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Benedetto Croce Letteratura Della Nuova Italia Vol 6

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Benedetto Croce

La letteratura della nuova Italia


Volume VI

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TITOLO: La letteratura della nuova Italia. Volume VI


AUTORE: Croce, Benedetto
TRADUTTORE:
CURATORE:
NOTE:
CODICE ISBN E-BOOK: n. d.

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza


specificata al seguente indirizzo Internet:
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COPERTINA: n.d.

TRATTO DA: {Scritti di storia letteraria e politica}


6: La letteratura della nuova Italia : saggi critici
/ Benedetto Croce. - Roma, Laterza 1974. - 391 p. ;
18 cm. - Opere di Benedetto Croce in edizione econo-
mica ; 18.

CODICE ISBN FONTE: n. d.

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 2 marzo 2024


INDICE DI AFFIDABILITÀ: 1
0: affidabilità bassa
1: affidabilità standard
2: affidabilità buona
3: affidabilità ottima

SOGGETTO:
LIT000000 CRITICA LETTERARIA / Generale

CDD:
809 STORIA, DESCRIZIONE, STUDI CRITICI DI PIU’ LET-
TERATURE
850.4 LETTERATURA ITALIANA. SAGGI
854.91 SAGGISTICA ITALIANA. SEC. 20.

DIGITALIZZAZIONE:
Claudio Paganelli, [email protected]

REVISIONE:
Paolo Alberti, [email protected]

IMPAGINAZIONE:
Claudio Paganelli, [email protected]

PUBBLICAZIONE:
Claudio Paganelli, [email protected]
Claudia Pantanetti, [email protected]
Gabriella Dodero
Liber Liber

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Indice generale

Liber Liber......................................................................4
XXXIV. LETTERATURA GARIBALDINA.............2
XXXV. MEMORIE E FANTASIE DI ARTISTI......14
XXXVI. STORIE ANEDDOTICHE E NUOVI RO-
MANZI STORICI.....................................................31
XXXVII. TRADUTTORI.........................................45
XXXVIII. SCIENZIATI-LETTERATI.....................55
XXXIX. AMATORI.................................................62
XL. PROSE..............................................................67
XLI. FILIPPO CRISPOLTI......................................75
XLII. G. SALVADORI ‒ G. FORTEBRACCI ‒ AN-
TONIETTA GIACOMELLI.....................................84
XLIII. REMIGIO ZENA..........................................96
XLIV. LIBRI DI VERSI TRA IL 1880 E IL 1900..111
XLV. SCRITTORI IN DIALETTO........................132
XLVI. E. CASTELNUOVO ‒ F. DE ROBERTO ‒
«MEMINI».............................................................141
XLVII. UGO FLERES ‒ DINO MANTOVANI....157
XLVIII. ARNALDO ALBERTI..............................166
XLIX. ROMANZI-DOCUMENTI.........................177
L. EDOARDO SCARFOGLIO..............................194
LI. ANGELO CONTI E ALTRI ESTETIZZANTI.201
LII. TEATRO..........................................................221
LIII. ANTONIO DELLA PORTA..........................232
LIV. E. A. BUTTI ‒ R. SIMONI............................243
LV. L'ULTIMO FOGAZZARO..............................257
LVI. L'ULTIMO D'ANNUNZIO............................273
LVII. L'ULTIMO PASCOLI...................................290
LVIII. ORIANI POSTUMO...................................308
LIX. L'ULTIMA ADA NEGRI...............................319
LX. ANNIE VIVANTI............................................331
LXI. GRAZIA DELEDDA.....................................346
LXII. CLARICE TARTUFARI...............................357
LXIII. ALFREDO PANZINI..................................376
LXIV. LUIGI PIRANDELLO................................393
LXV. GUIDO GOZZANO.....................................416
LXVI. FRANCESCO GAETA...............................428
LXVII. RICCARDO BALSAMO CRIVELLI.......437
LICENZA...............................................................448
INDICE DEI NOMI...............................................451
BENEDETTO CROCE

LA LETTERATURA
DELLA NUOVA ITALIA

SAGGI CRITICI
Volume VI

EDITORI LATERZA

1
XXXIV. LETTERATURA GARIBALDINA

Formo questo gruppo di «letteratura garibaldina» per


toglierne occasione a respingere ancora una volta una
comune credenza: che vi siano personaggi, azioni ed av-
venimenti che chiedono o aspettano o meritano di otte-
nere il loro cantore e poeta. Il vero è che il poeta, anche
quando pare che canti eroi e casi storici, canta sempre
qualcosa che oltrepassa e quelli e sé; e la riverenza,
l'affetto, l'ammirazione, il fervore che possono riempir-
gli il cuore per certi uomini e per le loro gesta, non ba-
stano a suscitare moto di poesia, la quale sorge soltanto
(come disse Dante) «per sé stessa mossa». Caso tipico
quello del Carducci di fronte al venerato, all'adorato
Mazzini. «Tutte le volte ‒ il Carducci lasciò scritto 1 ‒
che provai a far versi di proposito intorno a un nome
grande o ammirato, vi riuscii sempre peggio di quello
che soglia.» E sebbene egli poi si domandasse se di ciò
la ragione fosse nella stessa schiacciante grandezza de-
gli uomini grandi o nel fatto che nei tempi moderni è fi-
nita la poesia da vero, la ragione era unicamente quella
che si è detta: che la poesia non si lascia addomesticare
né condurre di qua e di là, dove si voglia e piaccia
all'arbitrio nostro, ancorché questo si atteggi a dovere
morale.
I grandi uomini e i grandi fatti aspettano altro: non la
poesia, ma la prosa, cioè la storia, che li intenda e com-
prenda e dica quel che essi veramente operarono: la sto-
1
Opere, XI, 6.
2
ria che, per altro, ha colore e calore, e che storia non sa-
rebbe, se si dimostrasse languida e frigida.
E a Garibaldi non mancarono fin d'allora storici de-
gni; e un libro assai nobile e serio è quello che scrisse
intorno a lui Giuseppe Guerzoni2, che era stato dei suoi
ufficiali, ma aveva serbato l'indipendenza del giudizio
politico, e dié un primo e particolareggiato racconto del-
la vita e dell'azione di questo cavaliere errante della giu-
stizia e della libertà, semplice, diritto, pronto sempre a
piegare ogni pensiero e ogni personale propensione
all'ideale al quale si era legato sin dalla prima giovinez-
za. Il Guerzoni interpreta assai bene l'anima ingenua in-
sieme e sagace di colui che era stato il suo generale. Co-
sí, per dare qualche esempio, parlando del rifugio di Ga-
ribaldi a San Marino, gli accade di osservare:
Chi conobbe Garibaldi sa che nessuna idea durò mai mag-
gior fatica a entrare nel suo cervello, dell'idea di legge. Egli
è morto, certamente, senza intendere, sopratutto senza essere
persuaso, che la legge è vincolo inviolabile, universale,
eguale per tutti e perenne, finché un'altra legge deliberata da
un legislatore altrettanto legittimo, non l'abbia abrogata e
mutata. Per lui non vi furono mai altre leggi che quelle della
sua coscienza; e tutte le volte che egli trovò sul suo cammi-
no la legge civile, se n'ebbe la forza, la infranse; se no, ne
subí il giogo, ma giudicandola in cuor suo una violenza, una
tirannia.
Cosí, poco piú oltre, dando notizia dei negoziati che
quelli di San Marino avevano condotto con gli Austriaci
2
Garibaldi (1882, 3a ediz., Firenze, Barbèra, 1889-91).
3
per assicurare a Garibaldi buoni patti, e del rifiuto suo
ad accettarli preferendo sottrarsi di là a provvedere da sé
a sé stesso, spiega:
Temeva, bensí, che tutto quel temporeggiamento fosse un
agguato; dubitava, è vero, che il Gorzkowsky non fosse per
ratificare la convenzione; ma il sentimento che sopra tutto lo
dominava, era la ripugnanza a scendere ai patti con lo stra-
niero. Gli eroi son fatti cosí: è sempre un affetto, spesso una
chimera, dell'anima loro che li muove; la considerazione dei
pericoli, dei danni, dei vantaggi, non entra che dopo, spesso
assai tardi, nel loro giudizio, ma non ne è mai il primo e
principale movente.
Assai felice, in ultimo, è il rapporto in cui il modo di
sentire e di concepire del Garibaldi è posto con l'ideolo-
gia dell'uomo di natura del Rousseau.
Si deve anche al Guerzoni un'eccellente biografia del
principale compagno di Garibaldi nell'impresa meridio-
nale, di Nino Bixio3, uomo fuori e sopra i partiti, «che
visse lavorando, combattendo, pensando, credendo a tre
divinità: la Patria, la Famiglia, il Mare; la patria simbolo
della giustizia, la famiglia dell'amore, il mare del lavo-
ro». Era il Bixio fiero, impetuoso, violento; e tuttavia
tutto quanto egli fece non poteva nascere senza un'inti-
ma poesia. «Unico suo svago era il teatro, ma il teatro di
musica! E non era un Saul superbo né un Filippo noiato,
che avesse bisogno di quella blandizia per guarire le ser-
pi del suo orgoglio o i vermi della sua noia; ma un ga-
gliardo che si sentiva in fondo nell'anima armonie di
3
La vita di Nino Bixio (Firenze, Barbèra, 1875).
4
pensieri soavi, e non potendoli esprimere da sé, cercava
nelle voci indefinite eteree della musica l'espressione
adeguata.» Non sono libri, questi del Guerzoni, che ab-
biano forza ed eleganza stilistica; ma dicono onestamen-
te e chiaramente quel ch'era da dire.
Né ha pretese letterarie, e tuttavia, tra i libri di memo-
rie garibaldine, uno dei piú limpidi nel racconto e uno
dei piú persuasivi nel sentimento che lo anima è I Mille
di Giuseppe Bandi4. L'autore andò a colloquio con Gari-
baldi a Genova, nei giorni in cui si preparava la spedi-
zione siciliana, e udí dalla sua voce il disegno:
Ascoltavo avidamente, e i lampi che mandavano gli occhi
di quell'uomo, mi dicevano avergli Dio ispirato nel cuore un
augurio infallibile.
Lo ricorda nell'ora in cui i volontari si raccoglievano per
imbarcarsi:
Io veggo ancora quella nobile figura ritta, in atteggiamen-
to scultorio, là sulla punta dello scoglio, sotto il quale lo
aspettavano i remiganti coi remi in aria. La brezza della sera
agitava le pieghe del suo puncho; e col cappello in mano sta-
va guardando attonito la gente che gli faceva corona e che
era muta al par di lui. Garibaldi e quelli che gli stavano at-
torno sentirono in quel momento quanto fosse grande la poe-
sia del silenzio.
In tutti i momenti, in tutti gl'incidenti dell'impresa, gli
occhi si levavano a quell'uomo:
Le proposizioni, le ipotesi, i discorsi si succedevano, si

4
I Mille: da Genova a Capua (Firenze, Salani, 1903).
5
affastellavano senza posa; ma tutti dopo aver lavorato ben
bene col cervello e colla lingua, chiudevano il libro dei so-
gni, e guardavano Garibaldi, bello, sereno, raggiante di spe-
ranza sublime, e a lui si affidavano, unico nostro faro, unica
nostra guida.
Sbarcati a Marsala, avanzandosi in terra nemica,
nell'incerto che ogni cosa avvolgeva, la sua persona sol-
tanto era la certezza:
Oramai eravamo nel ballo e bisognava ballare, e racco-
mandarsi alle sante mani e alle santissime baionette, e pregar
l'Altissimo che ci serbasse intatto l'uomo, mancando il quale
saremmo divenuti un branco di pecore smarrite, o giú di lí.
Non rida chi mi legge, perché spesso avvenne purtroppo che
un uomo solo avesse in sé tanto cuore e tanto senno e avesse
tanta fortuna dalla sua, da essere necessario, non solo a mille
ma anche a centomila, nel modo stesso che necessario è alla
terra il sole, che la scalda e la feconda. Ogni via di scampo
era chiusa dalla parte del mare; il dado era stato tratto, e Ga-
ribaldi aveva detto con ragione d'aver bruciato le sue navi.
Quel motto non accennò se non al fermo suo proposito di li-
berare la Sicilia o cader vittima generosa dell'amor di patria.
Trasibulo ed Arato non furon certo piú audaci né piú magna-
nimi.
Cosí a Milazzo, la sera dell'8 luglio, quando si annunzia
l'arrivo di lui:
Una voce segreta mi cantava nel cuore: Garibaldi è venu-
to, Milazzo è nostra.
E lo ritrae nei momenti in cui era preso dallo sdegno e
dall'ira:
6
Io non seppi mai immaginare uomo piú terribile di Gari-
baldi adirato, sebbene fosse nelle sue ire temperatissimo, e
incapace di torcere un capello al prossimo. Ma appunto
quella moderazione, quella padronanza dei suoi impeti, fa-
ceano sí che egli esercitasse una potenza misteriosa e irresi-
stibile in quanti lo vedeano adirato, perché, guardandolo e
ascoltandolo, bisognava dire: ‒ Costui tiene in briglia sé
stesso, dunque è capace di tenere in briglia centomila uomi-
ni.
E lo ritrae nella sua generosa umanità, onde lui, il terri-
bile nemico del Vaticano e del pretume, impediva deva-
stazioni di conventi e maltrattamenti di frati, mentre i
suoi scrollavano le spalle e brontolavano: «Al solito!
Quando si tratta di preti e frati, il generale è tutto com-
passione!»; ‒ o, venendone l'occasione, si metteva a
«ragionare dei preti e dei frati dabbene, che aveva cono-
sciuti in varî tempi». La sua anima profondamente cri-
stiana gioiva sempre che poteva ritrovare germi e atteg-
giamenti cristiani pur attraverso il cattolicesimo e il cle-
ro che avevano soffocato e pervertito il messaggio di
Gesú. Ripensando a quei grandi fatti ai quali aveva par-
tecipato, al passato, a Garibaldi che non era piú al mon-
do, l'autore si commoveva:
Noi non lo vedremo piú mai, bello e raggiante sul dorso
dell'indomito puledro, in mezzo al tumulto e al polverio del-
la battaglia; noi non udremo mai piú quella voce, che pareva
emula della tromba guerriera, e che spesso seppe volgere in
sorriso il pianto dei moribondi, ansanti sulle sanguinose zol-
le, e mutò in prodi i pusilli, e tutti i giovani d'Italia innamorò

7
della gloria e di Giuseppe Garibaldi5.
Alla campagna del 1866 nel Trentino si riportano al-
cuni scritti di Eugenio Checchi6, che fu poi collaborato-
re di giornali e scrisse alcuni graziosi bozzetti e novelli-
ne7. Il Checchi è, in quelle memorie composte subito
dopo i fatti, osservatore spregiudicato e realistico; e non
esita a riconoscere la superiorità, negli ordinamenti e
negli avvedimenti, del nemico che si aveva di fronte, e
non tace le ostili o fredde accoglienze che i soldati ita-
liani incontrarono in quelle popolazioni che i preti e il
governo austriaco dominavano, carezzavano ed educa-
vano. E critica il modo con cui fu condotta la guerra,
perduta per mancanza di vigore mentale e di spirito co-
struttivo in coloro che furono a capo delle forze italiane.
Che quei giovani, accorsi volontari sotto le armi, quali
che fossero i loro diversi cervelli e la diversa provenien-
za, tutti volevano battersi per l'Italia e si batterono, e
molti ne morirono. Dice il Checchi, ricordando uno di
quei combattimenti: «Compresi allora che per avere un
po' di coraggio in battaglia non ci vuol molto. Basta che
si veggano le cose camminare ordinate, basta che si veg-
ga un principio, un'ombra di direzione oculata, intelli-
gente, amorosa, e il resto viene da sé». Il libretto è scrit-
5
Sul Bandi, che poi, direttore del giornale Il Telegrafo di Livorno, fu nel
1894 assassinato da un anarchico, v. A. CRISTOFANINI, Giuseppe Bandi, vita
aneddotica (Firenze, Bemporad, 1936).
6
Memorie d'un garibaldino (1866), con una lettera all'editore di G. RIZZI
(rist.: Milano, Carrara, 1888).
7
Note e motivi (Milano, Ricordi, s. a.); Nostalgie marine (3a ed., Milano,
Carrara, 1895); Fra un treno e l'altro: bizzarrie e vagabondaggi (Firenze,
Bemporad, 1901), ecc.
8
to con spigliatezza e buon gusto, e narra e descrive con
sobria evidenza. All'ospedale, dov'è stato trasportato fe-
rito, accanto al suo letto è quello d'un tirolese che soffre
senza dir parola:
Quell'accidente di tirolese pareva in sul principio che non
avesse nulla. Dopo un quarto d'ora mi provai a interrogarlo;
ma coi cenni mi rispondeva di non capire, poi toccandosi la
gamba pareva che volesse dire che gli doleva molto ma mol-
to. Però non urlava mai: quando lo spasimo diventava insop-
portabile, stralunava tanto d'occhi, intirizziva le mani, e dal
movimento dei baffi capivo che pronunziava sottovoce qual-
che parola: pregava forse, fors'anche bestemmiava. Quei ti-
rolesi (ce ne poteva essere una dozzina) erano tutti cosí: zitti
zitti, lavoravano con gli occhi e con le mani: i nostri urlava-
no sempre come dannati.
Di lí a un'ora un paio di chirurghi s'accostarono al povero
tirolese mio vicino. Un medico francese, che balbettava un
po' di tedesco, gli fece intendere come meglio potè che biso-
gnava tagliare la gamba ferita. Il tirolese accennò con la te-
sta che facessero pure. L'operazione fu assai lunga, e dovette
essere dolorosissima, perché il disgraziato badava a morder-
si le mani e le vesti; e dagli occhi, che pareva dovessero
schizzargli di capo, venivano giú lente lente grosse lacrime,
che gli si aggrumavano sui forti mustacchi. Non urlò mai.
L'operazione finí, ed egli era svenuto.
Rimase svenuto fino a giorno: riebbe i sensi quando i pri-
mi raggi del sole illuminarono quel luogo di tante sventure;
ma una febbre violentissima gl'inaspri l'infiammazione, lo
fece peggiorare rapidamente. Domandò di un prete, lo vidi
fervorosamente pregare con le mani giunte sul petto, chiese
gli si amministrassero gli ultimi sacramenti, poi, voltosi dal-
9
la mia parte, con un sorriso di dolce mestizia sussurrò queste
due parole: «Addio, italiano!». Un'ora dopo era morto.
Il piú popolare e piú ammirato libro garibaldino che
allora venne fuori sono le Noterelle di uno dei Mille
dell'Abba, oggi piú che mai celebrate8, ma intorno alle
quali, per altro, mi sarà consentito manifestare qualche
obiezione. L'Abba si accinse all'opera con alto spirito
educativo e con sincera modestia personale. Era un
uomo di compiuta formazione morale e religiosa: «Os-
servare sempre, scoprire, combattere sempre il male ‒
dice in un altro suo libro9, ‒ il male che viene dalle cose
e dall'uomo, parlarne, farlo noto ai vicini, invogliarli di
rimediare, rimediarvi con essi, e poter dire: ‒ Ho vinto!
‒, che dolci cose per quando si sarà vecchi!... Far cre-
scere dei figliuoli migliori di noi, non molti come i men
nobili animali, ma pochi come i leoni, e aspettar l'ora di
andarsene, in piedi, lavorando fin all'ultimo, amando e
sperando!... Ecco il dovere! Se saremo infelici, non dire-
mo del mondo che è cattivo, corrotto, crudele, mai!
nemmeno quando saremo certi di non aver torto. Son
vani lamenti. È piú degno soffrire, lavorare e tacere; e,
vincendo noi stessi, vincere il mondo, la sventura e il
male». Era questo il suo proposito, e fu questa la sua
8
La prima ed. è del 1880, la definitiva del 1891. Ne hanno trattato, tra gli al-
tri, con grande amore e diligenza, due amici miei: D. BULFERETTI, G. C.
Abba (Torino, Paravia, 1924), e L. Russo, Abba e la letteratura garibaldina
dal Carducci al D’Annunzio (Palermo, Ciuni, 1933). Il Russo aveva già
dato un'edizione annotata del libro (Da Quarto al Volturno, noterelle di uno
dei Mille, Firenze, Vallecchi, 1925).
9
Uomini e soldati, letture per l'esercito e pel popolo (Bologna, 1890): nel
commiato.
10
vita.
Pure il libro delle Noterelle mi pare che sia guasto da
un errore, da un errore di nobile origine, dal proponi-
mento dell'Abba di rendere omaggio al Garibaldi con un
libro di arte e poesia, senza che alla poesia egli fosse
portato da vena spontanea e potente. Prescelse a tal fine
la forma di un diario, che si svolgesse come la sequenza
di strofe di una piccola epopea. Ma un diario, che sia
diario, non può essere scritto ed elaborato trasportando-
vi le impressioni e i ricordi e i concetti che l'animo e la
mente formano dopo che quegli avvenimenti son giunti
al termine e hanno ricevuto il risalto e l'idealizzazione
che è del passato: tra diario e canto epico, tra diario e
composizione storica, c'è contradizione. E poiché la po-
sizione in cui l'Abba si era collocato, non era naturale né
coerente, egli fu portato, senza volerlo, ad aiutarsi con
gli sforzi letterarî, di necessità artificiosi. E duplice fu
questa sua letteratura: la prosopografia ossia i ritratti fi-
sici dei personaggi, nelle linee dei loro corpi, nei tratti
del loro viso, negli atteggiamenti e nei moti, per esaltarli
in queste sembianze; e le reminiscenze e i riferimenti
alla storia e alla poesia.
Nullo caracollava bizzarro e sciolto: torso da Perseo, fac-
cia aquilina, il piú bell'uomo della spedizione. Pare uno dei
tredici che han combattuto a Barletta. Missori da Milano, ve-
stito d'una tunichetta rossa che gli cresce l'aspetto di gran si-
gnore, ha in capo un grazioso berretto rosso gallonato d'oro,
e comanda le Guide. Dolce ma tutt'animo: lui e Nullo, Euria-
lo e Niso. Quest'altro, semplice guida, colla faccia imbron-

11
ciata e piena di bontà, è il piú vecchio del drappello. Avrà
quarant'anni? È Nuvolari da Mantova, un ricco campagnuolo
che ha cospirato e combattuto, umile e costante tipo di puri-
tano da tempi di Cromwell. Gli altri tutti fior di giovani: ca-
rissimo un Manei di Trento che mi fa pensare alla Fiorina
del Grossi, tanto ha l'aria di fanciulla innocente.
Cosí, continuamente:
Io guardava le sue mani ben fatte, il suo petto ampio, il
suo collo robusto e bello, cinto d'un fazzoletto di seta, rica-
dente giú per le spalle; e pensava ai mari d'Oriente e al Cor-
saro di Byron...
Schiaffino, il Dante da Castiglione di questa guerra, era
morto, e copriva la terra sanguinosa colla sua grande perso-
na.
Qualche volta, l'inopportuna letteratura guasta l'effi-
cacia del semplice racconto:
Bixio corse di galoppo a fargli riparo col suo cavallo, e
trovandoselo dietro alla groppa, gli gridava:
— Generale, cosí volete morire?
— Come potrei morire meglio che pel mio paese? ‒ rispo-
se il generale, e scioltosi dalla mano di Bixio tirò innanzi se-
vero. Bixio lo seguí, rispettoso.
Goro da Montebonichi e Ferruccio a Gavinana! pensai tra
me, rallegrandomi del ricordo...
C'era proprio bisogno qui di tirar fuori quel Goro da
Montebonichi, e Ferruccio, e Gavinana? ‒ Qualche altra
volta, la smania di esaltare e di cercar simboli profondi
negli aspetti o nei nomi cade nel puerile, come in questo
detto su Nino Bixio:
12
Che capriccio fu quello di chiamarlo Nino! ‒ Bixio! Ecco
il nome che gli sta! Almeno rende qualcosa come un guizzo
di folgore.
Strano, l'Abba che non si mette mai in vista tra i com-
battenti, e ci lascia ignorare affatto quel ch'egli perso-
nalmente fece, si mette di continuo in vista, nel suo li-
bro, come letterato. E piú strano ancora, questo gli ac-
cadde, non per vano compiacimento letterario, ma per
desiderio di offrire sculture e altorilievi al monumento
dell'impresa garibaldina, come già le aveva dato il suo
braccio. E, conseguenza di ciò, uno spirito, cosí moral-
mente fine e austero, si trovò a fornire materia, con le
sue prosopografie garibaldine, alla fastidiosa rettorica
del Marradi (Rapsodia garibaldina) e al sensuale dilet-
tantismo del D'Annunzio (Canzone di Garibaldi).

13
XXXV. MEMORIE E FANTASIE DI ARTISTI

Le pagine sull'arte scritte da artisti (e intendiamo pit-


tori, scultori, architetti, compositori) hanno di solito una
loro particolare attrattiva per quel che ci dicono in modo
diretto e vivo delle loro esperienze in materia: sia pure
che le verità si presentino in loro non di rado in forma
unilaterale e paradossale o in forma appassionata ed esa-
gerata. L'aderenza alla realtà del produrre artistico ri-
scatta questi difetti. Non debbo certamente passare in
rassegna le memorie e gli altri scritti di questa sorta, che
furono pubblicati in Italia nella seconda metà dell'otto-
cento e che servono sopratutto allo storico e al teorico
dell'arte; ma, in via di esempio, ricorderò il discorso di
Domenico Morelli sulla scuola napoletana di pittura di
dopo il 184010, e i varî articoli e le polemiche dello scul-
tore fiorentino Adriano Cecioni11. Il Cecioni ebbe due
odî: l'odio al cosiddetto «soggetto», cioè al pregio che si
soleva attribuire all'astratto argomento di una pittura o
di una scultura, e l'odio ai critici profani, non artisti, che
sono per l'appunto quelli che, invece che all'arte, s'inte-
ressano al soggetto. Bisogna ascoltarlo quando, a propo-
sito dell'ammirazione suscitata dal Michetti, spiega al
Panzacchi che cosa sia il rapporto, cioè il valore dei
toni, e come sia da giudicare sbagliato quando viene al-
terato per renderlo piú bellino e piú seducente:
Ella capisce che il rapporto è la cosa che manca intera-
10
Edito da me nel vol. cit. piú oltre.
11
Ristampati di recente, Opere e scritti, a cura di E. Somaré (Milano, 1932).
14
mente alla pittura del Michetti, mancanza che influisce a
rendere piacevole l'aspetto di quella pittura alla gente volga-
re, la quale leggerà sempre e volentieri il Conte di Montecri-
sto, e mai o quasi mai i Promessi sposi. Le barocche esage-
razioni ed impossibilità del libro del Dumas frutteranno
sempre gran denaro e il voto della maggioranza all'autore; la
semplicità e l'onestà artistica del libro del Manzoni frutteran-
no all'autore poco denaro e il voto della minoranza fra la
gente del mestiere. Si può dire, per questo, che al Dumas
manchi il talento? No, come nessuno nega talento al Michet-
ti; ma il loro talento non può piacere né interessare a chi ama
e intende l'arte...
O quando spiega al Martini la differenza tra l'arte per
il commercio e l'arte per l'anima:
Il signor Martini non dovrebbe ignorare che si fanno due
arti, una per il pubblico ed un'altra per gli artisti; e mi sor-
prendo maggiormente che egli non sappia o finga di non sa-
pere che quella fatta per gli artisti non piace al pubblico e
quella per il pubblico non piace agli artisti: tanto è vero che
il piú mediocre di essi, quando ha un lavoraccio fra le mani,
si scusa dicendo: ‒ Questo non lo guardare, perché è roba
fatta per vendere.
Anche il Segantini12, nei frammenti che di lui riman-
gono, dice cose che hanno la loro importanza; per esem-
pio, perché ripugnasse a fare il bozzetto dell'opera:
Se io facessi il bozzetto, non farei piú il quadro. Sempre
l'artista, se è vero artista, mette in esso tutta l'anima, che poi
copiando tenta invano di fare entrare nell'opera, perché il
fuoco sacro della creazione, che fa muovere il pennello con
12
Scritti e lettere (Torino, Bocca, 1910).
15
l'ebbrezza dell'anima, è soddisfatto. Il bozzetto è come il pri-
mo bacio d'amore: questo bacio va considerato per l'opera
intera.
A lui giovava una lunga incubazione ed elaborazione in-
teriore prima di prendere in mano il pennello:
A me piace fare all'amore con le mie concezioni, carez-
zarle nel mio cervello, amarle nel mio cuore; malgrado bruci
dalla voglia di vederle riprodotte, mi mortifico e mi contento
di preparar loro un buon alloggio; intanto continuo a vederle
con gli occhi della mente, là, in quel dato ambiente, con
quelle positure, con quel dato sentimento. Insomma, io non
voglio che nel quadro si veda la fatica puerile dell'uomo, vo-
glio che il quadro sia il pensiero fuso nel colore. I fiori son
fatti cosí, e questa è l'arte divina.
Contro i monumenti veristici e prosaici, che si moltipli-
cavano sulle piazze d'Italia, metteva innanzi una propo-
sta sennata perché rispettosa della personalità dell'arti-
sta:
Un programma di monumenti dovrebbe essere concepito
cosí: «Si dispone la somma di lire... per un'opera scultoria da
dedicarsi alla memoria di...». Nel basamento dovrà trovar
posto un medaglione con l'effigie in bassorilievo e la dedica.
Ma il Segantini pensava anche ad altre cose, che non
erano l'arte: alla legge della vita e al dovere:
Non cercai mai un Dio fuor di me stesso perché ero per-
suaso che Dio fosse in noi, e che ciascuno di noi ne possede-
va e ne poteva acquistare, facendo delle opere belle, buone e
generose, e che ciascuno di noi è parte di Dio, come ciascun
essere è parte dell'universo. Non cercai altra felicità
16
all'infuori dell'anima mia, fuori della coscienza. Amai e ri-
spettai sempre la donna, in qualunque condizione ella sia,
purché avesse viscere di madre.
Telemaco Signorini mise volentieri in sonetti le sue
teorie e le sue polemiche13, su questo tipo:
Se avesse qualchedun la gentilezza
di sapermi indicar dove sta il Bello,
stia pur sicuro che con gran lestezza
vado a trovarlo e faccio di cappello.
Mi disse un paesista: ‒ È nel ruscello,
quando vi spira del mattin la brezza. ‒
E un generista: ‒ Sta sotto all'ombrello
del villan che fa a Lisa una carezza. ‒
Un classico mi disse con gran boria:
‒ Se volete saper dove si sia,
leggete i fasti della greca istoria. ‒
Ma l'esperienza, che non è follia,
m'insegnò che egli sta nella memoria
di colui che sortí la fantasia.
Scrisse anche un volumetto per fermare le immagini e
le parole degli amici coi quali aveva trascorso gran parte
della vita, della gente che incontrava nel caffè che fre-
quentava in Firenze. Sono figurine talvolta assai arguta-
mente schizzate, come questa di Beppe Morici:
Quante care memorie ridesta, per chi lo ha conosciuto,
questo solo nome! Il Morici, vissuto celibe, fu il piú buono,
cortese e affettuoso amico nostro; era però d'un'eccessiva
prudenza in tutto. Serafino Tivoli, coi suoi spiritosi parados-
13
Le novantanove discussioni artistiche (Firenze, tip. dell'Arte della stampa,
1877).
17
si, volle provargli una sera che la sua gran prudenza era in
fondo un'imprudenza grandissima. «E te lo provo. Tu, per
esempio, mi chiedi un fiammifero per accendere il sigaro,
nulla di piú naturale, ma me lo chiedi in modo che, guardan-
doti prima d'intorno, poi venendomelo a chiedere pian piano
in un orecchio, fai supporre, a qualche spia che ci osserva,
che cospiriamo contro la sicurezza dello Stato. Vedi dunque
che la tua eccessiva prudenza degenera in una imprudenza
compromettentissima.»
Sandro Conti, un bel giovanotto simpaticissimo, copiatore
delle nostre gallerie e rumoroso chiacchierone, gridava forte
una sera che il vino delle tenute granducali era buonissimo.
Beppe Morici tremava di spavento a sentir Conti nominar
cosí forte il Granduca in un luogo pubblico e lo pregava a
parlar piú piano. «E che cosa ho detto? ‒ gridava piú forte
che mai, il Conti ‒ Non l'ho mica insultato il Granduca, io,
anzi ho detto che ci ha il vino buono. Avessi detto Granduca
ladro, becco o ruffiano, tu avresti ragione...». Morici chiappò
la porta che aveva vicina e percorse la via Larga alla carriera
in tutta la sua lunghezza.
Lo scultore Giovanni Dupré, oltre un bel discorso su
Michelangelo e qualche altro scritto d'arte, compose
un'autobiografia che fu molto lodata e raccomandata14;
ma che veramente è un semplice racconto o cronaca dei
casi della sua poco drammatica vita, con certa intenzio-
ne moralistica e anche letteraria. Ne trascrivo una pagi-
na, che è anche di quelle piú lodate, nella quale racconta
come, nel soggiorno di Napoli, si ripigliasse in salute
14
Pensieri sull'arte e ricordi autobiografici (Firenze, Le Monnier, 1879; ri-
stampa a cura di G. Saviotti, Firenze, Vallecchi, 1925); Scritti minori e let-
tere, a cura di L. Venturi (Firenze, Le Monnier, 1882).
18
dopo un periodo di infermità persistente:
Era il tempo che la natura si riveste del suo verde amman-
to. In quel felice paese il suo risveglio è precoce; si direbbe
che la natura colà è mattiniera, e mentre i monti sono tutta-
via coperti di neve, su quei dolci declivi, su quelle incantate
riviere, le fogliette verdi pur mo' nate si consertano con gli
alberi fioriti dei meli, dei mandorli e dei peschi. Il venticello
della mattina fa tremolar quelle fogliette e quei fiori, e span-
de per l'aria un odor mite e soave, che vivifica il corpo e ral-
legra lo spirito.
Il risvegliarsi della natura ha un che d'armonioso, difficile
ad esprimersi; il petto par che voglia aspirare quelle aure con
insolita brama, gli occhi non si saziano di mirare quei fioretti
nascenti che si odorano con voluttà casta, come l'alito dei
nostri figli fra le braccia materne. Quell'onda misteriosa di
vita che s'insinua entro la terra e ne compenetra ogni minima
parte, che prepara il talamo e feconda i germogli dei vegeta-
li; quell'onda che nelle profondità del mare rallegra la vita
dei muti abitatori; che fa gaio e veloce il volo degli uccelli,
piú festante, piú pronto, piú eretto l'incesso degli animali
della terra; quell'onda di vita opera mirabilmente e massima-
mente sull'uomo. Ed io sentii rinascermi a nuova vita; la na-
tura mi parve piú bella e i suoi beni piú desiderabili; mi ri-
nacque la brama di vedere e di operare, la gioia di conversa-
re e l'attenzione dell'ascoltare, la temperanza nel discutere e
la cortesia nella controversia; nei quali movimenti dell'ani-
mo parmi riposta quell'arcana armonia del corpo collo spiri-
to in unione perfetta: mens sana in corpore sano.
In tutt'altro stile da questo, alquanto generico e con-
venzionale, segnò la linea della sua vita Gioacchino

19
Toma15, pittore di cui la fama è venuta meritamente cre-
scendo ai giorni nostri16, e che raccontò con semplicità e
vigore, senza enfasi e senza abbellimenti di sorta, la sua
travagliata infanzia e adolescenza di orfano e di fanciul-
lo quasi abbandonato, che alfine ritrova in sé la propria
vocazione ed entra a percorrere la sua strada. Par che
dica tacitamente a chi legge: ‒ Questa è la vita che mi è
toccata in sorte, e da questa sono venuto fuori. ‒ C'è, nel
racconto, il senso delle sofferte affannose vicende e del
riposo poi conseguito nell'ordinato lavoro: scene comi-
che e scene tragiche vi sono rese con la stessa classica
compostezza. Narra come fosse messo da un suo zio a
servizio, in un convento di frati, i quali, tra le altre opere
virtuose (siamo prima del '60, ancora nel tempo dei Bor-
boni), esercitavano il contrabbando del tabacco.
Un giorno, a questo proposito, mi accorsi che tra' frati vi
era un gran movimento. Chi correva su pe' granai, chi giú
per i corridoi, e tutti finalmente, con grossi carichi sulle
spalle, in chiesa. Non v'era in convento un sol monaco che
non prendesse parte a quel via vai precipitoso in mutande e
maniche di camicia, giacché, per far piú presto, nessuno di
essi aveva l'abito. Una spia aveva fatto sapere a que' frati
che, in quel giorno, tutto il convento sarebbe stato perquisito
per via del tabacco. Però non v'era tempo da perdere, ed
anch'io fui chiamato a portar il mio carico. Nella chiesa tutti
i quadri degli altari erano aperti, come grandi stipi, le mense

15
Ricordi di un orfano (Napoli, 1886).
16
Oltre saggi e trattazioni sparse, si sono avute intorno a lui tre monografie:
di E. Guardascione (Bari, Laterza, 1924); di M. Biancale (Roma, Novissi-
ma, 1933); di A. de Rinaldis (Milano, Mondadori, 1934).
20
degli altari stessi sollevate come coperchi di grossi cassoni,
e le colonne a spira dell'altar maggiore, girate, mostravano
come tanti scompartimenti che i monaci empivano di tabac-
co: cosí pure aperto era il cornicione ed aperta la custodia,
nella quale al di sotto doveva esservi come un pozzo, giac-
ché un monaco, che vi stava dentro, saliva e scendeva senza
posa, né mai finiva di nascondervi dentro tabacco. Quello in
foglie lo nascosero, ricordo, sotto i gradini dell'altare, ed i
macinelli li misero in giardino, in un gran fosso che ricopri-
rono di terra. I monaci avevano fatto a tempo; e quando
giunsero i soldati, che circondarono il convento, essi si fece-
ro trovare ognuno intento alle sue cose, come se non fosse
fatto loro. L'odore dell'incenso aveva vinto in chiesa l'odore
del tabacco.
Ed ecco una sua corsa su pei monti, trafugandosi, nel
1860, inseguito dai reazionari che lo cercavano, come
uno di quelli che avevano fatto parte delle bande insur-
rezionali, formatesi al seguito di Garibaldi:
Parevami d'essere già solo, e cominciai subito a discende-
re, per guadagnare piú presto che fosse possibile la valle;
ma, a un certo punto, notai delle macchie nere, e mentre, fer-
matomi, riflettevo se fossero piante od altro, intesi rumore
come di un ferro che venisse ad urtare in una pietra; e una
voce disse: «Sta' zitto». Retrocedeva appena, tutto atterrito,
che un colpo di fucile già mi veniva tirato alle spalle. Fortu-
natamente non mi colpí ed io buttatomi di bel nuovo nella
parte boscosa, scomparvi, aiutato dal buio della notte. Qui,
dopo poco, mi giunse il rumore di alcuni passi, su, per la
montagna, e, levati gli occhi, vidi delle forme di soldati stac-
carsi come macchie nere sul fondo scuro del cielo. Rimasi,

21
per un pezzo, in ascolto, e il rumore delle pietre, che rotola-
vano per la china, mi fece sicuro che quella gente andava a
riprendere il suo posto. La paura aveva preso finalmente in
me il sopravvento, cosicché in ogni tronco di albero pareva-
mi di vedere un uomo, ed in ogni ramo che si movesse, il
braccio d'un nemico, steso ad afferrarmi. Avevo paura di me
stesso e a stento e pian piano incominciai a muovermi dal
luogo dove mi trovavo, calcando prima con le mani le foglie
secche, e poi mettendovi su i piedi. Cosí io mi avanzavo;
ma, pei tanti intoppi che ad ogni passo incontravo in quel
buio perfetto, molto lentamente.
Dopo un poco, cominciò il cielo a schiarirsi, ma io che, in
quei momenti, riconoscevo nella luce il mio piú fiero nemi-
co, assistevo con indicibile angoscia all'avanzarsi del giorno,
rapido e luminoso.
La vena burlesca correva abbondante e vivace in un
altro pittore napoletano, Eduardo Dalbono 17, che fervi-
damente amava l'arte e ammirava gli artisti, ed era assai
intelligente e giudicava con acume, ma che si compiace-
va di mettere i suoi affetti e i suoi pensieri in forma stra-
vagante, per capriccio di fantasia e per poter dire, a quel
modo, senza ritegni la verità. Par che scherzi anche
quando descrive una transizione storica, il tramonto del
classicismo e l'irrompere del romanticismo; e tuttavia fa
sentire, in quei richiami ed accostamenti di nomi, in
quel barbaglio di vive figurazioni, l'anima diversa delle
due età:

17
Raccolta dei suoi scritti nel vol.: D. MORELLI-E. DALBONO, La scuola napole-
tana di pittura nel secolo decimonono ed altri scritti d'arte, a cura di B.
Croce (Bari, Laterza, 1915).
22
Ancora l'ambiente era in Italia saturo di classicismo: la
Mitologia e gli Eroi di Omero ne avevano preso possesso.
L'Hayez dipingeva, nel genere dell'Appiani e del Sabatel-
li, soggetti mitologici; il grande Alfieri signoreggiava col di-
vino Foscolo, preparando a Giacomo Leopardi la fusione
della forma classica coi sentimenti piú reali e piú intimi. Ma,
sebbene l'Italia avesse il vanto di cosí grandi artisti, pure non
era essa che doveva iniziare il vertiginoso movimento
dell'arte del cuore, dell'arte romantica, dell'arte vera.
Intanto che noi eravamo maestri dell'arte classica, che qui
chiamiamo «imperiale», dal Nord si scatenava una tempesta
che noi risentimmo con ritardo, come si sente il tuono lonta-
no quando il fulmine scoppia a sterminata distanza; pochis-
simi, presso di noi, fiutarono l'odore del temporale.
Caduto l'Impero, la forma greco-romana sembrò gelida.
L'essere umano sentí il bisogno di amare senza gl'ingombri
di quegli enormi e pesanti cimieri codati. Gli eroi di Omero
dovettero cedere il posto alle semplici creature di questa val-
le di lacrime. Al freddo e superbo marmo succede l'umile ma
confortante legname: le suppellettili italiane del seicento, co-
sí adatte alla pratica riduzione per il comodo della vita, ritor-
nano in voga. Alle stoffe di un sol colore, gravi e solenni, si
sostituiscono tessuti di seta rabescati e variopinti. I viaggi in
Oriente ed i quadri di Paolo Veronese (da Napoleone tolti a
Venezia per abbellire le sale del Louvre) operano frenetica-
mente sulla fantasia degli artisti e dei buongustai. Tutto il
movimento della moda, nei vestimenti, negli addobbi, nella
decorazione, nelle arti di ogni genere, subisce una trasforma-
zione rapidissima.
Ed eccovi Walter Scott, Chateaubriand, Lamartine, Victor
Hugo! La Francia, il cuore del mondo, anche quando non

23
giunge a creare, traduce e divulga le creazioni altrui. Shake-
speare, tradotto in francese, diviene popolare e fa dimentica-
re Alfieri e Racine. Eccovi l'«orientalista» Byron. Il sole
d'Oriente, le scimitarre damaschinate, le cupole dorate delle
moschee ed i misteri del Bosforo fanno dimenticare i severi
templi greco-romani, le tuniche di lana, gli elmi e le corazze
degli eroi di Omero.
La Grecia moderna leva un grido di dolore, che interessa
e strazia tutta l'Europa civile. Scio! Missolungi! Canaris! I
martiri della Grecia commuovono le anime gentili, le anime
tutte sono rivolte agli oppressi che si difendono e cadono; e
un senso di pietà è penetrato nel cuore dell'Europa. Il rumore
del cannone piú non inebria, anzi infastidisce. La forza bru-
ta, anche gloriosa, riceve le prime correzioni dalla sferza
della critica, che rivendica il diritto della coscienza pubblica;
pare che le arti divengano condottiere del sentimento umani-
tario e si mettano alla testa del movimento.
Addio ai dolci Orfei, alle Zelmire, alle Palmire, agli Ales-
sandri! Sorge terribile Guglielmo Tell, il fiero montanaro che
si ribella contro l'orgoglioso tiranno, e la musica penetra piú
che mai nelle anime sensibili e ne centuplica l'entusiasmo e
gli spasimi: «Anatema a Gessler!»; ed il pubblico scatta in
una rivoluzione in teatro e grida: «Anatema a Gessler!»,
mentre la soave Margherita del Goethe, la simbolica Mar-
gherita, prepara alla martire moderna Margherita Gautier, il
grido della Dame aux camélias: «Gran dio, morir sí giova-
ne!».
Géricault dipinge I naufraghi della Medusa; Delacroix, il
celebre colorista, nel 1830 La barca di Caronte ed il Massa-
cro di Scio; Paolo Delaroche, nel 1834, La Grey al patibolo
e I Girondini; Gallait, Giovanna la pazza; Vernet, Decamps

24
e Marillait viaggiano l'Oriente, ne riportano tesori di linee e
di colori, e Couture e Diaz mettono a soqquadro la tavolozza
di Paolo Veronese per creare la tavolozza iridescente della
modernità. Non è una ricostruzione, non è un progresso, non
è un'evoluzione; è una vertigine!
L'arte della pittura, fatta accessibile ai borghesi, diventa
un bisogno, una mania.
All'entusiasmo si avvicendano nel suo dire la satira e
la beffa. Protesta contro i mutamenti improvvidamente
introdotti nella disposizione dei quadri della pinacoteca
di Napoli, e passa a rassegna gli errori commessi:
Anche la cara, la deliziosa Atalanta, è stata rimossa dal
trono dedicato al maestro ed è stata collocata a luce tangen-
te. E dove è piú il mistero di quel fondo tempestoso? Cara
Atalanta, sei diventata di gesso a questa nuova luce! Tu non
ci guadagni niente, e la rimozione ha scollata la bella parete
dove eri collocata. Dunque, faresti bene a tornare al tuo po-
sto!
Ma qui interrompe le censure, fingendo di cangiare
giudizio per nuove e umane considerazioni:
Debbo dirvi, o signori, che lo scrivere di queste perturba-
zioni m'è penoso, quando penso che precisamente questi or-
rori possono essere talvolta la fonte di vita materiale a padri
di famiglia, a giovani che chiedono il pane dell'avvenire, a
qualche artista che nell'ingenuità disinvolta delle sue azioni
crede diventare in poche ore conoscitore e giudice degli anti-
chi... Tanti, senza fare qualche cosa, anche mostruosa, reste-
rebbero nella oscurità e nell'indigenza. E cosí io benedico le
belle arti, che sono sempre prodighe di benefizî, anche a chi
le maltratta.
25
Assiste all'esecuzione di un pezzo di Beethoven e ac-
canto a lui un giovane e saccente musicista, sorridendo
sprezzantemente, mormora: ‒ Bellini! ‒. Ed egli non
può frenarsi e, con sarcasmo che comprime l'ira, prende
a rispondere:
‒ Infatti, pare incredibile come questo povero spunto, fi-
glio arcade di papà Haydn, che annunzia il settimino di Bee-
thoven, abbia potuto servire a Bellini per costruire tutta
un'opera perfetta dalla testa ai piedi, come una statua di Fi-
dia, qual'è la prece alla luna della Norma. Mio egregio mae-
stro, sono i genî quelli che si sanno servire degli spunti e che
li trovano dovunque, anche nelle screpolature delle vecchie
mura, come Leonardo da Vinci, che trovò nelle crepacce di
un vecchio intonaco le linee di composizione della sua fa-
mosa battaglia, la quale serví poi di spunto a tutte le batta-
glie, fino a quelle di Rubens e di Salvator Rosa. Vi auguro,
mio buon amico, di trovare anche voi buoni spunti e di ag-
giungervi il resto!
Il buon giovane rimase un po' sconcertato da quelle cita-
zioni di Carneadi; ma io lo rimisi subito in sella, domandan-
dogli se egli conoscesse le ultime composizioni di Kirchen-
bach, un nome che inventai sul momento e che, con tutte
quelle consonanti, suonò grato al suo orecchio. Onde egli mi
rispose con dolcezza:
‒ Deliziose!
Lo ricordo nell'ultima lettura che fece all'Accademia
Pontaniana di Napoli, intorno al futurismo, al cubismo e
alle altre scuole di recente formazione, nella quale (si
era nella primavera del 1914, prima dello scoppio della
guerra) egli, pur concedendo che i tentativi possono
26
avere la loro importanza e la loro necessità e che il mon-
do è andato sempre innanzi cosí, profeticamente conclu-
deva:
Ma io veggo un punto nero in quest'orizzonte pieno di
movimento, pieno di vita. E questo punto nero, o signori, sa-
pete qual è?
È l'olimpica indifferenza del pubblico!
Sí, miei illustri colleghi! Il pubblico, il gran pubblico, non
ama niente. Ama una sola cosa: ama di correre!... di corre-
re!...
Nello stesso modo drammatico, onde rendeva le im-
pressioni dei quadri, la vita delle pennellate, ed esclama-
va e dialogava coi toni di colore, egli, descrivendo una
via di Napoli nell'orgia culinaria della vigilia di Natale,
s'indugiava a considerare e a drammatizzare la napoleta-
na «sfogliatella»:
La sfogliatella è un dolce molto semplice, direi elementa-
re. Si compone di semolino, uova, latte, zucchero nel ripie-
no, e di farina, uova, zucchero nell'involucro. La sua forma
è, in quella che si chiama frolla, simile a una grande conchi-
glia Citerea, e, in quella detta riccia, somiglia a una Citerea
striata, perché la parte che ne ricopre il contenuto è tagliuz-
zata per largo a sfettature, e con la cottura s'increspa e si sfo-
glia graziosamente.
La sfogliatella è un dolce salubre. Delizia dei bambini, ri-
sorsa dei padri di famiglia, riconciliazione degli amanti, sol-
lievo dello studente, la sfogliatella assume un carattere reli-
gioso; e quando veniva fatta dalle monache della Sapienza o
della Croce di Lucca, si elevava al piú alto grado di squisi-
tezza e diventava un dolce prelibato. La sfogliatella giunge
27
poi a un carattere eminentemente artistico ed assai commo-
vente, quando Salvatore di Giacomo (nel Mese Mariano) la
sublima nel dolore della povera madre che cerca invano la
sua creatura!
E aveva bizzarre uscite improvvise, che tuttavia non
erano mai senza significato; come quando raccontava o
inventava di un tedesco che avrebbe scoperto una mac-
china in cui suoni e colori si sarebbero messi in moto gli
uni con gli altri. Che cosa ci apprenderà questa macchi-
na? ‒ si domandava. ‒ E rispondeva con impeto:
Sapremo a quali armonie acustiche rispondono le armonie
ottiche di Tiziano, di Paolo Veronese e di Morelli; e sapremo
se il blú celeste che emana dalle armonie del preludio del
Lohengrin sia quello stesso blú celeste, che domina nella su-
blime tela dell'Assunta del Morelli!
Sono pagine, le sue, che altra volta, nel riunirle in volu-
me, io dissi, non solo parlate, ma anche meridionalmen-
te gesticolate.
Singolare figura di romantico era il pittore catanese
Calcedonio Reina, che anch'esso viveva in Napoli. Si
compiaceva nell'eseguire quadri di crudi contrasti, fra i
quali ricordo quello del cimitero dei Cappuccini in Pa-
lermo, tutto ossami polverosi e pendenti corpi disseccati
di frati nelle loro tonache, in mezzo ai quali un'elegante
coppia di sposi in viaggio di nozze si butta le braccia al
collo e si bacia. Peccato (diceva Domenico Morelli,
guardando queste curiose trovate), peccato che il buon
Reina, che ha tante belle idee, non sappia poi dipinge-

28
re18. La stessa qualità d'ispirazione ricorre nei suoi ver-
si19, che, quanto ad arte, stanno bene coi suoi dipinti.
Ecco una sua poesia o un quadro, che è dei meglio riu-
sciti, e offre un saggio della sua maniera:
Su lo sgabello, solitaria, fiera,
sta siccome terribile
tigre: gli sguardi suoi biechi corruscano
attraverso la ferrea ringhiera.
L'arcigno accusator tuona repente
dal banco. Freme, s'agita,
nella toga. Ascoltando un tanto eccidio,
stanno i giurati immobili e la gente.
Mostrasi il ferro del misfatto enorme

18
In una rassegna dell'esposizione napoletana di pittura del 1874-75, France-
sco Netti scriveva: «A proposito di quadri contestati, eccone un altro: Cuor
malato di Calcedonio Reina. Se per qualcuno è un atto di coraggio accettar-
lo, per me è un atto di giustizia parlarne. È dipinto bene? punto. È disegna-
to bene? neppure. Una scopa bianca ed una scopa nera. Ma c'è una ‘indivi-
dualità’ là dentro. L'artista voleva dir questo: una fanciulla ancor malata,
seguita dalla vecchia madre, che porta delle candele, fasciate da un nastro
violetto, va in chiesa ad offrire in voto un cuore di cera a Gesú, che solo or-
mai può guarirla: almeno ella cosí crede. Vi è sotto, come supponete bene,
una storia d'amore. Altri voti di cera péndono dalle mura e dalla inferriata
del Santuario. Ora ciò che egli voleva dire lo dice chiaramente; salta agli
occhi. Quella è una ragazza malata, quella è la chiesa di provincia coi suoi
angeli di pietra mal fatti, colla sua architettura di cattivo gusto. Voi potete
dire: non mi piace, come potete dire: quella donna là che passa per istrada
non è bella; ma non potete negare che quella donna passi per istrada innan-
zi a voi, e che quel soggetto ‘avvenga’ sulla tela. Ah! se quel quadro fosse
dipinto colla evidenza plastica e colla verità della buona pittura, e conser-
vasse il sentimento e la passione che vi domina, lo so, sarebbe un quadro
completo. Ma che è completo? Chi può dire ciò che si perde da un lato
quando si guadagna da un altro?»: F. NETTI, Critica d'arte, ed. De Rinaldis
(Bari, 1938), pp. 69-70.
19
Versi (Napoli, Pierro, 1888); La fata e le muse (ivi, 1894).
29
e corre un urlo. Pallida
apre ella il manto nero, e un bimbo roseo
nel grembo della rea sorride e dorme.
Viveva a Napoli poveramente in una stanzuccia di
una casa abitata da povera gente; ed era cosí strana e co-
sí grottesca la sua figura che egli stesso raccontava di
aver udito un giorno, attraverso la parete, una sua vicina
che, per far stare cheto un bimbo piagnucolante, lo am-
moniva con voce sommessa:
‒ Zitto! se no, chiamo il pittore!

30
XXXVI. STORIE ANEDDOTICHE E
NUOVI ROMANZI STORICI

Nella prima metà del secolo, la storiografia si era


mossa nei grandi concetti della civiltà e del progresso e
tra le grandi azioni e i solenni avvenimenti; ma quando,
dopo il 1860, venne via via digradando a erudizione e
«filologismo»20, naturale effetto fu, tra l'altro, che na-
scessero e si moltiplicassero i ricercatori di aneddoti, di
curiosità, di avventure, di intrighi, di amori e amoretti, e
di altrettali casi e cose pertinenti alla vita privata e insi-
gnificanti. Questi ricercatori si tenevano, o si dicevano,
giustificati nei rispetti della scienza, perché preparavano
e apportavano notizie e documenti alla grande raccolta
da cui (come si pensava allora assai candidamente) sa-
rebbe sorta un giorno la storia, veramente scientifica e
oggettiva, dell'Italia e del mondo. In realtà, si trattava di
dolce abbandono a un otium, non certo volgare e non
inelegante, che quegli aneddotisti non risparmiavano in-
dustrie d'indagini ed essi scrivevano per lo piú con urba-
nità e garbo; ma il culto della scienza e della critica e
quello della concretezza storica vi avevano ben poco da
vedere. Tuttavia, se lo spirito di quei lavori era alquanto
frivolo, almeno non sentiva d'impuro, come è poi acca-
duto con l'analogo abbassamento dell'interesse storio-
grafico ai nostri giorni nelle decadentistiche «vite ro-
20
Si veda per questo trapasso e per la nuova età degli studi storici la mia Sto-
ria della storiografia italiana nel secolo decimonono (3a ed., Bari, 1947),
II, 5 sgg.
31
manzate» e nell'aneddotica di cui si compongono21.
Fu allora che gli italiani si accorsero per la prima vol-
ta di possedere un tesoretto storico nelle Memorie di
Giacomo Casanova, abbondanti di appetitose notizie nel
gusto che s'era introdotto e dominava, e insieme stimolo
a estenderle e integrarle con la varia ricerca in modo da
venire a conoscere piú e meglio il mondo al quale il suo
autore appartenne, il secolo decimottavo, il secolo ama-
to e idoleggiato da quei curiosi, non per il molto che si-
gnificò nel pensiero e nell'azione, ma soltanto nel suo
aspetto, per dir cosí, casanoviano. Anch'io, tratto
dall'esempio, forse perché allora cereus in vitium flecti
come sono i giovani, e certamente non ancora risoluto
nella via che dovevo percorrere, seguii quella vaghezza;
e non posso, a dir vero, considerare del tutto perduto il
tempo che vi spesi, perché v'imparai l'arte di frugare i
piú diversi libri e documenti, che poi mi è stata utile,
non solo per meno aneddotici lavori di storia, ma finan-
che nelle indagini filosofiche, consentendomi di spazia-
re oltre le esperienze alle quali sogliono essere circo-
scritti gli studiosi di filosofia e oltre i testi che, diventati
scolastici, sono i soli conosciuti e consultati dai profes-
sori di filosofia. Mi si perdoni quest'accenno personale
che mi è venuto sotto la penna. E fui in relazione di
amicizia con quasi tutti quei ricercatori, e, tra gli altri,
con uno che era dei piú appassionati ed operosi, e viva-
ce anche ed arguto nel postillare i documenti e presenta-
re gli aneddoti che metteva fuori, il fiorentino Alessan-
21
Contro di esse, si veda in Conversazioni critiche, V2, 218-23.
32
dro Ademollo, consigliere della Corte dei conti, col qua-
le tenni un vivo carteggio, che ancora serbo, aiutandoci
a vicenda e comunicandoci a gara, trionfalmente, le no-
stre «scoperte». L'Ademollo scrisse su Roma e la socie-
tà romana, segnatamente del sei e settecento; illustrò
personaggi casanoviani; narrò le avventure di attori e
cantanti e cantatrici, e alcuni dei suoi volumi sono pia-
cevoli a leggere, come quello Una famiglia di comici
italiani nel secolo decimottavo22, cioè sulla dinastia dei
Riccoboni e dei Balletti; chiuse la sua vita con una mo-
nografia su Corilla Olimpica23 e con una monografietta
su Angelo Goudar, Un avventuriere francese in Italia
durante la seconda metà del settecento24.
Ma ogni città aveva uno o piú di cotesti specialisti di
aneddoti, e coltivavano il genere altresí quelli che erano
aperti a migliori e maggiori interessi, come Corrado
Ricci, che con non comune buon senso e buon gusto il-
lustrò alcune parti della vita e della poesia di Dante e,
diventato studioso di storia dell'arte, fu autore di mono-
grafie sul Pinturicchio, sul Correggio e su altri artisti;
ma prima trattò con agile penna aneddoti storici, e anco-
ra, già maturo d'anni, tornando a quegli anni giovanili si
dié a comporre, con lunga industria di minute indagini,
due volumi intorno a un aneddoto di cronaca criminale,
sul quale si è scritta ormai una mezza biblioteca e che
ha ispirato anche molti poeti (cosa che avrebbe assai
meravigliato la protagonista), il parricidio di Beatrice
22
Firenze, 1885.
23
Firenze, 1887.
24
Bergamo, 1891.
33
Cenci25. Il Molmenti, che aveva conoscenza di arte e di
letteratura, rientra nella stessa cerchia, non solo con le
minori sue opere, ma anche con la maggiore, che gli ac-
quistò fama, e che egli accrebbe di edizione in edizione,
La storia di Venezia nella vita privata dalle origini alla
caduta della Repubblica26, la quale non è veramente una
storia, non rispondendo ad alcun vero interessamento e
approfondimento politico e morale, ma una compilazio-
ne letteraria intorno al vario aspetto, agli edifici e alle
trasformazioni di quella città attraverso i secoli, e alla
popolazione e alle usanze e cerimonie e feste e vesti, e
arti e divertimenti, e simili. Si diceva, di libri come que-
sti, che aprivano nuove vie o fornivano un supplemento
e complemento della storia strettamente «politica» mer-
cé della «storia del costume»; ma anche qui si trattava di
un pretesto o di un'illusione per rialzare agli occhi altrui
o agli occhi proprî l'importanza di quel che si faceva.
L'ottocento attirò a sua volta una folla di aneddotisti, tra
cui Raffaello Barbiera, autore di un libro assai fortunato
sul Salotto della contessa Maffei27 e di altri volumi dello
stesso genere. Il vecchio giornalista Raffaele de Cesare
si specializzò intorno alla società napoletana sotto gli ul-
timi due Borboni, a questo fine interrogando e solleci-
tando le reminiscenze di molti dei sopravviventi, e mise
insieme cosí il libro sulla Fine di un regno28, e l'altro,
25
Milano, Treves, 1922.
26
La prima edizione fu di Torino, 1880: la quinta, illustrata, in tre grandi vo-
lumi, di Bergamo, 1910.
27
Milano, Baldini e Castoldi, 1901.
28
Città di Castello, Lapi, 1895; terza ediz. in tre volumi, ivi, 1898.
34
che in certo modo ne forma la continuazione, su Roma e
lo stato del Papa29, riguardante l'esilio colà di Francesco
II e l'ultimo decennio del potere temporale. Simile lavo-
ro, e per lo stesso tempo, compiè su Firenze capitale il
Pesci30; in Toscana la tendenza aneddotica prevalse piú
forse che in altre parti d'Italia e si estese alle cose della
vita contemporanea, come provano i volumi di Ferdi-
nando Martini, di Guido Biagi, di Leopoldo Barboni31 e
di molti altri. E qui basti, perché non è mio assunto for-
mare il catalogo della storiografia aneddotica che allora
fiorí e che tuttavia conveniva ricordare come quella che
rispondeva alle disposizioni intellettuali e alla vita paci-
fica di quel tempo e al suo generale tono letterario.
Sopra uno di cotesti aneddotisti mi soffermerò, non
già propriamente per i volumi che dié fuori in quel ge-
nere, ma per essersi in certo modo, attraverso essi, pre-
parato a comporre notevoli romanzi storici. Il friulano
Giuseppe Marcotti era stato giornalista, corrispondente
di guerra nel conflitto russo-turco; era assai versato nei
problemi dell'Europa orientale, come si vede nei suoi li-
bri sull'Austria e sui paesi della Balcania; ebbe l'animo
sempre rivolto alle popolazioni italiane irredente. Lo co-
nobbi negli anni in cui fu segretario della Dante Alighie-
ri; e quando, piú che settantenne, morí nel 1922, anch'io
ricevei il biglietto, scritto di suo pugno, che aveva la-
29
Roma, Forzani, 1907.
30
Firenze capitale (Firenze, Bemporad, 1904); dello stesso, I primi anni di
Roma capitale (ivi, 1907).
31
Del Barboni sono da ricordare: Genî e capi ameni dell'ottocento (Firenze,
1911), e anche Giosuè Carducci e la Maremma (Livorno, Giusti, 1885).
35
sciato preparato per i suoi amici e conoscenti: «Giusep-
pe Marcotti dà personalmente notizia della sua morte e
prega di accogliere con gradimento il suo saluto»32. Pa-
rallela alla sua opera di giornalista e pubblicista correva
l'altra di curioso di storia, che componeva (in collabora-
zione con l'inglese Temple Leader) una cronaca della
vita del famoso condottiere John Hawkwood o Giovanni
Acuto, come gli italiani lo chiamavano33; spogliava le
carte degli archivi del Friuli per mettere insieme una sil-
loge su Donne e monache34; scriveva una cronaca della
polizia toscana per gli anni 1814 e ’15 e un libro sulla
madre di Vittorio Emmanuele II35, e simili. Si provò an-
che nei romanzi, diciamo cosí, passionali, come Il tra-
monto di Gardenia36 e qualche altro; ma furono prove
men che mediocri, laddove assai meglio riuscí nei ro-
manzi di materia storica, come Il conte Lucio37 e I dra-
goni di Savoia38. Quest'ultimo ripercorre le vicende del-
le guerre dell'Impero coi Turchi, nella seconda metà del
seicento, e del famoso assedio e liberazione di Vienna, e
la storia passionale che dà il nesso, ‒ l'amore del prota-
gonista per la donna che gli è rapita dai corsari e che
egli ritrova alcuni anni dopo nell'assalto e saccheggio di
una città, e che poi lo tradisce, lo abbandona, e poi an-
32
Notizie intorno al Marcotti si leggono in F. FATTORELLO, Storia della lettera-
tura italiana e della cultura nel Friuli (Udine, 1929), pp. 231-35.
33
Firenze, Barbèra, 1899.
34
Firenze, Barbèra, 1898.
35
La madre del Re Galantuomo (Firenze, Barbèra, 1897).
36
Roma, Sommaruga, 1884.
37
Milano, Treves, 1882 (3a ed., 1888).
38
Milano, Treves, 1883.
36
cora gli uccide la moglie, ‒ non prende certamente
l'interessamento del lettore, come fanno invece le de-
scrizioni degli eserciti e delle azioni militari sullo scor-
cio del seicento, e dei costumi delle popolazioni gover-
nate da casa d'Austria, e dei paesi dominati dai Turchi.
Si sente nel libro la maniera delle Confessioni di un ot-
tuagenario del Nievo. Il conte Lucio, che è nello stesso
stile, si aggira all'incirca nel medesimo ambiente geo-
grafico: Venezia, Gradisca, Vienna, e in epoca di poco
posteriore, la prima metà del settecento, porgendogli
materia la vita delle case feudali del Friuli, come i Tor-
riani e gli Strassoldo, le loro prepotenze, estorsioni e
sanguinarie violenze, le dissolutezze, i delitti nell'inter-
no delle loro stesse famiglie: cose tutte di cui è degno
rappresentante il conte Lucio, un vero delinquente, che
finisce sul patibolo. L'autore si difende dal sospetto di
essersi compiaciuto nello spettacolo del male, afferman-
do il suo intendimento di «rendersi piena ragione di uno
stato sociale che spiega i successivi trionfi e le rovine
della Rivoluzione», e, sia o no riuscito in questo intento
piú generale, non si può negare che anche qui le prati-
che di vita di allora, per esempio l'educazione data ai
nobili nei collegi dei Gesuiti, le feste e cerimonie e ga-
lanterie di Venezia, le costumanze del Friuli, la società
viennese al tempo dell'imperatore Carlo VI, siano ritrat-
te con buona informazione storica e con intelligenza.
Ma l'altro romanzo, che egli scrisse assai piú tardi, La
giacobina39, e al quale non si diede alcuna attenzione,
39
Milano, Treves, 1913.
37
mi sembra tra i piú notevoli quadri storici sotto specie di
romanzo che la nostra letteratura possegga, e anche dei
piú originali per il modo con cui è condotto. Vi si dipin-
ge l'Italia nel quinquennio tra la caduta di Napoleone e
le rivoluzioni del 1820-21; e nel quadro si vede una fol-
la di figure che si muovono, e di casi e di eventi che ac-
cadono, intorno ai due personaggi principali, un napole-
tano, esule e cospiratore, e la moglie, una fiorentina di
animo forte e ardito, tacciata di «giacobina» per il suo
passato. Assai appropriata vi è la caratteristica della so-
cietà di allora nella Toscana, negli stati del Papa e nel
regno di Napoli. Per esempio, l'ufficiale papalino ma di
provenienza napoleonica è presentato con questi tratti:
Aveva portato l'uniforme francese ancora due anni dopo
Waterloo, fin che, richiamato in servizio pontificio e asse-
gnato a un reggimento, aveva dovuto sostituire sul gasco la
polpetta bianco-gialla, ignara del fuoco, alla coccarda trico-
lore, tante volte vittoriosa. ‒ Le truppe romane, dovrebbero
sentirsi umiliate di essere al comando dei preti ‒, aveva detto
Napoleone; e infatti ben pochi ufficiali sentivano il rispetto
militare per monsignor arcivescovo ministro della guerra.
Avevano il copricapo alla francese, ricca montura turchina,
cogli spallacci alla francese, e comandavano l'esercizio alla
francese, ma si vergognavano della bassa forza racimolata
fra la schiuma dei ribaldi da strada, e piú dei non pochi gra-
duati reduci dalle galere per reati infamanti. Pareva ad essi
da convento e non da caserma il regolamento per cui ogni
sera dopo l'appello si udiva nei quartieri la mormorante mo-
notonia del rosario, il sabato colle litanie per giunta; il gio-
vedí mattina, predica del cappellano; la domenica spiegazio-
38
ne del Vangelo colla Messa; nel pomeriggio, il catechismo;
ogni quindici giorni, confessione e comunione; due volte
l'anno, gli esercizi spirituali.
Il filellenismo di quegli anni si rispecchia in questo
salotto di una signora filellenica:
Erminia, ascoltando Minerva, dava un'occhiata al salotto:
mobili stile Impero, di sagome quasi greche; alle pareti mol-
te incisioni di quei soggetti di mitologia, tragedia e storia
greca, che l'arte accademica aveva reso anche troppo popola-
ri: niente di antico, ma tutto ciò che nel moderno vi era di
piú greco.
La padrona di casa era pettinata da conversazione, s'inten-
de alla greca; i capelli lisci sul vertice, ricadenti in anella
sulle tempie e sul collo; un lato del seno, una spalla e le
braccia a scoperto; un cerchio d'oro all'omero e al polso; il
piede in sandali di raso color di rosa piú che incarnato...
Ben còlto è il re delle due Sicilie, Ferdinando IV, nel
suo momentaneo camuffamento da re costituzionale, co-
sí poco concordante col suo passato, cosí poco persuasi-
vo per i suoi sudditi:
Quando egli si presentò dal balcone alla folla, tutti erano
curiosi di vedere un re, il decano e l'anziano fra i sovrani
d'Europa, quello che aveva traversato le bufere della Rivolu-
zione e dell'Impero, conservando delle due Sicilie una coro-
na per riconquistare l'altra. Ma non per merito di virtú e di
valore: la sua figura rappresentava la volgarità dell'animo e
delle abitudini: il naso abnorme, lungo, grosso, piú spiovente
che aquilino, piú plebeo che borbonico, giustificava il so-
prannome di Re Nasone e dava un carattere burlesco alla ca-
nizie che per l'età settuagenaria sarebbe stata veneranda;
39
neanche al Canova era riuscito scolpirlo, né al Camuccini di-
pingerlo in dignità: la trascuratezza di un dimesso vestito da
viaggio, col cappello di felpa basso e tondo, e l'abbattimento
della persona nella stanchezza degli anni, completavano al
pubblico l'impressione di un rústego da palcoscenico.
Altresí sono osservate bene le diverse tendenze dei
diversi cervelli nelle conversazioni e discussioni dei co-
spiratori e carbonari, alcuni temperati, altri radicali:
— Giacché siamo in tema di propaganda, ‒ disse lo scul-
tore fisionomista, ‒ se vogliamo conquistare il popolo alla
causa della libertà, nel quadro simbolico bisogna far entrare
gl'interessi del popolo: coll'Indipendenza e colla Costituzio-
ne ci vuole anche una buona legge agraria, che abolisca la
proprietà per metterla in comune.
Lo studente romagnolo era dello stesso parere, e non esitò
a formularlo in termini radicali e sonori come piace ai giova-
ni: ‒ La proprietà particolare è un attentato contro i diritti del
genere umano.
— Voialtri vorreste sconvolgere il mondo ‒ oppose
l'avvocato, ‒ mentre si tratta di risuscitare l'Italia; vorreste
proporre al popolo una legge agraria mentre il popolo non
domanda che da mangiare a ufo e da guadagnare quattrini
senza fatica... Intanto, con queste fisime, la reverenda Car-
boneria andrebbe in fumo. Quasi tutti i cugini sono della
classe benestante, e colla libertà sperano di stare anche me-
glio.
Ma lo scultore: ‒ Risuscitar l'Italia vuol dire un'insurre-
zione...
— O una rivoluzione ‒ rettificò lo studente.
— L'una e l'altra non si fanno senza il popolo.
E l'avvocato: ‒ La turba deve fare la sua parte, ma deve
40
stare al suo posto di bassa forza... Reclutata fra gli artigiani,
guidata dagli osti, non può avere un concetto direttivo; l'opi-
nione pubblica che si forma colle chiacchiere, sulle pancacce
e sui muricciuoli, non può essere considerata...
E, oltre queste caratteristiche storiche, c'è, nel roman-
zo, molto movimento e azione drammatica, come nel
racconto della fuga del protagonista di là dal confine
pontificio, aiutato dagli sparsi fratelli carbonari e dai
loro amici e fedeli. Anche i tocchi paesistici sono felici.
In quella fuga, il carbonaro attraversa Terni e vede dalla
specula la famosa cascata:
Fermi lassú, sembra di cadere colle acque nel vortice e
con esse evaporare dall'abisso; e pare un sogno la realtà im-
mobile di quel podio, modesto e semplice esagono arcato sui
pilastri che sostengono il tetto, e fornito di altrettanti sedili
angolari. Piú che dominare lo spettacolo, in quel punto si è
investiti dalla ridda terribile di acque e di spume, di vapori e
di nebbie che si ammassano in nuvole. Queste si risolvono
continuamente in pioggia minuta, rapita dal vento e lanciata
all'assalto delle nere pareti rocciose dove si formano candidi,
lattei, cristallini rigagnoli che si diluiscono in veli e conflui-
scono in fiumicciattoli riconducenti le acque al gioco inesau-
ribile su cui danzano le iridi orizzontali, verticali, a segmenti
di circolo, in molteplice vicenda; si è immersi nella cascata
poco meno delle piante che vi stanno in perpetuo battesimo
di alluvione.
Del pari, la fuga della «giacobina» dal carcere di
Roma, col bambino che le muore per via, è raccontata
con forza ed evidenza.
Un sospiro di liberazione esce dal petto del lettore,
41
che ha rivissuto quegli anni di vita italiana, quando,
dopo la rivoluzione, i due coniugi partono per l'Ameri-
ca, per l'America ancora circonfusa dal ricordo di Wa-
shington e di Lafayette:
C'era dunque sulla faccia della Terra un paese dove né go-
vernatori, né vescovi, né poliziotti, né preti, né birri, né cara-
binieri impedivano di vivere e costringevano a cospirare!
L'altro romanzo, Le spie40, descrive l'ambiente forma-
tosi dopo il '21 con lo spionaggio pretesco-austriaco e le
sètte sanfedistiche dei «concistoriali» e altrettali; e coi
tipi corrispondenti della società di quel tempo. Ma, seb-
bene abbia parti buone, è inferiore al precedente, perché
si squilibra nel racconto di passioni perverse ed abbiette
e, non conseguendo la coerenza del romanzo passionale,
smarrisce altresí quella del romanzo storico.
Anche, per tornare agli aneddotisti propriamente det-
ti, un ricordo merita qui uno scrittore pugliese, poco
noto nella restante Italia e ora a torto dimenticato, che,
scrivendo aneddoti, li innalzò col sentimento, col pen-
siero, con la cultura a un grado a cui gli altri solitamente
non seppero o non si sentivano di portarli. Armando Pe-
rotti41 si provò da giovane nei versi42 sotto l'efficacia del
Carducci, del Praga, dello Stecchetti, del Marradi, e non
lasciò di comporne, ma piú radi, nella maturità; ma non
vi segnò un'impronta propria, sebbene qua e là indovi-
nasse qualche nota. Ecco la prima strofa di una canzone
40
Milano, Treves, 1922.
41
Nato in Bari nel 1865, morto nel 1924.
42
Sono raccolti nel volume: Poesie (Bari, Laterza, 1926).
42
sulla piccola città di Castro in terra d'Otranto, distrutta
dai Turchi nel cinquecento e ora borgo di pescatori:
L'alba: un'alba di spiriti e di cose.
Or tutti i pianti che la notte esprime
volvonsi in tenui nebbie luminose.
Al trepido spirar dell'ôre prime
l'ali rasciuga l'immortal speranza
e tenta il vol da intaminate cime.
Salirà, salirà, come piú avanza
il giorno, i gradi dell'eterna spera,
tanto alzerà quant'ella ha di possanza...
Ma stanca a terra ricadrà stasera.
Ma le evocazioni storiche che sono materia precipua
dei suoi versi, trovarono la forma loro nei due volumi di
Bari ignota43 e di Storie e storielle di Puglia44, che sono
dei migliori tra quelli dello stesso genere che si pubbli-
carono allora, esatti nella erudizione, storicamente intel-
ligenti, letterariamente sobri e di buon gusto. L'autore
non si restringe agli aneddoti curiosi o passionali, ma fa
conoscere atti e ordinamenti pubblici e costumanze con
bella padronanza della storia antica e medievale non
meno che delle condizioni modernissime, e acconcia-
mente tratta di arte. Si vedano, per esempio, quelli inti-
tolati: Il turco in Italia, sulla conquista turca di Otranto
e la riconquista napoletana; Per una dimenticata, Isabel-
la d'Aragona; Un feudo borgiano; San Nicola; e anche,
La greca di Trani, storia di un delitto per amore che ac-

43
Trani, Vecchi, 1908.
44
Bari, Laterza, 1923.
43
cadde e fu espiato nella Firenze del cinquecento e a lun-
go risonò nelle cantilene popolari d'Italia. Non so vera-
mente quali altre regioni d'Italia abbiano avuto la fortu-
na di un illustratore che all'affetto per le memorie della
sua regione congiungesse un pari cuore umano e un cosí
nobile intelletto.

44
XXXVII. TRADUTTORI

In queste memorie letterarie non si possono del tutto


trascurare alcuni traduttori in verso che ebbero reputa-
zione e stima, come Michele Kerbaker, che molto tra-
dusse piú specialmente dall'epica e dalla drammatica in-
diana, Italo Pizzi, che mise per intero in versi sciolti il
Libro dei re; il Goracci, un canonico toscano di Foiano,
che spese la sua vita a perfezionare una sua versione in
ottave delle Metamorfosi di Ovidio; Augusto Franchetti,
che dette la prima degna traduzione italiana di Aristofa-
ne: per accennare ai principali.
A me sembra che permanga nel modo di esaminare e
giudicare le traduzioni un errato concetto, che si conver-
te in una ingiustizia di fatto, se ingiusto è pretendere
l'impossibile, cioè che le traduzioni debbano adeguare i
testi originali. Ora, nessuna traduzione, per eccellente
che sia, adegua mai il testo originale, che è sempre
eguale soltanto a sé stesso: ogni traduzione è, di necessi-
tà, una variazione. Dinanzi a lavori di traduzione, solo
due disamine son da fare: l'una di carattere ermeneutico,
cioè se il traduttore abbia inteso e compreso il testo ori-
ginale, la quale comprensione e intelligenza è la pre-
messa della variazione che egli compie, necessaria ma
non però arbitraria e senza legge. L'altra, di mero carat-
tere artistico, cioè se il traduttore abbia dato alla sua
opera uno stile, mettendovi la sua personalità, piú o
meno affine a quella del poeta originale, piú o meno
energica, piú o meno invadente, ma, insomma, una per-
45
sonalità e uno stile, senza di che una traduzione riesce
un prodotto meccanico e frigido. È chiaro che, se questa
seconda disamina mena a un giudizio negativo, niente
giova l'intelligenza e la comprensione che il traduttore
possedeva del testo; laddove, se piú o meno negativa è
la conclusione della prima disamina, l'opera può per al-
tro affermare e serbare un suo pregio artistico, se anche
in tal caso si avvicini o rientri in quelle di libera fanta-
sia, che non muovono da determinata interpretazione di
testi. Comunque, uno studio delle traduzioni in quanto
opere d'arte dovrebbe mettere in rilievo, soprattutto, la
personalità dei traduttori, che si esprime nella parola e
nel ritmo, cioè il loro modo di sentire.
Il Kerbaker, per esempio, era un letterato nel senso
piú eletto della parola, e, quantunque tenesse propria-
mente cattedra di linguistica indoeuropea e fosse specia-
lista nel sanscrito, possedeva una larghissima conoscen-
za delle letterature e lingue antiche e moderne, e un'otti-
ma educazione umanistica, o rettorica che si dica,
nell'arte dello scrivere italiano. Scrisse molte memorie
in materia filologica e critica, perfettamente informate,
giudiziose anche, ma non molto originali né per indagini
né per pensiero direttivo; e spiccatamente letteraria era
la fantasia che portava nei suoi testi indiani, onde gli
episodi del Mahâbhârata gli si dispiegavano in ottave di
fattura ariostesca. Si sarebbe detto che egli avesse
nell'anima piú l'Ariosto e gli altri italiani che non i poeti
indiani. Cosí nel bellissimo episodio di Sâvitri45, che ha
45
Sâvitri (Napoli, Ricciardi, 1908).
46
già dato la sua parola di sposa quando il dio le svela che
il suo sposo deve morire nel termine di un anno, la gio-
vinetta, al padre e ai suoi che vogliono distoglierla dalle
nozze, risponde:
O di breve o di lunga vita sia,
o di virtú sia ricco, o pur sia privo,
poiché scelto ho uno sposo, mai non fia
ch'io d'altro vada in cerca, mentre io vivo.
La mente fissa il suo pensier da pria,
poi questo alla parola dà motivo,
la qual coll'opra indi compir si degge;
e a me la mente mia sola dà legge:
che è proprio un modo di tradurre opposto a quello che
consigliava lo Chateaubriand, a quello rude, che faccia
sentire il sapore dell'esotico e del lontano. Si ascolti
un'altra ottava:
Rinfrescano le membra alla stess'onda
il Ciàndale e il Bramano, il folle e il saggio,
e va a posarsi sulla stessa fronda
il pavon gaio ed il falcon selvaggio,
e in una barca alla medesma sponda
il mercante e il guerrier fanno passaggio:
tu pur sei onda e fronda e navicella,
per tutti a un modo grazïosa e bella.
Nel dramma della cortigiana Vasantesenâ46, cortigiana
per nascita, che, dopo lunghi travagli, per effetto di una
rivoluzione, ottiene il grado di donna libera, col diritto
alle nozze legittime, egli adopera, con somma virtuosità,
46
Il carretto d'argilla, dramma indiano di Çûdraka (Arpino, Fraioli, 1908).
47
i metri piú varî. Vasantesenâ fugge, inseguita dalla gente
del re, e il paggio le canta:
Oh! perché fuggi sí paurosa
qual dell'airone la dolce sposa,
che il rombo appresso del tuon già senta?
E, mentre fuggi, cosí sgomenta,
tal gli orecchini sulle percosse
guance ti danno suono, qual fosse
il tintinnio che da mal tocca
arpa un allegro giullar ne scocca.
E poi riflette in un'ottava:
La cortigiana è grata compagnia
per i giovani amanti e belli e brutti;
è una pianta cresciuta in sulla via,
che porge a chi ne vuole e fiori e frutti;
e merce ell'è che i comprator' desia,
e a buon prezzo accattar lecito è a tutti;
a chicchessia, ti piaccia o ti dispiaccia,
devi farla del par la bella faccia!
Del resto, il Carducci a ragione ammirava nel Kerba-
ker «la larga e forte dottrina e la corretta e varia facilità
e felicità del verseggiare italiano»47.
Delle traduzioni del Pizzi, recherò come saggio quel
luogo di Firdusi48, in cui il principe Eràg, mite e buono,
al fratello che lo odia sapendolo dal padre prescelto alla
corona, dice:

47
Opere, IV, 362.
48
Il libro dei re, edizione integra in otto volumi, Torino, 1886-1889; abbre-
viato e riordinato, ivi, 1915.
48
Non vogl'io corona
di monarca, non trono o di grandezza,
famoso nome e non le iranie genti.
Irania non chiegg'io, non d'Occidente
e non di Cina i regni o la possanza,
non della terra l'ampia superficie.
Grandezza umana a cui l'ombra conséguita,
degna è di pianto, e se pur l'alto cielo
tu cavalcassi mai, pensa che dura
pietra un dí sia sostegno al capo tuo
entro la tomba. Che se a me fu dato
d'Irania il trono, di quel trono omai
e di quel serto sazietà mi tocca.
Ond'è ch'io lascio a voi serto e suggello
Imperïal, pur che da voi non serbisi
odio in cor contro a me, ch'io non contese
desio con voi, non crucci, e non è d'uopo
che affliggasi per me cor di vivente.
Io non vo', per offesa alta di voi,
possanza in terra, s'anche andrò dal vostro
aspetto lungi. Umil costume è solo
costume mio, sola mia fede umani
sensi in petto albergar...
Drammi indiani ed episodi di poemi tradusse, seguen-
do la via del maestro, il Cimmino49, che scrisse anche
versetti di genere sentimentale galante, leggiadro e lie-
ve, adatti alla musica e che sembrano anch'essi traduzio-
ni, traduzioni di motivi diffusi nella letteratura romanti-
49
Vicramorvasi (Torino, Loescher, 1890); Ratnâvali o la collana di perle
(Napoli, Pierro, 1894); Malavica e Agnimitra (ivi, 1893); Nâgânanda o il
giubilo dei serpenti (Palermo, Sandron, 1903).
49
ca. Ma talvolta in codesti versi per musica consegue una
certa metastasiana grazia di ritmi e di immagini, come
in un canto dell'edera, che (ricordo di gioventú), mi tor-
na ancor oggi nella memoria:
È tardi e tu rinserri
la finestretta: sale
dal tacito vïale
l'edera intorno ai ferri
del tuo balcone, e gira,
e sale a la tua stanza
come una verde spira
simbolo di speranza.
Nata è da un verde masso
de la tua casa al pié,
ed ogni fronda è un passo
per giunger fino a te...
l'edera, che sdegna di vivere sul terreno, e non pensa che
a sollevarsi in alto, e resiste al vento che schianta, al
sole che abbrucia:
tu, stretta al muro intrepida,
tu séguiti a salir...
e da ciò prende il suo significato spirituale:
Cosí speranza altèra
scudo al dolor si fa,
e in mezzo alla bufera
all'alma avvinta sta...50
Meriterebbero di essere meglio conosciute che non

50
La si veda per intero in Vecchio idillio (Napoli, Pierro, 1891).
50
siano le traduzioni che della poesia provenzale venne fa-
cendo il filologo U. A. Canello, morto in ancor giovane
età51; come è quella del sirventese che era attribuito e
poi fu tolto e ora è ridato a Bertran de Born:
Amo l'april perché in april ritornano
le fronde e i fiori;
amo l'april, perché in april si destano
gli augei canori;
ma piú m'è caro april perché nei campi
i padiglion si piantano e le tende,
dei cavalier la folla si distende
e manda lampi.
Bell'è il tumulto di villani e bestie
qua e là fuggenti
cui nell'urto maggior pronte soccorrano
armate genti;
e pur bello è a veder qualora assaggia
d'un castello i bastioni oste animosa,
o se laggiú nel pian sta minacciosa
pronta a battaglia...
che termina con l'invito:
Baroni, insino l'ultimo
castel, l'ultima terra,
in pegno date per nutrir la guerra.
Anche il De Lollis, che aveva una vena artistica tra
impressionistica e satirica, nelle poche traduzioni che di
lui possediamo dal Platen si dimostra verseggiatore vi-

51
Fiorita di liriche provenzali (Bologna, Zanichelli, 1881).
51
goroso e con certa sprezzatura letteraria52.
Grande la reputazione e maggiore l'aspettazione che
destò di sé Emilio Teza, che passava per uomo dottissi-
mo e intelletto vasto, poderoso e originale, ma che, in
realtà, non produsse altro, in una lunga vita, che fascico-
letti di qualche pagina, recanti ora una notiziola, ora un
gruzzoletto di rime inedite, ora una proposta di correzio-
ne a qualche testo, ora qualche modesto tentativo poeti-
co, piú spesso qualche traduzione53. Tra i professori ita-
liani si era formato di lui il mito del genio troppo ricco,
che non riesce a distrigarsi da questa troppa ricchezza;
ma non ci vuol molto a intendere che quel mito è vuoto
o nasconde il contrario della vera e utile ricchezza. Il
Teza medesimo, in certi graziosi versi, che intitolò Pesci
d'oro, e che descrivevano il continuo guizzare di questi
pesci nella vasca di cristallo, sorrideva di sé stesso e di-
ceva di sé stesso la verità:
Cosí nel mio cervello sempre danzano
inquïeti, stamane come ieri,
e i molti libri se li sbocconcellano,
i miei pensieri.
Poi, se volessi spenderlo,
ad un tratto svanisce il mio tesoro:
e non esce che putrido cadavere
il pensier che pareva un pesce d'oro.
Fra le sue traduzioni, per altro, ce ne sono di condotte
52
Furono raccolte da me in appendice al volumetto di lui: Reisebilder (Bari,
Laterza, 1929).
53
Si veda intorno a lui V. CRESCINI, Emilio Teza (Venezia, 1914), a cui va unita
la Bibliografia di E. T., a cura di C. Frati.
52
con grande finezza, come è particolarmente questa da
Walter von der Vogelweide, intitolata Di sotto il tiglio:
Di sotto al tiglio
in mezzo al prato,
fu l'amoroso nostro giaciglio;
che, se 'l vedete,
d'erbe ed ornato
di fiori in pezzi lo troverete.
Là, in una valle del bosco e solo,
tantarantan,
dove cantava un rusignolo.
Ci venni anch'io.
Sotto a una pianta
già mi attendeva l'amico mio.
M'accolse allora,
Madonna santa,
che della gioia son piena ancora.
Se mi dié un bacio? Non uno, cento,
tantarantan,
ne ho ancor la bocca rossa e li sento.
Il mio diletto,
sul primo albore,
di fiori e d'erbe distese un letto.
In fede mia,
ride di cuore
chi ci ripassa da quella via!
Dove le rose vedrà piú peste,
tantarantan,
colà posaron le nostre teste.
Io mi sedei.
Se 'l sa qualcuno,
53
lo tolga il cielo, vergognerei.
Che se ci fui,
nol sa nessuno,
non lo sappiamo ch'io sola e lui;
e un grazïoso vago augellino,
tantarantan,
ma già non parla quel poverino!54.
Vi era poi un traduttore in versi per il teatro, Mario
Giobbe, che, con molta bravura, mise in italiano il Cira-
no di Bergerac e altre opere del Rostand, ma che nei
versi originali imitò alla peggio il D'Annunzio della
Chimera e la Vivanti della Lyrica55. Una volta, parlando
di lui, Salvatore di Giacomo mi disse: «Non è un poeta,
è un metrico»: motto tagliente, che mi torna sulle labbra
in molti altri casi in cui meglio giova adoperarlo che
non per il povero Giobbe, che campava la vita a quel
modo e morí suicida.

54
E. TEZA, Traduzioni (Milano, Hoepli, 1880).
55
Gli amori, con prefazione di Roberto Bracco (Napoli, Bideri, 1891).
54
XXXVIII. SCIENZIATI-LETTERATI

Andava per le mani di tutti i fanciulli d'Italia Il bel


paese dell'abate lombardo Antonio Stoppani, «conversa-
zioni (diceva il sottotitolo) sulle bellezze naturali, la
geologia e la geografia fisica d'Italia»56. Lo Stoppani era
geologo, ma anche letterato, e scrisse un libro su I primi
anni di Alessandro Manzoni57, nel quale viene ricercan-
do i luoghi e i ricordi di fanciullezza dell'autore dei Pro-
messi sposi con tono un po' agiografico, ma semplice e
composto. Si hanno di lui alcuni discorsi: Sulla santità
del linguaggio, letto all'Accademia della Crusca nel
1883, in raccomandazione della proprietà del linguaggio
che è «il culto esterno della verità»; un altro Sull'unità
della scienza (1877), contro l'eccessivo specialismo; un
terzo Sullo studio della natura come elemento educativo
(1878). Prese a considerare, in rapporto al poema dante-
sco, il carattere e l'origine del sentimento della natura,
che egli, come già altri, finí col riporre in un'armonia
prestabilita fra l'uomo e la natura, all'uomo amica e ser-
vizievole: onde si è condotti ad attribuirle anima e vita,
intelligenza ed amore, e attraverso questo velo si mira
alla potenza sovrana di Dio, che veramente è intelligen-
za e amore, e pone e mantiene quell'armonia58. Discor-
rendo del quale argomento lo Stoppani mette in rilievo
come l'arte, che si propone di «riprodurre per mezzo di

56
Il libro è del 1873, nel 1915 se ne pubblicò la 96a edizione.
57
Milano, Bernardoni, 1874.
58
Questi discorsi sono raccolti nel vol. Trovanti (Milano, Agnelli, 1881).
55
un artificio qualunque ciò che si vede in natura ed ha
per fine un diletto di ordine affatto spirituale», l'«arte
grafica», par che meriti di esser detta «primitiva», giac-
ché le incisioni e le sculture in osso, in avorio, in pietra,
dovute agli antichissimi trogloditi, fanno spesso meravi-
gliare per la esattezza delle linee e della rassomiglianza
degli aspetti con cui individuano l'uro, il bisonte, la ren-
na, il cervo, il cavallo, e anche l'uomo, e talvolta con ar-
ditezza di mosse; ed egli presenta questo problema «al
filosofo»59. E il filosofo (si conceda la digressione) l'ha
già risoluto, quando ha detto che l'arte è forza che intui-
sce un'impressione o commozione, e non è già accumu-
lamento di conoscenze e di abilità, e perciò è fulgurazio-
ne, sempre «primitiva». Lo Stoppani verseggiò un poe-
metto, Il sasso di Premuda, negli schemi soliti dei poeti
didascalici suoi contemporanei, tra i quali, oltre l'Alear-
di, lo Zanella e la Brunamonti, egli nominava a cagion
d'onore l'astronomo napoletano Del Grosso. Zanelliana
è la sua canzone A un compagno di viaggio, cioè a un
uccello che si posava sulla sua nave e che egli temeva
perduto quando lo vedeva volare lungi sul mare:
Quando io ti veggo, o improvvido, di nuovo
il periglio affrontar, sai dove corre
l'atterrito pensiero?
Penso al delirio dell'umana mente,
che con sí breve acume,
perduta nel gran mar, dal dubbio steso
dinnanzi al vero che lontan si cela,

59
Vol. cit., pp. 6-7 n.
56
abbandona la vela
che la fede governa, e senza guida,
ahi stolta! il porto d'afferrar confida!
Con la fede similmente si conclude un dialogo che egli
immagina tra un geologo e una fanciulla, il primo dei
quali, esponendo i risultati della sua scienza, dice:
...l'impero di morte è la Terra:
è un campo ove miete perpetua la guerra;
son cumuli i monti di cenere e d'ossa,
gli abissi gemmati son lurida fossa;
d'un ente che visse, reliquia funesta
di polve ogni grano che il piede calpesta.
La fanciulla si spaura e domanda smarrita:
Che narri? Qui tutto si spegne... È follia,
virtute? Delirio quest'ansia del cor,
che aspira all'eterno... che sale e s'india?
menzogna la fede, la speme, l'amor?
Ma l'altro l'ammonisce insieme e la rassicura:
Lo cerchi alla scienza che il senso ha per duce?
che chiede alla cieca materia la luce?
Ti affidi, o fanciulla, la vita che in core
ti parlan la fede, la speme, l'amore...
Lo Stoppani si provò a conciliare i dogmi della religione
e le indagini della scienza, propugnando per il clero la
cultura scientifica, che è scala e non impedimento alla
fede, e, patriota italiano, ormai bramava e invocava la
conciliazione della Chiesa con l'Italia nuova. Era di quei
cattolici che in buona fede credono che la Chiesa catto-
57
lica sia un istituto morale secondo lo spirito del Vange-
lo, e non si rendono o non vogliono rendersi conto che
essa è un istituto politico con fini politici, e che per que-
sto potè trovare un'adeguata espressione nel gesuitismo.
Tra gli scienziati, che avevano del letterato, è da no-
verare Michele Lessona, il quale, oltre ai lavori piú pro-
priamente scientifici e didascalici, compose un libro
educativo, assai divulgato, nel genere dello Smiles: Vo-
lere e potere60, e altri sui Naturalisti italiani61, e sulle
Cacce in Persia62, di facile e gradevole lettura. Alla di-
vulgazione della scienza, in prosa saltellante e sprizzan-
te scintille ma ben mediocre, attese Paolo Lioy (noto per
avere scoperto e studiato le palafitte presso Vicenza),
che scrisse La vita dell'universo, Escursioni nel cielo ed
Escursioni sotterra, L'alpinismo, Sui laghi, e altrettali, e
un libro Chi dura vince63, sul molto che è ancora da fare
per il popolo dopo avergli procurato la libertà, e novelle
e romanzi. Lo lodavano perciò «poeta scienziato».
Ma lo scienziato allora popolarissimo (e ora, si può
dire, affatto dimenticato) fu Paolo Mantegazza, che non
tanto si avvantaggiava del prestigio in genere che gode-
vano le scienze naturali quanto di quello piú a lui parti-
colare di consigliere che si faceva d'igiene nelle gioie
dei sensi coi suoi Elementi d'igiene e i divulgatissimi
Almanacchi (soprattutto nella serie che va dal 1867 al
1880), e, piú specificamente, d'igiene sessuale, con libri
60
Prima ed., Firenze, Barbèra, 1869. La 16a, ivi, 1897.
61
Roma, Sommaruga, 1884.
62
Roma, Sommaruga, 1884.
63
Prima ed., 1875; terza, Milano, Treves, 1879.
58
che, avendo il lasciapassare della scienza, si leggevano e
si davano a leggere senza ritegni di pudore, e di cui le
contraffazioni moltiplicavano le copie e le spargevano
su tutti i banchetti e i muricciuoli. Tali la Fisiologia
dell'amore e l'Igiene dell'amore, ai quali dié il compi-
mento di una compilazione etnografica col titolo de Gli
amori degli uomini, che veramente levò qualche scanda-
lo, avvertendosi che della scienza vi si faceva abuso per
soddisfare non scientifiche curiosità. Parlava delle cose
sessuali con un misto tono di sacerdotale ministro delle
dolci voluttà e, insieme, di saggio e scientifico modera-
tore. Esercitò la propaganda contro i matrimonî dei tu-
bercolotici mercé di un romanzo che non era un roman-
zo e che tuttavia fu letto con commozione e con pianto:
Un giorno a Madera, una pagina dell'igiene dell'amo-
re64. Un padre morente di tisi chiede alla figliuola la
promessa che essa non si sposerà: «Giurami, mia
Emma, che vivrai e morrai sola. Che tu sia l'espiatrice di
tuo padre, angelo redentore del suo peccato»; e muore
tranquillo sapendo che il giuramento che ha ottenuto
non sarà violato, perché sua figlia «farà tutto il bene che
il padre non ha potuto compiere». E la poverina resiste,
con terribile sforzo, al richiamo del cuore, e, quando
anch'essa viene a morte, può lasciare scritto: «Ah, mio
padre, ho fatto il mio dovere. Domani andrò a visitare la
tua tomba, andrò a mormorare nel tuo orecchio che la
tua Emma ha tenuto la sua parola, che è degna di te, che
64
Prima ed., Milano, Bernardoni, 1876; nel 1899 ne uscí la 20 a, senza tener
conto delle contraffazioni.
59
essa muore senza aver messo al mondo altri infelici che
come lei sarebbero morti, ma che forse avrebbero male-
detto la vita e chi gliel'aveva data. Tu no, mio padre,
non avevi colpa alcuna di avermi messa al mondo. Tu
non sapevi di esser malato quando mi hai dato la vita».
È puerile ma edificante; e, come si è detto, molte lacri-
me si sparsero su queste pagine. Un altro suo non meno
didascalico romanzo intitolò Il dio ignoto65, a celebra-
zione dell'Ideale, nuovo cielo con nuovi templi e con
nuovi sacerdoti, che sostituisce «la vôlta azzurra sotto
cui hanno pregato e sperato per tanti secoli i nostri pa-
dri» e che è caduta per la «cospirazione degli opposti»,
la simonia dei chierici e la scienza dei laici. Era, del re-
sto, molto largo e tollerante nella conclusione del rac-
conto, che descrive i varî personaggi insieme raccolti a
osservare un tramonto:
Eva, piú espansiva, ruppe quel silenzio per la prima.
— Perché non possiamo fermare quel sole?
— Ma domani ritornerà a illuminare il nostro cielo ‒ ri-
prese Maria.
— Sí ‒ disse sospirando Giovanna: ‒ cosí è dell'Ideale;
esso tramonta in ogni giorno della vita di un uomo e in ogni
secolo e in ogni grande epoca storica; ma poi risorge piú cal-
do e lucido che mai, per riscaldare e illuminare nuove ore e
nuove epoche della vita umana. L'Ideale è il nostro dio: è il
Dio ignoto...
— E noi l'abbiamo trovato, Giovanna, ‒ replicò Attilio. ‒
Tu lo adori sotto forma del buono, io sotto quella del bello;
altri lo adorerà sotto le spoglie del vero; ma nessun uomo
65
Milano, Brigola, 1867.
60
che sia al di sopra di un ente che rumina, può vivere senza
una religione. No, i grossi bisogni dell'animale, anche in-
granditi e accarezzati dall'oro e dall'orgoglio, non possono
bastare ad anima viva, e io mi sento oggi religioso quanto la
tua Maria, che s'è serbata cattolica, quanto tu che sei deista,
quanto la mia Eva che si professa anglicana. Al di sopra de-
gli Dei v'è Dio, al di sopra delle religioni la religione...
Aveva composto dapprima qualche libro di pretese
scientifiche, come quello Fisionomia e mimica66 che
muove dalle note ricerche darviniane sull'espressione
nell'uomo e negli animali e che ancor oggi si legge con
qualche istruzione; ma finí con compilazioni grossolane
come l'Epicuro67 e, seconda parte di esso, il Dizionario
delle cose belle68. Nel 1908 pubblicava uno degli ultimi
suoi volumi, una Bibbia della speranza69, che ha in fron-
te quest'epigrafe dedicatoria: «Ai centomila che credono
a tutto non escluso l'assurdo ‒ ai mille infelici che non
credono a nulla ‒ dedico questa Bibbia della speranza,
nella quale ho condensato ‒ quanto di vero e di sano
pensarono gli uomini ‒ da Budda e da Cristo a Dante ‒ e
da Dante a Darwin». Moriva col gesto diventatogli con-
sueto, di abbracciare e consolare e ben consigliare nella
soddisfazione dei suoi varî bisogni tutto il genere uma-
no.

66
Milano, Dumolard, 1881.
67
Milano, Treves, 1891.
68
Milano, Treves, 1892.
69
Torino, Soc. ed. tip. nazionale, 1903.
61
XXXIX. AMATORI

Alcuni scrittori si fecero come una specialità di certi


argomenti, perseguendoli del loro tenace affetto nei piú
varî modi, in istorie, disquisizioni, polemiche, novelle, e
vi dedicarono quasi tutto il corso della loro vita. Cosí
quello noto sotto lo pseudonimo di Jack La Bolina, un
Vecchi, per alcuni anni ufficiale di marina, figlio di Can-
dido Augusto Vecchi, garibaldino e anch'esso letterato,
il quale fu lo specialista delle cose marinare. Scrisse i
Bozzetti di mare (1897), le Leggende di mare (1899), le
Nuove leggende (1890), Preboggion (1880), Racconti di
mare e di guerra (1887), e saggi storico-marinareschi e
una storia generale della marina. Ma non sono libri che
raggiungano effetti di arte. Con maggior diletto si leggo-
no le memorie che scrisse della sua fanciullezza e adole-
scenza e che si riferiscono al periodo tra il ’48 e il ’6070.
In assai diverso campo, specialista delle cose teatrali
fu il Costetti, del quale già si è fatto cenno 71. Luigi Rasi,
dapprima attore, ebbe il medesimo amore, e, dopo avere
scritto un volume di monologhi e un altro di aneddoti, e
un trattato sull'arte della lettura, menò a compimento un
grande ed erudito dizionario storico dei comici italiani72.
Era un uomo colto e si dilettava di letteratura latina e da
giovane tradusse, e bene, da Catullo, e sugli amori di
Catullo tentò un romanzo73.
70
Memorie di un luogotenente di vascello (2a ed., Roma, Voghera, 1907).
71
Si veda vol. V4, 99, 101.
72
I comici italiani (Firenze, 1899-1905, tre voll.).
73
Clodia, memorie di C. V. Catullo (Lecce, 1876); le versioni di Catullo sono
62
Ma tra cotesti aficionados, come li chiamano gli spa-
gnoli, o «amatori» come li chiamiamo noi, ce n'è uno
che singolarmente mi piace, perché l'amore che egli por-
tava alla sua specialità toccava la poesia. È l'autore del
libro Cacce e costumi degli uccelli silvani 74, Alberto
Bacchi della Lega, bibliotecario, editore di testi letterari
inediti, «un'autorità (disse il Carducci che lo ebbe fami-
liare) in cinegetica come in bibliografia»75.
Volli e voglio sempre bene a questo libro ‒ scrive l'autore
nel presentarne una nuova edizione, ‒ che riguardo come la
mia autobiografia giovanile. La cominciai io diciassettenne,
quando dalla monotona esistenza del collegio fui tolto e do-
nato alla vita dei campi in Romagna; lo continuai per venti
anni, dalla Romagna trasportandomi nel Bolognese, accu-
mulando, foglio sopra foglio, osservazioni, fatti, avventure,
secondo le cacce che esercitavo, ora in monte, ora in piano,
colle reti, colle ragne, coi lacciuoli, col vischio. Non v'è ge-
nere d'insidia antica o moderna che io non abbia sperimenta-
ta.
Le stagioni della caccia gli risplendono nel ricordo
come quelle dei piú cari lavori, delle piú intense gioie;
e, pur con un sorriso, ma con un sorriso che non è di di-
stacco e di superiorità, lo commenta:
Ricordo benissimo che allora vi erano quattro mesi
dell'anno, dall'agosto al novembre, nei quali non si faceva

in Torva proelia, versi di Leonardo Fourchambault (Napoli, De Angelis,


1879), e in Saggio di una traduzione integra del libro dí Catullo (Londra,
1889).
74
Città di Castello, Lapi, 1880, 3a ed. riveduta dall'autore, ivi, 1910.
75
Opere, IX, 320.
63
altro che dissertare e pronosticare di caccia, che lavorare e
faticare per la caccia; i preparativi di essa assorbivano la pri-
ma e anche la seconda quindicina della stagione fortunata; si
portavano i richiami all'aria, si sciorinavano le reti e le ragne
al sole, si dissodava e ripuliva l'aia dalla tesa, si rimboschi-
vano le macchie, si azzimavano le piante, e all'arrivo dei Bi-
gioni si entrava addirittura nella grande, nella classica sta-
gione, che coi Tordi e coi Fringuelli toccava il suo apogeo a
mezzo ottobre ed oltre ancora. Allora la vita ordinaria era
come sospesa, gli affari tutti erano rimandati a piú remota
occasione, la dimora era da mattina a sera, e talvolta anche
di notte, nel casotto del roccolo o del paretaio, nel capanno
del palmone. E mi ricordo (per dirne una fra le tante) che un
giorno, nel calar d'ottobre, il sottoprefetto di Faenza, uscen-
do dal municipio in compagnia del sindaco, mio carissimo e
perduto amico, gli disse nel lasciarlo: «Si ricordi, signor
conte, di venir domani presto per quei tali affari...». «Se non
passano fringuelli!», ribatté il signor conte. Al che il sotto-
prefetto stupito domandò: «E che vuole dire?». E gli fu spie-
gato che una giornata di passo da noi non si lasciava nem-
meno per un impero: ma egli non seppe capacitarsene. Non
era romagnolo!
La vita degli uccelli non è già descritta nella sua esterio-
rità, come da naturalista, ma sentita nella sua intimità,
con fantasia che li avvicina al cuore e ne fa come popo-
lazioni amiche di cui s'intendono pensieri e opere, si ri-
sentono giubili ed affanni. Cosí egli dice del balestruc-
cio o hirundo urbica:
I gaudî dell'amore sono passati, le faccende di famiglia
sono terminate, l'ora della partenza s'avvicina. Cominciano i

64
congressi. In certe ore di certi giorni, degli ultimi giorni, e
piú sovente la mattina poco dopo il nascer del sole, si forma-
no branchi innumerevoli di Balestrucci, i quali vanno a pren-
der residenza sopra una torre alta, sopra una chiesa antica,
sopra un palazzo monumentale, prima volandovi intorno e
oscurandolo coll'ombra loro, poi pigliandovi riposo e co-
prendone tutte le sporgenze. Io mi figuro, quando li vedo co-
sí fermi in lunghe file, e li ascolto pigolare tanti e tanti in
una volta sola, io mi figuro che discutano fra loro del viag-
gio vicino, della strada migliore, dell'ordine della partenza.
Mi figuro i vecchi i quali, colla pratica delle emigrazioni an-
tecedenti, daranno ai giovani i consigli opportuni per con-
dursi sani e salvi alle nuove contrade: mi figuro i giovani, i
quali in parte ascolteranno con rispetto gli ammonimenti au-
torevoli, in parte ne rideranno colla baldanza della prima età.
Al costume s'alterna l'episodio individuale e sorge il
personaggio eroico, la descrizione si fa racconto. Una
coppia di Codirossi:
Il povero cimitero di Casanola vide cosí per molti anni
una coppia di questi amabili uccelli propagarsi al rezzo della
sua cinta ospitale. Là, ora in un buco della muraglia antica,
ora fra un ammasso di pietre diroccate per vetustà, ora in un
cespuglio folto e arruffato, maschio e femmina ponevano il
nido, tazza rustica e grossolana, intessuta di fieno, penne e
foglie secche, con cinque o sei ova di colore azzurro. E il
maschio, per ricreare la sua diletta dalle noie della covatura,
fermo sopra un rametto sfrondato, vicino a lei sfoggiava le
note piú soavi, piú patetiche del suo repertorio, specialmente
la mattina, nel levar del sole, e la sera all'ora del tramonto:
porgeva l'imbeccata ai pulcini, vigilava alla loro sicurezza
colla sollecitudine, colla passione di un buon padre. Quante
65
volte io lo sentii, allorché persona o animale sospetto, un
cacciatore o un gatto, per esempio, varcava il limite del suo
romitaggio, quante volte lo sentii prorompere in grida cla-
morose d'allarme, ripetere infinitamente quel suo suit suit
pieno d'affanno! Quante volte lo vidi muoversi inquieto, an-
gosciato, e tanto piú frettoloso, quanto piú il nemico era vi-
cino! E volargli appresso, e volargli contro, e offrir il piccolo
e magnanimo petto per primo ai suoi colpi e sé stesso in olo-
causto alla salute comune. Di tali eroismi, quasi ignoti agli
inciviliti, il regno dei volatili è pieno.
Mi pare che pagine come queste abbiano afflato e figu-
razioni poetiche quali non si trovano nell'ansimante or-
nitologia versificata del Pascoli.

66
XL. PROSE

L'attenzione che io do in queste note a scrittori anche


minori e minimi di versi d'amore e prose di romanzi,
non deve indurre nella credenza che intenda escludere
dalla cerchia della letteratura gli scrittori di filosofia, di
scienza, di storia e di politica. Anch'essi, per un aspetto,
appartengono alla letteratura, in quanto ogni serio moto
del pensiero è insieme affetto e passione e si esprime nel
«tono» della prosa, tono che è sempre variamente affet-
tivo, e perciò sempre variamente poetico. E non li esclu-
si nella prima serie di questi saggi, in cui non mancai di
ricordare prosatori filosofi, come il sobrio e severo Ber-
trando Spaventa e il frondoso e immaginoso e umoristi-
co Antonio Tari76. Altri scrittori di cose filosofiche si di-
mostrarono assai curati e lisci nella forma, come il Bar-
zellotti; altri, pregevoli per semplicità e chiarezza, come
il Fiorentino. L'insigne linguista Ascoli è da ricordare
per nerbo di dettato e classica compostezza, cosí nel fa-
moso proemio dell'Archivio glottologico intorno alla
questione della lingua in Italia77, come in un saggio sul
Cattaneo78 e in altri ancora sparsi. Antonio Labriola, di-
scorritore e oratore splendido ma prosatore dottrinale al-
quanto impacciato e opaco nei primi suoi volumi, appar-
ve in nuova sembianza dopo che il pensiero del Marx e
76
Si veda per essi Lett. della nuova Italia, I5, 385 sgg., 404 sgg.
77
G. ASCOLI, Il proemio all'Archivio glottologico italiano e una lettera sullo
stile, con prefazione di F. d'Ovidio e nota di A. Camilli (Città di Castello,
Lapi, 1914).
78
Carlo Cattaneo negli studî storici (in Nuova Antologia, 16 giugno 1900).
67
l'idea della palingenesi dell'umanità nel socialismo
l'ebbero scosso e inebriato. Il Manifesto dei comunisti
del 1848 gli sembrava come la moderna «buona novel-
la» e ne celebrò il singolare significato e carattere, che
ne faceva tutt'insieme la risoluzione di lunghi e oscuri
sforzi secolari e il contrapposto di tutte le antiche conce-
zioni comunistiche:
L'eroico Fra Dolcino non era sorto di nuovo a levar per le
terre d'Italia il grido di battaglia per la profezia di Gioacchi-
no da Fiore. Né si celebrava nuovamente a Münster la risur-
rezione del regno di Gerusalemme. Non piú Taborriti o Mil-
lenarî. Non Fourier, che aspettasse chez soi a ora fissa per
degli anni il candidato dell'umanità. Non era piú il caso che
l'iniziatore di una nuova vita cominciasse da sé a mettere in
essere, con mezzi escogitati e in modo unilaterale ed artifi-
ciale, il primo nòcciolo di una consociazione, che rifacesse,
come albero da germoglio, la pianta uomo: ‒ come accadde
da Bellers, attraverso Owen e Cabet, fino all'impresa dei
fourieristi nel Texas, che fu la catastrofe, anzi la tomba
dell'utopismo, illustrato da un singolare epitaffio, la calda
eloquenza di Considérant, che ammutolí. Qui non è piú la
setta, che in atto di religiosa espressione si ritragga pudica e
timida dal mondo per celebrare in chiusa cerchia la perfetta
idea della comunanza; come dai fraticelli alle colonie socia-
listiche di America. ‒ Qui, invece, nella dottrina del comuni-
smo critico, è la società tutta intera, che in un momento del
suo processo generale scopre la causa del suo fatale andare,
e, in un punto saliente della sua curva, fa luce a sé stessa per
dichiarare la legge del suo movimento. La previsione, che il
Manifesto. per la prima volta accennava, era non cronologi-
ca, di preannunzio o di promessa, ma era, per dirla in una
68
parola, che a mio avviso esprime tutto in breve, morfologica.
Il suo amore, il suo ideale letterario, gli arrideva nel
Diderot del Jacques le fataliste e del Neveu de Rameau,
nel discorrere impetuoso, saltuario e disgregato ma ge-
niale; e in certo modo a questo si avvicinò nell'ultimo
volume Discorrendo di socialismo e di filosofia79, in cui,
piú che nei due precedenti sul «materialismo storico», si
mise in libertà.
Degli storici di questo periodo ho avuto occasione di
discorrere altrove80, toccando anche del loro aspetto let-
terario, in verità non ragguardevole neppure nei miglio-
ri, che, in generale, non andarono oltre il lucidus ordo e
una certa urbanità di esposizione. Poiché era venuta
mancando la passione speculativa, etica e religiosa, che
si illanguidí e si spense anche negli appartenenti alla ge-
nerazione politica educatasi tra il '48 e il '60, invece di
storia si coltivò l'erudizione e la filologia, e assai di rado
si provò qualche impeto di storico pathos, si scrisse
qualche pagina vigorosa perché profondamente ispirata.
Similmente nelle scienze morali, dove per altro si
ebbe un prudente e sennato ed eletto scrittore di cose
educative in Aristide Gabelli81, e nelle quali lavorava il
grande economista Francesco Ferrara, robusto e preciso
nella sua prosa. La pubblicistica e l'oratoria politica si
mantennero alte negli uomini della vecchia generazione.
79
Discorrendo di socialismo e filosofia (Roma, Loescher, 1897: nuova ediz.,
Bari, Laterza, 1939).
80
Nel II vol. della mia Storia della storiografia italiana nel secolo XIX.
81
L'uomo e le scienze morali (Milano, 1870), (2a ed., Firenze, 1873); L'istru-
zione in Italia (Bologna, 1891).
69
E non si possono leggere senza ammirarne di continuo
la schiettezza e la dirittura morale le pagine di Quintino
Sella, che non aveva pretese letterarie, e anzi si esprime-
va alla buona, ma in ogni sua parola metteva sempre sé
stesso, apriva il suo intimo cuore di liberale, di uomo
della ragione e del progresso, di patriota italiano.
«Quando io sento dire: lo Stato è tutto, lo Stato è nulla,
concludo che si vuole la nazione imbecille, esagerando
in un senso quanto nell'altro. Io sento in me profonda-
mente che uno Stato vale quando valgono gli uomini
che lo costituiscono. Per conseguenza, bisogna guardar-
si molto dal fare qualsiasi cosa che menomi o tenda a
menomare l'iniziativa, la potenza individuale.» Come
nella libertà, aveva ferma fede nella scienza, alla quale
voleva che gli ingegni italiani si volgessero, ora che
possedevano una patria; ed era risolutamente contrario
al potere temporale e a ogni ingerenza della Chiesa nel-
lo Stato, intendendo e celebrando il significato storico
del 20 settembre 1870. «L'Europa si va persuadendo ‒
diceva ‒ che, con la venuta dell'Italia a Roma, non solo
cessò l'era delle rivoluzioni politiche, per quello che la
riguarda... ma si creò un elemento importantissimo alla
soluzione del grande problema della separazione dello
Stato dalla Chiesa, e si rese un servizio non soltanto po-
litico ma, oserei dire, un servizio a tutta l'umanità.» Mo-
destissimo e ponderato come si conveniva a uomo di af-
fari e di mercatura, l'immagine della patria lo moveva a
diverso comportamento: «Quando si tratta del mio pae-
se, le mie aspirazioni non peccano di modestia: Excel-
70
sior deve esser la nostra divisa in tutti i casi». Alpinista
e apostolo dell'alpinismo, considerava quell'esercizio
«un gran mezzo educativo, fisico e morale, e piú morale
che fisico», e ai suoi compagni in quelle ascensioni,
«credete a me ‒ diceva, ‒ giovani colleghi: nelle circo-
stanze difficili della vostra vita vi parrà di essere a una
difficile salita. Un istante di viltà, d'imprevidenza, perde
tutto. Il coraggio, la previdenza, la costanza, la lealtà
può farvi vincere ogni cosa. Vi accorgerete allora del
gran valore morale educativo dell'alpinismo»82. In un di-
scorso a una società operaia della sua Biella ripercorre
rapidamente la storia delle corporazioni artigiane del
Medio evo in quel comune e la sorte che era toccata al
lavoro nel feudalismo e nell'assolutismo, quando fu con-
siderato ignobile; e, raccomandando a quegli operai il
geloso amore alla libertà e perciò l'attenzione a non abu-
sarne, spiegava loro:
Noi, grazie allo Statuto che nel 1848 ci largí Carlo Alber-
to e che con tanta lealtà ci mantenne Vittorio Emmanuele,
abbiamo la libertà, l'eguaglianza di fronte alla legge. Ora noi
possiamo andare, venire, riunirci, associarci, stampare, pen-
sare, fare tutto ciò che vogliamo e crediamo, purché non
nuoccia ad un terzo, giacché non si può ammettere la licenza
di far male altrui. Ora il governo dei Comuni e delle Provin-
cie, persino il governo dello Stato, per mezzo del Parlamen-
to, si fondano sul libero consenso delle popolazioni. Non vi
sono piú privilegi di caste. I titoli non hanno piú che un va-
lore storico, se antichi; sono ridicoli, se moderni. Non vi ha
82
Si vedano: Pensieri tratti dai suoi discorsi e dalle sue lettere (Torino, Casa-
nova, 1895).
71
piú ostacolo artificiale, che impedisca un cittadino piú che
un altro. Posso darvene un esempio: giacché, comunque io
provenga dal telaio come parecchi di voi, non mi trovai per-
ciò dinanzi inciampi di sorta il giorno in cui il Re ed il Parla-
mento credettero che potessi coprire un ufficio piú elevato.
Non è piú il lavoro quello che oggi sia reputato ignobile, sib-
bene l'ozio. A qualunque classe appartenga, in qualunque
condizione sia l'ozioso, esso è considerato come un uggioso
parassita, che ogni ben pensante guarda con disprezzo e ri-
brezzo.
E concludeva:
Quando voi abbiate cosí davanti alla mente il passato, il
presente e l'avvenire, vi rallegrerete innanzi tutto di aver vis-
suto in un'epoca di cotanta trasformazione di cose, e di avere
potuto godere dei suoi benefici effetti.
Diversamente dal Sella, il suo amico Silvio Spaventa
proveniva dagli studî filosofici e giuridici; e la prosa dei
suoi discorsi, fortemente e sistematicamente pensati e
ordinati, è scultoria. Piacerà leggere come esempio que-
sta pagina della sua commemorazione di Giovanni Lan-
za, nella quale determina il contenuto politico
dell'intransigenza morale di quello statista piemontese:
Non lo moveva l'istinto volgare di farsene un'arma di par-
tito contro i suoi avversarî, sibbene la persuasione profonda
che era in lui che la monarchia costituzionale debba serbarsi
governo rigidamente morale, se vuol durare. Imperocché di
repubbliche e monarchie assolute corrotte, che durarono e
durano, egli aveva visti esempî sempre e dappertutto; ma di
monarchie costituzionali corrotte, nessuno. Governo tra il

72
popolare e l'assoluto, la monarchia costituzionale ha contro
di sé le tendenze verso questi due estremi; e la sua corruzio-
ne mettendo in mano degli avversarî la leva della moralità, è
impossibile che, coll'opposizione che essa ha legalmente or-
ganizzata nel suo seno, e la libertà di parola e di stampa,
possa resistere a lungo e non soggiacere ai colpi dei suoi av-
versarî. Egli sapeva altresí che, quando la moralità diventa
arma di combattimento, degenera in ipocrisia; e l'ipocrisia
dei partiti estremi è tanto piú tremenda quanto hanno piú
chiara coscienza di non essere moralmente migliori. E, infi-
ne, non ignorava che la finzione giuridica della irresponsabi-
lità del re e della responsabilità dei ministri basta sino a un
certo segno alla tutela della reputazione e sicurezza del mo-
narca: insino a che, cioè, si tratti di deviazioni accidentali e
parziali degli atti di un governo dalle regole della giustizia e
del bene pubblico; ma, quando l'azione ministeriale diventa
per sistema corrotta ed ingiusta, allora la figura del re, che
copre col suo nome ed autorizza colla sua firma gli atti in
cui quella si esplica, riesce contennenda agli occhi del popo-
lo, in guisa da apparire inferiore moralmente alla personalità
di qualunque privato che si rispetti, il quale terrebbe ad onta
di servire di strumento alla malvagità altrui; e la sorte di una
monarchia costituzionale, ridotta in questi termini, è deci-
sa83.
Talvolta questi uomini politici, per reminiscenze di
studî giovanili o per isvago, facevano escursioni lettera-
rie, come il Minghetti, che, oltre a scrivere libri di eco-
nomia e di diritto pubblico e i Ricordi, discorse volen-
tieri di storia dell'arte. Molta stima circondava per que-

83
La politica della Destra, ed. Croce (Bari, 1910), pp. 125-26.
73
sta parte il Giorgini, che quasi ragazzo, nel 1836, aveva
pubblicato un fascicoletto di versi84, e, vecchio, come si
è già ricordato, riprese a fare versi in latino e in italiano,
traducendo, tra l'altro, in guisa eccellente il Carme seco-
lare di Orazio. La sua opera di scrittore politico, che
trattò dell'unità d'Italia e del potere temporale, della cen-
tralizzazione, dei partiti politici, si spese quasi tutta in-
torno al 1860. Genero del Manzoni, partecipò anche alla
famosa teoria dell'unità della lingua riposta nella lingua
fiorentina; e sua è la prefazione al Novo vocabolario,
che doveva esserne la roccaforte, nella quale manzonia-
namente sosteneva che bisognasse, per una sorta di con-
venzione, prescegliere la lingua parlata in Firenze, giac-
ché «ostinarsi a proporre, come mezzo d'arrivare a que-
sta unità, una congerie di vocaboli, tra i quali bisogna
scegliere e alla quale bisogna aggiungere, senza poter
dire né come s'abbia a fare quella scelta né di dove
s'abbiano da cavar fuori quelle giunte, è rinunziare al
difficile per tentare l'impossibile». Ma la via di uscita tra
il difficile e l'impossibile, in cui si dibattevano coi loro
oppositori i manzoniani, prigionieri gli uni e gli altri di
astrattezze, fu additata poco stante nel Proemio
dell'Ascoli, che abbiamo ricordato e che portava il pro-
blema della lingua sul terreno della storia della lingua e
della cultura.

84
I preludî poetici di G. B. GIORGINI (Lucca, tip. Giusti, 1836).
74
XLI. FILIPPO CRISPOLTI

Sebbene si torni ora volentieri a parlare di poesia cat-


tolica e ad affermarne l'esistenza, convien sempre ripe-
tere che la poesia, come non può essere liberale, autori-
taria, socialistica, comunistica, non può essere neppure
luterana e cattolica, essendo estranea e nemica a qual si
voglia tendenza. Cattolico potrà essere bensí lo scrittore
apologeta, polemista, propagandista; e di questi, come è
ovvio, non ne mancarono in Italia neppure nell'età di cui
noi veniamo trattando, sebbene il loro valore fosse, in
genere, assai meschino.
Scrittore cattolico in tal senso fu anche il Crispolti in
un romanzo, Il duello85, nel quale approva e difende
l'atto del cattolico offeso, che rifiuta di battersi in osse-
quio al divieto che la Chiesa fa del duello. L'eroe del ro-
manzo non è (come forse l'autore ha creduto) un perso-
naggio squisitamente morale per quel rifiuto al quale
tien fermo, perché, moralmente, il duello è, nel suo
estrinseco, un fatto materiale e, nel suo intrinseco, se-
condo i casi, una sconsiderata, e anche una cattiva azio-
ne, o un preciso dovere. Nel caso di quel suo eroe, che
faceva vita mondana, frequentando salotti, circoli e cor-
se di cavalli, e, in un incidente di corse e di scommesse,
diceva una parola mal tollerata e riceveva uno schiaffo,
parrebbe che per l'appunto fosse un dovere, perché, par-
tecipando egli a quella società e a quel modo di vita,
non poteva sottrarsi alle particolari leggi di essa, delle
85
Milano, Treves, 1900.
75
quali aveva goduto i vantaggi e che aveva tacitamente
accettate. Che se poi l'incidente, nel quale era capitato,
gli apriva gli occhi sul rischio a cui leggermente si met-
teva di ferire o uccidere altri e di giocare con pari legge-
rezza e colpevolezza la propria vita, conveniva forse
che, per quella volta, si sottomettesse alla costumanza, e
poi rinunciasse alla relativa società e uscisse fuori dalle
sue leggi; salvo che sin da prima, imitando fra Cristofo-
ro, non si risolvesse a farsi frate. Ma egli invece preferí
di portare in giro non so per quanto tempo, ma certo per
trecento e piú pagine di un romanzo, nei varî salotti
mondani che frequentava, quello schiaffo ricevuto, e di
recare imbarazzi e fastidî a moltissima gente, che gli vo-
leva bene ma non voleva essere poi seccata al solo alto
fine di ammirare nel suo contegno una letterale obbe-
dienza ai divieti della Chiesa: come se poi ogni divieto
non comportasse le sue eccezioni, e la Chiesa non aves-
se foggiato la casistica appunto per agevolare le ecce-
zioni senza aver l'aria di violare la legge, nelle quali
operazioni è notoriamente maestra. E poiché il protago-
nista non raccoglie allori nel mondo per la risoluzione
da lui attuata, non gli rimane se non consolarsi abbrac-
ciandosi a un'altra anima squisita, che è in grado di in-
tenderlo e di sostenerlo: a un'anima che, naturalmente, è
legata a un corpo muliebre e forma con questo una «bel-
la creatura»: forma la spirituale donna che si ama secon-
do lo stile del Fogazzaro, con gli sguardi e coi sensi tut-
ti, ricercandone la vicinanza, ma senza mai varcare il li-
mite proibito.
76
Se, per quel che riguarda questo personaggio e la sua
avventura, il romanzo non ha pregio artistico ed è una
costruzione di testa, e per giunta una costruzione non
ben congegnata, si svolgono con maggiore rispondenza
al sentimento spontaneo dell'autore le parti che descri-
vono la società clericale, il cosí detto «mondo nero» di
Roma, messo a fronte di quello «bianco», alla società li-
berale della nuova Italia. Da quelle descrizioni vien fuo-
ri che lo spirito che agitava quel «mondo nero» era la
brama assillante di accostarsi al suo nemico, di assimi-
gliarglisi, di mendicarne lodi, di ottenerne considerazio-
ni e riguardi, sí da esserne trattato alla pari. Cosa da non
confondere con la accettazione rassegnata di un dominio
di forza che non si riesce a scuotere, perché verso quel
che si sente ingiusto e tirannico non si mira golosamen-
te, non si civetta e non si fa all'amore; e quella società
clericale si comportava in questi modi, cioè veniva a ri-
conoscere nell'altra una superiorità d'intelligenza, di co-
stume, e perfino di eleganza. Per una festa di beneficen-
za delle dame cattoliche si pensa, in quella società, a
scegliere, come opera teatrale da rappresentarsi, La città
morta di Gabriele d'Annunzio!
Bisognerà avere un po' di coraggio ‒ fece la Villanero piú
che mai infervorata: ‒ in Italia noi della società abbiamo
sempre bisogno d'imporre la quarantena: accetteremo poi
ogni cosa, ma per alcuni anni la consegna è di scandalizzar-
si. Ti ricordi al tempo che eravamo ragazzi? Guai a chi aves-
se parlato del Carducci: uno scapigliato, un bestemmiatore;
ce n'è voluto prima di farci vedere con un suo libro in mano

77
o d'assistere a un suo discorso! Che cosa poi si guadagni a
far cosí io non lo so: uno scrittore resta quel che era prima,
non sconfessa niente di quel che ha scritto, e quando viene il
giorno che noi gli ribenediciamo tutti, abbiamo il gran meri-
to di essere arrivati tardi.
Arrivare tardi era il loro secreto cruccio; e li abbiamo
pur visti, cotesti clericali, cotesti preti e vescovi e arci-
vescovi, rifarsi della tardanza e precipitarsi avidi su tut-
to quanto il mondo profano potesse offrire all'ingordigia
della loro vanità insaziata.
Cosí il Crispolti non si può dire che rendesse buon
servizio alla Chiesa, né quando inculcava, nel modo che
si è visto, l'obbedienza ai dettami di essa, né quando si
lasciava andare a narrare le sue proprie osservazioni ed
esperienze, scoprendo la misera realtà di quel mondo
clericale86.
Ricordo, invece, con piacere i pochi suoi versi 87, che
egli presentò al pubblico con parole modeste ma anche
con verità di giudizio:
Mai genïal furore
non mi dettò una rima;
ma se per entro al core

86
A questo proposito leggo in un libro del Faldella: «I patrizî romani, ormai
avvezzati alle cariche pubbliche dai liberi suffragi, che li hanno portati nei
Consigli comunale e provinciale, sentono gola del Senato d'Italia. Una pa-
trizia incitò il marito ad accettare il seggio senatorio, passandosi di chieder-
ne il permesso al Papa, perché ‘prima si fa il peccato e poi si domanda
l'assoluzione’» (G. FALDELLA, Clericali, note, Torino, Roux e Favale, 1836,
pp. 47-8).
87
Poesie, con lettera dell'em. cardinale Capecelatro e prefazione dell'autore
(Bologna, Zanichelli, 1900).
78
lo sguardo mio s'adima,
se il suo riposto ardore
fedel so trarre in cima,
la gioia od il dolore
non chiede opra di lima.
Non sempre acqua sorgiva
spontanea il suol disserra
con getto vïolento;
anche cercata a stento
nel sen d'arida terra
limpida sale e viva.
Sono nati, infatti, nei suoi momenti migliori, quando,
appartandosi dalle congreghe clericali, trasferendosi di
là dalle loro passioni ed interessi e dalle loro gesuiterie,
ritrova in sé la comune umanità e porge ascolto ai senti-
menti che gli vengono su dal cuore commosso, ai quali
sa dare forma semplice, nobile e gentile.
Come affettuose e delicate suonano queste strofe per
la morte di un bambino!
Tu giaci qui: le fulgide promesse
che aleggiavano intorno alla tua cuna,
fûr sogno che non resse
contro la ria fortuna.
Le vesti, i giuochi che t'avean serbato,
vuota reliquia stanno:
la madre tua, chiusa in un duolo irato,
pensa: ‒ Gli altrui bambini cresceranno. ‒
No, crescerai tu pur: gli spenti figli
si fanno adulti nei materni cuori;
chiedon le madri ad essi piú consigli
79
che al senno dei maggiori.
E il cor materno è un porto
che non tocca bufera.
Beato il bimbo che v'approda morto,
né sa le angosce della vita vera!
Il Crispolti è penetrato qui nella piú intima vita di una
madre, nelle piú riposte sorgenti a cui ella attinge vita e
virtú morale e intelligenza di bontà. E quanti aspetti
dell'anima che ama e trepida, quanti moti di tenerezza e
di dolore, quanta amarezza e dolcezza in queste altre
strofe per la morte di una giovane signora:
Con un plaudente mormorio sommesso
s'apria la folla entro le vaste sale,
e passavi, nel volto e nell'incesso
come donna regale.
Ma innanzi ai tuoi benigni atti leggiadri
dell'invidia cadea fiaccato il dardo,
e fise ti guardavano le madri
con un materno sguardo.
Che se dei cari tuoi pungente affetto
ti radduceva alla magion romita
ond'eri un giorno accanto al tuo diletto
pallida sposa uscita,
essi, vinti da súbita allegrezza,
parean dir nei sembianti: «Oh vieni, vieni,
tornan con te l'antica giovinezza,
gli antichi dí sereni!».
Che festa a tutti esser cagion di festa!
Ma un dí che curva all'ago il guardo senti
di tua madre, ed a lei volgi la testa

80
con occhi sorridenti,
essa nel volto di sua figlia assorta
provò nel sangue un brivido improvviso:
Maddalena, la tua sorella morta,
cosí le avea sorriso.
Con molta finezza è veduto il nesso di affanni e letizia
che si raccoglie nell'unità dell'anima umana:
Tu ch'hai la fronte ed il parlar giulivo,
triste ti fai se t'abbandoni al canto,
e un accordo non v'ha cosí festivo
cui tu non doni un lagrimoso incanto.
Anch'io parlo giocondo e triste scrivo:
tal che avranno i miei versi unico vanto
scender dolenti ove il patir fu vivo,
e le nubi del cor sciogliere in pianto.
In noi, dunque, mentisce o l'alma o il volto?
ovver cantando ci si desta in core
un presagio di lutti invan sepolto?
Oh no: lo spirto che nel vol si sfrena
ridir non può che in voce di dolore
la sua letizia luminosa e piena.
Gli sorgono anche spontanee nella fantasia le grandi im-
magini della storia, con le quali, sobriamente effigiate,
sa tessere l'omaggio che si richiede a una principessa del
sangue dei Savoia e dei Bonaparte:
In te due stirpi vivono. L'una costante e forte,
or docile agli eventi or guidando la sorte,
lenta al pian dell'Eridano giú dall'Alpe calò;
l'altra, stanca dell'ombra immobilmente uguale,
sentí nel sangue fremere quasi un vigor fatale,
81
e nei campi d'Europa improvvisa balzò.
Ma all'una e all'altra stirpe, sortite entrambe al regno,
la procellosa e trepida gioia di un gran disegno
le nubi del pensiero sulle ciglia addensò.
Talché quasi a rifugio dell'affannosa cura
una insieme invocavano serena creatura,
e il doppio tronco altèro l'atteso fior portò.
Che cosa recherò ancora dei versi del Crispolti, rima-
sti ignoti o presto dimenticati? Un sonetto a un laborio-
so scrittore di giornali cattolici, che a quell'opera sacrifi-
cava le forze e le speranze di un raro ingegno:
Tu dovevi alla lampada silente
meditando vegliar l'ore tranquille,
e sopra l'ali del pensier possente
di gran lunga levarti in mezzo ai mille.
Nol facesti, e sei l'onda d'un torrente
che si spezzi e si stremi in cento stille;
sei l'incendio che già fremea latente,
e poi si perde in piccole faville.
Ma se tra i saldi amici alcun ti gridi:
‒ Sveglia la forza che in te dorme ascosa ‒
tu per poco l'ascolti e poi sorridi;
perché pensi: ‒ Otterrò la mia vittoria
dove l'umil fatica è glorïosa,
dov'è silenzio e tenebre la gloria.
E lo reco in esempio a illustrare il detto di sopra: che
non c'è una poesia cattolica, non c'è neppure quando
loda per avventura un giornalista cattolico, perché la fi-
gura che qui si dipinge con ammirazione e con affetto è
chiaro che resterebbe la medesima se quel giornalista
82
fosse invece un libero pensatore, un repubblicano, un
socialista o un anarchico. Poeticamente è la celebrazio-
ne in universale dell'individuo che si spende e si consu-
ma per l'ideale che lo supera e al quale si è dato senza
chiedere altro compenso che questa dedizione stessa.

83
XLII. G. SALVADORI ‒ G. FORTEBRACCI
‒ ANTONIETTA GIACOMELLI

Partecipava vivacemente al pensare e sentire comu-


88
ne un giovane italiano d'intorno al 1880, Giulio Salva-
dori, tutto fede nella scienza, nel positivismo ed evolu-
zionismo, antiascetico, anticristiano, devoto al Carducci.
Ma, in ciò diverso dai piú di quei giovani che inalbera-
vano la bandiera della espressività immediata e tumul-
tuosa ed erano di conseguenza verseggiatori trascurati,
scorretti o addirittura lutulenti, il Salvadori si travaglia-
va assai nella forma letteraria, riattaccandosi, non senza
consapevolezza, ai parnassiani di Francia. E sebbene la
sua vena fosse magra, e, tra il lodevole aborrimento del
facile e volgare e lo studio che dimostravano dell'elet-
tezza e del decoro, pur si avvertissero nei suoi versi con-
torsioni e stenti e prosaismi e una generale difficoltà a
raggiungere la parola nitida, concreta e viva, quelle sue
prime prove davano qua e là lampi come di promesse e
qualche volta attingevano il segno. Si veda come è at-
teggiata, in una trilogia di sonetti, la figura di una donna
che, a chi la guarda in pensier d'amore, fa intravedere o
sognare in lei dolore e passione e altezze e profondità di
sentimenti e anelito al sublime e all'infinito:
Occhi lucenti! Non per la fugace
gioia che ad ogni vista si rinnova
quasi luce di specchio; a lei non giova
88
Si veda il quadro che ho dato di quella letteratura giovanile nel vol. V, cap.
I.
84
questa del mondo visïon fallace.
Ma vi si duole affanno che tenace
occupa il petto, onde ogni vista nova
ratta vi muor, né cosa è che la muova
se non speranza d'infinita pace.
A notte, sola, il trepido stellato
mira tra l'ombre; e ascolta ne la valle
del fiume infaticabile il fragore.
Che chiede il vivo abisso interminato?
Che cerca il fiume nel suo cupo calle?
Che vuol questo inquïeto umano core?
È un bel sonetto in cui l'anelito sentimentale si tradu-
ce in un ritmo di gentili e forti immagini; e mi si attaccò
alla memoria, come fanno le cose belle, sin da quando la
prima volta mi accadde di leggerlo89. Ma, dopo cinque o
sei anni di questa partecipazione alla vita spirituale dei
suoi coetanei e dei suoi maestri, il Salvadori sofferse
una conversione alla piú intransigente dottrina e pratica
cattolica, che investí tutto l'esser suo e conformò tutta la
sua vita. Il quale evento non solo soffocò e spense i ger-
mi poetici che si schiudevano in lui, ma impedí la nasci-
ta e lo svolgimento di altri germi poetici, perché egli
non si abbandonò piú alla tentatrice fantasia, ma seguí
propositi morali, ancorché sinceri e nobilmente intesi, di
necessità non piú poetici. Dapprima, miles Christi et Ec-
clesiae, entrò nell'impegno con sé stesso di difendere la

89
Si trova anche nella ricca raccolta di Liriche e saggi del Salvadori, a cura di
C. Calcaterra (Milano, Soc. ed. Vita e Pensiero, 1933, I, 110-11); ma a me
piace recarlo nella lezione primitiva e che mi pare in piú punti migliore di
quella posteriore.
85
sua nuova fede mercé del verso, contrapponendo alla
poesia laica del suo ammirato Carducci, a quella poesia
che prima gli suonava religiosa e ora una sequela di bla-
sfemie, un Canzoniere civile90, in cui non poco persiste-
va dei modi e dello stile carducciani accanto a quelli
manzoniani e che era accompagnato da note dichiarative
intorno a concetti morali e politici. Le immagini che
pure affioravano, nei suoi primi componimenti, qui, an-
che quando vi si accennano, sono come mortificate e
scolorite, e non rimane in questi nuovi se non il decoro
letterario, che egli sempre mantenne. Adesso si credeva
in dovere di protestare contro i nomi un tempo riveriti,
come quando nel 1889 fu inaugurato in Roma, in Cam-
po di Fiori, il monumento della nuova Italia a Giordano
Bruno:
Chi nel suo ciel dïafano
ov'è tanta preghiera,
chi pose la bestemmia
segno alla sua bandiera?
L'uom senza fede sorgere
dov'è la croce in bando
il popol mira; e applaude
all'idolo nefando.
Dove quell'«idolo nefando» detto di un uomo che con-
sacrò la sua vita all'indagine del vero e fu messo a morte
crudele per la sua fede, dimostra quanto il settarismo
chiesastico possa anche sopra un animo gentile, com'era
quello del Salvadori. Il quale non insistette per altro in
90
Milano, Trevisini, 1889.
86
questa assunta missione religioso-poetica, sebbene, an-
che dopo il Canzoniere civile, componesse versi di tanto
in tanto, che avevano del compito letterario o dell'opera
meritoria, com'è un rifacimento della predica di san
Francesco agli uccelli, cosí poetica nei Fioretti, e che
nel Salvadori suona:
Francesco, andando con sua compagnia,
alberi vide al lato della via,
ed una moltitudine d'uccelli
che piegavan col peso i ramoscelli.
Ed ei si volse tanto lieto in viso
che gli ridea negli occhi il Paradiso:
«Fratelli miei, voi grati esser dovete
a chi vi fece creature liete,
e sempre voi dovete Lui lodare
perché v'ha fatto liberi a volare,
e v'ha dato di piume vestimento,
sicché non vi fa danno acqua né vento...
Eccetera. O questo Gloria in excelsis:
Gloria nei cieli altissimi,
gloria in eterno a Dio,
e pace in terra agli uomini
di voler giusto e pio.
Parlan delle tue glorie
le stelle e il sole al senso,
gli eccelsi monti parlano,
parla l'oceano immenso...
E anche qui via seguitando. La stessa efficacia steriliz-
zante che avevano esercitato sulle sue attitudini poeti-

87
che, quali che si fossero, la nuova sua fede e il nuovo
abito di vita esercitarono sulle sue attitudini critiche, le
quali, sebbene neanch'esse grandissime, erano tuttavia,
negli scritti giovanili, favorite dalle esperienze d'arte a
cui l'autore partecipava e, pur tra incertezze e paradossi
di criterî, si manifestavano in acuti giudizî. Ma poi i cri-
terî, nonché farsi piú saldi e piú tersi, si perdettero nei
vuoti concetti dell'estetica moralistica e riaccettarono
perfino la rettorica delle vecchie scuole: in un suo libro91
dichiarò di attenersi al Vico e (pare incredibile) il Vico
che andò ad abbracciare fu quello del quadernuccio di
rettorica tradizionale (Institutiones oratoriae), che il po-
vero maestro napoletano usava nella sua modesta scuola
assai prima che meditasse la Scienza nuova, curioso do-
cumento ritrovato e messo a stampa nel 1845! In fatto di
storia, vide come chi travede, e le sue attribuzioni di
rime a Dante o al Cavalcanti, i suoi giudizî sullo stil
nuovo e sul rinascimento, non furono accettati nemme-
no dai suoi amici. Interpretò come interpreta chi è uso a
leggere allegorie nei sacri testi e spiegò le fedi altrui che
discordavano dalla sua come le spiegano i preti92. Il di-
storcimento della verità per fini chiesastici si compieva
91
Natura e arte nello stile italiano (Roma-Milano, Albrighi e Segati, 1908; 2 a
ed., 1909).
92
Si veda la chiusa del suo saggio sulla religiosità del Carducci: «Perché dun-
que il Carducci non confessò apertamente il ritorno? e non dico il ritorno
alla fede cristiana, perché cosí entrerei in una regione dell'anima dove,
mancando le testimonianze, non si può né si deve entrare, ma il ritorno sui
suoi errori, attestando pubblicamente di avere errato? Perché non era libe-
ro» (op. cit., III, 451). Spiegazione, mi vuol parere, alla padre Bresciani: gli
faceva paura la Setta, e il pugnale della Setta, alla quale si era incautamente
affiliato!
88
in lui senza che egli si accorgesse dell'errato procedi-
mento, a segno che nell'ultimo suo libro lo si vide, con
meraviglia universale, comporre lui un'ode quale il
Manzoni, a suo credere, l'avrebbe composta, e poi ragio-
nare su quei versi come su documenti della vita del
Manzoni93: una sorta di pia fraus che non vuol dire pro-
priamente inganno fatto agli altri (troppo ingenuo a que-
sto fine), ma anzitutto inganno fatto a sé stesso. I suoi
correligionarî scrivono che egli era «tutto di Dio», e
che, incontrandosi con lui, «si pensava di esser passato
vicino a un santo»94; e certamente i santi che la chiesa
venera sono fatti cosí. La fede religiosa era in lui una
consegna militare, un dato fermo e immobile, nel quale
il pensiero, che è realistico, e la fantasia, che sente di
terra, non trovavano azione alcuna da esercitare; che fi-
losofia e poesia vogliono dubbio e travaglio e ardore di
ricerca e moto incessante. E nondimeno, se non mi par
che si possa giudicare della sua opera letteraria altri-
menti dal giudizio che qui ne ho recato, non si può,
d'altra parte, chiudere il discorso intorno a lui senza ren-
dere omaggio a un uomo che seppe distaccarsi da una
compagnia giovanile che gli era stata diletta e condurre
dignitosamente una vita tutta sua propria in mezzo a una
società letteraria e accademica di spiriti diversi e avver-
si, la quale, del resto, liberale com'era, ebbe per lui ri-
guardi e simpatia. Merita quest'omaggio tanto piú oggi,
che la sua figura riservata e austera è rimprovero ai re-
93
Sul proposito si veda un articolo del compianto amico Ruffini, in Critica,
XXVIII (1930), pp. 229-37.
94
Si veda ed. cit., I, 83.
89
centi neocattolici e convertiti, privi di ogni finezza, avi-
di di baccano e di grossolani successi, e spudoratissimi.
Un amico del Salvadori, Pietro Bracci, in letteratura
Guido Fortebracci95, battagliò, non con la riservatezza di
lui, ma con violenza contro il Carducci, poeta pagano 96;
senonché, meno ancora di lui, nei suoi versi d'altronde
corretti e ben girati, si liberò dall'imitazione del Carduc-
ci, che gli stava sempre presente. Assai migliore prova il
Fortebracci faceva nella critica letteraria e storica, e i
suoi saggi sul Leopardi, sull'Aminta e la Gerusalemme,
sulla prosa italiana e altri, meriterebbero di non esser di-
menticati per i giudizî che offrono, non comuni e spesso
di molta giustezza. Seguiva anche un certo indirizzo po-
litico, di cattolico patriota e sollecito dei problemi socia-
li, e ambiva a esercitare nella poesia una missione reli-
giosa e politica, e avrebbe voluto a ciò compagno l'altro
amico, Gabriele d'Annunzio, col quale si reputava nato
a un parto per la gloria della sublime poesia italiana:
O Gabriele, ascolta. Il cieco volto
perché volgemmo dal prescritto fato?
Diletto fratel mio di pena involto,
sorgi all'altezza per la qual sei nato.
Moveremo alla pugna che ci chiama
come due pardi generosi insieme;
fin che gli occhi ne l'ore algide estreme
l'Itala Musa chiuderà, che ci ama.
E, giacché sono a parlare di scrittori cattolici, farò
95
Scritti varî (Roma, Forzani, 1904): n. nel 1864, m. nel 1902: a vent'anni
aveva pubblicato un volumetto di versi: Ante lucem.
96
V. Letteratura della nuova Italia, II5, 10-14.
90
cenno di una scrittrice che veramente, meglio che catto-
lica, sarebbe da dire cristiana, Antonietta Giacomelli 97,
la quale mise a stampa alcuni volumi sotto forma di dia-
rî, contenenti impressioni e osservazioni, ricordi e pagi-
ne autobiografiche, idealizzate e romanzate: veramente
femminile in questo bisogno di versare sulla carta la
piena dei proprî sentimenti e pensieri, di conversare e
anche un po' di chiacchierare, senza assurgere né alla
trattazione teorica o storica, né all'opera d'arte. Con tutto
ciò, la Giacomelli descrive a volte con evidenza:
Tornando, mi fermai da Tita a far la mia provvista di fran-
cobolli. Non c'era nessuno in bottega, e per quanto chiamas-
si: Ehi, di casa!, nessuno rispondeva. Mi rassegnai ad aspet-
tare, seduta tra un barile di acciughe e un sacco di farina, in
faccia al banco nero e unto e alla Madonnina in alto, col suo
lumicino tremolante. Passai in rivista sulle scansie di sotto le
scatole di fiammiferi, i gomitoli di spago, le bottiglie d'alker-
mes, i pacchi di candele di sego, tutte gialle e punteggiate
dalle mosche, le matasse di cotone scuro e sbiadito, e due
vasi di vetro, mezzo pieni di amaretti e di pandòli, non so se
ancora allo stato di commestibili o se già passati a quello di
fossili.
E aspiravo quel certo odore misto di grasso e di droghe
che ho sempre sentito là fin da ragazzina, quando accompa-
gnavo il bisnonno Marco dal suo amico Checchi, che stro-
picciava sempre le sue mani incartapecorite e aveva il naso
rosso e rideva volentieri, e mi regalava ogni volta un buzzolà
che sapeva d'olio. I due vecchi discorrevano dei loro tempi

97
Lungo la via (3a ed., Firenze, Barbèra, 1895); Sulla breccia (ivi, 1894); A
raccolta (Milano, Cogliati, 1899).
91
con certi scherzi che non capivo98...
Altre volte, con commosso sentimento, come in questo
ricordo del domenicano padre Guglielmotti, storico
dell'antica marineria italiana, che visse tra i suoi frati del
convento della Minerva e gli ufficiali della marina ita-
liana, che gli volevano bene:
In fondo alla gran chiesa solenne alcuni ceri ardevano in-
torno ad una bara modesta; due lunghe file di domenicani
cantavano requie al vecchio fratello estinto. Appiè dell'ara
posava una corona con la scritta: Al padre Alberto Gugliel-
motti ‒ la Marina italiana. Di fianco all'altare, accanto al ge-
nerale dell'ordine, era un ammiraglio. ‒ M'ero appoggiata a
una colonna guardando, mentre le meste salmodie erravano,
salivano sotto le vôlte alte del tempio. ‒ Il frate ottuagenario,
due sere prima caduto sulla breccia, riposava. L'anima ga-
gliarda che, innamorata di Dio, del mare e delle patrie glorie,
aveva, alla mano infaticabile, dettato tante pagine vibranti
d'italiche grandezze, di tempeste e di fragor di battaglia, era
salita all'infinita pace. I fratelli, ammantati di bianco e di
nero, colle torce in mano, cantavano ‒ ritto guardava l'ammi-
raglio: ‒ sui fiori, che la nostra marina aveva deposti sulla
povera bara, pioveva un pallido raggio di sole99.
Vive e frementi custodiva le memorie domestiche e la
passione dolorosa d'Italia e degli anni delle cospirazioni,
delle rivolte, delle persecuzioni poliziesche: come là
dove narra di una famiglia nella quale, dei due fratelli
maggiori, l'uno era caduto combattendo a Venezia nel
'48 e l'altro stava in prigione:
98
Lungo la via, pp. 7-8.
99
Sulla breccia, p. 219.
92
Una sera, verso la metà di febbraio del '51, il papà e Ber-
nardo erano andati al caffé, e piú tardi solo era uscito anche
Lorenzo. La mamma ed io si stava lavorando in tinello. Lei,
mi ricordo, frastagliava fiori di pelle per farne una ghirlanda
al povero Andrea, e io terminavo una berretta pel papà, e sta-
vo appunto attaccandovi il fiocco. Si ode suonare il campa-
nello sgarbatamente. Poco dopo compare il vecchio Mattia,
bianco come un morto. Non aveva detto una parola, ma noi
eravamo balzate in piedi, guardandoci atterrite. «Tu resta
qui», mi disse nostra madre, «andrò io». E s'era già fiera-
mente ricomposta.
Io stetti là un pezzo, come paralizzata; poi corsi fuori e su
per la scaletta di servizio al buio, urtando dappertutto, fino
alla camera di Lorenzo. Spinsi la porta semichiusa... Il com-
missario, curvo sulla scrivania, rovistava nei cassetti, fruga-
va nelle commettiture. Lorenzo, fra due gendarmi, pareva
noncurante. M'accostai alla mamma, ritta in un angolo buio,
e ascoltavo lo scricchiolare delle carte e il battito dei nostri
cuori. Finita l'operazione, il commissario fe' un cenno al
gendarme. Poi Lorenzo, istintivamente, fece per abbracciar-
mi, sentí la resistenza delle manette, e divenne livido. Lo ab-
bracciammo noi convulse. Quando me lo sentii sfuggire dal-
le braccia, mi rivolsi a cercare quelle di mia madre, di nostra
madre, ma esse pendevano inerti; e lei era rovesciata sul di-
vano, priva di sensi100.
Spiegava quale fosse, a suo sentire, il cristianesimo nei
rapporti della vita civile:
Il cristianesimo non è, mia figliuola, quale lo fanno appa-
rire i suoi falsi interpreti e i nemici, qualche cosa che disto-

100
Op. cit., p. 13.
93
glie dagli affetti e dai doveri: divino per la sua origine e il
suo fine, esso è eminentemente umano per la sua, direi, pra-
ticità, per il suo ispirare e consacrare gli affetti domestici e
cittadini, e ogni sentimento di carità, pel suo nobilitare ogni
piú umile dovere della vita, per l'aiuto possente che esso dà
ad adempiere gli obblighi che questi affetti e questi doveri
c'impongono101.
Diceva di un giornale clericale, o cattolico che si chia-
masse, dei tanti che stampano irose contumelie e calun-
nie, dando sfogo, sotto coperta di santa religione, al peg-
gio che è nell'uomo:
Lo sai che cosa ho fatto di quel giornale che m'hai manda-
to? Ho tagliato tanti cari stampini di cuffiette, carnicine, cor-
pettini, per certi marmocchi di mia conoscenza, che poverini
sono venuti al mondo senza il lusso della layette. E cosí, ca-
pisci, tutte quelle frasi virulente, tutti quegli amari sarcasmi,
furono spietatamente mozzati di qua e di là ‒ e quel foglio
che pretende servire la causa di Dio e serve invece la causa
opposta, è stato costretto a fare stavolta un'opera buona dav-
vero102.
E si apriva benevola alle voci della vita:
Passano per la via voci giovani che cantano in coro un
motivo passionale. È un'armonia sonora, squillante nel silen-
zio della notte, che si ripercuote fra le case alte e si spande
lontano. In quelle note mi par di sentire tutto il poema della
vita e i sogni dei primi anni e le tempeste, e ricordi di entu-
siasmi fieri di patria e di morti amati, e di lunghi dolori, e

101
Op. cit., p. 48.
102
Op. cit., p. 30.
94
slanci di fede immensa che sale103.
I suoi volumi, molto letti in certi circoli cattolico-
liberali, apportarono certamente alle anime conforto di
bontà e di sentimenti elevati.

103
Op. cit., p. 29.
95
XLIII. REMIGIO ZENA

Tra gli scrittori cattolici non si può collocare pura-


mente e semplicemente Remigio Zena (marchese Ga-
spare Invrea di Genova, 1850-1917), sebbene fosse stato
perfino ‒ che è un po' grossa ‒ zuavo pontificio. Di que-
sta sua qualità, e dello spirito bellicoso che comportava,
si ricordò una volta, quando Lorenzo Stecchetti, in una
di quelle ore nelle quali gli veniva il ghiribizzo di ma-
scherarsi da terribile socialista rivoluzionario, irridendo
i moderati e i «manzoniani», annunziò prossimo il gior-
no in cui per le strade «proromperà l'esercito ribelle». E
lo Zena, pronto, lo rimbeccò:
Non predirlo quel giorno; sei poeta
e il ramoscel di Venere ti basti,
il ramoscel che adori e che scambiasti
col falso cannocchiale del profeta.
L'alba non affrettar, giovane atleta,
di quel giorno nefasto tra i nefasti:
alla scuola del ver ti consacrasti
e il trionfo dell'arte è la tua mèta.
Ma se l'eccidio vuoi, se tra i ribelli
speri cantar le strofe insanguinate,
non tutti avrai seguaci i tuoi fratelli.
E, ritta in piedi sulle barricate,
vedrai, di fronte alla tua frigia dea,
se sarà manzoniana la Vandea!104.
In taluni canti religiosi, che si leggono nel suo volume
104
Tra le Poesie grige, libri tre (Genova, tip. dei sordomuti, 1880).
96
Le pellegrine105, si sente, per altro, una fede piuttosto
bramosamente cercata che posseduta o raggiunta. Vi
sono accenti commossi di sconforto, di conforto, di ab-
bandono e di fervore:
Dio non mi volle. Dei celesti imperi
i desidèri miei caddero spenti...
Non riverbera gl'inni del passato,
non la speranza di future aurore,
lo specchio infranto della mia coscienza.
Ma una voce lo carezza e rianima:
Torneranno. Non piangere. Il segreto,
il tuo segreto lo conosco. Attendi,
e il tuo cuor fiorirà come un roseto.
Attendi e prega. Prega. Non intendi,
tu che altrui l'insegnasti, e piú non sai
compitare il cattolico alfabeto?...
Sogna l'apparizione di una Mulier super nubem candi-
dam, quasi anima della sua anima, con la quale tiene un
affannoso colloquio. Ella gli dice:
Il mio nome è CRISTIANA. Vinco i cuori
e li trascino a Gesú Cristo, figlia
di Gesú Cristo che d'amor m'invade.
Di pregare e d'amarvi io non mi stanco,
o voi nati alla fede del Vangelo,
eppur pagani.
.............................
Io son Colei che cerchi, eppure ignori,
tu cui la sete d'altro amor consiglia,
105
Milano, Treves, 1894.
97
né sai coglier la lagrima che cade.
Son Colei che per te, chiusa nel bianco
mantello delle figlie del Carmelo,
alza le mani...
Ed egli le si rivolge con deserta brama:
Vi contemplo in ginocchio, e mentre io ardo,
perché mi dite voi: Noli me tangere
col linguaggio turchino dello sguardo?
Oh! la fronte posar nella conchiglia
di queste mani benedette e piangere,
piangere all'ombra delle vostre ciglia!
.............................
O desidèri miei, pace e ristoro
chiedete alla pupilla beatrice:
venite all'ombra delle ciglia d'oro
di Colei che è regina e imperatrice!
Conferma, per altro, la sincerità di quest'ansia religiosa
il giudizio severo che lo Zena faceva dei contemporanei
scrittori e poeti mistici di Francia: i Barbey d'Aurevilly,
i Villiers de l'Isle Adam, i Verlaine, gli Huysmans, i Pé-
ladan, i Léon Bloy, l'intero «sinodo gallicano», come li
chiama, dei quali avverte, e fortemente gli ripugna, la
falsità. E poiché quella prima generazione di letterati
cattolici ha avuto figli assai peggiori e piú ripugnanti,
non solo nella Francia odierna ma anche in Italia, ‒
dove ora li si vede agitarsi in gesti d'istrionica compun-
zione e in parole e atti mascalzoneschi, ‒ sarà bene leg-
gere la pagina in cui allora lo Zena effigiava quegli
scrittori francesi, che pure avevano alcune doti non co-

98
muni di fantasia e di stile:
Ogni loro libro è un'apocalisse, perché scritto coll'unico
intento di suscitare controversie clamorose, quasi sempre si-
billino anche per gli iniziati. Mistico forse, non sincero, il
Sicambro, che la sua fede inalbera come un pennacchio di
paladino errante, ed esce in battaglia, eroicamente feroce
contro i nemici di Dio e della Chiesa, pei quali l'inferno non
ha carboni che bastino, atterra col gesto, incendia colla paro-
la, nell'ira santa della distruzione non perdona a vivi né a
morti, e davanti a una sola grandezza si arresta di botto,
compreso di riverenza anziché di terrore, e per poco non
s'inginocchia davanti al diavolo; non sincero il Damasceno,
che appiedi del Crocifisso piange tutte le lacrime degli occhi
e del cuore, confessa le nere colpe, promette l'emendazione
parlando a Gesú come santa Teresa, in un mirabile colloquio
di umiltà, d'amore, d'offerta, di speranze e si abbandona,
come il marchese de Sade, al delirio di tutte quante le lussu-
rie; non sincero il Caldeo, che nel suo apostolato contro la
«decadenza latina» accozza religione e negromanzia, plato-
nismo e sensualità, imprecando al tramonto della fede catto-
lica nella coscienza moderna e violentando i riti a cerimonia-
re colle turpitudini, sacrilegamente.
Il romanzo, nel quale lo Zena ritrasse il mondo vati-
cano106, sembra una protesta contro questo mondo, dove
l'eroe, o il personaggio simpatico del racconto, un genti-
luomo ardente di fede, leale, disinteressato, generoso, è
tenuto in sospetto dagli intransigenti che posseggono
l'animo del papa, il quale espressamente li approva e so-
stiene: è tenuto in sospetto, perché (a detta dell'avvocato
106
L'apostolo, Milano, 1901.
99
clericale che dirige le schiere degli intransigenti) ha,
senza sua colpa, per attinenze di famiglia, per relazioni
d'università, un nèo: si è «affigliato alla scuola, che in
Francia vive ancora, di Montalembert, del padre Lacor-
daire, di Federico Ozanam», e ne ha succhiato «il vele-
no liberale sotto la scorza del cattolicismo». Spunti e
toni di satira, volontaria o involontaria, offre la descri-
zione che lo Zena viene facendo di quel mondo, e del
gran fervore cattolico che dié spettacolo di sé nell'occa-
sione delle feste giubilari di papa Leone XIII:
Ambasciatori straordinarî giungevano dalle corti d'Europa
recando i doni sovrani dei sovrani, recando doni giungevano
pellegrini da ogni parte d'Europa, vescovi e patriarchi li con-
ducevano; i circoli e le associazioni romane non quietavano
dall'apparecchiare ricevimenti sontuosi nei palazzi e funzio-
ni sacre nelle chiese, le accademie pontificie raccoglievano
ghirlande da appendere nei loro boschetti tiberini e d'Arca-
dia, il lavoro per l'Esposizione vaticana ferveva nel cortile
della Pigna, nei corridoi delle carte geografiche e degli araz-
zi, dove le casse di doni venivano ammonticchiandosi di
giorno in giorno: ieri Concistoro segreto, oggi il pellegrinag-
gio ungherese guidato da monsignore Simor, domani decreti
di canonizzazione dei sette beati fondatori dell'ordine dei
servi di Maria; una pioggia di opuscoletti inneggianti, un
moltiplicarsi di fervorini nelle porte delle chiese, un eterno
argomento nei salotti e nelle anticamere e nelle sacrestie e su
pei giornali di tutte le tinte...
E d'ironia volontaria o involontaria è irraggiata l'altra
descrizione del ricevimento presso il pontefice
dell'Associazione operaia, il cui conduttore legge l'indi-
100
rizzo: «Beatissimo padre, prostrati a' piedi della Santità
vostra in questo giorno solenne, venuti dall'estrema Ita-
lia, non già nella Roma pagana, ma nella Roma del bea-
to Apostolo Pietro, gli operai lombardi, liguri e subalpi-
ni...».
La sua arte, assai singolare nelle forme e nell'anda-
mento, si riattacca in modo molto lontano all'ultimo ro-
manticismo lombardo-piemontese del Boito, del Came-
rana e del Praga, coi quali lo Zena ricorda di aver avuto
comuni gli ideali artistici. Non è accentrata vigorosa-
mente in una concezione, in una aspirazione o in un sen-
timento positivo e determinato del poeta; ma nasce da
uno spirito che accoglie e insieme distanzia da sé le vi-
vaci impressioni del mondo circostante e ne parla con
tono scanzonato, talvolta giocoso e talvolta indifferente,
come chi non sa troppo che cosa debba pensarne e giu-
dicarne; e questo è poi il sentimento, il suo vero senti-
mento, per cosí dire, negativo: la poesia di un'anima che
somiglia (per ripetere l'immagine da lui usata nel suo
colloquio religioso) «uno specchio infranto». Forse in
questa visione quasi umoristica delle cose si ritrova il
lontano riattacco che si è detto con quel romanticismo; e
forse in questa fantasmagoria d'impressioni è la ragione
per la quale lo Zena non si riteneva infedele alla teoria
da lui professata: essere vana l'arte se non «interpreta i
segni visibili dell'universo come simboli d'un'altra vita
al di là della tomba»107. Il passaggio logico sarebbe sta-
to, in verità, alquanto ardito; ma è probabile che fosse
107
Nella prefazione alle Pellegrine.
101
nelle sue intenzioni.
La forza di rendere plasticamente le cose che vede, le
impressioni che prova, si dimostra già nel suo primo vo-
lume di liriche, le Poesie grige, dove, per esempio, non
è facile dimenticare, quando la si è letta una volta, que-
sta rappresentazione di un gatto, torturato dall'invenzio-
ne crudele di un ragazzo e precipitante atterrito da un
tetto:
Dal mio terrazzo vidi sopra un tetto
un micio poveretto
che in un guscio di noce aveva ciascuna
zampa serrata.
Dei suoi occhi la gialla mezzaluna
immobile, sbarrata,
pareva gonfia d'una luce densa
e si faceva immensa.
Sulla schiena un chiaror fosforescente
era ai peli latente,
ai peli ritti come son gli strali
d'un porcospino.
In quella nuova foggia di stivali
il gatto poverino
scivolava dal peso trascinato
giú pel piano inclinato.
E la grottesca faccia d'un ragazzo
sopra un altro terrazzo,
ridea, ridea malignamente sciocca
e trionfante.
Colla coda incordata e colla bocca
di bava gocciolante,

102
gargarizzando un rantolo sí strano
da sembrar quasi umano,
intanto il gatto non potea far presa
sulla tersa discesa,
e il suolo gli sfuggiva come l'onda
a un bastimento.
Restò fermo un istante sulla gronda,
cessando il suo lamento,
preso dalla vertigine dell'alto, ‒
e piombò sull'asfalto.
Anche questa pittura di un corpo di guardie non manca
certo di evidenza:
Basso è il soffitto, nero e coi travi tarlati,
l'umido a larghe chiazze suda dai muri gialli
che portan col carbone qua e là scarabocchiati
Vittorio e Garibaldi, pipe, trombe, cavalli.
Sembrano canne d'organo, al rastrello appoggiati,
gli schioppi, ed otto o dieci futuri marescialli
russan sul tavolaccio, non dal vento svegliati
che lacera i giornali parodie di cristalli.
Nell'aria affumicata da far venir la tosse
scrive intanto il sergente, come se niente fosse,
sulla tavola zoppa ed unta di grassume.
Son due ore che scrive della candela al lume
infilzata nel collo d'una bottiglia: medita
di stampar sull'Emporio una novella inedita.
Pur quando la sua poesia termina con un tocco affettuo-
so o sentimentale si avverte che questo non ne è stato il
motivo ispiratore, ma è collocato quasi un fatto tra gli
altri fatti. Cosí quella dei giocattoli:
103
Nei mesi di dicembre e di gennaio
c'è per l'aria l'odore dei trastulli:
giunge di Norimberga un treno gaio
apposta pei fanciulli.
Sono i mesi beati. Ne la via
è un canto d'allegria
la vocina del bimbo che trasecola:
«Oh il cavallo!... la spada!... i burattini!...
Mamma, mi vuoi comprar quei soldatini?».
Alla sera, levata la tovaglia
un campo di battaglia
divien la mensa, o un'area fabbricabile;
Baby tra le casette e i battaglioni
piú non sente il prurito dei geloni.
Va dai palazzi fino ai bugigattoli,
nei mesi di dicembre e di gennaio
questo perfido odore di giocattoli,
questo odor cosí gaio!
Per la strada si ferman le mammine
davanti alle vetrine
dei negozi piú ricchi e si consigliano.
Pagano trenta lire sorridendo
un fantoccio... ma un fantoccio stupendo.
Cert'altre, invece, spendono un tesoro,
due soldi ‒ tutto il loro!
E si portano a casa un cavalluccio.
«Chi ce la paga al mio piccin la fiera?
Già, non ho fame, mangerò stasera.»
Qualche squillo di schietta letizia c'è in un idillio amo-
roso:
O che gaio mattino!
104
Se tu vuoi nel giardino
scendere, mia Francesca,
a raggiungere andiamo
le ciliege sul ramo
all'aria fresca:
le ciliege vermiglie,
enormi cocciniglie
tra le fogliuzze appese,
che fanno rubiconde
delle piante le fronde
in questo mese...
Sull'erta profumata
segui la cicalata,
mentre dalla mia cima
ti scaravento in grembo
di cilïege un nembo
e qualche rima.
Ve' i coralli e i rubini!
Mettiti gli orecchini
come fanno i bambini
Riviver ci parrà
d'una lontana età
gli anni turchini.
E qualche accento di passione è anche in quest'altro idil-
lio, in ferrovia, attraversando un tunnel:
Il fischio assorda, ti batte la faccia
un buffo d'aria e la notte profonda
tosto ti stringe colle negre braccia.
Nella sua corsa affumicata e fonda
tremola del soffitto la fiammella,
morbida e calda piove entro la cella
105
uno sprazzo di luce vereconda.
Io sui ginocchi abbandono il Fanfulla,
lei si aggiusta i panneggi del vestito,
e ci guardiamo senza dirci nulla.
Non ho il coraggio di toccarle un dito:
penso, chi mi sa dir quello che penso?
Fatti imbecilli da un amor immenso,
camminiam verso il sole e l'infinito.
Poi lo Zena viaggiò, visitando le isole del Mediterra-
neo occidentale, Costantinopoli, l'Egitto, e dimorò per
alcun tempo a Massaua nei primi anni dell'occupazione
italiana; e di queste sue impressioni di Oriente e di Afri-
ca riempi un volume, Le pellegrine, nel quale anche piú
spiccato è il fare di chi ritrae in vive immagini quasi
giocherellando quel che gli entra pei sensi, senza per al-
tro reagirvi, se non con qualche finale commento, messo
per conchiudere, o col raro accenno di qualche senti-
mento personale. Si ferma a considerare la fisionomia di
un certo quartiere remoto di Massaua:
Laggiú dove si avanza
l'isola fra due mari,
cento sette alveari
son di Venere stanza,
formanti in semicerchio
a un metro d'intervallo
quel Ferro di cavallo
leggendario soverchio.
Poesia d'Orïente!
È un villaggio tranquillo,
dove manca lo strillo
106
dei bimbi e il diligente
spazzino mattutino,
e fin l'inverecondia
sorta dalla facondia
di scrittor novellino.
Nella succinta veste
cucite tutte quante
dalla testa alle piante
le educande modeste,
presso il loro stambugio,
senza dar noia altrui,
attendono colui
che domanda rifugio.
Attendono. Se spesso
qua e là sotto la luna
un gruppetto s'aduna
conversano sommesso,
e un bisbiglio assai mite
appena si distingue;
non fanno queste lingue
né gazzarra né lite.
L'unghie sono rapaci
se si presenta il destro,
ma un colpo da maestro
rende assai piú dei baci.
Figliuola d'Abissinia,
negra ma non formosa,
almeno qualche cosa
t'imparò l'ignominia!
Similmente un diverso spettacolo, la Pasqua nella catto-
lica di Ras Madur:
107
L'abissina catacomba
splende come reggia,
l'evangelica colomba
sull'altare aleggia,
Cristo è sorto dalla tomba,
Cristo folgoreggia.
Scalzi i pié, le man celate
e lo sguardo estatico,
nel candore avviluppate
dello sciamma ieratico,
le notturne immacolate
vanno al santo Viatico.
Vanno in bianca litania
verso l'ineffabile.
Oh se in vostra compagnia
questa miserabile
esiliata anima mia
fosse vulnerabile!...
Una notte lunare:
Girellando a Taulud
si va tutte le sere.
Sul cielo, cavaliere
della Croce del Sud,
la luna si distacca
medaglia unica e grande,
e a larghe falde spande
non so se latte o biacca,
una morbida pioggia
d'albe, silenzïosa
pioggia che su ogni cosa
illuminando alloggia,
108
candidezza di pace
su quest'Africa in guerra,
rugiada sulla terra
che arde come fornace.
Nube il ciel non contamina.
L'isola della vecchia
Massaua si rispecchia
dentro l'argentea lamina,
e al profilo somiglia
d'una Venezia, quale,
ricordando, iemale
nella neve s'ingiglia.
Caro, amaro spettacolo!
È tua grazia o mercé,
sorella luna, se
ci rifulge il miracolo
d'un lembo lacrimato
della materna terra,
e l'anima si sferra
dal corpo incatenato.
Non dirò che questa sia poesia, perché il tono stesso, in
cui è ritmata, le assegna subito il grado di conversazione
in versi; ma, nella sua cerchia, ha pure una propria vita.
Scrisse anche lo Zena un romanzo, La bocca del
lupo108, di vita popolare genovese, di quella che scorre
tra miseria e reato, notevole per virtú narrativa e descrit-
tiva, ma anch'esso senza troppo costrutto ideale,
anch'esso, in fondo, scanzonato. L'altro romanzo, del
quale si è già toccato, L'apostolo, ha per suo motivo
108
Milano, Treves, 1892: è stato testé ristampato, Genova, Bozzi, 1932.
109
centrale la resistenza che un gentiluomo cattolico di alto
sentire morale riesce a opporre al fascino e alle tentazio-
ni che verso lui esercita una misteriosa giovane stranie-
ra. Ma questa parte con l'epilogo del disperato suicidio
della donna che è andata a cercarlo nella casa religiosa
dov'egli si tratteneva, sebbene sia condotta con bravura,
non esce dal comune dei romanzi; laddove sono eccel-
lenti tutte le pagine ritraenti il mondo clericale, delle
quali si è già accennato di sopra il singolare carattere
critico109.

109
L'ultimo suo libro (Olympia, volteggi, salti mortali, ariette e varietà, Mila-
no, Mohr, s. a., ma 1905), composto di versi giocosi su poeti e letterati e al-
tri uomini suoi contemporanei, non offre alcun interesse.
110
XLIV. LIBRI DI VERSI TRA IL 1880 E IL
1900

Ebbero fortuna le piccole liriche di Carmelo Errico, la


cui prima edizione è del 1882110, musicate molte di esse
dal Tosti. Ma, facendo salvo questo loro uso musicale,
sono scialbe composizioncelle, tutte frasi e immagini lo-
gore e generiche, su questo andare:
Deh, ti prenda pietà del mio tormento,
non isdegnarti: son le mie parole
un vano suono che si perde al vento
al par di nebbia all'apparir del sole.
Come la luce, come il sol sei bella,
soave come un alito di rosa;
sei casta come il raggio d'una stella
e dolce come tortora amorosa...
Non di molto migliore è questo paesaggio, al quale la
chiusa vorrebbe dare, ma non dà, un accento intimo:
Sorge a le spalle mie, su la collina
solitaria e tranquilla
Ortona; curva innanzi la marina
si distende e scintilla
sotto un cielo purissimo; e lontano
lontano, ove del cielo
l'indaco immenso e de l'Adriaco piano
si fondono in un velo
dïafano di rose e di viole,
110
Convolvoli, Roma, Sommaruga: la terza edizione è di Foligno, Campitelli,
1894.
111
sorgon de la Dalmazia
i monti: sopra tutto splende il sole,
corre lo sguardo e spazia.
Due nubi van come persone stanche,
via per le lontananze
del vespro; in mar, come due cigni bianche
veleggian due paranze;
e muore una selvaggia cantilena
fra le antenne del molo.
Io seguo, ne la calma ampia e serena,
i miei fantasmi, solo.
Non pochi si appoggiarono al Carducci delle Odi bar-
bare, tra i quali il piemontese Napoleone Razzetti, che il
Carducci encomiò per un'ode Valdieri e per un'altra Una
felce. Scrisse altri versi, canti sabaudi e odi politiche, e
anche quadri sociali pei quali tolse la materia dai contra-
sti politici e sociali d'intorno il 1890 e dal primo «Primo
maggio»111; ma in tutti è invincibilmente prosaico. La
sua ode a Torino comincia;
A te partendo volgo il mio brindisi,
Torino, augusta città, dai nobili
proponimenti e piú, dai maschi
fatti onde l'Italia una risorse.
Mia città, vaga di rette e splendide
vie, celebrata d'altèri portici,
invidia dell'altre e superbe
ville che d'Italia irraggia il sole;
te non d'antichi marmi congerie,
né te dell'arte classica illustrano
111
Odi barbare, con due lettere di Giosuè Carducci (Modena, Sarasino, 1892).
112
i monumenti, che sapevi
ben ritorre al rapitor francese;
tu nei congressi, tu in armi vigile
sola d'Italia contro il funereo
servaggio...
Né poetiche sono veramente le strofe che piacquero al
Carducci, sebbene, certamente, tra le meglio lavorate
delle sue:
O quelle nevi stese sui culmini
del monte come lenzuolo a vergine
dormente tra i fior nella bara,
bianche antiche immacolate nevi,
lontan lontano, là dove pallida
brilli una stella tomba mi siano,
m'avvolgan di coltrice in uso,
m'ascondano ai vivi eternamente.
Eternamente fissando i vitrei
occhi su in cielo, strette sul gelido
mio cuore le palme, ch'io trovi
d'ogni attesa oblio, che alfin riposi!
Alla mia tomba di ghiaccio il roseo
tramonto e l'alba vïole ed aurei
riflessi splendore daranno,
guizzerà la folgore al mio piede.
S'ispirava, il Razzetti, alla principessa Letizia Buona-
parte, seconda moglie del principe Amedeo, della quale
cantò e le nozze e la vedovanza e la vita in Torino:
Adorabile in suo pallore,
abbella ogni festa, anima i circoli;
all'armi ed all'arte àgapi inaugura,
113
va, viene, sorride; ma occhiuta
turba le vigila e conta passi,
parole, sguardi...
All'efficacia dell'arte carducciana non rimase chiuso
il padre Giuseppe Manni, che credo fosse un barnabita o
uno scolopio112:
Oh bella in alto e lieta alle piú pure
aure di Roma villa Ludovisi,
ove tra cielo e terra ebbe divisi
il buon papa Gregorio affetti e cure!...
che ricorda pericolosamente: «Oh bella ai suoi bei dí
rocca Paolina...», e, con quel «buon papa Gregorio»,
tenta invano di soppiantare il «Paol terzo, tra il latin del
messale e quel del Bembo», e, insomma, non è di buon
gusto.
Amo il pallido ottobre. È nel pensoso
suo volto l'ombra di chi piange morti
i suoi tempi felici, e di conforti
schivo s'attende all'ultimo riposo...
Debole imitazione, anche qui, del bellissimo:
Sol di settembre, tu nel cielo stai
come l'uom che i miglior anni finí
e guarda triste innanzi. I mesti rai
tu stendi verso i nubilosi dí...
Senonché il Manni continuava col ravvicinamento, di-
ventato convenzionale e che si trova già in un celebre
112
Nuove rime (Firenze, Le Monnier, 1903): prima aveva pubblicato Rime,
1870-1883 (Firenze, Chiesa, 1884).
114
sonetto di Giovanni della Casa:
Amo l'ottobre, che somiglia il mio
al suo costume...
I piú dei suoi versi sono per occasione e procedono per
esclamazioni ed interrogazioni, per «amori» e «dolori» e
«illusioni» e «spemi», e cosí via, tutti assai letterarî e
freddi. Freddissimi, in particolare, quelli religiosi:
O degli uomini il piú bello,
biondo figlio di Maria,
a cui dianzi il buon drappello
de' fanciulli incontro uscía,
con le palme, e, Osanna, Osanna,
esclamava in lieta voce,
deh, perché t'han posto in croce?
Non sei tu che dalla soglia
della povera officina
conducevi alla tua voglia
dietro a te la Palestina?
O Gesú, d'amore abisso,
deh!, perché t'han crocifisso?...
Imitava a volte anche lo Stecchetti, ma piú ancora lo Za-
nella, che celebrò in un sonetto affermando (e non era
storicamente vero) che:
alla risorta italica famiglia
parvero araldi dell'attesa etate
l'agili strofe della tua Conchiglia.
Ma, certo, lo Zanella gli conveniva meglio, perché, sulla
sua guida, gli era dato comporre quei sonetti descrittivi
con appiccicata chiusa morale o sentimentale, nei quali
115
l'altro aveva dimostrato la sua bravura:
Domani è luglio; e pure immoto e scuro,
come d'inverno, un nuvolato strano
sopra la valle incombe, ove maturo
biondeggia curvo tra gli ulivi il grano.
Tace ogni cosa, fuor che geme in duro
metro il torrente e lontano lontano
tuona: ritto dinnanzi all'abituro
guarda la sconsolata aia il villano.
Tacito, ratto, fende l'affannosa
aura un uccello, come sperso:
mai parve cosí l'estate angoscïosa.
O buona estate, quanto m'è gradito
questo tuo pianto novo! Or dimmi, sai
forse che il tuo poeta oggi è partito?
Dei riecheggiamenti carducciani di quel tempo merita
di essere ricordata l'ode del giovane Leonida Bissolati
Al Torrazzo di Cremona, della quale reco l'ultimo pezzo,
in cui si sente Il canto dell'amore:
Oh no, non dirti solo. A frotte salgono
e scendon per le tue viscere i bimbi
con folli risa,
empiendo il corpo tuo di calda vita;
e turbinante nell'estivo sole
che i candidi archi tuoi tinge morendo
di rosea luce,
a torme a torme le rondini tessono
voli rapidi, audaci intorno a te,
e nella gioia della corsa gittano
acute strida.
116
Vivi, ai bimbi e alle rondini, o gigante.
Che val viver con l'uomo? Ei ti dié l'elmo
e la mitra: ti dan rondini e bimbi
sorriso eterno.
Altri versi del Bissolati, composti tra il 1875 e l'81, sono
del pari carducciani, e altri leopardiani 113; ma hanno tut-
tavia un'impronta di serietà, perché sinceri erano i due
sentimenti che dominavano nell'anima dell'autore: la re-
ligione della natura e l'anelito alle lotte per la giustizia
sociale.
Luigi Pinelli, oltre le liriche, compose satire ed epi-
grammi114, dei quali rammento questo non per bellezza
di forma, che gli manca come agli altri, ma per il con-
cetto che vi si esprime:
‒ Tu che spargi di sali,
‒ disse un amico mio ‒ l'età presente,
perché non mordi mai nei clericali,
nei colli torti? ‒
Risposi umilemente:
‒ Perché ho imparato a rispettare i morti. ‒
Era proprio cosí; era prevalso allora, nelle persone piú
colte, questo sentimento di riverenza verso la religione
come verso un passato del quale piace ricordare gli
aspetti umanamente belli, ed era venuto in fastidio
l'anticlericalismo agitato e chiassoso. Per questa secon-
113
Si trovano negli Scritti giovanili, raccolti da A. Ghisleri e A. Groppali (Mi-
lano, Treves, 1921).
114
N. nel 1840 a S. Antonino presso Treviso, m. nel 1913. Poesie varie (Bolo-
gna, Zanichelli, 1888); Reliquie, versi (2a ed., Zoppelli, 1896); Epigrammi
e satire (ivi, 1896).
117
da parte, forse, si era nel vero, perché l'esperienza ha poi
comprovato che gli anticlericali di professione e di para-
ta non sono i militi piú resistenti nell'ora del pericolo.
Ma, quanto alla prima, non si teneva nel debito conto
quel che il buon senso ammoniva per bocca del popola-
no di Cesare Pascarella: «che il prete è sempre quello,
nemico dell'Italia e del progresso»; ossia che il clericali-
smo se ne stava in agguato, nell'ombra, aspettando il
momento buono per ripigliare in grande la sua industria
e il suo traffico del sacro.
Il Pinelli accoglieva la concezione naturalistico-pan-
teistica e accettava i nuovi problemi sociali e morali,
sentendo il distacco dalla generazione del Risorgimento,
legata ancora all'antica fede; ma agli «illustri veterani
dell'arte superstiti» indirizzava parole pie:
Non v'accorate, o cari; a fedi nuove
l'umanità cammina;
anela a un'alba piú lucente e pura,
anela a la divina
religïon del vero e di natura.
Nulla, fuor questo, omai non ci commuove;
il vago e delizioso
mondo, ove queta il vol la mente vostra,
è sogno faticoso,
che le posse dell'animo ci prostra...
Benché anelanti per diverse vie,
magnanimi vegliardi,
di vostre intatte fedi allo splendore
noi volgerem gli sguardi
pieni di riverenza e di stupore.
118
E gli piaceva rileggere i canti del Berchet, poeta allora
non piú inteso e mediocremente stimato, e avvertiva
come poco viva fosse la gratitudine verso coloro che
con le assidue fatiche, col sostenere dolori e travagli, col
sacrificio della vita, avevano creato le condizioni di re-
spiro e di libera operosità di cui l'Italia allora godeva.
Questo sentimento di rimprovero riempie l'ode pel mo-
numento eretto a Pietro Calvi nel 1885:
Ma solo a voi si vieta,
eccelsi spirti, dall'invitta sorte
di ritornar tra noi or che la santa
libertà queste piagge alfine allieta.
Ben foste primi allor, quando appariva
Italia al comun senso un sogno vano,
a sentirla nel cuor piú grande e viva;
ben foste primi a armar per lei la mano,
e a consacrarvi a morte;
pur chi parla di voi? chi dopo tanta
mutazïon d'eventi
in voi saluta i suoi primi veggenti?
Al ricco censo attende
il terzo giorno dopo il funerale,
de 'l donator dimentico, il nipote...
Non gli mancava qualche spunto poetico, ma il suo vi-
gore artistico era scarso. Vuol rendere le impressioni di
un canto notturno, malinconico, che ode a sera e, per
contrasto, o piuttosto per temperare quella malinconia,
suscitare le immagini dell'assidua operosa vita della na-
tura:

119
O voce piú che umana,
ogni sera ti sento
morir da me lontana
come un dolce lamento,
quando brillan le stelle
l'azzurro etra gemmando
di pura luce e quando
fra le siepi novelle
la romita vïola
spande furtivo odore
che in grembo a l'aure vola
a confortarmi il core...
Senti; nulla non dorme...
Mentre tu canti, semina
lussureggiante artefice
Natura e vite e forme.
Mentre tu canti, germina
palpitante la terra,
e dal suo grembo l'alito
della vita disserra.
Mentre tu canti, schiudonsi
i fiori in su lo stelo,
e a un nuovo sol sorridono
gli astri festanti in cielo.
Vedi, nulla non muore...
e cosí diluendo. Il sentimento è meglio condensato nel
Rivedendo un vecchio castagno:
Tale è ancor l'aspro tronco, e una famiglia
di gracili rampolli a la tua negra
ombra crescenti a te ‒ padre, ‒ bisbiglia,
‒ lasciane l'aer che del sol s'allegra. ‒
120
Tu come l'uom che avvalla al suol le ciglia
scorato, guardi e tremi dentro a l'egra
anima antica che non piú somiglia
a quella de' bei dí salda ed integra.
E par che pensi: ‒ Questa, che a me sale,
è voce di minaccia o di preghiera?
È la vita o la morte che m'assale? ‒
Saggio castagno, non cercar; l'austera
testa concedi al nembo trïonfale,
ai folgori rubesti, a la bufera.
E forse questo sonetto è la cosa sua piú felice.
Il veneziano Cesare Augusto Levi115 sentiva in sé
l'antico, il primitivo, l'esotico e remoto della gente a cui
apparteneva:
Qual sangue corra nel mio petto ignori,
e come insino al core urga e s'infibri?
Quali potenti amori
l'anima mia, simile a corda, vibri?
Ho nelle vene sangue d'Orïente,
mistico sangue maledetto e sacro,
che la mia antica gente
due volte diede agli uomini lavacro.
O cantico dei canti, o poesie
della Bibbia, o del Golgota ansio grido,
o glorie avite mie,
io vi ridesto sull'adriaco lido.
Ma, se questa dichiarazione suscita l'attesa di movimen-
ti e di parole originali, i versi che la seguono deludono,
115
Cera e pietra, nuove poesie, con pref. di P. G. Molmenti (Venezia, Kirch-
mayr e Scozzi, 1886).
121
prosaici nella loro trama di pensieri e di esortazioni.
Rare le impressioni delle cose rese con qualche forza,
come in questo «Scirocco veneziano»:
Non v'è sole e non piove,
nell'equorea distesa addormentata
tetro il cielo si specchia, e nulla smuove
questa morte larvata.
Son verdastri i canali,
le case umide e grigie, i lastricati
lubrici e stanno immoti ai loro pali
i battelli attaccati.
Un alito affannoso
viene sull'acqua da lontan paese,
sudan gocce di liquido oleoso
i palazzi e le chiese.
Tutto è floscio e barocco,
il fior dell'arte, il fior dei sentimenti,
perché reclina a terra lo scirocco
anime e monumenti.
Quale mantel di piombo
cala addosso ad ognuno l'apatia,
e solo qualche misero colombo
è padron della via.
Di pece l'acre odore
oggi piú non si fiuta, e piú non reca
una vela dal fulgido colore
questa laguna bieca.
Beato chi sublime
è in mezzo all'aer vivido dei monti,
e del pensiero tenta l'ardue cime
e i sereni orizzonti.
122
Qui lo scirocco sfibra
a ognun la vita, e al lagrimoso fato
di Venezia, l'estremo colpo vibra,
l'estremo dí ha segnato.
La città sonnolenta
non sa lottar col fango che l'ingoia,
piglia il caffé, sbadiglia, s'addormenta,
e affonda nella noia.
Altro stile e altra finezza d'arte è in Giuseppe Albini,
che ha tratti di viva e animata rappresentazione nei Ri-
cordi estivi:
Fu bello sul Carpegna andar col sole,
tra vallate cerchiandolo e ciglioni,
mentre, al suon raro d'orme e di parole,
si levavano a voi starne e falconi.
Volgevasi a guardar la pascolante
capra diffusa pel cammino alpestro,
me su l'equino scheletro gigante,
te sul muletto circospetto e destro,
e a noi davante tra le forre, quatto,
su l'asinello il condottier, che annoda
(spiace l'indipendenza all'omiciatto)
muso seguace a precedente coda:
sicché il Gerione triplice, fatica
dell'Anfitrioniade rubesto,
vinto mi parve, o se altro mai l'antica
età sognò di strane forme innesto.
Piace l'immagine terminale dell'altra lirica: Autunno:
Vicin seduta a la tua finestrella,
Dina, che fai? I dí rammenti, o bella,
123
quando, gemmata di rose i capelli,
trillavi a gara coi reduci augelli?
Or muta siedi ad infiorar con l'ago
candido vel; ma lungi l'occhio vago,
lungi vïaggia, e l'anima con gli occhi,
lenta ti cade la man sui ginocchi.
Oltre quei colli là che del colore
de le vïole tinge il dí che muore,
con gl'immobili sguardi radïanti,
che immagini persegui e che sembianti?
Chi dai lievi vapori a te s'affaccia?
Che t'impromette il ciel, che ti minaccia?...
Dina, tu ridi, e l'opra bianca levi;
ma non è il riso che a maggio ridevi.
Dilettazioni di buon letterato, che, nei campi dell'arte,
coglie talvolta qualche fiore leggiadro116.
Giuseppe Martinozzi117 era invece spinto a poetare da
un sentimento piú forte e piú costante: dal sentimento
tremendo e dolce della vita che si continua attraverso la
morte. Con le sorelle, tenendo fiso il pensiero nella co-
mune madre perduta, veniva meditando:
Degli occhi al breve, misurato giro
che è mai la vita? Un palpito, un sospiro
rapido, un giuoco della fantasia,
un curvo tratto di ferrata via,
ch'erompe dall'oscuro e vede in fondo
il nereggiar d'un'altra galleria...
116
Poesie varie (Roma, Zanichelli, 1887); Liriche (Torino-Roma, Loescher,
1894).
117
In cammino (Bologna, Zanichelli, 1885); Coscienza (2a ed. ampl., ivi,
1898).
124
Un dopo l'altro tutti
scompariremo in quell'oscuro mondo;
(ahi! questo è il peggio! un dopo l'altro, tutti!).
Ed ai rimasti, dal dolor distrutti,
di pien meriggio si scolora il cielo
e tutto intorno l'essere si spoglia
del suo magico incanto:
e il cuore è pien di sconsolato pianto.
E tu piangi con me lei che ci diede,
lieta dei suoi dolori, a questa luce
sí dolce e arcana e ch'essa piú non vede!
E piangono con noi, altri. Ma sacro
le pie lacrime a te sono lavacro,
onde, a piú vasto giro
aperti i rinnovati occhi, tu vedi
quel che non sai ridire, ‒ e speri e credi.
Ma io negli occhi tuoi
ed in quelli dei tuoi dolci figliuoli
riveggo ‒ e godo in ricercarli, ‒ i suoi:
quei suoi sí buoni, sí profondi sguardi
ch'io vidi già, stupefacendo, vivi
(curïoso fanciullo indagatore)
nel caro nonno mio, che a lei fu padre,
e morendo fu il mio primo dolore.
Or dunque (io penso), o amata nostra madre,
se tu quei sigillati occhi riaprivi
nel viso tuo consolatori a noi,
pria di nascer, nel tuo padre sentivi!
E di noi tutti ancora
una verace aurora
inconsciamente sorridea degli avi

125
nei palpiti piú dolci e piú soavi!
Ma se, prima che nati, avemmo un cuore
nel sen di quelli onde eravam l'amore,
crediam, sorelle, e il creder ci conforti:
dolce è il mistero che raccoglie i morti.
In simile guisa consola una madre triste dell'addio che
sta per dare alle figlie, alla quale egli addita i nuovi bim-
bi che già fioriscono nella casa:
In fondo ai vivi occhietti, nel guizzo del riso, nei baci
‒ oh tempio vivo! ‒ l'anima lor sarai.
Quante ridenti stelle brillaron nel breve tuo cielo
intenebrato da tante fosche nubi,
scintilleran piú terse nei teneri cuori, piú sante
süaderanno le bramosie del bene.
Tal della vita il corso da quando ebber luce gli umani:
si spenser tutti: rivivon tutti in noi.
Non era chiuso alla visione di un'umanità non piú trava-
gliata dalla miseria e dall'ingiustizia, non piú divisa
dall'odio; sentiva la nobiltà degli affetti e degli sforzi
dell'età nostra verso questo segno, e a Edmondo de
Amicis, che allora si era vòlto al socialismo, scriveva:
Edmondo, è vero: grave d'un portato
meraviglioso è l'età nostra e arride
la speranza del dí che sarà nuova
anima al mondo e fugherà l'iniqua
fame e il bisogno apportator di mali:
alta speranza!
Ma, diversamente da molti altri, sentiva che questa ri-
cerca di un migliore assetto sociale non è l'unica o ulti-
126
ma che l'uomo faccia, e che c'è sempre l'altra, veramente
somma e ultima, dell'armonia e della pace dell'anima.
E quando giunta
pur sia la sospirata alba che in bando
perpetüo dal mondo insiem discacci
l'omicida opulenza e la miseria,
cambierà sede il senso che felici
o miseri ne rende e che dal petto
spontaneo il canto o la bestemmia ispira?...
E rammentava all'amico quel che l'amico aveva provato
varcando l'oceano sulla nave che portava gli emigranti
italiani e che gli aveva dato tanta materia di osservazio-
ni e di propositi:
quell'ora
che nelle tristi tenebre del mare
allo smarrito spirito scomparse
la varia e calda scena dei viventi,
svaní con essa ogni ideal piú santo;
e sola eterna realtà sentisti
il fluttuar dell'agitato abisso
tremendo, immenso, su l'esile terra...
Egli aveva il senso del mistero, del mistero presente in
ogni particolare della vita che viviamo, del mistero che
si avverte a solo guardarci l'un l'altro e a tentar di scru-
tarci nell'anima:
Non può mai (perenne
enigma!) una vivente anima il guardo
in un'altra sincera anima aperta
fissar piú che un istante, un turbamento
127
senza provarne, inaspettato e grande,
che ne dà la vertigine e ne spinge
a divertir la mente, come quando
sopra un abisso smisurato sporta
la fronte, la ritrae con raccapriccio.
Finché sola è con sé, sé non sospetta
l'anima, di pensier tratta in pensiero,
d'immagine in immagine, qual ruota
che tocca un punto dello spazio ognora
con un punto di sé vario, né tutto,
per veloce che vada, ha della propria
circonferenza in un istante il senso.
In questo ampliarsi dell'individuo a cosmo e nel contrar-
si del cosmo nell'individuo, quel mistero ci palpita di-
nanzi, quasi stia per svelarsi alla nostra indagine e ci
prometta una gioia:
Oh fra tanto mister, supremo questo
di noi stessi mister! Supremo ‒ e pure
di fragranza sottile, oltre ogni umano
immaginare, profumato a noi
delizïosamente!
È l'universo,
forse, in questo vibrante atomo, chiuso;
come il vasto respir dell'ocèano
è chiuso d'ogni goccia entro il segreto
palpito che la spinge...
Inebriante
strazio, tentar questo mistero, a cui,
come a luna coperta, aleggia intorno
il diafano alon d'una speranza!

128
Il Martinozzi provava viva la sollecitudine morale,
l'incontentabile stimolo del dovere:
e l'anima mi lima impazïente
un senso acuto d'impotenza al Bene.
È bella una sua pagina di psicologia morale intorno allo
scienziato Paolo Gorini e al modo con cui questi aveva
conseguito la felicità:
Il Gorini fu tanto sapiente da riuscire ad essere felice; e
seppe tenersi a lato questa preziosa felicità sino agli ultimi e
dolorosi anni della sua vecchiezza, sino agli ultimi strazianti
momenti della sua agonia... Gli è che il Gorini assaggiò per
tempo i dolori piú tremendi e piú reali della vita: poco piú
che fanciullo, ebbe la sventura di perdere il padre in modo
atroce ed egli ne sentí ‒ quanto e piú di un adulto ‒ acerbis-
sima angoscia. Questo dolore tremendamente vero, questa
sventura estremamente reale, lo salvò dai tanti dolori che ci
creiamo con l'immaginazione. Poi la sua forte educazione
scientifica fece il resto. Egli seppe, per essa, nettamente ve-
dere il posto che ha l'uomo nell'universo; seppe vedere quali
sono i suoi diritti naturali e quanto grande l'acervo di
gratuiti dolori che assurde fantasie si procaccia -
no... Egli riconobbe distintamente che una somma infinita
di dolori proviene all'uomo non tanto dal sentimento che
anela, come abitualmente si dice, a una felicità suprema
e assoluta, quanto dal preconcetto che un'educazione di
secoli c'insinua di tale gratuita completa beatitudine... Dopo
avere abdicato a ogni illusione, a ogni fantasmagoria, dopo
aver rinunziato per suo conto anche alle gioie che avrebbero
potuto venirgli (e che, in quanto inattese e non cercate, gli
toccarono infatti), dopo questa spontanea rinunzia alla feli-
129
cità, egli si trovò ancora ricco e felice. Egli sentí che l'eser-
cizio della sua intelligenza sarebbe bastato a bearlo per
quanto gli durasse la vita...
Insegnante ed educatore, il Martinozzi discusse proble-
mi scolastici, e un suo opuscolo Scuola e coscienza118
accompagnò con alcune strofe nelle quali, tra l'altro, di-
ceva:
Se della mente il raggio
scorge le vie del vero,
osi a l'uman vïaggio
la meta designar.
Fuor de la mente, ha lume
l'universal mistero?
Ha mai potuto un nume
senza di lei parlar?
Al suo volume di versi In cammino poneva un congedo
similmente in versi, esaltandosi nella gioia di aver crea-
to bellezza e confortandosi nella coscienza di aver sem-
pre cercato il vero e di lasciarne un documento a quelli
che verrebbero di poi.
Io non vedrò le lor fattezze care,
né li potrò dei miei baci scaldare,
ma qui l'anima mia piú che non pare
troveranno cercando. E però scrivo.
Cosí serio nel suo sentire, cosí intento a invigilarsi e ad
affrenarsi moralmente, il Martinozzi, devotissimo al
Carducci, non è meraviglia che, alla morte del gran poe-
ta, non potesse sostenere senza protestare lo spettacolo
118
Pisa, 1886.
130
che allora offerse la gara dei cosiddetti «successori»; e
al D'Annunzio, che era uno di costoro, e come tale dice-
va o gli si faceva dire che nelle sue mani era passata la
fiaccola tenuta alta dal maestro, indirizzò questo sonetto
severo:
La fiaccola vivente alta qual rogo
ei non commise a te, cieco Titano:
benché sii grande, mal potría tua mano
d'agitarla tentar di giogo in giogo.
Di cotanta sentenza io ben m'arrogo,
che trent'anni adorai muto dal piano,
seguendo il bel fulgor di luogo in luogo
finché parve sparir nell'etra vano.
Parve, non fu! Non si perde nel vôto
la fiamma che la Dea severa spense,
ma l'assorbí nel core ogni devoto,
palpitante per lui nella grande ora.
Scese la Diva, che niun mai redense:
spenselo intero. ‒ E intero Ei vive ancora!
Era sempre il suo pensiero dominante: si muore interi e
si vive interi; e il Carducci, che nessuno poteva sostitui-
re, non era da sostituire perché l'opera sua si era trasfusa
in tutte le anime capaci di accoglierla.
Per aver sentito, pensato e detto cose come queste,
per l'elevatezza dell'intima ispirazione che informa i
versi dei quali fu modesto artefice, il Martinozzi mi è
parso degno di essere ricordato tra quei suoi contempo-
ranei.

131
XLV. SCRITTORI IN DIALETTO

Poiché già fu discorso di Giacinto Gallina 119, non si


può non ricordare il nome dell'autore che, accanto a lui,
acquistò al nuovo teatro veneziano il favore del pubbli-
co italiano con una commedia gareggiante con le piú ap-
plaudite del Gallina, I recini de festa (1876), e partecipe
del pregio e del limite loro: cosa onesta, sentimentale,
piacente e, di conseguenza, un po' superficiale120. Come
il suo amico, il Selvatico procurò piú tardi di penetrare
piú addentro nella realtà umana, e di ciò si vede per lo
meno la ricerca nella commedia, rimasta incompiuta, I
morti, nella quale sono scene di amaro realismo, come è
quella di un accompagnamento funebre con le conversa-
zioni indifferenti o egoistiche dei convenuti aspettanti.
Del Selvatico rimangono pochi e graziosi componimenti
dialettali in verso: alcuni di cose d'amore, come dei due
sposi che rimpiangono i tempi in cui a loro era impedito
di amarsi liberamente e perciò godevano palpiti e gioie
che ora non possono piú provare:
E me crussio e me tormento
nel pensarme che oramai
quei bei tempi xe passai,
quei bei zorni piú no vien,
quei bei zorni, zogia mia,
che incontrandose coi oci,
me ricordo che i zenoci
119
V. Letteratura della nuova Italia, III5, 148-56.
120
È ristampata in RICCARDO SELVATICO, Commedie e poesie veneziane, pubbl. a
cura di A. Fradeletto (Milano, Treves, 1922).
132
ne tremava a tuti do.
Quei bei zorni che: «no vogio»,
ti disevi tuta rossa;
e mi a ti: «mo' via per cossa?»,
e ti a mi: «perché de no!»...
Ha un'«arlecchinata», La neve, sul bel fare all'amore nel
caldo del letto quando cade giú la nevicata, un Brindisi
e simili; e le parecchie altre sue strofe, che cantano Ve-
nezia, potrebbero dirsi anch'esse poesie d'amore: per Ve-
nezia, città che par fatta apposta per farvi all'amore:
Co' un fià de luna e un fià de bavesela
ti sa sfantar i scrupoli dal cuor;
deventa ogni morosa en ti una stela,
e par che i basi gabia piú saor.
Note d'agosto dipinge un simile spettacolo dell'amorosa-
mente incantata Venezia:
Do baloni de carta in t'un batelo,
la vose de un'armonica lontana,
dal Lido quieto quieto un venteselo,
San Zorzi in fassa e in fianco la Dogana,
la luna in alto, che da mezo el çielo,
se specia in aqua come 'na sultana...
Vivamente mossa è la scena delle «tabachine» venezia-
ne, che escono dalla fabbrica all'aperto, come una venta-
ta sconvolgente, come un'onda impetuosa a riempire il
vicolo vicino, e rapidamente si dileguano, mentre intor-
no si ricompone il silenzio:
Le xe loro, le xe tose,

133
le ga il viso fresco e tondo
le vien via sfidando el mondo,
imbriagae de zoventú...
Nell'altra poesia La regata il passato e il presente di Ve-
nezia sono appieno fusi:
Da barche, da sandoli,
da rive e pontoni,
sporzendo dai pergoli,
strucai sui balconi,
de veci e de zoveni,
de mare e fradei,
de spose, de santoli,
de none e putei,
per tuto de popolo
un'onda, un tapeo,
che varda, che spasema,
che segna col deo.
Sbassai su le forcole
dei so gondolini,
su l'aqua che palpita
sbatendo i scalini,
i svola in t'un impeto
de schene e de brazzi,
traverso el miracolo
de çento palazzi;
i svola fra un nuvolo
de piume, de fiori,
de sede, de stràssini,
de veli, de ori.
È da notare anche fra i suoi versi una assai gentile Nin-
134
na nanna.
Fresche e semplici sono anche le Vilote veneziane che
componeva Attilio Sarfatti121: parole d'amore, carezze-
voli, tenere, madrigalesche, e quadretti arguti e gentili.
Parla una ragazza, ricordando:
Li sa i pôrteghi scuri e le calete,
i zuramenti e i lampi de le ociae,
i gran discorsi in poche parolete,
parolete d'amor che dura assae.
Se zirava, zirava avanti e indrio,
fermandose ogni tanto a dirse adio.
Ma che lassarse? Se girava ancora,
tirandola de quarto in quarto d'ora.
Si volgeva a guardare i colombi in piazza San Marco:
Salté, svolé, colombi de 'l mio cuor,
co' quela vostra classica alegria,
vegní a becar el mégio e scampé via,
scampé sui cornizoni a far l'amor.
Che festa, che svolae, che bel bacan!
Saltéme sui vestiti, su le man;
a starve arente scordo mile afani,
salté, svolé, colombi veneziani!
Ritraeva il caffè Florian e le fisionomie dei suoi avven-
tori. Con l'amico Fradeletto celiava su quel che allora
essi due erano e quel che sarebbero diventati e le cose
che avrebbero detto da vecchi:
Co saremo do veci carghi d'ani,
121
Rime veneziane, con prefazione di P. G. Molmenti (2 a ed. riveduta e accre-
sciuta, Padova, Sacchetto, 1886).
135
Tôni, che serietà che gavaremo.
De gnoca gravità se imbotiremo,
co saremo do veci ombrosi e strani.
Sparleremo ogni dí de logo in logo
contra la zoventú piena de fogo.
E vantaremo el bel tempo passà,
seri e imbotii de gnoca gravità.
E, dopo avere anticipato i discorsi, le parole e gli atti
che avrebbero allora infallantemente detti e gestiti con-
cludeva:
Cussí fa i veci, e, gnanca dirlo, Tôni,
faremo tuti do çerto cussí.
Ma co saremo malandai e noni,
lontani tanto da sti cari dí,
no pensaremo ai tempi benedeti,
che zoveni anca nu pieni de afeti,
pieni de fogo, de alegria e speranza...
se rideva dei veci a crepapanza.
Colloco fra questi scrittori in dialetto Carlo Bertolaz-
zi, quantunque egli componesse molti drammi in italia-
no: drammi di spiccata critica morale e rappresentazioni
di errori, vizî, cattiverie, malvagità, corruttele, a contra-
sto delle quali stanno le immagini della bontà che si sa-
crifica o è sacrificata, o altre pietose e dolorose: opere
condotte un po' alla grossa, un po' meccanicamente, ma
di solito con movimento e brio teatrale. L'egoista dà in
una serie di quadri le varie età della vita di un egoista,
scapolo, ammogliato, vedovo con una figliuola che ser-
ve ai suoi comodi, vecchio che provvede alla salvezza

136
dell'anima nell'altro mondo e alla soddisfazione del pro-
prio orgoglio fastoso in questo. La zitella delinea invece
le varie forme di paura che interferiscono di continuo
nel comportamento e nelle azioni da compiere. La casa
del sonno è la vecchia onesta vita di provincia, sconvol-
ta dalla passione degli affari e della speculazione che
prende alcune di quelle famiglie provinciali. Il successo-
re rappresenta l'egoismo di una giovane moglie, che tra-
disce e fa morire di crepacuore il marito, e si mette al
suo posto nel negozio col socio suo amante, mentre la
figlia di lui, alla quale è stato portato via il fidanzato, si
allontana desolata. E cosí via, in molti altri di questi
drammi122. Ma il Bertolazzi ne scrisse parecchi altri in
dialetto milanese, dei quali uno gli riuscí felicemente, e
forse è il solo che resterà di tutti i suoi: La gibigianna123.
La situazione è un po' comune: due giovani amanti sten-
tano in grande povertà, amoroso e violento l'uomo,
amorosa la donna ma insidiata dalla vista del godimento
e del lusso di altre donne; sicché finisce con l'abbando-
narlo. L'altro non può vivere senza di lei, e dopo alcuni
mesi le si ripresenta e le offre di mettere in oblio tutto
quanto è accaduto, ma che torni; e, poiché quella sta sal-
da nel diniego, le vibra un colpo di pugnale. Lo richia-
ma poi, ancora inferma della ferita, al suo letto; vuole

122
C. BERTOLAZZI, Teatro, con prefazione dell'autore (Milano, Agnelli, s. a., ma
1905): solo vol. pubbl. di una serie che doveva abbracciare piú volumi; gli
altri drammi restano sparsi in volumetti e fascicoli (edit. Cesari e Sonzogno
di Milano, ed altri).
123
La gibigianna, commedia in quattro atti, con prefaz. di G. Rovetta (Milano,
Baldini e Castoldi, 1898). Fu recitato appunto in quell'anno.
137
che egli sappia tutto, che lo ha amato sempre, ma che la
sua vita è stata brutta, che si è venduta; e poiché egli, ri-
cevuta questa confessione, l'ama sempre e tutto le per-
dona, ai due giovani amanti si apre davanti una vita rin-
novellata. Pure, queste scene hanno molta spontaneità e
vivezza, e il dialetto mantiene la fantasia e l'espressione
nella concretezza delle immagini e dei sentimenti; e vi
sono tocchi di affetto, di povera umanità. Nella scena
iniziale i due amanti, dopo che tra loro è corso da una
parte il sospetto e dall'altra la paura, dopoché per un
tratto si sono scontrati ostili e poi si sono rappaciati, e
l'uomo ha cercato invano di procacciarsi quella sera un
po' di danaro, si risolvono ad andare a letto digiuni.
BIANCA. Vegni anca mi... faremm ona bella dormida, la me
farà ben.
ENRICO, (si siede sul letto.)
BIANCA, (si siede dall'altra parte, voltando le spalle.)
ENRICO, (si leva le scarpe, i suoi sguardi s'incontrano con
quelli di Bianca, si sente commosso. Con grande emozione:)
L'è la prima volta, Bianca...
BIANCA. Che robba?...
ENRICO. Che se va in lett inscí, senza mangia!
BIANCA. (sorride di un sorriso buono, da innamorata: con
infinita dolcezza:) che ciall? gh'era bisogn de dill?... nun
semm content istess?...
ENRICO, (emozionato, la bacia con passione.)
La letteratura dialettale era coltivata assai dall'un
capo all'altro d'Italia; ma quasi singolari rimasero allora
in essa un poeta come il Di Giacomo e un artista come il

138
Pascarella; né, in verità, si sarebbe potuto pretendere di
possederne a decine, e molto meno a centinaia, secondo
che si contavano quei dialettali. Molta parte di quella
letteratura aveva carattere sentimentale, di facile senti-
mentalità, e un'altra gran parte descriveva costumi e sce-
ne comiche e combinava motti per suscitare il riso. Ciò,
anzi, veniva dichiarato e vantato vera poesia dialettale,
vera voce o vera interpretazione del sentire del popolo;
e vi furono rappresentanti di questo modo d'intenderla e
praticarla, tra i quali il romanesco Zanazzo e, a Napoli,
Ferdinando Russo, che non si dié mai pace che altri po-
tesse far divario e porre distacco tra il Di Giacomo e lui
e disconoscere nei suoi sonetti e nei suoi poemetti124 la
perfezione del genere dialettale napoletano. Senonché
quelle sue composizioni erano fotografie, parodie, lazzi,
buffonerie, vivaci ma anche di solito sciatte, scorrette,
grossolane, perché l'imitazione della parlata popolare
dava buon pretesto a sottrarsi al freno dell'arte. Rarissi-
mo vi s'incontra qualche movimento poetico; e io non
ne ritrovo nella mia memoria se non propriamente un
solo: il punto in cui, nel poemetto In paradiso, tra le al-
tre anime che presso la porta attendono di entrare, è ri-
tratto un gruppetto di sartine:
E na chiorma e' sartulelle,
co i' frangette e i' veste corte,
124
Le poesie napoletane (Napoli, Perrella, 1910), che contengono solo una
parte della sua copiosa produzione. Da notare il poemetto: 'Nparaviso (Na-
poli, Pierro, 1891). In un altro genere: 'O luciano d'o Re (Lanciano, Carab-
ba, 1911): rimpianto dell'età borbonica, messo in bocca a un vecchio popo-
lano della regione di Santa Lucia.
139
se cuntavano ridenno
comme va ch'erano morte125:...
continuavano cioè nell'altro mondo l'allegro chiacchie-
rio sulle faccende o novità della giornata, che questa
volta erano proprio, cosa curiosa, le varie circostanze
del loro morire. Il ridente spettegoleggiare soverchia qui
anche la morte, riducendola a materia indifferente di
chiacchiera.

125
«E una frotta di sartine ‒ con la frangetta e le vesti corte ‒ si raccontavano
ridendo ‒ in qual modo erano morte.»
140
XLVI. E. CASTELNUOVO ‒ F. DE ROBER-
TO ‒ «MEMINI»

Al modo stesso che una lingua plasmata da lunga tra-


dizione poetica, la cultura, l'addestramento, l'esercizio
consentono di elaborare versi ben girati e ben levigati,
che non vogliono essere e non sono poesia; parimente,
per analoghi modi e condizioni, è dato comporre roman-
zi, come si dice, «ben fatti». Il mutato costume ha reso
ora pressoché superfluo il verseggiare per occasione,
che prima accompagnava ogni atto un po' solenne della
vita; ma il piacere di ascoltare favole non si stanca mai.
E di romanzi «ben fatti» la Francia, come si sa, è stata, e
non da tempi recenti, una fabbrica sempre operosa e al-
trettanto accreditata, fornitrice del mondo tutto; laddove
la letteratura tedesca, sebbene ne abbia prodotto e ne
produca in gran copia, non ha mai avuto una pari o pros-
sima felicità di fattura e fortuna commerciale. Anche per
l'Italia i competenti, cioè i consumatori di romanzi, la-
mentano che gli autori italiani non sappiano comporre
romanzi ben fatti: questione nella quale mi astengo di
entrare e di pronunciare sentenze, non solo per scarsa
competenza in materia, ma anche perché non suscita in
me la necessaria partecipazione. Come amatore e stu-
dioso d'arte, mi sono cari unicamente i versi che sono
poesia e i romanzi che sono poesia, e di questi romanzi
anche l'Italia ne ha prodotti: pochi certamente, ma sono
forse moltitudine altrove? Quando guardo indietro alla
feracissima e lussureggiante produzione romanzesca
141
della Francia tra il 1870 e il 1900, e ripenso a quei gran-
di autori francesi di cui aspettavo e leggevo il nuovo ro-
manzo che quasi ogni anno ciascuno di essi metteva in
circolazione, mi avvedo con maraviglia quanto poco ne
sia restato, quel poco per l'appunto che è poesia e perciò
raro. I piú né sono ricercati piú dai consumatori, rivolti
ad altre favole conformi al gusto del giorno, né sono sta-
ti assunti nell'elisio della bellezza, e rimangono semplici
documenti di un'età passata.
Al qual proposito è da osservare che i romanzi «ben
fatti» si sogliono classificare in romanzi di «passione» e
romanzi di «ambiente» o di «costume», dualità di classi
che comporta un incrocio, perché, d'ordinario, il roman-
zo di costume si appoggia a un romanzo di passione o
prende da esso il suo pretesto. Si tratta, nella sostanza,
in degradazione classificatoria e per opere che della
poesia hanno l'apparenza e non la realtà, del duplice
principio, che già c'è noto, della poesia e della dida-
scalica; il secondo dei quali sta nel fondo della lunga
sequela di romanzi e di commedie e di drammi, di carat-
terologia morale, psicologica e sociologica, che va dalla
commedia menandrea alla «commedia umana» del Bal-
zac, come in altra occasione ebbi a dire 126. Ora, se i ro-
manzi di passione appassionano ai loro tempi i lettori
piú di quelli della seconda classe, sono anche di quelli
che piú interamente muoiono col succedersi delle età; e
invece i romanzi di ambiente e di costume attirano sem-
126
Si veda nel mio libro Poesia e non poesia (sesta ed., Bari, 1955), pp. 240-
43 (a proposito del Balzac).
142
pre, se non altro, la curiosità dell'erudito, perché appor-
tano qualche luce a chi indaga la storia spirituale e so-
ciale delle varie età.
Enrico Castelnuovo127 fu uno dei migliori, dei piú sti-
mabili autori italiani di «romanzi ben fatti», e, serio e
modesto uomo, ebbe coscienza di quel che egli poteva e
sapeva, e, pure a ragione non ammettendo che «l'arte sia
vile e spregevole quando non si manifesta con opere ec-
celse», a queste, cioè alle vere, alle grandi opere di bel-
lezza, non alzava lo sguardo né le pretese. «Provocar sul
labbro un onesto sorriso ‒ scriveva nel 1900128, ‒ spre-
mer dal ciglio una lacrima pietosa, rinvigorire nell'ani-
mo un sentimento gentile, svegliar nell'uomo accasciato
dalle fatiche quotidiane le virtú sopite della fantasia; mi
pareva, fin da oltre venticinque anni addietro, officio
non inutile e non indegno della letteratura. Questo io di-
cevo nel 1872 in una breve prefazione alle mie prime
novelle: questo ridico oggi dopo piú di un quarto di se-
colo.»
Il Castelnuovo scrisse anche romanzi di passione, dei
quali può dare saggio Il fallo di una donna onesta: il
fallo di una ancor giovane vedova, che è sorpresa nei
suoi sensi quando meno aspetta l'assalto e meno pensa
alla difesa: si abbandona, vive alcune settimane in rapita

127
N. 1839, m. 1915. Romanzi: Troppo amata (Milano, Galli, 1891); L'onore-
vole Paolo Leonforte (Milano, Baldini e Castoldi, 1894); Il fallo di una
donna onesta (ivi, Galli, 1897); I Moncalvo (ivi, Treves, 1913), e molti al-
tri. Novelle: Alla finestra (Milano, Treves, 1885); Sulla laguna (Catania,
1900); Ultime novelle (Milano, Treves, 1906); ecc.
128
Nella prefazione al volume Sulla laguna.
143
ebbrezza; e poi, al distacco che succede per la partenza
del giovane e presto dimentico conquistatore, al rimorso
e alla mortificazione, alla disperazione di trovarsi incin-
ta, delibera di morire e muore, lasciando suo esecutore
l'uomo che l'ha veramente e costantemente amata per
lunghi anni, al quale non aveva voluto mai dare la sua
mano e meno che mai ora che, avuta la confessione del
suo fallo, egli, fermo nella sua profonda devozione, le
ha rinnovato l'offerta. Simpatia per la donna onesta,
compassione per l'umana fralezza, brivido per gli strazi
e le tragedie a cui può condurre un momento di oblio,
sono i sentimenti che il Castelnuovo voleva muovere, e,
col suo ben girato racconto, muove nei lettori. Ma sono
cose trite, che par di avere già letto molte altre volte: fi-
gure, situazioni, e parole e inflessioni, già altre volte vi-
ste e udite; e, sebbene tutto scorra come deve, si pensa
che, a via di olio e di sfregagioni, anche la carrucola
scorre e non stride.
Di lui giova cercare a preferenza i romanzi di costu-
me, come L'onorevole Paolo Leonforte, che, prescin-
dendo da una certa trama che vi s'intesse di dramma in-
timo, è un quadro efficace della vita elettorale e parla-
mentare e dell'affarismo dei politicanti, in Italia, d'intor-
no il 1890. Ma quell'affarismo, per abile che fosse, per
molteplici interessi che a sé stringesse, era raffrenato, e
all'occasione battuto e abbattuto, dalla libera stampa.
L'on. Leonforte, in effetto, tutto potè vincere, ma non
già un piccolo giornale, Il pensiero moderno:
Ahi, ahi, ahi, quel Pensiero moderno metteva il dito sulla
144
piaga. E non c'era caso di farlo tacere, perché apparteneva al
novero dei giornali invendibili. Ne era proprietario un sena-
tore assai ricco, e vi scrivevano alcuni giovani deputati
d'opposizione, tutti in fama di puritani; gente insomma, che
appena appena si sarebbe lasciata corrompere dalla promes-
sa di un portafoglio politico. E il portafoglio da offrire Leon-
forte non l'aveva.
Gli uomini del governo, che avevano dapprima accolto i
disegni del Leonforte e dei suoi soci, rimasero perplessi
innanzi alla logica di quelle critiche e a quel che lascia-
vano vedere o intravedere di torbido nella cosa:
L'impressione di quegli articoli era stata grandissima; gran-
dissima era la curiosità di vedere come si sarebbe regolato il
Ministero e che cosa sarebbe accaduto alla Camera. Era già
positivo che l'opposizione aveva deliberato di sollevare un
incidente, incaricando l'on. Brissago d'Oria di parlare in suo
nome...
L'on. Leonforte non difetta di audacia e neppure d'inge-
gno; cosicché, nella seduta parlamentare, affronta ga-
gliardamente gli avversarî, si difende bene, e cenni di
consenso lo incoraggiano. Ma egli, continuando ad at-
taccare i critici, troppo puntigliosi di onestà, dice anche:
Se si fosse badato a costoro, nessuna delle imprese colossali
che onorano il secolo sarebbe stata compiuta. I vapori che
solcano i mari, le strade ferrate che traversano i continenti,
gli immensi opifici che impiegano migliaia di braccia non
sarebbero sorti senza questa speculazione aborrita che i mi-
crocefali denigrano e vituperano. Avrà anch'essa i suoi in-
convenienti, i suoi pericoli, i suo vizî, le sue colpe; ma che

145
cosa sono a fronte dei risultati ottenuti? chi oserà rinfacciare
ai promotori del Canale di Suez il denaro distribuito a qual-
che giornalista famelico, a qualche uomo politico influente?
E, dopo aver magnificato la grandezza e la potenza
dell'industria moderna, gli viene alle labbra una frase
immaginosa e colorita, e non sa resistere a metterla fuo-
ri, concludendo:
I grandi affari somigliano ai grandi fiumi; guardate alle navi
che portano, alla civiltà di cui sono il veicolo; non alle poche
immondizie che galleggiano sulle loro acque.
E qui, nel risedersi, sente di aver toccato un tasto falso,
e che s'è lasciato, dalla foga del discorso, trascinare
dove non doveva giungere.
Invero non gli mancarono applausi e congratulazioni, però
anche tra i suoi fautori alcuni esitavano, rattenuti da un sen-
so di pudore, dicendo a sé stessi che Leonforte era stato
troppo aggressivo, aveva sfidato con troppa baldanza i pre-
giudizî sociali.
E la sfida fu raccolta dall'on. Ainardi, il quale dichiarò
con sottile ironia che l'affarismo non aveva mai avuto piú
solido campione nel Parlamento italiano...
Cosí quel piccolo passo falso segna la sua rovina, che
segue irrefrenabile; ma le cause, che si dicono «picco-
le», dei grandi effetti, non sono, in realtà, piccole, aven-
do dietro di sé poderose forze ‒ in questo caso, la forza
della coscienza morale, ‒ alle quali aprono il varco.
Anche nell'altro e precedente romanzo: Troppo ama-
ta!, che vorrebbe rappresentare il logoramento della vita
di una giovinetta per effetto del troppo amore di coloro
146
che le stanno attorno, e che perciò la torturano e finisco-
no con lo spezzarle il cuore ‒ ed è, per questa parte,
poco felice e fallisce il segno, ‒ abbondano scenette e
macchiette còlte dal vero, e prese segnatamente dalla
società veneta reazionaria e clericale, che mal volentieri
si era vista privare di quel costume e di quel sistema po-
litico, al quale consentiva con tutto l'esser suo.
Avevano di comune un odio accanito per tutte le mutazio-
ni successe in Italia dopo il 1859, odio che il conte Lanzi
riassumeva con la frase: ‒ «Non ci sono piú Ridotti, caval-
chine, galanterie, buonumore»; e che la baronessa giustifica-
va con argomenti di maggior portata: «Non c'è piú religione,
non c'è piú ordine, non c'è piú rispetto».
Li si trova, costoro, a conciliabolo nei loro salotti:
Intorno alla tavola, la discussione si era riaccesa. Parlavano
tutti in una volta del Papa, dei pellegrinaggi, dell'obolo di
san Pietro, dei ciarloni di Montecitorio e degli usurpatori del
Quirinale: dicevano che Leone XIII non è Pio IX, che Um-
berto non è Vittorio Emanuele, e che la Curia romana ha piú
naso di tutti i diplomatici sommati insieme.
Li si osserva nei loro comitati, di dame cattoliche o altri
che siano, e nelle opere loro di carità, nelle quali sanno
scegliere e preferire e sanno duramente rifiutare secon-
do che la cosa risponda o no ai loro interessi confessio-
nali e preteschi:
In quel momento medesimo, o dalla finestra o dalla strada,
una voce d'uomo aspra e rauca borbottò: ‒ Quelle sante don-
ne non fanno l'elemosina che ai baciapile! ‒

147
Si segue la comparsa tra loro di professionisti o avven-
turieri del legittimismo internazionale, sempre bene ac-
colti e ammirati e carezzati: sul tipo di questa istitutrice
francese, vedova di un «carlista», che ha un passato
equivoco ma sa accennare nobilmente alle vicende del
suo cuore:
Il culto del dovere, la religione, l'avevano sempre mantenuta
sulla retta via. Beaucoup de tempêtes, pas de naufrages. Par-
lava di suo marito come di un enfant de la chevaleresque
Espagne, enlevé prématurement à son roi et à son épouse, e
preconizzava con entusiasmo l'unione dei due scettri di Spa-
gna e di Francia nelle mani di un sol monarca legittimo. Il
n'y a pas de Pyrénées.
O di questa famiglia di signori siciliani borbonici, salda
nella fede giurata dal suo capo:
Orfane di madre, le marchesine Passiflora avevano molto
viaggiato l'Europa col loro illustre genitore, il quale, appar-
tenendo all'aristocrazia borbonica, non poteva patire l'Italia
dei plebisciti, e dal 1860 in poi girava il mondo in cerca
d'aure piú pure. I maligni affermavano che il marchese non
fosse uno stinco di santo e non godesse la migliore reputa-
zione né a Montecarlo né a Baden Baden. Ma erano calun-
nie, e chi lo vedeva pavoneggiarsi al séguito delle Altezze
legittimiste che si degnavano di percorrere il molo e la piaz-
za dalle cinque alle sei, capiva subito d'avere innanzi a sé un
gentiluomo di alto lignaggio, un vero Baiardo senza macchia
e senza paura. E infatti il marchese Passiflora dei duchi di
Mandruzza non aveva mai avuto né la macchia del lavoro né
la paura dei debiti. Da quattro generazioni almeno i Passiflo-
ra non facevano nulla. Da quattro generazioni erano indebi-
148
tati fin sopra gli occhi.
Altri di questa società clericale-austriacante si occupano
di letteratura, di una letteratura anch'essa rispettabile
certamente, ma un po' antiquata: come il barone Ignazio
Scudieri, consigliere aulico, cavaliere della Corona fer-
rea, che attende sempre alla sua unica opera: Del retto
uso degli avverbî.
Tra loro ci sono altresí le persone invelenite perché
non hanno avuto dal nuovo governo italiano i favori che
speravano, come il magistrato a riposo, Rotundo; e ci
sono quelli che alla lunga non resistono alla segregazio-
ne e all'inerzia, e tentano il guado alla riva degli avver-
sarî, come il dottor Borgondi, che comincia a porre la
sua candidatura a consigliere comunale.
Ne seguí un'aspra battaglia, durante la quale non gli furono
risparmiati gli attacchi. Che aveva fatto per il suo paese?
Come osava chiedere il suffragio dei suoi concittadini senza
avere partecipato alle loro lotte, ai loro pericoli, ai loro dolo-
ri? ‒ Vada a Vienna con Francesco Giuseppe! ‒ urlavano gli
esaltati. ‒ Vada a Roma col Papa! ‒ Ma questi argomenti ir-
resistibili al domani della liberazione del Veneto non produ-
cevano piú lo stesso effetto. Molti dicevano che il patriotti-
smo è una bellissima cosa, ma che nei pubblici uffici occor-
rono menti posate e che le teste calde non servono che a
scompigliare le aziende. Insomma, il cavalier Borgondi fu
eletto consigliere municipale.
Di fronte alla società legittimistico-clericale, e da questa
aborrita, perché, colta e capace, e salita in ricchezza e
potenza, non si può non fare i conti con essa, sta, nel ro-
149
manzo, la nuova società di borghesi, industriali, uomini
politici.
I Moncalvo studiano la vita degli israeliti in Italia e
particolarmente in Roma e di quelli che, venuti in su
nella scala sociale, ambiscono di entrare nella vecchia
società aristocratica, rinnegano la loro religione, si fan-
no cattolici e danno in ispose le loro figliuole, mezzani i
preti, ai figli di famiglie patrizie economicamente rovi-
nate. È un quadro vivo, ricco, limpido e animato, e non
vi manca l'ebreo di animo austero, che aborre dall'igno-
bile e servile ambizione; non vi manca la donna ebrea
similmente tenace, che vuol morire ed esser sepolta col
rito della sua religione. Ma come appare ormai estraneo
e remoto, quel rito!
E intanto salivano su dall'androne lente, gravi, nasali, le pre-
ghiere nella lingua sconosciuta. Eran le stesse cantilene che
avevano risonato sulle rive di Sionne e lungo i fiumi di Ba-
bilonia, le stesse che negli esilî dolorosi avevano confortato i
lutti delle famiglie raminghe. Non c'era angolo del mondo
ove esse non avessero portato un'eco dell'Oriente lontano;
s'erano confuse al fremito di tutti i mari, all'urlo di tutti i
venti; avevano invocato pace ai morti d'Israele in tutti i cimi-
teri dispersi da Varsavia a Parigi, da Francoforte a Siviglia,
da Venezia ad Amsterdam, da Londra a Nuova York, da Cal-
cutta a Lisbona. Tramandate di generazione in generazione,
di secolo in secolo, avevano conservato come aromi preziosi
la fede, la speranza, le illusioni di un popolo, tanto piú sicu-
ro di risorgere quanto piú al fondo precipitava. Oggi la fune-
bre nenia non suscitava né commozioni né affetti; le note
strascicate, gutturali, si alzavano e ricadevano come zampilli
150
d'una fonte a cui nessuno piú si disseta.
Altre donne, la moglie e la figlia del banchiere israelita,
sono le vere promotrici e autrici del dissolversi della
loro razza non in qualcosa che stia piú in alto, ma in ciò
che è spiritualmente piú basso. Il marito offre ancora
qualche resistenza, sentendo l'innaturale dell'unione del
sangue giudaico col sangue patrizio-reazionario-clerica-
le, e non nasconde alla moglie la verità:
...Invece, se gli Oroboni e i loro simili avessero continuato a
tenere il mestolo in mano, saremmo tutti e due nel ghetto di
Ferrara, io a vendere vestiti usati, tu a spennacchiare le oche.
Questa allusione allo stato sociale degli avi spiacque alla
signora Rachele che si rodeva di non essere una Montmoren-
cy, ed ella ribatté dispettosamente:
— In quanto a questo, è quasi un secolo che i miei sono
usciti dal ghetto.
— Merito dei liberali, cara mia, merito della Rivoluzione
francese, del primo Regno d'Italia.
Nell'altro campo, la vecchia marchesa fa anch'essa qual-
che resistenza:
...E pensare che tre o quattro secoli fa, se una donna di quel-
la razza avesse coi suoi sortilegi infami sconvolta la mente
d'un cristiano, d'uno dei nostri, la Chiesa avrebbe ben saputo
liberar coi suoi esorcismi la vittima e ardere sul rogo la fat-
tucchiera... Non ha piú armi oggi la Chiesa, non sa piú redi-
mere né punire.
— Si calmi, principessa ‒ disse don Paolo senza esagerar-
si l'importanza di questo ritorno offensivo: ‒ la Chiesa ha
sempre lo stesso potere, ma adopera le armi che meglio con-

151
vengono ai tempi.
— Il matrimonio? ‒ sogghignò donna Olimpia.
— Perché no?... Il matrimonio può anch'esso servire alla
gloria del Signore...
Questo prete, questo monsignore, che traffica nelle so-
cietà piú diverse, e siede al desco familiare del banchie-
re israelita, sta piú giú, moralmente, di quegli ebrei e di
quei clericali che egli viene accordando e disposando.
Gli dice il banchiere in quell'intimità familiare:
...Sono contrasti che non si vedono che ai nostri giorni e non
si vedono che a Roma... Che confusione di lingue, non è
vero, monsignore? Un sacerdote della Chiesa cattolica, un
ebreo di vecchio stampo, e uno che non è né carne né pe-
sce...
— Siamo nell'Urbs ‒ notò l'ecclesiastico.
— Però prima del settanta certi contrasti non erano possi-
bili.
— Perché no? perché no? ‒ rispose monsignore che aveva
questo intercalare. ‒ La Chiesa è inflessibile nei principî, è
intransigente nelle apparenze, ma in fondo è sempre stata
tollerantissima.
A rendere piú completo il quadro, un dottore tedesco,
apostolo del sionismo, viene a riproporre il problema
del giudaismo nella società moderna, problema che quei
suoi correligionarî non sentono piú, sicché con intimo
scetticismo e con indifferenza si restringono a dare del
denaro per la causa dei sognatori sionisti.
— Lo so, lo so... ‒ dice l'altro, ‒ sono ebrei dell'occidente,
non si rendono conto del vero stato delle cose... Hanno con-

152
quistato tutti i diritti, possono diventare magistrati, generali,
ministri... Ma non si illudano troppo! L'antisemitismo, anzi-
ché attenuarsi nei paesi che ne sono piú infetti, ricompare in
quelli che ne sono immuni...; ove non è palese, è latente... In
Francia fa progressi di gigante... Anche in Italia se ne vedo-
no i segni...
— Sarà una fortuna, perché cosí la benda cadrà dagli oc-
chi dei piú restii, e tutte le nostre mirabili facoltà saranno
vòlte al trionfo finale della razza... Israele non ha compiuto
la sua missione nel mondo... Lo so, lo so... Loro sono scetti-
ci circa i destini del nostro popolo... Loro guardano alle na-
zionalità con cui credono di potersi assimilare... Mai, mai...
E, a porre la data a questo quadro, basterebbe un accen-
no dell'ebreina ammodernata e volgente all'aristocrazia
e al cattolicismo. A lei, che ora usa visitare il Foro ro-
mano, il cugino ricorda scherzosamente che, qualche
anno prima, la interessavano colà, piú delle sue dotte di-
squisizioni, i fiori di giaggiolo che nascevano ai piedi
del tempio di Saturno:
— Ero una bimba, ‒ risponde. ‒ Ma adesso la so lunga
dopo che al Foro romano ho avuto per guida nientemeno che
Giacomo Boni129.
Assai maggiori pretese che non il buon Castelnuovo
coltivava Federico de Roberto130, il quale non risparmiò
fatica per tenersi in un'elevata sfera artistica ed ebbe
129
Sul Boni, v. quanto se ne dice piú oltre in questo volume, pp. 186-9.
130
N. 1866, m. nel 1927. Romanzi: Ermanno Raeli (Milano, Galli, 1885);
L'illusione (terza ed., ivi, 1891); I viceré (Milano, Chiesa e Guindani,
1894). Novelle: Documenti umani (Milano, Treves, 1888); Processi verbali
(Milano, Galli, 1890); e saggi critici e di varia psicologia.
153
estimazione e fama superiore a quella dell'altro e la me-
ritò anche per questa sua serietà di propositi. E nondi-
meno a me sembra che di affetto e fantasia ne possedes-
se assai meno e fosse ingegno prosaico, curioso di psi-
cologia e di sociologia, ma incapace di poetici abbando-
ni. In un volume delle sue novelle (Documenti umani)
dichiara che fine suo è di dare i «caratteri del vero», e
ciò non gli verrebbe fatto se non si mettesse innanzi
«dei modelli»; in un altro (Processi verbali), reputa che,
per conseguire veramente l'impersonalità artistica, biso-
gna evitare narrazioni e descrizioni, in cui la personalità
«si tradisce inevitabilmente», e offrire dialoghi con lievi
didascalie. Tentò il romanzo di passione in Ermanno
Raeli e riuscí superficiale e comune. Nell'Illusione volle
dare lo studio psicologico di una vita di donna (ma
quanta distanza da Une vie del Maupassant!), accompa-
gnata dall'infanzia fino all'incipiente vecchiezza e al de-
solato abbandono, attraverso una sequela di amorose de-
lusioni. Ma il lettore rimane indifferente. Pare, leggen-
do, come se tutte le donne e gli uomini dei racconti di
questa sorta, di passioni e di avventure amorose, sieno
convenuti nel romanzo a ripetere stancamente le parti da
loro innumeri volte recitate. Compiè uno sforzo vera-
mente enorme e penoso nel grosso romanzo di ambien-
te: I viceré, che narra la storia della nobile famiglia sici-
liana degli Uzeda, che il 1860 trovò borbonici, nel tra-
passo all'Italia una e nei primi decennî della vita pubbli-
ca di questa. E zolianamente vi apportò l'intenzione di
dimostrare una tesi: cioè, che una gente, usa per secoli a
154
dominare, non abbandona questa sua pratica per larghi e
profondi che siano i rivolgimenti sociali e politici acca-
duti, attraverso i quali gl'individui di quella famiglia, ar-
mati della capacità ricevuta ereditariamente, riescono a
sormontare e continuano, in modi nuovi, a dominare.
«La storia della nostra famiglia ‒ dice l'ultimo rappre-
sentante di essa, che è deputato e sarà ministro, ‒ è pie-
na di simili conversioni repentine, di simili ostinazioni
nel bene e nel male... Io farei volentieri divertire Vostra
Eccellenza scrivendole la storia contemporanea con lo
stile degli antichi autori. Vostra Eccellenza riconosce-
rebbe subito che il suo giudizio non è esatto. No, la no-
stra razza non è degenerata, è sempre la stessa.» Questa
idea, che non è un principio di unificazione artistica, os-
sia un motivo poetico, e che, d'altra parte, toglie l'inge-
nuità di descrittore storico al romanziere dei Viceré, non
aveva in ogni caso bisogno di cosí grosso libro per esse-
re esemplificata, dato che ciò fosse necessario e dato
che contenesse una verità dimostrabile, della qual cosa è
da dubitare. Foltissimo di personaggi, di macchiette, di
eventi, di costumanze, di descritte trasformazioni e tra-
sfigurazioni sociali, il libro del De Roberto è prova di
laboriosità, di cultura e anche di abilità nel maneggio
della penna, ma è un'opera pesante, che non illumina
l'intelletto come non fa mai battere il cuore.
Quell'affetto, cosí debole nel De Roberto, si fa sentire
nel romanzo Mario131 di «Memini» (che era la contessa
131
Milano, Galli, 1898: ediz. postuma con pref. di Neera, Milano, Baldini e
Castoldi, 1906.
155
Ines Castellani Benaglio): un romanzo che piaceva a
Neera, che vi trovava le sue proprie virtú e i proprî di-
fetti132, e che veramente si distacca dagli altri preceden-
temente pubblicati dalla medesima autrice. Narra della
risoluzione di un giovane, innamorato segretamente e ri-
spettosamente di una sua bella cugina, sposa felice, al
quale è venuto tra mano un documento che, pubblicato
come si sarebbe dovuto fare, getterebbe nella indigenza
lei e il marito: la risoluzione di nascondere e poi di sop-
primere quel documento e, tenendo sempre ignari di tut-
to i cugini, togliere sopra di sé gli obblighi morali che
ne derivano verso un ignoto, un figlio naturale, al quale
andava l'eredità raccolta dagli altri. È da notare segnata-
mente la rappresentazione di quest'uomo senza nome,
che non ha conosciuto suo padre, e che vive nel giuoco
e nel disordine con sobbalzi di rivolta contro la società,
e pure ha tratti di finezza e di fierezza, e finisce con
l'ammazzarsi.

132
«Piú pensatrice che artista ‒ dice nella citata prefazione, ‒ la forma nelle
sue mani è quella che è: il suo ardore si rivolge tutto al contenuto e per le
deficienze dello stile le sue pagine non troveranno certamente soverchia ac-
coglienza presso la moderna scuola che ha fatto suo il motto di Bridoison:
de la forme, de la forme, encore de la forme; ma le saranno grati coloro che
cercano nel romanzo la commozione dei sentimenti e un certo alitare
d'idee.»
156
XLVII. UGO FLERES ‒ DINO MANTOVANI

Il siciliano Ugo Fleres133 era, negli anni intorno al


1880, uno dei giovani che davano di sé migliori speran-
ze: «uno degli ingegni artistici meglio dotati», come
scriveva il Mazzoni, che delineava il profilo di lui nel
volumetto sui Poeti giovani134. Anche piú tardi, fra il
1890 e il 1910, formò in Roma quasi il centro di un cir-
colo letterario, che avversava il dannunzianesimo trion-
fante, e chiedeva un'arte sincera e una poesia viva135.
Pittore oltreché scrittore, intendentissimo di musica,
esercitò critica di pittura e di musica, stimato per gusto e
per indipendenza. Giornalista, accompagnava anche lui
gli articoli con gli schizzi e i pupazzetti, come il Vassal-
lo. Era, insomma, quel che si dice un uomo d'ingegno;
ma con la restrizione da sottintendere d'ordinario in sif-
fatta denominazione: di un ingegno alquanto in parti-
bus, giacché, nella sua realtà e concretezza, l'ingegno si
prova unicamente con gli atti e con le opere e coincide
con queste. Quando cosí non accade, si avverte una sor-
ta di sproporzione tra il giudizio dei contemporanei e
quello di chi viene piú tardi, tra il giudizio dei vicini e
quello dei lontani. Sta di fatto che il Fleres non ha sca-
vato il suo solco nella critica delle arti figurative e non
ha avuto efficacia nello svolgimento di questo ramo di
studî in Italia. E, quanto alle sue prove di liriche e di
133
N. in Messina nel 1857, m. in Roma nel 1939.
134
Pubbl. nel 1888: ristampa di Napoli, Perrella, 1916, pp. 27-38.
135
Su quel circolo, v. T. GNOLI, nella rivista Leonardo di Firenze, marzo 1935,
pp. 103-7.
157
drammi e di romanzi, alla sua opera di artista, che era
ciò a cui pose soprattutto la mira, chi le legge con
l'aspettazione che si è detta, rimane un po' mortificato
nel dover concludere che, tutto considerato, sono cose
mediocri. Men che mediocre e privo di carattere il suo
volumetto di Versi136; e senza vigore e senza freschezza i
saggi che il suo amico Mazzoni offriva al pubblico dei
due poemi, ai quali il Fleres attendeva, La giovinezza
del Cid e Don Juan e che, d'altronde, non pubblicò mai,
perché il Fleres, pure scrivendo molto, da molti segni
appariva scontento di quel che faceva e il piú lasciava
inedito. Le sue novelle137 si sforzano di tenersi sú con
l'offrire immaginazioni, come le chiamano, «sensazio-
nali», col narrare casi straordinarî, prodigiosi o spaven-
tosi: per esempio, ne I due liberti, la crocifissione di un
liberto, che ha buttato sul volto al nuovo imperatore la
cruda verità, e l'atto del suo compagno, che, di notte, gli
abbrevia il martirio e si uccide a pié della croce; in Hog
di Bethel, la vendetta che una donna deve compiere del
marito ucciso e che si converte in amore per l'omicida;
ne L'auletride, la vicenda di un'altra donna, che un pitto-
re ha ritratta sul muro della propria casa, ed ella diviene
stranamente bramosa di quella sua immagine, e procac-
cia di scacciare dalla casa del pittore che l'ha amata: se-
nonché queste, e simili a queste, tutte difettano dell'inti-
ma vita dell'anima. Dei suoi romanzi, Extollat138 è una
136
Roma, Sommaruga, 1882.
137
Profane istorie, con disegni dell'autore (Roma, 1885); La serra (Parma,
1887).
138
Torino, Triverio, 1887.
158
sequela di amori e morti e matrimonî in una famiglia
principesca, che non destano alcun interesse perché non
si compongono nell'unità di un sentimento; Vortice139 è
un groviglio poco dissimile di fattacci, di ricatti e di
duelli, intorno a un musicista e a due donne che se lo
contendono; L'anello140, il caso d'un altro musicista che,
sfinito dall'avversità e dalla miseria, si ammazza, e di un
suo amico che, trovando tra le cose da quello lasciate i
fogli disordinati di un'opera, la trascrive, la riordina, le
aggiunge lo sviluppo strumentale e la fa rappresentare
con l'intenzione di servire alla gloria dello sventurato
autore; senonché una donna, che egli ama, s'innamora di
lui credendolo autore dell'opera, ed egli, riluttante, sog-
giace a quella lusinga d'amore, e fa poi vani sforzi per
comporre un'altra opera che pareggi quella e ottenga il
plauso; e, infine, confessa pubblicamente come la cosa
sta, impazza e muore, mentre la donna trasferisce la sua
ardente passione all'altro, al suicida, che ella non aveva
mai conosciuto. Sono opere, nonostante qualche parte
pregevole, nate invita Minerva, congegnate e fredde.
Scarso sapore di originalità hanno le novelle di Dino
Mantovani141, anche quelle che fanno la prova di rinarra-
re artisticamente antichi casi storici142. Ma il Mantovani
scrisse pregevoli lavori di storia letteraria143 e saggi as-
139
Catania, Giannotta, 1887.
140
Milano, Treves, 1898.
141
Novelle (Torino, Triverio, 1887).
142
Passioni illustri (1895, n. ed. riv. e accr., Torino, 1905).
143
Sul Nievo, Il poeta soldato (Milano, Treves, 1900). Il suo primo libro, La-
guna (Roma, Sommaruga, 1883), contiene, tra l'altro, un lungo studio sulle
antiche poesie dialettali veneziane.
159
sennati sulla letteratura contemporanea144, e un libro
che, come è il piú personale, cosí è il piú felice dei suoi,
le Lettere provinciali145, composte quando lui, venezia-
no, dovè dimorare per qualche tempo insegnante in Te-
ramo. Vi si parla di scuola, di studî, di arte, di amore, di
vita intima. Egli apparteneva alla generazione a cui era-
no state raccomandate, sommo ideale dello studio, le ri-
cerche erudite nelle biblioteche e negli archivî, delle
quali il Carducci, in una famosa sua pagina, aveva cele-
brato l'alta poesia. E il Mantovani ha sentito e ridice an-
che lui le dolcezze che quel lavoro, non angoscioso e
non travaglioso, procura:
E fa pur bene all'anima nostra irrequieta, la placa, la
doma, quel minuto studio delle cose morte, quella paziente
ricerca di un particolare ignorato o di una lezione genuina:
da una fonte all'altra, dall'una all'altra indagine, la mente si
esercita senza sforzo, trova il filo da seguire e ne è condotta
infine alla sicura conoscenza del vero, a una compiacenza
tutta speciale, ben nota agli eruditi. Raggruppare indizî da
questo o quel biografo, raffrontare passi di varî autori, alli-
neare su la pagina in fitta schiera le citazioni di testi rari, le
testimonianze di libri dimenticati, sono cose che paiono un
martirio agli ignoranti e una delizia allo studioso: esercizî
che favoriscono una certa pigrizia della mente, la quale non
ha da inventare o da concepire, ma piuttosto da ordinare e
distinguere e collegare le cose date, e si lascia andare con
una delicata voluttà a queste operazioni difficili soltanto per
la preparazione che richiedono in materia d'alta critica.
144
Letteratura contemporanea (2a ed., Torino, Roux e Viarengo, 1906).
145
Teramo, Fabbri, 1891; 2a ed., Torino, 1894.
160
Con ciò, egli ha già indicato l'allettamento e il pericolo
che è in quella sorta di lavoro, quando da mezzo diventa
fine e conforma a suo modo la mente e l'animo:
L'ingegno non è per esse costretto a produrre da sé, a es-
sere copioso e versatile, a studiare direttamente la cosa piú
difficile a studiarsi, la vita: assai piú che le sue proprie forze
attive, adopera quelle della memoria e del giudizio, e, invece
di creare, coordina e argomenta. Cosí esso lavora senza lo-
gorarsi ne' terribili conati, nelle rodenti fatiche della conce-
zione artistica, e in tal lavoro, guidato da impulsi esterni, ric-
co di piccole dolcezze ignote ai grandi pensatori, l'anima tra-
vagliata fugge sé stessa e i suoi segreti orrori, per quella me-
desima fiacchezza che spesso ci fa preferire il lavoro sugge-
rito e regolato dagli altri alla nostra libera attività, la quale
richiede troppo sforzo d'iniziativa e di direzione e trae seco
una responsabilità troppo piena.
Né si lasciava illudere dal detto, che allora correva per
le bocche dei professori, che la gioventú d'una volta si
perdeva dietro i versi, e la nuova, come che fosse, si
esercitava in ben piú gravi fatiche; perché egli scorgeva
il vero motivo di quelle fatiche, che erano gravi solo in
apparenza, e perciò chiedeva che, prima di mettersi a
fare gli «specialisti», si acquistasse «ampia e sicura co-
noscenza generale della propria disciplina»; e che gli
studî non si disgiungessero dalla vita:
Bella cosa spegnere in noi il nostro male piú fiero, la sete
insaziabile di commozioni; ma cosa vigliacca e disumana,
che all'ultimo si sconta col rimpianto piú acerbo, col penti-
mento piú amaro.

161
Di questa unione dell'affetto con lo studio egli fa sentire
la forza che dimostra anche nella scuola:
Un giorno, mi ricordo, si esponeva la canzone Italia mia
del Petrarca. I giovani, indifferenti da prima, venivano poi
seguendo con fissi occhi lo svolgersi delle stanze frementi,
quel maraviglioso intreccio di fiere rampogne e di accorata
preghiera; ma quando si giunse all'appassionata invocazione:
Signor, mirate come il tempo vola..., parve che fra le scialbe
mura balenasse una luce, la parola dell'altissimo poeta rie-
cheggiò dal fondo dei secoli come un ammonimento divino,
si sentí nell'aria il soffio del vaticinio destinato a compiersi
dopo cinque centurie d'anni. Io vidi qualche palpebra e qual-
che labbro tremare, e a me stesso credo tremasse la voce.
Poi, quand'io soggiunsi che l'Alfieri giudicava codesta stan-
za stonata e superflua, parecchi mi guardarono mezzo tra in-
creduli e stupiti, e pensarono forse ch'io dicessi uno spropo-
sito.
Nella quiete provinciale, nella quale egli aveva molto
campo al fantasticare e al meditare, si sentiva preso da
desolazione al pensiero della vita tutta preveduta, che ri-
pete l'esistenza passata; e narrava di un uomo, che era
entrato in questa condizione di spirito e a cui ogni cosa
che gli accadesse pareva che gli fosse già accaduta:
E non c'era al mondo orrore che superasse questo di tutto
ricordare e nulla piú sentire se non come riproduzione inalte-
rabile di un'altra esistenza. Tenendo già in sé l'impronta del
futuro, gli mancavano i due maggior conforti del vivere
umano: l'illusione di operare secondo la propria libera vo-
lontà e la speranza nell'ignoto...

162
E cosí quell'uomo si trascinò come morto, «finché gli fu
dato di rimorire, di perdere nel gran buio quel suo fanta-
sma di vita».
Leggeva e commentava in iscuola la grande poesia
italiana d'amore, di Dante e del Petrarca:
Quante volte ho sentito in me il fior di sentimento del pri-
mo, il fior di sensazione dell'altro, mentre un ragazzo scandi-
va penosamente i loro versi cosí pieni d'intima vita, e pur co-
sí misteriosi per lui! Guai se gli scolari innamorati intendes-
sero a fondo la poesia che studiano...
Ma perché egli stesso si nutriva quotidianamente di quei
versi?
Se non amo nessuna donna, se tanto fredda e vuota è la
mia solitudine, perchè m'incatena a sé questa poesia deliran-
te, perché non mi fanno ridere questi aneliti di gente che non
ho mai conosciuta, perché mi alletta e mi diletta cosí profon-
damente questo suono di baci e di sospiri? Tutti questi versi
non esprimono nulla che io debba avere ora nel cuore; per-
ché, dunque, li leggo come se dicessero qualche cosa che
vorrei dire anch'io, se si levassero verso qualcuno a cui pure
vorrebbe levarsi tutta la mia povera anima inaridita?... Per-
ché non so staccarmi da questa lettura che mi fa sentire an-
che piú acerbamente la privazione in cui vivo? Perché, in
fondo, sono innamorato anch'io; perché noi siamo sempre
innamorati. Non importa se di qualcuna e di chi; l'amore vi-
gila sempre, latente in tutte le fibre, incondizionato, indipen-
dente dalle occasioni esterne e torna quando vuole ad agitar-
ci, come un vino generoso torna a sobbollire nella nuova sta-
gione, senza ragione apparente e senza possibile sfogo. Allo-
ra quella dolce e fiera immagine che ognuno porta dentro di
163
sé torna a guardarci e a parlarci; allora tutti i desideri repres-
si, tutte le commozioni placate, tutte le fantasie annebbiate
dal tempo risorgono pronte e vive, mettendoci un fremito
ineffabile nella voce e negli occhi; allora si ridiviene ragazzi
e si rimpiangono disperatamente tutte le sciocchezze com-
messe in addietro. Di giorno si è occupati e non si pensa a
fantasie; ma quando la sera imbruna a poco a poco l'aria e il
cuore di chi è solo, che impeto lacrimoso d'affetti, che infini-
ta tenerezza, che slancio di tutto l'esser nostro verso l'imma-
gine cui non somigliò mai persona viva! Passa nell'aria una
canzone vecchia, tanto vecchia, una canzone d'amore, che ci
ha infastiditi da tempo, e ci sembra palpitante di bellezza e
di sentimento nuovo: passa nella mente una vecchia strofe
che artisticamente non ci piace, ma la ripetiamo con un ac-
cento profondo che la rende perfetta, perché parla d'amore...
Queste pagine sull'amore culminano nella celebrazione
della figura della sposa:
Ma allegri o lacrimosi, comici o tragici, passioni o capric-
ci, tutti gli amori reali non hanno fatto altro che tener alto in-
nanzi a noi come un ideale il sentimento unico e pieno,
l'Amore; tutte le donne che abbiamo amato non hanno fatto
altro che avviarci e spingerci all'amore della donna unica, la
sposa.
Ecco il fiore dell'anima, il fiore del pensiero: la donna no-
stra, tutta nostra, la signora della nostra casa, la madre dei
nostri figli, la consorte, la donna del nostro passato... Le al-
tre ci hanno dato e noi abbiamo dato loro quel tanto che si
poteva: ora vorremmo dare e ricevere tutta la vita, la fede e
l'anima intera. Le immagini delle persone che ci furono già
argomento di letizia e di pena impallidiscono tutte al cospet-
to di quest'altra che avanza come un'aurora sorgente, serena
164
come il sole, dolce come la luna, pura e nobile come un gi-
glio...
Questo è il genere e il tono delle Lettere provinciali
del Mantovani, nelle quali egli si confessa dicendo cose
non straordinarie o peregrine, ma veramente pensate e
sentite, e perciò sveglia nel lettore consenso e simpatia.

165
XLVIII. ARNALDO ALBERTI

Un altro giovane, la cui vita si spezzò quando aveva


da poco iniziata la sua opera promettente, merita di non
esser dimenticato: il veronese Arnaldo Alberti (che se-
gnava i suoi scritti con l'anagramma «I. Trebla»), morto
non ancora trentenne nel 1896. Si fece conoscere con
una serie di freschi e vivaci articoli, riuniti poi nel volu-
metto: Volontario di un anno, Sottotenente di comple-
mento146 in cui si dimostrava d'animo raccolto e riflessi-
vo, che sentiva la gravità della vita. Era stato, come
dice, colpito e illuminato dai libri che avevano allora
somma autorità, i Primi principî, le Basi della morale e
gli altri dello Spencer, De l'intelligence del Taine, e la
prefazione alle Origines de la France contemporaine, e
simili; e aveva accolto e professava il credo del positivi-
smo, soprattutto per quel che pareva svelargli dell'origi-
ne reale dei nostri sentimenti e concetti e istituti morali.
Ma quale sostegno e conforto e impeto d'azione potesse
fornire siffatta fede si vede dal suo confessare la tor-
mentosa autocritica, o piuttosto il dualismo che essa
apriva tra ciò che l'uomo deve fare e la consapevolezza
di «come si formano le religioni, come è sorta la fami-
glia, come si è originato il pudore, cosa significhi l'inge-
gno, a che si riattacchi fisicamente il vizio e la virtú», e
via; e, infine, l'aridità e l'impotenza che si tirava dietro.
Certo egli, conforme ai dettami della scuola, anziché dar
colpa di ciò al positivismo, la dava «alla vecchia filoso-
146
Impressioni e ricordi (Milano, Treves, 1892).
166
fia, alle vecchie credenze, alla vecchia morale, che ab-
biamo ancora nel sangue», e che «ci tramanda come
istinti troppe superstizioni», e infiacchisce la nostra fer-
mezza; e lamentava che si fosse «troppo paurosi», te-
mendosi a torto che, «svanito l'incanto ond'erano forti
quelle idee, e svelato il loro materiale organismo e la
loro essenza relativa, venga loro meno, nel momento
critico, l'autorità indispensabile, e ci vinca la fantasia di
passar oltre, alzando le spalle». La soluzione sommini-
strata dal positivismo egli persisteva a ritenere la sola
vera: «vivere ed operare, lasciando che le poche idee
morali sane che ci furono istillate da bambini o trasmes-
se con l'eredità agiscano di per sé, come organi fisiolo-
gici, nulla dovendo importare di conoscerne la struttura,
come sapere di che son fatti i polmoni, e la loro funzio-
ne, non impedisce il respirare». Ma, proprio questo cor-
so naturale egli vedeva che urtava in ostacoli e non an-
dava innanzi nella via regia assegnata dalla scienza, e
sempre per colpa nostra e non del positivismo; sicché
«dieci generazioni passeranno ancora perché sorgano
anime perfettamente libere di preconcetti istintivi». Il
giovane Alberti era entrato in una trappola e non se ne
accorgeva e procurava di persuadersi che quella trappola
fosse la libertà conquistata. ‒ O che cosa è mai quella
deduzione se non un sofisma, e quella conciliazione tra
scienza e pratica moralità se non una conciliazione ver-
balistica? ‒ cominciavano proprio allora a obiettare altri,
ai quali sarebbe toccato di abbattere il positivismo. La
conoscenza della genesi ideale e dello svolgimento sto-
167
rico non distrugge la forza della morale, della verità e
della bellezza? Certamente, ma non già quando la gene-
si che si assevera è nient'altro che la riduzione della ve-
rità, della bellezza e della moralità a un processo fisiolo-
gico, utilitario o edonistico, di proprio interesse, di co-
modo, di abitudine o altrettali, perché se cosí fosse e
quel pensiero dominasse incontrastato e rispondesse al
sentire, quei principî sarebbero corrosi e distrutti in sé
stessi e cadrebbe la loro autorità, né per secoli che pas-
sassero nel ripetere e insistere che debbono conservarla
pur avendola perduta, potrebbe mai restaurarsi. Forse
l'Alberti sarebbe pervenuto un giorno egli stesso a que-
sta critica e, abbattendo i cancelli, sarebbe uscito fuori
della trappola.
Per intanto egli, nel suo anno di volontariato, osservò
a lungo i soldati, cioè i contadini, e riconobbe in essi
l'altra umanità, l'umanità contrapposta a quella «intellet-
tuale», l'umanità «semplice», che ha non già la «rifles-
sione passiva», cioè che si lascia andare alla contempla-
zione dell'universo, ma la «riflessione attiva», che pren-
de delle cose del mondo quel che le serve, e perciò, se
gode meno sottilmente, soffre meno tormentosamente, e
piú limpida possiede e adopera l'idea del dovere, perché
per lei coincide con quella dell'inevitabile; ignora che
esistano arte, scienza e filosofia, e ignora anche l'amore
che tanto ci tortura, nella forma di «quel famoso proces-
so di cristallisation, rivelato da Stendhal, nel quale noi
arriviamo con un febbrile eretismo della fantasia a con-
centrar l'universo nel muso inverniciato di qualche vec-
168
chia baldracca». E dai figli dei figli dei contadini aspet-
tava la composizione del dualismo in cui la gente intel-
lettuale si travaglia: «essi, i figliuoli delle anime sempli-
ci, côrranno il frutto preparato con lento infracidimento
da noi, anime critiche, letame spirituale»147.
Ma, qualche anno dopo, l'Alberti s'innalzava a una
contemplazione piú complessa e che ha piú del religio-
so:
Nulla rimane delle antiche fedi ed è necessario lavorare
tenacemente sul proprio solco, ma levare ogni tanto la testa e
guardare la mietitura degli altri lavoratori. È il solo spettaco-
lo che acqueti l'infrenabile superbia dell'egoismo ed allarghi
il cuore.
Ognuno fabbrica dei grandi sogni e compie in fine una
piccola opera; e l'opera di tutta la moltitudine faticante, qua-
le si è compiuta in tanti secoli e si verrà compiendo nei futu-
ri, è ben piccola cosa di fronte all'opera ignota che l'universo
compie e di cui ignoriamo il disegno.
E forse anche ogni parola savia ed ogni proposito umano
ad ogni consiglio è vanità, perché all'immensa opera miste-
riosa del Dio ignoto occorrono anche le anime impazienti, le
anime tormentate, le anime vibranti, arse dalla febbre
dell'impossibile, e forse la fiamma che le divora e ne affretta
la trasformazione è la fiamma istessa del Dio148.
Il suo acume di osservatore e la sua serietà riflessiva
si ritrovano anche quando volge l'occhio ad altri aspetti
della realtà: come nell'esperienza che fece quando prese
147
Si veda il vol. cit., spec. pp. 141-66.
148
In una conferenza: Un'anima inquieta, intorno ai diarî della Bashkirtseff
(nel vol. degli Scritti sparsi e inediti).
169
parte alle grandi manovre:
...Bisogna vivere quindici giorni all'aria aperta, dormire
per terra, rinunziare agli agi piú semplici della vita sociale,
non curarsi d'altro che di marciare e combattere, per sentire
come i cattivi istinti primitivi tornano a galla, come la bestia
addormentata entro di noi si sveglia e si libera in un attimo
delle ragnatele convenzionali che l'educazione è venuta tes-
sendo intorno. Si può lottare con la passione, non col biso-
gno fisico. Non mi sono io sorpreso, insieme con gli amici
miei, a sfondar tralci e siepi col calcio del fucile per rubare
dell'uva da calmare la sete intollerabile; non ho sentito io
dieci volte il demone del saccheggio e della ribellione accen-
dermi il sangue, quando si piombava affamati in un'osteria
dove il nemico aveva già preso fin l'ultimo tozzo di pane?
Non ho provato e non ho visto sulla faccia dei miei compa-
gni quasi una vertigine, montando all'assalto, dopo tre ore di
sole? Eppure nessuna animosità ci moveva; mancava il fero-
ce stimolo del sangue sparso e l'energico terror della morte,
che rende furibondi i piú miti. Mettete un po' tutto questo
nell'animo umano, rompete con la lontananza e l'incertezza
delle notizie ogni legame che l'unisce alla famiglia, eccitate-
lo con le sofferenze materiali e le strettoie della disciplina,
poi... stupitevi di ciò che farà un esercito, sia pur mosso dal-
la piú nobile idea del mondo: dalla difesa del proprio paese.
A questa umanità del suo sentire corrisponde l'umani-
tà dell'arte sua, che già in questo suo primo volumetto
ha belle pagine:
Al forte, alla polveriera, all'osteria, l'animo si colorava di
tre luci diverse, e, a volta a volta, ognuna pareva spegnersi
affatto per cedere a quella irradiata dal momento. Pure la tin-
170
ta grigia ebbe a superare le altre.
Quando il distaccamento stava già per venirsene via, mi
capitò improvvisamente la notizia della morte d'una persona
che amavo. La tristezza indefinita, aleggiante nella solitudi-
ne, acquistò vigore di realtà, la realtà fu levata in alto
dall'amara poesia delle cose.
Coi gomiti posati sopra una feritoia e la testa fra le mani,
solo, nell'androne muto, ebbi uno di quei momenti, rari nella
nostra frettolosa esistenza, in cui l'idea della fine ultima si
svela limpida, quasi corporea, allo sguardo interno.
E l'immagine del forte abbandonato, pieno d'erbe e di lu-
certole, mi restò poi sempre nel cuore, come quella d'una
grande, malinconica tomba, ove la morte sarebbe davvero il
tetro sogno supremo, senza risveglio.
A contrasto, è da leggere questa pagina con le impres-
sioni del suo vestito da sottotenente e della primavera:
Un'altra cosa, invece, ho provata, senz'averci prima cre-
duto, ed è quanto l'uniforme e la giovinezza e l'Aprile, uniti
insieme, valgano a ridestare l'eterno Don Chisciotte che dor-
me in fondo all'anima nostra. Io non vi dico già che si cam-
mini fieramente per le vie, col pugno sull'elsa, squadrando
chi passa; no, ma si porta la testa piú alta, si parla piú forte,
si ride piú volentieri, si guardano piú audacemente in viso le
dame e le cameriere: par di tornare studenti. L'amor non vòl
pensieri, dice il proverbio veneziano, e lo spirito non piú tor-
mentato dalle ansie del domani, fermenta nel corpo rinvigo-
rito, butta all'aria il ritornello d'una canzone birichina, e
prende volentieri la corsa dietro qualche grazioso lembo di
sottana. O Primavera! io non so da quali succhi d'erbe novel-
le tu cavi il tuo filtro miracoloso, ma tu faresti mutare a un
generale d'esercito le sue tre stelle con un berretto di sottote-
171
nente. E tu stessa, o Primavera, mi hai fornito l'immagine
migliore della tua malía. Una sera, ch'era appena cessato di
piovere, e io avevo rovesciato indietro il cappuccio
dell'impermeabile, una fioraina mi passò accanto con un ce-
stino di mammole. Guardandomi, ella si ricordò, o le parve,
di qualche piccola follia carnevalesca ‒ Oú sont-elles les
neiges d'antan? ‒ e mi offerse, col ricordo, le viole.
— Carina, ‒ diss'io, ‒ gli ufficiali non portano fiori.
— Oh! ‒ rispose ella, ‒ saprò ben io nasconderli.
E, levandosi sulla punta dei piedi, mi gettò una manata di
mammole nel cappuccio, aperto a riceverle come una coppa.
Ora quella sera io era d'ispezione alla guardia, e, per tutta la
lunghissima via solitaria delle mura, fin dentro i posti, nelle
camerette basse e fumose, mentre firmavo il rapportino al
lume della lanterna o, accompagnato dal caporale di muta,
chiedevo severamente la consegna alle sentinelle immobili
sull'attenti, il profumo nascosto venne, come una carezza, a
consolarmi, cacciandomi dinanzi le fatiche e la noia.
Una manata di fiori nel cappuccio, ben celata che nessuno
la veda, sotto il rigido aspetto dell'uniforme e del servizio:
ecco ciò che l'Aprile dell'anno e l'Aprile della vita recano in-
sieme, e in questo contrasto sta chiusa la poesia della gio-
ventú soldatesca.
Pubblicò, dopo le Memorie di un volontario, un ro-
manzo, Perdizione149, in cui analizzò e ritrasse un uomo
d'ingegno ricco, di volontà forte, che è insieme un'anima
sostanzialmente egoistica, vuota e triste, un giovane am-
bizioso e di sicuro avvenire scientifico, che coltiva
l'amore senza amore, per trastullo di desiderio, spingen-

149
Torino, Roux, 1893.
172
do alla morte la donna che egli ha svegliata all'amore e
che l'ama con tutta sé stessa. E seguí un altro raccon-
to150, forse artisticamente meglio condotto, il racconto di
una relazione con una donna brutta, che ama perduta-
mente e che non si ama, e che è presto abbandonata, e
poi amata e cercata invano dopo il distacco, sí che pare
di non aver mai amato altra donna che lei. Ma erano an-
cora prove giovanili. Gli amici, dopo la sua morte im-
matura, riunirono in un volume151 novelle e bozzetti e
saggi e conferenze e pagine inedite, composte da lui tra
il '90 e il '96. Vi sono cose assai gentili e fini, anche tra
quelle piú giovanili: come Dramma in soffitta, del fan-
ciullo che trova in soffitta e legge lettere d'amore d'un
giovane ufficiale ucciso nella guerra del '66 a un'Elda, e
fantastica e sogna, e poi apprende che quell'Elda è la sua
mamma; ‒ La morte del vicino, sarcastica e triste rap-
presentazione degli impacci, del fastidio e della noia che
quel morto diffonde tutt'intorno della casa dov'era stata
la sua abitazione; ‒ Corda rotta, il bancarottiere che,
messo in salvo quel che gli occorre, si prepara a fuggire
e a cominciare una nuova vita, quando, nell'attesa, tocca
il pianoforte, e quei suoni risvegliano tali ricordi e fanta-
sie e sentimenti che, invece d'intraprendere una nuova
vita, si ammazza; ‒ Tina, un amore che si nasconde; ‒
Ideale d'autunno, un amore che si rifiuta; ‒ Idillio
d'inverno, la donna che si è amata e che si ritrova poi
ancora amante, malata e destinata a certa morte; ‒ Un
150
Racconto al chiaro di luna (ivi, 1895).
151
Scritti sparsi e inediti, pubblicati per cura di alcuni amici (Verona, tip.
Franchini, 1896).
173
razzo, un amore che si spegne nella tristezza e nel vuo-
to; e altre e altre bene ideate, e, a volte, bene attuate.
L'Alberti sapeva rappresentare figure ed affetti. In Sim-
plicitas è l'interno di una famiglia di provincia, della
quale tutti gli uomini sono morti o andati via e restano
solo le donne.
Una grande monotonia di vita era cresciuta intanto attorno
alle donne, e le chiedeva in una cerchia d'occupazioni sem-
plici e uguali.
La zia Giovannina attendeva alle faccende domestiche,
vigilava il pollaio, saliva e scendeva di continuo dal granaio
alla cantina, e non piú di dieci idee le traversavano la mente
in un anno.
La zia Carlotta, con gli occhiali sul naso, disponeva gli af-
fitti, amministrava il danaro, teneva in ordine la corrispon-
denza e leggeva romanzi.
La zia Rosa se ne stava chiusa tutto il giorno; ricamava
tovaglie per gli altari, immagini benedette per le monache, e
pregava.
La nonna, sprofondata nella sua poltrona vicino all'uscio,
lavorava di calza con un moto macchinale, e dormiva.
La sera, dopo cena, il lume scarso della lucerna posato in
mezzo alla tavola traeva arditi contrasti di chiaroscuro dalle
quattro vecchie teste riunite sotto lo stesso fascio di raggi;
metteva in risalto le rughe profonde e l'ombre nelle orbite in-
castrate della zia Carlotta; i placidi lineamenti e le guance
piene della zia Rosa; gli occhietti grigi e il nasetto all'insú
della zia Giovannina; i capelli nivei e l'immutabile serenità
della nonna.
Reco un'altra pagina, dal bozzetto I pescatori di sar-
174
dine nel Benaco:
E continuano a tirare la rete. Si vedono le prue delle altre
due barche emergere sempre piú alte e nere, avanzandosi
lentissime con un lieve gorgoglio, e il circolo dei sugheri
galleggianti, che segna l'orlo della rete, restringersi gradata-
mente. Mi curvo su quell'orlo: dentro il cerchio della rete,
nell'acqua limpidissima, al baglior della luna, le sardine in-
quiete passano veloci a frotte, come frecce d'argento, riluco-
no, guizzano avanti e indietro, cercando un'uscita. Un fremi-
to di terror panico sconvolge la moltitudine muta. Tuffando
le braccia nell'acqua limpida, si possono afferrare a caso i
pesci, che scivolano fuor dalle dita, e la vista della preda im-
potente a fuggire esalta l'animo d'un piacere crudele, singo-
larissimo.
Il cerchio si restringe ancora; per l'imminenza del perico-
lo, l'inquietudine diventa tumulto: nella prigione sempre piú
stretta, le sardine brulicano, salgono alla superficie, s'immer-
gono, turbinano; le scaglie del ventre luccicano di riflessi fo-
sforici frequenti.
D'improvviso tutte insieme si raccolgono, fanno impeto
contro la rete, la gonfiano: già le barche si toccano, il trian-
golo è chiuso.
Scriveva anche versi, meno spontanei delle prose ma
pure pensati e sentiti, come questo sonetto che s'intitola
Risveglio:
Avvien talvolta che dentro mi tace
ogni tumulto: un gran silenzio regna:
io mi raccolgo a lavorare in pace,
seguendo quel che la mente disegna.
È morto il core? O vincolo tenace,
175
proposito, gli amor tutti disdegna?
Non so e non curo. Vivo. E pur mi piace
non aver mèta e non pensarla degna.
Poi d'improvviso il cor dentro si desta,
come un sovrano di cattivo umore;
vuole avventure, glorie, eroiche gesta;
torna di nuovo il mio mondo a rumore,
tutto è letizia, è meraviglia, è festa!
Securo attende là in fondo il Dolore.
È questa delle ultime cose che egli scrisse, e bene espri-
me la disposizione sua meravigliata verso la vita, la vita
che si fa in noi e che non facciamo noi.

176
XLIX. ROMANZI-DOCUMENTI

Commisti di storie passionali e di intenzioni ideologi-


che, critiche, satiriche e ammonitrici, molti altri roman-
zi, che non appartengono all'arte e spesso neppure alla
letteratura, similmente non saranno inutili allo storico
della nuova Italia, sia per qualche aneddoto o altro parti-
colare di cui conservano la memoria, sia per quel che ri-
feriscono del comune sentire e opinare di quel tempo, di
giudizî correnti e convenzionali, di dicerie e simili, of-
frendo a questo modo ora lo spunto all'ulteriore ricerca,
ora la riprova di quel che si trae da altri documenti. Si
dirà che i romanzi sono documenti da maneggiare con
precauzione e discernimento. Certamente; ma l'uso di
tutti i documenti ha bisogno di una sia pur varia precau-
zione e di un sempre vigile discernimento.
Si potrebbe, per dare qualche esempio, ricercare
come nei romanzi degli italiani (anche, del resto, negli
stranieri dello Zola, del Bourget e di altri) fu figurata
Roma, diventata capitale del regno e centro della vita
politica e parlamentare. E, senza ritornare su quelli dei
quali ho già avuto occasione di discorrere come la Con-
quista di Roma di Matilde Serao, e attenendomi ai mi-
nori e minimi, sarebbero da ricordare, non certo per pre-
gio d'arte, I conquistatori di Roma152, di Giuseppe Ca-
stelli, che io ho conosciuto ed era un alto impiegato, mi
sembra, del ministero dell'agricoltura, e si occupava con
insistenza del suo compaesano ed astrologo, Cecco
152
Torino, s. t. e. n., 1907.
177
d'Ascoli. Giustino Ferri153 si propose di descrivere quel-
la che chiama la «Roma gialla», la strana e ripugnante
società formata dal legame tra l'aristocrazia romana cle-
ricale e una genía di loschi avventurieri e di malviventi;
e nei suoi racconti accumulò ogni sorta di nequizie e di
delitti. Egli, giornalista, diceva di valersi delle note del
suo «taccuino di cronista in ritiro»; ma il taccuino dove-
va essere la sua accesa immaginazione dell'orrendo. Di
tanto in tanto, si trova, nelle sue pagine, qualche scena
presa dalla realtà: per esempio, questa descrizione del
Caffé Aragno intorno al 1884, in quell'ora del giorno in
cui rimaneva senza la folla consueta; e qui la si riprodu-
ce come una stampa dell'epoca.
Il caffé Aragno rimaneva quasi deserto. Qua e là, qualche
lettore esotico di giornali inglesi e tedeschi. Un numero del
Capitan Fracassa, macchiato di caffé, giaceva spiegazzato
sopra un tavolo. I camerieri si fermavano tra loro a chiac-
chierare in piedi o stanchi si andavano a sedere, con voluttà,
su qualche seggiolina presso le porte. Una signora pigliava
note sul taccuino. Un giovinetto ritto davanti a una mensola
scarabocchiava frettolosamente una cartolina postale. Una
quiete quasi solenne succedeva al chiasso della mattina. Gli
addetti del banco incrociavano le braccia, il direttore del ser-
vizio scorreva un numero del Popolo romano. E, in quel si-
lenzio, il lumicino a spirito su cui si riscaldavano le cuccume
di porcellana rosea del ponce e del vino caldo, parevano
fiammelle devote accese davanti a qualche reliquia sacrosan-
153
N. in Picinisco (Ciociaria) nel 1857, m. nel 1911. Col pseudonimo di
«Leandro»: Gli orecchini di Stefania (Roma, Sommaruga, 1884); L'ultima
notte (ivi, 1883); Il duca di Fonteschiavi (ivi, 1884); La canaglia ovvero
Roma sconosciuta (ivi, 1892); Roma sotterranea (Voghera, 1899); ecc.
178
ta, mentre il caffé, nella sua severa ricchezza di marmo bian-
co, di specchi, di grandi cornici d'oro e di velluto azzurro, a
quella luce fredda di una giornata di tramontana, s'immerge-
va nella tetraggine sonnolenta, misticamente austera, di una
cappella protestante.
Negli ultimi suoi anni, il Ferri superò sé stesso, pas-
sando ad altra ispirazione e altro stile e scrivendo un ro-
manzo, La camminante154, che piacque e raccolse molte
lodi: racconto di una donna sconosciuta, che capita in
una casa e presso un uomo, che prende ad amarla scono-
sciuta, finché essa a un tratto va via, sempre sconosciu-
ta. È il vecchio motivo, gradevole all'immaginazione,
del quale il Goethe aveva fatto la novella della Peregri-
na folle, e che altri anche presso di noi, come il Barrili e
il Capuana, avevano trattato in romanzi e novelle. Che
in questo motivo ci sia molto di piú oltre questo giuoco
del segreto e del mistero che dà nuovo sapore alla va-
ghezza amorosa, non si potrebbe affermare. Nel Ferri,
l'homo patiens di quella apparizione e sparizione è lo
stesso romanziere che aspetta un tema da romanzo.
In un altro romanzo, L'eredità Ferramonti, di G. C.
Chelli155, che non è opera volgare, specie nel ritrarre il
carattere di una donna sagacissima e abilissima, la qua-
le, messi da banda gli scrupoli, tende con tenacia alla
ricchezza e alla potenza, appare la Roma degli impiegati
e degli uomini d'affari. In un certo punto del romanzo,
discutono in tre un clericale, un repubblicano e un libe-

154
Roma, Nuova Antologia, 1908.
155
Roma, Sommaruga, 1884.
179
rale costituzionale. Al clericale intransigente, che è un
commerciante romano, «attaccato alla vecchia tradizio-
ne di pompe e di spettacoli della Roma cattolica», e che
aspetta sicuro la restaurazione del governo papalino per
opera degli stati esteri, il repubblicano risponde con vio-
lenta apostrofe:
Che! Tutte stupidaggini! La reazione era morta per sem-
pre, e la libertà aveva per sé l'avvenire. La libertà vera, quel-
la del popolo, emancipato da tutte le camorre e da tutti i pre-
giudizî che si alimentano all'ombra dell'altare e del trono.
Forse dopo l'’89, dopo i trionfi della scienza e del pensiero
moderno, dopo la propaganda civile che risveglia il popolo
al sentimento della propria dignità e della propria forza, era-
no ancora possibili le istituzioni medievali? Erano possibili i
privilegi che rappresentano storie secolari di delitti, di san-
gue e di lacrime? Chi lo credeva, un imbecille ed un cieco.
Ma il liberale costituzionale ribatte a tutti e due:
Non siete onesti! No, nel campo dei principî non sapete
essere onesti, perché ascoltate soltanto i suggerimenti della
passione e dell'odio. Io rispetto le vostre opinioni, non è
vero, Barbati? Ebbene, non riesco a capire neppure che cosa
vogliano i vostri amici. Siete un mucchio di esaltati, e non ce
n'è uno in buona fede. Non avete tutte le libertà? Nella stam-
pa, nei comizî, dovunque, sorvegliate il governo, godete
l'esercizio di ogni diritto fino alla licenza. Se comandaste voi
altri, non ci permettereste una decima parte di quello che noi
vi permettiamo. Sentite: la monarchia costituzionale è la re-
pubblica di fatto, senza averne i difetti. Quando non presen-
tasse altri vantaggi, evita la sollevazione degli elementi tor-
bidi nella successione dell'autorità suprema. Vi sembra
180
poco? D'altra parte, siete persuaso meglio di me che la vo-
stra repubblica non avrebbe fatto l'Italia. Per ciò appunto i
vostri versarono il sangue sui campi di battaglia sotto la ban-
diera monarchica. E noi, quando ci avete offerto le vostre
braccia e le vostre intelligenze, non vi abbiamo né respinti
né disprezzati: vi abbiamo accolti come fratelli, che poteva-
no dissentire da noi negli ideali lontani, ma che avevano in
cuore la stessa nostra fiamma di patriottismo. Suvvia dun-
que; lasciate i luoghi comuni, state alla questione! Che cosa
potete rispondere?
In questi anni, se mi si consente la piccola digressio-
ne, Leone Fortis eseguiva l'analisi della composizione
sociale di Roma: una curiosa città (diceva), che contiene
entro di sé quattro mondi diversi: il mondo del Vaticano,
quello di Montecitorio con la succursale del Caffé del
Parlamento, quello delle Gallerie e, infine, quello di
Roma propriamente detta. Quest'ultimo, della Roma ro-
mana, guarda gli altri tre, offre orazioni e incenso al pri-
mo, camere mobiliate al secondo, antichità moderne e
ciceroni al terzo. E del mondo di Montecitorio il Fortis
faceva la seguente descrizione:
Su cinquecento deputati ve ne sono quattrocento che, du-
rante il loro soggiorno in Roma, non escono di Montecitorio
che per attraversare piazza Colonna e per andare al Caffé del
Parlamento, ove un buon romano non mette il piede che
quando ha da vedere un qualche deputato; e dal Caffé del
Parlamento non si muovono che per tornare a Montecitorio.
A Montecitorio il meno che si fa è quello per cui si va o al-
meno per cui ci si fa mandare. Quei quattrocento rappresen-
tanti della nazione vivono come una colonia di deportati. Vi
181
piantano il loro studio, la loro sala di conversazione, il gabi-
netto della loro siesta, lo scrittoio delle loro corrispondenze,
il fumoir delle loro noie. Vi ricevono gli amici, vi danno
convegno e, se non vi dormono, gli è perché non vi sono let-
ti. Questi quattrocento non si vedono che fra loro, dell'altro
sesso non frequentano che le deputatesse, e le senatoresse, o
qualche altra donna politica, e quindi di sesso neutro. Il re-
cinto di Montecitorio comincia per loro ad essere la Urbs
degli antichi romani e finisce coll'essere l'orbis. Vi entrano,
al principio della legislatura, parlando quella specie di lin-
guaggio che i candidati sogliono adoperare con i loro eletto-
ri, tutto tropi, immagini, metafore, ma che pure conserva un
certo tipo italiano, da cui se ne indovina l'origine prima. Ne
escono, parlando un gergo fabbricato in casa, quel gergo che
si forma facilmente fra persone condannate alla perpetua
convivenza e alla segregazione dagli altri, gergo che nessun
altro che loro riesce a capire. È quindi gran meraviglia di
non intendere piú ciò che si dice da quegli elettori a cui ri-
tornano, e di non riescir piú a farsi intendere da loro156.
Achille Bizzoni157, garibaldino, giornalista e repubbli-
cano, autore di un convulso romanzo di amore e suici-
dio158 e di alcune memorie sulla campagna dei garibaldi-
ni in Francia159, dette, in un suo ultimo romanzo, L'ono-
revole160, una vivace pittura della vita parlamentare in
Italia fra il 1892 e il 1893, al tempo del crollo della Ban-
156
Conversazioni, 2a serie (Milano, Treves, 1879): v. pp. 130-45.
157
N. a Pavia nel 1841, m. nel 1904.
158
Autopsia d'un amore, studio dal vero (Lodi, 1873, 4a ed., Milano, Sonzo-
gno, 1875).
159
Impressioni di un volontario all'esercito dei Vosgi (Milano, Sonzogno,
1874).
160
L'onorevole (Milano, Sonzogno, 1896).
182
ca romana e degli scandali politici che l'accompagnaro-
no. A contrasto della nuova generazione venuta su dopo
il '60 c'è il rappresentante di quella che culminò tra il '48
e il '70, sentimentale, disinteressata, leale, generosa, ca-
pace di ogni sacrificio per le proprie idee e per le perso-
ne amate:
Noi ‒ dice quel vecchio, ‒ veterani di una generazione dal
sentimentalismo morboso, figli di un secolo cominciato nel
1859, finito nel 1870; i tuoi vent'anni in meno ti mettono a
riparo delle nostre peripezie morali. Siete pratici, voi; noi
non siamo stati che dei sognatori. Colpa di Byron, di De
Musset, di Dumas e di cento altri sommi del secolo d'oro
della letteratura francese. Tutta roba che voi disdegnate...
Eravamo dei bohêmes e la maggior parte di noi ebbe il torto
di rimaner tale. Voi siete nati nel secolo della ragione. Ci vo-
gliamo bene; non c'intendiamo.
E dice anche:
Certo, il patriottismo è un pregiudizio ingrandito, un pre-
giudizio di fronte al sentimento umanitario che vorrebbe una
sola famiglia nell'umanità, una sola patria sul pianeta Terra;
ma per noi era la nostra fede, era una religione, la sola nostra
religione, coi suoi poeti ed apostoli, i suoi martiri, i suoi
eroi. Che cosa rimane d'ideale a voi? L'amore? Anch'esso è
mutato, spogliato del romanticismo sentimentale, un po' mi-
stico, nel quale noi l'avvolgevamo.
È da notare che questo repubblicano federalista non
vuol saperne di una Roma moderna che gareggi con
l'antica e restauri la romanità: onde sorride degli archi-
tetti di Quintino Sella e di Agostino Depretis, che si era-
183
no messi a un'impresa nella quale fallí Michelangelo, e
sorride della corte di Torino che vuole raccogliere l'ere-
dità della Roma antica e grande e della Roma grandiosa
dei papi. Per lui, Roma avrebbe dovuto essere «città li-
bera, capitale morale della lontana ma inevitabile confe-
derazione latina».
Del resto, chi ricorda quegli anni, rivede in queste pa-
gine del Bizzoni luoghi e scene e costumi: la seduta rea-
le, la «farmacia» di Montecitorio, il Caffé Aragno, il ri-
storante delle Venete, la sala della stampa al palazzo di
S. Silvestro, «grande cucina di manicaretti offerti alla
pubblica curiosità affamata dell'Italia e dell'orbe»; e ria-
scolta le chiacchiere e le esagerazioni e le malignazioni
che correvano circa i deputati e i loro collegi elettorali, e
le altre manifestazioni della psicologia di allora.
Carlo del Balzo161, che fu per lungo tempo deputato,
prese le mosse dai fatti della Banca romana per il ro-
manzo del giornalismo e dell'affarismo, I soldati della
penna162, dove, sotto il nome del giornalista deputato,
l'onorevole Santelmo, si narrano né piú né meno che il
carattere, la vita e le avventure di Rocco de Zerbi, il
quale, dopo avere per oltre un ventennio rappresentato
una parte assai cospicua e vivace a Napoli e a Roma, si
trovò mescolato alle faccende di quella banca, e, come
relatore che era stato intorno ad essa nella Camera, col-
pito da accusa di corruzione, morí d'improvviso e si cre-
dette che si fosse tolta la vita. Il Del Balzo, descritta la
161
N. 1853, m. 1911.
162
Roma, Voghera, 1908.
184
figura dell'onorevole Santelmo, «un insieme simpatico
di soldato e di uomo mondano», dice:
Aveva esordito combattendo. Prima come volontario gari-
baldino, poi come ufficiale dei bersaglieri, aveva fatto il suo
dovere; ma nell'esercito non era rimasto, sentendosi a disa-
gio nell'angusta vita di caserma. Intraprendente, coraggioso,
temerario, colto, assimilatore, pronto di mano e di penna,
caustico e dolce ad un tempo, dialettico efficace, si era butta-
to al giornalismo, alla battaglia quotidiana e ardente. Ed in
essa aveva spiegato forze grandi di polemista, audacie ag-
gressive, originalità d'ideazione, sotto una veste di amabile
scetticismo, con uno stile snello ora tagliente, ora brillante,
sempre a faccette, come un diamante. E, pagando di persona,
usando della penna come della spada, il suo giornale, tutto
personale, tutto nella piccola sua sigla, si era fatto leggere,
amare e temere. Gradito alle donne nei salotti, corteggiato
dagli uomini come una donna, era divenuto qualcheduno col
quale si doveva contare. In fama di scrittore, di statista, di
duellista, di uomo a buone fortune, aveva addentato a tutti i
piaceri. Il suo giornale si vendeva tra gli intellettuali soltan-
to, ma l'importo della vendita al minuto era niente a petto di
ciò che esso rendeva in segreto.
Un giovane, che entra in relazione con lui, prova tur-
bamento e quasi malessere:
Il commercio intellettuale con quell'uomo poteva essere
pericoloso. Quel profondo scetticismo, foderato di erudizio-
ne e di spirito, era attaccaticcio. Conversando con quella
mente primaverile, che produceva una forma frizzante, che
inebriava annebbiando le cellule del cervello come un vino
mal preparato che comincia ad andar in acido, non si educa-
185
va il cuore, non si sentiva quella dolcezza, che inocula nel
sangue una parola di benevolenza e di amore; e pure non si
sapeva disprezzarlo. Presso di quell'uomo cinico, paradossa-
le, ma dal pensiero agile, lucido, dalla voce vibrante, dal ge-
sto vivace ed espressivo, dalla coltura larga e pronta, gli era
sembrato di stare come accanto a una facile donna, seducen-
te e cattivante, tutta profumi e gioielli, dalle mani lunghe e
bianche, dagli occhi febbrili, che si fa desiderare senza ispi-
rare né amore né stima.
Questi Soldati della penna appartengono a un ciclo, a
cui il Del Balzo era venuto lavorando, col titolo genera-
le: I deviati, studî di costume contemporaneo; tra i quali
studî uno riguardava la Gente di chiesa163, e propriamen-
te la vita sessuale dei preti, non senza una certa risonan-
za della zolina Faute de l'abbé Mouret; un altro, Dottori
in medicina164, accusava l'ignoranza e la poca coscienza
dei medici.
Quadri di ambiente sono anche nei romanzi di Arturo
Colautti165; in Fidelia, la vita elettorale in provincia; nel
Figlio, la vita di Roma (e molti personaggi vi sfilano coi
loro proprî e storici nomi); nella Prima donna, il mondo
dei cantanti e dei giornali teatrali. Ma il Colautti si di-
batteva sotto l'incubo, o si compiaceva nell'enfasi,
dell'erotico-sanguinario e del macabro, che in effetto
riempiono i suoi volumi. In Fidelia, che è il lavoro suo
piú poderoso, un medico scienziato sposa, per salvarla
163
Torino, Bocca, 1897.
164
Napoli, Pierro, 1894.
165
Prima donna (rist. Firenze, Bemporad, s. a.); Fidelia (Milano, Galli, 1886);
Nihil (ivi, 1890); Il figlio (1901).
186
dalla morte, la figlia di un garibaldino, malata di tisi; la
sposa e la rispetta, curandola da medico, attendendo la
piena guarigione per farla sua. Ma quella non resiste alla
castità, sospetta nell'astensione del marito un'incapacità,
concepisce verso di lui avversione e disprezzo, e si dà a
un altro uomo, incontrato per caso, e, quando costui sta
per passare ad un'altra donna, muore di schianto. Il ma-
rito, che d'un tratto è còlto da sospetto, le fa l'autopsia e
scopre in lei la maternità! Nello stesso romanzo, lo stes-
so medico, sedotto da un'altra donna, da una sua cugina,
sta per stringerla a sé, ma in quel momento, nel bianco
seno che gli si offre, gli par di vedere l'affacciarsi del
cancro, e quella donna gli si muta in una ammalata da
ospedale, ed egli si arresta:
Diana, sorpresa, sollevò la testa guardando da un occhio.
Il dottore era cosí pallido, cosí rigido, cosí gelido che la si-
gnora si alzò a mezzo quasi sbigottita. Lo sguardo del cugi-
no aveva una fissità straordinaria: pareva lo sguardo di un
allucinato. Lo era, infatti. Egli non perseguiva piú che quel
cancro orribile, che andava incidendo e cauterizzando men-
talmente.
La medesima ispirazione erotico-sanguinaria e maca-
bra condusse il Colautti a rimare in terzine un poema,
che parrebbe parodia, e voleva essere imitazione e pro-
secuzione di Dante, Il terzo peccato166; ma, come questo
poema, cosí quei romanzi sono opere sbagliate, perché,
a dir vero, il Colautti non possedeva qualità di poeta né
finezza alcuna di artista. Giornalista, non sa coglier
166
Milano, Hoepli, 1902.
187
niente che non sia comune o esagerato; e la superficiali-
tà del suo stile, tutto antitesi, corrisponde alla poca soli-
dità del suo pensiero e alla poca serietà del suo spirito di
osservazione.
Oltre di queste su Roma e sulla vita parlamentare, al-
tre notizie della vita italiana si potrebbe andare ripescan-
do nella letteratura romanzesca d'allora; e, per esempio,
per quel che riguarda l'Italia meridionale, c'è un libro di
Parmenio Bettoli, piú noto come autore di teatro, Car-
melitana, racconto del Tavoliere di Puglia167, nel quale
si leggono descrizioni della gente di Puglia, della festa
dell'Incoronata a pié del Gargano, della «brucheria» (os-
sia del modo con cui sono ordinate le squadriglie di con-
tadini che distruggono le cavallette d'Africa quando si
abbattono sui campi del Tavoliere), della fiera di Fog-
gia, del teatro che vi si apre per l'occasione, della condi-
zione delle donne in quel paese, e, infine, del modo in
cui l'opposizione politica di sinistra si reclutava nell'Ita-
lia meridionale coi piú diversi elementi, non ultimi i
borbonici e i clericali. In un altro romanzo, di un Giu-
seppe Protomastro, Solite storie168, la vicenda descritta è
la crisi vinicola del 1887, altresí nella Puglia, per effetto
della rottura dei trattati di commercio con la Francia!
Bisognerebbe, nella rassegna di questi romanzi docu-
mentari a servigio della storia del periodo anzidetto
(poiché tanto poco servirono all'arte), tener conto di
qualche scrittore che si specificò in una particolare cer-
167
Milano, Treves, 1875.
168
Milano, Sonzogno, 1896.
188
chia di vita, come Arturo Olivieri San Giacomo169 per
quella militare, apportandovi la sollecitudine di un uffi-
ziale che si adopera a mettere in chiaro i bisogni e le de-
ficienze dell'esercito, a promuoverne o accompagnarne
la riforma, a risvegliarne le idealità; e per questa parte le
opere sue si riferiscono soprattutto agli anni nei quali
l'esercito italiano si trasformò e ammodernò, tra il 1887
e il '92. Nel 101° fanteria il protagonista, un giovane te-
nente, figlio di un soldato delle guerre del Risorgimento,
rappresenta il nuovo che nasce e la critica del vecchio:
...Ma che cosa poteva importare alla patria che i suoi ca-
pelli fossero o non fossero tagliati a spazzola, e i suoi panta-
loni piú o meno attillati? Forseché Garibaldi aveva operato i
prodigi della sua gloriosa epopea colle rigide formalità della
pedanteria prussiana?... L'avvento del buon senso e della lo-
gica anche nelle cose della milizia... No, grazie a Dio, il re-
gno delle apparenze, della chincaglieria, dei capitamburo,
dei zappatori barbuti e in grembiule bianco, è finito. S'inizia
un'èra nuova, l'èra democratica, in cui il comando non è piú
personale, ma è una semplice funzione del grado. Verranno
avanti i giovani: cioè il progresso, cioè la scienza e il razio-
nalismo. Siamo tutti impazienti di essere messi alla prova in
un campo meno incruento della piazza d'armi o dei cortili
del quartiere. Spira dall'Africa e dalla Francia, da sud e da
ovest, un venticello gravido di minacce...
Il nuovo colonnello, che viene a quel reggimento, era
stato durante piú anni nelle scuole militari, occupato ne-
169
N. a Torino 1862, m. 1903. Romanzi: Il colonnello (Milano, Aliprandi,
1896); I richiamati (ivi, 1897); Il 101° fanteria (ivi, 1899); Le militaresse
(ivi, 1899); La spia (ivi, 1902); e altri volumi.
189
gli studî, e non conosceva per diretta esperienza la vita
militare:
Ingenuamente egli credeva che la trasformazione
dell'esercito sul sistema prussiano dopo il '66 e dopo il '70
fosse venuta d'un colpo, quasi per virtú d'un miracolo. Aven-
do vissuto tanto tempo lontano dai reggimenti, egli credeva
che tutti avessero seguito la evoluzione verso la scuola nuo-
va, che aveva la scienza per punto d'appoggio. Ora, rientrato
per virtú di bollettino nel mondo reale, si accorgeva che nei
reggimenti ogni manifestazione di progresso e ogni accenno
di rivoluzione salutare erano ritardati e ostacolati dall'ele-
mento vecchio apertamente avverso a seguire tecniche e sen-
timenti che non capiva. Nel 101° quell'elemento, sia negli
ufficiali superiori che nei capitani, soverchiava quello giova-
nile...
Ma rimaneva disorientato anche perché lo spirito mo-
rale dell'esercito non era piú quello della sua giovinez-
za: la società, cangiando, aveva cangiato anche gli uo-
mini che vestivano la divisa del soldato:
E se ne addolorava profondamente senza comprendere
che i tempi eroici delle rivendicazioni nazionali erano tra-
montati e che, per mille ragioni d'indole storica ed economi-
ca, era impossibile continuare a far germogliare in Italia la
pianta di quel militarismo patriottico che il Piemonte aveva
ereditato dalla Francia e che ebbe lampi di fugace splendore
durante le guerre dell'indipendenza. Essendo stato per tanto
tempo professore alla scuola di guerra, avendo cessato di
militare attivamente nelle file dell'esercito poco dopo la
trionfale entrata in Roma, egli pensava dovessero durar tut-
tavia nei reggimenti quelle idee e quelle tradizioni che vi
190
aveva lasciate. Invece, i vent'anni di vita italiana trascorsi
dopo la breccia di Porta Pia avevano cresciuto una genera-
zione scettica, annoiata, pessimista, profondamente turbata
da un inguaribile disagio economico, da un malessere che
traeva origine dai frutti stessi della rivoluzione italiana.
Si affacciava insistente il pensiero che l'esercito do-
vesse assumere tutt'altro ufficio da quello di prima nella
vita sociale:
Realizzato per virtú di insperate fortune l'audace sogno, lo
spirito italiano si era vòlto a consolidare all'interno quell'edi-
ficio messo insieme con fretta forse soverchia e a rimediare
ai disastri economici prodotti dalla inesperienza della nuova
vita politica di grande nazione. Lo spirito aggressivo manca-
va ai discendenti di quegli antichi romani che avevano corso
il mondo piantando per ogni dove le loro aquile vittoriose.
Era l'ultima degenerazione della razza latina o il principio di
una civiltà basata su principi nuovissimi? Non avrebbe sapu-
to precisarlo...
Quasi non si pensava piú che l'esercito potesse essere
chiamato a inondare di sangue l'Europa:
Pure, alla giovane ufficialità italiana si appuntavano tutti
gli sguardi e tutte le speranze, sia nel caso di una guerra eu-
ropea come in quello piú probabile in cui, abolite virtual-
mente le guerre, rimanesse all'esercito il compito arduo e no-
bile dell'educazione nazionale: educazione fisica per mante-
nere agile e gagliarda la fibra, ma soprattutto scuola di carat-
tere ed educazione sociale, crogiuolo prezioso per la fusione
di tutti i singoli regionalismi nel concetto dell'unità non pe-
netrato peranco dalle masse ignoranti.

191
Questa disposizione d'animo, questa concezione di un
esercito che doveva assumere compiti morali e civili,
continuò in altri ufficiali, scrittori e romanzieri, dei quali
il piú notevole fu Giulio Bechi, che pure prese parte a
tutte le imprese africane della nuova Italia, e doveva es-
sere colpito a morte nel 1917, alla testa del suo reggi-
mento, in un combattimento oltre Gorizia170.
Nei romanzi dell'Olivieri di San Giacomo sono messe
in iscena tutte le parti della vita degli ufficiali nel reggi-
mento, le riviste, le punizioni, le «mense» dei varî grup-
pi di ufficiali, gli amori nelle guarnigioni; e la vita di fa-
miglia degli ufficiali, le difficoltà loro economiche, e gli
scompigli degli spostamenti, e i varî tipi di quelle che
egli chiama le «ufficialesse», le mogli degli ufficiali,
dalla moglie del tenente alla «maggioressa», alla «co-
lonnellessa» e a colei che sta alla punta della piramide,
la consorte del comandante del corpo d'armata. Anche vi
sono cosparsi impressioni e ricordi e narrati episodi del-
la guerra d'Africa, dei «fasci» siciliani del 1895, dei
moti di Milano del 1898.
Ma, se per le discussioni o gli accenni che offrono di
qualche interesse per la storia dei tempi ho trovato il
modo di mentovare libri e scrittori, che altrimenti avrei
dovuto lasciare nell'oblio in cui sono caduti, debbo an-
che qui, come ho fatto di sopra per la lunga tratta degli
autori teatrali, chiedere pietà non che perdono ai lettori
perché mi sia risparmiato di passare in rassegna tutti gli
altri novellieri e romanzieri, che ebbero qualche nome, e
170
Sul Bechi v. un cenno in Conversazioni critiche, II4, 348-51. 167.
192
segnatamente le romanzatrici, le instancabili romanza-
trici, le donne, verso le quali la sola cavalleria che mi è
lecito usare è di tacerne i nomi171. Anche in questa parte
ho letto e scorso non pochi volumi, ma non ne ho rica-
vato niente che faccia al proposito: e perciò ho perso il
coraggio di continuare ad inoltrarmi nella loro calca.
Non ci sarà qualche piú alacre o meno stanco cacciatore
che vorrà recarsi a uccellare nel campo che io abbando-
no e che sia rassegnato a tornare, se mai, con la carniera
riempita solo di qualche ben magro fringuello?

171
Per altro, chi desideri di trovarle ricordate tutte apra il grosso volume, e
l'altro di appendice, che intorno a loro scrisse C. VILLANI, il quale le chiama
«stelle»; Stelle femminili, Dizionario bio-bibliografico, seconda edizione
ampliata riveduta e corretta (Roma, Albrighi e Segati, 1915: di pp. 824, e
Appendici, ivi, 1916, di pp. 302).
193
L. EDOARDO SCARFOGLIO

In Edoardo Scarfoglio, secondo un giudizio foggiato


non saprei da chi, ma generalmente ricevuto, l'Italia pos-
sedeva un «gran prosatore». Un «gran prosatore», suona
a un dipresso come un «gran verseggiatore», ed è una
lode data a cosa estrinseca, e che come tale poco si pre-
sta alla lode. Invece, dunque, di ripetere quel detto con-
venzionale, diciamo piuttosto che cosa c'era nell'animo
dello Scarfoglio che dié materia alle pagine di lui scrit-
tore.
C'era un ideale di vita: di una vita da condurre sui
monti e sui mari, nelle foreste e nelle steppe, sana, vigo-
rosa, agile, instancabile, affrontante e superante pericoli,
percorrente paesi incogniti, combattente con le fiere o
con gli uomini, con la forza della mano o con l'astuzia
dell'ingegno, allietata di prede, esaltata sopra di sé nel
risentirsi primitiva e barbarica e redimita di eroiche im-
magini barbariche. Questo ideale gli splendette sin dalla
prima giovinezza, quando si provò a esprimerne qualche
parte in numeri poetici nel volume Papaveri (1880)172; e
di questo gli parve, qualche anno dopo, di avere trovato
il poeta e, con esso, l'anima sua fraterna in Gabriele
d'Annunzio, che impersonava (dice) «la sua passione di
buttero platonico, le sue tendenze di espansione all'aper-
to, di riavvicinamento alla santa e selvaggia natura», e
che egli salutava «il giovinetto barbaro»173. A quest'idea-
172
Lanciano, Carabba, 1880.
173
Il libro di don Chisciotte (Roma, Sommaruga, 1885), pp. 195-196, 199. Del
194
le si volse sempre la sua bramosia e la sua ricerca, e lo
risognò in nuova e particolare figura come vita d'Africa,
di esploratore, di guerriero, di mercante, di dominatore.
Qui (scriveva), «al contatto della terra incolta e
dell'uomo incivile, al contatto con la Natura immite, noi
ci scuotiamo dal cuore tutte le mollezze e le servitú che
lo premono; e l'uomo originario, emergendo dall'educa-
zione secolare, che lo tolse dal suo vero destino, apre
l'anima nuova che in lui palpita alla letizia e all'orgoglio
della libertà assoluta»174. Lo pianse ideale non consegui-
to e del quale disperava, commemorando il viaggiatore
africano Guido Boggiani (1902): «E penso tristemente
alla vita che mi avanza ed alla sua fine. Vivere ancora
degli anni in questo vecchio paese e poi dormire in que-
sta terra piena di morti? O stupida cosa! E beati voi che
poteste, spezzati i vincoli del nostro antico mondo for-
male e antipatico, vivere e morire nella Natura!». Lo ri-
vedeva (1903) tralucere per certi aspetti nella gente
d'Abruzzo, da cui egli nasceva, e che il D'Annunzio ave-
va interpretata e rappresentata nella Figlia di Iorio: «il
poema della nostra terra e della nostra stirpe, che non è
la comune miscela, seminata dal coito di cento invasioni
alla superficie d'Italia, ma è un sangue piú puro, piú
acre, piú violento, cui la montagna e l'inospitale mare
protessero dalle sofisticazioni e che sopravvive intatto
anche oggi, chiuso nella fortezza incantata di una poesia
che ha le sue radici nei secoli e d'un sentimento religio-
libro c'è anche una «nuova edizione riveduta dall'autore con prefazione e
documenti inediti» (Napoli, «Il Mattino», 1911).
174
Il cristiano errante (Roma, Voghera, 1897).
195
so che fonde in un sol metallo il barbarico misticismo
medievale e i riti pagani del culto di Demetra». Nel
1911, ristampando il giovanile libro suo, il Don Chi-
sciotte, confessava la sua mancanza di vocazione lette-
raria: «Io ero nato per cacciare gli elefanti sulla riva
dell'Omo e per condurre una nave tra le fenditure della
banchisa polare; ma questo paese idiota che si chiama
l'Italia mi chiuse inesorabilmente le vie sulle quali mi
sospingevano tutti gli impulsi della mia psiche e mi co-
strinse a un lavoro forzato e ingrato di scribacchino».
Ancora un anno prima di morire, nel Compianto di terra
perduta (1916), rimpiangeva il medesimo ideale
nell'inattuato suo disegno di guerre nei Balcani e di
trionfi dell'Italia, e diceva a un suo amico di quella terra:
«Perché, Rizof, non sono io nato dalla vostra bella razza
semplice e granitica, che va rigida alla sua sorte e non
poserà se non dopo averla raggiunta e posseduta nella
sua pienezza, come i vostri antenati tartari rapivano e
possedevano le belle cattive in mezzo alle carneficine e
alle fiamme delle città incendiate?».
Fantasioso e arbitrario questo ideale, non è meravi-
glia che alle volte si congiungesse in lui a un altro idea-
le, non meno fantasioso e arbitrario, che era quello della
Bellezza da collocare in alto, regina sugli uomini, e
dell'Italia e di Roma, destinate a foggiare questa nuova
bellezza. Altra affinità col D'Annunzio o altro effetto di
azione reciproca tra i due compagni e amici di giovinez-
za: quantunque, nello Scarfoglio, quell'ideale di vita ri-
manesse piú semplice e omogeneo e costante, e nel
196
D'Annunzio, invece, si complicasse di erotismo e di li-
bidine e di tutte le altre cose che egli riduceva a oggetto
di curiosità e di dilettantismo sensuale.
Ma, nell'uno come nell'altro, l'ideale che ponevano in
cima alle loro anime non veniva turbato da alcuna solle-
citudine etica e rimaneva meramente voluttuario ed edo-
nistico. In questo rispetto, la cecità e sordità era pari in
entrambi e parimenti in essi connaturata, come dimostra
il rapporto loro verso il Carducci, dal quale entrambi
presero le mosse, accettando certe sue forme letterarie,
ma espungendo sin dal primo tempo tutto il contenuto
morale e politico della sua poesia. Alla morte del Car-
ducci (1907), lo Scarfoglio ricordò il suo incontro gio-
vanile, «in una primavera romana odorante di fieno e di
violette tra i prati», col «poeta dalla faccia leonina», nel
quale «si specchiava il genio primaverile della patria»; e
poi, sorpassando queste gonfie e oziose parole, non de-
gne dell'uomo celebrato, notò giustamente l'efficacia del
Carducci a tener viva, come condizione di grande poe-
sia, la tradizione aristocratica della letteratura italiana.
Ma del cuore, del pensiero, dell'ardore civile del Car-
ducci, del suo amore per la libertà e per l'Italia libera,
niente era trapassato in lui, nemmeno in pompa di paro-
le. Senonché, in mezzo alle somiglianze col D'Annun-
zio, esisteva tra i due un divario fondamentale. Il
D'Annunzio, certamente, voleva anche vivere una vita
conforme al suo ideale, e la visse altresí, e il corso degli
eventi gli offerse perfino un'occasione, che, diversamen-
te dall'altro, seppe cogliere, di soddisfare la sua brama
197
d'imprese guerriere e di azioni politiche, come condutto-
re e legislatore di popolo. Ma, soprattutto, dominò in
lui, e non si lasciò mai interamente sottomettere e soffo-
care, il compiacimento di artista, che dà forma alle sue
impressioni; onde la sua copiosa produzione di liriche e
di romanzi e di poemi in versi e in prosa, in gran parte
manierata ma in parte anche fornita della bellezza-vir-
tuosità che sola poteva esserle propria. Ma lo Scarfoglio
era uno spirito voracemente pratico, che tutta la vita tese
verso l'azione, a quella forma d'azione che abbiamo de-
scritta, se anche non riuscí a tradurla nel fatto, e si dové
contentare di qualche escursione nell'Eritrea, e di solca-
re per lungo e per largo il Mediterraneo in yacht. Con-
fessava, come abbiamo detto, che gli mancava la passio-
ne letteraria; e, in verità, non era spirito contemplante o
meditante. Tentò da giovane di scrivere liriche e smise,
giudicando esso stesso severamente quel suo tentativo;
pubblicò un volume di novelle, Il processo di Frine175,
che disse semplice esercizio preparatorio, imitazione
dello Zola, del Capuana e del Verga, per farsi la mano a
scrivere un romanzo, che annunziò e non scrisse mai.
Tuttavia, in quelle novelle, c'è forse quanto di meglio gli
riuscí in fatto d'arte, per una certa vena boccaccevole e
umoristica che corre dentro parecchie di esse e che di
poi sperse o lasciò sperdere. Si leggano le novelle Brut-
ta gente (la brutta ragazza che immagina e vive
nell'immaginazione una relazione amorosa, e la trasfon-
de nella credenza altrui); La seconda incarnazione di
175
Roma, Sommaruga, 1884.
198
Figaro (l'innamoramento di una donnetta oziosa, moglie
di un impiegatuccio, lettrice di romanzacci, per un ro-
mantico personaggio dal quale si lascia rapire e, creden-
do di amare un principe, scopre poi che ama un parruc-
chiere); e soprattutto quella che dà il titolo al volume, Il
processo di Frine, di costume abruzzese, che è la meglio
ideata ed è disegnata ed eseguita con sicurezza. Una
contadina belloccia avvelena nel modo piú aperto la
suocera con la pasta dei topi; è messa in carcere e pro-
cessata, e l'avvocato non può suggerirle altro che di farsi
bella dinanzi ai giurati; segue l'interrogatorio del marito
e degli altri testimoni e il finale assolutorio, che è deter-
minato dall'espediente messo in opera dall'avvocato, il
quale, vinta la causa, a chi gli si congratula per la vitto-
ria riportata, commenta in appropriate parole dialettali il
significato morale di quel processo. Ma, come diceva-
mo, evidentemente questa via del novellatore non era la
sua e non vi si spinse innanzi. Né si spinse innanzi, e
fece bene, nell'altra via, della critica letteraria, al princi-
pio della quale comparve col Libro di don Chisciotte
(1884), avventato nei giudizî e piú ancora nelle teorie
letterarie e nelle delineazioni storiche che l'autore im-
provvisava, scarso di vigore logico e di scrupolo del
vero. Neppure la politica lo interessava, perché, per in-
teressarsene, avrebbe dovuto prenderla sul serio, nelle
sue difficoltà, nella sua necessità, nel suo travaglio, e
non già, come gli parve bello, disprezzare parlamentari
e ministeri e leggi e amministrazione e diplomazia. Fece
per oltre trent'anni il giornalista politico, senza saggezza
199
politica, ma ammirato per lo stile, che era una prolunga-
ta risonanza della imitazione giovanile che egli nel Li-
bro di don Chisciotte aveva data delle Confessioni e bat-
taglie del Carducci, nelle quali il Carducci stesso era
soggiaciuto all'influsso di Enrico Heine col variare di
fantasie liriche e satiriche le discussioni e le invettive.
Le prose, nelle quali lo Scarfoglio delineò il suo idea-
le di vita, e che sono quelle di lui piú lodate, l'Itinerario
del paese di Etiopia, Il cristiano errante, Il compianto
di terra perduta, L'arcipelago delle Sirene176, e simili,
non escono dallo stesso stile, sebbene vi abbondino le
impressioni sensuali, visive, uditive, olfattive, muscola-
ri, ora fisicamente gioiose, piú spesso tormentose di
sforzi, di pericoli, di calore bruciante, di sete spasiman-
te, di febbre delirante, rese con certa bravura che si
compiace di sé stessa e si conclude in sé stessa, senza
mai risolversi in pienezza di umanità: una bravura che
non va del tutto esente da quello stile rettorico, che è
consueto negli spiriti pratici, quando vogliono dare ri-
salto e splendore alla loro unilaterale passione.

176
L'Itinerario è nel Convito del De Bosis, 1895-96; il Compianto e l'Arcipe-
lago delle Sirene, con una buona raccolta dei suoi articoli di giornali, in Le
piú belle pagine di E. S., scelte da A. Consiglio (Milano, Treves, 1932);
dove anche sono notizie biografiche e bibliografiche.
200
LI. ANGELO CONTI E ALTRI ESTETIZZANTI

Nell'ultimo decennio del secolo comparve in Italia e


vi fece scuola, particolarmente presso archeologi, lette-
rati e giornalisti, quell'atteggiamento verso l'arte e la
vita che si può denominare «ruskiniano».
Sarebbe lungo, e perciò qui fuor di luogo, determina-
re il significato e l'importanza dell'opera del Ruskin, di-
scernendo in essa virtú e viziature, verità ed esagerazio-
ni ed arbitri; ma al mio fine è necessario notare che que-
ste cose erano in lui originali e spontanee, laddove in
Italia formarono oggetto d'imitazione per vaghezza del
nuovo e dello straniero e perdettero, con la freschezza,
quel tanto di efficacia che avevano nella loro forma ori-
ginaria.
Una condizione favorevole trovò il ruskinianismo in
Italia nella insofferenza che già si veniva manifestando,
e nella riscossa che qua e là si accennava contro la criti-
ca e la storiografia positivistica della poesia e dell'arte,
che veramente era diventata soffocante. E proprio in
quell'ultimo decennio, nel 1893, chi scrive cominciava a
tentare la via per la quale presto risolutamente si mise,
risvegliando la tradizione del De Sanctis e ripigliando in
relazione all'arte e alla storia gli studî filosofici. Ma il
ruskinianismo italiano piuttosto fruttò il malcontento
che non soddisfacesse le esigenze che vi erano nel fon-
do; giacché fu anticritico antimetodico antilogico, me-
scolando concetti e fantasie, confondendo la soggettività
spirituale col ghiribizzo personale, l'antifilologismo in-
201
tendendo come antifilologia e come vanto dell'ignoran-
za. Per togliere di seggio un serio scienziato positivista,
del tipo, poniamo, di un Rajna, bisognava cominciare
con l'accettare ed emulare la devozione di cui egli dava
prova alla «scienza», al «metodo», alla conoscenza della
«letteratura dell'argomento», al «lavoro assiduo», alla
«diligenza», e salire di là a una scienza non estrinseca, a
una filosofia, a un metodo non meccanico ma intelligen-
te, e perciò non rifiutare ma meglio adoperare e meglio
intendere i frutti quali che fossero del lavoro da altri
compiuto; e onorare bensí la genialità, ma aborrire e to-
gliersi d'attorno i falsi genî o «genialoidi».
Tra i consapevoli o inconsapevoli ruskiniani (perché
spesso gli imitatori avevano dei libri del Ruskin una co-
noscenza indiretta, di seconda o di terza mano) quello
che piú di altri si fece nome fu Angelo Conti 177, il quale
salí in fama, per l'appunto, pel continuo rimbrotto e di-
spregio che usò verso «la moltitudine degli individui
che vogliono vivere, cioè mangiare, bere e alimentare
ogni giorno gli agi e i godimenti», e che «ignorano
l'esercizio del pensiero»178; per la sua continua deplora-
zione dei libri che gli eruditi scrivevano, «nei quali non
era una sola scintilla di vita»179, e dell'«evoluzionismo»
nella storia dell'arte, che trattava come stadî di evoluzio-
177
Nato in Roma nel 1860, m. in Napoli nel 1930. Opere: Introduzione a uno
studio su Francesco Petrarca (Roma, 1892); Giorgione, studî (Firenze,
1892); La beata riva, trattato dell'oblio con un ragionamento di Gabriele
d'Annunzio (Milano, 1900); Sul fiume del tempo (Napoli, 1907); Dopo il
canto delle sirene (ivi, 1911); Virgilio dolcissimo padre (ivi, 1931).
178
Introd. al Petrarca, p. 44.
179
Giorgione, p. 44.
202
ne anteriori e perciò inferiori gli scultori greci o il tosca-
no Giotto, e simili180; e per l'insistenza con cui chiedeva
che si ponesse, anzitutto, un concetto dell'arte e se ne
approfondisse la filosofia. Ma di filosofia egli non ave-
va studî né aveva attitudine mentale a quella forte logi-
ca; e, quando volle dare un concetto dell'arte, lo attinse
(e probabilmente anche questa volta di seconda mano)
allo Schopenhauer, o ripetè, come sue proprie scoperte,
detti altrui, per esempio del Pater: «Io pongo il seguente
principio: tutte le arti tendono a liberarsi del simbolo
(cioè a negare sé stesse) e contengono una costante aspi-
razione verso la musica»; giacché «la musica è l'arte
meno impura, perché vive solo nel tempo e il suo sim-
bolo è fugace: fugge come simbolo, dopo la produzione
del suono, e rimane come aspirazione di tutte le altre
arti, dalla scultura alla parola che la raggiunge mediante
la sua piú alta forma artistica: la lirica» 181. E poi affermò
altresí che l'arte è «continuazione della natura», e che
l'artista «entra in comunicazione con l'anima delle
cose», e cosí produce l'opera sua; e ancora che questi
vede le «idee eterne», i «prototipi di Platone e di Scho-
penhauer», e la «cosa in sé di Kant»; e che l'arte è la
«preghiera del mondo», esprime «l'aspirazione della vita
universale verso la quiete della non esistenza, esprime la
tendenza di tutte le anime ad uscire dalla trama inganne-
vole del velo di Maia»182. Concetti altrui mal digeriti,
che egli ripeteva senza poterli né criticare né svolgere.
180
Op. cit., p. 38.
181
Op. cit., pp. 36-37.
182
La beata riva, p. 11 sgg.; Giorgione, p. 78.
203
Qualche volta manifesta criterî sostanzialmente giu-
sti, come dove critica la distinzione tra disegno e colore:
«La forza del colore non consiste nel mettere dei toni in-
tensi sulle tele, ma nel disporli e nell'equilibrarli in
modo che essi abbiano il valore di note musicali o di
aspetti luminosi; in modo che essi dalla loro relazione di
spazio ricevano la virtú di cantare e risplendere. Ora
questa disposizione di toni in ispazî determinati, questa
istrumentazione di colore, non è forse soggetta alla ma-
tematica istintiva del disegno? E, considerato da questo
punto di vista, non è il disegno il principal fondamento
della musica pittorica? Il disegno in pittura è una linea
che non può essere segnata, ma che vive, per cosí dire,
nella trama del lavoro pittorico e ne riceve il ritmo mi-
sterioso; ed ora scompare con un bagliore ed ora riappa-
re con l'illusione di un suono, arrestandosi finalmente e
indicando la mèta del suo cammino nel punto centrale
della visione, dove il grado supremo dell'emozione este-
tica è concentrato ed espresso. Quanto piú potente è il
disegno, quanto maggiore è l'eloquenza della sua linea
invisibile, tanto piú efficacemente e schiettamente l'arti-
sta sa mettere nel segno l'intimo fremito del suo spirito
in presenza d'una visione»183. Ma anche qui, nel variare
e accumularsi delle immagini, si avverte che il concetto
non è stato portato ad esattezza teorica, e forse l'abboz-
zata teoria non è altro che l'eco di una vivace conversa-
zione con pittori. Come tale è data l'altra teoria che
«l'arte, la quale è un'idea, non può avere una storia, al
183
La beata riva, pp. 194-95.
204
pari delle altre opere umane», che sono nel tempo, lad-
dove i capolavori del genio sono sovrumani e fuori del
tempo; cosicché, se si vuol proprio una storia dell'arte,
bisogna farla non dei capolavori, ma delle «forme arti-
stiche»184; dove qualcosa è intravisto della differenza tra
la considerazione dell'arte come poesia e quella che ri-
guarda la tradizione e il costume delle forme pratiche o
rese pratiche perché astratte dall'arte; ma la formulazio-
ne è ottenuta con l'adoprare in modo scorretto i concetti
d'idea, di tempo e di storia.
Anche nella effettiva critica dell'arte il Conti non uscí
dal generico delle sentenze teoriche o dal vago e
dall'arbitrario dei giudizî. Forse il solo suo sincero sfor-
zo di penetrare nell'intimo di un'opera d'arte è in quel
che scrive della giorgioniana madonna di Castelfranco,
dopo avere ben differenziato l'arte di Giorgione da quel-
la di Giovan Bellini.
Lo sguardo umano della bella creatura non ha la inconsa-
pevole espressione delle vergini di Raffaello, meravigliate
dinanzi allo spettacolo dell'ora presente. È uno sguardo inti-
mo, direi quasi interno, che rivede e che rammenta, e cui
scena è il passato, l'irreparabile. L'artista che l'amava, dal
dolore e dalla miseria l'ha sollevata in un tramonto fulgido e
quieto, che circonda il suo capo come un'aureola, l'ha collo-
cata sopra un elevato trono di santa, fra due eletti trasfigurati
dal martirio, nell'ambiente della beatitudine. Ma il nuovo
soggiorno non ha mutato l'espressione della sua fisionomia; i
suoi occhi rimangono ancora fissi nel mondo, alla sua anima
ancora è negato l'oblio. Questa donna, santificata dall'arte, è
184
Giorgione, p. 27.
205
una penitente, è una peccatrice alla soglia del paradiso. Gior-
gione medesimo che l'ha veduta cosí deve essersi sentito at-
tratto dall'orizzonte di pace sul quale s'innalza la meraviglio-
sa apparizione. Considerata in tal modo, l'alta rappresenta-
zione pittorica concorda col concetto goethiano dell'Ewig-
Weibliche...185.
Ma, come si vede, già dopo qualche battuta che rende
le impressioni del dipinto, lo scrittore si svia in immagi-
nazioni e concettosità, nelle quali si spinge a tal punto
da affermare, piú oltre, che, nella Tempesta, Giorgione
«ha creato tre figure umane cui daranno i secoli avveni-
re nell'ultimo poema i nomi di Fausto, Elena ed Euforio-
ne!». Certamente stupisce che, con tanto entusiasmo per
l'arte in generale, poco o nulla egli abbia trattato di par-
ticolari opere d'arte, e, anche nei luoghi in cui fa ad esse
qualche accenno, lo faccia evitando ogni analisi e ca-
vandosela con metafore e iperboli.
Nella storia della poesia, promise un libro sulla lirica
del Petrarca, nel quale si proponeva di mostrare «in qual
modo il poeta abbia espressa l'essenza del mondo e della
vita»186; ma non lo scrisse, e veramente sarebbe stato
difficile scriverlo con quell'assunto. Adorava la trilogia
eschilea, ma anche per essa adoperò parole delusive:
«Non è possibile immaginare una composizione piú
grandiosa di questa trilogia, un insieme chiuso in una li-
nea piú semplice e piú perfetta, piú compatto e direi
quasi granitico, se non pensando al Partenone, là, sulla

185
Giorgione, p. 29.
186
Introd. al Petrarca, pp. 47-48.
206
vetta dell'Acropoli ateniese»187. Un altro suo libro s'inti-
tola Virgilio, dolcissimo padre, ma l'impressione che se
ne riporta è, a dirla schiettamente, che l'autore potè bene
non aver mai letto quel poeta ed essersene innamorato
«cosí come per fama uom s'innamora». Di concreto non
si trova in lui che l'avversione per Giosuè Carducci, os-
sia per l'ultimo poeta grande d'Italia, che, secondo lui,
non disse altre «cose nuove degne di esser pronunziate
cantando», se non che «il cristianismo è una religione di
schiavi»; e soggiunge che il Carducci, nel delineare la
figura del poeta, «si capisce dal ritmo che volle tessere
le lodi di un pagliaccio, di un funambolo o d'un istrio-
ne»188 (incredibile, ma sta pure scritto cosí, a prova che
egli, se mai, aveva udito leggere qualche strofa staccata
del Congedo, e ciò gli era bastato per immaginare che
dicesse proprio il contrario di quello che diceva).
Vero è che, in compenso, si trova nelle sue pagine
fervidissima l'ammirazione per Gabriele d'Annunzio, la
cui opera si gloriava di avere pel primo «paragonata
all'immortale poema di Goethe», che, come il Goethe, il
D'Annunzio era «il primo poeta della nuova generazione
che rappresentasse l'uomo che vede la vita profonda-
mente, l'uomo che, guidato piú in alto, sarebbe eter-
no»189. Ma guai, quando anche per il D'Annunzio scende
una volta al particolare. «Non ricordate Climène? Mai
nella poesia moderna era stato con cosí evidente e gran-
diosa semplicità espresso il sentimento della morte; mai,
187
La beata riva, p. 166.
188
Dopo il canto delle sirene, pp. 16-17.
189
La beata riva, p. 133.
207
per una virtú piú forte dell'esistenza, le passate forme
erano ritornate, animando in una luce di tramonto, in un
fondo autunnale, quella che fu la prima scena dei loro
amori e dei loro sogni, e dove fuggí la loro grazia e la
loro tristezza. La fugacità delle cose e l'eternità della
vita vi sono segnate dalle note del piú mirabile stile liri-
co»190. E dire che quella lirica del D'Annunzio è varia-
zione eseguita sul Verlaine delle Fêtes galantes, al quale
appartiene il nome stesso di Climène191. In verità anche
rispetto al D'Annunzio si ha l'impressione, che se il
Conti lo conosceva per rapporti personali e per conver-
sazione, poco avesse letto i suoi libri. Soleva leggere, in
effetti, ben poco, e con molta impazienza, quanto basta-
va per cogliere qualche frase che impennasse le ali alla
sua immaginazione.
Il medesimo atteggiamento che verso l'arte il Conti
prendeva verso la natura, in lui nient'altro che punto di
appoggio per attaccarvi l'esibizione del suo animo rapito
sempre nel mirabile e nel sublime: un idolo che si era
foggiato all'uopo e che teneva assai caro, quasi indi-
spensabile gagne-pain letterario.
Ricordo lo scatto che ebbi contro questa sua letteratu-
ra, un giorno, nel piú forte dell'eruzione vesuviana della
primavera del 1906, quando le strade di Napoli erano in-
gombre di cumuli di greve cenere gialliccia, e i passeg-
gieri bruttati di quella polvere, e i tetti delle case si do-
vevano di continuo rapidamente sgombrare, per timore
190
Giorgione, p. 43.
191
Il Verlaine, a sua volta, dipende qui da V. Hugo, Passé (nelle Voix intérieu-
res, XVI).
208
di crollo, del peso che vi cadeva sopra incessante, e un
enorme nero globo di cenere si librava sul golfo minac-
ciando di rovesciarsi sulla città, e tutt'era buio e cupo, e
la plebe già iniziava le paurose processioni salmodianti;
nel vedermi allora giungere, come se quell'ira di Dio
fosse niente, il Marzocco di Firenze, con un suo artico-
lo, dal titolo gaudioso e ammirante: La festa del fuoco:
Non è possibile immaginare una cosa piú grandiosa e ter-
ribile. La terra ha celebrato qui, nel paese del sole e delle si-
rene, la sua festa del fuoco. L'uomo è stato escluso, respinto,
reso pazzo dall'orrore e dal terrore. Sola salvezza, la fuga. Il
vulcano alle cui falde s'è svolta la grande solennità, s'è chiu-
so in un velario impenetrabile di fumo, di cenere e di piog-
gia ardente... Ricordate il carro spaventoso, che secondo
un'antica leggenda fecondata dalla potente immaginazione di
Tacito, porta un simulacro d'Herta traverso un bosco in riva
a un lago? Chi ha letto la Germania non può senza brividi ri-
cordare l'apparizione di quegli uomini sacri alla morte i quali
accompagnano la divinità sotto le ombre sinistre... Certo die-
tro il velo che nasconde il vulcano si sono compiuti prodigi
che nessuno ha mai veduti né immaginati; e l'uomo che ha
potuto vederli, non è tornato tra i viventi192.
Perfino san Gennaro, santo ben noto e familiare nelle
sue vecchie sembianze a noi napoletani, tra i quali il
Conti allora viveva, ci veniva da lui ripresentato come
«il santo dionisiaco»:
Egli nacque animato dallo spirito del fuoco, come se
l'avesse partorito la montagna ardente e sterminatrice. E ciò

192
Sul fiume del tempo, pp. 299-301.
209
è tanto vero che, dal dí della sua morte sotto Diocleziano ad
oggi, il suo sangue bolle ancora, quasi fosse materiato della
sostanza che si agita in grembo ai vulcani193.
E via su questo andare. Veramente, anche le memorie
della storia diventavano per il Conti cose della natura, e
gli servivano, quando per caso ci si imbatteva, al mede-
simo sfoggio di combinazioni immaginifiche e di esco-
gitazioni allegoriche, alle quali probabilmente aveva fi-
nito per credere anche lui a forza di esercitare quel suo
atteggiamento di rivelatore e di celebratore dell'arte e
della natura, di ruskiniano sacerdote di quel culto, di mi-
nistro di un'elevazione spirituale eseguita mercé
d'immaginazioni e di concettosità. Non senza un certo
intenerimento ho udito raccontare che, fino negli ultimi
giorni della sua vita, soleva intorno a sé chiamare i suoi
familiari e discepoli per far loro osservare, dalla finestra
della sua casa, i mirabilia dei giuochi delle nuvole nel
cielo e dei colori cangianti del mare194.
193
Sul fiume del tempo, p. 215.
194
Un aneddoto in nota. Mi aveva chiesta una copia di una mia memoria acca-
demica sulla Logica e io gliel'aveva mandata per cortesia, quantunque ben
certo che egli non ne avrebbe letta intera neppure una pagina. A Roma,
dove mi ero recato in quei giorni, mi raggiunse una sua lettera di ringrazia-
menti (14 giugno 1905), che è questa:
Caro amico,
Mentre qui il Vesuvio celebra la festa del fuoco, voi celebrate la festa del
pensiero. Poche pagine mi sono per ora note del vostro libro e già l'anima mia
è piena di gioia. Voi siete un uomo molto a me caro, per il quale la filosofia è
come una respirazione, il volo sulle piú alte cime come un atto comune, la di-
struzione come un nostro qualsiasi gesto di impazienza. Vi rivedrò forse a
Roma, dove, per com pensa rvi del l 'ebbr ezz a ch e m i dat e, spero
m ost ra rvi l a l i nea di pa ese dove sull a t erra è ri m ast o i m presso
210
Ci sono, tra le sue pagine di fantasie sulla natura, al-
cune letterariamente notevoli, come son queste che
s'intitolano Le rondini e i galli195.
Succede una pausa lunga. Le stelle splendono sole sui so-
gni degli uomini: il fiume del tempo circonda la terra. Il gal-
lo canta una seconda volta; poi, dopo un'altra pausa lunga,
una terza volta. Poi gradatamente le pause divengono piú
brevi. Che cosa avviene?
Ecco: ad oriente spunta la stella di Venere e il cielo
s'imbianca. Poco dopo Venere vi splende sola, poiché nel
chiarore ogni altra stella vi è scomparsa. In quest'ora il canto
non ha piú intervalli, non piú una pausa, non dà tregua a chi
l'ascolta, non riposo al cantore. Dalle case piú vicine si dif-
fonde un grido unico, iterato, instancabile per ogni parte,
verso le colline lontane, verso la città ancora sepolta
nell'ombra, verso il mare ancora nascosto nella nebbia. È la
voce dell'alba, è il grido del risveglio. Ed ecco, nella sua
luce piú viva, già splendere l'isola di Capri tutta d'oro, e la
musica del colore levarsi in ogni luogo a salutare l'imminen-
te sorgere del Sole.
Ma tutte le finestre delle case sono chiuse, le terrazze
sono vuote, le vie sono ancora deserte. La città addormentata
non ascolta il risvegliatore. Non vedo un sol uomo contem-
plare lo spettacolo dell'aurora.
il geni o e l a pot enz a di Rom a .
Affettuosamente vostro
CONTI.
Il buon Conti sapeva che volentieri io celiavo con lui su questa sua maniera
d'interpretazioni, e tanto diffidavo delle sue lodi e delle sue estasi ammirati-
ve che non gliele lasciavo mai finire. Ma la natura o l'abito lo rendeva im-
perterrito a proseguire nel suo stile ‒ anche verso Mefistofele.
195
Sul fiume del tempo, pp. 291-297.
211
Pagine che non tanto sono di lirica quanto di bravura,
come se ne incontrano in taluni coloriti predicatori no-
stri del seicento; e, in effetto, il fervorino, che è discreta-
mente accennato in forma di tacito rimprovero alla fine
del canto del gallo, è esplicito alla fine della rappresen-
tazione del volo della rondine:
L'intuizione di ciò che non muta e la contemplazione
dell'eternità della vita nelle forme mutevoli, sono i due prin-
cipali atti dello spirito che si sente uno con l'universo. La
volgare vita quotidiana vorrebbe abolire questa visione del
mondo, le selve esser destinate soltanto alle cacce e al taglio
degli alberi, i monti ad essere traforati e a servire da stazioni
climatiche estive, il mare ai bagni, ai commerci, alle coraz-
zate. E tutto il resto! Essi non ne sanno e non ne sapranno
mai nulla, destinati come sono a morire entro un orizzonte
non piú vasto della suola delle loro scarpe. Chi vive invece
con le rondini conosce i messaggi che l'aria e la luce inviano
all'uomo nell'ora del tramonto e nel puro mattino...
All'apostolato e alla predicazione egli si sentiva chia-
mato: che se in ciò il suo fare e il suo dire appariva e
suonava alquanto a vuoto, la colpa non era nella poco
buona volontà, ma nella vacuità e monotonia delle cose
che faceva e diceva. Il D'Annunzio ha lasciato di lui un
ritratto in quest'aspetto nel Fuoco (1900), descrivendolo
suo minor compagno o capo dei suoi discepoli nella
nuova rivelazione religiosa che allora egli diceva di pre-
parare agl'Italiani.
Daniele Glàuro, il fervido e sterile asceta della Bellezza,
con quella sua voce spiritale in cui pareva riflettersi l'ardor

212
bianco e inestinguibile della sua anima che il maestro predi-
ligeva come la piú fedele, gli diceva: ‒ Se quando sarai sul
palco ti guarderai intorno, tu li riconoscerai facilmente (i di-
scepoli) dall'espressione dei loro occhi. E sono numerosissi-
mi: molti venuti anche da lontano: e aspettano con un'ansietà
che tu forse non puoi comprendere. Sono tutti quelli che
hanno bevuta la tua poesia, che hanno respirato nell'etere in-
fiammato dal tuo sogno, che hanno provato l'artiglio della
tua chimera. Sono tutti quelli a cui tu hai promesso una vita
piú bella e piú forte, tutti quelli a cui tu hai annunciato la tra-
sfigurazione del mondo pel prodigio di un'arte nuova...196.
E quando, nella sconclusionata orazione solenne che
recita in quell'adunata, il D'Annunzio ebbe incastrato al-
cune parole di Daniele Glauro ossia del Conti, «cercò»
(dice, raccontando la battaglia affrontata e la vittoria ot-
tenuta)
cercò gli occhi di Daniele Glauro nel profferire le ultime pa-
role, e li vide brillare di felicità sotto quella enorme fronte
meditativa che pareva gonfia di un mondo non partorito197.
Pigrissimo di natura, tanto piú egli era ferace di dise-
gni indeterminati e paradossali; e ora proponeva la tra-
sformazione delle scuole elementari d'Italia col mezzo
dell'arte, e ora quella dei musei per attuare l'educazione
artistica del popolo; e ora che del museo di S. Martino,
sull'alto della collina di Napoli, si facesse un istituto da
formare riscontro alla Stazione zoologica o Aquarium,
che è nella Villa nazionale, e fosse destinato agli studî

196
Il fuoco, p. 51.
197
Il fuoco, p. 74.
213
storici, con posti di studio e biblioteca speciale, come
«centro mondiale degli studî di storia civile e artistica
dell'Italia meridionale»198; e altra volta che delle opere
di Virgilio, tradotte in italiano, si stampasse una scelta
da spargere in tanti esemplari che non ne mancassero gli
abitanti di tutte le città e grandi e piccole, e possibil-
mente anche dei villaggi, per modo che «anche i conta-
dini possano aver letto almeno le Georgiche con le note
necessarie»199; o anche che si eseguissero fotografie dei
«paesi virgiliani, ancora intatti nel ritmo antico», affin-
ché «i giovani possano sentire che, nella legge di quella
linea rimasta immutata, nacque e si diffuse lo spirito
animatore delle Egloghe e del poema che canta le origi-
ni e la gloria di Roma»: fotografie il cui effetto «non po-
trà essere irresistibile»200.
Il Conti ‒ senza dire del D'Annunzio sul quale eserci-
tò senza dubbio una sua efficacia ‒ ebbe parecchi imita-
tori ma di poco conto, dei quali non è il caso di parlare.
Ma ricordo convien fare, a questo proposito, di uno
scrittore che ha talune somiglianze col Conti, cosí
nell'atteggiamento verso le forme della natura e le opere
dell'arte come nella vaghezza del mirabile e, piú partico-
larmente, del sublime e colossale: il geologo Giuseppe
de Lorenzo. Schopenhaueriano e buddista e, natural-
mente, pessimista, e in pari tempo ammiratore degli uo-
mini della forza che trattano come merita il miserabile
genere umano, spetta a lui la lode di avere tradotto con
198
Dopo il canto delle sirene, p. 185.
199
Virgilio, p. 21.
200
Op. cit., pp. 34-35.
214
sentimento e scrupolo di artista i discorsi del Buddha,
valendosi della versione tedesca del Neumann, e averli
resi comune possesso degli italiani: oltre che, come va-
lente naturalista, poteva circa le cose della natura dare
informazioni migliori e piú sostanziose che non ne dava
il Conti. Ma colui che veramente dimostrò col Conti
stretta affinità fu il veneziano Giacomo Boni, piú diret-
tamente proveniente dagli estetizzanti inglesi e in parti-
colare dal Ruskin, col quale coltivò lunghe relazioni
personali e che usava chiamare suo maestro.
Ebbe il Boni grande merito come architetto restaura-
tore di antichi edifici, e soprattutto come scavatore nel
Foro romano e nel Palatino, nella quale opera, o piutto-
sto attraverso la quale opera, si può dire che toccasse
non tanto quella che si suol chiamare profanamente la
gloria, ma un gloria in excelsis, di anima religiosa, dif-
fondente intorno a sé fede, bellezza e bontà. Potrebbe
sembrare alla prima che lavori di carattere cosí spiccata-
mente tecnico e strumentale, come sono scavi e restauri,
non si leghino logicamente alla disposizione dell'educa-
tore e risvegliatore sociale e apostolo, e non valgano ad
alimentarla. Ma il Boni in quella stessa sua opera tecni-
ca portava un sentimento religioso come di chi assista al
compiersi di un miracolo. «L'idea dell'esistenza e
dell'orientamento della cella di Vesta ‒ scriveva in una
lettera del 1899 al Ruskin, ‒ indarno cercata da Jordan,
mi si affacciò il 21 settembre, aspettando al Foro il levar
del sole, i cui primi raggi colpiscono di fronte i ruderi
della gradinata del tempio; e avvertii una speciale in-
215
quietudine, accompagnata da chiarezza assoluta di vista
e di memoria, che avvertii pure quando stavo per scopri-
re il basamento dell'ara di Cesare»201. C'era una necessi-
tà superiore che lo guidava nel suo scoprire, e nessun in-
tervento di lui come individuo: «credo ‒ soggiungeva
nella stessa lettera al Ruskin ‒ che Lei, mio venerato
maestro, avesse ragione quando diceva che le idee vera-
mente nostre sono prive di valore, come gli zolfanelli
che accendiamo da noi, mentre le altre vengono inaspet-
tate a rischiararci come luce di sole». Anch'io lo ricordo,
nel 1906 o lí intorno, un giorno che mi recai con un
amico a vedere i lavori del Foro Traiano, quando egli,
parlandoci dell'interpretazione che aveva data della pa-
rola mons dell'epigrafe (interpretazione che in quei gior-
ni aveva fatto molto rumore ma che era sbagliata, come
poi si riconobbe generalmente): ‒ Come vengono le
idee? ‒ ci disse a un tratto fissandoci, esploratore, in
volto; ‒ e poi, rivolgendo gli occhi al cielo, aprendo le
braccia, con umiltà e rassegnazione, solennemente: ‒
Vengono! ‒ Non già che questa osservazione sulla quale
egli col Ruskin insisteva non abbia del vero: è anzi tanto
vera da essere ovvia; ma appunto perciò c'era dello stra-
no nel suo atteggiamento di meraviglia, quasi dinanzi a
cosa fuori dell'ordinario, a un mistero al quale a lui era
riservato, per grazia divina, di partecipare.
Questo horror sacer, che circondava in lui la grande
opera che si compieva, lui inconscio e lui succubo e do-
201
EVA TEA, Giacomo Boni nella vita del suo tempo (Milano, Ceschina, 1932:
due volumi), II, 15-17.
216
loroso nel corso e per effetto di quel processo, non lo la-
sciò mai. Nel 1913 scriveva in un'altra lettera: «A quin-
dici anni di distanza dalla scoperta del Niger lapis e del
granaio sacro ad Ops Consiva nella Regia (dove le Ve-
stali custodivano il farro per la confarreatio, grano cre-
sciuto nel sepolcreto postromuleo in Campus Martius),
sto scoprendo il Mundus palatinus, il granaio sociale per
la semina, che segnava il centro dell'urbe primitiva. È
una scoperta che mi fa tremare, che mi tiene la mente
come cristallizzata da un'idea formatasi qui dentro nella
mia povera testa, non so come. Chissà quante mortifica-
zioni e dolori mi procurerà questa scoperta!»202
Roma, l'immensa Roma, si era tenuta fin allora chiusa
agli occhi delle genti per svelarsi a lui. «Per molti anni ‒
notava in una sua pagina ‒ mi è parso che il piú grande
libro della storia umana, la storia della vita di Roma,
giacesse ancora sepolto, pagina su pagina, come era sta-
to scritto, sotto al mezzo miglio quadrato del Foro, il piú
famoso sito dell'antichità. Solo alcuni frammenti del suo
capitolo conclusivo erano stati finora decifrati»203. Chi
gli stié vicino affettuosa, ed ha scritto devotamente la
vita di lui, commenta: «Senza orgoglio, né illusione,
anzi con vera umiltà e quasi con tremore, egli sentiva di
essere stato dalla Provvidenza disposto alla singolare
missione di vivificare e coordinare cose e idee per la sa-
lute morale degli uomini». Potevano altri scavare nel
Foro e descrivere con esattezza i trovamenti, ma solo a
202
Op. cit., II, 336.
203
Op. cit., II, 168.
217
lui, solo all'uomo di genio era dato «trovare i nessi di
quelle memorie con la vita nazionale e la civiltà in gene-
re, affermarli come imperativi categorici e imporli al
proprio tempo»204.
Cosí il Boni prese aspetto tra di mago e di veggente,
là, su quelle antiche pietre, il mago del Foro, l'«eremita
del Palatino», come egli stesso finí col chiamarsi. Si re-
cavano a fargli vista, a rimirarlo, ad ascoltarlo, ad inter-
rogarlo uomini insigni di tutte le nazioni, principi, so-
vrani, artisti, letterati: sue zelanti ammiratrici di ogni
parte del mondo venivano in pellegrinaggio nel Foro e
sul Palatino a inserire pianticelle di fiori nelle zolle sa-
cre. Anatole France, che fu tra i visitatori, lo mise in
azione con le sue idee, i suoi gesti, i suoi discorsi, i suoi
ammaestramenti, le sue evocazioni, nel libro Sur la
pierre blanche (1903). «Comment ne vous croiroit-on
pas? ‒ gli dice uno degli interlocutori. ‒ La persuasion
habite sur vos lèvres. Et vous associez, dans votre esprit,
aux vérités étendues de la science, les vérités profondes
de la poesie.»
Sapeva, dunque, il Boni di avere una missione reli-
giosa e morale da adempiere. Dalla sua amicizia con gli
esteti socialisti d'Inghilterra gli era venuta una costante,
sebbene vaga, disposizione umanitaria di riformatore
sociale. Dalla fiducia nella propria virtú mentale, e da
una certa ingenuità circa le cose pratiche, i disegni che
coltivava di nuovi ordinamenti da dare allo stato, di
nuovi congegni da fornire all'amministrazione. In fondo,
204
E. TEA, op. cit., II, 570.
218
come altri di cotesti estetizzanti italiani, era privo di se-
rio sentimento politico ed ignaro dei doveri e degli sfor-
zi che questo comporta; e accettava e avvolgeva delle
stesse speranze ed elogi tutti gli uomini del potere, tutti i
governi che si succedevano, pei quali tutti escogitava
qualche riferimento romano, trovava qualche immagine
di bellezza. Né già se ne stava pago alle grandi linee
della politica e della vita morale, ma la sua sollecitudine
andava alle piú varie cose, e anche alle piú modeste, e
durante la guerra fece proposte per le suole delle scarpe
dei soldati e per le sopravvesti bianche degli aviatori, e,
dopo la guerra, ideò di allogare ventimila famiglie da
scegliersi tra quelle di combattenti, sopra un terreno di
venticinquemila ettari nella regione dell'Aniene, e si
volse ai provvedimenti per la rinascita dei patri boschi,
finché chiuse la vita quando era ancora tutto inteso nella
precipua missione degli ultimi suoi anni, a combattere
contro quello che battezzò il «vinismo», cioè contro il
ber vino205.
Tutto ciò ora è passato: di questo estetismo dai rapi-
menti mistici e dagli andamenti accoratamente morali
non si vede piú traccia; altre cure, altre immagini, altri
atteggiamenti abitano questi odorati colli, questo bel
paese d'Italia, e altri accenti vi risuonano. E perciò se ne
può fare la storia e io l'ho abbozzata, e non vorrei aver
lasciato penetrare in questa mia storica rimemorazione
alcunché di quella satira che, come contemporaneo e

205
Per questa e per altre sue forme di attività, v. l'op. cit. della Tea, passim.
219
oppositore206 di esso, solevo fare, quantunque confessi
che anche ora non mi riesce di prenderlo sul serio né di
ritrovarvi, per critica industria che vi adoperi, un nucleo
serio.

206
Contro i concetti e i modi coi quali il Conti trattava la storia e la teoria
dell'arte scrissi già, per impedire confusioni o equivoci, una recensione del
libro Sul fiume del tempo, che, del resto, proprio a me era dedicato: si veda
in Problemi di estetica (sesta edizione, Bari, 1966), pp. 46-50.
220
LII. TEATRO

C'è d'ordinario una sorta di malinteso tra critici di


poesia e intenditori e amatori di teatro, perché nel lodare
e nel biasimare, nel disputare di merito e di demerito,
non si riferiscono gli uni e gli altri al medesimo oggetto.
Il critico e lo storico della poesia cerca la poesia, e per-
ciò rifiuta e respinge le opere che non ne contengono, o
che, peggio ancora, ne mentiscono le sembianze. Ma il
teatro non è unicamente e direttamente poesia, essendo
invece, nel suo proprio istituto, un'arte di preparare spet-
tacoli che leghino l'interessamento di coloro che vanno
a vederli e ad ascoltarne le parole. Ora questo fine si
consegue sia con l'eccitare le piú varie e diverse com-
mozioni, da quelle del terrore a quelle del riso e della
gaiezza, sia con l'offrire osservazioni della realtà rappre-
sentando la psicologia degli uomini in quanto individui
e nelle diverse loro condizioni sociali, e per ciò stesso
invitando alle riflessioni e ai dibattiti intorno ad esso, di
carattere pratico e morale; col rivolgersi, si potrebbe
dire, ora al raziocinio, ora al sentimento, ora a tutti e due
insieme. E certamente, poiché tra le commozioni che
l'uomo chiede ci sono anche quelle che vengono dalla
poesia, il teatro può fornire anche poesia, ma non deve
di necessità, e spesso accade che opere di alta poesia
siano bene accette ed applaudite sui teatri, ma non per la
loro intima poeticità, sí per qualcosa di piú appariscente,
per le loro qualità teatrali, come si dice; per modo che
anche qui è facile il malinteso tra lettori poetici e pub-
221
blico di teatro, tra gli amatori e conoscitori di poesia e
gli amatori e conoscitori di teatro. Sarà vero che in alcu-
ne età o alcuni momenti storici di fine cultura estetica si
abbiano platee di assoluto o prevalente gusto poetico o
nelle quali impongano l'autorità del loro giudizio uomini
di quel gusto. Accadrà talvolta che la potenza poetica ra-
pisca anche coloro che di solito sono sensibili solo ad
altri allettamenti e interessamenti. Ma, ammesso tutto
questo, rimane la distinzione tra il fine proprio e diretto
e quello particolare e occasionale del teatro; onde il cri-
tico di poesia è consapevole che egli discorre di cose
che gli spiriti eletti sono in grado di sentire e di com-
prendere, e l'uomo di teatro parla invece di «successo»,
di «grande successo», di «pubblico enorme», di «pub-
blico affascinato», «delirante», e simili. Per queste con-
siderazioni si spiega come il Goethe potesse essere con-
dotto una volta al paradosso: che l'opera di Guglielmo
Shakespeare, la piú ricca e possente manifestazione del-
la poesia universale, ‒ quantunque lo Shakespeare per il
teatro la componesse e fosse egli stesso attore, e a volte
persino impresario, ‒ non era «fatta per il teatro».
Dico tutto ciò per confessare la mia incompetenza in
critica teatrale, la mia incapacità professionale a pormi
dal punto di vista teatrale: professionale, perché, quando
si attende a ricercare la poesia e a farne la storia, quella
incapacità e incompetenza è doverosa, e convien solo
che si badi a non uscir mai dal proprio campo negando
cose e valori che appartengono ad altri dominî e pei
quali si richiede altra sorta di giudizio. Il critico di poe-
222
sia potrà dire che questa o quell'opera non ha a che ve-
dere con la poesia; ma ciò non muterà niente al fatto che
questa o quella opera abbia levato entusiasmi, che sia
piaciuta o piaccia, e che di ciò vi sia bene la sua ragione.
Cosí, quando io leggo il dramma Le Rozeno, che uno
scrittore che per lunghi anni si era occupato soltanto di
erudizione letteraria, Camillo Antona Traversi, dié fuori
nel 1891207, conquistando d'assalto il pubblico di tutta
Italia, posso bene scuotere la testa e giudicare che quel
dramma della ragazza cresciuta in una famiglia di gente
corrotta e dalla madre venduta ai vizî di un ricco, la qua-
le si dà a un giovane e, quando costui si tira indietro, di-
speratamente si ammazza, è grossolano; che somiglia a
un centone di caratteri e di situazioni già trite nel teatro
moderno e piú o meno convenzionali, né punto in quel
dramma improntate di un nuovo sentire; che la trasfigu-
razione poetica della materia non vi si accenna neppure
qua e là, ossia in qualche particolare e in qualche scena.
E posso meravigliarmi della stima che ne fecero allora i
critici e che indusse l'autore stesso a credere (come dice
nella prefazione del 1913) di aver dato con la sua opera
«uno dei primi esemplari del teatro di umanità e di veri-
tà, vaticinato da Emilio Zola e condotto a perfezione dal
Becque e dagli allievi della bella scuola del Teatro libe-
ro fondato dall'Antoine a Parigi». Nondimeno sta di fat-
to che, poste le disposizioni psicologiche e morali di
quel tempo, la simpatia tra pietosa ed erotica verso la
207
La prima ediz. delle Rozeno è di Napoli, Bideri, 1893: ristampata a Paler-
mo, Sandron, 1913, nella prima serie del Teatro dell'autore.
223
donna perduta, la persistente idea romantica della pas-
sione d'amore come redenzione e purificazione, e, addi-
rittura, come una sorta di santificazione della creatura
che n'è presa, la peccaminosa curiosità del buon borghe-
se per certi ambienti equivoci che non appartengono alla
sua esperienza e frequenza, l'autore dimostrò di cono-
scere quel che al pubblico piaceva e congegnò bene il
suo dramma e ottenne il «successo» che gli era dovuto.
La medesima cosa dovrei dire di alcuni drammi che
dettero fama a Marco Praga ‒ il figlio del poeta e pittore
Emilio208, ‒ per esempio, Le vergini, simili con alcune
varianti alle Rozeno e alle Fernande e alle Denise, cioè
rispondenti a tipi teatrali del secondo tempo romantico e
del Dumas figlio. Nella Moglie ideale, dello stesso auto-
re, si tratta di una moglie che rende appieno felice il ma-
rito da lei non amato, ma a cui a suo modo è affezionata
e piú ancora legata da interessi comuni: una moglie che
naturalmente ha un amante, e prosegue in questo suo
giuoco dell'adulterio, calcolato sulla fiducia che essa
mantiene ferma e incrollabile nel marito. Ma l'amante si
stanca, la vuol lasciare e prendere anche lui una moglie
(certo, incoraggiato dall'esperienza dell'altrui felicità
maritale!), e lei non si turba, ma rapidamente provvede
ai rimedî del caso. Faccia quel che gli accomoda, ma
non cangi le abitudini che danno nell'occhio o le cangi a
poco a poco, perché quel che le preme sopra ogni altra
cosa è di non scombussolare la propria vita e di non per-
dere la solida base della consuetudine coniugale. Uno
208
Letteratura della nuova Italia, I, 239-55.
224
dei personaggi espone, parlando con lei, il concetto del
dramma:
Voi siete la donna moderna che ragiona. Ed è in voi uno
strano, ma benefico squilibrio, tra l'amore per un uomo e
l'affetto per la vostra casa. Ed in questa parola «casa» metto
tutto quel complesso di affetti, di soddisfazioni, di doveri, di
diritti, che la fanciulla acquista diventando moglie e madre.
All'amore per un uomo che non è vostro marito voi sacrifi-
cate tutto, per esso voi arrischiate tutto, sí, ma fino a quel
punto in cui non è compromesso e non corre pericolo l'affet-
to per la vostra casa. Il giorno in cui il pericolo si affaccia, vi
ritraete. Finché potete essere contemporaneamente la moglie
e l'amante, lo siete con tutta la passione e con tutto l'entusia-
smo. Quando bisogna essere o l'una soltanto o l'altra, sacrifi-
cate l'amante. Voi recitate nella commedia dell'amore: com-
media appassionata, se volete, ma commedia a lieto fine. Il
dramma che si chiude violentemente non è fatto per voi...
Ed ella stessa, la moglie ideale, nel romperla con
l'amante, conferma il suo programma: che assolutamen-
te il marito non perda
quella cieca fiducia che ha in me, a cui tengo tanto e di cui
ho tanto bisogno... Ah, ah, voglio poter fare quello che vo-
glio, avere anche un altro amante se mi talenta, senza che io
debba fingere piú o meglio di quello che ho finto continua-
mente sinora.
All'evidente somiglianza di questa Moglie ideale con la
parisienne del Becque l'autore e i critici a lui favorevoli
opposero talune differenze nei caratteri, nella condotta
dell'azione e nel dialogo; ma dimenticarono la differen-

225
za principale e fondamentale, che la Parisienne è una
creatura poetica e questa del Praga no, perché sta come
mera caratterizzazione psicologica, proposta alla rifles-
sione e alla discussione. Poeticamente parlando, ci si in-
namora della infedele e intrigante e astuta e pure, nel
fondo dell'anima, scontenta e dolorosa Clotilde209; ma
nessuno s'innamorerà mai di quella Giulia, non perché
sia donna migliore o peggiore dell'altra, ma perché è
meno umana, nata non da un moto del sentimento ma da
una casistica psicologica. Il Praga, del resto, proseguí
queste sue costruzioni psicologiche sulle mogli che
spartiscono la loro vita tra il marito e gli amanti, spin-
gendole fino al turpe e al delittuoso in un brutto roman-
zo, La biondina, nel quale la protagonista ragiona il suo
modo di vivere:
Non è un tradimento il nostro. Ci concediamo, noi, quello
che non possiamo, non potremmo concedere ad altri. Il no-
stro amore non è rubato ad altrui. Se non ci amassimo, non
ameremmo nessuno. Non io mio marito, non lui quella don-
na. Ciò che ad essi l'anima nostra può dare, ciò che il dovere
ci impone di dare, lo diamo: stima ed affetto nel campo mo-
rale; cure, riguardi, assistenza nell'ordine materiale delle
cose. La folla, se conoscesse il nostro segreto, ci condanne-
rebbe, forse. Ma ci basterebbe il rispetto di pochi eletti a
compensarci della condanna: i pochi eletti, che comprendo-
no l'animo umano.
E parimenti psicologici e casistici sono gli altri dram-
209
Si veda quel che della Parisienne, e in generale del Becque, ho detto in
Conversazioni critiche, III2, 382-95 [v. anche Letture di poeti, ed. ec., pp.
146-50].
226
mi di lui come Alleluia, un uomo che è costretto a finge-
re l'allegria e a prestarsi gaio ordinatore di feste e di di-
vertimenti (donde il suo soprannome), mentre porta in
seno, a tutti nascosta, la sempre bruciante ferita del tra-
dimento fattogli dalla moglie, che egli non discacciò
solo per non recare turbamento e danno all'unica loro fi-
glia, e quest'unica figliuola, per istinto ereditario (si sen-
tono qui gli Spettri dell'Ibsen), rinnova il fallo materno e
getta il padre in una disperazione senza fine. La rappre-
sentazione è condotta in modo vivo, specialmente nel
carattere della figlia, che prima rigetta da sé il sospetto
di cui è fatta segno e riesce a persuadere il padre e la
madre, e poi si scopre involontariamente con le accuse
che le escono di bocca contro il marito, svelando in
quell'atto l'irrimediabile bassezza della sua anima e la
morale insensibilità. Si dice innanzi a questa scena: ‒ È
cosí, ‒ e tuttavia l'opera lascia intimamente indifferenti,
o non piú partecipi di quel che avvenga nel leggere in
un giornale un «caso diverso».
Circa quel tempo (1893), fu rappresentato con plauso
Il cieco di Francesco Bernardini210: un fidanzato che, di-
ventato cieco, è tuttavia sposato dalla donna che gli si
era promessa, e che poi lo tradisce, ed egli, che se ne av-
vede, uccide il rivale. Condotto teatralmente bene, an-
che questo è un «fatto», e nient'altro.
Tempra eminentemente teatrale è quella di Roberto
210
Il cieco, dramma in quattro atti, premiato dal Ministero della pubblica istru-
zione e tradotto in tutte le lingue di Europa (1893; la quinta edizione è di
Roma, 1931). Ispirato a un caso reale, accaduto nel 1892, sul quale scrisse
un articolo il D'Annunzio nel Mattino di Napoli del 26-27 luglio 1892.
227
Bracco211, che ha saputo commuovere e divertire e ap-
passionare con la varia e ricca opera sua di intonazione
ora tragica ora gioiosa gli spettatori non solo in Italia ma
anche in paesi stranieri, dove era difficile ad autori ita-
liani di affrontare la concorrenza e di farsi recitare ed
accettare. Il suo ingegno tutto dispone ed espone in
azione e in dialogo, in azioni rettilinee e rapidissime, in
dialoghi sempre scoppiettanti di brio. La sua esperienza
tecnica lo rende padrone dei mezzi teatrali; si sente che
egli conosce bene gli attori, e, non perdendo mai di vista
le loro persone, il loro modo di recitare e la loro mimi-
ca, calcola sopra ciò le sue scene e le sue battute; si sen-
te che egli conosce perfettamente il pubblico e sa come
si faccia a strappargli l'applauso commosso o ad eccitar-
ne il riso. Sceglie con grande sagacia temi e situazioni; e
i suoi argomenti non sono solo la donna e la sua fedeltà
e infedeltà e i suoi capricci e le sue crudeltà, e la donna
che si mantiene pura e quella che si abbandona e che si
perde, e gl'impeti suoi di sacrificio e la forza degli affet-
ti e della devozione e il tormento della gelosia e l'onta
dell'adulterio e il contrasto e l'unione della donna e della
madre che è nella donna; ma anche i piú diversi proble-
mi morali dell'anima e della società, la miseria e il vizio,
il lavoro e il suo diritto, e quelli del misterioso inco-
sciente e quelli psicologici e patologici, dei limiti on-
deggianti tra saggezza e follia. Devoto alla sua arte, egli,
che è venuto incessantemente progredendo dai primi la-
211
Il suo Teatro, raccolto presso l'ed. Sandron di Palermo, ha ora una nuova,
riveduta e piú completa edizione presso il Carabba di Lanciano.
228
vori, che erano quasi gingilli di società, alle piú com-
plesse e difficili creazioni drammatiche, pone somma
cura nelle sue opere e sempre le corregge e ritocca nel
darne nuove edizioni. Ma già in questi stessi suoi pregi
di autore teatrale si avverte una qualche diversità dallo
spirito propriamente poetico, che suol essere meno inge-
gnoso ma piú spontaneo, meno molteplice e versatile,
ma piú tenace nell'elaborare il motivo ispiratore che
solo lo fa poeta, meno arguto e scintillante e sorpren-
dente ma piú raccolto in sé stesso, meno agevolmente
comprensibile e gradevole al gran pubblico, lento anche
e difficile ad essere compreso e sentito e amato, ma as-
sai piú penetrante nel profondo. Il Bracco non può va-
lersi di continuo nei suoi svolgimenti ed effetti teatrali
di due ordini di forze: quelle intellettualistiche, nelle
quali è ricco di sagacia e penetrazione nelle piú varie si-
tuazioni, e quelle sentimentali, assai sensibile com'è di
sua natura alla pietà, alla bontà e agli affetti dell'amore;
due ordini di forze di cui lo spirito poetico diffida, as-
sorto tutto com'è nel suo proprio sogno. Il Bracco dise-
gna bene e poi colora con pari abilità, ma il poeta ha,
tutto in un sol getto, il disegno che è colore, il colore
che è disegno.
Assai felice è in lui una vena di umorismo scherzoso
e da uomo di mondo, che dissolve le tese situazioni e
contrasti della vita reale e li volatizza nella celia. Si può
ammirare la sapienza colla quale egli ha concepito ed
eseguito il Piccolo Santo e i Pazzi, e riconoscere che
queste opere stanno assai piú alto di certe altre che si è
229
cercato di porre al loro luogo nei teatri e che danno tan-
to piú scarso alimento al bisogno di riflessione psicolo-
gica e di commozione degli affetti, che è nel pubblico.
Ma quando il Bracco tocca queste corde maggiori, non
giunge alla schiettezza arguta che anima le scene
dell'Infedele, dove la donna, che inibisce al marito le
smanie gelose e che, pur civettando e divertendosi col
fuoco o coi focherelli, non ha nessuna voglia di darsi a
un amante, e che in fondo vede e sente la stupidità delle
comuni avventure extramatrimoniali, accetta la sfida del
suo corteggiatore e va sola alla casa di lui, esponendosi,
con la sicurezza dell'indifferenza, al pericolo che quegli
crede di poterle preparare. Entra con l'aria di chi debba
sbrigare senza indugi un affare, e alle prime parole di
lui:
(interrompendolo, sempre con la stessa aria frettolosa): Ba-
sta, basta, eccomi qui: seducetemi!
L'ALTRO (tentando di sottrarsi alla burletta). Ma io, con-
tessa...
LEI: Non vi sono ma e non vi sono contesse: io, mio buon
Gino, non ho tempo da perdere. Sono in casa vostra, sono
nelle vostre mani, le porte sono chiuse... almeno lo spero;
nessuno ci vede, nessuno ci sente. Poche chiacchiere e pro-
cedete subito alla seduzione.
È l'ironizzamento della seduzione e del terribile adulte-
rio, ridotti qui a una pallottola con la quale si gioca, e
che in quel gioco si prova inoffensiva, per lo meno per
chi ha un po' di buon senso e un po' di spirito. E si pen-
sa, per contrasto, al modo in cui, nel Trionfo, il Bracco
230
ha trattato il tema del giovane che con sforzo spasmodi-
co e vano vuole districare il suo amore dalla passione e
dal senso e renderlo puro: che è appunto uno dei lavori
nei quali l'intellettualismo prende su lui il di sopra.
Con tutto ciò l'opera del Bracco rimarrà come una
delle piú cospicue del teatro italiano di tra l'otto e il no-
vecento; e chi ora la ripercorre, non solo è condotto a
notare, non senza malinconia, a quanti problemi senti-
mentali, morali e sociali volgesse la mente la generazio-
ne a cui egli appartenne, e quanti affetti accogliesse nel-
la sua anima, ma, nonostante il prevalente carattere tea-
trale, vi sentirà un'umanità che negli autori posteriori di
teatro si è inaridita o, come accade nel Pirandello, ‒ ap-
partenente anch'esso a quella generazione e piú legato
che non si sia detto all'opera del Bracco, ma che in
quanto autore di teatro fiorí piú tardi, ‒ è contaminata
dalla prepotenza di un sofistico sottilizzare e filosofare a
vuoto. Perciò anche quando, abbattutasi contro il Bracco
la violenza degli avversarî politici, alle rappresentazioni
dei suoi drammi furono frapposti divieti ed ostacoli, le
rare volte che il pubblico italiano potè tornare a rivederli
sulle scene li salutò con gioia e li seguí col cuore di altri
tempi212.
212
A queste pagine sull'opera teatrale del Bracco, scritte alcuni anni fa con
esclusiva attenzione a problemi di critica, non posso non aggiungere qual-
che parola intorno alla persona dell'autore per un bisogno dell'anima che è
adempimento di un dovere civile. Perché Roberto Bracco fu esempio, dap-
pertutto e in ogni tempo raro, di artista che non ha spento in sé, per l'eserci-
zio dell'arte sua e gli interessi svariati che vi si annodano, l'uomo e il citta-
dino. Egli partecipò alle cose della nostra patria con quella passione che è
amore e che è indignazione, con l'ardore della fede, con la costanza di chi
231
LIII. ANTONIO DELLA PORTA

Non mi pare che si sia data la dovuta attenzione alle


«canzoni» di Antonio della Porta213, il quale, dapprima,
non senza maestria, si compiacque nel rifare strofe, for-
me e movenze dell'antica poesia italiana dugentesca e
trecentesca, seguendo in parte esempî del Carducci e dei
suoi scolari, ma piú ancora ricevendo l'impulso dal
D'Annunzio di Isaotta Guttadauro e dal suo sosia ro-
manzesco, Andrea Sperelli, che in simile guisa si diletta-
va. Mise fuori cosí alcuni volumetti: La bella mano
(1891), Modi antichi e Le sestine (1892)214, nei quali in
piú luoghi si mostra aperta l'imitazione del D'Annunzio
(per esempio, nella lirica «O Madonna, o buona, o mia ‒
dolce cosa il ricordare...», da confrontare con la dannun-
ziana: «Vi sovviene? Fu il convegno ‒ sotto l'Arco dei

sa di non poter a niun patto piegare la persona o muovere la voce a fare o


dire il contrario di quel che sente o pensa. Il mondo del giornalismo e del
teatro, che era stato il suo mondo e che in lui si cingeva dei ricordi di una
vivace giovinezza e di una fulgida fortuna, sembrava rinascere ogni qual-
volta alcuno degli antichi amici o degli interpreti dei suoi drammi si recava
a fargli visita; ed allora egli vi si riattaccava d'un balzo, e ne rievocava fi-
gure e personaggi, con commozione, con perspicace giudizio, con intelli-
gente argutezza, narratore felicissimo. Ma a quel mondo, e alla preminenza
e agli onori che ancora gli prometteva, non aveva esitato a fare intera rinun-
cia, unicamente per dire e tener fermo il suo no, il no che la coscienza
gl'imponeva. Coloro, che in questi ultimi anni gli sono stati vicino, hanno
sperimentato, insieme con la bontà e la gentilezza dei suoi affetti, la solidità
del suo carattere morale, che dalle prove degli eventi, senza niente perdere
di spontaneità e semplicità, riceveva risalto. [Nota scritta nell'aprile del
1943 in Sorrento, dove Roberto Bracco si spense il 20 di quel mese.]
213
Morto in Roma nel 1939.
214
Furono stampati a Bologna dallo Zanichelli.
232
Pantani...»), e, nei «sonetti religiosi», che sono poi
d'ispirazione antiascetica, l'altra del Carducci (di liriche
come «Era un giorno di festa e luglio ardea»). Al
D'Annunzio egli attestò sempre ammirazione e, abruz-
zese come lui, sentiva in quell'arte il «cognato canto» e i
«numeri fraterni». Ma, già nelle prime rime, al compia-
cimento di rievocare e contraffare i modi dell'antica
poesia il Della Porta disposò talvolta i suoi vagheggia-
menti d'amore e gli affetti del suo cuore. Qualche volta,
le due cose stanno in tal guisa che veramente non si sa
se l'atto rappresentato sia di passione o di letteratura,
come in queste sestine:
O gran bontà! che la sua bella mano,
Madonna assente al facitor di rime;
emersa fuor de la sestina d'oro
alta, solenne ne la veste bianca,
offre la mano candida con atto
regale, senza movimento, al bacio.
Prono, con alta religione, il bacio
mormora appena sulla bella mano,
favoleggiando: ‒ Gran mercé, ché l'atto
fantasticato nelle antiche rime,
u' voi splendete irrigidita e bianca,
si compie alfin, Madonna chioma-d'oro...
E sempre la vaghezza letteraria adorna la gioia dell'amo-
re e vi vola intorno:
Il dolce nome che mi trema in core
e mi rampolla sempre ne la mente,
s'inzaffira, o Madonna, o sommo bene,

233
nel canto che ti gloria; e pur la bocca
(superbirebbe a la ventura lieta)
non proferisce il ben amato nome.
Il vivo suono di quel caro nome
germina insiem coi palpiti del core,
e sale e sale, armonïosa e lieta
melode a' regni eccelsi de la mente;
indi si parte a movere la bocca,
qui si fa verbo e dice: ‒ O sommo bene!
Insiste il labbro: ‒ O dilettoso bene,
ond'io non oso profferire il nome...
Un simile stato d'animo, con simile moto d'affetto, ave-
va ispirato al Carducci la quartina, che giova richiamare
per far sentire la diversità delle due intonazioni:
Io non lo dissi a voi, vigili stelle,
a te nol dissi, onniveggente sol;
il nome suo, fior de le cose belle,
nel mio tacito petto echeggiò sol...
Qui non ci si diletta con le carezzate movenze letterarie;
ma, nella sobrietà del dire, quale infinita tenerezza in
quel nome che sorge nell'anima, «fior de le cose belle»,
chiudente in sé ogni bellezza nel mondo; e quanto pudo-
re e quanta sacra riverenza in quel «tacito petto», in cui
soltanto esso risuona!
Pure, nella delicatezza e trepidanza d'affetto che è ne-
gli accenti d'amore del Della Porta si avverte qualche af-
finità, e forse anche qualche eco, della dolce poesia che,
in modi similmente antichi, uno scolaro del Carducci,
Severino Ferrari, aveva cantata. Cosí in questi versi:

234
Redimita di fior le bionde chiome
io t'addurrò con la veste di sposa,
o Madonna, a la casa dei miei vecchi.
Li vedrai su la porta: oh con che gioia
benediranno nel commosso core
al bianco vel de la novella figlia!215...
Egli (e in ciò si distacca e s'innalza sul D'Annunzio) non
trattava gli affetti di qualsiasi qualità come mera diletta-
zione da estetizzante, a segno da deformarli e toglier
loro la originale schiettezza. Quando il D'Annunzio par-
la della madre o delle sorelle, ci distrae dalla madre e
dalle sorelle e ci riporta a sé e alle sue mirabili e mira-
bolanti sensazioni. Ma il Della Porta, in quelle sue gio-
vanili ed estetizzanti rime, disegnava con sincera com-
mozione la dolce figura materna:
Sempre si piace il fastidito core
volare a te, mia buona santa, e gli occhi
son dubitosi tra il sorriso e il pianto,
quando il core ti linea; su le guance
ti corrono le lagrime, e, sul petto
china la testa, mormori una prece...
Si vede che in lui la schiettezza del sentire ha tanta
forza da sostenere il peso della virtuosità estetizzante,
della quale egli si era caricato da giovane, e da piegarla
talora a proprio strumento.
La maturità dell'arte del Della Porta è nel libro delle
Canzoni, pubblicato nel 1900216, in cui regna questa che
215
Cfr. con la strofa del FERRARI, riferita in Letteratura della nuova Italia, II,
272.
216
Roma, Società ed. Dante Alighieri.
235
è la piú solenne tra le forme dell'antica poesia italiana, e
insieme c'è tutta la vita sua e della sua famiglia: l'Abruz-
zo nativo, l'antica casa doviziosa, i genitori, la giovinet-
ta sorella, le costumanze paesane; e poi le morti, la rovi-
na economica, la dipartita dalla provincia per cercare
nella città lavoro e mezzi di sussistenza, superstite con
lui la madre dai capelli bianchi e carica di dolorose me-
morie, superstite l'immagine di quel che s'è perduto e di
quel che si è allontanato nel passato irrevocabile, e in
quella spasimante nostalgia si è ingigantito e ha acqui-
stato proporzioni quasi epiche. Cosí questa materia è già
come preparata a comporsi nei modi delle antiche can-
zoni, che le si fanno quasi naturali, compiendo con
l'incantamento letterario l'incantamento del passato. Ri-
memora la sorella morta:
O tu, sorella giovinetta, uscita
per la gran porta, tra due file, doppie,
di servi proni, con in man ciascuno
un cero: innanzi lo zio prete invita
tutta la gente a un «requiem»: per coppie,
biancovestite, ombratesi di bruno,
passan le eguali in lacrime: sol uno,
muto, alto, bianco nel dolore, il padre
tiene la destra lieve sulla bara,
leggéra salma e cara
di quattro servi sulle spalle quadre;
l'ululo, dietro, orrendo della madre!
Il realismo, come si suol chiamarlo, dei particolari, che
è poi in questo caso la forza dell'affetto che si concreta

236
in quelle vive e precise immagini, non solo non è atte-
nuato dal giro della strofa tradizionale, ma vi spicca
nell'atto stesso che vi è frenato e idealizzato. La madre
aveva serbato i ricordi e le reliquie della figliuola, gli
oggetti che aveva posseduti o lavorati o toccati con le
sue mani, e di tempo in tempo li cavava fuori:
Vedila mentre il piccolo quaderno,
che mi fe' dotto nella «santa Croce»,
ella mi mostra: sulle gialle carte
tra l'«a», «e», «i» discorre con alterno
tratto uno sgorbio che da voce a voce
va, per finire finalmente in parte
ove in tre raggi lo partiva l'arte
tua, fanciulletta, a figurare un drago;
s'io m'impuntassi all'«a, e, i, o, u»,
restio, superbo, tu,
Evangelina, minacciavi: «Un mago
cavalca il drago! I denti, punte d'ago!».
Anche il Pascoli notava e icasticamente ritraeva queste
minute cose, cosí forti nell'anima; ma vi metteva un cer-
to che di artificioso, come di chi si faccia vezzo e pom-
pa della sua trovata e voglia spremerne tutto l'effetto
sentimentale che può dare; e perciò falliva nello sforzo.
Qui, invece, si rimane sempre nel serio e nel grave. E
come accorato egli parla alla morta, dandole notizie di
loro che sono vivi!
Le voci nostre tutte sono fatte
fioche dal tempo e, piú, dalle vicende
tristi, o lontana! Ahimè, non è piú quella

237
la madre nostra! Quando in lei si abbatte
l'Ombra Tua Cara a udire si protende
ansia, ed ascolta: «Fosse la sorella
viva! Traesse dalla faccia bella
lume di gioia il lavorante figlio!
e, piú che queste, in cui ripara, gote
cave, rugose e vote,
lo serenasse del fraterno ciglio,
o mia figliuola, un riso di consiglio!».
Si direbbe che l'austerità del dolore materno renda au-
stero il verso del figliuolo e gli inibisca qualsiasi bellu-
ria, che sarebbe irriverente a quel dolore. Ripensa come
essi persero, nella rovina economica, una loro terra; e
gli sta in mente che la madre l'avrebbe salvata per farne
la dote della figliuola, se con la morte di lei ogni vigore
di preveggenza e di difesa non fosse caduto, quasi ormai
cosa inutile:
Forse che tu ne avresti fatta, o buona
madre, la dote per Evangelina,
se stata ella vicina
ti fosse piú nella deserta casa.
Anzi che donna, ma non piú bambina
vanío, sorella, l'esile persona,
pria che la sua corona
ti avesse al mondo Amore persuasa.
Straniere genti hanno, piú tardi, invasa
la virginea tua stanza, o giovinetta:
un passo vi si affretta
crudele, che vi suscita chi sa
quali echi di pietà,
238
se veramente, in suo pensier deliro,
vi udí sempre la madre il tuo respiro.
Lo strazio del rimpianto e la presenza impalpabile della
morta sono tanto piú fortemente espressi in quanto
l'autore li raffrena con l'eleganza del dire, che è come
l'offerta che egli fa della virtú del suo ingegno a quella
celebrazione.
Non so rinunziare a trascrivere alcune altre strofe di
queste liriche completamente, sebbene a torto, obliate.
Come discorrere di poesia, lei assente?, voglio dire
quando non c'è il riferimento a cose da tutti lette o che si
possono prontamente leggere? Bisogna, dunque, come
si dice, citare: il che forse è una prova di modestia da
parte del critico, ma è certo un servigio che si rende ai
lettori.
Il focolare è ritratto tutt'insieme nella sua precisa for-
ma materiale e nel contenuto etico che esso assume nel-
la vita della famiglia, nel suo significato di legame tradi-
zionale e secolare, che risale ai primi nuclei della socie-
tà umana.
Sempre che splenda sotto la capace
pentola, espressa da stanchi maglioli,
l'alacre fiamma, e imporpori le gote
incitatrici a innumeri figliuoli
che per lor soffî la fan piú vivace,
sí che il coperchio in palpiti si scuote;
te, degli umani all'ultimo nepote,
onorerà, pelasgico convento
ultimo, la postrema arbitra coppia,

239
o pietra, su cui scoppia
da in eterno la quercia, o monumento!
Da te, d'oltre i foggiati di martello,
memori di pie fronti inchine, alari
chiari lucenti sotto il dômo nero,
gravi di tronchi di sul doppio altèro
ponte di ferro, arditi centenari,
muoverà l'uom pel mondo, il dolce ostello
accomandando al nuzïale anello:
non anche è il sol; la fresca donna odora
nel talamo, diserto alla prim'ora...
Anche la poesia d'amore s'è fatta piú sostanziosa nelle
nuove sestine, che accompagnano le canzoni, come in
questa calda notte d'amore:
Vinta, piegò come succiso fiore
e sul mio petto si abbatté, con voce
non tutta umana agli impeti del sangue
chiamandomi: morivano in lor bianco,
i grandi occhi nerissimi: la notte
alta incitava la concorde febre.
Pronte le bocche che ne avea la febre
arse ci si composero in un fiore
unico: e tutta fiammeggiò la notte
propiziando; ma nessuna voce
se non, parvemi, un gemito dal bianco
petto salía concordando col sangue.
Ella sorrise: la sua bocca esangue
non respirava; la recente febre
avea gittato rose per il bianco
volto e viole sotto i cigli, il fiore
della delizia. Prima, la mia voce
240
ruppe il silenzio della sacra notte...
E, in ultimo, ecco come egli rende l'impressione di una
musica possente:
Qual se la sala è placida di luci
attenuate, pallido del nume
traggi, o Martucci, della sinfonia
beethoveniana dal mortal volume,
l'ultimo tempo e i flauti conduci
con le vïole all'ultima armonia
dei cavi legni: ed alla teodia
massima chiami, sopra gli stromenti
attoniti, da torrida sorgiva
l'umana voce, attiva
di tutte tempre per eterni accenti:
agil mariti alle vibranti corde
schietti metalli tinnuli: sul gemere
dei vïolini l'oboe si effonde,
dolce comento: lungi gli risponde
fresca la tromba: il timpano un suo fremere
rende al clarino; e, schiavi a una concorde
legge, seguaci alla misericorde
voce dell'uom, con essa par che assorgano
d'innanzi a Dio, voci e stromenti, un organo...
Qualche volta, per troppa condensazione di particolari,
la forma del Della Porta è tortuosa e faticosa; qualche
altra volta, ‒ mi si consenta di notare questa che può
sembrare una piccineria ma che a me spiace ‒ esce in
quelle rime meramente visive che il Pascoli mise in
moda (come mastro, che dovrebbe rimare con nella
strofe, olio con ti duoli o madre, salda con val da indi,
241
bestemmie con ingemmi e non); qualche altra volta in-
cappa nelle delusorie formule dannunziane («mai nes-
sun giglio folgorò piú bianco...»), e si trascina dietro il
peso di una pomposa letteratura. Ma, nonostante questi
difetti, nel volume delle Canzoni sono i non dubbi segni
di un'anima che in momenti di schietta commozione
sentiva e diceva con poetico vigore.

242
LIV. E. A. BUTTI ‒ R. SIMONI

Il Butti217 fu quel che si chiama un romanziere e un


drammaturgo «d'idee»; e, in effetto, non solo nelle sue
opere venne trattando casi psicologici e correlativi pro-
blemi morali, ma addirittura tentò di formarsi attraverso
esse la sua concezione della vita, avvicinandosi, con va-
rie prove e tra varî ondeggiamenti, a una sorta di fede in
una superiore vita trascendente, che sciolga l'enigma di
questa che si travaglia sulla terra.
Nei suoi due primi romanzi, L'immorale e L'automa,
studiò nell'uno l'infelicità che nasce dalla colpa, e,
nell'altro, l'uomo senza volontà, ossia senza quel potente
amore alla vita che dà forza, indirizzo e tenacia alla vo-
lontà, e perciò sempre in preda dei casi o dell'altrui vo-
lere, e, tra velleità di viver lui, vissuto in realtà dalle
cose che a volta a volta lo circondano e che hanno pote-
re sopra lui. Nel terzo romanzo, L'anima, descrive un
positivista che (conforme alla volgare credenza, conva-
lidata e sostenuta dal Bourget e da altri scrittori francesi,
della scienza in quanto causa d'immoralismo e di cini-
smo) si mette a sedurre una giovinetta, e, poiché questa
217
N. in Milano 1868, m. 1912. Romanzi: L'immorale (1889); L'automa
(1894); L'anima (1893); L'incantesimo (1897). Drammi principali: Vortice
(1894); La fine di un ideale (1898); L'utopia (1894); La corsa al piacere
(1899); Lucifero (1900); Una tempesta (1901); Il gigante e i pigmei (1903);
Fiamme nell'ombra (1904); Tutto per nulla (1906). Poema: Il castello del
sogno (1910). Incompiuto rimase il romanzo L'ombra della Croce (nella ri-
vista Il Rinascimento di Milano, a. I-II, 1905-6), che nella parte pubblicata
mostra attinenze, per la qualità del costume e delle persone, con Fiamme
nell'ombra.
243
soffre d'incubi e di allucinazioni, a poco a poco egli
stesso sperimenta sopra di sé simili commozioni e fini-
sce a dubitare della scienza e a sentirla angusta ed estra-
nea. «Al di là è il Mistero: al di là volino le speranze.
Chi oserà asserire che le speranze umane non possono
essere una divinazione delle verità misteriose?», «E
foss'anche una bugiarda illusione la mia, meritano forse
tutt'insieme le presunte verità predicate dalla scienza,
che io rinunci a questa sola illusione?». L'incantesimo
presenta un pensatore, un apostolo che giudica l'amore
forza animale e nemica, pertinente alla natura inferiore,
il quale (c'è una risonanza dell'abate Mouret zoliano)
viene irresistibilmente avvolto e trascinato dalla forza
della natura e dell'amore. «E la sua anima diceva esul-
tando: Ah, finalmente, anche la mia festa è incomincia-
ta! Finalmente, anche per me è battuta l'ora divina della
rivelazione! A che soffrire? A che combattere? Perché
inseguire affannosamente una chimera che sfugge a ogni
presa e, anche raggiunta, non lascia fra le mani se non
un cencio vacuo e inutile? Amare! Magnificamente
amare! Ecco il segreto della gioia di vivere! Ecco la
causa suprema e il supremo scopo d'ogni esistenza crea-
ta! Egli vuol rivolgersi indietro ancora una volta verso il
Dolore e verso l'Ideale; ma non riesce piú a scorgere né
l'uno né l'altro. La Donna è venuta, e con essa il riposo,
l'oblio, l'umiltà, l'acquiescenza beata all'eterna incom-
mutabile legge che regola nell'infinito spazio il trasmu-
tare della materia organica.» Il pensatore ed apostolo, al
quale è dolce cosí naufragare, professa, nel romanzo, i
244
concetti politici del conte Alberto Sormani, di cui il But-
ti era stato amico e che, dopo aver pubblicato per circa
due anni in Milano la rivista L'Idea liberale, morí giova-
ne218. Il Sormani, non riconoscendo altro ideale fondato
sulla scienza che quello di promuovere forme sempre
piú alte di vita, spregiando l'opposto ideale della felicità
da assicurare agli uomini, era antidemocratico, una sorta
di aristocratico darviniano, liberale in quanto intendeva
la necessità della libera gara e stimava che una dura bat-
taglia si preparasse ai tempi nostri per l'insorgere della
parte inferiore dell'umanità, condotta dai socialisti e dai
clericali, contro la superiore, e per lo spasmodico ma
sterile conato di impedire la fatale evoluzione che è leg-
ge della natura e che vuole, per mezzo della lotta, il
trionfo del migliore. Ma il Butti, che quella inaspettata
conclusione erotica alla vita del suo apostolo non voleva
che fosse da considerare «definitiva», prometteva una
seconda parte del romanzo219, che poi non scrisse.
Sullo stesso andare, nel dramma Lucifero, egli prende
a considerare il contrasto dell'educazione laica e scienti-
fica con quella religiosa cattolica, osservando che quan-
do la sventura getta nello strazio e nell'angoscia l'uomo
educato nel primo modo, la scienza non lo sorregge e
torna il bisogno della fede in un Dio o in un'altra vita,
che solo apporta la consolazione invocata. Lo scienzia-
218
N. nel 1866, m. 1893. Si veda la commemorazione che di lui fece Neera:
Un idealista: Alberto Sormani (Milano, Galli e Raimondi, 1898), e il mio
saggio: Un tentativo di teoria liberale in Italia sulla fine del secolo passato
(in Aneddoti di varia letteratura2, IV, 371-79).
219
Come dichiara in una nota all'Incantesimo.
245
to, il professore, l'assertore del laicismo, al vedere il pre-
te introdursi e assidersi in casa sua nell'ora in cui
un'improvvisa malattia strappa a suo figlio la giovine
sposa, è piú feroce che mai nei convincimenti e nei pro-
positi: «Ma no, tutti gli obbediranno, non io! Tutti pie-
gheranno il capo davanti a lui, ma la mia testa resterà
salda sulle mie spalle. Quello spettro del passato potrà
impossessarsi della mia casa, dei miei figli, di tutto, ma
non riescirà ad ottenebrare la mia mente, a insinuarvi
ancora la paura del suo mistero!... Io sono come un nau-
frago che tenga in mano il suo tesoro piú geloso e non
l'abbandoni, a costo di lasciarsi trascinare dal suo peso
in fondo alle acque. Potrò perire, ma, se tocco la riva, oh
sarà con esso che mi vedranno risorgere questi sfruttato-
ri della sventura!». Ma poi, al moltiplicarsi delle diser-
zioni intorno a lui, egli, già cosí sicuro, si fa perplesso e
mormora: «Chi sa, chi sa?».
Nell'altro dramma, La fine di un ideale, è la critica
della libertà nell'amore e nel matrimonio, rappresentata
dal crollo di quest'ideale in una donna che dapprima
l'aveva accolto con impetuosa fede, ma che sperimenta
da quella parte l'egoismo e la malvagità, e dall'altra op-
posta la semplice bontà e l'affetto, l'amore e il perdono;
sicché ora accetta e vuole «una vita umile e intensa di
calma, di tenerezza e di sottomissione». La corsa al pia-
cere ammonisce, con terribile esempio di castigo, coloro
che, ardenti nel soddisfar le proprie brame, non si sof-
fermano a riflettere sul male che possono cagionare, e
che con la stessa baldanza perseguono le loro ambizioni,
246
quando, a un tratto, le conseguenze dell'opera loro spez-
zano il cuore delle persone che piú essi hanno care. Nel
Gigante e i pigmei si svolge il concetto che gli uomini
superiori sono inetti nella vita pratica quotidiana e, tra
perché non vi danno attenzione e perché sono indiffe-
renti alle utilità e anche per la troppa fede in sé stessi,
non scorgono la reale realtà intorno a sé e si lasciano in-
gannare da gente inferiore ma piú interessata, piú astuta
e piú vigile. Infine (senza stare a passare in rassegna gli
altri drammi), nel Castello dei sogni, che è un poema
drammatico in versi, un giovane, Fantasio, il quale,
nell'imperversare della rivoluzione in Francia, si è ritira-
to in un castello remoto e vive separato dal mondo, dice:
In questo letto vasto
e silenzioso io venni per dormire
e per sognare. E la mia vita infatti
oggi non è se non un lungo sonno
tortuoso, che scorre come un fiume
di qualche continente inesplorato,
tra due vergini sponde, che la mia
fantasia veste di foreste d'oro
e di castelli azzurri e di città
non mai vedute e d'uomini felici
ed immortali...
Ma la gente, che egli ha condotto con sé, non resiste
all'isolamento e l'abbandona; mentre egli esclama:
Io sono salvo!
Vola il Pegaso ancora, ancora squilla
la campana d'argento!... Io rido!... Tutti

247
sono fuggiti e qui non manca alcuno!
Nel castello del Sogno son rimasti
un Poeta, un Sapiente e un Ubriaco...
Ora, non sarà mai ripetuto abbastanza che le idee,
cioè le teorie intorno al mondo e a Dio, alla vita spiri-
tuale e morale, si possono cercare e dimostrare ed espor-
re unicamente in termini e con metodo filosofico e criti-
co, e che, col mezzo della rappresentazione artistica, è
vano lo sforzo di afferrarle, dominarle e farle entrare in
dibattito tra loro per gli ulteriori svolgimenti e le con-
clusioni. Con quel mezzo e con quello sforzo, si riesce
soltanto all'ibridismo tra arte e scienza: come, infatti,
accadde al Butti, senza che potessero giovargli la sua
passione per le idee, né le sue doti di narratore e di
drammaturgo. I personaggi dei suoi drammi e romanzi
sono, in generale, costruiti secondo i concetti che egli
assumeva di volta in volta di significare; e poiché non
balzano spontanei dal pieno del sentimento, non prendo-
no la nostra fantasia e non commuovono profondamente
l'anima.
Si può chiedere qualche eccezione a questo giudizio
generale per alcuno dei drammi dei quali abbiamo parla-
to, come Il gigante e i pigmei, che, quando fu portato
sulle scene, suscitò scandalo per il troppo evidente uso
che il Butti aveva fatto, nel modellare il suo protagoni-
sta, della persona di Giosuè Carducci; onde, tra i dibatti-
ti che ne seguirono sul lecito e il vietato di siffatte mo-
dellazioni o allusioni, non si badò ad alcune parti vive,
che pur sono in quell'opera: all'affetto che vi circolava
248
dentro per il grande e il puro e all'unitavi ripulsione per
le bassezze, le menzogne e le sudicerie, e a taluni carat-
teri bene individuati e a qualche scena efficace. La figu-
ra di Olga, per esempio, la moglie poco pudica
dell'uomo insigne che l'ama e che essa regolarmente tra-
disce, è vista nella sua umanità. Quando quella ode i
motti beffardi e gli sghignazzamenti intorno all'uomo
che inganna, si ribella e, sollevandosi sopra gli altri e
sopra sé stessa, grida con impeto:
Ah, sí, schernitelo pure! Ridete alle sue spalle finché vi
piace! Voi non sapete fare altro. Ciò non toglie che egli sia il
solo che non menta. Ed è un gigante, e noi, siamo tutti pig-
mei. Pigmei che piangono come quella ragazza, pigmei che
ridono come voi!...
LUCIO. ‒ Perdonatemi: un'ultima domanda. Ma se voi ave-
te un simile concetto di vostro marito, perché dunque lo tra-
dite?
OLGA (alzando le spalle). ‒ Decisamente, voi non capite
nulla di nulla!
Ma, insomma, nonostante qualche tratto, come que-
sto, indovinato, l'opera drammatica e narrativa del Butti
si presenterebbe come il fallimento di una vita artistica,
se una volta egli non avesse tenuto il metodo contrario a
quello da lui generalmente seguito, se l'ispirazione poe-
tica non l'avesse una volta visitato ed egli non le si fosse
docilmente abbandonato; e fu quando, nel 1904, scrisse
il dramma Fiamme nell'ombra.
Ricordo di avere allora ascoltato questo dramma al
teatro e averne ricevuto l'impressione che è delle cose
249
serie e commosse, semplici e vere, e perciò armoniche;
e poi lo lessi in istampa e quell'impressione mi si rinno-
vò e confermò. Siamo nella casa di un prete in una città
di provincia. Quel prete è un uomo che, da giovane, si
era avviato alla vita pratica ed attiva e aveva amato; e
poi, datosi a Dio e alla sua chiesa, fervido e pio, serba
gli spiriti di un tempo, e le ambizioni e la tempra pugna-
ce. «Ah, Don Giacomo (scatta in un certo punto parlan-
do a un suo collega ed amico e direttore spirituale), suv-
via, guardiamoci bene in faccia una volta tanto!... Io non
mi son fatto prete per lasciarmi mettere sotto i piedi dal
mio padrone! Questa veste la porto come una divisa di
soldato, non come una livrea da servo!». Egli chiude nel
suo petto un'acerba ferita: la sorella, di lui assai piú gio-
vane, alla quale ha fatto da padre, la sorella amatissima,
è fuggita con un tale, si è data a vita vituperosa, e, dopo
alcuni anni, gli ritorna affranta, stanca, distrutta, invo-
cante ricovero e pace. Ma, trascorso un primo tempo
come di convalescenza, nel sangue della giovane donna
si riaccende il bisogno di vita e di amore, e tutto il pas-
sato di dolci parole, di baci, di carezze e di follie ribolle,
ed essa lega celatamente una relazione con un giovane
che è quasi un figlio spirituale del fratello, una relazione
che non può portare altro che male e rovina. Come il
fratello non è un sacerdote tutto rinunzia e umiltà, cosí,
nel verso opposto, quella sciagurata creatura non è né
malvagia né vile, ma schiava della carne e dei sensi, tra-
scinata dal loro impeto, sedotta dai loro inganni, degna
di riprovazione, degna di compassione. E, quando al sa-
250
cerdote, nella delusione che la sorte gli ha inflitta chiu-
dendogli l'ascesa nella gerarchia ecclesiastica e metten-
do sopra di lui il suo personale nemico, sopraggiunge
inaspettata quella nuova onta familiare, egli sente, con
la mortificazione di sé stesso, la profonda pietà e l'affet-
to per la misera sorella. Questa gli confessa tutto il suo
passato, aprendogli la sua anima; nelle sue disperate pa-
role fa viva e presente a lui, che è lontano da queste lot-
te, in una sfera tutta spirituale e religiosa, la terribile po-
tenza del senso e della passione che l'ha signoreggiata, e
la volontà che aveva formata di resistere e l'impossibili-
tà della resistenza, e con ciò la forza divino-demoniaca
della natura. Ed ecco che egli non punisce e non rimpro-
vera, ma prende una risoluzione per sé e per lei, entram-
bi diversamente ma parimente peccatori per non essersi
distaccati da sé stessi, dalle proprie passioni. Chiederà
di andare parroco in un villaggio di alta montagna per
apprendere colà, insieme con la sorella, quel che fino al-
lora non aveva saputo adempiere, a rinunziare intera-
mente a sé stesso, che è l'unica redenzione e l'unica veri-
tà. Unica veramente, che torna ammonitrice e salvatrice
nelle angosce che sembrano piú immeritate: liberarsi an-
che dagli affetti e dalle ambizioni che accompagnano la
stessa opera del bene o nascono sulla sua via e in cui ci
si compiace, purificarsi di quanto nel culto dell'ideale si
frammischia o persiste di amore terreno, dolce e allet-
tante che sia o nobile che paia. Il dramma Fiamme
nell'ombra, che ha quest'alta ispirazione morale ma fre-
me di passione e di dolore, mostra la sua sincerità e la
251
sua forza nella sicurezza e nella rapidità dell'andamento
e nei personaggi, nei maggiori come nei minori, tutti al
loro posto, tutti individuati e vivi.
Per questo dramma la memoria del Butti non rimane
soltanto quella dell'uomo stimabile per la sua non mai
interrotta ricerca del vero e del bene, per il concetto se-
vero che ebbe dell'ufficio dell'artista, e per le prove che
in arte aveva fatte, se non felici, certo non mai comuni e
volgari; ma è legato anche al nostro cuore e alla nostra
fantasia, a cui seppe dire una parola che non si dimenti-
ca.
Non turbato né travagliato da escogitazioni e dibattiti
d'«idee», ingegno artistico piú felice e piú omogeneo, ci
si presenta nei suoi pochi drammi in dialetto veneziano
Renato Simoni220, il quale trova la principale ispirazione
nella nostalgia e tristezza di quanto irremissibilmente
muore nell'anima nostra col trapassare della giovinezza,
con la chiaroveggenza che mal nostro grado acquistia-
mo.
Una giovane donna, che un giovane ha sposato senza
il consenso dei proprî genitori, rimane vedova (La vedo-
va), quando non è ancora avvenuta conciliazione con
quelli. Tuttavia, per la memoria del figlio perduto, per
soddisfare l'ultimo suo desiderio, i suoceri la chiamano
alla loro casa, pur serbando un chiuso sentimento di dif-
fidenza e di ostilità verso chi è stata cagione che il figlio
220
La vedova, commedia in tre atti (1900: Milano, Acc. editr. teatrale, 1906);
Carlo Gozzi, commedia in quattro atti (1903: Milano, Treves, 1906); Tra-
monto, commedia in tre atti (1906: pubblicata in Commedia, a. III, 1921);
Congedo, commedia in tre atti (1910: Milano, Vitagliano, 1921).
252
si distaccasse da loro e infine morisse lontano. Irremovi-
bile e inesorabile rimane questo sentimento di avversio-
ne nella madre, per la quale colei non è semplicemente
la rivale di cui sempre in qualche modo un cuore di ma-
dre soffre, ma la donna che il figlio le ha preferito e tra
le cui braccia è morto. Il padre, per contrario, è presto
vinto dalla grazia, dalla vivacità e dalla bellezza della
giovane, e la prende in protezione e l'accontenta nei suoi
gusti; e intorno a lei nella vuota casa rifiorisce la vita,
vengono vecchi e giovani amici, e si conversa gaiamen-
te. E tutti sono, inconsapevolmente, innamorati di lei; e
anche il padre, che non vuol rendersi conto di quel che
accade nel suo cuore, sente dall'averla accanto una dol-
cezza che non nasce già dall'affetto per una persona che
fu legata al figlio perduto, né dal semplice compiaci-
mento e interessamento dell'anziano per la gioventú che
gli si affida e confida, ma dal non estinto bisogno di
amare, che, mascherandosi di quegli altri sentimenti, si
nasconde a lui stesso. La giovane è ripresa dalla vita e
accetta un nuovo amore, un nuovo sposo; e quegli uomi-
ni che la guardavano amandola, che la carezzavano nei
loro sogni, soffrono come per una delusione, e piú di
tutti soffre il padre, che è costretto ora a guardare nel
fondo del suo cuore, come non aveva fatto o aveva schi-
vato di fare fin allora. Solo la madre ha gioia dal distac-
co e dal nuovo matrimonio, che rifà l'intrusa estranea a
lei e al figlio morto, il quale ora ritorna tutto suo, tutto al
suo ricordo e al suo dolore.
Anche il Carlo Gozzi suscita impressioni affini. De-
253
cade la nobile famiglia dei conti Gozzi; Carlo, il poeta, è
già nell'età matura, quando si prende d'amore per
un'attrice che lo tradisce e infine l'abbandona; egli in-
vecchia ancora, e con lui la società a cui apparteneva, e
Venezia, che agonizza sotto la stretta della democrazia
venuta di Francia. Con tante morti nel ricordo, con tante
rovine che lo attorniano, nella solitudine della vecchiaia
che nessun affetto consola, egli ha sempre nel cuore la
sua ultima passione, quella donna che è andata via, che
è morta da molti anni, che fu sua e sua rimane nel deser-
to desiderio; e, allorché un giorno d'improvviso gli ri-
compare davanti il vecchio capocomico dei suoi dram-
mi, l'Arlecchino diventato anch'esso una squallida om-
bra triste, di lei parla, di lei gelosamente domanda, la
sua immagine ancora lo affascina, ancora lo punge e lo
tortura.
Tramonto volge verso il tragico. L'uomo orgoglioso e
imperioso, che non ha amato se non la sua volontà e il
suo potere di dominio, e che per lunghi anni si è creduto
e ancora si sente forte e sicuro, a un tratto, per una paro-
la che gli si lancia da un misero a cui nega col soccorso
la debita pietà, apprende che egli è stato in passato tradi-
to dalla moglie che non aveva saputo amare, e che lui,
l'orgoglioso, è stato oggetto degli altrui commenti, e for-
se di sorrisi e di beffe, o, peggio ancora, segno di com-
passione; ed ecco smarrisce la sua sicurezza, piomba giú
dal suo orgoglio e rotola senza trovare un sostegno a cui
afferrarsi, un sostegno che non potrebbe essere se non
qualcosa che si ama per sé e non per noi, che ci trae fuo-
254
ri e sopra di noi, e che solo cosí, innalzandoci, ci porge
consolazione e c'infonde forza; ‒ precipita fino alla mor-
te, perché l'orgoglio gl'impedisce bensí gli accomoda-
menti della fiacchezza e della viltà, ma non gli dà quel
superiore, quell'unico sostegno. La vecchia sua madre,
ottantenne, che è fatta come lui, piú di lui orgogliosa, re-
siste piú saldamente, lottando e irrigidendosi contro la
vecchiezza, percorsa talora da un brivido solamente
all'idea della morte alla quale pur le sarà forza cedere, e
sottomettersi come ogni altro essere umano.
Congedo (all'opposto di Tramonto) mette dinanzi agli
occhi una famiglia in disordine, di gente non cattiva ma
leggera di cervello, e in essa una madre che si sa grave-
mente inferma e condannata a prossima morte e che cela
a tutti il suo stato, e si ambascia nel pensiero di andar
via lasciando il marito e i figli in quello scompiglio e in
quei pericoli; e nondimeno col suo sacrificio, con la for-
za del suo affetto, col morire del suo affanno, salva il fi-
glio che sta per andare in perdizione per un matrimonio
indegno e dà nuova vita ai suoi cari. Non è essa una
donna di grande capacità e di energico volere, ma la po-
tenza di amore, che è in lei, opera la redenzione.
Il Simoni è stato considerato prosecutore del dramma
del molto amato e lodato Giacinto Gallina; ma, in verità,
se egli non ebbe la larga e facile vena del Gallina, gli sta
sopra nelle cose sostanziali, esente com'è del sentimen-
talismo e delle enjolivures a cui l'altro troppo facilmente
si lasciava andare, di stile piú sobrio e insieme piú fine e
piú ricco di sfumature, sempre vigilato dal buon gusto.
255
Riprova del suo buon gusto è lo stesso limite che ha sa-
puto porre all'opera sua, scrivendo solo questi quattro
drammi di spontanea ispirazione, in un primo periodo
della sua vita, e non impegnandosi a diventare autore
teatrale di mestiere e professione.

256
LV. L'ULTIMO FOGAZZARO

Alcune parole della «Licenza» che concluse la prima


serie di questi saggi, nelle quali dicevo che il saggio sul
Fogazzaro era «un po' troppo secco e duro» e che risen-
tiva della mia vivace reazione all'opinione, allora cor-
rente, circa l'elevata ispirazione morale e religiosa dei
suoi romanzi221, sono state interpretate nel senso che io
intendessi rifiutare o modificare quel giudizio; laddove
mi riferivo, come era chiaro, unicamente al tono o
all'accentuazione del tono, e non punto alla sostanza cri-
tica. Gli altri miei saggi, infatti, pur di sentenza severa,
si sviluppavano in modo meno sbrigativo e impaziente.
D'altra parte, c'era forse veramente in quelle mie parole
una venatura di rimorso, ma d'altra origine. Quando
scrissi intorno al Fogazzaro, non lo conoscevo né di per-
sona né di corrispondenza, e perciò lo trattai come mera
materia subiecta, abbandonandomi tutto al furor criti-
cus: senonché, qualche anno dopo, ecco che sono invita-
to a far da testimone a un matrimonio, e me lo trovo
compagno, lui per la sposa, io per lo sposo. Presentazio-
ne; forme perfette di cortesia dall'una parte e dall'altra;
ma, durante quella cerimonia, nel mio petto non si ac-
chetava una voce molesta che mi ricordava che io aveva
crudelmente paragonato il brav'uomo che ora mi vedevo
a fianco e sogguardavo, quel brav'uomo dalla testa gri-
gia, a san Roberto d'Arbrisselle, di volterriana canzona-

221
Letteratura della nuova Italia, IV, 242.
257
tura!222 Poi lo ebbi collega nel consiglio direttivo della
Dante Alighieri, e tra noi corsero amorosi sensi nelle
proteste che in comune facevamo contro la massoneria,
che dava allora qualche fastidio, e ciò forse lo mosse a
mandarmi in dono il suo ultimo romanzo, Leila, che ser-
bo come caro ricordo, con la dedica: «Al libero giudizio
di B. C, rispettosamente A. F.». Potevo, dunque, non
provare, ripensando a lui, un certo rimorso? Me ne ap-
pello a tutti gli animi gentili d'Italia, che (come conosco
per prova) sono ora tanti e tanti.
Altri libri scrisse il Fogazzaro dopo il mio saggio del
1903; ma, in verità, io lo avevo considerato nel punto
nel quale egli, dato il meglio di sé stesso nel Piccolo
mondo antico, conseguita in questo una felice armonia
dei suoi sentimenti, già si squilibrava da capo e si scom-
poneva nel Piccolo mondo moderno. I libri che seguiro-
no continuarono questo processo di scomposizione.
Come personaggio rappresentativo nella cerchia cat-
tolica, come attore nelle controversie religiose di allora,
il Fogazzaro ebbe in quegli ultimi anni, non dirò la sua
grande epoca, ma certo i piú bruschi scotimenti della
sua vita, per la sua partecipazione all'opera iniziata dal
Loisy e ai tentativi del «modernismo», col distacco poi
da quello e da questo, la pubblicazione del molto atteso
romanzo di contenuto religioso ed ecclesiastico Il Santo,
la messa all'Indice che ne seguí, la sua sottomissione, le
polemiche pro e contro i suoi atteggiamenti, biasimati
alla pari da cattolici intransigenti, da modernisti e da ra-
222
V. op. cit., IV, 124.
258
zionalisti223. Tutte cose che appartengono piuttosto
all'aneddotica che non alla storia, nemmeno alla partico-
lare storia del cattolicismo, nella quale egli, a cagione
della perplessità del suo pensiero e della sua azione, non
poteva imprimere un segno vigoroso. Perché che cosa
sia la Chiesa cattolica è ben noto: una potenza politica,
fondata sopra un gruppo di credenze di carattere mitolo-
gico, in parte di assai primitiva mitologia, e che, come
istituzione e potenza politica e annodamento di molte-
plici interessi, tende a persistere nell'esser suo e a con-
servarsi. Chiunque pretenda di conservarla bensí, ma in-
sieme di dissolvere o di rielaborare quelle credenze in-
troducendovi la ragione e lo spirito critico, e di cangiare
in conformità la pratica stessa della Chiesa, toglie su di
sé un'impresa disperatamente contradittoria. Mezzi ter-
mini non sono escogitabili tra credenze che aborrono
dall'esame critico, e che solo a questo modo sorreggono
un'istituzione, e il pensiero che tutto sottopone al suo
esame e non ammette presupposti, ed è portato di conse-
guenza a corrodere e distruggere quelle credenze e a far
cadere quel sostegno. Il Fogazzaro, a piú riprese, mani-
festò forte sdegno per la duplice opposta avversione che
gli si moveva da quelle che egli chiamava la «plebe ros-
sa» e la «plebe nera»; ma il rosso e il nero erano in que-
sto caso nient'altro che il doppio corno del logico dilem-
223
Su tutto questo ampiamente informa il libro del GALLARATI SCOTTI, La vita di
A. F., Milano, Baldini e Castoldi, 1920, del quale è uscita una seconda edi-
zione. Si veda anche P. NARDI, Fogazzaro su documenti inediti (Vicenza,
Iacchia, 1929), che pensa che «sarebbe oggi il momento per un ritorno al
Fogazzaro» (p. 282): il che, a dir vero, non sembra.
259
ma contro il quale urtava senza poterlo né abbattere né
conciliare. Le sue conciliazioni svaporavano in parole,
come dove poneva il suo «ideale di governo della Chie-
sa» nell'unione di «principato e giusta libertà»224: simile,
del resto, alle altre conclusioni che enunciava in politi-
ca, professandosi «liberale cavouriano, ma pienamente
indipendente dai dogmi e dalle idee del liberalismo», e
altrettali. Talvolta, si riducevano a false analogie, come
quando, per giustificare il sacrificio dei proprî convinci-
menti e la sottomissione al decreto della Congregazione
dell'Indice, diceva che «l'obbedienza non è vile per il
credente come non è per il soldato»: quasi che la voce
della coscienza morale, che comanda l'obbedienza mili-
tare, non sia quella medesima che comanda l'obbedienza
alla verità splendente nel nostro spirito, e rinnegarla per
una autorità esterna non corrisponda esattamente a un
tradimento o a una diserzione. Tal'altra, egli si contenta-
va di fiori retorici, come dove, a rintuzzare chi si dispo-
ne a uscire dalla Chiesa perché offeso da «dottrine anti-
quate», da «decreti di congregazioni», da «indirizzi di
governo pontificale», lo paragona a chi «parla di rinne-
gare sua madre perché non veste come a lui aggrada» 225;
quasi che dottrine, condanne ecclesiastiche, governo
pontificale siano fatti estrinseci e accidentali, e non la
realtà stessa, attuale e logica, della Chiesa di Roma.
Certo, gravi turbamenti e dolori egli ebbe a provare da
parte di questa, della quale lealmente voleva mantenersi
224
Il Santo, p. 311.
225
Il Santo, p. 293.
260
figlio devoto; ma quando lui stesso e gli amici suoi scor-
gevano, e ammiravano commossi, in tal contrasto, il suo
«dramma» o la sua «tragedia», bisogna avvertire che
non ogni sofferenza, ancorché straziante, ha motivo
drammatico o tragico, e che, nell'uso proprio dei termi-
ni, non si possono rialzare con siffatti colori estetici la
contradizione e l'irresolutezza mentale, penose e affan-
nose che siano.
Posto ciò, che cosa poteva essere il suo romanzo Il
Santo226, che è stato definito un «libro d'idee», un «libro
di battaglia»? Nessuna delle due forme possibili di ro-
manzi d'idee, che sono il «romanzo storico», nel quale si
ritrae idealizzandolo e avvolgendolo di simpatia un
moto effettivamente cioè storicamente accaduto, e, nel
caso che qui si considera, un moto religioso (poniamo,
quello degli ussiti o dei puritani); e il «romanzo polemi-
co», e magari «utopico», che, sotto forma narrativa, pro-
pone e propugna nuovi concetti religiosi e nuovo costu-
me. Non la prima, perché la gesta che egli assumeva di
narrare di un santo e della sua preparazione, e della sua
predicazione e della sua pratica azione, voleva essere
una gesta costruita con l'immaginazione; e non è dato di
concretamente costruire con l'immaginazione quello che
dev'essere una creazione della storia (pensate! una nuo-
va religione, una nuova filosofia, una nuova formazione
sociale e politica!), una realtà che si può narrare, e an-
che adornare e trasfigurare, solo quando è venuta al
mondo. E questa è la ragione onde tutti i romanzi e i
226
Milano, Baldini e Castoldi, 1906.
261
drammi di consimili assunti riescono formalistici e ridi-
coli, come di personaggi che, con grave contegno, gesti-
colino nel vuoto. Non la seconda, per l'altra ragione già
detta, che per propugnare certi concetti religiosi e filo-
sofici e certi istituti, bisogna stringerli in pugno, e il pu-
gno del Fogazzaro, pur con molti e spasmodici sforzi,
non chiudeva nulla. E che cosa è allora Il Santo?
Nient'altro che un documento dell'anima del Fogazzaro,
un libro nel quale, inconsapevolmente o involontaria-
mente, egli si lascia vedere tutto com'era in quel mo-
mento della sua vita, e forse come sostanzialmente era
stato sempre.
Si lascia vedere, in primo luogo, nelle sue velleità di
consigliere di riforme alla Chiesa, di ammorbidimenti e
ammodernamenti da introdurre nelle credenze, di ibride
escogitazioni dottrinali e pratiche; nel suo vagheggiare
l'avvento di un santo che fosse un uomo semplice, un
uomo umile, e avesse da Dio la missione di risanare con
la semplicità e l'umiltà il cattolicismo; nella conseguente
insoddisfazione e riprovazione verso il sacerdozio assai
politico e scarsamente cristiano; e cosí via. Ma niente di
piú misero di quel suo eroe o santo che sia, di quel Pie-
tro Maironi, soprannominato Benedetto, che è un pove-
ro diavolo tra il maniaco e lo sciocco presuntuoso, e non
si sa per quali titoli pretenda occupare di sé il mondo e
agitare e guidare le anime in cerca di Dio. Niente di piú
inconsistente del suo insegnamento e del suo esempio;
sicché si legge con meraviglia che i giovani che circon-
dano il suo letto di morente sono stati dalla Provvidenza
262
«eletti a continuatori dell'opera del maestro»: dell'opera
che il maestro non ha né iniziata né concepita. Quando
si arriva al momento culminante, alla scena in cui il
Santo sta di fronte al papa, solo con solo, in colloquio a
mente spiegata e a cuore aperto, ‒ un momento che il
Fogazzaro dovè probabilmente piú volte carezzare come
quello risolutivo della sua azione stessa, ‒ dalla bocca
del Santo escono soltanto trivialità inconcludenti o ri-
chieste assurde. E il papa gli risponde: «Figlio mio, al-
cune di queste cose il Signore le ha dette da gran tempo
anche nel cuor mio. Tu, Dio ti benedica, te la intendi col
Signore solo; io devo intendermela anche cogli uomini
che il Signore ha posto intorno a me perché io li governi
con carità e prudenza...». Cioè risponde a un dipresso
come il re dei sonetti del Pascarella:
Per esse' re so' re...
ma mica posso fa' quer che me pare:...
essendo egli a capo di un'azienda non può certamente
far buon mercato degli interessi dei suoi accomandanti.
‒ Quando il Santo comincia a turbare l'ordine pubblico
nell'Italia di quel tempo, nella cortese Italia umbertina,
gli accade quel che non poteva mancare. Una persona
gli si accosta per via, fermandolo:
— Mi rincresce di incomodarla. Le sarei grato se si com-
piacesse di venire con me. Le dirò poi dove.
Benedetto rispose:
— Favorisca dirmi il suo nome e perché dovrei venire con
lei.
L'altro parve imbarazzato:
263
— Ecco, disse, sono un delegato di P. S.
Come, del resto, Olindo Guerrini aveva presagito in un
suo articolo sul caso del Lazzaretti, fantasticando su
quel che sarebbe accaduto al Figlio di Dio se si fosse
voluto incarnare in mezzo alla nuova società: «accorre-
rebbe la benemerita arma, domanderebbe le carte al Fi-
glio di Dio, e, convintolo di vagabondaggio, lo mande-
rebbe al pretore per l'ammonizione. Ad una ricaduta,
Caifa invierebbe il Messia alla Favignana e il Testamen-
to novissimo correrebbe il pericolo di non essere piú
scritto». Il Fogazzaro senza rendersene conto ‒ e ciò di-
mostra la fiacchezza confusionaria della sua logica ‒
enuncia proposizioni che, ammesse, toglierebbero la
possibilità, non solo del cattolicesimo, ma di qualsiasi
religione rivelata; giacché egli pensa che «un uomo può
negare Dio senza essere veramente ateo, e senza merita-
re la morte eterna, quando nega quel Dio che gli è pro-
posto in una forma ripugnante al suo intelletto, ma poi
ama la Verità, ama il Bene, ama gli uomini, pratica que-
sti amori»227. Che, in effetto, nessun uomo, nessun filo-
sofo, nega Dio, ma nega soltanto questa o quella forma
inadeguata, mitologica e contradittoria in cui l'idea di
Dio venga presentata. Soggiunge il suo Santo che egli
affermava ciò soltanto «parlando a un prete, e non
avrebbe voluto che fosse ascoltato da laici»; e anche
questo è un tratto che incautamente gli sfugge, rivelato-
re della psicologia ecclesiastica di scetticismo esoterico
e di essoterica osservanza; insomma, del carattere piut-
227
Il Santo, pp. 234-35.
264
tosto politico che religioso del cattolicesimo ortodosso.
Ma, accanto e in gara col Fogazzaro, apostolo di ri-
forma religiosa, si lascia vedere nel Santo l'altro Fogaz-
zaro, quello fortemente erotico, sempre visitato e affa-
scinato da un fantasma di donna che, nella brama dei
sensi, egli immagina misteriosa, sfuggente, riluttante,
indomabile, profonda d'intelligenza, miscredente e per-
tanto peccaminosa, calda e fredda insieme, sensuale ed
ergente nel mezzo della sensualità una barriera che
aguzza di piú acre voluttà quel che la barriera vieta, e,
affinché possa esercitare con tutti i mezzi occorrenti
l'ufficio assegnatole, bella, ricca, oziosa, elegante, prov-
vista di preziose pellicce, di piumati cappelli, sapiente
nello scegliere i piú conturbanti profumi. Ora l'attrazio-
ne sessuale, in qualsiasi modo nel suo dilatarsi e compli-
carsi fantasticamente si manifesti, è un fatto che sta in
rerum natura; sta come il vento e la pioggia, il corso dei
fiumi, gli straripamenti e i terremoti; e a quel modo che
l'uomo economico procura di piegare a suo uso queste
forze e di garantirsi il piú possibile dai loro danni, pari-
mente l'uomo morale non si propone l'impossibile og-
getto di sradicare l'attrazione né la immaginativa sessua-
le, ma, a volta a volta, si vale di esse e si difende dalle
loro rapine e rovine. Il che gli è dato compiere solo a
patto che non smarrisca il sentimento e il discernimento
della diversità e del contrasto tra erotismo e vita morale,
e non contamini questa con quello, contaminazione ve-
ramente incestuosa, e anzi la definizione stessa di ciò
che comunemente si chiama incesto, il quale non in al-
265
tro consiste che nel mescolare i rapporti di natura etica
della famiglia coi rapporti erotici e guardare con impuri-
tà le cose pure. Ogni spirito moralmente delicato sente
ripugnanza a questi miscugli, tutte le volte che un rap-
porto etico si è stabilito, di fiducia, di protezione, di
amicizia, di reciproco rispetto, di comune lavoro per una
fede comune. Ma il Fogazzaro, che era un perfetto gen-
tiluomo nella vita pratica, fu sempre, nell'immaginazio-
ne, un incestuoso; e, quel che è da notare, anche di ciò
non si rese mai conto, e sempre si dié a credere di avere
a quel modo superato e spiritualizzato la voluttà, di aver
coltivato il piú alto e squisito ideale dell'umanità: effet-
to, forse, anche questo della concezione della natura
come peccato, con la conseguente attrazione invincibile
per il peccato e perciò con la tendenza a transigere acco-
gliendolo in forme combinate o miste. Il Fogazzaro non
sapeva pensare altrimenti neppure il paradiso: nel para-
diso da lui sospirato e ideato, anche il corpo, in qualche
modo reso piú vibrante, doveva essere in grado di ama-
re, fatto «immensamente piú fine, delicato e sensibile
del nostro», e piú atto al godere228. Nel Santo c'è l'osses-
sione di quel fantasma muliebre, che continua a portare
il nome che ebbe nel Piccolo mondo moderno, di Jeanne
Dessalle, ma prima s'era chiamato Marina di Malombra,
Elena o in altri modi. Il Santo la rivede nella notte che
passa nel sacro speco:
Si voltò con un faticoso sforzo a sedere, abbandonò le
mani sui ciuffi dell'erba soffice, fra sasso e sasso, odorante:
228
Si veda nel libro del GALLARATI SCOTTI, p. 181.
266
chiuse gli occhi nella dolcezza di quel tocco morbido,
dell'odor selvaggio, del riposo; e vide Jeanne, pallida sotto
l'ala obliqua di un cappello nero, piumato, che gli sorrideva
con gli occhi umidi di lacrime. Il cuore gli batté, forte, forte.
Un filo, un filo solo di volontà buona lo tratteneva sulla chi-
na dell'abbandono all'invito di quel volto. Spalancò gli oc-
chi, mise, a braccia distese, a mani aperte, un lungo gemito...
La risente attraverso le sensazioni dell'olfatto, quando,
già malato a morte, ella gli manda la sua carrozza per
trasportarlo al luogo del ricovero:
Avvertí allora, per la prima volta, il sottilissimo profumo
del coupé, il solito profumo usato da Jeanne, e lo morse la
memoria viva del ritorno da Praglia con lei, del momento in
cui, lasciata lei al piede della salita di villa Diedo, si era al-
lontanato solo nella victoria profumata e tepida di lei: solo,
ebbro del suo segreto di amore. Atterrito dalla vivezza dei ri-
cordi, si strinse le braccia al petto, si sforzò di ritrarsi dai
sensi e dalla memoria nel centro di sé, ansava a bocca se-
miaperta, non riuscendo a spinger la immagine fuori della
sua visione interna. E altre gliene lampeggiavano nel cuore
senza vincere la sua volontà resistente, ma facendola freme-
re come una corda tesa...
Ed ella non cangia mai carattere e qualità di attrattiva; e
va indefessa a caccia e in traccia di quell'uomo; e cerca
di ripigliarlo per sé, e, spirito superiore secondo che vie-
ne atteggiata, si fa sorprendere a sperare e calcolare che
il nuovo santo, sensuale come ella lo ha sperimentato,
non durerà nell'aspra vita intrapresa, e quasi per armarsi
per tale evenienza, civetteggia con la propria bellezza e
con gli eleganti abbigliamenti; ma, quando si ritrova con
267
lui a faccia a faccia, si lascia esortare ad esercitare opere
di beneficenza e si contenta della promessa che un gior-
no egli la chiamerà a sé; e pur continua a tenerlo
d'occhio, seguendolo in tutto ciò che gli accade e procu-
rando di aiutarlo nei mali passi, e, in tanto amoroso
zelo, sempre la sua anima rimane impenetrabile alla
fede di lui, e se, al suo letto di morte, bacia il crocifisso
che egli ha baciato, non par che lo baci perché è il croci-
fisso, ma perché lui lo ha baciato. Il Santo non poteva
convertire l'ostinata miscredente, perché l'uno e l'altra
erano fatti della stessa stoffa, e nessuno dei due posse-
deva una vita di disinteressata idealità. La medesima os-
sessione erotica si ritrova attenuata in altre parti e perso-
ne del romanzo, come in quella giovane olandese che si
è data moglie al maturo apostolo di riforme religiose,
Giovanni Selva. Cosí tutto trasparente è, in questo ro-
manzo, il Fogazzaro nella sua realtà: di una trasparenza
che è un fatto e non un atto, e che perciò non si può lo-
dare come si è usato, di sincerità, che importerebbe un
conoscere e un giudicare sé stesso, e un mettersi disopra
di quella immediata realtà, la qual cosa in lui non acca-
de mai. Egli continua e termina la sua carriera di scritto-
re in una sorta d'inconsapevolezza del suo vero sé stes-
so. Per una ragione analoga non si può lodare il Santo
come opera d'arte: nessuna ispirazione artistica mosse
l'autore a tessere quella tela, a comporre quel libro: nes-
suno di quei suoi personaggi si formò in lui come crea-
tura poetica, superando nella visione umana le proprie
personali tendenze. Sono, invece, personaggi e scene, in
268
parte esemplate materialmente sulla realtà di quel mon-
do religioso ed ecclesiastico e popolare e provinciale e
cittadino, tanto che assai si spettegoleggiò, quando il li-
bro fu pubblicato, nel ricercare e richiamare nomi proprî
e circostanze di fatto; e, in parte, costruzioni al fine di
esporre gl'immaturi e discordanti concetti dell'autore.
C'è della cronaca, c'è in alcune parti del folklore, c'è del-
la polemica; ma non altro. Artisticamente, quei perso-
naggi ci rimangono indifferenti, come quella giovane
Noemi, che è protestante, e a forza di stropicciarsi ai
chiacchieranti di religione e di vedere il Santo, si fa cat-
tolica: conversione che sarà accaduta realmente, o che
sarà stato desiderato che accadesse, onde un'anima di
piú, quella particolarmente prediletta di una graziosa e
elegante signorina, fosse acquistata dalla Chiesa; ma
che, nel romanzo, manca di motivazione poetica e di sti-
le.
In Leila229, l'ultimo suo romanzo, nato anch'esso sen-
za vera ispirazione poetica e senza ragione artistica, si
ripresentano gli stessi ingredienti, riformismo religioso
ed erotismo, sebbene diversamente dosati; perché l'epo-
pea eroica o eroicomica del Santo vi sta come un passa-
to nel ricordo dei sopravvissuti, nella scena del trasporto
delle sue spoglie mortali al luogo del riposo, nella muta
figura di Jeanne Dessalle che appare in questa cerimo-
nia, e la polemica religiosa vi continua in tono minore,
nelle figure esemplari o poco esemplari o di diverse di-
sposizioni e tendenze di alcuni preti; ma i due noti per-
229
Leila, romanzo (Milano, Baldini e Castoldi, 1911).
269
sonaggi dell'anima del Fogazzaro, la donna quale
l'abbiamo descritta e l'uomo che la brama, dispiegano le
loro vicende sentimentali, come su largo teatro, in tutto
il prolisso romanzo, che si appesantisce di figure secon-
darie o superflue. L'uomo è Massimo, discepolo del san-
to, che, degno di tanto maestro, non si sa che cosa creda
e che cosa voglia, ma di cui si apprende che una volta
perde, non si sa come, la fede e piú tardi dice di averla,
non si sa come, riacquistata: faccende, anche queste, in-
differenti. E degno egli è del maestro nell'arte di amare,
in quel suo volgersi irrefrenabile a Leila, la nuova sfin-
ge: «Quale sguardo di fuoco! Con lo sguardo di fuoco,
Massimo ripensò anche la musica della notte. Cosa ave-
va nell'anima la misteriosa creatura? La rigidezza, la
noncuranza, le impertinenze tacite, le impertinenze
espresse, erano ostentazioni, a ben considerarle, incom-
prensibili». Intravvedeva in quell'anima «il fascino della
profondità». Tra le burrasche della passione Massimo
sognava a questo modo:
Chiusi gli occhi, immaginò due braccia morbide che gli
cingevano il collo, due labbra che s'imprimevano sulle sue,
due roventi labbra che gli si affondavano nell'anima, le lab-
bra di una giovinetta semplice, dallo spirito gentile, punto
sfinge, che egli stesso formerebbe al senso delle cose belle e
dell'alto Divino, all'amore squisito.
Anche provandosi per un momento a cangiare il tipo
femminile, il suo ideale di miscuglio erotico-religioso
raffiorava sempre.
Ma Leila, la misteriosa, la sublime, è, con tutte le sue
270
arie, una povera femminetta, che cerca l'altro sesso
come quello cerca lei, e spasima nell'attesa. Di sera, nel-
la campagna, quasi si lascia assorbire dalla vita della na-
tura:
Giacque nella dolcezza di desiderî indistinti, senza pensa-
re, come talvolta nel suo letto, piovendole sui capelli e sul
guanciale petali di fiori. Lo spirito voluttuoso che le ascen-
deva nella persona dalla terra tepida, fragrante, tacendole il
cielo chiuso sulla faccia supina, le ammolliva le resistenze
dell'orgoglio all'amore. Ella svelse un pugno d'erba, e lo
morse.
Quando legge, in una lettera di Massimo, le parole:
«Oggi la mia pericolosa inclinazione sarebbe di non cer-
care nell'amore consenso delle idee, di non cercarvi che
l'amore stesso; oggi mi piacerebbe che la donna amata
mi domandasse solamente amore; che per noi non esi-
stesse passato, non esistesse futuro, ma esistesse un pre-
sente infinito; che non esistessero idee né ragione, ma
solamente sentimento e senso in un palpito unico...», ‒ a
queste nobili parole, che le promettono la liberazione da
tutto il peso del dovere e dell'operosità umana, Leila
sente balzare l'impeto del suo essere e si riconosce:
Si fermò su di esse, tremante, ansante, fatta carne di quel-
le parole. E se le appressò, combattendo contro avverse onde
di orgoglio, alle labbra, che vi posò semiaperte.
E finisce col deporre quell'orgoglio e dissipare il miste-
rioso di cui altri l'aveva cinta, e corre a quell'uomo:
«No, no, nessuna viltà, ella andrebbe a lui come una
schiava, come una cosa sua, senza pensare all'indomani,
271
senza pensare ad altro che ad essere schiava e cosa da
gittare e da prendere». E, quando i due si sono intesi e
messi d'accordo: «‒ Leila, mia cara Leila, ‒ disse Massi-
mo sorridendo. La piccola fiera dagli occhi lampeggian-
ti si ammansò come per incanto». Il commento qui pote-
va essere dato dai versi dell'Aspasia, per l'appunto sul
«vivo sfolgorar di quegli sguardi» e sul molto poco che
c'è dietro quel folgorio.
A Leila, sfinge che di colpo si addomestica, non man-
ca per altro ‒ tanto era fisso il Fogazzaro nelle figure
che gli parlavano al senso e all'immaginazione, ‒ il ca-
rattere di tutte le altre eroine dello stesso autore: è mi-
scredente. «Non ho fede», dice all'uomo che l'ha con-
quistata. E costui, l'erede di Daniele Cortis, il discepolo
del Santo: «Cara, noi la cercheremo insieme, una
fede!».
Par quasi impossibile che il Fogazzaro chiudesse con
queste parole la sua opera di scrittore; con queste parole
che parlano ancora di una fede da cercare, e da cercare
dove proprio non si può trovare: nei vellicamenti e nelle
ebbrezze e negli spasimi del senso.

272
LVI. L'ULTIMO D'ANNUNZIO

L'ultimo D'Annunzio comincia nel 1904, da quando


cioè egli, col libro d'Alcione e con la Figlia di Jorio,
chiuse la serie delle opere a lor modo originali, e aprí la
sequela di quelle che ripetevano ed esageravano i vecchi
motivi, le vecchie forme e i vecchi procedimenti per ra-
gioni di mestiere letterario, tanto per fare, non potendo
piú lo scrittore fare altro.
Al decennio, che corse dipoi sino alla guerra, appar-
tengono le tragedie La fiaccola sotto il moggio (1905),
Piú che l'amore (1906), La nave (1908), La Fedra
(1909), La Parisina (1913), con la musica del Masca-
gni, e, in francese, Le martyre de Saínt-Sébastien
(1911), La Pisanella ou la Mort parfumée (1912), Le
chevrefeuil (1913), che è intitolato nella versione italia-
na Il ferro; il romanzo Forse che sí forse che no (1910),
e alcune parti della raccolta Leda senza cigno (1913);
delle cose in versi, Le canzoni d'oltremare (1911); e an-
cora di quelle in prosa, La vita di Cola di Rienzo col
Proemio (1905), e la Contemplazione della morte
(1912).
Non gioverebbe togliere in esame queste opere per di-
mostrarne il difetto e il vizio, giacché non solo la critica
dei contemporanei vi è passata sopra distruggitrice, ma
esse stesse forniscono la critica di sé stesse, tanto è pale-
se l'artificio con cui sono composte secondo ricette che
non vi è bisogno di formulare, essendo rappresentate
dalle opere medesime. Lussuria, incesto, sadismo, fero-
273
cia, crudeltà, delinquenza, e le velleità di rievocare
l'antica tragedia greca e i misteri medievali, tentano qui
invano di eccitare violente e torbide commozioni, e in-
vano la magnificenza dello stile vi si adopera intorno,
perché da questa magnificenza non vengono già raffor-
zate ma piuttosto rese languide, trattate non seriamente,
come cose non serie, ridotte a esercitazioni di letteratu-
ra. Le commozioni che dovrebbero essere eroiche sono,
secondo il consueto del D'Annunzio, scambiate con le
già dette, come si osserva nella Nave e nel Piú che
l'amore, e nelle stesse Canzoni d'oltremare; quelle che
vorrebbero essere di affetto e di bontà, sono soffocate
dalla sensualità che domina costante e tiranneggia
l'autore, e lo costringe a raffigurare non anime ma corpi,
e non corpi idealizzati ma carnalmente pesanti, e veduti
e sentiti con l'attrattiva, e insieme col disgusto e il ri-
brezzo, che la carne a volta a volta induce. Si discerno-
no qua e là talune di quelle che si chiamano le «pagine
belle» del D'Annunzio, ma quasi sempre anche queste
pagine non sono altro che ripetizioni di forme ormai lo-
gore, sulle quali piove una luce falsa dalla falsità com-
plessiva o centrale.
Tutto ciò era universalmente riconosciuto e, come
suol dirsi, pacifico, nel 1914, dopoché da quattro anni il
D'Annunzio, abbandonata l'Italia, aveva preso dimora in
Francia, e per la stessa sua sensualità, che gli faceva
sentire sensualmente le parole delle lingue e sensual-
mente impossessarsene e metterle in opera, scriveva le
sue tragedie e gli altri suoi cosiddetti drammi in france-
274
se e moderno ed arcaico230. Il Serra, nel quadro che di-
pinse allora, con altrettanta delicatezza e arguzia quanta
verità, dello stato della letteratura italiana 231, non dubita-
va di dichiararlo finito del tutto, persa ormai ogni perso-
nalità, diventato «una specie di tipo di lingua, di esteti-
smo, di eroismo stilizzato e meccanico, che serve a tut-
to», mostrato a nudo nel suo nudo artificio dalle ultime
opere, che avevano fatto cadere «quasi di colpo le illu-
sioni e i prestigi che lo circondavano come un'aureola».
E continuava particolareggiando:
Ha piantato tranquillamente la sua tenda in Babilonia, e
s'è messo a lavorare, pronto a tutti i comandi e a tutte le or-
dinazioni; scrive degli articoli letterari e delle canzoni nazio-
naliste, secondo l'occasione, per il Corriere della sera, dei li-
bretti per Mascagni e dei balletti per delle mime russe, dei
misteri e dei drammi, scrive per l'Italia e per la Francia, per
l'oratorio e per il teatro e per il cinematografo, senza diffe-
renza e oramai senza maschera; tutti i clichés sono scoperti e
i motivi esauriti, sfruttati fino all'ultima monotonia, nell'ope-
ra venale. È una liquidazione: un uomo che vuota i suoi cas-
setti.
E osserva anche:
Quello stile che mescola il classicismo misurato e sapori-
to dei nazionalisti francesi e il linguaggio enorme, il respiro
senza ritmo del Claudel, insieme coi vecchi stampi dattilici e
230
Intorno all'uso fatto dal D'Annunzio del francese arcaico è da tener presente
un saggio di G. CONTINI, Vita macaronica del francese dannunziano (in Let-
teratura di Firenze, I, 1937, pp. 12-19).
231
Le lettere (Roma, 1914; ristamp. con aggiunte in Opere, ivi, 1920), pp. 52-
57.

275
tragici; quei versetti di un'enfasi nuova e di una maniera an-
tica, rappresentano, meglio che lo sforzo, la indifferenza
meccanica dell'uomo a cui tutti i metalli e tutte le materie
sono buone per il suo conio; e raccoglie e liquida tutta la
roba che gli era avanzata, utilizza il misticismo snobistico e
il latino decadente nel San Sebastiano, i palagi e le pitture di
Ferrara nella Parisina, il levante dei Crociati e l'erudizione
marinara nella Pisanella, i rifiuti del Forse che sí forse che
no e d'altre cose nel Ferro, adopera tutto, senza riguardo del-
le origini e delle pretese ideali diverse, a vestire i soliti cli-
chés di lussuria germinata nel sangue, di estasi candida so-
spirante dalle libidini, di eroismo e d'incesto, in cui pare ter-
minato ogni suo artificio inventivo.
Ma nell'artista esaurito e che, incapace di poesia, pur
continuava a riempire sé stesso e a tentar di scuotere gli
altri con stimoli d'immagini energetiche, c'era, tra gli sti-
moli e le immagini di cui si valeva, un gruppo non di
qualità ma di materia distinto dagli altri: di materia
guerriera, e, in quanto guerriera, colorita in guisa pa-
triottico-nazionalistica, con molta avidità di avventure,
di stragi, di prede, di sangue, che egli godeva in fantasia
insieme con le altre immagini di cui si è detto. E in fan-
tasia, andato in Francia per ragioni sue private, gli era
piaciuto atteggiarsi «esule» dalla patria, quasi uno di
quei grandi esuli che in terre straniere prepararono la
nuova Italia; e colà pareva aspettare un'Italia degna di
lui, degna dell'autore della Nave, degna di colui che, tra
i primi, aveva inteso la virtú dell'aeronautica e aveva
somministrato alle sue macchine il battesimo italiano,
chiamandole «velivoli». E di colà, non appena comin-
276
ciata la guerra libica, prese a lanciare le sue canzoni au-
gurali e trionfali, volgendo le loro punte contro i Turchi
in primo piano, ma contro gli Austriaci nel piano ultimo
e di fondo. La guerra europea sopravvenne ad aprirgli le
bramate vie e campi d'azione; e a lui fu dato l'incarico di
pronunziare l'orazione La sagra dei Mille, che segnò
l'imminente entrata dell'Italia nella guerra, nella quale,
dopo essere stato agitatore per l'intervento, vestí la divi-
sa del soldato e partí pel fronte.
Cominciò cosí, nella sua vita, un periodo, che durò
sei anni, dal 1915 al 1921, in cui egli, che per un venti-
cinquennio era stato uno degli ingegni piú splendenti
dell'arte italiana e per altri dieci anni si era sopravvissu-
to in un'indefessa laboriosità di mestiere, entrò come at-
tore nella storia politica d'Italia, combattente, incitatore
di combattenti, ideatore ed esecutore di ardite imprese, e
poi, contro tutti i deliberati delle cancellerie dei due
mondi, occupatore di Fiume per l'Italia e ostinato a ri-
manervi, contro i trattati, contro lo stesso governo italia-
no, che dovè snidarlo di là adoperando la forza. Questa
parte della sua vita, a noi che trattiamo di letteratura e di
poesia, non spetta raccontare e giudicare. E solo per
quel che tocca l'arte della parola, non possiamo non far
cenno della sua oratoria di guerra per notarne l'efficacia,
che non veniva soltanto dall'esempio che personalmente
esso dava, non soltanto dal prestigio e dall'abilità
dell'esperto letterato e stilista, che, se era diventato infe-
riore alla poesia, era sempre grandemente superiore ad
altri nella pratica dell'eloquenza inebriante; ma anche da
277
intelligenza e sagacia e senso pratico dell'opportunità. Si
rammenti in qual modo parlava a una radunata di uffi-
ciali d'ogni arme dopo la rotta di Caporetto: «Quel che
sia accaduto non ci giova chiedere, non ci vale sapere.
Nelle prime ore alcuno desiderò perdere la conoscenza
di tutto piuttosto che condannarsi a conoscere la cosa
orrenda. Il buio della disperazione era preferibile a quel
buio sinistro. La disperata morte era preferibile al peso
di quell'abominio». E poi, rialzando gli animi alla spe-
ranza: «Se vi fu un'onta, sarà lavata. Se vi fu un'infamia,
sarà vendicata. Lo spirito già soffia sopra la massa infe-
lice, e la suscita». O in qual modo sapeva abbracciare i
cuori dei giovanetti diciassettenni, che, nel 1917, furono
chiamati a fronteggiare e a discacciare l'invasore: «Era-
vate ieri fanciulli. La madre vi ravviava i capelli, accen-
deva la lampada dei vostri studî, rimboccava il lenzuolo
dei vostri riposi. Vi ha chiamato la voce a cui non si può
disobbedire, e vi siete levati, e a un tratto avete sentito
nella gola un altro respiro: il respiro dell'altezza. Dove
eravate assunti? Ora comprendete, meglio che leggendo
le favole, che cosa sia trasfigurazione e che cosa sia ra-
pimento. È questa l'ora di comprendere, perché questa,
se mai ve ne fu un'altra, è l'ora dello spirito» 232. La stes-
sa vaghezza alquanto delusoria delle sue frasi elette di-
ventava, in quest'oratoria verso soldati e anime ingenue,
una forza. E sarebbe da annoverare tra la sua migliore
oratoria ‒ un'oratoria dell'actio e del gesto ‒ quel volo
232
Si vedano questi discorsi nel volumetto: La riscossa, discorsi pubblicati a
cura del Sottosegretario per la stampa (Milano, 1918).
278
dell'agosto 1918, eseguito da lui con una squadra di otto
apparecchi italiani su Vienna, non per atterrire con lan-
cio di bombe e sollevare a furore quella gente, ma per
gettare un messaggio d'italiana umanità, con «un saluto
a tre colori: i tre colori della libertà». Parve che, con
quel saluto, veramente la guerra toccasse il termine e la
vittoria; e una nuova èra fosse dall'Italia presegnata di
pace tra i popoli.
Ma né durante la guerra né poi lo scrittore risorse e si
rinnovellò nelle sue pagine, che persino quando ritrag-
gono imprese di guerra e di morti in battaglia, persino
quando commemorano amici perduti, non si liberano
dall'ossessione fisica e carnale e, con pungente e crudele
visione, danno forte risalto a tratti materiali e ripugnanti,
e nessun risalto alla vita interiore dei pensieri e degli af-
fetti. Da un affannoso fiorire di sensazioni e di immagi-
ni l'una sull'altra si generò il Notturno, che egli compose
al buio, sdraiato e bendato per curarsi di un'offesa agli
occhi, e per esternare il tumulto che gli faceva dentro la
visione di innumeri figure trapassanti rapide, «con un ri-
lievo di forme e con un'acredine di particolari che ne au-
mentava a dismisura l'intensità patetica». Autobiografi-
che sono altresí le piú delle pagine raccolte nelle Faville
del maglio (1924-28). Allorché volle innalzarsi alla liri-
ca, prese d'accatto (ma questo accatto non era in lui nuo-
vo e, d'altronde, lo aiutavano a ciò i modelli francesi) gli
schemi della preghiera a Dio e della lauda francescana,
riempiendoli della consueta abbondanza di ipotiposi che
hanno a materia tutti gli oggetti sui quali il suo sguardo
279
indugiava.
Non mi pare, dunque, che l'ultimo D'Annunzio, il
D'Annunzio degli ultimi trenta e piú anni, offra veri pro-
blemi al critico a cui non gusti sfondare usci aperti. E,
se un problema critico c'è ancora che aspetti di essere
considerato, riguarda, non questa sua particolare produ-
zione, ma, in genere, il valore e il significato della sua
opera migliore, di quella che, cominciata col Canto
novo (e già in qualche parte col Primo vere), si chiuse a
un dipresso col libro d'Alcione e con la Figlia di Jorio.
Nei primi anni del secolo, il problema piú urgente, e
in certo qual modo preliminare o pregiudiziale, che il
D'Annunzio presentava, consisteva nella necessità di
sbrogliare l'imbroglio, che s'era formato, un po' per
iscarso accorgimento e per superficialità dei lettori, ma
ancora piú per suggestione e industria dello stesso auto-
re, tra la parte genuina e la parte falsa dell'opera sua, tra
il D'Annunzio che veramente esprimeva sé stesso, e
quello immaginario e finto che, a volta a volta, usurpava
il carattere di poeta della pietà, della bontà, della purifi-
cazione, dell'alta tragicità, del superumanismo, dell'eroi-
smo, del messaggio di salute da apportare alle genti, e
via: un D'Annunzio immaginario che, ben piú dell'altro,
aveva credenti, esaltatori e imitatori. Questa operazione
chirurgica fu eseguita e riuscí felicemente, e gli effetti
benefici ne furono duraturi, perché non piú è accaduto,
presso i critici, che si ridesse valore o importanza al
D'Annunzio fittizio delle intenzioni e dei programmi, e,
quando egli continuò a peccare in questo verso, si sape-
280
va già da prima che cosa pensarne, e nessuno si lasciò
piú trarre in inganno. La via d'uscita, che il D'Annunzio
dei pratici assunti e programmi trovò nella realtà della
guerra, nella quale dié sfogo a quelle tendenze del suo
spirito, e anche le volse in parte a buon adoperamento,
ha agevolato la chiara circoscrizione del D'Annunzio ar-
tisticamente genuino.
La cerchia del D'Annunzio genuino fu segnata, nel
1903, da me che scrivo ora queste note, come quella,
ben difesa e insormontabile, di un «dilettante di sensa-
zioni»: definizione che si è cercato di modificare da al-
cuni dei critici posteriori, ma che io credo che si debba
mantenere ferma come la piú semplice e insieme la piú
vera. Quella caratteristica non fu inventata da me, ma
già qua e là era affiorata nelle osservazioni e discussioni
dei lettori e dei critici233; e io non feci se non trasceglier-
la di mezzo alle altre e preferirla e darle valore come
principio di spiegazione di quell'arte, e solo in questo
senso può dirsi mia. Uno dei piú serî e accorti studiosi
recenti, il Flora, al quale si deve una monografia critica
sul D'Annunzio234 e un'antologia, commentata che non si
poteva meglio, delle Laudi235, vorrebbe sostituirla con la
diversa caratteristica di un D'Annunzio in preda a rapace
lussuria, a «una lussuria costituzionale», alla quale sog-
giacerebbe in gran parte dell'opera sua, conformata da
233
Si vedano in proposito alcune giuste osservazioni del Flora, nel Leonardo
di Firenze, del luglio 1932.
234
Napoli, Ricciardi, 1926.
235
Il fiore delle Laudi, con introduzione e note di Francesco Flora (Milano,
Mondadori, 1934).
281
lui ad oratoria e perciò a strumento di concupiscenza,
laddove, in un'altra parte, le si farebbe superiore, rasse-
renandosi e intessendo un'aerea lirica musicale. Ma io
dubito di cotesta fondamentale ferocia dannunziana di
lussuria, perché in lui ritrovo sempre distacco e curiosi-
tà, ricerca di esperienze ed assaporamenti di esperienze,
e non mai la bufera che aggira e rapisce i lussuriosi
come nel dantesco girone, non il delirio, l'angoscia, la
fissazione e la follia, che è di questo stato d'animo, né le
correlative forme dell'esprimersi, e, insomma, nessun
segno in lui del maniaco erotico; e dubito anche di quel-
la vicenda di vinto e di vincitore nella lotta che nella sua
opera si combatterebbe tra il lussurioso e il lirico, e che
il deteriore D'Annunzio sia quello che procura oratorio
soddisfacimento alla sua lussuria, giacché conosco sol-
tanto un deteriore D'Annunzio, che vuole uscire da sé
stesso fingendo interessi spirituali che gli sono vietati, e
similmente un D'Annunzio rettorico, che segna
nient'altro che i momenti di stanchezza, la maniera e la
decadenza dell'artista. Il paradigma psicologico, deli-
neato dal Flora, mi pare che convenga meglio a un Gu-
stavo Flaubert, autore tutt'insieme della Tentation e di
Salammbô da una parte e di Madame Bovary e dell'Édu-
cation sentimentale dall'altra236, che non a Gabriele
d'Annunzio. Questi non esce mai dalla vita del senso,
ma anche vi sta a suo agio, e coltiva e amministra que-
sto suo possedimento e ne trae tutte le dolcezze che gli
236
Su questi due aspetti del Flaubert, v. il mio saggio in Poesia e non poesia
(settima ed., Bari, 1964), pp. 267-79.
282
chiede, perfino le dolcezze della crudeltà nella quale tra-
stullandosi par che trovi un gusto singolare. E che in sif-
fatta sorta d'ispirazione sia da riporre la migliore arte del
D'Annunzio, scartando tutto l'altro di maggiore ma vana
pretesa, fu un giusto risultato, e da serbare, della critica
di or sono trent'anni. La quale, forse, soprastimò alquan-
to quell'arte migliore: conseguenza naturale dello sforzo
di metterla in salvo e proteggerla verso l'altra con cui
andava confusa e da cui era talvolta soverchiata; o piut-
tosto non si soffermò abbastanza nell'ulteriore proble-
ma, che era di approfondirne il carattere e la genesi: il
che anche era naturale, perché ogni cosa a questo mon-
do si fa per gradi, e un nuovo problema non si prende a
considerare se non quando il precedente sia traboccato
di là dalla «soglia della coscienza».
Il nuovo problema critico intorno alla sua poesia è ora
questo. Al D'Annunzio, anche nella sua opera migliore,
un concorde giudizio nega l'«umanità», la quale nega-
zione non sembra che si possa a niun patto respingere,
perché tutta l'opera sua la conferma, e anzi buona parte
di quella che viene sceverata ed espunta come falsa, non
è se non un conato fallito per attingere l'umanità in for-
ma di dramma umano e di tragico terrore e pietà: falli-
mento che conferma la privazione e il limite che è
nell'esser suo. Nettissimo questo limite si dimostra in
certe pagine, nelle quali la qualità della materia trattata
par che faccia irresistibile appello alla partecipazione
del cuore, e tuttavia l'autore, che pur vede con istraordi-
naria lucidezza e rappresenta quelle scene in modo per-
283
fetto, rimane a guardare imperturbato, con la sola curio-
sità del senso acuito. Cosí, nel Trionfo della morte,
nell'episodio del fanciullo annegato e della madre che
accorre disperata, fuori di sé per lo strazio, ed innalza
accanto al morto una lamentela: «All'ombra dei maci-
gni, di contro al lenzuolo bianco sollevato dalla forma
rigida del cadavere, la madre continuava la sua monodia
nel ritmo fatto sacro da tanto antico e nuovo dolore di
sua gente. E pareva che il pianto non dovesse aver mai
fine». E se, nella Figlia di Jorio, leggiadra opericciuola,
da molti critici trattata con severità immeritata, sul cupo
fondo sensuale-lussurioso-sanguinario si disegnano la
bontà e la purezza e il sacrificio generoso ed espiatorio,
è da avvertire che tutti questi motivi vi sono fiabesca-
mente introdotti e stilizzati, e, pur evitandosi a questo
modo il falso che è degli altri simili tentativi del
D'Annunzio, non per ciò acquistano solidità, la quale, se
mai, resta tutta nel fondo che si è detto e che è cosí pre-
potente da finire con l'avvolgere l'opera intera e coro-
narla con la voluttuosa eutanasia della fiamma consu-
matrice. Forse quell'accento schietto, quell'abbandono al
sentire ingenuo si trova solo in talune poesie giovanili,
quando non si era ancora, tutt'insieme, perfezionato nel
suo virtuosismo e inaridito. Il Flora, che ottimamente
osserva come al D'Annunzio sia affatto ignoto il senso
del peccato, e, d'altra parte, come la sua arte manchi di
«cordialità», di «domestica intimità», e sia un'«arte sen-
za amicizia», non ha dubitato di tradurre la formula ne-
gativa dell'umanità di lui nel suo rovescio positivo, che
284
è «la presenza dell'animalità o bestialità». «Se la bestia
dovesse esprimersi, sarebbe dannunziana, e dannunzia-
no sarebbe l'albero se si esprimesse. L'umanità di
quest'arte si chiama natura, e trascrive in musica simbo-
lica gli aspetti, i colori, i sapori, gli odori, i suoni delle
cose che si plasmano in un uomo; non già i pensieri e gli
affetti che in un uomo si formano. E se l'uomo è Dio che
ha coscienza in noi, questa di D'Annunzio è la natura
che ha coscienza di sé: quasi diremmo è la fiera che ha
coscienza della natura»237. Del resto, sta innanzi agli oc-
chi il genere di cultura del D'Annunzio, al quale riman-
gono estranei tutti gli humaniora, storia, filosofia, reli-
gione e la stessa alta poesia.
Ma, se questa negazione in lui dell'umanità, se
quest'unica presenza dell'animalità e bestialità (intesa in
significato metaforico, il che diciamo per non mancare
di riguardo agli umanissimi cani e agli spiritualissimi
uccelli!), è da prendere a rigor di termini, ne consegue
ineluttabile la negazione nel D'Annunzio dell'intima
poesia; giacché che cosa è altro la poesia se non umani-
tà? Può la cosiddetta natura, può una fiera acquistare co-
scienza e non con ciò stesso sentire un limite e con ciò
sorpassarlo e umanarsi? Né vale il riconoscimento che si
voglia fare al D'Annunzio di gran poeta, ma «privo di
interiorità», di grande «lirico paesista» (come sostenne
il Gargiulo in un libro ricco di fini osservazioni e di
buon gusto238): l'interiorità e l'umanità sono necessarie
237
Op. cit., p. 159.
238
ALFREDO GARGIULO, Gabriele d'Annunzio (Napoli, Perrella, 1912).
285
anche al paesista e al pittore; come tutti sanno, non si di-
pinge con l'occhio, ma con l'anima. Il Flora si è avvedu-
to di questa difficoltà e che bisognasse superarla e risol-
verla per mettere d'accordo la negazione precedente col
pregio attribuito all'opera migliore del D'Annunzio. E ha
detto che l'umanità, la totalità, il sentimento cosmico c'è
pur nel D'Annunzio, non nella forma che altri predilige
e che si trova in altri poeti, ma in una forma a lui pro-
pria, come indistinzione di spirito e natura, onde la spi-
ritualità gli si concreta in naturalità, e in ciò, come ogni
altro poeta, egli si congiunge e vibra col cosmo. E ha
soggiunto che nella deficienza di umanità che a lui i cri-
tici appuntano, «c'è l'ombra della vecchia trascendenza e
del vecchio Dio creatore; c'è il problema del senso
dell'eternità oltre il tempo fisico», e di altre cose non
pertinenti.
Tutto ciò, come è perfettamente corretto quanto a me-
todologia critica, sarebbe altresí vero nel fatto, se l'uma-
nità che s'intende negare nel D'Annunzio non fosse, per
l'appunto, questa mancata risonanza con la vita del tutto,
con la vita del cosmo, che è poi la vita stessa dello spiri-
to. Altri poeti sono fortemente e come totalmente legati
al senso, alla mera vitalità e al suo piacere e dolore, e
tuttavia si redimono in poesia, perché nella schiettezza
del loro patire ed esprimere l'uomo risolve in sé l'anima-
le, la naturalità si spiritualizza o, piuttosto (per andare
d'accordo col mio filosofare), il grado inferiore dello
spirito dialetticamente trapassa nei gradi superiori. Ma
nel D'Annunzio questo non accade mai: non mai egli fa
286
risuonare, toccando una corda, tutte le corde della lira
umana: egli c'impone sovente ammirazione per la sua
virtú artistica, ma non mai ci trasporta innalzandosi so-
pra sé stesso e innalzando noi sopra noi stessi.
Ed ecco che anche qui rende servigio quella caratteri-
stica di «dilettante», la quale altri vorrebbe improvvida-
mente abbandonare. Come mai chi si pone verso la vita
in atteggiamento di dilettante delle sensazioni della vita
potrebbe abbandonarsi a questo rapimento nell'universa-
le, che è il momento mistico della poesia? In quell'atteg-
giamento rimane invincibile un interessamento pratico-
edonistico, che impedisce l'abbandono e preclude il var-
co alla piena contemplazione del mistero della vita.
Donde il carattere della sua forma artistica, nella quale è
sempre in atto il compiacimento che l'artista prova e fa
sentire della propria bravura e virtuosità, e sempre la pa-
rola ci avverte della sua presenza come parola e ci ram-
menta che esiste la lingua e il vocabolario. Le piú alte
prove della sua arte, le odi del libro di Alcione, sono mi-
rabili e pur non riescono mai del tutto persuasive, non
ottengono mai una completa adesione del nostro spirito.
Si può forse non ammirare Versilia, che rende la fre-
schezza delle foglie, della frutta, del corpo giovanile e
ne dice l'attrattiva nella melodia modulata da una bocca
femminile che chiede e promette e invita e si offre? E
nondimeno anche Versilia porta ai polsi le sottili catene
di questa servitú al dilettantismo. Si può non ammirare
grandemente la Morte del cervo, prodigio al quale pochi
sono pari e nessuno superiore nel convertire linee, colo-
287
ri, odori, moti, suoni e sapori in plasticità di vocaboli,
sintassi, ritmo e metro? Ma quel componimento attesta e
insieme celebra (come vi è detto) la virtú dell'artefice,
che ha fuso «nel bronzo di Corinto», ‒ nel tesoro del vo-
cabolario italiano del quale è signore, ‒ «quel che i luci-
di occhi videro». L'«anima ebra d'antiche forze» respira
col ferino-umano centauro; ma quel respiro è un eserci-
zio di raro o di enorme diletto piuttosto che una vera
ebrezza che plachi e superi sé stessa nella gioia del can-
to.
Per queste considerazioni si spiega come, nonostante
l'apparenza lussureggiante, il mondo dannunziano dia
senso di povertà, di una povertà, se cosí piace, simile a
quella di Mida, condannato a tramutare in oro, nell'oro
della sensazione, tutto quanto tocca; o, come si suol
dire, che la sua arte sia monotona. Monotona non è mai
la poesia, ancorché il poeta non esca dal suo àmbito di
sentimento o dal suo sentimento dominante e lo ripre-
senti in molteplici varianti; ma la monotonia, nel caso
del D'Annunzio, accusa la ripetizione del medesimo
fare, del medesimo giuoco, ricco d'inganni, e anche di
sottili inganni, ma scarso dell'incanto della poesia. E per
questa via si spiegano i tentativi dei critici, che han pro-
curato di rialzare la sua arte introducendovi significati
riposti e intellettualismi: al qual proposito aggiungerò
che mi sembrerebbe opportuno disfarsi anche del cliché
critico (foggiato, se mal non ricordo, dal Borgese e piú o
meno ammesso da tutti) del D'Annunzio creatore di
«nuovi miti». I «miti» non sono oggetto di artistica crea-
288
zione, ma formazioni che hanno luogo nella vita del
pensiero, concetti ancora contaminati o dispersi nelle
immagini, non potenza ma «inopia (come diceva il pri-
mo grande teorico di essi) della mente umana» nel suo
stadio iniziale; e quelli del D'Annunzio non sono né
concetti né conati di concetti, ma semplici figurazioni
del bramare e vivere sensuale, tutt'al piú «personifica-
zioni», per adoperare la terminologia della vecchia reto-
rica.
Spontaneamente, al primo dispiegarsi dell'arte dan-
nunziana, si corse al ravvicinamento con quella della
decadenza italiana e del barocchismo, del Marino e del-
la sua scuola, con la quale in effetto ha somiglianze
molteplici e non superficiali, che non verrò qui mostran-
do perché le ho già mostrate in altra occasione 239; come
ho mostrato nell'arte sensuale del seicento la monotonia
e la facilità a mutarsi in giocherello e a darsi comple-
menti artificiali240. Bisogna, in verità, guardarsi dal por-
re il D'Annunzio a faccia a faccia, non dico coi grandi e
severi e austeri poeti, ma neppur con quelli che hanno
un caldo afflato sensuale ed erotico, come il Tasso e il
poeta delle Grazie, Foscolo; perché costoro assurgono a
quel dramma umano, eroico e religioso, dal quale egli è
escluso, e il confronto imprudentemente istituito, mette-
rebbe in cruda evidenza la sua sostanziale aridità poeti-
ca. Egli rimarrà monumento insigne di arte decadente; il
che, del resto, è giudizio comune, vox populi, vox Dei.
239
Saggi sulla letteratura italiana del seicento4, pp. 418-22.
240
Storia dell'età barocca in Italia5, p. 334.
289
LVII. L'ULTIMO PASCOLI

Negli ultimi suoi anni il Pascoli entrò nella via nella


quale si era messo e doveva spingersi bene innanzi il
D'Annunzio, della poesia civile e politica e nazionale.
Vi concorse la voglia, che chiaramente lo teneva inquie-
to e irrequieto, di gareggiare col «fratel suo», come lo
chiamava; e l'esser succeduto a Giosuè Carducci nella
cattedra di letteratura italiana di Bologna? O fu, piú ge-
neralmente, naturale prosecuzione dello svolgimento
che da piú anni aveva voluto dare al suo ingegno poeti-
co col distogliersi dagli idilli o rustici quadretti e salire a
forme piú complesse e ad argomenti che gli parevano
maggiori? Come che sia, ai saggi che già se ne leggeva-
no nelle Odi ed inni seguirono, in latino e in italiano,
l'Inno a Torino e l'Inno a Roma, e poi i Poemi del Risor-
gimento (su Napoleone, Carlo Alberto e i Carbonari,
Rossini, Garibaldi e Mazzini), e le Canzoni di Re Enzio
(quella dell'Olifante, quella del Carroccio e quella del
Paradiso): lavoro che era in pieno corso, quando fu
spezzato dalla morte. «Sto facendo (egli scriveva nel
1907) il primo dei miei cento o dugento poemi patriotti-
ci... Devono essere un gran poema nella forma che la
modernità soltanto permette: un poema di poemi a
sé»241. Il carme secolare del popolo latino ‒ cosí un suo
scolaro e amoroso ascoltatore c'informa circa cotesta
sua ambizione ‒ doveva essere per lui il canto supremo.
Egli si diceva insieme col Carducci ‘uno di quelli che
241
BULFERETTI, Giovanni Pascoli (Milano, 1914), p. 90.
290
sognarono che l'appaciamento sociale dovesse avvenire,
a esempio e guida delle genti, in Italia: in questa patria
del diritto glorioso, della pietà umana, della fede ideale’.
Quello che non era riuscito al Carducci, si proponeva di
eseguire egli: adombrare nelle canzoni e nei poemi itali-
ci una soluzione italica della lotta sociale, con la diffici-
le unione della Giustizia e della Libertà242.
È da riconoscere che, per l'ufficio che intendeva assu-
mere di poeta civile, il Pascoli possedeva la premessa
che mancava al D'Annunzio e, in altro modo, al Fogaz-
zaro: al primo, per il suo invincibile sensualismo, ignaro
di spiritualità; all'altro, per il suo ibridismo erotico-reli-
gioso. Egli, invece, possedeva sano discernimento mo-
rale, sincera disposizione verso il bene, senso di pietà e
di giustizia, ammirazione per l'eroico umano. Dell'Italia
e del suo presente e del suo avvenire parlava con accenti
schietti di un cuore che sente e di un intelletto che com-
prende. Si legga in prova il discorso Italia!, che tenne
all'Accademia navale di Livorno nell'aprile del 1911243,
e l'altro dello stesso anno per l'impresa libica, il cui tito-
lo è di cattivo gusto: La grande proletaria s'è mossa, ma
il contenuto serio. Egli non ridiceva ‒ miserabile retori-
ca a rovescio ‒ le solite ciarle sull'inferiorità, la viltà, la
decadenza italiana dopo il 1860. Rettamente osservava e
onestamente affermava:
Quale e quanta trasformazione! Giova ripeterlo: cin-

242
BULFERETTI, Op. cit., p. 356.
243
Di questo discorso riferii una pagina assai giusta sul modo d'intendere l'uni-
tà della storia d'Italia, in Critica, XXXII, 472-73.
291
quant'anni fa l'Italia non aveva scuole, non aveva vie, non
aveva industrie, non aveva commerci, non aveva ricordo del
passato, non aveva, non dico speranza, ma desiderio
dell'avvenire. In cinquant'anni è parso che altro non si faces-
se se non errori e anche delitti; non si cominciasse se non a
far sempre male, e non si finisse se non col non far mai nul-
la. La critica era feroce e insaziabile. Era forse un desiderio
impaziente che l'animava. Ebbene, in cinquant'anni l'Italia
aveva rifoggiato saldamente, duramente, immortalmente il
suo destino244.
E vedeva da questa paziente preparazione, da questo
raccolto vigore nascere l'impresa, che era in atto, per la
conquista della Tripolitania e della Cirenaica, per la par-
tecipazione italiana all'europeizzamento dell'Africa:
Ora l'Italia, la grande martire delle nazioni, dopo solo cin-
quant'anni che ella rivive, si è presentata al suo dovere di
contribuire per la sua parte all'umanamento e incivilimento
dei popoli, al suo diritto di non essere soffocata e bloccata
nei suoi mari; al suo materno ufficio di provvedere ai suoi fi-
gli volenterosi quel che sol vogliono, lavoro; al suo solenne
impegno coi secoli augusti delle sue due storie di non esser
da meno nella sua terza èra, di quel che fosse nelle due pri-
me; si è presentata possente e serena, pronta e rapida, umana
e forte: per mare, per terra e per cielo245.
Altresí con chiaroveggenza respingeva le infeste dottri-
ne, che ancor oggi tiranneggiano gli spiriti e offuscano
le menti, sulle classi e le lotte delle classi quasi unica o
244
Nel vol. Patria e umanità, raccolta di scritti e discorsi (Bologna, Zanichelli,
1914), pp. 240-41.
245
Vol. cit., p. 238.
292
suprema realtà della storia:
Invero né là (tra i combattenti) esistono classi, né qua. Ciò
che perennemente e continuamente si muta, non è. La classe
che non è per un minuto solo composta dei medesimi ele-
menti, la classe in cui, con eterna vicenda, si può entrare e se
ne può uscire, non è mai sostanzialmente diversa da un'altra.
Qual lotta dunque può essere che non sia contro sé stessa?246.
Retti e nobili e gentili sono anche i sentimenti e i con-
cetti, che egli mise negli inni e nei poemetti e nelle can-
zoni civili e patriottiche degli ultimi suoi anni, di sopra
mentovati. E l'obiezione che è da muovere intorno ad
essi ha carattere unicamente artistico: se quelli siano o
no ciò che volevano veramente essere: poesia.
Fu l'obiezione che io mossi in generale alla sua opera,
salvo a talune sue brevi liriche, quasi tutte della prima
sua epoca, ma qualcuna anche composta o pubblicata
piú tardi247; e la mia ragionata obiezione non mancò di
246
Vol. cit., pp. 241-42.
247
Tra le quali volentieri accolgo La tessitrice, che un recente critico (V.
TITONE, La poesia del Pascoli e la critica italiana, Roma, 1934, pp. 120-21)
giudica «la lirica piú bella del nostro poeta, una delle poche cose che di lui
veramente resteranno»:
Mi son seduto su la panchetta
come una volta... quanti anni fa?
Ella, come una volta, s'è stretta
su la panchetta.
E non il suono d'una parola;
solo un sorriso tutto pietà.
La bianca mano lascia la spola.
Piango, e le dico: ‒ Come ho potuto,
dolce mio bene, partir da te? ‒
Piange, e mi dice d'un cenno muto:
293
colpire vivamente il Pascoli, che non la dimenticò piú,
la tenne sempre presente, vi ritornò sopra a piú riprese
nelle sue conversazioni e nei suoi motti, com'è docu-
mentato dai ricordi e aneddoti che i suoi amici sono ve-
nuti stampando su pei giornali. Una volta, mostrando
certi alveari e le api che lavoravano il miele, esclamò
che le api, tutto intente al loro dolce distillato, «non si
curano del Croce». Un'altra volta, annunziando una ri-
stampa che s'intendeva fare della raccoltina delle sole
prime Myricae, diceva ironicamente che «la cosa avreb-
be fatto piacere al Croce, che non accettava dell'opera
sua altro che quel volumetto». Un'altra volta si sfogò col
‒ Come hai potuto? ‒
Con un sospiro quindi la cassa
tira del muto pettine a sé.
Muta la spola passa e ripassa.
Piango, e le chiedo: ‒ Perché non suona
dunque l'arguto pettine piú? ‒
Ella mi fissa timida e buona:
‒ Perché non suona?
E piange e piange: ‒ Mio dolce amore,
non t'hanno detto? non lo sai tu?
Io non son viva che nel tuo cuore.
Morta! sí, morta! Se tesso, tesso
per te soltanto; come, non so.
In questa tela, sotto il cipresso,
accanto alfine ti dormirò. ‒
Ma non so perché il critico l'adduca come prova che la poesia vera del Pa-
scoli sia un canto senza immagini o con immagini inadeguate. A me pare
che ritmo e immagini qui confluiscano, e che il poeta riesca a dar forma al
motivo (che è in fondo il medesimo) dell'ode 1 due cugini, la presente-
impresente persona che vive ed è morta, alla disperata tristezza del passato
inafferrabile: nei Due cugini il processo formativo non riesce a pieno; qui si
compone nella semplicità di un canto quasi popolare d'intonazione.
294
mettermi in satira in un poemetto, I due vicini248: due vi-
cini, un ortolano e un vasaio, che vivevano in pace,
avendo in comune il campo, la fontana e il servo, cioè
un asino da portare al mercato gli erbaggi e i lavori
d'argilla; e che avevano finito con l'apprendere l'uno il
mestiere dell'altro, aiutandosi a vicenda e collaborando.
Ma l'asino, fuori dei giorni che andava al mercato, se la
passava in ozio e in tristezza; e guardava l'orto, e ammi-
rava i cavoli, «nati dal suo fimo», ma non i narcisi, i
mughetti, i giacinti; e guardava le file dei vasi, appro-
vando quelli utili e schietti, ma non gli altri inutilmente
ornati, e udiva il canto dell'usignolo ma sgrollava l'orec-
chio, mormorando tra sé e sé:
Oh! il tempo perso! Canto io forse? Io penso.
Finché un giorno non ne potè piú e penetrò pel cancello
nell'orto:
I fiori? Ed esso li volea guardare
da presso, i fiori: non potea, le stelle.
Andò, guardò. Saggiar fi volle; volle
sapere; attento dividea ciascuno
nelle sue parti, il lungo stelo e il capo.
Non buono il capo, non miglior lo stelo.
Sgradí giacinti, disprezzò mughetti,
schifí narcissi, nauseò vïole.
E pestò tutto. Un bottoncin di rosa
gli parve meglio, e si forò le froge.
Scacciato di là, si volse al vicino laboratorio, tra i vasi
248
Pubblicato nella Lettura del 1908. Lo si veda ristampato nelle Poesie varie
(Bologna, Zanichelli, 1912).
295
in fila:
Dentro vi diede l'asino, e ne venne
vasto un fragor di cocci...
Dove accade di notare che l'asino «pensava», e, se pen-
sava, pensava su qualche cosa, che, naturalmente, non
poteva esser altro se non le impressioni che accoglieva
dalla realtà circostante, i sentimenti che gli si movevano
nel petto e le fantasie che gli passavano per il capo, e, in
questo caso, e fuori di allegoria, i versi che il critico leg-
geva del Pascoli, dei quali si domandava (con legittima
domanda da parte di chi pensa) come mai e perché in
piú luoghi gli suonassero non belli.
Brutta, per esempio, era certamente la lirica La notte
di Natale, che il Pascoli compose per quella guerra libi-
ca, la quale gli aveva ispirato, come abbiamo visto, pa-
gine di seria e nobile prosa. Egli voleva dire che, in
quella notte di Natale del 1911, l'anima d'Italia era là,
dove si combatteva dai suoi figli. Ma questo sentimento,
che realmente viveva allora in lui come in tanti altri ita-
liani, non diventò nei suoi versi rappresentazione di an-
goscia per quel contrasto tra il dolce Natale in famiglia e
l'altro doloroso e austero che si celebrava sulle insangui-
nate arene africane, né di pio affetto per gli assenti-pre-
senti, né d'innalzamento all'eroico, né di altro che riesca
spontaneo e limpido. L'ode cominciava:
Sopra la terra le squille suonano
il mattutino. Passa una nuvola
candida e sola.
L'Italia! l'Italia che vola!
296
Non è goffa questa «Italia che vola»? E non è goffo lo
stesso tono dell'esclamazione, quasi di fanciullo che si
accorga, con un salto di giubilo, che nel cielo si muove
un aquilone o un pallone? Peggio, la chiusa:
Là, tutto è santo! Vegliano, credono,
attenti al cielo, pronti a rispondere
alla sua voce!
Là sono anche i martiri in croce...
Per intendere il quale ultimo verso bisogna sapere che
allora, nei giornali, si lesse che in uno degli scontri o
delle sorprese frequenti in quella guerra, molti soldati
italiani erano stati torturati dagli arabi, e taluni crocefis-
si per istrazio o per ischerno. Ma non era lecito valersi
di questa immagine di cosa orrenda per ricavarne un ef-
fetto di untuosa e falsa religiosità, paragonando un inci-
dente, purtroppo consueto nelle guerre con genti barba-
riche, al martirio di Gesú e degli altri confessori della
fede. Il tono è, anche qui, smanceroso di compiaciuta in-
sistenza, innanzi a tale spettacolo che un animo gentile
avrebbe velato o allontanato con ribrezzo.
Brutta è anche l'ode indirizzata al vecchio generale di
cavalleria Asinari di Bernezzo, il quale, valoroso com-
battente a Custoza nel 1866, fu nel 1909 messo a riposo
per aver pronunziato un brindisi generoso ma impruden-
te, augurando una prossima guerra contro l'Austria:
Ma quando il giorno verrà che vindice
quel tricolore s'alzi e si svincoli,
o esperto di risurrezione,
risorgi! ed accorri al cannone.
297
Sonò l'ATTENTI già per la CARICA...
Sprizzan fuor aspre tutte le sciabole.
Cavalli e cavalieri ansando
già fremono in cuore il comando.
Devi il comando ruggirlo, o reduce
dalla Campagna Rossa, tu al turbine!
Sei tu, sei tu, che atteso hai troppo,
che devi tonare: GALOPPO ‒
MARCH'... Ed avanti tutti coll'émpito
tanti anni dòmo, tutti con l'ululo
tanti anni chiuso in faccia al mondo...
A FONDO, ricòrdati, A FONDO!
Brutto e puerile, non solo nel venire imitando e contraf-
facendo i gridi e i moti dell'assalto, ma in quella racco-
mandazione di andare bene «a fondo», fatta da chi ver-
seggia a chi combatte.
Il vizio di tutta la poesia patriottica e civile del Pasco-
li era la sua origine da un proposito, contrariamente a
quel che avveniva nel Carducci (al quale il Pascoli in-
tendeva porsi accanto, e anzi disopra), nel Carducci in
cui la lirica patriottica e civile sorgeva da una profonda
passione, da un doloroso soffrire, da entusiasmo e da
malinconia, e perciò aveva il carattere umano, che la fa
grande e di valore universale. Ho detto da un proposito,
e aggiungo altresí da una competizione e imitazione let-
teraria, perché senza la dannunziana Canzone di Gari-
baldi non credo che sarebbero venuti al mondo i Poemi
italici, né, senza la Francesca da Rimini, le Canzoni del
Re Enzio.
Tutti questi componimenti non vengono su e fiorisco-
298
no da un germe, ma si formano faticosamente sopra
escogitazioni e combinazioni mentali, arguziette e fred-
dure: com'è nei Poemi italici la figurazione dei carbona-
ri, ossia di quelli metaforici nella denominazione della
setta, proprio come se fossero carbonari nella realtà, a
notte in un bosco, e il ricevimento che fanno tra loro di
un giovane, il principe Carlo Alberto; ‒ Garibaldi che,
fanciullo, navigando da mozzo, risale il Tevere e vede
Roma, vede i luoghi che un giorno saranno il teatro del-
la sua gloria; ‒ Tolstoi, che abbandona la sua casa e si
avvia a morire lontano e, peregrinando per il mondo per
iscegliere il luogo della sua morte, e indirizzandosi alla
terra d'Italia, v'incontra frate Leone, che discorre con lui
come nei Fioretti, v'incontra Dante, e infine, fermatosi
in un'isola, Garibaldi, col quale solamente dichiara di
voler restare; ‒ Gioacchino Rossini, che dopo una goz-
zoviglia, tornato a casa, invece di lavorare allo spartito
dell'Otello, si butta a dormire, e la pargoletta che è in
lui, la musica, lavora nel dormiente e, al risveglio, gli
detta il canto di Desdemona. Per fermarci su questo poe-
metto di argomento rossiniano, non si può certo negare
che contenga un concetto giusto dell'anima poetica, che
nel poeta è la vera anima e, oppressa, soffocata, sover-
chiata, si apre il varco attraverso l'uomo pratico e carna-
le, e alfine si effonde nel canto. Ma questo è e rimane
nel Pascoli un concetto, e non è e non diventa una com-
mozione, trapassante in poesia, magari in una sola strofa
o in un sol verso di condensato vigore. In cambio di ciò,
il Pascoli elabora una tiritera, composta di un preludio,
299
che ritrae il Rossini ubriaco, gravato dalla carnalità e
immerso nel sonno, e divisa in tre canti, in uno dei qua-
li, lui dormente, la pargoletta si lamenta su questo anda-
re:
Lagrime salse le piovean dagli occhi.
Piangea la povera anima, una mano
sul tenue seno e l'altra sui ginocchi.
«Oh! la tua buona Parvola, che chiudi
sola, laggiú, nel carcere lontano,
pieno di spettri e di fantasmi nudi!
E mi spaura, chiusa in fondo anch'ella
come son chiusa io cosí pura e saggia,
fragrante ancora dell'odor di stella,
la Bestia, ahimè, che mangia e ringhia e freme
sopra il presepe e scalpita selvaggia
tutta la notte! Noi vegliamo insieme,
la Bestia ed io! Cosí che i dolci modi
che ti cantai, che andavi zingarello
di fiera in fiera, ora non piú tu li odi.
Allor, sul carro, io ti mutava in note
d'una vïola e d'un vïoloncello
lo strido assiduo delle trite rote.
A cui, crescendo, s'aggiungean fanfare
di trombe e corni ed, ecco, un infinito
coro di voci alte nel cielo e chiare...
La lamentela dura a lungo, fino all'alba e al risveglio del
dormente, nel cui seno si svolge quel travaglio. Final-
mente:
E balzò su, Rossini.
Tacita l'alba, tacita la strada.
300
Sul mare alcune lievi nubi rosse.
Sopra la terra fresco dí rugiada.
Ronzava quella voce di preghiera
e di dolore, quasi ancora fosse
con lui la povera anima; e sí c'era!
Molle di pianto, egli percosse i tasti
tuoi, clavicembalo, e tu palpitasti...
Assisa a pié d'un salice...
E non è chi non senta come tutto ciò è «fatto» e non
«nato». Il Pascoli non disponeva piú di motivi poetici,
ma soltanto di astratti «temi di poesia». Inno a Roma:
che cosa si potrà dire su Roma? Ed ecco tanti pezzi, fati-
cosamente aggregati, intorno al nome misterioso di
Roma, al primo eroe, ai lupi e gli agnelli, all'aratore, alle
voci del fiume e del mare, alla rissa, all'ascia, alle strade
romane, alle legioni, fino a quelli intorno alla lampada
inestinguibile e a Roma eterna. Inno a Torino: che cosa
si potrà dire su Torino? Ed egli immagina, innanzi tutto,
che i primi abitatori colà fossero gl'Itali, ignari ancora
del loro nome, che si spingono fino al luogo dove sorge-
rà Roma, e poi, dopo secoli e secoli, un loro re viene ve-
ramente, che li conduce allo stesso luogo, alla capitale
della nuova Italia; e passa a rassegna poi l'età romana, la
medievale, la longobardica, e quella dei duchi di Savoia
e di Emanuele Filiberto, fino a toccare la moderna Tori-
no industriale, il suo artiere che doma il ferro, il suo
operaio che manipola le caramelle:
Non solo. I chicchi ai bimbi e' foggia e, come
pegni d'amor, già prima li accarezza;

301
ciò che ti fa non nota sol per nome,
ma dolce ancora d'intima dolcezza...
E poi la Torino dai begli edifici scolastici, addetti agli
asili d'infanzia e alle classi elementari, sulle quali il Pa-
scoli si sofferma, vagheggiando gli alunni di quelle
scuole in figura guerresca:
E voi cantate ‒ che la madre Italia
non altre voci ode al cuor suo piú care ‒
cantate dunque: ‒ Italia! Italia! Italia! ‒
Gracili voci; ma da queste pare
balzar l'eco di quelle dei grandi avi:
marce, comandi, cariche, fanfare...
Cosicché, man mano infervorandosi e accennando in ul-
timo all'impresa libica, esce in una delle solite sue escla-
mazioni gonfie, reboanti e di scarso buon gusto:
Per onde e sabbie i giovinetti eroi
in sentinella danno il «Chi va là?».
‒ Quella ch'è dietro voi, ch'è innanzi voi,
ch'è sopra voi: l'Italia, eroi, che va!
Non è lontano dal vero la supposizione che il Pascoli,
con quest'inno, pensasse di pareggiare e di sorpassare
l'ode al Piemonte, che, se non è delle cose piú geniali
del Carducci, si leva semplice e solenne di fronte a que-
sto suo inno faticoso e tutto stonato.
Parimente, nelle Canzoni di Re Enzio (che, esageran-
do il modello dannunziano, sono ripiene di descritte an-
tiche costumanze, e di folklore, e di lingua popolaresca
e dugentesca) si assiste al meccanizzamento del produr-

302
re poetico: com'è, in quella dell'Olifante, di re Enzio im-
prigionato a Bologna, che ascolta le lasse della chanson
sulla rotta di Roncisvalle, cantate da un giullare, mentre,
alternatamente, in un'altra serie di lasse, si susseguono i
quadri dell'altra rotta, di quella che nella stessa ora ha
luogo nella lontana Puglia, presso Benevento, e che se-
gna la rovina della sua gente. Nell'altra canzone, che è
del Paradiso, si vorrebbe celebrare la liberazione dei
servi, fatta dal comune di Bologna, come s'intende dalla
nobile e vibrante epigrafe scrittavi in fronte: «Libertà ‒
Sale sul desco, sangue nel cuore, aria dell'anima ‒ sola
pacificatrice degli umani ‒ perché sola ne scopri, ne ri-
veli, ne consacri ‒ la somiglianza fraterna ‒ O simile a
colei che alcuno in sogno piange lontana ‒ e tu gli dor-
mi florida moglie accanto ‒ o tu per cui si muore con
gioia ‒ perché morire è riacquistarti perduta ‒ Libertà!».
Vi si vorrebbero cantare insieme gli amori del principe
prigioniero con una serva liberata, una contadinella che
lo consolò nel suo carcere. Nel primo incontro con la
giovinetta:
il Re si volge a lei che aspetta e tace,
con sui morati riccioli le rosse
pampane; l'uva al pié si vede; e guarda
lei. Gli occhi neri scontrano gli azzurri.
«Deh! forosella, eo già te vidi 'n sogno,
ch'ero addormito, e tu portasti flori
et erbe e frutta. Et eo sognavo un campo
grande, di grano. E da le folte spighe
spuntavi, come un flore, tu; vestita
non piú che un flore. E c'era il sole e il vento,
303
e l'ire o stare a suo talento.»
Rifacimento di antiche forme di lingua, che è di pessimo
effetto d'arte. Ma ecco le arguziette:
Non è piú re, ma d'una schiava, in dono,
la libertà che a lei fu resa, egli ebbe.
La dolce schiava gli ha portato il sole
di ch'ella è piena, che ne' campi imbevve.
Egli alla nuda libertà s'è stretto,
bee l'aria pura di tra le sue labbra,
tra le sue braccia prieme l'erba folta,
da tutta aspira il grande odor del sole.
All'ombra egli è del legno della vita,
e presso il cuore sente mormorare
l'inestinguibile fontana.
Quel che sopravanza del Pascoli è, a tratti, la virtuosi-
tà descrittiva, in istile impressionistico, che tiene il luo-
go dell'ispirazione poetica. Chi si contenta o si rassegna
a questa sostituzione, avrà molte parti da gustare. Tol-
stoi si accinge al gran viaggio.
Ed e' vestí la veste rossa e i crudi
calzari mise, e la natal sua casa
lasciò, lasciò la saggia moglie e i figli,
e per la steppa il vecchio ossuto e grande
sparí. Tra i peli delle ciglia gli occhi
ardeano cupi nelle cave occhiaie,
e gli sferzava intorno al viso il vento
la bianca barba. Tra le betulle irte
andava, curvo sul bordone, ed aspra
scrosciava sotto il grave pié la neve...

304
Garibaldi e i suoi a Caprera:
E l'aratore dalla fronte larga
spargea sudore, e lietamente arava
con un sorriso tra la fulva barba.
La chioma bionda fluttuava all'aria.
Specchiava il sole la pupilla chiara.
E venner altri da vicini tetti
recando cibo, che vestíano anch'essi
tuniche rosse. Avevano nei cesti
fave fumanti e pan raffermo e pesci
seccati al vento. All'ombra di due lecci
sederon tutti, come dèi, sereni.
Erano a loro sassi erbosi i seggi,
sassi le mense. E sparsi per i greppi
parlavan olio e grano, uve ed armenti...
Ma io, se proprio dovrò godermi questa sorta d'arte, pre-
ferisco mettermi a ricontemplare l'asino dei due vicini,
quell'asino, che, per ciò che ho narrato di sopra della
persona da lui figurata, mi richiama a sé con naturale in-
teressamento di simpatia:
Imprese allora l'asino comune
a someggiare l'una e l'altra merce
sul molto sopportante unico dorso.
Al passo andava, tinnulo e fiorito,
e Trigo e Brigo gli veniano ai fianchi,
lieti dell'alba e della via maestra.
Metteva or l'uno tra un boccal sonante
ed una brocca una ricciuta indivia,
poneva or l'altro un labile verzotto

305
dentro un orciuolo: che per via s'aggiusta
(or l'uno or l'altro ripetea) la soma.
Negava il terzo, ed allungava il passo.
Ma si arrestava ai trivî, ai ponti, ai borghi
volgendo le due lunghe ombre del capo,
se mai sentisse zoccolar di donne;
per ch'ei giungeva cosí bello e vario!
cosí squillante! ed opportuno a tutti.
Avea per questa il cavolo, il laveggio
avea per quella. Avea per gli uni erbucce
e l'aglio a spicchi e la cipolla a doppî;
per gli altri avea la teglia che alle nocche
sonava come una campana a festa.
Tanto piú che, nell'intonazione, qui si riode il Pascoli
classicheggiante e umanista, e, in alcuni tocchi, ricom-
pare il Pascoli idilliaco, che è il primo e migliore.
Resterebbe da dire qualcosa della critica intorno al
Pascoli, susseguente al mio saggio e alle congiunte di-
scussioni e polemiche. Ma debbo dichiarare che gli sfor-
zi dei piú sottili miei contradittori per fare sparire il di-
fetto di armonia che io notavo in genere nella poesia del
Pascoli, e in cambio per lumeggiarla (cosa che, secondo
essi, io non avrei saputo scorgere) come poesia «misti-
ca» o «simbolica» o «astrattamente musicale» o
«dell'avvenire», e simili, mi sembrano nient'altro che
modi indiretti di confermare il vizio da me notato, indu-
striandosi di nasconderlo sotto un'aggettivazione positi-
va bensí nell'apparenza, ma che dimostra il suo carattere
negativo per ciò stesso che la poesia vera non comporta
aggettivi di sorta. Quel che è «mistico», è misticismo, e
306
non poesia; quel che è «simbolico», è simbolo, e non
poesia; quel che è «astrattamente musicale», è astrazio-
ne e non poesia né musica; quel che è «avvenire», è
tempo avvenire, e non è poesia249.

249
Il giudizio negativo del Carducci sull'opera poetica del Pascoli in generale,
che fu da me riferito (Letteratura della nuova Italia, IV, 225-6), riceve ora
una nuova attestazione nel libro di un'allieva del Carducci, ANNA
EVANGELISTI (Giosuè Carducci, Bologna, Cappelli, 1934, pp. 436-37: cfr.
181), la quale lo rincalza di opportune considerazioni ed esempî.
307
LVIII. ORIANI POSTUMO

Un «Oriani postumo» c'è in questo senso che, dopo


che io, nel 1908, scrissi di lui, non solo la sua opera ha
avuto quella notorietà e fama che prima aveva cercata
indarno, ma la sua stessa realtà storica è stata rifoggiata
a nuovo; sicché ora c'è, nell'opinione e nell'immagina-
zione, sotto il suo nome la figura di non si sa qual genio
possente, filosofico, morale, politico, religioso, di un ge-
nio feroce, «di sua codarda etade indegno», che aspetta-
va di essere scoperto e venerato dalle «sublimi età che
egli profetando andava»: donde il comune detto della
«grande tragedia dell'Oriani», della «tragicità del suo
destino», e via.
Le cose stanno alquanto diversamente e sono piú
semplici o meno tragiche. ‒ L'Oriani, durante la sua gio-
ventú e nella stessa maturità, cioè fin oltre i qua-
rant'anni, non aveva ottenuto né favore presso i lettori
italiani, né stima da parte dei letterati, artisti e critici. In
verità, il suo gesto convulso di perpetuo ribelle, il suo
cinismo d'immoralista e bestemmiatore, il turgido orgo-
glio, la forma scomposta dei suoi libri, lo stile scorretto,
la scandalosa sconcezza delle immaginazioni sessuali,
l'avventatezza dei concetti, per un verso giustificavano
l'antipatia, la diffidenza e l'indifferenza che lo circonda-
vano, e per l'altro spiegavano perché non si fosse data
attenzione a quanto pure in lui affiorava di disposizioni
speculative, di aspirazioni a un giudicare elevato, e di
vigore realistico nel rappresentare e narrare. Come suole
308
che le prime impressioni intorno a un uomo e a uno
scrittore, il primo giudizio che di lui si forma, tendono a
solidificarsi e a diventare pregiudizî di fronte a quel che
egli fa dipoi, né lettori né critici si erano accorti che, se-
gnatamente dopo i quarant'anni, nell'Oriani era accaduto
un relativo placamento, una purificazione, un predomi-
nio delle sue forze migliori, e che egli aveva fatto tenta-
tivi storiografici degni di considerazione e scritto ro-
manzi non volgari.
Il mio saggio del 1908 volle per l'appunto rompere
quel giudizio solidificato e renderlo di nuovo fluido, e
cosí adeguarlo all'Oriani intero e migliore; ed è naturale
che, nonostante le debite restrizioni critiche che non tra-
scurai di enunciare, prendesse alquanto l'aria di una «ri-
vendicazione». Che l'Oriani (il quale morí di lí a poco)
fosse scontento o contento di quel che io scrissi 250 è cosa
che non ha importanza, perché io, nel discorrere di lui,
non miravo certamente a riuscirgli gradito né m'indiriz-
zavo a lui come persona, ma alla riflessione e al giudi-
zio degli intendenti e spassionati. Se avessi dovuto se-
guirlo nell'opinione che egli aveva di sé medesimo, sarei
stato non il giudice ma il giudicando, per non dire che
avrei alterato la visione giusta della realtà.
Come il mio giudizio riconosceva quel che di buono
aveva compiuto l'Oriani ma non lo esagerava, e ricono-
sceva, d'altra parte, quel che nell'opera sua era scadente
e cattivo, quando un editore, il Laterza, si dispose, nel
1913, a ristampare alcuni tra i libri di lui e m'interrogò
250
Si veda in Pagine sparse2, III, 299-300.
309
sulla scelta da farne, io gli mandai un disegno nel quale
restringevo la ristampa a sei volumi, quattro di romanzi
(dei migliori tra i romanzi: Gelosia, Vortice, La disfatta,
Olocausto), e due di scritti varî, artistici, filosofici, stori-
ci e politici.
Ma, iniziata quella ristampa, per uno degli usuali ca-
pricci della moda, ossia della suggestione collettiva, la
richiesta, da parte del pubblico, di libri dell'Oriani si
fece cosí bramosa e vorace che il mio cauto e casto dise-
gno ne andò soverchiato e sommerso; e l'editore dovè ri-
stampare tutto: il buono, il mediocre, il cattivo e il pessi-
mo, e io stupivo delle esaltazioni iperboliche che ne leg-
gevo nei giornali ‒ per esempio, che quel sensazionale
romanzo da appendice, Il nemico, avesse preveduto e di-
segnato l'andamento della rivoluzione russa del 1917! ‒
e, se non stupito, rimanevo pensoso di quella corsa da
uno ad altro estremo, ed anzi all'estremissimo. Interven-
ni bensí energicamente presso l'editore perché, per onor
suo e dell'Oriani, non ristampasse l'osceno e orrido rac-
conto Sullo scoglio, e il romanzo tribadico Al di là; ma
non riuscii a impedire la ristampa del primo, e neppure
‒ ahimè! ‒ dei versi dell'Oriani, uomo negato a far versi,
e soltanto ottenni l'effetto non previsto che l'editore, per
le obiezioni che si risolse a muovere, si guastasse con
gli eredi dell'autore. Grande fu dunque la fortuna edito-
riale di quella ristampa; e non pertanto si è risentito, a
quanto sembra, l'impellente bisogno di farne seguire
un'altra di Opera omnia, che è o quasi una «edizione na-
zionale», promossa o aiutata dallo Stato, e che non sa-
310
prei se abbia avuto pari fortuna, e se i lettori italiani
continuino veramente a prendere interesse ai libri
dell'Oriani: cosa, anche questa, che qui non importa.
Nonostante il culto ufficiale del suo nome e il fastidioso
conclamare della gente, non vedo mai ricordato e ado-
perato un suo concetto o un suo giudizio particolare: se-
gno, si direbbe, che la sua efficacia effettuale è nulla o
assai poca.
Che la gente lo legga o no, che veramente lo conosca
o no, si è ormai formata e stabilita, o almeno viene ze-
lantemente coltivata, la leggenda che si è detta dell'Oria-
ni, il gran solitario, il grande sconosciuto, il gigante tra i
pigmei dell'età sua, il gran peccato dei tempi suoi, la
gridante ingiustizia che ancora non si è abbastanza ripa-
rata ed espiata. Leggenda o piuttosto artificiosa altera-
zione del vero, non solo perché, come si è veduto,
l'Oriani in parte meritò quella riluttanza e ripugnanza
del pubblico e quella severità di giudizio, ma soprattutto
perché, in quel che fu veramente suo merito, ‒ cioè di
avere asserito e tentato una migliore storiografia e una
migliore filosofia in mezzo all'imperante positivismo e
all'inintelligenza della cosiddetta «scuola storica», ‒
l'indifferenza e l'ignoramento e l'avversione toccarono a
lui in comune con altri che valevano quanto lui e piú di
lui, dei quali basti rammentare Francesco de Sanctis (al-
tresí da me «rivendicato», e che adesso è coperto e op-
presso dagli omaggi di quelli stessi che un tempo lo vi-
tuperavano o dei loro eredi e successori, e conciato per
le feste, ossia sfigurato e rivolto al contrario di quello
311
che egli fu come pensatore e come uomo 251). O che si
vuol forse dimenticare il significato e l'impeto travol-
gente e la storica necessità del moto positivistico? Nel
positivismo (altro che l'Oriani!) furono disconosciuti e
spregiati, e considerati fantastici, sofistici e ciarlatani
Platone e Aristotele, Kant e Hegel. Onore a chi, piccolo
che fosse, condivise in parte le sfortune di questi som-
mi!
D'altro canto, gli effettivi meriti dell'Oriani nell'anti-
positivismo consistettero nel sostenere in tempi avversi
alcuni concetti e alcune tendenze della filosofia dello
Hegel, che egli conosceva solo in qualcuna delle sue
opere e forse solo nella Filosofia della storia, tradotta in
italiano, e pel rimanente in modo generico e indiretto,
attraverso le conversazioni col vecchio hegeliano De
Meis, professore in Bologna; e nel provarsi a raccontare
una storia d'Italia con certa logica interiore, diversamen-
te da quel che praticavano gli autori di compilazioni
erudite. Ma né egli rinnovò neppure in minima parte i
filosofemi hegeliani con intenderne le difficoltà e le non
superate contraddizioni; né trattò la storia d'Italia con
criteri e metodi diversi da quelli che erano già stati
usuali negli storici del Risorgimento, avendo visto in
quella storia nient'altro che il processo dell'unificazione
nazionale, e per giunta di un'unificazione condotta in
modo indebito perchè diverso da com'egli arbitraria-
mente pensava che dovesse accadere252. E difettò, inol-
251
Si veda quello che ho detto per questa parte in Aneddoti di varia letteratu-
ra2, IV, 249-50.
252
Si tengano presenti in proposito le opportune osservazioni dell'OMODEO in-
312
tre, in una virtú necessaria allo scienziato e al critico,
che è d'intendere i proprî tempi e la cultura dei proprî
tempi in guisa da non opporvisi semplicemente, ma tro-
vare i punti di annodamento per la critica e per il pro-
gresso, e farsi non solo sentenziatore di verità ma meto-
dico dimostratore, concreto polemista, paziente diluci-
datore, e compiere a questo modo opera d'istruzione e di
educazione. L'approfondita conoscenza degli uomini
che abbiamo di fronte è in pari tempo approfondita co-
scienza del nostro stesso pensiero e vera vitalità di que-
sto253. L'Oriani respingeva lungi da sé, sprezzantemente,
lettori e studiosi, avvolgendosi nella sua superiorità di
sapiente e di veggente, pago di sbalordire o schiacciare
con le sentenze e i paradossi e coi richiami storici i
compaesani coi quali soleva conversare e che perciò lo
ammiravano uomo di genio e d'immenso sapere, se pure
stravagante: donde anche un certo che di provinciale che
ritengono le sue scritture. Con ciò non gli si vuol disco-
noscere (e da me meno che da ogni altro) le qualità che
egli possedette; ma soltanto si vuol raccomandare di mi-
rarlo in volto, cioè di leggere direttamente e spregiudi-
catamente i suoi lavori, e prenderlo qual era, che è poi
anche una forma di rispetto.
Prendendolo qual era, invece di celebrare di lui una
capacità e originalità filosofica e critica254 che egli non

torno alla storiografia derivata dall'Oriani, nel volume Tradizioni morali e


disciplina storica (Bari, 1929).
253
Si veda quel che intorno all'Oriani è detto nella mia Storia della storiogra-
fia italiana nel secolo decimonono4, II, 121-22.
254
Il suo giudizio sul Carducci, per esempio, è affatto sbagliato nel metodo e
313
possedette, converrebbe tenere in maggior pregio (come
ora non si usa) i suoi romanzi, i quattro già ricordati, dei
quali i piú fusi e compatti sono Gelosia, Vortice e Olo-
causto, ma La disfatta, che è il meno unitario e il piú di-
suguale, è pur quello che ci serba tutto quanto di nobile,
affettuoso e gentile affiorò nel cuore dell'Oriani. Capo-
lavori? Non direi. Credo anch'io col Serra che vi si desi-
deri qualcosa, come a dire l'alone della bellezza; e tutta-
via c'è robustezza di rappresentazione e, nella Disfatta,
anche qualche pagina malinconica e bella. Il saggio del
Serra, che è un peccato che rimanesse in abbozzo 255, mi
pare quanto di meglio per particolarità e acume e delica-
tezza di analisi sia stato finora scritto sull'Oriani, quan-
tunque non sposti le linee fondamentali del mio giudi-
zio256. Ricordo le mie conversazioni di or sono venticin-
que e piú anni a Cesena, col Serra e i suoi amici roma-
gnoli; e ricordo che allora io tenevo le parti dell'avvoca-
to difensore, perchè l'Oriani piaceva pochissimo a quei
fini letterati, che scorgevano tutto quanto in lui era falso
e, come dicevano, «insopportabile», e per tale insoffe-
renza mal si piegavano a considerare con benevolenza le
altre parti del suo ingegno e dell'opera sua.
nella sostanza, come dimostrai nel mio saggio sul Carducci (in Letteratura
della nuova Italia, II, 8-9).
255
È raccolto tra gli Scritti inediti (Opere, vol. IV), pp. 163-256.
256
Mi sia lecito per altro notare una minuzia curiosa: la chiusa della Disfatta:
«E allora, riprendendo la penna, come un romeo antico il bordone in vista
del sepolcro, si rimise sulla traccia di Dio», che il Serra (p. 227) ammira di-
cendo che «il povero Flaubert l'avrebbe pagata chi sa quanto», doveva es-
sere ben nota al Flaubert, perché è tolta di peso da Lélia della Sand, e pro-
prio dalla chiusa di quel romanticissimo romanzo. V. le mie Conversazioni
critiche, II4, 301.
314
E, prendendolo qual era, si smetterebbe, credo, di ac-
clamarlo precursore di nuova politica e di nuova storia
nell'Italia e nel mondo. Quando oggi un personaggio
vien decorato con questo nome, si può star certi che gli
si usa da procaccianti scrittorelli la sopraffazione e
l'oltraggio di falsificare i suoi detti e atti e di attribuirgli
altri non solo che non gli appartennero ma ai quali ripu-
gnava. Si veda il governo che ora di Giuseppe Mazzini
va facendo un professore italiano, il Gentile, ripetitore
delle goffaggini prussiane sullo «stato etico», che egli
trasferisce in quell'anima eroica, in quel cuore generoso.
L'Oriani, meno ancora che di filosofo, ebbe originalità
di pensiero politico. Fu, come tanti altri allora, avverso
al socialismo; come tanti altri, fautore d'imprese colo-
niali e africane; desiderò, come tanti altri, in ispecie tra i
letterati, un'Italia grande, e perciò manifestò il suo mal-
contento per gli uomini dell'ordinaria amministrazione,
che pur contribuivano in quel modo alla crescenza e
perciò alla grandezza della nuova Italia. Tanto vero che,
onesto com'era, non poteva poi non ammirare l'effetto
del lavoro di questi uomini, celebrando liricamente (in
uno scritto dell'ultimo anno della sua vita, del 1909) «il
nuovo trionfo della terza Italia, che l'Europa deve già
accettare come una nazione grande fra le piú grandi, tut-
ta fremente di un'improvvisa ricchezza, coi campi solca-
ti ovunque da strade novelle, i porti aperti all'espansione
della vita, le città sonanti e fumanti di officine, un altro
popolo industre, libero, sovrano, che non teme piú gli
stranieri e getta sull'America, come un pulviscolo fecon-
315
datore, gli estremi avanzi dell'antica miseria e le avan-
guardie romantiche della sua recente avventura com-
merciale»: l'Italia, che aveva dato al mondo «lo spetta-
colo piú mirabile di rinnovamento materiale e morale
negli ultimi trent'anni, miracolo al quale nemmeno pos-
sono paragonarsi i prodigi della ricchezza e del progres-
so americano, ancora cosí vuoto di significato»257. Non
gli saltò mai in mente di negare lo stato liberale, né di
professarsi statolatra; che anzi espressamente disse che
lo stato «non è tutta la spiritualità di un popolo, perchè
la sua religione, le sue arti, la sua scienza e la sua filoso-
fia vanno oltre», e che esso è «soltanto la sua coscienza
operante nella legge, l'invisibile vessillo delle guerre, la
latente sicurezza del confine nella pace»258. Giudizî che

257
Fuochi di bivacco, ed. Laterza, pp. 372, 376. ‒ Per contrasto: mi è venuto
sott'occhio (a proposito del romanzo del Pirandello I vecchi e i giovani, che
si riferisce alla vita italiana d'intorno al 1890) questo giudizio di un odierno
scrittore: «Il Pirandello faceva troppo onore alla Roma di dopo il 1870, pa-
ragonandola alla Roma di Petronio Arbitro. Quella era la Roma crassa della
decadenza imperiale: era una società che andava disfacendosi per avere so-
verchiamente goduto. Ma l'Italia moderna, appena uscita dalle lunghe ed
estenuanti lotte per la propria unificazione politica, era piuttosto l'Italia di
Stenterello (!). Alla festa internazionale della borghesia, celebrata da Carlo
Marx (!) e da Victor Hugo (!), noi partecipammo, se mai, come Lazzaro al
banchetto di Epulone: raccattando appena le briciole. E per questo ci riem-
pimmo la bocca di vento, cioè con l'esaltazione retorica di Roma antica (!),
retorica e non sentita, perché non poteva essere che di mere parole e non
era programma serio di fatti nuovi» (F. PASINI, Luigi Pirandello, Trieste,
1927, p. 491). Siffatta ignoranza della storia, e siffatta brutta irriverenza
verso l'Italia dei nostri padri, la laboriosa Italia che preparava l'avvenire,
sono oggi tutt'altro che rare presso letterati e professori, a un dipresso i me-
desimi che levano al cielo il «precursore» Oriani, certamente senza averlo
mai letto e proponendosi di non leggerlo mai.
258
V. fra i tanti luoghi, Rivolta ideale, p. 109.
316
saranno approvati o no, e che io da mia parte approvo e
lodo, ma che non potrei, senza peccare contro il vero,
lodare di singolarità e novità. Anche il Serra fu del mio
medesimo avviso:
Tutta la forza del suo pensiero politico si riduce all'accet-
tazione di alcuni principî, l'unitario, il repubblicano, il demo-
cratico mazziniano, l'imperialista. E questi in lui nemmeno
sono pensieri, non sono scoperte ideali sue proprie, sono ac-
cettazioni dell'altrui, di formule ormai notissime, usate, e de-
stinate ormai a vuotarsi del loro contenuto storico, che era di
polemica, di battaglia, di uso e valore politico. Il pensiero è
scoperta: Alfredo Oriani non scopre nulla. Dà valore alle
cose che dice colla forza stessa del temperamento, ma cose
nuove non tratta, non conosce, non sente259.
Né lasceremo passare le altre lodi, che ora gli si largi-
scono, di avere «auspicato la conciliazione dell'Italia col
papato» e di essere «tornato alla fede dei suoi padri».
Egli, pago della legge delle guarentigie e della costitu-
zione liberale (se non propriamente della monarchia,
perché la sua tendenza era repubblicana), si compiaceva
nel pensiero di «Roma libera, cosí grande da contenere
senza pericolo il proprio re e il proprio pontefice dentro
la modernità di un diritto che li supera entrambi» 260; e,
se vedeva di buon occhio, come tanti altri liberali,
l'entrata dei cattolici nel parlamento italiano, non era
certo per cedere pur di un pollice a costoro: «Roma non
può essere piú conquistata da alcun nemico, né italiano

259
SERRA, op. cit., pp. 203-4.
260
Fuochi di bivacco, p. 269.
317
né straniero, e la libertà, piú eterna di Roma, non teme i
cattolici. ‒ Entrate, signori ‒ diremo loro, noi vecchi li-
berali ‒ e tirate pei primi»261. E, quanto al preteso suo ri-
torno in grembo alla Chiesa cattolica, anche qui il Serra
scorse la verità della cosa e la disse molto bene:
L'appello alla fede non è già in lui compimento di un tra-
vaglio spirituale, ma parte molto naturale di uno sviluppo re-
torico. Dopo essersi giovato dei ricordi e delle figure religio-
se come di un colore abbastanza vivace, per effetti di contra-
sto, Oriani si è accorto del partito che si potrebbe trarre dalla
religione come valore assoluto. Il gesto di coronare la vita
piena di crudità con una rassegnazione umile, improvvisa,
alla fede gli sembra bellissimo, degno di sé. Egli è stanco,
amareggiato e deluso; la fede gli sarà non tanto riposo, quan-
to pretesto dell'ultimo atteggiamento scultorio. La figura del
cercatore vecchio che s'inebria di vanità gli sorride: «coloro
che pensano non sanno nulla». L'enfasi di Oriani si appoggia
piú sulla prima che sulla seconda parte. C'è qualche cosa qui
piú biblica che cristiana: ma che cosa importa? Oriani ha
trovato un aspetto di profeta che gli sta bene: tutte le incer-
tezze e le contraddizioni della sua opera intelligentemente
cosí povera, sono quasi giustificate; il tumulto e l'agitazione
sono premessa adeguata di una superba umiltà. L'antitesi è
evidente, vasta e pacifica262.
Tutto questo mi è parso necessario dimostrare o ram-
mentare perché io scrivo storia e cerco di adempiere
scrupolosamente verso la storia il dovere della fedeltà263.
261
Op. cit., p. 272.
262
SERRA, op. cit., pp. 255-56.
263
Una delle rare proteste contro le correnti falsificazioni del pensiero
dell'Oriani è l'opuscolo di un giovane, VIRGILIO TITONE, Retorica e antireto-
318
LIX. L'ULTIMA ADA NEGRI

Se il Fogazzaro, il Pascoli e il D'Annunzio non ebbe-


ro un vero e proprio svolgimento ulteriore dopo che io
ebbi trattato dell'opera loro, Ada Negri, a suo modo, l'ha
avuto e la maggior parte e la piú notevole della sua pro-
duzione letteraria appartiene all'ultimo trentennio: le
raccolte di liriche Dal profondo (1910), Esilio (1914), Il
libro di Mara (1919), I canti dell'isola (1924), Vesperti-
na (1930), le raccolte di novelle Le solitarie (1917), Fi-
nestre alte (1923), Sorelle (1929), e quelle di prose va-
rie, Le strade (1926), Di giorno in giorno (1932), e
l'autobiografia che narra la sua fanciullezza e adolescen-
za, Stella mattutina (1921). Quest'ulteriore svolgimento
letterario della Negri è stato cosí accuratamente esami-
nato in ispeciali monografie264, e il giudizio dei critici e
del pubblico è in proposito cosí sostanzialmente concor-
de, che mi par superfluo di ripigliarne da parte mia l'esa-
me e pronunziare nuova sentenza.
Nella conclusione del mio saggio del 1906265 intorno
ai primi tre volumi delle sue liriche, dopo aver notato
rica nell'opera di A. O. (Roma, Dante Alighieri, s. a., ma 1933): che il di-
rettore del Giorn. stor. d. lett. ital., prof. Cian, col consueto suo garbo di
linguaggio, definisce (CIV, 317-18) una «sparafucilata a polvere», «incre-
dibile ma titonicamente vero», e ancora, in modo che tenta di esser veleno-
so, «un documento inverosimilmente anacronistico»: ossia eretico e con-
dannabile. Ma il Titone non dice altro che quel che può vedere da sé ogni
spregiudicato lettore dell'Oriani.
264
Tra gli altri: VITO G. GALATI, Ada Negri (Firenze, Vallecchi, 1930); A.
MANNINO, A. N. nella letteratura contemporanea (Roma, Casa del libro,
1933).
265
Letteratura della nuova Italia, II, 315-34.
319
che i due nemici, che la Negri aveva in sé, erano l'eser-
cizio che si era imposto di una pretesa «missione socia-
le» e la torbidezza e improprietà della forma artistica,
dicevo che mi pareva probabile che si sarebbe liberata
del primo, ma piú difficilmente del secondo, perché già
scorgevo in lei la tendenza ad adottare certe forme della
letteratura di moda dannunziana, pascoliana o altra. In
effetti è accaduto che della «missione sociale» ogni ve-
stigio è sparito dall'opera sua e Ada Negri è rimasta sola
con sé stessa, con le sue agitazioni e insoddisfazioni e
tristezze, coi suoi amori e affanni e schianti dolorosi,
con la malinconia dell'invecchiare e l'aspettazione pau-
rosa della morte, col suo «io privato»; e questo ha forni-
to la materia alla seconda sua epoca letteraria.
Per quel che si attiene alla forma, pur continuando a
togliere modi e atteggiamenti dal D'Annunzio, dall'ame-
ricano Whitman e da altri scrittori contemporanei, la
Negri ha certamente acquistato assai in correttezza,
egualità e padronanza dello scrivere, sebbene non possa
dirsi che abbia raggiunto veramente lo stile.
Raggiungere lo stile per un poeta significa nient'altro
che raggiungere la schietta poesia; e a ciò le ha posto
ostacolo quel che si è ora accennato, ossia che, abban-
donata la missione sociale, dismesso il personaggio pub-
blico del quale dapprima si vestiva, la Negri s'è trovata
sola col suo io privato. Il poeta deve ritrovarsi solo con
l'io universale e non col privato, con l'umanità che è to-
talità, e non coi suoi particolari e personali bisogni e con
le avventure e disavventure sue e coi piaceri e coi di-
320
spiaceri che tanto lo pungono come uomo pratico: cose
tutte che offrono soltanto lo stimolo al ritrovamento del
puramente umano. Il quale, in poesia, si attua nella pa-
rola bella, che è insieme suono e colore, ritmo e imma-
gine.
La Negri non attinge quasi mai questa felicità poetica,
e perciò nessuno dei suoi componimenti lirici si è mai
levato sugli altri affermando la propria eccellenza; nes-
suno ve n'ha che sia ricordato, ricantato, rigoduto dai
lettori. Anche in quelli, e sono i piú, che nascono evi-
dentemente dalla realtà di un'impressione e dalla since-
rità di un sentimento c'è qualcosa che non finisce di per-
suadere.
Valga come esempio una lirica, che è delle migliori
del volume Dal profondo, quella che s'intitola Suor Na-
zarena, in cui la situazione è quanto mai naturale: una
donna, travagliata da passione d'amore, va a visitare una
monaca, bramosa di versare in quella creatura di bontà il
proprio affanno e averne conforto e aiuto. Ma la mona-
ca, che, nella sua innocenza, è affatto ignara di certe
burrasche del cuore umano, che non sospetta come si
possa soffrire per certe cose, l'accoglie e le parla calma
e sorridente e le dona fiori e le dice che torni spesso a
visitarla; e l'altra, senza che abbia parlato di sé, per quel-
la stessa indifferenza è come liberata del suo spasimo.
La Negri racconta il caso, fiaccamente verseggiando:
Oggi venni a trovar suor Nazarena,
che sempre ride cosí dolcemente
col suo riso ove manca qualche dente,
321
e pure ha tanta nobiltà serena...
dove al tentativo icastico del terzo verso segue, nel
quarto, un fraseggio generico e convenzionale. Conti-
nua:
Io non conosco piú soave cosa
della sua voce...
che è dello stesso modo di fraseggio. Quel che si agita
nell'anima della visitatrice è detto con qualche forza:
Singhiozzare volevo: «Io soffro, o buona,
aiutatemi voi...
Toccate quanta arsura ho nelle mani,
guardate quante fiamme ho dentro gli occhi!
Fate ch'io preghi, curva sui ginocchi,
come nei giorni placidi, lontani!»...
E anche il contrasto è ripreso bene:
ma coglieva tranquilla le sue rose
d'ottobre accanto a me suor Nazarena...
se non fosse seguito da due versi modellati su un noto
giro delusorio di frasi, consueto al D'Annunzio:
niuna fronte mi parve piú serena
fra una ghirlanda di serene cose.
La rappresentazione trapassa in riflessione, commento e
spiegazione:
Travolgendo con sé memoria e sensi,
con la Rinuncia su di lei l'Oblio
era passato. Ignuda e sacra in Dio
stava come una bimba che non pensi.

322
La situazione, gentile nell'idea, si svolge prosaica
nell'esecuzione.
Un altro esempio, preso dal volume Esilio, può essere
la lirica che s'intitola La morte, contesta anche di senti-
menti, come si suol chiamarli, veri, cioè realmente pro-
vati, mossa dal pensiero terribile, e che par nuovo
all'affetto materno, che l'essere che si è messo al mondo,
la propria figliuola, è destinata alla morte e al disfaci-
mento, e può morire da un istante all'altro:
Se necessario è il male, e necessaria
la morte, anche tu dunque, o Luminosa,
morrai?... Tu che letizia da ogni cosa
suggi, come ogni bocca sugge l'aria!
Io t'avrò fatta, io con insonne e fida
ansia t'avrò cresciuta per saperti
mortale, e spenta forse in braccio averti?...
Dunque ogni madre al mondo è un'omicida?
Dunque la vita mia che a te coi cento
e cento suoi lacerti s'aggroviglia
nulla potrebbe in tua difesa, o figlia,
nata per la mia gioia e il mio tormento?...
Cingerti non potrebbe un'invisibile
veste, d'amore e amor tutta intessuta,
che contro gli anni e la ferocia muta
della morte ti renda incorruttibile?...
Nella miseria mia solo il patire
per te m'è dato, e in esso consumarmi:
perché tu possa, o figlia, perdonarmi
d'averti messa al mondo per morire.
Quel sentimento è divenuto un raziocinio alquanto pue-
323
rile, con qualche sprazzo di falsa retorica («ogni madre
è omicida»; «perdonami di averti messa al mondo per
morire»). L'autrice non ha saputo trovargli la corrispon-
dente parola poetica e si è contentata di dargli una forma
pur che sia.
Impigliata in questa mediocre forma letteraria, e sen-
za sufficiente forza d'innalzarsi allo stile, Ada Negri ha
preso un'altra via e ha cercato altrove la propria perfe-
zione: l'ha cercata nello spingere all'estremo l'espressio-
ne immediata del sentimento. Il libro di Mara, esplosio-
ne di disperato convulso dolore per la perdita dell'uomo
amato, è quello in cui può dirsi che abbia a pieno trova-
to sé stessa, e, in questo riguardo, rimane l'opera sua piú
notevole. Non già che non si avvertano in quel libro fra-
si, immagini ed atteggiamenti letterarî della solita pro-
venienza; e vi ha del letterario di moda perfino nel verso
libero e nel ritmo di salmodia, o piuttosto da Cantico dei
cantici, in cui quella piena di dolore è versata. Ma
espressione immediata non vuol dire espressione propria
e originale, sibbene semplicemente «immediata», che
corre diritto ai mezzi espressivi che l'affetto trova pronti
nella memoria; a quel modo che le spontanee e imme-
diatissime lettere d'amore delle persone poco colte si
riempiono e quasi si compongono di frasi melodramma-
tiche e di comparazioni epiche.
Non è un grande e ricco e nobile sentire quello che
cosí si disfoga nel Libro dí Mara, perché è unicamente il
senso animale della femmina che si lascia abbattere e
possedere dal maschio e in ciò sente la suprema gioia, in
324
ciò ripone l'unico significato della vita, e che ora non si
rassegna alla perdita del datore di quelle gioie, del ma-
schio possente che ella chiama «signore», asservita a lui
dall'acre piacere con cui la doma. L'immediatezza accre-
sce letterariamente l'impudicizia, perché, se questa con-
siste nella mancante coscienza del limite e del freno im-
posto dagli altri e superiori interessi dell'uomo, l'espres-
sione immediata, da sua parte, non purifica l'impudicizia
mediandola nell'espressione di quel che, nell'atto stesso,
la supera.
Quando tu mi stringevi, divino carnefice, smorta e de-
mente fra le tue tanaglie,
pregavo nel tremito: Uccidimi.
Sarei morta di te, sarei morta di gioia, lampeggiando i
miei denti nel supremo inestinguibile riso...
Torna una volta, col grande tuo corpo in ànsito, in vampa
sul mio prostrato pallore.
Afferrami come facevi quando io non ero che amore tre-
mante dinanzi al tuo amore.
Annientami dentro di te, che mi sien tolti i sensi, che
mi si rompa il cuore.
E ancora:
La donna che or vive nascosta come una bestia ferita
nel covo
e piú non osa guardare il sole perché i tuoi occhi son
chiusi per sempre,
mai consolarsi potrà che da te non sia nato al suo grembo
un bambino,
un bambino che t'assomigli, che sia tuo, che sia te, carne
e spirito, forza e bellezza.
325
Ti bacerebbe su quella bocca, ti respirerebbe in quel fresco
respiro,
creata e creatrice, amante e madre in ardore inesausto
di dono.
Se tu fecondato l'avessi, calmo sarebbe il suo viscere
sacro...
In molti punti, l'impeto della brama insaziata, della
vana ricerca di riafferrare il perduto, le suggerisce im-
magini intense:
Alto è il muro che fiancheggia la mia strada e la sua
nudità rettilinea si prolunga nell'infinito.
Lo accende il sole come un rogo enorme, lo imbianca la
luna come un sepolcro.
Di giorno, di notte, pesante, inflessibile, sento il tuo passo
di là dal muro.
So che sei lí; e mi cerchi e mi vuoi, pallido del pallore
marmoreo che avevi l'ultima volta ch'io ti vidi.
So che sei lí; ma porta non trovo da schiudere, breccia
non posso scavare.
Parallela al tuo passo io cammino, senz'altro udire,
senz'altro seguire che questo solo richiamo:
sperando incontrarti alla fine, guardarti beata nel viso,
svenirti beata sul cuore.
Ma il termine è sempre piú lungi, e in me non v'ha fibra
che non sia stanca;
ed il tuo passo di là dal muro si scande a martello sul
battito delle mie arterie.
Spasmodico è questo sogno, il sogno dello «sguardo»,
sfumata tutta l'altra persona:
Solo il suo sguardo, questa notte, nel sogno ti ritornò.
326
Non il corpo e non la voce e nemmeno l'azzurra traspa-
renza degli occhi,
nulla fuor che lo sguardo, l'essenza dello sguardo, la pe-
netrante ed avida fissità dello sguardo.
Diceva la vita troncata e le trascorse dolcezze e la malin-
conia della solitudine eterna;
e ti toglieva il respiro, e s'affondava nelle tue viscere
come un giorno l'amplesso vivente.
Senza piú palpebre, senza pupille, fisso e caldo nell'ombra,
sguardo dell'invisibile amore!...
Tu sapevi, ahimè... di sognarlo: sapevi che l'alba dal pal-
lido viso sarebbe venuta fra breve a dissipare l'incanto;
e le tue lacrime appassionate gocciavan nel sonno sopra
il guanciale in silenzio.
Sono pagine che stanno tra il lirismo e l'effusione, e
da cui si ottiene il fremito del patologico, l'incubo
dell'orrendo e la tortura della disperazione, ma che non
si coronano di bellezza. Nella donna dolorosa il momen-
to del dolore pel perduto bene predomina sull'altro mo-
mento, quello della gioia della creazione artistica, che
converte il dolore in rapimento contemplativo. E nondi-
meno, come dicevo, Il libro di Mara resterà come una
delle opere tipiche, fra le piú importanti, della letteratura
«femminile».
Continuazione stilistica del Libro di Mara sono i
Canti dell'isola, dell'isola di Capri, nei quali dalla con-
vulsione della libidine delusa si passa all'ebbrezza della
natura lussuriosa:
Fra l'erbe dan sangue i papaveri, raccoglierli tutti non posso,
e quelli che colgo, morendo, mi si raggruman sul cuore.
327
Ma cento ne strappo e cento ne sgorgano, e l'Isola intera
zampilla di rosso:
chi l'ha ferita di coltello, chi l'ha ferita d'amore?...
Se in questi canti c'è l'influsso della letteratura varia-
mente dannunziana e futuristica, tutta sensazioni, in
quelli che seguono, Vespertina, Ada Negri muta ancora
stile, adopera il verso sciolto e par quasi che voglia
arieggiare agli idillî leopardiani. Domina nel nuovo li-
bro il pensiero della morte. Un vecchio contadino, inten-
to ad arare, leva gli occhi a un ronzio che ode alto sul
capo e vede un velivolo che ara il cielo:
Or quali mèssi nasceranno mai
da quei solchi lassú? Mèssi di stelle?
O pur d'un grano eccelso, che d'azzurro
nutrisca l'uomo, e piú l'accosti a Dio?
E se i fanciulli sanno ormai l'aratro
condurre in ciel, che vale arare i campi?...
Tutto vale. A ciascun la sua fatica
è sacra; e Dio l'accoglie; e non v'ha colpo
di zappa o colpo d'ala che non sia
atto di fede. Mentre aerei sbocchi
scopre il giovine, tu, vecchio, il tuo vecchio
campo coltiva, fino al giorno in cui
venga colei che uguaglia ogni stanchezza:
e pur l'eroe che misurò col volo
distanze d'astri, vien sepolto in terra.
Queste considerazioni sono, a dir vero, un po' fredde,
come sempre che la Negri vuole uscire da sé stessa. Ma
quel che veramente l'occupa, è il pensiero della morte,
328
che si sforza d'immaginare e di rendere a sé meno pau-
rosa:
Tu che sei certa come è certo il sole,
in qual giorno, in qual forma a me verrai?
T'aspetto, o morte, ma ti temo a un punto.
Scorgerò, sentirò la tua presenza
nell'ora a me prefissa, oppure i sensi
patimenti e stanchezza avran sopiti?
So che natura gli uomini soccorre
nel passo oscuro come già nel primo
uscir dal travagliato alvo materno:
nascita e morte son gemelle in Dio:
ma quale mai sarà per me quel passo,
con qual tormento distaccar la carne
mi sentirò dall'anima, se ancora
anima e carne conoscenza avranno
di sé?...
...la bontà di Dio
discenderà sul mio morire. Calmo
sarà il trapasso. Pari a un calmo sonno.
Mi sveglierò senza il mio corpo, in una
strada del cielo incoronata d'astri.
E non piú sofferenze e non memoria
né desiderio piú.
E questa è la preghiera che volge a Dio, guardando le
foglie che stanno per cadere nell'autunno:
Fammi uguale, Signore, a quelle foglie
moribonde, che vedo oggi nel sole
tremar dell'olmo sul piú alto ramo.
Tremano, sí, ma non di pena: è tanto
329
limpido il sole e dolce il distaccarsi
dal ramo, per congiungersi alla terra.
S'accendono alla luce ultima, cuori
pronti all'offerta; e l'agonia, per esse,
ha la clemenza d'una mite aurora.
Fa' ch'io mi stacchi dal piú alto ramo
di mia vita, cosí, senza lamento,
penetrata di Te, come del sole.
Cosí chiusa è sempre Ada Negri in quel che abbiamo
detto il suo «io privato», sia che parli di amore, sia che
parli di morte. E singolare è stata, certamente, l'evolu-
zione di quest'anima, che si era presentata fervida
dell'ideale proletario-socialistico, e che non passò da
quello ad altro ideale, a una sequela d'ideali, correggen-
do e inverando il precedente o anche semplicemente so-
stituendolo, come talvolta accade per sopraggiunte im-
pressioni e per accensioni passionali; ma dal cielo degli
ideali piombò sulla terrestre aiuola del piacere e del do-
lore goduto e sofferto dall'individuo in quanto tale, e
non seppe vedere e trovare nient'altro nel mondo fuori
di questo delirio del senso con lo strazio e la desolazio-
ne che si tira dietro.

330
LX. ANNIE VIVANTI

Ricomparve Annie Vivanti, dopo piú di vent'anni che


era sparita dal campo letterario266, con un romanzo, I di-
voratori (1911), pubblicato in inglese e in italiano 267, nel
quale alla figura della Carmen d'un tempo, appassionata,
volubile, incantatrice, traditrice, succedeva l'altra soave
della madre: della madre di una fanciulla che è un pic-
colo prodigio, e che, con la sua venuta al mondo, ha di-
vorato la vita di colei che era stata salutata poetessa ric-
ca d'avvenire. Con quel romanzo, s'iniziò una vivace sua
produzione letteraria, di altri romanzi, di drammi, di no-
velle e novelline e schizzi e bozzetti, e di articoli di va-
rio argomento, in prosa, e niente piú versi268.
Il tono era sempre fondamentalmente il medesimo
della sua prima comparsa in arte, del suo canzoniere e
del suo romanzo Marion: il tono di chi racconti cose
straordinarie, stupefacenti e quasi fiabesche, di passioni
tremende, di cattiverie orrende, di follie, e insieme di
gentilezze grandi e di pietà e di generosità. Novellava di
una capricciosa corrispondenza epistolare, corsa attra-
verso l'Oceano, tra una giovane donna e un uomo a lei
sconosciuto e che non la conosce; novellava degli amori
di una fine giovinetta inglese con un egiziano, capo di
266
Si veda Letteratura della nuova Italia, II, 307-14.
267
Milano, Treves, 1911.
268
Circe (1912), L'invasore, dramma (1917), Vae victis, romanzo (1918), Zin-
garesca, novelle e articoli varî (1918), Naja tripudians (1921), Fosca sorel-
la di Messalina (1922), Perdonate Eglantina!, novelle (1926), Terra di
Cleopatra, viaggi (1926), Mea culpa (1927); ed altri volumi.
331
cospiratori egiziani contro la potenza inglese, e della fi-
glia che n'ebbe, biondissima, di apparente stampo anglo-
sassone, ma che a suo tempo mette in luce un bruno
bambinello egizio, con quel che ne segue, che è uno
scompiglio, nelle rispettive, assai ortodosse e rigide, fa-
miglie inglesi; novellava di donne dalla fantasia morbo-
sa, dal cuore gelido, affascinanti, devastatrici, omicide,
simili a tripudianti serpi velenose (Naja tripudians), e a
«sorelle di Messalina», di gran lunga piú perniciose del-
la sigaraia di Siviglia, che prima le era stata fantastico
ideale, nuove Carmen discese o ascese dal selvaggio al
diabolico; novellava di fredde e atroci vendette e di ter-
ribili castighi. Dai casi della cronaca contemporanea to-
glieva vicende e figure consimili, scrivendo a suo modo
(Circe) l'autobiografia di quella contessa Tarnowska che
fu processata e condannata dai tribunali italiani come
promotrice e complice di un delitto alla russa, cioè com-
messo da gente di ravvolta e insieme fanciullesca e di-
spersa psicologia. «Ti amo ‒ le fa dire da uno dei suoi
innamorati, ‒ perché sei perfida e pericolosa. Perché ho
paura di te. Perché Bozewski è morto per te. Perché Ka-
marowski è pazzo di te. Perché tutti parlano male di te.
Perché hai quella faccia bianca e sottile, e la bocca terri-
bile, e gli occhi lunghi e crudeli. Ti amo perché sei di-
versa da tutte, peggiore di tutte, piú intelligente di tutte,
piú appassionata di tutte. E t'amo perché hai voluto che
io t'amassi.» La guerra le offerse nuova materia e moti-
vi, l'invasione degli eserciti stranieri, e le spose e le fan-
ciulle violate e rese madri (L'invasore, Vae victis!), rea-
332
genti diversamente alla maternità che si schiude nel loro
grembo, con orrore e risoluzione di sopprimerla, o con
sacro sentimento di rispetto e di umile dedizione. E non
solo l'immaginazione le suggerí altre «trovate», di solito
felici, ma varia e diversa materia le porsero i viaggi nel
Far-west e nelle solitudini popolate da immense greggi,
le esperienze della società americana, la dimora tra
mondana e giornalistica in Londra, le avventure della
sua vita italo-anglo-americana: a capo delle quali tutte, e
non solo per cronologia, stava l'incontro con Giosuè
Carducci, che la prese per mano e la presentò al mondo
letterario, stupito del presentatore e della presentata.
Sono racconti che ella fa con agile e viva intelligenza,
con rapidità, senza mai dare nel goffo o nel volgare, si
direbbe con furberia; e senza prenderli troppo sul serio,
senza farli pesare sulla sua anima a rischio di renderla
grave e pensosa delle umane passioni e ansiosa delle
umane sorti; piuttosto come giuoco dell'immaginazione
che come coscienza di conflitti reali; e il lettore, da par-
te sua, li accoglie e li segue con curiosità, sedotto e tra-
scinato, dalla prima all'ultima pagina, ma anche lui non
prendendoli troppo sul serio; sicché pare che, alla fine,
un sorriso si scambi tra esso e l'autrice, un sorriso come
tra due esseri che si siano volentieri lasciati ingannare a
vicenda, senza perciò ingannarsi, e cosí si siano recipro-
camente procurati un piacere, sul quale non è il caso di
riflettere e sottilizzare, perché, quale che sia, è stato un
piacere.
Piacque questo fare e questo tono anche a un Giosuè
333
Carducci, quasi un improvviso gaio raggio di sole, un
sollievo e una gioia in mezzo al furore e alla malinconia
del suo sublime poetare, e all'austerità del suo costume
di studioso e di cittadino. Ma gli piacque anche perché
egli, artista, scorse subito nella vergine folle che audace-
mente gli aveva portato il suo quadernetto di versi, segni
indubbî di ingegno artistico e di poetica fantasia. Erano
in lei impeti verso la gioia del vivere e verso il dramma,
o piuttosto la commedia, dell'amore, moti di umana
compartecipazione, di acuta penetrazione, di simpatia,
d'indulgenza, di pietà: commozioni capricciose, lievi e
fuggevoli, a fior di pelle, ma spontanee e fresche, e
un'attitudine a rappresentarle nella loro levità, con pochi
tratti sicuri, senza calcarvi sopra e deformarli, con aria
stupita, con certa ingenuità maliziosa, e, insomma, con
grazia.
Di questi tratti è pieno il romanzo I divoratori, che
non giova esaminare né nell'idea, postavi a fondamento,
della corsa delle lampade, del sacrifizio dell'una genera-
zione all'altra, idea che vi sta a pretesto, né nel disegno e
nella contestura, ma che bisogna per l'appunto guardare
in quei momenti di arte e di poesia che vi spuntano
come tenui fiori leggiadri. Un primo flirt o balenio di
amore: Valeria vede un giovane che sta a pescare e che
ella distrae da quell'atto col lasciar cadere il cappello nel
fiume, cosí tentando di entrare con lui in conversazione:
Allora ella, prendendolo ben di mira, gli gettò in pieno
petto il pesante e malconcio oggetto; poi si avviarono ognu-
no dalla sua parte dell'acqua e camminarono cosí, sorriden-
334
dosi da una riva all'altra. Sul ponte si incontrarono e si stese-
ro la mano.
— Mi spiace per la sua trota, ‒ disse lei.
— Mi spiace tanto pel suo cappello, ‒ disse lui. E risero
entrambi. Poi non seppero piú cosa dire.
Ma qualcosa egli dice poi, in una lettera che le scrive: le
dice, tra l'altro, che ella ha gli occhi haunting:
Valeria tornò a casa come in sogno, andò a cercare nel suo
dizionario inglese-italiano la parola «haunting». La trovò:
«ossessionante».
Si sentí contenta di avere gli occhi ossessionanti. E lui,
che occhi aveva? Non se ne ricordava piú. Azzurri, forse.
Forse bruni.
La sua bambina si rivolta e difende la propria fantasia di
bimba contro le precise conoscenze che le somministra
la buona istitutrice tedesca:
Nancy faceva poche domande. Preferiva non sapere tante
cose. Non le piacevano piú i fuochi d'artifizio da che, una
volta, ne aveva visti di giorno avvolti in carta dentro una
cassetta. Ma come? Non erano dunque i bambini delle stel-
le?
Tutte le definizioni di cose e di fenomeni che Fräulein le
faceva, urtavano la sua fantasia quanto l'accento tedesco di
Fräulein le feriva l'orecchio.
Se Nancy diceva: «Che belle nuvole rosse!», Fräulein su-
bito cominciava:
— Sai che cosa sono le nuvole?
— No, no! ‒ gridava Nancy. ‒ Non so, e non voglio sape-
re. — E correva via per non sentire.

335
E, quando le nozioni astronomiche e geografiche della
istitutrice giungono talora al suo cervello, che cosa mai
vi diventano! A quali nuove fantasie non danno la spin-
ta!
Fräulein, nella sua lezione di ieri, le aveva insegnato un
fatto meraviglioso: aveva detto che il mondo era una stella:
una stella rotonda oscillante nell'azzurro, con tante altre stel-
le tutte all'ingiro. Sí, sopra alla terra ed anche giú, sotto, in
tutta l'aria celeste intorno al mondo galleggiavano le stelle!
Ma dunque, se si andava all'orlo del mondo, proprio fino
all'orlo, là dove la curva della terra comincia a scendere, si
poteva certo, sporgendosi un poco (ed aggrappandosi forse
ad un albero per non cadere!) guardar giú nel cielo e vedere
le altre stelle, sospese sotto di sé.
Cominciava a comporre, grave e seria, i suoi primi ver-
si, tra la meraviglia e l'ammirazione delle persone di
casa e degli amici:
— Nancy non viene. È in giardino a scrivere una poesia!
Dice che non vuol mangiare.
La signora Avory rise, sorpresa. Nino disse:
— Si può sapere di che cosa tratta la poesia?
— Ma mi pare ‒ disse Fräulein ‒ che si tratti della sua
bambola spezzata e del suo canarino morto.
— Ma come? Il canarino è morto? ‒ esclamò Valeria. ‒
Bisognava dirmelo!
— E la bambola è rotta? Ma gliene compreremo subito
un'altra ‒ disse la signora Avory, molto agitata.
— Ma non è... non sono... non è vero... ‒ spiegò Fräulein
confusa. ‒ Soltanto Nancy dice che non può scrivere poesia
su cose che non siano spezzate e morte.
336
Una giovinetta, che gioca e ride, ed è ignara della morte
che l'ha toccata e le sta sopra precoce:
Al tennis Edith, diafana e leggiera, volava come una saet-
ta, giocando all'impazzata, ridendo tra i flavi capelli scom-
posti; ed aveva le guance rosate ‒ diceva Nino ‒ come il
cuore di una conchiglia.
Alla sera Edith si abbandonò in una seggiola a dondolo,
ed era pallida e dolce che pareva una farfalla stanca.
Un vegliardo, di mente svanita, tornato fanciullo, e che
si sente debole e fragile come un fanciullo, e tuttavia,
con improvvisa risoluzione, senza che nessuno se ne ac-
corga, esce ed erra per la campagna in cerca della nipo-
tina che non si sa dove sia andata e non si è ancora rin-
tracciata; e, nell'affanno di quello sforzo e di quelle ri-
cerche, la sua fragile vita si spezza:
Il vecchio uomo volgeva ancora tardi passi per la scura e
desolata brughiera. Vide qualcosa oscillare e muovere contro
il cielo.
— Sarà Nancy ‒ disse, e la chiamò.
Ma era una trebbiatrice, coperta di lunghe tele nere, che si
sollevavano nell'aria. Il nonno si affrettò un poco nel passare
e disse forte:
— Ho ottantasette anni.
Allora si sentí piú tranquillo. Era persuaso che nessuno,
sapendo la sua grande età, gli avrebbe fatto del male. Difatti
la trebbiatrice lo lasciò passare senza fargli nulla, e non lo
seguí coi suoi cenci sventolanti, come egli aveva temuto.
E la vita a Davos, come è vista nella sua angoscia dispe-
rata, nella ferocia del chiuso egoismo che induce in quei
337
malati, in quei morituri!
Edith cercò qualche cosa di consolante da dire.
— Non bisognerebbe affliggersi di star qui. Davos è cosí
divinamente bella! Non si può non amare questo splendido
azzurro, queste montagne sfolgoranti di neve e di sole.
— Oh! le montagne! ‒ mormorò Rosalia con le mani con-
tratte ‒ le montagne che mi pesano sul petto! E la neve che
mi agghiaccia e mi soffoca, e il sole che mi brucia e mi ac-
cieca! Oh! ed alzò il pugno sottile verso l'immensità che tor-
reggiava intorno a lei. ‒ Oh! questa indescrivibile, questa
mostruosa prigione della Morte!
In quel momento passò una giovinetta belga, con le labbra
pallide ed il vitino stretto, e si fermò a domandare a Rosalia
come stava.
— Male ‒ rispose la russa, brevemente.
Quando la ragazza fu passata, si rivolse ancora ad Edith:
— E saprete allora cosa vogliono dire quando vi doman-
dano: «come state?». Non è il solito: «Come va?», che si
dice passando, quasi senza pensarci. No, qui vogliono sape-
re, lo domandano sul serio. «Come state? State meglio di
me? È possibile che possiate guarire piú presto di me? No,
no, mi pare che stiate un po' peggio di me... Come? Da un
mese non avete emorragie? E nessuna febbre? Ma brava!!
Cosí va bene!...». E poi vedete nei loro occhi l'odio che vi
vorrebbe morta.
Anche le figurazioni dei luoghi sono sentite con vivezza
ed espresse con tocchi efficaci. Un padre aspetta con
impazienza il figlio che, a notte tarda, non ancora rinca-
sa, impegnato come è in una relazione femminile:
Accigliato e scrollando il capo, andò alla finestra ed aprí
338
le imposte. Milano dormiva. Deserta e silenziosa la via Prin-
cipe Amedeo si stendeva davanti a lui. Ogni alterno fanale
spento indicava che la mezzanotte era passata. Un melanco-
nico gatto attraversò la via, rendendola piú vuota con la sua
presenza.
Ammirevoli taluni scorci di racconto, come, dopo avere
descritto la vita di stenti dei primi anni passati da Nancy
in New York:
La Miseria, dalle scarne mani, e sua sorella, la Solitudine
dagli occhi allucinanti, spinsero Nancy nella nebbia di un al-
tro anno sterile e triste. Ed ella andò, mite, con i suoi tacchi
storti ed il suo vestito marrone, traverso un'altra estate, un
altro autunno, un altro inverno. Ed ora ecco l'aprile!
Nancy attraversa l'Oceano, va allo sconosciuto col quale
ha intrattenuto una lunga corrispondenza. Lo trova: si dà
a conoscere: viaggia con lui, e tuttavia l'una e l'altro si
comportano come se continuassero l'amore da lontano.
Un giorno, egli le dice:
— In una delle tue lettere, molto tempo fa, mi scrivesti:
«Questo amore attraverso la lontananza, e senza l'aiuto di al-
cuno dei nostri sensi, questa è la Rosa dell'Amore, la mistica
Meraviglia, fiorita nelle nostre anime, a diletto dei cieli».
Vogliamo coglierla, Nancy? Coglierla e portarla per diletto
nostro?
L'acqua correva chiacchierando al sole, e il vento volava
sull'erba. Egli le tolse una mano dal viso e la guardò.
— Rispondi ‒ disse con voce bassa e veemente.
— Allora ‒ disse Nancy ‒ se la cogliessimo... non sarebbe
piú la mistica Rosa celeste... non è vero?

339
— Già ‒ disse lui.
— Allora sarebbe una povera rosa come tutti ne hanno...
una rosa di tutti i giorni e di tutti i giardini...
— Già ‒ diss'egli ancora.
Ella ritirò la mano dalla sua stretta. E la mano di lui rima-
se vuota ed aperta nel sole: una grande mano, forte ma soli-
taria.
Lascio di trascrivere dai Divoratori, e lascio da parte
gli altri volumi, quelli posteriori, che sono piú esclusiva-
mente rivolti agli effetti narrativi che abbiamo indicati, e
perciò di minore e spesso assai scarso valore propria-
mente artistico. Pure, anche in essi s'incontra qualche
pagina alata, gentile, graziosa, come in Naja tripudians
l'aneddoto della giovinetta Myosotis, che dalla provincia
scrive e si confida e si lascia consigliare dalla collabora-
trice di un giornale di Londra, che firma la rubrica a ciò
destinata «La zia Marianna», e che con lei si dimostra
materna, e le manda per confortarla la sua fotografia, la
fotografia di una buona mite vecchierella. E quando la
giovinetta, in compagnia della sua istitutrice, andata a
Londra, commossa e gioiosa, con un mazzo di rose, si
reca all'ufficio del giornale per conoscere di persona la
vecchia amica e confidente e consigliera, in una piccola
stanza buia, con la finestra che dà su un muro annerito
dal fumo e dagli anni, trova un uomo sulla quarantina,
largo di spalle, con una grande barba bruna, seduto a
una grande tavola ingombra di carte, il quale, alla loro
richiesta, risponde: «La zia Marianna sono io!». La ra-
gazza è stordita e sconvolta dalla sorpresa, confusa e

340
vergognosa pel ricordo di tutto quanto aveva svelato, a
quell'uomo che le sta dinanzi, dei suoi intimi pensieri,
dei suoi sentimenti e dei suoi sogni. L'altro le parla,
semplicemente:
— È da vent'anni che faccio la «zia Marianna», e, al prin-
cipio, rispondendo alle sue lettere, non pensavo affatto
all'inganno. Poi le sue lettere mi piacquero tanto che... non
volevo che cessassero. Mi comprende? mi perdona?
Ella non poteva alzare gli occhi né rispondere. Finalmente
trovò un filo di voce per dire sommesso con amaro rimpro-
vero:
— Quella fotografia!...
Egli s'avvicinò d'un passo. ‒ E la fotografia di mia madre.
‒ disse.
Un suono, una vibrazione nella sua voce, toccò qualche
cosa nel cuore della fanciulla. Con subitaneo impulso ella
tese verso di lui la mano che teneva le rose.
— Allora... È quella la mia amica! Porti le rose a lei...
Egli accettò il mazzo fragrante, senza rispondere, senza nep-
pur ringraziare.
Miss Jones era già sulla porta e Myosotis la raggiunse.
— Mio Dio! ‒ esclamò Miss Jones, appena furono in
istrada, ‒ che cosa fantastica! La zia Marianna, un uomo!...
Chi mai l'avrebbe pensato? Probabilmente ‒ soggiunse ‒ sa-
rà molto povero, e non avrà trovato altro da fare.
— Già, ‒ fece Myosotis ad occhi bassi.
E non disse altro.
E questa grazia è in parecchie delle sue brevi novelle
e in taluni suoi ricordi di viaggio, come quelli della sua
vita nelle lontane praterie americane, e del suo smarri-
341
mento e abbattimento nella desolante solitudine («Mio
Dio! mio Dio! mio Dio! ‒ E chinai il capo, ancora ondu-
lato dal parrucchiere di Chicago, sul tavolo, e singhioz-
zai»), delle giornate che colà condusse, e soprattutto dei
sogni che vi faceva...
Io non ho mai saputo che cosa significasse dormire prima
di aver vissuto nel Texas. Nelle notti europee sonno e sogni
mi avevano bensí annebbiato i sensi, mi avevano avvolto il
cervello di veli tenui e ondulanti. Ma il sogno di Mariposa
era un istantaneo completo annientamento: era una lacuna
nera. Dalla piena coscienza si piombava a capofitto in quel
vuoto vellutato, denso, morbido, assoluto.
E belli sono alcuni articoli, come quello della «Visita
a un penitenziario», e l'altro in cui descrive una sua ul-
trapiena giornata londinese con l'intervento alla adunan-
za della società dei veterani italiani, che vivevano in
quella città. Ella considera, tra curiosità, riverenza e ri-
morso ‒ rimorso d'italiana ‒ quei poveri e dimenticati
superstiti di anni gloriosi.
Mi volgo al mio vecchio vicino genovese e gli chiedo: ‒
E lei si trova in Inghilterra da molto tempo?
— Da molto tempo. ‒ Pur da cosí vicino la risposta mi
giunse come un'eco.
— E che cosa fa di bello a Londra?
Il veterano mi guarda dolcemente coi ceruli occhi appan-
nati.
— Giro col cane e colla scimmia, ‒ dice.
Li va a cercare nei loro stambugi e li ode parlare, as-
sorti nel loro passato che è il loro presente e il loro tutto.
342
Raccontando avvenimenti di mezzo secolo fa, il vecchio
soldato parla al presente.
— Il mio colonnello, sa, è un brav'uomo. Ce n'è pochi
come lui. E vuol bene a noi soldati! Mai che manchi d'assag-
giare la nostra minestra!... Ah, signora, bisognerebbe che lei
lo conoscesse!
— Ma ‒ rispondo un poco perplessa ‒ vive dunque anco-
ra?
— No. È morto alla battaglia di Solferino.
Coglie le illusioni che quei vecchi ancora accarezza-
no e che li sorreggono e consolano:
Parton Street, numero 2. È questo. Salgo al terzo piano, e
mi viene incontro barcollando un magnifico vegliardo col
viso d'apostolo e la bianca barba fluente. Ha in mano un
Corriere della sera, e mi spiega che due volte alla settimana
egli si permette il lusso di leggere le notizie del suo paese.
— Costa quattro soldi, ma la Società mi passa cinque lire
alla settimana; e alla mia età occorre poco per vivere. Si
beve acqua, e si è quasi vegetariani... ‒ Cosí dicendo, ripiega
con cura quasi amorosa il foglio. ‒ E poi... forse... quando
sarò morto, questo giornale parlerà di me.
Cosí discopro la Fata Morgana di questo vegliardo vene-
ziano: egli spera e sogna l'immortalità.
Anche come una fiaba è raccontata la sua prima visita
al Carducci e l'affetto che il gran poeta le pose.
Rammento che quando, nei primi mesi della spedizio-
ne italiana a Tripoli e della guerra con la Turchia, in
quasi tutti i paesi europei si levò un urlo di voci calun-
niose e d'ingiurie ‒ un po' per diffusa turcofilia, un po'
per non ingiustificati timori di rovina del traballante edi-
343
ficio della pace europea, ma molto anche per vecchio
abito di avversione e dispregio delle cose italiane, ‒ la
Vivanti mandò al Times una poesia in inglese, della qua-
le dié anche una parafrasi italiana:
My Lady Italy, when thou art gay,
decked as a maiden for holiday
in thy tricolour's bright resplendency...
«Madonna Italia, ‒ le diceva ‒ quando siete in festa,
adorna della vostra tricolore leggiadria, come una bella
spensierata che vada alla danza, allora dalle nordiche
terre vengono gli stranieri a sospirarvi d'intorno, allora i
nordici poeti, per cantare la vostra beltà, cercano nei
freddolosi idiomi lusinghe di latina bellezza. E solo i
vostri figli, allora, vi censurano, vi accusano, vi biasi-
mano. Ma ora che siete in travaglio e lutto, quelli vi si
volgono contro con subitaneo sdegno e con fredda rigi-
da viltà, e i vostri figli, gridando il vostro nome, com-
battono e muoiono per voi. Ma verrà la pace, voi nella
chioma porterete un gioiello nuovo, la declinante luna
d'oriente, e allora i nordici vicini torneranno a corteg-
giarvi. E voi, Italia, sorridente e memore, aprirete loro le
ridenti rive, le glauche acque, le ville, i giardini, i fiori.
Aprirete il Pincio e Boboli, ma il vostro cuore, no! Fiera
e ferita Italia, il vostro cuore, no!».
Open the Pincio and the Boboli!
But not thy soul, oh grieved Italy,
But not thy soul, affronted Italy!269
269
Il testo inglese fu edito nel Times del 2 dicembre 1911, e la parafrasi italia-
na nella Vita di Roma del 4-5 dicembre, come vedo dai ritagli che ho con-
344
Ed io ammirai come, nella sua fantasia, avesse saputo
trasformare e non allegoricamente, l'Italia in una donna,
in una vera donna, bella e desiderata, in mezzo alla folla
degli ammiratori e innamorati, e dare piena realtà
d'immaginazione a questo dramma muliebre di corteg-
giamento, di abbandono, di rinnovato corteggiamento e
di cuore offeso che non dimentica.
Pure, di questa scrittrice, che sa rappresentare in tutti
i suoi diversi, opposti ed estremi aspetti la donna, e che
ha tanta grazia donnesca, ricordo di avere udito ‒ or
sono piú di quarant'anni ‒ esclamare da Matilde Serao
(la quale soleva dividere le donne scrittrici in «virili» e
«femminili»): che Annie Vivanti era un «ingegno viri-
le». Perché? ‒ mi domandai allora. ‒ Forse ‒ spiegai a
me stesso, ‒ perché pensa, immagina, rappresenta, e ha,
comunque, una sua linea e un suo gusto d'arte.

servati.
345
LXI. GRAZIA DELEDDA270

Il Bonghi, che assai lodò nel 1895 il primo romanzo


della Deledda, Anime oneste, per quel che aveva di di-
verso e opposto rispetto alla letteratura veristica e per
l'amore che spirava verso il paese natio, la Sardegna,
«l'Isola che ha attraversato i secoli gloriosa ma non sem-
pre felice», e che ella avrebbe voluto «vedere in cima al
cuore degli italiani con prove d'affetto sincero ed effica-
ce», avrebbe avuto gran motivo di compiacersi delle
lodi da lui largite, della speranza e della fiducia dimo-
strate, se avesse potuto vedere l'opera che la Deledda
venne eseguendo dopo quel primo romanzo. Ella non
deviò mai dal cammino prescelto, curò sempre meglio
con lo studio e con l'esercizio la forma del suo scrivere,
lavorò senza posa in modo da produrre una quarantina
di volumi, quasi un romanzo all'anno; e fu, per lungo
tempo almeno, accompagnata nel suo lavoro da unanimi
elogi, dalla simpatia di numerosi lettori in Italia e
all'estero. Le materie che essa trattava erano sempre le
due lodate dal Bonghi: storie di amori e di colpe, narrate
con un sano ed equo giudizio morale, e descrizioni di
paesaggi e di costumanze della Sardegna: cose l'una e
l'altra gradevoli e gradite. Per la seconda delle quali la
Deledda fu altresí comunemente considerata e celebrata
interprete e rivelatrice dell'anima di quella poco cono-

270
Queste pagine furono scritte nel 1934, vivente ancora la Deledda, e le la-
scio intatte, senza estendermi nell'esame dei giudizî dati negli anni poste-
riori intorno all'opera sua.
346
sciuta, perché poco frequentata, regione insulare d'Italia;
il che altri ha poi contestato, ed è un dibattito ancora
aperto se la Sardegna della Deledda sia o no la genuina
ed integrale Sardegna: dibattito nel quale non è il caso
di entrare, perché non ci vuol molto ad intendere che co-
sí quel che vi si afferma come quel che vi si nega, è pri-
vo di senso, non potendo una novellatrice dar mai altro
che la Sardegna del suo sentimento e della sua immagi-
nazione, giacché quella reale appartiene, per il suo pas-
sato, alla storia e, per il suo presente, alla geografia e
alla statistica. Ma, certo, l'interessamento per il costume
esotico («esotico» è anche il «regionale») e la curiosità
folkloristica hanno assai contribuito alla divulgazione e
alla buona fortuna dei romanzi della Deledda.
Anche la critica risentí l'effetto della placida e genera-
le accoglienza favorevole che essi incontrarono, e piú
ancora delle loro sembianze e dei loro atteggiamenti co-
sí semplici, composti e onesti da renderla riguardosa e
necessariamente cortese. Vero è che non andò mai oltre,
ch'io sappia, di questa alquanto passiva adesione all'opi-
nione generale; si direbbe che la critica dinanzi a quei li-
bri avesse poco da fare del suo consueto fare, ossia del
suo indagare e discutere. Qualche volta che, dando pro-
va di buona volontà, tentò di mostrare dove sia il loro
vero pregio, cioè il loro nucleo poetico, disse che la De-
ledda ha il dono del narrare, che è una narratrice di raz-
za, come una vecchia contadina, o anche che essa fu
dapprima la raccontatrice dell'epopea popolare, inedita
ed orale, che fioriva nella sua isola, senza ambizione
347
d'indipendenza e di originalità, e che poi si affinò
coll'esperienza del realismo nostrano e del romantici-
smo religioso dei russi, cioè con Verga e Dostojewski 271.
Ora, se ci si ripensa, né il raccontare come una vecchie-
rella presso il focolare, né il raccogliere le storie correnti
nel proprio paese, e neppure il sopraggiunto influsso dei
libri che si sono letti, bastano ad accertare dell'esistenza
di un nucleo poetico, nonché a qualificarlo. Ma altre
volte s'è udito la critica borbottare: ha borbottato non so
che di «rispetto» e di «noia», insieme confluenti, che
emanano dai libri della Deledda272; e a questo borbotta-
mento corrisponde una certa impressione che si è venuta
formando a poco a poco nel comune stesso dei lettori,
che dicono che i suoi libri sono «monotoni» e «senza ri-
lievo»273.
271
Sono giudizî del BORGESE (La vita e il libro) e del RUSSO (I narratori)
272
Sono giudizî del SERRA (Le lettere, 2a ed., Roma, 1920, p. 119): «Ha una
maniera anche lei e la sfrutta, ma non con abilità commerciale, con una cer-
ta ingenuità che la rende noiosa e la fa rispettare»; e del PANCRAZI (Raggua-
gli di Parnaso, Firenze, 1920, p. 103): «La Deledda persiste a moltiplicare
la tristezza e la noia sua e della sua Sardegna per quanti sono i suoi volumi
con uno scrupolo e una coscienza cui non ci riesce neppure a mancare di ri-
spetto» (il Pancrazi si è dimostrato poi piú favorevole verso l'arte della De-
ledda che non fosse in questo suo detto, «che volentier ricolgo», come dice-
va l'antico sonetto di Cino da Pistoia).
273
Ciò è riconosciuto come fatto, anche se non per questo accettato, da parte
di chi assai l'ammira: «Non appena saziate le curiosità folkloristiche, il
gran pubblico si stancò dei libri di Grazia Deledda e, appiccatale l'etichetta
della ‘monotonia’ e del ‘grigiore’ tanto da fare dell'autrice una ‘crepuscola-
re’ quasi e un'‘idilliaca’, l'opera si ripose nel gran casellario della storia del-
la letteratura, le quali etichette a togliere nemmeno valse il premio Nobel,
assegnato nel 1927 alla Deledda, quale maggiore fra i poeti viventi d'Italia»
(GIOVANNA CHROUST, Grazia Deledda e la Sardegna, Roma-Milano, 1932, p.
88).
348
La semplice verità è che la Deledda, con tutte le virtú
che è giusto riconoscerle, non ha mai sofferto quello che
può chiamarsi il dramma del poeta e dell'artista, che
consiste in un certo modo energico e originale di sentire
il mondo (per questo si parla del «loro mondo»), e nel
travagliarsi a dargli forma di bellezza, nella qual cosa di
solito non riescono se non dopo alcune prove fallite o
approssimazioni insufficienti, e, quando alfine vi riesco-
no e hanno detto bene quel che volevano dire, si arresta-
no, o talora continuano bensí a muoversi ma dando se-
gno di ripetizione e di esaurimento. Ed ecco perché la
critica ha avuto poco da fare intorno a lei; e insieme
ecco perché l'autrice ha potuto continuare tranquilla-
mente, senza stancarsi, nel suo lavoro di combinare e ri-
combinare i casi, i personaggi e le scene che le sono
consuete e tesserne romanzi, che non sarebbe agevole
differenziare tra loro nel loro merito artistico, essendo a
un dipresso tutti del pari plausibili, e nessuno cosí fatto
da imprimersi profondamente nel cuore e nella fantasia
dei lettori.
Si prenda uno dei suoi primi romanzi, Il vecchio della
montagna, del quale la figura eminente dovrebbe essere
zio Pietro, il vegliardo contadino cieco, che parte solo
col suo bastone per ricercare nella città il figlio che gli
han messo in prigione e precipita nello scendere dalla
montagna e muore. C'è qui un'intenzione di grandioso e
di tragico, ma nell'effetto l'esecuzione ha del banale.
Dopo pranzo Melchiorre e zio Pietro se ne andarono a
meriggiare sotto gli alberi. Il vecchio pose il berretto sotto il
349
capo, il bastone a fianco, e in breve, cullato dallo stormire
del bosco, si addormentò. Una chiazza di sole gli calava sul
dorso, e la brezza smoveva le candide ciocche della sua bar-
ba: pareva un vecchio santo addormentato nella serena soli-
tudine del bosco...
Nel romanzo s'intreccia il solito folklore:
Zio Pietro raccontava una storia di due pastori che, sdraia-
ti all'aperto, in una serena notte estiva, avean desiderato, uno
di posseder una terra grande quanto il firmamento, l'altro
tante pecore quante stelle vi brillavano.
— E dove le pascoleresti? ‒ chiese il primo.
— Nella tua tanca.
— Ma io non te l'affitterei.
— Ed io entrerei lo stesso.
— E io ti pesterei il muso.
— E prova!
S'azzuffarono, e le stelle risero di loro.
L'arresto del nipote e la morte del vecchio furono ca-
gionati dalla perfidia della contadina Paska e dall'acce-
camento di passione del giovane Basilio, fattosi calun-
niatore per amore. Innanzi al cadavere del vecchio, Ba-
silio sente il rimorso:
Sí, egli l'aveva ucciso; ma sentiva che nessuna cosa al
mondo, neppure l'amore di Paska, avrebbe potuto ridonargli
pace.
E si prenda un altro romanzo, della piena maturità
dell'autrice: Marianna Sirca (1915): di una donna che
s'innamora di un bandito e vuole sposarlo con l'intesa
che questi si presenterà alla questura, espierà la condan-
350
na e intanto lei lo aspetterà. Il giovane, dopo questa pro-
messa, è persuaso dai compagni a non fare quel passo, e
si tira indietro. La donna lo insulta vile, tutto è rotto tra
loro; ma, nel partire dopo l'ultimo colloquio, egli è col-
pito a morte e muore in casa della donna, che piú tardi
prende marito. È cotesta la linea di un racconto poetico?
L'esecuzione segue la solita maniera, semplice, gradevo-
le e superficiale. Del pari, in uno dei piú recenti, Anna-
lena Bilsini (1927), si racconta di una contadina che sta
a capo di una laboriosa famiglia di figli e di nipoti e, fat-
ta segno di amore dal padrone del podere, infelicissimo,
con la moglie pazza, sente forte il richiamo dei sensi, e
nondimeno resiste finché tutto si ricompone nella calma
della bene avviata azienda rurale. A questa storia si an-
nodano altre, particolarmente di uno dei figliuoli, vio-
lento nelle sue passioni, ma che pure torna nella regola,
e della figliuola del padrone, che finisce col rendersi
monaca. Anche qui il tessuto ha carattere meramente
narrativo, di un fatto dopo l'altro; e i racconti e le descri-
zioni vi sono bensí condotti con correttezza, ma non su-
scitano nessuna commozione e nessun sogno. Annalena
combatte con l'insidia dei sensi:
Non era donna da ingannare sé stessa: sentiva che il desi-
derio dell'uomo vinceva la sua carne ancora viva, e l'influs-
so, quasi l'esempio, della natura in piena fecondazione, della
terra posseduta con violenza dal sole, aumentava il fermento
del suo sangue.
Ella non si abbandonava al suo istinto: non per paura del
peccato, ma per sostenere il suo dominio su sé stessa e gli al-

351
tri; grave però era il suo travaglio; tanto piú grave quanto piú
nuovo; ed anche in questo ella non s'illudeva.
Camminava sull'erba, e diceva a sé stessa: ‒ Invecchian-
do, si diventa pazzi. Coraggio e forza, Annalena; passerà an-
che questa.
Ma il pensiero dell'uomo non l'abbandonava: a momenti
sentiva la grande persona di lui, calda di bramosia, sover-
chiarla e stringerla, e le dita le si gelavano per l'angoscia del
desiderio: subito però si scuoteva e si riprendeva. Cosí la ter-
ra intorno a momenti si anneriva d'ombra torbida, e tosto si
rischiarava per il giuoco della luna tra le nuvole correnti.
Un temporale è in giro: passerà, e speriamo non porti la
grandine.
L'inquietudine per questo pericolo la distrasse: guardò il
campo del frumento, già con le spighe gravide, guardò il
campo ove le saggine sorgevano come giovani palme, e pen-
sò che era tempo anche di sorvegliare le galline contro la
volpe che s'agguata facilmente dove la vegetazione è alta e
fitta.
Cosí Annalena dovresti tu pure sorvegliarti contro la vol-
pe del tuo cuore.
Come questa pagina, cosí non si può non lodare quel-
le che si riferiscono alla vita della campagna: per esem-
pio, l'attesa dell'acqua e della neve sui campi nell'ansia
del contadino.
Venne una mattina il primo velo di nuvole; la scomparsa
del sole, sebbene il freddo divenisse cosí intenso che quasi
non lo si sentiva piú, fu salutata come quella di un flagello.
Le nuvole si fecero basse, nere, e diedero alla terra un
aspetto sinistro; ma, con l'alzarsi del sole si alzavano

352
anch'esse e s'imbiancavano. E gli occhi di tutti, anche quelli
dei bambini dritti sullo scalino della finestra, si sollevavano
lucidi di speranza.
— Verrà la neve. Finalmente verrà.
Verrà la neve, ed il suo coltrone bianco coprirà la vite e il
grano, salvandoli dalla loro lenta morte: salverà la vite e il
grano, il sangue e la carne della terra, i termini che ci uni-
scono a Dio.
Alla notte però le nuvole se ne andarono furtive come ra-
gazze che di nascosto si recassero al ballo: stelle mai vedute,
di uno splendore quasi terribile, illuminavano il cielo di cri-
stallo livido; poi all'alba, quando i rumori anche piú lontani
risonavano chiari e metallici, le nuvole tornavano scure e
cupe come le donne disilluse dal ballo. Solo la sera della Vi-
gilia esse rimasero alte e pallide sul cielo.
— Questa notte viene certo. Viene.
Ma anche si rinnova l'impressione dell'ovvio e del co-
mune: come dinanzi a un componimento da scuola.
Si potrebbe continuare, passando in rassegna gli altri
romanzi della Deledda: per esempio, Elias Portolu
(1903), Cenere (1904), La via del male (1906), Il nostro
padrone (1909), Sino al confine (1910), L'incendio
nell'oliveto (1918), tra quelli dell'età media; Il segreto
dell'uomo solitario (1921) e Il Dio dei viventi (1922) tra
gli ultimi; e si verrebbe sempre alla medesima conclu-
sione. Un uomo, che si è ritirato a vita solitaria in una
casipola fra i campi, fa la conoscenza di una giovane si-
gnora venuta a dimorare là presso col marito infermo e
che le muore. I due s'innamorano e stanno già per spo-
sarsi, quando l'uomo solitario le racconta la sua vita pre-
353
cedente, e le sue relazioni di odio-amore con la prima
moglie, e gli otto anni in cui stette chiuso in un manico-
mio, e altre cose del passato che sembrano presagi del
futuro: sicché la giovane donna tituba e poi s'allontana
da quei luoghi ed egli, rimasto di nuovo solo, va a pren-
dersi la bambina che una contadina gli ha partorito. È
questo il Segreto dell'uomo solitario: un segreto la cui
rivelazione non è attesa con ansia e trepidazione o cu-
riosità e che, rivelato, lascia incommossi e indifferenti.
L'efficacia del romanzo russo, che si avverte in alcune
parti di questo e di altri della Deledda, non vale a confe-
rirgli intensità poetica. Nel Dio dei viventi, un tale sot-
trae e distrugge un testamento, con cui il fratello lascia-
va erede un suo figlio naturale; e, da allora, roso dal
chiuso rimorso, molte cose gli van male, finché non si
risolve a restituire il mal tolto.
Neanche il sentimento morale può dirsi veramente
che dia vigore unitario ai racconti della Deledda, quan-
tunque abbia gran parte quasi in essi tutti. Cosí nel ro-
manzo Nostalgie (1905), nel quale ella insolitamente la-
scia da parte la Sardegna e la vita dei monti e dei campi
per mettere l'azione in Roma. La giovane sposa di un
modesto impiegato, per le privazioni ed angustie a cui si
vede costretta, è delusa nei suoi sogni, e soffre e freme
per tutto quello da cui le sembra di essere esclusa, agi,
eleganza, divertimenti: tantoché un giorno, non poten-
done piú, se ne torna alla propria famiglia col proposito
di aspettare colà che le condizioni economiche del mari-
to diventino migliori per riunirsi a lui. Ma, appena ha
354
fatto questo, che già è pentita; e intanto il marito che,
sempre molto innamorato, è venuto a cercarla, ha trova-
to il modo, assumendo nuovo lavoro, di procurarle una
vita piú larga e varia. Contenta ormai, ella si riconcilia
con Roma e gode una calma felicità; quando le si apre
improvviso il sospetto che il marito, per darle quegli
agi, si sia legato con una vecchia e ricca signora, diven-
tandone l'amante: sospetto tormentoso che, dopo lunghe
ambagi, la porta a un colloquio, che le dà la certezza
della colpa del marito, fatto colpevole per lei, degno di
riprovazione, degno di pietà. Ed ella accoglie il colpevo-
le nel sentimento della colpa comune, in una nuova vita
di scambievole sostegno, pensosi unicamente della loro
figliuola che non dovrà mai sapere della loro colpa e
della loro espiazione. «Perdonare dunque, perdonare piú
che mai. Passare taciti, simili all'acqua di un fiume, ver-
so la luce di un orizzonte oltre il terreno, verso il mare
della carità infinita, dove il piú grande degli errori uma-
ni non è che il ricordo d'una scintilla spenta.» Nel diver-
samente colorato costume sardo della Via del male, in
modo diverso ma analogo, la donna, che viene a scopri-
re che il suo secondo sposo è stato, per possederla, as-
sassino del primo, passa dal conflitto interiore alla riso-
luzione: «Da anni ed anni essi procedevano assieme per
una via grigia, vigilata dal fantasma del male; ed erano
giunti ad un crocicchio, adesso, intorno al quale s'apri-
vano altre strade, tutte uguali, tortuose e buie. Tanto va-
leva prendere l'una o l'altra: tutte conducevano allo stes-
so luogo di espiazione». Sono soluzioni ammissibili
355
come ogni altra che l'immaginazione può escogitare; ma
quel che vi si desidera, è ciò che sempre si desidera nel-
la Deledda: la motivazione ideale e poetica, la conver-
sione dei fatti in intima poesia. Quale delle sue innumeri
creature da romanzo entra a far parte di noi, come acca-
de delle creature poetiche, e vive nella nostra fantasia, e
sembra quasi proseguirvi la sua vita?
Ma il «desiderio», del quale parliamo, segna il limite
della Deledda e non vuole essere già un rifiuto di quel
che ella ha dato nella sua lunga, laboriosa e onesta opera
di narratrice. Vuol dire, in altri termini, che la sua arte è
da avvicinare, non all'arte di un Dostojewski e neppure
di un Verga, ma piuttosto a quella di un altro romanziere
sardo della generazione precedente, che incontrò già in
Italia e all'estero molta fortuna e anche la meritò, e sul
quale altresí la critica ebbe poco da dire: Salvatore Fari-
na274.
274
Sul Farina, v. Letteratura della nuova Italia, I, 181-88. [Il Falchi, ottimo
conoscitore di letteratura e storia sarda, scrisse, a proposito di questa mia
osservazione: «Dalla folta schiera dei narratori innanzi della Deledda uscí
in piú vasto aere, con arte piú potente, Salvatore Farina. Del quale, indub-
biamente, come afferma il C., la Deledda sentí l'influsso. Ma il C. dà alla
sua affermazione un significato troppo generico, riferendola a tutta la pro-
duzione deleddiana, mentre è chiaro ad ogni lettore dei romanzi della De-
ledda che quell'influsso si arresta alle Anime oneste e al Vecchio della mon-
tagna. Nei romanzi successivi l'arte della Deledda, per il modo di intendere
e di rappresentare la vita, che è modo tragico, di fatalità inestimabile e di
male, è, si può dire, proprio l'opposto dell'arte del Farina: non è piú né del
Farina, né del Verga, né del D'Annunzio: è soltanto lei» (nel giornale La
lettura di Roma, 10 febbraio '39). Ma io, oltre a indicare, come mi pareva
che altri non avesse ancora fatto, un rapporto di vicinanza regionale nella
formazione dell'opera della Deledda, volevo dire, e credo di aver detto, che
il valore di essa non supera il livello dell'arte del Farina, verso il quale si
pecca in giustizia distributiva, tanto spregiato e dimenticato a torto lui
356
LXII. CLARICE TARTUFARI

Una scrittrice alla quale toccò fama di gran lunga in-


feriore rispetto alla Deledda e scarso séguito di lettori,
Clarice Tartufari275, ebbe, in verità, temperamento assai
piú robusto, sguardo piú ampio e un sentire piú vigoroso
e compatto. Cominciò con alcuni volumetti di versi che
non hanno importanza; e solo piuttosto tardi si volse alla
forma del romanzo, nella quale il suo ingegno potè di-
spiegare tutte le proprie forze. Senza soffermarci sui pri-
mi suoi romanzi ‒ di cui il piú felice è Il volo d'Icaro
(1908), ‒ sono da tener presenti specialmente Il miraco-
lo (1909), che in altro senso fu il suo primo, quello che
le dié nome, Eterne leggi (1911), All'uscita dal labirinto
(1915), Rete d'acciaio (1919); l'altro che si riferisce al
movimento modernistico, Il mare e la vela (1924), i due
che hanno per sfondo gli anni della guerra, Il Dio nero
(1921) e La nave degli eroi (1927), e l'ultimo, Lampade
nel sacrario (1929).
Ciò che prima ferma l'attenzione e piace nei romanzi
della Tartufari, a segno che ha fatto pronunziare da qual-
che critico il nome del Balzac, è la capacità dell'autrice
di osservare e determinare nei loro tratti caratteristici gli
ambienti sociali e familiari: siano di piccole città come
Orvieto, o dell'isola di Capri durante la guerra, o di
Roma dopo la guerra, o di Tunisi con le sue colonie ita-

quanto l'altra fuor di proporzione esaltata.]


275
Nata nel 1868, m. nel 1933. Rievocò le sue memorie giovanili nel volumet-
to: Il gomitolo d'oro (Milano, Trevisani, 1924).
357
liane, o di vecchie famiglie provinciali o di famiglie
ebraiche; siano quelli che si formano sotto l'azione di
eventi pubblici irrompenti a dare nuove sembianze e
nuovo ritmo anche al costume privato. Orvieto, la famo-
sa sua cattedrale, le sue memorie storiche e i dotti tede-
schi che vanno a fare ricerche nei suoi archivi e a stu-
diare i suoi monumenti, le vecchie famiglie patrizie,
l'operosità del clero e dei suoi istituti, e le varie e diver-
se persone di preti e vescovi e rettori e confessori, e del-
la gente pia e fanatica, sono le immagini che si disten-
dono nel romanzo Il miracolo, e tutto lo circondano ed
abbracciano. A dar saggio del vigore con cui la Tartufari
ritrae i suoi personaggi si guardi al giovane dotto tede-
sco, simpaticamente rappresentato e messo in azione
con la sua rude semplicità, la sua laboriosità e rettitudi-
ne e il suo fare allegro, di esuberante gioia e sicurezza,
che non va senza alcunché di poco fine. Anche si guar-
dino certe figurine caratteristiche, perfettamente indivi-
duate, come quella del negoziante di cose d'arte, appas-
sionato della storia della sua terra, della Storia
senz'altro, nella solennità della lontananza, il quale,
quando gli fu detto che gli uomini sono sempre gli stessi
e in ogni tempo hanno fatto lo stesso:
...si scandolezzò perché gli antichi hanno fatto la storia, e di
essi va parlato con riverenza... Egli nutriva in sé il culto del-
la storia, e non poteva capacitarsi, ad esempio, che l'incogni-
to brav'uomo qualsiasi, il quale aveva dimorato nella sua ca-
setta cinquecent'anni avanti, non fosse superiore a lui di tutta
l'altezza di cinque secoli: «Lor signori mi devono capire» ‒

358
egli diceva, ‒ «io non posso paragonare a me un uomo vis-
suto nel mille e trecento; peccherei di sconvenienza, man-
cherei di riguardo a un uomo del tempo andato. Lor signori
mi devono capire».
Nell'altro romanzo, Eterne leggi, sono descritte tre
generazioni di una stessa famiglia dalla fine del sette al
principio dell'ottocento, nella loro varia fisionomia poli-
tica, sociale ed economica, nel loro cangiare e salire, e
nel loro cangiare e decadere. Basta qualche tratto a mo-
strare la concretezza di queste caratteristiche; come al-
lorché uno degli ultimi discendenti nell'antica casa di
campagna, passando in rivista gli oggetti che vi si serba-
no alla rinfusa, apre tra l'altro un libro di conti.
Lo attrasse in modo speciale uno sconquassato registro in-
giallito, pel cui tramite era facile ricostruire con esattezza il
genere e la qualità delle vivande in passato consumate gior-
nalmente, e immaginare colme in quei giorni le dispense,
con parsimonia fornito il desco. Trecento uova portate dai
coloni per la pasqua dell'anno millesettecentonovantanove;
cinquanta di cui attestate e benedette per il pranzo rituale
della domenica di Resurrezione; ottanta tralci d'uva scelta da
appendersi alle travi del magazzeno per l'invernata dell'anno
successivo; venti boccali di mosto caldo per preparare con-
serve; sei barattoli d'ulive in salamoia. Le cifre tozze ma ni-
tide, gli zeri goffi ma uguali, rivelavano la cura meticolosa
di Brizio nel registrare; e Sandra intanto, austera e formosa,
coi ciuffi a sommo del capo, la veste legata sotto le ascelle,
sedeva forse davanti al signor marito, rendendogli conto del-
le provviste a lei affidate. Vive balzavano da quelle pagine le
norme di un'esistenza rigida, le abitudini ferocemente parsi-
359
moniose di un uomo volitivo e astuto, avaro e borioso, che,
certo, doveva gonfiar le gote e rigirarsi fra le dita un baiocco
avanti di spenderlo, ma che nell'occasione sapeva snocciola-
re con superbia scudi fiammanti per umiliare qualcuno piú
ricco di lui o per definire su due piedi qualche contratto van-
taggioso.
Rete d'amore276 è la storia della follia gelosa di un
marito per la moglie, che, dopo gravissimi casi e burra-
scose vicende, mette capo a un suicidio-omicidio. Come
a contrasto, vi appare tutt'altro tipo di rapporti coniugali
nel figlio di quei due italiani cosí romanticamente ap-
passionati e tormentati, il quale ha vissuto in America e
s'è fidanzato con una signorina americana. La madre,
osservando quella coppia disinvolta e allegra, dice al fi-
glio:
— Non ti sgomenta vincolarti cosí presto?
Mario ebbe un impeto di ilarità schietta. L'idea che Blan-
dinette potesse costituire un vincolo nella sua esistenza, op-
pure lui in quella di Blandinette, gli appariva di totale ame-
nità.
— Quanto sei italiana! Blandinette non si lascia vincola-
re; io, molto meno. Per questo la sposo, perché è il mio tipo.
Io seguiterò a camminare col mio passo, Blandinette col suo.
Semplicemente percorreremo volentieri la medesima strada
e, al caso, ci daremo aiuto vicendevole. Papà è soddisfatto.
Papà dice che una moglie deve essere un'amica. Tutto andrà
bene.

276
È un evidente refuso, si riferisce al romanzo Rete d’acciaio, già elencato
più sopra. Rete d’amore non esiste. [Nota per l’edizione elettronica Manu-
zio]
360
Con pari contrasto, nell'isola di Capri, durante la guerra,
si vede una famiglia russa, che vive nell'irrazionale,
nell'immaginazione e nel paradosso, in un disordine che
è per essa ordine, in un'agitazione che è placidità; il
principe, la principessa e la figlia, ciascuno seguendo i
suoi proprî sistemi e i suoi capricci. Sono entusiasti del
buddismo, discorrono della trasmigrazione delle anime.
Credeva alla veridicità del racconto fantastico, o si diver-
tiva a recitare una commedia?
Una cosa e l'altra, ma Donata non si orizzontava, troppo
nuova alle stranezze dei nomadi danarosi e oziosi, vaganti
da una stazione climatica a una casa da giuoco, trascinanti le
loro anime inquiete e l'assillo dei nervi irritati dall'Egitto,
denso dell'aroma dei segreti sepolti nelle viscere del passato,
alle turbolente città anglosassoni dell'America, ansiose di
strappare alla natura parole di forza non ancora svelate.
Quando al principe si chiese se permettesse che l'istitu-
trice Donata facesse venire il figlioletto nella sua villa,
egli:
si limitò a un gesto di cortese acquiescenza. Chi c'era o non
c'era, chi arrivasse o partisse dalla sua villa o nella sua vita
gli riusciva indifferente, avendo egli raggiunto il culmine
della suprema saggezza: lasciare che il tempo e le vicende
passino senza preoccuparsi del loro passaggio.
Lo si rivede di sfuggita, qualche anno dopo, a Roma, in
uno di quei caffé o birrerie che emigrati russi, rovinati
dalla rivoluzione, avevano aperto e in cui servivano di
persona come camerieri o kellerine:
Al contrario il principe, che andava e veniva dal banco ai
361
tavolini, servendo, aveva riacquistato sé stesso: la beffa della
situazione presente, a contrasto della nobiltà secolare e delle
tante ricchezze di un tempo, lo aveva ridestato, sferzandolo.
Passando con un vassoio in bilico sulle cinque dita della
sinistra, riconobbe Donata; con la destra si tolse di bocca la
sigaretta, e fece un profondo inchino, seguitando a tener sol-
levato il vassoio da perfetto equilibrista.
La pittura della società italiana nella guerra e nel do-
poguerra, che offrono i romanzi del Dio nero e della
Nave degli eroi, sta alla pari delle migliori che se ne
sono date dai molti che hanno raccolto in essa gli aspetti
che piú colpivano gli osservatori. Vi si vedono tutti i
personaggi rappresentativi di quegli anni: dal fanciullo
ingenuo, che va a morire per l'ideale, a colui che rapido,
con occhio acuto, scorge le fonti che gli si aprono di
guadagno e di arricchimento; dalla brava ragazza a cui
si è spezzato il fidanzamento col probo giovane tedesco,
alla signorina di famiglia nobile, che si lascia sposare da
uno degli arricchiti della guerra e finisce nell'adulterio e
nella cocaina277. C'è il violento, che vuole la guerra e vi
si getta dentro per spirito di rapace avventura, e dice:
— Lo scompiglio mi piace e dove c'è da menar le mani,
io mi diverto. ‒ Asseriva una verità. La violenza gli fermen-
tava nel sangue e l'esercitarla gliene placava l'arsura. Poco
gl'importava a vantaggio di chi, contro chi. Balzava da que-
sta a quella parte, indifferentemente, e, una volta nella mi-
schia, si batteva da disperato, con eccessi di temerarietà fol-
le. Ora che tutti ballavano, voleva ballare anche lui, ventu-

277
Dio nero.
362
riero senza leggi né paura...
E cosí, violento e rapace, prosegue nei suoi impeti di
prepotenza anche negli anni susseguenti finché cade
nelle reti della giustizia. Forse questa è la figura piú rap-
presentativa, che dà il tono alla nuova società sorta dalla
guerra e che l'autrice mira in Roma sfilare dinanzi ai
suoi occhi:
I viandanti, uomini e donne, specialmente i giovani, appa-
rivano ingigantiti da uno smisurato concetto di forza, solle-
vati dal furore di vivere con ritmo centuplicato.
Mai l'individuo s'era rivelato altrettanto avido di sé, sma-
nioso di prendere per sé il tesoro delle proprie energie, intol-
lerante di restituzioni o spartizioni; né mai per altro la collet-
tività, formidabilmente organizzata, aveva costretto l'indivi-
duo in una massa altrettanto compatta.
Da dieci anni l'umanità, maciullata, intrisa, dimenata, for-
mava pasta, nella quale il lievito dosato oltre misura, si gon-
fiava in bolle e screpolature. Da ciò il fermento, il tormen-
to278.
Tutto questo nella Tartufari non sta in modo aneddotico
né di fredda osservazione, ma come dramma e tragedia
umana, come elevazione che innalza anche lo stile e lo
costringe a nuovi modi, per esempio, dove dice dello
scoppio della guerra nella società godente e lieta dei
lunghi decennî di pace:
Finalmente, all'ora prefissa, arrivò l'anno giustiziere dalla
chioma di cometa, la vasta fronte crudele segnata a fuoco,
tenendo in una mano lo stendardo della morte, nell'altra la
278
La nave degli eroi.
363
sentenza trascritta dal volume del tempo, chiamando a rac-
colta le azioni turpi e sublimi, furore di opprimere, ardore di
redenzione, avidità dell'oro da raccogliersi fra i rivi del san-
gue, ansietà di offrire, coll'ultimo palpito, l'ultimo respiro dal
petto squarciato.
Gl'individui, festuche in balia del turbine, erano sollevati,
dispersi...
O nell'accenno a Caporetto e all'invasione nemica nella
terra italiana: «quando l'Italia parve oscillare sui pilastri
dei suoi monti e una testa medusea si affacciò da un va-
lico a impietrire i cuori».
Nessuna traccia della religione tradizionale si scorge
nei suoi romanzi, dei quali Il miracolo è protesta contro
l'ascetismo e contro l'insegnamento delle scuole cattoli-
che, e Il mare e la vela manifesta interessamento per
quel tentativo di dissoluzione del cattolicesimo e del cri-
stianesimo, sotto specie di affinarli, che si chiamò «mo-
dernismo». Ma non vi difetta ampiezza di orizzonti e re-
ligiosa accettazione della realtà nella sua logica e nella
sua legge:
Marisa, tenendo le palme raccolte sul petto, mirava il cie-
lo e sospirava nella posa rigida e ardente di chi attenda per
concedersi in olocausto. In olocausto a chi? Marisa non sa-
peva; forse all'amore eterno e invincibile, trama luminosa e
salda su cui gli esseri camminano ininterrottamente, dal pri-
mo che fu all'ultimo che sarà, per cui la vergine che nelle
notti lunari attendeva la rivelazione del grande mistero, al-
lorché torve genti arrivate dal mare scheggiavano in quei
luoghi pietre a uso di armi e vivevano in capanne a foggia di
buche, era sorella, nell'uniformità delle sensazioni, alla ver-
364
gine che, in quell'istante, si scrutava trepida per indagar la
causa del suo languire279.
E quando un giovane, uso a meditare, allo spettacolo
delle lotte feroci e degli odî, è tratto a concludere pessi-
misticamente:
Una generazione incalza l'altra; l'ultima arrivata crede di
aver toccato il segno, quella che segue le passa sopra e crede
che ad essa spetti la conquista suprema. E cosí avanti senza
riposo sopra la faccia della terra, polvere delle generazioni,
fino a quando anche la terra scomparirà, granello di polvere
anch'essa fra l'incessante rotear dei mondi. Frattanto la chi-
mera, eterna ingannatrice, continuerà a viaggiare per i cieli,
trascinandosi dietro la sua chioma multicolore, e gli uomini,
eterni fanciulli, continueranno a tendere ansiosi le braccia
verso di lei...
subito dopo si riscuote, e dice, «rispondendo con ferma
voce all'ironia del suo pensiero: ‒ Ma per lo sforzo si
rendono migliori, piú alacri, piú lieti!».
Un motivo, che si congiunge con questa visione della
umanità e del mondo, era particolarmente sentito dalla
Tartufari: il motivo del potere che ha il senso anche sul-
le piú nobili creature, le quali gli soggiacciono e,
tutt'insieme, invece di restarne schiacciate e andare a
perdizione, se ne traggono fuori con cresciuto vigore e
coraggio. La figura muliebre, che corrisponde a questa
situazione, ritorna variamente, e piú o meno compiuta,
in parecchi dei suoi romanzi: nella contessa Vanna del
Miracolo, in Donata della Nave degli eroi, in Rosalia
279
Eterne leggi.
365
delle Lampade nel sacrario. La contessa Vanna, buona,
gentile, fine, fiera, rimasta vedova giovane, diffonde in-
torno a sé il desiderio, e al desiderio ella stessa si abban-
dona, amando un giovane straniero. Donata cede alla
calda cupidigia dell'uomo, cede (come ella stessa, biso-
gnosa di sincerità, disdegnosa di menzogna, dice), quan-
do avrebbe potuto resistere; ma, dopo un periodo di
smarrimento e di abbattimento, si rialza risoluta:
Ma sola non era, abbandonata non era. Portava sé in sé
stessa, e una mattina, svegliandosi dopo un buon sonno, sen-
tí che voleva salvarsi e che, per salvarsi, doveva mettere il
piede sulla realtà, fosse pure irta di scogli e rocciosa. Anzi-
tutto bisognava guarire completamente in salute, per vivere
una vita differente da quella vissuta, in tempi nuovi, fra nuo-
va gente.
Sposa poi l'uomo che sempre aveva avuto nel cuore, che
tutto sa di lei e la comprende e non la rimprovera, e al-
lora nuove battaglie l'aspettano; ma in quell'uomo ha
trovato tempra pari alla sua. Quando ripartono dal paese
in cui s'erano ritirati, mentre il treno li porta via:
Donata capí che Giorgio stringeva forte con la propria vo-
lontà pure il domani, e i giorni al di là del domani.
— Coraggio! ‒ egli disse, dopo un silenzio.
Donata capí che Giorgio non ammoniva soltanto sé, ma
tutti, i vicini, i lontani, la vita stessa col bene e col male.
— Sí, coraggio! ‒ Donata ripeté.
— Coraggio? ‒ interrogò Giulietta dubitosamente e fissa-
va il vuoto, di fuori, per cercare il significato di una tale pa-
rola.

366
Col busto sporgente dal finestrino, Leo, inebriato di sé,
gustava una gioia turbolenta nel sentirsi sulla faccia e tra i
capelli l'urto dello spazio tagliato dalla velocità.
Rosalia si strugge di passione per il giovane orfano che
ella e il marito hanno raccolto ed educato, e, quando il
giovane sta per partire, piange disperata innanzi a lui,
che non sospetta e non saprà mai il perché di quel pian-
to:
A Mario faceva pena, le scansò dalla fronte le ciocche
scomposte, le sollevò con la palma il mento, sorridendole
per quietarla, come si fa ai bambini quando gridano:
— Buona, coraggio! Capisco che devi averne avuto molto
di coraggio!
Ma la creatura sua, nella quale la Tartufari ha meglio at-
tuato questo ideale di fralezza e di coraggio insieme, è
Leonetta, del romanzo All'uscita dal labirinto, che io
considero superiore a tutti gli altri suoi per unità d'ispi-
razione e per composizione, se anche qua e là un po'
prolisso. Gli altri, infatti, soffrono quasi tutti di molte-
plicità di motivi, come Il miracolo, diviso tra la storia
amorosa della contessa Vanna e quella ecclesiastica del
figlio che finisce con lo scuotere il giogo a cui era stato
sottoposto, e le tante altre persone che vi appaiono, e la
stessa figura del giovane tedesco, cosí esattamente dise-
gnate, che sembrano trasportate di peso dall'osservazio-
ne della realtà sopra una trama che dovrebbe essere di
poesia. Il mare e la vela pare addirittura combinato di
due diversi romanzi, aprendosi con una peccaminosa e
dolorosa storia d'amore spezzato tragicamente dalla
367
morte della donna, il cui protagonista, un giovane ebreo,
che l'offeso marito prende per il collo e scaccia con ob-
brobrio, non si sa perché sia proprio lui a riempire la se-
conda parte del romanzo con le sue vicende religiose, la
sua conversione dall'ebraismo al cristianesimo, il suo
vario filosofare, la sua partecipazione al movimento mo-
dernistico. Anche i rimanenti romanzi sono alquanto di-
spersi. La storia di Leonetta non ha niente di straordina-
rio, ma è in compenso poetica, poeticamente sentita e
raccontata. Vi regna l'amore, l'amore che non perdona a
nessuna creatura umana. Leonetta, figliuola di un vec-
chio insegnante in una cittadina di provincia, con una
sorella bella e intraprendente, che si aprirà la sua via nel
mondo ed è già fidanzata, sogna anch'essa l'amore. Ba-
sta che la cameriera le dica di un giovane che ha espres-
so ammirazione per la sua persona, perché si accenda
come di una fiammata.
— Dio mio, Dio mio, cosa mi racconti! ‒ e, intrecciate le
mani, Leonetta pareva pregasse fervorosamente e si cercava
intorno, forse nel timore che da qualche punto si levasse
qualche parola di diniego a distruggere il racconto meravi-
glioso di Guendalina. Non aveva la piú lontana idea del caro
giovane che le dedicava sí dolci pensieri. Non si rammenta-
va di averlo osservato mai, e non sapeva perciò se fosse alto
o basso, brutto o bello! Era un uomo, era un giovane, e si oc-
cupava di lei. Qui stava tutta la magnificenza del fatto! La
figura dell'innamorato era imprecisa, non possedeva né colo-
re né linea; ma l'amore splendeva col sole in cima al tetro
muro del convento, empiva di festosi sussurri lo spazio del
vicolo cieco ed a Leonetta sembrò che in petto le entrasse
368
una forza nuova, attiva e gioconda. Ella somigliava a un gi-
glio! Nonostante gli stinti cappelli e le goffe vesti, somiglia-
va a un giglio! Era indubitato, lo aveva detto lui, bisognava
crederlo. Doveva essere buono e veritiero.
Rimasta sola, si strinse le mani al petto e rovesciò la testa
crollandola forte a somiglianza di una cavallina in una prate-
ria, allorché l'erba è folta e il vento odora, giungendo di lon-
tano.
È vero, lui aveva ragione. Leonetta camminava svelta!
Andò da un mobile all'altro a piccoli passi celeri, si curvò
sullo specchio con mossa impetuosa e rimase estatica nel
trovarsi infatti bianca di gote e di fronte, con uno splendore
bianco fra il corallo delicato delle labbra e un biancore te-
nue, misto di indaco, fra il palpitare delle scure ciglia! Si ri-
trasse, rise di nuovo, si curvò, si rimirò e sentí di amarsi per-
ché un altro l'amava. Intanto, aveva fame. Si affacciò alla
porta, chiamò Guendalina, la sollecitò di preparare il pranzo,
tornò di corsa alla finestra, ebbe un sussulto udendo tossire
presso l'angolo della strada. Si spenzolò e scrutò.
Il sogno dell'amore continua in lei, con incantevole in-
genuità, passando per altre vicende; finché sembra at-
tuarsi in un giovane col quale ella scambia promessa di
fidanzata.
— Che ne pensa? ‒, le domandò, togliendole il manicotto
e posandolo sulle proprie ginocchia, giacché gli pareva che
esso assorbisse troppo l'attenzione della ragazza.
Leonetta rimaneva attonita e alquanto sconcertata, come
chi veda il mare per la prima volta. Si ha un preconcetto cosí
immenso della sua immensità, una cosí sconfinata idea della
sua vastità, che l'estrema linea dell'orizzonte sembra traccia-

369
re un limite e lascia disillusi; ma, come succede appunto a
chi si allontani dalla riva, che piú s'inoltra e piú l'impressio-
ne dell'immensità si allarga e ogni segno di limite dilegua,
cosí fu per lei nei giorni successivi.
Ciascun gesto di Furio era un incanto, ciascuna parola era
una rivelazione, proprio come allorché si cammina sulla
spiaggia in un meriggio sereno di primavera. Ad ogni spu-
meggiare di onda una nuova frangia d'argento; per ogni
orma di piede uno sfolgorio di pulite pietruzze e minuscole
conchiglie, simili a gemme, a ogni trarre di respiro un soffio
dal largo e insieme a ciò la gioia sicura che viene dalla cer-
tezza di sapere che si potrebbe restar lí mille anni e instanca-
bilmente le onde continuerebbero ad arrivare le une dietro le
altre, instancabilmente la sabbia bagnata continuerebbe a do-
nare pietruzze e conchiglie corruscanti al sole.
E prova accanto al giovane la prima rivelazione di quel
che veramente è l'amore, un'improvvisa vertigine, un
tremito di deliquio dal quale a stento riesce a preservar-
si:
A poco a poco tutto riassumeva per lei l'aspetto consueto
e la consueta stabilità. La voce del nonno continuava a parlar
vicino e il gridío delle rondini a echeggiare lontano; ma in
lei rimaneva qualche cosa di inesplicabile, rimaneva come il
presentimento confuso di una gioia terribile che era passata
fulminea al di sopra di lei, senza precisarsi, senza toccarla,
nulla rivelando, nulla largendo, e che nonpertanto l'aveva
impaurita e stordita, lasciandola piena di ansia come davanti
a una voragine luminosa, che attragga e respinga, faccia
inorridire e abbagli.
Ma il giovane va lontano, altri interessi lo legano, nuove
370
considerazioni lo raffreddano, il fidanzamento si rompe
e segue una lunga desolazione.
Le speranze piombarono morte e la disperazione si pose
al fianco di Leonetta, con lei muovendosi, con lei fermando-
si, facendole assaporare a stilla a stilla l'amarezza che si pro-
va quando una persona, per cui eravamo stati tutto e che tut-
to era stata per noi, si allontana liberata, baldanzosa, trasci-
nandosi dietro con indifferenza il nostro povero cuore ancora
schiavo.
— Vieni, Leonetta, vieni ad aiutarmi ‒ le diceva la zia
Alagia, sempre in occupazione, sempre in affanno, con
l'occhio a mille cose e l'anima fissa al cruccio della salute di
Aldiero.
— Eccomi, ‒ rispondeva Leonetta, e scompariva attraver-
so la fuga interminabile delle immense stanze per trovarsi
sola e martoriarsi in santa libertà.
Mortole il padre, già andata via la sorella maritata, rima-
sta sola, si risolve a distaccarsi dalla casa della sua fan-
ciullezza, dal paese in cui aveva sempre dimorato, e re-
carsi a Roma.
Insieme alla tristezza da cui si sentiva oppressa, in lei si
agitava un bisogno prepotente di vivere! Non voleva piú es-
sere la goccia isolata che la terra assorbe o svapora nell'aria,
ma la goccia che, unita ad altre gocce innumerevoli, forma
l'oceano immenso, instabile e fragoroso, terribile e benefico.
A Roma vive col suo lavoro, copiando a macchina, riu-
nitasi con la sua vecchia cameriera; e in quella solitudi-
ne e libertà l'amore le viene di nuovo incontro ed ella
non gli resiste: non un nuovo fidanzamento e una nuova

371
illusione, ma l'amore con un giovane studente, che sa
già destinato sposo in provincia, che lascerà Roma, che
condurrà una vita divergente e lontana dalla sua: l'amore
che si dona e non chiede niente oltre l'accettazione del
suo dono.
Ed è l'amore che passa; e, sebbene il giovane le ritor-
ni dalla provincia e nuova dolcezza si versi nei loro cuo-
ri, si avverte sempre, nel fondo, piú o meno prossimo, il
distacco:
— Perché sei ingiusto verso di me? Perché mi sospetti di
doppiezza? Io non ho secondi fini; io non esigo nulla. E cosa
dovrei esigere? Non sapevo forse dei tuoi impegni? Tu non
mi hai ingannata e io non ti rendo responsabile della mia
perdita.
Ghigo, in uno slancio di amore, le afferrò le mani e se le
pose in croce sul petto, ponendovi sopra le sue.
— Care manine, qui, sul mio cuore. Ridi, Leonetta, ridi,
non voglio vederti afflitta. Tu sei nobile, tu meriteresti di es-
sere una regina; io non ho mai incontrato un angiolo uguale
a te. È vero, i miei pensieri qualche volta ti stanno contro. È
per l'educazione che ho ricevuto. Noi, laggiú, abbiamo della
donna un concetto inferiore. ‒ E imprese a denigrarsi con
esaltazione sincera, pentito dei suoi sospetti, entusiasmato di
lei, accusandosi di mille colpe e, pure sotto la concitazione
commossa dei gesti, pure nello schietto impeto amoroso del-
le frasi, serpeggiava refrigerante il sollievo all'idea liberatri-
ce che le cose erano state messe in chiaro. In quel punto
amava Leonetta senza limiti, con maggiore abbandono, con
fiducioso animo, con uno struggimento intimo di tenerezza,
con ammirazione, gratitudine ed esultanza. L'amava, la sti-

372
mava, ne valutava la superiorità, ne proclamava la bontà ge-
nerosa, ma intanto già considerava il proprio avvenire stac-
cato da quello di lei, già nella vita guardava lontano a una
nicchia, dove per lei non c'era posto.
E lungo il processo di questo distacco, non le sono ri-
sparmiate le durezze intrinseche a quella forma di rela-
zione: com'è l'incontro per via con la fidanzata di lui e
coi parenti, e lui che finge di non conoscerla e non la sa-
luta.
Ma già in Leonetta altre forze si sollevano a proteg-
gerla, e anzitutto quella che le viene dal pensiero che la
vita è tanto piú grande e piú ricca del nostro transeunte
soffrire individuale. Nell'assistere a una festa in Roma, a
una rivista militare, mescolata tra la gaiezza della folla:
di Ghigo credè per un istante averlo conosciuto in sogno, in
un sogno affannoso e confuso, lieto e triste, turbinoso di vi-
cende varie, di cui, senza misura di tempo, ella era stata lu-
dibrio. La realtà non era in Ghigo; la realtà, rigeneratrice e
corroborante, era nel vento odoroso che scherzava entro i
cappelli piumati, era nei richiami imperiosi delle trombe, nel
rullo dei tamburi; la realtà era in quel soffio di vita che la in-
vestiva, portandole nell'anima germi di sentimenti piú aperti
e piú sani. Sí, una goccia d'acqua nell'oceano! Essere forte
della forza comune, spumeggiare con miriadi di altre gocce,
offrire la sua piccolezza, perché, unita ad altre innumeri pic-
colezze, diventasse l'immenso, producesse l'impeto che sol-
leva e travolge, che feconda e rinnova!
Lo rivede ancora una volta; ricasca; delira; e poi ha sgo-
mento e nausea di sé stessa: «comprese che piú basso

373
non poteva precipitare e che avendo toccato il fondo
dell'abiezione amorosa, doveva risollevarsi o lasciarsi
morire».
E si risolleva: compie il distacco: rimane di nuovo
sola, nella sua stanzetta di lavoro:
Il passerotto eseguiva bizzarre volute; ella, per abitudine,
tese l'indice e la bestiola vi si librò, simile a una farfalla sul-
lo stelo cedevole di un fiore.
Leonetta abbassò i lunghi cigli e fissò tenacemente
l'occhio dinanzi a sé. Aveva l'impressione di aver dato un
tuffo, di aver toccato un fondo e di sentirsi risalire a galla.
Scosse l'indice risoluta e si accinse al lavoro.
— Tu vola, ‒ disse al compagno: ‒ io devo guadagnare il
mio pane e il tuo miglio; ‒ e, spingendo un foglio bianco en-
tro la macchina, comprese che era sola nella vita, ma libera,
padrona del suo destino; ferita, ma anelante di guarire e che
ciascuna cicatrice sarebbe stata per lei un ammonimento.
Il passato era dietro di lei, irto di rovi e di viluppi; l'avve-
nire le si stendeva aperto e ampio, minaccioso ma incitatore,
periglioso, ma di franchi perigli.
Doveva perciò stare vigile, dispensare cauta le sue forze,
come allorché si nuota al largo senza compagnia ed il cielo
ci abbraccia, l'onda ci solleva e si pensa che raggiungere la
spiaggia dipende da noi, dal nostro vigore, dall'ardore della
nostra volontà.
Si sentirà anche dalle pagine saltuariamente trascritte
che l'autrice ha amato questa Leonetta, cosí fine e sensi-
bile e cosí forte; l'ha amata nella gentilezza dal suo pec-
care e nel suo impeto risoluto di liberazione dal passato
e dal morto, e le ha fatto dono di alcuni dei migliori mo-
374
vimenti della sua anima, le ha bisbigliato all'orecchio
qualcuno dei suoi segreti pensieri. Cosí ne è venuta fuo-
ri in semplici modi una creatura commossa e poetica.

375
LXIII. ALFREDO PANZINI

Perché mai taluni scrittori, che sanno esprimere in


modo fine e delicato i loro sentimenti, che sanno ritrarre
con vivezza figure e scenette, invece di compiere e com-
porre i loro accenni e bozzetti nella forma di liriche, di
romanzi, di drammi dal serio accento, le spargono in
una conversazione di tono scettico, ironico, burlesco, in
cui sembra che vengano fuori contro proposito o contro
voglia, per distrazione, per accidente, come se avessero
preso la mano al prosaico e barzellettante conversatore?
Perché mai gettano le poetiche loro fantasie in
quell'onda discorsiva, sulla quale esse battono le alucce
tentando di librarsi, e spesso vi restano immollate e im-
pacciate? È stato detto che ciò proviene da scontrosità e
da pudore di nascondere il proprio cuore, di non lasciar-
si sorprendere nel desiderio e nell'affanno. Male, in ogni
caso, perché la poesia ammette bensí e comanda l'alta
verecondia, ma non punto ritrosie, smorfiette e falsi pu-
dori, che danno a vedere l'animo non di lei unicamente
occupato, frastornato dall'immagine di spettatori innanzi
ai quali si pensa di dover prendere certi atteggiamenti
per farsi accettare o per far bella figura agli occhi loro e
degli altri simili a loro. Senonché, s'io non erro, la ragio-
ne vera di quella maniera letteraria è da ricercare, di so-
lito, piú in fondo, in una certa coscienza d'insufficienza,
di scarsa forza, non durevole alla tensione che l'arte, la
nuda arte, richiede; e quegli scrittori mi somigliano nuo-
tatori che non osano affidarsi in tutto al libero mare, e
376
nuotano qualche tratto e poi tornano a prender piede
sull'arena.
Tale si direbbe che sia il Panzini, che non altrimenti
riesce a formare e a comunicare i suoi moti d'animo e le
sue immagini poetiche (perché, senza dubbio, egli ha
del poeta), se non attraverso una maschera che si è posta
sul volto, la maschera di colui che non comprende
quest'imbroglio che è la vita, e perché gli uomini siano
come sono e le donne anche, e, in quanto dichiara di
non comprendere, si stima superiore a chi crede di com-
prendere, e perciò può segnare gli angoli della sua bocca
con la piega di un perpetuo sorriso di spregio e d'irrisio-
ne. Può darsi che la maschera sia stata in qualche mo-
mento o in un primo momento un sentimento spontaneo;
ma maschera è poi diventata, che tanto forte gli aderisce
al volto da non poternela piú staccare, e che sarebbe an-
che, agli effetti letterarî, pericoloso staccare, perché,
senza di essa, forse non gli riuscirebbe piú di parlare e
di dire le belle cose che pur dice. Si sopporta, dunque,
quella per queste, ma solo in queste l'animo si sofferma
e si riconcilia con lui.
Si sopporta, per esempio, che, nella Lanterna di Dio-
gene, ripigli (come del resto, in altri suoi volumi) lo
schema e il frusto espediente dei Reisebilder, e ci allieti
o si allieti di mediocri spiritosaggini, e ci partecipi non
profondi pensamenti, e c'intrattenga cosí di frequente
delle sue merende e dei suoi desinari in mezzo ai campi
e nelle osterie (delle delizie del mangiare parla volentie-
ri in molti suoi libri, come appunto certe maschere
377
ghiottone della commedia dell'arte), quando poi la bel-
lezza del paesaggio che contempla a Savignano presso il
Rubicone, e l'assiduo pensiero che lo turba e lo rattrista
della morte e della sepoltura, gli dettano poche linee
come queste:
Il mare vicino faceva levare i pioppi stormendo, come un
respiro fresco dopo l'afa diurna. Sentii il colore della luce
calda come d'oriente che il sole dona con speciale munifi-
cenza a quell'angolo ignoto di terra, e mi prese l'illusione
che essa debba arrivare anche a quelli che giacciono sotto
terra, e le tenebre ne siano consolate: mi parve (o sogno,
dono di Dio!) che, riposando un dí sotto quelle glebe natie,
riudrò ancora il sussurro del mare.
O quando guarda e accoglie nel suo spirito quest'altro
momento di sospensione e di pace della circostante na-
tura:
L'organetto di Cremona, che tutto il mattino aveva percor-
sa la spiaggia suonando con incredibile fastidio dei miei ner-
vi, ritrovai che riposava finalmente anche lui.
(Non è improbabile che nei grandissimi pomeriggi del
caro estate anche il sole riposi alquanto nel mezzo del cielo,
giacché il giorno, il cielo, il canto delle cicale paiono fermi.
Certo quel terribile, stridulo organino di Cremona allora ta-
ceva.)
Il ponte di ferro sospeso sopra il piccolo fiume dal nome
glorioso, proiettava dalla parte del mare una fredda ombra.
Sotto il ponte, in quell'ombra, l'organetto riposava. Esso era
sospeso per le cinghie ad un carrettino a quattro piccole ruo-
te, e attaccato v'era un asinello. L'asinello aveva declinate le
orecchie e dormiva. La donna del vagabondo organista, sdra-
378
iata sull'erba, dormiva: disteso supino l'organista dormiva, e
il suo volto riarso era rivolto alla tenue brezza marina. Una
bizzarra linea geometrica, cadendo giú dal ponte e dallo
spaldo, divideva nettamente l'ombra dalla luce. Su questa
luce il gran pittore del mondo infondeva ardenti tinte di cro-
co e d'oro, preparando la tavolozza del vespero: su
quell'ombra sorvolò un brivido di frescura, che si propagò
per le erbe e per le chiome dei tamarischi, onde parevano
svegliarsi.
Si sopporta la lunga cicalata, che toglie a pretesto San-
tippe, a pieno ripagati dalla rivelazione a cui si assiste
dell'umana realtà di quella che fu la proverbiale moglie
di Socrate, colei che non intendeva la sfera ideale in cui
respirava e si moveva il marito, che lo considerava de-
mente, lo copriva di rimproveri e di invettive, lo tor-
mentava e perseguitava quasi nemica implacabile; ma
ecco, quando gliel'imprigionano, quando glielo condan-
nano, quella furia corre ai giudici, affannata, sconvolta:
Ma infine ‒ urlò Santippe ‒ cos'ha fatto questo po-
ver'uomo? Ha rubato? ha ammazzato? no! Diceva delle cose
senza capo né coda, perché aveva come una fissazione!...
E, nel carcere, «assisa vicino al suo letticciuolo, col
bimbo che tirava al babbo la barba, con le sue dolci ma-
nine», gli parla, tra rimprovero e meraviglia, come ma-
dre a fanciullo deliro, disperata che non abbia voluto ac-
cettare il partito della fuga preparatagli dai fedeli disce-
poli; e poi, rimasta vedova coi figlioletti, via via abban-
donata dagli amici di lui, che si sono dispersi, tra le
pene della miseria, è sempre furente contro la «sapien-
379
za», la «filosofia», che era stata la rovina della sua fami-
glia. Ma nella notte, nel silenzio e nella solitudine:
...Di chi è il suono dei vecchi sandali? Di chi è quella
voce armoniosa e ironica?
Chi è?
E Santippe balza sul giaciglio: un soffio come di un bacio
si posa sui rossi capelli, biancheggianti ormai, un ardore
come di lagrime cadenti, e una voce risponde e mormora: ‒
È Socrate, tuo marito...
Si sopporta che egli mantenga quella sua maniera
d'intonare il racconto, e persino che scriva in fronte al
suo libro il brutto titolo schernitore: La pulcella senza
pulcellaggio; quando, in quel racconto, vive una figura
cosí gentile come Berenice, la ragazza bolognese, dolce,
buona, di delicato sentire, che giovanilmente non vede
niente di piú bello al mondo che la dedizione per amore,
e ama con tutta sé stessa; rapita sempre nel ricordo e
nell'ammirazione per il primo amante, bizzarro, mezzo
matto, che brucia con generosa allegria in una fiammata
la propria esistenza; affettuosa e tenera, a tratti materna,
con l'altro che poi si è preso, a lei di tanto inferiore mo-
ralmente quanto le è superiore per senno pratico e capa-
cità di farsi strada nel mondo: l'amorosa Berenice, alla
quale non rimane che lasciare un mondo che non è fatto
solo di amore, di amore giovanile di ogni altra cosa
oblioso. La sua prima visita nella casa del giovane che
ha prescelto:
E Serafino balzò.
Si ricordò subito di quelle misteriose parole: «Vuoi tu una
380
prova che io ti voglio bene?».
E allora?
I cavalli bianchi del carro delle fate erano lí, nella realtà.
Dorato il carro, giganteschi i cavalli, criniti, nella piccola
stanza.
Il terror panico dell'approssimarsi della grande Dea sentí
Serafino dalla nuca alle piante, e insieme un'ebbrezza senza
nome.
Dicevano le fate:
«Vuoi tu la nave dalle vele gonfie per girare i mari?»
«Ecco la nave con le vele gonfie.»
«Vuoi tu il destriero per girare la terra?»
«Ecco lo scalpitante destriero, con le narici aperte.»
Berenice non aveva esitato.
Serafino ebbe appena il tempo di prendere la Faní e but-
tarla in fondo a un cassetto, che ella entrò.
La stanza era in penombra, e Serafino, che vide Berenice
in mezzo alla stanza, stupí. Ella era assai grande: si levò il
tubino, e allora i capelli si snodarono, poi si attorcigliarono
in su come serpi.
Parve a Serafino che ella sorridesse.
Sorridendo, disse: ‒ Tu non mi aspettavi?
Rise, perché le donne ridono, come di cosa nuova, per la
cosa piú antica: quando si avvedono che l'incantesimo si
compie.
Questi sono alcuni esempî; ma nei libri del Panzini
passano altre simili creature, come la Dolly del Padrone
sono me, capricciosa, leggiera e pur d'intima nobiltà, o
Miss Edith, la bionda istitutrice inglese della Madonna
di Mamà, in cui a un tratto confluiscono l'ardore per la
guerra che si combatte dalla sua patria inglese e la chiu-
381
sa passione che è venuta nutrendo pel giovane, che sa
amante di un'altra donna, e che ora si ritrova accanto in
quel delirio di patria e di guerra e al quale, nell'esalta-
zione di tutto il suo essere, si abbandona, cogliendo
nell'istante l'eterno:
...senza indagare quali impurità sono nella mia vita; senza
indagare tu chi sei, io chi sono; senza indagare che cosa sarà
il domani; senza domandare quali necessità spingeranno me
e te; per quali vie dovremo camminare. Noi ci siamo final-
mente incontrati. Avevamo i sensi, e per molti anni non ci
accorgemmo di questo delizioso amore. Ora i miei occhi ve-
dono i tuoi, e tu vedi i miei, e le tue mani sono nelle mie, co-
sí, senza parlare. O dolce amore senza domani, perché
l'immortalità non ci sommerge cosí, come le tenebre som-
mergono tutte le cose create?
L'amore, l'amore nel suo fascino sensuale, l'amore,
diciamo pure, nella sua morbidezza e lascivia, ricorre di
continuo, insistente, nella sua visione del mondo. Anche
quando sogna l'idillio della vita campestre, lo vede riap-
parire di lontano, rispuntare da un angolo, ripenetrare,
irresistibile, devastatore, a sconvolgere tutto l'edifizietto
leggiadro e tranquillo che era stato costruito280. Conosce
e sogguarda, attirato e tremebondo, altre donne, piú
quintessenzialmente donne, quelle che sono la Donna,
«terribile come oste schierata in campo»:
L'uomo delinquente porta scritto sul volto: io sono delin-
quente. Nella donna, niente! Anzi, il piú delle volte, la delin-
quenza della donna sta nascosta sotto la maschera della fata-
280
La lanterna di Diogene.
382
le bellezza: bellezza spesso iridata da un fascino intellettuale
che può simulare l'intelligenza. Possono essere tali donne
mistiche o sensuali, ma insensibili sempre, ma menzognere
sempre! Non la menzogna comune, badi! bensí quella che
noi chiamiamo pseudologia patologica, la menzogna cioè in-
cosciente, che può sembrare sincerità. Sono costoro le gran-
di isteriche, le grandi voluttuose, sono quelle che hanno
esercitato un'azione velenosa sui centri nervosi della storia...
Sono le Attila femmine con angelico volto; mentre gli Attila
maschi hanno volto ferino. Generalmente bruciano anche sé
stesse. Ma se campano molto, ecco tu le vedi improvvisa-
mente sfasciarsi, cadere l'intonaco della ingannevole bellez-
za. Ecco apparire, o la deforme pinguedine o la ributtante
magrezza: ecco la voce roca, ecco il cinismo che spunta,
dov'era l'intellettualità. E bada ancora: generalmente sono
infeconde: e noi sappiamo che soltanto la maternità dà
l'intelligenza alla donna. E i poeti esaltano queste creature,
flagellum Dei!281.
E si direbbe che questa repressa ma pungente bramo-
sia e paura insieme della muliebrità, dell'amore che è in-
sieme ebbrezza e tristezza, ragion di vita e perdizione,
lo renda molle e sensibile ad altre forme di affetti, ad al-
tre gioie e tristezze della povera vita umana, che la mor-
te circonda del suo duro cerchio infrangibile. La madre,
la madre che è morta:
Ah! ecco la vecchia chiesa. La casetta è lí presso.
Quante volte nel dolce mese di maggio io giunsi in quella
città, e bussai alla porta della casa! La mamma non c'era in
casa; e donne del vicinato dicevano che era andata alla chie-
281
Nel romanzo: Io cerco moglie.
383
sa: la ritrovavo in chiesa, lí presso, col capo chiuso nel suo
nero scialle: mese di maggio; dolci preghiere, profumo tene-
ro di primavera, viole mammole, erba cedrina sopra gli alta-
ri.
Forse è li che la ritroverò ancora! La vecchia chiesa ele-
vava la fronte davanti a me. Spinsi la grave porta.
E allora mi ricordai che un triste giorno d'inverno sul pa-
vimento di quella chiesa fu posata una bara con quattro ceri
intorno, e un manto nero orlato d'argento era steso per ter-
ra282.
La bambina, che è venuta ultima e già si muove per le
stanze e illumina di sé tutta la casa:
Ma tu, pupina, bambina, piccolo raggio di sole, che don-
doli, che batti il tic-tac spesso delle tue prime scarpine di
cuoio per queste stanze; che spalanchi oramai, con la piccola
mano, tutte le porte, come a dire: «Badate che ci sono
anch'io», o piccola bambina, come sei venuta al mondo, tu
ultima e tarda!
I tuoi occhi sono ancora colmi del meraviglioso stupore
del mondo crepuscolare da cui sei uscita; e le tue sottilissime
mani hanno accenni a cosa invisibile. Di là! Le cicogne, che
ti portarono, vennero di là?
Noi ti chiameremo Desiderata, noi ti chiameremo Letizia!
Ma non sai tu che non ti si voleva? Non lo sai, no? O piccolo
essere ignoto, a me piú caro di tutte le cose note!
Tu brontoli, tu ronzi, tu squilli; suoni acuti, suoni gravi,
miagolii lamentosi, scale cromatiche, umoristiche di eeh,
eeh, ah, ah, aah, che la casa sembra piena di piccoli genietti
nascosti negli angoli. È la tua dolce lingua ignota, da cui

282
Nel Viaggio d'un povero letterato.
384
usciranno le sillabe di domani...
Il bambino che si è perduto e che non si rivedrà mai piú:
— Il papà studia, non bisogna far rumore.
— E io sono un bambino!
— E allora il papà ti sgrida!
— E io piango!
Questa minaccia m'induce a concedere che trotti pure a
sua posta.
Ora, in virtú tua, o Morte, non trotta piú. È immobile in
una città bianca. Noi ti abbiamo ben pianto, cara anima, e
nella tua piccola manina io ho veduto che tu tenevi stretta un
po' della nostra anima, ed io te l'ho lasciata; ho rispettato
l'invisibile che tu portavi con te, come ho rispettato i fiori
che erano con te. Per rivederti bisognerà fare un lungo viag-
gio: il viaggio avverrà certamente, ma non ti rivedremo!
Noi lo sappiamo; vi sono pensieri che non si pensano piú,
ma si sono pensati: vi sono lagrime che non si spargono piú,
ma si sono sparse. Esse incombono però con un'atmosfera di
tristezza che nessuna aura di primavera verrà piú a dissipa-
re283.
Anche la pena per gli animali, che l'uomo sacrifica ai
proprî bisogni, è fatta sentire in un quadretto come il se-
guente:
Gran tumulto era nell'aia. Un asinello e il carretto erano
profilati davanti al porcile. Che rugghi mandava la povera
bestia che non si voleva staccare dal suo tepido porcile! E
quattro uomini ci vollero a forza per caricarlo sulla gabbia, e
la vecchia bacucca lo allettava davanti facendo giumella con
le mani colme di farina: ‒ To', to'!
283
Nelle Fiabe della virtú.
385
Ma esso tra i rugghi guardava con i piccoli stupefatti fori
delle pupille la vecchia e pareva dire: ‒ Anche tu!
Come infine fu adagiato con violenza nella gabbia, si ac-
quetò un poco.
Il momento della partenza era venuto. La vecchia, asciu-
gandosi gli occhi con le cocche del fazzoletto da testa, toccò
per l'ultima volta l'orecchio del suo porcello venduto: ‒ An-
date là, ‒ disse commiserando; poi tra sé come una medita-
zione: ‒ Aveva piú giudizio di un cristiano! ‒; e si avviò alla
sua capanna per non piú vedere.
Io sentii allora dal profondo corpo della belva impotente
venir fuori un ohimè! degno del tragico cerchio di Beltramo
del Bornio. E l'asinello si tese e mosse284.
Egli ha l'occhio per la semplice e quasi inconsapevole
bontà. Scontra per le scale una vicina della casa in cui è
nato un bambino, che coloro che l'hanno generato non
volevano, e diverbiano ora davanti a quel piccolo essere
infermiccio:
— Lei lavora, signora Alice, ‒ disse Beatus.
— Sto facendo una camicina per quel poverino.
— Lei è lirica, signora Alice ‒ disse Beatus, ‒ perché, cre-
da, mia buona signora, la bontà è una lirica, una forma intui-
tiva di lirica. La sola grande lirica.
E, sempre per questa via dell'amore e del dolore, dei
sensi e della natura, egli intende stati d'animo assai lon-
tani dai suoi, come quello dei combattenti. Uno dei qua-
284
Nella Lanterna di Diogene. Ma ho soppresso in ultimo un periodetto, sug-
gerito all'autore dalla sua «maschera» burlevole e che fa sul quadretto una
sconcia macchia. Ne giudichi il lettore. L'asino si è mosso trasportando il
povero maiale: «vittime entrambe predestinate, unite in vita e non disgiunte
in morte entro una mortadella o un zampetto di Modena».
386
li, tornato in breve licenza, vi accenna e non è compre-
so:
Capí che non capivamo, e disse: ‒ Lassú, vicino alla mor-
te, si acquista un'altra anima. Si ha la sensazione che nel
mondo non c'è nulla. Se anche avessi cento milioni, non
avrei nulla! Si sente la rinuncia a tutto, anche alla giovinez-
za, anche all'amore.
— Oh, è terribile ‒ disse l'avvocato.
— No, è piacevole ‒ disse Melai. ‒ Si diventa come i frati
che hanno rinunciato a tutto, eppure si possiede tutto, perché
si sente l'anima. Sarà forse perché io ero sul Cadore, una
zona relativamente tranquilla. Lassú, sul Cadore, luce, selve
odorose, monti, neve, orizzonti divini. Lassú a quelle altezze
‒ io non so come ‒ trovavo da per me certe idee che credevo
non esistessero se non nei sogni dei poeti. Sanno che ciccavo
lassú? Ho imparato a mordere tutte le erbe amare dei monti.
Di notte attendevo il sole; quando c'era il sole, attendevo le
stelle. Non ho mai avuto la sensazione della meraviglia del
giorno, come lassú. Il sole e le stelle rotavano insieme come
una giostra. Che cosa meravigliosa, il giorno! Non ve ne sie-
te mai accorti che è una cosa meravigliosa il giorno? Un ver-
so di Dante mi nasceva in mente e mi bagnava l'anima: L'ora
del tempo e la dolce stagione. Lo ciccavo anche quello come
le erbe amare. Mi pareva che ogni mattina al sorger del sole
Iddio lavasse, in silenzio, la terra insanguinata...285.
Rende il brivido della tragedia, come, narrando della si-
gnorina che là, in un paese di confine, accoglie con ogni
garbo nella sua casa gli ufficiali italiani, e poi si scopre
che da quella casa mandava segnalazioni agli austriaci:
285
Io cerco moglie.
387
— Ed è stata messa in prigione? ‒ domandò Oretta.
— No, la abbiamo fucilata.
Oretta guarda smarrita Melai. Lo guardiamo anche noi.
Melai sorride: ‒ E come si fa?
Silenzio.
— Ed è morta?
— Eh, già.
— E come è morta?
— Molto bene: avanzò, gridò: «Franz Joseph, urrà,
urrà!». Caduta, pareva una rondine.
Silenzio.
Oretta trema: l'avvocato aveva il sigaro spento.
In quel punto, nel silenzio della campagna, si sentí tin tin,
dolcemente. Era l'Ave Maria.
Oretta fece il segno della croce. Quasi ci segnavamo an-
che noi.
Ha un momento di elevazione nel vedere, sulla via che
percorre in gita, il luogo dove morí Anita Garibaldi e il
cippo che ne copre le ossa:
Per la via che tu, o uomo, percorri, se incontri segno di
pietà o di dolore; sia immagine, sia lampada, sia croce, sia
tomba, scopriti e prega.
Freme dalla storia e dalla memoria delle gloriose opere un
brivido come di vento che passa continuo, e i vivi ne sento-
no il gelo e la fiamma dentro del cuore.
Oh, guai se i morti non dessero forza ai vivi!
Intravede una legge superiore di là dalle intenzioni e dai
cogitati umani; come in Socrate, che non vuol fuggire
per non danneggiare la patria disobbedendo alle sue leg-
gi:
388
Sí, questo può darsi. Ma può anche darsi che Socrate
udisse, al di là della voce di Critone che supplicava: «Socra-
te, fuggi!», la voce dell'umanità che diceva: «Socrate, non
fuggire. Socrate, per carità, fatti ammazzare!». Perché è un
fatto che l'umanità ha bisogno, ogni tanto, come l'orco della
favola, di divorare qualche uomo giusto286.
Soprattutto egli conosce il lenimento, le blandizie della
poesia sull'anima, la poesia che è poesia, cioè forma bel-
la. Quando un giovane di un suo romanzo guarda in una
sala gli affreschi di argomento tassesco e si ferma alla
figurazione della morte di Clorinda, dalla quale veniva-
no fuori «i versi luminosi e palpitanti nel suono delle
parole»:
E la man nuda e fredda alzando verso
il cavaliere, in vece di parole,
gli dié segno di pace...
alcunché di giovanile e come arridente correva per la stanza.
Era la poesia, giovanetta austera e immortale, che consola di
voci e di rose il pianto degli umani. E questa cosa, immorta-
le e beata, è generata dai poeti mortali?287.
Piú o meno interrotto che sia, o fastidiosamente ac-
compagnato dalla musica sarcastica che si è detta, è di
questa sorta il Panzini che parla a chi gioisce alla vista
della «giovinetta austera e immortale»; ed è il Panzini
che, credo, resterà. Ma ce ne è un altro il quale occupa,
purtroppo, grande spazio accanto al primo, ed esercita
prepotenza: il Panzini che si prende sul serio nel suo
286
Io cerco moglie.
287
Nella Madonna di Mamà.
389
ghigno sarcastico, e si arroga di fare il pensatore, il criti-
co, il sociologo, il moralista, il satirico, e si dà a descri-
vere la società contemporanea, e vuol giudicarne l'anda-
mento e gli aspetti e biasima e ammonisce, e osa tentare
persino libri di storia; questo Panzini, che getta sull'altro
una luce sfavorevole. Anche coloro, che assai lo ammi-
rano, hanno preso a deplorare la sua decadenza nell'ulti-
mo ventennio, il suo lavorare in modo meccanico, la sua
crescente frivolezza e vacuità; ma, piuttosto che di una
distinzione di epoche, qui si tratta, a me pare, di una du-
plicità che è stata sempre in lui, con varia proporzione, e
di uno squilibrio accresciuto negli ultimi tempi
dall'esser egli passato dalla proba e modesta vita
dell'artista al mestiere del giornalista e del facitore di li-
bri per il «gran pubblico», per i molti lettori.
Il Panzini non ha né mente né cultura di critico e di
storico: la sua cultura è esclusivamente umanistica, di
«rhétorique», come dicono i francesi, rivolta alle parole
e alle forme dello scrivere bene, donde anche l'interessa-
mento da cui sono nati i suoi lavori lessicali e grammati-
cali. Impaziente, se non consapevole, del suo limite
mentale, volentieri si sfoga a irridere le cose che ben do-
vrebbe sapere di non conoscere e di non poter mai sotto-
mettere a sé, e il mondo di pensiero dal quale è escluso:
la quale irrisione non è certamente il mezzo conducente
a correggere, e piuttosto serve a far risaltare, l'inferiorità
che egli avverte in sé. È nota la prova infelice che fece
quando volle comporre una vita di Camillo di Cavour: i
suoi libri sulla storia d'Italia sono privi affatto di acume
390
storico, sebbene non vi manchi qualche tocco felice,
bozzettistico ed impressionistico; perfino quando scrive
di letteratura e di poesia, come gli è accaduto per il Bo-
iardo, che a ragione ammira e procura di render caro ai
lettori italiani, non c'è caso che riesca a porre e risolvere
un problema critico, ma si effonde nel dire il suo diletto
in quella lettura, e nell'intessere le sue fantasie sui per-
sonaggi e le avventure dell'Orlando innamorato. Da
giovane, aveva scritto un libretto, che rimane la sua pro-
sa meglio ragionata, sulla conversione del Carducci da
repubblicano a monarchico288; ma già in quello dava a
vedere l'animo suo disorientato e scettico e pessimistico,
incapace d'intendere quel che la nuova Italia politica-
mente, economicamente, culturalmente operava e lavo-
rava. Il disorientamento si fece maggiore in mezzo agli
avvenimenti italiani ed europei della guerra e delle sus-
seguenti rivoluzioni, reazioni ed agitazioni. Chi ha loda-
to il suo Diario della guerra e gli altri quadri che ha
dato dell'Italia contemporanea come la piú fedele imma-
gine da trasmettere ai posteri di ciò che l'Italia ha sentito
e pensato in quegli anni, ha lodato ciò che si può lodare
in ogni cronaca che annoti i fatti del giorno, e le voci e i
commenti che suscitano nel pubblico; giacché, oltre la
cronaca e le idee e i sentimenti comuni e perfino volga-
ri, il Panzini non sa andare.
Scrittore satirico? Ma la satira vuole un sostegno in
un sistema di idee nelle quali si ha fede, in un ideale che
si riverisce nel proprio animo: la satira si chiama Voltai-
288
L'evoluzione di Giosue Carducci (Milano, Chiesa e Guindani, 1894).
391
re. Qual è l'ideale del Panzini, del Panzini che si vanta
scettico e pessimista, del Panzini che non accoglie nel
suo petto religione di sorta alcuna, che non crede nella
libertà e nella dignità umana, che non crede nella mente
umana, creatrice e autrice di verità? Non ha neppure,
veramente, l'ideale dell'assolutismo, della regola
dall'alto, che suppone anch'essa una fede, la fede nel tra-
scendente: quel che viene scrivendo a questo proposito
ha tutta l'aria di una compiacente adesione e adulazione
alla forza che è prevalsa. A scrutare le sue sentenze, i
suoi giudizî contraddittori, i suoi sentimenti contrastanti,
temo che non ci si troverebbe altro che una grande paura
del mondo che si muove e del turbamento che da questo
moto sia per venire alla propria tranquillità e al proprio
comodo: il che non sembra che possa chiamarsi un idea-
le. La satira, dunque, la satira di buona lega, gli è nega-
ta, e non gli rimane se non di piacevoleggiare e cercar di
provocare il riso nel volgo dei lettori, dicendo le scioc-
cherie che a costoro gradiscono, prendendo le arie che a
costoro sembrano argute e intelligenti. Spettacolo che è
penoso a chi pure pregia in lui il poeta e l'artista, e lo
ama in questi suoi momenti buoni, e vorrebbe che si la-
sciasse amare e stimare nel rimanente dell'opera sua289.

289
[V. in seguito Nuove pagine sparse2, Bari, Laterza, 1966, pp. 416-18].
392
LXIV. LUIGI PIRANDELLO

Può dar luogo a maraviglia che il Pirandello, autore


di piú centinaia di novelle e di parecchi romanzi, non
avesse ottenuto molto nome tra gli scrittori della sua ge-
nerazione, e, fin quasi ai cinquant'anni, non fosse una fi-
gura spiccante nel mondo letterario italiano. Certo, le
sue novelle e romanzi offrivano una profusione di av-
venture e di caratteri studiati con cura e non senza ricer-
ca di effetti cupi o grotteschi. Ma è anche vero che non
avevano molta originalità di sentimento e di stile, ed
erano, piú che altro, una prosecuzione, alquanto in ritar-
do, dell'opera della scuola veristica italiana. In quella
scuola il Pirandello aveva esordito, e anche la sua prima
raccoltina di versi, del 1899, lo mostra in taluni atteg-
giamenti, che già conosciamo, dei «veristi» e «ribelli»:
le sue novelle seguirono la scuola soprattutto in quella
parte in cui prendeva a oggetto di rappresentazione arti-
stica l'umanità senza ideali, l'umanità bassa, volgare,
egoistica, turpe, e sovente delittuosa. E non solo non vi
alitava dentro lo spirito poetico di un Di Giacomo o di
un Verga, ma nemmeno vi sopravanzava quell'ingenuo
culto della scienza, quella devozione che alla fisiologia,
psicologia e sociologia ancora consacravano i Capuana
e i De Roberto. Il racconto vi stava di solito quasi reso-
conto di un fatto accaduto, a documento di quel pessimi-
smo buio, e perciò stesso versava nel generico e nel co-
mune, giacché solo l'accento poetico dà l'inconfondibile
individualità. Come negli epigoni, come nei tanti novel-
393
lieri italiani che imitarono Giovanni Boccaccio, avveni-
va in lui, rispetto ai primi veristi, un certo meccanizza-
mento.
Tuttavia qualcuna delle novelle, tra le piú brevi e ra-
pide, di quella vecchia ispirazione, è condotta con so-
brio vigore, come La mosca, che tocca il fondo del cru-
dele e dell'orrendo. Un contadino, nel giorno in cui egli
e un suo cugino, pieni di vita e di allegria, si accingono
entrambi a nozze, è punto da una mosca, che gli dà il
carbonchio, e, abbattuto sul letto, prossimo a morte,
mentre l'altro l'assiste costernato, scorge nella stanza la
mosca, forse quella che l'ha punto, e la vede posarsi sul-
la faccia del cugino, intento ad ascoltare il medico.
«Giarlannu Zarù non disse altro. Si rimase a mirar quel-
la mosca che Neli, quasi imbalordito dalle parole del
medico, non cacciava via. Egli, Zarú, non badava al di-
scorso del dottore, ma godeva che questi, parlando, as-
sorbisse cosí l'attenzione del cugino da farlo stare im-
mobile come una statua e non fargli avvertire il fastidio
di quella mosca. Oh fosse la stessa! Allora sí davvero
avrebbero sposato insieme! Una cupa invidia, una sorda
gelosia feroce l'aveva preso di quel giovane cugino cosí
florido, per cui piena di promesse rimaneva la vita che a
lui, ecco, veniva improvvisamente a mancare.» E solo
quando l'insetto ha compiuto la sua azione, dà l'allarme,
e tutti gli astanti si affollano intorno al giovane e lo trag-
gono fuori, disperandosi e gridando. L'altro, il morente,
resta solo. «Silenzio. Nessuno. Non si resse piú sul go-
mito, ricadde a giacere e si mise per un pezzo come a
394
grufare, per non sentire il silenzio della campagna che
l'atterriva. A un tratto gli nacque il dubbio che avesse
sognato, che avesse fatto quel sogno cattivo nella feb-
bre; ma, nel rivoltarsi verso il muro, vide la mosca, lí di
nuovo. Or cacciava fuori la piccola proboscide e pom-
pava, si rinettava celermente le due esili zampine ante-
riori, stropicciandole fra loro, come soddisfatta.»
Il migliore dei suoi romanzi, I vecchi e i giovani, nel
solito schema messo in voga dallo Zola, arieggia ai Vi-
ceré del De Roberto, mirando a dare un quadro della Si-
cilia nel tempo in cui la vecchia generazione, che l'ave-
va unita all'Italia, moriva nella tristezza o si disfaceva
nella corruttela, e la nuova s'avanzava, divisa nei suoi
varî partiti, e con essa l'incipiente e minacciante sociali-
smo, che furono gli anni, all'incirca, degli affari della
Banca romana e dei «fasci» di Sicilia: quadro dipinto
senza appassionamento politico e perciò senza appro-
fondimento storico («apolitico» il Pirandello si suole di-
chiarare volentieri290). Ma sebbene, a compenso
dell'affetto e del concetto politico e storico, vi si noti
abilità di narratore e anche non poca conoscenza del
cuore umano, dal libro esce un senso di cose già molte
volte viste ed udite, e come logore e stanche: logore e
stanche in tutto, persino nel personaggio che dovrebbe
essere il piú poetico ed è convenzionale, il vecchio gari-
baldino Mauro Mortara.
Se i lettori non molto si riscaldavano per i suoi rac-
290
F. PASINI, Luigi Pirandello (Trieste, 1927), p. 257: «Sono apolitico: mi sen-
to soltanto uomo sulla terra. La mia vita non è che lavoro e studio...».
395
conti e romanzi, ai quali non rifiutavano per altro la loro
stima, neppure il Pirandello si appagava del tutto di que-
sta sua pur cosí abbondevole produzione letteraria nel
modo veristico, in cui mancava, o era assai debole, il
complemento soggettivo sia dell'ampio sentire umano
sia del pensiero. E volle tentare un modo diverso e quasi
opposto con un romanzo, Il fu Mattia Pascal, pubblicato
nel 1904, che richiamò sopra di lui una piú viva atten-
zione; e poi, particolarmente dal 1918 in poi, col com-
porre, con foga instancabile, una fitta sequela di opere
per il teatro, alle quali gli è piaciuto dare il titolo genera-
le di Maschere nude, oltre ad alcuni romanzi di consimi-
le ispirazione. Quando si parla del Pirandello e dell'arte
che è sua, si suole riferirsi sempre a questa seconda sua
maniera.
Se io dovessi definire in poche parole in che cosa
propriamente questa sua maniera consiste, direi: in talu-
ni spunti artistici, soffocati o sfigurati da un convulso
inconcludente filosofare. Né arte schietta, dunque, né fi-
losofia: impedita da un vizio d'origine a svolgersi secon-
do l'una o l'altra delle due. Donde altresí l'aspetto sor-
prendente e sconcertante con cui essa si presenta, e le
discussioni che suscita, e i sottilizzamenti ermeneutici, e
le perplessità persistenti, e il vuoto che pare pieno e il
pieno che si sente vuoto, e, infine, nei lettori o spettato-
ri, un malcontento e un'irritazione tanto maggiori in
quanto l'autore non è di certo scarsamente dotato d'inge-
gnosità, di vivacità dialogica, di eloquenza, e a tratti tra-
manda anche lampi di affetto e di poesia.
396
In un libro che tenne dietro al Fu Mattia Pascal, egli
s'industriò di esporre e ragionare il suo nuovo ideale
d'arte, trattando dell'«umorismo» e considerandosi
«umorista». E disse che l'arte umoristica, diversamente
da tutta la restante arte, non ha a suo unico contenuto il
sentimento, ancorché con questo sia fuso un elemento
riflessivo, ma il sentimento accompagnato a ogni passo
dal suo contrario, la riflessione, che lo segue come
l'ombra il corpo, sicché laddove tutta l'altra arte, quella
non umoristica, bada al solo corpo, essa anche
all'ombra, e anzi piú a questa che a quella 291. Ma un'arte
umoristica, cosí dedotta, è altrettanto inconcepibile
quanto inesistente, perché, se la riflessione semplice-
mente accompagna il sentimento, ne rimane distinta, al
modo di una critica che segua passo passo una poesia, e
perciò è distinta dalla poesia; e, se, invece, si sforza di
introdursi nel sentimento e nella fantasia, ne nasce lo
sconcerto che può ben pensarsi e che è evidente nella
seconda maniera del Pirandello.
Chiarirò il mio giudizio con alcuni esempî, non es-
sendo mio proposito di esaminare uno per uno i suoi
drammi e i romanzi; ma, tra gli esempî, un cenno è da
dare del capostipite della sua nuova maniera, quel ro-
manzo del Fu Mattia Pascal, narrazione delle curiose
vicende di un tale che, vessato dalla moglie, dalla suo-
cera, dai debiti e da altre cose, profitta di un equivoco
per cui si è creduto che egli sia annegato, per non torna-
291
L'umorismo (Lanciano, Carabba, 1900). Si veda la critica a cui allora lo
sottomisi, e che è ristampata in Conversazioni critiche, I4, 44-48.
397
re a casa e ripigliare la sua piena libertà e muoversi sen-
za impacci nel mondo. Ma presto fa l'esperienza che,
per muoversi senza urtare in intoppi fastidiosi e in osta-
coli insormontabili, dovrebbe di volta in volta dar la
prova della sua identità personale, o che gli occorra
sporgere querela per un furto patito, o battersi in duello,
o semplicemente mettere in deposito presso una banca il
proprio danaro, o pagare un'imposta, o, piú ancora, se
vuole sposare la donna che ama e che l'ama. In ultimo, il
finto morto si decide a inscenare un secondo suicidio,
quello della sua seconda personalità, e, ripigliando la
prima, a tornarsene al suo paesello, facendosi riconosce-
re per ben vivo e riacquistando la personalità giuridica.
C'era qui materia soltanto per un piccolo racconto scher-
zoso, che si sarebbe potuto intitolare: Il trionfo dello
stato civile; ma il Pirandello ne fa un lungo romanzo,
con certa intonazione tra meravigliata e angosciata; e
l'uomo che, vivo per un verso, è morto per l'altro,
l'uomo che, quando due care labbra lo baciano, «si ritrae
inorridito come se (dice) avesse baciato Adriana con le
labbra d'uno morto, d'uno morto che non poteva vivere
per lei», gli si atteggia quasi personaggio sottoposto a
una tragica esperienza, e par già che sul suo caso stiano
per nascere e intrecciarsi problemi intorno al mistero
della vita umana.
Questi problemi sorgono e si espandono e dominano
nei drammi: uno dei quali è Vestire gli ignudi, che pren-
de le mosse da un fatto pietoso. Una giovane donna,
dopo molti errori, ha tentato di togliersi la vita; e, cre-
398
dendosi presso a morire, racconta delle cagioni che
l'hanno spinta a quel passo una storia immaginaria, che
la mette in luce d'innocente e di tradita, per lasciar di sé
un'immagine dolorosa e pura. Ma è curata e salvata, e
nell'interessamento che suscita intorno a sé, e nel gran
parlare che si fa del suo caso, la commovente finzione
romanzesca che aveva congegnata cade a pezzo a pezzo,
e la brutta realtà vien fuori; ed ella ripete il suo primo
gesto e muore, questa volta, senza la vesticciuola in cui
aveva tentato di avvilupparsi. Il desiderio di una reden-
zione in fantasia, che aveva mosso a quell'infingimento,
serve di argomento per una sorta di accademia aperta in-
torno a questo tema del bisogno che tutti provano di fare
una bella figura, e di mandare in giro per il mondo
un'immagine di sé diversa dalla reale, di mettere intorno
alla loro nudità un vestito intessuto di menzogne:
un'accademia nella quale la donna, che viene dalla mor-
te per avviarsi alla morte, non è la meno eloquente, né la
meno teorizzante, né la meno polemista. Sembra anche
qui che si voglia svelare non si sa quale triste legge del-
la vita; e nondimeno non si svela niente, perché niente
c'è da svelare. Nessuno passeggia mai nudo, nemmeno
moralmente; e se la lotta sociale consiglia a mostrar di
sé solo quanto conviene e non ogni cosa, al modo stesso
che un combattente non scopre tutto il corpo ai colpi, la
medesima regola è imposta dal rispetto verso gli altri, ai
quali non è lecito esibire le proprie miserie e sciorinare
le spazzature della propria anima. Il che non ha niente
da vedere col dovere della sincerità, che si esplica ben
399
diversamente e ben piú severamente. D'altra parte, se c'è
chi, morendo, vuole lasciare di sé un'immagine non vera
ma bella, l'esperienza ci mostra che c'è anche, per oppo-
sto, di quelli che strappano d'intorno a sé ogni velo per
morire purificati nel lavacro della verità.
Un iniziale motivo di miseria, di vergogna e di pietà è
altresí in quello dei drammi del Pirandello, che è rino-
mato come il piú caratteristico della sua maniera: Sei
personaggi in cerca d'autore. In una famiglia, da piú
anni abbandonata dal capo di essa, dal secondo marito
della madre che è rimasta con le due figlie e un ragazzo,
la maggiore delle figlie, cedendo ai cattivi consigli della
miseria e all'affetto di provvedere ai suoi e di aiutarli, si
dà, per guadagno, nella bottega di una mezzana, a uomi-
ni sconosciuti; e sta per darsi un giorno a uno di questi,
quando nell'uomo, recatosi colà, viene riconosciuto pro-
prio il secondo marito della madre, che viveva lontano e
che era capitato per caso nella città in cui essi dimorava-
no, l'uomo che, un tempo, aveva avuto per lei piccina
cuore e cure paterne e la conduceva per mano alla scuo-
la. L'orrore dell'incontro lurido e tragico nell'inaspettato
riconoscimento sconvolge tutti, l'uomo, la giovane, la
madre. Ci sono parole che commuovono a profonda pie-
tà, come queste che dice la sciagurata nel parlare della
sorellina, a cui è avvinta da disperata tenerezza: «Ah,
nel sole, signore, felice! È l'unico mio premio, la sua al-
legria, la sua festa in quel giardino; tratta dalla miseria,
dallo squallore di quell'orribile camera, dove dormiva-
mo tutti e quattro ‒ e io con lei ‒ io, pensi! con l'orrore
400
del mio corpo contaminato, accanto a lei che mi stringe-
va forte forte coi suoi braccini amorosi e innocenti. Nel
giardino, appena mi vedeva, correva a prendermi per
mano. I fiori grandi non li vedeva. Andava a scoprire in-
vece tutti quei ‘pittoli pittoli’, e me li voleva mostrare,
facendo una festa, una festa!». Ma l'autore non ha volu-
to (dice) dar vita a questa storia, e ai sei personaggi che
vi parteciparono. E il dramma che si svolge è appunto di
questa vita negata a creature della fantasia, un dramma
nel quale egli si propone di raffigurare, nientemeno, il
divenire dell'opera artistica. I sei personaggi non realiz-
zati si presentano, non chiamati, sulla scena di un teatro,
al momento di un concerto, e chiedono la loro vita al ca-
pocomico e agli attori; e tra questi ed essi s'impegnano
contrasti, perché i personaggi, nel corso delle prove, di-
chiarano di volta in volta gli attori inadeguati a rendere
la loro tragedia, giacché essi sono una realtà che cangia
e l'arte di quelli è realtà fissata; e da ciò nascerebbe la
tragedia artistica, sovrapposta alla tragedia reale. Ma
sussiste cotesta tragedia dell'arte? ha un senso? Che
cosa vuol dire che un autore nega la vita ai suoi perso-
naggi? Se sono suoi personaggi, se egli li ha fantastica-
mente creati, ha ben dato loro la vita. Si vorrà dire piut-
tosto che non li ha a pieno formati, ma solo abbozzati o
intravisti, e che difettano di alcune necessarie integra-
zioni, in modo che non gli riesce ancora di ritrarli con
sicurezza di contorni nelle parole, nelle linee, nei colori,
nei suoni? Sono cose che accadono a ogni artista, e an-
che a ogni pensatore, i quali tutti hanno esperienza di ta-
401
luni oscuri accenni d'arte, di intravisti nuovi concetti e
giudizî, che, per tempo piú o meno lungo, non riescono
né a portare a compimento né a dimenticare. E quale
senso ha l'accusa che l'arte non adegui la realtà? Forse
che fine dell'arte è di adeguare e ripetere la realtà, e non
invece, unicamente, di esprimere i sentimenti dell'arti-
sta, in funzione dei quali si formano figure, caratteri,
azioni, una fantastica realtà? I dialoghi tra i sei perso-
naggi e gli attori sono a tal segno privi di oggetto che
qua e là, certamente contro l'intenzione dell'autore,
prendono toni degni piuttosto di una farsa che di una
tragedia.
Un uomo si è ucciso per una donna, che l'ha tradito; e
nessuno sa, neppure quella donna stessa, se l'abbia tradi-
to per perfidia o per distaccarlo da lei e dall'assurdo ma-
trimonio che voleva fare con lei. È il soggetto di Cia-
scuno a suo modo, non tanto nuovo quanto sembra, per-
ché, in fondo, rientra in situazioni simili a quella della
Signora delle camelie e del suo famoso tradimento per
bontà e generosità, che l'innamorato fraintende come
perfidia. Ma anche quel soggetto, invece di essere svi-
luppato per sé, serve ad aprire un'accademia sulla tesi:
che nessuno conosce sé stesso, nessuno realmente può
sapere, né da sé stesso né dagli altri, quel che egli vera-
mente sia, e ciascuno fluttua nell'idea di sé a seconda
delle immaginazioni sue ed altrui. C'è un personaggio,
un quasi filosofo, che è un vero energumeno nel soste-
nere e inculcare questa tesi; e verso chi gli muove obie-
zioni, scatta, aggressivo, gli posa le mani sulle spalle, lo
402
guarda fisso e da vicino, e gli dice: «Cosí, dentro agli
occhi ‒ cosí! No ‒ guardami. ‒ Cosí a nudo come sei,
con tutte le miserie e le brutture che hai dentro ‒ tu
come me ‒ le paure, i rimorsi, le contraddizioni! ‒ Stàc-
calo da te il pagliaccetto che ti fabbrichi con l'interpreta-
zione fittizia dei tuoi atti e dei tuoi sentimenti, e ti ac-
corgerai subito che non ha nulla da vedere con ciò che
sei o puoi essere veramente, con ciò che è in te e che tu
non sai, e che è un dio terribile, bada, se tu ti opponi ad
esso, ma che diventa subito pietoso d'ogni tua colpa, se
t'abbandoni e non ti puoi scusare. ‒ Eh, ma quest'abban-
dono ci sembra un ‘negarci’, cosa indegna di un uomo;
e sarà sempre cosí, finché crediamo che l'umanità consi-
sta nella cosiddetta coscienza o nel coraggio che abbia-
mo dimostrato una volta, invece che nella paura che ci
ha consigliato tante volte d'esser prudenti». Perché que-
sto pathos, perché questo gran fracasso, per una scoper-
ta che non è una scoperta? Ogni individuo, si sa, è un
microcosmo, e contiene in sé tutte le possibilità del bene
e del male, tutte le grandezze e tutte le viltà, e chi vuole
umiliarsi ha sempre molte ragioni di farlo, e chi vuol
confortarsi anche: il che non toglie che c'è una differen-
za tra il male che si ha in sé, represso, ricacciato in fon-
do, incatenato, sepolto, e quello che trapassa nella vo-
lontà e nell'azione: la differenza tra i due estremi
dell'uomo buono (che, pure, semper est pavidus) e del
cattivo, nonché dei gradi intermedi che il giudizio mora-
le discerne. E, per quel che riguarda il conoscere sé stes-
so, l'uomo scrupoloso si conosce quanto deve e quanto
403
gli bisogna; ma, se lo scrupolo non diventa in lui egoi-
stico, e con ciò stesso peccaminoso, egli si guarda dalla
mania di discendere in un fondo di sé stesso che non
esiste come tale ed è il fondo dell'intera vita cosmica, da
cui veniamo fuori e in cui ci rituffiamo.
Non mi soffermo sopra un'altra delle piú famose tra-
gedie del Pirandello, della quale assai si è discusso,
l'Enrico IV, che, come soggetto, rientra nel vecchio mo-
tivo amletico del pazzo che non è pazzo o ha cessato di
esser pazzo, e che ha visto e ha compreso tutto quanto
gli è accaduto e quanto gli si muove attorno, e, d'un trat-
to, prorompe in un impeto violento e si vendica. Noterò
soltanto che vi ritorna la solita guisa di filosofare: chi è
pazzo? chi è savio? chi conosce l'altro? «Bisognerebbe
vedere che cosa invece par vero a questi centomila altri
che non sono detti pazzi, e che spettacolo danno dei loro
accordi, fiori di logica! Io so che a me, bambino, pareva
vera la luna nel pozzo. E quante cose mi parevano vere!
E credevo a tutte quelle cose che mi dicevano gli altri,
ed ero beato! Perché, guai, guai se non vi tenete piú for-
te a ciò che vi par vero oggi, a ciò che vi parrà vero do-
mani, anche se sia l'opposto di ciò che vi pareva vero
ieri! Guai se vi mettete come me a considerare questa
cosa orribile che fa veramente impazzire: che se siete
accanto ad un altro, e gli guardate negli occhi, ‒ come io
guardavo un giorno certi occhi, ‒ potete figurarvi come
un mendico davanti a una porta in cui non potrà mai en-
trare: chi vi entra, non sarete mai voi, col vostro mondo
dentro, come lo vedete e lo toccate; ma uno, ignoto a
404
voi, come quell'altro nel suo mondo impenetrabile vi
vede e vi tocca...»292. Affermazione dell'impossibilità di
conseguire la verità, di andar mai di là da quello che ap-
pare a ciascuno, la quale è altresí l'argomento di Cosí è
(se vi pare). Un marito sa di conoscere perfettamente
che sua moglie è una seconda moglie, sposata dopo la
morte della prima, laddove la madre di questa non meno
perfettamente sa e vede che la pretesa seconda moglie è
sempre la prima, è sua figlia, non mai morta. Intanto,
per effetto di terremoti e di incendî, sono stati distrutti i
documenti che varrebbero a dirimere il contrasto e a sta-
bilire quale dei due sia, nella sua placidezza di persua-
sione, folle; e la donna, la moglie, che potrebbe aprir
bocca e pronunziare la verità, si guarda bene dal parlare,
perché (dichiara) non vuole, col suo detto, togliere a uno
dei due l'illusione di cui vive. E questa fermezza di iro-
nica pietà sarebbe potuta essere l'anima artistica del
dramma, se l'autore non avesse preferito invece fare del-
la sua opera una «parabola» a illustrazione della tesi,
che «la verità è ciò che pare»: tesi che non ha certo la
feconda negatività dell'antico protagorismo e d'ogni al-
tro scetticismo venuto in filosofia a suo tempo e luogo a
stimolare il progresso del pensiero, ma è da dire puerile,
292
A qualcuno, come il FLORA (Dal romanticismo al futurismo, nuova ed., Mi-
lano, 1925, p. 236), qui scappa la pazienza: «Questo giocare sui termini
‘saggezza’ e ‘pazzia’ come su bussolotti, quando si ha piena coscienza di
non esser pazzi nel porre la sottile altalena, è per lo meno un perditempo.
Questo chiedersi se siamo pazzi o savi sfogliando le margherite, ci sembra
una goffaggine. E ammettiamo che la prima margherita si sfogli affermati-
vamente, la seconda dirà di no. Allora, chi è dunque il pazzo? Ma chi vole-
te fare ammattire? Andate al diavolo!».
405
posto che si è ammesso che uno almeno dei due asserto-
ri, per malattia o per forte scossa d'improvviso sofferta,
è in condizione di follia.
L'attrice e la donna, il teatro e la realtà della vita,
l'arte che si versa nel sentire e fare pratico e sembra tal-
volta conformarlo a sé e falsificarlo, è una situazione
psicologica già apparsa, come talune delle precedenti, in
letteratura, chi ricordi, per non dire altro, la Faustin di
Edmondo de Goncourt o qualche episodio del Re umori-
sta del nostro Cantoni. Nel Trovarsi del Pirandello
l'attrice smania con l'uomo che l'ama: «Sai, è... è per
forza cosí... perché io sono stata sempre vera... sempre
viva... ma non per me... ho vissuto sempre come di
là da me stessa; e ora voglio essere ‘qua’ - ‘io’ - ‘io’,
avere una vita, per me... devo trovarmi! (s'infosca, si
esaspera). Ecco, vedi? dico: trovarmi. È orribile. Se par-
lo... Dovrei non parlare... mi sento parlare... Non vorrei
piú riconoscere la mia voce: me ne sono tanto servita!
Vorrei parlare con una voce nuova; ma non è possibile,
perché non mi son mai fatta una voce, mai; e prima non
ci ho badato; ho parlato sempre con questa mia voce...
Ora non posso averne un'altra, è vero! è vero! è la
mia!». E le pare, tornando a recitare, di essersi «trova-
ta», di avere stabilito l'equilibrio, riconquistando la real-
tà attraverso quella liberazione dalla realtà. Ma l'amante
non vuol sapere, in lei, dell'attrice, ed ella si dà tutta
all'arte. «Trovarsi... Ma sí, ecco. Non ci si trova alla fine
che soli. Fortuna che si resti coi nostri fantasmi, piú vivi
e piú veri d'ogni cosa viva e vera, in una certezza che sta
406
a noi solo raggiungere, che non può mancarci.» E termi-
na: «E questo è vero... E non è vero niente... Vero è sol-
tanto che bisogna crearsi, creare! E allora soltanto ci si
trova». Fintanto che l'osservazione di fatto circa la fre-
quenza in cui nell'attrice (nell'attrice che, potrebbe dirsi
celiando, è doppiamente attrice, perché è anche donna)
la personalità ideale tende ad imbevere di sé quella rea-
le, è tenuta nei suoi limiti empirici, ha un suo senso e un
suo uso; ma, messa nei termini di un problema generale:
se il sé stesso si ritrovi nella vita o nell'arte; che cosa,
senza tanto smaniare, si può rispondere, se non che si ri-
trova cosí nell'una come nell'altra, nell'una in un aspetto,
nell'altra in un altro; e che non solo nelle attrici, non
solo nel teatro, non solo nell'arte, ma in ogni attività
specificata (anche nella politica e nell'economia, anche
nella filosofia), si profila la tendenza a interferire, con
l'abito di un'esperienza speciale, nell'esercizio di tutta la
restante vita: ragione per cui bisogna sempre vigilarsi e,
nel caso, riscuotersi e rendersi conto che quel che ora ci
sta dinanzi, quel che ora ci tocca fare, è una cosa di na-
tura diversa da quella che si faceva prima.
Del tutto nuovo in letteratura non si direbbe neppure
(chi ricordi l'ibseniano Quando noi morti ci destiamo o,
magari, il Ritratto ovale del Poe) il motivo di Diana e la
Tuda, della modella che si prende di desiderio e d'amore
per l'artista innanzi a cui posa, e che in lei non vede se
non la modella, cioè un pratico strumento della sua arte,
laddove a lei sembra che quell'uomo succhi il meglio
dell'esser suo e che all'opera che esso lavora e che crede
407
di cavare dal proprio cervello, ella dia la vita e l'anima
sua. Questo spasimo si allarga, al solito, teoricamente,
nel dramma, formulandosi nella rinnovata accusa all'arte
di «fissare» il fluente e mutevole della vita, e compli-
candosi con un'altra accusa rivolta alla natura da un vec-
chio scultore, il quale assiste con orrore al fissarsi del
proprio corpo, che fu già vita e movimento, in una for-
ma in cui la vita non scorre piú, e perciò, non soffrendo
la vista della fissità, un bel giorno fracassa tutte le sue
statue, diventategli odiose. Al che non si sa che cosa
dire, se non forse che l'arte tanto poco s'immobilizza
nella forma creata, che, col ritmo medesimo di ogni
cosa vivente, ne crea sempre di nuove, e che l'invecchia-
re e morire è appunto il trapasso della vita di forma in
forma.
L'ultima opera teatrale del Pirandello, Quando si è
qualcuno, annunziata come «uno dei lavori piú tipica-
mente e squisitamente pirandelliani», può accettarsi
come tale, rappresentante ultimo della sua maniera. La
tragedia sarebbe quella del grand'uomo che è prigionie-
ro del giudizio che lo ha pronunziato grande, della figu-
ra in cui è ammirato e fissato nella mente del pubblico, e
non può piú lasciarsi andare ai nuovi moti di vita, di
fantasia e di pensiero che si accendono in lui, costretto a
rimanere quello che una volta è stato e a rimanervi per
sempre: non piú uomo vivo, ma monumento di sé stes-
so. Anche questa pretesa tragedia è nient'altro che un in-
compreso processo della mente umana, la quale, non
solo dei grandi uomini, ma di tutti gli uomini e di tutte
408
le cose ha bisogno di formare le cosiddette classificazio-
ni, che, indispensabili come sono, possono pervertirsi, e
si pervertono di frequente, in ostacoli e pregiudizî ai
nuovi giudizî che sono richiesti dal nuovo che sempre si
produce; onde gli individui possono, secondo i casi, sen-
tirsi o essere realmente inferiori («acquista fama e pòniti
a sedere») o superiori alla classificazione che hanno ri-
cevuta e che ha tendenza a persistere e pur dev'essere,
ed è, di continuo, modificata o rovesciata. Ma se un sin-
golo uomo o grand'uomo s'immagina, come il protago-
nista del dramma del Pirandello, prigioniero di essa e ne
soffre o ne muore, si tratta, in questo caso, di una pueri-
le apprensione o di una infermità mentale, e potrà venir-
ne fuori la rappresentazione comica o pietosa, ma non
mai quella che tenta di darne il Pirandello, grave di un
inesistente mistero e di una misteriosa tragedia. Il quale
pare, in qualche punto del dramma, accennare ad altro:
al disperato strazio di un vecchio che si prende d'amore
per una giovane donna: «Tu non l'hai compreso questo
ritegno in me del pudore d'esser vecchio, per te giovine.
E questa cosa atroce che ai vecchi avviene, tu non la sai:
uno specchio, ‒ scoprircisi d'improvviso, ‒ e la desola-
zione di vedersi che uccide ogni volta lo stupore di non
ricordarsene piú, ‒ e la vergogna dentro, la vergogna al-
lora, come d'un'oscenità, di sentirsi, con quell'aspetto di
vecchio, il cuore ancor giovine e caldo». Ma questo che
è un grido di spasimo, come se ne incontrano nei dram-
mi del Pirandello, è soverchiato dal falso dramma
d'idee, che predomina e si configura astrattamente, ri-
409
correndo persino a gesti e atteggiamenti simbolici. Per
mera curiosità, è da notare che la materia per l'azione
teatrale è presa, questa volta, da un aneddoto di storia
letteraria, dal caso di Domenico Gnoli, che volle presen-
tarsi ringiovanito celandosi sotto l'immaginaria persona
di Giulio Orsini e per qualche tempo gode del tranello in
cui aveva tirato i critici, spregiatori della sua arte e fana-
tici di quella dei giovani293.
Mi pare che questa esemplificazione sia bastevole
alla dimostrazione che si doveva dare; e, quanto alle no-
terelle che l'hanno accompagnata per mettere in luce via
via l'inconsistenza delle tesi che il Pirandello propone,
non si vorrà obiettare che qui il critico ha commesso
l'errore di discutere come teorie quelle che nell'autore
non sono tali, ma espressioni di uno stato d'animo scetti-
co, pessimistico, desolato, esasperato, di un uomo che si
sente avvolto in tenebre non diradabili e vede cedere e
sfuggirgli ogni punto sul quale tenta o potrebbe tentare
di appoggiarsi. Può darsi che il Pirandello si trovi vera-
mente in questa condizione di burrasca e di terrore e di
furore, sulla quale, superata che fosse dal vigore geniale
dell'artista, potrebbe certamente sorgere una lirica, un
romanzo, un dramma doloroso e pur vivo e bello. Ma
egli non la supera e da una parte par che si appaghi nello
sfogarsi e, dall'altra, attende a lavorare drammi ingegno-
si, spigliati e agilmente dialogati, e prende evidentemen-
te gusto da intellettuale alle sue tesi e ai suoi paradossi.
È ‒ tanto per intenderci e serbando le debite proporzioni
293
Si veda Letteratura della nuova Italia, IV, 149-58.
410
‒ come se ci si trovi dinanzi non già al Leopardi, poeta
degli idilli e degli altri canti, ma al Leopardi polemista
delle Operette morali, che discute e col quale si discute:
l'eccezione dello stato poetico dell'anima non vale per il
Pirandello, perché questo stato poetico non è conseguito
da lui e neppure perseguito. Si osservi, per dirne una,
come nel dramma Ciascuno a suo modo, nei cui perso-
naggi e nelle cui azioni parrebbe che dovesse regnare
continuo il senso della cecità congiunto al senso
dell'impurità, non solo abbondino, invece, le discussioni
e i teorici battibecchi, ma venga adoperato perfino il
vecchio espediente teatrale del cosiddetto «teatro in tea-
tro», e ai due atti dell'azione si alternino altri due in cui
si vede e s'ode il pubblico dei palchi e della platea e si
assiste alle reazioni e alle rispondenze tra quel che la
scena rappresenta e quel che si attua nella vita reale.
«Umorismo» si dice, e bisognerebbe piuttosto dire
«troppa facilità d'esecuzione»; e in questa troppa facilità
è l'origine della copiosa produzione teatrale del Piran-
dello, che si è composto una ricetta, ha trovato una ma-
niera, e la viene adoperando con aria, cioè con stile,
tutt'altro che d'angosciato, addolorato e furibondo: tutt'al
piú, con lo stile di un intellettuale esasperato, e «prigio-
niero» lui, veramente, dei demoni logici che ha evocati
e che non riesce né a sottomettere né a fugare.
Siffatta sua maniera ha avuta molta fortuna, in Italia e
fuori d'Italia; e, nel ricercare di ciò le cagioni, conver-
rebbe forse in primo luogo annoverare questa: che la fi-
losofia, la quale, checché si ciarli in contrario, è un biso-
411
gno naturale e insopprimibile dell'uomo, trattata come
va trattata riesce dura e difficile, e perciò alla gente me-
diocre, al buon borghese, piace, non potendo altro, pos-
sederne almeno l'apparenza e vedersi sfilare dinanzi af-
fermazioni e negazioni arrischiate, pseudoteorie, fanta-
stiche spiegazioni, e discutervi e litigarvi intorno. Piace
segnatamente in tempi di generale discesa del livello
mentale e critico, come sono quelli seguiti all'eretismo e
alle distruzioni della guerra, nei quali, per tal ragione, si
è potuto credere che il Pirandello, ‒ che non ha mai in
vita sua elaborato una proposizione filosofica, e che la
sola volta che cercò di svolgere metodicamente un pro-
blema (nel libro sull'umorismo) provò questa sua inca-
pacità, ‒ sia penetrato nel mistero della vita e ne abbia
dato o escogitato la soluzione o una serie progressiva di
soluzioni; e che, in ogni caso, da lui sia da aspettare che
alla perfine, uscendo dalle negazioni e dal pessimismo,
giunga ad una fede e l'annunzi agli uomini. Sarà questa
(suonano cosí le ingenue domande degli ingenui) una
riaffermazione della religione tradizionale? o di quella
dell'amore per l'umanità? o una affatto nuova, da lui in-
ventata, come quella dell'arte, che, coltivata con totale
dedizione ed adesione, supererà l'antinomia con la real-
tà?294. Sarà (come talvolta ha dichiarato l'autore) la rego-
la suprema di «non lasciarsi sorpassare dalla vita» e di
«mutare con la vita e vincere l'immobilità che uccide»?
294
Si veda a prova di codeste strane interpretazioni e aspettazioni un saggio di
U. LEO, Pirandello, Kunsttheorie und Maskensymbol: nella Deutsche Vier-
teljahrschrift für Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte, XI (1933),
pp. 94-129.
412
Altri, cercando persino di assegnare storicamente un po-
sto a questa sua filosofia, l'ha messa in relazione con le
filosofie variamente idealistiche, laddove, se mai, le pre-
messe delle tesi del Pirandello si ritrovano nel naturali-
smo, nello psicologismo e nell'associazionismo, che fio-
rivano al tempo della sua giovinezza. Conviene altresí
notare che quel suo scetticismo e pessimismo, quel suo
vedere il negativo e non il positivo, il disgregato e non
l'unificato, il dissolvimento e non la volontà e l'azione,
rispondono anch'essi a uno stato d'animo generalmente
diffuso. Tenendo presente, oltre queste cagioni di buon
successo, il modo sorprendente e capzioso con cui i suoi
drammi si presentano, perfino coi loro titoli fuori del co-
mune, ben s'intende un giudizio che ha avuto occasione
di darne il famoso industriale americano Henry Ford, e
che si trova riferito nel libro di un ammiratore: «Io non
sono competente ‒ disse il Ford ‒ in fatto di letteratura»
(e questa è, veramente, meglio che una parola di mode-
stia); «però sono dell'opinione che con lui si possa fare
un affare eccellente» (e questo è certamente vero e pro-
nunziato da persona competente): «i suoi lavori si adat-
tano ad un vasto pubblico. Il Pirandello è l'uomo del
popolo» (voleva dire della platea), «almeno io sono di
questo avviso: egli non è per gli intellettuali» (vole-
va dire per gli intelligenti e per i riflessivi): «ragione per
cui si è in me radicato il proposito di finanziare una sua
tournée in America. Voglio dimostrargli che con lui si
possono guadagnare dei milioni »295.
295
F. PASINI, op. cit, p. 287.
413
Per intanto, gli intelligenti, che non si sono mai per-
suasi del tutto della solidità della sua arte, manifestano a
piú riprese la loro poca fiducia nella durevolezza di que-
sta fortuna con l'insistere nel lodare del Pirandello alcu-
ne novelle di carattere realistico e pessimistico, non an-
cora toccate da quel falso filosofare, non torturate da
quella falsa profondità, e anche alcuni drammi della me-
desima ispirazione, come Liolà e Il berretto a sonagli.
Sebbene anche a quest'ultimo egli abbia appiccicato un
finale di dubbio gusto, che vorrebbe essere tragicomico
o umoristico (e che mancava nella novella da cui ha trat-
to il dramma296), la spregevole e compassionevole per-
sona dell'uomo che a ogni patto vuol salva la sua estrin-
seca rispettabilità sociale sí che nessuno possa mai rin-
facciargli la vergogna che egli sa di aver nella vita; la
vergogna che egli tollera, perché alla donna, che è sua
moglie e da cui si lascia tradire, è tristemente legato col
legame dei sensi e non potrebbe strapparsene senza
strappare da sé ogni attaccamento alla vita, senza mori-
re; è acutamente analizzata e vigorosamente messa in
azione col suo fare ravvolto e sfuggente e con l'animo, a
suo modo, volitivo e risoluto e pronto a ogni sbaraglio
per difendere quell'unica sua ragion di vita. Altre volte,
in questi drammi che abbiamo chiamato realistici, si
cade nell'estremo opposto dell'intellettualismo, nella
materialità del fatto, come in Tutto per bene, che è tratto
anch'esso da una novella, e nel quale il protagonista non
assurge a personaggio drammatico e poetico, e invano,
296
La verità: si può vedere nelle Novelle per un anno, vol. IV.
414
avvedendosi di ciò, nel partirsene «quasi rimbecillito»,
tenta con la parola e col gesto l'amaro sarcasmo, che ri-
mane superficiale297.

297
Ebbi poi occasione di ribadire questo giudizio sull'opera del Pirandello: v.
Conversazioni critiche, V2, 162-65, e Pagine sparse2, III, 94-96.
415
LXV. GUIDO GOZZANO

La poesia di Guido Gozzano, non appena risonò dal


suo Piemonte, fu riecheggiata dall'un capo all'altro d'Ita-
lia, s'impose all'orecchio e all'immaginazione, diventò
popolare: diversamente da quel che abbiamo notato di
altri scrittori di poesia che i critici lodarono, che acqui-
starono stima nell'opinione e tuttavia non ebbero effetti-
va accoglienza nelle anime e nessuno mai cantò e rican-
tò i versi loro. Non mancarono dapprima tentativi di ne-
gare o di sminuire il pregio di quella poesia, che cosí
prontamente e generalmente piaceva, e che godeva tanta
fortuna, e si venne richiamando qualche poeta francese
dal quale il Gozzano avrebbe preso esempio o tolto
qualche spunto; ma questo parve effetto d'invidia e pre-
sto non se ne parlò piú. Quelle liriche o poemetti, Le
due strade e L'amica di nonna Speranza, stavano là,
esercitavano la loro sorridente attrattiva, e, non c'era da
sofisticare, erano belle. Ancor oggi vivono, laddove di
tante altre opere in verso dello stesso loro tempo si è
perso perfino il ricordo. Vivono e sono entrate definiti-
vamente a far parte del tesoro o del tesoretto del «Parna-
so italiano», come una volta si diceva. Quale raccoglito-
re di antologie, che si estendano sino ai primi decenni
del secolo in corso, potrebbe non includervele?
D'altra parte, quanto esse sono felici per arte, altret-
tanto sono limpide e trasparenti, sicché non han bisogno
di ermeneutica, né danno luogo a fatiche d'indagini per
ritrovare quel che contengono di schiettamente poetico e
416
sceverarlo dal resto298.
Soltanto, poiché si allude talvolta a non so che di in-
gannevole o di equivoco che sarebbe nella sua arte, mi
sembra opportuno dire: ‒ e tale è l'oggetto di questa no-
terella, ‒ che il Gozzano è stato uno dei poeti piú consa-
pevoli del proprio carattere e del proprio limite, e uno
dei piú sinceri nel darsi, né piú né meno, per quel che
era.
Egli si è conosciuto e si è definito come piú esatta-
mente non si potrebbe:
Amanti! miserere,
miserere di questa mia giocosa
aridità larvata di chimere!
Aridità: la condizione d'animo di chi non solo non è ri-
scaldato da alcun ideale, ma non riesce neppure a pren-
dere sul serio la voluttà e l'indivisibile da lei dolore, che
a lor guisa pur danno moto e calore alla vita. Egli è di-
staccato cosí dalla vita alta come da quella bassa, dallo
spirito e dal corpo, pronto sempre ad andar via dal mon-
do, familiare col pensiero della morte.
La sua confessione, in questa parte, è pienissima.
Vede gli amici che si sono dati ai varî partiti in contra-
298
L'autore stesso volle dare delle sue liriche una scelta severissima: I colloquî
(Milano, Treves, 1911): che poi è stata ampliata dagli editori nell'edizione
postuma: I primi e gli ultimi colloquî (Milano, Treves, 1927). La prima rac-
coltina, che gli dié fama, s'intitolava: La via del rifugio (Torino, Streglio,
1907). Ora è in corso una completa raccolta delle Opere di lui in verso e in
prosa (Milano, Treves), della quale sono usciti finora il vol. II: I colloquî e
altre poesie (1936), e il III: L'altare del passato. L'ultima traccia (1935)
[continuata dipoi col vol. I: La via del rifugio, il IV: Verso la cuna del mon-
do. Lettere dall'India, il V: Le dolci rime. Le fiabe di S. Francesco.
417
sto, liberale, democratico, cattolico, socialistico, e pensa
che, cosí facendo, essi hanno riposto «la vana fede nelle
vane scuole». Per suo conto, nessuna meta saprebbe
proporsi:
La Patria? Dio? L'Umanità? Parole
che i retori t'han fatto nauseose...
Tutte le lotte umane sono per lui nient'altro che «lotte
brutali d'appetiti avversi»: putredine.
La morte non gli fa spavento:
È una Signora vestita di nulla e che non ha forma:
protende su tutto le dita, e tutto che tocca trasforma...
Ed egli aspetta questa prossima trasformazione, che lo
renderà diverso ed estraneo a quel che è ora, e come di-
mentico di essere stato quel che ora è.
Si descrive sotto il nome di Totò Merùmeni, e non
certo per esaltarsi o per vezzeggiare sé stesso: ripete che
«non può sentire», che conosce scarsamente quella che
si chiama «morale», che è «chiaroveggente», eppure di
«scarso cervello», cioè di mente non robusta, e che i
suoi pochi versi nascono come fiori su rovine di un edi-
ficio che l'incendio consunse:
Quell'anima riarsa esprime a poco a poco
una fiorita d'esili versi consolatori.
Unico suo lavoro, questo, al quale dia qualche interessa-
mento: di altro non gl'importa. La vita è efimera:
E vive. Un giorno è nato. Un giorno morirà.
Nessun altro sentimento positivo sorge nel suo animo.
418
Manda un fuggitivo rimpianto ai primi anni della giovi-
nezza:
La bellezza del giorno
è tutta nel mattino.
Ha un'altra volta un pensiero gentile per il fratello che
gli sopravviverà e col quale gli pare di identificarsi nel
cedergli il posto che lascerà vuoto sulla terra.
L'amore, che pur si aperse come bisogno dell'anima a
Giacomo Leopardi, a lui resta chiuso; ed egli confessa
anche questo:
Non posso amare, Illusa! Non ho amato
mai! Questa è la sciagura che nascondo.
Nel suo canzoniere non sono poesie d'amore, ma solo ri-
cordi di avventure con donne. Con la donna che trattò
duramente e della quale la figura e la voce gli tornano
come rimorso:
O il tetro palazzo Madama...
la sera... la folla che imbruna...
Rivedo la povera cosa,
la povera cosa che m'ama:
la tanto simile ad una
piccola attrice famosa.
Ricordo. Sul labbro contratto
la voce a pena s'udí:
«O Guido! Che cosa t'ho fatto
di male per farmi cosí?»...
Con quella che è stata sua amante e che lo rivisita dopo
qualche tempo, curiosa di lui, consapevolmente o incon-

419
sapevolmente desiderosa di lui, e con la quale si rinno-
va, d'improvviso, l'ebbrezza dei sensi. Nella persona,
negli atteggiamenti, nelle movenze, nel volubile conver-
sare della donna, è come la preparazione della rapida
avventura:
Mi stava ad ascoltare
con le due mani al mento
maschio, lo sguardo intento
tra il vasto arco cigliare,
cosí svelta di forme
nella guaina rosa,
la nera chioma ondosa
chiusa nel casco enorme...
Con un'altra sua antica amante, che anche incontra di
nuovo, che ha fatto rinuncia all'amore e ha accettato
l'abbandono e l'oblio, e gli parla buona e ormai affatto
distaccata:
rassegnata già m'avvio
prigioniera del Tempo, del Nemico...
Il personaggio suo pseudonimo, Totò Merùmeni, si con-
tenta della cuoca di casa:
Quando la casa dorme, la giovinetta scalza,
fresca come una prugna al gelo mattutino,
giunge nella sua stanza, lo bacia in bocca, balza
su lui che la possiede, beato e resupino.
La sua incapacità di amare, e il disdegno di fingere e
d'ingannare, lo muovono a ricusare l'amore che gli si of-
fre, l'amore che la sua figura di poeta ha acceso in una

420
fantasia amorosa:
Un mio gioco di sillabe t'illuse.
Tu verrai nella mia casa deserta:
lo stuolo accrescerai delle deluse.
So che sei bella e folle nell'offerta
di te. Te stessa, bella preda certa,
già quasi m'offri nelle palme schiuse...
Ma (tu sei bella) fa ch'io non ti veda:
il desiderio della bella preda
mentirebbe l'amore che tu speri...
Sono, senza dubbio, questi ricordi di varie avventure
erotiche, fra le sue poesie belle, perché, se c'era in lui
aridità di cuore, non c'era aridità d'arte, e l'arte discopre
l'umanità di quell'aridità stessa, rinfrescandola nelle sue
immagini e nei suoi ritmi.
Di sopra a questa vita reale s'innalza nel Gozzano una
vita di sogno, che è ciò che è diventato, nell'impressione
e giudizio generale, il tratto caratteristico della sua per-
sona e della sua poesia: sogno tessuto da nostalgia, dal
desiderare e non poter vivere negli anni e nelle età pas-
sate, o in condizioni affatto diverse da quelle della sua
vita presente, e che, pertanto, sono anch'esse un passato
o un oltrepassato irraggiungibile.
Appartengono a questa vita di sogno nostalgico le sue
poesie piú famose: L'amica di nonna Speranza, che, di
su una fotografia di una giovinetta, donata a sua nonna
quand'era anche lei giovinetta, rievoca il costume, il
sentire, i discorsi, le ammirazioni e gli entusiasmi del
milleottocentocinquanta, e si raccoglie nel desiderio di
421
quella amica della nonna, che a lui, incapace di amare,
pare la sola che potrebbe «amare d'amore»; ‒ La signo-
rina Felicita, la signorina di provincia, non bella, non
colta, non intelligente, intenta alle domestiche faccende,
il preciso contrario di quello che è il modo della sua
propria vita, e che egli vorrebbe sposare per uccidere in
sé l'esteta e il sofista e vivere nel borgo «mercanteggian-
do placido in oblio, ‒ come tuo padre, come il farmaci-
sta»; ‒ Cocotte, la donna che a lui bambino, in una sta-
zione balneare, dié un bacio e un confetto, e che egli ora
vorrebbe ritrovare e amare; ‒ e anche Paolo e Virginia,
dei quali rifà la storia coi suoi colori settecentesco-colo-
niali. Vi appartiene quella che è la piú bella di tutte: Le
due strade, con la persona di Graziella, messa a contra-
sto della signora che egli accompagna, e che è la sua or-
mai antica e consuetudinaria amante, distrutta dal tempo
e dalle acri passioni e dagli infingimenti, l'adolescente
Graziella, che a lui rappresenta la sanità, la freschezza,
il sorriso, la redenzione che non otterrà mai, un ritmo di
inattingibile vita primitiva e pura. E alla stessa ispirazio-
ne si legano, piú o meno strettamente, la lirica Torino e
parecchie delle sue novelle e fantasie storiche e talune
parti del suo libro di viaggio in India con l'attrattiva
dell'esotico e del lontano, e l'orrore verso la feroce real-
tà.
Ora, qui appunto è sorto il sospetto, al quale si è ac-
cennato, ed è stata posta la domanda: ‒ Questo sogno
nostalgico ha veramente radice nell'anima del poeta, o
non è piuttosto una trovata ingegnosa con la quale egli
422
seduce e illude e si mena dietro il lettore?
Ma l'accento commosso si sente in quelle evocazioni,
e talvolta giunge fino alla sofferenza e allo spasimo,
come nella lirica Cocotte:
Vieni. Che importa se non sei piú quella
che mi baciò quattrenne? Oggi t'agogno,
o vestita di tempo! Oggi ho bisogno
del tuo passato! Ti rifarò bella,
come Carlotta, come Graziella,
come tutte le donne del mio sogno!
..........................
Vieni! T'accoglierà l'anima sazia.
Fa' ch'io riveda il tuo volto disfatto;
ti bacerò; rifiorirà, nell'atto,
sulla tua bocca l'ultima tua grazia.
Vieni! Sarà come se a me, per mano,
tu riportassi me stesso d'allora.
Il bimbo parlerà con la Signora.
Risorgeremo dal tempo lontano.
Vieni. Sarà come se a te, per mano,
io riportassi te, giovane ancora.
Del resto, psicologicamente è affatto naturale che
l'anima che non si attacca al presente né al reale, e non
vi prende la materia del suo desiderare e volere, si finga
il suo luogo di rifugio e di felicità, il suo paradiso, nel
lontano e nel passato.
Pure, sebbene questo sogno si affacci alla sua anima
in modo spontaneo e vivo, ed egli ve lo intrattenga, non
però lo spinge all'estremo, non lascia che diventi un in-
cubo, che si riversi in una sorta di mania. Quelle imma-
423
gini di sogno lo allettano, promettendogli una dolcezza
voluttuosa; ma egli stesso le giudica e le denomina «chi-
mere», chimere che larvano la sua «aridità». Egli le cre-
de e le discrede insieme, le ama e ne sorride, le accarez-
za e le prende in giro, le guarda con desiderio e se ne fa
un trastullo: sa che in quel suo immaginare c'è un gio-
cherellare: sa che egli punto non è un «sentimentale gio-
vane romantico», quale finge d'essere, un'anima roman-
ticamente rapita e disperata. Di qui il tono della sua liri-
ca, che è sempre venata di scetticismo, e in cui, varia-
mente e piú o meno accentuato, c'è sempre un che di
giocoso. Il Gozzano procedette, come quasi tutti i giova-
ni poeti del suo tempo, dall'arte dannunziana; ma, col
maturarsi del suo spirito, col configurarsi delle sue natu-
rali tendenze, col formarsi del suo carattere, uscí fuori
dal dannunzianesimo, se ne distaccò fondamentalmente
e, se si valse ancora di alcune sue figure e atteggiamenti,
se ne valse come di materia di un nuovo e diverso e tut-
to suo proprio sentire.
Erano, quei suoi pochi e scelti versi, tutto quanto egli
potè dare al mondo, nel breve e sfiduciato corso della
sua vita, nel quale non prese altro sul serio che quella
sua piccola fonte di poesia e di arte. Ne trasse quel che
se ne poteva, lavorandolo con scrupolo di artista, con
verità di colori e di movimenti, con grazia, con arguzia,
con gusto, senza fretta né sciatteria, in quadretti limpidi
e animati, semplici e insieme studiatissimi in ogni parti-
colare. Ma era anche consapevole che quella fonte si sa-
rebbe in breve disseccata, e dal suo petto non ne sarebbe
424
scaturita nessun'altra; e poiché non intendeva esercitare
il mestiere del letterato e del versificatore, già antivede-
va che si sarebbe dovuto presto ritrarre nel silenzio,
pago di aver inserito la sua lieve nota nel coro delle
umane generazioni e di averne udito l'eco nel plauso con
cui era stata ascoltata:
Pochi giochi di sillaba e di rima:
questo rimane dell'età fugace?
È tutta qui la giovinezza prima?
Meglio tacere, dileguare in pace
or che fiorito ancora è il mio giardino,
or che non punta ancora invidia tace.
Ed era fermo nel non voler perdere il piccolo acquisto,
nel non trascinare alla vista della gente la sua decadenza
ed il suo esaurimento; e gli veniva in mente, esempio e
modello, quella dama del secondo Impero la quale, co-
minciando a invecchiare, si chiuse in casa, fece togliere
via tutti gli specchi, e congedò amici e visitatori.
Ma la mia Musa non sarà l'attrice
annosa che si trucca e pargoleggia,
e la folla deride l'infelice.
Giovane tacerà nella sua reggia,
come quella Contessa Castiglione
bellissima, di cui si favoleggia.
Anche questo giudizio su sé medesimo e sull'avvenire
che lo aspettava, conferma la chiaroveggenza e la since-
rità del Gozzano, che è il miglior critico di sé stesso.
È, la sua, una grande poesia? Se per grande poesia
s'intende quella sublime, tutta passione e fantasia, che
425
esclude ogni intervento della riflessione, e pertanto ogni
azione dissolutrice dello scherzo e dell'ironia, la sua
poesia, che ammette un elemento giocoso, deve consi-
derarsi una poesia in tono minore; una poesia parlata e
discorsiva. In tono minore, ma pur sempre poetico, per-
ché quel che domina e costantemente si fa strada attra-
verso la critica e l'ironia, è un sentimento: il sentimento
angoscioso dell'aridità spirituale che travagliava
quell'anima giovanile e che niente valeva a vincere, né
gli affetti femminili, né gli stessi conati di liberazione
mercé del desiderio e del sogno. Potrebbe egli dirsi un
Leopardi, non quello insigne, che fu figlio del secolo
decimottavo e della sua filosofia sensistica e naturalisti-
ca, ma un nuovo Leopardi, «vero figlio del tempo no-
stro»: di un tempo nel quale anche la cupa disperazione
per l'infinita vanità del tutto, nel cui fondo si racchiude-
va una deserta brama di religione e d'ideale, era diventa-
ta fuori d'uso e di cattivo gusto, non essendovi piú luo-
go, nel nuovo modo di sentire e di concepire il tutto, alla
disperazione e alla tragedia, ma unicamente all'indiffe-
renza. Il Leopardi, quando non cantava a sé stesso il suo
funereo canto, argomentava e satireggiava: il moderno
Leopardi non prova bisogno di polemica e di satira, e si
restringe a comporre, sulla propria indifferenza, opere in
rima, che la presentano come realtà immutabile e
l'accettano come tale. Solo guizzo di forza spirituale in
questa mancanza di ogni vita spirituale è ancora, ma per
poco, l'arte. E nella sfera dell'arte le leggiadre figurazio-
ni e fantasie del Gozzano hanno il loro posto, e di là ap-
426
portano e diffondono gioia spirituale, perché tale è l'effi-
cacia delle cose belle, tale la loro magia, anche quando,
come in questo caso, la loro bellezza si dispiega sulla
ruina e sulla morte dello spirito.

427
LXVI. FRANCESCO GAETA

Per dare risalto al particolare lirismo del Gozzano e


all'elemento riflessivo che lo tempera, giova leggere a
riscontro e contrasto qualche lirica del suo contempora-
neo Francesco Gaeta. Della poesia del Gaeta ho già di-
scorso in altra occasione299; e qui mi restringo a richia-
marne qualche parte al solo fine anzidetto.
Neppure il Gaeta fu poeta di fede e d'ideali, di virile
atteggiamento, per intenderci, carducciano: sebbene il
suo pessimismo, diversamente da quello arido del Goz-
zano, andasse congiunto all'elevazione religiosa verso
l'Uno e l'Eterno, e alla professata buddistica o francesca-
na compassione per tutte le creature, e, quel che val piú,
a un cuore naturalmente disposto alla tenerezza per la
povera umanità. Quando, in qualche momento, gli parve
scorgere nella sua ideologia, nel suo culto della donna,
in quello della umana fratellanza e pietà, nei rapimenti
metafisici e mistici, il riscaldamento fittizio e l'intima
menzogna, non celiò e non sorrise, ma ammoni sé stesso
sarcasticamente, con crudezza disperata300. E anch'esso
risentiva e soffriva ‒ e fu questo un suo tratto dominante
‒ il fascino delle cose passate, segni per lui d'infinita

299
Letteratura della nuova Italia, IV5, 169-187; e si vedano le mie prefazioni
alle raccolte delle sue Poesie e delle sue Prose (Bari, Laterza, 1928), e poi
in Conversazioni critiche, III2, 349-55; e gli Aneddoti di varia letteratura2,
IV, 462-90. [Segnalo ora il compiuto e ottimo Studio sulla poesia di F.
Gaeta di Giambattista Salinari, Todi, tipogr. Tuderte, 1939.]
300
Nella lirica L'incommosso, assai notevole, sebbene non delle piú felici
nell'elaborazione artistica.
428
brama, miraggi d'ineffabile voluttà, irreali fuori della
brama stessa di raggiungerle, nella quale sono tutt'insie-
me presenti e sfuggenti. Il passato, a cui si volgeva il
Gaeta, non era quello, per cosí dire, storico del Gozza-
no, fissato nel settecento o nell'età romantica, o nel co-
stume provinciale; ma era il passato suo stesso, di qual-
che anno, di qualche mese, di qualche ora, tutto ciò che
si allontana da noi nel tempo e, scolorendo nel sembian-
te, accresce desiderio di sé.
Questo, a ogni modo, non fa differenza. La differenza
sta, invece, nella perfetta adesione del Gaeta al suo no-
stalgico sentimento del passato, nel profondarsi in esso
con piena serietà, con una sorta di devozione, nel viver-
lo come tragedia e non come commedia o tragicomme-
dia, come elegia e non mai arieggiando a un capitolo
giocoso.
Leggiamo Melodia notturna, in cui una voce che can-
ta nella notte gli risveglia nel cuore una donna, un amo-
re, una gioia e un affanno, che non sono piú:
Oh, rincasando mentre suona l'una
e acceso è ne le tenebre un balcone,
repente melodia d'una canzone
dimenticata, che cantavi tu;
quasi l'insonne cembalo a la luna
a parte sia di quel che tra noi fu!
Torrenti di sua voce, ove tanta era
vampa di passion, canto terrestre
liberato da tutte le finestre
via per la gloriosa ora solar,
qual se ne l'aria de la primavera
429
volesse ella, cantando, dileguar;
canto onde sí malato diventai;
che gli stessi occhi suoi scioglievi in pianto,
la pena suscitandole di quanto
eternalmente ne le cose muor;
canto di cui, se in bocca la baciai,
bere mi parve qualche perla ancor;
a me chi dunque, chi t'ha mai rubato?
Oh assai piú dolce che se a lei tornassi,
per nota via rivivere i suoi passi,
piangerla ad un mutarsi di stagion!
Apri la porta tua d'oro, o Passato!
Levami, o Notte, ne la sua canzon!
In questa magnifica evocazione di un canto appassio-
nato, cantato con tutto il proprio essere, anima e corpo,
fin quasi a dissolvere in esso la propria persona, in que-
sta fusione di rimpianto amoroso e di poetico innalza-
mento al mistero della vita e della morte, si ha il duplice
contrario movimento di una spinta disperata verso la ri-
conquista del perduto e di un abbandono ‒ disperato e
pur dolce ‒ al tormento e alla voluttà del ricordare e del
vano desiderare.
Gli ricorre alla memoria una vecchia casa e una timi-
da giovane donna che gli stava accanto colà, amorosa e
devota; e il petto gli si gonfia di commozione. Il fremito
lirico investe questa immagine e questo moto di affetto e
si configura quasi in una mormorata e sospirata preghie-
ra:
Quando ripenso, di schianto,
quei giorni, ‒ poveri giorni! ‒
430
in un'ondata di pianto
parmi il passato ritorni.
Su la loggetta remota
perché mi vedo, perché,
la gota contro la gota,
a l'imbrunire, con te?
Casa, a le cui vecchie travi
nidificava la vespa,
che poverella guardavi
lontano il mar che s'increspa;
e tu che, piccola amante,
memore ed umile so,
voi nel mio ultimo istante,
voi sole ricorderò.
La breve lirica è tutta qui: la parte, che le tiene dietro,
è un'aggiunta che in ogni caso sta da sé.
Talvolta, nell'attimo stesso in cui la vicenda di amore
s'inizia, egli si sdoppia e pensa che la realtà vera non è
in quella realtà di fatto, ma nel sogno che l'accompagna
e che, per la sua aerea qualità, rivivrà come sogno del
passato:
Ah, non dimenticarli questi primi momenti!
Ecco, il sole di giugno va via dal tuo balcone;
d'un pianoforte arrivano gli accordi sonnolenti
fra i tulipani, e un alito di neve e di limone.
E vede e osserva e rappresenta lei che è intenta a cu-
rar dei garofani e le sue mani sono imbrattate di terra, e
veste un gran camice bianco e ha presso un suo bambi-
no, lei, che in quel lavoro sul quale è chinata mostra li-

431
bero il collo e il ricolmo seno; e intanto un dolce veleno
circola nel loro sangue e i loro sguardi s'incontrano tra
brama e sbigottimento ed egli antivede come si svolgerà
la relazione d'amore in cui stanno per entrare, ne figura
tutti i particolari, dall'intimità dei sensi alle torture
dell'anima. E tuttavia sa che l'amore non è questo, ma è
ciò che ora lo precede e sarà ciò che lo seguirà: è
quell'attimo, diventato ricordo:
Ma il giugno, il giugno tenero di rondini e di capre
e di sospiri d'organo pel cuore di Gesú,
se parve a noi la porta d'un avvenir che s'apre,
sol esso fu l'amore, poi che il suo sogno fu.
Nella quale ultima parola il sentimento si ribadisce con
la fermezza d'una posseduta teoria.
Tal'altra, anche nel presente, quello che ama è già la
sembianza del passato. In questa lirica è la morte
dell'ottobre:
Perché piú malinconici si levano, stasera,
lassú, vicino al carcere, degli ubriachi i canti?
Muore l'ottobre, e quasi piú vasta l'atmosfera
rende, e le cose e gli esseri quasi piú doloranti.
Aspettano le sedie di ferro, sul terrazzo
deserto, le intemperie che la vernata mena;
giú nel cortile rustico esala, ecco, un ragazzo
dal piffero di legno la triste cantilena.
Rimpetto, ginocchioni, sotto il trepiedi al muro
soffia il garzon nei ricci che accumulò la pialla;
di rosso già si tingono fumosi ne lo scuro,
poi divampano: grande l'ombra di lui sfarfalla.

432
Aspetti della natura, figure di uomini e di cose, suoni,
gesti, atti sono la sua anima stessa, tutta compresa dal
senso del transeunte e morituro. Su questa scena, ossia
su questo stato d'animo, si disegna la figura di una don-
na:
Eccoti. Spunti a un tratto su da la gradinata,
mentre un fanale accendesi alto sul tuo cammino:
nel primo freddo, lungo le case inosservata,
reggi la veste al fianco, col capo un po' reclino.
Che cosa il suo occhio vede al primo levarsi verso
quella donna e mirarla, qual è il primo moto del suo
cuore, il primo suo riferimento mentale?
Oh intorno a le tue fresche guance rotonde, amore,
la fascia rosa-pallida, quella d'un anno fa!
Oh in me sgomento vago per questo batticuore
con cui t'accolgo ancora, fuggita un'altra està!
La fascia d'un anno fa, l'estate ch'è fuggita, le sem-
bianze del passato sono le note che coglie innanzi tutto.
Forma di spasmodico attaccamento al passato è anche
l'affetto alle cose particolari o materiali, fortissimo nel
Gaeta: alla casa dove dimora, ai luoghi circostanti, alle
persone che di consueto vede, ai gesti che essi compio-
no, a tutti gli oggetti che egli ha attorno; laddove chi
guarda al futuro, l'uomo attivo, fidente e ardito, si attac-
ca solo a sé stesso, alla forza che sente nel suo petto, e
va oltre le cose esistenti, verso le nuove, che creerà e
che a lor volta supererà: se un mondo crolla, ne costrui-
rà un altro. La canzone dell'albero è una delle parecchie

433
sue liriche, in cui si esprime quello spasimante attacca-
mento. Vorrebbe esser sepolto alle radici di un frassino
che ha piantato nell'orto e che terrà l'ufficio che fu suo
nella visione e nella vigilanza delle cose a lui care, dalle
quali sarà stato diviso:
Direi: ‒ Dolce vedersi ancora insieme,
albero, mentre non mi dà dolore
la terra che su me schiacciante preme,
e a contemplar tu séguiti le mille
cose che tutto furono il mio cuore,
per me, che adesso non ho piú pupille.
E le viene scorrendo in rassegna a una a una, i passe-
ri, le gallinelle, la chioccia e i pulcini, e l'olmo, e le quo-
tidiane apparizioni, nella strada vicina, di gente che va
per le sue faccende, e consimili ordinarî accadimenti,
che tutti hanno in lui risonanza e formano parte
dell'esser suo:
e passa il carro con la campanella
di rame e con la doppia banderuola,
e passa il frate da la grossa ombrella,
e il primo sole a gli abituri batte,
e passa del colono la figliuola
reggendo un secchio di cagliato latte.
Il misero asinello ed il vecchietto
con le invendute frutta su per l'erta
saluta nel crepuscol vïoletto.
Tutte queste e le altre cose, che sono lui stesso perché
sono «il suo cuore», l'Universo guarda ormai (egli dice):
con gli occhi dei suoi esseri, de l'onde
434
e de le stelle, ma non piú coi miei.
Per questa serietà del suo accento la lirica del Gaeta
sta sulla linea della intima e schietta e vigorosa poesia:
una linea che si andava perdendo, allora, in Italia, da
una parte col superficiale impressionismo e descrizioni-
smo, e dall'altra con l'introduzione frequente del tono
ironico e scanzonato, del fare dinoccolato e arlecchine-
sco. Il Gaeta, cosí poco carducciano nella concezione
della vita, cosí complicato, turbato e malato a confronto
della semplice ed eroica malinconia del Carducci, gli si
ricongiunge tuttavia assai piú di ogni altro, nella severa
coscienza di quello che eternamente è la poesia. La qua-
le egli soleva riguardare con tanta reverenza da tenerla
forma suprema della saggezza e della verità; laddove
per il Gozzano era soltanto l'esile fiorellino che si coglie
sulle macerie.
Ma, come ho detto, non è mia intenzione di trattare di
nuovo o di proposito della poesia del Gaeta, nella quale
per il primo riconobbi, contro i giudizî dei poco inten-
denti ‒ e nonostante taluni difetti di forma assai appari-
scenti ma tuttavia particolari e non sostanziali, ‒ la mens
divinior, che la distaccava dai modi d'arte correnti e co-
muni. Tengo per fermo che essa sarà fatta oggetto dai
critici e dagli storici dell'attenta considerazione che me-
rita, e che con sempre maggiore evidenza apparirà come
l'unica di classico tenore che fosse prodotta dalla gene-
razione immediatamente succeduta a quella del
D'Annunzio e del Pascoli: di assai piú larga e piena
umanità e, nella breve cerchia dei suoi componimenti,
435
piú profonda rispetto all'opera del primo; tutta fantasia e
canto, energica e intensa, scevra di civetterie e di sman-
cerie e di ricercati e perciò non conseguiti effetti, come
di rado fu quella del secondo.

436
LXVII. RICCARDO BALSAMO CRIVELLI

Piace all'immaginazione, o piuttosto al pensiero pi-


gro, darsi a credere di conoscere e di ben comprendere
la poesia di un'epoca quando le assegna un generale e
comune carattere. Ma questa caratteristica è un'inesteti-
ca astrazione e una corrispondente mutilazione, perché,
in realtà, i caratteri sono tanti quanti sono i poeti, i quali,
se poeti sono e perciò personalità, è impossibile ridurre
a quell'unico carattere. L'incongruenza, che dovrebbe
esser chiara all'intelletto del teorico e del critico, resta
velata fino a quando si sta a considerare dei poeti quelli
che, pur essendo individualmente distinti, ciascuno con
la propria fisionomia, non si staccano bruscamente tra
loro e non formano recisi contrasti; ma quando poi qual-
cuno si fa innanzi, rompendo le fila, l'errore si mostra
evidente agli occhi di tutti e si rende necessaria la diver-
sa dottrina che lo corregge. Vero è che la sofistica dei
giudizî convenzionali, riluttando all'evidenza, procura di
spacciarsi di coloro che vengono a turbare il fittizio as-
setto dato all'«epoca storica», chiamandoli estravaganti,
ritardatari, anacronistici, estranei al sentire generale (al
quale dovrebbero, non si vede perché, essere ubbidienti)
del tempo loro.
Da nostra parte, non ci siamo dati la vana fatica di co-
struire l'idea della poesia e letteratura italiana dell'ultimo
ottocento e dei primi decenni del novecento, avendo
preferito di far la conoscenza con gli autori uno per uno;
ma, se altri l'ha costruita, se l'ha determinata, poniamo,
437
nel sensualismo o panismo o imperialismo o in altra ten-
denza e ideale conforme a quel periodo storico, si può
fare risparmio in questo caso di ragionamenti scientifici,
perché ad abbattere la fragile costruzione basta, mi sem-
bra, la sola presenza di un artista come il lombardo Ric-
cardo Balsamo Crivelli. Sopra o accanto a lui è passata
la poesia del Carducci, e poi quelle del D'Annunzio e
del Pascoli coi loro innumeri imitatori, e la contempora-
nea poesia francese, inglese e tedesca e russa e scandi-
nava; ed egli non ha dato segno di avvedersene, e s'è te-
nuto stretto a un'unica tradizione, alla quale aveva, sin
dai primi anni, donato tutto il suo cuore, a quella
dell'antica poesia italiana e toscana del tre e quattrocen-
to e in parte del cinquecento, idilliaca, amorosa, satirica,
giocosa, popolare e popolareggiante. E, riattaccandosi a
questa tradizione, ha scritto ottave e altre forme di strofe
assai vive e belle. O che si fa? Si vuol buttarle via, per-
ché «non moderne», cioè non appartenenti al tipo d'arte
arbitrariamente prescelto e decorato col nome di «mo-
derno»? E non sono quelle strofe, non soltanto belle e
perciò stesso fornite di diritto di cittadinanza nella cer-
chia della poesia, ma altresí «moderne», perché la loro
data di nascita è pur nei tempi nostri, e nessuno si sot-
trae all'efficacia dei proprî tempi, per quanto vi reagisca
contro, e la forza stessa di questa reazione nasce dalle
viscere dei proprî tempi e non di altri e lontani?
Per siffatto ammonimento critico che si trae dall'arte
del Balsamo Crivelli, oltre che per il suo pregio intrinse-
co, metto qui un cenno intorno a questo scrittore, la cui
438
opera principale, il poema Boccaccino, fu pubblicata nel
1920, ma era stata elaborata lentamente nei venti anni
precedenti, e venne poi seguita da altri poemi, La fiaba
di Calugino e La canzone del fiume, e da raccolte come
Il Rossin di Maremma e, ora, A vele ammainate; senza
dire di una copiosa produzione in prosa di racconti e im-
pressioni di viaggi, che ha del giornalistico, ma nella
quale qua e là si ritrova il gusto proprio dell'autore301.
Che cosa è per il Balsamo Crivelli la particolare poe-
sia che egli ama? È la poesia senz'altro, la poesia del
suo popolo, la poesia italiana, continua, immortale, che
si ravviva proprio quando si è creduto che sia morta:
E la parola che di lontan viene
ha in sé l'istoria nostra tutta quanta:
discendan gli altri a metterci in catene
e faccian pure: il rio sommesso canta,
poi sorge a un tratto fuor con le sue vene
e mena nell'antico terren tanta
acqua, che mostra ch'egli è vivo ancora,
e di bei ruscelletti s'avvalora.
.......................
E cosí dura il mondo d'atto in atto.
Lo rilega la cara poesia:
come nel labirinto si ritrova
a quel filo e risal la lunga via
la nazïon, ch'ogni volta rinnova302...
E quella poesia è insieme l'anima lieta, quasi il sorriso
301
Il suo primo volumetto è, credo, quello delle Rime (Milano, tip. del Rina-
scimento, 1896).
302
Cosí nella Fiaba di Calugino.
439
che fiorisce dalla lietezza:
La poesia è come in un boschetto
l'acqua sorgente e non si sa di dove.
Ma io direi, secondo il mio concetto,
che è il cuor felice, che da sé la muove.
E altrove:
Chi al mondo vuol saper la cagion vera
dei versi, guardi come ride il sole
e creda poi che un'altra non ce n'era.
Egli, nel continuarne la tradizione, non compie alcuno
sforzo, né adopera alcuno degli artifici consueti nei pe-
danteschi imitatori e anche nei letterati che si dilettano a
fare ciò che altra volta ho definito poesia sulla poesia.
Come quello dei suoi cari predecessori, il suo animo è
idilliaco, amoroso e giocoso, e si appaga del semplice
ed elementare e del popolare; e similmente i suoi modi
di parlare e di cantare, e la sua intonazione ingenua,
sono affini ai loro modi e alla loro intonazione, e pren-
dono forme non identiche ma vicine alle loro, forme an-
tiche e nuove insieme.
Il Boccaccino narra della giovinezza di Giovanni
Boccaccio, trascorsa quasi tutta in Napoli; e qui non ne
daremo la trama, perché, cosí in questo come negli altri
poemi del Balsamo Crivelli, la trama non ha importanza
e serve soltanto a congiungere tra loro la sequela degli
episodi, delle scenette e dei quadretti, nei quali è vera-
mente la sua maestria. Materia ne sono amori, gelosie,
tradimenti, disperazioni, abbattimenti e risollevamenti,

440
che per altro non escono dall'ordinario e non acquistano
intensità di dramma e di tragedia, e osservazioni morali
e satiriche, e fresche pitture di paesaggi. Non c'è, in co-
testa limitazione, inferiorità e incapacità, ma unicamente
la predilezione, che segna la cerchia delle cose che ama,
disinteressandosi delle altre. E questa predilezione
s'integra di un'arte assai fine, della quale è malagevole
discorrere senza prima mettere innanzi alcuni di questi
quadretti e scenette, senza recitare alcune di queste otta-
ve, perché il Boccaccino, dopo un certo interessamento
suscitato al suo apparire, non è un libro che possa dirsi
familiare ai lettori italiani in modo che sia da fare affi-
damento sulla loro memoria.
Ecco, nel principio del poema, il padre di Boccaccio
che, invaghito di una donna della sua terra, l'ha tolta in
moglie, e si vede poi giungere a casa il fanciullo, frutto
degli amori suoi parigini, e ha, a cagione di questo suo
figlio naturale, contrasti con la moglie. A uno degli
scoppî d'iracondia di costei, gli cade come un velo dagli
occhi: la donna, tutta in preda al suo impeto di furore,
grida e si dimena; e l'altro, invece di reagire gridando a
sua volta, guarda con occhio di contemplatore la furiosa,
e la paragona all'immagine con la quale gli appariva già
al tempo del suo innamoramento e fidanzamento:
Mentr'ella grida in faccia è tanto brutta
che, ancor che della stizza e' passi il segno,
pur si sta queto e mezzo stupefatto,
e par che dica: ‒ Io era cieco affatto!
Quanto diversa da quel giorno primo

441
ch'io me la vidi comparir davanti!
E avea un odor di ramoscel di timo,
anzi l'odor dei fiori tutti quanti.
E se cosí diversa oggi la stimo,
errai nel giudicar come fan tanti.
Vedo ora il vero, e me ne pento assai,
e non so come i' me ne innamorai.
È comico ed è umano o, come si suol dire, è umoristico.
Il giovane Boccaccio ha in Napoli le sue prime av-
venture amorose; ed eccolo nella felicità di quella con-
dizione nuova e desiderata, che è per il giovane il pos-
sesso di una donna:
Gli dicea il cuore le cose piú belle,
e si sentia contento, ancor che solo.
Napoli, cheta, al lume delle stelle,
parea dormir dentr'ogni suo chiassuolo:
sedean sugli usciolin le comarelle
e ciascuna ninnando il suo figliuolo;
ei vi badava un poco e prendea via,
ch'avea nel cuor la bella fantasia.
Si sentiva ricco di sé stesso, assaporava la sua gioia, e
quel che gli accadeva attorno appena tirava la sua atten-
zione.
Comincia di lí a poco il suo piú avventuroso amore
per la Maria o la Fiammetta, una dama che è un'alta
conquista, con molti e grandi pericoli e pari premio. Al
primo sguardo che ella gli rivolge:
provò tanto piacer, tanta allegrezza,
che non gli parve d'esser quel di prima;
442
dal cor gli venne un pensier di dolcezza,
come il rametto che fiorisce in cima!
È il primo germe, che si svolge e matura nel rivedersi,
nel conversare, nel motteggiare, negli atti e nelle parole
rivelatrici. La incontra in un bosco:
Quando la vide, e non gli sembrò vero,
là là nel bosco con la testa china,
parea cercar, con gli occhi nel sentiero,
che so? un gingillo, qualche cosellina:
allor gli balenò tutt'un pensiero,
prende core, s'affretta, s'avvicina;
manda la man tra le pietruzze e l'erba:
«Fortuna (disse) il bel mattin mi serba!
Se fosse una pagliuzza che vi sia
caduta in terra, ed io la troverei!».
Si trasse alquanto, e sorrise Maria:
«Io ho smarrito (disse) i pensier miei!
Io ero qui, ma sopra fantasia!...».
Se in questa parte si è ancora negli approcci della galan-
teria, e la scenetta è graziosa, un po' piú oltre già si vie-
ne all'effusione dei cuori. Il nuovo incontro, il nuovo
colloquio ha luogo nella visita che insieme fanno della
chiesa d'un convento.
«Giovanni! Giovannin! (disse Maria)
io ho una voglia in cuor, tra riso e pianto!
Non te la posso dir, ma l'indovini!
Bel luogo, da restar sempre vicini!
Guarda la chiesa! guarda i vecchi muri!
L'erba ch'ispunta nova e tenerella

443
dalle lor crepe! Benché poi non duri
il mondo, torna maggio e lo rabbella!
E cosí vo', Giovanni, che mi giuri
che sempre mi amerai fin ch'io son bella,
e fatta vecchia poi, canuta e grigia,
l'anima ai bei ricordi resti ligia!»
Con queste rappresentazioni ci muoviamo nel generale e
tipico di ogni amore; ma, come ogni amore par nuovo a
chi lo prova nei modi stessi in cui tutti gli uomini ed
esso medesimo l'avevano già provato, cosí la poesia ne
rinnova l'immagine consueta con la freschezza del ver-
so. Dopo l'ebbrezza della prima notte d'amore, con ardi-
mento e con industria ottenuta, egli esce dal castello di
Maria e torna alla sua casetta:
Giovanni tentennò sul portellino
solo un istante, e prese il vicoletto
di corsa: a quel barlume di mattino
parea ogni casa, ogni muro, ogni tetto
fantastico, e 'l palazzo dei D'Aquino
parea un gigante di feroce aspetto,
che minacciasse lui come ladrone:
poi giunse e si ficcò sotto il coltrone.
Sentiva ancor sul volto e nelle mani
e ne' capelli l'odor di Maria;
oh! come gli parean quei dí lontani
che gli aveva môstro tanta ritrosia!
L'ansie, le congetture, i pensier vani
ch'e' n'avea fatti, la sua gelosia,
ogni altra cosa gli tornava a mente!...
E chiuse gli occhi col volto ridente.
444
E quando si levò, gli parve quello
il mondo che sarebbe il paradiso:
tutto buon, tutto lieto, tutto bello,
cioè diverso, mentr'era preciso...
Sono ottave che rendono con bel garbo movimenti e im-
pressioni, e sentimenti e illusioni, anche qui secondo la
commedia eterna dell'amore.
Distacco, oblio, tradimento da parte della donna ama-
ta, desolazione del giovane, sua tristezza, abbandono in
cui lo lasciano gli amici, travaglio della povertà, abbatti-
menti dell'animo, seguono presto a questi caldi e lumi-
nosi giorni d'amore. La vicenda continua conforme alle
sue leggi. E Boccaccino, dopo la bufera, si rialza, quan-
do un uomo savio gli parla con bontà, volgendolo a pen-
sieri di studio e di arte:
A Giovannino gli tornò il vigore
e l'allegrezza, e non parea piú quello!
L'uomo ha bisogno anch'egli del calore,
e poi fiorisce come l'arboscello!
In un momento gli sparí il dolore,
e tutto quel che vede gli par bello...
Cosí accade: un incidente, una parola spingono giú pei
gradi del dolore e dell'avvilimento, e un altro incidente,
un'altra parola, operano il miracolo della risalita.
La sua ambizione di artista si appunta nel non omnis
moriar, nel desiderio di sopravvivere in un'opera da lui
creata. Ma con quanta semplicità, come di chi prenda un
provvedimento per attenuare un male inevitabile, il male
della morte, è espresso quel suo desiderio e proposito!
445
Dice confidandosi agli amici:
Ed a lasciar che fin da fanciulletto
io provai il gusto della poesia,
mi meraviglia e mi fa gran dispetto
ch'un dí s'abbia a spezzar la vita mia,
e ch'ell'abbia a finir nel cataletto
tanta baldanza, quanta ho tuttavia:
a farne un libro invece dura un pezzo,
e non mi dà il morir tanto ribrezzo.
In questa disposizione al lavoro dell'arte egli si concilia
idealmente con Maria, che gli ha dato tanta gioia e tanto
strazio. Senza quella passione, senza quello scotimento
di tutto l'esser suo, che cosa sarebbe stato egli? Sarebbe
stato mai quel che sente di essere, ora, diventato? Nel
disporsi a lasciare Napoli, raccoglie i suoi ricordi e i
suoi pensieri, rivisita i luoghi che furono testimoni della
sua giovanile vita amorosa, e il castello dove Maria era
stata sua:
E venne sotto quelle mura nere,
e mandò gli occhi ad ogni veroncello
per impararlo a mente, per vedere
l'ultima volta quel vecchio castello,
dov'era incominciato il suo piacere!
‒ Oh! Maria (disse), vo via meschinello,
e fui già costí dentro ricco e lieto,
vo via col mio dolore e il mio segreto!
Ti recherò cosí com'eri bella!
Fra tanto mal, m'hai fatto un po' di bene!
E s'oggi scrivo qualche coserella,
incominciai per te, me ne sovviene!...
446
Il riconoscimento del dolore, che si converte in opera e
in azione, e che anzi è il vero principio dell'opera e
dell'azione, prende in queste parole forma e accento po-
polare, come di tutti i sentimenti e di tutti i pensieri ac-
cade lungo l'intero poema, che ogni cosa riporta allo sta-
to d'animo elementare e ingenuo: ingenuo, anche dove è
arguto e malizioso.
Le ottave che abbiamo riferite, mentre valgono a dare
un'idea del modo che il Balsamo Crivelli tiene nel poe-
tare, ne mostrano la particolare virtú, la quale viene da
due fonti confluenti in una: la visione della vita umana
in quanto gioventú, amore, travaglio di amore e culto
dell'arte, e l'affetto per le antiche forme, in cui questa vi-
sione si adagia e che le sono adeguate.
Ma non si può non provare un senso di meraviglia,
quando si pensa che il Balsamo Crivelli cosí sentiva e
ideava e verseggiava in Italia, mentre Gabriele d'Annun-
zio componeva La Nave e le Canzoni d'oltremare, e il
Pascoli le Canzoni del re Enzio e i Poemi italici, e tutto
intorno già chiasseggiava il «futurismo».

447
LICENZA

Come al termine dei primi quattro volumi della Lette-


ratura della nuova Italia, cosí ora, al termine di questi
due aggiunti, nel prendere commiato dai lettori, debbo
avvertire che la mia storia, ‒ la quale ora, secondo il di-
segno, va dal 1860 circa al primo quindicennio del seco-
lo ventesimo, ‒ resta nell'ultima sua parte imperfetta, e
per la medesima ragione dell'altra volta: cioè che, a un
certo momento, mi sono stancato e ho sentito bisogno di
tornare ad altri studî. Rendendo conto del lavoro che ho
eseguito, dirò che, per quel che mi sembra, e per quanto
era possibile, il quadro del quarantennio dal 1860 al
1900 è stato ora da me condotto a una quasi compiutez-
za d'informazione, col discorrere di molti scrittori mino-
ri e minimi, che nella prima storia erano stati trascurati.
Non cosí per il quindicennio seguente, per il quale mi
sono ristretto a considerare l'ulteriore opera degli autori
già in quella trattati, e di poeti nuovi scelti tra i piú os-
servabili o i piú discussi, rinunziando a dire degli altri
tutti e a quel procedere particolareggiato e minuzioso
che avevo usato per il trentennio precedente. Un parti-
colareggiare minuzioso, che mi era stato reso agevole
dall'allontanamento nel tempo degli uomini e delle cose
della mia giovinezza, e non mi sarebbe agevole per gli
anni susseguenti, nei quali io stesso presi molta parte
alla vita della letteratura e cultura italiana, e verso cui
perciò mi sento in una relazione alquanto meno senti-
mentale e alquanto piú impaziente.
448
Forse, se potessi aggiungere a questi sei volumi un
settimo, che sarebbe un volumetto, vorrei, piuttosto che
portare a compimento il metodico lavoro d'indagine e
d'informazione che si può ancora desiderare e che altri
potrà fare in mia vece, additare ciò che mi par degno di
lode nella piú recente letteratura italiana, traendolo fuori
dall'ammasso di buono e di cattivo in cui ora sta confu-
so. Colpa non dirò della critica italiana, nella quale non
difettano intelligenza e onestà, ma della sopraffazione
che della critica hanno fatto coloro che stendono le mani
violente e rapaci sopra ogni cosa e credono che i valori
e disvalori teorici si possano determinare secondo inte-
ressi pratici ossia ad arbitrio. La conseguenza è, non che
riescano in questo assurdo loro pensiero, ma che col gri-
dío impediscono la formazione della pacata opinio com-
munis, che sempre ha con sufficiente esattezza compiuto
lo sceveramento dei valori dai disvalori e riconosciuto e
graduato i primi. Chi scrive queste pagine è ormai vec-
chio e ha vissuto tempi piú fortunati, nei quali, lettera-
riamente parlando, l'Italia era come un salotto di gente
educata e colta, che discuteva, dissentiva, dubitava e,
nei piú dei casi, si metteva d'accordo. Ed egli, che non
ha niente da chiedere per sé, prova accoramento per i
giovani che ora si danno agli studî e all'arte, ai quali ‒
diversamente da quel che accadde a lui, giovane, ‒ nes-
sun aiuto viene dalla pubblica opinione, nessun incorag-
giamento, nessun consiglio, nessuna correzione, e che si
vedono dinanzi il cosiddetto mondo letterario, simile a
una folla sconvolta e urlante, nella quale andranno persi,
449
se non contano unicamente sulle forze loro e sull'inte-
riore sostegno della coscienza.
Mi concederanno i fati di dare ancora, in un modo o
nell'altro, prosecuzione a questi studî sulla Letteratura
della nuova Italia? Certo un desiderio da parte mia
avrebbe qui dell'indiscreto, perché già i fati mi sono sta-
ti assai piú larghi e benigni che non ad altri. E se il desi-
derio viene da parte di lettori a me affezionati e si confi-
gura in augurio, che cosa dire? Non posso non accettarlo
con animo grato, sebbene io rimanga sospeso se quel
che benevolmente mi si augura, sia poi veramente augu-
rio per me di cosa lieta.
4 settembre 1934.

450
INDICE DEI NOMI

Abba G. C.,11-12, 14.


Acuto G., 33.
Ademollo A., 30.
Alberti A., 145-53.
Albini G., 107.
Aleardi A., 50.
Amicis (de) E., 109.
Annunzio (d') G., 14, 48, 69, 80, 113, 169-72, 176,
180, 181, 184-6, 196, 201, 203, 235-48, 249-50,
273-4, 276, 303, 369, 372, 379.
Antoine A., 193.
Antona Traversi C.,192.
Ariosto L., 42.
Aristofane, 41.
Aristotele, 266.
Ascoli (d') Cecco, 155.
Ascoli G. L, 59, 65.
Asinari di Bernezzo (gen.), 255.
Bacchi della Lega A., 56.
Balletti, 30.
Balsamo Crivelli R., 371-79.
Balzac, 124, 305.
Balzo (del) C.,161-2.
Bandi G., 7, 10.
Barbey d'Aurevilly, 87.
Barbiera R., 32.
Barboni L., 32.
451
Barrili A. G., 156.
Barzellotti G., 59.
Bashkirtseff Maria, 148.
Bechi G., 167.
Beque H., 193, 195.
Beethoven, 24.
Bellini G., 178.
Bellini V., 24.
Berchet G., 103.
Bernardini F., 196.
Bertolazzi C.,119.
Bettoli P., 164.
Biagi G., 32.
Biancale M., 20.
Bixio N., 7, 13.
Bissolati L., 101-102.
Bizzoni A., 159, 161.
Bloy L., 87.
Boccaccio G., 336, 374.
Boggiani G., 170.
Boiardo M. M., 333.
Boito A., 89.
Bonacci Brunamonti A., 50.
Bonghi R., 295.
Boni G., 133, 186-89.
Borgese G. A., 247, 296.
Born (de) B., 46.
Bosis (de) A., 174.
Bourget P., 155, 209.
452
Bracci P., 80.
Bracco R., 48, 196-200.
Bresciani A., 79.
Bruno G., 77.
Buddho, 186.
Bulferetti D., 11, 249, 250.
Buonaparte Letizia, 99.
Butti E. A., 209-16.
Calcaterra C.,76.
Calvi P., 103.
Camerana G., 89.
Camilli A., 59.
Canello U. A., 46.
Cantoni A., 345.
Capecelatro A., 70.
Capuana L., 157, 172, 335.
Carducci G., 5, 38, 44, 56, 75, 76, 79, 80, 98, 99, 113,
139, 171-3, 180, 201, 202-3, 213, 249, 250, 256,
259, 262, 267, 285, 293, 333, 369, 372.
Carlo Alberto, 249.
Carlo VI, imperatore, 34.
Casa (della) G., 100.
Casanova G., 30.
Castellani Benaglio Ines, 135.
Castelli G., 155.
Castelnuovo E., 124-133.
Castiglione Virginia, 360.
Cattaneo C.,59.
Catullo, 56.
453
Cavalcanti G., 78.
Cavour (di) C., 333.
Cecioni A., 15.
Cenci Beatrice, 31.
Cesare (de) R., 32.
Chateaubriand, 43.
Checchi F., 10.
Chelli G. C.,157.
Chroust Giovanna, 297.
Cian V., 271.
Cimmino F., 45.
Cino da Pistoia, 297.
Colautti A., 162-63.
Consiglio A., 174.
Conti A., 176-86, 190.
Contini G., 236.
Correggio, 31.
Costetti G., 55.
Crescini V., 47.
Crispolti F., 67-73.
Cristofanini A., 10.
Croce B., 253-55.
Çûdraka, 43.
Dalbono E., 22-28.
Dante, 5, 31, 78, 142, 163.
Deledda Grazia, 295-303, 305.
Depretis A., 160.
Diderot, 60.
Dostoiewski, 296, 303.
454
Dumas A., figlio, 193.
Dupré G., 18.
Errico C., 97.
Evangelisti Anna, 262.
Falchi, 303.
Faldella G., 69-70.
Farina S., 303.
Fatterello F., 33.
Ferdinando IV, re delle Due Sicilie, 35.
Ferrara F., 61.
Ferrari S., 203.
Ferri G., 155-57.
Fiorentino F., 59.
Firdusi, 44.
Flaubert G., 242, 268.
Fleres U., 137-38.
Flora F., 241-2, 244-5, 344.
Fogazzaro A., 68, 221-33, 250, 273.
Ford H., 350.
Fortebracci G., v. Bracci P.
Fortis L., 158.
Foscolo U., 247.
Fourchambault L., 56.
Fradeletto A., 115, 118.
France A., 189.
Francesco d'Assisi (san), 77.
Francesco II, re delle Due Sicilie, 32.
Franchetti A., 41.
Frati C.,47.
455
Gabelli A., 61.
Gaeta F., 363-69.
Galati V. G., 273.
Gallarati Scotti T., 222, 228.
Gallina G., 115, 219.
Gargiulo A., 244-5.
Garibaldi Anita, 331.
Garibaldi G., 6-10, 12, 21, 249.
Gentile G., 268.
Ghisleri A., 102.
Giacomelli Antonietta, 80-84.
Giacomo (di) S. 48, 120, 121, 335.
Giobbe M., 48.
Giorgini G. B., 64.
Giorgione, 178-9.
Giotto, 176.
Gnoli D., 341.
Gnoli T., 137.
Goethe, 157, 180, 192.
Goncourt (de) E., 345.
Goracci L., 41.
Gorini P., 111.
Goudar A., 31.
Gozzano G., 353-62, 363, 364, 369.
Gozzi C., 217.
Groppali A., 102.
Grosso (del) R., 50.
Guardascione E., 20.
Guerrini O. 38, 85, 101, 226.
456
Guerzoni G., 6-7.
Guglielmotti A., 81.
Hegel, 266.
Heine E., 173.
Hugo V., 180, 269.
Huysmans, 87.
Ibsen E., 196.
Invrea G., 85-96.
Kant, 266.
Kerbaker M., 41-43.
La Bolina J., v. Vecchi A. V.
Labriola A., 59.
Lafayette, 37.
Lanza G., 63.
Laterza G., 264.
Lazzaretti D., 226.
Leo U., 350.
Leone XIII, papa, 88.
Leopardi G., 80, 348, 356, 361.
Lessona M., 51.
Levi C.A., 105.
Lioy P., 51.
Loisy A., 222.
Lollis (de) C.,46.
Lorenzo (de) G., 186.
Manni G., 99-100.
Mannino A., 273.
Mantegazza P., 51.
457
Mantovani D., 139, 143.
Manzoni A., 64, 79.
Marcotti G., 32-33.
Marino G. B., 247.
Marradi G., 14, 38.
Martini F., 16, 32.
Martinozzi G., 108-114.
Marx C.,60, 269.
Mascagni P., 235.
Maupassant (de) G., 133.
Mazzini G., 5, 249, 268.
Mazzoni G., 137, 138.
Meis (de) C.,266.
«Memini», v. Castellani Benaglio Ines.
Michelangelo, 19, 160.
Michetti F. P., 15.
Minghetti M., 64.
Molmenti P., 31, 105, 117.
Morelli D., 15, 22, 26.
Morici G., 18.
Mortara M., 337.
Napoleone Bonaparte, 34, 249.
Nardi P., 222.
Neera, v. Radius Zuccari Anna.
Negri Ada, 273-82.
Netti F., 27.
Neumann C.,186.
Nievo L, 34, 139.
Olivieri di San Giacomo A., 164-67.
458
Omodeo A., 267.
Orazio, 64.
Oriani A., 263-72, 270-72.
Orsini G., v. Gnoli D.
Ovidio, 41.
Ovidio (d') F., 59.
Ozoman F., 88.
Pancrazi P., 297.
Panzacchi E., 15.
Panzini A., 321-34.
Pascarella C.,103, 120, 226.
Pascoli G., 58, 120, 205, 208, 249-62, 273, 369, 372,
379.
Pasini E, 269, 337, 351.
Pater W., 177.
Péladan, 87.
Perotti A., 38.
Pesci U., 32.
Petrarca F., 142.
Pinelli L., 102-103.
Pinturicchio, 31.
Pirandello L., 199, 269, 335-52.
Pizzi I., 41, 44.
Platen A., 46.
Platone, 266.
Poe E. A., 346.
Porta (della) A., 201-8.
Praga E., 38, 89, 193.
Praga M., 193-5.
459
Protomastro G., 164.
Radius Zuccari Anna, 135, 210,
Rajna P., 176.
Rasi L., 55.
Razzetti N., 98-99.
Reina C.,26-27.
Ricci C.,31.
Riccoboni, 30.
Rinaldis (de) A., 20, 27.
Rizzi G., 10.
Roberto (de) F., 133-4, 335-6.
Rossini, 249.
Rostand E., 48.
Rousseau G. G., 7.
Rovetta G., 119.
Ruffini F., 79.
Ruskin, 175-6, 186-7.
Russo F., 121.
Russo L., 11, 296.
Salinari G. B., 363.
Salvadori G., 75-80.
Sanctis (de) F„ 175, 266.
Sand George, 268.
Sarfatti A., 117.
Saviotti G., 19.
Scarfoglio E., 169-74.
Schopenhauer, 177.
Segantini G., 16-17.
Sella Q., 61, 63, 160.
460
Selvatico R., 115.
Serao Matilde, 155, 294.
Serra R., 236, 268, 270-71, 297.
Shakespeare, 192.
Signorini T., 17.
Simoni R., 216-9.
Smiles S., 51.
Somaré E., 15.
Sormani A., 210.
Spaventa B., 59.
Spaventa S., 63.
Spencer H., 145.
Stecchetti L., v. Guerrini O.
Stendhal, 147.
Stoppani A., 49-51.
Taine I., 145.
Tari A., 59.
Tarnowska (contessa), 284.
Tartufari Clarice, 305-19.
Tasso T., 80, 247, 332.
Tea Eva, 187-9.
Temple Leader G., 33.
Teza E., 46-48.
Titone V., 252, 271-2.
Toma G., 20.
Tosti F. A., 97.
Trebla I., v. Alberti A.
Vassallo L. A., 137.
Vecchi C. A., 55.
461
Vecchi A. V., 55.
Venturi L., 19.
Verga G., 172, 296, 303, 335.
Verlaine P., 87, 180.
Vico G. B., 78, 247.
Villani C.,168.
Villiers de l’Isle Adam, 87.
Virgilio, 179, 185.
Vittorio Emmanuele II, re di Italia, 33.
Vivanti Annie, 48, 283-94.
Vogelweide (von der) W., 47.
Voltaire, 334.
Washington, 37.
Whitman W., 274.
Zanazzo G., 121.
Zanella G., 50, 101.
Zena R., v. Invrea G.
Zerbi (de) R., 161.
Zola E., 155, 172, 193, 210, 336.

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