Gian Pietro Soliani
«SENTIRE È ESSERE».
LA METAFISICA DEL SENTIMENTO
IN ROSMINI, OLTRE IL PARADIGMA
ONTOTEOLOGICO
1. Premessa
In questo articolo ci proponiamo di indagare il modo nel quale alcuni dei
temi più noti della fenomenologia di Lévinas sono stati affrontati nel XIX
secolo da Antonio Rosmini, al fine di proseguire un confronto tra il pensa-
tore di Rovereto e alcuni nodi cruciali della modernità e della post-moder-
nità filosofica1. I testi rosminiani a cui faremo riferimento sono, in via
principale, le pagine della Teosofia dedicate all’essere reale. Per giungere
allo scopo che ci siamo prefissati partiremo da Heidegger, quale ispiratore
della critica di Lévinas alla tradizione metafisica. In secondo luogo, rico-
struiremo alcuni nodi tematici del pensiero di Lévinas nel suo dialogo con
Heidegger e Husserl. Infine, cercheremo di mostrare la pertinenza di un
confronto teorico tra Rosmini e Lévinas.
Poiché risulterebbe impossibile esaurire l’approfondimento in questo
contesto, ci limiteremo a ricostruire il quadro teorico levinassiano, avendo
in mente il suo possibile accostamento con la riflessione rosminiana sull’es-
sere reale. Ciò che si intende mostrare, con Rosmini, è l’impossibilità di
trattare il sentimento e il sentire come estranei all’essere. Da qui, l’impos-
sibilità di ridurre la metafisica a etica, sganciandola dall’ontologia2. L’ope-
1 Tale confronto è già stato iniziato in altre sedi. Ci permettiamo di rimandare ai se-
guenti lavori: G.P. Soliani, Antonio Rosmini e l’idea dell’essere nel pensiero mo-
derno prekantiano (1674-1781), in: F. Bellelli, G. Gabbi (a cura di), Profezia e
attualità di Antonio Rosmini, Stresa, Edizioni Rosminiane Sodalitas 2015, pp. 47-
122; Id., Trascendentalità del principio di non contraddizione. Rosmini tra tradi-
zione e modernità, in F. Bellelli, E. Pili (a cura di), Ontologia, fenomenologia e
nuovo umanesimo. Rosmini ri-generativo, Città Nuova, Roma 2016, pp. 151-168.
2 I termini “metafisica” e “ontologia” vengono qui utilizzati con una valenza diver-
sa. L’ontologia riguarda lo studio dell’essere in quanto essere e delle sue determi-
nazioni per quel tratto che le accomuna, ovvero il fatto di essere. Per metafisica si
110 Rosminianesimo teologico
razione rosminiana, infatti, pur trovando dei punti di convergenza con la ri-
flessione levinassiana, ha di mira la costruzione di una metafisica di
trascendenza in cui l’essere morale, non sia soltanto una risposta all’istan-
za etica e al desiderio di legame con l’altro da sé, ma sia propriamente il
compimento dell’organismo dell’essere, superando gli equivoci del pensie-
ro moderno e post-moderno3.
2. Heidegger: il paradigma ontoteologico
Come è noto, Heidegger4 ritiene che la tradizione metafisica sia caratte-
rizzata da una duplicità irriducibile di teologia e ontologia: l’essere è il fon-
damento e l’ente è il fondato, senza che sia mai stata pensata veramente, da
un lato, la differenza in quanto differenza tra essere ed ente e, dall’altro
lato, la divergenza di teologia e ontologia. La duplicità in parola consiste-
rebbe nell’ambiguità originaria della metafisica che si presenta e come
scienza dell’essere più generale di tutti (ontologia) e come scienza dell’Es-
sere assoluto fondamento di ogni ente (teologia). Certo, l’essere è il “diffe-
rente” rispetto all’ente, cioè rispetto alla determinatezza, ma – prosegue
Heidegger – è la «differenza del differente» che per la metafisica è qualco-
sa di impensato. Di fronte a questo esito le parole “essere”, “ente”, “fonda-
mento” e “fondato” non sono più utili. A ciò si aggiunga che, nella lettura
heideggeriana, anche l’Ente supremo è a sua volta fondamento dell’essere,
e quindi di se stesso5. Il dio della metafisica sarebbe, secondo Heidegger,
intende, invece, “il trascendimento dell’esperienza nell’orbita del pensiero” (Gu-
stavo Bontadini), ossia l’affermazione dell’Assoluto trascendente l’esperienza di-
veniente.
3 Un tentativo ben più ampio e articolato del nostro di instaurare un dialogo tra Ro-
smini e il pensiero postmoderno, valorizzando anche il pensiero di Lévinas, è sta-
to proposto recentemente da Fernando Bellelli. Cfr. F. Bellelli, Etica originaria
e assoluto affettivo. La coscienza e il superamento della modernità nella teologia
filosofica di Antonio Rosmini, Vita e Pensiero, Milano 2014.
4 Gli studi sul rapporto tra Heidegger e la tradizione metafisica sono assai numero-
si. Mi limito a citare i seguenti: E. Garulli, Heidegger e la storia dell’ontologia,
Argalia. Urbino 1978; M. Ruggenini (a cura di), Heidegger e la metafisica, Ma-
rietti, Genova 1991; P. Capelle-Dumont, Filosofia e teologia nel pensiero di
Martin Heidegger, Queriniana, Brescia 2011.
5 M. Heidegger, Die onto-theo-logische Verfassung der Metaphysik, in: Id., Iden-
tität und Differenz, Neske, Pfullingen 1957, traduzione italiana di G. Gurisatti, La
struttura onto-teo-logica della metafisica, in Id., Identità e differenza, Adelphi,
Milano 20132, pp. 90-94.
G.P. Soliani - «Sentire è essere» 111
nient’altro che causa sui, ossia «fondamento che, a sua volta, a partire da
ciò che ha fondato, necessita della fondazione che gli è adeguata, cioè del-
la causazione da parte della cosa più originaria. Quest’ultima è la causa in-
tesa come causa sui. È questo il nome appropriato per il dio della filosofia»6.
Con un dio simile – questa la famosa conclusione di Heidegger – l’uo-
mo non può avere alcun tipo di rapporto. A questo punto, sembra essere più
rispettoso di Dio un pensiero senza-Dio, che lasci la libertà di accogliere
Dio, al di fuori degli spazi angusti del pensiero metafisico7.
È stata messa in luce da più parti e in diversi modi l’arbitrarietà di que-
sta lettura complessiva della storia della metafisica8 che pretende di inclu-
dere tutti gli episodi salienti in una sorta di destino ineluttabile, orientato
verso il dominio contemporaneo della tecnica. Si è fatto notare anche che
la critica heideggeriana all’essere della tradizione metafisica, con il conse-
guente invito a pensare l’essere come “evento” (Ereignis), è, in fondo, un
idealismo trascendentale mascherato9. Con quell’insistenza sulla necessità
di pensare la differenza del differente (l’essere) in quanto differenza, Hei-
degger sembra voler riproporre il principio dell’inobbiettivabilità del pen-
siero, sul quale l’idealismo, per primo, si è soffermato tematicamente.
Non a caso la disamina della costituzione onto-teo-logica della metafisi-
ca comincia dalla Scienza della logica di Hegel. Heidegger ha cura di sot-
tolineare che, certamente, l’essere è la «questione controversa riguardo al
pensiero» – la “cosa” del pensiero10 –; ma, mentre per Hegel questo essere
non è altro che “concetto assoluto”, verità in sé conscia e idea assoluta, al
6 Ivi, p. 95.
7 Ibid.: «A un dio simile l’uomo non può rivolgere preghiere né può offrire sacrifi-
ci. Dinanzi alla causa sui l’uomo non può cadere devotamente in ginocchio né
può suonare e danzare. Di conseguenza, il pensiero senza-dio, che deve rinuncia-
re al dio della filosofia – cioè al dio come causa sui – è forse più vicino al dio di-
vino. Il che, in questo caso, significa soltanto: questo pensiero è libero per tale dio
più di quanto la onto-teo-logica non si disposta ad ammettere».
8 Rilievi significativi sono stati mossi da Carmelo Vigna (vedi nota successiva) e da
Dario Sacchi. Cfr. D. Sacchi, Lineamenti di una metafisica di trascendenza, Stu-
dium, Roma 2007, pp. 15-23. Un posizione che rilegge la storia della metafisica
cercando di superare il paradigma onto-teologico si trova in: O. Boulnois,
Métaphysique rebelles. Gènese et structures d’une science au Moyen Âge, PUF,
Paris 2013.
9 C. Vigna, Sulla metafisica di Heidegger, in: Id., Il frammento e l’Intero. Indagi-
ni sul senso dell’essere e sulla stabilità del sapere, Vita e Pensiero, Milano 2000,
pp. 259-294.
10 M. Heidegger, La struttura onto-teo-logica della metafisica, cit., p. 53: «Il termi-
ne “cosa” significa la questione controversa, il contenzioso, quell’unico che, per
il pensiero, è il caso che lo riguarda».
112 Rosminianesimo teologico
contrario, per il filosofo di Messkirch, l’essere è la differenza in quanto dif-
ferenza dall’ente11. Stando così le cose, si tratterebbe, per Heidegger, di ri-
chiamare l’idealismo hegeliano alla coerenza con il principio della inobiet-
tivabilità dell’orizzonte trascendentale che, fin da Essere e tempo,
Heidegger aveva indicato, attraverso il linguaggio scolastico, con il termi-
ne transcendens: «essere e struttura d’essere stanno al di là di ogni ente e
di ogni possibile determinatezza ontica di un ente. Essere è il puro e sem-
plice transcendens»12.
In effetti, l’altro dalla determinatezza è senz’altro l’essere indetermina-
to e insieme il pensiero o l’apparire in senso trascendentale, il quale è sem-
pre apparire-di un contenuto, ma senza che tale contenuto sia predetermi-
nato e senza che l’apparire ne risulti modificato e, quindi, determinato per
mezzo del contenuto che appare. Heidegger chiama anche “nulla” l’altro
dall’ente, ovvero l’essere come «negazione della totalità dell’ente»13. L’es-
sere è il ni-ente, poiché non è nessuno degli enti determinati che appaiono
nell’esperienza. Stando così le cose, negli scritti di Heidegger, l’essere, il
nulla e il pensiero possono essere trattati, con buona approssimazione,
come sinonimi14.
11 Ivi, p. 60: «Per Hegel la cosa del pensiero è l’essere, in riferimento all’essere-pen-
sato dell’ente nel pensiero assoluto e in quanto pensiero assoluto. Per noi la cosa
del pensiero è lo Stesso, dunque l’essere, però l’essere in riferimento alla sua dif-
ferenza dall’ente. Detto in modo ancora più incisivo: per Hegel la cosa del pensie-
ro è il pensiero in quanto concetto assoluto. Per noi, invece, con una denominazio-
ne provvisoria, la cosa del pensiero è la differenza in quanto differenza».
12 M. Heidegger, Sein und Zeit, Max Niemeyer, Tübingen 1927, traduzione italiana
di A. Marini, Essere e tempo, Mondadori, Milano 2012, p. 64.
13 M. Heidegger, Was ist Metaphysik?, Vittorio Klostermann, Frankfurt 19495, tra-
duzione italiana di F. Volpi, F.W. Von Herrmann, Che cos’è metafisica?, in: Id.,
Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 65: «Il niente è la negazione completa della
totalità dell’ente»; ivi, p. 70: «Esser-ci significa esser tenuto immerso nel niente.
Tenendosi immerso nel niente, l’esserci è già sempre oltre l’ente nella sua totali-
tà. Questo essere oltre l’ente noi lo chiamiamo trascendenza. Se l’esserci, nel fon-
do della sua essenza, non trascendesse, ossia, come ora possiamo dire, non si te-
nesse immerso fin dall’inizio nel niente, non potrebbe mai comportarsi in
rapporto all’ente, e perciò neanche a se stesso. […] Il niente non è un oggetto, né
in generale un ente. Il niente non si presenza per sé, né accanto all’ente a cui per
così dire inerisce. Il niente è ciò che rende possibile l’evidenza dell’ente come tale
per l’esserci umano. […]. Nell’essere dell’ente avviene il nientificare del niente».
14 Di nuovo, rimandiamo al saggio di Carmelo Vigna dove l’equivalenza nel pensie-
ro heideggeriano tra essere, pensare e niente è dimostrata con l’ausilio dei testi.
Cfr. C. Vigna, Sulla metafisica di Heidegger, cit., pp. 273-282.
G.P. Soliani - «Sentire è essere» 113
Carmelo Vigna ha messo in luce come la domanda leibniziana («Perché,
infine, l’essente e non piuttosto il niente?») sia intesa da Heidegger in un sen-
so che non è più quello della metafisica classica. Heidegger si chiede, infat-
ti, intorno al senso della determinatezza di contro all’apparire trascendentale.
Vigna riformula la domanda heideggeriana nei seguenti termini: «l’assoluto
c’è. Perché allora il mondo? Perché il finito o il determinato in quanto tale?
Perché non c’è solo l’infinito? Il finito non è forse l’apparenza fenomenica
dell’infinito (in termini heideggeriani: l’ente non è il modo d’apparire per noi
dell’essere?)»15. La radice del domandare heideggeriano è, in questa prospet-
tiva, idealistica e insieme fenomenistica. Idealistica, per le ragioni già espres-
se, e fenomenistica perché l’ente è inteso come l’apparenza che nasconde o
fa apparire soltanto in parte la verità che è l’essere. L’ente è il kantiano “fe-
nomeno”, oltre il quale sarebbe occultato l’essere “noumeno”.
Vigna conclude la sua disamina di questo tratto della metafisica heideggeria-
na sottolineando che siamo di fronte a un immanentismo, simile a quello hege-
liano, che si oppone frontalmente a una metafisica della trascendenza. L’oppo-
sizione originaria nella metafisica heideggeriana è la coppia
determinato-indeterminato (ente-essere), trattata alla stregua della coppia hege-
liana astratto-concreto. In una metafisica di trascendenza, invece, il punto di
partenza è solitamente l’opposizione di essere e non-essere che appare nell’e-
sperienza del divenire. L’appello all’indeterminatezza è insufficiente per oltre-
passare la determinatezza. Bisogna che ciò che oltrepassa il determinato sia di-
verso da esso anche quanto al suo esistere attuale, non solo quanto al suo
semplice essere indeterminato. La diversità, quanto all’esistere attuale, appare
nel non-esserci-più della determinatezza che prima c’era, ossia nel divenire, op-
posto alla stabilità dell’esistenza attuale dell’Assoluto16. Insomma, la diversità
fondamentale tra l’ente e l’essere è quella tra l’ente mutabile e l’Essere immuta-
bile e non quella tra la determinatezza e la semplice indeterminatezza.
L’altro aspetto problematico, strettamente connesso alla rilettura heideg-
geriana della tradizione metafisica, è l’aver confuso, come un’unica cosa,
il sapere antico-medievale con il sapere assoluto dell’assoluto tipico del
pensiero hegeliano. L’epistème antica e medievale è sapere necessario del
necessario, ovvero si esercita intorno ad alcuni nuclei teorici ben precisi
che godono dell’incontrovertibilità, senza pretendere di imbrigliare la real-
tà in una processualità guidata dalla necessità, al modo hegeliano. Ridurre
a unità i due tipi di sapere – quello hegeliano e quello antico-medievale – è
un errore storico e insieme speculativo.
15 Ivi, nota 33, p. 283.
16 Ivi, pp. 283-286.
114 Rosminianesimo teologico
3. La trascendenza in Lévinas: oltre Husserl e Heidegger
La critica di Heidegger alla metafisica tradizionale e il suo richiamo a
considerare la differenza ontologica, secondo la particolare e surrettizia
curvatura appena illustrata, hanno fatto scuola. Si potrebbe leggere la feno-
menologia francese del ‘900 e di inizio millennio come il tentativo, più o
meno mascherato, di uscire dall’immanentismo heideggeriano alla ricerca
di un qualche tipo di trascendenza, ma senza mettere in discussione gli
equivoci della critica del pensatore tedesco alla metafisica tradizionale.
Per questo motivo, la coppia concettuale trascendenza-immanenza diven-
ta uno dei nodi teorici fondamentali su cui sostare17. Emmanuel Lévinas è
probabilmente uno degli autori che ha fatto della riflessione su questo luogo
teorico uno dei perni della propria proposta filosofica. Non ci possiamo sof-
fermare sul confronto che, fin dalle prime opere, l’autore di origine ebraica
instaura con la trascendenza e l’immanenza husserliane. Ci limitiamo a nota-
re che la ricerca di Lévinas si dirige verso ciò che può rompere la tentazione
di totalizzare Altri, attraverso l’attività pensante: l’ego cogito cartesiano. Al-
tri, irrompendo in modo imprevisto, si manifesta come ciò che non può esse-
re oggettivato dal cogito, poiché trascendente e originariamente separato dal
nostro ego. Altri ci precede e il suo appello si impone a noi.
La relazione tra il nostro Io e Altri, tra il Medesimo e l’Altro, è ciò che
Lévinas individua nella cartesiana idea dell’infinito che abita l’uomo come
altro da lui e si contrappone al concetto di totalità in senso hegeliano. La to-
talità hegeliana, invece, è il progetto di costituire un sapere assoluto che ri-
duca all’Io ogni cosa, senza tralasciare alcunché. L’infinito di cui parla
Lévinas tiene in sé, come separati, il Medesimo e l’Altro, nella forma del-
la trascendenza18. Senza questa trascendenza dell’Altro rispetto all’Io «ci
sarebbe soltanto l’essere»19.
Con il termine “essere”, Lévinas allude al risultato di quella movenza
che nella fenomenologia di Husserl era l’intenzionalità20, ossia l’atto
17 Sul concetto di “trascendenza” in Lévinas si veda G. Ferretti, La filosofia di
Lévinas. Alterità e trascendenza, Rosemberg & Sellier, Torino 1996.
18 E. Lévinas, Totalité et infini. Essai sur l’extériorité, Nijhoff, La Haye 1961, tra-
duzione italiana di A. Dell’Asta, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca
Book, Milano 2004, p. 58: «L’idea di infinito – la relazione tra il Medesimo e l’Al-
tro – non annulla la separazione. Questa attesta nella trascendenza».
19 Ivi, p. 59.
20 Cfr. E. Lévinas, Théorie de l’intuition dans la Phénoménologie de Husserl, Al-
can, Paris 1930, traduzione italiana di S. Petrosino, La teoria dell’intuizione nella
fenomenologia di Husserl, capp. II-III, Jaca Book, Milano 2002.
G.P. Soliani - «Sentire è essere» 115
dell’Io, la cogitatio, in quel senso amplissimo che già aveva assunto nelle
Meditazioni metafisiche di Cartesio21. Tale atto dell’Io va a costituire, come
è noto, delle oggettualità, delle modalità di essere. Secondo Lévinas, per
Husserl e, in generale, per tutta la tradizione filosofica, l’atto di conoscen-
za oggettiva tutto ciò che ha di mira, riconducendo l’Altro al Medesimo,
Altri all’Io. Facendo una “teoria”, la tradizione filosofica si presenta come
“ontologia”, intelligenza dell’essere, nella quale il desiderio metafisico,
come anelito all’“assolutamente altro” svanisce22. Tuttavia, si dà la possi-
bilità di una teoria che sia rispettosa dell’esteriorità, ossia della trascenden-
za d’Altri rispetto all’Io. Tale teoria è una metafisica e insieme un’etica
che, criticando la riduzione d’Altri all’Io, precede l’ontologia. Nella pro-
spettiva levinassiana, come è noto, l’Io dev’essere decentrato per lasciare
posto all’Altro23.
21 René Descartes, Meditationes de prima philosophia, II, in: Id., Oeuvres de Des-
cartes, a cura di Ch. Adam-P. Tannery, vol. VII, Vrin, Paris 1900, p. 28: «Sed quid
igitur sum? Res cogitans. Quid est hoc? Nempe dubitans, intelligens, affirmans,
negans, volens, nolens, imaginans quoque, et sentiens».
22 E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., pp. 40-41: «La relazione teorica è stata lo sche-
ma preferito della relazione metafisica. Il sapere o la teoria significa innanzitutto
una relazione con l’essere tale che l’essere conoscente lascia che l’essere cono-
sciuto si manifesti rispettando la sua alterità e senza segnarlo in nulla con questa
relazione di conoscenza. […] Teoria significa anche intelligenza – logos dell’es-
sere – cioè un modo tale di affrontare l’essere conosciuto che la sua alterità rispet-
to all’essere conoscente svanisce. Il processo della conoscenza si confonde a que-
sto stadio con la libertà dell’essere conoscente che non incontra niente che, altro
rispetto ad esso, possa limitarlo. Questo modo di privare l’essere conosciuto della
sua alterità può attuarsi solo se è intenzionato attraverso un terzo termine – termi-
ne neutro – che a sua volta non è un essere. In esso finirebbe con l’attutirsi lo choc
dell’incontro tra il Medesimo e l’Altro. Questo terzo termine può apparire come
concetto pensato. L’individuo che esiste abdica allora a favore del generale pensa-
to. […] Qui la teoria si impegna in una via che rinuncia al Desiderio metafisica,
alla meraviglia dell’esteriorità, di cui vive questo Desiderio»; ivi, p. 41: «La filo-
sofia occidentale è stata per lo più un’ontologia: una riduzione dell’Altro al Me-
desimo, in forza dell’interposizione di un termine medio e neutro che garantisce
l’intelligenza dell’essere».
23 Ivi, pp. 40-41: «La teoria come rispetto dell’esteriorità delinea un’altra struttura
essenziale della metafisica. Essa ha la preoccupazione critica nella sua intelligen-
za dell’essere – o ontologia. […] Così la sua intenzione critica la porta al di là del-
la teoria e dell’ontologia: la critica non riduce l’Altro al Medesimo come l’onto-
logia, ma mette in questione l’esercizio del Medesimo. Una messa in questione
del Medesimo – che non può non essere fatta nella spontaneità egoistica del Me-
desimo – è fatta dall’Altro. Questa messa in questione della mia spontaneità da
parte della presenza d’Altri si chiama etica. L’estraneità d’Altri – la sua irriduci-
bilità a Me – ai miei pensieri e ai miei possessi, si attua appunto come una messa
116 Rosminianesimo teologico
L’intenzionalità conoscitiva, per come è presentata da Husserl – per lo
meno in Ideen I – è tale per cui, certamente, la coscienza è sempre coscien-
za-di qualche cosa, ma – ciò che più conta – l’oggetto appare e risplende
soltanto grazie ad essa e da essa risulta, dunque, condizionato24. In questo
senso, lo sviluppo più naturale della fenomenologia husserliana sarebbe
l’idealismo25 e l’approdo a una metafisica del trascendentale, nella quale
gli oggetti sono costituiti dalla coscienza e la realtà non mantiene mai una
qualche indipendenza dal pensiero26. Per Lévinas, l’essere oltre il quale si
deve andare è quello proprio di quelle oggettualità che sono costituite dal
cogito, ma non solo.
È lo stesso ego che deve essere decentrato rispetto ad Altri. In questo
senso, anche il Dasein heideggeriano – il luogo della comprensione dell’es-
sere – deve essere posto in secondo piano rispetto ad Altri. Secondo Lévi-
nas, vi è una profonda relazione tra il Dasein e l’ego cogito. Il primo sareb-
be, infatti, ciò che rende conto della nozione cartesiana di soggetto. La
comprensione dell’essere come preoccupazione per la propria esistenza è
la caratteristica fondamentale della finitudine del Dasein ed è il fondamen-
to dell’apertura di quest’ultimo verso il mondo27. La finitudine del pensie-
ro umano «non sarà più una semplice determinazione del soggetto – non si
dirà più solamente [con Cartesio] “noi siamo un pensiero, ma un pensiero
finito” –, la finitudine conterrà il principio medesimo della soggettività del
soggetto. È perché c’è una coscienza finita – il Dasein – che la coscienza
medesima sarà possibile»28.
in questione della mia spontaneità, come etica. La metafisica, la trascendenza,
l’accoglienza dell’Altro da parte del Medesimo, d’Altri da parte di Me si produce
concretamente come la messa in questione del Medesimo da parte dell’Altro, cioè
come l’etica che mette in atto l’essenza critica del sapere. E come la critica prece-
de il dogmatismo, la metafisica precede l’ontologia».
24 E. Lévinas, Essais noveaux, in: Id., En découvrant l’existence avec Husserl et
Heidegger, Vrin, Paris 20164, pp. 185-186: «L’intentionalité signifie que toute
conscience est conscience de quelque chose, mais, surtout que tout objet appelle
et comme suscite la conscience par laquelle son être resplendit et, par là-même,
apparaît».
25 Cfr. ivi, pp. 176-177.
26 Cfr. ivi, pp. 1190-191.
27 Cfr. E. Lévinas, Martin Heidegger et l’ontologie, in: Id., En découvrant
l’existence, cit., pp. 88-89.
28 Ivi, p. 89: «Elle ne sera plus une simple détermination du sujet – on ne dira plus
seulement “nous somme une pensée, mais une pensée finie” – la finitude contien-
dra le principe même de la subjectivité du sujet. C’est parce qu’il y a une existence
finie – le Dasein – que la conscience elle-même se trouvera possible».
G.P. Soliani - «Sentire è essere» 117
L’essere di Heidegger è, in effetti, finito. La tesi di Hegel mediante la
quale si afferma l’identità di essere e nulla è legittima per il filosofo tede-
sco, ma soltanto perché «l’essere stesso è per essenza finito e si manifesta
solo nella trascendenza dell’esserci che è tenuto fuori del niente»29. La
comprensione dell’essere, caratteristica fondamentale del Dasein, ne costi-
tuisce anche la finitudine.
A questo punto possiamo tornare a una delle tesi capitali del pensiero le-
vinassiano. L’idea dell’infinito che Cartesio assegna all’ego cogito come ciò
che non coincide con quest’ultimo, ma piuttosto lo apre all’esteriorità, è per
l’autore lituano «relazione» essenziale con Altri30. L’idea di infinito rompe la
totalità costituita dall’oggettivazione conseguente alla cogitatio, ossia all’at-
to intenzionale messo in campo dall’Io, ossia dal Medesimo. In Cartesio –
questa l’interpretazione levinassiana – sarebbe presente una concezione
dell’Io come essenzialmente e strutturalmente aperto ad Altri; ma affinché vi
sia questa tendenza essenziale occorre che Altri preceda l’Io31.
La tesi cartesiana, accolta da Lévinas, è che l’Infinito è di più della sua
idea. Nel suo essere formale esso è trascendente rispetto al suo essere
oggettivo. Essere oggettivo ed essere formale dell’Infinito non possono veni-
re a coincidere32. Occorre preliminarmente rilevare che la tesi nella sua va-
29 M. Heidegger, Che cos’è metafisica?, cit., p. 75. La stessa tesi è sostenuta in M.
Heidegger, Schellings Abhandlung über das Wesen der menschlichen Freiheit
(1809), Max Niemeyer, Tübingen 1971, traduzione italiana di E. Mazzarella, C.
Tatasciore, Schelling. Il Trattato del 1809 sull’essenza della libertà umana, Gui-
da, Napoli 1994, p. 264.
30 Su questo punto si veda anche: E. Baccarini, Lévinas. Soggettività e Infinito,
Studium, Roma 1985.
31 Riguardo a questi temi, risultano fondamentali le pagine di E. Lévinas, Totalità e
infinito, cit., p. 46-50. In particolare, scrive Lévinas: «Questa relazione del Mede-
simo con l’Altro, senza che la trascendenza della relazione tronchi i legami impli-
cati da una relazione, ma senza che questi legami uniscano in un tutto il Medesi-
mo e l’Altro, è fissata, di fatto, nella situazione descritta da Cartesio nella quale
l’“io penso” ha con l’Infinito, che non può affatto contenere e dal quale è separa-
to, una relazione detta “idea dell’infinito”. […] L’idea dell’infinito è eccezionale
in quanto il suo ideatum va al di là della sua idea […]. La distanza che separa ide-
atum ed idea costituisce qui appunto il contenuto dell’ideatum di cui possiamo
avere in noi solo un’idea; esso è infinitamente lontano dalla sua idea – cioè este-
riore – perché è infinito» (ivi, pp. 46-47).
32 Ivi, p. 46. La tesi cartesiana può essere rinvenuta anche negli scritti di Kierke-
gaard. S. Kierkegaard, Philosophiske Smuler (1844), traduzione italiana di S.
Spera, Briciole filosofiche, Queriniana, Brescia 20122, cap. III, pp. 102-103: «De-
terminato [Dio] come l’assolutamente diverso, lo si potrebbe immaginare sul pun-
to di manifestarsi, ma non è così, perché l’assoluta differenza la ragione non può
neppure pensarla; infatti, questa non può negare se stessa assolutamente ma si
118 Rosminianesimo teologico
riante più generale, non ridotta al semplice caso dell’Infinito è – come già no-
tava Gustavo Bontadini – l’«esplicita formulazione del dualismo
gnoseologico cartesiano»33. Il presupposto di tale posizione consiste nel rite-
nere il pensiero come un contenitore dal quale si dovrebbe uscire per incon-
trare la realtà in sé. Lévinas, volendo fuggire l’idealismo, nega anche quella
verità fondamentale dell’idealismo che è l’identità originaria di pensiero ed
essere34 e per la quale il pensiero è il manifestarsi stesso dell’essere.
Altri, ossia l’Infinito, assume la parvenza di una figura metafisica in
senso classico, sebbene Lévinas non si impegni in alcuna argomentazione
costruttiva nei riguardi dell’esistenza di Dio e nemmeno in una difesa del-
la prova cartesiana35. Tuttavia, occorre subito avvertire che si tratta soltan-
to di una parvenza. La relazione con l’Infinito è relazione con l’Altro esse-
re umano, nella figura dello Straniero (étranger), dell’orfano e della
vedova: è relazione etica. Questa relazione è desiderio, intenzionalità sui
generis che non oggettiva, ma lascia l’Altro nella sua esteriorità rispetto
all’ego. L’Altro è l’Assoluto che non viene relativizzato in alcun modo dal-
la relazione con l’ego, a differenza di quanto accadrebbe nella relazione
oggettivante dell’intenzionalità husserliana e, in generale, nel modo in cui,
secondo Lévinas, la tradizione filosofica ha pensato la relazione tra cono-
scente e conosciuto36. La presenza di quello che Lévinas chiama lo Stranie-
ro viene scòrta già in Aristotele, con la sua teoria dell’intelletto produttivo
e nel “pensiero alato” del Fedro platonico37. Si tratta, per Lévinas, di riflet-
tere sull’infinito nel finito, del più che è presente nel meno, e che «si attua
attraverso l’idea dell’infinito, si produce come Desiderio»38.
sforza di capire e trasferisce, quindi, la differenza in se stesso così come la può ca-
pire con le sue forze. Non può assolutamente trascendersi e quindi pensa soltanto
una elevazione al di sopra di se stessa, come la può capire con le sue forze. […]
Ma questa differenza non si lascia afferrare. Tutte le volte che ciò accade, si trat-
ta, in fondo, di un arbitrio e nel più profondo del timor di Dio si nasconde, folle,
un arbitrio capriccioso che sa di aver prodotto Dio».
33 G. Bontadini, Il fenomenismo razionalistico, in: Id., Studi di filosofia moderna,
Vita e Pensiero, Milano 1996, p. 9.
34 Occorre precisare che quando Lévinas parla di idealismo ha in mente prevalente-
mente l’idealismo tedesco, dove è presente una verità che appartiene a un ideali-
smo ben più antico – risalente a Parmenide –, secondo la quale tutto ciò che è
dev’essere per ciò stesso pensato.
35 E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 47.
36 Ivi, pp. 47-48.
37 Platone, Fedro, 249a.
38 E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 48.
G.P. Soliani - «Sentire è essere» 119
L’intonazione gnoseologistica dell’intrapresa levinassiana è esplicita
nell’identificazione dell’Altro con il noumeno kantiano39, precisamente nel
senso di «un essere che mantiene la sua esteriorità totale rispetto a chi lo
pensa»40. Lévinas è in cerca di una passività e di un sentire che si contrap-
pongano all’attività propria dell’intenzionalità come costituzione di
oggetti41. La bontà, in senso platonico, è un altro dei modi per dire l’Altro:
un desiderabile che non ha il fine – impossibile, secondo Lévinas, a realiz-
zarsi – di appagare il Desiderio, ma soltanto quello di interpellarlo. Da qui
la centralità del tema del Discorso, dell’espressione, del volto d’Altri e del
linguaggio42.
In ogni caso, lo spazio di una reale trascendenza in senso classico è chiu-
so, così come quello dell’immanentismo, poiché in entrambi i casi, secon-
do Lévinas, si darebbe una totalizzazione dell’Altro. Nel primo caso si trat-
terebbe di una totalizzazione divina, mentre nel secondo si tratterebbe di
una totalizzazione umana. Per uscire da questa presunta impasse, Lévinas
lavora ad una trascendenza del tutto “terrena” che si dia nei termini sopra
descritti. Questo è il senso che viene ad assumere la metafisica nel pensie-
ro di Lévinas43.
La polemica levinassiana contro l’idealismo hegeliano e le possibili ve-
nature idealistiche dello Husserl di Ideen I prosegue anche in Altrimenti
che essere. L’essere oltre il quale si invita ad andare è il risultato di una co-
stituzione attuata dalla coscienza. Il Bene platonico è, invece, ciò che si do-
39 Ivi, p. 47: «L’essere posseduti da un dio – l’entusiasmo – non è l’irrazionale, ma
la fine del pensiero solitario (che più avanti chiameremo “economico”) o interio-
re, inizio di una vera esperienza del nuovo e del noumeno – già Desiderio».
40 Ivi, p. 48.
41 Si veda anche Aa. Vv., A partire da Lévinas. La passività del soggetto, l’ombra
dell’essere e l’enigma dell’etica, «Aut-Aut», 1985, nn. 209-210.
42 E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., pp. 48-49.
43 Ivi, p. 50: «Tra una filosofia della trascendenza che situa altrove la vera vita cui
l’uomo avrebbe accesso, sfuggendo da questo mondo, negli istanti privilegiati
dell’elevazione liturgica e mistica o nella morte – e una filosofia dell’immanenza
secondo la quale ci si può impadronire veramente dell’essere solo quando ogni
“altro” (causa di guerra), inglobato dal Medesimo, svanisce al termine della sto-
ria, noi ci proponiamo di descrivere, nello svolgersi dell’esistenza terrena, di quel-
la che noi chiamiamo esistenza economica, una relazione con l’Altro che non por-
ta ad una totalità divina od umana, una relazione che non è una totalizzazione
della storia, ma l’idea dell’infinito. Questa relazione è proprio la metafisica». Sul
senso della metafisica in Lévinas si veda anche F. Ciaramelli, Soggettività e me-
tafisica. Emmanuel Lévinas e il tema dell’altro, Giannini, Napoli 1980; G. Fer-
retti, L’intenzionalità metafisica del desiderio in Emmanuel Lévinas, Vita e Pen-
siero, Milano 2003.
120 Rosminianesimo teologico
vrebbe incontrare al di là del Concetto e della Storia hegelianamente inte-
si44. Il Bene è la «soggettività» che si contrappone all’essere. La
soggettività levinassianamente intesa consiste nell’essere soggetti all’ap-
pello di Altri, alla responsabilità per Altri. La soggettività presa in questo
senso è ciò che Lévinas esprime finalmente con i termini «passività» e
«sensibilità»45.
La sensibilità è contatto, irriducibile all’identità di essere e apparire tipi-
co della gnoseologia della tradizione filosofica più avveduta. Ciò che non
convince della riflessione levinassiana è proprio questo continuo rimando
a un al di là dell’orizzonte trascendentale che dovrebbe sorprendere l’Io,
andando a costituire la vera immediatezza. L’Altro è un non-fenomeno e la
sensibilità è indipendente dall’apparire46. In questo orizzonte si colloca la
valorizzazione levinassiana delle Lezioni sulla sintesi passiva di Husserl,
nelle quali la sensibilità e l’affezione non forniscono semplicemente dei
44 E. Lévinas, Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, Nijhoff, La Haye 1974,
traduzione italiana di S. Petrosino, M.T. Aiello, Altrimenti che essere o al di là
dell’essenza, Jaca Book, Milano 2011, p. 24: «Il soggetto umano – io – chiamato
sia nel dolore che nella gioia alle responsabilità, non è una trasformazione della
natura, né un momento del concetto, né un’articolazione della “presenza dell’es-
sere vicino a noi” della parusìa. Non si tratta di garantire la dignità ontologica
dell’uomo, come se l’essenza bastasse alla dignità, ma, al contrario, di mettere in
questione il privilegio filosofico dell’essere, di interrogarsi sull’al di là o sull’al di
qua. Ridurre l’uomo alla coscienza di sé e la coscienza di sé al concetto, cioè alla
Storia; dedurre dal Concetto e dalla Storia la soggettività e l’“io” (je) per trovare
così, in funzione del concetto, un senso alla singolarità stessa di “un tale”, trascu-
rando, come contingente, ciò che questa riduzione può lasciare di irriducibile e
questa deduzione di residuo, significa, con il pretesto di burlarsi dell’inefficacia
della “buona intenzione” e dell’“anima bella” e di preferire lo “sforzo del concet-
to” alle facilità del naturalismo psicologico, della retorica umanista e del patetico
esistenzialista, è dunque dimenticare il meglio che l’essere, cioè il Bene».
45 Ivi, pp. 15-25.
46 Ivi, p. 94: «Non appena, dall’alto della sua avventura gnoseologica in cui tutto in
essa significava intuizione, recettività teorica a distanza (che è quella dello sguar-
do), la sensibilità ricade in contatto, essa ritorna, come attraverso l’ambiguità del
bacio, dal prendere all’essere preso, dall’attività del cacciatore di immagini alla
passività della preda, dalla mira alla ferita, dall’atto intellettuale dell’apprensione
all’apprensione in quanto ossessione per un altro che non si manifesta. Al di qua
del punto zero che segna l’assenza di protezione e di copertura, la sensibilità è af-
fezione attraverso il non-fenomeno, una messa in causa attraverso l’alterità
dell’altro […], prima dell’apparire dell’altro. […] Piuttosto che la natura – ancor
prima della natura – l’immediatezza è questa vulnerabilità, questa maternità, que-
sta pre-nascita o pre-natura a cui risale la sensibilità».
G.P. Soliani - «Sentire è essere» 121
dati disordinati che l’Io dovrebbe riordinare, ma si offrono all’intenziona-
lità del soggetto con una forma che non è la coscienza a elaborare47.
Con Giovanni Gentile – su questo punto allievo ad honorem di Antonio
Rosmini – si potrebbe far notare subito che una sensazione che non appare
semplicemente non è. Soltanto quando la sensazione non è più tale ed è già
entrata nell’orizzonte coscienziale è possibile parlarne48; ma è proprio que-
sto che Lévinas contesta a partire da posizioni moralistiche, cadendo nello
gnoseologismo. La trascendenza levinassiana allude all’“esser fuori” dal
pensiero, laddove fuori dal pensiero non è possibile saltare. Questa verità
che, nella modernità, l’idealismo trascendentale e il neoidealismo gentilia-
no hanno contribuito a chiarire è inaggirabile. Per porre qualcosa fuori dal
pensiero occorre, infatti, pensarlo.
Di recente, Carla Canullo ha scritto giustamente che il «fondamento
“temuto” da una certa fenomenologia, è il fondamento che esclude ogni fe-
condo rinvio ad Altro, nello specifico il fondamento soggettivo – ossia l’in-
47 E. Husserl, Analysen zur Passiven Synthesis. Aus Verlesungs und Forschunsma-
nuskripten 1918-1926, in: Id., Husserliana, Band XI, hrsg. von Margot Fleischer,
pp. 3-222, Martinus Nijhoff, Den Haag 1966, traduzione italiana di V. Costa, Le-
zioni sulla sintesi passiva, La Scuola, Milano 2016.
48 G. Gentile, Introduzione alla filosofia, Sansoni, Firenze 1981 (rist. ediz. del
1958), p. 95: «E d’altra parte, quell’esperienza, a cui ci si deve affidare, in tanto ci
attesta l’esistenza della sensazione, in quanto ce la fa argomentare dalla coscien-
za che ne abbiamo, ossia in quanto essa è già non più sensazione, ma coscienza,
pensiero della sensazione. C’è, si può dire, in quanto non c’è. E pertanto, parlare
di sensazione ha un senso, se si sottintende il pensiero che la contiene come suo
oggetto». Si pensi alle pagine del Nuovo Saggio nelle quali Rosmini esplicita
chiaramente la stessa persuasione gentiliana. Cfr. A. Rosmini, Nuovo Saggio
sull’origine delle idee, a cura di G. Messina, voll. 3-5 dell’Edizione Nazionale e
Critica delle Opere di Antonio Rosmini, curata dall’Istituto di Studi Filosofici e
dal Centro di Studi Rosminiani, Città Nuova, Roma-Stresa 2003-2005, nn. 419-
422, vol. II, pp. 31-33. In particolare, ivi, n. 419, vol. II, p. 31: «Qualunque cosa
noi conosciamo, e su cui ragioniamo, ci dee sempre esser nota mediante una per-
cezione intellettiva, o un’idea. Quindi è, che di ciò di che non abbiamo idea, noi
non abbiamo notizia, né possiamo discorrerne o colla mente o colle parole». E an-
che, ivi, n. 421, vol. II, pp. 32-33: «E si osservi bene […] che quand’anco in noi
ci fosse sensazione pura, scompagnata al tutto da idea, come ci sembra che avven-
ga, quando sentiamo qualche cosa, e non ci badiamo, avendo l’attenzione della
mente in altro occupata: quand’anco, dico, in noi si desse sensazione senza idea;
questa sensazione non potrebbe in nessun modo giovarci a derivare un esatto con-
cetto della sensazione, perché ella non sarebbe da noi intesa, né considerata, sa-
rebbe come se non fosse rispetto al nostro intendimento, e quindi noi non potrem-
mo in modo alcuno né pensare né ragionare di lei».
122 Rosminianesimo teologico
concussum quid cartesiano»49. La posizione di Lévinas relativa a un senti-
re indipendente dall’apparire è in fondo una conseguenza dell’accettazione
e insieme della reazione al paradigma cartesiano della razionalità, nei con-
fronti del quale non sembrerebbero esservi alternative.
Tale paradigma coinvolge anche il rapporto tra anima e corpo, ridotti
da Cartesio rispettivamente a res cogitans e a res extensa. Come è noto,
infatti, il filosofo francese ritiene che l’ego coincida con l’anima e si di-
stingua realmente dal corpo50. Prendendo Cartesio come punto d’approdo
della tradizione metafisica e l’idealismo come punto d’arrivo della gno-
seologia tradizionale, parte della fenomenologia del ‘900 ha inteso torna-
re al corpo, all’affezione e alla sensibilità, in rottura con una deriva nar-
cisistica del pensiero e della cultura che fa dell’Io e delle sue cogitationes
una fortezza inespugnabile che rende impossibile qualunque tipo di rela-
zione umana con l’altro da sé. Il recupero del corpo, dell’affetto e in ge-
nerale dell’altro dall’Io e dalle sue cogitationes è attuato “contro” l’Io,
cioè decentrando l’Io come certezza immediata, per sostituirlo con un Al-
tro la cui caratteristica fondamentale è quella di non apparire; di avere un
volto, sì, ma senza lineamenti definiti. Dunque, le istanze levinassiane
sono certamente comprensibili, ma è il modo in cui vengono difese che
risulta problematico.
4. Rosmini come interlocutore ante litteram di Lévinas
Le preoccupazioni espresse da Lévinas, emergono già nella riflessione
di Antonio Rosmini, in quei decenni che vedono, con la morte di Hegel,
il tramonto della modernità filosofica. Rosmini ha inscritto il tema del
sentimento all’interno di una metafisica della trascendenza che non è sor-
da alle richieste della fenomenologia dell’affezione contemporanea, ma
piuttosto le include nell’organismo dell’essere, portandone a compimen-
to le implicazioni nella figura dell’essere morale. Nelle pagine della Teo-
sofia, dedicate ai concetti di “sentimento” e di “reale”, viene avanti in
modo piuttosto esplicito l’idea che l’Io sia costitutivamente relazione es-
senziale all’altro da sé, definito proprio come «termine straniero». Tale
49 C. Canullo, Rosmini e il passaggio dalla fenomenologia rovesciata del simboli-
co alla svolta affettiva della metafisica, in: P. Sapienza (a cura di), La polis: for-
me dei legami e libertà tra coscienza personale e coscienza civile, «Quaderni di
Synaxis», Edizioni Grafiser, Troina, pp. 36-37.
50 René Descartes, Meditationes de prima philosophia, VI, cit.
G.P. Soliani - «Sentire è essere» 123
operazione, come vedremo di seguito, fa di Rosmini un interlocutore
ante litteram della fenomenologia contemporanea. Rosmini non rinuncia
a fare un’ontologia, che egli vede come parte di una teoria più ampia che
prende il nome di Teosofia: scienza dell’ente finito (cosmologia), dell’en-
te infinito (teologia) e dell’ente indeterminato (ontologia)51. Tale teoria
non è razionalisticamente intesa, ma trova nell’essere morale, ossia nel
bene e nell’affezione, il proprio compimento ultimo52.
4.1 Il reale è sentimento
Per intendere i concetti di “reale” o “realità”53, in Rosmini, occorre par-
tire dal concetto di sintesismo, ossia dall’organismo dell’essere e dal modo
in cui l’essere è originariamente compaginato. La legge del sintesismo di-
chiara l’impossibilità di pensare come autonomo un aspetto dell’organismo
dell’essere, pena il cadere nell’assurdo54.
L’essere nasconde in sé virtualmente ogni cosa: ogni ente è nulla, se
pensato come indipendente e irrelato rispetto all’organismo dell’essere.
Ogni ente è relativo ed hegelianamente astratto rispetto alla concretez-
za dell’organismo dell’essere, ma ciò non significa che non si possa
studiare di volta in volta un aspetto dell’essere senza tener conto della
sua relazione con l’organismo55. Per parlare della differenza tra essere
51 A. Rosmini, Preliminare alle opere ideologiche, n. 33, in: Id., Nuovo Saggio
sull’origine delle idee, cit., vol. I, p. 86.
52 Cfr. A. Rosmini, Teosofia, a cura di M.A. Raschini, P.P. Ottonello, voll. 12-17
dell’Edizione Nazionale e Critica delle Opere di Antonio Rosmini curata dall’Isti-
tuto di Studi filosofici e dal Centro di Studi Rosminiani, Città Nuova, Roma-Stre-
sa 2000, Proemio, nn. 34-35, cit., pp. 69-71.
53 Sulla questione del reale in Rosmini, si veda C. Gray, Rosmini, la realtà pura e
i principi corporei, «Rivista Rosminiana», 1936, pp. 197-208; 1937, [continua-
zione] pp. 22-30, 124-130; 1938, [continuazione] pp. 20-29, 260-268; E. Pigno-
loni, Il reale nei problemi della Teosofia di A. Rosmini, Sodalitas, Domodosso-
la 1953.
54 A. Rosmini, Teosofia, lib. VI, n. 2046, cit., vol. V, p. 12: «Questa legge [del sinte-
sismo] dichiara che “l’essere ha un cotale organismo ontologico, e che la mente
divellendo un organo dall’intero organismo ne ha un tal ente che, se si prende
come ente completo, nasconde in sé un assurdo, di cui quando la mente s’accorge
conchiude che quell’organo divelto non può stare così solo, è nulla, e neppure si
può pensare quando vi s’abbia vista dentro la contraddizione, ma si pensa finat-
tanto che questa vi giace nascosa in istato, come abbiamo detto altrove, virtuale».
Si veda anche ivi, lib. VI, n. 2056, vol. V, pp. 24-25.
55 Ivi, lib. VI, n. 2047, vol. V, p. 13: «Quando la mente pone sua attenzione in un or-
gano dell’essere separato del tutto allora ella non giudica mica che quell’organo
124 Rosminianesimo teologico
assoluto ed essere relativo, Rosmini ha usato l’espressione «differenza
ontologica»56, richiamando il fatto che la vera differenza è quella che si
dà tra mutabile e Immutabile, e non, come vuole Heidegger, tra deter-
minatezza e indeterminatezza. Il rapporto tra essere assoluto ed essere
relativo è quello che intercorre tra ciò che è assolutamente ente e ciò
che è assolutamente non-ente, poiché quest’ultimo è relativamente
ente, ovvero è ente, ma relativamente alla propria dipendenza dall’esse-
re assoluto57.
«Il reale è sentimento» – secondo l’esplicita formulazione rosminiana –
ed è inscritto nell’organismo dell’essere, sebbene non si possa dire propria-
mente “ente”. Il reale è «un modo categorico dell’ente», ma per essere an-
che ente occorre che entri nell’orizzonte coscienziale, si faccia oggetto
della mente e sia, dunque, pensato58. La posizione gentiliana che abbiamo
ricordato sopra ha tra le sue fonti principali proprio l’idealismo essenziale
rosminiano59.
possa stare da sé solo o non possa, ma questa questione né la concepisce né la de-
cide. Onde l’oggetto del suo pensare non è punto assurdo; ché incomincerebbe ad
essere assurdo soltanto allora quando la mente pronunciasse o si persuadesse che
quell’oggetto stia così da solo che a nient’altro si raggiunga».
56 Ivi, lib. VI, n. 2049, vol. V, p. 15: «La natura dell’essere relativo e la natura
dell’essere assoluto sono così fra loro contrarie che nulla v’è nell’uno che sia
identico a ciò che è nell’altro e però sono ancora più che categoricamente distin-
ti; infinitamente più che da sostanza a sostanza: trattasi di una differenza di esse-
re che giustamente si può denominare differenza ontologica».
57 Ivi, lib. VI, n. 2052, vol. V, p. 18: «Convien dunque dire, che la differenza che pas-
sa fra l’essere assoluto e il relativo non è quella di sostanza a sostanza, ma una
molto maggiore; e ancor maggior della differenza da categoria a categoria; peroc-
ché s’ha differenza di essere in questo senso, che l’uno è assolutamente ente, l’al-
tro è assolutamente non-ente».
58 Ivi, lib. VI, n. 2076, vol. V, p. 48: «Il sentito o il sentimento può dirsi realità, non
ancora ente; perocché quest’ultima espressione acchiude l’oggetto, giacché l’isti-
tuzione della parola ente ha in vista il pensato, ossia l’oggetto della mente. In una
parola, la realità non è l’ente, ma ella è un modo categorico dell’ente, uno de’
modi né quali è l’ente, e che si dividono da lui per astrazione, assegnandogli un
vocabolo che ne esprime il concetto».
59 L’idealismo essenziale rosminiano è esplicito, ad esempio, nel seguente testo.
A. Rosmini, Psicologia, a cura di V. Sala, voll. 9-10/A dell’Edizione Nazionale
e Critica delle Opere di Antonio Rosmini curata dall’Istituto di Studi filosofici e
dal Centro di Studi Rosminiani, Città Nuova, Roma-Stresa 1989, n. 1332, vol.
III, pp. 34-35: «Ora se ben si considera, si vedrà, che l’oggettività è condizione
così essenziale dell’ente, che in quanto non è oggetto non è ente, e tutt’al più
sarà un rudimento dell’ente concepito per astrazione, non possibile ad esistere
tutto solo. E veramente si attenda bene che cosa contenga il concetto di ente. Il
concetto di ente non contiene alcuna relazione di un ente con un altro, anzi la
G.P. Soliani - «Sentire è essere» 125
La realità, entrando nell’orizzonte coscienziale, costituisce una sintesi
tra il sentimento finito e relativo e l’essenza dell’essere nella forma idea-
le. Rosmini chiarisce in modo esplicito questo punto, dicendo che siamo
soliti dare il nome di essere anche al sentimento, non perché questo sia
ente in senso proprio, ma poiché in modo irriflesso lo abbiamo già sinte-
tizzato con l’essenza dell’essere (l’orizzonte coscienziale). Il sentimento
finito non è altro che un reale finito che diventa “essere relativo” soltan-
to in unione con l’essenza dell’essere60. La legge del sintesismo illumina
questo tratto del discorso rosminiano: il sentimento finito separato
dall’essere è soltanto una «incoazione di essere, materia di cognizione
[…], non è essere, è cosa che da sé sola non può stare, involge assurdo, e
però è uno di que’ pensieri relativi a cui la mente pensa perché non s’ac-
corge della repugnanza intrinseca che contengono: quindi ne ragiona ella,
ma non giunge mai a fare l’ipotesi che sussistano veramente senza con-
giungerli coll’essere stesso. Dove scorgesi un caso appunto di sintesismo
ontologico, onde avviene che il reale finito sintesizzi coll’essenza dell’es-
sere, e senza di essa sia assurdo, benché non sia dessa»61.
Si comprende immediatamente che il sentito o il sentimento finito
devono essere riguadagnati a partire dall’essenza dell’essere. È questo
uno degli insegnamenti radicali di Rosmini fin dalle pagine del Nuovo
Saggio, dove si dice, ad esempio, che l’idea dell’essere precede l’idea
esclude come un soprappiù: dice la cosa in sé, non la cosa agente in un’altra.
Ma la cosa è in sé solo a condizione che sia in una mente. Perocché se si parla
di corpo non concepito da alcuna mente, quel corpo non ha questa condizione
d’essere in sé qualche cosa, perché non ha alcuna suità. Lo stesso è a dirsi d’un
essere meramente sensitivo, a cui manca il sé. L’essere dunque in sé non è altro
che l’essere concepito assolutamente e senza relazione ad altro da un intelletto.
E quando a noi pare che le cose abbiano questa assoluta esistenza, benché non
sieno da noi concepite, cadiamo in una cotale illusione trascendentale. Noi sup-
poniamo che no sieno concepite nell’atto stesso che le concepiamo, e ne ragio-
niamo; onde parliamo senz’accorgersi di cose concepite in sé; le quali certa-
mente esistono in sé, senza bisogno di altri atti avvertiti da parte nostra per
concepirle, perché basta che si presentino al nostro pensiero per aver adempita
la condizione dell’essere in una mente. Ma non diremo mai che enti che noi re-
almente non concepiamo, né immaginiamo che alcun’altra mente li concepisca,
enti insomma affatto sconosciuti da ogni mente; siano enti compiuti, sieno qual-
che cosa in se stesi. L’oggettività dunque è una proprietà o relazione essenziale
dell’ente».
60 A. Rosmini, Teosofia, lib. VI, n. 2052, cit., vol. V, p. 17: «Il sentimento finito e tut-
to ciò che cade in esso, in una parola, il reale finito si concepisce in tre modi, e sot-
to ciascuno di questi si può domandare che cosa è».
61 Ibid.
126 Rosminianesimo teologico
dell’Io e il suo sentimento. Qui, il filosofo di Rovereto nega che si pos-
sa dedurre l’idea dell’essere dal sentimento fondamentale di esistenza
del proprio Io62. In primo luogo occorre distinguere tra sentimento e
idea dell’Io. Il sentimento dell’Io è qualcosa che gode di una sua sem-
plicità, come qualunque altro sentimento, mentre l’idea dell’Io è com-
plessa, poiché nasce dalla sintesi del sentimento con l’essere ideale,
grazie al quale il sentimento viene oggettivato, e quindi percepito intel-
lettivamente63.
Il primo principio – precisa Rosmini – non è la coscienza del proprio Io,
in qualunque modo questa coscienza venga intesa64, ma l’evidenza feno-
menologica dell’esserci di qualcosa, dell’ente, senza determinazioni parti-
colari. Solo in seconda battuta sarà possibile separare, considerandoli
astrattamente, l’essere ideale e il sentito, come due componenti necessarie
dell’ente reale. Da qui, le due formulazioni (psicologica e ontologica) del
principio di cognizione che Rosmini chiaramente distingue65. L’esperienza
62 A. Rosmini, Nuovo Saggio sull’origine delle idee, n. 438, cit., vol. II, pp. 42-43.
63 Ivi, n. 439, vol. II, p. 44: «Quindi il sentimento interno dell’Io, hassi a distin-
guere dalla idea o percezione intellettuale dell’Io. In sentimento dell’Io è sem-
plice; all’incontro l’idea dell’Io p composta 1° dal sentimento dell’Io, che è la
materia della cognizione, 2° e dell’idea dell’essere, la forma a cui la mente ri-
porta quel sentimento o quell’Io, e in tal modo lo conosce; il che vuol dire, con-
sidera l’Io come un ente, lo pensa oggettivamente, lo pensa in sé. L’Io è il sog-
getto; tutto particolare; non ha relazione che a sé, ente determinato e reale.
Affinché io conosca questo soggetto, io n’abbia l’idea devo concepirlo ogget-
tivamente, come qualunque cosa che a me non si riferisca, in relazione insom-
ma coll’essere, come in relazione coll’essere stesso considero qualunque altro
particolare sensibile; l’ente è dunque come la misura comune quando io ho ri-
ferito ciò che sento a questo modulo, allora non solo sento, ma ancora conosco
ciò che sento».
64 Si pensi al modo in cui Malebranche intende la coscienza di sé come semplice
sentimento di ciò che accade in noi o sentimento interiore. N. Malebranche, Re-
cherche de la vérité (1674), traduzione italiana di M. Garin, La ricerca della veri-
tà, Laterza, Bari 2007, p. 324: «Diverso è il caso dell’anima; non la conosciamo
attraverso la sua idea; non la vediamo in Dio; la conosciamo solo per coscienza;
per questo la conoscenza che ne abbiamo è imperfetta. Della nostra anima sappia-
mo solo ciò che sentiamo accadere in noi. […] Attraverso la nostra coscienza, os-
sia attraverso il ‘sentimento interiore’ che abbiamo di noi stessi, conosciamo ab-
bastanza, è vero, che la nostra anima è qualcosa di grande. Ma può darsi che quel
che ne conosciamo non sia quasi nulla di ciò che essa è in se stessa». Per la criti-
ca di Rosmini a Malebranche su questo punto, cfr. A. Rosmini, Nuovo saggio, n.
443, cit., vol. II, p. 47.
65 Vi è un principio di cognizione in una variante psicologica (l’ente è l’oggetto
dell’intelletto umano) e un principio di cognizione in una variante ontologica
(l’essere è l’oggetto dell’intelletto). A. Rosmini, Teosofia, lib. IV, n. 1559, cit.,
G.P. Soliani - «Sentire è essere» 127
psicologica originaria per l’intelletto umano è quella della presenza dell’en-
te, a partire dalla quale si può giungere riflessivamente alla presenza in
quanto tale (l’essere ideale). Rimane il fatto, come diremo più avanti, che,
secondo Rosmini, il sentimento è originariamente esterno all’orizzonte co-
scienziale umano, è “al di là dell’essere”, per utilizzare la formula levinas-
siana, ma solo se astrattamente considerato.
Il reale, come componente dell’ente reale, può essere definito an-
che come «materia essenziale» o, meglio, come «stoffo dell’ente». Si
tratta di una materia che non ha niente a che fare con la materia cor-
porea, ma è una componente astratta di quel concreto che è l’ente re-
ale 66. Non si può nemmeno considerare lo stoffo come equivalente
alla materia prima aristotelica, poiché quest’ultima si situa a un livel-
lo di astrazione superiore rispetto allo stoffo. La materia prima aristo-
vol. IV, p. 73: «Il principio di cognizione riceve due forme secondo che si rife-
risce alla prima intellezione che è la naturale intuizione, o alle seconde intelle-
zioni colle quali opera l’intelligenza; e queste due forme sono le seguenti. I.
L’essere è l’oggetto dell’intuizione naturale. II. L’ente è l’oggetto delle opera-
zioni intellettive. Questa seconda formula dunque viene a dire, che niuna opera-
zione (atto secondo) può fare l’intelligenza umana avendo sol presente l’essere
e non ancora l’ente. Quando poi è presente l’ente, il che avviene la prima volta
nella percezione, allora è possibile all’uomo di riflettere non solo su l’ente, ma
ancora sugli elementi di esso, e di considerare astrattamente ciascuno di questi
elementi, e però allora volgere il pensiero riflesso anche all’essere indetermina-
to che è un’antecedenza dell’ente reale e del suo concetto, alla realità dell’ente
e al suo concetto determinato, alle appendici dell’ente, e a tutto ciò in una paro-
la che coll’astrazione si può distinguere in esso preso da sé o nelle sue relazioni
ad un altro. Questo può far la mente perché allora tutti gli elementi dell’ente li
vede nell’ente stesso che le sta davanti e che è la condizione del pensare, ed al-
tresì la forma ch’ella applica agli elementi acciocché le si rendano pensabili in
separato».
66 Ivi, lib. VI, n. 2058, cit., vol. V, p. 26: «La mente adunque che contempla l’es-
sere reale, il trova certo ordinato e ontologicamente organato; ma ella intende
che tali organi o parti ontologiche debbono constare di qualche cosa, e questo
qualche cosa si può acconciamente denominare materia essenziale dell’essere:
ella è quella che costituisce propriamente la realità dell’essere. Non d’introdu-
ca qui coll’immaginazione la materia corporea che non ci ha a far nulla. E per
evitare questo ravvicinamento immaginario fra la materia corporea e la mate-
ria essenziale dell’ente, noi, risuscitando una voce antica, chiameremo questa
in quanto cade nella nostra esperienza, stoffo dell’ente. E qui si osservi che di-
videndo noi coll’astrazione lo stoffo dell’ente reale dalla sua forma organica
ne abbiamo fatto anche così due elementi ontologici i quali sintesizzano insie-
me in modo che l’uno non istà senza l’altro, ma la mente col suo pensare im-
perfetto li separa pensando attualmente ad uno e sottintendendo virtualmente
l’altro».
128 Rosminianesimo teologico
telica è «l’elemento comune a tutti gli stoffi degli enti reali»67. Lo
stoffo dell’ente è da intendere come l’essenza dell’ente reale, cioè
dell’individuo68, oggetto di esperienza. Si tratta di un ente che non è
completamente in atto, ma attende una forma che lo attui: l’essere
ideale 69. È la percezione intellettiva, infatti, a far sì che un sentito
possa diventare conosciuto o pensato.
Gli enti reali conoscibili sono di due tipi: noi stessi e gli enti diversi da
noi. «Noi stessi siamo sentimento», un sentimento sostanziale e fonda-
mentale che rimane immutato e sul quale si innestano tutti i sentimenti
particolari70. La conoscenza degli enti diversi da noi avviene o per cono-
scenza ideale-negativa o per conoscenza positiva. Il primo tipo di cono-
67 Ibid.: «Né tuttavia si prenda lo stoffo dell’ente reale di cui parliamo come fosse lo
stesso concetto che gli antichi si formavano della materia prima; perocché la ma-
teria prima degli antichi è concetto più astratto, è l’astrazione dell’elemento co-
mune a tutti gli stoffi degli enti reali; laddove per istoffo noi intendiamo la stessa
essenza d’una realità, quale cade nella nostra esperienza prescindendo da ogni sua
organica costituzione ontologica».
68 La realità, secondo Rosmini, è il principio di individuazione. A. Rosmini, Antro-
pologia in servizio della scienza morale, a cura di F. Evain, voll. 23-24 della
Edizione Nazionale e Critica delle Opere di Antonio Rosmini curata dall’Istitu-
to di Studi Filosofici di Roma e dal Centro Internazionale di Studi Rosminiani
di Stresa, Città Nuova. Roma-Stresa 1981, lib. IV, nn. 784-785, vol. II, pp. 434-
435: «Sollevarono le scuole una questione difficile e importantissima intorno
all’individuo, cioè “qual sia il principio dell’individuazione”. Esse risposero
con Aristotele, che “il principio dell’individuazione è la materia”. Ma questa ri-
sposta non può aver luogo in una ontologia universale: essa è angusta come
sono anguste tutte le risposte aristoteliche, le quali si veggono manifestamente
derivate non dalla considerazione degli enti in universale, ma dalla considera-
zione parziale e limitata degli enti corporei. […] Diciamo che il vero individuo
non si trova che nell’ordine dell’essere reale, e che il principio dell’individua-
zione è la stessa realità dell’essere; là dove l’universale non si trova che nell’or-
dine dell’essere ideale; e il principio dell’universalità è la stessa idealità dell’es-
sere». Id., Teosofia, lib. VI, n. 2379, cit., vol. V, p. 332: «Onde dunque nasce la
molteplicità degli individui? Non dall’idea pura che è unica, ma dal reale, onde
nell’Antropologia (784-787) abbiam detto che la causa generale dell’individua-
zione, e volevamo dire della moltiplicazione degl’individui è la realità»; ivi, lib.
III, n. 849, nota 90, vol. II, p. 149. In questo ultimo testo la realità viene acco-
stata all’haecceitas o differentia ultima scotista.
69 A. Rosmini, Teosofia, lib. VI, n. 2059, cit., vol. V, p. 27: «Lo stoffo adunque è pro-
priamente ciò che costituisce la realità nella sua essenza non nel suo atto, come
diremo, e la forma, con cui abbracciamo ogni pluralità che si può distinguere dal-
la mente col suo pensare analitico è quasi il compimento dell’ente, ciò che dà allo
stoffo l’ultimo suo atto nell’ordine oggettivo».
70 Cfr. ivi, lib. VI, n. 2069, cit., vol. V, p. 38.
G.P. Soliani - «Sentire è essere» 129
scenza è sempre relativo a una qualche conoscenza positiva previa, poi-
ché il contenuto della prima conoscenza è in relazione di proporzione,
analogia o somiglianza con il contenuto del secondo tipo di conoscenza.
La conoscenza positiva è essenzialmente percezione intellettiva. Essa
può riguardare il nostro corpo, il corpo esterno o un’entità che sia insie-
me spirituale e corporea71. La conoscenza ideale-negativa, invece, è una
sorta di inferenza a partire da una conoscenza che è già stata acquisita per
percezione intellettiva.
Per percepire l’ente reale occorre che, innanzitutto, lo spirito attinga alla
sostanza, cioè a quel fondo che è la prima entità dalla quale è condizionato
ogni aspetto dell’ente. Rosmini la chiama anche «base conoscibile
dell’ente»72. A questo punto, però, bisogna precisare che la percezione di
qualunque sostanza prevede la correlazione tra sostanza-principio e sostan-
za-termine. La sostanza-principio è quella che si manifesta nella percezione
del nostro spirito, mentre la sostanza-termine appare nella percezione di un
qualche corpo, sia esso il corpo proprio dello spirito (il corpo soggettivo) o
un corpo estraneo. La sostanza del corpo è sempre il termine correlato a una
sostanza che fa da principio73. Questa è la condizione per percepire qualsia-
si sostanza diversa dal nostro spirito, mediante una percezione extra-sogget-
tiva. La percezione soggettiva del nostro spirito è la «base conoscibile» di
tutte le notizie che possiamo ottenere riguardo ai corpi, ed è quindi il fonda-
mento di ogni percezione extra-soggettiva74. Il sentimento fondamentale è la
radice di ogni percezione particolare, poiché su di esso si innestano tutti gli
altri sentimenti75, che sono la materia della percezione.
Questo può avvenire perché il sentimento fondamentale contiene in sé
virtualmente tutte le sensazioni particolari dei corpi ed è, quindi, essenzial-
mente aperto a sentire l’altro da sé. Nel sentimento fondamentale è presen-
te la sintesi del principio senziente e del termine virtualmente sentito, ossia
quello che in termini rosminiani è detto l’«esteso». Nel pensiero rosminia-
no, il principio, qualunque esso sia, deve sempre contenere virtualmente il
termine. La virtualità del principio senziente è dovuta allo stesso sintesi-
smo che prevede sempre una qualche unione di principio e termine; in que-
sto caso, l’unione di principio senziente e termine sentito. Le sensazioni
particolari sono contenute nel principio in modo indistinto, poiché non pos-
71 Cfr. ibid.
72 Ivi, lib. VI, n. 2070, vol. V, pp. 39-40.
73 Cfr. ibid..
74 Cfr. ivi, lib. VI, n. 2071, vol. V, pp. 41.
75 Cfr. ivi, lib. VI, n. 2072, vol. V, pp. 41-42.
130 Rosminianesimo teologico
siedono l’ultima attualità che le fa uscire dalla virtualità. Esse possiedono
soltanto un primo atto bisognoso di essere portato a termine76. La causa ul-
tima che porta a termine il principio senziente nelle sue virtualità è una
potenza extrasoggettiva77.
Sulla questione del reale, cioè dello stoffo dell’ente, che è sentimento, si
gioca una partita decisiva. Infatti, uno dei problemi filosofici più ostici, se-
condo Rosmini, è proprio quello del «mero sentimento», ossia della possi-
bilità di indagare il sentimento astratto dal suo essere pensato. In primo
luogo, secondo il filosofo di Rovereto, occorre mettersi in un atteggiamen-
to che potremmo dire fenomenologico. Occorre «bene osservare». Spesso,
infatti, si parla della sensazione quando è già entrata nell’orizzonte co-
scienziale e si pensa di studiarla come se non lo fosse78. È l’errore fonda-
mentale del sensismo; ma la sensazione in quanto tale, nota Rosmini, non
ha un’esistenza oggettiva, ma soltanto soggettiva79.
Il sensibile non pensato è soltanto «soggetto» o, meglio, «appartenenza
di un soggetto»80. Per comprendere questa definizione occorre fare riferi-
mento nuovamente al sentimento fondamentale: «quel sentimento primo e
sempre identico che costituisce la sostanza spirituale», la quale non è anco-
ra oggettivata e non è, dunque, un ente reale81. Tutte le altre sensazioni,
come già sappiamo, sono modificazioni di questo sentimento e sono conti-
nuamente accompagnate da esso. Il sentimento fondamentale o «sostanzia-
le», come lo chiama anche Rosmini in questo contesto, è logicamente pri-
mo rispetto alle sensazioni delle quali è sfondo e radice82.
Fatte queste premesse si può considerare che il sentito in quanto sentito
si compone di due elementi che di seguito illustriamo. Il primo elemento è
76 Cfr. ibid.
77 Cfr. ivi, lib. VI, n. 2073, vol. V, pp. 42-43.
78 Cfr. ivi, lib. VI, n. 2075, vol. V, pp. 45-47.
79 Ibid.: «“Le sensazioni non hanno esse l’esistenza?” Rispondo di sì, se si parla di
esistenza-soggettiva e particolare; e vi rispondo di no, se si parla di esistenza og-
gettiva. Questi sono i due modi categorici dell’ente, che conviene perpetuamente
distinguere; e chi non sa osservare questi due modi, cessi dallo studio della filoso-
fia. Quando la mente pensa un oggetto sensibile, allora ella ha presente l’esisten-
za come un oggetto, l’esistenza oggettiva».
80 Ivi, lib. VI, n. 2076, cit., vol. V, p. 47: «È manifesto che ha gran differenza (più ve-
ramente opposizione) fra un sensibile che si contempla come oggetto; e un sensibi-
le che non è oggetto, ma è soggetto o soggettivo, cioè appartenenza del soggetto».
81 Cfr. ivi, lib. VI, n. 2079, vol. V, p. 52.
82 Ibid.: «Le sensazioni considerate quali modificazioni dello spirito, non lo rappre-
sentano, appunto perché sono modificazioni, e però non sono mai sole, ma unite
al sentimento sostanziale, né prime nell’ordine logico».
G.P. Soliani - «Sentire è essere» 131
la “forza”, mentre il secondo è il «tocco del sentimento». La forza è in
generale la capacità di modificare un ente; ma, nel caso della sensazione, di
essa se ne può avere notizia mediante l’effetto che produce nel principio
senziente: il «fenomeno dell’esteso». Ciò che importa sottolineare è la
relatività del concetto di forza, la notizia della quale è mediata dall’effetto
che produce nel senziente. La forza, dunque, ha come presupposto un
soggetto senziente. Non vi è, quindi, necessità, secondo Rosmini, di
ammettere una rappresentazione del corpo oltre la quale vi sia il corpo stes-
so83. In questo senso si può parlare di una identità intenzionale di senzien-
te e sentito nell’atto del sentire. Su questo punto Rosmini è un critico espli-
cito del dualismo gnoseologico84.
Del corpo abbiamo, dunque, una conoscenza immediata, ma tale cono-
scenza è relativa, tanto quanto la forza, poiché ciò che ci permette di ot-
tenerla è sempre l’effetto della forza sul senziente. Rosmini aggiunge che
la forza non dà come effetto soltanto il «fenomeno dell’esteso», che ri-
guarda il principio senziente, ma produce anche un effetto nell’esteso in
quanto tale, ovvero nella sostanza-termine. Si tratta di quella modifica-
zione che ogni corpo produce su un altro corpo. Questi due effetti sono la
causa della distinzione tra «corpo soggettivo» e «corpo extra-soggetti-
vo», secondo la terminologia rosminiana. Il fenomeno dell’esteso è l’e-
steso in quanto tocca il principio senziente, per questo è alla base del con-
cetto di corpo soggettivo. In realtà, tale distinzione tra due corpi diversi
– il soggettivo e l’extra-soggettivo – è tracciata nelle medesima sostanza
83 Ivi, lib. VI, n. 2080, vol. V, pp. 52-53: «Nel sentito convien distinguere due ele-
menti, la forza, e il tocco del sentimento. Per forza intendo quella virtù che mo-
difica lo stato di un altro ente. Ora vi ha una forza che modifica il principio sen-
ziente producendo in lui il fenomeno dell’esteso: vi ha pure una forza che
modifica questo esteso. Non potendosi conoscere la forza che dal suo effetto, la
nozione della forza è relativa, cioè si conosce nell’effetto. Vero è ch’ella suppo-
ne un ente soggetto a cui appartenga, ma trattandosi de’ corpi, questo ente sog-
getto della forza corporea si rimane straniero alla nostra percezione, e tutto ciò
che noi conosciamo è unicamente la forza. Questa forza, come prima ed unica
cosa cadente nella cognizione nostra, diviene per noi la sostanza corporea, e
quindi il corpo. Così il corpo noi lo conosciamo immediatamente, e non per
mezzo di alcuna rappresentazione».
84 Ivi, lib. VI, n. 2078, vol. V, p. 51: «Vi ha un’opinione comune, che tutto ciò che la
mente intende, l’intenda per via di rappresentazione, con che si vuol dire, che il
pensiero non coglie gli oggetti stessi, ma qualche altra cosa che glieli rappresen-
ta, la qual cosa dicesi idea. Noi abbiamo mostrato in più luoghi l’erroneità di que-
sta opinione». Il dualismo di rappresentazione e realtà rappresentata è contestata
da Rosmini sia sul versante dell’atto conoscitivo sia sul versante dell’atto sensiti-
vo. In particolare, a noi interessa il secondo versante della questione.
132 Rosminianesimo teologico
corporea. Nell’atto del sentire, infatti, il principio dell’atto è sempre il
medesimo principio senziente, ma i suoi termini sono due (corpo sogget-
tivo e corpo extra-soggettivo)85.
Il senso comune ritiene che la forza che agisce sull’estensione restitui-
sca il concetto di corpo, ma non è così. Il concetto di corpo per essere col-
to nella sua verità dev’essere inserito nell’essere assoluto, ossia dev’essere
adeguatamente posto in relazione con l’organismo dell’essere mediante un
ragionamento dialettico trascendentale. Solo a quel punto il concetto di
corpo extra-soggettivo può essere legittimamente considerato come rap-
presentativo dell’«ente trascendente» – che oltrepassa il principio senzien-
te –, sebbene di quest’ultimo si possa avere soltanto una conoscenza nega-
tiva, cioè inferenziale e dialettica86.
Se consideriamo il caso delle sensazioni che provengono dagli organi di
senso («sensazioni organiche»), la dottrina rosminiana sembra farsi più
chiara. Il corpo non è il sentito organico, come comunemente si crede. Il
corpo è la forza che produce sensazioni organiche, come si è già in qualche
modo compreso. I sentiti organici a loro volta rappresentano i corpi, non
come un ritratto rappresenta una persona in carne ed ossa, ma ben di più.
Solo mediante i sentiti organici possiamo avere notizia di un corpo. Si trat-
85 Ivi, lib. VI, n. 2080, vol. V, p. 53: «Ma questa cognizione è relativa anche per es-
ser ella cognizione di una sostanza termine: e desunta dall’effetto. Ora questo ef-
fetto essendo doppio, poiché un effetto è quello che la forza produce in noi produ-
cendoci il fenomeno dell’esteso, e un altro effetto è quello che la forza produce
nell’esteso stesso (modificazioni che un corpo riceve dall’altro), perciò la sostan-
za corporea ha come due basi, che la farebbero parere due sostanze, onde si ha la
distinzione fra il corpo soggettivo e il corpo extra-soggettivo. Ma colla riflessione
poi si trova che trattasi d’una sola sostanza, la quale prende in noi due forme a ca-
gione ch’essa si conosce come termine, e non come principio, e il termine è dop-
pio benché il principio sia unico. In qualche maniera si potrebbe dire che le due
forme sostanziali nelle quali conosciamo il corpo siene rappresentative dell’unica
sostanza corporea».
86 Ibid.: «Una forza diffusa nell’estensione esprime il concetto del corpo che han-
no comunemente gli uomini. Al qual concetto se si applica la dialettica trascen-
dentale, questa conduce al di là della sostanza termine, e trova un ente soggetti-
vo principio. Ma di questo non altro si conosce che l’esistenza con tale
ragionamento, e però il comune concetto di corpo diviene così rappresentativo
di questo ente trascendente, diviene vicario di lui nella mente nostra, quantun-
que la cognizione che ce ne dà non sia più che proporzionale e negativa». Ri-
guardo alla definizione di dialettica trascendentale si veda: ivi, V, n. 1886: «noi
diciamo dialettica trascendentale quello speciale ragionamento pel quale la ri-
flessione avente a materia l’intuito ed il percepito trova le relazioni di questi
coll’essere assoluto».
G.P. Soliani - «Sentire è essere» 133
ta di una conoscenza che avviene «nel sentimento fondamentale», poiché
ogni sensazione è modificazione di quest’ultimo e ogni sensazione ci fa
«riconoscere la presenza» del corpo87.
Il riconoscimento della presenza del corpo risulta ancora più imperfetto
nel momento in cui si chieda al sentito organico di restituirci la conoscen-
za dell’ente reale corporeo, da non confondere con il concetto di sostanza
corporea (la forza stessa o il reale)88. Il sentito, in questo caso, è come se-
gno di una cosa significata e la conoscenza dell’ente reale corporeo risulta
soltanto imperfetta e non immediata. Tanto più che, se la mente non cono-
scesse già l’ente nella sua estensione trascendentale, non si potrebbe rica-
vare dalle semplici sensazioni alcuna conoscenza dell’ente reale corporeo,
seppure imperfetta89.
87 Ivi, lib. VI, n. 2081, vol. V, pp. 53-54: «Altro è il corpo, ed altro sono i sentiti or-
ganici. Ma questi li prendiamo pel corpo stesso, cioè per la forza che tutte quelle
sensazioni produce. Quelli adunque ci fanno conoscere i corpi per una cotale rap-
presentazione. Questa rappresentazione non è però uguale a quella per la quale un
ritratto ci fa conoscere la persona ritratta, perocché né il ritratto è l’effetto della
persona ritratta, né in quello vi ha nulla dell’attività reale di questa. All’incontro
la sensazione organica è l’effetto della forza, e tiene in se stessa una parte di
questa tuttavia in atto. In questo modo adunque le sensazioni organiche
rappresentano la sostanza corporea. Né la rappresentano come un incognito, ma
come un cognito; perocché la sostanza corporea, che è la forza che abbiam de-
scritta, è a noi cognita nel sentimento fondamentale. Le sensazioni adunque ci
fanno riconoscere la presenza di questa forza, e così fanno più del ritratto».
88 La distinzione tra sostanza ed ente reale è di grande importanza per poter com-
prendere la dottrina rosminiana del sentimento. La sostanza è soltanto un atto pri-
mario del quale ogni reale ha bisogno per poter essere oggettivato e diventare ente
reale. A. Rosmini, Teosofia, lib. VI, n. 2077, cit., vol. V, pp. 49-50: «La quale di-
stinzione fra l’ente, e la realità, è necessaria all’Ontologia: senza di essa, questa
aberra in una continua anfibologia. Del pari è necessaria quest’altra fra la sostan-
za, e l’ente reale. Perocché la sostanza esprime un reale, il quale ha quell’atto pri-
mo che gli abbisogna perché sia concepito per un ente, mediante l’idea a cui egli
si unisce nella mente che il pensa. E nel vero la sostanza fu da noi definita:
quell’elemento che si ravvisa colla mente siccome primo e base a cui s’attengono
tutti gli altri in un dato ente, o in altre parole “l’atto pel quale sono le essenze spe-
cifiche”, le quali non sono già per gli accidenti, ma per quell’atto nel quale e pel
quale questi sono, il qual atto si chiama sostanza. […] Quando adunque la sostan-
za s’unisce all’ente-oggetto; allora ella è divenuta ente».
89 Ivi, lib. VI, n. 2081, vol. V, p. 54: «Se consideriamo i sentiti organici non rispetto
alla sostanza corporea, ma rispetto all’ente reale corporeo, molto meno quelli ce
lo danno alla mente per immediato, e solo ce lo prensentano come rappresentato
imperfettamente, quasi segni di cosa segnata. Il segno non giova a richiamare al
pensiero se non ciò che già si conosce; e così se la mente già prima non conosces-
se l’ente, mai non potrebbe giungere a pensarlo, per quantunque sensazioni si
134 Rosminianesimo teologico
Ricapitolando, il sentito è l’unico ad essere effettivamente colto piena-
mente dal senziente. Ogni sentito si configura o come oggetto di un senti-
mento fondamentale, ovvero sostanziale, oppure come modificazione di
quel sentimento. In secondo luogo, la sostanza corporea, ossia il corpo, è
colto soltanto mediante il proprio effetto sul senziente. Infine, l’ente reale
corporeo, può essere colto come tale soltanto attraverso la mediazione del-
l’«ente in universale», ossia dell’essere ideale, fermo restando che dei pri-
mi due momenti si può parlare soltanto quando siano entrati in sintesi con
l’essere ideale.
Diverso dalla forza è il tocco del sentimento: ciò che ci permette di at-
tingere alla materia del reale, che, come ormai sappiamo, Rosmini chiama
anche «stoffo del reale»90. Lo stoffo del reale è l’oggetto di quella facoltà
propria dell’uomo, e non dell’animale, che Rosmini chiama immaginazio-
ne intellettiva91. In altro luogo, Rosmini spiega che lo stoffo del reale o
dell’ente appartiene al mondo metafisico, poiché la realità, nella sua essen-
za, esiste nell’idea. Ora, se il reale è sentimento, ciò significa che ogni sen-
timento particolare «ha l’essenza sua nell’idea, e quest’essenza è proprio lo
stoffo della realità»92.
4.2 Sentimento e idealità
Nel sentimento si manifesta qualcosa che non è semplicemente sogget-
tivo, ma che è già oggettivo. La dimensione del tocco del sentimento è ciò
che ci permette questo contatto col mondo ideale nella forma del “senti-
avesse lo spirito: nuova priva della teoria dell’intuizione dell’ente in universale
precedente a tutte le sensazioni organiche».
90 Ivi, lib. VI, n. 2082, vol. V, p. 55: «Noi nel sentimento abbiamo prima di tutto di-
stinta una attualità, che per non essere stata nomata fin qui dai filosofi, abbiamo
appellata lo stoffo del reale […]. Lo stoffo è come la materia del reale, e a noi è
noto per quella comunicazione che abbiamo detta tocco del sentimento».
91 Cfr. ivi, lib. VI, n. 2090, vol. V, pp. 62-63.
92 Ibid.: «Noi vedemmo che l’essenza della realità è tutta nell’idea, e che però nell’i-
dea v’è anche il sentimento, ma non coll’atto suo ultimo che è quello in cui consi-
ste la realità di lui e che realità del sentimento si chiama. […] Ora egli accade che
noi non vediamo nell’idea la realità della sua essenza se non a misura che ci vie-
ne comunicata nel suo ultimo atto che costituisce propriamente la realità sussi-
stente e che è il sentimento nostro e tutto ciò che cade in esso. Dato questo senti-
mento reale, noi tosto ne vediamo l’essenza nell’idea e distinguiamo
quest’essenza dall’atto di lei che la realizza. Noi stimammo opportuno chiamare
la realità nella sua essenza stoffo della realità e nel suo ultimo atto atto della rea-
lità. […] La realità adunque nella sua essenza esiste nel mondo metafisico cioè
nell’idea, e quest’essenza è proprio lo stoffo della realità».
G.P. Soliani - «Sentire è essere» 135
mento-entità”, ossia nella forma oggettiva che il sentimento, finito o infini-
to che sia, possiede in modo assoluto e non contingente. Nel caso in cui il
sentimento, cioè il reale, sia infinito e assoluto, esso esiste nel mondo ide-
ale anche con il suo ultimo atto, ossia come sussistente, ed è Dio. Nel caso
in cui, invece, il sentimento esista nel mondo ideale soltanto come finito e
relativo, esso è privo del suo atto ultimo, che può possedere soltanto in
modo contingente, nel momento in cui il principio senziente umano senta
attualmente qualcosa93.
Come è noto, il mondo metafisico – il mondo ideale – è per Rosmini il
“luogo” dell’eterno e del necessario. Come è possibile, dunque, che ogni
sentimento particolare sia insieme necessario e contingente, incrocio di
idealità e realità94? La questione chiama in causa l’atto della percezione in-
tellettiva, poiché è innanzitutto in esso che si realizza la sintesi di eterno –
l’essere ideale – e di contingente, e il reale fa da termine e da ultimo atto
dell’essere ideale. Nella relazione con l’essere ideale il sensibile viene og-
gettivato e reso universale. Si può parlare, allora, di essenza del sensibile,
cioè dello stoffo del reale. Ma il reale mantiene anche una relazione «con
un sé, con un soggetto attuale» che lo rende «ente relativo, puramente con-
tingente, temporaneo»95.
Si tratta di superare l’antinomia, in senso fichtiano96, di un sentimento
che è eterno e necessario, se considerato in relazione all’essere universale,
ma contingente e temporaneo, se considerato in relazione con un sé uma-
no. Se non ci fossero gli occhi e la luce, spiega Rosmini, il sentimento del
93 Ibid.: «E se si tratta di realità infinita ed assoluta vi esiste coll’ultimo suo atto, che
appunto perché assoluta non le può mancare. Ma se si tratta di realità finita e rela-
tiva, questa realità relativa vi esiste assolutamente, cioè nel modo assoluto che è
quanto dire come ideale e possibile, ma le manca l’atto relativo, l’ultimo atto pel
quale ella sia relativamente a se stessa, che è appunto l’atto della realità finita e re-
lativa. E rispetto a questo suo atto la realità finita dicesi contingente, significano
che quell’atto può aversi e non aversi». Un sentimento che fosse per essenza un
pensato sarebbe Dio: ivi, lib. VI, n. 2077, vol. V, p. 50: «Che se si avesse un pri-
mo atto di sentimento il quale per l’essenza sua fosse nella mente, cioè fosse uni-
to all’idea, questo sarebbe ente per sé, inteso per la sua essenza. E tale è Dio. Nel
quale ciò stesso che è soggetto, è anche oggetto; onde il soggetto è per sé intelli-
gibile, e non ha bisogno di venire oggettivato».
94 Ivi, lib. VI, n. 2091, vol. V, p. 64.
95 Ivi, lib. VI, n. 2092, vol. V, p. 64-65.
96 Il senso dell’antinomia, per come Rosmini lo utilizza solitamente, è quello porta-
to in auge da Fichte. L’antinomia non sarebbe, come accade per le antinomie del-
la Dialettica trascendentale kantiana, una semplice e irrisolvibile opposizione per
contraddizione, ma soltanto un’apparente contraddizione, superabile introducen-
do un fattore conciliatore dei due estremi dell’antinomia.
136 Rosminianesimo teologico
colore rosso non ci sarebbe; ma verrebbe meno, per questo, anche l’essen-
za o idea del rosso? Se la risposta fosse affermativa, l’idea del rosso non sa-
rebbe più eterna. Se, invece, continuasse ad essere, ciò significherebbe che
l’essenza del rosso non dipende dal sentimento del rosso, ossia dal rosso
reale; oppure si potrebbe ipotizzare che il sentimento del rosso sia già in-
scritto nell’idea come «vero sentimento tipo del rosso», ossia come arche-
tipo eterno del sentimento del rosso97.
Una delle difficoltà che sorgono da questa dottrina, e delle quali Rosmi-
ni è ben cosciente, consiste nello spiegare come sia possibile che l’Essere
necessario possieda in sé il “sentimento tipo” di qualcosa, non potendo
averne la sensazione contingente, come avviene, invece, nel caso dell’uo-
mo, il quale non può avere l’idea del rosso senza averla sperimentata nel
sentimento. La risposta di Rosmini ci permette di cogliere il posto che la
sensazione occupa originariamente nell’organismo dell’essere. Tra il reale
(il sentimento contingente) e l’idea (il sentimento tipo) vi è «un anello di
mezzo che ci rimane velato», ossia un nesso del quale non riusciamo a
scorgere le fattezze. Si tratta dell’atto creatore, ossia dell’«attività dell’es-
sere reale assoluto creante il mondo». Nell’atto creatore sono presenti in
un’unità perfetta tutti i sentimenti che sussistono nel mondo. Dio, che coin-
cide con il proprio atto creatore, è un sentimento sommo e perfettissimo,
ovvero è un reale la cui relazione con l’ideale dà vita all’«archetipo del
mondo e di tutto ciò che è in esso»98.
97 A. Rosmini, Teosofia, lib. VI, n. 2093, cit., vol. V, p. 65: «Da questa analisi risul-
ta che il sensibile, il sentimento o si considera nella sua relazione coll’essere in
universale e a lui unito quasi atto alla potenza e quasi termine all’atto, e questa re-
lazione è eterna e necessaria; o si considera in se stesso e questa relazione è eter-
na e necessaria; o si considera in se stesso e questa relazione seco è temporanea e
contingente. Ma come lo stesso reale può fare questi due offici opposti? Come
quello che è contingente può apparir necessario? Se non fosse stato da Dio creato
l’occhio e la luce e quindi il fenomeno del color rosso, il sentimento del rosso
mancherebbe nell’universo. Or ne mancherebbe perciò anche l’essenza, l’idea del
rosso? In tal caso tale essenza non sarebbe più eterna come pur si pretende. E se
quella essenza vi sarebbe tuttavia; dunque ella non dipende dal sentimento del
rosso, dal rosso reale; ovvero è a dirsi che anche nell’idea esiste un vero sentimen-
to tipo del rosso, come sostennero alcuni Platonici».
98 Ivi, lib. VI, n. 2095, vol. V, pp. 66-67: «L’essere necessario si dice non è il sogget-
to della sensazione contingente; e non avendo questa sensazione come potrà aver-
ne il tipo? La risposta si deve desumere da ciò che abbiamo detto innanzi, cioè che
fra il reale contingente e l’idea v’ha un anello di mezzo che ci rimane velato, onde
l’oscurità della cognizione umana. Questo anello è l’attività dell’essere reale as-
soluto creante il mondo. Or in quest’attività conviene che si accolgano necessaria-
mente tutti i sentimenti che nel mondo sussistono, formanti unità con quella per-
G.P. Soliani - «Sentire è essere» 137
Il mondo reale del quale abbiamo esperienza è contenuto nella realtà di
Dio come un suo termine, ma non nel senso che Dio sia un essere relativo ri-
spetto al mondo. Piuttosto, si tratta di guardare al mondo reale come un
«compimento morale dell’assoluto»99. La creazione del mondo, infatti, è per
Rosmini un atto necessario moralmente, conveniente alla natura di Dio e alla
Sua libertà, mediante il quale l’Essere assoluto, con un atto di intelligenza
amativa, dà realtà a tutti i modi finiti nei quali Egli può essere amato100.
Con l’atto creativo, Dio pone il proprio oggetto, che non può preesiste-
re alla creazione, diversamente da quanto accade nella percezione intellet-
tiva, nella quale ciò che è oggettivato dall’atto conoscitivo umano preesiste
all’atto di oggettivazione. Nell’oggetto che Dio pone con l’atto della crea-
zione è presente il soggetto senziente e il sentimento relativo al soggetto
senziente, ma non relativo al Creatore. In questo modo, Dio ha presente il
sentimento, ma non lo sperimenta come proprio, non lo subisce101.
Da ciò che si è appena detto si ricava che, per Rosmini, il sentimento,
ovvero il reale, non è qualcosa di originariamente altro dal pensiero in
quanto tale. Sentire è originariamente essere – «sentire è essere» –, perché
ogni sentimento finito e contingente, ogni reale contingente, si trova innan-
zitutto nella mente divina, nell’Essere necessario. È Dio l’Altro che prece-
de originariamente l’Io umano e che è ad esso irriducibile. Tale identità di
sentire ed essere è colta dall’uomo nel momento della percezione intellet-
fezione che esclude ogni difetto e partimento. Ora questo sommo e perfettissimo
sentimento è quel reale che colla sua relazione all’ideale forma l’archetipo del
mondo e di tutto ciò che è in esso».
99 Ibid.: «Questa è la realità che contiene il mondo reale come suo termine e però
non in quant’è un essere relativo ma in quanto è compimento morale dell’assolu-
to». In Dio sono presenti anche i sentimenti dolorosi, come idea e non come real-
tà sperimentata dal soggetto umano. Per l’uomo è impossibile avere presente un
dolore senza averlo prima sentito, ma Dio ha presente a sé l’idea del dolore o di
un sentimento senza bisogno di sentirlo realmente, di esserne soggetto. Cfr. ibid.
100 Su questo tema non possiamo dilungarci. Per questo ci permettiamo di rimandare
a G.P. Soliani, Rosmini e la libertà ontologica, personale e politica, in: P. Sa-
pienza (a cura di), La polis, cit., pp. 44-48.
101 A. Rosmini, Teosofia, lib. VI, n. 2095, cit., vol. V, p. 68: «Ora Iddio coll’atto cre-
ativo pone a se stesso l’oggetto, il creato, il quale è formato a dirittura, non già per
l’unione de’ suoi elementi come lo si forma l’uomo; perocché questi non preesi-
stono all’atto creativo come preesistono all’atto della percezione umana. Or
nell’oggetto formato e posto dall’atto creativo vi ha il soggetto senziente ed il sen-
timento relativo ad esso, non relativo al Creatore. Così il Creatore ha presente la
realità, il sentimento creato, senza ch’egli stesso esperimenti questo sentimento
come suo proprio; lo possiede come oggetto del suo conoscere e del suo operare
senza esserne passivo».
138 Rosminianesimo teologico
tiva, quando il sentire è conosciuto, ovvero intuìto dall’uomo nell’essere102.
«Intuire il sentire nell’essere come atto di lui è quanto intuirlo oggettiva-
mente, come oggetto, non più esperimentarlo soggettivamente: intuire l’es-
senza eterna del sentire»103. “Intuire l’essenza eterna del sentire” significa
cogliere, per quanto possibile all’uomo, quell’atto che è compimento mo-
rale dell’Essere assoluto, divenire coscienti di quella relazione eterna con
Dio della quale il mondo e l’uomo, in special modo, sono costituiti.
Si può dire, quindi, che il reale preceda l’Io umano, nel senso che quel-
lo è inscritto in un ordine morale104 che è lo stesso ordine dell’essere e che
attende di essere riconosciuto dall’uomo attraverso quella dialettica tra-
scendentale della quale Rosmini ha più volte parlato e sulla quale non pos-
siamo ora soffermarci. Non si può dire, invece, che il sentimento o il reale
siano in assoluto al di là dell’essere e al di là del pensiero, nemmeno del
pensiero umano, per le ragioni esposte.
Il sentimento può essere inteso come l’atto ultimo del principio senzien-
te. È possibile, poi, che il principio senziente sia insieme anche sentito, e
allora si parla di quel sentimento che chiamiamo Io. L’Io è insieme sen-
ziente e sentito, principio e termine. Se non che, è anche possibile che il
sentito sia estraneo – «straniero» – all’Io, e allora il principio senziente sarà
a sua volta estraneo al sentito, pur dovendo mantenere con esso una rela-
zione essenziale che contribuisce a costituire un’unità intenzionale di sen-
ziente e sentito. In questo secondo caso, l’estraneità di principio e termine,
pur nella unione dei due, fa sì che si possa parlare di una materia del senti-
to estraneo al senziente, la quale può essere sentita o non sentita105. Il sen-
102 Ivi, lib. VI, n. 2096, vol. V, pp. 69-70: «L’essenza dunque delle realità contingen-
ti o dei sentimenti finiti sta in Dio senza di questi, ed ella è eterna come è eterno
l’atto creativo di Dio. Ella ha un’eterna relazione colla realità contingente che esi-
ste solo nel tempo. L’uomo non vede questa eterna relazione se non a condizione
di esperimentare quel sentimento finito e contingente. Questa relazione gli si sco-
pre tostoché s’accorge che sentire è essere: accorgersi di questo è conoscere il sen-
tire, è ancora intuire il sentire nell’essere».
103 Ibid.
104 Sulla tematica dell’essere morale di Rosmini, si veda: C. Bergamaschi, L’essere
morale nel pensiero di Antonio Rosmini, Sodalitas, Stresa 1982; M.A. Raschini,
Dialettica e poiesi nel pensiero di Rosmini, Marsilio, Venezia 1996; P. Gomara-
sca, Rosmini e la forma morale dell’essere. La “poiesi” del bene come destino
della metafisica, Franco Angeli, Milano 1998.
105 A. Rosmini, Teosofia, lib. VI, n. 2158, cit., vol. V, p. 139: «Troviamo 1° che la pa-
rola sentimento significa propriamente l’atto ultimo del principio senziente; 2°
che il termine sentito o è proprio, o è straniero come abbiam detto. Se è proprio
egli è lo stesso principio senziente come sentito, perché “quello è il termine pro-
prio nel quale vi è l’ente identico che è nel principio”. Così nel sentimento espres-
G.P. Soliani - «Sentire è essere» 139
so comune trova qui la sua giustificazione nel credere di poter parlare di un
termine sentito che non abbia alcuna relazione essenziale con il suo princi-
pio senziente. In realtà, ogni termine estraneo al nostro Io ha, innanzitutto,
una relazione con un suo principio proprio che si trova «al di là della nostra
esperienza» e ci rimane immediatamente sconosciuto, pur rientrando nel e
costituendo il termine estraneo al nostro Io, in virtù del sintesismo di prin-
cipio e termine106.
La situazione descritta da Rosmini è quella di due principi senzienti: (1)
quello proprio del termine estraneo al nostro Io e (2) il nostro Io che è estra-
neo allo stesso termine sentito. I due principi senzienti sono diversi tra loro
e così anche i sentimenti che scaturiscono dalla relazione con il medesimo
termine. La diversità consiste nel fatto che (1) sente il termine come pro-
prio, mentre (2) sente il termine come estraneo a sé107. «Quindi nel termine
del nostro sentire si debbono distinguere tre cose. Esso termine attualmen-
te sentito, e questo è quello che riceve un nome e di cui si discorre per
esempio il nome corpo; la materia che si suppone non sentita, e questa è
l’entità astratta che si forma rimovendo dal sentito la qualità di sentito,
dopo di che ci rimane un quid incognito, di cui altro non si conosce se non
l’attitudine ad essere sentito; e la stessa materia sentita non da noi, ma dal
suo principio proprio con un sentimento totalmente diverso dal proprio»108.
so col vocabolo Io, il senziente e il sentito s’identificano. E però in tal caso il sen-
timento è proprio tanto del termine quanto del principio. 3° Ma se il termine è
straniero, egli ha bensì un rapporto essenziale col principio straniero col quale è
unito, ma non gli appartiene l’atto proprio e neppure il sentimento. Quindi egli si
rappresenta al veder nostro semplicemente come materia del sentimento, materia
bensì sentita, ma che potrebbe anche essere non sentita».
106 Ivi, lib. VI, n. 2158, vol. V, pp. 139-140: «Questa è la ragione per la quale gli uo-
mini sogliono pensare una materia delle entità prive esse stesse di sentimento ed
atte ad essere or sentite, or non sentite. Così il pensar comune è giustificato; ed
egli non deroga menomamente alle verità filosofiche da noi esposte, alle quali il
pensar comune non perviene, non avendo cagione di volgersi ad esse. Fra queste
verità vi ha quella che ogni termine straniero addimanda un principio suo proprio
che è al di là della nostra esperienza. Ora il sentimento di tale principio proprio ap-
partiene a quella entità che è a noi termine straniero, e però anche questa rientra
nel sentimento».
107 Ivi, lib. VI, n. 2158, vol. V, p. 140: «Ma quella entità che è a noi termine straniero
non è già sentita dal suo principio proprio come è sentita da noi, poiché da oi è
sentita come straniera e priva al tutto di principio proprio, è sentita unicamente per
quel tanto che agisce suscitando un sentimento nel principio a lei straniero, il qual
sentimento è tutto affatto diverso dal sentimento del suo principio proprio; peroc-
ché trattasi di principi senzienti affatto diversi».
108 Ibid.
140 Rosminianesimo teologico
La materia, astratta dalla relazione essenziale con noi o con il proprio
principio senziente è la «realità pura ed astratta». Si tratta, tuttavia, di una
finzione della ragione che non ci fa conoscere la materia per come è in se
stessa, ma ci rende coscienti soltanto del fatto che esiste un’entità reale che
si trova «in un contatto di sensilità col nostro principio senziente dal quale
contatto esce il nostro sentito». Quello della realità pura – spiega Rosmini
– è un concetto del tutto «negativo», «relativo» e «imperfetto» che ci infor-
ma soltanto del fatto che vi è qualche cosa che precede il sentimento e dal
quale si comincia a conoscere la cosa109. La realità pura è l’attività propria
del sentimento, è completamento del sentimento, e nella sua concretezza è
sentimento essa stessa, poiché non può essere realmente separata dal senti-
mento110.
4.3 Passività, relazione essenziale e sintesismo
Vi è un lato di passività e recettività nell’atto del sentire. Il fatto che ogni
ente sia composto di un principio e di un termine, secondo l’ormai nota
dottrina del sintesismo, non mette a repentaglio l’unità ontologica dell’en-
te reale. Quest’ultima, infatti, è sempre dalla parte del principio, che è ente
soggettivo, e quindi ente reale. Anche il termine entra nella composizione
dell’ente reale, sebbene in modo diverso, a seconda che sia un termine
estraneo all’ente o un termine proprio dell’ente111.
Il termine estraneo all’ente reale, e quindi al principio, può essere un
corpo, ma può essere anche l’idea dell’essere che è termine estraneo rispet-
to al principio soggettivo e lo rende intelligente. Nel caso in cui il termine
estraneo sia un corpo siamo in presenza del sentimento animale, in virtù
109 Ibid.: «Il concetto adunque di questa materia non ci fa conoscere che cosa ella sia
in se stessa, ma solo ci conoscere avervi un’entità reale (non si sa come fatta) la
quale trovasi in un contatto di sensilità col nostro principio senziente dal quale
contatto esce il nostro sentito. Ora questo concetto negativo, è il concetto di una
realità pura ed astratta, che è qualche cosa si anteriore al sentimento, e però ap-
punto dicesi pura; giacché per essa incominciamo a conoscere la realità, benché
sia un conoscere relativo, ed imperfetto».
110 Ivi, lib. VI, n. 2158, vol. V, pp. 140-141: «In ogni sentimento come pure in ogni
sentito vi ha un’entità. Ora l’astrazione suol separare anche l’attività del sentimen-
to dal sentimento; e a quest’attività suol pure dare il nome di realità pura, cioè se-
parata dal sentimento che la completa. Ma anche qui non dobbiamo ingannarci
prendendo i prodotti dell’astrazione quasi per sé essenti, come enti reale. Peroc-
ché se si parla del sentimento, lasciati a parte i termini stranieri, l’attività è senti-
mento ella stessa».
111 Cfr. ivi, lib. VI, nn. 2166-2167, vol. V, pp. 147-148.
G.P. Soliani - «Sentire è essere» 141
del quale il principio senziente è recettivo nei confronti del corpo. Spazio e
materia (o forza) sono i termini che agiscono su un principio ad essi estra-
neo, pur avendo anche un loro principio proprio che ci rimane immediata-
mente sconosciuto112.
Se non che, Rosmini ammette l’esistenza di termini estranei che posso-
no entrare nella costituzione di un principio soggettivo. Tali termini estra-
nei dovranno avere sempre un loro principio proprio che può essere avvi-
stato attraverso la dialettica trascendentale, pur rimanendo in grado di
entrare in unione con principi a loro estranei113. Anche qui, secondo Rosmi-
ni, occorre mettersi in un atteggiamento fenomenologico, osservando se
l’attività del termine è riducibile al principio con il quale si trova unito o se
abbia bisogno di altro per essere spiegata. Il criterio è quello della passivi-
tà: se il principio patisce, «soffre», una qualche passività rispetto al termi-
ne con il quale è unito, ciò significa che l’attività del termine non può esse-
re ridotta al principio soggettivo e che quest’ultimo riceve qualche cosa dal
termine114.
La nostra intelligenza è il caso classico di un principio soggettivo che
riceve e viene costituito da un «termine straniero» ad essa: l’essere idea-
le. Questo può essere considerato come principio oggettivo per il quale le
cose possiedono un’esistenza oggettiva nella mente, sebbene non sia an-
112 Ivi, lib. VI, n. 2154, vol. V, p. 134: «Fra queste [entità] noi abbiamo annoverato lo
spazio, e la materia ossia la forza che opera nello spazio. Le quali entità debbono
avere un loro proprio principio appunto perché in se stesse non ci presentano se
non la condizione di termine. Tra esse e il principio senziente si forma un ente, l’a-
nimale; ma il principio senziente non è il principio loro proprio, anzi un principio
ad esse straniero. In fatti il corpo non è prodotto dal principio senziente, ma gli è
presentato a tal che il principio ha rispetto ad esso della recettività».
113 Ivi, lib. VI, n. 2156, vol. V, p. 136: «“certi enti-termini possono esser uniti ad un
principio che non è il loro, e così costituire altri enti risultanti di principio e di ter-
mine”. Quindi ogni qualvolta ci è dato un ente composto di principio e di termine,
conviene osservare se questo termine è straniero all’ente che costituisce, o suo
proprio: giacché ogni qualvolta si trovi essere straniero, è necessario supporre
ch’egli appartenga ad un altro principio a cui sia propria, e così v’abbia un altro
ente occulto, solo svelato dalla dialettica».
114 Ibid.: «Per conoscere poi se un termine è straniero al principio con cui sintesizza
conviene osservare se tutta l’attività ch’esso dimostra si possa ridurre a quel prin-
cipio come a sua causa ed atto primo […]. Or a conoscere quando l’attività che
mostra in se stesso il termine non si possa ridurre a quella del principio con cui
sintesizza, basta osservare se il principio soffre dal suo termine alcuna passività, o
se da lui alcuna cosa riceve; perché in tal caso è indubitata l’esistenza d’un agen-
te o d’un oggetto straniero».
142 Rosminianesimo teologico
che principio soggettivo115. «L’essere ideale nell’uomo è anch’egli un
termine straniero, e si prova colla regola data di sopra. Il principio intel-
ligente riceve dall’essere ideale l’oggetto primo che lo rende intelligente,
egli riceve e non dà; dunque l’ente oggetto non può essere produzione del
principio intelligente umano; ma egli esige l’esistenza d’un’altra attività;
d’un altro principio, che rimane all’uomo occulto; e che è quello che gli
somministra l’oggetto»116.
Il principio intelligente è passivo rispetto all’essere ideale che lo costi-
tuisce intelligente in atto. L’ampiezza dell’essere ideale, infatti, è spro-
porzionata rispetto alla particolarità del singolo soggetto intelligente.
Non è possibile, quindi, che sia una produzione di quest’ultimo. Perché
vi sia un soggetto occorre l’assoggettamento all’essere ideale. Quest’ul-
timo, termine estraneo e insieme costituente il principio intelligente, do-
vrà avere originariamente un principio proprio a sé adeguato che sia
«soggetto infinito»117, diversamente rimarrebbe un assurdo, un astratto in
senso hegeliano.
Conviene ricordare che Rosmini ha interpretato l’intelletto agente ari-
stotelico come equivalente all’idea dell’essere. Si tratta di una «mente in
atto […] venuta dal di fuori dell’uomo», secondo la formulazione pre-
sente nell’Aristotele esposto ed esaminato118. Anche in Rosmini, come
abbiamo segnalato per Lévinas, emerge il tema dell’originaria e struttu-
rale relazione con l’altro da sé dell’Io umano. Entrambi gli autori, fatte
salve le differenti prospettive, trovano nell’intelletto agente una delle
fonti di questo modo di pensare la soggettività. Anche il soggetto rosmi-
115 Ivi, lib. VI, n. 2157, vol. V, p. 137: «Il ragionamento stesso che noi abbiamo fatto
circa lo spazio, il corpo, la materia, che ci si presentano come enti termini, possia-
mo applicarlo all’essere ideale. L’essere ideale ha ragione di principio rispetto a
quella esistenza oggettiva che le cose hanno nella mente, è il principio oggettivo,
ma non è un principio soggettivo, e noi parliamo ora di questo; il che è attenta-
mente da distinguersi, acciocché non nascano equivoci».
116 Ibid.
117 Ibid.: «Ma quel principio suo proprio può avere l’ente oggetto? Un soggetto come
abbiam detto. Dunque l’ente oggetto suppone necessariamente, e virtualmente con-
tiene l’esistenza d’un soggetto suo proprio, col quale egli costituisce un solo essere.
Ora l’essere ideale è universale, infinito. Dunque egli suppone un soggetto infinito
per suo principio. Questa è quella dimostrazione dell’esistenza di Dio a priori, che
si presenta in tante guise diverse, ma che è sempre la stessa nel suo fondo».
118 A. Rosmini, Aristotele esposto ed esaminato, a cura G. Messina, vol. 18 dell’Edi-
zione Nazionale e Critica delle Opere di Antonio Rosmini curata dall’Istituto di
Studi filosofici e dal Centro di Studi Rosminiani, Città Nuova, Roma-Stresa 1995,
n. 120, p. 183.
G.P. Soliani - «Sentire è essere» 143
niano potrebbe essere interpretato nel senso della soggettività levinas-
siana, come ciò che soggiace a un termine straniero, che nel caso di Ro-
smini è l’essere ideale119.
L’essere ideale è un termine medio che ha per principio un soggetto, ma
prevede l’essere morale come suo termine ultimo. Rosmini ravvisa un pa-
rallelo tra il ruolo rivestito dall’essere ideale per il soggetto intelligente e
quello dello spazio nel caso del soggetto senziente. L’essere ideale e lo spa-
zio sono entrambi termini medi. Il problema dello spazio come forma del
principio senziente rimane aperto nelle pagine rosminiane e su di esso non
ci dilunghiamo. Ci limitiamo ad osservare che Rosmini sembra ipotizzare
che lo spazio sia quell’ente-termine che informa il principio senziente e fa
sì che gli altri termini, come il corpo e la materia, possano essere sentiti,
portando a compimento il principio senziente, allo stesso modo in cui, per
analogia, l’idea dell’essere è completamento del principio intelligente e ci
permette di conoscere ogni cosa. Tutto ciò dovrebbe avvenire sempre in
virtù della legge del sintesismo, secondo la quale «il principio dimora sem-
pre nel suo termine, come il termine dimora nel suo principio»120.
Tornando alla questione del rapporto tra principio e termine estraneo,
possiamo considerare che, proprio grazie alla legge del sintesismo, Rosmi-
ni può parlare di una «relazione essenziale di passività, o di recettività da
cosa straniera». Il termine estraneo «non è più che un eccitatore e anche su-
scitatore del principio come ci attesta l’osservazione de’ corpi e dell’idea
che sono termini stranieri». La relazione essenziale, mediante la quale il
termine estraneo costituisce il principio non mette a repentaglio l’unità on-
tologica dei due, ma fa sì che il principio soggettivo sia messo in condizio-
ne di svolgere la propria attività121.
119 A. Rosmini, Preliminare alle opere ideologiche, n. 30, cit., pp. 84-85: «L’essere
quantunque indeterminato è oggetto dell’umana intelligenza: l’anima è il sogget-
to. […] Ora ogni sapere, ogni verità e certezza l’abbiamo riposta nell’oggetto, e
non mai nell’anima soggetto. L’esistenza dell’anima intelligente e della facoltà
d’intendere e di ragionare di cui essa è dotata, sono appunto […] condizioni me-
ramente materiali, dalle quali per nulla dipende la verità e la forza d’ogni intuizio-
ne e dimostrazione».
120 A. Rosmini, Teosofia, lib. VI, n. 2155, cit., vol. V, p. 135. Sulla analogia tra spazio e
idea dell’essere si veda anche Id., Psicologia, n. 1196, cit., vol. II, p. 323: «si scor-
ge un’ammirabile analogia fra l’ordine animale, e dello spazio quale condizione
all’apprensione del corpo. Nell’ordine intellettuale vi ha l’intuizione dell’essere ide-
ale qual condizione preliminare alla percezione dell’essere reale. Quindi lo spazio
puro è un bel simbolo dell’essere ideale indeterminato: in quello si percepiscono
sensitivamente i corpi, in questo si percepiscono intellettivamente gli enti reali».
121 A. Rosmini, Teosofia, lib. VI, n. 2167, cit., vol. V, p. 147.
144 Rosminianesimo teologico
Ora, gli enti che entrano nella nostra esperienza sono tutti bisognosi di
un termine estraneo ad essi. Noi non possiamo mai sperimentare l’esisten-
za di principi relati al loro termine proprio, cioè a quell’ultimo atto che
completa l’ente. Ciò che sperimentiamo è sempre la presenza di enti che
hanno bisogno di un termine a loro estraneo per poter sussistere. L’univer-
so rosminiano e l’uomo stesso sono essenzialmente relazione ad altro, rap-
porto costitutivo con un termine estraneo che si identifica perfettamente
con il suo principio proprio, ma che ci rimane immediatamente incognito.
Si tratta dell’essere divino, nel quale le tre forme dell’essere ‒ ideale, reale
e morale ‒ dimorano l’una nell’altra infinitamente122.
5. Conclusioni
Come si è cercato di mettere in luce il pensiero di Rosmini affronta, pri-
ma di Lévinas e in modo approfondito alcune delle questioni poste dalla fe-
nomenologia del pensatore lituano, ma inserendole all’interno di un quadro
metafisico nel quale i temi del sentimento, della passività, della relazione
essenziale e costitutiva dell’Io con un termine estraneo a sé trovano la loro
coerenza, specialmente nel rapporto tra Dio e mondo, tra Creatore e crea-
tura. L’attività creatrice di Dio è quel nesso che permette di dare senso non
solo all’atto della percezione intellettiva, ma anche alle sue componenti
fondamentali che sono l’essere ideale e il sentimento. L’essere ideale è
dono dell’Essere assoluto a un Io che è soggetto a e di tale donazione, poi-
122 Ivi, lib. VI, n. 2168, vol. V, p. 148: «Il termine proprio all’incontro non è che l’ul-
timo atto dell’ente, e, per così dire, la punta dell’atto. Noi non abbiamo esperienza
di alcun ente il cui ultimo atto non abbia bisogno d’un termine straniero; e questa è
prova ontologica, che tutto l’universo a noi percettibile non è per sé, ma per altro
Tutti gli enti a noi cogniti finiscono adunque col loro atto in termini che non sono
dessi. Ma non ripugna il pensare un ente, il quale avesse tali termini, i quali fosse-
ro desso. E questo è quello che indubitatamente avviene nell’essere divino. Impe-
rocché quest’essere forz’è che abbia in sé tutte le entità, tutto ciò che è assoluta-
mente ente, e però egli deve contenere i tre modi categorici, esser ad un tempo
reale, ideale, e morale: forz’è che il reale sia infinito e contenga gli altri due modi,
e così si dica dell’ideale, e del morale; di guisa che l’ente reale sia desso, e l’ente
ideale sia desso, e l’ente morale sia desso sé fattamente che egli sia identico ne’ tra
modi. Così il termine medio, e il termine ultimo in un tale essere è un ente identico
col principio. Per altro egli è evidente che l’ente che ha un termine suo proprio, sa-
rebbe semplice ed uno, appunto per la perfetta identità che passerebbe fra l’ente
principio e l’ente termine, perocché sarebbe uno stesso ente principio ad un tempo
e termine, la distinzione sarebbe ne’ modi di essere, e non nell’essere stesso: la di-
visione si farebbe nell’astrazione, ma non nello stesso ente».
G.P. Soliani - «Sentire è essere» 145
ché è passivo di fronte ad essa. Il sentimento, invece, è originariamente
essere e non “al di là dell’essere”, poiché trova la sua collocazione essen-
ziale innanzitutto nel mondo ideale e solo in seconda battuta nella realtà
della creazione. Rosmini supera l’idea di un sentimento refrattario al pen-
sare, con la dottrina delle tre forme dell’essere, rimuovendo ogni pericolo
gnoseologistico che, a nostro modo di vedere, in Lévinas ritorna, attraver-
so Cartesio.
I temi legati all’essere reale e al sentimento in Rosmini nascondono cer-
tamente delle virtualità non ancora del tutto esplorate e disponibili alla co-
struzione di un dialogo con la fenomenologia francese del ‘900, ma occor-
re sempre considerare l’imprescindibile intonazione metafisica in senso
classico della riflessione del filosofo di Rovereto, senza la quale si rischia
di perdere il senso e lo scopo della sua proposta teorica.