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Burton e Valtorta Natale

Testi di Natale

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Annie Brighton
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Monologo di Jack ~Nightmare before Christmas~

JACK
Cos'è?

Cos'è? Cos'è? Ma che colore è?


Cos'è? Quel bianco intorno a me?
Cos'è? Io non l'ho visto mai! Starò sognando? In
guardia, Jack!
Ma cos'è??

CHRISTMAS CREATURES
La la la la la la!

JACK
Cos'è? Cos'è? Qualcosa qui non va!
Cos'è? C'è musica in città!
Cos'è? Le strade sono piene di persone che
sorridono felici, sono pazzi oppure amici?
Ma cos'è?
COS'E?

Bambini nella neve che giocano così


nessuno è solo eppoi, non c'è mai tristezza qui
e brilla ogni finestra, ma non so che cosa sia
quel piccolo calore mai trovato in vita mia!

Oh no! Cos'è quel vischio appeso lì?


E sì! Si baciano così!
Eppoi le canzoni intorno al fuoco, le castagne
qualche gioco, come mai?
Cos'è?

Oddio, che c'è? Quaggiù si dorme già?


Perché di mostri non ce n'è!
No-no! Niente streghe nè fantasmi
NIENTE NOTTI DI PAURA! I bimbi dormono sicuri nei
lettini...
Ah...

COS'E'???

I mostri non ci sono e gli incubi mai più


e tutto sembra bello come un cielo sempre blu
e brilla ogni finestra, oh non so che cosa sia
quel piccolo calore mai provato in vita mia...

E' QUI! E' qui! Il posto dove io


vorrei restare per magia!
Vorrei scaldarmi il cuore e ridere
e vivere,
adesso voglio vivere!
Io voglio, sì lo voglio, si lo voglio e lo farò!!
Io lo saprò! Io lo saprò
se questo posto è vero o no!
CHE COS'E'???

Valtorta ~ La Nascita di Gesù ~ Il Poema dell’Uomo-


Dio

AAA

VOLUME I CAPITOLO 29
La nascita di Gesù.

6 giugno 1944.
29.1Vedo ancora l’interno di questo povero rifugio
petroso dove hanno trovato asilo, accumunati nella
sorte a degli animali, Maria e Giuseppe.
Il fuocherello sonnecchia insieme al suo guardiano.
Maria solleva piano il capo dal suo giaciglio e guarda.
Vede che Giuseppe ha il capo reclinato sul petto come
se pensasse, e pensa che la stanchezza soverchi il suo
buon volere di rimanere desto. Sorride d’un buon
sorriso e, facendo meno rumore di quanto ne può fare
una farfalla che si posi su una rosa, si mette seduta e da
seduta in ginocchio. Prega con un sorriso beato sul
volto. Prega a braccia aperte, non proprio a croce, ma
quasi, a palme volte in alto e in avanti, né mai pare
stanca di quella posa penosa. Poi si prostra col volto
contro il fieno in una ancora più intensa preghiera.
Lunga preghiera.
Giuseppe si scuote. Vede quasi morto il fuoco e quasi
tenebrosa la stalla. Getta una manata di eriche fini fini
e la fiamma risfavilla; vi unisce rametti più grossi, e poi
ancora più grossi, perché il freddo deve esser
pungente. Il freddo della notte invernale e serena che
penetra da tutte le parti di quella rovina. Il povero
Giuseppe, presso come è alla porta — chiamiamo pure
così il pertugio a cui fa da tenda il suo mantello — deve
essere gelato. Accosta le mani alla fiamma, si sfila i
sandali e accosta i piedi. Si scalda. Quando il fuoco è
ben desto e la sua luce è sicura, egli si volge. Non vede
nulla, neppure più quel biancore del velo di Maria, che
prima metteva una linea chiara sul fieno scuro. Si leva
in piedi e lentamente si avvicina al giaciglio.
«Non dormi, Maria?», chiede.
Lo chiede tre volte, finché Ella si riscuote e risponde:
«Prego».
«Non abbisogni di nulla?».
«No, Giuseppe».
«Cerca di dormire un poco. Di riposare almeno».
«Cercherò. Ma pregare non mi stanca».
«Addio, Maria».
«Addio, Giuseppe».
Maria riprende la sua posa. Giuseppe, per non cedere
più al sonno, si pone in ginocchio presso il fuoco e
prega. Prega con le mani strette sul viso. Le leva ogni
tanto per alimentare il fuoco e poi torna alla sua
fervente preghiera. Meno il rumore delle legna che
crepitano e quello del ciuchino, che di tanto in tanto
batte uno zoccolo sul suolo, non si ode niente.
29.2Un poco di luna si insinua da una crepa del soffitto
e pare una lama di incorporeo argento che vada
cercando Maria. Si allunga, man mano che la luna si fa
più alta in cielo, e la raggiunge, finalmente. Eccola sul
capo della orante. Glielo innimba di candore.
Maria leva il capo come per una chiamata celeste e si
drizza in ginocchio di nuovo. Oh! come è bello qui! Ella
alza il capo, che pare splendere nella luce bianca
della luna, e un sorriso non umano la trasfigura. Che
vede? Che ode? Che prova? Solo Lei potrebbe dire
quanto vide, sentì e provò nell’ora fulgida della sua
Maternità. Io vedo solo che intorno a Lei la luce cresce,
cresce, cresce. Pare scenda dal Cielo, pare emani dalle
povere cose che le stanno intorno, pare soprattutto
che emani da Lei.
La sua veste, azzurra cupa, pare ora di un mite celeste
di miosotis, e le mani e il viso sembrano farsene azzurrini
come quelli di uno messo sotto il fuoco di un immenso
zaffiro pallido. Questo colore, che mi ricorda, benché
più tenue, quello che vedo nelle visioni del santo
Paradiso e anche quello che vidi nella visione della
venuta dei Magi, si diffonde sempre più sulle cose, le
veste, le purifica, le fa splendide.
La luce si sprigiona sempre più dal corpo di Maria,
assorbe quella della luna, pare che Ella attiri in sé
quella che le può venire dal Cielo. Ormai è Lei la
Depositaria della Luce. Quella che deve dare questa
Luce al mondo. E questa beatifica, incontenibile,
immisurabile, eterna, divina Luce che sta per esser data,
si annuncia con un’alba, una diana, un coro di atomi di
luce che crescono, crescono come una marea, che
salgono, salgono come un incenso, che scendono come
una fiumana, che si stendono come un velo…
La volta, piena di crepe, di ragnateli, di macerie
sporgenti che stanno in bilico per un miracolo di
statica, nera, fumosa, repellente, pare la volta di una
sala regale. Ogni pietrone è un blocco di argento, ogni
crepa un guizzo di opale, ogni ragnatela un
preziosissimo baldacchino contesto di argento e
diamanti. Un grosso ramarro, in letargo fra due
macigni, pare un monile di smeraldo dimenticato là da
una regina; e un grappolo di pipistrelli in letargo, una
preziosa lumiera d’onice. Il fieno che pende dalla più
alta mangiatoia non è più erba, sono fili e fili di argento
puro che tremolano nell’aria con la grazia di una
chioma disciolta.
La sottoposta mangiatoia è, nel suo legno scuro, un
blocco d’argento brunito. Le pareti sono coperte di un
broccato in cui il candore della seta scompare sotto il
ricamo perlaceo del rilievo, e il suolo… che è ora il
suolo? È un cristallo acceso da una luce bianca. Le
sporgenze paiono rose di luce gettate per omaggio al
suolo; e le buche, coppe preziose da cui debbano salire
aromi e profumi.
29.3E la luce cresce sempre più. È insostenibile
all’occhio. In essa scompare, come assorbita da un
velario d’incandescenza, la Vergine… e ne emerge la
Madre.
Sì. Quando la luce torna ad essere sostenibile al mio
vedere, io vedo Maria col Figlio neonato sulle braccia.
Un piccolo Bambino, roseo e grassottello, che annaspa
e zampetta con le manine grosse quanto un boccio di
rosa e coi piedini che starebbero nell’incavo di un cuore
di rosa; che vagisce con una vocina tremula, proprio di
agnellino appena nato, aprendo la boccuccia che
sembra una fragolina di bosco e mostrando la
linguetta tremolante contro il roseo palato; che
muove la testolina tanto bionda da parere quasi nuda di
capelli, una tonda testolina che la Mamma sostiene
nella curva di una sua mano, mentre guarda il suo
Bambino e lo adora piangendo e ridendo insieme e si
curva a baciarlo, non sulla testa innocente, ma su,
centro del petto, là dove sotto è il cuoricino che batte,
batte per noi… là dove un giorno sarà la Ferita. Gliela
medica in anticipo, quella ferita, la sua Mamma, col suo
bacio immacolato.
Il bue, svegliato dal chiarore, si alza con gran rumore
di zoccoli e muggisce, e l’asinello volge il capo e raglia.
È la luce che li scuote, ma io amo pensare che essi hanno
voluto salutare il loro Creatore, per loro e per tutti
gli animali.
29.4Anche Giuseppe, che, quasi rapito, pregava così
intensamente da esser isolato da quanto lo circondava,
si scuote, e dalle dita strette al viso vede filtrare la
luce strana. Leva le mani dal viso, alza il capo, si volge.
Il bue ritto in piedi nasconde Maria. Ma Ella chiama:
«Giuseppe, vieni».
Giuseppe accorre. E quando vede si arresta, fulminato
di riverenza, e sta per cadere in ginocchio là dove è. Ma
Maria insiste: «Vieni, Giuseppe» e punta la mano sinistra
sul fieno e, tenendo con la destra stretto al cuore
l’Infante, si alza e si dirige a Giuseppe, che cammina
impacciato per il contrasto fra il desiderio di andare e
il timore di essere irriverente.
Ai piedi della lettiera i due sposi si incontrano e si
guardano con un pianto beato.
«Vieni, ché offriamo al Padre Gesù», dice Maria. E,
mentre Giuseppe si inginocchia, Ella, ritta in piedi fra
due tronchi che sostengono la volta, alza la sua
Creatura fra le braccia e dice: «Eccomi. Per Lui, o Dio, ti
dico questa parola. Eccomi a fare la tua volontà. E con
Lui io, Maria, e Giuseppe, mio sposo. Ecco i tuoi servi,
Signore. Sia fatta sempre da noi, in ogni ora e in ogni
evento, la tua volontà, per tua gloria e per amor tuo».
Poi Maria si curva e dice: «Prendi, Giuseppe» e offre
l’Infante.
«Io? A me? Oh, no! Non sono degno!». Giuseppe è
sbigottito addirittura, annientato all’idea di dover
toccare Iddio.
Ma Maria insiste sorridendo: «Tu ne sei ben degno.
Nessuno più di te lo è, e per questo l’Altissimo ti ha
scelto. Prendi, Giuseppe, e tienilo mentre io cerco i
panni».
Giuseppe, rosso come una porpora, stende le braccia e
prende il batuffolino di carne che strilla di freddo e,
quando lo ha fra le braccia, non persiste
nell’intenzione di tenerlo scosto da sé per rispetto e se
lo stringe al cuore, dicendo con un grande scoppio di
pianto: «Oh! Signore! Dio mio!», e si curva a baciare i
piedini e li sente freddi, e allora si siede al suolo e se lo
raccoglie in grembo e con la sua veste marrone e con le
mani cerca coprirlo, scaldarlo, difenderlo dalla sizza
della notte. Vorrebbe andare verso il fuoco, ma là c’è
quella corrente d’aria che entra dalla porta. Meglio
stare qui. Meglio, anzi, andare fra i due animali, che
fanno da scudo all’aria e che mandano calore. E va fra
il bue e l’asino e sta con le spalle alla porta, curvo sul
Neonato per fare del suo petto una nicchia, le cui pareti
laterali sono una testa bigia dalle lunghe orecchie e
un grosso muso bianco dal naso fumante e dall’umido
occhio buono.
29.5Maria ha aperto il cofano e ne ha tratto lini e fasce. È
andata al fuoco e le ha scaldate. Eccola che va a Giuseppe
e avvolge il Bambino nella tela intiepidita e poi nel suo
velo per riparargli la testolina. «Dove lo mettiamo ora?»,
chiede.
Giuseppe guarda intorno, pensa… «Aspetta», dice.
«Spingiamo più in qua i due animali e il loro fieno e tiriamo
giù quel fieno là in alto e lo mettiamo qui dentro. Il legno
della sponda lo riparerà dall’aria, il fieno gli farà
guanciale e il bue col suo fiato lo scalderà un pochino.
Meglio il bue. È più paziente e quieto». E si dà da fare,
mentre Maria ninna il suo Bambino, stringendoselo al
cuore e tenendo la sua guancia sulla testolina per dargli
calore.
Giuseppe ravviva il fuoco senza risparmio per fare una
bella fiamma e scalda il fieno e, man mano che lo asciuga,
perché non raffreddi se lo mette in seno. Poi, quando ne
ha raccolto tanto da farne un materassino all’Infante,
va alla mangiatoia e lo dispone che sia come una cunella.
«È pronto», dice. «Ora ci vorrebbe una coperta, perché il
fieno punge, e per ricoprirlo…».
«Prendi il mio mantello», dice Maria.
«Avrai freddo».
«Oh! non fa nulla! La coperta è troppo ruvida. Il
mantello è morbido e caldo. Io non ho freddo per nulla.
Ma che Egli non soffra più!».
Giuseppe prende l’ampio mantello di morbida lana
celeste cupo e lo accomoda in doppio sul fieno, con un
lembo che pende fuor dalla greppia. Il primo letto del
Salvatore è pronto.
E la Madre, col suo dolce passo ondeggiante, ve lo porta
e ve lo depone, e lo ricopre con il lembo del manto e lo
conduce anche intorno al capino nudo, che affonda nel
fieno, appena riparato da questo dal sottile velo di Maria.
Rimane scoperto solo il visetto grosso come un pugno
d’uomo, e i Due, curvi sulla greppia, lo guardano beati
dormire il suo primo sonno, perché il calduccio delle
fasce e del fieno ha calmato il pianto e conciliato il sonno
al dolce Gesù.

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