Dispensa “Profilo storico della
lingua italiana” di Rita Librandi
Storia della lingua italiana
Università degli Studi di Napoli Federico II (UNINA)
37 pag.
Document shared on https://www.docsity.com/it/dispensa-profilo-storico-della-lingua-italiana-di-rita-librandi/10629905/
Downloaded by: martina-pezzullo (
[email protected])
Profilo storico della lingua italiana- Rita Librandi
Capitolo 1
Paragrafo 1
L’italiano è una lingua romanza e l’insieme dei territori dove vengono parlate le lingue
romanze è la Romània (comprende penisola iberica, Isole Baleari, Francia, Italia, Corsica,
Romania e parte della Svizzera). Le lingue romanze, anche dette neolatine, derivano dal
latino dal quale, a loro volta, derivano somiglianze e affinità tra varie parole (nonostante nel
latino classico, ovvero scritto, la parola fuoco fosse “ignis”, nel latino parlato veniva usata la
parola “focus” da cui deriva il “fuoco” italiano, “fogo” portoghese, “feu” francese e così via).
Naturalmente non bisogna credere che dal latino si sia improvvisamente scaturito un flusso
di varie lingue autonome e diverse tra loro, visto che il processo fu lungo. È comunque
importante sottolineare la differenza tra latino classico (definizione di Aulo Gellio che parlò
della possibilità degli scrittori più eleganti come classici a causa del loro potenziale che
avrebbe potuto farli diventare modelli futuri) e latino “volgare”, alla base delle lingue romanze
(la definizione “volgare” risulta ingannevole). Oltre a subire innumerevoli cambiamenti dalla
fondazione di Roma fino alla caduta dell’Impero d’Occidente, è importante riconoscere
l’estesa diffusione del latino, dovuta sicuramente grazie al predominio di Roma ma
soprattutto per il modo in cui il latino veniva percepito dai romani stessi: concedere l’utilizzo
di esso ai popoli sottomessi, e specialmente alle classi più prestigiose di essi, era visto come
un privilegio (il prestigio politico e culturale di Roma rafforzò tali convinzioni). Anche
l’educazione scolastica e gli spostamenti di mercanti e missionari cristiani fece diffondere
con facilità la lingua. Il processo, però, fu ugualmente lento anche e soprattutto per la
presenza di altre lingue, stabilitesi prima dell’arrivo dei conquistatori romani. Le popolazioni
italiane furono le prime ad avviare questo processo, caratterizzato prima dal bilinguismo e
poi dalla sostituzione quasi definitiva: alcune tracce delle lingue preromane, infatti, sono
rimaste (“carro”, ad esempio, è un termine che proviene dalle lingue celtiche, assimilato poi
dal latino), creando il sostrato. Quest’ultimo ha influenze anche su fonetica, sintassi e
morfologia, nonostante per gli studiosi sia ancora una materia molto incerta. Il latino, quindi,
come ogni lingua è caratterizzato da varietà geografiche (diatopiche), sociali (diastratiche),
situazionali (diafasiche) e varietà in base al mezzo di comunicazione utilizzato (diamesiche).
Davanti a questo quadro complesso, si può arrivare alla conclusione che la definizione di
latino volgare sia scorretta in quanto oltre a non essere possibile distinguere il latino da cui è
originato l’italiano e le lingue romanze, né è corretto parlare di una lingua esclusivamente
orale (avere solo testimonianze scritte ci permette di avere un quadro ancor meno preciso).
Paragrafo 2
La ricostruzione da parte degli studiosi del latino parlato è stata mandata avanti grazie agli
studi dei fenomeni diversi dal latino classico e le sue norme, ma bisogna tener conto delle
differenze geografiche e temporali tra i vari reperti e fenomeni. Il latino, infatti, non ha una
situazione eterogenea, ma sicuramente alcune delle testimonianze aiutano alla costruzione
cauta di un percorso composto da variabili diverse. La sociolinguistica storica, quindi,
richiede strumenti e metodi che si adattino ai limiti della natura delle fonti su cui si basano gli
Document shared on https://www.docsity.com/it/dispensa-profilo-storico-della-lingua-italiana-di-rita-librandi/10629905/
Downloaded by: martina-pezzullo (
[email protected])
studi. Alcune tra le fonti più importanti provengono da iscrizioni latine: nonostante anche gli
epitaffi, che spesso presentano dei formulari fissi, siano importanti, di particolare interesse
sono i graffiti e le scritture ritrovati a Pompei (provenienti dallo stesso luogo, costituiscono
delle fonti omogenee) ma anche i glossari forniti da liste di parole difficili affiancate da parole
più comuni per comprenderne meglio il significato. Altre fonti importanti sono le scritture
private, come alcune raccolte di lettere (una di Claudio Terenziano al padre Tiberiano e le
altre del legionario Rustio Barbaro scritte su cocci di terracotta - ostraka-), così come i
documenti giuridici e legali, studiati dal punto di vista del loro contesto culturale e delle
capacità di chi li ha scritti. Il ruolo dei notai si è dimostrato rilevante anche per evidenziare le
differenze linguistiche presenti nei testi dell’alto medioevo scritti in latino. Più in generale,
anche i testi letterari possono fornire svariate informazioni, come il Satyricon di Petronio, di
cui sono sopravvissuti solo alcuni frammenti. Oltre alla descrizione degli ambienti, tramite
alcuni dialoghi come quello della Cena di Trimalchione di stampo caricaturale (viene infatti
descritto il comportamento di un uomo che cerca di mostrare di possedere molta sapienza,
benché non sia affatto così; Petronio, quindi, utilizza un parlato basso, deviato dalle norme
classiche, che risulta comunque di fondamentale importanza). Altre fonti sono caratterizzate
dai trattati tecnico-scientifici, la cui attenzione si concentrava più sui contenuti che
sull’eleganza dello stile di scrittura, utilizzando quindi elementi non appartenenti al latino
classico. Nonostante il cristianesimo sia alle basi della dissoluzione dell’Impero, la Chiesa
manipolò il latino per renderlo di immediata comprensione. Tra le opere di letteratura
religiosa troviamo l’Itinerarium Egeriae (ovvero il diario del pellegrinaggio in Terrasanta di
Egeria), scritto tra il IV e il V secolo e interpretato due secoli dopo dal monaco asceta Valerio
del Biezo come un diario scritto da una religiosa e destinato a venir condiviso con le proprie
compagne del monastero, chiamate “sorelle” (l’interpretazione, però, pare essere falsa: è più
probabile che fosse una nobildonna, visto che una religiosa non avrebbe potuto allontanarsi
dal monastero per così tanto tempo, e che il diario non fosse quindi destinato ad altre
monache visto che era usuale tra cristiani chiamarsi “sorelle” e “fratelli”). Oltre ad essere
importante per la descrizione dei luoghi lo è per il fatto che sia scritto con un latino ben
distante dalle norme, influenzato da usi colloquiali e letture bibliche. Le opere dei
grammatici, inoltre, spesso tendono a mettere in guardia i lettori dagli errori che si
commettono rispetto al latino classico, e sono quindi grandi documentazioni per lo sviluppo
dei fenomeni linguistici. Tra i testi più importanti c’è l’Appendix V (in passato si credeva fosse
la III), risalente alla seconda metà del V secolo, parte dell’Appendix Probi, una serie di
appunti trovati alla fine del manoscritto denominato Pseudo Probo. Contiene ben 227 parole
disposte a schema “A non B” dove viene definita prima la voce corretta (A) e poi quella da
evitare (B). La lista, però, è stata a lungo considerata un’opera allo scopo di comparare il
latino classico con quello in voga al tempo perché studiata separatamente dalle altre opere. I
nuovi studi intrapresi sul testo fanno ricondurre l’Appendix V a una tradizione di trattati
tardoantichi che includevano raccolte di forme devianti e barbarismi, per cui la lista stilata
dall’anonimo autore aveva fini educativi. Alcune delle correzioni presenti, però, non sono
solo di stampo ortografico, ma presentano anche ripetizioni che fanno intuire come alcuni
errori fossero costanti nel tempo.
Per individuare il latino sommerso viene spesso utilizzato il metodo comparativo. Se le
lingue neolatine hanno forme affini tra di loro che, però, non hanno riscontro nel latino
classico, si cerca di giungere alla forma latina che doveva esserci alla base. Per la parola
“basto”, ad esempio, dopo averla comparata con le altre lingue neolatine, si è giunti alla
conclusione che non potessero essersi create in modo completamente indipendente le une
Document shared on https://www.docsity.com/it/dispensa-profilo-storico-della-lingua-italiana-di-rita-librandi/10629905/
Downloaded by: martina-pezzullo (
[email protected])
dalle altre, motivo per cui è stata ricostruita la forma “bastum”. Non è possibile compiere
quest’operazione per tutte le parole, come ad esempio con ”giardino”, le cui origini sono
germaniche nonostante sia arrivato a noi tramite il francese. Foneticamente, già a partire dal
I secolo, se non ancor antecedentemente, si possono notare fenomeni come l’indebolimento
della “m” finale (“canem” si legge “cane”) e la sintetizzazione del nesso “ns” in “s” (“mensem”
diventa “mese”). Si registra, inoltre, una confusione tra “B” e “V”, per cui alcune parole, come
“serbus”, vengono scritte in modo diverso, in questo caso “servus”.
Capitolo 2
Paragrafo 1
L’esistenza del volgare come lingua autonoma precede il suo emergere nelle testimonianze
scritte. A partire dal XV secolo, gli studiosi hanno avanzato ipotesi secondo cui i popoli
germanici si trovino alla base di questo passaggio dal latino al volgare, ma è importante
riconoscere che loro stessi vennero romanizzati. A seguito della caduta dell’Impero
d’Occidente, il collasso politico-amministrativo, l’estinguersi del vecchio sistema scolastico e
la scomparsa di reti commerciali ampie, con il conseguente restringimento degli orizzonti
delle popolazioni, favorirono la scomparsa del modello linguistico unitario presente in quel
momento. Visto che gli eventi, però, non si susseguirono rapidamente, non è possibile
individuare un momento preciso dove il latino si separò definitivamente dalle lingue volgari.
È probabile, comunque, secondo gli studiosi, che le lingue romanze siano diventate
autonome tra il VI e il VII secolo. Importante è il concetto di diglossia, ovvero la convivenza
di due lingue separate e assegnate a usi alti e bassi in una stessa società. Ciò ha portato a
vedere una separazione tra il latino scritto dai litterati, ovvero le persone colte, e quello
scritto dagli illiteterati. Il latino di quest’ultimi avrebbe comunque passivamente conservato le
grafie del latino classico, pur venendo pronunciato secondo le innovazioni fonologiche del
tempo, per cui gli scritti latini avrebbero perso la loro grafia alfabetica. Una mutazione più
profonda sarebbe avvenuta con Carlo Magno. Questa ipotesi, però, presenta svariati punti
deboli (non si comprende, infatti, come la competenza degli illitterati potesse comprendere la
morfosintassi del latino classico, ormai distante dai sistemi delle nuove lingue). Anche
l’ipotesi che alla grafia latina corrispondesse una pronuncia volgare è falsa in quanto non
applicabile alle lingue romanze e, inoltre, la fonetica neolatina non sarebbe realizzabile con i
testi metrici e gli inni sacri legati alla musica. La tesi stessa che la situazione linguistica sia
stata profondamente cambiata con l’avvento di Carlo Magno è stata rivalutata: per la sua
politica si ispirò alla grandezza di Roma e all’organizzazione dell’Impero di Costantino,
attuando varie riforme tra cui l’utilizzo, in campo liturgico, di un latino più classico, composto
da una grafia piccola e più facile da leggere (scrittura Carolina). Di conseguenza, seguendo
di più le norme classiche e adottando questo tipo di scrittura, i cambiamenti verificatisi fino a
quel momento sarebbero risaltati. Tuttavia è possibile attribuire a Carlo Magno solo un lieve
avanzare del progresso: l’esigenza di ripristinare almeno in parte le norme classiche indica
anche la coscienza della separazione linguistica ormai già in atto da tempo. Inoltre è bene
ricordare che i tratti delle lingue parlate che affioravano dal latino non erano sinonimo di
ignoranza di chi scriveva. Per agevolare la comunicazione, infatti, specialmente per la
comprensione di leggi, atti notarili e placiti, veniva usata la scripta latina rustica, ovvero una
Document shared on https://www.docsity.com/it/dispensa-profilo-storico-della-lingua-italiana-di-rita-librandi/10629905/
Downloaded by: martina-pezzullo (
[email protected])
forma intermedia. Il passaggio da essa alle lingue volgari, infine, risulta pieno di discontinuità
e fratture.
Paragrafo 2
La prima certificazione dei un volgare come lingua autonoma ci è data dal Concilio di Tours
dell’813 riunito per ordine di Carlo Magno. Gli obbiettivi del concilio erano puramente
dottrinali, ma per una maggiore comunicazione con i fedeli la Chiesa si sarebbe dovuta
adattare alle esigenze dei fedeli stessi. I vescovi stessi, quindi, erano consapevoli che solo
attraverso le lingue volgari avrebbero potuto predicare la fede. In una delle deliberazioni del
concilio si legge che, oltre al riconoscimento dell’autonomia del volgare, esso coesisteva con
una lingua di derivazione germanica. Il confronto tra queste lingue differenti è importante per
cogliere un’identità linguistica ormai distante dal latino. Ciò non significa che il latino non
sarebbe più stato utilizzato, anzi. La più antica attestazione del volgare romanzo, però, viene
identificata con i Giuramenti di Strasburgo. In essi viene descritta la lotta tra Carlo il Calvo,
Ludovico il Germanico e Lotario I, figli di Ludovico il Pio. Nitardo, scrittore dell’opera, espone
gli avvenimenti in latino ma specifica che Ludovico utilizza il volgare romanzo quando parla
con gli uomini di Carlo, che adopera invece, con i soldati di Ludovico, una “teudisca lingua”.
Gli eserciti, inoltre, giurano ognuno nel proprio volgare. Per quanto riguarda il territorio
italiano, si fa riferimento ai Placiti e, nello specifico, al Placito di Capua del 960, preceduto
però dall’Indovinello veronese e dal graffito presente nella catacomba di Commodilla.
L’indovinello veronese
L’Indovinello veronese presenta due note risalenti al periodo tra VIII e IX secolo, una scritta
in latino e l’altra in una forma ambigua, sulla quale sono state avanzate molte ipotesi. La
seconda iscrizione, quella in latino, recita: “gratias tibi agimus omnip(oten)s sempiterne
d(eu)s” ovvero “ti ringraziamo, onnipotente, eterno Dio”. La prima scritta, “Se pareba boves
alba pratalia araba & albo versorio teneba & negro semen”, viene solitamente identificata
come indovinello, una metafora dell’aratura e della semina come atto di scrittura (“alba
pratalia”=prati bianchi ovvero il foglio, “albo versorio”=aratro bianco ovvero la penna d’oca,
“negro semen”=nero seme ovvero l’inchiostro). Un’altra ricostruzione, invece rende la
traduzione dell’ indovinello come “spingeva davanti a sé i buoi, arava bianchi prati, e un
bianco aratro teneva e un nero seme seminava”. Questa interpretazione non seguirebbe,
però, la legge Tobler Mussafia che prevedeva che i pronomi atoni si trovassero sempre in
posizione enclitica quando le forme coniugate del verbo erano o precedute da congiunzioni
o in prima posizione nella frase. Più di recente, invece, si è ipotizzato che “boves” facesse
da soggetto, che “se” avesse il valore di “si” davanti a “pareba” intesa come terza persona
plurale di “parebe” ovvero “apparire”. Funzione futura
Catacomba di Commodilla
Il graffito della catacomba di Commodilla è inciso su un affresco realizzato tra il VI e il VII
secolo, ma l’iscrizione in sé è posteriore, datata circa tra il VIII e il IX secolo (la datazione si
basa soprattutto sulla base della cappella che ospita l’iscrizione e che ospitava i corpi dei
martiri Felice e Adàutto). Francesco Sabatini ritiene che l’iscrizione sia databile alla prima
metà del XI secolo, nonostante molti studiosi la ritengano anche precedente. L’incisione,
“Non dicere il la secrita a bboce”, viene ritenuta da Sabatini completamente scritta in volgare
e considerata addirittura una delle più antiche attestazioni romanze. L’imperativo negativo
Document shared on https://www.docsity.com/it/dispensa-profilo-storico-della-lingua-italiana-di-rita-librandi/10629905/
Downloaded by: martina-pezzullo (
[email protected])
“non”+infinito è molto rilevante perché ancora presente, nella forma “dicere”, in alcuni dialetti
mediani e meridionali. In più è presente betacismo e raddoppiamento fonosintattico nel
sintagma “a bboce” (la seconda “b” è stata aggiunta in un secondo momento, probabilmente
perché lo scrivente si era accorto che una sola b non soddisfasse pienamente la forma
fonetica). “Ille”, invece, attesta la presenza del dimostrativo latino utilizzato come articolo, e il
termine “secrita” se considerato un femminile plurale renderebbe la traduzione della frase
“non dire le (o quelle) segrete a voce (alta)”. Le secrete altro non erano che le preghiere che
nella liturgia latina preconciliare dovevano essere recitate a bassa voce. Si tratterebbe,
quindi, di un ammonimento rivolto al sacerdote per non pronunciarle a voce alta. Un’altra
interpretazione è stata avanzata da Emilia Calaresu, che ritiene improbabile l’interpretazione
riguardante la celebrazione liturgica. La scritta, infatti, per essere sempre visibile dal
sacerdote dovrebbe trovarsi sull’altare, mentre è posta ben distante dal punto dove la messa
veniva celebrata. Inoltre, non vi sarebbero prove che la recitazione silenziosa delle preghiere
fosse già stata adottata anche a Roma. Calaresu, quindi, mette in relazione la scritta con
l’affresco sul quale si trova, che rappresenta i martiri Felice e Adàutto: dopo la condanna a
morte di Felice, Adàutto avrebbe confessato di proclamare la stessa fede, motivo per cui
anch’egli venne condannato. Il significato di “secrita”, quindi, cambierebbe in “segreti” e non
sarebbe, quindi, più riferita alle “preghiere”. Da qui si deduce che l’autore della scritta
dovesse essere un laico che rivolgendosi al santo abbia voluto rimproverarlo per essersi
autodenunciato. Nonostante l’ipotesi abbia buoni fondamenti, c’è da tenere a mente che tra
il martirio e l’iscrizione ci sono circa cinque secoli, e che altri due secoli separino l’iscrizione
dalla realizzazione dell’affresco. Il culto dei martiri, inoltre, pur essendo nato tra il III e il IV
secolo, si espanse soltanto a partire dal VII secolo. Da qui, quindi, ci si chiede se sia
possibile che un fedele (per di più in un periodo dove il martirio veniva visto come grande
atto di fede) potesse essere effettivamente indotto a fare affermazioni simili volte a preferire
il silenzio piuttosto che la proclamazione della propria fede. Il graffito, inoltre, è stato
gravemente danneggiato da un atto vandalico e, nonostante il restauro, non è stato possibile
riportarlo al suo aspetto originario.
Placito capuano
Per quanto riguarda i Placiti campani, si tratta di testimonianze che riconoscono al
Monastero di Montecassino la proprietà di alcune terre perse nell’883 a causa dei Saraceni.
Il più antico dei tre Placiti è quello di Capua, dove viene riportato il verbale del processo del
giudice Arechisi contro il monastero dal proprietario terriero Rodelgrimo. La formula, che i
testimoni dovranno pronunciare per confermare che le terre sono in realtà di proprietà del
monastero, è scritta in volgare dallo stesso giudice. Altre formule simili sono presenti nel
Placito di Sessa Aurunca (963), nel Placito di Teano (963) e nel Memoriatorum di Teano
(963). Il Placito capuano (risalente al 960 e scritto nella zona di Capua), in sintesi, è il
verbale di un evento processuale, con un’azione legale, una controparte, un oggetto da
contendere e un giudice. Il profilo irregolare è dovuto al fatto che si tratta di una pergamena,
pelle di montone o pecora, e in quanto oggetto prezioso non andava sprecato per essere
modellato in modo regolare (un altro motivo della sua irregolarità è il modo in cui veniva
conservata, ovvero a rotolo, con la parte interna scritta perchè più liscia). Nella pergamena è
presente il verbale del processo interamente in latino fatta eccezione per alcuni punti dove
sono presenti delle parole in volgare. È importante il luogo in cui è stata compilata la
pergamena, ovvero il palazzo dei principi di Capua (longobardi), e il periodo, ovvero il 960. I
saraceni, nel nono secolo, minacciarono il monastero benedettino di Montecassino,
Document shared on https://www.docsity.com/it/dispensa-profilo-storico-della-lingua-italiana-di-rita-librandi/10629905/
Downloaded by: martina-pezzullo (
[email protected])
costringendo i monaci a rifugiarsi in un altro monastero. Interviene, dopo del tempo, un
abate che cerca di dimostrare come propria la proprietà delle terre, cercando di dimostrare
che il monastero possiede le terre da molti anni, e non avendo i documenti di appartenenza
può solo affermare che le terre sono da sempre in possesso del monastero. Si tratta, inoltre,
di una lite giudiziaria che avviene con un feudatario (entrambi i nomi, sia del feudatario che
dell’abate sono di origine germanica, per cui capiamo che la classe dirigente del momento è
longobarda). Le terre occupate equivalgono a 200km2, più dell’intera città di Napoli (quasi il
doppio). Nella preparazione del processo, c’è anche una componente che si occupa di come
debba essere svolto: è necessario interpellare dei testimoni che devono ripetere una formula
prima di lasciare la loro deposizione (devono essere interrogati separatamente e dichiarare
che per quanto ne sanno, la terra contesa è stata in possesso di Montecassino da
trent’anni). La formula non è in latino e non è inventata dai testimoni: viene stabilito dal
giudice quale sia. Nella formula il “sao” iniziale non è un semplice “so” ma un “sono
pienamente consapevole”, quindi la formula è “sono pienamente consapevole che quelle
terre (proprietà) in quei confini contenuti qui (nella pergamena - il “que” è anche il soggetto di
“contene” -), trent’anni (necessari per affermare che siano di Montecassino) le possedette la
parte (parte in causa, parte giuridica) di San Benedetto”. Se ne conclude che a pensare il
documento sia stata una mente giuridica. Inoltre, i longobardi in quel momento al potere
nella zona, scelgono il volgare del luogo come propria manifestazione linguistica,
incentivandone l’utilizzo anche nei documenti ufficiali. La formula è pensata anche per
rendere adeguatamente la lingua parlata: nell’andamento della formula troviamo una frase
segmentata, ovvero con un’interruzione dopo la quale viene ripreso il complemento oggetto
con il pronome (“kelle terre […] le possette”), elemento tipico della lingua parlata. Rispetto al
verbo, “kelle terre” viene anticipato, quindi si parla di dislocazione a sinistra, mentre la
dislocazione a destra solitamente riguarda elementi già presenti precedentemente nel
discorso. La formula è in volgare per essere chiara anche in situazioni future, e non perché i
testimoni non sapevano il latino (i principali destinatari della formula sono gli eredi del
feudatario che aveva occupato le terre). Il feudatario dunque dona la terra, evitando il
processo, ma l’abate dona al feudatario un mantello con pietre preziose, azione dal peso
giuridico importante: la donazione delle terre potrebbe essere ritirata in futuro, quindi in
cambio delle terre l’abate gli offre il mantello (azione prevista dal diritto longobardo). In
quanto atto ufficiale che usa il volgare con un notevole peso giuridico, il Placito Capuano
viene considerato l’atto di nascita della lingua italiana. Funzione per il futuro
San Clemente
Le iscrizioni della basilica di San Clemente risalgono circa alla fine del XI secolo. Esse sono
associate a dei dipinti murari che rappresentano storie dell’Antico e del Nuovo testamento, in
questo caso della vita di San Clemente, per rendere la comprensione facile anche agli
analfabeti. Hanno, quindi, una funzione simbolico-morale. Accanto ad ogni personaggio si
trova il suo nome per identificarlo. Si rivolge ai suoi servi dicendo “fili delle pute traite”,
affermazione attraverso la quale si può identificare il personaggio e qualificarlo. Il terzo
personaggio dice “albertel”, identificato come possibile diminutivo di un nome (troncamento).
Anche la colonna parla, ma in latino. A cambiare tutto è la prima iscrizione al sinistra,
accanto all’immagine di un servo che cerca di sollevare con un bastone la colonna. “Fatti a
lui dietro con il palo”, viene scritto, ma visto che il personaggio sta usando il palo come leva,
è evidente che non sia lui a parlare e che sia, quindi, il destinatario. È possibile quindi che le
parole non siano vicine al personaggio che le pronuncia, ma al personaggio a cui sono
Document shared on https://www.docsity.com/it/dispensa-profilo-storico-della-lingua-italiana-di-rita-librandi/10629905/
Downloaded by: martina-pezzullo (
[email protected])
dirette. Alcuni dei tratti linguistici, inoltre, sono caratteristici tuttora di alcuni dialetti
meridionali. Funzione futura
Paragrafo 3
Questi testi rappresentano una scrittura esposta, ovvero testi visibili anche a distanza.
Alcune delle scritture pubbliche possono diventare scritture monumentali, dove il
monumento è un oggetto che serve a trasmettere un’ammonizione ma anche ricordo. Tutti i
testi, inoltre, presuppongono una delineata differenza tra volgare e latino.
Dalla fine dell’XI secolo notiamo un aumento dei testi in volgare, benché il processo rimanga
lento, arrivando alla nascita delle prime scritture letterarie. C’è da specificare che molti dei
testi sono andati perduti, perciò quello che è giunto fino ai nostri tempi non è che una piccola
parte di tutto ciò che è stato scritto. Con i testi presenti, però, è stato valutato un processo di
classificazione (abbiamo testi giuridici-amministrativi, testi religiosi o laici ecc.). Il filologo
Paul Zumthor ha avanzato la distinzione tra “documento” e “monumento”, dove il primo
rappresenta uno stato limitato a essenziali esigenze comunicative e il secondo è sorretto da
esigenze di edificazione. Volendo far rientrare le testimonianze in queste due sole categorie,
ne si annullerebbero differenze di finalità ed espressione, motivo per cui è stata aggiunta
un’ulteriore categoria: i testi letterari. Essi dipendono non solo dall’’adeguatezza
dell’organizzazione testuale, ma anche dall’originalità delle forme a confronto con la
tradizione latina (tra i testi monumentali, dunque, solo quelli capaci di sottostare alle
precedenti caratteristiche possono essere considerati testi letterari).
Capitolo 4 (82-84/91-94)
I primi testi in volgare cui possiamo attribuire un valore letterario sono componimenti poetici,
ritmi arcaici di ascendenza giullaresca, spesso in contatto con la poesia religiosa. Il Ritmo
cassinese, frutto di un chierico, ha finalità educative e affronta due personaggi: uno legato a
spiritualità e virtù, l’altro a terreni e dominio dei sensi. Il testo è conservato a Montecassino,
a differenza del Ritmo su Sant’Alessio, una narrazione agiografica volta a catturare ed
educare il pubblico. Nella vita cittadina del XIII secolo, infatti, crebbe il numero di
professionisti della parola e ai predicatori si aggiunsero anche i giullari. I religiosi non li
disdegnavano, visto che spesso si dedicavano alle rappresentazioni di argomento religioso.
Il Ritmo su Sant’Alessio risulta irregolare, e mentre il Ritmo cassinese ha tratti tipici del
volgare cassinese antico, quello di Sant’Alessio ha tratti marchigiani.
L’inizio ufficiale della poesia religiosa in volgare viene identificato con il Cantico delle
creature, che è agli esordi della nostra letteratura. Gli ordini mendicanti assunsero un ruolo
di grande rilievo nell’espansione del volgare: francescani e domenicani reagirono alla
diffusione dell’’eresie pauperistiche dei catari e dei valdesi, accogliendone l’esigenza e
riservando una vita di povertà e penitenza. Il Cantico sintetizza molte istanze avanzate
dall’ordine francescano, come la rivalutazione della realtà terrena in quanto manifestazione
di Dio. Il componimento si ispira alle sacre scritture, e la lode di Francesco elabora una
positività nuova del creato, attraverso il quale è possibile cogliere l’essenza divina. Il Cantico
è concepito come una preghiera da accompagnare con la musica.
Document shared on https://www.docsity.com/it/dispensa-profilo-storico-della-lingua-italiana-di-rita-librandi/10629905/
Downloaded by: martina-pezzullo (
[email protected])
La produzione poetica dei Siciliani e la lettura che ne fece Dante sono essenziali per la
storia culturale, letteraria e linguistica italiana. Una ventina di anni fa è nata l’ipotesi di un
secondo percorso nel rimaneggiamento dei versi occitani, precedenti all’inizio della lirica
siciliana, ipotesi concretizzata dal ritrovamento negli anni Trenta, riportato alla luce da
Stussi. Nel 1962, Campana annunciava che circa trent’anni prima era stata ritrovata una
canzone di argomento amoroso che doveva essere la più antica lirica italiana. Trent’anni
dopo, Stussi rintraccia il componimento: i versi si leggono su una pergamena dell’archivio
storico arcivescovile di Ravenna e provengono dal monastero di Sant’Andrea Maggiore.
Grazie una perizia paleografica, nei versi si riconosce la canzone di cinque strofe di
endecasillabi, settentrionale e contaminata dal marchigiano, Quando eu stava in le tu
catene. A destra di questo componimento si leggono cinque endecasillabi che mostrano
evidenti tratti del meridione estremo. La canzone precederebbe la Scuola Siciliana, e
anticiperebbe la composizione in un volgare italo-romanzo di versi ispirati allo stile
trobadorica, da cui riprende lessico e caratteri metrici, attutendo gli elementi della realtà
feudale. La lingua del componimento mostra una mescolanza tra tratti settentrionali e
mediani.
Un altro ritrovamento importante è la traduzione di un’alba molto nota del trovatore Giraut de
Borneil: l’alba è un componimento che sviluppa motivi diversi intorno all’apparire del sole,
dal canto degli uccelli al rammarico degli amanti che dovevano separarsi per non essere
scoperti, fino alle preghiere. Il genere si era diffuso in altre letterature, ma era scarsamente
testimoniato in Italia. Il componimento è stato scritto e copiato prima del 1239 ed è almeno
contemporaneo alla produzione Siciliana, scritto con tratti del Piemonte meridionale. Si
individua una tradizione comune a quella da cui avrebbero tratto ispirazione i poeti della
corte di Federico II.
Capitolo 5
Paragrafo 1
Le testimonianze più numerose e di maggiore rilevanza delle scritture in volgare ci sono
giunte dalla Toscana, e soprattutto da Firenze.l’espansione dei commerci e la nascita di
importanti compagnie bancarie resero la città al centro degli scambi economici mondiali, e la
nascita del fiorino stabilì un ruolo privilegiato nelle transazioni economiche internazionali.a
Firenze si moltiplicarono le scritture mercantili rilevanti per la nascita di un lessico specifico e
per la produzione di tipologie testuali che spesso rispondono formulari rigorosi,
intrecciandosi anche con la struttura di testi giuridici.a Firenze, inoltre, la cultura classica
latina e la cultura volgare sono in competizione senza conflittualità.con un incremento
demografico, e un ampliamento dei confini del comune, Firenze sviluppò un grande senso di
indipendenza: la sua espansione geografica finirà solo tre secoli dopo, ma l’egemonia
linguistica e culturale rimase assicurata.
Paragrafo 2
Con il De vulgari eloquentia, Dante elabora una teoria molto avanzata sull’origine del volgare
e sulla sua diversità. Precedenti studi riguardo la già conosciuta diversità linguistica,
tendevano a limitarsi all’attribuirla a Dio. Dante costruirà, invece, un sistema teorico
Document shared on https://www.docsity.com/it/dispensa-profilo-storico-della-lingua-italiana-di-rita-librandi/10629905/
Downloaded by: martina-pezzullo (
[email protected])
complesso grazie al quale si concepisce una nozione di “letteratura italiana” e l’invenzione
della “italiana linguistica”.
Le idee dantesche sul volgare si sviluppano prima nel Convivio e poi nel De vulgari
eloquentia. Nel Convivio, che avrebbe dovuto contenere il testo il commento di 14 canzoni,
l’utilizzo del volgare si giustifica con la necessità di usare la stessa lingua in cui sono state
composte le canzoni. Il latino non poteva essere sottoposto alle esigenze del volgare, inoltre
ne era superiore per virtù (perché capace di esprimere in modo pieno concetti e teorie) e per
bellezza (a causa della sua grammatica capace di consentire un’organizzazione armonioso
delle parole). Dante utilizza il volgare anche per diffondere tra i più ampio numero di lettori
possibile la conoscenza, cosa che non sarebbe stata possibile con il latino. Per Dante, gli
unici destinatari del sapere autentico sono coloro che non hanno accesso agli studi elevati,
ed è da condannare chi mercifica le proprie competenze. Condanna inoltre chi utilizza un
volgare non italiano per le proprie opere.
Il De vulgari eloquentia è un’opera scritta in latino ed è dedicata al volgare e alla poesia
volgare: il trattato è importante perché la sua tesi, secondo la quale la lingua dei poeti illustri
crea la lingua illustre degli italiani, si fonda sulla politica di Aristotele. L’intera opera si basa
sul fatto che la lingua è un bene donato solo agli uomini, e per spiegare il rapporto tra il
volgare e latino, Dante inizia dal racconto biblico della genesi e della Torre di Babele. Dio
punisce la presunzione degli uomini e fa sì che gli uni non comprendano più la lingua degli
altri. Da qui, Dante ricostruisce l’evoluzione della dispersione dell’umanità che si divide in tre
gruppi migratori partiti da Babele e indirizzati verso l’Europa, che portano con sé tre diverse
lingue: il proto-germanico-slavo, ovvero la lingua d’oc, il proto-greco, la lingua d’oil, il
proto-romanzo, la lingua del sì. I tre idiomi si sarebbero poi diversificati ulteriormente. Per
rimediare alla loro variabilità, è stato creato in latino, lingua artificiale e immutata, basata
prevalentemente sulla lingua del sì. Successivamente, Dante passa in rassegna i volgari
della penisola, identificandone sette a destra dell’Appennino sette a sinistra. Dopo averli
esaminati e condannati tutti, elogia le qualità del siciliano adoperato dalla corte di Federico II
(giudizio influenzato dal fatto che i poeti siciliani erano leggibili solo in veste toscanizzata).
Dante vuole cercare la lingua più decorosa illustre d’Italia, che non può derivare dalla
semplice depurazione dei volgari municipali, ma deve essere una lingua unitaria con qualità
ben precisa:
1. Deve essere illustre, deve illuminare gli altri e innalzarli;
2. Deve essere cardinale, perché gli altri volgari dovranno seguire la sua guida e
lasciarsi da esso regolare;
3. Aulico e curiale, a causa del valore politico del volgare illustre.
Nell’attesa che questa lingua possa instaurarsi, se n’è già creata una comune grazie al
lavoro dei poeti della corte di Federico II, grazie Dante stesso, grazia Cino da Pistoia, Guido
cavalcanti, Lapo Gianni, Guido Guinizelli e Onesto da Bologna. Il primo libro del De vulgari
eloquentia racchiude intuizioni mai esposte sino a quel momento: il trattato ebbe una scarsa
diffusione e venne riscoperto solo nel XVI secolo. Nel secondo libro del trattato, Dante
spiega quali debbano essere gli usi letterari del volgare illustre, fondandosi su ciò che
Aristotele aveva argomentato intorno all’anima, distinguendola in vegetativa, animale e
razionale (che si attiene solo all’essere umano). Con la prima l’uomo cerca l’utile, ovvero la
salvezza per Dante, con la seconda il piacere, ovvero l’aspirazione all’amore, e con la terza
l’onesto, ovvero il raggiungimento della virtù. Nel volgare del sì, anche se nessuno ha
trattato della salvezza, e quindi della guerra, troviamo come cantori eccellenti di amore e
rettitudine Cino da Pistoia e Dante stesso. Il trattato si basa principalmente sulla canzone,
attraverso la quale il volgare raggiunge le qualità del latino regolato e stabile e i suoi poeti
Document shared on https://www.docsity.com/it/dispensa-profilo-storico-della-lingua-italiana-di-rita-librandi/10629905/
Downloaded by: martina-pezzullo (
[email protected])
sono posti sullo stesso piano di chi aveva composto versi con le regole della grammatica.
Dante evidenzia tre stili differenti:
1. Tragico, ovvero stile alto;
2. Comico, stile basso;
3. Elegiaco, stile dei miseri.
Paragrafo 3
La denominazione di Tre corone è da ricondurre allo scrittore e studioso umanista Giovanni
di Gherardo da Prato, che voleva sottolineare l’autorità regale delle figure di Dante, Petrarca
e Boccaccio. Il “culto” delle Tre corone, però, è da ricondurre a Boccaccio, che condusse ai
due pilastri sui quali si doveva fondare la tradizione letteraria italiana (ovvero Dante e
Petrarca), aggiungendosi come ulteriore pilastro.
Dante
Fin da subito, e soprattutto a seguito della morte di Dante, la Commedia riscosse grande
successo, arrivando a venir copiata non solo in Toscana ma anche nel resto del territorio
italiano. Le copie dell’opera che circolavano nella penisola, però, mostravano sviste e
fraintendimenti riconducibili al fatto che chi copiava spesso si lasciava guidare solo dalla sua
memoria. Il successo duraturo dell’opera, comunque, la rese un punto di riferimento stabile e
testo a cui attingere per innumerevoli opere.
Di Dante non abbiamo nessun autografo ma solo copie manoscritte, spesso contaminate da
interventi dei copisti. I filologi degli ultimi tempi, infatti, hanno dovuto dedicarsi all’edizione
delle opere di Dante per restituirne quanto più possibile la forma originaria.
Vita nova è costruita come prosimetro, ovvero unione di prosa e versi. Sotto il punto di vista
sintattico, l’opera procede per blocchi, narrando la storia del suo svolgersi e segmentandola
in singole azioni non gerarchizzate ma ordinate secondo uno sviluppo lineare. Abbiamo,
inoltre, la presenza della paraipotassi e l’uso ravvicinato dei gerundi. L’inizio dell’opera,
inoltre, prelude la prosa del Convivio, che adotta una testualità e una sintassi argomentative,
di stampo sillogistico, aristotelico-scolastico, assimilando alla scrittura volgare e autonoma le
strategie della prosa mediolatina. La prosa del Convivio sfrutta modalità molteplici
soprattutto nell’organizzare la progressione tematica, innovando profondamente i
procedimenti della prosa filosofico-scientifica precedente o coeva. Dante, infatti, non segue
sempre un unico metodo ma segna in modi diversi il passaggio da un’unità testuale all’altra,
piegandosi di volta in volta alla natura del ragionamento che sta conducendo. La prosa del
Convivio rappresenta un punto di incontro nuovo tra ciò che la trattatistica era stata già in
grado di realizzare a Firenze e la tradizione latina: una sperimentazione con conseguenze
positive anche sulla Commedia.
L’aggettivo “Divina”, relativo alla Commedia dantesca, è stato coniato da Boccaccio in
riferimento al solo Paradiso. Nell’Epistola XIII in latino, mandata a Cangrande della Scala,
signore di Verona, Dante afferma di aver chiamato “Commedia” la sua opera in riferimento al
genere stesso della commedia (opera che ha un inizio infelice ma finisce bene, a differenza
della tragedia). Fa riferimento, inoltre, all’utilizzo del volgare, ma nella Commedia stessa, in
riferimento al poema di Virgilio, Dante utilizza il termine “tragedia”, nonostante la storia
finisca bene. Molti hanno in dubbio la paternità della lettera, e varie sono le ipotesi riguardo il
perché si chiami ”Commedia”: chi ritiene che sia come afferma l’Epistola XIII, chi ritiene che
Dante abbia chiamato “Commedia” solo la prima cantica e chi ancora ritiene che faccia
riferimento all’accezione che il termine “commedia” assume nei commenti al Cantico dei
cantici.
Document shared on https://www.docsity.com/it/dispensa-profilo-storico-della-lingua-italiana-di-rita-librandi/10629905/
Downloaded by: martina-pezzullo (
[email protected])
I manoscritti che ci hanno trasmesso l’opera sono tutti posteriori al 1321, anno della morte
del poeta, e la primissima produzione di testimoni è andata persa. È però sicuro che le prime
due cantiche siano state scritte durante il periodo dell’esilio, mentre il Paradiso va ricondotto
a un suo soggiorno a Ravenna, dove morirà, o a Bologna. Nonostante i tanti interventi dei
copisti, la veste linguistica fiorentina del poema non è stata cancellata. La lingua della
Commedia, in generale, aderisce al fiorentino degli ultimi decenni del Duecento, e prevede
lo sfruttamento di ogni possibilità fornita dal volgare dantesco. La polimorfia dell’opera
mostra, quindi, le possibilità molteplici del fiorentino del suo tempo, facendo ricorso a un
ricco repertorio lessicale, che offre a Dante la possibilità di muoversi dalle parole più
ricercate e auliche fino a quelle più basse e colloquiali: nell’Inferno, infatti, fa uso anche di
parole oscene e idiotismi fiorentini, motivo per cui verrà criticato (da Bembo, ad esempio,
che legato a un’ideale di alta formalità, condannava le ambientazioni basse e indecorose),
mentre i latinismi sono tipici del Paradiso, dove l’innalzarsi dello stile si associa alla materia
filosofica e teologica che attraversa molti dei suoi canti. Il lessico della Commedia non è solo
arricchito da autori come Virgilio, san Francesco o dalle Scritture e dalla Chiesa: l’inventiva
del poeta lo porta a coniare verbi parasintetici (formati per l’aggiunta simultanea a una base
lessicale di un prefisso e del suffisso del verbo - con il prefisso “in” ottiene verbi come
“inurbarsi”) e neologismi. Troviamo varie forme provenzali, gallicismi e anche riferimenti ad
altri volgari italiani. Per quanto riguarda l’utilizzo di parole di stampo filosofico o scientifico,
l’uso intenso che ne viene fatto ha reso la Commedia un punto di irradiazione evidente e
unico. Molti dei suoi tecnicismi sono presenti nel Convivio e sono relativi a geometria,
astronomia, medicina e speculazione filosofica. Non è rilevante il fatto che determinati
tecnicismi siano apparsi per la prima volta nella Commedia, quanto più il fatto che essi sono
inseriti in essa grazie a una forte rete di connessioni. Un esempio è il verbo “coagulare”,
utilizzato per fare riferimento al rapprendersi del sangue. Dal poeta latino Stazio, il termine
era utilizzato per descrivere il concepimento degli esseri umani, basandosi sulla teoria
aristotelica della generazione degli esseri viventi. Per Albertano da Brescia, invece,
“coagulare” significava “compattare qualcosa”, e nei testi latini in generale era riferito al
condensarsi del latte e, solo attraverso metafore, al rapprendersi del sangue e quindi al
concepimento. È possibile, dunque, che il verbo si sia consolidato nella lingua scientifica
proprio grazie alla Commedia, che ne unisce i vari significati.
Petrarca
È grazie a lui che si fissa una forma della poesia lirica capace di imporsi come modello in
Italia e in tutta Europa, nonostante Petrarca agisca in solitudine. Le sue opere in volgare
sono solo due, il Canzoniere (il vero titolo è in latino, Rerum vulgarium fragmenta, e verrà
rinominato per come lo conosciamo oggi solo nel corso del Quattrocento) e i Triumphi,
entrambe composizioni poetiche. Il suo profilo intellettuale è complesso, perché fu anche
uno studioso della cultura classica, promotore di un’innovativa speculazione filosofica,
bibliofilo ed erudito attento agli scavi storici. La sua sperimentazione testimonia curiosità
verso il mondo antico e vicinanza ai classici latini. Per il poeta, il latino costituisce la lingua
propria di ogni uomo di cultura, tant’è che sono in latino perfino le note apposte ai
componimenti in volgare e vergate in un manoscritto indicato come Codice degli abbozzi.
Latino e volgare non sono, però, poli opposti, ma semplici registri linguistici differenti, distanti
dalla lingua d’uso ma in grado di piegarsi con duttilità alla costruzione di testi letterari distinti
tra loro. Come Dante, è possibile che anche Petrarca credesse nell’artificialità e immutabilità
del latino, anche se non farà mai riflessioni teoriche sulla natura di latino e volgare. Varie
volte, nelle Familiares, prenderà la distanza da Dante, ma nel rivolgersi a Boccaccio
nell’epistola XXI, dedicata interamente all’autore della Commedia, assegnerà proprio a
Document shared on https://www.docsity.com/it/dispensa-profilo-storico-della-lingua-italiana-di-rita-librandi/10629905/
Downloaded by: martina-pezzullo (
[email protected])
Dante il primato dell’eloquenza volgare, lamentando e però lo scempio cui il popolo
ignorante sottopone i suoi versi.
Il confronto tra la lingua del Canzoniere e quella della Commedia nasce con l’opera di Pietro
Bembo Prose nelle quali si ragiona della volgar lingua, dove nella parte di dialogo dove si
esaminano i grandi autori toscani, Giuliano de’ Medici (figlio di Lorenzo il Magnifico)
interviene sulla discussione osservando che sebbene “infinita sia la moltitudine di quelli, da
quali molto più è lodato M. Francesco, nondimeno non sono pochi quegli altri, a quali Dante
più sodisfa”, imputando questa ammirazione alla “grandezza del soggetto”. Carlo Bembo,
che nel libro espone le teorie dell’autore, cerca di far capire perché alla profondità dei
contenuti non si sia associata nell’opera di Dante la stessa altezza poetica di Petrarca. Fa
riferimento al plurilinguismo dantesco, contrapposto all’unilinguismo di Petrarca.
A differenza di ciò che è accaduto con la Commedia, del Canzoniere abbiamo un testimone
idiografo (in parte scritto dall’autore dell’opera) ovvero il Vaticano latino 3195. La redazione
finale aderisce al fiorentino del tempo, anche se dietro una ricercata uniformità si celano
mescolanze di tratti che svelano la storia linguistica e culturale di Petrarca, distesa tra latino,
fiorentino, provenzale e francese. Tra le tante cose, anche Petrarca conierà dei neologismi,
rappresentati specialmente da verbi parasintetici secondo il modello dantesco. La sintassi
mostra un’ampia varietà di soluzioni che riguardano sia l’ordine delle parole nella frase sia la
costruzione del periodo. Numerose sono le inversioni rispondendo alla sintassi latina, come
la frequente anticipazione dell’aggettivo in funzione di epiteto. Un espediente che
caratterizza la sintassi del Canzoniere è quello dei sonetti continui o monoperiodali, costituiti
da un unico periodo e ottenuti grazie a lunghe enumerazioni di elementi coordinati tra loro.
Un posto particolare, tra le figure sintattiche, spetta all’accumulazione che avrà lunga
continuità nella scrittura poetica. È rappresentata da sequenze di due, tre e anche quattro e
più elementi in successione: le più frequenti sono le dittologie, che possono accostare
aggettivi, nomi, o verbi con valore sinonimico o antitetico, ma non sono rare le
accumulazioni che enumerano più elementi distendendosi tra un verso e l’altro.
Boccaccio
La sua scrittura narrativa occupa un ruolo essenziale nella nostra storia linguistica e
letteraria. Il Decameron rappresenta il punto d’arrivo più alto di un lungo cammino compiuto
dall’autore. Composto dopo il 1348 e prima del 1360, l’opera si pone all’origine della
novellistica, divenendo modello di tematiche e strutture narrative anche fuori dal territorio
italiano. Il volgare usato in alcune sezioni dell’opera assumerà una funzione determinante
per la codificazione della nostra lingua. Anche le vicende editoriali attraversate dall’opera nel
cinquecento testimoniano il ruolo che ha assunto: nonostante tagli e fraintendimenti, le
stesse stampe si sforzeranno di conservare un testo il più possibile vicino all’originale.
Boccaccio si muove tra due lingue e due universi culturali, affidando al latino non poche
delle sue opere. Le sue scritture in latino trovano maggiore spazio a partire dagli anni
Cinquanta, anche grazie all’impulso derivato dall’amicizia con Petrarca. La coesistenza dei
due universi culturali affiora in molti modi nella vicenda vissuta dal creatore della novella:
l’attività filologica che lo unisce a Petrarca si inserisce nel ritrovamento umanistico che ormai
stava investendo l’Europa, ma negli stessi anni, oltre a riprendere la scrittura volgare, inizia
la composizione del codice autografo Hamilton 90, ad oggi conservato a Berlino, copia del
Decameron. Il codice manoscritto è molto importante anche perché le cento novelle ebbero
grande successo tra i mercanti e furono spesso copiate non da esperti ma da lettori che non
erano sufficientemente rispettosi del suo testo, finendo per rimaneggiarlo, tagliarlo o
implementarlo con novelle di diversa origine. È importante, inoltre, ricordare che l’Hamilton
90 tramanda la redazione finale dell’opera. Il termine “Decameron” è un grecismo, ma al
Document shared on https://www.docsity.com/it/dispensa-profilo-storico-della-lingua-italiana-di-rita-librandi/10629905/
Downloaded by: martina-pezzullo (
[email protected])
titolo dell’opera si affianca come sottotitolo “prencipe Galeotto”, riferimento alla storia di
Lancillotto e Ginevra e, soprattutto, alla Commedia dantesca. Sia nelle prime opere che nel
Decameron, Petrarca riutilizza alcuni luoghi dell’Eneide, servendosi sia dell’originale latino
che di sintesi volgarizzate.
Boccaccio sceglie di spaziare tra le tante forme che il fiorentino dell’epoca gli mette a
disposizione: le scelte non sono condizionate da valutazioni sull’arcaicità e innovatività dei
tratti o sul prestigio maggiore o minore da questi acquisito, ma sono dettate dalla necessità
di ambientazione, stile e strategie narrative ed espositive.
Fin dal Cinquecento la sintassi dell’opera è apparsa l’innovazione più potente della scrittura
boccacciana. La struttura periodale, fortemente ipotattica, rifugge spesso dalle disposizioni
lineari. I modelli latini sono più volte ripresi e adattati alla sintassi del volgare. Dipendono dal
latino anche le subordinate costruite con participi assoluti, sia passati che presenti, con
valore verbale. Molto frequente e già in uso nella prosa che procede Boccaccio c’è la
coniunctio relativamente, rappresentata da proposizioni indipendenti introdotte da un
pronome relativo che assume lo stesso valore di “e + dimostrativo”. Gli altri tipi di relative si
possono ricondurre alle restrittive e alle non restrittive.
Al legame con il modello latino e alla ricerca di uno stile nuovo e raffinato si affiancano
anche molte costruzioni sintattiche più vicine ai modi dell’oralità. Ancora vitale è la
paraipotassi, che ricorre più frequentemente dopo una temporale sia esplicita sia implicita.
Non poche sono le costruzioni che contribuiscono ad alternare l’ordine lineare delle parole,
come le dislocazioni a sinistra e a destra o il tema sospeso. Il lessico spazia con maggiore
ampiezza, offrendo in considerevole serbatoio di parole, tra cui molti termini di uso comune.
I personaggi sono spesso caratterizzati in base al luogo da cui provengono, con il ricorso a
parole o forme del loro volgare. Del resto, la sensibilità linguistica di Boccaccio era già stata
resa evidente dall’Epistola napoletana.
Capitolo 6
Paragrafo 1
L’elezione del latino come unico strumento per accedere al sapere, e l’emarginazione del
volgare, sono state considerate per molto tempo una pausa lungo il cammino fiorentino
trecentesco e dalla sua grande letteratura avrebbe condotto fino alla codificazione del
Cinquecento. Non sempre le soluzioni proposte dagli umanisti collimeranno con la via scelta
nel Cinquecento per l’affermazione dell’italiano letterario, ma senza il confronto fra cultura
classica e volgare questa situazione non si sarebbe mai realizzata. Non va dimenticato che
l’egemonia del latino assistendo a tutti gli usi costi della scrittura, e anche all’oralità più
elevata, ma non coinvolge gli scambi quotidiani dove il volgare verrà utilizzato oralmente,
senza subire particolare ingerenza da parte dei ristretti ambienti degli umanisti. La loro
reazione non è provocata dal volgare, ma dal latino medievale che si era vistosamente
allontanato dalla lingua dei classici. L’obiettivo prioritario era quello di ritornare all’autenticità
del latino classico, come testimoniano gli scritti dell’umanista Lorenzo Valla. Nella sua opera,
Elegantiae latinae linguae, cerca di riportare il latino classico alla sua forma più alta e
corretta.
Document shared on https://www.docsity.com/it/dispensa-profilo-storico-della-lingua-italiana-di-rita-librandi/10629905/
Downloaded by: martina-pezzullo (
[email protected])
Firenze gioca un ruolo centrale, nonostante l’assetto politico dell’Italia del Cinquecento fosse
cambiato: nelle aree settentrionali e mediane, alle magistrature cittadine si sostituirono
governi affidati a importanti dinastie familiari. Firenze vivrà decenni di straordinario fermento
culturale, e si è soliti indicare la data 1492 come la fine di un assetto che pose le basi per
l’unificazione linguistica realizzata nel secolo successivo. A Firenze lo sviluppo
dell’umanesimo latino non provocò mai una netta separazione dalla tradizione della cultura
volgare, e fu costretto a saldarsi con i robusto senso dell’identità cittadina. C’è da
sottolineare che l’identità delle Tre corone non poteva essere cancellata a Firenze,
nonostante molti grandi umanisti fiorentini, come Leonardo Bruni, avessero posizioni
controversa in merito. Nella sua opera indirizzata a Pier Paolo Vergerio, Bruni ripercorre una
discussione sul valore letterario di Dante, Petrarca, Boccaccio. Il primo libro è improntato
alle idee di Niccolò Niccoli, che esprime giudizi negativi sugli autori e le opere del fiorentino
trecentesco, ritrattando quanto dichiarato nel secondo libro. Alcuni credono che Leonardo
Bruni avesse davvero cambiato idea, altri che si tratti di un’opportunistica manifestazione di
sostegno alla tradizione fiorentina in vista della sua nomina a cancelliere di Firenze, tesi
suffragata da un’altra opera di Leonardo Bruni, dove sposa l’idea di Firenze come baluardo
contro gli attacchi alle libertà cittadine. In quest’opera, guarda alla sola grandezza di Firenze,
separandone il legame con l’antichità da quello con la tradizione delle tre corone.
Importante è la discussione avvenuta tra Leonardo Bruni e biondo Flavio, dove il primo
sostiene che già nell’antica Roma esisteva una netta separazione tra la lingua delle persone
colte e quella del popolo, mentre Biondo Flavio era dell’idea che tutti parlassero la stessa
lingua latina, e che all’origine del volgare ci fosse stata la frattura tra mondo classico e
mondo moderno generata dalle invasioni germaniche. Le due tesi furono punto di partenza
per altre discussioni fino a 700. È indubbio che la ricostruzione del cancelliere fiorentino
fosse volta a negare al volgare ogni divenire storico. Biondo, invece, non aveva intenzione di
contestare la superiorità del latino, ma la sua posizione apriva la via a una considerazione
nuova delle due lingue, e avrebbe dato modo di dimostrare la possibilità per il volgare di
raggiungere con il latino una parità espressive culturale.
Il primo a sostenere la tesi di Biondo Flavio a favore di una rivalutazione del volgare fu Leon
Battista Alberti, umanista che scrisse in latino in volgare, soffermandosi anche sulla
riflessione riguardo la costituzione di una terminologia tecnica nell’ambito dell’arte e della
architettura. Riguardo alla lingua in volgare, è importante il suo Proemio al terzo libro
dell’opera Libri de Familia, e la grammatica della lingua toscana indicata come
Grammatichetta, e la promozione del Certame coronario che indusse Alberti alla stesura di
una Protesta. I tre testi sarebbero da vedere come la complessa costruzione di un
intellettuale desideroso di costruire la propria identità fiorentina. I primi testi offrono un
quadro della società del tempo riconducendolo da un lato all’etica delle grandi famiglie
mercantili e adattandolo dall’altro ai principi della cultura del mondo classico. Il Proemio usa
la tesi di Biondo Flavio e prende posizione contro le tesi di Leonardo Bruni, affermando che
nella Roma antica il latino era contemporaneamente lingua di usi alti e strumento di
comunicazione quotidiana. La Grammatichetta ci è stata trasmessa dalle prime 16 carte del
codice Reginese latino 1370 della biblioteca Apostolica vaticana. Né in Toscana né al di fuori
dei suoi confini si era avvertito prima di quel momento il bisogno di regolamentare l’uso
scritto del volgare. Alcune particolari grafie sono dovute alla proposta di un sistema
ortofonico che Alberti suggeriva di seguire per ovviare alle discrepanze da tempo createsi tra
sistema grafico latino e fonetica del volgare. La Grammatichetta codifica il fiorentino del
tempo. Il bilanciamento tra innovazione e conservazione è stato giustificato con scelte
condizionate dal modello letterario, ma con il desiderio di puntare un fiorentino medio non
Document shared on https://www.docsity.com/it/dispensa-profilo-storico-della-lingua-italiana-di-rita-librandi/10629905/
Downloaded by: martina-pezzullo (
[email protected])
troppo marcato. La prima grammatica del volgare nasce quindi con un’impostazione
rigorosamente sincronica, fondata sull’uso medio fiorentino. Il certame coronario, invece, è
una gara poetica da lui ideata, dove i concorrenti dovevano cimentarsi in una composizione
poetica in metro barbaro incentrata sul tema dell’amicizia. I giudici si rifiutarono di assegnare
il premio, in quanto umanisti, e ciò portò al fallimento dell’iniziativa, che Leon Battista Alberti
commento con la Protesta anonima.
Paragrafo 2
Tra la seconda metà del XVI secolo e la prima del successivo, i caratteri fonetici e
morfologici del fiorentino subiscono dei cambiamenti che lo distanziano dal fiorentino dei
secoli precedenti: si verrà a creare il cosiddetto “fiorentino argenteo” (definizione di
Castellani). A seguito della crisi demografica successiva alle carestie e alla peste del 1348,
ci fu un veloce cambio generazionale e un’intensa immigrazione di abitanti delle aree
occidentali e meridionali in Toscana. Tra i fenomeni principali del fiorentino argenteo
distinguiamo i seguenti:
- Passaggio a monottongo di -ie e -uno dopo occlusiva seguita da vibrante (“breve” in
luogo di “brieve”);
- Uscita in palatale -gli dei maschili plurali;
- Il plurale in -e di femminili uscenti in -e al singolare;
- Gli articoli maschili determinativi le, e in luogo di il, i;
- L’uso dei possessivi invariabili mie, tuo, suo, a cui si aggiungono mia, tua, sua;
- I numerali duo, dua, in luogo di due;
- La desinenza -ono della terza persona plurale del presente e dell’ imperfetto
indicativo delle coniugazioni -ere, -ire si estende alla prima;
- La terza persona plurale del perfetto di prima coniugazione affianca alle desinenze
-aro e -arono anche -orono e, con sincope, -orno;
- La prima persona dell’imperfetto indicativo in -o;
- Le desinenze -i, -ino della prima e terza persona singolare e della terza plurale del
congiuntivo presente delle coniugazioni in -ere e -ire;
- L’uscita della terza persona singolare e plurale del congiuntivo imperfetto
rispettivamente in -i e -ino;
- I tipi flussi e fusti per fossi e fosti;
- La semplificazione del nesso -vr- nelle voci arò, arei in luogo di avrò, avrei.
Paragrafo 3
La voce di Leon Battista Alberti si propagò nella seconda metà del secolo, quando il rilancio
della lingua volgare e della letteratura fiorentina divenne parte del progetto di Lorenzo il
Magnifico: fu grazie alla sua capacità di governare e scrivere rime e prose nella propria
lingua che il fiorentino e la sua tradizione divennero strumento politico efficace. Cultura e
arte furono pilastri fondamentali per il suo governo, e nella sua politica fu sostenuto da
Cristoforo Landino, che attuò il progetto di rivalutazione del volgare in modo sistematico, e
Angelo Poliziano, interessato agli aspetti filologici e letterari. Lorenzo de’ Medici parla del
suo progetto nel proemio dell’opera Comento de’ miei sonetti, soffermandosi sulla scelta del
volgare, passando in rassegna i requisiti che vengono richiesti per arrivare alla perfezione
della lingua (capacità di esprimere ogni concetto grazie all’abbondanza delle parole,
dolcezza e armonia, che però dipendono dall’opinione degli uomini, e il rendere universale e
Document shared on https://www.docsity.com/it/dispensa-profilo-storico-della-lingua-italiana-di-rita-librandi/10629905/
Downloaded by: martina-pezzullo (
[email protected])
noto quello che è proprio di una sola città o provincia, cosa appropriata alla lingua latina che,
attraverso la propagazione dell’impero romano, è diventata quasi necessaria).
La Signoria medicea stabilì a Pisa la sede della più importante università (stadium) della
Toscana, ma a Firenze si decise di aprire uno Studio dove si sarebbero tenute lezioni di
retorica e poetica, il cui insegnamento fu affidato ufficialmente a Cristoforo Landino nel 1458.
I suoi primi corsi furono incentrati su Cicerone e Orazio, ma nel 1467 pronunciò, interamente
in volgare, una prolusione sul Canzoniere di Petrarca, il cui scopo era quello di mostrare la
via attraverso la quale il volgare e la sua letteratura possono riscattarsi, affidando agli
intellettuali e alla scrittura un ruolo che nella storia linguistica italiana rimarrà centrale per
almeno quattro secoli. Sempre a Landino si deve il volgarizzamento della Naturalis historia
di Plinio. La pratica dei volgarizzamenti, spesso inadeguati, era quasi scomparsa, a
differenza dell’interesse per la traduzione. La prima riflessione sull’importanza della pratica
ci è data da Leonardo Bruni nel De interpretazione recta. Il lavoro dei volgarizzatori
riacquistò importanza con il Magnifico, come dimostra l’impresa a lui commissionata da nel
1474 da Ferdinando I d’Aragona. La decisione di mettere in atto un volgarizzamento tanto
vasto e complesso fu favorito dal successo di cui godeva, ma suscitò il disappunto presso la
corte aragonese, sia per la temerarietà della traduzione di un testo latino di tale peso, sia per
l’enfasi con cui il suo autore la presentava quale frutto di una liberalissima decisione del
sovrano di consentire agli uomini che non conoscevano il latino di leggere l’opera di Plinio in
una lingua comune all’intera Italia. L’affermazione del primato fiorentino con cui Landino
mostrava di aver tradotto provocò varie reazioni, la più importante da parte dell’umanità
Giovanni Brancati, a cui il sovrano affidò la revisione dell’opera, per lui troppo distante dal
testo latino e impossibile da emendare. Nella lettera indirizzata al re, ci sono vari passaggi
che rivelano la posizione di Brancati e la sua convinzione dell’inadeguatezza del volgare per
la trasposizione di testi latini, sia l’avversione verso il toscano e i suoi imitatori. Tuttavia,
Brancati produrrà una propria traduzione, consapevole del fatto che ogni trasposizione dal
latino servisse solo ai non letterati. Nella sua traduzione è stato evidenziato il desiderio del
traduttore di allontanarsi il meno possibile dal testo di partenza, mentre l’esame delle
tecniche traduttive di Landino si è reso più complicato sia per ragioni filologiche sia per la
difficoltà di individuare la versione latina da cui il volgarizzatore ha tratto la propria versione.
Lo studio svolto da Antonazzo ricostruisce la storia redazionale del volgarizzamento ed
evidenzia un procedere attento e puntuale delle tecniche di traduzione lungo il passaggio dai
manoscritti alla stampa del Plinio volgare. Non sempre il lavoro si mostra esente da
imprecisioni e contraddizioni rispetto agli intenti che l’autore si era prefisso, ma rimane
indubbio l’impegno costante a sfruttare al meglio le possibilità del fiorentino.
L’affermazione del volgare fiorentino è strettamente connessa alla volontà di fissare la
centralità politica e culturale della città. Rientra tra le strategia di tale politica anche la
creazione di una raccolta di componimenti poetici che venne inviata, assieme ad una
epistola dedicatoria, a Federico d’Aragona nel 1477. Anche l’Epistola è attribuita a Poliziano,
autore di opere in volgare, che si curò della stampa solo delle sue opere latine. Aderì
comunque al programma di espansione e rilancio della tradizione letteraria fiorentina, ma
nell’epistola si evince che se a Cavalcanti sono destinate lodi altissime, a Dante non viene
attribuita la perfezione.
Paragrafo 4
Tra il XIV e il XV secolo si compì il passaggio dai Comuni ai regimi signorili, le cui potenze
più forti erano Napoli, Venezia, Firenze, Milano e Roma con lo Stato pontificio. Durante gli
Document shared on https://www.docsity.com/it/dispensa-profilo-storico-della-lingua-italiana-di-rita-librandi/10629905/
Downloaded by: martina-pezzullo (
[email protected])
anni di Lorenzo de’ Medici si cercò di garantire un equilibrio tra gli Stati e una pace duratura,
ma ciò richiedeva alleanze e accordi sempre diversi. La necessità di mantenere reazioni tra
le varie potenze aveva richiesto la formazione di un ceto di diplomatici capaci di servirsi di
lingue comuni sviluppate presso le cancellerie dei signori. Le Signorie avevano necessità di
dotarsi di cancellerie, dove si eseguivano tutte le mansioni amministrative, economiche e
diplomatiche degli Stati, e la comunicazione aveva la necessità di superare le varie diversità
linguistiche, motivo per cui si decise di ricorrere a lingue sovralocali chiamate koinè. Si tratta
di una lingua scritta, caratterizzata da un certo grado di artificialità, che deriva da necessità
pratiche. Le componenti maggiori sono il volgare locale, il latino (specialmente notarile) e il
fiorentino. In questo triangolo si muovono le koinè che possono avvicinarsi più a un’influenza
rispetto ad un altra in base alla necessità. All’’assidua produzione di lettere che ne deriva, si
collega la prima edizione del Formulario di epistole missive e responsive stampato a
Bologna nel 1485 e dedicato a Ercole d’Este, duca di Ferrara. L’opera, avrà discreto
successo e varie ristampe,e si arrivò ad attribuire la paternità dell’opera a Cristoforo
Landino. La lingua delle prime due stampe, però, è stata da tempo ricondotta a una koinè di
area padana di registro alto, e il problema dell’attribuzione nasce perché lo stampatore, Ugo
Ruggieri, nella prima edizione indicò come autore Bartolomeo Miniatore, sostituendone poi il
nome con quello di Landino. Ciò porta a pensare a un’operazione commerciale svolta dallo
stampatore, per via della notorietà di Landino, ma l’ipotesi non regge. Il recente ritrovamento
del manoscritto Vaticano latino 4612, che mostra punti di contatto con il Formulario, ha dato
la possibilità di ricostruire alcuni legami di Miniatore con ambienti vicino a
Landino,inducendo a ritenere che a Landino stesso fosse stata chiesta una revisione o
un’integrazione dell’opera. Sia l’introduzione del volgare nelle scritture cancelleresche sia i
caratteri delle koinè cambiano da un centro all’altro, motivo per cui non è possibile
descrivere i caratteri linguistici complessivi di esse.
La poesia lirica è riconosciuta dall’umanesimo volgare come il genere letterario più alto, tale
da imporre il rifiuto di caratteri linguistici bassi e l’allontanamento dei tratti del volgare locale.
Ciò è spesso da attribuire alla volontà di innalzare lo stile e le strategie retoriche. Le koinài
cortigiane si muovono tra latino, fiorentino letterario idioma locale, con una minore pressione
del primo rispetto alle formazioni cancelleresche. Le scelte andranno a sbilanciarsi verso il
polo del fiorentino quando il Canzoniere di Petrarca diventerà modello indiscusso. Il 1460 è
la data solitamente indicata per la svolta dalla poesia lirica che si avvicina al petrarchismo.
Per i lirici delle corti non toscane la lingua da imitare è la lingua straniera, ciò riguarda
soprattutto i testi del Canzoniere la cui lingua era spesso percepita come un insieme non
uniforme. Boiardo fu un umanista e scrittore eclettico che, dopo aver composto il latino le
sue prime opere, si consacrò alla letteratura in volgare e alla lirica. Si trattò sempre di opere
in versi, con le quali sperimentò scelte linguistiche e stilistiche diversificate. I poeti non
toscani, non per propria volontà, si allontanavano dalla lingua materna, vivendo una
dimensione definita acronica, perché nella lingua che usavano non potevano dominare gli
aspetti sincronici e diacronico. Presso la corte aragonese, poeti come Pietro Jacopo De
Jennaro e Giovan Francesco Caracciolo sperimentano una lingua letteraria divisa tra
componenti diverse: l’imitazione di Petrarca si fa strada progressivamente e l’avvicinamento
al toscano crebbe in ugual maniera grazie all’arrivo della Raccolta aragonese. Nei testi dei
poeti aragonesi troviamo le oscillazioni tra forme prive di anafonesi del volgare napoletano, e
perlopiù coincidenti con il latino, conforme alla fonetica del fiorentino.
Un contributo al confluire delle lingue verso una direzione sovramunicipale venne anche dal
Movimento dell’Osservanza, sviluppato verso l’ultima parte del XIV secolo, iniziativa di un
piccolo gruppo di francescani ritiratisi a vita contemplativa in un eremo tra Marche e UMbria.
Document shared on https://www.docsity.com/it/dispensa-profilo-storico-della-lingua-italiana-di-rita-librandi/10629905/
Downloaded by: martina-pezzullo (
[email protected])
La motivazione alla base della nascita del movimento fu quella di riportare il
francescanesimo allo spirito originario, ma dal modello eremitico, grazie a san Bernardino, si
passò a un’ampia presenza nella società. Le aree da cui il movimento partì e si irradiò
furono Toscana meridionale e Italia mediana, ma i frati percorsero l’intera penisola anche
attraverso la lettura di testi formativi. Da qui ha origine il contributo importante del
movimento alla storia dell’italiano, ovvero produzione e diffusione di testi in volgare. Si è
soliti indicare il lavoro di Cherubino da Spoleto che entrò nell’ordine nel 1432 e scrisse le
Regole di vita spirituale e Regole di vita matrimoniale, che ebbero una considerevole
diffusione. Il contenuto era di intento didascalico, diretto specialmente alle donne. La
mobilità dei frati rese più facile la circolazione di testi che ponevano la massima cura ai
contenuti devoti ma non riservavano particolare attenzione allo stile e alla lingua: accadeva
che copie manoscritte passassero da un convento all’altro e venissero trascritte con nuovi
tratti del volgare locale a scapito di quelli originari. Particolarmente alto fu il numero di
religiose e mistiche che aderirono con intensità al rinnovamento spirituale promosso
dall’Osservanza. La sensibilità per la divulgazione di testi scritti in volgare si indirizzò verso
l’esigenza di una lingua sovraregionale e un’adesione al toscano che divenne più pressante
all’esordio del XVI secolo. Se ne trova traccia nel manoscritto di un volgarizzamento dei
Vangeli proveniente proprio dal monastero di Monteluce, dove si legge l’intenzione di
seguire, un “comune parlar toscano”.
Capitolo 7
Paragrafo 1
L’invenzione della stampa consentì la produzione di centinaia di esemplari della stessa
edizione. La scoperta dei caratteri mobili viene attribuita a Gutenberg che, tra il 1455 e i
primi mesi del 1456, riuscì a completare grazie alla sua invenzione la stampa di una Bibbia
latina. I libri stampati nei decenni dalle prime apparizioni della stampa alla fine del
Quattrocento sono detti incunaboli. L’attività degli editori si diffuse presto in tutta Europa,
dando la precedenza alla stampa di opere latine. I costi più contenuti e la possibilità di
accedere più facilmente ai testi in volgare incrementarono il numero di lettori: ciò comportò
una tendenza a regolarizzare la grafia e a livellare la lingua dei testi stampati, riducendo i
tratti locali. Per gli stampatori fu necessario dotarsi di correttori e revisori tipografici,
pensando a una presentazione dei testi qualitativamente diversa da quella dei manoscritti,
provvedendo a un uso più sistematico dell’interruzione e a una più frequente separazione
delle parole. La concorrenza tra gli editori a volte assicurava autentici miglioramenti ma in
altri casi induceva a nascondere una scarsa accuratezza. Il lavoro dei correttori e dei
collaboratori editoriali divenne comunque indispensabile. Le edizioni che si producevano a
Venezia ancora oscillavano tra i vertici del latino, del fiorentino e del volgare locale. Già dalla
fine del XV secolo Venezia aveva mostrato di possedere tutte le condizioni per divenire la
capitale dell’editoria italiana. Ad Aldo Manuzio, umanista stabilitosi a Venezia, si deve
l’estensione di un formato ridotto anche alle stampe dei classici e non solo ai testi
devozionali, con l’intenzione di diffondere libri maneggevoli, resi raffinati e gradevoli
dall’introduzione del corsivo.
Due stampe rivestono una grande importanza della nostra storia linguistica: Le cose volgari
di messer Francesco Petrarca (ovvero i Rerum volgarium fragmenta) e Le terze rime di
Dante (ovvero la Commedia), pubblicati da Pietro Bembo. Grazie al manoscritto autografo di
Document shared on https://www.docsity.com/it/dispensa-profilo-storico-della-lingua-italiana-di-rita-librandi/10629905/
Downloaded by: martina-pezzullo (
[email protected])
Petrarca, Bembo potè svolgere un lavoro minuzioso e accurato. Il successo dei “libelli
portatili” riuscì a valicare anche i confini dell’Italia. Il ruolo della stampa non si esaurì nella
diffusione delle opere dei grandi autori di Firenze, ma vennero introdotti fogli volanti dalle
varie funzioni, incentivata dallo stesso Gutenberg. Si sviluppò anche un’editoria popolare,
che avrebbe privilegiato la letteratura di devozione o i racconti e i romanzi cavallereschi, con
stampe dalla veste linguistica meno accurata ma in grado di portare nelle case di un ampio
pubblico una lingua ormai improntata al fiorentino.
Paragrafo 2
La divisione politica e sociale, che si sarebbe protratta ancora a lungo, non era stata
interrotta da eventi in grado di incanalare i tanti volgari della penisola lungo un cammino
prefigurato e comune: il De vulgari eloquentia non aveva trovato seguito ed era stato spesso
piegato a interpretazioni inesatte. È anche vero che gli anni dell’ umanesimo volgare
avevano generato occasioni di confluenze di lingue locali e il fiorentino, per il bisogno di una
più ampia comunicazione ma anche per l’ammirazione di opere letterarie cui ormai si
riconosceva il ruolo di classici. Non c’è dubbio che il ponte con cui gli umanisti avevano
connesso la classicità latina a quella volgare aveva generato tra gli intellettuali e gli scrittori
italiani una coscienza culturale comune. Sono gli anni in cui Roma, simbolo di cristianità,
subisce il sacco dei lanzichenecchi di Carlo V, e in cui il sapere trasmesso nelle università
europee perde il suo carattere unitario per la scissione tra cattolicesimo e protestantesimo.
Le popolazioni di incolti, pur non rimanendo escluse dalla lingua unitaria che andava a
crearsi per mano dei letterati, non rimasero del tutto escluse, ma le scelte politiche
sciagurate che ritardarono gli interventi volti a sollevare i diseredati dal loro stato di miseria
non dipesero dal fatto che l’unità linguistica si fosse realizzata su base letteraria: i ritardi si
sarebbero colmati con molta lentezza e difficoltà, più di quanto non sarebbe avvenuto se la
frammentazione non fosse stata contrastata sul piano culturale ancor prima che su quello
politico. La sintesi pone in successione la teoria classicista di Pietro Bembo, la posizione di
tipo eclettico, ispirata al modello linguistico delle corti, e quella che difende l’uso fiorentino.
Sebbene sia difficile staccarsene, lo schema mostra una debolezza nel disporre su un unico
piano temporale posizioni che ebbero vicende diverse e che furono provocate da reazioni di
varia natura al dilagare del fiorentino letterario. Se nella poesia lirica il modello di Petrarca
era divenuto incontrastato già da qualche decennio, lo stesso non si poteva dire per altri
generi. La scrittura in prosa era stata più a lungo condizionata dal latino e dalle lingue locali
e si era indirizzata con maggiore difficoltà verso l’esempio di Boccaccio, al contrario di
quanto sarebbe avvenuto con i prosimetri della seconda Arcadia di Iacopo Sannazaro e
degli Asolani di Bembo. I due autori risolsero il problema della lingua seguendo il metodo di
imitazione dei grandi classici: nella stesura delle prose fu fondamentale il modello del
Decameron. Molto attento fu il lavoro di Bembo, che continuò a intervenire sul testo sia nel
passaggio dal manoscritto all’edizione del 1505 sia per la stampa del 1530. Fin dal
manoscritto autografo la veste linguistica adottata è quella del fiorentino trecentesco. Le
revisioni scrupolose di Sannazaro e di Bembo sono l’esempio più vistoso della ricerca di una
norma che fosse in grado di guidare la composizione della letteratura in volgari al pari di
quella che orientava la scrittura latina. Le opere dei due autori avevano il merito di indicare
una soluzione che da lì a breve avrebbe trovato un’elaborazione teorica, sostanziandosi in
un autentico modello grammaticale.
Document shared on https://www.docsity.com/it/dispensa-profilo-storico-della-lingua-italiana-di-rita-librandi/10629905/
Downloaded by: martina-pezzullo (
[email protected])
Paragrafo 3
Pietro Bembo nacque nel 1470 a Venezia da una nobile famiglia, studiò il latino e il greco e
venne nominato segretario ai brevi da Giovanni de’ Medici. Il lavoro che lo portò a risolvere
in modo vincente la questione della lingua non fu disgiunto dalle meticoloso revisioni del
prosimetro e dalla cura posta all’edizione del Canzoniere e della Commedia: testimonianze
dimostrano che tra il 1500 e il 1501 doveva aver già cominciato elaborare alcune delle
norme che andava contemporaneamente connettendo a un’ampia riflessione teorica. Si
dedicò alla stesura delle Prose nelle quali si ragiona della volgar lingua tra il 1506 e il 1512.
Nel 1524, Bembo offri un manoscritto dell’opera completa a Giulio de’ Medici, divenuto prima
cardinale e poi Papa,nel 1523. Il dedicatario dell’opera viene indicato come “messer Giulio
cardinale de’ Medici”, espediente per dimostrare che il lavoro è stato completato prima del
1516. Infatti, pur essendo state le Prose a favorire l’unificazione linguistica italiana, è al
libero di Giovan Francesco Fortunio che possiamo assegnare il titolo di prima grammatica
dell’italiano fondato sulla tradizione letteraria del Trecento. Fortunio, autore delle Regole
grammaticali della volgar lingua, aveva frequentato circoli in contrasto con le posizioni di
Bembo. La grammatica di Fortunio rispondeva all’esigenza dei non toscani che non
volevano accostarsi alla produzione letteraria in volgare: lui stesso afferma di aver
cominciato a raccogliere per sé le regole e di aver deciso di pubblicarle solo per le preghiere
di alcuni amici. La norma viene giustificata grazie agli esempi tratti dai grandi autori. Fortunio
non esprime le stesse riserve di Bembo sulla lingua della Commedia, nonostante le scelte
linguistiche che affiorano dalle Regole grammaticali non appaiano così in contrasto con
quelle espresse dalle Prose: il modello cui attingere era per entrambi il fiorentino letterario
del Trecento, usato dai grandi autori. L’aver affrontato il problema secondo questa linea e
l’aver lo trattato solo dal punto di vista normativo diede alle Regole un’ampia fortuna
editoriale. Nell’esposizione di Fortunio mancava una riflessione teorica che mostrasse le
ragioni dell’impianto grammaticale proposto. Anche le considerazioni di carattere storico non
erano sufficientemente approfondite dall’autore delle Regole, che si limitava a prendere
posizione contro la tesi di Leonardo Bruni e a ricordare che la lingua latina si era trasfusa nel
volgare a seguito delle invasioni barbariche. La scelta di fondarsi sulle Tre corone appariva il
frutto di un’accettazione passiva, laddove Bembo individuava nel modello di Petrarca e
Boccaccio l’apporto esteticamente più alto di un cammino storico dell’italiano letterario.
Da Firenze e dalla filologia umanistica di Poliziano erano partiti gli studi che avrebbero dato
all’autore delle prose un’impostazione filologica animata da un tale ideale retorico e letterario
da potergli attribuire il ruolo di gran maestro dell’umanesimo ciceroniano. Si elaborò una
teoria dell’imitazione che vide contrapporsi da un lato coloro che ritenevano necessario
rifarsi solo all’esempio ciceroniano e dall’altro i sostenitori di un modello versatile. Nel De
imitatione, Pietro Bembo prende posizione contro l’eclettismo di Giovan Francesco pico della
Mirandola, mostrando la debolezza dell’uso di fonti e molteplici a fronte della possibilità di
trarre lessico, forme e sintassi da un unico è migliore autore. I due scrittori più autorevoli a
cui riferirsi per la prosa e la poesia latine erano rispettivamente Cicerone e Virgilio. La teoria
più importante del trattato rinascimentale sulla lingua italiana nasce dalla necessità di
ricondurre il volgare a uno stabile sistema normativo. L’esposizione si svolge in forma di
dialogo, ambientato a Venezia nel 1502, al quale partecipano Carlo Bembo, portatore delle
idee di Pietro Bembo, Giuliano de’ Medici, sostenitore dell’umanesimo volgare formatosi
presso la corte di Lorenzo il Magnifico, Federigo Fregoso, qui spetta il compito di illustrare il
percorso storico compiuto dal volgare, ed Ercole Strozzi, legato all’umanesimo latino e
convinto dell’inadeguatezza del volgare alla scrittura letteraria. La discussione ha inizio
Document shared on https://www.docsity.com/it/dispensa-profilo-storico-della-lingua-italiana-di-rita-librandi/10629905/
Downloaded by: martina-pezzullo (
[email protected])
affrontando la questione della genesi del volgare a seguito del giudizio espresso da Ercole
Strozzi, che si chiedeva se si sarebbe dovuto accogliere la lingua volgare che era stata
scartata e giudicata vile dagli autori classici (il riferimento alle tesi bruniane da modo di
introdurre la ricostruzione di Biondo Flavio, chi spiegando il volgare come frutto di una
contaminazione dovuta alla conquista dei barbari consentiva il divenire storico).
L’illustrazione di Federigo Fregoso dà modo a Giuliano di esprimere il rammarico per quei
signori che risolvono le rivalità chiamando in aiuto, contro il loro sangue, le nazioni straniere.
Ercole Strozzi avanza un altro dubbio: chi decidesse di comporre un testo letterario in latino
non avrebbe dubbi perché la lingua latina è di una sola qualità e forma, a differenza del
volgare diverso da luogo a luogo. Carlo Bembo risponde riportando le tesi sostenute da
Vincenzo Colli, ritenendo inadeguata la lingua adoperata nelle corti perché frutto di
mescolamento di più volgari. Attraverso Carlo, Pietro precisa che il toscano sia da porre al di
sopra degli altri volgari. L’essere nato fiorentino non è per un vantaggio, perché si rischia di
scrivere secondo le maniere del popolo che macchiano le scritture: il modello da seguire non
è la lingua dei contemporanei autori fiorentini ma di quelli che ne hanno perfezionato le
forme, le parole, e lo stile. A Giuliano, Bembo risponde enunciando il nucleo del suo
pensiero: la lingua scritta non deve avvicinarsi alla lingua del popolo, perché gli scrittori non
debbono avere cura di piacere solo a coloro che li leggono mentre sono ancora in vita. Per
legittimare la scelta del volgare occorreva separarlo dalla natura mutevole ed effimera del
parlato. Il dialogo prosegue, nel secondo libro, esaminando le forme, la retorica e lo stile che
nella scrittura devono essere scelte in base alla materia da esporre. Da qui discende
l’esclusione di Dante, ammirato ma non per le sue scelte stilistiche e lessicali. Il resto del
libro è dedicato all’illustrazione dei caratteri stilistici, metrici e retorici della letteratura in
volgare, giustificando una scelta l’altra sempre attraverso categorie che rinviano ad armonia
estetica. Alla descrizione della grammatica è destinato il terzo libro delle Prose, nel quale
l’illustrazione delle regole non si dispone ordinatamente. L’impalcatura di una grammatica
tradizionale è dissolta l’enunciazione che il fratello di bimbo fa delle norme è diluita nel
dialogo con gli altri interlocutori: le Prose non si servono della terminologia latina, ma la
sostituiscono con parole ed espressioni del linguaggio comune o con eleganti perifrasi. La
grammatica non era relegata solo al terzo libro ma rintracciabile in ogni sua pagina.
La prima delle tesi che Bembo criticava e che si distanziavano dalla sua soluzione normativa
riguardava la lingua cortigiana, termine che poggiava sull’esperienza delle koinài che erano
state una risposta a necessità pratiche di comunicazione o a esigenze provenienti da alcune
tipologie di scrittura letteraria. La denominazione aveva finito per indicare un indio a
rispondente a un ideale linguistico cui si imputava l’assenza di autentiche e coerenti
testimonianze letterarie, tali da aiutare a circoscrivere una lingua dai tratti ben identificabili.
Tra gli intellettuali che più contribuirono a configurare la teoria cortigiana troviamo Vincenzo
Colli, chiamato il Calmeta (che fece riferimento alla lingua cortigiana nel Della volgar poesia;
Pietro Bembo ne aveva dato un’interpretazione negativa, criticandone la proposta di
mescolare più lingue e sottolineandone la debolezza nell’assenza di una scrittura letteraria
che testimoniasse l’esistenza di una lingua cortigiana; le osservazioni del Calmeta si
riferivano principalmente ai componimenti in versi; quanto alla lingua cortigiana, era vero che
presso la corte di Roma si parlava meglio che in qualsiasi altra provincia italiana, ma ciò non
voleva dire che i principali oggetti di studio non dovessero essere il fiorentino e le opere dei
due grandi poeti), Mario Equicola (con il Libro de natura de amore, che ebbe modo di
leggere anche il De vulgari eloquentia e da cui deriva la scomparsa della denominazione
“cortesiana” a favore di “commune” e “Italica”), Baldassarre Castiglione (che nel dialogo del
Cortegiano passa, infatti, dall'illustrazione delle virtù e delle doti morali e fisiche che deve
Document shared on https://www.docsity.com/it/dispensa-profilo-storico-della-lingua-italiana-di-rita-librandi/10629905/
Downloaded by: martina-pezzullo (
[email protected])
possedere il perfetto uomo di corte; da qui discende il fastidio per l'Imitazione del fiorentino
trecentesco, a cui riconosce il merito di aver innalzato e ingentilito il volgare, ma di cui
mostra l'arcaicità rispetto al modo di parlare escrivere che si è andato affermando nel tempo;
Castiglione condanna ogni forma di ricercatezza affettata, mostrando un’apertura verso
neologismi; la lingua indicata dall’opera deve aprirsi a quanto le corti hanno elaborato), e
Giovan Giorgio Trissino.
Giovan Giorgio Trissino giunse per la prima volta a Roma nel 1514, dove svolse diverse
missioni diplomatiche per la curia papale, frequentando anche la corte degli imperatori
asburgici Massimiliano I e Carlo V. Tra le sue edizioni a stampa troviamo l’Epistola, dove
propose una vera e propria riforma ortografica, argomentandone le ragioni e suggerendo
innovazioni che lui stesso avrebbe applicato con una sistematicità contraddetta solo da
qualche oscillazione. Le novità più importanti e note sono motivate dalla necessità di
distinguere le vocali medio-alte e le vocali medio-basse, al fine di favorirne la realizzazione
chiusa e aperta. Per la rappresentazione di e e o aperte, suggerì l’introduzione delle lettere
greche epsilon e omega. Tra le altre proposte troviamo la distinzione tra z sorda e sonora.
Trissino credeva all’esistenza di una pronuncia Toscana e di un’altra cortigiana, che talvolta
preferiva alla prima. Le reazioni dei letterati fiorentini furono immediate e accese, visto che le
intenzioni di Trissino dovevano già essersi diffuse prima della pubblicazione dell’Epistola. Le
critiche coglievano nella riforma implicazioni negative per il modello fiorentino e si
appuntavano soprattutto sulla laboriosità di una possibile applicazione. È probabile che il
vigore delle proteste fosse stato provocato dal fatto che le idee di Trissino si sarebbero
fondate sull’opera di Dante appena ritrovata, il De vulgari eloquentia. Molto probabilmente,
infatti, Trissino era venuto in possesso di un manoscritto trecentesco dell’opera, il Trivulziano
1088. Il ruolo dell’opera nell’elaborazione delle sue teorie si andò progressivamente
intensificando, al punto che decise di pubblicare lui stesso una traduzione del trattato di
Dante. Le idee elaborate da Trissino sono espresse nel Castellano, dialogo che espone le
idee dell’autore tramite il fiorentino Giovanni Rucellai. Dalla lettura di Dante, Trissino ne
ricavò la necessità di superare ogni carattere municipale della lingua e di fondarsi sull’odio a
che aveva accolto le parole e le forme più nobili. Per raggiungere l'obiettivo è dare conto
delle denominazioni delle lingue, si servì della distinzione aristotelica tra genere e specie,
proponendo un’articolazione classificazione che giungeva fino al punto più basso delle
lingue individuali. Per la classificazione operò dei sondaggi sulla lingua di Dante e Petrarca e
osservò come alcune parole che erano nei loro versi e che ancora caratterizzavano la lingua
della poesia fossero comuni a tutta l’Italia. L’adozione nel Castellano di nuove grafie ne
ostacolò la diffusione.
Niccolò Machiavelli nei suoi testi adottò il fiorentino del suo tempo, coincidente quasi del
tutto con il “fiorentino argenteo”, facendo sì che nelle sue opere si incontrino i tratti innovativi
che allontanarono sensibilmente il fiorentino quattro-cinquecentesco da quello degli autori
del Trecento, e che non furono trasmessi all’italiano letterario. Pur non possedendone
autografi, questi tratti sono visibili anche nel Principe. Il lessico intellettuale e politico di
Machiavelli ha avuto il merito di fissare significati e costruire tecnicismi divenuti essenziali
nella politica moderna. Machiavelli era ben consapevole della novità del suo scritto,
prendendo le distanze da chi in passato aveva trattato di materia politica ma ne aveva
sceriffo immaginando repubbliche e principati mai conosciuti: solo l’adesione alla realtà
avrebbe potuto dare un contributo efficace, ed è a questa intenzione che può ricondursi
anche la scelta di uno stile privo di ornamenti o parole ricercate. L’opera con cui Machiavelli
interviene nel dibattito linguistico, il Discorso intorno alla nostra lingua, appare fuori linea
rispetto alla sua più tipica produzione, ma la modernità di alcune sue osservazioni la
Document shared on https://www.docsity.com/it/dispensa-profilo-storico-della-lingua-italiana-di-rita-librandi/10629905/
Downloaded by: martina-pezzullo (
[email protected])
rendono di particolare rilievo, nonostante ebbe una circolazione limitata, almeno fino alla
prima edizione. Ciò che lo indusse a inserirsi tra le questioni discusse intorno alla lingua fu
sicuramente l’interpretazione del De vulgari eloquentia, da lui conosciuto attraverso fonti
indirette. Il Discorso è modellato sulle orazioni dei classici e ne segue la struttura, affidando
alla parte più rilevante dell’orazione, l’argomentazione, la dimostrazione dell’inconsistenza
delle posizioni avversarie. In particolare cerca di giustificare le critiche mosse da Dante alla
lingua di Firenze con il rancore che aveva indotto a infamare la propria patria un poeta da
considerarsi eccellente. Machiavelli ricorre all’esperimento retorico del dialogo con
l’avversario, evocando il grande poeta, parlando con lui come se fosse presente e
sottoponendolo a un interrogatorio per indurlo a riconoscere il proprio errore. Le accuse
rivolte a Dante mostrano con chiarezza che le teorie contrastate sono in realtà quelle di
Trissino: Machiavelli contesta l’affermazione che la Commedia sarebbe stata scritta in lingua
curiale e ha buon gioco nel dimostrare che il poema era stato scritto in fiorentino.
Le Prose nelle quali si ragiona della volgar lingua avevano sottolineato i limiti della lingua
viva e parlata, destinata alla caducità: l’unico modello in grado di trasmettere ai posteri era la
lingua dei grandi scrittori, circoscritta agli autori del Trecento, a esclusione di Dante. Tutto
ciò colpiva l’orgoglio dei fiorentini che avevano sviluppato una grande fiducia nelle
potenzialità e nelle qualità intrinseche della propria lingua. Chi non aveva come lingua
madre il fiorentino aveva necessità di rifarsi a un modello ben definito e di studiare una
norma stabile. I sostenitori delle tesi fiorentistiche non davano descrizioni della lingua in uso
a Firenze, sulla quale non era semplice costruire strumenti normativi in grado di aiutare chi
aveva necessità di studiare un modello. Un tentativo di superare la contrapposizione tra
lingua viva e tradizione letteraria venne dal fiorentino Benedetto Varchi, che conobbe e
frequentò Pietro Bembo. Il dibattito sulla lingua portò un’impostazione nuova, tesa a
superare le tesi di Bembo e dei fiorentinisti, elaborando una sintesi originale. La promozione
delle teorie classicista trapelava anche da alcuni scritti, tra i quali assumono maggiore rilievo
due orazioni: la più importante è recitata Nel pigliare il consolato dell’Accademia fiorentina,
dove riprendeva un’osservazione delle Prose che non era mai stata gradita dai letterati di
Firenze, ovvero il fatto che per produrre una scrittura nobile ed elevata non bastava
possedere il fiorentino come lingua materna, ma era sempre necessario studiare. Da
Firenze, esclusa l’opera di Machiavelli, non era pervenuta alcuna trattazione in grado di
contrastare la teoria di Bembo e le argomentazioni trissiniane. Un’elaborazione teorica più
ampia venne proprio da Benedetto Varchi e dal suo dialogo l’Ercolano. I protagonisti
dell’opera sono Varchi e il conte Ercolano, che discutono intorno a dieci quesiti riguardanti
vari aspetti del volgare ed espongono le idee linguistiche dell’autore, maturate durante il
soggiorno padovano, grazie agli studi dei trattati di logica di Aristotele. Varchi giunge a
considerazioni di particolare innovatività, indicando nei procedimenti analitico e sintetico il
modo di insegnare e apprendere la grammatica, assegnando un ruolo prioritario alla lingua
parlata, da cui dipende quella scritta. Nell’opera si individua la natura prevalentemente orale
della comunicazione linguistica. I presupposti di Bembo sono qui ribaltati, ma sono anche
immediatamente recuperati sul piano del prestigio stilistico: perché una lingua possa dirsi
nobile avrà bisogno di scrittori che la innalzino con l’eleganza della loro produzione letteraria
e che ne stimolino limitazione. Tra i nobili scrittori viene inserito anche Dante, che non è più
condannato per il suo realismo linguistico. È interesse di Varchi dimostrare che l’essere
fiorentini non vuol dire essere svantaggiati per le influenze degli usi bassi che possono
caratterizzare i loro scritti. Va tenuto distinto, però, il parlato della plebe che è da rifuggire da
quello dei fiorentini colti, che per ovvi motivi si avvicina al modello proposto da Bembo.
Document shared on https://www.docsity.com/it/dispensa-profilo-storico-della-lingua-italiana-di-rita-librandi/10629905/
Downloaded by: martina-pezzullo (
[email protected])
Paragrafo 4
Le prime accademie nascono negli ambienti umanistici e si sviluppano soprattutto a partire
dal XV secolo. È, invece, intorno alla fine della prima metà del Cinquecento che in Italia
sorgono e si moltiplicano le accademie che eserciteranno quasi sempre una funzione
essenziale nell’affermazione del volgare e si organizzeranno in strutture più definite. Le
accademie intendono configurarsi come il recupero delle istituzioni classiche, ma si aprono
anche alle istanze culturali del loro tempo: sono libere associazioni che divengono centri
fondamentali per lo sviluppo della letteratura e della riflessione teorica in volgare. La varietà
degli interessi è molto ampia e va dagli studi scientifici e filosofici a quelli linguistici, letterari
e artistici. È a Firenze che si svolgono le vicende più rilevanti per la storia linguistica italiana:
Cosimo I de’ Medici, a seguito della caduta della Repubblica, intende favorire il ritorno degli
intellettuali esuli e riavviare il tradizionale mecenatismo della famiglia, istituendo l’Accademia
fiorentina. È in essa che ritornano centrali la tradizione letteraria e linguistica della città. A
Giovan Battista Gelli e Benedetto Varchi è affidata la sistemazione di una grammatica, che
purtroppo non sarà mai portata a termine nonostante gli sforzi dell’allievo di Varchi,
Leonardo Salviati, i cui testi rimasero nell’ombra. Negli avvenimenti, Salviati si discosta dai
principi di Bembo, riassegnando a Dante un ruolo centrale e ampliando il canone degli autori
con l’inclusione di alcuni minori del Trecento, cercando anche di conciliare la lingua scritta
della tradizione antica con il fiorentino vivo e parlato. Si tratta di un modo essenziale nella
riflessione di Salviati, che consiglia a coloro che non riescono a individuare regole adeguate
nei testi degli scrittori di ricorrere all’uso vivo. Negli avvenimenti saranno commentati con
ampiezza gli usi grafici: Salviati elimina le grafie latineggiante. Nel 1582, si unì a un gruppo
di transfughi dell’Accademia fiorentina: Giovan Battista Deti, Anton Francesco Grazzini,
Bernardo Canigiani, Bernardo Zanchini e Bastiano de’ Rossi, identificati con i fondatori di
un’istituzione di grande rilevanza per la nostra storia linguistica, l’Accademia della Crusca.
La svolta che consentì alla brigata di costituirsi in un’accademia fu favorita da Salviati, come
testimonia uno scritto che riporta le parole con cui Salviati incitò gli amici a procedere con un
ordine, andando a rivendicare un loro nome.
Gli accademici della crusca non produssero una grammatica intesa come espressione di un
lavoro collettivo sulla norma, ma diedero alla luce un dizionario che fu punto di riferimento
per la riflessione linguistica in Europa. Il vocabolario riusciva a riflettere l’idea di una lingua
viva e dinamica, in grado di rappresentare un aspetto antico e chiuso da un lato e dall’altro
contemporaneo e aperto. La selezione partì dai capolavori di Dante, Petrarca e Boccaccio,
ma fu estesa anche ad autori minori. Gli accademici apportarono anche importanti novità
rispetto alle sperimentazioni lessico grafiche condotte fino a quel momento: si abolì la
distinzione tra gli usi della poesia e della prosa, si eliminò buona parte delle grafie
latineggianti. La grande impresa degli accademici suscitò subito critiche e polemiche che si
sarebbero riproposte per secoli e che riguardarono soprattutto i criteri di selezione degli
autori. In una prima fase, le polemiche non ebbero particolari ripercussione sul lavoro, ma
per la terza edizione, a causa delle novità sostanziali, ci furono più lamentele. Le polemiche
e le opposizioni contro gli orientamenti linguistici dell’Accademia non si placarono mai e
ripresero con maggior vigore nella seconda metà del XVIII secolo.
Document shared on https://www.docsity.com/it/dispensa-profilo-storico-della-lingua-italiana-di-rita-librandi/10629905/
Downloaded by: martina-pezzullo (
[email protected])
Capitolo 10
Paragrafo 1
Non c’è dubbio che Alessandro Manzoni rappresenti uno snodo essenziale nella storia
linguistica italiana. I Promessi sposi segnano in Italia la nascita del romanzo moderno e
contribuiscono a ridurre la distanza tra la prosa letteraria e l’uso vivo della lingua. La novità
delle sue idee linguistiche consentirà al grande scrittore lombardo di prefigurare il percorso
che avrebbe intrapreso l’italiano e di favorire l’affermazione di una lingua moderna, duttile e
consona a ogni genere di comunicazione.
Paragrafo 2
L’attenzione di Manzoni alla situazione linguistica italiana inizia con la lettera del 1806
indirizzata al suo amico Claude Fauriel. Le osservazioni partono dall’ammirazione per i versi
di Giuseppe Parini che, nonostante la sintesi di eleganza stilistica e le istanze morali, non
riuscivano a incidere su un pubblico troppo distante dalla lingua letteraria. Il rammarico per
la scarsa efficacia dei versi manifesta il divario italiano tra lingua scritta e parlata:
l’ammirazione di Manzoni mista all’invidia si muove nei confronti della Francia e della
popolazione parigina, che non ha difficoltà a comprendere le commedie di Molière.
Rintracciare un adeguato modello linguistico nella tradizione letteraria italiana non era affatto
semplice, cosa che Manzoni dichiarerà in una nuova lettera a Fauriel nel 1821, quando
aveva già iniziato la prima stesura del romanzo, accorgendosi nuovamente delle differenza
tra la condizione degli scrittori francesi e quella degli scrittori italiani (i primi non hanno
difficoltà a decidere con immediatezza quali forme e parole utilizzare, i secondi non sono
mai sicuri di ricorrere a uno strumento pienamente condiviso dai lettori). La soluzione a cui
pensa di ricorrere non è ancora ben definita, ma ritiene che sarà necessario leggere i
classici italiani e discutere di argomenti importanti con il propri concittadini, al fine di trovare
nella lingua “buona” la prontezza necessaria a esprimere i bisogni attuali, senza disdegnare
l’attingere alla lingua francese. Nella prima stesura dell’Introduzione a Fermo e Lucia,
ironizza contro le affermazioni di Antonio Cesari, giustificando la decisione di non esibire il
manoscritto settecentesco da cui afferma di aver tratto la storia del romanzo, sia perché
presentandolo a pochi non avrebbe tolto a tutti il dubbio che fosse un’invenzione, sia perché
la scrittura della vecchia narrazione avrebbe provato una contiguità con la lingua
cinquecentesca. Il romanzo di cui Manzoni aveva solo ultimato due capitolo all’epoca della
prima Introduzione, verrà concluso nel 1823: la prima stesura è conosciuta come Fermo e
Lucia ma Manzoni si riferiva ad essa con il nome di Prima minuta. A conclusione del suo
lavoro, una seconda Introduzione svela l’insoddisfazione dello scrittore per il modo in cui
aveva esposto la narrazione e per non essere riuscito a sostituire con efficacia lo stile del
manoscritto originario, definito intollerabile. La prima stesura, solitamente considerata un
romanzo a sé stante, presenta una mescolanza di tratti da cui Manzoni avrebbe cercato di
rifuggire, tra cui forme della più antica tradizione letteraria, qualche francesismo e una forte
presenza di lombardismi. Il tentativo di rendere la prosa di questa prima stesura più adatta al
genere del romanzo si coglie soprattutto nella sintassi, che accoglie fenomeni come le
dislocazioni a destra o il “che” relativo con ripresa pronominale, ritenuti distanti dalla
tradizione letteraria più elevata ma non necessariamente motivati dal desiderio di imitare
l’oralità.
Document shared on https://www.docsity.com/it/dispensa-profilo-storico-della-lingua-italiana-di-rita-librandi/10629905/
Downloaded by: martina-pezzullo (
[email protected])
Paragrafo 3
L’ispirazione a una scrittura moderna si legò sempre più alla ricerca di una lingua viva e
comunemente usata. Negli anni che precedono e seguono la prima edizione del romanzo,
nacque nello scrittore un sentimento politico ben espresso nelle odi civili Aprile 1814
(concepita sul finire del Regno d’Italia e del dominio francese, dopo il quale Manzoni
sperava nella libertà, negata poi dagli austriaci) e un'ode scritta l’anno successivo,
incompiuta e pubblicata solo nel 1848 con il titolo Il proclama di Rimini. Frammento di
canzone (versi percorsi dal concetto dell’unità politica italiana, condizione indispensabile per
l’indipendenza).
Manzoni era ben consapevole della molteplicità di idiomi che convivevano nella penisola e
contemporaneamente degli usi limitati dell’italiano letterario, ma era anche consapevole
della fisionomia autonoma dell’italiano rispetto alle altre lingue e della storia antica che ne
aveva fatto l’asse portante della cultura di un popolo. Insoddisfatto dalla prima stesura del
romanzo, ne inizia una seconda, Gli sposi promessi, da ritenere diversa a causa dei
numerosi interventi, rispetto alla prima. Mostra un’apertura maggiore ai lombardismi in una
prima fase della revisione, che andrà poi a ridurre drasticamente. Tra il 1823 e il 1824,
Manzoni si dedica anche a un libro di argomento linguistico, di cui però sopravvivono solo
pochi frammenti. Poco dopo avviò la nuova stesura del romanzo, riducendo la propria
presenza ed eliminando gli spazi in cui più diffusamente inseriva le proprie considerazioni,
dissimulando le riflessioni personali attraverso la figura dell’ironia che gli consente di
abbassare i toni troppo pungenti. Alcune parti vengono ridotte o tagliate. Per la revisione
linguistica fa uso della lettura di testi della tradizione italiana, di un importante scavo nel
Vocabolario della Crusca e della consultazione del Vocabolario milanese-italiano. Privilegia
gli autori della tradizione comica e realistica di Cinquecento e Seicento, utilizzando per il
secondo l’edizione veronese di Antonio Cesari, che aveva ampliato le voci con l’aggiunta di
lemmi tratti da testi di argomento scientifico del Seicento e del Settecento, ma anche di
autori comici del XVI secolo. Il lavoro finale mostra molte innovazioni sul piano
fonomorfologico e lessicale, a cominciare dall’ampliamento del lessico che designa gli
oggetti della vita materiale e quotidiana, per i quali i modelli della tradizione letteraria non
davano aiuto e i dialetti offrivano troppe varianti geosinonimiche. Al periodo di elaborazione
della Ventisettana risale anche un altro argomento linguistico, i Modi di dire irregolari, di cui
ci sono pervenuti solo gli abbozzi. La prima edizione dei Promessi sposi ebbe fin da subito
successo, andando incontro alle istanze di lettori coinvolti negli ideali di unità politica e
identitaria, ma anche a causa dei caratteri della narrazione, alla misurata dose di
verosimiglianza richiesta dal romanzo storico, al dosaggio di riflessione e ironia, e allo stile
nuovo e popolare.
Paragrafo 4
Subito dopo la pubblicazione della Ventisettana, Manzoni soggiornerà per la prima volta in
Toscana e a Firenze. Nel 1830 inizierà la composizione di un trattato che avrebbe dovuto
permettergli di organizzare meglio il proprio pensiero ed esporlo in modo più articolato. Si
tratta del Della lingua, mai terminato e frutto di varie riscritture. Nella riflessione teorica dello
scritto si possono comprendere le scelte per l’ultima redazione del romanzo e le successive
proposte per una politica linguistica. Nel suo primo scritto linguistico pubblicato, dice
chiaramente che la sua proposta del fiorentino va inquadrata in una più ampia riflessione
teorica, che esamini ciò che è intrinseco a ogni lingua e ne condiziona l’esistenza e che
Document shared on https://www.docsity.com/it/dispensa-profilo-storico-della-lingua-italiana-di-rita-librandi/10629905/
Downloaded by: martina-pezzullo (
[email protected])
giunga all’analisi finale della situazione italiana. Tra il 1835 e il 1836 scrive un altro libro,
pubblicato nel 1923 come Sentir messa. Il saggio nasce a seguito di una critica mossa dal
grammatico Michele Ponza alla locuzione “sentir messa”, che veniva giudicata un
dialettismo e che era stata adoperata da un amico intimo di Manzoni, Tommaso Grossi, in un
suo romanzo. Manzoni svolge un’ampia riflessione su che cosa sia l’Uso, la cui funzione
essenziale nell’esistenza delle lingue è sottolineata dall’iniziale maiuscola con cui sarà
sempre indicato nei suoi scritti linguistici. In Italia una lingua riconosciuta da tutti esiste ed è
il toscano, che a differenza degli altri idiomi è stato adottato da tutti gli scrittori per ogni tipo
di testo, non solo per la loro autorità ma anche perché si trattava di una lingua viva,
sostenuta da una società che la parla e non ha altre lingue. Per la prima volta l’Uso
linguistico di cui parlava Manzoni non coincideva con l’uso degli scrittori e ciò non era vero
solo per l’italiano ma per tutte le lingue. Una lingua, dunque, non può essere interamente
contenuta nell’opera dei migliori scrittori, nè descritta interamente da un vocabolario: solo
l’insieme della società possiede una lingua nella sua interezza e l’Uso non si identifica con le
scelte dei più autorevoli contenute negli scritti, ma con la somma dei consensi di chi
compone una comunità linguistica.
Alcuni anni dopo, lo studio sulla lingua lo indusse a identificare nel fiorentino vivo la lingua
unitaria piegata agli usi di un’intera società. Se la lingua non possiede una sua interezza non
è lo strumento in grado di soddisfare tutte le esigenze comunicative di una società, da quelle
più elevate a quelle della più semplice colloquialità. Le parole della vita quotidiana vanno
cercate nel fiorentino.
Paragrafo 5
Intorno al 1838 Manzoni iniziò una nuova revisione, solitamente indicata come Quarantana.
Nel 1827, Manzoni aveva lasciato a Gaetano Cioni e a Giovan Battista Niccolini una copia
del proprio romanzo e una del Vocabolario milanese-italiano chiedendo loro di aiutarlo nella
revisione della lingua: i due gli indicarono soprattutto le voci lombarde e gli arcaismi toscani.
Il lavoro rallentò vistosamente a causa di problemi fisici e lutti, riprendendo tra il 1838 e il
1840. Lo stile, la lingua e le strategie retoriche dell’edizione definitiva dei Promessi sposi
innovano profondamente la scrittura letteraria italiana, non solo per l’adozione di forme e
lessico che fanno giustizia di arcaismi, aulici si o latinismi desueti, ma per la capacità di far
convivere registri linguistici e stilistici differenti, adattandoli a molti contesti. La distanza tra
livelli stilistici non incide sulla fluidità e la modernità della prosa, grazie agli interventi su
morfologia, parole, sintassi e organizzazione testuale. Va osservato che le correzioni che
segnarono il passaggio all’ultima revisione non furono un adeguamento passivo alla parlata
fiorentina ma un percorso articolato. Tra i vari cambiamenti non va dimenticata la quasi
totale eliminazione di forme e parole milanesi e lombarde. A provare un atteggiamento attivo
nei confronti del fiorentino di uso vivo c’è anche la decisione di livellare laddove quest’ultimo
oscillava senza preferenze tra due forme diverse. La sintassi del romanzo era già stata
sottoposta a un’innovazione che aveva portato a risultati importanti e quasi definitivi:
nell’ultima stesura si assiste a un incremento di strutture colloquiali che ancora una volta
riguardano sia il dialogato sia il narrato e non si giustificano con la sola esigenza di
riprodotte le movenze spontanee dell’oralità. Alcuni dei fenomeni più caratterizzanti
dell’ultima stesura sono i seguenti:
- Tematizzazione del complemento diretto e indiretto tramite dislocazione a sinistra;
- Tema sospeso;
- Focalizzazione con dislocazione a destra;
Document shared on https://www.docsity.com/it/dispensa-profilo-storico-della-lingua-italiana-di-rita-librandi/10629905/
Downloaded by: martina-pezzullo (
[email protected])
- Frasi scisse;
- Uso di “che” polivalente con ripresa pronominale per specificare la funzione
sintattica, particolarmente connotato in senso popolare.
Il romanzo raggiunge altissimi livelli sul piano artistico e linguistico, proponendosi fin da
subito come modello di prosa letteraria e di lingua viva e comune.
Capitolo 11
Paragrafo 1
Prima dell’Ottocento sono pochi i testi nei quali la questione della lingua diventa politica, ma
rientrò tra i problemi dello stato subito dopo l’unificazione, quando nel 1861 venne fatto il
primo censimento nazionale, per capire quale fosse la situazione del paese (ad esclusione
delle zone che ancora non ne facevano parte), raccolto poi in tre volumi. Si individuarono
circa sei gruppi diversi: gli italo-celtici, più numerosi, i liguri, i tosco-romani (di cui venne
sottolineata la centralità), i napoletani, i siculi e i sardi, comprendendo ovviamente anche i
diversi dialetti all’interno dei gruppi. Si cercò di mostrare i caratteri condivisi da tutte le aree,
cercando di attutire le distanze,esaltando gli elementi che indicavano una comune familiarità
tra i dialetti della nazione e che avrebbero favorito l’adozione dell’italiano. I risultati del
censimento erano limitati anche per la preparazione imperfetta dei rilevatori e per la poca
dimestichezza degli italiani con strumenti e domande spesso ambigue.
Paragrafo 2
Il ministro Broglio, ammiratore di Manzoni, emanò nel 1868 un decreto con il quale affidava
a una commissione il compito di individuare i modi per diffondere in tutto il paese e in tutta la
popolazione una buona lingua e pronuncia. La presidenza della commissione fu affidata a
Manzoni e i membri di essa furono distribuiti in due sezioni: milanese (Manzoni, Giulio
Càrcano, Ruggiero Bonghi) e fiorentina (Raffaello Lambruschini, Giuseppe Bertoldo, Achille
Mauri, Gino Capponi e Niccolò Tommaso che si dimise dopo le proposte avanzate da
Manzoni). Manzoni si mise al lavoro spinto dall’istanza nazionale e sociale di dare una
lingua a tutti gli italiani. In un mese compilò la Relazione, Dell’unità della lingua e dei mezzi
di diffonderla. I mezzi suggeriti per raggiungere l’obiettivo pongono al primo posto la
redazione di un vocabolario che avrebbe dovuto fondarsi sull’uso fiorentino ed essere diffuso
in tutto il paese. Manzoni risponde alle possibili obiezioni che porterebbero essergli rivolte,
tra le quali quella per cui il fiorentino non è la lingua che si vuole per l’Italia ma solo un
dialetto: risponde dicendo che si può parlare di dialetti in quelle nazioni che abbiano eletto
una sola lingua, mentre in Italia i vari idiomi non hanno una lingua unitaria che gli faccia
concorrenza. Molto più debole fu la proposta di privilegiare gli insegnanti toscani, da inviare
nelle scuole primarie di ogni provincia e nelle magistrali destinate alla preparazione di futuri
insegnanti italiani, cosa che avrebbe portato alla discriminazione sulla provenienza degli
insegnanti statali. Dopo due mesi dalla diffusione delle proposte manzoniane, apparve
anche la relazione fiorentina, dove Lambruschini riteneva che il modello da estendere a ogni
parte d’Italia fosse quello del Trecento, accettando la compilazione di un vocabolario,
pensato però ristretto a termini e locuzioni dell’uso comune che più spesso mostravano dei
vuoti. Si trattava, dunque, di posizioni agli antipodi. Manzoni, comprendendo che non ci
sarebbe stato un punto d’incontro, scelse di dimettersi, ma Broglio affidò a una giunta
Document shared on https://www.docsity.com/it/dispensa-profilo-storico-della-lingua-italiana-di-rita-librandi/10629905/
Downloaded by: martina-pezzullo (
[email protected])
l’incarico di redigere il dizionario secondo le indicazioni manzoniane. Manzoni si dedicò alla
stesura di una lunga appendice alla relazione, pubblicata nel 1869, dove ribadiva le sue
idee. Un contributo importante alle argomentazioni che sostenevano la proposta
manzoniana venne anche dalle prefazioni di Giorgini e Broglio rispettivamente al primo e al
terzo volume del vocabolario: il primo sottolineava come la storia linguistica del paese
avesse fatto sì che una parte considerevole di parole e forme del fiorentino di uso vivo fosse
già contenuta nei libri e fosse nota agli italiani colti. Le reazioni alla relazione furono tante,
ma ricordiamo la risposta di Pietro Fanfani che dissentiva apertamente dall’idea che l’Italia
non possedesse una lingua integra in grado di compiere tutte le funzioni che svolgono le
lingue di altre nazioni come la Francia, tornando a esaltare l’autorità dei grandi scrittori. Si
tratta, dunque, di una posizione molto distante da quella che con Manzoni riconosceva la
natura sociale delle lingue e l’autorità di una comunità linguistica.
Paragrafo 3
Il dissenso più ampio e articolato alle proposte di Manzoni venne dal goriziano Graziadio
Isaia Ascoli, che sviluppò molto precocemente l’interesse per le lingue, entrando in contatto
con la linguistica tedesca. Influenzato dalle ricerche del linguista tedesco Franz Bopp, si
orientò inizialmente verso gli studi di indoeuropeistica, spostando successivamente i propri
interessi verso la romanistica e la dialettologia e introducendo anche in Italia gli studi e i
metodi della scuola neogrammatica sviluppatasi in Germania. La proposta di Manzoni, cui
Ascoli riconosceva di essere riuscito a estirpare la retorica, rischiava di imporre con il ricorso
al fiorentino vivo un ideale del popolanesimo, una nuova retorica da sostituire a quella
fondata sui classici. Il fiorentino di cui parlava Manzoni non era quello degli usi bassi, ma
nell’interpretazione di Ascoli un’autentica unificazione linguistica non si sarebbe mai
raggiunta utilizzando la lingua di una sola città: occorreva rafforzare, come in Germania, il
tessuto culturale del paese, riducendo le distanze tra popolo e intellettuali. Sul piano
linguistico, la prospettiva diacronica di Ascoli non si incontra con la visione eminentemente
sincronica di Manzoni. È credibile la testimonianza di Francesco D’Ovidio, secondo cui
Manzoni avrebbe detto scherzosamente che se Ascoli non voleva il fiorentino, avrebbe
potuto utilizzare il bergamasco. L’Uso inteso da Manzoni come somma dei consensi di una
comunità linguistica non coincide, secondo Ascoli, con quello stabilito dai letterati, che si
impegnano a creare condizioni per travolgere in ferma unità di pensiero e di parola tutta la
popolazione italiana. Manzoni aveva compiuto la sua formazione linguistica nella prima metà
del secolo, quando ancora non si erano affermati in Italia i metodi scientifici della linguistica
storica. Ascoli attenuò in seguito le sue posizioni, ma un'accoglienza più equilibrata delle
idee manzoniane venne proprio da D’Ovidio che dei due contendenti mostrò sia la
comunanza di vedute sul rapporto tra la lingua e i dialetti, sia la base fiorentina dell’italiano.
Osservò che esiste un fondamento storico per assegnare un primato al fiorentino, ovvero il
suo trovarsi all’origine dell’italiano affermatosi nella letteratura e negli usi scritti. La lingua
viva di Firenze, pur non potendo assumere il ruolo di autorità assoluta, poteva diventare
consigliere prezioso per colmare i vuoti del lessico domestico (terminologia della vita
materiale e quotidiana che non mostrava usi unitari).
Document shared on https://www.docsity.com/it/dispensa-profilo-storico-della-lingua-italiana-di-rita-librandi/10629905/
Downloaded by: martina-pezzullo (
[email protected])
Capitolo 12
Paragrafo 1
L’appendice composta da Manzoni dopo la relazione, si chiudeva con un auspicio che
congiungeva ancora una volta l’ideale dell’unità politica dell’Italia a quello dell’unità
linguistica. Negli anni successivi alla nascita del nuovo Stato non era semplice capire il
grado di diffusione e di conoscenza della lingua unitaria né erano ancora ben collaudati i
sistemi di rilevazione dei dati. Il primo a utilizzare i dati del censimento, fondandosi sulle
stime relative all’analfabetismo, fu Tullio De Mauro nel suo lavoro sulla Storia linguistica
dell’Italia unita. De Mauro partiva dalla premessa che solo a coloro che avevano avuto la
possibilità di continuiate almeno per qualche anno gli studi scolastici dopo le elementari era
stata assicurata un’esposizione più salda alla lingua italiana, mentre per tutti gli altri, il
contatto diretto era stato troppo esiguo e frammentario. Dopo circa vent’anni, a ritornare
sulla questione fu lo studioso Arrigo Castellani, che introdusse nuovi elementi e
considerazioni per il computo complessivo: a coloro che avevano frequentato la scuola oltre
le primarie aggiunse una quota di persone che per vie diverse dovevano aver compiuto degli
studi (come i religiosi e chi riceveva un’istruzione in famiglia). Invitava, inoltre, a non
trascurare ancora altri fattori, come la frequentazione da parte di domestici di famiglie non
dialettofone, il lavoro di impiegati o la possibilità di consolidare la conoscenza dell’italiano
attraverso letture personali. In questi casi va considerata a fianco alla competenza attiva,
anche l’esistenza della competenza passiva, ovvero la sola capacità di comprendere
enunciati pronunciati in una lingua diversa dalla propria. Statistiche e percentuali possono
solo aprire alcune spie, ma non mostrare le sfumature di una situazione che per secoli
dovette essere complessa. Fattori diversi avevano contribuito a far scorrere lungo rivoli di
varia natura la lingua comune, provocando la nascita di varietà intermedie e favorendone gli
usi tra strati sociali differenti.
Paragrafo 2
Il paese si trovò subito di fronte al grave problema dell’ analfabetismo, con una percentuale
del 75%, che si abbassò radicalmente solo a partire dal 1911. Fin dai primi anni dell’Unità, la
situazione variava da regione a regione, ed era inoltre notevole il divario tra maschi e
femmine. Puntare sulla scuola per colmare i vuoti e assicurare un progressivo
apprendimento della lingua comune era essenziale. L’insegnamento dell’italiano non
mancava di un’antichissima tradizione perché un’attenzione sistematica era iniziata
soprattutto nel Settecento. Nel medioevo e nell’età moderna il volgare si era affacciato in
modo discontinuo nei testi di insegnamento e nelle pratiche didattiche, e per secoli si
continuò ad apprendere lettura e scrittura direttamente in latino. Fu nella seconda metà del
XVIII secolo che si avviarono diverse riforme scolastiche, favorendo sia un’istruzione più
estesa e talvolta gratuita per la formazione primaria, sia un insegnamento stabile
dell’italiano. Lo Stato che aveva mostrato un maggior impegno verso l’istruzione era stato il
regno di Sardegna, specialmente in area piemontese, con la legge Casati che decretava la
responsabilità dello Stato nella formazione dei cittadini. Con l’Unità, la legge fu estesa a tutta
Italia e divenne base dell’organizzazione scolastica italiana fino al ventennio fascista. La
legge articolava l’istruzione elementare in due cicli della durata di due anni ciascuno, nella
gestione delle scuole era delegata ai comuni. L’istruzione secondaria era divisa tra un
Document shared on https://www.docsity.com/it/dispensa-profilo-storico-della-lingua-italiana-di-rita-librandi/10629905/
Downloaded by: martina-pezzullo (
[email protected])
indirizzo classico di cinque anni, che consentiva l'accesso a ogni tipo di università, e un
tecnico di tre anni diviso in diverse sezioni delle quali solo una consentiva l’ingresso ai corsi
universitari scientifici. L’obbligo del primo biennio dell’elementari non prevedeva sanzioni per
i genitori che non intendevano o non potevano rispettarlo: esse furono introdotte dalla legge
Coppino nel 1877. Gli anni delle scuole elementari divennero cinque e l’obbligo scolastico fu
esteso i primi tre anni, mentre nel 1904 venne esteso al dodicesimo anno di età. Le spese
per la gestione delle scuole rimasero a carico dei comuni fino al 1911. Le difficoltà ad
assicurare una scolarizzazione diffusa furono molte molto lento fu il raggiungimento di una
capillare alfabetizzazione, sia per il lavoro minorile chi per gli impedimenti nella formazione e
nel reclutamento degli insegnanti. Anche il trattamento economico degli insegnanti delle
scuole elementari era inadeguato e costringeva spesso al doppio del lavoro (le donne erano
pagate molto meno degli uomini). Ci vollero vent’anni per poter contare su insegnanti validi,
con una formazione specifica e consapevoli del ruolo a loro assegnato. La spesa dello Stato
per istruzione pubblica andò progressivamente crescendo e gli effetti positivi sì notarono sul
finire del primo decennio del Novecento. Anche per il modello di italiano offerto nelle scuole
inizi non furono semplici, soprattutto quando si pensi alle incertezze che gli stessi insegnanti
possedevano nell’usare la lingua comune per scrivere e parlare. Si fecero strada tendenze
opposte: in Piemonte si propagò una lingua dalle sfumature francesizzanti, mentre nel
meridione le persone venivano educate all’imitazione della lingua del Trecento. Nel 1884, i
Promessi sposi varcarono l’ingresso nei licei e quattro anni dopo ne venne istituita la lettura
integrale. Non si può negare che nella didattica ebbe poco spazio l’uso linguistico
spontaneo, cosa che incoraggiò soprattutto gli insegnanti meno attenti alle funzioni della
lingua a trasmettere un italiano libresco e affettato. Le Indagini svolte dal ministero negli anni
successivi all’Unità, mostravano che nelle scuole elementari il ricorso al dialetto era
altamente diffuso sia tra alunni che tra insegnanti. La situazione indusse a suggerire
sensibilità e attenzione verso la situazione linguistica degli scolari, invitando i maestri a far
riflettere su somiglianze e differenze che accomunavano o separavano italiano e dialetto. Il
ministero favorì anche la produzione di vocabolari dialettali a uso scolastico. L’obiettivo
principale era di assicurare una conoscenza diffusa e stabile della lingua unitaria: ciò
comportò un atteggiamento antidialettale, peggiorato poi dalla campagna nazionalistica del
regime fascista. Solo nella seconda metà del Novecento si avrà una sensibilità linguistica in
grado di considerare in modo diverso il rapporto tra italiano e dialetti della penisola.
Paragrafo 3
La nascita dello Stato unitario favorì gli spostamenti all’interno della penisola i movimenti
migratori verso gli altri paesi- i centri che visse una maggiore crescita demografica furono
Milano e Roma, mentre Napoli continua a crescere solo per naturale movimento
demografico. Vasto e incisivo sull’assetto culturale e socioeconomico dell’Italia fu il
fenomeno dell’emigrazione verso l’estero. Un calcolo approssimativo conta 29 milioni di
cittadini espatriati tra il 1861 e il 1985. È importante ricordare che per la maggior parte degli
emigrati si trattò di una partenza definitiva. Possiamo distinguere tra due grandi ondate
migratorie: la prima compresa tra i primi anni dell’Unità e l’inizio del ventennio fascista, la
seconda successiva alla seconda guerra mondiale. Nel primo caso i paesi privilegiati furono
l’America meridionale e settentrionale, mentre per la seconda ondata venne raggiunto il
Canada e l’Australia. L’incidenza dell’emigrazione sulla situazione linguistica dell’Italia
postunitaria è stata messa in rilievo da De Mauro, ed è stata oggetto di altri studi a carattere
generale o concentrati su singole aree. Il sacrificio di chi partiva consentiva a coloro che
Document shared on https://www.docsity.com/it/dispensa-profilo-storico-della-lingua-italiana-di-rita-librandi/10629905/
Downloaded by: martina-pezzullo (
[email protected])
restavano una più vantaggiosa distribuzione delle risorse e un miglioramento delle
condizioni economiche che portava con sé un diffuso desiderio di istruzione. La spinta
all’alfabetizzazione degli immigrati si fece ancora più intensa a seguito delle tante misure
restrittive disposte dagli Stati Uniti e culminate con il Literacy Act del 1917, che dichiarava
indesiderabili le persone analfabete. Nel 1912 fu istituito il primo ufficio della curia romana
per l’emigrazione. Diversa fu la situazione della seconda ondata migratoria: gli emigrati
erano in grande misura scolarizzati e avvertirono, con l’emigrazione, la distanza tra la lingua
comune adoperata nelle comunità degli italiani all’estero e quella diffusa in Italia. Il senso di
inadeguatezza stimolò il desiderio di impadronirsi pienamente delle proprie radici culturali.
Le lettere sono state spesso l’unico stimolo alla scrittura. Oggi il rapporto con l’italiano di
discendenti degli emigrati è di varia natura: non si può negare l’erosione linguistica e il
distacco dalla lingua delle origini, ma molti sono coloro che studiano la lingua dei loro
discendenti emigrati.
Paragrafo 4
Tra le cause che incentivarono i movimenti all’interno della penisola fu importante servizio
militare obbligatorio. Il servizio di leva teneva gli uomini lontano da casa per un periodo
molto lungo, durante il quale la necessità di comunicare con gli altri coetanei e con i
superiori li costringeva ad accordarsi sull’uso di una lingua comune. Agli analfabeti, nelle
scuole reggimentali, veniva assicurato l’apprendimento di lettura e scrittura. Un contributo
alla diffusione dell’italiano venne anche dall’unificazione dell’apparato amministrativo, e
anche in questo caso il sistema del regno sabaudo fu esteso al resto dell’Italia. Il mescolarsi
degli usi e delle formule che già appartenevano alla burocrazia degli Stati preunitari è
favorito anche dal trasferimento dalle proprie regioni d’origine di molti impiegati e funzionari.
Non era facile accordarsi su una lingua adeguata alla stesura di disposizioni e norme
amministrative e alla comunicazione con il pubblico. Ci fu uno sforzo congiunto per
convergere verso un’unica soluzione, favorendo una koinè burocratica postunitaria. La
lingua burocratica esercita un’azione concomitante, con i modelli delle disposizioni
amministrative e con la risposta imitativa di formule e costrutti percepiti come prestigiosi.
L’indispensabile frequentazione degli apparati burocratici cominciò a generare una norma
diversa da quella dell’italiano letterario. L’italiano stereotipato della pubblica amministrazione
trova una via di diffusione anche attraverso le cronache dei giornali. La stampa periodica è
un altro importante fattore di italianizzazione, anche se i giornali avevano iniziato a diventare
famosi solo dopo l’Unità. Il miglioramento vissuto dei giornali è direttamente proporzionale
all’incremento dei lettori, anche grazie alle modifiche apportate ai periodici. I cambiamenti
più vistosi si incontrano negli articoli di cronaca, dove con maggiore facilità si possono
riconoscere le parole e la sintassi del linguaggio burocratico. Il lessico dei giornali si
arricchisce di tecnicismi, sia medici che astronomici. La tendenza a conservare da un lato la
lingua più di antica tradizione e ad accogliere modelli diversi favorisce la convivenza di voci
letterarie e parole di uso colloquiale. Sono meno numerosi i dialettismi, e diminuisce il
numero delle frasi nel periodo, snellendo la struttura con la riduzione dei costrutti subordinati
a favore della paratassi.
Paragrafo 5
A partire dalla seconda metà dell’Ottocento la direzione dell’italiano verso i dialetti, con
sensibili modificazioni delle strutture di questi ultimi. Non furono poche le penetrazioni delle
Document shared on https://www.docsity.com/it/dispensa-profilo-storico-della-lingua-italiana-di-rita-librandi/10629905/
Downloaded by: martina-pezzullo (
[email protected])
parole dialettali nel lessico dell’italiano, a volte per coprire i vuoti oggettivi nella lingua di
tradizione letteraria, a volte per uno spontaneo imporsi del termine di origine dialettale a
scapito di quello di provenienza fiorentina. Si tratta dei cosiddetti dialettismi,
prevalentemente giunti da città come Milano, Roma e Napoli. Molti dialettismi sono legati
all’ambito gastronomico, altri all’ambito geografico.
Capitolo 13
Paragrafo 1
La prima guerra mondiale fu a lungo definita quarta guerra di indipendenza, perché il paese
puntava a sottrarre all’Austria territori detti irredenti. Non erano poche le aree in cui ampie
fette di popolazione avevano acquisito una coscienza sociale grazie movimenti politici, alle
prime rivendicazioni di operai e contadini che avevano aderito alle battaglie il partito
socialista, che avevano partecipato alle lotte sindacali delle leghe rosse. Il lessico politico si
ampliò e riuscì a essere assorbito anche da molte persone che ancora non dominavano con
pienezza la lingua italiana, ma ne comprendevano sempre più la rilevanza per il progresso
sociale. Nei primi decenni del Novecento, cominciano a inserirsi tra gli artefici
dell’unificazione linguistica i nuovi mezzi di comunicazione di massa: la prima trasmissione
radiofonica in Italia un concerto di musica classica mandato in onda dall’URI il 6 ottobre
1924, e subito ci si pose il problema della lingua da adoperare; le potenzialità del mezzo
vennero accolte dal regime fascista che nel 1928 affidò all’EIAR la gestione della radio; la
riduzione dei prezzi negli anni Trenta portò a una maggiore diffusione del mezzo; il cinema,
con l’avvento del sonoro, cambiò radicalmente (inizialmente per i dialoghi ci si ispirava alle
battute teatrali, ma anche in questo caso si avvertì il problema di un italiano adeguato al
mezzo). Il ventennio fascista esercitò una forza frenante, sia per la discutibile politica
linguistica sia per la retorica altisonante, ma incoraggiò lo sviluppo tecnologico e gli incontri
tra le masse.
Il fascismo intendeva imporre una politica linguistica chi non si impegnava a favorirne la
diffusione ignorando l’insegnamento ma si intrometteva negli usi linguistici con l’intento di
condizionare la comunità parlante. Interventi principali si indirizzarono contro l’uso di dialetti,
la presenza delle lingue minoritarie, l’ingresso dei forestierismi, attivando campagne di
stampa ed emanando precise disposizioni. Per quanto riguarda il dialetto, le azioni
repressive riguardarono principalmente la scuola. Con i programmi di Francesco Ercole, nel
1934 i dialetti scomparvero da ogni pratica scolastica. Più gravi furono le misure nei
confronti delle minoranze linguistiche, con particolari restrizioni, tra cui il divieto di insegne e
avvisi pubblici in doppia lingua e la soppressione di giornali alloglotti, il divieto
dell’insegnamento delle lingue minoritarie. Il rifiuto per i forestierismi intensificò a metà degli
anni Trenta, fino ad arrivare all’incarico assegnato nel 1940 all’Accademia d’Italia, di
sorvegliare l’ingresso dei prestiti linguistici, indicando quando necessario delle alternative.
All’Accademia era stato dato anche l’incarico di redigere un nuovo vocabolario della lingua
italiana, progetto già iniziato dall’Accademia della Crusca, e che si sarebbe dovuto
concludere nell’arco di cinque anni: nel 1941 fu pubblicato solo il primo volume dell’opera.
Le scelte compiute per l’inclusione e la compilazione delle voci mostrarono spesso posizioni
discordanti con la politica xenofoba del fascismo. Il dizionario eliminò molte parole arcaiche
e non escluse né forestierismi né neologismi. Nella radio, il tutto venne vietato dall’EIAR. Il
modello linguistico proposto non era esclusivamente fiorentino, ma dava preferenza in caso
Document shared on https://www.docsity.com/it/dispensa-profilo-storico-della-lingua-italiana-di-rita-librandi/10629905/
Downloaded by: martina-pezzullo (
[email protected])
di difformità alla linea romana. Il cinema godette di una libertà lievemente maggiore rispetto
ad altri mezzi di informazione e intrattenimento, e la tendenza ad aprire l’ingresso dei dialetti
si accentuò negli anni della guerra. Per quanto riguarda la presenza delle lingue straniere,
un decreto del 1933 rese obbligatorio il doppiaggio dei film provenienti da altri paesi. Tra le
prescrizioni del governo fascista in materia di lingua non va dimenticata la campagna avviata
nel 1938 per l’abolizione dell’allocutivo di cortesia “lei” a favore del “voi” e del “tu”. La
disposizione era stata indirizzata agli scritti del Partito nazionale fascista, all’esercito, agli
uffici pubblici, alle scuole e alla stampa, oltre che al cinema. L’imposizione non ebbe
veramente seguito. Ancor più ingiustificate apparivano le misure contro i dialetti, che non
solo erano parte integrante della vita della popolazione ma avevano caratterizzato anche lo
strapaese, che era stato componente essenziale del fascismo e della sua ricerca di consensi
tra le masse popolari.
Paragrafo 2
La lingua unitaria si aprì ampi varchi nella comunicazione quotidiana e si avviò verso una
progressiva semplificazione. Le strutture sintattiche e il repertorio lessicale dell’italiano non
poterono restare legati ai rigidi modelli dell’antica tradizione letteraria e dovettero piegarsi
alla rapidità e alla molteplicità di vecchi e nuovi ambiti d’uso. Alcuni dei fattori che già dopo
l’Unità o nei primi decenni del Novecento avevano contribuito a una più ampia conoscenza
della lingua comune continuarono ad agire anche con forza sempre maggiore. Riprendono
nuovo vigore le battaglie sindacali e cresce con loro la coscienza politica dei lavoratori.
Ricomincia, negli anni Cinquanta, l’immigrazione sia verso l’estero che verso nord del
paese, e migliorano sensibilmente l’economia e il tenore di vita. Anche in Italia arriva la
televisione, che divenne uno strumento di trasmissione della lingua nazionale più potente
della radio e del cinema. I cambiamenti che l’italiano subisce con grande rapidità e che sono
percepiti dalla comunità di parlanti, colpiscono tra gli anni Sessanta e Ottanta intellettuali e
linguisti, che ne discutono ognuno dal proprio punto di vista, accentuandone gli aspetti
culturali e sociali e le conseguenze strettamente linguistiche.
È nella seconda metà del Novecento che hanno ripercussione le idee espresse da Gramsci
in materia di lingua. Gramsci manifesta in più occasioni il desiderio di esaminare a fondo le
questioni linguistiche, ma vi si sofferma soprattutto nel XXIX dei Quaderni dal carcere, scritto
nella clinica di Formia in cui era stato ricoverato in libertà condizionata nel 1934.
Fondamentali erano state la lettura della Guida alla grammatica italiana di Alfredo Panzini e
le discussioni sulle politiche linguistiche degli anni Venti nell’Unione Sovietica. Per
sintetizzare le argomentazioni, possiamo dire che Gramsci individuava quali centri di
diffusione della lingua e delle sue innovazioni, la scuola, il teatro, la radio, il cinema sonoro, i
giornali, gli scrittori, gli incontri pubblici e gli stessi dialetti: di queste fonti e dei processi di
radiazioni sviluppo era necessario avere piena contezza anche per essere in grado di
intervenire. Non si nega la possibilità di adoperarsi per l’affermazione di una lingua unitaria,
ma si sostiene che un intervento dall’alto potrà solo servire ad accelerare uno sviluppo reso
necessario dalla storia stessa di un popolo. Per la prima volta si segnala il valore politico di
tutto ciò che conduce a una questione della lingua, vista come segno rivelatore delle
relazioni tra le classi dirigenti e il popolo. È solo nel dopoguerra che queste idee si
diffondono tra gli intellettuali. Alcune delle questioni da lui affrontate colpiscono in particolare
Pier Paolo Pasolini. Le sue idee sulla lingua vengono espresse in una conferenza ripetuta
nel 1964 in diverse città italiane e poi pubblicata. Pasolini individua nella separazione
italiana tra lingua scritta, letteraria da un lato il lingua parlata, strumentale dall’altro, una
Document shared on https://www.docsity.com/it/dispensa-profilo-storico-della-lingua-italiana-di-rita-librandi/10629905/
Downloaded by: martina-pezzullo (
[email protected])
dualità linguistica che è stata governata solo dalla borghesia e non dall’intera popolazione:
se ne deduce che è una vera lingua nazionale non è mai esistita. Pasolini colloca i lavori da
lui prodotti fino a quel momento all’interno di uno sperimentalismo mistilingue. Le tendenze
caratterizzanti di questo nuovo italiano vedono alla fine dei suoi scambi con il lessico di
latino, il livellamento delle forme concorrenti che erano state una ricchezza e soprattutto il
prevalere delle finalità comunicative su quelle espressive. Alcuni linguisti gli rimproverarono
l’uso improprio della terminologia linguistica il non rendersi conto che era in atto nella
comunità di parlanti una più ampia frammentazione tre registri e varietà, cui era riconducibile
anche linguaggio tecnologico. In dubbio che Pasolini mostrava di aver intuito i cambiamenti
vistosi che la nostra lingua stava subendo. Nell’ottobre 1975, Pasolini ritorna su argomenti
linguistici durante un dibattito tenutosi nella biblioteca del liceo Palmieri di Lecce. Qui
manifesta il proprio disprezzo per il consumismo e per gli effetti linguistici che questo
comportava, anche grazie all’omologazione dell’orribile italiano televisivo. Sulle tematiche
sollevate da Pasolini, interviene Italo Calvino e condivide l’insofferenza per l’italiano
tecnologico e soprattutto esprime la versione per la lingua generica e vaga di politici e per
quella del linguaggio burocratico. Calvino però non condivide la nostalgia e la difesa dei
dialetti. Meno condivisibili sono alcune osservazioni che giungono a negare la legittimità di
una norma linguistica o di forme più elevate della comunicazione.
La nuova questione della lingua segnala una novità importante. In una situazione in cui
l’intera comunità linguistica condivide la percezione di una lingua comune e avverte sempre
più la distanza che separa i diversi livelli della comunicazione, una discussione su quale
debba essere l’italiano o la sua norma non ha più ragione d’essere, o almeno non nei termini
in cui era stata condotta nei secoli passati. Furono invece i linguisti a intervenire che spesso
sull’italiano contemporaneo, per osservare le direttrici e i movimenti in atto nelle varietà, per
segnalare l’adeguatezza di alcuni tratti alle diverse situazioni comunicative, o per indicare le
vie di insegnamento e apprendimento. Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale,
osservare con maggiore attenzione gli stessi fattori che avevano colpito gli scrittori e che
stavano producendo cambiamenti rapidi e vistosi nella lingua. Ciò che colpiva era la
restrizione dell’uso dei dialetti, che tuttavia aveva come corrispettivo il progressivo aumento
degli italofoni. Colpisce il rapido decremento della percentuale di coloro che dichiarano di
usare esclusivamente il dialetto. L’uso prevalente dell’italiano occupato tutti gli spazi lasciati
dalla regressione dei dialetti. La situazione più frequente vede coesistere la lingua comune
con uno dei dialetti della lingua familiare. Negli anni Sessanta si osserva anche la situazione
dinamica in cui è entrato l’italiano, che inizia ad essere influenzato dai tratti dialettali. Appare
con sempre maggiore nettezza all’osservazione degli studiosi un italiano di uso regionale,
che Pellegrini individua come varietà caratterizzata solo da alcuni tratti non morfologici.
Propone, quindi, una prima classificazione delle possibilità espressive a disposizione degli
italiani:
- Dialetto arcaico o tradizionale;
- Dialetto urbano;
- Italiano regionale;
- Italiano standard.
Le modificazioni percepibili nell’italiano e le molte semplificazioni suscitano interesse e
inducono a nuove descrizioni. In uno studio, Sabatini afferma l’esistenza dell’italiano dell’uso
medio, una variante ampiamente diffusa e adoperata da gran parte degli italiani. Le
conclusioni di Sabatini si fondano sull’individuazione di trentacinque fenomeni che
caratterizzano l’uso comune di un italiano sempre più adattato a diverse situazioni. I
fenomeni più importanti sono i seguenti:
Document shared on https://www.docsity.com/it/dispensa-profilo-storico-della-lingua-italiana-di-rita-librandi/10629905/
Downloaded by: martina-pezzullo (
[email protected])
1. I pronomi lui, lei, loro, adoperati in funzione di soggetto;
2. L’estensione del pronome atono maschile di terza persona gli al femminile plurale in
luogo di le e loro;
3. La combinazione di una preposizione e di un articolo partitivo;
4. Le dislocazioni a sinistra e a destra;
5. Il che subordinatore generico e il che relativo indeclinato;
6. Il connettivo per cui derivato dall’ellissi del tipo motivo per cui;
7. Il solo cosa in luogo di che cosa per introdurre le interrogative;
8. I connettivi testuali come allora, comunque, ma usati come introduttori di enunciato o
di un discorso;
9. L’indicativo in luogo del congiuntivo dopo verbi d’opinione, dichiarative negative,
interrogative indirette, relative restrittive, periodo ipotetico dell’irrealtà;
10. La concordanza a senso dopo un soggetto singolare sul piano grammaticale, ma
plurale dal punto di vista semantico, seguito da un partitivo al plurale;
11. La posposizione del soggetto con valore rematico, che trasmette dunque
l’informazione nuova;
12. La più ampia estensione della pronominalizzazione di verbi transitivi;
13. Le frasi scisse;
14. Il ci attualizzante soprattutto con il verbo avere.
L’italiano, divenuto finalmente lingua di un paese moderno, strumento duttile in grado di
assolvere a ogni compito richiesto dalla comunità linguistica, mostrava ormai i segni evidenti
di un cambiamento in atto, che affioravano in modi, luoghi e contesti diversi gli uni dagli altri,
evidenziando sì un processo di ristandardizzazione ma con gradi di accettazione differenti e
con modulazioni adeguate alle varietà del repertorio linguistico.
Paragrafo 4
Nell’ultimo ventennio indagini sull’italiano dei media si sono moltiplicate anche per
un’attenzione agli eventi della contemporaneità che è cresciuta negli studi storici e letterari in
modo proporzionale alla convinzione che lo sguardo sul presente susciti maggior interesse.
Non si può negare il ruolo dei media nell’espansione dell’italiano ed è necessario soffermarsi
su due diversi canali di trasmissione della lingua: la televisione e il mondo del web. Sebbene
siano evidenti alcuni condizionamenti legati al mezzo eccessivo attribuire al canale di
trasmissione alcune ibridazioni che dipendono dall’incrocio di più bassi di variazione e che è
possibile ritrovare anche in contesti estranei ai mass media. Ciò non toglie che sia
importante descrivere la lingua adoperata e mezzi di comunicazione di massa che ormai
accompagnano stabilmente la nostra vita.
La televisione arriva in Italia nel 1954 impone subito con successo. Il mezzo esercitò un
fascino indiscusso, ma non bisogna sopravvalutarne il ruolo. I lettori di notizie dei telegiornali
e le annunciatrici erano tenuti a frequentare corsi di dizione e a rispettare la fonetica dello
standard. Ci si basava quasi esclusivamente su testi scritti e nei telegiornali si evitavano
forme e lessico colloquiali. Il dialetto ebbe un’accoglienza maggiore rispetto alla radio ed era
legato a rappresentazioni teatrali. Cominciò ad acquistare un peso rilevante la varietà
romana. A metà degli anni Ottanta si affermò una televisione privata di potenza pari alla Rai,
gestita dal gruppo Fininvest divenuto poi Mediaset. Il cambiamento ebbe ripercussioni anche
sulla lingua con una sempre maggiore apertura al parlato informale. Se nei primi vent’anni
erano ben distinti genere linguaggi legati all’informazione, intrattenimento ed educazione,
dalla seconda fase in poi la distinzione non è più percepibile. Costituiscono un’eccezione
Document shared on https://www.docsity.com/it/dispensa-profilo-storico-della-lingua-italiana-di-rita-librandi/10629905/
Downloaded by: martina-pezzullo (
[email protected])
siete dei giornali e le trasmissioni scientifico culturali. Dal linguaggio televisivo sono arrivati
nell’italiano di uso comune molti neologismi, hanno avuto successo alcune frasi adoperate
da giornalisti e altri conduttori per segnalare il passaggio a un nuovo tema, e non mancano
gli stereotipi che si fissano con maggiore facilità nella memoria di parlanti e che
caratterizzano l’italiano dei telegiornali e dei dibattiti politici.
Sebbene sia oggi sempre più facile inviare immagini e messaggi, non c’è dubbio che con
Internet sia stata la scrittura ad aver riconquistato un ruolo centrale e che sia molto più
opportuno parlare di una specificità dello scritto trasmesso influenzato dal nuovo mezzo, la
scrittura mediante computer è stata definita liquida, in quanto mobile e manipolabile. Anche
il mondo del web presenta una forte mescolanza di stili, registri e varietà. Caratteristica
sempre sottolineata è la brevità, e non sono poche le trascuratezze nell’uso di accenti e
apostrofi. La varietà di siti, di finalità e modalità interattive rende difficile dare conclusioni
unitarie sulla scrittura trasmessa. Non si può negare che vi sia un tendenziale
abbassamento lungo l’asse te la variazione diafasica e diastratica, ma non è ancora facile
capire quanto questo influenzi l’italiano comune.
Document shared on https://www.docsity.com/it/dispensa-profilo-storico-della-lingua-italiana-di-rita-librandi/10629905/
Downloaded by: martina-pezzullo (
[email protected])