Durante i travagliati anni del Risorgimento, dalla penisola italiana furo-
Luis Miguel Selvelli Antenati a Costantinopoli
no in molti a volgere lo sguardo verso Oriente, verso una Costantinopoli
in fermento nella quale era stato avviato uno straordinario processo di rin-
novamento politico e culturale. Due società, quella italiana e quella otto-
mana e multietnica di Istanbul, legate da una eccezionale rete di affinità,
cospirazioni, scambi di idee e speranze riformiste e rivoluzionarie, all’om-
bra delle trame ordite da Inghilterra, Francia e Russia per portare avanti Luis Miguel Selvelli
i loro progetti di espansione e dominio dei nuovi mercati capitalistici in-
ternazionali: questo il meraviglioso affresco storico che ci viene restituito
dall’autore, sulla base di una pluriennale ricerca bibliografica e di archivio Antenati a Costantinopoli
in molteplici lingue e paesi.
Il volume ripercorre le vite e le avventure di alcuni esuli italiani che giun- Esuli italiani negli anni
sero nella capitale ottomana, finendo per essere coinvolti nei rivolgimenti
in corso. Attraverso le loro storie, tassello dopo tassello, si rivela un mondo del riformismo ottomano 1828-1878
sconosciuto e imprevedibile, che sembra riemergere all’improvviso dalle
tenebre in cui è stato tenuto da decenni di stereotipi e pregiudizi sul mondo
politico e culturale di quel grande impero dalle cui ceneri è sorta la Turchia
moderna: migranti in fuga e progetti di modernizzazione urbana, le insur-
rezioni del 1848 e la Comune di Parigi, l’inaugurazione del canale di Suez,
i quadri pornografici di Courbet, la deriva turcofoba di Garibaldi, l’inizia-
zione alla massoneria del futuro sultano ottomano Murat...
Antenati a Costantinopoli riesce così nell’impresa di fornire una rappresen-
tazione vivace e allo stesso tempo rigorosa dei rapporti tra Risorgimento
italiano e riformismo ottomano, rendendo evidente quanto quegli eventi
storici ci siano in realtà ancora estremamente vicini, anche perché, come
affermato da Walter Benjamin dall’esilio parigino, «il XIX secolo è il sogno
da cui bisogna risvegliarsi: un incubo che peserà sul presente finché il suo
incantesimo non sarà spezzato».
Luis Miguel Selvelli lavora come traduttore letterario (da inglese, turco e spa-
gnolo) per numerose case editrici italiane, tra cui il Saggiatore, Rizzoli, Passigli
e Neri Pozza. Dal 2007 si è trasferito a vivere a Istanbul sulle tracce dei suoi an-
tenati italiani e levantini che vissero nella grande città tra il 1850 e il 1950, spinto
in particolare dal desiderio di saperne di più riguardo al trisnonno Italo Selvelli,
compositore nel 1909 dell’ultimo “inno nazionale” dell’impero ottomano.
ISBN 978-88-9387-189-1
28,00
in copertina
Istanbul, vista da Karaköy verso Skalakia,
ilpoligrafo
e
oggi nota come Yüksek Kaldırım, 1870 ca
(dalla collezione di Ömer M. Koç)
m n e m osi n e
25
Luis Miguel Selvelli
antenati
a costantinopoli
Esuli italiani negli anni
del riformismo ottomano (1828-1878)
ilpoligrafo
progetto grafico e redazione
Il Poligrafo casa editrice
redazione Alessandro Lise
Copyright © marzo 2022
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35121 Padova
via Cassan, 34 (piazza Eremitani)
tel. 049 8360887 – fax 049 8360864
e-mail
[email protected]ISBN 978-88-9387-189-1
INDICE
9 1. Requiem per i Giannizzeri.
Donizetti Pascià e l’inizio di un’epoca
35 2. La nave dei folli.
Garibaldi e i sansimoniani
53 3. Nuovo ordine ottomano.
I Fossati architetti a Istanbul
63 4. Il banchiere della rivoluzione.
Adriano Lemmi massone a Istanbul
85 5. La meglio gioventù.
Anacleto Cricca e Luigi Storari esuli a Smirne
97 6. «Mentre sull’alba aprivasi».
Callisto Guatelli musicista di corte
117 7. L’origine del mondo.
Giampietri e la nascita del quarto potere
133 8. Figli delle stelle.
La famiglia Vallauri e i Nuovi Ottomani
153 9. L’armonia delle sfere.
Pietro Montani e l’arte del buon governo
169 10. L’Unione d’Oriente.
Emanuele Veneziani e il “Grande Gioco”
191 11. Colpo di stato.
Luigi Capoleone e l’anno dei tre sultani
213 12. La notte della ragione.
Antonio Geraci e il compromesso storico
Ai miei genitori, “migliori fabbri”
Ad Angelo Teresi (Istanbul 1923-2021),
che mi aprì la porta...
ANTENATI A COSTANTINOPOLI
Destare i morti e ricomporre l’infranto.
Walter Benjamin
E al dio degli inglesi non credere mai.
Fabrizio De André
1. requiem per i giannizzeri.
donizetti Pascià e l’inizio di un’epoca
No British Cabinet at any period
of history ever made so great a
mistake in regard to foreign affairs.
Lord Henry Palmerston,
statista britannico (1784-1865)
1. Giuseppe Donizetti nacque nel 1788 a Bergamo1, primogenito
di una coppia di umili condizioni economiche che nel 1797 fu poi al-
lietata anche dalla nascita di Gaetano, colui che crescendo ebbe in sorte
il ruolo di rendere immortale la memoria della famiglia. È legittimo
affermare che sia stato il fratello maggiore Giuseppe ad aprire la strada
a Gaetano, grazie alla perseveranza dimostrata nel desiderio di coltiva-
re il proprio talento musicale, scoperto grazie all’interessamento di un
parente acquisito. Nel 1806, infatti, Giuseppe scelse di abbandonare
il mestiere di sarto praticato durante l’adolescenza per seguire la propria
passione e arruolarsi nell’esercito napoleonico con l’incarico di flautista
nella banda del 7° corpo di fanteria. Da quel momento Giuseppe si trovò
così a vagare tra penisola iberica e regione austriaca, seguendo le alterne
fortune dell’epopea napoleonica fino al 1814, quando l’ormai decaduto
imperatore francese fu costretto all’esilio presso l’isola d’Elba. Dopo un
breve ritorno a casa, ancora sotto l’effetto dell’incanto napoleonico Giu-
seppe chiese d’essere ammesso, sempre come flautista, nel battaglio-
ne personale dell’imperatore costituitosi sull’isola. Per questa ragione
si recò a Portoferraio, dove il 12 febbraio 1815 trovò anche il modo
di convolare a nozze con Angela Tondi, una ragazza del posto che fu
al suo fianco fino alla fine dei suoi giorni.
Dopo un’ultima breve avventura militare iniziata solo quindi-
ci giorni dopo il matrimonio, allo scopo di accompagnare Napoleone
nella prima fase della campagna che porterà poi alla fatale sconfitta di
Waterloo, Giuseppe decise di tornare in Italia dalla moglie e cercare
1 Per quanto concerne la biografia di Giuseppe Donizetti, si è fatto ampio riferi-
mento al fondamentale lavoro di Emre Aracı, Donizetti Paşa: Osmanlı sarayının Italyan
maestrosu (Donizetti Pascià: il maestro italiano della corte ottomana), Istanbul, Yapı Kredi
Yayınları, 2006.
9
capitolo primo
una nuova forma di sostentamento più consona alla nuova fase del-
la sua vita, nonché al nuovo quadro geopolitico definito dal Congresso
di Vienna. Alla fine del 1815 Giuseppe Donizetti trovò quindi impiego
come direttore della banda militare presso il reggimento provinciale
di Casale (TO), passando al servizio del re di Sardegna. A parte una bre-
ve interruzione nel corso del 1821, in virtù dei primi sommovimenti
risorgimentali contro gli austriaci, Giuseppe, assieme alla moglie e
all’unico figlio Andrea, nato nel 1818, rimase stanziale nel casalese fino
all’arrivo da Istanbul di un’imprevista offerta di lavoro nell’estate del
1827, cui fece seguito la formale assegnazione di Giuseppe Donizetti
all’incarico di “Istruttore generale delle musiche imperiali ottomane”
in data 7 novembre 1827.
Per capire però come e perché sia stato possibile giungere alla for-
mulazione di un invito tanto insolito da parte delle autorità d’Istanbul
si rende necessario effettuare una sommaria ricognizione del panora-
ma politico ottomano in quegli anni cruciali.
2. Il sultano Mahmut II (1785-1839) salì al potere nel 1808, al ter-
mine di un tragico biennio che aveva portato alla morte violenta dei
suoi due predecessori, il cugino Selim III (in carica tra 1789 e 1807)
e il fratello maggiore Mustafa IV (in carica per soli quattordici mesi).
Il biennio era stato segnato da una serie di drammatici conflitti interni
all’amministrazione statale, a causa della forte opposizione dimostra-
ta da blocchi di potere come i giannizzeri (corpi speciali dell’esercito),
gli ayan (notabili della burocrazia provinciale) e gli ulema (élite dei te-
ologi musulmani) a qualunque forma di rinnovamento istituzionale
e riformismo politico2.
L’impero ottomano aveva cominciato a dare segni di debolezza sul
piano tecnico-militare sin dall’inizio del XVIII secolo, ma fu la disastro-
sa sconfitta contro la Russia nella guerra del 1768-1774 – sancita dal
trattato di Kuchuk Kainarji, che obbligò il sultano a ingenti risarcimenti
di guerra e garantì alla Russia l’acquisizione della Crimea e altri privi-
legi di rilievo nel Mar Nero – a far squillare chiaro e forte il campanello
d’allarme per gli ottomani. Come detto, però, le buone intenzioni rifor-
matrici del sultano Selim III si scontrarono con l’opposizione di coloro
che avevano trovato nello status quo l’ambiente adeguato all’accumula-
2 Per questo tema, si veda Ariel Salzmann, Tocqueville in the Ottoman Empire: Rival
Paths to the Modern State, Leiden-Boston, Brill, 2004, in part. pp. 168-187.
10
requiem per i giannizzeri
zione di vantaggi e profitti personali3. Quando Mahmut II salì infine
al trono nel 1808, dopo aver letteralmente temuto per la vita durante
le ultime drammatiche tribolazioni di palazzo, gli apparve chiaro che
per mantenere in vita sé stesso e l’impero sarebbe stato necessario libe-
rare l’amministrazione dell’impero ottomano da questi blocchi di pote-
re incancrenito.
Per quanto concerne gli ayan, notabili di provincia divenuti po-
tenti grazie alla delega ricevuta per la riscossione delle tasse a partire
dall’inizio del XVIII secolo, erano già usciti fortemente indeboliti dal ter-
ribile conflitto fratricida del biennio 1807-1808. Negli anni successivi,
grazie all’incisiva politica accentratrice di riforma fiscale portata avanti
dal nuovo sultano, il declino della loro influenza nei processi decisionali
risultò quindi ineluttabile.
I giannizzeri4 sono noti al pubblico per il ruolo svolto nei grandi
successi militari dell’impero ottomano sin dalle prime grandi vittorie
in Anatolia nord-occidentale e poi nei Balcani, a partire dalla seconda
metà del XIV secolo. Nel periodo successivo alla conquista d’Istanbul
del 1453 l’istituzione dei giannizzeri assunse una struttura ben definita,
accogliendo in particolare numerosi giovani provenienti dalla leva an-
nuale del cosiddetto devşirme. Questa pratica consisteva nella selezione
in area balcanica e anatolica degli adolescenti di origine cristiana più
forti e talentuosi allo scopo di condurli a Istanbul, dove venivano circon-
cisi, convertiti all’islam e avviati a una carriera statale consona al talento
dimostrato. Per rendere più chiara la portata “epocale” di questa pratica
– a livello tanto quantitativo che qualitativo – basti sapere che nei due
secoli intercorsi tra 1460 e 1660 si stima che almeno 200mila ragazzi
siano stati oggetto della fatidica leva, e che dei 47 gran vizir in carica
in questo stesso periodo solo 5 non siano giunti dal devşirme5.
La ragione con cui si giustificava questa pratica era il voler assicurare
la massima fedeltà dei soggetti da assegnare alle cariche più strategiche
dell’amministrazione statale (militare, burocratica, intellettuale), preve-
nendo allo stesso tempo il verificarsi di fenomeni di nepotismo e la crea-
zione di una casta “nobiliare” in grado di contrastare o limitare l’autorità
3 Karen Barkey, Empire of Difference: the Ottomans in Comparative Perspective,
Cambridge, Cambridge University Press, 2008, pp. 267-268.
4 Per il tema dei giannizzeri si veda, tra gli altri, Cemal Kafadar, Between Two Worlds:
the Construction of the Ottoman State, Berkeley (CA), University of California Press, 1995,
pp. 17-18. Si veda inoltre Godfrey Goodwin, The Janissaries, London, Saqi Books, 1997.
5 Barkey, Empire of Difference, cit., p. 124.
11
capitolo primo
assoluta del sultano. È interessante notare l’osservazione dello psicoana-
lista turco Seber Erol, secondo cui la pratica del devşirme col suo obiettivo
di creare soggetti fedeli all’autorità – in quanto privi di rivendicazioni e le-
gami col proprio passato storico e culturale – sia stata di fatto la dramma-
tica applicazione di un progetto d’ingegneria sociale ante litteram che, tra-
mite un fortissimo effetto di spaesamento, sradicamento e cancellazione
dell’identità, avrebbe causato dei profondi danni nell’inconscio collettivo
della popolazione, i cui effetti sarebbero visibili ancora oggi nei fenomeni
più veraci di nazionalismo della Turchia moderna6.
In ogni caso, tornando ai giannizzeri, la compresenza nelle fila
di questo corpo speciale dell’esercito ottomano tanto di turchi musul-
mani quanto di un ingente numero di “convertiti” provenienti dalla
leva del devşirme portò, a partire dalla fine del XV secolo, alla diffusio-
ne nei suoi ranghi di quella particolare forma sincretica di religiosità
nota come bektashismo, in riferimento al leggendario fondatore Hadji
Bektash7. Questo maestro spirituale, vissuto nella seconda metà del XIV
secolo nella zona di Kırşehir in Anatolia Centrale, sviluppò, a partire
da un generico riferimento ai principi religiosi dell’islam, un’originale
forma di religiosità che attingeva dalla cultura spirituale delle diverse
comunità presenti, all’epoca, nella composita geografia anatolica (greci,
armeni, diverse confraternite sufi legate alla tradizione sunnita o sciita
dell’islam ecc.). Il bektashismo riscosse da subito un grande succes-
so all’interno del corpo dei giannizzeri, rivelandosi in grado di fornire
ai membri un forte legame comunitario e spirituale, pur permetten-
do la necessaria libertà e flessibilità per quanto concerneva i costumi
e la morale (consumo di alcol, digiuno durante il Ramadan, obbligo
di preghiera ecc.), un fattore d’estrema importanza per una congrega
di soldati provenienti dalle più disparate origini sociali e culturali.
Le autorità ottomane erano al corrente del fortissimo legame dei
giannizzeri con il bektashismo, ma finché i giannizzeri svolsero un ruo-
lo insostituibile nella potenza d’assalto dell’impero ottomano nessuno
6 Serol Teber, ‘Tutunamayanlar’ ın politik psikolojisi (La psicologia politica dei
‘tutunamayanlar’), Istanbul, Okuyan Us, 2014, p. 77.
7 Per la questione del bektashismo e il suo rapporto col corpo dei giannizzeri,
si veda Ira Lapidus, Storia delle società islamiche, Torino, Einaudi, 2000, II, p. 71.
Cfr. inoltre i saggi raccolti in Bektachiyya. Études sur l’ordre mystique des Bektachis et les
groupes relevant de Hadji Bektach, a cura di Alexandre Popovic, Veinstein Gilles, Istanbul,
Les Éditions Isis, 1995, e in generale i fondamentali studi compiuti da Irene Melikoff,
ad esempio Au Banquet des Quarante. Explorations au coeur du Bektachisme-Alevisme,
Istanbul, The Isis Press, 2001.
12
requiem per i giannizzeri
ebbe mai niente da ridire, anche perché del resto il bektashismo era un
fenomeno religioso legalizzato e diffuso con le sue tekke su gran parte
del territorio ottomano, in particolare nell’originario territorio anatoli-
co, in Albania8, ma anche nella stessa Istanbul. Quando, però, a causa
del suo forte ritardo tecnologico e organizzativo l’esercito ottomano co-
minciò a subire sconfitte sempre più gravi contro la Russia, il corpo dei
giannizzeri fu tra i primi a essere messo sotto accusa, svolgendo per
certi versi il ruolo di capro espiatorio. Gli esponenti più bigotti degli
ulema e delle autorità ottomane in genere non si fecero infatti scappare
l’occasione per dare avvio a una feroce campagna diffamatoria contro
il bektashismo, colpevole secondo loro di aver trascinato nell’immorali-
tà chi avrebbe dovuto proteggere la sicurezza dell’impero9.
In realtà, la principale causa di degenerazione del corpo dei gian-
nizzeri fu l’interruzione Della pratica sistematica del devşirme a partire
dalla fine del XVII secolo, fatto che portò come previsto al dilagare del
nepotismo e alla creazione di una casta chiusa in grado di tramandare
i privilegi acquisiti di generazione in generazione.
Ad ogni modo il sultano Mahmut II, dopo quasi due decenni di at-
tesa, nel 1826 colse l’occasione di una nuova ondata di proteste dei gian-
nizzeri contro un piano di riforme in ambito militare per mettere in atto
una vera e propria “soluzione finale”. Prima si fece però assegnare una
legittimazione religiosa per il massacro da parte del sheyhülislam, una
nuova figura istituzionale che il sultano aveva introdotto per ricondur-
re sotto il controllo centrale dello stato la potente classe religiosa degli
ulema. Grazie a questo “certificato di moralità” fornito dal sheyhülislam,
l’eccidio di circa 15mila giannizzeri tramite bombardamento delle loro
caserme, messo in atto dai nuovi corpi militari recentemente istituiti,
poté passare agli atti ufficiali come Vaka-yi Hayriye, “l’evento benaugu-
rante”10. Poche settimane dopo, su probabile pressione degli ulema più
bigotti, il sultano Mahmut II emanò inoltre un decreto imperiale con
cui dichiarava illegale il bektashismo, ordinando l’immediata chiusura
8 Per quanto concerne la persistenza della cultura bektashi in Albania, si veda:
Robert Elsie, The Albanian Bektashi. History and Culture of a Dervish Order in Albania,
London, I.B. Tauris, 2019.
9 Per la legittimazione religiosa all’eliminazione dei giannizzeri e dell’ordine
bektashi, si veda Butrus Abu-Manneh, Studies on Islam and the Ottoman Empire in the 19th
Century (1826-1876), Istanbul, The Isis Press, 2001, in part. pp. 59-71.
10 Per il racconto di questo episodio, si veda anche il classico: Enrico De Leone,
L’impero ottomano nel primo periodo delle riforme (Tanzimat) secondo fonti italiane, Milano,
Giuffrè, 1967, pp. 48-50.
13
capitolo primo
di tutti i loro spazi di culto, la cui gestione fu ceduta all’ordine religioso
dei naqshbandi, di rigorosa fede sunnita11.
Alla fine del 1826 il sultano Mahmut II si trovò ad aver risolto
il problema degli ayan e quello dei giannizzeri, due dei tre ostacoli fonda-
mentali da lui incontrati sulla via delle riforme quand’era salito al trono
nel 1808. A questo punto rimaneva da affrontare solo la questione degli
ulema, la classe religiosa che costituiva di fatto l’infrastruttura legale, mo-
rale e pedagogica dell’impero ottomano. Il sultano sapeva che non sareb-
be mai stato possibile, né probabilmente era sua intenzione, attaccare
frontalmente un’istituzione così essenziale all’ordine sociale dell’impero.
Ma sapeva anche che l’intransigenza e l’influenza capillare del discorso
religioso a ogni livello della società avrebbe continuato a frenare ogni pro-
getto riformista e di modernizzazione dell’impero ottomano. Come detto
sopra, l’unico passo compiuto finora da Mahmut II era stata una riorga-
nizzazione dell’autorità religiosa in chiave centralista, istituendo una sor-
ta di ministro degli affari religiosi, il sheyhülislam, la cui nomina spettava
al sultano. Per il resto, in virtù del suo acume politico, Mahmut II aveva
sempre cercato di mantenere un ottimo rapporto con gli ulema, fornendo
loro un particolare motivo di soddisfazione con l’abolizione dell’ordine
dei bektashi. Ma come si capirà dalle pagine successive, il sultano si rivelò
pronto a compiere mosse estremamente azzardate, che col passare degli
anni giunsero a mettere in forte crisi l’autorità e la legittimità della classe
religiosa, dando avvio a una lunga fase di scontro tra “verità dello stato”
e “verità dell’islam” i cui effetti si sono fatti sentire almeno fino alla fon-
dazione della repubblica turca nel 1923, se non addirittura oltre.
3. Il sultano Mahmut II a un certo punto comprese che per poter
implementare un piano realmente efficace di riforme dell’apparato am-
ministrativo e militare dell’impero, era necessario accettare la superiorità
sviluppata negli ultimi secoli dai paesi occidentali in questo ambito, di-
mostrando con umiltà il desiderio di apprendere da loro. Per quanto ciò
possa sembrare logico e naturale a un osservatore esterno, questo nuovo
11 Si noti che la confraternita Naqshbandi (in particolare il ramo Khalidi) conti-
nua ancora oggi a esercitare un ruolo di rilievo nella politica turca e mediorientale: tanto
Recep Tayyip Erdogan e il suo mentore Necmettin Erbakan, quanto la potente famiglia
Barzani nel Kurdistan iracheno risultano infatti fortemente legati a questa organiz-
zazione religiosa. Si veda Svante Cornell, The Naqshbandi-Khalidi Order and Political
Islam in Turkey (2015), accessibile sul sito www.hudson.org. Inoltre, Itzchak Weismann,
The Naqshbandiyya: Orthodoxy and activism in a worldwide Sufi tradition. Abingdon-on-
Thames, Routledge, 2007. pp. 101-105.
14
requiem per i giannizzeri
approccio segnava invece un cambiamento epocale nella storia dell’im-
pero, i cui molteplici effetti costituiscono la principale materia di questo
nostro studio.
Fino a quel momento, infatti, il sultano ottomano aveva sempre
basato il suo potere e la sua legittimità sul principio del rispetto e sul-
la salvaguardia dei valori dell’islam. Secondo l’opinione corrente, tutti
i successi militari e i fasti politici e culturali dell’impero ottomano de-
rivavano dal fatto che il sultano fosse il garante dell’islam sulla terra:
non per niente a partire dal 1517, con la conquista da parte delle trup-
pe ottomane dell’Egitto e poi della penisola arabica fino alla Mecca,
il sultano ottomano aveva iniziato a essere riconosciuto anche come
“califfo” (termine che letteralmente significa “successore”, nell’acce-
zione di “successore di Maometto”) ovvero massima autorità religiosa
di tutti i musulmani del mondo. Dopo le ripetute sconfitte con la Rus-
sia già subite dai predecessori, a partire dal 1821 Mahmut II si trovò
ad affrontare personalmente il trauma dell’insurrezione greca che, gra-
zie al sostegno congiunto di Francia, Gran Bretagna e Russia, portò
all’indipendenza del paese nel 1832. Si trattò di un altro forte campanel-
lo d’allarme, che spinse il sultano a porre in discussione il dogma della
superiorità dell’islam, quanto meno a livello tecnico-scientifico.
Per convincere quindi il popolo dell’ineluttabile necessità di apri-
re un nuovo corso, rendendo l’impero più disponibile ad accogliere
le novità politiche e culturali in arrivo da Occidente, a partire dalla fine
del 1826 Mahmut II introdusse una serie di innovazioni che, a dispetto
dell’apparente superficialità, erano in realtà estremamente significati-
ve. Emanò infatti un decreto con cui si proibiva l’utilizzo di turbanti e
altri copricapi “orientali”, imponendo l’uso del più moderno fez; quin-
di egli stesso si accorciò la barba e adottò un abbigliamento composto
da giacca e pantaloni, abbandonando i tradizionali abiti indossati per
secoli dai suoi predecessori12. Per rendere evidente che la sua era una
precisa “dichiarazione di stile”, ordinò ad alcuni pittori occidentali di ri-
trarlo con le nuove fattezze e dispose che i quadri fossero appesi presso
i principali uffici pubblici13, infrangendo così il divieto di rappresen-
tazione degli esseri viventi in vigore nella cultura islamica. Questa
12 Necdet Sakaoğlu, Mahmut II, in Yaşamları ve yapıtlarıyla Osmanlı Ansiklopedisi,
2 voll., Istanbul, YKY, 1999, II, p. 60
13 Mustafa Cezar, Sanatta Batı’ya Açılış ve Osman Hamdi (L’apertura artisti-
ca all’Occidente e la figura di Osman Hamdi) (1971), Istanbul, Erol Kerim Aksoy Vakfı
Yayınları, 1995. pp. 95-99.
15
capitolo primo
proibizione, motivata da ragioni teologiche ma anche soprattutto dalla
necessità di evitare ogni forma di idolatria, risulta meravigliosamente
descritta in tutte le sue sfumature e contraddizioni da Orhan Pamuk ne
Il mio nome è rosso, dove a un certo punto uno dei miniaturisti afferma:
«Capisci che, alla fine, senza rendercene conto, cominceremmo ad ado-
rare qualsiasi dipinto appeso al muro?»14.
Sin dai primi anni di regno, del resto, Mahmut II aveva deciso
di non risiedere più presso lo storico palazzo di Topkapı, trasferendo
la sua residenza presso una mansione in legno a Çırağan, sulla costa
europea del Bosforo, tra Beşiktaş e Ortaköy. Qui, a partire dal 1835,
il sultano decise di far costruire al suo architetto di corte, l’armeno Ga-
rabed Balian, un nuovo palazzo neoclassico in linea con la sua sempre
più esplicita passione per l’arte e l’architettura occidentale15.
Nel contesto di queste innovazioni stilistiche poste in atto dal sulta-
no Mahmut II, risulta ora più comprensibile anche la scelta “musicale” da
lui compiuta. Con l’annientamento del corpo dei giannizzeri nel 1826 era
stata infatti eliminata anche la secolare istituzione nota come Mehterhane,
ovvero una sorta di banda militare che da sempre accompagnava le impre-
se guerriere dei giannizzeri e dell’esercito ottomano16. In sua sostituzione
il sultano decise che sarebbe stato necessario istituire una nuova forma-
zione secondo canoni più prossimi a quelli occidentali, e per questo affidò
inizialmente l’incarico a un francese di stanza a Istanbul di nome Man-
guel. Ma non essendo rimasto soddisfatto, nell’estate del 1827 il sultano
ordinò al serasker (ministro della guerra) Koca Hüsrev Pascià di chiedere
al marchese Vincenzo Gropallo17, ambasciatore a Istanbul del Regno di
Sardegna, il nome di un possibile candidato per questo nuovo e originale
incarico. Fu così che, nel giro di qualche settimana, a spuntare fu il nome
di Giuseppe Donizetti18.
14 Orhan Pamuk, Il mio nome è rosso, trad. it. di Marta Bertolini e Şemsa Gezgin,
Torino, Einaudi, 2001, p. 117.
15 Pars Tuğlacı, The Role of the Balian Family in Ottoman Architecture, Istanbul,
Yeni Çığır, 1990, p. 105.
16 Pars Tuğlacı, Mehterhane’den Bandoya (Dalla mehterhane alla banda militare).
Istanbul, Cem Yayınevi, 1986, p. 76.
17 Il marchese Gropallo aveva assunto questo incarico nel settembre 1825, divenen-
do il primo rappresentante diplomatico ufficiale del Regno di Sardegna presso il governo
ottomano. Si veda De Leone, L’impero ottomano, cit., pp. 32-33.
18 Si veda De Leone, L’impero ottomano, cit., pp. 51-59 per i nomi di altri italiani giunti
in quegli anni a Istanbul per occupare posizioni nell’ambito della riorganizzazione dell’e-
sercito e della burocrazia ottomana, in particolare l’interessante figura di Giovanni Timoteo
Calosso (1789-1860 circa), noto anche come Rüstem Bey, da non confondersi con un altro
16
requiem per i giannizzeri
4. Per gli intraprendenti coniugi Donizetti non devono essere stati
mesi facili quelli trascorsi tra l’investitura ufficiale nel novembre 1827
e l’arrivo a Istanbul nel settembre 1828, segnati come furono dalla deci-
sione di lasciare il figlio adolescente Andrea alle cure dello zio Gaetano,
e dalla pessima reazione di quest’ultimo alla decisione del fratello mag-
giore «accecato dall’idea degli 8000 franchi»19. Ma all’arrivo a Istanbul
la loro vita trovò in breve tempo un nuovo ordine, anche grazie alla
calorosa accoglienza riservata dal sultano, pur assillato in quei mesi da
numerose preoccupazioni e infauste notizie.
Il 20 ottobre 1827 s’era infatti verificato un evento senza prece-
denti: in virtù di una serie di coincidenze diplomatiche, ma soprattutto
a causa della romantica empatia cui s’era abbandonata l’opinione pub-
blica europea ian sostegno della causa greca, Francia, Gran Bretagna
e Russia avevano deciso di dimenticare temporaneamente le reciproche
rivalità per allearsi contro l’impero ottomano. Il risultato era stato un
devastante attacco alla flotta ottomana, che in occasione della cosiddet-
ta battaglia di Navarino fu praticamente annientata, aprendo la strada
al riconoscimento definitivo dell’indipendenza greca nel 1832. La Fran-
cia non ebbe ripensamenti anche perché, come vedremo in seguito, dai
tempi della campagna napoleonica in Egitto aveva messo gli occhi sui
possedimenti ottomani collocati lungo la costa meridionale del Medi-
terraneo. La Gran Bretagna, invece, comprese presto di aver commesso
un grave errore, perché indebolendo l’autorità ottomana nel bacino
orientale del Mediterraneo aveva finito per fare il gioco dei russi, po-
tenza che per tutto il XIX secolo costituì il principale rivale della corona
britannica nel contesto del cosiddetto “Grande Gioco”, la sfida per il
controllo degli sconfinati territori dell’Asia centrale e degli assi di comu-
nicazione terrestre e marittima tra Europa e India20.
La Russia dello zar Nicola I non esitò infatti ad approfittare della for-
tunata congiuntura e dell’ormai irrimediabile debolezza ottomana: pro-
vocando deliberatamente le forze ottomane, a partire dal 20 maggio 1828
riuscì a trascinare il sultano in un nuovo scontro diretto. Il conflitto ebbe,
italiano impiegato nella diplomazia ottomana col nome di Rüstem Bey, poi anche Pascià,
ovvero Francesco Mariani (1810-1895); cfr. infra nota 26 a p. 126 e nota 48 a p. 151.
19 Guido Zavadini, Gaetano Donizetti: vita, musiche, epistolario, Bergamo, Istituto
italiano d’arti grafiche, 1948, lettera 37. Citato in Aracı, Donizetti, cit., p. 43.
20 Com’è noto, il termine “Great Game” in riferimento alla rivalità tra Russia
e Gran Bretagna in Asia Centrale fu reso popolare nel 1901 da Rudyard Kypling con
il romanzo Kim. Per la sua trattazione più classica, si veda Peter Hopkirk, Il grande gioco.
I servizi segreti in Asia Centrale, trad. it. di Giorgio Petrini, Milano, Adelphi, 2004.
17
capitolo primo
com’era prevedibile, esiti catastrofici per l’impero ottomano, in quanto
i russi riuscirono a sfondare sia da est, conquistando i possedimenti otto-
mani nel Caucaso e avanzando in Anatolia fino a Kars ed Erzurum, sia da
nord-ovest, invadendo con facilità la Romania e la Bulgaria e giungendo
fino a Edirne (circa 200 chilometri a ovest d’Istanbul), dove il 14 settem-
bre 1829 fu siglato un accordo per porre fine alle ostilità.
In questa situazione così travagliata, Giuseppe Donizetti si rimboc-
cò le maniche e dopo aver appreso in tempi brevi il locale sistema di no-
tazione musicale, introdotto appena nel 1814 dall’armeno Hamparsum
Limonciyan21, già nel 1829 fu in grado di far suonare ai suoi allievi una
marcia da lui composta in onore del sultano. Una versione più elaborata
di questa stessa marcia, battezzata per l’occasione Mahmudiye, fu suo-
nata nel 1831 al cospetto del sultano dalla banda militare diretta da Do-
nizetti, facendo guadagnare al bergamasco il titolo ufficiale di bey, la pri-
ma delle tante onorificenze acquisite nel corso della nuova carriera22.
Nel giro di pochi anni la banda militare guidata da Donizetti iniziò
a eseguire pubblicamente anche le marce della tradizione musicale eu-
ropea, sia per intrattenere il sultano, sempre più appassionato di cose
occidentali, che per accogliere con brio le figure politiche o diplomatiche
dei paesi europei. Come riportato infatti da Hakan Karateke, «uno dei
primi esempi di ciò lo riscontriamo nel 1833, quando all’arrivo dell’am-
basciatore inglese Lord Ponsonby sul lungomare nei pressi del palazzo
di Dolmabahçe, la banda imperiale cominciò a suonare God save the
King»23. Non è certo una coincidenza il fatto che una della prime figure
istituzionali a meritare un simile trattamento sia stato l’ambasciatore
britannico. Come avremo modo di vedere nelle pagine seguenti, il rap-
porto di complicità tra le autorità ottomane e quelle britanniche ebbe
un ruolo fondamentale nell’apertura di quel vaso di Pandora che è stata
l’epoca del riformismo ottomano24.
21 Gülay Karamahmutoğlu, Hamparsum Limonciyan ve Nota(lama) Sistemi (Ham-
parsum Limonciyan e il sistema di notazione), «Müzik ve Bilim Dergisi / Journal of
Music and Science», 1, 2004.
22 Aracı, Donizetti, cit., p. 76.
23 Hakan Karateke, Padişahım çok yaşa! Osmanlı devletinin son yüz yılında merasim-
ler (Lunga vita al sultano! Cerimoniali nell’ultimo secolo dello stato ottomano), Istanbul,
Kitap Yayınevi, 2004, p. 142.
24 Sempre a questo riguardo, si veda anche Roderic H. Davison, Britain, the Inter-
national Spectrum, and the Eastern Question, 1827-1841, in Id., Nineteenth Century Ottoman
Diplomacy and Reforms. Istanbul, Isis Press, 1999, pp. 149-168.
18
requiem per i giannizzeri
5. «Nessun governo britannico commise mai errore tanto grave
in ambito di politica estera»25: furono queste le significative parole con
cui lo statista britannico Lord Palmerston apostrofò la decisione di non
prestare soccorso militare all’impero ottomano negli anni 1832-1833
da parte di Londra, nonostante l’esplicita richiesta di aiuto avanzata da
Mahmut II per contrastare la minaccia recata dal governatore d’Egitto
Mehmet Ali. Quest’ultimo, nato nel 1769 a Kavala in Tracia occidentale
da famiglia di origine turco-albanese, era giunto in Egitto nelle vesti
di ufficiale delle truppe ottomane inviate per intervenire contro l’eser-
cito francese durante la celebre campagna napoleonica del 1798-1801.
Ma al termine delle operazioni militari, il carattere ambizioso lo aveva
portato in breve tempo a impadronirsi del potere nella regione, estor-
cendo di fatto al sultano un incarico permanente come governatore
d’Egitto a partire dal 1805. Avendo tanti altri problemi cui fare fronte,
il sultano dell’epoca Selim III aveva ritenuto conveniente la presenza di
un governatore ambizioso ed efficiente come Mehmet Ali per deterrere
altri eventuali attacchi francesi, e aveva quindi scelto di accondiscen-
dere alla richiesta poco ortodossa del suo sottoposto. Ma col passare
degli anni Mehmet Ali, in particolare dopo la sanguinosa eliminazione
dell’intera classe dirigente dei mammelucchi nel 1811 (evento da cui
Mahmut II avrebbe preso ispirazione per il Vaka-yi Hayriye), aveva sta-
bilito nella regione un regime sempre più autocratico e, grazie anche
a una favorevole svolta nei rapporti coi francesi, aveva introdotto una
serie d’innovazioni tecniche in ambito agricolo e militare che lo avevano
arricchito e gli avevano permesso di costituire una forza militare auto-
noma estremamente minacciosa26.
Fu così che all’inizio del 1832 accadde un fatto impensabile fino
a pochi decenni prima: il governatore d’Egitto, di fatto un semplice vas-
sallo del sultano ottomano, aveva deciso di muovere guerra all’autorità
centrale, avanzando verso nord e conquistando con facilità la Terra San-
ta e la regione siriana per poi entrare in Anatolia e stabilire il suo quar-
tier generale nella città di Konya nel dicembre del 183227. Già nei primi
mesi del conflitto l’allora ambasciatore britannico a Istanbul Stratford
25 Charles Webster, The Foreign Policy of Palmerston 1830-1841: Britain, the Liberal
Movement and the Eastern Question, London, George Bell & Sons, 1951, p. 284.
26 Muhammet Hanefi Kutluoğlu, Kavalalı Mehmed Ali Paşa, in TDV Islam Ansiklopedi-
si, 44 voll., Istanbul, TDV Islam Araştırmaları Merkezi, 1988-2013, XXV, pp. 62-65.
27 Per una cronaca di questi drammatici avvenimenti, dove trovarono la morte an-
che alcuni italiani arruolati al servizio del sultano ottomano, si veda sempre De Leone,
L’impero ottomano, cit., pp. 77-91.
19
capitolo primo
Canning (1786-1880) aveva suggerito al ministro degli esteri Lord Pal-
merston la necessità di prestare sostegno militare al sultano dinanzi
a questa minaccia. Ma nonostante la sollecitudine dimostrata da Pal-
merston, per diverse ragioni tutti gli altri membri del gabinetto britan-
nico rimasero piuttosto freddi dinanzi all’idea di un intervento, e alla
fine la Gran Bretagna decise di non rispondere alla richiesta d’aiuto da
parte degli ottomani, ufficializzata persino tramite l’invio di due emis-
sari a Londra28. Sconvolto dalla situazione, davanti alla minaccia da par-
te delle truppe di Mehmet Ali condotte dal figlio Ibrahim di avanzare
verso Istanbul, nel febbraio del 1833 il sultano Mahmut II si vide costret-
to ad accettare l’umiliante offerta d’aiuto avanzata dalla Russia, che in
breve tempo inviò cinquemila soldati scelti che giunsero ad accamparsi
presso Büyükdere, sulla costa europea del Bosforo.
A quel punto Mehmet Ali, evidentemente preoccupato dall’idea che
il conflitto acquisisse dimensioni ancora maggiori, a maggio propose al
sultano di concordare i termini di un armistizio presso la città di Kütahya,
grazie alla quale il governatore d’Egitto acquisì il diritto di estendere
la propria autorità anche sulla Siria, la Terra Santa e l’isola di Creta.
Ma risolta questa questione, al sultano rimase da gestire il gratta-
capo dei russi che, consapevoli di aver svolto un ruolo cruciale pur sen-
za aver sparato un colpo, apparivano restii a togliere il disturbo prima
di aver ottenuto qualcosa in cambio. Il sultano fu quindi costretto a se-
dere al tavolo delle trattative anche coi russi, giungendo a inizio luglio
alla firma dell’accordo di Hünkar Iskelesi, che concedeva alla Russia ec-
cezionali privilegi strategici sulla questione degli stretti, oltre a un ruolo
di estremo rilievo diplomatico per l’ambasciatore russo a Istanbul29.
Il temporaneo passo falso di Londra nel contesto del “Grande Gioco”
– che imponeva ai britannici di porre in sicurezza la tratta di colle-
gamento logistico con l’India, mentre i russi cercavano d’interferire
quanto più possibile nel Mediterraneo, nel Caucaso e in Asia Centrale –
ebbe l’effetto di convincere le autorità britanniche a dare da quel mo-
mento in poi assoluta priorità al sostegno politico all’impero ottomano.
L’artefice di questa nuovo corso della diplomazia britannica fu proprio
il nuovo ambasciatore Lord Ponsonby, giunto a Istanbul nel maggio 1833
28 Ahmet Sönmez, Osmanlı modernleşmesinde İngiliz etkisi. Diploması ve Reform
(1833-1841) (L’influenza inglese nella modernizzazione ottomana. Diplomazia e riforma
1833-1841), Istanbul, Kitap Yayınevi, 2014, pp. 55-56, 77-80.
29 Ivi, pp. 59-63.
20
requiem per i giannizzeri
dopo una lunga carriera che lo aveva già portato in Argentina, in Brasile
e da ultimo a Napoli30.
6. Col passare degli anni Giuseppe Donizetti e la moglie com-
presero che Istanbul non sarebbe stata solo un’avventura passeggera,
e finirono per stabilirsi in maniera definitiva presso un’abitazione nel
quartiere di Asmalı Mescit a Pera, un quartiere che proprio in quegli
anni stava divenendo un punto di riferimento per la comunità italiana
d’Istanbul, e che nel 1867 avrebbe visto sorgere la prima sede dell’am-
basciata del Regno d’Italia (l’attuale sede dell’Istituto di cultura italiano).
Nell’autunno del 1834 i due decisero però di effettuare un viaggio in
Italia, sia per recare l’ultimo saluto ai genitori di Donizetti, ormai in età
avanzata, sia per incontrare il figlio Andrea, che dal 1832 s’era iscritto
alla facoltà di Legge dell’Università di Genova, «non avendo manife-
stato neanche il minimo talento musicale» come fatto notare dallo zio
Gaetano in una lettera al nonno del ragazzo31.
Nel giro di pochi anni Gaetano Donizetti, a dispetto dei tanti rico-
noscimenti a livello professionale, fu colpito da una serie implacabile
di sventure a livello personale: dopo la partenza per Genova del nipote
Andrea e la morte in rapida successione dei genitori, nel 1837 assistette
impotente alla morte per malattia della giovane moglie Virginia, senza
neanche la consolazione di un erede. A quel punto Gaetano, cui erano
rimasti solo un fratello a Istanbul e un altro affetto da grave infermità
mentale a Bergamo, fu colto dalla disperazione giungendo a scrivere
nella lettera a un amico: «Per chi sto lavorando? Qual è la mia ragione di
vivere?». Eppure, in una lettera del 1838, in reazione all’invito a trasfe-
rirsi a Istanbul avanzato da Giuseppe, dichiarò di preferire una degna
solitudine piuttosto che vivere «come uno stupido bey a Bisanzio»32.
Ma nonostante il tono altezzoso e in certi casi sdegnato nei confron-
ti della scelta del fratello maggiore di vivere a Istanbul alla corte del
sultano, in realtà Gaetano deve aver nutrito particolare interesse verso
la storia e la cultura della grande capitale: oltre ai tanti riferimenti epi-
stolari al fratello di stanza “a Bisanzio”, basti pensare alla partitura di
una delle sue opere più famose, Belisario (1836), dedicata alle gesta del
comandante dell’imperatore bizantino Giustiniano nel VII secolo d.C.
30 Ivi, pp. 90-96.
31 Zavadini, Gaetano Donizetti, cit., lettera 43, citato in Aracı, Donizetti, cit., p. 85.
32 Zavadini, Gaetano Donizetti, cit., lettera 316, citato in Aracı, Donizetti, cit., p. 86.
21
capitolo primo
Com’è noto, in realtà quest’opera possiede anche un significato
allegorico, indirizzato a smuovere gli animi patriottici del pubblico du-
rante anni in cui sul territorio italiano la forma d’arte melodrammatica
aveva acquisito una particolare connotazione “cospiratoria”, in quanto
permetteva all’élite intellettuale della penisola di riunirsi periodicamen-
te in spazi chiusi e affollati, ascoltando messaggi più o meno velati che
alludevano alla mancanza di libertà del popolo italiano e allo stato d’op-
pressione esercitato dalle potenze straniere33. Del resto nel 1836 proprio
Gaetano Donizetti aveva ricevuto ufficialmente l’investitura di massimo
rappresentante del melodramma – un genere giudicato specificamente
proprio della nuova nazione italiana – da parte di Giuseppe Mazzini.
Nel suo pamphlet intitolato Filosofia della musica, scritto dall’esilio sviz-
zero poco prima di essere costretto a un ulteriore trasferimento a Lon-
dra, “l’apostolo della nuova era” aveva infatti affermato:
Parlo di Donizetti, l’unico il cui ingegno altamente progressivo riveli
tendenze rigeneratrici, l’unico ch’io mi sappia, sul quale possa in og-
gi riposare con un po’ di fiducia l’animo stanco e nauseato del volgo
d’imitatori servili che brulicano in questa nostra Italia.34
Ma a dispetto delle importanti parole spese per lui da Mazzini, l’in-
stancabile cospiratore che grazie ai suoi scritti e alle trame internaziona-
li riuscì a tenere viva la brace del patriottismo italiano durante i terribili
anni di repressione tra 1831 e 1848, Gaetano Donizetti non sembrò mai
dare troppo peso alla missione di “artista rivoluzionario” assegnata-
gli dal genovese. Anzi, la sua indifferenza fu tale che nella primavera
del 1842 Gaetano giunse ad accettare l’offerta avanzatagli dal cancel-
liere Metternich – nemico giurato di Mazzini – per divenire niente di
meno che Kapellmeister di palazzo a Vienna, ovvero primo musicista
presso la corte dell’imperatore austriaco, il principale nemico dell’unità
e dell’indipendenza italiana35.
Già alla fine del 1840 Gaetano aveva deciso di mettere la sua arte
al servizio di un sovrano, componendo una marcia per il nuovo sultano
ottomano Abdülmecid salito al potere nel luglio 1839. Il sovrano accolse
il gesto con tale favore che nel gennaio 1841 fece inviare a Gaetano una
lettera ufficiale di ringraziamento in francese, allegata a un’onorificenza
33 Su questo tema si veda Carlotta Sorba, Il melodramma della nazione. Politica e
sentimenti nell’età del Risorgimento, Roma-Bari, Laterza, 2015, in part. pp. 110-114, 121-125.
34 Giuseppe Mazzini, Filosofia della musica (1836), Roma, La Lepre Edizioni, 2019,
p. 85.
35 Aracı, Donizetti, cit., p. 141
22
requiem per i giannizzeri
e a un copricapo. Il celebre compositore bergamasco risultò fortemente
impressionato dall’esotico dono, perché poco tempo dopo si fece ritrar-
re a Napoli dal pittore Albanesi con sullo sfondo il Vesuvio e in testa
il suddetto copricapo, e nello stesso periodo in una lettera al cognato si
firmò ironicamente come «il gran Kan dei tartari Gaetonuski»36.
7. Prima ancora del celebre fratello minore, Giuseppe non aveva
tardato a onorare il nuovo sovrano Abdülmecid con una marcia com-
posta poche settimane dopo la salita al trono. Gli ultimi anni di regno
di Mahmut II, grazie al nuovo corso britannico di pieno sostegno politi-
co al piano di riforma e modernizzazione dell’impero ottomano, furono
forieri di numerose innovazioni. Un ruolo fondamentale nell’imple-
mentare la volontà riformista del sultano fu svolto dal nuovo astro na-
scente della politica ottomana: il giovane Mustafa Reşit, nato nel 1800.
Costui, dopo aver partecipato in veste di collaboratore al tavolo delle
trattative diplomatiche sia di Edirne nel 1829 che di Kütahya nel 1833,
nel luglio 1834 fu nominato ambasciatore a Parigi e nel settembre 1836
ambasciatore a Londra. Durante quest’ultimo incarico, Mustafa Reşit
entrò nelle grazie del ministro degli esteri britannico Lord Palmerston,
che comprese di poter contare pienamente su questo giovane intelligen-
te e ambizioso per portare avanti un piano strategico di collaborazione
politica tra Gran Bretagna e impero ottomano, in grado di rafforzare
quest’ultimo e portarlo fuori dall’influenza russa37.
Nel giugno del 1837 Mustafa Reşit si vide costretto a lasciare all’im-
provviso Londra, avendo ricevuto l’inattesa notizia di essere stato nomi-
nato ministro degli esteri, un ruolo istituito ufficialmente appena l’anno
precedente. Essendo ormai innegabile l’enorme fiducia riposta in lui
da Mahmut II, nei mesi successivi Mustafa Reşit non esitò a persuadere
il sultano a prendere una serie di decisioni radicali di carattere liberale
e modernizzatore, compreso lo storico accordo di Balta Limanı siglato
il 16 agosto 1838 presso la residenza di Mustafa Reşit sulla costa europea
del Bosforo, che segnò l’apertura dell’impero ottomano al nascente si-
stema capitalistico internazionale. Questo accordo di libero commercio
bilaterale, ispirato dai rapporti compilati a partire dal 1833 dal giovane
David Urquhart (si veda infra, cap. 12), eliminando il valore legale dei mo-
nopoli nei diversi settori merceologici e riducendo considerevolmente
36 Ivi, p. 101.
37 Sönmez, Osmanlı modernleşmesinde, cit., pp. 215-222.
23
capitolo primo
i dazi doganali di import/export tra i due paesi, ebbe l’effetto di permet-
tere alla Gran Bretagna di accedere a minor prezzo alle materie prime
di cui il territorio ottomano era ricco, traendo allo stesso tempo van-
taggio da un nuovo mercato di consumatori per la propria produzione
manifatturiera e industriale in piena crescita38.
Mahmut II era un uomo abbastanza intelligente per comprendere
la posta in gioco, ma evidentemente voleva dare fiducia alle posizio-
ni “liberali” del suo nuovo pupillo Mustafa Reşit, e soprattutto aveva
bisogno di dimostrare la propria amicizia verso la potenza britannica,
perché il governatore d’Egitto Mehmet Ali aveva nel frattempo di nuovo
cominciato ad alzare la testa, e in caso di un nuovo attacco il sultano vo-
leva poter contare sull’appoggio militare britannico invece di quello rus-
so. Proprio per questo nell’ottobre 1838 Mustafa Reşit, pur mantenendo
l’incarico di ministro degli esteri, fu inviato nuovamente a Londra come
ambasciatore, di fatto con l’unico obiettivo di giungere a un accordo
formale di sostegno militare tra Gran Bretagna e impero ottomano.
Con notevole opportunismo, però, a questo punto Lord Palmerston de-
cise di tirarsi indietro, dichiarando di non aver mai promesso soste-
gno militare ma unicamente “politico”, mosso di certo dal timore che
un eventuale coinvolgimento delle forze britanniche nel Mediterraneo
orientale avrebbe dato alla Russia carta bianca per cercare lo scontro
diretto. Così, quando la modestissima bozza d’alleanza raggiunta da
Mustafa Reşit a Londra giunse sotto gli occhi del sultano Mahmut II
a Istanbul nell’aprile 1839 quest’ultimo andò su tutte le furie, dichia-
randosi tradito e ordinando al suo rappresentante di tornare subito
a Istanbul senza firmare alcunché. Mustafa Reşit comprese però che
un ritorno a Istanbul in quella situazione così turbolenta, e in presen-
za di tanti nemici politici invidiosi delle posizioni e dei successi da lui
raggiunti in così pochi anni, avrebbe potuto facilmente costargli la car-
riera, se non la vita. Preferì quindi temporeggiare per qualche mese tra
Parigi e Londra, attendendo lo sviluppo degli eventi, che per una serie
di coincidenze finirono per volgere in favore suo e del futuro corso del
riformismo ottomano.
38 Sugli effetti dell’accordo di Balta Limanı, oltre a Sönmez, Osmanlı modernleşme-
sinde, cit., pp. 225-230, si veda anche Şevket Pamuk, The Ottoman Empire and European
Capitalism (1820-1913): Trade, Investment and Production, Cambridge, Cambridge Univer-
sity Press, 1987, in part. pp. 18-21. Si veda inoltre V. Necla Geyikdağı, Foreign Investment
in the Ottoman Empire. International Trade and Relations 1854-1914, London, Tauris Acade-
mic Studies, 2011, in part. pp. 21-28.
24
requiem per i giannizzeri
A fine aprile il sultano, da tempo malato di tubercolosi, decise
in maniera azzardata di ordinare all’esercito di muovere contro le trup-
pe del governatore Mehmet Ali, che minacciava nuovamente di entrare
in Anatolia per ottenere nuovi privilegi di successione dinastica. Le osti-
lità si conclusero il 24 giugno con la rovinosa sconfitta degli ottomani
in occasione della battaglia di Nizip, sull’attuale confine turco-siria-
no39. Una settimana dopo il sultano Mahmut II spirava nella residen-
za della sorella Esma a Istanbul, succeduto, come già visto, dal figlio
Abdülmecid appena diciassettenne.
A quel punto Mustafa Reşit scelse di recarsi nuovamente a Londra
dove, assieme a Lord Palmerston, decise di tentare un “colpo grosso”,
ovvero convincere il nuovo e giovane sultano a promulgare un editto
per ufficializzare una serie di principi alla base del nuovo corso della
politica ottomana: in primo luogo la parità di diritti tra tutti gli abitanti
dell’impero a prescindere dalla religione40.
Dopo l’ultimo incontro con Lord Palmerston il 10 agosto a Lon-
dra, Mustafa Reşit partì finalmente per Istanbul dove giunse a inizio
settembre, scoprendo che al ruolo di gran vizir era stato nominato Koca
Hüsrev Pascià, una “vecchia guardia” della politica ottomana che aveva
tentato in ogni modo di convincere il sultano a sbarazzarsi di Mustafa
Reşit. Ma a dispetto della giovane età il sultano Abdülmecid, fatto edu-
care dal padre sulla base di un’originale miscela di teologia islamica
e cultura occidentale, dimostrò di possedere forte personalità e idee
chiare riguardo alla politica da tenere: decise infatti non solo di man-
tenere Mustafa Reşit nel ruolo di ministro degli esteri, ma anche di
dargli credito per quanto concerneva l’editto da promulgare. Da quel
momento in poi, consapevole dell’estrema responsabilità di cui la storia
lo stava caricando, Mustafa Reşit si chiuse per settimane nel suo studio
a lavorare giorno e notte al testo dell’editto, nel tentativo di effettuare
il maggior numero di innovazioni riguardo a diritti delle minoranze
e politica economica senza però risultare offensivo nei confronti della
tradizione musulmana, un sistema di valori ancora estremamente forte
nella società e nell’establishment ottomano.
Alla fine Mustafa Reşit riuscì nel miracolo, perché l’editto pro-
mulgato ufficialmente il 3 novembre 1839 presso il parco di Gülhane
a Istanbul ebbe l’eccezionale pregio di raccogliere sia le lodi delle mi-
39 Per una croncaca di questa campagna militare, che vide su entrambi i fronti
la partecipazione di alcuni italiani, si veda De Leone, L’impero ottomano, cit., pp. 116-121.
40 Sönmez, Osmanlı modernleşmesinde, cit., pp. 249-258.
25
capitolo primo
noranze non-musulmane dell’impero e delle potenze europee – che si
rallegravano per il nuovo corso “liberale” e il suo rispetto dei principi
di libertà ed eguaglianza – che dei membri dell’establishment più con-
servatore, i quali interpretarono l’editto di Gülhane come una restau-
razione dei fondamentali valori di “governo giusto” e “sovrano saggio”
da sempre presenti nell’islam41.
8. Sull’onda dell’entusiasmo politico che fece seguito alla promul-
gazione dell’editto, spartiacque fondamentale che nella storiografia ot-
tomana viene a segnare l’inizio del periodo noto come Tanzimat (“ri-
forme”, “riorganizzazioni”), le potenze europee decisero di allearsi per
aiutare il sultano Abdülmecid a trovare una soluzione permanente all’or-
mai decennale problema del governatore ribelle Mehmet Ali. Nel set-
tembre 1840 la Gran Bretagna si assunse la responsabilità del’impresa
sferrando un violento attacco navale e terrestre contro le forze di Meh-
met Ali di stanza in Siria e in Libano, fino a costringere le truppe del
governatore ribelle a ritirarsi da quella regione e convolare al tavolo del-
le trattative ad Alessandretta42. Fu così che a fine novembre le autorità
di Londra siglarono un accordo che obbligava Mehmet Ali a non avan-
zare più alcuna pretesa sui territori al di fuori dell’Egitto e a sottometter-
si all’autorità centrale d’Istanbul, applicando anche nel territorio egizia-
no le leggi valide nel resto dell’impero ottomano e rinunciando a ogni
ambizione indipendentistica. In cambio a Mehmet Ali fu riconosciuto
ufficialmente il diritto di successione dinastica sul territorio egiziano,
un fatto senza precedenti nella storia dell’impero ottomano43.
Dopo aver risolto questo problema che da anni angustiava l’auto-
rità ottomana, gli anni ’40 e i primi anni ’50 del XIX secolo si rivelaro-
no per l’impero un periodo di pace e stabilità, che consentì al sultano
Abdülmecid di avanzare progressivamente con le riforme politiche e
allo stesso tempo coltivare la sua speciale passione per la musica e l’arte
europea. Infatti, dopo aver ereditato dal padre il gusto per la musica
d’orchestra in stile occidentale, stabilendo a sua volta con Giuseppe
Donizetti un caloroso rapporto d’amicizia, il sultano Abdülmecid svi-
luppò nel corso degli anni ’40 un’insospettabile passione per il teatro
41 Per quanto concerne la conformità dell’editto di Gülhane ai principi dell’islam,
si veda Abu-Manneh, Studies on Islam, cit., pp. 73-97.
42 Per una cronaca di questi avvenimenti si veda sempre il classico De Leone, L’im-
pero ottomano, cit., pp. 127-135.
43 Sönmez, Osmanlı modernleşmesinde, cit., pp. 292-299.
26
requiem per i giannizzeri
d’opera, che proprio in quegli anni faceva la sua comparsa a Istanbul,
riscuotendo notevole interesse soprattutto presso l’élite non-musulma-
na di stanza nei quartieri di Pera e Galata.
Ad animare questo nuovo aspetto della cultura urbana d’Istanbul
fu in particolare la comunità italiana, in quanto erano stati soprattutto
gli artisti della penisola, sia a livello di composizione che di performan-
ce, a rendere questa forma d’arte celebre e ammirata a livello interna-
zionale. Dove ora sorge il cosiddetto Çiçek Pasajı, dinanzi all’attuale li-
ceo Galatasaray su Istiklal Caddesi (strada nota a partire da quegli anni
e fino alla caduta dell’impero come Grand Rue de Pera), nel 1840 l’illu-
sionista torinese Giovanni Bartolomeo Bosco (1793-1863) fece costrui-
re una struttura stabile divenuta in breve tempo una sorta di centro
polifunzionale capace di ospitare numerose forme d’intrattenimento,
tra cui anche spettacoli d’opera musicale come la Norma di Bellini, nel
novembre 184144.
Non per niente quando lo scrittore francese Gérard de Nerval nel
1842 effettuò il suo celebre viaggio in Egitto e Turchia – destinato ad apri-
re la strada alla moda dell’Oriente in Francia e poi nel resto d’Europa –
nelle sue memorie registrò di aver visitato a Istanbul un teatro italiano
le cui attività erano presiedute da «un tale Donizetti, fratello del celebre
compositore»45. Infatti Giuseppe proprio quell’anno aveva accettato di
prestare il suo aiuto nella direzione artistica del giovane teatro, coinvol-
gendo anche il celebre fratello come una sorta di agente dall’Europa,
in grado di convincere artisti e musicisti rinomati ad accettare l’invito
di questo umile ma ambizioso teatro situato nella capitale ottomana.
Fu grazie a questa collaborazione famigliare che nell’ottobre 1843
presso il Teatro Bosco si mise in scena proprio il Belisario di Gaetano
Donizetti. Non sentendosi ancora pronto a infrangere la tradizione im-
periale che impediva a un sovrano di mescolarsi con la gente comu-
ne, il giovane sultano Abdülmecid richiese alla medesima compagnia
di mettere nuovamente in scena il Belisario in forma privata presso
un salone del suo palazzo46. Esaltata da questo eccezionale ricono-
scimento, la popolarità del Teatro Bosco crebbe a dismisura nei tem-
pi successivi, al punto che i proprietari del terreno nell’autunno 1844
decisero di revocare la concessione e rilevare lo stabile per continuare
44 Emre Aracı, Naum Tiyatrosu: 19. Yüzyıl İstanbulu’nun İtalyan Operası (Il Teatro
Naum: l’opera italiana a Istanbul nel XIX secolo), Istanbul, YKY, 2010, pp. 54-60.
45 Gerard Nerval, Voyage en Orient (1851), Paris, Gallimard, 1998, pp. 609-610.
46 Aracı, Donizetti, cit., p. 120.
27
capitolo primo
a gestirlo autonomamente: si trattava dei fratelli Michel e Joseph Naum,
arabi originari di Aleppo di confessione cattolica melchita47. Durante
la loro gestione il Teatro (ribattezzato Naum) continuò a crescere in
qualità guadagnando numerosi riconoscimenti locali e internazionali,
ma il 26 gennaio 1847 lo stabile fu distrutto da uno dei tanti incendi
che erano soliti funestare la vita della città. La ricostruzione iniziò po-
chi mesi dopo sulla bese dell’ambizioso progetto dell’architetto inglese
William James Smith, che assicurò ai melomani d’Istanbul un nuovo
teatro in grado di ospitare 1200 spettatori. L’inaugurazione si tenne
il 4 novembre 1848 con la messinscena del Macbeth di Giuseppe Ver-
di, diretta dal giovane parmense Callisto Guatelli giunto a Istanbul nel
1845, all’inizio di una lunga carriera che lo avrebbe tenuto nella capitale
ottomana fino alla morte avvenuta nel 1900 (si veda infra, cap. 6)48.
Ma dopo l’inizio all’insegna di Verdi, la direzione del rinnovato Teatro
Naum decise di dedicare buona parte del programma della nuova sta-
gione 1848-1849 alle opere del celebre fratello del loro consulente arti-
stico: qualche mese prima, infatti, Gaetano Donizetti era morto all’età
di soli 51 anni.
9. Gaetano aveva iniziato a manifestare i segni di una grave infer-
mità neurologica a partire dal 1843, mentre si trovava a Vienna nelle ve-
sti di primo musicista alla corte dell’imperatore Ferdinando. Nel giugno
1844 Giuseppe Donizetti era giunto nella capitale austriaca a visitare
il fratello, per recarsi poi a Genova a incontrare il figlio che aveva da
poco concluso gli studi universitari. Padre e figlio si recarono poi assie-
me prima a Bergamo e poi a Napoli, dove furono raggiunti a sorpresa
da Gaetano, in quello che si rivelerà essere l’ultimo incontro dei fratel-
li Donizetti. A settembre infatti Giuseppe ripartì in nave per Istanbul,
portando con sé il neolaureato figlio Andrea49.
Come risulta dagli atti del Protocollo della Giovine Italia (la “sca-
tola nera” in cui risulta raccolto tutto il materiale epistolare scambiato
dalle numerose cellule dell’organizzazione segreta diretta da Mazzini
e impegnata a mantenere viva l’attività cospiratoria per l’indipenden-
za nazionale in Italia ed Europa), proprio al periodo 1844-1845 risale
l’utilizzo degli indirizzi delle abitazioni di Gaetano Donizetti a Vienna
e Parigi come “copertura” insospettabile per la corrispondenza tra
47 Aracı, Naum Tiyatrosu, cit., p. 40.
48 Ivi, pp. 101-118.
49 Aracı, Donizetti, cit., p. 142.
28
requiem per i giannizzeri
i membri dell’organizzazione attivi in queste città50. Anche se gli stu-
diosi non sono ancora riusciti a fare chiarezza sul reale coinvolgimento
personale del celebre compositore in queste trame, dato il suo curri-
culum ben poco “sovversivo” e lo stato mentale sempre più confuso
in quel periodo, sembra altamente improbabile che Gaetano Donizet-
ti abbia fornito un contributo attivo ai progetti cospiratori del network
mazziniano in Europa. Risulta invece più verosimile che Gaetano, sem-
pre più malato e depresso, sia stato o interamente all’oscuro del suo
ruolo di “copertura”, oppure abbia semplicemente dato un tacito assen-
so in ragione dell’amicizia verso alcuni collaboratori come Giuseppe
Ruffini e Michele Accursi, il cui coinvolgimento nelle attività mazzinia-
ne è invece comprovato dalla storiografia sul Risorgimento51.
Risulta inoltre interessante notare come nel Protocollo della Giovine
Italia risulti citato in diverse occasioni anche il nome di Andrea Doni-
zetti, figlio di Giuseppe. Dopo aver ricevuto la sua iniziazione politica
all’Università di Genova – in quegli anni una vera e propria fucina di pa-
triottismo, frequentata non per niente anche da Goffredo Mameli (1826-
1849) – Andrea fu in qualche modo coinvolto nelle trame degli esuli
risorgimentali a Parigi, città dove si recò in diverse occasioni tra il 1845
e il 1847 per assistere lo zio sempre più malato. Anche se risulta difficile
chiarire il livello di coinvolgimento di Andrea, in ragione del criptico
linguaggio utilizzato dai membri della Giovine Italia per comunicare,
il giovane Donizetti deve quanto meno essersi prestato al ruolo di vetto-
re tra la capitale ottomana e quella francese, dove il suo principale refe-
rente sarebbe stato Stefano Luigi Canessa, con cui avrebbe intrattenuto
anche diversi scambi di denaro52.
In ogni caso la principale preoccupazione di Andrea durante le
permanenze a Parigi fu senza dubbio la salute del celebre zio, in compa-
gnia del quale era cresciuto nei primi anni dopo la partenza dei genitori
per Istanbul. Purtroppo già a inizio del 1846 la malattia degenerativa
da cui era stato colpito portò il compositore ad alternare fasi di delirio
con altre di stato quasi vegetativo, rendendo necessario il suo ricovero
presso una clinica psichiatrica a Ivry, fuori Parigi. In seguito al ricovero,
a causa di una serie di problemi legali con le autorità francesi, a dispetto
50 Antonio Caroccia, Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta: Donizetti e il Risorgimento,
«Rassegna storica del Risorgimento», a. XCVI, 1 (33-52), 2009, p. 41.
51 Ivi, p. 40. Sull’ambigua figura di Accursi, si veda Giancarlo Parma, Michele
Accursi: spia o doppiogiochista mazziniano?, Cento, Effeelle, 2007.
52 Caroccia, Fratelli d’Italia, cit., pp. 44-45.
29
capitolo primo
delle insistenze di Giuseppe e Andrea risultò estremamente difficile far
uscire nuovamente Gaetano dalla clinica. Ciò si rivelò possibile solo nel
giugno 1847, in seguito all’intercessione esercitata sulle autorità france-
si da figure di rilievo come il sultano Abdülmecid e il musicista Liszt,
di passaggio in quel periodo nella capitale ottomana. Dopo qualche
mese trascorso in un appartamento a Parigi, a settembre Andrea otten-
ne finalmente il permesso di condurre a Bergamo l’ormai agonizzante
zio Gaetano, che spirò nella città natale l’8 aprile 184853.
10. Non avendo potuto partecipare alle esequie del celebre fratello,
Giuseppe Donizetti giunse in Italia a maggio, effettuando un’ulteriore
cerimonia di commemorazione funebre a Bergamo alla fine del mese.
Ma considerando che il ritorno a Istanbul avvenne appena alla fine di
ottobre, giusto in tempo per l’inaugurazione del nuovo Teatro Naum,
si può immaginare che Giuseppe sia stato costretto a trattenersi nella
penisola scossa dai moti rivoluzionari del 1848, durante i quali Mazzini
riapparve clandestinamente a Milano (incontrando, tra gli altri, Giusep-
pe Verdi) dopo oltre diciassette anni di esilio trascorsi prima in Svizzera
e poi a Londra54, mentre Garibaldi attraversava l’oceano in nave per
tornare in Italia a offrire la sua esperienza militare in occasione della
1 guerra d’indipendenza, dopo quasi tredici anni di leggendarie avven-
ture in America del Sud55.
In ogni caso, al suo ritorno a Istanbul Giuseppe Donizetti si tro-
vò presto interamente riassorbito dagli impegni artistici nella capita-
le ottomana. All’inizio di dicembre il bergamasco ricevette l’incarico
di accompagnare personalmente il sultano Abdülmecid – reduce dalla
preghiera di mezzogiorno presso la Mevlevihane di Galata – a visitare
gli spazi del nuovo Teatro Naum, per il quale il sovrano ottomano aveva
dimostrato notevole interessamento: oltre a sostenerne finanziariamen-
te la ricostruzione, si era infatti assicurato che nel nuovo progetto fosse
inclusa anche una loggia esclusiva per lui56.
Circa due mesi dopo, il 9 febbraio 1849, Abdülmecid ebbe final-
mente la possibilità di assistere a uno spettacolo presso il nuovo Teatro
in occasione di una serata speciale riservata unicamente a lui e pochi
ospiti di rappresentanza, durante la quale furono messi in scena due
53 Aracı, Donizetti, cit., p. 184.
54 Bruno Gatta, Mazzini. Una vita per un sogno, Napoli, Guida, 2002, p. 207.
55 Mino Milani, Giuseppe Garibaldi. Biografia critica, Milano, Mursia, 1982, p. 134.
56 Aracı, Donizetti, cit., p. 193.
30
requiem per i giannizzeri
atti del Linda di Chamounix di Gaetano Donizetti e un atto dell’Ernani
di Verdi, e fu cantato un inno composto appositamente per il sultano
dal direttore d’orchestra del Teatro Angelo Mariani57.
Circa due anni dopo, il 26 marzo 1851, Abdülmecid decise di sfida-
re tutte le convenzioni imposte da secoli di tradizione, recandosi al Tea-
tro Naum assieme ai tre figli maschi Murat (1840-1904), Abdülhamid
(1842-1918) e Reşat (1844-1918), in occasione di una serata ordinaria
aperta al pubblico, che al termine dello spettacolo si volse ad applau-
dire in direzione della loggia. Questa evenienza così speciale non ebbe
però modo di ripetersi per i successivi sei anni, perché il 15 maggio,
in occasione della serata di chiusura della stagione, all’interno del teatro
scoppiò un’enorme rissa coadiuvata da ombrelli e altri oggetti contun-
denti, al termine della quale uno spettatore perse la vita e numerosi altri
rimasero feriti58. Oltre a evitare il Naum per qualche anno, Abdülmecid
prese anche la decisione di farsi costruire un teatro personale accan-
to al maestoso palazzo di Dolmabahçe, che in quel periodo risultava
in fase di costruzione su progetto dell’architetto imperiale Garabed Ba-
lian, aiutato dal figlio Nigogos59.
Del resto, dopo una decina d’anni di stabilità, a partire dal 1852
la situazione geopolitica internazionale riprese nuovamente a farsi diffi-
cile per l’impero ottomano. Dopo il colpo di stato in Francia con cui Car-
lo Luigi Napoleone era giunto a farsi incoronare imperatore col titolo
di Napoleone III, la Francia cominciò a sviluppare politiche sempre più
ambiziose e interventiste nel bacino del Mediterraneo, giungendo tra
le varie cose a convincere il sultano Abdülmecid a riconoscere privilegi
particolari ai cattolici in Terra Santa, tra cui il possesso delle chiavi del-
la Basilica della Natività a Betlemme. La decisione generò il disappun-
to dei russi, sia in ragione del privilegio sottratto ai cristiani ortodossi
sia perché lo zar Nicola comprese che con questa mossa Napoleone
III avrebbe privato l’impero russo di un fondamentale “asso nella ma-
nica” di cui San Pietroburgo si serviva da decenni: la possibilità cioè
di invocare la “protezione delle minoranze cristiane” per intervenire
a piacimento negli affari interni dell’impero ottomano60.
Dopo un anno di tensione diplomatica, a febbraio del 1853 giunse
a Istanbul in missione diplomatica il principe Menshikov, con l’obietti-
57 Ivi, p. 194.
58 Ivi, p. 195.
59 Tuğlacı, Balian Family, cit., p. 345.
60 Barkay, Empire, cit., pp. 267-268.
31
capitolo primo
vo non tanto di trovare una soluzione quanto di esasperare la tensione
politica tra le parti avanzando richieste sempre maggiori. La lunghissi-
ma trattativa si concluse a fine giugno con un nulla di fatto, fornendo
ai russi il pretesto di occupare i cosiddetti principati danubiani, ovvero
le province ottomane di Moldavia e Valacchia, dove in virtù della forte
maggioranza cristiana i russi s’erano arrogati numerosi diritti sin dalla
fine del XVIII secolo. Il sultano, che da quando era salito al trono nel
1839 non s’era ancora mai trovato in una situazione di conflitto, all’i-
nizio preferì temporeggiare, ma durante l’estate l’occupazione russa
generò un crescendo di proteste a Istanbul, in particolare da parte degli
ulema e degli studenti delle scuole coraniche, che giunsero a invocare
“la guerra santa” contro i russi61.
Alla fine, nonostante il consiglio avverso di numerose figure politi-
che tra cui Mustafa Reşit, il 4 ottobre 1853 il sultano decise di dichiarare
guerra alla Russia mobilitando l’esercito ottomano sia sul fronte danu-
biano che su quello caucasico. Le altre potenze europee rimasero per
un po’ in attesa dell’evolversi della situazione, ma un devastante attac-
co dei russi alla flotta ottomana presso Sinop, fatto riecheggiare ad hoc
dalla stampa locale per fomentare la russofobia, fornì a Francia e Gran
Bretagna il pretesto per sancire un’alleanza con l’impero ottomano, de-
terminando un fatto senza precedenti nella storia d’Europa. L’accordo
firmato il 12 marzo 1854 fu inoltre accompagnato da un mirabile presti-
to di 5 milioni di sterline, fornito per coprire le spese militari ottomane
da una cordata di banchieri francesi e britannici, che ricevettero come
garanzia dal sultano il gettito delle entrate tributarie egiziane62.
Ma prima che Francia e Gran Bretagna riuscissero a mobilitare
adeguatamente le loro truppe, i russi continuarono ad avanzare verso
sud, attraversando il Danubio a fine marzo e cingendo d’assedio con
60mila soldati la piccola città di Silistria a partire dal 12 aprile. Con-
trariamente a tutte le aspettative, la cittadina si rivelò in grado di re-
sistere all’assedio per un tempo abbastanza lungo da permettere alle
forze francesi e britanniche di sbarcare a Varna, nei pressi della foce
del Danubio, e all’impero austro-ungarico di minacciare a sua volta
un possibile attacco contro i russi sul fronte più occidentale. Quest’insie-
me di circostanze portarono a un capovolgimento del corso del conflitto
a favore delle forze alleate contro i russi, i quali il 23 giugno posero
61 Winfried Baumgart, The Crimean War 1853-1856, London, Arnold, 1999, pp. 9-14.
62 Ivi, pp. 96-99.
32
requiem per i giannizzeri
quindi termine all’assedio di Silistria e cominciarono ad arretrare verso
nord, subendo una serie di sconfitte in particolare contro le forze otto-
mane guidate dal generale Ömer Pascià, un serbo ortodosso convertitosi
all’islam in giovane età63.
In ragione del fondamentale ruolo simbolico svolto nel corso del
conflitto, l’assedio di Silistria eserciterà, come vedremo anche in segui-
to (si veda infra, § 10.7), un fortissimo effetto sull’immaginario della
generazione ottomana coinvolta nella guerra. Lo stesso Giuseppe Do-
nizetti, con la collaborazione del poeta Achille Tondi64, non mancò
di rendervi tributo componendo durante quell’estate un inno che,
quando fu interpretato per la prima volta a palazzo in occasione di una
festività religiosa musulmana, si dice abbia fatto scorrere le lacrime
al sultano Abdülmecid e a numerosi altri ospiti65.
Ma sebbene al termine dell’estate i russi fossero ormai tornati qua-
si del tutto alle loro posizioni originarie, i governi di Francia e Gran
Bretagna spinti da un’opinione pubblica che per lungo tempo era stata
fomentata alla russofobia, decisero di infliggere un duro colpo alla su-
premazia strategica della Russia nel Mar Nero attaccando la penisola di
Crimea, sottratta dai russi agli ottomani circa 80 anni prima. A settem-
bre ebbe quindi inizio il trasferimento di truppe francesi, britanniche
e ottomane verso la costa settentrionale del Mar Nero, avendo come
scopo principale la conquista della fortezza di Sebastopoli, centro sim-
bolico del potere russo in Crimea. Il primo massiccio attacco alla città
fu lanciato il 17 ottobre 1854, senza però riuscire a vincere la resistenza
dei russi: da quel momento il conflitto si trasformò per tutto l’inverno
in un’estenuante guerra di trincea in terribili condizioni di freddo e
pioggia, che portarono alla morte di migliaia di soldati per colera66.
All’inizio del 1855, proprio su iniziativa del già citato Lord Palmer-
ston, anche il Regno di Sardegna fu coinvolto nel conflitto con l’invio
in Crimea di quindicimila soldati italiani, finalizzato in primo luogo
63 Ivi, pp. 100-102.
64 Nato a San Severo (FG) nel 1826, Achille Tondi negli anni ’40 si iscrisse alla
Giovine Italia e nel gennaio 1849 partecipò alla difesa della Repubblica romana, in se-
guito alla quale fu costretto a cercare rifugio come esule a Istanbul, dove rimase fino alla
morte. Per maggiori informazioni a suo riguardo si veda: Angelo Russi, Due lettere inedite
di Achille Tondi a Giulio Minervini conservate nella Biblioteca apostolica vaticana, «Archaeo-
logie. Research by Foreign Missions in Italy». a. 7, 1-2, 2009, pp. 51-121.
65 Aracı, Donizetti, cit., p. 201. Si veda anche il suo Naum Tiyatrosu, cit., pp. 228-232,
per la messinscena dell’opera L’assedio di Silistria al Teatro Naum nella primavera 1856.
66 Baumgart, Crimean War, cit., pp. 115-144.
33
capitolo primo
a guadagnare rispetto e autorevolezza internazionale, nel contesto del
delicato processo “risorgimentale” di quegli anni67.
Alla fine, dopo un estenuante assedio durato quasi undici mesi,
Sebastopoli cadde alle forze alleate l’8 settembre del 1855. Ma il conflitto
continuò ancora nei mesi successivi sul fronte orientale, dove le forze
russe conquistarono la città di Kars a fine novembre. Solo all’inizio del
1856 le ostilità giunsero ufficialmente a termine, con la convocazione
a marzo di una fondamentale conferenza di pace a Parigi, durante
la quale sia l’impero ottomano che il Regno di Sardegna ottennero
un importante riconoscimento diplomatico, che segnerà per entrambe
le realtà il delinearsi di un nuovo corso politico internazionale.
Ma di tutto questo Giuseppe Donizetti rimase all’oscuro, perché
la morte lo colse a Istanbul il 12 febbraio 1856, in seguito a un improv-
viso peggioramento della salute nel corso dell’inverno.
67 È interessante notare che la stessa condizione d’indebitamento imposta all’im-
pero ottomano per entrare a far parte dell’alleanza europea fu imposta anche al Regno
di Sardegna, per un totale di 2 milioni di sterline con un interesse del 4% annuo. Si veda:
Atto d’accessione della Sardegna al trattato di alleanza tra l’Inghilterra e la Francia
del 10 aprile 1854, siglato a Torino il 26 gennaio 1855.
34
2. La nave dei folli
Garibaldi e i sansimoniani
Mio figlio, me lo hanno
guastato i sansimoniani!1
Rosa Raimondi in Garibaldi
1. I genitori di Giuseppe Garibaldi (1807-1882) non volevano che
il figlio fosse costretto a seguire le orme del padre Domenico (1766-
1841), che sin da piccolo s’era guadagnato da vivere lavorando in mare
sulle imbarcazioni: a questo scopo cercarono di stimolare nel piccolo
Giuseppe la passione per gli studi, assicurandogli con discreti sforzi eco-
nomici alcuni dei migliori precettori privati di Nizza. Ma già nel 1821,
all’età di appena 14 anni, il giovane Garibaldi manifestò chiaramente
la sua intolleranza alla vita sedentaria, decidendo d’interrompere gli
studi e affrontare esattamente quanto gli era stato sconsigliato: l’avven-
turosa asprezza della vita di mare.
Uno dei primi imbarchi lo portò all’inizio del 18242 fin sulla costa
settentrionale del Mar Nero, presso quella Odessa fatta costruire dai
russi su principi modernisti in seguito alla sottrazione della Crimea agli
ottomani alla fine del XVIII secolo. Inevitabilmente, dato il passaggio
obbligato attraverso lo stretto del Bosforo, Garibaldi vide scorrere da-
vanti ai suoi occhi anche la città d’Istanbul, e forse ebbe anche la pos-
sibilità di trascorrervi qualche tempo in occasione di uno scalo tecnico.
Di certo c’è però che nell’agosto 1828, di ritorno da una nuova missio-
ne commerciale nel Mar Nero, Garibaldi fu costretto ad abbandonare
la propria nave per effettuare un prolungato scalo nella capitale ottoma-
na a causa di qualche fastidiosa infermità contratta durante il viaggio3.
Le informazioni su questo periodo della vita di Garibaldi sono
molto scarse, e anche le biografie più dettagliate non dedicano al fatto
che poche righe al massimo. Per ragioni di salute o altre motivazioni
1 Milani, Garibaldi, cit., p. 11.
2 Annita Garibaldi Jannet, La scuola del mare. Silenzi e parole del giovane Garibaldi,
in Garibaldi. Orizzonti mediterranei, a cura di Annita Garibaldi Jannet e Anna Maria Laz-
zarino del Grosso, Sassari, Paolo Sorba Editore, 2009, pp. 83-120: 90.
3 Milani, Garibaldi, cit., pp. 5-9.
35
capitolo secondo
destinate a rimanere oscure, legate forse al periodo di grande tensione
geopolitica di quegli anni – segnati dall’insurrezione greca e dallo stato
di conflitto tra impero ottomano e Russia – oppure unicamente a scelte
personali, il nizzardo scelse di fermarsi a Istanbul fino alla tarda prima-
vera del 18294 quando fece ritorno alla città natale. Riguardo ai mesi tra-
scorsi nella capitale ottomana si sa solo che Garibaldi lavorò per buona
parte del tempo come precettore privato dei tre figli di una tale vedova
Timoni, e alloggiò a lungo presso la pensione gestita da un’altra signora
italiana nei pressi dell’attuale liceo di Galatasaray, stringendo con il friu-
lano Giuseppe Bidischini una forte amicizia destinata a durare a lungo,
al punto che anni dopo i due uomini divennero addirittura consuoceri5.
Nel frattempo la penisola italiana tra 1830 e 1831 fu scossa da un
ulteriore sommovimento politico, prima d’incorrere in un nuovo giro
di vite repressivo destinato a soffocare ogni speranza, fino ai giorni della
gloriosa esplosione del 1848. Fu così che mentre nel novembre 1830
il genovese Mazzini (di soli due anni più anziano del nizzardo) veniva
incarcerato a Savona in ragione delle già rinomate attività cospiratorie6,
Garibaldi – a causa forse del mestiere che per lunghi periodi lo aveva
tenuto lontano dalla realtà degli avvenimenti sociali e politici – appariva
ancora alieno alle battaglie idealiste destinate in futuro a renderlo cele-
bre in diversi angoli del mondo.
Dopo un nuovo viaggio in nave da Nizza al Mar Nero e ritorno,
effettuato senza intoppi nel 1832, e un’altra breve missione a Barlet-
ta, nel marzo 1833 l’ormai quasi ventiseienne Giuseppe fu assegna-
to nelle vesti di secondo capitano a una nuova spedizione sulle coste
del Mar Nero: la partenza era prevista da Marsiglia, con un brigantino
di nome Clorinde7.
2. Da Mazzini a Marx, da Balzac a Bakunin, nessun intellettuale
attivo in Europa negli anni centrali del XIX secolo poté evitare di con-
4 Fabio Grassi, Garibaldi e Garibaldini a Costantinopoli e nell’impero ottomano:
conoscenze attuali, piste per future ricerche, in Garibaldi. Cultura e ideali. Atti del LXIII con-
gresso di storia del Risorgimento italiano (Cagliari, 11-15 ottobre 2006), a cura di Stefania Bo-
nanni, Roma, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, 2008, pp. 419-440: 422-424
5 In quanto nel 1868 Menotti Garibaldi sposerà Italia Bidischini. Annita Garibaldi
Jallet, Gli anni di Costantinopoli nel mito di Garibaldi, in Gli italiani di Istanbul. Figure,
comunità e istituzioni dalle riforme alla repubblica, a cura di Attilio De Gasperis e Roberta
Ferrazza, Torino, Fondazione Giovanni Agnelli, 2007, pp. 51-63.
6 Gatta, Mazzini, cit., pp. 36-41.
7 Milani, Garibaldi, cit., p. 10.
36
la nave dei folli
frontarsi col pensiero di Saint-Simon (1760-1825) e dei suoi discepoli.
A partire però dall’ultimo quarto del XIX secolo, l’eclisse di questa cor-
rente del dibattito filosofico europeo si è compiuta con sorprendente
rapidità, facendo perdere le proprie tracce al punto da rendersi quasi
irreperibile8. Si potrebbe facilmente attribuire questa scomparsa alla
difficoltà di categorizzazione del pensiero di Saint-Simon e dei suoi di-
scepoli, rimasto sempre a cavallo tra filosofia, religione, scienze socia-
li e politica economica. Ma forse sarebbe più opportuno e stimolante
ipotizzare che l’improvviso occultamento del sansimonismo a partire
dalla fine del XIX secolo sia riconducibile all’integrale affermazione dei
suoi principi: accolti, elaborati e sussunti in quei fatidici anni dal nuovo
sistema capitalistico mondiale in fase di costruzione.
Negli anni trascorsi dall’occultamento del sansimonismo, l’unico
pensatore di rilievo che abbia cercato d’indagarne il ruolo nella com-
plessa equazione che ha reso possibile la formazione del nuovo para-
digma ideologico, estetico e organizzativo del capitalismo mondiale
è stato Walter Benjamin (1892-1940). L’originale opera da lui progettata
nel tentativo di svelare la natura strategica di questa equazione, Parigi
capitale del XIX secolo9, è rimasta però a un livello di bozza e ne possiamo
quindi desumere la portata solo dall’ingente apparato di appunti lasciati
dal grande intellettuale prima del drammatico suicidio in fuga dai nazi-
sti a Portbou, sul confine franco-spagnolo. Come affermato dai curatori
dell’edizione tedesca dell’Opera omnia di Benjamin, per quest’ultimo
«il XIX secolo è il sogno da cui bisogna risvegliarsi: un incubo che peserà
sul presente finché il suo incantesimo non sarà spezzato»10. Ispirato
da un’originale costellazione filosofica, in grado di amalgamare il mar-
xismo militante con la mistica ebraica e l’attenzione per le avanguar-
die artistiche d’inizio Novecento, Benjamin giunse a convincersi che
nel corso del XIX secolo il sistema capitalistico fosse riuscito per mezzo
8 Tra la fine del XIX e i primi anni del XXI secolo, considerazioni di un certo spes-
sore sul pensiero di Saint-Simon possono essere trovati in un ciclo di lezioni sul sociali-
smo tenute da Emile Durkheim (1858-1917) nel 1895 (ma pubblicate solo in forma postu-
ma nel 1928: Emile Durkheim, Il socialismo: definizione, origini, la dottrina saint-simoniana.
Milano, FrancoAngeli, 1983) e in uno dei ritratti “radiofonici” dedicati da Isaiah Berlin
(1909-1997) nel 1952 a sei rappresentanti del pensiero “anti-liberale” e poi pubblicati in
Isaiah Berlin, La libertà e i suoi traditori, Milano, Adelphi, 2005. In Turchia è da segnalare
l’opera dedicatagli nel 1967 dal celebre intellettuale Cemil Meriç (1916-1987), intitola-
ta Saint-Simon. İlk sosyolog, ilk sosyalist (Saint-Simon. Primo sociologo, primo socialista).
Istanbul, Iletişim Yayınları, 1995.
9 Walter Benjamin, I “passages” di Parigi, 2 voll., Torino, Einaudi, 2002.
10 Rolf Tiedemann, Introduzione in Benjamin, Passages, cit., p. xvii.
37
capitolo secondo
di diversi dispositivi “fantasmagorici” come le tecniche di rappresenta-
zione ed esibizione della merce (fotografia, pubblicità, grandi magazzini,
esposizioni universali...), le innovazioni urbanistiche (“haussmanniz-
zazione”, sistemi d’illuminazione, architettura in ferro e vetro, passaggi
commerciali...) e la strumentalizzazione di una serie d’ideologie utopi-
che (Fourier, Saint-Simon, lo stesso Marx...) a far sprofondare la società
occidentale che cominciava a liberarsi dal sonno oppiaceo della religio-
ne e del feudalesimo in un nuovo stato “ipnotico”:
Il capitalismo fu un fenomeno naturale col quale un nuovo sonno affol-
lato di sogni avvolse l’Europa, dando vita a una riattivazione delle forze
mitiche.11
Nel corso dei primi decenni del XX secolo, di cui Benjamin fu par-
tecipe e attento testimone, la pesantezza di questo nuovo “sonno affol-
lato di sogni” fu rafforzata dalla diffusione capillare dei media cartacei e
dal cancro dei nazionalismi, che portarono non a caso il continente verso
la catastrofe delle guerre mondiali e dei totalitarismi. Dopo la Seconda
Guerra mondiale, anche se in Europa si è assistito all’attenuarsi degli
impulsi guerrafondai e nazionalistici, lo stato di “sonno” non si è certo
squarciato ma ha anzi continuato ad approfondirsi grazie al potenziamen-
to tecnologico dei media e allo sviluppo della società dei consumi. Risulta
quindi doveroso provare a ripartire dall’intuizione di Benjamin, ovvero la
necessità di analizzare le origini di questa nuova forma di “sonno moder-
no” nel tentativo di spezzare il suo incantesimo. In particolare riteniamo
qui fondamentale riportare alla luce il pensiero di Saint-Simon e dei suoi
discepoli, dato il fondamentale ruolo avuto nel plasmare la struttura del
capitalismo occidentale a livello materiale e ideologico, soprattutto per
quanto concerne il tema dell’Oriente e dell’altro da sé12.
3. Nato il 17 ottobre 1760, la vita di Henri conte di Saint-Simon
risultò sconvolta dai fatti della Rivoluzione francese, che portarono
il giovane nobile a mettere radicalmente in discussione il ruolo del-
11 Benjamin, Passages, cit., p. 436.
12 A partire dai primi anni dei XXI secolo, quanto meno in Francia sembra esserci
stato un risveglio dell’interesse per la figura di Saint-Simon, sia nell’ambito degli studi
sul rapporto tra tecnologia e società (Pierre Musso, Armand Mattelart), che per quanto
riguarda il ruolo dello Stato nella pianificazione economica. Si veda ad esempio Pierre
Musso and the Network Society. From Saint-Simonianism to the Internet, edited by Jose Luis
Garcia, Cham, Springer, 2016. E anche Pierre Dardot, Christian Laval, La nuova ragione
del mondo. Critica della razionalità neoliberista, Roma, Derive Approdi, 2013, pp. 483-485.
38
la nave dei folli
la propria classe sociale, alla luce dell’epocale trasformazione in cor-
so. Infatti, a partire dalla scrittura nel 1802 della Lettera di un abitante
a Ginevra fino alla morte nel 1825, il conte di Saint-Simon dedicò ogni
energia a esaltare la laboriosità come fonte di benessere collettivo, con-
trapponendo questo valore alla pigrizia, al conservatorismo e al paras-
sitismo delle classi sociali legate alla nobiltà e al clero, ovvero i simboli
di quell’ancien régime destinato di lì a poco a essere spazzato via dalla
storia. Nello specifico il principale interlocutore di Saint-Simon appari-
va essere la nascente classe industriale, da lui considerata il candidato
ideale a guidare l’umanità nel suo rinnovato cammino di progresso,
in quanto dotata della giusta attitudine mentale per “trasformare la
realtà”, ma anche del necessario capitale finanziario e delle competenze
tecniche e scientifiche per farlo. In ragione di ciò Saint-Simon ritene-
va che la classe industriale dovesse trovare anche il modo di acquisire
il controllo politico per poter assicurare a livello amministrativo e le-
gale le condizioni più adatte allo sviluppo degli interessi produttivi.
Saint-Simon si trovò per questo a criticare fortemente il modello britan-
nico, dove il sistema parlamentare garantiva una sorta di democrazia li-
berale ma l’autorità politica rimaneva in mano alla corona e la classe nobi-
liare manteneva posti chiave nell’amministrazione dello stato. Secondo
il conte francese, la classe industriale doveva riuscire a conquistare
quanto più potere politico possibile, evitando ogni genere di “ineffi-
cienza” derivante dalla presenza di blocchi di potere incancreniti.
Ma allo stesso tempo Saint-Simon non dava particolare importanza alle
questioni politiche in senso stretto, in quanto ciò che doveva contare
erano i risultati: in questo senso a suo parere la democrazia era un siste-
ma positivo per il fatto di garantire i diritti “liberali” necessari a stimo-
lare la produttività, il consumo e lo scambio commerciale, ma costituiva
un problema per quanto concerneva l’inerzia derivante dai dibattiti par-
lamentari, o i meccanismi che assicuravano il bilanciamento dei po-
teri. In realtà Saint-Simon riteneva che la soluzione politica migliore
fosse quella di un sovrano illuminato giunto al potere per merito e non
per diritto di nascita, e vide perciò nella figura di Napoleone Bonapar-
te l’incarnazione di questo ideale politico: un comandante autoritario
e ambizioso, ma allo stesso tempo di attitudine liberale, riformista
e industriosa13.
13 Hae Hyuk Yang, L’Orient de Saint-Simon et des Saint-Simoniens. Une étude du
discours (1825-1840), tesi di dottorato, Parigi Université VIII - Saint Denis, 2012, pp. 81-113.
39
capitolo secondo
Al termine dell’avventura napoleonica nel 1815, Saint-Simon com-
prese però che per mantenere viva l’utopia del progresso industriale
da lui coltivata era necessario cambiare strategia, ovvero implementare
un piano di sostegno agli interessi della nascente borghesia imprendi-
toriale, coerente con la forma del nuovo stato francese post-rivoluzio-
nario. Diversamente dal caso britannico o statunitense, dove le autorità
erano solite condurre politiche “liberali” per favorire l’attività produttiva
e commerciale, fornendo però scarso sostegno concreto, era necessario
secondo Saint-Simon promuovere in Francia una sempre più completa
integrazione tra stato e industria14.
Nella sua produzione teorica, il conte non si limitò però a tratta-
re unicamente questioni di carattere politico-economico: Saint-Simon
dedicò infatti ampio spazio al potenziale ruolo della religione cristiana
nel nuovo contesto storico segnato dai fatti della Rivoluzione francese.
Pur ritenendo doveroso condannare senz’appello il ruolo della religione
nel mantenimento di una mentalità oscurantista e la natura parassita-
ria del clero, Saint-Simon s’ingegnò a riformulare in maniera radicale
la missione della religione cristiana, assegnandole il ruolo di guida mora-
le nel futuro processo di rinnovamento dell’umanità. In virtù dell’intrin-
seca natura “universalista” del cristianesimo, e della specifica “laicità”
dell’originario messaggio cristiano, secondo il conte di Saint-Simon
sarebbe stato possibile promuovere un nuovo movimento di riforma
in grado di amalgamare la religione cristiana con le forme più liberali
di razionalismo scientifico, fornendo così all’umanità un nuovo model-
lo di religione universale in grado di fornire saldi riferimenti morali,
ma allo stesso tempo promuovere un’attitudine “illuministica” essen-
ziale all’auspicato progresso tecnico-scientifico della società15. Non per
niente a partire dal 1817 il conte di Saint-Simon ebbe per qualche anno
al suo servizio nelle vesti di segretario l’ancora giovanissimo Auguste
Comte (1798-1857), destinato a divenire poi celebre come uno dei fon-
datori della sociologia moderna e come promotore della filosofia positi-
vista nelle vesti di nuova religione universale16.
14 Ivi, pp. 122-133.
15 Ivi, pp. 133-140.
16 La collaborazione tra Saint-Simon e Auguste Comte si protrasse fino all’aprile
1824. Meriç, Saint-Simon, cit., pp. 33-35. Risulta di estremo interesse per l’economia delle
vicende narrate in questo libro apprendere che il 4 febbraio 1853 Auguste Comte da Parigi
indirizzò una lunga lettera allo statista ottomano Mustafa Reşit, elogiando il ridotto tenore
“metafisico” della teologia islamica e affermando che per questo motivo sarebbe risultato
più semplice per l’impero ottomano effettuare la salvifica transizione alla filosofia positi-
vistica e alla “religione dell’Umanità” propagandate dal visionario sociologo francese.
40
la nave dei folli
Il giovane Auguste Comte ebbe quindi la possibilità di assistere
in prima persona agli animati dibattiti condotti da Saint-Simon negli
ultimi anni della sua vita, quando intorno a lui a Parigi si formò un’ap-
passionata comunità di discepoli che nutrivano per il conte e per le sue
idee una vera e propria adorazione. In seguito a una rottura improvvisa
il giovane sociologo decise però di prendere le distanze da Saint-Simon
e dalla sua comunità mancando così di fornire il suo contributo alla
seconda fase del sansimonismo, forse la più cruciale.
4. Infatti, come spesso accade, a rendere celebre e influente il pen-
siero del conte di Saint-Simon furono in realtà i suoi discepoli, i quali su-
bito dopo la morte del maestro nel 1825 si misero all’opera per mantene-
re viva l’eredità delle sue idee, utilizzando lo strumento “evangelico” più
adeguato allo spirito dei tempi: un giornale intitolato significativamente
«Le Producteur». Gli entusiasti “apostoli” del conte di Saint-Simon,
oltre ad avere in comune la giovane età (essendo tutti nati a cavallo del
passaggio di secolo), risultavano condividere anche la provenienza so-
ciale (medio-alta borghesia, molti erano figli di banchieri) e il percorso
formativo presso l’École Polytechnique di Parigi o simili facoltà tecni-
co-scientifiche17. Venuta a mancare l’autorità del maestro, i discepoli
cominciarono in breve tempo a promuovere e opporre tra loro diverse
interpretazioni del suo pensiero, arrovellandosi in complicati dibattiti
interni che attrassero presto sui sansimoniani lo stigma della “setta”.
In generale si può comunque affermare che il pensiero sansimo-
niano nel corso della sua seconda fase divenne molto più ambizioso
e concreto a livello pratico, anche perché in ragione della loro origine
sociale i discepoli di Saint-Simon si sentivano direttamente coinvolti nel
progetto di trasformazione della società, e desideravano fornire in pri-
ma persona il loro contributo, mettendo a disposizione le proprie idee
e i propri capitali. Progressivamente i sansimoniani abbandonarono
le astrattezze filosofiche del pensiero originario del conte per concen-
trarsi sul modello di società da implementare, che nella loro visione
ideale prevedeva l’organizzazione sistematica di tutte le attività umane
sulla base di un sistema di potere gerarchico e centralizzato. Solo così
infatti si sarebbe potuta realizzare la nuova missione del genere umano,
17 Paola Ferruta, Constantinople and the Saint-Simonian Search for the Female
Messiah: Theoretical Premises and Travel Account from 1833, «The International Journal for
the Humanities», 6, 7, 2008, p. 114.
41
capitolo secondo
ovvero «sfruttare e trasformare il globo terrestre per rendere il regno
della natura più utile all’umanità»18.
Questa rapace visione utilitarista del rapporto tra genere umano
e mondo naturale risultò a sua volta rafforzato a livello ideologico dal
modo in cui le idee di Saint-Simon sul cristianesimo furono interpreta-
te dai suoi discepoli, ovvero invocando la superiorità della nuova cultura
cristiana-razionalista su tutte le altre civilizzazioni, e giustificando così
ogni genere di politica imperialista in quanto portatrice di progresso.
Con le loro filantropiche invocazioni riguardo alla necessità di portare
la luce ai popoli oppressi per consentire la loro “liberazione”, i sansi-
moniani coltivavano in realtà la chiara intenzione di legittimare i loro
progetti per ampliare il raggio potenziale di attività industriale, comin-
ciando con le regioni rurali di Francia e giungendo ai paesi affacciati sul
bacino meridionale e orientale del Mediterraneo19.
Risulta inoltre di particolare interesse notare come – in forma com-
plementare al desiderio di “salvare” le geografie meno fortunate dall’ar-
retratezza economica – i sansimoniani in quegli anni abbiano sviluppato
anche un ossessivo interesse per la questione dell’eguaglianza di genere
e la “liberazione della donna”. Facendo riferimento a un discorso parare-
ligioso che invocava la necessità di riequilibrare le forze maschili e fem-
minili della terra, i sansimoniani tentarono di dare legittimità a una vi-
sione fortemente paternalistica secondo cui gli uomini avrebbero salvato
le donne, mentre i paesi europei di tradizione cristiana avrebbero per-
messo a quelli “orientali” di tradizione musulmana di avanzare verso
il progresso. Alla base della loro ideologia stava inoltre la convinzione
che i ricchi avrebbero a loro volta salvato i poveri, o meglio: una efficace
amministrazione dei processi economici avrebbe assicurato la sparizione
delle classi sociali, in quanto i sansimoniani erano convinti che lo svilup-
po industriale avrebbe recato benessere a tutti in eguale misura, fino a
giungere al perfezionamento dell’intero globo terrestre20.
Nonostante i conflitti interni, grazie all’originalità e all’efficacia del-
le loro idee i sansimoniani acquisirono notevole popolarità, giungendo
nel corso del 1830-31 a diffondere per la prima volta il loro pensiero an-
che in altri paesi nell’ambito del sommovimento politico verificatosi in
18 Philippe Régnier, Les saint-simoniens en Égypte (1833-1851), Il Cairo, Ed. BUE,
1989, p. 23.
19 Jean-François Figeac, La géopolitique orientale des saint-simoniens, «Cahiers de la
Méditerranée», 85, 2012, pp. 251-254, 262-267.
20 Yang, L’Orient de Saint-Simon, cit., pp. 184-211.
42
la nave dei folli
quei mesi in Europa. A fine novembre del 1830 il gruppo parigino mise
a segno un ulteriore obiettivo acquisendo il giornale intitolato «Globe»,
appartenuto in precedenza al locale movimento romantico. Ma dopo aver
raggiunto l’apogeo della fama nel giro di pochi mesi il gruppo dei sansi-
moniani implose all’improvviso alla fine del 1831, a causa di una serie di
contrasti ideologici e caratteriali tra le sue figure più importanti21.
5. Dopo l’abbandono di Auguste Comte, a prendere il posto di se-
gretario personale di Saint-Simon nel 1823 era stato Olinde Rodrigues
(1795-1851): si trattava del rampollo di una famiglia di banchieri che,
a causa delle origini ebraiche, s’era visto negare l’accesso alle presti-
giose École Polytechnique ed École Normale Supérieure, e aveva quin-
di dovuto ripiegare sulla facoltà di Scienze dell’Università di Parigi.
Nel periodo in cui si trovava a svolgere il ruolo di segretario personale
del conte, Rodrigues a un certo punto introdusse il vecchio amico d’in-
fanzia Barthélemy Prosper-Enfantin (1796-1864) nella cerchia dei disce-
poli di Saint-Simon; poco dopo la morte di quest’ultimo furono proprio
Rodrigues ed Enfantin a fondare «Le Producteur», giornale che svolse
un ruolo fondamentale nel definire e diffondere il pensiero sansimonia-
no. Nel giro di pochi anni l’ambizioso Enfantin (anch’egli figlio di ban-
chieri) grazie al suo carisma divenne una delle figure di spicco del gruppo,
e il giorno di Natale del 1829 lui e Armand Bazard22 (1791-1832) nel cor-
so di una cerimonia a Parigi furono investiti da Rodrigues con il titolo
di «padri supremi della religione sansimoniana»23.
Col passare del tempo Enfantin risultò però assumere posizio-
ni sempre più estreme riguardo alla questione della “eguaglianza tra
21 Ivi, pp. 173-177.
22 Diversamente dagli altri principali discepoli di Saint-Simon, Armand Bazard
non proveniva da una famiglia agiata, ma accrebbe la sua visibilità sociale grazie al matri-
monio con Claire Joubert (1794-1883, figlia di un membro dell’assemblea costituente del
1789, e a sua volta figura di rilievo nella nascita del pensiero femminista) e al valore mili-
tare dimostrato durante la battaglia di Parigi del marzo 1814. Già iniziato alla massoneria
presso la loggia “Amis de la Vérité”, Bazard nel 1821 fu tra i fondatori, assieme a Philippe
Buchez e il cognato Nicolas Joubert, della Charbonnerie Française con lo scopo di replicare
in Francia l’opposizione anti-borbonica praticata nella penisola italiana. Nell’ambito della
cosiddetta “rivoluzione di luglio” del 1830, Bazard fu incaricato dagli altri sansimoniani
di recarsi a incontrare il marchese La Fayette (1757-1834) e invitarlo a sfruttare lo stato di
emergenza per implementare un piano “tecnocratico” di riforme economiche. La richie-
sta di Bazard rimase però senza seguito. Si veda Ralph Locke, Music, Musicians and the
Saint-Simonians, Chicago, University of Chicago Press, 1986, p. 8.
23 Le siècle des saint-Simoniens: du Nouveau Christianisme au Canal de Suez, a cura di
Nathalie Coilly, Philippe Régnier, Parigi, Bibliotheque Nationale de France, 2006, p. 8.
43
capitolo secondo
uomo e donna”: secondo il parere dall’altro leader Bazard, si rischiava
in questo modo di mettere in discussione alcuni fondamentali precetti
cristiani e incrinare la sacralità del vincolo matrimoniale. Il conflitto tra
i due andò inasprendosi fino alla rottura definitiva avvenuta nel novem-
bre 1831, cui fece seguito l’abbandono di alcuni elementi del gruppo
e la suddivisione dei superstiti in due diverse fazioni. L’improvvisa mor-
te di Bazard nel luglio 1832 ebbe però l’effetto di assegnare l’egemonia
alla fazione più radicale legata a Enfantin. Quest’ultimo in seguito allo
strappo aveva cominciato a manifestare ancora più liberamente le sue
idee, facendosi chiamare “il Padre” e dichiarando la necessità di prati-
care una particolare forma di “amore libero” per realizzare la sua idea
di eguaglianza tra uomo e donna. Secondo lui era infatti necessario
mettere in pratica il concetto di “coppia sacra”, con lo scopo di ricon-
giungere l’elemento maschile con quello femminile e garantire così un
migliore funzionamento della società nel suo complesso24.
Malvisti dalla popolazione e osteggiati dalle autorità, Enfantin e
i sansimoniani a lui fedeli nel giugno 1832 furono costretti ad abbando-
nare la loro sede nel 2° arrondissement di Parigi, per trasferirsi in una
proprietà della famiglia Enfantin fuori città, presso la collina di Ménil-
montant25. Ma dopo pochi mesi le autorità francesi, allertate dalle voci che
continuavano a circolare riguardo alle pratiche immorali dei sansimoniani
a Ménilmontant, aprirono un processo che a dicembre portò all’incar-
cerazione di Enfantin e del suo giovane braccio destro Michel Chevalier
(1806-1879) presso la prigione di Sainte-Pélagie. Le condizioni di prigio-
nia si rivelarono in realtà estremamente agiate, permettendo a Enfantin
di comunicare periodicamente con i suoi discepoli, sia in forma scritta
che tramite incontri privati. Fu così che, in occasione di uno dei suoi pri-
mi contatti con l’esterno, Enfantin fece un annuncio destinato ad avere
effetti dirompenti sul successivo corso del sansimonismo. “Il Padre” di-
chiarò infatti conclusa una prima fase nella storia del movimento e la
necessità di dare avvio a una nuova epoca di “apostolato”, in cui i membri
del gruppo dovevano sentirsi liberi da vincoli di fedeltà nei suoi confronti,
allo scopo di trovare il modo migliore in cui implementare il messaggio
sansimoniano, anche in altre regioni del mondo26.
24 Ferruta, Constantinople, cit., pp. 114-115.
25 Yang, L’Orient de Saint-Simon, cit., pp. 233-234.
26 Ivi, pp. 253-259.
44
la nave dei folli
In seguito a questo annuncio il sansimonismo entrò in una fase
di maturità, che permise alle sue idee di uscire dal bozzolo del settari-
smo per confrontarsi con la realtà sociale dell’Europa ottocentesca, fino
a divenire in pochi decenni un elemento fondamentale della sua matri-
ce ideologica. Ma i primi contatti con l’esterno si svilupparono in molti
casi ancora secondo modalità pittoresche, influenzate dall’aura di setta
“religiosa” assunta negli ultimi anni dalla comunità dei sansimoniani.
È questo il caso dei cosiddetti Compagnons de la femme, un gruppo fon-
dato il 22 gennaio 1833 da émile Barrault (1799-1869), un professore
di retorica che s’era unito ai sansimoniani nell’aprile 1828, divenendo
in breve tempo un esponente di spicco in riferimento alle questioni este-
tiche e artistiche della filosofia sansimoniana. Rifacendosi a tematiche
già lungamente affrontate e discusse dai sansimoniani negli anni pre-
cedenti, Barrault dichiarò che l’obiettivo principale del nuovo gruppu-
scolo, formato da una ventina di persone, sarebbe stato quello di trovare
la “metà mancante” da associare al “Padre” Enfantin e celebrare così quelle
“nozze sacre” che avrebbero dato al mondo una guida spirituale completa
ed equilibrata, suscitando un processo di rinnovamento e recupero dell’e-
quilibrio delle energie maschili e femminili dell’umanità27.
Sulla base di questo pensiero i Compagnons de la femme si con-
vinsero che la “Madre” da loro cercata dovesse trovarsi in un fantoma-
tico “Oriente” simboleggiato secondo Barrault dalla città d’Istanbul,
in ragione della sua storia e geografia, nonché della presenza della mo-
numentale chiesa (poi moschea) di Aya Sofia, antica meraviglia archi-
tettonica colma di simboli sapienziali legati al mistero della femmini-
lità. Inoltre la donna da trovare sarebbe stata probabilmente un’ebrea,
o in ogni caso una donna velata appartenente a una classe sociale disagia-
ta e oppressa, che loro avrebbero scoperto e liberato28. Inebriati da que-
ste fantasie forse ancora sinistramente famigliari, Barrault e una dozzi-
na di compagni decisero di mettersi in cammino a piedi verso Lione per
poi proseguire in direzione della costa meridionale, suscitando notevole
scalpore lungo la strada a causa dei lunghi abiti bianchi e dei comizi
improvvisati nelle piazze per convincere altre persone a unirsi alla loro
missione. Giunti infine a Marsiglia, grazie all’aiuto di alcuni sostenito-
ri locali, riuscirono in pohi giorni ad accordarsi per un passaggio fino
a Istanbul per mezzo di una nave di nome Clorinde.
27 Ivi, pp. 262-265.
28 Ferruta, Constantinople, pp. 116-118.
45
capitolo secondo
6. Il venticinquenne Garibaldi dev’essere rimasto parecchio sor-
preso dalle rumorose manifestazioni di giubilo, messe in atto sulla ban-
china del porto di Marsiglia dai numerosi simpatizzanti e curiosi giunti
il 23 marzo 1833 a salutare la partenza della nave Clorinde, di cui il giova-
ne nizzardo era secondo capitano29. Purtroppo i protagonisti di questo
intrigante quanto misconosciuto incrocio di destini non hanno lasciato
molti dettagli a riguardo, ma sappiamo che le numerose conversazioni
avute dal giovane Garibaldi con émile Barrault ebbero un ruolo cruciale
nell’ampliare gli orizzonti intellettuali del futuro “eroe dei due mondi”
(per sua stessa ammissione), in quanto lo misero per la prima volta in
contatto diretto con un pensiero utopico finalizzato alla trasformazione
sociale30. Grazie a questa scintilla il fuoco della passione politica di Ga-
ribaldi trovò l’occasione di divampare quando, qualche settimana dopo
aver lasciato a Istanbul la comitiva dei sansimoniani, la nave Clorinde
giunse a Taganrog sul Mar d’Azov. Qui infatti, in una taverna del porto
di questa lontana città all’estremità settentrionale del Mar Nero, sentì
parlare per la prima volta di Mazzini, giungendo subito a percepirsi
come un suo “credente”31. Non per niente al ritorno a Nizza Garibaldi
si mise immediatamente in contatto con alcune cellule mazziniane,
dando così inizio alla sua nuova biografia politica, che nel giro di soli
pochi mesi gli costò una condanna a morte in contumacia: ebbe quindi
inizio un travagliato periodo di fuga che alla fine del 1835 portò il futuro
eroe del Risorgimento italiano in Sud America32.
Per quanto concerne invece i Compagnons de la femme, giunti
a Istanbul il 15 aprile, la loro avventura nella capitale ottomana durò
29 Locke, Music, cit., p. 185. Garibaldi aveva ricevuto la patente di «capitano ma-
rittimo in seconda» il 20 febbraio 1832, «a consacrazione di dieci anni di vita di mare».
Si veda Garibaldi Jannet, La scuola, cit., p. 92. Su questo tema si veda anche l’ottimo articolo
di Romano Ugolini, Garibaldi, Barrault e il viaggio con la Clorinda, «Rassegna storica del
Risorgimento», supplemento/numero speciale (ottobre-dicembre) per il bicentenario del-
la nascita di Garibaldi, 2007, pp. 3-21.
30 Di fatto nel discorso politico italiano l’unica ragione per cui il pensiero sansimo-
niano risulta citato in qualche rara occasione è per dare un fondamento all’orientamento
“socialista” di Garibaldi: si veda ad esempio la lezione tenuta da Bettino Craxi all’Uni-
versità di Urbino nell’aprile 1988. Bettino Craxi, Pagine di storia della libertà, Firenze,
Le Monnier, 1990. pp. 17-35.
31 È interessante ricordare che Giovanni Pascoli (1855-1912) negli ultimi anni della
sua vita aveva iniziato un’opera poetica intitolata Poemi del Risorgimento, pubblicata poi
postuma dalla sorella Maria nel 1913, in cui sono incluse due composizioni dedicate a
questi momenti cruciali nel percorso formativo del nizzardo: Garibaldi coi sansimoniani:
i dodici esuli e A Taganrok: il credente.
32 Milani, Garibaldi, cit., pp. 11-24.
46
la nave dei folli
neanche una settimana, in quanto i costumi bizzarri e gli atteggiamen-
ti sfrontati ebbero l’effetto di suscitare unicamente scandalo e ostilità.
Dopo avere importunato decine di donne locali, rivolgendosi loro in fran-
cese per chiedere di scostare il velo allo scopo di individuare “la Madre”,
il 19 aprile i sansimoniani guidati da Barrault ebbero l’avventata idea di
bloccare il convoglio del sultano Mahmut II in uscita dalla preghiera del
venerdì, per poter comunicare direttamente con lui. Il fatto turbò forte-
mente il sovrano ottomano – già spossato in quei giorni dal grave proble-
ma “egiziano” di Mehmet Ali (si veda supra, cap. 1) – che decise di chie-
dere all’ambasciatore francese di allontanare dalla città gli indesiderati
soggetti. Il gruppo ricevette quindi l’ordine di lasciare immediatamente la
città con la possibilità di recarsi però a Izmir, dove si fermarono per qual-
che settimana fino a quando Barrault decise di partire per Odessa, alla
ricerca sia della “Madre” che di un sovrano interessato al progetto sansi-
moniano di unione delle energie di Oriente e Occidente. Poche ore dopo
lo sbarco in Crimea Barrault ricevette però l’ordine di lasciare immediata-
mente il territorio russo da parte delle autorità, probabilmente già allertate
da alcuni informatori in terra ottomana. Alla fine sia Barrault che molti
altri sansimoniani, abbandonata la vana ricerca della “Madre”, riusciro-
no però a trovare un sovrano ben disposto nei confronti delle loro idee:
il governatore d’Egitto Mehmet Ali33.
Dopo le delusioni incontrate a Istanbul e nel territorio sotto con-
trollo diretto del sultano ottomano, l’Egitto giunse ad acquisire un’im-
portanza cruciale nel pensiero di numerosi sansimoniani. In primo
luogo perché dopo l’occupazione napoleonica il paese si era guadagnato
un posto speciale nell’immaginario illuminista francese, e si credeva
necessario perseverare in un rapporto d’amicizia e collaborazione con
le autorità locali, per mantenere in quella regione un avamposto sim-
bolico e strategico del nuovo potere francese. In secondo luogo perché
il governatore Mehmet Ali, sin dalla presa del potere nel 1805, si era
dimostrato molto interessato a importare dall’Europa – e in particolare
dalla Francia – una serie di principi riformisti per garantire una miglio-
re efficienza dell’amministrazione, dell’economia e dell’apparato mili-
tare egiziano, in chiave di competizione con il potere ottomano.
E da ultimo perché, sin da quando era stato preso in considerazio-
ne da un ingegnere del comitato scientifico al seguito della campagna
33 Marcel Emerit, Les saint-simoniens en Grèce et en Turquie, «Revue des études
sud-est européenes», 13, 1975, pp. 246-247.
47
capitolo secondo
di Napoleone in Egitto, continuava a mantenersi vivo in Europa il so-
gno di riuscire un giorno a collegare le acque del Mar Mediterraneo
con quelle del Mar Rosso. I sansimoniani, in particolare, manifestarono
da subito interesse per il progetto in quanto, provenendo in maggioran-
za da una formazione politecnica, lo consideravano prima di tutto una
stimolante sfida professionale. Ma anche perché, col passare del tempo
e lo sviluppo di un discorso più mistico, i sansimoniani erano giun-
ti ad assegnare alla realizzazione del canale di Suez un cruciale ruolo
di comunione tra le energie spirituali di Oriente e Occidente, che poteva
garantire la pace e la possibilità d’incontro tra diverse culture tramite
lo scambio commerciale e di conoscenze34.
Con l’arrivo in Egitto anche del leader Enfantin nell’ottobre 1833
– subito dopo la scarcerazione da Sainte-Pélagie – la realizzazione
del canale di Suez divenne uno dei principali obiettivi sansimoniani:
un cavallo di battaglia che li portò a sviluppare un linguaggio più
concreto e adeguato a condurre le complesse trattative politiche e di-
plomatiche necessarie alla realizzazione di un’opera così ambiziosa.
Ma alla fine i sansimoniani si scontrarono con difficoltà logistiche in-
sormontabili, che nel giro di pochi anni convinsero quasi tutti a fare
ritorno in Francia, dove trovarono il modo di fornire contributi cruciali
allo sviluppo del nascente capitalismo francese ed europeo, promuoven-
do l’integrazione tra stato e settore industriale.
7. A dispetto delle sue indiscutibili qualità, il fatto che Ferdinand
de Lesseps (1805-1894) sia passato alla storia come l’artefice del canale
di Suez è legato indubbiamente a una serie di fortunose coincidenze.
Suo padre Mathieu (1771-1832) era stato un importante funzionario
al servizio della nuova Francia post-rivoluzionaria, prima come com-
missario commerciale dell’armata francese d’Egitto, poi dal 1805 fino
alla morte come diplomatico in numerose città d’Europa. Ferdinand
decise di seguire le orme del padre e, dopo un paio d’incarichi minori
a Lisbona e a Tunisi, subito dopo la morte del genitore nel 1832 fu asse-
gnato al posto di viceconsole ad Alessandria. Qui il giovane diplomatico
ricevette un trattamento di favore da parte del governatore Mehmet Ali:
quest’ultimo infatti aveva contratto un debito nei confronti del padre
del giovane, in quanto era stato un intervento di Mathieu de Lesseps
a permettere all’ambizioso Mehmet Ali di districarsi nei primi anni
34 Yang, L’Orient de Saint-Simon, cit., pp. 274-284.
48
la nave dei folli
del secolo da una difficile congiuntura politica, superata la quale aveva
potuto effettuare la sua scalata al potere.
Dopo essersi messo in viaggio per Alessandria d’Egitto in seguito
al ricevimento dell’incarico, Ferdinand e il suo equipaggio furono però
costretti ad attendere per alcune settimane sulla loro imbarcazione senza
poter mettere piede a terra, in quanto nella città infuriava una terribile
epidemia di colera. La sede diplomatica francese ebbe però l’accortezza
di allietare l’attesa della comitiva fornendo pacchi di libri e altro materia-
le bibliografico: fu proprio durante questo periodo forzato di letture che
Ferdinand s’imbatté per la prima volta nel progetto del canale di Suez
tracciato oltre tre decenni prima dall’ingegnere Jacques-Marie Le Père,
durante la campagna d’Egitto di Napoleone Bonaparte. Anche se l’in-
gegnere francese aveva stimato, in maniera del tutto infondata, che tra
Mar Rosso e Mar Mediterraneo esistesse un dislivello di 9 metri, giu-
dicando il progetto del canale ancora più difficile di quanto già non fos-
se, il giovane Ferdinand ne rimase subito affascinato. Così, quando ebbe
finalmente la possibilità di assumere l’incarico in città, alla prima occa-
sione utile ne parlò con il governatore Mehmet Ali, il quale, in ragione
di quell’antico debito verso il padre, dimostrò da subito particolare affetto
e riguardo per Ferdinand. Col tempo quest’ultimo divenne anche una sor-
ta di precettore privato per Said (1822-1863), il giovane figlio del governa-
tore egiziano, sviluppando con lui un rapporto d’amicizia che si sarebbe
poi rivelato cruciale nella vicenda del progetto del canale di Suez35.
Con l’arrivo nel 1833 in Egitto di numerosi sansimoniani, inclusi
quelli al seguito del leader Enfantin appena scarcerato, si creò una fatale
coincidenza d’interessi riguardo al progetto del titanico canale, deside-
rato e promosso per diverse ragioni tanto dall’ambizioso governatore
che dai visionari sansimoniani, con Ferdinand de Lesseps a svolgere
il ruolo di entusiasta mediatore istituzionale e diplomatico. Ma a dispet-
to del comune accordo, ci si rese presto conto di quanto fosse difficile
dare concretamente avvio a un’opera di dimensioni così enormi, e nel
giro di pochi anni il progetto finì per essere accantonato. De Lesseps ri-
mase in Egitto fino al 1837 quando fu assegnato a una nuova sede diplo-
matica, mentre la maggioranza dei principali esponenti sansimoniani
tornarono in Francia già intorno al 1835-1836. Reduci dalla fallimentare
esperienza egiziana, molti di loro decisero di trasferire le ambizioni re-
35 Trevor Mostyn, Egypt’s Belle Epoque: Cairo and the Age of the Hedonists, London,
IBTauris, 2006, pp. 91-92. Si veda anche David Landes, Banchieri e pascià. Finanza inter-
nazionale e imperialismo economico, Torino, Bollati Boringhieri, 1990, p. 162.
49
capitolo secondo
lative alla costruzione di grandi opere – progetti in grado di combinare
ideali spirituali e sviluppo tecnologico con un processo d’integrazione
tra stato, industria e sistema finanziario – nel nascente settore ferrovia-
rio: i fratelli Pereire36, cugini di Olinde Rodrigues, già nel 1835 – con
la partecipazione di un membro della famiglia Rothschild37 – fonda-
rono la Compagnie des Chemins de Fer de Paris a Saint Germain, un’im-
presa che negli anni seguenti fu ampliata divenendo la Compagnie des
Chemins de Fer de l’Ouest con Michel Chevalier nel ruolo di consulente
tecnico. Sempre nel settore ferroviario Prosper Enfantin nel 1845 fu no-
minato a capo del progetto per la costruzione della ferrovia Parigi-Lione.
émile Barrault, responsabile come abbiamo visto di quella fondamentale
svolta “utopista” nel pensiero di Garibaldi, dopo il ritorno in Francia nel
1837 continuò invece a promuovere le idee sviluppate dai sansimoniani
mediante attività giornalistica, ma negli anni ’50, grazie alla collabora-
zione col fratello ingegnere Alexis, si trovò anch’egli a prendere parte
ad alcuni progetti ferroviari in Spagna e in Prussia, oltre a farsi coinvol-
gere nella fase finale d’implementazione del canale di Suez.
I sansimoniani infatti, pur portando avanti con successo i loro am-
biziosi progetti ferroviari sul continente europeo, continuarono a man-
tenere vivo il sogno del grande canale in grado di collegare le acque
tra Oriente e Occidente. Nel settembre 1847 Enfantin effettuò un’ulte-
riore missione in Egitto, accompagnato da una delegazione di tecnici
e rappresentanti delle istituzioni francesi, ma ormai Mehmet Ali era vec-
chio e stanco, e di lì a poco in Francia come nel resto d’Europa esplose
il 1848, che portò a un forte periodo d’instabilità politica riaffossando
ancora una volta le ambizioni dei sansimoniani riguardo al canale.
Negli anni successivi si verificarono però una serie di eventi che
condussero a una svolta definitiva nella travagliata vicenda del canale:
in primo luogo il 20 dicembre 1848 in Francia salì al potere tramite
elezioni presidenziali Carlo Luigi Napoleone Bonaparte, che dopo qual-
che anno – precisamente nel 48° anniversario dell’incoronazione del
più celebre zio (2 dicembre 1852) – giunse a farsi nominare imperatore
col titolo di Napoleone III, dando avvio al cosiddetto Secondo impero
36 Emile (1800-1875) e Isaac (1806-1880), membri di una famiglia ebrea porto-
ghese giunta in Francia nel 1741 per lavorare al servizio di re Luigi XV. Dopo i successi
in ambito ferroviario, i due fratelli nel 1852 fondarono la banca Credit Mobilier, istituzione
che, tra le varie cose, svolse un ruolo fondamentale nel supporto finanziario alla trasfor-
mazione del paesaggio urbano di Parigi voluta dal prefetto Haussmann.
37 Si trattava di James Mayer Rothschild (1792-1868), fondatore del ramo francese
della famiglia.
50
la nave dei folli
francese acclamato da numerosi sansimoniani come un “dono della
provvidenza” (come una “farsa” invece da Karl Marx, nel celebre com-
mento all’affermazione di Hegel secondo cui «la storia si ripete sempre
due volte...»38). Il novello imperatore convolò a nozze il 30 gennaio 1853
con Eugenie, la cui madre María Manuela Kirkpatrick era niente meno
che cugina di primo grado di Ferdinand de Lesseps.
Nel frattempo in Egitto alla morte di Mehmet Ali nel 1848 salì
al potere il figlio maggiore Abbas Hilmi (1812-1854). Ma in seguito all’im-
provvisa morte di quest’ultimo nell’estate 1854, ad assumere l’incarico
di governatore d’Egitto fu proprio quel Said Pascià che negli anni ’30
aveva stretto un rapporto d’amicizia e fiducia con Lesseps. A quel punto
si rivelò piuttosto facile per quest’ultimo, forte dell’esperienza strategica
acquisita dai sansimoniani nella costruzione di grandi opere, e dell’ap-
poggio istituzionale del nuovo imperatore francese, farsi invitare in Egitto
dal nuovo governatore e strappare nel giro di poche settimane (30 novem-
bre 1854) la concessione ufficiale per la costruzione del canale di Suez.
Come vedremo anche in seguito, l’implementazione del progetto
richiedette ancora notevole tempo ed energia, a causa della complicata
trama geopolitica (in particolare l’opposizione del governo britannico
nella persona di Lord Palmerston) e dell’enorme capitale necessario,
reperito in parte grazie a un innovativo strumento sviluppato dai san-
simoniani per finanziare i progetti delle ferrovie: la vendita di azioni
sul nascente mercato finanziario europeo. Alla fine il canale sarà inau-
gurato con una memorabile celebrazione il 17 novembre 1869, seguita
due anni dopo da un altro evento epocale: la prima assoluta dell’Aida di
Giuseppe Verdi, messa in scena presso il Teatro dell’Opera del Cairo
la sera del 24 dicembre 187139.
38 Karl Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, trad. it. di Palmiro Togliatti, Roma,
Editori Riuniti, 1954, p. 19.
39 Mostyn, Egypt’s Belle Epoque, cit., p. 72. Si veda anche Hayrettin Pınar, Babı-
Ali ve Hıdiv Ismail. Tanzimat döneminde iktidarın sınırları (La Sublime porta e il khedivè
Ismail. Confini del potere nell’era del Tanzimat), Istanbul, Kitap Yayınevi, 2012, p. 155.
Dopo aver inaugurato il Teatro dell’Opera del Cairo nel 1869 sempre con un’opera di
Verdi (Rigoletto), il khedivè Ismail riuscì a convincere il celebre compositore italiano a pro-
durre un’opera originale basata su un contesto storico “egiziano”. L’Aida avrebbe dovuto
essere messa in scena già nel 1870, ma i preparativi furono ostacolati dallo scoppio della
guerra franco-prussiana.
51
3. Nuovo ordine ottomano.
I Fossati architetti a Istanbul
Ci sono luoghi in cui la storia
è inevitabile come un incidente
automobilistico, luoghi in cui
la geografia provoca la storia.
Iosif Brodskij, Fuga da Bisan-
zio1
1. L’epocale trasformazione nel corso politico e ideologico dell’im-
pero ottomano avvenuta nei primi decenni del XIX secolo non mancò
di esercitare profondi effetti sulla struttura urbanistica e architettonica
della sua capitale. Il definitivo abbandono da parte di Mahmut II dello
storico palazzo di Topkapı – in favore del palazzo di Çırağan situato sulla
costa europea del Bosforo – in principio si ritenne giustificato da moti-
vazioni di sicurezza, in ragione delle violente cospirazioni che avevano
portato alla morte dei suoi due predecessori. Ma col passare degli anni
il sultano ottomano rese evidente con la realizzazione di numerosi pro-
getti che in realtà il trasferimento da lui effettuato non era solo materiale,
ma anche simbolico: gradualmente infatti l’insediamento originario della
città, quella penisola storica che era la sola in realtà a meritare formalmen-
te la denominazione di “Istanbul”, cominciò a perdere importanza strate-
gica in favore dell’altra sponda del Corno d’Oro, ovvero quella parte della
città da sempre legata all’identità mercantile e cosmopolita dei quartieri
di Galata e Pera, e quindi a una natura più aperta e liberale.
In ragione di ciò nel giro di pochi decenni questa parte della città,
che fino all’inizio del XIX secolo s’era sviluppata in forma compatta
solo poco oltre l’attuale piazzetta di Tünel – in corrispondenza della
sommità del colle (noto come San Teodoro) e del crocicchio noto come
Stavrodromi (“quattro strade”, tra l’attuale Istiklal Caddesi, Kumbaracı
Sokak ed Asmalı Mescit Sokak)2 – diradandosi poi sempre più in dire-
1 Iosif Brodskij, Fuga da Bisanzio, trad. it. di Gilberto Forti, Milano, Adelphi, 1987,
p. 146.
2 Akylas Millas, Pera. The Crossroads of Constantinople, Atene, Troia Editions, 2006,
pp. 145-157. Nello stesso libro si veda anche la mappa a p. 245. Si veda inoltre Paolo Girardel-
li, Sheltering Diversity: Levantine Architecture in Late Ottoman Istanbul, in Multicultural Urban
Fabrics and Types in the South and Eastern Mediterranean, a cura di Maurice Cerasi, Attilio
53
capitolo terzo
zione di Taksim (che era zona di cimiteri) e lungo la costa del Bosfo-
ro, conobbe una fase d’inarrestabile espansione urbanistica, stimolata
dalla costruzione di progetti imperiali in numerosi punti chiave del suo
territorio3.
Se la storiografia turca, per ragioni d’orgoglio nazionale, cerca anco-
ra oggi di negare le ormai indiscusse origini cristiane (quasi sicuramente
greche) del celebre architetto Mimar Sinan4 attivo durante il XVI secolo,
nel caso di quest’ultima fase di frenesia costruttiva del XIX secolo gene-
ralmente preferisce evitare tout court di menzionare i nomi dei progettisti
dei grandi palazzi o delle altre “grandi opere” realizzate in questo perio-
do. La ragione sta nel fatto che la quasi totalità di questi progetti furono
assegnati, durante tre successive generazioni, ai membri della famiglia
armena Balian, originaria della città anatolica di Cesarea (oggi Kayseri).
Il capostipite della dinastia, e il primo a fregiarsi del titolo di “primo archi-
tetto imperiale” a partire dai primissimi anni del XIX secolo fino alla mor-
te, fu Krikor Balian (1764-1831), cui spettarono alcuni primi fondamen-
tali incarichi come la moschea di Nusretiye sul lungomare tra Tophane
e Fındıklı – per commemorare l’annientamento del corpo dei giannizzeri
nel 1826 – e quella di due enormi caserme per ospitare il nuovo esercito
riorganizzato secondo principi moderni: quella di Davutpaşa (attualmen-
te utilizzato come campus universitario da ITU) e quella di Selimiye sulla
costa asiatica, ancora oggi attiva e visibile in tutta la sua imponenza navi-
gando col traghetto in direzione di Kadıköy5.
A svolgere però il ruolo di spartiacque nella storia dell’urbanizzazio-
ne di Istanbul furono le opere del figlio di Krikor, Garabed Balian (1800-
1866), il quale dopo una visita effettuata in gioventù presso le rovine
di Ani (storica capitale del regno armeno nei pressi di Kars, conquistata
dai Selgiuchidi nell’XI secolo e poi abbandonata in seguito alle invasioni
dei Mongoli nel XIII secolo), aveva sentito la necessità di approfondire
lo studio della sofisticata cultura architettonica armena6. Durante gli ulti-
Petruccioli, Adriana Sarro e Stefan Weber, Beirut, Orient-Institut Beirut, 2007, pp. 113-115.
3 Tuğlacı, Balian Family, cit., p. 88. Per lavori più recenti, si veda anche: Alyson
Wharton, The Architects of Ottoman Constantinople. The Balyan Family and the History
of Ottoman Architecture, London, I.B. Tauris, 2015. Anche Armenian Architects of Istanbul
in the Era of Westernization, a cura di Hasan Kuruyazıcı, Istanbul, Hrant Dink Foundation
Publications, 2010.
4 Doğan Kuban, Osmanlı Mimarisi, Istanbul, Yem Yayın, 2007, pp. 255-256.
Si veda anche Godfrey Goodwin, A History of Ottoman Architecture, London, Thames &
Hudson, 1971, p. 199.
5 Tuğlacı, Balian Family, cit., pp. 41-61.
6 Mi sembra doveroso ricordare l’eccezionale e pionieristico lavoro di ricerca effettua-
54
nuovo ordine ottomano
mi anni del regno di Mahmut II, le opere di maggior rilievo da lui portate
a termine furono il primo nucleo della nuova scuola militare a Harbiye
dietro l’attuale piazza Taksim, la caserma di Kuleli sulla sponda asiatica
del Bosforo, e infine il mausoleo per la tomba del sultano Mahmut II nei
pressi di Beyazit. Nel 1836 era inoltre iniziata la costruzione del nuovo
palazzo di Çırağan (al posto di quello in legno fatto costruire dal sultano
Selim III a Krikor Balian nel 1805), il cui completamento coincise con
la salita al trono del nuovo sultano Abdülmecid nel 1839, che qui sta-
bilì la sua residenza fino a quando non fu terminato il colossale palazzo
di Dolmabahçe, la cui costruzione – affidata sempre a Garabed, affianca-
to dal cognato Ohannes Kalfa Serverian e poi anche dal figlio Nigogos –
si protrasse dal 1847 al 1855, anche se per la sua inaugurazione (luglio
1856) si volle attendere il termine della guerra di Crimea. Tra le altre ope-
re di rilievo, la Scuola imperiale di Medicina inaugurata nel 1846 – che
nella successiva versione del 1862, progettata sempre da Garabed, costi-
tuisce ancora oggi l’edificio del celebre liceo di Galatasaray – l’ospedale
militare e la caserma di Gümüşsuyu (attuale sede della facoltà d’Inge-
gneria di ITU), la moschea di Bezmialem (madre di Abdülmecid) a fianco
del palazzo di Dolmabahçe, e le residenze per Münire e Cemile Sultan
(figlie di Abdülmecid) sul lungomare nei pressi di Fındıklı (attualmente
sedi dell’Università Mimar Sinan). Il figlio di Garabed, Nigogos (1826-
1858), dopo essere stato inviato nel 1842 a studiare architettura a Pari-
gi, al ritorno a Istanbul s’impose da subito come una figura intellettuale
di notevole rilievo, attivo anche a livello politico e intellettuale. Ma la pre-
matura morte a soli 32 anni, compianta persino dal sultano Abdülmecid
con la dichiarazione di tre giorni di lutto ufficiale, gli impedì di manife-
stare appieno il suo talento che, oltre a diverse opere in collaborazione
col padre, ha donato alla città la celebre moschea di Ortaköy.
Nel complesso, visualizzando su una mappa tutti questi nuovi pro-
getti, ci si rende conto di come nel corso di una trentina d’anni l’urba-
nizzazione della sponda nord del Corno d’oro e del Bosforo si sia estesa
rapidamente almeno fino a Beşiktaş (dove non a caso stabilirono la loro
residenza numerosi membri della famiglia Balian), integrandosi a sua
volta con l’asse superiore Taksim-Harbiye tramite la progressiva edifica-
to in questo ambito dal prof. Adriano Alpago Novello (1932-2005), fondatore del Centro Studi
e Documentazione della Cultura armena e organizzatore di numerose missioni di ricerca
sul campo in territorio anatolico tra gli anni ’60 e gli anni ’80, registrando anche a livello
fotografico la presenza di strutture che risultano ormai cancellate dal tempo e dall’incuria. 55
capitolo terzo
zione nelle zone di Gümüşsuyu, Maçka, Nişantaşı e Teşvikiye, oltre che
di Tatavla (attuale Kurtuluş) e Pangaltı7.
2. Nell’ambito di questo fecondo periodo di rinnovamento del pa-
norama urbano, il contributo dato da architetti privi di un legame uffi-
ciale con l’autorità ottomana era ancora molto limitato, sia in ragione
di importanti limitazioni legali sia perché il processo che avrebbe porta-
to alla nascita di una classe borghese a Istanbul stava appena muovendo
i primi passi: negli anni precedenti il 1860 furono quindi assai rare
le committenze private di opere architettoniche di rilievo. Ma tra i pochi
architetti a poter vantare un primato in questo senso occupa un posto
di rilievo l’eccezionale figura di Gaspare Fossati (1809-1883), discen-
dente di una famiglia ticinese originaria di Morcote (Lugano) che sin
dai tempi del trasferimento di alcuni suoi membri a Venezia nel XVI se-
colo aveva donato importanti contributi in ambito artistico, letterario
e architettonico8. Dopo aver studiato presso l’Accademia di Brera, e aver
acquisito esperienza professionale a Roma sotto l’egida tra gli altri di
Giuseppe Valadier (1762-1839), Gaspare nel 1832 si trasferì a San Pie-
troburgo dove in breve tempo riuscì a inserirsi nella vivace comunità
locale degli artisti e architetti italiani, acquisendo prima una posizione
presso la locale Accademia di Belle Arti, e quindi un incarico come ar-
chitetto di corte. In virtù di questa posizione, nel 1837 Gaspare Fossati
fu inviato a Istanbul con un passaporto russo e l’incarico di progettare
il nuovo edificio della locale ambasciata, dato che la precedente struttura
era stata gravemente danneggiata dal terribile incendio che il 2 agosto
1831 aveva incenerito migliaia di edifici nella zona di Pera9.
7 In generale, per quanto concerne il tema della radicale trasformazione urbanisti-
ca della capitale ottomana nel corso del XIX secolo, si veda il fondamentale Zeynep Çelik,
The Remaking of Istanbul. Portrait of an Ottoman City in the Nineteenth Century, Berkeley
(CA), University of California Press, 1993.
8 Godfrey Goodwin, Gaspare Fossati di Morcote and his brother Giuseppe, «Envi-
ronmental Design: Journal of the Islamic Environmental Design Research Center», 8-9,
1990, pp. 122-127. Si veda anche Isabella P. Fossati-Casa, Gaspare Fossati, precursore e
punto di riferimento degli architetti italiani ad Istanbul, in Architettura e architetti italiani
ad Istanbul, Istanbul, Istituto di cultura italiana di Istanbul, 1995, pp. 61-70.
9 Sul ruolo dei Fossati e più in generale del ruolo degli architetti italiani nella
storia d’Istanbul, il riferimento fondamentale sono sempre i lavori del prof. Girardelli.
Si veda Paolo Girardelli, Gaspare Fossati in Turchia (1837-1859): continuità, contamina-
zioni, trasformazioni, «Quasar», 18, 1997, pp. 9-18; Id., Italian Architects in an Ottoman
56 Context: Perspectives and Assessments, «Istanbul Araştırmaları Yıllıǧı», 1, 2011, pp. 101-122.
nuovo ordine ottomano
Data la rilevanza e l’impegno richiesto dall’incarico, Gaspare nel
1839 si fece raggiungere nella capitale ottomana anche dal giovane
fratello Giuseppe (1822-1891), dando avvio a una collaborazione che si
protrasse fruttuosamente per circa un ventennio. La costruzione della
straordinaria ambasciata russa, progettata dai Fossati in uno stile neo-
classico carico di reminescenze palladiane, richiese quasi un decennio
per essere portata a termine. Ma al momento dell’inaugurazione nel
1845 quest’edificio, capace di combinare l’imponente maestosità richie-
sta da un simbolo di potere politico con un’armonica distribuzione dei
volumi consona alla delicatezza del contesto urbano di Pera, divenne
il punto di riferimento per i successivi progetti delle ambasciate che
sorsero nelle vicinanze, come quella olandese del 1861 (per la quale
Gaspare Fossati aveva già redatto un progetto nel 1847) disegnata dal
piacentino Giovanni Battista Barborini10 e quella svedese del 1870 pro-
gettata dal triestino Domenico Pulgher11.
In ogni caso, anche se ancora impegnati nella costruzione dell’am-
basciata russa, a partire dai primi anni ’40 i fratelli Fossati cominciaro-
no a ricevere anche altre committenze di rilievo, inizialmente in ambito
religioso: la ricostruzione della chiesa dominicana dei Santissimi Pietro
e Paolo nei pressi della torre di Galata, e la costruzione della grande
chiesa di Santo Spirito presso Harbiye – nella cui cripta risultano se-
polti Giuseppe Donizetti e la moglie – edificio che a partire dal 1876
(in seguito alla distruzione della chiesa di San Giovanni Crisostomo du-
rante il terribile incendio che colpì il quartiere di Pera nel 1870) divenne
la cattedrale dei cattolici d’Istanbul12.
Nel 1846 i fratelli Fossati realizzarono anche un nuovo progetto
per il Teatro Naum, ancora prima che questo fosse distrutto dall’incen-
dio del gennaio 1847. Ma in seguito alla drammatica fatalità, per qual-
che ragione i proprietari del teatro decisero di affidarne la ricostruzione
all’architetto inglese Smith (si veda supra, § 1.8).
10 Paolo Girardelli, Cengiz Can, Giovanni Battista Barborini à Istanbul, «Observa-
toire Urbaine d’Istanbul:Lettre d’information», 8, ottobre 1995, pp. 2-7. Marlies Hoen-
kamp-Mazgon, Istanbul’da Hollanda Sarayı (Il palazzo d’Olanda a Istanbul), trad. in turco
di Gül Özlen dall’olandese, Istanbul, YKY, 2002, pp. 114-115.
11 Sture Theolin, The Swedish Palace in Istanbul. A Thousand Years of Cooperation
between Turkey and Sweden, Istanbul, YKY, 2001, pp. 126-131.
12 Paolo Girardelli, Architecture, Identity and Liminality: on the Use and Meaning
of Catholic Spaces in Late Ottoman Istanbul, «Muqarnas», 22, 2005, p. 252. 57
capitolo terzo
Del resto in quell’anno avvenne la svolta decisiva nella carriera dei
Fossati a Istanbul, perché nonostante la forte opposizione dei consiglie-
ri del sultano, che avrebbero preferito qualcuno di più prossimo all’am-
biente di palazzo – o quanto meno un musulmano – Abdülmecid scelse
di affidare ai fratelli ticinesi una comprensiva operazione di restauro
e ristrutturazione dell’edificio forse più simbolico dell’intera città.
3. La costruzione della prima versione della chiesa di Aya Sofia ri-
sale ai primi decenni dopo la fondazione di Costantinopoli, intorno alla
metà del IV secolo d.C. Ma l’attuale struttura, progettata dagli ingegneri
e matematici greci Isidoro di Mileto e Antemio di Tralle, risale al pe-
riodo dell’imperatore bizantino Giustiniano, in seguito alla distruzione
del precedente edificio nel corso della rivolta di Nika del 532 d.C. Sono
quindi quasi 1500 anni che questa incredibile struttura, considerata
da molti come una delle meraviglie del mondo, non smette di stupire
i suoi visitatori alimentando storie e leggende di ogni sorta. Del resto,
poche ore dopo essere finalmente riuscito a entrare in città con le sue
truppe il 29 maggio 1453, il sultano ottomano Maometto II volle subi-
to recarsi a osservare il panorama della nuova capitale del suo impero
salendo in cima alla cupola dell’antica chiesa, destinata da quel giorno
a divenire moschea fino alla sua conversione in museo nel 1935 per vo-
lere del presidente turco Mustafa Kemal Atatürk13. Secondo il racconto
del suo segretario Tursun Beg:
Il Sovrano dell’Universo [...] quando vide la desolazione regnare
tutt’intorno e gli edifici annessi giacere in macerie, meditò sull’in-
costanza e l’inconsistenza del mondo. La sua fine, pensò, è sempre
rovina. [...] Quando il Sovrano del Mondo ebbe compreso l’essenza
di quest’edificio, non si fermò a osservare altri particolari, ma disse:
“Il più importante!”, e spronò indietro il destriero vittorioso verso l’ac-
campamento imperiale.14
Da quel momento in poi, a dispetto dell’irriducibile alterità della
struttura rispetto alle loro tradizioni culturali e religiose, i sovrani otto-
mani ebbero sempre particolarmente a cuore quest’edificio, forse anche
in ragione della sua particolare denominazione. Il fatto che la grande
13 Come è noto, dal luglio 2020 l’edificio è stato nuovamente adibito all’uso di
moschea per decisione del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan.
14 Beg Tursun, L’ascesa di Mehmet II sulla cupola, in Il romanzo di Costantinopoli.
Guida letteraria alla Roma d’Oriente, a cura di Silvia Ronchey e Tommaso Braccini, Torino,
58 Einaudi, 2010, pp. 157-159.
nuovo ordine ottomano
chiesa non abbia infatti mai abbandonato la denominazione “divina
sapienza”, assegnatale in occasione della prima versione del IV seco-
lo quando il canone cristiano portava ancora con sé sincretici retaggi
di cultura pagana, ha permesso all’edificio di suscitare particolare em-
patia anche nei musulmani, che sono soliti considerare il “Dio” come
un’astratta e onnisciente entità spirituale. Ma nonostante la venerazio-
ne e i numerosi restauri parziali effettuati nel corso dei secoli, a metà
del XIX secolo l’allora moschea di Aya Sofia si trovava in uno stato di pe-
ricoloso dissesto, in quanto da secoli l’imponente mole era costretta ad
affrontare i frequenti fenomeni di attività sismica inevitabili in una città
posta sul margine di due cruciali zolle tettoniche.
Fu così che il sultano Abdülmecid decise di finanziare un’ampia
operazione di restauro della struttura, affidandone la gestione a due
soggetti culturalmente estranei alla geografia ottomana come i fratelli
Fossati, dando prova ancora una volta della sua apertura mentale, e del
forte carattere ecumenico del programma di riforma e modernizzazio-
ne dell’impero portato avanti in quegli anni.
I lavori, iniziati nel luglio 1847, si protrassero per due anni con
la partecipazione di circa 800 operai, apportando all’edificio una serie
di fondamentali interventi di carattere sia strutturale che decorativo.
I fratelli Fossati ebbero inoltre l’innovativa idea di accompagnare i la-
vori di restauro con un’estesa documentazione iconografica, raccolta
poi in una pubblicazione curata personalmente dallo stesso Gaspare
e fatta stampare all’editore Colnaghi a Londra nel 185215. La moschea
di Aya Sofia fu infine riaperta al pubblico con una grandiosa cerimonia
cui presero parte il sultano e tutti i principali esponenti dell’establish-
ment ottomano, in occasione della preghiera di mezzogiorno del primo
venerdì di Ramadan del 1849 (13 luglio). Abdülmecid ordinò inoltre
la realizzazione di una serie di medaglie commemorative il cui stam-
po fu prodotto da James Robertson, un inglese giunto a Istanbul nel
1841 in seguito a un accordo tra i due paesi per la fornitura di persona-
le tecnico da coinvolgere nella modernizzazione della zecca imperiale
e altre istituzioni16. Il disegno della medaglia commemorativa per il re-
stauro di Aya Sofia fu realizzato dallo stesso Gaspare Fossati, in quanto
tra lui e Robertson si era instaurato un fruttuoso rapporto di amicizia
e collaborazione, che trovò espressione anche in occasione del progetto
15 Girardelli, Gaspare Fossati, cit., p. 14.
16 Bahattin Öztuncay, James Robertson. Pioneer of Photography in the Ottoman
Empire, Istanbul, Eren Yayıncılık, 1992, pp. 19-21. 59
capitolo terzo
per la medaglia fatta stampare dal sultano per ringraziare i comandanti
militari reduci dalla soppressione della rivolta di Bedirhan, un emiro
curdo che si era rifiutato di abbandonare il potere delegato per decenni
alla sua famiglia nella provincia orientale di Cizre17.
Dopo l’incarico ricevuto per Aya Sofia da parte del sultano, la stra-
da per i Fossati non poteva che essere in discesa, e proprio a quel perio-
do risale il loro incontro con la fondamentale figura politica di Mustafa
Reşit, che nel 1848 assegnò ai fratelli ticinesi il progetto per la sua nuo-
va villa nel quartiere di Baltalimanı, sulla costa europea del Bosforo,
il cui cantiere fu visitato con ammirazione anche dallo scrittore france-
se Alphonse de Lamartine (1790-1869) durante un passaggio in città
nell’estate 185018. Il corpo principale dell’edificio in stile neocinque-
centesco è utilizzato dal 1944 come ospedale. Il particolare rapporto
di stima tra i fratelli ticinesi e il gran vizir Mustafa Reşit continuerà fin
dopo l’improvvisa morte del Pascià nel gennaio 1858, in quanto furono
i Fossati a farsi carico della progettazione del suo mausoleo, visibile
ancora oggi nei pressi della moschea di Beyazit19.
4. I fratelli ticinesi furono incaricati anche della costruzione di un
altro importante edificio, le cui sorti furono però estremamente trava-
gliate, divenendo per certi versi il simbolo architettonico di tutti i con-
trasti e le contraddizioni affrontate dall’impero ottomano negli ultimi
decenni della sua esistenza. Sull’onda dell’entusiasmo riformista e mo-
dernizzatore, nel 1846 il sultano Abdülmecid decise infatti di assegna-
re ai Fossati la costruzione della prima sede di una nuova istituzione
pedagogica organizzata secondo una concezione del sapere ispirata ai
17 Riguardo alla questione, considerata un punto di svolta nella storia del movi-
mento nazionale curdo, si veda Hakan Özoğlu, Kurdish Notables and the Ottoman State:
Evolving Identities, Competing Loyalties, and Shifting Boundaries, Albany, State University
of New York Press, 2004, pp. 70-72.
18 Lamartine aveva già visitato Istanbul e altre città del territorio anatolico nel 1833,
rimanendone fortemente affascinato e traendo da queste ispirazioni un libro intitolato
Voyage en Orient, pubblicato nel 1835 e capostipite quindi di una tradizione proseguita
poi in particolare con Gerard de Nerval e Gustave Flaubert. Sul rapporto tra Lamartine e
Istanbul si veda Selahattin Çitçi, Alphonse de Lamartine in ‘Voyage en Orient’ ve ‘Nouveau
Voyage en Orient’ adlı eserlerinde Oryantalist bakışlar (Sguardi orientalisti nelle opere di
Alphonse de Lamartine ‘Voyage en Orient’ e ‘Nouveau voyage en orient’), in Atti del con-
gresso “Doǧu Edebiyatında Batı, Bati edebiyatında Doǧu” (Cracovia, 25-30 giugno 2015),
a cura di Mehmet C‚evik, Ankara, Sage Yayıncılık, 2015, pp. 287-306.
19 Girardelli, Gaspare Fossati, cit., p. 15.
60
nuovo ordine ottomano
valori laici e scientifici dell’Europa illuminista20. Per rendere esplicita
l’importanza da lui attribuita a questo nuovo progetto, il sultano deli-
berò per la costruzione di questa prima “università” ottomana l’utiliz-
zo di una prestigiosa area nel quartiere di Sultanahmet attigua al lato
orientale di Aya Sofia dove ora, dopo la distruzione dell’edificio nel 1933
a causa di un incendio, è presente unicamente un’ampia zona di scavi
archeologici.
I lavori, a causa della dispendiosità del progetto e dell’opposizio-
ne di alcune delle frange più conservatrici dell’establishment ottomano,
procedettero però estremamente a rilento, al punto che negli anni della
guerra di Crimea l’edificio ancora incompleto finì per essere utilizzato
come ospedale militare dall’esercito francese. I contraccolpi finanziari
e politici causati dalla guerra portarono a una totale interruzione dei la-
vori fino al 1860, quando furono ripresi senza troppa convinzione anche
a causa dell’ormai compromessa salute del sultano Abdülmecid, che morì
di tubercolosi nel giugno 1861, succeduto dal fratello minore Abdülaziz.
Alla fine la prima università ottomana, battezzata Dar-ül Fünun (“Casa
delle scienze”), inaugurò nel gennaio 1863 con un programma di lezioni
aperte alla popolazione tenute dai massimi esperti ottomani del tempo
– formatisi per lo più a Parigi o Londra – nelle diverse discipline uma-
nistiche e scientifiche21. Fu però la particolare natura “pratica” delle le-
zioni scientifiche – accompagnate da innovativi esperimenti di chimica
ed elettromagnetismo allo scopo di dimostrare la validità delle leggi natu-
rali esposte dai docenti – a turbare la sensibilità degli esponenti più con-
servatori dell’establishment, che riuscirono con le loro pressioni a convin-
cere il sultano Abdülaziz a trasferire al termine del 1864 la Dar-ül Fünun
in un più modesto edificio di legno nella zona di Çemberlitaş, andato poi
a fuoco con tutta la sua biblioteca nel grande incendio di Hocapaşa del
settembre 1865. L’edificio progettato dai Fossati fu quindi adibito a sede
del Ministero delle Finanze, fino a quando nel marzo 1877 l’imponente
struttura ebbe il privilegio di divenire niente meno che il primo Parla-
mento della storia ottomana, istituzione che come vedremo (si veda infra,
cap. 12) ebbe vita breve, perché nel febbraio 1878 le sue attività furono
interrotte e sospese per oltre trent’anni dal sultano Abdülhamid II.
20 Emre Dölen, Osmanlı döneminde Darülfünun (1863-1922) (Il Darülfünun in epoca
ottomana), in Türkiye Üniversite Tarihi (Storia dell’Università in Turchia), Istanbul, Bilgi
Üniversitesi Yayınları, 2009.
21 Mehmet Alper Yalçınkaya, “Their Science, Our Values”: Science. State and Society
in the 19th Century Ottoman Empire, tesi di dottorato, UC San Diego, 2010, pp. 129-134.
61
capitolo terzo
Di tutto questo non furono però testimoni i Fossati in quanto,
dopo che nel 1856 Gaspare ricevette persino l’onore di essere nominato
membro della prima “commissione urbanistica” della storia della città
(Intizam-i Şehir Komisyonu)22, i due fratelli ticinesi decisero alla fine
del 1859 di abbandonare la capitale ottomana per fare ritorno in Italia.
22 Per la natura di questa istituzione, si veda Murat Gül, The Emergence of Modern
Istanbul. Transformation and Modernisation of a City, London, Tauris Academic Studies,
2009, pp. 44-45. Per la lista dei membri al momento della sua fondazione nel 1856:
Osman Nuri Ergin, Mecelle-i Umur-ı Belediyye, Istanbul, Istanbul Büyükşehir Belediyesi
62 Kültür İşleri Daire Başkanlığı Yayınları, 1995, III, p. 1284.
4. Il banchiere della rivoluzione.
Adriano Lemmi massone a Istanbul
La virtù di sacrificio attivo che
dovrebbe esser diffusa per tutti
gli angoli della nostra Italia, s’è
riconcentrata in Costantinopoli.
Giuseppe Mazzini, Lettera a Lemmi
(1856)1
1. Nonostante una serie di pregevoli e crescenti sforzi editoriali
avvenuti negli ultimi anni2, a livello di discorso pubblico in Italia risulta
ancora estremamente difficile liberare l’istituzione della massoneria dai
numerosi stigmi accumulati nel corso di oltre un secolo. Com’è noto,
la forma di associazionismo tipico della massoneria – fondata su un rito
di iniziazione e la successiva condivisione di conoscenze e rituali che
i membri, sulla base di un giuramento, s’impegnano a mantenere
segreti – deriverebbe dall’evoluzione di una serie di pratiche messe
in atto dalle corporazioni medievali dei mestieri per assicurare il mutuo
soccorso e la condivisione riservata di conoscenze tra gruppi di artigiani
altamente specializzati. Nello specifico, come reso evidente dal nome,
l’istituzione della massoneria deriverebbe dalle corporazioni dei co-
struttori, muratori e tagliapietre (masons in inglese, maçons in francese),
una categoria professionale che, essendo specializzata nella creazione di
imponenti e importanti strutture architettoniche come chiese e cattedra-
li3, aveva la necessità di muoversi continuamente sul territorio, svilup-
1 Lettera inviata da Mazzini il 29 gennaio 1856 per ringraziare Lemmi e altri pa-
trioti italiani (tra cui Giacinto Bruzzesi, Emilio Cipriani e Luigi Storari) dell’ingente som-
ma raccolta tra i patrioti italiani nella capitale ottomana allo scopo di finanziare le attività
sovversive pianificate dal genovese. Si veda Giuseppe Mazzini, Scritti editi ed inediti, LVI,
Epistolario di Giuseppe Mazzini 32, Imola, Cooperativa tipografico-editrice Paolo Galeati,
1930, p. 97. La lettera risulta inoltre citata in Agostino Bistarelli, Gli esuli del Risorgimento,
Bologna, il Mulino, 2011, pp. 286-287.
2 Si veda ad esempio Fulvio Conti, Storia della massoneria italiana. Dal Risorgi-
mento al fascismo, Bologna, il Mulino, 2003, nonché l’eccellente volume degli Annali della
Storia d’Italia Einaudi interamente dedicato al tema della massoneria Storia d’Italia. An-
nali 21. La massoneria, a cura di Gian Mario Cazzaniga, Torino, Einaudi, 2006.
3 Fondamentali, nella definizione dei rituali di queste associazioni corporative,
sono i riferimenti a episodi d’origine biblica concernenti la costruzione del tempio da
parte di Salomone. Si veda Gian Mario Cazzaniga, Società segrete e massoneria nell’età della
Restaurazione e del Risorgimento, in Massoneria e Unità d’Italia, a cura di Fulvio Conti
e Marco Novarino, Bologna, il Mulino, 2011, pp. 19-45: 32.
63
capitolo quarto
pando un’attitudine cosmopolita e itinerante. Secondo l’ipotesi più ac-
creditata, l’aggettivo franc o free (da cui il cacofonico italianismo “fram-
massoneria” e la definizione di “libera muratoria”) deriverebbe inve-
ce dai numerosi privilegi fiscali e logistici concessi per l’appunto a que-
sti speciali professionisti dalle autorità politiche e religiose del tempo.
All’inizio del XVII secolo, in seguito alla crisi epocale apertasi nel
mondo europeo con la nascita dei movimenti religiosi legati a Lutero
e Calvino e al successivo giro di vite “controriformista” messo in atto
dall’autorità vaticana, le forme di associazionismo legate alle corpo-
razioni, caratterizzate da un superiore livello intellettuale, divennero
un terreno di coltura fecondo per il mantenimento e la maturazione di
discorsi filosofici e spirituali aperti alle correnti più eterodosse del cri-
stianesimo, come lo gnosticismo, l’ermetismo e il rosacrocianesimo4.
In particolare nel mondo germanico e britannico, a partire dall’inizio
del XVII secolo accadde con frequenza che queste confraternite acqui-
sissero una spiccata connotazione filo-protestante in contrapposizione
al potere del papa, visto come un simbolo di oscurantismo, se non ad-
dirittura, secondo un linguaggio intriso di riferimenti mistici, come
un vero e proprio “anti-Cristo” il cui annientamento, assieme a quello
delle altre monarchie cattoliche, sarebbe stato necessario per ricondurre
il mondo a un’età paradisiaca.
Un simile discorso di denigrazione delle istituzioni e dei valori
legati all’autorità vaticana nel corso del XVIII secolo prese piede, grazie
all’attività di simili forme di associazionismo segreto e circoli culturali,
anche in paesi cattolici come la Francia, assumendo però qui la forma
di un vero e proprio rifiuto tout court della cultura religiosa cristiana.
Sin dall’inizio del XVIII secolo, quando l’evoluzione di queste forme
di associazionismo raggiunse un maggiore livello di codificazione, as-
sumendo progressivamente le caratteristiche formali che definiscono
ancora oggi la “massoneria” (la cui storia ufficiale si fa iniziare appunto
con la fusione di quattro associazioni in una Grande Loggia a Londra,
nel 17175), questa differenza essenziale tra mondo francese e britan-
nico ha segnato il nascere di due approcci fondamentalmente diversi
all’ideologia e all’attività massonica. Infatti la massoneria legata al mon-
do britannico – non avendo mai dovuto combattere contro un’autorità
4 Si veda Frances A. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, trad. it. di Ren-
zo Pecchioli, Bari, Laterza, 1969.
5 Gian Mario Cazzaniga, Nascita della massoneria nell’Europa moderna, in Storia
d’Italia. Annali 21. La massoneria, cit., pp. 5-27: 16.
64
il banchiere della rivoluzione
religiosa – s’è sempre mantenuta fedele a un carattere “deista”, ovvero
alla credenza in un’entità superiore non connotata in termini specifici,
ma definita generalmente come il “grande architetto dell’universo”, la-
sciando in questo modo libero spazio alla sensibilità religiosa o meno
di ciascun massone. La massoneria francese invece, come poi quella
italiana – accomunate da un contesto culturale permeato dall’invaden-
te autorità morale e politica del Vaticano – hanno configurato la loro
esistenza sull’opposizione frontale all’istituzione religiosa, sviluppando
un’ideologia maggiormente legata ai principi illuministici del laicismo
e, per estensione, dell’anticlericalismo, con margini di compromesso
molto minori nei confronti di istituzioni e valori religiosi6.
2. Nel mondo britannico l’istituzione massonica, sin dalle sue
forme primordiali risalenti al XVII secolo, si è sviluppata quindi come
una forma di associazionismo avulso da connotazioni di “antagonismo”
politico, al punto che in un testo fondativo del 1723 gli aspiranti mas-
soni erano esplicitamente invitati ad astenersi dall’intrattenere dibatti-
ti su questioni di carattere politico o religioso all’interno delle logge7.
In Gran Bretagna, e poi per naturale estensione negli Stati Uniti, in
assenza di particolari tensioni politiche l’istituzione massonica ha uti-
lizzato il discorso religioso di carattere esoterico come un dato di fatto
alla base del proprio linguaggio rituale e di un percorso di perfezio-
namento individuale. Ma allo stesso tempo questa particolare forma
di associazionismo riservata inizialmente a una élite artigianale, col pas-
sare del tempo e lo sviluppo di un mercato esteso all’intero dominio
imperiale britannico, è risultata attraente per gli esponenti della nascen-
te élite mercantile e industriale. Così nel corso del XVIII e XIX secolo
la massoneria anglosassone ha finito spesso per trasformarsi in una
sorta di anticamera (back office) decisionale volta a promuovere gli in-
teressi del capitalismo britannico, anche con gli strumenti della politi-
ca internazionale. Una corrispondente trasmutazione ad hoc dei valori
esoterici ha inoltre permesso di sviluppare un discorso “escatologico”
in grado di legittimare e rafforzare le ambizioni globali del dominio
imperiale britannico, e poi della “ribelle” colonia statunitense.
6 Thierry Zarcone, Mystiques, philosophes, et francs-maçons en Islam, Paris, Jean
Maisonneuve, 1993.
7 Fulvio Conti, Massoneria e sfera pubblica nell’Italia liberale (1859-1914), in Storia
d’Italia. Annali 21. La massoneria, cit., pp. 579-610: 580.
65
capitolo quarto
In Francia invece l’associazionismo basato su principi massonici
si trovò costretto, sin dall’inizio del XVIII secolo, ad affrontare il forte osta-
colo costituito dall’autorità morale e politica della Chiesa cattolica, salda-
mente alleata con l’autorità monarchica. In ragione di ciò, l’attività mas-
sonica nel corso di quei primi decenni sviluppò un forte carattere laicista
e anti-monarchico, che svolse un ruolo decisivo nell’esplosione rivolu-
zionaria del 1789, i cui valori di umanesimo “universalista” coincideva-
no appunto con l’innovativo discorso filosofico promosso dalla masso-
neria. L’irrompere sulla scena politica francese dell’ideologia massonica
più radicale – basata sui principi illuministici di laicismo e liberalismo –
non conobbe ostacoli neanche quando a prendere il sopravvento fu Na-
poleone Bonaparte, dato che una componente essenziale dei quadri di-
rigenziali da lui prescelti risultò fortemente legata all’istituzione masso-
nica. La successiva avventura imperiale napoleonica si trasformò così in
un eccezionale veicolo di trasmissione dei valori illuministici all’interno
dei territori esposti anche solo per qualche anno al dominio napoleoni-
co. Un caso particolarmente eclatante di questa “contaminazione” fu
proprio quello della penisola italiana, in quanto l’occupazione napoleo-
nica, oltre a portare alla nascita di molte nuove logge sul territorio ita-
liano (nonché la prima costituzione formale del Grande Oriente d’Italia
nel 1805 a Milano), determinò soprattutto l’acquisizione – da parte della
frammentata società italiana – di una particolare modalità di associa-
zionismo segreto finalizzato a promuovere ideali liberali e repubblicani
in un contesto di diffusa oppressione e limitazione delle libertà civili8.
Proprio per questo l’importante ruolo svolto dalla massoneria e da
omologhe forme d’associazionismo come la carboneria nel processo che
ha dato vita al Risorgimento e al raggiungimento dell’Unità d’Italia è pale-
se, indiscutibile e documentato ormai da numerose fonti storiografiche9.
Purtroppo però, nel discorso pubblico ufficiale italiano, questa importan-
te verità storica risulta ancora rimossa o quanto più possibile annacquata,
a causa dell’irriducibile opposizione del blocco di potere cattolico. Inoltre,
a partire dalla frattura tra massoneria e partito socialista negli anni della
Prima Guerra mondiale, crescente sospetto nei confronti dell’istituzione
massonica è stato nutrito anche dalla sinistra, a causa di una parziale de-
generazione dell’istituzione muratoria e del coinvolgimento di strutture
8 Gian Mario Cazzaniga, Nascita del Grande Oriente d’Italia, in Storia d’Italia.
Annali 21. La massoneria, cit., pp. 545-558.
9 Per avere qualche punto di riferimento tra gli studiosi più rinomati, si vedano
le opere di Fulvio Conti e Gian Mario Cazzaniga.
66
il banchiere della rivoluzione
abiette come la loggia P2 in una serie di drammatici eventi e scandali che
hanno segnato il secondo dopoguerra italiano10.
3. In realtà, più che la massoneria in senso stretto, a svolgere
un ruolo fondamentale negli anni fino al 1848 furono tutte quelle forme
di diffuso associazionismo cospiratorio ispirate per molti aspetti all’isti-
tuzione muratoria, come la carboneria o la mazziniana Giovine Italia,
anche perché dopo la sconfitta di Napoleone e il Congresso di Vien-
na del 1815, fu bandito sull’intero territorio italiano qualunque genere
di associazionismo che si richiamasse esplicitamente alla massoneria11.
La rinascita e definitiva affermazione sul territorio italiano dell’istituzio-
ne massonica in senso stretto avvenne dopo la II guerra d’indipendenza,
quando i principali reduci dalle battaglie risorgimentali del precedente
decennio, intenzionati a porre le basi organizzative e ideologiche per
la costruzione del paese in accordo a principi liberali e democratici,
promossero la creazione del Grande Oriente Italiano alla fine del 1859,
nell’allora capitale Torino. Ma diversamente da un paese politicamente
“pacificato” come la Gran Bretagna, in Italia anche l’istituzione mas-
sonica è stata soggetta agli effetti di quella persistente e diffusa con-
flittualità socio-politica che è sempre stata la cifra del nostro paese12.
A causa della sfacciata presa di posizione filopiemontese del primo
nucleo dirigente del GOI, che prima della sua improvvisa scomparsa
aveva manifestato l’intenzione di candidare addirittura il primo mini-
stro Cavour (1810-1861) alla massima carica di Gran Maestro, nel 1862
numerose logge animate da passioni più radicalmente “illuministiche”
si coalizzarono sul nome di Garibaldi; avendo però mancato l’elezione
per un soffio (perdendo per due soli voti di scarto), il nizzardo accettò
poco dopo l’offerta di guidare una concorrente istituzione massonica
nata a Palermo nel 1861 con il sostegno di Francesco Crispi (1818-1901),
in aperta sfida all’attitudine eccessivamente moderata e filogoverna-
tiva del GOI. Questa forte cesura all’interno della massoneria italiana
continuò a persistere per un intero decennio, fino a quando nell’aprile
1872, poche settimane dopo la morte di Mazzini, in una Roma da poco
divenuta capitale la massoneria nazionale trovò il modo di ricomporre
10 Per un’intensa valutazione di questa complessa vicenda storica, si veda Gian-
carlo Elia Valori, Il Risorgimento oltre la storia, Milano, Excelsior 1881, 2011.
11 Conti, Massoneria e sfera pubblica, cit., p. 579.
12 Michel Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al College de France
(1977-1978), Milano, Feltrinelli, 2005, pp. 228-229.
67
capitolo quarto
i dissidi in occasione di una grande assemblea unitaria presso il Teatro
Argentina13.
A partire da quel momento la ricomposta e consolidata massone-
ria italiana poté cominciare a esprimere al meglio la sua influenza ide-
ologica nel contesto della vibrante vita politica nazionale post-unitaria.
Pur non giungendo agli estremi del Grande Oriente francese e bel-
ga, che in quegli anni scelse di rimuovere ogni riferimento al “grande
architetto dell’universo” in chiave radicalmente antireligiosa, la mas-
soneria italiana s’impegnò con tutte le sue energie per imprimere al
paese una forte svolta laicista, incrinando per la prima volta l’egemo-
nia culturale del Vaticano e della religione cattolica nella società italia-
na. Tra i cavalli di battaglia della massoneria in quegli anni ci furono,
ad esempio, l’istruzione obbligatoria, gratuita, laica e di stato – per com-
battere l’analfabetismo e sottrarre i bambini all’influenza delle istituzioni
educative religiose –, il suffragio universale, l’introduzione del divorzio
nell’ordinamento giuridico, l’abolizione della pena di morte, la legaliz-
zazione della cremazione, oltre a un generale impegno per la creazione
sul territorio di una diffusa rete di associazioni di volontariato sociale,
finalizzate ad attività filantropiche e di mutuo soccorso, come bibliote-
che, scuole serali, banche popolari, società di pubblica assistenza...14.
Ad assumere un ruolo di spicco in quest’età dell’oro della masso-
neria italiana fu a partire dalla fine degli anni ’70 il livornese Adriano
Lemmi (1822-1906), il quale dopo aver accumulato una fortuna in gio-
vane età, dalla fine degli anni ’50 si era distinto finanziando numerose
cruciali imprese (come la spedizione di Pisacane del 1857) finalizzate
al raggiungimento dell’integrità territoriale italiana, meritandosi per
questo l’appellativo di «banchiere della rivoluzione»15. Quando a par-
tire dal 1885 Lemmi assunse l’incarico di massima autorità del Grande
Oriente italiano, a causa della sfrontatezza politica e di alcuni dettagli
oscuri del suo passato il livornese divenne il bersaglio di una violen-
ta campagna di calunnie e demonizzazione da parte dell’establishment
e della stampa di parte cattolica, che lo costrinse infine alle dimissio-
ni nel dicembre 1895. Il culmine di questa campagna si raggiunse nel
1894 con la pubblicazione da parte di un ex massone rinnegato, il ca-
labrese Domenico Margiotta, di una biografia scandalistica in francese
13 Conti, Massoneria e sfera pubblica, cit., pp. 582-594.
14 Ivi, pp. 597-602.
15 Fulvio Conti, Adriano Lemmi, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istitu-
to dell’Enciclopedia Italiana, 64, 2005.
68
il banchiere della rivoluzione
intitolata Souvenirs d’un trente-troisième: Adriano Lemmi, chef suprême des
francs-maçons16. Il libro risulta citato persino da Umberto Eco nel suo
Il cimitero di Praga17 in riferimento alla straordinaria concentrazione
di calunnie e dicerie riguardo a rituali satanici e fantomatici complotti
orditi da ebrei e massoni: tutte tematiche che purtroppo ancora oggi
risultano essere all’ordine del giorno, inquinando la possibilità di ragio-
nare a sangue freddo su questo tema così essenziale alla storia italiana
degli ultimi due secoli.
4. Uno dei principali appigli utilizzati da Margiotta per gettare
fango a ritroso sull’intera vita di Lemmi sarebbe un fatto verificato-
si quando l’intraprendente livornese – che aveva lasciato casa ancora
adolescente – si trovava a Marsiglia, da dove avrebbe poi effettuato un
ulteriore trasferimento a Istanbul a metà degli anni ’40. Secondo Mar-
giotta, alla base di questo repentino spostamento nella lontana capitale
ottomana ci sarebbe stata la necessità di far perdere le tracce dopo aver
trascorso un anno di prigione a Marsiglia, in quanto secondo gli atti del
locale tribunale un tale Adriano Lemmi all’inizio del 1844 sarebbe stato
accusato di aver rubato una borsa contenente soldi e gioielli alla moglie
di un amico, mentre la donna in cucina gli stava preparando una tisa-
na18. Alla pubblicazione del libro di Margiotta ebbe inizio un’agguerrita
difesa da parte di Lemmi, il quale dichiarò di essere giunto a Istanbul
già nel 1843, e di non poter quindi essere l’indiziato della suddetta ac-
cusa, a suo parere un semplice omonimo originario non di Livorno ma
di Firenze. Siccome però il primo documento in grado di comprovare
la presenza del livornese a Istanbul risale al 184519, non è mai stato
possibile fare pienamente luce sulla veridicità di questa insinuazione.
Per quanto concerne poi l’arrivo a Istanbul, Lemmi dichiarò di aver
avviato già dal 1844 una florida attività imprenditoriale concernente
il trasporto marittimo, mentre Margiotta nella sua allucinata ricostru-
zione biografica afferma che l’affranto livornese nei primi tempi avreb-
be trovato rifugio nell’umile quartiere a maggioranza ebrea di Balat,
sulla sponda meridionale del Corno d’Oro, mettendosi al servizio di un
anziano erbaiolo. Nella bottega di quest’ultimo, Lemmi avrebbe fatto
16 Domenico Margiotta, Souvenirs d’un trente-troisième: Adriano Lemmi, chef su-
prême des francs-maçons, Paris et Lyon, Delhomme et Briguet, 1894.
17 Umberto Eco, Il cimitero di Praga, Roma, Bompiani, 2010, pp. 429-431.
18 Margiotta, Souvenirs, cit., pp. 3-5.
19 Conti, Adriano Lemmi, cit.
69
capitolo quarto
conoscenza di un rabbino polacco dedito a pratiche magiche e occulti-
ste, che lo avrebbe infine convinto a convertirsi all’ebraismo nel genna-
io 184620. Questa improbabile quanto mai documentata conversione,
cui sarebbe seguita dopo pochi mesi l’iniziazione massonica grazie
ad alcuni inglesi di stanza a Istanbul, permise a Margiotta di legittimare
l’intera costruzione biografica del personaggio Lemmi come un concen-
trato di tutti i peggiori pregiudizi di parte cattolica verso ebrei e masso-
ni, in quanto “massimi nemici della cristianità”. Oltre a ciò, nella tra-
ma di Souvenirs d’un trente-troisième un posto di rilevo risulta riservato
a Mazzini, a parere di Margiotta un “capo mondiale della Massoneria”
che si sarebbe servito di Lemmi come di un braccio destro cui affidare
il trasferimento d’informazioni e l’implementazione di piani sanguina-
ri come l’assassinio del duca di Parma nel 1854 e diversi altri attentati21.
Se ora abbandoniamo per un po’ l’idiosincratico racconto di Mar-
giotta, attenendoci unicamente alle fonti documentate, scopriamo che
il rapporto tra Lemmi e Mazzini fu realmente di forte stima e collabo-
razione: esso ebbe inizio nei primi mesi del 1847 tramite la mediazione
di Luigi Stefano Canessa (si veda supra, § 1.9)22 e si protrasse fino alla
morte di Mazzini nel marzo del 1872. Lemmi fu infatti una delle pochis-
sime persone presenti al capezzale di Mazzini a Pisa, città dove il fonda-
tore della Giovine Italia era giunto clandestinamente dalla Svizzera ap-
pena poche settimane prima, poiché si trovava ancora una volta in stato
di latitanza23. Già nel settembre del 1847 Mazzini in una lettera dall’esi-
lio di Londra scrisse: «Vorrei che tutti gli italiani, per principii, rigoro-
sità e intelletto, fossero come Adriano»24. Il primo incarico assegnato
da Mazzini a Lemmi fu quello di raccogliere fondi e altro sostegno logi-
stico per la causa risorgimentale a Istanbul, in qualità di collettore del
Fondo Nazionale Italiano, istituito nell’agosto 1847 a Londra da lui e
da altri esuli della penisola25.
20 Margiotta, Souvenirs, cit., pp. 10-11.
21 Ivi, pp. 15-16, 20-21.
22 La prima lettera inviata da Mazzini a Lemmi risale al 18 marzo 1847. Si veda
Giuseppe Mazzini, Scritti editi ed inediti, XXXII, Epistolario di Giuseppe Mazzini 17, Imola,
Cooperativa tipografico-editrice Paolo Galeati, 1921, p. 74. Il primo incontro tra Lemmi
e Mazzini si realizzò invece a Londra nel luglio dello stesso anno, come si deduce da ivi,
pp. 219 e 232.
23 Conti, Adriano Lemmi, cit.
24 Adriano Lemmi e Niccolò Tommaseo. Lettere inedite, a cura di Luigi Pescetti, «Bol-
lettino storico livornese», XVIII, 1940, p. 3.
25 Margaret C.W. Wicks, Italian Exiles in London 1816-1848, Manchester, Manche-
ster University Press, 1937, pp. 294-295.
70
il banchiere della rivoluzione
Gli eventi e i sussulti rivoluzionari che scossero la penisola italiana
e il resto d’Europa nei primi mesi del 1848 suscitarono emozioni forti
anche presso la comunità degli italiani di Istanbul. Nei primi giorni
di maggio fu fatto circolare un manifesto che, con linguaggio estre-
mamente sarcastico, irrideva le pretese e l’onestà politica del regno sa-
baudo nel contesto delle aspirazioni risorgimentali del popolo italiano,
attaccando direttamente il sovrano Carlo Alberto. A ulteriore conferma
della tensione politica presente in quel periodo a Istanbul all’interno
della comunità italiana, la sera del 24 giugno 1848 Adriano Lemmi
e altri due avvocati toscani aggredirono e malmenarono un funzionario
della legazione del Regno di Sardegna, venendo per questo condannati
a settanta giorni di pena detentiva26.
All’uscita dal carcere a ottobre Adriano Lemmi decise di scrive-
re a colui che, per sua stessa ammissione – con l’opera Confessioni –
«mi aveva segnato la via»27. Si trattava di Niccolò Tommaseo (1802-
1874), il celebre intellettuale di origini dalmate con cui Lemmi diede av-
vio a un rapporto epistolare in un periodo di cruciale importanza. Negli
ultimi giorni del 1847, Tommaseo era infatti stato arrestato dalla polizia
austriaca a causa di un discorso sulla libertà di stampa proferito presso
l’Università di Venezia. Dopo un centinaio di giorni trascorsi in carcere,
durante i quali ebbe modo di terminare la sua straordinaria traduzione
dei Vangeli (scelta nel 1964 da Pasolini per la sua versione cinemato-
grafica de Il Vangelo secondo Matteo), Tommaseo e Manin erano stati
liberati in seguito a furiose proteste che avevano segnato l’inizio della
cosiddetta Repubblica di San Marco, durante la quale la popolazione
veneziana riuscì a liberarsi dal giogo del dominio austriaco mantenen-
do il controllo della città per diciassette mesi, fino all’agosto 1849. In
virtù del suo prestigio Tommaseo fu nominato sia ministro dell’istru-
zione che ambasciatore a Parigi della nuova repubblica veneziana, con
l’obiettivo di raccogliere fondi e sostegno logistico e politico in favore
della sua città. Fu nel novembre 1848 a Parigi che Tommaseo ricevette
la prima lettera di Lemmi, assieme a un personale contributo pecunia-
rio alla causa veneziana: una missiva che, come affermato da Luigi Pe-
26 Enrico De Leone, L’impero ottomano, 178-180. Si veda inoltre Liana Elda Funaro,
La Colonna di fuoco. Massoneria e minoranze religiose nel secolo XIX, in La massoneria a
Livorno. Dal Settecento alla Repubblica, a cura di Fulvio Conti, Bologna, il Mulino, 2006.
Il funzionario malmenato si chiamava Gaetano Villanis, mentre i due complici di Lemmi
erano C.L. Loschi e Ulisse Chiellini.
27 Adriano Lemmi e Niccolò Tommaseo, cit., p. 4.
71
capitolo quarto
scetti «si aggiungeva alle tante, di ogni parte del mondo, contenenti
offerte di denaro e fervide parole di fede per la eroica città martoriata»28.
In seguito all’affettuosa risposta dell’intellettuale, Lemmi si mise d’im-
pegno e nel gennaio 1849 scrisse sempre da Istanbul una seconda let-
tera in cui, dopo essersi rivolto a Tommaseo con «maestro e fratello
mio», ribadì la sua eterna riconoscenza per le opere letterarie che gli
erano state di perpetua ispirazione e conforto, giungendo ad afferma-
re che «per voi un giorno andrò superbo d’un figlio», e allegando infi-
ne i nominativi e l’importo delle sottoscrizioni effettuate dagli italiani
di Istanbul per la causa veneziana.
Il successivo scambio epistolare tra i due patrioti italiani do-
vrà però attendere qualche tempo per realizzarsi, perché tanto la vita
di Tommaseo quanto quella di Lemmi furono improvvisamente travolte
dai tumultuosi eventi che scossero la penisola italiana nel 1849.
5. Anche se a causa delle contorte vicende della storiografia ita-
liana essa sembra quasi interamente rimossa dalla memoria collettiva
del paese, la rilevanza storica e politica della Repubblica romana del
1849 non ha niente da invidiare a un evento come quello della Comune
di Parigi, che ha però potuto occupare un posto di rilievo nell’imma-
ginario mondiale grazie alla più chiara connotazione ideologica e alla
canonizzazione effettuata da Marx e Lenin. Per certi versi si può però
affermare che l’esperienza della Repubblica romana sia stata un labo-
ratorio politico più originale e interessante della Comune di Parigi,
in ragione della durata maggiore, della molteplicità delle componenti po-
litiche, della statura dei personaggi coinvolti e delle implicazioni diploma-
tiche internazionali. La Repubblica romana del 1849 ha inoltre lasciato
in eredità alla politica una carta costituzionale di straordinario radica-
lismo democratico, che ebbe vita breve ma fu poi presa a riferimento
al termine della Seconda Guerra mondiale dai padri costituenti della
Repubblica italiana, in quanto basata su principi estremamente innova-
tori come il suffragio universale, la laicità e libertà di culto e l’abolizione
della pena di morte.
Nell’irrefrenabile tumulto che, a partire dall’insurrezione di Paler-
mo nel gennaio 1848, si era esteso nei mesi successivi a tutta la peniso-
la, all’inizio papa Pio IX era riuscito grazie alle sue abilità politiche a pre-
servare lo status quo a Roma e nello Stato della Chiesa. Sin dall’ascesa
28 Ivi, p. 3.
72
il banchiere della rivoluzione
al soglio pontificio, nel giugno 1846, Pio IX aveva infatti mostrato una
certa apertura per il tema dell’unità nazionale, suscitando speranze
e aspettative in numerosi patrioti italiani. Tra coloro che non avevano
manifestato alcun entusiasmo per la posizione conciliante del pontefice
c’era invece Mazzini, il quale con una celebre lettera al papa aveva di-
chiarato di non accettare alcun compromesso che non prevedesse l’ab-
bandono da parte di Pio IX di qualunque pretesa politica e territoriale
sulla penisola italiana29.
Quando il fervore rivoluzionario nel resto della penisola conobbe
una battuta d’arresto nell’agosto 1848 – in seguito alla sconfitta delle
forze guidate dal re di Sardegna contro gli austriaci – furono le zone
di Roma e dintorni a iniziare a ribollire d’inquietudine politica e so-
ciale. L’assassinio di Pellegrino Rossi, massimo rappresentante politico
del Vaticano ucciso a pugnalate il 15 novembre mentre in pieno giorno
si recava al palazzo della Cancelleria, portò al precipitare degli eventi,
con la fuga del papa presso la fortezza di Gaeta e la decisione da parte
della popolazione della città di mettere in atto una forma di autogover-
no. Il 21 e 22 gennaio 1849 si tennero quindi le elezioni per la nomina
dei delegati all’assemblea costituente, i quali in seguito a un’apposita
votazione il 9 febbraio decretarono ufficialmente l’inizio di una nuova
era politica, in cui «il papato è decaduto di fatto e di diritto dal governo
temporale dello stato Romano» e «la forma del governo dello Stato Ro-
mano sarà la democrazia pura e prenderà il nome glorioso di Repubbli-
ca Romana». Nonostante l’elezione all’assemblea costituente, vivendo
ormai da quindici anni come un latitante Mazzini aveva temporeggiato
prima di raggiungere Roma, ma dopo aver ricevuto il celebre telegram-
ma «Roma, Repubblica, venite!» da parte del giovanissimo Goffredo
Mameli (1827-1849) – morto appena pochi mesi dopo difendendo Roma
dall’attacco delle forze filopapali – il cospiratore genovese mise da parte
le sue preoccupazioni e la sera del 5 marzo raggiunse Roma, da lui defi-
nita «il tempio dell’umanità», entrandovi a piedi da Porta del Popolo30.
Da quel momento Mazzini, in virtù dell’autorevolezza acquisita a livello
internazionale, divenne in breve tempo la figura politica più importante
della fragile Repubblica, trovandosi per la prima volta nella condizione
di poter mettere in atto le idee di democrazia radicale sviluppate negli
anni d’esilio, in un contesto di visionario entusiasmo in grado di attirare
29 Gatta, Mazzini, cit., pp. 179-185.
30 Ivi, 229-230.
73
capitolo quarto
a Roma la “meglio gioventù” di quegli anni, compreso il comandante
militare Garibaldi, tornato in Italia solo pochi mesi prima dopo la de-
cennale avventura in America del Sud.
Tra le “migliori menti di quella generazione” impegnata nell’uto-
pia romana vi fu anche Adriano Lemmi, in quanto su richiesta di Maz-
zini a metà aprile il livornese mise a disposizione le capacità logistiche
sviluppate con la compagnia di navigazione fondata a Istanbul, con lo
scopo di trasportare31 da Livorno a Civitavecchia la legione dei bersa-
glieri guidata da Luciano Manara (1825-1849), il valoroso bergamasco
distintosi per l’audacia dimostrata durante le Cinque giornate di Mi-
lano, ma destinato anche lui come Mameli a morire durante la difesa
di Roma. Purtroppo la delicata esistenza della Repubblica ebbe infatti
la sventura d’incappare nelle ambiziose trame politiche del neo-eletto
presidente francese Carlo Luigi Napoleone Bonaparte – futuro impe-
ratore Napoleone III – che per assicurarsi il sostegno dell’ampio elet-
torato cattolico e aumentare il proprio prestigio internazionale, decise
di accogliere l’invito del papa e inviare rinforzi militari con l’obiettivo
di ripristinare l’autorità vaticana su Roma.
Fu così che a fine aprile novemila soldati francesi al comando
del generale Oudinot sbarcarono a Civitavecchia, sferrando all’alba
del 30 aprile un violento attacco su Roma che si protrasse per tutta
la giornata, incontrando però una superba e inaspettata resistenza da parte
delle forze militari della Repubblica, ispirate dallo stile di combattimen-
to “irregolare” appreso da Garibaldi durante l’esperienza sudamericana.
Le truppe francesi dopo la prima sconfitta si ritirarono quindi nuovamen-
te a Civitavecchia, dove il 15 maggio giunse con l’incarico di ministro ple-
nipotenziario proprio quel Ferdinand de Lesseps (si veda supra, cap. 2)
destinato negli anni seguenti a divenire l’artefice del canale di Suez.
In occasione del suo incontro con il triumviro Mazzini, finalizzato
il 31 maggio da un accordo scritto, de Lesseps esibì un approccio troppo
conciliante che non fu gradito dalle autorità francesi, e fu all’origine
dell’interruzione della sua carriera diplomatica. In ogni caso la tregua
concordata permise a Parigi di sfruttare l’occasione per inviare altri ven-
timila soldati di rinforzo, che a partire dal successivo attacco – a tra-
dimento – del 3 giugno resero praticamente impossibile la resistenza
della repubblica, protrattasi in ogni caso fino alla definitiva capitolazio-
ne del 1° luglio 1849.
31 Conti, Adriano Lemmi, cit.
74
il banchiere della rivoluzione
6. Dopo la caduta di Roma e dei tanti centri urbani insorti con-
tro l’occupazione straniera nel 1848, l’unica città italiana che riuscì
a resistere fino all’estate del 1849 fu Venezia, e da qui infatti il 16 ago-
sto Niccolò Tommaseo scrisse una lettera ad Adriano Lemmi, che nel
frattempo aveva invece fatto ritorno a Istanbul32. Ma solo pochi giorni
dopo, ormai prostrata dalla fame, dal colera e dai bombardamenti au-
striaci, anche la Repubblica di San Marco dichiarò la resa, costringendo
l’intellettuale di origini dalmate – come molti altri italiani coinvolti nei
moti del 1848-49 – all’esilio presso una delle isole ionie poste al tem-
po sotto protettorato britannico. Tommaseo scrisse un’ulteriore lettera
a Lemmi a fine ottobre proprio da Corfù dove «dedicava la maggior
parte del suo tempo a larghi e profondi studi storici, linguistici, lessi-
cali; redigeva, man mano che gliene capitava l’occasione, rettifiche ed
aggiunte per nuove edizioni dei suoi dizionari, si applicava anche a stu-
di di carattere locale, scrivendoli in greco»33. In quella lettera Tomma-
seo, evidentemente conscio della difficile condizione d’esilio condivisa
in quel periodo da numerosi italiani come lui, sentì la necessità di rac-
comandare un veneziano transfugo in quei giorni a Istanbul, definen-
dolo «giovane di alto ingegno e di sentire onesto» e pregando Lemmi
di «trovargli, se potete, un pane presso qualche negoziante o in qual-
che scuola». Non sappiamo se e in che modo il livornese sia riuscito
ad aiutare il giovane esule veneziano nella sua nuova vita a Istanbul,
ma c’è ragione di credere che Lemmi abbia avuto ben altro a cui pen-
sare in quei mesi, in quanto i diversi movimenti nazionali che aveva-
no portato alla travolgente esplosione del 1848-1849 in Europa, anche
se temporaneamente sconfitti e dispersi, non tardarono a sviluppare
nuove forme e strumenti di lotta per perseguire gli obiettivi di unità
e indipendenza.
Quando, infatti, nell’agosto 1849 anche il movimento di libera-
zione nazionale ungherese fu schiacciato dalla congiunta reazione au-
striaca e russa, il leader della rivolta magiara Lajos Kossuth (1802-1894)
ottenne il permesso di rifugiarsi in territorio ottomano entrando a Vidin
(nell’attuale Bulgaria nord-occidentale) assieme ad altri 5000 combat-
tenti, tra cui anche circa 350 italiani guidati dal bresciano Alessandro
Monti (1818-1854), che per solidarietà avevano deciso di fornire il loro
32 Adriano Lemmi e Niccolò Tommaseo, cit., p. 6.
33 Ersilio Michel, Esuli italiani nelle isole Ionie (1849), «Rassegna storica del Risorg-
imento», a. XXXVII, fasc. 1-4, 1950, pp. 323-352: 345.
75
capitolo quarto
sostegno militare alla causa nazionale ungherese34. L’imprevista acco-
glienza ottomana fu il risultato di intense trattative diplomatiche con-
dotte con coraggio dal gran vizir Mustafa Reşit e dai due astri nascenti
della politica ottomana Fuat Pascià (1814-1869), al tempo ambasciatore
a Bucarest, e Ali Pascià (1815-1871), al tempo ministro degli esteri, i quali,
forti della solidarietà britannica e in parte anche francese, riuscirono a con-
vincere il sultano ottomano ad assumersi questa responsabilità politica,
a rischio di compromettere i rapporti con Vienna e San Pietroburgo35.
In seguito all’ingresso dei rifugiati in territorio ottomano si entrò
però in una preoccupante situazione di stallo diplomatico: dal campo
d’accoglienza di Vidin Lajos Kossuth si impegnò allora in una febbrile
attività epistolare nel tentativo di trovare una soluzione che garantisse
la sicurezza sua e degli altri esuli, oltre a favorire il più possibile la causa
nazionale ungherese. Le lettere fatte pervenire, tra gli altri, a personali-
tà come il gran vizir ottomano Mustafa Reşit, l’ambasciatore britanni-
co a Istanbul Stratford Canning, il ministro plenipotenziario francese
a Istanbul Jacques Aupick (1789-1857)36 e il ministro degli esteri bri-
tannico Lord Palmerston37 non sortirono però alcun effetto, e dopo
mesi di estenuanti frizioni diplomatiche le autorità ottomane decisero
di disperdere il blocco degli esuli in più direzioni, ponendo Kossuth
e un altro centinaio di esuli ungheresi agli arresti domiciliari presso
la cittadina anatolica di Kütahya, dove giunsero a metà marzo del 1850.
Pur trovandosi in una condizione di detenzione estremamente privi-
legiata, risiedendo in una comoda abitazione (oggi casa-museo) con
l’aiuto di una squadra d’inservienti e la possibilità di essere presto
raggiunto da moglie e figli, Kossuth iniziò da subito a cercare il modo
di guadagnare nuovamente la piena libertà38. Fu in questo contesto che
il patriota ungherese finì per essere coinvolto nel “Grande Gioco” bri-
tannico finalizzato alla creazione di un’egemonia imperiale planetaria.
34 Per il destino di questi combattenti italiani, giunti infine dopo lunghi travagli
a Cagliari nel maggio 1851, e il notevole sostegno politico e logistico fornito dalle auto-
rità ottomane in accordo con le istituzioni diplomatiche del Regno di Sardegna, si veda
De Leone, L’impero ottomano, cit., pp. 191-195.
35 Bayram Nazır, Osmanlı’ya sıǧınanlar. Macar ve Polonyalı mülteciler (In fuga verso
l’impero ottomano. Rifugiati ungheresi e polacchi), Istanbul, Yeditepe Yayınevi, 2006,
pp. 38-40.
36 Si noti che Jacques Aupick era il celebre patrigno di Charles Baudelaire (1821-
1867), in quanto nel 1828 aveva sposato sua madre Caroline (1793-1871), rimasta vedova
del primo marito.
37 Ivi, pp. 75-81.
38 Ivi, pp. 316-327.
76
il banchiere della rivoluzione
7. La cosiddetta Glorious Revolution del 1688, conclusasi con la sa-
lita al trono britannico dell’olandese William d’Orange, pose fine a
numerosi decenni di instabilità istituzionale e religiosa, inaugurando
un sistema politico che si è mantenuto quasi immutato fino ai giorni
nostri. Oltre a ribadire in maniera definitiva l’egemonia della religione
protestante ai danni di quella cattolica, che fu severamente penalizza-
ta e ostracizzata in ogni ambito della vita civile e politica, il Bills Act
del 1689 ebbe lo scopo di ridimensionare fortemente l’autorità del so-
vrano in favore della House of Commons, l’assemblea parlamentare
inglese ospitata sin dalla sua prima fondazione nel XIII secolo nel quar-
tiere londinese di Westminster. Ma a dispetto del secolare retaggio par-
lamentare e della presenza di una carta costituzionale a garanzia dei
diritti civili, le forti limitazioni al suffragio elettorale, i privilegi vitalizi
e le restrizioni di censo hanno reso il parlamento inglese uno strumen-
to fortemente oligarchico, implementando secondo alcuni storici un
modello politico molto simile a quello veneziano39.
A prescindere dalle omologie politiche si può affermare che
– dopo aver mosso i primi passi in epoca elisabettiana – fu dall’inizio
del XVIII secolo, in particolare dopo la fusione con la Scozia nel 1707,
che il Regno Unito britannico cominciò a sviluppare un ambizioso pia-
no di espansione che rammentava, sotto molti aspetti, il modello della
repubblica veneziana e poi anche del regno olandese. Tutte queste re-
altà, a fronte di una limitata estensione territoriale “primaria” hanno
condiviso l’idea d’investire le loro risorse non tanto sulla costruzione
di una forte realtà statuale – come ad esempio la Francia – ma sul con-
trollo delle vie di comunicazione marittime, con l’obiettivo di ampliare
quanto più possibile la propria ricchezza tramite il commercio, lo sfrut-
tamento di risorse naturali e la speculazione finanziaria. Come afferma-
to dal politologo tedesco Carl Schmitt nel suo visionario Terra e mare:
Allorché l’Inghilterra passò a un’esistenza puramente marittima, do-
vettero quindi mutare tutte le sue relazioni essenziali con il resto del
mondo, e in particolare con gli Stati del continente europeo. Tutti i pa-
39 Si veda ad esempio il peraltro discutibile Webster Tarpley, How the Venetian
System was transplanted in England, «New Federalist», 3 giugno 1996. Per una trat-
tazione più rigorosa e accademica di tematiche concernenti questo ambito di rifles-
sione, si veda Maurizio Isabella, Mediterranean Liberals. Italian revolutionaries and the
Making of a Colonial Sea, in Mediterranean Diasporas: Politics and Ideas in the long 19th
Century, a cura di Maurizio Isabella e Konstantina Zanou, London, Bloomsbury, 2016,
pp. 77-96. E ancora più nello specifico David Armitage, The Ideological Origins of the British
Empire, Cambridge, Cambridge University Press, 2000.
77
capitolo quarto
rametri e le proporzioni della politica inglese divennero incomparabili
e incompatibili con quelli di ogni altro paese europeo. L’Inghilterra di-
ventò la regina del mare, e sul suo dominio marittimo sull’intero globo
edificò un impero britannico sparpagliato in tutti i continenti. Il mon-
do inglese pensava in termini d’appoggio e di linee di comunicazione.
Ciò che per gli altri popoli era terra e patria appariva a esso come mero
entroterra.40
Dopo essere cresciuta indisturbata per circa un secolo crean-
do avamposti nei più disparati angoli del pianeta, ferita nell’orgoglio
solo nel 1776 dal distacco della propria creatura ribelle – gli Stati Uni-
ti d’America – all’inizio dell’Ottocento la potenza britannica si trovò
ad affrontare la Francia di Napoleone Bonaparte, in uno scontro fra
titani ispirati da filosofie statuali antitetiche. Quando con la battaglia
di Waterloo del giugno 1815 l’epopea dell’imperatore francese giunse
a termine, la potenza britannica ebbe la strada spianata per accrescere
il proprio dominio sul pianeta, generando uno straordinario accumulo
di capitale che fu a sua volta utilizzato e reinvestito nella creazione e svi-
luppo del suo apparato industriale. Fu in questo contesto di espansione
“imperiale” che prese forma, come visto sopra, la moderna massoneria
britannica, e fu così che – in assenza di tensioni politiche interne – essa
cominciò progressivamente a trasformarsi in uno strumento utilizza-
to dell’élite economica e politica per ottimizzare i profitti influenzando
i processi decisionali e le relazioni internazionali.
Proprio per questo a partire dal XIX secolo la diplomazia e l’intel-
ligence divennero i settori più sensibili e strategici della politica britan-
nica, il cui obiettivo risultava essere non solo quello di mantenere aper-
te e protette le vie di comunicazione tra la metropoli e le sue colonie,
ma anche quello di ottenere le migliori condizioni possibili nelle di-
namiche di scambio commerciale – stipulando ad esempio trattati di
libero commercio come quello firmato a Istanbul con l’impero ottoma-
no nel 1838 (si veda supra, § 1.7) – e di indebolire i potenziali rivali sti-
molando l’instabilità politica nei loro possedimenti. Nell’Europa uscita
dal Congresso di Vienna, i maggiori contendenti degli interessi britan-
nici erano l’impero russo e quello austro-ungarico, due grandi potenze
strutturate secondo un antico principio di continuità territoriale – come
anche l’impero ottomano – e capaci per questo d’includere al loro in-
terno numerose realtà linguistiche, religiose e culturali. Ma se la poten-
40 Carl Schmitt, Terra e mare. Una riflessione sulla storia del mondo (1942), trad. it.
di Giovanni Gurisatti, Milano, Adelphi, 2002, pp. 96-97.
78
il banchiere della rivoluzione
za britannica aveva deciso di salvaguardare e anzi sostenere l’integrità
dell’impero ottomano per convenienza politica ed economica, nel caso
russo e austriaco scelse invece di ricorrere a diverse operazioni di desta-
bilizzazione politica, in particolare la promozione e il sostegno delle lotte
per l’unità e l’indipendenza nazionale in Italia, Ungheria, Polonia ecc.
In questa prospettiva risulta ancora più comprensibile il coinvolgimen-
to, raramente menzionato, della diplomazia e dell’intelligence britannica
nella maggioranza dei moti che determinarono l’esplosione delle rivo-
luzioni “nazionali” del 1848-1849 in Europa, con l’effetto di mettere in
grave difficoltà politica l’impero russo e quello austriaco.
8. Diviene ora più facile comprendere in che modo il leader del
movimento nazionale ungherese Lajos Kossuth, dopo l’arrivo nella cit-
tadina anatolica di Kütahya, si sia subito messo in contatto epistolare
con Giuseppe Mazzini, tornato nel frattempo all’esilio londinese dopo
l’esaltante quanto drammatica esperienza da triumviro della Repubbli-
ca romana. Al contrario di Garibaldi, il cui impegno da libero muratore
risulta documentato con abbondanza di dettagli41, il rapporto di Maz-
zini con la massoneria non è mai stato del tutto chiarito: si possono
trovare fonti che negano ogni rapporto e altre, come il cospirazionista
ante litteram Domenico Margiotta, che assegnano invece a Mazzini
il ruolo di capo supremo della massoneria mondiale, in particolare dopo
la morte di Lord Palmerston nell’ottobre 1865. Senza giungere agli iste-
rici estremi di Margiotta, alla luce di quanto scritto finora e consideran-
do che il genovese risiedette a Londra dal 1837 al 1868, sembra davvero
difficile pensare che Mazzini non abbia avuto contatti di alto livello con
l’élite politica e quindi con la massoneria britannica, quanto meno in
chiave strumentale, nella speranza di poter influenzare favorevolmen-
te lo sviluppo della lotta di liberazione nazionale del popolo italiano.
È quindi possibile supporre che il ruolo assegnato da Mazzini ad Adria-
41 Si vedano, tra i tanti Fulvio Conti, Garibaldi massone, in Garibaldi eroe moderno,
a cura di Marco Severini, Roma, Aracne, 2007. Garibaldi fu iniziato alla massoneria nel
1844 presso la loggia “L’Asilo de la Virtud” di Montevideo (Uruguay), una loggia irrego-
lare non riconosciuta dalle principali obbedienze massoniche internazionali. Pochi mesi
dopo, sempre a Montevideo, Garibaldi decise di regolarizzare la sua posizione presso
la loggia “Les Amis de la Patrie” legata al Grande Oriente di Parigi. Come riferito sempre
da Fulvio Conti nell’articolo La rinascita della massoneria: dalla loggia Ausonia al Grande
Oriente d’Italia in Massoneria e Unità d’Italia, cit., a p. 125: «Importanti furono anche i con-
tatti che Garibaldi ebbe durante il secondo esilio, quando frequentò le logge massoniche
di New York e intorno al 1853-1854, prima di rientrare nel Regno di Sardegna, la loggia
Philadelphes di Londra».
79
capitolo quarto
no Lemmi, ovvero quello di mantenersi in contatto col patriota unghe-
rese Kossuth durante i mesi trascorsi a Kütahya, per essergli di conforto
morale ma soprattutto logistico – aiutandolo a tessere le relazioni poli-
tiche e diplomatiche necessarie a recuperare la libertà – fosse in linea
con indicazioni giunte dai “piani alti” dell’establishment britannico. Non
si dimentichi, del resto, che Kossuth era già entrato in contatto con Lord
Palmerston nei suoi primi giorni da rifugiato a Vidin, grazie alla media-
zione di Charles Frederick Henningsen, un agente britannico che non
tardò a raggiungere l’ungherese anche qualche mese dopo a Kütahya42.
Il modo in cui la prigionia dorata di Kossuth trovò infine soluzione
ci fornisce ulteriori indizi riguardo alle trame e allo sviluppo delle relazio-
ni politiche ed economiche a metà del XIX secolo, e sul ruolo svolto dalla
massoneria internazionale in questo nuovo scenario. Il 4 marzo 1851
il Congresso degli Stati Uniti d’America decise infatti di votare un atte-
stato di stima per Kossuth, ringraziando l’impero ottomano per l’acco-
glienza a lui fornita. La stessa assemblea statunitense si dichiarò inoltre
favorevole a mettere a disposizione una nave della flotta statunitense
presente nel Mediterraneo, per condurre altrove l’esule ungherese non
appena questo si fosse reso possibile43. L’intervento di un paese appa-
rentemente neutrale ed estraneo ai giochi europei permise così, dopo
lunghe trattative, di giungere a un compromesso con le diverse potenze
riguardo alla questione dei rifugiati politici ungheresi, sollevando fi-
nalmente le autorità ottomane da una gravosa responsabilità che ave-
va generato forti tensioni diplomatiche, in particolare con le autorità
di Vienna. Così, dopo l’evacuazione di alcuni detenuti già ad aprile 1851,
nel corso dell’estate l’impero ottomano riuscì finalmente a sbarazzarsi
interamente del problema dei rifugiati politici ungheresi presenti sul
suo territorio. Lajos Kossuth fu uno degli ultimi ad andarsene, salen-
do all’inizio di settembre assieme alla famiglia e all’ormai inseparabile
Adriano Lemmi proprio sulla fregata militare statunitense Mississipi,
42 Nazır, Osmanlı’ya sıǧınanlar, cit., p. 319. Per il rapporto tra Henningsen e Kos-
suth, si veda anche Mazzini e Kossuth. Lettere e documenti inediti, a cura di Eugenio Kast-
ner, Firenze, Le Monnier, 1929, pp. 26-27. In appendice allo stesso volume è riportato
integralmente il lungo rapporto Sullo stato politico dell’Italia che da Londra Henningsen
inviò a Kossuth nel giugno 1851, pp. 163-181. Nel rapporto Henningsen afferma che
«le autorità (del Regno di Napoli), anche quelle superiori, erano convinte che questa espo-
sizione (di Londra) fosse una manovra politica di Mazzini, e di questo fatto si parlava con
vari sentimenti di esultanza e di timore».
43 Nazır, Osmanlı’ya sıǧınanlar, cit., p. 332.
80
il banchiere della rivoluzione
giunta presso il porto di Izmir per portare via l’ultima comitiva di esuli
ungheresi composta da circa una cinquantina di elementi44.
Dopo una serie di scali nel Mediterraneo, il 23 ottobre 1851 la Mis-
sissipi sbarcò Kossuth e Lemmi presso il porto inglese di Southamp-
ton, dove l’ungherese – grazie all’efficace campagna mediatica in suo
favore promossa negli ultimi tempi – fu accolto come una sorta d’e-
roe nazionale da decine di migliaia di persone che affollarono le strade
di Londra e moltre altre città inglesi, infastidendo terribilmente la regi-
na Vittoria. Furono solo le pressioni di quest’ultima sul primo ministro
britannico Russell e sugli altri membri del suo gabinetto a impedire che
il ministro degli esteri Lord Palmerston accogliesse in forma ufficiale
Kossuth presso la sua residenza privata45. Ad ogni modo, dopo tre set-
timane di festosa accoglienza e incontri con numerosi personaggi di ri-
lievo politico e culturale, Kossuth e Lemmi partirono infine per gli Stati
Uniti. Qui l’ungherese ricevette ulteriori tributi di folla ed ebbe l’onore
di essere ricevuto dall’allora presidente Millard Fillmore (1800-1874)
e dal futuro presidente Abraham Lincoln (1809-1865), oltre ad essere
invitato a parlare davanti al Congresso a Washington ed essere formal-
mente inizato alla massoneria presso la Grand Lodge of Cincinnati nel
febbraio 185246.
Nel frattempo Adriano Lemmi aveva deciso di tornare fretto-
losamente in Europa dopo aver appreso del colpo di stato in Francia
– effettuato il 6 dicembre 1851 dall’allora presidente Carlo Luigi Napo-
leone Bonaparte – in quanto l’avvenimento rischiava di mandare a soq-
quadro i piani rivoluzionari orchestrati da Mazzini e Kossuth. Ormai
anche le trame internazionali coltivate da Lemmi avevano raggiunto un
livello notevole, perché il 16 gennaio, a Londra, il livornese ricevette dal-
la locale ambasciata un passaporto statunitense che gli garantiva estre-
ma libertà di movimento in Europa47. Di questo privilegio Lemmi aveva
particolare bisogno in quel periodo dato che:
Nel mese successivo è già a Malta da dove cerca di promuovere la rivo-
luzione generale europea. Aspetta là che siano spediti armi e denaro
da Kossuth; ma gli avvenimenti francesi e il rafforzamento del potere
44 Ivi, p. 358. Riguardo ai dettagli della travagliata dipartita di Lemmi dal territorio
ottomano, si veda anche Adriano Lemmi e Niccolò Tommaseo, cit., p. 6
45 Phineas C. Headley, The Life of Louis Kossuth, Governor of Hungary, Auburn, Der-
by and Miller, 1852. pp. 232-243.
46 Si veda online Lajos Kossuth, https://en.wikipedia.org/wiki/Lajos_Kossuth, ulti-
mo accesso 22 febbraio 2022.
47 Adriano Lemmi e Niccolò Tommaseo, cit., p. 7.
81
capitolo quarto
di Napoleone impediscono a Kossuth il successo e lo sperato viaggio
trionfale. È vero che gli americani hanno stabilito di dare molti aiuti, ma
per ora questi aiuti non vengono.48
Alla fine gli aiuti statunitensi non giunsero mai, anche perché Kos-
suth dopo l’inizio trionfale della sua missione americana compì una
serie di passi falsi diplomatici, e a giugno si vide costretto a tornare
in Inghilterra. Lemmi si trattenne invece nell’allora possedimento bri-
tannico di Malta fino a ottobre, quando le autorità locali gli ordinarono
di lasciare l’isola entro quindici giorni, a causa delle rimostranze avanza-
te da diverse potenze straniere49. Il livornese si recò quindi nuovamen-
te a Londra da Mazzini, che lo coinvolse nel piano per l’insurrezione
di Milano del 6 febbraio 1853, rivelatosi però un totale insuccesso. Lem-
mi fu infatti arrestato a Genova, ma subito rilasciato per intercessione
del consolato statunitense in ragione del nuovo passaporto. Alla fine il li-
vornese riparò in Svizzera e da qui riuscì infine a fare ritorno a Istanbul,
dove rimase stabilmente per qualche anno riprendendo le attività della
sua compagnia di navigazione e riuscendo ad accumulare una notevole
ricchezza, anche grazie alla vantaggiosa congiuntura della guerra di Cri-
mea, che a partire dalla fine del 1853 portò per oltre due anni lo stretto
del Bosforo a essere un centro strategico dei traffici europei50. Col capi-
tale accumulato negli anni del conflitto, integrato dalle generose offerte
dei patrioti italiani d’Istanbul, Lemmi riuscì a fornire un fondamentale
contributo finanziario alla cosiddetta “spedizione del Pisacane”, orga-
nizzata nell’estate 1857 da un manipolo di mazziniani con l’obiettivo
di liberare i prigionieri politici detenuti presso il carcere di Ponza (Lati-
na), per poi accendere un focolaio di rivolta contro il dominio dei Bor-
48 Lajos Kossuth nel suo carteggio con Adriano Lemmi 1851-1852, a cura di Lajos Pàsztor,
Roma, Biblioteca italo-ungherese del Risorgimento, 1947, p. 13. Secondo il piano di Kos-
suth e Mazzini, Lemmi avrebbe dovuto innescare un’insurrezione rivoluzionaria in Sicilia
(con l’aiuto logistico della marina statunitense), che si sarebbe dovuta poi estendere a tutta
la penisola italiana e quindi anche in Ungheria. Si veda Mazzini e Kossuth, cit., pp. 47-48.
Il 29 febbraio 1852 Lemmi da Malta inviò a Felice Foresti una lettera che costituisce uno
straordinario attestato di stima e riverenza per la figura umana, politica e intellettuale di
Mazzini, in un momento in cui il genovese cominciava a essere criticato e contestato an-
che da chi in passato gli era stato molto vicino. Si veda Lettere di G.Garibaldi, Q. Filopanti e
A. Lemmi a Felice Foresti, a cura di Mario Menghini, Imola, 1909, pp. 24-26. «Potendo esser
aquila che vola a rapire un nuovo raggio al sole, s’è fatto volontariamente talpa volgare, per
iscavar di sotto terra le fondamenta del muro che asserraglia le vie del suo paese», ivi, p. 25.
49 Adriano Lemmi e Niccolò Tommaseo, cit., p. 7.
50 Conti, Adriano Lemmi, cit. Lemmi continuò in ogni caso a muoversi, come te-
stimonia la lettera inviatagli a Malta da Mazzini il 10 novembre 1855: Mazzini, Scritti editi
ed inediti, LVI, Epistolario di Giuseppe Mazzini 32, cit., pp. 21-22.
82
il banchiere della rivoluzione
boni in Italia meridionale. Ma il piano mazziniano si rivelò ancora una
volta un fallimento, concludendosi col massacro di quasi tutti i parteci-
panti. Allora Lemmi, che era giunto in Piemonte per ragioni organiz-
zative, dopo aver qui conosciuto il giovane patriota pistoiese Giuseppe
Civinini (1835-1871), decise di portarlo con sé a Istanbul51 nel ruolo di
precettore del figlio Silvano, nato il 1° novembre 1857 a Ginevra dal ma-
trimonio con Anna Parini.
Questo fu l’ultimo periodo trascorso da Lemmi a Istanbul, perché
a partire dal 1860 il livornese fece definitivamente ritorno nella penisola
italiana ormai parzialmente unificata, trovandosi coinvolto in numerosi
momenti decisivi della storia del Regno d’Italia: l’organizzazione logi-
stica della spedizione dei Mille, il discusso progetto per la costruzione
delle ferrovie in Italia meridionale, la presenza al capezzale di Mazzini
il giorno della morte a Pisa e la guida del Grande Oriente d’Italia a par-
tire dal 188552. Ma queste sono altre storie...
51 Un esule italiano a costantinopoli nel 1859, tre lettere di Giuseppe Civinini, a cura di
Filippo Civinini, Pistoia, Officina tipografica cooperativa, 1912.
52 Conti, Adriano Lemmi, cit.
83
5. La meglio gioventù.
anacleto Cricca e luigi Storari esuli a Smirne
(Levantines are) people living like flies
in the sun, with no moral or religious
existence, no social life, no love of country.
Lady Hornby, Istanbul 20 gennaio 18561
1. Fino a metà del XIX secolo la presenza di “italiani” in territorio
ottomano risultò limitata per lo più ai discendenti di antiche genera-
zioni levantine impegnate soprattutto nel commercio, o ad arrivi isolati
legati ai più disparati percorsi individuali, come visto anche nelle pagi-
ne precedenti. A partire però dal grande sommovimento rivoluzionario
che scosse la penisola nel biennio 1848-1849, cui fece seguito un dram-
matico giro di vite repressivo in particolare nei territori sotto il controllo
dell’impero austriaco e dello Stato della Chiesa – l’arrivo di migranti
italiani in città ottomane come Istanbul e Izmir divenne un fenomeno
sempre più consistente2. Grazie al contributo dato da questa prima on-
data di pionieri, che pur nella difficile condizione dell’esilio riuscirono
a ricostruirsi una vita fondando relazioni e istituzioni di mutuo soccor-
so, anche nei decenni successivi furono in tanti a giungere dall’Italia
ormai riunita in cerca di semplice fortuna economica.
L’apporto di questa comunità diasporica alla costruzione della ger-
minale identità nazionale italiana in un momento storico così delicato
meriterebbe senza dubbio d’essere valutato con maggiore attenzione.
È però indubbio che questi esuli politici – assieme alle altre tipologie
di migranti provenienti dalla penisola italiana o da altre parti d’Europa –
1 Lady Hornby, Constantinople during the Crimean War, Londra, Richard Bentley,
1863, p. 173. Le lettere di cui si compone il libro, tutte datate, fanno riferimento al periodo
agosto 1855- febbraio 1858. Per l’autrice Emilia Maceroni (1826-1866), nata in Inghilterra
da famiglia di origini romane, si veda anche la nota 24 del cap. 6.
2 Per le figure di alcuni di questi esuli politici del 1848-1849, si veda De Leone,
L’impero ottomano, cit., pp. 182-187. Per un elenco più estensivo ma privo di informazioni
biografiche, si veda Carmelo Trasselli, Esuli italiani in Turchia nel dodicennio 1849-1860,
«La Sicilia nel Risorgimento italiano», a. 3, fasc. 1, 1933.
85
capitolo quinto
ebbero un ruolo fondamentale nel rendere città ottomane come Istanbul,
Izmir e Salonicco degli eccezionali crogiuoli di cosmopolitismo3.
L’impero ottomano, come è noto, aveva sempre dimostrato una spe-
ciale forma di tolleranza istituzionale e religiosa nei confronti delle mino-
ranze, in ragione di un precetto presente nella stessa tradizione politica
islamica4. Si rivelò quindi possibile implementare nell’immensa geogra-
fia ottomana un sistema politico capace di mantenere in vita quell’etero-
geneo mosaico di culture presenti nell’area che si estendeva dai Balcani
alla penisola arabica, dal Nord Africa alle montagne del Caucaso.
Fino ai primi decenni del XIX secolo non ci furono però particola-
ri fenomeni d’interazione tra le diverse comunità presenti nell’impero,
in quanto pur vivendo fianco a fianco ognuna di esse rimaneva fortemen-
te legata alla propria tradizione religiosa e culturale, anche in ragione
di particolari concessioni e autonomie a livello politico-amministrativo.
Questo valeva sia nel caso delle popolazioni autoctone (greci, curdi, ar-
meni, arabi) che di quelle immigrate successivamente in terra ottomana,
come gli ebrei sefarditi giunti a decine di migliaia dopo la loro cacciata
dalla Spagna nel 1492, o i mercanti cattolici d’origine italiana e francese.
Non si deve inoltre dimenticare che l’autorità ottomana, pur rispet-
tando la libertà religiosa delle diverse popolazioni presenti nell’impero,
rendeva chiaro con le sue scelte amministrative il privilegio accordato
alla religione musulmana: era infatti estremamente rara l’assunzione
di un funzionario non musulmano nell’apparato burocratico dell’impe-
ro. Questo fatto ostacolava quindi sia a livello simbolico che materiale
il riconoscimento paritario e l’incontro tra elementi culturalmente ete-
rogenei nello spazio pubblico delle istituzioni.
Ma come visto nei capitoli precedenti, a partire dalla seconda parte
del regno di Mahmut II questa ortodossia a livello amministrativo co-
minciò a incrinarsi, sostituita da un sempre maggiore interesse dell’au-
3 Su questo tema si veda Arus Yumul, I levantini di Pera, in Gli italiani di Istanbul,
cit., pp. 87-92, in part. p. 91: «la Pera del XIX secolo rappresenta una bohème formata dai
membri di tutti gli altri paesi. Tra loro ci sono famiglie in disgrazia, emigranti politici,
sacerdoti spretati, disertori, commercianti falliti, avventurieri».
4 Per una sommaria trattazione di queste tematiche, si veda Eric J. Zürcher, Sto-
ria della Turchia moderna. Dalla fine dell’impero ottomano ai giorni nostri, Roma, Donzelli,
2007. pp. 13-21. Per una trattazione più estesa Federico Donelli, Islam e pluralismo. La coabi-
tazione religiosa nell’impero ottomano, Milano, Mondadori, 2017. E in inglese: Christian
and Jews in the Ottoman Empire. The Abridged Edition, a cura di Benjamin Braude, Boulder
(CO), Llynne Rienner, 2014.
86
la meglio gioventù
torità ottomana verso le innovazioni in arrivo dall’Europa a livello buro-
cratico, tecnologico e culturale.
In questo contesto, a partire dagli anni ’30 del XIX secolo le co-
munità straniere di origine europea presenti nell’impero ottomano, fa-
vorite nondimeno dai crescenti privilegi anche a livello di tassazione
garantiti dal plurisecolare sistema delle capitolazioni5, videro crescere
rapidamente le possibilità a livello imprenditoriale e commerciale, de-
terminando un progressivo e inarrestabile aumento della loro ricchezza
materiale e influenza politica fino al drammatico scoppio della Prima
Guerra mondiale.
2. Anacleto Cricca nacque a Bologna il 13 settembre 18246. Il padre
Pietro era professore di medicina presso la locale università, ma anche
un fervente patriota: il figlio Anacleto decise di seguirne le orme a livello
di studi e negli anni dell’università si trovò presto a frequentare alcu-
ne delle più illustri figure politiche del tempo, come Livio Zambeccari
(1802-1862)7 e Felice Orsini (1819-1858), quest’ultimo divenuto poi cele-
bre per il fallito attacco bombarolo ai danni dell’imperatore Napoleone III
e la conseguente condanna a morte. Già nel settembre 1845, a causa
della partecipazione ai moti di Rimini contro l’autorità vaticana, per evi-
tare l’incarcerazione Anacleto Cricca si vide costretto a fuggire prima
a Corfù e poi ad Atene, tornando a casa solo dopo l’amnistia concessa
dal nuovo papa Pio IX nel luglio 1846. Ma il giovane bolognese non
si fece intimorire e durante le giornate di Carnevale del 1848 cominciò
a incontrarsi segretamente presso il locale mercato della Montagnola
con un gruppo di cospiratori guidato dal veterano Zambeccari, con lo
scopo di organizzare un’importante mobilitazione. Furono questi in-
5 Per la cruciale questione delle capitolazioni, che accordavano ai membri delle
comunità straniere dell’impero ottomano notevoli privilegi fiscali e un particolare status
legale che li esentava nella gran parte dei casi dalla giurisdizione locale, si veda Alexander
De Groot, The Organization of European Trade in the Levant 1500-1800. Companies and
Trade: Essays on Overseas Trading Companies during the Ancien Regime, a cura di Leonard
Blussé e Femme Gaastra, Leiden, Leiden University Press, 1981.
6 Molte delle informazioni qui riportate provengono da un dettagliato articolo
di carattere biografico pubblicato da un conoscente di Cricca residente assieme a lui nella
città di Izmir: Alessandro Corbelli, Anacleto Cricca. Le memorie di un veterano, «Rivista
politica e letteraria», a. V, XVII, fasc. 1, 15 ottobre 1901, pp. 105-134.
7 Sulla straordinaria figura di questo altro “eroe dei due mondi”, più conosciuto
in America Latina che in Italia, si veda il recente: Fiorenza Tarozzi, Un cittadino del mon-
do. Cultura e politica in Livio Zambeccari fra Italia e America Latina, in Massoneria e Unità
d’Italia, cit., pp. 223-245.
87
capitolo quinto
contri a portare alla nascita del battaglione “Cacciatori dell’Alto Reno”,
un corpo di circa 650 volontari che nel corso dei mesi successivi riuscì
a liberare temporaneamente dal giogo austriaco e pontificio numerose
città del Veneto e dell’Emilia-Romagna tra cui Modena, Ferrara, Pado-
va, Treviso, Mestre e Vicenza8.
Nel febbraio 1849 la città d’Ancona dichiarò la sua adesione
ai principi democratici della Repubblica romana liberandosi dal domi-
nio papale che si protraeva ininterrotto dal 1532, se si esclude la breve
parentesi napoleonica tra 1797 e 1815. Ma la reazione di papa Pio IX
non si fece attendere: poche settimane dopo il pontefice chiese infatti
aiuto militare alle autorità di Vienna, le quali il 25 maggio diedero inizio
a un terribile assedio condotto da circa 11mila uomini comandati dal
feldmaresciallo Wimpffen. In ragione dell’imminente pericolo, alla fine
di aprile il triumvirato della Repubblica romana assegnò a Livio Zam-
beccari il compito di effettuare i preparativi necessari alla difesa della
città e guidare la successiva resistenza, condotta eroicamente da circa
quattromila volontari tra cui Anacleto Cricca9. Dopo venticinque gior-
ni di scontri e bombardamenti, la città ormai semidistrutta cadde agli
austriaci e molti di coloro che avevano preso parte alla resistenza, per
sfuggire alle inevitabili azioni di rappresaglia degli austriaci, scelsero
di fuggire verso destinazioni del Mediterraneo orientale come la Gre-
cia o l’impero ottomano. Grazie all’eccellente studio dedicato nel 1950
alla questione da Ersilio Michel10, sappiamo che tra i primi a partire ci
furono personaggi di spicco come Livio Zambeccari e altri funzionari,
che nel giro di pochi giorni giunsero a Corfù grazie all’intervento della
nave da guerra britannica Frolig. L’isola in questione fu una delle prime
destinazioni privilegiate dagli esuli, sia per la sua vicinanza geografi-
ca sia perché gli inglesi, che dal 1815 esercitavano il protettorato sull’i-
sola greca, fornirono in numerosi casi il loro aiuto logistico – in certi
8 Per un’estesa descrizione delle imprese compiute da questo Battaglione,
si veda: Giovanni Natali, Corpi franchi del Quarantotto. I battaglioni dell’Alto Reno, del Basso
Reno, dell’Idice, del Senio, «Rassegna storica del Risorgimento», a. XXII, fasc. II-III, 1935,
pp. 185-233 e pp. 326-411.
9 Nell’aprile 1849 il triumvirato della repubblica romana aveva invece assegnato
a Felice Orsini l’incarico di «Commissario civile e militare della città e provincia di Anco-
na, dove da qualche mese era anarchia, giacché si uccidevano persone di giorno e di notte
per private vendette...». Si veda Alessandro Luzio, Felice Orsini, Milano, Cogliati, 1914,
pp. 66-74. Nell’ambito di questo incarico Orsini «minacciò di destituzione parecchi alti
funzionari che trascuravano l’ufficio», tra cui l’allora direttore delle Poste anconetane
Carlo Leopardi (1799-1878), fratello minore di Giacomo (p. 72).
10 Michel, Esuli italiani nelle isole Ionie, cit.
88
la meglio gioventù
casi persino con l’assegnazione di passaporti britannici – permettendo
ai patrioti italiani (ma anche a molti polacchi e ungheresi che avevano
preso parte alla guerra d’indipendenza italiana in segno di solidarietà)
di raggiungere un porto sicuro.
Tra coloro che in quei giorni giunsero a Corfù da Ancona ci fu
anche Anacleto Cricca, che sull’isola tentò di sbarcare il lunario «dando
lezioni di scherma» e «copiando documenti legali ed altri scritti che ve-
nivano loro affidati, in segno di stima e simpatia, da alcuni notabili citta-
dini» assieme all’amico e poeta ascolano Luigi Mercantini11. A un certo
punto in quel periodo Cricca fu iniziato alla massoneria presso la loggia
“Fenice” di Corfù12, isola che vantava una lunga e intensa tradizione
muratoria. Ma già alla fine del 1849 giunse per lui e altri esuli l’ordine
d’abbandonare l’isola, costringendo il bolognese a muovere prima a Pa-
trasso, quindi presso l’isola greca di Siros e infine nella città di Izmir,
dove giunse nel marzo 1850 approfittando dell’accoglienza riservata agli
esuli politici europei dal governo ottomano.
A pochi giorni dal suo arrivo in città, Cricca decise di fondare
un “Comitato per l’emigrazione italiana” assieme ad altri due esuli
italiani: il marchese perugino Orazio Antinori (1811-1882) – destinato
a divenire uno dei più celebri esploratori italiani dell’Africa, oltre che
primo segretario della Società geografica italiana nel 1867 – e il ferrare-
se Luigi Storari13.
3. Luigi Storari nacque a Ferrara nel 1822 in una famiglia di pos-
sidenti terrieri. Intorno al 1845 si iscrisse all’Università di Roma, dove
conseguì il diploma di ingegnere al termine di un corso di studi trienna-
le indirizzato a formare i professionisti da impiegare nei lavori di idrau-
lica, edilizia e costruzione di strade dello Stato pontificio14. Non esi-
ste alcuna testimonianza che provi la sua partecipazione attiva ai moti
risorgimentali del 1848-49, anche perché il suddetto periodo coincise
probabilmente col matrimonio e di certo con la nascita della prima figlia
Amelia. Dal passaporto rilasciatogli dall’autorità pontificia di Ferrara
il 23 novembre 1849 per raggiungere Il Cairo, sappiamo però che pochi
11 Ivi, p. 330.
12 Archivio storico della Grande Loggia di Turchia (ASGLT), Logge italiane in
Turchia, Roma, 2005, p. 8.
13 Corbelli, Anacleto Cricca, cit., p. 117.
14 Cenk Berkant, L’Impero Ottomano e l’Italia, le relazioni in architettura. Il caso
di Smirne, tesi di dottorato, Università di Padova, 2011, p. 125.
89
capitolo quinto
giorni dopo la famiglia Storari abbandonò l’Italia per Corfù e da qui,
dopo aver ottenuto il nullaosta ottomano, decise infine di raggiungere
Izmir invece dell’Egitto. Pur non essendo chiaro se la scelta di dichia-
rare una destinazione diversa da quella realmente raggiunta sia stata
deliberata e motivata da un reale impegno politico, sembra che nella
città egea Storari abbia avuto dei problemi con le autorità austriache,
perennemente all’erta nei confronti degli esuli politici. Per questo mo-
tivo l’ingegnere ferrarese decise di chiedere protezione al locale conso-
lato francese, che il 2 gennaio 1851 gli concesse il nullaosta per recarsi
a Istanbul e nel dicembre 1854 gli assegnò addirittura un passaporto
francese15.
Non sappiamo con certezza perché all’inizio del 1851 Storari si sia
recato a Istanbul, ma è probabile che si sia trattato di una sorta di
“colloquio di lavoro” con le autorità ottomane, in quanto a partire dal
1° aprile di quello stesso anno l’ingegnere ferrarese cominciò ufficial-
mente a lavorare a Izmir al servizio di Ali Nihat Efendi, inviato nel 1850
dal governo ottomano con la qualifica di commissario per il censimento
catastale della città egea16.
Nel contesto del rapido processo di modernizzazione delle isti-
tuzioni amministrative in corso in quegli anni, il governo ottomano si
era infatti prefissato di applicare un modello “razionale” di tassazione
dei cittadini basato sulla ricchezza posseduta in termini d’immobili e di
proprietà terriera. Questa radicale riforma, iniziata in alcune città pilota
nel 1835, era poi stata applicata in un numero sempre maggiore di centri
urbani negli anni ’40, ma a Izmir aveva incontrato una notevole resistenza
da parte della popolazione – in particolare le comunità straniere divenute
prospere grazie ai loro numerosi privilegi – ostacolando il raggiungimen-
to di qualunque risultato tangibile. In seguito alla sua nomina nel 1850,
il nuovo commissario imperiale Ali Nihat Efendi decise allora di prendere
in mano la situazione, assumendo a questo scopo l’ingegnere ferrarese
per assisterlo nella redazione della mappa catastale17.
Il primo risultato noto di questa collaborazione consiste nella
mappa redatta da Storari nel settembre 1852 per censire i danni subiti
15 Ivi, pp. 123-124.
16 Sibel Zandi-Sayek, Ottoman Izmir. The Rise of a Cosmopolitan Port 1840-1880.
Minneapolis, University of Minnesota Press, 2011, p. 69.
17 Alp Yücel Kaya, XIX. Yüzyılda Doğu Akdeniz Liman Şehirlerinde Kadastro Siyaseti
(Politica catastale nelle città portuali del Mediterraneo orientale nel XIX secolo), in Akdeniz
Tarihi, kültürü ve siyaseti (Storia, cultura e politica del Meditarraneo), Izmir Büyükşehir,
Akdeniz Akademisi, 2016, pp. 18-28.
90
la meglio gioventù
da oltre seicento immobili (in gran parte negozi) nel quartiere Keme-
ralti di Izmir, a causa di uno dei frequenti incendi che hanno sempre
funestato la storia del porto egeo, fino alla catastrofe finale del settem-
bre 192218. La mappa è stata trovata nel 2001 da un ricercatore di storia
ottomana in mezzo alle carte di Ali Pascià (1815-1871), astro nascente
della politica ottomana di quegli anni – di cui avremo modo di parlare
a lungo nei prossimi capitoli – che fu vali (governatore) della provin-
cia di Aydın tra gennaio e giugno 1853. È interessante scoprire che Ali
Pascià fu sospeso dall’incarico dopo soli pochi mesi – sacrificato dal
governo ottomano come capro espiatorio – per sopire le proteste del-
le autorità austriache le quali avevano richiesto l’espulsione da Izmir
dell’intera comunità degli esuli italiani. La richiesta era giunta in seguito
all’aggressione compiuta da alcuni italiani nei confronti di un manipolo
di guardie austriache – lasciando a terra un morto e un ferito – in segno
di rappresaglia per l’incarceramento da parte dei funzionari di Vienna
di Martin Koszta, leader locale della comunità degli esuli ungheresi, poi
liberato grazie all’intervento diplomatico degli Stati Uniti d’America19.
La particolare attenzione dimostrata dalle autorità ottomane per
i diritti degli esuli risorgimentali trovò un importante riconoscimento
nella decisione di Luigi Storari di dedicare al sultano Abdülmecid il ri-
sultato più importante da lui ottenuto in quegli anni, ovvero la mappa
integrale della città di Izmir completata nel 1854. Questa stessa mappa,
e le lunghe ricerche e perlustrazioni della città effettuate in quegli anni
di lavoro, furono poi alla base della Guida turistica di Smirne da lui pub-
blicata nel 1857 in edizione italiana e francese20.
In seguito alla fama acquisita a Izmir, Storari fu chiamato dal gran
vizir Mustafa Reşit per prestare servizio anche a Istanbul: il primo in-
carico fu la redazione del nuovo piano urbanistico dei quartieri di Ak-
saray e Laleli, nel centro della penisola storica, in seguito al devastante
incendio del 26 giugno 185521 che aveva causato la distruzione di ol-
tre settecento immobili tra negozi e abitazioni. Un simile contributo
18 Zeki Arıkan, Storari’nin Kemeraltı planı (Il piano di Storari per Kemeraltı),
«Izmir Kent Kültür Dergisi», 4, 2001, pp. 76-80.
19 Ivi, p. 80. Per una cronaca degli eventi concernenti il caso Koszta, si veda anche:
Corbelli, Anacleto Cricca, cit., pp. 124-126.
20 Luigi Storari, Guida con cenni storici di Smirne, Torino, Stamperia dell’unione
tipografico-editrice, 1857.
21 Necdet Sakaoğlu, Yangınlar: Osmanlı dönemi (Incendi: l’epoca ottomana),
in Dünden bugüne Istanbul Ansiklopedisi, 8 voll., Istanbul, Kültür Bakanlığı ve Tarih
Vakfı’nın Ortak Yayını, 1994, VII, p. 435.
91
capitolo quinto
fu richiesto anche per i quartieri di Sakızağacı a Beyoğlu (in seguito
all’incendio del dicembre 1857, che aveva distrutto 210 abitazioni), e per
la creazione alla fine del 1857 di un nuovo quartiere in riva al Bosforo
chiamato Boyacıköy su richiesta ancora una volta del gran visir Mustafa
Reşit, destinato a morire all’improvviso pochi mesi dopo22. Nel febbraio
1858 il sultano Abdülmecid decise di ricompensare l’ingegnere ferrare-
se per i suoi numerosi contributi al nuovo ordine urbanistico delle città
di Istanbul e Izmir con la cifra di 10mila kuruş, e nell’anno 1859 Storari
fu assunto come ingegnere capo del Ministero dei Lavori pubblici23.
Ma a dispetto di tutti questi successi, Storari sembra aver vissuto dei
problemi finanziari a causa del mancato pagamento del suo salario da
parte della prefettura d’Izmir, come risulterebbe da una serie di corri-
spondenze intrattenute con il locale consolato francese, cui chiedeva di
intercedere.
Alla fine, forse anche a causa di questi problemi, dopo essersi trat-
tenuto a Istanbul fino al 1862 Storari scelse di trasferirsi assieme alla fa-
miglia in Egitto, dove continuò a prestare servizio nel settore pubblico,
in particolare nella ripavimentazione di Alessandria. A un certo punto
fece ritorno a Ferrara, dove morì nel 189424.
4. Pochi mesi dopo il suo arrivo e l’istituzione del “Comitato per
l’emigrazione italiana” assieme ad Antinori e Storari, nel giugno 1850
giunse notizia a Cricca e agli altri esuli italiani d’Izmir che il sultano
Abdülmecid sarebbe passato in visita nella città egea25.
Nel suo tentativo di rinnovare radicalmente non solo l’amministra-
zione ma la concezione stessa del potere politico ottomano, Abdülm-
ecid aveva già in precedenza deciso di effettuare dei viaggi all’interno
del vastissimo territorio imperiale per conoscere direttamente i proble-
mi e lo stato delle riforme nelle diverse province dell’impero, confron-
tandosi in prima persona con i funzionari e gli amministratori locali.
Per quanto possa risultare ordinario al giorno d’oggi, lo spostamento
per ragioni non militari di un sovrano – in particolare quello ottomano,
celebre per la sua aura di sacralità – era un fatto estremamente inusua-
22 Stefanos Yerasimos, Quelques Éléments sur l’ingénieur Luigi Storari, in Architet-
tura e architetti italiani ad Istanbul tra il XIX e il XX secolo, atti del convegno (Istanbul,
27-28 novembre 1995), Istanbul, Istituto italiano di cultura, 1996, pp. 121-122.
23 Berkant, L’impero ottomano, cit., p. 138.
24 Ivi, p. 126.
25 Corbelli, Anacleto Cricca, cit., p. 119.
92
la meglio gioventù
le e profondamente innovativo. Nel 1844 Abdülmecid si era assentato
dalla capitale per effettuare un tour via mare delle province di Izmit,
Bursa, Lesbo, e infine Gallipoli sulla via del ritorno, cui fece seguito
nel 1846 una perlustrazione di numerose province interne della cosid-
detta Rumelia, la sezione dell’impero estesa sul continente europeo
– Adrianopoli, Ruse, Silistria, Šumen e Varna –, facendo poi ritorno
a Istanbul navigando sul Mar Nero con una corvetta battezzata simboli-
camente Eser-i Cedid (opera nuova)26.
Nel 1850 Abdülmecid decise di effettuare un nuovo viaggio via
mare per visitare alcune isole del Mediterraneo orientale, portando con
sé sulla fregata Taif anche i due primi eredi al trono in ordine di suc-
cessione: il fratello minore Abdülaziz (1831-1876) e il primogenito Mu-
rat (1840-1904). Dopo essere partiti da Istanbul il 1° giugno, il sultano
accompagnato da una affollata comitiva giunse nel giro di tre giorni
a Creta, dove si premurò di comprendere quali fossero i problemi all’o-
rigine delle tensioni con la popolazione greca, e quindi a Rodi, dove
ebbe un incontro con Abbas Pascià, succeduto nel novembre 1848 al
nonno Mehmet Ali nel ruolo di governatore d’Egitto. Dopo alcune brevi
tappe sulla costa anatolica, il sultano giunse infine a Izmir nelle prime
ore del 22 giugno, decidendo però di ripartire già in serata, essendo
ormai prossimo al ritorno nella capitale27.
A causa di questa breve permanenza, il Comitato per l’emigrazio-
ne italiana non riuscì a trovare l’occasione per consegnare al sultano
un dono da loro preparato per ringraziarlo dell’ospitalità offerta ai tanti
esuli risorgimentali accolti in terra ottomana. Convinto della necessi-
tà di trasmettere alle autorità questo messaggio di riconoscenza, Ana-
cleto Cricca decise di recarsi personalmente a Istanbul per recapitare
il dono al sultano in rappresentanza dell’intero comitato. Viaggiando
via mare in ultima classe, l’esule bolognese giunse nella capitale e gra-
zie all’intervento dell’allora console di Sardegna Romualdo Tecco28
26 Yunus Özger, Sultan Abdülmecid’in Cezayir-i Bahr-i Sefid (Akdeniz Adaları)
Gezisi (Il viaggio del sultano Abdülmecid nelle isole del Mediterraneo), «Türk Dünyası
Araştırmaları Dergisi», 193, 2011, pp. 121-126.
27 Ivi, pp. 129-135.
28 Per la figura di Romualdo Tecco (1802-1867), che fu massimo rappresentante
diplomatico del Regno di Sardegna presso l’impero ottomano tra 1846 e 1856 (fu trasferi-
to a Madrid prima della conferenza di Parigi), si veda Roberto Sandri-Giachino, Gustavo
Mola di Nomaglio, La legazione sarda presso la Sublime Porta dal 1815 al 1849, in Gli italiani
di Istanbul, cit., pp. 297-323: 311, 317. Molte informazioni su Tecco sono presenti anche
in De Leone, L’impero ottomano, cit.
93
capitolo quinto
riuscì a incontrare sia il gran vizir Mustafa Reşit che il suo protetto
Ali Pascià, al tempo giovanissimo ministro degli esteri29, ma non il sul-
tano Abdülmecid.
Dopo il ritorno a Izmir, le informazioni che abbiamo in relazione
ai tanti anni da lui trascorsi nel porto egeo risultano frammentarie, ma
sappiamo che di certo Cricca non perse mai l’interesse per le vicende del
Risorgimento italiano, anche in ragione delle sue relazioni massoniche.
Cricca ricevette tempestivamente notizia della rocambolesca evasione
dal carcere austriaco di Mantova dell’amico e compagno di lotta Felice
Orsini, avvenuta il 30 marzo 1856, e riuscì tramite un amico in parten-
za per Londra a inoltrare al rivoluzionario romagnolo un messaggio30,
cui Orsini dalla capitale britannica rispose il 18 settembre:
Carissimo Cricca. L’amico Vassalli è venuto in persona a recarmi le tue
congratulazioni per la mia evasione; te ne ringrazio. Anche questa volta
la fortuna mi ha assistito. Dio voglia che si abbia di nuovo a sperimenta-
re sul campo di battaglia. Addio caro amico, il tuo F. Orsini.31
Nell’aprile del 1857 Cricca giunse a conoscenza della possibilità
di un’imminente insurrezione in Italia e decise quindi di recarsi a Mal-
ta, dove ricevette delle lettere da recare a Crispi e Mazzini in Inghilterra.
Dopo essere giunto a Londra il 10 giugno, venne però a sapere dal suo
segretario Merighi che Mazzini era da poco partito senza annunciare
la sua destinazione, mentre Crispi era a Parigi. Cricca riuscì comunque
a incontrare a Haymarket l’amico Felice Orsini che gli fece intendere di
stare organizzando qualcosa d’importante, con ogni probabilità il cele-
bre attacco bombarolo a Napoleone III, realizzato il 14 gennaio 1858 da-
vanti al Teatro dell’Opera a Parigi, che costò al romagnolo la condanna
a morte per ghigliottina.
Dopo Londra Cricca si recò a incontrare Crispi a Parigi, dove de-
cise di riprendere gli studi interrotti in medicina. Ma la pessima aria
regnante in città nei confronti degli italiani e in particolare degli esu-
li politici in seguito al suddetto attentato, lo spinse ad abbandonare
la Francia. Raggiunse quindi Torino, dove incontrò Zambeccari, e poi
infine Genova da dove in nave fece ritorno a Izmir32.
29 Corbelli, Anacleto Cricca, cit., p. 120.
30 Ivi, p. 129.
31 Aldo Frangini, Italiani in Smirne. Strenna nazionale. Cenni biografici, Bologna,
Tipografia Aurora, 1903, p. 5.
32 Corbelli, Anacleto Cricca, cit., pp. 130-132.
94
la meglio gioventù
Non ci è noto il modo in cui Cricca abbia acquisito la sua formazio-
ne, ma una serie di tre lettere inviate a luglio e agosto del 1865, pubblica-
te sulla «Rivista Omiopatica» fondata a Roma una decina d’anni prima,
ci informano degli eccezionali successi da lui riscontrati nel trattamento
del colera con metodi omeopatici. Aveva avuto questo riscontro in oc-
casione di una terribile epidemia che aveva colpito Izmir in quei mesi,
determinando la fuga dalla città di quasi tutte le principali autorità civili
e religiose, oltre a gran parte degli stessi medici “tradizionali”, da lui
irrisi per il loro pavido comportamento33. In ragione dello straordinario
impegno profuso nel trattamento dell’epidemia, il medico bolognese fu
persino insignito della prestigiosa onorificenza Mecidiye da parte delle
autorità ottomane34.
In ogni caso, anche dopo i risultati ottenuti dal movimento risorgi-
mentale in Italia negli anni ’60, Cricca non abbandonò mai l’interesse
per l’attività massonica, di cui divenne il principale punto di riferimento
a Izmir e nell’area circostante. Fu lui infatti a fondare nel 1864 la prima
loggia di Izmir legata al Grande Oriente d’Italia, chiamata “Stella Ionia”,
cui nel 1866 giunse ad affiliarsi anche il fratello maggiore Giuseppe (nato
nel 1819), di cui è nota unicamente la professione dichiarata al momento
dell’iniziazione, ovvero “professore di musica”. Nel 1867 fu addirittura
fondata una loggia recante il nome “Anacleto Cricca” presso la città di
Magnesia (nota attualmente come Manisa), una quarantina di chilometri
a est di Izmir35. A partire dall’aprile 1868 il medico bolognese fu nomi-
nato niente meno che “delegato per l’Asia Minore” da parte del Gran-
de Oriente d’Italia36. Ancora nell’aprile 1877, in una sorta di schedatura
dell’attività massonica italiana effettuata dalla rivista «Civiltà Cattolica»,
Anacleto Cricca compare come “indirizzo profano” di tutte e quattro
le principali logge massoniche attive nella città d’Izmir: la “Stella Jonia”,
l’“Armenak”, la “Fenice” e la “Orhaniye”37, fatto comprovato anche dal
bollettino del Grande Oriente d’Italia pubblicato nel 1878.
Il bolognese rimase a vivere a Izmir fino alla fine dei suoi giorni,
spirando ottuagenario nei primi anni del XX secolo.
33 «Rivista Omiopatica», a. XI, 5, 1865.
34 Frangini, Italiani in Smirne, cit., p. 6.
35 Emanuela Locci, Comunità italiane e massoneria all’estero, in Storia del Grande
Oriente d’Italia, a cura di Emanuela Locci, Washinghton (DC), Westphalia Press, 2020,
pp. 179-212: 181.
36 Luigi Polo Friz, La massoneria italiana nel decennio post-unitario: Lodovico Frapolli,
Milano, FrancoAngeli, 2007, p. 267.
37 «Civiltà Cattolica», s. X, a. XXVIII, 3, quaderno 643, 1877.
95
1. Istanbul, Ponte e torre di Galata visti dal lato di Eminönü
tramite l’obiettivo di Pascal Sebah, 1870 ca (dalla collezione di Engin Özendes)
2. Emin Ali Pascià, uno dei politici che guidarono la svolta politica riformista, 1867
(dalla collezione di Ömer M. Koç)
3. Fuat Pascià, uno dei politici che guidarono la svolta politica riformista, 1867
(dalla collezione di Ömer M. Koç)
4. Sultano Abdülaziz: questo scatto degli Abdullah Frères (una famiglia di armeni
cattolici convertita all’Islam all’inizio del XIX secolo), effettuato presso la tenuta di caccia
del sultano, costituisce la prima fotografia di un sovrano ottomano resa ufficialmente
pubblica dalle autorità, aprile 1865 (dalla collezione di Ömer M. Koç)
5. Sultano Abdülaziz: questa fotografia fu scattata a Londra
in occasione dell’unico viaggio europeo di un sultano ottomano
in tempo di pace, luglio 1867
(dalla collezione di Ömer M. Koç)
6. Piazza dell’ippodromo a Sultanahmet, dove nel 1863
si tenne la celebre Esposizione generale ottomana, 1860 ca
(dalla collezione di Engin Özendes)
7. Fotografia di gruppo del comitato organizzatore
dell’Esposizione generale ottomana a Istanbul, 1863
(dalla collezione di Ömer M. Koç)
8. Halil S.erif Pascià: il flaneur e politico riformista di origini egiziane,
che durante i suoi anni parigini commissionò a Gustave Courbet lo scandaloso quadro
L’Origine du monde, ottobre 1868 (dalla collezione di Ömer M. Koç)
9. Ali Suavi: questa foto del dissidente ottomano fu scattata a Parigi
intorno al 1870, quando il “rivoluzionario col turbante” si trovava in esilio
a causa delle sue attività editoriali e giornalistiche
(da Camera Ottomana. Photography and Modernity in the Ottoman Empire
1840-1914, Istanbul, Koç University Press, 2015)
10. Midhat Pascià, uno dei politici che guidarono la svolta politica
riformista, 1867 ca (dalla collezione di Ömer M. Koç)
11. Ibrahim Edhem Pascià, uno dei politici
che guidarono la svolta politica riformista, 1867 ca
(dalla collezione di Ömer M. Koç)
12. Ritratto del giovane Osman Hamdi Bey, destinato a diventare
il più celebre pittore della storia ottomana e turca, 1860 ca
(dalla collezione di Ömer M. Koç)
13. Principe Murat: la grande speranza del movimento
politico riformista, rimasto però sul trono per soli tre mesi
nel 1876, venendo poi deposto a causa di un collasso nervoso,
1866 ca (dalla collezione di Engin Özendes)
14. Cleanthi Scalieri: il massone greco di lontane origini veronesi
passato alla storia per aver iniziato alla massoneria
il futuro sultano ottomano Murat V, 1873 ca (dalla collezione di Ömer M. Koç)
15. L’ormai ex-sultano Abdülaziz ritratto assieme a due dei suoi carcerieri
nei giorni successivi alla deposizione, poco prima di essere trovato morto nella stanza
con i polsi recisi, inizio giugno 1876 (dalla collezione di Ömer M. Koç)
16. Principe Abdülhamid II: fratello minore di Murat, salì al trono in seguito
alla deposizione di quest’ultimo nel 1876 e regnò per 33 lunghi anni,
annullando molte delle svolte riformiste dei decenni precedenti, 1870 ca
(dalla collezione di Engin Özendes)
6. «Mentre sull’alba aprivasi».
Callisto Guatelli musicista di corte
Dio preferisce un giorno di giustizia del
sultano che sessant’anni di preghiere.
Al Ghazali, Il consiglio dei principi1
1. Come abbiamo visto, l’inizio del regno di Abdülmecid fu segna-
to da una congiuntura estremamente favorevole, in quanto la proclama-
zione nel novembre 1839 dell’editto di Gülhane, carico di innovazioni
riformiste, assicurò al giovane sultano ampio credito politico nel conte-
sto internazionale. Furono in particolare Francia e Inghilterra, metten-
do da parte le loro rivalità, a fornire sostegno congiunto al nuovo corso
ottomano, aiutando le autorità di Istanbul a risolvere eventuali ostacoli
sulla via delle riforme, come nel caso della pacificazione con il governa-
tore d’Egitto Mehmet Ali.
Abdülmecid si trovò così a godere di un lungo periodo di pace
e stabilità, durante il quale ebbe la possibilità di portare avanti il suo
piano di riforme amministrative – affidato in primo luogo a Mustafa
Reşit – approfittando nel frattempo in prima persona della trasforma-
zione dei costumi e dello stile di vita nella città di Istanbul. Sappia-
mo infatti che il sultano coltivò una particolare passione per il teatro
e la musica occidentale e più in generale per l’arte architettonica, ordi-
nando la costruzione di numerosi nuovi edifici e palazzi, quasi sempre
alla famiglia armena dei Balian.
Questa situazione idilliaca cominciò però a guastarsi progressiva-
mente a partire dall’inizio degli anni ’50, a causa di una serie di fattori.
A livello interno ci fu la crescente resistenza opposta alla leadership
di Mustafa Reşit da parte degli esponenti politici del vecchio corso otto-
mano, in particolare i cosiddetti damat (ovvero “generi”, coloro che ave-
vano sposato la figlia o la sorella di un sultano), abituati da sempre a oc-
cupare ruoli di notevole prestigio istituzionale. Dopo un lungo conflitto
1 Al Ghazali, Counsel for Kings (Nasihat al Muluk), London, Oxford University
Press, 1964, p. 14.
97
capitolo sesto
a bassa intensità, si giunse nel 1852 a una situazione di aperto scontro
tra il celebre gran vizir riformista e i damat Mehmet Ali (1813-1868),
Mehmet Said (1808-1869) e Ahmet Fethi (1801-1858), che si allearono
tra loro per farsi portavoci delle istanze più conservatrici della burocra-
zia e della società ottomana, turbata dalle innovazioni recate dal nuovo
corso politico dell’impero2. Si pensi ad esempio che nel 1850 Mustafa
Reşit aveva legalizzato ufficialmente il pagamento d’interessi, un’istitu-
zione fortemente contraria ai principi etici dell’islam.
Questo conflitto costituì per i damat un ultimo colpo di coda, pri-
ma di essere spazzati via per sempre dalla storia della politica ottoma-
na, ma finì per indebolire a livello personale la figura di Mustafa Reşit,
anche se le sue idee saranno portate avanti senza esitazione dai suoi
successori, quanto meno fino al 1876.
Per il sovrano ottomano questo stato di tensione e le critiche sol-
levate all’operato di Mustafa Reşit costituirono una prima drammati-
ca battuta d’arresto per l’ideale da lui perseguito, quello di presentarsi
come un originale modello di “sultano virtuoso” in grado di moder-
nizzare l’impero rispettando e onorando i principi della morale politi-
ca islamica. Non dobbiamo infatti dimenticare che secondo alcuni in-
tellettuali di quel tempo, lo stesso editto di Gülhane del 1839 non era
da considerarsi una carta dei diritti individuali in senso occidentale ma
piuttosto un manifesto di “giusto governo”, ossia un programma di ri-
forme rispettoso della morale islamica, volto a restituire i tradizionali
valori di onestà e giustizia a un sistema politico ormai degenerato3.
2. A questo fattore interno si aggiunse, subito dopo la crisi europea
del 1848-49, il nuovo interventismo sia della Francia guidata dal presi-
dente e poi imperatore Napoleone III, che della Russia dello zar Nicola,
le cui ambizioni contrapposte portarono alla fine del 1853 allo scoppio
della cosiddetta guerra di Crimea. Il conflitto si protrasse fino all’ini-
zio del 1856, determinando una straordinaria mobilitazione di energie
e una serie di stravolgimenti politici in una regione cruciale a cavallo
tra Russia, impero ottomano ed Europa orientale.
Uno degli effetti più importanti del conflitto fu l’accettazione
dell’impero ottomano all’interno del consesso delle potenze europee.
Ma questo nuovo riconoscimento implicò, come per il Regno di Sar-
2 Abu-Manneh, Studies on Islam, cit., pp. 116-118.
3 Ivi, pp. 90-93.
98
«mentre sull’alba aprivasi»
degna, l’accettazione di una serie di condizioni che ponevano il nuovo
membro in una condizione subordinata a livello politico ma soprattutto
finanziario, in quanto sia l’impero ottomano che il regno sabaudo fu-
rono costretti a concordare un ingente prestito con le banche francesi
e britanniche per adeguare i propri eserciti agli standard delle massime
potenze europee4.
Inoltre, nel caso dell’impero ottomano, le forti pressioni del go-
verno francese e di quello britannico costrinsero le autorità d’Istanbul
a promulgare nella fredda e piovosa giornata del 18 febbraio 1856
un nuovo editto riformista (noto come Islahat Fermanı) che diversamen-
te da quello del 1839 introdusse notevoli innovazioni estranee alla tradi-
zione islamica – ad esempio l’assoluta parità di diritti di tutti i cittadini
dell’impero a prescindere dalla loro religione. Se da un lato queste ri-
forme facevano onore all’immagine liberale dell’impero, dall’altro esse
spianarono la strada alla penetrazione commerciale ed economica dei
capitali esteri, ed esacerbarono l’insoddisfazione della componente so-
ciale più tradizionalista, dando inizio a un lungo e turbolento periodo
di conflittualità5.
Gli autori del nuovo editto riformista furono i due astri nascenti
della politica ottomana, Ali Pascià (1815-1871) e Fuat Pascià (1814-1869),
giovani protetti di Mustafa Reşit destinati a monopolizzare la scena
politica ottomana durante il decennio successivo alla morte del loro
protettore, avvenuta nel gennaio 1858. Come già detto, Mustafa Reşit
era uscito politicamente indebolito dal conflitto con i damat, e si trovò
in ulteriore difficoltà davanti al sultano nel corso della gestione diplo-
matica della guerra di Crimea. Fu così che a partire dagli ultimi mesi
del conflitto, Ali e Fuat Pascià ebbero l’occasione di colmare l’improv-
viso vuoto di potere lasciato dallo stanco Mustafa Reşit e gli ormai im-
presentabili damat, salendo alla ribalta e trovandosi da quel momento
in poi a occupare a turno i ruoli di gran vizir e ministro degli esteri sen-
za interruzioni fino al settembre 1871.
Ali e Fuat Pascià costituirono una coppia di lavoro affiatata, in gra-
do di fornire un contributo fondamentale alla storia politica dell’impe-
4 Hüseyin Al, Uluslararası sermaye ve Osmanlı Maliyesi 1820-1875 (Capitale inter-
nazionale e finanza ottomana 1820-1875), Istanbul, Osmanlı Bankası Araştırma ve Arşiv
Merkezi, 2007, pp. 93-95. Si veda anche André Autheman, La Banque impériale ottomane,
Paris, Comité pour l’histoire économique et financière de la France, 1996, p. 5.
5 Per questo tema, si veda il fondamentale Roderic H. Davison, Reform in the Otto-
man Empire: 1856-1876, Princeton, Princeton University Press, 1963, in part. i capp. 2 e 3.
99
capitolo sesto
ro ottomano, pur provenendo da situazioni famigliari del tutto diverse.
Ali Pascià era infatti nato e cresciuto nel povero quartiere storico di Mer-
can, nei pressi della moschea di Solimano, da un padre che di mestiere fa-
ceva il guardiano in una moschea. Furono però le sue eccezionali qualità
– e il nuovo sistema burocratico ottomano in grado di favorire la mobilità
sociale – a permettere al giovane Ali a metà degli anni ’30 di trascorrere
due anni a Vienna per studiare tedesco e francese, ricevendo già nel 1841,
grazie all’appoggio di Mustafa Reşit, il prestigioso incarico di ambasciato-
re a Londra. Nel settembre 1846 fu nominato per la prima volta ministro
degli esteri, dando inizio a una strepitosa ascesa che lo porterà nell’agosto
1852 a occupare per la prima volta (anche se solo per pochi mesi) il posto
di gran vizir in sostituzione proprio di Mustafa Reşit, che da quel mo-
mento comincerà a guardare con qualche diffidenza il suo protetto. Dopo
aver mantenuto un basso profilo nel periodo in cui si preparava la guerra
di Crimea, Ali Pascià divenne ministro degli esteri nel novembre 1854
e nuovamente gran vizir nel maggio 1855, trovandosi così a rappresentare
l’impero ottomano presso la storica conferenza di Parigi del marzo 18566.
Il padre di Fuat Pascià era invece Keçecizade Izzet Molla, una fi-
gura di spicco della più raffinata classe di teologi dell’impero ottoma-
no, che dopo aver educato il figlio alla lingua e alla letteratura araba
e persiana, non mancò di fargli imparare anche il francese. Il giovane
Fuat studiò poi medicina, ma a partire dal 1837 trovò impiego presso
la Tercüme Odasi (letteralmente “ufficio di traduzione”), una nuova
istituzione fondata dal sultano Mahmut II per formare le nuove leve
della burocrazia ottomana nell’ambito delle relazioni estere. Dopo una
breve esperienza a Londra, Fuat Pascià fu inviato come massimo rap-
presentante ottomano a Madrid nel 1845 e a Bucarest nel 1848. Riuscì
poi a evitare un temibile conflitto con la Russia nell’ottobre 1849, recan-
dosi a San Pietroburgo a discutere con lo zar nelle vesti di ministro ple-
nipotenziario. In ragione del talento dimostrato nell’agosto 1852 Fuat fu
nominato ministro degli esteri, ma i russi protestarono con le autorità
ottomane ritenendo fosse portatore di tendenze eccessivamente filo-
francesi, e lui preferì dimettersi poco dopo per evitare ulteriori tensioni.
Una situazione simile si presentò nei mesi che seguirono la conferen-
za di Parigi, quando a lamentarsi con Abdülmecid per l’eccessivo filo-
6 Fuat Andıç, Süphan Andıç, Sadrazam Ali Paşa. Hayatı, Zamanı ve Siyasi Vasi-
yeti (Il gran vizir Ali Pascià. La sua vita, il suo tempo, l’eredità politica), Istanbul, Eren
Yayıncılık, 2000. Si veda anche la voce a lui dedicata nel classico Mahmut Kemal Inal,
Son Sadrazamlar (Gli ultimi gran vizir), 4 voll., Istanbul, Dergah Yayınları, 1940.
100
«mentre sull’alba aprivasi»
francesismo del governo guidato da Ali Pascià fu invece l’ambasciatore
inglese Stratford Canning: quando nel novembre 1856 il nuovo astro
nascente della politica ottomana fu infine sostituito da Mustafa Reşit
nella posizione di gran vizir, in segno di solidarietà l’amico e collega
Fuat Pascià decise a sua volta di dimettersi dal posto di ministro degli
esteri ricoperto dal maggio 18557.
A partire però dall’inizio del 1858, con la repentina morte di Mu-
stafa Reşit8 e la sostituzione dell’ambasciatore britannico Canning con
il più morbido Henry Bulwer (1801-1872)9, Ali e Fuat Pascià recuperarono
i loro posti da gran vizir e ministro degli esteri, trovando da quel momen-
to in poi la strada spianata per dispiegare il loro progetto politico.
3. Nato a Parma il 26 settembre 1819, Callisto Guatelli cominciò
l’educazione formale a livello musicale nel 1830 con l’iscrizione presso
la Scuola di musica del Carmine nella città natale10. Dopo aver con-
seguito il diploma nel 1837 sappiamo che nell’ottobre 1841 il giovane
Callisto si trovò già a svolgere il ruolo di direttore d’orchestra (assieme
a José Luis Comellas) in occasione della rappresentazione di El templario,
un melodramma in tre atti messo in scena nella città spagnola di Va-
lencia. Questo stesso spettacolo in versione italiana fu poi messo nuo-
vamente in scena nella primavera del 1843 presso il Teatro di Asti, dove
il precoce parmense si trovò a condividere il ruolo di direttore d’orche-
stra con il milanese Camillo Manzoni.
Nell’autunno 1844 Guatelli fu direttore del coro in occasione del
melodramma giocoso I falsi monetari, ovvero Don Eutichio e Sinforosa,
messo in scena presso il Teatro Carlo Felice di Genova11.
7 Inal, Son Sadrazamlar (Gli ultimi gran vizir), cit., I, p. 159. Si veda anche Yılmaz
Öztuna, Tanzımat Paşaları. Ali ve Fuad Paşalar (I Pascià del Tanzimat. Ali e Fuat Pascià),
Istanbul, Ötüken Neşriyat, 2006.
8 Mustafa Reşit morì d’infarto il 7 gennaio 1858. Secondo alcune fonti, la morte
lo avrebbe colto nel hamam della sua abitazione dopo che un maggiordomo lo aveva in-
formato della visita a sorpresa del banchiere Abraham-Salomon Camondo (1781-1873),
creditore nei confronti dello stato ottomano in ragione dei prestiti forniti per ripagare
i debiti contratti dal governo con diverse banche francesi e inglesi durante la guerra
di Crimea. Per i Camondo, si veda il capitolo 10.8 e infra nota 63 a p. 187.
9 Il fratello Edward George Bulwer-Lytton (1803-1873), oltre a essere un prolifi-
co scrittore e uno dei migliori amici del primo ministro britannico Benjamin Disraeli,
fu anche Segretario di Stato per le colonie nel 1858-1859.
10 Emre Aracı, Guatelli Paşa. Sarayın ikinci İtalyan maestrosu (Guatelli Pascià. Il se-
condo maestro italiano della corte ottomana), in Metin And’a Armağan, a cura di M. Sabri
Koz, Istanbul, Metgraf Matbaası, 2007. pp. 285-297: 286-287.
11 Si vedano le opere conservate presso la Biblioteca della Fondazione Giorgio Cini
a Venezia.
101
capitolo sesto
Pur non essendo note le dinamiche dell’invito, di certo c’è che
il 13 ottobre 1845 il ventiseienne Guatelli giunse a Istanbul assieme
a una compagnia di musicisti salpati da Trieste con l’obiettivo di suona-
re presso il locale Teatro Naum (si veda supra, cap. 1). A partire da quel
momento il suo nome cominciò a farsi sentire con sempre maggior
frequenza nella programmazione musicale della capitale ottomana, sia
come direttore di coro che come direttore d’orchestra. Il parmense fu
presto notato anche dal sultano Abdülmecid, che il 18 dicembre 1846
lo fece invitare presso palazzo Çırağan per tenere un concerto solista
di pianoforte, ricambiato con una cospicua retribuzione di 5000 kuruş12.
Evidentemente soddisfatto dall’accoglienza e dalle possibilità incon-
trate nella capitale ottomana, il parmense finì per mettere radici in città
contraendo matrimonio con Eufrosina Casuli13 (probabilmente una cri-
stiana ortodossa originaria della Romania), che nel 1852 mise al mondo
il primogenito Vladimiro14, cui fece seguito nel 1856 la figlia Olga15.
Nonostante la scelta ormai definitiva di vivere e lavorare a Istanbul,
è interessante notare che durante tutta la carriera numerose sue opere
continuarono a essere pubblicate dall’editore Francesco Lucca di Mila-
no. Grazie alla conservazione di copie di queste pubblicazioni negli ar-
chivi della biblioteca del locale Conservatorio “Giuseppe Verdi”, risulta
possibile seguire l’eterogenea produzione di Guatelli come compositore,
a partire dal 1852 con la romanza Mentre sull’alba aprivasi16, musicata
dal parmense sulla base del testo dell’esule foggiano Achille Tondi, colla-
boratore in quegli anni a Istanbul anche di Giuseppe Donizetti.
Proprio la morte di quest’ultimo il 12 febbraio 1856 costituì il pun-
to di svolta nella carriera di Guatelli a Istanbul, in quanto pochi giorni
dopo giunse dal sultano l’invito a prendere il posto del bergamasco nelle
12 Aracı, Guatelli Paşa, cit., p. 287.
13 Si veda l’atto di morte di Callisto Guatelli presso il cimitero cattolico di Osman-
bey a Istanbul.
14 Taceddin Kayaoğlu, Osmanlı Hariciyesinde Gayr-ı Müslimler (1852-1925) (I non-
musulmani nel Ministero ottomano degli Esteri 1852-1925), Ankara, Türk Tarih Kurumu
Yayınları, 2013. pp. 355-356. È interessante scoprire che Vladimiro Guatelli, dopo qual-
che prima esperienza professionale alla fine degli anni ’60, seguita da un lungo periodo
trascorso all’estero, a partire dal 1885 e fino al 1909 fu uno dei pochissimi cittadini ot-
tomani di origine italiana a essere assunti ufficialmente come funzionari del Ministero
degli Esteri a Istanbul. A sua volta, il figlio di quest’ultimo, Sergio Guatelli nato nel 1892,
fu uno dei numerosi italiani di Istanbul caduti combattendo sul fronte durante la Prima
Guerra mondiale.
15 Si veda Archivio del Consolato generale d’Italia a Istanbul.
16 Si veda Biblioteca Nazionale Marciana, Inventario OLD 52393, collocazione
MISC.MUS. 11464
102
«mentre sull’alba aprivasi»
vesti di direttore della banda imperiale. In ragione di questo nuovo pre-
stigioso incarico il parmense abbandonò il posto di direttore d’orchestra
del Naum. L’incarico fu quindi assegnato al piemontese Luigi Arditi
(1822-1903), trasferitosi per l’occasione a Istanbul assieme alla moglie
statunitense Virginia, ma destinato ad abbandonare l’incarico e la ca-
pitale ottomana solo un anno dopo, adducendo come giustificazione
le «difficili condizioni di vita per la sua famiglia»17.
Il 12 gennaio 1859 inaugurò il nuovo Teatro di Dolmabahçe voluto
dal sultano Abdülmecid per soddisfare in forma del tutto autonoma i pro-
pri desideri musicali, senza dover dipendere dalla programmazione del
Naum. In quel periodo la carriera di Guatelli toccò il suo apice, perché
da quel momento in poi il nuovo magnifico teatro (bruciato purtroppo
completamente nell’agosto 1866) divenne la sede della banda imperiale
da lui diretta. Poche settimane dopo il Teatro Naum decise inoltre di or-
ganizzare una serata di gala interamente dedicata a Guatelli, dove sotto
la direzione del parmense furono suonate numerose sue composizioni,
a partire dalla marcia Mecidiye composta in onore del sultano.
Dopo aver però toccato l’apice nella primavera del 1859, il rapporto
tra Abdülmecid e il suo musicista di corte fu irrimediabilmente gua-
stato da un colpo di testa del musicista: a luglio infatti il parmense fece
misteriosamente perdere le sue tracce, lasciando attonita la corte del
sovrano, la famiglia e la locale opinione pubblica. Si scoprì poi che Gua-
telli era fuggito da Istanbul su una nave per Genova, in compagnia di
una donna circassa che era tra le favorite dell’harem del sultano, anche
in ragione della sua splendida voce. Alla fine di ottobre il parmense
decise di fare ritorno nella capitale ottomana implorando perdono:
il sultano con grande magnanimità accettò le scuse di Guatelli e lo ri-
assunse al suo servizio, privandolo però del titolo di direttore generale
dell’orchestra imperiale a Dolmabahçe e lasciandogli unicamente quel-
lo di direttore della banda militare18.
4. Il sultano, del resto, in quel periodo aveva ben altro a cui pen-
sare: come abbiamo già detto, sin dall’inizio degli anni ’50 era stato
costretto a confrontarsi con problemi come la forte conflittualità tra Mu-
stafa Reşit e i damat, e poi lo scoppio della guerra di Crimea. A livello
17 Aracı, Naum Tiyatrosu, cit., p. 255.
18 Aracı, Guatelli Paşa, cit., pp. 290-291. Si veda inoltre Id., Naum Tiyatrosu, cit.,
pp. 274-275, dove risulta riportato integralmente un lungo articolo dedicato alla notizia
dal quotidiano inglese «The Times», in data 15 settembre 1859.
103
capitolo sesto
personale Abdülmecid era inoltre stato colpito dalla morte dell’adorata
madre Bezmi Alem nel maggio 1853, un fatto che aveva gravemente tur-
bato il suo equilibrio psicologico, spingendolo a uno smodato consumo
di alcol e a una frenetica attività sessuale, che portò il sovrano a generare
43 figli da 25 donne diverse in soli trentotto anni di vita19. La sua salu-
te cominciò a guastarsi visibilmente a partire dal 1855, in un periodo
di forte stress causato dalla guerra di Crimea e dalle notevoli complica-
zioni finanziarie implicate. Fu in quel contesto che forse per la prima
volta nella storia ottomana un sovrano fu formalmente rimproverato
da un proprio suddito per il modo in cui aveva deciso di spendere
il denaro presente nelle casse dello stato.
Come visto in precedenza, il sultano nel 1847 aveva deciso di far
ricostruire il palazzo di Dolmabahçe secondo un progetto mastodontico
che dissanguò le casse dello stato, in quanto i lavori si protrassero per otto
anni concludendosi appena nel 1855, quando la guerra di Crimea era an-
cora in corso. Per questo alla fine il palazzo fu ufficialmente inaugurato
appena il 15 luglio 1856, con una favolosa cena per 130 invitati, organizzata
dalla celebre famiglia Vallauri (si veda infra, § 8.6) e accompagnata dal
miglior vino di Madeira20. Ma neanche tre anni dopo il sovrano decise
di volere ricostruire anche il palazzo di Çırağan terminato appena nel 1839:
il gran vizir del tempo Ali Pascià tentò allora di far ragionare in ogni modo
Abdülmecid, spiegandogli che le casse dello stato erano in difficoltà e che
c’erano problemi persino nel pagare i salari dei soldati, ma l’unico risultato
che ottenne fu il licenziamento nell’ottobre 185921.
In ogni caso la salute fisica del sultano era ormai compromessa,
e in quel periodo sembrava che ormai tutto intorno a lui cominciasse
ad andare per il verso sbagliato: prima la morte improvvisa di Mustafa
Reşit – il politico che sin dall’inizio aveva amministrato il corso politico
del suo regno – durante un inverno freddissimo che aveva visto il Cor-
no d’oro congelarsi, permettendo agli abitanti d’attraversarlo a piedi.
Poi la scappatella del suo amato musicista di corte e infine, a metà set-
tembre 1859, la notizia, giunta grazie alla soffiata di uno dei cospirato-
19 Yılmaz Öztuna, Devletler ve Hanedanlar, 2, Türkiye (1074-1990) (Stati e dinastie.
2, Turchia 1074-1990), Ankara, Kültür ve Türizm Bakanlığı Yayınları, 1989, pp. 266-268.
20 Aracı, Naum Tiyatrosu, cit., p. 243. Si veda anche Çelik Gülersoy, Dolmabahçe,
Istanbul, Istanbul Kitaplığı, 1984, p. 54. Secondo De Leone, L’impero ottomano, cit.,
p. 232, nota 118: il suddito sardo Vallauri era creditore di 500.000 piastre nei confronti
delle autorità ottomane, in quanto «fornitore dei pranzi al sultano in occasioni straordina-
rie di inviti o di arrivo di principi stranieri».
21 Inal, Son Sadrazamlar, cit., I, pp. 17-18.
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«mentre sull’alba aprivasi»
ri, che numerosi ufficiali dell’esercito, assieme ad altri esponenti della
burocrazia ottomana, stavano complottando per assassinare una serie
di figure chiave del governo, con l’obiettivo di costringere il sultano a re-
trocedere dal piano di riforme ritenuto troppo progressista e “liberale”
non solo dalla maggioranza della popolazione musulmana, ma anche
da un numero sempre maggiore di burocrati e funzionari22. Il “Kuleli
vakası”, come l’evento è ricordato nella storiografia turca e ottomana
– dato che la maggioranza degli ufficiali coinvolti era di stanza presso
la caserma di Kuleli23, ancora oggi visibile sul lato asiatico del Bosforo –
costituì un vero e proprio tentativo di “colpo di stato” che scosse terribil-
mente il sultano ma anche la popolazione cristiana di Istanbul, al punto
che molti stranieri si precipitarono a cercare rifugio presso le rispettive
ambasciate per timore che la situazione potesse degenerare.
Ali e Fuat Pascià decisero scaltramente di sfruttare l’occasione del
colpo di stato fallito per allontanare dalla vita politica tutti coloro di cui
non si fidavano o con cui si trovavano in scarsa sintonia, spianandosi
così la strada per un’ulteriore accelerazione dei loro progetti di riforma
nel corso degli anni ’60.
Ma a questa nuova fase di slancio il sultano Abdülmecid non ebbe
modo di partecipare attivamente, in quanto proprio verso la fine del
1859, o forse nel corso di un viaggio a Salonicco l’anno successivo,
il sovrano contrasse la tubercolosi che lo portò alla morte nel giugno
1861, all’età di soli trentotto anni. La straordinaria quanto tragica figura
di Abdülmecid, il cui regno costituì uno spartiacque nella storia politica
e sociale dell’impero ottomano, e che ancora oggi continua a dividere
la Turchia tra chi lo considera un coraggioso innovatore e chi un tra-
ditore che ha corrotto la natura dell’impero, risulta ben tratteggiata in
questa descrizione di Lady Hornby, la moglie di un supervisore finan-
ziario24 inviato a Istanbul in seguito al prestito concesso dalle banche
inglesi allo stato ottomano:
22 Davison, Reform. cit., pp. 101-103.
23 È interessante scoprire che anche il fallito colpo di stato avvenuto in Turchia
la notte del 15 luglio 2016 ha avuto nella scuola militare di Kuleli uno dei suoi quartieri
generali.
24 Edmund Grimani Hornby (1825-1896) discendeva per parte di madre dalla no-
bile famiglia veneziana dei Grimani. Dopo aver studiato legge a Londra, nel settembre
1855 si trasferì con la prima moglie Emilia Maceroni (1826-1866) a Istanbul col ruolo
di commissario del prestito di 5 milioni di sterline fatto da banche inglesi e francesi alle
autorità ottomane per sostenere i costi militari della guerra in Crimea. Nel 1857 Hornby
divenne giudice della Corte suprema consolare britannica a Istanbul fino al 1865, quando
gli fu chiesto di rivestire il medesimo incarico a Shangai. Si veda Sir Edmund Hornby,
An Autobiography, Boston, Houghton Mifflin, 1928.
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capitolo sesto
Abdülmecid è solito guardarsi intorno con la gaiezza e l’innocenza di un
bambino. [...] C’è qualcosa di estremamente interessante nel suo aspet-
to. Appare spesso stanco e pensieroso, ma non appena ci si rivolge a lui
i suoi begli occhi scuri s’illuminano offrendo il più sincero e seducente
dei sorrisi. È così incredibilmente cortese, umile e malinconico!25
5. Sebbene Abdülmecid avesse provato in numerosi modi a estro-
metterlo dalla successione in favore del primogenito Murat, il 25 giugno
1861 a salire al trono nelle vesti di 32° sultano della dinastia di Osman
fu il fratello minore Abdülaziz (1829-1876). Grazie alla rinomata atti-
tudine liberale del fratello maggiore, il nuovo sultano era stato il primo
principe ereditario nella storia dell’impero ottomano a godere del privile-
gio di vivere e muoversi come un uomo libero fino al giorno dell’accesso
al trono, contrariamente alla tradizione che prevedeva una vita di clausu-
ra motivata dal timore di possibili complotti e ribellioni26. Ma a dispetto
di questa libertà di movimento, poi concessa nel corso del suo regno anche
agli altri principi ereditari, il nuovo sovrano, diversamente da Abdülmec-
id, non sviluppò alcun particolare interesse per l’arte, la cultura o lo stile
di vita occidentale. O meglio, di quest’ultimo risultò attratto unicamente
dall’aspetto più superficiale e “celebrativo”, sviluppando ad esempio una
notevole passione per le parate militari e la fotografia come strumento
di comunicazione istituzionale, e divenendo il primo e unico sultano del-
la storia a farsi scolpire una statua, ancora oggi visibile presso il palazzo
di Beylerbeyi sul Bosforo. Inoltre, in ragione della sua particolare passio-
ne per gli animali esotici come giraffe, tigri e leoni, il sultano non si fece
problemi a infrangere il divieto islamico nei confronti della raffigurazione
degli esseri animati, ordinando o accogliendo in dono numerose statue
a tema “zoologico” con cui amava adornare i giardini dei suoi palazzi27.
Se si escludono però questi aspetti più effimeri, il nuovo sulta-
no non sviluppò mai un interesse profondo per la cultura occidentale,
né tanto meno per le profonde contraddizioni politiche dei problemi
che l’impero stava affrontando a causa del tempestoso processo di rifor-
25 Lady Hornby, Constantinople during the Crimean War, London, Richard Bentley,
1863, p. 207.
26 Haluk Şehsuvaroğlu, Sultan Aziz. Hayatı, Hali, Ölümü (Il sultano Aziz. La vita,
la deposizione, la morte), Istanbul, Milli Saraylar Daire Başkanlığı, 2011, p. 16.
27 Midhat Cemal Kuntay, Namık Kemal. Devrinin insanları ve olayları arasında
(Namık Kemal. Tra i personaggi e gli eventi della sua epoca), 3 voll., Istanbul, Maarif
Matbaası, 1944, I, p. 124. Si veda anche Klaus Kreiser, Public Monuments in Turkey and
Egypt: 1840-1916, «Muqarnas», 14, 1997, pp. 103-117: 108-110. Per una foto della statua
di Abdülaziz si veda anche Cezar, Sanatta, cit., pp. 150-151.
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«mentre sull’alba aprivasi»
me avviato dai suoi predecessori. Fu così che, dopo un primo tentativo
di bilanciare lo strabordante potere di Ali e Fuat Pascià nei primi mesi
di regno, il sultano scelse di accettare in un certo senso la propria irri-
levanza e smettere quasi del tutto di occuparsi di politica, a parte le più
formali questioni di rappresentanza.
In questo contesto Callisto Guatelli non tardò a riscuotere l’amici-
zia e l’appoggio del nuovo sultano, di cui era stato professore di musica
negli anni da principe ereditario: Abdülaziz gli restituì infatti l’incarico
di direttore dell’orchestra imperiale perso in seguito alla scappatella del
1859, e assegnò al parmense il prestigioso titolo di pascià in cambio del-
la marcia ufficiale composta in suo onore, la Aziziye, seguita nei mesi
seguenti dalla Osmaniye e nel febbraio 1863 dalla Marche de l’Exposition
Ottomane, composta da Guatelli in onore di Fuat Pascià in occasione
di uno dei tanti eventi che segnarono un periodo particolarmente movi-
mentato nella storia del sultanato di Abdülaziz28.
Il 5 gennaio 1863 si era verificato un fatto senza precedenti nella
storia dell’impero ottomano: a causa delle pressioni politiche esercitate
su di loro dal sultano, il gran vizir Fuat Pascià, il ministro degli esteri
Ali Pascià, il serasker Mütercim Rüşdi Pascià e il presidente della
Meclis-i Vala29 Yusuf Kamil Pascià annunciarono le loro dimissioni in
blocco in segno di protesta. Il sultano rimase sconvolto da questa noti-
zia e per non perdere la faccia fu costretto a fare marcia indietro su mol-
te delle sue richieste, accettando un rimpasto di governo che costituì
una schiacciante vittoria politica per Ali e Fuat Pascià, nonché il defini-
tivo riconoscimento della loro indiscutibile autorità30.
Proprio in quei giorni era in corso una frenetica mobilitazione per
riuscire a inaugurare la prima Esposizione commerciale dell’impero
ottomano in tempo per l’inizio del mese di Ramadan (che quell’anno
coincideva con il 20 febbraio), presso la piazza dell’Ippodromo nel cen-
tralissimo quartiere di Sultanahmet. La decisione era stata presa appena
qualche mese prima e annunciata in occasione della chiusura dell’Espo-
sizione universale di Londra nel novembre 186231. Nel contesto di una
28 Aracı, Guatelli Paşa, cit., p. 291.
29 Per maggiori informazioni riguardo alla natura di questa istituzione si veda
il cap. 9.3.
30 Abu-Manneh, Studies on Islam, cit., pp. 121-122. Inal, Son Sadrazamlar, cit., I,
pp. 167-170.
31 Göksün Akyürek, Tanzimat döneminde mimarlık, bilgi ve iktidar. Bilgiyi yeniden in-
şa etmek (Architettura, sapere e potere nell’era del Tanzimat. La ricostruzione del sapere),
Istanbul, Tarih Vakfı Yurt Yayınları, 2011, pp. 178-179.
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capitolo sesto
sempre più forte circolazione di capitali esteri in territorio ottomano,
e visto il desiderio delle autorità ottomane di essere riconosciuti come
un membro alla pari da parte delle potenze europee, si era deciso
di organizzare a Istanbul un evento paragonabile alle grandi esposizioni
della produzione industriale che, a partire dal 1851 a Londra, celebrava-
no il progresso del capitalismo nelle principali capitali europee. Ma per
qualche ragione si era deciso di fare tutto in grande fretta, assegnando
la presidenza del comitato organizzativo all’allora ministro dell’educa-
zione Mustafa Fazıl – un personaggio chiave di cui si tratterà ampia-
mente nei prossimi capitoli – e la costruzione del padiglione principale
ai due architetti francesi Auguste Bourgeois (1821-1884) e Léon Parvil-
lée (1830-1885)32.
Alla fine la Sergi-i Umumi-i Osmani (Esposizione generale otto-
mana) inaugurò con un leggero ritardo il 27 febbraio, al termine del-
la preghiera del venerdì effettuata presso la moschea di Sultanahmet
in presenza delle massime cariche dello stato e del nuovo governatore
d’Egitto Ismail – fratello maggiore di Mustafa Fazıl per soli quaranta
giorni – il quale da poche settimane aveva preso il posto del defunto
zio Said Pascià. Nonostante i limiti organizzativi l’Esposizione gene-
rale ottomana – suddivisa nelle sezioni di artigianato, tessile, pellami,
mobili, tappeti, strumenti musicali e agricoltura – si rivelò un notevole
successo di pubblico, venendo visitata a pagamento da circa 150mila
persone nei suoi circa cinque mesi di apertura. In occasione dei gior-
ni festivi che segnano tradizionalmente la fine del mese di Ramadan
furono organizzati ulteriori eventi d’intrattenimento, tra cui una serie
di concerti tenuti dalla banda imperiale diretta da Guatelli, che per l’oc-
casione compose la già citata Marche de l’Exposition Ottomane. Un effet-
to interessante dell’Esposizione fu l’arrivo per la prima volta a Istanbul
di numerosi “turisti”, in quanto le prime, pionieristiche agenzie di viag-
gio che stavando nascendo in quel periodo in Europa colsero l’occasione
per includere la fascinosa capitale ottomana nelle loro offerte di tour,
anche in ragione dell’interesse suscitato in quegli anni dall’immagi-
32 Nurcan Yazıcı, The First Ottoman Exhibition Building in Atmeydanı and the Col-
laboration of Architects Bourgeois-Parvillée-Montani, in Hippodrome/Atmeydanı: A Stage for
Istanbul’s History, a cura dı Ekrem Işın, Istanbul, Pera Museum, 2010, II, pp. 128-150.
Auguste Bourgeois fu autore in quegli anni anche del grandioso complesso del Ministero
della Guerra in piazza Beyazit, attualmente sede del campus principale dell’Università
d’Istanbul. Léon Parvillée aveva invece ricevuto l’incarico di supervisionare i lavori di re-
stauro della moschea verde di Bursa, gravemente danneggiata da un terremoto nel 1855.
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«mentre sull’alba aprivasi»
nario “orientalista” stimolato dalla letteratura e dall’impatto mediatico
della guerra di Crimea.
6. Esaurita l’eccitazione recata dalle prime settimane d’apertura
dell’Esposizione ottomana, il 3 aprile il sultano Abdülaziz decise d’im-
barcarsi per un viaggio in Egitto le cui implicazioni avrebbero avuto no-
tevole rilevanza nello sviluppo del suo sultanato. In seguito all’atto di
forza di Mehmet Ali, che nel 1840 aveva permesso al governatore ribelle
di ottenere una speciale autonomia amministrativa per l’Egitto e il diritto
di trasmettere il titolo ai discendenti (si veda supra, § 1.8), i rapporti tra
il casato egiziano e quello ottomano si erano mantenuti entro i limiti della
cordialità, ma sempre contrassegnati da una certa reciproca diffidenza.
Il nuovo governatore Ismail era però un uomo di straordinarie ambizioni,
che si rese presto conto di avere in mano una serie di carte per empa-
tizzare col sultano Abdülaziz e convincerlo così ad essere complice dei
suoi progetti politici. Tra questi c’era il desiderio d’Ismail di modificare
la legge di successione del governatorato egiziano entrata in vigore nel
184033 – regolata secondo anzianità come l’ordine dinastico ottomano –
per poter trasmettere la carica direttamente al proprio primogenito, esclu-
dendo così dalla successione il fratello minore Mustafa Fazıl (1830-1875)
e lo zio Abdülhalim (1831-1894)34. Ismail capì di poter avere in Abdülaz-
iz un ottimo interlocutore, in quanto anche il sultano ottomano avrebbe
voluto fare lo stesso, estromettendo dalla successione i figli del defun-
to fratello maggiore Abdülmecid (Murat, Abdülhamid, Mehmet Reşat)
per passare il titolo direttamente al primogenito Yusuf Izzettin, nato da
una concubina nell’ottobre 1857 ma tenuto nascosto all’opinione pubbli-
ca fino alla salita al trono nel giugno 1861.
Fu così che in occasione del viaggio di un mese in Egitto organizzato
dal nuovo gran vizir Yusuf Kamil35, il sultano portò con sé – oltre a de-
33 Pınar, Hıdiv Ismail, cit., p. 28.
34 Abdülhalim era il quarto e ultimo figlio maschio del governatore ribelle Mehmet
Ali, ma a precederlo nella linea di successione per anzianità c’erano i tre figli maschi
(Ahmed Rifat, Ismail e Mustafa Fazıl) di Ibrahim, secondo figlio di Mehmet Ali. Alla fine
Abdülhalim non riuscirà mai a ottenere il titolo e diventerà, come Mustafa Fazıl, un oppo-
sitore politico di Ismail in esilio dall’Egitto, oltre che una figura di spicco della massoneria
nell’impero ottomano.
35 Yusuf Kamil (1808-1876), dopo aver completato la sua istruzione a Istanbul, nel
1833 si era recato in Egitto dove, in breve tempo, era entrato al servizio del governatore
Mehmet Ali guadagnandone la stima e l’affetto, al punto che nel 1845 ne aveva sposato
l’unica figlia femmina Zeynep (1825-1884). Scoperto poi per le sue qualità da Mustafa
Reşit Pascià, a partire dagli anni ’50 era entrato al servizio del sultano ottomano, riceven-
109
capitolo sesto
cine di funzionari e inservienti suddivisi in sette diverse imbarcazioni –
anche Fuat Pascià nel ruolo di serasker, il parmense Guatelli in quello
di direttore della banda militare, i primi tre discendenti al trono (Mu-
rat, Abdülhamid e Mehmet Reşat), il medico italiano di origini abruzzesi
Luigi Capoleone e il primogenito Yusuf Izzettin36. La visita di Abdü-
laziz, che rappresentava la seconda venuta di un sultano ottomano
in Egitto dopo la vittoriosa campagna militare del sultano Selim I nel
1517 contro i Mammelucchi, si rivelò un’ottima occasione per frater-
nizzare e individuare ambiti di interesse comune tra due sovrani di
carattere molto diverso. Ismail (1830-1895), che aveva guadagnato
un posto nell’ordine di successione grazie alla morte del fratello mag-
giore Ahmed Rifat (1825-1858) in un misterioso incidente ferroviario
presso Kafr az-Zayyat sul Nilo, appena salito al potere si trovò a godere
di una congiuntura economica estremamente favorevole, perché a causa
della guerra civile in corso negli Stati Uniti l’Egitto aveva conosciuto uno
straordinario aumento delle esportazioni di cotone verso il mercato euro-
peo37. Questa temporanea fortuna finanziaria (la bolla delle esportazioni
di cotone cominciò a sgonfiarsi già nel 1865) ebbe certamente un ruolo
cruciale nel dare corpo alle ambizioni d’Ismail, convincendolo per esem-
pio a portare a termine il titanico progetto del canale di Suez, inaugurato
infine nel novembre 1869.
Come abbiamo visto (si veda supra, cap. 2) il progetto del canale
di Suez era strettamente legato alle nascenti strutture del capitalismo fi-
nanziario europeo, in particolare alle banche d’investimento e all’innova-
tivo strumento della vendita di azioni, che a partire dagli anni della guerra
di Crimea avevano eletto la vasta e feconda geografia ottomana a nuovo
terreno di conquista. Ad accettare di svolgere un ruolo di rilievo in questa
nuova fase di penetrazione capitalistica furono del resto le stesse autorità
do negli anni successivi numerosi incarichi di prestigio come la presidenza della Corte
suprema, il Ministero del Commercio e addirittura il Gran vizirato per un breve periodo
nel 1863. Yusuf Kamil è passato anche alla storia in quanto autore nel 1862 della prima
traduzione in lingua turca di un’opera letteraria occidentale: si tratta della versione non
integrale di Les adventures de Télémaque (1698) del pedagogo francese Francois Félen-
on, pubblicata nel 1862 e divenuta subito estremamente popolare nell’ambiente intellet-
tuale d’Istanbul di quegli anni. È interessante notare come questo libro rappresentasse
«un testo di culto del mondo muratorio» utilizzato assieme al pugnale per compiere
i giuramenti iniziatici presso alcune associazioni segrete di orientamento giacobino attive
in Europa a partire dalla fine del XVIII secolo. Si veda Cazzaniga, Società segrete, cit., p. 26.
36 Ali Kemali Aksüt, Sultan Aziz’in Mısır ve Avrupa Seyahati (I viaggi in Egitto
e in Europa del sultano Aziz), Istanbul, Ahmet Saitoğlu Kitabevi, 1944, p. 9.
37 Landes, Banchieri e pascià, p. 118.
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«mentre sull’alba aprivasi»
ottomane: il problema fu la loro scarsa conoscenza e consapevolezza del-
le dinamiche implicate, che rendevano estremamente difficile effettuare
un dialogo alla pari e mantenere la necessaria autonomia politica e deci-
sionale. Alla fine del 1860, ad esempio, il governo ottomano presentò sul
mercato finanziario europeo una vendita di sottoscrizioni nel tentativo
di accedere a un nuovo ingente prestito, tramite la mediazione del ban-
chiere e speculatore francese Jules Mirès (1809-1871), ma la vendita si ri-
velò un flop e fu solo il soccorso in extremis di Francia e Inghilterra a sal-
vare l’impero ottomano da un collasso finanziario che avrebbe portato al
prematuro tracollo del mercato capitalistico in quella regione del globo38.
In seguito a questa crisi le autorità ottomane si resero conto della
necessità di dare vita a una banca centrale adeguatamente solida che
– grazie alla liquidità di garanzia fornita da Francia e Inghilterra nel
novembre 1862 tramite la mediazione di Fuat Pascià – fu fondata uf-
ficialmente il 4 febbraio 1863 col nome di Banca imperiale ottomana.
Da quel momento in poi, questa fu l’unica istituzione dell’impero auto-
rizzata a stampare denaro, ponendo fine al regime di anarchia protrat-
tosi fino a quel giorno39.
Ovviamente, assieme alla penetrazione degli strumenti e delle istitu-
zioni del capitalismo finanziario europeo, negli anni successivi alla guer-
ra di Crimea si assistette anche alla nascita e proliferazione delle logge
massoniche nei principali centri commerciali e politici dell’impero otto-
mano. A Istanbul, dopo la comparsa di qualche prima loggia di carattere
nazionale come l’inglese “Oriental Lodge” nel 1856, la francese “L’Etoile
du Bosphore” nel 1858, la tedesca “Deutscher Bund” nel 1860 e la log-
gia recante il nome dell’allora ambasciatore britannico Henry Bulwer nel
1861, la primavera del 1863 vide la nascita di due nuove importanti logge:
la cosmopolita “Union d’Orient” e la “Rispettabile loggia ‘Italia’ all’Orien-
te di Costantinopoli”, fondata il 28 maggio sotto l’egida dell’ambasciatore
italiano a Istanbul Camillo Caracciolo di Bella, convinto che la massoneria
potesse essere un ottimo strumento per aumentare l’influenza italiana
nel Levante40.
38 Rondo E. Cameron, France and the Economic Development of Europe 1800-1914:
Conquests of Peace and Seeds of War. Princeton, Princeton University Press, 1961, p. 461.
Si veda anche Autheman, La Banque impériale ottomane, cit., pp. 18-20.
39 Edhem Eldem, A History of the Ottoman Bank, Istanbul, Osmanlı Bankası
Araştırma ve Arşiv Merkezi, 1999, p. 91.
40 Sul tema della massoneria nell’impero ottomano, si veda Paul Dumont, La Tur-
quie dans les archives du Grand Orient de France, in La Franc-maçonnerie d’obedience
française dans l’Empire ottoman, Istanbul, Isis Press, 2013, pp. 11-50. Angelo Iacovella,
111
capitolo sesto
Ma nell’ambito dell’eterogenea comunità italiana d’Istanbul, a ve-
dere la luce in quelle stesse settimane del 1863 fu anche un’altra forma
d’associazionismo, ispirata dallo sviluppo degli eventi risorgimentali
in Italia. Infatti il 19 marzo, giorno di San Giuseppe, un gruppo di
esuli politici italiani, riuniti sotto il nome di Commissione Operaia, de-
cise di ritrovarsi per festeggiare l’onomastico di Garibaldi e Mazzini.
Per l’occasione raccolsero anche 2000 lire italiane da inviare a Gari-
baldi, che il 14 maggio rispose con una lettera da Caprera definendo
gli esuli di Istanbul «miei cari amici». Dopo questo primo incontro,
il gruppo di italiani decise di costituirsi formalmente in un’associazio-
ne secondo il modello di simili realtà mutualistiche che cominciavano
a nascere in Italia ispirate dal pensiero solidaristico di Mazzini, il quale
incitava a «unirsi fra gente di uno stesso mestiere per dare vita a corag-
giose cooperative». Fu così che dopo un paio di incontri e assemblee,
il 17 maggio 1863 fu istituita ufficialmente da parte di 41 soci fondatori
la Società operaia italiana di mutuo soccorso in Costantinopoli, che nel giro
di pochi mesi giunse ad avere oltre duecento membri, divenendo in
breve tempo la più importante realtà associativa della comunità italiana
di Istanbul. La società risultava aperta di fatto a tutti gli italiani, senza
distinzioni politiche o professionali, a patto di avere uno o più membri
della società disposti a fare da “garanti” per il proprio ingresso41.
7. Lo stesso Callisto Guatelli, nonostante il prestigioso titolo
di pascià e la carica di direttore generale della banda imperiale otto-
mana, finì per iscriversi alla Società operaia italiana di mutuo soccorso
il 3 novembre 1867, esibendo come garante il socio fondatore Giovanni
Battista Faverio, un commerciante milanese con una speciale passione
per la musica, che pochi anni dopo risultò essere il distributore ufficiale
a Istanbul di una raccolta di composizioni musicali dedicate a «Roma
capitale d’Italia», pubblicata originariamente a Milano42.
Il trıangolo e la mezzaluna. “I Giovani Turchi” e la massoneria italiana, Roma, Nuova Cul-
tura, 2011. Emanuela Locci, Il cammino di Hiram. La massoneria nell’impero ottomano,
Foggia, Bastogi Editrice Italiana, 2013. Orhan Koloğlu, Islam Aleminde Masonluk (La mas-
soneria nel mondo islamico), Istanbul, Kırmızı kedi Yayınevi, 2012.
41 Adriano Marinovich, La società operaia italiana di mutuo soccorso in Costantino-
poli, Istanbul, Istituto Italiano di cultura, 1995. p. 15. Si veda anche Roberta Ferrazza,
La Società Operaia Italiana di Mutuo Soccorso di Costantinopoli, in Gli italiani di Istanbul,
pp. 119-143.
42 Roma Capitale d’Italia: album musicale di pezzi per canto con accompagnamento
di pianoforte e per pianoforte solo, espressamente composti da rinomati autori, Milano, Gio
Canti Editore, circa 1871. Si noti che Giovanni Battista Faverio fu anche colui che l’11 giu-
112
«mentre sull’alba aprivasi»
Del resto tra Guatelli e Faverio doveva sussistere un forte rapporto
di amicizia, in quanto sappiamo che il musicista parmense fu testimo-
ne di nozze di Faverio in occasione del matrimonio di quest’ultimo con
la marsigliese Octavia Chateaureynaud, celebrato il 2 aprile 1864 presso
la chiesa di Santa Maria delle Draperie a Istanbul43. Guatelli risultò poi
essere anche il padrino di battesimo del primogenito della coppia, che
non per niente fu chiamato Callisto Felice (Felice era invece il nome del
padre di Faverio)44. Ma il rapporto del parmense con la Società operaia
ebbe vita breve, dato che già nel settembre 1869 la sua iscrizione decad-
de a causa del mancato pagamento della quota associativa, senza mai
più essere recuperata45.
Guatelli in quel periodo aveva probabilmente altro a cui pensare,
in quanto il sultano Abdülaziz continuava a trattarlo con massimo ri-
guardo, coinvolgendolo in numerose attività di prestigio e gratifican-
dolo in diversi modi. Nell’autunno 1867, al ritorno dal suo viaggio
in Europa (si veda infra, cap. 8), Abdülaziz donò infatti al parmense
una partitura musicale che l’imperatore Francesco Giuseppe gli aveva
regalato in occasione del suo passaggio a Vienna, affermando si trattas-
se di una composizione inedita di Mozart. Ma una decina d’anni dopo
la partitura fu poi rivenduta al collezionista inglese Julian Marshall
da Vladimiro, il figlio di Guatelli, mentre questi si trovava a Londra.
Quando poi la partitura, assieme all’intera collezione di Marshall,
fu acquisita dal British Museum e resa accessibile al pubblico all’inizio
del XX secolo, ebbe inizio un dibattito sulla reale paternità della compo-
sizione, che dopo lunghe diatribe fu infine attribuita al boemo Leopold
Anton Kozeluch46.
gno 1866 fece da garante per l’iscrizione presso l’ambasciata italiana a Costantinopoli di
Michele Selvelli (Fano 1825 - Istanbul 1895), antenato dell’autore, giunto nella capitale
ottomana intorno ai primissimi anni ’50 e iscrittosi alla Società Operaia Italiana di Mutuo
Soccorso nel giugno 1863 (tessera numero 79) dichiarando come professione «fabbrican-
te di birra». Tra i figli nati dall’unione di Michele Selvelli con Maria Sigalla (1837-1904,
cattolica originaria dell’isola greca di Siros), tre di loro finirono per dedicarsi professional-
mente all’attività musicale a Istanbul: Felice (1858-1907) come accordatore di pianoforte,
Italo (1863-1918) e Giusto (1866-1943) come istruttori di pianoforte e compositori.
43 Si veda l’atto di matrimonio di Giovanni Battista Faverio presso la chiesa di San-
ta Maria delle Draperie a Istanbul.
44 Si veda l’atto di battesimo di Callisto Faverio presso la chiesa di Santa Maria
delle Draperie a Istanbul.
45 Si veda archivio della Società operaia italiana di mutuo soccorso in Costantinopoli.
46 Emre Aracı, Guatelli Paşa’ya verildiği söylenen el yazması notaların esrarengiz
hikayesi (Il misterioso racconto della partitura donata a Guatelli Pascià), «Andante», 89,
marzo 2014.
113
capitolo sesto
Nell’aprile 1869 Guatelli si trovò invece a dirigere l’orchestra im-
periale in occasione di un concerto voluto dal sultano Abdülaziz per
intrattenere il principe di Galles Edoardo (figlio della regina Vittoria, fu-
turo re d’Inghilterra Edoardo VII, oltre che figura di spicco della masso-
neria europea) e la moglie Alessandra di Danimarca in occasione di una
cena organizzata in loro onore nella capitale ottomana: i due, dopo aver
conosciuto il sultano in occasione del suo viaggio a Londra nel luglio
1867, erano giunti in visita a Istanbul nell’ambito di un lungo viag-
gio nella regione orientale del Mediterraneo e lungo il Nilo. La coppia
si fermò a Istanbul per circa una decina di giorni, girando per la città
liberamente sotto i falsi nomi di Mr. e Mrs. Williams, ed alloggiando
presso un palazzo nei pressi di Fındıklı, sulla riva europea del Bosforo.
Nel corso della permanenza i principi britannici si recarono ben tre vol-
te al Teatro Naum, accompagnati nella terza occasione anche dal sulta-
no e da altre figure di spicco della politica ottomana, come il gran vizir
Ali Pascià e Mustafa Fazıl, il quale a sua volta organizzò per i principi
un fastoso ricevimento presso la sua residenza estiva ad Altunizade47.
Il Teatro Naum, dopo essere stato ricostruito nel 1848 e aver vis-
suto oltre un ventennio di gloria artistica, fu nuovamente devastato
nel corso del terribile incendio che colpì il quartiere di Beyoğlu la do-
menica del 5 giugno 1870, distruggendo settemila case e causando la
morte di mille persone e lo sfollamento di oltre ventimila. Oltre alla
tragedia umanitaria, l’incendio ebbe l’effetto di privare del principale
Teatro d’Opera della città sia i tanti appassionati spettatori, che la nu-
trita comunità di artisti e musicisti – molti dei quali italiani – coinvolti
nell’organizzazione degli spettacoli. In ragione di ciò, nel maggio 1872
il sultano Abdülaziz con un atto ufficiale decise di assegnare per un
periodo di 25 anni al fidato Guatelli 48 l’utilizzo e la gestione di una
vasta area nella zona di Tepebaşı: si trattava del versante occidentale
del cosiddetto colle di San Teodoro, che a partire dall’ambasciata bri-
tannica (attuale Meşrutiyet Caddesi) scendeva fino al livello del mare
nella zona dei cantieri portuali di Kasımpaşa. Da secoli il pendio era
usato come cimitero dai musulmani, ma a partire dall’inizio dei la-
vori per la costruzione della tratta sotterranea di Tünel s’era deciso
47 William H. Russell, A Diary in the East during the Tour of the Prince and Princess
of Wales, London, George Routledge and Sons, 1869, pp. 479-480, 500.
48 Metin And, Tanzimat ve istibdat döneminde Türk Tiyatrosu (Il teatro turco
nell’era del Tanzimat e della dittatura), Ankara, Türkiye İş Bankası Kültür Yayınları, 1972,
pp. 206-209.
114
«mentre sull’alba aprivasi»
di utilizzare il materiale ricavato dagli scavi per livellare il terreno e
guadagnare così una nuova vasta area per la vita pubblica di Beyoğlu.
Secondo il piano di Abdülaziz o di qualche suo consigliere, l’area sa-
rebbe quindi dovuta divenire un parco pubblico allietato dalla presenza
di un nuovo Teatro dell’Opera. Guatelli assegnò il progetto del teatro
a Giovanni Battista Barborini, il rinomato architetto italiano già autore,
tra le altre cose, dell’edificio dell’ambasciata olandese e del restauro del-
la colonna di Costantino a Çemberlitaş, e poi dell’edificio del Comune
di Beyoğlu utilizzato ancora oggi a tale scopo e recentemente restau-
rato. Ma a causa di numerosi contrattempi tecnici e politici il progetto
del musicista parmense non riuscì mai a decollare: si dovette infatti
attendere la venuta di un nuovo sultano (Abdülhamid II) e di un nuovo
sindaco di Beyoğlu (Edward Black Bey) per vedere realizzato il piano –
ormai sottratto al controllo di Guatelli – con la creazione del parco noto
come Jardin des Petits Champs (chiamato generalmente “Campetti” dalla
comunità italiana) e l’inaugurazione nel 1880 del teatro invernale pro-
gettato dall’architetto armeno Hovsep Aznavour49.
Come vedremo in seguito, del resto, gli ultimi anni di regno di Ab-
dülaziz in seguito alle morti di Fuat (1869) e Ali Pascià (1871) furono un
periodo di profonda crisi politica dell’impero ottomano, caratterizzati
da forte instabilità e da uno stato di paralisi e confusione diffusa in tutti
gli ambiti decisionali.
Risulta interessante notare come in quegli anni anche Guatelli
sembri nel suo piccolo prendere le distanze dal protettore Abdülaziz,
da quel che si può dedurre dalle dediche delle sue composizioni, le
quali risultano indirizzate all’erede al trono Murat (1840-1904), o ai
suoi figli Selahaddin e Hatice50. Come vedremo l’erede al trono Mu-
rat – primogenito di Abdülmecid e studente di musica di Guatelli –
in ragione della sua cultura e apertura mentale divenne a partire dal
1871 il catalizzatore di tutte le aspettative dell’opposizione riformista e
liberale al sultanato di Abdülaziz, inclusi molti esponenti turchi e stra-
nieri della massoneria ottomana e internazionale. Quanto a Callisto
Guatelli, in seguito all’eclisse e caduta in disgrazia del suo protettore
Abdülaziz morto tragicamente nel giugno 1876, il parmense sembrò
49 Seza Durudoğan, Tepebaşı kışlık ve yazlık tiyatroları (I teatri invernali ed estivi
di Tepebaşı), Dünden bügüne Istanbul Ansiklopedisi, cit., VII, p. 250
50 Si veda rispettivamente Elegie pour piano, Milano, Francesco Lucca, 1873-1874.
Una nuite sur le Bosphore. Sérénade pour piano, Milano, Francesco Lucca, 1871-1872.
La petite fileuse, Milano, Francesco Lucca, 1873-1874.
115
capitolo sesto
perdere progressivamente prestigio: durante il lungo regno del sultano
Abdülhamid II (1876-1909) al parmense infatti non fu più assegnata al-
cuna carica istituzionale di rilievo. Risulta quindi interessante scoprire
che, probabilmente sotto l’influenza cristiana ortodossa della moglie,
Guatelli nel 1882 finì per dedicare una composizione intitolata Mar-
che de Caucase51 niente meno che al nuovo zar di Russia Alessandro III
(1845-1894), salito al trono in seguito all’uccisione del padre in un at-
tentato bombarolo.
Nonostante questa sua originale presa di posizione, di cui for-
se furono in pochi a sapere, Callisto Guatelli rimase sempre a vivere
a Istanbul, risiedendo a Beyoğlu nella zona di Sakız Ağacı fino alla mor-
te sopraggiunta il 26 marzo del 190052.
51 Marche de Caucase, Milano, Francesco Lucca, 1882.
52 Si veda l’atto di morte presso il cimitero cattolico di Osmanbey a Istanbul.
116
7. L’origine del mondo.
Giampietri e la nascita del quarto potere
Milletim nev’-i beşerdir,
vatanım rû-yı zemin
(Mia nazione è l’umanità,
mia patria il mondo intero)1
Ibrahim Şinasi (1826-1871)
intellettuale ottomano
1. Il radicale cambio di rotta impresso al corso dell’impero ottoma-
no in ambito amministrativo e ideologico da parte dei sultani Mahmut II
e Abdülmecid negli anni successivi alla guerra di Crimea cominciò
a generare effetti profondi anche nell’approccio alla diffusione del sa-
pere e all’organizzazione della conoscenza, in particolare nell’ambiente
dell’élite politica e intellettuale della capitale.
È interessante notare come, oltre alle fondamentali figure politi-
che di Ali e Fuat Pascià, anche molti degli altri protagonisti di questo
periodo avessero trascorso un periodo più o meno lungo della loro car-
riera presso la Tercüme Odası (Ufficio Traduzioni), istituzione inaugu-
rata nell’ottobre 1821 ma strutturata in maniera definitiva solo a partire
dal 1833. Quest’istituzione fu voluta dal sultano Mahmut II per colmare
una fondamentale debolezza culturale e strategica dell’impero ottoma-
no, ovvero la scarsa o pressoché nulla conoscenza delle lingue straniere
da parte della popolazione musulmana. Per questo motivo la maggio-
ranza degli incarichi amministrativi (non quelli politici) a livello diplo-
matico, o quelli che concernevano le attività di traduzione e interpre-
tariato, dovevano sempre essere assegnati a membri delle comunità
non-musulmane, soprattutto greci, armeni, ebrei e italiani.
In seguito all’insurrezione greca scoppiata nel 1821, il sultano ot-
tomano Mahmut II comprese che il fatto di delegare a non-musulma-
ni funzioni di così forte rilievo strategico per la sicurezza dell’impero
1 Il verso, tratto da un’antologia delle proprie opere redatta dallo stesso Ibrahim
Şinasi, Müntahabat-ı Eş’âr (edizione a cura di Süheyl Beken, Ankara, Dün-Bügün
Yayınevi, 1960, p. 71), è probabilmente ispirato alla celebre affermazione di Victor Hugo
riportata nella prefazione all’opera teatrale I Bergravi (1843): «Spero che un giorno il globo
sarà civilizzato [...] perché allora si realizzerà il magnifico sogno dell’intelligenza: avere
per patria il mondo e per nazione l’umanità».
117
capitolo settimo
costituiva un elemento di forte vulnerabilità. Decise quindi di istituire
un Ufficio Traduzioni che avesse l’obiettivo di formare giovani funzio-
nari con particolare predisposizione all’apprendimento delle lingue
straniere, in particolare il francese e l’inglese2.
Ad accomunare la maggioranza di coloro che fecero esperienza
presso l’Ufficio Traduzioni in quegli anni fu quindi una notevole intra-
prendenza e curiosità culturale, stimolata dai lunghi periodi trascorsi
presso le capitali europee con l’obiettivo di completare la propria forma-
zione ed effettuare le prime esperienze di lavoro nelle locali ambasciate.
Non sarà quindi esagerato affermare che il fecondo movimento ottoma-
no di innovazione culturale, fiorito durante i vent’anni che seguirono
la guerra di Crimea, sia stato portato avanti quasi unicamente da figure
che avevano trascorso un periodo formativo presso l’Ufficio Traduzioni
a Istanbul, o avevano avuto la possibilità di vivere per ragioni di studio
all’estero, in particolare a Parigi.
2. Münif Pascià nacque intorno al 1828 nella città di Antep,
un centinaio di chilometri a nord di Aleppo, da un padre rispettato per
le doti intellettuali e la sofisticata conoscenza della teologia islamica.
A metà degli anni ’30 l’intera famiglia si trasferì al Cairo in seguito
all’invito giunto al padre di Münif Pascià da parte dell’allora governa-
tore d’Egitto Mehmet Ali, alla ricerca di un insegnante di lingua per-
siana per i propri figli. Alla morte di Mehmet Ali nel 1848, la fami-
glia di Münif decise di fare ritorno ad Antep, mentre il giovane Münif
si fermò per qualche anno a Damasco, trovando impiego presso la lo-
cale amministrazione ottomana. Nel gennaio 1853 giunse a Istanbul,
dove fece il suo ingresso nell’Ufficio Traduzioni con l’obiettivo di ap-
prendere il francese. Ma nel 1855, dopo un breve incarico nella cittadina
di Gallipoli, fu scelto come proprio segretario dal nuovo ambasciatore
a Berlino Ahmet Kemal Efendi. Nella capitale prussiana Münif ebbe
la possibilità di studiare il tedesco, oltre a sviluppare una forte passione
per la letteratura e la filosofia illuministica e romantica. Dopo aver ac-
compagnato ancora Ahmet Kemal nel suo nuovo incarico in Erzegovina
2 Yalçınkaya, Their Science, Our Values, cit., p. 71. Si veda anche Sezai Balcı,
Osmanlı devletinde tercümanlık ve Bab-ı Ali Tercüme Odası (L’attività di traduzione e
l’Ufficio traduzioni della Sublime Porta nello stato ottomano), tesi di dottorato, Università
di Ankara, 2006, in part. pp. 82-114.
118
l’origine del mondo
e Montenegro, nella primavera del 1859 Münif fece ritorno a Istanbul
trovando impiego presso l’Ufficio Traduzioni3.
Dopo questo lungo periodo di formazione professionale, è nell’e-
state di quell’anno che Münif entra a pieno diritto nella storia della cul-
tura ottomana, pubblicando Muhaverat-ı Hikemiyye (Dialoghi filosofici),
la prima traduzione in lingua ottomana di testi occidentali in prosa.
Si noti bene che ad assegnare all’operazione di Münif un valore di ri-
lievo non è solo il primato in sé, ma anche il contenuto stesso dei testi
selezionati per la traduzione, in quanto l’opera si componeva di una
selezione di dialoghi morali della tradizione pedagogica francese, tratti
da Voltaire, Felenon e Fontenelle4. Anche se la natura moralistica di
questi testi può risultare ordinaria se non addirittura pedante a un let-
tore contemporaneo, si deve considerare che in un contesto culturale
come quello ottomano il fatto di presentare al pubblico musulmano
testi dal contenuto fortemente laico e illuministico come quelli citati
costituiva un’azione quasi sovversiva. Non per niente Ahmed Hamdi
Tanpınar (1901-1962), uno dei massimi intellettuali turchi del Nove-
cento, nella sua celebre rassegna della letteratura ottomana del XIX se-
colo affermò che «era impossibile che questo libricino non provocasse
una rivoluzione nel pensiero dei giovani lettori del tempo»5.
Il caso volle che proprio in quello stesso 1859 il forte sommovi-
mento culturale maturato negli ultimi anni portasse alla pubblicazione
anche della prima traduzione in lingua ottomana di una piccola anto-
logia di poesia occidentale: l’autore di questa pubblicazione, intitolata
Tercüme-i Manzume (Traduzioni liriche) e realizzata in maniera del tut-
to indipendente da quella di Münif Pascià, era Ibrahim Şinasi (1826-
1871), un’altra figura cruciale in questa fase di rinnovamento della cul-
tura ottomana.
3. La breve e intensa vita di Ibrahim Şinasi sembra essere
un compendio di tutte le contraddizioni vissute da quella generazione
di intellettuali ottomani che negli anni successivi alla guerra di Crimea
3 Ali Budak, Batililaşma sürecinde çok yönlü bir Osmanlı aydını: Münif Paşa
(Un poliedrico intellettuale ottomano nel processo di occidentalizzazione: Münif
Pascià), Istanbul, Kitabevi, 2004, pp. 1-24.
4 Ivi, pp. 289-336. Si veda anche Şerif Mardin, The Genesis of Young Ottoman
Thought. A Study in the Modernization of Turkish Political Ideas (1962), Syracuse, Syracuse
University Press, 2000, pp. 234-238.
5 Ahmet Hamdi Tanpınar, XIX. asır Türk edebiyat tarihi (Storia della letteratura turca
nel XIX secolo), Istanbul, Üniversitesi Edebiyat Fakültesi Yayınları, 1956, p. 152.
119
capitolo settimo
desiderarono recare elementi innovativi alla vita politica e culturale
dell’impero.
Nato nel 1826 a Istanbul in una modesta abitazione del quartiere
di Cihangir, a poche centinaia di metri dall’attuale piazza Taksim, Şin-
asi rimase orfano di padre ancora infante. Ma dopo aver studiato nelle
scuole di quartiere e aver cominciato ancora giovanissimo a lavorare
con un umile incarico amministrativo, Şinasi dimostrò un ecceziona-
le talento per le lingue riuscendo in forma privata ad apprendere ara-
bo, persiano e francese. In virtù di queste capacità il giovane fu presto
notato negli ambienti di palazzo e, grazie all’intercessione di Mustafa
Reşit, nel 1849 fu inviato a Parigi con una borsa di studio per migliorare
il suo francese e affrontare studi di carattere finanziario. Ma nella ca-
pitale francese Şinasi dimostrò da subito una particolare indipendenza
di carattere, che lo portò a immergersi a capofitto soprattutto in studi
di carattere umanistico, studiando a fondo la letteratura e la filosofia
francese e illuministica. Nel giugno 1851 giunse persino a essere nomi-
nato membro della prestigiosa Société Asiatique de Paris – un’istituzione
fondata nel 1822 e dedicata allo studio delle civiltà orientali – entrando
in contatto con figure del calibro di Alphonse de Lamartine (1790-1869)
ed Ernest Renan (1823-1892)6.
Dopo aver fatto ritorno a Istanbul nel 1855, nel primo periodo Şin-
asi si trovò a occupare alcuni incarichi di buon livello nell’amministra-
zione ottomana; ma nel gennaio 1858 rimase letteralmente sconvolto
dalla notizia della morte di Mustafa Reşit Pascià, suo protettore e mo-
dello ideale di riferimento, cui Şinasi aveva anche dedicato numerosi
componimenti in versi, giungendo a definirlo un «profeta della civiliz-
zazione»7. Pochi mesi dopo Şinasi cominciò inoltre a soffrire di una
fastidiosa alopecia che lo costrinse a eliminare completamente la barba
per evitare effetti inestetici. Per questo motivo si trovò a essere deriso
nell’ufficio in cui lavorava, in ragione dell’importante valore simboli-
co assegnato alla barba nella cultura musulmana. Questi avvenimenti
provocarono un forte momento di rottura nell’animo del giovane in-
tellettuale, che scelse infine di abbandonare l’incarico e non accettare
più alcuna collaborazione con l’amministrazione pubblica ottomana
a causa del retaggio conservatore e moralista ancora fortemente radica-
6 Alim Kahraman, Şinasi, in Islam Ansiklopedisi, cit., XXXIX, pp. 166-169.
7 Adem Çalışkan, Ibrahim Şinasi Efendi’nin Mustafa Reşid Paşa üzerine bir kasidesi
ve tahlili (Analisi di una composizione di Ibrahim Şinasi Efendi su Mustafa Reşid Pascià),
«Uluslararası Sosyal Araştırmalar Dergisi», 19, 2011, pp. 32-59: 39.
120
l’origine del mondo
to e dell’antipatia personale nutrita per i nuovi leader politici Ali e Fuat
Pascià8.
Şinasi fu risoluto nel tracciare autonomamente il proprio percorso
professionale e intellettuale e da quel momento in poi apparve inar-
restabile: iniziò come visto con la già citata Tercüme-i Manzume, una
selezione di poesie di Lamartine, Racine e La Fontaine da lui tradotte
dal francese e pubblicate presso la stamperia de «La Presse d’Orient»,
un giornale francese fondato nel gennaio 1855 dove a lavorare come
caporedattore era Giampietri9, un esule di probabili origini italiane che
Şinasi aveva già avuto modo di conoscere a Parigi nei primi anni ’5010.
Soli pochi mesi dopo Şinasi pubblicò şair Evlenmesi (Il matrimonio
del poeta), considerata la prima opera teatrale originale pubblicata in
lingua ottomana. Pur non essendo passata alla storia per le sue qualità
letterarie, la sceneggiatura di şair Evlenmesi risulta molto interessante
per il contenuto sociologico, trattandosi di una forte critica alla tradizio-
ne dei matrimoni combinati nella società musulmana; l’opera maturò
probabilmente alla luce di personali esperienze biografiche, in quanto
Şinasi si era sposato appena l’anno precedente11.
Nel 1860 Şinasi collezionò il terzo primato con la fondazione as-
sieme all’amico Agah Efendi, conosciuto negli anni di Parigi, del primo
quotidiano in lingua ottomana privo di ogni vincolo con le istituzioni
ufficiali dello stato. Se si escludono i periodici realizzati dalle comunità
straniere, in particolare i francesi che già dal 1796 avevano cominciato
a pubblicare alcuni giornali, la storia del giornalismo ottomano inizia
nel 1831 con la pubblicazione di «Takvim-i Vakayi» (Il calendario degli
eventi), una sorta di gazzetta ufficiale dello stato ottomano a cadenza
settimanale, voluta dal sultano Mahmut II per non lasciare unicamente
alla stampa straniera la trattazione degli eventi in corso nell’impero.
A questo giornale fece seguito nel 1840 «Ceride-i Havadis» (Il regi-
stro delle notizie), un altro giornale fortemente legato alle istituzioni
8 Teber, Tutunamayanlar, cit., p. 102.
9 Groc Gérard, Ibrahim Çağlar, La Presse Francaise de Turquie de 1795 à nos jours.
Histoire et Catalogue, Istanbul, Editions Isis, 1985, p. 152. Le notizie riguardo al misterioso
Giampietri sono poche e frammentarie: si trattava in realtà probabilmente di un corso di
origini italiane, nato negli anni ’20 del XIX secolo e morto, secondo quanto si può intuire
dalla voce dedicata a Ebüzziya Tevfik in Islam Ansiklopedisi, intorno ai primissimi anni
del XX secolo.
10 Niyazi Berkes, Türkiye’de çaǧdaşlaşma (La modernizzazione in Turchia) (1973),
Istanbul, YKY, 2012, p. 277.
11 Kahraman, Şinasi, cit., p. 167.
121
capitolo settimo
ottomane, anche se fondato e diretto dall’inglese William Churchill,
che introdusse alcune innovazioni importanti come la sezione esteri
e la vendita di spazi per annunci privati e commerciali12. Ma a dispet-
to della loro attività continuativa, questi primi giornali ebbero sempre
scarsa diffusione e in ragione della loro ufficialità non ebbero l’effetto
di sviluppare una “opinione pubblica” in senso moderno, ovvero una
comunità di lettori desiderosa di interpretare e giudicare autonoma-
mente gli avvenimenti politici in corso.
Con l’obiettivo di colmare questo vuoto, Ibrahim Şinasi e Agah
Efendi il 22 ottobre 1860 cominciarono a pubblicare «Tercüman-i
Ahval» (L’interpretazione dei fatti), che già dal titolo e dal primo cele-
bre editoriale intitolato Mukaddime (Preambolo) sembrò indicare chia-
ramente la sua innovativa collocazione nel panorama della stampa ot-
tomana13. Fortemente influenzato dall’incontro con Giampietri, Şinasi
si era infatti convinto che fosse necessario rivoluzionare il rapporto
tra pubblico ottomano e carta stampata, rendendolo più immediato ed
emotivo: per questo l’intellettuale viene ancora oggi considerato come
uno dei massimi pionieri nella modernizzazione della lingua turca.
Şinasi ritenne infatti essenziale effettuare una semplificazione
della lingua ottomana – epurandola dalle vanitose ampollosità retaggio
di una tradizione elitista e discriminatoria verso le classi meno colte –
e dell’ortografia, creando una macchina stampatrice dotata di “soli”
112 caratteri, invece dei circa 500 utilizzati fino a quel tempo.
4. Nella primavera del 1860 anche Münif Pascià, pur essendo an-
cora formalmente impiegato presso l’Ufficio Traduzioni, decise di fare
un passo nel mondo del giornalismo iniziando a collaborare con «Ceride-i
Havadis». Ma proprio l’apparizione, solo qualche mese dopo, del nuovo
giornale di Şinasi e di Agah Efendi mise in seria difficoltà commerciale
il più antiquato giornale diretto dall’inglese Churchill, il quale scelse
di affidare a Münif la direzione di un supplemento intitolato «Ruzname»
(Diario), centrato su cronache e riflessioni riguardo a tematiche più
triviali e accattivanti, nel tentativo di recuperere terreno nei confronti
di «Tercüman-i Ahval». Quando però nel luglio 1862 si vide assegnato
12 Kenan Demir, Türkiye’de basının doğuşu ve gazeteler (Nascita della stampa e dei
giornali in Turchia), «Iǧdır Üniversitesi Sosyal Bilimler Dergisi», 5, 2014, pp. 57-88:
pp. 61-66.
13 Nergis Ertürk, Grammatology and Literary Modernity in Turkey, Oxford, Oxford
University Press, 2011. p. 35.
122
l’origine del mondo
il grado di “primo traduttore” dall’amministrazione ottomana, Münif
scelse di abbandonare l’incarico presso il giornale di Churchill, che fi-
nirà per chiudere definitivamente nel 1864, dopo 1212 numeri pubbli-
cati nell’arco di 24 anni14. Nonostante la separazione, il turco e l’inglese
rimasero comunque in ottimi rapporti, perché nell’autunno del 1862
«Ceride-i Havadis» pubblicò in 24 puntate, col titolo di Hikaye-yi
Mağdûrin, una traduzione non integrale effettuata da Münif e Şemsett-
in Sami de I miserabili, il celebre romanzo di Victor Hugo apparso in
versione originale in Francia solo qualche mese prima15.
Come si può vedere, anche Münif risultava particolarmente pro-
duttivo in questo fecondo periodo di innovazioni, ma al contrario di
Şinasi egli preferì preservare un rapporto di collaborazione con le isti-
tuzioni ottomane, nel tentativo di avvalersi del sostegno politico del-
le autorità per realizzare i propri ideali di modernizzazione culturale.
L’esempio più eclatante di questo particolare approccio riformista pra-
ticato da Münif fu la creazione nel maggio 1861 della Cemiyet-i Ilmiye-i
Osmaniye (Società scientifica ottomana), il primo esempio di associa-
zione culturale finalizzata a promuovere lo studio e lo sviluppo della
conoscenza scientifica nell’impero ottomano16. Condizione essenzia-
le per essere accettati come membri era la conoscenza di tutte e tre
le lingue “colte” dell’impero (turco-ottomano, persiano e arabo), oltre
ad almeno una lingua tra francese, inglese, italiano, tedesco o greco an-
tico. Dopo essere stati accettati, il pagamento regolare della quota men-
sile dava ai soci la possibilità di partecipare alle riunioni settimanali e di
fruire della biblioteca, dei corsi di lingua e dei seminari organizzati pe-
riodicamente da esperti in diverse discipline scientifiche e umanistiche.
Nonostante la proibitiva clausola d’ammissione riguardo alle lingue da
conoscere, si pensi che tra i primi quaranta membri della Società, ben
undici provenivano dalle minoranze non-musulmane17.
14 Budak, Münif Paşa, cit., p. 26.
15 Ivi, pp. 339-359.
16 Emine Gümüşsoy, Tanzimat’tan sonra halk eğitimi için kurulan iki cemiyet:
Cemiyet-i Ilmiye-i Osmaniye ve Cemiyet-i Tedrisiye-i Osmaniye (Due associazioni per l’edu-
cazione pubblica fondate in seguito al Tanzimat: la Società scientifica ottomana e la So-
cietà pedagogica ottomana), «Eskişehir Üniversitesi Sosyal Bilimler Dergisi», 8, 2, 2007,
pp. 173-192: 176.
17 Ekmeleddin Ihsanoğlu, Cemiyet-i Ilmiye-i Osmaniye’nin kuruluşu ve faaliyetleri
(Fondazione e attività della Società scientifica ottomana), in X. Türk Tarih Kongresi, Anka-
ra, Türk Tarih Kurumu Yayınları, 1994, pp. 2167-2189: 2177.
123
capitolo settimo
A partire dal giugno 1862 la Società scientifica ottomana cominciò
anche a pubblicare «Mecmua-i Fünun», la prima rivista scientifica nella
storia dell’impero, uscita regolarmente con cadenza mensile fino alla chiu-
sura definitiva della Società nel giugno 1867. Con toni particolarmente en-
fatici, il già citato Tanpınar ha affermato che «Mecmua-i Fünun fu una vera
e propria scuola di pensiero, e svolse per l’impero ottomano il ruolo avuto
dall’Enciclopedia francese nella Francia del XVIII secolo»18.
Uno dei dibattiti più importanti ospitati all’interno della rivista fu
quello suscitato dal celebre discorso tenuto l’11 maggio 1862 nelle sale
della Società da Münif, il quale sostenne la necessità di abolire l’utilizzo
dell’alfabeto arabo per la scrittura della lingua turco-ottomana, in vigore
da quando l’impero del casato di Osman aveva preso forma in Anatolia
nel XIV secolo19. Secondo la visione di Münif, l’alfabeto arabo era un
sistema di trascrizione inappropriato per la vocalizzazione tipica della
lingua turco-ottomana: questa scarsa compatibilità sarebbe stata quindi
all’origine dello scarso livello di alfabetizzazione e quindi di educazione
scientifica della popolazione musulmana dell’impero20.
Questa critica radicale avanzata da Münif si univa a simili inter-
venti e proposte effettuate in quegli anni allo scopo di semplificare
e “laicizzare” la lingua ottomana e renderla uno strumento più effica-
ce di comunicazione e dibattito critico. L’obiettivo era quello di infran-
gere la condizione di monopolio esercitata da secoli sulla lingua otto-
mana da parte dei teologi islamici, i letterati di palazzo e la burocrazia
statale. Seguendo l’intuizione teorica fornita dal filosofo Giorgio Agam-
ben, potremmo affermare che per la prima volta nella storia della cul-
tura e della società ottomana si stavano verificando dei veri e propri atti
di “profanazione”:
Sacre o religiose erano le cose che appartenevano in qualche modo agli
dèi. Come tali, esse erano sottratte al libero uso e commercio degli uo-
mini [...] Sacrilego era ogni atto che violasse o trasgredisse questa loro
speciale indisponibilità, che le riservava unicamente agli dèi celesti. E se
consacrare era il termine che designava l’uscita delle cose dalla sfera del
diritto umano, profanare significava per converso restituirle al libero
uso degli uomini.21
18 Tanpınar, XIX. Asır, cit., p. 154.
19 Hayati Develi, Osmanlı’nın dili (La lingua degli ottomani), Istanbul, 3F Yayınevi,
2006. pp. 46-47.
20 Nergis, Grammatology, cit., pp. 8-10. Si veda anche Berkes, Çaǧdaşlaşma, cit.,
pp. 264-266, e Davison, Reform, cit., pp. 179-180.
21 Giorgio Agamben, Elogio della profanazione, in Id., Profanazioni, Roma, Notte-
tempo, 2005. p. 83.
124
l’origine del mondo
A questo punto possiamo passare alla vicenda di uno dei più in-
teressanti protagonisti di questa stagione di radicali trasformazioni,
le cui attività di profanazione hanno lasciato un segno importante non
solo nelle travagliate vicende della politica e della cultura ottomana, ma
anche nella storia dell’arte mondiale.
5. Halil Şerif nacque al Cairo il 20 giugno 1831 mentre suo padre
Mehmet Şerif Pascià, discendente della famiglia turcomanna degli Azm-
zadeler – un casato che nell’ultimo secolo aveva fornito all’impero ottoma-
no numerosi vizir e funzionari attivi soprattutto nella provincia di Dama-
sco – si trovava al servizio del governatore d’Egitto Mehmet Ali22.
Nel 1845 il giovane Halil Şerif fu inviato a studiare presso una
scuola militare finanziata dalle stesse autorità egiziane a Parigi23, città
che avrebbe segnato in maniera decisiva la sua esistenza. Al termine
degli studi, interrotti anche a causa delle turbolenze politiche esplose
nella capitale francese, tra 1848 e 1854 il giovane Halil fu impiegato
al Cairo come secondo segretario del governatore d’Egitto Abbas Pa-
scià, e dal 1850 ricevette anche l’incarico di dirigere l’Ufficio traduzioni
presso il locale Consiglio egiziano per gli affari esteri. Al principio del
1855 il nuovo governatore Said Pascià assegnò a Halil l’incarico di gui-
dare la delegazione egiziana presso l’Esposizione universale di Parigi da
inaugurarsi nel maggio di quell’anno24. La grande mostra, la seconda
di quel genere dopo quella di Londra del 1851, fu organizzata presso
gli Champs Elysees per espressa volontà dell’imperatore Napoleone III,
in perenne stato di competizione con la Gran Bretagna vittoriana. Men-
tre la direzione del padiglione dedicato alle Belle Arti fu assegnata a per-
sonalità come Delacroix e Ingres, vedendo l’appassionata partecipazio-
ne di Charles Baudelaire nelle vesti di critico, la gestione delle sezioni
dedicate alla produzione agricola e industriale fu invece assegnata per
intero a ex personaggi di spicco del movimento sansimoniano, divenuti
22 Öztuna, Devletler, cit., II, pp. 567-579. Esistono notizie contrastanti riguardo alla
possibilità che il padre di Halil Şerif avesse qualche legame di parentela, naturale o ac-
quisita, con la famiglia del governatore Mehmet Ali (o con quella della sua prima moglie
Nusretli Amine Hanim).
23 Si trattava della École Militare Egyptienne, istituita nel 1844 su richiesta di
Muhammad Ali. Si veda Deniz Turker, The Oriental flaneur. Khalil Bey and the Cosmo-
politan Experience, tesi di laurea, University of Yale, 2007, pp. 16-18.
24 Roderic H. Davison, Halil Şerif Paşa, Ottoman Diplomat and Statesman, in Id.,
Nineteenth Century Ottoman Diplomacy, cit., pp. 65-79: 66.
125
capitolo settimo
nel frattempo figure chiave del sistema capitalista europeo, in partico-
lare nel sistema bancario e delle infrastrutture (si veda supra, cap. 2)25.
Sebbene l’Esposizione avesse chiuso a novembre, Halil Şerif
si trovava ancora a Parigi nei primi mesi del 1856, quando la capitale
francese si trovò a ospitare la cruciale conferenza diplomatica che de-
cretò il termine della guerra di Crimea. Mal disposto a tornare a lavorare
in Egitto, Halil Şerif colse l’occasione per scrivere in francese una lette-
ra al gran vizir Ali Pascià – giunto a Parigi per rappresentare l’impero
ottomano al tavolo delle trattative – presentandosi e richiedendo l’asse-
gnazione di un incarico presso il Ministero ottomano degli Affari esteri.
Per rendere la richiesta ancora più convincente, addusse anche un’oftal-
mia come ragione medica per giustificare la propria necessità di man-
tenersi lontano dal clima eccessivamente secco e polveroso dell’Egitto.
Qualche giorno dopo, il 22 marzo, Ali Pascià inviò la lettera di Halil
a Istanbul, all’amico e ministro degli esteri Fuat Pascià, raccomandan-
do l’assunzione del promettente giovane. In data 20 aprile, dopo aver
ricevuto l’ultima approvazione dal sultano Abdülmecid, l’accettazione
definitiva della richiesta fu infine inoltrata a Parigi al locale ambascia-
tore ottomano Mehmet Cemil26, che ne diede notizia al giovane Halil
a inizio maggio27.
All’assunzione ufficiale fece seguito nel settembre dello stes-
so anno l’assegnazione del primo incarico, in qualità di ambasciatore
ad Atene: nei quattro anni trascorsi in questo ruolo la sua reputazio-
ne crebbe a tal punto che il nuovo ambasciatore britannico a Istanbul
25 Patricia Mainardi, Art and Politics of the Second Empire. The Universal Exposi-
tions of 1855 and 1867, New Haven, Yale University Press, 1987, pp. 33-61. Si veda inoltre
Charles Baudelaire, Scritti sull’arte, Torino, Einaudi, 1997. Un altro eccellente studio per
quanto concerne la partecipazione dell’impero ottomano e del semi-autonomo Egitto alle
Esposizioni internazionali tra 1867-1900 è Zeynep Çelik, Displaying the Orient. Architecture
of Islam at Nineteenth-Century World’s Fairs, Berkeley (CA), University of California Press,
1992.
26 Mehmet Cemil (1824-1872) era il primogenito di Mustafa Reşit Pascià (1800-
1858). È interessante notare che nello stesso periodo in cui fu per la prima volta ambascia-
tore a Parigi tra agosto 1855 e dicembre 1859 (lo fu poi nuovamente tra maggio 1862 -
marzo 1865 e agosto 1866 - agosto 1872), Mehmet Cemil ricevette anche l’incarico formale
come primo ambasciatore ottomano della storia presso il Regno di Sardegna, tra 10 febbraio
1856 (al termine della guerra di Crimea) e 26 febbraio 1860, continuando però sempre a
risiedere a Parigi. Ma ad essere realmente Chargé d’affairs presso la sede dell’ambasciata otto-
mana a Torino furono prima il greco Yanko Musurus Bey e dall’aprile 1857 l’italiano Rüstem
Bey (nato Francesco Mariani, che dal 26 febbraio 1860 occupò il posto ufficiale di ambascia-
tore a Torino e dal 1865 a Firenze, fino al settembre 1870). Si veda Öztuna, Devletler, cit., II,
pp. 819, 1038. Si veda anche De Leone, L’impero ottomano, cit., pp. 221-222.
27 Davison, Halil Şerif, cit., p. 67.
126
l’origine del mondo
Henry Bulwer a un certo punto lo presentò come un ottimo candi-
dato nel prossimo futuro al ruolo di ministro degli esteri dell’impero
ottomano28.
Nella primavera del 1861 Halil Şerif svolse un ruolo primario as-
sieme a Münif Pascià nella fondazione della Cemiyet-i Ilmiye-i Osmaniye
(Società scientifica ottomana), dato che fu il giovane diplomatico a scri-
vere al gran vizir del tempo per chiedere la necessaria autorizzazione,
ricevendo la conferma definitiva alla fine di maggio29. Non per niente
nello statuto ufficiale Halil Şerif risultava segnalato come presidente
della Società: ma siccome nel settembre dello stesso anno il giovane
diplomatico fu assegnato al posto d’ambasciatore a San Pietroburgo,
fu in realtà Münif a dirigere fino alla fine le attività dell’associazione.
Halil Şerif non mancò comunque di fornire il suo contributo alle attività
di divulgazione della Società scientifica ottomana anche dalla lontana
San Pietroburgo, in quanto tra 1862 e 1863 fece pubblicare sulla rivista
«Mecmua-i Fünun» un lungo articolo in due parti sulla storia dell’Egit-
to al tempo dei faraoni30.
Il giovane diplomatico, però, non era soddisfatto del posto asse-
gnatogli: risultava insofferente del tempo freddo e sembrava nutrire
una forte nostalgia per la dolce vita degli anni di Parigi. Nel marzo
1865 Halil Şerif scrisse infine una lettera all’allora ministro degli esteri
Ali Pascià, chiedendo una licenza temporanea per allontanarsi da San
Pietroburgo in quanto bisognoso di recarsi in Germania per effettuare
una cura con acque solforose, e in Egitto per risolvere alcune questioni
d’eredità in seguito alla morte del padre avvenuta il 13 febbraio31.
In realtà, pur avendo mantenuto ufficialmente la posizione d’am-
basciatore fino al 1868, Halil Şerif non fece mai più ritorno a San Pie-
troburgo perché il patrimonio lasciatogli dal padre si rivelò di natura
tale da permettergli non solo di trasferirsi di nuovo nell’amata capitale
francese, ma anche di divenire celebre per il tenore di vita e le folli spese
sostenute per appagare numerosi vizi e desideri. Secondo alcune stime,
nei neanche due anni e mezzo trascorsi a Parigi, Halil Şerif sarebbe
riuscito a spendere circa 15 milioni di franchi (una cifra paragonabi-
28Ivi, p. 67.
29Kemeleddin Ihsanoğlu, Cemiyyet-i Ilmiyye-i Osmaniyye (La Società scientifica
ottomana), in Islam Ansiklopedisi, cit., VII, pp. 333-334.
30 Davison, Halil Şerif, cit., p. 68.
31 Roderic H. Davison, Halil Şerif Paşa: The Influence of Paris and the West on an
Ottoman Diplomat, in Id., Nineteenth Century Ottoman Diplomacy, cit., pp. 81-94: 84.
127
capitolo settimo
le a circa 10 milioni di euro attuali) giungendo al punto di indebitarsi
a causa della rovinosa passione per il gioco32.
Dopo essersi stabilito presso un sontuoso palazzo sito in Boulevard
des Italiens, nei pressi dell’ambasciata ottomana, Halil Şerif divenne
in breve tempo un personaggio rinomato della borghesia intellettuale
di Parigi, frequentando salotti importanti ed entrando in relazione con
personaggi come lo scrittore Théophile Gautier, il filosofo Ernest Re-
nan, il direttore de «Le Figaro» Henri de Villemessant e il celebre critico
letterario Sainte-Beuve33. Fu proprio quest’ultimo nell’estate del 1866
a introdurlo al pittore Gustave Courbet (1819-1877), dato che Halil in
quel periodo stava effettuando numerosi acquisti di quadri per crea-
re una propria collezione privata. Ma a Courbet il diplomatico turco
fece una proposta particolare, chiedendo la realizzazione di un quadro
a forte contenuto erotico: il pittore francese era infatti divenuto celebre
per la sua inclinazione a sfidare il comune senso del pudore, e per que-
sta ragione era già incappato in numerose censure da parte delle istitu-
zioni artistiche del tempo. Ma in questo caso l’opera sarebbe stata cu-
stodita in una collezione privata, ed era quindi possibile osare qualcosa
di più: il risultato fu il quadro intitolato Il sonno, raffigurante i corpi di
due donne nude mentre giacciono su un letto in preda all’estasi ses-
suale. Per rendere l’operazione ancora più interessante, e probabilmen-
te per convincere il diplomatico turco ad accettare di sborsare la cifra
di 20mila franchi richiesta da Courbet, il pittore francese aggiunse
anche un quadro più piccolo, ma dal contenuto ancora più scabroso:
la raffigurazione del corpo nudo di una donna supina, con in primo
piano l’organo sessuale leggermente dischiuso. Questo celebre quadro,
intitolato L’origine del mondo e mostrato per la prima volta in una mo-
stra aperta al pubblico solo nel 1988, ha avuto una storia misteriosa e
rocambolesca: dopo essere finito intorno al 1912 nelle mani di un col-
lezionista a Budapest, quest’ultimo riuscì a salvarlo sia dai nazisti che
dalla successiva occupazione sovietica trafugandolo nuovamente a Pari-
gi, e decise infine di venderlo nel 1954 nientemeno che allo psicanalista
Jacques Lacan (1901-1981)34.
32 Öztuna, Devletler, cit., II, p. 578.
33 Thierry Savatier, Courbet e “L’origine del mondo”. Storia di un quadro scandaloso,
trad. it., di Roberto Peverelli, Milano, Medusa, 2008, pp. 46-54.
34 Ivi, pp. 54-58, 143-182, 203-224.
128
l’origine del mondo
Anche se «si ignora ancora se il soggetto di questo quadro di pic-
colo formato nacque nello spirito di Halil Bey o in quello di Courbet»35
a essere certo è che, dopo aver ricevuto i due quadri intorno a fine set-
tembre 1866, il diplomatico turco appese L’origine del mondo nella gran-
de stanza da bagno del suo appartamento, avendo però l’ingegnoso ri-
guardo di coprirlo con una tendina verde.
[...] sarebbe naturalmente vano cercare in questo gesto un’ultima con-
cessione alle buone maniere. Doveva trattarsi piuttosto di un gioco,
il supporto rituale di un culto destinato a intrigare e impressionare
i suoi amici. Non dimentichiamo che il nostro uomo era un dandy [...]
tirando quel pezzo di stoffa Halil trasformava il semplice spettatore,
l’amatore d’arte in voyeur o in concelebrante.36
Non bisogna però pensare che Halil Şerif a Parigi si dedicasse uni-
camente ai piaceri dei sensi: come vedremo meglio, in seguito all’arrivo
a Parigi del riformista Mustafa Fazıl esiliato da Istanbul, i due comin-
ciarono infatti a muoversi congiuntamente per esercitare, grazie alla
loro rete di contatti nel mondo del giornalismo e della politica francese,
un’intensa pressione politica nei confronti del sultano e del governo
ottomano37.
Alla fine del 1867 il diplomatico turco si trovò con la necessità
di ripagare con urgenza una serie di ingenti debiti di gioco: a tale scopo
decise quindi di organizzare una vendita all’asta della collezione per-
sonale composta da oltre cento quadri, che si tenne nel gennaio 1868
e gli permise di recuperare 625mila franchi38. Poche settimane dopo
aver sistemato questa faccenda, Halil Şerif fece ritorno a Istanbul dove
tornò attivamente a impegnarsi di politica dal lato della corrente più
riformista, ricoprendo l’incarico di sottosegretario agli esteri fino al giu-
gno 1870, di ambasciatore a Vienna fino all’ottobre 1872 e poi infine
di ministro degli esteri fino al marzo 187339.
6. Come si può notare dai tratti di queste biografie, lo stato ottoma-
no sembrava in quegli anni piuttosto aperto ad accettare o comunque
entrare in dialogo con le attività riformiste portate avanti dagli esponenti
più dinamici della nuova generazione di funzionari dell’amministrazio-
35 Ivi, p. 59.
36 Ivi, pp. 81-82.
37 Davison, Halil Şerif, cit., p. 69.
38 Savatier, Courbet, cit., p. 116.
39 Davison, Halil Şerif, cit., pp. 70-75.
129
capitolo settimo
ne pubblica. Questo era reso possibile dalla presenza di due figure forte-
mente orientate all’innovazione politica come Ali e Fuat Pascià nei posti
chiave del governo, in congiunzione con un sultano dalla personalità
debole e manipolabile come Abdülaziz. Ma quest’apparente tolleranza
verso nuove forme del sapere e lo sviluppo di un’opinione pubblica e di
un libero dibattito politico furono dinamiche messe presto in crisi dalla
nascita di voci fuori dal coro e non inquadrabili, come quelle di Şinasi.
Come abbiamo visto sopra, dopo il rifiuto a partire dal 1859 di ac-
cettare qualunque nuovo incarico nell’amministrazione ottomana,
nell’ottobre 1861 Şinasi aveva fondato il giornale indipendente «Ter-
cüman-ı Ahval» assieme ad Agah Efendi; solo sei mesi dopo, all’uscita
del 26° numero Şinasi aveva deciso però di lasciarne la direzione al so-
cio per fondare un altro giornale che, dopo oltre un anno di preparativi,
uscì il 27 giugno 1862 con il titolo di «Tasvir-i Efkar» (L’espressione del-
le idee)40. Risulta interessante notare come proprio nel dicembre 1861
anche Giampietri, in seguito alla chiusura del suo «Presse d’Orient»
nell’ottobre 1859 a causa del turbolento clima politico generato dalla
cospirazione di Kuleli (si veda supra, § 6.4), avesse dato vita a un nuovo
progetto editoriale. Si trattava del giornale «Courrier d’Orient» divenu-
to presto uno dei principali organi d’informazione riformisti, con una
linea editoriale molto simile a quella seguita da «Tasvir-i Efkar»41.
Quest’ultimo giornale, grazie al suo linguaggio immediato, l’e-
terogeneità dei contenuti e la forte vocazione pedagogica, fu premiato
da un notevole successo di pubblico, rendendo il direttore Şinasi una
figura di spicco della comunità intellettuale d’Istanbul e un modello
di riferimento soprattutto per la generazione più giovane. Ma il suo ca-
rattere scontroso e poco incline a compromessi lo mantenne in perenne
stato di tensione col mondo politico, in particolare con la figura di Ali
Pascià, che dal novembre 1861 alla morte nel settembre 1871 mantenne
senza soluzione di continuità la posizione di ministro degli esteri e in-
fine anche quella di gran vizir. Quest’antipatia, basata più su questioni
d’idiosincrasia caratteriale che su reali divergenze politiche, finì per ge-
nerare una forte pressione psicologica su Şinasi, che a un certo punto
non fu più in grado di resistere: così, per ragioni ancora oggi dibattute
ma legate in qualche modo alla sensazione di una minaccia incomben-
te, nel gennaio 1865 dopo aver lasciato la direzione di «Tavsir-i Efkar»
40 Kahraman, Şinasi, cit., p. 167.
41 Berkes, Çaǧdaşlaşma, cit., pp. 277-278.
130
l’origine del mondo
al giovane collaboratore Namık Kemal (1840-1888), abbandonò fretto-
losamente Istanbul e raggiunse nuovamente Parigi grazie all’aiuto logi-
stico di Giampietri e Mustafa Fazıl42.
Anche se per fuggire aveva ricevuto aiuto da due figure di spicco del
riformismo ottomano, nella capitale francese Şinasi decise di allontanarsi
progressivamente da ogni genere di attività e coinvolgimento politico, vi-
vendo una vita sempre più modesta e ritirata, e dedicandosi unicamente
alla ricerca intellettuale, in particolare all’ampliamento di Durub-i Esmal-i
Osmaniye, un grande progetto di dizionario dei proverbi e delle locuzio-
ni in lingua ottomana, da lui iniziato già a metà degli anni ’5043. Şinasi
non volle interrompere questo splendido isolamento nemmeno quando
nel giugno 1867 a Parigi giunse a rifugiarsi un manipolo di giovani op-
positori ottomani, che erano cresciuti vedendo in lui un maestro e un
modello di riferimento. A luglio dello stesso anno giunse però in visita a
Parigi anche il sultano Abdülaziz accompagnato tra gli altri da Fuat Pa-
scià, il quale manifestò l’esplicito interesse d’incontrare Şinasi e si im-
pegnò a fondo per rassicurare l’intellettuale e convincerlo a fare ritorno
a Istanbul. Alla fine Şinasi accettò di unirsi alla comitiva imperiale nel
viaggio fino a Budapest, ma qui decise di fermarsi qualche settimana per
poter trascorrere del tempo con alcuni linguisti ungheresi. Raggiunse in-
fine Istanbul a fine settembre, ma non appena capì che era stata la moglie
a persuadere Fuat Pascià a perdonarlo e a convincerlo a tornare andò su
tutte le furie, divorziò dalla donna e decise di raggiungere nuovamente
Parigi per continuare il lavoro sul dizionario44. Nell’autunno 1869 Şinasi
fece però ritorno per l’ultima volta a Istanbul, sentendosi indebolito e af-
fetto da insopportabili attacchi di emicrania. Senza soldi e privo di forze
per cercare un altro lavoro, Şinasi si ritirò a vivere in una piccola stan-
za spoglia nei pressi di piazza Taksim, chiudendosi in un drammatico
silenzio che nemmeno i vecchi amici e collaboratori più cari riuscirono
in alcun modo a penetrare.
«La verità è questa: ci si deve avvicinare a Şinasi come si fa con
un’enigma»45. Questo afferma di lui il grande scrittore e storico del-
la letteratura Tanpınar, che come molti altri interpreti della sua opera
ha sentito la necessità di soffermarsi a lungo sulla connotazione tragica
della sua esistenza. L’intera vita e opera di Şinasi ha infatti preso forma
42 Teber, Tutunamayanlar, pp. 109-110.
43 Kahraman, Şinasi, cit., p. 168.
44 Ibid.
45 Tanpınar, XIX. Asır, cit., p. 162.
131
capitolo settimo
nel contesto di quel drammatico conflitto tra vincolo culturale e aneli-
to di libertà individuale, cui ogni intellettuale ottomano di quegli anni
dovette in qualche modo trovare la propria risposta, tracciando strade
inedite in un territorio ancora inesplorato.
Ibrahim Şinasi morì nella sua stanza a Cihangir a causa di un tu-
more al cervello il 13 settembre 1871, quattro giorni dopo Ali Pascià.
132
8. Figli delle stelle.
La famiglia Vallauri e i Nuovi Ottomani
Ma chi sono quei tre uomini col fez?
Il sultano Abdülaziz,
Londra, 16 luglio 18671
1. Come abbiamo visto, a Istanbul gli anni successivi alla guerra
di Crimea furono segnati da un florilegio di innovazioni nell’ambito
della produzione culturale, messe in atto dagli esponenti della prima
generazione (quella nata circa tra 1815-1830) cresciuta nel contesto delle
riforme del Tanzimat. Questo ambiente così stimolante a livello intel-
lettuale – favorito dal nuovo discorso ideologico promosso dalle autorità
governative, dall’aumentata mobilità internazionale e dal moltiplicarsi
delle possibilità di accesso a giornali indipendenti e testi in traduzione –
ebbe però il dirompente effetto di infondere nella generazione succes-
siva (quella nata nei primi anni ’40) un approccio fortemente critico,
che portò alla nascita del primo movimento politico d’opposizione della
storia ottomana.
Nel breve termine questo movimento conseguirà solo scarsi risul-
tati concreti; piuttosto, avrà l’effetto di sortire un violento giro di vite
repressivo e il deterioramento dell’immagine riformista promossa a
livello istituzionale negli ultimi decenni. Ma in seguito a una pausa
di trent’anni costituita dal regno di Abdülhamid II, le idee propugnate
da questo movimento torneranno a emergere come un fenomeno carsi-
co nei primi anni del XX secolo, dando infine origine al movimento dei
Giovani Turchi che travolgerà le istituzioni ottomane nel 1908.
Eppure, a dispetto del ruolo decisivo svolto nell’evoluzione del-
la Turchia moderna, questa corrente di opposizione attiva durante il
regno di Abdülaziz ha sempre fatto fatica a trovare un proprio spazio
nella storiografia e nell’immaginario nazionale del paese. Ciò si deve
probabilmente al fatto che, in assenza di una specifica ideologia uni-
1 Cemal Kutay, Sultan Abdülaziz’in Avrupa seyahati (Il viaggio in Europa del sul-
tano Abdülaziz), Istanbul, Boğaziçi Yayınları, 1991, pp. 143-144. Si veda anche Ebüzziya
Tevfik, Yeni Osmanlılar Tarihi, Istanbul, Hürriyet Yayınları, 1973, p. 138.
133
capitolo ottavo
ficante, ciascuno di questi pionieri ha manifestato il proprio dissenso
in maniera idiosincratica, tracciando una pletora di percorsi individuali
e in molti casi contraddittori, che la retorica nazionale ha poi avuto diffi-
coltà ad assimilare e inquadrare secondo un canone comune.
L’unico tra loro che – venendo forzato a posteriori entro una rigida
identità nazionalista – è riuscito a trovare un posto nel canone moderno
del paese è lo scrittore e giornalista Namık Kemal (1840-1888).
2. Nato a Tekirdağ in Tracia orientale nel 1840, dopo l’improvvi-
sa morte della madre il piccolo Mehmet Kemal fu affidato dal padre
Mustafa Asim – futuro astrologo di corte – alle cure del nonno ma-
terno, un funzionario pubblico costretto per ragioni di lavoro a cam-
biare periodicamente città. Così, dopo aver vissuto per qualche anno
nella lontana Kars alle pendici del Caucaso, negli anni dell’adolescen-
za Mehmet Kemal si trovò a vivere a Sofia studiando arabo e persiano
e cominciando a scrivere le prime poesie che gli meritarono l’assegna-
zione del nomignolo “namık” (scrittore), divenuto poi irrinunciabile.
Nel 1857 tornò a Istanbul per lavorare presso la Tercüme Odasi (Ufficio
Traduzioni), dove si mise d’impegno a imparare il francese. In questo
periodo conobbe il poeta Leskofçalı Galib, un seguace della confraternita
sufi Naqshbandi che divenne presto un importante punto di riferimen-
to spirituale e letterario. A partire dal 1861 il giovane Kemal cominciò
a frequentare anche gli incontri settimanali organizzati da Encümen-i
şuara (Assemblea dei poeti), un gruppo che era solito incontrarsi ogni
martedì presso il quartiere di Laleli, con l’obiettivo di recare nuova linfa
al canone tradizionale della poesia ottomana2. Ma questa attività con-
finata unicamente al dominio letterario e intellettuale non soddisfa-
ceva del tutto l’animo ardente del giovane Kemal; ammise infatti che
la sua vita trovò finalmente un senso solo in un pomeriggio di marzo del
1862, quando vagabondando tra i banchi del mercato dei libri di Beyazit
si imbatté in Münacat, una piccola raccolta di versi pubblicata da Ibrahim
Şinasi3. Leggendo le sue composizioni Namık Kemal comprese che la
letteratura doveva essere utilizzata come uno strumento per mobili-
tare la coscienza politica e morale dei lettori, abbandonando l’astratto
lirismo del passato per trasformarsi in uno strumento di persuasione
2Ömer Farük Akün, Nâmık Kemal, in Islam Ansiklopedisi, cit., XXXII, pp. 361-378.
3Kuntay, Namık Kemal, cit., pp. 14-15. Per Münacat, si veda Ibrahim Şinasi,
Müntahabat-ı Eş’âr, cit., pp. 4-6.
134
figli delle stelle
in grado di svolgere un ruolo attivo nel contesto sociale del tempo4.
Decise quindi di mettersi subito in contatto con Şinasi, il quale pochi
mesi dopo lo accolse presso il suo «Tasvir-i Efkar» prima come tradut-
tore dal francese, quindi come suo più stretto collaboratore personale.
Lavorare presso un giornale come «Tasvir-i Efkar» fu per il giovane
Namık Kemal un’esperienza fondamentale, in quanto gli fece com-
prendere che per formare una nuova generazione al pensiero critico era
necessaria sia una trasformazione della lingua in senso stretto, per ren-
derla più pragmatica e scorrevole, sia l’utilizzo di tutti gli strumenti re-
torici messi a disposizione dal nuovo medium giornalistico5. La passione
e il talento dimostrati in questo nuovo ambito furono tali che, quando
nel gennaio 1865 decise frettolosamente di abbandonare Istanbul e rag-
giungere Parigi con l’aiuto logistico di Giampietri, Ibrahim Şinasi lasciò
la direzione di «Tasvir-i Efkar» proprio al giovane Namık Kemal.
3. In quello stesso gennaio del 1865 anche un altro personaggio
chiave delle vicende qui trattate decise di lasciare Istanbul per raggiun-
gere Parigi, anche se per ragioni molto differenti: si trattava di Mustafa
Fazıl, fratello minore del governatore d’Egitto Ismail. Mustafa Fazıl era
nato da diversa madre solo poche settimane dopo Ismail, ma a differenza
di quest’ultimo si era messo in luce sin da giovane per la particolare labo-
riosità e le sue qualità intellettuali. Già nei primi anni ’50 era stato assun-
to con un incarico minore nella pubblica amministrazione a Istanbul,
ma nel 1857 il nuovo governatore d’Egitto Said Pascià, giunto in visita
nella capitale ottomana, aveva invitato il brillante giovane nipote a torna-
re al Cairo offrendogli il posto di ministro delle finanze, un incarico che
gli permise di effettuare anche numerosi viaggi in Europa, soprattutto
in Francia. Quando però, poco dopo la salita al trono di Abdülaziz nel
giugno 1861, Said Pascià e Mustafa Fazıl giunsero in visita a Istanbul
per recare i loro omaggi, questa volta fu il nuovo sultano ottomano a
rimanere affascinato dall’abile funzionario, che convinse quindi a rima-
nere a Istanbul assegnandogli prima un posto presso la Meclis-i Vala
(Corte Suprema), poi nel 1862 il ruolo di ministro dell’educazione e nel
1863 quello di ministro delle finanze6. Ma dopo questa rapida ascesa, la
4 Per quanto concerne le radicali novità stilistiche apportate da Şinasi nell’am-
bito della letteratura ottomana, si veda M. Fatih Kanter, Şinasi’nin şiirinde yeni insan tipi
(Il nuovo tipo umano nella poesia di Şinasi), «Türk Kültürü», 462, ottobre 2001, pp. 616-623.
5 Davison, Reform, cit., p. 194.
6 Şit Tufan Buzpınar, Mustafa Fâzil Paşa, in Islam Ansiklopedisi, cit., XXXI, pp. 300-301.
135
capitolo ottavo
salita al potere in Egitto del fratello maggiore Ismail determinò l’inizio
di una fase molto più travagliata nella vita di Mustafa Fazıl. Come già
accennato (si veda supra, cap. 6), dal momento in cui assunse l’incarico
di governatore Ismail si pose come obiettivo principale – oltre a quello
di rendere l’Egitto un paese più ricco, moderno e possibilmente indi-
pendente – anche quello di convincere il sultano Abdülaziz a modificare
la legge di successione, per passare da un sistema basato sull’anzianità
alla trasmissione diretta da padre in figlio. A tale scopo sia Ismail che
il suo fidato emissario, l’armeno Nubar (1825-1899)7, cominciarono a ef-
fettuare frequenti visite a Istanbul recando lauti doni nel tentativo di per-
suadere in tal senso le autorità ottomane. Ma se il sultano risultava sempre
molto compiaciuto, tanto dai doni quanto dalle intenzioni di Ismail – che
magari avrebbero permesso anche a lui di sdoganare la successione al pri-
mogenito Yusuf Izzettin – Ali e Fuat Pascià furono sempre inamovibili
nel respingere una tale ipotesi. Fu così che in quei primi anni tra il gran
vizir Fuat Pascià e Mustafa Fazıl nacque un rapporto di empatia basa-
to sia sulla comune opposizione alle ambizioni di Ismail che sulla con-
vinzione che fosse necessario intervenire drasticamente sulla disastrata
situazione finanziaria dello stato ottomano.
Fu in questo contesto che Mustafa Fazıl, al corrente delle com-
plesse relazioni politiche e finanziarie coltivate in Francia da Ismail per
portare a termine il canale di Suez, nel gennaio 1865 decise di recarsi
a Parigi e incontrare numerose figure di alto profilo, tra cui l’impe-
ratore Napoleone III, con l’obiettivo di mettere i bastoni tra le ruote
all’ambizioso fratellastro8. Qualche mese dopo il suo ritorno a Istanbul,
Fuat Pascià decise di assegnare a Mustafa Fazıl l’incarico di presiedere
la Meclis-i Hazain (Corte dei conti), una nuova istituzione voluta dal
gran vizir per esercitare un maggiore controllo sulle finanze ottomane.
Ma solo pochi mesi dopo, forse a causa delle critiche mosse alle poli-
tiche finanziarie di Fuat Pascià, Mustafa Fazıl fu sospeso dall’incari-
co e ad aprile 1866 ricevette addirittura dal sultano Abdülaziz l’ordine
d’abbandonare la capitale entro pochi giorni. A quel punto, essendogli
7 Per l’affascinante figura di Nubar Paşa, principale testimone tanto dell’ascesa
quanto del tracollo delle ambizioni del governatore Ismail, si veda Süleyman Kızıltoprak,
Armenians in the bureaucracy of Ottoman Egypt: the Career of Bogos Nubar Pasha (1824-
1899), «History Studies», 2/2, 2010, pp. 223-242. Nel libro sul suo viaggio in Egitto, Gus-
tave Flaubert annotò di aver incontrato il 7 gennaio 1850 al Cairo «Nubar Bey, un giovane
armeno dall’aspetto da quartiere latino, simbolo grottesco dei poveri pascià turchi soffoca-
ti nelle uniformi europee», Gustave Flaubert, Viaggio in Egitto, Como, Ibis, 1998, p. 98.
8 Landes, Banchieri, cit., pp. 208-209.
136
figli delle stelle
impossibile tornare in Egitto a causa del contrasto con Ismail, Mustafa
Fazıl decise di recarsi a Parigi: ma solo poche settimane dopo l’arrivo
nella capitale francese gli giunse una notizia destinata ad avere un effet-
to dirompente sulle vicende politiche di quegli anni. Incoraggiato dalla
notizia dell’esilio del fratellastro, a inizio maggio Ismail era infatti giun-
to a Istanbul: qui, utilizzando tutti i necessari strumenti di persuasione
nei confronti del sultano, dopo circa un mese di insistenze era final-
mente riuscito a ottenere l’agognata modifica alla legge di successione
del governatorato d’Egitto9.
A quel punto Mustafa Fazıl si trovò senza più alcun futuro in Egit-
to e in pessimi rapporti con le autorità ottomane, ma con in tasca uno
straordinario indennizzo in contanti versatogli da Ismail per compen-
sare la perdita di tutti i terreni e le proprietà possedute in Egitto. Fu così
che nell’esilio dorato di Parigi ebbe inizio per lui una nuova era, nelle
vesti di leader e finanziatore del primo movimento d’opposizione politi-
ca nella storia dell’impero ottomano.
4. Un sabato di giugno del 1865 una mezza dozzina di giovani
– tutti appartenenti a famiglie impegnate a diverso titolo nell’ammi-
nistrazione pubblica ottomana – si ritrovarono segretamente presso
uno yalı affacciato sulla costa europea del Bosforo, per poi raggiungere
la mattina seguente un luogo appartato nella cosiddetta foresta di Bel-
grado, nei pressi della diga della Valide costruita alla fine del XVIII secolo
dal patriarca della famiglia armena Balian10. Una delle figure di spicco
del gruppo era proprio Namık Kemal il quale, ispirato dall’amicizia con
Şinasi ed essendo quindi entrato in contatto anche con Giampietri, ave-
va ricevuto da quest’ultimo numerose informazioni riguardo all’espe-
rienza delle organizzazioni segrete in Italia, con particolare riferimento
ai Carbonari e alla mazziniana Giovine Italia11. Non per niente a godere
di grande popolarità tra i membri di quel gruppo fu niente meno che
9 Davison, Reform, cit., pp. 199-200.
10 Ovvero Krikor Balian, che progettò la diga nei pressi di Bahçeköy nel 1796.
Si veda Tuğlacı, Balian Family, cit., p. 81.
11 Berkes, Çaǧdaşlaşma, cit., p. 277. La più dettagliata descrizione delle fonda-
mentali vicende di questo gruppo di giovani oppositori ottomani è stata quella effettuata
a quarant’anni di distanza da uno dei suoi più giovani protagonisti: ovvero Ebüzziya Tev-
fik (1849-1913) che tra 1909 e 1911, al tempo della rivoluzione dei Giovani Turchi, pubbli-
cò a puntate sul quotidiano «Yeni Tasvir-i Efkar» una lunga “storia dei Nuovi Ottomani”
per un totale di quasi ottocento pagine. Per quanto concerne l’influenza dell’esperienza
carbonara e risorgimentale italiana sul gruppo dei giovani oppositori ottomani, si veda
anche Mardin, The Genesis, cit., pp. 21-22.
137
capitolo ottavo
Le mie prigioni di Silvio Pellico, prima in edizione francese, poi nella
traduzione in lingua ottomana effettuata qualche anno dopo da uno
di loro12.
Fu così che, con la redazione di uno statuto purtroppo mai ritro-
vato, quella domenica di giugno si dichiarò istituita la Ittifak-i Hamiyet
(Alleanza patriottica) con una serie di obiettivi tanto ambiziosi quanto
imprecisi e spesso in contraddizione tra loro. Del resto, anche se secon-
do alcune fonti il numero totale dei membri si sarebbe aggirato intor-
no alle duecentoquaranta unità, organizzate in gruppi di sette persone,
di fatto a essere registrate nelle fonti storiografiche sono unicamente
le gesta compiute da circa una dozzina di loro. Ma anche all’interno
di un gruppo così piccolo le differenze di veduta e di progettualità politi-
ca risultarono molto forti se non, come vedremo, in certi casi addirittura
incompatibili13.
Inizialmente il gruppo sembrò quanto meno coeso sulla volontà
di proporre una riforma costituzionale e parlamentare dell’impero, su-
perando con una proposta per certi versi ancora più radicale l’approc-
cio riformista di Ali e Fuat Pascià, i quali ritenevano invece prematura
l’adozione in tempi brevi di un sistema parlamentare. Ma presto an-
che su questo tema emersero numerose divergenze, in relazione alla
compatibilità di un sistema parlamentare e costituzionale con la leg-
ge islamica. Spesso avvenne inoltre che sulle loro pubblicazioni alcuni
di questi oppositori si spingessero ad attaccare Ali e Fuat Pascià da un
punto di vista reazionario, accusandoli ad esempio di asservimento alle
potenze europee, o di aver adottato costumi troppo “liberali”.
Anche se non è mai stato provato, è probabile che Mustafa Fazıl
fosse entrato in qualche genere di contatto con il gruppo della Ittifak-i
Hamiyet già nel corso del 1865 a Istanbul, e sarebbe quindi da attribuire
a questa “relazione pericolosa” la causa del licenziamento e la succes-
siva espulsione dalla capitale nella primavera del 1866, un provvedi-
mento di fatto molto pesante per essere motivato solo da una discordia
in politica finanziaria o da un alterco coi propri superiori. In ogni caso
12 Si tratta di Recaizade Mahmut Ekrem (1847-1914), che nel 1874 tradusse in lin-
gua ottomana (dalla versione francese) Le mie prigioni, e nel 1898 pubblicò l’edizione
integrale di Araba Sevdası, passato alla storia come uno dei primi romanzi scritti in lingua
ottomana.
13 Il testo classico a questo proposito è ovviamente il classico Mardin, The Genesis,
cit. Per uno studio più recente, maggiormente focalizzato sull’analisi della produzione
pubblicistica del gruppo, si veda Nazan Çiçek, The Young Ottomans. Turkish Critics of the
Eastern Question in the Late Nineteenth Century, London, I.B. Tauris, 2010.
138
figli delle stelle
ad essere certo è che, a partire dall’estate 1866, a Parigi Mustafa Fazıl
cominciò a divenire sempre più attivo come oppositore in esilio, tes-
sendo relazioni di alto livello nella capitale francese e mantenendosi
in contatto a Istanbul con i giovani membri di Ittifak-i Hamiyet grazie
al suo segretario personale Sakakini14, impegnato a fare la spola tra Pa-
rigi e la capitale ottomana, e al solito Giampietri nel ruolo di basista
a Istanbul presso la sede del «Courrier d’Orient».
Nel novembre 1866 Mustafa Fazıl redasse un programma di rifor-
me amministrative dell’impero ottomano, ricevendo il sostegno di Halil
Şerif e di altre figure dell’establishment liberale francese, tra cui il decano
del giornalismo francese émile de Girardin (1802-1881)15. Consideran-
do le sue attività e frequentazioni nella capitale francese, è evidente che
Mustafa Fazıl avesse attratto l’interesse di alcuni personaggi chiave del-
la borghesia francese, i quali decisero di investire sulla sua figura con
l’obiettivo di velocizzare il processo di riforme liberali in Turchia, favo-
rendo in questo modo gli interessi politici ed economici della Francia
in territorio ottomano.
Il 7 febbraio 1867 il giornale belga in lingua francese «Le Nord»
pubblicò una lettera con cui Mustafa Fazıl affrontava la questione del
travaglio politico attraversato dall’impero ottomano, con particolare rife-
rimento alla rivolta nell’isola di Creta, che a suo dire metteva in discus-
sione i fondamenti amministrativi e giuridici alla base della convivenza
tra diverse etnie, culture e religioni all’interno dell’impero. Affermando
che l’attuale governo in carica non risultava in grado di fornire risposte
adeguate, Mustafa Fazıl annunciò l’esistenza di un movimento politi-
co d’opposizione intitolato Jeune Turquie attivo nella capitale ottomana,
di cui si dichiarava il leader in esilio16. Non c’è dubbio sul fatto che
Mustafa Fazıl e i suoi sostenitori francesi avessero chiara in mente
l’esperienza mazziniana che a partire dagli anni ’30 del XIX secolo ave-
14 Tevfik, Yeni Osmanlılar, cit., p. 62. Grazie alle informazioni gentilmente offer-
temi da una sua discendente, ho scoperto che Gabriel Demetrius Michel Sakakini (1833-
1919) apparteneva a una antica famiglia damascena di fede cristiana-melchita, un cui
ramo si era stabilito in Egitto a partire dal XVIII secolo. Gabriel già in giovane età aveva
cominciato ad assistere Mustafa Fazıl nella direzione di uno zuccherificio in Egitto. Altri
membri della sua famiglia occuparono invece posti amministrativi di rilievo al servizio del
khedivè Ismail e dei suoi discendenti. Si veda Felicity Macqueen Marpole, The Sakakinis:
our Levantine Ancestors, pubblicazione privata in possesso dell’autore.
15 Davison, Reform, cit., p. 202.
16 Berkes, Çaǧdaşlaşma, cit., p. 280.
139
capitolo ottavo
va prodotto un epocale sconvolgimento politico in Europa, grazie alla
diffusione in molti paesi del modello organizzativo della Giovine Italia.
Questo tributo all’“apostolo genovese” risultò ancora più marcato in
occasione della seconda e più celebre lettera scritta nel marzo 1867 da Mu-
stafa Fazıl direttamente al sultano Abdülaziz, proprio come Mazzini nel
1831 aveva scritto al re Carlo Alberto di Savoia invitandolo a prendere a cuo-
re il destino del popolo italiano ed effettuare quindi le riforme necessarie
a garantire “libertà, indipendenza e unione”. Dopo aver esordito con una
frase rimasta celebre («Sire, sappiamo che la verità è quanto di più difficile
da trovare nei palazzi dei principi»), Mustafa Fazıl si impegnò a descrivere
i numerosi problemi strutturali che assillavano l’impero ottomano, met-
tendone seriamente a rischio la pace e la prosperità, concludendo infine
con l’appello: «Sire, salvate l’impero trasformandolo! Donategli una carta
costituzionale!»17. A suo parere infatti, proprio come lo Statuto albertino
concesso dal re di Savoia nel 1848 era stato il punto di partenza per il pro-
cesso di rigenerazione della nazione italiana, così anche una simile carta
costituzionale in grado di assicurare senza distinzioni libertà ed eguaglian-
za a tutti i cittadini dell’impero avrebbe recato pace, unione e prosperità
ai popoli del territorio ottomano, impedendo alle potenze straniere di ap-
profittare dell’instabilità politica per perseguire le loro trame di conquista.
Nel corso dei primi mesi del 1867, le lettere inviate dal principe egi-
ziano a Parigi giunsero quindi a scaldare gli animi nel sempre più bol-
lente agone politico di Istanbul. La prima lettera apparsa su «Le Nord»
fu riportata a metà febbraio in originale francese sul «Courrier d’Orient»
di Giampietri, tradotta in lingua ottomana qualche giorno dopo sul gior-
nale «Muhbir» (di cui Ali Suavi – un altro protagonista di quella giova-
ne generazione di oppositori – era caporedattore) e ripresa subito dopo
anche da «Tasvir-i Efkar», diretto ora da Namık Kemal. Ma a squarciare
definitivamente l’atmosfera giunse intorno al 7 marzo la seconda lettera
di Mustafa Fazıl, rivolta direttamente al sultano Abdülaziz: dopo essere
stata tradotta in una sola notte da Namık Kemal e altri giovani collabora-
tori formatisi presso l’Ufficio traduzioni del governo, il testo fu stampato
17 Davison, Reform, cit., pp. 203-204. Per un’analisi più recente della figura di Mu-
stafa Fazıl e della sua attività politica, inserita nel più ampio contesto della “rivoluzione
liberale” in corso in Europa in quei decenni, si veda Andrew Arsan, The Strange Lives of Ot-
toman Liberalism: Exile, Patriotism and Constitutionalism in the Thought of Mustafa Fazıl Paşa,
in Mediterranean Diasporas: Politics and Ideas in the long 19th Century, a cura di Maurizio Isa-
bella e Konstantina Zanou, London, Bloomsbury Publishing, 2016, pp. 153-170.
140
figli delle stelle
grazie all’aiuto del solito Giampietri in migliaia di copie distribuite poi
clandestinamente a Istanbul e in altre città dell’impero18.
Da quel momento in poi, il legame tra Mustafa Fazıl e il grup-
po dei giovani oppositori ottomani cominciò a farsi sempre più forte
ed esplicito. Anche perché, nel frattempo, il devastante effetto delle due
lettere nei palazzi del potere d’Istanbul portò a un giro di vite nei con-
fronti della libertà di stampa, con la chiusura temporanea di «Muhbir»
e di «Tasvir-i Efkar», cui fece seguito a inizio aprile l’ordine di trasferi-
mento forzato da Istanbul per Ziya e Ali Suavi (redattori di «Muhbir»)
e Namık Kemal. Fu allora che il principe egiziano ebbe l’intuizione
di sfruttare l’occasione per convincere alcune figure chiave della gio-
vane generazione di oppositori a raggiungerlo a Parigi, con lo scopo di
unire le forze e aumentare così dall’esterno la pressione sul governo
ottomano. Dopo essere stati invitati a metà aprile da Giampietri presso
l’ufficio del «Courrier d’Orient», Namık Kemal e Ziya ricevettero dal
suo segretario Sakakini una lettera con cui Mustafa Fazıl li invitava a
raggiungerlo clandestinamente a Parigi, con l’assicurazione che tutte
le questioni finanziarie e logistiche sarebbero state prese in carico dai
suoi emissari. I due accettarono immediatamente, ma aggiunsero che
sarebbe stato necessario unire alla comitiva almeno altri due compagni:
Agah Efendi e Ali Suavi19.
5. Dopo essere entrato nell’Ufficio traduzioni 1849 e aver trascor-
so qualche anno a Parigi, dove aveva conosciuto Şinasi, a partire dalla
metà degli anni ’50 Agah Efendi (1832-1887) cominciò a occupare una
serie di posti di rilievo nell’amministrazione pubblica ottomana, fino
a essere nominato ministro delle poste nel 1861: fu lui infatti a portare
a termine un’importante riforma di modernizzazione del sistema po-
stale ottomano, che portò all’introduzione dell’utilizzo dei francobolli20.
Come già visto (si veda supra, § 6.3), nel 1860 Agah Efendi era inoltre
stato il fondatore assieme a Şinasi di «Tercüman-ı Ahval», il primo gior-
nale indipendente in lingua ottomana da lui diretto autonomamente,
dopo l’abbandono dell’amico nel 1861, per un totale di 792 numeri fino
al marzo 1866. In ragione del ruolo importante da lui svolto nella storia
del giornalismo ottomano, il gruppo dei Nuovi Ottomani nutriva in ge-
18 Tevfik, Yeni Osmanlılar, cit., pp. 24-26. La versione integrale in turco della lunga
lettera di Mustafa Fazıl al sultano è riportata alle pagine 27-43.
19 Ivi, pp. 60-63.
20 Nuri Yüce, Agah Efendi, in Islam Ansiklopedisi, cit., I, pp. 447-448.
141
capitolo ottavo
nere molta stima per la figura di Agah Efendi: quest’ultimo in cambio,
forse anche a causa di una certa differenza di età, aveva sempre man-
tenuto un atteggiamento un po’ freddo e distaccato nei loro confronti.
La figura di Ali Suavi era invece in totale contrasto con la perso-
nalità del “postino”, l’espressione da lui stesso utilizzata per definire
con scherno Agah Efendi. Si trattava infatti di una vera e propria “testa
calda” che preferì sempre le contraddizioni ai compromessi: un “cane
sciolto” che attraversò come una meteora gli anni oggetto di queste pa-
gine, fino alla tragica morte nel maggio 1878.
Nato nel 1839 in una modesta famiglia nello storico quartiere
di Cerrahpaşa a Istanbul, pur avendo dimostrato talento nello studio
Ali Suavi nel 1856 accettò per pure ragioni economiche un modesto
incarico come maestro di scuola media a Bursa, che fu però costretto
ad abbandonare poco dopo per mai ben chiarite ragioni di condotta.
Nel 1858 fu quindi assegnato a una cittadina nei pressi di Kütahya,
in Anatolia occidentale, dove cominciò a lavorare anche come maestro
di scuola coranica; ma intorno al 1860 decise di lasciare tutto per ef-
fettuare in giovane età il pellegrinaggio alla Mecca. Al ritorno riprese
a lavorare per qualche anno come maestro e ricoprì alcuni incarichi am-
ministrativi nelle città bulgare di Sofia e Plovdiv, dove si impegnò anche
in diverse attività religiose in favore della rilevante popolazione turca
e musulmana presente al tempo nella regione. Al ritorno a Istanbul
nel 1866 Ali Suavi iniziò a proferire periodicamente i suoi sermoni
presso la centralissima moschea di Şehzade, acquisendo rapidamente
una discreta notorietà in ragione delle sue qualità intellettuali e retori-
che, apprezzate tra gli altri da Namık Kemal e persino da Fuat Pascià21.
Nel gennaio 1867 un nuovo giornale intitolato «Muhbir» (L’infor-
matore) fu fondato da Filip Efendi (1828-1900)22, il quale offrì subito
ad Ali Suavi un posto come collaboratore per approfittare della sua no-
torietà e delle capacità retoriche dimostrate. Ali Suavi si rivelò all’altezza
delle aspettative, convertendo il giornale in un bollettino ferocemente
critico contro il governo – in particolare sulle questioni di Creta, delle
21 Per la biografia di Ali Suavi, oltre alla solita ottima voce in Islam Ansiklopedisi,
cit., II, si veda anche l’ottima opera del co-fondatore, ex parlamentare (poi fuoriuscito)
del partito turco AKP Hüseyin Çelik, Ali Suavi ve Dönemi (Ali Suavi e la sua epoca), Istanbul,
Iletişim Yayınları, 1994.
22 Filip Efendi era un cristiano (probabilmente un cattolico siriaco) nato nella città
sud-orientale di Diyarbakir. Giunto a Istanbul nel 1840, ebbe un ruolo importante nella
storia del giornalismo ottomano, prima lavorando presso «Ceride-i Havadis», poi pren-
dendo parte alla fondazione di diversi giornali.
142
figli delle stelle
concessioni fatte a Ismail e della disonorevole sconfitta militare subita
a Belgrado – oltre a pubblicare la prima lettera di Mustafa Fazıl. Fu così
che a metà marzo il gran vizir Ali Pascià ordinò la chiusura tempora-
nea del giornale «Muhbir» e l’esilio con effetto immediato di Ali Suavi
presso la città anatolica di Kastamonu, circa 500 km a est di Istanbul.
Pur avendo ricevuto anche loro l’ordine di trasferimento forzato
da Istanbul, Namık Kemal e Ziya riuscirono in diversi modi a postici-
pare la partenza, guadagnando il tempo necessario a preparare la fuga
a Parigi suggerita da Mustafa Fazıl. Ad Ali Suavi la proposta giunse
invece all’ultimo momento, costringendolo a effettuare una fuga molto
più avventurosa e rocambolesca: dopo essere fuggito da Kastamonu la
notte del 17 maggio con un cavallo messo a disposizione da un emissa-
rio greco di Mustafa Fazıl, il “rivoluzionario col turbante”23 raggiunse
la cittadina costiera di Inebolu e da qui si imbarcò su un traghetto per
Istanbul. Nella capitale ottomana trovò ad accoglierlo Giampietri e Si-
mon Deutsch (1822-1877), un altro emissario di Mustafa Fazıl, pronti a
fornirgli la protezione, i soldi e le informazioni necessarie fino alla par-
tenza, avvenuta la mattina del 22 maggio con un traghetto per Marsiglia
dal molo di Beşiktaş24.
6. La famiglia Vallauri giunse a Istanbul intorno al 1805 perché
il capofamiglia, originario di Pinerolo in Piemonte, aveva ricevuto
un incarico come cuoco personale dell’ambasciatore francese del tem-
po. Il figlio Francesco (1800-1867), giunto ancora bambino nella capita-
le ottomana, seguì a sua volta le orme del padre in ambito gastronomico
fino a divenire il proprietario di una delle pasticcerie più prestigiose
della città. A un certo punto giunse anche ad essere nominato fornitore
ufficiale del sultano, venendo insignito per questo di numerosi premi
e onorificenze, compreso un anello di diamanti donatogli da Abdül-
mecid nel 1860.
Francesco si sposò due volte: la prima con Anna Mustante,
una donna originaria di Torino, che gli diede tre figli, tra cui Caroli-
na (1834-1893, che sposerà poi un apprendista del padre destinato ad
aprire un’altra storica pasticceria chiamata Lebon, ancora oggi visibile
su Istiklal Caddesi all’altezza del consolato russo) e Pietro (1842-1905)
23 A rendere popolare questa definizione fu lo storico Midhat Cemal Kuntay, nella
comprensiva biografia a lui dedicata: Sarıklı ihtilalcı Ali Suavi (Ali Suavi: il rivoluzionario
col turbante) (1946), Istanbul, Oğlak Yayıncılık, 2014.
24 Kuntay, Namık Kemal, cit., pp. 474-479.
143
capitolo ottavo
che proseguirà a sua volta le attività del padre. A un certo punto nel cor-
so degli anni ’40 Francesco Vallauri contrasse nuovamente matrimonio
con una donna greca originaria di Izmir, Helena Papadopoulo, che gli
diede cinque figli, il secondo dei quali destinato a divenire il celebre
architetto Alessandro Vallauri (1850-1921)25.
Dopo aver fatto perdere le loro tracce per qualche tempo, nel tar-
do pomeriggio di giovedì 16 maggio 1867 Namık Kemal e Ziya scelse-
ro proprio la pasticceria Vallauri sulla Grand Rue de Pera come luogo
d’incontro, prima di raggiungere la vicina ambasciata francese dove
grazie all’intervento di Giampietri fu assicurata loro la necessaria ospi-
talità, permettendo quindi alla coppia di imbarcarsi il mattino dopo
su un traghetto in partenza dal molo di Tophane26. Dopo qualche giorno
di viaggio i due scesero a Messina, dove attesero l’arrivo di Agah Efendi
e poi di Ali Suavi27, per proseguire quindi assieme verso Marsiglia e poi
da lì in treno fino a Parigi, dove giunsero nei primi giorni di giugno.
Nel frattempo la soffiata fatta da uno dei giovani oppositori, o forse
dal padre di uno di loro, aveva portato a una serie di arresti nella capitale
ottomana generando un clima particolarmente teso, in quanto le autorità
avevano accusato i membri dell’organizzazione segreta Ittifak-i Hamiyet
di avere un piano per assassinare alcuni personaggi di spicco del governo
ottomano28. A quel punto tre di loro – Mehmet Bey (1843-1874), Reşat
Bey (1844-1902) e Nuri Bey (1844-1906) – pur non avendo ricevuto un in-
vito ufficiale né alcun sostegno finanziario da parte di Mustafa Fazıl, deci-
sero in ogni caso di abbandonare Istanbul e, sempre con l’aiuto logistico
di Giampietri, raggiungere in breve tempo i compagni a Parigi29.
25 Gran parte di queste informazioni biografiche provengono dallo straordinario
lavoro di consultazione e archiviazione effettuato dalla ricercatrice Marie-Anne Maran-
det, e quasi interamente riversato online sul sito www.geneanet.org. Alessandro Vallauri
è stata una vera e propria stella dell’architettura di Istanbul nell’ultimo glorioso periodo
della sua cultura levantina e cosmpolita. Tra gli edifici da lui progettati, solo per citar-
ne alcuni: sede della prima Accademia di Belle Arti (ora sezione “orientale” del Museo
Archeologico a Gülhane), sede del Cercle d’Orient su Istiklal Caddesi (riaperto nel 2017
dopo un lungo restauro col nome di Grand Pera), ufficio generale della Banca Ottomana
a Karaköy (ora centro di arte Salt Galata e sede d’Istanbul della Banca centrale di Turchia),
sede dell’Union Francaise davanti al celebre Pera Palas Hotel (di cui è stato a sua volta
co-progettista).
26 Tevfik, Yeni Osmanlılar, cit., p. 67.
27 Ivi, pp. 121-122.
28 Si vedano le lettere inviate dall’ambasciata inglese, riportate in appendice a
Çelik, Ali Suavi, cit., pp. 701-703.
29 Secondo quanto riportato in Mardin, The Genesis, cit., p. 12, Mehmet, Reşat e Nuri
sarebbero stati colleghi presso l’Ufficio traduzioni della Meclis-i Vala (Corte suprema).
144
figli delle stelle
Fu così che nel giugno 1867 sette “giovani turchi”, secondo la de-
finizione assegnata con grande clamore dai giornali francesi – anche se
la storiografia turca a partire dal XX secolo ha preferito definirli come
Nuovi Ottomani per differenziarli dal movimento dei giovani turchi
che portò alla rivoluzione del 1908 – giunsero a trovarsi nella capitale
francese assieme a tre altri elementi di spicco dell’élite culturale otto-
mana come Mustafa Fazıl, Halil Şerif e Ibrahim Şinasi. Quest’ultimo
in realtà, ormai risucchiato nella spirale del suo malinconico isolamen-
to, preferì evitare quasi ogni contatto con questo manipolo di volentero-
si ed eccitati oppositori, con cui sentiva di avere poco da spartire a livello
caratteriale e generazionale.
A quel punto Mustafa Fazıl si trovò invece a vivere un vero e pro-
prio momento di gloria nelle vesti di leader del primo gruppo di op-
positori politici della storia ottomana, i quali nella condizione di esilio
in un paese straniero si trovarono a dipendere interamente da lui e dalle
sue risorse finanziarie. Il principe egiziano del resto non fece mai man-
care loro niente: distribuì soldi, trovò le necessarie abitazioni e li invitò
spesso presso la sua residenza in Boulevard Malesherbes, in occasione
dei tanti ricevimenti da lui organizzati per farsi bello agli occhi del loca-
le establishment politico e intellettuale.
Ma a soli pochi giorni dal loro arrivo, gli esuli ottomani furono
raggiunti da una notizia sorprendente: accettando l’invito di Napo-
leone III, il sultano Abdülaziz aveva infatti deciso di giungere a Parigi
per visitare la nuova Esposizione universale da poco inaugurata. Nell’ef-
fettuare la sua notifica, l’ambasciatore ottomano Mehmet Cemil fece
inoltre sapere ai giovani oppositori che le autorità di Istanbul – ormai
al corrente dell’accaduto – avevano richiesto a quelle francesi di assi-
curare l’allontanamento dei fuggitivi dalla capitale, quanto meno nei
giorni di permanenza del sultano e della sua delegazione.
7. Come abbiamo già visto, gli spostamenti dei sultani ottomani
per ragioni non militari erano stati eventi quasi inconcepibili fino all’e-
poca di Abdülmecid, il quale aveva effettuato una serie di viaggi nel
bacino del Mediterraneo orientale, all’interno dei propri territori. Nella
primavera del 1863 (si veda supra, § 6.6) il nuovo sultano Abdülaziz
aveva effettuato un viaggio in Egitto, una regione che per quanto do-
tata di uno statuto autonomo apparteneva però ancora formalmente
ai possedimenti ottomani. Ma era dal 1697, in occasione della batta-
glia di Zenta al confine tra Serbia e Ungheria al tempo di Mustafa II,
145
capitolo ottavo
che un sultano ottomano non affrontava un viaggio così lungo in dire-
zione dell’Europa.
Nel frattempo molte cose erano cambiate: l’impero ottomano ave-
va progressivamente perso terreno nei confronti delle potenze europee e
il linguaggio della diplomazia e delle relazioni internazionali si era fatto
sempre più complesso e raffinato. Fu probabilmente per questo che l’allora
ministro degli esteri Fuat Pascià fece ricorso a tutte le sue capacità di per-
suasione pur di convincere il sultano ad accettare l’invito. La speranza era
soprattutto quella di risollevare l’immagine dell’impero, guastatasi nuova-
mente negli ultimi anni a causa dei diversi problemi sorti nella gestione dei
diritti delle minoranze, come anche nelle questioni di politica finanziaria.
Fu così che venerdì 21 giugno dopo la preghiera di mezzogiorno
il sultano Abdülaziz assieme ai futuri eredi al trono Murat e Abdülham-
id, il primogenito Yusuf Izzettin, il ministro degli esteri Fuat Pascià
e un’interminabile schiera di funzionari e servitori si imbarcarono sul
traghetto Sultaniye in direzione della Francia: dopo un paio di rapidi
scali a Messina e Napoli, la carovana imperiale giunse presso il porto
di Tolone e da lì con il treno raggiunse Parigi alla fine del mese30. A sor-
prendere il sultano all’arrivo in terra francese furono due cose: innanzi-
tutto il fatto che ad accoglierlo al porto di Tolone oltre ai rappresentanti
delle locali autorità ci fossero anche i litigiosi fratellastri egiziani Ismail
e Mustafa Fazıl. Il primo infatti, grazie alle nuove concessioni strappa-
te al sultano appena poche settimane prima, compresa l’assegnazione
ufficiale del titolo di khedivè e altri rilevanti privilegi giuridici, si era su-
bito precipitato in Francia nel tentativo di strappare un nuovo ingente
prestito alle banche locali. Per quanto concerne invece Mustafa Fazıl,
la sua era un’abile mossa volta a riconquistare la fiducia del sultano
e farsi così accettare nuovamente dall’establishment politico a Istanbul,
per poter perseguire con maggiore efficacia il progetto politico delineato
assieme alle forze dell’avanguardia liberale francese.
Il secondo evento che scombussolò il vanitoso Abdülaziz fu sco-
prire che durante la permanenza in Francia non avrebbe potuto godere
di parate militari o celebrazioni pubbliche in suo onore. Il paese era
infatti appena stato raggiunto dalla drammatica notizia della fucila-
zione di Massimiliano d’Asburgo (1832-1867)31 in Messico, avvenuta
30 Kutay, Sultan Abdülaziz, cit., pp. 12-31.
31 Massimiliano era il fratello minore dell’imperatore austro-ungarico Francesco
Giuseppe. Tra 1857-1859 fu viceré del Lombardo-Veneto, prima della sua parziale an-
nessione al Regno di Sardegna nel contesto della II guerra d’indipendenza. La sua morte
146
figli delle stelle
il 19 giugno nella città di Queretaro: l’imperatore Napoleone III, con-
sapevole della sua forte responsabilità politica in questa triste vicenda,
aveva quindi deciso di dichiarare il lutto nazionale. Alla fine perà, data
l’insistenza del sultano da sempre appassionato di spettacoli militari,
le autorità locali decisero di organizzare almeno una piccola parata,
un gesto che fu ricambiato dal sultano con laute elargizioni di denaro
ai soldati francesi.
Un altro elemento di attrito tra il sultano e le autorità francesi
fu il fatto che in occasione degli incontri ufficiali l’imperatrice Eugenia,
infastidita dalla necessità di ricorrere sempre a un interprete per comu-
nicare col sultano Abdülaziz, preferì trascorrere gran parte del tempo
discorrendo col giovane e brillante erede al trono Murat. Quest’ultimo,
grazie alle doti personali e all’ottima educazione ricevuta dai migliori
professori del tempo per volere del padre Abdülmecid, aveva appreso
non solo le lingue straniere, ma anche ampie nozioni di musica, let-
teratura e filosofia orientale ed europea. L’invidia e il sospetto nutrito
da Abdülaziz nei confronti del nipote Murat, già latente da anni, comin-
ciò durante questo viaggio ad acquisire una forma sempre più ossessi-
va, fino a raggiungere esiti drammatici32.
8. Il 12 luglio la carovana del sultano accompagnata dal khedivè
Ismail e dai suoi fratellastri Mustafa Fazıl e Abdülhalim si mosse da
Parigi in direzione di Londra, dove furono accolti presso Buckingham
Palace. Data l’importanza dell’evento la regina Vittoria giunse a incon-
trare i suoi ospiti allontanandosi per qualche giorno dalla dimora scoz-
zese di Balmoral Castle, dove la sovrana amava trascorrere lunghi pe-
riodi di isolamento dai tempi della prematura morte del marito Alberto
(1819-1861)33. Durante la giornata trascorsa insieme presso il castello di
Windsor, la regına Vittoria insistette affinché i suoi ospiti si facessero
ritrarre dal fotografo di fiducia William Downey, divenuto estremamen-
te popolare solo pochi mesi prima grazie a una fotografia del principe
Edoardo (1841-1910) con in braccio la figlioletta Louise, di cui in Inghil-
terra erano state vendute decine di migliaia di copie. Il futuro sultano
ispirò il quadro di Édouard Manet L’exécution de Maximilen, a sua volta fortemente ispira-
to al quadro di Francisco Goya El tres de mayo de 1808 en Madrid.
32 Davison, Reform, cit., p. 237. Si veda inoltre Emile De Keratry, Mourad V.
Prince-Sultan-Prisonnier d’Etat, Parigi, Édouard Dentu, 1878. pp. 56-57.
33 Kutay, Sultan Abdülaziz, cit., pp. 48-50.
147
capitolo ottavo
Abdülhamid II continuò a utilizzare per decenni come fotografia uffi-
ciale quella scattatagli in gioventù a Londra da Downey34.
Durante le ore trascorse insieme anche la regina Vittoria, come già
l’imperatrice Eugenia, rimase molto colpita dalla sofisticata personalità
dell’erede al trono ottomano Murat, spingendosi al punto di proporre
ad Abdülaziz un matrimonio tra Murat e una delle proprie figlie35.
Ma il sultano, fortemente scosso, dopo essersi consultato nervosamente
con Fuat Pascià e Mustafa Fazıl, avrebbe deciso infine di rifiutare l’of-
ferta, impedendo un’unione che avrebbe potuto sortire imprevedibili
effetti sul corso della storia mondiale36.
Il 16 luglio gli ottomani furono onorati da un grandioso festeg-
giamento presso Crystal Palace, dove un coro di 1600 persone cantò
all’unisono l’Inno turco composto nel 1857 da Luigi Arditi per il sultano
Abdülmecid (si veda supra, § 6.3)37. In occasione della cerimonia coi
fuochi d’artificio al termine del concerto, Abdülaziz scorse tra la folla tre
persone che recavano in testa il fez, il tipico copricapo ottomano: si trat-
tava di Namık Kemal, Ali Suavi e Agah Efendi, che in seguito all’ordine
di lasciare Parigi erano giunti nella capitale inglese assieme a Ziya, tro-
vando alloggio temporaneo presso il numero 13 di Regent Street, men-
tre i più giovani Reşat, Nuri e Mehmet si erano ritirati temporaneamen-
te a Jersey Island, in prossimità della costa francese38. A questo evento
fece seguito il 18 luglio un ballo in onore del sultano organizzato dal
sindaco di Londra Thomas Gabriel, e una messinscena del Masaniello
presso un teatro italiano dell’opera a Covent Garden39.
Nel frattempo, in mezzo a tutti questi eventi mondani la masso-
neria britannica, che aveva nel principe di Galles Edoardo una figura
34 Bahattin Öztuncay, Dynasty and Camera. Portraits from the Ottoman Court.
Istanbul, Sadberk Hanim Muzesi - Aygaz, 2010, pp. 26, 42. Si veda anche Edhem Eldem,
Powerful images. The Dissemination and Impact of Photography in the Ottoman Empire 1870-
1914, in Camera Ottomana. Photography and Modernity in the Ottoman Empire 1840-1914,
Istanbul, Koç University Publications, 2015, pp. 116-119.
35 Si trattava della principessa Louise (1848-1939). Si veda Öztuna, Devletler, cit.,
II, p. 297.
36 Kutay, Sultan Abdülaziz, cit., pp. 98-99. Si veda anche Tevfik, Yeni Osmanlılar,
cit., pp. 138-147.
37 Emre Aracı, Londra Crystal Palace’ta Abdülaziz şerefine verilen konser (Il concerto
dato in onore di Abdülaziz presso Crystal Palace a Londra), «Toplumsal Tarih», 49, 1998,
pp. 29-33.
38 Tevfik, Yeni Osmanlılar, cit., pp. 134-135.
39 Aracı, Londra, cit. Il sindaco di Londra del tempo, Thomas Gabriel (1811-1891),
risulta essere un prozio del cantante e musicista Peter Gabriel. Si veda Nick Barratt,
Family Detective: Peter Gabriel, «The Telegraph», 24 novembre 2007.
148
figli delle stelle
di spicco, colse l’occasione per affidare a Fuat Pascià il ruolo di Gran
Maestro distrettuale per l’impero ottomano, e ad Abdülhalim la stessa
carica per il distretto egiziano. Come vedremo, fu il principe Edoardo
in persona a stimolare nel suo omologo e coetaneo Murat la curiosità
per le tematiche della libera muratoria e per le sue implicazioni politi-
che e spirituali40.
Il 23 luglio la carovana ottomana diede inizio al viaggio di ritorno,
intervallato da una serie di brevi tappe a Liegi come ospiti di re Leopol-
do II, a Coblenza presso il re di Prussia Guglielmo I, e a Vienna con
l’imperatore Francesco Giuseppe, che per ammissione personale del
sultano Abdülaziz fu l’unico sovrano europeo da cui si sentì trattato
in maniera genuina, senza alterigia o complessi di superiorità. Dalla
capitale dell’impero asburgico, seguendo il corso del Danubio con un
traghetto, il sultano e la sua delegazione raggiunsero Budapest e da qui,
deviando lungo il fiume Vidin, entrarono in territorio ottomano per fare
tappa a Ruse, dove il governatore del tempo Midhat ebbe la possibilità
di esibire gli esiti della sua gestione, suscitando grande ammirazione
in Abdülaziz.
Questo primo e unico viaggio di un sultano ottomano nei pae-
si dell’Europa occidentale si concluse infine il 7 agosto con il ritorno
a Istanbul41.
9. A questo punto il gruppo degli oppositori politici ebbe la pos-
sibilità di fare ritorno a Parigi, dove il 10 agosto presso la residenza di
Mustafa Fazıl in Boulevard Malesherbes si tenne una cruciale riunione
per definire il piano da seguire, anche alla luce delle recenti evoluzioni
nel rapporto tra le autorità ottomane e il principe egiziano42. Quest’ul-
timo aveva infatti ottenuto il permesso di fare ritorno a Istanbul,
ma avrebbe continuato a sostenere finanziariamente l’operato dei gio-
vani oppositori da lui invitati a Parigi, con particolare attenzione per
l’attività giornalistica. Fu così che il “cane sciolto” Ali Suavi già il 15 ago-
40 Öztuna, Devletler, cit., II, p. 296. Sulla figura del futuro re d’Inghilterra Edoardo
VII (1841-1910), noto anche come “lo zio d’Europa” in ragione delle articolate trame ma-
trimoniali che determinarono il suo imparentamento con quasi tutti i casati regnanti al
tempo in Europa e Russia, si veda Gordon Brook-Shepherd, Lo zio d’Europa Edoardo VII,
Milano, Rizzoli, 1977. Purtroppo, però, come spesso accade nelle biografie di divulga-
zione, questo libro risulta del tutto privo di riferimenti alla documentata e fondamentale
attività massonica del principe e poi sovrano britannico.
41 Kutay, Sultan Abdülaziz, cit., pp. 58-74.
42 Tevfik, Yeni Osmanlılar, cit., pp. 147-148.
149
capitolo ottavo
sto decise di tornare nuovamente a Londra, la cui etica puritana per sua
stessa ammissione gli risultava più affine, per cominciare a pubblicare
nuovamente il giornale «Muhbir» in maniera quasi indipendente dagli
altri Nuovi Ottomani in esilio.
Il 30 agosto, vigilia della morte di Charles Baudelaire, i Nuovi Ot-
tomani Namık Kemal, Agah Efendi e Ziya, assieme al socialista austria-
co Simon Deutsch (1822-1877)43, al patriota polacco Wladyslaw Plater
(1808-1889) e al giornalista rumeno Gregory Ganesco (1830-1877),
si ritrovarono ancora presso la casa di Mustafa Fazıl a Parigi. In questa
riunione i cui dibattiti risultarono fortemente influenzati da ideali mas-
sonici e mazziniani, il gruppo redasse uno statuto in cui si dichiarava
come obiettivo principale la deposizione del sultano Abdülaziz e l’oppo-
sizione alle politiche d’espansione russa nell’impero ottomano44.
Così, dopo aver lasciato al manipolo di giovani oppositori un’in-
gente somma in contanti con cui finanziare le proprie attività45 ed es-
sere stato onorato in occasione della sua ultima sera a Parigi con un
ricevimento offerto dall’ambasciatore Mehmet Cemil, il 13 settembre
Mustafa Fazıl partì col treno in direzione di Istanbul, godendo a partire
da Budapest della compagnia di Ibrahim Şinasi.
Da quel momento cominciarono però a verificarsi una serie di cam-
biamenti nel panorama politico ottomano, che portarono a un progressivo
dissesto degli equilibri e delle dinamiche del decennio precedente. Mu-
stafa Fazıl, infatti, al suo ritorno a Istanbul ammorbidì progressivamen-
te i suoi toni: se inizialmente si pensò che questo atteggiamento fosse
il risultato di un preciso piano di “infiltrazione” volto a guadagnare la fi-
ducia delle autorità, col passare del tempo divenne sempre più chiaro che
il principe egiziano aveva deciso che il modo migliore per contribuire al
corso riformista e liberale dell’impero ottomano era sostenere in maniera
costruttiva l’operato di Ali e Fuat Pascià46. Allo stesso tempo Mustafa Fazıl,
come tante altre figure di spicco della politica ottomana di quegli anni,
a partire dal suo ritorno a Istanbul si fece prendere da una passione sfre-
nata per la massoneria, affiliandosi addirittura presso due diverse logge
a Istanbul: prima la francese “L’Union d’Orient” nel febbraio 1868, quin-
43 Per l’affascinante figura del socialista austriaco di origini ebraiche Simon Deu-
tsch, si veda Michael L. Miller, From liberal nationalism to cosmopolitan patriotism: Simon
Deutsch and 1848ers in Exile, «European Review of History», 17, 3, 2010, pp. 379-393.
44 Davison, Reform, cit., pp. 213-216.
45 Si trattava di 250mila franchi, la cui gestione fu affidata a Ziya (il membro più an-
ziano del gruppo, essendo nato nel 1829) con la necessità di renderne conto a Sakakini.
46 Tevfik, Yeni Osmanlılar, cit., pp. 167-170.
150
figli delle stelle
di la loggia “Bulwer” che aveva preso il nome dal suo fondatore, l’ormai
ex ambasciatore britannico a Istanbul Henry Bulwer47.
Proprio nelle settimane immediatamente successive al viaggio in
Europa, Fuat Pascià cominciò però ad accusare forti segni di debolezza
fisica: affetto da una forma congenita di insufficienza cardiaca, le quasi
sette settimane trascorse all’estero nel continuo sforzo di garantire suc-
cessi diplomatici al sultano, a dispetto dei capricci e dell’inadeguatezza
intellettuale di quest’ultimo, finirono per essergli fatali. Al ritorno dal
viaggio europeo chiese un periodo di riposo per andare a ristabilirsi
presso lo yalı di Yusuf Kamil a Yakacık, sulla costa asiatica del Mar di
Marmara. Ma dopo neanche due settimane ricevette l’incarico di recarsi
in Crimea per incontrare lo zar Alessandro II presso Livadia. E quando
a ottobre del 1867 Ali Pascià prese la decisione di recarsi a Creta per un
periodo di quattro mesi – nel disperato tentativo di salvare una situazio-
ne di conflitto etnico e politico sempre più difficile – il ministro degli
esteri Fuat Pascià si vide costretto ad assumere anche l’incarico di gran
vizir reggente.
Nel settembre 1868 uno sfiancato Fuat Pascià ottenne di potersi
recare per qualche tempo a Nizza per ricevere un trattamento medico:
ma anche durante questo viaggio effettuò una serie di tappe diplomati-
che in Italia, dove presso l’allora capitale Firenze fu accolto per un tem-
po relativamente lungo dall’ambasciatore ottomano Rüstem Pascià48.
Giunse a Nizza ormai prostrato appena a inizio dicembre e qui si spen-
se infine il 12 febbraio 186949.
La sua scomparsa segnò l’inizio della fine anche per Ali Pascià,
che alla morte dell’amico e collega disse di sentirsi come «un uccello
che aveva perso un’ala». Infatti, a dispetto delle sue qualità politiche e
47 Dumont, La Turquie, cit., pp. 23-24. Si veda inoltre Reşat Atabek, 1861-1880 Yıll-
arı arasında Istanbul ve Izmir vadisinde Masonik Faaliyet (Attività massonica a Istanbul
e Izmir negli anni 1861-1880), «Mimar Sinan», 53, 1984, pp. 4-14: 8.
48 Roderic H. Davison, The Last Days of Fuad Paşa in Davison, Nineteenth Century
Ottoman Diplomacy, cit., pp. 17-25: 20. Come già segnalato supra nota 26 a p.126, il diplo-
matico ottomano Rüstem Pascià era un italiano di nome Francesco Mariani (Firenze 1810 -
Londra 1895). Dopo oltre un decennio nel ruolo di ambasciatore presso il Regno di Sarde-
gna e poi d’Italia, a Torino e Firenze, Rüstem Pascià fu ambasciatore a San Pietroburgo
(ottobre 1870 - 8 aprile 1873), quindi governatore (Mutasarrıf) della provincia libanese fino
al 1883, e infine ambasciatore a Londra dal 16 novembre 1885 fino alla morte avvenuta
il 3 dicembre 1895. Si veda Öztuna, Devletler, cit., pp. 1034-1038.
49 Secondo quanto riferito da Davison, The Last Days, cit., p. 23, al capezzale di Fuat
era presente lo stesso ambasciatore Rüstem Mariani Pascià, che nelle ultime settimane lo
avrebbe raggiunto a Nizza da Firenze.
151
capitolo ottavo
intellettuali, il minuto Ali Pascià era una personalità schiva e taciturna,
mentre il collega Fuat era esattamente l’opposto: avvenente, estroverso,
loquace, incapace di nascondere i propri pensieri ed emozioni.
In un momento storico colmo di sfide, segnato dalla contempo-
ranea ascesa di numerose figure politiche della nuova generazione,
Ali Pascià cominciò quindi a sentirsi sempre più solo e impotente.
Per di più, a causa della tattica adottata dai due statisti per tenere in
scacco il sultano – basata sul principio dell’après nous, le déluge – Ali e
Fuat Pascià commisero il grave errore di non allevare alcun potenziale
successore. Fu così che, al momento della morte di Ali Pascià nel set-
tembre 1871, per riempire l’improvviso vuoto venutosi a creare nell’ago-
ne politico ottomano, si scatenò una feroce battaglia foriera di sviluppi
ancora più infausti.
152
9. L’armonia delle sfere.
Pietro Montani e l’arte del buon governo
Non si possono cambiare i costumi
di una nazione come fossero la sce-
nografia di un teatro.
Charles Mismer1
1. Gli anni intercorsi tra il ritorno del sultano Abdülaziz dal viaggio
in Europa nell’estate 1867 e la scomparsa di Ali Pascià nel settembre
1871 si rivelarono un periodo estremamente fecondo di riforme e inno-
vazioni istituzionali nell’impero ottomano. In quegli anni gli oppositori
passati alla storia col nome di Nuovi Ottomani si trovavano infatti in esi-
lio in Europa dove – a dispetto dei tanti sforzi compiuti per far sentire
la loro voce tramite la pubblicazione di numerosi giornali – risultavano
in fin dei conti avere un’incisività reale molto ridotta.
Nel frattempo il sultano Abdülaziz era invece rimasto ammaliato
da quanto visto in Europa, e a partire dal suo ritorno a Istanbul apparve
molto più sollecito a implementare riforme in grado di avvicinare il suo
impero agli standard europei negli ambiti più disparati: dalle riforme di
carattere costituzionale alla rete dei trasporti pubblici, dalla creazione di
un moderno sistema educativo alla preservazione del patrimonio arti-
stico e archeologico.
Durante questo proliferare di iniziative, nuove figure politiche eb-
bero l’occasione di dimostrare il loro valore: alcune si erano già messe
in luce a Istanbul negli anni precedenti, con incarichi governativi mino-
ri e la partecipazione a istituzioni scientifiche come la Cemiyet-i Ilmiye
Osmaniye, altre invece avevano esibito le loro qualità nel corso di incari-
chi amministrativi presso province periferiche dell’impero.
Col passare del tempo molte di queste figure, assieme ad altre già
menzionate nei capitoli precedenti, si trovarono a condividere relazioni
sociali e professionali sempre più strette, fino a quando alcuni di loro de-
cisero di unirsi in una cospirazione politica i cui esiti si rivelarono fatali.
1 Citato in François Georgeon, Un journaliste français en Turquie a l’epoque des
Tanzimat: Charles Mismer, in Presse Turque et Presse de Turquie, a cura di Nathalie Clayer,
Alexandre Popovic e Thierry Zarcone, Istanbul, Isis Press, 1992, pp. 93-121: 103.
153
capitolo nono
2. Uno dei personaggi più rappresentativi del periodo preso
in considerazione in questo libro è senza dubbio Ibrahim Edhem Pascià
(1818-1893). Nato in una famiglia greca sull’isola di Chios, Ibrahim ri-
mase orfano ancora infante nel corso della repressione da parte ottoma-
na di una rivolta scoppiata sull’isola durante la guerra greca di indipen-
denza. Anche se la dinamica non è mai stata chiarita, a un certo punto
il bimbo fu adottato dall’allora Kaptan-ı derya (Comandante della marina
ottomana) Koca Hüsrev Pascià (si veda supra, cap. 1) il quale, dopo aver-
lo fatto convertire all’islam e aver riscontrato il suo talento intellettua-
le, ebbe cura di assicurargli la migliore educazione possibile. Nel 1831
il giovane Ibrahim, assieme ad altri tre figli adottivi di Hüsrev Pascià,
fu infatti inviato a Parigi dove, dopo aver dedicato i primi anni all’ap-
prendimento del francese, terminò i suoi studi presso la prestigiosa
École des mines. Dopo essere tornato a Istanbul nel 1840 ed essersi spo-
sato nel gennaio 1841, Ibrahim Edhem cominciò una lunga carriera
nelle istituzioni ottomane, prima come direttore di alcune miniere ana-
toliche, poi con una serie di incarichi governativi che, grazie al soste-
gno di Mustafa Reşit Pascià, lo portarono a occupare addirittura il posto
di ministro degli esteri tra novembre 1856 e maggio 1857. La ragione
di questa rapida ascesa era legata di certo anche ai cordiali rapporti in-
staurati col sultano Abdülmecid, da cui era stato assunto in quegli anni
come istruttore privato di lingua francese2.
In seguito alla salita al trono di Abdülaziz nel 1861, Ibrahim
Edhem trascorse i successivi quindici anni passando da un posto di
ministro all’altro, fenomeno indicativo tanto delle complesse tensioni
presenti a palazzo, quanto del deciso desiderio riformista esibito da Ali
e Fuat Pascià, febbrilmente impegnati a dare forma a nuove istituzioni
e ministeri in grado di regolare secondo metodi più razionali l’ammini-
strazione della giustizia, della finanza, dell’educazione, del commercio,
dei lavori pubblici...
In quegli anni, con il frequente coinvolgimento diretto di Ibrahim
Edhem, a livello governativo furono assunte decisioni tali da segnare
in maniera permanente la vita degli abitanti di Istanbul, se non di tut-
2 Per la figura di Ibrahim Edhem, si veda Mahir Aydın, Edhem Paşa, in Islam An-
siklopedisi, cit., X, pp. 418-420. Si veda anche il libro ampiamente usato in questo capitolo
Ahmet Ersoy, Architecture and the Late Ottoman Historical Imaginary. Reconfiguring the
Architectural Past in a Modernizing Empire, Farnham, Ashgate, 2015, pp. 97-99. Nel 1859
Ibrahim Edhem tradusse inoltre in francese un’opera sulla storia degli arabi in Spagna
pubblicata nel 1851 da Louis Viardot, e dal 1861 fu uno degli animatori della Società scien-
tifica ottomana, dove era solito tenere lezioni di geologia.
154
l’armonia delle sfere
to l’impero ottomano. Si possono ad esempio citare l’istituzione di un
sistema scolastico obbligatorio e il cambiamento della legge di cittadi-
nanza, la realizzazione della ferrovia Istanbul-Sofia, la creazione nella
capitale ottomana di un’articolata rete tramviaria e la costruzione della
linea funicolare sotterranea di Tünel, passata alla storia come la secon-
da linea metropolitana al mondo dopo quella di Londra. In generale
in quel periodo nella capitale dell’impero ottomano il processo di razio-
nalizzazione urbanistica, iniziato già qualche decennio prima, continuò
a procedere secondo un ritmo sempre più serrato, anche in conseguen-
za dell’impatto che la Parigi del prefetto Haussmann esercitò su molti
dei giovani funzionari ottomani giunti in Francia per motivi di studio
e da ultimo sul sultano Abdülaziz nel viaggio del 18673.
3. Uno dei giovani e brillanti funzionari impressionati dal nuovo
corso modernista della capitale francese governata negli anni del Secon-
do impero dal prefetto Haussmann fu Midhat Pascià (1822-1884). Nato
a Istanbul da una famiglia originaria di Ruse (presso l’attuale confine
bulgaro-rumeno), a dieci anni Midhat aveva già dimostrato notevoli ca-
pacità intellettuali imparando a memoria l’intero Corano e acquisendo
così il titolo onorifico di hafiz. Dopo aver proseguito nello studio della
letteratura e della lingua araba, persiana e ottomana, nel 1840 Midhat
ricevette il primo incarico nell’amministrazione ottomana presso la se-
greteria del gran vizir. Nel corso degli anni successivi ricoprì ulteriori
incarichi presso le amministrazioni provinciali di Damasco e di alcune
città anatoliche come Konya e Kastamonu, facendosi notare da perso-
naggi di rilievo come Mustafa Reşit, Ali e Fuat Pascià... Negli anni della
guerra di Crimea si trovò con frequenza a presiedere incontri diplo-
matici di alto livello con politici e funzionari stranieri per redarre le
minute e i rapporti ufficiali. Dopo tanti anni di intenso lavoro trascorsi
senza essere mai uscito dai confini dell’impero, all’inizio del 1858 Mi-
dhat chiese all’allora gran vizir Ali Pascià una licenza di sei mesi per vi-
sitare le principali capitali europee e in particolare Parigi, con l’obiettivo
3 Per il tema dello sviluppo delle infrastrutture e in generale della razionaliz-
zazione urbanistica d’Istanbul, si veda sempre il fondamentale Çelik, The Remaking of
Istanbul, in part. pp. 77-80 e 90-103. Per l’impatto esercitato da Parigi sui giovani funzio-
nari ottomani di quegli anni, si veda tra gli altri Hıfzı Topuz, Taif’te ölüm, Istanbul, Remzi
Kitabevi, 1999. p. 31.
155
capitolo nono
di migliorare il suo francese e osservare lo stato dell’arte dell’ammini-
strazione pubblica nella capitale della razionalità illuminista4.
Oltre a migliorare la lingua e a ottenere un’infarinatura generale
di letteratura e storia francese, a Parigi Midhat fu colpito in particola-
re da due aspetti della locale scienza politica, che da quel momento in
poi divennero il suo principale cavallo di battaglia negli anni trascorsi
al servizio delle istituzioni ottomane. Si trattava innanzitutto della que-
stione dell’equilibrio dei poteri all’interno dello stato e degli strumen-
ti necessari a garantire la massima autonomia del potere giudiziario;
e in secondo luogo del ruolo fondamentale delle amministrazioni locali,
cui doveva essere garantita autonomia nel maggior numero di ambi-
ti possibili senza comunque perdere il legame e il coordinamento con
le istituzioni centrali.
Al suo ritorno a Istanbul alla fine dell’anno, Midhat fu incaricato
come segretario generale del Meclis-i Vala (Corte Suprema), ovvero pro-
prio l’istituzione che – sin dalla sua fondazione nel 1838 su insistenza
di Mustafa Reşit – aveva posto la prima pietra in direzione di una più
equilibrata ripartizione dei poteri all’interno dello stato ottomano. Dopo
aver assunto una forma più definita con l’avvio ufficiale delle riforme
del Tanzimat nel novembre 1839, divenendo a tutti gli effetti una sorta
di piccola assemblea legislativa formata inizialmente da dieci membri
e un presidente, nel 1854 gran parte delle funzioni del Meclis-i Vala fu-
rono però assegnate alla neo-istituita Meclis-i Tanzimat (Consiglio delle
Riforme) che ebbe come primo presidente Ali Pascià5.
Dopo quest’esperienza, nel gennaio del 1861 Midhat ebbe la pos-
sibilità di mettersi alla prova sull’altro campo da lui ritenuto fondamen-
tale, venendo nominato governatore della provincia di Niš, in Serbia
meridionale. Si trattava di una circoscrizione particolarmente difficile,
segnata da tensioni etniche e religiose e da una forte presenza di ban-
ditismo, ma Midhat riuscì a ottenere risultati eccellenti unendo all’ef-
ficienza nei lavori pubblici (strade, ponti, scuole, ospedali...) una sofi-
sticata capacità di dialogo e pacificazione tra le parti sociali in conflitto.
I successi riscontrati nelle vesti di governatore lo resero in breve tempo
4 Per Midhat Pascià si veda Gökhan Çetinsaya, Midhat Paşa, in Islam Ansiklope-
disi, cit., XXX, pp. 7-11. Per due eccellenti articoli in lingua inglese si vedano i due articoli
del solito Roderic H. Davison Midhat Paşa e Midhat Paşa and Ottoman Foreign Relations,
in Id., Nineteenth Century Ottoman Diplomacy, cit., pp. 99-107 e 109-118. Per una biografia
più romanzata ma ricca di dettagli interessanti, si veda il già citato Topuz, Taif’te ölüm, cit.
5 Mehmet Seyitdanlıoğlu, Tanzimat Devrinde Meclis-i Vala (1838-1868) (La Corte
Suprema nell’era del Tanzimat 1838-1868), Ankara, Türk Tarih Kurumu, 1994. pp. 35-50.
156
l’armonia delle sfere
uno dei più rispettati esponenti della nuova generazione di funziona-
ri pubblici ottomani: fu così che nel 1864 Ali e Fuat Pascià decisero
di richiamarlo temporaneamente a Istanbul per coinvolgerlo in un
ampio progetto di riorganizzazione delle province ottomane, che oltre
a introdurre l’istituzione delle assemblee provinciali, riformulò il nu-
mero e le dimensioni delle unità amministrative (ribattezzate vilayet),
rafforzando allo stesso tempo il legame e la coordinazione col governo
centrale6. Prima di implementare a tutti gli effetti la riforma, si decise
però di affidare in prova a Midhat la gestione del nuovo vilayet di Tuna
(Danubio in turco), una circoscrizione che comprendeva approssimati-
vamente l’intero territorio attuale della Bulgaria7.
Nelle vesti di governatore del vilayet danubiano, Midhat ottenne
risultati ancora più eclatanti: oltre a estendere all’intero territorio le me-
desime migliorie strutturali e logistiche applicate a Niš, l’astro nascente
della politica ottomana introdusse altre innovazioni senza precedenti.
Ebbe ad esempio l’idea di far pubblicare a spese dello stato un perio-
dico intitolato «Tuna», stampato in doppia lingua ottomana e bulgara,
con lo scopo di trasmettere un senso d’eguaglianza e inclusione alla
popolazione cristiana e bulgara, che in quegli anni stava comincian-
do a sviluppare desideri indipendentistici anche a causa dell’istigazio-
ne russa e della propaganda pan-slavista8. Con l’obiettivo di stimolare
il miglioramento delle condizioni economiche del vilayet, oltre a un am-
pio piano di lavori pubblici, Midhat ebbe inoltre l’idea di fondare una
rete d’istituti di sostegno finanziario per le classi più povere basato sul
6 Dopo qualche ulteriore modifica, il numero totale dei vilayet divenne infine 29:
Hijaz (Mecca), Yemen, Bassora, Baghdad, Mosul, Aleppo, Damasco, Deyr Zor, Beyrut,
Tripolitania (Libia), Hüdavendigar (Bursa), Konya, Ankara, Aydın (Izmir), Adana, Ka-
stamonu, Sivas, Diyarbakir, Bitlis, Erzurum, Mamüret-ül Aziz (Malatya, Tunceli), Van,
Trebisonda, Arcipelago (Rodi, Lesbo, Chio ecc.), Adrianopoli (Edirne), Salonicco, Kosovo,
Ioannina, Scutari (Albania del Nord), Monastir (Bitola). Per una sommaria descrizione
del progetto di riforma amministrativa delle province, si veda Stanford J. Shaw, Local
Administrations in the Tanzimat in 150. Yılında Tanzımat, a cura di Hakkı Dursun Yıldız,
Ankara, Türk Tarih Kurumu Yayınları, 1992, pp. 33-49.
7 Midhat mantenne questo incarico tra 13 ottobre 1864 e 5 marzo 1868. Si veda
Öztuna, Devletler, cit., p. 1164.
8 La direzione del giornale «Tuna», fondato nel marzo 1865, fu affidata da Midhat
Pascià a un suo giovane e brillante collaboratore, che in omaggio al suo maestro acquisì
in quegli anni il nome di Ahmet Midhat Efendi (1844-1912). Dopo aver abiurato dalla
figura del maestro nel febbraio 1877 (Davison, Reform, cit., p. 402) Ahmet Midhat diven-
ne un influente intellettuale durante i lunghi anni di regno autocratico di Abdülhamid II
(1876-1909) e per oltre trent’anni il direttore del giornale filo-governativo Tercüman-i
Hakikat, fondato nel 1878.
157
capitolo nono
sistema delle cooperative di risparmio, seguendo un’ispirazione rice-
vuta negli anni di Parigi dalla lettura delle teorie dell’anarco-socialista
Pierre-Joseph Proudhon9.
Nei primi giorni d’agosto del 1867 Midhat Pascià si recò a Bu-
dapest per accogliere la comitiva del sultano Abdülaziz di ritorno dal
viaggio in Europa; da qui continuarono poi assieme navigando lungo
il Danubio fino a raggiungere la città di Ruse, scelta in quegli anni da
Midhat come centro amministrativo del suo vilayet. Il sultano Abdülaziz
rimase impressionato dall’apparenza moderna della cittadina e dall’effi-
cacia delle riforme amministrative applicate, giungendo a dire al gover-
natore: «Non noto differenze rispetto alle città europee da me appena
visitate»10.
Fu così che a febbraio 1868 Midhat fu nuovamente richiamato
a Istanbul, questa volta per fornire il suo contributo a un’importante
riforma istituzionale che avrebbe portato alla creazione di un organo
di potere modellato sulla base del Conseil d’État presente nell’ordinamen-
to francese. Nel luglio 1861, con la salita al trono di Abdülaziz, si era infatti
deciso di riunire nuovamente la Corte suprema e il Consiglio delle ri-
forme in un’unica istituzione denominata Meclis-i Vala-yı Ahkam-ı Adliye
(Consiglio supremo degli affari giudiziari). Ma nel marzo 1868, in seguito
alle critiche ricevute per l’eccessivo accentramento e sovrapposizione dei
poteri, si deliberò una riorganizzazione che portò nuovamente alla suddi-
visione in due organi separati: il Divan-ı Ahkam-ı Adliye (Corte degli affari
giudiziari) e il Şura-yı Devlet (Consiglio di Stato) dedicato unicamente ad
attività legislative e di consulta per tutte le attività governative. Il Şura-yı
Devlet, inaugurato il 10 maggio 1868 sotto la presidenza proprio di Midhat
Pascià, in ragione della presenza di esponenti delle amministrazioni re-
gionali e della quota di un terzo dei posti riservata a rappresentanti delle
comunità non-musulmane, costituì un passo fondamentale in direzione
del passaggio a un sistema parlamentare11.
Dopo aver trascorso neanche un anno alla guida della nuova istitu-
zione, il 27 febbraio 1869 Midhat fu però sollevato dall’incarico a causa
di una serie di fattori, tra cui la morte di Fuat Pascià e il verificarsi
9 Topuz, Taif’te Ölüm, cit., pp. 30-31. L’istituzione delle casse di risparmio, poi
diffusasi su tutto il territorio ottomano, nel 1888 fu convertita nella Ziraat Bankası (Banca
dell’Agrıcoltura) tuttora esistente in Turchia.
10 Ivi, p. 34.
11 Seyitdanlıoğlu, Tanzimat Devrinde, cit., pp. 51-59. Ma si veda anche il solito
Davison, Reform, cit., pp. 239-244.
158
l’armonia delle sfere
di alcune frizioni con un Ali Pascià sempre più nervoso a causa del
generale senso di solitudine e impotenza di cui aveva cominciato a
soffrire. In quel periodo, inoltre, negli equilibri del potere ottomano
si stava facendo sempre più forte l’influenza del nuovo ambasciato-
re russo Nicholas Ignatieff, intenzionato a ostacolare in ogni modo il
corso riformista dell’impero: ogni soluzione positiva individuata dal
governo ottomano nella questione dei rapporti con le minoranze cri-
stiane costituiva infatti per i russi la perdita di un cruciale strumento
di destabilizzazione e influenza politica negli affari ottomani. A questo
scopo indebolire la figura di Midhat Pascià divenne uno dei principa-
li obiettivi delle strategie diplomatiche dell’impero russo, che in quel
periodo aveva cominciato a rialzare la testa e ad ampliare le mire dopo
la sconfitta subita nella guerra di Crimea.
Anche se non è chiaro quale sia stato il suo peso in questa deci-
sione, l’ambasciatore Ignatieff deve quindi aver gioito alla notizia che
Midhat Pascià era stato sospeso dal posto di presidente del Consiglio
di Stato e assegnato al governatorato del lontano e problematico vilayet
di Baghdad.
4. In seguito alla riforma amministrativa entrata definitivamente
in vigore nel 1867, il vilayet di Baghdad comprendeva quasi 150mila
chilometri quadrati di territorio in maggioranza desertico, con una for-
te componente di popolazioni nomadiche organizzate in tribù abitua-
te da secoli a combattersi tra loro, rifiutandosi di rispettare l’ordine e
le leggi imposte dall’autorità centrale. La distanza geografica e simbo-
lica di queste terre nell’immaginario culturale dell’impero ottomano
è resa evidente dalla presenza ancora oggi diffusa di numerosi proverbi
ed espressioni turche che identificano Baghdad come un luogo remoto
e imprecisato. A causa di questa nomea e delle infauste condizioni cli-
matiche, l’assegnazione di un posto a Baghdad – anche nel caso di un
incarico di prestigio – era percepita dai funzionari ottomani come una
sorta di punizione, inferiore solo ai vilayet di Bassora o Hijaz12.
Qualche giorno dopo essersi recato a salutare il sultano, il 21 mar-
zo 1869 Midhat assieme a una squadra di circa ottanta collaboratori
cominciò il lungo viaggio in direzione del nuovo ufficio: dopo aver na-
vigato fino a Iskenderun (Alessandretta) col traghetto Thalia, la caro-
12 Ebubekir Ceylan, The Ottoman Origins of Modern Iraq. Political Reform, Modern-
ization and Development in the Nineteenth Century Middle East, London, I.B.Tauris, 2001,
pp. 26-29.
159
capitolo nono
vana raggiunse via terra la città di Diyarbakır, e da qui proseguì fino
a Baghdad navigando lungo il fiume Tigri13. A dispetto della difficoltà
dell’incarico, Midhat riuscì a dimostrare anche qui le sue straordinarie
capacità di amministratore, reprimendo con severità le abituali rivolte
dei leader tribali della zona, ma cercando allo stesso tempo di garantirsi
la gratitudine e la fedeltà della popolazione con interventi di sviluppo
economico e culturale che portarono a un generale aumento della si-
curezza nella regione. Midhat Pascià affidò inoltre ad Ahmet Midhat
Efendi, il medesimo collaboratore che lo aveva già aiutato per «Tuna»,
la direzione di un giornale in doppia lingua ottomana e araba intitolato
«Zewra»14, utilizzato ampiamente dal governatore Midhat come stru-
mento di persuasione nel tentativo di educare la popolazione locale alle
tante innovazioni introdotte, compresa l’adozione di un sistema sco-
lastico moderno. C’è da dire inoltre che, a dispetto dei tanti interventi
positivi sul territorio (sviluppo della navigazione fluviale lungo il Tigri
e l’Eufrate, costruzione di strade e di una rete di canali per l’irrigazione,
oltre che una linea interurbana di tram a cavallo), il governatore Midhat,
accecato probabilmente da qualche precetto razionalista, si rese respon-
sabile della distruzione delle storiche mura che circondavano la città
sin dalla sua fondazione al termine dell’VIII secolo d.C., quando era
stata scelta come capitale del regno dal sovrano abbaside al-Mansur15.
Tra i collaboratori che Midhat Pascià portò con sé a Baghdad da
Istanbul c’era un altro brillante giovane, destinato a passare alla storia
in ragione dei numerosi contributi nel campo dell’arte e della cultura
ottomana: si trattava di Osman Hamdi Bey (1842-1910), primogeni-
to di quell’Ibrahim Edhem Pascià di cui abbiamo trattato poco sopra.
Nel 1860 Osman Hamdi era stato inviato a Parigi dal padre per perfe-
zionare il francese e compiere poi gli studi in giurisprudenza16. Ma in
disaccordo con le aspirazioni del genitore, dopo qualche anno il giovane
Osman Hamdi aveva deciso di dedicare tutte le energie all’educazione
artistica, prendendo lezioni private di pittura e iscrivendosi nel 1863
13 Osman Hamdi Bey Sözlüǧü (Dizionario di Osman Hamdi Bey), a cura di Edhem
Eldem, Ankara, Türizm ve Kültür Bakanlığı Yayınları, 2010. p. 75.
14 Per ulteriori informazioni sul periodico «Zewra», considerato da molte fonti come
“il primo esempio di giornalismo iracheno”, si veda Ceylan, Ottoman Origins, cit., pp. 215-218.
15 Ceylan, Ottoman Origins, cit., pp. 182-204.
16 Per l’ottimo apparato iconografico relativo a Osman Hamdi (i dati biografici pre-
sentano invece qualche imprecisione, per questi è meglio affidarsi all’opera di Edhem Eldem)
e per l’analisi dei contestuali fenomeni di rinnovamento artistico e culturale avvenuti nel XIX
secolo nell’impero ottomano, si veda anche il già citato: Cezar, Sanatta, cit., pp. 208-209.
160
l’armonia delle sfere
alla locale Association des Artistes Peintres. I suoi maestri di riferimen-
to furono in particolare i cosiddetti “orientalisti” francesi Jean-Léon
Gérôme (1824-1904) e Gustave Boulanger (1824-1888). Dopo essere
stato presente al Salon del 1865 come modello di un quadro di Boulan-
ger17, e aver partecipato al Salon del 1866 con un quadro intitolato Fem-
me turque, Osman Hamdi giunse a presentare tre suoi quadri presso
il padiglione ottomano dell’Esposizione universale di Parigi del 186718.
Nell’estate del 1868 Osman Hamdi abbandonò infine Parigi privo di un
pezzo di carta o una qualunque esperienza professionale, ma accom-
pagnato da una moglie francese di nome Agarithe Charlotte e da due
figlie femmine19: dopo un breve passaggio a Vienna fece quindi ritorno
a Istanbul, dove fu accolto inevitabilmente dal severo disappunto del pa-
dre. Si deve alla probabile volontà di quest’ultimo la partenza di Osman
Hamdi per Baghdad: data la grande stima provata per Midhat Pascià,
Ibrahim Edhem deve aver pensato che un’esperienza professionale
al servizio di una figura di spicco del riformismo ottomano sarebbe sta-
ta stimolante per il figlio, aiutandolo a farsi le ossa in un ambiente diffi-
cile come quello di Baghdad20.
Osman Hamdi trascorse circa due anni in questa estrema pro-
vincia sud-orientale dell’impero, dove fu assegnato a dirigere l’ufficio
relazioni estere, che nel caso di Baghdad comprendeva soprattutto i rap-
porti con l’impero persiano21. Ma dalle lettere al padre, scritte in fran-
cese, sappiamo che dopo circa un anno il giovane e inesperto funziona-
rio stava già cercando una via di fuga, perché con eccitazione riferisce
al genitore di una possibilità di lavoro come console ottomano a Bombay
17 Ehdem Eldem, Un Ottoman en Orient. Osman Hamdi en Irak, 1869-1871, Paris,
Sindbad, 2010, p. 30. Il quadro, purtroppo scomparso, era intitolato proprio Portrait
de Hamdi-Bey.
18 Ivi, p. 32. Di questi tre quadri solo quello intitolato Zeybek à l’affût è sopravvis-
suto ai giorni nostri, ma conosciamo anche i titoli degli altri due (La halte des Tchinganés
e La mort du Zeibek) grazie al dettagliato catalogo della mostra pubblicato al tempo. Si veda
anche Kevork Pamukciyan, 1867 yılı Paris Sergisine Katılan Osmanli Sanatkarları (Artisti
partecipanti alla mostra di Parigi del 1867), in Zamanlar, mekanlar, insanlar (Tempi, spa-
zi, persone), 3 voll., Istanbul, Aras Yayıncılık, 2003, III, p. 215.
19 Eldem, Osman Hamdi, cit., p. 215. Per ulteriori informazioni riguardo agli anni
trascorsi a Parigi da Osman Hamdi, alla luce del ritrovamento di nuovi documenti, si veda
Edhem Eldem, Osman Hamdi Bey’in Paris yıllarıyla ilgili yeni bilgiler (Nuove informazioni
riguardo agli anni parigini di Osman Hambi Bey), «Toplumsal Tarih», 268, aprile 2016,
pp. 48-59.
20 Ivi, p. 74.
21 Ivi, p. 77.
161
capitolo nono
in India, poi mai realizzatasi22. Seguendo le tracce di questo medesimo
epistolario, gli studiosi sono anche riusciti a scoprire che fu proprio
a Baghdad che Osman Hamdi ricevette l’ispirazione originale per L’ad-
destratore di tartarughe, la celebre tela da lui dipinta nel 1906 e divenuta
un secolo dopo il quadro “turco” più pagato della storia23. In una lettera
del 13 luglio 1869, il giovane funzionario e aspirante pittore risultò in-
fatti ringraziare il padre per avergli inviato via posta l’ultimo numero
della rivista francese «Tour du Monde»: si è poi scoperto che il numero
in questione conteneva un articolo dedicato al Giappone accompagnato
da un’illustrazione intitolata Charmeur de tortues, molto simile alla figu-
ra centrale del celebre quadro del 190624.
Osman Hamdi abbandonò Baghdad nella primavera del 1871, tro-
vando poco dopo un nuovo impiego a Istanbul presso il Ministero degli
Affari esteri. Nel settembre dello stesso anno suo padre fu nominato
ministro dei lavori pubblici, e pochi mesi dopo gli fu assegnato l’in-
carico di dirigere la commissione per l’organizzazione del padiglione
ottomano all’Esposizione universale di Vienna del 1873. A quel pun-
to Ibrahim Edhem, impermeabile a ogni accusa di nepotismo, decise
di dare al figlio la possibilità di dimostrare le sue capacità in ambito
artistico assegnandogli il posto di direttore del padiglione, oltre alla cu-
ratela assieme al francese Victor Marie de Launay di un eccezionale
progetto editoriale intitolato Elbise-i Osmaniyye: Les Costumes Populaires
de la Turquie en 187325. Si trattava di un’estesa catalogazione etnografica
degli abiti tradizionali corrispondenti alle diverse etnie e culture presen-
ti nella vasta ed eterogenea geografia ottomana. Nello specifico il libro
si componeva di 74 tavole fotografiche, ognuna delle quali composta
generalmente da un assortimento di tre figure maschili e/o femmini-
li rappresentative del mosaico culturale e religioso delle diverse città
o province; ogni tavola risultava inoltre accompagnata da ampie spiega-
22 Ivi, pp. 105-107. Nove lettere inviate da Osman Hamdi al padre durante la per-
manenza a Baghdad sono state pubblicate integralmente dalla casa editrice Sindbad
di Parigi nel 2010. Si veda Eldem, Un Ottoman en Orient, cit. Per la questione di Bombay,
si veda la lettera del 20 aprile 1870.
23 Per assicurarsi la tela il Pera Museum d’Istanbul ha pagato nel 2005 l’equivalen-
te di 3 milioni e mezzo di dollari.
24 Ivi, pp. 322-326.
25 Cezar, Sanatta, pp. 214-215. Il libro è stato tradotto in turco moderno e ripubblicato
nel 1999 in una lussuosa edizione dalla casa editrice dell’Università Sabancı di Istanbul:
1873 yılında Türkiye’de Halk Giysileri (Costumi popolari in Turchia nell’anno 1873).
162
l’armonia delle sfere
zioni di carattere storico e geografico, oltre a un’analisi etnografica dei
costumi, in doppia lingua ottomana e francese26.
Il progetto editoriale e il padiglione ottomano all’expo di Vienna del
1873 si rivelarono un grande successo di pubblico e critica. Dopo qualche
altro incarico amministrativo negli anni seguenti, la carriera professionale
di Osman Hamdi prese infine il volo nel settembre 1881 con la nomina alla
direzione dei Musei imperiali di Istanbul: si trattava della prima istituzio-
ne statale indirizzata alla preservazione dell’incommensurabile patrimo-
nio archeologico presente nel territorio ottomano, nata appena nel 1869
per volontà dell’allora ministro dell’educazione Safvet Pascià27. A questo
incarico si aggiunse nel 1882 anche quello di organizzare e quindi dirigere
la Sanayi-i Nefise Mektebi, ovvero la prima Accademia di Belle Arti della sto-
ria ottomana: l’edificio che avrebbe ospitato la scuola fu progettato da Ales-
sandro Vallauri (si veda supra, § 8.6), divenuto poi anche primo professore
di architettura dell’istituto28. Da quel momento in poi e fino alla morte
nel 1910, la vita di Osman Hamdi Bey fu costellata di successi e riconosci-
menti in ambito artistico, archeologico e istituzionale, ricevendo numerose
onorificenze internazionali e giungendo ad essere insignito della laurea
honoris causa dalle Università di Lipsia e Oxford29. Risulta però interessan-
te notare come, a dispetto degli eccezionali risultati conseguiti in vita, nella
Turchia repubblicana e in generale ancora oggi la sua figura non risulti
in alcun modo valorizzata a livello istituzionale, per una serie di complesse
questioni legate all’ideologia nazionalista del paese30.
26 Ahmet Ersoy, A Sartorial Tribute to Late Tanzimat Ottomanism: The Elbise-i
Osmaniyye Album, «Muqarna», 20, 2003, pp. 187-207. Come spiegato da Ersoy, il proget-
to editoriale fu concepito in ogni suo aspetto come un’operazione mirata a comunicare
la capacità delle autorità ottomane di governare in maniera razionale su un’eccezionale
eterogeneità di popoli e culture. La documentazione fotografica fu effettuata da Pascal
Sebah (1823-1886, un cattolico siriaco proprietario di uno studio a Istanbul poi divenuto
celebre col marchio Sebah&Joullier): le fotografie erano tutte dello stesso formato ed estre-
mamente omogenee, in quanto furono scattate a Istanbul davanti a una parete bianca del-
la residenza di Ibrahim Edhem Pascià nel quartiere di Kantarcılar. La stessa suddivisione
geografica dei costumi rispecchiava la ripartizione dei vilayet secondo la riforma compiuta
in quegli anni da Midhat e Fuat Pascià.
27 Eldem, Osman Hamdi, cit., pp. 391-396.
28 Cezar, Sanatta, cit., pp. 188-189. Vallauri mantenne il posto di professore d’ar-
chitettura presso l’Accademia dalla fondazione nel 1882 fino al 1908, quando il suo posto
fu preso fino al 1928 da un altro celebre architetto italiano attivo a Istanbul e Ankara:
Giulio Mongeri (1873-1951); cfr. infra nota 37 a p. 205.
29 Cezar, Sanatta, cit., pp. 229-249.
30 Si veda l’intervista di Tuğba Esen con l’artista Burhan Kum, apparsa sul settima-
nale «Agos» il 18 marzo 2016.
163
capitolo nono
5. Tra coloro che incrociarono in diverse occasioni il percorso
di Osman Hamdi Bey grazie al solido rapporto di fiducia stabilito con
suo padre Ibrahim Edhem ci fu l’italiano Pietro Montani (1828-1887)31.
Montani era nato a Trieste da una famiglia originaria di Mergozzo
(Novara), che si trasferì poi a Istanbul nei primissimi anni ’30 del XIX se-
colo, in quanto sappiamo che il figlio minore Leopoldo fu battezzato
presso la chiesa di San Pietro e Paolo a Galata nel 183232. Purtroppo sap-
piamo poco o niente della sua formazione33, anche se risulta probabile
che abbia studiato Belle arti in Francia, ma di certo nel 1861 il trenten-
ne Pietro doveva essere già ben inserito nei circuiti culturali della capi-
tale ottomana, dato che una sua illustrazione del funerale del sultano
Abdülmecid apparve sulle pagine del giornale francese «L’illustration»34.
Il definitivo riconoscimento giunse però nel 1863, quando in occasione
della Sergi-i Umumi-i Osmani (Esposizione generale ottomana) organiz-
zata presso la piazza dell’ippodromo a Sultanahmet a Montani fu affi-
data la progettazione del Daire-i Hümayun (Appartamento imperiale),
una piccola residenza privata per ospitare il sultano e la sua famiglia
durante le visite all’esposizione35. Sempre nel contesto dell’Esposizione
ottomana Montani fu anche incaricato, assieme al piacentino Giovanni
Battista Barborini, di organizzare una mostra di pittura nella quale in-
cluse alcune sue opere, una delle quali intitolata Il negozio del barbiere36.
31 Il primo a portare alla luce questa poliedrica figura di artista, architetto e intel-
lettuale è stato il prof. Paolo Girardelli in occasione della conferenza “Architettura e ar-
chitetti italiani a Istanbul tra XIX e XX secolo” tenutasi a Istanbul nel novembre 1995, i cui
atti sono poi stati pubblicati dal locale Istituto italiano di cultura. Oltre ad altri lavori dello
stesso Girardelli, la figura di Pietro Montani è stata studiata anche da Nurcan Yazıcı che
a lui ha dedicato una tesi di laurea monografica presentata nel 2002 presso l’Università
Mimar Sinan d’Istanbul. Ottimi contributi in lingua inglese sono inoltre quelli del prof.
Ahmet Ersoy, che posiziona Montani nel più ampio contesto storico e teorico di quegli
anni, si veda in particolare il già citato Architecture and the Late Historical Imaginary.
32 Paolo Girardelli, Architettura, mediazione, rappresentazione: il percorso e i ruoli
di Pietro Montani (1828-1887), in “Alaturka/Alafranga”: interazioni culturali fra Turchia ed
Europa mediterranea, a cura di Rosita D’Amora e Stefania de Nardis, L’Aquila, Textus
Edizioni, 2022, p. 157.
33 Ersoy, Architecture, cit., p. 118. A tal proposito, si veda un articolo scritto dallo
stesso Montani per l’edizione del 23 ottobre 1883 de «La Turquie», un giornale francese
stampato a Istanbul, in cui l’italiano dichiara di «aver attraversato tutti i livelli d’istruzione
accademica» senza però fornire alcuna informazione specifica. La prima collaborazione
accertata per le istituzioni ottomane sarebbe stato il lavoro di rilevamento dei danni subiti
dal patrimonio architettonico di Bursa in seguito al terremoto del 1855, al servizio del
francese Léon Parvillée (cap. 6.5). Si veda Girardelli, Il percorso e i ruoli, cit.
34 «L’illustration», 962, 3 agosto 1861.
35 Yazıcı, The First Ottoman Exhibition, cit., p. 138.
36 Ivi, p. 135.
164
l’armonia delle sfere
La versatilità di Pietro Montani si rese ancora più evidente nel
1865, quando un editore francese pubblicò il suo L’Harmonie des Sphe-
res, un testo riconducibile alla tradizione teosofica ed esoterica con cui
l’autore si impegnò a porre in relazione secondo principi matematici
la gamma delle note musicali con l’ordine dei corpi astrali, individuan-
do una serie armonica di principi universali che sarebbe stata anche alla
base dello spirito umano37. Alla fine di quello stesso anno, l’interesse
e la competenza sviluppata per queste tematiche spiritualiste lo portò a
iniziarsi presso la loggia massonica “L’Union d’Orient”38, un’importan-
te istituzione di cui tratteremo più ampiamente nel prossimo capitolo.
Alla complessità del personaggio si deve aggiungere anche l’assunzio-
ne nel 1869 dell’incarico di “fisico” presso l’Osservatorio meteorologico
d’Istanbul, istituito appena l’anno precedente per volontà di Ibrahim
Edhem Pascià e guidato fino al 1895 dal francese Aristide Coumbary39.
Nel 1867 Pietro Montani fu uno dei rappresentanti dell’impero
ottomano all’Esposizione universale di Parigi, con l’esibizione di sette
dipinti a olio di carattere orientalista, oltre a una serie di rilievi architet-
tonici dei padiglioni dell’Esposizione ottomana del 1863 e dei monu-
menti realizzati a Istanbul assieme a Barborini.
Nell’aprile del 1868 la Società Operaia di Mutuo Soccorso in Co-
stantinopoli decise di cambiare il suo statuto, che sin dalla fondazione
nel 1863 aveva mantenuto Mazzini nel ruolo di presidente onorario e
Garibaldi in quello di presidente effettivo: la dirigenza concreta della
Società era quindi sempre stata nelle mani del vice-presidente. Ora,
dopo aver assegnato anche a Garibaldi la presidenza onoraria, si deci-
se di nominare come presidente effettivo uno dei membri attivi della
comunità locale: la prima scelta cadde proprio su Pietro Montani, che
mantenne l’incarico per un solo anno, durante il quale la Società decise
di nominare socio onorario il medico e poi senatore fiorentino Emilio
Cipriani (1814-1883), il quale a causa della partecipazione ai moti del
1848-49 si era visto costretto a emigrare per qualche anno a Istanbul,
facendovi poi ritorno più volte40.
37 Pierre Montani, L’Harmonie des Sphères, Paris, Didier, 1865.
38 Nurcan Yazıcı, Çok yönlü kişiliğiyle Pierre Montani (La figura poliedrica di Pietro
Montani), tesi di laurea, Università Mimar Sinan di Istanbul, 2002. Si veda in particolare
gli allegati 2 e 3. Nel 1868 Montani risulta qualificato come “architetto” nell’organigram-
ma della loggia.
39 Ersoy, Architecture, cit., p. 98. Nell’«Indicateur Ottoman» del 1881, Montani figu-
ra ancora qualificato come “vice-direttore” dell’Osservatorio ottomano.
40 Marinovich, La società operaia, cit.
165
capitolo nono
In quegli anni la fama del poliedrico personaggio raggiunse l’api-
ce, sia presso la locale comunità italiana che nel rapporto con le istitu-
zioni ottomane: Montani fu infatti coinvolto nella realizzazione dell’e-
clettica moschea di Pertevniyal41, fatta costruire ad Aksaray dalla madre
del sultano Abdülaziz, nonché, in collaborazione con Alessandro Mer-
lo42, nella decorazione del sontuoso Palazzo di Çırağan a Ortaköy e del
celebre Teatro di Güllü Agop a Gedikpaşa43.
In ragione di queste frequentazioni istituzionali di alto livello,
Montani si trovò con probabilità a presenziare sia ai funerali di Fuat Pa-
scià nel febbraio 1869 che alla visita dell’imperatrice francese Eugenie
a Istanbul nel novembre dello stesso anno, perché il versatile italiano
produsse le illustrazioni di entrambi questi eventi, accompagnati da una
breve cronaca, per la rivista francese «Le Monde illustré»44. Qualche
mese dopo, per la medesima rivista Montani illustrò invece un evento
drammatico che segnò la sua vita assieme a quella di molti altri abitanti
del quartiere di Pera a Istanbul: nelle prime ore del pomeriggio di una
ventosa e calda domenica di inizio giugno, un incendio scoppiato in
un appartamento nella zona di Taksim si estese rapidamente all’intero
quartiere posto sul lato occidentale della Grand Rue de Pera, distrug-
gendo oltre 500 edifici. In quell’incendio, che segnò anche la fine del
Teatro Naum, lo stesso Montani perse gran parte del suo archivio perso-
nale, in particolare la «grandiosa collezione di documenti relativi all’ar-
te orientale» come riferì egli stesso in una lettera poi pubblicata sulla
rivista45. Probabilmente Montani non ebbe però molto tempo per farsi
cogliere dalla malinconia, perché il 21 agosto dello stesso anno presso
41 Il progetto generale della moschea, definita da Edmondo de Amicis che la visitò
nel 1874 come «il più gentile modello del rinascimento dell’arte turca» (si veda Edmondo
De Amicis, Costantinopoli, Milano, Tipografia Editrice Fratelli Treves, 1894, p. 527) è opera
dei fratelli Sarkis e Agop Balian, nominati architetti imperiali dal sultano Abdülaziz nel
1866, alla morte del padre Garabed Amira. Su di loro si veda il solito Tuğlacı, Balian
Family, cit., pp. 429-438 e 538-545.
42 Alessandro Merlo (1802? - 27 maggio 1876), originario di Milano, risulta at-
tivo come decoratore e scenografo durante tutte le stagioni artistiche del Teatro Naum
d’Istanbul dal 1848 fino al rogo del 1870. Si veda Cezar, Sanatta, cit., p. 146, gli archivi
della Società operaia (presso la quale risulta iscritto dal 1867 fino alla morte nel 1876)
e Aracı, Naum Tiyatrosu, cit.
43 Ersoy, Architecture, cit., pp. 118-120.
44 «Le Monde Illustré», 623, 20 marzo 1869 e «Le Monde Illustré», 655-656,
30 ottobre e 6 novembre 1869.
45 «Le Monde Illustré», 691, 9 luglio 1870.
166
l’armonia delle sfere
la chiesa di Santa Maria Draperis convolò a nozze con Maria Abramo,
che qualche tempo dopo gli diede una figlia di nome Virginia46.
Pochi mesi dopo il matrimonio, Montani fu incaricato dalla neo-
istituita commissione per la partecipazione ottomana all’Expo di Vienna
del 1873, presieduta da Ibrahim Edhem Pascià, di redarre un progetto
architettonico per lo spazio destinato all’impero ottomano dalle autorità
austriache47. Dopo oltre un anno di lavoro, incontri e discussioni, il pro-
getto finale fu deliberato nell’aprile 1872 sulla base delle idee di Montani,
che oltre a un padiglione prevedevano anche una replica della fontana
di Ahmet III situata all’ingresso del palazzo di Topkapı. Fu invece scartata
la proposta di riprodurre nella capitale austriaca anche un piccolo cimi-
tero islamico e un esempio di architettura rurale ottomana48. Nei mesi
successivi la commissione riuscì a convincere il gran vizir e il sultano
a finanziare anche tre innovativi progetti editoriali da presentare a Vien-
na: una guida storica alla città di Istanbul scritta da Philippe Dethier,
allora direttore del nuovo museo imperiale ottomano, il volume sui co-
stumi popolari affidato a De Launay e Osman Hamdi, e il libro Usul-i
Mimari-i Osmani (Lo stile dell’architettura ottomana) la cui redazione
fu assegnata sempre a De Launay, ma con la collaborazione questa volta
di Pietro Montani49. Quest’ultimo giunse a Vienna già nel giugno 1872
per visionare il luogo e dare inizio ai lavori per la costruzione dei padi-
glioni, accompagnato da un manipolo di collaboratori – in maggioranza
armeni – che lo avevano già aiutato in altri progetti importanti, compresi
i lavori per la decorazione del Palazzo di Çırağan50.
Terminata l’esperienza di Vienna, Montani continuò a godere dei
vantaggi che gli derivavano dal solido rapporto di fiducia instaurato con
Ibrahim Edhem Pascià (con cui condivideva anche la comune affiliazio-
ne massonica presso “L’Union d’Orient”), il quale nel dicembre 1875
46 Atto di matrimonio in Santa Maria delle Draperie. Degno di nota è il fatto che
tra i testimoni di nozze ci fosse anche un esponente della famiglia Balian: Jacopo/Agop
(1837-1875), fratello di Sarkis e progettista, tra le altre cose, della residenza di Ali Pascià
a Mercan. Secondo quanto riferito da Girardelli in Il percorso e i ruoli (p. 160), la moglie
Maria Abramo per parte di madre sarebbe stata una discendente dell’importante famiglia
greca dei Mavrocordato.
47 Ersoy, Architecture, cit., p. 48 e p. 61.
48 Ivi, p. 62.
49 Nell’ambito del progetto editoriale Montani ebbe in particolare l’incarico di pro-
durre i numerosi disegni e rilievi architettonici inclusi nel libro, ma ebbe un ruolo impor-
tante anche nella redazione del capitolo più teorico del libro. Si veda Ersoy, Architecture,
cit., p. 96.
50 Ivi, p. 64.
167
capitolo nono
invitò l’italiano presso la sua villa per tenere una conferenza sul rappor-
to tra architettura ottomana e i principali stili artistici del bacino medi-
terraneo: gotico, bizantino e moresco51. Nel 1877, l’anno in cui Ibrahim
Edhem raggiunse l’apice della sua carriera politica giungendo a occu-
pare il posto di gran vizir, si decise di istituire una Commissione per-
manente per il Museo imperiale ottomano composta da otto membri,
tra i quali risultavano inclusi anche Pietro Montani e Osman Hamdi
Bey52. Nell’anno di svolta che fu il 1878, Montani decise di accettare
l’incarico di sovrintendente architettonico per il vilayet della Rumelia
orientale (un’area corrispondente più o meno all’attuale Bulgaria, esclu-
sa l’area di Sofia), un incarico che fino al 1885 lo portò a trascorrere
lunghi periodi presso la città bulgara di Plovdiv53.
Pietro Montani morì nella sua casa a Kadıköy, sul lato asiatico
d’Istanbul, nell’ottobre 1887.
51 Si veda articolo apparso sull’edizione del 22 dicembre 1875 del giornale in lingua
inglese «Levent Herald», citato in Ersoy, Architecture, cit., p. 124.
52 Cezar, Sanatta, cit., p. 251 (il documento riporta il nome in realtà il nome di
Messieur Mosali, impiegato dell’Osservatorio ottomano, ma si tratta di un evidente difetto
di trascrizione dalla lingua turca-ottomana).
53 Girardelli, Il percorso e i ruoli, cit., p.158.
168
10. L’unione d’Oriente.
Emanuele Veneziani e il “grande gioco”
Dalle Alpi allo Stretto di Scilla odasi
un grido solo: l’indipendenza d’Italia
Gioacchino Murat, Proclama di Rimini, 1815
1. Come abbiamo già anticipato nei capitoli precedenti, la morte
di Ali Pascià nel settembre 1871 coincise con l’inizio di una profonda
crisi politica dell’impero ottomano, segnato dall’emergere di fazioni
in opposizione tra loro. A sua volta questo permanente stato di tensio-
ne determinò una vulnerabilità istituzionale che consentì alle poten-
ze straniere di esercitare in forma sempre maggiore la loro influenza
nell’agone politico ottomano. A questi fattori si deve inoltre aggiungere
la crisi finanziaria – resa insanabile dai numerosi e ingenti prestiti che
il governo ottomano a partire dal 1854 aveva contratto con diverse ban-
che estere a condizioni estremamente svantaggiose – e una sfortunata
costellazione di eventi internazionali.
Il primo di questi eventi in ordine di tempo fu lo scoppio della
guerra franco-prussiana nel luglio 1870, conflitto che nel giro di poche
settimane portò al tracollo delle truppe di Napoleone III presso Sedan1
e alla conseguente resa e umiliante cattura del sovrano francese. L’e-
vento segnò la fine del cosiddetto Secondo impero e portò alla nascita
di un governo di emergenza nazionale incaricato di gestire il drammati-
co prosieguo della guerra, che raggiunse il suo apice durante l’inverno,
con l’assedio di Parigi da parte delle truppe prussiane.
Come si sa il conflitto in questione svolse un ruolo fondamentale
nella storia dell’Unità d’Italia, in quanto grazie al ritiro della guarni-
1 In occasione del conflitto del 1870 l’esercito prussiano fu guidato dal generale
Helmuth von Moltke (1800-1891), che tra 1835 e 1839 aveva vissuto a Istanbul e compiuto
numerosi viaggi in Anatolia in qualità di consulente per la modernizzazione delle istitu-
zioni militari ottomane al servizio del sultano Mahmut II. Von Moltke fu capo di stato
maggiore dell’esercito prussiano dal 1857 al 1888. Per le lettere inviate negli anni trascorsi
a Istanbul e in territorio ottomano, si veda Helmuth von Moltke, Briefe über Züstande und
Begebenheiten in der Türkei aus den Jahren 1835-1839, Berlin, E.S Mittler Verlag, 1841.
169
capitolo decimo
gione francese incaricata di proteggere l’autorità del papa nella città di
Roma si giunse in breve tempo alla capitolazione pontificia e all’ingres-
so dei soldati italiani attraverso la breccia di Porta Pia, la mattina del 20
settembre. La notizia della presa di Roma suscitò un motto di sfrenato
entusiasmo anche presso la comunità italiana di Istanbul, in particolare
negli ambienti della Società operaia e della massoneria, caratterizzati
com’erano dalla forte presenza di esuli politici giunti nella capitale otto-
mana a partire dal 18492.
Il drammatico esito della guerra del 1870 ebbe inoltre l’effetto
di costringere la Francia a ritirarsi per molti anni dalla scena interna-
zionale, quanto meno nei territori dove la competizione geopolitica era
più intensa, in particolare lo scacchiere ottomano. Come abbiamo visto
nel corso dei precedenti capitoli, a partire dagli anni ’30 del XIX seco-
lo Francia e Inghilterra si erano mosse spesso in modalità congiunta
nel loro sostegno alle autorità di Istanbul, costituendo un forte blocco
di influenza riformista che aveva svolto un ruolo cruciale nel processo
di modernizzazione dell’impero ottomano. Ovviamente questo soste-
gno non era disinteressato, in quanto ambiva ad aprire la vasta geo-
grafia ottomana alle nascenti forze del capitalismo europeo, secondo
un programma di egemonia e infiltrazione attuato grazie a strumenti
“morbidi” come trattati di libero commercio, ottenimento di privilegi
commerciali e rapporti di dipendenza finanziaria; ma si trattava in ogni
caso di un approccio diverso rispetto al più tradizionale antagonismo
russo, articolato ancora secondo parametri soprattutto militari.
A partire dalla fine del 1870, a disputarsi l’influenza sull’impe-
ro ottomano rimasero quindi unicamente Inghilterra e Russia, in un
nuovo fronte del “Grande Gioco” da loro combattuto nel XIX secolo
in Asia centrale e in Afghanistan, regioni considerate di fondamentale
importanza dai britannici per garantire la sicurezza del dominio colo-
niale in India, «il gioiello più prezioso della corona britannica»3.
2. Alcune fonti della storiografia turca riportano che allo scoppio
delle ostilità il sultano ottomano abbia scritto all’imperatore Napole-
one III un telegramma per offrire il suo aiuto militare, e che questo
sia stato interpretato dai giornali francesi come una prova del “legame
2 La celebrazione del 20 settembre divenne un appuntamento immancabile per
la comunità italiana della città, fino agli anni antecedenti la Prima Guerra mondiale.
3 Per questo avvincente tema si veda ovviamente il classico Hopkirk, Il Grande
Gioco, cit.
170
l’unione d’oriente
di sangue” tra i due sovrani. In occasione della sua venuta a Parigi nel
1867, grazie al sostegno fornito dai giornali locali si era infatti diffusa
la voce secondo cui la nonna del sultano Abdülaziz fosse una donna
francese, cugina a sua volta della prima moglie di Napoleone Bonapar-
te. Ma in realtà tanto la parentela tra i sovrani quanto l’offerta di soste-
gno militare erano solo dicerie del tutto infondate: già il 19 luglio 1870
Ali Pascià, nel doppio ruolo di gran vizir e ministro degli esteri, inviò
infatti un telegramma a tutte le principali sedi diplomatiche dell’impe-
ro ottomano affermando l’intenzione del sultano di «mantenere la più
assoluta neutralità nel conflitto tra Francia e Prussia»4.
Il rapido tracollo del Secondo impero lasciò spazio a un misto
di caos istituzionale ed eccitazione popolare, in particolare a Parigi,
dove si diffuse la speranza che la situazione di crisi potesse essere sfrut-
tata per imprimere alle istituzioni francesi una rivoluzionaria svolta
democratica. Una simile prospettiva determinò una forte mobilitazio-
ne anche da parte delle avanguardie politiche europee, che reputarono
necessario correre in difesa della nazione francese in questo particolare
momento storico: anche l’ormai ultrasessantenne Garibaldi – a dispetto
della sua prolungata ostilità alla Francia di Napoleone III – non esitò
a mettersi alla guida di una brigata internazionale che giunse in soste-
gno delle forze francesi all’inizio della cosiddetta Terza repubblica.
In quel medesimo contesto anche tre giovani ottomani, trascinati
dall’entusiasmo, sentirono il dovere morale di fornire il loro contributo:
si trattava di Mehmet, Nuri e Reşat, i tre oppositori che avevano raggiun-
to Parigi nel giugno 1867 per unirsi a Ziya, Namık Kemal, Agah e Ali
Suavi (si veda supra, § 8.6). In seguito al loro arrivo in Europa, questi
tre esuli avevano seguito un percorso più irregolare rispetto a quello de-
gli altri compagni, collaborando in certi casi alle attività di questi ultimi,
ma provando anche a fondare altri periodici indipendenti, destinati in
genere a breve vita. L’ultimo di questi, un settimanale intitolato «Inkilab»
(Rivoluzione) fu fondato a Ginevra nella primavera del 1870, ma costretto
a interrompere le pubblicazioni allo scoppio della guerra a luglio5.
4 L’Empire Ottoman et l’Europe. Documents diplomatiques ottomans sur la Guerre
franco-prussienne, la Commune de Paris et l’Internationale socialiste, a cura di Sinan Kune-
ralp, Istanbul, Isis Press, 2008. pp. 30-31. Per la confutazione della leggenda relativa ad
Aimeé du Buc de Rivery, poi ribattezzata Nakşidil, che continua a essere oggetto di articoli
e romanzi anche nell’editoria occidentale, si veda Necdet Sakaoğlu, Bu Mülkün Kadın
Sultanları (Le sultane di questo reame), Istanbul, Oğlak Yayıncılık, 2008.
5 Çelik, Ali Suavi, cit., p. 248. Il sottotitolo del periodico era Organe de la démocratie
musulmane.
171
capitolo decimo
Il 4 settembre, proprio il giorno in cui a causa della sconfitta
di Sedan si dichiarò dissolto il Secondo impero con l’istituzione di un
governo di emergenza nazionale, il ventitreenne Reşat scrisse una let-
tera al generale Louis-Jules Trochu (1815-1896), appena nominato capo
del governo provvisorio, per chiedere di essere arruolato come volonta-
rio nell’esercito francese6. La sua richiesta fu accolta assieme a quella
degli altri due compagni, che si trovarono così a combattere con l’u-
niforme francese senza però mai rinunciare al fez come copricapo,
un dettaglio inconfondibile che li rese celebri tra gli altri soldati con
l’appellativo di “le trois Turcs”7. Sembra comunque che i tre ottomani
siano stati assegnati unicamente al fronte parigino con il ruolo “civile”
di prestare soccorso ai feriti, e che in ragione di questa collocazione
ed esperienza non abbiano poi esitato a partecipare con entusiasmo
anche alla celebre avventura rivoluzionaria della Comune, durata dal
18 marzo 1871 fino al termine di maggio, quando fu repressa nel san-
gue dall’esercito francese guidato dal generale MacMahon. Sulla base
delle loro esperienze personali, al ritorno a Istanbul sia Reşat che Nuri,
sostenuti da Namık Kemal, sentirono la necessità di scrivere una serie
di articoli8 in difesa della Comune e dell’Associazione internazionale
dei lavoratori fondata da Marx nel 1864. In quegli anni questi fenome-
ni politici erano infatti divenuti lo spauracchio delle autorità politiche
di tutta Europa, e anche quelle ottomane, tramite la figura di Ali Pascià
ma anche quella del più liberale Halil Şerif, avevano avviato una propa-
ganda fortemente ostile nei confronti delle ideologie socialiste conside-
rate di estremo pericolo per l’ordine morale e istituzionale dell’impero9.
6 Per la riproduzione della lettera originale in francese, si veda Kuntay, Namık
Kemal, cit., p. 385. In generale per il tema dei tre turchi coinvolti nella guerra franco-prus-
siana e poi nella Comune di Parigi, si veda invece Serol Teber, Mehmet, Nuri ve Reşat
Beyler, Paris Kömününde Üç Yurtsever (Mehmet, Nuri e Reşat. Tre patrioti nella Comune
di Parigi), Istanbul, De Yayınevi, 1986.
7 Tevfik, Yeni Osmanlılar, cit., pp. 382-383.
8 Teber, Mehmet, Nuri ve Reşat, cit., pp. 87-101. Articolo di Reşat: Devair-i Belediye
Tarafdarani (Sostenitore della Comune) pubblicato su «Ibret», 3, 5 giugno 1872. Articoli
di Namık Kemal, Reddiye (Rifiuto) e di Nuri, Medeniyet (Civiltà) in difesa dell’Internaziona-
le pubblicati su «Ibret», 8, del 12 giugno 1872.
9 Teber, Mehmet, Nuri ve Reşat, cit., pp. 85-86. La lettera “Emirname-i Sami” fu
scritta da Ali Pascià il 25 luglio 1871 per condannare le idee comuniste e la Comune,
ritenendole un serio pericolo per la morale e l’ordine costituito (originale in Cemil Meriç,
Maǧaradakiler, cit., pp. 261-262). Per la simile preoccupazione manifestata da Halil Şerif,
si veda L’Empire ottomane, cit., p. 438.
172
l’unione d’oriente
3. Per quanto concerne gli altri Nuovi Ottomani, le loro attività
in Europa si limitarono quasi esclusivamente alla produzione di una
serie di periodici che, a dispetto della loro importanza nella storia della
stampa e del giornalismo ottomano, ebbero di fatto un’efficacia politica
assai limitata, a causa della distanza e di una serie di disaccordi interni
al gruppo.
Come abbiamo visto, Ali Suavi già a metà agosto del 1867 aveva
deciso di lasciare il gruppo e stabilirsi da solo a Londra, dove il 31 agosto
grazie al finanziamento di Mustafa Fazıl riprese la pubblicazione del
giornale «Muhbir» con l’intestazione: «Muhbir esce di nuovo, avendo
trovato un paese dove non è vietato dire la verità». Per ribadire la sua
distanza dal resto del gruppo, Ali Suavi affermò però che il giornale era
pubblicato da una «Associazione islamica che sosteneva una riforma
dell’impero ottomano»10. Prese di posizione come questa, e in generale
la linea editoriale basata su calunnie di carattere moralista e bigotto nei
confronti di Ali e Fuat Pascià, portarono in breve tempo alla rottura non
solo con gran parte dei Nuovi Ottomani ma anche con lo stesso Musta-
fa Fazıl, che decise di interrompere ogni sostegno finanziario nei suoi
confronti11.
Dopo aver pubblicato il 50° numero di «Muhbir» nel novembre
1868 Ali Suavi, che nel frattempo si era sposato con una donna inglese
di nome Marie12, decise di tornare a Parigi e dedicarsi alla pubblicazione
di un nuovo periodico, sempre in lingua ottomana, intitolato «Ulum»:
di carattere più divulgativo, era dedicato alla trattazione di temi di cultu-
ra, letteratura e filosofia europea e orientale13.
Nel frattempo, esortati da Mustafa Fazıl, a inizio del 1868 anche
Namık Kemal e Ziya si erano recati a Londra, dove il 29 giugno avevano
cominciato a pubblicare il nuovo giornale di opposizione «Hürriyet».
Ma il 24 luglio 186914 Mustafa Fazıl, dopo lunghi corteggiamenti, ri-
10 Çelik, Ali Suavi, cit., pp. 97-100.
11 Anche perché col passare del tempo Mustafa Fazıl a Istanbul si stava avvicinan-
do sempre più ad Ali Pascià: Kuntay, Namık Kemal, cit., II, pp. 80-83.
12 Il nome completo, secondo alcune fonti turche, sarebbe stato Marie Stewart
Lugh. Si veda ad esempio Ismail Doğan, Tanzimatın iki ucu: Münif Paşa ve Ali Suavi.
Sosyo-pedagojik bir karşılaştırma (I due estremi del Tanzimat: Münif Pascià e Ali Suavi.
Una comparazione socio-pedagogica), Istanbul, Iz Yayıncılık, 1991, p. 226. Altre invece
riportano il cognome “Beek”, ad esempio: Necdet Rüştü Efe, Ali Suavi’nin sevgilisi Miss
Beek (Miss Beek, la fidanzata di Ali Suavi), ritaglio di giornale da fonte imprecisata con-
sultabile online su www.saltresearch.org
13 Çelik, Ali Suavi, cit., pp. 200-204.
14 Ivi, p. 703.
173
capitolo decimo
uscì infine a ottenere da Ali Pascià un incarico istituzionale come mi-
nistro senza portafoglio, e in ragione di questo tradimento i redattori
di «Hürriyet» decisero di non accettare più alcun sostegno da parte sua.
A quel punto, in un imprevisto colpo di scena, fu il fratellastro di Mu-
stafa Fazıl, il khedivè d’Egitto Ismail, a offrire il suo aiuto finanziario
al giornale, allo scopo di porre fine alle violente critiche nei suoi con-
fronti e di esercitare maggiori pressioni su Ali Pascià, sperando di ot-
tenere la concessione di nuovi privilegi15. A quel punto Namık Kemal
decise di abbandonare del tutto il giornale, ma rimase ancora a Londra
per qualche tempo lavorando alla ristampa di una preziosa versione del
Corano proveniente dalla collezione privata di Mustafa Fazıl. Ziya ri-
mase quindi solo alla guida di «Hürriyet»16, ma cominciò ad avvalersi
della saltuaria collaborazione di Ali Suavi, pubblicando gli articoli che
quest’ultimo inviava da Parigi, in quanto il suo viscerale disprezzo nei
confronti di Ali Pascià risultava coerente con la nuova linea editoriale
a senso unico del giornale finanziato da Ismail. Ma in un articolo pub-
blicato a fine dicembre del 186917 Ali Suavi giunse a definire il gran
vizir ottomano «un infedele che merita di essere ucciso» e il fatto co-
stò una denuncia penale al direttore Ziya da parte delle autorità britan-
niche, in seguito all’intervento dell’ambasciatore ottomano a Londra.
A quel punto Ziya decise dopo qualche settimana di abbandonare Londra
e raggiungere Ginevra, dove dal 3 aprile 1870 riuscì a riprendere la pub-
blicazione di «Hürriyet», proseguita però solo fino a fine giugno18.
Nel frattempo Namık Kemal, grazie anche alla mai interrotta cor-
dialità dei rapporti con Mustafa Fazıl, che ad aprile 1870 divenne mini-
stro della giustizia e ad agosto ministro delle finanze, riuscì a ottenere
il perdono delle autorità ottomane, divenendo così il primo dei Nuovi
Ottomani a fare ritorno a Istanbul a fine novembre del 1870. Tutti gli
altri, a parte Ali Suavi, tornarono invece nella capitale ottomana tra la
fine del 1871 e l’inizio del 1872, quando in seguito alla morte di Ali Pa-
15 Hüseyin Çelik, Hürriyet, in Islam Ansiklopedisi, cit., XVIII, pp. 505-507. Nel nu-
mero 37 di «Hürriyet» (8 marzo 1869) si dichiarava ad esempio che ogni cosa fatta dal
governatore Ismail (compresa ad esempio l’apertura dell’assemblea parlamentare) fosse
solo un trucco per farsi bello agli occhi dei sovrani e dell’alta società europea: secondo
la redazione del giornale la sua concezione di progresso prevedeva infatti «l’apertura di tea-
tri per chi sapeva parlare francese con i soldi delle tasse prelevate dai contadini, e l’aper-
tura di circhi dove far divertire le ‘donne col ventaglio’ mediante le acrobazie dei cavalli».
16 A partire dal numero 64 del 13 settembre 1969.
17 Si veda numero 78 del 20 dicembre 1969.
18 Çelik, Hürriyet, cit., p. 506.
174
l’unione d’oriente
scià il sultano Abdülaziz decise di proclamare un’amnistia in occasione
del suo 43° compleanno lunare19.
4. Alla morte di Ali Pascià nel settembre 1871 il sultano, stanco
di avere al suo fianco figure forti in grado di contestare la sua autorità,
decise di nominare come gran vizir il più docile Mahmut Nedim Pascià
(1818-1883)20. Si trattava di un funzionario che come tanti altri della
sua generazione aveva cominciato a farsi le ossa nell’amministrazione
pubblica sin dalla giovane età, divenendo un fidato collaboratore di Mu-
stafa Reşit e raggiungendo negli anni ’50 la posizione di sottosegretario
agli esteri, cui fece seguito la nomina come governatore della provincia
di Damasco e poi di quella di Aydın. Ma alla morte di Mustafa Reşit nel
1858, Mahmut Nedim era stato fortemente ostracizzato da Ali e Fuat
Pascià, che non lo stimavano considerandolo troppo legato agli ambien-
ti conservatori21. Fu così che, dopo molti mesi senza incarico, nel 1860
gli fu assegnato su sua richiesta il governatorato di Tripoli in Libia,
di fatto una sorta di autoesilio cui si confinò per sette lunghi anni.
Nel 1867 riuscì però a riconquistare parzialmente la fiducia di un Ali
Pascià in sempre maggiore difficoltà: dopo un incarico minore durato
pochi mesi, nel marzo 1868 gli fu infatti assegnato l’importante posto
di ministro della Marina. Nei due anni e mezzo trascorsi in questa po-
sizione Mahmut Nedim ebbe l’occasione di farsi conoscere e apprezza-
re dal sultano, facile preda delle adulazioni personali e dell’allure degli
spettacoli militari.
Appena assunto il ruolo di gran vizir nel settembre 1871 Mahmut
Nedim rese subito chiaro il nuovo corso cui avrebbe improntato il suo
governo: ordinò infatti numerose epurazioni che andarono a colpire
gli uomini più vicini all’approccio riformista di Ali e Fuat Pascià, co-
stringendo addirittura molti di loro all’esilio presso le province più lon-
19 Tevfik, Yeni Osmanlılar, cit., pp. 411-412. I musulmani seguono un calendario
definito da dodici mesi lunari, equivalente a circa 354 giorni, e calcolato a partire dal
giorno dell’egira (16 luglio 622 d.C.). Il sultano era nato il 13 Şaban 1245. Il suo 43° com-
pleanno lunare (13 Şaban 1288) coincise col 29 ottobre 1871 del calendario gregoriano.
20 Secondo quanto riportato dall’ambasciatore britannico Eliot in un articolo scritto
nel 1888, alla morte di Ali Pascià il sultano Abdülaziz avrebbe affermato di «essere final-
mente un uomo libero». Si veda Davison, Reform, cit., p. 279.
21 È interessante notare che Mahmut Nedim era allo stesso tempo anche zio pa-
terno di Mehmet Bey dei Nuovi Ottomani, in quanto fratello minore di suo padre Sağır
Ahmet Bey, anche lui ostracizzato da Ali Pascià durante gli anni ’60 nell’ambito della sua
carriera da funzionario.
175
capitolo decimo
tane dell’impero22. Anche Mustafa Fazıl fu sollevato da ogni incarico,
e da quel giorno in poi non occupò più alcun posto fino alla prematura
morte nel dicembre 1875. All’inizio del 1872 l’ormai ex principe egizia-
no effettuò però un ultimo gesto di grande importanza per la storia del
movimento ottomano di opposizione: decise infatti di acquisire dagli
eredi di Ibrahim Şinasi i macchinari da stampa utilizzati per la pubbli-
cazione di «Tasvir-i Efkar» per donarli a Namık Kemal il quale – aiutato
da Reşat, Nuri ed Ebüzziya Tevfik – nel giugno 1872 fondò un nuovo
giornale intitolato «Ibret» (Monito)23. Dopo neanche un mese le auto-
rità ottomane imposero però al giornale la chiusura delle attività per
quattro mesi (poi ridotti a 80 giorni) a causa di un articolo di Namık
Kemal intitolato Garaz marazdır (Il rancore è una malattia), in cui
il gran vizir Mahmut Nedim veniva attaccato per le pressioni da lui
esercitate su Midhat Pascià per farlo dimettere dal posto di governatore
di Baghdad24. Del resto anche il khedivè Ismail aveva chiesto a Mahmut
Nedim e allo stesso sultano di intervenire affinché «Ibret» ponesse fine
alle dure critiche nei suoi confronti, dopo aver tentato senza riuscirci
di corrompere la redazione con un’offerta di denaro25.
Con la chiusura di «Ibret» e l’assegnazione dei quattro redattori
del giornale a incarichi amministrativi lontano dalla capitale26, i pro-
blemi del nuovo establishment ottomano apparivano risolti, ma nel giro
di qualche settimana giunse il colpo di scena. Dopo aver lasciato l’incari-
co di governatore a Baghdad a maggio, Midhat Pascià era infatti tornato
a Istanbul con l’unica intenzione di riposare per qualche tempo, dopo
i tanti anni di intenso e ininterrotto impegno istituzionale. Ma grazie
al ruolo svolto dalla stampa (nel frattempo erano nati anche altri giornali),
al suo ritorno Midhat era stato accolto con particolare entusiasmo dalla
popolazione più progressista della città: tutti gli ambienti riformisti, ma
anche i tanti rimasti delusi da Mahmut Nedim dopo le prime speranze
iniziali, cominciarono a vedere in lui l’unico leader politico in grado di
22 Tevfik, Yeni Osmanlılar, cit., pp. 408-409. In generale per la figura di Mahmut
Nedim Paşa, si veda Ali Akyıldız, Mahmud Nedim Paşa, in Islam Ansiklopedisi, cit., XXVII,
pp. 374-376. Si veda anche Roderic H. Davison, Mahmud Nedim Paşa, in Id., Nineteenth
Century Ottoman Diplomacy, pp. 95-98.
23 Nesimi Yazıcı, Ibret, in Islam Ansiklopedisi, cit., XXI, pp. 368-370.
24 Ömer Faruk Akün, Namık Kemal, in Islam Ansiklopedisi, XXXII, p. 367.
25 Kuntay, Namık Kemal, cit., II, pp. 110-115. Per il racconto di queste convulse set-
timane, si veda anche Tevfik, Yeni Osmanlilar. cit., pp. 412-425.
26 Namık Kemal fu inviato a Gallipoli, Nuri ad Ankara, Ebüzziya a Izmir, Reşat
a Bilecik.
176
l’unione d’oriente
restituire prestigio al governo ottomano. Ovviamente questo andazzo era
risultato estremamente sgradito a Mahmut Nedim, che il 26 luglio 1872
aveva deciso di assegnare a Midhat l’incarico di governatore della provincia
di Adrianopoli con l’obiettivo di toglierselo dai piedi. Seppure controvo-
glia Midhat aveva deciso di accettare, ma prima di partire aveva chiesto
un incontro privato col sultano, che il 30 luglio lo aveva accolto volentieri
serbando di lui un ottimo ricordo dall’ultima volta in cui si erano incon-
trati a Ruse nella provincia danubiana, di ritorno dal viaggio in Europa.
Fu così che al termine di una lunga conversazione in cui Midhat raccontò
al sultano quanto avvenuto a Baghdad e le motivazioni alla base delle sue
dimissioni, presentando en passant il suo personale piano di riforme per
l’impero ottomano, il volubile Abdülaziz decise all’improvviso di nomi-
nare Midhat gran vizir al posto di Mahmut Nedim, e di assegnare invece
quest’ultimo al posto di governatore di Edirne27.
A quel punto tutte le forze riformiste risultarono improvvisamen-
te galvanizzate dall’inattesa notizia, e fu così che nel caldo agosto di
quell’anno si crearono le condizioni necessarie a unire i destini di un
manipolo di personaggi molto eterogenei, ma accomunati da uno spre-
giudicato desiderio di cambiamento: lo statista Midhat, l’intellettuale
Namık Kemal, il massone Cleanthi Scalieri, l’ambasciatore britannico
Henry Eliot e l’erede al trono ottomano Murat.
5. Murat era nato il 21 settembre 1840, primogenito del sultano
Abdülmecid e di una donna giunta nell’harem dalla regione caucasica
dell’Abcasia. Sin dai primi anni di vita l’erede al trono fu fatto cresce-
re dal padre in linea con il suo pensiero modernista e con l’attrazione
da lui provata per la cultura occidentale: ricevette sin da piccolo lezioni
di francese da parte di Ibrahim Edhem, studiò musica col parmense
Callisto Guatelli e gli fu assegnato come medico personale l’abruzzese
Luigi Capoleone28. Le stesse possibilità furono poi riservate anche agli
altri figli di Abdülmecid, ma per ammissione del suo biografo Kératry
la curiosità e la predisposizione allo studio di Murat erano eccezionali,
e ciò gli permise di acquisire competenze negli ambiti più disparati: dal-
la teologia alla composizione musicale, dall’algebra al disegno di archi-
tettura29. In ogni caso, dopo un’infanzia serena e spensierata, raggiunta
27Topuz, Taif’te Ölüm, cit., pp. 52-58.
28Kératry, Mourad V, cit., p. 71. Per la biografia di Murat si veda inoltre Cevdet
Küçük, Murad V, in Islam Ansiklopedisi, cit., XXXI, pp. 183-185.
29 Keratry, Mourad V, cit., pp. 40-46.
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capitolo decimo
l’adolescenza la natura dell’erede al trono cominciò a farsi sempre più
saturnina. La stessa Lady Hornby lo descrisse così dopo averlo incontra-
to in occasione di un ricevimento nel maggio del 1856: «Il principe Mu-
rat è un giovane alto e pallido di circa diciassette anni, con un faccione
inespressivo e occhi grandi che guardano tutto con stupore»30.
Influenzati forse dalla forte crisi vissuta dal padre negli anni che
seguirono la morte della madre Bezmi Alem nel 1853, Murat e il fratello
Abdülhamid cominciarono già in giovane età a fare un uso sregolato
di alcolici. Mentre però il medico personale di quest’ultimo31 riuscì a un
certo punto a riportare Abdülhamid sulla “buona strada”, facendogli no-
tare la necessità di prestare attenzione alla salute in seguito alla prema-
tura morte del padre, Luigi Capoleone non riuscì a essere egualmente
convincente con Murat, la cui salute psicofisica prese quindi a guastarsi
progressivamente32.
Ad avere un’influenza cruciale sullo sviluppo intellettuale di Mu-
rat fu l’incontro fortuito con Namık Kemal avvenuto verso la fine del
1865: per ottenere una somma di denaro necessaria a soddisfare qual-
che necessità personale, a un certo punto l’erede al trono aveva infatti
lasciato in pegno a un inglese di nome Stephan un cappotto tempestato
di pietre preziose. Ma trascorso un certo periodo l’inglese aveva a sua
volta deciso di vendere il cappotto, ritenendo che Murat avesse mancato
di restituire la somma entro il tempo pattuito. L’erede al trono era però
andato su tutte le furie, anche perché il cappotto era un regalo d’infan-
zia del defunto padre, e aveva fatto causa all’inglese decidendo poi di
far pubblicare gli atti del processo sul giornale «Tavsir-i Efkar», diretto
in quei mesi da Namık Kemal in seguito alla partenza di Şinasi per Pa-
rigi. In quel frangente il principe Murat era rimasto molto colpito dalla
qualità della scrittura del giovane intellettuale, e aveva chiesto di incon-
trarlo decidendo poi di assumerlo come istruttore privato di letteratura.
A partire da quel momento Namık Kemal divenne un’importante fonte
d’ispirazione politica e culturale per l’erede al trono, con cui si manten-
ne sempre in contatto anche nei periodi di lontananza o difficoltà grazie
alla mediazione di un tutore, noto come Baltacı Topal Süleyman33.
L’ulteriore punto di svolta nella vita del principe fu ovviamente
il viaggio in Europa effettuato assieme allo zio Abdülaziz e al fratel-
30 Hornby, Constantinople, cit., p. 338.
31 Si trattava del greco Spiridon Mavroyeni (1817-1902).
32 Kuntay, Namık Kemal, cit., II, p. 754. Si veda anche Keratry, Mourad V. cit., pp. 71-72.
33 Ivi, I, pp. 79-82.
178
l’unione d’oriente
lo minore Abdülhamid nell’estate del 1867. In quelle settimane, oltre
ai tanti apprezzamenti ricevuti dalle teste coronate d’Europa in ragione
della sua cultura e raffinatezza, il principe ottomano a Londra strinse
particolare amicizia con l’omologo e coetaneo Edoardo, futuro erede
al trono dell’impero britannico, che lo introdusse ai temi della massone-
ria esortandolo a coltivare questo interesse al ritorno a Istanbul34.
Diversamente da altri esponenti di spicco della politica ottomana,
che in quegli anni sembravano ansiosi di trovare affiliazione presso una
delle tante logge attive nella capitale35, Murat non si fece prendere dalla
fretta, sebbene anche il Grande Oriente di Francia gli avesse fatto giun-
gere una lettera d’invito da Parigi36. Questo temporeggiare era dovuto
probabilmente anche alle restrizioni alla libertà di movimento impo-
stegli dopo il viaggio in Europa dal sempre più sospettoso zio e sultano
Abdülaziz.
In quegli anni la loggia più popolare a Istanbul era “L’Union
d’Orient”, fondata nei giorni dell’equinozio di primavera del 1863 con
l’esplicita intenzione di non effettuare alcuna discriminazione nazionale
o religiosa nei confronti degli affiliati, e di rivolgersi anzi esplicitamente
alla comunità ottomana musulmana. La svolta nella storia della loggia
avvenne però nel dicembre 1864 con l’elezione a Gran Maestro di Louis
Amiable (1837-1904), un giovane avvocato francese da poco arrivato
a Istanbul, che effettuò una vera e propria rivoluzione con la decisione
di tradurre in lingua turca-ottomana l’intero protocollo e l’apparato di do-
cumentazione, introducendo di fatto il bilinguismo nella loggia. Il suc-
cesso fu immediato: se nel 1865 c’erano solo 3 musulmani su 73 soci
totali, nel 1869 erano divenuti 53 su 143. A partire dall’autunno 1869,
con l’elezione a Gran Maestro del rumeno Nicolas Bordeano, direttore
34 Öztuna, Devletler, II, p. 296. Secondo quanto riportato da Öztuna, i due principi
avrebbero avuto modo d’incontrarsi anche in occasione della visita di Edoardo e la moglie
a Istanbul nell’aprile 1869 (si veda supra, § 6.7).
35 Per un’ottima panoramica delle logge attive in quegli anni nella capitale ottoma-
na, si veda Dumont, La Turquie, cit., in part. pp. 11-41. Per la questione più specifica del
rapporto tra musulmani e massoneria, si veda invece Koloğlu, Islam aleminde masonluk,
cit., in part. pp. 64-76. Secondo quanto riportato in Suha Umur, Belgelere göre 5.Murad’ın
Masonluğu (La massoneria di Murat V in base ai documenti), «Tarih ve Toplum», 38,
1987, sia Münif Pascià (si veda supra, cap. 7) che Ibrahim Edhem (si veda supra, cap. 9)
sarebbero stati membri attivi di qualche loggia massonica, nel caso di Ibrahim Edhem
senza subbio “L’Union d’Orient”. Si veda Dumont, La Turquie, cit., pp. 23-24.
36 Constantin Svolopoulos, L’initiation de Mourad V à la Franc-maçonnerie par
Cl.Scalieri: aux origines du mouvement libéral en Turquie, «Balkan Studies», 21, 2, 1980,
pp. 441-457: 447
179
capitolo decimo
del giornale «La Turquie» ritenuto troppo prossimo alle posizioni gover-
native, la loggia cominciò però a perdere rapidamente il suo prestigio37.
Nel frattempo a inizio 1868 era stata fondata “I Proodos”
(H πρόοδος ovvero “il progresso”), una loggia massonica in lingua gre-
ca ma associata al Grande Oriente di Francia che a partire dalla fine
del 1870, con l’elezione a Gran Maestro di Cleanthi Scalieri e la scel-
ta di adottare il bilinguismo, divenne il nuovo punto di riferimento
per gli elementi più “cosmopoliti” della borghesia di Istanbul38. L’am-
bizioso Scalieri, nato a Istanbul il 20 novembre 1833 da una famiglia
grecizzata di antiche origini nobiliari veronesi39, si era iniziato alla mas-
soneria presso “L’Union d’Orient” già nel 1865 e aveva probabilmente
stabilito il primo contatto col principe Murat nel 1868, dopo aver rice-
vuto l’incarico di recapitare all’erede al trono una lettera inviatagli dalla
sede parigina del Grande Oriente di Francia40. A un certo punto, nei
primi mesi del 1872, ad affiliarsi presso la loggia “I Proodos” guidata da
Scalieri era giunto anche Namık Kemal41.
6. Nell’estate del 1872 si crearono quindi le condizioni perché av-
venisse una mirabile congiunzione di destini: in seguito alla nomina
di Midhat al posto di gran vizir, Namık Kemal decise infatti di tem-
poreggiare ancora un po’ prima di accettare il posto di prefetto a Gal-
lipoli assegnatogli da Mahmut Nedim per allontanarlo dalla capitale.
Colse inoltre l’occasione per tentare di ottenere un incontro privato
37 Dumont, La Turquie, cit., pp. 20-27. Tra i fondatori della loggia “L’Union
d’Orient” risultava esserci anche il farmacista italiano Edoardo Ottoni (tessera numero 2,
residente in Grand Rue 268): si veda l’allegato 2 della tesi di Nurcan Yazıcı, cit.
38 Dumont, La Turquie, cit., pp. 34-41.
39 Svolopoulos, L’initiation, cit., p. 445. Per ulteriori, dettagliate informazioni sulla
famiglia di Cleanthi Scalieri, si veda Ahmet Kısa, Cleanthi Scalieri ve Aziz Bey Komitesi
(1876-1878), tesi di laurea, Università Hacettepe di Ankara, 2012. Per portare per la pri-
ma volta alla luce queste rilevanti informazioni, l’autore della tesi si è basato sugli atti
del processo intentato (in contumacia) contro Scalieri dalle autorità ottomane nel 1878.
Tra le varie informazioni ivi incluse, risulta che Scalieri avesse due figli maschi ma fosse
rimasto vedovo della moglie nel 1870.
40 Ivi, pp. 446-447. Nell’allegato 3 presente alla fine di Yazıcı, Pierre Montani, cit.,
nel 1868 Scalieri risultava qualificato come “tesoriere” nell’organigramma della loggia
“L’Union d’Orient”.
41 Svolopoulos nel suo articolo riporta la lista di tutti gli iscritti alla loggia all’ini-
zio del 1873, sulla base della documentazione conservata presso i “Fonds Maçonnique”
della Bibliotheque Nationale di Parigi: tra i nomi risulta presente anche quello di “Ke-
mal Mehmet Namik, homme des lettres”. Secondo quanto riportato in Umur, 5.Murad’ın
Masonluğu, cit., Namık Kemal sarebbe stato iniziato a “I Proodos” il 24 febbraio 1872
assieme a Seyit Bey, il capo ciambellano del principe ereditario Murat.
180
l’unione d’oriente
con Midhat, che non aveva mai conosciuto di persona sebbene fossero
anni che sentiva parlare bene di lui42. Dopo essere riuscito a stabilire
il primo contatto con il nuovo gran vizir, facendogli recapitare tramite
il suo giovane collaboratore (e compagno di loggia presso “I Proodos”43)
Ebüzziya Tevfik una lettera del principe Murat, alla fine il luogo in cui
si concretizzò l’incontro e la successiva frequentazione reciproca dei
“magnifici cinque” fu la residenza estiva dell’ambasciatore britannico
Henry Eliot (1817-1907)44 a Şemsipaşa sulla costa asiatica del Bosfo-
ro, dove dall’anno precedente, su consiglio del suo medico, il principe
Murat era solito recarsi con frequenza per nuotare45. Dopo aver svolto
un ruolo chiave nel rendere possibile questo convegno di personalità,
Namık Kemal decise in ogni caso di accettare l’incarico ricevuto e parti-
re per Gallipoli a settembre46.
Nel frattempo, come già negli anni da governatore, anche nel ruolo
di gran vizir Midhat volle assegnare primaria importanza allo sviluppo
delle infrastrutture nel territorio dell’impero, promuovendo in partico-
lare la realizzazione di una rete ferroviaria in grado di collegare Istanbul
sia all’Europa che all’Anatolia47. Del resto già nel 1871 era stato lo stes-
so Midhat a suscitare l’entusiasmo del sultano con un rapporto inviato
da Baghdad, nel quale aveva sostenuto la necessità di costruire una li-
nea ferroviaria in grado di collegare la capitale ottomana alla lontana
42 Topuz, Taif’te Ölüm, cit., pp. 47-52.
43 Svolopoulos, L’initiation, cit., p. 442. Nella lista degli iscritti alla loggia fornita
da Svolopulos figura anche il nome di un altro giovane collaboratore di Namık Kemal:
“Nouri Mehmed, employé de gouvernement”.
44 Prima di trascorrere 10 anni a Istanbul tra 1867-1877, Eliot era già stato amba-
sciatore britannico a Napoli tra 1859 e 1860, assistendo all’arrivo delle truppe garibaldine
nella città partenopea nell’autunno del 1860. Dal 1863 al 1867 era poi divenuto ambascia-
tore britannico presso il Regno d’Italia (prima a Torino, poi dal febbraio 1865 a Firenze).
45 Kuntay, Namık Kemal, cit., p. 120.
46 Tevfik, Yeni Osmanlılar, cit., p. 452.
47 La prima tratta feroviaria nel territorio dell’impero ottomano era stata la Cairo-
Alessandria, 211 chilometri costruiti tra 1851 e 1856 da una compagnia britannica, seguita
negli anni successivi dalle linee Izmir-Aydın e Izmir-Kasaba, costruite sempre da compagnie
britanniche. Per la questione delle ferrovie nell’impero ottomano, abbiamo consultato in
particolare Vahdettin Engin, Rumeli Demiryolları, Istanbul, Eren Yayınları, 1993, pp. 36-39.
Data l’evidente influenza, in particolare per quanto concerne l’attenzione alle infrastrutture,
sarebbe interessante indagare più a fondo il rapporto tra Midhat Pascià e l’ideologia sansi-
moniana. In riferimento a questa sua ideologia fortemente “modernista”, ritengo necessario
segnalare che durante i pochi mesi da gran vizir Midhat ebbe l’infausta idea di proporre
l’abbattimento delle storiche mura di Istanbul, come purtroppo gli era già riuscito di fare
a Baghdad.
181
capitolo decimo
provincia irachena48. Sulla sponda europea di Istanbul la prima trat-
ta realizzata era stata la Yedikule-Küçükçekmece, quindici chilometri
terminati alla fine del 1870 da una compagnia presieduta dal barone
austriaco Maurice de Hirsch (1831-1896), firmatario di un accordo col
governo ottomano per estendere poi la linea da Istanbul fino alle pro-
vince balcaniche dell’impero49. Per quanto concerne invece la sponda
asiatica della capitale ottomana, venerdì 18 ottobre Midhat si recò dal-
le parti di Pendik, circa una ventina di chilometri a sud di Istanbul,
per visionare il progresso dei lavori per la linea ferroviaria nella regione
anatolica, destinata dopo un rapido avvio a proseguire con estrema len-
tezza fino agli ultimi anni del XIX secolo. Ma al suo ritorno in città nel
tardo pomeriggio, il gran vizir ricevette dal ciambellano di corte la noti-
zia che il sultano aveva deciso di sospenderlo dall’incarico senza alcuna
spiegazione aggiuntiva50. Si venne poi a sapere che a convincere il sulta-
no a prendere questa decisione così repentina era stato il khedivè Ismail,
scontento dello scarso sostegno ricevuto da Midhat nel conseguimento
di nuovi privilegi istituzionali, che servivano al governatore egiziano
per contrarre una serie di ulteriori prestiti con le banche europee.
Anche se non sappiamo quando avesse preso la decisione di farlo,
risulta interessante scoprire che solo due giorni dopo il licenziamento
di Midhat il principe Murat lasciò cadere le ultime barriere psicologi-
che e accettò di iniziarsi ufficialmente alla massoneria presso la loggia
“I Proodos”. Trattandosi di un passo storico in molti sensi, le autori-
tà massoniche implicate – in particolare il Gran Maestro Scalieri ma
anche il Grande Oriente di Francia – imposero il mantenimento della
più assoluta segretezza, consentendo a tale scopo anche alcune infra-
zioni del protocollo formale. La cerimonia si tenne infatti presso la resi-
denza privata di Louis Amiable a Kadıköy nel pomeriggio di domenica
20 ottobre del 1872, in presenza di un numero ristretto di affiliati della
48 Il sogno della ferrovia Istanbul-Baghdad finì per trasformarsi in un incubo per
l’impero ottomano, in quanto divenne motivo di scontro tra le potenze straniere (in parti-
colare Germania e Inghilterra) consapevoli della sua importanza strategica, in particolare
dopo la scoperta “capitalistica” del petrolio negli ultimi decenni del XIX secolo. Alla fine,
a causa di questi e altri problemi logistici e finanziari, la tratta sarà ultimata nella sua
interezza solo nel 1940.
49 Engin, Rumeli Demiryolları, cit., pp. 64-67. A causa di numerosi problemi logi-
stici e di una serie di irregolarità finanziarie, il definitivo collegamento di Istanbul alla
rete ferroviaria europea avvenne solo una quindicina di anni dopo, rendendo possibile
l’entrata in funzione del leggendario Orient Express nella seconda metà degli anni ’80.
50 Tevfik, Yeni Osmanlılar, cit., pp. 455-456.
182
l’unione d’oriente
loggia “I Proodos”51. Lo straordinario successo raggiunto da Cleanthi
Scalieri con l’affiliazione alla massoneria dell’erede al trono ottomano
fu subito premiato dal Grande Oriente di Francia con una lettera in cui
gli si annunciava l’elevamento al titolo di Cavaliere di Gerusalemme,
e lo si esortava a velocizzare il più possibile l’assegnazione di ulteriori
gradi massonici al principe ottomano. Scalieri non perse quindi tempo,
invitando il principe Murat ad accettare anche il secondo e il terzo gra-
do in una cerimonia tenutasi l’8 dicembre, questa volta presso la sede
ordinaria della loggia a Beyoğlu nei pressi della Grand Rue de Pera52.
7. A sostituire Midhat nel ruolo di gran vizir fu il più moderato
Mütercim Rüştü Pascià: a dispetto però delle pressioni ricevute dal sul-
tano, influenzato a sua volta dal fronte più conservatore e opportunista
capeggiato dall’ambasciatore russo Ignatieff e dal khedivè Ismail, il nuo-
vo capo del governo ottomano si rifiutò di sostituire Halil Şerif dal posto
di ministro degli esteri cui lo aveva assegnato Midhat a settembre53. Ha-
lil Şerif stava vivendo in quei mesi un vero e proprio periodo di grazia:
a metà novembre aveva infatti presentato un piano di riforme ammini-
strative in chiave federalista, per permettere la tenuta dell’impero nel-
le zone dove erano presenti rivendicazioni di carattere nazionalista54.
Il progetto aveva ricevuto il sostegno di Vienna e Londra, ma risultò for-
temente osteggiato dalla Russia, che in tal modo avrebbe visto crollare
la sua capacità d’influenza nella regione balcanica.
Nel mese di dicembre Halil Şerif convolò inoltre a nozze con Nazlı,
figlia di Mustafa Fazıl, con una sfavillante cerimonia cui il sultano e la
51 Svolopoulos, L’initiation, cit., pp. 441, 443.
52 Ivi, pp. 443-444. Per l’esattezza la sede della loggia si trovava in Ağa Hamamı
Sokak no. 12, nel quartiere di Çukurcuma. Un ulteriore successo di Scalieri fu quello
di ottenere l’affiliazione alla loggia “I Proodos” di due fratelli minori del principe Mu-
rat: nel novembre 1873 Nureddin (1851-1885) e nel settembre 1875 Kemaleddin (nato nel
1847, in quanto quarto figlio di Abdülmecid avrebbe avuto la possibilità di salire al trono
nel 1918 alla morte di Mehmet V Reşat, ma fu fatto uccidere nel 1905 dal fratello maggiore
e al tempo sultano Abdülhamid II).
53 Secondo quanto riportato in Davison in The influence, cit., p. 93, poche settimane
prima di morire Ali Pascià aveva convinto il sultano ad assegnare a Halil Şerif il titolo
di pascià, ritenendo che un giorno sarebbe stato lui l’unico degno erede per la posizione
di ministro degli esteri. Dopo essere divenuto gran vizir, Midhat aveva in realtà assegnato
il posto di ministro degli esteri all’allora ambasciatore a Parigi Mehmet Cemil (primo-
genito di Mustafa Reşit; cfr. supra nota 26 a p. 126), che morì però all’improvviso dopo
qualche settimana. Al suo posto Midhat nominò quindi Halil Şerif, che dall’agosto 1870
occupava il posto di ambasciatore ottomano a Vienna.
54 Davison, Halil Şerif Paşa, cit., p. 74.
183
capitolo decimo
madre si rifiutarono di partecipare per evitare di legittimare con la loro
presenza un’eccessiva ostentazione di costumi occidentali55. Non pago
di tutto ciò, in quei mesi Halil Şerif fornì il suo sostegno morale e finanzia-
rio anche a una nuova compagnia teatrale animata dal “nuovo ottomano”
Nuri e altri suoi compagni, ospitata presso un teatro molto popolare in
quegli anni conosciuto col nome del suo direttore, l’armeno Güllü Agop56.
La prima messinscena di grande successo della nuova compagnia fu
l’opera teatrale Ecel-i Kaza (Morte accidentale) scritta da Ebüzziya Tevfik.
Ma non appena ne ebbe notizia da Gallipoli, anche Namık Kemal fu at-
tratto da questa nuova possibilità espressiva e decise di scrivere un’ope-
ra intitolata Vatan yahut Silistre (La patria ovvero Silistria) dedicata alla
gloriosa difesa ottomana della cittadina di Silistria dall’attacco dei Russi
nel corso della guerra di Crimea (si veda supra, § 1.10). A fine dicembre
a causa di un futile problema amministrativo Namık Kemal fu sollevato
dall’incarico a Gallipoli: ebbe quindi la possibilità di tornare a Istanbul
per dedicarsi al giornalismo e alla messinscena della nuova opera
presso il Teatro di Güllü Agop a Gedik Pascià, un quartiere nei pressi
di Sultanahmet sul lato meridionale della penisola storica57.
La prima di Vatan Yahut Silistre si tenne il 1° aprile 1873, rivelan-
dosi non solo uno straordinario successo di pubblico, ma anche l’oc-
casione per riunire per la prima volta sotto lo stesso tetto centinaia
di persone appartenenti a diversi gruppi etnici e religiosi, ma accomu-
nate dal medesimo desiderio di riforme progressiste e liberali.
Fu così che alla fine dello spettacolo la folla cominciò a urlare slogan
in favore di Namık Kemal e delle riforme liberali, e all’uscita dal teatro
circa un centinaio di persone si misero a marciare compatte fino alla sede
del giornale «Ibret», continuando a urlare slogan in preda all’entusiasmo
anche mentre passavano nei pressi della sede del governo a Gülhane. Tra
gli slogan urlati dalla folla ce n’era uno particolarmente significativo per
comprendere quanto fossero già diffuse nella popolazione le aspettati-
ve nei confronti del futuro erede al trono ottomano: si trattava di “Allah
muradımızı versin”, un gioco di parole basato sul significato della parola
55Davison, The Influence of Paris, cit., pp. 91-92.
56Davison, Halil Şerif Paşa, cit., p. 73. Per la storia di questa istituzione, che ha svol-
to un ruolo fondamentale nella storia del teatro moderno in Turchia, si veda Metin And,
Osmanlı Tiyatrosu (Il teatro ottomano) (1976), Istanbul, Dost Yayınevi, 1999, pp. 28-100.
Secondo quanto riportato in Umur, 5.Murad’ın Masonluğu, cit., in quegli anni anche Güllü
Agop sarebbe stato membro attivo di una loggia massonica, senza però specificare quale.
57 Tevfik, Yeni Osmanlilar, cit., pp. 489-498. Per un buon racconto di questi mesi
movimentati, si veda anche Davison, Reform, cit., pp. 296-300.
184
l’unione d’oriente
murat, che come sostantivo possiede anche il significato di “desiderio”.
La frase era quindi interpretabile con la doppia accezione di “Dio ci dia
quel che desideriamo” e “Dio ci dia il nostro Murat”58.
Il fatto ovviamente non passò inosservato al sultano e alle altre
autorità ottomane, che decisero di assumere immediatamente le neces-
sarie precauzioni, imponendo dopo pochi giorni la definitiva chiusura
di «Ibret» e di altri tre giornali, e mandando in esilio a tempo indeter-
minato (una pena molto più dura delle precedenti assegnazioni d’in-
carico presso province lontane) alcuni dei maggiori protagonisti della
vita intellettuale di quegli anni: Namık Kemal a Cipro, Ebüzziya Tevfik
e Ahmet Midhat a Rodi, Nuri presso la cittadina di Acri in Galilea.
8. Anche se non ne abbiamo testimonianza diretta, è probabile che
anche i membri della massoneria italiana di Istanbul abbiano dato sfo-
go alla fantasia in riferimento al nome e alla figura di Murat, caricando
il principe ottomano di aspettative “messianiche” imprescindibili già
a partire dal fatto che, alla sua salita al trono, Murat sarebbe divenuto
il 33° sultano della longeva dinastia ottomana, proprio il numero che
nella massoneria corrisponde al grado più alto di iniziazione.
Oltre a ciò, nello specifico caso italiano c’era l’affinità della parola
Murat con il termine “muratore”, che come abbiamo già visto in ita-
liano traduce l’espressione originale anglo-francese mason. Ma oltre a
questo, c’era un avvenimento storico ancora fortemente impresso nella
memoria collettiva degli esuli italiani provenienti dal centro e dal sud
Italia, in particolare quelli provenienti da famiglie che avevano simpa-
tizzato col movimento della carboneria nel suo periodo germinale, ovve-
ro il primo quarto del XIX secolo. La carboneria come modello organiz-
zativo e ideologico aveva infatti cominciato a diffondersi nella penisola
italiana con l’instaurazione del regno napoleonico in particolare nelle
regioni appartenenti al Regno di Napoli, quando l’imperatore francese,
sconfiggendo i Borboni nel 1805, ne aveva assegnata l’amministrazione
al fratello Giuseppe Bonaparte.
Come già in precedenza nelle regioni dell’Italia settentrionale,
la presenza del regime napoleonico coincise con un rapido avanzamento
dei processi di modernizzazione delle istituzioni politiche e culturali nella
regione, incrinando per la prima volta dopo secoli le fossilizzate strutture
del potere feudale locale. Questo processo divenne ancora più evidente
58 Kuntay, Namık Kemal, cit., II, p. 155.
185
capitolo decimo
a partire dal 1808 quando a essere nominato re di Napoli, dopo la par-
tenza di Giuseppe Bonaparte per la Spagna, fu Gioacchino Murat (1767-
1815), un umile figlio di albergatori divenuto cognato di Napoleone nel
gennaio 1800 in ragione del matrimonio contratto con la sorella minore
dell’imperatore. Durante i neanche sette anni di regno trascorsi a Napoli,
Gioacchino Murat fece realizzare importanti opere pubbliche, fondò l’Ac-
cademia reale e quella che sarebbe divenuta la prima facoltà d’Ingegneria
d’Italia, oltre a introdurre il Codice Napoleonico che legalizzava per la pri-
ma volta nella storia d’Italia il divorzio e il matrimonio civile, attraendo
su di sé il forte risentimento del clero. In seguito ad alcuni eventi lega-
ti alla sorte di Napoleone Bonaparte, a un certo punto nella primavera
del 1815 Gioacchino Murat si avventurò verso il nord della penisola in
una campagna militare che mirava ai territori dello Stato della Chiesa.
Dopo essere giunto fino a Bologna il francese effettuò il celebre proclama
di Rimini il quale, chiamando gli abitanti dell’intera penisola a unirsi in
un fronte comune per conquistare l’indipendenza dalle potenze straniere,
viene considerato da alcuni come il primo manifesto del Risorgimento
italiano. Negli anni precedenti questa campagna militare, per preparare
culturalmente la popolazione ai valori liberali e progressisti necessari
a superare i settarismi regionali e stimolare il sentimento “nazionale”,
Gioacchino Murat avrebbe inoltre ordinato di organizzare nel territorio
appenninico e adriatico una diffusa rete di vendite carbonare e logge mas-
soniche, che attecchirono in modo particolare nel territorio marchigiano:
Quando il Murat il 19 marzo 1815 giunse in Ancona, la città sembrava
favorevole a seguirlo ed a combattere per la libertà d’Italia. Egli fu ricevuto
con tutti gli onori di un re e prese alloggio nel palazzo del Viceré fra gli
evviva del popolo mentre si andava preparando la difesa della città.59
Risulta inoltre interessante scoprire che probabilmente fu il cospi-
ratore corso Francesco Passano (1774-1838) – designato da Gioacchi-
no Murat come console ad Ancona e poi imprigionato per sette anni
a Roma quando la città ricadde sotto il dominio pontificio – a iniziare
Giuseppe Mazzini alla carboneria intorno al 1828 a Genova, finendo poi
incarcerati insieme a Savona nel 1830-183160.
59 Luca Guazzati, L’Oriente di Ancona, Ancona, Affinità Elettive, 2009, p. 14.
60 Ivi, p. 36. Per ulteriori informazioni su questo interessante personaggio, si veda:
Domenico Spadoni, Il corso Francesco Passano iniziatore di Mazzini alle sette, «Archivio sto-
rico di Corsica», a. XI, 3, 1935, pp. 321-347. Per studi più recenti, ma con informazioni
leggermente discordanti, si veda il solito Cazzaniga, Società segrete, cit., p. 37, ma anche
Franco Della Peruta, Giuseppe Mazzini dalla Giovine Italia alla Giovine Europa, in Pensiero
186
l’unione d’oriente
Tra coloro che possono aver colto i segni di questo “misterioso
appuntamento tra generazioni” nell’ambiente dei massoni italiani di
Istanbul di quegli anni c’era senza dubbio Emanuele Veneziani (1826-
1889). Si trattava di un ebreo livornese di umili origini il quale, grazie
alla protezione di un locale filantropo61, ebbe la possibilità di studia-
re fino a diventare prima precettore della celebre famiglia Allatini a
Salonicco62, poi a partire dal 1854 segretario personale della potente
famiglia dei banchieri Camondo a Istanbul63. Intorno al 1857 convolò
a nozze con una ragazza ebrea discendente di una ricca famiglia di
Istanbul, che nel 1861 mise al mondo il figlio Victor poi morto improv-
visamente a Parigi nel 188264. Veneziani, che era già stato iniziato alla
massoneria nel 1844, nel 1863 divenne il primo venerabile della log-
gia “Italia” subito dopo la sua fondazione65 e nel 1865 fu addirittura
tra i fondatori de “L’Union d’Orient”, la loggia che ebbe un ruolo fon-
damentale nell’apertura verso la comunità musulmana dell’impero66.
A un certo punto nel 1869 i due fratelli Abraham-Behor (1829-1889)
e Nissim (1830-1889) Camondo furono incaricati dal nonno Abraham-
e Azione. Mazzini nel movimento democratico italiano e internazionale, atti del LXII Congres-
so di storia del Risorgimento italiano (Genova, 8-12 dicembre 2004), a cura di Stefania
Bonanni, Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, 2006, pp. 29-45.
61 Si trattava di Samuele Fiorentino. Si veda Sabato Morais, Italian Hebrew
Literature (1926), New York, Hermon Press, 1970. p. 202. Sabato Morais (1823-1897) era
un ebreo livornese che dopo cinque anni trascorsi a Londra nel 1851 partì per gli Stati
Uniti, dove divenne una figura di spicco dell’ebraismo americano, fondando nel 1886
a New York il Jewish Theological Seminary. Secondo quanto riportato dal figlio Henry
in una biografia dedicata al padre, prima di partire per gli Stati Uniti nel 1851 Sabato
Morais avrebbe lasciato il passaporto a Giuseppe Mazzini, cui era molto legato, permet-
tendo così notevole libertà di movimento all’esule genovese negli anni seguenti. Si veda
Arthur Kiron, Livornese Traces in American Jewish History, in Per Elia Benamozegh. Atti
del Convegno di Livorno su Benamozegh (Livorno, settembre 2000), a cura di Alessandro
Guetta, Milano, Edizioni Thalassa de Paz, 2001, pp. 45-66: 55-56.
62 Ivi, p. 203. Per la storia di questa famiglia, si veda Evanghelos Hekimoglou,
The Immortal ‘Allatini’: Ancestors and Relatives of Noémie Allatini-Bloch (1860-1928), Thes-
saloniki, Jewish Museum, 2012.
63 Morais, Italian Hebrew, cit., p. 203. I Camondo erano una famiglia ebrea se-
fardita stabilitasi a Venezia dopo il 1492. Un ramo della famiglia decise poi di trasfe-
ririsi a Istanbul in seguito alla capitolazione della Serenissima nel 1797. Grazie al suc-
cesso delle loro attività bancarie nell’impero ottomano, a partire dalla seconda metà del
XIX secolo giunsero a essere conosciuti come “i Rothschild d’Oriente”. Divennero inoltre
noti a Parigi e altrove per le loro attività filantropiche e la rilevanza delle loro collezioni
d’arte. L’intera discendenza, stabilitasi in Francia a partire dagli anni ’70 del XIX secolo,
finì per essere sterminata nei campi di concentramento nazisti.
64 Morais, Italian Hebrew, cit., p. 209.
65 Locci, Il cammino di Hiram, cit., p. 38.
66 Yazıcı, Pierre Montani, cit., allegato 3.
187
capitolo decimo
Salomon (1781-1873) di trasferire le attività bancarie della famiglia
da Istanbul a Parigi, mantenendo a Istanbul unicamente la gestione
delle numerose proprietà immobiliari e continuando a impegnarsi
in attività filantropiche a favore della comunità ebraica di Istanbul, sem-
pre grazie alla mediazione del fidato braccio destro Emanuele Vene-
ziani67. In quegli stessi anni, al termine del conflitto franco-prussiano
il livornese fu assunto come segretario personale anche da un’altra am-
biziosa figura di origine ebraica: si trattava del barone Hirsch, l’impre-
sario che nel 1869 aveva acquisito l’appalto per la costruzione delle fer-
rovie ottomane nella regione balcanica, divenendo negli anni successivi
uno degli uomini più ricchi del XIX secolo68. A partire da quel momento
la vita di Veneziani acquisì una dimensione sempre più internazionale,
che lo portò a impegnarsi in numerose attività di filantropismo nei con-
fronti della causa ebraica69. Morì nel febbraio 1889 a Parigi, poco dopo
essere tornato da un viaggio a Vienna.
Risulta interessante notare che, come lo stesso Emanuele Vene-
ziani70, in quegli anni a Istanbul numerosi altri membri di spicco della
comunità massonica italiana risultavano iscritti anche alla Società ope-
67 Nora Şeni, Sophie le Tarnec, Les Camondos, ou l’éclipse d’une fortune, Paris,
Actes Sud, 1997, pp. 58, 63-65. Emanuele Veneziani fu anche vice-presidente della sede
a Istanbul della Alliance Israelite Universelle, fondata nel 1860 a Parigi. Si veda Morais,
Italian Hebrew, cit., p. 204. Nel 1883 divenne membro del Comitato centrale della stessa
istituzione Morais, Italian Hebrew, cit., p. 210, n. 2.
68 Si veda Indicateur Ottomane del 1881, dove Veneziani risulta registrato come
«représentant du Baron Hirsch». Si veda inoltre Liana Elda Funaro, Ritratti di ebrei ita-
liani dell’Ottocento nelle pagine di Sabato Morais, «Materia Giudaica», XV-XVI, 2010-2011,
pp. 281-305: 292. Per la figura del barone Hirsch, ebreo austriaco divenuto uno dei prin-
cipali finanziatori dei movimenti in sostegno della diaspora ebraica nel mondo alla fine
del XIX secolo, si veda Kurt Grunwald, Turkenhirsch: a Study of Baron Maurice de Hirsch,
Jerusalem, Israel Program for Scientific Translations, 1966.
69 Secondo quanto riportato da Morais, Hebrew Literature, p. 207, sulla base di una
corrispondenza personale, e secondo quanto confermato anche dalla voce a lui dedicata
nella Jewish Encyclopedia, Veneziani avrebbe presenziato il Congresso di Berlino del 1878
(si veda infra, cap. 12), dove si sarebbe speso in difesa dei diritti degli ebrei di Romania.
70 Emanuele Veneziani mantenne sempre la doppia affiliazione tanto alla masso-
neria quanto alla Società operaia: iscritto nell’aprile 1864 con la qualifica di “scrivano”,
dal 1870 si descrive invece come “negoziante”. Il 30 aprile 1876 decade dalla posizione di
membro per “partenza”, ma nel dicembre 1877 rientra pagando gli arretrati e acquisendo
lo statuto di “socio perpetuo” in ragione di un cospicuo pagamento (lire 10), fino alla
morte a Parigi nel 1889. Per l’orazione funebre proferita in suo onore dal rabbino capo
di Parigi il 6 febbraio 1889, si veda Zadoc Kahn, Souvenirs et regrets. Recueil d’oraisons
funèbres prononcées dans la communauté israelite de Paris (1868-1898), Paris, A.Durlacher,
1898, pp. 278-283.
188
l’unione d’oriente
raia di mutuo soccorso: si vedano ad esempio i casi di Edoardo Ottoni71,
Giocondo Magnani Liberali72, Antonio Palomba73 e Gennaro Marche-
si74, oltre a Luigi Capoleone di cui parleremo più estesamente nel pros-
simo capitolo.
71 Il farmacista Edoardo Ottoni (Gualdo Nocera 1786 - Istanbul 18 febbraio 1869)
oltre al ruolo di spicco presso la loggia massonica “Italia”, figura anche tra i fondatori nel
1865 della loggia “L’Union d’Orient”, ma come risulta dai registri conservati presso la chiesa
di Santa Maria delle Draperie a Istanbul, in punto di morte «abiurato massonismo in quo a
multis annis magister est». L’affiliazione alla Società operaia avvenne solo nel giugno 1867.
72 Nato a Rimini nel 1825, Liberali giunse a Istanbul intorno al 1855 dove chie-
se protezione presso il consolato del Regno di Sardegna qualificandosi come “dottore”
(si veda Trasselli, Esuli italiani in Turchia nel dodicennio 1849-1860, cit.). Si iscrisse alla
Società operaia nel luglio 1863, qualificandosi come “maestro di lingue”. Fu tra coloro
che più si impegnarono in quegli anni per la creazione di una piccola scuola autogestita
in grado di fornire agli esuli italiani corsi gratuiti di lingua, aritmetica, disegno, geome-
tria e storia. Nel 1876 fu nominato 2° sorvegliante della loggia “Italia Risorta”, mentre
nel 1881 fu segretario della Società operaia, registrandosi nell’Indicateur Ottomane come
“professore d’italiano”. Nel 1882 pubblicò a Istanbul una raccolta di Poesie giovanili, at-
tualmente conservate presso il fondo della Biblioteca Augusta di Perugia. Nello stesso
anno un suo sonetto fu incluso in una pubblicazione uscita a Palermo in memoria di
un martire risorgimentale: Per la nascita di Attilio Bandiera. Morì il 23 gennaio 1888.
73 Nato a Napoli nel 1826, Palomba risulta iscritto alla Società operaia dal marzo
1864 con la qualifica di “sarto”. Secondo quanto riportato nelle rispettive edizioni dell’In-
dicateur Ottomane, sia nel 1869 che nel 1881 il suo negozio risultava collocato sulla pre-
stigiosa Grand Rue de Pera. Nel 1876 fu nominato Primo sorvegliante della loggia “Italia
Risorta”. Morì intorno al 1897.
74 Nato a Napoli nel 1840, Marchesi si iscrisse alla Società operaia nel febbra-
io 1866 con la qualifica di “maestro di scuola”. La sua iscrizione decadde nel 1877 per
mancanza di pagamenti, ma fu ripresa nel 1887 e mantenuta fino alla morte nel 1903.
Nel 1876 fu nominato venerabile della loggia massonica “Italia Risorta”. Nello stesso
anno nacque il figlio Ernesto, poi iscrittosi alla Società operaia nel 1895 come “impiegato”,
e affiliatosi alla loggia “Italia Risorta” il 24 dicembre 1913.
189
11. Colpo di stato.
Luigi Capoleone e l’anno dei tre sultani
Ai miei fratelli d’Erzegovina, e a tutti i
popoli oppressi dell’Europa orientale:
“i Turchi devono essere ricacciati a Bursa!”
Giuseppe Garibaldi, 6 ottobre 1875
1. La primavera del 1873 – con la chiusura del giornale «Ibret»,
la condanna all’esilio forzato per i quattro principali intellettuali d’op-
posizione del tempo e la sospensione di Halil Şerif dal posto di mi-
nistro degli esteri – segnò l’inizio di un periodo convulso nella storia
ottomana di quegli anni, segnato da una progressiva degenerazione nel
rapporto di fiducia tra popolazione e autorità governative. Dopo quasi
cinque decenni caratterizzati da riforme politiche, innovazioni culturali
e l’apertura del mercato ottomano alle nuove “meraviglie” del capitali-
smo internazionale, tutti i problemi e le contraddizioni associate a que-
sto tumultuoso processo di modernizzazione sembrarono affiorare allo
stesso momento.
Oltre alla crisi politica seguita alla scomparsa di Fuat e Ali Pascià,
che continuava a protrarsi col periodico alternarsi di nuovi governi,
un altro fattore che giunse a pesare in maniera decisiva fu il manife-
starsi in quegli anni della gravissima fragilità finanziaria dell’impero
ottomano. Come abbiamo visto, nel 1838 il sultano Mahmut II ave-
va firmato un accordo di “libero commercio” con la Gran Bretagna,
cui negli anni successivi fecero seguito accordi simili con tutte le altre
principali potenze europee, compreso il Regno di Sardegna nel 1839
e il Granducato di Toscana nel 18411. L’effetto di questi accordi, ba-
sati sulla forte riduzione delle tasse doganali e sull’eliminazione dei
monopoli, fu quello di favorire lo smercio dei prodotti della nascen-
te industria manifatturiera britannica e continentale nel territorio ot-
tomano, impedendo di fatto che si creassero le condizioni necessarie
allo sviluppo di un’appropriata filiera industriale locale, in particolare
nel settore tessile e della pelletteria. La stessa Gran Bretagna o gli Stati
1 Geyikdağı, Foreign Investment, cit., p. 24.
191
capitolo undicesimo
Uniti d’America, considerati i modelli del liberalismo economico, erano
in realtà ben consci (e lo sono ancora adesso...) di quanto fosse im-
portante applicare politiche protezionistiche per garantire le migliori
condizioni allo sviluppo dell’industria locale, evitando la concorrenza
di prodotti a basso costo provenienti dall’estero. Fu così che nel 1838
la Gran Bretagna fece implementare le regole del libero mercato
nell’impero ottomano prima ancora di averle applicate in casa propria,
col risultato di trovare un mercato vergine pronto ad acquisire le merci
a basso costo prodotte dall’industria britannica.
Consapevoli di quanto fosse importante sostenere i piani econo-
mici con la propaganda ideologica, a partire dal 1840 i britannici affi-
darono al direttore del giornale «Ceride-i Havadis» William Churchill
(si veda supra, § 7.3) il compito di diffondere il pensiero secondo cui, dato
lo stato delle cose, sarebbe stato più appropriato e conveniente per le
autorità ottomane dedicarsi unicamente all’agricoltura e all’estrazione
di materie prime da esportare, affidandosi invece all’Europa per l’impor-
tazione di manufatti industriali2. Di fatto fu proprio quel che avvenne
negli anni successivi e a ciò si deve aggiungere che anche le principali at-
tività di sostegno al processo di modernizzazione dell’economia – come
la costruzione delle infrastrutture e lo sviluppo degli impianti industria-
li per l’estrazione di materie prime – finirono per essere assegnate qua-
si unicamente a imprese straniere.
Ad aggravare questo progressivo indebolimento strutturale dell’eco-
nomia ottomana giunse negli anni ’50 la guerra di Crimea, che in
ragione dell’alleanza con Francia e Inghilterra costrinse il governo
di Istanbul a concordare un ingente prestito con una cordata di ban-
che europee, per poter ammodernare le capacità del proprio esercito nel
contesto del conflitto con la Russia. Ma le pesanti condizioni imposte
dalle banche francesi e britanniche per concedere il prestito costrinsero
negli anni successivi le autorità ottomane a contrarre numerosi altri
prestiti solo per riuscire a pagare gli interessi di quelli precedenti: tra
il 1854 e 1875 le autorità ottomane contrassero 15 prestiti con banche
francesi e britanniche, per un totale di circa 200 milioni di lire tur-
che (l’equivalente nel 2007 di circa 33 miliardi di dollari, calcolato sulla
base del valore dell’oro), senza riuscire mai a estinguere neanche uno di
quei prestiti, e trovandosi nel 1875 a dover pagare di soli interessi circa
13 miloni di lire all’anno, quando l’introito annuo totale dell’erario
2 Ivi, p. 20.
192
colpo di stato
ottomano ammontava a circa 25 milioni di lire3. In un periodo in cui
era fortemente impegnato a investire le proprie risorse su numerosi
fronti, con l’obiettivo di modernizzare le infrastrutture e le istituzioni
amministrative dell’impero, il governo ottomano si trovava quindi co-
stretto a versare oltre la metà delle proprie entrate fiscali solo per pagare
gli interessi dei prestiti contratti.
Come se tutto questo non bastasse, a partire dal 1872 il territo-
rio anatolico e parzialmente anche le regioni balcaniche furono colpi-
te da un forte fenomeno di siccità, che si protrasse per circa due anni
causando notevoli problemi nella produttività dei raccolti. La difficoltà
nell’approvvigionamento di cibo nelle zone rurali e il drastico aumento
dei prezzi delle derrate alimentari nei centri urbani furono fattori che
contribuirono a diffondere scontento tra la popolazione e a esacerbare
le tensioni tra classi sociali e gruppi etnici dell’impero4.
2. Nel contesto di questa lotta per la sopravvivenza da parte dei seg-
menti più deboli della popolazione e della disperata necessità di reperire
nuove risorse da parte dello stato, nell’estate del 1875 i contadini dell’Er-
zegovina, in maggioranza cristiano-ortodossi, entrarono in rivolta a cau-
sa dell’eccessivo zelo applicato nella raccolta di tasse e imposte da parte
dei locali rappresentanti delle autorità ottomane, in maggioranza mu-
sulmani. In condizioni normali la rivolta sarebbe stata soppressa sen-
za troppi problemi ma, nelle condizioni di particolare fragilità politica
ed economica in cui si trovava l’impero, il fatto diede luogo a fine agosto
a un’ulteriore crisi di governo. Il risultato fu la nuova nomina a gran vi-
zir di Mahmut Nedim, in quanto il sultano Abdülaziz ritenne che la sua
vicinanza ai Russi avrebbe potuto essere di aiuto a risolvere la questione.
In realtà, come abbiamo già detto, l’atteggiamento della Russia più che
una fonte di soluzioni risultava essere uno dei principali fattori all’origi-
ne delle crisi nazionalistiche nei Balcani. Ma l’influenza acquisita negli
ultimi anni dall’ambasciatore russo Ignatieff sul sultano e su Mahmut
Nedim (soprannominato per questo anche “Mahmutoff” o “Nedimoff”)5
era ormai tale da riuscire a convincere del contrario la massime au-
3 Mehmet Hakan Sağlam, Osmanlı Devleti’nde Moratoryum 1875-1881. Rüsum-ı
Sitte’den Düyun-ı Umumiyye’ye (Insolvenza nello stato ottomano 1875-1881. Dalle ‘Sei tasse’
al ‘Commissariamento del debito’), Istanbul, Tarih Vakfı Yurt Yayınları, 2007, pp. 3-29.
4 Davison, Reform, cit., pp. 301-305.
5 Ivi, p. 283.
193
capitolo undicesimo
torità ottomane6. Del resto il favore del sultano nei confronti di una
figura incolore come Mahmut Nedim, e il conseguente appiattimento
sulle posizioni russe in politica estera, era legato al desiderio da parte
di Abdülaziz di non avere più limiti al proprio potere personale, con-
trariamente a quanto accaduto nel lungo decennio dominato da Ali
e Fuat Pascià. Come già il khedivè Ismail, anche l’ambasciatore Ignatieff
aveva appreso quanto fosse facile gratificare il sultano con la copiosa
elargizione di doni pregiati. Ma questa mollezza dei costumi del sultano
in un periodo di forte crisi e disagio economico legato in parte anche
alla disastrosa condotta del sovrano in ambito finanziario – nonché in
un contesto storico segnato per la prima volta dalla presenza dei giorna-
li come fattore di influenza dell’opinione pubblica – fu all’origine di una
rapida degenerazione della sua immagine, generando nell’élite urbana
un diffuso desiderio di cambiamento.
Un ulteriore colpo fatale al prestigio delle autorità ottomane, so-
prattutto in ambito internazionale, giunse il 6 ottobre 1875 quando
all’improvviso il gran vizir Mahmut Nedim fece annunciare che per
un periodo di almeno cinque anni l’impero ottomano avrebbe pagato
in contanti solo metà dell’ammontare delle somme e degli interessi do-
vuti ai creditori ottomani e stranieri, mentre l’altra metà sarebbe stata
corrisposta con l’emissione di bond statali7. Si trattava di fatto di una
palese dichiarazione di insolvenza da parte delle autorità ottomane:
un’ammissione della debolezza strutturale delle istituzioni finanziarie,
destinata ad avere gravi conseguenze per il futuro dell’impero. Infatti,
in ragione del sempre maggiore interesse e coinvolgimento del capi-
talismo internazionale nel mercato ottomano, ormai da anni la situa-
zione dell’impero era tenuta sotto stretta osservazione per assicurare
il rispetto degli impegni finanziari e garantire le migliori condizioni per
lo svolgimento delle tante attività imprenditoriali in mano agli investi-
tori stranieri. A causa del peggioramento delle prestazioni economiche
e dell’inadeguatezza della leadership politica ottomana a partire dalla
morte di Ali Pascià, l’opinione pubblica europea – fomentata dai mezzi
di informazione – aveva cominciato ad assumere posizioni sempre più
ostili nei confronti dell’impero, soprattutto quando le truppe ottomane
si trovavano costrette a reprimere una delle tante rivolte che scoppiava-
no in quegli anni nei Balcani. La dettagliata descrizione delle efferate
6 Ivi, p. 308.
7 Sağlam, Moratoryum, cit., pp. 31-33.
194
colpo di stato
violenze commesse dai soldati ottomani in tali occasioni, unita alle cri-
tiche di carattere politico ed economico, contribuì alla stigmatizzazione
dell’impero con l’etichetta di “malato d’Europa”, la celebre espressione8
che cominciò a essere ripetuta come un mantra dall’opinione pubblica
occidentale fino al tracollo dell’impero al termine della Prima Guerra
mondiale, quando Francia, Gran Bretagna, Italia e Grecia furono pronte
a spartirsi notevoli porzioni del suo territorio.
Nel contesto di questa “campagna mediatica” a sfavore dell’impero
ottomano, sostenuta in numerosi casi sia dalle autorità politiche che dai
protagonisti del capitalismo europeo, risulta interessante considerare
la lettera inviata da Giuseppe Garibaldi il 6 ottobre del 1875 da Capre-
ra e pubblicata nelle settimane successive in lingua inglese su nume-
rosi quotidiani del dominio britannico9. Si trattava di una netta presa
di posizione a favore delle istanze nazionali degli Erzegovini e di tut-
ti gli altri popoli balcanici, incitati dall’ormai anziano generale italiano
a insorgere per liberarsi dal giogo oppressivo dei turchi, descritti in ter-
mini razzistici da Garibaldi come un’orda di animali dediti unicamente
alla violenza e alla devastazione, e meritori per questo di essere ricaccia-
ti il più lontano possibile dal territorio europeo.
La scelta di Garibaldi risultava coerente con la sua nuova figura
di leader morale della cosiddetta “Estrema Sinistra” italiana a partire dal-
la fine del 1872, scelta con cui l’ex generale tentò forse di ripulire la pro-
pria immagine dalle posizioni più moderate tenute a partire dalla scelta
di accettare la collaborazione con il Regno di Savoia nel processo di uni-
ficazione italiana. Questo suo più o meno velato sostegno nei confronti
della monarchia di Vittorio Emanuele aveva incontrato l’opposizione
di molti compagni di lotta – primo fra tutti Mazzini – i quali non ave-
vano ritenuto giusto rinunciare all’ideale democratico della Repubblica
in cambio di questo fatale “compromesso storico”10.
8 L’espressione sarebbe stata utilizzata per la prima volta nel 1853 dallo zar Nicola I
di Russia (1796-1855) in conversazione privata con un ambasciatore britannico. Si veda
tra gli altri Sean McMeekin, The Ottoman Endgame. War, Revolution and the Making of the
Modern Middle-East 1908-1923, New York, Penguin Press, 2015, p. 20.
9 L’articolo di Garibaldi risulta consultabile online sulle edizioni digitalizzate di
«The Age» (Australia, 16 dicembre 1875), «Wanganui Herald» (Nuova Zelanda, 27 dicem-
bre 1875), «Northern Territory Times» (Australia, 4 marzo 1876).
10 Su questo tema si veda l’eccellente articolo di Armando Pitassio, L’estrema sini-
stra e il movimento garibaldino di fronte alla crisi d’Oriente del 1875-1878, «Europa Orienta-
lis», 2, 1983, pp. 107-121. E anche Emanuela Locci, La solidarietà tra popoli e garibaldini.
Le spedizioni in terra ottomana, in Solidarietà antiche e moderne. Un percorso storico, a cura
di Pierpaolo Merlin, Roma, Carocci, 2017, pp. 101-114.
195
capitolo undicesimo
Negli anni seguenti, ispirati dalle chiare prese di posizione assunte
in questo senso dal generale, la sinistra italiana e il movimento garibal-
dino – addirittura ancora nel 1897 quando scoppiò un conflitto di bre-
ve durata tra Grecia e impero ottomano in Tessaglia – furono sempre
pronti a prendere le difese dei diversi popoli balcanici, spesso invian-
do persino un battaglione di uomini pronti a combattere al loro fianco
contro gli ottomani. Questa posizione anti-ottomana a priori ebbe però
l’effetto di generare inevitabili contraddizioni, sia perché spesso portò
la sinistra garibaldina a fare il gioco dell’autocrazia russa, impegnata
come visto a soffiare sul fuoco del nazionalismo nei Balcani, sia perché
portò a rimuovere dalla memoria del movimento risorgimentale e del-
la storiografia italiana la vitale ospitalità offerta dall’impero ottomano
agli esuli giunti dalla penisola dopo la prima guerra di indipendenza
(si veda supra, cap. 5).
3. Nel frattempo in quegli anni tutti gli ambienti più progressisti
del riformismo ottomano avevano cominciato ad abbracciare un’idea
destinata ad avere un effetto dirompente sulla storia dell’impero, anche
in ragione del sostegno più o meno strumentale ricevuto da certi settori
dell’establishment politico e culturale europeo: si trattava del progetto
di riforma costituzionale dell’impero. Come abbiamo visto, quest’idea
era divenuta per la prima volta oggetto di discussione nella primave-
ra del 1867, quando Mustafa Fazıl con una serie di lettere scritte da
Parigi aveva segnalato la riforma costituzionale come l’unica via a di-
sposizione per rigenerare le strutture politiche dell’impero, concedendo
maggiori diritti individuali e di rappresentanza a tutti i suoi cittadini.
Ma la proposta del principe egiziano aveva trovato al tempo scarse ade-
sioni, in quanto il gruppo di giovani oppositori noto come Nuovi Ot-
tomani si era subito divisa sulla questione della compatibilità di una
tale riforma con i principi teologici dell’islam, mentre i riformatori Ali
e Fuat Pascià avevano valutato prematura l’applicazione di una rifor-
ma così radicale nel contesto sociale dell’impero ottomano. Il giornali-
sta francese Charles Mismer (1832-1904)11, per un periodo consigliere
e amico prossimo di Fuat Pascià, riportò le seguenti parole proferite
dallo statista ottomano in riferimento a Midhat, uno dei massimi soste-
nitori della riforma costituzionale: «Quest’uomo vede nel regime parla-
11 Per l’interessante vita e pensiero di questo intellettuale, in riferimento alle que-
stioni ottomane e orientali, si veda il già citato Georgeon, Charles Mimser.
196
colpo di stato
mentare il rimedio a tutti i mali, senza capire che la politica è refrattaria
alle panacee ancor più della medicina»12.
In seguito alla morte di Fuat e Ali Pascià e al progressivo eclis-
samento di Mustafa Fazıl dalla politica ottomana, a mantenere accese
le speranze politiche in un progetto di riforma costituzionale nei primi
anni di quel travagliato decennio rimasero quasi unicamente Midhat
e Halil Şerif Pascià. Nel grave periodo di crisi in cui l’impero sprofondò
nell’autunno 1875 furono proprio questi due pionieri del riformismo ot-
tomano, privati ormai di ogni incarico ufficiale, a elaborare nel dettaglio
un progetto di riforma costituzionale. Quest’ultimo risultava però inse-
rito in un piano politico più ampio, nel quale era coinvolto più o meno
direttamente anche l’erede al trono Murat, a sua volta in stretto contatto
con la massoneria francese e con l’ambasciatore britannico Henry Eliot.
Ad aiutare concretamente Midhat e Halil Şerif nella redazione
del progetto di riforma fu l’armeno Krikor Odian (1834-1887)13, che
già giovanissimo aveva svolto un ruolo cruciale nel permettere alla co-
munità armena dell’impero di adottare nel 1863 una carta costituzio-
nale e un’assemblea rappresentativa per gestire in maniera autonoma
le principali questioni amministrative della comunità, approfittando
delle concessioni fatte in tal senso dall’Islahat Fermani nel 1856. Il si-
stema amministrativo dei cosiddetti “millet” – applicato nell’impero
sin dalla fine del XV secolo per garantire una sorta di autogestione am-
ministrativa e giuridica delle principali comunità religiose (ebrei, greci
e armeni) assegnando poteri politici e giuridici ai leader religiosi delle
rispettive comunità – col passare del tempo era gradualmente degenera-
to. Tra le ragioni principali di questo decadimento c’era il potere ecces-
sivo assegnato alle autorità religiose, le quali traevano quindi vantaggio
dal mantenere i loro fedeli nell’ignoranza per prevenire la diffusione
di qualunque opposizione religiosa o politica interna. Ma a partire dal
XIX secolo le cose erano iniziate a cambiare, in particolare tra gli arme-
ni, perché la conversione di una parte di loro al cattolicesimo li aveva
messi in contatto diretto con alcune realtà intellettuali di spicco come
ad esempio le scuole mechitariste di Venezia e Padova. In quegli anni,
inoltre, molti notabili armeni di confessione ortodossa avevano comin-
ciato a mandare i loro figli a studiare nelle capitali europee, in particola-
re a Parigi, dando luogo a una decisiva frattura generazionale. I giovani
12 Ivi, p. 103, nota 43.
13 Berkes, Çaǧdaşlaşma, cit., p. 338, nota 21; Davison, Reform, cit., pp. 301-305, 369.
197
capitolo undicesimo
armeni di Istanbul che avevano avuto la possibilità di studiare in Europa
si resero così protagonisti di un rinascimento culturale basato su una
fervida attività editoriale e di traduzione, che a partire dagli anni ’50
si trovò a mettere in discussione le strutture di potere che da secoli man-
tenevano la gestione delle questioni comunitarie nelle mani dei leader
religiosi e di poche famiglie di notabili14.
4. La crisi nei Balcani esplosa nell’estate 1875 con la rivolta in Erze-
govina continuò a estendersi, costringendo le autorità ottomane a un di-
sperato sforzo nel tentativo di estinguere i focolai insurrezionali che ap-
parvero nei mesi successivi in Bosnia e Bulgaria, oltre che a complesse
trattative diplomatiche per evitare che la situazione precipitasse anche
in Serbia e Montenegro. Le nuove pressioni politiche esercitate in quei
mesi dalle potenze europee per giungere a un accordo tra il governo
ottomano e le popolazioni cristiane nei Balcani contribuì a esacerbare
le tensioni all’interno della società ottomana, in particolare nei maggio-
ri centri urbani dove musulmani e cristiani vivevano fianco a fianco15.
Fu così che il 7 maggio 1876 un triviale incidente verificatosi nella città
di Salonicco condusse a gravi conseguenze di portata internazionale:
una ragazza cristiana del posto, orfana di padre, giunse al mattino in cit-
tà per formalizzare presso un ufficio amministrativo la propria conver-
sione all’islam, data la sua intenzione di sposare un uomo musulmano.
Ma la madre, in un ultimo disperato tentativo di opporsi all’apostasia
della figlia, richiamò l’attenzione di un manipolo di greci incontrati per
strada, che decisero di sequestrare la ragazza portandola via con una
carrozza. Il mattino seguente una folla di turchi e albanesi di religione
musulmana si ritrovò davanti alla residenza del governatore della cit-
tà per protestare contro il sequestro della ragazza, esigendo che fosse
ritrovata e liberata al più presto. Il governatore appariva però incapace
di risolvere la situazione dato che la ragazza risultava irreperibile,
e decise quindi di convocare presso la sua residenza il console france-
se e quello tedesco nella speranza che potessero fornire qualche aiuto.
14 Su questo tema si veda Vartan Artinian, Osmanli Devleti’nde Ermeni Anaya-
sası’nın Doğuşu 1839-1863 (La nascita del sistema costituzionale armeno all’interno dello
stato ottomano) (1988), Istanbul, Aras Yayıncıhk, 2004, in particolare il capitolo 5. Si veda
inoltre Aylin Koçunyan, Long Live Sultan Abdülaziz, Long Live the Nation, Long Live the
Constitution..., in Constitutionalism, Legitimacy and Power. Nineteenth Century Experiences,
a cura di Kelly L. Grotke e Markus J. Prutsch, Oxford, Oxford University Press, 2014.
pp. 189-210.
15 Davison, Reform, cit., pp. 311-324.
198
colpo di stato
Ma prima di raggiungere l’edificio, i due consoli furono riconosciuti
dalla folla in tumulto e sequestrati a loro volta nel cortile della vicina
moschea dell’Orologio, nel centro di Salonicco. Ebbe allora inizio una
frenetica trattativa per liberare i due diplomatici ma dopo qualche ora,
dinanzi alla mancata restituzione della ragazza, alcuni membri della
folla finirono per vendicarsi uccidendo i due consoli a colpi di bastone16.
Il fatto suscitò notevole scalpore presso l’opinione pubblica inter-
nazionale e pose le autorità ottomane in condizioni sempre più difficili,
anche perché problemi di ogni genere sembravano ormai sovrappor-
si l’uno all’altro senza un’apparente via d’uscita. Nella stessa Istanbul,
a causa di un generale senso di insicurezza, nei mesi precedenti si era
infatti verificata un’impennata nella vendita di armi. Anche l’ambascia-
tore russo Ignatieff aveva contribuito ad aumentare le tensioni arruo-
lando per la difesa della propria ambasciata un corpo speciale di guardie
montenegrine, mentre il sultano Abdülaziz aveva a sua volta pensato
di invocare l’aiuto dell’esercito russo per difendersi in caso di un possi-
bile attacco recato da forze locali o straniere17.
Il sultano non aveva torto a temere qualche genere di aggressio-
ne in quanto l’insoddisfazione nei confronti della sua amministrazio-
ne risultava ormai diffusa non solo tra gli interlocutori internazionali,
ma anche presso gran parte della popolazione ottomana. Subito dopo
la notizia della morte dei due consoli a Salonicco, a scendere in strada
a Istanbul per manifestare in termini generali contro le politiche del
governo furono gli studenti di teologia islamica, un settore della po-
polazione fortemente organizzato e di notevole influenza sull’opinione
pubblica cittadina18. Dopo tre giorni consecutivi di proteste, nel tenta-
tivo di sedare gli animi il sultano Abdülaziz decise di licenziare il gran
vizir Mahmut Nedim e nominare nuovamente in sua vece Mütercim
Rüşdi Pascià; quest’ultimo, per quanto fosse da sempre considerato
un moderato, si avvalse per il nuovo governo di numerose figure di
temperamento più radicale, tra cui Midhat e il ministro della guerra
Hüseyin Avni. Fu a quel punto che si realizzarono le condizioni per
mettere in atto un ardito piano di colpo di stato in cantiere già da
16 Tra i numerosi resoconti di questa vicenda, si vedano Selim Deringil, Conversion
and Apostasy in the Late Ottoman Empire, Cambridge, Cambridge University Press, 2012,
pp. 98-102. Mark Mazower, Salonica, City of Ghosts: Christians, Muslims and Jews 1450-
1930, New York, Vintage Publisher, 2006. pp. 161-167.
17 Davison, Reform, cit., p. 324.
18 Ivi, pp. 326-327.
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capitolo undicesimo
qualche tempo (c’è chi dice addirittura dai tempi del licenziamento
di Midhat dal posto di gran vizir nell’ottobre 1872), ma sempre postici-
pato in ragione dei forti rischi e dell’eccezionale coordinamento neces-
sario ad assicurare la sua riuscita.
L’approvazione finale al piano giunse dal şeyhülislam Hayrullah
Efendi, il nuovo “ministro della religione islamica” appena nominato
da Mütercim Rüşdi: fu lui infatti a dichiarare al comitato dei golpisti
di essere pronto a redarre una fatwa per dichiarare teologicamente le-
gittima la deposizione del sultano Abdülaziz, giudicandolo inadegua-
to ad adempiere ai doveri morali e di giustizia verso i suoi sudditi19.
A un certo punto però qualcosa andò storto nell’esecuzione del piano,
in quanto l’ala militare guidata dal ministro della guerra Hüseyin Avni
e dal direttore dell’accademia militare Süleyman Pascià decise di agire
prima del previsto, nella notte tra il 29 e il 30 maggio, senza dare tempo
agli altri membri del comitato di compiere una serie di preparativi ne-
cessari al corretto svolgimento dell’operazione20.
5. Luigi Capoleone era nato nel 1809 a Carunchio, un piccolo
borgo in provincia di Chieti21. Non abbiamo notizie precise riguar-
do alla sua formazione, ma sappiamo che nel 1838 fu assunto come
medico-capo della flotta ottomana22 e che poco tempo dopo decise di
stabilirsi a Istanbul, in quanto nel 1842 il suo nome risulta registrato
come padrino di battesimo presso una chiesa della capitale ottomana23.
Nei primi mesi del 1844 convolò a nozze con Eufrasia Mille, origina-
ria di Smirne, che tra 1849 e 1861 gli diede quattro figlie24. A parti-
re dagli anni ’50 Capoleone cominciò a prestare servizio come medi-
co presso la corte del sultano Abdülmecid, il quale decise di affidare
alle cure del medico abruzzese la salute del primogenito ed erede al
trono Murat. Ma come abbiamo già visto, sin dai primi anni Capo-
leone si rese responsabile di eccessiva tolleranza verso il problema con
19 Mehmet Ipşirli, Hayrullah Efendi, in Islam Ansiklopedisi, cit., XVII, pp. 75-76.
20 Davison, Reform, cit., pp. 330-335.
21 Informazioni ricavate dai registri del Consolato del Regno di Napoli e Sicilia a
Costantinopoli, dove Luigi Capoleone giunse a registrarsi il 12 marzo 1844: «Di Antonio
Giuseppe. Dottore in Medicina. Nato a Carunchio. 35 anni».
22 De Leone, L’impero ottomano, cit., p. 101.
23 Si veda registro dei battesimi in Santa Maria delle Draperie: Anna Maria Matco-
vich, nata il 3 febbraio 1842, battezzata il 3 marzo 1842.
24 In occasione della registrazione compiuta nel marzo 1844 da Capoleone presso
il Consolato del Regno di Napoli e Sicilia, Eufrasia Mille risulta registrata come «Moglie
di Luigi Capoleone. Nata a Smirne. Età 19 anni».
200
colpo di stato
l’alcol dimostrato dal principe a partire dall’adolescenza. Nell’aprile del
1871 Capoleone si iscrisse alla Società operaia italiana di mutuo soc-
corso e il 31 gennaio 1873 entrò a far parte della loggia massonica “Ita-
lia Risorta”25 in presenza dello stesso Cleanthi Scalieri, il Gran Mae-
stro che solo pochi mesi prima aveva accolto il principe Murat presso
la loggia “I Proodos”.
Non sappiamo se a convincere Capoleone a entrare nella massone-
ria sia stato proprio Murat, o forse Scalieri, nell’ambito di un piano più
ampio le cui fila cominciavano a tessersi proprio in quei mesi. Di certo
c’è che nel 1874 il principe si lamentò apertamente dell’inadeguatezza
professionale di Capoleone davanti a Scalieri e ad altri ospiti in occasio-
ne di un ricevimento a Küçük Çamlıca, un colle sul lato asiatico della cit-
tà, ammettendo però di non sentirsela di licenziarlo in quanto era ormai
vecchio («un piede nella fossa») e non voleva dargli un simile dispia-
cere dopo tanti anni di servizio («sono cresciuto tra le sue braccia»)26.
A partire dall’iniziazione del medico abruzzese i principali esponenti
del riformismo ottomano, in particolare Midhat e Halil Şerif, ma anche
lo stesso ambasciatore britannico Eliot, si servirono di lui come tramite
per comunicare con il principe Murat, evitando così di sollevare eccessi-
vi sospetti tra gli uomini fedeli al sultano Abdülaziz.
Nel corso della notte tra il 29 e il 30 maggio del 1876 una parte del
comitato decise di passare all’azione in anticipo rispetto al piano previ-
sto, senza dare tempo al principe Murat di ricevere il necessario preav-
viso. Aveva piovuto a dirotto durante tutto il giorno precedente e il cielo
continuava ancora a rimbombare di lampi e tuoni. Alle tre del mattino
due battaglioni sotto il comando di Süleyman Pascià circondarono il pa-
lazzo di Dolmabahçe dal lato di terra, mentre una nave da guerra giunse
a sorvegliare la situazione dal lato del Bosforo. Un manipolo di uomini
armati entrò nel palazzo per prelevare il sultano Abdülaziz e condurlo
presso l’antica residenza di Topkapı, mentre alcuni membri del comi-
tato raggiunsero gli appartamenti in cui risiedeva il principe Murat per
annunciargli l’avvenuta deposizione dello zio27. Ma l’erede al trono,
da sempre molto fragile a livello psicologico a causa dei problemi con
l’alcol e di una natura ipersensibile messa a dura prova dalle eterne
tensioni vissute in famiglia, reagì molto negativamente alla vista degli
25 ASGLT, Logge italiane in Turchia, cit., p. 7.
26 Cleanthi Scalieri, Appel a la justice international
des grande puissances par rapport
au grand procès de Constantinople, Atene, Imprimerie “L’Union”, 1881, pp. 18-19.
27 Davison, Reform, cit., p. 335.
201
capitolo undicesimo
uomini che in stato di agitazione erano giunti a prelevarlo nel mezzo
della notte in camera da letto. Addirittura, non avendo ricevuto notizia
precisa di quanto stava per accadere, inizialmente pensò che si trattasse
di un attacco nei suoi confronti, ordito possibilmente dallo zio Abdülaz-
iz, da un altro pretendente al trono o dall’ambasciata russa, con l’obiet-
tivo di sequestrarlo o ucciderlo28.
Quando infine comprese quel che stava accadendo, il trentaseien-
ne Murat manifestò timore per le sorti dello zio e del fratello minore
Abdülhamid con cui condivideva l’appartamento, chiedendo di ricevere
garanzie riguardo alle loro sorti. Dopo aver ricevuto tutte le necessarie
rassicurazioni, Murat accettò quindi di seguire il comitato dei golpisti
presso la sede del Ministero della Guerra in piazza Beyazit, dove assie-
me a numerosi ministri riuniti per pronunciare il loro giuramento di fe-
deltà al nuovo sultano, il şeyhülislam Hayrullah Efendi lesse la fatwa da
lui redatta per legittimare formalmente la deposizione di Abdülaziz29.
A quel punto l’operazione risultò completata con successo e nelle
prime ore del mattino il ministro della marina diede ordine alla nave
da guerra appostata presso Dolmabahçe di sparare 101 colpi di cannone
per celebrare l’evento. Per molte ore la popolazione di Istanbul non fu
in grado di capire cosa fosse accaduto, in quanto circolavano in maniera
confusa le notizie più disparate. Ma quando la situazione si rese chiara,
la reazione degli abitanti della città fu di diffuso entusiasmo e in mi-
gliaia si riversarono per le strade in una baraonda di festeggiamenti,
che si protrasse senza sosta almeno fino a venerdì 2 giugno quando
il 33° sultano del casato di Osman giunse a effettuare la preghiera del
venerdì presso la moschea di Aya Sofia30. Il repentino avvicendamento
alla testa dell’impero ottomano, realizzatosi senza alcuno spargimento
di sangue, fu accolto con entusiasmo anche dagli ambasciatori stranieri
– con l’eccezione del russo Ignatieff – e dall’opinione pubblica inter-
nazionale, speranzosa di trovare in Murat un interlocutore più propen-
so a risolvere i numerosi problemi politici ed economici dell’impero.
In generale l’innovazione più attesa nei settori più progressisti della
società ottomana e nei centri di potere legati all’ambiente della masso-
neria internazionale era un piano di riforme fondato sull’introduzione
di una carta costituzionale, questione cui il principe Murat aveva presta-
to particolare interesse negli ultimi mesi, affidando persino la redazione
28 Keratry, Mourad V, cit., pp. 123-125.
29 Davison, Reform, cit., p. 336.
30 Ivi, pp. 336-337.
202
colpo di stato
di una bozza di costituzione a un avvocato francese di sua conoscenza31.
Ma a prescindere dalle intenzioni del nuovo sultano, a cose fatte furono
gli stessi autori del golpe a rendersi conto di avere punti di vista molto
eterogenei riguardo al piano di riforme politiche da realizzare.
6. Ad aggiungersi ai primi dissapori interni al gruppo dei golpisti,
il pomeriggio del 4 giugno giunse una drammatica notizia, che avrebbe
avuto effetti fatali sulla condizione psicologica del nuovo sultano Murat.
Il giorno successivo alla deposizione Abdülaziz era infatti stato condot-
to assieme alla madre presso una sezione del palazzo di Çırağan, dove
all’improvviso si era trovato sottoposto a una serie di trattamenti irri-
spettosi se non addirittura umilianti per un uomo del suo stato, abituato
da tutta la vita a essere riverito. Nelle prime ore di quella domenica,
dopo aver effettuato privatamente la preghiera del mattino, il deposto
sovrano aveva chiesto che gli fosse servita una zuppa, oltre a un paio
di forbicine per aggiustarsi la barba. Qualche ora dopo, insospettiti dal-
la prolungata assenza di movimento nell’appartamento, gli inservienti
erano entrati trovando in una pozza di sangue il corpo senza vita di
Abdülaziz con i polsi squarciati32. A dispetto di una dinamica dei fatti
che appariva piuttosto semplice, in breve tempo – grazie anche alle voci
messe in giro dall’ambasciatore russo Ignatieff e dagli ambienti di po-
tere più prossimi alla figura di Abdülaziz – si cominciò a parlare della
possibilità che Abdülaziz in realtà fosse stato ucciso, facendo così calare
un’ombra di sospetto sul comitato golpista.
Come prevedibile il nuovo sultano Murat rimase profondamente
sconvolto dalla morte dello zio, anche perché probabilmente se ne con-
siderò in qualche modo responsabile. Lo stato di forte depressione in cui
precipitò nei giorni successivi gli impedì di effettuare la tradizionale
cerimonia di investitura presso la moschea di Eyüp – effettuata solita-
mente entro una dozzina di giorni dalla salita al trono – e di partecipare
l’8 giugno a una cruciale riunione di governo che finì per concludersi
con un nulla di fatto riguardo alla linea politica da implementare33.
31 Ivi, p. 339.
32 Haluk Y. Şehsuvaroşlu, Sultan Abdülaziz’in intihar ettiği oda (La stanza in cui
si suicidò Abdülaziz), in Tarihi Odalar (Stanze storiche) (1954), Istanbul, TBMM Milli
Saraylar, 2015, p. 83. Si veda anche Cevdet Küçük, Abdülaziz, in Islam Ansiklopedisi,
cit., I, pp. 179-185.
33 Davison, Reform, cit., p. 343.
203
capitolo undicesimo
Da quel momento in poi le condizioni del nuovo sultano non
fecero che peggiorare. Intorno a metà giugno, grazie a un’amnistia
da lui concessa, fecero ritorno a Istanbul i cinque intellettuali mandati
in esilio presso province lontane sin dall’aprile del 1873. Appena giunto
in città Namık Kemal si recò a visitare l’amico da poco divenuto sulta-
no presso il palazzo di Yıldız in cui aveva voluto trasferirsi. Purtroppo
l’impressione ricevuta non fu delle migliori: il nuovo sovrano lo accol-
se infatti in una sorta di accappatoio, apparendo incapace di affrontare
una conversazione perché infastidito dalla presenza di minuscoli insetti
che a suo dire lo perseguitavano34.
Come se non bastasse, in quegli stessi giorni un altro evento dram-
matico giunse ad abbattersi sul nuovo governo: la sera del 15 giugno una
ex guardia personale di origini circasse dell’ormai defunto Abdülaziz
– a lui legato personalmente anche in ragione del fatto che la sorella
apparteneva all’harem di palazzo – fece irruzione armato nella residen-
za di Midhat Pascià a Beyazit, dove era in corso una nuova riunione
di gabinetto per decidere secondo quali modalità proseguire con il pia-
no di riforme. Dopo aver freddato subito il ministro della guerra Hüs-
eyin Avni, da lui ritenuto il principale colpevole della deposizione e
morte di Abdülaziz, il circasso Hasan continuò a sparare all’impazzata
nel fuggifuggi generale che ne seguì, uccidendo anche il ministro degli
esteri Raşit Pascià e lasciando feriti a terra il ministro della marina e un
maggiordomo di Midhat. L’uomo fu catturato poche ore dopo e condan-
nato a morte per impiccagione il mattino successivo, ma l’avvenimen-
to contribuì ad aumentare la tensione e lo scoraggiamento nel gruppo
dei riformisti, che avevano realizzato il colpo di stato con la speranza
di assicurare all’impero un futuro più radioso35.
Si decise di lasciare il sultano Murat interamente all’oscuro di quan-
to avvenuto, per evitare di aggravare ulteriormente le sue condizioni di sa-
lute mentale, che purtroppo non sembravano in alcun modo migliorare.
L’unica terapia suggerita fino a quel momento dal medico Capoleone era
stata la somministrazione di morfina e il divieto di consumare bevande
alcoliche, una cura rivelatasi però priva d’alcun effetto36. A dispetto dei
suoi insuccessi, Capoleone risultò per qualche tempo restio ad accetta-
re la consulenza di altri medici, probabilmente per ragioni di orgoglio
personale. Solo a fine giugno, in seguito alla forte insistenza della classe
34 Kuntay, Namık Kemal, cit., II, p. 717.
35 Davison, Reform, cit., p. 346.
36 Scalieri, Appel, cit., p. 15.
204
colpo di stato
politica dinanzi a una situazione istituzionale sempre più insostenibile,
il medico abruzzese accettò di farsi aiutare convocando a palazzo l’amico
e connazionale Luigi Mongeri37, il quale suggerì una cura basata sull’ap-
plicazione di sanguisughe ai malleoli, che secondo quanto affermato da
Cleanthi Scalieri ebbe unicamente l’effetto di «portare a una sovreccita-
zione generale del sistema nervoso del sultano»38.
Anche se per qualche settimana la classe politica con la collabora-
zione dei giornali era riuscita a mantenere nascosta all’opinione pub-
blica locale e internazionale la gravità dello stato di salute del nuovo so-
vrano, giustificando con diverse scuse la sua assenza dalla vita pubblica,
a un certo punto a metà luglio il fatto divenne di pubblica conoscenza,
ponendo le autorità ottomane in difficoltà ancora maggiori. Da quel mo-
mento le condizioni di salute del sultano Murat V divennero un vero
e proprio caso internazionale e a palazzo cominciarono ad alternarsi
diversi medici ottomani e stranieri, nel disperato tentativo di trovare
una soluzione ai disturbi comportamentali del sultano, che risultava af-
fetto da una terribile miscela di depressione acuta, stanchezza cronica
e confusione mentale. Alla fine si decise di lasciare l’ultima parola
all’austriaco Maximilian Leidesdorf (1818-1889), già al servizio della
regina d’Inghilterra Vittoria e considerato al tempo uno dei massimi
esperti mondiali di malattie nervose. Giunto a Istanbul a inizio ago-
sto, dopo qualche giorno il medico austriaco emise un primo rappor-
to nel quale suggerì «una dieta fortificante unita all’utilizzo moderato
di morfina e tre mesi di riposo assoluto». Ma dopo un paio di settima-
ne, secondo Scalieri a causa delle pressioni ricevute da alcuni ambienti
politici, Leidesdorf emise un secondo rapporto in cui dichiarò il sultano
Murat “un caso incurabile” o quanto meno senza speranza di potere
un giorno ritornare in possesso dellle facoltà necessarie a esercitare
le sue funzioni di sovrano39.
37 Luigi Mongeri (Milano 1818 - 29 novembre 1882) abbandonò Milano per ragioni
politiche nel 1849, rifugiandosi prima a Creta e poi a Istanbul. Qui si rese celebre per
i suoi studi epidemiologici sul colera, ricevendo numerose decorazioni da parte del sul-
tano e posizioni di prestigio presso le istituzioni ottomane. Fu anche medico personale
della sorella del sultano Abdülmecid, Adile Sultan. Suo figlio Giulio Mongeri (1873-1953)
ebbe grande fortuna come architetto nel tardo periodo ottomano e nei primi anni del-
la repubblica turca. Si veda Damla Çinici, Başkent Ankara’nın inşasında etkin bir mimar:
Giulio Mongeri ve yaşam öyküsü (Un architetto di rilievo nella costruzione di Ankara:
Giulio Mongeri e la sua storia), «Ankara Araştırmaları Dergisi», 3, 2015, pp. 13-41.
38 Scalieri, Appel, cit., p. 16.
39 Davison, Reform, cit., pp. 351-352. Si veda inoltre Scalieri, Appel, cit., pp. 22-23.
205
capitolo undicesimo
7. Col passare delle settimane la situazione dell’impero si faceva nel
frattempo sempre più grave, anche perché a fine giugno le province otto-
mane di Serbia e Montenegro si erano sollevate in armi contro il governo
centrale proclamando de facto la loro indipendenza. In questo periodo
di difficile crisi istituzionale le autorità ottomane si trovarono quindi co-
strette a mobilitare l’esercito nel tentativo di soffocare la rivolta, gravando
pesantemente sulle già limitate risorse economiche dell’impero, drenate
dall’accumulazione ventennale di debiti e interessi.
Mentre si cercava in ogni modo di trovare soluzioni a tutti que-
sti problemi, a un certo punto intorno a metà agosto Midhat Pascià,
nel ruolo di presidente del Consiglio di stato, decise di recarsi a in-
contrare Abdülhamid, il fratello minore del sultano Murat, alla ricerca
di una via d’uscita dalla gravissima crisi istituzionale in cui l’impero
versava da ormai oltre due mesi. In ragione della disponibilità dimo-
strata dal principe, Midhat si consultò in primo luogo con il gran vizir
Mütercim Rüşdi e poi con l’ambasciatore britannico Henry Eliot, giun-
gendo infine alla conclusione che per salvare l’impero dalla crisi e man-
tenere accese le speranze di una riforma costituzionale fosse necessa-
rio sacrificare Murat, a dispetto di tutte le attese “messianiche” riposte
in lui negli anni precedenti. Fu così che, al termine del regno più breve
nella storia della dinastia ottomana, il 31 agosto il sultano Murat fu de-
posto per incapacità ad adempiere al suo ruolo mediante un’altra fatwa
redatta da Hayrullah Efendi: a prendere il suo posto fu il fratello mino-
re, destinato a rimanere sul trono per quasi trentatré anni con il titolo
di Abdülhamid II. Ma per quanto straordinario, l’evento fu accolto con
un certo disincanto dalla popolazione ormai sempre più stanca e pro-
strata dalla crisi economica, dai venti di guerra nei Balcani e dalle note-
voli tensioni diffuse nella società40.
Il comitato dei riformisti decise di mettersi subito al lavoro per
realizzare il piano che da mesi attendeva di essere discusso entro un
quadro istituzionale appropriato. Ma pur avendo garantito il proprio
assenso alla riforma costituzionale, da certe nomine effettuate nei pri-
mi giorni si capì che con Abdülhamid la strada sarebbe stata tutta in
salita. In quegli stessi giorni di settembre Halil Şerif Pascià, nominato
ministro della giustizia tre mesi prima e da sempre un pioniere della
corrente riformista e tra le persone più prossime a Midhat Pascià, fu
colpito da un ictus che lo costinse a ritirarsi dalla scena politica atti-
40 Davison, Reform, cit., pp. 353-355.
206
colpo di stato
va41. A dispetto di tutte queste difficoltà, grazie anche al fondamentale
sostegno ricevuto da alcuni membri del clero ottomano nelle settima-
ne seguenti Midhat Pascià riuscì a riunire per tre volte un’assemblea
generale (meclis-i umumi) formata da circa 70 persone, per discutere
delle modalità con cui procedere alla redazione di una carta costituzio-
nale. In seguito al consenso formale ricevuto il 7 ottobre con un edit-
to del sultano, si passò alla formazione di una commissione speciale
composta da 28 membri, tra cui Namık Kemal, Ziya Pascià e Krikor
Odian, alla cui guida fu nominato Midhat Pascià42. Il 20 novembre
la prima bozza di costituzione fu presentata al sultano Abdülhamid II,
ma quest’ultimo – dopo essersi consultato in particolare con il gran vizir
Mütercim Rüşdü, da sempre fermo su posizioni più moderate rispet-
to a quelle di Midhat – la respinse affermando che riteneva eccessive
le limitazioni poste al potere del sultano. Dopo una serie di ulteriori
interventi, una nuova bozza di carta costituzionale composta da 119 ar-
ticoli fu nuovamente presentata al giudizio del sultano il 6 dicembre.
Anche se tutte le sue precedenti richieste erano state accolte nella nuo-
va bozza, Abdülhamid ora chiese che fosse incluso anche il diritto per
il sultano di esiliare dal territorio dell’impero i cittadini da lui ritenu-
ti pericolosi per la sicurezza dello stato. Questa richiesta così arbitra-
ria, fortemente contraria allo spirito e ai principi liberali della riforma,
fu all’origine di forti contrasti tra gli ambienti conservatori di palazzo
e il comitato dei riformisti guidato da Midhat, ma alla fine si decise a
denti stretti di acconsentire all’introduzione di questo articolo (n. 113)
pur di non mettere a rischio l’intero progetto di riforma costituzionale43.
A rendere necessaria un’urgente trasformazione delle istituzioni politi-
che dell’impero era del resto anche la nuova congiuntura internazionale.
La ribellione scoppiata in Serbia a fine giugno si era nel frattempo
ampliata anche alle regioni circostanti, convertendosi in breve tempo
in un intricato garbuglio diplomatico nel quale si trovarono implicate
tutte le principali potenze europee assieme all’impero russo. A parte
la Gran Bretagna – che anche col nuovo primo ministro Benjamin
Disraeli (1804-1881)44, salito al potere nel febbraio 1874, aveva deciso
di perseverare nel principio della difesa dell’integrità territoriale otto-
41 Davison, Halil Şerif, cit., pp. 76-77.
42 Robert Devereux, The First Ottoman Constitutional Period. A Study of the Midhat
Constitution and Parliament, Baltimore, Johns Hopkins Press, 1963, pp. 45-49.
43 Ivi, pp. 53-57.
44 Per la figura di Disraeli si veda il capitolo 12 e infra nota 3 a p. 214.
207
capitolo undicesimo
mana, ritenendo questa la politica più vantaggiosa per gli interessi bri-
tannici –, tutte le altre potenze sembravano vedere nella nuova crisi
balcanica l’occasione per riuscire a strappare al “malato d’Europa” por-
zioni più o meno importanti di territorio. Ma dopo la salita al potere
di Abdülhamid II, nel corso del mese di settembre l’esercito ottoma-
no si era dimostrato in grado di reprimere con efficacia l’insurrezione
in Serbia, sbaragliando completamente le truppe guidate dal principe
Milan e sostenute a livello logistico dai Russi45. A quel punto la diplo-
mazia internazionale cominciò a invocare un armistizio, che il gover-
no ottomano non voleva però concedere prima di aver ristabilito l’in-
tero controllo militare sulla regione. Ma in seguito alla minaccia russa
di intervenire direttamente nel conflitto occupando la Bulgaria, e le pres-
sioni diplomatiche esercitate dall’Inghilterra nel tentativo d’impedire
una simile eventualità, a inizio ottobre le autorità ottomane decisero
di porre temporaneamente fine alle ostilità. Tra le cancellerie europee
si scatenò quindi una furiosa tempesta diplomatica nel tentativo di tro-
vare una soluzione politica in grado di accontentare i diversi interessi:
alla fine si decise di convocare una conferenza internazionale a Istanbul
per la seconda metà di dicembre.
8. Il governo ottomano accettò di effettuare la conferenza pur
sapendo che sarebbe stato oggetto di fortissime pressioni per quanto
concerneva le politiche amministrative regionali e le questioni legate
ai dirittti delle minoranze. Proprio per questo Midhat Pascià desidera-
va concludere prima dell’inizio della conferenza il processo di riforma
costituzionale, il quale prevedeva l’introduzione di numerose garan-
zie senza discriminazioni riguardo alla protezione dei diritti civili dei
cittadini dell’impero, una serie di riforme che assicuravano maggiore
rappresentanza e autonomia amministrativa alle diverse province, non-
ché la creazione di un parlamento i cui deputati sarebbero stati nomi-
nati sulla base delle indicazioni dei governatori provinciali46. Secondo
il leader indiscusso dei riformisti, presentandosi alla conferenza inter-
nazionale con questo biglietto da visita il governo ottomano avrebbe
reso evidente alle potenze straniere la volontà di risolvere i problemi
interni dell’impero con strumenti democratici, rendendo illegittima
45Davison, Reform, cit., p. 358.
46Per un’estesa spiegazione dei contenuti della riforma costituzionale, si veda
Devereux, The First Ottoman, cit., pp. 61-79.
208
colpo di stato
qualunque interferenza esterna. Ma purtroppo le speranze di Midhat
risultarono spazzate via dall’amara realtà dei fatti.
Il 19 dicembre 1876, quando ormai mancavano solo pochi detta-
gli formali all’adozione del progetto di riforma costituzionale, il sultano
Abdülhamid II assegnò a Midhat il ruolo di gran vizir47. Tutto sembrava
pronto per garantire al leader dei riformisti ottomani il massimo pote-
re contrattuale nei confronti dei rappresentanti delle potenze straniere
convenuti a Istanbul. La conferenza fu inaugurata sabato 23 dicembre
presso l’edificio del Ministero della Marina a Kasımpaşa48, sulla riva
settentrionale del Corno d’oro: ad essere incaricato degli onori di casa,
al cospetto dei rappresentanti di Austria, Francia, Germania, Gran Breta-
gna, Italia e Russia49, fu il ministro ottomano degli esteri Safvet Pascià.
Dando prova di una notevole capacità di regia, le autorità ottomane si or-
ganizzarono in maniera tale che, negli stessi minuti in cui Safvet Pascià
effettuava il discorso inaugurale della conferenza, a qualche centinaio
di metri di distanza fossero sparati 101 colpi di cannone. Il ministro otto-
mano degli esteri ebbe così il pretesto per annunciare ai suoi ospiti che
gli spari annunciavano il passaggio dell’impero ottomano a uno statuto
costituzionale. In quegli stessi momenti, infatti, nello spiazzo dinanzi
alla sede del governo a Gülhane, Midhat Pascià stava annunciando l’av-
venuta adozione della carta costituzionale, leggendone integralmente
il testo dinanzi a circa 600 notabili dell’impero e a una folla di cittadini
turchi, cristiani ed ebrei radunatisi per l’occasione50.
Eppure, a dispetto di tutti gli sforzi compiuti dalle autorità ot-
tomane e dell’entusiasmo con cui la popolazione della città accolse
la notizia51, i rappresentanti stranieri apparvero poco impressionati,
47 Davison, Reform, cit., p. 380.
48 La costruzione del nuovo quartier generale della marina militare era stata affida-
ta nel 1864 dal sultano Abdülaziz al solito Sarkis Balian. Si veda Tuğlacı, Balian Family,
cit., pp. 452-455.
49 I rappresentanti stranieri erano: per l’impero austro-ungarico il ministro pleni-
potenziario Barone Heinrich von Calice (1831-1912) e l’ambasciatore Conte Ferenc Zichy
(1811-1900). Per la Francia il ministro plenipotenziario Conte Jean-Baptiste de Chaudordy
(1826-1899) e l’ambasciatore Conte François de Bourgoing (Francia). Per la Germania
l’ambasciatore Barone Karl von Werther (1809-1894). Per la Gran Bretagna il ministro
plenipotenziario Lord Robert Cecil Salisbury (1830-1903) e l’ambasciatore Sir Henry
Elliott (1817-1907). Per l’Italia l’ambasciatore Luigi Lodovico Corti (1823-1888). Per la Rus-
sia l’ambasciatore Nicolay Ignatieff (1832-1908). È interessante notare che al Congresso
di Berlino del 1878 si ritrovarono di nuovo al tavolo delle trattative sia il conte Corti che
Lord Salisbury, questa volta entrambi nel ruolo di ministro degli esteri dei rispettivi paesi.
50 Devereux, The First Ottoman, cit., pp. 80-82.
51 Ivi, pp. 82-83.
209
capitolo undicesimo
decisi com’erano a procedere secondo la linea dura già definita nel corso
di una serie di incontri bilaterali effettuati tra loro prima dell’inizio della
conferenza52. Del resto i diversi rappresentanti avevano dalla loro parte
anche l’opinione pubblica dei rispettivi paesi, fomentata da una cam-
pagna mediatica dedita a descrivere unilateralmente e con copiosità di
dettagli le atrocità commesse dai turchi contro le popolazioni cristia-
ne nei Balcani. Persino in Gran Bretagna, dove le autorità seguivano
da anni una politica di amicizia e solidarietà nei confronti dell’impe-
ro ottomano, un efficace pamphlet intitolato The Bulgarian Horrors and
the Question of the East – fatto pubblicare per calcoli di politica interna
dal leader dell’opposizione William Gladstone53 – aveva messo in diffi-
coltà il governo di Disraeli costringendolo ad adottare una posizione più
critica e distaccata nei confronti delle autorità di Istanbul. Per questo
il rappresentante Lord Salisbury si dimostrò pronto ad abiurare almeno
parzialmente dalla politica britannica di sostegno incondizionato all’im-
pero ottomano, applicata da quasi cinquant’anni in chiave anti-russa54.
Nei giorni seguenti, anche se Midhat e Safvet Pascià si sforzava-
no di convincere gli ospiti che ogni richiesta da loro avanzata era stata
già implementata e codificata nella nuova carta costituzionale, i rap-
presentanti delle potenze straniere rimasero fermi sulle loro posizioni,
mostrandosi perplessi riguardo alle reali capacità ottomane di imple-
mentare una riforma così ambiziosa. Nel frattempo la maggioranza dei
giornali europei e russi contribuì a creare un’atmosfera poco concilian-
te, giudicando la mossa dell’impero ottomano nient’altro che un truc-
co per posticipare ulteriormente la doverosa concessione di diritti alle
popolazioni cristiane nei Balcani55. La conferenza si protrasse per ol-
tre tre settimane in una drammatica situazione di stallo, fino a quando
52 Per una critica “dall’interno” all’atteggiamento di superiorità dimostrato dai de-
legati stranieri nei confronti delle autorità ottomane, si veda Henry Elliot, Some Revolu-
tions and Other Diplomatic Experiences, London, 1922. pp. 250-252.
53 Si trattava di un pamphlet di circa 30 pagine dato alla stampa da Gladstone
il 6 settembre 1876, e convertitosi presto in uno straordinario successo editoriale giunto
a vendere circa 200mila copie. Si veda Miloš Ković , Disraeli and the Eastern Question,
Oxford, Oxford University Press, 2011. p. 145.
54 Nel contesto di questo nuovo approccio di tendenza “coloniale” alle faccende
ottomane da parte del governo britannico, risulta interessante notare che Lord Sali-
sbury era a quel tempo Segretario di Stato per l’India, e del tutto impreparato riguardo
alle questioni ottomane. Si veda Marvin Swartz, The Politics of British Foreign Policy
in the Era of Disraeli and Gladstone, London, The Macmillan Press, 1985, p. 31. Si veda
inoltre Devereux, The First Ottoman, cit., p. 95, nota 42.
55 Devereux, The First Ottoman, cit., pp. 87-91.
210
colpo di stato
il 15 gennaio le potenze straniere abbassarono notevolmente le loro
pretese presentando in forma di ultimatum una proposta che prevede-
va unicamente la nomina di tre governatori cristiani, da loro approva-
ti, presso le province di Bosnia, Erzegovina e Bulgaria, e l’istituzione
di una commissione formata da rappresentanti stranieri per vigilare
sull’implementazione delle riforme nelle suddette province.
Per quanto minima, la proposta consisteva pur sempre in una
chiara ingerenza negli affari interni ottomani: Midhat dichiarò quindi
che – per coerenza con la riforma costituzionale appena introdotta –
anche se il parlamento non era ancora formato era necessario vinco-
lare la decisione finale alla votazione di un’assemblea in grado di rap-
presentare il più possibile l’eterogeneità della popolazione ottomana.
Il 18 gennaio, dopo aver spiegato con chiarezza la situazione – specifi-
cando che in caso di rifiuto della proposta la Russia avrebbe probabil-
mente sfruttato l’occasione per dichiarare guerra – il gran vizir Midhat
chiese a 240 notabili appartenenti alle diverse comunità religiose
di esprimere pubblicamente le loro opinioni prima di passare al voto
finale. Incredibilmente, non solo i rappresentanti della comunità mu-
sulmana, ma anche la maggioranza dei patriarchi e degli altri rappre-
sentanti delle tante confessioni cristiane dell’impero espressero la loro
opposizione a un simile compromesso, in uno slancio di rinnovato pa-
triottismo e orgoglio pan-ottomano56. Legittimate da questa chiara pre-
sa di posizione, il giorno successivo le autorità ottomane confermarono
il rifiuto di ogni proposta avanzata dalle potenze straniere: il 20 gennaio
la conferenza fu quindi dichiarata conclusa con un drammatico nulla
di fatto carico di infausti presagi.
56 Ivi, pp. 95-97. Per una testimonianza diretta, si veda anche Elliot, Some Revo-
lutions, cit., pp. 289-290.
211
12. La notte della ragione.
Antonio Geraci e il compromesso storico
The life of these people
greatly accords with my taste,
which is naturally somewhat
indolent and melancholic...
Benjamin Disraeli da Istanbul,
18301
1. Nella schiacciante maggioranza delle fonti storiografiche oc-
cidentali, il fallimento della conferenza di Istanbul del gennaio 1877
risulta liquidato in poche righe attribuendolo alla «testardaggine dei
turchi»2, senza alcun riferimento alla complessità del contesto politico
ottomano e ai tanti sforzi compiuti dalle migliori menti di quel periodo
per compiere un processo di rigenerazione delle istituzioni e sottrar-
re così l’impero alle ingerenze e alle mire espansionistiche delle po-
tenze europee e della Russia. Si può ricondurre questa viziata “sem-
plificazione” storiografica allo sprezzante atteggiamento tenuto dai
rappresentanti stranieri nei confronti delle autorità ottomane durante
le quasi quattro settimane di conferenza, oltre che alla rappresentazio-
ne mediatica degli avvenimenti fornita al tempo dai principali periodi-
ci delle potenze straniere. Era il segno che, dopo quasi cinquant’anni
di politiche a favore dell’integrità dell’impero ottomano – con cui Francia
e Inghilterra avevano voluto garantirsi la sicurezza nel Mar Mediterra-
neo per ostacolare i Russi e approfittare dello sviluppo del mercato capi-
talistico nel territorio ottomano – gli equilibri si stavano ora evolvendo
in direzione sfavorevole alle autorità d’Istanbul.
1 La lettera fu inviata il 27 dicembre 1830 da Istanbul nel corso dell’unico viaggio
effettuato dal futuro primo ministro britannico Disraeli (1804-1881) nei territori dell’im-
pero ottomano. Il destinatario era l’amico Edward George Bulwer-Lytton (1803-1873), fra-
tello di quel Henry Bulwer (1801-1872) che tra 1858 e 1865 fu ambasciatore britannico
a Istanbul, dove fondò una loggia massonica recante il suo nome. Si noti inoltre che
nel 1876, durante il suo mandato da Primo ministro, Disraeli assegnò il prestigioso in-
carico di Viceré in India a Robert-Bulwer-Lytton (1831-1891), figlio dell’ormai defunto
Edward. Il passo della lettera citata è riportato in Ković , Disraeli, cit., p. 25.
2 Si veda ad esempio Swartz, The Politics, cit., p. 49. L’autore riesce a liquidare
l’intera conferenza con una sola riga: «The meeting at Constantinople proved futile be-
cause of Turkish obstinacy».
213
capitolo dodicesimo
La guerra di Crimea, con la sua alleanza europea a sostegno
dell’impero ottomano, aveva assicurato una schiacciante vittoria con-
tro le ambizioni russe, neutralizzando per quasi due decenni le mire
espansionistiche di San Pietroburgo nei territori dell’Europa orientale.
Ma in seguito a quella umiliante sconfitta il nuovo zar Alessandro II,
salito al trono proprio nei mesi più caldi di quella guerra, aveva iniziato
a perseguire un’oculata politica di sostegno ai movimenti nazionalisti-
ci nei Balcani, con l’obiettivo di logorare progressivamente i rapporti
di fiducia tra le popolazioni cristiane e le autorità ottomane, alimentan-
do focolai di instabilità che erano fonte di problemi anche per l’impero
asburgico. Nel biennio 1876-1877, quando la Russia aveva ormai inte-
ramente recuperato la sua forza militare, l’impero ottomano si trovava
invece ad attraversare una gravissima crisi economica senza più il so-
stegno, per la prima volta dopo cinquant’anni, dei suoi due principa-
li alleati. Dopo la grave sconfitta sofferta nella guerra del 1870 contro
la Prussia, la Francia era infatti passata ad essere una potenza di secon-
do piano sullo scacchiere politico e diplomatico internazionale, senza
più poter svolgere un ruolo credibile come protettrice degli interessi
e della sicurezza ottomana. Per quanto concerne la Gran Bretagna,
la situazione era diversa: dopo la morte nel 1865 di Lord Palmerston
– che per quasi quarant’anni aveva dominato la scena politica londinese
portando avanti un piano di rapace espansione imperiale dell’influenza
delle istituzioni politiche, commerciali e militari di Londra – a raccoglie-
re il suo testimone era stata l’affascinante figura di Benjamin Disraeli3
(1804-1881). Nel 1876 – nel corso del suo secondo mandato come primo
ministro – Disraeli fece assegnare alla regina Vittoria il titolo ufficiale di
“imperatrice dell’India”, proprio come da lui immaginato nell’enigmati-
co romanzo Tancred pubblicato nel 1847, dove era giunto persino a pro-
porre di trasferire la capitale dell’impero da Londra a Delhi4. La potenza
3 Di origini ebree sefardite, dopo la cacciata dalla Spagna nel 1492 gli antenati
di Disraeli si stabilirono prima a Venezia e poi a Cento (FE). Fu il nonno Benjamin
D’Israeli (1730-1816) a lasciare Cento per trasferirisi a Londra intorno al 1748. A causa
di uno screzio con la locale comunità ebraica, nel 1817 il padre Isaac (1766-1848) decise
di abiurare dall’ebraismo e convertirsi alla religione anglicana, costringendo anche i figli
a fare lo stesso: a partire da quel momento anche il cognome della famiglia cambiò in
Disraeli senza l’apostrofo. Questa conversione permise a Benjamin di fare carriera poli-
tica, dato che fino al 1858 non fu possibile per i cittadini britannici di religione ebraica
divenire parlamentari.
4 Benjamin Disraeli, Tancred or the New Crusade, London, Henry Colburn Publi-
sher, 1847, p. 311. Secondo quanto riportato da Franco Volpi nella postfazione a Carl
Schmitt, Terra e mare. Una riflessione sulla storia del mondo, Milano, Adelphi, 2002, p. 138
214
la notte della ragione
britannica si trovava in quegli anni a un livello di grande forza politica
e militare, ma il suo approccio nei confronti dell’impero ottomano stava
attraversando una fase di decisiva trasformazione: anche se il sentimen-
to anti-russo della popolazione britannica era sempre maggioritario,
in seguito alla forte attenzione mediatica nei confronti delle violenze
perpetrate dai turchi contro le popolazioni cristiane in Bulgaria e in altri
paesi dei Balcani, il governo di Disraeli si era visto costretto a moderare
il suo sostegno politico e logistico all’impero ottomano per non pre-
stare il fianco alle critiche dell’opposizione whig guidata da Gladstone.
Un altro fattore che contribuì in maniera fondamentale a raffreddare
l’entusiasmo dei “poteri forti” di Londra nei confronti della realtà po-
litica ottomana fu la dichiarazione di insolvenza finanziaria da parte
delle autorità d’Istanbul nell’ottobre 1875. Numerosi istituti bancari, in-
vestitori privati e detentori di azioni e bond emessi dallo stato ottomano
avevano infatti subito gravi perdite in seguito alla pesante ammissione
di debolezza finanziaria effettuata dall’allora gran visir Mahmut Nedim.
Le proteste e le critiche avanzate da questi influenti settori della società
britannica convinsero infine il primo ministro Disraeli a cambiare
approccio nei confronti della “questione d’Oriente”: pur continuando
a garantire il contenimento delle ambizioni russe, le autorità di Londra
compresero che era ormai necessario assumere un atteggiamento più
aggressivo nei confronti della realtà ottomana. Probabilmente a convin-
cere Disraeli che questo nuovo corso potesse essere foriero d’interes-
santi vantaggi materiali per la potenza britannica fu un effetto indiretto
della dichiarazione d’insolvenza del 1875. Poche settimane dopo, infatti,
il khedivè d’Egitto Ismail – messo anch’egli in seria difficoltà finanzia-
ria dalla mossa delle autorità ottomane – decise all’improvviso di porre
in vendita l’intera quota in suo possesso (il 40%) delle azioni del canale
di Suez inaugurato solo sei anni prima5. La notizia mise in agitazione
tanto i francesi quanto i britannici, ma fu Disraeli – grazie a un prestito
di 4 milioni di sterline garantito in forma privata dall’amico Lionel de
Rothschild, permettendogli di evitare i rallentamenti burocratici dovuti
alla trafila parlamentare – ad assicurarsi l’affare che da quel momento
diede alle autorità di Londra il pretesto per interferire negli affari interni
nella prima edizione del testo nel 1942 il giurista tedesco colluso con il nazionalsocia-
lismo aveva definito Disraeli «un iniziato, un saggio di Sion», il quale, «da buon esoterico,
avrebbe affidato alla narrazione letteraria le sue convinzioni più profonde».
5 C.C. Eldridge, England’s Mission. The Imperial Idea in the Age of Gladstone and
Disraeli. 1868-1880, London, Palgrave Macmillan, 1973, pp. 209-211.
215
capitolo dodicesimo
dell’Egitto, fino a giungere ad occupare il paese e ad acquisire il totale
controllo dello strategico canale nell’estate del 18826.
2. Il cambiamento degli equilibri geopolitici in corso e le forti
emozioni vissute durante l’anno 1876, compreso il modo rocambolesco
in cui era giunto al potere in seguito alla deposizione violenta dello zio
– poi morto misteriosamente – e all’abdicazione del fratello maggiore,
impressero sulla personalità del nuovo sultano Abdülhamid II una forte
tendenza al sospetto e all’insicurezza. Come se non bastasse, a circa tre
mesi dalla salita al trono, mentre erano in corso i frenetici preparativi
per portare a termine la riforma costituzionale prima dell’inizio della
conferenza d’Istanbul, fu sventato all’ultimo momento il piano orga-
nizzato da un manipolo di persone – legate a livello professionale sia
all’ambasciata russa che a quella britannica – per liberare il deposto
Murat dalla reclusione dorata presso il palazzo di Çırağan e condurlo
a Londra via Odessa. Qui, secondo il piano delineato dagli organizzato-
ri, in seguito al completo recupero della salute sarebbe stato permesso
al principe di riconquistare il trono grazie a una campagna di pressio-
ne diplomatica internazionale. Ma grazie ad alcuni informatori il piano
fu scoperto: fu così che il 5 dicembre 1876 alcune guardie private del
sultano riuscirono ad arrestare due membri del gruppo mentre cercava-
no di entrare nel palazzo di Çırağan vestiti da donna7.
Il fatto contribuì ovviamente ad aumentare il livello di insicurez-
za paranoica del nuovo sultano, sempre più convinto che fossero tutti
intenti a tramare contro di lui. In questo senso non fu certo d’aiuto
Mehmet Said Pascià (1838-1914), la figura da lui selezionata all’inizio
del regno per l’incarico di capo ciambellano: dopo aver lasciato la sua
città d’origine in Anatolia centrale, dove in gioventù aveva rivestito al-
cuni incarichi nell’amministrazione pubblica locale, Said era giunto
a Istanbul all’inizio degli anni ’60 per proseguire nella carriera di fun-
zionario, senza però mai acquisire alcuna posizione di rilievo. La forte
ambizione, associata a un forte senso di risentimento e disprezzo per
le tendenze più liberali in voga in quegli anni, lo portarono a svolge-
6 Per una narrazione dettagliata si veda Swartz. The Politics, cit., pp. 123-144,
che dedica alla vicenda un intero capitolo intitolato “Imperialism in Egypt”.
7 Ismail Hakkı Uzunçarşılı, Beşinci Murad ile oğlu Salahaddin Efendi’yi kaçırmak
için kadın kıyafetinde Çırağan’a girmek isteyen şahıslar (Il tentativo di entrare a Çırağ-
an con abiti da donna per far fuggire Murat V e suo figlio Selahattin) (1944), Osmanlı
hanedanı üstüne incelemeler. Seçme makaleler (Studi sulla dinastia ottomana. Articoli
scelti), II, Istanbul, YKY, 2012, pp. 429-436.
216
la notte della ragione
re un ruolo chiave nel definire la linea politica di Abdülhamid II, che
infatti giunse a nominare Said Pascià gran vizir per ben sette volte du-
rante i suoi trentatré anni di regno8. Fu così che quando la conferenza
d’Istanbul – in ragione del coraggio dimostrato dai rappresentanti poli-
tici ottomani davanti alle richieste delle potenze straniere – si concluse
il 20 gennaio 1877 con un nulla di fatto, il sultano fu istigato dal capo
ciambellano a interpretare il fatto come un azzardo messo in atto da
Midhat Pascià per mettere a rischio la sicurezza del sultano e dell’im-
pero. Capendo di aver individuato un punto debole, Said Pascià non
esitò a calcare la mano e convincere il sovrano che la vera intenzione
di Midhat fosse addirittura quella di porre fine al regno della dinastia
ottomana per dichiarare un regime repubblicano in combutta con gli
ambienti massonici delle grandi potenze.
Il risultato di questo lavoro di persuasione fu che il 5 febbraio,
dopo nemmeno cinquanta giorni d’incarico, Midhat Pascià fu sospeso
dal posto di gran vizir e costretto all’esilio forzato dai territori dell’im-
pero ottomano senza neanche la possibilità di passare da casa, in base
a quell’articolo 113 fatto inserire all’ultimo momento dal sultano nella
carta costituzionale dell’impero ottomano9.
3. Al posto di Midhat il sultano decise di nominare gran vizir
Ibrahim Edhem Pascià. Quest’ultimo, affermatosi durante trent’anni
di carriera come uno dei più brillanti e stimati esponenti del riformi-
smo ottomano dell’epoca, ebbe però la sventura di trovarsi a guidare
per la prima (e unica) volta il governo ottomano in uno dei periodi
più oscuri della sua storia recente. Il fallimento della conferenza di
Istanbul aveva infatti lasciate irrisolte le numerose questioni aperte
nei Balcani, aumentando la tensione con le diverse potenze straniere
e in particolare con la Russia, che riteneva fossero ormai mature le con-
dizioni per potersi vendicare dell’umiliazione subita durante la guerra di
Crimea. Dopo un primo accordo raggiunto con l’impero austro-ungarico,
per delimitare in maniera precisa le rispettive zone d’influenza nei
Balcani, a metà marzo le autorità di San Pietroburgo cercarono di
raggiungere un accordo diretto anche con la Gran Bretagna, inviando
a Londra il conte Ignatieff. Qui le cose non furono così facili ma alla
8 Sinan Kuneralp, Son dönem Osmanlı Erkân ve ricali (1839-1922). Prosopografik
rehber (Notabili ottomani dell’ultimo periodo. Guida prosopografica), Istanbul, Isis Press,
1999, p. 1.
9 Davison, Reform, cit., pp. 397-401.
217
capitolo dodicesimo
fine, in seguito a un’ulteriore interazione multilaterale, le grandi po-
tenze raggiunsero un nuovo protocollo d’intesa (detto “di Londra”) che
il 31 marzo fu presentato alle autorità di Istanbul nel tentativo di eludere
un conflitto che altrimenti sembrava ormai inevitabile10.
Al termine di drammatiche e concitate discussioni, le autorità ot-
tomane nella persona di Ibrahim Edhem Pascià comunicarono al mi-
nistro degli esteri britannico il loro rifiuto del protocollo. Per giustifi-
care la posizione del suo paese, il gran vizir affermò che il protocollo
in questione risultava poco dissimile dall’ultima proposta avanzata alla
conferenza di Istanbul, ugualmente in violazione quindi del principio
di reciproca non-interferenza negli affari di politica interna espresso
dall’articolo 9 del trattato di Parigi siglato nel 1856, al termine della
guerra di Crimea.
Per lo zar Alessandro II questo ulteriore rifiuto costituì un prete-
sto sufficiente per dichiarare ufficialmente guerra all’impero ottomano
il 24 aprile 1877. Da quel momento in poi ebbero inizio i preparativi mi-
litari che portarono allo sviluppo di due fronti principali: quello occiden-
tale – dove l’esercito russo al comando del Granduca Nicola (1831-1891)
avrebbe tentato di avanzare a sud del Danubio per occupare la Bulgaria
e altri territori balcanici – e quello orientale, dove le forze guidate dal
Granduca Michail (1832-1909)11 avrebbero forzato le difese dell’impero
ottomano in area caucasica con l’obiettivo di penetrare in Anatolia.
Il primo fronte fu quello su cui si concentrarono le forze più impo-
nenti, dato che ciascuno degli imperi giunse a mobilitare circa 170mila
uomini. I Russi furono però più rapidi e grazie alla collaborazione logi-
stica e militare della Romania, paese che si trovava ancora formalmente
sotto la sovranità ottomana, riuscirono ad avanzare in poche settimane
fino alla riva del Danubio. A partire dal 21 giugno i Russi cominciarono
ad attraversare il fiume in corrispondenza di Nikopol, senza quasi incon-
trare resistenza: in ragione della crisi finanziaria le autorità di Istanbul
si trovavano in seria difficoltà organizzativa e ciò permise ai Russi
di sbaragliare le prime, insufficienti difese ottomane in territorio bulga-
ro giungendo il 7 luglio a prendere Tarnovo, città simbolo dell’identità
nazionale bulgara, e il 17 luglio a conquistare il passo Shipka, dal fon-
damentale valore strategico. A quel punto l’avanzata dei Russi appariva
ormai inarrestabile, ma una serie di rinforzi giunti a sostenere la di-
10 Ković , Disraeli, cit., pp. 195-199.
11 Si noti che entrambi i comandanti russi erano fratelli minori dello zar Alessan-
dro II (1818-1881).
218
la notte della ragione
fesa della fortezza ottomana di Pleven ebbero l’effetto di determinare
un improvviso arresto del corso della guerra. La piccola cittadina riuscì
infatti a resistere per oltre quattro mesi all’assedio recato da migliaia
di soldati russi; ma in seguito al quarto devastante attacco, respinto ma
costato la vita a quattromila dei suoi soldati, il 10 dicembre il comandan-
te ottomano Osman Nuri Pascià decise di arrendersi, anche in ragione
delle pessime notizie in arrivo dagli altri fronti della guerra12. Sul fronte
orientale i Russi erano infatti riusciti a penetrare con discreta facilità
in Anatolia, conquistando le importanti città di Batumi, Ardahan, Kars,
Beyazit e giungendo addirittura ad assediare Erzurum13. Nel frattem-
po, sul fronte balcanico, a modificare irreversibilmente gli equilibri fu
la decisione del principato di Serbia, fino a pochi anni prima soggetto
al potere ottomano, di entrare in guerra al fianco della Russia aprendo
così un nuovo fronte. Da quel momento in poi le forze ottomane non
furono più in grado di opporre alcuna resistenza: nel giro di qualche
settimana i Russi furono in grado di raggiungere e conquistare Sofia,
Plovdiv e infine persino Edirne, città che era stata capitale dell’impero
ottomano nel XV secolo prima della conquista di Istanbul. Da Edirne,
a dispetto di un primo armistizio siglato il 31 gennaio, l’esercito russo
continuò ad avanzare indisturbato verso Istanbul, suscitando notevole
allarme non solo tra le autorità e gli abitanti della città ma anche presso
le cancellerie di tutta Europa.
4. Furono ovviamente le autorità di Londra quelle più sconvolte
dalla notizia che i Russi potessero essere sul punto di occupare Istanbul.
Pur avendo seguito con grande attenzione e sangue freddo l’evoluzio-
ne della guerra in favore di San Pietroburgo, Disraeli non poteva ne-
anche concepire il realizzarsi di un’eventualità tanto funesta: l’attuale
primo ministro britannico aveva infatti visitato la capitale ottomana
per la prima e unica volta nel lontano 1830 all’età di 26 anni, rima-
nendone fortemente affascinato14. Nei romanzi “allegorici” da lui scritti
dando sfogo a una fervida immaginazione intrisa di messianismo po-
litico, erano numerosi i riferimenti all’importanza strategica e simbo-
lica della città affacciata sul Bosforo per chiunque nutrisse ambizioni
di dominio imperiale planetario. Per questo, anche se altri membri del
12 Ian Drury, The Russo-Turkish War 1877, Oxford, Osprey Publishing, 1994,
pp. 6-12.
13 Ivi, pp. 14-15.
14 Ković , Disraeli, pp. 24-25.
219
capitolo dodicesimo
suo governo gli facevano notare che per gli interessi concreti di Londra
sarebbe stato preferibile concentrarsi sull’espansione del controllo bri-
tannico nel Mediterraneo orientale – ad esempio, nell’area estesa tra
l’isola di Lesbo e il canale di Suez – alla notizia che i Russi si trovavano
a Edirne Disreali fece immediatamente mobilitare la flotta britannica
in direzione di Istanbul. Fu così che il 15 febbraio 1878 cinque navi
da guerra britanniche attraccarono al largo delle isole dei Principi,
a soli pochi chilometri dalla capitale ottomana. Il sultano Abdülhamid II,
per evitare che i Russi potessero utilizzare la presenza di una flotta stra-
niera come pretesto per giustificare un attacco alla città, chiese però
al nuovo ambasciatore britannico Henry Layard che le navi fossero subi-
to allontanate dalla città15. In questa situazione di estrema tensione po-
litica e diplomatica le truppe guidate dal Granduca Nicola avanzarono
fino alla periferia occidentale della capitale ottomana: ma siccome a San
Pietroburgo né lo zar Alessandro II né le altre autorità militari volevano
prendersi la responsabilità di sferrare un attacco alla capitale rischiando
un nuovo conflitto internazionale, in attesa di ulteriori ordini o sviluppi
il Granduca decise di accampare le truppe nel sobborgo di Santo Stefa-
no (l’attuale Yeşilköy), a circa quindici chilometri dal centro della città,
per portare avanti ulteriori trattative16.
Consapevoli del fatale pericolo, pur di assicurarsi la pace le au-
torità ottomane si rivelarono disposte ad accettare un accordo pesan-
tissimo che prevedeva un enorme indennizzo di guerra, la cessione
alla Russia di diverse province dell’Anatolia orientale, la concessione
di ampia autonomia per Bosnia-Erzegovina, Creta, Epiro e Tessaglia,
la totale indipendenza di Romania, Serbia e Montenegro, nonché
la creazione di un grande stato bulgaro esteso dal Danubio fino al
Mar Egeo17. In seguito alla firma del trattato di Santo Stefano, avve-
nuta il 3 marzo 1878, il sultano decise di invitare il Granduca Nicola
e il suo stato maggiore a un ricevimento in loro onore organizzato pres-
15 Ivi, pp. 243-244.
16 Ivi, pp. 244-245. È interessante scoprire che la storia del cinema turco viene fatta
generalmente iniziare con un’opera girata il 14 novembre 1914 per documentare l’opera-
zione con cui le autorità d’Istanbul all’inizio della Prima Guerra mondiale fecero saltare
in aria con una carica di dinamite il monumento fatto erigere ai russi a Santo Stefano nel
1895 per celebrare il successo militare del 1878. Della registrazione si sono però conser-
vati solo alcuni fotogrammi, ed alcuni storici mettono addirittura in dubbio che il film sia
mai stato realizzato. Si veda ad esempio Giovanni Scognamillo, Türk Sinema Tarihi (Storia
del cinema turco), Istanbul, Kabalcı Yayınevi, 2010, pp. 23-25.
17 Ivi, p. 248.
220
la notte della ragione
so il palazzo di Yıldız. I maggiori responsabili della vittoriosa campagna
russa sul fronte balcanico ebbero quindi l’opportunità di entrare nella
capitale ed essere ricevuti amichevolmente dal sultano e dalle massime
autorità ottomane. Se a molti parve trattarsi di un comportamento estre-
mamente signorile da parte di un sovrano sconfitto, ad altri esponenti
della cultura ottomana il gesto risultò indegno e inaccettabile.
5. Anche se a gennaio la conferenza di Istanbul si era chiusa con
un poco benaugurante nulla di fatto e pochi giorni dopo il leader dei ri-
formisti ottomani Midhat Pascià era stato esiliato dall’impero, le innova-
zioni introdotte dalla riforma costituzionale del 23 dicembre 1876 erano
comunque in vigore e in attesa di essere implementate. Fu così che, con
qualche settimana di ritardo rispetto al previsto, lunedì 19 marzo del 1877
ebbe luogo la cerimonia inaugurale del nuovo parlamento ottomano, co-
stituito da due diverse camere: la Meclis-i Ayan, composta da una trentina
di notabili nominati dal sultano, e la Meclis-i Mebusan, costituita da 130
rappresentanti selezionati dai governatori delle diverse province (50 dei
quali non-musulmani). La sede scelta dal sultano e dal gran vizir Ibrahim
Edhem per ospitare il parlamento ottomano fu l’edificio progettato dai
fratelli Fossati (si veda supra, § 4.4) negli anni ’50 come sede della prima
università ottomana e utilizzato dal 1865 come sede del Ministero del-
le Finanze18, ma la cerimonia di apertura si tenne presso il palazzo di
Dolmabahçe. Purtroppo, siccome al termine della conferenza d’Istanbul
tutte le grandi potenze straniere avevano deciso di ritirare gli ambasciato-
ri in segno di protesta per la mancata accettazione delle loro condizioni,
gli unici osservatori stranieri che ebbero la possibilità di presenziare
a questa eccezionale assemblea di identità etniche e religiose furono al-
cuni impiegati minori delle rappresentanze diplomatiche (dragomanni o
chargé d’affaires) e un manipolo di giornalisti19.
Non si può certo dire che la prima esperienza parlamentare della
storia ottomana fosse nata sotto una buona stella: a fine aprile giunse
la dichiarazione di guerra della Russia e la conseguente mobilitazione
18 I necessari interventi architettonici per adeguare l’edificio alla sua nuova fun-
zione furono effettuati dal Primo architetto imperiale Sarkis Balian. Devereux, The First
Ottoman, cit., pp. 119-122.
19 Hakan Karateke, I. Osmanlı Mebusan Meclisi’nin Açılış törenleri (Le cerimonie
d’apertura del primo parlamento ottomano), in 150.Yılında Dolmabahçe Sarayı Uluslar-
arası Sempozyumu Bildirileri, atti del simposio internazionale nel 150° anno del palazzo
di Dolmabahçe, Istanbul, TBMM Milli Saraylar, 2007, pp. 34-40. Su questo tema, si veda
inoltre anche il solito Devereux, The First Ottoman, cit., pp. 108-115.
221
capitolo dodicesimo
militare, che il 28 giugno portò alla decisione di interrompere tempo-
raneamente le attività parlamentari. Si decise di riunire nuovamente
il parlamento il 13 novembre, ma a causa del mancato quorum l’inizio
delle attività fu posticipato al 13 dicembre, proprio nei giorni che segna-
vano il definitivo tracollo delle forze ottomane dinanzi all’avanzata dei
Russi20. Alla fine il sultano Abdülhamid II, adducendo come motivazio-
ne lo stato d’emergenza legato alla grave sconfitta militare, il 13 febbraio
del 1878 decise di interrompere a tempo indefinito le attività del parla-
mento, dando inizio a trent’anni di regno autocratico che giungeranno
a termine solo con la rivoluzione dei Giovani Turchi nel luglio 190821.
Nel frattempo in quei mesi i principali esponenti dei Nuovi Ot-
tomani stavano scomparendo dalla scena uno dopo l’altro: alcuni per
cause naturali, altri per ordine del sultano. In concomitanza con la deci-
sione di licenziare e mandare in esilio Midhat Pascià, Abdülhamid deci-
se infatti di eliminare anche i due esponenti più prestigiosi di quel mo-
vimento che tanto aveva infastidito suo zio Abdülaziz. A fine gennaio
del 1877 Ziya fu inviato a Damasco nel ruolo di prefetto della provincia
siriana, cui fece seguito l’anno successivo la nomina come governatore
di Adana, dove la morte lo colse nel 188022. Il 6 febbraio 1877 Namık
Kemal fu invece arrestato e sottoposto a un processo che si protrasse
per qualche mese, fino a quando a luglio il sultano gli garantì l’amnistia
a patto che accettasse il trasferimento presso un’isola del Mediterraneo.
Fu così che Namık Kemal si trovò costretto all’esilio per la terza volta
in dieci anni: questa fu però l’ultima, perché dopo sette anni trascorsi
presso l’isola di Lesbo (di cui gli ultimi cinque nel ruolo di prefetto) e tre
anni a Rodi (sempre come prefetto), Namık Kemal morì nel 1888 pochi
mesi dopo l’ultimo trasferimento presso l’isola di Chio23.
Mustafa Fazıl era morto già nel dicembre 1875, mentre Halil Şerif,
colpito da un ictus nel settembre 1876, dopo un momentaneo recupero
nel marzo 1877 era stato inviato al posto di ambasciatore a Parigi da lui
tanto ambito. Dopo pochi mesi fu però costretto ad abbandonare l’incari-
co per ragioni di salute e morì infine nel gennaio 1879.
20 Devereux, The First Ottoman, cit., pp. 115-118.
21 L’edificio progettato dai Fossati e utilizzato come Parlamento ottomano per
il breve periodo intercorso tra 1877 e 1878, rimase poi inutilizzato fino a quando con
la rivoluzione dei Giovani turchi del 1908 tornò ad essere adoperato come parlamento
ottomano fıno al 1912. Ivi, p. 122.
22 Abdullah Uçman, Ziya Paşa, in Islam Ansiklopedisi, cit., XLIV, p. 477.
23 Akün, Nâmık Kemal, cit., pp. 370-371.
222
la notte della ragione
6. Tra le scomparse dei diversi protagonisti politici e intellettuali
dell’epoca, quella di Ali Suavi fu senza dubbio la più eclatante e spet-
tacolare: come abbiamo visto, il “rivoluzionario con il turbante” era
stato l’unico dei Nuovi Ottomani a non fare ritorno a Istanbul dopo
la morte di Ali Pascià in quanto, a dispetto dell’amnistia concessa da
Abdülaziz nell’autunno del 1871, in risposta alla sua richiesta le auto-
rità di Istanbul avevano inviato all’ambasciata di Parigi la seguente co-
municazione: «Ali Suavi non è autorizzato a rientrare nella capitale.
Gli si può rilasciare il passaporto solo nel caso in cui desideri recarsi in
altre regioni dell’impero»24. Anche se non esistono dati certi, sembra
che da quel momento in poi Ali Suavi sia rimasto soprattutto a Parigi,
effettuando al massimo qualche spostamento presso altre città francesi
o in Svizzera, per incontrare una serie di amici con cui condivideva idee
e posizioni simili riguardo alla “questione d’Oriente”. Sin dai primi mesi
trascorsi in Europa, Ali Suavi era infatti entrato in contatto con lo scoz-
zese David Urquhart (1804-1877), una figura di particolare interesse che
per circa quattro decenni costituì una delle voci più originali dell’arena
politica e culturale britannica, soprattutto in riferimento alla storia e al
destino della civiltà ottomana. Dopo essere giunto a Istanbul con un inca-
rico presso la locale ambasciata all’inizio degli anni ’30, Urquhart redasse
un rapporto intitolato Turkey and its Resources, che ebbe un ruolo fonda-
mentale nello spingere le autorità di Londra a siglare con l’impero otto-
mano l’accordo di Balta Limanı sul libero commercio (si veda supra, § 1.7).
Ma in quello stesso periodo Urquhart sviluppò anche una forte passione
per la causa dei popoli caucasici di religione musulmana, in particolare
i circassi, che a suo parere soffrivano terribili forme di oppressione a causa
del dominio russo25. Nel novembre 1836 si mise quindi a capo di una mis-
sione per recare aiuto logistico e forse anche militare ad alcuni gruppi di
insorti circassi, con una nave che fu però intercettata dalle autorità russe.
Il fatto determinò forti tensioni diplomatiche che costarono a Urquhart
non solo il posto a Istanbul, ma addirittura l’espulsione dal Foreign Office
britannico. Da quel momento in poi lo scozzese non fece mai più ritor-
no a Istanbul, ma dedicò il resto della vita a difendere in diversi modi
la causa dei turchi e della civiltà ottomana, sia in ambito politico nel ruolo
di parlamentare che con una feconda attività pubblicistica. Tra le altre
attività da lui portate avanti in questo senso ci fu la promozione della
24 Çelik, Ali Suavi, cit., pp. 265-266.
25 Sulla questione si veda Charles King, Imagining Circassia: David Urquhart and the
Making of North Caucasus Nationalism, «Russian Review», 66/2, aprile 2007, pp. 238-255.
223
capitolo dodicesimo
cultura dell’hamam a Londra e in altre città britanniche, sostenendo che
il livello di civiltà di un popolo si misurasse anche sulla base della sua
igiene e salute fisica e che in questo senso il bagno turco fosse un chiaro
segno di superiorità dei popoli orientali26.
Quando nel luglio 1867 il sultano Abdülaziz e il suo seguito giun-
sero in visita a Londra, David Urquhart ebbe la possibilità di accompa-
gnare il sovrano presso uno degli hamam di più recente costruzione.
Probabilmente fu in questo contesto che Ali Suavi ebbe per la prima
volta notizia di questo scozzese amante della cultura turca: a partire
dai mesi successivi tra i due si instaurò un forte legame di amicizia,
che ebbe l’effetto di allontanare ulteriormente l’esule ottomano dal-
la linea politica più liberale e riformista degli altri compagni. Già ne-
gli anni della guerra di Crimea Urquhart aveva infatti sostenuto, in
Parlamento e con una serie di pubblicazioni, che l’impero ottomano
avesse i mezzi per difendersi da solo e che in ogni caso – se proprio
si voleva fornire aiuto a livello militare – non bisognava costringere
il governo ottomano a indebitarsi con le banche occidentali, perché ciò
si sarebbe trasformato in un subdolo strumento di dominio tramite
la limitazione della sua sovranità. Lo scozzese riteneva inoltre scorretto
interferire su questioni di politica interna come i diritti delle minoran-
ze, perché a suo parere le riforme imposte dall’alto in forma di ricatto
(come l’editto di Gülhane del 1856) rappresentavano uno strumento di
coercizione politica utilizzato dalle potenze straniere per ricavare van-
taggi economici e materiali a proprio favore. È evıdente che con le sue
critiche Urquhart toccava una serie di questioni fondamentali che costi-
tuivano altrettanti nervi scoperti nello strumentale rapporto di “collabo-
razione” che le potenze europee avevano instaurato con l’impero otto-
mano in quei decenni. Non per niente le opinioni di questo critico ante
litteram delle sottili dinamiche “imperialiste” della globalizzazione e del
libero commercio suscitarono durante un certo periodo anche l’atten-
zione di Karl Marx, dando luogo a un’improbabile collaborazione intel-
lettuale tra i due pensatori a cavallo degli anni della guerra di Crimea27.
26 Ivi, p. 245.
27 A questo proposito si veda Francis Wheen, Karl Marx: A Life, New York, Norton
and Co, 1999, pp. 207-213. Il punto di convergenza tra Urquhart e Marx fu in primo luogo
il disprezzo e l’avversione per il regime zarista. A dispetto del successivo allontanamento tra
i due, Marx ne Il Capitale (1867) citò lo scozzese in nota per ben cinque volte. Si veda Karl
Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, Roma, Newton Compton, 2013. pp. 150, 370,
495, 723, 729.
224
la notte della ragione
In accordo con le sue posizioni difensive nei confronti della civiltà
e delle autorità ottomane, David Urquhart adottò da subito una linea
critica nei confronti del movimento dei Nuovi Ottomani e in particolare
del loro leader Mustafa Fazıl, a partire dalla loro prima comparsa sulla
scena politica internazionale nel 1867. Lo scozzese riteneva infatti che
le istanze “liberali” e riformiste di questo manipolo di intellettuali fosse-
ro esagerate e fuori luogo per il contesto ottomano, oltre ad essere facil-
mente strumentalizzabili dalle grandi potenze europee per interferire
a proprio vantaggio negli affari interni dell’impero. Con grande proba-
bilità le idee di Urquhart ebbero un ruolo importante nel determina-
re l’allontanamento di Ali Suavi dal resto del gruppo dei Nuovi Otto-
mani, che come abbiamo visto sin dai primi mesi trascorsi in Europa
preferì muoversi e agire da “cane sciolto”, perseguendo con le sue
numerose e travagliate pubblicazioni una linea politica e culturale au-
tonoma e indipendente. Dopo aver pubblicato 50 numeri del giornale
«Muhbir» a Londra, a partire dal 1869 Ali Suavi iniziò a pubblicare
il giornale «Ulum» (Le scienze) a Parigi, venendo però costretto a tra-
sferirne la stampa a Lione nei mesi della guerra franco-prussiana28.
A partire dalla fine del conflitto, non potendo fare ritorno a Istanbul
come gli altri Nuovi Ottomani, ebbe inizio una fase molto oscura
nella biografia di Ali Suavi, riguardo alla quale esistono pochissime
informazioni. Di certo c’è che non volle più avventurarsi in un nuo-
vo progetto giornalistico ex novo, ma rimase attivo a livello pubblici-
stico dando alla stampa numerosi pamphlet di carattere politico e cul-
turale, oltre a diversi articoli ospitati sui periodici di riferimento del
gruppo organizzato intorno alla figura di David Urquhart: in parti-
colare gli inglesi «The Diplomatic Review» e «The Morning Post» e
il francese «Le Memorial Diplomatique»29. Nell’ambito di questo av-
vicinamento anche personale alla figura di Urquhart – che per ragioni
di salute a partire dal 1864 cominciò a trascorrere sempre più tempo
presso uno chalet che si era fatto costruire in Savoia, nei pressi della
cittadina svizzera di Saint Gervais30 – Ali Suavi si trovò ad adottare
posizioni più difensive nei confronti della civiltà islamica e ottoma-
28 Abdullah Uçman, Ali Suavi, in Islam Ansiklopedisi, II, p. 446.
29 Çelik, Ali Suavi, cit., pp. 267-270.
30 Per chi sia interessato alla vita e il pensiero dello scozzese, un’eccezionale fonte
d’informazioni risulta essere la biografia scritta da Gertrude Robinson, David Urquhart.
Some Chapters in the Life of a Victorian Knight-Errant of Justice and Liberty, Oxford, Ba-
sil Blackwell, 1920, pp. 205-206. Di particolare interesse la sezione dedicata al rapporto
tra Urquhart e le vicende del Risorgimento italiano, pp. 179-204.
225
capitolo dodicesimo
na, giungendo sempre più spesso a difendere l’operato delle autorità
d’Istanbul e ad addossare la colpa di ogni problema alla funesta influen-
za delle potenze europee e alle trame degli agenti russi nei Balcani.
Nella riorganizzazione del pensiero di Ali Suavi svolse un ruo-
lo importante anche la figura del sociologo ed economista francese
Frédéric Le Play (1806-1882), divenuto celebre in quegli anni negli am-
bienti conservatori francesi ed europei per l’importanza da lui assegnata
alla religione nel preservare l’ordine sociale di fronte alle minacce di de-
generazione recate dal pensiero scientifico e dai processi di moderniz-
zazione31. Oltre a spingere Ali Suavi a formulare una serie di tesi che
costituiscono l’origine del pensiero nazionalista turco-musulmano32,
le idee di Le Play portarono Urquhart a convincersi dell’importanza fon-
damentale svolta dalle istituzioni della Chiesa cattolica nello sviluppo
della civiltà europea. Per questo motivo, secondo questo scozzese di cul-
tura anglicana, davanti alla minaccia teocratica russa l’unica possibilità
di salvezza per l’ordine sociale e giuridico europeo sarebbe stato quello di
rigenerare le istituzioni sociali e giuridiche della Chiesa di Roma e a que-
sto scopo nel marzo 1869 inviò una lettera a papa Pio IX, mentre erano
in corso i preparativi per l’organizzazione del primo Concilio Vaticano,
giungendo infine a essere ricevuto dal pontefice l’anno successivo33.
Durante i convulsi mesi dell’estate 1876, mentre imperversava
la crisi di salute mentale del nuovo sultano Murat e divampavano le
insurrezioni nei Balcani, a Istanbul il giornale «Vakit» (Il tempo) co-
minciò a prestare notevole spazio e attenzione alla figura di Ali Suavi,
all’inizio ripubblicando testi da lui redatti per giornali europei, poi ospi-
31 Di formazione politecnica, inizialmente legato al pensiero sansimoniano e posi-
tivista, Le Play divenne un personaggio estremamente influente nella Francia del Secon-
do Impero, svolgendo anche un ruolo di rilievo nell’organizzazione degli Expo di Parigi
del 1855 e del 1867. In occasione dell’Expo del 1867 il presidente della Giuria dell’Expo
fu invece il sansimoniano Michel Chevalier (si veda supra, cap. 2), che proprio in quei
mesi divenne consuocero di Le Play in seguito al matrimonio contratto dai figli Albert
Le Play (1842-1937) e Marie Chevalier (1846-1912). Nel gennaio 1860 Michel Chevalier
era stato co-firmatario (assieme al britannico Richard Cobden) dello storico accordo
di libero scambio tra Francia e Gran Bretagna.
32 Çelik, Ali Suavi, cit., pp. 285-287.
33 Bernard Aspinwall, David Urquhart, Robert Monteith and the Catholic Church:
A Search for Justice and Peace, «The Innes Review», 31/2, 1980, pp. 57-70. L’interesse
di Urquhart per la figura del papa e la chiesa di Roma risaliva già agli anni ’40, ma le sue
idee in questo senso cominciarono a prendere forma con il trasferimento in Svizzera.
Si veda Robinson, Urquhart, cit., pp. 205-273. Urquhart intrattenne inoltre un rapporto epi-
stolare con l’ambasciatore ottomano in Italia Rüstem Mariani Pascià. Si veda ivi, pp. 231-232.
Lo scozzese morì a Napoli il 16 maggio 1877, di ritorno da un viaggio in Egitto.
226
la notte della ragione
tando anche alcuni suoi articoli scritti ad hoc34. Questi contributi forniti
da Ali Suavi agli scottanti dibattiti dell’attualità ottomana si rivelarono
un preparativo al suo vero e proprio ritorno: il 19 settembre il nuovo
sultano Abdülhamid decise infatti di accogliere la sua richiesta di amni-
stia, permettendo al focoso intellettuale turco di fare ritorno a Istanbul
dopo oltre nove anni di esilio35. Prima di intraprendere la via del ritorno
il sultano chiese però ad Ali Suavi di recarsi per un’ultima volta a Lon-
dra, finanziandogli il viaggio, con l’obiettivo di condurre una campagna
di contro-informazione in riferimento alle violenze in Bulgaria, in rispo-
sta al pamphlet fatto pubblicare da Gladstone poche settimane prima36.
Ali Suavi giunse infine a Istanbul assieme alla moglie inglese
Marie nei primi giorni di novembre, trovando una straordinaria acco-
glienza da parte di Abdülhamid, evidentemente alla disperata ricerca
di qualcuno su cui poter contare: dopo neanche una settimana Ali Suavi
si trovò infatti assunto a palazzo come capo-bibliotecario e istruttore pri-
vato di alcuni figli del sultano37. Pochi giorni dopo fu inoltre nominato
a capo della Tercüme Heyeti (Comitato traduzioni), una nuova istituzio-
ne che contava tra i suoi membri anche Namık Kemal e Ziya; ma l’evo-
luzione del pensiero di Ali Suavi nel corso degli ultimi anni aveva ormai
creato un baratro tra lui e i suoi ex compagni, i quali in breve tempo
riuscirono a ottenere la sua rimozione dall’incarico. Il 1° febbraio 1877
il sultano decise però di risarcire il “rivoluzionario con il turbante” as-
segnandogli un posto assai più prestigioso e strategico nell’ambito della
politica culturale ottomana, ovvero la direzione del liceo Galatasaray,
la scuola fondata nel 1868 con l’obiettivo di fornire una formazione
di alto livello in lingua francese ai giovani più talentuosi dell’impero38.
7. L’assunzione di questo nuovo incarico si rivelò però l’inizio della
fine dei buoni rapporti tra Ali Suavi e le autorità ottomane. Le tensioni
politiche e sociali suscitate dallo scoppio del conflitto con la Russia por-
34 Çelik, Ali Suavi, cit., pp. 283-284.
35 Ivi, p. 289.
36 Ivi, p. 290.
37 Ivi, pp. 293-294.
38 Ivi, pp. 314-315. Probabilmente il sultano si era fatto convincere da Ali Suavi
della necessità di riformare in qualche modo la scuola, da lui criticata sin dalla fondazione
nel 1868 perché «avrebbe aumentato l’influenza delle istituzioni francesi nell’impero».
Si noti che la natura estremamente progressista e cosmopolita della scuola era stata criti-
cata anche da papa Pio IX, che alla sua inaugurazione aveva invitato le famiglie cattoliche
dell’impero a non iscriverci i propri figli. L’anno successivo il papa aveva però ritirato
il suo “veto”. Si veda ivi, p. 316.
227
capitolo dodicesimo
tarono infatti nei mesi successivi alla radicalizzazione delle posizioni
e dei comportamenti di Ali Suavi, secondo modalità inadeguate a una
figura istituzionale di quel calibro. Il progressivo avanzamento delle
truppe russe in territorio bulgaro stava dando luogo a numerosi episodi
di violenza contro gli abitanti musulmani di quelle terre, determinan-
do l’arrivo a Istanbul di migliaia di profughi in condizioni disperate.
Ali Suavi, legato emotivamente alle popolazioni musulmane di Bulgaria
dai tempi della sua permanenza a Sofia e Plovdiv all’inizio degli anni
’60 nel ruolo di maestro di scuola coranica (si veda supra, § 8.5), scrisse
numerosi articoli sulla questione criticando sia le potenze straniere per
la responsabilità nel conflitto, che le autorità ottomane per la scarsa soli-
darietà dimostrata verso i profughi39. La goccia che fece però traboccare
il vaso fu un articolo pubblicato su «Vakit» il 20 settembre 1877, in cui
Ali Suavi affermò che «tutto quanto di male c’è nel mondo ha la sua
origine nel governo inglese...»40. Ritenendo che l’ambasciatore Henry
Eliot si fosse spinto troppo in là nel suo coinvolgimento personale negli
affari interni dell’impero ottomano, a partire da metà aprile le autori-
tà di Londra avevano inviato a Istanbul Sir Henry Layard (1817-1894)
nel ruolo di nuovo rappresentante. Quest’ultimo in breve tempo era
riuscito a guadagnarsi a tal punto la fiducia del sultano Abdülhamid,
che a fine agosto era divenuto il primo straniero nella storia dell’impero
ottomano a essere invitato a cena da un sultano in forma privata41. Pochi
giorni dopo la pubblicazione del suddetto articolo di Ali Suavi, Henry
Layard espresse ufficialmente le sue rimostranze al sultano, che si vide
costretto a trovare al più presto una soluzione. Negli ultimi mesi il “rivo-
luzionario con il turbante” era riuscito a litigare un po’ con tutti: dal suo
diretto referente istituzionale – il ministro dell’educazione Münif Pa-
scià (sembrava ci fosse Ali Suavi dietro una serie di poster apparsi nel-
le strade d’Istanbul, che accusavano il ministro di essere un ateo e un
agente dei russi) – a numerosi organi di stampa locale che criticavano
39 Çelik, Ali Suavi, cit., pp. 342-344.
40 Ivi, pp. 339-340.
41 Tra le ragioni alla base di questa particolare simpatia doveva esserci senza dub-
bio la straordinaria cultura di Layard riguardo alle antiche civiltà mesopotamiche, essendo
stato negli anni ’40 e ’50 un pioniere degli scavi archeologici presso Nimrud, Ninive e
Babilonia. Dopo essersi ritirato dalla carriera diplomatica nel 1880, Layard trascorse circa
un decennio a Venezia conducendo ricerche sulla pittura italiana ispirato dagli insegna-
menti dell’amico Giovanni Morelli (1816-1891), con cui condivideva ascendenze ugonotte.
Per Morelli, si veda il classico Carlo Ginzburg, Spie. Radici di un paradigma indiziario,
in Id., Miti, emblemi, spie. Morfologia e storia, Torino, Einaudi, 1986, pp. 158-193.
228
la notte della ragione
il suo piano di riforma del liceo, agli ambienti più conservatori che ama-
vano alimentare ogni genere di diceria sulla moglie inglese Marie42.
Per questa ragione il sultano, volendo garantire ad Ali Suavi una
qualche forma di sostentamento ma ritenendo necessario inviarlo
il più lontano possibile dalla capitale, inizialmente pensò di nominarlo
console a Bombay. Prima di effettuare questa decisione Abdülhamid
si consultò però con l’ambasciatore britannico Layard, che pregò il so-
vrano di rivedere la sua decisione, affermando che Bombay costituiva
per le autorità britanniche un luogo di straordinaria importanza strate-
gica e il comportamento imprevedibile di Ali Suavi e la sua dichiarata
ostilità verso il governo bitannico avrebbe potuto generare spiacevoli
incidenti. Alla fine il 5 novembre 1877 il sultano Abdülhamid II decise
semplicemente di sollevare Ali Suavi dall’incarico di direttore del liceo
Galatasaray, senza assegnargli alcun altro posto43. Dopo esattamente
un anno dal suo ritorno a Istanbul colmo di speranze, il “rivoluzionario
col turbante” era riuscito a fare terra bruciata intorno a sé, compromet-
tendo i rapporti con ogni genere di ambiente culturale e istituzionale.
Carico di rabbia e risentimento verso tutto e tutti, Ali Suavi si tra-
sferì assieme alla moglie presso una modesta abitazione nel quartiere
di Şemsipaşa a Üsküdar, dove cominciò a dedicare il suo tempo ad
attività di solidarietà nei confronti dei tanti rifugiati musulmani che
continuavano ad affluire a Istanbul in fuga dall’avanzata russa nei ter-
ritori bulgari. Ali Suavi considerava le istituzioni ottomane responsabi-
li della sconfitta in ragione della loro inadeguata gestione militare del
conflitto: per questa ragione riteneva scandalosa la mancata assunzione
di responsabilità nei confronti delle decine di migliaia di profughi mu-
sulmani lasciati privi di assistenza. Nei mesi più freddi dell’inverno
Ali Suavi, assieme a un manipolo di compagni, si dedicò quindi a or-
ganizzare attività di raccolta di viveri e altri generi di necessità in fa-
vore dei rifugiati musulmani. Ma con la conclusione della guerra nel
febbraio 1878, la successiva avanzata delle truppe russe a pochi chilo-
metri da Istanbul e infine la firma dell’armistizio e la sua celebrazione
con un ricevimento di lusso in favore dei notabili dell’esercito nemico,
Ali Suavi iniziò a covare un irrefrenabile desiderio di vendetta nei con-
fronti delle autorità ottomane.
42 Ivi, pp. 351-353. Già nel 1869 Ali Suavi aveva preso di mira Münif Efendi definen-
dolo un “convertito” (mürted) in un articolo apparso sul numero 9 di «Ulum».
43 Ivi, pp. 353-354.
229
capitolo dodicesimo
Pur non avendo mai, nella sua pur nutrita attività pubblicistica,
manifestato alcun genere di interesse per la figura di Murat V – da sem-
pre un alfiere di quella linea più liberale e riformista da lui osteggiata –
il 20 maggio 1878 Ali Suavi decise di sferrare un attacco al palazzo
di Çırağan dove il 33° sultano della dinastia ottomana era tenuto prigio-
niero, con l’apparente intenzione di liberarlo. Il “rivoluzionario col tur-
bante” aveva in qualche modo convinto a partecipare al suo azzardato
piano qualche centinaio di rifugiati da lui assistiti nei mesi precedenti,
fornendo loro anche qualche dozzina di armi da fuoco44. Ali Suavi e al-
cune decine di uomini giunsero al palazzo via mare con l’aiuto di un’im-
barcazione, mentre altri duecento uomini sferravano in contemporanea
un attacco dall’ingresso di terra. L’azione a sorpresa e il numero non
irrilevante degli assalitori ebbe l’effetto di sbaragliare il primo livello
di difesa del palazzo, anche se al prezzo di numerosi caduti, permet-
tendo ad Ali Suavi e a qualche decina di uomini di entrare nel giardi-
no interno e, secondo alcune fonti, addirittura all’interno del palazzo.
In ogni caso qui furono presto intercettati da un altro corpo di guardia
e dopo una breve colluttazione o scontro a fuoco Ali Suavi fu colpito con
una violenta bastonata alla testa da un gendarme passato alla storia con
il nome di Yedi-Sekiz Hasan Pascià45: il “rivoluzionario col turbante”
morì sul colpo determinando la resa di tutti gli uomini al suo seguito.
8. Il collasso delle speranze riposte nella figura di Murat V, de-
posto dopo soli tre mesi a causa del forte stato di instabilità psichica,
fu all’origine di numerose tensioni all’interno dell’ambiente massoni-
co di Istanbul. Tra coloro che subirono in forma maggiore gli effetti
negativi di questa situazione ci fu senza dubbio Cleanthi Scalieri: dato
il ruolo di rilievo svolto dalla loggia “I Proodos” nella trama che aveva
portato alla deposizione di Abdülaziz e alla salita al trono di suo nipote
Murat, Scalieri fu convinto dai suoi stessi compagni ad abbandonare
la carica di Gran Maestro della loggia “I Proodos”, nel tentativo di alle-
viare le pressioni e il risentimento nutrito verso l’istituzione muratoria
44 Per uno studio dettagliato sull’organizzazione dell’attacco e un elenco delle per-
sone coinvolte, si veda Florian Riedler, Opposition to the Tanzimat State. Conspiracy and
Legitimacy in the Ottoman Empire 1859-1878, tesi di dottorato, University of London, School
of Oriental and African Studies (SOAS), 2003, pp. 120-124.
45 Lo strano soprannome di questo personaggio, che in turco significa “sette-otto”,
deriverebbe dall’abitudine a firmarsi con questi due numeri (in caratteri arabi) in ragione
del suo analfabetismo. Nello storico quartiere di Beşiktaş, nella piazzetta del mercato,
esiste ancora oggi un’antica pasticceria recante il suo nome.
230
la notte della ragione
dal nuovo sultano Abdülhamid II. Il greco di antiche origini veronesi,
pur avendo abbandonato la loggia da lui resa celebre, decise comunque
di non abbandonare l’utopico progetto politico da lui costruito sulla fi-
gura del principe Murat. Grazie alla rete di contatti ancora attiva conti-
nuò infatti a mantenere le comunicazioni46 con quello che per lui non
era più solo il potenziale “messia” incaricato di rendere più democra-
tiche e liberali le istituzioni dell’impero ottomano, ma ormai anche un
amico in ragione dell’intensa frequentazione in corso da oltre un lustro.
Nei primi mesi del 1877 Scalieri decise di recarsi a Parigi, probabilmente
su invito o comunque in collaborazione con il Grande Oriente di Fran-
cia: qui fu messo in contatto con un esperto di malattie del sistema ner-
voso, un tale dottor Doni, che Scalieri convinse a raggiungere Istanbul
per occuparsi del caso del deposto sultano Murat. Qualche tempo dopo
il loro arrivo nella capitale ottomana, sempre grazie all’aiuto dei diver-
si sostenitori ancora presenti nelle istituzioni ottomane, Scalieri riuscì
a far entrare di nascosto il dottor Doni negli appartamenti presso il pa-
lazzo di Çırağan in cui era recluso Murat. Dopo aver trascorso con lui
una decina di giorni conducendo una terapia che ebbe notevoli effetti
benefici sul suo stato nervoso, il dottore rimase ospite a casa di Scalieri
per potersi mantenere in contatto col principe ancora per un paio di
mesi, al termine dei quali dichiarò il prestigioso paziente interamente
guarito e ormai in grado di assolvere alle sue responsabilità da sovrano47.
Scalieri fu fortemente galvanizzato dalla notizia e da quel momento in
poi si convinse che fosse necessario tentare ogni mezzo pur di riuscire
a liberare Murat dalla prigionia e fargli nuovamente guadagnare il tro-
no. A questo scopo cominciò a istituire un vero e proprio “comitato”
formato da diverse decine di persone impegnate a diverso titolo nelle
istituzioni ottomane, ma accomunate per diverse ragioni dal desiderio
di vedere il deposto Murat nuovamente sul trono.
Fu a questo punto però che Scalieri, a suo dire, rimase fortemente
deluso dall’inerzia e dello scarso interesse dimostrato dagli ambienti
massonici locali e internazionali, quanto meno a livello istituzionale48.
In realtà a livello personale due “pesi massimi” della massoneria in-
ternazionale come il principe di Galles Edoardo (si veda supra, § 10.5)
46 Kısa, Cleanthi Scalieri ve Aziz Bey Komitesi, cit., p. 31.
47 Ivi, pp. 34-35.
48 Ivi, p. 53. Si veda anche Edhem Eldem, Geç Osmanlı döneminde masonluk ve siyaset
üzerine izlenimler (Note su massoneria e politica nel tardo impero ottomano), «Toplumsal
Tarih», 33, 1996, pp. 16-28.
231
capitolo dodicesimo
e l’imperatore tedesco Guglielmo I (1797-1881)49 decisero di mettersi
in contatto con il calabrese Antonio Geraci (1828-1899)50, che in quel
periodo di sconvolgimenti si era imposto come il “corifeo” della mas-
soneria ottomana, per chiedere informazioni riguardo lo stato di salute
e le condizioni di prigionia di Murat, probabilmente dopo aver ricevuto
informazioni preoccupanti a suo riguardo. Da quel che sappiamo però
dalla lettera inviata all’allora Gran Maestro della massoneria italiana
Giuseppe Mazzoni (1808-1880), Geraci scelse di rasserenare gli animi
e rassicurare le teste coronate affermando:
Nessuno cerca di attentare alla vita di Murat, il sultano Abdülhamid
prova molto affetto per il fratello maggiore e ogni genere di precauzione
è stata presa per assicurare al malato una pronta guarigione. Le accu-
se in tal senso sono infondate (bisogna essere ciechi per non vederlo).
Inoltre la presenza di Ibrahim Edhem Pascià nel ruolo di gran vizir
è una garanzia in tal senso, in quanto il suo nome è equivalente di giu-
stizia, libertà e progresso.51
In quello stesso periodo nei pressi della moschea di Ortaköy, mol-
to vicino al palazzo di Çırağan dove Murat viveva in stato di reclusio-
ne, apparvero dei volantini contenenti un appello per la liberazione
di quest’ultimo. L’appello risultava sottoscritto dal principe di Galles
Edoardo, l’imperatore di Germania Guglielmo, Antonio Geraci e Lu-
igi Capoleone52. Non fu mai possibile accertare chi fosse realmente
l’artefice di questi volantini, ma di certo ebbero l’effetto di aumentare
49 L’iniziazione di Guglielmo I risaliva al 1840 e fu effettuata presso la “Große
Landesloge der Freimaurer von Deutschland”, una loggia che già nel 1774 aveva ricevuto
ufficialmente “protezione regale” tramite una lettera personale del re di Prussia Federico
il Grande (1712-1786). Si veda Ferdinand Runkel, Geschichte der Freimaurerei, Bonn, Edi-
tion Lempertz, 2006. p. 198.
50 Nato a Campo Calabro il 13 aprile 1828, Antonio Geraci giunse a imporsi come
una delle figure di spicco della comunità italiana d’Istanbul, dalla fine degli anni ’60
fino alla morte avvenuta il 30 luglio 1899. Il documento di morte presente negli archivi
della chiesa di Santa Maria delle Draperie, attesta che: «Per molti anni corifeo della setta
massonica costantinopolitana, giudice del tribunale italiano, agente della società di navi-
gazione a vapore Puglia ed Etnea, in seguito ad infarto, ormai privo di sensi e incapace
di exigi retractatio, furono la moglie e il fratello della moglie a chiedere che fosse riconci-
liato con la Chiesa».
51 La lettera in traduzione ottomana dall’originale francese (!) risulta conservata
negli archivi di stato turco a Istanbul-Yıldız (Y.EE.22/73/01/01). La lettera risulta inoltre
riportata integralmente in Ismail Hakkı Uzunçarşılı, V. Murat’ı tekrar Padişah yapmak
isteyen K. Skalyeri-Aziz Bey Komitesi (Il comitato K.Scalieri-Aziz Bey che tentò di riportare
Murat sul trono), in Osmanlı hanedanı, cit., II, pp. 451-527: 452.
52 Çelik, Ali Suavi, cit., pp. 744-745. Il rapporto della polizia ottomana in relazione
al fatto risale al 24 giugno 1877.
232
la notte della ragione
la tensione e le preoccupazioni del nuovo sultano Abdülhamid II, pro-
prio nei giorni che segnavano l’inizio del conflitto militare con la Russia.
Fu in questo contesto che il 18 agosto il Grande Oriente d’Italia pre-
se la decisione di mettere in stato di sonno la loggia “Italia Risorta”
d’Istanbul di cui Geraci era Gran Maestro, forse per evitare possibili
attribuzioni dirette di responsabilità a membri della massoneria locale
in un periodo segnato da possibili ulteriori macchinazioni nei confronti
del sultano53.
Nel giugno del 1877 Scalieri aveva nel frattempo provato a stabilire
un contatto con il nuovo ambasciatore britannico Henry Layard, nella
speranza di trovare ancora sostegno logistico e istituzionale per i suoi
progetti in favore di Murat: ma Layard rese subito chiaro che, a differenza
del suo predecessore Henry Eliot, non si sarebbe fatto coinvolgere in al-
cun modo in simili macchinazioni, anche perché la posizione attuale del
governo britannico era di sostegno al legittimo sovrano Abdülhamid54.
A settembre Scalieri e uno dei membri di spicco del suo comita-
to, Ali Şefkati, riuscirono a introdursi nel palazzo di Çırağan tramite
le vie d’acqua e trascorrere tre giorni in compagnia del principe Murat,
il quale risultò particolarmente desideroso di ricevere notizie riguardo
agli amici Midhat Pascià e Namık Kemal55. Dopo aver visto con i pro-
pri occhi come Murat avesse recuperato la salute psichica, Scalieri si
sentì ancora più motivato a perseguire l’obiettivo della sua liberazione.
Nei mesi successivi si dedicò quindi ad organizzare un piano per far-
lo evadere tramite le vie d’acqua che collegavano il palazzo al mondo
esterno: contando sulla sua esperienza personale, Scalieri era certo che
a questo riguardo non ci sarebbero stati problemi. Risultò invece molto
più difficile decidere cosa fare subito dopo l’evasione, in quanto le idee
a tal riguardo risultavano essere le più disparate, tra chi era convinto
che sarebbe bastato condurlo alla moschea di Fatih e farlo acclamare
dai fedeli e chi riteneva invece più saggio far scappare Murat all’estero
e ottenere la sua incoronazione tramite un processo diplomatico.
In ogni caso, mentre seguivano i preparativi e le discussioni sul da
farsi, probabilmente a causa di qualche “talpa” all’interno del comita-
to i guardiani del palazzo di Çırağan decisero di rafforzare le misure
53 Locci, Il cammino di Hiram, cit., p. 41.
54 Çelik, Ali Suavi, cit., pp. 443-444.
55 Uzunçarşılı, V.Murad, cit., pp. 468-469.
233
capitolo dodicesimo
di sicurezza proprio in corrispondenza delle vie d’acqua, rendendo vano
qualunque progetto d’evasione56.
Nelle settimane successive alcuni membri del comitato comin-
ciarono a pensare che l’unica soluzione valida rimasta fosse quella
di assassinare Abdülhamid, in occasione di una sua uscita pubblica
per la preghiera del venerdì. Si cercò quindi di implementare un piano
in tal senso, acquisendo una pistola e allocando risorse finanziarie
per trovare qualcuno disposto ad assumersi una simile responsabilità.
Ma a causa di una serie di contrattempi si decise di accantonare anche
questo piano, verso cui i leader del comitato Scalieri e Ali Şefkati non
avevano mai provato particolare interesse, sapendo quanto Murat aves-
se sofferto a causa della drammatica morte dello zio Abdülaziz57. Poco
dopo giunse la notizia del fallito attacco di Ali Suavi a Çırağan, che ebbe
l’effetto di convincere le autorità ottomane a trasferire il principe Murat
presso un luogo più difficilmente raggiungibile, ovvero il “chiosco di
Malta” presso il palazzo di Yıldız, sulle alture sopra Beşiktaş.
Scalieri e gli altri membri del comitato non si diedero però per vin-
ti e iniziarono a pianificare una nuova azione in grande stile con l’obiet-
tivo di liberare il principe, sfruttando tutti i contatti istituzionali a loro
disposizione, compresi alcuni membri dell’ormai estinto parlamento
ottomano58. Ma la sera di lunedì 8 luglio 1878, sempre grazie alla sof-
fiata di qualche talpa al servizio delle forze di sicurezza di Abdülham-
id, la polizia ottomana fece irruzione presso un’abitazione in cui era
in corso una riunione del comitato, arrestando tutte le persone presenti.
Per puro caso né Cleanthi Scalieri né Ali Şefkati si trovavano lì in quel
momento: dopo essersi dati alla macchia nel giro di qualche giorno ri-
uscirono entrambi a fuggire all’estero, il primo ad Atene e il secondo
a Napoli. Anche in questo caso Scalieri accusò le istituzioni massoniche
di non avergli fornito alcun genere di aiuto logistico al momento della
fuga, quando lui e i suoi compagni si erano trovati in disperata neces-
sità59. Subito dopo aver appreso della retata, Scalieri e un altro mem-
bro di spicco del comitato, Nakshbend Kalfa, avrebbero trovato rifugio
a Beyoğlu presso la casa del sarto messinese Antonio Barbagallo60.
56 Kısa, Scalieri, cit., pp. 37-40.
57 Ivi, pp. 41-42.
58 Ivi, pp. 43-46.
59 Ivi, pp. 47-49.
60 Antonio Barbagallo era nato nel 1836 a Messina, figlio di Alfio e Giuseppina.
Non mi è stato possibile individuare la sua data di arrivo a Istanbul, ma il messinese
risulta essere iniziato presso la loggia massonica “Italia” nel 1866, divenendo una figura
234
la notte della ragione
Qui Barbagallo avrebbe cucito a Nakshbend (in questo caso nella fonte
non c’è menzione di Scalieri, ma è lecito dedurre che lo stesso servizio
sia stato prestato anche a lui) un abito da marinaio, e a braccetto si sa-
rebbero quindi recati al porto dove Nakshbend poté imbarcarsi su una
nave diretta al Pireo in Grecia61.
Da quel giorno, né Cleanthi Scalieri né Ali Şefkati misero mai più
piede a Istanbul né in territorio ottomano.
9. Come reso evidente dai fatti illustrati in questo capitolo, il 1878
risultò essere un anno di svolta per il corso delle vicende di questo libro:
tutti i principali protagonisti dei rivolgimenti politici e culturali degli
anni precedenti sembrarono farsi da parte l’uno dopo l’altro, lascian-
do il campo a una nuova fase storica dell’impero ottomano caratteriz-
zata da forte rigidità: questo nuovo corso fu portato avanti dal sultano
Abdülhamid II nel disperato tentativo di assicurare vigore e stabilità a
istituzioni ormai destinate irreparabilmente al collasso a causa di com-
plesse dinamiche interne di carattere sociale ed economico, oltre che
dell’avidità delle potenze straniere.
Per quanto concerne il quadro delle relazioni internazionali, le li-
nee guida di questo nuovo corso dell’impero ottomano furono defini-
te nell’ambito del Congresso di Berlino, tenutosi all’inizio dell’estate
in seguito alle forti pressioni esercitate dalla Gran Bretagna, desiderosa
di ridimensionare i successi territoriali e politici ottenuti dalla Russia
nel corso della recente guerra, sanciti dal trattato di Santo Stefano62.
A tale scopo le autorità di Londra trovarono un’eccellente sponda
a Vienna, in quanto anche l’impero austro-ungarico aveva espresso per-
plessità e preoccupazioni in riferimento agli esiti della recente guerra
nella zona di loro diretto interesse, ovvero i Balcani occidentali. Lo spau-
racchio di un’alleanza tra Londra e Vienna ebbe l’effetto di convincere
la Russia a cercare una mediazione in grado di accontentare tutti, anche
di spicco della massoneria italiana a Istanbul nel successivo ventennio. Quando la loggia
fu riportata in attività a partire dal 1879, dopo una pausa di circa due anni, Barbagallo
fu assieme a Geraci uno dei principali animatori della loggia. Nell’Almanacco commer-
ciale del 1881 Antonio Barbagallo risulta registrato come mercante e proprietario di una
sartoria nel passaggio di Hazzopulo a Beyoğlu. Contrasse due matrimoni, il secondo dei
quali avendo come testimone Gennaro Marchesi. Morì a Istanbul l’8 aprile 1895.
61 Süleyman Kani Irtem, Sultan Murad ve Ali Suavi Olayi (Il sultano Murat e il caso
Ali Suavi), Istanbul, Temel Yayınları, 2003, p. 195.
62 Per le autorità di Londra il fatto inaccettabile era la creazione di una grande Bul-
garia indipendente estesa fino alla costa del Mar Egeo, in quanto avrebbe consentito alla
Russia di avere accesso diretto al Mediterraneo tramite un paese vassallo.
235
capitolo dodicesimo
perché nel frattempo le autorità britanniche continuavano a soffiare sul
fuoco, ordinando a fine marzo il trasferimento di migliaia di soldati in-
diani a Malta63. Dopo una lunga sessione di trattative con le autorità bri-
tanniche, il 7 maggio l’ambasciatore russo Shuvalov lasciò Londra per
recarsi a presentare allo zar una concreta proposta di accordo. Non pago
di questo risultato, in attesa del responso da San Pietroburgo il nuovo
ministro degli esteri Salisbury si mobilitò per ottenere dalle autorità
ottomane la tanto desiderata cessione di una porzione di territorio nel
Mediterraneo orientale, da utilizzarsi come avamposto per la sicurezza
logistica del capitalismo britannico. In maniera spudorata la richiesta
di Londra cadde su Cipro, l’isola più estesa del dominio ottomano64:
l’ambasciatore Layard fu quindi incaricato di avanzare formalmente
questa richiesta, promettendo in cambio aiuto diplomatico in occasio-
ne dell’imminente congresso e sostegno militare in Anatolia orientale.
La prima reazione del sultano risultò essere del tutto negativa, ma in
seguito al drammatico attacco a Çırağan organizzato da Ali Suavi, sfrut-
tando un momento di particolare fragilità psicologica di Abdülhamid
il 26 maggio l’ambasciatore Layard riuscì infine a ottenere dal sultano
la cessione di Cipro al dominio della corona britannica65.
Proprio in quegli stessi giorni l’ambasciatore Shuvalov fece ritorno
da San Pietroburgo, riferendo alle autorità di Londra che lo zar accon-
sentiva alla proposta avanzata, limitando il confine della Bulgaria alla
catena montuosa dei Rodopi e rinunciando al controllo su alcune pro-
vince dell’Anatolia orientale, in cambio del riconoscimento ufficiale di
tutti gli altri territori conquistati. A dispetto delle importanti concessioni
e della fiducia accordata dal sultano ai britannici, le autorità di Istanbul
furono tenute all’oscuro di questo accordo e di un’ulteriore convenzio-
ne siglata in quei giorni tra Londra e Vienna, con cui i britannici si im-
pegnarono a sostenere le richieste austro-ungariche di annessione della
Bosnia-Erzegovina in occasione dell’imminente congresso66. A questo
punto, sentendo di avere la situazione in pugno, le autorità britanniche
63 Ković, Disraeli, cit., pp. 260-261. A fine maggio i soldati indiani stanziati a Malta
ammontavano a 7.000.
64 Risulta sorprendente scoprire che sempre nel romanzo Tancred, pubblicato nel
1847, Disraeli aveva messo in bocca a uno dei suoi personaggi la frase: «The English want
Cyprus, and they will take it as compensation». Si veda Disraeli, Tancred, cit., p. 244.
65 Ivi, pp. 262-266. L’accordo fu siglato ufficialmente il 4 giugno. In ragione
di questo straordinario successo, Henry Layard fu premiato dalle autorità britanniche
con la croce dell’Ordine di Bath.
66 Ković, Disraeli, cit., pp. 264-265.
236
la notte della ragione
diedero il via libera per l’organizzazione del congresso da tenersi a Ber-
lino a partire dal 13 giugno. Ad essere invitati furono i rappresentanti
di tutte le principali potenze del “concerto europeo”, di fatto le stesse
che al termine della guerra di Crimea si erano riunite a Parigi nella
primavera del 1856, con la novità del governo prussiano guidato da Bi-
smarck a fare gli onori di casa. Sia quest’ultimo che Disraeli erano poli-
tici di lungo corso, in età avanzata e con notevoli problemi di salute, che
ebbero a Berlino l’ultima occasione di visibilità internazionale della loro
carriera politica67. Il primo ministro britannico fu accompagnato dal
ministro degli esteri Lord Salisbury, rendendo esplicita con una delega-
zione di altissimo profilo l’importanza assegnata da Londra al congres-
so. San Pietroburgo, Vienna, Roma e Parigi inviarono in loro rappre-
sentanza i rispettivi ministri degli esteri68, mentre l’impero ottomano
apparve colto alla sprovvista, o quanto meno incapace di organizzarsi
in maniera adeguata. Dopo il licenziamento di Ibrahim Edhem avve-
nuto a inizio gennaio, nel corso degli ultimi cinque mesi a Istanbul
si erano infatti avvicendati cinque diversi gran vizir69: si trattava di un
record nella storia ottomana, e un chiaro segno delle laceranti tensioni
politiche legate al desiderio di Abdülhamid di riportare il controllo po-
litico nelle mani del sovrano, dopo quattro decenni in cui numerose in-
novazioni nel sistema di governo avevano reso possibile gestire gli affari
ottomani secondo modalità più liberali e collegiali. Quando il 3 giugno,
a soli dieci giorni dall’inizio, l’ambasciata tedesca a Istanbul inoltrò alle
autorità ottomane l’invito formale per il congresso di Berlino, il sultano
per qualche ragione decise che a rappresentare l’impero ottomano nel
ruolo di plenipotenziario non dovesse essere Safvet Pascià, che in quei
giorni ricopriva sia la carica di gran visir che quella di ministro degli
esteri, ma il sottosegretrio agli esteri Alexandros Karatheodori70, assie-
67 Fu nell’accogliere Disraeli a Berlino che Bismarck proferì la celebre frase:
«Der alte Jude, das ist der Mann!» (Il vecchio ebreo, è lui l’uomo!).
68 Nell’ordine: Aleksander Gorchakov (1798-1883), Gyula Andrassy (1823-1890),
Luigi Lodovico Corti (1823-1888) e William H. Waddington (1826-1894).
69 Kuneralp, Son dönem, cit., p. 1.
70 Aleksandros Karatheodori (1833-1906) apparteneva a una famiglia greca giunta
a Istanbul da Nea Vyssa (piccola cittadina greca posta attualmente a ridosso del confine
con la Turchia) all’inizio del XIX secolo. Tra marzo 1874 e giugno 1876 fu ambasciatore
a Roma, mentre nel novembre 1878 divenne il primo ministro degli esteri cristiano nella
storia dell’impero ottomano. Per maggiori informazioni sulla sua interessante carriera po-
litica e intellettuale, si veda Efe Peri, Millet-i Rum’dan bir Münevver: Aleksandros Karatheodo-
ris (Un intellettuale della comunità greca: Aleksandros Karatheodoris), «Toplumsal Tarih»,
193, gennaio 2010, pp. 83-93. Si noti anche che Efrosini Karatheodori, figlia di Aleksandros,
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capitolo dodicesimo
me al generale di origini prussiane Mehmet Ali (1827-1878)71 e all’am-
basciatore ottomano a Berlino Sadullah Pascià (1838-1891) nel ruolo
di secondi72.
Date le enormi distanze e il tempo avverso incontrato nel corso
della navigazione sul Mar Nero, Karatheodori e Mehmet Ali giunse-
ro via Odessa a Berlino appena la sera del 13 giugno, perdendo così il
primo giorno di trattative, cui prese parte unicamente l’ambasciatore
Sadullah. In ogni caso, i rappresentanti ottomani si resero presto conto
che le principali potenze sembravano avere già trovato i loro accordi
sulle diverse questioni territoriali dell’impero, senza sentire la necessità
di interpellare i diretti interessati. Il congresso si protrasse per un mese
a causa delle numerose questioni da affrontare – anche in ragione della
presenza di delegati in rappresentanza delle nuove realtà politiche bal-
caniche (Grecia, Serbia, Romania e Montenegro), il cui diritto di parola
era limitato agli incontri collaterali in riferimento alle rispettive questio-
ni locali – ma in linea di massima le principali decisioni erano già state
prese tramite accordi bilaterali tra Londra, Vienna e San Pietroburgo.
Quando la delegazione ottomana provò a opporsi ad alcuni di questi
accordi pregressi (la cessione a Vienna della Bosnia-Erzegovina risultò
il boccone più amaro da digerire per le autorità di Istanbul), i rappre-
sentanti delle principali potenze resero chiaro che non esisteva alcuno
spazio di trattativa, in quanto la decisione era stata già avallata da tutte
le altre cancellerie73. Data la drammatica condizione finanziaria in cui
versava l’impero e la faticosa guerra appena conclusa, alla fine il sultano
non poté che avallare tutte le umilianti decisioni comunicategli dai suoi
rappresentanti a Berlino. Il 13 luglio il congresso fu quindi dichiarato
concluso, con l’ufficializzazione di una serie di decisioni che nume-
sposò il lontano parente Constantin Carathéodory (1873-1950), rinomato matematico e fisico
attivo in Germania, oltre che rettore della mai inaugurata università greca di Izmir tra 1920
e 1922. Per questa interessante figura si veda Maria Georgiadou, Constantin Carathéodory.
Mathematics and Politics in Turbulent Times, Berlin, Springer, 2004.
71 Entrato al servizio dell’impero ottomano negli anni ’40 dopo essersi convertito
all’islam in giovanissima età, Mehmet Ali (il cui nome originario era Karl Ludwig Friedri-
ch Detroit, probabile discendente di esuli ugonotti in territorio prussiano) sarebbe morto
pochi mesi dopo (il 7 settembre 1878) in Kosovo, ucciso da insorti albanesi che si oppo-
nevano proprio alla cessione di porzioni di territorio al Montenegro decisa dal trattato
di Berlino. Si noti che sua figlia Leyla risulta essere la nonna materna di due celebri poeti
turchi del XX secolo tra loro cugini: Nâzım Hikmet (1902-1963) e Oktay Rıfat (1914-1988).
72 Roderic H. Davison, The Ottoman Empire and the Congress of Berlin, in Davison,
Nineteenth Century Ottoman Diplomacy, pp. 175-195: 182-183.
73 Ivi, pp. 184-189.
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la notte della ragione
rosi analisti considerano essere alla base di molte delle questioni anco-
ra oggi presenti nell’estesa geografia post-ottomana: l’affermazione dei
principi di “omogeneità nazionale” nei territori balcanici (e poi anato-
lici) e la conseguente legittimazione del ricorso a operazioni di pulizia
etnica contro le popolazioni non assimilabili nei rispettivi progetti na-
zionali, l’irrigidimento ideologico del regime del sultano Abdülhamid II
con il ricorso a politiche basate su un discorso panislamico, nonché la
nascita dei primi germi del nazionalismo turco che troverà sfogo a par-
tire dalla Prima Guerra mondiale, senza aver trovato pace ancora oggi74.
74 Per un’eccellente riflessione su tutte queste tematiche, si veda il capitolo di
M.Hakan Yavuz, The Transformation of ‘Empire’ through War and Reforms. Integration vs.
Oppression contenuto a sua volta in un ottimo libro interamente dedicato ai funesti ef-
fetti del Congresso di Berlino sulle tensioni etniche e nazionali all’interno dei territori
dell’impero ottomano The Russo-Turkish War of 1877-1878 and the Treaty of Berlin, a cura
di M.Hakan Yavuz, Salt Lake City, University of Utah Press, 2011, pp. 17-55.
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Finito di stampare nel mese di marzo 2022
per conto della casa editrice Il Poligrafo srl
presso Q&B Grafiche di Mestrino (Padova)