Border Art - Tra Politica e Rivendicazione
Border Art - Tra Politica e Rivendicazione
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Nel momento in cui si libera un piedistallo dalla statuaria tradizionale, creiamo un dispositivo
in grado di trasformare in opera d’arte – e più in generale in messaggio culturale – qualsiasi
cosa vi si ponga sopra. Ciò che si rimuove lascia uno spazio vuoto che non è neutro, ma
veicolo di contenuti non sempre prevedibili, salvo non vi sia una diretta sostituzione. I
Monumenti, come suggerisce il termine stesso, sono mementi e al tempo moniti, sono
espressione del potere, di quale versione della storia si voglia tramandare che sia ad opera di
una comunità, di una città o di uno stato. Rimanendo imperturbabile allo scorrere del tempo e
all’evolversi della società e facendo sì che lo spazio pubblico divenga spesso spazio di
battaglia e di contrattazione, dove si dibatte per scegliere cosa ricordare e cosa cancellare e
dimenticare.
Un caso studio sul difficult heritage é stato presentato da Jill Strauss, professoressa presso il
Manhattan Comunity College, nel quale osserva il paradosso del ricordo che scaturisce dal
piedistallo vuoto a cui accennavo in precedenza. Il Monumento in questione ospitava la statua
del Dr. J. Marion Sims (1894), considerato padre della moderna ginecologia, opera un tempo
situata a Manhattan, oggi rimossa dallo spazio pubblico e ricollocata in prossimità della
tomba di Sims. Nonostante sia acclamato per i suoi meriti scientifici, è spesso omesso che egli
aveva aveva condotto sperimentazioni su corpi – principalmente non consenzienti – di donne
afroamericane e irlandesi; ci si chiede quindi quanto sia correto celebrare oggi queste figure
moralmente contraverse.
Tra l’11 e il 12 Agosto del 2017 a Charlottesville in Virginia si organizza una marcia verso i
monumenti che dovevano essere rimossi, in quanto legati alla Guerra Civile, in particolare,
per impedire la rimozione della statua del Generale Robert E. Lee. Durante questa marcia si
verificarono scontri molto violenti tra i diversi gruppi di manifestanti; alcuni suprematisti
presero i propri pick-up, investendo i passanti e portano alla morte di una giovane donna. I
parchi del Generale Lee cambiano, dunque, il proprio nome e le opere dedicate ai confederati,
a Charlottesville, vengono velate. Ecco una prima operazione problematica, nei confronti dei
monumenti, che vengono occultati o chiusi in impalcature cartonate. Eppure, come avevano
già mostrato Christo e Jeanne Claude - due dei principali artisti della corrente Land Art - con
l’impacchettamento del Pont Neuf di Parigi, l’occultamento suscita sempre un effetto
contrario1 stimolando ancora di più la curiosità del pubblico. Questa soluzione polarizza
infatti il dibattito tra chi ne chiede la rimozione e chi propone soluzioni alternative. Non
possiamo bollare come semplici atti vandalici le azioni iconoclaste mostrate nei confronti di
tali monumenti, che necessitano quindi di essere studiati e inquadrati in un fenomeno più
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Christo Bloccava persino illegalmente le strade, per irrompere nella quotidianità e spezzare i meccanismi inconsci di
tutti i giorni.
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ampio. A Montgomery, in Alabama, nel 2018 viene inaugurato il primo memoriale per le
vittime di linciaggi. È costituito da una serie di stili che impongono all’osservatore una serie
di movimenti scomodi; ciò è creato per dar luogo a una riflessione collettiva, sottraendosi –
almeno in parte – alle logiche del monumento storico.
Quello di Charlottesville non è stato il primo caso di rimozione di monumenti, già nel 2015 a New
Orleans il monumento al generale Lee era stato oggetto di rimozione, lasciando solo il piedistallo-
colonna. Il New York Times in risposta lancia con un articolo un invito agli artisti contemporanei a
esprimere la loro opinione sui piedistalli vuoti, su ciò che secondo loro se ne doveva fare. L’articolo
del New York Times si intitolava “Monumenti per una nuova era”. Ripensare insieme, attraverso il
ruolo degli artisti, quale forma potessero avere i monumenti per una nuova era, a partire proprio dai
piedistalli rimasti vuoti dopo le rimozioni dei monumenti dedicati ai confederati.
Una delle soluzioni più apprezzate è la proposta dell'artista Kenya Robinson, molto provocatoria,
ma di grande fascino anche letterario. Ella suggerisce di costruire intorno a ogni monumento
dedicato a confederati una voliera per realizzare un sacrario per i pappagallini africani, anch’essi
vittime del traffico umano transatlantico. L’idea è di coprire i monumenti dei confederati di burro
d’arachidi e semi in modo che i pappagallini facciano il loro lavoro ricoprendoli di guano e piume.
Lasciare quindi i monumenti sui loro piedistalli “come ricordo della nostra tendenza a elevare la
mediocrità”.
Alimentata dallo stesso spirito di rivendicazione e uguaglianza è la Border Art, di cui espongo in
breve nascita e sviluppo fino ad oggi.
Partiamo da un’immagine di Diego Rivera, Mexicans in our midst, dove un operaio stringe la
mano a un contadino con un cartello indicante border/frontera. Spesso l’Arte di Frontiera è
confusa con quella di Confine, ma v’è una differenza anzitutto di base terminologica.
Etimologicamente, il confine confine (da cum-fine) allude a qualcosa di condiviso, mentre la
frontiera ha un’accezione di scontro, che troviamo anche nello spagnolo Frontera. Border in
inglese è un confine meno chiaro, più poroso, come la linea ove termina una foresta. Ad oggi
il confine si è espanso da una dimensione corporea, epidermica, espandendosi in termini
geografici di gestione degli ambiti internazionali. Il confine può diventare anche arma di
resistenza contro l’arte e la cultura legata a regimi dittatoriali. Il confine diviene processuale,
non è più un tracciato quanto piuttosto un insieme di dati biometrici; il confine diviene nuovo,
lo portiamo con noi, con i nostri documenti o l’assenza di essi. Il confine non è più ancorato al
territorio, quanto alla nostra fisicità e alla possibilità che abbiamo di attraversarsli.
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I border studies nascono nel sudovest Statunitense, dove a seguito delle rivolte sociali e della
cosiddetta Chicano-Revolution, ovvero delle rivendicazioni dei latinoamericani e messicani
negli States, momento in cui si sviluppa un ambito di ricerca che va a interrogarsi sulla natura
dei confini, su come gli stati interagiscano fra loro, e cambino le leggi; tuttavia, fino agli anni
Novanta, con la cosiddetta Svolta Processuale – in cui si inizierà a parlare di bordering – il
confine non è analizzato sotto un profilo ontologico, sociale e mediatico. Negli anni 2000
inizia a entrare in uso il concetto di Borderscape, parola derivante dall’inglese Landscape. Il
confine diviene un concetto strabico, includendo tutte quelle insieme di pratiche che sono
composte dagli scapes, che modellano e costituiscono i confini e la contemporaneità. Si tratta
di una branca dei border-studies; se in prima battuta il confine era una linea da studiare in
ambito principalmente geografico, di come funzionava e del perché era tracciato in un certo
modo, si è arrivati in un secondo momento a comprendere che il confine è frutto di un
prodotto sociale, politico e culturale. Nel 2000 – come si è detto – è emerso il concetto di
Borderscape, modale in quanto ci permette di studiare il confine quale fenomeno che si
manifesta sul territorio, quale linea, inclusione, esclusione, controllo ecc., ma anche come in
relazione a tutti quei processi sociali e culturali che determinano i mutamenti e l’esistenza
stessa del confine, che è sia un insieme di processi che un fenomeno fisico, tangibile sul
territorio. Il termine scapes ha a che fare con qualcosa che etimologicamente a che fare con la
modifica (dal tedesco schaffen, modellare), indicando la trasformazione antropica del
paesaggio (land). I muri diventano protagonisti ingombranti anche nel contesto mediatico,
assumendo un peso inedito; abbiamo più di 14 000 kilometri di muri e sistemi fortificati,
nonostante il confine non operi con la linea e sia qualcosa di mobile, che si dilata e contrare in
base agli eventi della quotidianità. I muri assumono un ruolo importante durante i dibattiti
politici, tuttavia i border-studies hanno dimostrato la loro inefficacia da un punto di vista
operazionale. I muri non bloccano i movimenti, ma li reindirizzano altrove. I migranti
messicani circumnavigano i muri statunitensi o utilizzando documenti falsi, che con tutta
evidenza quindi non arresta il fenomeno; ad ogni modo, il muro è un fattore politico di
legittimazione – specie di movimenti di base populista – che è funzionale più a includere, a
cementare un’identità che si contrappone a ciò che è esterno. Tutto ciò riverbera anche
nell’Arte di confine. I confini in epoca contemporanea hanno assunto una presenza senz’altro
maggiore in epoca contemporanea, il concetto di border non è soltanto politico e geografico,
ma anche etnico, sessuale, identitario, generazionale; è un concetto che si è espanso a macchia
d’olio, inserendosi in campi sempre più diversi. Ciò ha pertanto richiesto competenze e
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approcci interdisciplinari e transidisciplinari, per affrontare il problema da una prospettiva più
trasversale.
Il concetto di confine diventa, come si è detto, oggetto di attenzione anche da parte degli
artisti, a partire da una base geografica che permette di riflettere su tanti altri concetti di
confine. Nessuno ha mai dato una vera e propria definizione di Border Art, essendo un’arte
che di per sé va contro ogni forma di definizione. La pratica del confine è estremamente
occidentale, quasi cartesiana e criticata fortemente dagli studi post-coloniali. Nello specifico,
il confine statunitense è una delle aree più attraversate giornalmente al mondo, anche da
lavoratori clandestini residenti in Messico. Ma la border art non si riferisce unicamente sul
confine statunitense e messicano, ma li analizza a livello globale; Si tratta di un genere
artistico e una più ampia sfera visuale, che nasce lungo i confini nazionali o contro i confini, e
ha a che fare con confini geopolitici e concettuali. Ma da quali esperienze si origina la border
art? Una prima espressione si potrebbe trovare nella Land Art e Minimal Art, pensiamo agli
Annual Rings di Dennis Oppenheimer (1968) lungo un tratto del St. John River, al confine
canadese e statunitense. Tuttavia, la vera e propria Border-Art nasce nel contesto dei
Chicanos, ovvero i messicani stabilitisi negli Stati Uniti portando la loro cultura che dato vita
ad una commistione unica, basti pensare a livello linguistico allo spanglish2. Il confine li ha
attraversati, col trattato di Guadalupe-Hidalgo del 1848, che ha inglobato una serie di territori
appartenenti al Messico.
Possiamo individuare tre macro-periodi della Border-art, secondo gli studi della storica
dell’arte Jo Ann Berelowitz:
1. Tra il1968 e il 1980 abbiamo una prima fase della Chicano Art, come forma di identità
politica. Il saggio Borderlands. La frontera. The new Mestiza, scritto nel 1987 da Gloria
Anzaldúa, scrittrice, artista e attivista chicana, ha introdotto il concetto di border culture 3.
Grazie all’incontro-scontro tra due entità culturali si può andare a creare una terza. Anzaldúa
parla, tuttavia, di frontiera come una herida abierta, dalla cui emorragia si costituiscono
culture di confine. I chicani vanno a rivendicare la Terra di Aztlán, terra leggendaria –
individuata intorno alla California – da dove gli Aztechi si sarebbero mossi per fondare
Tenochtitlán. I Chicani si rifanno a una identità mestiza, attraverso una produzione artistica
peculiare; non sono né messicani né statunitensi, essendo frutto dell’incontro delle due
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Los Angeles è la seconda città al mondo avente più messicani dopo la Città del Messico stessa.
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Il testo mescola circa cinque lingue; è redatto in spanglish e include termini maya e nahuatl, passando da un testo in
prosa a uno poetico, quasi a creare un’opera d’arte visiva, palesando il quella border-culture.
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culture. La Bandiera di Aztlan stessa è mestiza: si tratta del tricolore messicano, in cui si
inserisce un volto trino di origine india e stelle statunitensi. Secondo Claire Fox questa cultura
artistica si vede espressa attraverso simboli come il fiume o il filo spinato. Ad esempio,
Malaquias Montoya in Undocumented (1981) rappresenta un migrante intrappolato nel filo
spinato – con un chiaro riferimento al soldato Charlie che scavalca il muro di Berlino – e il
cui sangue forma la scritta undocumented, in quanto sono persone prive di visibilità e dignità.
Già nel 1973, tuttavia, veniva denunciata la situazione, sempre attraverso il filo spinato.
Yolanda López ne Who’s the illegal alien, pilgrim? (1978) si recupera l’iconografia dello Zio
Sam, sostituita da un uomo indigeno che straccia le carte di immigrazione. Si tratta di opere
pragmatiche, che hanno una primaria funzione comunicativa, anzitutto, nei confronti delle
persone meno letterate. Nel 1970 subentra il caso del Chicano Park, uno dei posti dove la
border art si manifesta in nuce; si tratta di una parte del Barrio Logan di San Diego, dove si
era imposto un ponte autostradale estremamente impattante per il quartiere, in quell’area che
era stata rivendicata da tempo dagli abitanti per dar luogo a un parco. Il 22 Aprile del 1970
giungono una serie di ruspe, pronte per erigere una stazione di polizia; la popolazione insorge
e si verificano una serie di manifestazioni, andando a occupare la zona e iniziando,
abusivamente, i lavori per la creazione del parco, vincendo la causa, dando luogo al Chicano
Park. Pur non venendo abbattuto, i piloni autostradali sono stati abbelliti da diversi murales,
con un’iconografia che celebra le vittorie della comunità, il passato Maya e Azteco, il parco
stesso e persino elementi della cultura pop statunitense, come topolino, il tutto con parole in
spanglish. Così facendo, si stava ricreando Aztlán, la terra originaria. In sintesi, si va a
ricostruire la propria identità creando un nuovo confine, non istituzionalizzato; si dà luogo a
un territorio terzo.
Il murales di Schnorr 4e Yamagata, The Undocumented Worker (1989), mette in atto un
linguaggio più complesso di quello consueto, che narra la storia di un migrante che passa il
confine illegalmente, in un moto ascensionale. In cima, un uomo dalle fattezze azteche
abbatte un muro5. In sintesi, l’arte chicana si presentava con uno scopo didattico, di
celebrazione della propria identità, e con un fine sociale, di riappropriazione di spazi
rappresentativi.
2. Una seconda fase, multiculturalista, si colloca tra il 1984 e il 1992: la Border art vera e
propria nasce nel 1984, quando un gruppo di sette artisti andrà a prendere il nome di Border
Art Workshop/Taller de arte Fronterizo (BAW/TAF). Uno dei membri operativi del gruppo,
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Si tratta di un artista nato alle Hawaii da una famiglia tedesca di origine ebraica, che avrà la possibilità di intervenire
pittoricamente nel Chicano Park, non senza attriti.
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Non esisteva ancora il muro tra Messico e Usa, ma reti di filo spinato.
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Richard Alexander Lou colloca nel 1986 The Border Door, una porta in legno con chiavistello
collocata lungo il confine tra San Diego e Tijuana. L’artista, inoltre, aveva fornito alla
popolazione messicana un mazzo di chiavi per poter, metaforicamente, entrare liberamente
negli States. L’opera è imprescindibile dal sito, è un’installazione border-site-specific, che
funziona solamente in quel luogo. Il BAW/TAF si proponeva a pianificare e a produrre la
prima border opera che potesse definire quella peculiare situazione di confine. V’è l’idea di
denuncia molto più ampia, che possa toccare ogni angolo del mondo, cosa che imponeva un
linguaggio multiculturale. A partire dalla linea di confine, il BAW costruisce una riflessione
sullo spazio; esso è il perno attorno a cui ruota il mondo. Nella Biennale di Venezia del 1988 –
proprio un anno prima del crollo del Muro di Berlino – si era scelto come tema il rapporto tra
arte e spazio. Il BAW decise, allora, di andare a ricostruire il confine nello spazio museale; in
terra si era riportato del terriccio, proprio per richiamarsi al confine tra Usa e Messico.
Dunque, entro uno spazio istituzionale – il museo –, vera e propria vetrina sociale, si va a
creare uno spazio non mimetico, che però nella sua riflessione sociale mantiene una
dimensione sensoriale. Per entrare all’interno della stanza lo spettatore doveva passare
attraverso una porticina con una foto di Micheal Schnorr tutto sanguinante, vestito da
colombo e la scritta colón Colonizado – Tutto è Mio – ¿De Quién?. Eppure, il museo è uno
spazio occidentale, frutto di quelle stesse istituzioni che il BAW andava a contestare e nel
1990, a causa di questa natura contradditoria si sciglierà. Anziché portare il centro ai margini,
la border-art stavo portando i margini al centro, come asserirà Guillermo Gómez-Peña, artista
e attivista messicano. Ecco che quest’ultimo, nella performance The Year of the white bear, si
farà chiudere in una gabbia con indosso abiti indios, per esporsi al pubblico, proprio come
negli zoo umani tenutisi fino alla fine dell’Ottocento.
3. In ultimo, tra il 1992 e il 2005 si situa la terza fase, momento in cui prendono avvio
delle iniziative tra San Diego e Tijuana, un unico agglomerato urbano di fatto separato da un
muro, vero e proprio melting-pot. Si tratta del momento in cui si assiste alla globalizzazione
della border-art; ora, tutto il globo poteva creare la border-art, grazie a un festival InSite a
cavallo tra San Diego e Tijuana, su iniziativa delle istituzioni. Necessariamente, gli artisti
invitati dovevano creare arte di confine, dando luogo a una grande creatività, criticata come
eccessivamente spettacolare. Ecco che una serie di artisti – non protagonisti diretti delle
problematiche sociali legate al confine – potevano intervenire sul tema. Le opere che non
erano direttamente inerenti al confine avevano comunque a che fare col territorio, dando
spazio a diverse installazioni artistiche come quella di Marcos Ramirez ERRE un Caballo de
Troys bifronte, chiaro richiamo classico omerico, ma anche a Giano, dio degli ingressi. È così,
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ambiguamente, un’opera che protegge gli ingressi ma che rimanda contemporaneamente allo
stratagemma per entrare a Ilio, un dettaglio interessante è la possibilità di mosservarne
l'interno. L’artista brasiliana Valeska Soares colloca una serie di specchi lungo il confine per
l’opera Picturing Paradise/Visualizando el Paraiso (2000) che permettono di osservare
illusoriamente un meraviglioso tramonto sul mare. Già Italo Calvino, ne Le città invisibili,
dove l’autore fa una serie di riflessioni di ordine semiotico, parlava di due città che si
specchiavano a vicenda, in questo caso, San Diego e Tijuana. Soares crea una metafora del
luogo in cui ci troviamo, ma allo stesso tempo suggerisce l’idea di un illusorio varco entro il
muro. Ancora una volta, v’è una dimensione di InSide; del resto, il Festival accentrò una serie
di spettacoli. In tal senso, Alfredo Jaar ne The cloud/La nube diede a una serie di palloncini il
nome o il codice identificativo di tutte le persone mancate tra il 2000 e il 2001 tentando di
attraversare il confine. I palloncini hanno un rimando pop, nonché kitsch, basti pensare a Jeff
Koons6. Eppure, molte di queste performances erano prive di quella identità chicana alla base
del fenomeno della border-art. Si dava luogo, allora, a spettacoli organizzati da una serie di
personaggi estranei alla cultura chicana. L’idea di messa in scena ha a che fare con la
differenziazione porosa tra spettacolo e arte, al punto che spesso si discute se la performance
sia o meno arte. Si tratta di eventi di breve durata ai quali bisogna recarsi e che ci portano a
stringere un contatto con questo genere artistico, uno spettacolo che inizia e finisce. Il picco
della dimensione spettacolare – preso in esame da Ila Nicole Sheren, giornalista che ha
documentato l’evento – si è verificato in One flew over the vold/bala perdida (2005),
performance in cui uno stuntman fu lanciato da una parte all’altra di una barricata. Secondo
Sheren si trattò di una sovversione dello spettacolo; Javier Téllez, dalla parte degli Usa, aveva
lanciato con una catapulta uno stuntman, che avrebbe ottenuto il guinness world record per
aver attraversato così velocemente un confine. Erano stati chiamate anche delle persone
appartenenti a una clinica psichiatrica messicana, come spettatori; siamo, non a caso, nel
2005, ultimo anno della terza fase della border-art. Gli studi di confine parlano di border-
spectacle, in tal senso.
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V’erano stati dei precedenti. Il Balloonfest '86 è stato un evento svoltosi il 27 settembre 1986 durante il quale la filiale
di Cleveland (Stati Uniti d'America) dell'organizzazione non profit United Way of America (oggi United Way
Worldwide) stabilì il record mondiale di rilascio di palloncini, lanciando quasi un milione e mezzo di pezzi. [1] L'evento
voleva essere una innocua manifestazione pubblicitaria atta a raccogliere fondi a scopo di beneficenza ma i palloncini,
invece di volare in cielo, furono sospinti a bassa quota sulla città, il lago Erie e il territorio circostante, causando
problemi al traffico e al vicino aeroporto. L'evento interferì anche con le attività della guardia costiera statunitense,
impegnata nella ricerca di due pescatori dispersi che furono poi ritrovati affogati. [2] In conseguenza di questo, gli
organizzatori e la città furono chiamati sul banco degli imputati in molte cause civili che si tramutarono in milioni di
dollari di risarcimenti danni,[2] tramutando l'evento in un colossale flop economico.
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Si giunge, così alla fase più attuale della border-art, ove subentrano aspetti di mercato
interessanti, il genere artistico inizia a intrattenere una serie di rapporti con altre sfere visive.
Si va a creare un mondo di immagini che ci bombardano continuamente protendendosi di
fatto verso gli studi visuali e al rapporto con le arti performative, come ben esemplificato dal
saggio di Rodíguez-Blanco e Mastogiovanni che illustra come ad oggi soprattutto nel mondo
del cinema e delle serie TV vi sia una spettacolarizzazione della violenza, della droga e del
narcotraffico portando il pubblico non tanto ad empatizzare con i cittadini e le vittime quanto
a rimanere intrappolati in un circolo vizioso che esalta la stessa narrativa polarizzante che
ritroviamo nei casi di dissonant heritage; come scrivono gli autori, sembra di trovarsi in un
romanzo kafkiano in cui la realtà descritta è talmente vivida e simile alla nostra da rendere
sconcertante ma al tempo stesso quasi invisibile l'elemento disturbante e magico. Rimanendo
in questa logica di pensiero é diventato negli ultimi anni molto popolare il cosiddetto turismo
di frontiera, anche definito dark turism spesso enfatizzato dai mass media e che guadagna
sulla curiosità morbosa dei visitatori.
Donald Trump nel suo programma politico propone di innalzare un muro al confine col
Messico, per cui chiede a otto ditte diverse di costruire otto tipologie di muri per fare dei test
su quale sia il più efficace per bloccare tentativi di abbattimento, di scalata, di scavi per
passare al di sotto. Christoph Büchel nel 2017 decide di considerare questi otto muri delle
opere d’arte, dei monumenti nello specifico, simbolo del periodo che l’America stava vivendo
in quegli anni tra xenofobia e razzismo. Realizza quindi i Border Walls Prototypes. Con la sua
associazione MAGA, Make Art Great Again -evidente riferimento al motto trumpiano-
organizza dei tour, una mostra temporanea in cui osservare i prototipi di muri come opere
d’arte. Büchel afferma che questi monoliti, forme primarie senza decorazioni, nella loro
essenza minimale sono simili alle opere di minimal art o di land art e così considerabili opere
d’arte a loro volta.
Lo stesso Trump ha considerato un’opera d’arte la fortificazione dei confini, ritenendo di aver
dato luogo a una serie di costruzioni uniche; Büchel riteneva che la monumentalizzazione dei
prototipi di muro servissero come memoria del “regime” trumpiano, connotato secondo
l’autore da un’impronta xenofoba e razzista; tuttavia, la proposta fu controproducente: la
monumentalizzazione, ad esempio, del Muro di Berlino era avvenuta alla fine del blocco
sovietico, situazione differente dal caso trumpiano; in ultimo, le opere furono distrutte. Il
confine può essere considerato un’opera d’arte, come asseriva Trump, ma può essere
percepito diversamente da persone di differenti etnie e background sociale e culturale. A
seguito di questa vicenda gli otto prototipi di muro sono stati demoliti. La sfera temporale nei
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confronti dei monumenti ha un peso notevole. La proposta di Büchel , sebbene fatta quando i
muri erano ancora in piedi, diventa un pretesto per riflettere su quello che poteva diventare un
patrimonio difficile, vuole riflettere sul difficult heritage non che riceviamo dal passato ma
che stiamo creando attualmente, è un pretesto per riflettere sugli errori della nostra storia
presente e sui lasciti che consegneremo alle generazioni future. Possono essere monumento,
secondo Büchel , anche perché sono considerabili anche come dei ready made, oggetti
estrapolati dai loro contesti e trasformati in oggetti artistici. Inoltre sono un elemento
architettonico, e fin dall’antica Roma i monumenti architettonici sono stati trattati come opere
d’arte e monumenti. Come monumento effettivamente il muro funziona bene, perché si rifà
alla tecnica dei contro-monumenti, proposte di nuovi monumenti che si possano emancipare
dalla loro natura problematica e verticale, ad es. Vietnam Memorial di Maya Lin o
l’Holocaust Memorial a Berlino. I muri hanno sempre presenziato nella storia dell’arte,
pensiamo a graffiti/murales. Alla petizione di Büchel per considerare monumenti i prototipi
di muro è seguita una contro-petizione, dove esponenti del mondo accademico e artistico
hanno firmato per boicottare il progetto in quanto offensivo nei confronti delle persone che
stavano morendo e soffrendo per l’esistenza di quel muro e del suo progetto.
Tornando al concetto di spettacolarizzazione è evidente come il progetto di Trump ne sia sia
un esempio: uno spettacolo di propaganda politica. Basti pensare al fatto che la maggior parte
dell’immigrazione in USA passa per via aerea tramite documenti falsi, quindi il muro nella
sua fisicità non é realmente efficace e oltretutto si pensi al paradosso di assumere
illegalmente lavoratori messicani per la costruzione del muro stesso.
Nel momento in cui parliamo di landscape ecco che abbiamo un territorio frutto di
trasformazioni antropiche. Il borderscape è un concetto strabico che, ad esempio, permette di
analizzare sia il confine tra Usa e Messico sia quanto ha detto Trump in merito, in quanto le
sue politiche hanno avuto, naturalmente, ripercussioni su di esso. Ancora una volta, sono
necessari ambiti interdisciplinari e transdisciplinari; ci si interroga su come il confine diventi
dal punti di vista visivo un elemento privilegiato da moltissimi artisti contemporanei. Si va a
creare uno strumento eccezionale per lo studio dei confini, ovvero la Border Aesthetics
(estetica frontaliera), sviluppata anche a seguito di un respiro europeo, per studiare i confini
anche secondo una percezione estetico-sensoriale, che va a esaminare anche i confini
all’interno di prodotti culturali, ovvero le opere d’arte, nonché secondo categorie estetiche.
Tali studi permettono di studiare il rapporto tra estetica e politica; si parla persino di
borderline syndrome, che indaga anche su aspetti psicologici. Aver a che fare con l’estetica
significa comprendere, ad esempio, come percepiamo i confini. La border-aesthetics – nata
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specialmente dall’iniziativa di Schimanski e Wolfe, autori dell’omonimo saggio del 2017 –
permette di comprendere la percezione dei confini e come ci relazioniamo con essi. Le opere
d’arte sono create per essere percepite, tant’è vero che le categorie estetiche sono uno dei
principali strumenti con cui gli storici dell'arte approcciano le opere.
Trattare con i confini in termini di vista inteso proprio come senso, è stato argomento di studi
da parte dell’artista italiana Elisa Caldana che, nell’opera di video-art The island behind the
horizon (2015), nella quale vengono affiancate la vista del mare aperto, in cui si ha il preludio
di approdare a Lampedusa – confine emblematico –e una cartina del raggio di visibilità in
mare, per far immedesimare l’osservatore nel contesto migratorio. L’idea alla base è che i
confini vengano esternalizzati, ad esempio, attraverso le isole, che sono spesso sedi di carceri.
L’obbiettivo è quindi di rendere visibili situazioni o azioni che, restando invisibili all’occhio
pubblico, permettono alle autorità di costruire indisturbate lazzaretti, come per il caso
Veneziano della quarantena, o realizzare test nucleari sugli atolli oceanici. Il confine diventa
da un lato invisibile per la quotidianità con cui viene presentato e, allo stesso tempo, extra-
visibile. Le isole costituiscono per l’Italia quello che era il muro per Donald Trump, ovvero un
border-spectacle, lo spettacolo del confine, vera e propria messa in scena a livello
specialmente mediatico, in una grammatica visiva ove il confine è teatro dove si attua "una
scena dell’esclusione e un’oscena dell’esclusione", come ha sostenuto Nicholas de Genova,
specialista di formazione marxista. Il confine divine un limite controllato, quasi sacro, dove
non si mostrano mai coloro che riescono a entrare, spesso per fini di sfruttamento; ciò serve a
produrre l'elemento dell’illegalità del migrante. Secondo i media, ad esempio, il muro di Gaza
sarebbe assolutamente invalicabile, ma prima della guerra v’erano numerosissimi pendolari
che lo attraversavano continuamente. La grammatica viva, spiega De Genova, si attua
attraverso la vista da lontano dei migranti, senza che questi possano parlare, in modo da
desensibilizzarci sul tema. La border-art vuole sovvertire questo rapporto, in cui i sensi sono
obliati; ecco, allora, che gli artisti come Caldana ci portano a osservare il punto di vista delle
persone invisibili; si tratta di una visione estetica. La vista è una categoria estetica che
determina la nostra posizione nell’ambito sociale e politico, la visibilità è essenziale nel
contesto politico; rendere invisibili e all'opposto l’eccessiva visibilità sono molto spesso armi
di propaganda politica. La border-art evidenzia questo aspetto, capovolgendolo.
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principale punto di forza e l'aspetto che ne permette la continua evoluzione sotto gli aspetti
tecnici e stilistici, pur mantendo immutato il forte desiderio comunicativo che cela in essa.
Bibliografia
A. MASALA, Al Confine tra Muro e Arte. Prototipi Monumentali sul Border Statunitense-
Messicano, in Medea V.8, n.1, 2022.
Sitografia
https://zerflin.com/2016/04/06/client-highlight-how-white-supremacy-attempts-to-make-slavery-
and-segregation-soooo-long-ago
https://www.borderwallprototypes.org/
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