raggiunto da questo evento e vi corri-
spondo nell’atto di fede, intuisco che l’amore di Dio è misurato
dal fatto che ... Dio è amore! L’amore che Dio ha per me ha la
sua misura nel fatto che in Dio non c’è niente che non sia amo-
re. Deus caritas est (1Gv 4,8.16).
Questa misura in Sé è la Trinità: che è dono totale di Sé del
Padre al Figlio, dono di risposta del Figlio al Padre in quel quo
sussistente che è lo Spirito Santo. Questo è il senso dell’essere.
L’ordo amoris è de Deo, è ordo trinitario.
Agostino, collocandosi all’interno dell’evento cristologico
partecipato nello Spirito Santo, riesce così a mostrare che il

20
senso dell’essere che si è è interiore al nostro essere in Cristo: il
che significa che è interiore alla vita trinitaria. Se già nel primo
momento, quello della giustizia, io sono atematicamente in
relazione a Dio, col dono del Figlio e dello Spirito Santo, Dio
mi chiama e mi accoglie in Sé in modo tale che divento prota-
gonista consapevole e responsabile di quella dinamica trinita-
ria in cui Dio si comunica pienamente rendendomi partecipe
per grazia della misura del suo stesso essere. Dio mi dà in
mano, nel cuore, nella mente la misura di Se stesso, e dandomi
la misura di Se stesso mi dà la chiave per diventare ciò che lui
vuol farmi, per dono: un altro Se stesso, figlio nel Figlio.
L’interpretazione che viene data per lo più di Agostino cir-
ca la cosiddetta “analogia psicologica” della Trinità viene qui
capovolta. Non è che Agostino cerchi il vestigio della Trinità
nell’interiorità per capire la Trinità a partire dalle cose create,
ma il contrario: cerca la Trinità nel fatto che Dio, la misura sen-
za misura, partecipa in Cristo e nello Spirito Santo Se stesso
all’interiorità della creatura.

11. Siamo così nel Libro VIII, 7.10:

Perciò in questa questione sulla Trinità e la conoscenza di Dio


dobbiamo principalmente indagare che cosa sia il vero amore, o
meglio, che cosa sia l’amore, perché non c’è amore degno di tal nome
che quello vero: il resto è concupiscenza. Ed è improprio dire che
amano gli uomini dominati dalla concupiscenza, come dire che sono
dominati dalla concupiscenza gli uomini che amano. Ora il vero amo-
re consiste nell’aderire alla verità per vivere nella giustizia. Dunque
disprezziamo tutte le cose mortali per amore degli uomini, amore che
ci fa desiderare che essi vivano nella giustizia. Allora potremo giunge-
re anche al punto di essere disposti a morire per il bene dei nostri fra-
telli, come il Signore Gesù Cristo ci ha insegnato con il suo esempio20.

20
De Trin., VIII, 7.10: «Quapropter non est praecipue videndum in hac quaestione, quae
de Trinitate nobis est, et de cognoscendo Deo, nisi quid sit vera dilectio, immo vero quid sit
dilectio. Ea quippe dilectio dicenda quae vera est; alioquin cupiditas est; atque ita cupidi

21
«Il vero amore consiste nell’aderire alla verità per vivere
nella giustizia»: ecco la definizione dell’amore che invera il
concetto di giustizia. Il vero amore è aderire alla verità, cioè a
quella misura che è ontologicamente inscritta nell’essere di Dio
stesso per vivere nella giustizia, cioè nell’ordine giusto in rife-
rimento a Dio, a sé, all’altro.
«Allora potremo giungere al punto anche di essere disposti
a morire per il bene dei nostri fratelli come il Signore Gesù Cri-
sto ci ha insegnato con il suo esempio»: per scoprire che cos’è
l’amore, trascendendo le cose mortali, devo dunque essere
disposto anche a dare la mia vita. Di qui un ulteriore approfon-
dimento circa i due comandamenti dell’amore. Agostino muo-
ve da un’osservazione pertinente: è vero che vi sono due pre-
cetti dell’amore in cui sono compendiati la Legge e i Profeti –
come dice Gesù (cf. Mt 22,40) –, uno che riguarda Dio e uno
che riguarda il prossimo, però nella Scrittura alcune volte si
parla dell’uno, l’amore di Dio, presupponendo l’altro, l’amore
del prossimo, oppure si parla dell’amore del prossimo, presup-
ponendo l’amore di Dio. Ciò significa che l’uno ha in sé l’altro,
così che quando ci viene comandato l’amore ci viene comanda-
to quell’ordo amoris per cui occorre prima amare Dio con tutto
se stessi e così amare il prossimo come se stessi.
La forma dell’amore è questa giusta misura che implica
l’amore di Dio e l’amore del prossimo. La verità dell’interiorità
– possiamo dire – è l’esteriorità e l’esteriorità è la verità dell’inte-
riorità: la verità del mio rapporto interiore con Dio è la verità
del mio rapporto esteriore con il fratello, e la verità del mio
rapporto esteriore col fratello è la verità del mio rapporto
interiore con Dio.
A ben vedere la cosa è dirompente! Quale la ragione onto-
logica di questa perfetta coappartenenza dei due precetti
dell’amore? Agostino – anticipo la risposta – intuisce che ciò

abusive dicuntur diligere, quemadmodum cupere abusive dicuntur qui diligunt. Haec est
autem vera dilectio, ut inhaerentes veritati iuste vivamus; et ideo contemnamus omnia mortalia
prae amore hominum, quo eos volumus iuste vivere. Ita enim et mori pro fratribus utiliter
parati esse poterimus, quod nos exemplo suo Dominus Iesus Christus docuit».

22
si dà perché Dio è Trinità. Egli ha scoperto che la verità
dell’interiorità è al di là dell’interiorità, nella trascendenza di
Dio: ma nella rivelazione cristiana la verità di quest’interiori-
tà, che è al di là di te, ti proietta fuori di te, nell’esteriorità. È
stupefacente anzi persino lacerante la cosa! Non è partito
Agostino dal «noli foras ire, rede in teipsum e transcende teip-
sum»? Scoprire la verità vuol dire guardare dentro di me, ma
una volta che ho scoperto la verità dentro di me e al di là di
me, questa verità si dà nel «ama il prossimo tuo come te stes-
so», e dunque mi scaraventa fuori. La misura di ciò è Dio Tri-
nità – una interiorità esteriorizzata, che guarda in Sé fuori di
Sé, perché il Padre guarda dentro di Sé, cioè in Dio, fuori di
Sé, nel Figlio, che è Dio anch’Egli.
La verità dell’interiorità di Dio è una esteriorizzazione che
non è contraddittoria all’interiorità ma la dispiega e la realizza.

Benché vi siano due precetti dai quali dipende tutta la Legge e i Pro-
feti: l’amore di Dio e l’amore del prossimo, non è senza motivo che la
Scrittura di solito ne ricordi uno per tutti e due, come in questo passo:
Sappiamo che per coloro che amano Dio, egli fa concorrere tutto al bene; ed
in quest’altro: Chiunque ama Dio, questi è conosciuto da lui; ed ancora:
Perché l’amore di dio è stato diffuso nei nostri cuori mediante lo Spirito San-
to che ci è stato dato, ed in molti altri passi. Perché chi ama Dio è natu-
rale che faccia ciò che Dio ha prescritto e lo ami, nella misura in cui lo
fa. Di conseguenza amerà anche il prossimo, perché Dio lo ha coman-
dato. Talvolta la Scrittura ricorda soltanto l’amore del prossimo, come
nel passo: Sopportate gli uni i pesi degli altri e così adempirete la legge di
Cristo; ed in questo: Tutta la Legge infatti si compendia in questo solo
comando: Ama il prossimo tuo come te stesso; e nel Vangelo: Tutto quanto
desiderate che gli uomini facciano a voi di bene, fatelo voi pure a loro; poiché
questa è la Legge ed i Profeti. E noi incontriamo nelle sante Scritture
molti altri passi, in cui solo l’amore del prossimo sembra comandato
per la perfezione, mentre non si parla dell’amore di Dio. E tuttavia la
Legge e i Profeti dipendono dall’uno e dall’altro precetto. Ma ancora
una volta la ragione di questo silenzio è che chi ama il prossimo ama
necessariamente, prima di tutto, l’amore stesso. Ora: Dio è amore, e chi

23
dimora nell’amore dimora in Dio. Ne consegue dunque che ama princi-
palmente Dio21.

Chi ama Dio è naturale che faccia ciò che Dio ha prescritto
e lo ami nella misura in cui Egli ama. Di conseguenza, amerà
anche il prossimo: perché Dio lo ha comandato. Ma ciò signifi-
ca che chi ama l’altro, per il fatto stesso che lo ama, ama l’amo-
re mediante cui ama l’altro. Amare l’altro vuol dire aderire a
quella legge dell’amore che scopro dentro di me e al di là di
me, e quindi amando l’altro amo l’amore e quest’amore con cui
amo l’altro, in definitiva, è Dio stesso. Quindi, amando l’altro,
amo Dio. Ecco il riassunto di tutto il discorso fin qui svolto:
«Dio è amore, e quelli che sono fedeli riposano con lui nell’amore;
perché andar correndo nel più alto dei cieli, nel più profondo
della terra, alla ricerca di Colui che è presso di noi se noi
vogliamo stare presso di lui?»22.
Dunque, «Nessuno dica: “non so che cosa amare”. Ami il fratel-
lo ed amerà l’amore stesso»23. L’amore, per sé, ha un oggetto che è
fuori di sé. Nell’amare devo amare quell’oggetto d’amore che è
fuori di me, essendo altro da me, e per me, creatura umana, l’al-
tro da me più vicino e più concreto è il fratello. Allora io amo il

21
De Trin., VIII, 7.10: «Cum enim duo praecepta sint in quibus tota Lex pendet et
Prophetae, dilectio Dei, et dilectio proximi, non immerito plerumque Scriptura pro utroque
unum ponit. Sive tantum Dei, sicuti est illud: Scimus quoniam diligentibus Deum omnia
cooperantur in bonum; et iterum: Quisquis autem diligit Deum, hic cognitus est ab illo; et
illud: Quoniam caritas Dei diffusa est in cordibus nostris per Spiritum Sanctum qui datus est
nobis; et alia multa, quia et qui diligit Deum consequens est ut faciat quod praecepit Deus,
et in tantum diligit in quantum facit; consequens ergo est ut et proximum diligat, quia hoc
praecepit Deus. Sive tantum proximi dilectionem Scriptura commemorat, sicuti est
illud: Invicem onera vestra portate, et sic adimplebitis legem Christi; et illud: Omnis enim lex in
uno sermone impletur, in eo quod scriptum est: Diliges proximum tuum tamquam te ipsum; et in
Evangelio: Omnia quaecumque vultis ut faciant vobis homines bona, haec et vos facite illis; haec
est enim Lex et Prophetae. Et pleraque alia reperimus in Litteris sanctis, in quibus sola
dilectio proximi ad perfectionem praecipi videtur, et taceri de dilectione Dei; cum in
utroque praecepto Lex pendeat et Prophetae. Sed et hoc ideo, quia et qui proximum
diligit, consequens est ut ipsam praecipue dilectionem diligat. Deus autem dilectio est, et
qui manet in dilectione, in Deo manet. Consequens ergo est ut praecipue Deum diligat».
22
De Trin., VIII, 7.11: «Deus dilectio est, et fideles in dilectione adquiescunt illi, revocati ab
strepitu qui foris est ad gaudia silentia. Ecce: Deus dilectio est. Utquid imus et currimus in
sublimia caelorum et ima terrarum quaerentes eum qui est apud nos, si nos esse velimus
apud eum?».
23
De Trin., VIII, 8.12: «Nemo dicat: “Non novi quod diligam”. Diligat fratrem, et
diligat eamdem dilectionem».

24
fratello e così innesco dentro di me il movimento dell’amore
per cui amo l’amore amando il fratello e amando il fratello
amo quel Dio che mi fa capace di amare il fratello. Se amo il
fratello faccio dunque due scoperte.
La prima è che, amando il fratello, aderisco a quella forma e
misura di amore che mi fa amare il fratello, e quindi in qualche
modo la conosco, la amo. Amando il fratello sono in presa diret-
ta con Dio, perché metto in movimento la relazione per la quale
sono in rapporto con Lui. Amando il fratello realizzo una cono-
scenza esperienziale in atto di Dio. Anche se al limite non lo so.
La seconda scoperta è che l’amore in virtù del quale amo il
fratello è più grande del mio cuore (cf. 1Gv 3,20), perché,
appunto, viene da Dio, è anzi Dio stesso. Sperimento, infatti,
che io non sarei capace di amare il fratello con vero amore se
dentro di me non fossi visitato, abitato, animato da un amore
che è più grande del mio cuore.
Ecco Agostino: «Ami il fratello ed amerà l’amore stesso. Infatti
conosce meglio l’amore con cui ama che il fratello che ama» 24. Se ti
soffermi un attimo sull’esperienza dell’amore al fratello costati
che egli rimane sempre altro da te, mentre l’amore con cui lo
ami lo conosci perché lo sperimenti dentro di te. Quindi, cono-
sci di più l’amore con cui ami che il fratello che ami. «Ed ecco
che allora Dio gli sarà più noto che il fratello; molto meglio
noto, perché più presente, più noto perché più interiore; più
noto perché più certo. Abbraccia il Dio amore e abbraccio Dio
con l’amore»25.
Come fai ad abbracciare il Dio che è amore? lo abbracci
nell’amore per il fratello. Abbracci interiormente Dio nel
momento in cui sei proiettato fuori di te nell’amore al fratello.

È quello stesso amore che associa tutti gli Angeli buoni e tutti i
servi di Dio con il vincolo della santità e che ci unisce scambievol-

24
De Trin., VIII, 8.12: «Magis enim novit dilectionem qua diligit, quam fratrem quem
diligit».
25
De Trin., VIII, 8.12: « Ecce iam potest notiorem Deum habere quam fratrem; plane
notiorem, quia praesentiorem; notiorem, quia interiorem; notiorem, quia certiorem.
Amplectere dilectionem Deum et dilectione amplectere Deum».

25
mente insieme, essi e noi, unendoci a lui che è al di sopra di noi.
Quanto più dunque siamo esenti dal gonfiore della superbia, tanto
più siamo pieni d’amore. E di che cosa è pieno se non di Dio colui
che è pieno d’amore?26.

12. A questo punto Agostino si pone la domanda cruciale:


«Ma, si dirà, vedo la carità e, per quanto posso, fisso su di essa
lo sguardo dello spirito e credo alla Scrittura che dice: Dio è
carità, e chi dimora nella carità, dimora in Dio. Ma quando vedo la
carità, non vedo in essa la Trinità»27.
E subito risponde «Ebbene, sì, tu vedi la Trinità, se vedi la
carità (immo vero vides Trinitatem, si caritatem vides)». Se vedi
questa carità, di cui qui stiamo parlando, tu vedi la Trinità: per-
ché la Trinità è la forma stessa di questa carità. Ma come faccio
a vedere che questa carità ha la forma della Trinità? Lo vedo,
innanzi tutto, perché Dio me lo mostra, così a me donandosi. E
ora, proprio su questo saldo fondamento – incalza Agostino –,
ti voglio mostrare che tu così vedi la Trinità:

Mi sforzerò, se lo posso, di farti vedere che la vedi (Sed commone-


bo, si potero, ut videre te videas): soltanto che la Trinità ci assista affinché
la carità ci muova verso qualche bene. Quando infatti amiamo la cari-
tà, la amiamo come amante qualcosa, per il fatto stesso che la carità
ama qualcosa28.

Si tratta di “vedere” in questa carità che vivi la forma della


Trinità. Tu ami quando esci da te stesso verso l’altro da te, per-

26
De Trin., VIII, 8.12: «Ipsa est dilectio quae omnes bonos Angelos, et omnes Dei
servos consociat vinculo sanctitatis, nosque et illos coniungit invicem nobis, et subiungit
sibi. Quanto igitur saniores sumus a tumore superbiae, tanto sumus dilectione pleniores.
Et qui nisi Deo plenus est, qui plenus est dilectione?».
27
De Trin., VIII, 8.12: «At enim caritatem video, et quantum possum eam mente
conspicio, et credo Scripturae dicenti: Quoniam Deus caritas est, et qui manet in caritate in
Deo manet . Sed cum eam video, non in ea video Trinitatem».
28
De Trin., VIII, 8.12: «Sed commonebo, si potero, ut videre te videas; adsit tantum
ipsa, ut moveamur caritate ad aliquod bonum. Quia cum diligimus caritatem, aliquid
diligentem diligimus, propter hoc ipsum quia diligit aliquid».

26
ché l’amore suppone uno che ama un altro che è amato e che
risponde, ed è così l’amore tra i due: ha quindi una forma trini-
taria. Quando ami il fratello, anche senza saperlo, stai facendo
una confessione di fede trinitaria, stai vivendo la Trinità. L’on-
tologia trinitaria è/diventa la verità del tuo essere.
Agostino sviluppa il suo pensiero in 5 punti – che riassu-
mo per evidenziarne il filo conduttore.
i) Il primo punto: «Che cosa ama dunque la carità perché anche
la carità stessa possa essere amata? Non è infatti carità quella che non
ama nulla» (VIII, 8.12). La carità è carità quando ama di carità
qualcuno. La carità, infatti, è definita dall’oggetto verso cui è
indirizzata. Non possiamo fissare il “che cos’è” della carità in sé,
astraendo dall’oggetto vero il quale si muove, perché la carità è
tale quand’è in atto. Per illustrarlo, Agostino fa un paragone:

Come infatti la parola significa qualcosa, così significa anche se


stessa, ma non significa se stessa se non perché è fatta per significare
qualcosa. Allo stesso modo la carità si ama certamente, ma se non si
ama come amante qualcosa, non si ama come carità. Che ama dunque
la carità, se non ciò che amiamo con la carità?29.

La parola è parola non in sé ma in quanto dice qualcosa, il


suo essere di parola è definito dalla relazione con ciò di cui
essa è parola. In modo analogo, la carità è carità in quanto ama
qualcuno. Dunque, abbiamo e conosciamo la carità nell’atto in
cui la viviamo.
ii) Il secondo punto tocca l’oggetto dell’amore: quale è
l’oggetto che amiamo con la carità? Agostino fa un’osservazio-
ne pertinente:

Ora questo, per partire da ciò che abbiamo di più prossimo, è il fra-
tello. Osserviamo quanto l’apostolo Giovanni ci raccomandi l’amore fra-

29
De Trin., VIII, 8.12: «Sicut enim verbum indicat aliquid, indicat etiam se ipsum, sed
non se verbum indicat, nisi se aliquid indicare indicet; sic et caritas diligit quidem se, sed
nisi se aliquid diligentem diligat, non caritate se diligit. Quid ergo diligit caritas, nisi quod
caritate diligimus?».

27
terno: Colui che ama il suo fratello, egli dice, dimora nella luce, e nessuno scan-
dalo è in lui. È chiaro che egli ha posto la perfezione della giustizia nell’a-
more del fratello; perché colui nel quale non c’è scandalo è perfetto30.

Il primo oggetto dell’amore è quel fratello che non per


niente è qualificato come “prossimo”. A partire da questa sem-
plice costatazione sta qui capitando qualcosa di grosso nel
pensiero di Agostino: egli è quasi trascinato oltre se stesso dal
movimento del suo pensiero che legge l’esperienza cristiana.
Sta parlando dell’amore che viene da Dio, di ciò che è interiore
perché è superiore, trascendente. Ma che cosa capita? Che l’e-
steriorità – perché il fratello è altro, è fuori di te – viene rinve-
nuto come il punto di attivazione della tua interiorità: perché,
per percepire l’amore che è dentro di me, Dio che vive dentro
di me, debbo uscire da me verso l’altro.
iii) Il terzo punto: amando il fratello metto dunque in
movimento dentro di me quell’amore che viene da Dio, che è
Dio. Amando il fratello, che è fuori di me, entro in comunione
intima e profonda con Dio che è dentro di me. Quindi, l’amore
al fratello si dà per sé come il “luogo dell’amore di Dio”: dove il
genitivo “di Dio” significa certo l’amore che ha per oggetto
Dio, ma, prima ancora, l’amore che viene da Dio, l’amore che
ha Dio per soggetto. Quando vivo l’amore verso il fratello,
dentro di me metto in movimento la vita di Dio che mi è dona-
ta per grazia, per cui Dio si mostra non semplicemente come
l’oggetto del mio amore, ma prima e innanzi tutto come il sog-
getto del mio amore. Dio è in me il principio del mio amore.
iv) Agostino non si ferma qui, giunge anzi a un punto che
secondo me è il più luminoso e decisivo del De Trinitate.

Poco dopo, nella stessa Epistola (la 1Gv), [l’Apostolo] dice in


modo chiarissimo: Carissimi, amiamoci vicendevolmente perché l’amore

30
De Trin., VIII, 8.12: «Id autem, ut a proximo provehamur, frater est. Dilectionem
autem fraternam quantum commendet Ioannes apostolus attendamus: Qui diligit,
inquit, fratrem suum in lumine manet, et scandalum in eo non est. Manifestum est quod
iustitiae perfectionem in fratris dilectione posuerit; nam in quo scandalum non est, utique
perfectus est».

28
viene da Dio; colui che ama è nato da Dio, e conosce Dio. Chi non ama, non
ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. Questo contesto mostra in manie-
ra sufficiente e chiara che questo amore fraterno – infatti l’amore fra-
terno è quello che fa amare vicendevolmente – non solo viene da Dio,
ma che, secondo una così grande autorità, è Dio stesso. Di conseguen-
za, amando secondo l’amore il fratello, lo amiamo secondo Dio31.

Agostino intuisce qui in un lampo la novità neotestamenta-


ria decisiva della reciprocità. Non parla più semplicemente
dell’amore al prossimo, ma riferendosi a 1Gv 4,7-8 parla dell’a-
more fraterno come amore vicendevole, fraterna dilectio. Il fatto è
che non solo io esco fuori di me verso l’altro e quindi conosco
Dio in me, attivo Dio in me, ma quando c’è la reciprocità, quan-
do cioè c’è la risposta d’amore dell’altro, in questa reciprocità,
accade tra noi la presenza di Dio: «questo amore fraterno – infatti
l’amore fraterno è quello che fa amare vicendevolmente – non solo viene
da Dio, ma, secondo una così grande autorità, è Dio stesso».
Agostino fa così un’affermazione ontologica strabiliante, la
cui portata, di fatto, non è stata per lo più colta ed evidenziata
dall’ermeneutica della sua teologia trinitaria: nell’esperienza della
reciprocità dell’amore tra i fratelli in Cristo si dà l’essere di Dio. Si dà
qui un passaggio fondamentale dal vedere Dio dentro di sé nella
propria cella interiore, al vedere Dio in quel fuori di sé che è la
reciprocità come incontro di due interiorità nell’interiorità di Dio
(lo Spirito Santo) in Cristo. Ma questa reciprocità che è Dio, che
cosa significa per Agostino? Direi due cose: a) che realmente Dio
si dà a conoscere nel modo più pieno dove c’è la reciprocità dell’a-
more; b) che il Dio che è così realmente presente – sulla base del
percorso che Agostino ha finora compiuto – è lo Spirito Santo.
Nella reciprocità vissuta tra i fratelli in Cristo si dà il luo-
go dell’accadere di Dio per noi: non l’essere di Dio in quanto

31
De Trin., VIII, 8.12: «Apertissime enim in eadem Epistula, paulo post ita
dicit: Dilectissimi, diligamus invicem, quia dilectio ex Deo est; et omnis qui diligit ex Deo natus
est, et cognovit Deum. Qui non diligit, non cognovit Deum; quia Deus dilectio est. Ista contextio
satis aperteque declarat, eamdem ipsam fraternam dilectionem, (nam fraterna dilectio est,
qua diligimus invicem), non solum ex Deo, sed etiam Deum esse tanta auctoritate
praedicari. Cum ergo de dilectione diligimus fratrem, de Deo diligimus fratrem».

29
Egli è Dio, ma l’essere di Dio in quanto diventa esperienza e
dono per noi.
v) Questa reciprocità, accadendo nello Spirito Santo, è una
reciprocità che accade nel terzo:

Qual meraviglia, dunque, se chi è nella luce non vede la luce, cioè
non vede Dio, perché è nelle tenebre? Vede il fratello con sguardo uma-
no che non permette di vedere Dio. Ma se amasse colui che vede per
sguardo umano, con carità spirituale, vedrebbe Dio, che è la carità
stessa, con lo sguardo interiore con cui lo si può vedere. Perciò chi non
ama il fratello che vede, come potrà amare Dio che non vede, precisamente
perché Dio è amore, amore che manca a colui che non ama il fratello?32.

Nell’atto stesso in cui amo il fratello, sono nella luce perché sto
attuando l’intenzionalità del mio essere che è essere in Dio e vedere
in Dio tutte le cose nella loro verità, e cioè nel loro ordo amoris.
Uno sguardo semplicemente umano non permette di vede-
re Dio. «Ma se amasse colui che vede per sguardo umano, con carità
spirituale (spiritali caritate diligeret), vedrebbe Dio, che è la carità
stessa, con lo sguardo interiore con cui lo si può vedere»: lo sguardo
“spirituale” è lo sguardo imbevuto di Spirito Santo, che vede
Dio, che è Carità, «visu interiore quo videri potest».

E non si ponga più il problema di sapere quanto amore dobbiamo


al fratello, quanto a Dio. A Dio, senza alcun confronto, più che a noi.
Al fratello poi tanto, quanto a noi stessi. Amiamo infine tanto più noi
stessi quanto più amiamo Dio. È dunque una sola ed identica carità
che amiamo Dio e il prossimo; ma amiamo Dio per se stesso, noi stessi
invece ed il prossimo per Dio33.

32
De Trin., VIII, 8.12: «Qui ergo non est in lumine, quid mirum si non videt lumen, id
est non videt Deum, quia in tenebris est ? Fratrem autem videt humano visu, quo videri
Deus non potest. Sed si eum quem videt humano visu, spiritali caritate diligeret, videret
Deum, qui est ipsa caritas, visu interiore quo videri potest. Itaque qui fratrem quem videt
non diligit, Deum, quem propterea non videt, quia Deus dilectio est, qua caret qui fratrem non
diligit, quomodo potest diligere?».
33
De Trin., VIII, 8.12: «Nec illa iam quaestio moveat, quantum caritatis fratri
debeamus impendere, quantum Deo: incomparabiliter plus quam nobis Deo, fratri autem
quantum nobis ipsis; nos autem ipsos tanto magis diligimus, quanto magis diligimus

30
È un problema astratto proporsi asetticamente la questione
di come e quanto devo amare il fratello e di come e quanto
devo amare Dio. Ama, e quando ami metti in movimento den-
tro di te quel principio vitale per cui a Dio viene dato amore
«senza alcun confronto, più che a noi. Al fratello quanto a noi stessi.
Amiamo infine tanto più noi stessi quanto più amiamo Dio».
A questo punto si presenta però la domanda: com’è possi-
bile amare Dio più di se stessi, incomparabiliter plus quam nobis?
Come è possibile che io realizzi un atto d’amore per Dio con
un amore più grande di quello con cui amo me stesso? Io pos-
so amare qualcosa più di me solamente se in me c’è un amore
che mi trascende. Allora che cosa significa che amo Dio con
tutto me stesso più di me stesso? Significa che amo l’amore,
con cui amo me stesso e amo l’altro più di me stesso, con quel-
la misura che è senza misura.
Quindi, noi amiamo l’amore perché “vediamo” – direbbe
Agostino – che l’amore è il principio, lo spazio, il senso del
nostro amare. È solamente trascendendo i nostri oggetti di
amore nell’amore per quell’amore che è Dio stesso, che amia-
mo i nostri oggetti di amore con vero amore, un amore misura-
to dall’amore stesso.
Ed ecco la conclusione: «È dunque da una sola e identica
carità che amiamo Dio e il prossimo (ex una igitur eademque
caritate Deum proximumque diligimus)». Agostino non dice sem-
plicemente che si tratta allora della “stessa” carità, ma che è
“ex”, dall’unica e medesima carità che fluiscono i due precetti
dell’amore. C’è un’unica sorgente. È dalla stessa carità che
amiamo Dio e amiamo il prossimo.
«Amiamo Dio per se stesso, noi stessi invece e il prossimo per Dio
(propter Deum)». Cosa vuol dire questo “per Dio”? Propter vuol
dire in ragione di, è causale. Propter Deum, in ragione di Dio,
vuol dire amare il prossimo secondo Dio e in Dio, con quella
misura cioè che è propria di Dio e che Dio è a Se stesso. La crea-

Deum. Ex una igitur eademque caritate Deum proximumque diligimus, sed Deum
propter Deum, nos autem, et proximum propter Deum».

31
tura umana ha questa incredibile vocazione: è se stessa quando
la ragione del suo essere è Colui che è al di là del suo essere,
come suo principio e fine. L’essere umano è se stesso là e quando la
ragione del suo essere è Colui che è al di là di lui – Dio Trinità.

13. Che è dunque l’amore o carità (dilectio vel caritas), tanto lodato
e celebrato dalle divine Scritture, se non l’amore del bene? Ma l’amore
suppone uno che ama e con l’amore si ama qualcosa. Ecco tre cose:
colui che ama, ciò che è amato, e l’amore stesso. Che è dunque l’amo-
re se non una vita che unisce, o che tende a che si uniscano due esseri,
cioè colui che ama e ciò che è amato?34.

La carità è «l’amore del bene», l’amore con cui ami amare.


Ma, ecco il punto: l’amore «suppone uno che ama e con l’amore si
ama qualcosa». C’è un soggetto dell’amore e c’è un oggetto
dell’amore, e dicendo così metto in relazione il soggetto e l’og-
getto dell’amore: «ecce tria sunt». Questo “ecce” ha un significa-
to kairologico nel discorso di Agostino, è un “eureka”, “ho tro-
vato!”. “Ecco sono proprio tre”: colui che ama, l’amante, colui
che è amato e l’amore che corre tra i due.
«Che cosa è dunque l’amore se non una vita che unisce
(Quid est ergo amor, nisi quaedam vita duo aliqua copulans, vel
copulari appetens, amantem scilicet, et quod amatur?)». Una vita
che desidera unire due esseri: l’amore è questo. Ma se l’amore
è questo, allora è chiaro che nell’amore c’è una trinità. Nell’a-
more vedi una Trinità in quanto l’amore accade come Spirito
Santo che mette in relazione i due che amano. Questa è la visio
spiritualis.
Ma Agostino non si ferma.

È così anche negli amori più bassi e carnali, ma per attingere ad

34
De Trin., VIII, 10.14: «Quid est autem dilectio vel caritas, quam tantopere Scriptura
divina laudat et praedicat, nisi amor boni? Amor autem alicuius amantis est, et amore aliquid
amatur. Ecce tria sunt: amans, et quod amatur, et amor. Quid est ergo amor, nisi quaedam vita
duo aliqua copulans, vel copulari appetens, amantem scilicet, et quod amatur?».

32
una fonte più pura e cristallina, calpestiamo con i piedi la carne (calca-
ta carne) ed eleviamoci fino all’anima (ascendamus ad animum). Che
ama l’anima in un amico, se non l’anima? Anche qui dunque ci sono
tre cose: colui che ama, ciò che è amato, e l’amore. Ci rimane di ele-
varci ancora e cercare più in alto queste cose, per quanto è concesso
all’uomo di farlo35.

14. L’amore come tensione copulans i due che si amano


investe ogni relazione, ma occorre spingere lo sguardo verso
ciò che è più puro e trasparente: «Calcata carne ascendamus ad
animum». La carne: quale il significato di carne per Agostino?
Perché devo calpestare la carne?
C’è qui una connotazione tendenzialmente negativa, che
non è, ad esempio, quella del quarto Vangelo: «il Verbo carne si
è fatto» (Gv 1,14). La parola carne ha un significato complesso
nella Scrittura, perché carne, sarx in greco, basar in ebraico, da
una parte significa semplicemente la dimensione limitata e
precaria dell’essere umano come essere creaturale: per cui dire
che il Verbo carne si è fatto vuol dire che ha assunto la limita-
tezza, il che non è in contraddizione con Dio – anche se ciò è
inaudito, perché dice che Dio può abitare il limite, l’infinito
può abitare il finito. Però c’è anche un significato negativo: car-
ne può essere sinonimo di concupiscenza, di peccato, di limite
che si autoafferma negando Dio. La carne, in questo senso, è
l’opposto di Dio, per cui nella Scrittura si parla di “uomo spiri-
tuale” e “uomo carnale”.
Agostino è greco di formazione ed ha una concezione
negativa, in fondo, della materia e quindi anche della carne,
anche se parla dell’humilitas della Parola di Dio che si fa car-
ne. Paga inoltre un debito alla sua esperienza personale: il
laccio della carne che a lungo non gli permetteva di aprirsi

35
De Trin., VIII, 10.14: «Et hoc etiam in extremis carnalibusque amoribus ita est. Sed
ut aliquid purius et liquidius hauriamus, calcata carne ascendamus ad animum. Quid
amat animus in amico, nisi animum? Et illic igitur tria sunt: amans, et quod amatur, et
amor. Restat etiam hinc ascendere, et superius ista quaerere, quantum homini datur».

33
alla salvezza. “Calcata carne” tronca la questione. Ma così la
luminosità cui è pervenuto si scontra con l’imperativo di eli-
minare la carne in senso negativo. Il che può rischiare, e di
fatto rischia, di eliminare la carne anche in senso positivo.
Nei libri seguenti Agostino andrà in questa direzione. Se la
Trinità è questo rapporto – amante, amato e amore tra i due – allo-
ra il rapporto uomo/donna ha qualcosa di trinitario, si chiederà
più oltre? Dal punto di vista biblico senz’altro. Ma Agostino sotto-
linea che c’è di mezzo la concupiscenza, per cui la sua risposta è
lapidaria: ubi sexus nulla Trinitas36. Rimarcando che non si può per-
correre la via della carne, Agostino blocca lo sviluppo del pensie-
ro cui è giunto, anche se dice una cosa importante: non è scontato,
in effetti, coniugare éros e agápe. La visione cristiana, nei secoli suc-
cessivi, scoprirà che l’amore è sempre mediato dalla carne: basti
pensare a Francesco d’Assisi. Ma la carne dev’essere trasfigurata
e, quindi, crocifissa nel senso di donata per amore. L’amore
dev’essere pienamente umano, quindi anche “carnale”, ma di una
carnalità non autoreferenziale, non possessiva, liberata, trasfigu-
rata. Per quanto è possibile. In cammino.
Questa carne trasfigurantesi è il luogo dello Spirito. Non per nien-
te riceviamo lo Spirito attraverso l’Eucaristia: «se non mangiate la
carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete
in voi la vita» (Gv 6,53). Cristo, per darci il suo Spirito, si fa carne,
muore, si fa pane. Come dice Papa Francesco, se non tocco la car-
ne del prossimo, non sono in relazione vera con lui.

15. Ma Agostino, arrivato fin qui, soggiunge:

Riposiamo per il momento un po’ la nostra attenzione, non per-


ché essa ritenga di aver trovato già ciò che cerca, ma come si riposa di

36
L’approfondimento della questione si trova nel libro XII. Il ragionamento – assai
articolato – che Agostino vi sviluppa in proposito è imperniato sulla distinzione tra la
corporeità dell’uomo e la sua razionalità («non secundum formam corporis homo factus est
ad imaginem Dei, sed secundum rationalem mentem»; De Trin., XII, 7.12) e perviene alla
conclusione secondo cui «Ubi sexus nullus est, ibi factus est homo ad imaginem Dei, ubi
sexus nullus est, hoc est in spiritu mentis suae» (ibid.).

34
solito colui che ha trovato il luogo in cui deve cercare qualche cosa;
non l’ha ancora trovata, ma ha trovato dove cercarla. Che queste
riflessioni ci bastino e siano come il primo filo a partire dal quale noi
tesseremo il resto della nostra trama37.

Agostino ha trovato il luogo dove videre Trinitatem, quello


spazio descritto dallo Spirito nel rapporto trinitario di amicizia.
Trovato il luogo, devo guardarci dentro: «che queste riflessioni
ci bastino, siano come il primo filo a partire dal quale tesseremo
il resto della nostra trama» – dice Agostino. Ma bisogna riposare
l’intentio. Siamo alla fine del Libro VIII e fino al XV Libro Agosti-
no non procede sulla strada che si è aperta di fronte a lui.
E cosa fa allora? Ritorna all’interiorità, guarda dentro di sé
e cerca l’impronta della Trinità nell’«uomo interiore». Anche se
finora aveva detto che il luogo è fuori essendo al tempo stesso
dentro – in quella dialettica tra interiorità ed esteriorità che
abbiamo descritto.
a) Domanda: il locus che Agostino ha trovato, allora, che
cosa è? Certamente è l’interiorità, l’uomo interiore. L’interiori-
tà, però, in quanto è abitata da Dio che è amore, Spirito Santo.
L’interiorità in quanto abitata da Colui che la trascende, ma si
rende presente in essa in una presenza che è quella di Dio in
quanto amore. Così che questa interiorità, abitata da Dio amo-
re, lo Spirito Santo, è una interiorità che si apre e si realizza, in
Cristo, nel rapporto con l’altro, con il prossimo, in quanto
anche l’altro a sua volta, reciprocamente, è chiamato ad aprirsi
all’interiorità del primo nell’amore.
Se così è, il locus di cui qui Agostino parla è dentro di me,
essendo al tempo stesso in mezzo, tra me e l’altro, un locus in
cui la mia interiorità è dislocata in una esteriorità raccolta dallo
Spirito Santo, permeata, abbracciata dallo Spirito Santo.

37
De Trin., VIII, 10.14: «Sed hic paululum requiescat intentio, non ut se iam existimet
invenisse quod quaerit, sed sicut solet inveniri locus, ubi quaerendum est aliquid.
Nondum illud inventum est, sed iam inventum est ubi quaeratur. Ita hoc dixisse
suffecerit, ut tamquam ab articulo alicuius exordii cetera contexamus». Traduco “intentio”
con “attenzione” nel senso pregnante in cui usa questo termine Simone Weil: come
apertura e tensione dello spirito ad accogliere in sé la luce di Dio.

35
La “trinitarietà” dell’amore, in questo locus, non è una
semplice analogia, uno specchio che rimanda a qualche cosa
d’altro, ma è partecipazione dall’interno a questa realtà che è
l’amore di Dio, partecipazione donata, certamente, ma reale
alla vita di Dio: l’essere inseriti grazie allo Spirito Santo nella
vita trinitaria. Agostino intuisce infatti che vivendo l’amore
siamo in Dio realmente, ne tocchiamo la sostanza, siamo già
nell’eterno.
b) Una seconda domanda: che cosa vuol “vedere” Agosti-
no in questo locus? Per lui è chiaro in tutto il percorso del De
Trinitate: ciò che egli vuol “vedere” è la Trinità in Sé.
Potremmo dire che il locus ritrovato – l’amore reciproco tra
i fratelli nello Spirito Santo – costituisce la pre-comprensione
vitale, vissuta nello Spirito, di Dio in Sé. Quello che Agostino
vuol fare ora è il passaggio da Dio in noi a Dio in Sé. Se si fer-
masse al Dio in noi, ancora si potrebbe rischiare d’identificare
l’alterità di Dio con questa unità con il fratello che così è speri-
mentata. In verità, tale presenza di Dio nell’amore reciproco
rimanda a Dio in Se stesso: la Trinità esercitata nel rapporto
d’amore reciproco presuppone e rinvia alla Trinità in Sé.
Trovato il luogo, ascendamus, spicchiamo il volo per “vede-
re” la Trinità in Sé. Questo movimento analogico presuppone
però un movimento catalogico. Puoi ascendere a Dio perché
Dio Trinità è disceso verso di te. Si dà una circolarità ermeneu-
tica tra Dio in noi e Dio in sé. È evidente che una volta che sei
salito a Dio – per videre Trinitatem, come dice Agostino – avrai
poi negli occhi la luce per vedere meglio la presenza di Dio in
noi, perché la tua visio l’hai definitivamente purificata e immer-
sa nel sole di Dio.
E tuttavia Agostino non riesce ad ascendere da questo locus
alla Trinitas. Non riesce a fissare lo sguardo in alto, a motivo
della pienezza di luce che allora lo investe.

16. A conclusione del De Trinitate, nel Libro XV, 6.10 Agosti-


no fa la sintesi del percorso che ha seguito:

36
Se cerchiamo di ricordarci in quale momento, nel corso di questi
libri, al nostro intelletto è cominciata a apparire la Trinità troviamo
che fu nel libro ottavo. In questo libro infatti, per quanto lo abbiamo
potuto, abbiamo tentato con le nostre analisi di innalzare l’attenzione
(intentio) dello spirito fino all’intelligenza di quella suprema e immu-
tabile natura che il nostro spirito non è. Tuttavia noi la contemplava-
mo non lontana da noi, e al di sopra di noi, (...) in modo che sembrava
stare presso di noi per la pienezza della sua luce. In essa tuttavia non
ci appariva ancora la Trinità, perché non tenevamo fermo lo sguardo
dello spirito su quello splendore per cercarla. Ma quando si giunse
alla carità, che è stata chiamata Dio nelle Sacre Scritture, il mistero si
chiarì un poco con la trinità dell’amante, dell’amato e dell’amore38.

Qui è il punto: «Ubi ventum est ad caritatem, quae in Sancta


Scriptura Deus dicta est, eluxit paululum Trinitas, id est, amans, et
quod amatur, et amor». Fino a quel momento il fulgore di una luce
irradiava, ma non si riusciva a penetrarlo con lo sguardo dell’a-
nima, anche se si intuiva che lì si dà la misura di verità che è
altra da tutte le altre. Ma quando si è tematizzata la carità, allora
la Trinità si è mostrata un po’ (paululum), dischiudendosi nella
forma di Colui che è amante, di Colui che è amato e di Colui che
è l’amore tra i due. Così Dio Trinità è stato percepito darsi nel
ritmo dell’amore, in cui c’è distinzione reale dei termini dell’a-
more che sono però al tempo stesso uno in virtù dell’amore stes-
so. Un mistero, certo, ma non oscuro bensì sovraluminoso.
Ma, c’è di nuovo un “ma”. «Quia lux illa ineffabilis nostrum
reverberabat obtutum»: quella luce ineffabile abbagliava il nostro
sguardo e l’infermità della nostra mente non riusciva a guar-
darvi dentro. Che cosa abbiamo fatto allora? Abbiamo inserito

38
De Trin., XV, 6.10: «Si enim recolamus ubi nostro intellectui coeperit in his libris
Trinitas apparere, octavus occurrit. Ibi quippe, ut potuimus, disputando erigere
tentavimus mentis intentionem ad intellegendam illam praestantissimam
immutabilemque naturam, quod nostra mens non est. Quam tamen sic intuebamur, ut
nec longe a nobis esset, et supra nos esset, non loco, sed ipsa sui venerabili mirabilique
praestantia, ita ut apud nos esse suo praesenti lumine videretur. In qua tamen nobis
adhuc nulla Trinitas apparebat, quia non ad eam quaerendam in fulgore illo firmam
mentis aciem tenebamus. Sed ubi ventum est ad caritatem, quae in sancta Scriptura Deus
dicta est, eluxit paululum Trinitas, id est, amans, et quod amatur, et amor».

37
– dice Agostino – una digressione «tra ciò che avevamo comin-
ciato a dire e ciò che volevamo dire». Ci siamo fermati, cioè,
sulla soglia, perché non riuscivamo a penetrare in questa lux
ineffabilis. Ci siamo così rivolti al nostro spirito, secondo il qua-
le l’uomo è stato fatto a immagine di Dio – l’uomo interiore – e
vi abbiamo trovato un oggetto di studio più a noi familiare per
riposare la nostra intentio affaticata. Un ripiego, dunque. «Et
ecce iam quantum necesse fuerat, aut forte plus quam necesse fuerat,
exercitata in inferioribus intellegentia ad summam Trinitatem quae
Deus est, conspiciendam nos erigere volumus, nec valemus».
Agostino aveva terminato il Libro VIII dicendo che quanto
detto era sufficiente come un primo filo a partire del quale tes-
sere l’ulteriore discorso. Ora vuole riprendere il filo: vuole
compiere il balzo, innalzarsi a contemplare la Trinità in Sé,
videre Trinitatem – e però nec valemus, non vi riusciamo!
Questo, a mio avviso, è l’esito aperto, interrotto, struggen-
te, di tutto il percorso del De Trinitate.

17. Che cos’è che ha bloccato Agostino?


Von Balthasar, nella sua Estetica39, dichiara che gli manca-
vano le categorie filosofiche per esprimere l’etica della inter-
soggettività (anzi, specificherei, della reciprocità). Agostino è
erede del pensiero greco centrato sulla sostanzialità (Aristotele
e gli Stoici) e sulla interiorità (Platone e Plotino). Lo Spirito
Santo, partendo dalla rivelazione in Gesù Cristo e dall’espe-
rienza cristiana, lo spinge ad aprirsi all’interpersonalità. Ma gli
mancano le categorie. Direi di più: non è ancora matura un’e-
sperienza dell’esistenza vissuta insieme in Cristo tale che pos-
sa diventare lo spazio in cui forgiare quelle categorie capaci
d’esprimere in termini umani plausibili la vita trinitaria.
Manca, dunque, la tematizzazione della reciprocità (anche
se è intuita) e insieme la percezione che essa si dà solo attraver-

39
Cf. H.U. von Balthasar, Gloria V: Nello spazio della metafisica. L’epoca moderna, tr. it.,
Jaca Book, Milano 1978, 31.

38
so la mediazione della corporeità. Di qui l’accento di nostalgia
escatologica con cui si chiude il De Trinitate. Il punto di fuga
della ricerca rimane l’attesa e l’invocazione di quell’esperienza
di Dio Trinità in Dio, alla fine dei tempi, in cui si realizzerà
anche la perfetta e universale reciprocità:

Parlando di Te un sapiente in un suo libro, che si chiama Ecclesia-


stico, ha detto: Molto potremmo dire senza giungere alla mèta, la somma di
tutte le parole è: Lui è tutto. Quando dunque arriveremo alla tua presen-
za, cesseranno queste molte parole che diciamo senza giungere a Te; Tu
resterai, solo, tutto in tutti, e senza fine diremmo una sola parola
lodandoti in un solo slancio e divenuti anche noi una sola cosa in Te40.

Il raggiungimento di Dio, in quanto Uno e Trino, è identi-


co al raggiungimento dell’unità con tutti, chiamati a dire una
sola parola in Dio.
La via d’invenzione dell’ontologia trinitaria però genial-
mente e definitivamente è tracciata. A partire da Gesù e dalla
rivelazione del Deus Trinitas si apre una stagione nuova del
pensiero: in cui il mistero di Dio e il mistero della creazione
sono immersi in una luce nuova per l’esperienza nuova che ne
siamo chiamati a fare insieme.
Il che segna, indubitabilmente, una nuova epoca del pen-
siero.

40
De Trin., XV, 28.51: «Sapiens quidam cum de te loqueretur in libro suo, qui
Ecclesiasticus proprio nomine iam vocatur: Multa, inquit, dicimus, et non pervenimus, et
consummatio sermonum universa est ipse . Cum ergo pervenerimus ad te, cessabunt multa ista
quae dicimus, et non pervenimus; et manebis unus omnia in omnibus : et sine fine dicemus
unum laudantes te in unum, et in te facti etiam nos unum».

39
40
Indice

Prefazione
di Vincenzo Cicero, Alfredo Gatto, Claudio Moreschini 7

Sezione patristica

Claudio Moreschini
Una substantia, tres personae. Tertulliano e gli inizi
dell’ontologia trinitaria in Occidente 13
1. Cristianesimo e filosofia greca del secolo II 13
2. Il Logos di Dio e la sua generazione dal Padre 14
3. Un abbozzo di dottrina trinitaria 19
4. Contro la dottrina del Logos: il modalismo e Prassea 20
5. Sull’eresia monarchiana 22
6. Teologia trinitaria di Tertulliano 24
7. Persona 27
7.1. ‘Persona’ nel mondo latino 27
7.2. ‘Persona’ nell’esegesi scritturistica 28
7.3. ‘Persona’ in Tertulliano 30
7.4. Il Figlio 36
7.5. Lo Spirito 38
8. Conclusioni 39

Domenico Pazzini
Origene. L’ontologia trinitaria fra economia e teologia 43
1. Percorso diacronico 43
2. Ontologia ed episteme 48

41
Vito Limone
Ousía, hypóstasis, hypokeímenon.
Il lessico trinitario del ‘Commento a Giovanni’ di Origene 55
1. Introduzione 55
2. Orat. 27,7-8: i significati platonico, stoico e cristologico
di ouèsi@a 56
3. L’uso di ouèsi@a nel ‘Commento a Giovanni’ 59
3.1 CIo 1,24,151-152 59
3.2 CIo 2,2,16 60
3.3. CIo 2,10,74 62
3.4. CIo 2,23,149 63
3.5. CIo 6,38,188 64
3.6. CIo 10,37,246 65
4. eèk th^v ouèsi@av: il caso di FrIo 9 67

Giulio Maspero
L’ontologia trinitaria nei Padri Cappadoci:
prospettiva cristologica 69
1. Introduzione 69
2. Antecedenti 70
3. Basilio 74
4. Gregorio di Nazianzo 77
5. Gregorio di Nissa 83
6. Conclusione 90

Maria Laura Di Paolo


Apofatismo e doppia ontologia: commentando alcuni passi
del De vita Moysis di Gregorio di Nissa 93

Piero Coda
«Fraterna dilectio non solum ex Deo sed etiam Deus est».
L’ontologia trinitaria nel Libro VIII
del De Trinitate di Agostino 105

Alessandro Clemenzia
Quaestio de unitate et de alteritate in Deo nella riflessione
di Agostino d’Ippona 143
1. Introduzione: l’ontologia trinitaria come orizzonte teo-logico 143
2. L’unità di Dio in Dio 147

42
2.1. L’unità divina nella comune essenza 148
2.2. L’unità divina nello Spirito Santo 151
2.3. L’unità come evento intratrinitario 155
3. Conclusioni 157

Giuseppe Girgenti
L’origine porfiriana della formula trinitaria
μία οὐσία, τρεῖς ὑποστάσεις 159

Ernesto Sergio Mainoldi


La ricezione della rivoluzione ontologica dei Padri
cappadoci: la triadologia dello pseudo-Dionigi Areopagita
e i suoi obiettivi 167
1. Problemi dell’ontologia trinitaria da Nicea ai Cappadoci 167
2. La triadologia del Corpus dionysiacum alla luce del
suo problema storiografico 168
3. La rivoluzione ontologica dei Padri Cappadoci 169
4. Fonti e scopi della triadologia pseudo-dionisiana 172

Sezione medioevale

Davide Penna
«Amor ipse intellectus est». Amore e conoscenza
in Guglielmo di Saint-Thierry 181
1. La ricerca del volto di Dio come desiderium absentis 181
2. Videre est esse: l’esigenza trinitaria 184
3. Ratio transit in amorem: la via di Davide 186
4. La sapientia come unitas spiritus 192

Andrea Tagliapietra
Gioacchino da Fiore e la musica del Salterio a dieci corde.
Grammatica e metaforica della Trinità 195

Emanuele Pili
Abbandono e relazione: l’evento della croce
nella Summa Theologiae di Tommaso d’Aquino 219

43
Mauro Mantovani
Quale “ontologia trinitaria” in Tommaso d’Aquino?
Una discussione aperta 229
1. Introduzione 229
2. Un’opera giovanile: il De ente et essentia 232
3. La prima opera “sistematica”: il Commento alle Sentenze 233
4. Un interesse costante 236
5. Alcune note conclusive 238

Marco Vannini
Divinità, Dio, Trinità in Meister Eckhart 241

Sezione moderna e contemporanea

Marco Ivaldo
L’idea della trinità nella Staatslehre di Fichte 249
1. «Vecchio» e «Nuovo mondo» 249
2. Il «regno dei cieli» 251
3. Principi di una cristologia filosofica 254
4. La visione trinitaria 258
5. Spirito dal Padre e Spirito santo 262
6. Due critiche 266

Vincenzo Cicero
Kenosis dell’Assoluto.
Del negativo nella cristologia hegeliana 269
1. Kenosis, autodifferenziazione dell’Assoluto, negatività 269
2. Kenosis e povertà di spirito nel Servo maltrattato 272
3. La kenosis del Logos e i limiti della posizione hegeliana 278

Claudia Cimmarusti
Hegel e la dialettica trinitaria tra la Scienza della logica
e la Fenomenologia dello spirito 283
1. Dal privilegio ermeneutico: identità speculativa
e «rinuncia al monismo hegeliano» 283
2. Hegel e l’ontologia trinitaria: un confronto possibile? 289

44
3. Ipotesi sull’Aufhebung 293
4. Sull’intersoggettività: dalla Fenomenologia alla Logica 296

Francesco Tomatis
Principi primi e potenze trinitarie nell’ultimo Schelling 299

Filippo Silva
‘De generatione aeterna’. La polemica di Schelling
con i ‘teologi’ (Philosophie der Offenbarung, Vorlesung XV) 313

Lorena Catuogno
Klaus Hemmerle e Antonio Rosmini: il rinnovato equilibrio
tra teologia e filosofia quale presupposto di una
ontologia trinitaria 325
1. Klaus Hemmerle. La ricerca di una nuova ontologia
a partire dal duplice apriori della teologia 326
2. Antonio Rosmini. La Trinità e la triadicità dell’essere alla
luce dei fondamenti ontologici della conoscenza naturale e
di quella soprannaturale 331
3. Conclusione 337

45

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