Istituzioni Politiche Antico Regime
Istituzioni Politiche Antico Regime
Sintetizzare ciò che furono le istituzioni politiche dell’antico regime è un esercizio non solo molto impegnativo, ma va
fatta con molta cautela. Se ancora oggi l’espressione “istituzioni politiche” evoca più di un ambito di esperienza, per
la gran parte dell’età moderna essa rimase addirittura estranea al vocabolario dell’epoca; nonostante questo
vocabolario contemplasse sia “politica” che “istituzioni”, esso non prevedeva per molto tempo congiuntamente i
due termini, i cui significati erano all’epoca così distanti da non incoraggiare nessun abbinamento. Istituzione era
usata originariamente in sede giuridica per riferirsi all’atto di istituire (istituzione di un erede, di una carica, di una
fondazione, ecc) , mentre l’aggettivo politico , a lungo relegato nel lessico filosofico, si limitava ad esprimere la
naturale vocazione degli uomini ad unirsi tra loro in qualsiasi specie di società stabile, solo poco alla volta iniziò ad
indicare “l’arte di governare uno Stato o una repubblica”. Il fatto è che nella prima età moderna non esisteva
differenza qualitativa tra i vari generi di autorità che un soggetto poteva esercitare su un altro; es, il potere del padre
di famiglia sui servi e sui consanguinei, quello del principe sui sudditi, erano tutti percepiti come forme diverse di una
stessa sostanza, emanazioni necessarie di un ordine fissato una volta per tutte dalla natura, che assegnava a
ciascuno un suo posto nella grande gerarchia dell’essere. Invece di si inizia a parlare di “istituzioni” quando si fa
strada la sensazione che una parte dei rapporti sociale non sia qualcosa di naturale e di immutabile, ma piuttosto il
prodotto di certe convenzioni umane e del svolgersi dell’esperienza collettiva.
Nel mondo dei poteri premoderni, piuttosto che parlare di istituzioni politiche, è preferibile adottare un’altra
nozione quella di Stato, più univoca, ma anche presente fin dall’inizio del 500 nel mondo dei contemporanei, anche
se in forme diverse da quelle odierne. Anche questa scelta comporta dei rischi, prima di tutto per la tendenza diffusa
di considerare lo Stato d’antico regime come una forma embrionale e preparatoria del vero Stato moderno.
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a prima, proprio per questo è in grado di farsi riconoscere alcuni diritti precisi, come continuare ad esigere in proprio
le sue “gabelle”, di non essere tassata da Siena se non nei limiti di un certo ammontare e di conservare i propri
statuti, approvati e rivisti da magistrature senesi. Ciò che conta è che Monterotondo abbia continuato a configurarsi
come una specie di minuscolo Stato nello Stato e a governarsi con un suo sistema di consigli rappresentativi, con una
sua finanza e con un ordinamento legale distinto da quello di Siena. Questa stessa configurazione si ripeterà per altre
cento comunità che formeranno il territorio complessivo dello Stato senese e che rimarrà invariato anche quando
sarà lo Stato senese ad essere inglobata nel dominio dei Medici.
Il secondo documento del 1532, il c.d. Trattato d’Unione con il quale la Bretagna, costituente un ducato autonomo,
entra a far parte del Regno di Francia. Anche se su scala differente, anche la Francia costituisce una tipica esperienza
di Stato-mosaico, formatosi per annessioni successive di una moltitudine di domini indipendenti, spesso costituenti a
loro volta veri e propri Stati territoriali di considerevoli dimensioni e di notevole complessità organizzativa. I
rappresentanti dello Stato bretone supplicano Francesco di Valois di “unire il suddetto paese e Ducato al Regno di
Francia” affinché non sorgano più guerre, dissensi o inimicizie tra i citati paesi, osservando e conservando i “diritti,
libertà e privilegi del paese”; il re dichiarata fondata la richiesta in termini di diritto e ragione, si impegna a
mantenere le antiche consuetudini del suddetto paese e a farle rispettare da tutti i terzi, quindi senza niente
cambiare e innovare; mentre egli si impegna, con un editto poco successivo emanato in attuazione del Trattato, a
non imporre nessun prelievo forzoso ai bretoni se non a richiesta delle loro rappresentanze territoriali e a beneficio
esclusivo del loro territorio.
I due documenti, forniscono un’idea di cosa fosse la “Costituzione” in uno Stato premoderno. Non vi è dubbio che
una Costituzione di questo tipo esistesse e fosse dotata di un’efficacia non inferiore a quella odierna. Il fatto è che
essa era consegnata ad una miriade di “contratti di signoria”, nei quali ogni corpo territoriale trovava definiti i suoi
rapporti con il proprio centro. Il concetto di contratti di signoria ha finito,nel corso dell’età moderna, ad allagarsi fino
a quello di Costituzione.
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Nonostante la differenza tra queste due modalità di partecipazione all’esercizio del potere, ad audeindum (ascoltare
la parola) in un caso e ad tractandum (a trascinare) nell’altro, fin dove il monarca esercitava la propria giurisdizione,
le assemblee intervenivano per assistere e a constatare, mentre quando questo pretendeva qualcosa per se
nascevano varie forme di opposizione. Solo una precisa manifestazione di volontà da parte del popolo poteva
legittimare l’introduzione di nuove imposte a cui il principe-giustiziere originariamente non aveva alcun diritto.
Nate quindi per completare la personalità del re, le istituzioni di cui parliamo erano presentate spesso come unico
contesto, all’interno del quale l’autorità monarchica poteva raggiungere la sua piena efficacia.
Lo Stato non appare più come un variegato collage di territori e di corporazioni, ma come una entità organica,
capace di manifestare una propria volontà tramite un sistema istituzionale volto a coadiuvare il principe nella ricerca
del diritto “giusto e buono”. Lo sviluppo dello Stato in questa seconda immagine è legato alla pratica diffusa delle
consultazioni generali; in occasione delle consultazioni generali, i sudditi dei monarchi medievali, pur continuando ad
ascriversi a una moltitudine di ordinamenti particolari, scopriorono poco per volta di appartenere a gruppi sociali
trasversalmente presenti in ogni parte del regno e svilupparono un’organizzazione istituzionale diretta a difende i
comuni interessi nei confronti sia del principe che degli altri stati concorrenti.
Questi gruppi prendono il nome di “ceti”, intendendo una serie di categorie sociali definite non in base alla rispettiva
funzione economica (come sarà per le “classi” dello Stato liberale), ma in base alla titolarità dei diritti e privilegi, cioè
in una comune identità giuridica. Lo Stato per ceti, viene definita la forma politica caratterizzata dalla necessaria
compartecipazione di queste rappresentanze dei sudditi all’esercizio del potere centrale (Magna carta celebre
documento di riconoscimento dei privilegi delle rappresentanze dei sudditi).
Le rappresentanze cetuali non erano chiamate ad esprimere interessi generali, ma squisitamente corporativi (ogni
ceto si riuniva e deliberava separatamente dagli altri, consultando solo i bisogni dei propri membri); esse non
avevano il diritto di autoconvocarsi, ma si riunivano solo su iniziativa del principe, come unico interprete delle
esigenze di tutto il territorio. Quando i deputati cetuali erano designati tramite un voto, il loro mandato era vincolato
alle indicazione del corpo locale che li aveva nominati.
Complesso è il tema della struttura delle rappresenta di ceto. Alla fine del Medioevo esse contemplavano una
componente nobiliare, una cittadina ed una ecclesiastica, ciascuna delle quali contribuiva con un voto unitario (per
Stato) alla formazione della volontà complessiva dell’organo deliberante. Accanto a questa forma “tricuriale”,
riscontrabile nell’area francese, tedesca, iberica e nell’Italia meridionale, esisteva anche un modello bicamerale
tipico del mondo anglosassone, diffuso negli Stati nel Nord Europa. Il modello bicamerale, a due “bracci”, tende in
generale a rafforzare il peso politico delle assemblee cetuali rispetto al principe, concentrando in una Camera
ereditaria la nobiltà di primo rango e favorendo nell’altra Camera l’osmosi tra rappresentanti delle città e delle
piccola nobiltà rurale. La diffusione di questo tipo di strutture stimolò a cercare di esprimere il ruolo istituzionale
attraverso figure di carattere generale. La forma più fortunata di queste strutture, fu lo Stato “misto” le cui origini si
trovano in vari autori come Aristotele, Polibio e Cicerone. A loro si riconduce l’idea di frenare le tre forme “pure” di
governo (monarchia, aristocrazia, democrazia) mediante la creazione di una terza forma di potere, che le riunisse.
Riassumendo, nessuna legge poteva essere prodotta senza il concorso dei tre “Stati” del regno e che la collettività
fosse garantita dalle promesse fatte dal re dalla presenza dei nobili da un lato e dall’altra i numerosi sudditi , il cui
consenso era indispensabile per modificare qualsiasi norma precedente. Lo Stato per ceti è dunque la forma tipica
dello Stato premoderno.
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principe, questi apparati sono al servizio diretto del centro e gestiscono una porzione di quella stessa autorità regale
che il sovrano ha loro delegato in ragione dell’impossibilità da parte sua di esercitarla dappertutto personalmente. Si
tratta di una struttura organizzativa che ancora ignora la distinzione tra “amministrazione” e “giudicare”, che
diventerà di dominio comune solo all’inizio dell’800. Queste amministrazioni di cui parliamo, hanno una struttura
che potremmo definire “ad apparato indistinto”, nel senso che non si articolano seguendo una dualità tra ramo
esecutivo e ramo giudiziario, tra giudici e funzionari, ma concentrano nelle mani delle stesse persone i due generi di
attribuzione, replicando a livello subordinato quell’autorità propria dello stesso potere del re. Inoltre, il nucleo
fondamentale di questo apparato che tradizionalmente veniva chiamato con il ceto dei “magistrati”, era reclutato
ovunque all’interno di ristrette elite sociali, che finivano in un modo o in un altro ad avocare a se il controllo degli
accessi alla carriera pubblica. Da qua la prassi sulla venalità degli uffici (come in Francia e Spagna), la riserva di questi
posti a categorie particolari di sudditi. Tutti questi apparati avevano un carattere più o meno autocefalo (espressione
di Weber), nel senso che, pur derivando la loro esistenza istituzionale dal principe, tendevano a sottrarsi dal suo
controllo e a configurarsi come un pezzo di quello stesso universo corporativo che erano chiamati a governare.
Il governo per “uffici”, tendeva a coincidere con un governo “per magistrature”, basato sulla piena autonomia di
ciascuna di esse dalla fonte prima, da cui tutte derivavano l’autorità.
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ruolo prevalente nella conduzione della vita politica,, nessun governo “assoluto” arrivò mai a concepire l’idea di
scalfire i fondamenti costituzionali dello Stato di corpi. Si scopre che la forza dei corpi intermedi, come capacità di
autogoverno quotidiano e di resistenza passiva alle sollecitazioni del centro, è ancora intatta e rimarrà così fino a
quando tutto il sistema amministrativo statale continuerà ad appoggiarsi sulla ricerca della continua collaborazione
dell’universo comunitario. Piuttosto che rivali, i poteri centrali e i ceti periferici sono legati da un patto di sangue, che
solo il passaggio da una gestione giudiziaria dello Stato ad una gestione esecutiva potrà sciogliere.
Il sovrano, ne capace e neppure poco interessato a trasformare la sostanza istituzionale del sistema a cui appartiene,
nella piena età moderna, ha però compreso, rispetto ai suoi predecessori, la necessità di impegnarsi a fondo per
regolare ogni aspetto della vita collettiva, insieme al suo dovere di conservazione e difesa del popolo.
Soprattutto dopo la riforma e le guerre di religione, la funzione di governo non può svolgersi soltanto nella semplice
mediazione dei conflitti, ma necessita anche incidere sulle abitudini e sulle mentalità dei sudditi, nel rispetto del
sistema di appartenenze tradizionali. Richiamare quindi ciascuno all’osservanza dei propri doveri naturali e al
rispetto dei limiti imposti dalla ordinata convivenza, diventa, dopo l’amministrazione della giustizia, il secondo
compito fondamentale dello Stato, compito che prende il nome di “polizia”.
Vi è un importante paese europeo dove questo progetto di disciplinamento dall’alto non solo viene bloccato sul
nascere, ma dove il polo cetuale si aggiudica una vittoria sul principe da gettare le basi di quello che poi prenderà il
nome di “governo costituzionale”. In Inghilterra il confronto politico tra monarca e Parlamento, avviato nel 500 e
scoppiato negli anni 30 del 600, produce la riaffermazione del governo misto, le cui linee guida vengono confermate
nel Bill of Rights del 1688, documento in linea con la tradizione della Magna Carta, che ribadisce la natura pattizia
della Costituzione statale, basata su un preciso accordo di governo tra casa regnante e società rappresentata.
Considerata a lungo come singolare eccezione in Europa, dove i governi monocratici appaiono come i più efficienti
ed evoluti, anche la forma di governo inglese non è più esattamente conforme allo schema originario del mixed
government (governo misto). Secondo Locke, non più una Costituzione centrata sul principio medievale della
condivisione del potere tra principe e ceti. Ora in luogo del vecchio King in Parliament, vi sono due soggetti ben
distinti, un Parlamento incaricato come unico titolare del potere legislativo ed un monarca cui è riservata la funzione
esecutiva e federativa (cioè la rappresentanza dello Stato sul piano internazionale). Secondo Locke l’unico potere
supremo è quello legislativo, adesso nelle mani del “popolo”, mentre il re che ha adesso un ruolo subordinato, viene
ancora chiamato “sovrano” non perché lo sia veramente, ma in quanto immagine, simbolo o rappresentazione del
corpo politico.
Dal governo misto si è passati quindi ad un governo bilanciato, dalla condivisione del potere alla separazione dei
poteri.
Verso la crisi
Ci sarà una crisi degli assetti bipolari di potere propri dell’età moderna, dove le istituzioni rimarranno
fondamentalmente quelle di una società corporativa che non deriva dallo Stato la propria esistenza giuridica, ecco
perché si parla di unitarietà dell’antico regime, come esperienza strettamente unitaria.
A partire da Hobbes, si comincia a pensare che molti aspetti della vita sociale non siano affatto naturali, ma
dipendono da una pluralità di fattori qualificabili come “artificiali”, come il caso delle scelte soggettive, le abitudini, la
storia o la volontà sovrana. Comincia a delinearsi la nozione odierna di “istituzione”, che non comporta una
delegittimazione immediata o automatica della società di corpi che resterà sino alla fine del 700; poco alla volta però
fasce sempre più ampie di ceti acculturati accettano il fatto che gran parte dell’ordine vigente, pur presentando una
certa fisionomia, potrebbe avere anche una del tutto diversa. Alla fine del 600, il giurista francese Domar,
reinterpretando l’antica distinzione tra “leggi immutabili”, cioè naturali e “leggi arbitrarie” o positive, dichiarò che le
prime erano solo quelle relative al diritto “privato”, riguardante soltanto i rapporti tra i soggetti in quanto portatori
di Status biologici quali il sesso, l’età la capacità d’intendere e di volere, la paternità o la filiazione; mentre tutto il
resto del diritto, dipendendo soltanto dalla volontà sovrana, era ”pubblico” e riguardava l’attribuzione e l’uso di
qualificazioni come la professione, la condizione nobiliare, quella di ecclesiastico, di plebeo o di cittadino, l’ascrizione
ad una corporazione, la titolarità di un ufficio o di una dignità, ecc.
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La società per ordini sta già trascolorando in una società di classi, dove è lo stile di vita e non il diritto a definire il
ruolo sociale di ciascuno (nel diritto naturale infatti non vi è alcuna diseguaglianza tra gi uomini). Man mano che
fasce sempre più ampie di persone si troveranno a condividere questa nuova percezione, il mondo dell’antico
regime, basato sulla indefinita conservazione delle proprie differenze, apparirà una costruzione meno credibile e
giustificata. Nel 700 un pubblico criticante a carattere generalista, che trova nel consumo di massa della carta
stampata elemento coesivo di una nuova comunità sovra locale e sovra corporativa, scatenerà in pochi decenni un
processo corrosivo senza precedenti nei confronti l’ordine antico; processo che aprirà per primo la strada a quelle
riforme radicali che caratterizzeranno l’età assolutismo illuminato e che poi finirà con il ritorcersi contro lo stesso
istituto monarchico, considerato come un inaccettabile e comprensibile groviglio di poteri di identità eterogenee.
L’antico regime è l’antica amministrazione, quella che esisteva prima della rivoluzione, mentre il nuovo regime è
quella che è stata adottata dopo che getta nella disperazione gli insetti e i parassiti che si alimentavano solo degli
abusi che autorizzava l’antico regime. La nozione di antico regime, creata dai rivoluzionari per esprimere anche una
condanna dell’ordine precedente il 1789, è tale inoltre in quanto non tornerà più, in quanto ormai superata, non un
semplice modello negativo.