OMOGENEITÀ DEL LATINO E FRAMMENTAZIONE DELLA ROMÀNIA
Source: Romance Philology, Vol. 69, No. 2 (Fall 2015), pp. 479-491
Published by: Brepols; University of California Press
Stable URL: https://www.jstor.org/stable/44741953
Accessed: 25-09-2024 14:50 UTC
JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide
range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and
facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected].
Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at
https://about.jstor.org/terms
Brepols, University of California Press are collaborating with JSTOR to digitize, preserve
and extend access to Romance Philology
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:50:09 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
B. IL LATINO E LA FORMAZIONE
DELLE LINGUE ROMANZE
<r&Q>
OMOGENEITÀ DEL LATINO
E FRAMMENTAZIONE DELLA ROMANIA
Non credo di allontanarmi troppo dal vero se affermo che, al di l
le contrapposizioni e di tutti i distinguo, la quasi totalità degli st
negli ultimi 150 anni si sono occupati del rapporto tra il latino e
romanze lo ha sempre concepito come un rapporto tra l'uno ed
plice. Ho detto altra volta1 che "si ripete l'archetipo di Babele:
omogenea area latina si incrina secondo linee di frattura sempr
merose". Non è fuori luogo rileggere la Bibbia (Gen. 11, 6-7):
Ecce unus est populus et unum labium omnibus . . . confundamus
guam eorum, ut non audiat unusquisque vocem proximi sui.
Citavo allora alcune tra le frasi iniziali della Ausgliederung di W
Wartburg, che nella versione italiana suonano così:
Si formò così un'area omogenea in cui il latino dominava in gen
unico idioma, anche per le masse incolte ... La frammentazione
patto dominio del latino nelle diverse aree linguistiche romanze è il
di un processo secolare.2
E facile mostrare quanto strettamente questa concezione si rifl
venga rafforzata da) l'immagine dell'albero genealogico delle lin
manze, che è intrinsecamente fondato sul motto "ex uno plures"
brerà pretestuoso attribuire a prototipi culturali di qualsiasi gen
che appare come un dato di fatto incontrovertibile. Non è una ed
la lingua madre, il latino? E non sono tante e diverse le lingue r
Bl. "Omogeneità del latino e frammentazione della Romania". In Latino volg
medievale, lingue romanze. Atti del Convegno della Società Italiana di Glott
rugia 28 e 29 marzo 1982), a cura di Edoardo Vineis, 11-22. Biblioteca de
Italiana di glottologia, 5. Pisa: Giardini, 1984.
Ristampato per gentile concessione della casa editrice Giardini.
1. Varvaro 1982.
2. Wartburg 1980:47.
Romance Philology, vol. 69 (Fall 2015), pp. 479-492. DOI 10.1484/J.RPH.5.1 10346 479
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:50:09 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
480 Romance Philology , vol. 69, Fall 2015
Eppure, nel coro di consensi che ha sempre acco
zioni del genere, c'è un settore discorde, anche
giunge fino al punto da oltrepassare il confine
che hanno tentato, con varia metodologia, una cro
cor più relativa dei fenomeni (in specie fonetici) c
l'eterogeneità delle lingue romanze, sono spesso
che la frammentazione è assai antica: per Georges
Křepinsky3 essa si era consumata già in età imperi
sec. III d.C. Ma ben più indietro risaliva Gustav Gr
famoso aveva scritto:
[12]
Die Spaltung der romanischen Sprachen wäre somit uralt. Sie begann zur
Zeit der Romanisierung der ersten ausseritalischen Provinz und vollzog sich
bei der Eroberung eines jeden neuen Gebietes romanischer Sprache aufs
neue; die Sprache der jedesmal ersten römischen Ansiedler in ihnen bildete
den Anfangspunkt der einzelnen romanischen Sprache.4
Come si vede, qui le lingue romanze sono considerate altrettanto anti-
che della conquista romana delle rispettive aree. Cade perciò il modello
dell'albero genealogico? Si rinuncia al concetto di latino unitario? Direi
di no, come conferma la constatazione che Schuchardt, cui qua Gröber
esplicitamente rinvia,5 disegnava egli stesso nella pagina in questione un
albero genealogico, sia pur diverso da quello consueto.6 Il latino unitario
viene piuttosto respinto all' indietro, verso una fase storica più antica, e
muta non il modello di albero ma l'albero preso a modello: per usare una
felice immagine coniata - credo - da Giovanni Garbini,7 naturalmente
a proposito delle lingue semitiche, l'albero che serve da modello è qui il
banano, un albero il cui tronco è esso stesso un succedersi e sovrapporsi
di rami-foglie, ognuna delle quali rappresenta una fase della lingua madre
ed insieme possiede e sviluppa una sua individuale identità.
Ma nel caso del latino una concezione del genere sembra contraddetta
dai fatti. Non a caso gli studiosi moderni che sono giunti a conclusioni
del genere sono romanisti che si affidano alla ricostruzione comparativa
e non filologi latini che debbano fare costantemente i conti con la docu-
mentazione antica. Dal punto di vista di costoro le cose stanno in maniera
ben diversa. Scriveva alcuni anni fa József Herman, studioso ben consape-
vole anche di problematiche assai moderne:
3. Cfr. Straka 1956 e Křepinsky 1978.
4. Gröber 1884:213.
5. Schuchardt 1866:82.
6. Cfr. su di ciò il mio volume, Storia, problemi e metodi della linguistica romanza (1968:
95-96).
7. Ho sentito usare questa immagine a Giovanni Garbini nel corso di una sua lezione a
S. Miniato nel 1979.
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:50:09 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
Omogeneità del latino e frammentazione della Romania 481
Le latin, y compris le latin vulgaire, était, dans les premiers siècles de notr
ère, une langue essentiellement unie. S'il y avait certaines différences dia-
lectales en Italie même, ces différences s'estompaient nécessairement dans
les provinces où le latin était exporté sous la forme d'une sorte de koinè
populaire.8
Né si tratta di affermazioni di principio. Un esperto del calibro di Einar
Löfstedt riassumeva l'esperienza di una vita di lavoro in queste parole:
Localizzare un testo solo in base a criteri linguistici si è dimostrato anche in
altri casi quasi sempre impossibile o estremamente difficile.9
[13] Egli affermava che "diversificazioni dialettali locali" si avvertono in la-
tino solo a partire dal VII-VIII sec.,10 mentre Herman è disposto ad alzare
questo limite al sec. V.11 In ogni caso, "la differenziazione profonda delle
varianti provinciali di latino, la sparizione dell'unità latina, sarebbe un
processo essenzialmente posteriore alla caduta dell'Impero" {ibid.).
Accanto a queste affermazioni di ordine generale, vorrei citare al-
meno un caso specifico. Tirando le somme del suo accuratissimo studio
sul latino delle provincie danubiane e balcaniche, H. Mihãescu afferma
che la latinità danubiana ha conservato fino all'inizio del sec. VII un ca-
rattere unitario ed un rapporto costante con la lingua standard (dopo
sec. IV, per il tramite di Costantinopoli, dove il latino era pur sempre
lingua ufficiale): "on ne saurait parler d'une langue roumaine avant le
VIIe-VIIIe siècles".12
E appena il caso di ricordare che Löfstedt ed Herman parlano del la-
tino in quanto esso ci è noto attraverso la documentazione scritta, mentre
già un Gröber teneva conto di ciò che egli stesso denominava vulgärlateini-
sche Substrate , cioè di quanto del latino parlato è possibile ricostruire attra-
verso il romanzo. Ciò però non fa che accrescere il carattere paradossale
della situazione: gli studiosi che esaminano il nesso tra latino e lingue ro-
manze a ritroso, dalle seconde al primo, postulano una frammentazione
antica; quelli invece che partono dal latino, ne devono ammettere l'unità:
On exagère à peine en disant que plus les romanistes avancent dans les re-
cherches synchroniques, plus ils sont convaincus de la diversité du latin im-
périal; et que, d'autre part, plus les latinistes scrutent les textes de la même
époque, plus la langue de ces derniers leur apparaît unie.13
Due percorsi inversi, ma che dovrebbero portare ad un incontro, sembrano
invece perdersi in itinerari alternativi.
8. Herman 1967:118.
9. Löfstedt 1980:65.
10. Löfstedt 1980:77.
11. Herman 1967:119.
12. Mihãescu 1978:72.
13. Vaananen 1970:141-142.
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:50:09 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
482 Romance Philology, vol. 69, Fall 2015
È troppo facile proporre una soluzione diastrati
si incontrano perché si collocano a livelli distinti.
tire dal romanzo ci conduce al livello basso, quello
trascurato, mentre la documentazione diretta app
livello almeno relativamente alto, spesso quello del
pre quello della lingua scritta. È questa la via d'
all'elaborazione del concetto di "latino volgare". No
nella selva di discussioni e [14] controversie solleva
etichetta,14 ma non credo azzardato dire che essa
di quanti non ne abbia risolti. In ogni caso, ciò che
surdo concepire il latino volgare come un sistema s
spetto al latino classico. Pensare ad una condizione
è contro ogni evidenza: la comunità linguistica lat
periale unitaria in senso geografico, dall'uno all'alt
(e soprattutto nella sua parte occidentale), ma anc
ceto-senatorio alla plebe più infima.
Quando si dice unitaria , è chiaro però che non
un senso forte: si intende dire soltanto che, ad es
rato e sapeva usare il latino di Olissipo non aveva d
di Londinium o di Carthago, oltre che di Mediolan
stesso modo, chi abitava gli angoli più malfamati
potuto, dal punto di vista linguistico, conversare c
imperiale. Non pretendiamo certo che, in queste i
faccia a faccia, gli interlocutori non avrebbero trov
localizzare la provenienza topica e/o sociale, dell'al
che, come il giovane Adriano fece ridere il senato
betica15 e come i convitati di Trimalcione suscitava
dei lettori di estrazione ed educazione più raffinat
dovunque ed a tutti. Ma questa sottile articolazion
parte inafferrabile, perché affidata a particolari s
l'accento) o ad allofoni che la grafia non restitu
più grave - sembra priva di rapporto con la futur
Romania e carente di quella regolarità minima
pratica, nella possibilità di localizzare un testo sul
linguistici.
Ritengo che sia venuto il momento di passare ad un esempio concreto,
all'esame diretto - anche se sommario - 16 di un preciso fenomeno. Ho
scelto la sonorizzazione delle occlusive sorde intervocaliche, per la sua
importanza nella storia linguistica della Romania. So bene che sarebbe
indispensabile studiare questo mutamento all'interno del processo più ge-
14. Cfr. ad esempio Schmeck 1955; Sofer 1963; Reichenkron 1965.
15. Historia Augusta , Hadr., 3.
16. Uno studio approfondito sullo stesso argomento sarà presto pubblicato altrove.
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:50:09 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
Omogeneità del latino e frammentazione della Romania 483
nerale di lenizione, ma è ben noto che Tesarne dell'evoluzione di -s- inter-
vocalica pone grandissime, e forse insuperabili, difficoltà e che, per varie
ragioni, la documentazione relativa alle occlusive doppie (o lunghe) ed
alle [15] sonore è di interpretazione meno facile. Del resto, poiché il mio
scopo non è quello di individuare la causa (o le cause) della sonorizza-
zione ma le modalità del suo svolgersi, l'isolamento di un cambio partico-
lare nell'ambito del fenomeno più ampio risulta forse meno pericoloso.
Il taglio particolare che ho dato alla mia ricerca permette un'altra os-
servazione. Almeno sul versante dei romanisti, l'interesse per la causa del
mutamento ha largamente prevalso su quello per la descrizione di ciò che
è accaduto sulla base di un vaglio ampio e severo della documentazione
disponibile, tanto latina che romanza. Ne consegue che non esiste ancor
oggi un rilevamento adeguato dei dati: ogni studioso si limita ad invocare
quelli più idonei a corroborare le proprie ipotesi o a contestare quelli che
le porrebbero in crisi.
E ben vero che la documentazione pone problemi non semplici. Le
vecchie monografìe su ciò che potremmo chiamare il "latino regionale"
(ad es. quelle di Pirson17 e di Carnoy18) offrono un materiale sovrabbon-
dante, che si rivela poi quasi tutto privo di forza probatoria. Gli studi ge-
nerali che tengono conto, oltre che delle iscrizioni, anche delle grafie de-
vianti di manoscritti, per lo più (perfino nel caso di un lavoro eccellente,
come quello di Elise Richter19) non distinguono tra lingua (e data) del
copista e lingua (e data) dell'autore, retrodatando così alcuni esempi di
secoli. Bisogna raggranellare la documentazione spogliando un buon nu-
mero di studi particolari e vagliandone l'affidabilità nei limiti di ciò che
è possibile senza autopsia delle lapidi e dei codici. I risultati sono a volte
diametralmente opposti: nel 1951 Antonio Tovar metteva insieme un ma-
nipolo tutt'altro che esiguo di esempi di sonorizzazione,20 mentre nel 1960
Harald Weinrich21 concludeva il suo riesame negando che esista una sola
prova di sonorizzazione in età imperiale.
Un nuovo esame della documentazione, che ho finora condotto, mi in-
duce a dar torto ad ambedue questi studiosi: gli esempi di sonorizzazione
esistono, ma non sono certo numerosi come pretendeva Tovar. Intanto ce
ne sono a Pompei, quindi avanti il 79 d.C. Anche ad eliminare pagatvs
(i CIL IV 1486) e logvs ("Not. scavi" 1913:360) per la possibilità di scambi
grafici tra c e G, rimangono opordiit ( CIL IV 4430.1), tridicvm (IV
5380.21), TRiDicj (IV 8830) e le scritture inverse sapina (IV 4800), scri-
pit (IV 1623) e scRiPis [16] (IV 6059b). Nell'82-83 d.C. abbiamo acce-
bit ad Aquileia ("Not. scavi" 1951:2) e, dalla stessa area nord-orientale, gli
17. Cfr. Pirson 1901.
18. Cfr. Carnoy 1906.
19. Richter 1934.
20. Tovar 1951.
21. Weinrich 1960.
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:50:09 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
484 Romance Philology y vol. 69, Fall 2015
esempi più tardi relativi a nomi propri (come abon
o alla velare (come amigo e domniga). Dalla Gallia
(CZLXIII 3682), VODVM (XIII 8775), abrili (XIII 1489
cristiane, casi come segolvm (XIII 7748), labidem, agolitvs (XIII 2375);
è da notare che quasi tutti gli esempi gallici sembrano di provenienza re-
nana. In Africa troviamo hobes {CIL VIII 13124) e megvm (VIII 20505) e
poi LVGVM e lo(c)um, in Pannonia grega {CIL III 10716) e feit < fecit
(III 4458), in Mesia segvndvm, in Oriente ablonivs = Apollonius {CIL II
2940) e, dai papiri, peccadis, pecado , galliga, tńglini, come ha rilevato Cam-
panile.22 Né vanno dimenticati i casi come, a Pompei, venere bompeiiana
{CIL IV 538) ed a Roma porticvsve bvblicae {ibid. I2 593) ed in Africa
in bace {ibid. VIII 25812), accanto ai quali Udo Figge23 colloca le nume-
rosissime forme romanze che postulano una Anlautsonorisierung, che egli
attribuisce per lo più a fonetica sintattica.
Anche in questa forma incompleta e schematica, la documentazione
ci permette alcune conclusioni: gli esempi di sonorizzazione sono relativa-
mente poco numerosi, ma affiorano un po' dovunque (e quindi non carat-
terizzano nessuna provincia in particolare) ed obbediscono a condizioni
diverse da quelle che constatiamo nelle lingue romanze.
L'ultima osservazione pare di limitata importanza: Tovar la superava
distinguendo diverse sonorizzazioni latine: quella dopo liquida e nasale;
quella di area centro-italica, che "pour des raisons chronologiques éviden-
tes autant que par sa différence ethnique" (op. cit., p. Ili) rimane al di
fuori del suo interesse; quella in posizione iniziale ed a volte anche interna
nei prestiti greci in latino, alla quale egli assimila tanto bompeiiana che
BiziNVS = pisinnus.24 Ma un'operazione del genere si giustifica solo in rap-
porto alle necessità della tesi sostenuta da Tovar (l'origine celtica del fe-
nomeno) e più in generale per la tendenza, naturale ma non perciò meno
ingiustificata, di considerare la situazione latina solo in rapporto agli esiti
romanzi. Che è poi la ragione principale per la quale gli esempi di sono-
rizzazione di Pompei e dell'Italia meridionale o dell'Oriente vengono per
lo più trascurati o addirittura sentiti come una sorta di disturbo.
Vale la pena, a questo punto, di ricordare un'osservazione assai oppor-
tuna del Vaananen: [17]
En effet, vouloir reculer de plusieurs siècles les isoglosses romanes actuel-
les, ce serait immobiliser, en quelque sorte, le latin préroman, auquel nul ne
voudra pourtant nier la vie, autant dire mouvement et évolution. Aussi, pour
avoir une idée des éventuelles variations du latin parlé, ne suffit-il pas de con-
sidérer les seuls traits qui annoncent l'état roman: les unes peuvent ne pas
coïncider avec les autres.25
22. Cfr. Campanile 1971:59.
23. Cfr. Figge 1966.
24. Cfr. Diehl 1924-1931, n° 4116D.
25. Vaananen 1970, 1:144.
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:50:09 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
Omogeneità del latino e frammentazione della Romania 485
Non a caso, la stessa osservazione aveva fatto, con riferimento alla fase
alto-medievale, ancor più trascurata dagli studiosi, Paul Aebischer - sia
pure in riferimento alla sola Toscana e concordando con una precedente
affermazione di Giulio Bertoni:
le panorama du consonantisme intervocalique du toscan actuel n'est nulle-
ment la continuation mécanique et ininterrompue des faits tels qu'ils se pré-
sentent en latin, . . . entre ce dernier et l'état moderne il y a eu, au contraire,
une large solution de continuité.26
Se restituiamo il loro peso ad osservazioni del genere, che trovano il loro
inquadramento teorico in un importante studio di Y. Malkiel,27 risul-
terà evidente l'inopportunità di sottovalutare la complessità della situa-
zione latina e delle lente ristrutturazioni che, durante l'alto medioevo,
hanno portato alla situazione delle lingue romanze che è storicamente
documentabile.
Tornando dunque al latino, il passaggio delle occlusive da sorde a so-
nore si avverte con evidenza a volte maggiore a volte minore in tutta l'ar
imperiale. Non è possibile tradurlo in una regola precisamente legat
vincoli contestuali, perché lo troviamo tanto all'inizio di parola che tra v
cali, come tra vocale ed ro tra vocale e nasale, tanto prima che dopo l'ac
cento. Dal punto di vista contestuale si tratta dunque, a quanto è dato s
pere, di una variazione libera, ed è probabile che la pronuncia conoscess
una gamma assai varia di articolazioni più o meno rilassate. Altrettanto
difficile è correlare in qualche modo le diverse varianti di questa variabi
con fattori esterni alla lingua. In sede diatopica, resta il dubbio tra l'am
missione che non ci fosse alcuna specificità del fenomeno ed il sospetto
che esso si presentasse a chiazze, in aree troppo piccole perché ci riesca
di individuarle con chiarezza. Come valutare, infatti, la circostanza che in
una Gallia assai avara di documentazione antica, l'isola romanza rimasta
accerchiata dai Germani lungo la Mosella (al più tardi nel sec. VII) non
conservi che tracce esigue di sorde ed anzi documenti già lo stadio frica-
tivo (*riparia > Riviera ) o addirittura il dileguo (*betuletum > Boley ,
attestato attorno al 1210)?28
[18] Quanto a variabili di tipo culturale o sociale, l'unica cosa che pos-
siamo dire è che, se non m'inganno, le varianti rilassate appaiono forte-
mente represse, almeno fin tanto che vige una norma (anche grafica) rela-
tivamente unitaria. A conferma di ciò si può addurre il basso numero delle
attestazioni per tutta l'epoca imperiale; ma ancor più significativo mi pare
il fatto che ancora più tardi ci dia un'ampia messe di sorde e neppure una
sonora sicura la raccolta di testi di età visigota su ardesia, messa insieme
26. Aebischer 1961:262.
27. Cfr. Malkiel 1964.
28. Cfr. Jungandreas 1971.
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:50:09 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
486 Romance Philology y vol. 69, Fall 2015
da M. Gómez-Moreno e studiata da M. C. Díaz y Díaz
riguarda - a quanto pare - amministrazioni pastoral
all'area tra Ciudad Rodrigo, Salamanca, Avila e Pl
laio della sonorizzazione celtibérica, solidamente pro
lui posta a base del fenomeno romanzo. Malgrado ci
delle greggi del re goto scrivevano esattamente stra
per una via pubblica', tonica 'tunica', cupas 'cubas', se
triticOy locum, Toleto, notitia, pur tollerando - come s
infrazioni alla norma antica.30
Questo esempio, come altri analoghi, mi sembra più significativo della
mancanza di sonorizzazione nei latinismi entrati in basco o nelle parlate
celtiche della Britannia. Come per questi ultimi ha osservato Campanile,31
possiamo pensare che tali prestiti risalgano ad un'epoca abbastanza an-
tica da non conoscere il fenomeno (o da averlo tutt'al più in casi spora-
dici). Ciò non di meno, qualche esempio di sonorizzazione si ritrova: cim-
brico, comico e bretone postulano *stubla e non stipula, *religum e
non RELIQUUM.32
Ancor più confusa è la situazione dei latinismi nelle lingue germa-
niche, che Gamillscheg ha cercato di risolvere33 ricorrendo alla discrimi-
nazione di fasi cronologiche diverse ed ammettendo che sul medio Reno
il passaggio da sorde a sonore sia avvenuto dopo l'invasione e sia stato
recepito non solo da chi ancora parlava (neo) latino ma perfino dai Ger-
mani, che avrebbero riadattato formalmente i prestiti latini che avevano
già accolto nelle loro parlate: ipotesi, questa, insieme troppo complessa e
troppo semplicistica, certo non a caso scomparsa nella seconda edizione
del vol. I di Romania germanica. Del resto, dato quello che abbiamo no-
tato [19] sull'origine renana di quasi tutti gli esempi gallici di sonore in
iscrizioni antiche e ciò che intravediamo sul romanzo della Mosella, biso-
gnerebbe semmai chiedersi come mai i Germani abbiamo preso a prestito
alcune parole ancora con la sorda: il che si spiega solo ammettendo che
anche in quest'area la variazione fosse ancora assai diffusa al momento
delle invasioni.
Che la situazione fosse la stessa anche in Africa mi pare dimostrato
almeno da due osservazioni, che vanno fatte accanto alla constatazione
che la documentazione diretta è scarsa. Intanto i latinismi del berbero,
che possono certo anche essere assai antichi ma potrebbero essere stati
assunti anche molto più tardi, almeno fino al tardo medioevo, conservano
sì la sorda in afurk < furca, ůafkunt < *focone, forse abaka < baca ecc.,
29. Cfr. Gómez-Moreno 1966; Díaz y Díaz 1966 e già Díaz y Díaz 1960.
30. Solo nell'ardesia XVI Gómez-Moreno (1966:56) leggerebbe un nicro ipercorretto, che
per Díaz y Díaz (1966:86) va però letto tres.
31. Campanile 1969:109.
32. Cfr. oltre a Campanile 1969 anche Jackson 1953:92 e 403.
33. Gamillscheg 1934, 1:22-23.
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:50:09 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
Omogeneità del latino e frammentazione della Romania 487
ma postulano pronunce più rilassate o francamente sonore in tabulga <
*bullica, amber < limitare, šiya < sica (mediato dall'arabo e quindi
tardo).34 Identico è il quadro che risulta dai toponimi antichi passati in
arabo nel sec. VII: abbiamo S.tīf < sitifi, T.yãtlr < theatrum, F.satu <
FOSSATu, ma anche Īģlīz e Taģlis < ecclesia e Ķābis < tacapls.35 Né di-
verso è ciò che possiamo ricavare dai latinismi individuabili nell'arabo
del Magreb. A risultati analoghi porta del resto un'analisi della situazione
nel mozarabico che non si lasci intrappolare da una presunta necessità
di stabilire univocamente se il mozarabico conservasse o sonorizzasse le
sorde.
Da queste sparse osservazioni non possiamo che giungere ad una con-
clusione che formuleremo con parole di A. Tovar (che pur non s'era sen-
tito di trarne le piene conseguenze):
Au lieu d'une évolution uniforme avec une ligne directrice vers les grandes
langues romanes, ce qu'il faut imaginer c'est une espèce de fourmillement
anarchique, une masse énorme de faits nouveaux, dont l'ordination en lignes
définies représente une lente action du temps et un effort des gens cultivés
pour fixer les langues nouvelles.36
Si potrebbe osservare che quanto risulta dalla documentazione in rap-
porto all'evoluzione delle sorde intervocaliche sia un caso specifico, non
passibile di generalizzazione. Invece i sondaggi fatti per altre evoluzioni
(ad es. la sorte di -s) mostrano che i nostri risultati sono generalizzabili.
In realtà, dunque, è proprio la presenza di una forte norma unita-
ria, quella del latino standard, che nello stesso tempo comprime e rende
possibile (perché non rischiosa) l'effervescenza della variazione [20] re-
lativamente libera (o che tale ci appare perché non siamo in grado di in-
dividuarne i condizionamenti o almeno le condizioni). La situazione in
età tardo-imperiale appare analoga in certo modo a quella del moderno
italiano popolare: grande variabilità, presenza di deviazioni dalla norma
identiche o almeno analoghe in tutte le aree italiane, incidenza assai più
debole del previsto dei localismi di origine dialettale (che equivarreb-
bero al sostrato preromano). Se è così, l'omogeneità del latino imperiale
va intesa più correttamente come un modo di coordinarsi della variabi-
lità in un sistema organico fermamente orientato da una norma. A volte
(in ultimo da parte di J. Jordan in una discussione al congresso di Palma
de Mallorca37) si è parlato di creolizzazione del latino che veniva assimi-
34. Mi servo naturalmente di Schuchardt 1918.
35. Cfr. Lewicki 1951-1952.
36. Tovar 1951:104.
37. "La créolisation a été la phase du latin vulgaire dans les provinces romaines où il a
appris par les populations autochtones, dans le procès de leur [?] transformation
idiomes néolatins" (Varvaro 1982, 1:273).
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:50:09 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
488 Romance Philology y vol. 69, Fall 2015
lato da masse alloglotte. La formulazione è forte, m
dall'accoglierla è soprattutto il fatto che nel creolo
essa si realizza come "acroletto", nella lingua europ
sistema sociolinguístico. Che in epoca antica il p
indigene al latino abbia conosciuto stadi analogh
(qualche testo invita a pensarlo), ma il latino parlato
pare sia stato ben presto (nell'arco di poche genera
il controllo della norma.
Rimanevano però, ripeto, ampi margini di variazione perfettamente
tollerabile proprio per la forza della norma, anche se più o meno colpita
da interdizione sociale. Questo complesso sistema sociolinguístico è stato
certamente scosso dalla crisi sociale del sec. III d.C.: non a caso l'indice di
variazione tollerata appare più alto a partire da quest'epoca (vale a dire:
aumenta la documentazione di tipo "latino volgare"). Ma esso non ha re
sistito al crollo dell'impero, che comportava quanto meno (a) il cambio
perlomeno l'integrazione delle classi dirigenti, (b) l'alterazione degli am
biti politici (restringimento delle entità "statali") ed economici (difficolt
nel mantenimento del mercato nell'ambito antico, pan-mediterrane
(c) la presenza di nuovi gruppi sociali alloglotti da assimilare, ma quest
volta dotati di prestigio socio-politico (i Germani), (d) un peso assai ma
giore dei modelli culturali religiosi, che già avevano intaccato le gerarch
di prestigio anche linguistico (imposizione di una norma "umile").
La norma antica si è trovata a scegliere tra la possibilità di un allenta
mento che le permettesse di conservare il contatto con la lingua parlat
in evoluzione sempre più rapida, ovvero una cristallizzazione che salvas
la continuità del patrimonio culturale ed insieme l'unità della cultura e
ropea. Le esitazioni sono state molte, ma da [21] Carlomagno in poi
prevalso la seconda opzione. Né forse era possibile fare diversamente, pe
ché si erano ormai formate, già per il latino scritto, consuetudini local
dotate di prestigio e stabilità, che era ben difficile ricondurre ad unità
non in nome del passato.
Non diverso era stato ed era il processo che investiva il parlato: il crollo,
o meglio l'impallidire, della norma antica aveva radicalmente modificat
il sistema sociolinguístico che abbiamo individuato più sopra; la variazion
libera in rapporto ad una norma unitaria sovralocale si era trasformata i
eterogeneità delle norme da luogo a luogo piuttosto che all'interno di u
stessa comunità. Ma le forze aggreganti ora erano mutate, non scompars
Avevano ambiti di azione più ristretti, veicoli diversi da quelli antichi (no
più la burocrazia, l'esercito, la cultura ma, ad esempio, il clero o i depo
sitari delle tradizioni locali), norme sostanzialmente nuove. Ma ricompo
nevano spazi linguistici relativamente omogenei. In un primo momento
si sarà trattato di aree modeste, ma è da qui che parte - in forme d
tutto svincolate dalla situazione antica - il processo di riaggregazione ch
porta alle lingue romanze quali ci sono storicamente note.
Cercherò di chiarire quanto dico accennando brevemente ad un paio
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:50:09 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
Omogeneità del latino e frammentazione della Romania 489
di esempl. J. Herman ha notato più volte il carattere molto conservat
(fino al sec. V) del latino delle province galliche, carattere che egli att
buisce alla loro vita ricca e pacifica ed alla spiccata personalità autonom
anche in campo linguistico, che reagisce alle innovazioni dall'esterno. L
romanizzazione delle Gallie gli appare "avanzata, ma non ancora tanto g
nerale da sfuggire al controllo di centri urbani in cui le tradizioni rom
erano fortemente rappresentate ed in cui il livello culturale, il grado
scolarizzazione erano relativamente elevati".38 Ma gli sconvolgimenti s
ciali, politici e militari del sec. V modificano radicalmente la situazion
le Gallie vivono una evoluzione profonda e rapidissima e, grazie alla po
zione di prestigio che una parte di esse acquista ben presto in un ambi
più vasto, sono in grado di trasformarsi in polo irradiatore di innovazio
e quindi in centro di nuove aggregazioni. Il fenomeno ha durata secola
l'assorbimento dell'area provenzale non s'è completato del tutto fino ad
oggi. Ma quel che conta è che ci sia stata un'improvvisa, epocale, inversio
di tendenza: dalla difesa di una norma unitaria al trionfo della specifici
dall'affermarsi di tratti fortemente evolutivi all'interno della regione a
loro esportazione in grazia di un prestigio nuovamente acquisito.
Ancora. Se noi assumiamo come primaria la frattura tra La Spezia e
Rimini, assegnata al sec. III, la sorte delle occlusive sorde in Toscana [2
appare contraddittoria e di nuovo suggerisce spiegazioni che sono insie
semplicistiche ed estremamente complicate (come quando qualifichiam
come prestiti tutti i casi di deviazione da quella che assumiamo come r
gola). Ma ciò che risulta dalla documentazione alto-medievale appare pi
adeguatamente rappresentabile come un processo attraverso il quale
variazione, calcolata da un lato in rapporto al numero delle forme colp
e dall'altro in rapporto all'estensione dell'area interessata, si riduce ori
tandosi su una serie limitata di parole e sull'area occidentale con epicen
tro a Lucca. L'isoglossa appenninica non è il punto di partenza di infilt
zioni di prestiti oppure la linea di ritirata di una isoglossa anticamente
meridionale: essa è il risultato di un lungo processo di assestamento de
variazione in presenza dell'influsso di potenti centri di aggregazione (i
ultimo Firenze e Bologna).
In quest'ottica l'opposizione tra omogeneità latina e pluralismo r
manzo, ben lungi dall'apparire come una replica dell'archetipo di Babel
ben lungi dall'essere un inesplicabile paradosso, si rivela solo come la sch
matizzazione superficiale di un lungo e complesso processo storico
porta da una situazione di equilibrio tra norma e variazione, tra forze a
greganti e tendenze disgregatrici, quale si era stabilizzata in età imperia
a nuove e diverse situazioni di equilibrio nelle singole aree romanze.39
38. Herman 1976:14.
39. Ringrazio Arrigo Castellani, Aldo Luigi Prosdocimi, Carlo Alberto Mastrelli, Enrico
Campanile, Emidio De Felice e Gualtiero Calboli per i loro interventi nella discus-
sione, dei quali ho cercato di tener conto.
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:50:09 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
490 Romance Philology y vol. 69, Fall 2015
Opere citate
AEBISCHER, paul. 1961. "La sonorisation des occlusives int
au début du VIIIe siècle d'après le témoignage de quelq
bards". Estudis romànics 8:245-263. Barcelona: Institut d'estudis catalans.
campanile, enrico. 1969. "Valutazione del latino di Britannia". Studi e saggi lingui-
stici^ (1969):87-110.
CARNOY, Albert j. 1906. Le latin d'Espagne d'après les ins
ed. Bruxelles: Misch 8c Thron.
Díaz y Díaz, manuel c. 1960. "Un document privé de l'Espagne wisigothique sur
ardoise". Studi medievali 1:52-71.
7:75-107.
Diehl, ernst, ed. 1924-1931. Inscriptiones latinae chrìstianae veteres. Berlin: Weid-
manns.
figge, UGO L. 1966. Die romanische Anlautsonorisierung. Ro
und Vorarbeiten, 19. Bonn: Universität, Romanisches Semin
GAMILLSCHEG, ernst. 1934-1936. Romania germanica, Sprach- u
der Germanen auf dem Boden des alten Römerreiches. Grundr
Philologie, 11/1-3. 3 voll. Berlin & Leipzig: de Gruyter.
Gómez-moreno, Manuel. 1966. Documentación goda en pizarra:
Madrid: Real Academia de la Historia.
gröber, Gustav. 1884. "Vulgärlateinische Substrate romanischer Wörter". Arch
für lateinische Lexikographie und Grammatik 1:204-254.
Herman, JÓZSEF. 1967. Le latin vulgaire. Que sais-je?, 1247. Paris: Presses unive
taires de France.
gresso internazionale di linguistica e filologia romanz
11:7-15. 5 voli. Napoli: Macchiaroli; Amsterdam: B
Jackson, Kenneth. 1953. Language and History in Early
vey of the Brittonic Languages, First to Twelfth Centur
Press.
Jungandreas, Wolfgang. 1971. "Die Moselromanen". ZRPh 87:32-73.
křepinsky, max. 1958. Romanica II: La naissance des langues romanes et l'existence
d'une période de leur évolution commune (latin vulgaire, période romane). Praha:
Československá akademie věd. Ora in Zur Entstehung der römischen Sprache, a
cura di Reinhold Kontzi, 301-365. Darmstadt: Wissenschaftliche Buchgesel-
lschaft, 1978.
Lewicki, tadeusz. 1951-1952. "Une langue romane oubliée de l'Afrique du Nord".
Rocznik Orientalistyczny 17:415-480.
LÖFSTEDT, Einar. 1980. Il latino tardo: aspetti e problemi. Trad. ital. con una nota e ap-
pendice bibliografica di Giovanni Orlandi. Studi grammaticali e linguistici,
14. Bologna: Paideia.
malkiel, YAKOV. 1964. "Initial Points versus Initial Segments of Linguistic Trajec-
tories". In Proceedings of the Ninth International Congress of Linguists (Cambridge,
Massachusetts, 27-31 August 1962), a cura di Horace G. Lunt, 402-405. Janua
linguarum. Series maior, 12. The Hague: Mouton.
mihäescu, h. 1978. La langue latine dans le sud-est de l'Europe. Trad, du roumain par
Radu Cre^eanu. Bucure§ti: Editura Academiei; Paris: Les Belles Lettres.
PiRSON, Jules. 1901. La langue des inscriptions latines de la Gaule. Bibliothèque de la
Faculté de philosophie 8c lettres de l'Université de Liège, fase. XI Bruxelles:
Office de publicité, etc.
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:50:09 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
Omogeneità del latino e frammentazione della Romania 491
REiCHENKRON, Günter. 1965. Historische latein-altromanische Grammatik , I. Wiesb
den: Harrassowitz.
Richter, elise. 1934. Beiträge zur Geschichte der Romanismen, I: Chronologische Phone-
tik des Französischen bis zum Ende des 8. Jahrhunderts. Halle: Niemeyer.
schmeck, Helmut. 1955. Aufgaben und Methoden der modernen vulgärlateinischen For-
schung. Heidelberg: Winter.
SCHUCHARDT, Hugo. 1866. Der Vokalismus des Vulgärlateins , I: Einleitung; Das soge-
nannte Vulgärlatein und das Wesen der Romanisierung. Leipzig: Teubner.
Akademie der Wissenschaften in Wien, Philosophi
Bd. 4. Wien: Holder.
šofér, johann. 1963. Zur Problematik des Vulgärlateins. Ergebnisse und Anregungen.
Wien: Gerold.
straka, Georges. 1956. "La dislocation linguistique de la Romania et la formation
des langues romanes à la lumière de la chronologie relative des changements
phonétiques". Revue de linguistique romane 20:249-267.
tovar, Antonio. 1951. "La sonorisation et la chute des intervocaliques phénomène
latin occidental". Revue des études latines 29:102-120.
Vaananen, VEiKO. 1970. "Sur le recensement des faits protoromans". In Actele ce-
lui de-al Xll-lea congres international de lingvistica §i filologie romanićk (Bucureçti,
15-20 aprilie 1968), a cura di Alexandru Rosetti, 1:141-145. 2 voll. Bucureçti:
Editura Academiei Republicii Socialiste Romania, 1970-1971.
VARVARO, Alberto. 1968. Stona , problemi e metodi della linguistica romanza. Napoli:
Liguori.
de lingüística i filologia romàniques , (7-12 d 'abril
cura d 'Aina Moll, Actes 1:224-226 e 229-230. 2 voll. Palma de Mallorca: Edito-
rial Moll, Cátedra "Ramon Llull" de la Universität de Barcelona i de l'Estudi
General Lul-lia de Palma de Mallorca, 1982-1985.
wartburg, Walther von. 1980. La frammentazione linguistica della Romania. Trad,
ital. a cura di Alberto Varvaro. Studi e saggi. Fuori collana. Roma: Salerno
Editrice.
WEiNRiCH, Harald. 1960. "Sonorisierung in der Kaiserzeit?" ZRPh 76:205-218.
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:50:09 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
PROBLEMI DI SOCIOLINGUISTICA NELLE ORIGINI DELLE LINGUE ROMANZE
Source: Romance Philology, Vol. 69, No. 2 (Fall 2015), pp. 493-502
Published by: Brepols; University of California Press
Stable URL: https://www.jstor.org/stable/44741954
Accessed: 25-09-2024 14:50 UTC
JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide
range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and
facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected].
Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at
https://about.jstor.org/terms
Brepols, University of California Press are collaborating with JSTOR to digitize, preserve
and extend access to Romance Philology
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:50:05 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
PROBLEMI DI SOCIOLINGUÍSTICA
NELLE ORIGINI DELLE LINGUE ROMANZE
Sull'origine delle lingue romanze, che è il più rilevante fenom
stico di questo tipo che si possa osservare nell'ambito del perio
(in quanto gli altri casi paralleli, che sono certo assai numeros
cano tutti, salvo quello delle lingue indiane, nella fase preistor
scritto moltissimo. Non mi riferisco soltanto all'ampia bibliogr
sto tema dall'inizio dell'Ottocento ad oggi, né agli scritti che c
con le dispute degli umanisti italiani del 1400: se ne discute alm
tire da Dante Alighieri, ed è probabile che già prima il tema fos
volte oggetto di curiosità almeno tra i litterati.
Eppure, non mi sentirei di dire che tutto sia ormai chiaro. N
colpa di chi se ne è occupato. Il problema è tanto complesso ch
ste che ad esso si danno risultano molto spesso parziali o unila
può sorprendere che l'inquadramento teorico con cui esso è af
riveli molte volte del tutto o in parte inadeguato.
In primo luogo, osservo che per alcuni la questione è puram
tinente alla dinamica del mutamento linguistico. E facile osser
le lingue, tutte le lingue, come ogni altro fenomeno cultur
sono soggette al mutamento. Così il latino si è trasformato nelle
manze. Questa trasformazione può essere considerata come la s
infiniti mutamenti intervenuti, man mano, in ogni settore del
della morfologia, della sintassi, del lessico del latino.
B2. "Problemi di sociolinguística nelle origini delle lingue romanze". In Ku
im Spiegel des Sprachwandels. Achtes Partnerschaftskolloquium der Facoltà
Filosofia der Università degli Studi di Napoli, Federico II, und der Phil
Fakultät der Heinrich-Heine-Universität Düsseldorf (vom 21.-24. Oktober 1
seldorf). Mit einem Anhang, "Neapel als Ort der Begegnung von italien
deutschem Geistesleben", a cura di Karl-Egon Lonne, 31-39. Kultur und
Tübingen 8c Basel: Francké, 1995.
Ristampato per gentile concessione della casa editrice Francké.
Romance Philology, vol. 69 (Fall 2015), pp. 493-502. DOI 10.1484/J.RPH.5.
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:50:05 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
494 Romance Philology, vol. 69, Fall 2015
In una prospettiva del genere, che considera il
bile e intrinseco alla natura di tutte le lingue, s'in
arrivati a ritenere che la lingua che sto usando po
null'altro che il latino di Napoli del 1991. Per chi
tiva resta semmai da spiegare solo il carattere cen
mica, per cui questo mio latino di Napoli del 1991
diversa del latino di Parigi del 1991. Che poi non è
ghi tanto facilmente in termini di dinamica ineso
mutamento linguistico.
Per converso, si può arrivare a ritenere, come q
che tutto sommato a Pompei, prima della catastrof
sostanzialmente italiano, e suppongo, a Lutetia Pa
Colonia Agrippina?). Posizione che potrebbe essere
boutade se non mettesse in campo un problema r
[32] rapporto tra forme scritte e realtà parlate. P
chi si occupa di linguistica storica, perché tutto c
mentare sulle lingue di ieri (o del più lontano pas
verso documentazione scritta e perché sappiamo
più scrupolosa trascrizione fonetica conservi tutt
Ma di scrupolose trascrizioni fonetiche, per le epo
non ne abbiamo.
Se dunque c'è chi, come Giuliano Bonfante, crede che le innumere-
voli iscrizioni pompeiane possano essere intese come la resa di un parlato
di fatto più evoluto, c'è stato anche chi (Roger Wright) ha sostenuto più re
alisticamente e con dovizia di argomentazioni che in realtà tutto il latino
scritto tardo, fino alla riforma carolingia, non faccia altro che imporre
una veste ancora latina, e sempre più inadeguata, a testi che venivan
letti come man mano sempre più esplicitamente romanzi. La conserva-
zione di una apparente latinità avrebbe permesso di fatto un sottostante
tranquillo sviluppo dei romanzi, conservando tra l'altro la possibilità di
una scripta univoca per letture divergenti. La relativa stabilità della form
scritta non avrebbe ostacolato una ben più accelerata dinamica del par-
lato, anzi avrebbe garantito al parlato l'accesso, senza problemi, alla tra-
dizione scritta. Fino a Carlomagno ogni testo sarebbe un romanzo scritto
alla latina e solo con lui e con Alcuino comincerebbe il vero latino medie-
vale e per converso si porrebbe il problema, fino ad allora inesistente, di
come scrivere in lingua romanza.
Se Wright avesse ragione, il problema delle origini romanze andrebbe
di molto retrodatato e soprattutto cambierebbe del tutto sostanza. Il vero
problema sarebbe quello della tarda rinascita del latino, comparabile in
fin dei conti a quello della rinascita dell'ebraico israeliano: un atto di vo-
lontà culturale e politica. Io sono tra quelli che non sono stati convinti da
Wright, e sia detto con tutta la simpatia per lo studioso e l'apprezzamento
per la feconda paradossalità di certe impostazioni britanniche. A me rie-
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:50:05 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
Problemi di sociolinguística nelle ońgini delle lingue romanze 495
see inaccettabile che si possa seriamente sostenere qualsiasi ipotesi di in-
tegrale lettura romanza del latino (anzi, di diverse letture) non solo sul
piano fonetico (per il quale ciò è plausibile e probabile, oltre che corrobo-
rato dal parallelo distacco tra grafia e pronuncia in lingue come l'inglese
e il francese di oggi), ma anche su quello di altri livelli. E evidente, ad
esempio, che il tardo latino non ha l'articolo e che tutte le lingue romanze
lo hanno, ma non si vede dove e come potesse scrivere o leggere articoli
chi si serviva della scripta latina. E evidente che gran parte del sistema ver-
bale è diverso, e non solo per l'evoluzione delle desinenze (che porrebbe
problemi limitati) ma per la creazione di nuovi modi e di nuovi tempi,
per una diatesi passiva del tutto mutata, e così via: ma non si vede come
ciò fosse avvenuto sotto la veste latina. Né la cosa diventa più verosimile se
consideriamo sintassi e lessico. Dopo tutto, l'inglese e il francese di oggi,
con tutta la loro distanza dal parlato, sono certo cosa ben diversa da un
anglosassone o da un francese antico letti alla moderna.
Insomma, quale che sia lo scarto tra scritto e parlato e quale che sia
la riconducibilità del secondo al primo, resta che latino e romanzo, anzi
romanzi, da un certo momento in poi (ma quale?) sono cose diverse. La
mano che su un libro mozarabico di preghiere del sec. VIII [33] aggiunse
un po' più tardi, probabilmente già a Verona, nella cui Biblioteca Capito-
lare il ms. è ancora conservato, le due righe:
separebabouesalbaprataliaaraba&albouersorioteneba&negrosemenseminaba
gratiastibiagimusomnipotenssempitemedeus
apparteneva a persona che si rendeva conto di scrivere due lingue diverse.
Direi anzi che i dubbi che, nel celebre indovinello, fa sorgere la singolare
presenza ad inizio di frase del pronome atono se (contro la legge generale
nelle lingue romanze antiche, che impone l'enclisi: Vassi, non Se ne va ),
questi dubbi devono essere superati proprio in ragione di una opposizione
così netta: cfr. albo versorio vs Deus omnipotens.
Beninteso, mi pare essenziale chiarire che riconoscere una oppo-
sizione di sistemi non significa dire nulla sulla loro reciproca distanza.
Nell'indovinello abbiamo forme che potrebbero anche essere latine (bo-
ves , semen , alba pratalia) e altre che invece, rispetto al latino, hanno quanto
meno terminazioni scorrette (tutti i verbi e albo versorio) o vocale tonica
alterata (come negro). Ma dal punto di vista romanzo solo la -n di semen
appare inammissibile. Ma basterà ipotizzare o una varietà di romanzo an-
cora abbastanza vicina al latino o un romanzo scritto qua e là alla latina,
insomma l'opposto di quel che pensa Wright.
Ma non vorrei, qui ed ora, occuparmi più a lungo di fatti singoli, come
anche dell'identificazione delle fasi successive di un mutamento lingui-
stico, del quale ci è chiaro il punto di partenza (latino) e quello di arrivo
(francese o italiano o castigliano, etc.).
Tengo invece a rilevare il paradosso per cui le due diverse metodologie
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:50:05 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
496 Romance Philology y vol. 69, Fall 2015
percorribili per ricostruire tempi e fasi del cambiam
tati sorprendentemente diversi. Se infatti ci si basa
latina, appare indiscutibile che fin oltre il crollo dell
il latino è sostanzialmente stabile e unitario. Nessuno
duare con successo la zona di origine di un testo sul
guistica. Non meraviglia, dunque, che i latinisti sian
stenitori di origini romanze relativamente tarde e ch
fatto, di questi fenomeni di frattura che consideran
che li riguarda.
Chi invece studia le origini romanze con metodolo
partendo dalle forme documentate nei volgari medi
teri come quelli della cronologia fonetica relativa, a
che la definitiva frattura dell'unità latina debba essere fenomeno antico,
da collocare ben addentro l'età imperiale.
Una quarantina di anni fa il Saturday Evening Post pubblicò una vi-
gnetta che rappresentava due operai che finivano di tracciare da estre-
mità opposte la linea di mezzeria di una strada e, arrivati alla stessa al-
tezza, constatavano con stupore che le due linee non si incontravano ma
restavano parallele. La situazione in cui si trovano latinisti e romanisti è
[34] sostanzialmente la stessa: se non se ne stupiscono troppo è perché, a
differenza degli operai della vignetta, si ignorano reciprocamente.
Ho detto altrove come questo paradosso sia la spia della inadeguatezza
di ambedue i metodi e come esso debba e possa essere superato. Mi limito
qui ad osservare che bisogna riformulare alcuni postulati essenziali:
1) il cambiamento linguistico non è un fenomeno di creazione e sostituzione
bensì un processo di mutamento di status reciproco tra alternative com-
presenti in una stessa fase di lingua
2) ne consegue che la velocità del mutamento non può essere considerata as-
trattamente uniforme; da qui discende la constatata assurdità di tecniche
come quella grottocronologica di Morris Swadesh; in realtà esistono fasi di
più o meno grande stabilità di status e fasi di dinamica accelerata.
3) non si può provare che queste accelerazioni o queste stasi siano determi-
nate da elementi interni e non da motivazioni (non cause!) esterne.
Se si tengono presenti queste considerazioni, s'intende come i dati lingui-
stici rilevanti perché accadesse il passaggio dal latino alle lingue romanze
siano tutti interni al campo di variazione (di ogni tipo di variazione) del
latino stesso, nel senso che erano compresenti come possibilità alternative
a bassa frequenza e/o ad infimo prestigio. In alcuni casi si trattava di al-
ternative di lunghissima durata e di vicende alterne, come lo status di -s o
dell'ordine delle parole. In altri casi il mutamento aveva guadagnato molto
presto una certa stabilità, come avviene per -ns- > -s-, ma si conservava
marginalmente la fase anteriore. In altri casi ancora, come per il collasso
della quantità vocalica, il problema era verosimilmente insorto tardi. E
così via. Quel che conta è che, al momento in cui le forze coesive, quelle
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:50:05 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
Problemi di sociolinguística nelle origini delle lingue romanze 497
che determinano la stabilità del sistema, vengono meno o si indeboliscono
o il mutamento di status tra alternative concorrenti diventa accelerato e
diverge da area ad area, in quel momento certe alternative siano presen
ed altre no, abbiano dunque possibilità di successo o siano fuori gioco,
e -nš- erano evidentemente fenomeni così emarginati che sono stati tr
volti, e lo stesso è accaduto per numerosissime altre opzioni. Basti rico
dare il lessico: bellum e equus sono morti, ma non del tutto equa , patru
è scomparso, ma non del tutto avunculus o amita. Lo stato del vocalism
impose ristrutturazioni generalizzate; il passivo e il futuro non resistette
alle forme alternative. E così via. Invece le consonanti sorde intervocaliche
o la -5 desinenziale divennero caratteristiche diatopiche di alcune parlate,
la lenizione delle sorde si impose da una parte e la scomparsa della -s da
un'altra. E così via.
Beninteso, converrà non dimenticare che quando parliamo di scom-
parsa di questa o quella soluzione, intendiamo sempre dire che essa, pur
uscendo dall'uso romanzo, si conserva in quella sorta di elitaria area di ri-
fugio che è l'uso conservativo (non comunque cristallizzazione) del latino
da parte del ridotto ceto dei litterati. Che è poi la sopravvivenza che rende
possibile il rifornimento dei prestiti colti, che dal latino arricchiscono con-
tinuamente le lingue romanze.
[35] Abbiamo dunque una fase di accelerazione non tanto del cam-
biamento linguistico di fatto, quanto del mutamento di status (e quindi
dell'espansione o riduzione) delle varianti singole, di interi subsistemi e
poi del sistema tutto. Questa fase può essere chiusa tra due date, approssi-
mative ma non ingiustificate, che sono - beninteso - le date non dell'ini-
zio e della fine nei singoli cambi ma della ridistribuzione degli status. Di-
ciamo tra 500 e 800 AD.
Fino all'inizio del sec. VI mi pare indiscutibile il sussistere della forza
di una norma standard che riesce ancora a controllare l'uso ed a rigettar
a livello di rusticità priva di prestigio le soluzioni che vengono meno all
tradizione secolare e violano le scelte dei ceti alti e colti. E ciò non solo a
livello di lingua scritta, il che è evidente, ma anche a livello parlato, com
sembrano provare - tra gli altri indizi - prediche come quelle di S. Ag
stino. Già S. Cesario di Arles, un secolo dopo, tradisce ben altri problem
Dopo l'800 è chiaro che esiste un francese, che è cosa ben diver
dalla varietà in uso nella penisola iberica, quale sarà documentata dal m
zarabico, e da quella in uso nella penisola italiana, quale trasparirà n
documenti latini e affiorerà a Capua nel 960.
Né mi sentirei di affermare che i tre secoli tra 500 e 800 abbiano visto
un progredire costante e sistematico della divergenza. Ritengo al contrario
che all'interno del periodo ci siano state fasi di maggiore dinamicità e mo-
menti di stasi. Ma non intendo entrare in una esemplificazione troppo tec-
nica. Torno dunque a dire che il cambiamento, come fenomeno sociolin-
guístico, può compararsi ad una scossa che abbia rimescolato gli elementi
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:50:05 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
498 Romance Philology, vol. 69, Fall 2015
compresenti nel sistema globale dell'uso, producen
l'apparizione di innovazioni ma soprattutto nuove
sorgono dal nulla e non nascondono la loro comun
Quale è stata la scossa? La risposta più tradizion
maniche. Che in antico questa spiegazione fosse po
corruzione (nel nostro caso imbarbarimento) e
dire molto. Le cose non cambiano se le invasioni sono considerate come
una catastrofe sociale e culturale che ha come conseguenza l'abband
dell'uso del latino e porta alla luce i volgari, con una sostituzione di li
gua che sarebbe parallela alla sostituzione dell' ¿/¿te sociale.
E però legittimo il dubbio che le cose non siano così semplici. T
lascio l'osservazione che in ogni caso l'esito di siffatta catastrofe stor
tranne che in una fascia marginale, non porta al trionfo della lingua p
lata da coloro che tale catastrofe avevano procurato, che è pure un fa
sul quale riflettere. Mi limito solo, per il momento, ad accennare al fat
che gli storici sono tutt'altro che concordi sull'interpretazione delle Völk
wanderungen come un fenomeno veramente catastrofico. Scrive ad esem
Karl Ferdinand Werner ( Histoire de France. Les origines , Paris, 1984, p. 31
On va finir par croire enfin que 'les incursions' du IIIe siècle ont "assassiné"
Paix romaine, tandis que les "grandes invasions" du Ve, qui ont, certes, tou
certaines régions de 407 à 409 et en 451 et quelques grandes villes - comm
Trêves - plusieurs fois, n'ont provoqué aucun changement profond d
manière de vivre dans une Gaule déjà "barbarisée". En revanche, les déci-
sions politiques de la seconde moitié [36] du Ve siècle ont fondé, entre le
puissances établies en Gaule, un nouvel ordre politique dans le pays, un o
dre qui ... est surtout caractérisé par la continuité.
Vorrei invece segnalare, innanzitutto, che abbiamo esempi di crisi l
guistiche, sia pure di grado meno acuto, che avvengono in condizioni st
riche assai meno catastrofiche. Il castigliano ha visto una cospicua ristr
turazione del consonantismo tra 1500 e 1600, al culmine della pote
europea e mondiale della monarchia spagnola. Le scansioni della sto
dell'inglese non sempre coincidono con eventi della portata della conq
sta normanna del 1066. L'instaurazione della diglossia (e il correlato fr
zionamento dialettale) nel mondo di lingua araba va di pari passo con
trionfale espansione dell'Islam sotto i primi califfi.
Il fatto è che tutti i fenomeni storici sono complessi e il rapporto t
lingua e società lo è, semmai, più degli altri. Pretendere che esista
lineare ed univoco rapporto di causa ed effetto tra un qualche, sia
grandioso, evento politico e/o sociale ed un cambiamento linguisti
non tanto sbagliato quanto ingenuo. Come sarebbe ingenuo leggere
chiave di riflesso puro e semplice l'effetto sulla lingua di qualsiasi mu
mento socio-culturale. Dopo tutto, tra i molti e delicati problemi che c
seguono alla riunificazione tedesca non mi pare che si debba annovera
quello di una divaricazione tra tedesco federale e tedesco "democratico
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:50:05 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
Problemi di sociolinguística nelle origini delle lingue romanze 499
per quanto essa fosse paventata dagli studiosi almeno da 30 anni. Eppure,
di cambiamenti socio-culturali ce ne sono stati, dal 1945 ad oggi!
Ma torniamo al nostro problema. La fase del tardo antico e dell'alto
medioevo è epoca di complesse ristrutturazioni sociali e culturali, prima
ancora che politiche. Esse vanno ben al di là del pur importantissimo fe-
nomeno di spostamento demografico al quale fa esplicito riferimento il
termine Völkerwanderung e non coincidono del tutto, cronologicamente,
con esso. Non a caso uno storico ha di recente sostenuto che la ristruttura-
zione decisiva, quella che mette veramente fine alla civiltà antica, è inter-
venuta solo sullo scorcio del secolo X, almeno in Borgogna. Mi riferisco a
Guy Bois, La mutation de Van mil (Paris, 1989). In ogni caso queste ristruttu-
razioni non sono certo avvenute tutte allo stesso tempo, nello spazio assa
ampio del mondo latino occidentale. Potrà benissimo constatarsi che una
è avvenuta prima in un'area e poi in un'altra o che esse sono contempora
nee in due aree ma conducono ad esiti differenti o addirittura divergenti
oppure che sono insieme non contemporanee e divergenti.
I fattori di squilibrio, che hanno messo fine alla relativa stabilità della
civiltà romana, sono stati molti, prima, durante e dopo le invasioni germa-
niche. Mi limiterò a qualche esempio, per mostrare le linee della mia im-
postazione. Chiarisco che tra i fattori più antichi in ordine di tempo non
metterei il grandioso fenomeno di assorbimento e acculturazione dell
popolazioni sottomesse, dalla Britannia alla Numidia, perché esso ha sem-
mai fornito gli elementi sui quali la posteriore dislocazione, indotta da
altre cause, ha costruito i propri risultati. Invece giuocano in profondità i
mutamenti delle forme del potere, così caratteristici del tardo Impero, e la
progressiva sostituzione del Cristianesimo ai culti pagani.
Nel primo caso si determina una sempre più netta contrapposizione
tra il sovrano, rivestito di caratteri divini, e tutti i suoi sudditi. Nel con-
tempo l'aristocrazia senatoria si trova [37] ad affrontare prima i tentativi
di accesso dal basso, poi l'esistenza di una alternativa aristocrazia gérma-
nica delle armi. Più tardi ancora si tenterà con successo il passaggio da ari-
stocrazia a nobiltà. Tutti questi sviluppi modificano profondamente lo sta-
tus sociale di persone e di interi lignaggi, ne rafforzano o indeboliscono il
prestigio sociale, incidono sui comportamenti linguistici propri e sull'im-
magine esterna dei gruppl. Una cosa era lo standard linguistico unitario
dell'aristocrazia senatoria romana, tutt'altro quello dei nuovi gruppi diri-
genti del Regno di Borgogna.
Ancor più importante per noi è la cristianizzazione. Ma la consueta
rappresentazione della diffusione del Cristianesimo come espansione a
macchia d'olio, in proiezione geografica bidimensionale, non dà un qua-
dro esatto delle cose. Il fenomeno prima è specifico di gruppi etnici ben
delimitati (ebraico, greco) e di ceti di norma bassi, poi diventa capace di
intaccare le classi superiori, infine provoca lo storico capovolgimento tra
Diocleziano e Costantino. Tutto ciò si limita però all'ambito cittadino; as-
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:50:05 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
500 Romance Philology y vol. 69, Fall 2015
sai più tarda e lenta e problematica è la penetrazion
conquista delle plebi rurali, l'eliminazione delle sacc
stenza. Si tratta dunque di una dinamica lunghissima
lenaria, ed estremamente complessa. Malgrado la
tra ceto dirigente romano e vescovi della chiesa cri
una parziale dislocazione dei rapporti sociali. Cit
scopico: il peso acquisito dai Franchi dopo la conver
spetto ad altre stirpi germaniche, prodromo di un
la corona di Francia e la Chiesa romana, che si ripet
innumerevoli altre volte e contribuirà non poco alla
gio medievale dello stesso francese.
Ma ancora più importante è rilevare che la pen
lenta ma più profonda e soprattutto più unificante
di quella stessa della cultura antica, porta man man
e spazio ai dislivelli culturali tra zona e zona e costri
alterità culturali di vecchia data (quelle residuali de
acculturazione antica) e di nuova (quelle determinat
di tribù germaniche o dall'assorbimento di genti ch
sico avevano avuto un rapporto esterno, come i Celti
come e perché la cultura medievale abbia una compl
cide del tutto con le aree del mondo antico e non discende tanto da feno-
meni antecedenti quanto dall'impatto volta a volta diverso della cultura
cristiana con quelle locali.
Non starò a menzionare ora tutti i fattori che hanno rilievo per il mu
tamento che ci riguarda: gli insediamenti germanici (diversi per origin
etnica, entità numerica, livello di precedente acculturazione, attegg
mento religioso, etc.), l'indebolimento e poi il collasso della scuola classi
e le specifiche caratteristiche di quella cristiana, il collasso del sistema d
trasporti (e quindi il dilatarsi dello spazio, la maggiore rilevanza delle d
stanze), il calo demografico e l'impoverimento economico di molte zone
il deperimento delle città, infine la rottura dell'unità mediterranea (Mao
metto e Carlomagno!).
Vorrei invece accennare al significato di tutto ciò per la coagulazion
delle lingue romanze. In modo che è certo diverso da zona a zona ed ha
cronologie tutt'altro che omogenee, [38] l'impatto progressivo dei diver
fattori ha prodotto man mano risultati sempre diversi ma sostanzialmen
analoghi. Gli orizzonti dei quali ciascuno ha coscienza erano nel mon
antico certamente diversi tra un senatore, per il quale tutto l'Impero e
patria, e uno schiavo di campagna (basta del resto richiamare a ques
proposito certi versi della prima écloga virgiliana). Ma per una buo
parte della popolazione (i ceti dirigenti, i soldati, i mercanti) lo spaz
vitale era quello della res publica romana , se non maggiore. Tale rester
nel medioevo, solo per la Chiesa, che in ogni luogo, per quanto remoto ed
isolato, ha però un doppio punto di riferimento: quello (anche cosmolo-
gico) dei luoghi santi e quello romano. Ma per il resto della popolazione
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:50:05 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
Problemi di sociolinguística nelle origini delle lingue romanze 501
l'orizzonte esistenziale non oltrepassa la regione in cui si vive, più o meno
coincidente con il vescovato o tutt'al più il regno germanico. Colpisce la
rapidità con cui l'identità del civis romānus v iene sostituita con una doppia
identità, quella universale del cristiano e quella locale, senza mediazioni
che non siano l'identificazione etnica.
Poiché da zona a zona cambiano i modi, le forme ed i tempi dell'im-
patto e della ristrutturazione, è chiaro che differenti ne dovevano essere
risultati. Si profilano così le diverse identità medievali, che sono più anti
che di quanto spesso si pensi. In Francia assai presto non si è più Roman
né Galli, ma non si è neppure Francesi (nel senso che si realizzerà assai pi
tardi): si è Alverniati o Provenzali, Orleanesi o Piccardi, e così via. Scriv
ancora Werner (op. cit., pp. 330-331) che da Dagoberto in poi gli abitant
a nord della Loira, quale che sia la loro origine, si considerano Franchi,
conquistano una identità nazionale e una fierezza sociale, ritengono che
i Romani nel regno franco siano stati sterminati, rimangano solo a sud
della Loira.
Come sorprenderci che in corrispondenza a queste identità regionali
si identifichino parlate che non sono più di ampia diffusione ma neppure
di ambito campanilistico? L'uso linguistico ha perso l'orientamento for-
nito dal prestigio di una tradizione e di un ceto dirigente, rafforzato dalla
scuola, confermato da strutture umane ovunque uniformi come l'esercito
e la burocrazia. Esso è stato lasciato a sé stesso e si è spontaneamente adat-
tato alla nuova situazione, si è rimodellato sulle nuove entità sociali e po-
litiche. Non abbiamo una polverizzazione, che in un certo senso, debole,
esiste sempre ed in un altro, più forte, impedirebbe quel minimo di comu-
nicazione umana che è irrinunciabile in qualsiasi società organizzata (e il
primo medioevo è tutt 'altro che una società ricaduta a livelli primitivi).
Abbiamo invece il prevedibile adeguamento del sistema di livelli e registri
d'uso alle nuove condizioni. Alla parlata locale non si contrappone più
una gamma di linguaggi burocratici e una varietà alta della cultura e della
scuola: si contrappone invece una parlata regionale, che condivide alcuni
tratti con le parlate regionali vicine e che basta per le necessità di una vita
più chiusa in orizzonti locali. Per le poche necessità di raggio più ampio
basta il latino, conservato come strumento di riserva, limitato a pochi.
Le lingue romanze sono dunque il risultato di un fenomeno che,
prima e più che linguistico, va considerato sociolinguistico. Esse però
rimangono confinate nell'oralità, sia perché il ridursi della pratica della
scrittura fa sì che l'oralità assorba funzioni che nella cultura classica [39]
le erano sottratte, sia perché la conservazione del latino comprime le loro
possibilità di acquisizione di registri e domini. Ha inizio così la storia della
conquista di status da parte dei volgari romanzi, quella storia che si può
forse considerare conclusa solo quando la Chiesa cattolica ammette che il
sacrificio della messa, la consacrazione dell'ostia, possa essere realizzato
dalla parola volgare.
Vorrei concludere con alcune considerazioni, che a prima vista po-
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:50:05 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
502 Romance Philology , vol. 69, Fall 2015
tranno sembrare fuori posto ma nascono da quan
recente volumetto di Bernard Cerquiglini {La nai
P.U.F., 1991), come sempre intelligente, suggesti
derà facilmente perché io non possa essere d'acc
lega di Parigi, che troppo strettamente lega la n
ramenti di Strasburgo dell'842: "Avant les Serme
qui s'est peu à peu dégagée du latin, s'échange div
tofrançais a reçu une forme commune, acquis u
à l'écriture" (p. 4). Questo atto fondante sarebbe
litico, ideologico, attuato in forma scritta da int
interesse del principe:
Exemplaires, donc, les Serments de Strasbourg. Ces
un parchemin annoncent la naissance du français,
Etats rivaux et de l'Europe des langues; elles donn
la langue et du politique; elles montrent le rôle de
sionnels, dans la constitution d'une langue nationa
il conviendrait promptement de les inventer. C'est
Nithard a fait. (p. 125)
In questa tesi, malgrado il richiamo a conc
ideologia francese e sotto la veste di una termin
nata, torna pericolosamente l'ipotesi idealista de
del documentato, dell'individuale, dello scritto, dell'intenzionale; torna,
insomma, il rifiuto o almeno la sottovalutazione del collettivo. Ma in lin-
guistica, sincronica o diacronica, su questa strada non si è giunti mai a
nessun risultato serio. Non è per nulla vero che prima di Nitardo potesse
esistere solo ciò che Cerquiglini chiama la vaúance, perché usi standardiz-
zati esistono in società orali non meno che in quelle alfabetizzate, e non è
vero che l'identità francese discenda da un atto di volontà politica. La sto-
ria linguistica ha certamente snodi essenziali, momenti chiave, figure di
rilievo, ma non ammette forzature come questa. Sul campo di Strasburgo
nell'842 non è nato il francese, e non è nata l'identità nazionale francese:
tutt'al più, in una condizione di necessità, vi è stato detto (non scritto) un
testo che la casualità della trasmissione storica ci conserva come il primo
in una lingua romanza, ma che primo non era certo nei fatti e che nessun
peso ha avuto nelle vicende successive delle parlate di Francia. La nascita
delle lingue romanze non può essere ceduta alla mitografia politica, deve
rimanere nell'ambito della linguistica storico-sociologica.
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:50:05 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
DOCUMENTAZIONE ED USO DELLA DOCUMENTAZIONE
Source: Romance Philology, Vol. 69, No. 2 (Fall 2015), pp. 503-514
Published by: Brepols; University of California Press
Stable URL: https://www.jstor.org/stable/44741955
Accessed: 25-09-2024 14:50 UTC
JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide
range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and
facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected].
Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at
https://about.jstor.org/terms
Brepols, University of California Press are collaborating with JSTOR to digitize, preserve
and extend access to Romance Philology
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:50:02 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
DOCUMENTAZIONE ED USO DELLA
DOCUMENTAZIONE
Il compito che mi sono assegnato è di una banalità così assolut
in una tavola rotonda di studiosi di questa esperienza, che sem
anche a me di dubitare dell'utilità delle considerazioni che
Vi prego dunque di concedere loro la maggiore indulgenza.
munque opportuno, anche in rapporto alle comunicazioni che
fortuna di ascoltare, che io precisi bene, fin dall'inizio, che il
ha come oggetto la storia della transizione dal latino alle ling
in tutta la sua complessità, vale a dire nella totalità delle man
scritte ed orali.
Dicendo questo, sono ben consapevole che le manifestazioni scritte
sono importantissime, ma anche che esse costituiscono solo una parte del
totale, ed una parte statisticamente insignificante perfino in epoche di
alfabetizzazione diffusa; figuriamoci in periodi di alfabetizzazione scarsa
e calante. E sono altrettanto consapevole che la scuola è importantissima,
ma non dimentico che non tutti vanno a scuola, e del resto anche quelli
che ci vanno hanno imparato a parlare prima di andarci. Se noi subiamo
la fascinazione dello scritto è per due ragioni del tutto comprensibili: per
il suo prestigio ed ancor più per la sua permanenza. Del passato noi non
abbiamo altra documentazione linguistica che quella scritta; ma questo
non ci autorizza a dimenticare che, anche nell'alto medioevo, la gente par-
lava, e comunque molto più spesso di quanto scrivesse.
Mi sembra salutare chiederci cosa sapremmo della situazione lingui-
stica italiana attuale se avessimo solo, ed in parte, la letteratura scritta,
diciamo Carlo Emilio Gadda, Leonardo Sciascia e Antonio Tabucchi,
B3. "Documentazione ed uso della documentazione". In La transizione dal latino alle lin-
gue romanze. Atti della Tavola Rotonda di Linguistica Storica (Università Ca' Foscari di
Venezia, 14-15 giugno 1996), a cura di József Herman, con la collaborazione di Luca
Mondin, 67-76. Tübingen: Niemeyer, 1998.
Ristampato con il permesso della casa editrice de Gruyter.
Romance Philology, vol. 69 (Fall 2015), pp. 503-514. DOI 10.1484/J.RPH.5.110348 503
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:50:02 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
504 Romance Philology, vol. 69, Fall 2015
molte opere di intellettuali, da Gianfranco Contin
Pietro Citati ad Alberto Arbasino, e una ricca scel
ma niente parlato, niente dialettologia, niente soc
spettare che il quadro risultante sarebbe straordin
posto con forza, ed a ragione, il problema della co
che in questo caso non dobbiamo però dimenticar
la coscienza linguistica su cui costruiamo le nostre
di chi scriveva, anzi di una parte di coloro che scr
sapere della coscienza linguistica di tutti gli altri?
fosse analoga a quella di chi la rivela esplicitamente
Comincio dunque da qualche considerazione,
sulla documentazione, distinguendo tra autografi
loro che studiano la transizione dal latino alle ling
a documentazione in larga parte di origine epigra
grande maggioranza è originale, a modo propr
buona parte, e per la parte più interessante per no
di semicolti. Orbene, noi studiamo questa docume
scńptionum Latinorum e su altre raccolte del gen
di grande merito ma che non sempre ci forniscon
contestuali necessarie per valutare la scrittura di
ratterizza per un grado relativamente basso di int
esempio a proposito di un fenomeno di grande ril
di -s in fine di parola.
[68] Chi raccoglie le testimonianze del dileguo
cherà di registrare CIL XI, 320, la stele di Antifont
sec. III, trovata a S. Apollinare in Classe e conserva
vile di Ravenna. Le prime tre righe sono:
MEMORIAE
ANTIFONTI
QVIVIXIT AN
Il fatto che la presunta perdita di -s si riscontri proprio alla fin
condo rigo può indurre a cautela già chi utilizzi la stampa, ma l'a
della stele1 permette di osservare che il manufatto, di buona qua
adorno di un discreto bassorilievo di Hermes erioforo o del Buon P
si presenta in realtà così:
ANTI f ONU
1. Che è attualmente esposta in mostra a Rimini ed è riprodotta nel catalogo: D
alle genti. La diffusione del Cristianesimo nei primi secoli , a cura di A. Donat
Electa, 1996, p. 187, n° 28.
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:50:02 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
Documentazione ed uso della documentazione 505
Il lapicida ha dunque iniziato il secondo r
uno spazio generoso, come a fare corrispon
rigo, che ne avrebbe però contate 10, ad
aveva 8; tracciando t sotto m, egli si è reso
incontro o ha pensato, a ragione, che era e
trasversale assai breve, occupasse lo spazio
era troppo tardi e nessuna densità avrebbe
che per -s. Anche il rapporto tra il terzo e
problema della centratura andava al di là
cida. In conclusione, utilizzare CIL XI, 3
di -s finale in Romagna alla fine del sec. II
azzardato.
Da ciò a dire che tutti i casi di omissione di -s in fine di rigo vadano
scartati, ci corre un bel po'. Al Musée du Berry a Bourges è esposta P iscri-
zione C/LX III, 11.085 (qui la lettura è però errata):
CINTVSMOSAREGARIO
Si tratta di due nomi gallici, il primo ( Cintusmos 2) con la finale, il se
(Aregario) senza; ma il lapicida avrebbe avuto ogni possibilità di i
anche qui la finale (egli scrive le S sotto forma di ß, con Pasta una
sinistra e Paîtra a destra), ma ha preferito spaziare tra loro le ultime l
Si tratta dunque di un caso effettivo di alternanza tra conservazion
guo di -S, problema su cui tornerò più avanti.
[69] Quando non ci serviamo di iscrizioni, bensì di manoscritti, i
blema senza dubbio cambia, ma non è per nulla semplice. Si è oss
già da molto tempo (ma non sempre si tiene presente) che bisogna
temente avere la cautela di distinguere tra data dell'opera copiata
del manoscritto che ce la conserva: ai fini linguistici è solo quest
purtroppo, ad aver valore. Un'opera della arditezza intellettua
minuzia documentaria di Richter (1934) è resa fragilissima dall'ob
tale precauzione.
Basterà fermarci un attimo ad esaminare la documentazione della le-
nizione delle consonanti sorde intervocaliche (Richter 1934, §§ 82, 108,
118, 123). La maggior parte degli esempi è stata ricavata dalle seguenti
opere, alle quali è stata assegnata la data segnata accanto:
Filastrio Sec. IV
Formulae Andecavenses a. 514
Jordanes, Getica a. 551
Lex Salica Sec. VI
Gregorio di Tours Sec. VI
Fredegário Prima metà del sec. VII
Editto di Rotari a. 643
2. Per il nome proprio gallico Cintusmos cfr. Lam
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:50:02 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
506 Romance Philology y vol. 69, Fall 2015
Trascuriamo pure la discutibilità, spesso assai alta
date. Il fatto grave è che i rispettivi manoscritti so
tardi. Ad esempio, i due testimoni di Filastrio, vesco
del sec. IV, sono del IX sec. (cfr. Marx 1898), e questa
da assegnare al pudore per putore di 11,1. 3 Così i due m
della storia di Jordanes, quello di Heidelberg e qu
attribuiti ai secoli VIII-IX; gli altri sono addirittura p
segnare dunque al 551 la scrittura inversa Novietune
fondamento. I manoscritti più antichi della Legge
dell'inizio del sec. IX (cfr. Eckhardt 1962): pertanto
non può essere datato al sec. VI. Né sono contempor
Gregorio di Tours che sono i portatori delle lezioni R
negatum e lebrosi.
La morale che traggo da esempi del genere è bana
nale degli esempi stessi. La documentazione va trattat
cospezione, studiando dove è necessario il contesto a
non è possibile (e spesso non lo è), la prudenza deve
giore. Se la documentazione non è originale, la data
denza è quella del testimone, non quella dell'opera. Q
dovrebbe accuratamente distinguere tra evidenze ce
bili ed evidenze dubbie e basarsi sul principio che è
cumentazione scarsa ma sicura che non una massa di materiale dubbio.
Ma questo è appena il primo passo, la cautela minima per una ricerc
i cui problemi veri cominciano dopo. Nella mostra di Rimini, che ricor
davo sopra, è esposta anche una iscrizione tombale romana (catacom
di S. Ippolito, oggi nei Musei vaticani, della fine del sec. IV) che si p
leggere nell'edizione del Silvagni (1922 - ) in Inscriptiones Christianae Ur
Romae septimo saeculo antiquiores (p. 188, n° 1513). Anche questa volta
nella lastra un chiaro intento artistico: a sinistra, in un riquadro, sono
cise le [70] teste di Paolo e di Pietro, con il monogramma di Cristo e i d
nomi; a destra si legge:
ASELLVBENEMBERE
NTIQVIVICXITANNV
SEXMESIS OCTODIES
XXYII
Malgrado la buona qualità delle due figure e quella discreta dei caratte
lingua appare assai trascurata. Anche qui manca -s in annv, in fin d
ma non senza che lo spazio in realtà ci fosse, sia pure per una correzio
po' alla buona. Non si osserva nessun addensamento della scrittura v
destra, come se per lo scalpellino non ci fosse stato alcun problema.
darsi dunque che per lui, e per il committente, l'epigrafe andasse ben
3. Che è peraltro di uno solo dei due, poiché l'altro non ha i primi venti capitoli.
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:50:02 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
Documentazione ed uso della documentazione 507
Ma a sinistra petrvs e pavlvs si leggono a
blema è interpretare la cooccorrenza di -s e
zioni teoricamente possibili sono cinque:
1) le due frasi sono state scritte da due scribi d
2) chi ha scritto annv ha commesso un puro e
3) annv si spiega solo per mancanza di spazio;
4) le condizioni contestuali delle forme diverse
5) esisteva una variazione linguistica che amm
La conoscenza della lapide mostra che i ca
che un margine non utilizzato rimane, 3) sa
che si sia preferito lasciare Terrore linguis
margine. Restano dunque 4) e 5). La prima
che priva di ragioni sia perché le forme so
quelle che conservano -S sono epigrafi isolat
è all'interno di una formula frequentissima
finali assolute, la terza semplice finale di p
che poi è proprio la stessa). Ma non si può e
la quale ci troveremmo dinanzi ad una sost
perché linguistica, nei riguardi della -s fina
fa scrivere può tanto esserci che mancare.
che combinarsi insieme.
Orbene, ho trattato con minuzia un caso elementare perché mi per-
mette di fermarmi su un punto di grande rilevanza metodologica. Non
sono stati pochi gli studiosi che hanno considerato l'apparizione docu-
mentaria di un volgarismo come la prova della diffusione più o meno
larga del fenomeno corrispondente. Ma, nel fare ciò, si è sottovalutata (se
non proprio negata) l'esistenza della variazione. Il procedimento seguito
non è privo di ragioni. Lo formulerei in questi termini: "Poiché l'innova-
zione è considerata un errore e, come tale, viene evitata, ne consegue che,
dove ne troviamo documentazione, tale documentazione è la spia di una
diffusione più o meno generale, che solo in questo caso riesce a superare
la barriera del rifiuto". Più poeticamente, si può dire che in linguistica sto-
rica una rondine fa primavera, come vuole il modo di dire italiano. Gran
parte delle prime attestazioni di fenomeni evolutivi che vengono registrate
nei manuali di linguistica storica sono basate su questo principio e trasfor-
mano una evidenza puntuale in affermazioni generali.
E lecito dubitare della correttezza della procedura. In ogni caso, l'os-
servazione del presente ci mostra una realtà del tutto diversa. La scripta dei
semicolti di oggi, come [71] del resto le realizzazioni orali di tutti quanti
noi, è oscillante, si presenta come un campo di variazione. Perché la situa-
zione del passato dovrebbe essere diversa? Perché chi scrisse pavlvs, ma
annv, non avrebbe dovuto usare l'una e l'altra forma? Non mi pare cor-
retto affermare con sicurezza che la seconda forma prova che la -s cadesse
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:50:02 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
508 Romance Philology y vol. 69, Fall 2015
sempre e la prima è solo la passiva ripetizione di
forma fossilizzata vs. una forma viva. Quello che n
sono due forme in concorrenza nell'uso, forse con u
di funzione, certo con una qualche differenza di pr
della prima delle due.
Ancora una volta, bisogna richiamare alla pruden
zione del documento, che è quanto dire ai canoni pi
per questo sempre rispettati, della filologia. Il docu
rappresentativo della realtà, ma non è tutta la realtà
ed interpretare significa stabilire in tutta la sua com
mente grande, in quali rapporti il documento stia co
stica. Se il documento ci dà due informazioni contr
semplice dire che una è conforme alla realtà e l'altra
tutte e due, e spiegare anche la loro compresenza. N
il documento prova che un fenomeno linguistico es
che sÌ3 generale né che esista solo da quel momento
Le conseguenze di queste considerazioni sono di
La documentazione a noi disponibile è un campione
cidentale di un universo (l'insieme della documentazione scritta a suo
tempo esistente), che a sua volta ci serve per ricavare conclusioni sugli usi
parlati. Noi facciamo dunque una doppia estrapolazione: dal campione
scritto all'universo scritto e dall'universo scritto all'universo parlato.
Il procedimento sarebbe complesso e malsicuro anche se avessimo una
chiara idea del rapporto che intercorre tra il campione e l'universo, se po-
tessimo cioè ipotizzare se e come il campione rappresenti l'universo. Ma
neanche questo ci è noto.
Chi assume che la presenza documentale di un fenomeno provi l'esi-
stenza e la diffusione di tale fenomeno lungo una traiettoria lineare che
contempla solo assenze o presenze, arriva facilmente (una ciliegia tira l'al-
tra) alla conclusione, diciamo, che a Pompei si parlasse italiano. In questa
prospettiva, infatti, la presenza documentale acquista differente valore se
si tratta di fenomeni normali o di innovazioni. Da un lato, ogni attesta-
zione in latino di un fenomeno innovativo destinato a fortuna romanza
prova la avanzata diffusione di tale fenomeno. Invece le assai più frequ
attestazione di fenomeni normali non provano null'altro che la forza
una tradizione scrittoria morta. Non si sa, però, che valore si debba a
gnare alle non poche attestazioni di fenomeni innovativi che non han
sbocco nel romanzo (o quanto meno nel romanzo dell'area geografica i
questione): a quanto pare, esse non proverebbero nulla. Infatti nessun
ne occupa, mentre sono convinto che dovrebbero attirare molto di pi
nostra attenzione.
Orbene una siffatta assegnazione di valori diversi a parti diverse del
nostro campione è palesemente infondata. Nessun modello di rapporto
tra campione ed universo può essere così cervellotico, o meglio così dipen-
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:50:02 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
Documentazione ed uso della documentazione 509
dente dalla nostra conoscenza del futuro, c
indispensabile ammettere tra campione ed
ria, un rapporto più equilibrato e meno co
cui disponiamo. In linea di principio l'un
parte delle caratteristiche del campione.
[72] Chi dunque esamina senza pregiudi
dinariamente ricca raccolta quasi 150 anni
1868), non può non riconoscere in essa i
campo di variazione, quale risulta da uno s
semicolti. La direzione della variazione è ete
rebbe prevedibile per qualsiasi lingua parla
vasta come quella dell'Impero romano ed
così articolata, con gradi assai diversi di ac
come quello, erano possibili, ed infatti si v
tipo; la rispettiva diffusione era però condi
cettate da ceti o da centri dotati di prestig
tanto che esisteva un controllo sociale, e q
stanza forte. Un fenomeno dovuto al sostra
nell'uso latino, ma è molto improbabile ch
graficamente e, soprattutto, connotato com
un gruppo sociale di prestigio se ne facess
celtismo sopravvivesse. Era così possibile u
periodo, che può trovare riscontro, per ese
tre secoli ha caratterizzato l'inglese del Nor
Liberiamo così la nostra documentazione dalle costrizioni di tesi
troppo preconcette e di metodi troppo rigidi. Lasciata a sé, la doc
tazione del latino imperiale dà piuttosto il senso del caos, che
risultato naturale di una variazione molto vivace, sia pure contro
orientata dall'esistenza di una norma unitaria (non dalla conoscenza del
futuro, che introduce nel gioco, per noi, un vantaggio indebito ed illuso-
rio). Bisogna dunque elaborare strumenti per capire il caos. Studiosi sot-
tili ed avvertiti, come il nostro József Herman, hanno fatto giustamente
ricorso alla statistica: giustamente, perché si tratta certamente del metodo
migliore per passare in maniera probabilistica dal campione (dei docu-
menti scritti giunti fino a noi) all'universo (la totalità degli usi linguistici
reali) e per misurare le più sottili oscillazioni del caos. Io credo infatti
che, ad esempio, le indicazioni di Herman sullo stato del vocalismo nelle
diverse aree dell'impero siano ben fondate e convincenti.
Ci si può chiedere, però, se la statistica ci dica tutto. La linguistica
è una disciplina sociale; come tale, alla constatazione delle quantità si
deve aggiungere il giudizio qualitativo, la notazione di valore. La docu-
mentazione di un fenomeno sociale non è funzione, soltanto, della sua
ricorrenza: è anche funzione del suo prestigio. Un fenomeno sociale for-
temente stigmatizzato, anche se diffuso e frequente, è per ciò stesso meno
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:50:02 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
510 Romance Philology, vol. 69, Fall 2015
documentato, perché lo si evita con maggiore cur
pericolosità di questo principio: ad applicarlo con r
a sostenere che un fenomeno mai documentato sia diffusissimo ma forte-
mente tabuizzato. Lo dico subito per ricordare a me stesso ed agli altri di
quanta prudenza ci sia bisogno su questo terreno.
Ma, fatta questa avvertenza, passo subito ad osservare come questo
principio sia in evidente rapporto con le scale di implicazione, adoperate
già molti anni fa da Charles-James N. Bailey e David De Camp e soprat-
tutto Derek Bickerton nelle indagini sul creolo (cfr. Hudson 1980:211-
215). Il creolo, non a caso, è quel settore della linguistica in cui si è più
disposti a riconoscere che si ha a che fare con la variazione. Negli studi
creoli si è osservato da tempo che la variazione che ciascun parlante rea-
lizza tra acroletto (il sistema linguistico più prestigioso a disposizione di
un gruppo sociale) e basiletto (quello meno prestigioso) non è del tutto
caotica. Infatti alcuni fenomeni appaiono sempre insieme ad altri, mentre
non è vero il contrario, sicché i primi implicano i secondi, ma i secondi
[73] non implicano i primi. Lo schema è di questo tipo: dati i fenomeni a),
b), c), d) ed e) ed i parlanti 1), 2), 3), 4) e 5), si constata che
1) usa a
2) usa a + b
3) usa a + b + c
4) usa a + b + c + d
5) usa a+b+c+d+e
Il parlante che usa il tratto e) userà dunque anche a), b)
chi usa b) potrà anche evitare o ignorare c), d), e), e così via. U
(inedito) condotto anni fa su alcuni parlanti napoletani ha m
la variazione tra italiano e dialetto in una nostra regione è og
analoga, se assegniamo all'italiano la qualifica di acroletto e
verace quella di basiletto. Tutti si saranno accorti che la scala
zione è un modo formalizzato per dire che il fenomeno b) è
tizzato, più volgare del fenomeno a) e lo è meno del fenomen
tanto ovvio è che tutto lasci prevedere che b) sia più docume
ad esempio.
Mi chiedo dunque se lo stesso modello non possa risultare
che per il latino imperiale e post-imperiale. Esso servirebbe in
ganizzare l'apparente caos. Non c'è dubbio, ad esempio, che un
come nš > s vada considerato alla stregua di a), assai poco stig
mentre la lenizione delle sorde intervocaliche viene documen
relativamente tardi, sicché appare fortemente stigmatizzata.
Possiamo peraltro prevedere che in aree diverse la scala di
zione non fosse identica, vale a dire che alcuni fenomeni fossero consi-
derati più volgari in alcune aree, meno in altre (inserirei in questa classe
tutti i fenomeni di sostrato, che potevano anche essere poco tabuizzati
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:50:02 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
Documentazione ed uso della documentazione 51 1
nella zona di contatto ma respinti altrove). Ma ag
struzione di scale di implicazione non serve a pr
funziona in una situazione storico-sociale stabile,
di acculturazione progressiva. In altri termini: la
stula un rapporto stabile tra acroletto e basiletto,
pio di orientamento del caos linguistico. Il caos v
bile, senza che ne risulti bloccato il funzionamento della comunicazione,
proprio dalla stabilità del quadro di riferimento.
Se accettiamo questo, o ogni altro, modello adatto a permetterci una
comprensione sistematica del funzionamento di quella variazione caotica
che si intravede nella documentazione dei volgarismi del latino imperiale,
avremo guadagnato uno strumento per dare ordine e significato alla do-
cumentazione che tradizionalmente si è chiamata "latino volgare". Ma re-
sta il problema per noi capitale: quello di capire come sia avvenuta la tran-
sizione dal latino alle lingua romanze, se si sia trattato di una graduale
evoluzione storica o di un mutamento epocale. A questo punto, la docu-
mentazione è senza dubbio importante, resta anzi fondamentale, ma al-
meno altrettanto importante è la nostra capacità di elaborare ipotesi stori-
che appropriate, capaci di non essere falsificate dall'evidenza disponibile,
di resistere alle critiche metodologiche ed insieme eleganti e coerenti. E
ciò è tanto più vero in quanto la transizione avviene nel parlato e non è
immediatamente rappresentata nei documenti scritti, che noi abbiamo.
Il primo problema è dunque quello di decidere se la transizione dal
latino alle lingue romanze sia, o no, la continuazione, lo sviluppo, sia pure
traumatico, ma necessario, di questo secolare fenomeno di latinizzazione
dell'impero e di assorbimento delle varianti locali. Oppure se, tra l'una
(latinizzazione) e l'altra (transizione), sia intervenuta [74] una catastrofe,
che ha cambiato il corso della storia. Confesso subito che io mi schiero
risolutamente per la seconda alternativa. I sostenitori del passaggio g
duale sono poi in difficoltà al momento di indicare dove si trovi la'
zione di continuità tra latino e lingue romanze: da ciò la tesi dell'esist
antichissima del romanzo o, all'opposto, quella secondo cui il frances
oggi è il latino parlato a Parigi alla fine del secolo XX. Paradossi, cer
ma condizionati dalla convinzione di fondo. A me pare invece indubb
che la catastrofe ci sia stata, perché solo essa spiega il corso preso da
storia; ma rimane da intenderci sul senso di una parola del genere.
In primo luogo, la nostra transizione non sarebbe potuta avvenire
non fosse crollato il quadro unitario di riferimento, se non ci fosse
una perdita dell'orientamento globale della variazione. Venendo a
care questo, ci deve essere stata, in una prima fase, una forte diminu
della variazione o meglio la sua trasformazione da variazione vertical
variazione orizzontale. Se prima il dittongo au a volte si pronunciava c
tale, a volte dava luogo ad o, ora si sarà avuta o l'una o l'altra realizzaz
divenute normali in luoghi diversi. E così sarà avvenuto per innumere
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:50:02 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
512 Romance Philology, vol. 69, Fall 2015
altri fenomeni. Quelle oscillazioni che, saldamente
di una norma, non danneggiavano la comunicazion
quella tardo-imperiale, dagli orizzonti ancora assai
da una discreta mobilità orizzontale, diventavano s
addirittura inutili, quando la società si ripiegava s
la mobilità cadeva a tassi molto bassi. L'oscillazione
leva a difendere la coesistenza di identità sovraloc
accanto a quelle regionali o locali; ma ormai l'ident
gata solo alla scrittura (litteratus sum, se posso dir
al parlato.
La transizione è stata dunque un riorientamento dei comportamenti
linguistici in riferimento a modelli linguistici di forza diversa e di ambito
sempre assai più limitato di quello della scripta latina, quei modelli, in ori-
gine del tutto orali, che poi hanno dato luogo alle tradizioni scrittorie
delle differenti lingue romanze.
Se questa ipotesi interpretativa, che vi propongo, è convincente, essa
si basa su, e presuppone, la sopravvenienza di una catastrofe, di un evento
che ha modificato uno dei corsi possibili della storia, sostituendo al pro-
cesso di riassorbimento acculturante, che si osserva chiaramente in epoca
imperiale e che di per sé, come gli analoghi fenomeni moderni, avrebbe
potuto dar luogo ad una generale latinizzazione e ad una debole varia-
zione regionale, un diverso processo di autonoma strutturazione regio-
nale della varietà linguistica: dalla diastratia (e diafasia) alla diatopia, con
la ripresa dei processi aggreganti su scala diversa e rispetto a modelli lin-
guistici diversi.
La dialettica tra continuità e catastrofe è del tutto normale nella storia
e non si vede perché la linguistica storica dovrebbe sottrarvisi. Ma se è
vero che, parlando di continuità, si tende a dimenticare la dinamica in-
terna sempre presente in fasi del genere, ancor più vero è che, parlando di
catastrofe, si pensa ad un evento improvviso ed inspiegabile. Non è così:
la cronaca ci dice che la sera della conquista del Palazzo d'Inverno i tea-
tri di Pietrogrado misero in scena, come se nulla fosse accaduto, le loro
futili rappresentazioni. Nessuna catastrofe, e men che meno quelle lin-
guistiche, è improvvisa e definitiva, priva di passato e senza legami con il
futuro. Nessun fenomeno che acquisterà valore sistematico in una lingua
romanza era probabilmente ignoto al campo di variazione tardo-latino: la
catastrofe cambiò il suo valore, non ne determinò l'esistenza (e neanche la
scomparsa), almeno nel breve periodo.
[75] Mi si conceda una formulazione alquanto prudente. Se quanto
ho detto ha una sua ragionevolezza, prima che Nitardo decidesse di tra-
scrivere nella sua Historia latina i giuramenti di Strasburgo nella forma
galloromanza e germanica, prima che un ignoto vergasse sull'orazionale
mozarabico ora a Verona, accanto ad una corretta formula liturgica, le pa-
role dell'indovinello, prima che il giudice di Capua Arechisi inserisse nel
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:50:02 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
Documentazione ed uso della documentazione 513
suo latino le formule pronunciate dai testim
c'era stata. Ma quando? Ma quale?
E ovvio che chi ritiene di poter affermar
italiano (le latin , a-t-il existé?, potremmo c
paradossale di un grande storico, a proposit
all' indietro nel tempo, se pure non la nega
con speculare paradossalità, chi ritiene che l
l'invenzione del latino medievale. Ma, a mio
queste rispettabili ipotesi, la cui fortuna è
comune gli stessi difetti: il trattamento
zione ed il ricorso a modelli improbabili.
comunicazione.
Se noi assegniamo ad ogni occorrenza di volgarismo nella scripta la-
tina il valore di spia della situazione linguistica reale sistematicamen
nascosta da una norma scritta che non segue lo sviluppo del parlato, ad
una parte della documentazione viene assegnato un valore assai forte, d
tutto improbabile, mentre il resto della documentazione viene svalutat
integralmente. Ma nulla giustifica una assegnazione di valore tanto ine
guale. Se poi adottiamo modelli di storia che spostino, senza giustifica-
zione, le crisi sempre a monte o a valle del nostro campo di osservazion
ci mettiamo fuori da ogni storiografia seria, a livello di quei discorsi su
permanenza metastorica dei caratteri che sono il fondamento di ogni n
gazione della storia.
In questi termini, la transizione è per me un fenomeno insieme un
tario e diverso da regione a regione. Il crollo del riferimento sostanzia
mente unitario, che orientava la variazione del latino parlato, è certo co
seguenza della trasformazione politica e soprattutto sociale che ha fatt
seguito alla caduta dell'impero, ma non è detto che il contraccolpo
stato immediato. La cosa non sarà stata risentita subito, o con la stessa
rapidità, in tutte le regioni: dove l'aristocrazia senatoria manteneva una
forte posizione sociale, dove il commercio ed i rapporti culturali non ce-
devano che lentamente, dove la scuola continuava senza troppi traumi,
là la sostituzione di una norma locale alla norma unitaria sarà stata più
ritardata in quanto meno necessaria. Ma nelle aree isolate, dove la lati-
nizzazione era ancora in corso, o in quelle che più avevano sofferto delle
invasioni, dove l'interposizione di insediamenti germanici rompeva reti di
relazione ancora deboli, dove il localismo poteva trovare nuova forza, là
non c'era alcuna ragione, e forse alcun desiderio, di continuare a seguire
norme del tutto esterne.
In momenti certamente diversi, si determinarono dunque in aree più
o meno vaste identità sociali nuove, più ristrette di quella romana ma non
propriamente locali, che si riconobbero in caratteristiche comuni del par-
lare. Attorno ad una corte, attorno ad una sede vescovile, attorno ad un
mercato, in distretti provinciali particolarmente compatti, i centri di ag-
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:50:02 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
514 Romance Philology, vol. 69, Fall 2015
gregazione non vennero meno, ma mutarono di a
ambizioni. Chi non aveva ragione di condividere i
solo culturali, come quella latina e cristiana, chi n
bastanza forti da rimanere germano o basco (e sim
riferimento della propria persona e del proprio g
nuove, burgundo o aquitano o lombardo, a ciascun
rispondeva un uso linguistico di base latina ma ch
la norma latina di un tempo. Il cammino delle
iniziato.
Opere citate
CIL = Corpus inscriptionum latinorum. Deutsche Akademie der Wissenschaften zu
Berlin. 1862 - . Berlin: Reimerum.
donati, angela, ed. 1996. Dalla terra alle genti. La diffusione del Cristianesimo nei
primi secoli. Milano: Electa.
eckhArdt, karl august, ed. 1962. Pactus Legis Salicae, MGH Leges I, 4, 1. Hanno-
ver: Hahn.
Hudson, richard a. 1980. Sociolinguistica. Bologna: Il Mulino.
lambert, pierre-Yves. 1994. La langue gauloise. Paris: Errance.
MARX, Friedrich, ed. 1898. Sancii Filastrii episcopi Brixiensis Diversarum hereseon li-
ber. Vindobonae/Pragae/Lipsiae: Trempsky.
Richter, elise. 1934. Beiträge zur Geschichte der Romanismen, I: Chronologische Phone-
tik des Französischen bis zum Ende des 8. Jahrhunderts. Halle: Niemeyer.
SCHUCHARDT, Hugo. 1866-1868. Der Vocalismus des Vulgärlateins. Leipzig: Teubner.
siLVAGNi, angelo. 1922 - . Inscriptiones Christianae urbis Romae septimo saeculo an-
tiquiores. Nova series colligere coepit Johannes Baptista de Rossi, complevit
ediditque Angelus Silvagni; auspiciis Pont. Collegii a Sacra Archaeologia et
R. Societatis Romanae ab Historia Patria. Roma: Ex Officina Libraria Doct.
Befani.
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:50:02 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
LA LATINIZZAZIONE DELLE PROVINCE COME PROCESSO DI LUNGA DURATA
Source: Romance Philology, Vol. 69, No. 2 (Fall 2015), pp. 515-535
Published by: Brepols; University of California Press
Stable URL: https://www.jstor.org/stable/44741956
Accessed: 25-09-2024 14:49 UTC
JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide
range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and
facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected].
Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at
https://about.jstor.org/terms
Brepols, University of California Press are collaborating with JSTOR to digitize, preserve
and extend access to Romance Philology
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:49:58 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
LA LATINIZZAZIONE DELLE PROVINCE
COME PROCESSO DI LUNGA DURATA
Premessa
E appena il caso di ricordare che, più di un secolo fa, nel suo stu
innovatore sui sostrati latino-volgari delle parole romanze, Gustav G
avanzò l'ipotesi che ci fosse una correlazione tra la data della cos
one delle province romane ed il tipo linguistico romanzo che avreb
tardi caratterizzato l'area corrispondente (Gröber 1884:213):
Die Spaltung der romanischen Sprachen wäre somit uralt. Sie begann zu
der Romanisierung der ersten ausseritalienischen Provinz und vollzog si
der Eroberung eines jeden neuen Gebietes romanischer Sprache aufs ne
Sprache der jedesmal ersten römischen Ansiedler in ihren bildete den An
spunkt der einzelnen romanischen Sprachen; sie hatte sich vor der Sp
jüngerer Einwanderer zu bewahren, diese sich zu assimilieren vermocht
sich lautlich unbeeinflusst von ihr zur romanischen Sprache entwickelt.
Altrettanto superfluo è menzionare le successive riprese di questa
parte di altri studiosi. L'ipotesi cui alludo implica, più o meno cosc
mente, che la latinizzazione delle province sia stato un processo rel
mente veloce ed omogeneo, tale cioè da imprimere a ciascuna di esse
gno indelebile della fase di sviluppo in cui si trovava il latino nel mo
B4. "La latinizzazione delle province come processo di lunga durata". In Latin
gues Romanes: Etudes de linguistique offertes à fozsef Herman à l'occasion de son 80*™ an
saire, edd. Sándor Kiss, Luca Mondin e Giampaolo Salvi, 115-133. Tübingen: N
yer, 2005.
Ristampato con il permesso della casa editrice de Gruyter.
[Author's note to original publication]
Devo avvertire che queste pagine provengono da un abbozzo di libro, steso a Berke-
ley nel 1985 e mai pubblicato. Ciò valga come parziale giustificazione per la vetustà
della bibliografia, che ora non mi è stato possibile aggiornare se non parzialmente.
Ringrazio Francisco Villar per alcune correzioni, ma resto ovviamente responsabile di
tutti gli errori che possano rimanere nel mio scritto [si veda la prefazione del presente
volume e la citazione di Varvaro 2014b].
Romance Philology, vol. 69 (Fall 2015), pp. 515-536. DOI 10.1484/J.RPH.5.110349 515
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:49:58 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
516 Romance Philology , vol. 69, Fall 2015
in cui il processo aveva avuto inizio. Così formulata,
appare subito poco credibile; ma conviene riesamina
latinizzazione delle province in tutta la sua comples
verso casi singoli, che vengono assunti come tipici.
I POPOLI PREROMANI DALLA CULTURA ORALE ALLA SCRITTURA
Sarebbe ingenuo, e comunque del tutto errato, pensare che la conqui-
sta militare e la dominazione politica romana abbiano determinato auto-
maticamente la scomparsa più o meno rapida delle lingue locali, sia che
questo fosse il fine perseguito da una cosciente politica linguistica sia che
esso rappresentasse l'involontario [116] punto di arrivo dello svolgersi dei
fatti. Per quanto scarsa e casuale sia la documentazione, essa ci mostra che
il processo è stato quanto mai lungo, complesso e differenziato.
Bisogna anzitutto rilevare che è molto raro che le lingue indigene ci
siano documentate, attraverso iscrizioni di vario tipo (nelle quali includo
le legende numismatiche), prima della conquista romana. In occidente
ciò accade in pratica solo per alcune lingue dell'Italia antica (e in primo
luogo, ovviamente, per il greco), per l'iberico e per una lingua non iden-
tificata della Baetica (il tartessio?), nonché per il punico. In realtà la mag-
gior parte delle lingue prelatine di cui ci sia pervenuta tradizione diretta
sotto forma di iscrizioni, ci sono note da testi posteriori alla sottomissione
a Roma delle rispettive popolazioni. Ciò può essere dovuto, almeno in
parte, alla circostanza che quasi nessuno dei popoli indigeni possedeva
una propria tradizione grafica e per lo più essi si limitarono ad adottare
gli alfabeti greco o latino. In altre parole la conquista romana ha deter-
minato, in molti casi, il passaggio da uno stadio di cultura orale ad uno
di cultura anche scritta (per processi del genere cf. almeno il notissimo
Havelock 1963).
Ma è facile osservare che, anche dove la cultura scritta era già svilup-
pata, come tra i Punici o gli Iberi (del cui alfabeto si servivano anche i
Celtiberi, che occupavano le aree interne della penisola), le iscrizioni in-
digene diventano più frequenti dopo la conquista. Noi abbiamo iscrizioni
in alfabeto iberico fin dal 500 a.C., ma esse diventano più numerose dopo
le guerre puniche e l'istituzione delle due province romane e fino agli
anni delle guerre di Sertorio (80 a.C. ca.), per sparire solo all'epoca di Au-
gusto (cf. Untermann 1980:8; 1981:18; per la distribuzione cf. la cartina).
Avrebbe torto chi pensasse che le iscrizioni iberiche continuino fino al
sec. I a.C. perché è Augusto che con la lunga campagna cantábrica mette
fine all'autonomia di alcune aree indigene. La distribuzione spaziale mo-
stra chiaramente che le iscrizioni di epoca romana provengono da aree di
sicuro dominio e non da zone ribelli o autonome: queste ultime sembrano
rimaste al livello della cultura orale.
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:49:58 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
La latinizzazione delle province come processo di lunga durata 517
Quanto al punico, bisogna distinguere tra iscrizioni di epoca car-
taginese, in Africa e in Europa, e testi scritti in quella fase linguistica
che si suole chiamare neopunica. Questi ultimi sono tutti posteriori alla
vittoria e conquista da parte di Roma. Iscrizioni neopuniche, a volte re-
datte in alfabeto latino, giungono in Africa almeno alla fine del sec. II
a.C. (Millar 1968; 1984:89) ed in Sardegna più o meno alla stessa epoca
(Guzzo Amadasi 1967; in Sicilia ci si ferma ca. un secolo prima: cf. Var-
varo 1981:27). Ma, a dire il vero, una quarantina di iscrizioni in grafia la-
tina, un tempo ritenute "libiche", si sono rivelate neopuniche e giungono
al sec. IV e perfino al V, attestando una lunga vitalità del punico nella
fascia tra Tunisia e Tripolitania attuali (cf. Levi della Vida 1963; Rollig
1980:295-297).
Le motivazioni di questo fenomeno, che si ripete identico nelle aree in
cui, invece del latino, domina per prestigio socio-culturale il greco, sono
complesse e bisogna forse distinguere tra passaggio alla cultura scritta e
fioritura delle iscrizioni indigene.
Per quanto riguarda il primo aspetto, oggi siamo meglio in grado di
valutare le caratteristiche e le qualità, altre e non necessariamente infe-
riori, delle culture [117] orali. Ci è noto esplicitamente che i Galli, che ave-
vano raggiunto un grado di civilizzazione notevole e avevano occupato,
nei secoli immediatamente precedenti al trionfo di Roma, buona parte
dell'Europa, avevano una cultura coscientemente e rigorosamente orale,
affidata ad un gruppo deputato alla conservazione dei riti e dei valori, che
aborriva dalla divulgazione indiscriminata che consegue alla scrittura. E
presumibile che ragioni analoghe o livelli di sviluppo più elementari de-
terminassero anche altrove l'assenza di testi scritti. Invece non solo l'uso
della scrittura (che può dare luogo a testi deperibili di qualsiasi tipo), m
"l'uso di incidere e collocare iscrizioni [. . .] è una caratteristica [. . .] di-
stintiva della civiltà greco-romana" (Millar 1984:85), sicché l'esistenza di
numerose iscrizioni in aree e lingue prelatine si rivela, essa stessa, come
un indizio di incipiente o progressiva acculturazione. Anche se è vero che
l'uso della lingua indigena deve significare qualcosa (o incapacità di usare
il latino o volontà di non usarlo), è anche vero che è proprio la cultura ro-
mana che fa considerare opportuno, adeguato, necessario, passare dalla
memoria alla scrittura e farlo in forma di iscrizioni.
Del resto il dominio romano ha spesso prodotto un innalzamento del
livello di vita dei popoli assoggettati, o almeno delle rispettive classi do-
minanti indigene (dalle quali provengono in genere le iscrizioni), ed un
principio o uno sviluppo dell'alfabetizzazione, determinando così i pre-
supposti economici e tecnici per la diffusione delle iscrizioni. Non va di-
menticato, infatti, che perché si realizzi una iscrizione ci vuole non solo
chi ne senta la necessità socioculturale ma chi sappia farla e la capacità di
affrontare le spese, non solo dell'iscrizione in se stessa ma del monumento
cui essa nella maggior parte dei casi si accompagna.
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:49:58 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
518 Romance Philology, vol. 69, Fall 2015
Lingua locale e identità del gruppo
Non sottovaluto certo che la pressione culturale esterna (ro
popoli indigeni, che si traduce nelle circostanze or ora enuncia
anche, come reazione, un rafforzamento della coscienza dell'identità della
società e della cultura minacciate nella propria sopravvivenza, coscienza
che si esprime nella difesa della lingua la cui vitalità appare compromessa.
Questo tipo di risposta alla minaccia di acculturazione, che ci è ben noto
dal mondo contemporaneo, è stato osservato più volte nel mondo an-
tico. Una trentina d'anni fa Ramsay MacMullen (1966) lo ha studiato con
acume per il copto, il siriaco, il punico e il celtico. Se in Oriente sembra
che gli stimoli di ordine generale si traducano in forti motivazioni reli-
giose ("La popolazione meno ellenizzata o romanizzata scoprì qualcosa di
proprio che doveva dire, qualcosa senza rapporto col modo di vivere dei
suoi padroni, o anche ostile ad esso, e disperatamente importante: cioè
una nuova fede": 13), in Occidente le forme e i risultati sembrano diversi.
Eppure in Gallia, come in Egitto e Siria, in molti casi la toponomastica
ritorna celtica: Lutetia torna ad esser chiamata Parisii (> Pańs), Julia Eque-
strìs è di nuovo Noviodonum (> Noy on), Forum Claudii diventa Octodorus, etc.
García Bellido (1967:16) osserva, senza datare il fenomeno, che nella pe-
nisola iberica Hispalis ha prevalso [118] su Colonia Iulia Romula, Tarraco su
Colonia Iulia Urbs Triumphalis, Corduba su Colonia Patricia . Dall'ampio stu-
dio di Bénabou (1976) sull'Africa si può dedurre che ciò che egli chiama
"la résistance africaine à la romanisation" e che è, in alcuni ceti sociali, la
valorizzazione accentuata del proprio patrimonio culturale (e linguistico)
è relativamente tarda proprio perché almeno fino ad Augusto l'organiz-
zazione sociale tradizionale non era stata sostanzialmente toccata dalla
romanizzazione; solo più tardi, in piena età imperiale, l'accultura
appare così ampia da allarmare alcuni ceti e gruppi e da determinare
nomeni di auto-affermazione.
Esaminiamo brevemente un caso specifico. Nell'Apologia, scritta sotto
Antonino Pio (148-161 d.C.), Apuleio, egli stesso africano di Madaura, si
difende dall'accusa di avere sedotto con mezzi magici la vedova Puden-
tilla, di Oea (= Trìpoli). In realtà egli aveva conosciuto la donna attraverso
il figlio maggiore di lei, Pontianus, che era stato suo compagno di studi
ad Atene e aveva favorito le loro nozze. Morto Pontianus, Sicinius Emilia-
nus, fratello del primo marito di Pudentilla, attira a sé il figlio minore di
lei, il giovane nipote Sicinius Pudens, e se ne fa un alleato nell'attacco ad
Apuleio, favorendo tutti i suoi vizi. Il ragazzo è dipinto con tratti violente-
mente negativi, uno dei quali è relativo alla lingua:
loquitur numquam nisi Punice et si quid adhuc a matre graecissat; enim La-
tine loqui ñeque uult neque potest (Apul. apol. 98,8, ediz. Vallette 1924:117,
che traduce: "Il ne parie jamais que punique, à part quelques mots de grec qui
lui viennent encore de sa mère; quant au latin, il ne sait ne veut le parler")
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:49:58 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
La latinizzazione delle province come processo di lunga durata 519
Non c'è dubbio che questo significa che in una famiglia benestante di Oea,
nel sec. II, non era strano che non si usasse il latino ma il punico; la lin-
gua di prestigio era semmai il greco. Certo, Apuleio considera questo fatto
sullo stesso piano della corruzione dei sensi che poco prima ha imputato
al ragazzo, ma la sua è la prospettiva di un retore che si difende in un tri-
bunale romano. Sicinius Pudens, invece, "neque vult neque potest" parlare
latino: c'è un cosciente rifiuto dell'assimilazione linguistica, che rende il
giovane spregevole per il patrigno e per chi ha accettato l'acculturazione,
ma è indizio dell'esistenza di non conformisti.
Certo è molto difficile discriminare tra reazione anticonformistica,
rifiuto di acculturazione e semplice incapacità, pigra adesione alla tradi-
zione. Questo secondo aspetto, che del resto è la premessa necessaria del
primo e fornisce un prezioso serbatoio umano alle tendenze di autoaffer-
mazione, doveva essere più sensibile tra le donne. Se Pudentilla era così
evoluta da avere insegnato al figlio un po' di greco, non è un caso isolato
che alla fine dello stesso sec. II la sorella di Settimio Severo, pur esso afri-
cano di Leptis Magna, fosse così ignara di latino da far vergognare l'impe-
ratore, che la rimandò in patria:
cum soror sua Leptitana ad eum venisset vix Latine loquens ac de illa mul-
tum imperator erubesceret, [. . .] redire mulierem in patriam praecepit (Ael.
Spari. Sev. 15,7, in Scriptores Historiae Augustae, ed. Hohl 1965, 1:148)
Eppure Settimio Severo aveva conservato egli stesso un accento africano
("ipse [. . .] canorus voce, sed Afrum quiddam usque ad senectutem so-
nans", ibid. 19,9 [ibid., 1,152]). La maggior lentezza dell'acculturazione delle
donne, che potrebbe [119] essere facilmente supposta conoscendo le ca-
ratteristiche della vita sociale antica, è del resto confermata da altri indizi.
Questo induce a pensare che il bilinguismo insito in ogni fase di cambio di
lingua fosse molte volte nell'impero prolungato e reso più tenace dalla ca-
ratteristica che la lingua indigena restava prima lingua dei bambini anche
dopo che i maschi adulti della famiglia avevano adottato il latino.
Etnia e lingua
Oltre al rifiuto della latinizzazione e alla conservazione passiva
lingua avita, c'è un terzo caso che bisogna distinguere, né sempre è
possibile. Una relativa fedeltà alle origini può essere espressa dall'
mento al nome tradizionale anche quando si è adottato il latino. Q
Strabone (sec. I a.C.) parla della situazione etnica della Gallia Ci
e ci dice che essa era in origine abitata da Boii, Liguri, Senoni e G
ma poi, cacciati i Boii e distrutti Senoni e Gaezatae, rimasero solo i
e le nuove colonie romane, salvo sparsi insediamenti di Umbri e,
frequentemente, di Etruschi, egli aggiunge:
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:49:58 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
520 Romance Philology , vol. 69, Fall 2015
ma i Romani, dopo aver preso il controllo [del paese]
in molte località, procurarono di conservare anche le
precedenti abitanti. Ed oggi, per quanto siano tutti R
di meno chiamati alcuni "Umbri" e altri "Tirreni" [=Etruschi], come accade
con gli Heneti, i Liguri e gli Insubri (Strabo 5,1,10; ediz. Loeb)
Nulla dice che Umbri, Tirreni, Heneti, Liguri e Insubri parlassero ancora
le loro lingue, anche se dicendoli tutti Romani Strabone si riferisce verosi-
milmente allo stato giuridico e non agli usi linguistici. Quel che lo scrittore
ci dice è che è esistita, almeno nella Cispadana, una volontà romana di con-
servare l'assetto culturale e demografico precedente alla conquista in tutti
i casi in cui non fosse pericoloso per la sicurezza del dominio e che i singoli
gruppi, anche dopo l'assimilazione, conservavano una identità nominale.
Giulia Petracco Sicardi (1981:83) commenta: "all'inizio dell'era volgare la
divisione etnica è quindi soltanto un fatto di autocoscienza interna alle
singole situazioni, senza riflessi giuridici nell'ambito dell'organizzazione
ammijiistrativa del territorio".
In realtà testi come questo di Strabone ci pongono un duplice or-
dine di problemi: da un lato i Romani sembrano del tutto indifferenti
all'eterogeneità linguistica delle aree da essi amministrate e dall'al-
tro le etichette etniche antiche sono di difficile interpretazione e an-
cor più difficile è stabilire nessi tra tali etichette e le realtà medievali e
moderne.
Abbiamo visto che le iscrizioni iberiche e celtiberiche non vanno oltre
l'epoca di Augusto, ma è opportuno osservare che questo termine si riferi-
sce solo alla cessazione dell'uso ufficiale di queste due lingue. Né del resto
è facile datare iscrizioni come quella, assai rustica, su granito, di Lamas
de Moledo, che studiosi come Gómez Moreno portavano fino al sec. II (cf.
Remando Balmori 1935:84-85). Le testimonianze indirette, come sempre
casuali, non portano molto più avanti. Più ovvio è che Cicerone (De divin.
54, dell'anno 44 a.C.) consideri di uso [120] generale le parlate locali e che
Plinio il Vecchio, morto nel 79 d.C. adduca a prova dell'origine dalla Lusi-
tânia dei Celti che abitavano tra Tago e Guadiana, nella Baetica, l'identità
di usi religiosi, linguistici e toponomastici (Nat. Hist. 3,1,13). Raccontando
dei tormenti inflitti nel 25 d.C. all'assassino di Lucio Pisone, un contadino
di Termes presso Guadalajara (Tovar 1977:124), in piena area celtibérica,
Tacito (ann. 4,45) dice che costui "repertus cum tormentis edere conscios
adigeretur, voce magna sermone patrio frustra se interrogan clamitavit".
Tacito si riferiva ad un'area molto interna e molto tenace nella resistenza a
Roma: Numantia non era lontana. Più generica è la formulazione di Silio
Italico (morto nel 101 d.C.), che nei Punica (3,346) dice che la gioventù
della Galizia
barbara nunc patriis ululantem carmina linguis.
Stazio considera dunque ovvia l'esistenza di idiomi (al plurale!) indigeni.
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:49:58 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
La latinizzazione delle province come processo di lunga durata 521
Lingue che sopravvivono e lingue che muoiono
Conviene ricordare che basco e albanese sono, propriamente
che lingue pre-romane che si siano conservate all'interno dell'a
dell'Impero Romano. In quella che chiamiamo Romania perd
lano oggi lingue germaniche, allora sostanzialmente confinate
limes imperiale e rimesse in gioco non da qualche eventuale re
lato all'interno dell'Impero ma dalle posteriori invasioni, nonch
gue slave, sopravvenute più tardi. Ancor più tardi è apparso, in
dell'antica Pannonia, l'ungherese, della famiglia linguistica ugr
Diverso dal caso del basco e dell'albanese, che non hanno g
aiuto esterno all'Impero, è quello del cornovalese, parlato fino al
e del gallese, vivissimo ancora oggi, i quali continuano sì il celt
nico della Britannia romana, ma con l'appoggio delle vicine are
della Scozia e dell'Irlanda, che erano rimaste sempre all'esterno
pero. Quanto al bretone di Francia, la sua vitalità è dovuta non
gallico ma all'emigrazione sul continente, dalla Britannia, di co
nuclei celtici nel sec. V d.C., quando l'isola fu abbandonata dalle
le popolazioni civili rimasero esposte non solo agli attacchi dei
acculturati ma a quelli degli invasori Angli e Sassoni. Anche il
parlato fino ai nostri giorni dal Marocco alla Libia in molte zone
settentrionale un tempo romane, ma anche molto più a sud del limes
nua la lingua indigena di Libi, Numidi, Mauri, ecc. Ma, se è vero
essa fosse ancora parlata nelle province africane al tempo dell'i
dei Vandali, è vero anche che disponeva dell'appoggio e della
analoghe parlate del retroterra sahariano ed è impossibile dire
punto i moderni dialetti berberi delle aree costiere continuino
parlati nelle stesse zone venti secoli fa o se siano in tutto o in parte
guenza di trasferimenti verso nord di popolazioni nomadi del de
[121] In ogni caso, alla fine dell'Impero (sec. V) sopravviveva
i progenitori del basco (dei quali nulla sappiamo), dell'albanese
sappiamo qualcosa solo se esso continua l'illirico), del bretone, f
gallico, del berbero. Ma la scarsità e l'incertezza delle notizie
può benissimo darsi che ci fossero, sia pure in un complesso fo
latinizzato, parecchie isole linguistiche alloglotte, soprattutto n
meno permeate dalla civiltà greco-romana. Se poi ci poniamo il
di quante fossero state, sia pure approssimativamente, le lingue
dell'Impero, la stessa coscienza che noi nulla sappiamo perfino
che hanno avuto sufficiente vitalità per giungere fino ad oggi
ad estrema prudenza. Ad ogni modo, in un'opera relativamente
cui hanno contribuito i migliori specialisti dei diversi settori (
Untermann 1980), si tocca con maggiore o minore approfondim
centinaio di varietà diverse, che in un modo o nell'altro sono sta
entro l'ambito dell'Impero tra il 30 a.C. e il 395 d.C. Anche se d
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:49:58 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
522 Romance Philology , vol. 69, Fall 2015
sottrarre da questa cifra le lingue della parte ellen
ottiene un numero cospicuo, che è pur sempre un
che è possibile che di molte varietà non ci sia giun
neppure il nome o menzione alcuna.
Monetazioni iberiche: Clunia
Il fatto che individui dal nome indigeno abbiano adottato il
almeno nelle iscrizioni da loro commissionate, è senza dubbio i
una acculturazione incipiente, o almeno del desiderio di passare
culturati, il che implica in una prima fase il bilinguismo e più ta
bio di lingua. A darci la concreta sensazione del passaggio da
indigena al latino sono, ad es., le serie delle legende sulle mone
da zecche provinciali, che senza dubbio rispondono non all'u
ma alla volontà politica di chi ordina o controlla le coniazioni.
però anche il simbolo di una volontà di adeguamento che sar
poi seguita dagli usi parlati. Accade in più luoghi che queste ze
primo tempo adottino alfabeto e lingua locali per passare po
attraverso una fase intermedia di uso dell'alfabeto latino per le
cora nella lingua indigena.
Dalla Spagna conosciamo monete con legende in alfabet
emesse da un centinaio di città sia iberiche che celtiberiche, da
decenni del sec. III a.C. al sec. I a.C. (cf. Villaronga 1979). Un
zecche è quella di Clunia, una cittadina dell'alta valle del Due
nia Tarraconensis), in piena area celtibérica. In un primo temp
emette monete d'argento con legenda in alfabeto iberico, quind
(ogni segno rappresenta una sillaba),
kolounioku
Che l'alfabeto iberico fosse usato in area linguistica celtibérica è normale
(cf. Untermann 1980:6, carta 4, e Untermann 1981, carta 1).
Più o meno della stessa epoca sono però monete di bronzo con la
scritta, questa volta in alfabeto latino,
[122]
CLOVNIOQ
La lingua resta qui il celtibérico e quindi la legenda è identica alla prece-
dente, ammesso che il segno latino C equivalga a quello iberico che traslit-
teriamo ko e il segno latino Q a quello iberico che traslitteriamo ku.
Infine, in epoca imperiale, la città emette monete in alfabeto e lingua
latina con la legenda
CLVNIA
(cf. Untermann 1975, 1/2, 197, tav. A67).
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:49:58 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
La latinizzazione delle province come processo di lunga durata 523
'Firme' latine in iscrizioni lusitane
Passando alle iscrizioni, bisogna porsi una domanda prelimina
scriveva i testi epigrafici che ci interessano? Spesso la nostra atte
concentra sull'iscrizione e sugli individui che vi figurano e dime
tutto che, almeno nelle iscrizioni su pietra o marmo, chi scrive è
fessionista, un artigiano che, in quanto membro di una società, h
que per noi un interesse a sé, come parlante.
Un segno non poco significativo della commistione e compenet
delle tradizioni linguistiche può vedersi nella circostanza che epi
lingua indigena risultino opera di lapicidi romani o sensibilment
nizzati. Le due importanti iscrizioni lusitane di Arroyo del Puerco
Cáceres (Estremadura, Spagna), e, su roccia, di Lamas de Moledo,
Viseu (Portogallo), per quanto redatte in una lingua indoeuro
non è affatto chiaro se sia affine e parallela al celtibérico (cf. Un
1981:25 e carta 5 per l'area di diffusione del lusitano; Tovar 196
Tovar 1964-1967, poi in 1973:181-205), sono scritte in caratteri la
bedue contengono, all'inizio, una sorta di firma di chi le scolpì.
Ad Arroyo del Puerco si leggeva (l'epigrafe, trovata nel sec. X
scomparsa e ne resta una copia), prima di altre 16 righe di lusitan
AMBATVS
SCRIPSI
(Tovar 1973:197). Il nome è puramente celtico, quasi esclusivo della pe
sola iberica, dove è però molto frequente (Palomar Lapesa 1960:352-35
§23), e connesso con il sostantivo celtico ambactos 'servitore; ministro'.
A Lamas de Moledo i lapicidi furono due:
RVFINM ET
TIRO SCRIP
SERVNT
[123] (Hernando Balmori 1935:89; Untermann 1981:24); seguono otto r
ghe. I nomi sono questa volta latini, ma non si tratta neppure qui di cit
dini, dato che esibiscono i soli cognomina : Rufinus coniato su rufus 'rosso' e
Tiro coniato su tiro 'recluta'. La datazione non è sicura e oscilla tra sec. I e II
(Hernando Balmori 1935:84-85).
In ogni caso, quale che sia l'origine dei loro nomi, tanto Ambatus che
Rufinus e Tiro 'firmano' con verbi latini ('scrissi', 'scrissero') due iscrizioni
in lingua indigena. Untermann (1980:11) ne ha dedotto "che gli scribi di
questi testi normalmente scrivevano e parlavano latino e solo per uno spe-
ciale incarico si preoccupavano di riprodurre per scritto la lingua prero-
mana. Il latino era dunque la lingua amministrativa e scritta, il lusitano
indigeno esisteva però ancora e appare fosse ancora insostituibile nell'am-
bito del culto e del diritto privato". Io penso che probabilmente gli scribi
parlassero (anche o prevalentemente) il lusitano, dato che la 'firma' latina
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:49:58 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
524 Romance Philology, vol. 69, Fall 2015
può essere una semplice formula professionale, da
trarre conclusioni riguardanti l'uso parlato (come
cavarle dal copyright in inglese sui libri europei),
genere documentano concretamente il bilinguism
di individui e ci permettono di ipotizzare in quali
prevalesse ognuna delle varietà in contatto e in co
Virgilio a Villastar
Ma le situazioni reali dovevano essere molto complicate. N
non ricordare, a questo proposito, un caso molto suggest
ignoto, probabilmente bilingue, ha lasciato la prova vistosa d
che è già bifronte, in modo assai più intimo e sorprendente
accada con quella versatile professionalità di cui danno prov
Rufinus e Tiro. Su una parete di roccia tenera a Peñalba, ne
Villastar, circa 12 km a sud di Teruel, al margine sud-orien
celtibérica, era incisa una ventina di iscrizioni, quasi tutte s
decenni fa e ora in buona parte conservate nel museo di Bar
parte perdute. Di quelle note, un paio sono in alfabeto iberi
beto latino e lingua celtibérica (cf. Tovar 1959); una sola, ogg
resta una fotografia), è integralmente latina. Accanto ai testi
mano del tutto identica ha scritto:
TEMPVS ERAT QVO PRIMA QVIES MORTALIBVS jEGRIS INC
e sotto, a caratteri più grandi, NESCIO QVI (Tovar 1959:361, n° 18). "Era
l'ora in cui la prima quiete agli stanchi mortali . . .": è un verso famoso di
Virgilio, dall'episodio di Didone innamorata (Aen. 2, 268). Il luogo pare
essere sacro a un rito indigeno, le altre iscrizioni sembrano infatti legate
ad un culto. Là dove si pregavano oscure divinità indigene, qualcuno cono-
sceva a memoria il poema virgiliano e aveva caro scriverne un verso. Il pas-
saggio da una lingua all'altra è qui dovuto alla penetrazione di una lette-
ratura la cui fortuna aveva già raggiunto [124] (ma non sappiamo quando,
perché manca un termine ad quem : Tovar [1973:368] pensa al sec. I d.C.)
genti che conservavano la lingua celtibérica e culti non romani (cf. Tovar
1959; Untermann 1980:10-11; il secondo rigo "puede ser una firma iro-
nica" [Tovar 1959:361] o il commento di un lettore posteriore che non
riconobbe la citazione).
La famiglia di Apuleio Massimo Rideo
Un analogo, ma diverso, modo per osservare il processo di pas
dalla cultura indigena a quella romana è offerto dall'esame del
stica. Grazie ad essa possiamo seguire la situazione all'interno
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:49:58 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
La latinizzazione delle province come processo di lunga durata 525
miglie, anche se è doveroso avvertire che ciò che noi siamo in grado di
osservare è l'adeguamento non degli usi linguistici reali ma dei nomi per-
sonali, che risponde a velleità socioculturali, da attribuire del resto non a
chi porta il nome ma ai suoi genitori.
Nel mausoleo di El-Amrûni, a nord di Remada, nell'Africa Proconso-
lare (ca. 200 km a sud dell'isola di Gerba, in una località oggi in Libia), è
stata scoperta nel 1894 una bilingue latino-punica che gli editori attribui-
scono al sec. I d.C. II testo punico precede quello latino, che è il seguente:
D (¿5) M (anibus) S(acrum)
Q( uintus) APVLEVS MAXSSIMVS
QVI ET RIDEVS VOCABA
TVR IVZALE F (ilius) IVRATHE N(epos)
VI X(it) AN (nis) LXXXX THANVBRA
CONIVNX ET PVDENS ET SE
VERVS ET MAXSIMVS F (ilii)
PIISSIMI P(atń) AMANTISSIMO S(ua)P(ecunia)¥(ecerunt)
(Donner/Ròllig 1966:22, n° 117; cf. Lidzbarski 1907:63-64, n° 101).
Del testo punico dò la traduzione di Donner/Ròllig (1968:122): "Den
göttlic[hen] Totengeistern des Apuleius Max[imus] Rideus, Sohnes des
JWBZ'L'N, Sohnes desJWR'[T]'N, des Matebiters, baute (dies Mausoleum)
die T'NBR', [seine] Gattin, für Pudens und Severus und Max[im]us [ihre]
Sò [hne ?]". La maggiore differenza tra i due testi è che in punico si dice
che la madre costruisce per, in nome dei figli, mentre in latino risulta che lo
fa con loro. Solo il latino menziona la veneranda età del defunto, mentre
solo il punico gli dà l'appellativo HMTEBY, che dovrebbe essere l'indica-
zione della tribù di appartenenza, insomma un gentilizio. I nomi si cor-
rispondono con adattamenti: ad es. Apuleius è reso in punico con i suoni
corretti ma al vocativo, caso in cui appaiono quasi tutti i nomi latini nelle
iscrizioni neopuniche (sulla ragione cf. Donner/Ròllig 1968:122 [ma è
inverosimile che il vocativo fosse la forma più usata]; Ròllig 1980:292); il
latino permette di vocalizzare i nomi indigeni, ma ne altera anch'esso la
terminazione.
Ad ogni modo abbiamo qui quattro generazioni:
[125]
(1) Jurathan
(2) Jubzalan
(3) Apuleius Maximum Rideus + Thanubra
I I
(4) Pudens Severus Maximum
Orbene, le generazioni (1) e (2) portano nomi chi
Lidzbarski 1907:63-64; un Jurathan figura, co
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:49:58 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
526 Romance Philology, vol. 69, Fall 2015
della inventus di Mactar, nella Tunisia centrale, dell'anno 88 d.C.; cf. Char-
les-Picard 1959:91). Si sarà trattato di libici poco o nulla romanizzati, al-
meno il primo. Il secondo, infatti, a differenza del padre, ha dato a suo
figlio il nome che in latino è scritto APVLEVS MAXSSIMVS, con due
strappi alla norma, il secondo solo grafico (-xss- per -x- è attestato altrove,
per es. MAXSSIMVNA per MAXIMINA a Salona: CIL III, 8971), mentre
il primo (il dileguo di i semivocale, che in latino di norma era realizzato
come teso) contrasta con la forte tendenza al suo rafforzamento in vera e
propria consonante, come avviene in italiano, dove da MAIORE abbiamo
maggiore e da PEIVS abbiamo peggio.
Ma non è questo, che del resto va a carico del lapicida o tutťal più dei
committenti, che qualifica il defunto come in una situazione di passaggio:
egli ha uno strano soprannome [Rideus ?], porta un etnico o gentilizio
chiaramente estraneo alla romanità e lo conferma con la filiazione indi-
gena. Apuleio Massimo era in via di romanizzazione, ed infatti ha d
ai suoi figli nomi impeccabilmente latini (anche se tutti continuano ad
essere peregrini e non cives), ma sua moglie aveva ancora un nome chiar
mente numida ed ha scelto (lei sola? o anche i suoi figli 'romanizzati'?)
di porre sul mausoleo del marito un'iscrizione bilingue, e col punico in
alto: chiaro esempio della sfasatura cronologica (qui una generazione) n
tempi di romanizzazione dei due sessi (si ricordi il caso di Settimio
vero e di sua sorella: l'imperatore e sua sorella erano della stessa zona d
Apuleius, ma il fenomeno è generale) e della complessità della situazion
esistente in molte aree provinciali: qui gli indigeni che vanno romanizza
dosi sembrano libici, ma quando decidono di far scrivere un'iscrizione
una lingua preromana ricorrono al punico. La libicità etnica della quart
generazione ci sfuggirebbe peraltro del tutto anche se avessimo un'epi
grafe con la relativa filiazione. A questo livello generazionale la famigl
appariva ormai come romanizzata a tutti gli effetti.
La iuventus di Mactar
Nella non lontana Mactar la grande iscrizione dell'anno
mette di verificare la filiazione di 69 iuvenes, individui nel pien
lità, tra 17 e 46 anni, nello stesso secolo di el-Amrùni.
[126] Qui Charles-Picard (1959:90) ha constatato che tra i geni
viamo 23 nomi punici, 11 libici e 13 incerti ma 'africani', mentre i
tano rispettivamente 20 nomi punici, 2 soli libici e 11 incerti,
che significativamente colpisce più il libico che il punico. Cha
non ha osservato che ci sono padri con nome 'libico' o 'africano
ai figli nomi punici: 4 Balsillec figlio di Zruma , 6 Barichal = Fo
glio di Iasuctan (per l'identificazione dei nomi mi servo di Char
1959:91); viceversa i nomi latini passano da 25 a 35. Sono esempl
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:49:58 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
La latinizzazione delle province come processo di lunga durata 527
ROGATVS F (mus) D. ADDVN (n° 1), FORTVNATVS F. D. ARSACES (n° 2;
il nome del padre è tipicamente orientale), SILVAN VS F. D. MUZTHUM-
BAL (= Rogatus, Datus; n° 3).
Sembra dunque che il trend sia analogo e anche la cronologia del pas-
saggio coincida. Ma in realtà il processo è più complicato: qui sei padri
che hanno nomi 'latini' hanno dato ai loro figli nomi 'libici' o 'africani',
come nel caso di IAILVAI figlio di BASSUS (n° 36), speculare rispetto a
TITUS figlio di IARAUCAN (n° 30). Ciò che accade è dunque che, in un
ambiente in cui i fattori di romanizzazione erano numerosi (a cominciare
dalla stessa istituzione di una inventus dedicata a Marte), ma in cui ancora
tutti sono peregrini , abbiamo una compresenza e convivenza di stili di vita
e di modi di parlare con una gerarchia molto evidente (latino/punico/
libico) ma con possibilità di movimenti individuali in tutte le direzioni.
Certo, quello che conta non è il caso singolo ma il trend collettivo e questo
favorisce la romanizzazione, che a Mactar sembra vincere negli anni di
Traiano (cf. Charles-Picard 1959:76 e 149). Ma i casi individuali ci mettono
sull'avviso di non dare per spacciate troppo presto o totalmente le lingue
dominate.
In ogni modo, la datazione del caso singolo non permette certo la
datazione globale del fenomeno di acculturazione, perché lo slittamento
dalla cultura indigena a quella romana all'interno della famiglia si ripete
nel tempo a seconda del livello sociale e dell'area geografica.
L'epitaffio di Turenno
Naturalmente l'onomastica è solo uno dei modi che ci danno testi-
monianza dell'assimilazione degli indigeni. L'esistenza stessa di una is
zione è, come si è detto, segno di adeguamento ad uno stile di vita la
(o greco). Il suo livello linguistico è prova quanto meno della cap
dell'artigiano che l'ha scritta, ma anche dei desideri e delle esigenze
committenti. Alcuni particolari interni rivelano gradi più o meno int
di acculturazione.
In una delle zone più interne della Hispania Tarraconensis, a Argo-
viejo, in provincia di León, è stata trovata la seguente iscrizione (Vives
1971-1972, n° 5432; Vaananen 1982:291):
[127]
(foglia di edera)
D [is] Mļanibus]
TVRENNO
BODDEGVN
BODDI Ffilius] VAD [iniensi] AN [norům]
XXX POSIT
DOIDERVS PA
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:49:58 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
528 Romance Philology, vol. 69, Fall 2015
TRI SVO PIEN
TISSVMO
S[itus] H [oc] S[epulcro]
(cavallo e albero)
"Agli dei mani di Turenno Boddegun, figlio di Boddo, vadinien
anni 30, pose Doidero al padre suo piissimo, deposto in questo sepo
(cf. Vaananen loc. cit.; Vives legge 3 - M e 4 A.N.).
Chi ha ordinato l'iscrizione ha il nome celtibérico di Doiderus e non
meno indigeno è il nome di suo padre Turennus, che Palomar Lape
(1960, §37) collega all'ant. irl. turas Torte, potente'). Inoltre il Boddegu
che accompagna il nome appare troppo simile alla successiva indicazion
della filiazione ("figlio di Boddo") per non esserne un duplicato: avrem
dunque prima e accanto alla forma latina di patronimico una forma in
digena, con un suffisso -egun. Già Tovar (1960:123) ha notato che in un
iscrizione dell'antica Cantabria il patronimico latino (PENTOVI F.) è pre
ceduto da un aggettivo assai simile (PENTOVIECI gen.). L'iscrizione
questione, che si trova a Luriedo, un remoto villaggio del valle di Lieb
(Cantabria), incisa su un grosso masso circolare, dice:
MON AMBATI
PENTOVIECI AMB
ATIC PENTOVI F[ilius] . . .
("Tomba di Ambatus Pentoviecus, [della tribù] degli Ambatici, figlio di
Pentovio").
Tovar ne ha dedotto che in celtibérico la filiazione si esprimesse per
mezzo di un aggettivo derivato in -ecu, che qui è tradotto in latino Peritovi
filius. Questo tipo derivativo sarebbe lo stesso che sopravvive in spagnolo e
nel nord-ovest del Portogallo e dà luogo a termini come pasiego 4 della valle
del fiume Pas' e lebaniego 'della valle di Liebana'. Il nome è in ogni caso ri-
cavato dalla base celtica *bhoudhi- 'vittoria' (cf. anche Tovar 1977:110-111).
Villar (1995:109-119) esclude che in celtibérico la relazione patronimica si
sia mai espressa mediante un aggettivo, e quindi toglie verosimiglianza al
rapporto col il suffisso romanzo -iego.
In ogni caso, la nostra stele non nasconde dunque che la latinizzazione
della stirpe celtibérica di Boddus e di Turennus Boddegun e di Doiderus
è appena cominciata; il che del resto è confermato dalle figure scolpite
che la decorano: l'edera, il cavallo e l'albero sono certamente legati a riti
locali. Ma la stele esprime [128] anche una indubbia volontà di mostrarsi
acculturati, appunto per il fatto stesso che esiste e perché è in latino. Del
resto è degna di nota la sostanziale correttezza del suo latino. Infatti posit
per posuit è molto frequente (Mihàescu 1978, §217) e può essere spiegato
o con il dileguo di u semivocale a seguito di una evoluzione po-su-it >
po-suit > po-sit (come fa Mihàescu 1978, §144) ovvero come dileguo di u
semivocale tra vocali identiche, quelle cioè di una forma di perfetto de-
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:49:58 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
La latinizzazione delle province come processo di lunga durata 529
bole posiuit, che è arcaica e popolare (così Vaananen 1982, §90); quanto
a pientissumo come superlativo di pius , essa è la forma prevalente, al punto
che Cicerone considerava scorretto piissimus (Mihäescu 1978, §316), e non
c'è bisogno di dire quanto sia comune l'oscillazione tra u ed i in atonia (cf.
Vaananen 1982, §57).
Un Itureo a Magonza
Passiamo ora all'esercito, di cui è ben nota la funzione come focolaio
di romanizzazione. Anche questa volta citerei qualche caso individuale,
che considero abbastanza tipico e significativo.
Non lontano dal centro romano di Magontiacum, capoluogo della
provincia romana della Germania superior, cioè in un sobborgo dell'at-
tuale città di Magonza chiamato Weisenau, è stata trovata una stele se-
polcrale relativamente elaborata (riutilizzata una seconda volta ancora in
epoca romana), nella quale in buone lettere capitali dei primi secoli impe-
riali si legge (Schillinger-Hùfele 1982:41, n° 9; AE 1976:497):
MOLAECVS
SAMVTI F
AN L EX CO III
ITVRAIVS
STIP XIIII
H S E
Sciolte le abbreviazioni, il testo è: Molaecus Samuti fiilius), an(norum) L, ex
co(horte) III , Ituraius, stip(endiorum) XIIII, h(ic) s(itus) e(st), vale a dire "Moleco,
figlio di Samuto, di anni 50, della corte terza, itureo, con 14 anni di servi-
zio, è qui sepolto".
L'elemento più interessante è che il defunto si dica Itureo, cioè ap-
partenente ad una tribù siro-araba (Der neue Pauly 5, 1183-1184) che nei
secc. II-I a.C. si era creato un dominio tra Libano meridionale e Galilea
e che era stata sottomessa dai Romani e aggregata nel sec. I d.C. alla p
vincia di Siria. Del resto il nostro Itureo porta un nome chiaramente
mitico, cavato dalla radice m-l-k 're', e non meno trasparente è il nom
suo padre (Pellegrini 1972, 1:235, registra i cognomi siciliani Zambuto
maltese Sammut).
Orbene, un arabo, figlio di arabo, dopo aver servito per 14 an
nell'esercito romano, è così assimilato culturalmente da voler investire
una parte dei suoi risparmi in una stele sepolcrale di puro stile classico e
con iscrizione in corretto [129] latino. Né è il solo: nella vicina Mainz-Zahl-
bach fu trovata la sepoltura, ancora più ricca (la stele ha anche un rilievo
con l'effigie del morto), di un Monimus, figlio di Ierombalus, anche questi
nomi semitici, soldato della prima coorte degli Iturei (cf. CIL XIII, 7041 e
Schillinger-Hāfele 1982, 42, n° 10; CILX III, 7040 conserva il ricordo di un
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:49:58 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
530 Romance Philology , vol. 69, Fall 2015
altro Itureo). Non c'è dubbio che gli eventuali figli
bero stati dei Romani perfettamente integrati.
Queste lapidi ci danno dunque un segno tangi
della forza assimilatrice del modo di vivere romano nonché della volontà
di accettare anche il latino, che qui, ripeto, è corretto. La qualità della lin-
gua può naturalmente dipendere dalla capacità dei lapicidi di un centro
come Magonza piuttosto che da quelle dei defunti. Nell'epigrafe citata si
conserva il dittongo arcaico AI, mentre in quella di Monimus l'etnico ap-
pare con AE: ITVRAEOR(ww). Ma la stele ci mostra che questo risultato
non è senza rapporto con la straordinaria mobilità che portava un arabo
sulle rive del Reno e che ve lo faceva vivere accanto ad individui e popo-
lazioni di origine affatto diversa (ed eterogenea). Quando mai, nei secoli
seguenti, è accaduto che un arabo, prossimo discendente di un beduino
del deserto siriano, militasse (nel 'nostro' esercito!) e morisse in Renania?
Macrinus e M. Crecilius Donatianus
Ancora un esempio. In Gran Bretagna, a Holt, nel Denbighsh
les del Nord), è stato trovato su una tazza un graffito piuttosto r
datazione oscilla tra il sec. I ed il primo terzo del sec. III d.C., ch
letto come latino e dichiarato di significato ignoto. In realtà l'
non è latina: nel 1940 essa è stata riconosciuta come in scrittur
neopunica (Guillaume 1940; ora Collingwood/Wright 1995:4, n°
dove però non si registra che la corretta lettura del nome risale
Vida 1940). Anche questa volta si tratta dell'attestazione di gran
settentrionale di questa lingua. Nell'iscrizione si legge il nome
un Macrinus , beninteso ricavabile da caratteri che possiamo tr
come rriqryrì: presumibilmente si sarà trattato di un soldato d
gio, che era appunto acquartierata a Castra Legionum, un solda
fatto lavorare come vasaio. Ma qui quel certo grado di accultur
parrebbe indicato dal nome viene smentito dalla lingua dell'iscr
processo non può dunque essere concepito né come semplice e s
umani né come uno sciogliersi senza residui dell'elemento indig
tino. Ciò che invece accade, e che importa qui registrare, è un p
fìcile agglutinarsi di etnie e di culture sulla base di una domin
cultura classica e della lingua latina.
Se infatti a Holt un libico, pur portando già il nome roman
Macrino, continuava ad usare la sua lingua e il suo alfabeto,
iscrizione della stessa provincia (da Carvoran, lungo il Vallo di
cf. Collingwood/Wright 1965:558, n° 1791), ma questa volta lat
viamo onorata la Virga Cœlestis, che è la dea cartaginese Tanit
Pauly 5, 855), con cui il tribunus in prcefecto Marcus Caecilius
intende identificare Julia Domna, moglie [130] siriana di Settim
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:49:58 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
La latinizzazione delle province come processo di lunga durata 531
(siamo dunque tra 197 e 217). Non a caso il culto della Virgo Caelestis fu
introdotto tra quelli ufficiali dall'imperatore Elagabalo (218-222 d.C.),
parente di Julia Domna.
Questa volta non è dunque un devoto orientale o punico, ormai così
latinizzato da tradurre in termini romani anche il nome della propria di-
vinità, ma un romano che pratica un culto orientale probabilmente per
adulazione/piaggeria verso l'imperatrice, il cui peso politico non era
piccolo. Questo esempio, e il suo intreccio di religiosità orientale, adula-
zione cortigiana, riti cultuali latini, ci richiama dunque dall'esercito, di
cui M. Caecilius Donatianus faceva parte, a quel sincretismo religioso che
ha permesso l'enorme diffusione dei culti orientali: indizi insieme e con-
seguenze della mobilità geografica e anche sociale di cui parliamo e corri-
spettivo, sul piano della storia delle religioni, di quella mescolanza lingui-
stica di cui indaghiamo le tracce. Né è lontano lo straordinario successo
del cristianesimo, così ricco di conseguenze anche linguistiche.
La carriera di Q. Lollio Urbico
C'è un ulteriore aspetto per cui l'esercito, e accanto ad esso la buro-
crazia imperiale, deve fermare l'attenzione dello storico della lingua: le
possibilità di mobilità verso l'alto che esso apre.
Sappiamo già che la cultura romana non pone ostacoli pregiudiziali
all'assimilazione dei non latini. Allo stesso modo è stato possibile il suc-
cesso sociale dei provinciali, prima di quelli di origine italica, poi di tutti
gli altri. Già con Traiano, nel 98 d.C., un provinciale, sia pure di origine
italica, diventa imperatore. Un secolo dopo, nel 193, a diventare impera-
tore è un africano di stirpe libica, Settimio Severo, ed è un provinciale
che ha fatto carriera nell'esercito. Meno di mezzo secolo dopo comincia
l'epoca dei soldati della più diversa provenienza, perfino mezzo bàrbari
come Massimino Trace, che ascendono al trono: è diventato normale che
le legioni acclamino ed impongano, come avevano fatto con Settimio Se-
vero, generali di romanità recente e magari assai superficiale.
Se il destino imperiale dà rilievo a pochi casi eclatanti, che sono ecce-
zionali, conviene riflettere sulle innumerevoli carriere che, senza portare
fino al trono, sono state percorse da provinciali di recente latinizzazione
che si sono spostati a grande distanza dalla località di origine e si sono in-
tegrati non solo nella civiltà ormai romana della propria provincia ma nei
circuiti culturali e sociali di tutto l'Impero. E stato osservato che "i cursus
equestri e senatori mostrano generalmente una marcata assenza di spe-
cializzazione geografica [. . .] sotto questo aspetto l'impero sembra essere
stato un sistema integrato, che non mostrò alcuna tendenza alla comparti-
mentazione regionale" (Millar 1984:132).
Ricordo il caso di Quinto Lollio Urbico, che conosciamo attraverso
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:49:58 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
532 Romance Philology y vol. 69, Fall 2015
alcune iscrizioni e qualche altra fonte (cf. RE 13, 1392
729; Script. Hist. Aug., lul. Cap., Ant. Pii 5,4, ediz. H
prattutto grazie all'iscrizione posta sotto la statua
suoi concittadini [131] del Castellum Tidditanorum o
località a 16 km. a nord ovest di Cirta (oggi Costantin
nella provincia di Numidia ( CIL VIII, 6706 = ILS
che Q. Lollio Urbico aveva cominciato come quattu
tenzione delle strade, poi era stato tribuno della XXI
questore urbano, legato del proconsole d'Africa, trib
tore, legato della X Legione Gemina, a Vienna; nel 1
legato l'imperatore Adriano nella campagna di Giude
feziale, console suffectus prima del 138, governatore
rior a Colonia. Più tardi, dal 139 al 145, egli fu gove
nia, dove riuscirà a portare il confine a nord del Va
a quello che sarà chiamato Vallo di Antonino Pio (
1965, n.i 1147, 1148, 1276, 2191 e 2192); poi sembra
d'Africa (lo ricorda Apuleio ne'Y Apologia 2 a proposi
un atto), infine prefetto urbano (cioè di Roma) dopo
10707; VIII 6705; Fronto ad amie. 2,7 p. 194 Nab.; Eus
È inutile sottolineare che in nessun altro periodo storico
glio di un proprietario terriero berbero di una piccoliss
avrebbe potuto percorrere una carriera che lo portasse
Danubio (dove era dislocata la X Legione Gemina), sul ba
nia, culminando in una posizione di grande potere e pr
dell'impero di cui tutte queste regioni facevano parte.
Conclusione.
Gli esempi che ho citato, scelti in modo affatto casuale e cert
criticabili sotto più di un aspetto, mostrano che il processo di la
zione deve essere stato lungo e complesso. La società imperial
si presenta come un melting pot assai diverso da quelli moderni
questi ultimi comportano l'assimilazione di masse anche ingen
migrati mentre quello antico implicava soprattutto l'accultur
gruppi numerosi e compatti di popolazione indigena, che è proce
più difficile.
La latinizzazione, del resto, non è che un aspetto di un proces
rico che un libro recente chiama Becoming Roman (cf. Woolf 1998
questo lavoro di Greg Woolf sulla Gallia, che pure non mi ha conv
tutto, perché lo studioso mostra assai bene che diventare roman
ficava passare attraverso una forte tensione tra forze acculturant
stenze all'acculturazione (sulle quali rimando in specie a Bénab
Il fine non era tanto quello di omologarsi agli altri abitanti dell'
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:49:58 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
La latinizzazione delle province come processo di lunga durata 533
quanto di "acquisire una posizione all'interno del complesso di differenze
strutturate nel quale consisteva il potere romano" (Woolf 1998:243). Que-
sto sistema di differenze, all'interno dell'impero, era in certo modo auto-
nomo rispetto allo spazio, in quanto non aveva sede in un luogo sì e non
in un altro: esso era "un insieme di comportamenti, di gusti, di sensibilità
e di ideali" (ibid., 241) che si ritrovava in tutti i luoghi nei quali c'era qual-
cuno che [132] lo condivideva. L'esistenza di questo "centro simbolico"
era strettamente legata all'esistenza della comunità politica romana, così
come lo era il processo assimilatorio, sempre più esteso e profondo nello
spazio geografico e sociale (dall'alto verso il basso, dalle città verso le cam-
pagne), processo che durò secoli e che coinvolse la lingua.
La tesi di Woolf è convincente, ma lascia fuori coscientemente un fat-
tore di fondamentale importanza: il cristianesimo. Se la tesi è vera, come
per certi aspetti pare, ci si attenderebbe che la latinizzazione fosse messa
in crisi, o almeno profondamente modificata, dalla fine dell'impero. In-
vece il processo non s'interruppe: salvo che in Britannia ed in Africa,
quasi tutti i resti di lingue preromane furono riassorbiti ed i vecchi terri-
tori imperiali diventarono, se non omogeneamente latini, tutti romanzi. Il
fatto è che, dal sec. IV in poi, accanto al modello che possiamo chiamare
Becoming Roman si era collocato, ed alla fine prevalse, quello di Becoming
Christian, di cui faceva parte almeno in Occidente il latino. Questa preva-
lenza permise (o facilitò) la fine dell'impero d'Occidente ma assicurò il
futuro della romanità linguistica.
Opere citate
AE : Année épigraphique. Paris: Presses universitaires de France.
BÉNABOU, marcel. 1976. La résistance africaine à la romanisation. Paris: F. Maspero.
Charles-picard, Gilbert. 1959. La civilisation de lAfrique romaine. Paris: Pion.
CIL: Corpus inscriptionum latinorum. Deutsche Akademie der Wissenschaften zu
Berlin. 1862 - . Berlin: Reimerum.
COLLINGWOOD, robin G. e Richard p. Wright. 1965. The Roman Inscriptions of Brit-
ain. Oxford: Oxford University Press.
for the Administrators of the Haverfield Bequest b
donner, Herbert e Wolfgang RÖLLIG. 1966. Kanaanäis
ten, I. 2a ed. Wiesbaden: Harrassowitz.
Harrassowitz.
garcía bellido, Antonio. 1967. "La latinización de Hispania". Archivo español d
arqueologia 40:3-29.
gröber, Gustav. 1884. "Vulgarlateinische Substrate romanischer Wörter". Arch
für lateinische Lexikographie und Grammatik 1:204-232.
Guillaume, a. g. 1940. "The Phoenician Graffito in the Holt Collection of the N
tional Museum of Wales". Iraq 7:67-68.
Guzzo AMADASi, maria grazia. 1967. Le iscrizioni fenicie e puniche delle coloni
Occidente. Roma: Istituto di studi del Vicino Oriente.
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:49:58 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
534 Romance Philology, vol. 69, Fall 2015
Havelock, eric a. 1963. Preface to Plato. A History of th
bridge: Belknap Press, Harvard University Press.
HEMANDO BALMORi, clemente. 1935. "Sobre la inscrip
Moledo". Emerita 3:77-119.
hohl, ernst, ed. 1965. Scriptores Historiae Augustae. Editio stereotypa correctior
addenda et corrigenda adiecerunt Ch. Samberger et W. Seyfarth. Biblio-
teca scriptorum Graecorum et Romanorum Teubneriana. 2 voll. Leipzig:
Teubner.
[ILS: Inscriptiones Latinae Selectae , ed. Hermann Dessau. 3 voll, in 5. Berlin: Weid-
mann, 1892-1916.]
levi della vida, Giorgio. 1940. "A Neopunic Inscription in England". Journal of
the American Orientai Society 60:578-579.
2:65-94.
lidzbarski, mark. 1907. Altsemitische Texte , 1: Kanaanäische Inschriften ( moabitisch ,
althebräisch , phönizisch , punisch). Giessen: Töpelmann.
MACMULLEN, ramsay. 19bb. Provincial Languages in the Koman Empire . Amen-
can Journal of Philology 87:1-17.
mihäescu, HARALAMBiE. 1978. La langue latine dans le sud-est de VEurope. Trad, du
roumain par Radu Creteanu. Bucureçti: Editura Academiei.
millar, fergus.1968. "Local Cultures in the Roman Empire: Lybian, Punic, and
Latin in North Africa ".Journal of Roman Studies 58:126-134.
chael Crawford, Emilio Gabba, Fergus Millar e A
Trad. Cesare Saletti. Bologna: Il Mulino.
NEUMANN, GÜNTER e jürgen Untermann, eds. 19
Reich der Kaiserzeit (Kolloquium vom 8.-10. Apri
Jahrbücher ; 40. Köln: Rheinland-Verlag; Bonn: Ha
palomar LAPESA, Manuel. 1960 - . "Antroponimia
lingüística hispánica , dir. Manuel Alvar et alii , 1:
pellegrini, GiovAN battista. 1972. Gli arabismi nel
Paideia.
PETRACCO Sicardi, Giulia. 1981. "Liguri e Celti nell'Italia settentrionale". In I
Celti d'Italia , a cura di Enrico Campanile, 71-96. Pisa: Giardini.
RÖLLIG, Wolfgang. 1980. "Das Punische in römischen Reich". In Neumann e Un-
termann 1980:285-299.
schillinger-häfele, UTE. 1982. Lateinische Inschriften: Quellen für die Geschichte des
römischen Reiches. Gesellschaft für Vor- und Frühgeschichte in Württemberg
und Hohenzollern mit Unterstützung des Württembergischen Landesmu-
seums Stuttgart und der Stadt Aalen.
tovar, Antonio. 1959. "Las inscripciones celtibéricas de Peñalba de Villastar".
Emerita 27:349-365.
güística hispánica , dir. Manuel Alvar et alii , 1:1
niens". Études celtiques 11:237-268.
orientales de los celtiberos". Hispania antigua 3:367
bert Bertsch. Tübinger Beiträge zur Linguistik, 90. T
Untermann, jürgen, ed. 1975. Monumenta linguarum his
genden. 2 voll. Wiesbaden: Reichert.
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:49:58 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
La latinizzazione delle province come processo di lunga durata 535
degli Studi di Napoli u L' Orientale". Rivista del Dipar
zione linguistica 3:15-35.
Vaananen, Veikko. 1982. Introduzione al latino volg
vallette, paul, ed. 1924. Apulée, Apologie. Paris: Le
VARVARO, Alberto. 1981. Lingua e storia in Sicilia ,
villar, francisco. 1995. Estudios de celtibérico y de to
Ediciones de la Universidad de Salamanca.
viLLARONGA, LEANDRE. 1979. Numismática antigua de Hispania: iniciación a su es
dio. Barcelona: CYMYS.
vives, JOSÉ. 1971-1972. Inscripciones latinas de la España romana. Barcelon
C.S.I.C.
wells, colin M. 1984. L'impero romano. Bologna: Il Mulino.
WOOLF, GREG. 1998. Becoming Roman: The Origins of Provincial Civilization in Ga
Cambridge: Cambridge University Press.
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:49:58 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
L'ITALIANO DELL'ANNO MILLE: LE ORIGINI DELL'ITALIANO
Source: Romance Philology, Vol. 69, No. 2 (Fall 2015), pp. 589-607
Published by: Brepols; University of California Press
Stable URL: https://www.jstor.org/stable/44741960
Accessed: 25-09-2024 14:49 UTC
JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide
range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and
facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected].
Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at
https://about.jstor.org/terms
Brepols, University of California Press are collaborating with JSTOR to digitize, preserve
and extend access to Romance Philology
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:49:50 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
L'ITALIANO DELL'ANNO MILLE:
LE ORIGINI DELL'ITALIANO
Il 18 settembre 1018, nel castello di Bareglia sulla Pescia maggiore,
Lucca, il giovanotto (infanctulu) Uberto, detto Melio (Meglio?), fa
una charta indicati.1 La storia di questo giovanotto ha aspetti assai
santi. Egli dichiara di essere "filio bone memorie Hughi, ex gener
cinorum que Bellabeitio vocatur"; il Signore gli ha mandato un m
tale da metterlo in pericolo di vita ("ego me vidisse ad mortali occ
dere"), sicché ritiene opportuno avvalersi della legge di re Liutpran
consente anche ai minorenni di testare validamente in condizioni estreme,
a vantaggio della loro anima. Così Uberto "conferma a Pietro ... la chiesa
di san Giorgio e san Lorenzo presso la Pescia maggiore ... e tre porzioni
integre di beni che egli ha nel territorio di Volterra in luogo detto Santo
Lottherio, e beni in Bientina col castello in luogo detto Fontana Soleari
e stabilisce che nel caso di sua morte detti beni passino in proprietà del
detto Pietro".2
Ci si potrebbe anche domandare come avesse fatto uno che oggi chia-
meremmo extracomunitario, come Ibn-al-labbâd 'figlio del feltraio'3 a
mettere insieme questo patrimonio, che comprendeva perfino una chiesa;
C4. "L'italiano dell'anno Mille. Le origini dell' italiano". In Italia Linguistica anno mille.
Italia linguistica anno duemila. Atti del xxxiv Congresso Internazionale di studi della
Società di Linguistica Italiana (Firenze, 19-21 Ottobre 2000), a cura di Nicoletta Ma-
raschio e Teresa Poggi Salani, con la collaborazione di Marina Bongi e Maria Palme-
rini, 19-35. Roma: Bulzoni, 2003.
Ristampato per gentile concessione della casa editrice Bulzoni.
1. La carta è pubblicata da Giuseppe Ghilarducci, Archivio Arcivescovile di Lucca . . . (1990,
11:23-25). Per la località cfr. Pieri 1898:196.
2. Cito il regesto del Ghilarducci (1990).
3. Devo questa interpretazione alla competenza di Girolamo Caracausi, che non esclude
neppure Ibn Abìd. Ambedue i nomi sono attestati nella Sicilia del sec. XII, e non è
improbabile che fosse di origine siciliana anche il nostro. Per labbâd 'feltmaker' cfr. A
Dictionary o/Modern Written Arabie (Wehr 1971:854b).
Romance Philology, vol. 69 (Fall 2015), pp. 589-608. DOI 10.1484/J.RPH.5.1 10353 589
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:49:50 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
590 Romance Philology, vol. 69, Fall 2015
che si tratti di acquisizioni del minorenne Uberto
rebbe soprattutto interessante sapere come parlasse
un saraceno stabilitosi in Toscana e il notaio che r
randosi prima "Rodilandus notarius domini impera
"Rodilandi [sic] notarius domini imperatoris".
La risposta al secondo quesito è non meno diffic
perché sappiamo pochissimo della lingua che si pa
nisola attorno al 1000. Bisogna dire che questo pro
affrontato almeno in tre modi differenti. Se per e
comparativo delle parlate italiane in maniera da r
croniche più antiche, se insomma ci poniamo sul
tica storica, si può dire che molto è stato fatto e s
che sarebbe inutilmente lungo ricordare i nomi d
occupati. Ma non è questo il terreno su cui voglio
il tema del convegno ci richiama ad una impostazi
storica di quanto non riesca ad essere, anche n
astrattamente comparativa della grammatica detta
Passo dunque ad una seconda accezione del sog
lunga più comune, che chiamerei accezione filolog
nello studio dei più antichi documenti dei volgari
sto caso, mi pare inutile elencare qui i nomi di colo
anni, hanno ben meritato per questo rispetto. Ma
di osservare che questa è anche, sostanzialmente,
tolo dedicato da Bruno Migliorini, nella sua memor
italiana , al periodo delle origini, dove forse ci si
discorso diverso.
Può sembrare strano che un filologo quale io sono si dichiari insod-
disfatto di uno studio delle origini che si risolva nell'esame filologico-
linguistico dei testi volgari che ce ne sono pervenuti. Ma il fatto è che il
loro esiguo numero, ed ancor più la concentrazione della maggioranza in
poche aree, sostanzialmente in quella felicemente battezzata 'mediana',
sono due fattori che riducono di molto la possibilità che questa imposta-
zione risponda alle domande che pure sembra del tutto legittimo porsi.
Ne formulo soltanto una. Quale era, se posso dire così, la carta dei dialetti
italiani attorno al 1000? La domanda è, come si intende, cruciale. E vero
che abbiamo una prima, per tanti aspetti geniale e comunque unica, de-
scrizione della situazione dell' italo-romanzo (credo che la dizione prefe-
rita da Giovan Battista Pellegrini andrebbe adottata più largamente) nelle
pagine del De vulgāri eloquentia dantesco; ed è anche vero che tra Tre e
Quattrocento troviamo documentazione diretta di buona parte dei princi-
pali tipi dialettali. Insomma, siamo in qualche modo in grado di disegnare
una carta dei dialetti italiani diciamo attorno al 1400 senza che vi riman-
gano troppo aree in cui si debba scrivere "Hie sunt leones". Ma quale era
stata la situazione quattro secoli prima, appunto attorno al 1000? Se sapes
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:49:50 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
L'italiano dell'anno Mille. Le origini dell'italiano 591
simo rispondere a questa domanda, anche in modo appross
lato potremmo valutare le dinamiche linguistiche, e quindi
culturali, che hanno governato il nostro paese del secon
d'altro canto, porci con convincente serietà la domanda ulte
accaduto nell'Italia linguistica tra, diciamo, il 600 ed il 1000
gorio e papa Silvestro?
Forse è bene che io insista su un punto: non mi chie
state allora le evoluzioni singole che la grammatica storica
analizza; mi domando se ci sia modo di sapere qualcosa dell
plessivo delle strutture linguistiche, degli usi sociali de
coscienza dell'identità delle parlate. Orbene, gli studiosi ch
venturati su questo periglioso sentiero sono stati pochi, e
perché: il sentiero è strettissimo ed a volte, anzi spesso, sem
e dà l'impressione che sia francamente impossibile, o al
mente difficile, arrivare da qualche parte.
Faccio subito il nome di chi ha affrontato forse più dir
altri la questione, essendosi assunto il compito di scrivere
intitolato appunto [21] L'Italia dialettale fino a Dante. Mi r
seppe Vidossi, il probo studioso istriano, professore all'Un
rino, che da tempo si era allontanato dagli studi di linguis
stato avviato in gioventù da un Mussafia e da un Meyer-L
dell'Università di Vienna, ma che in vecchiaia scrisse pa
come introduzione di un primo volume non proprio mem
alquanto datato, della Letteratura italiana del Ricciardi.4 Ne
del suo scritto Vidossi illustra la teoria di Clemente Merlo
mota dell'articolazione dialettale della penisola, portata
al sostrato, poi riassume le riserve in proposito di Rohlfs e
fine conclude:
tutto porta a ritenere che il frazionamento dialettale dell'Italia sia anzitutto il
correlativo di un frazionamento nello spazio dovuto, più che a ostacoli natu-
rali, a confini amministrativi, ecclesiastici, politici (operanti come limiti e per
così dire "displuvii" d'irradiazioni linguistiche).5
Una formula, questa, che gli permette di sussumere in una catego-
ria unica confini etnici remoti e confini d'altro genere più recenti, come,
sulla scia del sodale Matteo Bartoli, il da lui ricordato confine dioclezia-
neo dei due vicariati di Roma e di Milano o quello tra l'arcidiocesi di Ra-
venna e quella di Roma o l'altro tra il patrimonio di S. Pietro e il ducato
di Spoleto.
Se le cause invocate dal Merlo riportavano la situazione moderna ad
una remota, pre-romana, articolazione della varietà linguistica della peni-
4. Vidossi 1956:xxxiil-lxxi.
5. Ibid. xxxviii.
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:49:50 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
592 Romance Philology, vol. 69, Fall 2015
sola, quelle richiamate da Vidossi sono comunque
di Carlomagno. Il lettore non può dunque che r
che il panorama dialettale italiano sia rimasto neg
sostanzialmente stabile. Infatti, subito dopo Vidoss
Anche questo excursus sulle origini dei nostri dialetti
data dei primi nostri monumenti volgari (secoli X e
e dialettale d'Italia non doveva differire, almeno nelle linee essenziali, da
quella presente.6
È vero che lo studioso aggiunge subito, prudentemente: "Ma è difficile
darne le prove". Però, dopo avere elencati i testi volgari dei secoli X-XI a
lui noti, egli non manca di ribadire:
Ma, in ultima analisi, la presunzione che la distribuzione dei dialetti nei se-
coli anzidetti (X e XI) non differisse ... da quella posteriore, si fonda [22]
sul dato linguistico già accennato, che ritiene in massima conchiuso nel corso
def secolo VIII il trapasso dal latino al volgare.7
Tra il secolo XI e Dante mancherebbero "eventi atti ... a determi-
nare mutamenti e spostamenti essenziali" {ibid.). Inutile aggiungere
per Vidossi il quadro dantesco non differisce molto da quello moder
le modifiche che egli ammette esplicitamente per i secoli successivi
infatti: a) la toscanizzazione di Roma; b) lo spostamento di Pavia dal
alessandrino al piacentino prima ed al milanese poi; c) la venetizzazi
dell'Istria; d) la toscanizzazione della Corsica; e) e quella, parziale,
Sardegna settentrionale. Insomma - possiamo aggiungere noi - ,
salve queste poche eccezioni, la carta di G.B. Pellegrini8 dovrebbe va
in buona parte per l'epoca di Dante ed ancora, in buona sostanza
quella di Carlomagno, se si scontano mutamenti portati dai Norm
nell'Italia meridionale.9
Non mi pare di avere reso molto più rigido di quanto effettivamente
sia l'argomentare di Vidossi. Che la lunga stabilità dell'italiano letterario,
tanto maggiore di quella delle altre principali lingue europee, ci abbia
predisposto ad un'ottica del genere anche per epoche più remote e per
livelli diversi da quello della lingua letteraria è più che comprensibile.
Ma la cosa strana è che lo stesso Vidossi non manca di dare una se-
rie di informazioni che di fatto contraddicono, senza che egli dia vis
di rendersene conto, il suo assunto della lunghissima stabilità del qua
linguistico della penisola. Egli osserva infatti che, tranne le aree grec
fone, nessuna delle molteplici, e spesso importanti, colonie alloglotte
6. Ibid. xxxix.
7. Ibid. xli.
8. Cfr. Pellegrini 1977.
9. Non a caso Vidossi scrive: "Il quadro dialettale fino a Dante . . . tracciato con la scorta
dei testi a noi pervenuti e dei dati forniti dal De vulgāri eloquentia, riferibili anche ai
tempi anteriori, risulta sufficientemente articolato e preciso" (1956:lvii).
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:49:50 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
L'italiano dell'anno Mille. Le origini dell'italiano 593
cui fa uno scrupoloso elenco,10 risale più indietro del 1200 (le p
sono senza dubbio alcuni degli insediamenti gallo-italici in Sici
parte delle infiltrazioni bavaresi in Trentino-Alto Adige). Que
fica che, in buona sostanza, il panorama del 1000 presentava, g
questo, una differenza assai vistosa rispetto a quello dell'Italia
Un'altra se ne aggiunge quando lo studioso, poco più avanti, pr
quello che, negli anni immediatamente successivi, sarà chiamat
blema della koinè mediana11 e poi tocca decisamente quello
settentrionale ("un volgare illustre comune alle Venezie e al
dia", p. liii), concetto che risaliva al suo maestro Mussafia. Egl
con approvazione, alcune significative frasi dello studioso spal
le condizioni letterarie e politiche le [23] fossero state propizi
lingua scritta si sarebbe fissata nel settentrione d'Italia e sarebb
un nuovo idioma romanzo, molto affine all'italiano, ma pur di
esso", cit. alla n. 3 di p. lxix) e quindi non può non rendersi
che, ancora negli anni di Dante e parecchio dopo, la storia ling
Italia restava aperta ad esiti affatto diversi da quello che effett
realizzò poi e che tendiamo a considerare inevitabile. Ma il mit
bilità secolare, o millenaria, del panorama linguistico italiano,
lui, come a tutti, al di sopra di ogni sospetto.
Nell'ultimo paragrafo della sua trattazione (p. lxx), Vidos
nota uno studio di Jakob Jud che forse non è stato molto pre
storici della lingua italiana. Il riferimento è peraltro alquanto f
perché si ha l'impressione che il grande romanista zurighese v
passe del policentrismo linguistico della Toscana tra Firenze, P
Siena, Arezzo. Si tratta del contributo di Jud alla miscellanea in
suo maestro e poi collega Louis Gauchat, intitolato "Zum schri
schen Wortschatz in seinem Verhältnis zum Toscanischen und zu
ographie der Toscana",12 il cui assunto va ben oltre ciò che impl
Dopo la premessa (che oggi è del tutto superata) che ben poco
sull'articolazione lessicale della Toscana medievale, Jud proietta
dietro i dati dell'A/S (nel 1926 ancora in corso di redazione) rela
ciliegia , midollo , talpa , andare , crosta , crusca, figlioccio, per arriv
alla conclusione che la Toscana medievale era policentrica, ma a
cora più importante che Firenze, Lucca e Pisa erano gli estremi
settentrionali dell'area dialettale centro-italiana di fronte al g
che parole come " cerasea , merulla, (granocchia sono blocchi erratic
10. Cfr. Vidossi 1956:xli-xliv. Si possono vedere anche le pp. 44-55 della cit. C
legrini (1977).
11. Vidossi (1956:lviii) non può che ricordare le osservazioni di Bartoli sugli "elementi
inter regionali" nelle formule campane. Le ricerche di Baldelli (in gran parte raccolte
nel suo volume Medioevo volgare da Montecassino all'Umbria [1983]) e di altri erano al di
là da venire.
12. In Festschrift Louis Gauchat (1926).
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:49:50 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
594 Romance Philology y vol. 69, Fall 2015
sul terreno della Toscana settentrionale, blocchi ch
italiano, per quanto si faccia fortemente valere in q
toscana, ancora oggi non ha ricoperto".13 La visione
teva a frutto evidenze di dialetti moderni, è insomm
di quella di chi studiava la storia delle origini lingui
Firenze, porta d'ingresso della Toscana, è non solo dal
ma anche da quello lessicologico un punto d'incontro
stiche che in epoca antica venivano da sud e nel medi
derna da nord: it. ciliegia , midolla , rana, vado : andiamo
meridionali del nord, granocchio, cerascia, mirolla e semo
settentrionali delle aree lessicali centro- e sud-italiane.14
[24] Jud non disponeva di elementi per fissare la sua problematica in
coordinate cronologiche definite, ma quella da lui intravista è una dina-
mica lessicale molto vivace che si colloca certamente, volta a volta, in epo-
che diverse, che in realtà non si è mai arrestata. Insomma, è la spia del
fatto che la storia linguistica è sempre in movimento, anche se le epoche
delle catastrofi sono rare, per quanto ovviamente anche decisive. Illudersi
dunque che ITtalia linguistica del 1000 sia stata sostanzialmente uguale a
quella del De vulgāri eloquentia e questa non dissimile dalla nostra del 2000
non è vero per la lingua scritta e lo è ancor meno per quella parlata.
Forse si potrà consentire, in linea astratta, su queste mie conclusioni,
ma è inevitabile chiedersi fino a che punto esse ci aiutino a farci un'idea
su qual fosse la situazione del 1000. In realtà, lo stato delle nostre cono-
scenze rimane esiguo, e forse è destinato a rimanerlo sempre. Ma è certa-
mente nostro dovere tentare tutte le strade possibili per arrivare ad una
risposta, sia pure incerta e parziale. Credo si possa convenire che le strade
percorribili sono tre e che solo la combinazione degli elementi che esse ci
forniscono può essere ritenuta valida: 1) la comparazione; 2) le informa-
zioni esterne; 3) i testi.
Sarò molto breve sulle prime due. Ho già detto che la comparazione
ci ha dato, e ci può ancora dare, moltissimo, ma che essa è per sua natura
astratta, schematica e sostanzialmente atemporale e diventa informazione
storica vera e propria solo quando evidenze di altro tipo (filologiche e/o
storiche) permettono di aggiungerle polpa e colore. Con i soli risultati
della comparazione non si fa propriamente storia, ma essi sono indispen-
sabili per farla.
Quanto alle informazioni esterne, chi si occupa di origini dell'ita-
liano non può dimenticare alcuni dati essenziali. La situazione dell'Italia
meridionale era, attorno al 1000, affatto diversa da quella dei secoli suc-
cessivi ed anche di quelli precedenti. La Sicilia era saldamente in potere
dei musulmani e, in quanto culturalmente inserita nel mondo dell'Islam,
13. lud 1926:315. Per ciliegia dr. Castellani 1980, 11:12-15.
14. Jud 1926:315.
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:49:50 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
Vitaliano dell'anno Mille. Le origini dell'italiano 595
in buona sostanza in via di generale arabizzazione; il nucle
dei non arabofoni era costituito da grecofoni, che erano tali
non da più di un millennio, i quali rappresentavano l'appen
di un'area grecofona che si estendeva per buona parte delle zo
ma anche a volte interne, dell'Italia meridionale, dal Cilento a
In realtà tutta questa ampia fascia, che a noi sembra pacifico
appartenere all' italo-romanzo, rientrava - sia pure con altern
nell'ambito politico, questo sì di lunghissima durata, dell'imp
tino e nulla escludeva che vi potesse stabilmente prevalere l'a
ad una grecità linguistica di antichissima e gloriosa tradizion
Sicilia ionica arrivava al Mar Nero e ad Antiochia.
Ancora, le altre isole alloglotte che conosciamo per l'epoca moderna
erano sì al di là da venire, ma non sappiamo cosa fosse accaduto con
quelle non meno numerose ed importanti che si erano determinate con le
invasioni germaniche. A Benevento, verosimilmente, il longobardo si era
spento da non molto tempo.15 [25] Ma le traversie politiche, sociali e de-
mografiche degli ultimi sei secoli avevano trascinato nella penisola gruppi
alloglotti, non solo germanici, piccoli e grandi, bellicosi e agricoli, che si
erano insediati qua e là.
Spesso solo la toponomastica ce ne dà testimonianza. Il quadro rias-
suntivo di G. B. Pellegrini ne fornisce un'idea:16 rinveniamo traccia di Sar-
mati nelle province di Mantova (Sermide è documentata come Sarmata
già nel 753), Milano, Alessandria, Cuneo e Padova; di Alamanni in varie
località della Calabria; di Baiuvari nel Trevigiano (documentazione già
nel 1279); di Svevi nel Veronese (Soave dall'878) e nel Canavese (Soavia
nel 1039); di Taifali presso Bologna già nel sec. VIII; di Sassoni presso To-
rino, in Romagna, presso Benevento, nel Ternano, nel Pescarese e fino in
provincia di Cosenza (nel 1088); infine, e molto diffusamente, di Bulgari,
ben s'intende ancora di lingua turca e non ancora slava (Paolo Diacono
attesta esplicitamente l'uso di tale lingua, ancora al suo tempo, a Sepino,
Boiano, Isernia e dintorni17): se ne trovano nel Vogherese e nel Berga-
masco e soprattutto in Toscana (nel Lucchese, nel Livornese [la carduc
ciana Bolgheri], nell'Aretino, nel Senese), presso Città di Castello e presso
Narni, vicino Sulmona e vicino Castrovillari. Ancora più chiaramente vei-
colati dai rapporti con Costantinopoli sono gli Armeni, presenti in Italia
15. Federico Albano Leoni (1981:36) data l'estinzione del longobardo ai secoli IX-X.
16. Pellegrini 1990:279-281.
17. "Per haec tempora [668 ca.] Vulgarum dux Alzeco nomine" viene pacificamente in
Italia e chiede terre per i suoi; il duca di Benevento Romualdo "eisdem spatiosa ad
habitandum loca, quae usque ad illud tempus deserta erant, contribuit, scilicet Se-
pinum, Bovianum et Iserniam et alias cum suis territoriis civitates. Qui usque hodie
in his ut diximus locis habitantes, quamquam et Latine loquantur, linguae tarnen
propriae usum minime amiserunt" {Historia Langobardorum , V, 29; Bethmann e Waitz
1878:154).
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:49:50 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
596 Romance Philology, vol. 69, Fall 2015
meridionale neir887.18 Orbene, tutte queste colon
fossero, erano state riassorbite nelF italo-romanzo
ogni caso, in una Italia largamente spopolata per le
la recessione, la loro diffusione e la dinamica della successiva romanizza-
zione avranno pure avuto qualche effetto sul panorama generale, al di là
dei nomi di luogo.
Ma veniamo finalmente alla terza delle tre strade che ho schematiz-
zato più sopra, vale a dire i testi. Quei pochissimi in volgare che pur ab
biamo sono del tutto insufficienti a soddisfare le nostre curiosità, ma non
va dimenticato che in Italia esistono migliaia di documenti originali19 in
latino. Nessuno ha fatto da noi [26] lo straordinario lavoro compiuto in
Spagna ben ottanta anni fa da Ramón Menendez Pidal per il castigliano
e le ampie, anche se integrabili, ricerche di stratigrafia lessicale di Paul
Aebischer giacciono quasi dimenticate.20 La linguistica storica italiana si è
dispersa in ricerche magari meritorie ma di scarso o scarsissimo rilievo ed
ha trascurato questo campo, in cui i risultati sarebbero certamente di stra-
ordinario interesse. Lo stato dei lavori è così deficiente che perfino Max
Pfister, che per la tradizione della scuola svizzera sa bene quale profitto si
possa trarre da queste evidenze, ha preferito lasciare al margine del LEI i
materiali lessicali latini.
Se è deficiente lo stato della raccolta di materiali, non tranquillizza
neanche l'elaborazione delle idee su un punto cruciale: che lingua è
quella documentata dai testi alto-medievali? La tesi tradizionale è che si
tratti di un latino più o meno costellato di errori a causa dell'inadeguata
preparazione culturale e soprattutto linguistica di chi lo ha scritto. So-
stanzialmente abbandonata appare, a ragione, la tesi di H. F. Muller e dei
suoi seguaci, soprattutto americani, secondo cui questo latino corrotto
sia la rappresentazione diretta della lingua parlata nell'alto medioevo.
Scarsa eco ha trovato tra noi, se non vado errato, l'ipotesi sostanzialmente
speculare difesa con tenacia da Roger Wright a partire dal suo libro del
1982, 21 che riferendosi soprattutto alla penisola iberica ha trovato seguaci
in Spagna ma dovrebbe essere discussa anche tra noi22 perché si propone
come spiegazione totalizzante delle origini delle lingue romanze. Per lo
18. Per il complicato quadro del Mezzogiorno alto-medievale cfr. Palmieri 1981.
19. So bene che a fini linguistici le copie non valgono nulla, ma vorrei ricordare che le
copie, ed anche i falsi, sono comunque testimoni attendibili per il luogo e la data della
loro redazione in quanto copie o falsi. Non va dunque trascurato, allora, che molti do-
cumenti alto-medievali i cui originali sono andati perduti, ci sono giunti in copie del
X, dell'XI, del XII secolo, quindi tutťaltro che inutili ai nostri fini.
20. Esse sono in parte raccolte nei due volumi; cfr. Aebischer 1963 e 1978.
21. Late Latin and Early Romance in Spain and Carolingian France (trad, spagn. 1989).
22. Tra gli studiosi italiani che si sono occupati di Wright ricordo Mancini (1993, 11:24-
26), che avanza riserve più che fondate (sbaglia però a considerarlo americano: Wright
è inglese puro sangue) e Petrucci 1994, 111:39-42.
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:49:50 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
Vitaliano dell'anno Mille. Le origini dell'italiano 597
studioso dell'Università di Liverpool, fino alla riforma carolingia
ste che una sola lingua, latina nell' aspetto grafico ma già evolu
manzo nella sua pronuncia; i testi in latino 'corrotto' dell'alto m
iberico o gallico non sono che testi romanzi in una grafia orma
dalla realtà, come accade per l'inglese di oggi. Alcuino ed i su
non depurano il latino medievale dalle sue scorrettezze: lo inven
novo; a sua volta, chi più tardi scrive i primi testi romanzi è cos
inventare una nuova veste per ciò che esisteva da tempo e che no
più assumere la tradizionale veste latina. La rottura dell'unità la
rebbe in realtà l'abbandono di una grafia che permetteva a c
leggere un testo nel proprio romanzo, a vantaggio di grafie diffe
mutualmente esclusive.
[27] Non è questa la sede per discutere le idee di Wright. Basterà dire
che esse ci ricordano un fatto indiscutibile, che è all'origine di problemi
estremamente complessi, ai quali Muller prima e Wright poi cercano di
dare risposte così semplificate da essere, a mio parere, inaccettabili: che i
testi alto-medievali sono testi scritti e che la storia delle tradizioni linguisti-
che scritte non può essere confusa con quella delle tradizioni linguistiche
orali (che è peraltro il difetto che imputiamo tanto a Muller che a Wright).
Beninteso: non può esserlo mai, ma men che meno in una fase storica in
cui, nell'arco di alcuni secoli, sul versante del parlato si parte dal latino e si
giunge alle diverse parlate romanze, su quello dello scritto si parte sempre
dal latino e si giunge alla convivenza di un diverso latino e di una moltepli-
cità di romanzi.
Non sarà inutile ricordare, qui a Firenze, che Giacomo Devoto, nel
suo succinto ed acuto Profilo di stońa linguistica italiana ,23 aveva contrap-
posto una fase di 'bilinguismo inconscio' a quella, successiva, di 'bilin-
guità consapevole'. Egli intendeva che, fino al discrimine delle due fasi,
i parlanti erano sì portatori di due tradizioni linguistiche, quella latina e
quella romanza, ma la consideravano una sola, mentre nella seconda fase
la coscienza della eterogeneità dei due sistemi diventa piena e latino e vol-
gare accentuano anche di fatto la loro diversità, sia per il recupero di una
migliore tradizione latina che per l'affermarsi progressivo della dignità
del volgare. Il limite tra le due fasi era per Devoto il secolo X: lo docu-
menterebbero l'informazione dei Gesta Berengarii secondo cui all'incoro-
nazione di re Berengario il senato canta "patrio ore" che vorrebbe dire
in latino, mentre il popolo acclama "nativa voce", cioè in volgare;24 segue
23. Cfr. Devoto 1953.
24. Anche questo, ed i due passi seguenti, sono di solito riportati di seconda mano. La
fonte è in Monumenta Germaniae Histórica . . . , Poetarum Latinorum Medii Aevi, IV, 1
(Berlin: Weidmann, 1898), pp. 398-399. Nel v. 114 del libro IV si legge: "Namque
prius patrio canit ore senātus", nel v. 121: "Cetera turba pium nativa voce tyrannum /
Prosequitur".
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:49:50 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
598 Romance Philology y vol. 69, Fall 2015
poi, e più chiaramente, l'affermazione di Gonzone,
di Reichenau attorno al 965, che il volgare italiano è
fermazione che dimostra sia la coscienza che il volga
che il latino, sia che quello italico non è la stessa co
regioni (quelle renane dei monaci di Augia Maior?);
di Gregorio V, morto nel 999, che ci dice che il papa
gāri et voce latina, / instituit populos eloquio triplic
Che, insomma, attorno al 1000 fosse chiaro anch
prima in Francia, che il volgare era cosa diversa dal
ma bisognerebbe [28] chiedersi quante fossero le pe
vano questa coscienza.27 In ogni caso, il concetto de
smo inconscio' implica che tutte le deviazioni dal
testi vadano addebitate ad inadeguatezze altrettan
di chi scrive. Inoltre, anche se non possiamo attribu
una concezione di bilinguismo che sarà poi precis
sembra necessario assegnare tutta intera la fenome
individui e non a quelli che lo studioso ligure avrebb
linguistici: sarebbero dunque fatti di 'parola', non d
S'intende perché, nei decenni scorsi, Francesco Sab
perava un nuovo concetto sociolinguístico, quello di
samente capovolto la terminologia devotiana: per lu
sono "il non breve periodo della diglossia", durante l
solo non sono in grado di parlare,28 ma neanche di
diari la lingua colta; segue un periodo di bilingui
duce in tappe successive il "processo di formazione d
e in un periodo ancor più lungo, fino a Dante, si svi
volgare".
Va detto che Sabatini aveva chiarito negli anni precedenti un punto di
grande importanza: che nei documenti alto-medievali in latino fosse op-
portuno distinguere due zone testuali, quelle che egli ha definito "'parti
di formulario' (protocollo, escatocollo datatioy subscńptio)n e quelle che
chiama "parti libere (che formano il dispositivo)";29 le considerazioni che
facevamo prima sugli errori individuali valgono per le prime parti, che si
vogliono (o vorrebbero) in latino, mentre le seconde rivelano a Sabatini,
ed è acquisizione importantissima, una sistematicità diversa e imprevista.
25. "Falso putavit sancti Galli monachus me remotum a scientia grammatice artis, licet
aliquando retarder usu nostre vulgāri lingue, que Latinitati vicina est. Excedimus quo-
que aliquando aut neglegentia aut humana imperfectione": Gunzo, Epistula ad Augien-
ses ; ed. Manitius 1958:27.
26. Strecker 1970. Per l'editore francisca è sicuramente il tedesco, vulgāri l'italiano.
27. Su questo importante problema, su cui ritornerò, cfr. Banniard 1992.
28. Cfr. Sabatini 1996, 1:240 (lo studio risale al 1968).
29. Sabatini 1996, 1:101 (del 1965).
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:49:50 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
L'italiano dell'anno Mille. Le origini dell'italiano 599
Egli aggiungeva che nei testi di provenienza settentrionale in
fase cronologica la morfologia nominale appare in queste zo
quanto mai omogenea, sulla base di singolari in - a , - o , -e e di plu
-os, -a, mentre nei testi centro-meridionali il singolare è analog
rale è in -e, -i; più tardi, tra 750 e 1000, nell'area padana i plura
sono affiancati da quelli in -e, -i.
Non è qui il luogo per seguire il discorso di Sabatini sulla f
dei plurali italiani, ma va sottolineato che i suoi accertamenti
l'individuazione di una tradizione specifica, che nel 1968 e
' scripta latina rustica' e definisce "un tipo di lingua scritta ch
dall'uso popolare la massa dei vocaboli, la struttura morfologi
tica e spiccati tratti fonetici, e si avvaleva anche di nuovi segn
Ecco dunque che parlare di bilinguismo inconscio [29] non
bile, dal momento che ai notai non poteva sfuggire che essi r
a due diverse tradizioni scrittone, quella propriamente lat
'latina rustica', e sapevano poi bene che i loro clienti si serviv
loro stessi, di una tradizione orale differente. Il concetto di di
riguarda non i singoli ma le comunità ed ammette registri int
coprano lo iato tra colti ed incolti, risulta dunque più adat
di bilinguismo ad una situazione come quella alto-medievale. N
scurato neppure che per Sabatini, che fa opportuno riferimen
rosi fenomeni grafici, le scriptae volgari si sviluppano non ex n
' scripta latina rustica'.31
Per Francesco Sabatini gli accertamenti che ho riassunto no
punti di arrivo, ma semmai di partenza per una ricerca più si
sulle diverse scriptae italo-romanze, sul modello, prima di tutt
di Louis Remacle per il vallone e di Cari Theodor Gossen per il
Purtroppo egli stesso non ha continuato questo tipo di lavori e
dire che altri abbia adeguatamente raccolto la fiaccola. Voglio
però una studiosa che ha confermato a suo modo, con una ana
mente impostata, una parte degli accertamenti di Sabatini sul
sui generis delle tradizioni scrittone alto-medievali. Mi riferi
30. Sabatini 1996, 1:230. Si noti che qui, a p. 228, molti anni prima di Wr
ammette che queste parti potessero essere lette in volgare, ma si affrett
"Di quella convertibilità tra fonologia volgare e stampo grafico semilatin
dovremo però procurare di stabilire anche i limiti, soprattutto in rapport
situazione nelle varie aree linguistiche romanze, perché la possibilità di 'c
era certamente maggiore in Italia e in Ispagna, mentre nella Francia d
esempio, divenne via via sempre minore coi profondi mutamenti locali
parlata".
31. Ibid., 1:240. Andrà vista l'analisi condotta in area panromanza da Livio Petrucci, nella
relazione presentata al convegno della Società Italiana di Filologia Romanza di Pisa
(settembre 2000) e che apparirà negli atti.
32. Cfr. Remacle 1948 e 1992; Gossen 1967.
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:49:50 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
600 Romance Philology, vol. 69, Fall 2015
Petracco Sicardi ed in particolare al suo esame de
barde, da un lato, e piacentine, dall'altro. 33 La P
sioni, ma io oso qui formularne alcune:
1) la documentazione del fenomeno di lenizione è ne
vamente limitata alle aree a nord del Po, mentre ne
anche a sud del fiume, finché non è contrastata dal r
corretto;
2) oltre alle differenze diatopiche, conta moltissimo per l'attestazione del fe-
nomeno la sensibilità o la capacità di colui che scrive;
[30] 3) più in generale, che ci sia corrispondenza tra documentazione latina e svi-
luppo fonetico romanzo è evidente, ma non si tratta di una corrispondenza
immediata: le mediazioni sono complesse e vanno individuate con sotti-
gliezza e prudenza.
Veniamo ora alla sorte della declinazione. Nelle carte longobarde la
Petracco constata la riduzione della declinazione "a un caso unico: in -a,
-o, -e a seconda dei temi nel singolare ... ; in -is per i maschili, in -as per i
femminili nel plurale".34 Mi limito a qualche esempio per il singolare (pos
nostro decesso ; hanc cartula scrivere rogauimus ; possedeat casa) e per il plurale
(inter me et filiis meis; cum homnis edificia sua ; abbas uelposteris nostris). Que-
sta volta la studiosa aggiunge subito: "Questa riduzione non si spiega sem-
plicemente con l'interferenza della morfologia romanza, perché nell'area
italiana per il plurale dovremmo avere le forme in -i, -e. Si tratta invece di
un tentativo di sistemazione nell'ambito del latino, che riflette la tendenza
generale alla semplificazione della morfologia nominale, ma la realizza
con morfemi diversi da quelli della parlata romanza" (ibid.). La Petracco
dimentica però che sono stati riscontrati nell'area padana relitti di plu-
rale in -5 e che le aree marginali, e probabilmente residuali, lo conservano
regolarmente.35 Nelle posteriori carte piacentine il risultato è del tutto
analogo: "entro certi limiti" vi si riscontra "la tendenza a ridurre la decli-
nazione latina ad un solo caso (in -a, -o, -e per il singolare, in -as, -is, -a per
il plurale), che è in gran parte dovuta ad alcuni fenomeni fonetici . . . non-
ché al sincretismo dei temi".36 Un sondaggio della Petracco accerta che
circa due terzi delle forme flesse rientrano nello schema suddetto; va no-
tato in particolare che il plurale in -is si estende anche ai temi in -o (canpis,
pratis) ed in -a (selvis, vineis). Anche qui viene constatato un "processo di
reintegrazione delle forme latine", che risulta però parziale.37
La lettura di questi dati non è facile. Abbiamo certamente a che fare
con una tradizione scrittoria che adotta una morfologia nominale che
33. Cfr. Le carte private della cattedrale di Piacenza, I (784-845), trascrizione di Paola Gaietti,
con uno studio sulla lingua e le formule di Giulia Petracco Sicardi (1978:107 ss.); Pe-
tracco Sicardi 1977.
34. Petracco Sicardi 1977:190.
35. Cfr. Wartburg, La frammentazione linguistica della Romania, 1980:7-72.
36. Petracco Sicardi 1978:128.
37. Petracco Sicardi 1978:129.
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:49:50 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
L'italiano dell'anno Mille. Le origini dell'italiano 601
non è più quella del latino classico ma non è detto sia quella d
La conferma che si tratta di una tradizione a sé stante l'abbiamo dalla
constatazione che il sistema è simile a quello che Sabatini aveva ident
cato nei campioni della sua 'scńpta latina rustica', che pure non inclu
solo testi settentrionali, vale a dire di un area per la quale si può sosp
tare l'esistenza di un analogo sistema nel parlato. Se è vero che la mo
fologia nominale qui descritta possiede una sua durevole esistenza com
tradizione almeno scritta, non possiamo però giungere a cuor leggero
conclusione che si tratti solo di scripta e che essa nulla abbia a che fa
con l'oralità. [31] Infatti l'Italia padana tra VIII e IX secolo aveva, o av
avuto, un sistema apparentemente analogo. E allora? Allora, sarebbe n
cessario che l'analisi fosse ancora estesa e raffinata. Si consideri, ad esem-
pio, una forma come il toponimo Tressedenti < *ad tres sedentes, che la
Petracco registra dalla carta piacentina n. 41 :38 è vero che la forma Tresse-
denti "riflette il plurale romanzo in -i o il plurale altomedievale in -is con
-5 omessa" e che Tressedente "sarà probabilmente la forma della tradizione
orale", ma in ogni caso tutte le forme conservano, cristallizzata, la -s di
tres, come avviene nel tipo romanzo lunesdì. Abbiamo dunque una prova
involontaria che la -s finale fino ad un certo momento si era conservata
davvero, non solo nella scripta ma nel parlato.
Non vi sarete dimenticati di Uberto, detto Melio, e credo che sia ve-
nuto il momento di tornare ad occuparci di lui, o meglio del suo notaio
Rodilando. Ormai abbiamo chiaro che il loro parlato è inattingibile e che
non ci resta che accontentarci di ciò che Rodilando ha scritto. Le sue due
paginette, che l'editore giudica molto scorrette, darebbero luogo ad un
lungo discorso, ma toccherò solo pochi dei punti possibili. Il nome stess
del notaio presenta un vistoso caso di lenizione della sorda intervocalica
che ha il suo solo parallelo, qui, nel nome dell'imperatore regnante, chi
mato Enńgo; ma le due forme sono normali a Lucca in questo period
come si vede dagli indici di questa e di un'altra raccolta delle carte imme
diatamente posteriori.39
Esaminiamo la morfologia nominale. I sostantivi singolari maschili,
a prescindere dalla funzione sintattica che svolgono, escono in gran
maggioranza in -o {Enńgo, augusto, (H)uberto, Melio, filio, infantulo, periculo
trasancto) o in -u {manifestu, infanctulu, occausu ); restano octuber ed i nomi
nelle firme. I femminili singolari presentano un quadro più complesso:
alcuni sono in -a { licentia , cartula , etcllesia), ma ci sono anche un animam e
un animan, nonché un causas, che sembra singolare; poi le forme in - e(m
portionem, potestatem , repetitione, ed infine pars (de pars, ad pars) ed exempla
che pare femminile in quanto è preceduto da hanc. I plurali maschili son
38. "In fundo et loco Tressedenti", con le varianti Tressedentes e Tressedente. Cfr. Petracco
Sicardi 1978:134.
39. Angelini 1987.
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:49:50 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
602 Romance Philology, vol. 69, Fall 2015
soltanto locis e etredes, i femminili familias e monim
tinentia , iacentia e movilia ed infine le forme portio
manca, a documentare l'estensione di questo tipo d
Insomma, nel complesso ci troviamo davanti ad
quelli individuati da Petracco Sicardi per epoche p
più o meno per lo stesso periodo. Si tratta di un sis
Direi proprio di no, perché dovremmo pensare che
logica l'isoglossa dei plurali in -s scendesse addirit
che è francamente improbabile.
La situazione dei relativi è sorprendente. Que si t
per il maschile; qui altre tre volte, due per quae ed un
stanno uno [32] per quam e l'altro nel contesto de o
stessa funzione plurale di un quas. Che tutte queste
del parlato a funzione indifferenziata?
Due parole sui verbi. Le forme di Ia sing, sono
nenza ividisse, iudico, confirmo, abeo, excepto, antepo
pure -it ( previdit , exceptavit), oltre a forme più corr
vocor ; videor, voluero, migravero, iudicavi, disposui, r
piavi). Quanto alla 3a sing., accanto a forme corrett
advenerit, viderit, voluerit , iudicaverit, fuit, est, dicitur
tur ; fuerit, exsceptavit, legitur, quesierit, premiserit,
fuisse, abea, debea, 57 quesieri. Ma appare difficile dis
plurale in una sequenza come dati vel traditi fuerit, si
dovrebbero essere 55 presunserit mentre singolare
Insomma, anche qui la lingua sembra caotica, ma
a quella riscontrata dagli altri studiosi e non senz
mediata, con il parlato.
Il nostro problema trova a questo punto una ris
quadro linguistico dell'Italia alto-medievale era est
già a livello di lingua scritta; quanto al parlato, po
sempre indirettamente. La situazione è resa anc
variazione diatopica e diacronica (per non parlare
ci è del tutto inattingibile). Fino ad una data diffic
cabile tra il sec. VII ed il X, non c'era neppure cos
varietà diverse, che il parlato non fosse la stessa co
veva. Questa importante circostanza assicura, è ve
tenesse una qualche relazione con il parlato, ma
fosse di immediato rispecchiamento. Per recuperar
attingibili è indispensabile lo spoglio di tutte le fon
dati così ricavati vanno sottoposti ad analisi accort
Basterà dare qualche esempio dei pericoli che si
ai lavori di uno studioso che ammiro molto, Paul Aebischer. Una delle sue
ricerche di più ampio respiro è quella sulla diffusione di ipse in funzione
di articoloide o di articolo nella Romania ed in particolare nell'Italia alto-
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:49:50 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
L'italiano dell'anno Mille. Le origini dell'italiano 603
medievale.40 La ricca documentazione messa insieme dallo studioso sviz-
zero mostra che nell'alto medioevo in Italia ipse alterna con ille, con un
rapporto quantitativo vario, almeno da Teramo e Sulmona alla Campania
(ma un solo esempio a Napoli) e alla Puglia. La conclusione di Aebischer
è: "il paraît bien que, dans la moitié méridionale de l'Italie, on a connu
l'article dérivé de ipse " (1948:198).
Lo studioso svizzero fondava le sue conclusioni non solo sui docu-
menti ma su espliciti principi metodologici. In questo caso il principi
stato formulato così: "si dans une charte les ipse , ipsa pleuvent et qu
sont employés contrairement [33] à l'usage classique, c'est qu'il est p
bable qu'elle provient d'une région que connaissait encore so, sa com
article, ou qui en tout cas l'avait connu quelque temps avant" (p. 189
quanto si deve ammettere uno scarto temporale conservativo tra us
rente ed uso scritto.
ipse ha dato luogo senza dubbio alle forme che l'articolo romanzo
ha ancora oggi in Sardegna e nel catalano delle Baleari e che fino a poco
tempo fa aveva ancora in guascone ed in una piccola area* delle Alpi Marit-
time, attorno a Grasse. In base all'ipotesi che le 'scorrettezze' delle carte
alto-medievali sono in realtà derive verso il parlato, sembra lecito dedurre
dalla distribuzione antica di questo pronome in funzione di articolo o di
articoloide nelle carte latine che anche l'area italo-romanza individuata
più sopra abbia conosciuto in antico un articolo romanzo so, sa, ecc.,
sarebbe sempre stato in competizione e più tardi sarebbe stato scalza
lo, la, ecc.
In realtà questa deduzione è a mio parere improbabile. Intanto, è strano
che non si abbia che una sola attestazione di un articolo romanzo del tipo so,
sa, ecc., tanto più che non sono rare già in epoca abbastanza antica le atte-
stazioni di lo, la, ecc.41 Ma ancor più allarmante è che non ci sia, che io sap-
pia, un solo toponimo antico o moderno che conservi in sé cristallizzato un
articolo so, sa, ecc., quando ad esempio nell'area catalana, che oggi conosce
ipse solo nelle Baleari ed in qualche angolo della Selva e dell' Empordà, 42
se ne trova una cinquantina e ben al di là dell'area moderna, dal Penedès a
Tortosa, da Girona al Llobregat, dal Vallès a Olot, a Vie, al Pallars ed al Ros-
siglione.43 Mentre dunque la Catalogna conosce, come è lecito attendersi,
dispersi relitti che provano l'uso antico di tale articolo in un'area più vasta
di quella moderna, l'Italia non ha nulla del genere.
40. Cfr. Aebischer 1948.
41. Aebischer può addurre solo un sa festara nel 964, tratto da Vincenzo De Bartholomae
(1902-1905), a p. 17: "est ipsa supra scripta terra super sa festara", ma l'esempio è cos
isolato da non avere grande valore.
42. Cfr. Badia i Margarit 1951:283-284 e 1994:444. In tutte le aree, e più nelle due cont
nentali, questa forma è considerata arcaica ed è in regressione.
43. Cfr. Coromines 1966, VI:457a-460a. Sono i tipi Sacarrera , Sacosta, Saplana, Salou (d
alou 'allodio'), Sescorts, Sesplugues 'le grotte'.
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:49:50 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
604 Romance Philology y vol. 69, Fall 2015
Aebischer riteneva di provare la sua tesi con l'isolat
vitalità di su, sa in Sardegna e con il numero degli i
Ma la conclusione non convince, la Sardegna non
mento del sec. X è troppo poco. Rajna aveva già pe
ipotesi: che ipse fosse preferito a ille proprio perché
tito come volgare in quanto aveva generato l'articolo
come dice Aebischer, si tratta di una spiegazione tro
possibile un'altra: che almeno da noi ipse fosse [34] s
di tradizione scrittoria, se si vuole della ' scripta latin
parlata, del volgare.
Non è improbabile che ad un risultato analogo c
della documentazione dello stesso Aebischer per l
concorrenza con frater e fratellus.45 Anche qui è be
nus ha vinto nella penisola iberica, ma la frequenza
in Italia, senza effettiva conferma da parte del volg
l'esistenza di qualche esempio nei testi volgari del ba
mette solo di affermarne la vitalità nella scripta latin
nel parlato. Risalta dunque l'importanza di conferm
tarde, da parte dell' italo-romanzo. Questa è la differ
ben maggiore alle ricerche di Aebischer su thius:46
tipo barba , -ane abbia avuto in antico una diffusion
ridotte aree moderne, fino all'Italia meridionale, è reso sicuro non solo
e non tanto dalla ricca documentazione latina medievale, ma dai relitti
volgari antichi e moderni.
Non vorrei essere frainteso. I testi alto-medievali in latino, usati con
circospezione e con metodologia attenta alle minime differenze, possono
darci molto e forse permetteranno un giorno un disegno, quanto meno
approssimativo, della carta dialettale del 1000. Si ricordi che da questa
fonte ricchissima, quanto difficile da usare, non si ricavano solo informa-
zioni lessicali, pur preziose. Basterà cominciare da un esempio minuscolo,
insieme fonetico e morfologico. Tutti sanno come l'esito -aio < -ariu sia
tipicamente toscano e si opponga al risultato -aro, su cui concorda tanto
il nord che il centro-sud. Ma giusto cinquantanni fa Arrigo Castellani ha
fatto vedere che i testi e la toponomastica mostrano che la distribuzione
antica di -aio andava ben oltre i limiti dell'isoglossa moderna, includendo
l'Umbria (e probabilmente Urbino) ed il Lazio settentrionale (sia pure
in alternanza con -aro).47 Tutto farebbe pensare che un'innovazione iso-
44. Cfr. Rajna 1891:393-397.
45. Aebischer 1937; ora in Études 1978:95-122; per le tracce nei volgari medievali, cfr.
pp. 115-116.
46. Aebischer 1936; ora in Études 1978:25-77.
47. Cfr. Castellani 1950. Questa è l'unica isoglossa antica che Pellegrini abbia riportato
nella Carta (1977, n. 14a), ma con un tracciato più prudente, che non giunge neppure a
includere Viterbo, che per Castellani nel sec. XIII ha solo -aio. Ora, nella sua Gramma-
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:49:50 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
L'italiano dell'anno Mille. Le origini dell'italiano 605
lata dovesse essere più ridotta in antico e si estendesse semm
quando il prestigio del toscano si era affermato. Invece è acca
trario, come provano la toponomastica moderna e la documen
dievale, sia pure in veste latina. La dinamica c'è stata, ma
opposta a quella che ci saremmo aspettata. Spiegare un c
molto difficile, forse impossibile. Ma uno studio sistematico d
cumentazione ci darebbe probabilmente una risposta a questo
problemi, e probabilmente ci rivelerebbe problemi che non a
avvertito.
Orbene, il nostro programma deve riguardare obiettivi chiaramente
differenziati e molto complessi da raggiungere. Da una parte sarebbe
opportuno realizzare una descrizione analitica della lingua di tutti i te-
sti scritti, individuando le diverse tradizioni scrittorie (a cominciare da
quelle grafiche) ed articolando l'universo dello scritto per generi, per fun-
zioni, per aree, per livello linguistico e per singoli individui. D'altra parte
dovremmo recuperare da questa massa documentaria tutti gli indizi che
possano valere ad illuminare la situazione del parlato, quindi dell'inci-
piente italo-romanzo, servendoci naturalmente non solo delle (poche) in-
formazioni dirette, ma della comparazione con le altre aree romanze, da
un lato, e con la successiva situazione dialettale antica e moderna, dall'al-
tro. Anche in questo caso, le singole informazioni che metteremo insieme
per il parlato non vanno proiettate in un illusorio sistema fattizio, in cui si
mescolino tacitamente informazioni di una zona e di un'epoca con altre
di altra zona e di altra epoca (ripetendo l'errore commesso a lungo con il
latino volgare, concepito come ipostasi pancronica di ogni forma di devia-
zione dal latino letterario), ma distinte almeno diacronicamente e diatopi-
camente. Il compito è immane ma non impossibile.48
tica storica della lingua italiana (2000, 1:263), si legge: "anticamente il risultato toscano
i si aveva in tutta l'Umbria, nelle Marche settentrionali, a Viterbo, e, con oscillazioni,
nella Sabina".
48. Resta da toccare un punto assai pertinente e spesso trascurato. Quali erano le identità
dei gruppi e delle comunità? Se è vero che l'identità sociale non si costruisce solo
attorno alla lingua, è vero anche che essa ne è componente essenziale, sicché molto ci
importerebbe sapere quali fossero le identità in cui si riconoscevano i nostri antenati
di un millennio fa. Né ci importa troppo constatare che essi si consideravano fioren-
tini o milanesi o capuani, perché quello che ci interessa non è il livello cittadino, ma
una identità più ampia. Orbene, è importante sottolineare, senza i pudori imposti da
ideologie moderne, che una identità italiana sembra mancare del tutto, almeno fino a
Dante, o almeno a Brunetto Latini, che nel Trésor scrive: "nous somes italien" [s¿c] (ed.
Carmody 1948:18). Si cita spesso, ed a ragione, la notizia relativa al 1173 degli Annales
Stadenses (essi stessi della metà del '200), secondo cui il poliglotta arcivescovo Cristiano
di Magonza sapeva parlare, oltre al latino, al greco, all'occitanico, al francese e al ne-
erlandese, e beninteso al tedesco, la lingua apulica e la lombardica. Il caso non è isolato:
le testimonianze pazientemente messe insieme da Mauro Braccini convergono con evi-
denze successive. L'attestazione dell'etnico italiano è, come si sa, tarda. Per chi si inte-
ressava di queste cose, nel pieno medioevo, gli abitanti della penisola, fino al momento
in cui l'identità toscana non sfuggì più a nessuno, si dividevano in due grandi gruppi:
Lombardi ed Apuli. Il che significa, non solo, come è chiaro a tutti, che la pianura pa-
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:49:50 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
606 Romance Philology y vol. 69, Fall 2015
Opere citate
AEBISCHER, paul. 1936. "Protohistoire de deux mots romans d'origine grecque:
thius 'oncle' et thia 'tante'". Ora in Aebischer 1978:25-77.
eur'}". Ora in Aebischer 1978:95-122.
romanes". Cultura Neolatina 8:181-203. Poi nella sua Miscelánea 1963:199-224.
Instituto Internacional de Cultura Románica.
Francké.
albano leoni, federico. 1981. Tre glossari longobardo-latini. Napoli: Giannini
Angelini, Lorenzo, ed. 1987. Archivio Arcivescovile di Lucca. Carte dell'XI secolo dal
1031 al 1043 y III. Lucca: Pacini Fazzi.
badia i Margarit, Antoni M. 1951. Gramática histórica catalana. Barcelona: Noguer.
BALDELLi, Ignazio. 1983. Medioevo volgare da Mon
Adriatica.
BANNiARD, Michel. 1992. Viva voce: communication écrite et communication orale du IVe
au IXe siècle en Occident latin. Paris: Institut des études augustiniennes.
BETHMANN, L. e G. WAITZ, eds. 1878. Pauli Historia langobardorum, V, 29. Scriptores
rerum Germanicarum in usum scholarum ex Monumentis Germaniae histo-
rieis recusi. Hannover: Hahn.
braccìni, mauro. 1998. "Latino e parlato romanzo nell'Alto Medioevo: perora
zione per un divorzio non rinviabile". In Echi di memoria: Scritti di varia filologia ,
critica e linguistica in ricordo di Giorgio Chiarini , a cura di Gaetano Chiappini,
17-34. Firenze: Alinea.
schede sul parlato introvabile". Italianistica:
(l-3):95-102.
CARMODY, Francis j., ed. 1948. Brunetto Latini, Li livres dou Tresor. University of
California Publications in Modem Philology, 22. Berkeley: University of Cali-
fornia Press.
castellani, Arrigo. 1950. "L'area della riduzione di ri intervocalico a ¿nell'Italia
mediana". Archivio Glottologico Italiano 35:141-166.
italiana ( 1946-1976 ), 11:12-15. 3 voli. Roma: Salern
testi e di studi. Linguistica e critica letteraria. Bo
COROMINES, Joan. 1966. Onomasticon Cataloniae,Vl.
de Bartholom AEis, Vincenzo. 1902-1905. "Contributi alla conoscenza dei dia-
letti dell'Italia meridionale ne' secoli anteriori al XIII, II: Spoglio del Codex
Diplomaticus Cajetanus". Archivio Glottologico Italiano 16:9-27.
dana veniva sentita come un'area sostanzialmente unitaria, ma che lo stesso avveniva
per il meridione. Si dirà che quest'ultima convinzione non è mai mutata fino ad oggi;
solo che oggi, e da alcuni secoli, si ritiene, a torto, che tutti i meridionali siano napo-
letani, allora che fossero apuli, che non è certo la stessa cosa. Quest'ultimo indizio,
se anche fosse isolato, basterebbe a ricordarci che il panorama linguistico dell'Italia
meridionale non è certamente, in epoca moderna, lo stesso che nel 1300, perché solo
dopo questa data, e soprattutto dopo il 1500, esso è stato profondamente intaccato
dalla pressione enorme di Napoli.
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:49:50 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms
Vitaliano dell'anno Mille. Le origini dell'italiano 607
devoto, Giacomo. 1953. Profilo di storia linguistica italiana. Firenze: L
Italia.
Galetti, paola e Giulia PETRACCO Sicardi. 1978. Le Carte private della Cattedrale
di Piacenza (784-848). Fonti e Studi 1,9. Parma: Presso la Deputazione di storia
patria per le province parmensi.
GHiLARDUCCi, Giuseppe. 1990. Archivio Arcivescovile di Lucca. Carte del secolo XI dal
1018 al 1031. Lucca: Pacini Fazzi Editore.
gössen, carl Theodor. 1967. Französische Skriptastudien. Untersuchungen zu den nor
dfranzösischen Urkundensprachen des Mittelalters. Wien: Graz.
jud, jakob. 1926. "Zum schriftitalienischen Wortschatz in seinem Verhältnis zum
Toscanischen und zur Wortgeographie der Toscana". In Festschrift Louis Gau
chat , a cura di Franz Fankhauser e Jakob Jud, 298-316. Aarau: Sauerländer.
mancini, marco. 1993. "Oralità e scrittura nei testi delle Origini". In Storia de
lingua italiana , edd. Luca Serianni e Pietro Trifone, 11:5-40. 3 voli. Torino
Einaudi.
Manitius, karl, ed. 1958. Gunzo, Epistola ad Augienses. Monumenta Germaniae
Historica. Quellen zur Geschichte des Mittelalters, II. Weimar: Böhlaus.
palmieri, Stefano. 1981. "Mobilità etnica e mobilità sociale nel Mezzogiorno lon-
gobardo". Archivio Storico per le Province Napoletane 99:31-104.
pellegrini, Giovanni battista. 1977. Carta dei Dialetti d'Italia. Pisa: Pacini.
trade, fiumi, monti spiegati nella loro origine e storia. M
PETRACCO sicardi, Giulia. 1977. Latino e romanzo di mano barbarica . Romano-
barbarica 8:183-208.
PETRUCCi, Livio. 1994. "Il problema delle Origini e i più antichi testi italiani". In
Storia della lingua italiana, edd. Luca Serianni e Pietro Trifone, 111:5-73. 3 voli.
Torino: Einaudi.
pieri, Silvio. 1898. "Toponomastica delle Valli del Serchio e della Lima". Archiv
Glottologico Italiano, Supplemento 5. Torino: Loescher.
RAjNA, pio. 1891. "I più antichi periodi risolutamente volgari nel dominio italian
Romania 20:385-402.
REMACLE, louis. 1948. Le problème de l'ancien wallon. Liège: Faculté de philosophie
et lettres.
Droz.
sabatini, Francesco. 1996. Italia linguistica delle origini : saggi editi dal 1956 al 1996.
Raccolti da Vittorio Coletti et alii. 2 voli. Lecce: Argo.
Strecker, karl, ed. 1970. Die Ottonenzeit. Monumenta Germaniae Historica, V,
1/2. Repr. Dublin & Zürich: Weidmann.
viDOSSi, Giuseppe. 1956. "L'Italia dialettale fino a Dante". In Le origini: testi latini, ita-
liani, provenzali e franco-italiani, a cura di Antonio Viscardi et alii, xxxiil-lxxi.
Letteratura italiana. Storia e testi, V. Milano 8c Napoli: Ricciardi.
wartburg, Walther von. 1980. La frammentazione linguistica della Romania. Ediz.
ital. a cura di Alberto Varvaro. Roma: Salerno.
wehr, hans. 1971. A Dictionary of Modem Written Arabie. 3a ed. Wiesbaden: Harras-
sowitz.
Wright, Roger. 1982. Late Latin and Early Romance in Spain and Carolinglan France.
Liverpool: Cairns. Trad, spagn. Latín tardo y romance temprano en España y la
Francia carolingia. Madrid: Gredos, 1989.
This content downloaded from 151.70.26.246 on Wed, 25 Sep 2024 14:49:50 UTC
All use subject to https://about.jstor.org/terms