Docsity Profilo Storico Della Lingua Italiana Rita Librandi
Docsity Profilo Storico Della Lingua Italiana Rita Librandi
Rita Librandi
Storia della lingua italiana
Università degli Studi di Cagliari (UNICA)
56 pag.
PARTE PRIMA
(Nascita e affermazione del volgare)
L'italiano rientra nella cerchia delle lingue romanze, dette anche ‘neolatine’ perché è al latino che risale la loro origine
(dialetti della penisola + spagnolo + catalano + portoghese + gallego + francese + provenzale+ romeno).
L'insieme dei territori in cui si parla una lingua romanza viene denominato Romània e comprende la penisola iberica con le
isole Baleari, la Francia, una parte della Svizzera, l'Italia con le sue isole, la Corsica, la Romanìa.
Quando parliamo di derivazione di una lingua dall'altra dobbiamo immaginare un confluire di più ruscelli che a mano a mano
si mescolano e si sovrappongono per convergere, dopo molto tempo, in un unico corso d'acqua. Non dobbiamo ritenere che
da una lingua latina unitaria parlata e scritta allo stesso modo da tutti gli abitanti dei territori di Roma, siano improvvisamente
scaturite, con la caduta dell'impero, lingue autonome diverse tra loro. Il processo fu molto più lungo.
Alla base delle lingue romanze non c’è il latino classico, ma un latino molto difficile da circoscrivere.
Dalla fonazione di Roma (VIII sec. a.C), fino alla fine dell’Impero Romano d’Occidente (476 d.C), il latino vivrà continui
cambiamenti e non sarà neanche esteso a tutti i territori conquistati. L’affermarsi lento ma progressivo del predominio di
Roma garantì il successo e la diffusione della lingua latina; ciò non significa che al sopraggiungere dei Romani nelle province
conquistate si determinasse un’immediata latinizzazione, perché al contrario, il processo fu caratterizzato dalla convivenza con
le lingue parlate dalle diverse popolazioni prima dell’arrivo dei dominatori (si attraversava una fase di bilinguismo). Le
province italiane cominciarono prima delle altre ad abbandonare le lingue originarie.
Non è neppure facile stabilire quando ciascuna delle lingue dell’Italia preromana si sia definitivamente estinta; possiamo solo
datarne (in qualche caso) le ultime testimonianze scritte e cogliere le tracce della loro esistenza nel latino. In questi casi si parla
di sostrato, cioè di una lingua che dopo una lunga fase di bilinguismo è stata scalzata da un'altra, ma è riuscita a far
sopravvivere in quest'ultima traccia di sé.
Ogni lingua è composta da un insieme di varietà caratterizzate da tratti fonetici, morfologici, sintattici e lessicali,
dipendenti da fattori non linguistici che possono essere di tipo geografico (varietà diatopiche), sociale (varietà diastratiche),
situazionale (varietà diafasiche).
Per molto tempo i linguisti hanno registrato e studiato tutti i fenomeni devianti del latino classico nel tentativo di ricostruire i
tratti del latino parlato attraverso variabili temporali, spaziali, sociali o situazionali.
Le FONTI (individuate dalla sociolinguistica storica) che hanno avuto e hanno un ruolo di maggior rilievo per le indagini
sulle trasformazioni linguistiche del latino sono:
- Le iscrizioni latine. Comprendono tipologie testuali diverse, come ad esempio le epigrafi ufficiali, e sono composte
sulla base di formulari fissi;
- I glossari. Potremmo ricondurli ai più antichi tipi di vocabolari, che si presentano come liste di parole difficili o rare,
a cui si affiancano, per favorirne la comprensione, parole più usuali e diffuse;
- Le scritture private. Spesso redatte da persone con un basso grado di iscrizione;
- I testi giuridici e legali. Il grado di conoscenza del latino dei notai e le loro abitudini scrittorie, rientrano tra le
variabili di cui tener conto nella descrizione di documenti caratterizzati dalla convivenza di forme e strutture mutevoli.
- I testi di natura letteraria o non destinati a usi privati o giuridico-amministrativi.
- I trattati. Potevano essere di architettura, veterinaria… e ponevano attenzione alla chiarezza dei contenuti piuttosto
che all'eleganza dello stile, lasciando quindi trapelare fenomeni distanti dal latino classico.
- La letteratura e gli scritti legati alla religione cristiana.
- Le opere dei grammatici. Questi testi mettevano in guardia i lettori dagli errori in cui era possibile incorrere per le
interferenze con il latino adoperato nella comunicazione quotidiana.
Importante per la transizione dal tipo linguistico latino a quello neolatino è la perdita della FLESSIONE DEI CASI, con una
conseguente nuova fissazione dell'ordine degli elementi nella frase. Nella declinazione nominale, infatti, le desinenze non
esprimevano solo la distinzione del genere e del numero, ma indicavano anche le relazioni sintattiche, segnalando quale
elemento della frase costituisse il soggetto, quale il complemento e così via. Se osserviamo una frase semplice dell'italiano
come Marco ama Giulia, ci rendiamo conto quanto la posizione dei costituenti sia importante per stabilire il rapporto tra
soggetto verbo e complemento diretto, e come, inoltre, il significato e il ruolo sintattico di soggetto e oggetto cambierebbero
se la sequenza fosse diversa. In latino la stessa frase poteva presentare un diverso ordine senza che le relazioni sintattiche o il
significato cambiassero.
La fine della distinzione tra i casi fece sì che la disposizione delle parole assumesse una funzione essenziale per individuare i
legami sintattici, favorendo la distinzione tra soggetto e oggetto posti rispettivamente prima e dopo il verbo. Si affermò quindi
in molte lingue romanze l'ordine SVO (soggetto – verbo – oggetto) che ancora oggi viene considerato in italiano quello più
frequente.
La prima attestazione certa di un volgare percepito come lingua autonoma ci viene da una testimonianza contenuta
nelle deliberazioni prese dal Concilio di Tours nell'813, quando il corpo episcopale proveniente dalle aree romanze e da quelle
germaniche si riunì anche per volontà dell'imperatore Carlo Magno. I vescovi riuniti a Tours avevano preso coscienza della
netta separazione tra il latino e le lingue parlate dal volgo, le sole a cui sarebbe stato ormai necessario ricorrere per predicare la
verità di fede. La disposizione non conferma soltanto l'autonomia del volgare, ma anche la coesistenza paritaria di una lingua
romanza da un lato e di un idioma di derivazione germanica dall'altro, un confronto tra lingue di origine diversa che si rivela
importante per cogliere un'identità linguistica ormai indipendente dal latino. Adoperare il volgare nella recitazione, nella
stesura delle omelie implicava non solo un suo pieno riconoscimento, ma anche l'instaurarsi di nuove interazioni tra i
componenti delle comunità linguistiche: non si trattava della fine della scrittura in latino (a cui, invece, erano stati riservati per
secoli gli ambiti più prestigiosi della filosofia, della scienza...), ma di una spinta che, prodotta dai nuovi assetti politici e dalla
necessità della Chiesa di parlare ai fedeli, favoriva l'impulso a mettere per iscritto il volgare. La sollecitazione nasceva dagli
alfabetizzati, cioè coloro in grado di comprendere le diverse esigenze comunicative e di sperimentare una grafia adatta a
rappresentare i suoni delle nuove lingue.
La più antica attestazione scritta di un volgare romanzo viene identificata con i Giuramenti di Strasburgo (842): si tratta di
un giuramento fatto tra Carlo il Calvo e Ludovico il germanico (fratelli) per rinnovare l'alleanza contro l’altro loro fratello
Lotario I (tutti e tre figli di Ludovico il Pio). Nitardo, nipote di Carlo Magno, espone l'avvenimento in latino e riferisce il
discorso rivolto dai due fratelli agli eserciti, sempre in latino. Successivamente però le formule di giuramento concordate dai
due principi sono riprodotte nelle lingue originali: Ludovico si serve del volgare romanzo rivolgendosi agli uomini di Carlo e
gli eserciti giurano ognuno nel proprio volgare.
- L’indovinello Veronese è contenuto in un codice liturgico scritto in Spagna nel VIII secolo e giunto, dopo vari
percorsi, a Verona dove è oggi conservato. Nel margine superiore del manoscritto si leggono due note tracciate: la
seconda delle due è in latino, mentre la prima si presenta in una forma ambigua. La nota in latino è una formula di
ringraziamento al signore, mentre l'altra contiene un indovinello che nasconde, sotto la metafora dell'aratura e della
semina, l’atto dello scrivere: i prati bianchi corrispondono al foglio, l'aratro bianco alla penna d'oca e il seme nero
all'inchiostro. L'esordio con il verbo iniziale se pareba = spingere avanti, ci suggerisce che la traduzione
dell'indovinello diviene: spingeva davanti a sé i buoi, arava bianchi prati e un bianco aratro teneva e un nero seme seminava.
Nonostante le diverse obiezioni, l’indovinello si può riconoscere come il primo documento di un VOLGARE della
penisola italiana (ma non siamo in grado di dire quale fosse l'intenzione dello scrivente e se si tratti, dunque, di un
testo volgare o di uno scritto latino con intrusione di volgarismi).
- Il graffito della catacomba romana di Commodilla è stato ritrovato in una cappella sotterranea dove fino alla
metà del IX secolo erano stati conservati i corpi dei santi Felice e Adàutto. A Francesco Sabatini si deve il primo
importante studio linguistico su questa testimonianza. Il graffito è inciso nello stucco della cornice di un affresco e
Sabatini ritiene che la frase sia interamente VOLGARE, il cui significato sarebbe: non dire le (o quelle) segrete a voce (alta).
Nella lingua originale (non dicere illa secrita a bboce), l'attribuzione del genere femminile a secrita dipende
dall’interpretazione che Sabatini quanto altri studiosi hanno dato del graffito. Erano denominate secrete le preghiere che
nella liturgia latina preconciliare dovevano essere recitate a bassa voce o al momento dell'offertorio o per la
celebrazione eucaristica. Da qui sarebbe derivato un ammonimento rivolto al sacerdote di non pronunciarle a voce
alta. Emilia Calaresu trova debole l'interpretazione legata ai rituali della celebrazione liturgica, perché sostiene che
non ci sarebbero prove che a quel tempo, subito dopo la riforma di Carlo Magno, anche a Roma fosse già stata
pienamente adottata la recitazione delle preghiere sopra le offerte o di quelle eucaristiche. Inoltre, a suo avviso, non è
stata considerata la posizione in cui si trova l'iscrizione all'interno della cappella: affinché il sacerdote potesse averla
sempre sotto gli occhi, la scritta si sarebbe dovuta trovare in corrispondenza dell'altare, ma la struttura dell'ambiente
sembra dimostrare che la scritta era invece collocata a sinistra ed era distante dal punto in cui il sacerdote celebrava la
messa. Calaresu, quindi, mette in relazione il Graffito con l'affresco nella cui cornice era stato prodotto e che raffigura
i due martiri; Il martirio dei due santi sarebbe avvenuto agli inizi del IV secolo durante la persecuzione di Diocleziano,
quando i cristiani erano costretti a praticare in segreto la propria fede e non dovevano autodenunciarsi alle autorità
romane, sia per evitare che altri membri della comunità fossero scoperti, sia per obbedire al dettato di Cristo che
aveva raccomandato ai propri discepoli di lasciare le città in cui fossero stati perseguitati e di cercare il rifugio altrove.
La più antica storia di Felice e Adàutto, racconta che al momento della condanna a morte di Felice, Adàutto avrebbe
dichiarato di professare la stessa fede del condannato e di volerne condividere la sorte. Entrambi, quindi, erano stati
decapitati. La vicenda suscitò sentimenti contrastanti da parte dei fedeli: da un lato l’ammirazione per il sacrificio
consumato dai due santi e dall'altro la perplessità per l'autodenuncia di Adàutto. Da qui l'interpretazione di Calaresu,
secondo la quale secrita non indicherebbe ‘le preghiere’, ma più semplicemente ‘i segreti’, rinviando così al gesto del
giovane martire che aveva scelto di non custodirli. A stilare la scritta sarebbe stato non un religioso, ma un laico che
tramite l'imperativo non dicere, si sarebbe rivolto al santo per rimproverarlo dell’autodenuncia o avrebbe consigliato
ai futuri lettori di non comportarsi come Adàutto per evitare di fare la sua stessa fine.
Nonostante queste interpretazioni, la distanza cronologica che ci separa da quei secoli rischia di non farci cogliere
alcune sfumature: dall'epoca del martirio dei due santi agli anni in cui fu redatta l'iscrizione passano circa 5 secoli, e
uno o due separano la scritta dalla produzione dell'affresco, quindi molte cose cambiano nel corso di un tempo così
lungo. Quindi possiamo solo formulare ipotesi.
Pochi anni dopo lo studio di Sabatini, il graffito è stato danneggiato da un atto vandalico e successivamente restaurato,
ma non si è riusciti a riportarlo all'aspetto originario.
Dunque, com’è possibile che a distanza di così tanti secoli dalla morte dei santi, nel pieno di una devozione che
vedeva il più grande atto di fede del martirio, piuttosto che nel silenzio all’epoca delle persecuzioni, un fedele potesse
essere indotto a raccomandare in un luogo di devozione e in modo un po’ irriverente, di rispettare i segreti piuttosto
che di proclamare il proprio credo(?)
- L’iscrizione di San Clemente risale alla fine dell’XI secolo e si trova in un affresco della Basilica sotterranea di San
Clemente a Roma. Fin dalle più antiche chiese cristiane, le immagini raffigurate nei dipinti murari erano ritenute utili
per l'educazione religiosa dei fedeli: rappresentavano spesso storie dell'antico e del nuovo testamento o scene di vita
dei santi disposti in ordine cronologico, in modo tale da consentire anche agli analfabeti di ricostruire e ricordare la
successione degli episodi. L’intero dipinto svolge una funzione simbolica - morale e ne abbiamo la conferma
dall'insieme dei riquadri in cui è ripartito:
- Il primo e più alto raffigura l'assunzione di Clemente al Soglio Pontificio;
- Il secondo riproduce al centro il Santo che celebra la messa, mentre nella sezione di destra il patrizio pagano Sisinnio,
divenuto cieco e sordo per aver tentato di fare irruzione durante la cerimonia (e costretto ad andar via) a cui
partecipava anche la moglie di fede cristiana;
- Il terzo e ultimo riquadro narra di un altro miracolo: Sisinnio, che ha riacquistato la vista e l'udito, ordina ai servi di
catturare Clemente, ma i tre cercando di trasportarlo non si accorgono che il suo corpo si è trasformato in una
pesante colonna di pietra.
Accanto ai personaggi, negli spazi che li separano, sono collocate le frasi in volgare pronunciate da alcuni di loro,
mentre al di sopra della colonna di pietra si leggono le parole latine del Santo (anche se nell'affresco non è chiaro il
rapporto tra i personaggi e le parole pronunciate, perché le didascalie non sono collocate in maniera tale da farci
capire con esattezza chi dica cosa; secondo alcuni la lettura dovrebbe procedere da destra verso sinistra).
Il dato più rilevante è il contrasto che nell'affresco si crea tra un VOLGARE DI REGISTRO BASSO che
caratterizza le parole dei Pagani, e il LATINO NOBILE in cui è espressa la condanna morale del Santo.
1 modo di acquisto a titolo originario della proprietà mediante il possesso continuativo del bene immobile o mobile per un periodo di
tempo determinato dalla legge.
Una lingua può essere studiata in sincronia e in diacronia: nel primo caso il linguista analizza i fenomeni che caratterizzano
un sistema linguistico condiviso da una comunità parlante in una ben precisa area geografica; nel secondo, invece, cerca di
studiare e ricostruire i cambiamenti intervenuti in un sistema linguistico lungo un determinato arco temporale: l'insieme dei
mutamenti fonologici (fonetica storica), morfologici e sintattici (grammatica storica), ma anche lessicali, subiti da una
lingua circoscritta in uno specifico periodo di tempo sono l'oggetto di studio della LINGUISTICA STORICA.
Sincronia e diacronia non possono separarsi dal momento che i due tipi di analisi intrecciano di frequente metodi e
prospettive. Quando pensiamo a tutti i fattori legati al tempo che hanno il potere di incidere sull'evoluzione di qualsiasi
linguaggio verbale, parliamo anche di variazione diacronica, per ricostruire la quale dobbiamo tener conto sia dei
cambiamenti fonetici, grammaticali e lessicali subiti da una lingua sia degli avvenimenti politici, economici e sociali che li
hanno condizionati. Gli studiosi continuano spesso a riferirsi a questa duplice prospettiva con le definizioni di storia
linguistica interna e storia linguistica esterna; intendendo, con la prima, l'insieme dei cambiamenti che intervengono nelle
strutture di una lingua a causa del divenire del tempo, dei passaggi da una generazione all'altra, dei contatti con lingue
diverse…, e con la seconda le cause storiche, politiche, demografiche o culturali che possono incidere sulle sue trasformazioni.
Se intendiamo procedere con l'analisi sincronica dell'italiano contemporaneo, possiamo utilizzare fonti molteplici, ricorrendo
anche a strumentazioni molto sofisticate che ci consentono, per esempio, di registrare il parlato vivo, di confrontarlo con
attestazioni scritte di diversa tipologia o di incrociarlo con il trasmesso dei media; per ricostruire, invece, i fenomeni linguistici
del passato dobbiamo fondarci, come si è visto, sulle testimonianze scritte, che, per restituire informazioni il più sicure
possibili, devono essere numerose e affidabili. Quanto più alto è il numero dei documenti di cui disponiamo per una
determinata epoca e per una certa area e quanto più sicura è, sul piano filologico, la loro restituzione, tanto più ampia e
attendibile sarà la ricostruzione di questo o quel fenomeno. Pertanto, LINGUISTICA STORICA E FILOLOGIA SONO
STRETTAMENTE CONNESSE TRA LORO: l'analisi linguistica, infatti, deve basarsi su testi filologicamente affidabili,
così come la restituzione filologica necessita, d'altro canto, dei dati linguistici per stabilire, per esempio, la datazione di un
documento o la sua collocazione geografica.
Se pensiamo, per esempio, all'espressione del pronome soggetto nell'italiano contemporaneo, ricordiamo subito che la nostra
lingua, come già il latino, rientra, dal punto di vista tipologico, tra le lingue pro-drop o a soggetto nullo, che possono, cioè, non
esprimere il pronome in funzione di soggetto perché facilmente recuperabile attraverso la flessione del verbo. In italiano sono
pochi i contesti in cui l'espressione del pronome è obbligatoria, per esempio quando quest'ultimo è accompagnato da aggettivi
o avverbi rafforzativi (lei stessa ha rifiutato l'invito; neppure loro verranno) o quando è seguito da un relativa (voi, che avete avuto tutto
dalla vita, non potete lamentarvi); in altri casi, invece, come avviene con verbi che indicano fenomeni atmosferici (piove), il pronome
soggetto, a differenza di ciò che accade in altre lingue, non è proprio consentito. La cancellazione del soggetto pronominale è
più seguita nello scritto formale che nel parlato.
La lingua italiana conta 30 fonemi, che comprendono 7 vocali, due approssimanti (o semivocali/semiconsonanti) e 21
consonanti; 15 tra queste ultime, tuttavia, possono, in posizione intervocalica, essere tanto brevi quanto lunghe (definite
rispettivamente anche "scempie" e "doppie" a causa della loro trasposizione grafica), mentre, delle restanti 6, 1 è sempre
breve (la sibilante sonora /z/) e 5 sono sempre lunghe (le affricate alveolari sorda e sonora /ts/ e /dz/, la nasale palatale
/n/, la laterale palatale /≤/, e la sibilante palatale /f/). Il numero complessivo dei fonemi dell'italiano sale a 45.
VOCALI
È importante distinguere tra vocali toniche sulle quali cade l’accento e vocali atone prive di accento: nella parola távolo la a è
tonica, mentre le due o sono atone. In sede tonica, in italiano si hanno 7 vocali, la cui diversa produzione dipende dalla
posizione bassa o alta del dorso della lingua (vocali alte, medio-alte, medio-basse, basse) o dal suo spostamento in avanti,
verso il palato duro (vocali anteriori o palatali), o indietro, verso il velo palatino (vocali posteriori o velari). In base a
queste diverse articolazioni, disponiamo tradizionalmente i sette fonemi vocalici lungo un triangolo rovesciato:
APPROSSIMANTI E DITTONGHI
A causa dell'avvicinamento degli organi fonatori, l'articolazione approssimante fa passare l'aria attraverso un canale molto
stretto. In italiano le approssimanti sono sempre sonore e sono in tutto due, approssimante palatale /j/ (iena ['jena]),
prodotta con l'avvicinamento del dorso della lingua al palato, e approssimante velare /w/ uomo [womo)), realizzata con
l'avvicinamento del dorso della lingua al velo palatino.
Le approssimanti hanno un ruolo importante nella formazione dei dittonghi, che consistono in una sequenza di due vocali
appartenenti alla stessa sillaba. Le approssimanti si distinguono in semiconsonanti e in semivocali, rispettivamente
rappresentate da [j], [w] e da [i], [u]. Le semiconsonanti seguite da una vocale costituiscono dittonghi ascendenti (cuore
['kwore]), mentre le semivocali precedute da un suono vocalico formano dittonghi discendenti (causa ['kauza]).
CONSONANTI
Nella realizzazione delle consonanti, l'aria incontra sempre un ostacolo, che si produce in modi diversi e in diversi luoghi
dell'apparato fonatorio. Le corde vocali, inoltre, non sempre vibrano, producendo così suoni sordi e sonori.
Gli elementi da tenere in considerazione per la classificazione dei suoni consonantici sono:
- il modo dell'articolazione, ovvero il tipo di ostacolo che si forma al passaggio dell'aria nella cavità orale;
- il luogo dell'articolazione, cioè il punto della cavità in cui si localizza l'ostacolo;
- la presenza o assenza di vibrazione delle corde vocali che, nel primo caso, producono suoni sonori, nel secondo,
sordi.
La ristrutturazione del sistema vocalico, determinata dalla perdita del valore distintivo della quantità, portò a un sistema a 7
vocali fondato sulla qualità. Una distinzione di tipo quantitativo è, in realtà, ancora percepibile nella riproduzione dei suoni
vocalici dell'italiano: sono, infatti, realizzate come lunghe le vocali toniche in sillaba aperta (terminante per vocale) non finale
(['me:la]), e come brevi le vocali toniche in sillaba chiusa (che termina, cioè, in consonante).
Per quanto riguarda i mutamenti dal latino, per il vocalismo tonico possiamo ricostruire i seguenti passaggi:
Nel latino classico erano presenti, in posizione tanto tonica quanto atona, anche i dittonghi AE, OE, AU, che subirono
monottongazione e si trasformarono quindi in una vocale semplice. OE divenne E, AE divenne E, AU monottongò in Ō.
Il vocalismo atono dell'italiano presenta, nel confronto con il latino, solo 5 vocali; nella sillaba priva di accento, infatti, si
neutralizza l'opposizione di apertura e chiusura delle vocali medio-alte e medio-basse:
ANAFONESI
L'altro fenomeno che contraddistingue il vocalismo tonico del fiorentino e che da qui si è trasmesso all'italiano è l'anafonesi.
Abbiamo due tipi di anafonesi: con il primo la vocale medio-alta /e/ si realizza come /i/ davanti a laterale palatale /l/ e a
nasale palatale /h /: CONSILIUM > consiglio. Con il secondo tipo, la /e/ si chiude in /i/ davanti a nasale seguita da velare
sia sorda sia sonora (LINGUAM > lingua), e la /o/ passa alla vocale alta /u/ solo davanti a nasale + velare sonora
(LONGUM > lungo), mentre non subisce chiusura anafonetica davanti al nesso nasale + velare sorda (TRÜNCUM >
tronco).
FENOMENI GENERALI
Si definiscono fenomeni o accidenti generali alcune modificazioni che non si sono verificate in modo regolare e sistematico e
che talvolta sono stati provocati dal rifiuto di alcuni contesti fonici: si tratta, infatti, di fenomeni che rispetto alla base latina
perlopiù riducono o accrescono i foni di una parola.
I fenomeni che aggiungono un fono al corpo della parola sono:
la PROSTESI al suo inizio, l'EPENTESI di foni all'interno e l'EPITESI alla fine.
La prostesi più rilevante per l'italiano consiste nell'aggiunta di una /i/ all'inizio di parole che cominciano con /s/ seguita da
consonante. Nell'italiano contemporaneo il fenomeno è quasi del tutto scomparso: sopravvive solo in sequenze come per
iscritto, tipico dell'italiano burocratico, o più raramente nel parlato, soprattutto a Firenze e in Toscana. La /i/ iniziale di forme
come istesso e istoria, frequenti nell'antica lingua letteraria, si è ugualmente dissolta.
Con l'epentesi si inserisce, all'interno della parola, una vocale, soprattutto la /i/, o una consonante, più spesso la /v/, per
evitare l'incontro di consonanti o vocali in iato: RINA(M) > rovina. L'epentesi della vocale è anche detta "anaptissi".
Per quanto riguarda l'epitesi, era caratteristica del fiorentino antico l'aggiunta di una /e/ alla fine di un monosillabo tonico o
di una parola ossitona (ee, piùe, trovòe ecc.) per reazione alle forme accentate sull’ultima sillaba. Non è da considerarsi epitesi la
/e/ finale di forme come fue o die, dove la vocale è etimologica (rispettivamente da FUIT e DIEM); con il tempo, però, furono
erroneamente interpretate come formazioni epitetiche e scomparvero insieme alle altre.
METATESI
Pur non producendo riduzione o accrescimento del corpo fonico delle parole, si riconducono tradizionalmente ai fenomeni
generali la metatesi, l'assimilazione e la dissimilazione. La metatesi consiste nell'inversione di due suoni (prevalentemente
consonantici) che, all'interno della stessa parola, prendono l'uno il posto dell'altro: FRACIDUM ha dato fracido, come si legge
in testi fiorentini e toscani antichi, ma successivamente si è avuto fradicio.
ASSIMILAZIONE E DISSIMILAZIONE
Con l'assimilazione, un suono assume, totalmente o parzialmente, le caratteristiche di un altro suono vicino. Si parla di
assimilazione regressiva quando, in una successione di due suoni, è il primo a subire l'influenza del secondo e ad assimilarsi:
SEPTEM > sette, NOCTEM > notte. Il fiorentino e quindi l'italiano conoscono solo l'assimilazione regressiva, mentre in altre
aree della penisola è presente anche l'assimilazione progressiva, in seguito alla quale, in una successione di due suoni, è il
secondo ad assumere le caratteristiche del primo, come avviene, per esempio, nel romanesco MUNDUM > monno o nel
napoletano PALUMBAM > palomma, nel siciliano PLUMBUM > chiummu e così via.
La dissimilazione è il fenomeno contrario, per cui due suoni vicini si differenziano l'uno dall'altro. Vediamo alcuni esempi nel
passaggio dal latino all'italiano: abbiamo dissimilazione di /r/-/r/ in QUAERERE › chiedere, PE-REGRINUM > pellegrino,
ARMARIUM > armadio; di /n/-/n/ in VENENUM > veleno, BONONIA > Bologna; di /1/-/l/ in COLUC(U) LA >
conocchia ecc.
IL RADDOPPIAMENTO FONOSINTATTICO
Nela lingua parlata non pronunciamo le parole separandole distintamente le une dalle atre, ma le realizziamo in un’unica
catena ininterrotta, che definiamo continuum fonico: accade, pertanto, che nell'incontro di una parola con l'altra si possano
produrre cambiamenti fonetici che denominiamo, quindi, fenomeni di fonetica sintattica. In questo ambito descriviamo,
pertanto, quei cambiamenti fonetici che si producono perlopiù al confine delle parole, ovvero nella loro parte iniziale o finale,
quando siano connesse da un forte legame sintattico e non siano divise da pause. L'elisione e l'apocope rientrano tra i
mutamenti di fonetica sintattica, ma un'attenzione particolare, anche per gli studi che gli sono stati dedicati, merita il
raddoppiamento fonosintattico, presente sia a Firenze e in Toscana:
Il fenomeno consiste nell'allungamento della consonante iniziale di una parola quando questa sia preceduta da parole accentate
sull'ultima sillaba o da altre forme terminanti in vocale; nell'italiano standard, quindi, pronunciamo caffe caldo come caffeccaldo
[ka'f:e 'k:aldo] e non [ka f:e kaldo), a casa come accasa [a'ka:sa] e non [a'ka:sa]. Il raddoppiamento si produce:
◦ dopo parole ossitone, siano esse mono o polisillabiche (giù, ciò, né, porto, mangiò, perché ecc.);
◦ dopo molti altri monosillabi come le preposizioni (a, da, fra, su), le congiunzioni (che, e, se), i pronomi (tu, me, te, chi), i
nomi…;
◦ dopo alcuni bisillabi piani (sopra, come, dove, qualche).
Gli studi linguistici hanno visto all'origine del fenomeno l'esito di un'assimilazione regressiva: molte delle parole che
provocano il cambiamento fonetico, infatti, terminavano con una consonante, che prima di cadere è stata assimilata dalla
consonante della parola seguente (AD MARE > ammare, PLUS PANEM > più ppane, TRES CANES > tre ccani ecc.).
Successivamente, a Firenze e in Toscana il fenomeno si è esteso ed è stato in particolare condizionato dalle parole ossitone.
MORFOLOGIA
L'italiano ha ereditato dal latino un sistema flessivo molto ricco, soprattutto per quanto riguarda la morfologia del verbo, di
particolare trasparenza nel dare, attraverso i morfemi grammaticali, informazioni su persona, numero, tempo e modo. La
flessione morfologica del latino, tuttavia, era molto più complessa rispetto a quella dell'italiano, la cui morfologia del nome,
risulta più opaca, avendo conservato la possibilità di dare informazioni su genere e numero ma perso quella di specificare il
ruolo sintattico. In seguito ad alcuni mutamenti fonetici, infatti, come la perdita della durata vocalica e la caduta delle
consonanti finali, venne meno il sistema di casi e declinazioni, attraverso il quale il latino consentiva il riconoscimento di
funzioni logiche e di ruoli grammaticali. Ciò provocò nelle lingue romanze alcune innovazioni, come l'indicazione della
funzione sintattica in modo analitico, tramite cioè perifrasi preposizionali: se in latino si poteva, per esempio, segnalare il
passaggio dal caso nominativo, che indicava il ruolo del soggetto, al genitivo, che indicava il ruolo del complemento di
specificazione, attraverso la sostituzione della desinenza, in italiano abbiamo invece bisogno di ricorrere a un elemento esterno
come la preposizione. L'indicazione del ruolo sintattico tramite il morfema grammaticale consentiva, tra l'altro, di
spostare con più facilità i componenti della frase, mentre la sua dissoluzione produsse una maggiore rigidità nell'ordine delle
parole. La frase semplice filius (nominativo) amat matrem (accusativo) (il figlio ama la madre') avrebbe potuto presentarsi anche
nell'ordine filius matrem amat o matrem amat filius, conservando sempre lo stesso significato; in italiano, invece, la posizione di
soggetto e oggetto diretto diventa essenziale per comprenderne la funzione.
IL NOME
Le cinque declinazioni del latino subirono un profondo riassestamento in seguito al quale solo le prime tre hanno avuto una
continuità (silva 'selva, lupus 'lupo, canis 'cane'), mentre la quarta e la quinta sono state assorbite con qualche eccezione e in modi
diversi dalle altre. Questo passaggio, che viene denominato metaplasmo di declinazione, ha fatto confluire, per esempio,
nomi della quarta declinazione come arcus o portus ('arco', 'porto'), nella stessa classe dei nomi in -o (come lupo) derivati dalla
seconda, o ha fatto rientrare nomi quali facies o rabies ('faccia, rabbia') della quinta declinazione nella classe dei nomi in -a (come
selva) derivati dalla prima.
Una delle spinte che contribuì al collasso delle cinque declinazioni fu la tendenza del caso accusativo ad assumere, già in
latino, funzioni sintattiche diverse da quelle del complemento oggetto, estendendosi a ricoprire il ruolo del nominativo per il
soggetto. Questa estensione progressiva del valore sintattico dell'accusativo è confermata dal suo essere alla base della gran
parte dei nomi dell'italiano e delle altre lingue romanze. Ne vediamo la prova soprattutto negli esiti dei nomi della terza
declinazione: se pensiamo, infatti, ai sostantivi delle classi in -o e in -a come lupo e selva, questi potrebbero apparirci sia
derivazioni dei nominativi lupus e silva sia continuatori degli accusativi lupum e silvam (accusativo), ma se guardiamo all'uscita
in -e di nomi quali plebe, sole, regione capiamo che alla loro base non possono esserci i nominativi plebs, sol, regio, ma gli accusativi
plebem, solem, regionem. Pochissimi sono i casi di nomi che invece continuano il nominativo, come ladro, moglie, re, uomo
(rispettivamente da LATRO, MULIER, REX, HOMO); nei dialetti della penisola, però, le stesse basi lessicali hanno avuto
continuazioni dall'accusativo, come óminu in calabrese da HOMINE(M) o mugèr in veneziano da MULIERE(M). Qualche
relitto del genitivo locativo, che esprimeva il complemento di stato in luogo (ROMAE in Roma'), è rimasto in toponimi quali
Firenze (< FLORENTIAE) o Rimini (< ARIMINi).
La formazione del plurale è più complessa: la classe dei nomi in -o continua il plurale in -i del nominativo della seconda
declinazione (LUPi > lupi); il plurale in -e dei femminili con uscita in -a potrebbe essere esito sia del nominativo della prima
declinazione, -AE, sia dell'accusativo -Ãs.
L’ARTICOLO
Il latino classico non possedeva gli articoli, che sono stati un'importante innovazione delle lingue romanze.
Per quanto riguarda l'articolo determinativo, i pronomi latini ILLŨ(M), ILLA(M) andarono via via affievolendo la loro
funzione di dimostrativi e ne assunsero una nuova. Tra le più antiche attestazioni del nuovo valore del dimostrativo, gli
studiosi indicano sempre le prime versioni latine della Bibbia di origine cristiana, che includono quindi sia l'Antico sia il Nuovo
testamento e che vanno sotto il nome di Vetus Latina. Le versioni della Vetus precedono la traduzione nota come Vulgata
ed eseguita, tra la fine del IV e gli inizi del V secolo, da san Girolamo, che cercò di conciliare la fedeltà al testo greco con la
chiarezza dell'esposizione e l'accuratezza del latino. Le traduzioni prece-denti, al contrario, a volte per inadeguatezza delle fonti
e a volte per un uso improprio della lingua latina, non erano sempre impeccabili; spesso la volontà di rimanere il più possibile
fedeli al testo di partenza, si incorreva in un eccesso di letteralità, tale da rendere il testo d'arrivo poco comprensibile.
Lo sviluppo dell'articolo determinativo è stato spiegato con un'aferesi, per cui abbiamo avuto lo dall'accusativo (iL)LÜ(M)
per il maschile singolare e la da (iL)LA(M) per il femminile. Per il plurale femminile Le, è possibile pensare a una
continuazione dell'accusativo (iL)LA(s) o del nominativo (iL)LAE -, mentre per il plurale maschile dobbiamo risalire al
nominativo (iL), da cui si è successivamente palatalizzato in gli o ridotto a i.
IL VERBO
Il latino classico possedeva quattro coniugazioni: la prima in -ÄRE (AMARE), la seconda in -ĒRE (TIMERE), la terza in -
ERE (LEGERE), la quarta in -IRE (AUDĪRE). In italiano si sono ridotte a tre per la fusione della seconda e della terza.
SINTASSI
I cambiamenti che più hanno caratterizzato la formazione dell'italiano:
Nel basso medioevo, tra la fine del XII e gli inizi del XIV secolo, l'incremento delle scritture in volgare è stato influenzato dai
numerosi punti di incontro tra il latino medievale e le lingue romanze. Il mediolatino, già da tempo acquisito, aveva
sviluppato caratteristiche proprie e aveva integrato elementi romanzi nel suo sistema linguistico. Non solo i testi popolari, ma
anche documenti ufficiali riflettevano questa interazione linguistica. Nonostante la crescente differenziazione tra latino e nuove
lingue, il mediolatino conservava tracce di neologismi volgari, specialmente nel lessico. Il periodo dal IX al XII secolo fu
cruciale per la produttività letteraria medievale e segnò una transizione verso una crescente autonomia dei volgari nelle
scritture ufficiali e nella formazione di nuove funzioni nei contesti politici e sociali negli Stati e nei comuni politicamente
autonomi. Molte di queste novità giocarono un ruolo essenziale nello sviluppo di alcuni generi letterari e di altre tipologie di
testi in volgare. La cultura mediolatina stabiliva una gerarchia dei saperi e della produzione ad essi connessa, con la
teologia e la filosofia al vertice e la letteratura amorosa nei gradini più bassi. Anche nelle scritture religiose esistevano gerarchie:
l'esegesi biblica era al vertice, mentre le compilazioni prive di elaborazioni teoriche ma utili al clero per trasmettere la dottrina
ai laici occupavano i livelli più bassi.
È proprio la differenza degli statuti posti a base di diversi prodotti culturali a favorire la penetrazione del volgare in ambiti che,
come la letteratura di ispirazione amorosa o la divulgazione religiosa, sono sottoposti a minore sorveglianza, lasciando al latino
l'elaborazione di saperi più alti. Tuttavia, non tutte le scritture volgari derivavano dai modelli latini o mediolatini; ci furono
innovazioni significative, soprattutto dall'area galloromanza. I testi religiosi in volgare, come canzoni di gesta, liriche e
romanzi, emersero tra il XI e il XII secolo con strutture testuali complete.
In Italia, l'adozione del volgare fu più lenta e diffusa in vari centri della penisola. Solo dal ‘200, opere letterarie e testi pratici in
volgare, come quelli notarili, iniziarono a proliferare, inclusa la prosa narrativa e le traduzioni dal latino per la divulgazione di
saperi religiosi e scientifici.
LE COMPOSIZIONI POETICHE
La poesia religiosa
I primi testi in volgare a cui possiamo attribuire, nella nostra storia linguistica, un valore letterario sono componimenti
poetici, che hanno spesso punti di contatto con la devozione religiosa. Il Ritmo Cassinese e il Ritmo su Sant'Alessio, per
esempio, rinviano entrambi agli elementi benedettini e furono una funzione di stimolo alla produzione di testi volgare.
Il Ritmo Cassinese mette a confronto due personaggi che contrappongono due ideali di vita, uno improntato alla spiritualità e
alle virtù morali, l'altro legato ai beni terreni e al dominio dei sensi. Entrambi lasciano pensare, l'uno per la costruzione
dialogica, l'altro per l'andamento narrativo volto a catturare ed educare il pubblico, a un nesso con la produzione dei giullari,
più vicini all'opera dei religiosi di quanto si può immaginare: nella vita cittadina del XIII secolo, infatti, cresce il numero di
professionisti della parola e ai predicatori si aggiungono anche i GIULLARI. I religiosi non disdegnano le recitazioni di questi
ultimi, che si dedicano spesso a rappresentazioni di argomento religioso e alla narrazione delle vite dei santi. Per quanto
riguarda la struttura metrica, entrambi i componimenti presentano irregolarità.
L'inizio ufficiale della poesia religiosa in volgare è identificato con il Cantico di frate Sole che fu composto da Francesco
d'Assisi. Gli ordini mendicanti, nel rispondere con vigore alla crisi religiosa che aveva percorso l'Europa, assunsero un ruolo di
grande rilievo anche nell'espansione del volgare: francescani e domenicani reagirono alla diffusione delle eresie esortando a una
vita di povertà e penitenza; si insediarono nei centri urbani ed ebbero grande capacità di penetrazione tra i laici fedeli,
privilegiando il volgare per molti piani della comunicazione. Non è un caso che l'avvio di una letteratura religiosa più
tradizionalmente intesa si connetta soprattutto ai francescani, che legano a tal punto le fasi iniziali del movimento agli ideali di
povertà, semplicità e ascetismo. Il Cantico sintetizza molte delle istanze avanzate dall'ordine, a cominciare dalla rivalutazione
della realtà terrena in quanto manifestazione di Dio, che Francesco decide di esporre in volgare tramite i propri versi. La lode
di Francesco, però, contrapponendo l'esaltazione dell'operato di Dio alle visioni eretiche di un universo terreno governato dal
demonio, acquista un valore storico; egli non esclude l'esistenza del male sulla terra, ma elabora una positività nuova del
creato, attraverso il quale è possibile cogliere l'essenza divina. Il Cantico è in realtà concepito come una preghiera da
accompagnare con la musica; l'innovazione del messaggio, la cura delle scelte formali e la compattezza della struttura ne fanno
una delle opere più alte dell'antica letteratura in volgare.
Sempre agli inizi del XIII secolo, le composizioni di argomento religioso cominciano progressivamente a configurarsi secondo
linee più stabili; tuttavia, ricaviamo che le attestazioni risalenti alla prima metà del ‘200 rinviano ancora genericamente a
‘espressioni di elogio e ammirazione rivolte a Dio’ o, nella lirica amorosa, alla donna.
La lirica
Anche in Italia, come in altre aree romanze, la produzione letteraria in volgare prende le mosse dalla poesia, dove il più alto
riconoscimento artistico è sempre stato assegnato alla LIRICA, un genere che affronta più di una tematica ma che si
caratterizza per il prevalente contenuto amoroso. Alla lirica è indispensabile un volgare che non sia mutevole e instabile ma
che raggiunga una regolarità paragonabile a quella del latino. La letteratura in volgare, come già accennato, aveva avuto in Italia
un inizio tardivo rispetto a quanto era avvenuto in Francia. Tuttavia, Dante stesso aveva individuato un genere grazie al quale
anche l'Italia aveva raggiunto livelli di grande raffinatezza: la poesia lirica che era stata innalzata da un piccolo gruppo di poeti
(Cino da Pistoia, Guido Cavalcanti, Guido Guinizzelli e Dante stesso). Questo piccolo gruppo, considerato espressione del
stilnovismo, non avrebbe però goduto della stessa autorità se non avesse preso le mosse da un gruppo più ampio e di
particolare autorevolezza, costituito da poeti che avevano operato presso la Corte di Federico II e che avevano modellato la
propria lingua allontanandola dall'uso vivo.
La letteratura in lingua d’oc si era caratterizzata per la produzione di liriche che, pur essendo prevalentemente di argomento
amoroso, non escludevano i racconti di guerra e di imprese eroiche.
SCRITTURE IN PROSA
La distinzione elaborata da Dardano vede al di là della prosa caratterizzata da finalità commerciali, giuridiche e amministrative:
- una prosa media destinata all'intrattenimento attraverso testi narrativi e storici o religiosi;
- una prosa d'arte rappresentata da opere volte alla speculazione filosofica (come il Convivio).
Esse non sempre sono distinguibili tra loro: la diversità non riguarda né l'intento artistico e né gli argomenti affrontati, ma
dalla sintassi e dal modo in cui viene strutturata l'esposizione; non è dunque il tipo di fenomeni linguistici a fare la differenza,
bensì il loro diverso dosaggio, con un ricorso all'ipotassi, alle costruzioni latineggianti e alle inversioni nell’ordine delle parole.
La prosa del XIII secolo, che si distanzia da quella del ‘300, ha avuto degli esordi lenti. Lo stesso Dante, nel confrontare nel De
vulgari eloquentia i traguardi raggiunti dalle lingue del sì, d’oc e d’oil, non esita ad attribuire a quest'ultima la maggiore ricchezza
nella prosa e a rilevarne la debolezza nella prima. La Francia poteva vantare una produzione ampia e articolata che abbracciava
romanzi incentrati su cicli arturiani o su altre leggende celtiche indipendenti dai modelli latini, ma la disparità fu tuttavia solo
iniziale. Prosa latina e prosa volgare camminarono per lungo tempo affiancate e solo parzialmente la seconda potè sostituire
la prima; le due lingue inoltre si mostravano permeabili, come testimoniano gli affioramenti del volgare nella prosa mediolatina
e del latino in quella volgare. Non sarà breve il cammino che condurrà alla produzione di testi in volgare totalmente autonomi
da dipendenze di latini di vario genere. Non è un caso, infatti, che un contributo importante alla formazione della prosa
volgare provenga dalla traduzione di opere latine.
I VOLGARIZZAMENTI che traspongono (quindi che collocano una cosa al posto di un altra) anche testi da altre lingue
romanze e in particolare dal francese, spaziano tra generi differenti, intrecciandosi con le tipologie di prosa formatasi tra il
‘2/300. Il verbo tradurre è un'estensione del latino traducere e si è diffuso nella nostra lingua a partire dal ‘500; nel Medioevo,
invece, l’atto della traduzione era indicato con i verbi tra(n)slatare e volgarizzare. I due verbi si trovano uniti in una dittologia,
dove più che assumere un valore sinonimico, sembrano sottolineare la distinzione tra il semplice trasporre da una lingua
all'altra e il trasferire dal latino al volgare. Volgarizzare, pertanto, e successivamente volgarizzatore, avrebbero avuto, almeno
inizialmente, un'accezione più circoscritta, la cui lingua di partenza, il latino, godeva di un maggiore prestigio, mentre
tra(n)slatare, che nel ‘300 sarebbe divenuto dominante, aveva un'estensione più ampia, comprendendo anche le traduzioni da un
volgare all'altro.
Dopo qualche tempo, però, anche volgarizzare finì con l'essere usato per le traduzioni tra due lingue di pari peso, indicando
soprattutto la dipendenza dei contenuti di un testo da un'opera precedente. Le spinte che favorirono le traduzioni provengono
soprattutto dagli ambienti cittadini, dove si era andato formando uno strato sociale costituito da laici alfabetizzati ma con poca
o nessuna capacità di leggere il latino; perciò nacque il desiderio, da parte di un ampio pubblico, di estendere il proprio sapere
e i propri orizzonti culturali. Da qui partì la richiesta di leggere opere di narrativa destinate all'intrattenimento, racconti di epica
classica ecc…un'insieme di testi che prima di trovare una via per la produzione autonoma originale furono frutto di
traduzioni. Dopo il latino, la lingua da cui principalmente si tradusse fu il francese e non mancavano trasposizioni da un
- traduzione intralinguistica, che consiste in una sorta di riformulazione, tramite forme e parole differenti, all'interno
della stessa lingua;
- traduzione interlinguistica, che indica una vera e propria traduzione (e anche interpretazione) per mezzo di una
lingua diversa.
Nel caso dei volgari che convivevano nella penisola italiana, tuttavia, la distinzione non è sempre applicabile: nella gran parte
dei casi, chi trascriveva adattava il testo al proprio idioma senza dare peso a tale procedimento, dal momento che i tanti volgari
locali erano visti come accidenti di una stessa lingua; Non sempre però si aveva la medesima percezione, perché per esempio,
due idiomi potevano essere visti non come varietà di una stessa lingua, ma come lingua a sé stanti.
Nei casi in cui si assista agli interventi di un copista, prevalgono, nel testo trasmesso, gli adattamenti dei fonemi
fonomorfologici, mentre nel caso in cui ci si trovi davanti all'opera di un volgarizzatore, sono il lessico e la sintassi a subire le
modificazioni più profonde. Tuttavia, sarà sempre l'analisi attenta di ogni singola situazione a darci risposte più
sicure. Non possiamo guardare ai volgarizzamenti come un unico genere o un insieme compatto: si volgarizzavano, infatti,
opere diverse tra loro.
Tre filoni di particolare importanza per la storia della nostra lingua e per lo sviluppo della scrittura in prosa sono:
1) La produzione delle scritture religiose in volgare si espande fra il XIII e il XIV secolo, rispondendo a una richiesta da
parte dei tanti fedeli incapaci di intendere il latino. L'ampiezza delle opere di argomento spirituale fu tale da riuscire a
darci informazioni essenziali non solo sulle forme e l'uso del volgare, ma anche sul legame tra i lettori laici e i centri
(come le confraternite, le parrocchie…) dai quali partiva la composizione di tali testi. Ancor prima delle opere
originali, furono proprio i volgarizzamenti di ambito religioso che, animati dal desiderio di azione educativa più
che da aspirazioni letterarie, ricavarono da queste impostazioni il loro successo, facendo sì che le scritture religiose
fossero rappresentate quasi esclusivamente da traduzioni. Avevano un duplice ruolo educativo nella comunicazione
religiosa: da un lato educare attraverso la parola pronunciata dai predicatori, dall'altro commentare e illustrare la
Bibbia. Anche le Scritture, infatti, rientrano a far parte delle trasposizioni in volgare.
Una svolta decisiva si ebbe con la nascita, nel 1209 e nel 1216, dei due principali ordini di mendicanti, francescano e
domenicano, che conquistarono l'adesione dei fedeli grazie alla semplicità della parola e alle strategie retoriche
rinnovate. A loro si devono la stesura e la diffusione di molti tesi di letteratura devota, buona parte dei quali furono
frutto di traduzioni: l'impegno maggiore per ciò che riguarda le Scritture venne dai domenicani che tornarono più
volte sulla necessità di mediare, in modo semplice ma privo di errori, tra il sapere religioso e i laici ignari di latino; il
vero limite non consiste nel ricorso al volgare, che rimane indispensabile per garantire l'istruzione dei laici, ma nelle
capacità del traduttore che oltre a comprendere il latino dovrebbe essere esperto delle Scritture ed esercitato nel
parlare volgare (Domenico Cavalca era un traduttore domenicano).
3) I volgarizzamenti degli autori classici sembrerebbero mostrare sia una maggiore sensibilità verso la lingua del
testo-fonte, sia una migliore cura stilistica. Le testimonianze di cui oggi disponiamo delle traduzioni dai classici
confermano la prevalenza dei volgarizzatori toscani e soprattutto fiorentini. È a Firenze che i volgarizzamenti vivono
nella prima metà del ‘300, e anche oltre, la stagione più vivace e importante: sono gli anni in cui il volgare della città
sviluppa le sue ampie possibilità e in cui lo stesso Dante è espressione di una posizione linguistica e culturale in parte
omogenea a quella dei volgarizzamenti fiorentini.
Il ruolo importante giocato dai volgarizzamenti sulla nascita della lingua letteraria nella Firenze del ‘2/300 è stato individuato
da diversi decenni in studi che mostravano il forgiarsi del volgare soprattutto attraverso l'ampliamento del lessico e la
costruzione sempre meglio articolata della sintassi. La distanza dal testo-fonte, cioè l'adesione alle sue forme e al suo stile,
sarebbero state influenzate sia dalla lingua sia dall’autorevolezza dell'opera tradotta, mostrando un cambiamento più evidente
soprattutto nel passaggio dal ‘2/300 nelle traduzioni di classici. Se è vero che il confronto più maturo tra modelli culturali e
linguistici diversi avrebbe aiutato la prosa volgare ad acquisire e stabilizzare strutture linguistiche che in quei decenni si stavano
già definendo, è anche vero che le ricerche filologiche linguistiche degli ultimi vent'anni hanno indotto a verificare con più
attenzione la distanza tra i primi traduttori ‘più disinvolti’ e i secondi il cui volgare avrebbe mostrato la propria
attitudine a forgiarsi secondo formule più complesse. Andrebbe nuovamente esaminata anche la distinzione tra i
volgarizzamenti tratti dal latino dei classici e quelli ricavati da opere del latino medievale.
Sintassi e lessico risentirono maggiormente del contatto con il sistema linguistico del latino: nell'analizzare il testo tradotto non
si può non tener presente il testo-fonte latino e sarebbe anzi opportuno tenere sotto controllo la tradizione manoscritta di
quest’ultimo; non è quasi mai possibile sapere, infatti, su quale copia del latino il volgarizzatore lavorasse e ciò che rende
difficile stabilire se un errore del testo volgarizzato non fosse già presente nel testimone manoscritto da cui il traduttore traeva
il suo lavoro, o se una particolarità sintattica, che a prima vista ci appare come innovazione aderente al volgare, non fosse
invece un tratto del latino medievale introdotto dai copisti nell'opera originaria.
Quanto al lessico, non c'è dubbio che la pratica traduttiva consente un ampliamento notevole, quasi fondando il ‘vocabolario
del sapere volgarizzato’; Molti sono i termini, infatti, che entrano per la prima volta in volgare attraverso le traduzioni,
soprattutto quando sono legati agli ambienti tecnico-scientifici. Inoltre, molti termini introdotti per la prima volta o non
particolarmente diffusi sono spiegati ricorrendo a dittologie, in cui un sinonimo è accostato alla parola tradotta o aggiungendo
glosse introdotte da cioè, ovvero nel caso di termini di diversa origine, di cui si fornisce l'equivalente in volgare.
Anche in questo caso il lavoro del volgarizzatore, teso ad assicurare la comprensione e la trasmissione del sapere ai propri
lettori, contribuiva ad arricchire una lingua che si andava consolidando.
2Ovvero il racconto finalizzato all'esemplarità morale, pensato come componente di supporto o di altre forme comunicative,
come la predica.
Le testimonianze più numerose, di maggiore rilevanza delle scritture in volgare ci sono giunte dalla Toscana e soprattutto da
Firenze. La crescita economica e culturale della città riguarda: l'espansione dei commerci, la mole delle attività mercantili
artigianali e la nascita di compagnie bancarie, che fanno sì che la città si trovi al centro degli scambi economici mondiali.
Nel 1252 viene coniato per la prima volta il Fiorino d'oro, che prende il proprio nome dall'immagine dell'Iris (o giglio di
Firenze), impressa su una delle due facce; non solo è la prima valuta in oro dell'Europa occidentale, ma è anche la moneta che
mantiene stabile per decenni il proprio valore. Le scuole di abaco e di grammatica, in cui si apprendono tutte le nozioni necessarie
alla professione mercantile, assicurano un tasso di alfabetizzazione molto alto. A Firenze, inoltre, si concentra un numero alto
di volgarizzamenti tratti da testi latini del Medioevo e dell'età classica: è qui che l'incontro tra cultura latina e volgare
conosce una compenetrazione felice e non conflittuale. In questi anni il volto della città cambia a causa di incrementi
demografici dovuti all'arrivo dal contado di popolazioni attratte dal benessere e dalla maggiore possibilità di lavoro; si avvia la
costruzione di edifici cittadini con l'arrivo degli ordini mendicanti e cominciano a prendere forma anche alcune tra le più belle
chiese della città (come Santa Maria Novella). Tutto ciò amplia i confini del comune, assegnando a Firenze una fisionomia
europea che le permetterà di sviluppare un forte senso di indipendenza (che, iniziato nel ‘200, finirà tre secoli dopo con la
sconfitta di Siena nel 1555 e il dominio parziale della regione). Il prestigio linguistico, letterario, artistico di Firenze acquista
dunque un ruolo essenziale nella storia del nostro paese ed è inevitabile che, nel delineare la storia dell'italiano, l'attenzione si
concentri sul percorso che conduce dal fiorentino alla lingua nazionale.
- la necessità di usare la stessa lingua in cui sono state composte le canzoni: il latino, infatti, non può essere sottoposto
all'esigenze volgare, da cui si distacca, secondo il poeta, per maggiore nobilità, grazie alla capacità di rimanere stabile di
trasmettersi immutato lungo il tempo. Il latino è inoltre superiore per virtù (in quanto riesce a esprimere in modo
pieno concetti e teorie) e per bellezza (in quanto la costruzione della sua grammatica consente un'organizzazione
armoniosa delle parole). Il volgare che segue l'uso e non l'arte non riesce a raggiungere la stessa capacità di espressione
del latino.
- Il desiderio di diffondere tra il più ampio numero di lettori la conoscenza e l'amore per il sapere. Il latino non avrebbe
consentito di raggiungere i non literati (i più numerosi che desiderano intendere); avrebbe, al contrario, permesso di
soddisfare i literati, ai quali però sarebbero giunti solo i contenuti del commento e non il significato e la bellezza delle
canzoni. Queste ultime, infatti, sono state concepite in volgare.
Secondo Dante, gli unici veri destinatari del sapere più autentico sono coloro che non hanno accesso agli studi
elevati, ma che aspirano alla conoscenza. Con quest'opera vengono capovolte le sorti del volgare, perché vengono trattati
argomenti fino a quel momento negati, ma non perché nessuno avesse ancora usato il volgare per scrivere di scienza e di
filosofia, ma perché nessuno lo aveva fatto affrontando in modo autonomo una speculazione filosofica originale.
Anche il DE VULGARI ELOQUENTIA (eloquenza o arte del dire in volgare) scritto durante l'esilio (1304-1306), rimane
incompiuto e si interrompe al XIV capitolo del II libro. A differenza del convivio è scritto in latino ed è interamente dedicato
al volgare e alla poesia in volgare. Nonostante ciò, il trattato assume un significato politico e culturale prima ancora che
linguistico. L'intera opera si basa sull'assunto che la lingua è un bene donato solo agli uomini, il cui fine ultimo è la
Per spiegare il rapporto tra il volgare (lingua naturale posseduta da chiunque) e il latino (considerato lingua artificiale dominata
solo da alcuni), Dante prende le mosse dal racconto biblico del Genesi, ripercorso alla luce delle interpretazioni di
Sant'Agostino. La lingua donata come prerogativa degli uomini è trasmessa ad Adamo, che pronuncerà la sua prima parola, El,
cioè Dio. Dopo essere stati cacciati dal paradiso terrestre, Adamo ed Eva (+ i loro discendenti) intraprendono un lungo
cammino verso ovest, finché non giungono nella piana di Sennar, dove tentano di raggiungere il cielo costruendo la Torre di
Babele. Dio punisce la loro presunzione e fa in modo che gli uni non comprendano più la lingua degli altri: essi dimenticano,
pertanto, la lingua di Adamo e ogni gruppo di lavoratori che collabora alla costruzione della torre dà vita a un proprio idioma,
impendendo così la comunicazione reciproca. Gli unici a conservare la lingua originaria sono i discendenti di Eber, che non
partecipano all'impresa e che daranno origine al popolo di Israele (dalla loro stirpe nascerà il Redentore).
Ma come si sono generati, dopo la confusione babelica, i volgari che oggi adoperano tutte le popolazioni?
Dante ne ricostruisce l'evoluzione a partire dalla dispersione dell'umanità; tre dei gruppi migratori partiti da Babele, si dirigono
verso l’Europa, portando con sé tre diversi idiomi:
Ognuno di questi idiomi si sarebbe a mano a mano differenziato in più lingue volgari, producendo nel caso del proto-romano,
i tre volgari d’oc, d’oil e del sì, che coincidono rispettivamente con il provenzale, il francese e l'italiano. I tre idiomi però,
sarebbero stati destinati a ulteriori diversificazioni, confermando così che la mutazione delle lingue avviene sia nello spazio sia
nel tempo: è questa l'intuizione più rilevante e innovativa di Dante a cui riesce ad arrivare attraverso il confronto tra i volgari
(d’oc, d’oil e del sì) e la scoperta delle somiglianze che li uniscono.
Per rimediare alla variabilità delle lingue naturali è stata costruita la grammatica, che viene identificata (come il latino) come
una lingua artificiale in grado di conservarsi immutata a lungo nel tempo e nei luoghi in cui è adoperata: che il latino non
appaia al pari delle altre lingue, una lingua storico-naturale, ma un'antichissima invenzione dei grammatici è un'idea che fa
sorridere a noi contemporanei, ma che era ampiamente diffusa anche prima di Dante e che sarebbe rimasta fino alle prime
contestazioni nel corso dell'umanesimo.
Inoltre, secondo Dante, la base da cui erano partiti i costruttori del latino erano solo i volgari d’oc, d’oil e del sì e al loro interno
era stato privilegiato il volgare italiano (a cui viene attribuito un titolo di merito fondato sulla somiglianza con il latino).
Se la letteratura in lingua d’oc aveva raggiunto vette altissime nella prosa e quella d’oil nei componimenti poetici, nell'ambito
della poesia lirica verteva maggiormente il volgare d'Italia grazie all'eccellenza dei suoi poeti.
Successivamente Dante passa in rassegna i volgari della penisola, operando una distribuzione che pone 7 volgari a destra
dell'appennino e 7 a sinistra (14 in tutto), esaminati con grande attenzione allo scopo di trovare la lingua a cui si possa
attribuire il titolo di ‘illustre’ ® una lingua che non può derivare dai volgari municipali, ma che deve possedere qualità ben
precise, identificate da Dante con gli attributi di: illustre (qualcosa che risplende), cardinale (cioè che deve avere la stessa
funzione del cardine intorno al quale gira la porta: gli altri volgari, infatti, dovranno seguire la sua guida), aulica e curiale
(esprimo il valore politico del volgare illustre).
Nel II libro del De Vulgari eloquentia Dante spiega quali debbano essere gli usi letterari del volgare illustre che riguardano sia
la prosa sia la poesia; si fonda su ciò che Aristotele aveva argomentato intorno all'anima distinguendola in:
- vegetativa (piante);
- animale (bestie);
- razionale (uomo).
Con la prima l'uomo cerca l'utile, con la seconda il piacere e con la terza l'onesto.
A questa tripartizione corrispondono:
- nell'utile, la ricerca della salvezza (ovvero l'istinto della conservazione);
- nel piacere l'aspirazione all'amore;
- nell'onesto il raggiungimento della virtù.
3 le vocali toniche é e ó si chiudono rispettivamente in ì e ù, quando siano seguite da determinate consonanti. Ad esempio,
troviamo l’anafonesi della forma famiglia e mai la forma non anafonetica faméglia.
L'inizio del XV secolo viene sempre identificato con l'avvio del movimento umanistico. L’elezione del latino come unico
strumento per accedere al sapere e l'emarginazione del volgare dalla scrittura letteraria e dottrinale sono state considerate per
molto tempo una sorta di pausa, un'interruzione, lungo il cammino che dal fiorentino trecentesco e dalla sua grande letteratura
avrebbe condotto fino alla codificazione del ‘500. Non sempre le soluzioni proposte dagli umanisti combaciano con la via
scelta nel ‘500 per l'affermazione dell'italiano letterario, ma è certo che quella soluzione non si sarebbe mai realizzata senza il
confronto tra cultura classica e volgare. Non va dimenticato che l'egemonia del latino si estende a tutti gli usi colti della
scrittura, ma non coinvolge gli scambi quotidiani (gli scritti di natura pratica, i testi di argomenti religioso…) dove il volgare
continuerà a essere adoperato senza subire particolare interferenza da parte dei ristretti ambienti dagli umanisti. La reazione di
questi ultimi non è, almeno inizialmente, provocata dal volgare considerato come un ‘accidente’, ma dal latino medievale che
in molti trattati minori, nelle scritture notarili e nello stesso insegnamento universitario, si era allontanato dalla lingua dei
classici, spesso differenziandosi da luogo a luogo. L'obiettivo prioritario era dunque quello di ritornare all'autenticità del
latino classico.
Nelle vicende umanistiche della riflessione sulla lingua Firenze gioca un ruolo centrale, di straordinario fermento culturale. Si
è soliti indicare il 1492, anno della morte di Lorenzo de Medici e dello sbarco di Cristoforo Colombo nel continente
americano, come la fine di un periodo che, nonostante gli sforzi compiuti dal Magnifico, non portò e non avrebbe potuto
portare a una stabilità politica italiana, ma pose le basi per l'unificazione linguistica realizzata nel secolo successivo. A Firenze,
in particolare, lo sviluppo dell'umanesimo latino, che pure raggiunse vette altissime, non provocò mai una netta separazione
dalla tradizione della cultura volgare e dovette, al contrario, saldarsi con il senso dell'identità cittadina formatasi nei due secoli
precedenti: a differenza infatti di quanto accadeva presso gli altri centri umanistici italiani, dove si negava ogni possibilità di
resistenza alla letteratura in volgare, a Firenze l'eredità delle tre corone non poteva essere cancellata. Sarà solo in un secondo
momento che gli umanisti fiorentini diventeranno consapevoli della grandezza letteraria di Dante, Petrarca e Boccaccio e del
potenziale rappresentato dalla lingua volgare.
Un'importante discussione sul latino e sul volgare si svolse nel 1435 nell'anticamera fiorentina del pontefice Eugenio IV e
affronta il problema della lingua parlata dagli antichi romani. I protagonisti sono:
- Leonardo Bruni (umanista), sostiene che già nell'antica Roma esisteva una netta separazione tra la lingua delle persone
colte e quella del popolo;
- Biondo Flavio (storico), sosteneva l'idea che tutti parlassero la stessa lingua latina e che all'origine del volgare ci fosse
stata la frattura tra mondo classico e moderno generata dalle invasioni germaniche: la loro presenza, infatti, aveva
costretto gli italiani ad adottare in più occasioni una lingua straniera, mentre i popoli invasori avevano tentato di
apprendere il latino corrompendolo con numerosi barbarismi.
Le tesi dei due contendenti saranno per lungo tempo fulcro o punto di partenza di altre discussioni sulla lingua, almeno fino al
600: da qui comincia a prendere forma la coscienza di una vita e una storia del volgare.
L'idea di Leonardo Bruni finiva con il negare al volgare non solo una grammaticalità ma anche ogni divenire storico, mentre la
tesi esposta da Biondo Flavio, nell'individuarne un'origine, vedeva l'una come frutto della trasformazione dell'altra: le sue
osservazioni giungono a mostrare come fosse possibile l'esistenza di una lingua senza grammatica. Biondo non aveva
intenzione di contestare la superiorità del latino; la sua posizione apriva la via a una considerazione nuova delle due lingue e
avrebbe dato modo di mostrare la possibilità per il volgare di raggiungere con il latino una parità espressiva e culturale.
Il primo a piegare le affermazioni di Biondo Flavio in favore di una rivalutazione del volgare e delle sue potenzialità fu LEON
BATTISTA ALBERTI, un umanista colto e versatile, letterato, studioso di lingue e importante architetto. Scrisse in latino e
in volgare e il contributo alla valorizzazione del fiorentino non si limita alla riflessione sulla sua natura, ma anche alla
costituzione di una terminologia tecnica nell'ambito dell'arte e dell'architettura. I contributi di Alberti su cui ci interessa
soffermarci sono:
1) la grammatica della lingua Toscana, indicata come come Grammatichetta;
2) la promozione del Certame coronario.
1) La grammatica ci è stata trasmessa priva del titolo. Il valore di questo test risiede nella riflessione linguistica e nella
motivazione culturale che lo hanno generato: a quel tempo, infatti, né in Toscana né al di fuori dei suoi confini si
avvertiva il bisogno di regolamentare l'uso scrittore del volgare; l'idea di descrivere le norme nasce dal desiderio di
2) Il Certame coronario era una gara poetica ideata a Firenze il 22 ottobre 1441 da Alberti. I concorrenti dovevano
cimentarsi in una composizione poetica incentrata sul tema dell'amicizia, per dimostrare che anche il volgare poteva
divenire strumento di alta poesia. La giuria a cui venne affidata la valutazione era però composta da umanisti che si
rifiutarono di assegnare il premio, puntando in modo sprezzante al fallimento dell'iniziativa. Alla decisione dei giudici
seguì una Protesta anonima, ma redatta da Alberti, in cui si denuncia l'atteggiamento conservatore di chi non era stato
in grado di capire la lungimiranza di un generoso progetto linguistico e culturale.
Quindi, tra la seconda metà del XIV secolo e la prima del successivo, i caratteri fonetici e morfologici del fiorentino subiscono
dei cambiamenti che lo distanziano dal fiorentino due-trecentesco. La varietà più innovativa, di cui solo qualcosa aggiungerà al
nostro italiano, è stata denominata FIORENTINO ARGENTEO in opposizione al fiorentino aureo che, testimoniato
negli scritti dei grandi autori del ‘300, diviene la base dell'italiano ancora oggi adoperato. Alcuni tratti del fiorentino argenteo
sono l’uso dei possessivi invariabili mie, tuo, suo, cui successivamente si aggiungeranno per il plurale mia, tua, sua, oppure, la
prima persona dell’imperfetto indicativo in -o (amavo e non più amava).
La voce di Leon Battista Alberti fu ascoltata e amplificata nella seconda metà del secolo, quando il rilancio della lingua volgare
e soprattutto della letteratura fiorentina, divenne parte integrante del progetto politico e culturale di Lorenzo de medici, che
avrebbe governato Firenze dal 1469 al 1492. Con Lorenzo si compì un passaggio decisivo nell'incontro tra mondo latino e
volgare e fu grazie alla sua notevole capacità di governare e di scrivere rime e prose nella propria lingua che il fiorentino e la
sua tradizione letteraria divennero un efficace strumento politico. La cultura e l'arte furono due pilastri essenziali per la
signoria del Magnifico, che aveva necessità di acquisire consenso tra il popolo e consolidare la propria posizione tra le potenze
italiane: grazie al suo mecenatismo furono protetti e accolti artisti fiorentini e toscani che avrebbero contribuito ad accrescere
il prestigio della città. La politica di Lorenzo trovò un sostegno e attuazione, anche grazie all'aiuto di due grandi protagonisti di
questa nuova interpretazione dell'umanesimo: Cristoforo Landino e Angelo Poliziano. Entrambi i contribuirono a realizzare
quel fiorentino imperio di cui il Magnifico parla nel proemio al Comento de’ i miei sonetti. Nel proemio si sofferma sulla scelta del
volgare, cercando di anticipare e contrastare l'opinione di chi non avrebbe esitato a giudicarlo un idioma inadatto a una
scrittura elevata. Passa in rassegna tutti i requisiti che vengono di solito richiesti per poter decretare la perfezione di una
lingua, come: la capacità di esprimere ogni concetto grazie all'abbondanza delle parole, la dolcezza e l'armonia (che però
dipendono più dall'opinione degli uomini) e il fatto di rendere universale e noto in tutto il mondo ciò che è proprio di una sola
città o provincia. All'imperio romano non potrà sostituirsi il fiorentino imperio, ma alla grandezza del latino e dei suoi classici
potranno corrispondere quelle del volgare e della letteratura di Firenze.
Per sostenere l'orgoglio della propria lingua, la Signoria medicea decise di stabilire a Pisa la sede della più importante
università della Toscana, una scelta politica con la quale si intendeva riequilibrare il rapporto tra le diverse aree del territorio e
dove si sarebbero tenute lezioni di retorica e poetica, il cui insegnamento fu affidato a Cristoforo Landino. Quest'ultimo nelle
lezioni riprende un tema che si era già fatto strada con Alberti e che sarebbe divenuto il perno dell'affermazione del volgare e
dell'adozione del fiorentino letterario come lingua comune a tutta l'Italia: non è la natura della lingua il vero male, ma la
negligenza di chi la usa (Landino). Quest'ultimo riconosce esplicitamente i meriti di Alberti e invita a leggerne i testi.
Con l'umanesimo la pratica dei volgarizzamenti, considerati infedeli e inadeguati a trasmettere il contenuto dei classici latini,
era quasi scomparsa ma con la politica di Lorenzo De Medici riacquista importanza.
Le signorie avevano, come i comuni, la necessità di dotarsi di CANCELLERIE, cioè di uffici dove si eseguivano tutte le
mansioni amministrative, economiche e diplomatiche degli Stati. La comunicazione aveva la necessità di superare l'ostacolo
delle differenze linguistiche ricorrendo a lingue sovralocali che si è soliti definire KOINÉ (‘lingua comune). Si tratta di una
lingua scritta caratterizzata da un certo grado di artificialità, che non deriva dal desiderio di sviluppare una norma unitaria, ma
dalla necessità pratica che favoriva il convergere di più idiomi su una linea comune. Il ricorso alla koiné si estende a un ampio
repertorio di scritture e ciò comporta stili espositivi differenti che agiscono all'interno di schemi talvolta variabili da una
cancelleria all'altra. Quindi sia l'introduzione del volgare nelle scritture cancelleresche, sia i caratteri della koiné cambiano da un
centro all'altro (le differenze linguistiche potevano dipendere dalle caratteristiche dei centri, ma talvolta anche dagli argomenti
che spesso imponevano la scelta di un lessico locale per testi che trattavano di agricoltura o di particolari attività artigianali.).
La POESIA LIRICA, come abbiamo visto, è riconosciuta dall'umanesimo volgare come il genere letterario più alto, tale da
imporre non solo il rifiuto di caratteri linguistici bassi e popolari, ma anche l'allontanamento dai tratti del volgare locale. Ciò
non è sempre da attribuire, almeno inizialmente, al desiderio di avvicinarsi a una lingua unitaria o al toscano, ma alla volontà di
innalzare lo stile e le strategie retoriche. Se dunque a proposito della lingua quasi artificialmente costruita per gli usi pratici
delle cancellerie possiamo parlare di convergenze di più idiomi, per quella della lirica possiamo riferirci a un insieme di
elementi in grado di spingere verso una lingua letteraria sempre più unificata. Anche in questo caso le koiné cortigiane si
muovono tra il latino, il fiorentino letterario e l’idioma locale. Come data della svolta si indica convenzionalmente il 1460,
quando da una poesia lirica che guardava anche ai poeti del ‘200, si passa alle prime manifestazioni di ciò che potremmo già
cominciare a definire come ‘petrarchismo’. Per i lirici delle corti non toscane, tuttavia, la lingua da imitare è una lingua straniera
da studiare e imparare sui testi spesso costituiti da manoscritti o stampe poco affidabili, caratterizzati talvolta da suoni e forme
estranee al dettato originario.
L’invenzione della stampa viene spesso identificata con una rivoluzione culturale che contribuì ad aprire le porte della
modernità. In alcune botteghe di amanuensi o nelle università, dove era necessario distribuire più testi a maestri e studenti, i
manoscritti potevano essere prodotti contemporaneamente in più copie; in questi casi, però, ogni libro scritto a mano
rimaneva un prodotto unico, impossibile da considerare identico a un altro. La stampa consentì di produrre centinaia di
esemplari della stessa edizione, riducendo sensibilmente i costi di ciascuna copia e di ogni nuova pubblicazione. L’invenzione
della stampa si deve a Gutenberg. I libri stampati nei decenni che vanno dalle prime apparizioni fino alla fine del ‘400 sono
detti in incunaboli, dal sostantivo ‘culla’ che indicava le fasce infantili dei neonati e quindi l’infanzia e l’origine. Nata in
Germania, l’attività degli editori si diffuse presto in tutta l’Europa e in un primo tempo si privilegiarono, anche in Italia, le
opere latine, destinate a un ristretto pubblico di persone colte; ben presto però si avviarono e si moltiplicarono le stampe dei
libri in volgare. I costi più contenuti e la possibilità di accedere più facilmente ai testi in volgare incrementarono il numero dei
lettori, alimentando l’aspetto imprenditoriale dell’editoria e l’interesse a vendere il più possibile il prodotto commerciale.
Per gli stampatori fu presto necessario adottarsi di correttori e revisori tipografici, che andarono a mano a mano
perfezionando il loro lavoro. Fu soprattutto necessario pensare a una presentazione di testi qualitativamente diversa da quella
dei manoscritti, provvedendo, a un uso più sistematico dell’interpunzione e a una più frequente separazione delle parole.
Le prime stampe erano derivate da testi manoscritti di cui non era sempre facile accertare l’affidabilità.
Il lavoro dei correttori dei collaboratori editoriali divenne comunque indispensabile per corredare il libro con indici, premesse,
talvolta commenti e note che avrebbero agevolato la comprensione di lettori meno esperti e incrementato le vendite. A loro
venne ugualmente affidato il compito di rivedere e uniformare la lingua, anche se nel ‘400, la frammentazione linguistica e
l’assenza di una norma unitaria avrebbe continuato a mostrare nelle stampe i tratti linguistici dell’area in cui operava la
tipografia.
Una svolta decisiva si ebbe con l’attività di Aldo Manunzio, grammatico e umanista che riuscì a incontrare le esigenze del
pubblico promuovendo un tipo di libro destinato a un grandissimo successo: a egli, infatti, si deve l’estensione di un formato
ridotto, anche nelle stampe dei classici, con l’intenzione di diffondere un libro maneggevole non necessariamente destinato allo
studio e di promuovere, tra un pubblico molto più ampio, un diverso tipo di lettura. Questi piccoli libri erano resi più raffinati
e gradevoli grazie all’introduzione del corsivo, un nuovo carattere tipografico.
Due stampe rivestono una grande importanza per la nostra storia linguistica: Pietro Bembo, infatti, pubblicò con Manuzio, nel
1501, le cose volgari di messer Francesco Petrarca, e nel 1502 le terze rime di Dante. I due testi presentano una cura filologica e una
affidabilità che non erano state mai raggiunte nelle stampe; Bembo, del resto, poté disporre per il suo lavoro su Petrarca del
manoscritto autografo che in quel periodo era custodito a Padova. Le stampe mostrano anche l’introduzione di apostrofo e
accenti e una regolamentazione del sistema interpuntivo, con l’aggiunta, ai due punti e al punto fermo, della virgola e del punto e
virgola nelle forme moderne.
Il ruolo della stampa non si esaurì nella diffusione delle opere di grandi autori di Firenze; non furono meno importanti, infatti,
le stampe di fogli volanti, o composte da poche carte, che potevano svolgere molte funzioni.
Si sviluppò anche un’editoria popolare che avrebbe privilegiato la letteratura di devozione o i racconti di romanzi cavallereschi.
È possibile parlare di “giro di boa” per ciò che si è realizzato nei primi decenni del ‘500? L’espressione presuppone che fin
dall’inizio tutto fosse indirizzato verso un unico fine, cioè un’interpretazione finalistica di quanto accaduto nei secoli che
precedono la questione della lingua. In realtà non fu così e non avrebbe potuto esserlo: la divisione politica e sociale che si
sarebbe protratta ancora a lungo non era stata interrotta da eventi in grado di incanalare i tanti volgari della penisola lungo un
cammino comune. Il De vulgari eloquenzia non aveva trovato un seguito ed è, anzi, solo in questi anni che il testo viene
riscoperto, ma anche piegato a interpretazioni particolari non sempre aderenti a quanto esposto dal poeta. È anche vero però,
che, come abbiamo visto, gli anni dell’umanesimo volgare avevano generato occasioni di confluenze di lingue locali e del
fiorentino, utili a soddisfare una vasta gamma di necessità (dal bisogno di una più ampia comunicazione all’ammirazione di
opere letterarie di cui ormai si riconosceva il ruolo di classici). D’altro canto, noi contemporanei non ci chiediamo, per
esempio, perché Dante, Petrarca o Boccaccio siano da tutti considerati autori della letteratura italiana e non della letteratura
fiorentina toscana. Sono questioni che gli studiosi hanno ampiamente affrontato con l’intenzione di accentuare la linearità di
un processo unitario; quindi, non si può dire che tale enfasi sia nata dal nulla.
L'unità linguistica riguardo solo quella di testi dal contenuto elevato, mentre le grandi masse di popolazioni incolte o
del tutto analfabeti rimasero estranee al processo unitario, così come estranea rimase all'uso dell'italiano letterario la
comunicazione quotidiana. Il giro di boa, dunque, da intendersi come una svolta che non spezza la continuità, ci fu e si
realizzò grazie alla passione con cui alcuni intellettuali parteciparono al dibattito sulla lingua nella prima metà del ‘500, dibattito
Pietro Bembo è considerato il grande maestro dell'umanesimo ciceroniano. Si parla di ciceronianismo in quanto Cicerone
era apparso come un modello da imitare per innalzare lo stile della prosa latina, liberandola dalle corruzioni che aveva subito
nel Medioevo. Si elaborò una teoria dell'imitazione che vide contrapporsi da un lato coloro che ritenevano necessario rifarsi
solo all'esempio ciceroniano e dall'altro i sostenitori di un modello versatile che consentisse di guardare allo stile di autori
diversi. Infatti, Pietro Bembo mostrava la debolezza dell'uso di fonti molteplici a fronte della possibilità di trarre lessico, forme
e sintassi da un unico autore. I due scrittori più autorevoli a cui riferirsi per la prosa e la poesia latine erano rispettivamente
Cicerone e Virgilio. È in queste riflessioni che Bembo trova la via del suo umanesimo volgare e della norma proposta
attraverso le Prose.
La teoria del più importante trattato rinascimentale sulla lingua italiana (si parla sempre delle Prose) nasce dalla necessità di
ricondurre il volgare a uno stabile sistema normativo, fornendo indicazioni lessicali e grammaticali a coloro che avrebbero
avuto la necessità di servirsene. L'esposizione si svolge in forma di dialogo, ambientato nel 1502 a Venezia e vi partecipano:
La discussione ha inizio affrontando la questione della genesi del volgare a seguito del giudizio espresso da Ercole Strozzi che,
riprendendo le tesi di Leonardo Bruni, si chiedeva se si sarebbe dovuta accogliere la lingua volgare che, pur convivendo con il
latino al tempo dell'antica Roma, era stata scartata e giudicata vile dagli autori classici. Il riferimento alle tesi bruniane dà modo
di introdurre, attraverso le parole di Fregoso, la ricostruzione di Biondo Flavio che, spiegando il volgare come frutto di una
contaminazione dovuta alla conquista di barbari ne consentiva il divenire storico. Bembo aderisce alla ‘teoria della
catastrofe’ in base alla quale spiega come le popolazioni della penisola avessero adottato costumi e leggi da questi barbari.
Ercole Strozzi aveva ancora un dubbio: chi decidesse di comporre un testo letterario in latino non avrebbe dubbi, perché la
lingua latina è di una sola qualità e di una sola forma, mentre il volgare parlato dei napoletani è diverso da quello usato dai
lombardi e dai toscani. In risposta a questo dubbio, Carlo Bembo riporta le tesi sostenute da Vincenzo Colli a proposito della
Cortigiana lingua che veniva messa al di sopra di tutte le altre, inclusa la Toscana; ciò che qui importa sottolineare è il motivo
per cui nelle Prose si ritiene inadeguata la lingua adoperata nelle corti: prima di tutto il frutto del ‘mescolamento’ di più
volgari e poi è lingua in cui si parla e si ragiona, ma il parlare e ragionare non sono sufficienti a far esistere una lingua. Fin dalle
Nelle Prose, la prima delle tesi che Pietro Bembo criticava e che si distanziava dalla sua soluzione normativa riguardava la
Cortigiana lingua; Tale espressione, adoperata nel corso del dibattito cinquecentesco, poggiava almeno in parte,
sull'esperienza delle koiné che, adoperate presso le corti, erano state in realtà una risposta a necessità pratiche di comunicazione
o ad esigenze provenienti da alcune tipologie di scrittura letteraria. La denominazione aveva finito con l’indicare un idioma
rispondente a un'ideale linguistico a cui si imputava l'assenza di autentiche testimonianze letterarie tali ad aiutare a circoscrivere
una lingua dai tratti ben identificabili. Gli studi condotti tra gli anni 80 e 90 del secolo scorso, tuttavia, hanno individuato nei
documenti ufficiali prodotti presso le Corti d'Italia la possibilità di riconoscere un'effettiva lingua cortigiana sia pure non
perfettamente codificata e unitaria.
La scomparsa della denominazione ‘cortesiana’ a favore di ‘commune’ e ‘italica’ potrebbe essere frutto del contatto con Giovan
Giorgio Trissino. Nell’Epistola de le lettere nuovamente aggiunte a la lingua italiana (1524), Trissino propone una vera e propria
riforma ortografica volta ad agevolare i parlanti non toscani nella pronuncia di alcuni suoni: egli credeva nell'esistenza di una
pronuncia toscana e di un'altra cortigiana che talvolta preferiva la prima. Le reazioni dei letterati fiorentini furono accese. È
molto probabile, d'altro canto, che il vigore delle proteste fosse stato provocato, più che dalle proposte ortografiche, dal fatto
che le idee di Trissino si sarebbero fondate sul De Vulgari eloquentia di Dante, di cui il letterato non aveva affatto menzione
nell'Epistola ma di cui doveva aver già reso nota l'esistenza. Molto probabilmente Trissino era venuto in possesso di un
manoscritto trecentesco dell'opera, ma la circolazione del trattato di Dante era iniziata anni prima che Trissino ne pubblicasse
la traduzione; appare chiaro, dalle testimonianze degli oppositori, che Trissino doveva aver dato notizia del ritrovamento del
De Vulgari eloquentia e di alcuni aspetti del suo contenuto prima di dare alle stampe la proposta di riforma ortografica. Il ruolo
del De Vulgari eloquentia nell'elaborazione delle teorie di Trissino si andò progressivamente intensificando, diventando il centro
essenziale del suo pensiero linguistico. Da qui, la decisione di pubblicare nel 1529 una traduzione da lui stesso curata del
trattato di Dante; l'operazione condotta da Trissino condizionò per alcuni decenni la conoscenza e l'interpretazione del De
Vulgari eloquentia che a lungo fu letto solo nella versione volgare e che dovete aspettare il 1577 per essere pubblicato a Parigi
nella sua versione latina originale.
Trissino, dalla lettura del trattato dantesco al volgare che Dante aveva definito ‘di corte’, faceva corrispondere la lingua
cortigiana. Secondo la sua interpretazione, i grandi autori del ‘300 avevano usato una lingua che si poneva al di sopra dei
caratteri locali e toscani: le differenze non erano ricondotte all’evoluzione subita lungo il tempo dal fiorentino, ma da
l'accortezza degli scrittori antichi che si sarebbero serviti di una lingua mista definita da Trissino ‘italiana’. Trissino, in realtà,
trasforma la proposta Dantesca circoscritta alla lingua letteraria della canzone di stile alto, in una tesi sulla lingua in generale e
aspira a un'armonizzazione verso un codice comune da realizzare con l’eliminazione di alcuni tratti e la mescolanza di altri. Per
raggiungere l'obiettivo propone una classificazione che, partendo dal livello più alto rappresentato dalla lingua italiana, scende
NICCOLÒ MACHIAVELLI nei suoi testi adotta il fiorentino del suo tempo, in buona parte coincidente con il cosiddetto
fiorentino argenteo. Si incontrano pertanto nelle sue opere, i tratti innovativi che hanno allontanato il fiorentino quattro -
cinquecentesco da quello degli autori del ‘300 e che non si sono trasmessi all'italiano letterario. I caratteri del fiorentino di uso
vivo sono visibili anche nel Principe. Se i tratti del fiorentino argenteo, adottati da Machiavelli, non raggiungeranno l'italiano
unitario, maggiore fortuna e continuità avranno i termini dell'argomentazione politica. Il lessico intellettuale e politico di
Machiavelli ha avuto il merito di fissare significati e costruire dei tecnicismi divenuti essenziali nella politica moderna (parole
come Stato, Repubblica e Principato acquistano una stabile centralità). Machiavelli, del resto, è ben consapevole della novità del
suo scritto: l'intento da lui dichiarato è produrre cosa che sia utile a chi la intende fondandosi sulla verità effettuale: solo l'adesione alla
realtà avrebbe potuto dare un contributo efficace ed è a questa intenzione che può ricondursi anche la scelta di uno stile privo
di ornamenti o di parole ricercate, distanti dal modello di scrittura elaborate da Pietro Bembo.
La diffidenza dei letterati di Firenze non si dirigeva soltanto verso la lettura trissiniana del De Vulgari eloquentia, ma coinvolgeva
anche le teorie e la proposta di Pietro Bembo. Le Prose avevano sottolineato il limite della lingua viva e parlata che, essendo
soggetta al cambiamento, era destinata alla caducità: l’unico modello in grado di trasmettersi ai posteri era, al contrario, la
lingua dei grandi scrittori, circoscritta agli autori del ‘300 (soprattutto Petrarca e Boccaccio con l’esclusione di Dante). Tutto
ciò colpiva l'orgoglio dei fiorentini che, pur sentendosi legati alla propria antica tradizione letteraria, avevano anche sviluppato
una grande fiducia nella potenzialità e nelle qualità della propria lingua. Tuttavia, non era facile far prevalere il primato del
fiorentino vivo agli occhi di tutti gli italiani: chi non aveva come lingua madre fiorentino aveva necessità di rifarsi a un modello
ben definito e di studiare una norma stabile; In questo senso le grammatiche divenivano essenziali strumenti di consultazione.
I sostenitori delle tesi fiorentiniste, invece, non davano descrizioni della lingua in uso a Firenze, sulla quale, del resto, non era
semplice costruire strumenti normativi in grado di aiutare chi, nel resto dell’isola, aveva necessità di studiare un modello. Un
tentativo di superare la contrapposizione tra lingua viva e tradizione letteraria venne dal fiorentino BENEDETTO
VARCHI, che nel dibattito sulla lingua porto un'impostazione nuova, tesa, più che a conciliare le tesi contrastanti di Bembo e
dei fiorentinisti, a superarle elaborando una sintesi originale. La promozione delle teorie classiche trapelava anche da alcuni
suoi scritti dove, ad esempio, riprendeva un'osservazione delle prose che non era mai stata gradita dai letterati di Firenze,
ovvero il fatto che per produrre una scrittura nobile ed elevata non bastava possedere il fiorentino come lingua materna, ma
era sempre necessario studiare. Varchi, indicando nei procedimenti analitico e sintetico il modo di insegnare e apprendere la
grammatica, e soprattutto assegnando un ruolo prioritario alla lingua parlata da cui dipende la lingua scritta, riconosce la
possibilità che una lingua esista anche in assenza di una produzione scritta. I presupposti di Bembo, per cui non può
concepirsi l'esistenza di una lingua senza l'opera degli scrittori, sono qui ribaltati, ma sono anche immediatamente recuperati
sul piano stilistico: perché una lingua possa dirsi nobile, infatti, avrà bisogno di scrittori che la innalzino con l'eleganza della
loro produzione letteraria e che ne stimolino l'imitazione. È interesse di Varchi dimostrare che l'essere fiorentini non vuol dire
essere svantaggiati per le influenze degli usi bassi che possono caratterizzare i loro scritti: se è vero che per chiunque è
indispensabile leggere e studiare le opere dei grandi autori, è anche vero che non può negarsi la rilevanza della lingua parlata a
cui solo i fiorentini hanno l'immediata possibilità di attingere. Firenze e il fiorentino potevano così tornare a esercitare il loro
primato, ma al tempo stesso dovevano accogliere le indicazioni delle Prose bembiane, seguendo l'esempio dei grandi classici del
‘300 e migliorando con lo studio la propria scrittura letteraria.
Le prime ACCADEMIE nascono negli ambiti umanistici e si sviluppano soprattutto a partire dal XV secolo; si tratta quasi
sempre di gruppi di intellettuali che accomunati da una stessa visione intellettuale, si riuniscono per condividere studi,
discussioni e interessi culturali. È intorno alla fine della prima metà del ‘500 che in Italia sorgono e si moltiplicano le
accademie che eserciteranno quasi sempre una funzione essenziale nell'affermazione del volgare e si organizzeranno in
strutture più definite e dotate di statuti, di disposizioni gerarchiche e di simboli identificativi. Come denuncia la loro stessa
denominazione, le accademie intendono configurarsi come recupero delle istituzioni classiche, ma si aprono anche alle istanze
culturali del loro tempo: sono libere associazioni che, a differenza di quanto avveniva nelle università, chiuse nello spazio della
filosofia scolastica latina, divengono centri fondamentali per lo sviluppo della letteratura e della riflessione teorica in volgare.
Assumono un ruolo modellizzante anche al di fuori dei confini della penisola, e sebbene ognuna di loro tende a specializzarsi,
il fenomeno assume una dimensione collettiva. La varietà di interessi è molto ampia e va dagli studi scientifici e filosofici, a
La grande impresa degli accademici, nonostante i meriti e l'impegno suscitò critiche e polemiche: Paolo Beni, ad esempio,
pubblicò nello stesso anno della prima edizione del Vocabolario, l’Anticrusca, in cui criticava la preferenza accordata ai testi
trecenteschi e soprattutto, la decisione di aver escluso dal novero degli autori Torquato Tasso con la Gerusalemme liberata
solo perché Tasso, nel forgiare lo stile e lessico del poema, aveva compiuto scelte indipendenti, segnate da sintassi spezzate e
da un numero cospicuo di latinismi.
In una prima fase le polemiche non ebbero particolari ripercussioni sul lavoro degli accademici, che nel 1623, pubblicarono
una seconda edizione del vocabolario priva di particolari innovazioni rispetto alla prima. Non fu così per la terza
impressione che, stampata nel 1691, presento novità sostanziali e l'aggiunta di un ampio numero di autori moderni (insieme a
Tasso anche scrittori non toscani). Una quarta impressione fu stampata tra il 1729 e il 1738 e presenta un incremento delle
parole registrate, modi proverbiali e termini tecnici che le prime due impressioni del Vocabolario avevano azzerato.
Nonostante le importanti innovazioni testimoniate dalle ultime redazioni del vocabolario, le polemiche e le opposizioni contro
gli orientamenti linguistici dell'Accademia non si placarono mai. Se a ciò si aggiunge una maggiore lentezza nel lavoro di
redazione del dizionario, si comprende la crisi che coinvolse l'istituzione Fiorentina e la decisione del Granduca Pietro
Leopoldo di scioglierla nel 1783. Dopo circa trent'anni, grazie a un decreto firmato da Napoleone Buonaparte, l'Accademia
della Crusca sarebbe stata ricostituita con il compito di rivedere il vocabolario e di sorvegliare sulla buona lingua. Nel 1812
iniziarono i lavori per la quinta edizione del dizionario, che durarono a lungo e portarono alla pubblicazione del primo
volume nel 1863; L'opera, tuttavia, fu interrotta dopo essere arrivata a completare la lettera O nel 1923.
Tra le discussioni che nel ‘500 avevano unificato la lingua scritta e letteraria e l'unità politica del paese che dopo tre secoli
avrebbe promosso quella stessa lingua a strumento di ogni cittadino e di ogni comunicazione, non ci fu un salto vertiginoso,
ma un cammino lento e faticoso. Tra la fine del ‘500 l'italiano scelto dalla quasi totalità degli intellettuali, viene descritto nelle
grammatiche e viene insegnato nell'università: a Siena la prima cattedra di ‘toscana favella’ è assegnata nel 1589 a Diomede
Borghesi che nelle sue lezioni ripropone le posizioni Di Pietro Bembo e Leonardo Salviati.
Grammatiche dell'italiano sono allestite anche per gli stranieri, che sono per lo più interessati ad apprenderlo per motivi
culturali; ancor prima delle grammatiche è, tuttavia, il melodramma lo strumento che più ne trasmette la conoscenza; si tratta
di un genere affermatosi grazie a un gruppo di musicisti e letterati, denominato la Camerata dei Bardi, a causa degli incontri
tenuti presso la casa del conte Giovanni Bardi a Firenze.
Sebbene l'accostamento delle parole alla musica fosse un fenomeno antichissimo e ampiamente diffuso, l’opera italiana
realizzò l'unione di poesia e musica per la scena, con testi composti per essere musicati e rappresentati, dando vita a un
fenomeno d'arte che conobbe uno sviluppo straordinario nel nostro paese e all'estero. Si produssero opere di grande novità
artistica e si continuò a sviluppare il genere elaborando raffinate forme di poesia per musica. Ciò garantì anche all'estero un
successo indiscusso, al punto che l'italiano acquistò, per secoli, la fama di essere la lingua più adatta all'Unione con la musica.
I testi per musica, del resto, rientravano nella scrittura letteraria, influenzando la letteratura europea. Se l'italiano,
tuttavia, penetra in Europa attraverso la letteratura, la musica, l'arte e l'architettura, nei paesi che si affacciano sul Mediterraneo
comincia ad assumere il ruolo di lingua internazionale: l'italiano, quindi, svolgeva il ruolo di lingua veicolare perché, in misura
maggiore o minore, era conosciuto tanto dagli europei quanto anche dagli arabi e dai turchi.
Nei quasi tre secoli che precedettero l'unificazione politica del paese, la lingua di base fiorentina si propagò con facilità in altri
campi della scrittura elevata ma si fece anche strada verso i piani più bassi della comunicazione. L'italiano spaziò in un ampio
arco di settori e di testi scritti. Non tutto fu, peraltro, limitato alla sola competenza delle persone colte: molto riuscì a penetrare
anche tra una parte della popolazione poco istruita, a cui giunsero per via molteplici parole di espressioni, a volte solo
comprese, a volte adoperate nei testi più vari da chi con difficoltà avrebbe appreso i primi rudimenti della scrittura.
Il volgare non era rimasto estraneo alle SCRITTURE SCIENTIFICHE; solo in minima parte erano stati affrontati
argomenti connessi alla struttura fisica dell'universo e alla filosofia della natura, mentre erano stati più numerosi i testi di natura
divulgativa su temi di medicina, veterinaria… Tra ‘500 e ‘600 si producevano scritture pratiche rivolte a un pubblico
interessato ma non specialista e prodotte da autori che avevano acquisito buona esperienza e capacità tecniche in questo o in
quel campo. Le più diffuse erano ‘i libri di segreti’ che fornivano ricette mediche, formule chimiche o indicazioni per
prodotti cosmetici e culturali, ed erano scritti in italiano. La difficoltà principale era individuare un lessico specifico e comune
ai lettori dell'intera penisola. Al di fuori dei testi pratici, tuttavia, non bisogna pensare che l'italiano non avesse continuato a
sviluppare nell'età del Rinascimento un lessico tecnico scientifico, come testimoniano in particolare i manoscritti autografi di
Leonardo da Vinci; Egli riuscì a conquistare il sapere scientifico sia grazie alla sperimentazione diretta nei campi della
meccanica, dell'ottica e della medicina, sia tramite testi che ne veicolavano gli aspetti teorici. Leonardo, pur avendo mantenuto
contatti e scambi con altri scienziati, non aveva compiuto studi universitari, ma leggeva testi di varia natura, privilegiando le
opere o le traduzioni volgare, attingendo anche da scritti in latino. Ciò che è interessante rilevare è il lavoro con cui ritornava
sulle proprie scoperte, correggendole o perfezionandole alla luce dei progressivi approfondimenti: a ciò corrispondeva anche
un'intensa applicazione nella scelta e nella formazione delle parole; Senza escludere la terminologia di uso comune, Leonardo
cercava di conservare un equilibrio tra espressività popolare e componenti della lingua colta. Non pochi sono i termini che
trovano la loro prima attestazione nelle carte leonardiane e che conservano una lunga vitalità, come la locuzione albero delle vene
adoperata in anatomia per indicare l'intero sistema vascolare.
Il lessico della scienza aveva continuato a trarre alimento dalle traduzioni delle lingue classiche per trasporre testi scientifici e
filosofici in un volgare privo di travisamenti, adeguato alla speculazione teorica.
È con Galileo che la scienza e la lingua che illustra compiono un cambiamento decisivo: al di fuori delle applicazioni pratiche,
infatti, la lingua ufficiale della scienza intesa come originale elaborazione teorica rimaneva ancora in latino e sarebbe stato
compito di Galileo superare il solco che divideva il livello speculativo della scienza da quello operativo. Lo scienziato Pisano
sceglie per i suoi testi un italiano ben diverso da quello già adottato nei secoli precedenti, anche se non abbandonerà mai del
tutto il latino (a quest'ultimo si era affidato per il Sidereus Nuncius, il trattato con cui aveva informato sull'osservazione
astronomiche fatte con il cannocchiale e sulla scoperta dei quattro pianeti di Giove).
L'opera più nota di Galileo è il dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo e i protagonisti sono:
Quest'ultimo rappresenta il destinatario dell'opera, mentre i due scienziati sono sostenitori del sistema aristotelico, il primo, e
del sistema copernicano il secondo.
Nel dialogo, il ragionamento parte da premesse la cui funzione è condurre a una logica e conseguente dimostrazione, come
sottolinea l'introduzione tramite la locuzione se è vero che secondo lo schema, se è vero che X bisogna che sia anche Y.
Per quanto riguarda il lessico, Galileo non trascura la terminologia dei testi scientifici in volgari che lo avevano proceduto ma
ciò non vuol dire, tuttavia, che vi ricorra sempre: la ricerca di rigore scientifico, al contrario, lo induce spesso a rielaborare il
significato delle parole. La necessità di costruire un lessico di alta referenzialità è l'obiettivo che lo guida lungo la selezione e
che consentirà molti dei tecnicismi da lui adottati di affermarsi stabilmente in italiano scientifico. Evita, se possibile, di
ricorrere a termini troppo colti o latinismi. Molti altri sono i termini che, seppure non coniati da Galileo, si trasmettono con
uno specifico significato tecnico grazie all'uso che ne fa nei suoi scritti.
Nei decenni successivi all'esperienza galileiana, il latino non cesserà di essere la lingua ufficiale della trattazione
scientifica; accadrà, anche, che i contenuti delle trattazioni in volgare entreranno, sia pure per essere discussi e criticati, in
opere latine. Molti scienziati, però, continueranno a seguire l'esempio di Galileo, optando per l'italiano soprattutto nel campo
delle scienze naturali.
È a partire dal ‘500 che il ruolo della CHIESA diviene determinante nella diffusione dell’italiano. Gli anni in cui si
svolse il dibattito sulla lingua furono gli stessi in cui la Chiesa dovette affrontare la scissione delle confessioni protestanti: Il
Concilio di Trento, durato circa vent'anni (154-1563), non fu soltanto il luogo in cui si cercò di reagire alla dottrina luterana e
calvinista, ma fu anche l'occasione per promuovere una riforma cattolica che, indicata di solito come Controriforma, intendeva
rinvigorire la fede, migliorare la preparazione del clero e provvedere a una cura dei fedeli attraverso un'istruzione religiosa e
una comunicazione efficace. Il Concilio di Trento pose fine alle traduzioni della Bibbia in volgare. A dire il vero il
Concilio non assunse alcuna posizione ufficiale, ma il divieto di tradurre fu sancito dal Sant’Ufficio e dai tre indici dei libri proibiti,
che per circa due secoli impedirono stampa e circolazione della Bibbia in volgare. Proibire la traduzione non voleva dire
riuscire a impedire la lettura di testi già tradotti. Nella seconda fase della controriforma, quando lo scontro con i protestanti
andò attenuandosi, le autorità ecclesiastiche ridussero la rigidità di alcuni divieti, fino a quando, la necessità di garantire ai
fedeli la lettura della Bibbia in italiano si fece pressante da convincere Papa Benedetto XIV a modificare le restrizioni dell'indice
dei libri, consentendo la lettura di traduzioni delle Scritture, purché autorizzate dalla Santa Sede. Non va dimenticato che
nell'Europa dell'età moderna erano pochissimi coloro che sapevano leggere e scrivere, e sebbene sia vero che tra
alfabetizzazione e analfabetismo esistevano dei gradi intermedi, è anche vero che innumerevoli rimanevano le masse di
contadini analfabeti che popolavano le campagne e i quartieri più poveri delle città. Il voto di assistenza sociale da parte
delle istituzioni laiche fu spesso riempito, anche se solo in parte, proprio dalla Chiesa che si prodigò per trasmettere
un'istruzione religiosa: gli strumenti di cui si servì e che affido principalmente all'italiano furono predicazione e catechesi:
(quest'ultima in molte aree fu associata anche all'alfabetizzazione) le prime scuole di catechismo si ispirarono al modello
della diocesi milanese, dove per molto tempo si assicurò anche l'insegnamento gratuito di lettura e scrittura. Ben presto ci si
dotò di un testo che potesse uniformare l'apprendimento della dottrina: Il Cardinale Roberto Bellarmino diede alle Stampe la
dottrina cristiana, breve perché si possa imparare a mente, in cui cercò di rendere accessibile i principi della fede con un'esposizione più
lineare e più facilmente memorizzabile.
L’attenzione alla lingua da operare e da adattare a pubblici diversi fu sempre molto alta, sebbene non vada mai dimenticato che
l’interesse prioritario della Chiesa non era la diffusione della lingua unitaria, bensì la conservazione della fede e della
trasmissione della dottrina, il contributo dell'affermazione dell'italiano fu di grande efficacia. Per ciascuna delle azioni messe in
campo sia adottarono registri di varia natura, adeguati al contesto e alle esigenze degli ascoltatori.
Negli ultimi decenni ci si chiese se i due mondi, quello dell'italiano letterario, dominato da un numero ristretto di persone e
destinato prevalentemente alla scrittura, e quello dei dialetti che governavano la gran parte della comunicazione orale, fossero
drasticamente divisi, o se a partire dal ‘500 e prima dell'unità politica dell'Italia, si fossero generati piani intermedi lungo i quali
era stato possibile ricorrere a varietà di italiano distanti dalla norma letteraria ma non coincidenti con il dialetto.
Il ritrovamento di molti testi scritti, non riconducibili alla letteratura ma mossi da finalità molteplici e rivolti a destinatari assai
diversi tra loro, ha permesso di correggere la raffigurazione di una realtà linguistica polarizzata tra lingua in tutto aderente al
modello del fiorentino trecentesco e uso vivo affidato esclusivamente al dialetto. Ciò non vuol dire che si possa parlare di una
penetrazione profonda e ad ampio raggio dell'italiano, o che in tutti gli altri Stati sociali si fosse formata la percezione di una
comunità linguistica unitaria, ma che un italiano che sia pur segnato da molti tratti regionali riusciva a diffondersi
attraverso vie numerose e a volte imprevedibili. I testi che segnalano l'esistenza di varietà intermedie sono dunque
accomunati dalla presenza di tratti regionali o da andamenti sintattici, non sempre combacianti con la prosa letteraria; sono
riconducibili agli ambiti più vari, anche se rientrano spesso tra le scritture private (lettere, memorie, diari...). Nella maggior
parte dei casi, gli studi sono stati indotti ad accomunare i testi che si distanziano in misura maggiore o minore della norma
letteraria nel novero delle scritture prodotte da semicolti (denominazione con cui si intende un'ampia gamma di persone
alfabetizzate che, prive di una piena competenza scrittoria, ma spinti a scrivere da motivi di varia natura, cercano di avvicinarsi,
per quanto possibile, alla lingua della prosa colta). I livelli su cui si collocano le attestazioni di questo italiano intermedio sono
più di uno e si va da produzioni che mostrano solo qualche lieve distacco dalla norma dell'italiano letterario a testi di difficile
comprensione, dove è possibile constatare una quasi totale assenza delle più elementari abilità scrittorie. Nonostante ciò, si
riesce sempre a intravedere il tessuto dell'italiano ed è percepibile la tensione verso la lingua in Italia di chiunque si accinga a
scrivere. I testi, tuttavia, estranei all'esigenza della letteratura, possono confermarci, se non i tratti costitutivi, almeno l'esistenza
di registri intermedi: non si tratta di ipotizzare del tutto un italiano conosciuto e parlato diffusamente da chiunque, ma neppure
di ritenere ignorata quella lingua ormai divenuta unitaria. Quando il testo non era destinato a una circolazione ampia e
pubblica si ricorreva, dunque, a varietà linguistiche diverse, anche se è chiaro che la scrittura privata di un letterato si
allontanava in misura minore della normale letteraria.
Il dato costante è la convivenza, in misura più o meno contenuta, di tratti locali e di elementi di una più alta lingua scritta, un
accostamento che lascia ipotizzare da un lato l'esistenza, anche nel passato, di diversi italiani regionali e dall'altro la
consapevolezza di una lingua unitaria a cui gli scriventi tendono nei limiti delle proprie competenze e capacità.
Tra il ‘6/700 si assiste a un incremento di viaggi e scambi tra paesi europei che condurrà a una maggiore diffusione e
conoscenza delle lingue di cultura, tra cui, l'italiano. A cavallo dei due secoli, la Francia cominciò ad acquisire una posizione
preminente grazie alle strategie politiche attuate da Luigi XIV, il Re Sole, che era salito al trono a soli 5 anni ed era rimasto
per quasi vent'anni sotto la tutela della madre e del cardinale Giulio Mazzarino. Alla morte di quest'ultimo, il sovrano
concentrò tutto il potere nelle proprie mani, divenendo il massimo esempio di monarchia assoluta nell'Europa dell'età
moderna. L'espressione che gli viene attribuita lo Stato sono io e sintetizza il carattere assolutistico del suo governo.
Negli stessi anni del regno di Luigi XIV, in Inghilterra si era istituita una monarchia parlamentare, che con la ‘dichiarazione dei
diritti’ del 1689 limitava i poteri del re, riconoscendo irrinunciabili prerogative al parlamento. Nonostante ciò, l'organizzazione
politica dei paesi europei appariva rigida e inadeguata ai cambiamenti sociali che, appena iniziati sul finire del Seicento, si
sarebbero sempre più sviluppati nel secolo successivo, a cominciare dall'incremento demografico, al miglioramento della
produzione agricola, alla riduzione delle epidemie… Accanto ai mutamenti di vita socioeconomica si sviluppò il movimento
filosofico, sociale e politico dell'illuminismo che con John Locke (1632-1704) e David Hume (1711-1776) aveva già trovato
in Inghilterra i suoi primi teorici, ma che avrebbe raggiunto in Francia il suo massimo sviluppo con la rivoluzione del 1789 e
con l'espansionismo di Napoleone Bonaparte.
Si comprende, pertanto, come il francese riuscì a conquistare una posizione preminente tra le lingue europee, divenendo lo
strumento più diffuso per la comunicazione internazionale e il più utilizzato dagli uomini di cultura. Molte erano, per esempio,
anche in Italia le opere che si stampavano e si leggevano direttamente in francese. Il francese, dunque, viaggiava lungo i canali
del pensiero filosofico, delle idee politiche, della moda e del costume, favorendo un’ammirazione e una sorta di pregiudizio
positivo che finiva con il supporre la superiorità di questa lingua. Qualcosa era già iniziata negli ultimi decenni del Seicento,
quando alle critiche mosse contro gli eccessi della letteratura barocca spagnola e italiana si aggiunsero anche le riserve sulla
nostra lingua.
Nel corso del ‘700, tuttavia, il fulcro della polemica era la sintassi: l'ordine delle parole nella frase oltre a divenire un tema di
rilievo, su cui interverranno molti dei protagonisti del dibattito linguistico settecentesco, finirà con l'essere il metro di misura
del grado di modernità di una lingua, cioè della sua maggiore o minore propensione alla prosa. L'italiano viene considerato,
anche per l'andamento sintattico della sua prosa letteraria, poco adatto all'esposizione argomentata e analitica del pensiero
moderno, e ritenuto adeguato alla sola espressione della poesia amorosa, al melodramma e all'immaginazione. Il francese, al
contrario, grazie alla linearità della sua sintassi, appare più in grado di piegarsi alle esigenze molteplici della prosa e ai modi
della poesia.
L'italiano è in effetti caratterizzato da una maggiore libertà nel posizionare i componenti della frase.
Ma nessuna lingua può essere considerata strutturalmente migliore di altre o destinata ad assumere un ruolo
egemonico. Queste considerazioni, tuttavia, che a noi contemporanei appaiono evidenti, non erano sempre tali per gli
intellettuali e i letterati; l'Accademia di Berlino, ad esempio, sentì la necessità di sancire ufficialmente il primato della lingua
francese, bandendo un concorso che avrebbe premiato chi più efficacemente avesse spiegato perché questa lingua aveva
meritato di ricoprire in Europa un ruolo egemonico. Non mancarono le risposte da parte italiana che cercarono di ribaltare le
critiche mosse all'italiano, valorizzandone la vicinanza alle lingue classiche ed esaltando proprio ciò che era stato condannato:
le metafore, i traslati, le costruzioni inverse erano i pregi che distanziavano il francese, adatto al genere didascalico, dall'italiano
più adeguato allo stile oratorio.
La discussione si spostò, dunque, per buona parte del secolo, su ciò che costituisce il carattere originario e strutturale di una
lingua, sull'identità. Il desiderio di definire meglio i caratteri identitari della cultura in cui un popolo e una lingua si
riconoscono, stimolò ricerche e discussioni di natura diversa da quelle che avevano alimentato fino a quel momento il
dibattito. Lo studio del latino medievale, e di quei tratti che venivano interpretati come deviazioni dalla norma classica,
apparve essenziale per la ricostruzione dell'origine delle lingue moderne e favorì l'idea dell'esistenza di una "lingua romana",
che avrebbe occupato una posizione intermedia tra latino classico e volgare.
Coloro che avviarono in Italia gli studi sulle testimonianze del medioevo furono Scipione Maffei e Ludovico Antonio
Muratori. Quest'ultimo parla di lingua "comune" o "italiana" per distanziarsi sia dal primato del fiorentino sia dall'imitazione
della letteratura del Trecento; prende posizione sul confronto tra francese e italiano, sostenendo che i difetti imputati a
quest'ultimo dipendevano dallo stile della scrittura barocca e non dai caratteri originari, che mostravano, invece, grazie alle
particolarità dell'accentazione e della sintassi, una maggiore capacità di espressione.
La Francia riuscì a dare impulso anche alle idee degli illuministi, che in Italia trovarono seguaci soprattutto a Napoli e a
Milano, dove alcuni intellettuali ebbero la possibilità di collaborare con i governanti e di ricoprire cariche pubbliche.
L'interesse settecentesco verso le lingue non si limitò al confronto o alla contrapposizione tra i loro caratteri originari ma portò
a riflettere, oltre che sul loro valore come strumento per trasmettere e plasmare le idee, sulla connessione tra lingua e pensiero.
Tra gli autori italiani che svilupparono con originalità il pensiero dei più importanti filosofi europei del linguaggio, il più noto
fu Melchiorre Cesarotti; egli cercò di uscire dalle discussioni legate alla situazione linguistica italiana, per tentare di elaborare
una teoria estendibile all'insieme delle lingue: afferma che le lingue sono all'origine tutte "barbare", ma tutte sono
strumenti utili al popolo che se ne serve; nessuna lingua può dirsi pura, dal momento che ognuna nasce da una composizione
casuale e non è frutto di una progettazione predeterminata; se è vero che nessuna lingua è perfetta, è anche vero che tutte
possono migliorare e tutte possono continuare ad arricchirsi: nessuna lingua, infatti, rimane immobile lungo il tempo e
nessuna è parlata allo stesso modo all'interno di una nazione. Inoltre, la lingua parlata, motivata dalle necessità della
comunicazione, si presenta più vivace e spontanea rispetto a quella scritta; quest'ultima, tuttavia, è da tenersi in più alta
considerazione, perché frutto di riflessione e strumento di comunicazione delle persone colte. La lingua scritta non può
dipendere, dunque, da quella di uso vivo di cui si serve il popolo, ma non può neppure assoggettarsi alla rigidità dei grammatici
e all'autorità di scrittori fissati come modelli unici al di là di ogni tempo.
Le indicazioni suggerite da Cesarotti confermano l'innovatività delle sue idee ma anche la distanza dalle posizioni radicali del
"Caffe": non è possibile, infatti, inseguire la libertà da ogni regola, soprattutto per ciò che riguarda le strutture fonetiche e
morfologiche. È invece opportuno adeguarsi all'evoluzione del tempo e al sentire di una nazione, soprattutto per il lessico, che
ogni scrittore deve poter liberamente ampliare aggiungendo termini nuovi o modificando il significato di quelli già esistenti.
Per arricchire il numero delle parole, Cesarotti suggerisce preferibilmente metodi di rinnovamento interni alla lingua stessa,
ricorrendo, cioè, alla formazione di parole attraverso l'analogia, la derivazione e la composizione; non sono, però, da escludersi
gli apporti dall'esterno, accogliendo termini di dialetti non toscani. Alcune di queste posizioni sul lessico saranno condivise dai
classicisti dei primi dell'800.
Cesarotti interviene anche sul genio della lingua che era stato al centro di molte delle discussioni settecentesche e ne offre
una propria interpretazione, distinguendo tra "genio grammaticale" e "genio retorico": il primo si identifica con il nucleo
inalterabile di una lingua, la struttura grammaticale su cui non si può intervenire; il secondo, invece, rappresentato soprattutto
dallo stile e dal lessico, può subire alterazioni senza intaccare la specificità di un idioma.
Gli scambi linguistici tra le aree della Francia e dell'Italia hanno origine antica.
A partire, però, dalla seconda metà del ‘600, inizia una penetrazione di prestiti dal francese. Il fenomeno era connesso a
un'ammirazione a volte a tal punto esagerata verso tutto ciò che proveniva dalla Francia da essere etichettata già sul finire del
‘700 come "gallomania". Oggi, tuttavia, la percezione da parte dei parlanti italiani dell'antica pervasività dei francesismi è quasi
inesistente, grazie soprattutto alla comune origine latina e alla vicinanza strutturale delle due lingue.
Le fonti a cui è possibile attingere per ricostruire date e natura dei francesismi entrati in questo lungo arco temporale sono i
giornali di natura più divulgativa, le opere teatrali, le scritture private e familiari, come lettere, diari… Se ne ricava una
Negli anni del dominio napoleonico in cui si accende un interesse nuovo per la lingua italiana, l'Accademia italiana di Scienze,
Lettere e Arti di Livorno bandisce un concorso per determinare lo stato presente della lingua italiana, e specialmente toscana. Il premio
viene assegnato ad Antonio Cesari, sacerdote che intendeva restaurare la purezza del fiorentino trecentesco. Cesari e tutti
coloro che aderirono alle sue idee furono definiti puristi, con l’intento di rappresentare una specifica posizione linguistica
italiana.
Il testo con cui Cesari vinse il premio, parte dall'assunto che per comprendere quale fosse lo stato della lingua italiana e
stabilirne quindi la vicinanza o distanza dalla sua vera forma, occorreva capire in quale secolo fosse stata parlata e scritta nel
migliore dei modi. La lingua era «scaduta» perché erano stati abbandonati «lo studio e l'imitazione dei Classici del trecento»,
I classicisti, il cui maggiore esponente fu Vincenzo Monti, si opposero, con maggiore o minore energia, al purismo,
raggiungendo conclusioni diverse ma partendo da premesse comuni: le basi di partenza erano l'imitazione dei modelli letterari
e l'aspirazione alla perfezione linguistica; a differenza dei puristi, però, i classicisti ponevano maggiore attenzione alla qualità
artistica della scrittura letteraria, che consideravano solo una delle componenti della lingua. Nella loro visione, la compiutezza
linguistica non è data una volta per tutte e non si ottiene imitando passivamente i testi trecenteschi, ma si attua di tempo in
tempo adeguandosi alle esigenze stilistiche e alle necessità dell'arte. La lingua ha dunque possibilità di migliorare e di
arricchirsi, usufruendo non solo del contributo di poeti e prosatori ma, come sostiene lo stesso Monti, dell'apporto di tutti i
sapienti, pensatori e scienziati.
Vincenzo Monti ricoprì diversi incarichi sotto il governo di Napoleone, di cui sposò la politica culturale aderendo con
convinzione al neoclassicismo e maturando un crescente interesse per le questioni linguistiche: Monti esalta la tradizione
degli studi scientifici italiani e critica la cancellazione dal Vocabolario della Crusca di tecnicismi necessari alla scienza e alla
speculazione filosofica. Da queste considerazioni parte per esprimere le sue prime idee sulla lingua, prendendo le distanze dalla
letteratura barocca e francese, e aprendosi all'apporto del latino e dei neologismi necessari nei linguaggi scientifici. Fu, però,
negli anni in cui venne coinvolto nelle vicende del vocabolario proposto dall'Istituto di Scienze, Lettere e Arti che si
intensificarono le riflessioni linguistiche.
Agli inizi dell'800 comincia a fiorire un'ampia produzione di dizionari, motivati dalle esigenze nuove e crescenti di
professionisti, insegnanti, impiegati che non hanno necessità di consultare i vocabolari per comporre opere letterarie ma per
svolgere il proprio lavoro.
L'Accademia della Crusca, dopo la ripresa delle attività, stenta a trovare una via efficace per completare la quinta redazione del
Vocabolario. All'inattività dell'Accademia negli anni della sua chiusura cerca di sopperire Antonio Cesari con una sua
riedizione del Vocabolario degli accademici della Crusca, pubblicata a Verona tra il 1806 e il 1811 e per questo motivo indicata
come Crusca Veronese. L'edizione di Cesari, sebbene conservi la struttura e l'impostazione lessicografica della Crusca, cerca
di ampliare il numero delle voci, traendole quasi esclusivamente da testi del XIV secolo. Nella prefazione al Vocabolario,
Cesari non risparmia le critiche ai fiorentini, che ormai ‘sprezzano’ i grandi autori del secolo d'oro e ‘scherniscono chi li legge e
ci studia’. Nonostante ciò, la crusca veronese diverrà oggetto di studio e riflessione tra i letterati milanesi.
Non dalla Crusca veronese ma dalle idee dei puristi prendono invece le mosse i tanti repertori che si propongono di segnalare
ai lettori parole e locuzioni da evitare e che meglio rappresentano la lessicografia puristica.
Gli studiosi, hanno additato come capostipite dei dizionari puristici l'Elenco di alcune parole oggi di frequentemente uso, le quali non
sono ne vocabolari italiani, pubblicato a Milano nel 1812. Le novità introdotte nel linguaggio amministrativo durante gli anni dei
governi francesi non erano state sempre accolte con benevolenza: se ne lamentava la difficoltà dei cittadini a comprendere il
significato di termini poco noti. Da qui discese la decisione del ministro degli Interni del Regno d'Iralia, Luigi Vaccari, di
affidare al funzionario Giuseppe Bernardoni la redazione dell'Elenco, con il fine di garantire una migliore intellegibilità dei
documenti ministeriali, liberandoli da neologismi oscuri. Che l'intento di Bernardoni, non fosse una prescrizione rigida si
comprende sia dalle considerazioni svolte nella premessa all'Elenco, in cui non si accenna mai alla purezza dell'italiano
trecentesco ma solo alla necessità di non usare termini oscuri nei documenti amministrativi, sia dalla segnalazione tramite
asterisco di molti termini che non ritiene opportuno proscrivere perché accolti dall'uso generale o indispensabili ai testi di leggi
e decreti. Quanto ai latinismi, Bernardoni ritiene che sia sconveniente ricorrervi nei testi della pubblica amministrazione per
evitare che i lettori debbano servirsi di «interpreti», ma ritiene che possano accettarsi nella poesia o nelle «prose elevate».
Com’è staro possibile, dunque, che Bernardoni sia stato e continui a essere incluso tra i puristi contro ogni sua intenzione? Per almeno due
motivi: il primo dei quali, rappresentato dall'avvio di altri numerosi elenchi di parole ammesse.
Giovanni Gherardini, era autore della Lessicografia italiana (1843), in cui proponeva una riforma ortografica; il suo progetto
intendeva allontanarsi dalla pronuncia del popolo e rivedere la grafia di alcune parole, ricorrendo soprattutto all'aiuto
Nella seconda metà dell'800 le novità di maggior rilievo furono la nascita e la sempre maggiore diffusione dei dizionari
dell'uso, ben diversi dai dizionari storici sia perché il più possibile fondati sul lessico della lingua moderna sia perché destinati
non solo a letterati e studiosi ma a chiunque avesse avuto necessità o curiosità di ricorrervi.
Alessandro Manzoni rappresenta uno snodo essenziale nella storia linguistica italiana: I promessi sposi segnano in Italia la
nascita del romanzo moderno e, nonostante non siano accolti da tutti come il modello indiscusso della scrittura narrativa,
contribuiscono a ridurre la distanza tra la prosa letteraria e l'uso vivo della lingua. La novità delle sue idee linguistiche
consentirà a Manzoni di prefigurare il percorso che avrebbe intrapreso l'italiano e di favorire l'affermarsi di una lingua
moderna e consona a ogni genere di comunicazione.
L'attenzione di Manzoni alla situazione linguistica italiana si è soliti farla iniziare con le considerazioni espresse nel 1808 in una
lettera indirizzata all'amico, letterato e storico francese Claude Fauriel. Qui le osservazioni partono dall'ammirazione per i versi
di Giuseppe Parini (i bei versi del Giorno) che, nonostante la sintesi stilistica, non riuscivano a incidere su un pubblico troppo
distante dalla lingua letteraria. Manzoni già manifesta il dispiacere per il divario italiano tra lingua scritta e parlata: La sua
ammirazione, mista all'invidia, va invece alla Francia e alla popolazione parigina, che non ha nessuna difficoltà a comprendere
le commedie di Molière. La riflessione si intensifica a mano a mano che diviene sempre più concreta l'idea di cimentarsi con
un genere del tutto nuovo in Italia, il romanzo storico, che richiede, tra l'altro, una rappresentazione in grado di far apparire
autentici i personaggi e gli ambienti in cui si muovono: rintracciare un adeguato modello linguistico nella tradizione letteraria
italiana non era affatto semplice e Manzoni se ne rende conto specialmente quando la condizione di uno scrittore francese era
diversa rispetto a quella di uno scrittore italiano. Il primo non ha difficoltà a decidere con immediatezza quali forme e parole
utilizzare, attingendo a una lingua viva che da secoli si è stabilizzata ed è diventata un mezzo di comunicazione quotidiana; il
secondo, invece, non sarà mai sicuro di ricorrere a uno strumento pienamente condiviso dal suo lettore e non saprà dire con
certezza che cosa sia l'italiano che cosa no. La soluzione a cui pensa di ricorrere e che ritiene che sarà utile, consiste nel leggere
gli italiani classici e discutere di argomenti importanti con i propri concittadini, al fine di trovare nella ‘lingua buona’ la
prontezza necessaria a esprimere i bisogni odierni. Rimane dunque viva l'esigenza di una lingua abitualmente usata
dall'intera comunità di parlanti, una lingua convenuta tra coloro che scrivono e coloro che leggono. L'opera comunemente
nota come Fermo e Lucia, ma che l'autore era solito indicare come Prima minuta e che non sarà pubblicata, presentava due
capitoli all'epoca della prima introduzione e si concluderà nel settembre del 1823. Nella prima introduzione la critica colpisce
soprattutto coloro che in Italia rifiutano il genere letterario del romanzo, trascurando il valore educativo e morale della
narrazione storica. Nella seconda introduzione è presente l'insoddisfazione dello scrittore per il modo in cui aveva esposto la
narrazione e per non essere riuscito a sostituire con efficacia lo stile del manoscritto rigettato come ‘intollerabile’. Con
rammarico ripete per ben due volte di scrivere male, perché scrivere bene significherebbe non solo aver letto buoni libri e aver
conversato con ‘persone colte’, ma anche avere a disposizioni frasi e parole di una lingua autenticamente comune, che non è
facile trovare in Italia.
L'aspirazione a una scrittura moderna, adeguata a un genere nuovo per la tradizione italiana, si legò sempre più alla ricerca di
una lingua viva e comunemente usata. Negli anni, infatti, che precedono e seguono la composizione del Fermo e Lucia, andò
maturando in Manzoni un sentimento politico espresso soprattutto nelle Odi civili (1814 -1821): sono versi tutti percorsi dal
concetto dell'unità politica italiana, condizione indispensabile per la desiderata indipendenza; Manzoni, infatti, parla dell'Italia
come di un tutto organico, la cui indipendenza può costruirsi solo riconoscendo l'unità antica del popolo, della sua lingua, del
suo sentire religioso e delle sue tradizioni. Manzoni era ben consapevole della molteplicità di idiomi che convivevano nella
penisola e contemporaneamente degli usi limitati, ma era anche consapevole dell'autonomia dell'italiano rispetto ad altre lingue
e della storia antica che ne aveva fatto l'asse portante della cultura di un popolo. La ricerca, dunque, di una lingua viva, unitaria
e da piegare agli usi comunicativi di un'intera comunità, appartiene a una coscienza sociale, civile e culturale.
Insoddisfatto, come già precedentemente accennato, del risultato raggiunto, Manzoni si pone subito all'opera per rivedere la
Prima minuta, da cui va tenuta distinta la Seconda minuta, intitolata per qualche tempo gli sposi promessi. Quest'ultima versione è da
ritenere diversa, a causa di numerosissimi interventi, che può considerarsi invece la prima stesura dei promessi sposi e che
viene di solito indicata come Ventisettana. Nel corso del lavoro sulla Seconda minuta, Manzoni stende una terza introduzione,
nella quale mostra un'apertura maggiore verso l'uso dei lombardismi, soprattutto quando questi aderiscono bene a ciò che si
vuole esprimere e risultino chiari ai lettori di altre parti d'Italia. Poco dopo, avvia la nuova stesura del romanzo, puntando
tanto alla ristrutturazione dell'impianto compositivo quanto alla costruzione di una lingua più uniforme. Per quanto riguarda il
In Italia una lingua riconosciuta da tutti esiste ed è il toscano. A chi chieda perché proprio al toscano si debba attribuire una
tale prerogativa, Manzoni risponde che non c'è alcuna qualità intrinseca che lo differenzi dagli altri domini della penisola, ma
che, a differenza di questi ultimi, è stato riconosciuto e adottato da tutti gli scrittori per ogni tipo di testo; Inoltre, si tratta di
una lingua viva, cioè sostenuta da una società che la parla e non ne ha altre. Il peso che la società assume sull'essere e divenire
delle lingue è dunque divenuto centrale nel pensiero linguistico di Manzoni: Questo uso linguistico di cui parlava Manzoni non
coincideva con l'uso degli scrittori e ciò non era vero solo per l'italiano, ma era un assunto che riguardava tutte le lingue.
Una lingua, dunque, non può essere interamente contenuta nell'opera di migliori scrittori né, per quanto ricco possa essere,
potrà mai essere interamente descritto da un vocabolario, solo l'insieme della società possiede una lingua nella sua
interezza. Una lingua deve essere uno strumento adatto a soddisfare tutte le esigenze comunicative e non può coincidere con
la sola lingua letteraria, che non copre la necessità di una comunicazione scritta e parlata. Alcuni anni dopo, lo studio sulla
lingua lo induceva a identificare nel fiorentino vivo, usato dalle persone colte, la lingua unitaria impiegata negli usi di
un'intera società. A detta di Manzoni sul piano linguistico, tra dialetto e lingua non c'è alcuna differenza, visto che entrambi
soddisfano le esigenze comunicative di una determinata comunità di parlanti. Se si vuole però trovare un vocabolario comune
che indichi a tutti gli italiani una strada unitaria, è alla lingua intera e viva di Firenze che occorre rivolgersi.
Intorno al 1838, Manzoni iniziò una nuova revisione che avrebbe condotto alla seconda definitiva edizione dei promessi sposi
(comunemente indicata come la Quarantana). Qui è presente la scelta convinta di Manzoni di abbandonare il toscano
ricavato dalla lettura di testi e dalla consultazione del vocabolario della crusca, optando per il fiorentino vivo, parlato e scritto
dalle persone colte. Lo stile, la lingua, le strategie retoriche dell'edizione definitiva dei promessi sposi innovano la scrittura
letteraria italiana per la capacità di far convivere registri linguistici e stilistici differenti, adattandoli a molti contesti:
Don Abbondio, ad esempio, è il personaggio più negativo del romanzo e molte sono le scelte linguistiche che ne danno
segnalazioni al lettore, soprattutto nei suoi monologhi sempre ispirati da sentimenti meschini, improntati alla filosofia del
quieto vivere e all’egoistico disinteresse per il bene altrui. Di registro molto diverso, invece, è il rimprovero del cardinale
Federigo, che ricorre a una simulazione di dialogo ben diversa, modulata sulla retorica dell'oratoria sacra e segnata dal rinvio
implicito al Vangelo.
Le correzioni che segnano il passaggio dalla Ventisettana alla Quarantana (coincidono con quelle che oggi vive nell'italiano
contemporaneo) furono un percorso articolato che andò soprattutto alla ricerca di una lingua comune, per lo più convalidata
dall'uso di Firenze.
É solo negli anni immediatamente successivi all'unità d'Italia che il battito linguistico si connette alla questione territoriale, al
ruolo che avrebbe potuto avere la capitale politica e alla situazione socioeconomica. All'indomani dell'unificazione si cercò di
capire quale fosse la situazione del paese, avviando nel 1861, il primo censimento nazionale, i cui risultati, frutto della prima
esperienza di rilevamento statistico svolta in Italia, presentavano dei limiti dovuti alla preparazione ancora imperfetta dei
rilevatori, alla poca domestichezza degli italiani con questi strumenti, alla debolezza di alcuni dati e dalla necessità di ulteriori
approfondimenti: ad esempio, non erano state rilevate informazioni sull’estensione e sulle possibilità di uso dell'italiano, a cui
invece tenterà di far fronte il ministero della pubblica istruzione dopo la nomina a ministro (1867) di Emilio Broglio.
I risultati del censimento individuarono sei gruppi diversi di dialetti:
- Gli Italo-Celtici (i più numerosi);
- I liguri;
- I tosco-romani;
- I napoletani;
- I siculi;
- I sardi.
Il ministro Broglio (ammiratore di Manzoni) emanò nel 1868 un decreto con il quale affidava una Commissione il compito di
individuare i modi per diffondere in tutto il paese e in tutti gli strati sociali la buona lingua. La Presidenza della Commissione
fu affidata ad Alessandro Manzoni e i suoi membri furono distribuiti in due sezioni o sottocommissioni definite milanesi e
fiorentina, ma senza alcun riferimento all'origine dei partecipanti, provenienti da più zone d'Italia.
Il principale motivo che spinse Manzoni ad assumere questo impegno fu l'istanza nazionale e sociale di dare una lingua a
tutti gli italiani, diffonderla in ogni ordine di popolo, superare le barriere dei dialetti per fondare anche
linguisticamente la Nazione. In un mese riuscì a compilare la Relazione, dell'unità della lingua e dei mezzi di diffonderla e il 19
Febbraio inviò il testo autografo al ministro Broglio; fu poi pubblicata il mese successivo.
Gli argomenti nella Relazione sostengono i benefici che derivano dall’adottare e dal diffondere come lingua comune quella
adoperata dalla società civile di Firenze. I mezzi suggeriti per raggiungere questo obiettivo pongono al primo posto l'unica
proposta che sia stata poi realizzata, ovvero la redazione di un vocabolario che avrebbe dovuto fondarsi sull'uso fiorentino ed
essere diffuso in tutto il paese. Manzoni mette le mani avanti e risponde alle possibili obiezioni che potrebbero essergli rivolte,
tra le quali quella per cui il fiorentino non è la lingua che si vuole per l'Italia ma solo un dialetto e quella per cui una città non
può imporre una legge all'intera nazione. Alla prima risponde dicendo che si può parlare di dialetti in quelle nazioni che
abbiano eletto una sola lingua a strumento di comune condivisione, relegando le altre a idiomi delle diverse province. In Italia
però ‘i vecchi e vari idiomi’ non hanno una lingua unitaria che gli faccia concorrenza e a quella che potrebbe farlo si oppone a
sproposito il nome di dialetto. Quanto alla presunta imposizione della legge di una sola città, Manzoni afferma con vigore che
nessuna norma giuridica potrà mai imporsi sul divenire delle lingue; la mutevolezza è un loro carattere intrinseco su cui solo
l'Uso ha un potere.
Un aiuto efficace sarebbe inoltre venuto dalla redazione di altri vocabolari di diversi idiomi della penisola, che avrebbero
favorito il confronto con la lingua del vocabolario destinato a diventare comune: solo la comparazione facilita il passaggio da
un lessico conosciuto a uno da apprendere.
Molto più deboli apparivano le altre proposte operative indirizzate per lo più alla scuola. Buona parte dei suggerimenti
consisteva nel privilegiare gli insegnanti toscani da inviare nelle scuole primarie di ogni provincia e ancora più nelle scuole
magistrali destinate alla preparazione di futuri insegnanti italiani, nel dare sussidi a quei comuni che ne avrebbero favorito
l'assunzione e nel finanziare borse di studio che consentissero agli studenti meritevoli delle scuole magistrali di trascorrere un
anno a Firenze. Questi ultimi furono tra i contenuti della Relazione.
Dopo circa due mesi dalla diffusione delle proposte manzoniane, apparve la Relazione della sottocommissione Fiorentina,
del tutto divergente da quella di Manzoni; Essa riteneva che il modello da estendere a ogni parte d'Italia non potesse essere il
fiorentino delle persone colte che, come il resto degli italiani, apparivano inclini alla corruzione di neologismi e prestiti dalle
lingue straniere. Era invece nella lingua del popolo che si conservava la purezza antica del ‘300: Sarebbe stato meglio guardare
al toscano delle campagne mitigando con l'aiuto dei buoni scrittori. La sottocommissione fiorentina accettava la compilazione
di un vocabolario, ma lo pensava ristretto a termini e locuzioni dell'uso comune che più spesso mostravano dei vuoti; Per il
resto i buoni dizionari, come quello della crusca, già esistevano e sarebbe bastato integrarli. Si trattava dunque di due posizioni
opposte: la relazione della sottocommissione Fiorentina non coglieva le novità più profonde delle argomentazioni manzoniane
e tornava alla purezza della lingua senza comprendere il valore sociale di una lingua viva e intera.
L'utopia si è realizzata seguendo, tuttavia, modi che né Manzoni e nè Ascoli sarebbero stati in grado di immaginare: molti
fattori avrebbero inciso sulle trasformazioni sociali, economiche e culturali vissute dal paese e sarebbero stati in grado di
modificare la situazione linguistica italiana. Negli anni immediatamente successivi alla nascita del nuovo Stato non era semplice
capire il grado di diffusione e di conoscenza della lingua unitaria, né erano ancora ben collaudati, come si è visto con il
censimento del 1816, i sistemi di rilevazione dei dati. Nonostante ciò, dei risultati riportati nello stesso censimento si sono
serviti linguisti del secolo scorso per cercare di valutare quale fosse il grado di ITALOFONIA nel paese all'indomani
dell'unità, quanti italiani, cioè, fossero in grado di comprendere e riprodurre l'italiano. Il primo a utilizzare i dati del censimento
fu Tullio De Mauro nel suo lavoro sulla storia linguistica dell'Italia unita. Il libro ebbe soprattutto il merito di introdurre, nelle
ricerche sulla storia linguistica esterna, metodi di indagine che portavano alla luce percorsi trascurati e consentivano una
ricostruzione più compiuta. De Mauro partiva dalla premessa che solo a coloro che avevano avuto la possibilità di continuare
almeno per qualche anno gli studi scolastici dopo le elementari era stata assicurata un'esposizione più salda alla lingua italiana,
mentre per tutti gli altri, considerando la debolezza dei sistemi scolastici degli Stati preunitari della penisola, il contatto diretto
era stato troppo esiguo e frammentario. Dopo circa vent'anni, ritorno sulla questione un altro importante studioso, Enrico
Castellani, che pur continuando a seguire il metodo utilizzato da De Mauro, introdusse nuovi elementi e considerazioni: a
coloro che avevano frequentato la scuola oltre gli anni delle primarie aggiunse, infatti, anche grazie alla consultazione di altre
fonti, una quota di persone che per vie diverse dovevano aver compiuto degli studi come seminaristi, religiosi e coloro che,
secondo le abitudini dell'epoca, ricevevano, soprattutto se donne, un'istruzione in famiglia. Inoltre, non vanno trascurati altri
fattori, come la conoscenza dell'italiano appreso in pochi anni di scuola attraverso letture personali.
In questi casi, come sottolinea lo stesso Castellani, va considerata a fianco della competenza attiva, che consente di produrre
testi scritti e orali in una determinata lingua, anche l'esistenza della competenza passiva, ovvero della sola capacità di
comprendere enunciati pronunciati in una lingua diversa dalla propria. Fattori diversi avevano contribuito a provocare la
nascita di varietà intermedie e a favorirne gli usi tra stati sociali differenti.
Le proposte avanzate nella Relazione Manzoniana assegnavano alla SCUOLA un ruolo prioritario nel processo di unificazione
linguistica, un ruolo a cui credeva anche il nuovo Stato che dovete affrontare difficoltà e anni di impegno per riuscire a
costruire un adeguato sistema di istruzione. Il paese si trovò subito di fronte al grave problema dell'analfabetismo, che
poneva l'Italia in una posizione di arretratezza rispetto ai paesi europei più avanzati; la situazione variava da regione a regione
ed era notevole anche il divario tra maschi e femmine (queste ultime in posizione svantaggiata). Puntare sulla scuola per
colmare questi vuoti e assicurare un apprendimento della lingua comune era essenziale. L'insegnamento dell'italiano
non vantava di un'antichissima tradizione, non perché la necessità di studiarlo anche nelle scuole non fosse affiorata, ma
perché un'attenzione sistematica era iniziata soprattutto nel corso del ‘700. Nel Medioevo e nell'età moderna, il volgare si era
affacciato in modo discontinuo nei tesi di insegnamento e nelle pratiche didattiche, e si può dire che per secoli si continua ad
apprendere lettura e scrittura direttamente in latino. Fu grazie alle riforme promosse in alcuni Stati della penisola dai sovrani
‘Illuminati’, che vennero avviate diverse riforme scolastiche favorendo un'istruzione più estesa e talvolta gratuita per la
formazione primaria, ma anche un insegnamento stabile dell'italiano. Anche in questo caso non ci fu un'uniformità in tutti i
territori della penisola, con variazioni a volte all'interno di uno stesso Stato, tra la situazione delle città più grandi e quella delle
campagne.
Lo Stato che aveva mostrato un maggiore impegno verso l'istruzione era stato il Regno di Sardegna, soprattutto nell'area del
Piemonte. Qui era stata approvata, nel 1859, la legge Casati così denominata dal nome del ministro della pubblica istruzione,
Gabrio Casati, che aveva varato una riforma complessiva del sistema scolastico, decretando la responsabilità dello Stato nella
formazione dei cittadini. Nel 1861, raggiunta l'Unità, la legge fu estesa all'intera nazione e fu alla base dell'organizzazione
scolastica italiana fino agli esordi del ventennio fascista. La legge Casati articolava l'istruzione elementare in due cicli,
inferiore e superiore, della durata di due anni ciascuno; il primo era gratuito e obbligatorio e doveva assicurare l'insegnamento
di lettura e scrittura e dei primi rudimenti dell'aritmetica. La gestione delle scuole era delegata ai Comuni, dove veniva istituito
il primo biennio solo nel caso fossero presenti almeno cinquanta alunni in età scolare, mentre era attivato il secondo laddove la
popolazione avesse superato i 4000 abitanti. L'istruzione secondaria era invece divisa tra un indirizzo classico di cinque
anni (ginnasio e liceo), che consentiva l'accesso a qualsiasi tipo di studio universitario, e uno tecnico di tre anni, diviso in
diverse sezioni, solo una delle quali permetteva l'iscrizione ai corsi universitari di scienze matematiche, fisiche e naturali; di
durata triennale erano anche le "scuole normali" istituite per la formazione degli insegnanti.
L'obbligo del primo biennio delle elementari non prevedeva sanzioni per i genitori che non intendevano o non potevano
rispettarlo: se da un lato, infatti, le famiglie benestanti avevano un atteggiamento diffidente verso un sistema scolastico statale e
Il SERVIZIO MILITARE OBBLIGATORIO impose contatti tra giovani provenienti da regioni diverse che vivevano
lontano da casa per un periodo molto lungo (4 anni poi ridotti a 3), durante il quale la necessità di comunicare con gli altri
coetanei e con i superiori li costringeva ad accordarsi sull'uso di una lingua comune, mescolata di molti regionalismi e di
incertezze, ma nel complesso tendente all'italiano unitario. Agli analfabeti veniva assicurato, nelle scuole reggimentali,
l'apprendimento di lettura e scrittura; nel complesso, il processo di italianizzazione fu piuttosto lento, come confermano i
problemi di comunicazione tra soldati e ufficiali, spesso ricordati a proposito delle dolorose vicende della Prima guerra
mondiale.
Un contributo alla diffusione dell'italiano venne anche dall'UNIFICAZIONE DELL'APPARATO AMMINISTRATIVO,
reso indispensabile dalla necessità di promulgare norme e disposizioni che avessero valore su tutto il territorio nazionale. Il
mescolarsi degli usi e delle formule che già appartenevano alla burocrazia degli Stati preunitari è favorito anche dal
trasferimento dalle proprie regioni d'origine di molti impiegati e funzionari. Non era facile, infatti, accordarsi su una lingua
adeguata alla stesura di disposizioni e norme amministrative e alla comunicazione con il pubblico: mancava o non si era ancora
stabilita una lingua di uso medio e l'italiano di tradizione letteraria poco sì prestava agli usi specialistici della pubblica
amministrazione. Ci fu tuttavia uno sforzo congiunto per convergere verso un'unica soluzione, che è stata definita una koinè
burocratica postunitaria. Per ciò che concerne la lingua burocratica, il dato più rilevante per comprenderne l'apporto
all'affermazione dell’italiano unitario è la reputazione di cui comincia a godere tra la popolazione, che in un modo o nell'altro
non può fare a meno di entrare in contatto con gli istituti del nuovo Stato: ogni cittadino ha nella propria vita la necessità di
ricorrere agli uffici della pubblica amministrazione per registrare una nascita, un matrimonio, per mutare la proprietà di un
immobile… Per molte persone che non hanno frequentazione costante con la parola scritta e che possiedono scarsa
dimestichezza con la lingua unitaria, i testi della pubblica amministrazione divengono spesso l'unica occasione di contatto con
l'italiano. Per le persone analfabete dotate di poche capacità di lettura e scrittura, la lingua degli uffici, dell'amministrazione e
degli avvisi pubblici finisce col diventare un modello di riferimento.
L'italiano stereotipato della pubblica amministrazione, del resto, trova una via di diffusione anche attraverso LE
CRONACHE DEI GIORNALI, che ne assorbono termini, locuzioni, sequenze sintattiche e tratti regionali. La stampa
periodica, ad esempio, è un'importante fattore di italianizzazione che contribuisce a forgiare, poco per volta, una lingua più
adatta a esprimere i contenuti nobili legati all'evolversi di una società moderna e spesso estranei a quelli trattati dall'italiano di
tradizione letteraria. È dopo l'Unità che la stampa periodica pone le basi per consolidare lungo il tempo il suo ruolo di mezzo
di comunicazione di massa. Nascono da nord a sud le prime grandi testate, alcune delle quali sono ancora oggi attive: la
Stampa, il Corriere della Sera, Il Messaggero. Il miglioramento vissuto dai giornali è direttamente proporzionale all'incremento dei
lettori che trovano sempre maggiore interesse nella carta stampata: la crescita degli alfabetizzati e il progresso dell'istruzione
Gli scambi di movimenti all'interno della penisola, l'unificazione del sistema amministrativo, la diffusione dei giornali
favoriscono dopo l'Unità lo scambio tra l’italiano e i dialetti. A partire dalla seconda metà dell'800 la direzione fu soprattutto
dall'italiano verso i dialetti; però non furono poche le penetrazioni delle parole dialettali nel lessico dell'italiano: si tratta dei
DIALETTISMI, parole appartenenti originariamente solo al dialetto, che sono state stabilmente accolte nell'italiano comune
e che vengono perlopiù distinte dai regionalismi, tipici, al contrario, di un italiano di uso regionale. Molti dialettismi sono
legati all'ambito gastronomico, anche perché viaggiano con prodotti che non sono diffusi su tutto il territorio nazionale. Si
registra anche l'ingresso di termini legati a particolarità del territorio geografico (i nuraghi sardi) e a contesti sociali spesso
problematici (la camorra di provenienza napoletana).
Le due guerre mondiali, i cambiamenti politici ed economici e il potenziamento delle tecnologie avranno riflessi importanti
sulla nostra storia linguistica, portando talvolta a veri e propri rivolgimenti.
La Prima guerra mondiale aiutò a cementare l'unità del paese perché fu vissuta in prima persona da ampi strati sociali della
popolazione: I giovani, spesso di origine contadina, che lasciarono le proprie regioni per combattere al fronte furono
innumerevoli e fu per tutti un'occasione di conoscenza e di scambio linguistico.
Il lessico politico si ampliò attraverso i giornali, i comizi e la vita sindacale, riuscì a essere assorbito anche da molte persone
che ancora non dominavano con pienezza la lingua italiana, ma ne comprendevano sempre più la rilevanza per il progresso
sociale. Continua la crescita dei centri urbani, frutto del concentrarsi delle attività economiche, intensificando la diffusione e gli
usi dell'italiano.
Nei primi decenni del ‘900, cominciano a inserirsi tra gi artefici dell'unificazione linguistica i nuovi mezzi di comunicazione
di massa, grazie all'ingresso del cinema sonoro e soprattutto della radio, con cui inizia una diffusione omogenea dell'italiano
su tutto il territorio nazionale. La prima trasmissione radiofonica in Italia fu un concerto di musica classica mandato in
onda dall'URI (Unione radiofonica italiana) il 6 ottobre 1924, a cui seguirono altre trasmissioni con programmazione
prevalentemente musicale. Nonostante ciò, ci si pose subito il problema della lingua da adoperare, anche perché furono
evidenti l'impossibilità di limitarsi alla lettura di un italiano scritto dai toni elevati e la necessità di adeguarsi al nuovo mezzo
con un italiano parlato che doveva raggiungere simultaneamente una quantità di persone fino a quel momento inimmaginata.
Le potenzialità del mezzo furono subito colte dal regime fascista, che nel 1928 affidò all'EIAR (Ente italiano audizioni
radiofoniche) la gestione della radio, facendone il più potente mezzo di informazione e di propaganda politica: nel 1929,
infatti, nacque il Giornale parlato; fin da subito si comprese, inoltre, il ruolo che questo mezzo avrebbe potuto assumere grazie
alla trasmissione e all'ascolto di massa dei discorsi di Mussolini. Il successo tra gli italiani fu immediato.
Negli anni Trenta, anche il cinema cambiò radicalmente con l'avvento del sonoro, che impose trasformazioni all'italiano di
forte impronta letteraria leggibile nelle didascalie del cinema muto; inizialmente, però, per il dialogato cinematografico ci si
ispirò alle battute dei testi teatrali, poco adatte a rendere in modo realistico l'interazione tra i personaggi dello schermo. Anche
in questo caso si avvertì il problema di un italiano adeguato al mezzo e alla trattazione che esercitò fin da subito su numeri
sempre più alti di spettatori, in grado ormai di capire la lingua unitaria, ma non sempre in grado di cogliere un lessico ricercato.
Il continuo avanzamento della scolarizzazione fanno sì che la lingua comune si affianchi ai dialetti, cominciando a
invaderne il campo della comunicazione privata e quotidiana. Il ventennio fascista esercitò, da molti punti di vista, una forza
frenante per la discutibile politica linguistica con cui cercò di contrastare la realtà plurilingue dell'Italia; è pur vero, però, che il
regime incoraggiò lo sviluppo tecnologico e gli incontri con e tra le masse.
Il fascismo intendeva imporre una politica linguistica che non si impegnava a favorirne la diffusione migliorando
l'insegnamento, garantendo un buon sistema di istruzione o sostenendo ricerca e pubblicazioni sulla lingua, ma si intrometteva
negli usi linguistici con l'intento di condizionare la comunità parlante. Alla base di questa politica ci fu il principio che guidava
le azioni del governo fascista: porre al di sopra di tutto l'interesse della nazione, esaltandone la superiorità anche sul
piano della lingua.
Gli interventi principali si indirizzarono contro l'uso dei dialetti e la presenza delle lingue minoritarie, attivando campagne di
stampa ed emanando precise disposizioni.
Per quanto riguarda il dialetto, le azioni repressive riguardarono principalmente la scuola, nonostante i programmi per le
elementari redatti da Lombardo Radice avessero raccomandato di partire dalla conoscenza del dialetto per raggiungere, anche
attraverso comparazioni, la conquista dell'italiano. Le prescrizioni ministeriali, del resto, divennero a mano a mano più rigide,
finché con i programmi di Francesco Ercole del 1934 i dialetti non scomparvero da ogni pratica scolastica. Più gravi
furono le misure nei confronti delle minoranze linguistiche, di quei gruppi di popolazione, cioè, che si servono di una lingua di
origine diversa tanto dall'italiano quanto dai dialetti della penisola; le colonie alloglotte furono oggetto di particolari restrizioni:
si vietarono insegne e avvisi pubblici nella doppia lingua, si sostituirono i toponimi tedeschi con quelli italiani, si soppressero i
giornali alloglotti e si vietò a scuola l'insegnamento delle lingue minoritarie, che in un primo momento era stato concesso in
ore scolastiche aggiuntive. Si arrivò persino a sorvegliare l'ingresso dei prestiti, indicando quando necessario delle
alternative, anche per venire incontro a professionisti, ditte, negozi, le cui insegne, per una legge dello stesso anno, non
potevano esporre parole straniere.
All'Accademia d'Italia era stato dato anche l'incarico di redigere un nuovo vocabolario della lingua italiana: l'Accademia
della Crusca, come già accennato, aveva avviato da tempo la compilazione della quinta impressione, ma nel 1923, con la
La diffusione sempre più incalzante dell'italiano ebbe conseguenze visibili sul piano sociale e su quello linguistico: la
lingua unitaria si aprì ampi varchi nella comunicazione quotidiana e si avvio verso una progressiva semplificazione; Fu
conseguenza di tutto ciò anche il restringersi dello spazio dei dialetti, di cui si minacciava una sparizione mai avvenuta,
nonostante non possa negarsi una loro modificazione, soprattutto per la pressione dell'italiano sulle loro strutture. Alcuni dei
fattori che già dopo l'Unità o nei primi decenni del ‘900 avevano contribuito a una più ampia conoscenza della lingua comune:
- l’analfabetismo (dal 40% del 1911 scende al 14% nel 1951);
- cresce il livello di scolarizzazione;
- l'obbligo scolastico è esteso fino ai 14 anni e viene introdotta la scuola media che sostituisce il duplice percorso
(accesso al ciclo superiore o all'avviamento professionale) previsto dalla riforma Gentile;
- le battaglie sindacali influenzano la crescita della coscienza politica e sociale dei lavoratori, che partecipano alla vita dei
partiti e ne assorbono idee e parole;
- ricomincia, negli anni Cinquanta, l'emigrazione sia verso l'estero sia verso il Nord del paese e migliorano l'economia e
il tenore di vita dei cittadini, che cominciano a far studiare di più i propri figli, a muoversi per il solo piacere di
conoscere e ad aspirare a modelli di vita più elevati;
- arriva la televisione, che inizia le proprie trasmissioni nel 1954, divenendo uno strumento di trasmissione della lingua
nazionale più potente della radio e del cinema.
Sebbene elaborate negli anni del fascismo, è nella seconda metà del Novecento che hanno ripercussione le idee espresse da
Antonio Gramsci, negli anni della prigionia, in materia di lingua: vi si sofferma soprattutto nel XXIX dei Quaderni dal carcere
dove ragiona attorno alle possibilità e ai limiti di un intervento politico volto alla centralizzazione linguistica di una nazione.
Gramsci individuava, quali centri di diffusione della lingua e delle sue innovazioni, la scuola, il teatro, la radio, il cinema
sonoro, i giornali, gli scrittori, gli incontri pubblici e gli stessi dialetti.
Non si nega, dunque, la possibilità di adoperarsi per l'affermazione di una lingua unitaria, ma si sostiene che un intervento
dall'alto potrà solo servire ad accelerare uno sviluppo reso necessario dalla storia stessa di un popolo. Nella polemica tra
Manzoni e Ascoli, Gramsci si accosta alle posizioni del secondo affermando che ‘non è giusto dire che queste discussioni siano
state inutili e non abbiano lasciato tracce nella cultura moderna. In realtà in questo ultimo secolo la cultura unitaria si è estesa e
quindi anche una lingua unitaria comune. Ma rutta la formazione storica della nazione italiana era a ritmo troppo lento. Ogni
volta che affiora la quistione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e
l'allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare
nazionale, cioè di riorganizzare l'egemonia culturale’.
E solo nel dopoguerra che queste idee si diffondono tra gli intellettuali, quando la riflessione sulla situazione linguistica italiana
sarà più volte connessa alla situazione politica.
La nuova questione della lingua segnala una novità importante: a discuterne, infatti, non sono più né più saranno gli scrittori:
quando Pasolini e Calvino intervengono nella "questione", non lo fanno in quanto scrittori, ma in quanto, generalmente,
intellettuali.
Sono i linguisti a intervenire più spesso sull'italiano contemporaneo per osservare i movimenti in atto di questa o
quella varietà, per segnalare l'adeguatezza o meno di alcuni tratti alle diverse situazioni comunicative o per
indicare, talvolta in collaborazione con le istituzioni, le vie dell'insegnamento e dell'apprendimento. Negli anni
successivi alla Seconda guerra mondiale, in particolare, i linguisti cominciano a osservare gli stessi fattori che avevano colpito
gli scrittori e che stavano producendo cambiamenti rapidi e vistosi nella lingua. Ciò che colpiva era la restrizione nell'uso dei
dialetti, che aveva come corrispettivo il progressivo aumento degli italofoni. Colpisce, in effetti, il rapido decremento della
percentuale di coloro che dichiarano di usare esclusivamente il dialetto: tuttavia, l'uso prevalente dell'italiano non ha sempre
occupato tutti gli spazi lasciati dalla regressione dei dialetti. La situazione più frequente vede coesistere la lingua comune con
uno dei dialetti nella vita familiare o nelle relazioni amicali, mentre con conoscenti o estranei il ricorso al dialetto è motivato
solo dalla volontà di adeguarsi all'interlocutore.
Negli anni Sessanta si osserva anche la situazione dinamica in cui è entrato l'italiano, di cui almeno si coglie l’influenza che
subisce, nelle diverse aree della penisola, dai tratti dialettali. Si può osservare l'attenzione crescente che da questo momento in
poi i linguisti pongono alla coesistenza di varietà e registri più o meno condivisi dalla comunità linguistica italiana,
proponendo classificazioni che tentano di ripartire in modo sempre più dettagliato lo spazio comunicativo del
dialetto e dell'italiano. Le modificazioni percepibili nell'italiano e le molte semplificazioni, tra gli anni ’60 e ’80, inducono a
nuove descrizioni.
Uno studio destinato ad avere grande successo e ad accendere nuove discussioni è quello pubblicato da Francesco Sabatini
sull’italiano dell'uso medio; con questo termine viene denominata una varierà diffusa e adoperata dalla gran parte degli
italiani. Le conclusioni di Sabatini si fondano sull'individuazione di trentacinque fenomeni che caratterizzano l'uso comune di
un italiano sempre più adattato a differenti situazioni. Secondo Sabatini, l'italiano dell'uso medio si estende ai parlanti colti e
mostra il suo carattere unitario non solo sul piano geografico ma anche su quello sociale.
Per poter descrivere le forme e i tratti che caratterizzano la mutevolezza di una lingua negli usi è necessario servirsi degli
strumenti di analisi della sociolinguistica a cominciare dall'individuazione di alcuni fattori non linguistici, quali lo spazio
geografico, l'estrazione sociale del parlante o la situazione comunicativa, che determinano, secondo la visione sviluppata dal
linguista rumeno Coseriu, quattro dimensioni di variazione, definite rispettivamente diatopia, diastratia e diafasia:
Non tutti i linguisti sono però concordi nel ritenere autonoma la variazione della diamesia, che si può dire attraversi tutte le
altre. Ogni enunciato pronunciato dai parlanti è prodotto in una determinata varietà di lingua, ma è spesso riconducibile a più
dimensioni di variazione; se osserviamo, per esempio, la frase Mi ai spendo il cuore, la grafia di ai priva della h iniziale ci fa
pensare a uno scrivente con poca competenza dell'italiano scritto e quindi a una varietà diastratica bassa; la riproduzione della
lenizione dopo la nasale, invece, indica una varietà diatopica meridionale, mentre l'insieme è identificabile come informale dal
punto di vista diafasico. Le varietà, dunque, si intersecano tra loro; inoltre, le varietà si dispongono lungo una successione
gerarchica dalla più alta alla più bassa. Per l'italiano potremo identificare:
La Comunità parlante in Italia possiede un repertorio costituito da due sistemi linguistici, l'italiano e il dialetto, che occupano,
il primo il gradino più alto e formale della comunicazione sociale, il secondo quello più informale.
Il dialetto è impegnato nella comunicazione familiare, non è ammesso negli usi pubblici e formali ed è limitato solo ad alcune
tipologie di scrittura. Nonostante ciò, gli usi e la percezione sociale dei dialetti sono diversi: nei siti web, nei social, nella
pubblicità, nella musica giovanile, nella gastronomia...
La pressione che i dialetti esercitano sulla lingua comune genera, dal punto di vista diatopico, la varietà dell'italiano regionale:
con questo termine ci si riferisce a quella varietà di italiano che si differenzia su base geografica e che viene parlato in una
determinata area non coincidente, nonostante l'aggettivo regionale, con le regioni amministrative, ma con aree linguistiche di
diversa estensione. Si tratta in ogni caso di una varietà diatopica della lingua comune che discende dall'incontro tra quest'ultima
e l'idioma locale e non va confusa con il dialetto.
La comunità linguistica italiana riconosce ai dialetti lo statuto di lingua, incorrendo però molto spesso in almeno due equivoci:
- Il primo riguarda la tendenza ad assegnare lo stato di lingua solo ad alcuni dialetti della penisola. Il primato viene di
solito assegnato a quei dialetti che, come in napoletano, vantano un'importante tradizione letteraria; la distinzione
però non poggia su questi dati, ma sul ruolo che una comunità parlante assegna a un determinato idioma,
consentendogli di svolgere un'ampia gamma di funzioni nella comunicazione sociale.
- Il secondo consiste nel far coincidere il dialetto e italiano regionale. Questa confusione, spesso generata proprio
dall'aggettivo regionale, che per coloro che non hanno mai compiuto studi linguistici, rinvia genericamente all'idioma del
posto.
Con lingua standard si intende la varietà di più alto prestigio, codificata dalle grammatiche, a cui l'intera comunità linguistica
guarda come modello di riferimento per la correttezza normativa e per l'insegnamento scolastico. Lo standard viene perlopiù
associato a una lingua neutra, priva di tratti marcati sul piano diastratico e diatopico ed estendibile a tutto il territorio condiviso
dalla comunità parlante.
In realtà ogni lingua standard, che sia il frutto di uno sviluppo storico, come nel caso dell'Italia, o che sia l'esito di una
costruzione a tavolino, possiede sempre una dose di artificialità ed è difficile incontrarlo al di fuori della scrittura. L'italiano
standard si fonda sul fiorentino letterario trecentesco, ma nei secoli, innovazioni o apporti da altre aree hanno distanziato
l'italiano dalla lingua di Firenze.
L'italiano standard può dunque definirsi, almeno nella comunicazione orale, una lingua astratta, la cui fonetica è realizzata
correttamente solo da coloro che abbiano frequentato corsi di dizione, annullando ogni traccia dell'area geografica di
provenienza.
È possibile rintracciare la lingua standard, oltre che nella norma insegnata a scuola, solo in alcune tipologie di scrittura. In
contrasto con l'uniformità che dovrebbe caratterizzare un modello standard, l'italiano si contraddistingue per la convivenza di
forme diverse: la lingua letteraria è stata a lungo segnata da una polimorfia che consentiva agli scrittori di scegliere tra varianti
fonetiche e morfologiche più o meno equivalenti (lagrima e lacrima). Un certo grado di poliformia caratterizza ancora la nostra
lingua.
L'uso sempre più ampio della lingua unitaria nella comunicazione viva e parlata ha provocato una più libera accoglienza di
forme e costruzioni sintattiche a lungo sconsigliate dalle grammatiche e dalla norma scolastica: alla norma dello standard si è
dunque affiancata, come accade per ogni lingua viva e moderna, quella che i linguisti definiscono "norma sociale" o anche
"implicita", fissata in base ai diversi gradi di accettazione della comunità linguistica.
L'italiano letterario è legato alla necessità di sottolineare la separazione tra quest'ultimo e la norma dello standard. È doveroso
osservare come l'espansione dell'italiano in tutti i suoi usi comunicativi e i processi di ristandardizzazione abbiano
contribuito a sottrarre alla lingua letteraria il suo antico ruolo di modello, equiparandolo ad altre varietà e riducendone la
funzione innovativa.
Il tendenziale avvicinamento tra lingua della letteratura e lingua dell'uso vivo diviene ancor più percepibile nella prosa
narrativa del nuovo millennio. Cresce, peraltro, il numero dei romanzi pubblicati, composti sempre più non da autori
maturati nel Novecento, ma da scrittori che hanno avuto il loro esordio nel XXI secolo, che molto spesso hanno come lingua
materna il solo italiano.
Anche l'italiano della poesia subisce innovazioni importanti, percepibili, quando la lingua poetica in crisi e sperimenta, a
partire da Giovanni Pascoli, soluzioni differenziate.
Non si deve, però, cadere nell'equivoco che la lingua della letteratura non possegga più una sua specifica fisionomia: la
comunità linguistica continua a percepire la distanza tra le due varietà. La specificità della lingua letteraria rimarrà sempre
legata alle finalità estetiche che la contraddistinguono e che continuerà a perseguire; anche quando lo scrittore si proporrà di
imitare il parlato spontaneo, sarà costretto a manipolarne parole e costrutti per piegarli alle proprie esigenze espressive.
Da diversi decenni l'italiano ha vinto le sfide della modernità e ha saputo conquistare una lingua letteraria spesso criticata ma
all'altezza dei tempi.