Marcelli Filologia I Dispensa Completa 23-24
Marcelli Filologia I Dispensa Completa 23-24
FILOLOGIA ITALIANA I
L-FIL-LET/13 – 6 cfu
TESTI E STUDI
Ogni argomento trattato a lezione, nonché tutti i materiali contenuti nella dispensa e spiegati in
classe, sono materia d’esame per gli studenti frequentanti.
1. A. STUSSI, Breve avviamento alla filologia italiana. Quarta edizione, Bologna, Il Mulino, 2015
oppure P. STOPPELLI, Filologia della letteratura italiana. Nuova edizione, Roma, Carocci, 2019,
limitatamente alle pp. 17-150.
2. F. BAUSI, La filologia italiana, Bologna, Il Mulino, 2022, capitolo 9 pp. 293-304 (linguistica e
filologia), pp. 321-329 (filologia attributiva).
3. P. CHIESA, Gli umanisti a caccia dei classici. Poggio e Quintiliano a San Gallo, in ID., La
trasmissione dei testi latini. Storia e metodo critico, Roma, Carocci, 2019, pp. 91-98.
4. P. CHIESA, Le tradizioni sovrabbondanti. Strategie di approccio, in La critica del testo. Problemi
di metodo ed esperienze di lavoro. Trent'anni dopo, in vista del settecentenario della morte di Dante.
Atti del convegno internazionale di Roma 23-26 ottobre 2017, a cura di E. Malato e A. Mazzucchi,
Roma, Salerno Editrice, 2019, pp. 201-221 [disponibile in Moodle].
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ARGOMENTI DEL CORSO (SYLLABUS)
III. La selva degli alberi a due rami: Joseph Bédier e l’alternativa al metodo stemmatico
IV. Limiti del metodo di Lachmann e limiti di quello di Bédier
V. Il filologo al lavoro: come è fatta un’edizione critica?
VI. La filologia d’autore
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GLOSSARIO
Per agevolare gli studenti a familiarizzare con il lessico tecnico della disciplina e come supporto
alla preparazione dell’esame, si fornisce qui di seguito un glossario sintetico:
ANONIMO
ANTIGRAFO
APOCRIFO
APOGRAFO
APPARATO CRITICO
ARCHETIPO
AUTOGRAFO
BANALIZZAZIONE
BIFFATURA
BON MANUSCRIT
CODEX UNICUS
COLLATIO (COLLAZIONE)
COLOPHON
CONGETTURA
CONTAMINAZIONE
CRUX DESPERATIONIS
DESCRIPTUS (CODEX)
ERRORE (errore guida, d’autore, paleografico, polare, monogenetico / poligenetico, separativo /
congiuntivo)
ESPUNSIONE
FALSO
IDIOGRAFO
LECTIO DIFFICILIOR
LEZIONE
OMEOARCHIA
OMEOTELEUTO
ORIGINALE
PERICOPE
RASURA
RECENSIO (aperta / chiusa)
REDAZIONE
STEMMA CODICUM
TRADIZIONE (quanto al contenuto: diretta / indiretta; quanto alla modalità: extravagante, meccanica
o quiescente, attiva)
USUS SCRIBENDI
VARIANTE (d’autore, sostanziale / formale, adiafora o ammissibile, grafica, ecc.)
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I. La trasmissione dei testi
Quando entriamo in una libreria o in una biblioteca oppure accediamo al web per procurarci un
testo letterario, spesso non ci chiediamo se ciò che leggiamo sia attendibile e aggiornato, cioè se sia
il frutto del lavoro di studiosi – i filologi appunto – che si sono adoperati per fare in modo che quel
testo che noi leggiamo sia il più possibile affidabile, cioè rispettoso della volontà dell’autore. Nelle
antologie scolastiche e nelle edizioni in commercio i versi dell’Inferno di Dante IV, 34-36, in cui
Virgilio descrive la condizione delle anime nel Limbo, suonano così:
e non invece «ch’è porta della fede che tu credi», come si legge in una delle copie manoscritte del
poema giunta fino a noi. Questo solo esempio, ma ne potremmo fare infiniti, mostra che il testo
letterario, sia esso antico o moderno, prima di arrivare nelle nostre mani sotto forma di libro, ebook
o pagina consultabile via web, ha svolto un percorso talvolta impervio e tortuoso, breve oppure durato
svariati secoli, durante il quale si sono verificati eventi che ne hanno alterato la sostanza e la forma
rispetto a quella in cui l’autore l’aveva concepito. A ben guardare, in effetti, il concetto di opera
letteraria è un’astrazione, in quanto non si dà testo che per essere letto non necessiti di un supporto
scrittorio (Montanari 2010, 396) – sia esso materiale o virtuale – in cui quel testo “prende vita” ed
esiste. Ma questo prendere vita, implica essere sottoposto alle trasformazioni operate dal tempo e dal
contesto storico in cui l’opera è nata e vissuta. Al contrario di quanto avviene per i prodotti delle arti
figurative, in cui l’opera è l’oggetto sopravvissuto e giunto fino a noi, per il testo letterario può
accadere che l’originale uscito dallo scrittoio dell’autore si sia conservato, ma molto spesso esso va
perduto e così l’opera si trasmette solo attraverso copie – caso celeberrimo è la Commedia di Dante,
ma lo stesso vale per il Principe di Niccolò Machiavelli e per molte altre opere della nostra letteratura.
Compito del filologo è prendersi cura di quelle opere, proprio come si farebbe con un ammalato o
un bambino, per individuare se e in che misura il testo giunto fino a noi rispecchi l’originale cioè quel
testo che l’autore, spesso dopo un lungo travaglio di correzioni, modifiche e riscritture, considerò
compiuto e che pensò potesse essere destinato alla fruizione del pubblico. Dunque, comprendere
come i testi della nostra letteratura si sono trasmessi attraverso i secoli e tutte le variabili collegate al
concetto di trasmisisione testuale è un aspetto cruciale del lavoro del filologo. Vediamo di che cosa
si tratta.
1. Trasmissione e tradizione
Per i testi della letteratura del mondo antico, ma anche per quelli medievali e rinascimentali, solo
in parte è possibile ricostruire il complesso viaggio che hanno percorso, in quanto molti manoscritti
o stampe antiche sono andati distrutti nel corso dei secoli. Di norma, infatti, il numero delle copie
sopravvissute di un’opera è sempre inferiore rispetto a quello che fu effettivamente prodotto e che
circolò, e maggiore sarà lo scarto temporale che ci separa dalla composizione di un testo, tanto
maggiore sarà il tasso di dispersione subito dalle copie. In altre parole, il divario tra numero di copie
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superstiti di un’opera e numero di quelle realmente esistite aumenta quanto più antica sarà l’opera in
questione: proprio come nel caso di un iceberg, la parte emersa e visibile è notevolmente inferiore
rispetto alla sua massa effettiva.
Fino al XVIII secolo i metodi di conservazione del patrimonio librario furono precari e la
distruzione di intere biblioteche non era un evento così raro, basti pensare alla biblioteca di
Alessandria in Egitto, più volte saccheggiata e poi annientata dall’invasione araba del secolo VII
(Canfora 2009); naturalmente anche guerre, cataclismi e altri eventi traumatici hanno contribuito nel
corso dei secoli – e purtroppo stanno contribuendo ancora oggi – alla dispersione dei libri giunti fino
a noi. Uno di questi eventi, forse meno scontato, ma ugualmente incisivo, si verifica quando il
progresso della tecnica porta alla modifica del supporto scrittorio, per cui, ad esempio, nell’antichità,
quando si è passati dall’uso del rotolo a quello del codice, antenato del nostro libro moderno, molte
copie di opere scritte nei rotoli sono andate perdute e di esse sono sopravvissute solo quelle che furono
trascritte nella nuova forma del codice.
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Analogamente, in questi decenni abbiamo assistito alla nascita e alla diffusione sempre più
capillare di supporti virtuali per il testo scritto e l’impatto che questa trasformazione avrà sul libro
cartaceo e sulla trasmissione delle opere letterarie è ancora tutto da valutare. In passato la falcidie dei
libri non ha interessato soltanto i manoscritti antichi o medievali, bensì fu un fenomeno che colpì
anche le stampe, e non solo a causa di guerre o incendi.
L’invenzione della stampa a caratteri mobili ad opera di Johannes Gutenberg (ca. 1400-1468)
determinò una maggiore disponibilità di libri, ma a questo aumento della fruizione e della circolazione
non si accompagnò un miglioramento delle condizioni di conservazione, per cui spesso i volumi
finivano ugualmente per rovinarsi, in alcuni casi addirittura per l’uso maldestro e perfino per l’uso
eccessivo.
Sappiamo, infatti, che sono esistite edizioni di opere di cui non è sopravvissuto neppure un esemplare,
come per le edizioni più antiche dell’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo (1441-1494), di
cui non ci resta nessuna copia né della prima edizione in due libri, pubblicata fra il 1482 e il 1483
forse a Reggio Emilia, né della prima edizione in tre libri, pubblicata a Scandiano nel 1495 e della
quale sappiamo che furono tirate ben 1250 copie (Chiesa 2012, 41). Una situazione di fatto analoga
si registra per le edizioni più antiche del Morgante di Luigi Pulci (1432-1484). Entrambe queste opere
ebbero un grandissimo successo di pubblico e, paradossalmente, proprio la grande fruizione, l’uso
frequente del manufatto librario, aperto, sfogliato, maneggiato e trasportato ovunque, lo espose al
deterioramento e al disfacimento. In alcuni casi, gli accidenti della trasmissione che abbiamo descritto
hanno determinato la perdita definitiva di un’opera: è il caso del secondo libro della Poetica di
Aristotele, divenuto celebre grazie al romanzo Il nome della rosa di Umberto Eco, in cui proprio la
perdita di tale testo è al centro dell’intreccio narrativo. Con un’immagine efficace si possono
rappresentare i danni che il tempo, la precarietà dei materiali, l’incuria degli uomini e il mutare delle
mode e dei gusti provocano alle opere letterarie come un albero che venga sottoposto a fenomeni
naturali violenti, alla fine dei quali, della florida chioma originaria non resteranno che pochi rami e
fogliame sparuto.
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La forma scritta non è la sola con cui si sono trasmessi i testi letterari: spesso essi circolavano
oralmente, per cui si parla di trasmissione orale, legata al fatto che nell’antichità e per gran parte del
Medioevo la lettura avveniva ad alta voce – la lettura silenziosa o mentale è acquisizione
relativamente recente – e l’apprendimento era mnemonico, come pure a memoria avvenivano le
citazioni. Ma la trasmissione orale ha avuto un ruolo anche in alcuni generi letterari, quali le chanson
de geste in àmbito romanzo, in italiano per i cantari o i testi folclorici, che per loro natura implicano
una performance di fronte ad un pubblico, e dunque hanno conosciuto una modalità di divulgazione
orale a cui spesso si è affiancata, talvolta senza sostituirla, la modalità scritta. Per certe tipologie di
opere, come appunto i cantari cavallereschi anonimi, è sempre opportuno tenere presente che alcune
fasi della trasmissione possono essere state veicolate oralmente e non per iscritto, e ciò naturalmente
mette il filologo di fronte ad una situazione complessa, di cui è difficile ripercorrere le tappe. Un
esempio di compresenza di trasmissione orale e scritta è rappresentato dalle prediche che San
Bernardino tenne a Siena per la Quaresima del 1427: i testi che noi oggi leggiamo furono messi per
iscritto da un anonimo devoto che ascoltò le parole del frate, il che implica anche che, per quanto sia
stato il suo lavoro accurato, nel passaggio dall’oralità alla registrazione scritta è inevitabile che egli
abbia commesso errori e inesattezze (Zaccarello 2017, p. 12; San Bernardino 1989).
Analogo al concetto di trasmissione è quello di tradizione (→), per cui in filologia si intende
l’insieme di documenti che riportano un determinato testo o una parte di esso (dal lat. tradĕre,
‘consegnare’), detti testimoni (→ le copie di un’opera giunta fino a noi in forma manoscritta o a
stampa), che abbracciano un ideale arco temporale a partire dal primo abbozzo dell’opera lasciatoci
dall’autore fino alle copie via via più recenti, per approdare alla prima edizione critica (→); essa si
propone di ricostruire il testo più vicino possibile all’originale qualora sia andato perduto e ambisce
a divenire punto di riferimento per tutti i successivi editori, ma anche per i lettori, i commentatori, i
critici letterari, ecc. In assenza dell’originale, lo scopo dell’editore critico, infatti, è quello di produrre
il testo più affidabile possibile, in quanto più vicino a quello che è uscito dallo scrittoio dell’autore
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prima che il processo di trasmissione da una copia all’altra attraverso il tempo lo abbia deformato.
Uno schema potrà aiutarci a comprendere meglio questo concetto.
LA TRADIZIONE
1. L’autore è al lavoro e, da un primo abbozzo, giunge a produrre una o a volte anche più
redazioni (→), cioè versioni differenti dell’opera quanto a qualità (modalità di descrizione dei
personaggi, degli eventi, caratterizzazione dei fatti, dei luoghi, modifiche stilistiche, metriche,
ecc.) o a quantità (presenza o assenza di episodi, personaggi, dettagli, ecc.). Qualora di queste
fasi della tradizione si siano conservati documenti, come manoscritti autografi (→), cioè scritti
dalla mano dell’autore, oppure dattiloscritti originali, edizioni a stampa curate dall’autore, ecc.,
essi saranno analizzati e studiati dai filologi al momento di produrre l’edizione critica (→
filologia d’autore). Ma l’autore non è ancora soddisfatto del proprio lavoro e lo sottopone a
ulteriore revisione.
Un caso molto celebre è quello del manoscritto Vaticano latino 3196 <
https://digi.vatlib.it/view/MSS_Vat.lat.3196/0001 >, il così detto Codice degli abbozzi, scritto di
pugno di Francesco Petrarca (1304-1374): si tratta di una congerie di fogli staccati e assemblati
dopo la morte del poeta, in cui sono tramandati alcuni componimenti che solo in parte sono
confluiti nella redazione definitiva del Canzoniere (o meglio dei Rerum vulgarium fragmenta
secondo il titolo che Petrarca stesso scelse per la sua opera), come pure è presente una primitiva
redazione del cap. III del suo Triumphus Cupidinis.
2. In questa fase l’autore matura la convinzione che l’opera è conclusa e può decidere di pubblicarla:
il termine pubblicazione (→) indica l’atto della divulgazione di un’opera da parte del suo autore
a prescindere dal mezzo o supporto scrittorio con cui l’opera circola e a prescindere anche dal
numero di copie (diffusione entro una limitata cerchia di amici o uno specifico ambiente
professionale o culturale, oppure diffusione su larga scala). Prima dell’avvento della stampa gli
autori si potevano affidare a copisti di professione e a vere e proprie botteghe librarie, mentre in
séguito le tipografie resero la pubblicazione più veloce e relativamente meno costosa. Il
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documento che trasmette questa fase della tradizione è da considerarsi l’originale e, quando non
sia conservato, è compito del filologo cercare di ricostruirlo sulla base dei documenti storici in
nostro possesso, cioè dei testimoni.
Tra i molti esempi che si potrebbero fare, basti l’edizione de I promessi sposi di Alessandro
Manzoni (1785-1873), uscita a Milano per la Tipografia Guglielmini e Redaelli nel 1840-1842,
che costituisce il punto di approdo del capolavoro manzoniano dopo le precedenti fasi redazionali
(si veda il portale Philoeditor dedicato alla tradizione dell’opera e alle sue edizioni <
http://projects.dharc.unibo.it/philoeditor/ >)
3. Da questa fase in poi il testo non è più sotto il controllo dell’autore e viene riprodotto in copie.
Durante questo processo, in alcuni casi durato per secoli, esso è esposto a modificazioni,
volontarie o involontarie, da parte di chi produce tali copie, manoscritte o a stampa. Si assiste ad
un progressivo allontanamento del testo dalla forma originale in cui l’autore lo concepì, che si
manifesta con la presenza di lezioni differenti (dal lat. lectio, ‘lettura’, ‘l’atto del leggere’) nei
testimoni sopravvissuti (→) ovvero passi specifici dell’opera in cui le copie non riportano
concordemente lo stesso testo. All’interno della generica definizione di lezione si dovrà poi
distinguere tra errore e variante. Con errore (→) si indica quella innovazione che si insinua
all’interno del testo a causa del processo di copia e che viola una o più leggi del sistema a cui il
testo appartiene, rivelando la sua natura senza la necessità del confronto con l’originale (Bessi-
Martelli 1984, p. 17). Un errore può violare il codice della morfologia, della sintassi, ma può
anche contravvenire alla logica per il modo in cui l’argomentazione è esposta, quindi si parla di
errore di concetto: l’esempio più classico è il paralogismo del tipo “Socrate è mortale, tutti i gatti
sono mortali, Socrate ha la coda”. L’errore può insorgere anche quando sono contraddette
conoscenze di per sé evidenti – in questo caso si parla di errore di fatto – ad esempio, se trovassimo
scritto che il sole sorge ad ovest. Inoltre, nel caso di testi in poesia, saranno da considerare in linea
generale erronee tutte quelle innovazioni che violano il codice della prosodia o del sistema rimico.
Si parlerà invece di variante (di tradizione →) per ogni modifica che si introduce nel processo di
trasmissione in un punto del testo e che non ne lede il senso o non ne infrange alcun codice, ma
costituisce anch’essa un allontanamento dalla volontà dell’autore.
A titolo di esemplificazione generale si vedano due casi, uno per l’errore e uno per la variante.
- Nel Convivio (IV XXIII 9) di Dante si legge (Brambilla Ageno 1984, p. 63):
E però che lo maestro de la nostra vita Aristotile s’accorse di questo arco di che ora si
dice, parve volere che la nostra vita non fosse altro che uno salire e uno scendere: però
dice in quello dove tratta di Giovinezza e di Vecchiezza, che giovinezza non è altro
se non accrescimento di quella. Là dove sia lo punto sommo di questo arco [...] è forte da
sapere; ma ne li più io credo tra il trentesimo e quarantesimo anno, e io credo che ne li
perfettamente naturati esso ne sia nel trentacinquesimo anno.
Dante, citando Aristotele, riferisce che il filosofo paragonava la vita umana ad un arco,
perché essa consiste in una salita seguita poi da una discesa, dove la parte ascendente
simboleggia la porzione che definiamo giovinezza, mentre quella discendente indica la
vecchiaia. Risulta tuttavia difficile stabilire (è forte da sapere), secondo Dante, quale sia
l’apice di questo arco cioè, fuor di metafora, quale età della vita umana corrisponda al
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discrimine tra gioventù e vecchiaia. L’opinione di Dante è che negli uomini perfettamente
naturati cioè privi di difetti naturali, fisici o psichici, quel punto o apice corrisponda ai
trentacinque anni.
Alcuni testimoni della tradizione del Convivio leggono: ne li perforamenti naturali,
presentando un errore evidente, poiché tutto il senso della frase viene a cadere.
- Nel celebre passo dell’Inferno (I 85) il poeta, incontrando per la prima volta Virgilio nel
suo viaggio ultraterreno, gli si rivolge con parole piene di ammirazione, dichiarando di
riconoscere in lui la principale fonte di ispirazione per il suo poema:
Autore ha qui il significato di ‘colui che è degno di fede e di obbedienza’ (Inglese 2007,
p. 46) sulla scorta del greco authènten, come indicato da Uguccione da Pisa (m. 1210)
nelle sue Derivationes, uno dei lessici medievali più noti all’epoca.
Alcuni manoscritti in luogo di autore riportano la lezione doctore (dal lat. doceo,
‘insegnare’) che a tutti gli effetti è un sinonimo di maestro, usato nello stesso verso. Qui
siamo in presenza di una variante, dal momento che il senso del discorso non viene a
mancare, come pure non viene infranto alcun codice rimico o prosodico. A fronte di questa
innovazione che si è venuta a creare all’interno della tradizione, il filologo dovrà cercare
di stabilire quale sia la lezione che Dante effettivamente scrisse.
I due esempi mostrano come per smascherare un errore può essere sufficiente la sola copia che lo
trasmette (Berté-Petoletti 2017, p. 19), mentre le varianti sono più insidiose, perché il testo si presenta
in una forma di apparente correttezza che solo il confronto con le altre copie (se ne sono
sopravvissute) può permettere di valutare come luogo critico che necessita dell’intervento filologico.
Nello schema che rappresenta la tradizione del testo si fa riferimento all’originale (→): con una
approssimazione in questa sede necessaria, possiamo dire che esso si identifica con quel documento
storico (Balduino 1983, p. 37), di cui effettivamente disponiamo, che testimonia la volontà
dell’autore, ad esempio un autografo o una stampa da lui sorvegliata o altra documentazione analoga.
Quando di un’opera letteraria si sia conservato un originale – in molti casi possiamo averne anche
più di uno – ci muoviamo nell’àmbito della filologia d’autore (→). Viceversa, se l’originale non è
sopravvissuto, sarà compito del filologo cercare di ricostruirlo. A questo proposito è bene sgomberare
il campo da idealizzazioni che non hanno riscontro con la prassi filologica, come, ad esempio,
immaginare l’originale di un’opera letteraria come un’entità perfetta, in sé conclusa e compiuta,
mentre è vero il contrario: numerose sono le testimonianze autografe che presentano lapsus e sviste,
come il manoscritto del Decameron scritto da Giovanni Boccaccio (1313-1375) conservato alla
Staatsbibliotek di Berlino (Hamilton 90), in cui sono stati individuati almeno 120 errori certi; ma
talvolta siamo in presenza anche di errori macroscopici e non sanabili, come nel romanzo le
Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo (1831-1861), in cui il brigante Spaccafumo muore due
volte (Inglese 2023, p. 48). Analoga flessibilità dobbiamo avere nei confronti dell’originale riguardo
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alla possibilità che esso trasmetta un’opera non finita o non licenziata dall’autore, e che dunque sia
quasi “improprio” in questi casi parlare di originale in senso stretto.
Qualora l’originale di un’opera non si sia conservato, essa è sopravvissuta solo grazie a copie, i
testimoni appunto, che però possono rivelarsi infidi. In questo caso sarà compito del filologo, a partire
da quei testimoni, cercare di ricostruire l’originale perduto (→ edizione critica). Ed è bene
sottolineare che il lavoro filologico in assenza di autografi – o di documenti ad essi equipollenti – non
potrà approdare con sicurezza assoluta alla ricostruzione della volontà dell’autore, ma sarà comunque
un risultato degno della scienza, in quanto punto di arrivo di un procedimento di riduzione dell’errore
(Contini 2014, p. 39).
Il processo illustrato nello schema precedente può essere ulteriormente rappresentato utilizzando la
figura geometrica della parabola rovesciata (Cesarini Martinelli 1984, p. 34):
Nella sezione di sinistra della parabola, la curva ascendente simboleggia le fasi di sviluppo dell’opera
finché essa non raggiunge il momento in cui l’autore si dichiara soddisfatto e può mettere la parola
fine al suo lavoro: questo momento è idealmente rappresentato dal vertice della parabola. A destra,
lungo la linea discendente, si assiste ad un progressivo decadimento del testo che, per effetto degli
errori o delle varianti che si insinuano in esso durante il processo di copia, si allontana dal vertice,
cioè dalla volontà dell’autore. Questa, come di norma ogni schematizzazione di fenomeni complessi,
dovrà essere interpretata con la necessaria flessibilità, avendo a mente che spesso la volontà
dell’autore (vertice) può non coincidere con l’opera letteraria nella forma della sua massima
diffusione e in cui essa si è radicata nella conoscenza del pubblico. Tale concetto si esprime con il
termine (→) vulgata, che in origine aveva a che fare con il testo della Bibbia (in particolare con la
versione latina eseguita da san Girolamo verso la fine del IV sec., definita Vulgata per antonomasia)
e che in filologia identifica la forma in cui il testo si è diffuso per ragioni indipendenti dalla volontà
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dell’autore e talora anche contro la sua volontà. Il caso forse più noto e macroscopico della nostra
letteratura è rappresentato dalla Gerusalemme liberata di Torquato Tasso (1544-1595): l’opera fu
stampata a Ferrara senza l’autorizzazione dell’autore nel 1581 e conobbe subito uno straordinario
successo, in tal modo generando una tradizione che di fatto non si è mai interrotta e che è alla base
del testo che ancora oggi leggiamo. Ciò avvenne però senza il consenso dell’autore che, addirittura,
ne fece una radicale riscrittura con il titolo di Gerusalemme conquistata, pubblicata a Roma nel 1593
e che costituisce l’unica forma del poema approvata da Tasso (Stoppelli 2019, p. 47). In alcuni casi
si parla inoltre di vulgata storica (→), quando il testo si sia affermato nel tempo nella forma di un
preciso esemplare o redazione che ha acquisito un valore storico, dal quale non si può prescindere in
forza dell’impatto che ha avuto a livello di ricezione e per l’influenza che ha esercitato su lettori
contemporanei e su quelli di epoche successive. Valga l’esempio delle rime del poeta Domenico di
Giovanni, detto il Burchiello (1404-1449), la cui raccolta si consolida in particolari forme della
tradizione manoscritta che ne definiscono ad esempio il canone e l’ordinamento (Zaccarello 2012, p.
98). Questo concetto ci fa comprendere come in filologia, accanto all’importanza dell’autore e del
testo originale, vi sia anche un altro aspetto altrettanto rilevante che riguarda il ruolo del pubblico e
della ricezione nelle dinamiche della trasmissione di un testo.
Per quanto riguarda il processo di corruzione del testo raffigurato dalla parte discendente della
parabola, si dovrà tenere a mente che esso può corrispondere agli errori insinuatisi nel testo durante
il processo di copia, ma può riguardare anche le varianti involontarie e, cosa da non sottovalutare, la
possibilità che un copista sia intervenuto in modo consapevole per correggere l’errore,
indipendentemente dal fatto che ciò che egli leggeva fosse davvero un errore oppure fosse solo un
suo difetto di comprensione.
La metafora della parabola rovesciata ci permette di acquisire piena consapevolezza
dell’importanza del lavoro che il filologo è chiamato a svolgere, prendendosi cura del testo per
“restaurarlo”, operazione analoga a quella che si fa sulle opere del nostro patrimonio artistico e che
implica una assunzione di responsabilità nei confronti del lettore, garantendo che il risultato del lavoro
svolto sulla base dei documenti e, adottando un metodo quanto più possibile scientifico e oggettivo
(→ edizione critica), produca un testo epurato dalle scorie, per così dire, che nel corso del tempo
(fase discendente della parabola) si siano depositate su di esso, proprio come i restauratori fanno
quando ripuliscono dalla patina del tempo un affresco o una tavola riportando alla luce la brillantezza
dei colori originali, spesso perfino facendo riaffiorare particolari rimasti illegibili per anni. A seguito
del restauro del busto in bronzo di Cosimo I de’ Medici che Benvenuto Cellini (1500-1571) realizzò
tra il 1545 e il 1548 (oggi al Museo Nazionale del Bargello di Firenze) è riemerso il colore degli occhi
del duca di Toscana, per cui lo sguardo di Cosimo appare intenso e penetrante così come lo videro i
suoi contemporanei e come lo volle Cellini.
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L’esempio ha unicamente lo scopo di sottolineare come l’attività di restauro dell’opera d’arte,
al di là degli aspetti teorici o tecnici, possa essere concepito come un processo di accertamento della
verità e in questo senso rivelarsi analogo al lavoro che il filologo opera sul testo letterario, dove per
“verità” in filologia non si deve intendere un concetto assoluto, un risultato definitivo e acquisito una
volta per tutte, quanto piuttosto lo sforzo di avvicinarsi all’originale perduto. Si tratta, per dirla con
le efficaci parole di Gianfranco Contini, di intraprendere «una marcia di avvicinamento alla verità»
(Contini 2014, p. 39), nella consapevolezza che i risultati a cui il filologo approda sono sempre
provvisori, sottoposti a continuo aggiornamento e verifica, e che potranno risultare superati, dunque
non più validi, per l’emergere di nuove prove documentarie. A questo punto apparirà chiara la ragione
per cui la filologia utilizzi parole mutuate dall’àmbito giuridico e processuale, come verità,
attendibilità o testimone, declinandole secondo il proprio lessico specifico.
Tornando alla tradizione del testo, passiamo ora ad individuarne ulteriori caratteristiche in base
al punto di vista da cui analizziamo il fenomeno. Ricorrendo alla metafora giuridica richiamata sopra,
potrà capitare che un evento oggetto di un procedimento giudiziario – ad esempio un delitto o una
rapina – i testimoni abbiano assistito a tutto l’episodio ed essere al corrente dell’intera vicenda oppure
che abbiano assistito solo ad una parte degli eventi o ne conoscano solo alcuni dettagli: certo è che
tutti, senza eccezione, dovranno essere interrogati dal bravo magistrato. In modo del tutto analogo, in
filologia può capitare di essere in presenza di una tradizione diretta o indiretta (→). Nel primo caso
i testimoni sono stati prodotti con il fine primario di trasmettere l’opera e divulgarla nella sua interezza
o in forma parziale. Nel caso della tradizione indiretta, invece, ci troviamo di fronte a testimoni di
altre opere che contengono al loro interno citazioni o frammenti del testo in questione, anche sotto
forma di traduzioni in lingue diverse da quella originale. I volgarizzamenti di opere originariamente
scritte in latino, le traduzioni, i rifacimenti, come pure i compendi sono ugualmente da considerare
parte della tradizione indiretta. Facciamo qualche esempio.
A. Il poeta Antonio Pucci (ca. 1310-1380) è autore del cosiddetto Libro di varie storie, opera che
aspirava ad essere una sorta di enciclopedia a partire dalla storia della creazione umana e che
si presenta come un collettore di materiali provenienti da autori diversi, frutto delle letture di
Pucci, quali la Commedia di Dante, l’Acerba di Cecco d’Ascoli (1269-1327), Il Milione, ecc.
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In virtù di questa natura “compilatoria”, l’opera è a tutti gli effetti una testimonianza, sebbene
indiretta, per tutti i testi che vi sono citati (Pucci 1955-1956).
B. Il filosofo e letterato Agostino Nifo (1469/70-1538) compose una traduzione latina del
Principe di Niccolò Machiavelli, dal titolo De regnandi peritia: non essendo stato possibile
identificare il manoscritto su cui Nifo condusse il lavoro versorio, l’opera è di fatto un
testimone indiretto del capolavoro machiavelliano e di cui si è tenuto conto per allestire
l’edizione critica (Machiavelli 1994).
C. Un caso particolare di tradizione indiretta è rappresentato dalle Vite di Dante e del Petrarca
composte da Leonardo Bruni (1378-1444), umanista e cancelliere della Repubblica fiorentina:
all’interno della biografia dantesca, egli cita, traducendolo, un passo di un’epistola latina del
poeta, di cui fornisce l’incipit originale Popule mee, quid feci tibi? Si tratta di un dato
particolarmente prezioso, in quanto la lettera dantesca in questione è andata perduta e solo
grazie alla testimonianza contenuta nell’opera di Leonardo Bruni possiamo averne una, seppur
vaga, nozione.
Come i testimoni della tradizione diretta, anche quelli della tradizione indiretta, dunque, dovranno
essere considerati e debitamente vagliati dal filologo nel lavoro di edizione critica (→ censimento
delle testimonianze).
2. I testimoni
Nel capitolo di apertura del volume sono state analizzate le caratteristiche materiali dei codici
manoscritti, per cui qui ci si concentrerà su alcune nozioni filologiche, a cominciare da quella di
autografo e di idiografo (→): per autografo si intende il manoscritto vergato dall’autore stesso, come
la già citata copia del Decameron di Giovanni Boccaccio conservata alla Staatsbibliothek di Berlino
con la segnatura Hamilton 90 (online). Con idiografo, invece, si definisce quel manoscritto che, pur
12
essendo stato scritto da un copista di professione, da un segretario o da un collaboratore, reca tracce
della supervisione dell’autore e del fatto che quella copia fu allestita sotto il suo controllo. Ciò avviene
quando nel manoscritto sono presenti correzioni, aggiunte o modifiche fatte dalla mano dell’autore
sul testo approntato dal copista. Uno dei casi più noti della nostra letteratura è rappresentato dai Rerum
vulgarium fragmenta di Francesco Petrarca conservati nel manoscritto Vaticano latino 3195 (online),
copia in parte autografa e in parte eseguita da un copista al servizio del poeta, in passato identificato
con il ravennate Giovanni Malpaghini, ma la cui identità di recente è stata messa in dubbio (Berté
2015). Leon Battista Alberti (1404-1472), artista e letterato che compose tra le molte opere anche un
trattato di argomento morale in volgare con il titolo latino di Theogenius, tramandato dal manoscritto
Moreni 2 della Biblioteca Moreniana di Firenze: ai margini del testo trascritto dal copista, Alberti è
intervenuto di suo pugno per apportare aggiunte e correzioni. Da questi esempi è facile dedurre che
un testimone idiografo dovrà essere tenuto nella massima considerazione dal filologo e, in assenza
dell’autografo, dovrà essere valutato a tutti gli effetti alla stregua di un originale.
13
Sempre in relazione all’aspetto testuale, il manoscritto si dirà adespoto (→), quando rechi l’opera
priva del nome dell’autore (dal gr. adèspotos, ‘senza padrone’); anepigrafo (→), invece, quando
manchi l’indicazione del titolo (dal gr. epigraphè) o manchi la rubrica (→). Si dice pseudoepigrafo
(→), quando l’opera sia attribuita ad un autore diverso da quello effettivamente accertato, come nel
caso delle numerose rime che nei codici medievali sono ascritte a Petrarca, ma per le quali è stato
appurato che gli autori furono altri. Si veda l’esempio del sonetto Solo, soletto, ma non di pensieri
che alcuni manoscritti tramandano come petrarchesco, ma che recenti studi hanno dimostrato doversi
attribuire al poeta Federico di Geri d’Arezzo (n. ca. 1320/30) (RDP – Rime disperse di Petrarca *05
[Federigo di Geri d’Arezzo]). Miscellaneo (→) è, infine, quel codice che trasmette testi di diversa
natura (ad es. prose e poesie) e di diversi autori.
14
Alcuni aspetti inerenti alla natura del manoscritto in quanto manufatto risultano particolarmente
rilevanti ai fini della comprensione del processo di trasmissione dei testi e dei possibili accidenti o
guasti che si verificano nell’attività di copia. Abbiamo visto a proposito della (→) paleografia che
nel corso dei secoli si sono sviluppate abitudini grafiche molto varie, la cui maggiore o minore
leggibilità poteva indurre il copista a commettere errori nell’atto della trascrizione, perché si trovava
di fronte, poniamo, una scrittura che presentava un alto tasso di abbreviazioni oppure che tendeva ad
eseguire in modo simile lettere diverse, ecc.
SECOLI VII-VIII
15
SECOLI XIV-XV
Accanto a questo aspetto, bisognerà anche considerare la pratica della scriptio continua (→) tipica
dei manoscritti medievali, per cui i copisti potevano trascrivere le parole senza separarle come
facciamo noi oggi, oppure potevano separarle in modo incongruo senza che ciò fosse avvertito come
infrazione di una norma. Inoltre, era normale l’impiego dello stesso grafema u sia per indicare la
vocale u che la semiconsonante v, come pure era normale non riprodurre graficamente la geminazione
delle consonanti secondo la moderna ortografia. La combinazione di tutti questi fattori incideva
fortemente nella maggiore o minore decifrabilità del testo che un copista doveva trascrivere. Un
esempio sarà utile per comprendere la situazione qui descritta: si riproduce una carta del manoscritto
autografo del Teseida di Boccaccio (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Acquisti e doni 325,
cc. 122v-123r ALI-Autografidei letterati italiani < http://www.autografi.net/dl/resource/2794>),
poemetto in ottave di argomento epico-amoroso (XI, 4-5). L’immagine è accompagnata dalla
trascrizione diplomatica (→), così definita perché solitamente impiegata nella riproduzione di
documenti giuridici o storico-politici, in cui «ogni lettera o segna significativo del manoscritto deve
essere reso con la lettera o il segno corrispondente, nei limiti delle nostre possibilità di stampa»
(Inglese 2023, p. 40).
16
Chome emilia e palemone chiusero gliocchi ad arcita morto.
Tra parentesi tonde sono state inserite le lettere scritte con abbreviazione nel manoscritto; il puntino
sottoscritto alla vocale era usato dai copisti per indicare le vocali soprannumerarie → cioè quelle da
non pronunciare durante la lettura, mentre le barre / e il segno ? presenti nel manoscritto
corrispondono a un codice di punteggiatura molto diverso da quello moderno. Lo scopo di questo
esempio è di mostrare lo scarto che esiste tra l’assetto grafico del testo così come si presenta nel
manoscritto e la sua decifrazione e comprensione. Il problema di decodifica viene evidenziato nella
trascrizione diplomatica attraverso l’impiego di segni che rendano conto di come il testo si presenta
nel manoscritto: questo ci permette di capire che un copista poteva essere indotto all’errore per la
mancanza di una serie di marcatori, quali appunto la separazione tra le parole o l’assenza di segni di
punteggiatura, oppure per la presenza di abbreviazioni che potevano sfuggire o essere fraintese alla
lettura.
ESERCIZIO DI TRASCRIZIONE
CENNI DI CODICOLOGIA
17
• autografo: quando il testo è di mano dell’autore.
• idiografo: se non è scritto materialmente dall’autore, ma è comunque esemplato sotto il suo controllo.
• adespoto: senza l’indicazione dell’autore, sia esso conosciuto o no da altre fonti.
• anepigrafo: quando non è indicato il titolo.
• apocrifo: attribuito a chi non ne è autore.
• miscellaneo: se riunisce testi eterogenei, dello stesso autore o di autori diversi.
Descrizione interna ovvero elenco completo di tutte le opere trasmesse (se adespote da
identificare):
• Autore
• Titolo dell’opera o delle opere
• Contenuto: si può dare se è utile l’incipit e l’explicit, la distribuzioni delle parti o dei capitoli nelle
carte, i capoversi nel caso di antologie di rime, ecc.
Bibliografia
• Si segnalano gli studi esistenti sul manoscrittto.
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Esempio di descrizione di un manoscritto
Chiunque abbia fatto l’esperienza di trascrivere a mano un testo di una qualche estensione avrà
notato quanto sia facile sbagliare nel compiere questo semplice atto, tutto sommato piuttosto
meccanico. Prima dell’avvento della stampa, questa pratica era l’unico modo per diffondere un’opera;
tuttavia, copiandola per tante volte, inevitabilmente essa veniva sottoposta alla modifica più o meno
involontaria da parte dei copisti che, trascrivendo, commettevano errori o inserivano, come detto, in
modo anche inconsapevole varianti che allontanavano il testo dalla sua facies originaria. La dinamica
di questo lavoro è ben nota e prevede cinque azioni compiute in sequenza (Dain 1949; Zaccarello
2017, p. 13):
19
Paris, Bibliothèque Nationale de France, Français
9198, c. 19r: Jean Mièlot (m. 1472) nell’atto di copiare
A. il copista legge dal suo modello, detto antigrafo (→) o in latino exemplar (→), una porzione
di testo, poniamo una riga se si tratta di prosa oppure uno o due versi se sta trascrivendo una
poesia;
B. memorizza quel breve passo, definito (→) pericope;
C. lo detta interiormente;
D. compie l’atto di trascrizione vero e proprio;
E. torna con l’occhio sul suo antigrafo, individuando il punto nel quale si era interrotto, e
ricomincia il procedimento con la pericope successiva. Il testo che risulta da questa attività di
copia si definisce (→) apografo.
Come si può facilmente intuire, ognuna di queste fasi costituisce un passaggio critico in cui è
facile che si insinui l’errore; e ancor più se consideriamo che l’atto del copiare in passato era eseguito
spesso in condizioni scomode ed era una pratica che richiedeva un certo sforzo fisico se protratta per
lunghe ore. Inoltre, il lavoro dell’amanuense dipendeva non solo dalla sua abilità tecnica (ad es., se
era un copista di professione o meno), ma anche dalla concentrazione, dalle condizioni ambientali
(illuminazione), dal suo stato psicofisico in quel particolare momento e, naturalmente, dalle sue
conoscenze e competenze relative al testo che stava trascrivendo o alla lingua del testo stesso.
Insomma, il lavoro di copiatura era influenzato da una molteplicità di fattori, mancando uno solo dei
quali, il risultato poteva venire compromesso, portando alla produzione di una copia poco corretta e,
quindi, poco affidabile. Per questo il filologo romanzo Robert Marichal affermava in modo lapidario
«Qui dit copie dit faute» ovvero parlare di copia equivale a parlare di errore, specie se ci si riferisce
a copie manoscritte (Marichal 1961, pp. 1249-50). È possibile, infatti, che il copista commettesse un
errore di lettura (A), oppure si confondesse nell’atto della memorizzazione o della dettatura interiore
della pericope (B e C), ad esempio cambiando l’ordine delle parole rispetto a quanto riportato
nell’antigrafo, oppure che incorresse in un lapsus calami (→) o errore di distrazione al momento di
tracciare le lettere sul foglio (D) o che, infine, ritornasse con l’occhio al suo antigrafo in un punto
diverso da quello in cui si era interrotto (E), magari perché incontrava a qualche riga o verso di
distanza una parola simile all’ultima letta e, così facendo, saltava un’intera parte del testo da copiare.
20
Consapevoli di questa dinamica e dei rischi ad essa connessi, nello schema che segue si
rappresenta la situazione che ne deriva: al moltiplicarsi delle copie, si moltiplicano o meglio
aumentano in progressione geometrica gli errori o le varianti che vanno ad insinuarsi all’interno del
testo (Cesarini Martinelli 1984, p. 66):
Gli errori commessi o perché determinati dall’aspetto materiale del testo, cioè di come esso si
presenta nel manoscritto, o spiegabili con le dinamiche della trascrizione e i rischi insiti in essa, fanno
parte della (→) fenomenologia della copia ed è possibile che amanuensi diversi, lontani nel tempo
e nello spazio, di fronte alla stessa pericope del medesimo testo da trascrivere abbiano commesso lo
stesso errore o introdotto la stessa variante. A livello generale è buona norma che il filologo cerchi di
spiegare l’eziologia dell’errore o della variante, cioè il modo in cui si sia generato, sebbene spesso al
suo verificarsi possano aver concorso più cause. Per questo gioverà in prima battuta elencare le
tipologie più comuni di errori relativi alla fenomenologia della copia (più avanti si analizzeranno le
varianti), tenendo però a mente che la casistica è molto più ampia e articolata, come cercheremo di
dimostrare in seguito.
Errore paleografico o ottico (→): consiste nella confusione alla lettura di lettere diverse, ma
tracciate in modo simile nell’antigrafo. Nelle scritture antiche sequenze quali mia, ima, una ecc.
potevano essere facilmente fraintese, ma anche lettere come e, c, t o anche f ed s, quest’ultima
tracciata nella forma alta, potevano indurre il copista a commettere un errore di lettura (Stussi 2015,
p. 96). A questa categoria appartengono anche gli errori commessi per la cattiva interpretazione dei
vari segni di abbreviazione che caratterizzano molte tipologie grafiche del Medioevo, epoca in cui
ragioni di economia spingevano a utilizzare un modulo di scrittura piccolo, con grafemi ravvicinati e
talvolta legati, situazione che esponeva il copista ad errori di lettura e di scioglimento delle
abbreviazioni. Si veda a titolo esemplificativo lo schema che riassume alcune delle principali
abbreviazioni con il relativo scioglimento:
21
quando non
per pro- pre-
qui questo
che ser esser Messer
et et
La somiglianza di certe abbreviazioni poteva causare fraintendimenti, per cui capitava che da un
originario ᵱseguire un copista trascrivesse correttamente perseguire, mentre un altro si confondesse
e copiasse proseguire. Analoga confusione poteva essere generata dalla presenza nell’antigrafo di un
compendio sovrascritto, detto (→) titulus, che stava ad indicare la presenza di una consonante nasale
(m o n). Ad esempio, della parola anima si potevano trascrivere solo le vocali con il titulus cioè ai͡a,
come pure punto si poteva trovare scritto p͡uto, e così via. Il copista che incontrava queste
abbreviazioni, anche se esperto, poteva fraintendere il testo, e ciò accadeva più di frequente se la
lezione che ne derivava appariva plausibile nel contesto e dotata di senso.
Vediamo un paio di esempi.
Al posto di per ruvidezza – cioè crudeltà e insensibilità – uno dei manoscritti legge prudentia
(prudenza) – cioè saggezza, avvedutezza – che ovviamente priva il passo di senso logico.
L’errore si sarà generato con ogni probabilità a causa della presenza di per scritto con
abbreviazione, magari di seguito alla parola ruvidezza in una forma del tipo ꝑruuideza.
Alcuni manoscritti leggono saputo anno, che naturalmente ha un significato del tutto diverso
e apparentemente plausibile nel contesto (i desideri ‘hanno saputo’, ‘conoscono’) mentre
s’appuntano, vale ‘i desideri si concentrano’, ‘sono diretti’. L’errore qui si è generato molto
probabilmente a partire dalla presenza di un titulus che è stato frainteso dai copisti, qualcosa
del tipo di sapu͡ctano che è lezione riportata dal manoscritto Trivulziano 1080, uno tra i più
autorevoli della Commedia (Petrocchi 19942, p. 251; Inglese 2023, p. 125).
È evidente, dunque, quanto sia importante che il filologo abbia un’adeguata conoscenza della
paleografia e delle dinamiche della fenomenologia della copia per poter riconoscere gli errori, capirne
la genesi e, se necessario, saperli adeguatamente correggere. Vediamo altri esempi che coinvolgono
anche il fenomeno della scriptio continua:
- In un passo del Ninfale fiesolano di Giovanni Boccaccio (113, 1-4), poemetto in ottava rima
di argomento amoroso, tutti i testimoni tramandano il testo in questa forma:
Mensola allor fu lieta di quel tratto,
che non aveva il giovane ferito,
perché già Amor l’avea del cor tratto
ogni crudel pensiero, e fatto unito […].
Secondo questa lezione, la protagonista femminile del poemetto, Mensola, è lieta che il dardo
da lei scagliato non abbia ferito il giovane Africo, protagonista maschile, (vv. 1-2) e prova un
sentimento di gioia e sollievo perché Amore ha già unito il suo cuore a quello di Africo. Ma
a questa altezza della narrazione tra i due protagonisti non è ancora sbocciato l’amore e dunque
il passo, così com’è, non ha senso. Boccaccio inserisce questo episodio per dimostrare che in
Mensola si sta verificando un mutamento di atteggiamento: mentre prima era ostile alla
passione d’amore e la rifuggiva, da questo momento invece comincia a cedere. Dunque è
23
probabile che Boccaccio volesse scrivere fatto ’nvito, come si legge nell’edizione critica
(Boccaccio 1974), nel senso che il mancato ferimento di Africo e il sentimento di sollievo
provato da Mensola è indizio che Amore ha fatto breccia nel suo cuore. Questa correzione o
(→) emendamento è particolarmente convincente perché, oltre a restaurare il senso, ha il
vantaggio di spiegare la genesi dell’errore: ammettendo che nell’originale si leggesse fatto͡uito
cioè che le due parole si presentassero contigue, senza distinzione grafica tra u e v, come di
norma accade nei manoscritti medievali, e con la presenza di un titulus per la conosonante
nasale, il copista poteva molto facilmente essere indotto al fraintendimento e sciogliere
l’abbreviazione della lettera n in posizione sbagliata, cioè dopo la vocale i e non prima, come
sarebbe stato corretto fare (Zaccarello 2017, p. 53).
- Nel canto XXXII dell’Inferno Dante si trova nel Cocìto (vv. 34-35), in quella particolare zona
chiamata Caina perché ospita i traditori dei parenti (Inglese 2023, p. 124): essi gli appaiono
di colore livido cioè bluastro, immersi nel ghiaccio fino all’altezza delle spalle, mentre con i
denti emettono un suono simile a quello della cicogna quando batte il becco:
livid’insin là dove appar vergogna
eran l’ombre dolenti nela ghiaccia,
mettendo i denti in nota di cicogna.
Nei manoscritti è molto diffusa la lezione li vidi si, palesemente errata e che si sarà generata
probabilmente per la non chiara separazione delle parole e per l’assenza di segni interpuntivi
nel modello.
Errore di aplografia (→): si verifica quando il copista omette nell’atto di trascrizione una o
più lettere o una sillaba interna alla parola, come polo per popolo o filogia per filologia; mentre nel
secondo caso il lapsus del copista produce un errore evidente di per sé, nel primo caso, invece, la
parola risultante ha senso compiuto e, in base al contesto in cui si trova, potrebbe dar luogo ad una
modifica insidiosa non immediatamente riconoscibile come un errore. Il fenomeno opposto a questo
si chiama (→) dittografia o diplografia e consiste nella reduplicazione di una sillaba all’interno della
parola o di una parola all’interno della frase, come sperperare per sperare o se se ne va al posto di se
ne va; anche in questo caso, se la dittografia produrrà un termine o una locuzione di senso compiuto,
sarà più difficile riconoscere la sua natura di innovazione non risalente all’originale.
- Si veda l’esempio tratto dal Convivio di Dante (IV XI 12), in cui l’autore sta parlando delle
ricchezze (Balduino 1983, p. 59):
e però Nostro Segnore inique le chiamò, quando disse: «Fatevi amici de la pecunia de la
iniquitade», invitando e confortando li uomini a liber<ali>tade di benefici, che sono
generatori d’amici.
Tutti i testimoni del Convivio hanno la lezione libertade (libertà), ma il passo in questione
sembra richiedere liberalitade ovvero ‘generosità’; difatti è così che tutti gli editori moderni
stampano, supponendo che in quel luogo si sia verificato un errore di aplografia. Le parentesi
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uncinate racchiudono le lettere che, mancando nei testimoni, ma necessarie ai fini del restauro
del senso, sono state aggiunte nell’edizione critica.
Si parla di salto dallo stesso allo stesso (con terminologia francese saut du même au même) o
parablepsi (dal gr. paràblepsis ‘sguardo che si posa accanto’), quando il copista nella fase (E) della
fenomenologia della copia descritta sopra torna con l’occhio al suo antigrafo non nel punto esatto in
cui aveva interrotto la lettura, ma più avanti, perché incontra una parola che termina o inizia in modo
identico all’ultima letta oppure che gli assomiglia, e da lì prosegue il lavoro di copia. L’apografo che
risulta da questo errore mancherà della porzione di testo compresa tra le due parole che si
assomigliano, tra loro vicine (magari nella stessa posizione ad una riga o verso di distanza), e che
hanno indotto il copista in errore. Facciamo qualche esempio.
- Leon Battista Alberti nel suo trattatello De amore (Alberti 2004, p. 171) scrive:
E così in te mai non mancheranno queste e più altre assai molestie, quale sarebbe lungo
perseguire: dure espettazioni, <molesti desideri, poco, raro e brevissimo gaudio, triste
recordazioni >, continuo sospetto e grave dolore.
Un testimone dell’opera omette la porzione di testo riportata entro le parentesi uncinate che,
come si vede, è quella compresa tra le due parole evidenziate terminanti nello stesso modo. Il
copista ha evidentemente saltato quel lacerto testuale a causa di un salto da uguale a uguale
nella fase (E) del processo di copia.
- Jacopo Bracciolini (1442-1478), figlio del celebre umanista Poggio, fu autore del rifacimento
in volgare di una novella latina composta da Bartolomeo Facio dal titolo Della origine della
guerra tra Franciosi e Inghilesi. La narrazione, mescidando verità storica ed elementi tipici
della tradizione fabliolistica e novellistica, verte sulla vicenda che causò la cosiddetta guerra
dei Cento Anni e che vide coinvolte appunto Francia e Inghilterra. Al par. 141 viene chiarita
l’origine della disputa fra i due sovrani. I cattivi consiglieri del re d’Inghilterra, spingendolo
a:
non volere seguire l’antico stilo d’andare in Francia, <constrinsono il re di Francia> per
honor della corona a muoverli guerra.
Come nell’esempio precedente, anche qui il brano inserito tra parentesi uncinate nel ms.
Laurenziano Pluteo 61, 24 è stato omesso per parablepsi (Bessi 2000, p. 362). È preferibile
parlare di salto dallo stesso allo stesso o parablepsi, piuttosto che di salto per omeoteleuto
(→ dal gr. omothelès ‘che ha uguale fine’), dal momento che, come detto, il fenomeno si
verifica non solo in presenza di parole che terminano allo stesso modo, ma anche quando
hanno uguale inizio oppure sono identiche, come nel secondo esempio, o simili (Zaccarello
2017, p. 203).
Siamo in presenza di un errore polare (→) quando un copista trascrive una parola di senso
opposto a quella che trova nell’antigrafo, per cui, ad esempio, al posto di alto scrive basso, al posto
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di giovane, vecchio, e così via. Al contrario di quanto si possa pensare, si tratta di un fenomeno
psicologico piuttosto frequente.
- Nel poema intitolato Altro Marte e dedicato all’esaltazione della figura del noto capitano di
ventura quattrocentesco Niccolò Piccinino, il poeta Lorenzo Spirito (1426-1496) scrive (canto
XLII, vv. 55-57, Passeri 2020):
Il condottiero viene catturato (preso) con suo poco onore, cioè la sconfitta è avvenuta anche
in modo per lui disonorevole. Questa è la lezione corretta tramandata della maggioranza dei
codici, mentre il manoscritto Vaticano latino 5893, uno degli autografi di Lorenzo Spirito, al
posto di poco legge grande, con evidente lapsus polare.
l’uomo non conosce ed ha ignoranza di tutto il tempo che dee venire, che è infinito; e la
ignoranza nostra è nel tempo futuro ancora.
Il testo non è ricevibile in in questa forma, perché la seconda parte del periodo verrebbe a
ripetere esattamente quello che è stato appena affermato. È evidente che qui il senso richiede
la parola passato (Brambilla Ageno 1984, p. 36).
Entrambi gli esempi interessano errori presenti in manoscritti autografi e ciò, oltre a
confermare quanto accennato sopra circa lo status non perfetto dell’originale, dimostra che
l’autore, quando si fa copista della propria opera, è soggetto alle dinamiche che abbiamo visto
sono caratteristiche del lavoro di trascrizione e, dunque, non è esente dal commettere tutti
quegli errori connessi alla fenomenologia della copia.
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[...] Chi gran pena sente
guardi costui [sc. il poeta] e vederà ’l su’ core,
ch’e’ morto ’l porta in man, tagliato in croce.
Al posto della corretta lezione in croce, con allusione alla figura di Cristo, il copista del ms.
Vaticano Chigiano L.VIII.305 ha trascritto morte, con evidente errore di ripetizione del
sostantivo che si trova all’inizio del verso, errore che oltre tutto lede il sistema di rime.
E tanto più volentieri lo fo, quanto, essendo io donna, e benché non posso avere in odio la
origine dello errore tuo, che medesimamente procede da donna, e benché allevata con costumi
inonesti e che a me dispiacciono, è pure donna.
Machiavelli nella missiva della quale questa è responsiva, aveva criticato quella villa
acquistata da Guicciardini perché austera e disadorna; qui la villa in persona di donna risponde
di perdonare il giudizio che Machiavelli ha espresso su di lei, perché egli è uomo uso a
frequentare femmine di costumi discutibili (con allusione alla cantante Barbara Salutati di cui
Machiavelli in quel momento era infatuato) e per questo non riesce ad apprezzare le sue virtù.
La lezione dell’autografo e benché (in grassetto) appare chiaramente erronea e per questo
eliminata da tutti gli editori: si tratterà di un lapsus di copiatura indotto dalla presenza poco
dopo del medesimo sintagma.
Le tipologie fin qui descritte sono tra le più comuni, ma, come si diceva sopra, la casistica degli
errori derivanti dalla fenomenologia della copia è più ampia e varia, soprattutto perché molteplici
possono essere state le cause che hanno concorso a generare l’errore, al di là della schematicità delle
definizioni sopra fornite. A seguire un elenco di esempi che cercano di dare conto della varietà di
fenomeni.
Non è infrequente il caso di omissione di parole brevi ma indispensabili al senso, come la
negazione non.
- Nella già citata novella di Jacopo Bracciolini Della origine della guerra tra Franciosi e
Inghilesi, la protagonista, figlia del re Edoardo d’Inghilterra, sposa il re di Francia e dalla loro
unione nasce un bambino. Dopo numerose peripezie che costringono la giovane donna a
fuggire dal marito portando con sé il figlio, i due si ritrovano insieme a Roma presso la corte
dell’imperatore. Il re di Francia osservando il bambino ormai cresciuto, ignaro del fatto che
sia suo figlio, è preso dal desiderio di portarlo con sé per farne uno dei suoi baroni. A questo
punto l’imperatore chiede alla protagonista se voglia acconsentire alla richiesta del re e la
giovane, costretta a quel punto a rivelare la propria identità e quella del bambino, dice che
(Bessi 2000):
27
non glielo poteva dinegare non per paura avessi di violenza, ma perché non era lecito non
dare al Re le proprie cose quando le chiedeva.
Il non evidenziato è omesso da una serie di codici della tradizione della novella, ma è evidente
che la sua presenza è funzionale alla tenuta logica e sintattica dell’intero passo.
La competenza linguistica dei copisti rispetto al testo che trascrivono può essere talvolta
determinante nella genesi dell’errore.
- Si legga il passo di Inferno, XVIII 61:
A parlare è Venedico de’ Caccianemici, punito nella bolgia dei ruffiani e seduttori, il quale
dice a Dante che non è l’unico cittadino bolognese confinato in quella zona infernale, ma, al
contrario, ce ne sono così tanti che superano il numero dei vivi, letteralmente di ‘quelli che
apprendono a dire sì’, cioè apprendono la lingua materna ‘tra i fiumi Sàvena e Reno’, naturali
confini geografici che delimitano la città di Bologna, rispettivamente a est e a ovest. In
bolognese sipa è l’equivalente dell’affermazione sì.
Il manoscritto Gaddiano 90 sup. 125 della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze in luogo
del corretto sipa riporta suppa, un evidente errore spiegabile con il fatto che il copista di
tradizione fiorentina non riconobbe il termine bolognese estraneo al proprio uso linguistico
(Inglese 2023, p. 126).
La cattiva conoscenza da parte dei copisti della materia di cui tratta il testo che stanno
trascrivendo produce frequentemente dei guasti.
- Nell’Amorosa visione di Boccaccio, poemetto allegorico in terzine dantesche, al canto VIII,
32 (redaz. A) si legge (Boccaccio 1974b):
Tre manoscritti al posto del nome dell’eroe acheo Patrocolo (Patroclo), amico di Achille,
leggono Patricolo certo per ignoranza di quel personaggio omerico e delle vicende a lui legate.
28
A conclusione di questa rassegna è bene trattare il fenomeno della banalizzazione (→), cioè quel
meccanismo per cui un copista di fronte ad una parola, un sintagma o perfino un’intera espressione
che non comprende per mancanza di specifiche competenze o perché, più in generale, esula dal suo
orizzonte culturale, è portato a modificare il testo anche preterintenzionalmente. L’esito di questa
innovazione può produrre (1) un errore – sia esso una parola o un sintagma che lede il senso del passo
– (→ errore di banalizzazione), ma spesso dà luogo (2) ad una lezione perfettamente plausibile,
graficamente e foneticamente simile a quella presente nel testo e nota al copista, ma che peggiora la
qualità del dettato e lo allontana dall’originale: in questo caso si parla di variante deteriore o di (→)
lezione più facile (in lat. lectio facilior), a fronte della lezione più difficile (in lat. lectio difficilior
→ ) che, per quanto detto, ha maggiori probabilità di risalire all’originale. Facciamo due esempi, uno
per ciascun caso:
1- Al capitolo VIII, 5 del Principe di Machiavelli si legge:
Agatocle siciliano, non solo di privata ma d’infima e abietta fortuna, divenne re di Siracusa.
Costui, nato d’uno figulo, tenne sempre per li gradi della sua età vita scelerata.
Machiavelli cita Agatocle, sovrano di Siracusa dal 316 al 289 a.C., come esempio di coloro
che giunsero al potere compiendo scelleratezze. Parlando della sua nascita, dice che fu figlio
di un figulo cioè di un ‘vasaio’, un artigiano che produce suppellettili di terracotta. La parola,
di derivazione latina (figulus) e attestata fin dalla metà del Trecento, era evidentemente ignota
ai copisti di due manoscritti della tradizione del trattato machiavelliano che, al posto di figulo,
leggono figluolo forse anche per il concorso di una cattiva lettura (errore ottico o paleografico:
Inglese 2023, 125). È di tutta evidenza che la lezione figluolo, cioè ‘figlio’ lede il senso del
passo.
2- Il poeta Francesco d’Altobianco Alberti (1401-1479) dedica il sonetto LXV Raro mi fermo,
e, s’io m’aresto alquanto ad una riflessione sulla tristezza della condizione umana e sulla sua
instabilità. Nella seconda terzina, in particolare, l’autore sviluppa il tema della propria
incapacità di mettere a frutto il tempo che gli è dato in sorte, e scrive (Alberti 2008):
‘Mi sembra ieri che la vita sia cominciata e poco fa ne ero a metà, domani arriverà la fine che
attendo con timore, eppure non so trarre frutto (racôr il frutto) da questa dilazione (mora)
[sottinteso ‘che mi concede il destino’]’. Il poeta in questa terzina si rammarica di non saper
impiegare bene il tempo a sua disposizione prima che la morte, ineluttabile, lo raggiunga.
Il ms. della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Conventi Soppressi B.1.1746 in luogo
di racôr di mora riporta ritrar d’un ora: la variante restituisce comunque un senso compiuto
(‘faccio fatica a trarre utilità da un’ora’), ma è evidente che quella messa a testo si presenta
come più difficile a livello lessicale e facilmente equivocabile anche per la presenza della
scriptio continua e per la somiglianza paleografica: dimora / dunora (Zaccarello 2017, p. 82).
29
4. L’accertamento dell’errore
Nel paragrafo precedente abbiamo passato in rassegna alcuni casi a vario titolo esemplificativi di
come la trasmissione manoscritta produca innovazioni riconducibili alla categoria dell’errore. Tale
categoria però non sempre è facilmente individuabile all’interno della tradizione, specie quando si
abbia a che fare con un’opera dei primi secoli della nostra letteratura. La domanda da porci allora è:
esistono dei principi generali a cui affidarsi per l’identificazione degli errori? Possiamo rispondere di
sì, a patto però di tenere a mente che l’identificazione dell’errore è un procedimento tutt’altro che
semplice o scontato, e che spesso non approda ad esiti sicuri: in molti casi, infatti, la certezza
dell’erroneità di una lezione risulta difficile da stabilire. Cerchiamo comunque di focalizzare alcuni
principi generali:
A. «L’autore non può avere scritto una cosa apertamente assurda e contraria alla logica e al buon
senso» (Brambilla Ageno 1984, p. 62), o che contraddica palesemente quanto affermato nel contesto.
Tuttavia, in presenza di una lezione che “appaia” erronea, bisognerà in primo luogo essere certi che
essa non risulti priva di senso solo a causa della nostra scarsa capacità interpretativa, cioè perché a
noi mancano gli strumenti e le competenze per comprendere ciò che invece per l’autore era legittimo.
Dunque il filologo non tralascerà di prendere in considerazione alcuna possibilità che permetta di
accogliere il testo nella forma in cui è trasmesso, ad esempio tramite una ricerca storica, geografica,
o tecnico-tematica relativamente all’argomento trattato nell’opera oggetto di analisi filologica.
E non si potrebbe dire con lingua quanto gli acerbi casi di quella novella [Decameron, IV, 1]
commossoro gli animi di ciascuno, maxime nelle parole affectuose e lacrimabili dette sopra il
core di Guiscardo a llei per lo duro e infelice padre presentato [...]. E furonvi donne e giovani
assai che non poteron celare lo ’mbambolar degli occhi e le cadenti lagrime per pietà e
commiseratione di sí acerbo e doloroso caso.
- Leggiamo Paradiso XV, 100-102, uno dei passi danteschi su cui i filologi più si sono
interrogati (Alighieri 2016):
A parlare è Cacciaguida, l’antenato di Dante, che sta lodando i costumi sobri delle antiche
donne fiorentine, per evidenziare e censurare, al contrario, il lusso di quelle contemporanee,
che utilizzano monili costosi, quali collana (catenella), frontale (corona, l’accessorio che
cerchiava la fronte e i capelli), cintura. L’elenco degli accessori sembra interrotto dalla
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presenza di quel donne contigiate; per questa ragione, fin dal secolo XIX il passo fu emendato
in gonne contigiate, nel significato di ‘gonne ricamate’ e così il testo si è letto fino all’edizione
di Giorgio Petrocchi compresa. Successivamente, sulla scorta del commento alla Commedia
di Francesco da Buti (ca. 1324-1406) e anche di altri testi trecenteschi, è stato appurato che
contigie erano ‘calze ricamate’ e dunque l’aggettivo corrispondente non poteva essere riferito
a gonne. I più recenti editori hanno restaurato la lezione trasmessa donne, grazie ad una glossa
dell’Ottimo commento alla Commedia, databile al 1330-1340 circa, che spiega il passo con
‘donne che indossavano calze ricamate’, ad indicare donne dissolute o prostitute. Si tratta di
un esempio molto eloquente di come: «il progredire degli studi dimostra di solito che molte
lezioni considerate erronee dagli editori risultano poi corrette o almeno accettabili (e dunque
non manifestamente erronee)» (Vàrvaro 2010, p. 194).
B. L’autore non può aver scritto una frase che violi le leggi della propria lingua. Per questa
ragione il filologo svolgerà tanto meglio il suo lavoro quanto più conoscerà la lingua dell’autore, la
grammatica storica, la lessicografia. E ciò sarà necessario soprattutto per gli autori dei primi secoli
della nostra letteratura, poiché più si risale indietro nel tempo, più avremo a che fare con una lingua
sensibilmente diversa da quella contemporanea. Un discorso analogo andrà fatto per i testi in poesia
relativamente alle conoscenze o abitudini prosodiche e versificatorie dell’autore. Per cui, prima di
incasellare una lezione nel novero degli errori, si dovranno utilizzare tutti gli strumenti disponibili
che ne permettano la corretta analisi linguistica, quali repertori lessicografici, dizionari, concordanze,
grammatiche storiche, ma anche metrico-prosodica.
- Si legga il seguente passo del poemetto Psiche, 36, 4 (Niccolò da Correggio 1969),
composto dal ferrarese Niccolò da Correggio (1450-1508), che narra in ottava rima il
celebre mito di Amore e Psiche:
Ai vv. 3-4 il poeta descrive alti faggi da cui pendono una serie di armi di difesa e di offesa,
ovvero archi, scudi e turcassi cioè ‘faretre’ in cui riporre le frecce. La lezione è trasmessa
da tre manoscritti, mentre la stampa cinquecentesca (da cui derivano tutte le edizioni
antiche successive) legge carcassi. Dato che in numerosi altri punti del poema la stampa
trasmette un testo corrotto, potremmo essere indotti a classificare anche questa lezione tra
gli errori. In realtà, il ricorso ai lessici, (ad. es. TLIO-Tesoro della lingua italiana delle
origini < http://tlio.ovi.cnr.it/TLIO/ >) dimostra che carcassi è un sinonimo di turcassi,
attestato fin dagli anni Trenta del 1300. Variante dunque, e non errore.
C. È altamente probabile che un’affermazione discordante da quello che sappiamo che l’autore
pensava o conosceva non sia frutto della sua penna, ma sia invece un errore insinuatosi nella
tradizione successivamente e imputabile ai copisti. Perciò, per svolgere al meglio il suo compito, il
31
filologo dovrà avere una conoscenza puntuale e approfondita dell’intera opera dell’autore di cui si
occupa; a questo si accompagnerà un attento studio della cultura dell’epoca, degli ambienti che
l’autore ha frequentato e, più in generale, del contesto storico in cui egli è vissuto.
- Nell’Elegia di madonna Fiammetta (V, 6) di Boccaccio leggiamo:
Atalanta, velocissima nel suo corso, rigida superava i suoi amanti, infino che Ipomedon, con
maestrevole inganno, come ella medesima volle, la vinse.
Questo il testo tramandato da tutti testimoni, in cui figura un errore, poiché il vincitore di
Atalanta si chiamava Ippomenès e non Ippomedon. La forma corretta Ippomenès ricorre in
due passi delle Chiose al Teseida, commento che Boccaccio stesso compose per la propria
opera (VII, 50 e VIII 103, 7). Sappiamo, inoltre, che l’episodio deriva dalle Metamorfosi di
Ovidio (X, 575-708), un testo che Boccaccio conosceva bene, dal momento che lo cita
esplicitamente nelle sue Genealogie deorum gentilium, X, 57. Dunque, è più che plausibile
pensare che l’autore, qualora fosse tornato a rivedere quel passo, si sarebbe accorto della
svista, correggendola, ed è per questo che nell’edizione critica il passo è stato emendato
(Delcorno 1983-1984).
5. Errore d’autore
A proposito dell’originale si è messo in evidenza il fatto che esso non debba essere idealizzato o
mitizzato come qualcosa di perfetto e immutabile. Anche gli autori possono aver commesso degli
errori per difetto di informazione o per imperizia e, in questi casi, non è compito del filologo
correggerli. Sarebbe metodologicamente scorretto in tal modo far apparire un autore migliore di
quanto in realtà non fosse e operare così interventi che esulano dal compito dell’editore critico che è
e resta quello di produrre un testo che si avvicini quanto più possibile all’originale, qualunque ne
fosse la qualità. Tuttavia, anche in questo caso è bene distinguere ciò che l’autore effettivamente
sapeva e poteva aver scritto, da ciò che è attestato dalla tradizione, ad esempio da un autografo o da
un idiografo, in cui un lapsus può essere sfuggito ad un lavoro di revisione da parte dell’autore o che
semplicemente egli può aver commesso per banale distrazione. In quest’ultimo caso l’editore non
solo può, ma deve correggere. Vediamo qualche esempio.
- Nella conclusione della sesta giornata del Decameron (5), il re eletto per la giornata seguente
dice:
voglio che domani si dica […] delle beffe le quali […] le donne hanno già fatte a’ lor mariti,
senza essersene essi o avveduti o no.
Così si legge nel già citato autografo conservato a Berlino. Ma è evidente che si tratta di un
palese nonsense, forse causato da un errore polare, perché la frase richiede o sì: ‘senza che i
loro mariti se ne siano accorti oppure sì’, cioè essendosene accorti. La riprova viene
dall’introduzione alla giornata successiva (VII, 1), dove Boccaccio ripete la stessa formula, ma
stavolta con la lezione corretta: «senza essersene avveduti o sì» (Boccaccio 2013). In casi come
questi, il filologo è tenuto a correggere il testo tràdito, anche quando si tratti di un autografo,
32
poiché l’autore stesso, qualora si fosse accorto della svista, avrebbe emendato il suo testo e non
lo avrebbe lasciato macchiato da un errore.
Al contrario, l’editore non dovrà emendare (1) quegli errori di varia natura che l’autore ha
commesso per mancanza di informazioni; e neppure dovrà intervenire (2) quando tali “errori” lo siano
solo ai nostri occhi di lettori moderni, ma che per le reali conoscenze del tempo in cui egli è vissuto,
in alcuni casi anche molto diverse da quelle odierne, non possono qualificarsi come errori e, dunque,
non saranno da emendare.
1. L’autore può non ricordare o fraintendere una parola appartenente a diverse coordinate
linguistiche; è il caso dei frutti del kaki che Eugenio Montale (1896-1981) chiama diàspori
nell’Elegia di Pico Farnese – poesia contenuta nella raccolta Le occasioni (Montale 1939);
in realtà la forma corretta è diòsperi, termine toscano con cui si indicano appunto quei frutti
e che il poeta, in quanto ligure, probabilmente non ricordava con esattezza. Montale
introdusse la forma diòsperi nella successiva edizione critica della propria opera, a cui
partecipò attivamente (Montale 1980; Stussi 2015, p. 99).
- Nel poemetto Teseida di Giovanni Boccaccio (I 38, 4) si legge un verso ipermetro (→ ovvero
in cui il computo delle sillabe metriche risulta erroneamente superiore alla misura richiesta
dal verso) non sanabile (Inglese 2023, p. 48):
2. Nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio (I, X 16) Niccolò Machiavelli passa in
rassegna una serie di imperatori accomunati dal fatto che, essendo amati dal popolo ed
avendo agito per il bene dello stato, non avevano bisogno di circondarsi di guardie del
corpo che tutelassero la loro incolumità, per cui leggiamo:
Consideri [...] quanta laude, poi che Roma fu diventata imperio, meritarono più quegli
imperadori che vissero sotto le leggi e come principi buoni, che quegli che vissero al
contrario; e vedrà come a Tito, Nerva, Traiano, Adriano, Antonio e Marco non erano
necessarii i soldati pretoriani né lamoltitudine delle legioni a difendergli [...].
Nella successione degli imperatori “buoni” compare il nome Antonio, con cui Machiavelli
evidentemente intendeva indicare Antonino Pio. Tutti i testimoni in questo luogo sono
concordi nel leggere Antonio, ma in passato gli editori considerarono la lezione un errore
imputabile alla tradizione e lo corressero in Antonino. Nella più recente edizione critica
dell’opera (Machiavelli 2001) è stata restaurata la lezione dei testimoni, in quanto è emerso
che all’epoca di Machiavelli quell’imperatore era conosciuto col nome di Antonio, come
risulta dal Commento di Jacopo Bracciolini al Trionfo della Fama di Francesco Petrarca, e
33
*Non è un errore d'autore, lo sembra per noi perché non si chiama Antonio, però in quell'epica, si.
come il Petrarca stesso scrive nel medesimo Trionfo (Ia 100). È solo grazie ad acquisizioni
storiche successive al Rinascimento che noi oggi conosciamo il nome esatto di
quell’imperatore, cioè Antonino. Dunque, non trattandosi di errore della tradizione, ma
neppure di svista di Machiavelli, in questo caso il testo non deve essere toccato, poiché
rispecchia le conoscenze dell’autore in linea con il contesto storico in cui egli visse: spetta
al filologo affinare le proprie conoscenze ed esercitare sempre l’arte del dubbio per
inquadrare sotto la giusta luce ogni passo preso in esame.
L’accertamento dell’errore, come abbiamo visto, può rivelarsi un esercizio molto complesso – ben
più di quanto a prima vista possa sembrare – che richiede al filologo il possesso di numerose
competenze per applicare le quali può essere richiesto anche molto tempo: la fretta è nemica della
filologia. Accanto a questo è bene rammentare ancora una volta che i risultati a cui approda il filologo
non possono – e non devono – considerarsi definitivi, ma saranno da intendere come la fase più
avanzata di un lavoro che, al pari di ogni altra ricerca in campo scientifico, resta in progress. A questo
proposito si può citare un esempio opposto rispetto a quello dei Discorsi di Machiavelli, in cui il testo
tràdito concordemente dai testimoni, con l’avallo anche di un commento antico, è stato per secoli
considerato corretto, ma che, ad un supplemento di indagine, si è dimostrato erroneo.
In Purgatorio XXIV, 30 Dante incontra l’amico Forese Donati nella cornice in cui si purgano
i peccati di gola. Questi informa il poeta che insieme con lui si trovano alcuni personaggi
celebri quali il poeta Bonagiunta da Lucca, papa Martino IV, Ubaldino degli Ubaldini,
marchese di Forlì, e Bonifacio Fieschi, arcivescovo di Ravenna dal 1275 al 1294:
Tutta la tradizione della Commedia legge concordemente rocco, che gli antichi commentatori
– a partire da Iacomo della Lana – spiegano come termine usato per indicare lo ‘scettro
vescovile’, cioè il pastorale dei vescovi ravennati che, non avendo forma ricurva come di
norma accade i bastoni degli altri vescovi, si presentava invece come un ‘rocco’ cioè aveva
una forma simile al pezzo degli scacchi che oggi definiamo ‘torre’. Nel 1905 il dantista
Francesco Torraca osservò che, in assenza di riscontri storico-documentari che confermassero
l’informazione di Iacomo dela Lana sulla forma del pastorale ravennate, la lezione rocco
poteva essere un errore e suggerì di correggerla in crocco cioè ‘bastone ricurvo’. Questa
proposta di emendamento comportava che lo scettro pastorale ravennate avesse la forma
comunemente in uso anche nelle altre diocesi. Tuttavia il passo non fu corretto dai successivi
filologi ed editori della Commedia (Barbi e Petrocchi) e così lo abbiamo letto, finché Giorgio
Inglese (Inglese 2021), con il ricorso a fonti documentarie iconografiche e numismatiche (le
monete ravennati dei secoli XIII-XIV) non ha mostrato che i pastorali dei vescovi ravennati
avevano effettivamente forma ricurva, dunque ne ha dedotto che il passo dantesco contiene
un errore, come aveva intuito Torraca. Per questa ragione nell’edizione critica (Alighieri
2021) leggiamo «che pasturò col †rocco molte genti», dove la crux evidenzia questa
situazione.
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L’esempio ha un valore metodologico in quanto da un lato dimostra come la ricerca a tutto campo
su versanti e discipline molto diverse dalla letteratura, quali appunto la numismatica o la tradizione
iconografica, possa risultare preziosa nell’analisi filologica – in particolare nell’accertamento
dell’errore –, dall’altro lato ribadisce la necessità di esercitare il dubbio, anche di fronte a testi
autorevoli quali gli antichi commenti alla Commedia di Dante, nella consapevolezza che non si dànno
mai risultati acquisiti una volta per tutte, ma che con l’ausilio della scienza che coniuga dati della
realtà testuale e capacità interpretativa, il filologo «sempre e costantemente tutto verifica e tutto
rimette in discussione» (Bessi-Martelli 1984, Premessa).
6. Le varianti
Abbiamo visto che la variante (→) nella sua definizione generale corrisponde a «ognuna delle
diverse lezioni tràdite per un dato luogo del testo, senza indicazioni qualitativa o di prossimità
all’originale» (Zaccarello 2017, p. 210). All’interno di questa macro-categoria, di cui fanno parte le
varianti di tradizione, cioè riferibili al processo di copia, si possono individuare varianti formali
ovvero pertinenti alla sfera linguistica e varianti sostanziali (→) cioè scegliendo tra le quali il senso
di un passo cambia. Possono essere ricondotte alla prima categoria le varianti grafiche (→), quando
cioè i testimoni della tradizione presentano modi diversi di rappresentare lo stesso suono all’interno
di una parola, ad esempio senpre per sempre, gientil per gentil, chasa per casa, dolceçça per dolcezza,
ecc. Si parla invece di varianti fonetiche (→) quando nella tradizione la stessa parola è attestata in
modo da dichiarare che alla pronuncia vi erano delle differenze. Ad esempio è possibile trovare
repara in luogo di ripara, sprendore al posto di splendore, piazere per piacere, e così via. In ognuna
di queste coppie la prima forma si presenta come una varietà geolinguistica, tipica di specifiche aree
regionali d’Italia.
Siamo in presenza di varianti adiafore (→), letteralmente ‘indifferenti’, cioè scegliere tra le quali
non comporta una modifica di senso nel testo, quando nella tradizione sono attestate parole diverse,
ma con identico significato, come nel caso di scura al posto di oscura oppure retro per dietro, ecc.
Un altro fenomeno piuttosto frequente è quello delle inversioni nell’ordine delle parole. È quanto
accade, ad esempio nell’Amorosa visione di Boccaccio (XXX 38), per cui il verso
Ci muoviamo sul piano dell’adiaforìa anche in situazioni del tipo di Inferno I, 8 per cui nella
tradizione sono attestate le due varianti «ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai» e «ma per trattar del
ben che vi trovai», oppure come nel caso che segue, tratto dalle Rime di Giovanni Boccaccio
(Leporatti 2013), dove nel sonetto Quell’amorosa luce, il cui splendore (XXVI, 12) si legge:
35
O grieve caso, ond’io forte mi doglio:
colei, cui cerco di veder poterla,
sempre non posso lei poi riguardare.
Uno dei testimoni in luogo di grieve caso legge cagion grave che giustamente l’editore considera
adiafora, dato che il contesto può ben ricevere entrambi i significati (caso = ‘circostanza’, cagione =
‘motivo’) e il senso del testo, nell’un caso e nell’altro, non subisce una modifica significativa.
- Nel canto XIV dell’Inferno, Dante incontra il bestemmiatore Capaneo condannato a subire la
pioggia di fuoco, ma non conoscendo ancora la sua identità chiede a Virgilio chi sia l’anima
esposta a quella pena (vv. 43-48):
L’atteggiamento di Capaneo è sprezzante (dispettoso), torvo (torto) rispetto alla pena che gli
è inflitta e non pare che la pioggia lo addolcisca (’l maturi): il termine è usato in analogia con
quanto accade con i frutti che maturano se esposti al calore del sole. Alcuni testimoni in luogo
di maturi leggono marturi cioè ‘martìri’: il passo così verrebbe a significare che Capaneo non
è sensibile alla pioggia che gli infligge dolore e rimane impassibile. Optare per una o per
l’altra variante modifica il senso tràdito dal testo e l’immagine che Dante vuole offrire del
dannato Capaneo.
- Un esempio ancora più significativo per le ricadute che la scelta ha sull’interpretazione del
testo riguarda il celebre passo del Purgatorio (XXIV 58-62), in cui il poeta Bonagiunta
Orbicciani da Lucca (fl. metà 1200) riconosce in Dante l’iniziatore del Dolce stil novo:
36
Io veggio ben come le vostre penne
di retro al dittator sen vanno strette,
che dele nostre certo non avvenne;
e qual più a gradir oltre si mette,
non vede più dall’uno all’altro stilo.
Bonagiunta utilizza la metafora dello scriba che esegue il suo lavoro sotto dettatura per
indicare come i poeti stilnovisti nelle loro rime abbiamo espresso fedelmente ciò che Amore
dettava loro, cosa che non furono capaci di fare i poeti della generazione precedente, cui lo
stesso Bonagiunta appartenne. E poi aggiunge che chi si mettesse ad indagare ulteriormente
(qual più a gradir oltre si mette), non riuscirebbe a vedere più nitida la differenza tra i due
stili di quanto egli la veda ora.
Alcuni autorevoli testimoni della Commedia leggono guardar, nell’ovvio significato figurato
di ‘osservare’, ‘valutare’. Gradir è latinismo (dal verbo deponente gradi) che significa
‘avanzare’, camminare’ ed è usato da Dante nel De vulgari eloquentia (I, IX 2) nel senso di
‘progresso intellettuale’. Entrambe le lezioni sono ammissibili, cioè sono ricevibili dal
contesto, ma la parola rara derivante dal latino gradir è preferibile in quanto lectio difficilior.
Tuttavia, quand’anche questa argomentazione potesse essere accantonata, si deve aggiungere
un ulteriore elemento di riflessione che riguarda il «sistema allusivo» qui evocato da Dante
(Inglese 2012, pp. 23-24) e relativo alla tenzone poetica tra Bonagiunta Orbicciani e Guido
Guinizzelli (ca. 1235-1276): il primo compose il sonetto Voi, ch’avete mutata la mainera,
indirizzato a Guinizzelli con una decisa critica alle novità da lui introdotte nella lirica d’amore.
La replica con la relativa difesa della propria poetica è contenuta nel sonetto del Bolognese, i
cui primi due versi recitano: «Omo ch’è saggio non corre leggero, / ma a passo grada sì com’
vol misura». Tutto il passo del Purgatorio che precede le terzine riportate sopra è disseminato
di citazioni più o meno scoperte ispirate al sonetto di Guinizzelli che Dante mette in bocca a
Bonagiunta, il quale, resosi conto della bontà delle scelte poetiche adottate dall’avversario,
esalta le sue rime in una sorta di palinodia delle critiche che aveva formulato in vita.
Optando per la variante guardar – come alcuni editori hanno fatto – il testo subisce una
modifica significativa del senso e contestualmente viene meno la possibilità che Dante abbia
creato un dettato poetico fortemente allusivo per difendere ed esaltare Guinizzelli, qui
identificato come l’antesignano del Dolce stil novo. Guardar e gradir, dunque, sono varianti
tutt’altro che adiafore.
Quando in un determinato passo del testo, la tradizione presenta tre o più varianti alternative si parla
di (→) diffrazione: la definizione (Contini 2014, pp. 35-36) è mutuata dal lessico della fisica ad
indicare la propagazione di un’onda elettromagnetica o luminosa che passi attraverso una fessura e
ne esca poi scomposta. Analogamente, a fronte di una parola o di un passo difficile, i copisti
“reagiscono” innovando il testo e, «dal ventaglio di lezioni che si vengono a creare, quella ritenuta
originale può sopravvivere in uno o più testimoni (diffrazione in presenza), o meno» (Zaccarello
2017, p. 73); qualora nessuna delle lezioni trasmesse sia accettabile (diffrazione in assenza), l’editore
dovrà intervenire con una congettura che, ove possibile, spieghi come può essersi innescato il
fenomeno.
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- Un esempio di diffrazione in presenza è rappresentato da Purgatorio, XVI, 64-65:
Al posto dell’esclamazione uhi! nei codici si legge nui (noi) oppure lui. Tutte e tre le lezioni
sono ammissibili: quella accolta a testo dagli editori indica che Marco Lombardo, protagonista
dell’episodio, emise un profondo gemito prima di rispondere a Dante, mentre nel caso di nui,
il sospiro emesso dal dannato provoca dolore in Dante e Virgilio; viceversa con lui, il senso
sarebbe opposto, ovvero il gemito deriverebbe dal dolore che l’anima sta provando. La
diffrazione si è generata, probabilmente, a partire dalla lezione uhi! che, in assenza di
interpunzione e segni diacritici nei manoscritti, sarà stata fraintesa dai copisti, dando luogo
alle altre varianti attestate nella tradizione.
A parlare è Maria che sotto la croce osserva il martirio di Gesù, prostrata dal dolore che gli
ferisce il cuore alla vista dei chiodi che trafiggono i piedi del figlio.
Al v. 41 la lezione fiede è congettura della curatrice dell’edizione critica (Manetti 1993) a
fronte della tradizione che presenta per il secondo emistichio del verso una diffrazione di
questo tipo (ciascuna lezione è trasmessa da uno o più manoscritti, Bausi 2022, pp. 43-44):
Le prime tre lezioni non sono accettabili, in quanto viene meno la rima con piede del v. 43,
mentre l’ultima lezione, per quanto in sé non erronea (‘il dolore che mi occupa il cuore’),
presenta tutte le caratteristiche di una banalizzazione a partire da una lezione più difficile che
ha prodotto contestualmente anche l’erroneo fende. In questa situazione, per cui nessun
testimone trasmette un senso soddisfacente, l’editrice ha emendato realizzando una congettura
che deriva dalla combinazione delle varianti testimoniate (fende; siede) ovvero fiede, cioè
‘ferisce’.
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7. Postilla
Gli argomenti trattati e i relativi esempi suggeriscono un paio di riflessioni conclusive che
investono non solo la tradizione, ma la prassi filologica intesa nella sua globalità.
1. La meccanicità dell’atto di copia è evidentemente maggiore quando si trascriva da una
lingua di cui non si è del tutto padroni, come nel caso di un copista che abbia limitate conoscenze del
latino che si trovi a copiare un testo in quella lingua. Viceversa, quando ci sia identità di codice
linguistico, la trascrizione non potrà mai essere realmente meccanica, dal momento che il copista
comprende il senso del testo mentre esegue il proprio lavoro e sarà esposto all’inevitabile tentazione
di correggere quello che considera erroneo, sia che si tratti realmente di un errore o che a lui appaia
tale solo per un difetto di comprensione. Ciò porta alla produzione di apografi che presentano
innovazioni non erronee e quindi più insidiose da riconoscere e correggere, e ha come risultato la
cancellazione di molti errori che, come vedremo, sono essenziali per la ricostruzione dei rapporti tra
i vari testimoni.
2. Alla base dell’accertamento dell’errore e dell’analisi delle varianti, come mostrano gli
esempi citati, concorre in modo determinante il lavoro esegetico che il filologo deve ineludibilmente
condurre sul testo per arrivare ad una comprensione profonda e analitica, evitando il più possibile che
rimangano zone d’ombra; ma quand’anche ciò accada, sarà suo compito quello di denunciare
apertamente che un determinato passo presenta difficoltà interpretative, sia come forma di correttezza
deontologica nei confronti del lettore, sia soprattutto per porlo all’attenzione della comunità
scientifica, in modo che possa essere chiarito da altri, nell’ottica di un indefesso e continuo progresso
della conoscenza dei nostri testi letterari.
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II. L’edizione critica
Così si definisce quell’edizione che stabilisce il testo di un’opera 1) sulla base della ricognizione e
dell’interpretazione delle sue fonti (i testimoni manoscritti e a stampa) e 2) che dà conto punto per
punto dei criteri, dei procedimenti e dei risultati dell’intera operazione ecdotica. Ciò si traduce, se
l’opera non è inedita, nel rifiuto del testo comunemente adottato e circolante (il textus receptus), e
nell’allestimento di un testo nuovo, che si pone come alternativo o sostitutivo rispetto a quelli
esistenti, perché per la prima volta costituito criticamente (ossia su rigorose basi filologiche) o perché
edificato su presupposti e con procedimenti ecdotici diversi da quelli sui quali si sono fondati gli
editori precedenti.
Nessuna edizione può dirsi critica se non soddisfa i due requisiti appena enunciati. A tal fine, essa
deve prevedere al suo interno due parti indispensabili: una introduzione o premessa o postfazione di
carattere filologico (solitamente denominata Nota al testo o con dicitura analoga) e un apparato
critico.
Se il filologo deve produrre l’edizione critica di un’opera che ci è stata tramandata da un solo
testimone (manoscritto o a stampa), il suo compito coinciderà grosso modo con la trascrizione di quel
testimone, su cui interverrà solo per correggere gli errori materiali (vedremo più avanti cosa questo
significhi). Ma che tipo di trascrizione dovrà effettuare?
Abbiamo visto in che cosa consista la trascrizione diplomatica (sopra pp. 16-17), ovvero quella in
cui ogni lettera o segno significativo del manoscritto deve essere reso con la lettera o il segno
corrispondente, nei limiti delle nostre possibilità di stampa. Nel caso dell’edizione critica, però, sarà
bene adottare una trascrizione interpretativa, cioè l’editore di testi antichi, anche autografi, dovrà
provvedere a dotarli di segni indicatori che ne permettano una lettura razionale e che eviti il più
possibile le ambiguità.
Ogni edizione dovrà prevedere un paragrafo (all’inizio nell’introduzione o dopo il testo in una
paragrafo apposito), in cui si darà conto dello stato della lingua presente nel testo che si pubblica e,
se necessario, di una descrizione dettagliata dei fenomeni più rilevanti. Il filologo dovrà poi segnalare
i suoi interventi di modifica, prevalentemente effettuati per adeguare la lingua e la grafia del testo alle
regole moderne. È inoltre frequente che l’edizione interpretativa di un testo italiano medievale o
rinascimentale comporti l’impiego di segni diacritici di norma non previsti dalla grammatica
moderna. Ma anche il semplice atto di inserire la punteggiatura o trascrivere separando le parole, per
quanto banale possa sembrare, è già un intervento filologico e richiede molta cura, attenzione,
comprensione profonda del testo e conoscenza della lingua di un autore. Vediamo qualche esempio:
Purgatorio, V 94-102
«Oh!», rispuos’elli, «a piè del Casentino
traversa un’acqua c’ha nome l’Archiano,
che sovra l’Ermo nasce in Apennino.
Là ’ve ’l vocabol suo diventa vano,
arriva’ io forato ne la gola,
fuggendo a piede e sanguinando il piano.
Quivi perdei la vista e la parola; Quivi perdei la vista, e la parola
nel nome di Maria fini’, e quivi nel nome di Maria finì; e quivi
caddi, e rimase la mia carne sola.
Quivi: punto de confluencia entre los dos ríos.
41
2. L’edizione critica con più testimoni e in assenza di originale
Diverso impegno richiede l’edizione di un testo di cui non si sia conservato l’originale e che ci sia
stato trasmesso da due o più copie.
Il protocollo di lavoro
Nella critica testuale si parla di recensio per indicare il lavoro che il filologo svolge prendendo in
esame tutte le testimonianze conosciute di un’opera, poi analizzandole, infine cercando di stabilire se
esistano rapporti genealogici tra di esse e infine, eventualmente, rappresentarli in uno stemma. La
prima fase di questo lavoro consiste nel censire tutte le testimonianze sopravvissute del testo
letterario oggetto di studio, siano esse manoscritte o a stampa, complete o parziali.
Quali strumenti si usano per eseguire questo lavoro ? Vediamo qualche esempio:
1. Cataloghi di manoscritti
42
3. Repertori (principalmente online) di incunaboli e stampe antiche
La seconda fase del protocollo di lavoro del filologo consiste in un confronto integrale e analitico, cioè
parola per parola, di tutti i testimoni reperiti. In che modo?
1. Se non disponiamo di un autografo, si sceglierà un testimone come base su cui operare il confronto
con tutti gli altri.
2. Si suddivide il testo, se in prosa, in paragrafi relativamente brevi, di norma pari al periodo sintattico,
in modo da avere sicuri punti i riferimento all’interno dell’opera. Se il testo è in poesia si numerano i
versi in base alla tipologia dello schema metrico.
3. È bene predisporre un foglio di lavoro suddiviso in colonne in modo che sia funzionale per annotare
gli errori e le varianti di ogni singolo testimone per ciascuna porzione di testo (paragrafo se in prosa,
versi se in poesia).
4. Nel trascrivere le varianti è importante attenersi fedelmente alla grafia di ciascun testimone, perché
nell’apparato le varianti dovranno essere registrate così come attestate dai testimoni.
Fino ad ora abbiamo analizzato gli errori considerandoli singolarmente, cioè come se li avesse
commessi un singolo copista all’interno della tradizione di un testo. Agli albori della disciplina
filologica stanno gli studi di Karl Lachmann (1793-1851) e poi di Paul Maas (1880-1964), i quali
guardarono all’errore da un punto di vista molto diverso, cioè quello delle modalità con cui si
commette l’errore e soprattutto se due o più testimoni trasmettono lo stesso errore. Questa prospettiva
portò ad individuare, attraverso l’esame degli errori comuni a più testimoni, la presenza di rapporti di
parentela tra quei testimoni che condividevano gli stessi errori: vediamo come.
43
Secondo il metodo stemmatico, gli errori che più copisti possono aver commesso indipendentemente
l’uno dall’altro non ci forniscono alcuna informazione circa la loro parentela e non servono per
stabilire rapporti. Essi sono chiamati errori poligenetici. Sono considerati parte di questa categoria
tutti gli errori legati alla fenomenologia della copia (vedi sopra) o in qualche modo indotti dalle
caratteristiche grafiche del passo oggetto di errore.
Viceversa, l’errore che due o più copisti non possono aver commesso in modo indipendente nel
tempo e nello spazio, portano a presupporre che tutti i testimoni che riportano quell’errore abbiano
un antigrafo in comune da cui lo hanno ereditato, cioè una copia, oggi non più conservata, da cui
tutti hanno trascritto. Questi errori si chiamano monogenetici o errori guida.
Vediamo qualche esempio.
La lacuna condivisa dai tre codici fa sì che essi siano dipendenti da un medesimo antigrafo (=
errore congiuntivo) e la coseguenza è anche che i codici che non hanno la lacuna e che non possono
averla colmata per congettura siano disgiunti da questi (= errore separativo o disgiuntivo).
La situazione si può rappresentare col seguente stemma:
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DANTE, Paradiso XXVI 91-102:
E cominciai: «O pomo che maturo
solo prodotto fosti, o padre antico
a cui ciascuna sposa è figlia e nuro,
divoto quanto posso a te supplìco
perché mi parli: tu vedi mia voglia,
e per udirti tosto non la dico».
Talvolta un animal coverto broglia,
sì che l’affetto convien che si paia
per lo seguir che face a lui la ’nvoglia;
e similmente l’anima primaia
mi facea trasparer per la coverta
quant’ella a compiacermi venìa gaia.
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La lezione di R è evidentemente difficile, specie per un lettore (copista, editore) non fiorentino,
per cui nella tradizione si è generato un errore testimoniato dalla stampa V e poi passato anche nella
stampa C. Tuttavia, in C si è cercato di ripristinare il senso della battuta, correggendo costei in se’
costì.
L’errore che c’è in V (e in parte anche in C) è di tipo separativo, perché la sua assenza in R non
può derivare dalla capacità di quel copista di correggere, in quanto la lezione originale era impossibile
per lui da ricostruire per congettura.
VEDERE SLIDE DI SUPPORTO IN MOODLE
A livello teorico è anche possibile che due testimoni conservati, sulla base degli errori che
condividono, possano essere uno copia dell’altro. Dati i testimoni A e B, si può verificare sia il caso
che A sia stato copiato da B, quanto il contrario:
A B
B A
In entrambi questi casi i codici copiati direttamente dagli altri si chiamano descritti. Ma come si fa
a riconoscerli? Di norma non è semplice: una volta completata la collazione, sempre in linea teorica,
un codice che presenti esattamente tutti gli errori mongenetici di un altro e ne aggiunga di suoi
propri si può considerare descritto. Pertanto, non apportando alcuna informazione circa la parentela
tra i testimoni e nessuna lezione utile alla ricostruzione del testo, lo si elimina.
La certezza di avere a che fare con un codice descritto si ha però solo qualora presenti errori o
omissioni che possano essere spiegate con le caratteristiche fisiche o con i guasti materiali del codice
da cui ha copiato (es. lacerazioni, fori di tarli, caduta di carte o fascicoli, ecc.).
«Una prova sicura di dipendenza di B dal testimone A è la presenza in B di omissioni o inversioni
che corrispondono esattamente a guasti materiali di A (lacerazioni, perdita o spostamento di pagine
o di fascicoli)» (Inglese 2023, p. 58).
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E. Verso l’originale: emendare gli errori
Nel caso in cui la tradizione di un testo presenti una lezione erronea, se questa non è condivisa da
tutta la tradizione, il luogo potrà essere corretto col ricorso a quella parte della tradizione non
interessata dall’errore. In questo caso si parla di emendazione ope codicum cioè con il ricorso ai
testimoni che hanno la lezione corretta. L’esempio che si può fare riguarda la slide con il passo della
canzone di Cavalcanti Donne me prega.
chiamati per luogo cosi dove Plato studiava, cioè Academici; né da Socrate presero vocabulo.
È altresì buona norma, prima di procedere ad un congettura, cercare di difendere la lezione tràdita
dai testimoni ed esplorare ogni possibilità di interpretazione. Spesso la difesa del testo attestato è più
brillante della più brillante delle congetture (Lapini 2002, p. 66).
ESERCIZIO FANTA-COMMEDIA
Nell’esempio proposto sopra tutti i testimoni della tradizione recano un errore monogenetico. In
questa situazione si parla di archetipo, cioè la tradizione presenta un testimone non conservato
intermedio tra l’originale e le copie sopravvissute che recava già almeno un errore monogenetico che
si è diffuso in tutta la tradizione.
Nel caso in cui l’entità del guasto sia tale per cui il filologo non è in grado di formulare una
congettura che possa restaurare il testo, il passo interessato dalla corruttela sarà segnalato con una
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G. Verso l’originale: scelta tra le varianti in recensio chiusa
Nel caso in cui si siano potuti stabilire con sicurezza i legami di parentela tra i testimoni della
tradizione, si potrà tracciare lo stemma che sarà utilizzato per la scelta delle varianti, applicando un
criterio probabilistico ovvero applicando la regola del peso stemmatico. L’opposizione in variante
di due o più rami (famiglie) dello stemma contro un terzo assicura per via probabilistica o meccanica
che quei rami riportino la lezione che si avvicina di più all’originale.
Facciamo un esempio:
XLVIII 85 ratti tutti andavan tutti prendendo diletti
L 31 piena piana Con voce piana e tutto pien di riso
risposi a lei
48
XLIX 69
«Omè», dicendo, «dove son io stato
con tanta gioia? Ora fosse piaciuto
a Dio ch’i’ non mi fossi mai destato,
e ’n cotal gioia sempre sare’suto!»
destato ] svegliato
XVI 48
fantasiando ] fantasticando
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H. Verso l’originale: scelta tra le varianti in recensio aperta
L’Amorosa visione di Boccaccio è un esempio perfetto per dimostrare come funziona il metodo
stemmatico, ma purtroppo è un caso rarissimo di albero a tre rami. Molto più spesso, invece, le
tradizioni dei testi della letteratura in volgare presentano alberi a due rami. Che cosa succede in
questi casi? Qualora l’opposizione delle varianti configuri una situazione in cui si può usare il criterio
probabilistico, nulla cambia. VEDERE SLIDE DI SUPPORTO
Qualora ciò non sia possibile, la prospettiva del filologo non potrà cambiare: in altre parole egli
non potrà rinunciare all’idea di trovare un criterio sufficientemente oggettivo, e quindi affidabile, per
ricostruire il testo più vicino all’originale, cioè alla volontà dell’autore. Sarà necessario a questo punto
abbandonare la logica probabilistica e statistica, per passare ad un’analisi qualitativa del testo: se
interpretata correttamente, l’opera può fornirci criteri interni o esterni per permetterci di fare scelte
relativamente sicure.
Vediamo come.
Un criterio a cui attenersi in caso di difficoltà di scelta sarà quello di optare per la lezione più
difficile. Questo modo di procedere ci assicura un ampio margine di esattezza e di oggettività nella
scelta, perché di norma i copisti tendono a commettere errori di banalizzazione, cioè di fronte ad una
parola che non rientra nel loro orizzonte culturale e che è a loro sconosciuta, tendono a sostiuirla con
una più facile e a loro nota. Dunque, tra due lezioni quella più difficile avrà alte probabilità di essere
originale, cioè voluta dall’autore, mentre quella più facile potrebbe essersi insinuata a causa di un
fraintendimento dei copisti. Difatti, se il senso di un passo è chiaro e piano, un copista non ha nessuna
ragione per intervenire modificandolo.
Il principio della lectio difficilior fu codificato in modo preciso già da Beatus Rhenanus (1485-
1547), un discepolo di Erasmo da Rotterdam: deplorando l’attività degli editori contemporanei, egli
sosteneva che essi tendevano il più delle volte a «raras et incognitas voces in consuetas et sibi notas
temere muta[re]», cioè a “sostituire avventatamente le parole rare e sconosciute con altre più usuali e
a loro note” (Ageno 1984).
Di conseguenza, un termine più raro può essere preferito anche se di attestazione isolata: è
normale, infatti, che per superare le difficoltà più copisti abbiano fatto ricorso a un sinonimo di uso
più comune, anche indipendentemente l’uno dall’altro.
1. NICCOLÒ DA UZZANO (attr. prima metà secolo XV), Antichi amanti della buona e bella, vv.
54-57 (capitolo ternario)
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2. La canzone GIACOMO DA LENTINI, Meravigliosamente è contenuta nei seguenti codici:
Ai vv. 29-30 il poeta si paragona a un uomo «che ten lo foco / a lo suo seno ascoso». Ai vv. 31-32 i
diversi testimoni leggono:
Nell’espressione arde più loco quest’ultima parola ha valore di avverbio (tratto del dialetto siculo)
– e non di sostanivo come potremmmo essere portati a pensare – nel significato di ‘là’, ‘colà’.
Il copista di L lo ha scambiato per un sostantivo e quindi ha sostituito il verbo intransitivo arde col
verbo transitivo prende, per cui la frase viene a significare che la passione d’amore ‘si estende’, ‘si
rende più viva’; P, interpretando loco alla stessa maniera di L, ha inserito la preposizione in per dare
senso ad una espressione che evidentemente riteneva errata. Ne consegue che la lezione da accogliere
è quella di V, proprio in virtù della particolarità del valore di loco.
Come si può intuire, l’applicazione del criterio della lezione più difficile dipende dal corretto
inquadramento del testo e delle testimonianze. «Facile e difficile non sono qui termini assoluti, e quel
che è difficile, cioè inconsueto per noi, può essere stato facile per uomini di altre età. Il giudizio sopra
facilità e difficoltà di una lezione sarà tanto più sicuro, quanto più il giudice conoscerà le consuetudini
di linguaggio e di pensiero delle età che l’hanno trasmessa» (Giorgio Pasquali).
USUS SCRIBENDI
Un secondo criterio praticabile in assenza di recensio chiusa è quello di optare per la lezione che
più fedelmente rispecchia la lingua, lo stile e il lessico dell’autore. Dovendo scegliere tra due o più
vocaboli, forme, costrutti si sceglierà quello che meglio aderisce allo stile e alla prassi linguistica
dell’autore. Ma se non la si conosce perché non disponiamo di documentazione sufficiente? In questo
caso dovremo dare la preferenza alla lezione che appaia conforme alla lingua in uso nel tempo e nel
luogo d’origine dell’autore.
51
BOCCACCIO, Ameto (Commedia delle ninfe fiorentine), XIV 10-12 (edizione Quaglio)
A fronte della lezione exemplo attestata da un ramo della tradizione, l’altro ramo legge axempro.
L’editore ha giustamente adottato la prima variante perché risulta utilizzata in modo costante
nell’autografo del Teseida.
Non sempre però la scelta si presenta così semplice, specie se non disponiamo di autografi o di
specifici studi sulla lingua dell’autore.
Ancora nell’Ameto, XX 1 l’editore si è trovato a dover scegliere tra due costrutti, entrambi corretti:
«L’udite voci e i ferventi amori, la mira bellezza e l’angelico suono con nota mai più da lui non
sentita, ciascuna per sé e tutte insieme oltre modo d’ammirazione riempiono Ameto, il quale fra sé
desiderava […]».
A fronte di mai più da lui non sentita, l’altro ramo della tradizione legge da lui mai più non sentita.
In questi casi è necessario procedere ad uno spoglio sistematico di tutta l’opera dell’autore, cosa che
l’editore ha fatto prima di decidere, ma naturalmente margini di dubbio resteranno sempre.
CECCO ANGIOLIERI, I’ ho sì poco di quel ch’i’ vorrei (sonetto, edizione A. Lanza 1990)
L’autorevole ms. BAV, Chigiano L VIII 305 riporta il v. 4 secondo l’edizione Lanza (nel significato
di ‘che non troverei qualcuno pari a me nella felicità’). Gli altri testimoni tramandano il verso così:
che se io tocassi or(o), piumbo el farei
La lezione riporta un’immagine indubbiamente angiolieresca, come risulta fra l’altro dal confronto
col sonetto Se tutta l’acqua balsamo tornasse, che continua: «e la terr’òr deventasse a carrate», cioè
‘la terra si trasformasse in carati d’oro’.
Per potersi servire del criterio dell’usus scribendi, il filologo dovrà continuamente sforzarsi in ogni
modo per affinare il suo senso stilistico, anche se bisogna ammettere che l’intera vita di un uomo non
basta per arrivare a una perfetta padronanza in questo campo (Ageno 1984, pp. 117-18).
***
52
Più raramente e con maggiore margini di dubbio nel raggiungere un risultato attendibile si può fare
ricorso alla fonte. Questo accade quando il passo interessato dalle varianti presenta un chiaro
riferimento ad un testo da cui l’autore ha preso ispirazione per comporre quella specifica parte
dell’opera. Recuperando la fonte è possibile arrivare a determinare quale delle varianti è quella che
maggiormente rispecchia la volontà dell’autore.
La tradizione della Commedia, come noto molto complessa e di fatto definibile come recensio
aperta, non permette di effettuare scelte meccaniche, per cui il filologo dovrà affidarsi a criteri diversi
come la lectio difficilior e l’usus scribendi. Tuttavia in questo caso nessuno dei due può facilitare la
scelta. È chiaro però che l’episodio qui descritto da Dante rievoca palesemente quello della discesa
agli Inferi di Enea nell’Eneide di Virgilio (VI, 143-44), in cui si legge «primo avulso non deficit alter
/ aureus».
CECCO ANGIOLIERI (ca. 1260-1313?), I’ ho sì poco di quel ch’i’ vorrei, sonetto trasmesso dai
seguenti manoscritti:
Anche qui, non potendo utilizzare altri criteri oggettivi, si può far ricorso alla fonte che
probabilmente l’autore aveva in mente, ovvero la canzone Gioiosamente canto di Guido delle
Colonne, v. 12: «un giorno vene che val più di cento», e per questo si darà la priorità alle lezioni che
più si avvicinano a questo passo e che abbiano una fonetica compatibile con la lingua usata da
Angiolieri (senese).
***
Corollario
Quando l’originale è perduto in presenza di recensio tanto aperta quanto chiusa, esso resta
inattingibile e non ricostruibile con totale sicurezza, cosa di cui il filologo deve essere consapevole e
perciò questi paragrafi si intitolano verso l’originale, a sottolineare questo aspetto problematico della
filologia ricostruttiva (Bausi 2022).
LA CONTAMINAZIONE
La copia di un testo è realizzata attraverso la trascrizione da più antigrafi, che possono appartenere
tanto alla stessa famiglia quanto ad altre famiglie testuali: ne risulterà un testo ibrido, che combina
lezioni dei vari gruppi.
54
III. La selva degli alberi a due rami:
Joseph Bédier (1864-1938) e l’alternativa al metodo stemmatico
P. STOPPELLI, Filologia della letteratura taliana, Roma, Carocci, 2019, pp. 98-104:
55
56
Tre sono i principali limiti del lachmannismo sui quali Bédier richiama l’attenzione:
1. scientificità apparente: le soluzioni meccaniche sono praticabili solo in pochi casi, mentre
spesso è necessario ricorrere al iudicium nella scelta delle varianti, e ciò a causa della netta
prevalenza di alberi bipartiti che Bédier constatava nelle edizioni critiche;
2. incertezza e instabilità dello stemma: in non pochi casi si manifesta la possibilità di delineare,
per la tradizione di una medesima opera, più stemmi tra loro alternativi ed ugualmente
plausibili;
3. astoricità e arbitrarietà del risultato: il metodo di Lachmann porta a stabilire testi ricostruiti in
laboratorio attingendo a più testimoni e a rami diversi della tradizione; testi che dunque non
sono storicamente esistiti e che hanno carattere del tutto o prevalentemente ipotetico.
Sulla base di tali osservazioni, nella sua seconda edizione del Lai de l’ombre, Bédier – pur avendo
a che fare con un testo di non ampia mole (962 versi) e dalla tradizione piuttosto ridotta (appena sette
manoscritti) – rinuncia a proporre uno stemma codicum e seleziona un solo codice (A) sul fondamento
del quale stabilire il testo. Il ms. A viene privilegiato e merita il titolo di bon manuscrit non perché
ritenuto più vicino di altri all’originale, ma perché offre un testo generalmente «molto sensato e
coerente», forme grammaticali «molto francesi», un’ortografia «molto semplice e molto regolare», e
infine perché è quello che «presenta meno spesso lezioni singolari» e quello che «meno spesso si è
tentati di correggere». In effetti, gli interventi del filologo si limitano a poche decine: in gran parte
emendazioni di errori banali (eseguite con l’aiuto degli altri codici o per congettura) e solo pochissime
sostituzioni di lezioni singolari di A (in sé accettabili, ma giudicate deteriori) con le corrispondenti
lezioni di altri testimoni.
Bédier conclude in modo lapidario, dicendo che ha inteso offrire al lettore niente più che il testo di
un «buon manoscritto», corretto in pochi luoghi ben dichiarati; e riassume il suo operato e la sua
concezione della filologia con il motto dell’archeologo Adolphe Napoléon Didron: «conservare il più
possibile, riparare il meno possibile, non restaurare a nessun costo».
Non dobbiamo dimenticare di osservare che questo metodo nasce come reazione – non immune da
istanze nazionalistiche – alla filologia di scuola tedesca e alla crescente astrattezza delle sue procedure
ecdotiche, in nome tanto della concretezza storico-documentaria, quanto della chiarezza e semplicità
espositiva; e muove contestualmente dall’intento di evidenziare come nella prassi ecdotica
lachmanniana finisca per giocare un ruolo centrale proprio quel iudicium che il metodo si propone
teoricamente di negare o di limitare. Detto questo, il metodo di Bédier coglie senza dubbio precisi
limiti della critica testuale di stampo lachmanniano e possiede piena dignità scientifica, purché la sua
applicazione sia rigorosa. Esso prevede infatti:
57
Così condotta e strutturata, anche un’edizione bédieriana può definirsi «critica», giacché
l’osservanza dei requisiti 1. e 4. basta a configurarla come tale; del resto, la selezione del miglior
manoscritto deve o dovrebbe fondarsi su un’attenta esplorazione della tradizione.
La posizione di Bédier non rinnega l’utilità della recensio, pur ridimensionandone il ruolo e
differisce da quella dei filologi pre-lachmanniani che ponevano alla base delle loro edizioni un codex
optimus solitamente identificato con il manoscritto ritenuto più antico.
Quale dei due metodi è migliore? Una domanda di questo tipo è mal posta poiché sono come sempre
l’oggetto (l’opera e la sua tradizione) e la situazione a consigliare o imporre l’adozione di un metodo
piuttosto che di un altro. Inoltre, il ricorso al «buon manoscritto» è in certi casi fortemente consigliato
o, addirittura, obbligato. Ciò può accadere:
• quando la recensio non conduca a esiti plausibili, cioè non consenta una soddisfacente
razionalizzazione dei dati della tradizione.
Il ramo della tradizione è costruito su due errori comuni a questi testimoni (III, 52 e X, 22):
Ammettiamo pure che si tratti di errori congiuntivi (ossia non poligenetici), cosa a dire il vero
incerta almeno per il secondo, anche perché in presenza di pochi testimoni la concordanza in errore
(anche non banale) può essere frutto del caso [Montanari 2003, 313]. Senza dubbio, però,
difficilmente essi potranno considerarsi separativi, ossia tali che non potessero essere emendati per
congettura. Anche un copista moderatamente vigile, infatti, avrebbe potuto senza difficoltà
comprendere che a III, 52 è necessario fur (essendo quella, con tutta evidenza, una subordinata
temporale) e che a X, 22 bisogna correggere in s’accompagna, sia per il senso, sia perché quel verso
deve rimare, all’interno della catena delle terzine, con i vv. 20 (campagna) e 24 (Alagna). Non è
affatto improbabile, quindi, che tali errori si trovassero nell’archetipo o comunque in altri rami
della tradizione, e che siano stati corretti da altri copisti del poemetto boccacciano. Nelle
tradizioni dei testi in volgare un errore «evidente», in quanto tale, reca in sé «una spinta
all’emendazione» [Inglese 2021, 14].
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Dunque la possibilità e la facilità per i copisti di emendare gran parte degli errori dei loro antigrafi
erodono le basi stesse del metodo, perché l’attività congetturatrice dei copisti colti interrompe il
processo di degradazione su cui si fonda il principio del metodo di Lachmann e tale attività ci presenta
un testo che ha la parvenza di essere originario. Ciò spiega anche il basso numero degli errori
separativi che solitamente si trovano nei testi volgari.
Ne consegue che:
• non è opportuno riunire i testimoni in famiglie sulla base di errori singoli, a meno che non si
tratti di errori separativi certi o di lacune significative e non imputabili a poligenesi;
• nei testi di non ampie dimensioni è frequente che non si reperisca alcun errore significativo e
che dunque sia impossibile costituire uno stemma.
Uno dei difetti del metodo bédieriano è il paradosso di fondo che lo caratterizza: perché da un lato
l’opzione per un manoscritto-base dovrebbe indurre a una condotta iperconservativa, ma dall’altro la
riconosciuta possibilità o necessità di distaccarsene in presenza non solo di errori, ma anche di lezioni
insoddisfacenti, apre le porte al iudicium, che rischia di scivolare nell’arbitrio laddove non si ricorra
alla collazione di tutti i testimoni e non si proceda alla recensio. E il ricorso al iudicium era proprio
quanto Bédier criticava nel metodo di Lachmann e si proponeva di evitare.
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Altro problema non di poco conto è rappresentato dai criteri sulla base dei quali scegliere il
testimone su cui condurre l’edizione: il migliore, o anche solo un buon manoscritto, è solo quello che
un editore lachmanniano, quale per un pezzo fu il Bédier, è in grado d’indicare, perché una definizione
oggettiva del miglior manoscritto come di quello tanto resistente alla banalizzazione da offrire la
maggior percentuale di lezioni singolari da conservare presuppone l’elaborazione di un’edizione
lachmanniana, dove qui per lezioni singolari si intende ovviamente anche più difficili.
Inoltre, il rischio nell’applicare il metodo di Bédier è quello di scambiare il manoscritto migliore
per quello più corretto, che nelle tradizioni dei testi volgari, invece, è spesso il più sospetto e quello
che si dovrebbe evitare, vista la tendenza di molti copisti a intervenire sul testo per migliorarlo e per
emendarlo. Anche il manoscritto migliore, infatti, presenta inevitabilmente una quota di innovazioni
di copista non individuabili senza collatio e recensio: seguirlo fedelmente significa dunque
rassegnarsi a mettere a testo quelle innovazioni.
Paradossalmente sarebbe necessario scegliere quale «buon manoscritto» non il più corretto, ma,
viceversa, quello – anche se mendoso – il cui copista si rivela meno attivo: i copisti peggiori, infatti,
non sono quelli incolti o negligenti, ma quelli che hanno la tendenza a intervenire per ritoccarlo. Se
non si esegue la collazione totale non si può avere il quadro completo di erorri e varianti che ci
permetta di scegliere il manoscritto migliore.
Altro limite del metodo bédieriano da considerare: esso si fa forte del suo appello alla storicità,
pubblicando testi che vorrebbero in sostanza corrispondere a «forme» di una data opera realmente
documentate nella tradizione, anziché essere il prodotto di una ricostruzione eseguita combinando
lezioni attinte a testimoni molteplici. Si tratta però di una storicità apparente: quel testo è esistito in
un dato momento della storia, ma ciò non significa che fosse il testo originariamente scritto e
realmente voluto dall’autore. È certo un documento storico, ma non è un documento dell’intenzione
dell’autore, bensì di quella di un copista, oltre che della cultura di un’ambiente e di un’epoca.
Per questo Contini, con uno dei suoi fulminanti aforismi, ebbe a dire che «il ricostruito è più vero del
documento».
Conclusione
Un punto di equilibrio fra i due metodi fu già avviato brillantemente da due grandi filologi Giorgio
Pasquali e Michele Barbi, con i loro capitali volumi Storia della tradizione e critica del testo (1934)
e La nuova filologia e l’edizione dei nostri scrittori da Dante a Manzoni (1938). Entrambi avanzarono
critiche alla proposta bédieriana e rivolsero i loro sforzi alla ridefinizione e al raffinamento del metodo
di Lachmann, secondo alcune linee principali che possono così sintetizzarsi:
• consapevolezza dei limiti del metodo e della necessità di modularlo in base ai problemi posti da
ciascun testo;
• insistenza sulla specificità di ciascun testo e quindi di ciascun problema ecdotico;
• conseguente rifiuto di procedimenti puramente meccanici nella ricostruzione dei testi e pieno
riconoscimento della centralità di criteri quali la lectio difficilior e l’usus scribendi;
• importanza speciale riconosciuta alla storia della tradizione, all’interno della quale i testimoni
non sono meri portatori di lezioni e semplici elementi di uno stemma, ma vivi documenti storici
e culturali, il cui valore dipende anche dalla loro storia e dalla loro natura di manufatti. Ciò ha
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portato inséguito alla piena valorizzazione di elementi quali la personalità e la cultura del copista,
la sua progettualità nella scelta e nella disposizione dei testi, l’ambiente e l’epoca in cui il
manoscritto fu allestito, la presenza di postille e note di possesso, le caratteristiche materiali, la
decorazione;
• rivalutazione dei manoscritti meno antichi, i cosiddetti recentiores, che, diversamente da quanto
riteneva Lachmann, non necessariamente e non sempre, soprattutto per testi volgari e moderni
caratterizzati da tradizioni concentrate in un ristretto arco temporale, devono considerarsi
deteriores, sia perché possono discendere da un codice antico (magari perduto) in linea diretta, e
aver dunque subito un deterioramento testuale minore rispetto ad altri testimoni meno recenti,
sia perché possono essere portatori di lezioni buone, congetturali o attinte per contaminazione da
altri rami della tradizione;
• attenzione speciale alla storia redazionale dei testi, e conseguente ricerca di possibili varianti
d’autore anche in tradizioni in cui l’autografo non sia conservato;
• necessità di impiegare nell’operazione editoriale anche competenze linguistiche e storico-
esegetiche, ovvero dando ampio spazio alla fase dell’analisi e comprensione profonda del testo.
Regola aurea
Come per le discipline scientifiche, a guidarci deve essere sempre il principio di economia, partendo
dal presupposto che ogni scelta ecdotica (conservare, scegliere tra varianti, emendare) è un’ipotesi e
come tale non è esente da rischi; dunque nella scelta si tratterà sempre caso per caso di valutare quale
sia il prezzo dell’inervento che andiamo ad effettuare. E varrà sempre l’assunto che, tra più ipotesi
che si formulano, ha maggiore probabilità di risultare vera (cioè di avvicinarsi all’originale) quella
che riesce a spiegare la situazione della tradizione e restituire senso al testo nel modo più semplice
(rasoio di Ockham).
L’edizione critica di un testo letterario contiene sempre due elementi fondamentali che la
caratterizzano: l’apparato critico e la nota al testo.
APPARATO CRITICO
È quella sezione in cui il filologo, adottando una formula sintetica ma univoca e decifrabile, dà
conto di quali sono stati i suoi interventi rispetto alla situazione trasmessa dalla tradizione per fissare
il testo più vicino a quello originale. Nell’apparato critico vengono raccolti i dati che sono emersi
dalla collazione, per cui valgono le stesse osservazioni fatte in proposito (vedi paragrafo dedicato)
relativamente a ciò che si deve registrare e ciò che si può omettere.
L’apparato si trova di norma al piede del testo e corre lungo tutta la sua estensione oppure, più
raramente, è collocato alla fine dell’opera. La formula sintetica prevede che ad ogni testimone sia
assegnata una sigla abbreviativa già nella fase della recensio e che vengano adottate abbreviazioni
convenzionali per indicare gli interventi del filologo.
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L’apparato critico può essere costruito in due modi e per questo si definisce positivo o negativo.
L’APPARATO CRITICO POSITIVO è più analitico e completo: per ogni luogo testuale interessato
da errori o varianti, il filologo riporta accanto alla lezione posta a testo tutti i testimoni che la
condividono e poi, adottando un segno grafico di separazione (di solito una parentesi quadra chiusa),
elenca tutti gli errori o le varianti riportate dai relativi testimoni.
L’APPARATO CRITICO NEGATIVO è più sintetico e preferibile per le edizioni di testi con una
tradizione molto numerosa e complessa, dal momento che, a fronte della lezione posta a testo, si
registrano solo i testimoni che presentano errori e varianti, preceduti da un segno grafico di
separazione.
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BOCCACCIO, Caccia di Diana, edizione a cura di I. Iocca, Roma, 2016.
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NOTA AL TESTO
È la sezione dell’edizione critica in cui il filologo, in modo dettagliato e discorsivo, illustra
tutte le fasi del protocollo di lavoro, per cui in essa troverà spazio:
1. la descrizione dei testimoni reperiti durante la recensio;
2. il resoconto della collazione, di norma affidato a tavole riassuntive che guidino il lettore
attraverso la ricostruzione dei vari rapporti tra i testimoni, così come sono emersi dalla fase
di collazione;
3. lo stemma codicum, qualora la ricostruzione dei rapporti tra i testimoni abbia permesso di
tracciarne uno;
4. i criteri editoriali, ovvero quelle linee guida a cui il filologo si è attenuto per restituire la veste
fonetica e, più in generale, l’assetto linguistico del testo, qualora si tratti di un’edizione critica
basata su più di un testimone.
Se la filologia della copia mira a ricostruire il testo originale sulla base delle copie non autografe a
noi pervenute, la filologia dell’originale (o d’autore) segue l’elaborazione e lo sviluppo del testo ad
opera dell’autore a partire dalla prima stesura o redazione documentabile fino alla sua forma ultima
e – quando ci sia stata – definitiva.
Nel primo caso non possediamo l’originale, e si aspira – muovendo dalle copie – a ricostruirlo; nel
secondo, abbiamo uno o più originali, e l’obiettivo si sposta dunque dalla ricostruzione del testo allo
studio e all’edizione dei diversi momenti nei quali si è svolto e concretizzato il processo di scrittura
e riscrittura.
Condizione primaria per poter esercitare una simile filologia è ovviamente la disponibilità di
materiali d’autore, ossia di autografi, idiografi e stampe curate o licenziate dall’autore stesso: ne
consegue che il numero dei testi sui quali praticare la filologia d’autore cresce col passare dei secoli,
giacché quanto più uno scrittore è vicino a noi nel tempo, tanto maggiore è in genere la quantità dei
suoi materiali autografi conservati.
Lo scopo della filologia d’autore è duplice:
• uno scopo documentario: render conto della rielaborazione cui l’autore ha sottoposto il suo
testo, distinguendo i vari tipi di interventi e la loro successione nel tempo, e ricostruendo, ove
possibile, il susseguirsi delle diverse stesure o redazioni (potremmo parlare, al riguardo, di
«filologia genetica»);
• uno scopo critico: indagare come lavorava quel determinato autore, portando alla luce i criteri
in base ai quali ha rielaborato il testo (è la cosiddetta «critica delle varianti»).
All’atto pratico, i due momenti non possono spesso essere distinti, perché la rappresentazione del
processo elaborativo (apparato) e la stessa presentazione dei materiali richiedono una preliminare
ricostruzione e interpretazione della strategia correttoria dell’autore e del progetto che la guida.
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Spesso la conoscenza della genesi di un testo apporta elementi utili alla sua interpretazione perché
la trafila correttoria può far emergere dati utili a chiarire il progetto sotteso al testo.
Vediamo un caso in cui le correzioni d’autore sono determinate dall’intento di aderire più da
vicino a una fonte, in modo che il lettore consapevole, individuandola, ne ricavi elementi utili a
meglio comprendere le filigrane letterarie e le dinamiche simboliche del testo. Così si leggono i vv.
19-22 di A Silvia nel testo definitivo cioè quello desumibile dall’ed. Starita dei Canti, del 1835, con
le estreme correzioni a mano di Leopardi e dell’amico Antonio Ranieri:
Negli autografi napoletani conservati presso la Biblioteca nazionale, è testimoniata una prima
stesura che recava percotea. Come informano i moderni commenti, percotea è qui un latinismo
tecnico della tessitura, che Leopardi ricava probabilmente da una satira di Giovenale e che vale
‘ordiva’; la sua soppressione fu dettata certo dall’intento di evitare un duro e raro latinismo, ma al
tempo stesso la sua sostituzione con percorrea rende più trasparente la filigrana virgiliana del passo
e dunque la sovrapposizione di Silvia alla maga, con le connesse variazioni significative (le tele nella
fonte sono tenuis, ‘leggere’, mentre la tela di Silvia è faticosa, a creare così un parallelismo con le
«sudate carte» del poeta, che si specchia nella fanciulla).
La citazione – perché di questo si tratta – funge poi da conferma delle risonanze depositate in altre
parti della canzone dai versi immediatamente precedenti del poema virgiliano (12: «adsiduo resonat
cantu» > A Silvia, 7-9: «Sonavan le quiete / stanze, e le vie dintorno, / al tuo perpetuo canto»; 13:
«odoratam […] cedrum» > 13: «il maggio odoroso»).
66
***
È utile rammentare, infine, la nota “legge” che formulò Scevola Mariotti in merito alle varianti
d’autore in testimoni non autografi:
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«quando due varianti entrambe soddisfacenti e adatte al contesto sono più vicine fra loro per la forma
o la grafia che per il senso, esse non debbono in generale essere ritenute varianti d’autore, anche se
non risultano immediatamente chiare le ragioni paleografiche o psicologiche del passaggio dall’una
all’altra; cosicché solo per un caso eccezionalissimo una lezione introdotta dall’autore al posto di
un’altra di senso diverso le somiglierà fortemente per la forma o la scrittura [Mariotti 1950, 540]».
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Inglese 2023 = G. Inglese, Come si legge un’edizione critica. Elementi di filologia italiana. terza edizione, Roma,
Carocci (19991).
La novella 1990 = La novella del grasso legnaiuolo, a cura di P. Procaccioli, presentazione di G. Manganelli,
Parma, Fondazione Pietro Bembo-Guanda.
Machiavelli 1994 = Niccolò Machiavelli, De principatibus, testo critico a cura di G. Inglese, Roma, Istituto storico
Italiano per il Medio Evo.
Machiavelli 2001 = Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, a cura di F. Bausi, Roma,
Salerno.
Machiavelli 2022 = N. Machiavelli, Lettere, direzione e coordinamento di F. Bausi, Roma, Salerno.
Marichal 1961 = Robert Marichal, La critique des textes, in Ch. Samaran, L’histoire et ses méthodes, Paris,
Gallimard, p. 1247–1365.
Mariotti 1950 = S. Mariotti, Ancora di varianti d’autore, in Id., Scritti di filologia classica, Roma, Salerno Editrice,
2000, pp. 540-43.
Montale 1939 = E. Montale, Le occasioni, Torino, Einaudi.
Montale 1980 = E. Montale, L’opera in versi, edizione critica a cura di R. Bettarini e G. Contini, Torino, Einaudi.
Montanari 2003 = E. Montanari, La critica del testo secondo Paul Maas. Testo e commento, Firenze, SISMEL
Edizioni del Galluzzo.
Montanari 2010 = E. Montanari, Teoria della copia e fenomenologia della copia nella teoria generale della critica
del testo, in Fenomenologia della copia. Convegno di studi (Firenze, Facoltà di Lettere e Filosofia 3-5 giugno 2009),
in «Medioevo e Rinascimento», XXIV / n.s. XXI, pp. 395-423.
Niccolò da Correggio1969 = Niccolò da Correggio, Opere, a cura di A. Tissoni Benvenuti, Bari, Laterza.
Passeri 2020 = C. Passeri, L’ “Altro Marte” di Lorenzo Spirito Gualtieri. Indagine sulla tradizione e proposta di
edizione. Tesi di dottorato, Università per Stranieri di Perugia. Dottorato di Ricerca in Scienze letterarie, librarie,
linguistiche e della comunicazione internazionale. Indirizzo in Scienze linguistiche e filologiche, XXXII ciclo, tutor
prof. D. Piccini.
Pucci 1955-1956 = Antonio Pucci, Libro di varie storie, edizione critica a cura di A. Vàrvaro, in «Atti della
Accademia di Scienze Lettere e Arti di Palermo», s. IV, XVI Parte II: Lettere (volume monografico).
San Bernardino 1989 = San Bernardino da Siena, Prediche volgari sul Campo di Siena, a cura di C. Delcorno,
Rusconi, Milano.
Stoppelli 2019 = P. Stoppelli, Filologia della letteratura italiana. Nuova edizione, Roma, Carocci.
Strologo 2014 = F. Strologo, ‘La Spagna’ nella letteratura cavalleresca italiana, Roma-Padova, Antenore.
Stussi 2015 = A. Stussi, Introduzione agli studi di filologia italiana, Bologna, Il Mulino (19941).
Vàrvaro 1998 = A. Vàrvaro, Problemi attuali della critica del testo in Filologia romanza, in Filologia classica e
filologia romanza: esperienze ecdotiche a confronto. Atti del Convegno, Roma 25-27 maggio 1995, a cura di A.
Ferrari, Spoleto, Centro italiano di studi sull'alto Medioevo, pp. 11-26.
Vàrvaro 2001 = A. Vàrvaro, Il testo letterario, in Lo spazio del medioevo, 2. Il Medioevo volgare, dir. P. Boitani,
A. Vàrvaro, M. Mancini, I. La produzione del testo, t. I, Roma, Salerno Editrice pp. 387-422.
Vàrvaro 2010 = A. Vàrvaro, Considerazioni sulla contaminazione, sulle varianti adiafore e sullo “stemma
codicum”, in Storia della lingua italiana e filologia. Atti del VII Convegno ASLI (Pisa-Firenze, 18-20 dicembre
2008), a cura di C. Ciociola, Firenze, Cesati, pp. 191-95.
Zaccarello 2012 = M. Zaccarello, Per una definizione operativa del concetto di ‘vulgata’ nella prassi ecdotica, in
Id., Alcune questioni di metodo nella critica dei testi volgari, Verona, Fiorini (20061).
Zaccarello 2017 = M. Zaccarello, L’edizione critica del testo letterario. Primo corso di filologia italiana, Firenze,
Le Monnier università-Mondadori education.
Sitografia citata
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FANTA-COMMEDIA
Si propone un esempio fittizio, creato usando il testo di Inferno, III 1-9. I testimoni in oggetto sono cinque, A, B, C, D, E con le seguenti caratteristiche:
Sulla base del foglio di collazione riportato sotto, provate a stabilire graficamente le relazioni tra i testimoni, tracciando uno stemma.
«Per me si va ne la città dolente, «Per me si va ne la città dolente, «Per me si va ne la città dolente, «Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne l’etterno dolore, per me si va ne l’etterno dolore, per me si va ne l’etterno dolore, per me si va ne l’etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente. per me si va tra la perduta gente. per me si va tra la perduta gente. per me si va tra la perduta gente.
----- Giustizia mosse il mio alto fattore; Giustizia mosse il mio alto fattore; Giustizia mosse il mio alto fattore;
fecemi la divina podestate, fecemi la divina podestate, fecemi la divina podestate, fecemi la divina podestate,
la somma sapïenza e ’l primo amore. la somma sapïenza e ’l primo amore. la somma sapïenza e ’l primo amore. la somma sapïenza e ’l primo amore.
Dinanzi a me non fuor cose create Dinanzi a me non fuor cose create Dinanzi a me [...] fuor cose create Dinanzi a me non han cose create
se non etterne, e io etterno duro. se non etterne, e io etterno duro. se non etterne, e io etterno duro. se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate». ---------- ---------- Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate».
SESSIONI DI PRATICA FILOLOGICA
«E avegna che detto sia essere diece cieli, secondo la stretta veritade questo numero non li comprende
tutti; ché questo di cui è fatta menzione, cioè l’epiciclo nel quale è fissa la stella, è uno cielo per sé,
o vero spera […]».
«[Parla Pampinea] “Ma per ciò che le cose che sono senza modo non possono lungamente durare, io,
che cominciatrice fui de’ ragionamenti da’ quali questa così bella compagnia è stata fatta, pensando
al continuar della nostra letizia, estimo che di necessità sia convenire esser tra noi alcuno principale,
il qule noi e onoriamo e ubidiamo come maggiore, nel quale ogni pensiero stea di doverci a lietamente
vivere disporre. E acciò che ciascun pruovi il peso della sollecitudine insieme col piacere della
maggioranza […], dico che a ciascuno per un giorno s’attribuisca e il peso e l’onore […]”. Queste
parole sommamente piacquero, e a una voce lei per reina del primo giorno elessero».
ad orza] a danza R6
Tradizione
Lr = Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Redi 121
FN5 = Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, II.IV.126
Cors = Roma, Biblioteca dell’Accademia nazionale dei Lincei e Corsiniana, Corsiniano (= 43 D 3)
R6 = Firenze, Biblioteca Riccardiana, 1114
« Passato due dì, Bonacorso fecie metere in punto Michielle Petruzzi per mandarlo a Siena per gli
danarii. Messer Giovanni disse: «Buona persona mi pare Michiele, ma questo porta molto, ché i
danari non si vogliono fidare ad ogni uomo».
«Ella va pur così, ché chi ha fatto le mane a uncini e vuole vivere di ratto, ognora pensa come possa
arraffare; e colui che viverà puramente, non si guarda, ma vive alla sicura».
arraffare ed. Marucci ] arraffiare ms. arrafficare canc. e corretto a marg. arraffiare ed. Puccini
2008
Si tenga presente che nella novella IV 19 si legge: «Il terzo mi domandaste quello che si faceva in
inferno. In inferno si taglia, squarta, arraffia e impicca, né più né meno come fate qui voi», a cui si
aggiunga Dante, Inf. XXI 52: «”Però, se tu non vuo’ di nostri graffi, / non far sopra la pegola
soverchio”. / Poi l’addentar con più di cento raffi».
«“saprestemi voi dire quello che è di Filippo Baroni?”. Dicono che n'è bene, però che l’aveano
preso e scampato. Quelli dice: “Lodato sia Dio sempre, che io averei giurato che gli avessono
segate le veni”».
preso e scampato ms ed. Marucci ] preso e <è> scampato [ed. Puccini 2008]
III
In presenza di una recensio aperta, non potendo optare per una ricostruzione
meccanica o probabilistica, spiegare quale delle due lezioni è preferibile
scegliere.
Tradizione
Fa = Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Magliabechiano XXI 152
Fb = Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Magliabechiano XXI 171
F3= Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Palatino 455 immagini
<https://archive.org/details/palatino-455-images >
L1 = Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Palatino 112
L2 = Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Gaddi 84
A = Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Ashburnham 494
R = Roma, Biblioteca Nazionale Centrale, Vittorio Emanuele 738 immagini
<http://digitale.bnc.roma.sbn.it/tecadigitale/manoscrittoantico/BNCR_V_E_738/BNCR_V_E_738/1 >
5. LEON BATTISTA ALBERTI (1404-1472), Profugiorum ab erumna libri [ed. Grayson, 1974], libro II:
«E se così è che non pochissimo in noi possino e cieli, fia nostra opera fare come chi giuoca: se gli
avviene buono, vinca; se forse caddero sinistri partiti, mòderigli con qual vi si adatti ragion migliore.
E certo conviensi, secondo quell’ottimo proverbio antiquo, vivere oggi come si vive oggi».
vivere oggi come si vive oggi cett ed. Grayson ] vivere oggi come si conviene oggi R
Giuno, la quale dissero dea] aquino lo quale dissero dea ; Giove lo quale dissero deo (dio) Pn
R2 R3 Vb Ash L edizione Simonelli 1966
MB V CM
golfo: cfr. TLIO, s.v. ‘sazio’, attestato già in Antonio Pucci, Centiloquio (1388).
Tradizione
CM = copia ottocentesca desunta dal perduto autografo BNCF, Carte Machiavelli, VI 85, 5
V = BAV, Vaticano Latino 5225
MB = BNCF, Magliabechiano VII 727
La canzone sulla Fortuna di BONACCORSO PITTI, Più e più volte e tutte con gran torto è contenuta
nei seguenti tre manoscritti:
L = Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Pluteo 41, 34
FN = Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, II II 40
R = Firenze, Biblioteca Riccardiana, 1114
L FN R
27-29 om. e ccredo che cchi vuol ben giudicare,
quando dalla Fortuna egli è percosso,
dirà da llui sie mosso
il non tener la più sicura via,
quantunque ch’alle volte par che ssia
condotto l’uom per forza di destino
in parte che llo fa tristo e dolente.
***
L FN R
26 il non tener la più sicura vita il non tener la più sicura via
***