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Filosofia (Socrate, Introduzione A Platone, Il Gorgia, Il Protagora, Il Menone, Il Fedone e La Repubblica)

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Socrate

La vita
 470-469 a.C. Nasce Ad Atene
 443 429 a.C. Ad Atene inizia l’era di Pericle
 431 a.C. Inizio della Guerra del Peloponneso
 432 a.C. Battaglia di Potidea. Socrate combatte e salva la vita al futuro tiranno Alcibiade
 423 a.C. Viene rappresentata la commedia di Aristofane «le Nuvole»
 421 a.C. Torna ad Atene e sposa Santippe
 421 414 a.C. Pace di Nicia tra Atene e Sparta. Inizio dell’ascesa di Alcibiade; ripresa delle ostilità tra
Sparta e Atene
 420/418 a.C. Responso dell’Oracolo di Delfi: Socrate è il più saggio tra gli uomini (di Atene)
 411 a.C. Governo oligarchico dei 400 della durata di 4 mesi, sostituito dall’Assemblea dei 5000
 408 a.C. Inizia l’interlocuzione tra Socrate e Platone
 406/405 a.C. Venne eletto per sorteggio al consiglio dei Pritani e si oppose al processo contro i
generali vincitori della battaglia delle Arginuse
 404 a.C. Fine della guerra del Peloponneso e colpo di stato del 30 tiranni, in cui figurava l’amico
Crizia
 403 a.C. Ad Atene viene restaurata da democrazia
 399 a.C. Processo e condanna a morte di Socrate
Le fonti e le testimonianze
 Le Nuvole di Aristofane (Aristofane è un conservatore, aristocratico ed è contro Pericle)
È importante perché:
1. È l’unica testimonianza prodotta quando Socrate era in vita. Narra seppur in maniera farsesca le
frequentazioni e le simpatie del Socrate giovane
2. Platone nel dialogo Fedone fa raccontare a Socrate dei suoi entusiasmi giovanili per la filosofia
della natura, confermando seppur in parte la descrizione del Socrate delle Nuvole
3. Le accuse mosse contro Socrate nel processo del 399 a.C. presentano una forte attinenza con le
pratiche del personaggio Socrate della commedia
Il contesto: Messe in scena alle Dionisie del 423, Le nuvole rappresentano il vertice della polemica
del grande commediografo Aristofane (444 circa - 385 a.C.) contro la nuova cultura dell’Atene del
suo tempo, in particolare contro i sofisti e Socrate, a essi accomunato. Poco importa qui quanto il
Socrate di Aristofane corrisponda a quello storico: agli occhi del conservatore Aristofane, il Socrate
sofista rappresenta il simbolo stesso della perversione dei sani costumi della polis, operata in
nome di una modernità che ha nella nuova paideia filosofico-retorica il suo strumento di
divulgazione e di successo. La separazione fra linguaggio, verità e giustizia attraversa tutta la
commedia e trova la sua acme nella celebre disfida dialettica che contrappone il Discorso migliore e
il Discorso peggiore, personificazione dell’antilogia sofistica. Mettendo in scena la retorica stessa e
mostrando la prevedibile vittoria del Discorso peggiore, Aristofane ci mostra quale dovesse essere,
nell’Atene del tempo, il punto di vista di un ceto intellettuale preoccupato dall’emergere di un
relativismo incontrollabile, percepito come una minaccia per la stessa vita civile e istituzionale della
città. Punto di vista forse non maggioritario, se è vero che Aristofane dovette subire lo smacco di
vedere classificata solo al terzo posto quella che giudicava la sua migliore commedia. Ed è
comunque una spia illuminante della vita culturale della città il fatto che il più severo detrattore
della sofistica e della retorica, in una parola dei logoi, abbia costruito proprio intorno ai logoi
un’intera commedia, fino a farli combattere fra loro secondo i dettami classici della prosopopea.
La trama: Non sapendo più a che santo votarsi per onorare i debiti, in buona parte dovuti alle
dissolutezze del figlio Fidippide, il meschino Strepsiade bussa alla porta del Pensatoio, dove Socrate
e gli altri filosofi (Socrate sospeso in una cesta) stanno in contemplazione delle cose celesti.
Strepsiade vuole imparare qualche trucco dialettico per imbrogliare i creditori in tribunale: corre
voce, infatti, che lì si insegni a vincere nei discorsi, giusti o ingiusti che siano (preferibilmente
ingiusti). L’allievo risulta però troppo stupido all’esame preliminare di Socrate, che lo scaccia.
Strepsiade convince allora il figlio Fidippide a frequentare la scuola dei discorsi: cosa che avviene
con successo, perché il giovane apprende fino in fondo le tecniche con le quali il Discorso peggiore
sconfigge il suo eterno rivale, il Discorso migliore, che si attarda inutilmente con rottami del passato
quali la virtù, la giustizia, la buona educazione. L’iniziativa, però, non ha l’esito sperato da
Strepsiade: a seguito di un banale diverbio, Fidippide bastona il padre e gli dimostra pure di avere
ragione a farlo. Per Strepsiade è troppo: dopo che le Nuvole (che costituiscono il coro) gli hanno
rivelato di avere condotto esse stesse le cose a questo punto, per punirlo di aver voluto imbrogliare
i creditori, egli dà fuoco al Pensatoio insieme ai suoi occupanti.
 L’accusa contro Socrate di Policrate (Policrate è un sofista e retore democratico)
È stata scritta cinque anni dopo la morte di Socrate.
È focalizzata sul disprezzo socratico per le procedure della democrazia e sulla vicinanza di Socrate ad
alcuni personaggi che parteciparono al regime dei Trenta Tiranni.
In risposta all’Accusa a Socrate si svilupperà la letteratura apologetica (ovvero di difesa) ad opera di
Platone, Senofonte e dei socratici minori.
 Senofonte (l’apologetica di Senofonte e dei socratici minori)
Ai testi di accusa i sostenitori di Socrate rispondono con scritti di difesa (le apologie) in cui
presentano la figura del maestro come un esempio di rigore morale e civile.
Per quanto riguarda lo storico Senofonte, che ebbe modo di conoscerlo non come discepolo ma
come semplice uditore, il ritratto che fornisce è molto povero dal punto vista filosofico anche se
ricco di dettagli biografici. Gli scritti di Senofonte in cui spicca la figura di Socrate sono i
Memorabili, Simposio, Economico, e Apologia di Socrate.
I cosiddetti socratici minori invece si focalizzarono prevalentemente sull’aspetto morale
dell’insegnamento socratico, spesso interpretandolo in maniera radicale.
 Platone
L’Apologia di Socrate e i 12 dialoghi giovanili (Critone, Eutidemo, Eutifrone, Teagete, Carmine, Liside,
Lachete, Ippia maggiore, Ippia minore, Ione, Protagora e Gorgia) di Platone rappresentano la
testimonianza più ricca sulla filosofia socratica.
I dialoghi giovanili di Platone, in cui Socrate compare sempre come personaggio principale, sono la
fonte preferenziale per la ricostruzione del pensiero socratico.
 Aristotele
Non conobbe direttamente Socrate, infatti, si è basato sulla testimonianza di Platone.
Il suo contributo è di tipo interpretativo: per Aristotele Socrate è lo «scopritore del concetto» , del
«metodo induttivo» della «virtù come scienza»
Di Socrate possiamo affermare con certezza:
Proveniva dal demos, figlio di uno scultore e di una levatrice (ostetrica).
Inizialmente fu sostenitore della democrazia, combatté nella guerra del Peloponneso, ed era solito
frequentare filosofi della natura come Anassagora e sofisti Protagora e Gorgia. Nella maturità si
disinteressò di filosofia della natura prediligendo l’indagine sulla dimensione umana e prese le distanze
dalla sofistica. In età avanzata criticò fortemente la democrazia, nel frattempo andata in crisi, senza
diventare un sostenitore della fazione oligarchica come accadde per alcuni suoi discepoli come Crizia. Non
scrisse nulla, ma il suo metodo dialogico influenzò profondamente i suoi contemporanei e diede le
coordinate di ricerca alla filosofia che si svilupperà successivamente.
Il responso dell’oracolo e il tema dell’ignoranza:
Secondo quanto racconta Platone nell’Apologia di Socrate, Cherofonte, un democratico risoluto, si reca a
Delfi e osa fare una domanda che Socrate così riferisce: «domandò se c’era nessuno più sapiente di me. E la
Pizia rispose che più sapiente di me non c’era nessuno». Il responso di Delfi lascia comunque in Socrate più
inquietudine che compiacimento: «e per lungo tempo rimasi in questa incertezza, che cosa mai il dio voleva
dire. Finalmente, sebbene controvoglia, mi misi a fare ricerca». Socrate comincia allora ad interrogare «tutti
coloro che hanno fama di sapienti»: politici, poeti e artisti, per scoprire, la chiave della soluzione
dell’enigma: «Sapere di non sapere».
1. Ad Atene non ci sono veri sapienti, ma specialisti in campi particolari del sapere;
2. Questi specialisti non sanno nulla riguardo il bene della città e non sono coscienti del loro non
sapere;
3. Socrate ha un sapere, un sapere di non sapere, mosso da un costante dubbio.
Solo chi sa di non sapere vuole sapere e il sapere si può raggiungere solo attraverso la ricerca, la quale
avviene attraverso il dialogo perché: non si è uomini se non tra gli uomini. L’autentica sapienza viene a
identificarsi con il desiderio di sapere.
Il metodo socratico:
 Il momento critico negativo dell’ironia:
Nell’esame a cui Socrate sottopone gli altri, coinvolgendo anche sé stesso, la sua prima
preoccupazione è di renderli consapevoli della loro ignoranza. A tale scopo egli si avvale dell’ironia
(eironéia, “simulazione” o “dissimulazione”, mostrarsi inferiori a quello che si è). L’ironia socratica è
gioco delle parti, attraverso il quale il filosofo, denudando le coscienze degli interlocutori soddisfatte
delle loro formule cristallizzate e delle loro pseudo-certezze, giunge a mostrare il sostanziale “non
sapere” in cui tali coscienze si trovano.
- I passaggi del momento ironico:
Dapprima Socrate si mostra inferiore a quello che realmente è. Egli finge di dare ragione
all’avversario, di cui adotta apparentemente il punto di vista. Nel corso della discussione egli si
mostra però dubbioso su tutto. In questo modo rende via via esplicite le contraddizioni
contenute nella posizione dell’interlocutore. Socrate rende il suo interlocutore consapevole di
essere in errore, non attraverso una confutazione diretta, ma guidando il dialogo in maniera che
la contraddittorietà della posizione inizialmente sostenuta risulti evidente e accettata dal suo
stesso avversario. A questo punto il dialogante, libero dai pregiudizi e dalle presunzioni iniziali, è
pronto al secondo momento, quello critico positivo detto della maieutica
 Il momento costruttivo positivo della maieutica:
È Platone ad attribuire a Socrate l’invenzione dell’arte maieutica, attraverso una celebre
similitudine: come la madre di Socrate, la levatrice Fenarete, aveva praticato l’arte di far partorire i
corpi, così il figlio possiede l’arte di far “partorire” le anime, cioè di far nascere nell’animo di chi
dialoga con lui la consapevolezza di sé. La verità, infatti, non viene data all’uomo dall’esterno. Essa
non è mai assicurata dal semplice possesso di qualche dottrina particolare. Per questo Socrate non
ha nulla da insegnare ai suoi discepoli. Saranno essi stessi a scoprire la verità, in quanto essi l’hanno
già in sé. Socrate può solo aiutarli, maieuticamente, a generarla dalla loro anima.
- I passaggi del momento maieutico:
Spogliatosi di pregiudizi e false credenze l’interlocutore è pronto per un nuovo viaggio.
L’interlocutore inizia ad esaminare sé stesso. La verità potrà essere partorita solo da questa
autoanalisi, perché tutti gli uomini portano la verità dentro di sé.
«Conosci te stesso»: Filosofia intesa come indagine sull’uomo. La ricerca il dialogo con gli uomini, cioè
all’interno dei limiti dell’esperienza umana. La conoscenza è un’indagine senza fine, perché una vita senza
ricerca non è degna di essere vissuta. Socrate non si professò mai maestro, proprio perché non aveva
nessuna dottrina da insegnare.
La ricerca della definizione
Conoscere sé stessi e sapere di non sapere sono quindi alla base di un’indagine che mira a trovare una
definizione. Il dialogare di Socrate presuppone discorsi brevi, basati su continue domande finalizzate a
individuare il «che cosa è?», ossia un significato preciso di quello di cui si sta parlando. Si tratta di un
procedimento diverso da quello dei sofisti che praticavano invece discorsi lunghi, orientati a impressionare e
suggestionare l’interlocutore che rimaneva passivo al loro cospetto. Per Aristotele la ricerca della
definizione socratica è stata il primo procedimento volto alla formalizzazione di un concetto, e il suo
continuo domandare la prima formulazione del ragionamento induttivo, ovvero il risalire a una definizione
universale dopo aver esaminato un certo numero di casi particolari attraverso questa successione:
enumerazione, analisi, astrazione e conservazione.
La ricerca del concetto di bene/virtù
Il bene (o la virtù) si configura con il concetto dei concetti, l’universale e necessario fine della vita umana.
Alla domanda che «cosa è il bene/ la virtù?» solitamente si elencavano i comportamenti virtuosi: onorare le
leggi, rispettare i genitori, essere fedeli al proprio partner, compiere al meglio il proprio lavoro...
Gli esempi di virtù però non rispondevano alla domanda, e non permettevano di definire a livello universale
(che vale in tutti i casi) e necessario (che vale sempre) il concetto di virtù, però permettevano di poter
identificare cosa c’era in comune in tutti questi esempi.
L’intellettualismo etico di Socrate
Dalla teoria della virtù come scienza Socrate deriva i “paradossi”, rimasti celebri nella storia del pensiero
morale, secondo cui «nessuno pecca volontariamente» e «chi fa il male lo fa per ignoranza del bene».
Affermando che nessuno fa il male volontariamente, Socrate intende dire che nessuno lo compie
scientemente, ossia sapendo davvero di farlo, poiché chi opera il male è soltanto un individuo che ignora
quale sia il vero bene. Infatti, chi agisce fa sempre ciò che ritiene essere per lui un bene. Di conseguenza, se
scambia ad esempio un vizio o un’intemperanza per un bene, ciò è dovuto alla sua ignoranza, che non gli
consente di cogliere, al di là di un’apparenza momentanea di piacere, la futura realtà di patimento.
La mancanza di una definizione positiva di bene
Per Socrate il bene è scienza, ma Socrate non da una definizione positiva del bene, a questa mancanza
(aporia) gli studiosi hanno dato tre tipi di spiegazioni:
1. La filosofia di Socrate non ha contenuti, è solo un’esortazione a una vita virtuosa.
2. È una filosofia del dubbio, che spinge l’analisi del proprio animo per superare pregiudizi e false
opinioni
3. La filosofia di Socrate ci indica che il Bene risiede nella nostra anima, e sta a noi partorirlo.
Mezzi e scopi del dialogo socratico
usa come mezzi:
 l'ironia = fingersi ignorante di fronte all'interlocutore adulandone le conoscenze
 la confutazione (in greco élenchos) = opporre una serie di obiezioni alle tesi dell'interlocutore
 la brachilogia = fare discorsi brevi, sorretti da domande frequenti e precise
ha come scopi:
 la maieutica = aiutare l'interlocutore a "partorire" la verità che possiede dentro di sé
 la definizione = determinare i tratti essenziali di una cosa, rispondendo alla domanda "che cos'è?"
Dal dialogo socratico al metodo induttivo
Il metodo induttivo:
1. Enumera tutti i particolari attinenti all'oggetto
2. Osserva e Analizza tutte le caratteristiche osservate
3. Astrae, ovvero prescinde dalle caratteristiche particolari
4. Conserva solo le caratteristiche comuni attinenti alla classe dell'oggetto indagato attraverso le quali
possiamo costruire una definizione universale e necessaria dell'oggetto
La virtù/il bene: in generale è lo stato ottimale di una cosa. Ma cosa è la virtù nell'uomo? Queste le
differenze tra Socrate e Sofisti:
nei sofisti
 è una tecnica, cioè uno strumento, un'arte che si può acquisire.
 Si usa nella vita politica in quanto è la capacità di persuadere gli altri
 Può essere praticata da tutti perché tutti la possono imparare da un bravo maestro
 Può portare alla felicità, intesa come successo nella vita della polis
in Socrate
 è conoscenza, cioè il fine ultimo della vita dell'uomo
 Si realizza nella vita politica in quanto è la capacità di dialogare con gli altri
 Può essere praticata da tutti perché consiste nella ricerca della verità che caratterizza la natura di
ogni uomo
 Coincide con la felicità, intesa come esercizio di una vita consona alla natura umana
Virtù e vizio in Socrate
Il RAZIONALISMO MORALE DI SOCRATE
La virtù
 è ricerca (richiede impegno e fatica)
 è scienza (si fonda sulla ragione e sulla conoscenza)
 è insegnabile (è comunicabile a tutti)
 è unica (le diverse virtù sono espresioni dell'unica scienza del bene e del male)
Il vizio
 è ignoranza del vero bene (nessuno fa il male volontariamente)
Socrate e i sofisti:
Affinità:
 Attenzione per l’uomo e disinteresse per la Natura
 Tendenza a cercare dentro l’uomo i principi del pensiero e dell’azione
 Mentalità razionalista, spregiudicata e anticonformista
 Inclinazione verso la dialettica e il paradosso
Divergenze:
 Rifiuto a concepire la filosofia come retorica ed esibizionismo verbale fine a sé stesso
 Rifiuto del relativismo conoscitivo e morale, ricerca della verità e del bene
 Rifiuto del discorso lungo (macrologia) e preferenza per il discorso breve costituito da domande e
risposte
 Ricerca di una definizione condivisa e universale dei concetti per contrastare il relativismo
conoscitivo e morale proprio dei sofisti
 Sapere come eterna ricerca e non come contenuto da trasmettere
Processo a Socrate
 Avvenne nel 399 a.C. a seguito della caduta del regime dei Trenta Tiranni e della restaurazione della
democrazia
 Accusatori: Meleto, giovane letterato in cerca di fama che denunciò su mandato di due esponenti di
rilievo del regime democratico restaurato Anito e Licone
 Capi d’accusa: corrompere la gioventù insegnando dottrine che istigavano al disordine sociale; non
credere agli Dèi della città; introdurre nuove divinità
 Condanna richiesta dall’accusa: pena di morte. Ad Atene la condanna a morte era in uso per la
maggior parte dei reati, ma poteva essere commutata in esilio.
 Finalità del processo a Socrate: i democratici a seguito della sconfitta con Sparta e alla caduta
dell’oligarchia dei Trenta tiranni si richiamarono ai valori tradizionali, Socrate in questa nuova fase
rappresentava un personaggio scomodo per il suo modo di filosofare e per le critiche che aveva
espresso al modello democratico.
Socrate e la democrazia
Da sostenitore della democrazia nel corso degli anni e soprattutto a seguito della lunghissima e tragica
Guerra del Peloponneso Socrate sottopone a una serrata critica il regime democratico. Il regime
democratico veniva criticato in quanto:
 Mancava di finalità etiche ed era concentrato esclusivamente sulla ricchezza
 Allontanava i migliori dal governo della città a causa di procedure sbagliate, quali per esempio il
sorteggio
 Spingeva i cittadini a concentrarsi solo sui propri interessi immediati
Tali critiche erano avvertite come pericolose sia per l’autorevolezza di Socrate sia per la loro forza logica, ma
anche per il fatto stesso che gran parte della popolazione ateniese aveva una forte diffidenza verso il regime
democratico.
Socrate e i Trenta Tiranni
Se è vero che tra gli interlocutori di Socrate erano presenti personaggi che presero parte al colpo di stato
oligarchico, è altrettanto noto che Socrate non si compromise con questo regime. Rifiutò l’ordine impostogli
dagli oligarchi di catturare e giustiziare un esponente democratico. In seguito gli venne proibito di dialogare
con i giovani. Non venne processato perché la democrazia fu restaurata proprio quando la relazione tra
Socrate e gli oligarchi stava diventando sempre più tesa.
Socrate e la democrazia restaurata
Socrate da giovane era stato accusato dal conservatore Aristofane di esprimere una cultura sofistica,
naturalistica e filodemocratica. Nel 399 a.C. invece, i democratici si appellarono ai valori tradizionali e
processano Socrate come l’esponente principale di una nuova cultura sofistica diventata fautrice
dell’oligarchia.
Socrate, la religione e i valori tradizionali
 Rispetto e ossequio per la religione della polis
 Credenza in una mente ordinatrice di cui le singole divinità sono manifestazioni particolari
 Il Daimon come «divinità interiore»: guida trascendente della condotta umana
Accettazione della condanna e la morte
 Socrate si dichiara estraneo ai capi d’accusa ma decide di non scendere a compromessi: rivendica le
critiche alla democrazia ateniese, l’estraneità nei confronti del regime dei Trenta tiranni, rigetta
l’opzione dell’esilio.
 Richiede ai giurati il massimo onore riservato agli eroi della città: il pasto gratuito nel Pritaneo per
tutto l’anno.
 Coerentemente alla sua impostazione filosofica, che vedeva la virtù dell’uomo concretizzarsi nella
vita politica della propria città e nel rispetto delle leggi, Socrate accetta la condanna a morte.
 Accettando la condanna a morte Socrate ribalta tutto l’impianto accusatorio, accusato di istigare i
giovani contro la polis e gli dèi, egli preferisce la morte in nome del rispetto universale delle leggi.

PLATONE
La vita
 427 a.C. Nasce Ad Atene con il nome di Aristocle
 407 a.C. Incontro con Socrate
 404 a.C. Governo dei Trenta tiranni
 399 a.C. Processo e condanna a morte di Socrate, fuga di Platone a Megara presso Euclide
 388 a.C. Viaggio In Magna Grecia e Primo soggiorno a Siracusa presso Dionigi Il vecchio
 387 a.C. Ritorno ad Atene e apertura dell’Accademia
 367 a.C. Secondo viaggio a Siracusa presso Dionigi il Giovane
 361 a. C. Terzo viaggio a Siracusa e poi ritorno ad Atene
 347 a.C. Muore ad Atene
Origine familiare e prima educazione civile
Nasce nel 427 da una famiglia appartenente all’antica aristocrazia ateniese con il nome di Aristocle. Fu il suo
maestro di ginnastica a chiamarlo Platone ( dal greco πλατύς, che significa "ampio«) per la sua larghezza di
spalle. Intorno al 408 a.C. come molti giovani della sua stessa estrazione entra in contatto con Socrate, con
cui condivide la critica alla democrazia. Il governo dei Trenta tiranni appare al giovane Platone una grande
opportunità, ma la brutalità del regime fece tramontare subito l’interesse. Al crollo del regime dei Trenta
tiranni i suoi interessi politici si spostano sulla democrazia restaurata che stava dando segnali di
moderazione e di equilibrio. Il processo e la condanna a morte di Socrate da parte del regime democratico
restaurato segna una svolta decisiva nella formazione di Platone.
La reazione alla morte di Socrate
Socrate era andato incontro alla morte rifiutando la fuga per suscitare negli ateniesi un moto di
indignazione e per gettare discredito sul regime democratici. Ma la città rimase indifferente. Tutto ciò
convince Platone che Socrate ha sbagliato nel ritenere che il bene, la verità, debba essere frutto di una
ricerca collettiva a cui idealmente tutta la città avrebbe dovuto partecipare. Rifiutandosi per diversi anni di
risiedere ad Atene, Platone insieme a molti altri discepoli si reca a Megara, poi prosegue in solitaria un
viaggio in Egitto.
I viaggi a Taranto e Siracusa
A differenza di altri discepoli come Antistene e Aristippo, Platone continua a considerare la politica come la
dimensione stessa dell’umanità e dell’uomo. I viaggi a Taranto e a Siracusa sono finalizzati alla conoscenza
dei regimi aristocratici sopravvissuti. A Taranto conosce il pitagorico Archita e a Siracusa il Tiranno Dionigi il
Vecchio. Proprio a Siracusa incontra Dione tramite il quale raccoglie un gruppo di seguaci. Platone si recò
altre due volte a Siracusa, alla corte di Dionigi il Giovane con l’intenzione di riuscire a influenzare
filosoficamente la politica della città. Tutti e due viaggi furono inconcludenti, e non mancarono momenti di
tensione e di pericolo per lo stesso Platone.
La fondazione dell’Accademia
Tornato ad Atene Platone si impegna nella costruzione di un centro di studi finalizzato alla realizzazione di
una grande opera collettiva di sistematizzazione delle conoscenze in funzione etico politica: L’Accademia,
che prende il nome dalla sede in cui si stabilisce, i giardini sacri dell’antico eroe Akadémos.
L’Accademia è insieme istituzione scientifica, pedagogica e politica, si studia la geometria, l’aritmetica e
l’astronomia ma la politica rimane la vera scienza in quanto indirizzata a finalità eticamente qualificate. Per
non destare sospetti di politici e di autorità religiose tradizionali essa si presenta come una comunità
religiosa dedita al culto delle Muse.
Tra oralità e scrittura La forma dialogo
Platone ci ha lasciato un Apologia di Socrate scritta da giovane, un corpus di 34 dialoghi e un ampio trattato.
Le leggi compiuto al termine della sua vita. La forma dialogica scelta da Platone per la quasi totalità delle
sue opere non è da intendersi come una semplice forma letteraria, ma è l’espressione necessaria che
scaturisce dal modo stesso in cui Platone intende la filosofia: come una ricerca sempre aperta.
Le caratteristiche dei dialoghi
Ogni dialogo si svolge tra Socrate e uno o più interlocutori, il principale dà il titolo al dialogo. Nei dialoghi
giovanili il personaggio Socrate esprime il suo pensiero e il suo metodo, infatti non si propongono
concezioni nuove, ma si limitano a smantellare le concezioni degli avversari (in genere sofisti e sostenitori
della democrazia). Nei dialoghi della maturità la figura di Socrate diviene portavoce della filosofia platonica.
Nei dialoghi della vecchiaia, la figura di Socrate si ridimensiona e il dialeghestai si trasforma in una tecnica
dimostrativa: la dialettica.
L’assenza di Platone e la maschera di Socrate
Perché Platone rinuncia a parlare in prima persona nei suoi scritti?
1. La prima ragione è di tipo affettivo/psicologico si può individuare nella volontà di tener vivo il
ricordo del maestro
2. La seconda ragione è più strettamente filosofica: Platone pensava infatti che ogni aspetto della sua
dottrina fosse stato in qualche modo implicito nei presupposti e negli scopi etici e politici
dell’insegnamento socratico
Filosofia e Mito
Accanto alla forma dialogica e al metodo del “mobile” filosofare, un’altra delle caratteristiche salienti
dell’opera platonica, soprattutto nei dialoghi della è l’uso dei “miti”, ossia di racconti fantastici attraverso cui
vengono esposti concetti e dottrine filosofiche. In un primo senso il mito è uno strumento di cui il filosofo si
serve per comunicare in maniera più accessibile e intuitiva le proprie dottrine all’interlocutore.
In un secondo senso, più profondo, il mito è un mezzo di cui il filosofo si serve per poter parlare di realtà che
vanno al di là dei limiti entro i quali l’indagine rigorosamente razionale deve contenersi.
Gli scritti platonici
1. Scritti giovanili o scritti socratici sono stati composti tra la morte di Socrate e i viaggi in Magna
Grecia. La figura centrale è Socrate, mentre il tema centrale è la difesa del messaggio socratico e
l’analisi dei problemi che il maestro presentava. Lo stile dialogico è confutatorio e si distingue in
tutta la sua vivacità e ricchezza drammatica. Da questo gruppo vanno distinti l’Eutidemo, Gorgia e
Menone, in questi dialoghi Socrate incomincia a presentare delle tesi. Vengono distinti perché sono
dialoghi della transizione e segnano il passaggio ai dialoghi della maturità.
2. Dialoghi della maturità (Fedone, Simposio, Repubblica II-X, Fedro) sono stati composti tra il primo e
il terzo viaggio. In questi dialoghi Platone elabora la sua originale filosofia (teoria delle idee, teoria
dell’anima, teoria dello stato), Socrate divenne quindi il portatore della filosofia platonica. Lo stile
dialogico acquista compostezza e rigore espositivo. Platone ricorre al mito come proiezione
allegorica del suo pensiero.
3. Scritti della vecchiaia (Parmenide, Teeteto, Sofista, Politico, Filebo, Timeo, Crizia, Leggi, Lettere)
sono stati composti nell’ultimo periodo della sua vita. In questi testi avvia un complesso processo di
revisione della sua filosofia. Al posto dello stile dialogico emerge la dialettica intesa come rigorosa
tecnica dimostrativa. La figura di Socrate passa in secondo piano, le influenze di Parmenide e della
scuola Pitagorica si fanno preponderanti.

PROTAGORA
Il Protagora è il più lungo rispetto agli altri dialoghi giovanili, più maturo dal punto di vista culturale, più
vivace dal punto di vista letterario. Probabilmente il Protagora rappresenta, dopo l’Alcibiade primo, una
sintesi del pensiero socratico sparso nei precedenti dialoghi giovanili. Il dialogo vede Socrate sentirsi
chiedere di Alcibiade, creando così una sorta di continuum con uno dei dialoghi precedenti. Poi Socrate
passa a parlare del suo incontro con Protagora presso la casa del ricco Callia (dove per l’appunto ha
incontrato Alcibiade l’ultima volta), reso possibile dall’invito del giovane Ippocrate, desideroso di conoscerlo
per diventare anch’egli sofista. Il dialogo tra Socrate e Ippocrate che intende diventare sofista ha la funzione
di creare un dialogo preliminare a quello tra Socrate e Protagora necessario per enunciare alcune premesse
che verranno poi approfondite.
Il dialogo preliminare con Ippocrate: Che cosa è la sofistica?
Ippocrate risponde che è l’abilità di parlare bene agli altri, Socrate gli fa osservare che questa non è una
risposta: il bravo suonatore di cetra deve parlare bene per spiegare le regole per suonare nel modo migliore.
Per rispondere alla domanda su cosa sia la sofistica occorre allora specificare su quale argomento e a che
scopo essa è un parlar bene. Ippocrate ammette di non essere in grado di fare queste specificazioni, e di
trovarsi confuso nel precisare chi sia e cosa insegni davvero Protagora e Socrate lo rimprovera aspramente.
Se, dice Socrate ad Ippocrate, sei disposto a pagare un uomo soltanto per la sua fama, senza aver
considerato in che cosa ti guiderà e se la sua guida ti renderà migliore o peggiore, allora non hai nessuna
cura di te stesso.
L’incontro con Protagora
Avviene nella dimora di Callia, li si trovano riuniti i maggiori esponenti del pensiero sofistico. Riguardo al
tema del che cosa insegna la sofistica Protagora afferma che il suo insegnamento fa progredire l’anima verso
il meglio, definendo: Il meglio dell’anima come la virtù; La virtù come capacità di condursi nelle relazioni
collettive e influire sulla vita politica. Socrate concorda con Protagora sull’individuazione dell’ anima e della
virtù, ma avanza un’obiezione su un altro piano:
La virtù, secondo lui, è una disposizione dell’anima non insegnabile , come dimostra il fatto che su di essa
sono chiamati a decidere tutti, e non solo alcuni diventati competenti per gli studi fatti come in altri campi.
La questione dell’insegnabilità della virtù
La parola virtù traduce il termine greco aretè, che indica un’eccellenza della persona, originariamente
ritenuta effetto della sua nobile nascita, rispetto alla massa degli uomini , e che garantisce una particolare
capacità di guidare la collettività sociale. Nel 390 a. C., quando il dialogo è stato presumibilmente scritto, il
tema del possibile insegnamento della virtù, intesa come virtù politica, era molto sentito ad Atene.
L’obiezione socratica che la virtù non è insegnabile toglie il senso alla sofistica intesa come pratica
pedagogica, perché ciò che la sofistica vuole insegnare non si può insegnare.
La risposta di Protagora
Protagora, nella narrazione platonica, risponde a quest’obiezione socratica con una serrata argomentazione
razionale, e ciò mostra come Socrate e Platone lo considerino interlocutore di livello nettamente superiore
ai comuni sofisti, giudicati invece con disprezzo. Protagora dice che ciò che è giusto, nel senso generale di
virtù, si apprende non da esperti di una specifica disciplina, ma, come la lingua materna, dalla collettività in
cui si vive. Se tutti i cittadini di una città ellenica sono parlanti greco, non tutti invece coltivavano la virtù, e
quelli che la coltivano lo fanno in gradi diversi, per cui quelli che per puro impegno personale sono andati
più avanti degli altri sulla via della virtù, sono in grado di insegnarla agli altri.
Il mito di Prometeo
Per illustrare il suo pensiero Protagora ricorre al mito di Prometeo. Per distribuire le risorse alle specie
viventi Zeus si affida a Epimeteo e a Prometeo, due semidei figli dei Titani. Inizialmente è Epimeteo «colui
che rilette dopo» a distribuire risorse alla specie vivente (ad alcuni la velocità, ad altri le ali, ad altri il
mimetismo...) ma arrivati alla specie umana le risorse sono finite. Prometeo «colui che riflette prima» si
rende conto che la specie umana scomparirà presto, e allora per evitarlo va a rubare a Efesto il fuoco e le
tecniche per utilizzarlo. Ma considerato che non si può rubare a un Dio, Zeus decide di punirlo con una pena
orrenda e non toglierà agli esseri umani il fuoco e le tecniche, ma ne aggiungerà altri due il rispetto e la
giustizia.
La virtù è insegnabile?
La posizione di Protagora
Alla luce del racconto mitico di Protagora tutti gli esseri umani hanno un’interna disposizione al rispetto e
alla giustizia. Molti di loro non usano questa disposizione, ma tutte le leggi delle varie città puniscono la
violazione delle virtù civiche. Chi non rispetta le leggi in genere afferma al contrario di rispettarle. Ciò rileva
che gli esseri umani in qualche modo sanno che porsi fuori dalla virtù significa porsi fuori dall’umanità. Lo
sanno senza poter indicare un loro specifico maestro di virtù, così come sanno parlare greco senza poter
indicare uno specifico maestro di lingua. Ciò però non toglie che coloro che più degli altri hanno coltivato la
virtù, possano insegnare a fare altrettanto agli altri.
L’obiezione di Socrate
Socrate elogia Protagora però dice che un solo punto del suo discorso non gli è parso chiaro. Protagora ha
parlato di rispetto, giustizia, saggezza, santità come virtù distribuite da Zeus a tutti gli uomini. Ma che
rapporto intercorre tra queste molteplici virtù e la virtù come tale? Le molteplici virtù sono aspetti differenti
di un’unica Virtù? (Virtù come unica e indivisibile). O la virtù è semplicemente un contenitore di molteplici
virtù indipendenti tra loro? (virtù come concetto contenitore). Protagora si dice sicuro che è la seconda
opzione che corrisponde al vero: La virtù contiene tante virtù particolari, ciascuna delle quali rimane tale se
un’altra non c’è più.
Protagora cade in contraddizione
Socrate, su questo punto incalza Protagora fino a costringerlo a cadere in contraddizione con quanto detto
in precedenza: Sulla base della preferenza di Protagora (virtù come contenitore ), chi è divenuto da santo
empio, può tuttavia essere giusto, e chi è ingiusto può avere saggezza, per cui si dovrebbe concludere che la
giustizia può essere empia e l’ingiustizia saggia. Protagora cade in contraddizione
Le tre tesi di Socrate
Secondo Socrate ogni virtù è tale in quanto disposizione al bene proprio come lo è ogni altra virtù, ed è per
questo che la virtù è unica. Si perviene così alle tre più famose tesi socratiche sulla virtù: La virtù è
conoscenza, perché la disposizione al bene, di cui consiste, implica sapere cos’è il bene, e ciò implica un atto
conoscitivo che lo indentifichi come tale. La conoscenza del bene è di per sé stessa virtù. Essa non è il
presupposto teorico di una virtù che si determinerebbe poi nella sfera pratica, perché il bene è per
definizione il desiderabile, per cui conoscerlo è già volerlo. Nessuno commette volontariamente il male,
perché, se conoscere il bene è volerlo, si può commettere il male soltanto scambiandolo per bene.
Socrate e la cura di sé
L’ultima tesi pone il problema di come sia possibile credere bene un male, e viceversa, credere male un
bene. Socrate risolve la questione dimostrando come i nostri giudizi possano essere condizionati dal
carattere distorcente del tempo: ciò che torna utile nell’immediato appare più utile di quanto in realtà non
lo sia, mentre se l’utilità è proiettata in un tempo futuro, questa appare tanto minore quando tale futuro è
lontano. L’uomo privo di virtù quindi , si procura il suo male cercando il suo bene, è privo di cura di sé in
quando non sa proiettare il bene nel futuro. La vera cura di sé si risolve nella cura della virtù intesa come
sforzo continuo volto alla conoscenza del bene.
Socrate cade in contraddizione.
Una virtù che è conoscenza, deve essere di necessità insegnabile, perché insegnare significa appunto
condurre alla conoscenza. Protagora, accortosi del vicolo cieco in cui si è messo Socrate, difende la
legittimità dei compensi in denaro per i suoi insegnamenti in quanto si ritiene un abile suscitatore di una
crescita interiore verso la virtù, senza pretendere di esserne il maestro e di insegnarla in senso scientifico.
Alla fine del dialogo si ha dunque un curioso capovolgimento delle posizioni iniziali dei due interlocutori.
Socrate per difendere la sua concezione della virtù come conoscenza deve dire che è insegnabile e quindi
abbandonare la sua tesi iniziale.

Gorgia - Il tema socratico della felicità


Il Gorgia: un dialogo di transizione
Il Gorgia, insieme al Menone è per stile, contenuti e struttura, un dialogo di transizione, che segna il
passaggio del pensiero di Platone dalla fase giovanile alla fase della maturità. Lo stile è quello giovanile, ma
Socrate svolge un ruolo inedito (tipico dei dialoghi della maturità) perché con i suoi interventi non si limita a
confutare le false opinioni circa la retorica, la felicità, la giustizia e altro ma: propone definizioni che
concludono positivamente la discussione D’altra parte il Gorgia non è un dialogo della maturità, perché non
ci sono cenni alla teoria delle idee che, come sappiamo da Aristotele, è la teoria intorno a cui ruota l’intera
filosofia del Platone maturo.
La datazione del dialogo
Il Gorgia è il primo dialogo in cui è evidente l’influenza del pitagorismo, che, ricordiamolo, Platone ha
conosciuto nel corso del suo primo viaggio in Magna Grecia.
Perciò è stato scritto dopo il suo viaggio a Taranto, nel 388 a.C., e dopo il primo soggiorno a Siracusa, ma
prima della fondazione dell’Accademia, che avvenne al suo ritorno ad Atene nel 387. Che sia un’opera
anteriore alla fondazione dell’Accademia lo desumiamo da una testimonianza di Diogene Laerzio che
riferisce che Platone ha inaugurato l’Accademia leggendo il Menone, una sorta di manifesto filosofico della
nuova istituzione, basato su un innatismo della conoscenza precursore della teoria delle idee.
Struttura e personaggi del dialogo: Gorgia, Polo e Callicle
È il più lungo dei dialoghi socratici, si articola in tre tempi, corrispondenti ad altrettanti dialoghi che Socrate
conduce in successione con tre interlocutori diversi per cultura, temperamento e ingegno: Gorgia, Polo e
Callicle
- Gorgia è un sofista famoso, massimo rappresentante della sofistica e della retorica, molto attivo con
il suo insegnamento nella cultura e nella vita pubblica ateniese. Gorgia si mostra sensibile alle
obiezioni di Socrate riguardo al valore e alla finalità della retorica.
- Polo, discepolo di Gorgia, è giovane e irruento, ma non ha l’ingegno del maestro. Di fronte alle
critiche di Socrate, Polo si disorienta e non riesce più a proseguire la discussione.
- Callicle. Non è chiaro se sia un personaggio reale o immaginario, di certo Callicle è la figura più
incisiva dopo quella di Socrate. Callicle è giovane come Polo, ma spicca per intelligenza e cultura,
sostiene tesi apparentemente scandalose sulla natura della morale e della felicità, rivendicando
senza ipocrisia quello che i più pensano ma pochi hanno il coraggio di ammettere. Il confronto con
Socrate è aspro, eppure Socrate mostra simpatia per la sua dote molto rara: il coraggio della
sincerità
L’ambientazione e l’incipit del Gorgia
L’ambientazione del dialogo si presenta con contorni non ben definiti. Nella casa di Callicle , Gorgia ha
tenuto una conferenza davanti a un pubblico numeroso. Socrate, accompagnato da Cherofonte, desidera
assistervi, ma giunge in ritardo e se ne duole. Callicle lo rassicura, dicendo che Gorgia è suo ospite e non si
rifiuterà di tenere nuovamente il suo discorso. Socrate risponde che non chiede tanto, ma che intende solo
rivolgere qualche domanda al maestro, che si mostra disponibile a rispondere: Poiché affermi di essere
esperto dell’arte retorica e capace di insegnarla anche agli altri, qual è mai l’oggetto della retorica? L’arte del
tessitore, per esempio, ha per oggetto la confezione di abiti, la musica la composizione dei canti... e la
retorica di che cosa mai è arte?
Il dialogo con Gorgia – prima parte
Gorgia pensa di cavarsela facilmente «la retorica è l’arte dei discorsi», ma Socrate lo incalza per avere una
definizione più precisa. Gorgia specifica che è l’arte di valersi della parola per persuadere i cittadini nei
tribunali, nel Consiglio, nell’Assemblea, e porre ognuno in grado di acquistare potere e autorità nello Stato,
e per certo aggiunge «per questo potere tu avrai servo il medico, servo il maestro di ginnastica; e si vedrà
che codest’uomo d’affari avrà fatto gli affari per gli altri e non per sé, ma per te che possiedi l’arte della
parola e il potere di persuadere la moltitudine». Socrate obietta che «non la sola retorica è artefice di
persuasione», lo è anche l’aritmetica, che persuade intorno ai numeri. Gorgia dice che persuade su ciò che è
giusto e ingiusto. Replica Socrate: «su ciò che giusto e ingiusto, ci sono due persuasioni possibili, una diretta
a insegnare e a produrre conoscenza reale, l’altra diretta a far credere e a produrre una semplice credenza.
Gorgia è costretto ad ammettere che la persuasione come la intende lui è finalizzata a produrre una
semplice credenza, di cui sia possibile servirsi a fin di bene, ma anche a fin di male. Ma come il maestro di
scherma non è responsabile se l’allievo si serve dell’arte appresa per nuocere, il retore non è responsabile
dell’uso ingiusto che della retorica si può fare.

Il dialogo con Gorgia – seconda parte


Quest’accenno alla giustizia consente a Socrate di ampliare la riflessione: «la retorica, pare, è artefice d’una
persuasione atta a farci credere, ma non a istruirci sul giusto e sull’ingiusto». Ma come si può, prosegue
Socrate, parlare con la stessa efficacia del giusto e dell’ingiusto, se non se ne ha conoscenza reale? E se chi
volesse apprendere l’arte del discorso persuasivo non avesse questa conoscenza preventiva, dovrà essere il
maestro di retorica a insegnarla? A questo punto Gorgia si trova in difficoltà: Non osa sostenere che la
conoscenza del giusto sia superflua per chi si dedichi alla retorica, ma, con tale concessione, finisce con il
trovarsi in contraddizione: Se il retore insegna ciò che è giusto nell’arte della parola, chi impara da lui non
può usare in maniera ingiusta quest’arte, (il parallelismo con l’arte della scherma decade). Questa
contraddizione rimette in discussione la definizione di retorica come arte di persuadere su ciò che è giusto e
ciò che è ingiusto.
Il dialogo con Polo – L’Irrompere di Polo e la distinzione tra pratica e
arte
A questo punto entra in scena, bruscamente, il giovane Polo; questi accusa Socrate di aver preparato delle
vere e proprie trappole con i suoi discorsi, approfittando in modo scorretto della concessione che gli ha fatto
Gorgia. E aggiunge: «poiché Gorgia ti è parso impacciato nel definire la retorica, dì tu che ne pensi»
Stimolato dalla vivacità di Polo , Socrate accetta di essere interrogato e risponde che la retorica è una pratica
e non un’arte Il termine arte traduce quello greco di técne: la técne è un’attività volta a ottenere risultati
pratici, ma guidata da una conoscenza di tipo superiore, Esempio di técne è la medicina. Socrate nega che la
retorica sia técne, perché: «la retorica non ha bisogno di conoscere la natura vera delle cose: basta aver
escogitato qualche mezzo di persuasione, per cui agli occhi di chi non sa, si abbia l’apparenza di sapere più
di chi sa» Conclude Socrate: «la retorica è un’occupazione che con l’arte non ha nulla in comune , ma è
l’esercizio di uno spirito sagace, ardito, e per natura abile a mettersi in rapporto con la gente. Io la chiamo,
in sostanza, adulazione».
Il dialogo con Polo – la retorica consente di ottenere quello che si
vuole?
Polo è sconcertato dalla conclusione di Socrate, che declassa i retori al livello di volgari adulatori. A lui, però
non interessa discutere del valore in sé della retorica, e preferisce spostare la discussione sui vantaggi pratici
della retorica. Per Polo è auspicabile essere maestri di retorica, perché grazie ad essa è possibile ottenere
quello che si vuole, e quindi essere felici., per Polo i retori: «possono al pari dei tiranni, mettere a morte chi
vogliono, e privare delle sostanze e bandire dalla città chi loro talenta»» Obietta Socrate: «Caro Polo, io
sostengo che gli oratori e i tiranni hanno pochissimo potere nella città ... giacché non fanno, per così dire,
nulla di ciò che vogliono pur facendo quello che ad essi pare utile». Socrate insiste su questo aspetto:
quando noi vogliamo qualcosa, vogliamo quello che facciamo o lo scopo a cui il nostro fare è finalizzato? Per
esempio l’ammalato non vuole la medicina disgustosa che il medico gli ha prescritto, ma la salute che spera
di riottenere grazie a quella medicina: la sua scelta di assumere il farmaco è dettata dalla sua libera volontà
allo scopo di ottenere il bene della guarigione» Anche l’assassino non vuole il delitto per sé stesso, né certo
vuole il carcere, ma uccide perché presume di trarre da quell’atto un beneficio. . Diversamente
dall’ammalato, però l’assassino non comprende le conseguenze del suo atto, e invece del bene troverà il
male del carcere o del rimorso... La scelta dell’assassino è condizionata dalle passioni e quindi non è scelta
libera e consapevole volontà, ma condizionato dall’impulso cieco. In sostanza , sostiene Socrate fare quello
che ci pare significa cedere ai propri bassi istinti, fare quello che si vuole significa mettere in atto la nostra
volontà razionale.
Il dialogo con Polo – Il tiranno è felice?
Polo sempre più stupito dalle argomentazioni di Socrate si rifiuta di cedere e fa appello al senso comune.
Non è possibile non invidiare la sorte di un uomo di Stato che possa agire come gli pare e piace,
giustamente o ingiustamente che sia. Il tiranno non va in carcere, non paga le conseguenze dei suoi misfatti,
e cita il caso di Archelao di Macedonia che tutti invidiano e giudicano felice, nonostante sia autore di azioni
malvagie. A questo punto controbatte Socrate Anche il tiranno paga le conseguenze dei suoi atti ingiusti,
non con il carcere, ma con la solitudine, la diffidenza, perché proprio a causa del suo agire ingiusto è
costretto a sospettare di tutti, a vedere ovunque complotti, a non avere amici, perché quanti lo circondano
sono adulatori mossi da interesse personale. Dunque, non vive da uomo felice. Socrate riafferma la tesi che
l’uomo ingiusto sarà sempre un infelice, e aggiunge che il colpevole che non paghi la pena dei suoi delitti
sarà ancora più infelice di chi quella pena la paghi. Il tiranno non comprende che praticare l’ingiustizia
rompe l’equilibrio dell’anima e produce sofferenze maggiori di quelle prodotte dal dolore fisico «il male
dell’anima è il più brutto di tutti». Allo stesso modo l’oratore che utilizza la retorica per impedire che un
colpevole sia punito, non comprende che si tratta di un’utilità solo apparente , perché non consente al
colpevole , attraverso il giusto castigo, di liberare la sua anima dal male che la corrode. Allora dice Polo a
Socrate, preferiresti subire ingiustizia piuttosto che commetterla? Socrate risponde: «non vorrei né l’una
cosa né l’altra; ma se dovessi per forza commetterla o subirla, preferirei piuttosto subirla che commetterla»
perché «soltanto chi è onesto ,è virtuoso e felice; chi è ingiusto e malvagio è infelice».
Il dialogo con Callicle – Giustizia secondo legge e Giustizia secondo
natura
Polo è costretto a concedere che commettere ingiustizia e più brutto che subirla. A questo punto irrompe
nella discussione Callicle: «Dimmi un po’, Socrate, dobbiamo credere che parli ora sul serio, o scherzi?
Giacché, se parli sul serio, e fosse vero tutto quello che dici, la nostra vita sarebbe addirittura capovolta».
Callicle accusa Socrate di condurre ragionamenti capziosi e di giocare con le parole. Secondo Callicle il
termine giustizia piò essere usato con due significati diversi, e cioè la giustizia secondo legge, ossia la
convenzione, e la giustizia secondo natura, ossia il diritto di natura. «A parer mio gli autori delle leggi sono i
deboli, che sono la maggioranza. Gli è dunque per sé e per il proprio tornaconto che costoro han fatto le
leggi e distribuiscono lodi e biasimi. E nell’intento di spaventare i più forti e capaci di prevalere, e per
impedire che prevalgano su loro, dicono che è cosa brutta e ingiusta voler sopraffare gli altri, e che il
commettere ingiustizia consiste appunto nel cercare di avere più degli altri... Perciò, si capisce, la legge
proclama ingiusto e brutto il cercare di sopraffare i più, e questo si chiama commette ingiustizia. La natura ,
invece, mostra chiaro come sia giusto che il migliore abbia più del peggiore, e il più potente più di chi può
meno». Socrate ha quindi ragione quando parla di giustizia e ingiustizia in riferimento alla legge. Ha torto
rispetto al vero concetto di giustizia che è la legge di natura.
Il dialogo con Callicle – la felicità è soddisfare i propri bisogni, senza
limiti
Per Callicle quelli di Socrate sono discorsi inutili contrari al diritto di natura, degne di una morale da schiavi e
da deboli, i quali, proprio perché deboli e inferiori, non potendo manifestare la forza, teorizzano che è
giusta una vita temperante e con pochi bisogni. È falso affermare che i felici sono coloro che non hanno
bisogni: «perché in tal caso i sassi e i morti sarebbero i più felici». Al contrario, sostiene Callicle, senza
ipocrisia , tanto maggiori sono i bisogni, tanto più li soddisfiamo, e tanto più siamo felici. Callicle descrive e
teorizza come modello di uomo felice quello che con il linguaggio moderno potremmo chiamare l’uomo del
consumismo a oltranza, che tutto divora e che cerca di avere sempre di più, perché crede di «riempire» la
propria anima con l’abbondanza dei beni materiali e con la passione del desiderio sfrenato. Platone intende
confutare tale posizione formulata da Callicle nella sua espressione teorica più alta; infatti, le
argomentazioni di Callicle sono incisive, colte e intelligenti.
Il dialogo con Callicle – la vera felicità: la metafora dell’anima come
orcio integro e come orcio forato
A fronte di questa argomentazione Socrate avanza una prima conseguenza, molto ridicola, dalle
argomentazioni di Callicle, e cioè che se davvero: «il vivere felice consiste nel provare tutti i desideri possibili
e podere di poterli soddisfare, allora, se uno avesse la scabbia e il prurito e potesse grattarsi come vuole,
passando tutta la vita a grattarsi, questa sarebbe per lui vita felice». Questa implicazione paradossale serve
a Socrate per introdurre una metafora: Immaginiamoci le vite di due uomini, l’uno saggio e ordinato, che
possiede tanti orci pieni di vino, miele, latte, ed altri liquidi preziosi e l’altro intemperante e dissoluto, che
possiede orci non integri, bucati, che devono perciò essere riempiti ogni volta. Chi è il più felice tra i due?
Callicle non ha dubbi nel rispondere che è più felice quella dell’intemperante perché: «A colui che ha
riempito tutti i suoi recipienti, non avanza più alcun piacere, ma la sua vita è, come dicevo or ora, quella di
un sasso, perché non sente più né gioia e dolore». Ma Socrate ribatte che la vita dell’intemperante è come
quella di un caradrio, cioè di uno strano uccello immaginario, voracissimo che senza interruzione mangia ed
evacua.
Conclusione del dialogo – il concetto pitagorico di armonia
L’orcio integro e l’orcio bucato sono due condizioni dell’anima: L’anima come orcio bucato è l’anima che non
trattiene in modo duraturo il senso di gratificazione dei piaceri che sperimenta, ed ha perciò bisogno di
trovarne sempre di nuovi per ottenere una pienezza che però le sfugge di nuovo immediatamente. L’anima
come orcio integro è l’anima che sa trattenere i piaceri, nel senso che sa tradurli in significati che diano
valore alla sua esistenza. La felicità sta in questa memoria delle gratificazioni e dei riconoscimenti, che esige
un’integrità costituita dall’armonia. L’armonia è accordo di elementi diversi e anche discordanti, accordo
possibile quando ciascun di essi si mantiene in un limite tale da non alterare l’equilibrio generale di cui è
parte, come hanno affermato i pitagorici. L’armonia delle cose è la permanenza di una proporzione
numerica tra i loro elementi, che per ciascuno di essi rappresenta un limite ma anche una possibilità di
congiunzione con gli altri. Una loro proliferazione disordinata e caotica rompe quella proporzione numerica
e per ciò stesso l’armonia (e dunque il bene ) di quell’insieme di cui quegli elementi sono parte. In
conformità a questa teoria pitagorica, Socrate afferma che l’armonia dell’anima deriva dalla saggezza e dalla
giustizia:
- Dalla saggezza, perché questa consiste nel sentire i limiti verso sé stessi
- Dalla giustizia, perché questa consiste nel sentire i limiti verso gli altri
Conclude Socrate: «il migliore tenore di vita è vivere e morire nella pratica della giustizia»

Simposio
L'argomento del dialogo
Platone, dopo aver affrontato nel Fedone il tema della natura dell’anima umana, indaga anche la natura
della forza che volge l’anima alle idee. La profondità dell’argomento può essere colta se si tiene conto che le
idee platoniche rappresentano in sostanza i punti di riferimento permanenti e assoluti delle mutevoli
esperienze umane. Definire la forza che spinge l’anima verso le idee significa quindi capire come e perché gli
uomini abbiano avuto bisogno di ancorare le loro instabili esistenze a valori concepiti quali fondamenti
immutabili di ogni comportamento e di ogni conoscenza.
L’identificazione platonica di questa forza nasce da un contesto argomentativo tra i più alti e raffinati che la
filosofia ci ha consegnato. Né il Simposio Platone sostiene che la tendenza degli esseri umani a cercare una
dimensione di assolutezza al di là dei mutevoli stimoli empirici, non è un senso del dovere, non è la
sottomissione a una religione, né la costrizione di un obbligo, ma è la libera spontaneità dell’Eros. L’essere
umano, cioè ha bisogno di una dimensione assoluta di conoscenza, di grandi valori di vita, di verità, vale a
dire, nella terminologia platonica, di idee, per la stessa ragione per cui ha bisogno di amare. L’impulso
erotico è la sorgente di una forza che, opportunamente educata, consente di attingere i supremi valori
dell’esistenza.
Ambientazione e struttura del dialogo
Il Simposio è presentato come un dialogo riferito da un narratore, Apollodoro, che a sua volta ne ha udito il
racconto da un altro narratore, Aristodemo, presente alla conversazione in cui Socrate è stato il
protagonista.
Il dialogo si è svolto, secondo la narrazione indiretta che ne viene fatta, in occasione del festeggiamento per
la vittoria di Agatone nell’annuale gara tra le rappresentazioni tragiche.
Agatone ha deciso di festeggiare la sua vittoria con una libagione tra amici, che si è trasformata, su proposta
di uno degli invitati, in una conversazione sul dio Eros, di cui ciascuno è chiamato a tessere l’elogio.
Il Simposio non è quindi un vero e proprio dialogo, quanto piuttosto una successione di interventi
autonomi: Platone, però, con straordinaria abilità letteraria, propone il succedersi degli interventi in modo
tale che ognuno metta in luce una verità su Eros, attraverso progressivi approfondimenti, fino alla sintesi
finale enunciata da Socrate
Nella concezione greca il dio è la rappresentazione sacralizzata di una forza operante nell’uomo. I greci,
dunque, quando parlano degli dèi parlano di aspetti della loro stessa umanità, e ciò spiega perché Platone
intenda rivelarci la natura di Eros quale fondamentale impulso umano attraverso una serie di elogi ad Eros
come dio.

I personaggi
- Apollodoro e Aristodemo: compaiono nel prologo, il primo come narratore, il secondo come testimone e
fonte
- Fedro: già protagonista del dialogo che porta il suo nome, è un giovane ateniese appassionato dell’arte del
discorso
- Pausania: è un generale ateniese
- Eressimaco: è un medico che descrive la dimensione cosmica e naturale dell’amore a partire dalla
medicina
- Aristofane: grande commediografo un tempo antagonista di Socrate e della sofistica
- Agatone: poeta tragico e padrone di casa
- Alcibiade: personaggio storico nonché già protagonista del dialogo che porta il suo nome . Irromperà
ubriaco alla fine del dialogo facendo un elogio a Socrate
- Diotima di Manintea, sacerdotessa. Non è presente nel Simposio ma viene evocata da Socrate la sua
concezione dell’amore che chiude definitivamente il dialogo
Il discorso di Fedro
Il primo elogio del dio che troviamo nel Simposio – e che, proprio perché compare come primo, è inteso da
Platone come – è di Fedro. Il livello più immediato di analisi della progressione ascendente verso la verità.
Fedro sostiene che Eros è la fonte dei benefici più veri e dei principi più validi, perché è il più antico di tutti
gli dèi. Ciò significa che Eros è la forza più originaria e più profonda dell’animo umano, come risulta dalla
teogonia esiodea, nella quale Eros emerge insieme a Gea direttamente dal caos originario. Dice Fedro: «Non
c’è felicità maggiore che avere, fin da giovani, una persona virtuosa da amare e da cui essere amati… Non c’è
che Eros a dare all’uomo principi che gli valgono per bene vivere tutta la vita, e che non sono legati né alla
nascita, né agli onori, né alla ricchezza… e che consistono nella vergogna per le brutte azioni e nel desiderio
delle buone… Un uomo innamorato, sorpreso a commettere una brutta azione … non proverà mai tanto
dolore, se lo vede il padre o un amico, di quanto ne proverebbe se lo vedesse la persona amata». Fedro dice
cose giuste, ma ancora superficiali nella prospettiva della ricerca platonica: il primo limite consiste nel
trattare Eros in maniera indifferenziata, senza porsi il problema di quali espressioni erotiche siano più
consone alla sua idea, ovvero ne esprimano più compiutamente la natura.
Il discorso di Pausania, la distinzione tra Eros volgare ed Eros
celeste
Tale limite è individuato e parzialmente corretto da Pausania.
«Non mi pare che tu abbia ben impostato il tuo discorso, Fedro, perché troppo semplicisticamente hai fatto
le lodi di Eros. Se Eros fosse solo uno, la cosa sarebbe stata accettabile, ma non c’è solo un Eros… Tutti
riconoscono che non si può concepire Afrodite senza Eros…. E poiché Afrodite è duplice, lo sarà anche Eros.
Non sono forse due le dee? Una la più antica, figlio di Urano, che per suo padre chiamiamo celeste, l’altra ,
più giovane figlia di Zeus, che chiamiamo volgare. Ne consegue che Eros stesso è celeste e nobile quando
convive con la prima delle due Afroditi, ignobile quando convive con l’altra… del resto ogni azione non è mai
bella o ignobile di per sé stessa. Per esempio quello che noi ora stiamo facendo, cioè bere e discutere, non è
bello in quanto tale, ma lo è per lo spirito con cui lo compiamo… lo stesso quando si ama: non ogni amore è
degno, ma solo quello alimentato da nobili intenzioni».
Pausania distingue due espressioni erotiche: quella che procede da un Eros volgare e che si volge alle donne
non meno che agli uomini, ai corpi più che alle menti, all’immediato piacere dei sensi, invece che a una sua
soddisfazione più profonda; quella che procede da un Eros celeste, e che cerca l’appagamento spirituale in
un sodalizio emotivo con un maschio intelligente e virtuoso. Soltanto questa seconda espressione erotica
manifesta la vera natura di Eros, perché meglio corrisponde alla sua idea, che è data dall’Eros celeste.
I limiti del discorso di Pausania
Il discorso di Pausania consente di misurare quale abisso divida l’uomo dalla donna dalla società ateniese
del tempo: ad essa viene riconosciuta una condizione che poco sopravanza quella dello schiavo, e di
conseguenza non le è attribuito per principio alcun ruolo nella vita pubblica, da cui è esclusa. Sul piano
psicologico gli effetti di questa rigidissima separazione dei ruoli maschili e femminili sono tali da rendere
remota la possibilità che tra uomo e donna possa costituirsi vera comunicazione e progettualità in comune:
di conseguenza, l’impulso erotico eterosessuale è per lo più vissuto come puro sfogo di istinti animali. In
tale contesto non deve assolutamente stupire che l’amore possa essere collegato ad una forma
spiritualizzata e raffinata di omosessualità maschile.
Dal punto di vista di Platone (che ovviamente non interviene direttamente nel dialogo, ma ciò traspare negli
interventi successivi) il limite del discorso di Pausania sta nel criterio puramente soggettivo in base al quale
sono distinte le due possibilità di espressione erotica. L’amore sia per Pausania sia per Platone è più
conforme alla sua vera natura se più nobile e spiritualizzato è il suo intento. Ma la conformità di qualcosa
alla sua vera natura è, nel pensiero di Platone, la conformità a un’idea, che non è individuabile in base ad un
intento soggettivo, ma richiede la conoscenza dell’oggettività dell’idea. In Pausania manca, cioè, la nozione
dell’oggettività di Eros, e ciò non gli consente di dare alcuno sviluppo alla distinzione, che pure ha
introdotto, tra diversi livelli di manifestazione di Eros. La questione dell’oggettività di Eros è posta dal terzo
interlocutore, il medico Eressimaco.
Il discorso di Eressimaco
«Che Eros sia duplice mi sembra esattamente dimostrato da Pausania, ma che esso alberga non soltanto
negli uomini ma in tutti gli esseri… credo di averlo ricavato io dalla medicina… Come Pausania diceva poco fa
che è bello concedersi a un amante virtuoso, e fa invece vergogna cercare la dissolutezza, in eguale maniera
per gli elementi della natura è bello favorire le parti sane di ogni organismo – ed il compito del medico è
proprio spingerli a questo – mentre è male farlo per le parti malate…. La medicina è dunque scienza delle
tendenze d’amore all’interno degli organismi»
Secondo Eressimaco l’oggettività di Eros sta nella necessità che ogni organismo ha, per funzionare e
conservarsi, di mantenere l’armonia di tutti gli elementi che formano la sua struttura, quand’anche essi,
singolarmente presi, siano tra loro molto diversi e persino discordanti. Eros è appunto la forza che spinge
tali elementi ad armonizzarsi l’uno con l’altro, e che è perciò indispensabile alla totalità dell’organismo.
In questo quadro trova la sua verità anche la distinzione fatta da Pausania tra le due espressioni
dell’erotismo: Quella migliore è tale perché tende a una parte sana e vitale dell’organismo in cui è inserita.
Quella peggiore è tale perché tende a una parte inutile o malata.
Il discorso di Aristofane
Il commediografo Aristofane, pur considerando valida la tesi di Eressimaco riguardo all’oggettività dell’Eros
fondata sull’armonia di un tutto che Eros è necessario a determinare, la trova limitata, perché non svela
dove stia la potenza dell’Eros. Ci si potrebbe chiedere, infatti, dopo aver ascoltato Eressimaco, perché mai
un elemento sia spinto da Eros ad armonizzarsi con un altro. La conservazione e il funzionamento di una
struttura globale che quell’armonizzazione concorre a determinare, non spiega nulla, perché non si vede
come possa operare all’interno del singolo elemento.
Se, ad esempio, una persona è eroticamente attratta da un’altra, la sua attrazione non nasce certo dal
pensiero che l’armonia tra i due amanti favorirà la coesione della città. Occorre dunque trovare il movente
che fa scattare l’impulso erotico, ovvero, come dice Aristofane, la potenza dell’amore.
Aristofane: il mito sull’originaria condizione umana
Un tempo gli esseri umani erano diversi da quelli attuali, in quanto ciascuno di loro era costituito da due
corpi gemelli con due schiene attaccate l’una all’altra. Esistevano perciò tre sessi: quello maschile, formato
da due corpi di uomini, quello femminile, formato da due corpi di donne, e quello ermafrodito, formato da
un corpo di uomo e un corpo di donna. La conformazione e la vicenda di questi esseri mitici sono così
descritte da Aristofane:
«Essi avevano quattro braccia e quattro gambe, e avevano due facce, piantate su un collo rotondo, eguali tra
loro e appartenenti a un medesimo cranio di cui costituivano i lati opposti… Avevano resistenza e forza
prodigiosa, e anche un’immensa arroganza, tanto che si misero in urto con gli dèi… Zeus e gli altri dèi si
consigliavano su come agire senza trovare una soluzione: non era il caso di ucciderli, estinguendo la loro
specie come in passato quella dei Giganti, perché in tal modo darebbero spariti i loro sacrifici agli dèi, ma
non era neppure possibile continuare a sopportare la loro tracotanza. Alla fine Zeus ebbe un’idea: ho
trovato il sistema, perché gli esseri umani sopravviveranno, ma diventando più deboli. Li taglierò in due.
Non appena lo ebbe detto, si mise a tagliare… Fu così che gli esseri umani originari vennero divisi ciascuno
in due… Perciò, poiché ciascuno di noi è la metà di un intero… tende a cercare un’altra metà»
Una volta che gli dèi hanno diviso in due gli esseri umani originari, si è creata in ciascuna metà la tendenza a
ricongiungersi con la metà mancante, una tendenza che è appunto Eros: omosessuale per chi, maschio o
femmina, è la metà di un essere originariamente maschile o femminile; eterosessuale per chi è la metà di
un originario ermafrodito, e non può quindi trovare la sua metà mancante se non in un sesso diverso.
Significato del mito dell’androgino
Il mito lascia trasparire una verità profonda, che, non essendo stata considerata negli interventi precedenti,
ha lasciato senza spiegazione le caratteristiche che pure erano state riconosciute nell’Eros:
- Beneficiario per Fedro;
- Differenziato per Pausania;
- Necessario in Natura per Eressimaco.
Questa verità è l’incompiutezza costitutiva di ogni individuo umano, che è una sorta di amputazione di
essere con la quale ciascuno nasce dall’essere. La ferita ereditata da questa amputazione, cioè l’insofferenza
per la propria incompletezza è in ogni essere umano la sorgente più profonda dell’Eros, perché l’impulso
erotico è necessità di penetrare in un altro essere per realizzarvi il proprio essere altrimenti incompiuto. La
potenza insopprimibile di Eros ha quindi la sua ragione. L’immagine dell’amore che ci dà Aristofane è
espressione della nostra incompiutezza esistenziale , nello stesso tempo però tale incompiutezza è sorgente
e spinta al completamento, ovvero forza attrattiva verso coloro che possono darci ciò di cui dolorosamente
avvertiamo la mancanza Per Platone, comunque, anche questa immagine dell’amore, per quanto
rappresentativa e suggestiva, riflette ancora più la manifestazione dell’amore che la sua vera natura. Essa è
sì una verità, ma ancora razionalmente insufficiente, non per il mito che la esprime, che riguarda soltanto la
sua comunicabilità, ma perché non è ancora l’idea stessa dell’Eros.
Il discorso di Agatone
A questo punto interviene Agatone, il padrone di casa, proprio per fare vale l’esigenza di definire Eros nella
sua idea, e non enumerando le acquisizioni che gli esseri umani possono per il suo tramite ottenere. Su
questo piano Agatone sostiene che Eros può essere compreso soltanto connettendo con l’idea di Bellezza,
con quella di Bene e con quella di Sapienza. Eros è infatti in sé stesso Bellezza: in quanto ovunque compaia
suscita armonia, freschezza, ringiovanimento e splendore, cioè le manifestazioni del bello. Eros è anche
Bene, come è dimostrato dal fatto che ci si trova sotto il suo influsso rifugge da ogni prepotenza e non fa
torti a nessuno. L’amore in accordo con la volontà crea la giustizia, prima manifestazione del Bene. Anche la
Sapienza è un’incarnazione dell’Eros, per quanto ciò non appaia a prima vista credibile. Spiega infatti
Agatone: «Questo dio ha tale sapienza poetica che la comunica a chiunque sia nel suo raggio d’azione: in
effetti ognuno è poeta, se è toccato da Eros, anche se prima non aveva avuto relazione alcuna con le Muse…
E inoltre chi vorrà contestare che la creazione di tutti gli esseri viventi sia frutto della sapienza d’amore? Eros
ci libera dal timore di essere estranei a noi stessi»
L’entrata in scena di Socrate
Socrate, che interviene per ultimo nel dialogo, condivide l’esigenza, fatta valere da Agatone, di definire Eros
nella sua idea , di connetterlo in qualche modo con le idee di Bellezza, di Bene e di Sapienza, ma dissente
dalle sue argomentazioni. Secondo Socrate, infatti, identificare Eros con il Bello, il Bene e la Sapienza è
esaltato oltre ogni verità. Il rapporto di Eros con questi valori, che indubbiamente sussiste, non può però
essere costituito dalla loro identità. Socrate racconta a questo punto di avere un tempo ascoltato la verità
sull’amore da una donna di Manintea educata ai più antichi riti e saperi della religione greca, il cui nome era
Diotima. Essa lo aveva stupito, ma convinto, rivelandogli che Eros non poteva essere né Bellezza, né Bene,
per la semplice ragione che ogni desiderio d’amore si configura come desiderio di cose belle, e buone, e che
dunque l’amore è mancanza del Bello e de Bene, perché non si può desiderare di possedere ciò che si è:
Anche quando si desidera la salute pur essendo sani, spiega Socrate, quel che si desidera è in realtà il
continuare ad essere sani, cioè una salute futura che, proprio perché futura, ancora non si possiede).
La testimonianza di Diotima di Manintea, riportata da Socrate
Diotima aveva cercato di chiarire il suo discorso con un mito: «Quando nacque Afrodite, gli dèi si trovarono
a banchetto, e tra essi c’era anche Poro, il dio dell’abbondante possesso di ogni cosa preziose. Avevano già
finito di pranzare, quando giunse a elemosinare un po’ di cibo Penia, che rappresenta la privazione di ogni
bene... Poro, ubriaco com’era si era addormentato e allora Penia pensò che le sarebbe stato possibile avere
un figlio da costui senza che egli se ne rendesse conto. Giacque perciò con lui, reso semicosciente
dall’ubriachezza e resto incinta di Eros. Eros è dunque ministro di Afrodite, perché fu concepito nel giorno
della sua nascita , ed è desiderio di cose belle, perché Afrodite, da cui è attratto, è la bellezza stessa. Egli è
sempre in uno stato di mancanza... perché ha la natura della madre... ma ha ereditato dal padre il bisogno
di possedere cose belle e buone, che perciò incessantemente ricerca»
Il discorso di Diotima è dunque l’inveramento a un più alto livello di quello di Aristofane, perché anch’esso
indica la radice del desiderio d’amore in una condizione di incompletezza, di amputazione di essere. La vera
incompletezza, però, non è la mancanza, in una persona, di un’altra che sia la metà mancante del suo
essere: questa ne è al più una delle tante manifestazioni.
Il tema ontologico della finitudine umana – prima implicazione
L’incompletezza più profonda e reale è identificata da Platone – attraverso il personaggio di Diotima – nella
finitudine umana. La finitudine non è di per sé incompletezza: Un sasso che giace sul terreno è certamente
finito, ma non è incompleto, perché non gli manca nulla per essere il sasso che è. La finitudine dell’uomo è
invece la particolarità e la contingenza di un’esistenza che dentro i suoi limiti concepisce l’eternità e un
valore universale di sé stessa che i suoi limiti non consentono di realizzare. Da questo genere di finitudine, e
dalla sua costituiva incompletezza, sgorga Eros.
Da questa conclusione derivano due implicazioni fondamentali. La prima implicazione è che Eros ha una
grande molteplicità di manifestazioni, tante quante sono le forme possibili di trascendimento della
finitudine a cui la finitudine umana tende. Nasce da un impulso erotico l’attrazione sessuale. Questa
attrazione sessuale si sviluppa poi nella ricerca di un’alterità quindi un trascendimento della singolarità.
Anche il bisogno di verità e giustizia hanno la stessa radice erotica, perché esprimono lo stesso bisogno di
trascendimento della finitudine. La filosofia stessa, come ricerca della verità e del bene, è dunque una
manifestazione di Eros.
La vera idea di Eros, nel discorso di Diotima – seconda implicazione
La logica di questa riflessione platonica suggerisce due domande, oggi molto sentita sul piano gnoseologico:
È possibile essere coinvolti in un desiderio fisico per altre persone , non labile e vuoto ma continuo e
davvero appagante, senza un desiderio di valori universali di vita? Qualora decadesse nell’interiorità degli
uomini ogni valore di giustizia e di verità, non è forse Eros stesso si indebolirebbe, e con esso il tessuto
connettivo della società e la fonte di solidità personale degli individui?
La seconda implicazione è che il vero oggetto del desiderio d’amore è il prolungamento della persona nella
sua alterità, e non tanto le cose belle e buone, desiderate soltanto come contesto indispensabile alla
realizzazione del desiderio più proprio dell’Eros. Prolungamento che trova la sua espressione nel generare.
Eros è dunque desiderio di generare, nel senso di rigenerare sé stessi oltre la propria finitudine.
Siamo giunti quindi alla vera idea di Eros, che Diotima esprime in tal modo: «Amare non è desiderio di
Bello... ma è desiderio di produrre e creare nel Bello... il Bello è desiderato perché non è possibile generare
alcunché nel Brutto... per cui nell’individuo fecondo di generazione sorge questo intenso desiderio del Bello
che è amore perché soltanto il Bello libera chi lo possiede dal dolore del generare... Ma perché questo
bisogno di generare? Perché generare è quanto di sempre rinascente e immortale può essere presente in
un’esistenza finita.... Quando si concepisce e si genera nel Bello, sia da parte del corpo che da parte dello
spirito, questo è Eros»

Conclusione
La conclusione di Platone è che l’uomo, immerso in un divenire che come tale è nulla, esprime il suo essere
come tendenza. Questa tendenza definisce appunto Eros nella sua idea. Essa è la tendenza a generare i
propri figli, non soltanto nel senso comune del termine, ma intendendo come filiazione di un individuo
anche le sue opere intellettuali e morali, i suoi progetti sociale e politici. Con questo suo generare, infatti,
l’uomo riproduce la sua identità fuori dagli angusti limiti della sua individualità fisica, il significato della sua
esistenza al di là della designificazione della morte.
Questa è la ragion d’essere di Eros. La presenza di Eros è quindi per sé stessa prova che l’uomo ha in sé, pur
nella particolarità e nella contingenza della sua vita mortale, le eterne idee dell’essere. La filosofia in quanto
ricerca dell’essere, quindi della verità e quindi delle idee, alimentata da Eros, ne è la più alta manifestazione.
Eros
Amore
Simposio -> Natura di Eros, discorsi di:
 Pausania, che distingue:
 Eros volgare riferito ai corpi
 Eros celeste riferito ad anime
 Erissimaco, che mette Eros come:
 Forza cosmica che caratterizza l’uomo
 Armonia e ordine che caratterizzano la natura
 Aristofane racconta il mito degli Androgeni che vede amore come ricerca:
 di completezza
 della propria meta perduta
Simposio di Socrate riferisce il discorso di Diotima di Mantinea
 Primo insegnamento: natura di Eros
Mito di Eros-> natura intermedia (<-Penìa, povertà, e Pòros, abbondanza, ingegno):
né uomo, né dio, né ignorante, né sapiente, né bello, buono
ma è:
demone
filosofo
desiderio:
 di ciò che manca: bellezza, sapienza
 a cui si aspira: bellezza, sapienza
dalla consapevolezza del proprio non sapere arriviamo alla tensione verso la bellezza e la sapienza
 Secondo insegnamento: gerarchia del bello
La vita umana è un percorso di formazione amoroso dell’anima verso il pieno possesso della bellezza
Tipi di amore: amore sensuale -------------------------------------> amore filosofico
Gradi di bellezza: del corpo -> dell’anima-> leggi -> scienze-> bellezza in sé
 Terzo insegnamento: eros e procreazione
Aspirazione al bello -> desiderio procreativo
“L’amore è la procreazione nel bello secondo il corpo e secondo l’anima”
Corpo -> discendenza -> immortalità
Anima -> opere -> immortalità

MENONE
Manifesto filosofico dell’Accademia di Platone – personaggi e tema
del Dialogo
Ritornato ad Atene dal suo primo viaggio in Italia, Platone riunisce i suoi discepoli in una scuola filosofica;
l’Accademia. Nell’occasione legge loro un nuovo dialogo appena composto, il Menone, che si può quindi
considerare come una sorta di manifesto filosofico della nuova scuola. Nella realtà storica Menone è un
giovane tessalico, di altolocata e ricca stirpe aristocratica, che, presente in quel periodo ad Atene, aiuta
finanziariamente Platone nella fondazione della scuola… Nel dialogo platonico è un personaggio desideroso
di arricchirsi di virtù, che perciò chiede a Socrate se la virtù sia insegnabile oppure se essa germoglia in
qualche altra maniera nell’animo umano. Il tema del Menone è dunque lo stesso di quello già affrontato nel
Protagora, vale a dire se la virtù sia insegnabile o meno . È ora affrontato di nuovo perché le tesi sostenute
nel Protagora hanno avuto un esito contraddittorio, tanto costringere all’incoerenza, come si è visto, i
protagonisti di quel dialogo. Il Menone è dunque la continuazione del Protagora.
Il Problema della definizione della virtù
Socrate, di fronte alla richiesta di Menone – se la virtù sia insegnabile o meno – si dichiara incapace di
rispondere, perché non sa neppure cosa sia la virtù. Si tratta della consueta professione socratica di
ignoranza della verità, volta a mostrare che la verità non è socialmente data, e che deve essere cercata a
partire dal sapere di non saperla. Menone si stupisce della rinuncia di Socrate, perché non gli sembra un
problema sapere cosa sia la virtù: Essa è data dai comportamenti richiesti da ciascuna condizione umana,
per cui si possono elencare le virtù dei fanciulli e le virtù dei vecchi, le virtù dei contadini e quelle degli
artigiani, le virtù dei genitori e quelle dei figli, le virtù delle donne sposate e di quelle nubili, fino alla virtù
del maschio che consiste nell’abilità a gestire gli affari comuni della cittadinanza, giovando agli amici e
danneggiando i nemici- «siamo andati alla ricerca della virtù e ne abbiamo trovato uno sciame» osserva
Socrate, ma per Menone è giusto così : Come l’ape non può prescindere dallo sciame la virtù non può
prescindere dal suo insieme. A questo punto Socrate entra nel merito. Il senso dell’obiezione: se ti si
chiedesse, Menone, cosa sia la figura geometrica e tu rispondessi che è il cerchio, ovviamente sbagliereste,
perché il cerchio è una delle tante figure, stessa cosa per il colore, se tu rispondessi che è bianco sbaglieresti
altrettanto. E neppure se facessi un elenco di diversi colori, o di diverse figure risponderesti alla domanda,
perché la nozione di colore è una, e un elenco di colori darebbe invece una pluralità di nozioni.
La ricerca di un metodo razionale con cui costruire la conoscenza
Menone comprende l’obiezione di Socrate, e gli chiede di indicare, a mo’ di esempio, una nozione unica di
colore. Socrate ricorda che ce n’è una di Empedocle, per il quale il colore è un effluvio di materia, originato
dalla sua porosità, che passando attraverso canali sensoriali più o meno sottili genera sensazioni visive
differenti, quelle appunto dei differenti colori. Menone è soddisfatto, ma Socrate gli fa notare come manchi
un fondamento probatorio a tale nozione.
Come si deve procedere, allora, per ricavare tale fondamento? Per Socrate il fondamento di ogni nozione
unica e generale (cioè di ogni concetto o definizione) sta soltanto nel ricavarla come contenuto comune ai
molti suoi esempi particolari. Viene in tal modo proposto un metodo razionale di costruzione delle nozioni,
che si contrappone all’uso comune di assumerle in forma acritica, così come sono trasmesse dalle tradizioni
religiose e poetiche. Per giungere a una definizione universale, il concetto appunto, bisogna procedere in
questo modo:
- Cercare molti suoi esempi concreti
- Estrarre da questi esempi le caratteristiche comuni a tutti loro
- Isolare queste caratteristiche in un’unica definizione e giungere così al concetto di virtù
Si tratta del cosiddetto metodo induttivo (definizione aristotelica) proposto dal Socrate storico, per fondare
il passaggio dalla particolarità delle opinioni all’universalità del concetto.
L’obiezione di Menone al metodo induttivo
Dopo questa importante conclusione di Socrate, ecco, all’improvviso, il colpo di scena: Menone, che fino a
questo momento del dialogo si è caratterizzato per un atteggiamento acritico e di basso profilo culturale,
formula una dirompente obiezione al metodo induttivo proposto da Socrate. L’obiezione di Menone è
fulminante: «Come cercherai, Socrate, quello che ignori? Dove andrai a cercare, tra cose che non sai ancora
definire? Se poi per caso ti imbattessi proprio in una delle cose che cerchi, come ti accorgeresti che si tratta
di quella , se non la conosci?». Vale a dire: se si può giungere a sapere cosa sia la virtù, e quindi a definirne il
concetto, soltanto dopo aver cercato ed osservato vari esempi di comportamenti virtuosi, come si fa a
sapere quali comportamenti siano virtuosi se, quando li si cerca e li si osserva, non si sa ancora cosa sia la
virtù?». Questo capovolgimento dei ruoli tra Socrate e il suo interlocutore rispetto alla costruzione consueta
dei dialoghi platonici ha un significato preciso: poiché la figura di Socrate è la maschera letteraria di Platone,
i rari casi in cui Socrate, anziché riuscire a confutare le opinioni infondate del suo interlocutore, viene la lui
confutato, sono l’artificio letterario cui ricorre Platone quando intende confutare se stesso, quando è
matura una nuova prospettiva filosofica che segna una frattura rispetto alle sue precedenti convinzioni.
La teoria della conoscenza come reminiscenza
Che cosa sia la virtù, non si può sapere per induzione. Come si può saperlo allora? E dove si trova
l’indicazione a comportarsi virtuosamente? Socrate accenna, a questo proposito, a «uomini e donne con
esperienza di cose divine», da cui, dice, «ho udito bellissimi racconti che mi sono parsi veri». Alla richiesta di
chiarimenti da parte di Menone, emerge che si tratta di racconti su un’esistenza dell’anima anteriore alla sua
nascita in un corpo, e su una sua preesistente, dimenticata visione della verità. In base a questi racconti si
può credere dice Socrate, che giaccia nell’anima una disposizione di origine divina a comprendere e a
praticare la virtù, e che occorra soltanto riportarla alla luce dall’oscurità che per qualche ragione l’avvolge
dentro l’anima. La conoscenza viene così prospettata in maniera simile al riaffiorare di un ricordo
dimenticato, come una reminiscenza.
Il problema di geometria risolto dal servo
Menone vuole una prova di quel che Socrate dice. Socrate gli fa chiamare un servo, e, disegnato un
quadrato di lato e area intuitivamente misurabile, chiede a costui quanto debba misurare il lato di un
quadrato di area doppia di quello mostrato. Al servo pare ovvio che, se il quadrato deve essere doppio,
doppio deve essere anche il suo lato. Socrate però gli fa vedere, tracciando un lato di lunghezza doppia di
quella del precedente quadrato, come ne risulti un quadrato di area quadrupla. Il servo si accorge di essersi
sbagliato, cerca la soluzione, e, posto di fronte ad alcune linee tracciate da Socrate, comprende come un
quadrato di area doppia del precedente debba avere come lato la diagonale di quello. Platone rivela qui una
straordinaria capacità di costruzione letteraria, mettendo in scena una situazione realistica in cui un uomo
che non ha mai studiato geometria riesce a trovare la soluzione di un problema geometrico. Socrate lo
guida, ma si limita a mostrargli gli errori e a proporre disegni, senza offrire soluzioni positive del problema.
L’insegnamento appare, così, un’attività che mira a stimolare l’anima affinché questa possa sviluppare e
portare alla luce una conoscenza che già le appartiene in forma potenziale e non consapevole. Questa
rappresentazione letteraria serve comunque a Platone per introdurre il tema dell’innatismo della
conoscenza, in modo da fondare una nozione di virtù di stampo socratico, cioè universale e necessaria,
senza ricorrere al metodo induttivo seguito da Socrate, ora da lui rifiutato. Al tempo in cui scrive il Menone,
però, Platone ha appena cominciato a riflettere sull’innatismo e però, per darne ragione, si deve affidare a
una non meglio precisata sapienza religiosa, anziché a un’adeguata argomentazione filosofica che ancora
non ha elaborato
Il Bene come scienza o retta opinione
Menone torna a chiedere se la virtù sia insegnabile. Socrate risponde che lo sarebbe se fosse scienza. Ma
per esser tale, dovrebbero esistere degli esperti in essa, ma non ci sono. I sofisti, per esempio, sono esperti
nel comportamento persuasivo, non in quello virtuoso. Né sono tali gli onesti ateniesi, indicati da Anito –
comparso causalmente nel dialogo e coinvolto – perché non sono esperti in nessuna scienza. Se la virtù non
è scienza, in che modo il virtuoso identifica il bene a cui tende, e tendendo al quale è quello che è, cioè
virtuoso? «Se tu, Menone, volessi andare a Larissa, e fossi un esperto geografo, conosceresti la strada. Ma
se tu, ignaro di geografia, e persino della posizione, rispetto alle altre città del luogo in cui ti trovi, fossi stato
informato da qualcuno che la strada per Larissa è andando in quella direzione o svoltando là, arriveresti
egualmente a Larissa». Allo stesso modo, pur senza una scienza che identifichi il Bene, si può avere di esso,
e quindi della virtù, un’opinione esatta, o, come la chiama Platone, retta opinione, sulla cui base essere
virtuosi. Gli esseri umani possono essere indotti a rette opinioni da disposizioni innate nelle loro anime. Le
rette opinioni inducono a mantenersi virtuosi, ma differiscono dalle conoscenze, perché non sono
razionalmente comprese.

Fedone
Il Fedone inaugura la nuova prospettiva metafisica
Il Fedone è uno dei primi dialoghi della maturità di Platone, scritto dopo il Menone, nell’orizzonte della
nuova prospettiva filosofica che si è aperta con la fondazione dell’Accademia. La residua filosofia socratica
ancora presente nel Gorgia e nel Menone scompare definitivamente in questo dialogo, che conserva
tuttavia ancora dei contenuti socratici, inglobati, però, in una prospettiva di ricerca non più socratica: una
prospettiva, che mira a una comprensione della realtà astraendo del tutto dalla dimensione empirica, quindi
una comprensione di tipo metafisico, estranea al pensiero socratico.
I personaggi
La costruzione e l’ambientazione di questo dialogo sono molto importanti per intenderle il senso. Il quadro
è quello del carcere ateniese, dove Socrate, nell’ultimo giorno della sua vita, in attesa dell’esecuzione della
condanna a morte al tramonto è attorniato dai suoi più fedeli discepoli:
- Antistene: un filosofo che manterrà un atteggiamento socratico, confutatorio e antimetafisico
- Apollodoro: un giovane nobile del sobborgo ateniese del Falero, sul mare
- Critone: ricco amico di Socrate che avrebbe voluto spendere il suo danaro per corrompere quanti
avrebbero potuto favorire la fuga del maestro
- Critobulo: figlio di Critone
- Ermogene: fratello dell’uomo più ricco di Atene, Callia
- Menesseno, figlio adulto di Socrate
Ad arricchire questo consesso oltre a qualche altro ateniese troviamo poi :
- I megaresi Euclide e Terpsione, fondatori di un indirizzo filosofico metafisico affine a quello
platonico
- I tebani Simmia e Cebete, allievi di Filolao
Socrate dialoga, con l’ascolto silenzioso di tutti gli altri, soltanto con questi ultimi due, tanto che, prendendo
solitamente i dialoghi il nome dall’interlocutore principale di Socrate, questo dovrebbe intitolarsi il Simmia.
Perché allora Fedone?
Perché è costruito come dialogo esposto non direttamente, ma raccontato in un altro dialogo. Si immagina
cioè che Fedone ne racconti il contenuto, in un momento successivo, ad Echecrate, dialogando con lui. Con
questo artificio letterario – far riferire quanto detto da Socrate da un altro personaggio – Platone
probabilmente vuole segnalare al lettore che non si tratta più soltanto del Socrate storico. Secondo alcuni
interpreti va intesa nello stesso senso la frase, fatta dire da Fedone ad Echecrate, che tra gli ascoltatori di
Socrate non c’era Platone, che non era venuto da casa sua al carcere perché ammalato: L’assenza di Platone
andrebbe letta come l’assenza di un garante che le parole attribuite da Fedone a Socrate siano state
realmente pronunciate dal vero Socrate. Fedone, il narratore del dialogo, è un giovane intellettuale
proveniente dalla città di Elide, capoluogo della regione chiamata anch’essa Elide, nella parte occidentale
del Peloponeso. Dopo la morte di Socrate lascia disgustato Atene, e torna nella sua patria Elide, dove negli
anni successivi si farà divulgatore della filosofia di Platone, scrivendo anche diversi dialoghi, ispirati a quelli
platonici, e andati completamente perduti.
Ambientazione: luoghi che evocano il pitagorismo
Il viaggio che intraprende Fedone per mare, da Atene a Elide comportava la circumnavigazione del
Peloponneso, e quindi esigeva sempre uno scalo intermedio per il rifornimento di cibo e acqua. Nel dialogo
sì immagina che lo scalo venga fatto a Fliunte, nella parte orientale del Peloponneso , ipotesi poco
verosimile, perché Fliunte è ancora vicina ad Atene e molto lontana da Elide, e che Fedone, sceso dalla
nave, incontri al porto Echecrate, e gli racconti, su sua richiesta, il dialogo di Socrate in carcere con Simmia e
Cebete. Il dialogo di Socrate è contenuto quindi in un altro dialogo ambientato a Fliunte, e la scelta non è
affatto casuale. Per qualunque lettore dell’epoca di Platone Fliunte è città che evoca il pitagorismo: essa è
ritenuta una dei luoghi di origine della stirpe di Pitagora, dove lo stesso si sarebbe proclamato per la prima
volta filosofo, coniando per primo il temine. Fliunte è il centro più importante della scuola pitagorica
dell’epoca, di cui Echecrate è l’ultimo esponente, e sarà costretto di lì a poco a emigrare a Locri.
L’ambientazione a Fliunte è dunque un segnale di Platone per far capire al lettore che questo suo dialogo
rappresenta un grande confronto teorico con la sua eredità filosofia pitagorica: per questo Socrate dialoga
con i due pitagorici tebani Simmia e Cebete
Il rapporto del filosofo con la morte
Il dialogo comincia con la domanda rivolta da Echecrate a Fedone sul perché sia intercorso tanto tempo tra
la condanna e la morte di Socrate. Fedone spiega che Socrate era stato condannato proprio il giorno in cui
era partita la nave sacra che periodicamente andava a tributare un culto al tempio di Apollo a Delo, per
ringraziamento dell’antico aiuto dal dio a Teseo contro il Minotauro, e che era legge che nessuno potesse
essere ucciso dopo la partenza della ave e prima del suo ritorno. Socrate era rimasto quindi in carcere per
un mese, ricevendovi spesso i suoi allievi, che, il giorno in cui fu avvistata la nave di ritorno da Delo rimasero
con lui fino al tramonto, quando dovette bere il veleno della cicuta. Socrate, prossimo alla morte, discute
con i suoi discepoli appunto della morte e dell’anima. Egli dice che il vero filosofo non può essere nemico
della morte, se essa è intesa come separazione dell’anima dal corpo. Perché la corporeità dell’uomo gli
rende indispensabili le cose sensibili che offuscano l’anima, la quale, quando si sottrae al condizionamento
sensibile, è nella verità. Simmia ribatte, dicendo che dal discorso si ha l’impressione che i filosofi vogliano
essere dei moribondi. Replica Socrate: «coloro di cui tu parli, o Simmia, direbbero effettivamente una cosa
esatta, ma non consapevolmente, come tu credi, dato che non sanno in che senso siamo moribondi, e di
quale morte siano degni i filosofi». Questo passo è molto importante, perché segnala che c’è un modo
comune di intendere la morte del corpo e l’immortalità eventuale dell’anima, e un significato più profondo e
vero di tale morte e immortalità. Il dialogo traccerà la via attraverso la quale giungere a questo significato
più profondo, ma non lo espliciterà, essendo riservano nella sua pienezza alla comunicazione orale.
Le prove dell’immortalità dell’anima e prima obiezione di Simmia
Socrate porta a Simmia due prove, deboli e confutabili, dell’immortalità dell’anima, e poi una terza, che
reputa molto forte: Se morire significa dissolversi, per dissolversi un esistente deve essere divisibile, ma se è
divisibile occupa uno spazio che ne assicura la divisibilità. Se occupa uno spazio, è visibile da chiunque
ponga il suo sguardo su quel luogo dello spazio. Quindi soltanto un esistente visibile e spazialmente
localizzato può morire. L’anima, essendo invisibile e non localizzata spazialmente, non può che essere
immortale. Simmia però obietta: «Il tuo ragionamento, Socrate, si potrebbe ripetere anche a proposito di un
accordo musica, e dire che questo accordo, derivante dai suoni di una lira ben accordata, essendo qualcosa
di invisibile e non spaziale, non può dissolversi, cosicché qualcuno, facendosi forte del tuo ragionamento,
potrebbe dire che, anche dopo rotta la lira e strappate le sue corde, l’accordo musicale continua a esistere».
E Aggiunge: «del resto noi ci figuriamo l’anima come un accordo di elementi corporei, come un’armonia del
corpo... ma se l’anima è tale, è chiaro che quando il corpo si dissolve nei suoi elementi, anche l’anima cessa
di esistere».
Obiezione di Cebete e le risposte di Socrate
Cebete fa un’altra obiezione: L’anima è energia sprigionata dal corpo vivente, che per vivere consuma il
corpo come suo combustibile, estenuandosi gradualmente anch’essa. Può certo prolungare la sua esistenza
passando , alla morte di un corpo, a vivificarne un altro, alimentandosene, ma alla fine l’energia di cui
consiste deve spegnersi, e anch’essa deve morire. L’anima come armonia del corpo e l’anima come energia
del corpo erano due teorie concorrenti nell’ambiente pitagorico plasmato dall’insegnamento di Filolao, che,
pare, le avesse prospettate entrambe nel suo libro. Pur nella loro diversità, entrambe comportano in una
certa misura che l’anima sia mortale come il corpo. Platone è convinto che questa concezione di una
radicale mortalità dell’anima sia incompatibile con ogni metafisica, e rappresenti una contraddizione interna
al pitagorismo, che ha sviluppato una metafisica dell’intellegibile assunta in gran parte dallo stesso Platone.
Attraverso la confutazione degli argomenti di Simmia e di Cebete, tramite il personaggio Socrate, Platone
costruisce una sua teoria dell’immortalità dell’anima complementare alla sua metafisica delle idee. Egli
muove dalla nozione socratica di anima, che è descrittiva e non metafisica, e le dà un fondamento
metafisico – come vedremo tra poco – basato sull’appartenenza dell’anima alla sfera dell’intelligibile.
All’obiezione Socrate risponde con due controbiezioni. L’anima, in quanto intelligenza e volontà dirige il
corpo, facendolo strumento di attuazione dei suoi scopi, per cui non può essere armonia, perché l’armonia
tra più elementi deriva dalla loro composizione e non può agire su essi. La virtù dell’anima sta nella sua
armonia, quindi l’anima non può essere come tale armonia, perché altrimenti non ci potrebbe essere alcuna
anima non virtuosa, ed il vizio non esisterebbe.
L’immortalità dell’anima universale: la via d’uscita dall’impasse
Socrate con questi argomenti riesce a provare che l’anima non è armonia, ma non a difendere la sua terza
prova dell’immortalità dell’anima dalla confutazione di Simmia. Se anche, infatti, l’anima non è in armonia
del corpo, rimane vera l’obiezione di Simmia – con l’esempio dello strumento musicale – che non
necessariamente ciò che è invisibile e incorporeo è immortale, e che quindi l’anima non può essere
considerata immortale soltanto perché invisibile e incorporea. Per elaborare una dimostrazione che
risponda per intero alle obiezioni di Simmia e Cebete, Socrate percorre una nuova via, che lo porterà
(attraverso l’obiezione fattagli da Cebete) a fondare l’immortalità dell’anima non più sulla sua indivisibilità
spaziale, ma sulla omogeneità delle idee. L’anima è in grado di comprendere, traendola dalla sua stessa
interiorità, l’eternità logica delle idee, e ciò non sarebbe possibile se essa fosse mortale. Se l’anima fosse
corruttibile e transeunte, non potrebbe avere tale rapporto intrinseco con le idee, perché due enti di natura
radicalmente eterogenea sono per ciò stesso necessariamente estranei l’un l’altro. L’immortalità così
fondata non appartiene alla singola anima individuale, ma a un’anima universale in cui ogni anima
individuale si prolunga oltre la sua fine, perché ciò che ha acquisito in termini ideali è assimilabile da ogni
anima individuale, essendo riferito a una costellazione di idee valide per sempre. Poiché è arduo intuire e
comprendere in termini razionali il senso morale di questa verità filosofica delineata da Socrate, Platone,
alla fine del dialogo, ricorre a un mito sul destino dell’anima individuale, un incantesimo, come lui stesso lo
qualifica, e al racconto della morte serenamente affrontata alla fine della giornata, da Socrate
La seconda navigazione: sulla causa della generazione e della
corruzione e la spiegazione naturalistica
Nel Fedone il pitagorico Cebete si dichiara convinto che l’anima sia sì più durevole del corpo, ma non eterna,
perché è stata generata in qualche maniera in un tempo antico, e perché soggetta a corruzione (ovvero
perdita di essere) per graduale estenuazione. Socrate osserva che, per verificare se Cebete abbia ragione o
torto, occorre comprendere quale sia la causa della generazione e della corruzione delle cose, e, per
sciogliere questo nodo, abbozza una sorta di autobiografia intellettuale. Quando ero giovane fui preso da
una vera passione per le indagini naturalistiche, e cercai di appurare, ad esempio, se dalla putredine si
generasse la vita, e dal sangue il pensiero, e se fossero l’aria o il fuoco a corrompere le cose terrestri. Mi
accorsi però a un certo punto, procedendo su questa via, che tutte le questioni affrontate, anziché chiarirsi,
mi diventavano sempre più oscure e confuse. Un amico, prosegue Socrate, mi disse di aver letto nel libro di
Anassagora che la causa di tutte le cose era una razionalità ordinatrice. Intuii allora di dover indagare, non
nelle cose, non nei modi che appaiono alla percezione sensibile, ma il loro modo di esistere più conforme a
un ordine razionale del tutto. Andai perciò ad acquistare il libro di Anassagora, e mi misi a cercarvi come la
razionalità ordinatrice del tutto, rivelando il modo migliore in cui può esistere ciascuna cosa, arrivasse a
spiegarne la generazione e la corruzione. Man mano che procedevo nella lettura del libro di Anassagora, ne
rimanevo sempre più deluso, accorgendomi che costui, una volta postulata la razionalità ordinatrice, la
lasciava sullo sfondo, e spiegava ogni fenomeno di generazione e corruzione delle cose con gli elementi fisici
delle cose stesse.
La seconda navigazione: i limiti della spiegazione naturalistica
Socrate narra di aver capito, allora, come tali spiegazioni fossero inappropriate, e come avvolgessero nel
buio le spiegazioni vere. Sarebbe come, egli esemplifica, «spiegare il mio star seduto qui davanti a voi, sulla
base delle mie ossa e dei miei nervi, perché se le ossa non avessero articolazioni oscillanti nelle loro
giunture, e se i nervi non fossero in grado di muovere i muscoli, non avrei potuto prendere questa
posizione. È evidente egli prosegue, che la vera spiegazione del mio stare qui in questo modo è la condanna
del tribunale che mi ha costretto a questo carcere, la mia decisione di non evaderne, e la mia volontà di
conversare con voi». Certo, il mio corpo non avrebbe potuto sedersi se le mie ossa e i miei nervi non glielo
consentissero, così come noi non potremmo conversare se non avessimo voce e udito, e se l’aria non
trasportasse i suoni. Tutte queste, tuttavia, non sono le cause per cui il mio corpo sta seduto e parla, ma,
afferma Socrate, sono le condizioni sulla cui base le cause possono produrre i loro effetti, sono, cioè, i mezzi
attraverso cui la mia decisione e la mia volontà agiscono sul mio corpo, che è a sua volta sempre un mezzo,
in questo caso un mezzo per conversare con gli amici. «Vuoi ora, Cebete, che io ti esponga la seconda
navigazione che dovetti intraprendere per andare alla ricerca della vera causa della generazione e della
corruzione delle cose?»
La seconda navigazione: metafora platonica del pensiero metafisico
A cosa allude Socrate quando parla di seconda navigazione? E di che cosa è metafora in questo contesto?
Ogni greco dell’epoca sapeva cosa fosse la seconda navigazione. In quel tempo, si navigava a vela, con la
forza del vento: le navi però, disponevano anche di remi, e nei casi di bonaccia prolungata, i marinai, per
non rimanere a lungo immobili in mezzo al mare, e per non trovarsi privi di cibo e di acqua, cambiavano il
modo di navigare, e passavano dalle vele ai remi, cioè a quella che era comunemente chiamata «seconda
navigazione». Si trattava, ovviamente, di una navigazione più faticosa , più lenta e più rischiosa di quella a
vela (la prima), ma in quel caso l’unica possibile. Nel Fedone la seconda navigazione è la metafora platonica
del pensiero metafisico. Il pensiero solitamente «naviga», cioè procede nelle sue riflessioni, sospinto da
tutto ciò che sensibilmente appare, proprio come la nave a vela è sospinta dal vento. Ma se manca il vento
delle apparizioni sensibili, perché la questione affrontata trascende la loro dimensione, il pensiero si arresta,
salvo che non ricorra ai remi della trattazione puramente logica dei significati ontologici con cui è chiamato
a confrontarsi. Nello specifico del racconto di Socrate, egli afferma che se non fosse ricorso a questa
seconda navigazione del pensiero, e fosse rimasto alla prima navigazione (quella delle indagini puramente
naturalistiche), avrei sempre cercato le cause dell’essere delle cose nelle condizioni materiali del loro
manifestarsi alla percezione sensibile, perdendo così di vista le loro vere cause. «Mi sarebbe capitato
qualcosa di simile a quel che capita a coloro che, per osservare un’eclisse, guardano direttamente il Sole, e
ne rimangono accecati. Come se il Sole deve essere guardato riflesso in uno specchio di acqua per non
accecare gli occhi, allo stesso modo, per non accecare la mente, l’esperienza sensibile deve essere pensata
riflessa nei ragionamenti logici».
La seconda navigazione: Come il pensiero deve procedere nel mare
della conoscenza filosofica
Attraverso la maschera di Socrate, Platone definisce le regole con cui il pensiero deve procedere nel mare
della conoscenza filosofica. In primo luogo non bisogna commettere l’errore di assumere come vere le cose
così come sensibilmente ci appaiono, perché questa impostazione chiude alla comprensione delle
possibilità delle cose non manifestate dal loro apparire e quindi arresta ogni procedere del pensiero e
acceca la mente. Si tratta di un’asserzione fondativa della filosofia intesa principalmente come ontologia,
che nasce necessariamente come negazione dell’empirismo. In questo senso la filosofia si configura come
uno spazio di verità ulteriore rispetto a ciò che è dato. La seconda navigazione è dunque necessaria per
uscire dalla bonaccia della ragione, dal buio della mente: È molto più faticosa, tanto nel mare quanto nel
pensiero, perché non è sospinta da una forza esterna, poiché il pensiero è chiamato, come la nave con i suoi
remi, a procedere con le sue sole risorse interne. È molto più lenta perché comporta una ricerca critica della
verità, senza la sua immediata identificazione con ciò che è esperito. È più rischiosa, perché la ragione deve
darsi da sé stessa la misura della verità delle sue teorizzazioni, e deve essere morale per non adottare una
misura arbitraria, conveniente soltanto alla sua volontà interessata, e cadere così nel falso
La seconda navigazione: la realtà delle idee come postulato
necessario
Per rendere sensata e non arbitraria la seconda navigazione del pensiero occorre perciò postulare
l’esistenza reale di paradigmi (modelli) universali e intellegibili delle cose sensibili, quelli che Platone chiama
idee. Deve esistere cioè:
- La bellezza in sé, oltre alle cose belle
- La grandezza in sé, oltre le cose grandi
- Il due in sé, oltre alle cose doppie
- L’eguaglianza in sé, oltre le cose uguali
Le cose non sono la base data oltre la quale compaiono queste idee, ma sono una derivazione delle idee.
Ciò significa che le cose belle sono tali in quanto corrispondono all’idea del bello, le cose grandi all’idea di
grande, le cose eguali all’idea di eguale. Comunemente si ritiene che queste nozioni generali (bello, grande,
eguale) derivino dall’esperienza sensibile, e che si sappia, ad esempio, cosa è l’eguale, perché attraverso la
nostra percezione sensibile vediamo cose eguali tra loro. Platone dimostra nel Fedone che non può essere
così.
Un esempio per chiarire
Immaginiamo due bastoncini di legno eguali tra loro. Sembra che, vedendoli, si veda in essi l’eguale, e
s’impari così a conoscerlo. Sennonché non esistono due bastoncini di legno perfettamente uguali in natura,
o due altri oggetti perfettamente uguali, quando meno perché non stanno nello stesso luogo, e già per
questo sono diversi. Si obietterà che, se non si possono vedere due bastoncini di legno proprio eguali, in
ogni loro misura, protuberanza, scanalatura, colore etc., se ne possono vedere due quasi eguali. Ciò è vero,
ma l’eguale non può essere conosciuto da un simile «quasi eguale». Perché rimanendo sul piano percettivo,
il quasi eguale è soltanto il non eguale, ed è «quasi» eguale soltanto in confronto all’eguale, che deve
dunque essere preliminarmente conosciuto perché tale «quasi» eguale sia constatato e possa essere
immaginato come un eguale.
Il rapporto tra le cose e le idee
L’innatismo della conoscenza, proposto per la prima volta nel Menone con vaghe motivazioni di tipo
religioso, nel Fedone si precisa come un innatismo delle idee e si fonda su argomentazioni razionali: L’eguale
(come tante altre nozioni) è un’idea, cioè un universale reale in sé stesso, perché non deriva dalle cose
sensibili, in quanto esse non sono mai eguali, ma le precede logicamente e ne costituisce il modo di
assunzione mentale. Nell’ambito di tale concezione il problema della causa della generazione e corruzione
delle cose trova una spiegazione di tipo non naturalistico. Essa è data dal loro avvicinamento e dal loro
allontanamento alle e dalle corrispondenti idee. Quando, ad esempio, dice Platone, accostando un oggetto
a un altro si genera una dualità di quegli oggetti, tale dualità non è generata dalle caratteristiche fisiche degli
oggetti stessi, che rimangono quelle che erano prima del loro accostamento, e neppure dallo spostamento
fatto nello spazio per accostarli, che lascia intatta la loro natura, ma è generata dall’idea del due cui quegli
oggetti vengono ad un certo momento mentalmente avvicinati
La teoria della partecipazione o metessi (metexis)
Avvicinamento e allontanamento alle e dalle idee corrispondono a una maggiore o minore partecipazione
ad esse delle cose. Il rapporto delle cose con le idee viene infatti pensato nel Fedone mediante la nozione di
partecipazione, in greco metexis. Ogni cosa porta il nome di un’idea (se dico un oggetto bello, lo chiamo con
il nome dell’idea del bello), e ciò significa, per Platone in questa fase del suo pensiero, che essa assorbe una
parte della realtà di quell’idea, che non possiede in proprio, allo stesso modo di una pietra riscaldata dal
Sole che è sì calda, non per calore proprio, ma perché lo ha assorbito il Sole. Tale è la partecipazione delle
cose alle idee, che può essere maggiore o minore, determinando così vicinanza o lontananza delle cosa alla
o dalla idea, e quindi la sua generazione e corruzione. Stabilita così la causa della generazione e della
corruzione delle cose, risulta che il vero e proprio principio causale è costituito dalle idee, non però in
quanto cose, ma in quanto intellegibile. La partecipazione, infatti, secondo Platone, riguarda non soltanto il
rapporto tra sensibile e intellegibile, ma anche quello tra intellegibile ed intellegibile. Ad esempio, l’idea del
tre partecipa all’idea del dispari
Differenza tra il rapporto di partecipazione tra sensibile -
intellegibile e tra intellegibile - intellegibile
C’è però una differenza fondamentale tra la partecipazione del sensibile all’intellegibile e quella
dell’intellegibile all’intellegibile. La cosa può partecipare parzialmente all’idea e parzialmente al suo
contrario, come un sasso può riscaldarsi da un lato, partecipando al calore del Sole, e rimanere freddo
dall’altro. La partecipazione di un’idea a un’altra idea, essendo universale, esclude invece la partecipazione
al suo contrario, per cui il tre, in quanto partecipa al dispari, non potrà essere mai parte di un pari. L’anima è
un intellegibile che partecipa all’idea di vita, appunto perché è l’energia vitalizzante del corpo. Il Socrate di
questo dialogo non confuta la teoria di Cebete che l’anima sia l’energia del corpo, e ciò significa che
implicitamente Platone ammetta che l’anima individuale muoia per cui, per il principio di cui si è detto, non
può partecipare alla morte, ed è quindi immortale, Intendendo però tale immortalità come predicato
dell’anima universale, la cui vita continua oltre la morte del singolo.

Repubblica
La datazione
La Repubblica è considerata l’opera più sistematica e più ampia di Platone. È composta da dieci libri:
- Il primo libro (il Trasimaco o Sulla Giustizia) è a parere degli studiosi un dialogo giovanile, scritto
prima del primo viaggio in Sicilia (388/7) aggiunto successivamente al corpus dell’opera;
- Dal libro II al libro IX l’elaborazione è posteriore al primo viaggio in Sicilia ma precede il secondo
viaggio (366);
- Il libro X probabilmente potrebbe essere stato aggiunto dopo il secondo viaggio.
Ambientazione
I dialoghi platonici contengono spesso indicazioni relative alla loro data «drammatica», cioè al periodo in cui
si sarebbe svolto, secondo la finzione letteraria, il dialogo narrato. Non è tuttavia facile stabilire questo tipo
di datazione per la Repubblica, in cui si mescolano indicazioni sufficientemente precise insieme ad altri
suggerimenti che entrano in contrasto con queste. Gli studiosi si sono divisi su due possibili date il 411 o il
422. Molto più importanti sono le indicazioni platoniche sull’ambiente in cui il dialogo ha luogo. Il dialogo si
svolge nella ricca casa del meteco Cefalo, al porto del Pireo: un luogo geograficamente e socialmente
contiguo alla polis ateniese, dunque un punto di osservazione critica sui suoi fallimenti, le sue difficoltà, le
sue possibilità di rifondazione politica e morale. Il momento è ancora più significativo: il dialogo si svolge
nella notte in cui viene celebrata la festa in onore della dea tracia Bendis. Un contesto straniante, notturno e
barbarico: la discesa di Socrate al Pireo può venire simbolicamente interpretata come quella discesa
(katabasis) in un mondo infero, da cui poi risalirà ad Atene (anabasis) con più forza e più consapevolezza.
Personaggi del dialogo
I personaggi che agiscono nel dialogo accanto a Socrate costituiscono uno spaccato fortemente
rappresentativo della società ateniese della fine de V secolo:
- Il personaggio che dovrà fronteggiare Socrate è il sofista e logografo Trasimaco di Calcedonia. Il suo
pensiero non ci è sufficientemente noto, nel dialogo Platone gli attribuisce un radicale realismo
politico, vicino alle tendenze oligarchiche e filotiranniche già sostenute da Callicle nel Gorgia. A
sostenere le sue tesi c’è Clitofonte, uno dei seguaci di Teramene nel tentativo di colpo di stato
oligarchico del 411.
- Sul fronte opposto c’è la parte democratica, rappresentata dal padrone di casa, il ricco meteco
Cefalo, l’oratore Lisia, che assiste al dialogo senza intervenire e suo fratello Polemarco. Nel corso
della discussione Polemarco sosterrà alcune tesi di Socrate. È da sottolineare che Polemarco
sarebbe caduto vittima del regime dei Trenta tiranni nel 404.
- La giovane aristocrazia ateniese è rappresentata da Glaucone e Adimanto, fratelli di Platone; a
partire dal II libro diventeranno i principali interlocutori di Socrate; i soli dal V libro in avanti.
La composizione dei contenuti del dialogo
I contenuti del dialogo sono caratterizzati da un’inevitabile complessità dovuta allo sforzo di ridurre a sintesi
una molteplicità di temi teorici molto differenziati tra di loro. La stratificazione cronologica, il fatto che il
dialogo sia stato composto in tempi diversi, influisce molto sulla complessità e ciò è riscontrabile nelle
variegate modalità stilistiche e argomentative che si avvicendano dal I libro in avanti. Tuttavia, l’andamento
lineare e ascendente permane in linea di massima in tutto il dialogo: si assiste a un progressivo ampliarsi
delle tematiche trattate e il livello di riflessione tende ad allargarsi sempre di più.
La forma letteraria
La forma letteraria scelta da Platone è la forma mista diegetico-mimetica (narrativo-imitativa): Questa forma
consiste in una cornice narrativa (come quella affidata a Socrate lungo tutto il dialogo) all’interno del quale
sono inserite le battute dialogiche in forma di discorso diretto. Rispetto al poema epico, la Repubblica
presenta una netta prevalenza della parte dialogica, quindi imitativa, che lo avvicina alla mimesi teatrale, e
più precisamente al genere della commedia. Tuttavia la parte narrativa (diegetica) non è affatto priva di
importanza, soprattutto per quanto riguarda il quadro storico-simbolico di tutta l’ambientazione; inoltre non
è un caso che all’inizio del II libro tutto il dibattito del I venga definito un «proemio» , approccio distintivo
della letteratura epica.
Sommario dei temi
- Libro I: Introduzione al tema della giustizia; la definizione del sofista Trasimaco e la confutazione di
Socrate; Non si può risolvere il problema della definizione della giustizia se posto al livello
dell’individuo;
- Libro II: La giustizia come comportamento individuale è collegata alla realizzazione della giustizia in
città;
- Libro III: Il ruolo e l’educazione dei guardiani; il criterio di selezione dei guardiani e il rapporto tra
potere politico e ricchezza;
- Libro IV: L’obiezione di Adimanto: i guardiani non potranno essere felici; la risposta di Socrate; la
limitazione allo scopo di salvaguardare la coesione della città; come uno stato giusto può difendersi
dai nemici; i limiti all’espansione dello stato; le tre classi di cittadini
- Libro V: la comunanza dei beni e la questione delle donne governanti: la legittimità della parità nelle
funzioni di governo; il rapporto tra teoria e pratica; i motivi per cui solo il vero filosofo è legittimato
al reggimento politico della città
- Libro VI: Le qualità del vero filosofo l’esempio del timoniere e dell’allevatore: la vera scienza e l’idea
del Bene e la metexis; la metafora della linea;
- Libro VII: Il mito della caverna; la nuova teoria della mimesis;
- Libro VIII: le degenerazioni delle città e dell’anima
- Libro IX: la tirannide e l’infelicità del Tiranno
- Libro X: la critica all’arte imitativa. Le ricompense per chi vive nella giustizia; il mito di Er
Libro I
l’argomento di Cefalo
Alla domanda di Socrate di chiarire in cosa appunto consiste la vita giusta, Cefalo risponde – secondo una
massima tipica della morale degli affari – che «è giusto rendere ciò che è dovuto». Si tratta di un errore
concettuale tipico degli interlocutori ingenui di Socrate che offrono casi o esempi di condotte o di cose che
godono di una certa proprietà (come la giustizia in questo caso) senza riuscire definire la proprietà stessa (la
giustizia per l’appunto). All’esempio di Cefalo «è giusto rendere ciò che ci è dovuto come ciò che si è
ricevuto in prestito» Socrate fa notare l’impossibilità di universalizzare questo assunto: «Se si è ricevuta in
prestito un’arma e questa viene richiesta dal proprietario che nel mentre è impazzito o è ubriaco, non è
giusto renderla»
l’argomento di Polemarco
Citando il poeta Simonide Polemarco compie un passaggio riprendendo tesi del padre Cefalo: «è giusto dare
a ciascuno ciò che gli è dovuto, quindi la giustizia corrisponde a fare del bene agli amici e fare del male ai
nemici» Qui la massima viene estesa, sganciata dalla morale degli affari e reinterpretata nell’ottica di una
morale competitiva e agonistica. Questo modo di pensare era molto radicato nella mentalità greca. Ha un
livello di generalizzazione più ampio. È estendibile al campo politico, che sarà il tema di tutti i libri del
dialogo. Socrate confuta la tesi in questo modo: «fare del male» equivale a rendere peggiore, come può
l’azione giusta avere per scopo di peggiorare qualcuno, sia pure un nemico? Secondo un’ulteriore
precisazione socratica, amici saranno i «buoni», nemici i «cattivi». Scopo dell’azione giusta sarà per Socrate
rendere i cattivi buoni anziché più cattivi di quelli che già sono. Quindi la massima di nuocere ai nemici nata
in quest’ultimo contesto non può essere universalizzata perché andrebbe a contraddire la finalità di ogni
condotta giusta.
le due tesi di Trasimaco
Trasimaco irrompe nel dibattito introducendo due tesi:
1. «la giustizia è l’utile del più forte»
2. «la giustizia è un bene altrui [cioè del potente nel cui interesse si è obbligati a rispettare le norme],
ma un danno proprio [cioè di chi è assoggettato a quel potere di sopraffazione (pleonexia)]»
Le tesi di Trasimaco rispetto a quelle precedenti offrono un altissimo livello di generalizzazione, addirittura
di universalità. A differenza delle tesi di Cefalo e Polemarco non sono frutto di opinioni condivise e radicate
nella cultura greca, ma espressioni molto elaborate proprie della nuova cultura sofistica. In queste tesi
troviamo il nocciolo teorico di quel «positivismo giuridico» che verrà poi sviluppato nella filosofia moderna:
Giusto è ciò che risulta conforme alla norma prescritta dalla legge:
- La legge è imposta da chi detiene il potere (la forza) per farlo
- La condotta giusta da parte dei sudditi è dunque finalizzata all’interesse dei «forti», quindi alla
conservazione dell’ordine costituito
la strategia confutatoria di Socrate
La prima tesi di Trasimaco «la giustizia è l’utile del più forte» non verrà mai confutata da Socrate nel corso
del dialogo, probabilmente perché lo stesso Platone la ritiene inconfutabile
Per quanto riguarda invece la seconda tesi «la giustizia è un bene altrui ma un danno proprio», questa
subisce tre tentativi di confutazione nel primo libro, un quarto verrà delineato invece nel corso del dialogo
- La prima obiezione è ispirata al modello delle tecniche e delle professioni: chi detiene il potere in
questi contesti lo esercita nell’interesse dei suoi sottoposti: per la cura dei malati o per la sicurezza
del gregge, non per la loro spoliazione
- La risposta di Trasimaco è agevole: il medico cura per guadagno, il pastore per macellare o tosare
- La controbiezione di Socrate si fonda sul fatto che la ricerca del profitto è una tecnica aggiuntiva non
propria di quella determinata arte
- La seconda obiezione è più ficcante: senza un minimo di giustizia, cioè di regole condivise, nessuna
aggregazione sociale è possibile, neanche quella di una banda di ladri
- Terza obiezione consiste nell’affinità fra l’uomo giusto e gli dèi: gli dèi finiranno per premiare il
giusto.
l’intervento di Glaucone e di Adimanto
Glaucone interviene nel dibattito dando inizialmente ragione a Trasimaco quando attribuisce agli uomini
l’istinto primario alla sopraffazione (pleonexia). Tuttavia, evidenzia Glaucone, ognuno si rende conto che il
rischio di subire ingiustizia ad opera altrui è superiore alla probabilità di riuscire a imporre con violenza
l’ingiustizia agli altri. Per paura e per debolezza, dunque gli uomini stipulano un patto sociale che comporta
la rinuncia di tutti all’esercizio dell’ingiustizia:
- Da qui nascono le leggi, e l’approvazione pubblica del comportamento giusto, cioè collaborativo e
non violento. Però questo patto fa violenza alla natura segreta e primaria dell’uomo, che resta
aggressiva e ingiusta; quindi, qualora si avesse la possibilità di commettere ingiustizia rimanendo
impuniti, la si commetterebbe.
- Dopo Glaucone interviene Adimanto che rimette in discussione l’argomento socratico della
ricompensa divina (terzo tentativo di confutazione socratica delle tesi di Trasimaco):
 Non è certo che gli dèi esistono;
 Se esistono non è certo che si occupino della sorte degli umani
 Secondo la tradizione religiosa greca gli dèi procacciano favori agli umani a seguito di
sacrifici e offerte, e ciò favorirebbe gli ingiusti che hanno la possibilità di investire le loro
ricchezze.
Conclusione del I libro
Glaucone e Adimanto richiedono insomma a Socrate una fondazione della morale che risulti autonoma sia
rispetto alle convenzioni sociali, sia rispetto alle precarie garanzie religiose; la seconda e la terza risposta di
Socrate a Trasimaco vengono in questo modo invalidate, e il problema della desiderabilità della giustizia
riproposto in modo radicale. Il II libro si avvia con un’intuizione di Socrate: parlare della giustizia in una città
ideale, per poter leggere in «caratteri grandi» quello che si è cercato di decifrare in «caratteri piccoli».
Libro II
la giustizia come comportamento individuale è correlata la
realizzazione della giustizia in città
Dopo aver risposto ad alcune obiezioni di Glaucone e Adimanto, Socrate propone di indagare la natura della
giustizia al livello, non dell’individuo, ma della città: In una cosa più grande, osserva, ci sarà una giustizia più
grande e più facile da percepire. Poiché la giustizia come comportamento individuale è strettamente
correlata alla realizzazione della giustizia in città, bisogna ragionare su come si genera una città. Socrate
spiega che quando i bisogni degli individui si sono sviluppati al punto che ognuno di loro non può soddisfarli
senza la cooperazione degli altri, occorrono una divisione dei compiti e più categorie di produttori. La
distribuzione dei beni richiede allora lo scambio, che a sua volta esige mercanti e monete. Scambio,
mercanti e monete creano nuovi bisogni, e nuovi e più ampi commerci. Nascono così i conflitti tra le città e
quindi le guerre. L’inevitabilità della guerra impone la presenza in ogni città di una classe di guardiani
soldati. La città- Stato comprende dunque tre classi: quella dei produttori (contadini, artigiani, mercanti,
costruttori di case); quella dei guardiani soldati; quella dei guardiani governanti. La giustizia deve essere
quindi definita rispetto a questo sistema di bisogni e di classi.
Libro III
il ruolo dell’educazione
In uno Stato caratterizzato da un notevole sviluppo delle produzioni, degli scambi, dei bisogni e dei conflitti,
i guardiani soldati svolgono un ruolo importante, perché proteggono la comunità dalle minacce causate dal
suo stesso sviluppo. Per assolvere adeguatamente la loro funzione, devono essere capaci di durezza verso i
nemici e di benevolenza verso chi devono proteggere. Le due qualità di norma incompatibili possono essere
armonizzate solo con un’adeguata educazione.
Il tema dell’educazione è centrale nel III libro della Repubblica:
 I bambini dovranno essere educati inizialmente alla musica e alla ginnastica
- Musica nell’accezione platonica ingloba la poesia e qualunque genere di letteratura
espressa in forme ritmiche, compresa la tragedia e la commedia.
- Riconosce al mito un’essenziale funzione educativa, da utilizzare soprattutto con i fanciulli
ma in forma molto mirata, da dosare con cautela e solo quanto riesca a veicolare contenuti
morali non altrimenti assimilabili in tenera età.
- Tuttavia ci sono dei miti che non contengono insegnamenti morali, e che per questo devono
essere banditi dalla città (miti che narrano di comportamenti nefandi degli dèi, o
presentano eroi ingiusti ma felici, o esaltano l’astuzia di chi pratica l’ingiustizia senza mai
farsi scoprire)
In tal modo Platone si pone in contrapposizione con la pedagogia della tradizione poetica, e quindi con il
modello educativo del suo tempo, incentrato sulle composizioni di Omero ed Esiodo.
il criterio di selezione dei guardiani e rapporto potere politico e
ricchezza
Come scegliere i guardiani? Non per ricchezza, né per nobili natali, ma soltanto in conformità a precise
inclinazioni verificate durante il processo educativo, e attraverso un sistema di esami. Ciò significa, aggiunge
Socrate con grande scandalo per la mentalità aristocratica dell’epoca, che si deve ammettere la possibilità
che i figli dei governanti possano essere assegnati all’artigiano, e i figli dell’artigiano, se meritevoli, possano
essere mandati al governo. Questo criterio di selezione dei governanti risente del pitagorismo: Platone
delinea un regime di stampo aristocratico, difeso da un’aristocrazia del coraggio e diretto da un’aristocrazia
del sapere filosofico. Alla fine del Libro III Socrate, sollecitato dai suoi interlocutori, passa a esaminare come
debbano vivere i governanti di uno stato per promuovervi la giustizia: «bisogna che vivano e abitino a
questo modo: in primo luogo che nessuno possegga nessuna propria sostanza... e che nessuno abbia casa e
dispensa così fatta che non vi possa entrare chi voglia, e quanto al nutrimento... essi lo riceveranno da altri
cittadini, secondo un accordo stabilito, quale compenso della loro custodia e in tale misura che alla fine
dell’anno non ne soverchi loro e non ne manchi... Quanto all’oro e all’argento si dirà... che essi soli tra tutti i
cittadini non è lecito di maneggiare o toccare». Per Platone è fondamentale che la ricchezza economica e il
potere politico non appartengano mai alle stesse classi e alle stesse persone: chi vuole perseguire la
ricchezza deve essere escluso da ogni decisione di governo e di strategia militare, mentre governanti e
soldati devono vivere in un regime di piena comunanza.
L'educazione della polis ideale
La polis ideale fondata sulla giustizia non può essere costituita da uomini che sono vissuti nell'ambiente
corrotto della democrazia ateniese.
I filosofi devono partire da una comunità di bambini che, non essendo stati ancora corrotti possono venire
educati alla giustizia. I bambini all'inizio saranno sottoposti tutti allo stesso processo educativo (ginnastica,
musica ecc.) di ascendenza aristocratica
Poi, i futuri reggitori (filosofi re) dovranno percorrere un iter educativo particolarmente lungo, che si
concluderà all'età di 30 anni; la disciplina più importante sarà la dialettica (la capacità di distinguere e
interpretare le realtà intelligibili) per arrivare all'età di 50 anni, conseguita un'assoluta saggezza, il filosofo
potrà assumere la responsabilità di governo. Tale carriera è aperta, con egual diritti, anche alle donne.
Gli altri verranno suddivisi in base alle attitudini che i questi dimostrano, e saranno destinati poi
all'educazione propria di ogni singolo gruppo sociale (guardiani e produttori) grazie all'educazione ricevuta
ciascuno capirà che la propria collocazione sociale è giusta e accetterà le decisioni dei filosofi-re
mobilità sociale: Platone non esclude che un individuo, o il figlio stesso, possa mutare la classe sociale di
appartenenza, grazie a un mutamento delle proprie abitudini: non c'è divisione castale per nascita
l'intellettualismo etico socratico...
Platone applica al campo politico il principio socratico dell'intellettualismo etico: una persona che sa (quindi
educata alla giustizia) non potrà commettere il male.
Libro IV
come potranno essere felici i guardiani?
Adimanto obietta a Socrate che la condizione dei governanti, così come è stata delineata, è tale da non
renderli felici. «Come potrebbero del resto essere felici degli uomini che tengono in pugno il destino della
città, e che tuttavia non possono acquistare in proprietà terre, bestiame, case, arredi, e non possono
neppure consumare gli alimenti di maggior pregio?» In prima battuta Socrate risponde che l’obiezione non è
corretta dal punto di vista del metodo, perché si pretende di giudicale la felicità o l’infelicità del singolo,
astraendolo dall’organizzazione sociale a cui è inserito. «In una città in cui il denaro è la cosa più importante
la mancanza di esso è grosso limite alla felicità, ma in una città in cui sono altre le cose fondamentali essere
ricco non è la via d’accesso alla felicità». Inoltre, fa notare Socrate, l’obiezione non tiene conto che la felicità,
pensata al livello di città, deve riguardare la città nel suo insieme e non le sue singole parti. Il problema vero
è quello di definire le qualità che i governanti devono avere, non cercare fonti di ricchezza per loro. Per
Platone i governanti dell’Atene democratica, tutti intenti a consolidare il proprio potere personale e a trarre
utili individuali dalla loro posizione politica non possono definirsi veri governanti, in quanto sono distanti
dall’idea di governare
come può lo Stato giusto difendersi dai nemici?
Adimanto rivolge a Socrate una seconda obiezione: anche ammesso che i governanti dedichino la loro vita a
governare la città senza benefici, e ammettendo che una città siffatta sia felice: «Come potrebbero far
guerra, dal momento che non hanno denaro, soprattutto quando sia costretta a farla contro una città
grande e ricca?» La risposta di Socrate è apparentemente paradossale: fare la guerra contro una sola città
sarebbe difficile, ma contro due città grandi e ricche sarebbe già più facile! Spiega allora Socrate che le città
grandi e ricche sono deboli, perché divise al loro interno: «L’iniziativa privata, il commercio e il denaro,
infatti, portano rivalità e lacerazioni che distruggono l’unità etica della città, dividendola in una pluralità di
gruppi economici nemici l’un dell’altro» «Ogni città attuale, per piccola che sia, ne comprende per lo meno
due, nemiche tra loro: l’una dei poveri, l’altra dei ricchi; in ciascuna di queste ce n’è parecchie altre. Ora, se
queste tu le tratti come un’unica città, commetterai un errore gravissimo: ma se come molte, dando agli uni
le sostanze, i poteri e le vite degli altri, ti troverai ad avere sempre alleati molti, nemici pochi». Di fronte al
problema se ci sono limiti all’ingrandimento della città e all’estensione del suo territorio, Socrate risponde
che una città può crescere fino al punto di rimanere una, più in là no. Compito del governante è appunto
quello di vigilare affinché la città non sia né piccola né grande, alla fine preservando l’unità
le tre classi di cittadini (governanti, soldati e produttori) e le virtù
corrispondenti
Proseguendo nelle sue argomentazioni, Socrate spiega che lo Stato che corrisponde alla sua idea è
articolato in tre classi di cittadini, definite ciascuna da una specifica virtù. Al vertice c’è la classe dei
governanti, abilitati a essere tali dalla virtù della sofia, termine con cui Platone intende la conoscenza
razionale della verità del bene e del male, data dalla filosofia. Sotto la direzione dei governanti opera la
classe dei soldati, abilitati a essere tali dalla virtù dell’andréia, cioè, letteralmente, del coraggio. In Platone il
significato del termine è più ampio di quello usuale: oltre al semplice ardimento esso indica anche la forza
interiore, la saldezza delle intenzioni, la fermezza del carattere, e implica anche un certo grado di
conoscenza filosofica. Ovvero la conoscenza di ciò che è veramente temibile, e di ciò che non lo è. Infine c’è
la classe dei produttori, cioè di coloro che sono autorizzati a cercare la ricchezza privata, attraverso la
fabbricazione e il commercio dei prodotti; la virtù propria di questa classe è la sofrosyne, cioè la saggezza
intesa come accettazione dei limiti posti dalle classi superiori ai cittadini che si occupano soltanto
d’economia.
L’analogia tra la struttura dello Stato e la struttura dell’anima divisa
in parti funzionalmente distinte
La vera natura della giustizia, conclude Socrate, consiste nell’adempimento di ogni compito da parte
soltanto di coloro che vi sono preposti per il loro specifico ufficio, in base alla loro specifica inclinazione e
virtù. Essa è quindi armonia nella cooperazione. L’idea della giustizia come misura e armonia definisce la
giustizia nello Stato e la giustizia nel singolo individuo. L’esistenza nell’anima di parti funzionalmente distinte
è provata dal fatto che, se l’anima costituisse un’unità indistinta, non potrebbe avere contemporaneamente
quelle tendenze contrastanti che invece ne caratterizzano la vita. Nell’anima individuale si possono
distinguere, riguardo alla loro funzione, tre diverse parti:
- L’anima razionale, deputata a guidare la mente umana, e quindi le nostre scelte di vita;
- L’anima passionale, espressione delle passioni nobili, quali il coraggio e la generosità;
- L’anima concupiscibile, la parte più istintiva e cieca della nostra anima
La giustizia nell’individuo, come nello Stato, è data dall’armonia delle tre parti, cioè dall’adempimento di
ciascuna al compito che le è proprio: Tale armonia può realizzarsi soltanto entro una precisa gerarchia che
dia all’anima razionale il governo della persona, e le subordini i compiti delle altre due anime. Le diverse
disposizioni che gli individui manifestano dipendono dall’anima che prevale in lui.
La politeia
Il fine della politea è l'organizzazione della città secondo giustizia. Politea va intesa quindi come modello di
polis ideale e giusta questione centrale. Il problema della politica è quello di far vivere in armonia uomini
con diversi caratteri.
Tre sono i caratteri fondamentali, ciascuno corrispondente alla prevalenza di una parte dell'anima e di una
specifica virtù:
 Anima concupiscibile: è la parte dell'anima che produce l'attrazione per i piaceri sensibili, quindi
che presiede alla mera conservazione fisica dell'individuo. Individui in cui preparrà la parte sensibile
dell'anima saranno i produttori (agricoltori e artigiani), il cui compito è produrre beni di sussistenza
per l'intera comunità. La loro virtù specifica sarà la sofrosyne ovvero saggezza data dalla
temperanza.
 Anima passionale: è quella che permette di reagire agli stimoli e determina l'impulso all'azione e al
movimento. Coloro in cui prevale l'anima irascibile costruiscono la classe dei guerrieri, preposti alla
difesa della città. La loro virtù specifica sarà l'andréia ovvero coraggio, forza interiore, fermezza del
carattere.
 Anima razionale: è quella parte dell'anima predisposta a contemplare i concetti universali e a
produrre l'attrazione per la conoscenza. Individui in cui prevale l'anima razionale, dopo un rigoroso
percorso di studi saranno i governanti coloro destinati ad andare a guidare la città in quanto
conoscono la giustizia. La loro virtù specifica sarà la sofia, ovvero la conoscenza razionale delle idee,
innanzitutto quella del bene.
Libro V
La comunanza dei beni e la questione delle donne governanti
Allo scopo di eleminare le ragioni che possono alimentare l’egoismo e i favoritismi tra governanti, Socrate
radicalizza il discorso sulla comunanza di vita che deve caratterizzare questa classe, abolendo anche quella
forma di proprietà dell’uomo sulla donna che era all’epoca il matrimonio. Custodi uomini e donne devono
vivere in comune e procreare in maniera tale che nessuno sappia chi siano i propri figli, onde evitare che un
giovane possa accedere a un ruolo direttivo dello Stato per via della protezione di genitori influenti. Socrate
aveva già accennato, in precedenza, alla parità di funzioni tra uomini e donne, ma non aveva voluto
sviluppare il discorso, perché temeva le reazioni scandalizzate di quanti si sentivano legati ai costumi
tradizionali. Glaucone, però, lo convince a esprimersi in merito, senza tralasciare nulla. Per Socrate è lecito
supporre che se donne e uomini ricevessero la medesima educazione, emergerebbero tra le prime, come
tra i secondi governanti capaci di guidare la città. Glaucone obietta che Socrate ha sostenuto fino ad ora che
nella città i compiti devono essere divisi in base alle inclinazioni: si può negare che ci siano differenze
naturali tra uomini e donne? Socrate ammette la differenza, ma aggiunge che spesso le differenze naturali
non hanno alcuna incidenza rispetto ai compiti che devono essere svolti. Per i cani da caccia, per esempio,
non vi è alcuna differenza tra maschi e femmine per le funzioni che sono chiamati a svolgere.
Divisione dei compiti e “comunismo”
Corrispondenza tra la parte dell'anima prevalente è la classe sociale. In questo modo ognuno sarà attivo a
favore della comunità in base alle proprie attitudini (compie l'attività che gli è più congeniale) proprio per
questo ciascun cittadino potrà essere soddisfatto del ruolo che gli verrà assegnato all'interno dello Stato.
Carattere ultra-aristocratico del potere dello Stato platonico perché il potere spetta di diritto ai filosofi che
non sono affatto scelti in alcun modo dai governanti; i quali devono ai filosofi totale obbedienza.
per quale ragione i sottoposti (governati) dovrebbero accettare il potere assoluto di filosofi?
Perché il potere agli occhi delle altre due classi presenta caratteristiche assolutamente non attraenti.
I filosifi-re non hanno infatti diritto ad alcun vantaggio materiale per il loro operaio (che a loro, interessati
solo alla verità, è indifferente).
Comunismo platonico: tutto nella Politeia deve essere in comune non solo le proprietà materiali ma anche
le donne e i bambini. Il sentirsi parte della Comunità esclude i principi del mio e del tuo. La classe dei
produttori, in virtù dell'esigenza del loro carattere, hanno diritto di compensi individuali e proprietà nonché
alla possibilità di tenere una famiglia propria.
Libro VI
Le qualità del vero filosofo
Socrate prosegue in questo libro l’indagine sulla natura del sapere filosofico. La natura del sapere filosofico
conferisce a chi lo possiede tutte le qualità necessarie per governare nella maniera migliore lo Stato. In
quanto amante della verità il filosofo non mente, non corrompe, non è avido, perché predilige i beni
spirituali. Adimanto obietta che i filosofi sono inutili allo Stato e sono malvagi. A tali obiezioni Socrate
risponde con due esempi: Quello dei marinai che si azzuffano per il governo della nave. Quello dell’uomo in
grado di interpretare gli istinti e gli appetiti di un mostruoso animale. Socrate con questi due esempi vuole
dimostrare che nella attuale democrazia ateniese, palese nell’analogia con la nave senza pilota in cui i
marinai si azzuffano per prendere il controllo, gli uomini che si presentano come sapienti sono simili a quegli
allevatori che interpretano e assecondano gli istinti più bassi delle bestie. In questo contesto il filosofo può
sembrare un asociale e inutile allo stato, ma in quanto detentore delle massime scienze è a lui che bisogna
conferire il potere.
La vera scienza e l’idea del Bene
Che cosa intendi, Socrate per massime scienze? Chiede Adimanto. Socrate inizialmente è propenso a non
rispondere, perché le questioni più complesse esigerebbero che l’indagine si sviluppasse su un’altra via,
lunga e difficile, ma soprattutto più adeguata a una questione di massima importanza, come è appunto la
definizione dell’oggetto e del metodo delle scienze. Adimanto e Glaucone insistono e pregano Socrate di
non abbandonare l’argomento, e che a loro basterà che egli ne parli come ha fatto con la giustizia, la
saggezza e le altre virtù. A questo punto Socrate propone ancora una volta un’analogia: l’ente che nel
mondo sensibile svolge una funzione analoga all’idea del Bene nel mondo intellegibile è il Sole. Come il Sole
nello spazio rende percepibile alla vista le cose che altrimenti sarebbero celate dall’oscurità, così l’idea del
Bene nello spazio intellegibile della razionalità rende visibile alla mente le idee, nel senso che illumina la
loro vera natura razionale, che è quella di essere intimamente connesse all’idea del Bene.
l’idea del Bene in analogia al Sole
Con questa analogia Platone riprende la teoria della
metexis, ovvero la teoria della partecipazione già
presentata nel Fedone, in questo caso tra l’idea del
bene e le altre idee e tra l’idea del sole e gli enti
sensibili.

La metafora della linea


Se tracciata una linea ascendente, la dividiamo in due, e dividiamo ulteriormente in due le parti ottenute,
abbiamo una successione di quattro segmenti che può rappresentare la progressione del sapere
dall’oscurità verso una crescente chiarezza, per la concomitante progressione dei suoi oggetti verso una
realtà sempre più compiuta. I primi due segmenti rappresentano la realtà e la conoscenza del mondo
sensibile, il terzo e il quarto scandiscono invece due gradi della realtà della conoscenza del mondo
intellegibile. Il primo segmento rappresenta la parte più oscura del sapere, detta eikasia, cioè la percezione
di quel tipo di immagini caratterizzate da una permanenza evanescente (sogni, allucinazioni, immagini
riflesse). Il secondo segmento rappresenta la pistis, cioè quel livello di conoscenza basata sulla certezza delle
cose che ci appaiono direttamente nell’esperienza, e che, sono più stabili, quindi più reali delle precedenti.
Il terzo termine rappresenta la diànoia, termine di difficile traduzione, perché Platone con esso indica il
ragionamento condotto su essenze intellegibili (numeri, figure geometriche, raffigurazioni di solidi, orbite
planetarie...) ma appoggiato nei suoi passaggi ad esempi sensibili, e fondato al suo inizio da premesse
ipotetiche. Il quarto segmento della linea rappresenta il livello di massima chiarezza del sapere e di massima
realtà dei suoi oggetti: esso vuole esprimere la nòesis, cioè la suprema intelligenza comprendente, che
ragiona su essenze intellegibili per via puramente logica, e le riconduce al loro principio che è l’idea di bene.

Il libro si chiude con la metafora della linea


MONDO SENSIBILE MONDO INTELLEGIBILE
Conosciuto per
Conosciuto per Conosciuto attraverso la Conosciuto con l’intelligenza
immaginazione o
credenza ragione discorsiva pura
congettura

Metafora della linea divisa


MONDO DELLE FORME METAFISICO-
MONDO DELLE FORME MATERIALI
IMMATERIALI
Imperfetto e mutevole
Perfetto e immutabile
Riflessi delle cose
fuori caverna Visione cose
Piano della realtà Ombre, riflessi nella Oggetti nella caverna Immagini mentali illuminate dal Sole (il
(ontologia) caverna Oggetti sensibili [idee] matematico- Bene) fuori caverna
Immagini (realtà che si crede geometriche Idee pure [idee
(effigi-riflessi la sola esistente e (numeri-figure valori]
sull’acqua) tutta la realtà) geometriche- Essenze universali-
dimostrazioni necessarie
matematiche)

Pensiero filosofico
Intellezione [atto
Pensiero discorsivo
puro di conoscenza
[pensiero
intellegibile] (nòesis)
mobile/dialettico]
Immaginazione Credenza [cuore della
(diànoia)
(eikasìa) (pistis) conoscenza vera]
Piano della Conoscenza
Conoscenza
conoscenza matematica
filosofica
(gnoseologico) (anamnesi)
Intuizione intellettiva
(anamnesi)
Conoscenza sensibile
Conoscenza razionale (dell’anima)
Sensazione [è appresa dai sensi-
EPISTEME (senza vera, universale
esperienza]
assoluta)
DOXA (relativa e variabile dei Sofisti)

Libro VII
Dalla metafora della linea alla dialettica
Sulla base della metafora della linea, dopo aver trattato il mito della Caverna, Socrate delinea la scienza
somma, ovvero la Dialettica: La dialettica è un percorso (methodos) che procede «verso il principio»,
eliminando via via le ipotesi delle singole scienze «dialettico è colui che afferra la ragione (logos)
dell’essenza (ousia) di ogni singola cosa». Non è dialettico «chi non sa delimitare razionalmente l’idea del
bene, isolandola da tutto il resto, e, come in battaglia, superando ogni confutazione e sforzandosi di
argomentare non secondo l’opinione, ma secondo l’essenza, attraversa queste difficoltà con la saldezza della
ragione». Il compito della dialettica risulta qui sommariamente, ma abbastanza delineato da questi tre
punti. Possiamo quindi affermare che lo scopo della dialettica è la ricerca delle connessioni logiche tra idee,
in mondo tale che ciascuna di esse riveli il proprio essere e la propria verità nell’insieme dei rapporti con le
altre idee. Ma questa tela di connessioni logiche deve giungere a quel limite estremo del pensabile dove è
collocata l’Idea del Bene.
il mito della caverna
Con il mito della caverna Platone intende rappresentare la condizione umana come quella di prigionieri
legati nelle loro postazioni in modo che possano rivolgere lo sguardo soltanto verso il fondo della caverna.
Alle loro spalle, dietro un muretto, passano uomini che reggono delle statuette in modo che queste
sporgano oltre il bordo del muro e un fuoco, posto sempre dietro di loro, proietta sul fondo della caverna le
ombre delle statuette. I prigionieri non hanno dunque alcuna conoscenza del mondo se non quella di
queste ombre, in cui essi credono che consista l’intera realtà. Essi anzi sviluppano un sapere intorno alle
ombre, prevedendo la successione della loro comparsa. È questa l’immagine delle conoscenze empiriche cui
gli uomini sono di solito costretti a limitarsi. Immaginiamo ora che un prigioniero riesca ad evadere dalla
caverna e a raggiungere il mondo «vero». Il suo sguardo, abbagliato dalla luce si fermerà dapprima sui
riflessi delle cose negli specchi d’acqua; si alzerà poi verso le cose stesse, e infine verso il sole che lo
illuminerà. Supponiamo a questo punto che il prigioniero liberato voglia tornare nella caverna per informare
i suoi compagni di prigionia che la realtà in cui essi credono di vivere è solo illusoria. Nessuno vorrà credere
al suo messaggio, e i prigionieri, invece che lasciarsi liberare preferiranno addirittura afferrarlo e ucciderlo.
interpretazione del mito della caverna e nuova teoria della mimesis
Il mito della caverna va inteso come l’esemplificazione allegorica di quanto Platone ha maturato sul piano
esistenziale e su quello speculativo, essenzialmente in merito a due questioni: Il ruolo del filosofo rispetto al
mondo sensibile e al suo ordine politico; il rapporto tra idee e cose. Rispetto alla seconda questione, il mito
della caverna segna l’abbandono della teoria della metessi, quindi della rigida separazione tra unità ideale e
molteplicità empirica. Tale separatezza è attenuata da Platone, assumendo il nuovo criterio della mimesis,
cioè della somiglianza/imitazione: Nel mito le cose sono ombre di idee e quindi, anche oscuramente, e in
gradi diversi, le cose sono in qualche modo somiglianti alle idee: noi individuiamo le cose empiriche tramite
il nome e il modello proprio di un’idea, perché troviamo in esse una somiglianza con l’idea corrispondente.
L’assunzione del criterio della mimesis permette a Platone di risolvere una doppia tensione interna al suo
pensiero: Consente di mantenere un giudizio di condanna rispetto a certe forme di esistenza empirica e
permette di attenuare la distanza tra empirico e ideale
Le degenerazioni dello Stato giusto e dell’anima giusta
Arrivati a questo punto , Socrate riprende il discorso introdotto all’inizio del Libro V, e allora subito interrotto
per affrontare la questione delle donne governanti. Si tratta del discorso sui modi ingiusti di ordinare la città
e per analogia l’anima. Tali modi sono quattro:
- Timocratico
- Oligarchico
- Democratico
- Tirannico
Platone li descrive come progressive degenerazioni del giusto ordine aristocratico, inteso nell’accezione
pitagorica ed etimologica del termine: Predominio della parte migliore, più sapiente, della città e dell’anima,
sulle altre parti che la compongono. Socrate immagina una città che si sia resa molto somigliante all’idea
dello Stato giusto, e si chiede come questa potrebbe degenerare. Le tendenze naturali degli uomini e delle
donne a convivere come sposi, e a favorire i figli che hanno generato, dopo un certo tempo prevarrebbero
sulla rigida conformità all’idea. Del resto la città si colloca nella dimensione sensibile, quindi nel ciclo di
generazione e corruzione, diversamente dallo Stato giusto che si colloca nella dimensione logica, pura,
astratta e immutabile.
Le degenerazioni dello Stato giusto e dell’anima giusta
- Timocrazia: Somiglia all’aristocrazia perché la classe dei governanti non partecipa ai traffici
mercantili né possiede denaro, e perché sul piano sociale persiste un’organizzazione di
stampo collettivista. L’anima timocratica: L’anima timocratica è rozza e irascibile, nata più
per la guerra che per la pace. L’anima ordinata timocraticamente ha dei pregi come il
coraggio, il senso dell’onore e la capacità di obbedire, ma anche dei difetti che sono
l’asprezza del carattere e la refrattarietà alla cultura; il suo punto debole però, è soprattutto
la segreta attrattiva per il denaro.
- L’oligarchia: La costituzione oligarchica è quella in cui il peso politico è riservato a coloro che
dispongono di molto denaro. La città oligarchica non ha coesione né omogeneità interna,
ma è segnata dalla giustapposizione di almeno due città, quella dei ricchi e quella dei
poveri. L’anima oligarchica: L’anima oligarchica è quella priva di sapienza e di coraggio,
dominata dalla sua parte bramosa. Essa è avida, arida, incolta e tesaurizzatrice.
- La democrazia: La costituzione democratica è quella fondata sull’eguaglianza dei diritti
politici. Conferendo peso politico a tutti, accetta una pluralità di stili di vita, sembra a prima
vista la migliore. Ciò però impedisce di cogliere il difetto rovinoso della democrazia:
l’assenza di qualsiasi gerarchia di valori nella politica. L’anima democratica: L’anima ordinata
democraticamente è priva di ogni interna gerarchia di valori, per cui erra da un’inclinazione
all’altra, vivendole tutte superficialmente, compresa la filosofia, quando vi si dedica. Avendo
perduto al suo interno le differenze di valore, ridotte a semplici gusti, non le riconosce
neanche.
Libro VIII e IX
La tirannide e l’anima tirannica
Nel libro VIII Platone ha descritto quattro tipi di città ingiuste, e tre tipi corrispondenti di anima ingiusta. La
tirannide, quarto tipo di città ingiusta è vista nell’VIII libro come evoluzione inevitabile della democrazia, per
i conflitti che genera e la rappresentanza degli interessi che impone. I capi democratici, infatti, diventano
tiranni non appena perdono la naturale ripugnanza a perseguitare i nemici e a versare il loro sangue. La
costituzione tirannica è dunque quella in cui un solo capo detiene un potere senza limiti, e lo conserva
circondandosi di armati e distogliendo i sudditi dai problemi interni con le guerre esterne. Non ha trattato
l’anima tirannica, ad essa dedica l’intero libro IX. Ciò dipende dal fatto che attraverso questo tema Platone
intende chiarire che cosa davvero renda l’uomo felice e infelice, ricollegandosi a un tema già tratto nel
dialogo giovanile Gorgia. La felicità dell’uomo, spiega Socrate, è connessa al soddisfacimento dei desideri.
Tra questi ce ne sono alcuni orribili, di cui manca di solito la consapevolezza, perché emergono nel sonno,
quando dorme la parte razionale dell’anima, che libera così il suo sottosuolo selvaggio. Nello stato di veglia
possono essere portati alla luce dall’ubriachezza o dalla follia. Ma è soprattutto Eros – l’Eros volgare di cui
parla Pausania nel Simposio – a far provare coscientemente e intensamente tutti i desideri più ignobili.
L’anima tirannicamente ordinata è dominata da questo tipo di Eros, ed essa è felicissima qualora abbia
potere sufficiente per dar seguito ai suoi molti desideri.
Libro IX
L’anima tirannica è infelice, le tre dimostrazioni
Socrate propone la tesi opposta, e cioè che l’anima tirannica, proprio perché malvagia è molto infelice. Tre
sono le dimostrazioni in proposito: La prima dimostrazione muove da un paragone tra la città e l’anima
ordinate tirannicamente detta città è comunemente definita schiava, perché la parte migliore di essa è
miseramente asservita. Allo stesso modo l’anima tirannica deve essere considerata schiava, anche se alcune
suo passioni la fanno da padrone, poiché le sue parti migliori, sono ridotte al silenzio. Anche se è padrona
della città, l’anima tirannica rimane schiava, per analogia, infatti, è come se una persona si trovasse padrone
di 50 schiavi ma senza un esercito o delle leggi che difendano la sua proprietà. La seconda dimostrazione
muove dalla tripartizione dell’anima, che consente di suddividere gli uomini in amanti del sapere, del
successo, e del guadagno. Gli amanti del successo e del guadagno non hanno alcuna esperienza della
filosofia, né sanno di che cosa essa tratti. I filosofi invece percepiscono cosa sono il guadagno e il successo.
L’opinione dell’amante del sapere ha più valore degli altri, perché egli è l’unico ad avere esperienza di tutti i
beni possibili. Alla luce del sapere filosofico i beni cercati dal tiranno sono mali e così deve essere. La terza
dimostrazione fa rivelare che la soddisfazione dei bisogni più bassi dell’anima altro non è che l’eliminazione
del dolore insito nello stato di bisogno, e non una condizione positiva, quale invece la felicità deve essere

Libro X
la condanna dell’arte imitativa
La ripresa del tema dell’imitazione, che si concluderà con un rinnovato attacco al ruolo educativo e politico
svolto tradizionalmente da Omero riprenderà temi già sviluppati nei libri II e III, ma andrà oltre. Platone
mette ora in campo le acquisizioni di ordine ontologico e metodologico elaborate nei libri centrali e
riassunte nella metafora della linea del libro VI. Si consideri il caso della produzione degli oggetti artigianali:
nel fabbricare un letto, il falegname si riferisce alla immutabile e paradigmatica idea di letto, al letto ideale
che egli trasferisce con inevitabili imperfezioni sulla materia. Si tratta di un primo livello di imitazione (gli
oggetti prodotti appartengono al secondo segmento della prima sezione della linea, ovvero l’ambito
dell’empirico. Si consideri ora il caso degli artigiani che possono riprodurre qualsiasi oggetto con i colori, i
pittori, o con le parole i poeti. Si tratta qui del secondo livello di imitazione (le immagini degli oggetti
prodotti appartengono al primo segmento della prima sezione della linea, ovvero l’ambito dell’immaginifico.
Illusionista produttore di immagini l’artista, e il poeta in modo particolare, lo è anche di competenze altrui,
che egli non possiede ma imita senza comprendere. Per questa ragione la poesia omerica non può svolgere
il ruolo di guida politica e morale che i Greci erroneamente gli attribuiscono.

Teeteto
I nuovi problemi
I problemi cruciali che si impongono al cosiddetto “ultimo Platone”, e che nascono in parte dall’esigenza di
mitigare il rigido dualismo tra il mondo immutabile delle idee e il mondo mutevole delle cose, sono
fondamentalmente tre:
 Come dev’essere adeguatamente pensato il mondo delle idee?
 Come va convenientemente concepito il rapporto tra le idee e le realtà naturali?
 Quale è il fine della politica e delle leggi?
Riguardo alla prima questione sono dedicati i dialoghi il Teeteto, il Sofista e il Parmenide, alla seconda il
Timeo, alla terza Il Politico e le Leggi.
Problema della datazione
Il Teeteto è uno dei più importanti dialoghi di Platone, e nello stesso tempo è uno dei più difficili da
sistemare dal punto di vista cronologico:
 L’andamento del dialogo è segnato da Socrate che confuta sistematicamente le opinioni
dell’interlocutore senza arrivare a fornire una propria verità sul tema trattato.
 Il criterio stilometrico però da riscontri univoci di appartenenza alla fase della vecchiaia
 I contenuti si alternano, in molti casi hanno un’impronta autenticamente socratica, in altri sono
platonici come nel caso della critica radicale alla conoscenza basata sulla sensazione
 Molto probabilmente si tratta di un dialogo giovanile, di cui conserva la struttura, rimaneggiato da
Platone durante la vecchiaia
Ambientazione, struttura e contenuto
Il Teeteto, come il Fedone, è costruito come un dialogo incluso in un altro dialogo. Il dialogo introduttivo
avviene tra due socratici megaresi Euclide e Terpsione, ed è ambientato nella piazza della città di Megara
alcuni anni dopo la morte di Socrate. Il dialogo centrale è ambientato in un luogo imprecisato di Atene,
Socrate dialoga con Teodoro, matematico di Cirene, e gli chiede di presentargli qualcuno dei suoi migliori
allievi. Teodoro chiama al loro cospetto il giovanissimo Teeteto, il migliore di tutti e per giunta ateniese
come Socrate. Il dialogo tra Socrate e Teeteto centrato sul tema della conoscenza.
La ricerca di cosa sia la conoscenza
Il punto di partenza del dialogo è tipicamente socratico: che cosa è la conoscenza?
 Teeteto risponde che la conoscenza che l’uomo possiede delle cose è la sensazione, nel senso della
percezione sensibile, che riesce ad avere di essa.
 Socrate osserva che il grande Protagora ne ha fatta una definizione equivalente con altre parole, con
la famosa espressione «l’uomo è a misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, di
quelle che non sono in quanto non sono»
 Metà esatta del dialogo è dedicata alla confutazione e alla risposta di Teeteto attraverso la
confutazione della definizione protagorea.
La confutazione per assurdo di Socrate
Si articola in cinque tesi
1. Se la conoscenza fosse sensazione, ogni animale, in quanto senziente conoscerebbe come l’uomo,
per cui «l’uomo è misura di tutte le cose», potrebbe essere sostituita, senza nulla cambiare, con
l’affermazione «il porco è misura di tutte le cose»
2. Se la conoscenza fosse sensazione, non ci sarebbe bisogno di acquisire conoscenza su ciò che è
percepito, essendo per definizione esso già conosciuto, per cui per esempio conoscerebbe la lingua
dei barbari chiunque semplicemente l’ascoltasse
3. Se la conoscenza fosse sensazione, la memoria sarebbe ignoranza, perché non è più sensazione
4. Se la conoscenza fosse sensazione, chi avesse la sensazione che un determinato evento dovesse
verificarsi in futuro, sarebbe nel vero, anche se quell’evento poi non si verificasse
5. Se la conoscenza fosse sensazione, allora non sarebbe sensazione per chiunque ne avesse una
diversa percezione, cioè la percepisse come altra cosa dalla sensazione.
La premessa metafisica alla base della confutazione di Socrate
Alla base della concezione «sensistica» portata avanti da Teeteto c’è la premessa metafisica di derivazione
eraclitea «nulla è mai, tutto diviene sempre». Questo perché:
 Se le qualità sensibili avessero sede in qualche luogo (mettiamo il mondo delle idee) sarebbero già
determinate;
 Invece, se tutto diviene, anche le qualità sensibili devono risultare esclusivamente dal divenire, e
non possono quindi stare in alcun posto, quindi non essere conosciute
La percezione di qualcosa avviene attraverso la mente non con i
sensi
Se basiamo tutto sul mobile divenire dobbiamo riscontrare che:
 Le qualità sensibili sono molte quante sono le facoltà sensoriali;
 Quello che si percepisce con una facoltà è impossibile percepirlo mediante un’altra;
Quindi: La vera percezione non si può basare sui sensi, ma sull’anima, che riunisce i vari apporti sensitivi
nell’idea dell’oggetto
La corretta interpretazione della teoria di Protagora
Socrate a un certo punto del dialogo ammette che è stato fatto un torto a Protagora, che, se tornasse in vita
direbbe
 Le sensazioni sono egualmente vere;
 Le sensazioni non hanno lo stesso valore
Esempio:
Se in una tiepida giornata primaverile, un uomo sente un gradevole tepore, e un altro, nello stesso luogo
sente brividi di freddo perché è febbricitante, è vero sia il tepore avvertito dal primo che il freddo del
secondo.
La conoscenza però non sta nelle sensazioni del primo e del secondo, ma nel farmaco di un terzo, il medico,
che curando l’uomo febbricitante, lo porta ad avere una sensazione simile a quella dell’uomo in salute.
La scienza dell’utilità
Ristabilito il vero pensiero di Protagora il dialogo prosegue con un Socrate sempre più platonico che confuta
Teeteto:
 Se la conoscenza è la capacità di un uomo di far passare l’uomo da uno stato peggiore a uno
migliore riguardo alla sua utilità, allora è possibile soltanto se l’utilità è stabile nel tempo e valevole
per tutti gli individui indipendentemente dalla loro diversità
 Occorre dunque una scienza dell’utilità che non può essere mai costruita da un’interazione della
mente con l’esperienza sensibile.
L’opinione vera
Se la conoscenza sensibile non è vera conoscenza, allora i sensi sono il mezzo che permette all’anima di
conoscere.
Il giudizio dell’anima attraverso la sensazione può essere definito «opinione vera»
 Il concetto di opinione (doxa) viene così rivalutato rispetto ai dialoghi della fase precedente
Tuttavia rimane aperta la questione di come si possa giungere a una «opinione falsa»
La genesi dell’errore
Il falso sembra coincidere con un errore nella coordinazione degli elementi, ma qual è l’origine di tale
errore?
Una possibile risposta è quella che chiama in causa i limiti della memoria umana:
 nel formulare i suoi giudizi, la conoscenza si serve infatti del ricordo, poiché conoscere significa
collegare dati empirici attualmente presenti alla mente con dati passati, quindi: è possibile ricordare
male
Conclusione
Come i dialoghi socratici, anche il Teeteto, non ha una conclusione positiva, ma, anche se non dichiarata, ha
un’evidenza implicita: non si può dar ragione della conoscenza dell’uomo senza ammettere l’esistenza delle
idee universali innate nell’uomo stesso.
La conclusione del Teeteto, in realtà, riporta il discorso alla questione di partenza, ovvero alla definizione
della conoscenza, perché è impossibile sapere che certi dati sono stati collegati in maniera errata fino a
quando non si sappia con certezza quale sia il modo corretto (vero) di collegarli: è impossibile sapere che
cosa sia l’errore finché non si sia chiarito in che cosa consista la conoscenza, cioè la verità. La riflessione sul
problema dell’errore conduce così Platone al problema del non essere, affrontato nel Parmenide e nel
Sofista.

Il sofista
Contesto, ambientazione e personaggi del dialogo
Da punto di vista della finzione letteraria questo dialogo rappresenta la continuazione del Teeteto, che
terminava con Socrate che invitava il matematico Teodoro a ritrovarsi il giorno successivo nella stessa
palestra.
In quel giorno è ambientato Il Sofista, dove si immagina che Teodoro si ritrovi con Socrate accompagnato,
però oltre che dai suoi allievi, anche da un sapientissimo «forestiero di Elea» (esplicito è il riferimento a
Parmenide) che diventa il protagonista della discussione.
 Si tratta di un Parmenide «platonico», che si fa nuovo portavoce della filosofia platonica.
 Sostituisce la rigida contrapposizione tra essere e non essere, tipica del Parmenide storico, con un
approccio più morbido e aperto a nuove possibilità.
Da un punto di vista più strettamente filosofico il Sofista è il prolungamento, quasi senza soluzione di
continuità, del Parmenide.
Lo sviluppo dialettico della filosofia di Platone
Dopo l’ultimo viaggio in Sicilia nel 361 a.C. Platone sviluppa il suo pensiero in forma integralmente dialettica.
Nel Parmenide come si è visto le idee sono concepite come relazioni tra unità e molteplicità, e per pensarle
serve un metodo che consista nel far emergere una particolare relazione logica che connette tra loro i
concetti, anche opposti, secondo una reciproca intrinsecità. Tanto più sviluppa questo nuovo indirizzo
dialettico, tanto più Platone si allontana dalla sua originaria formazione socratica, al punto che, in questi
ultimi dialoghi Socrate svolge un ruolo di semplice spettatore
La sofistica come argomento introduttivo di discussione
Il titolo, Il Sofista, indica l’argomento della discussione, che occupa solo un terzo del dialogo, e verte sul
modo in cui definire le caratteristiche della sofistica. Questo lungo prologo ha però la funzione di introdurre
all’argomento centrale del dialogo, ben più complesso e articolato: il tema dell’essere.
Definita la sofistica come l’eterna e ingannevole sapienza dell’apparenza, manipolazione mentale di
argomenti nella loro dimensione esclusivamente empirica, quindi ricadente nella sfera del non essere, il
forestiero di Elea inizia la sua profusione su essere e non essere.
La necessità del non essere
Il forestiero di Elea fa notare che se identifichiamo il non essere con l’apparenza lo identifichiamo con
qualcosa di permanente e necessario: Le parvenze dell’essere mutano nei contenuti, ma esprimono sempre
apparenza.
Le apparenze, quindi, permangono necessariamente necessità e permanenza come sappiamo sono
caratteristiche dell’essere: «il sofista dalla cento teste ci ha costretti ad ammettere nostro malgrado che il
non essere è, in qualche modo, essere [...] di modo che io divenga quasi un parricida perché sarà necessario
sottoporre ad esame la sentenza di Parmenide, nostro padre, e costringere il non essere ad essere in
qualche modo essere»
Il parricidio di Parmenide
Avviene quindi con il passaggio appena letto il parricidio di Parmenide, detto anche «parmenicidio», la
violazione definitiva della legge logica eleatica che consiste nell’ammettere che il non essere includa in se
stesso in qualche modo l’essere, e viceversa che l’essere includa in se stesso il non essere. Il non essere
viene così identificato come ’unico modo in cui può esistere il non essere è, quello dell’essere diverso, che
però, in quanto tale, non è il nulla assoluto, poiché partecipa anch’esso dell’essere.
Platone, attraverso il personaggio del forestiero di Elea inizia così il «pericoloso discorso», come lo chiama,
sull’essere e sul non essere. Non si tratta però di negare la distinzione tra i due concetti, ma di stabilire tra di
essi un legame di reciprocità, ovvero stabilire un legame dialettico.
Cosa è l’essere?
L’Essere, argomenta il forestiero di Elea, è un genere sommo, cioè una categoria che include tutta la realtà e
ne indica la permanenza. L’essere però si articola in altri due generi, la quiete e il moto: perché l’essere si
può manifestarsi come staticità oppure manifestarsi come movimento.
Pertanto, quiete e moto sono entrambi essere, però:
 La quiete non è il moto
 Il moto non è la quiete
- All’interno dell’essere si insinua in non essere
In che senso la quiete è essere, ma anche non essere?
 È essere perché la quiete è identità con sé
 Ma è non essere in quanto diversità da moto
In forza di quanto detto abbiamo individuato altri due generi dell’essere: identico e diverso
i cinque generi sommi
1. Essere (Socrate è)
2. Identico (Socrate è identico a sé stesso)
3. Diverso (Socrate è altro da me o da te…)
4. Quiete (Socrate è fermo, visto in un determinato momento)
5. Movimento (Socrate è in divenire, visto in prospettiva)
l’evoluzione della dialettica
Nella Repubblica la dialettica viene genericamente definita come la scienza che riconduce tutto alle idee -
valori. Nel Fedro essa viene presentata come la tecnica stessa del discorso filosofico (il termine “dialettica”
allude appunto all’arte del dialogo), il quale si svolge attraverso due momenti:
1. determinazione e definizione di una certa idea;
2. divisione dell’idea nelle sue varie articolazioni interne.
Soltanto nel Sofista (e nel Politico) si trova l’organica messa a punto del procedimento dialettico nelle sue
caratteristiche salienti.

La dialettica come comunicazione delle idee tra di loro


L’arte dialettica parte dal presupposto della possibile comunicazione tra le idee. Ora, se tutte le idee
comunicassero tra loro (come volevano gli eristi), ogni discorso sarebbe vero e non avrebbe senso la fatica
della dialettica, volta a fissare quali idee comunichino e quali no, e quindi quali discorsi siano veri e quali
falsi. Analogamente, se nessuna idea comunicasse con le altre (come volevano i cinici), l’unico discorso
possibile sarebbe quello tautologico, del tipo “l’uomo è uomo”. Scartate, dunque, le tesi universali per cui
“tutte le idee sono combinabili con tutte le idee” e “tutte le idee non sono combinabili con alcuna altra idea,
Platone resta solo la tesi intermedia“ alcune idee sono comunicabili tra loro e altre non lo sono la tecnica
dialettica consisterà nel definire un’idea mediante successive identificazioni e diversificazioni, attraverso un
processo di tipo “dicotomico”, che avanza dividendo per due un’idea, fino a giungere a un’idea indivisibile.

Il Politico
Contesto, ambientazione e personaggi del dialogo
La continuazione del Sofista è il Politico, infatti, i personaggi sono gli stessi, ma la conversazione avviene il
giorno seguente nella stessa palestra in un cui si è tenuto il precedente dialogo
È Socrate a riprendere il discorso, in un contesto argomentativo in cui però il protagonista è sempre il
forestiero di Elea. Diverso però è l’interlocutore principale del forestiero di Elea, non più Teeteto, rimasto
provato dal confronto del giorno precedente, ma Socrate il giovane, personaggio realmente esistito
all’interno dell’Accademia. Platone segnala così, ancora una volta, il suo allontanamento dalla figura storica
di Socrate e contestualmente un’apertura verso le nuove generazioni di discepoli dell’Accademia.
La ricerca di una corretta definizione di politica
Che cosa è la politica?
L’indagine su cosa sia la politica, prende le mosse dal considerare che l’uomo politico sia colui che possiede
una specifica scienza per cui un discorso su come si specifichi la scienza è preliminare alla comprensione
della politica.
Il dialogo prosegue con il procedimento della divisione del concetto nelle sue varie articolazioni; quindi,
secondo la modalità dialettica che Platone ha descritto nel Fedro. La scienza, allora, si divide in:
 Speculativa: la scienza vera e propria, intesa come ricerca
 Dominativa: si esercita mantenendo e dominando gli esseri animati, le bestie ma anche gli esseri
umani
la dialettica come arte di dividere correttamente le idee
Il forestiero di Elea interviene nel discorso, ammonendo a non affrettarsi troppo nelle bipartizioni: si corre il
rischio di dividere un’idea in modo scorretto, cioè in forma non dicotomica (metà e metà), ma
contrapponendo il troppo grande al piccolo, secondo un criterio empirico.
Il metodo dialettico, ricorda il forestiero di Elea, è l’arte di dividere un ‘idea in parti che siano a loro volta
idee, e non aggregati empirici
Se ad esempio dividiamo i numeri in pari e dispari, questa è una divisione concettuale corretta perché
dicotomica, ma se opponiamo il numero 10000 a tutti gli altri numeri, abbiamo operato una distinzione
scorretta.
Sbaglia dunque chi vuole dividere gli uomini in Greci e Barbari, perché i Barbari sono una parte del mondo
molto più vasta.
La politica come scienza regia
Compiute correttamente tutte le bipartizioni nell’ambito della scienza, la politica emerge come scienza
regia: regia perché consistente nella cura della comunità umana.
La definizione però non si rivela adeguata, perché anche i medici e i piloti delle navi hanno cura degli uomini
La dialettica, se correttamente praticata, porta a individuare un concetto per progressiva depurazione da
tutti gli altri concetti, per cui se giungiamo a una definizione che non è separata da altri concetti, significa
che la conclusione è errata. Nel caso in questione il punto di inizio (la politica è prendersi cura della
comunità) sembra corretto. Ma se la conclusione è sbagliata, ciò significa che sbagliato è il presupposto da
cui il ragionamento ha preso le mosse.
«Di nuovo è necessario rifarci a un altro principio» ammonisce il forestiero di Elea
Il mito dell’universo sotto il governo di Chronos e di Zeus
Durante lunghi periodi di millenni e millenni la Terra ha ruotato su se stessa in una direzione, poi in altri
periodi altrettanto lunghi ha girato in direzione inversa e ciò ha determinato grandi mutazioni tra gli uomini.
A ciascuno di questi periodi corrispondo un tipo di vita diverso, uno regolato da Chronos e l’altro da Zeus
Sotto il governo di Chronos il Sole nasceva a ovest e tramontava ad est; gli uomini nascevano vecchi,
ringiovanivano e via via diventavano neonati per poi sparire del tutto; la morte era dolcissima; la terra
offriva gli uomini tutto quello di cui avevano bisogno; non c’erano guerre. Tutto ciò perché Chronos
dominava il mondo come timoniere. Ad un certo momento, però, Chronos abbandona il timone del mondo,
e lo lascia a Zeus, il quale non lo prende, perché vuole vedere cosa succederà se gli uomini si guideranno da
soli. Tutto cambia. Ed il nostro tempo è il tempo di Zeus
Il significato del mito in rapporto alla ricerca della definizione della
politica
Qual è la reazione tra il mito e il problema che doveva essere risolto? Ovvero l’individuazione di un nuovo
presupposto che dia l’avvio per una corretta definizione della politica?
Il presupposto sbagliato in base al quale il politico è stato definito come il pilota che guida la nave, è di aver
immaginato di vivere ancora sotto il governo di Chronos, anziché di Zeus.
L’umanità non è un gregge solidale senza paura della morte, ma è guidata dalla forza della competizione e
della violenza, per cui non ci può essere pastore se non tiranno: se gli uomini si azzannano tra loro, il
pastore-tiranno non sarà da meno
La politica come comando della legge che limita arbitrio e
disuguaglianza
La politica si configura allora come arte di elaborare leggi che limitino gli arbitri e le disuguaglianze, in modo
da realizzare il comando della legge, afferma il forestiero di Elea: «Proprio perché non c’è più un Re, come
c’era tra gli uomini un tempo lontano, e come ora nasce soltanto tra le api negli alveari, che unico appaia
superiore a tutti nel corpo e nell’anima, è necessario che gli uomini si radunino per redigere leggi da
rispettare»
Le leggi però hanno il grave difetto di essere astratte, e, incapaci nella loro astrattezza di determinare i
comportamenti più giusti nelle situazioni più concrete. Non sono il meglio per gli esseri umani. Eseguendo
le leggi gli uomini si comportano come ammalati che eseguono puntualmente le prescrizioni di un medico
partito per un lungo viaggio.
Il rispetto delle prescrizioni, vista l’assenza del medico può essere anche nocivo, ma è l’unica cosa giusta da
fare. Non seguirle sarebbe peggio.
Come del resto il comando delle leggi è la norma meno lontana dall’idea di giustizia
Dialettica e politica
La riflessione sulla politica è in questo dialogo interamente dialettica. Come sappiamo tutto lo svolgimento
dell’ultimo Platone è caratterizzato dalla dialettica, che ha come suo centro la relazione di reciproca
intrinsecità di unità e molteplicità.
Nella politica ciò significa che la molteplicità dei regimi: – monarchia e tirannide, aristocrazia e oligarchia e
democrazia – è razionalmente valutabile soltanto nell’unità della giustizia
La giustizia non va indentificata con qualcuno di questi regimi, perché altrimenti gli altri ne rimarrebbero
fuori in modo antidiaettico, in una molteplicità senza unità.
Ciascuno di questi regimi può essere più o meno giusto
 La monarchia retta al di fuori di ogni legge da un monarca sapiente costituirebbe la massima
realizzazione della giustizia, ma si tratta di una configurazione improbabile
 In assenza di legge e di sapienza un regime è tanto più prossimo alla giustizia quanto più è
democratico in maniera effettiva
 In assenza di sapienza ma in presenza della legge, il regime più prossimo alla giustizia è quello
monarchico
 In presenza della legge e in assenza solo parziale di sapienza, il regime più prossimo alla giustizia è
quello aristocratico.

Il Filebo
Contesto, ambientazione, tema e personaggi del dialogo
Molto probabilmente questo è l’ultimo dialogo di Platone. Il tema del dialogo è quello della «vita buona». Il
dialogo da per conosciuto il dibattito culturale svoltosi nell’Atene dell’epoca tra sostenitori di un’etica
edonistica, secondo cui il bene è piacere e quelli di un’etica intellettualistica, secondo cui il bene è
conoscenza. Platone, attraverso Socrate intende mostrare che l’impostazione stessa della contesa è
sbagliata perché dialettica. Il dialogo si svolge in un ambiente non identificato alla presenza di un uditorio di
giovani. I personaggi sono Socrate, Filebo che sostiene che il vero bene è il piacere rifiutando il confronto e
Protarco che difenderà la posizione dell’amico
Piacere e intelligenza
Per Filebo e poi per Protarco, il vero bene, quello cioè che può creare nell’uomo una condizione che lo
renda felice coincide con il piacere e con quanto gli è affine. Per Socrate invece il bene coincide con
l’intelligenza e con quanto le è affine. Il discorso poi si orienta verso una più attenta definizione del concetto
di piacere perché se è vero che il suo nome rimanda a un unico significato, è vero che ci sono tipi
svariatissimi di piacere, alcuni buoni, altri cattivi
Per risolvere il problema è necessario il metodo dialettico
In ogni ente sussistono parti diverse che lo costituiscono, ed a livello empirico è molto facile notarlo.
Più difficile è sviluppare questa relazione tra unità e molteplicità sul piano logico e scoprire che: l’identico e
l’uno si trovi ad essere al tempo stesso nell’uno e nei molti.
Il problema posto, in questo modo, rimanda a una questione di metodo da seguire nell’indagine: si tratta
cioè di comprendere la relazione che esiste tra l’idea (unità) e la sua parte (molteplicità). La via d’indagine,
la dialettica è facile da indicare ma difficile da seguire
La vita buona la vita mista di piacere e intelligenza
Immaginiamo una vita caratterizzata dal piacere, e quindi dal godere, ma senza la facoltà dell’intendere. La
conseguenza sarebbe che non possedendo né mente, né memoria, né cognizione né opinione vera si
arriverebbe a non essere coscienti di godere.
Immaginiamo l’altra vita caratterizzata dall’intendere, ma senza il godere: La conseguenza sarebbe di non
partecipare al piacere e al dolore essendo impassibile a tutte le affezioni di questo genere.
Nessun uomo al mondo sceglierebbe l’una o l’altra vita, perché entrambe non hanno il bene con sé. Una
vita buona, infatti, è quella che integra e fonde il piacere con l’intelligenza
Il piacere rimanda alla categoria dell’illimitato, l’intelligenza del
limite
Per distaccarsi completamente dalla sfera empirica e approdare a quello delle idee razionali piacere e
intelligenza devono essere indagati attraverso il loro nucleo logico per poter stabilire poi il fondamento
dialettico del loro rapporto.
Bisogna fare riferimento quindi a due generi, o categorie, quella dell’illimitato e quella del limite
 Il piacere rientra nella categoria dell’illimitato, perché la sua natura è di essere insaziabile e di
aspirare al sempre di più, è capacità di crescere e di decrescere, ma non in quantità determinate. È
connesso con la molteplicità
 L’intelligenza rientra nella categoria del limite, perché per sua natura definisce e circoscrive e quindi
limita. È connesso con la categoria dell’unità
Il rapporto intelligenza-piacere come rapporto limite-illimitato
Il problema del rapporto intelligenza piacere diventa così il problema del rapporto dialettico tra limite e
illimitato.
 Se cè il limite senza l’illimitato c’è il vuoto, perché il limite, per essere tale, deve applicarsi a un dato
contenuto
 Se c’è illimitato senza il limite c’è il moltiplicarsi esponenziale della molteplicità che è il caos
La sintesi dialettica di limite e illimitato è un illimitato retto e contenuto nel limite. Questo è il fondamento
dialettico della vita buona:
 Senza il limite posto dall’intelligenza il piacere non consente il bene, perché un piacere
abbandonato alla sua naturale dinamica finisce con l’essere distruttivo, né lo consente l’intelligenza
a sé stante.
 Il limite dell’illimitato si configura così come giusta misura
la giusta misura come struttura logica del bene
Se dovessimo infine stabilire una graduatoria tra misura, piacere e intelligenza, la misura sarebbe al primo
posto, il secondo spetterebbe all’intelligenza, perché la sintesi tra limitato e illimitato può essere posta solo
dal limite. La vita buona in conclusione è una vita mista di conoscenza e di piacere, in cui la conoscenza
ordina i piaceri secondo limiti corrispondenti al bene. La giusta misura tra piacere e intelligenza è la vita
buona, che non si identifica con il Bene, ma di certo è la via che porta all’ingresso della casa del Bene

Aristotele
Aristotele ha sistemato un patrimonio di conoscenze su cui si è basato l’intero sapere dell’Europa
premoderna, creando un paradigma di pensiero con cui ha dovuto confrontarsi l’intera storia della filosofia
occidentale. Lo studio della sua impostazione teorica è necessario per chiunque intenda rendersi
consapevole dei tratti distintivi della cultura occidentale, e d’altra parte, tale impostazione può essere
compresa a partire dall’evento decisivo della sua vita intellettuale, cioè la sua permanenza ventennale, dai
17 ai 27 anni, nell’Accademia guidata da Platone. Aristotele, infatti, è nato macedone, non ateniese, e,
prima di arrivare ad Atene, non sapeva cosa fosse la filosofia.
Vita
384 a.C. Nasce a Stagira, nella penisola calcidica da una famiglia benestante, il padre Nicomaco era medico
presso la corte macedone
367- 347a.C. Primo periodo ateniese. Giovanissimo perde entrambi i genitori. Lo zio Prosseno diventato suo
tutore, prima lo istruì nella sua città, Atarneo, poi lo inviò ad Atene presso l’Accademia di Platone
347-335 a.C. Il periodo delle peregrinazioni. Morte di Platone. Ad Atene prende piede il partito
antimacedone di Demostene, Aristotele si reca prima ad Asso, li incontra Teofrasto. In seguito riparerà
presso la corte macedone e diventerà precettore di Alessandro Magno
335-323 a.C. Il secondo periodo ateniese e la fondazione del liceo. Rimarrà ad Atene fino alla morte di
Alessandro Magno
322 a.C. Morte di Aristotele a Calcide
Aristotele nell’Accademia
Nel 367 a.C. Aristotele non troverà Platone a capo dell’Accademia, era impegnato nel secondo viaggio a
Siracusa. Compie perciò triennale obbligatorio di geometria sotto guida di Eudosso di Cnido. Da Eudosso
Aristotele apprende che la conoscenza scientifica è conoscenza non dei particolari, ma degli universali
intellegibili, e che la scienza si caratterizza per una pluralità di diramazioni specifiche. Il secondo
insegnamento di Eudosso è però dissonante con l’impostazione platonica, che mirava invece a mantenere i
diversi sapere della scienza in una dimensione unitaria. Eudosso successivamente criticò la teoria delle idee
come causa delle cose e approderà ad un’etica edonistica e questo lo porterà all’allontanamento
dall’Accademia. Quando nel 360 a.C. Platone ritorna stabilmente ad Atene, Aristotele verrà accolto nella sua
cerchia. Aristotele si distinguerà tra i discepoli per il suo primo dialogo, il Grillo (andato perduto), in cui
polemizzava con la retorica contemporanea riprendendo le tesi del Gorgia platonico.
Il dibattito sul rapporto idee e cose
Nel 358 Aristotele scrive un breve trattato intitolato Sulle Idee (andato perduto), in cui discute criticamente
la questione più controversa della teoria platonica, cioè il rapporto tra idee e cose: Aristotele accetta la
nozione di idea come universale intellegibile (eidos), ma nega che l’idea debba essere pensata come
trascendente, cioè al di fuori delle dimensioni del mondo empirico, infatti: se le idee fossero trascendenti
non potrebbero spiegare l’esistenza e il movimento delle cose; se, di contro, le idee fossero mescolate alle
cose come con la teoria della metessi, verrebbe meno la natura intellegibile delle idee. Questa critica non
segna ancora la rottura tra Platone e Aristotele, perché si inserisce nel dibattito sulla revisione della teoria
delle idee, e del superamento della dottrina della metessi. Il contributo è considerato utile da Platone, tanto
che nel dialogo Parmenide il nome di Aristotele compare. Il vecchio Platone e il giovane Aristotele
concordano sulla necessità di superare la trascendenza delle idee, ma già si cominciano a profilare due
prospettive diverse: Platone vuole salvaguardare il modello etico dell’eidos rispetto alle cose, mentre
Aristotele già si orienta a considerare l’eidos come modo universale in cui l’esistenza delle cose è
effettivamente data.
La Fondazione del Liceo
Quando Aristotele torna a vivere ad Atene nel 335 a.C., la città, come quasi tutta la Grecia, è passata sotto il
controllo macedone. Aristotele approfitta della situazione per crearsi una propria scuola, alternativa
all’Accademia ormai controllata da Senocrate. Forte della protezione macedone prende in affitto una area
demaniale e vi fonda la sua scuola, chiamata Liceo perché quella zona era consacrata ad Apollo Licio («licio»
ovvero «lupesco», era uno degli attributi del dio a cui il lupo era consacrato). Viene chiamato anche
Peripato, perché al suo interno c’è un grande giardino da passeggio (peripatos appunto). Il Liceo non fu
soltanto, come l’Accademia, un’istituzione in cui si studia e si insegna, ma è anche un luogo dove si
raccolgono piante, minerali ed altri materiali da osservare e da classificare come costituzioni politiche e
opere poetiche. Un’istituzione innovativa, volta più allo studio del mondo empirico che all’elaborazione di
concetti di tipo speculativo. Aristotele dirige il Liceo per 12 anni, dal 335 al 323, organizzandola come scuola
in cui l’elaborazione speculativa di derivazione platonica è volta soprattutto a fornire nozioni di
inquadramento e di unificazione dei risultati di un grande lavoro classificatorio di minerali, piante, animali e
costituzioni sociali.
La nuova concezione dell’eidos
Il fondamento conoscitivo del Liceo è l’eidos platonico, ovvero quello che abbiamo identificato come la
teoria delle idee. Nell’accezione di Platone però l’eidos è un modello eticamente qualificato delle cose, le
quali dunque esistono in maniera tanto migliore quanto più vi si avvicinano. Nella concezione di Aristotele
l’eidos non ha alcuna qualificazione etica, non rappresenta, cioè, la forma che le cose dovrebbero avere per
realizzare il loro migliore modo di esistenza, ma la forma entro cui effettivamente si svolgono le loro
manifestazioni empiriche. Con questo passaggio sembra che Aristotele si avvicini alla mescolanza tra cose e
idee del suo primo maestro Eudosso, ma per non cadere in questa posizione a suo tempo confutata
Aristotele continua a sostenere l’universalità della forma, considerata però come astrazione della mente
dalle innumerevoli caratteristiche particolari delle cose.
Gli Scritti di Aristotele
Gli scritti di Aristotele si dividono in due grandi gruppi:
 Gli scritti essoterici, destinati al grosso pubblico fuori (éxos) della scuola e destinati alla pubblica
lettura, quindi alla pubblica discussione. Queste opere furono vendute da Neleo, ultimo
sopravvissuto della ristretta cerchia di Aristotele, alla Biblioteca di Alessandria, e li furono
conservate fino al 47 a.C., anno dell’incendio, in cui andarono distrutti.
 Gli scritti esoterici sono gli scritti utilizzati «dentro» (ésos) la scuola, oggetto di discussione nella
ristretta cerchia di Aristotele. Anche questi vennero affidati a Neleo, che tuttavia non li cedette alla
Biblioteca di Alessandria in quanto all’epoca non avevano valore commerciale. I papiri conservati da
Neleo (106 circa) passarono agli eredi fino a quando furono rinvenuti nel I secolo a.C. da Apellicone,
ricco bibliofilo ateniese, ma poi vennero sequestrati dal proconsole Silla e trasferiti a Roma.
La sistemazione degli scritti da parte di Andronico da Rodi
Nel corso di tutte queste vicende il Liceo si era mantenuto attivo. Nell’età augustea lo dirigeva ad Atene
Andronico da Rodi, l’undicesimo successore di Aristotele. Andronico viene a sapere nel 30 a.C. che a Roma
ci sono tutti i manoscritti delle lezioni di Aristotele, da tempo all’esame dei grammatici. Parte
immediatamente alla volta di Roma e riesce a convincere i grammatici ad affidargli la curatela dei
manoscritti. Andronico ordinerà gli scritti seguendo un criterio tematico: prima gli scritti di logica (che non
titola ancora con questo termine), a seguire i trattati di scienza teoretica: gli scritti di matematica, gli scritti
di fisica, e poi gli scritti che avevano una forma di conoscenza più alta di quella della fisica, li raccoglie in
un’opera di grande mole, suddivisa in 14 libri , raggruppata sotto il tutolo metà (dopo) tà (le) fisicà (le cose
fisiche), da qui il nome Metafisica. Seguono poi i libri delle scienze pratiche e di quelle poietiche. Nasce
così, per caso, una delle parole più importanti della filosofia, quella appunto di Metafisica, che indica la
disciplina che ha per oggetto di studio l’essere oltre l’apparire empirico. Metà, infatti, in greco non significa
solo dopo, ma anche oltre.
La tripartizione delle scienze
Scienza, scienza razionale:
 Scienze poetiche, Retorica e Poetica (sono quelle che studiano le produzioni umane. Esse sono
considerate da Aristotele di rango inferiore a quello delle scienze pratiche, perché il loro fine pratico
è ancora più immediato.)
 Scienze pratiche, Etica e Politica
 Scienze teoretiche (sono teorie, cioè contemplazioni disinteressate dell'essere (dal verbo teoréin,
che significa "contemplare razionalmente"). La conoscenza che perseguono è fine a se stessa. Le
scienze pratiche sono quelle che studiano le scelte della volontà umana. Non sono teorie perché
hanno come fine un certo risultato delle condotte umane.):
 Fisica: enti in movimento (esistenza separata)
 Matematica: enti immobili (esistenza forse separata)
 Teologia: enti immobili (esistenza separata)
Le scelte redazionali di Andronico non furono del tutto arbitrarie, ma cercarono di rimanere fedeli alle
indicazioni aristoteliche. Nel libro E della metafisica la tripartizione delle scienze teoretiche corrisponde ai
tre tipi di enti studiali. Con le sue parole: «la fisica si occupa di enti che hanno ciascuno una propria separata
sussistenza ma non sono immobili, mentre la matematica si occupa di enti che sono immobili ma forse non
separati, perché esistenti come aspetti della materia. Se poi esiste qualcosa di immobile e separato la
conoscenza di esso appartiene alla scienza del divino, perché è indubbio che se il divino esiste, esiste come
realtà di tal genere»
Le opposte caratteristiche delle opere di Aristotele e di Platone
Le opere di Aristotele che oggi possediamo sono quelle edite attorno al 20 a.C. da Andronico, non sono
quelle di Aristotele nel senso proprio del termine. Il termine «opera» è improprio, non solo perché il titolo
sotto cui sono raccolte è frutto di una scelta editoriale, ma anche perché in una stessa cosiddetta opera
possiamo trovare lezioni e conferenze affini sì per argomento, ma che Aristotele può aver tenuto a distanza
di anni. Questo spiega perché, ad esempio un temine che ha un determinato significato in una parte
dell’opera possa essere utilizzato con significati diversi in altri passi; oppure perché sia possibile incontrare
tesi in apparente contraddizione. Le cosiddette «opere» di Aristotele non hanno perciò nulla dell’eleganza e
della bellezza di quelle platoniche, sono caratterizzate da ripetizioni e frasi mal costruite, argomentazioni
contratte e di lettura faticosa. Tuttavia, a differenza di Platone, attraverso gli scritti sistematizzati da
Andronico abbiamo la possibilità di entrare nel vivo delle questioni filosofiche più complesse.

La Logica
La Logica come strumento della scienza
Come ogni altra attività umana, la scienza ha bisogno di uno strumento finalizzato a costruirla. La scultura
per esempio presuppone lo scalpello, la pittura il pennello. Allo stesso modo la scienza presuppone il
discorso, cioè il logos, nell’accezione greca di linguaggio e pensiero, articolato per dimostrare qualcosa. Dal
greco logos, viene la parola logica, che indica la forma necessaria al discorso perché esso sia dimostrativo.
Nascita e utilizzo
La logica nasce con Parmenide, e si sviluppa con Platone e Aristotele, senza che nessuno di questi filosofi usi
la parola «logica», documentata per la prima volta in età augustea.
 Platone usa il termine «dianoetica», e Aristotele «analitica», ed entrambe le parole significano ciò
che poi sarà chiamato logica.
 Tra i due filosofi c’è comunque una differenza decisiva riguardo al ruolo e allo statuto che essi
assegnano alla logica all’interno della conoscenza.
Logica e verità in Platone e Aristotele
Platone sosteneva che la verità è costituita di quei modelli etici/ontologici/logici chiamate idee, e per questa
ragione il ragionamento logico, che viene svolto a partire da questi modelli, produce verità.
Aristotele sostiene invece che la verità consiste nella corrispondenza del discorso al fatto, il ragionamento
rende coerente il discorso, ma non produce nessuna verità. La logica non costituisce per Aristotele una
scienza (infatti non si trova mai inclusa nella classificazione aristotelica delle scienze), perché essa si occupa
della forma del discorso, e non di qualche settore dell’essere a cui il discorso si riferisca.
Essa costruisce piuttosto una predisposizione alla scienza, perché perfezionando il discorso, offre alle
diverse scienze lo strumento loro comune.
L’Organon
Andronico da Rodi sistemò i sei trattati seguendo un ordine decrescente, dal più semplice al più complesso.
1. Le Categorie. Trattato che studia i termini che compongono una proposizione consideratinel loro
significato e non nella loro connessione.
2. De Interpretatione. Studio dei termini visti in connessione cioè quando diventano nomi e verbi e formano
una proposizione che afferma o nega qualcosa.
3/4. Analitici Primi e Analitici Secondi. Sono dedicati al sillogismo, ovvero le connessioni tra proposizioni
mediante cui si svolgono ragionamenti dimostrativi
5. Topici. Costituiscono un trattato specifico sulla dialetica
6. Confutazioni sofistiche. Riguadano l'arte della confutazione intesa come attività principale della
dialettica, volta a destrutturare gli argomenti capziosi dei sofisti
Fu Alessandro di Afrodisia (ll e ll d.C) a riunirli sotto il titolo di Organon

Le categorie
Il tema
Le Categorie è uno dei testi che ha avuto maggiore influenza sul pensiero delle epoche successive, in quanto
di più agevole lettura e disponibile in latino fin dal VI secolo d.C., grazie alla traduzione di Boezio. È entrato
subito nella cultura medievale, a differenza di altri scritti che compaiono alla fine del medioevo a partire
dalle traduzioni arabe
Le Categorie occupano il primo posto nell’Organon per ragioni sistematiche:
 Il discorso che costituisce l’oggetto di studio della logica può infatti venire scomposto in tre
elementi:
- La frase dimostrativa, che risulta da una connessione di proposizioni
- La proposizione, che risulta da una connessione di termini
- Il termine che è il discorso minimo dotato di significato
Il termine
Il termine può essere individuale, se il suo significato rinvia a un singolo dato (ad esempio «Socrate»),
oppure «generale», se il suo significato rinvia a un insieme di dati. Un termine generale è un concetto e i
concetti differiscono tra loro per estensione. L’estensione di un termine indica il suo grado di generalità,
ovvero l’ampiezza dei dati di esperienza che sta a significare e che gli consente di essere incluso in altri
termini e di includerne altri. Ad esempio il termine greco è più esteso del termine ateniese, perché tutti gli
ateniesi sono greci.
Il termine con valore di categoria
Scrive Aristotele: « i termini che si dicono senza una connessione esprimono o una sostanza, o una qualità,
o una quantità, o una relazione, o un luogo, o un tempo, o una situazione, o un avere o un agire o un
patire». Questi sono i dieci termini di massima estensione concepibile che Aristotele denomina categorie e
verranno riproposti nella filosofia prima in quanto:
- Le categorie hanno valenza logica in quanto generi sommi
- Hanno anche valenza ontologica in quanto supremi significati dell’essere
Le categorie sono concetti, ma non tutti i concetti sono categorie, bensì solo quelli il cui significato è al
massimo livello di generalità:
- «Bianco» ad esempio è un concetto, ma non una categoria, perché bianco può essere
sussunto nel termine «colore», a sua volta colore può essere sussunto nel termine
«affezione sensibile» e quest’ultimo infine sotto «qualità»
- Qualità è un concetto di massima generalità quindi è una categoria

Sostanza, individuo, specie, genere, e differenza


Delle dieci categorie individuate, Aristotele analizza nel suo trattato le prime quattro, ma soprattutto la
prima, la categoria di sostanza: Il suo significato è quello di una permanenza come base immutabile di una
molteplicità di determinazioni mutevoli. Tutti gli oggetti che appaiono nell’esperienza come unità assestanti
e permanenti sono sostanze.
Aristotele indica come sostanze, oltre agli oggetti sensibili per sé stanti, detti anche individui, anche i loro
modelli intellegibili in cui tali oggetti rientrano, ovvero le specie e i generi :
 Gli individui come abbiamo detto, sono gli oggetti per se stanti
 Specie è un aspetto intellegibile predicabile quale essenziale per l’individuo (per es uomo per
Socrate)
 Genere è un aspetto intellegibile predicabile quale essenziale per la specie (animale predicato di
uomo
 La Differenza è una caratteristica aggiunta al genere, lo specifica, trasformandolo in una specie
differente dalle altre specie del genere stesso (ad es. animale dotato di ragione, caratteristica che, in
aggiunta ad animale lo trasforma in uomo)
Classificazione dei termini e dei concetti in Aristotele
I termini si classificano in:
 Il genere a cui corrisponde un grado alto di estensione (comprende più individui) e un grado basso
di comprensione (riguarda concetti molto astratti). In primo luogo i generi sommi, ovvero le dieci
categorie (sostanza + accidenti) della metafisica; in secondo luogo, generi basati su differenze
sostanziali con altri generi
 Le specie a cui corrispondono
In primo luogo le specie infime, ovvero le sostanze prime (gli individui) della metafisica; in secondo
luogo, insiemi di individui con differenze specifiche non sostanziali.

De interpretatione.
La proposizione
Nel trattato successivo, Sull’Interpretazione, Aristotele analizza i termini nella loro connessione, ciò che
forma la proposizione, e con essa analizza l’enunciato del discorso. La proposizione è una connessione di
due termini, uno dei quali è attribuito all’altro, ed è detto perciò predicato, mentre l’altro che soggiace
all’attribuzione è detto soggetto
La proposizione ha un significato quando rispetta la regola logica il predicato è più esteso del soggetto.
Se il predicato fosse meno esteso del soggetto (ad esempio tutti gli animali sono buoi), la proposizione non
sarebbe né vera né falsa, ma priva di senso. D’altra parte una proposizione sensata, non per questo è
necessariamente vera
 tutti gli asini volano, è logicamente sensata, perché la sfera dei volatili e più estesa di quella degli
asini, ma è falsa perché non corrisponde ai fatti
La classificazione delle proposizioni
La proposizione è quindi l’elemento minimo del discorso di cui si possa dire che è vero o falso. Per questo si
dice che le proposizioni sono giudizi Apofantici. Aristotele ci dà poi un’articolata classificazione delle
proposizioni, che possono essere:
 Universali affermative
 Universali negative
 Particolari affermative
 Particolari negative
 Appartengono alla scienza solo le proposizioni universali affermative

Il quadrato delle opposizioni


In epoca medievale i logici aristotelici realizzarono il celebre quadrato delle opposizioni, per esplicitare in
forma grafica le relazioni delle diverse proposizioni tra di loro.

Le proposizioni e i giudizi logici


I termini che designano le cose possono essere:
 senza connessione
 con connessione: solo in questo caso compongono un proposizione che può essere
- Semantica ovvero che significa qualcosa. Ad esempio una preghiera significa qualcosa ma
non può essere giudicata vera o falsa.
- Apofantica cioè che significa qualcosa e può essere giudicato come vero o come falso quindi
sono giudizi.
I giudizi apofantici si suddividono in:
 Universali affermativi A (tutti i greci sono calvi);
 Particolari affermativi I (qualche Greco è calvo);
 Universali negativi E (nessun Greco è calvo);
 Particolari negativi O (qualche greco non è calvo).
Posta questa definizione Aristotele definisce:
 Contrari. UA e UN. Possono essere entrambe false ma non entrambi vere.
 Contraddittori. UA e PN. Devono essere necessariamente una falsa e una vera.
 Subalterni. UA e PA. Sono entrambi veri o entrambi falsi e uno descrive una situazione che è
derivabile dalla situazione descritta dall’altro.
 Subcontrari. PA e PN. Possono essere entrambi falsi ma possono essere entrambe vere.
Piano della logica e piano della realtà
La verità di un discorso è la sua corrispondenza alle cose esterne, e può essere raggiunta soltanto attraverso
l’osservazione delle cose stesse. La logica, avendo per oggetto la forma del discorso, non può produrre
verità, ma soltanto discorsi costruiti con regole corrette, che a differenza di quelli costruiti in forma
scorrette, possono essere messi alla prova della verità attraverso il confronto con le cose a cui si riferiscono.
Questa concezione della verità come corrispondenza del discorso al fatto è il punto di massima distanza di
Aristotele da Platone, perché il criterio di verità non è dato da enti etico-ontologici-logici, ma da quelle cose
sensibili che Platone aveva insegnato a considerare, nel celebre mito della caverna, ombre del vero.

Analitici primi
Che cosa è l’analitica?
Analitica è, come si è già visto, la parola che in Aristotele sta per logica. Essa deriva infatti da analysis, che in
greco significa scomposizione di un oggetto negli elementi che lo compongono. Prendendo come oggetto la
dimostrazione logica, l’analitica è lo studio degli elementi che compongono il discorso dimostrativo,
rendendo possibile il discorso stesso. Essa spiega come debba essere articolata la dimostrazione perché
risulti valida. La dimostrazione, nella terminologia di Aristotele è sinonimo di deduzione, ovvero: Il
passaggio da un concetto più generale ad uno meno generale. La deduzione si fa per Aristotele mediante il
sillogismo, che è la più semplice frase dimostrativa, ma che, in una scala di complessità degli elementi del
discorso, viene per terzo, dopo il temine e dopo la proposizione. Ricordiamo: il termine è l’elemento minimo
del discorso dotato di significato, la proposizione è la connessione dei termini che può essere dotata di
verità e falsità. Il sillogismo è l’elemento minimo del discorso dotato di capacità dimostrativa.
La sillogistica
Gli Analitici primi si aprono con alcune definizioni nella sfera della dimostrazione:
 La protasi, definita come enunciazione di qualcosa rispetto a qualcos’altro (ed è sinonimo di
proposizione);
 Il termine, definito come quello in cui si risolve la protasi da un lato e dall’altro (cioè il soggetto e il
predicato della proposizione impiegato nella dimostrazione)
 L’universale, definito come l’inerire ad ognuno o a nessuno;
 Il particolare, definito come l’inerire o il non inerire a qualcuno di tutti
E infine il sillogismo. Il sillogismo è così definito da Aristotele. Una connessione di tre proposizioni in cui,
premesse le prime due, segue di necessità una terza distinta da esse. Possiamo definirlo anche
«meccanismo deduttivo», per le sue caratteristiche necessitanti.
Meccanismo necessitante e verità del sillogismo
Il meccanismo necessitante dipende dal fatto che se un termine dipende da un altro, da questo altro
termine
scaturisce necessariamente, ad esempio:
Sostenere la mortalità degli animali è la stessa cosa che sostenere che l’insieme degli animali appartiene
all’insieme degli esseri mortali che comprende gli animali e le piante». Quindi, se qualcosa, come gli uomini,
appartiene, quindi sta dentro, all’insieme degli animali, allora, di necessità, sta dento anche all’insieme degli
esseri mortali. Occorre aver chiaro, a questo punto, che il sillogismo, quando è valido, non dice che la sua
conclusione è vera, ma dice che «segue di necessità» dalle premesse. Per cui è vera se, e soltanto se,
entrambe le premesse sono vere
Premesse, conclusioni termine medio ed estremi del sillogismo
Premessa maggiore
➢ Tutti gli animali sono mortali
Premessa minore
➢ Tutti gli uomini sono animali
Conclusione
➢ Tutti gli uomini sono mortali
Ogni proposizione ha due termini. Le due premesse ne hanno tre, non quattro, perché uno (animali in
questo caso) è comune a entrambi. Il temine in comune alle due premesse è il termine medio che:
 scompare nella conclusione
 Funge una volta da soggetto e un’altra da predicato
Gli altri due termini (uomini e mortali) sono detti termini estremi.

Figure e modi di sillogismo


Il termine medio può svolgere, in ciascuna premessa, il ruolo di soggetto o di predicato. A seconda della
posizione che è occupata dai tre termini è possibile distinguere quattro figure di sillogismo. Le due
premesse e la conclusione possono poi assumere quattro diverse forme: possono essere cioè universali
affermative (A), universali negative (E), particolari affermative (I), oppure particolari negative (O). Esistono
quindi, per ogni “figura”, 64 (cioè 43) combinazioni possibili, che vengono chiamate “modi”. In totale ci sono
quindi 256 (64×4) “modi” sillogistici, ma solo 24 di questi sono effettivamente validi.

Aristotele e la sillogistica
I giudizi logici sono fondamentali per connettere soggetto e predicato, però nei casi in cui la connessione
non è immediatamente attribuibile è necessario l'utilizzo del sillogismo, ovvero particolari tipo di
ragionamento.
Che cos'è un sillogismo? per Aristotele è una connessione di proposizioni in cui premesse le prime due
segue la necessità di una terza distinta da esse, possiamo definirlo anche meccanismo deduttivo.
Se un sillogismo formalmente valido ciò non significa che sia vero perché la sillogistica In analisi formale di
un procedimento logico che non ha nulla a che vedere con la veridicità del contenuto. Per quanto riguarda il
contenuto Aristotele distingue i tuoi tipi di sillogismo:
- Sillogismo dialettico: che parte da premesse probabili per arrivare a conclusioni probabili;
- Sillogismo apodittico: che parte da premesse vere per arrivare a conclusioni vere.
Il sillogismo deve avere quindi tre momenti (premessa maggiore, premessa minore e conclusione) e un
termine medio inserito nelle due premesse che deve sparire nella conclusione. Promessa maggiore è
premessa minore conclusioni sono giudizi universali affermativi.

Analitici Secondi
La funzione del sillogismo nella costruzione della scienza
Si tratta di un’opera di particolare importanza perché contiene la teoria aristotelica della scienza. Aristotele
esordisce dicendo che il sapere di un oggetto è scienza quando è sapere non di manifestazioni accidentali di
esso, ma delle cause per cui esso si manifesta in certi modi e non può manifestarsi altrimenti. Conoscenza
delle cause e conoscenza in forma universale sono dunque i due lati indistinguibili della scienza, che si
ottengono attraverso la dimostrazione. La dimostrazione che spiega un oggetto attraverso le sue cause,
facendovelo discendere secondo necessità, dunque universalmente
Il sillogismo scientifico
La dimostrazione si fa con il sillogismo, ma non ogni sillogismo valido è dimostrativo. Tra i sillogismi validi,
dice Aristotele: «Chiamo sillogismo scientifico quel sillogismo, possedendo il quale si ha una conoscenza
universale». Precisando che per essere oltre che scientifico anche perfetto un sillogismo deve avere le due
caratteristiche:
 Di essere costruito sulla base di premesse sicuramente vere
 Di avere come conclusione una proposizione universale affermativa
Le otto regole del sillogismo
1. Devono essere presenti soltanto tre termini (maggiore, minore e medio);
2. Il termine medio e il termine maggiore devono essere distribuiti in modo uguale nelle premesse e
nella conclusione;
3. Il termine medio non deve mai essere presente nella conclusione;
4. Il termine medio deve essere distribuito in almeno una delle due premesse;
5. Da due premesse negative non segue alcuna conclusione;
6. Da due premesse affermative segue una conclusione affermativa;
7. Da due premesse particolari non segue alcuna conclusione;
8. Se una delle premesse è negativa, la conclusione dovrà essere negativa; se una delle premesse è
particolare, la conclusione dovrà essere particolare.
Regresso infinito della dimostrazione
Scrive Aristotele: «la scienza si può costruire soltanto con sillogismi le cui premesse siano sicuramente vere.
Un sillogismo può validamente sussistere anche senza premesse cosiffatte, ma in tal caso non sussiste la
scientificità, e non si produce scienza». Incontriamo subito un problema. Le premesse di un sillogismo
possono essere dimostrate vere soltanto in quanto ricavate da altri sillogismi come conclusioni di loro
premesse, a loro volta dimostrate vere da altri sillogismi ancora. Per evitare un regresso infinito della
dimostrazione occorre allora ammettere alcuni principi, cioè proposizioni anteriori a quelle concatenate nei
sillogismi che fungano da premesse generali delle catene sillogistiche
Assiomi, definizioni e ipotesi
I principi sono di tre tipi:
 Gli assiomi: sono le regole autoevidenti di sensatezza di ogni discorso, da cui tutti i sillogismi
scientifici discendono soltanto perché devono conformarvisi, senza però trarne alcun fondamento
di conoscenza
 Le definizioni: sono discorsi esplicativi di cosa s’intenda per un certo qualcosa, a prescindere se
esista o meno, e non esigono dimostrazione proprio perché possono essere indipendenti
dall’esistenza
 Le ipotesi: sono i principi generali di un genere intero di concetti che affermano o negano l’esistenza
di determinate loro manifestazioni. Le catene dimostrative partono sempre da queste ipotesi, e la
loro validità dipende dalla possibilità di arrivare a considerare queste ipotesi come verità, pur senza
dimostrale. Tale possibilità esiste, e è data dall’induzione
L’induzione e l’intuizione
Gli Analitici secondi terminano così sorprendentemente, dopo lunghe analisi sui sillogismi, con una teoria
secondo cui alla base di ogni scienza c’è l’induzione. Ovvero quel metodo in base al quale si giunge a un
principio a seguito dell’osservazione di un numero x di casi particolari. Per Aristotele quindi la verità della
scienza si ricava induttivamente, ma poi la verità della scienza si organizza, si struttura e diventa insegnabile
deduttivamente. Qui Aristotele incontra una grande difficoltà. L’induzione pur essendo utile a identificare i
principi non è un metodo rigoroso e necessario, come è la deduzione. Per correre ai ripari chiama in causa
la forma di conoscenza non discorsiva per eccellenza, già presentata da altri filosofi, la facoltà noetica, detta
anche intuizione. Che si basa sulla comprensione immediata e unitaria della realtà.
Conclusione
Possiamo concludere la disanima degli scritti analitici, il cuore della logica aristotelica, con tre considerazioni
1. La sillogistica aristotelica è certamente tratta da materiali platonici e accademici sulla deduzione
2. Che tali materiali sono stati rielaborati da Aristotele in funzione di un nuovo orientamento della
conoscenza che rivalutasse il mondo dell’esperienza
3. Che pur scartando la funzione etico politica e la deduzione unitaria delle scienze, Aristotele non ha
potuto fare a meno di ricorrere a un principio unitario
Non più la platonica Idea del Bene, ma l’intuizione intellettuale (noesis), non mediata dal ragionamento
quindi immediata e sovrasensibile.
La ricerca delle premesse e principi logici
Come arrivare alla formulazione delle premesse?
 Deduzione: da una definizione universale si scende ai casi particolari. Questo metodo è rigoroso e
necessario.
 Induzione: dai casi particolari si risale al dato universalmente valido. Per Aristotele non è né
rigoroso né necessario in quanto nessuno osservatore poi seminare tutti i casi esistenti, che
darebbero la garanzia assoluta della verità universale del dato osservato però quando i dati
osservativi si ripetono costantemente, interviene una facoltà intellettuale, l'intuizione che produce
l'assoluta convinzione del carattere universale dei dati osservati intuizione e strettamente collegata
alla logica noetica, che si basa sull'immediata e unitaria comprensione della realtà ciò che non è
noetico rientra nella logica dianoredica, Ovvero quella fondata sul legame discorsivo tra soggetto e
predicato.
Le tre specie di argomentazione
Gli ultimi due trattati che formano l’Organon, i Topici e le Confutazioni sofistiche, sono dedicati
complessivamente alla dialettica, che Aristotele assume in un significato molto diverso da quello di Platone.
Nei Topici la dialettica è presentata come una forma specifica di argomentazione, dice Aristotele: «Si
intende per argomentazione un discorso quale, posto qualcosa, viene mostrato come risulti
necessariamente qualcosa di diverso da ciò che è posto mediante ciò che è posto».
Prosegue dicendo che l’argomentazione è di tre specie:
 Dimostrazione: quando partendo da un’asserzione provata vera le conseguenze ne sono
ricavate in conformità alle regole del corretto discorso
 Dialettica: quando le regole del corretto discorso sono rispettate ma l’asserzione di partenza
è opinabile
 Eristica: quando le regole del corretto discorso non sono rispettate, per cui il discorso è solo
apparentemente argomentativo

I topici
Sillogismo, dialettico e éndoxa
Il sillogismo dialettico muove da premesse che non sono provate vere, come quelle del sillogismo scientifico
(o apodittico), ma rappresentano un’opinione, sia pure di tipo particolare. Aristotele usa il vocabolo éndoxa,
difficilmente traducibile in italiano. Esso indica un’opinione diffusa in un ambiente, ma con un’ulteriore
sfumatura di significato per cui i più sapienti concordano su di essa. Forse si rende meglio il significato
complessivo con opinione condivisa e autorevole. Il sillogismo dialettico trae dunque la conseguenza
necessaria di un’opinione autorevole con uno scopo confutatorio. Il dialettico, infatti, per confutare una
certa asserzione contraria alla sua, può mostrare con una catena di sillogismi come da un’opinione
condivisa, accettata da lui e dall’interlocutore, discenda una conclusione diversa da quella
dell’interlocutore. La dialettica può essere dunque definita come una tecnica dell’argomentazione volta a
confutare un’opinione rivelando la sua contraddizione con un’altra opinione, ritenuta ancora più autorevole

L’utilità della dialettica


"Lo studio della dialettica è utile per tre cose: tenere la mente in esercizio, dialogare con gli altri, fare ricerca
filosofica. Che la dialettica possa servire a tenere la mente in esercizio risulta evidente: infatti, una volta
imparato il metodo, possiamo più facilmente ragionare su qualsiasi argomento. È utile, poi, per dialogare
con gli altri perche ci rende capaci di conoscere a fondo le opinioni degli uomini: e cosi quando parleremo
con le altre persone per convincerle a rinunciare ad affermazioni che ci sembran del tutto inaccettabili, non
partiremo da convinzioni che sono loro estranee, ma partiremo proprio dalle loro idee. La dialettica è utile,
infine, per le scienze connesse alla filosofia: potendo sollevare delle obiezioni riguardo ad entrambi gli
aspetti di una questione, saremo in grado di distinguere più facilmente in ogni argomento il vero e il falso.
La dialettica, inoltre, può esserci utile anche a proposito dei principi primi di ciascuna scienza. Partendo dai
principi propri della scienza in esame, è infatti impossibile dlire qualsiasi cosa intorno ai principi stessi,
perché essi sono ciò che viene prima di ogni altra cosa per quela scienza; è perciò necessario penetrarli
attraverso gli elementi fondati sull'opinione. Questa attività, peraltro, è propria della dialettica, o comunque
svolta soprattutto dalla dialettica: infatti la sua vocazione alla ricerca la rende adatta a studiare i principi di
tutte le scienze."
Confutazioni sofistiche
Nelle Confutazioni sofistiche, dette anche Elenchi sofistici (confutazione si dice elenchos), vengono ripetute
molte definizioni già date altrove, e ripetute in forma diversa. È poi trattata l’argomentazione eristica,
attribuita ai sofisti, e intesa come argomentazione apparente. Essa non rispetta, infatti, le regole del
discorso, soprattutto la regola dell’univocità dei nomi, secondo la quale un nome deve essere sempre usato
con lo stesso significato. L’eristica, infatti, concatena le frasi del discorso, passando da una all’altra mediante
termini che cambiano significato nel passaggio. In questo scritto compare ancora la dialettica, sempre intesa
come tecnica della confutazione attraverso la rivelazione della contraddizione, ma con un significato più
ampio. Il sillogismo dialettico viene infatti inteso come quel sillogismo che parte da un’opinione debole e
giunge come conseguenza necessaria a una conclusione contraddetta dai fatti d’esperienza. La dialettica
diventa così ausiliaria della scienza, perché l’aiuta a raggiungere la verità sgombrandole il campo dalle false
asserzioni.
Topici e confutazioni sofistiche
 Dimostrazione: muove da premesse che sono asserzioni vere seguono conclusioni ricavate dalle
premesse secondo le regole del corretto discorso. Opera: analitici primi e analitici secondi.
 Dialettica: muove da premesse che sono asserzioni opinabili seguono conclusioni ricavate dalle
premesse secondo le regole del corretto discorso. Opera: topici.
 Eristica: muove da premesse che sono asserzioni poste seguono conclusioni ricavate dalle premesse
in maniera non conforme alle regole del corretto discorso. Opera: confutazioni sofistiche

La fisica
La Fisica come concezione filosofica di Aristotele
La Fisica, la grande opera in cui Andronico da Rodi ha raccolto in otto libri i vari scritti aristotelici di fisica,
costituisce una premessa generale alle diverse articolazioni della filosofia seconda, che nella concezione
Aristotele ha della filosofia occupa la posizione indicata nello schema seguente.
L’oggetto della filosofia per Platone e per Aristotele
Filosofia, nella terminologia sia di Platone che di Aristotele, equivale alla scienza, che equivale a conoscenza
non del particolare, ma dell’universale, e quindi una conoscenza che rimane valida in tutti i luoghi e in tutti i
tempi.
 Secondo Platone però, per avere questi caratteri la filosofia deva avere come unico oggetto l’essere
immutabile, vale a dire l’idea (eidos), perché ciò che è mutevole non può dar luogo a una
conoscenza universale, e non può neppure considerarsi propriamente essere, in quanto non
permane in ciò che è;
 Secondo Aristotele diversamente, la filosofia può aver per oggetto sia l’essere immutabile sia
l’essere in movimento. Aristotele, tuttavia, proviene dalla scuola platonica, e ne mantiene per tutta
la vita la concezione della scienza come conoscenza dell’universale, e dell’essere come permanenza;
proprio per questo avverte il problema di spiegare come il mutevole possa diventare oggetto di
scienza, e come possa essere considerato essere. Innanzi tutto l’esistenza dell’essere in movimento
è certa per induzione, troviamo il movimento congiunto all’essere nella nostra esperienza percettiva
che per Aristotele è sempre veritativa.
Le fondamentali nozioni della fisica
La filosofia seconda, o scienza del movimento, è chiamata da Aristotele anche fisica, o scienza della natura,
poiché egli definisce la Natura come la totalità delle cose in movimento.
Il problema che Aristotele si pone è come la fisica possa essere scienza, cioè essere costituita da
proposizioni universali riguardo al suo oggetto, se il suo oggetto è in movimento; quindi, muta sempre. Ma
anche come possa considerarsi tale oggetto, se in movimento e in mutamento. Il problema è risolto da
Aristotele nel primo libro dell’opera riconducendo i movimenti delle cose in Natura a quattro fondamentali
nozioni: Forma, materia, potenza e atto.
Forma e materia
Forma: traduce solitamente il termine greco eidos, lo stesso usato da Platone, e che è reso, quando si tratta
di Platone, con idea. Nel caso di Aristotele, la traduzione del medesimo termine eidos con forma è
giustificato dal fatto che l’eidos, cioè il modello intellegibile delle cose sensibili, è inteso da Aristotele in
maniera diversa:
 Platone lo intende come modello logico/ontologico (ed etico) universale distinto dalle cose
particolari
 Aristotele come modello particolarizzato in ciascuna cosa in quanto espressivo della sua struttura
interna.
L’eidos aristotelico è la forma della cosa particolare, che la determina e la organizza, e soprattutto che ne
determina l’essenza
Materia (Hyle): è il sostrato della forma, cioè è quel qualcosa che, pur avendo già una forma, che la fa
essere la cosa che è, può assumere altre forme che non ha, e relativamente alle quali è materia.
Potenza e atto
La Potenza (dynamis) è la capacità di una certa materia di ricevere una certa forma, dato che nessuna
materia può ricevere tutte le forme.
Aristotele porta come esempio quello dell’uomo che, inesperto di musica, diventa, una volta addestratosi,
musicista. Un tal uomo ha la «forma» di uomo, ovvero la struttura e le qualità che organizzando le sue
«materie» quali la carne le ossa gli organi, lo determina come individuo umano. Ma un uomo se inesperto
di musica funge da materia rispetto alla forma di musicista, perché attualmente non la ha, la ha solo in
potenza.
L’Atto è la forma effettivamente posseduta da qualcosa, sia che questa forma sia in espletazione (enérgheia),
sia se questa forma sia semplicemente acquisita (entelecheia).
Ad esempio un uomo che suona è un musicista in atto (energheia), ma è un musicista in atto anche una
persona che fa questo di professione (entelecheia).
L’atto precede sempre la potenza, ma è la potenza che giustifica il movimento. Per queste ragioni Aristotele
ritiene che sia possibile una scienza del movimento.
I diversi generi di movimento
Dimostrato che l’essere in movimento esiste, ed è oggetto di scienza, Aristotele basa questa scienza sulla
distinzione tra diversi tipi di movimento. Poiché l’essere si articola in più generi, anche il movimento,
essendo inerente, sarà similmente articolato, ed esisteranno perciò diversi generi di movimento.
Supremi generi dell’essere sono, come sappiamo le categorie. Nel trattato dallo stesso titolo Aristotele ne
aveva enumerate dieci. Qui ne enumera invece otto: sostanza, quantità, qualità, relazione, luogo, tempo,
agire e patire:
 Il movimento secondo sostanza è la generazione e la corruzione (nascere e perire)
 Il movimento secondo quantità è l’accrescimento e la diminuzione (diventare «più» o «meno»,
mantenendo le stesse qualità»
 Il movimento secondo qualità e la relazione è l’alterazione (mutare aspetti o qualità non essenziali,
perché perdere una qualità essenziale, cioè una forma, significa perire)
 Il movimento secondo il luogo e il tempo è la traslazione (spostamento nello spazio durante il
tempo)
 Il movimento secondo l’agire e il patire è l’animazione (manifestazione della vita come sorridere,
piangere, correre)
La rielaborazione del concetto di Natura
Nel secondo libro Aristotele riduce l’estensione del temine Natura solo agli esseri che hanno in sé il principio
di movimento, ovvero gli uomini, gli animali e le piante. Questo tipo di movimento viene spiegato come
passaggio dalla potenza all’atto, perché è in questo passaggio che si compendiano tutte le trasformazioni
qualitative.
Poiché Aristotele la causa di un ente è intesa come l’insieme delle condizioni che determinano l’essere di un
ente, individua quattro cause esplicative di ogni passaggio dalla potenza all’atto, e quindi di ogni movimento
fisico.
La classificazione delle cause
 Causa materiale: per causa materiale di un movimento fisico Aristotele intende quella realtà, che
non avendo forma verso cui il movimento tende, ma avendo al tempo stesso la capacità di
assumerla, costituisce il punto di partenza di tale movimento.
Ad esempio, la causa materiale di un determinato tavolo è il legno, è il legno di cui esso è fatto,
perché tale legno non aveva in se stesso la forma di tavolo, ma poteva assumerla.
 Causa formale: per causa formale di un movimento fisico Aristotele intende la forma verso cui quel
movimento tende. La causa formale del tavolo è la forma stessa del tavolo
 Causa efficiente: Per Aristotele è l’agente che produce in una determinata materia il movimento
verso una determinata forma
Nel movimento di un legno che diventa tavolo, la causa efficiente è l’attività dell’artigiano che
trasforma il legno
 Causa finale: Per Aristotele è lo scopo in vista di cui la causa efficiente opera.
Ad esempio, ciò che vuole guadagnare l’artigiano dalla vendita del tavolo è la causa finale di quel
tavolo, del perché, cioè, il legno è diventato tavolo
Le cause nella natura e nel fare umano
Aristotele osserva che queste quattro cause si presentano distinte solo nelle opere della tecnica umana.
Nel tavolo fatto dal falegname abbiamo quattro cause distinte, perché una cosa è il legno, altro è il modello
di tavolo nella mente dell’artigiano, altro la sua attività lavorativa e altro ancora lo scopo per cui lo fa.
Nella Natura invece la causa formale, efficiente e finale coincidono; infatti, considerato il passaggio dal seme
alla pianta, allora abbiamo una causa materiale che è il seme, una causa formale, che è la forma della
pianta, una causa efficiente che, in tal caso, può concepirsi solo come la presenza della forma della pianta
nel seme. Perché, infatti, il seme diventa pianta. Non per un agente esterno a esso, ma perché in esso è
presente la forma della pianta virtualmente impressa nel suo essere, che funge da principio intrinseco di
movimento verso il suo diventare pianta. La causa finale, che è lo scopo per cui il seme tende a diventare
pianta, non è altro che la forma della pianta, che essa deve diventare.
Finalismo della Natura e conoscenza umana
La concezione per cui la forma non è solo causa formale, ma anche efficiente e finale, si rileva strategica nel
pensiero di Aristotele, perché significa che nella Natura è sempre la forma che un determinato tipo di
materia deve raggiungere, in quando la possiede virtualmente, come sua finalità intrinseca, per cui causa
prima della natura è la causa finale. Il fine per cui ogni ente esiste e ha un movimento è un altro ente, verso
la cui specie comunemente e per lo più tende. La mela cade dall’albero perché attratta dal suo luogo
naturale che è la terra. Questo finalismo della Natura rappresenta lo sviluppo di quella concezione di
Aristotele per cui la conoscenza deve spiegare il modo di esistere effettivo dei fatti: se ciò che una cosa
comunemente e per lo più diventa è il suo fine, e se il suo fine è ciò che guida il suo movimento, se ne ricava
che l’esistere delle cose della Natura ha come unico scopo quello di realizzare quell’ordine che la Natura
manifesta
Il concetto di «eccezione» e il rapporto Natura e società umana
Considerato che il concetto di Natura di Aristotele comprende tutto ciò che è caratterizzato da un
movimento interno a sé, anche la società umana appartiene a pieno titolo alla Natura, per cui il finalismo
(che dà ragione del perché quel seme diventa pianta e non altro) vale anche per il mondo sociale umano.
 Ciò consente di giustificare l’immutabilità dell’ordine sociale umano, e di dare ragione, ad esempio,
del perché il figlio di una schiavo non possa arrivare a vivere altre forme di vita all’infuori di quella di
schiavo
 Così come una donna non può assumere incarichi lavorativi extradomestici perché il fine della
donna è quello di partorire e accudire la prole
 Aristotele non nega che si possano pensare degli itinerari diversi da quelli solitamente manifestati
dalla Natura, che cioè una potenza possa realizzare un atto cui on era finalisticamente destinata.
 Questo può accadere ma, puntualizza Aristotele, siamo fuori dal campo della conoscenza, perché
siamo di fronte all’eccezione, all’errore di Natura, e la filosofia non si occupa dell’eccezione, che
proprio perché tale, non deve essere spiegata, perché è ciò che di norma non deve accadere.
 La filosofia è chiamata a dar ragione solo di ciò che deve accadere.
 Nel mondo umano la considerazione l’eccezione è errore e abuso
La matematica nelle scienze teoretiche.
Prima fase
Aristotele ha sempre avuto difficoltà a collocare la matematica in un ordinamento generale delle scienze
teoretiche, tanto che nel corso della sua riflessione filosofica, ha più volte modificato il quadro di tale
ordinamento.
La prima fase platonica: la collocazione della matematica nella tripartizione delle scienze teoretiche. In
questa prima fase ha collocato la matematica in una posizione intermedia tra fisica e teologia, sopra la fisica
e sotto la teologia. Questa partizione è coerente con la filosofia platonica, perché questa considera gli enti
matematici intermedi tra quelli empirici e quelli eidetici, cioè di superiore livello di realtà rispetto a quelli
empirici e di inferiore livello di realtà rispetto a quelli eidetici. Risulta incoerente rispetto al pensiero di
Aristotele, per il quale gli oggetti empirici oggetto della fisica incorporano immutabili strutture eidetiche (le
forme), per cui tali oggetti dovrebbero essere considerati di superiore livello di realtà rispetto a quelli
matematici che non hanno né contenuto empirico né eidos
Seconda fase
Seconda fase: la matematica come articolazione della filosofia seconda
In seguito Aristotele abbandona la tripartizione delle scienze teoretiche e passa alla bipartizione tra filosofia
prima e filosofia seconda. La matematica diviene una delle tante articolazioni della filosofia seconda. La
soluzione però è fragile: le ramificazioni della filosofia seconda corrispondo generalmente a diversi generi di
movimento e di enti in movimento, e su questo piano non è individuabile un genere di oggetti proprio della
matematica, anche perché, ai tempi di Aristotele, la matematicanon sembra occuparsi del movimento
Terza fase
Terza fase: L’esclusione della matematica dalla classificazione definitiva delle scienze teoretiche
Aristotele abbandona infine anche la posizione di cui si è appena detto, la bipartizione tra filosofia prima e
seconda. La nuova e definitiva classificazione è basata sui generi di sostanze (secondo la definizione di
sostanza che vedremo nella filosofia prima)
 Fisica: che si occupa di sostanze mobili e corruttibili
 Astronomia: che si occupa di sostanze mobili e incorruttibili
 Teologia che si occupa di sostanze immobili e incorruttibili
La matematica è definitivamente esclusa dalle scienze teoretiche e viene concepita come studio di
astrazioni mentali di enti empirici. Questa prospettiva aristotelica relativizza e svaluta la matematica,
diversamente da quanto accade nell’Accademia platonica, dove la matematica è coltivata ai più alti livelli
Cielo e Terra.
Il moto circolare appartiene al cielo
Nella sua opera dedicata all’astronomia Aristotele esordisce dicendo che in cielo non ci possono essere:
 Movimenti di generazione e corruzione
 Di accrescimento e diminuzione
 Di alterazione e di animazione
Se ci fossero stati, il cielo avrebbe cambiato aspetto nel corso delle generazioni umane, ma ciò non trova
riscontro nell’esperienza percettiva che per Aristotele è sempre veritativa: tutte le generazioni hanno visto
paesaggi terrestri sempre diversi, ma hanno invece visto sempre lo stesso cielo, con gli stessi astri e le stesse
orbite . L’unico movimento compatibile con l’immutabilità del cielo è quindi quello di traslazione. Tra tutti i
moti di traslazione possibili, quello che appartiene al cielo è quello circolare
Le sostanze corporee
Aristotele prosegue la sua trattazione dicendo che sono corpi semplici quelli che hanno per natura moti
semplici, e sono corpi composti quelli che hanno per natura modi misti. Sulla terra osserviamo quattro corpi
semplici:
 La terra e l’acqua che sono dotati di moto rettilineo semplice verso il basso
 L’aria e il fuoco che sono dotati di modo rettilineo semplice verso l’altro
Nel cielo invece è presente un’ulteriore essenza corporea non tangibile e non visibile, prima e
fondamentale, l’etere, che deriva dal greco aéi therein, cioè sempre correre
 L’etere segue il moto circolare, anch’esso semplice
 Per Aristotele il movimento circolare è primo rispetto al modo rettilineo, in quanto questo tipo di
moto è finito
Le proprietà dell’etere
L’etere è la sostanza di cui è fatto tutto ciò che esiste nel cielo. Non può essere tangibile, perché è tale ciò
che è pesante o leggero e quindi dotato di movimento rettilineo, mentre l’etere è dotato solo di movimento
circolare. Non può essere visibile, perché è tale ciò che ha figura e opacità e quindi si corrompe
(sfigurandosi e opacizzandosi differentemente). Mentre l’etere non può che essere incorruttibile perché
altrimenti il cielo, che è fatto di etere, non sarebbe come ciò che è, ovvero immutabile. L’etere non è
sostanza divina, perché le sostanze divine sono incorporee e immobili. L’etere invece è corporeo e mobile
ma a differenza delle sostanze terrestri, è inalterabile, indiminuibile, incorruttibile e sempre uguale a se
stessa. Il cielo è, quindi per Aristotele, luogo intermedio tra la Terra e la realtà divina
Gli Astri e le sfere e etere
Il cielo non è uno, ma è costituito da una pluralità di sfere di etere, per cui si dovrebbe parlare di cieli.
I cieli ruotano, in virtù dell’etere di cui sono fatti, attorno alla Terra immobile, o più precisamente attorno al
suo centro. In ogni cielo fatto di etere è incastonato un astro fatto pure di etere. Nel primo cielo la Luna, nel
secondo il Sole, nel terzo Venere, poi Mercurio, Marte, Giove, Saturno: si muovono lungo la volta celeste e
cambiano la loro orbita. Nell’ottavo le Stelle fisse: le stelle ruotano giornalmente solo lungo la volta celeste.
Mondo terrestre sublunare e mondo celeste sopra lunare
L’universo aristotelico è, per così dire, a due piani, con un mondo terrestre sublunare e un mondo celeste
sovra lunare che formano insieme una totalità finita. L’infinità dell’universo è esclusa:
 sia perché l’infinito è sinonimo di disordine, mentre cosmo significa proprio ordine,
 sia perché un cielo infinitamente lontano dalla terra non potrebbe compiere quella rotazione
intorno ad essa che sempre osserviamo
Nel mondo terrestre e sublunare nel mondo celeste e sovra lunare ci sono corpi, movimenti, leggi e qualità
diversi, quelli che sono nell’uno non sono nell’altro:
 Per cui esistono due fisiche diverse, una, in senso stretto, relativa al mondo terrestre
 L’altra, astronomica, relativa al mondo celeste
Per Aristotele la terra è sferica e centro dell’universo:
 la sfericità è data dalla circolarità dell’ombra proiettata dalla Terra sulla Luna dalle eclissi, e dalla
presenza di Stelle non visibili dalla Grecia, ma visibili dall’Egitto
 la centralità e immobilità della Terra invece è data dall’evidenza percettiva
Sulla generazione e la corruzione
I corpi esistenti sulla Terra sono trattati nell’opera Sulla generazione e la corruzione. Essi si risolvono in
quattro elementi che sono, dal basso in alto: terra, acqua, aria e fuoco.
Un corpo inerte, vale a dire non soggetto a alcuna forza, rimane in uno stato di quiete se qualcuno gli
applica una forza, questa gli conferisce velocità, che si mantiene finché rimane operante la forza. Il moto la
cui velocità è data dalla forza che qualcuno ha applicato, si dice moto violento. Oltre al moto violento esiste
anche il moto naturale, che è quello prodotto da una forza data dalla tendenza di un corpo posto al di fuori
del luogo naturale a tornarvi. Il luogo naturale della terra è quello più basso di tutti gli altri elementi. Il luogo
naturale del fuoco è il cielo sottostante alla luna. La dove ci sono i fulmini, per cui se si accendo una torcia la
fiamma naturalmente andrà verso l’alto.
Il valore delle teorie di Aristotele
Queste teorie sul cielo e sulla Terra sono evidentemente sbagliate alla luce delle nostre conoscenze: esse
però vanno giudicate riconducendole al contesto storico dell’epoca, cioè in un mondo che non dispone di
strumenti ed è perciò osservato con i cinque sensi. In ogni caso, la teoria astronomica di Aristotele offre per
la prima volta all’uomo un quadro complessivo, articolato, ed esplicativo di molti fenomeni naturali e
dell’ordine cosmico.
L’anima e la conoscenza. Sull’Anima
Lo studio dei corpi celesti sopra la Luna e dei corpi viventi sulla Terra (astronomia e biologia secondo il
nostro linguaggio) per Aristotele rientrano nella fisica, intesa in senso lato come filosofia seconda. Il corpo
vivente è come corpo un composto di materie, dotato però di vita; la vita essendo sinonimo di atto in
quanto attività che riproduce se stessa, non può coincidere con alcuna delle sue materie, né con la loro
sommatoria, perché la materia è ricettacolo passivo della forma.
Poiché la forma di una sostanza è il suo principio di attuazione, e poiché si chiama anima il principio di
attuazione della vita, l’anima può essere definita come la forma del corpo vivente.
In senso proprio sono dotati di anima soltanto i corpi in grado di vivere. Dice Aristotele: Vivere si dice in
molti sensi, poiché sono vita la nutrizione, la generazione, l’appetizione, la locomozione, il ragionamento.
Basta che ci sia anche una sola di queste attività perché ci sia vita. Pertanto si deve dire che anche le piante
sono esseri viventi. L’anima, in quanto forma costituiva di queste attività. È atto del corpo.
La classificazione dell’anima: vegetativa, sensitiva e intellettiva
Secondo Aristotele non si tratta di tre anime neppure di tre parti, ma di uno sviluppo dell’anima. L’anima
sensitiva non è che l’anima vegetativa che si è sviluppata fino ad avere una nuova facoltà direttiva, la
sensazione, che dirige anche le facoltà vegetative, le quali dunque, rimangono presenti e operanti
nell’anima sensitiva. L’anima intellettiva, a sua volta, è quella che ha sviluppato come facoltà direttiva la
facoltà razionale, che integra in sé tutte le altre facoltà, e soprattutto quella sensitiva, che rimane nell’uomo
come supporto al suo intelletto. La sensazione, dunque, appartiene sia all’animale che all’uomo in quanto
animale, e, nell’uomo, è influente sulle sue facoltà intellettiva in quanto fornisce ad essa i dati veritativi
dell’esperienza che essa poi elabora, scoprendo con il ragionamento anche altre verità. Per questo motivo la
sensazione è l’argomento più studiato del trattato sull’anima.

La sensazione
La sensazione è l’interazione tra il sensorio, cioè la percezione dell’organo, e il sensibile, cioè il dato
percepito. Sensorio e sensibile, finché sono in potenza, sono due potenze distinte:
 Il sensibile, infatti, è la potenza di imprimersi nel sensorio, la cui essenza rientra nella categoria
dell’agire
 Il sensorio, invece è la potenza di subire l’azione del sensibile incorporandola, e la sua essenza
quindi è il patire.
Quando il sensorio e il sensibile passano dalla potenza all’atto, sono un medesimo atto. Ciò in quanto il loro
passaggio dalla potenza all’atto non può che essere simultaneo e avere come causa efficiente ciascuno
l’altro. Infatti il sensorio non può percepire se il sensibile non gli causa la percezione, e il sensibile non po’
essere un dato percepito se il sensorio, orientato su di esso, non gli causa l’imprimersi nell’organo
Esempio di sensazione
Aristotele fa l’esempio di una tavoletta di cera sulla quale venga impresso un anello d’oro o di bronzo.
L’anello (il sensibile) e la tavoletta (il sensorio) sono le due essenze diverse, entrambe in potenza. L’impronta
dell’anello sulla cera, però, è si l’anello, ma non come oro o bronzo, ed è anche la cera, non però come la
tavoletta ma come figura. Ebbene: la sensazione è come quell’impronta, è un’impronta mentale, che è
insieme il sensibile smaterializzato (come l’immagine di un albero in un occhio, che non è più l’albero
materiale) ed il sensorio non più recipiente (immagine di quell’albero nell’occhio è un ricevuto, non un
ricevere).
L’intellezione.
Affinità con la sensazione
L’intellezione, che appartiene soltanto all’uomo, e non anche all’animale, ha un’essenza, sotto diversi aspetti
simile a quella della sensazione (che appartiene sia all’uomo che all’animale). Come la sensazione è
passaggio dalla potenza all’atto, sia del sensorio che del sensibile, così l’intellezione è il passaggio dalla
potenza all’atto sia dell’intelletto sia dell’intellegibile. Come la sensazione è un unico atto del sensorio e del
sensibile, così l’intellezione è un unico atto dell’intelletto e dell’intellegibile. Come il sensibile è
smaterializzato nel sensorio, così l’intellegibile è smaterializzato nell’intelletto.
Differenze con la sensazione
Mentre la potenza del sensibile sussiste come dato corporeo nell’oggetto. Quel sensibile che è l’immagine di
un albero riflessa nell’occhio è in potenza nella corporeità dell’albero in natura). La potenza dell’intellegibile
è essa stessa incorporea come l’intellegibile stesso, perché è potenza di un’astrazione mentale. L’essenza
che classifica l’albero come l’albero di una certa specie non è una parte dell’albero corporeo nemmeno in
potenze, perché è, anche in potenza un dato mentale). Da ciò consegue che, mentre il passaggio dalla
potenza all’atto del sensibile è il prodotto, come si è visto, di un’interazione, il passaggio dalla potenza
all’atto dell’intellegibile è il prodotto della sola azione dell’intelletto sull’oggetto. Ciò perché essendo
l’intellegibile incorporeo già in potenza (mentre il sensibile lo diventa solo quando passa in atto), l’oggetto
corporeo non può mai agire su di esso, non può mai suscitare l’attuazione con la sua forza corporea.
Differenze con la sensazione
Mentre la potenza del sensibile sussiste come dato corporeo nell’oggetto. Quel sensibile che è l’immagine di
un albero riflessa nell’occhio è in potenza nella corporeità dell’albero in natura). La potenza dell’intellegibile
è essa stessa incorporea come l’intellegibile stesso, perché è potenza di un’astrazione mentale. L’essenza
che classifica l’albero come l’albero di una certa specie non è una parte dell’albero corporeo nemmeno in
potenza, perché è, anche in potenza un dato mentale). Da ciò consegue che, mentre il passaggio dalla
potenza all’atto del sensibile è il prodotto, come si è visto, di un’interazione, il passaggio dalla potenza
all’atto dell’intellegibile è il prodotto della sola azione dell’intelletto sull’oggetto. Ciò perché essendo
l’intellegibile incorporeo già in potenza (mentre il sensibile lo diventa solo quando passa in atto), l’oggetto
corporeo non può mai agire su di esso, non può mai suscitare l’attuazione con la sua forza corporea.

L’intelletto attivo
L’intelletto però per agire come causa efficiente dell’attuazione dell’intellegibile, deve essere in atto, e ciò
non sembra possibile, se si detto che è nell’intellezione, e quindi soltanto quando giunge a pensare
l’intellegibile, che l’intelletto passa in atto. Aristotele risolve il problema in questo modo: «Oltre all’intelletto
potenziale, c’è un altro intelletto, che corrisponde alla causa efficiente, perché produce tutti gli intellegibili,
come una disposizione alla luce, dato che la luce rende i colori che sono in potenza colori in atto. Questo
intelletto è atto per essenza, poiché il suo agire è sempre superiore a ciò che è da esso agito»
Passaggio dalla fisica alla metafisica
Quando Aristotele presenta la fisica come filosofia seconda, la intende definita nel suo oggetto di studio:
l’essere in movimento.
Entro tale orizzonte, che include gli studi terrestri quelli celesti, quelli sull’anima e sulla mente umana, la
fisica appare autosufficiente e separata dalla teologia, che si occupa di un altro essere quello immobile. I
campi delle due discipline sembrano nettamente distinti. Ma se prendiamo però le due grandi opere della
filosofia prima e della filosofia seconda costatiamo frequenti sovrapposizioni e rimandi dall’una all’altra. La
cruciale teoria della potenza e dell’atto si trova sia nel primo libro della fisica, che nel libro teta della
metafisica. Forme e cause del divenire si trovano sia nel libro secondo della Fisica che nel libro zeta della
Metafisica.
Queste intersezioni tra Fisica e Metafisica testimoniano la difficoltà che ha avuto Aristotele a circoscrivere i
due campi.
La metafisica
I problemi insoluti della fisica esigono una spiegazione metafisica
I movimenti rettilinei dei corpi sulla terra sono, come si è visto, movimenti dal centro o verso il centro e
trovano la loro spiegazione, quindi, nel fatto che la terra è una sfera il cui centro è il centro dell’Universo.
Questo centro causa il movimento in quanto immobile nel senso assoluto del termine. L’assolutezza e
l’immobilità del centro dell’Universo, che sta alla base della scienza fisica delle sostanze mobili, non è
perciò, per definizione, spiegabile a partire dall’essere in movimento, e ciò significa che la fisica non può
giungere alla spiegazione ultima dei movimenti terrestri. I movimenti celesti poi, sono movimenti circolari di
sfere di etere, ognuna delle quali trae il proprio impulso a muoversi dalla sfera superiore che la contiene.
Ma quando si arriva all’ottava sfera, quella delle Stelle fisse, non si può procedere oltre, perché non c’è una
sfera superiore ad essa che la contenga. L’ottava sfera deve essere dunque la sorgente del movimento di
tutte le sfere celesti, ma una tale sorgente non può avere spiegazione all’interno della fisica, appunto
perché l’ottava sfera non rimanda ad altro. Esiste poi un problema più generale. Si è detto come la legge
fondamentale della fisica aristotelica sia quella che ogni potenza di un atto è tale in quanto presuppone un
conforme atto antecedente.
è evidente, che in questa maniera ogni ciclo di potenza e atto, manca di un’origine che ne sia la spiegazione.
Che cosa spiega la potenza della quercia insita nella ghianda? La quercia che ha prodotto una ghianda non
avrebbe potuto produrre la ghianda se non l’avesse avuta in potenza. Ma la quercia ha in potenza la ghianda
perché è nata da una ghianda che l’aveva in potenza. E l’aveva in potenza perché era nata da una quercia e
così vi all’infinito. Nell’ambito della fisica, dunque, atto e potenza, si rimandano all’infinito, senza un
principio che rappresenti la spiegazione dell’intero ciclo.
La fisica esige una filosofia al di sopra di essa, una Filosofia Prima
In conclusione. Le spiegazioni del movimento data dalla scienza propria del movimento, la fisica, sono
incomplete: per completare le spiegazioni della fisica è dunque necessario andare oltre l’ambito dello studio
delimitato dalla fisica stessa. Ciò significa che la fisica esige una filosofia al di sopra di essa, una Filosofia
Prima, quella che in seguito verrà chiamata Metafisica

La metafisica come scienza della sostanza incorruttibile o scienza


della realtà divina
La forma di metafisica con cui Aristotele completa la spiegazione della fisica è solitamente la teologia, tanto
che alcuni studiosi hanno definito la teologia come una metafisica della fisica Per teologia Aristotele intende
la scienza della sostanza incorruttibile e immobile, che si trova esposta negli scritti raccolti da Andronico da
Rodi e sotto il titolo di Metafisica. Questo testo è il maggiore tra quelli costruiti con gli scritti aristotelici, e
Andronico l’ha ripartito in ben quattordici libri. Questi sono indicati con le lettere dell’alfabeto greco dalla
alfa, che è la prima, alla ni, che è la tredicesima. Si arriva fino alla tredicesima, e non alla quattordicesima,
perché ci sono due libri alfa, uno indicato semplicemente alfa e l’altro con alfa elatton (cioè minore), che
consiste in un testo molto breve dedicato al tema della scienza come conoscenza di cause. La teologia è
esposta in diversi luoghi della Metafisica, ma è il libro lamda, il dodicesimo, che le è specificatamente
dedicato
L’atto puro
Il libro lamda comincia con la classificazione dei tipi di sostanza e prosegue con quella dei tipi in movimento.
Sotto questo riguardo l’esperienza percettiva mostra che tutte le sostanze corporee presenti sulla terra sono
soggette a generazione o corruzione. Il movimento come sappiamo è passaggio all’atto di una potenza
derivata da un atto simile. Per evitare quel rimando all’infinito dalla potenza all’atto che l’ha generato, e da
questo alla sua potenza occorre andare oltre la sfera della fisica e presupporre metafisicamente un atto
primo motore, cioè causa iniziale della catena dei movimenti. Per essere atto primo e causa dei movimenti
esso deve essere senza potenza, e dunque senza materia, perché: «se la sua sostanza fosse potenza, il
movimento non sarebbe di necessità eterno, perché è possibile che ciò che è in potenza non passi all’atto».
Deve essere quindi un atto puro
...O Il motore immobile
L’atto senza potenza, ovvero l’atto puro, è per Aristotele la divinità stessa. L’atto puro, cioè Dio, deve d’altra
parte essere immobile, perché, se avesse movimento, avrebbe anche la potenza, e non sarebbe quindi atto
puro, in quanto il movimento è la traduzione in atto di una potenza. Stabilita la necessità logica di postulare
un atto puro che sia motore immobile, si tratta di spiegare come sia possibile concepire qualcosa che possa
produrre il movimento senza essere esso stesso in movimento; e di spiegare cosa esso sia concretamente,
cioè quali determinazioni lo caratterizzino. Rispetto a questo problema, si tratta di trovare un atto che agisca
solo su di sé e non su altro. Se agisse su altro, quest’altro lo determinerebbe come potenza. Ad esempio un
lettore non può essere tale se non ha qualcosa da leggere; se non lo avesse, sarebbe lettore in potenza.
Il pensiero come atto che agisce su di se
Nel mondo in cui viviamo un atto che manifesti in qualche modo un agire su di sé è il pensiero, perché il
pensiero si riferisce in parte a se stesso. Tuttavia il nostro pensiero dipende anche da una realtà esterna da
cui trae i suoi concetti, e quindi non è un atto puro. Un atto puro, allora può essere concepito soltanto come
pensiero che per pensare non abbia bisogno di nulla fuori di sé, cioè come Intelletto di Natura divina. Ciò è
possibile, secondo Aristotele, se si concepisce Dio come eterno pensiero di sé. Ma un Dio siffatto, pensiero
di pensiero, come può rappresentare la causa dell’Essere? Il problema non è di facile soluzione perché
Aristotele ha sempre detto che la causa, per essere tale deve essere in movimento. Per ovviare ciò ricorre a
un’analogia «Essa causa prima o motore immobile produce il movimento come fa un oggetto amato mentre
le altre cose producono il movimento perché sono esse stesse mosse»
La materia si muove tendendo a Dio
La materia, tendendo a Dio come ciò che ama tende all’oggetto di amore, nel suo tendere verso Dio, in
questa sorta di movimento di marea, si rende somigliante a Dio, ed è così che nel mondo empirico si mette
in moto, in forma ciclica e quindi contingente, l’immagine, necessariamente deformata e imperfetta, perché
sempre affetta da materia e potenza, di ciò che in Dio esiste eternamente. Aristotele è partito dal
presupposto che l’unico vero Essere concepibile è l’Essere delle cose empiriche, assunto come dato dalle
varie forme di filosofia che ne studiano ciascuna un ambito specifico. A un certo punto, però,
inevitabilmente, gli si pone il problema del perché dell’Essere delle cose empiriche e la sua risposta rimanda
all’esistenza di un Essere eterno al di là della dimensione dell’esperienza. Tutta la filosofia di Aristotele trova
così fondamento in un Dio che ha la connotazione di un postulato logico.

La metafisica generale. Dalla sostanza immobile all’Essere in


quanto Essere
Il libro gamma (il quarto) della Metafisica inizia così: «C’è una scienza che conosce l’Essere in quanto Essere
e le proprietà che gli competono come tale. Essa non si identifica con nessuna delle scienze particolari:
infatti nessuna delle altre scienze mette sotto osservazione l’universalità dell’Essere, ma ciascuna di esse,
dopo averne delimitato una parte, arriva a conoscere le proprietà di questa parte». In questo brano è
introdotto un passaggio dalla fisica alla metafisica diverso da quello considerato nelle slides precedenti: La
fisica è assunta come scienza di un ambito particolare dell’Essere, quello caratterizzato dal movimento, per
cui il movimento è assunto come Essere a pieno titolo, privo del Nulla (e non, platonicamente, come misto
di Essere e Nulla). Un movimento così inteso, essendo espressione dell’Essere, e non mero dato empirico, si
può spiegare solo sul piano metafisico. In questa nuova configurazione la metafisica non è più soltanto la
scienza specifica di uno specifico genere di sostanza (la sostanza immobile), ma la scienza dell’Essere in
generale, o meglio dell’Essere in quanto Essere (ontologia).
La metafisica generale. Causa e principio
Sappiamo che per Aristotele la conoscenza scientifica è conoscenza dell’universale, quindi conoscenza delle
cause delle cose. Alla nozione di causa si collega in Aristotele quella di principio: causa e principio non sono
due nozioni distinte, ma la medesima nozione vista da due diversi punti di osservazione. Il principio di una
realtà è la sua causa vista come l’inizio del suo svolgimento. La causa di una realtà è il suo principio ma visto
come produttore di esso. Poiché ogni aspetto dell’Essere ha i suoi principi e le sue cause specifiche, le
scienze sono tante quanti sono gli aspetti specifici dell’Essere. Ogni scienza studia le cause e i principi
dell’aspetto dell’Essere cui appartiene. Ad esempio la fisica studia l’Essere sotto il profilo del movimento, e
la matematica sotto il profilo della quantità. Per Aristotele, tuttavia, oltre alle cause e ai principi specifici di
ogni aspetto dell’Essere, esistono anche cause e principi dell’Essere nella sua globalità. La filosofia a livello
più alto è quella che studia appunto le cause e i principi riguardanti l’Essere nella sua globalità (eziologia)
La metafisica generale. La filosofia prima come scienza dell’Essere
in quanto Essere
La filosofia prima, dunque, è la filosofia che studia l’Essere in quanto Essere. Ma cosa significa esattamente
«Essere in quanto Essere»? Per Aristotele può avere tanti significati quante sono le categorie. Abbiamo visto
infatti nell’Organon, come le categorie altro non siano che i significati supremi entro i quali l’Essere può
venir pensato. Ad esempio poiché esiste la categoria della quantità, l’Essere ha tra i suoi significati quello di
quantità, ed esiste una scienza, la matematica che studia l’Essere sotto il profilo della quantità. Ugualmente,
poiché esiste la categoria della qualità, l’Essere ha tra i suoi significati quello della qualità, ed esiste una
scienza, la fisica, che studia i movimenti attraverso i quali le cose che esistono acquistano o perdono
determinante qualità
La metafisica generale. La filosofia prima come scienza della
sostanza
Qual è allora il significato dell’Essere che rappresenta non un aspetto del suo manifestarsi, ma la sua stessa
natura di Essere? Qual è in altri termini, la categoria che ci da questo significato dell’Essere che la filosofia
prima deve indagare? Secondo Aristotele tale categoria è quella della sostanza (ousia). Tutte le altre
categorie, infatti, esprimono l’aspetti dell’Essere che non possono venire concepiti se non come attributi
della sostanza. Ad esempio l’aspetto quantitativo proprio dell’Essere rinvia all’Essere come sostanza, nel
senso che è la sostanza che è determinabile quantitativamente. Ugualmente le qualità dell’Essere sono
qualità della sostanza dell’Essere. Pertanto mentre nove categorie rinviano alla sostanza, la sostanza
rappresenta un significato che è concepibile solo in se stesso e non come attributo di altri. Questo significa
che l’Essere in quanto sostanza è l’Essere in quanto Essere

La metafisica generale. La sostanza come sinolo di materia e forma


La sostanza, prosegue Aristotele, può Essere intesa in tre possibili accezioni
Come materia: ciò che accoglie la forma
 Il legno del tavolo che accoglie la forma del tavolo
Come forma: la qualità che definisce a organizza una realtà
 La forma del tavolo organizza e definisce la realtà della materia del legno
Come sinolo: l’unione tra forma e materia
 La materia non esiste allo stato puro, ma è tale in relazione a una forma che ancora non ha.
Il legno è materia rispetto alla forma del tavolo, ma ciò non significa che in se stesso non abbia una forma,
che è una qualità della sua ligneità. Insomma la materia è un concetto relativo, perché ogni materia è tale
rispetto a una determinata forma, ma considerata in se stessa, ossia non in relazione a quella forma che
ancora non ha assunto, è sostanza dotata di propria forma.
La metafisica generale. La forma rappresenta l’essenza della
sostanza
Stabilita questa distinzione, prosegue Aristotele, la sostanza come sinolo non può rappresentare la natura
originaria dell’Essere perché il sinolo, in quanto unione di materia e forma, è esso stesso un risultato di
determinazioni preesistenti. Aristotele fa l’esempio della sfera di bronzo, cioè di una sostanza che è sinolo
della materia «bronzo» con la forma «sfericità» e osserva che il bronzo e la sfericità esistono prima che
esista la loro unione. Anche la sostanza intesa come materia non ci rappresenta l’originaria natura
dell’Essere, perché la materia è potenzialità di forme che la preesistono. Dunque le sostanze fisiche sono
sintesi di materia e forma, ma ciò che le fa Essere sostanze non è il loro Essere sinolo né il loro Essere
materia è quindi la loro forma a renderle sostanze. Dal punto di vista della filosofia prima, la forma
rappresenta l’essenza della sostanza.
La metafisica come scienza degli assiomi. La filosofia prima deve
provare la verità degli assiomi
Posto che le definizioni sono discorsi esplicativi di cosa s’intenda di un certo qualcosa, e dunque non si pone
il problema di provare la loro verità, perché non si pronunciano sulle proprietà empiriche, e neppure
sull’esistenza o meno delle cose. Posto che le ipotesi sono principi ciascuno di un determinato tipo di genere
dell’Essere e della scienza corrispondente. Poiché si tratta di asserzioni sull’esistenza e la proprietà delle
cose, la loro verità deve essere provata. Gli assiomi sono i principi regolativi di ogni discorso sensato, di cui
ogni scienza deve presupporre la verità nella misura in cui pretende che i discorsi che usa siano sensati.
Scrive Aristotele nel libro gamma, dopo aver detto della filosofia prima come scienza dell’Essere in quanto
Essere e come scienza della sostanza: «è evidente che gli assiomi, in quanto riguardano ogni discorso su
ogni essere, appartengono a tutte le cose in quanto sono esseri. Perciò il loro studio compete a chi studia
l’essere in quanto essere. Infatti nessuno di coloro che si limitano all’indagine di una parte dell’essere si
preoccupa di chiarire se gli assiomi siano veri o no»
La metafisica come scienza degli assiomi. Il principio di non
contraddizione
Provare la realtà degli assiomi spetta dunque alla filosofia prima, e poiché gli assiomi sono autoevidenti, la
prova consisterà nell’esplicitare questa autoevidenza, mostrando come un discorso che neghi la verità degli
assiomi sia autocontraddittorio. Un discorso autocontraddittorio si autodistrugge perché l’assioma
fondamentale di sensatezza del discorso è il principio di non contraddizione. Tale principio è stato già
menzionato da Aristotele nell’Organon, nello scritto L’enunciazione, come impossibilità di predicazione di
uno stesso soggetto, nel medesimo tempo e sotto lo stesso aspetto, di due concetti di cui ciascuno sia la
negazione dell’altro. Nel libro gamma della Metafisica Aristotele ne dà un significato equivalente, ma sul
piano ontologico «è impossibile che lo stesso elemento appartenga e non appartenga alla stessa cosa nel
medesimo tempo e sotto il medesimo aspetto». Da ciò deduciamo che il principio di non contraddizione è
principio logico e ontologico al tempo stesso e regola suprema cui il linguaggio deve attenersi.
La metafisica come scienza degli assiomi. L’indimostrabilità del
principio di non contraddizione
La verità del principio di non contraddizione non è però dimostrabile, perché una qualunque dimostrazione,
un qualunque discorso sensato presuppone già che tale principio sia vero. Esso d’altra parte, non è altro che
l’espressione logica di una realtà ontologicamente concepita come insieme di sostanze Se una cosa è
sostanza, allora il nome che designa deve avere uno e un solo significato, corrispondente alla sua forma
essenziale. Ad esempio, il nome «uomo», significa «animale dotato di ragione», che è l’essenza della
sostanza uomo, e nient’altro. È possibile che due attributi distinti appartengano a una medesima sostanza,
come due sue qualità distinte? Un uomo può essere contemporaneamente «animale dotato di ragione» e
«animale privo di ragione», così come potrebbe essere contemporaneamente «musico» o «ginnasta»? No.
Conclude Aristotele: È impossibile supporre che la medesima cosa sia e non sia, come certuni credono
sostenga Eraclito
La metafisica nelle diverse accezioni aristoteliche
Nella metafisica troviamo ben cinque definizioni di filosofia prima:
 Scienza delle cause (eziologia)
 Scienza dell’essere in quanto essere (ontologia)
 Scienza della sostanza (ousiologia)
 Scienza degli assiomi
 Scienza della realtà divina (teologia)
Almeno le prime quattro sono compatibili tra di loro, perché si tratta di quattro definizioni diverse del
medesimo oggetto. Le cause sono di ogni settore dell’essere, quindi la scienza dell’essere è ance scienza
delle cause prime. Ma è anche scienza della sostanza. Gli assiomi sono le condizioni logiche del discorso
metafisico dell’essere. Per quanto riguarda la metafisica come teologia, sia Aristotele sia alcuni interpreti la
ritengono integralmente compatibile con la metafisica. Altri invece no, essendo la realtà divina produttrice
dell’Essere merita una trattazione particolare
La metafisica e i gradi della conoscenza
Nel primo paragrafo del libro alfa Aristotele propone una scala gerarchica dei gradi di conoscenza
I primi tre gradi sono in comune con gli animali e sono:
 Sensazione
 Memoria
 Abilità empirica
Il quarto grado è la tecnè, che è esclusivamente umana, ed è una abilità pratica guidata da criteri universali.
Il quinto grado è la scienza, che è conoscenza degli universali, e offre alla tecnè gli universali con cui agire.
Sopra di essa, all’ultimo grado si eleva la sapienza, che è la conoscenza delle cause prime e dell’essere
La metafisica e storia della filosofia
Nel libro alfa della Metafisica, Aristotele traccia tutto un percorso di ricostruzione delle posizioni filosofiche
che secondo molti commentatori è stato definito la prima storia della filosofia. Platone aveva fatto iniziare la
filosofia, concepita come conoscenza dei significati di esistenza, da Parmenide. Aristotele concepisce la
filosofia in maniera diversa, come conoscenza delle cause prime. Per questa ragione secondo Aristotele
l’iniziatore della filosofia è stato Talete, in quanto per primo ha cercato una causa a tutte le cose: la causa
materiale. Altri filosofi che hanno individuato cause materiali sono Anassimene, Anassimandro e i fisici
pluralisti. Tra i fisici pluralisti si distingue Empedocle che ha individuato la causa efficiente nell’Amore e
nell’Odio. Anche Parmenide individuò la causa efficiente nell’amore. Pitagorici individuarono la causa
efficiente nel limite e, che pone ordine all’ illimitato che è causa materiale. Platone invece individuò la causa
formale
La metafisica. A cosa serve la filosofia
A proposito della filosofia intesa nel senso di sapienza, c’è un commento di Aristotele che dovrebbe essere
oggetto di riflessione non solo per chi intraprende il cammino dello studio filosofico
«Gli uomini hanno cominciato a fare filosofia per liberarsi dall’ignoranza, per cui è chiaro che hanno cercato
questa conoscenza per la comprensione che consente e non per qualche utilità pratica. Lo testimonia il
modo stesso in cui la cosa è accaduta: quando è stato ottenuto tutto il necessario per vivere, allora si è
cominciato a ricercare questa forma di conoscenza, evidentemente per nessun vantaggio esterno ad essa.
Come diciamo uomo libero colui che vive in ragione di se non di altro, così diciamo libera questa sola delle
scienze, perché essa è la sola ragione di se stessa. Per questo sarebbe giusto pensare che il suo possesso
non sia umano, dato che molte volte quella degli uomini è una natura schiava».

Le scienze pratiche e le scienze poietiche


Il fine delle scienze pratiche
Nella classificazione aristotelica delle scienze, dopo le scienze teoretiche (fisica, psicologia, astronomia,
metafisica) di cui si è detto, vengono le scienze pratiche, che sono quelle che studiano le scelte della volontà
umana. Esse sono considerate da Aristotele gerarchicamente inferiori alle prime, perché la conoscenza che
perseguono non è, come quelle delle prime, fine a se stessa, ma ha come fine il risultato delle condotte
umane. Le scienze pratiche non sono, dunque teorie, cioè contemplazioni disinteressate dell’essere (dal
verbo teoréin, che significa «contemplare razionalmente»), ma sono conoscenze non teoriche, volte a
promuovere alcune direttrici di comportamento.
Etica economia e politica
La più importante tra le scienze pratiche è l’etica. Gli scritti aristotelici concernenti l’etica sono stati raccolti
da Andronico nei due libri della Grande Etica (chiamata così per l’ampiezza dei rotoli di papiro in cui è stata
conservata) e nei 5 libri dell’Etica Eudemia, che originariamente ne comprendeva altri ora perduti. Gli scritti
di economia e politica sono stati raccolti rispettivamente nei tre libri del Trattato sull’economia e negli 8 libri
della Politica. La più famosa delle opere aristoteliche di etica, vale a dire l’Etica Nicomachea, in dieci libri, è
invece l’unica che sia stata compilata dallo stesso Aristotele, e che sia entrata nel commercio librario subito
dopo la sua morte. L’Etica Eudemia e l’Etica Nicomachea hanno tre libri in comune (IV V VI dell’Eudemia
corrispondono al V VI VII della Nicomachea). L’ipotesi più recente è che Aristotele abbia composto prima
l’Eudemia, poi i libri in comune e poi la Nicomachea in cui ha rivisto aspetti cruciali dell’Eudemia senza
rendere l’opera obsoleta.
L’etica: i presupposti metodologici della ricerca aristotelica
I due brani che seguono, tratti dall’Etica Eudemia e dall’Etica Nicomachea, consentono di individuare con
chiarezza i presupposti e il metodo del pensiero aristotelico. Scrive Aristotele:
«Platone presuppone delle idee di cui non è affatto riconosciuto universalmente il valore, e poi da quelle
deriva tutti i beni riconosciuti. Il metodo corretto è invece il contrario; muovendo da beni riconosciuti si
deve provare come vi sia presente il bene» …Inoltre «A mio giudizio si deve partire da ciò che è noto:
dobbiamo accertare scrupolosamente i dati di fatto. Questi li otteniamo o mediate induzione (esempi
persuasivi) o mediante la intuizione (comprendiamo immediatamente se qualcosa è buono o cattivo) o
mediante l’abitudine».
Nel primo brano Aristotele critica Platone sulla base di un principio costante della sua filosofia, e cioè il
riferimento al senso comune: ciò a cui comunemente si attribuisce un valore morale, cioè i beni riconosciuti,
questi contengono il bene, e compito della filosofia è trovare il bene in essi, senza ricorrere ad alcuna
nozione ideale.
La prospettiva di ricerca di Aristotele è opposta a quella di Platone
Aristotele prende le distanze da quella tradizione filosofia che aveva elaborato l’idea del bene come realtà
logico-concettuale, quindi posta al di la della dimensione dell’esperienza comune. Tale concezione del bene
era strettamente connessa, sul piano storico, all’esperienza politica della città stato, ed è stata espressione
dell’esigenza di ceti aristocratici ed intellettuali di trasformare la realtà sociale conformandola a valori e
scopi definiti appunto dall’idea stessa del bene. Aristotele è estraneo a questa tipo di prospettiva, perché
non ha mai perso la sua impronta originaria macedone, cioè proveniente da una società di sudditi e non di
cittadini, per cui ha interiorizzato un atteggiamento di accettazione della realtà sociale esistente come se si
trattasse di una sorta di dato di fatto naturale. Diversamente dai cittadini di Atene, che partecipavano
attivamente agli affari politici della città
La ricerca deve muovere dai dati di fatto socialmente condivisi
Partendo dai dati di fatto socialmente condivisi, come abbiamo detto, per Aristotele si deve procedere per
astrazione induttiva dei loro caratteri comuni, o per intuizione di ciò che essi rivelano secondo il senso
comune. Ma come fare quando i dati di fatto socialmente condivisi sono diversi a seconda delle diverse
tipologie di persone? «la norma del bene non va cercata nei molti, ma nell’uomo eccellente» Aristotele
riconosce che il senso comune della maggioranza delle persone identifica il bene nel mangiare, bere e
sollazzarsi, ma si serve di questo dato di fatto per concludere diversamente, con atteggiamento
aristocratico. L’uomo eccellente è tale perché non cerca i beni apparenti e volgari cercati da molti, ma quei
beni attraverso i quali si può ottenere il bene supremo che è la felicità. L’etica di Aristotele può essere detta
eudemonistica perché è fondata sul principio che felicità, sia ontologicamente per l’uomo sia il fine ultimo,
bene supremo e norma di moralità
I beni da cercare in vista del conseguimento della felicità
Il bene di ogni cosa, osserva Aristotele, è l’atto che gli è peculiare.
 Il bene per l’occhio è il vedere
 Il bene per il fiore è fiorire
 Il bene per l’atleta è vincere la gara
Ciò che è peculiare dell’uomo è la sua anima intellettiva, per cui il suo bene, fonte di felicità, è la virtù che
appunto si realizza nella sua anima. Secondo Aristotele esistono due generi di virtù: quelle che assicurano la
direzione dell’anima da parte della sua facoltà razionale; quelle che esprimono la facoltà razionale in se
stessa Le virtù etiche che assicurano la direzione dell’anima da parte della sua facoltà razionale. Esse
consistono nella medietà tra eccessi e difetti di sentimenti, passioni e azioni. Ad esempio il coraggio è una
virtù, perché è il giusto mezzo tra viltà e temerarietà. Le virtù dianoetiche la sono la saggezza (fronesis) la
sapienza (sofia) e costituiscono il vero fine dell’uomo in quanto anima.
La politica intro
Una scienza pratica strettamente connessa all’etica è la politica. Politica è appunto il titolo dell’opera sotto il
quale Andronico ha raccolti gli scritti aristotelici a essa relativi. I temi affrontati riflettono le grandi questioni
dell’epoca:
 Lo Stato
 La Schiavitù
 La Definizione del cittadino
 Le costituzioni
Lo Stato
Nel primo libro Aristotele vuole studiare come si costruisce lo Stato, e a questo scopo descrive e classifica le
strutture statuali effettivamente esistenti. Anche in questo caso seguendo un metodo diverso da quello di
Platone nella Repubblica. Osserva Aristotele: «La comunità che si costituisce per la vita quotidiana secondo
natura è la famiglia […] mentre la prima comunità che risulta da più famiglie in vista dei bisogni non
quotidiani è il villaggio […] quindi ogni Stato esiste per natura, se per natura esistono anche le prime
comunità […] Da queste considerazioni è evidente che lo Stato è un prodotto naturale, e che l’uomo, per
natura è un essere socievole. Per natura è in tutti la spinta verso siffatta comunità». La realtà che Aristotele
osserva è quella dell’Atene del suo tempo, dove esiste uno Stato diviso in villaggi (i demi), e i villaggi divisi in
famiglie. Questi sono i modi attraverso i quali uno stato si costituisce per natura.
La nozione di natura estesa al mondo sociale umano
Nella filosofia aristotelica il termine «natura» è strategico, con esso Aristotele indica ogni realtà il cui
sviluppo sia predeterminato da una regolarità che tenda a ripetersi. Come abbiamo visto nella Fisica, nello
sviluppo di tutti gli esseri viventi c’è una regola che si ripete, per cui ad esempio, da semi di un certo tipo
nascono sempre le stesse piante di quello stesso tipo. Questa processualità che è evidente anche nel
mondo biologico, per Aristotele vale anche nel mondo sociale umano: «Se osserviamo una realtà non
episodica, che si ripete in modo regolare da che noi uomini ne abbiamo il ricordo, significa che quella
specifica forma di realtà sociale (come nel caso dello stato) è tale per natura».
La schiavitù
Dopo questo concetto di Natura, è conseguente che Aristotele, che vive in una società schiavistica, definisca
lo schiavo un essere che, per natura, appartiene non a se stesso ma a un altro. Ed è conseguente che
giudichi «naturali» tutti i rapporti di dominio che con regolarità si manifestano nella realtà. Quindi è
naturale (e legittimo per lui) che l’uomo domini nei confronti dell’animale.E il maschio nei confronti della
femmina. Si pongono però due serie di problemi: Come si può giudicare la schiavitù come qualcosa di
naturale se i barbari sono nati liberi e nelle loro società non conosco schiavitù? A ciò Aristotele risponde:
«bisogna esaminare quel che è natural preferenza negli esseri che stanno in condizione naturale e non nei
degenerati» intendendo per degenerati ovviamente i barbari
La schiavitù e la cattura
Se affermiamo che la schiavitù è una realtà naturale, cosa dire di quegli uomini che sono fatti schiavi per
cattura? Anche ciò per Aristotele in linea di massima rientra nell’eccezione, ma la questione qui si fa più
articolata, perché si parla di uomini liberi che diventano schiavi. A ciò risponde che ci sono due livelli di
natura: «Come ci sono animali che possono vivere in un ambiente solo e altri in ambienti diversi, alla stessa
stregua ci sono uomini che sono sempre liberi e uomini che sono liberi solo in un ambiente». Ciò significa
che un barbaro ridotto in schiavitù in Grecia, è un fatto che non vìola la Natura, perché il barbaro è libero
solo nel suo ambiente, invece, il greco, nato per essere libero ovunque, se ridotto in schiavitù rappresenta
un fatto contro la natura, un’eccezione
la definizione del cittadino
Nel terzo libro della Politica, Aristotele affronta la questione della cittadinanza, cioè chi si possa definire
cittadino, e osserva come i vari diritti di cittadinanza siano diversi secondo i diversi regimi politici. Constatato
che le varie città e i vari popoli non definiscono tutti il cittadino nello stesso modo ne conclude chè: «è
necessario che il cittadino sia differente in rapporto a ciascuna costituzione». Per cui in ultima analisi, è
cittadino di un paese colui che la costituzione di quel paese qualifica come tale. Si tratta allora di studiare e
classificare le costituzioni esistenti: Nel testo Le Costituzioni, di cui c’è arrivata integralmente solo la
Costituzione degli ateniesi, lui analizza 45 costituzioni di altrettante poleis greche.
Le costituzioni
Aristotele a seguito dell’analisi delle 45 costituzioni individua 3 forme rette o naturali, e 3 forme degenerate
o eccezionali. La politeia, vista da Aristotele come quel regime in cui è prevalente la classe media dei
produttori è vista come la migliore, pur essendo inferiore alle poleis rette da una persona eccellente (la
monarchia) o da più persone eccellenti (l’aristocrazia) Anche sul tema più strettamente politico torna il tema
del giusto mezzo.
Numero dei governanti
Uno solo Alcuni Molti
Costituzioni perfette
(perseguono l’interesse monarchia aristocrazia politéia
generale della città)
Costituzioni devianti
(perseguono l’interesse tirannide Oligarchia democrazia
del governante)

Uomini e cittadini
Un’altra questione che affronta Aristotele è se si possa essere virtuosi come cittadini senza esserlo come
uomini. La risposta è «La comunità è la sua costituzione, per cui la virtù del cittadino è necessariamente in
rapporto con la costituzione. Ma se ci sono più forme di costituzione evidentemente non è possibile che
esista una sola virtù del bravo cittadino […] mentre noi diciamo che l’uomo buono è tale in rapporto a una
sola virtù».
«è chiaro allora che si può essere buoni cittadini senza possedere la virtù per la quale l’uomo è buono».
Dunque la persona che si comporta secondo quanto prescrive la costituzione del proprio paese è un buon
cittadino, ma se quelle norme di comportamento si trasferiscono dai rapporti politici a quelli privati, allora
questa stessa persona potrebbe essere giudicata malvagia.
Il fine delle scienze poietiche
Le scienze poietiche sono quelle che studiano le produzioni umane. Esse sono considerate da Aristotele di
rango inferiore a quello delle scienze pratiche, perché il loro fine pratico è ancora più immediato. Negli
scritti aristotelici raccolti da Andronico sotto il titolo di Poetica trova espressione la principale scienza
poietica, la Poetica, il cui oggetto di studio non è soltanto la poesia, ma la produzione artistica in tutte le sue
forme
La tragedia
Aristotele esamina prevalentemente la tragedia, cioè la forma artistica che aveva creato i massimi
capolavori estetici dell’Atene Classica, e da quell’analisi ricava la sua concezione dell’arte. La tragedia attica,
è nata dai cori ditirambici recitati nelle feste dionisiache come forma di culto al dio Dioniso. Le tappe
evolutive che hanno trasformato i cori ditirambici in tragedie sono state in primo luogo l’emergere del
corifero, che iniziava a improvvisare, fino all’introduzione dell’attore separato dal coro. La tragedia mette in
scena eventi, per lo più tratti da miti liberamente rielaborati, che fanno emergere forti passioni ed emozioni,
e il cui effetto sugli spettatori è, la càtharsis ton pathemàton. La catarsi delle passioni la parte della Poetica
dove era spiegata la natura di questa catarsi è andata perduta. Se ne intuisce tuttavia il senso: la
rappresentazione drammatica delle passioni, esplicitandole e mostrando gli effetti devastanti, purifica
l’anima da essere
Arte e poesia
Dalla tragedia, Aristotele trae la sua concezione dell’arte. Diversamente da Platone, per il quelle l’arte
allenta la direzione della facoltà razionale sull’anima, per Aristotele la rafforza, perché il suo effetto ultimo è
quello di scaricare l’anima dalle emozioni irrazionali. Aristotele riprende la concezione platonica della
poesia, intesa nel senso lato di produzione artistica, come mimesis, cioè imitazione delle cose fenomeniche,
ma dando alla mimesis poetica un significato più aderente alla sua realtà e più capace di coglierne il valore
di quanto non avesse fatto Platone. La mimesis poetica non va intesa come passiva riproduzione della
parvenza delle cose, ma come una loro raffigurazione che, imitandole, le trasfigura. «Le cose non sono
descritte in ragione di come sono effettivamente accaduto, bensì in ragione di come possono accadere sotto
le condizioni della natura umana»
La differenza tra storia e poesia
Aristotele osserva che la differenza tra lo storico e il poeta non è, come molti credono, il fatto che il primo
scriva in prosa e il secondo in versi, e nemmeno che il primo narri cose accadute e il secondo cose che non
sono accadute. «Le storie di Erodoto potrebbero benissimo essere messe in versi, e non sarebbero meno
storia di quel che sono senza versi, perché rimarrebbero mera descrizione dei fatti».La differenza tra storia e
poesia quindi è che la poesia è trasfigurazione dei fatti «Un poeta può anche poetare su cose accadute
senza essere meno poeta per questo: niente impedisce di esprimere cose accadute alla luce della loro
possibilità di accadere secondo la natura umana». La storia è rappresentazione del particolare, mentre la
poesia è rappresentazione dell’universale. La poesia, quindi, è più vicina alla filosofia che alla storia, però
differisce dalla filosofia perché rappresenta l’universale per immagini, non per concetti razionali
La concezione aristotelica del bello
Per Aristotele il bello non è, come aveva pensato Platone, l’apparire del bene, ma è la forma dell’ordine e
della simmetria che si colloca a un livello più alto del bene. Il bene, infatti, riguarda la vita pratica, mentre il
bello è da un lato creazione poetica, e dall’altro sussiste nelle espressioni matematiche. Secondo Aristotele,
quindi, nella gerarchia metafisica viene prima la sostanza, poi il bello, poi il bene

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