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Istituzioni Politiche Antico Regime

Le istituzioni politihce dell'antico regime
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LE ISTITUZIONI POLITCHE DELL’ANTICO REGIME cap 1

La natura del problema

Sintetizzare ciò che furono le istituzioni politiche dell’antico regime è un esercizio non solo molto impegnativo, ma va
fatta con molta cautela. Se ancora oggi l’espressione “istituzioni politiche” evoca più di un ambito di esperienza, per
la gran parte dell’età moderna essa rimase addirittura estranea al vocabolario dell’epoca; nonostante questo
vocabolario contemplasse sia “politica” che “istituzioni”, esso non prevedeva per molto tempo congiuntamente i
due termini, i cui significati erano all’epoca così distanti da non incoraggiare nessun abbinamento. Istituzione era
usata originariamente in sede giuridica per riferirsi all’atto di istituire (istituzione di un erede, di una carica, di una
fondazione, ecc) , mentre l’aggettivo politico , a lungo relegato nel lessico filosofico, si limitava ad esprimere la
naturale vocazione degli uomini ad unirsi tra loro in qualsiasi specie di società stabile, solo poco alla volta iniziò ad
indicare “l’arte di governare uno Stato o una repubblica”. Il fatto è che nella prima età moderna non esisteva
differenza qualitativa tra i vari generi di autorità che un soggetto poteva esercitare su un altro; es, il potere del padre
di famiglia sui servi e sui consanguinei, quello del principe sui sudditi, erano tutti percepiti come forme diverse di una
stessa sostanza, emanazioni necessarie di un ordine fissato una volta per tutte dalla natura, che assegnava a
ciascuno un suo posto nella grande gerarchia dell’essere. Invece di si inizia a parlare di “istituzioni” quando si fa
strada la sensazione che una parte dei rapporti sociale non sia qualcosa di naturale e di immutabile, ma piuttosto il
prodotto di certe convenzioni umane e del svolgersi dell’esperienza collettiva.
Nel mondo dei poteri premoderni, piuttosto che parlare di istituzioni politiche, è preferibile adottare un’altra
nozione quella di Stato, più univoca, ma anche presente fin dall’inizio del 500 nel mondo dei contemporanei, anche
se in forme diverse da quelle odierne. Anche questa scelta comporta dei rischi, prima di tutto per la tendenza diffusa
di considerare lo Stato d’antico regime come una forma embrionale e preparatoria del vero Stato moderno.

Una costituzione plurale


Punto di partenza è la celebre definizione di Stato nell’edizione francese dei Sei libri sullo Sato di Bodin 1988,
secondo cui per “Stato si intende un governo giusto che si esercita con potere sovrano su più famiglie e su tutto ciò
che esse hanno in comune fra loro.” Ad interessarci sono il riferimento al “governo giusto” e ancora prima alle
“famiglie” (menage) come fattore costitutivo dell’ordine politico. Bodin vedeva nello Stato il risultato (storico e
logico) dell’aggregazione progressiva di una moltitudine di comunità minori e nel potere centrale, l’autorità destinata
a garantire la loro convivenza tramite l’amministrazione della giustizia. Secondo Bodin, all’origine della società
umana, sta la famiglia (meglio mesnage), la casa, il nucleo politico primigenio governato dal padre. Spinte dalla
necessità di un ordine più stabile, più case si uniscono quindi in villaggi, questi a loro volta in città, fino a giungere
alla comunità più vasta di tutte che è appunto lo Stato. La nascita dello Stato non minaccia in alcun modo l’esistenza
di corpi minori, che in quanto anteriori ad esso, mantengono intatto il loro diritto all’autogoverno.
Si tratta quindi di un mondo istituzionale lontano dal nostro, a suo modo evoluto, costruito come una specie di
federazione di “amicizie”. Tradizionalmente classificati nelle due categorie delle communitates (enti territoriali di
varie taglie e livelli) e dei collegia (associazioni funzionali di carattere professionale, religioso, assistenziale, cetuale,
ecc) questi corpi di cui parliamo presentano una varietà di profili. Il dato da avere chiaro è che queste entità non
sono sole le parti costitutive dello Stato, ma anche gli elementi primigeni la cui unione ha portato all’origine effettiva
dello Stato. Lo Stato territoriale europeo, formatosi attraverso la sottoposizione di signorie indipendenti all’autorità
di un centro comune, si presenta come un mosaico di territori, ciascuno dei quali continua a mantenere la sua
identità corporativa originaria anche dopo l’assoggettamento al nuovo ordinamento, grazie a documenti giuridici che
definiscono di volta in volta lo status di ogni corpo territoriale rispetto al suo dominus.
Per esempio, uno di questi atti è quello che segna la sottomissione di una comunità maremmana (Monterotondo
Marittimo alla Repubblica di Siena nel 1359). Il contesto, caratteristico di tutta Italia centro-settentrionale, di una
estrema frammentazione politica originaria, che comincia ad essere superata solo grazie alla formazione dei primi
Stati territoriali a guida cittadina. Quando una città più forte rispetto alle altre riesce ad affermare il suo dominio su
territorio circonvicino, la sua prima premura consiste nel farsi rilasciare da chi vi è insediato una dichiarazione di
piena sudditanza. La comunità soggetta perde una serie di importanti attributi, ma rimane nella sua essenza identica

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a prima, proprio per questo è in grado di farsi riconoscere alcuni diritti precisi, come continuare ad esigere in proprio
le sue “gabelle”, di non essere tassata da Siena se non nei limiti di un certo ammontare e di conservare i propri
statuti, approvati e rivisti da magistrature senesi. Ciò che conta è che Monterotondo abbia continuato a configurarsi
come una specie di minuscolo Stato nello Stato e a governarsi con un suo sistema di consigli rappresentativi, con una
sua finanza e con un ordinamento legale distinto da quello di Siena. Questa stessa configurazione si ripeterà per altre
cento comunità che formeranno il territorio complessivo dello Stato senese e che rimarrà invariato anche quando
sarà lo Stato senese ad essere inglobata nel dominio dei Medici.
Il secondo documento del 1532, il c.d. Trattato d’Unione con il quale la Bretagna, costituente un ducato autonomo,
entra a far parte del Regno di Francia. Anche se su scala differente, anche la Francia costituisce una tipica esperienza
di Stato-mosaico, formatosi per annessioni successive di una moltitudine di domini indipendenti, spesso costituenti a
loro volta veri e propri Stati territoriali di considerevoli dimensioni e di notevole complessità organizzativa. I
rappresentanti dello Stato bretone supplicano Francesco di Valois di “unire il suddetto paese e Ducato al Regno di
Francia” affinché non sorgano più guerre, dissensi o inimicizie tra i citati paesi, osservando e conservando i “diritti,
libertà e privilegi del paese”; il re dichiarata fondata la richiesta in termini di diritto e ragione, si impegna a
mantenere le antiche consuetudini del suddetto paese e a farle rispettare da tutti i terzi, quindi senza niente
cambiare e innovare; mentre egli si impegna, con un editto poco successivo emanato in attuazione del Trattato, a
non imporre nessun prelievo forzoso ai bretoni se non a richiesta delle loro rappresentanze territoriali e a beneficio
esclusivo del loro territorio.
I due documenti, forniscono un’idea di cosa fosse la “Costituzione” in uno Stato premoderno. Non vi è dubbio che
una Costituzione di questo tipo esistesse e fosse dotata di un’efficacia non inferiore a quella odierna. Il fatto è che
essa era consegnata ad una miriade di “contratti di signoria”, nei quali ogni corpo territoriale trovava definiti i suoi
rapporti con il proprio centro. Il concetto di contratti di signoria ha finito,nel corso dell’età moderna, ad allagarsi fino
a quello di Costituzione.

Il potere come giurisdizione


Aver presente come si presentasse lo Stato premoderno, plurimo e contrattuale, è essenziale per capire come esso
esercitasse il suo potere. Lo Stato si presenta come un produttore di leggi e di altre decisioni attraverso le quali egli
imprime attorno a se il marchio della sua volontà. E’ proprio questa capacità (vera o presunta) di trasformare
l’ambiente circostante secondo un certo programma che trae la propria legittimazione. Nell’universo premoderno
era piuttosto raro che il potere centrale si presentasse ai sudditi come soggetto intenzionato. Lo Stato funzionava
come un’istanza di mediazione e come asse di equilibrio. Collocato al centro di uno spazio affollato e composito, lo
Stato era chiamato in primo luogo a conservare i diritti e i privilegi di quegli stessi corpi collettivi che si erano affidati
a lui per ottenere protezione verso l’esterno e garanzie giuridiche nei confronti dei propri simili. Non sorprende
come gran parte dei teorici dell’età moderna abbiano continuato a vedere l’arte di giudicare come essenza della
missione regale; infatti i monarchi dell’età moderna continuano ad essere rappresentati prima di tutto come giudici.
Una simile configurazione di potere era ovviamente densa di ricadute sul piano istituzionale e la sua applicazione era
limitata dalle istituzioni rappresentative a base cetuale presenti in tutta Europa.

Rappresentanze territoriali e “Stato per ceti”


Un tratto comune a molti Stati d’antico regime, almeno nella loro prima parte del loro sviluppo, è dato dal fatto che il
principe non esercita la pienezza dei suoi poteri se non tramite il concorso di apposite assemblee, tendenzialmente
rappresentative di tutto quanto il territorio dello Stato.
Diverse per denominazione, per forme organizzative interne e per rilievo istituzionale, si parla Assise, Etats, Stati
nell’area franco-italiana; Cortes nell’area iberica; Landtagen nei principati tedeschi, Parliaments nelle isole
britanniche, queste strutture nascono in un arco temporale che va dal XII al XIV secolo con un duplice fine:
1. Rendere pienamente opponibili le decisioni generali dei sovrani ai loro destinatari;
2. Abilitare i sovrani ad assumere certi atti, esulanti dalla loro normale potestà, tramite l’espression di un
formale consenso integrativo da parte dei sudditi.

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Nonostante la differenza tra queste due modalità di partecipazione all’esercizio del potere, ad audeindum (ascoltare
la parola) in un caso e ad tractandum (a trascinare) nell’altro, fin dove il monarca esercitava la propria giurisdizione,
le assemblee intervenivano per assistere e a constatare, mentre quando questo pretendeva qualcosa per se
nascevano varie forme di opposizione. Solo una precisa manifestazione di volontà da parte del popolo poteva
legittimare l’introduzione di nuove imposte a cui il principe-giustiziere originariamente non aveva alcun diritto.
Nate quindi per completare la personalità del re, le istituzioni di cui parliamo erano presentate spesso come unico
contesto, all’interno del quale l’autorità monarchica poteva raggiungere la sua piena efficacia.
Lo Stato non appare più come un variegato collage di territori e di corporazioni, ma come una entità organica,
capace di manifestare una propria volontà tramite un sistema istituzionale volto a coadiuvare il principe nella ricerca
del diritto “giusto e buono”. Lo sviluppo dello Stato in questa seconda immagine è legato alla pratica diffusa delle
consultazioni generali; in occasione delle consultazioni generali, i sudditi dei monarchi medievali, pur continuando ad
ascriversi a una moltitudine di ordinamenti particolari, scopriorono poco per volta di appartenere a gruppi sociali
trasversalmente presenti in ogni parte del regno e svilupparono un’organizzazione istituzionale diretta a difende i
comuni interessi nei confronti sia del principe che degli altri stati concorrenti.
Questi gruppi prendono il nome di “ceti”, intendendo una serie di categorie sociali definite non in base alla rispettiva
funzione economica (come sarà per le “classi” dello Stato liberale), ma in base alla titolarità dei diritti e privilegi, cioè
in una comune identità giuridica. Lo Stato per ceti, viene definita la forma politica caratterizzata dalla necessaria
compartecipazione di queste rappresentanze dei sudditi all’esercizio del potere centrale (Magna carta celebre
documento di riconoscimento dei privilegi delle rappresentanze dei sudditi).
Le rappresentanze cetuali non erano chiamate ad esprimere interessi generali, ma squisitamente corporativi (ogni
ceto si riuniva e deliberava separatamente dagli altri, consultando solo i bisogni dei propri membri); esse non
avevano il diritto di autoconvocarsi, ma si riunivano solo su iniziativa del principe, come unico interprete delle
esigenze di tutto il territorio. Quando i deputati cetuali erano designati tramite un voto, il loro mandato era vincolato
alle indicazione del corpo locale che li aveva nominati.
Complesso è il tema della struttura delle rappresenta di ceto. Alla fine del Medioevo esse contemplavano una
componente nobiliare, una cittadina ed una ecclesiastica, ciascuna delle quali contribuiva con un voto unitario (per
Stato) alla formazione della volontà complessiva dell’organo deliberante. Accanto a questa forma “tricuriale”,
riscontrabile nell’area francese, tedesca, iberica e nell’Italia meridionale, esisteva anche un modello bicamerale
tipico del mondo anglosassone, diffuso negli Stati nel Nord Europa. Il modello bicamerale, a due “bracci”, tende in
generale a rafforzare il peso politico delle assemblee cetuali rispetto al principe, concentrando in una Camera
ereditaria la nobiltà di primo rango e favorendo nell’altra Camera l’osmosi tra rappresentanti delle città e delle
piccola nobiltà rurale. La diffusione di questo tipo di strutture stimolò a cercare di esprimere il ruolo istituzionale
attraverso figure di carattere generale. La forma più fortunata di queste strutture, fu lo Stato “misto” le cui origini si
trovano in vari autori come Aristotele, Polibio e Cicerone. A loro si riconduce l’idea di frenare le tre forme “pure” di
governo (monarchia, aristocrazia, democrazia) mediante la creazione di una terza forma di potere, che le riunisse.
Riassumendo, nessuna legge poteva essere prodotta senza il concorso dei tre “Stati” del regno e che la collettività
fosse garantita dalle promesse fatte dal re dalla presenza dei nobili da un lato e dall’altra i numerosi sudditi , il cui
consenso era indispensabile per modificare qualsiasi norma precedente. Lo Stato per ceti è dunque la forma tipica
dello Stato premoderno.

Apparati pubblici e governo per magistrature


Un altro aspetto dello Stato pre-moderno che dobbiamo prendere in considerazione è la struttura e il funzionamento
del suo apparato, ossia quel complesso di uffici subalterni a cui i poteri centrali si affidavano per realizzare
autonomamente i loro scoi istituzionali. La forma di dominio statale si distingueva da quelle precedenti per un
territorio definito e un governo riconosciuto, la presenza di un apparato composto da collaboratori non più legati al
signore in base alla fedeltà personale, ma da un rapporto “d’ufficio”. La nozione di ufficio come centro astratto di
diritti e di obblighi relativo ad un certo ramo di amministrazione, inizia a profilarsi tra 500 e 600.
Negli ordinamenti statali dell’età moderna esistono ormai apparati di uffici vasti e articolati a cui corrisponde un tipo
di potere ben distinto tanto da quello devi vecchi feudatari quanto dall’autogoverno. Proiezione del potere del

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principe, questi apparati sono al servizio diretto del centro e gestiscono una porzione di quella stessa autorità regale
che il sovrano ha loro delegato in ragione dell’impossibilità da parte sua di esercitarla dappertutto personalmente. Si
tratta di una struttura organizzativa che ancora ignora la distinzione tra “amministrazione” e “giudicare”, che
diventerà di dominio comune solo all’inizio dell’800. Queste amministrazioni di cui parliamo, hanno una struttura
che potremmo definire “ad apparato indistinto”, nel senso che non si articolano seguendo una dualità tra ramo
esecutivo e ramo giudiziario, tra giudici e funzionari, ma concentrano nelle mani delle stesse persone i due generi di
attribuzione, replicando a livello subordinato quell’autorità propria dello stesso potere del re. Inoltre, il nucleo
fondamentale di questo apparato che tradizionalmente veniva chiamato con il ceto dei “magistrati”, era reclutato
ovunque all’interno di ristrette elite sociali, che finivano in un modo o in un altro ad avocare a se il controllo degli
accessi alla carriera pubblica. Da qua la prassi sulla venalità degli uffici (come in Francia e Spagna), la riserva di questi
posti a categorie particolari di sudditi. Tutti questi apparati avevano un carattere più o meno autocefalo (espressione
di Weber), nel senso che, pur derivando la loro esistenza istituzionale dal principe, tendevano a sottrarsi dal suo
controllo e a configurarsi come un pezzo di quello stesso universo corporativo che erano chiamati a governare.
Il governo per “uffici”, tendeva a coincidere con un governo “per magistrature”, basato sulla piena autonomia di
ciascuna di esse dalla fonte prima, da cui tutte derivavano l’autorità.

La forma di governo: sistemi misti, sistemi assoluti


Riassumendo le caratteristiche fondamentali di un ordinamento dell’antico regime: uno Stato composito, che si
fonda sulla conservazione dei diritti storici di ciascuna delle sue parti; un potere centrale che si legittima con la
promessa di dare a ciascuno il suo; una pratica politica basata sula consultazione degli interessati; un nuovo e
imponente sistema di uffici, corpi autonomi, che lo Stato produce nel momento stesso in cui si sviluppa.
Diversa è invece la forma di governo. All’inizio dell’età moderna il governo apicale dello Stato appare quasi ovunque
basato sulla condivisione dell’autorità normativa tra principe e rappresentanze cetuali, con l’andar del tempo questo
equilibrio tende a rompersi a favore del monarca.
Chiusa la prima fase in cui i principi avevano cercato il sostegno dei ceti per creare un primo nucleo di diritti
riconosciuti di supremazia territoriale, subentra la pratica delle consultazioni. Prima o poi, quasi tutte le assemblee
cetuali finiscono per riconoscere al monarca il diritto di pretendere un’imposta miliare permanente, svincolata da un
loro consenso specifico; questo passaggio dettato dalla necessità di rafforzare lo Stato sul piano della sicurezza e dei
rapporti esterni, segna una modifica profonda negli equilibri di vertice, che vedono ora il sovrano disporre di una
forza armata ordinaria di cui può servirsi per imporre la propria autorità anche all’interno del suo spazio politico.
La fine dell’unità religiosa dell’Occidente rende ancor più problematica la formazione del consenso all’interno di
quelle rappresentanze cetuali che dall’origini non avevano brillato ne per efficienza che per sensibilità all’interesse
generale. Da qui il diradarsi, nonché il definitivo interrompersi delle convocazioni di questi organismi (es gli Stati
generali in Francia non furono più convocati per ben 76 anni), oppure il loro sopravvivere in forme dimezzate e
fortemente indebolite.
In questo clima, segnato da una crescente sfiducia nei confronti della partecipazione sociale all’esercizio del potere,
che si fa strada il nuovo concetto del potere “sovrano”, inteso come quello che per definizione appartiene in via
esclusiva ad un unico soggetto. Secondo Bodin, chi è sovrano non deve essere in alcun modo soggetto al comando
altrui, e deve poter dare la legge ai sudditi, cancellare o annullare le parole inutili in essa contenute per sostituirle
con altre, cosa che può fare chi è soggetto alle leggi o a persone che esercitino potere su di lui.
Tuttavia bisogna non leggere in modo sbrigativo il fenomeno della decadenza dei parlamenti corporativi. L’immagine
del re resta quella di chi è chiamato ad esplicitare un diritto già dato, nonostante sia l’unico interprete; il potere
continua a incontrare limiti giuridici, consegnati a “leggi fondamentali” di natura consuetudinaria che vietano ad es al
monarca di disporre della Corona o di alienare l territorio dello Stato, leggi la cui tutela è affidata ai corpi giudiziari;
mentre Stati e parlamenti non sono derubati dall’ordinamento, ma continuano a svolgervi le funzioni, come
manifestare al principe i bisogni del popolo e di esprimere il consenso all’imposta. Verso il XVII secolo il numero delle
assemblee cetuali effettivamente funzionanti decresce paurosamente, finchè la regola diventa quella di sovrani che
governano da soli i loro popoli. Senza tralasciare che in pieno 700 restano varie regioni continentali (Ungheria,
Polonia Svezia) in cui le rappresentanze cetuali continuano a manifestare una discreta vitalità, fino ad assumere un

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ruolo prevalente nella conduzione della vita politica,, nessun governo “assoluto” arrivò mai a concepire l’idea di
scalfire i fondamenti costituzionali dello Stato di corpi. Si scopre che la forza dei corpi intermedi, come capacità di
autogoverno quotidiano e di resistenza passiva alle sollecitazioni del centro, è ancora intatta e rimarrà così fino a
quando tutto il sistema amministrativo statale continuerà ad appoggiarsi sulla ricerca della continua collaborazione
dell’universo comunitario. Piuttosto che rivali, i poteri centrali e i ceti periferici sono legati da un patto di sangue, che
solo il passaggio da una gestione giudiziaria dello Stato ad una gestione esecutiva potrà sciogliere.
Il sovrano, ne capace e neppure poco interessato a trasformare la sostanza istituzionale del sistema a cui appartiene,
nella piena età moderna, ha però compreso, rispetto ai suoi predecessori, la necessità di impegnarsi a fondo per
regolare ogni aspetto della vita collettiva, insieme al suo dovere di conservazione e difesa del popolo.
Soprattutto dopo la riforma e le guerre di religione, la funzione di governo non può svolgersi soltanto nella semplice
mediazione dei conflitti, ma necessita anche incidere sulle abitudini e sulle mentalità dei sudditi, nel rispetto del
sistema di appartenenze tradizionali. Richiamare quindi ciascuno all’osservanza dei propri doveri naturali e al
rispetto dei limiti imposti dalla ordinata convivenza, diventa, dopo l’amministrazione della giustizia, il secondo
compito fondamentale dello Stato, compito che prende il nome di “polizia”.
Vi è un importante paese europeo dove questo progetto di disciplinamento dall’alto non solo viene bloccato sul
nascere, ma dove il polo cetuale si aggiudica una vittoria sul principe da gettare le basi di quello che poi prenderà il
nome di “governo costituzionale”. In Inghilterra il confronto politico tra monarca e Parlamento, avviato nel 500 e
scoppiato negli anni 30 del 600, produce la riaffermazione del governo misto, le cui linee guida vengono confermate
nel Bill of Rights del 1688, documento in linea con la tradizione della Magna Carta, che ribadisce la natura pattizia
della Costituzione statale, basata su un preciso accordo di governo tra casa regnante e società rappresentata.
Considerata a lungo come singolare eccezione in Europa, dove i governi monocratici appaiono come i più efficienti
ed evoluti, anche la forma di governo inglese non è più esattamente conforme allo schema originario del mixed
government (governo misto). Secondo Locke, non più una Costituzione centrata sul principio medievale della
condivisione del potere tra principe e ceti. Ora in luogo del vecchio King in Parliament, vi sono due soggetti ben
distinti, un Parlamento incaricato come unico titolare del potere legislativo ed un monarca cui è riservata la funzione
esecutiva e federativa (cioè la rappresentanza dello Stato sul piano internazionale). Secondo Locke l’unico potere
supremo è quello legislativo, adesso nelle mani del “popolo”, mentre il re che ha adesso un ruolo subordinato, viene
ancora chiamato “sovrano” non perché lo sia veramente, ma in quanto immagine, simbolo o rappresentazione del
corpo politico.
Dal governo misto si è passati quindi ad un governo bilanciato, dalla condivisione del potere alla separazione dei
poteri.

Verso la crisi
Ci sarà una crisi degli assetti bipolari di potere propri dell’età moderna, dove le istituzioni rimarranno
fondamentalmente quelle di una società corporativa che non deriva dallo Stato la propria esistenza giuridica, ecco
perché si parla di unitarietà dell’antico regime, come esperienza strettamente unitaria.
A partire da Hobbes, si comincia a pensare che molti aspetti della vita sociale non siano affatto naturali, ma
dipendono da una pluralità di fattori qualificabili come “artificiali”, come il caso delle scelte soggettive, le abitudini, la
storia o la volontà sovrana. Comincia a delinearsi la nozione odierna di “istituzione”, che non comporta una
delegittimazione immediata o automatica della società di corpi che resterà sino alla fine del 700; poco alla volta però
fasce sempre più ampie di ceti acculturati accettano il fatto che gran parte dell’ordine vigente, pur presentando una
certa fisionomia, potrebbe avere anche una del tutto diversa. Alla fine del 600, il giurista francese Domar,
reinterpretando l’antica distinzione tra “leggi immutabili”, cioè naturali e “leggi arbitrarie” o positive, dichiarò che le
prime erano solo quelle relative al diritto “privato”, riguardante soltanto i rapporti tra i soggetti in quanto portatori
di Status biologici quali il sesso, l’età la capacità d’intendere e di volere, la paternità o la filiazione; mentre tutto il
resto del diritto, dipendendo soltanto dalla volontà sovrana, era ”pubblico” e riguardava l’attribuzione e l’uso di
qualificazioni come la professione, la condizione nobiliare, quella di ecclesiastico, di plebeo o di cittadino, l’ascrizione
ad una corporazione, la titolarità di un ufficio o di una dignità, ecc.

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La società per ordini sta già trascolorando in una società di classi, dove è lo stile di vita e non il diritto a definire il
ruolo sociale di ciascuno (nel diritto naturale infatti non vi è alcuna diseguaglianza tra gi uomini). Man mano che
fasce sempre più ampie di persone si troveranno a condividere questa nuova percezione, il mondo dell’antico
regime, basato sulla indefinita conservazione delle proprie differenze, apparirà una costruzione meno credibile e
giustificata. Nel 700 un pubblico criticante a carattere generalista, che trova nel consumo di massa della carta
stampata elemento coesivo di una nuova comunità sovra locale e sovra corporativa, scatenerà in pochi decenni un
processo corrosivo senza precedenti nei confronti l’ordine antico; processo che aprirà per primo la strada a quelle
riforme radicali che caratterizzeranno l’età assolutismo illuminato e che poi finirà con il ritorcersi contro lo stesso
istituto monarchico, considerato come un inaccettabile e comprensibile groviglio di poteri di identità eterogenee.
L’antico regime è l’antica amministrazione, quella che esisteva prima della rivoluzione, mentre il nuovo regime è
quella che è stata adottata dopo che getta nella disperazione gli insetti e i parassiti che si alimentavano solo degli
abusi che autorizzava l’antico regime. La nozione di antico regime, creata dai rivoluzionari per esprimere anche una
condanna dell’ordine precedente il 1789, è tale inoltre in quanto non tornerà più, in quanto ormai superata, non un
semplice modello negativo.

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