L’ORDINE DI BABELE di S.
Belardinelli
CAPITOLO 1 - Persona, cultura, culture: la Babele delle lingue come risorsa
Tutto ciò che gli uomini fanno (mangiare, bere, parlare, lavorare ecc..) ha più o meno esplicitamente una
dimensione culturale o simbolica. Questo è per via della trascendenza dell’uomo, la sua strutturale
“eccentricità” ovvero la sua irriducibilità alle condizioni biologiche e socioculturali della sua esistenza. A
differenza degli altri animali che sono “centrati” in sé stessi e nel loro campo d’azione, senza saperlo, l’uomo
conosce il proprio centro, sa di essere il centro, ed è perciò proiettato al di là di esso, ovvero è capace di
guardarsi, di immedesimarsi e allo stesso tempo di prendere le distanze da tutto ciò che lo circonda,
pertanto l’eccentricità è la sua forma caratteristica. Trascende quando scopre l’alterità degli altri e del mondo
in cui vive. Infine, la trascendenza che lo costituisce lo mantiene aperto, così come mantiene aperta ogni
cultura umana, e ne è la prova il linguaggio. Essere persona coincide con il vivere come distinto e come unico
essendo fra uguali: con i nostri corpi, con le nostre azioni e i nostri discorsi noi ci distinguiamo, anziché
essere meramente distinti, e tuttavia eccediamo costantemente anche ciò che di noi stessi diamo a vedere; il
rapporto che abbiamo con noi stessi non è mai totalmente trasparente; l’estraneo, prima ancora di essere
fuori, è dentro di noi. In tutto ciò che diciamo e pensiamo c’è qualcosa che ci sfugge, che è nostro ma anche
altro. Lo stesso rapporto che abbiamo con noi stessi è ambivalente; da un lato sentiamo di essere il nostro
corpo e dall’altro sentiamo di avere un corpo. Il nostro “io” dipende dalla “natura”, ossia
dall’equipaggiamento genetico col quale siamo venuti al mondo ma anche da fattori come la famiglia,
l’educazione, le persone che abbiamo incontrato e la città dove siamo nati e cresciuti; e, solo
successivamente, intervengono la nostra intelligenza e la nostra volontà. Questo elemento di “scelta
deliberata” in ordine al nostro apparire nel mondo non vuol dire che la realtà della nostra persona sia
qualcosa che si trova totalmente sotto il nostro controllo. Lo spazio della presenza, dove agiscono le persone,
è infatti uno spazio imprevedibile.
Natura come limite alla libertà e cultura
In quanto essere vivente, l’uomo non è come gli altri animali: egli riflette, parla e ha coscienza di ciò che fa,
ha la capacità di dire “io”, di essere qualcuno e non qualcosa. L’uomo si configura come un mix di natura e
cultura. La natura dell’uomo consiste in ultimo nella sua gratuita libertà. Quanto al senso complessivo del
mondo, oggi non si parla più di ordine bensì di caos. Sembra che proprio le sfide implicite nello sviluppo
tecnologico stiano rimettendo in circolazione discorsi sull’uomo meno culturalisti; discorsi che ripropongono
il tema di una natura, la quale, per il fatto di esprimersi in termini di libertà (quindi di cultura) non per questo
cessa di essere “natura”, quindi “limite” ma anche “fine”, il cui rispetto soltanto può consentire all’uomo di
essere ciò che egli è “per natura”. La moderna scienza poggia su una contrapposizione dualistica: quella tra
uomo e natura, tra res cogitans e res extensa. Questo ha indubbiamente facilitato il dominio tecnico sulla
natura; ma proprio il rischio che lo sviluppo scientifico- tecnologico diventi una sorta di fine in sé stesso e la
conseguente “crisi ecologica” ci obbligano ormai a rivedere le nostre posizioni. La nostra cultura non può
continuare a considerare la natura come puro oggetto di dominio senza che questo dominio si rivolga contro
la stessa cultura, distruggendo entrambe. Non è un caso infatti che oggi si parli di “salvaguardia
dell’Ecosistema”. L’ecosistema è qualcosa che riconduce l’uomo a un ambiente (naturale e culturale) che non
dipende da lui, sul quale egli influisce, ma ne è anche influenzato, rappresentando quindi il condizionamento
della sua vita e della sua libertà. Emerge così nell’opera di Hans Jonas un’idea di natura intesa come “limite”
della nostra libertà; un limite che ha in sé una dignità che va rispettata: ovvero è anche “natura in sé”, cioè
qualcosa che non si esaurisce nell’essere a nostra disposizione. Dobbiamo dunque riprendere
consapevolezza del posto che l’uomo occupa nel cosmo. La crisi della metafisica e della filosofia tradizionale
ha lasciato un vuoto incolmabile nella cultura contemporanea. Venuti meno certi vincoli “naturali”, abbiamo
pensato che i discorsi sui valori,
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sulla morale o sull’etica potessero essere condotti guardando esclusivamente all’autonomia e alla libertà
degli individui. Nel frattempo, si è andata sviluppando una concezione opposta, tendente a ridurre tutto
l’umano a formule biologiche. Non c’è più alcun limite; e nel frattempo continuiamo ad accrescere a tutti i
livelli un potere tecnologico. Separate l’una dall’altra, natura e ragione perdono il loro carattere normativo
e rischiano di diventare semplicemente l’ambiente di sistemi sociali (la tecnica o il mercato) che operano
indiscriminatamente, senza limiti, alle spalle e sulla testa degli uomini. Proprio a causa di questa
separazione non riusciamo più a distinguere tra la natura dell’uomo, quella di un animale e quella di una
pianta, quindi a conferire a ogni forma di natura il suo grado di dignità e in che modo questi partecipano alla
natura. È per colpa di questa astratta separazione che non riusciamo a rendere conto dell’universalità della
cultura e, contemporaneamente, della pluralità delle culture.
Pluralismo culturale e culture che entrano in contatto
In ogni cultura vi sono sempre due dimensioni connesse: una particolaristica e una universalistica. Ogni
volta che parliamo della cultura di un popolo alludiamo ad una specificità. Tuttavia, non si tratta mai di una
totalità chiusa, altrimenti dovremmo intendere la pluralità delle culture come una pluralità di mondi del
tutto incapaci di relazionarsi tra loro e quindi incapaci di dialogare reciprocamente e di comprendersi a
vicenda. In ogni cultura è l’uomo che si esprime, quindi c’è un tratto comune, universalistico, rappresentato
dalla trascendenza dell’uomo. In altre parole, le diversità intra-culturali e interculturali vanno comprese alla
luce di questo specifico tratto, il quale ci consente di cogliere il significato sia dell’identità che della diversità
delle culture umane. Ciò significa che ogni uomo è, sì plasmato dalla cultura in cui nasce e vive, ma i
pensieri, le parole e le azioni degli uomini non sono mai il semplice riflesso della realtà socioculturale nella
quale essi si inseriscono. Per quanto il mondo in cui viviamo ci rende culturalmente condizionati, la relazione
che instauriamo con esso è, sempre più o meno creativa, proprio perché trascendiamo costantemente noi
stessi e quindi anche le condizioni socioculturali della nostra esistenza. L’uomo è dunque il vero
fondamento della pluralità delle culture, la dignità dell’uomo il vero metro di misura di ogni cultura. Alcuni
elementi di conflitto sono sempre possibili quando due culture entrano in contatto . La globalizzazione
costringe le culture del mondo a guardarsi da vicino ponendo seriamente il problema dell’identità e del
conflitto tra culture. Il mondo occidentale sembra reagire con chiusure identitarie altrettanto
irresponsabili di fronte alle nuove sfide. Se però è vero che la società globale, con la sua differenziazione,
costringe non solo le culture, ma gli individui a essere aperti alle ragioni dell’altro, allora il primo obbligo
che abbiamo nei confronti di noi stessi e degli altri è quello di abbandonare le secche del relativismo nel
quale ci siamo impantanati. L’odierna globalizzazione sta mostrando una cultura, che, col suo relativismo,
procede spesso in modo vandalico nei confronti delle altre. Oggi assistiamo a una cultura che sembra
diventare mondo a vantaggio di imperativi funzionali del mercato, della scienza e della tecnica. Si tratta di
una forma di violenza che elude la tematica dell’identità e del confronto tra identità diverse, ponendo tutto
ciò che è altro di fronte all’alternativa secca: adattarsi o scomparire; e che offre in questo modo terreno
fertile per le svariate reazioni integraliste, terrorismo incluso. La forza di una cultura sta invece nella
capacità di relazionarsi continuamente con ciò che è “altro”, senza perdere la consapevolezza della propria
identità, della propria storia e della propria tradizione. Del resto, è nell’incontro con l’altro che noi possiamo
non soltanto scoprire i nostri limiti, ma anche i tesori che si nascondono nella nostra cultura. È, infine, per
questo che l’altro diventa, non un ostacolo, bensì una risorsa, un’opportunità, un impulso ad andare più a
fondo in noi stessi e quindi ad arricchirci.
Lingua e cultura
La lingua rappresenta da sempre il tratto identificativo più immediato di ogni cultura. Inoltre, non c’è
dubbio che la lingua rappresenti il luogo privilegiato della formazione del carattere di un popolo. Per certi
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versi è la nazione che crea la lingua, ma poi è la lingua che conferisce alla nazione carattere e identità,
rendendola riconoscibile nella sua ricchezza. La pluralità, o diversità delle lingue, che non coincide e non va
confusa con la diversità tra le nazioni, è per Humboldt la forma attraverso la quale si esprime l’universalità
dello spirito umano. Il linguaggio, a suo avviso costruisce ponti tra un’individualità e l’altra, mediando la
comprensione reciproca, ma la differenza viene piuttosto accentuata poiché il linguaggio, precisando e
levigando i concetti, fa affiorare più chiaramente la coscienza. Pertanto, la diversità delle lingue è analoga
alla diversità che si riscontra tra individui, quindi, sarà solo nell’esperienza della diversità e dell’alterità che
l’individuo e le diverse lingue diventano sempre più consapevoli di sé stessi. Diverso è invece
l’atteggiamento di Fichte per il quale tutto lo sviluppo di un popolo dipende dalla natura della lingua da
esso parlata; la lingua assiste ogni uomo nel suo pensare e nel suo volere, lo accompagna nelle profondità
del suo spirito, lo limita o gli dà ali. La lingua unisce tutti gli uomini che la parlano e ne fa un solo e comune
intelletto: la lingua è il punto di contatto tra il mondo dei sensi e il mondo dello spirito. La lingua come
specchio della nazione. Fatta salva l’importanza del discorso di Humboldt sulla diversità delle lingue come
valore da promuovere, non bisogna trascurare come questa apertura debba sempre fare i conti con una
sorta di coazione di ogni lingua e ogni cultura a rimanere sé stesse: ogni cultura resiste alla traduzione. La
finalità stessa della traduzione si scontra con la struttura etnocentrica di ogni cultura, o con quella specie
di narcisismo in base al quale ogni società vorrebbe essere un tutto puro e non mescolato. Ma ciò non
toglie che la traduzione sia possibile, che cioè tutte le lingue possano arricchirsi, grazie al nuovo e
all’imprevisto che ogni volta scaturisce dal concreto incontro con l’altro.
CAPITOLO 2 – La traduzione linguistica come modello di dialogo interculturale
Tradurre è anche un po’ tradire. Soltanto in rari casi le parole sono un tutt’uno con le cose, il più delle volte
mutano di significato a seconda di chi le usa, del contesto e del tempo in cui vengono usate. Curiosamente,
la traduzione è, non soltanto possibile tra lingue diverse, ma in qualche modo addirittura necessaria anche
tra persone che parlano la stessa lingua. Il linguaggio umano non è semplicemente uno strumento
convenzionale per esprimere significati mentali ai quali si ha accesso soltanto in prima persona, è piuttosto
la sola articolazione possibile di quegli stessi significati, i quali, per loro natura, possono essere compresi o
meno, ma non perché vediamo o non vediamo ciò che c’è dietro. La stessa traduzione è un tentativo di
rendere al meglio significati manifesti , non di tradurre, di trasportare da una lingua a un’altra suoni e segni.
Il linguaggio esclude sia l’assoluta trasparenza che l’assoluta incomunicabilità. Nel primo caso, infatti,
sarebbe inutile qualsiasi discussione mentre, nel secondo caso, la cancellerebbe come tale. Il linguaggio si
mette in moto soltanto quando c’è qualcosa da comunicare e qualcosa da comprendere. Quando i significati
sono evidenti, la comprensione è immediata e la comunicazione scorre senza problemi; quando non lo sono,
la comunicazione s’inceppa e, se vogliamo cercare di comprendere, dobbiamo sforzarci di tradurre. In questi
casi, occorre provare a mettersi nei panni dell’altro, tradurre, anche se si tratta della nostra stessa lingua.
D’altra parte, le lingue sono realtà viventi che si sviluppano in modi diversi nei diversi individui che le
parlano, esse acquisiscono spessore (ma anche opacità) a seconda di quanto vengono coltivate e
contaminate. Per questo, le nostre parole possono assumere significati difficili da comprendere, diventare
cassa di risonanza di sentimenti, emozioni, storie, acquistare una forza imprevedibile.
Linguaggio privato e linguaggio pubblico: un sistema di regole
Coloro per cui il linguaggio è qualcosa di “privato”, trovano i loro migliori punti d’appoggio in Wittgenstein.
Egli sostiene che il linguaggio funziona come un sistema di regole e, per questo, fa valere l’oggettività, una
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sorta di dimensione pubblica delle regole che sovrintendono ai molteplici giochi linguistici. Queste
ovviamente possono essere fraintese o contravvenute, ma il fatto stesso che avanziamo interpretazioni
diverse sta a significare che esiste un modo di concepire una regola che non è un’interpretazione, ma che
si manifesta per ogni singolo caso d’applicazione. La stessa possibilità di commettere errori contraddice la
garanzia che i significati possano esistere soltanto nella nostra coscienza. In altre parole, la prassi linguistica
è sempre correlata a una regola che ne garantisce l’intersoggettività e quindi il controllo pubblico. Ma
questo non significa che il linguaggio rappresenti per chi lo parla una sorta di gabbia, i cui significati sono già
predeterminati, infatti, nessun linguaggio è completo, ed è proprio per questa sua incompletezza che il
linguaggio, oltre a essere una pratica pubblica, è anche una pratica originale e unica. La pubblicità del
linguaggio dunque non esclude l’unicità di certe proposizioni e, sebbene questa unicità dipenda
dall’insostituibilità di certe parole per dire quel significato, è pur vero che essa costituisce un problema per
la traduzione. Ci dà la sproporzione tra le parole e la propria capacità di comprenderle e tradurle,
perché le idee sono inseparabili dalle parole. Un po’ come sono state scritte, dunque, le parole potranno
essere anche comprese. Il linguaggio pubblico si espande e si affina proprio grazie all’unicità di certi usi
delle sue parole. È in questa sorta di dialettica pubblico/privato che il linguaggio si arricchisce di spessore
semantico. Tutti ormai usiamo le parole di tutti e tutti possono parlare di qualsiasi cosa anche a
n o m e nostro. Il linguaggio pubblico si libera in questo modo di quello privato e allo stesso tempo
muore.
La crisi della cultura europea
Emblematica è la questione degli immigrati. Dietro le interminabili discussioni sui costi economici, sociali e
politici della loro accoglienza, sta emergendo soprattutto la crisi dell’uomo europeo (anche di quello
occidentale) e della capacità inclusiva dell’Europa. Vediamo il diffondersi in molti paesi una pericolosa
xenofobia. L’altro, il diverso, lo straniero ci incutono paura. Per certi versi è incredibile come la cultura
europea, avvezza come poche altre al confronto continuo con la diversità e che proprio su questa base ama
definirsi “aperta”, “liberale” e “pluralista”, faccia oggi così tanta fatica ad essere fedele a sé stessa. Sta di
fatto che l’Europa ha smarrito sé stessa, e quindi anche il pluralismo che la contraddistingue.
Traduzione linguistica e dialogo interculturale
Cultura e lingua esprimono entrambe una natura umana caratterizzata da trascendenza e unicità. In quanto
animali linguistici, siamo sempre proiettati oltre noi stessi ; ogni lingua è infat t i un tentativo di
concettualizzare l’infinita ricchezza del mondo. Di qui la pluralità delle lingue, dove in ognuna di queste è
insita una peculiare visione del mondo, come consapevolezza di un’istanza di universalità (umana). A
questo livello emerge un dato fondamentale: ogni forma culturale porta con sé il principio della sua
comunicazione universale, ed è in virtù di questo principio che, pur con tutte le differenze ed
incomprensioni, nessuna differenza tra la propria lingua e quella altrui (anche di chi parla la stessa lingua)
potrà mai considerarsi incolmabile. Piuttosto vale il contrario. In virtù della trascendenza che, al pari degli
individui, contraddistingue le culture, la determinatezza storica di ogni cultura rappresenta la condizione che
ci apre all’alterità, consentendoci così di arricchirci. La trascendenza della persona spinge continuamente a
colmare lo scarto che essa stessa genera sia tra culture e lingue diverse, sia tra persone appartenenti alla
stessa cultura. Ed è per questo che gli uomini sono chiamati a una continua opera di traduzione. Parlare è
tradurre, perché la comprensione può diventare difficile; bisogna fare i conti con zone di intraducibilità; è
necessario insomma prendere un po’ le distanze da essi, senza “sacralizzare” mai la propria lingua,
altrimenti ogni traduzione diventa un tradimento. Ciò significa che proprio di fronte al relativismo e al
fanatismo che sembrano fronteggiarsi nel mondo odierno c’è bisogno che l’Europa e l’intero Occidente
riscoprano la loro identità, che è sì aperta, ma non relativista, permeabile verso l’esterno, inclusiva nei
confronti dell’altro, ma anche capace di affrontare ciò che la minaccia dall’interno e
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dall’esterno. La forza della nostra cultura sta in un ideale antropologico universale, grazie al quale
l’universalità dell’umano si concilia con la particolarità dei modi di attuarla, sia sul piano della vita
individuale, sia sul piano della vita collettiva (cit. Habermas) o all’“universalismo interattivo” (cit. Benhabib),
che ci consentono di relazionarci continuamente con ciò che è altro, senza perdere la consapevolezza di
ciò che siamo, di tenderci il più possibile verso l’altro, senza spezzare i legami che abbiamo con noi stessi e
con la nostra storia. La diversità e la presenza di conflitti non impediscono che la traduzione sia possibile,
che cioè tutte le lingue possano arricchirsi, grazie al nuovo che ogni volta scaturisce dal concreto incontro
con l’altro. Affinché questo accada è indispensabile la disposizione a farsi contaminare dalla lingua altrui,
nella certezza che questo arrecherà vantaggi soprattutto alla propria. Il dialogo interculturale riprende un
mondo dove gli uomini riusciranno tanto più a convivere in pace, quanto più saranno consapevoli
dell’umanità che si esprime nella propria cultura e in ogni cultura, e ne sapranno essere testimoni. È su
questa capacità di rendere testimonianza alla dignità dell’uomo che si misura oggi la vera identità, la vera
apertura, la vera universalità.
CAPITOLO 3 - Verità, libertà e democrazia
Per troppo tempo la verità è stata ostaggio di una sorta di ipoteca totalizzante, in virtù della quale dalle
verità più banali (tipo la neve è bianca) si arrivava a proclamare con la stessa sicurezza anche la verità
delle norme morali e politiche o addirittura la verità dell’intero universo. Dalla morale alla politica, tutto
doveva sottostare alla verità, la quale, se necessario, veniva imposta anche con la forza nella convinzione
che questo servisse al bene degli interessati. Di conseguenza, oggi è come se scontassimo questo
dispotismo. La verità ci incute timore, la percepiamo come un pericolo per la nostra libertà. Ben lungi dal
rappresentare una gabbia per l’autonomia, proprio la verità può essere d’aiuto per dare il giusto senso alle
nostre scelte e alla stessa dialettica democratica. La mancanza di fiducia nella verità è la causa prima di gran
parte dei problemi che gravano sulla nostra cultura e sulle nostre istituzioni. Senza di essa, infatti, non
possono esserci criteri oggettivi di ricerca, non possono esserci critiche. Tendiamo ad esempio a fondare il
pluralismo e la tolleranza sulla convinzione che non esista alcuna verità, in una sorta di relativismo. Kant
direbbe il contrario: ci direbbe che bisogna essere tolleranti, non perché la verità non esiste, quanto
piuttosto perché nessuno di noi sbaglia mai totalmente in ciò che dice.
Una cattiva autocomprensione della democrazia
Per il fatto di vivere in un contesto socioculturale contrassegnato dalla presenza di diverse opinioni in
ordine a ciò che è vero e giusto, ci siamo erroneamente convinti che un’opinione valga l’altra , siamo
diventati relativisti . Ovviamente l’oggetto dei nostri discorsi è spesso così intricato da rendere possibili
soltanto verità parziali, addirittura tra di loro incompatibili. Ma questo nulla toglie alla verità. Anzi, è la
coscienza della parzialità dei nostri discorsi a richiedere disponibilità al dialogo, alla comprensione reciproca,
alla tolleranza, nella speranza che questa disponibilità ci avvicini di più alla verità . Non saremmo in una
democrazia se la cogenza delle leggi venisse dedotta meccanicamente dalla validità degli argomenti in loro
possesso. D’altra parte, allorché si tratta di rendere una norma vincolante per tutti, non si può mai
pretendere che la validità di un argomento sia più importante del numero delle persone che lo
condividono. Non si può imporre alcuna norma contro la volontà della maggioranza. Ma questo non
significa, ovviamente, che la maggioranza sia sempre nel giusto: significa semplicemente che nessuno può
arrogarsi il diritto di imporre ciò che è giusto contro la volontà della maggioranza. Una democrazia è tanto
più autentica, quanto più riesce a tener vivo il senso di questa dialettica tra la validità degli argoment i e le
procedure in virtù di cui essi diventano socialmente vincolanti per tutti . Proprio per questo essa ha bisogno
di determinate convinzioni comuni (ethos) circa la dignità e la libertà delle persone, di determinate virtù
civiche, quali la fiducia (come accettare altrimenti il verdetto della maggioranza?). In altre parole, in una
democrazia ben funzionante la legittimità di una decisione è più importante della sua oggettiva validità . La
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situazione cambia radicalmente nel momento in cui l’ethos comune si indebolisce e la comunità politica si
trova per giunta ad affrontare questioni sempre più decisive: gli immigrati o la lotta al terrorismo. In questi
casi, la democrazia si inceppa; maggioranza e minoranza tendono a delegittimarsi reciprocamente; anche le
decisioni formalmente legittime tendono ad essere screditate in nome di un principio di validità, che non
riconosce più nessuna ragione all’avversario politico, e la presunta validità intrinseca di una decisione
diventa molto più importante della sua legittimità. Proprio a questo livello, la religione può avere un
importante ruolo civile. Una religione che sappia mantenere viva l’istanza della verità, rinunciando alla
pretesa di imporla, può costituire un pungolo prezioso per la nostra cultura politica, un modo di metterla in
guardia da certe sue pretese totalizzanti.
Ancora sulla crisi dell’Europa: società e libertà e sicurezza
Nella cultura europea identità e libertà sono un tutt’uno. In virtù della trascendenza dell’uomo e della
verità, l’identità si esprime come libertà. Ma oggi è proprio questo aspetto di trascendenza che sembra
essersi indebolito, indebolendo così anche le nostre libertà individuali. Ed è proprio in quest’ultimo campo
che si manifesta con maggiore evidenza la crisi dell’Occidente: è come se l’enorme estensione dello spazio
delle nostre libertà, anche ad ambiti ritenuti fino a ieri indisponibili, sia stato pagato con una crescente
irrilevanza delle nostre libertà più tradizionali, prime fra tutte quella politica ed economica. Anziché pensare
alla libertà di fare ciò che dobbiamo, ci siamo abbandonati alla libertà di fare ciò che ci piace; siamo
diventati sempre più liberisti sul piano morale e dei diritti individuali e sempre più illiberali su quello
politico-economico. Di conseguenza, non riusciamo a districarci rispetto alle nuove sfide, né a vederne le
opportunità. La società odierna è “rischiosa” soprattutto perché un sempre maggior numero di eventi
dipende dalle nostre scelte, dalla nostra libertà. Fa un enorme differenza morire di polmonite perché non ci
sono i rimedi o morire di polmonite perché si è deciso di non prendere la penicillina o perché il medico
pensava che si trattasse di una banale influenza. Ebbene, è per via delle nuove conoscenze, di sempre nuove
possibilità di dominare tecnicamente il mondo, che si genera la società dei rischi. Crescono i rischi perché
aumentano le nostre conoscenze e la nostra libertà. Curiosamente, però, il crescente potere di controllo
che abbiamo via via acquisito sulla realtà ha fatto crescere anche un desiderio di sicurezza. Ci piacciono le
comodità, anche la libertà, ma non ci piacciono i rischi che essa comporta. Viviamo così una sorta di
schizofrenia. Infatti, a furia di alimentare aspettative di sicurezza, gli uomini e le istituzioni che dovrebbero
soddisfarle vengono sovraccaricati di un compito che, in una società strutturalmente rischiosa, non potranno
mai assolvere compiutamente. Per molti versi è persino curioso che una società, nella quale si parla tanto
di libertà, sia così poco disponibile ad accettare i rischi che essa comporta. Che si parli di diritti sociali o di
immigrazione, ciò che soprattutto conta sembrerebbe essere la sicurezza. Più ancora quando si parla di
economia.
Verità e libertà
Come si concilia questa disponibilità al rischio e all’incertezza con la verità? Sul rapporto tra verità e
libertà, in quanto si tratta di due prospettive complementari, non antitetiche. Fintanto che ci saranno gli
uomini, la storia dovrà sempre fare i conti con l’imprevedibile e l’incerto e, per quanto siano innumerevoli
le verità che possiamo conoscere, non riusciremo mai a tenere sotto controllo e a conoscere in anticipo,
tutte le conseguenze delle nostre azioni. Non soltanto, quindi, dobbiamo accettare i limiti della nostra
conoscenza e del nostro agire, ma dobbiamo anche limitare le nostre pretese di costruire la società, allo
stesso modo in cui costruiamo un’automobile. Soltanto una minima parte di ciò che storicamente accade
dipende dalla nostra volontà: questa è dunque la verità che dobbiamo riconoscere, specialmente se
vogliamo prendere sul serio la nostra libertà e le nostre responsabilità, ma anche sgravarci delle
responsabilità che non abbiamo. Voler diventare padroni della storia è soltanto fanatismo. Pretendere di
mettere la verità davanti alla libertà delle persone, imponendola, se necessario,
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con la forza, è soltanto una pericolosa sacralizzazione della politica. Ma, se ci piacciono il pluralismo e la
libertà, se non ci piace l’idea di essere governati dalla menzogna, allora non possiamo rinunciare all’idea di
verità. Come disse Hannah Arendt, nel suo libro sulle Origini del totalitarismo, il suddito ideale non è il
comunista convinto o il nazista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione fra realtà e finzione, fra
vero e falso non esiste più.
Religione e identità
Quando si parla delle parole che Dio rivolge gli uomini si pensa a parole divinamente ispirate, ma scritte da
noi e quindi recanti in sé anche i tratti dell’umana precarietà . Forse è per questo che Dio aveva così tanto
bisogno di un mediatore, di un Messia, che fosse uomo e venisse a parlare direttamente con la lingua degli
uomini. Con l’avvento del Messia e della sua Chiesa, il linguaggio di Dio si storicizza, si apre, in un certo
senso si svuota. In questo svuotarsi, in questo offrirsi totale da parte di Dio al mondo, sta il riscatto di tutti
gli uomini: non ci saranno più ebrei, né greci, ma soltanto la pluralità della grande famiglia umana. Tutte le
lingue umane vengono così legittimate, ciascuna nella propria specificità. Sebbene la Chiesa cattolica
continui a pensare sé stessa come custode dello spirito e delle verità di Dio, dove la fedeltà a Dio è più
importante della fedeltà verso gli uomini e il mondo, è pur vero che, specialmente a partire dal Concilio
Vaticano II, la Chiesa comincia a guardare il mondo con occhio diverso.
La mutua relazione tra Chiesa e mondo
Si parla non a caso, non soltanto dell’aiuto che la Chiesa intende offrire agli individui e alla società, ma
anche dell’aiuto che la Chiesa riceve dal mondo contemporaneo. Oggi la Chiesa sente di doversi chinare sul
mondo e di dover addirittura imparare da questo. In questo senso, la verità cristiana non è una gabbia
ideologica, né uno strumento di dominio, ma un dono fatto da Dio a tutti gli uomini ; un dono capace di
arricchirsi, di imparare, da ciò che le società umane hanno costruito nei secoli. Inoltre, in virtù della
trascendenza che costituisce anche la verità cristiana, quest’ultima diventa un segno di contraddizione per
ogni realtà sociale o individuale. Di fronte a Dio, nessun ordine del mondo è più lo stesso, nessun uomo e
nessuna cultura sono più totalmente altri. Come aveva compreso Hegel, l’Occidente non conosce un esterno
assoluto; è strutturalmente aperto. Pertanto, la Chiesa, riaffermando costantemente la trascendente dignità
della persona, ha come suo metodo il rispetto della libertà. Questi sembrano i segnali di quanto la Chiesa
abbia saputo imparare dalla modernità. È più importante il rispetto della dignità e della libertà dell’uomo,
fosse anche erronea, che la verità di Dio, la quale non viene per questo sminuita, bensì esaltata dalla
consapevolezza che il rispetto della libertà di tutti è ormai il solo metodo per affermarla.
Pluralismo e religione: modernità e laicità
La centralità della persona porta con sé una serie di conseguenze, prima fra tutte la consapevolezza che il
pluralismo è un valore fondamentale, non soltanto per la politica, ma anche per la religione. Inoltre, la
frammentazione soggettivistica e relativistica che oggi riscontriamo nel mondo rende il pluralismo una sorta
di condizione imprescindibile. Il pluralismo non significa che tutte le scelte e tutti i valori siano sullo stesso
piano; significa semplicemente che non è più consentito nemmeno a ciò che è universale di diventare
vincolante per tutti, contro la volontà degli interessati. Un certo pluralismo religioso è esistito da sempre nel
mondo occidentale e l’epoca moderna lo ha accentuato costringendo la religione a uscire da quei gusci
dogmatici che si erano costruiti anche su materie che non ha nulla a che fare con la fede. Con l’epoca
moderna il confronto con l’altro diventa dunque una necessità, al punto che la stabilità del proprio io, delle
relazioni sociali, delle istituzioni politico-religiose, dipende sempre di più dalla capacità di problematizzare le
proprie convinzioni e la propria identità, dunque di riflettere su sé stessi, di prendere un po’ le distanze
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da sé stessi. La modernità divenuta dominante rilancia la tradizione giudaico-cristiana (che si
contraddistingue dal pluralismo) come una prospettiva capace di impedire derive pericolose, valorizzando un
“pluralismo amico della verità”. È nell’uomo il vero fondamento della pluralità delle religioni e delle culture;
ed è il rispetto della dignità dell’uomo il vero banco di prova di ogni religione e ogni cultura . Far valere
questa idea di dignità come patrimonio universale non negoziabile, che sta a fondamento del nostro
pluralismo, deve rappresentare un punto d’arrivo sia per la società secolare che per la religione. Siamo di
fronte allo sfinimento di un certo spirito moderno, il quale, partito all’insegna della libertà, dell’autonomia e
dell’emancipazione dai pregiudizi religiosi, si trova ormai sempre più esposto al rischio di trasformare la
politica in religione. In sintesi, la laicità poggia su almeno due presupposti: anzitutto l’inviolabilità di certi
diritti umani, tra i quali la libertà religiosa, che viene prima del potere politico, quindi dello Stato; in secondo
luogo, l’importanza di una cultura e di istituzioni che garantiscano la pluralità delle idee, la libera
competizione per il potere, il suo esercizio non ideologico e la possibilità che venga revocato attraverso
mezzi pacifici e costituzionali. Da questo punto di vista la laicità non è soltanto un modo di concepire i
rapporti tra Stato e Chiesa, ma si configura come uno stile di pensiero, uno stile di vita, che dovrebbe essere
comune a credenti e non; uno stile di vita ispirato alla fermezza nelle proprie convinzioni, ma anche al
rispetto e all’apertura nei confronti delle convinzioni, delle ragioni e delle religioni degli altri.
Il bisogno d’identità e l’eccedenza di Dio
Che la religione rappresenti da sempre una formidabile fonte d’identità è fuori discussione. Occorre anche
riconoscere, però, che le Chiese dovrebbero tenere ben distinti coloro che cercano la fede di Dio da coloro
che cercano un’identità o una sponda per rilanciare la propria diffidenza nei confronti dell’economia di
mercato, o qualsiasi altra prestazione mondana. Infatti, parlare di Dio guardando agli obiettivi pragmatici
che si intendono perseguire equivarrebbe a una vera e propria strumentalizzazione di Dio, destinata a
immiserire la fede in lui e, quindi, a riflettersi negativamente anche sull’efficacia delle sue funzioni sociali. È
stato detto che alle radici del linguaggio umano c’è la religione, l’idea di Dio: le lingue del mondo si sono
forgiate proprio nel tentativo di fare i conti con il divino, di interpretarne il silenzio e la parola. Senza questa
prova, senza questo confronto con l’alterità di Dio, probabilmente saremmo ancora chiusi nella caverna del
nostro io, alle prese con i nostri monologhi. Invece, l’idea di Dio distrugge qualsiasi chiusura, ci costringe a
fare i conti con l’alterità degli altri e di noi stessi , rendendo visibile nel contempo l’eccedenza che c’è nelle
nostre parole, la loro provenienza da una dimora che fa pensare alla “lingua pura”, i cui frammenti sono
dispersi in tutte le lingue, senza che nessuna possa mai riuscire ad articolarla nella sua purezza.
Il realismo politico e l’utopia oltre il secolarismo
Non c’è linguaggio che risenta tanto delle sue origini teologico-religiose, quanto il linguaggio politico.
Tuttavia, nel momento in cui quest’ultimo sembra fare i conti con le nuove piattaforme e mezzi di
comunicazione, si direbbe che nel dibattito pubblico non ci sia più traccia di quella preziosa zavorra o di quel
peso che il linguaggio teologico ha sempre rappresentato per quello politico. Proprio nel momento in cui i
concetti politici fondamentali assumono una veste radicalmente secolarizzata (fosse anche di
riappacificazione o indifferenza nei confronti dell’ambito teologico-religioso) essi rischiano di perdere il
senso del loro telos (fine), andando incontro a pericolose distorsioni. Esemplificando la questione si possono
assumere due concetti chiave della politica moderna e contemporanea: Realismo (i cui precursori sono stati
indubbiamente Tucidide, Machiavelli, Hobbes, Hegel, gli elitisti italiani e Weber) e Utopia (omonimo libro di
Thomas More del 1516) rappresentano due concezioni, due idealtipi, antitetici. Se i realisti fanno riferimento
alla “ realtà effettuale”, ai rapporti di forza realmente esistenti, gli utopisti si riferiscono invece a “non
ancora” a “un dover essere”, un totalmente altro, che dovrebbe sovvertire l’esistente. Eppure, non appena
si scende dagli idealtipi alla realtà, tale contrapposizione non appare così
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netta: si pensi al Principe di Machiavelli e alla sua idea di poter un giorno realizzare l’unità dello Stato
italiano, una vera e propria utopia. O viceversa a Moro, che tratta le vicende politiche dell’Inghilterra del XV-
XVI secolo oppure al modo in cui gli abitanti di Utopia dell’opera dello stesso trattano il tema della guerra:
un evento che essi disprezzano ma al quale guardano con grande realismo riconoscendo lecite e legittime
azioni quali raggiri, corruzione del nemico ecc… pur di vincere il prima possibile. Al di là però di alcuni tratti
realisti dell’Utopia o di alcuni tratti utopici del Principe ciò che risalta all’attenzione sono tuttavia le
differenze tra i due autori. La modernità del primo (Moro) è una modernità senza luogo ne tempo, quella
del secondo (Machiavelli) è la modernità che cerca di tirarsi fuori dal caos creato dalla dissolvenza della
societas cristiana (teologia). La natura di Utopia è una natura che “aiuta i mortali ad aiutarsi l’un l’altro per
una vita più lieta”, mentre quella del Principe è una natura matrigna e malvagia che ricorda che gli uomini
non sono “buoni”. È proprio questa profonda divisione e accentuazione della caducità e del male che segna
le principali differenze tra posizioni utopiche e realistiche. Il realismo si mantiene sulla considerazione
dell’uomo come animale politico che deve fare i conti con i limiti della propria natura, segnata dalla
malvagità e dall’ingordigia, e che, proprio per questo, ha bisogno di leggi e di un potere che sappiano
realizzare quanta più giustizia è possibile, senza perdere mai di vista l’unità del corpo politico. L’utopia
aspira a realizzare un uomo nuovo, una società nuova dove non ci siano più disuguaglianze di alcun tipo,
diventando soprattutto un progetto politico rivoluzionario. In entrambi i casi, si genera una pericolosa
chiusura dell’orizzonte, una sorta di sacralizzazione della politica, a volte proprio contro la religione, ma
sempre a scapito della laicità della politica, che spinge realismo e utopia a diventare “religioni politiche”.
Pertanto, ci si chiede se poste le diverse e legittime prospettive sulla realtà politica, in che misura,
realismo e utopia sapranno evitare di trasformarsi in religioni politiche?
Profezia e utopia
Paolo Prodi vede nell’utopia la degenerazione della profezia. La tesi di Prodi vuole da un lato, restituire alla
profezia il suo giusto ruolo, che non è quello di anticipare il futuro, bensì di denunciare le storture e le
ingiustizie del presente; dall’altro, vuole mostrare come l’utopia, in quanto variante secolarizzata della
profezia, progetto rivoluzionario altro rispetto a un mondo corrotto, rischi di diventare una sorta di fuga
dalla realtà. L’utopia esprime dunque la radicale secolarizzazione di un’idea teologica. Il principio che la
muove non è la parola di Dio, ma un principio immanente alla storia umana: si mantiene in essa l’idea del
fine, ma questo è essenzialmente il prodotto di un divenire storico, reso possibile da forze in esso operanti
(cit. Cacciari). La profezia esprime invece l’annuncio di una promessa; non annuncia la fine del vecchio
mondo e l’inizio di uno nuovo; non annuncia ciò che accadrà ma quello che deve accadere se la giustizia di
Dio non viene rispettata; essa fonda piuttosto una speranza; ci dice che, nonostante tutto, il mondo in cui
viviamo ha un senso. Per questo la profezia è sempre realistica. Totalmente diverso è invece l’uso della
profezia che viene fatto all’interno dell’ideologia rivoluzionaria, come sul fronte di tutti i peggiori
totalitarismi, dove, mescolando in modo esplosivo disperazione, eccitazione e risentimento, si vorrebbe
trasformare il mondo intero in una enorme valle di Armageddon dove le forze del bene lottano contro
quelle del male: un bene e un male astratti che hanno nella sistematica destrutturazione della realtà il loro
presupposto fondamentale. Non è un caso che le grandi utopie/distopie politiche del XX secolo, vedi
comunismo e nazionalsocialismo, abbiano praticato alla grande questa decostruzione, assumendo i
caratteri di vere e proprie “religioni politiche”, i cui leader si autocelebrano come custodi della nuova
verità. Queste considerazioni sull’uso realistico e su quello utopico della profezia ci permettono di riflettere
sulla crisi che realismo e utopia conoscono al giorno d’oggi, nel momento in cui lo scenario politico-
culturale sembra assumere sempre di più i tratti di una sorta di processo senza soggetto e senza progetto,
dove le cose semplicemente accadono; da sole. Il pensiero utopico sembra soccombere nel mondo globale:
un non-luogo quasi per definizione. Quanto al realismo, esso sembra ridotto a una sorta di cinica e inerte
affermazione dell’esistente. Non soltanto non sembra esserci più alcun fine circa la storia da
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realizzare, ma nemmeno una qualsiasi libertà e dignità degli individui da salvaguardare, né un qualsiasi
potere statale da limitare. Profezia, utopia, realismo vanno tutti a farsi benedire. L’uomo si fa straniero sia
al politico che al teologo.
Breve excursus weberiano
Una volta cadute le grandi impalcature metafisico-religiose del passato, il problema di come condurre
sensatamente la propria vita diventa drammatico; ormai i valori semplicemente si scelgono, non si
fondano. Lo testimonia in modo eloquente proprio la cultura della crisi d’inizio secolo XX, dentro la quale
vive anche Weber. Egli, però, non si limita a prendere atto delle contraddizioni della modernità, ossia del
prezzo che bisogna pagare per l’individualizzazione e per il capitalismo divenuto una gabbia di acciaio.
Piuttosto le assume su di sé e percepisce il carattere inconciliabile della coscienza moderna. Per Weber, non
esiste più un senso oggettivo del mondo, un ordine razionale oggettivo , che la ragione umana può
cogliere e realizzare. La dinamica della società moderna, il processo di differenziazione e di funzionamento
scindono inesorabilmente la ragione e la società in una pluralità di sfere di valore. Né la fede, né la scienza,
né la politica, meno che mai le utopie, sono più in grado di fornire una qualche unificazione teorica o
pratica del senso del mondo. Ecco il weberiano “disincantamento” del mondo, o il suo “realismo
disincantato”: non ci sono più riferimenti socio-culturali forti, capaci di includere gli individui, garantendo
loro una ben precisa identità; ciascuno per proprio conto deve ormai cercare di inventarsene una, mentre
all’orizzonte il potere divenuto secolare mira soltanto alla conservazione di sé. La lucida visione di un mondo
disincantato grazie alla sua organizzazione burocratico-scientifico-tecnologica, la consapevolezza del
tramonto delle grandi concezioni metafisico-religiose sono per Weber non soltanto frutti “inevitabili” della
conoscenza e dell’evoluzione sociale, ma anche “molesti”. La condotta di vita è sempre più ridotta a una
prestazione sempre più privatizzata. Weber direbbe che abbiamo bisogno tutt i di un po’ più di responsabilità
e di consapevolezza di ciò a cui aspiriamo, quella sorta di impulso originario che ci spinge a vivere in armonia
con noi stessi, con il nostro essere impregnato da sempre di realismo e di profezia insieme.
Profezia, realismo e utopia
Detto questo, la società globale sembra che non sappia più che farsene della profezia; ma vi sono almeno
tre importanti benefici . In primo luogo, una Chiesa non profetica rischia di appiattirsi sulla realtà
effettuale, di farsi politica in nome di valori altisonanti, come la tutela dell’ambiente, la lotta alla povertà o
la critica al mercato capitalistico, ma senza il giusto realismo. Invece, la speranza cristiana non è un
progetto politico; ciò che si spera ha sempre effetti politici concreti, ma non esiste una politica finanziaria
cristiana o una politica sanitaria cristiana. In secondo luogo, il riferimento alla profezia potrebbe significare
un’iniezione di realismo all’interno della politica in generale. Un pensiero critico nei confronti
dell’esistente. In terzo luogo, il riferimento alla profezia evita che il realismo diventi una cinica
legittimazione dell’esistente: il cinismo di chi usa la corruzione della natura umana come scudo per
giustificare qualsiasi uso del potere. Se l’utopia ha tutto da guadagnare a presentarsi come realista, il
realismo ha tutto da guadagnare a presentarsi come pensiero critico. Non si tratta quindi di declinare il
realismo contro l’utopia; bisogna piuttosto evitare che il realismo diventi la semplice legittimazione
dell’esistente e che l’utopia diventi la semplice negazione . Il che significa che bisogna evitare sia l’illusione
della società perfetta, sia il cinismo di chi, di fronte al male e all’ingiustizia, sogghigna perché tanto non
cambierà nulla. Pertanto, si tratta di mantenere una sorta di tensione vitale tra utopia e realismo, così
come tra religione e politica, tenendo insieme Dio e uomo, potere politico e sua contestazione. Anche i
valori più alti, come la dignità e la libertà dell’uomo , finiscono per essere sottoposti a quella che Carl
Schmitt, nel suo saggio La tirannia dei valori, considerava la logica inevitabile e perversa di un modo di
pensare tipico della modernità: rendere commensurabile l’incommensurabile. L’uomo non è più il metro di
misura della società. Si pensi alla volontà di una certa cultura laica di eliminare la religione dalla sfera
pubblica, quasi che solo in questo modo possa affermarsi l’autonomia della politica, oppure si
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pensi alla disinvoltura con la quale, in nome di un’improbabile cultura scientifica, si assume come
moralmente lecito tutto ciò che la tecnica rende possibile. Esempi eloquenti di sistemi sociali, che si
estraniano gli uni dagli altri, preoccupati soltanto della propria autoreferenzialità, considerata come una
sorta di elemento indiscusso e indiscutibile, quasi di natura sacrale; che funzionano secondo precisi
imperativi funzionali (il mercato o la tecnica), come se gli uomini non esistessero. Di fronte a questo genere
di sfide, appellarsi al realismo o all’utopia serve a ben poco. Troppo grande è il rischio di un loro uso
meramente ideologico. Occorre piuttosto riattivare una riflessione, in cui tutti i paradigmi politici
dovrebbero essere misurati sui loro presupposti antropologici (un’idea di ciò che è la natura umana),
ontologici (un’idea di come la politica dovrebbe essere conosciuta e compresa), prasseologici (un’idea di
come bisognerebbe agire, essendo la politica ciò che è). Per questo ritengo che l’idea classica dell’uomo,
ossia la sua trascendenza rispetto alle condizioni biologiche e socioculturali della sua esistenza
rappresentano il punto di partenza che consente di guardare realisticamente alla “realtà effettuale” con la
fiducia che essa sia possibile anche diversamente. Infine, come direbbe Hegel, la realtà nella quale viviamo
non dipende soltanto da noi. Proprio se vogliamo cambiarla, le dobbiamo una certa riverenza, visto che la
nostra libertà trova in essa sia il suo limite, sia la condizione che la rende possibile. Non riconoscere questo
limite, rappresentato dalla realtà, significa esporsi al pericolo di rimanerne vittime.
La città rende ancora liberi
Finché le parole conservano ancora il loro senso, la città rinvierà sempre alla polis, quindi alla politica,
all’essere cittadini di una comunità, al luogo dove abitiamo e dove tutto ciò che è stato costruito costituisce
il registro simbolico del nostro mondo, il quale, a differenza della natura è una costruzione umana . Oggi,
assistiamo a una crisi dell’intera civiltà, che sembra aver reso le nostre metropoli un caos di forme
imprevedibili dal quale fuoriescono contraddizioni sia sul piano individuale che sociale: scandalose
povertà, forme di schiavitù, degrado dei quartieri, e la stessa politica ridotta a nulla, visto che non è più
chiaro dove si prendono le sue decisioni fondamentali (nei parlamenti o negli studi televisivi?), la città resta
un orizzonte insuperabile dell’umano. Un vecchio detto tedesco dice che la “città rende liberi”. Nel bene e
nel male, questa rimane il luogo privilegiato in cui gli uomini realizzano la propria umanità e dove la
pluralità delle culture si esprime in tutta la sua ambivalenza. Si potrebbe dire che la città è certamente
Babele-Babilonia, ma è anche la Gerusalemme celeste, dove la storia dell’umanità raggiungerà il suo
compimento.
L’abitare come caratteristica antropologica
L’uomo è un’animale che abita, poiché ha sempre una casa ovvero un luogo dove sentirsi protetto e dove
coltivare i propri affetti. Ricorrendo all’antica parola tedesca Buan, che racchiudeva in sé i significati di
abitare-costruire-custodire, Heidegger mostra come questa vada ben oltre la semplice casa, ma esprima la
modalità privilegiata dell’essere uomini. Il modo in cui tu sei e io sono, la maniera secondo la quale noi
uomini siamo sulla terra, è il Buan, l’abitare. Infatti, senza il mondo che gli uomini hanno eretto tra sé e la
natura, senza la stabilità e la permanenza che questo mondo garantisce, non sarebbero possibili la politica
né la storia, avremmo soltanto il ripetersi di cicli naturali. Allo stesso modo, H. Arendt riflette sul fatto che la
morte e la nascita presuppongono un mondo che non è in costante movimento, ma la cui durevolezza e
relativa permanenza rendono possibili l’apparizione e la scomparsa, un mondo esistente prima che un
qualsiasi individuo vi facesse la sua apparizione e che sopravvivrà alla sua eventuale dipartita. Senza un
mondo in cui gli uomini nascono e muoiono non ci sarebbe che eterno ritorno senza mutamenti. D’altro
canto, è proprio grazie a questo mondo costruito dall’uomo che noi abbiamo accesso alla natura. Ed è il suo
aprirsi che conferisce ad ogni cosa i suoi diversi contorni: eretto l’edificio, l’opera tiene testa alla bufera che
la investe, rivelandone la violenza (Heidegger). È l’artificio umano che schiude all’uomo la natura. Il che
significa che c’è una ragione ontologica a sostegno del detto “la città rende liberi”: per essere liberi occorre
emanciparsi dalle necessità naturali, che non sono soltanto la fame, la sete o il freddo, bensì i ritmi
sempre uguali della natura, l’essere fagocitati nel suo ciclo naturale. Molto di ciò che oggi associamo
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alla civiltà prende forma per la prima volta nelle città europee. Ma, insieme a tutte queste cose, sappiamo
che prende vita anche qualcos’altro: il potere. Sta qui l’ambivalenza principale della città, ovvero l’essere un
luogo di libertà e insieme il luogo della pianificazione coercitiva. Per fare un esempio, le gilde e le
corporazioni erano l’anima delle città commerciali del Medioevo, poiché in esse la cultura cristiana
incominciava a sviluppare quel patrimonio di libertà che era implicito nell’idea di persona; la città
rappresentava un sistema di relazioni sociali, basate sulla libera adesione. Tuttavia, a partire dall’epoca
moderna la città diventa soprattutto capitale politica, centro del potere amministrativo. Vi è un nesso molto
stretto tra la progressiva crescita di tale potere e ciò che sono diventate le città oggi: luoghi dove le cose
sembrano ormai farsi da sole, senza più un disegno umano e nell’indifferenza crescente a qualsiasi idea di
libertà o di giustizia. Ma che cosa succede nel momento in cui la città perde la sua stabilità , la sua capacità
di essere un elemento di identificazione per l’uomo, e si innesca un processo di estraniazione? che cosa
succede nel momento in cui la città, il luogo per eccellenza dell’umano, diventa una specie di “non- luogo”?
La città come non-luogo
Le prime città antiche nacquero spontaneamente. I piani regolatori sono invenzioni moderne che
trasformano la città in un oggetto fabbricato, obbediente non più all’abitare degli uomini ma al potere.
Quartieri che vengono costruiti in modo uniforme, privi di punti d’identificazione, dove le strade sembrano
essere ovunque le stesse, dove le case diventano appartamenti e le piazze cessano di essere luoghi
d’incontro. Città ridotte a non-luoghi, appunto: spazi sempre più anonimi, frequentati da individui sempre
più soli e isolati. Stazioni, aeroporti, supermercati, alberghi, campi profughi esprimono secondo Augé la
quintessenza del “non-luogo”, il contrario di un luogo nel senso comune del termine. L’essenza dell’essere
blasé consiste nell’attutimento della sensibilità rispetto alle differenze tra le cose, nel senso che il significato
e il valore delle cose stesse sono avvertiti come irrilevanti. Al blasé tutto appare di un colore uniforme,
grigio, opaco, incapace di suscitare preferenze (Simmel). Nell’opaco, indifferente grigiore della sua vita,
questi si limita tutt’al più alla “cura di sé”. Dobbiamo dunque ritenere che l’odierna città metropolitana non
consenta più un “abitare” degno dell’uomo? Assolutamente no, ma certe tendenze ci dicono soltanto quali
sfide abbiano davanti. I “Kulturalpessimisti” vedono nella moderna metropoli la cifra stessa del destino
della nostra civilizzazione, ovvero l’estremo sradicamento che consente di sentirsi a casa ovunque e in
nessun dove, trasformando i suoi abitanti in stranieri. Questa trasformazione della città è una tragedia
culturale, poiché questo artificio diventa a poco a poco una sorta di “seconda natura”, qualcosa in cui
diventa sempre più difficile per l’uomo riconoscersi, un nemico che bisogna nuovamente assoggettare.
Una speranza possibile : LE SFIDE DELLA CITTA’
La tesi di Belardinelli rispetto all’odierna metropoli è ambivalente. Non dubita delle grandi opportunità che
scienza, tecnica, industria e la stessa città hanno offerto e offrono tutt’ora all’uomo moderno in termini di
capacità di realizzare forme di vita più autonome, più giuste e più libere. Oggi, però, sembra che tutto
questo rischi di valere soltanto in astratto a maggior ragione se consideriamo la crisi della politica (della sua
capacità di indicare ancora un qualsiasi “fine”). Secondo Nisbet il problema reale non sta nella perdita dei
vecchi contesti quanto, piuttosto, nell’incapacità dell’ambiente democratico odierno di creare nuovi contest
i di associazione e coesione morale entro i quali le lealtà minori degli uomini possano assumere un
significato funzionale e psicologico. Ma dov’è che certi valori morali o certi rapporti sociali possono essere
coltivati? Famiglia e scuola continuano a rappresentare i principali luoghi di socializzazione; Il moltiplicarsi
di tant i non-luoghi nella nostra società dipende comunque anche dal fatto che la famiglia stessa è diventata
spesso un non-luogo (intaccata dai fenomeni di frammentazione sociale che contraddistinguono la nostra
epoca) e, quindi sempre più incapace di fornire quel patrimonio di capitali sociali, quali fiducia, autonomia,
responsabilità, solidarietà. La famiglia deve essere un luogo dove sperimentare relazioni familiari
soddisfacenti per avere maggiori chance di cogliere le grandi opportunità
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del tempo presente, trasformando la libertà in responsabilità, quindi di apertura agli altri e di realizzazione
di sé, per potere guardare il mondo e prendersene cura. Per farla breve, tutto nell’odierna città, sta
diventando sempre di più una questione di cultura, parola che viene da “coltivare”, quel coltivare da cui
siamo partiti e che è anche un “aver cura” e che, insieme al costruire, ha il suo significato autentico
nell’abitare. (Heidegger). Se saremo capaci di questa cura, allora nemmeno nella città metropolitana si
spegnerà mai la polis, quindi la politica, l’essere cittadini di una comunità. I “Kulturalpessimisti” hanno
mostrato come il processo moderno, di individualizzazione e urbanizzazione, abbia prodotto l’indebolimento
di qualsiasi legame comunitario, rendendo obsolete tutte le “forme di vita” (il modo in cui siamo socializzati)
del passato. In questo senso, le nuove sfide ci dicono che dobbiamo riconciliarci con la nostra comunità,
ritrovare con noi stessi. Questo significa aprirsi fiduciosamente agli altri e imparare a convivere nella
diversità. La ricostruzione di un tessuto urbano a misura d’uomo dipenderà dalla consapevolezza, dalla
solidarietà, dai “capitali sociali” e da quelli civili, che le singole persone e i singoli gruppi saranno in grado
di mobilitare. La cultura dunque sarà la carta vincente. Ma soltanto una cultura incentrata sull’uomo, la sua
dignità e libertà, e capace di “averne cura”, può trasformare in vere opportunità le enormi possibilità che ci
vengono schiuse dall’odierna metropoli. Soltanto tale cultura può conferire qualità umana ai nostri stili di
vita. In questo senso il bene dell’uomo deve diventare l’orizzonte simbolico della nostra vita individuale e
sociale; un orizzonte che ci consenta di guardare a noi stessi, agli altri, alle cose che produciamo, alle nostre
metropoli con lo sguardo di chi intende “prendersene cura”, rendendo in questo modo più “umano” il
nostro abitare.
Conclusione Prima e dopo Babele: pluralismo di culture e identità
È emersa ripetutamente nei diversi capitoli una preoccupazione: che la pluralità delle lingue e delle culture
possa diventare una sorta di caos. Non è questa la conseguenza che dobbiamo trarre dal fatto che viviamo
dopo Babele. Il cittadino della moderna metropoli, dove convivono individui appartenenti a razze e culture
spesso assai differenti tra loro, non può essere il blasé di Simmel, né l’individuo sradicato da qualsiasi
relazione significativa con la comunità in cui vive. Il cittadino della moderna metropoli è l’individuo che ha il
privilegio di sperimentare legami comunitari che sanno sfruttare al meglio le grandi opportunità della
moderna individualizzazione. Quanto alle chiusure identitarie, molte di esse hanno a che fare proprio con lo
spaesamento prodotto dalla dissoluzione di tali legami (cit. Belardinelli). Contrariamente ai molti discorsi che
si sono fatti in questi anni sulla “post identità” come tratto caratterizzante del nostro tempo, l’autore ritiene
che sia proprio la pluralità nella quale siamo immersi a rendere il tema dell’identità ancora più urgente,
sebbene in una declinazione che richiede una sorta di surplus in termini di riflessività e di consapevolezza.
Di certo per l’uomo europeo e per la cultura occidentale, l’identità non è più pensabile soltanto in termini di
terra, lingua e sangue, la cui funzione è quella di marcare una differenza, proteggendosi dall’estraneo.
Ovviamente per un uomo non c’è niente di più normale che sentirsi radicato nella storia di una famiglia, di un
popolo, di una lingua o di una nazione. Ma a questo importante elemento, che definirei quasi di natura, la
cultura europea ha aggiunto la consapevolezza che, ovunque l’uomo nasca, cresca e metta le sue radici,
non sarà per questo più o meno uomo di un altro . Così, non soltanto l’estraneo è diventato sempre meno
estraneo, ma abbiamo imparato a riconoscerlo persino in noi stessi, facendone un elemento fondamentale
della nostra identità. Questo certamente non vuol dire che sono scomparse le differenze e i conflitti; vuol dire
piuttosto il contrario ossia che tali conflitti sono da considerare endemici. Una società è tanto più aperta
quanto più è in grado di lasciarli esprimere. È nella logica dell’incontro tra diversi che ciò avvenga. L’incontro
con l’altro richiede apertura e disponibilità, ma anche realismo, consapevolezza che l’umanità che tutti ci
accomuna si esprime in modo unico in ciascuno, implicando quindi anche una certa dose inevitabile (e
salutare) di resistenza, imperscrutabilità e irriducibilità. Certo, non possiamo essere sicuri che l’altro ci
guarderà allo stesso modo, né possiamo accettare che l’imperativo dell’apertura e del dialogo implichi che
dell’altro si debba accettare tutto.
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Tuttavia, è proprio per gestire in modo decente le sfide identitarie della nostra società globale che oggi c’è
bisogno dell’ideale antropologico universale che l’Europa ha saputo sviluppare nel corso della sua storia. L’uomo
europeo, cresciuto sulle radici greche, giudaico-cristiane e illuministe, conosce sia la sua grandezza che la sua
miseria; conosce la sua apertura, la sua determinazione a difendere ciò che reputa non negoziabile in termini
di libertà e dignità, ma conosce anche la mancanza di rispetto di sé, l’indifferenza di fronte alla violenza e alla
malvagità, le sue spesso tragiche chiusure, nonché la difficoltà ad apprezzare e a convivere con una pluralità
sempre esposta al rischio di cadere nel peccato di Babele. Oggi quest’uomo ha di fronte a sé un compito arduo:
deve convincere anche molti occidentali che la pluralità rappresenta davvero una ricchezza. Ma deve farlo nel
rispetto dell’identità di ciascuno. Dopo Babele, egli ha bisogno di realismo e fantasia per perseguire l’unico ideale
che può essergli d’aiuto: la dignità e la libertà di tutti gli uomini.
Scaricato da Nico Castagna
CAPITOLO 1. TRE DISAGI
Taylor definisce disagi della modernità quei tratti della nostra società e cultura
contemporanea che l’uomo sperimenta come perdita o declino nonostante la nostra
civiltà si sviluppa. Nonostante l’arco temporale in cui la “perdita” si declina può
variare, interessando anche periodi molto lunghi (es. intera epoca moderna, dal ‘700 in
poi), tuttavia, secondo l’autore sui temi del declino esiste una sostanziale
convergenza. Taylor pur sostenendo che esiste una grande varietà di temi su cui poter
riflettere, sceglie di dedicare la trattazione su tre di essi, specificando che il terzo tema
di cui discute, è, in larga parte, una derivazione dei primi due. Si tratta, dice Taylor, di
temi ben conosciuti, di cui tanto si discute, ma che paradossalmente, proprio per
questo gran parlare attorno ad essi, possono celare e creare smarrimento perché
l’uomo non capisce cosa è meglio fare.
Per Taylor esistono tre fonti di disagio –preoccupazione della modernità:
1. Individualismo
2. Disincanto del mondo che si lega alle preoccupazioni per il primato della
ragione strumentale
3. Disinteresse per l’autogoverno (partecipazione politica)
L’Individualismo → sebbene in molti lo considerano una conquista, perché gli
uomini possono decidere in piena libertà il proprio modo di vivere, decidere
liberamente quali convinzioni abbracciare, foggiare la loro vita in modo personale ed
autonomo, si tratta di un tema piuttosto controverso. Infatti, esso costituisce un diritto,
generalmente difeso anche dai sistemi giuridici, ed in linea di principio nessun
individuo vorrebbe ritornare indietro, anzi, si ritiene, in larga parte, che si tratti di un
processo non ancora concluso.
Scaricato da Nico Castagna
La conquista della libertà ha radici antiche, essa, infatti, è stata conquistata quando si
è riusciti ad emanciparsi dai vecchi orizzonti morali, che, in passato, vincolavano gli
uomini ad un ordine più ampio (a volte cosmico), che si rifletteva nella gerarchia della
società umana, per cui, gli uomini si trovavano confinati in una posizione, nella
maggior parte delle volte, imposta e non scelta. Gli assetti economici, la vita
famigliare e le gerarchie vengono intesi in età moderna come limiti a questa libertà
→ La libertà moderna nacque dal discredito di questi sistemi gerarchici, quando ci si
distaccò da questi ordinamenti secolari e gerarchici e dai ruoli che in passato
regolavano la società umana e le davano senso. → tuttavia → il distanziamento da
questi sistemi gerarchici, ha creato una situazione paradossale, perché se da un lato
essi limitavano la libertà dell’uomo, dall’altro, essi davano un senso al mondo ed
alle attività della vita sociale. Questo processo di discredito è stato chiamato il
DISINCANTAMENTO del mondo il quale ha avuto conseguenze significative sulla
vita dell’uomo e sul significato della condizione umana → in particolare, gli uomini
hanno perso il senso di uno scopo superiore, di qualcosa x cui valesse la pena vivere
e morire. Questa perdita di senso è legata ad un restringimento: gli uomini perdendo la
visione più ampia si concentrano sulle loro proprie vite individuali ripiegandosi in se
stessi. Alexis de Toqueville parlava della perdita di passione; mentre Nietzsche,
sostiene che gli uomini sono arrivati al nadir, cioè al punto di arrivo di questo
declino, e aspirano solo ad un miserabile benessere. Il lato oscuro e negativo
dell’individualismo è quello che → induce all’incentrarsi sull’io appiattendo e
impoverendo di significato la propria vita, perdendo di vista il bene comune e
l’interesse per gli altri e per la società. Quindi la visione positiva di questo
individualismo è stata ribaltata in quanto la sua politica, sostiene Taylor, tradisce il
significato di vita autentica poichè confonde la scelta di vita come potenziale di vita
autentica con le preferenze individuali e personali. L’individualismo porta a ritenere
che una scelta valga l’altra, che la mera differenza sia la base dell’uguale valore. In
questo modo ignora però che la realizzazione di sé, il perseguimento di una vita
autentica e la costruzione dell’identità avvengano sempre
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in un contesto dialogico di scambio-incontro-confronto con l’altro. Il contesto
dialogico infatti avviene e si realizza all’interno di pratiche di condivisione non di
individualizzazione e centramento su di sé. il lato oscuro dell’individualismo è proprio
il ripiegarsi sull’io che appiattisce e restringe le nostre vite impoverendone il
significato e allontanandole dall’interesse verso gli altri e verso la società. Ed ecco il
disagio: si ha la sensazione che la vita sia appiattita e ristretta e che ciò sia
connesso ad un deplorevole assorbimento dell’individuo su se stesso. Questa deriva
dell’individualismo è recentemente visibile nella ME GENERATION e nel dominio
del NARCISISMO. Il Disincantamento del mondo è connesso al (cfr con capitolo 9)
primato della ragione strumentale → la ragione strumentale è quel tipo di
razionalità a cui ci rifacciamo quando calcoliamo l’applicazione più economica dei
mezzi a disposizione per raggiungere un determinato fine → si tratta, quindi, di uno
strumento che massima l’efficienza e indica il miglior rapporto costo-benefici! →
questa logica riveste un ruolo strumentale e materiale, proprio perché è utilizzata per il
raggiungimento del fine di MASSIMIZZARE LA PRODUZIONE. → La logica
dominante diventa l’analisi dei costi x produrre benefici.
Il venir meno dei vecchi ordinamenti ha allargato enormemente l’ambito di questo tipo
di razionalità → una volta che la società ha perduto la sua struttura sacra e che gli
assetti sociali non sono più fondati sull’ordine delle cose o sulla volontà di Dio, essi
sono x un certo senso modellabili a piacimento → il metro unico diventa quello della
ragione strumentale.
↓
Se, da un lato questo è stato liberatorio, aprendo possibilità prima impensabili,
dall’altro porta con sé un timore → che le cose vengono trattate in termini di
efficienza o di analisi costi-benefici ed i fini che dovrebbero guidare le nostre vite
vengono eclissati dall’esigenza di massimizzare la produzione → La ricerca di
soluzioni tecnologiche prende il sopravvento e contribuisce ad appiattire le vite umane
portando alla perdita di risonanza, profondità e ricchezza del nostro ambiente
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umano: per esempio si ricercano soluzioni mediche in macchinari e non
nell’esaminare con cura e umanità la vita del paziente nella sua interezza la quale
diventa così luogo di un problema tecnico portando in secondo piano la persona
(Benner → approccio tecnologico alla medicina). Ne risulta un appiattimento delle
vite umane → Marx, in relazione a questo tema, sostiene che → lo sviluppo
capitalistico volatilizza tutto ciò che vi era di stabile. Albert Borgman → parla di
paradigma dell’aggeggio → secondo il quale tutta la positività ed i benefici del
progresso e dell’evoluzione umana sono attribuiti alla tecnologia, nuova musa del
millennio, confidando nei suoi poteri, in apparenza illimitati, per trovare la soluzione a
ogni problema. Hanna Arendt → ha sottolineato il carattere effimero ed impersonale
degli oggetti d’uso moderni ( diversamente dal passato, in cui, ad esempio, il
riscaldamento non era generato da una caldaia, ma per produrlo serviva la legna e tutti
si davano da fare per questo!) → Questi meccanismi impersonali sono fortemente
presenti nella società → Weber li chiama GABBIA DI FERRO perché sono forze
che dominano le persone (stato e merci) e che rendono impotente l’uomo davanti alle
loro possibilità. Per il cambiamento dovranno essere coinvolte le istituzioni e la
politica x portare aventi una battaglia sia per i cuori che per le menti. Quanto fin’ora
detto, conduce al terzo livello, quello politico, diretta conseguenza dei primi due punti.
Taylor introduce il terzo livello argomentando le conseguenze dell’individualismo e
del primato della ragione strumentale. La prima conseguenza è che → le istituzioni e
le strutture della società industrial-tecnologica limitano pesantemente le nostre scelte e
costringono ad attribuire troppa rilevanza alla ragione strumentale, provocando come
conseguenza una grave perdita di libertà negli individui e nel gruppo. Taylor, cita
Torqueville, il quale individua una tra le perdite di libertà più pregnanti per l’uomo,
cioè → una società di individui ripiegati su se stessi è anche una società che si
uniforma alla massa → la perdita di condivisione porta gli esseri umani a restare
“chiusi nei loro cuori”, nella quale solo pochi vorranno partecipare alle attività di
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autogoverno → la maggioranza preferirà starsene a casa e non partecipare
all’autogoverno; preferirà, piuttosto, godersi le soddisfazioni della vita privata,
facendone la prerogativa principale. → ne deriva, ciò che Torqueville chiama
DISPOTISMO MORBIDO → una forma di governo, diverso dalla tirannia del
terrore, caratterizzato da una parvenza di democrazia, in cui ogni cosa è controllata dal
potere paternalistico e sul quale gli uomini avranno scarso controllo, poiché solo
pochissimi partecipano attivamente alla vita politica. Secondo Tocqueville l’unica
difesa per combatterlo → è una vigorosa cultura politica che dia molto valore alla
partecipazione alla struttura di governo e alle associazioni volontarie. Infatti esso (il
dispotismo) rappresenta un circolo vizioso perché con l’atomismo individuale, le
associazioni si dissolvono e lasciano il cittadino solo contro lo stato burocratico
demotivandolo e facendogli ripetere il processo continuamente, fino a fargli perdere il
controllo politico sul proprio destino, facoltà esercitabile invece da cittadini → ciò che
si trova a venire minacciata è proprio la libertà politica, e la nostra dignità in quanto
cittadini. Sono quindi tre i disagi della modernità:
1. perdita di senso, con il venir meno degli orizzonti morali;
2. eclisse dei fini di fronte al dilagare della ragione strumentale;
3. perdita di libertà.
(Individualismo/tecnologia/gestione burocratica sono i macro vizi della società
moderna secondo Taylor). La modernità ha i suoi lodatori e i suoi detrattori → hanno
entrambi ragione ed entrambi torto…. va trovato l’equilibrio per risolvere una
questione, esprimibile in questi termini: come pilotare questi sviluppi verso le loro più
promettenti potenzialità e come evitare di scivolare nelle forme degradate?
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CAPITOLO 2.
IL DIBATTITO INARTICOLATO
Taylor si concentra sui pericoli dell’individualismo e la perdita di senso basandosi
inizialmente sul libro di Allan Bloom: la chiusura della mente americana, 1987,che ha
per oggetto un’analisi critica degli orientamenti culturali, politici e morali degli
studenti universitari americani. Questo libro tratta del relativismo superficiale
dell’odierna gioventù istruita il cui principio era: ognuno ha i suoi valori che vanno
rispettati in un’ottica di rispetto reciproco, senza possibilità di discuterne o contestarli
perché i valori sono questione di scelta oltre che affare di ciascuno. Questo relativismo
rappresenta il corollario di una forma di individualismo in base al quale ciascuno ha
diritto di sviluppare la sua propria forma di vita fondata sulla percezione di ciò che è
realmente importante. Ciascuno è chiamato ad essere fedele a se stesso e ricercare la
propria realizzazione ed in che cosa essa consista lo deve decidere da sé. Si tratta di
una posizione definibile come individualismo dell’autorealizzazione (tema discusso
da molti autori, soprattutto negli anni ’60) → esso comporta la messa al centro dell’io
con il conseguente restringimento e appiattimento della vita ed una concomitante
esclusione, o ancora peggio, una vera e propria inconsapevolezza, delle problematiche
che trascendono l’io → ne conseguono problematiche a livello politico (come descritto
nel terzo disagio), poiché la vita si restringe e si appiattisce → questione che molto
preoccupa numerosi autori.
↓
Taylor riguardo a questa analisi è d’accordo nel sostenere che il relativismo morbido
sia un grave errore → esso infatti fa si che si sacrifichino i rapporti umani per
inseguire i propri personali ideali: si lasciano famiglie e figli perché ci si sente
chiamati a fare questo e si sente che se venisse fatto diversamente la propria vita
sarebbe sprecata e rimarrebbe irrealizzata → la cultura dell’auto-realizzazione ha fatto
perdere di vista le questioni che trascendono gli individui (dice Taylor)! → MA
→ c’è qualcosa che in questa critica Taylor contesta → infatti autori come Bloom
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non riconoscono che all’opera, all’interno di questi fenomeni, vi è un potente ideale
morale ( = ciò che è desiderato o di cui abbiamo bisogno, ma di ciò che dovremmo
desiderare per giungere ad un sistema di vita miglior) che sta dietro l’auto-
realizzazione → si tratta della fedeltà a se stessi (ideale morale = ciò dovremmo
desiderare) o ideale di autenticità1 (dell’essere vero, genuino) che nella critica di
Bloom va perduta ed assume la forma del relativismo morbido (non esiste una realtà
assoluta e tutti possiamo decidere ognuno per se) precludendo le possibilità di difesa
di un ideale morale (quello che sarebbe meglio decidere). → si tratta di una
contraddizione perchè il relativismo è alimentato da un ideale morale.
Nella cultura dell’autenticità chi adotta un ideale aderisce a un liberalismo della
neutralità, che è stato scelto dai più. Uno dei suoi principi fondamentali è che → esso
deve essere neutrale riguardo a ciò che rende la vita degna di essere vissuta, essa è
infatti quella che ognuno cerca per se, a suo modo.
Chi va contro il relativismo morbido relega le discussioni sul valore della vita degna di
essere vissuta ai margini del dibattito politico rendendolo invisibile, con delle
conseguenze (l’importanza morale dell’ideale dell’autenticità viene oscurata da):
soggettivismo morale → ovvero che le posizioni morali non siano fondate sulla
ragione o sulla natura delle cose, ma siano adottate da ciascuno di noi per il
semplice motivo che ne veniamo attratti → in questo modo la ragione non sembra
essere in grado di dirimere le controversie morali;
Ci sono critici convinti dell’esistenza di standard fondati sulla ragione, i quali
pensano che esiste la natura umana, e che la sua comprensione mostrerà con
chiarezza, che eistono modi giusti e sbagliati, migliori e peggiori. Questa
posizione è fondata sul relativismo aristotelico (oggi contestato). Gli aristotelici
andavano contro l’ideale dell’autenticità, tacciato di creare un allontanamento
dagli standard radicati nella natura umana;
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Il terzo fattore che ha oscurato l’importanza dell’autenticità in quanto ideale
morale è stato la spiegazione della scienza sociale → i disagi della modernità
sono stati spiegati come effetti collaterali del mutamento sociale. In realtà gli
uomini non sempre agiscono per un ideale morale infatti, per esempio sono mossi
dal desiderio di maggior ricchezza o fama. Il potere di queste idee viene inteso
non in un ottica morale ma di vantaggi.
Tutto questo oscura l’ideale di autenticità facendolo passare per il desiderio di fare ciò
che ci piace senza interferenze. Taylor sostiene che l’autenticità va presa sul serio in
quanto ideale morale. → Il relativismo va quindi rifiutato perché giustifica
l’ignoranza di ciò che riguarda la conoscenza del passato, la cittadinanza, la
solidarietà, l’ambiente naturale. → Occorre allora un’opera di ripristino grazie alla
quale l’ideale del’autenticità possa aiutarci a rinnovare le nostre prassi e occorre
dunque:
credere che l’autenticità sia un ideale valido (per andare contro alle critiche
mosse verso essa)
che si possa agire secondo ideali morali e argomentare su questo (rifiuto
soggettivismo)
che questi argomenti possano fare la differenza (va contro quelle spiegazioni
della modernità che ci vedono imprigionati nel sistema politico-burocratico-
industriale).
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CAPITOLO 3
LE FONTI DELL’AUTENTICITA’
L’etica dell’autenticità → è nata a fine ‘700 e si avvale di forme d’individualismo
della razionalità disincarnata, inaugurato da Descartes, in base al quale ciascuno deve
pensare auto-responsabilmente a sé; o anche dell’individualismo politico di Locke, il
quale cercò di fare della persona qualcosa che precede l’obbligazione sociale. L’etica
dell’autenticità, tuttavia, pur avvalendosi di queste forme di individualismo, è stata in
conflitto con esse. → Essa è figlia dell’età romantica, dell’idea in base alla quale → la
razionalità disincarnata e l’atomismo sono visti in senso critico → basandosi sull’idea
secondo cui ciò che è giusto o sbagliato non è faccenda di puro calcolo, ma è ancorata
ai nostri sentimenti → La moralità possiede quindi una voce interna la quale ci dice
qual è la cosa giusta da fare. In questo quadro l’essere in contatto con i nostri
sentimenti morali è importante come mezzo finalizzato allo scopo di agire
giustamente.
↓
L’idea di autenticità deriva da questo nuovo accento morale che muove da sé stessi
attraverso un collegamento con il nostro profondo (e non con Dio).
Se dapprincipio → l’idea che la fonte sia dentro di noi non escludeva un nostro
collegamento con Dio o con le Idee → la strada che conduce a Dio sembra passare
attraverso la nostra consapevolezza riflessiva su noi stessi; poi → si realizzò un vero e
proprio cambiamento, a partire da concezioni teistiche o panteistiche.
Rousseau → parla spesso della morale nei termini di una voce interna che dobbiamo
seguire in quanto esseri dotati di profondità interne. Si tratta di una voce, per lo più
“sommersa” dalle passioni indotte dalla dipendenza dagli altri. Secondo Rousseau →
La nostra salvezza morale deriva proprio dal recupero di un contatto morale autentico
con noi stessi che spesso viene sommersa dall’orgoglio (amore proprio) → ad essa da
il nome di “le sentiment de l’existence”.
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L’autore articola, inoltre, l’idea della libertà che si autodetermina = io sono libero
quando decido da solo quello che mi interessa, piuttosto che farmi plasmare da forze
esterne. → La libertà che si autodetermina è un’idea che ha avuto forte potere nella
vita politica e nell’opera di R. assume forma politica nella nozione di un contatto
sociale, fondato su una volontà generale che da forma alla nostra volontà comune →
Quest’idea è stata una delle fonti intellettuali del totalitarismo moderno.
È bene precisare che Taylor tiene separati i due concetti (quello di autenticità e di
libertà che si autodetermina), ma chiarisce che, nel tempo si sono sviluppati insieme e
che per questo, spesso, sono stati confusi.
L’autenticità secondo Taylor trova tra i suoi principali espositori Herder secondo cui
→ ognuno di noi ha il suo modo originale di essere uomo, “ha una propria misura” e
quest’idea è quella che ha messo profonde radici nella modernità → si tratta di un
nuovo modo di pensare, in quanto prima del tardo settecento nessuno pensava che le
differenze tra gli esseri umani avessero questo tipo di significato morale. Esiste un
certo modo di essere uomo che è il mio modo e sono chiamato a vivere la mia avita
secondo questo modo e non attraverso l’imitazione di modi altrui.
→ E’ quindi importante il concetto della fedeltà a se stessi che serve per dare
sostanza alla mia vita la quale si perderebbe se non fossi fedele a me stesso. E’ questo
il potente ideale morale giunto fino a noi moderni: Il modello per regolare la mia vita
non devo cercarlo fuori di me ma solo in me, essendo fedele alla MIA originalità
definisco me stesso articolandola.
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CAPITOLO 4.
ORIZZONTI INELUDIBILI
Per recuperare l’ideale morale dell’autenticità occorre per Taylor tenere presente il
carattere dialogico dell’esistenza umana il quale rappresenta il proprio tratto generale
della vita → Noi diventiamo agenti umani capaci di capire noi stessi e gli altri
attraverso l’acquisizione di linguaggi umani dotati di ricche capacità espressive e che
passano attraverso lo scambio con altri. I linguaggi qui indicati si possono identificare
non solo nelle parole che pronunciamo ma anche in tutte le altre modalità
d’espressione: la gestualità, i linguaggi dell’arte, dell’amore → Mead li chiama “altri
significativi” → la genesi della mente umana è dialogica → definiamo quindi la
nostra identità nel dialogo con le identità che i nostri altri significativi sono disposti a
riconoscerci. → Dunque il dialogo non è solo decisivo nel momento della genesi della
nostra identità, ma è una dimensione decisiva per tutto il corso della nostra vita e
rappresenta lo sfondo necessario della definizione di noi stessi e di ciò che comporta x
noi. Taylor vuole mostrare che (1) l’aspetto dialogico dell’essere umano è un tratto
della cultura dell’autenticità e che (2) le modalità di autorealizzazione che non tengono
conto dei nostri legami con gli altri e delle esigenze che provengono da qualcosa di
esterno da noi e dal raggio dei nostri desideri ed aspirazioni distruggono le condizioni
necessarie per realizzare l’autenticità → ovvero lo sfociare dell’autenticità
nell’individualismo e nel soggettivismo nega l’autenticità stessa.
↓
L’odierna cultura dell’autenticità tende a scivolare nel relativismo morbido
rafforzando un postulato soggettivistico in materia di valore: le cose cioè non hanno
importanza di per sé, ma sono importanti per me perché io reputo che lo siano non
perché l’altro lo definisce → definire me stesso equivale infatti a trovare ciò che è
significativo nel mio essere diverso dagli altri. Le cose sono importanti, assumono
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importanza in uno sfondo d’intellegibilità (di senso, ne consegue che una delle cose
che non possiamo fare se vogliamo definire noi stessi è negare gli orizzonti contro i
quali le cose assumono un significato x noi. Questa rappresenta però la mossa auto-
negatrice che si effettua nella nostra civiltà oggettivistica). Per Taylor però questo è
una follia: l’autenticità non può essere difesa in maniere che distruggano gli orizzonti
di valore, esiste qualcosa di nobile e valoroso indipendentemente dalla mia volontà.
L’ideale dell’auto-scelta presuppone l’esistenza di altre questioni rilevanti al di là
dell’autoscelta stessa → L’uomo che cerca un senso nella vita per definire se stesso
significativamente deve muoversi entro un orizzonte di questioni importanti e non si
possono negare gli orizzonti entro i quali le cose assumono significato o sopprimerli
come invece è stato fatto dalle forme narcisistiche della società soggettivistica perché
mancano di soddisfare i requisiti della cultura dell’autenticità. Quindi l’autenticità
presuppone le istanze esterne che hanno un’importanza per dare senso alla persona. Il
senso della vita lo si trova muovendosi in un orizzonte orientato di questioni. Se ci si
oppone ai valori sociali senza avere degli ideali morali si va contro la cultura
dell’autenticità (che li presuppone) perché non sono frutti di esperienza personale; gli
ideali morali si costruiscono e si sperimentano nell’esperienza personale e non sono
dettati da altri
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CAPITOLO 5.
IL BISOGNO DI RICONOSCIMENTO
Un’ altra critica rivolta alla cultura dell’autenticità è che essa → incoraggia
un’accezione personale dell’autorealizzazione, con la conseguenza che le svariate
associazioni e comunità di cui il singolo è partecipe siano ridotte a meri strumenti.
A livello sociale, questo comporta che (sempre secondo le critiche) →
un’accezione personale dell’autorealizzazione rende sempre più marginale la
cittadinanza politica;
A livello più intimo → un’accezione personale dell’autorealizzazione alimenta una
concezione dei rapporti messi a servizio dell’appagamento personale → ne deriva
che → i legami fatti x durare tutta la vita hanno scarso senso, o quanto meno
hanno senso solo se sono funzionali al raggiungimento di uno scopo puramente
utilitaristico (individuale).
L’autenticità → è un aspetto del’individualismo moderno; esso non si limita a
insistere sulla libertà dell’individuo, ma propone dei modelli di società e di come gli
esseri umani dovrebbero vivere insieme.
Gli individualismi hanno creato Due modalità di esistenza sociale che presentano un
nesso con la cultura dell’autorealizzazione:
una basata sulla nozione di diritto universale → ognuno deve avere il diritto e la
possibilità di essere se stesso, nessuno ha il diritto di criticare i valori altrui e
rappresenta l’idea alla base del relativismo morbido in quanto principio morale.
una seconda attribuisce una grande importanza ai rapporti appartenenti alla
sfera intima specialmente ai rapporti d’amore, e li include tra le forme più
importanti dell’autorealizzazione. Questa idea rispecchia che la vita per l’uomo è
degna di essere vissuta nella “vita ordinaria” e che la nostra identità ha bisogno
del riconoscimento degli altri.
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Due mutamenti hanno reso inevitabile la preoccupazione moderna per l’identità ed il
riconoscimento:
uno è la dissoluzione delle gerarchie sociali, che un tempo costituivano la base
dell’onore. Il concetto di onore → un tempo era legato alle diseguaglianze →
infatti perché qualcuno abbia onore è necessario che non tutti l’abbiano. → Da
questa nozione di onore deriva la moderna accezione di dignità, quella del
cittadino a cui ognuno ne partecipa. → questa concezione di dignità è l’unica
compatibile con una società democratica → La democrazia ha introdotto una
politica di uguale riconoscimento, il quale si accentua nella società moderna
parlando di identità → la quale si crea a contatto con gli altri, nel dialogo. Il
riconoscimento era insito all’identità socialmente derivata: lo sfondo che dava
senso a ciò che la persona riteneva importante era determinato dal posto che
assumeva nella società. Ora l’identità non gode più di un riconoscimento a priori
→ essa dipende dai miei rapporti dialogici con gli altri.
Con l’età moderna, dunque, non è nato il bisogno di riconoscimento, ma le condizioni
nelle quali questo riconoscimento non può verificarsi → in un modo o nell’altro, nella
società moderna, l’importanza del riconoscimento è universalmente ammessa:
sul piano sociale → continua la politica del riconoscimento uguale;
sul piano intimo → sappiamo che l’identità può formarsi ( oa deformarsi) nel
contatto con glia altri.
↓
Nella cultura dell’autenticità, i rapporti interpersonali sono considerati luoghi chiave
dell’auto-scoperta e dell’auto-conferma.
Alla luce di questi cambiamenti la cultura dell’autenticità privilegia due maniere di
vivere insieme:
a livello sociale → il principio essenziale è quello dell’equità, la quale esige che
le opportunità di sviluppare la propria identità siano uguali per tutti → ciò implica
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che → proiettare sull’altro un’immagine inferiore o avvilente può avere un effetto di
distorsione o afflizione → negazione del riconoscimento dell’altro (es. razzismo).
nella sfera intima → il rapporto d’amore ha un importanza fondamentale nella
formazione dell’identità.
Può un modo di vita che metta al centro l’IO, cioè che comporta il trattare le nostre
associazioni come meramente strumentali, essere giustificato alla luce dell’ideale
dell’autenticità?
A livello sociale → sì → perché il riconoscimento della differenza chiede di
accettare il riconoscimento dell’eguale valore dei diversi modi di essere. →
Riconoscere la differenza esige un orizzonte di significati. È importante la
condivisione di significati per riconoscere la differenza e nella differenza l‘uguale
valore di ciascuno. Per poter convergere in un mutuo riconoscimento della
differenza dobbiamo condividere un’intesa riguardo ai valori, dobbiamo quindi
appartenere ad una società politica comune, ad un orizzonte condiviso.
Nei rapporti personali → no →: perché se i rapporti che creiamo sono tesi alla
realizzazione dell’identità non possono essere strumentali.
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CAPITOLO 6
LO SLITTAMENTO NEL SOGGETTIVISMO
(Dominio RAGIONE STRUMENTALE)
Nei capitolo precedenti, Taylor ha delineato i tratti della Cultura del narcisismo,
intesa come → la diffusione di una mentalità che fa dell’autorealizzazione il
principale valore della vita e che sembra riconoscere pochi imperativi morali esterni o
impegni seri verso altri → la nozione di auto-realizzazione ed egocentrismo è quindi
portata allo stremo.
↓
Rispetto al narcisismo, la concezione di Taylor è che → coloro che vivono secondo
questa cultura vivono un ideale che sistematicamente tradisce. → Esso tradisce in
quanto i legami con gli altri, gli impegni familiari possono entrare in conflitto con il
nostro sviluppo personale e la vita può risultare più facile se uno riesce a trascurare
questi vincoli.
Le idee individualistiche → iniziarono a svilupparsi nel 600 quando le nuove forme
politiche che sfidavano le antiche gerarchie fecero più posto al mercato ed allo
sviluppo industriale, fino ad arrivare ai giorni nostri in cui si è profondamente radicato
nella vita quotidiana sia nel modo in cui ci si procurano i mezzi per vivere sia nel
modo di rapportarsi con gli altri facendo slittare la cultura dell’autenticità e arrivando
ad essere l’unico orizzonte concepibile → MA → il processo di radicamento può
spiegare lo slittamento nella cultura dell’autenticità → Le forme egocentriche sono
devianti perché:
Esse tendono a mettere al centro dell’opera di realizzazione l’individuo, rendendo i
suoi legami puramente strumentali → atomismo sociale;
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si tende a vivere per la realizzazione dell’io, trascurando o delegittimando le
esigenze che provenendo dalla società, dalla tradizione, dalla natura o da Dio,
trascendendo i desideri personali → alimentando un antropocentrismo radicale.
↓
Queste caratteristiche si sono radicate a partire dalle società industriali moderne,
dapprima attraverso la mobilità quasi imposta a cui si assistiva → i contadini
passavano alle città che pian piano divennero metropoli, questo fece in modo che i
vecchi legami venissero spezzati e i contatti divenissero impersonali e casuali
sostituendo le precedenti relazioni faccia a faccia. Inoltre, la nostra società
tecnocratica attribuisce alla ragione strumentale un’importanza sempre più grande che
rafforza sia l’atomismo che l’antropocentrismo portandoci a vedere le cose, gli aspetti
della nostra vita e del nostro ambiente in una prospettiva strumentale.
↓
La spiegazione del pervertimento della cultura dell’autenticità può essere
ricondotta, in parte, al fatto che essa viene vissuta in una società industrial-
tecnologico-burocratica.
↓
Ma la causa di questo pervertimento dell’autenticità, non è ascrivibile e spiegabile
tutto ricorrendo al sociale → occorre considerare anche ragioni interne all’ideale
dell’autenticità.
↓
L’ideale dell’autenticità slitta a causa di due relazioni incrociate:
il primo riguarda lo slittamento verso le modalità egocentriche dell’ideale
dell’autorealizzazione nella cultura popolare del nostro tempo,
il secondo, riguarda l’”alta cultura, ed è un movimento verso una negazione degli
orizzonti di significato che porta ad una sorta di nichilismo (si veda Nietzsche).
↓
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Eminenti pensatori (Foucalt, Deridda) si sono occupati di questa linea di pensiero, ma
il loro impatto è paradossale perché arrivano a decostruire l’ideale dell’autenticità e la
nozione stessa dell’Io.
↓
Foucalt parla della dimensione estetica → la nozione secondo cui, ciascuno di noi ha
un modo originale di essere uomo (autenticità), il che comporta che ciascuno di noi
deve scoprire che cosa significa essere se stesso→ questo avviene dando espressione
nella parola di ciò che c’è di originale in noi.
↓
Concezione espressivistica
↓
Con Herder e con la concezione espressivistica → si inaugura l’idea che attraverso
una creazione, la produzione di qualcosa di originale e di nuovo l’uomo può attingere
alla sua auto-definizione (forgiando qualcosa di nuovo, originale posso attingere alla
mia auto scoperta, divento ciò che in me attende di essere). Concezione dell’arte →
non più imitazione ma creazione attraverso un fare, in modo creativo, giungendo
all’auto scoperta e quindi all’autenticità. → L’auto-scoperta dell’uomo, dunque, passa
attraverso la creazione → allo stesso modo dell’arte, l’auto-scoperta implica
l’immaginazione.
Le esigenze di autenticità → sono strettamente legate alla dimensione estetica.
↓
L’autenticità → nasce nello spostamento del principio morale verso di noi → quindi
l’io e la trasparenza non sono mezzi ma sono fini in se stessi → essi si fondono cosi
l’integrità dell’io e la dimensione estetica che non è la soddisfazione di un desiderio
ma qualcosa che trova la sua risposta in se stessa, è qualcosa che suscita emozioni.
Comporta l’originalità, contro le convenzioni.
↓
Quindi l’autenticità implica (A):
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creazione e costruzione e scoperta;
originalità;
spesso, un’opposizione alle regole della società (e spesso della moralità:
contro la moralità imposta trovo io da solo, contro gli imperativi del mondo
esterno, il disegno della mia vita),.
Essa, inoltre, esige (B):
apertura verso orizzonti di significato (quindi a favore di quelle esperienze
personali che per noi sono significative),
auto definizione nel dialogo
Attenzione a non fare privilegiare l’una sull’altra (A su B o viceversa)!
L’autenticità è essa stessa un’idea di libertà, poiché implica che io trovi da solo,
contro gli imperativi del conformismo esterno, il disegno della mia vita. MA → poiché
la nozione di libertà che si auto-determina, spinta al limite, non riconosce nessuna
frontiera → essa può facilmente rovesciarsi in forme estreme di antropocentrismo!!!!!
→ l’autenticità non può e non deve accompagnarsi ad una forma di libertà che si
autodetermina, perché si spiazzerebbe da sé!!!!
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CAPITOLO 7.
LA LOTTA CONTINUA
La cultura dell’autenticità soffre di una tensione costitutiva → in essa vi è una lotta
tra lodatori e detrattori della cultura dell’autenticità. Questa lotta, secondo Taylor è
sbagliata → perché entrambi sbagliano. → anziché liquidare in toto la cultura
dell’autenticità, o avallarla totalmente, secondo l’autore, sarebbe necessario
comprendere pienamente il significato dell’autenticità!!!! → la lotta, dunque,
dovrebbe riguardare non l’autenticità, ma la definizione del suo significato.
↓
Per far innalzare la cultura dell’autenticità bisogna:
Che l’autenticità sia un reale ideale degno di essere abbracciato;
Che si possa ragionare su ciò che esso comporta;
Che questo ragionamento abbia effetti pratici.
↓
Secondo Taylor, l’autenticità → ci aiuta a vivere una vita più ricca e differenziata e
auto responsabile, basata sull’autorealizzazione.
La battaglia sociale in corso si trova divisa tra chi sostiene prassi sempre crescenti di
individualismo e quindi forme di egocentrismo che trascinano la cultura
dell’autenticità verso il basso e dall’atro ci sono delle forti spinte verso questo ideale
→ la tensione nasce perché l’autenticità è un valore sentito da molti nella società, ma
che non trova concretezza e sfogo di realizzazione → Quindi ci si muove in un verso
(egocentrismo) pur sapendo di poter andare dall’altra parte (autenticità). Ecco da dove
nasce la lotta → questa lotta è l’espressione della libertà della società che può
muoversi verso uno o l’altro lato.
↓
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La prospettiva che propone Taylor va contro il pessimismo di Bloom e Bell e dice che
questo spostamento non è mai univoco, che può bilanciarsi a momenti verso una parte
alta e a momenti verso l’altra parte bassa. Non è nemmeno un ottimismo culturale
quello che promuove, ma spinge a sconfiggere la tentazione di vedere le cose in modo
irreversibile e che in questa lotta l’esito è perennemente incerto e mai definitivo. Non
si deve guardare dove tutti tendono ma capire ciò che è bene e farlo prevalere sempre
con la certezza che questa possa avvenire.
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*** CAPITOLO 8.
LINGUAGGI PIU SOTTILI
La cultura moderna ha assistito ad un movimento di soggettivizzazione → le cose si
incentrano sempre di più sul soggetto. Cose che un tempo erano riferite alla realtà
esterna ora vengono decise dal soggetto, vengono riferite alla nostra scelta. → La
libertà e l’autonomia moderne si incentrano su noi stessi e l’ideale dell’autenticità
esige che scopriamo e articoliamo la nostra propria identità.
↓
In questo movimento occorre però distinguere due aspetti:
Uno riguarda la maniera (in cui abbracciamo una forma di vita) → essa è
autoreferenziale, è un orientamento personale → l’orientamento che scelgo deve
essere il mio orientamento!
L’altro riguarda la materia (contenuto dell’azione) → la materia invece è qualcosa
che ha un significato indipendentemente da noi.
↓
Quindi la maniera è, nella nostra cultura, autoreferenziale, al contrario della materia
che non per forza si riferisce a noi stessi, ma può trovare appagamento in mete esterne
a noi come Dio, la cura della terra, la causa politica.
Confondere queste due specie di auto-referenzialità porterebbe conseguenze
disastrose, creerebbe l’illusione che l’auto-referenzialità della maniera sia egualmente
ineluttabile; e la confusione fornisce legittimità alle peggiori forme di soggettivismo.
Lo sviluppo dell’arte moderna ci offre un buon esempio della differenza essenziale che
separa queste due specie di soggettivizzazione. Essa infatti passa ad essere arte
creativa e non più di imitazione. Il linguaggio poetico e artistico ora (dall’ottocento) è
legato ad una sensibilità articolata, non è più riferito a significati pubblicamente
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disponibili (fino al settecento). L’arista ora cambia la maniera di accedere a dei saperi
e non per forza questa materia poi è espressione solo dell’io dell’artista.
↓
Per comprendere l’arte moderna è dunque necessario distinguere le due specie di
soggettivizzazione (materia-maniera)
Se l’autenticità significa essere fedeli a noi stessi, possiamo realizzarla compiutamente
solo se riconosciamo che questo sentimento si ricongiunge con una totalità più ampia.
Dobbiamo articolare il senso all’interno di un legame con gli altri.
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CAPITOLO 9.
UNA GABBIA DI FERRO?
(Ragione strumentale)
Per una posizione generale riguardo la modernità e l’ideale dell’autenticità non vanno
considerate posizioni estremiste (lodatori o detrattori di questo ideale).
La stessa cosa vale per la RAGIONE STRUMENTALE→ alcuni vedono l’avvento
della tecnologia come il declino della società a causa della perdita di contatto con la
terra ed i suoi ritmi. Coloro che guardano all’etica dell’autorealizzazioni sono
sostenitori della tecnologia mentre coloro che sostengono l’ideale dell’autenticità
vanno contro a questi sviluppi tecnologici. I sostenitori di questo ideale parteggiano
per la società tradizionale, spingendo però verso l’atomismo
La ragione strumentale impone valori atomistici e strumentalisti. Recuperandoli
giungeremmo ad un equilibrio
Con ragione strumentale Taylor intende il tipo di razionalità a cui ci rifacciamo
quando calcoliamo l’applicazione più economica dei mezzi disponibili a un dato fine.
In generale i fini indipendenti che dovrebbero guidare le nostre vite si trovano eclissati
dall’esigenza di massimizzare la produzione. Questo non è solo una percezione
diffusa, ma un processo reale (ad es. la mercificazione del lavoro per favorire la
partecipazione al mercato del lavoro) Processo che non necessariamente si deve
accettare come fatale. Nella nostra società, la misura della libertà non è pari a zero.
Non è privo di senso deliberare quali debbono essere i nostri fini e se la ragione
strumentale debba avere nelle nostre vite un ruolo minore di quello che affettivamente
ha. In questo campo il cambiamento dovrà coinvolgere le istituzioni, la politica.
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Le società strutturate intorno alla ragione strumentale impongono una grave perdita di
libertà agli individui oltre che al gruppo, giacché non sono solo le nostre decisioni
sociali che sono forgiate da queste forze.
Anche per uno stile di vita individuale, è difficilissimo andare contro corrente (per es.
non usare la macchina)
La razionalità strumentale (come descritto da Marx e Weber) ci impone le sue
esigenze in tutto quello che facciamo, nella vita pubblica o privata, nell’economia e
nello Stato. Il fatto che la tecnologia ci spinga verso un atomismo e strumentalismo
tenendoci prigionieri in una gabbia di ferro non è immutabile. questa interpretazione
era un modo di intendere il concetto della gabbia di ferro (Weber) ma non si regge in
piedi. Gli esseri umani e la società sono più complessi di una teoria.
Noi non siamo prigionieri, quando prende forma una coscienza comune le cose
cambiano. Noi siamo liberi quando possiamo controllare le cose che ci dominano.
Sul piano morale la ragione strumentale trova le radici su due idee particolari:
- Ideali di razionalità come pensiero che si autodetermina
- Affermazione della vita ordinaria per l’alleviamento delle sofferenze
Recuperando l’entroterra morale possiamo mostrare che lo stato delle cose non è
immutabile. Intendendo in un'altra maniera la tecnologia, come un servizio alla società
per la benevolenza delle persone giungeremmo ad una interpretazione diversa da
quello che dovrebbe essere lasciando le prospettive aperte. Recuperare questo senso li
libertà che determina ciò che siamo gioverà ai cuori e alle menti della società.
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CAPITOLO 10.
CONTRO LA FRAMMENTAZIONE
Le istituzioni di una società tecnologica non ci impongono necessariamente
un’egemonia della ragione strumentale, ma se lasciate a se stesse tendono a spingerci
verso questa direzione. Un sogno simile era stato elaborato dal marxismo con
l’obiettivo di sbarazzarsi del mercato e sottoporre l’intera macchina dell’economia al
controllo dei produttori. Ma la verità è che i meccanismi di mercato sono
indispensabili ad una società industriale. Non possiamo abolire il mercato, ma
neanche organizzarci completamente attraverso essi.
Governare una società contemporanea significa quindi ricostruire continuamente un
equilibrio tra esigenze che tendono ad annullarsi reciprocamente trovando sempre
nuove soluzioni creative nel momento in cui i vecchi sistemi non funzionano più in
quanto nelle cose stesse non ci può mai essere una soluzione definitiva.
La forza che può arrestare la marcia della ragione strumentale è l’iniziativa
democratica. Ma questo pone un problema in quanto il funzionamento congiunto del
mercato e dello stato burocratico tendono a indebolire l’iniziativa democratica.
↓
Questo ci ricollega al TERZO DISAGIO → il timore articolato da Tocqueville che
certe condizioni della società moderna possano minare la volontà di controllo
democratico, quindi il timore che gli uomini arrivino ad accettare di essere governati
da un potere tutelare (dispotismo morbido) in cui il governo sarà mite e paternalistico.
Il pericolo non è quello di un controllo dispotico ma quello di una
FRAMMENTAZIONE. → Una società frammentata è una società in cui i membri
trovano sempre più arduo riconoscersi comunitariamente nella loro società politica e
ciò contribuisce a radicare l’atomismo perché l’assenza di un’azione comune forza gli
individui a ripiegarsi su se stessi. Ciò fa si che si getti la spugna e che ogni tentativo
appaia una perdita di tempo instaurando un circolo vizioso di staticità ed immobilità
d’azione. Si tratta di Una società in cui gli esseri umani si riducono nella condizione
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di individui «rinchiusi nei loro cuori» dunque una società in cui pochi vorranno
partecipare attivamente all’autogoverno. Una società frammentata inoltre è quella in
cui questa mancanza d’identificazione porta gli uomini a vedere la società in termini
strumentali contribuendo a radicare l’atomismo.
L’unico mezzo efficace per contrastare la spinta verso l’atomismo e lo strumentalismo
è la formazione di un saldo intento democratico comune che però risulta difficilmente
raggiungibile in uno stato frammentato.
La frammentazione cresce attraverso 2 processi: nella misura in cui gli individui non si
identificano più con la loro comunità politica il loro senso di appartenenza si atrofizza
e si alimenta poi dall’esperienza dell’impotenza politica. Questi 2 sviluppi si
rafforzano reciprocamente perché un’identità politica che si affievolisce rende più
difficile una mobilitazione efficace e un senso d’impotenza alimenta a sua volta
l’alienazione, per questo si dice che esiste un circolo viziose. Esso però potrebbe
diventare un circolo virtuoso nel momento in cui ci si unisce e si crea un’azione
comune vittoriosa la quale genera sicurezza e rafforza l’identificazione con la
comunità politica.
Taylor: perdere la capacità di costruire maggioranze politiche è come perdere i remi in
mare, si viene trascinati dalla corrente. È necessaria una politica di potenziamento
della democrazia per contrastare la frammentazione che si alimenta di:
Mancata identificazione con la comunità
Atrofia del senso di appartenenza.
Secondo Tocqueville la soluzione è il decentramento del potere soprattutto ad
associazioni del territorio che figurano già nella vita dei loro membri. Bisogna
invertire la rotta per una riconcettualizzazione della tecnologia attraverso un azione
comune politica. È necessario combattere a più livelli per capire ciò che nella società
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c’è di grande o di misero (Pascal). Abbracciando queste due parti si può comprendere
quest’epoca per innalzarla al suo miglior valore.
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Gabbia di ferro (1-9)
La gabbia di ferro è un’immagine metaforica, tracciata da Weber per rappresentare la
situazione di “prigionia” in cui si trova l’uomo oggi, a causa del primato della ragione
strumentale e dello stato burocratico. La ragione strumentale sembra essere in grado di
imporci le sue esigenze in tutto quello che facciamo sia nella sfera pubblica sia nella
sfera privata. L’unica alternativa sembra essere l’automarginalizzazione.
Il dibattito sulla civiltà tecnologica è polarizzato:
a) Sostenitori: ritengono che essa sia il rimedio per tutti i problemi umani
b) Detrattoria: la tecnologia è un male perché ci ha fatto perdere i legami con la
natura e con noi stessi. Per loro la tecnica porterà solo ad un maggiore
orizzonte atomistico ed alla distruzione della natura → MA → non è possibile
nemmeno analizzare la tecnica dal punto di vista della bramosia al dominio
della natura → bisogna trovare equilibrio → per farlo è necessario trovare le
fonti morali (per quanto rese invisibili) della tecnologia. Se si guardano le cose
da questo punto di vista gli orizzonti atomistici e strumentalistici non ci
sembrano più inevitabili.
Esistono nella nostra società molti punti di resistenza alla tendenze degeneranti: es.
gruppi che lottano contro lo sfruttamento del pianeta terra → finché lottano da soli
non avranno grandi successi, ma se si forma una coscienza comune , le cose cambiano
e ci rendiamo conto dei fini naturali della tecnica → NON SIAMO PRIGIONIERI IN
UNA GABBIA DI FERRO→ LA NOSTRA LIBERTA’ NON E’
PARI A ZERO! Sicuramente la tecnica è nata per aiutarci a dominare la natura, ma
non solo quello. Moltissimi elementi giocano a favore dell’ATOMISMO e dello
STRUMENTALISMO → Descartes → postula che l’uomo è RAGIONE
DISINCANTATA, PURO SPIRITO ed esalta i principi e le deduzioni logico
matematiche: quelle che hanno il sopravvento, ma non è solo così → sviluppare la
ragione strumentale vuol dire anche:
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1) creare una razionalità che risponde a se medesimo, che sia libera;
2) affermazione della vita ordinaria: lavoro/famiglia/ benessere → proviene da
un’idea secondo cui la TECNICA SERVE A MIGLIORARE LE NOSTRE VITE!
I tre disagi della modernità (1)
Sono i tratti della nostra cultura contemporanea che gli uomini sperimentano come
declino, anche se la nostra civiltà si “sviluppa” (A volte il declino presuppone un arco
di tempo più breve, a volte più lungo).
Spesso si tende a vedere l’arco del declino dal ‘600 in poi. Taylor identifica, in
particolare 3 disagi:
1) Timore della perdita di senso associata al venir meno degli orizzonti morali;
2) Ecclissi dei fini di fronte al primato della ragione strumentale;
3) Perdita di libertà.
1) Timore della perdita di senso associata al venir meno degli orizzonti morali.
Il primo disagio è associato all’individualismo; esso è ambivalente, in quanto
- da un lato, è considerato da molti come la più bella conquista della civiltà
moderna = in quanto gli uomini possono scegliere da sé la propria vita/le proprie
convinzioni (cosa non possibile per i nostri antenati) = sono diritti difesi dai
sistemi giuridici = gli esseri umani non sono più sacrificati alle esigenze di
ordinamenti superiori che li trascendono → infatti, in passato, gli uomini si
vedevano come parte di un ordine più ampio, in alcuni casi cosmico = una grande
catena dell’essere in cui gli umani figuravano al posto che gli spettava = la società
umana era fatta di gerarchie → gli uomini spesso si trovano confinati in un dato
luogo/ruolo dal quale era impensabile allontanarsi = la libertà moderna comincia
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quando decadono questi ordinamenti; ma questi ordinamenti davano anche un senso
al mondo ed alle attività della vita sociale : (es.
o l’aquila non era solamente un uccello, ma il re di un’intera regione della
vita animale;
o le norme della società avevano un valore SACRO e non puramente
strumentale.
Il discredito di questi ordini è detto disincantamento del mondo → con il quale
l’uomo ha perso anche la dimensione eroica della vita/il senso di uno SCOPO
SUPERIORE / qualcosa per cui morire (Tocqueville parla in questo senso di
MANCANZA DI PASSIONE) → questo avviene a causa di un RESTRINGIMENTO
= gli uomini perdono la visione più ampia perché si soffermano su di loro =
RIPIEGAMENTO SU SE STESSI → lato oscuro dell’individualismo è incentrarsi
solo sull’io (appiattimento e restringimento delle nostre vite) → ci si allontana dagli
altri e dalla società → conseguenze:
o società permissiva
o me generation
o narcisismo
2) Ecclissi dei fini di fronte al primato della ragione strumentale:
Il secondo disagio è associato al primato della RAGIONE STRUMENTALE → è il
tipo di razionalità che prevede il calcolo dei mezzi disponibili più economici ed
efficienti per ottenere un fine dato. La massima efficienza è il miglior rapporto costi-
prodotto (costi-benefici). Il disincantamento del mondo ha allargato immensamente
l’ambito della ragione strumentale e la società non ha più una struttura sacra e quindi i
suoi ordinamenti diventano del primo che allunga la mano per impossessarsene →
diventa, infatti, possibile rimodellarli a favore del benessere e dei “comodi” di chi li
gestisce. cose e persone hanno il significato conferitogli dal posto che occupano nella
catena dell’essere e diventano suscettibili di essere utilizzati come materia prima e
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strumenti per i nostri progetti. Il timore è questo: che le cose che dovrebbero essere
determinate da criteri diversi vengano eclissati dai fini di massimizzare la produzione.
→ Pericolo: si sfrutta l’ambiente fino ad arrivare alla catastrofe. Il primato della
ragione strumentale è evidente nell’aura di prestigio che circonda la TECNOLOGIA
→ ha investito vari campi tra cui la medicina : Benner ha sottolineato che l’approccio
tecnologico in medicina è andato a sostituire quello più umano → non si considera più
il paziente come essere umanonella sua interezza: diventa un problema tecnico.
Borgmann introduce il PARADIGMA DELL’AGGEGGIO = otteniamo prodotti
progettati per uno specifico beneficio. Questi meccanismi impersonali della ragione
strumentale → portano secondo Marx e Weber alla GABBIA DI FERRO → siamo
completamente impotenti e lo saremo finchè non smantelleremo del tutto lo stato
burocratico e i mercati. Le istituzioni e le strutture della società industriale –
tecnologica ci portano a limitare pesantemente le nostre scelte → essi infatti,
costringono sia i gruppi che gli individui ad attribuire alla ragione strumentale una
rilevanza che moralmente non vi attribuiremmo mai. Es. sono costretto ad usare auto.
3) Perdita di libertà.
Taylor cita Tocqueville, il quale parla di una società dove gli uomini si restringono
sempre più nei loro cuori e vorranno quindi partecipare sempre meno all’autogoverno
e stare “ a casa” per godersi le soddisfazioni della vita privata → secondo Tocqueville
il pericolo è una nuova forma di dispotismo: il DISPOTISMO MORBIDO = no
terrore ed oppressione, ma governo mite e patriarcale nel quale gli individui avranno
scarsissimo potere.
Bisogna: aumentale la partecipazione alla struttura di Governo ed alle associazioni
volontarie, ma l’ATOMISMO dell’individuo limita una sua realizzazione.
Alienazione sfera pubblica e conseguente perdita di controllo politico e conseguente
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perdita di controllo sul nostro destino: circolo vizioso: cittadino solo/istituzioni e
associazioni sempre più inesistenti/getta la spugna/ perdita controllo e libertà.
Relativismo morbido (2)
Taylor introduce questo tema citando il libro di Bloom “La chiusura della mente
americana”. L’autore critica il relativismo particolarmente superficiale della gioventù
istruita. Secondo Bloom il relativismo morbido è un’accettazione dei valori piuttosto
superficiale → in quanto si basa sull’idea che ognuno ha i propri valori, di cui è
impossibile discutere/ non si devono contestare i valori altrui = i tuoi valori sono affar
tuo! Una tua scelta di vita e vanno rispettati. Il principio che sta alla base è il
RISPETTO RECIPROCO.
Il relativismo morbido diventa una forma di individualismo detto
INDIVIDUALISMO DELL’AUTOREALIZZAZIONE (oggi molto comune e che
si sviluppa soprattutto a partire dagli anni ’60), secondo cui ciascuno ha il diritto di
sviluppare la sua propria forma di vita in base a ciò che, secondo lui, ha valore ed è
importante → nessuno deve interferire. Questa concezione mette al centro l’io
escludendo o rimanendo inconsapevoli delle più vaste questioni che lo trascendono
8siano esse politiche, religiose o storiche) → la vita si restringe e si appiattisce.
Secondo Taylor il relativismo è ampiamente diffuso ed è un grandissimo errore che si
smentisce da se → perdendo completamente di vista le questioni che trascendono gli
individui → essi si riducono ad essere incerti della propria identità e poi si affidano a
sedicenti esperti e gente di ogni sorta. Oggi, spesso, l’odierna cultura dell’autenticità
tende a scivolare nel relativismo morbido = secondo il quale le cose non hanno
un’importanza di per se , ma perché gli uomini ritengono che ce l’abbiano. Per Taylor
è follia pensare che gli uomini possano determinare cosa è importante e cosa non
lo è, cosa è giusto e cosa non lo è,
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semplicemente perché lo “sentono” in un certo modo. → il relativismo morbido
prevede che:
- Il fatto che io debba rispettarti in quanto diverso →non è una spiegazione: ce ne
vuole una più precisa e trascendente: secondo il relativismo morbido tutte le
opzioni hanno identico valore perché sono scelte liberamente ed è una scelta che
gli conferisce valore → non è così: il principio della differenza non basta da solo a
giustificare il rispetto dell’opinione altrui → la scelta deve avvenire non in base a
ciò che si ente, ma ad un orizzonte di significati trascendenti che le preesistono.
Io posso definire la mia identità solo in relazione a cose che hanno importanza e
che mi preesistono.
- Il fatto che l’adozione dell’autenticità assuma la forma del relativismo morbido
significa che non vi è alle spalle delle scelte nessun ideale morale: che vi sono
valori superiori ad altri → non è così: es. capelli/suonare Beethoven.
Viene provocato fortemente dalla società burocratiche e dalle logiche dei mercati →
in quanto si tende solo a eliminare qualsiasi valore che non sia la ragione strumentale.
Autenticità (3-7)
Da Autos = egli stesso + Entos = entro → Agire da se medesimo.
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Argomento tanto importante quanto complesso. Nell’opera di Taylor viene presentato
in modo ambivalente, sia nelle sue componenti positive, ma anche nelle sue
degenerazioni.
Essa ha le sue radici nel ‘700 con pensatori quali Rousseau che parla del “sentiment de
l’existence” = voce interna della natura presente nell’uomo → che va riscoperta ed è
difficile in quanto è spesso sommersa dalle passioni indotte dalla nostra dipendenza da
altri (come l’amour propre = orgoglio). Tuttavia deve la sua paternità all’età romantica
→ l’idea del giusto/sbagliato non è puro calcolo, ma ancorata ai nostri sentimenti
morali ed è fondamentale allo scopo di agire giustamente = è una nuova forma di
interiorità. Essa viene in particolare trattata da Herder (filosofo tedesco 1740/1803) →
egli ne fu il vero e proprio iniziatore: ognuno di noi ha il suo modo di essere uomo, ha
una propria misura: devo essere fedele a me stesso altrimenti perde la mia identità →
è uno speciale contatto interno con me stesso per articolare e scoprire la mia originalità
= devo sviluppare potenzialità che sono soltanto MIE. La mia vita si deve basare
dentro e non fuori di me.
Aspetti NEGATIVI → tuttavia, non tutti i rami in cui si sviluppa l’autenticità possono
essere ritenuti legittimi. Se essa scivola nello sterile soggettivismo diventa negativa e
potenzialmente pericolosa → diventa una “cultura del narcisismo” = mentalità in cui
l’autorealizzazione è l’unico ideale della vita senza considerare imperativi morali
esterni o impegni verso gli altri. È basato su un ideale di egoismo
→ non è nutrito da nessun ideale. Secondo Taylor, la cultura del narcisismo vive un
ideale che sistematicamente tradisce se stesso, in quanto tale ideale di cui essa vive
non è correttamente assimilato ed interno. La tentazione al soggettivismo è molto
facile, in quanto l’uomo è costantemente spinto ad adottare forme egocentriche, in
quanto i nostri legami con gli altri e gli imperativi morali esterni possono entrare
spesso in conflitto con il nostro sviluppo personale (es. esigente di carriera vs esigenze
familiari) → oggi a differenza di ieri questi vincoli vengono liquidati e delegittimati
molto più facilmente (i nostri antenati erano tormentati, noi no).
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Sviluppo storico → le idee individualistiche si sviluppano nel ‘600 in particolare nel
campo economico = si sviluppa l’iniziativa IMPRENDITORALE → MACRO
CAMBIAMENTI che poi iniziano ad agire nel MICRO, influenzando la formazione
individualistica dell’uomo anche nella vita privata e quotidiana → queste pratiche a
lungo andare spingono verso l’ATOMISMO SOCIALE e tendono a vedere la
realizzazione solo in termini di “io”, trascurando tutto il resto o altri, natura, Dio → si
alimenta l’ANTROPOCENTRISMO RADICALE.
Tutto ciò si consolida e mette radici nella società moderna con il grande contributo
della MOBILITA’ = l’uomo lascia la campagna/patria, per andare oltreoceano/città→
INURBAMENTO → metropoli = i vecchi legami vengono SPEZZATI → la società
burocratica e tecnocratica che se ne forma da sempre più valore alla RAGIONE
STRUMENTALE → rafforzando ulteriormente l’ATOMISMO. Lo slittamento verso
il soggettivismo può essere spiegato , con il passaggio storico alla società industriale
tecnologica- burocratica e con il movimento culturale che portò al NICHILISMO =
negazione di tutti gli orizzonti di significato (dura già da un secolo e mezzo) → alcuni
pensatori che fomentano il movimento sono Baudaire Denida/Nietzche/Foucalt:
decostruiscono l’autenticità e le radici stesse dell’Io → infatti, la caduta di tutti i valori
non fa altro che incrementare l’antropocentrismo = l’uomo si sente dotato di una
libertà sconfinata di fronte ad un mondo privo di principi morali e valori.
Arte e autenticità hanno percorso la stessa strada (a partire dall’800) → l’arte passa
dall’essere mimesis (imitazione) a poesis (creazione) = l’artista crea qualcosa ex novo,
senza rifarsi a qualcosa di preesistente. Lo stesso processo avviene nell’uomo
= ognuno di noi ha un proprio materiale originale, deve forgiare e plasmare se stesso
senza che l’ambiente esterno interferisca = è un’autodefinizione originale → non
basandosi più su modelli esterni → l’arte come l’autoscoperta implica
l’IMMAGINAZIONE = le persone che hanno raggiunto l’originalità nella loro vita
36
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le chiamiamo “creative”. Artista = è il tipo paradigmatico di colui che realizza con
successo l’autodefinizione. Arte = Autenticità → implicano creatività e la moralità →
in quanto se si parla di preservare l’originalità, il conformismo sociale, le regole
morali, le relazioni con gli altri vengono viste come NEMICI.
Il concetto di auto-definizione inizia ad associarsi sempre più alla definizione che Kant
da di bellezza : è una soddisfazione fine a st stessa → parimenti → anche l’autenticità
(autotrasparenza ed integrità) è vista come qualcosa che ha il suo pregio in se stessa =
ha una dimensione estetica non ha nessun fine morale, è quella che Oscar Wilde come
“Art for art’s sake” (l’arte per l’arte) → puro edonismo senza nessuna implicazione
etica. La moralità viene quindi usata come il soffocamento opprimente di ciò che c’è
in noi di primordiale ed istintivo/ i nostri desideri profondi e potenti → rischio →
affermare che tutti i nostri istinti devono essere liberati = negativo/pericoloso, in
quanto si rischia di giustificare la violenza/il fascismo.
Quindi l’autenticità implica
a) Creazione/costruzione/scoperta/originalità/opposizione alle regole della società
e campo della moralità.
b) Apertura ad orizzonti di significato (altrimenti si perde lo sfondo che può
salvare la nostra autodefinizione dall’irrilevanza → le modalità narcisistiche
della nostra cultura contemporanea sono infatti inadeguate: infatti, se definire
me stesso significa trovare ciò che è significativo nel mio essere diverso dagli
altri → il concetto di significativo non è solo presente all’interno
dell’individuo, ma anche esternamente: è un valore che lo trascende: deve
essere qualcosa di umanamente significativo: l’ideale dell’auto-scelta non si
raggiunge da solo, ma ha bisogno di una serie di questioni rilevanti. Inoltre, per
poter rispettare la posizione altrui → non è sufficiente il principio di diversità =
lo rispetto in quanto diverso, MA, ci vuole un ideale superiore al “relativismo
morbido” → rispetto la tua posizione in quanto uomo dotato di
pensiero/amore/ emozioni.
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- Auto-definizione nel dialogo = il tratto generale della vita umana è il DIALOGO
= diveniamo agenti umani non in modo monologico, ma dialogico,
nell’incontro/scontro con gli altri significativi (Mead). Non è importante solo nelle
prime fasi della vita per l’apprendimento del linguaggio, ma per tutta la vita. Non
funzione (come oggi molti tendono a credere) che una volta appreso il linguaggio/i
nel dialogo, poi possiamo procedere utilizzandolo per nostro conto. Non sviluppiamo
le nostre opinioni e posizioni riguardo le cose con una riflessione solitaria → ma
realizziamo la nostra identità sempre nell’incontro/scontro con l’altro q questa
“conversazione” continua finchè viviamo.
Identità = chi siamo/da dove veniamo → sfondo necessario perché i nostri
gusti/desideri/opinioni abbiano un senso.
Quindi → sbarrare la porta alle richieste provenienti dall’esterno dell’io significa
sopprimere le condizioni di rilevanza e di tendere alla banalizzazione. Io posso
definire la mia identità solo sullo sfondo di cose che hanno importanza → insomma
→ l’autenticità non è il nemico delle istanze che provengono dall’io, anzi le
presuppone.
Bisogna sempre tener presente che autenticità ≠ libertà che si autodetermina:
l’autenticità è si una libertà, in quanto implica che io trovi da solo, senza le influenze
del conformismo esterno, il disegno della mia vita, MA, mentre libertà che si
autodetermina non riconosce nessuna frontiera/nulla che io debba rispettare (portando
all’antropocentrismo). L’autenticità riconosce i valori morali e trascendenti l’uomo.
Bisogna quindi non polarizzare il conflitto tra coloro che sostengono l’autenticità e
coloro che la avversano (in quanto la vedono solo infarcita di egoismo), MA andare a
vedere il vero significato di autenticità come valore morale → essa, infatti, ci addita
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una forma di vita più responsabile! Una via di uscita è possibile (nonostante ci siano
molte condizioni negative che ci potrebbero far pensare il contrario, come il fatto che
gli uomini sentano i loro legami sempre più precari/aumento tasso di
divorzi/scioglimento delle unioni/atteggiamenti strumentali e manipolatori nei
confronti del nostro prossimo/natura.
Bisogna vedere la vera etica dell’autenticità. L’uomo non si è ancora arenato del tutto
in queste posizioni strumentalistiche ed atomistiche → è in corso una tensione ed una
lotta continua → quindi anche se le spinte della società burocratica e dei mercati ci
spingono in una direzione, possiamo ancora ribaltare la situazione spingendo nella
direzione opposta. Se tutto sta spingendo l’autenticità verso il basso, noi possiamo
riportarla in alto, vi sarà sempre una tensione continua e mai una soluzione definitiva.
L’autenticità ci da libertà e molta responsabilità = sta a noi “giocarcela” in modo
positivo o negativo. Se il meglio non potrà mai essere, nemmeno le forme più negative
e peggiori potranno essere ineluttabili: attraverso l’azione sociale/cambiamento
politico/conquista cuori e menti → le forme migliori possono guadagnare terreno (no
pessimismo culturale di Bloome Bell → è controproducente
→ in quanto va perso il vero ideale dell’autenticità).
Bisogna smettere di scorgere tendenze irreversibili → in quanto vi è in corso una lotta
il cui esisto p e resterà continuamente aperto. Bisogna cambiare l’ideale che ci anima e
dimostrare cosa esso realmente chiede.
Liberalismo della neutralità
Posizione assunta dai sostenitori dell’autenticità. essi sostengono che una società
liberale deve essere neutrale riguardo a ciò che costituisce una vita degna di essere
vissuta. essa, infatti, è quella che ogni uomo sceglie di vivere per sé, a suo modo,
senza nessuna interferenza da parte del governo.
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Modo-Maniera/Materia- Contenuto (8)
Materia dell’autenticità → è palesemente autoreferenziale: l’orientamento che scelgo
deve essere il mio. Materia-Contenuto: non deve per forza essere artificiale: non è
detto che le mie aspirazioni ed i miei desideri debbano andare contro qualcosa che sta
al di là di essi = se trovo appagamento in Dio/in una causa politica/cura della terra →
troviamo un appagamento genuino = sono ideali morali importanti ed universalmente
validi che ci trascendono. Lo sviluppo dell’arte moderna ci fornisce un buon esempio
= oggi il linguaggio poetico non può più fare affidamento su delle “corrispondenze”
(eventi e personaggi intrinsecamente pregni di significato), in quanto queste (da due
secoli) non reggono più. Oggi, quindi, non vi sono più ordini di significato
pubblicamente disponibili e questo porta allo sviluppo di nuovi linguaggi poetici →
non vi è più la “mimesis” della natura: un tempo era anteriore al componimento
poetico, ora invece condivide una comune origine nella creatività del poeta. I poeti
romantici hanno una nuova visione del cosmo; si sforzano di rappresentare qualche
aspetto della natura per cui non esistono ancora i termini adeguati = c’è un mutamento
qualitativo dei linguaggi artistici = Blake: sublime → è bello ciò che ci attrae e
potrebbe distruggerci → nell’arte romantica vi è quindi una soggettivizzazione della
maniera attraverso cui il poeta ci dice qualcosa: fa sua la natura/ ci emoziona/ la
restituisce con un linguaggio personale → allo stesso tempo, tuttavia, non avviene la
benché minima soggettivizzazione della materia = ossia → la poesia non comincia a d
avere come soggetto il poeta stesso, ma qualcosa che lo trascende → Joyce →
stream of consciousness come nella sua opera più importante, Ulisse = è una libera
rappresentazione dei pensieri di una persona come compaiono nella mente → quindi
senza una sintassi/frasi. → ciò che vuole fare emergere è l’uomo con i suoi conflitti
interiori. Il Dubliness utilizza lo stream of consciousness per indicare il frastuono
della città e l’alienazione dell’individuo. Trasportata alla situazione dell’uomo ciò
significa che : anche se non crediamo più all’esistenza di una Grande catena
dell’essere e quindi di non dovere più rispettare le classificazioni in modo preciso: ciò
non vuol dire che abbiamo il diritto di sopraffare
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la natura, ma anzi abbiamo ancora il dovere di ascoltarla → non dobbiamo essere solo
Antropocentrici.
Frammentazione (10)
Una società caratterizzata da frammentazione è una società in cui i suoi membri si
riconoscono sempre meno nella loro società politica / sono sempre meno capaci di
darsi una finalità comune e di realizzarla → ha luogo quando gli uomini si vedono
sempre più come esseri atomistici → ossia sempre meno legati da una comunanza di
progetti e di fedeltà (vi potranno essere raggruppamenti, ma solo parziali, mai la
società intera). Essa è la conseguenza dell’azione congiunta tra stato burocratico e
mercati → che tendono ad indebolire l’iniziativa democratica. Si è già visto
dall’esperimento comunista, che sbarazzarsi del mercato e dello stato burocratico è
impossibile, ma non si può nemmeno vivere nella concorrenza spietata e selvaggia →
ridimensionare i mercati comporterebbe dei costi, non farlo → comporterebbe delle
conseguenze fatali v per governare una società occorre dinamismo e saper creare
equilibrio tra esigenze che tendono ad annullarsi reciprocamente.
Il funzionamento attuale dello stato burocratico e dei mercati tendono a rafforzare le
figurazioni che favoriscono una posizione atomistica e strumentale nei confronti del
mondo e degli altri. Tocqueville teme un dispotismo morbido a causa della continua
perdita di interesse dei cittadini. → questo ad oggi, non è ancora un problema
evidente, ma la frammentazione lo è. → l’elettorato politico è sempre più frammentato
→ cosa che rende molto difficile mobilitare maggioranze democratiche che ad
un orizzonte comune di programmi e politiche perdere la capacità di costruire
politicamente efficace è come perdere i remi in mezzo ad un fiume → conseguenza: si
viene sempre più spinti verso atomismo e strumentalismo.
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Come combattere la frammentazione? Non è facile, essa cresce nella misura in cui gli
individui non si riconoscono più nella loro comunità politica ed aumenta
all’accrescersi dell’impotenza politica → oggi ci si riconosce sempre meno nei
rappresentanti politici. Secondo Tocqueville per alleviare il senso di impotenza ci
vuole una maggiore decentrazione del potere. Tecnologia/ragione
strumentale/atomismo, portano alle forme degenerate di autenticità, con tutti i
problemi della modernità → possono essere superati attraverso un’efficace ri-
contestualizzazione. Ci vuole una lotta complessa a vari livelli:
intellettuale/spirituale/politico, in cui i dibattiti politici si leghino con quelli che hanno
luogo nei contesti istituzionali come ospedali e scuole = ossia ambienti concreti.
Bisogna ridefinire in termini teoretici il posto della tecnologia e gli imperativi
dell’autenticità, la vita umana e il suo rapporto con il cosmo
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