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Il Monachesimo Siriaco e La Liturgia

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Il monachesimo siriaco e la liturgia

Il monachesimo è un fenomeno complesso e, per certi versi, non agevolmente decifrabile,


almeno in alcune sue vicende o manifestazioni. Sparso, in modo diverso, per tutte le regioni di ampia
evangelizzazione a partire almeno dal III sec., è attestato anche in ambito siriaco, in una forma che
risente delle particolari condizioni e della storia delle chiese legate a questa tradizione1. Nelle righe
che seguono, tenteremo di tracciare quale rapporto lega il fenomeno monastico alla liturgia in ambito
siriaco2. Per fare questo, richiameremo innanzitutto alcuni dati essenziali della storia del
monachesimo siriaco, appunto, cercando, in un secondo momento, di identificare alcune proposizioni
fondamentali per intendere la funzione che la liturgia occupava nella vita dei monaci e
l'interpretazione che ne veniva data dagli stessi. In un terzo e ultimo passo, poi, verranno portati, a
mo' di esempio, tre testimonianze, tratte dalla tradizione siro-orientale, di una delle possibili attitudini
dei monaci verso la liturgia.

1. Il monachesimo in ambito siriaco

Le fonti a nostra disposizione per ricostruire la storia del monachesimo3 siriaco sono varie e,
in generale, piuttosto frammentarie e generalmente bisognose di una esatta contestualizzazione.
Generalmente, gli studiosi ricavano da tali fonti un quadro che, seguendo la suddivisione di F. Jullien,
si può concepire articolato in quattro momenti o stadi4: quello pre-monastico; quello
dell'anacoretismo; quello del semi-anacoretismo; quello del cenobitismo. Questa distinzione
tipologica corrisponde solo imperfettamente ad un preciso sviluppo cronologico, dato che le fasi così
individuate, di fatto, si sovrappongono e procedono in modo più o meno parallelo per lunghi periodi5.
Una tale suddivisione ha, tuttavia, il merito di poter articolare l'esposizione in modo chiaro e non
eccessivamente schematico.

La fase «pre-monastica»

L'origine del fenomeno monastico in ambito siriaco è di difficile individuazione – fatto che si
constata, in genere, per il monachesimo nel suo complesso. La tensione ad una vita «ascetica» o

1
Nelle righe che seguono, dato lo scopo del presente contributo e la copiosità della letteratura, si eviterà di appesantire la
lettura con note troppo specifiche ma ci si limiterà all'essenziale. Per approfondire la storia del monachesimo siriaco, si
possono utilmente consultare, tra gli altri: S. CHIALÀ, Abramo di Kashkar e la sua comunità (Spiritualità Orientale;
Magnano 2005); F. JULLIEN (ed.), Le monachisme syriaque (Études Syriaques 7; Paris 2010); V. BERTI, «Il monachesimo
siriaco», Monachesimo orientale. Un'introduzione (G. FILORAMO ed.) (Brescia 2010) 139-192. Cf anche A.H. BECKER,
Fear of God and the Beginning of Wisdom. The School of Nisibis and the Development of Scholastic Culture in Late
Antique Mesopotamia (Philadelphia 2006).
2
La cristianità o le chiese siriache sono legate ad una lingua prima ancora che ad una definizione di tipo etnico o
geografico. Nata come variante dialettale dell'aramaico ad Edessa – capitale del piccolo regno dell'Osroene, cuscinetto
con l'Adiabene tra il mondo romano e quello armeno ed iranico –, nei primi secoli dell'era cristiana, infatti, la lingua
siriaca andrà sempre più affermandosi come lingua franca delle comunità cristiane stanziate attorno all'area di questa
città. Essendo sempre state minoritare all'interno di istituzioni ben più ampie (impero romano, bizantino e persiano) e
legate ai commerci e ai viaggi, le comunità siriache si sono diffuse lungo un arco geografico piuttosto ampio: oltre che
nella Mezzaluna Fertile si annoverano la Palestina (V-VII sec.), la penisola arabica, l'Asia centrale, la Cina, il Tibet e
l'India. Dal punto di vista linguistico e anche geografico – Edessa era una città profondamente ellenizzata ma cosmopolita
e sede di una importante comunità ebraica –, quindi, le comunità siriache si pongono costantemente a cavallo di mondi
diversi, in una condizione liminare e di minoranza che caratterizzerà il loro sviluppo identitario e la loro formazione.
3
Risulta difficile dare una definizione univoca del monachesimo. Per amore di chiarezza, come apparirà chiaro da quanto
diremo, intendiamo con monachesimo, in senso ampio, una forma di vita cristiana, solitaria o in comune, legata alla
pratica dell'ascesi e alla professione del celibato.
4
F. JULLIEN, «Forms of the Religious Life and Syriac Monasticism», The Syriac World (D. KING ed.) (The Routledge
Worlds; London-New York 2019) 88-104 (con ampia bibliografia).
5
«[I]t should however be noted that these last two models, in every nuance in which they were expressed, developed
synchronically rather than according to any strictly chronological evolution» (JULLIEN, «Forms», 88).

1
«radicale» è propria di molte comunità cristiane e presenta un tratto fondamentale (scelta del celibato
o verginità) e altri presenti in modo più o meno variabile (povertà; digiuno; rifiuto del lavoro e del
denaro). Tale tensione si alimenta, chiaramente, nell'orientamento escatologico dell'annuncio
cristiano ma anche nella prassi delle scuole filosofiche ellenistiche.
Alcune fonti attribuiscono la nascita del monachesimo a Mar Mari, uno dei 70 discepoli del
Signore e a Mar Awgin (IV sec.). Quest'ultimo è una figura piuttosto enigmatica, probabilmente
modellata tardivamente su quella di Abramo di Kashkar († 598), che svolgerà un ruolo preminente
nella riforma e nel consolidamente della vita monastica nella chiesa siro-orientale. La menzione di
Mar Awgin, in ogni caso, può essere interpretata come una sorta di legame, anche remoto, con le
origini egiziane del monachesimo in ambito siriaco, essendo l'Egitto la patria della vita monastica.
Prescindendo da questa menzione enigmatica, la tensione summenzionata appare, in ambito
siriaco, specialmente nella presenza di una forte tendenza encratita. Tale tendenza è legata al nome
di Taziano, discepolo di Giustino6, nel cui Diatessaron gli studiosi ravvisano delle varianti rispetto
ai vangeli canonici di matrice, appunto, encratita. Questo tipo di orientamento emerge anche in altre
opere: nei celebri Atti di Tommaso (Osroene, primo III sec.) e nelle lettere sulla Verginità dello
pseudo-Clemente7. Allo stesso tempo, segno di tale propensione è anche da rintracciarsi nel fatto,
diversamente attestato dalle fonti, che il celibato fosse richiesto come prerequisito per il battesimo.
In generale, pur se ripetutamente condannata dalle gerarchie, la tendenza encratita sembra aver
formato, insieme all'humus proveniente dalle sette giudeo-cristiane e manichee, uno degli elementi
fondamentali delle comunità ecclesiali della Mesopotamia e della Persia.
In linea con questo orientamento, gli studiosi leggono le menzioni, nelle fonti, di alcune
categorie fondamentali all'interno delle comunità cristiane: betule («vergini»); qudshe («consacrati»
– coppie che vivono in castità); agapeti (uomini e donne consacrati)8. All'interno di queste categorie,
un posto particolare va senz'altro assegnato ai cosiddetti bnay qyama. Questi ultimi, in particolare,
costitutiscono l'istituzione fondamentale della fase pre-monastica del fenomeno di cui ci occupiamo.
Mezione di tali bnay qyama si trovano in alcuni passaggi specifici dei due autori «classici» della
letteratura siriaca precedente le divisioni confessionali: Efrem e Afraate. In questi autori, questa
istituzione appare essere una forma di ascetismo secolare, di difficile determinazione. La traduzione
dell'espressione siriaca bnay qyama è dibattuta: il termine qyama, infatti, può indicare il «patto»,
l'«ordine» o la «risurrezione», così come la posizione «in piedi», quella tipica della preghiera. Pare
che tali asceti, quale che fosse la loro condotta di vita, si trovassero a vivere nelle vicinanze delle
parrocchie e adottassero il costume del celibato. Loro compito, nella comunità cristiana, era
l'istruzione dei fedeli e il servizio ai poveri.
Afraate parla di questi «figli» e «figlie del patto» nella celebre Dimostrazione 6. In questo
testo, i bnay qyama sono distinti dai semplici credenti («figli della nostra fede») e vivevano in
comunità che oggi definiremmo «miste»9. Praticano la rinuncia volontaria e la castità, in modo
particolare. Nel Liber Graduum (fine IV-inizio V sec.), i bnay qyama sono annoverati tra i perfetti,
distinti dai giusti, categoria in cui vanno annoverati i cristiani comuni. Troviamo attestazione dei bnay
qyama in Babilonia, nell'area ad est del Tigri, fino ancora al VI sec., quando tale istituzione sembra
estinguersi definitivamente10.
Notiamo, in ogni caso, come i bnay qyama, collegati strettamente all'istituzione parrocchiale,
dovessero anche partecipare alla liturgia in essa celebrata.

I solitari (iḥidaye)

6
EUSEBIO, HE 4, 28-29; EPIFANIO, Pananrion, 46.
7
Cf anche le Odi di Salomone e EFREM, De Fide 14,5.
8
Si tratta di una forma di vita comune mista ripetatutamente condannata in seguito.
9
Un secolo dopo, nei canoni di Rabbula si proibirà tale promiscuità. Di interesse è anche l'opera intitolata Comandamenti
e Ammonizioni per i Sacerdoti e i Figli del Patto, presente solo in BL Add. 14652, foll. 123-129.
10
Il sistema, secondo Jullien, dura fino alla fine dell'impero sassanide, dato che ci sono tracce ancora in materiale
agiografico del VI sec.

2
L'inizio vero e proprio, per così dire, della vita monastica va rintracciato nel IV sec. e coincide
con l'apparire dei solitari o della vita anacoretica. Le stravaganze collegate a tali figure sono state
rese celebri da Teodoreto di Cirro e sono diventate, per così dire, proverbiali. Una sorta di tassonomia
dei solitari ci viene fornita da Dadisho‘ Qatraya (VII sec.). Accanto ai bnay qyama, evidentemente
ancora presenti di fatto o nella memoria di questo autore, troviamo almento altre due figure: i dayraya,
«cenobiti» e gli ihidaya, i «solitari». Questi ultimi si suddividono in: sharwaye («principianti») che
vivono in monastero e sono soggetti alla vita comune; ihidaya qelaya («solitari di cella»), che
custodiscono il silenzio per una settimana; altri ihidaya che adottano questa condotta per sette
settimane e digiunano in alcuni periodi dell'anno; e, infine, gli ihidaya che vivono nel deserto separati
da ogni comunità. Dadisho‘ menziona anche i metkarkane («girovaghi, itineranti») e i nukrayata
(«solitari anacoreti», greco anachoretes), la cui condotta è definita «superiore, piena di lavoro e
perfetta». Una tassonomia per certi versi simile è offerta anche dal già menzionato Teodoreto di Cirro:
chi vive in tenda, capanne, caverne o all'aria aperta; reclusi (hbysh’) che si nascondono e chi si mette
sotto lo sguardo di tutti.
La reclusione rappresenta una forma particolare di realizzazione ascetica e poteva avvenire in
diversi modi: dentro un monastero o nelle sue vicinanze. Si può portare come esempio Abramo di
Qidoun, ad Edessa ed Eusebio di Tell ‘Ada (Teleda), recluso. Esistevano dei monaci stazionari, che
sceglievano di rimanere in piedi per anni. Erano collegati al fenomeno della reclusione anche chi vive
nelle tombe oppure chi si costruisce la propria dimora inacessibile dall'esterno all'aria aperta (Eusebio
di Asikha, regione settentrionale di Cirro), detta hypaithros.
Gli stiliti, categoria che esemplifica nella maniera più efficace lo spirito dei solitari in questo
periodo, nascono come forma particolare e, se si vuole, eccentrica di reclusione. La paradigmaticità
o esposizione alla devozione pubblica di questa forma di vita è stata tale che dall'VIII sec. tutte le
forme di vita solitaria vengono designate in Siria e Mesopotamia come «stilita». Tra di essi si
ricordano, com'è noto, soprattutto Simeone l'Anziano (390 c.ca-459), il più famoso e Simeone il
Giovane (VI sec.). Attorno alla colonna degli stiliti si sviluppano pellegrinaggi e, in alcuni casi, viene
eretta una basilica attorno al luogo in cui staziona l'asceta. Generalmente, lo stilita si colloca nei pressi
di un monastero e la sua colonna pare che sia stata usata, per certi periodi di tempo, da diversi fratelli
di uno stesso monastero.
Anche i cosiddetti dendriti possono essere considerati una forma di reclusione. Questo tipo di
condotta si è sviluppato soprattutto nel nord della Siria e consiste, sostanzialmente, nel vivere
all'aperto, scegliendo come cella le cavità degli alberi. Lo storico Giovanni di Efeso menziona, ad
esempio, un solitario di nome Marone, che ha vissuto 13 anni nel tronco di un albero (fine IV sec.).
Per contro, i monaci girovaghi (mtkrkn’) non hanno una dimora fissa ma vivono, appunto, in una
forma di itineranza perpetua, basata sull'idea di xeniteia. Tra di questi, ce ne sono alcuni denominati
boskoi, attestati nell'area dall'Egitto alal Siria-Mesopotamia. Il fatto di vivere esposti alle intemperie
naturali presuppone, probabilmente, la percezione della vita monastica o cristiana come ritorno alla
condizione edenica – una prospettiva che trova un certo spazio nelle fonti siriache. In questa categoria,
significativa è soprattutto la figura di Giacomo di Nisibi che, prima di divenire Vescovo, adotta questa
forma di vita (IV sec.)11.
In generale, comunque, l'ihidaya si caratterizza per aver scelto la separazione dal mondo
civile12. L'ideale della solitudine (ihidayutha) è diffuso, fino al IV sec., in generale tra tutti i cristiani.
Solo dopo tale data, il termine ihidaya viene a designare una classe specifica di cristiani – quelli,
appunto, che vivono la separazione dal mondo13. L'autorità ecclesiastica, tuttavia, esercita un

11
Teodoreto, Historia, 1,2. Ne parla anche Efrem (Carmina nisibena).
12
In proposito, esiste anche un'altra terminologia per descrivere il monaco: qaddisha, «santo» o «continente»; aha,
«fratello»; ‘amila, «chi fa fatica», asceta; makkika, «umile»; abila, «chi fa lutto», madbraya, chi vive nel deserto. Ihidaya
si riferisce agli anacoreti e ai solitari.
13
Solamente più tardi, grazie allo sviluppo del monachesimo, il termine ihidaya non designa più eremiti o semi-anacoreti
ma viene risemantizzato nei termini del monachos greco.

3
controllo severo su queste forme di vita, a causa del messalianesimo (ṣly, «pregare»). Nato nel nord
della Siria14, questo movimento si è sparso ad Antiochia e nella Mesopotamia superiore nella secondà
metà del IV sec. Condannati da una legge imperiale nel 428 e nel 431 e cacciati dall'Impero, i
messaliani si trasferiscono in quello sassanide, dove prospereranno fino al VII sec. Si facevano
chiamare spirituali (pneumatikoi), vagavano, mendicavano, si dedicavano incessantamente alla
preghiera. Secondo le fonti, i messaliani predicavano la svalutazione dei sacramenti, asserivano di
arrivare a percepire, anche fisicamente, l'operazione dello Spirito e ostentavano una certa indifferenza
verso la gerarchia ecclesiastica. Condannati a più riprese dai sinodi della chiesa di Persia, verranno
osteggiati in modo netto, in particolare, da Babai il Grande (VII sec.). La reazione antimessaliana
comporterà anche la condanna, da parte di Timoteo I (727/8-823), degli scritti di figure eminenti della
spiritualità siriaca come Giovanni di Dalyatha, Giuseppe Ḥazzaya e Giovanni il Solitario. In ogni
caso, i messaliani declineranno anche a causa dell'affermarsi del monachesimo riformista. Alcuni
anacoreti riformisti decidono di vivere in aree di forte influenza messaliana, in modo da «bonificarle»,
come accade, ad esempio, nella regione di Sinjar, sud di Nisibi.
La complessa problematica messaliana mette in lcue come la vita degli iḥidoye si
caratterizzasse, in ultima analisi, per essere un'iniziativa personale e per un rapporto complesso con
le autorità ecclesiastiche. Per questa ragione, anche la vita propriamente liturgica non sembra essere
parte integrante della vita dell'asceta e, anzi, nel caso di forme «deviate» di vita solitaria, viene del
tutto rifiutata.

Il monachesimo dopo le divisioni confessionali (1): chiese siro-orientali

Il IV-V sec. vede, all'interno delle comunità di lingua siriaca, il prodursi progressivo di
divisioni causate dalle controversie cristologiche e trinitarie. Con le contrastanti posizioni assunte
rispetto alle decisioni dei concili di Efeso (431) e Calcedonia (451), la cristianità siriaca viene, a poco
a poco, a strutturarsi in due grandi ambiti: quello occidentale e quello orientale. I confini tra queste
due realtà sono, in realtà, mutevoli nel corso dei secoli e non sempre così netti. Grosso modo, gli
studiosi tendono a categorizzare questo fenomeno sottolineandone due aspetti:

1. la chiesa monofisita o miafisita o siro-occidentale si trova a vivere sostanzialmente nel


territorio dell'Impero romano-bizantino, di cui sperimenta, a più riprese, l'ostilità o il
favore a seconda degli ondeggiamenti della politica imperiale;
2. la chiesa nestoriana o duofisita o siro-orientale, per contro, vive sostanzialmente
all'interno dei confini dell'Impero persiano, di cui sperimenta anche l'alterna attività
persecutoria.

Le due parti della cristianità siriaca non sono, quindi, divise dal punto di vista etnico o
linguistico, riconoscendosi entrambe in una eredità comune ma confessionale. Le tensioni che le fonti
testimoniano tra cristiani siriaci miafisiti e duofisiti non deve far dimenticare questo sostanziale
riconoscimento di un'eredità comune15.

In ambito siro-orientale, una delle prime e più importanti testimonianze di forma di vita
monastica viene dai cosiddetti 19 canoni di Maruta di Maipherqat – una sorta di corpus legislativo
sulla vita monastica, nei quali si parla, però, anche del buon funzionamento di una Diocesi. Vengono
menzionati i bnay qyama (can. 41), associati alle chiese delle città, di cui è richiesto che siano istruiti.
I canoni che parlano della vita interna di un monastero (cann. 48-55) hanno un carattere omogeneo

14
Figura eminente di «divulgatore» messaliano pare sia stato Eustazio di Sebaste, che ha viaggiato per Siria, Mesopotamia
e Armenia.
15
Le vicende delle chiese di lingua siriaca a partire dalle controversie del IV-V sec. è, chiaramente, molto più complessa
e le divisioni che ne sono seguite ancora più articolate. Per una presentazione di massima, cf F. BRIQUEL-CHATONNET –
M. DEBIÉ, Le monde syriaque. Sur les routes d'un christianisme ignoré (Paris 2017) 143-174.

4
soprendente, al punto da aver suscitato l'ipotesi che si tratti di un frammento di una regola vera e
propria inserito dentro una collezione di canoni. I canoni trattano di diversi argomenti, tra cui quello
della preghiera sette volte al giorno (can. 54,20) ed il modello di monachesimo che emerge è di tipo
cenobitico o «strettamente comunitario», rapportabile ancora a quello dei figli del patto (can. 54,3),
situato nelle città e legato alla chiesa locale. Questo spiegherebbe anche l'interesse del legislatore per
questo genere di realtà.
Questi canoni e le traduzioni di importanti corpora ascetici operate ad Edessa dal IV sec.
come parte di un ampio movimento di traduzione di opere dal greco al siriaco avranno una influenza
decisiva nella costituzione del monachesimo nella chiesa di Persia.

Nel periodo di fioritura dei solitari cominciano, anche, ad apparire i primi nuclei di vita
comune. A questo proposito si cita la vicenda di Abramo di Naphtar (VI sec.) che visse in una caverna
diversi anni prima di accogliere dei discepoli che si facevano celle (qly) scavando nel terreno. Questo
genere di solitari (detti in greco speleotes) venivano anche chiamati m‘arre’, «coloro che abitano in
una caverna». Queste cellule di vita comune, fortemente improntati alla vita eremitica, a volte
impegnati in attività di evangelizzazione, sono attestate già nel IV sec. nell'impero sassanide. La
precisa localizzazione e le caratteristiche di questa forma di vita sono, però, sconosciute. Di fatto,
questo sviluppo della vita eremitica è del tutto tipico della Siria, Mesopotamia, Babilonia e Persia.
Una sorta di sviluppo di queste cellule di vita comune è costituito da quelle esperienze che
sembrano avvicinarsi al modello lavriota. La parola Lavra (lwr’, dal greco laura) è attestata nel IV
sec. in Palestina16 per indicare un insediamento monastico caratterizzato da gruppi di anacoreti,
ognuno aventi la sua cella, che fanno capo ad un edificio comune. Una forma di vita simile è attesta,
tra gli altri, in ambito siriaco, nella Storia di Karka d-Bet Slokh, che menzionata costruzioni edificate
attorno a Ḥaṣa nel V sec. La costituzione, però, di insediamenti a carattere chiaramente semi-
cenobitico va ascritto al grande di riformatore del monachesimo siro-orientale: Abramo di Kashkar
(† 588). Nelle fonti che ne parlano, Abramo viene dipinto come una sorta di figura cardine nella storia
del monachesimo siriaco, dato che il monastero da lui fondato – il Grande Monastero situato sul
monte Izla, nella zona del Tur ‘Abdin17 – e la sua regola saranno di ispirazione per molte altre
fondazioni.
La Regola di Abramo è il primo testo di questo genere in ambito siro-orientale. Redatta in una
forma particolare e chiaramente influenzata dalla letteratura ascetica non siriaca, spicca per la presa
di distanza dai messaliani e da come il monastero sia posto sotto senda indugio sotto l'autorità
episcopale. Abramo pensa al suo monastero come ad un insedimaneto semi-anacoretico, nel quale la
vita dei monaci è organizzata, appunto, come un lavra.
Dalla riforma di Abramo sorgeranno altri monasteri, che diffonderanno l'ideale del Grande
Monastero lungo tutte le chiese di Persia. Tra le varie fondazioni, in questo senso, si può menzionare
il monastero di Bar ‘Edta, nella diocesi di Marga, a nord est di Mossul. Altre fondazioni si creano a
partire da crisi interne al Grande Monastero stesso, come quella che porta Giacomo di Lashom a
lasciare l'Izla per fondare Bet Awe, uno dei più grandi e importanti centri monastici della chiesa siro-
orientale. Rabban Shabur, fondato nel VII sec., è un altro dei grandi centri ascetici della chiesa di
Persia di ispirazione abramitica. In tale monastero si formeranno Isacco di Ninive, Simone di
Taibuteh e Dadisho‘ Qatraya. Rabban Hormizd (628-647 c.ca) vive quarant'anni al monastero di Bar
‘Edta e poi si muove per fondare un monastero al Maqlub, da cui, dopo sette anni, la comunità si
disperderà per fondare altri monasteri. Così Mar Yozadaq, che fonda il monastero in cui prenderanno
l'abito Giovanni di Dalyatha e Nestorio di Nuhadra.
Nel modello di Abramo, il monaco è un esicasta (cf shelya, «solitudine, immobilità, riposo,
silenzio»; cf hesychia), che abita in celle, lontano dal monastero. In questo periodo, successivo alla
riforma del kashkarense, sorgono nella chiesa di Persia figure che avranno un'influenza non
trascurabile sullo sviluppo dell'esicasmo: Isacco di Ninive; Giovanni di Dalyatha; Simeone di
16
Tale terminologia è usata da Cirillo di Scitopoli per indicare, appunto, la lavra di san Saba (V sec.).
17
Tale monastero era fornito di infermeria, xenodochio, biblioteca, refettorio e altri locali. La regola è del 571.

5
Taibuteh. Nel Libro dei Fondatori di Ishodena’ di Basra – la storia delle principali figure monastiche
della chiesa di Persia dal IV al VII sec. – sono menzionati Babai lo Scriba che scrisse libri per
anacoreti ed eremiti e Giuseppe Ḥazzaya, che ha composto biografie di asceti orientali. Allo stesso
tempo, Dadisho’ Qatraya, che visse a Susiana, nel monastero di Rabban Shabur, sottolinea
l'importanza dell'esicasmo nella Lettera ad Abkosh e nel trattato Sulla solitudine.

Dal modello lavriota si passa a quello più propriamente cenobitico, già a partire dal Grande
Monastero dell'Izla, la cui regola viene rivista, dopo la morte di Abramo di Kashkar, altre due volte
e sempre in chiave cenobitica18. Così troviamo anche, nel VII sec., nella Vita di Rabban bar-‘Edta,
che Abramo è presentato come il legittimo successore di Pacomio. Nelle fonti, troviamo due termini
distinti per definire i due modelli: dayra (monastero cenobitico) e ‘umra (semi-cenobitico). Nella
Regola di Rabbula († 435) e nei canoni di Maruta di Maipherqat (primo V sec.) sopra menzionati il
tipo di vita implicato è quello cenobitico e, del resto, cenobi si trovano in Persia già nel IV sec., come
le piccole fraternità attorno a santuari o martyri (Mosul). In genere i monasteri erano collocati nelle
città o vicino ad esse. È attestata anche in ambito siriaco la prassi di istituire monasteri internazionali,
biligui o trilingu.
Caratteristico di questi cenobi è l'esercizio di un'azione evangelizzatrice o missionaria. Tale
azione si esplicita, prima di tutto, attraverso l'incorporazione, per così dire, di scuole e, in seconda
battuta, la predicazione e la disputa ad extra. Questo fenomeno è attestato già prima della riforma del
VI sec. Il ruolo educativo era tenuto, inizialmente, dalle parrocchie e quando Isho‘yahb I (582-595)
tenta di imporre scuola a Bet ‘Abe trova grande opposizione. Gli studenti venivano tonsurati, legati
al celibato, con l'abito (eskima), vivevano in celle e partecipavano alle preghiere liturgiche. Caso
preminente è la scuola dei persiani di Nisibi. Sia nel modello di Abramo di Kashkar che in quello
cenobitico, in definitiva, la liturgia ha, chiaramente, un ruolo più rilevante che non nelle precedenti
esperienze dei solitari.
Tra l'823 e l'827 vengono redatti i canoni di Isho‘bar Nun, particolare estimatore del
monachesimo del monte Izla. Tali canoni ci sono arrivati in duplice versione, araba e siriaca e non si
corrispondono completamente. Per quanto riguarda la vita monastica, vengono trattati i seguenti
argomenti: sposati che vogliono abbracciare la vita monastica (can. syr. 16-19); eredità dei genitori e
lasciti testamentari dopo la morte (can. syr. 67-70; can. ar. 1-4); schiavi che vogliono abbracciare la
vita monastica (can. syr. 71-72; can. ar. 5-6); responsabilità del vescovo del luogo verso il monastero
(can. syr. 73-74; can. ar. 7-8). Nella versione araba, seguono canoni dedicati: alla preghiera continua
(9), vigilie (10.12), recita del Salterio (11.13), lettura (14); preparazione alla liturgica eucaristica (15-
16.18); digiuno e mensa (17.19); preghiera in cella (20-22). Tali canoni hanno dei paralleli precisi
nella tradizione siro-occidentale: can. 13.20. Ancora in questo testo si trovano menzionati i bnay
qyama (can. 19) anche se la forma monastica è più simile a quella di Abramo di Kashkar.
Dopo il IX sec., con l'avanzare dell'Islam, la vita monastica siro-orientale conosce una
progressiva decadenza, al punto che già nell'XI secolo Elia di Nisibi lamenta la scomparsa di cenobi
e monasteri in Mesopotamia, prima del colpo finale dei Mongoli.

Il monachesimo dopo le divisioni confessionali (2): chiese siro-occidentali

In seguito all'opposizione al concilio di Calcedonia, le comunità siriache situate per lo più


all'interno del territorio dell'Impero romano si trovano a vivere in una situazione altalenante, nella
quale spicca la grande crisi causata dalla politica di Giustiniano (482-565) e l'invio in esilio di Severo,
patriarca di Antiochia (518) e l'espulsione dei miafisiti dal territorio dell'impero (541). La
collocazione nei territori dell'Impero rende la cristianità siro-occidentale profondamente legata alla
cultura greca, una sorta di cultura bilingue o, come è stato detto, un ambito biculturale – fatto, questo,
che permane anche dopo l'avanzata dell'Islam e la sottrazione dei territori in cui sono insediate tali

18
Si tratta delle revisioni di Babai il Grande e Dadisho‘ Qatraya.

6
comunità all'Impero. Di fatto, soprattutto la politica imperiale condizionerà la sorte delle comunità
miafisite di lingua siriaca fino all'avvento dell'Islam. Il VI sec., in particolare, rappresenterà un
momento di particolare difficoltà, dato che nel 541 Giustiniano deciderà di espellere Teodosio,
vescovo miafisita di Alessandria e i suoi seguaci. Questo terremoto, che coinvolse anche le comunità
di lingua siriaca, verrà parzialmente compensato dall'attività dell'imperatrice Teodora, che incaricherà
Giacomo Baradeo, Vescovo di Edessa negli anni 542-578 e Teodoro di Edessa di organizzare una
gerarchia miafisita. L'attività dei due missionari, in particolare quella di Giacomo, porrà le basi della
chiesa siro ortodossa. Nelle comunità siro-occidentali, i monasteri cenobiti hanno esercitato una
funzione essenziale per la conservazione dell'identità confessionale prima di fronte all'Impero e poi
all'Islam. In questo senso, la connessione tra vita monastica ed ecclesiale è, in qualche modo, più
stretta e lineare che non nella chiesa di Persia.
Edessa e i dintorni sono luoghi di insediamenti monastici già nel IV sec., come sembrano
indicare alcune fonti. Fondazioni si segnalano anche in Eufratesia, a Zeugma, a nord di Antiochia19 e
nel Tur ‘Abdin. Nei centri monastici di Edessa si sviluppa quella cultura di produzione di libri e di
traduzione che grande influsso avrà sul cristianesimo siriaco nel suo complesso20.
Tra le fondazioni miafisite più rilevanti, si segnalano:

1. il monastero di Qartmin, nel Tur ‘Abdin, fondato da Samuele e Simeone nel 350, per
diventare fondazione imperiale nel 39721;
2. il monastero di Qenneshre, fondato da Giovanni bar Aphtonia nel VI sec.22, grande centro
di irradiazione culturale della chiesa siro-occidentale;
3. il monastero di Gubbo Baroyo, vicino a Mabbug;
4. infine, il monastero di Speculos, non lontano da Resha‘ayna.

Dal 518, come detto, anno in cui il patriarca di Antiochia, Severo, viene costretto all'esilio per
la sua opposizione al concilio di Calcedonia, i monasteri siro-occidentali diventano la sede del
patriarca «itinerante». Tale itineranza ha creato una rete di monasteri miafisiti tra l'Egitto e la Siria,
come i casi dell'Enaton e di Deyr al-Suryan illustrano in modo esemplare. Allo stesso tempo, anche
la zona del Tur ‘Abdin e di Melitene (Malatya) sono stati sedi del patriarca.
Nella chiesa siro-occidentale non si registra la presenza di scuole monastiche o patriarcali
come quelle di Nisibi o di Seleucia-Ctesifonte ma, piuttosto, di centri di studio, traduzione e di
conservazione dei libri collocati quasi esclusivamente nei monasteri. Questi diventano, così, centri di
grande importanza culturale, dove l'identità miafisita viene conservata sia di fronte all'atteggiamento
ostile dell'Impero che dei successivi invasori islamici. È qui che il summenzionato bilinguismo si
realizzava in modo forse più evidente e fecondo.
Tra i monaci, troviamo le figure più eminenti della chiesa siro-occidentale. È questo, ad es.,
il caso di Filosseno di Mabbug (prima del 450-523). Nato nel Bet Garmai ed educato ad Edessa, fu
ordinato dal patriarca di Antiocha Pietro (ca. 470). Esiliato a causa della sua opposizione a
Calcedonia, Filosseno si reca nei monasteri di Siria, dai quali fa ritorno nel 484 in seguito al
cambiamento della politica imperiale. Nominato Vescovo di Mabbug (Hierapolis) nel 485, divenne
un instancabile propagatore della visione miafisita, dato che considerava la lotta contro gli errori
cristologici una pratica ascetica nella ricerca della divina conoscenza. A questo proposito, promuove
una nuova traduzione del NT in siriaco e compone una serie di commentari e trattati, rivolti per lo
più a monaci, su temi ascetici, spirituali e cristologici.

19
Simeone l'Anziano in Amanus e Teodosio di Rhosos in Cilicia Seconda. Monte Silpius, sud-est, in cui Afraate, Pietro
il Galata e Macedonio (cf Storia Filotea). Tell ‘Ade fondato da Ammianos; Telanissos, tre monasteri e insediamenti dal
V sec. Simeone lo Stilita († 459) è nelle vicinanze di Teleda e Telanissos.
20
Qui, forse, nasce l'Estrangelo e nel VI sec. Marutha di Tagrit viene dalla Persia ad apprendere la calligrafia ad Edessa.
21
Questo monastero è conosciuto sotto il nome di Mor Gabriel, da Gabriel di Bet Qustan, un santo abate del VII sec.
22
Nato ad Edessa, si fece monaco nel monastero di San Tommaso, a Seleucia Pierie, sull'Oronte, vicino ad Antiochia. In
seguito alla persecuzione anticalcedoniana (ca. 530), fonda Qenneshre, sull'Eufrate.

7
L'altro caso ragguardevole è quello di Giacomo di Edessa (ca. 684/9-708). Monaco del
monastero di Qenneshre, dove studiò Scrittura e lingua greca, passò un certo tempo ad Alessandria
per poi ritornare in Siria, ormai sotto controllo musulmano. Fatto Vescovo di Edessa nel 684 circa,
abbandonò dopo pochi anni la carica, in polemica con il patriarca e risolse di ritirarsi al monastero di
Kaysum, vicino a Samosata. Cacciato da questo luogo, in forza di un'ondata di ostilità verso il mondo
greco – di cui Giacomo, pur parlando e scrivendo solo in siriaco, era entusiasta cultore –, si trasferì a
Tell ‘Ada, dove iniziò la sua celebre revisione dell'AT.
L'opera di Giacomo di Edessa, in parte andata perduta, è particolarmente ampia e versatile ed
include, tra gli altri: revisioni e annotazioni su opere celebri di Severo di Antiochia; un commento ai
primi capitoli della Genesi; lettere su vari argomenti; commentari biblici; opere di diritto canonico;
infine, la celebre revisione dell'AT, in parte andata perduta; la prima grammatica sistematica di
siriaco.

2. Monachesimo e liturgia

La liturgia23 rappresenta uno degli aspetti essenziali dell'identità di una comunità e, in chiave
storica, la formazione e lo sviluppo delle liturgie corrisponde a quello della configurazione
istituzionale delle differenti chiese. È noto come lo sviluppo della prassi liturgica sia avvenuto, nella
Chiesa antica, in modo organico a partire da alcune «famiglie» e come, in genere, le liturgie siriache
vengano ricondotte al ramo antiocheno. Lo sviluppo di tali prassi in ambito siriaco è avvenuto in
concomitanza alle controversie e, poi, alle divisioni createsi a causa delle grandi controversie
trinitarie e cristologiche del IV-V sec. Per questa ragione, il momento di sostanziale stabilizzazione
viene collocato intorno al V-VI sec.

Liturgia siro-orientale

La prima riforma liturgica in ambito siro-orientale è attestata nei più volte ricordati canoni del
sinodo di Seleucia-Ctesifonte (410), attribuiti a Marutha di Maipherqat. Il canone 13, in particolare,
stabilisce che ci debba essere uniformità di rito, secondo il rito occidentale24. Sotto il catolicosato di
Mar Aba (540-522) vengono tradotte l'Anafora di Nestorio e quella di Teodoro di Mopsuestia. La
riforma più importante, tuttavia, è da attribuirsi al catholicos Isho‘yahb III (580-659), monaco del
celebre monastero di Bet Abe, che uniforma il rito in uso nella chiesa di Persia adottando la liturgia
del «monastero superiore» – cioè, di Mor Gabriel e Mor Abraham a Mossul. Vengono stabilite tre
ore maggiori da doversi recitare (mattino, vespro, notte, seguito da vigilie), insieme alle cosiddette
ore minori (compieta, terza, sesta, nona). È forse alla sua riforma che deve attribuirsi anche l'adozione
della celebre Anafora di Addai e Mari nella chiesa siro-orientale.

Lituriga siro-occidentale

Nella prima metà del V sec., quasi contemporaneamente al sinodo di Seleucia-Ctesifonte, la


chiesa siro-occidentale adotta la liturgia di san Giacomo, radicata nella prassi della chiesa di
Gerusalemme. Prima della fine del VI sec., Giacomo di Edessa, figura prominente nella storia di
questa chiesa, la traduce in siriaco.
In realtà, in ambito siro-occidentale l'uniformità perseguita in quello siro-orientale non è
ricercata e, anzi, la varietà degli usi rituali è vista come un fattore positivo. Per questa ragione, a parte
il Sedro, in tale contesto è attestato un numero piuttosto alto di anafore. Caratteristico di questo ambito

23
Per liturgia intendiamo il complesso di riti regolati in modo condiviso e sostanzialmente stabile che una comunità pone
in essere per un preciso scopo religioso. In ambito cristiano, tale scopo è sostanzialmente definito dalla rivelazione stessa,
in particolare dalle parole e dai gesti attraverso i quali Cristo stesso ha istituito i sacramenti della nuova alleanza.
24
Sembra doversi distinguere, dietro questa denominazione, un'influenza antiochena. Tra di queste influenze, la perdita
del Diatessaron e l'introduzione dei vangeli separati.

8
è anche la produzione di celebri commentari sulla liturgia, come quelli di: Giacomo di Edessa (†
708); Giorgio degli arabi († 724); Giovanni di Dara (IX sec.); Mosè bar Kepha († 903); Dionigi bar
Salibi († 1171); Barebreo († 1286). Questi commentari hanno, significativamente, per lo più
un'origine in ambito monastico.

Monachesimo siriaco e liturgia

Monachesimo e liturgia sono, quindi, due realtà sostanzialmente eterogenee ma parte


dell'unico soggetto ecclesiale e sviluppatesi, in ambito siriaco, lungo linee parallele. Lungo tale
sviluppo, però, si danno dei momenti di incontro o di scontro, che configurano un certo numero di
situazioni o di attitudini o, se si vuole, di modelli. Dovendo necessariamente esemplificare, tali
situazioni si possono categorizzare nel modo seguente:

1. una posizione di indifferenza o addirittura rifiuto della liturgia della chiesa di


appartenenza, in nome di più elevata condizione «spirituale»25;
2. una posizione di influenza, anche cospicua, della prassi liturgica monastica (cenobitica)
su quella della chiesa in genere26;
3. una posizione né indifferente né scettica ma orientata ad una lettura spirituale della prassi
liturgica, concepita come opera ascetica e collocata ad uno stadio iniziale o intermedio
nel cammino spirituale verso la preghiera pura27;
4. una posizione di influenza, anche cospicua, della prassi rituale della chiesa su quella
monastica28;
5. infine, una posizione di conflitto tra la liturgia monastica e quella della comunità cristiana
in genere29.

Da questo punto di vista, i rapporti tra monachesimo e liturgia sono, in ultima analisi, un
capitolo della più ampia questione del rapporto tra monachesimo e disciplina ecclesiastica – rapporto,
com'è noto, non sempre pacifico o scevro da tensioni di vario genere. In generale, in contesto lavriota
o cenobitico, la liturgia appare come uno degli elementi essenziali della disciplina monastica, mentre
nelle forme anacoretico o eremitiche questa sembra collocarsi in una posizione in qualche modo
marginale.
In generale, all'interno della prassi ascetica della vita comunitaria, la liturgia rappresenta,
appunto, un'opera ascetica, propedeutica allo sviluppo della vita spirituale propriamente detta. In
alcune fonti, si può notare, in proposito, una concezione spirituale della liturgia, legata
all'affermazione dell'esistenza di tre piani della realtà – quello «terreste», quello «celeste» e quello
«dell'anima» – che, nell'azione liturgica, interagiscono. In questo senso, i gesti e le parole della
preghiera comunitario vengono intesi quasi fossero delle metafore generative o di affermazioni
letterali lette o percepite in modo spirituale. Questa concezione è anche rifletta nei testi liturgici
stessi, in particolare in alcune anafore della tradizione siro-occidentale.
Dal punto di vista della concreta realizzazione, all'interno dei cenobi o delle forme lavriote, la
liturgia viene articolata attorno allo sviluppo della giornata monastica, dove momenti comunitari e
solitari si alternano secondo proporzioni che variano da monastero a monastero o da regola a regola.
Tale alternanza riguarda i momenti precisi in cui veniva compiuta la preghiera comunitaria e la forma
della stessa, in particolare per quanto riguarda la recita dei salmi e l'uso di composizioni non bibliche.

3. Tre testimonianze: Giovanni il Solitario; Simone di Taibuteh; Isacco di Ninive

25
Così, in forma estrema, i messaliani.
26
Come nel caso della già menzionata riforma di Ysho‘yahb III.
27
Questa sembre essere, ad es., la posizione degli «esicasti».
28
Cf, ad es., i 19 canoni di Maruta.
29
«I fedeli non disertino le sinassi nelle chiese per andare nei monasteri» (sinodo di Isho‘yahb I [585]).

9
Nella tradizione della spiritualità o della mistica siriaca si registrano le testimonianze forse
più incisive ed originalicirca l'interpretazione spirituale della liturgia. Tale tratto è, in qualche modo,
uno dei più caratteristici ed originali di tale tradizione. Tra le varie voci che si intrecciano, ne
scegliamo tre per illustrare, in modo più o meno esemplare, questo peculiare aspetto della letteratura
siriaca.

Il primo autore che prendiamo in considerazione è Giovanni il Solitario. Il nome di questo


autore fa la sua comparsa su carta stampata solo nel 1936 quando vengono pubblicati i quattro
Dialoghi sulle passioni dell’anima, tratti da un corpus di opere piuttosto voluminoso (novantadue
titoli circa) sparso in diversi manoscritti ancora inediti. L’originalità del pensiero del nostro autore e
l’influenza non trascurabile che sembra aver esercitato su molti autori successivi (Filosseno di
Mabbug, Giacomo di Sarug, Isacco di Ninive, Giovanni di Dalyata, Giuseppe Hazzaya, Simone di
Taibuteh per non nominarne che alcuni) hanno stimolato, dopo questa data, in maniera significativa
la ricerca circa l'identità e la dottrina di tale autore. Resta tuttavia il fatto che la maggior parte delle
opere di Giovanni attendono ancora di venire alla luce dai manoscritti in nostro possesso.
Allo stato attuale della ricerca, si possono riassumere le informazioni in nostro possesso in
questo modo. Colui che i manoscritti ci consegnano sotto il nome di «Giovanni [il] Solitario» o «[il]
Monaco», «Mar Giovanni», «il beato Giovanni [veggente/profeta] della Tebaide» figurerebbe come
l'autore di un corpus, come detto, di novantadue opere, di diversa natura: trattati ascetici, lettere a
singoli o a comunità, commenti esegetici a libri o parti di libri dell’Antico e del Nuovo Testamento,
catene di sentenze, esortazioni, omelie, dialoghi, definizioni, preghiere, inni, raccolte di passi
scritturistici. Questo autore sembra aver spaziato con una certa disinvoltura dall’ambito più
propriamente monastico, spirituale e ascetico a quello teologico-dogmatico, fino ad arrivare a quello
più propriamente esegetico. Le lettere rimasteci testimoniano della varietà dei suoi contatti, insieme
alla fama che si era creata attorno alla sua persona. Nonostante ciò, l’identificazione di questo
enigmatico «Giovanni» rimane problematica30.
Una prima identificazione di questo Giovanni con Giovanni di Licopoli, eremita della
Tebaide, già maestro di Evagrio31 è stata confutata con argomenti di un certo peso e proposta, con
ragione, l'attribuzione a Giovanni di Apamea, monaco vissuto tra la seconda metà del IV o la prima
metà del V secolo32. Tale attribuzione è stata confermata dal rinvenimento di un testo di questo autore
in un passaggio già noto agli studiosi perché citato negli scholia a Evagrio di Babai il Grande e da lui
attribuito a «Giovanni il Solitario, della regione di Apamea».
Dietro questo nome, si possono identificare tre personaggi omonimi: Giovanni di Apamea di
Siria, autore dei testi di cui ci occupiamo, vissuto a cavallo tra il IV e il V secolo; un secondo Giovanni
di Apamea di Siria, menzionato da Teodoro bar Koni33 nel suo Liber scholiorum come eresiologo
nestoriano, forse da identificare con un certo «Giovanni l’Egiziano», gnostico discepolo di Stefano
bar Sudaili menzionato da Filosseno di Mabbug; infine, un terzo Giovanni di Apamea in
Mesopotamia condannato dal catholicos Timoteo I nel 786-787 insieme a Giuseppe Hazzaya e
Giovanni di Dalyatha. Secondo un'altra ipotesi, esiste un solo Giovanni di Apamea soggiacente ai tre
distinti sopra – personaggio estremamente complesso, che riesce a sintetizzare in sé le opposte
apparenze di un monaco ortodosso siro del V secolo con quelle di uno gnostico fortemente eterodosso
e speculativo contemporaneo.

30
Gli asceti, vissuti in Egitto, Siria o Palestina, che portano questo nome con l’attribuzione di «monaco/solitario», infatti,
sono legione.
31
L’attribuzione a questo personaggio si ritrova già nell’intestazione di alcuni manoscritti delle opere di Giovanni.
32
Apamea, sull’Oronte (ora Qal’at al-Mudīq, in Siria), fu fondata nel IV secolo a.C. da Seleuco I. Era la capitale di una
satrapia del regno seleucide (Siria II), sede di una sinagoga e della scuola neoplatonica di Giambico nel IV secolo, nonché
di alcune importanti reliquie della vera croce fino al 566 o 574.
33
Monaco di Kaskhar, nel Bet Aramye, alla fine dell’VIII secolo. È autore di un Liber scholiorum, sorta di manuale
esegetico improntato ai metodi di Teodoro di Mopsuestia. È composto da undici libri, essendo gli ultimi due una sorta di
apologia del cristianesimo contro l’islam, corredato da una lunga lista di eresie ed eresiarchi del più alto interesse.

10
In ultima analisi, dunque, Giovanni di Apamea è uno gnostico siro del VI secolo, un
messaliano della Mesopotamia dell’VIII, un ortodosso del V, o addirittura due o tre di questi
personaggi insieme? Mancando un’edizione critica completa delle opere attribuite a questo autore,
non è possibile esprimersi se non in relazione al corpus già edito. Probabilmente, si tratta di un
monaco siriaco ortodosso vissuto tra il 430 e il 450 nella zona di Apamea, presso Antiochia, in un
periodo, quindi, e in un contesto culturale ed ecclesiale non ancora così massicciamente influenzato
dal pensiero greco come sarà di lì a poco il cristianesimo siriaco.

Tra i testi editi, la cosiddetta Lettera sulla preghiera, edita per la prima volta da S.P. BROCK,
offre un esempio particolarmente incisivo di tale concezione della preghiera silenziosa o pura. In
qualche misura, la concezione che Giovanni esprime in questo breve testo si può considerare
fondativa per l'intera tradizione spirituale siriaca.
Eccone alcuni estratti:

Non immaginare, mio caro, che la preghiera consista solamente di parole o che possa essere
appresa per mezzo di parole. No, ascolta la verità della questiona da nostro Signore: la
preghiera spirituale non è appresa e non raggiunge la sua pienezza come risultato di
insegnamento o di ripetizione di parole: non è un uomo, infatti, che stai pregando, davanti al
quale tu puoi ripetere un discorso ben composto. È davanti a colui che è Spirito che stai
dirigendo i movimenti della preghiera. Devi pregare, quindi, nello spirito, dato che Lui è
spirito (§ 1).

Per mostrarti che non è richiesto un posto speciale o espressione vocale per colui che prega
Dio in pienezza, nostro Signore ha detto: L'ora viene quando non adorerete il Padre in questa
montagna o in Gerusalemme34. […] È nello spirito e nella mente, quindi, che egli [sc. Paolo]
dice che si dovrebbe pregare e cantare a Dio; non dice nulla a riguardo della lingua. La
ragione è che questa preghiera spirituale non è offerta dalla lingua o pregata dalla lingua
perché è più interiore delle labbra e della lingua, più interiore di qualsiasi suono composto,
collocata al di là della salmodia e della sapienza (§ 2).

Chi canta usando il corpo e la lingua e persevera in questo servizio notte e giorno, costui è
uno dei «giusti». Ma la persona che è stata stimata degna di entrare più profondamente [nella
preghiera] di questi, cantando nella mente e nello spirito, costui è un «essere spirituale». Un
«essere spirituale» è più elevato che il «giusto» ma uno può divenire «essere spirituale» solo
dopo essere stato «giusto». Perché finché qualcuno è rimasto in servizio per un considerevole
lasso di tempo in tale modo esteriore – utilizzando digiuno continuo, la voce per la salmodia,
con periodi ripetuti sulle ginocchia, con domande, costanti veglie, recita dei salmi, lavoro
faticoso, supplica, astinenza, povertà di cibo e altre cose simili, appropriate a questo tipo di
vita, con attenta vigilanza custodia dei sensi, riempito del ricordo di Dio, pieno del dovuto
timore e tremante al suo nome, vedendo che ha una firma fede che i movimenti striscianti dei
suoi pensieri non sono nascosti dalla conoscenza di Dio, umiliandosi di fronte a tutti,
considerando tutti migliori di lui – quando vede una persona traviata, o un adultero, o un
ubriacone, o un assassino, o qualcuno pieno di sfrontatezza o violenza, o un bestemmiatore,
o persino una persona con peccati peggiori di questi: vedendo una tale persona egli ancora
si comporta umilmente di fronte a questi e pensa: «è migliore di me e più vicino a Dio». […]
Solo quando qualcuno ha ottenuto tutto questo – e cose più grandi di queste che, se davvero
lo si vedesse così, soffrirebbe, sapendo che è molto lontano da ciò è giusto – quando qualcuno
può fare tutto questo e realizzarlo in se stesso, questi arriverà a cantare a Dio nella salmodia
che gli esseri spirituali usano per lodarlo (§ 3).

34
Gv 4,21.

11
Perché Dio è silenzio e in silenzio è cantato e glorificato per mezzo di quella salmodia e lode
di cui è degno. Non sto parlando del silenzio della lingua, perché se qualcuno semplicemente
tiene in silenzio la sua lingua, senza sapere come cantare e dare lode nella mente e nello
spirito, allora questi è semplicemente pigro nel suo silenzio e nei suoi cattivi pensieri vaganti,
dato che idee odiose sorgono per corromperlo. Sta solo custodendo un silenzio esteriore e
non sa come cantare o dare lode in modo interiore, vedendo che la lingua della sua persona
interiore non ha ancora imparato a stendersi nemmeno per balbettare (§ 4).

Così, c'è un silenzio della lingua, c'è un silenzio dell'intero corpo, cìè un silenzio dell'anima,
c'è un silenzio della mente e c'è il silenzio dello spirito. […] Il silenzio della mente è quando
è purificata da ogni forma di conoscenza o sapienza nociva […]. Il silenzio dello spirito è
quando la mente cessa persino dai moti causati dagli esseri spirituali e quando tutti i suoi
movimenti sono mossi solamente dall'Essere. In questo stato è veramente silenziosa, cosciente
che il silenzio che è sopra è esso stesso silenzioso (§ 5).

Le affermazioni di Giovanni avranno un'influenza decisiva e profonda su tutta la tradizione


spirituale siriaca, come dicevamo. In particolare, per quanto riguarda il nostro argomento, sono
soprattutto due gli aspetti che verranno più volte ripresi e approfonditi: il fatto che esista una
preghiera che si compie nel silenzio, culmine del percorso che inizia dagli aspetti «esteriori» e
«materiali» della stesssa; il fatto che esistano, quindi, diverse forme di silenzio e che solo a quello
interiore si addice il nome di perfetto.

Il secondo autore che prendiamo in considerazione è Simone di Taibuteh.


Di Simone possediamo una notizia nel Chronicon ecclesiasticum di Barebreo († 1286), che
recita: «ai suoi giorni35 viveva Simone Taibuta. Costui era un medico eccellente e amava la condotta
della vita monastica; scrisse un libro sulla vita monastica e fu chiamato col nome del suo libro»36. Lo
stesso autore, nella Chronographia ricorda: «Simone, il monaco, noto [come] di Taibuteh». Il nome
di questo autore compare anche nel Catalogo di ‘Abdisho’ bar Brika († 1318): «Simone di Taibuta
ha un libro sulla condotta e un altro sulla medicina e una spiegazione dei misteri della cella»37. A
queste note tarde si può aggiungere una notizia del Liber Castitatis (860-870) dedicata a Mar Gani,
«che piantò un monastero nella regione di Kashkar», di cui «ha resto testimonianza il santo Mar
Simone di Taibuta, chiamato Luca». In un codice del 1289, comprendente estratti di autori siro-
orientali del VII e VII sec., si legge un Discorso profittevole detto nel giorno della consacrazione
della cella, nell'uscire di un fratello dal cenobio, redatto dal santo Mar Simone di Taibuteh, chiamato
Luca, discepolo di Rabban Shabur huzita38.
Il nome Taibuteh, in siriaco, significa «grazia, beatitudine»39 e la tradizione manoscritta ci ha
trasmesso un Libro della grazia, da alcuni studiosi attribuito proprio a Simone40. Se questa
attribuzione fosse esatta, allora acquisterebbe un valore particolare una notizia autobiografica
presente in 4,50-51, da alcuni autori riferita proprio a Simone. La nota colloca Simone tra la Babilonia
meridionale e l'Elam; Mar Gani, menzionato nella nota, è stato monaco sull'Izla e poi fondatore vicino
a Kashkar – fatto che permette di collocare la figura di Simone nel VI-VII sec.; Rabban Shabur, qui
menzionato, fondò un monastero nell'Elam nel VII sec., celebre per aver ospitato Dadisho‘ Qatraya
e Isacco di Ninive dopo l'abbandono dell'episcopato. L'Elam era anche sede, a Gondisapur, di una
35
Del catholicos Henanisho’ (685/686-699/700).
36
Gregorii Barhebraei, Chronicon ecclesiasticum, III, II, 139.
37
J.S. Assemanus, Bibliotheca Orientalis Clementino-Vaticana, III/1, 181.
38
Nello stesso codice ci sono altre opere di Simone, di difficile identificazione. Perduti gli scritti medici, perduta la vita
di Mar Gani.
39
Per la precisione, «sua grazia».
40
Un trattato in Vat. Syr. 562, attribuito dal manoscritto ad Isacco di Ninive. Cf P. BETTIOLO, «Povertà e conoscenza.
Appunti sulle Centurie gnostiche della tradizione evagriana in Siria», PdO 15 (1988-1989) 107-125.115-118.

12
celebre scuola medica, oltre che teologica, almeno nel VI sec.41 – fatto che ben si accorda con la
menzione di Simone come «medico».
Prendiamo alcuni passaggi del Discorso sulla cella, particolarmente pertinenti al nostro
argomento:

I santi Padri ci hanno tramandato la preatica dei tre altari che racchiudono il mistero del
venerdì, del sabato e della domenica. Due sono composti e uno è solitario e semplice; i
composti sono alfabeto e accessi al semplice. Il primo [è] la conoscenza delle azioni, da cui
tramandano proceda la pratica dei comandamenti, affinché tramite la pratica dei
comandamenti purifichaimo la parte passibile dell'anima dalle passioni e la volgiamo
dall'innaturalità alla naturalità e la rendiamo ricettiva della Verità. Il secondo [è] la
conoscenza della contemplazione, che i Padri chiamano condotta del pensiero. È questa la
chiave dei misteri di Dio celate nelle nature degli [esseri] divenuti e operanti in questo tutto,
intelligibile e sensibile. Da lei è illuminata la parte intellettuale dell'anima e gli occhi della
mente sono aperti all'insegnamento dei Libri; da lei, quando meditiamo le intellezioni dello
Spirito, ci sono manifesti i misteri nascosti; lei conferma la fede nella speranza delle
promesse. Il terzo [è] la conoscenza della speranza, affinché attraverso l'assolutezza della
conoscenza della speranza siamo avvicinati all'altare vivo – che è il Cristo, nostra speranza
e nostro Dio – e, come Gesù, [uno] di tra noi, è stato unito a Dio Verbo, immutabilmente e
per sempre, [così] la mente sia unita al Cristo, senza mediazione e per sempre. Su questo
altare essa dice: Santo (Is 6,3) ed esalta e benedice in ogni tempo; in esso vive e si muove e
mangia e dorme e fa tutto, immutabilmente.

In questo brano, Simone utilizza un elemento liturgico (l'altare)42 per darne una
interpretazione spirituale, applicandolo ai tre gradi della vita spirituale: quello della pratica dei
comandamenti; quello della meditazione; quello della conoscenza della speranza43. Di fatto, i tre
altari sono tre tipi di conoscenza, tra i quali l'ultimo configura quella condizione che, in un altro
passaggio, Simone circoscrive come preghiera:

Termine di ogni perfezione per gli esseri soggetti a inclinazione è che l'uomo divenga ebbro
nella consuetudine con Dio e il suo intelletto sia preso prigioniero, [via] dal mondo, così che
non conosca [più] se stesso. Il suo intelletto, infatti, è stato divorato dalle [realtà] intelligibili,
conosciute solo dalla percezione della mente. […] Consuetudine con Dio sono la confessione
e il rendimento di grazie avvicinati a Dio in fede semplice, priva di dubbi, nel nascondimento
della mente; lo stupore per la profonda manifestazione dei misteri, [insieme] nascosti e
manifesti in questo tutto o scritti nei Libri e nelle promesse dello Spirito, passati o futuri;
l'alta contemplazione dell'arcano di Dio, della sua sollecitudine per il tutto e della sua
operazione in esso; le profonde intellezioni dei vari elementi e temperamenti e potenze e
nature e generi e specie distinte presenti nella creazione; l'ammirazione delle varie proprietà
naturali dei colori, delle figure, dei modi e degli abiti che ogni natura ha ricevuto dal Creatore
nel getto in cui fu plasmata […]. Questa consuetudine [con Dio, caratteristica] della
preghiera nascosta del pensiero, inizia quando [gli uomini] siano stati vessati e sfatti
dall'ascesi e, per l'operazione dello Spirito, abbiano gustato i misteri dell'impassibilità, ed è
assai più elevata dell'alta contemplazione della mente [propria] di coloro che sono stati
istruiti e illuminati dall'insegnamento dei santi Libri e sono divenuti, per la sottigliezza del
loro intelletto, veggenti dei misteri della conoscenza, mentre nella loro anima sussistevano
[ancora] delle passioni. Non possono percepire il mistero nuovo o gustare la divina dolcezza,

41
Notizia nella Vita di Rabban Hormizd.
42
Anche i tre giorni sono un chiaro riferimento liturgico al Triduo.
43
Una tripartizione testimoniata in Giovanni il Solitario e altri autori siriaci. L'interpretazione spirituale dell'altare è
propria anche dei Padri greci.

13
al momento della preghiera, se non coloro che si sono purificati dalle passioni e sono stati
resi degni di entrambe le grandi condotte, [quella esteriore e quella interiore], al modo dei
primi Padri, colonne della Chiesa, che si sono sfatti nei lavori e nelle preghiere e hanno reso
se stessi vittime sacrificali per la confessione della Verità.

In questo brano, Simone definisce la preghiera una consuetudine con Dio, della quale bisogna
diventare ebbri. Tale consuetudine cresce con la fatica dell'ascesi, nella quale sono comprese le opere
esteriori della preghiera e si compie, grazie all'opera dello Spirito, nella meditazione delle opere
intelligibili di Dio. Il passaggio da esteriore ad interiore connota, ancora una volta, il rapporto del
solitario con la preghiera «liturgica».

L'ultimo autore che consideriamo è Isacco di Ninive.


In seguito alla fioritura di studi e di traduzioni, Isacco di Ninive appare, in qualche modo,
come una delle figure più rappresentative della spiritualità siriaca e, in un certo senso, come uno dei
suoi frutti più compiuti. A dispetto di questa importanza, le notizie che disponiamo di lui sono
piuttosto scarse44: una notizia nel Liber Castitatis di Isho‘denah di Basra (860-870); un'altra in
un'opera anonima di data e collocazione geografica incerta; una brevissima notizia di ’Abdisho‘ di
Nisibi; alcuni rari cenni autobiografici45.
Da questi dati, gli studiosi ricavano queste informazioni. Isacco nacque nella regione del Bet
Qatraye, sulle rive del Golfo Persico. Qui è probabile che abbia trascorso un periodo come monaco
(dayraya) e forse maestro (malfana); in tale periodo, avrebbe anche sperimentato la vita solitaria46.
Tra il 660 e il 680, il catholicos Giorgio visita le regioni meridionali della chiesa di Persia per risolvere
alcuni dissidi interni. Probabilmente nel 676 Giorgio conosce Isacco e non molto tempo dopo decide
di consacrarlo Vescovo a Bet Abe, affidandogli la chiesa di Ninive. Questa consacrazione, tra il 676
e il 680, è l'unico elemento certo della vita di Isacco. Dopo cinque mesi, per circostanze non del tutto
chiare, Isacco abbandona l'episcopato e torna tra i solitari nella montagna di Matut, nella regione del
Bet Huzaye e, da qui, con gli anacoreti della regione, raggiunge il monastero di Rabban Shabur.
Divenuto cieco a causa del continuo studio delle Scritture e dell'ascesi, Isacco morì in età avanzata e
fu sepolto a Rabban Shabur. Conosciuto per la sua mitezza, dolcezze e umiltà, Isacco fu
soprannominato «secondo Didimo».
L'opera letteraria di Isacco è molto complessa e ha avuto una ricezione altrettanto articolata47.
L'autore ha composto, in qualche modo, per lo più discorsi che, per la loro autonomia letteraria, sono
stati variamente raccolti e organizzati nel corso della tradizione48. Le fonti antiche discordano sul
numero di libri e tomi scritti da Isacco. Isho‘denah parla genericamente di libri (ktabe) sulle condotte
dei solitari, mentre la cronaca anonima precisa che Isacco compose cinque tomi (penqyata) conosciuti
fino ad oggi. ’Abdisho‘ di Nisibi, nel suo Catalogo, attribuisce a Isacco sette tomi (penqyata) e da
questo autore apprendiamo l'esistenza di un'opera intitolata Soluzione delle questioni sul quinto tomo
(penqita) delle opere di Isacco di Ninive scritta da Daniele Bar Tubanita. Allo stato attuale, in siriaco
possediamo tre collezioni di discorsi, due frammenti di una quinta collezione, alcune preghiere e altri
scritti di dubbia paternità.
Nel vasto corpus degli scritti isacchiani, scegliamo alcuni passaggi che illustrano la relazione
tra preghiera esteriore ed interiore e che confermano, in qualche modo, l'interpretazione ascetico-
spirituale della liturgia già visto in Giovanni il Solitario. Circa gli aspetti esteriori della preghiera,
particolarmente significativo è il Discorso 14 della seconda collezione, diretto contro i messaliani e,
44
Cf S. CHIALÀ, Dall'ascesi eremitica alla misericordia infinita. Ricerche su Isacco di Ninive e la sua fortuna (Firenze
2002).
45
Ad es. Discorsi 18 e 35 della prima collezione.
46
Parente di Gabriele Qatraya, forse uno dei maestri della scuola di Mohoze (Seleucia-Ctesifonte) che annoverò tra i suoi
discepoli anche il catholicos Henanisho‘ I.
47
Poche scritte direttamente, per lo più dettate.
48
L'opera di Isacco ha ricevuto un numero piuttosto ampio di traduzioni che, per certi versi, ne hanno complicato la
tradizione testuale.

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quindi, contro lo «spiritualismo esasperato» di questi ultimi. Altri accenni si trovano anche in altre
parti del corpus isacchiano.
Ecco un elenco delle opere esteriori della preghiera secondo Isacco:

C'è chi passa la giornata intera a pregare e a leggere la Scrittura, dedicandone solo una
piccola parte alla recitazione del Salterio e così accresce in sé nel migliore dei modi il
continuo raccoglimento in Dio. C'è poi che si occupa tutta la giornata dei salmi, senza
nemmeno rendersi conto di pregare. Altri ancora si limitano a ripetere giorno e notte molte
genuflessioni, recitando nel contempo le diverse parti delle ore e dell'ufficio […]. Di tanto in
tanto si alzano, con il cuore rasserenato e si volgono per un attimo alla meditazione della
Scrittura. Un altro riempirà la giornata intera con la lettura delle Scritture, allo scopo di
dimenticare questo mondo che passa e chiudere la mente a ogni pensiero riguardante le
questioni temporali e a ogni dialogo con le passioni, trovando la sua gioia nelle intuizioni
riguardo ai misteri divini, meravigliandosi a ogni istante davanti all'economia divina,
dedicherà poco tempo alla recitazione in piedi della preghiera e della salmodia: il tempo
consacrato alla lettura sarà più importante di quello consacrato alla preghiera49.

Le opere esteriori della preghiera sono, quindi, la preghiera che oggi definiremmo
«personale», la lettura della Scrittura, la salmodia, la genuflessione e, a quanto pare, la meditazione.
All'interno di tali azioni, un peso speciale è dato alla salmodia:

Dove sono quelli che sostengono che i salmi non sono necessari all'ufficio? Dico la verità
come se parlassi davanti a Dio: conosco un uomo che è diventato degno di tutto ciò nella sua
personale esperienza; tutti questi beni li ha ricevuti a partire dalla celebrazione dei salmi,
attraverso la misericordia della grazia di Cristo e non solo una volta o due […] beni che
consistono in grandi rivelazioni e misteri ineffabili, nella sensazione meravigliosa delle cose
del mondo a venire e nelle delizie di una conoscenza che trascende la natura50.

Il già menzionato Discorso 14 della seconda collezione menziona, grosso modo, gli stessi
elementi, enfatizzandone la necessità per il monaco e, quindi, per la vita cristiana in genere. Le
affermazioni hanno un aperto carattere polemico, come detto, di fronte agli eccessi dei messaliani,
che svalutavano nettamente ogni forma esteriore di culto o di preghiera.
A questi testi se ne accompagnano altri, giustamente celebri51, in cui Isacco parla del mistero
della preghiera pura, in termini simili ma più elaborati e vividi di Giovanni il Solitario. Tale preghiera
è strettamente legata alla meditazione su Dio (herga db-alaha), come illustra questo passo:

Quando siedi tra due uffici per applicare l'intelletto alla meditazione su Dio, aggiungi queste
riflessioni: considera che sei venuto all'esistenza dalla totale non-esistenza; considera chi era
colui che ti ha modellato affinché tu, una volta uscito dal tuo nulla, potessi esistere nello stato
presente e come tu – per usare le parole della Scrittura –, benché inizialmente creato nella
bellezza, abbia preso di tua volontà una cattiva strada, mangiando dell'albero proibito e
continui a mangiarne ogni giorno; ti sei rivolto al male a cuasa di ciò che l'Onnipotente ti
aveva promesso, benché il suo intento non mirasse a tale esito. E ancora, rifletti su ciò che
sei volontariamente diventato e nella tua condizione attuale, senza aspettarti nulla, ma senza
neppure ignorare la speranza alla quale sei stato improvvisamente chiamato per la
compassione sovrabbondante di colui che, cercandoti nel nome di Gesù Cristo nostro
Signore, ti riconduce alla relazione luminosa che avevi originariamente con Dio. […] Metti

49
Discorso 30,4-7, della Seconda collezione.
50
Centurie di conoscenza II, 60.
51
Insieme a quelli sulla misericordia e sulla intercessione – aspetti del pensiero isacchiano sottolineati e criticati dai suoi
detrattori.

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poi a confronto quello che c'è ora con quello che vi sarà dopo e il balzo della nostra condotta
presente a quella della vita futura, quando dalle semplici ipotesi passeremo a una conoscenza
e a una visione piena di certezza52.

La meditazione sull'intera economia della salvezza, che accompagna la preghiera dell'ufficio


e sulla vita ascetica conduce, secondo Isacco, all'illuminazione:

Ciascuno troverà l'illuminazione nella meditazione in cui si inoltra e nelle idee che la sua
mente assiduamente indaga: vi troverà la sapienza e tanto si concentrerà su di esse che potrà
vagliare le azioni della giustizia riflettendo su questo ministero […] e meditando sull'esercizio
delle virtù, su come può piacere a Dio con la purezza del corpo, con lo sforzo della preghiera,
con il digiuno che rende il corpo diafano, con la recitazione dei salmi e la lotta contro tutto
ciò che la intralcia […] e riflettendo poi sui diversi ordini in cui si dispongono le virtù e su
quelle fra di esse che gli procurano luce e progresso – e in queste ultime dovrà dunque più
particolarmente perseverare – e infine su tutto ciò che a ogni singola virtù si oppone […]
allora sì che riuscirà ad approfondire enormemente la propria conoscenza53.

Le opere esteriori della preghiera e la meditazione dell'economia della salvezza è, quindi, la


premessa necessaria. Il Discorso 15 della seconda collezione sviluppa, in modo particolare, questo
tema. Ecco come Isacco descrive, in celebri passaggi, la preghiera pura:

La preghiera pura, o discepolo della verità e il raccoglimento della mente nel quale essa
consiste, è una riflessione esatta sulla virtù nella quale noi ci impegnamo diligentemente
nell'atto della preghiera. Proprio come la purezza del cuore, tanto raccomandata dai Padri,
non consiste nell'essere totalmente privi di pensieri, riflessioni o impulsi, ma piuttosto in un
cuore purificato da ogni male, che guarda a tutte le cose con benevolenza e le considera dal
punto di vista di Dio, così avviene alla preghiera pura e priva di distrazioni54.

Tale preghiera pura si realizza in molti livelli:

La preghiera pure consiste nel fatto che il pensiero non sguazza negli impulsi risvegliati in
noi dai demoni o dalla natura o dai ricordi, oppure dai moti del nostro carattere. Anche nella
preghiera pura ci sono varie misure, secondo i gradi del pensiero di coloro che la offrono.
Più un pensiero si innalza al di sopra dell'amore per le realtà di questa terra, più esso è
risparmiato dalle immagini che, ad opera delle distrazioni, si affacciano al momento della
preghiera. Quando è completamente elevato al di sopra dell'amore per le cose di quaggiù, il
pensiero non dimora più presso la preghiera ma si libra in alto al di là della preghiera pura,
perché l'alba della grazia sorge di continuo nella sua preghiera, ed esso è di quando in
quando attirato fuori di sé da qualche azione santa. L'amore per le realtà temporali e la
riflessione su di esse decrescono in proporzione e i pensieri scemano con il ridursi della
riflesiione e quanto più scemano tanto più l'anima si purifica; nella misura in cui l'anima si
purifica, l'azione [dello Spirito] viene offerta al pensiero al momento della preghiera55.

Questa preghiera è il fine ultimo, il coronamento del percorso della preghiera:

Come la forza delle leggi e dei comandamenti dati da Dio trovano il loro fine nella purezza
del cuore, secondo la parola dei Padri, così anche tutti i modi e le forme della preghiera di

52
Centure di conoscenza II, 84.
53
II, 10,4-6.
54
II, 15,2.
55
Centurie di conoscenza III, 42-45.

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cui ci si serve per pregare Dio trovano in essa il loro fine. I gemiti, le prostrazioni, le suppliche
che partono dal più profondo del cuore, le dolci grida di lamento e tutte le altre forme di
preghiera hanno infatti il loro limite, come ho già detto, nella preghiera pura e si estendono
fino ad essa. Una volta che la mente supera questo limite […] non possiede più né preghiera,
né moti, né pianti, né dominio di sé, né libero arbitrio, né supplica, né desiderio, né
aspirazione fervente verso le realtà sperate in questa vita o nella vita futura. Ecco perché al
di là della preghiera pura non c'è più preghiera56.

L'affermazione paradossale che il culmine della preghiera sia la «non preghiera» è, forse, uno
dei vertici e dei punti anche più controversi dell'opera di Isacco e, in generale, della spiritualità siriaca.

56
I, 23.

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