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Alexandre Dumas

Bianca di Beaulieu e la mano


destra del sire di Giac

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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Bianca di Beaulieu e la mano destra del sire


di Giac
AUTORE: Dumas, Alexandre [père]
TRADUTTORE:
CURATORE:
NOTE: Contiene anche il titolo Prassede (Praxède,
1841)
CODICE ISBN E-BOOK: n. d.

DIRITTI D’AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza


specificata al seguente indirizzo Internet:
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COPERTINA: n. d.

TRATTO DA: Bianca di Beaulieu e la mano destra del si-


re di Giac : racconti storici / di Alessandro Dumas ;
prima versione italiana. - Napoli : Societa Editrice,
1853. - 151 p. ; 15 cm.

CODICE ISBN FONTE: n. d.

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 26 settembre 2024

2
INDICE DI AFFIDABILITÀ: 1
0: affidabilità bassa
1: affidabilità standard
2: affidabilità buona
3: affidabilità ottima

SOGGETTO:
FIC014000 FICTION / Storico
FIC029000 FICTION / Brevi Racconti / Autori singoli

CDD:
843.7 (16.) NARRATIVA FRANCESE. 1815-1848

DIGITALIZZAZIONE:
Umberto Galerati, [email protected]

REVISIONE:
Maria Grazia Hall, [email protected]

IMPAGINAZIONE:
Umberto Galerati, [email protected]

PUBBLICAZIONE:
Claudia Pantanetti, [email protected]

3
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4
INDICE
BIANCA DI BEAULIEU
I.
L’INCENDIO 10
II.
LA BATTAGLIA 18
III.
BIANCA 24
IV.
DELMAR 29
V.
A NANTES 34
VI.
LA PRIGIONE DI BOUFFAYS 50
VII.
ROBESPIERRE 59
LA MANO DESTRA DEL SIRE DI GIAC
I. 79
II. 90
III. 99
IV. 115
PRASSEDE
I.
LA CONSACRAZIONE. 125
II.
IL CAMPIONE 139
III.
IL GIUDIZIO DI DIO 156
IV.
CONCLUSIONE 166

5
BIANCA DI BEAULIEU
E
LA MANO DESTRA DEL SIRE DI GIAC

6
La presente versione essendo proprietà degli edito-
ri implorano la guarentigia della legge.

7
8
BIANCA DI BEAULIEU

9
I.
L’INCENDIO

Chiunque, la sera del 15 decembre dell’anno 93 par-


titosi dalla piccola città di Clisson per recarsi al villag-
gio di S. Grepin si fosse alquanto soffermato sulla cre-
sta del monte, alle falde del quale scorrono le acque
della Moine, avrebbe veduto al di là della vallata un cu-
rioso spettacolo.
Dapprima se i suoi sguardi cercato avessero il villag-
gio perduto fra gli alberi a traverso un orizzonte che
già il crepuscolo oscurava, avrebbero scorto tre o quat-
tro colonne di fumo le quali isolate l’una dalle altre alla
loro base, si congiungevano dilatandosi, poi prendeva-
no per un istante la forma di annerita cupola, in fine
cedendo mollemente ad un umido vento di scirocco
ondeggiavano in quella direzione confondendosi con i
grossi nuvoloni di un’atmosfera bassa e brumosa.
Allora si sarebbe vista quella base a poco a poco in-
fiammarsi, cessare ogni fumo, e dai tetti delle case, ser-
peggianti lingue di fuoco slanciarsi con sordo fremito,
ora torcendosi in candescenti spirali, ora sbassandosi e
rialzandosi come se fosse stato una alberatura di nave.
Allora sembravano spalancarsi le imposte tutte per vo-

10
mitar fiamme, e ad ogni tetto che sprofondavasi si sa-
rebbe udito un sordo gemito, e veduto una fiamma più
viva di mille scintille. Nel tempo stesso alla luce lugu-
bre e sanguigna di quel fuoco sempre crescente e span-
dentesi si sarebbe facilmente veduto un luccicar di ar-
mi e numerosa soldatesca spiegarsi in cerchio alla lon-
tana. Aggiungi a tutto questo, o lettore, un diabolico
scrociar di risa frammisto a pazze grida e poi sclama
fremendo: Che Dio mi perdoni, ecco un esercito che si
arrovella contro un villaggio!
Difatti una brigata repubblicana non minore d’un
migliaio e mezzo di soldati giungeva al villaggio di S.
Crepin, e trovatolo abbandonato da’ suoi abitanti vi ap-
piccava il fuoco. Era forse crudeltà? No, ma una manie-
ra di guerreggiare, un piano di campagna ultimamente
immaginato che l’esperienza faceva adottare in prefe-
renza di qualunque altro.
Ma fra tanta distruzione vi era un unica capanna iso-
lata ne’ campi che non bruciava, anzi pareva che ogni
precauzione fossesi usata perchè rimanesse illesa. Due
sentinelle ne custodivano l’uscio, ed era un continuo
andare e venire di uffiziali d’ordinanza e d’aiutanti da
campo che entravano e tosto ne uscivano recando ordi-
ni.
Colui che dava tali ordini era un giovine da’ venti a’
venticinque anni. Una lunga e bionda chioma bipartita
dalla fronte all’occipite scendeva ondeggiante intorno
alle guance bianche e magrissime. Era un di que’ volti
tristi e malanconici sulla fronte de’ quali pare stampato

11
il decreto fatale di una morte immatura. Un cappotto
turchino gettato con trascuranza sulle spalle lasciava
travedere sull’uniforme da generale due spallette, se
non chè esse erano di lana, dappoichè gli uffiziali della
repubblica aveano offerto alla Convenzione tutto l’oro
delle loro divise. Questi che curvo sopra una spaziosa
tavola, stava tutto intento a tracciar colla matita su una
carta geografica la strada che tener doveano l’indoma-
ni le sue milizie, era il generale Marceau, che tre anni
dopo doveva esser ucciso ad Altenkirchen.
— Alessandro! diss’egli, raddrizzandosi, Alessandro
dormitore eterno, sogni forse di S. Domingo, per dor-
mire di così lungo sonno?
— Che cosa è mai?, balzò su dicendo il ridestato e
con tal soprassalto che per poco il suo capo non urtò
sotto la soffitta della capanna, che cosa è mai? Il nemi-
co forse ci è sopra? E queste parole erano pronunziate
con un leggiero accento creolo che le faceva dolci tutto-
chè crucciose si fossero.
— No, ma un ordine che manda il nostro generale in
capo Westermann. E mentre il suo compagno leggeva
l’ordine, (chè, l’uomo risvegliato dal sonno era anche
egli un generale), Marceau contemplava con infantile
maraviglia le virili e muscolose fattezze di quell’ercole
mulatto. Era un uomo a 28 anni dalla capigliatura cre-
spa e breve, dalla carnaggione bruna, alta la fronte, e
denti d’avorio. Dotato di una forza quasi soprannatura-
le e nota all’intero esercito, il quale in un giorno di bat-
taglia avealo veduto spaccar con un fendente un drago-

12
ne dall’elmo alla corazza; ed un altro giorno ad una ri-
vista soffocare fra le gambe un focoso puledro che gli
avea guadagnata la mano.
Quest’uomo non era neppure egli destinato a vivere
lunga vita, chè, anzi, meno felice di Marceau dovea ca-
dere spento lontano dal campo dell’onore miseramen-
te avvelenato per cenno d’un crudele.
Quest’uomo era il generale Alessandro Dumas, mio
padre.
— Chi ti à recato quest’ordine?
— Delmar rappresentante del popolo, rispose Mar-
ceau.
— Sì? è dove debbono ragunarsi que’ poveri diavoli?
— In un bosco lontano da qui una lega e mezza; ve-
dilo sulla carta, eccolo.
— Sì, a maraviglia, ma non vi sono sulla carta, nè
precipizi, nè montagne, nè alberi troncati, nè i centomi-
la sentieri che imbarazzano la vera strada, e dove è
gran miracolo se anche di giorno vi si può vedere! Pae-
se d’inferno! Ed aggiungi a tutto questo un freddo pe-
renne.
— Ma guarda là, soggiunse Marceau spalancando col
piede la porta ed additando il villaggio che ardeva, esci
di qui e laggiù ti scalderai. — Hei, che cosa è mai Citta-
dini?
Tali parole erano indirizzate ad un gruppo di soldati,
i quali andando quà e là frugando per trovar viveri
aveano scoverto, in una specie di canile contiguo alla
capanna, un contadino Vandeano avvinazzato in siffat-

13
to modo da non aver potuto seguire i suoi conterranei,
quando questi aveano abbandonato il villaggio.
Figurati o lettore un castaldo dalla fisonomia stupi-
da, con un feltro a larghe falde sotto le quali scendeva
una lunga e negletta chioma. Infine un essere abbozza-
to all’immagine umana e quasi un grado al di sotto di
un bruto, imperocchè era chiaro che eziandio l’istinto
mancava in quella massa.
Il Marceau gli fè varie domande, il dialetto e l’ubbria-
chezza resero inintelligibili le risposte, ed egli stava per
abbandonarlo qual zimbello a’ soldati, allorquando il
generale Dumas in tuono brusco e risoluto ordinò che
tosto si evacuasse la capanna, e vi si rinserrasse il pri-
gioniero che era rimasto sulla soglia. Un soldato lo
spinse dentro; il gonzo andò traballando ad appuntarsi
alla parete, vacillò un istante oscillando sulle piegate
ginocchia, poi cadendo pesantemente giacque come
corpo morto. Una sentinella rimase alla porta, e non si
impegnarono neppur di chiudere la finestra.
— Fra un ora potremo partire, disse Dumas a Mar-
ceau; noi abbiamo una guida.
— E quale?
— Quest’uomo.
— Sì, ma allora non ci metteremo in viaggio se non
domani, quel gaglioffo ha tanto vino in corpo da aver
sonno per ventiquattro ore.
Dumas sorrise. Vieni gli disse, e ’l menò sotto la tet-
toia ove era stato rinvenuto il Vandese. Un fragile tra-
mezzo tutto fenditure la separava dalla capanna, sicchè

14
da questa poteansi udire le più sommesse parole de’
generali. — Ed ora, soggiunse; guarda.
Marceau obbedì, cedendo a quell’ascendente che il
suo amico esercitava sopra di lui fin nelle cose più abi-
tuali della vita. Allora potè a gran pena raffigurare il
prigioniero il quale era per caso andato a cadere
nell’angolo più oscuro della capanna e giaceva ancor là
immobile; Marceau si rivolse verso il compagno, ma
questi più non v’era.
Allora tornò a guardar nella capanna, e vide che il
dormente avea fatto un leggier movimentò mercè il
quale il suo capo trovossi in tal direzione da poter con
lo sguardo tutto abbracciar l’interno di quel ricovero,
poscia aprirgli occhi con lo sbadiglio prolungato di chi
si desta dal sonno, avvedersi di esser solo, e un lampo
di gioia e d’intelligenza balenar su quel volto.
Da quel momento capì Marceau che quell’uomo lo
avrebbe burlato se un occhio più chiaroveggente non
avesse tutto indovinato. Si rimise ad osservare e vide
quel volto riprendere la sua prima espressione, quegli
occhi richiudersi ed ogni movimento sembrar quello
d’un uomo che ricade nel sonno.
In un di que’ movimenti ingrappò con la gamba un
piede della fragile tavola, quella vacillò e tutto quanto
vi si trovava di carte ed altri oggetti cadde alla rinfusa
sul suolo. Al rumore la sentinella fè capolino, vide ciò
che l’avea prodotto e volgendosi ridendo a’ suoi came-
rati lor disse. — È il cittadino che sogna.
Colui intese lo scherno, i suoi occhi si riaprirono,

15
lanciarono uno sguardo di minaccia al soldato che già
gli volgeva il tergo, indi con un rapido movimento cer-
cò fra le carte l’ordine del generale Westermann e lo
celò nel suo farsetto.
Marceau non rifiatava, la sua mano destra pareva in-
chiodata all’impugnatura della sciabola, mentre con la
sinistra faceva puntello al capo che appoggiava con tut-
to il corpo al tramezzo.
L’oggetto della sua attenzione stava adagiato sul lato
destro, ma tosto aiutandosi col gomito e col ginocchio
avanzossi lentamente e sempre coricato verso l’entrata
della capanna. L’intervallo che ’l separava dalla porta
fece sì che egli potette scorger le gambe di un gruppo
di soldati che fra loro parlavano al di fuori. Allora con
pazienza ed imperturbabile lentezza si rimise a stri-
sciar verso la finestra a mezzo aperta. Giunto ad un tre
piedi da essa brandì un coltello che serbava nascosto in
petto, riunì tutte le forze del suo corpo e d’un solo slan-
cio saltò dalla finestra come un jaguar. Marceau gettò
un grido, che in sì breve tempo venne macchinata ed
operata quella fuga che egli non potè nè prevederla, nè
impedirla. Un altro grido fu sentito rispondere al suo,
ma questo secondo era di rabbia e di maledizione. Il
Vandeano cadendo giù sul sentiero s’era trovato muso
a muso col general Dumas, ed avea tentato di colpirlo,
ma quegli afferrandogli il braccio glielo avea vigorosa-
mente ripiegato verso il petto, e non rimanevagli altro
a fare che spinger un altro poco, per fare che il Vandese
da se stesso si trafiggesse.

16
— Io ti avea promessa una guida, o Marceau, eccote-
la e spero che essa sarà intelligente. Poi volgendosi al
contadino. — Potrei sul momento farti fucilare, buffo-
ne, ma mi convien meglio che tu viva. Tu hai ascoltato il
nostro colloquio, ma per Dio, che non lo riferirai a chi ti
ha qui mandato. Indi a’ soldati, — Cittadini, due di voi
prendano per mano costui, e marcino alla testa della
colonna, imperocchè esso sarà nostra guida. Se vi sarà
manifesto che ei v’inganna, o sia che egli faccia il meno-
mo movimento per fuggire, fategli fuoco addosso senza
più, e poscia lo gettate giù dalla siepe.
Ad un ordine dato a voce bassa quella lunga ed inter-
rotta linea di soldati che si stendeva intorno alle ceneri
che erano già state un villaggio si agitò, que’ che sem-
bravano semplici gruppi si allungarono in plotoni, poi
ciascun plotone a quello che ’l precedeva avvicinandosi
parvero l’uno all’altro saldarsi finchè non formarono
un lungo e serpeggiante cordone. Quella linea nera ed
animata discese a poco a poco nella lunga ed incavata
strada che separa S. Crepin da Montfaucon vi si inca-
strò come ruota dentro la rotaia, e quando alquanti mi-
nuti dopo la luna facendosi strada fra due nubi mandò
per un istante a rifrangere l’argentea luce sopra quella
semovente striscia oscura irta di baionette che senza
strepito procedeva, ognuno avrebbe creduto di vedere
un immenso e nero serpente dalle scaglie d’acciaro
strisciare chetamente nell’ombra.

17
II.

LA BATTAGLIA

Oh quanto è lugubre faccenda una marcia notturna!


La guerra moralmente guardata nelle sue triste conse-
guenze è certamente cosa crudele e luttuosa, e pur
nondimeno la guerra considerata sotto taluni altri rap-
porti addiventa cosa sublime ed inebriante; ma ciò ac-
cade quando la fazione si combatte alla luce del giorno;
allora una battaglia può riguardarsi un dramma magni-
fico a grandi decorazioni. E tale è la guerra allorchè si
combatte sotto una volta serena ed azzurra, quando af-
follandosi i popoli intorno al campo di battaglia come
su gradini d’un circo applaudiscono a vincitori; quando
lo squillo delle trombe e ’l dar ne’ tamburi scuotono le
fibre coraggiose del cuore, quando il fumo di mille can-
noni inviluppa per un istante e vincitori e vinti, quando
amici e nemici stanno là per vedere se voi sapete mori-
re. Oh la scena allora è sublime! Ma la guerra di notte!
Inorridisci o lettore. Ignori come sei attaccato e come ti
difenderai, cadi ferito senza, aver visto d’onde il colpo
sia partito, e poi ti senti calpestare, dal compagno il
quale non sa chi tu sii e ti cammina sul corpo misera-

18
mente piggiandoti. Allora tu con ultimo sforzo ti rialzi
come un gladiatore, poi ricadi rotolandoti, contorcen-
doti, addenti pel dolore la polvere e disperatamente
solcandola con le sanguinanti unghie, muori senza al-
cun soccorso.
Tali considerazioni forse facevano così tristo e silen-
zioso marciare il nostro esercito, imperciocchè ogni
soldato sapeva di camminare in una via costeggiata da
alte siepi, e da campi intieri di ginepro e da fiumi, ed al-
la estremità di questa via oscura starsene preparata la
pugnar, ed una pugna di notte.
Da mezz’ora in circa quelle soldatesche marciavano,
e di tempo in tempo un raggio di luna filtrando fra i
grossi nuvoloni rischiarava la testa della colonna, e po-
tevasi allora scorgere la guida camminare fra due sol-
dati l’orecchio teso ai menomo rumore. Qualche volta
udivasi sui fianchi un leggier fruscio di foglie, la testa
della colonna arrestavasi di botto molte voci gridavano
«chi viva?» Niente rispondeva, ed il contadino diceva
ridendo; — sarà una lepre che esce dal suo nido. Altre
volte i due soldati credevano vedere qualche oggetto
muoversi d’avanti senza poter discernere che cosa si
fosse; e diceva l’uno all’altro. — Guarda ora! — E ’l Van-
deano tosto a riprendere. — È la vostra ombra, cammi-
niamo sempre. — Allora videro d’un tratto apparire lo-
ro dinanzi due uomini: vollero gridare ma tosto due
colpi partirono, il primo soldato rimase a terra freddo
prima che potesse pronunziare accento; l’altro barcollò
un istante, poscia stramazzò dicendo: — A me! Allora

19
una ventina di colpi di fucile furon tirati dalla testa, ed
al lampeggiar del piccolo fuoco fu facile distinguere tre,
figure umane che fuggivano, la prima vacillò sulle gam-
be, si trascinò un poco sul ciglione di quella scarpa spe-
rando afferrare l’altro lato delle siepe, poi più non si
mosse. Molti accorsero, ma non era la guida, l’interro-
garono, non rispose, un soldato per assicurarsi che fos-
se veramente morto gli passò con la baionetta il brac-
cio. L’era difatti, Marceau volle allora far egli da guida
nella fiducia che avendo bene studiata la topografia de’
luoghi non sarebbesi smarrito. In fatti dopo un quarto
d’ora di marcia si scoprì la massa nera della foresta, e
volendo stare agli avvisi che n’erano pervenuti a’ re-
pubblicani, colà appunto, così gli abitanti di alcuni vil-
laggi come gli avanzi degli eserciti realisti doveano
quella notte riunirsi per ascoltare una messa. Fra tutti
doveano essere intorno a 18 centinaia di persone di
ogni sesso.
I due generali divisero la loro milizia in molte colon-
ne con ordine di circondare la foresta dirigendosi per
tutte le strade che n’avrebbero menato al centro; fu cal-
colato che mezz’ora bastase ad ogni colonna per pren-
dere posizione. Un plotone fè alto alla imboccatura del-
la strada che gli veniva di faccia, tutti gli altri si spiega-
rono in cerchio sulle ali. Per un poco s’intese il rumore
cadenzato de’ loro passi poi questo s’andò indebolendo
finchè affatto s’estinse ed un profondo silenzio fu da-
pertutto. L’ultima mezz’ora che precede un combatti-
mento passa celermente. Appena ha tempo il soldato di

20
accertarsi se il bassinetto del suo fucile è ben civato, e
di dire al suo camerata. — Ho venti o trenta franchi na-
scosti in un angolo dei mio sacco, se sono ucciso tu li
recherai a mia madre.
La voce di comando «En avant» risuonò, e ciascuno
trasalì quasichè nessuno così imminente se l’aspettas-
se. A misura che s’avanzavano pareva che il crocicchio
che formava il centro della foresta si rischiarasse sem-
pre più; sempre più avvicinandosi distinsero alquanti
torchi che fiammeggiavano; poi gli oggetti comparvero
più distinti ed uno spettacolo che nessuno potuto avria
immaginare si offrì ai loro sguardi.
Sopra un altare composto di ammonticchiate pietre,
il curato di Santa Maria di Rhè celebrava il Santo Sacri-
ficio; alcuni vegliardi circondavano l’altare tenendo cia-
scuno in mano un acceso torchio. All’intorno poi donne
e fanciulli ginocchioni pregavano. Separava questo
gruppo da’ repubblicani una muraglia umana irta
d’ogni maniera di armi la quale sù di un fronte più ri-
stretto presentava per la difesa lo stesso piano di bat-
taglia che per l’attacco servir dovea.
Ciò che faceva chiaramente vedere a Repubblicani
quando anche non avessero riconosciuto la fuggita gui-
da, che essi erano stati prevenuti. Essa stava nelle pri-
me file in divisa completa di soldato Vandeano, col cuo-
re rosso sul petto sinistro, segno per riunirsi, ed al cap-
pello un candido fazzoletto che scusava il pennacchio.
I Vandeani non aspettarono di esser attaccati. Avea-
no appostati i volteggiatori nel bosco; questi aprirono

21
il fuoco: i repubblicani marciavano con le armi al brac-
cio senza trar colpi, senza profferir parola, se non che
questo, dopo ciascuna scarica del nemico Serrate la fi-
la».
Il prete continuava la messa ed il suo uditorio sem-
brava estraneo a quanto accadeva cinquanta passi al di
là, e rimaneva in ginocchio.
I repubblicani avanzavano sempre. Arrivati che furo-
no a trenta passi dal nemico, la prima fila piegò un gi-
nocchio e tre linee di fucili si abbassarono ad un dato
comando come un campo di spighe ad un repentino fu-
ror di vento, ed in pari tempo una scarica di mille colpi
rimbombò.
Le file di Vandeani si aprirono sicchè alcuni proiettili
passando fra que’ vuoti intervalli andarono ad uccidere
donne e fanciulli che stavano a’ piedi dell’altare. V’ebbe
allora in quella folla un momento di grida e di tumulto,
il sacerdote alzò l’Ostia sacrosanta, ogni testa si curvò
fino a terra e tutto rientrò nel silenzio.
I Repubblicani fecero una seconda scarica a dieci
passi con la calma che avrebbero avuta in una rivista, e
con tanta precisione che se avessero tirato al bersaglio.
I Vandeani risposero, poi nè gli uni nè gli altri ebbero
tempo di ricaricare le armi. Era il momento della baio-
netta, e qui aveano il di sopra i Repubblicani armati
com’erano regolarmente. Il prete continuava a dir la
messa.
I Vandeani rincularono, file intere caddero senza al-
tro rumore che grida di maledizioni. Il prete se ne avvi-

22
de e fè un cenno; i torchi tosto si spensero, e la pugna
continuò fra le tenebre. Allora fu un orribile scena di
confusione e di massacro, in cui ognuno menava colpi
con rabbia e moriva senza domandar grazia, che non si
accorda quando s’implora con la stessa favella del vin-
citore. Intanto le parole grazia! grazia! erano pronun-
ziate a piedi di Marceau da una voce che avrebbe mos-
so a pietà anche una tigre.

23
III.

BIANCA

Era un Vandeano, bel giovanetto senz’armi che si


studiava di svincolarsi da quella orribile mischia. Gra-
zia, grazia, diceva egli, salvatemi in nome del Cielo! in
nome di vostra madre!
Il generale lo trascinò fuori il campo di battaglia per
sottrarlo a’ soldati, ma tosto fu obbligato a fermarsi im-
perciocchè il giovanetto era svenuto. Tanta debolezza
era strana cosa in un soldato; egli affrettossi a soccor-
rerlo, gli aprì l’uniforme; era una donna. Come fare?
non v’era un momento da perdere; gli ordini della con-
venzione in tali casi erano molto precisi. «Qualunque
Vandeano preso le con le armi alla mano e facente par-
te di qualche riunione qualunque fosse il suo sesso, la
sua età, la sua condizione dovea morire sul palco». Egli
adagiò la giovanetta sotto un albero, corse al campo,
fra i morti vide un giovane ufficiale repubblicano che
poteva ad un dipresso avere la stessa corporatura della
fanciulla, gli tolse lestamente uniforme e cappello e ri-
tornò a quella. La brezza della notte l’avea desta dal le-
targo — Padre mio, padre mio, furono le sue prime pa-
role, poi levossi premendo con le mani la fronte come

24
per fissarvi le idee. Oh che cosa orribile! io era con esso
e l’ho abbandonato! padre, padre, oh! essi me l’hanno
ucciso! — Mia giovane padrona, signorina Bianca, disse
una figura che fece capolino da dietro un’albero, il Mar-
chese di Beaulien vive egli è salvo, vivano il Re e la buo-
na causa! Chi avea pronunziate queste parole disparve
come un ombra, ma non sì presto che Marceau noi ri-
conoscesse pel contadino di S. Crépin. Tinguy! Tinguy!
sclamò la donzella protendendo le braccia verso il ter-
razzano.
— Silenzio! disse Marceau una sola parola può de-
nunciarvi; io non potrei salvarvi ma ’l voglio! Indossate
quest’abito con questo cappello ed aspettatemi. Tornò
ratto dov’erano i suoi. Il massacro era andato a cessare
poichè non v’erano più vittime da immolare. Ordinò al-
la milizia di ritirarsi sopra Chollet ne chiede il coman-
do al suo collega e ritornò a Bianca che trovò rivestita e
pronta a seguirla. Entrambi si avviarono per una larga
strada che traversava la campagna. Ivi trovarono l’ordi-
nanza di Marceau con cavalli da sella. Marceau temette
un istante che la sua giovane camerata non sapesse
montare a cavallo, ma quella con un leggiero salto fu in
sella, regolando il palafreno, se non con forza, almeno
con l’eleganza del miglior cavaliere. Ella si avvide dalla
sorpresa di Marceau e gli sorrise dicendo.
— Sarete meno maravigliato quando m’avrete cono-
sciuta. Vedrete allora quali e quanti casi han fatto sì che
molti esercizii proprii degli uomini mi son divenuti abi-
tuali; la vostra buona cera mi inspira tanta fiducia che

25
vi narrerò tutti gli avvenimenti della mia vita così gio-
vane e più nondimeno tanto tormentata. — Sì, sì, ma
più tardi, rispose Marceau, noi ne avremo sempre il
tempo; poichè voi siete mia prigioniera, e per lo stesso
interesse che m’inspirate non voglio rendervi la vostra
libertà. Presentemente quanto abbiamo di meglio a fa-
re è di giungere a Chollet il più presto possibile. Sù,
dunque, state forte in sella, ed al galoppo mio bel cava-
liere!
— Al galoppo, riprese Bianca, e dopo tre quarti d’ora
entravano in Chollet. Il generale in capo trovavasi alla
casa municipale; Marceau vi si recò rimanendo alla
porta la sua ordinanza e la prigioniera. Rese conto in
poche parole della sua missione e ritornò con la piccola
sua scorta a domandare un alloggio all’ Osteria de’
Sans-Culottes iscrizione che era stata sostituita
all’insegna An grand S. Nicolas.
Marceau ritenne due camere, pregò la donzella ad
entrare in una di esse, e di riporsi sul letto vestita come
si trovava, riposo pur troppo necessario dopo la tem-
pestosa notte passata, ed egli si rinchiuse nell’altra
dappoichè sentiva pesare sopra la sua coscienza la re-
sponsabilità di un altra esistenza ed avere un sacrosan-
to dovere da compiere, quello cioè di conservarla.
Dal canto suo anche Bianca avea due cose di cui oc-
cuparsi. Primieramente di suo padre, poi di quel giova-
ne generale dalle forme avvenenti e dalla voce dolcissi-
ma. Tutto quanto erale accaduto sembravale un sogno,
ed a meglio accertarsi di esser desta e di sentire di esi-

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stere, ella passeggiava con agitazione, soffermavasi
d’un tratto dinanzi ad uno specchio per riconoscersi, e
poi prorompeva in un pianto dirotto pensando allo sta-
to di abbandono in cui si trovava; l’idea però della mor-
te, ed una morte sul patibolo, non se le affacciò mai alla
mente. Forse quelle parole risolute e dolci di Marceau,
io vi salverò, aveano tenuto lontano il tristo pensiero.
E perchè far morire una fanciulla così bella ed inof-
fensiva? Avrebbero mai osato gli uomini reclamare il
suo capo, il sangue suo? Suo padre per contrario pote-
va trovarsi in periglio imperocchè era uno de’ capi del-
la Vandea, dava la morte, e ben poteva riceverla, ma es-
sa innocente, donzella la cui età legavasi ancora
all’infanzia! Oh! in quella beata età la mente non dà ri-
cetto a lugubri pensieri ed a tristi presagi, la vita è bel-
la e brillante, l’avvenire abbagliante ed immenso, e
Bianca pensava fra se stessa, la guerra dovere una volta
finalmente cessare, il vuoto castello tornerebbe ad ac-
cogliere i suoi abitatori, e forse un giorno un giovane
uffiziale tutto impolverato e stanco dal viaggio doman-
derebbe ospitalità. Potrebbe avere un 20 o 25 anni, la
voce dolcissima, capelli biondi ed una divisa da genera-
le, e rimarrebbe lunga pezza. Povera Bianca tu sogni!
Havvi nella giovinezza un età in cui l’idea dell’infor-
tunio è così eterogeneo all’esistenza che pare non po-
tervisi giammai immedesimare, e per quanto trista si
affacci un idea essa ha sempre termine con un sorriso.
Ciò accade poichè si guarda in un sol lato l’orizzonte
della vita, e perchè il passato è tanto breve e ristretto

27
negli avvenimenti che non ci ha potuto ancora impara-
re a dubitare del futuro.
Marceau anch’egli meditava nella sua stanza, ma egli
già vedeva chiaro nella vita, conosceva gli odî politici e
le esigenze di una rivoluzione, e cercava un mezzo da
salvar Bianca che dormiva sull’orlo dell’abbisso.
Un solo presentossegliene; menarla egli stesso a
Nantes ove abitava la sua famiglia che da tre lunghi an-
ni ei non vedeva.
D’altronde era cosa da non sorprendere se dopo tan-
ti renduti servigi domandasse una breve licenza al ge-
nerale in capo, sicchè confermossi in quella idea. Era
l’alba quando recossi dal general Westermann; quanto
chiedeva fugli accordato facilmente.
Marceau avrebbe voluto allora per allora aver la li-
cenza non vedendo il momento di allontanar Bianca da
que’ luoghi, ma v’era d’uopo eziandio della firma del
rappresentante del popolo Delmar. Da una ora costui
era giunto con la milizia e si riposava in una vicina
stanza; bisognava aspettare che si destasse.
Intanto Marceau entrando nell’albergo s’era imbat-
tuto nel suo collega Dumas, e siccome niuno di essi
avea secreti per l’altro, così mentre apparecchiavasi un
sobrio desinare tutta narrava la sua avventura all’ami-
co e volle menarlo a far visita alla prigioniera. Bianca
provò un istante d’inquietudine poi rassicurata alle pa-
role di Dumas calmossi, e non fu più imbarazzata di
quel che lo sarebbe ogni giovanetta che trovasi fra due
uomini che essa appena conosce.

28
IV.

DELMAR

Erano sul punto di assidersi a mensa quando appar-


ve alla porta il rappresentante Delmar.
Di esso noi abbiamo appena pronunziato il nome in
sul principio del nostro racconto.
Era un di quegli uomini di cui Robespierre si serviva
come d’un braccio attaccato alla estremità del suo, on-
de giungere a percuotere fin nelle provincie. Ei avea lo-
ro detto. È d’uopo rigenerare e tali uomini si vantavano
di aver capito il suo sistema di rigenerazione, onde av-
veniva che fra le loro mani la ghigliottina era diventata
uno strumento attivo ed inintelligente.
Quella sinistra apparizione fece trasalire Bianca non
ostante che ignorasse chi colui si fosse.
— Ah! Ah! disse Delmar a Marceau, così presto vuoi
tu lasciarci, o cittadino generale; ma ti sei tanto ben
condotto la scorsa notte, che niente posso negarti. Cio-
nonpertanto sono un po’ in collera con te per esserti la-
sciato sfuggire il Marchese di Beaulieu; io m’ero com-
promesso con la convenzione di mandargliene la
testa!...

29
Bianca all’impiedi stava lì pallida e fredda come la
statua del terrore; Marceau se le situò d’avanti senza
affettazione.
— Ma ciò che è differito non è perduto, continuò
quegli, i bracchi repubblicani hanno buon naso ed otti-
mi denti, e già sono sulle sue tracce. Ecco il congedo, è
in regola, e puoi partire quando meglio ti piacerà, ma
però vengo a chiederti una colazione chè non voglio di-
vidermi da un bravo giovane quale tu sei, senza aver
prima trincato alla salute della repubblica ed allo ster-
minio de’ briganti.
Nella condizione in cui si trovavano i due generali
era indubitato che una tale dimostrazione di stima do-
vea andar loro a grado. Bianca erasi seduta ed avea ri-
preso coraggio, ma per evitare di trovarsi di faccia al
rappresentante, preferì di assiderglisi a fianco e quanto
più discosto fosse possibile affine di aver con colui il
menomo possibile contatto, ma a poco a poco rassicu-
rossi accorgendosi che Delmar più delle vivande occu-
pavasi de’ convitati. Ciò non toglieva che di tempo in
tempo qualche detto crudele scappasse da quelle lab-
bra; ed allora un fremito correva per le vene della gio-
vinetta; ma alla fine nessun positivo periglio correr
sembrava, ed i generali si lusingavano che il Convenzio-
nale andrebbe via senza indirizzarle giammai la parola
direttamente. La premura di partire servì a Marceau di
scusa per abbreviare il pranzo; difatti già esso stava in
sul finire ed ognuno cominciava a respirar più comoda-
mente quanto una scarica di moschetti fè sentirsi sulla

30
piazza del paese sulla quale affacciavano le finestre
dell’albergo. Tosto i generali diedero di piglio alle loro
armi. Delmar li fermò.
— Bene, bene, miei bravi! disse ridendo e dondolan-
dosi sulla seggiola; evviva, mi fa piacere di vedere che
stiate all’erta, ma rimettetevi a tavola, dappoichè si
tratta di cosa che non vi concerne.
— Ma che cosa è mai tutto questo fracasso? sclamò
Marceau.
— Niente, riprese Delmar, si stanno fucilando i pri-
gionieri di questa notte.
Bianca mise un grido di orrore.
— Oh! gli infelici! sclamò ella.
Delmar ripose il bicchiere sulla tavola e volgendosi
lentamente alla donzella.
— Ah! bene assai, se i soldati tremano come le don-
ne, è mestieri oramai vestir le donne da soldati. Veggo
bene che tu sei molto giovane soggiunse prendendole
ambo le mani e fisamente guardandola in faccia, ma vi
ti avvezzerai.
— Oh! mai! Mai! sclamò Bianca senza pensare al pe-
ricolo che v’era nel manifestare i suoi sentimenti in-
nanzi ad un cosiffatto testimonio, giammai mi avvezze-
rò a cotali orrori.
— Ragazzo, riprese il rappresentante lasciando le
sue mani, credi tu che possasi rigenerare una nazione
senza cavargli sangue, e reprimere fazioni senza driz-
zar patiboli? Si è vista mai rivoluzione passare sopra
un popolo la livella della eguaglianza senza niun capo

31
abbattere? Guai allora! Guai a que’ grandi che il basto-
ne di Tarquinio ha già seguati!..
E si tacque un istante, indi — D’altronde che cosa è
mai la morte? Un sonno senza sogni da cui l’uomo non
si desta. Che cosa il sangue? Un rosso liquore somi-
gliante a quello che racchiude questa bottiglia e che
produce un certo effetto sul nostro spirito per l’idea
soltanto che vi si attacca. Sombreuil l’ha bevuto. Ebbe-
ne, tu taci? sù, sentiamo, non hai qualche altro filantro-
pico argomento da regalarci? Un girondino nella tua
posizione non si darebbe per vinto.
Vi fu un momento di silenzio. Marceau posò sulla
mensa le sue pistole che egli avea armate durante il
colloquio. Oh! disse egli accennando a quegli che usci-
va: giammai uomo è stato più di te vicino alla morte,
senza avvedersene! Sapete o Bianca che se una parola,
un atto soltanto di colui mi avessero dato a divedere
che ei vi riconosceva, io gli avrei bruciato le cervella?
Ma Bianca non ascoltava.
Una sola idea la preoccupava; ed era che quello uo-
mo avea l’incarico di dar la caccia agli avanzi dell’eser-
cito comandato dal Marchese di Beaulien.
— Oh! mio Dio! mormorava ella nascondendo il suo
bel capo fra le palme, Oh! Dio mio! quando penso che
mio padre può cadere fra le mani di quella tigre! che se
questa notte fosse stato preso, forse a quest’ora..., lag-
giù... Oh è atroce! è spaventevole! È finita dunque nel
mondo ogni pietà! Oh! perdona, Marceau, perdona! chi
più di me ne ha pruove in contrario? Oh Dio! Dio mio!

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In quel momento entrò il soldato d’ordinanza an-
nunziando che i cavalli erano pronti.
— Partiamo in nome del cielo, partiamo, quì anche
l’aria sente di sangue.
— Partiamo, riprese Marceau, ed in un attimo furo-
no tutti e tre sulla strada.

33
V.

A NANTES

Marceau trovò alla porta un distaccamento di trenta


nomini che il generale Westermann avea fatti montare
a cavallo per iscortarlo fino a Nantes. Dumas volle per
un piccol tratto accompagnarlo, ma giunti ad una lega
da Chollet, l’amico lo scongiurò di ritornarsene poichè
avrebbe corso pericolo, rivenendo soletto da un più
lontano luogo. Epperò egli si accomiatò, pose al galop-
po il cavallo, e disparve alla svolta di un sentiero.
Non era soltanto la sicurezza dell’amico che indusse
Marceau a fare andar via Dumas, ma anche un vivo de-
siderio ch’egli avea di trovarsi da solo a solo con la pri-
gioniera e di udire da lei stessa raccontare la sua storia,
che per lui dovea essere più che mai interessante. Ed
avvicinando il suo cavallo a quello di Bianca:
— E bene! dissele dolcemente, ora che siamo soli e
tranquilli, e che abbiamo un lungo cammino da fare, di-
scorriamo un pochetto, discorriamo di voi, io so ora chi
voi siate, ma nulla più di questo. Ditemi per quale stra-
na cagione vi trovevate in quella riunione. Come acca-
de che abbiate l’abitudine di vestir da uomo? Parlate

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ormai, siate tanto cortese, parlate; noi altri soldati sia-
mo talmente avvezzi ad udire soltanto parole brevi e
secche, che allorchè sentiamo la dolce favella di una
donna è per noi un paradiso. Parlatemi dunque a lungo
di voi, della vostra prima età, ve ne supplico. E Marceau
senza saperne egli stesso la cagione non potea decider-
si parlando con Bianca, ad usare lo stile repubblicano
del tempo.
Allora Bianca gli narrò la storia della sua vita, come
la madre morta nel fior degli anni l’avea rimasta in fa-
sce affidata alle cure del vedovo consorte il Marchese
di Beaulieu, e come la sua educazione ricevuta da un
uomo le avesse a poco a poco fatto adottare molti virili
esercizî i quali, scoppiata che fu la rivoluzione e quindi
la reazione nella Vandea, eranle tanto vantaggiosi tor-
nati ed avean fatto sì che ella potuto avesse seguire suo
padre in quelle fazioni. Poscia gli raccontò fil filo tutti i
casi di quella guerra, dalla sommossa di S. Florent fino
al combattimento in cui Marceau aveale salvata la vita.
Essa parlò lungamente come l’era stato richiesto e
s’avvide che Marceau con gran piacere l’ascoltava. Ap-
pena appena finiva quella narrazione quando i nostri
personaggi scovrirono all’orizzonte Nantes da’ lumi
che tremolavano nella uscura ed umida notte. La picco-
la comitiva varcò la Loira, e dopo pochi momenti Mar-
ceau stava fra le braccia di sua madre.
Dopo i primi amplessi, egli presentò alla famiglia la
sua giovane compagna di viaggio, e poche parole basta-
rono ad interessare vivamente la madre e le sorelle a

35
favore di Bianca.
Questa manifestò tosto il desio che avea di cambiar
le sue vestimenta maschili con quelle proprie del suo
sesso. Allora fu a chi prima aiutasse la nuova amica a
spogliarsi della divisa militare, disputandosi il piacere
di ornarla delle loro migliori vesti. Tauta buona e cor-
diale accoglienza fatta ad una Vandeana diventava
ognora più strana in una città che come Nantes gemeva
e dibattevasi sotto il sanguinario proconsolato di Car-
rier. Quale sorprendente ed insieme deplorabile spet-
tacolo è il contemplare una intiera città tutta sangue e
pianti per la rabbia inumana di un solo uomo!
Tanto precisamente avea luogo a Nantes ove il feroce
Carrier faceva scorrere a rivi il sangue per le strade.
Carrier che era rispetto a Robespierre quel che è la je-
na rispetto alla tigre, e lo sciacal rispetto al leone. Quel
Carrier che gavazzava nel sangue bevendo a gorgoglio
il più puro ed innocente per poi vomitarlo tra poco me-
scolato a quello abbominatissimo suo proprio.
Nuove maniere di massacro e di esterminio furono
trovate. La mannaia s’intaccava e perdeva il taglio trop-
po presto; Carrier subito immaginò gli annegamenti,
nome che poi è addivenuto inseparabile dal suo. Fè a
tale bisogna fabbricare nel porto certi battelli che
ognuno affrettavasi ad andare ad osservare nel cantie-
re senza poter mai indovinare a quale oggetto servisse-
ro. E davvero cosa tutta nuova e curiosa erano que’ na-
vigli a grandi valvole a venti piedi di lunghezza che
s’aprivano precipitando nei vortici del mare i martiri

36
che il rigeneratore destinava a quel supplizio. Eppure,
cosa da far vergogna all’umana stirpe! — Il giorno che
si fè la prova dei battelli annegatori vi fu alla riva tanta
folla quanta ve ne sarebbe stata per assistere al varo
d’un vascello pavesato di fiori e di banderuole.
Ahi! Guai tre volte a quegli uomini che come Carrier
hanno applicato l’ingegno loro a trovar nuovi e svariati
generi di morte! Oh come riesce facile all’uomo l’inven-
tar mezzi da distruggere il suo simile! guai tre volte a
chi senza teoria commette inutili delitti! Per essi in
Francia le madri nostre tremano ancora pronunziando
le parole, rivoluzione e repubblica inseparabili ora mai
da quelle di massacro e distruzione.
Ma ritorniamo a Marceau il cui nome bastava a pro-
teggere tutta una famiglia dalla rabbia di Carrier. Gode-
va Marceau di sì alta fama di puro repubblicano che
non sarebbesi niuno ardito a sospettare, non che di lui,
della madre e delle sorelle. Epperò una di essa fanciulla
di 16 anni estranea a quanto intorno a lei accadeva,
amava ed era riamata, e la madre, timorosa al pari di
qualunque altra scorgendo nel fidanzato della figlia un
secondo protettore, dava fretta al matrimonio, allorchè
giunsero a Nantes Marceau e la giovane Vandeana, ed il
loro arrivo raddoppiò la gioia.
La giovinetta e Bianca abbracciandosi divennero
strette amiche, dappoichè v’ha nella vita una felice età
in cui una fanciulla crede trovare una amica eterna in
quella che soltanto da un’ora ha conosciuta. Esse usci-
rono insieme dal salotto, che trattavasi di una cosa che

37
occupavale quanto un matrimonio, niente meno, che
una toletta.
Difatti Bianca dopo un ora riuscì nel salotto con abiti
del suo sesso fra le due festeggianti donzelle per com-
piacere ad ambo le quali, fu d’uopo che mettesse la ve-
ste d’una e lo scialle dell’altra. Pazzarelle! tutte tre riu-
nite, appena la somma degli anni loro uguagliava l’età
della signora Marceau che era ancora bella.
Vedendo entrar Bianca, Marceau si mosse ad incon-
trarla, ma appena avea egli prima badata a quel celeste
sembiante ed a que’ vezzi che tutti ora risaltavano sot-
to le vestimenta da donna. Mà vedi che cosa è una don-
zella! Appena Bianca fu allo specchio, nulla avea omes-
so per essere attraente, e vi fu un istante in cui tutto di-
sparve dalla sua immaginazione e guerra, e padre, e
Vandea, e strage! Era forse mancanza di sensibilità o
un obblio? Nè l’uno, nè l’altro. Era soltanto che Bianca
cominciava allora ad amare, e l’anima la più schietta e
candida, allorchè comincia ad amare diventa un po’ ci-
vetta per la fortissima ragione di voler piacere a chi es-
sa ama.
Marceau avrebbe voluto dirle mille belle cose, ma
non potè articolare una sillaba. Bianca sorridendo gli
strinse la mano tutta allegra d’esser sembrata a Mar-
ceau tanto bella quanto essa avea sperato.
La sera venne il fidanzato della sorella di Marceau e
siccome ogni amore è egoista cominciando dall’amor
proprio fino all’amor materno, quella sera in tutta la
città di Nanfes quella sola casa fu tutta gioia e felicità in

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mezzo ad un lutto ed un pianto universale.
Bianca e Marceau cominciavano a vivere una novella
vita, ed il passato era in quel punto per essi un sogno.
Non sì però che Bianca di quando in quando non si
sentisse il cuore stringerle e grosse lacrime scenderle
giù per le gote. Era il pensiero che correva verso il pa-
dre. Marceau indovinava tosto la cagione di quel pianto
e la riassicurava, indi per distrarla da que’ cupi pensa-
menti, le narrava le sue prime campagne e come il col-
legiale era divenuto soldato a 15 anni, uffiziale a 17, co-
lonnello a 19, e generale a 21. Bianca provava un pazzo
piacere a quelle parole, e spesso se le faceva ripetere,
poichè in tutti que’ racconti non un detto vi era di altri
amori.
E frattanto Marceau avea già amato altravolta, ed
amato con tutta l’anima sua, almeno il credeva. Ma era
stato ingannato, tradito, e dopo immensi sforzi il di-
sprezzo era subentrato in cuore cotanto giovane e tutto
passione. Quell’ardore che infiammava le sue vene, si
era andato insensibilmente a intiepidare, ed una fred-
da melanconia era succeduta all’esaltazione. Marceau
infine prima che conosciuta avesse Bianca altro non
era se non un ammalato cui la improvvisa cessazione
della febbre ha tolto la forza e l’energia che quella le
dava.
Or bene! Tutti que’ sogni di felicità tutti quegli ele-
menti di novella vita, tutti que’ prestigi della giovane
età che Marceau credeva aver per sempre perduti, ri-
nascevano in un avvenire vago ed incerto, l’è vero, ma

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che un giorno forse si sarebbe realizzato.
E sì che Marceau era diventato un altro uomo, la sua
cera ed il suo umore erano affatto cambiati, ed egli
stesso ne faceva le grandi maraviglie; oramai il suo lab-
bro atteggiavasi con frequenza al sorriso, poteva larga-
mente trarre il respiro e spesso spesso poi certi sospi-
roni da smorzare le candele, nè più sentiva quella diffi-
coltà di vivere che il giorno innanzi assorbiva tutte le
sue forze facendogli anelare una prossima morte come
unica barriera che separare lo potesse dal dolore.
Bianca dal canto suo avvinta dal primo momento a
Marceau dal sentimento della riconoscenza, a questo
sentimento ingenuamente attribuiva tutte le diverse
emozioni che l’agitavano. Del resto poi non era forse
naturale che ella costantemente desiderasse la presen-
za dell’uomo che salvato le avea la vita? Ogni parola
che a quegli cadeva dalle labbra poteva esserle indiffe-
rente? Quei lineamenti sui quali tanta soave melanco-
nia era stampata potevano non ispirare in lei una dolce
pietà? Cosicchè quando vedeva Marceau a contemplar-
la sospirando tosto s’affrettava a chiederle se potesse
rendergli qualsiasi servigio, a lui che per essa tanto
avea fatto.
In siffatto modo agitati da tal sentimenti che ogni
giorno acquistavano nuova forza, Bianca e Marceau
passarono i primi mesi dei loro soggiorno a Nantes. In-
di l’epoca fissata per le nozze della sorella del giovane
generale giunse.
Fra i gioielli che vennero per la sposa, Marcean scel-

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se una guarnizione di molto gusto e l’offrì a Bianca.
Bianca l’ammirò con l’ansietà di una giovane della sua
età, poi tosto richiudendo lo scrigno:
— Gli ornamenti e le gioie non si addicono alla mia
posizione! diss’ella tristamente, no, non mai mi ador-
nerò mentre forse mio padre fugge da podere in pode-
re mendicando un tozzo di pane per vivere ed un letto
di paglia per riposare le stanche membra ed io stessa
poi proscritta! No, la semplicità del mio vestire può
meglio celarmi a tutti gli sguardi. Sappiate che io potrei
esser riconosciuta! Invano Marceau la premurò, essa
non altro volle accettar che una purpurea rosa artefat-
ta che tra quelle gemme rattrovavasi.
Ogni chiesa standosi chiusa, il matrimonio fu sanzio-
nato alla casa municipale, epperò la cerimonia fu breve
e trista, le giovinette rimpiangevano il bel coro di ver-
gini dalle corone di arancio, e dagli accesi ceri, e ’l ricco
pallio sotto il quale gli sposi riceveano la S. benedizio-
ne fra gli astuti sorrisi di quei che portavano le aste, e
le parole del Sacro ministro che dicea: Che Iddio vi be-
nedica figli miei, siate felici! Alla porta della casa di cit-
tà una deputazione di soldati marinai aspettava i sposi;
(il grado di Marceau attirava alla sorella un tale omag-
gio). Uno di quegli uomini dalla fisonomia non ignota a
Marceau tenea due mazzolini di fiori, diede il primo al-
la sposa, l’altro a Bianca che fisamente guardandolo,
impallidì dicendogli:
— Tinguy! ov’è mio padre?
— A S. Florent, rispose il marinaio, prendete questo

41
mazzolino, v’ha dentro una lettera per voi, signorina
Bianca. Vivano il Re e la buona causa!
Bianca avrebbe voluto trattenerlo, parlargli, interro-
garlo su mille cose, ma egli era scomparso. Il generale
riconobbe la guida, e dovette suo malgrado ammirare
l’attaccamento, la destrezza e l’audacia di quel contadi-
no.
Bianca lesse e rilesse con ansietà quella lettera. Il
Marchese di Beaulieu vi descriveva in poche parole la
condizione attuale de’ Vandeani che andavano di di-
sfatta in disfatta, tutta la popolazione emigrava, rincu-
lando dinanzi all’incendio ed alla carestia. Il resto della
lettera era di ringraziamento a Marceau, imperocchè di
tutto il Marchese era stato informato per la sorveglian-
za di Tinguy. Bianca era trista poichè quella lettera
avea nuovamante ricondotto il suo pensiero fra gli or-
rori della guerra. Così malinconica com’era essa appog-
giavasi più che altravolta mai al braccio di Marceau, e
più da vicino e con più soave voce parlavagli. Marceau
sentivasi beato, e più malinconica l’avrebbe voluta poi-
chè più v’ha tristezza, più abbandono vi è, e ve l’ho det-
to una volta, l’amore è egoista. Durante la cerimonia
uno sconosciuto che avea, dicev’esso, cose di alta im-
portanza da communicare a Marceau era stato intro-
dotto nel salone. Marceau che passeggiava dando il
braccio a Bianca e con la testa inclinata verso di essa
non si addiede della sua entrata, ma tosto sentî trema-
re al suo fianco il braccio della donzella, rialzò il capo, e
riconobbe Delmar.

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Il rappresentante guardando Bianca col sorriso sul
labbro s’avvicinava lentamente. Marceau pallido e col
sudore dell’angoscia lo mirava appressarsi, come D.
Giovanni avrebbe guardato la statua del Commendato-
re.
— Cittadina, hai tu un fratello?
Bianca balbettò, e fu quasi sul punto di cadere sve-
nuta fra le braccia del generale. Delmar proseguì:
— Se la mia memoria e la tua rassomiglianza non
m’ingannano, credo che noi abbiamo fatto colazione in-
sieme a Chollet. Ma come va poi che io non abbia da
quel giorno più visto, quel giovinotto nelle file
dell’esercito repubblicano?
Bianca sentiva le forze a poco a poco venirle meno,
quell’occhio penetrante di serpente seguiva i progressi
del suo turbamento, e stava la giovane allora allora per
soccombere quando quello sguardo lasciandola andò a
figgersi su Marceau.
Allora fu tempo che Delmar alla sua volta trasalisse,
imperocchè il giovane generale avea portato la mano
all’impugnatura della sua spada e la stringeva convulsi-
vamente. Non ve ne bisognò più per far cambiare umo-
re al rappresentante, il quale s’affrettò subito a ripren-
dere l’affabile sua abituale fisonomia, tanto che parve
aver tutto dimenticato quanto prima avea detto, e
prendendo sotto il braccio Marceau lo menò nello
sguancio di una finestra. Colà lo informò brevemente
dello stato attuale della Vandea, dicendogli esser venu-
to a Nantes per intendersi con Carrier sopra certe nuo-

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ve misure di vigore da prendersi urgentemente contro
i rivoltosi. Annunziò pure che il generale Dumas era
stato richiamato a Parigi. Poi lasciando il generale pas-
sò con un inchino ed un sorriso d’innanzi alla sedia a
bracciuoli ove era quasi caduta Bianca lasciando il
braccio di Marceau, ed ove ancora rimanevasi pallida e
fredda.
Dopo due ore Marceau riceveva l’ordine di partire
immantinente per raggiungere senza frappor dimora
l’esercito dell’ovest e riprendere il comando della sua
brigata.
Quell’ordine precipitoso ed impreveduto lo sorpre-
se; si credette scorgervi qualche analogia con la scena
che poco prima avea avuto luogo, imperciocchè il suo
congedo dovea durare naturalmente 15 altri giorni.
Corse tosto a casa il rappresentante per avere qualche
schiarimento, ma quello era ripartito immediatamente
dopo il suo abboccamento con Carrier.
Era d’uopo obbedire; titubare significava perdersi,
dappoichè in quel tempo i generali erano sottomessi a’
rappresentanti del popolo mandati dalla convenzione,
e se mai qualche disfatta fu cagionata dall’imperizia,
bisogna pur convenire che molte vittorie furono dovu-
te all’alternativa in cui que’ capitani trovaronsi di dove-
re o vincere o portare necessariamente il loro capo essi
stessi alla ghillottina.
Marceau stava vicino a Bianca quando ricevette
l’ordine. Stordito pel colpo inaspettato egli non avea
coraggio d’annunziare alla sua diletta una partenza per

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la quale ella rimaneva sola e senza un che la difendesse
in una città in cui scorreva ogni giorno a rivi il sangue
di que’ di Vandea. Ma Bianca si avvide di quel turba-
mento, e la sua inquietudine avendo vinta la naturale
timidità, essa, gli si appressò con lo sguardo inquieto di
una donna amata che sa di avere il dritto di interrogare
e che interroga. Marceau mostrolle l’ordine di parten-
za. Non appena Bianca v’ebbe gittato uno sguardo, to-
sto comprese a quai pericoli esponesse il suo protetto-
re la menoma disobbedienza. Il suo cuore spezzavasi,
ma pure ebbe forza d’indurlo a partire senza dilazione.
Le donne posseggono più degli uomini questa specie di
coraggio poichè in esse viene dal pudore. Marceau tri-
stamente la contemplò. — E voi pure, o Bianca, voi pu-
re ordinate che m’allontani? Ma al fatto, disse egli, bru-
scamente rialzandosi e fra se stesso parlando, chi po-
tea mai farmi credere al contrario? Pazzo ch’io m’era!
quando pensava che la mia partenza sarebbe a lei co-
stato pianti e dolore! E misurava la stanza a gran passi.
— Pazzo, pazzo da catene! pianti ed afflizioni! quando
che io le era indifferente? Sì dicendo, si rivolse. La gio-
vane gli stava davanti, due grosse lagrime le scendeva-
no per le guance, e soffocati sospiri le sollevavano il
petto.
Allora sentì Marceau bagnarglisi gli occhi di pianto.
— Oh! perdonami, o Bianca, perdonami io sono un
infelice, e l’infortunio rende l’uomo diffidente. Standovi
sempre vicino, la mia vita pareva immedesimarsi alla
vostra; come più separare le mie dalle vostre ore, i miei

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giorni da’ vostri? Tutto avea io posto in oblio, ed io cre-
deva all’eternità in siffatto modo! Oh! guai guai! io so-
gnava ed ora m’hanno destato. Bianca, riprese egli con
più calma ma con maggior tristezza. Può darsi che noi
mai più ci rivedremo, dappoichè la guerra che facciamo
è crudele e di sterminio. E presa la mano di Bianca che
singhiozzava — Deh promettetemi, o Bianca, se io mor-
rò lungi da voi..., promettetemi che la mia rimembran-
za si presenti al vostro pensiero e che il nome mio vada
qualche volta sul vostro labbro, e fosse anche in sogno,
ed io vi prometto o Bianca che se tra la vita e la morte
avrò il tempo di pronunziare un nome, sarà il vostro.
Bianca era soffocata dal pianto, ma Marcean potea
leggere ne’ suoi occhi pregni di lagrime mille promesse
ancor più tenere di quelle ch’egli esigeva. Mentre con
una mano stringeva la mano di Marceau che le stava a’
piedi, con l’altra gli mostrava la rosa rossa che le ador-
nava l’acconciatura.
— Sempre, sempre! balbettò e cadde svenuta.
A’ gridi di Marceau accorsero la madre e le sorelle.
Egli credea Bianca morta, e si dibatteva come un insen-
sato a piedi della donzella. Tutto si esagera in amore,
timore e speranze; il soldato era tornato fanciullo.
Bianca riaprì gli occhi ed al vedere Marceau ai suoi
piedi e tutta la famiglia intorno a lei, arrossì.
— Egli parte, sclamò, per battersi contro mio padre.
Oh! Risparmiatelo, vi scongiuro, se egli cade fra le vo-
stre mani! Ricordatevi che la sua morte cagionerebbe
la mia. Che altro volete? soggiunse poi sbassando, la

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voce, ho pensato a mio padre dopo di aver pensato a
voi. Poscia richiamando il suo coraggio, essa pregò
Marceau a voler partire; egli stesso ne vedeva la neces-
sità, cosicchè cedette finalmente, alle istanze di Bianca
e della madre, gli ordini furon dati per la partenza e do-
po un ora egli ricevea gli addio di Bianca e della fami-
glia.
Marceau tenne la stessa strada che avea battuta con
Bianca, e precedeva nè spingendo nè ritenendo il suo
cavallo; ogni pietra, ogni albero che incontrava gli ram-
mentavano una frase, una parola del racconto della gio-
vane Vandeana.
Egli riandava col pensiero tutti que’ casi, ed il perico-
lo che in compagnia della donzella avea corso, cui allo-
ra pensato appena avea, ora che Bianca era lontana da
lui, sembravagli grande e risuonavangli lugubramente
all’orecchio tutte le parole di Delmar. Ad ogni momento
era in punto di voltar la briglia e ritornare a Nantes per
rivedere l’amata giovane, ma la ragione sapeva tenere
in freno l’impetuoso amore.
Se per poco Marceau lasciato avesse il mondo ideale
in cui erasi profondamente immerso, e fatto ritorno al-
le cose reali, avrebbe di leggieri scorto all’estremità di
un sentiero un cavaliere che avanzava sempre, e che
giunto ad una certa distanza fermava il cavallo come
per assicurarsi chi fosse colui che gli veniva incontro, e
che appena parve riconoscerlo erasi spiccato di galop-
po per raggiungerlo. Avrebbe allora Marceau, se fosse
stato di questo mondo, facilmente riconosciuto il suo

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amico Dumas.
A dieci passi i due amici saltarono giù di sella e cor-
sero ad abbracciarsi. Contemporaneamente un uomo,
da’ capelli grondanti sudore, col viso insanguinato e gli
abiti laceri saltò giù da una siepe, e piuttosto che scen-
dere può dirsi che rotolò dalla scarpa fino a piedi de’
due amici, e cadendo senza forze e quasicchè senza vo-
ce potette appena appena articolare questa parola «Ar-
restata» Era Tinguy.
— Arrestata!chi mai? Bianca? sclamò Marceau.
Il terrazzano fè un gesto affermativo, chè, non poteva
più parlare. Aveva fatto cinque leghe sempre alla corsa
e per terreni sparsi di aie, muricciuoli, pruni e spine;
forse avrebbe corsa un’altra lega per raggiungere Mar-
ceau, ma una volta raggiuntolo era caduto. Marceau lo
contemplava a bocca aperta e con occhi spalancati e
stupidi!
— Arrestata! Bianca arrestata! continuava egli, men-
tre Dumas applicava la sua zucca pien di vino a’ denti
stretti di Tinguy. — Bianca arrestata! Infami! ecco per-
chè m’hanno allontanato. Alessandro, disse, prendendo
la mano dell’amico, Alessandro, io ritorno a Nantes, è
d’uopo che tu mi segua poichè stanno colà, la mia feli-
cità, il mio avvenire, la vita mia! ed i suoi denti, freme-
vano, battendo chiostra con chiostra, e tutto il corpo
agitavasi con movimenti convulsi.
— Tremi il miserabile che ha osato stender la mano
su Bianca! Ma tu non sai ch’io l’amava con tutta l’anima
mia? Che senza di essa non v’ha esistenza per me? Che

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vo’ salvarla o’ morire? Oh insensato che sono stato di
volere partire!... Bianca arrestata! ed ove l’hanno me-
nata?
Tinguy, cui indirizzavasi la domanda, cominciava a
ritornare in se stesso. Vedeansi le vene della sua fronte
gonfie tanto da scoppiare, gli occhi injettati di sangue,
ed il petto tanto affannoso e muggente che appena po-
tette dopo la seconda istanza, rispondere:
— Alla prigione di Bouffays. Pronunziare Tinguy
queste parole, ed i due amici riprendere la strada di
Nantes a gran galoppo fu un punto solo.

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VI.

LA PRIGIONE DI BOUFFAYS

Non v’era un momento da perdere. I due generali si


diressero alla casa di Carrier, piazza del Cours. Giunti
che furono Marceau si gittò da cavallo, prese macchi-
nalmente le sue pistole dalle fonde degli arcioni, le celò
sotto l’uniforme; e slanciossi verso l’appartamento di
colui che teneva il destino di Bianca fra le mani. Dumas
lo seguì con più freddezza ma pronto sempre a difen-
derlo se ve ne fosse d’uopo, ed a rischiare la sua vita
con la stessa noncuranza che gli era naturale sul campo
di battaglia. Ma il deputato della montagna pur troppo
sapeva d’esser da tutti esecrato e quindi era diffidente,
e nè istanze, nè minacce valsero ad ottenere a’ generali
un abboccamento.
Marceau discese più tranquillo di quel che avrebbe
creduto l’amico. Pareva avere già adottato un progetto
che egli in quel momento maturava frettolosamente, e
forse vi si era già fermato allorchè pregò Dumas di re-
carsi immantinente alla posta, e venire ad aspettarlo
alla porta della carcere di Bouffays con carrozza e ca-
valli.

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E grado e nome aprirono a Marceau le ferrate e bas-
se porte della prigione. Egli ordinò al carceriere di con-
durlo nel criminale ove Bianca era stata rinchiusa. Co-
lui esitò un momento, Marceau reiterò l’ordine d’un
tuono più imperativo, ed il custode obedì facendogli se-
gno di seguirlo.
— Essa non sta sola, gli disse, aprendo la porta bassa
e chiodellata della segreta la cui oscurità fè trasalire
Marceau; ma sarà presto sbarazzata del suo compagno,
il quale sarà oggi decapitato. Poscia, pregò il generale
di abbreviar per quanto fosse stato possibile quello ab-
boccamento, il quale avrebbe potuto comprometterlo;
e richiuse la porta alle spalle di lui.
Ancora mezzo abbarbagliato pel passaggio istanta-
neo dalla luce alle fitte tenebre, Marceau protendeva le
braccia come uom che sogna, cercando di pronunziare
la parola Bianca che e’ non poteva articolare come non
poteva con lo sguardo penetrare la densa notte che lo
inviluppava. Ma intese un grido, e sentì tosto la giova-
netta gettarglisi fra le braccia, imperciocchè essendosi
gli occhi di lei già assuefatti a quella oscurità l’aveano
subito riconosciuto. E gettossegli fra le braccia, dappoi-
chè il terrore e lo spavento le fecero obbliare sesso ed
età, chè, in quel momento trattavasi solo di vita o di
morte; e si afferrò a lui, come naufrago ad uno scoglio,
con singulti e strette convulsive:
— Ah! Ah! voi non mi avete abbandonata, sclamò fi-
nalmente. Essi mi hanno arrestata e trascinata qui; fra
la folla che mi seguiva, io ho scorto Tinguy, gli ho grida-

51
to, Marceau! Marceau! ed egli tosto è scomparso. Oh
non avrei mai sperato di vedervi,... anche quì!... Ma ec-
covi!... eccovi... voi non mi lascerete più... Mi menerete
con voi, non è così?... Sì, sì... voi non mi lascerete quì.
— Vorrei anche a prezzo del sangue mio tirarvene in
questo momento stesso; ma...
— Oh! guardate dunque, toccate queste umide mura
che gocciolano acqua, questa paglia infetta; voi che sie-
te un generale non potreste forse?...
— Bianca, ecco quanto io posso fare. Picchiare a
quest’uscio, bruciar le cervella al carceriere che verrà
ad aprirlo, trascinarvi nel cortile per farvi respirare
l’aria, vedere il cielo e farmi ammazzare difendendovi;
ma una volta che io sarò morto, o Bianca, vi trascine-
ranno nuovamente in prigione, e non vi sarà più uomo
sulla terra, che possa mai salvarvi.
— Ma lo potreste voi?
— Forse.
— E presto?
— Due giorni, o Bianca, due giorni soltanto io vi
chieggo. Ma rispondetemi ora voi, rispondete ad una
mia domanda da cui la vita vostra e la mia dipendono.
Rispondetemi, come rispondereste a Dio... Bianca,
m’amate?
— Ed è tempo, ed è luogo questo da farmi tal do-
manda e da rispondervi io? Credete forse che queste
negre pareti siano fatte per ascoltare parole di amore?
— Sì, Bianca, è questo il momento imperciocchè noi
siamo, fra la vita e la tomba; tra l’esistenza e la eternità.

52
Sì, o Bianca, fate presto a rispondermi, ogni istante ci
rapisce un giorno, ogni ora un anno — Bianca, mi ami
tu?
— Ah! Sì! sì che t’amo. — Queste parole scapparono
dal cuore della giovanetta piuttosto che furon dal lab-
bro pronunziate, e Bianca obbliando che l’oscurità
avrebbe a meraviglia celato il rossore del suo volto na-
scose tosto il capo nelle braccia di Marceau.
— Ebbene! o Bianca, sclamò il giovane con impeto di
gioia, è d’uopo che al momento tu accetti la mia mano.
La giovane tremò tutta della persona.
— Quale può essere, la vostra idea?
— Quella di salvarti dalla morte! staremo a vedere se
oseranno menare al patibolo la moglie di un generale
republicano!...
Bianca tutto capì e fremette al pensiero del pericolo
cui quegli esponevasi salvandola, e maggior veemenza
acquistò l’amor suo; ma tosto richiamando tutto il suo
coraggio,
— È impossibile disse risolutamente.
— Impossibile! gridò Marceau, impossibile! ma sei
dunque folle! e quale mai barriera può frammettersi
tra noi e la felicità, ora che tu confessi di amarmi? Credi
dunque che si tratti di cosa dappoco? Ma ascoltami!
non sai che ti sovrasta la morte, e poi il palco! il carne-
fice! la scure! la carretta!... e non inorridisci?
— Oh pietà, pietà! è cosa orribile! Ma divenendo io
tua moglie,... questo titolo mentre non mi salva perde-
rebbe anche te!...

53
— Epperò tu rifiuti l’unico mezzo di salute che ti ri-
mane! È questo dunque il motivo? — Ebbene sentimi
Bianca che ho anch’io qualche cosa a confessarti... Ve-
derti ed amarti fu un punto solo, il mio amore poi è ad-
divenuto passione, e di questa io vivo la mia vita; la mia
esistenza si è trasfusa nella tua, e quindi il mio destino
sarà il tuo stesso; sia felicità, sia patibolo, tutto io divi-
derò con te; io non ti lascerò più, nè forza umana v’ha
che possa separarci. E se ti lascio per contentarti, gri-
derò subito Viva il Re! queste parole, mi spalancheran-
no nuovamente le porte del tuo carcere e cosiffatta-
mente noi ne usciremo assieme. Ebbene sia pur così!
Sarà qualche cosa sempre di stare una notte insieme ed
insieme andare sulla fatale carretta, e subire la morte
sul palco.
— Oh! no! no! Salvati in nome del cielo, lasciami, la-
sciami!
— Io lasciarti? Bada o Bianca a quando stai dicendo,
e bada e pensa a quanto vorresti. Se io esco da qui sen-
za farti mia, senza darmi il dritto di difenderti mi re-
cherò da tuo padre, tuo padre cui tu non pensi e che
starà piangendo, e gli dirò: «Buon vecchio, tua figlia po-
teva salvarsi, e non l’ha voluto, essa ha voluto che tu
avessi vissuto nel lutto e nel pianto i tuoi ultimi giorni,
e che il suo sangue andasse a sghizzare fin sul tuo ca-
nuto crine, piangi piangi pure, o vegliardo, non perche
tua figlia è morta, ma perchè non t’amava tanto da vo-
ler vivere».
Marceau pronunziando queste parole avea respinto

54
Bianca la quale era caduta sulle ginocchia a qualche
passo lontano da lui; ed egli camminava a gran passi
co’ denti stretti e le braccia incrocicchiate, col riso d’un
pazzo oppur d’un dannato. Ma tosto intese il singhioz-
zar di Bianca, ed una lagrima gli corse pel ciglio, le
braccia infiacchite gli andaron penzoloni e cadde a’ pie-
di della donzella.
— Deh! per pietà, per quanto v’ha di piu sacro al
mondo, per l’anima di tua madre, o Bianca, acconsenti
a diventar mia moglie; l’è necessario e, tu il devi.
— Sì, tu il devi,o giovanetta; tu il devi, (prese a dire
una voce. sconosciuta che li fece balzar su e tremare
tutti e due) sì, tu il devi, imperciocchè è questo il solo
mezzo da conservare una vita che appena comincia; la
religione tel comanda ed io son pronto a benedire la
vostra unione.
Marceau stupefatto si rivolse, e riconobbe il Curato
di S. Maria di Rhe, que’ che egli avea veduto a dir la
messa la notte in cui Bianca divenne sua prigioniera.
O padre! sclamò Marceau prendendogli la mano, mio
buon padre! ottenute da lei che acconsenta a vivere.
— Bianca di Beaulieu, riprese il prete con accento
solenne, in nome di tuo padre il quale la mia età e
l’amicizia che ci univa m’accordano il dritto di rappre-
sentare, io t’ingiungo di cedere alle istanze di questo
giovane; imperciocchè tuo padre stesso se qui si rattro-
vasse farebbe come fo io in questo momento.
Bianca pareva da mille diversi sentimenti agitata, ma
finalmente gettossi fra le braccia di Marceau.

55
— Oh amico mio! diss’ella, non ho forza da poterti
più a lungo resistere. Io t’amo, Marceau, t’amo, e sono
tua moglie.
Le loro labbra a questi accenti si congiunsero; Mar-
ceau era arrivato all’apice della felicità; e sembrava
aver tutto obbliato; ma la voce del curato lo tolse subi-
to a quell’estasi.
— Affrettatevi, figli miei, diceva egli, chè, i miei mo-
menti quaggiù son contati; se indugerete ancora, non
potrò più benedirvi se non dal cielo.
I due amanti si scossero, quella voce li richiamava
sulla terra.
Bianca guardò intorno a sè con occhi esterrefatti.
— Oh amico mio! diss’ella, qual tristo momento per
unire i nostri destini! qual tempio per un imeneo! Credi
tu che legami consacrati sotto oscure e lugubri volte
possano riuscire felici e duraturi?...
Marceau tremò tutto della persona che anch’egli era
preso da un superstizioso terrore. Trasse Bianca in un
sito della prigione in cui un raggio di luce penetrando
per le incrocicchiate spranche di un angusto spiracolo
diradava alquanto quelle tenebre; e là cadendo en-
trambi in ginocchio, aspettarono la benedizione del
prete. Questi stese le mani e pronunziò, le sacrosante
parole. In quel frattempo un sordo rumor d’armi e di
soldati fecesi sentire nel corridoio. Bianca spaventata
rifugissi fra le braccia di Marceau.
— Già vengono a prendermi! gridò ella. O amico!
Amico mio, in questo momento è cosa orribile la mor-

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te!
Il Generale s’era slanciato verso la porta con due pi-
stole pronto a stendere per terra il primo che avesse
osato portar la mano sopra la donna sua. I soldati ma-
ravigliati indietreggiarono.
— Rassicuratevi, disse loro il prete, facendosi innan-
zi, essi cercano soltanto di me, e soltanto io morrò. —
Ed i soldati il circondarono.
— Figli miei, prostratevi, sclamò egli ad alta voce,
imperocchè con un piede nel sepolcro, io vi dò la mia
ultima benedizione, e la benedizione d’un morente è
sacrosanta.
I soldati stupefatti stavano silenziosi. Il curato avea
tirato da petto un crocifisso ch’era pervenuto a sottrar-
re a tutte lo ricerche, lo innalzò sul capo ai due giovani
e pregò. Fuvvi un istante di silenzio solenne in cui
ognuno credette in Dio.
— Andiamo, disse poi a’ soldati che trattoselo in
mezzo, uscirono dalla prigione, quella porta si richiuse
e tutto disparve come visione nel sonno. Bianca gettos-
si fra le braccia di Marceau.
— Ah! se tu mi lasci e coloro verranno a prendermi,
chi vi sarà per aiutarmi a varcar quella porta? Oh Mar-
ceau! al patibolo io!... al patibolo!... lontana da te, pian-
gendo, senza che tu possa ascoltarmi! Oh! non andar
via! rimanti! Io mi getterò a’ loro piedi; dirò loro che
non sono colpevole, che mi lascino in prigione con te
durante tutta la vita mia ed io li benedirò... Ma se mi
abbandoni!... o Marceau. Deh per quanto t’amo non mi

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lasciare!
— Bianca, io son sicuro di salvarti e rispondo della
tua vita; in men che due giorni, io sarò di ritorno con la
tua grazia, ed allora non sarà più vita la nostra di pri-
gione e di dolore, ma sarà vita di felicità e di amore.
A questo l’uscio spalancossi ed apparve il carceriere.
Bianca strinse con più forza Marceau nelle sue braccia
che non avrebbe voluto più staccarsene, e frattanto
ogni istante era prezioso; quindi egli sciolse dolcemen-
te quelle mani che come catene il trattenevano, e pro-
mise alla giovane che prima che due giorni trascorres-
sero egli tornerebbe.
— Amami sempre! dissele slanciandosi fuori la car-
cere.
— Sempre, risposegli Bianca ricadendo sul palco, e
mostrandogli fra i biondi capegli la rosa porpurina che
e’ le avea data, e la pesante porta si ribattette come
quella dell’inferno.

58
VII.

ROBESPIERRE

Uscendo fuori Marceau, trovò il generate Dumas che


aspettavalo presso al portinaio; dimandò carta ed in-
chiostro.
— Che cosa vuoi tu farne? chiese quegli spaventato
di tutta quella agitazione.
— Scrivere a Carrier, per chiedergli due giorni, e dir-
gli che la sua vita mi risponderà per quella di Bianca.
— Sciagurato! riprese l’amico strappandogli da ma-
no la cominciata lettera; minacci, mentre stai tu in suo
potere! Non hai tu forse disobbedito all’ordine ricevuto
di raggiungere l’esercito? Credi tu che, ancorchè Car-
rier temesse di te, il suo timore stesso non farebbegli
pur trovare un pretesto plausibile per nuocerti? Fra un
ora tu sarai arrestato, ed allora che potrai più e per lei
e per te? Senti a me, fa che il tuo silenzio ti faccia ob-
bliare, poichè il solo obblìo può salvarla.
Marceau frattanto col capo fra le palme pareva pro-
fondamente riflettere.
— Hai ragione, poscia sclamò raddrizzandosi im-
provvisamente e trasse l’amico sulla strada. V’erano

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poche persone riunite intorno ad un carrozzino da po-
sta.
— Se stasera vi fosse un pò di nebbia, disse una vo-
ce, non vedo chi potrebbe impedire, ad una ventina di
gagliardi giovinotti di portar via i prigionieri; è una ve-
ra pietà a vedere in qual deplorabile modo Nantes è
guardata. Marceau si volse a quelle parole e riconobbe
tosto Tinguy, scambiò con questi uno sguardo d’intelli-
genza e si gettò nella carrozza, a Parigi, gridò al posti-
glione dandogli un gruppetto di monete d’oro, ed i ca-
valli partirono come freccia. Dappertutto, a forza d’oro,
egual celerità e diligenza; Marceau ottenne pure che si
sarebbero preparati per l’indomani altri cavalli e che
niuno ostacolo si frapponesse al suo ritorno. Durante il
viaggio egli seppe che il general Dumas avea data la di-
missione chiedendo l’unico favore di servire da sempli-
ce soldato in un’altro esercito, epperò era stato messo
a disposizione del Comitato di Salute pubblica, e quindi
rendevasi a Nantes; Marceau lo incontrò sulla strada di
Disson. Alle otto della sera, la carrozza che conteneva i
due generali entrava in Parigi. Marceau e Dumas si se-
pararono sulla piazza del palazzo Egalité. Marceau di-
scese la strada S. Onorato dal lato di S. Rocco, fermossi
al n. 366 e chiese del cittadino Robespierre.
— Egli sta nel teatro della Nazione, rispose una vispa
e leggiadra fanciulla d’un sedici o diciotto anni; ma se
tu vorresti ritornare fra due ore, cittadino generale, tu
’l troveresti a casa.
— Robespierre al teatro della Nazione! non sei forse

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in errore?...
— No, cittadino.
— Ebbene, io vado colà, e se nol trovo ritorno, qui ad
aspettarlo. Eccoti il mio nome «Il cittadino generale
Marceau».
Il Teatro francese erasi allora separato in due com-
pagnie, e Talma seguito de’ commedianti patrioti, avea
emigrato all’Odéon che intitolossi teatro della nazione,
epperò Marceau maravigliato di avere a cercare in una
sala da spettacolo il rigido membro del Comitato di
pubblica sicurezza, si presentò al palco di galleria. Un
giovanotto offerigli sul primo banco un posto vicino a
lui. Marceau l’accettò sperando scorgere di là l’uomo di
cui egli andava in cerca. Lo spettacolo non era ancora
incominciato ed uno straordinario fermento osservava-
si nel teatro. Un rider frequente ed alcuni segni scam-
biavansi gli spettatori partendo come da un quartier
generale, da un gruppo situato nell’orchestra; e quel
gruppo che dominava la sala, dominato era da un uo-
mo, e costui chiamavasi Danton. Intorno a lui facessi si-
lenzio quand’esso parlava, e cominciavasi a favellare
quando ei tacevasi. Costoro che sembravano circondar-
lo con tanto ossequio erano Camillo Desmoulins suo
seguace e Philippeau, Hérault di Séchelles, e Lacroix
suoi apostoli.
Era quella la prima volta che Marceau trovavasi fac-
cia a faccia con quei Mirabeau del popolo; e quando an-
che non avessene inteso a pronunziare il nome, avreb-
belo facilmente riconosciuto alla voce forte e sonora, a’

61
gesti imperiosi, alla fronte di dominatore.
Mi si permetta una breve digressione sulle fazioni
che nell’epoca della quale discorriamo, si aveano divisa
la Convenzione, imperciocchè è necessario a ben capire
la scena che seguirà.
La Comune e la Montagna eransi riunite per operare
la rivoluzione del 31 maggio. I Girondini dopo aver va-
namente tentato di confederare le provincie erano ca-
duti, quasicchè senza difendersi, in mezzo a coloro
stessi che gli aveano eletti, ed i quali dopo non osarono
neppure dar loro asilo nei giorni della proscrizione.
Prima del 31 maggio il potere non esisteva in nessun
luogo; dopo il 31 maggio s’intese il bisogno dell’unità
di forzo per ottenere la sollecitudine di azione;
l’assemblea era l’autorità la più estesa ma una fazione
sen’era resa padrona; alcuni uomini comandavano a
questa fazione, e però il potere trovossi naturalmente
fra le mani di costoro.
Il comitato di pubblica sicurezza era stato composto
fino al 31 maggio di Convenzionali neutri; l’epoca del
suo rinnovamento era arrivata, ed i montagnardi estre-
mi vi si fecero luogo. Barrère vi restò come rappresen-
tante dell’antico comitato, ma Robespierre ne fu eletto
membro; S. Iust, Collot d’Herbois, Billaud-Varennes, so-
stenuti da lui compressero i loro colleghi Hérault de
Séchelles e Robert Lindet; S. Iust tolse l’incarico della
sorveglianza, Couthon s’incaricò di raddolcire nelle lo-
ro forme le proposizioni troppo violenti nel fondo; Bil-
laud-Varennes e Collot d’Herbois diressero il proconso-

62
lato de’ dipartimenti; Carnot si occupò della guerra,
Cambon delle Finanze, Prieur (della Côte d’Or) e Prieur
(de la Marne) de’ lavori interni ed amministrativi, e
Barrère tosto collegatosi ad essi divenne l’oratore quo-
tidiano del suo partito. In quanto a Robespierre, senza
avere veruna precisa funzione, egli vegliava sopra ogni
cosa, comandando a quel corpo politico come il capo
comanda al corpo fisico facendone ad arbitrio agire
ciascun membro.
In questo partito erasi incarnata la rivoluzione, od
esso voleva vederla piena e completa di tutte le sue
conseguenze, perchè potesse un giorno il popolo gode-
re di tutti i suoi risultati.
Tal partito lottar dovea contro due altri; una che vo-
leva farla andare al di là, l’altro, che voleva frenarla e ri-
tenerla. Questi due partiti erano:
Quello della comune rappresentato da Hébert.
Quello della montagna avente a capo Danton.
Hébert nel suo libro le Perè Duchêsne popolarizzava
l’oscenità del linguaggio; in esso l’insulto accompagna-
va la vittima, il riso le esecuzioni. In breve tempo i suoi
progressi divennero formidabili, imperciocchè il vesco-
vo di Parigi co’ suoi vicarî abjurarono il cristianesimo;
il culto cattolico fu sostituito da quello della Ragione, le
Chiese si chiusero. Anacarsi Cloots diventò l’Apostolo
della nuova Dea. Il comitato di Salute pubblica fu spa-
ventato della forza e dei potere che acquistava quella
fazione ultra rivoluzionaria poggiata sull’immoralità e
l’ateismo che esso credeva spenta con Marat. Robe-

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spierre tolse su di se solo l’assunto di attaccarla. Il 13
dicembre 93 egli l’affrontò sulla tribuna, e la Conven-
zione che alle domande della Comune, per forza, avea
dovuto applaudire alle abjurazioni, ora ad istanza di
Robespierre (il quale avea anch’esso una religione a
fondare), decretò che ogni violenza, o misura contraria
alla libertà de’ culti veniva proibita.
Danton in nome del partito moderato della Monta-
gna, chiedeva l’abolizione del governo rivoluzionario, e
le père Cordelier, redatto da Camillo Desmoulins, era
l’organo di quel partito. Secondo lui il Comitato di Salu-
te publica ovvero la dittatura era stato creato soltanto
per comprimere nell’interno e vincere fuori, e siccome
l’uno e l’altro erasi eseguito, chiedeva che s’abbattesse
quel potere ch’egli credeva inutile, affinchè, dicev’egli,
non addiventasse in seguito pericoloso. La rivoluzione
fin là avea demolito soltanto, ora Desmoulins voleva
riedificare sopra un terreno non ancora affatto sgom-
brato.
Queste tre fazioni adunque dividevano l’interno del-
la Convenzione nel mese di marzo 1794. Robespierre
accusava d’ateismo Hébert e di venalità Danton, ed egli
stesso poi era accusato da quei due di ambizione, e la
parola Dittatore cominciava a circolare.
Tale era la condizione delle cose in Francia, allorchè
Marceau vide, come già dicemmo, per la prima volta
Danton, il quale sedendo nell’orchestra come su d’una
tribuna, gettava a que’ che ’l circondavano parole, po-
tentissime. Quella sera si rappresentava lo morte di Ce-

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sare, ed una specie di motto di ordine parea essersi da-
to i Dantonisti, dappoichè tutti poteansi vedere a quel-
la rappresentazione, e ad un segno dato dal loro capo
doveano tutti levarsi da sedere come per applicare a
Robespierre i seguenti versi quanto un attore li avreb-
be declamati:
«Oui que César soit grand mais que Rome soit libre,
Dieu! maîtresse de l’Inde, esclave au bord du Tibre,
Qu’ importe que son nom commande à l’univers,
Et qu’ on l’appelle reine, alors qu’elle est aux fers?
Qu’ importe à ma patrie, aux Romains que tu braves,
D’apprendre que César a de nouveaux esclaves?
Les Persans ne sont pas nos plus grands ennemis,
Il en est de plus grands, je n’ai pas d’autres avis.»
Epperò Robespierre che era prevenuto da S.Iust por-
tossi a bella posta al Teatro della Nazione, conoscendo
benissimo quale potente arma sarebbe stata quella ac-
cusa nelle mani de’ suoi nemici, se pervenuti fossero a
renderla popolare.
Intanto Marceau invano l’andava cercando in quella
sala brillantemente illuminata, ove la balconata dalla
galleria uscendo molto in fuori condannavano alla pe-
nombra l’ordine de’ palchi che sotto di essa spiegavasi,
onde avveniva che i suoi occhi stanchi dall’andare inve-
stigando ritornavano ad ogni poco sul gruppo
dell’orchestra, la conversazione clamorosa del quale
attraeva l’attenzione di tutta la sala.
— Oggi ho veduto il nostro Dittatore diceva Danton;
voleano riconciliarci.

65
— E dove l’avete veduto?
— A casa sua; m’è stato mestieri salire i tre apparta-
menti dell’uomo incorruttibile.
— E che cosa gli avete detto?
— Che ben sapeva io tutto l’odio che il Comitato mi
portava, ma che nol temeva per niente. Esso m’ha ri-
sposto aver io torto, il comitato non avere cattive inten-
zioni contro di me, ma che era d’uopo spiegarsi.
— Spiegarsi! spiegarsi! la cosa è buona; ma con gen-
te di buona fede.
— E proprio così gli ho risposto; allora ha strette ed
appuntale le labbra e la sua fronte si è increspata; io ho
continuato — Certamente è necessario reprimere i
realisti ma non bisogna vibrar colpi unitili confonden-
do col colpevole l’innocente.
— Eh!... e chi v’ha mai detto che si sia fatto morire un
innocente? riprese Robespierre con aspro tuono di vo-
ce — Ebbene, che ne dici tu, ho esclamato volgendomi
a Herault de Séchelles ch’era presente, nessuno inno-
cente si è fatto morire! non è vero? — e sono uscito.
— E S. Iust v’era?
— Sì.
— E che ne diceva?
— Passava e ripassava la mano fra’ suoi belli capelli
neri, e di tempo in tempo riaggiustava il nodo della cra-
vatta imitando quello di Robespierre.
Il vicino di Marceau a quelle parole si scosse, rialzò il
capo che teneva poggiato sulle palme, o fè sentire quel-
la specie di soffio fischiante che passa fra’ denti

66
all’uomo che vuol contenersi. Marceau non se ne ad-
diede, e riportò la sua attenzione sopra Danton ed i
suoi amici.
— Il bellimbusto! uscì dicendo Camillo Desmoulins
alludendo a S. Iust; ha se stesso in tanto concetto e sti-
ma, che par che porti con riverenza il capo sulle spalle
come se fosse la reliquie d’un santo.
Il vicino di Marceau disgiunse allora le mani, e quegli
riconobbe la dolce e bella fisonomia di S. Iust, pallida
dalla collera.
— Ed io, disse levandosi da sedere facendo pompa di
tutta la sua alta statura, o Desmoulins, ti farei portar la
tua come un S. Dionigi. Dette queste parole, si volse
bruscamente, ognuno si ritrasse per farlo passare, e
quegli si ritirò dalla balconata.
— E chi mai se lo avrebbe immaginato tanto vicino?
disse Danton ridendo. Per bacco che il frizzo è giunto
proprio al suo indirizzo.
— A proposito, disse Philippeaux a Danton, hai letta
la satira di Laya contro di te?
— Come! Come! Laya scrive satire! che ristampi il
suo Amico delle leggi, sarei curioso di leggerlo, la sati-
ra, già si sottintende. — Eccola:
E Philippeaux presentogli un piccol libro.
— Eh! ed egli s’è sottoscritto, per bacco! Ma certo
che non sa che se non si salva nella mia cantina, gli
mozzeranno il capo! silenzio il sipario si alza.
L’imposto silenzio si prolungò per tutta la sala: un
giovinetto che non era di quella compricola, non curan-

67
dosi che gli attori fossero già sulla scena continuava a
discorrere in disparte. Danton allungò il braccio, e toc-
candogli sulla spalla con l’estremità del dito e con una
cortesia che non era scevra d’ironia dissegli.
— Cittadino Orlando, lascimi ascoltare, come se si
trattasse di sentire recitare Mario a Minturno.
Il giovane autore avea troppo spirito per non dare
retta ad una preghiera che gli era indrizzata in tali ter-
mini; epperò si tacque, ed un silenzio perfetto permise
al publicò di ascoltare una delle peggiori produzioni
che si siano date al teatro francese; cioè la morte di Ce-
sare.
Malgrado l’imposto silenzio, era chiaro che niuno de’
membri della piccola cospirazione avrebbe dimentica-
to l’oggetto per lo quale era venuto in teatro, epperò,
era fra essi un continuo scambiar d’occhiate e di segna-
li che più s’avvicinava l’aspettato brano della tragedia,
più frequenti addiventavano. Danton diceva a voce bas-
sa a Camillo — Sta alla terza scena — ed andava decla-
mando i versi contemporaneamente all’autore quasi ne
avesse in tal modo potuto affrettare la maniera di por-
gerli. Si venne allora a seguenti:
César nous attendions de te clémence auguste
Un don plus précieux une faveur plus juste
Au dessus des états donnés par ta bonté
CÉSAR.
Qu’ oses tu demander Cimber?
CIMBER

68
La Liberté.
Tre salve di applausi accolsero i versi.
— Va a meraviglia disse Danton levandosi a mezzo
da sedere.
Talma ricominciò:
Oui que César soit grand, mais que Rome soir libre
Danton levossi quanto era lungo gettando uno
sguardo all’intorno, come avrebbe fatto un generale in
capo al momento di dar la battaglia, per assicurarsi se
ognuno stava al posto suo, quando ad un tratto i suoi
sguardi arrestaronsi ad un punto della sala. La grata di
un palco erasi aperta ed era apparso nell’ombra Robe-
spierre dal volto angoloso e livido. Gli occhi de’ due ne-
mici incontraronsi e non poteano più l’uno dall’altro
separarsi. Nella guardatura di Robespierre eravi tutta
l’ironia del trionfo, tutta l’insolenza che nasce dalla si-
curezza. Per la prima volta in vita sua Danton sentì un
sudor freddo per tutta la persona, obbliò che dovea da-
re un segno, i versi trascosero senza applausi e senza
neppur mormorio, ed e’ cadde vinto; la grilla del palco
si richiuse e tutto finì. I Guillottinaturi aveano il di so-
pra, i settembrizzatori venivano sconfitti, il 93 affasci-
nava il 92. Marceau che di tutto era preoccupato fuor-
chè della tragedia e de’ suoi versi fu nondimeno il solo
forse, che senza comprenderla, avea osservato quella
scena; egli aveva riconosciuto Robespierre, uscì preci-
pitosamente dalla balconata, e fu a tempo per raggiun-
gerlo ne’ corridori.

69
Il dittatore era calmo e freddo come se niente fosse
accaduto. Marceau presentossegli declinando il pro-
prio nome. Robespierre gli stese la mano; Marceau, ce-
dendo a un movimento istintivo ritirò la sua. Un amaro
sorriso increspò le labbra del ghigliottinatore.
— Che cosa bramate da me? Disse.
— Pochi momenti di colloquio.
— Qui, o a casa?
— A Casa.
— Vieni con me allora.
E que’ due uomini agitati da sì differenti emozioni,
camminavano l’uno a fianco dell’altro: Robespierre
tranquillo ed indifferente; Marceau pieno d’ansietà e
d’impazienza. E difatti quale agitazione non dovea egli
provare nel vedersi vicino all’uomo che stringeva fra le
mani il destino di Bianca! L’uomo di cui avea inteso
tanto a parlare, l’uomo finalmente di cui la incorrottibi-
lità sola era manifesta, ma la popolarità era ancora un
oscuro problema. E difatti a conquistare questa qualità
egli non avea fatto uso di nessuno de’ mezzi praticati
da’ suoi antecessori. Egli non avea nè la trasportante
eloquenza di Mirabeau, nè la paterna fermezza di Bail-
ly, nè la fugosità sublime di Danton, nè la sozza facon-
dia di Hébert. Se egli travagliava pel popolo lavorava si-
lenziosamente e senza renderne conto al popolo. In
mezzo allo uguagliamento generale del linguaggio e
della foggia del vestire egli avea serbato la sua maniera
gentile di favellare e l’elegante vestitura. In fine per
quanta pena si prendevano gli altri per confondersi

70
nella folla, altrettanta se ne dava egli per estollersi so-
pra le masse e si sarebbe a primo colpo capito che
quest’uomo singolare sarebbe stato per la moltitudine
o un idolo o una vittima, ed egli fu e l’uno e l’altro.
Essi erano arrivati; ascendendo una scala angusta
fermaronsi innanzi ad una porta al terzo piano, Robe-
spierre l’aprì e trovaronsi in una stanza la suppellettile
della quale consisteva in un busto di Rousseau, un ta-
volo sul quale vedeansi aperti il Contratto sociale e
l’Emilio, poi un armadio e quattro sedie completavano
l’addobbo dell’appartamento, se non che, è d’uopo con-
fessarlo, il lusso era surrogato dalla massima nettezza
ed ordine.
Robespierre s’accorse dell’effetto prodotto dalla sua
abitazione sull’animo di Marceau.
— Ecco la maggione di Cesare, dissegli sorridendo,
che cosa avete a chiedere al Dittatore?
— La grazia della mia consorte, condannata da Car-
rier.
— Tua moglie condannata da Carrier! la donna di
Marceau, del republicano de’ tempi antichi! il soldato,
spartano? E che cosa fa dunque colui a Nantes?
— Atrocità.
E Marceau tracciogli il quadro lacrimevole che ab-
biamo testè posto sotto gli occhi del nostro lettore. Du-
rante quella breve ma viva dipintura di stragi, Robe-
spierre non trovava requie sulla sedia e quando Mar-
ceau ebbe finito:
— Ecco in qual modo essi m’intendono, disse con

71
rauca ed irata voce, (imperciocchè l’interna emozione
era bastante per operare in lui quel cambiamento).
Ovunque i miei occhi non giungono a guardare, e la
mia mano ad arrestare una inutile carneficina!... V’ha
pur troppo sangue da spargere per necessità, e fossimo
pur giunti alla meta!
— Ebbene, o Robespierre, la grazia di mia moglie?
Robespierre prese un foglio bianco.
— Il cognome della sua famiglia?
— E perchè mai?
— È necessario per accertarsi della identità.
— Bianca di Beaulieu.
A questo nome il dittatore lasciossi cader la penna di
mano.
— La figlia del Marchese di Beaulieu? Il capo de’ bri-
ganti?
— Sì, Bianca di Beaulieu figlia del Marchese di Beau-
lieu.
— E come mai essa trovasi esser tua moglie?
Marceau tutto narrogli.
— Giovinotto pazzo! Insensato! quegli esclamò, e do-
vevi tu...?
Marceau l’interruppe.
— Non son venuto a chiederti nè ingiurie nè consi-
gli; ma la sua grazia? Vuoi tu accordarmela?
— Marceau, i legami di famiglia, la influenza
dell’amore, credi tu che non ti porteranno a tradire la
Republica?
— Non mai!

72
— E se tu ti trovassi con l’armi in mano faccia a fac-
cia col Marchese di Beaulieu?
— Io lo combatterei siccome ho fatto pel passato.
— E se cadesse nelle tue mani?
— Te lo consegnerei e tu stesso ne saresti il giudice.
— E mi giuri quanto tu dici?
— Sì sull’amor mio.
E Robespierre riprese la penna.
— Marceau tu hai avuta la fortuna di serbarti puro a
tutti gli occhi, io da lunga pezza ti conosco per fama, ed
ho sempre desiderato vederti.
Poi avvedendosi dell’impazienza di Marceau vergò le
tre prime lettere del suo nome, indi soffermossi.
— Ascoltami, soggiunse; anche io chieggo a te qual-
che cosa; cinque minuti e non più per parlarti di me;
vedi, ti regalo una intera esistenza per cinque minuti:
ciò si chiama pagar bene.
Marceau fe cenno di ascoltare, il dittatore continuò.
— Io sono stato calunniato presso di te, o Marceau;
mentre tu sei un di quegli uomini rari a trovarsi, da’
quali io bramo esser conosciuto imperocchè mi preme
assai esser giudicato da coloro i quali io stimo. Ascolta-
mi adunque; tre assemblee hanno l’una dopo l’altra
agitato i destini della Francia, si sono rispettivamente
personificate in un solo uomo, ed hanno adempito
all’obbligo che il secolo loro imponeva. La Costituente
rappresentata da Mirabeau dava una forte scossa al
trono; la Legislativa che incarnavasi in Danton l’ha ab-
battuto. L’opera imposta alla Convenzione è immensa,

73
che, trattasi di continuare ad abbattere per indi comin-
ciare a riedificare. Ora io nutro un immenso pensiero,
quello di diventar tipo di quest’epoca, siccome Mira-
beau e Danton il furono della loro; nella storia del po-
polo Francese vi sono tre uomini rappresentati da tre
cifre 91, 92, 93. Se l’Ente Supremo mi dà tempo da po-
ter compiere la mia opera il nome mio starà sopra tutti
gli altri nomi, ed io avrò allora fatto più che non Licur-
go in Grecia, Numa in Roma, in America Washington
operarono, avvegnacchè ciascuno di essi altro non fece
se non pacificare e riordinare un popolo novello, laddo-
ve io debbo lavorare alla rigenerazione di una società
vecchia ed ostinata. Se io cado, Dio mio, risparmiatemi
una bestemmia contro di voi alla mia ultima ora. Se io
muojo prima del tempo necessario alla mia missione, il
mio nome che avrà fatto soltanto la metà di quanto
avea a fare, serberà una taccia di crudele e sanguinario
che l’altra metà avrebbe cancellata, ma la rivoluzione
cadrà con essi, ed entrambi e rivoluzioni e Robespierre
verranno calunniati... Ecco quanto avea a dirti, o Mar-
ceau, e tel dissi dapperchè in qualsiasi cosa che avven-
ga desidero che siavi qualche uomo che serbi vivente e
puro nel proprio cuore il nome mio come lampada in
tabernacolo, e tu sei uno di cotesti uomini. E finì di
scrivere il suo nome.
— Eccoti la grazia di tua moglie... Ora tu puoi partire
senza neppur darmi la mano. Marceau gliela ghermì e
strinse fortemente, volea parlare, ma era soffocato
dall’emozione e dalle lagrime e siccome indugiava Ro-

74
bespierre dovette dirgli:
— Sua dunque, è d’uopo partire, non v’ha un istante
da perdere, a rivederci.
Marceau slanciossi per le scale ed imbattessi nel ge-
nerale Dumas che saliva.
— Ho ottenuto la sua grazia! disse Marceau gettan-
dosi nelle braccia di lui, la sua grazia! Bianca è salva!...
— Congratulati anche con me, risposegli l’amico, io
sono stato nominato generale in capo dell’esercito del-
le Alpi, e son venuto a renderne grazie a Robespierre.
E si abbracciarono ed accomiatarono. Marceau uscì
sulla strada, corse al palazzo Egalité, ove aspettavalo la
carrozza pronta a partire con la stessa celerità impie-
gata nel venire a Parigi.
Da qual pesante fardello il suo cuore era liberato!
Quanta felicità aspettavalo dopo tanti dolori! Egli im-
mergevasi profondamente col pensiero nel futuro, e
sembravagli già venuto il momento da dover gridare
alla soglia del carcere. Bianca tu sei salva per opera
mia! Vieni o Bianca!; che l’amor tuo ed i tuoi baci sian-
mi compenso per la vita che ti ho ottenuta.
Intanto di tempo in tempo un vago timore sentiva in-
vadergli l’anima e scuotergli con forza le fibre del cuo-
re, allora sollecita e’ spinge i postiglioni promette loro
più denaro, lo prodiga sempre e più ne promette; le
ruote bruciano il selciato e le pietre le ruote stesse, i
cavalli non che correre par che divorino la strada, e ciò
nonostante appena sembra al povero Marceau di avan-
zare. Ad ogni posta trovansi pronti i cavalli di ricambi;

75
in niun luogo ostacoli o ritardo, ogni cosa pare dividere
la sua agitazione e la sua premura. Nello spazio di po-
che ore Marceau si lascia alle spalle Versailles, Châr-
tres, le Mans, la Flèche, e scorge Angers ma tosto sente
un urto terribile, spaventevole, e la carrozza si rove-
scia, rompendosi; egli rialzasi tutto contuso e pien di
sangue tronca con un colpo di sciabola i tiranti d’un ca-
vallo vi salta su e via come un fulmine. Giunto alla pri-
ma posta vi prende un cavallo da corsa, e continua il
viaggio rapidamente.
Traversa Angers, scorge Ingrande, giunge a Varades,
oltrepassa Amiens, il palafreno spumante gronda san-
gue e sudore; scovre S. Donatien poi Nantes; Nantes!
che racchiude l’amor suo, la sua vita, il suo avvenire!
Tra pochi istanti egli potrà entrare nella città, ecco che
ne tocca le porte, ed il suo cavallo estenuato stramazza
davanti alla prigione di Bouffays, ma che importa? egli
è pur giunto!
— Bianca! Bianca!
— Due carrette sono or ora uscite dalla prigione, gli
risponde il garzone del carceriere. Essa sta sulla pri-
ma...
— Maledizione! E Marceau slanciasi a piedi in mezzo
al popolo che si accalca ognor più e corre verso la gran
piazza. E raggiunge la seconda carretta, una delle vitti-
me il riconosce e gli grida.
— Generale, salvatela... io non l’ho potuto e sono sta-
to preso..., Vivano il Re e la buona causa!
— Sì! sì!... E Marceau riprende la strada, la folla

76
l’urta, l’incalza, lo trasporta; si arriva alla gran piazza,
Marceau già trovasi innanzi al palco; agita la carta in
aria gridando: «grazia grazia»
Nel tempo stesso il carnefice afferrando per la lunga
e bionda chioma il capo troncato di una giovanetta lo
mostrava al popolo. All’orrida vista la folla presa da or-
rore volgeva altrove lo sguardo imperciocchè ad ognu-
no sembrava vedere quel mozzo capo a vomitar san-
gue!... Allora fra quella calca ammutulita dallo spavento
s’intese un grido di rabbia e di maledizione, e tal grido
che in esso pareva essersi esaurita ogni forza umana.
Era Marceau che avea riconosciuto fra i denti della vit-
tima la rosa porporina che egli avea data alla giovane
martire della Vandea.

FINE.

77
LA MANO DESTRA DEL SIRE DI GIAC

78
I.

Se il lettore che già tanto spesso e benignamente ne


ha seguitato nelle nostre storiche escursioni a traverso
la vecchia Francia, volesse anche ora in nostra compa-
gnia dare alquanti passi indietro, noi il meneremmo a
poche leghe dalla piccola città di Avranches fra Trans
et S. Hilaire allo spaldo di un fortificato castello, le mu-
raglie del quale sebbene ora crollate siano per l’andare
del tempo, (tanto che oggi appena le vedresti uscire da
sotto all’erba), pure un giorno cingevano minacciose e
forti il borgo li S. James de Beuvron.
In que’ tempi aveano luogo colà gli avvenimenti che
siamo per narrare.
Dove ora verdeggiano le grosse e folte praterie che si
prolungano fino a Pontorson vedeansi sorgere gli at-
tendamenti dello esercito di Brettagna il quale
all’entrar di quaresima dell’anno di nostra salute 1425
veniva a stringere di assedio il castello di S. James.
Per poco che si fosse gettato uno sguardo sulla fossa
che circonvallava il campo ed osservato il contorno an-
goloso che fossa e palizzata formavano nel loro serpeg-
giato circuire, sarebbesi di leggieri scorto nel capitano
di quelle attendate soldatesche l’uomo spertissimo
nell’arte di guerreggiare, tanto quell’opera era da repu-
tarsi pregevole all’attacco come alla difesa.
Epperò un tale elogio ad un semplice accampamento

79
non rechi la menoma meraviglia trattandosi di tempi
assai differenti da’ nostri, imperciocchè nelle bizzarre
fazioni del Medio Evo ogni movimento operavasi non
in virtù di uno stabilito piano di campagna, ma per ar-
bitrio, e spesse volte, mero capriccio di quei capi con-
dottieri, i quali appena che avessero quattro o cinque
decine di prezzolati combattenti che nel loro intento li
secondassero, già facevano a modo loro senza altri-
menti dipendere da chicchessia.
E quindi chiaro addiventa, bastare che una guarni-
gione resa libera marciasse instintivamente al soccorso
di un’altra guarnigione assediata, per produrre un su-
bitaneo cangiamento nelle condizioni di due partiti, e
fare dell’assediante del giorno innanzi lo assediato
dell’indomani.
Di tanto nè più nè meno era minacciato l’esercito di
Bretagna per poco che fosse saltato in mente agl’Ingle-
si di Avranches di venire in soccorso ai loro fratelli di S.
James de Beuvron.
Ma in quella sera, grazie alle prese precauzioni, tutto
era calma e tranquillità nel campo, ove il silenzio della
notte era appena interrotto dal passo grave e misurato
delle sentinelle, le quali ad ogni quarto d’ora facevano
sentire il grido di all’erta, grido che ripetevasi mano
mano come un eco per tutto il campo. I fuochi eransi
estinti nelle baracche de’ soldati e nelle tende degli uf-
fiziali. Una tenda soltanto più delle altre grande ed ele-
vata sul vertice della quale vedevasi ad ogni soffio
sventolare la bandiera di Francia e di Bretagga, era an-

80
cora illuminata. In quella tenda vegliava con l’animo
agitato da mille pensieri il generalissimo dell’esercito
che tanto tranquillamente dormiva riposandosi sul suo
conduttore come il pastore sul gregge.
Difatti s’era egli in tutto punto d’armatura gettato
sopra una pelle di lupo che gli faceva da letto. L’elmo
soltanto mancava alla sua guerresca vestitura, e pote-
vasi vederlo deposto a canto a quel militare giaciglio; e
scorgevasi al chiarore di una lucerna di rame che colui
cui pesava l’immensa responsabilità della vita de’ suoi
compagni era un bel giovane da’ 30 a 33 anni da’ lunghi
capelli color castagno che gli scendevano a tondo sulle
spalle; avea bella e bianca la carnaggione, occhi cerulei
e la fisonomia a dolcissima espressione atteggiata, se
non che un leggiero aggrottar di ciglia veniva di tempo
in tempo ad annuvolare quella serenità di guardatura
denunziando una volontà possente e ferma, volontà
che facilmente fra i Bretoni degenera in ostinatezza.
Egli stava tutto intento a leggere un manoscritto sor-
reggendo con la mano manca il capo, con la dritta cor-
reggendo la scritta con caratteri tre volte più grossi del
testo.
Il manoscritto portava in testa per titolo. «Storia di
Artù di Richemont Contestabile di Francia, contenente
le sue memorie dall’anno 1413 fino all’anno 1424».
— Ah! mio povero Guglielmo, mormorò il giovane
arrivato che fu all’ultimo foglio, ho gran paura che tu
non abbia scritto a quest’ora le più ricche pagine della
mia istoria, e che quest’anno 1425 che si mal comincia

81
non precipiti da male in peggio.
— Ecco de’ tristi pensieri, illustrissimo, rispose un
uomo in abiti da contadino che era entrato nella tenda
di Artù e non veduto s’era avvicinato al letto; e sventu-
ratamente le nuove ch’io reco non sono di tal natura da
rendere giocondi i pensieri di V. S. illustrissima.
— Ah! sei tu, le Gruel? rispose Artù con un leggiero
sorriso che dava a divedere che malgrado l’annunzio di
triste notizie il messaggiero era pur non di meno il ben
venuto. Sull’anima mia, mio povero Guglielmo, io ti cre-
deva bello ed impiccato, e mi proponeva mandar do-
mani una compagnia con ordine di visitare uno per
uno tutti gli alberi de’ dintorni affine di darti, se v’era
d’uopo, una sepoltura cristiana.
— E ciò forse sarebbe accaduto, o illustrissimo, se io
non avessi usata la precauzione di sostituire queste ve-
sti da villano alla nobile livrea di V. S. Gli Inglesi batto-
no notte e giorno la campagna sotto gli ordini del conte
di Suffolk e del Sire di Scales, e sebbene io non portassi
una gran somma, pure avrebbero essi potuto fare una
più brutta preda. E, a queste parole Guglielmo le Gruel,
vuotò la sua scarsella nell’elmo del Conte.
— E fin dove sei stato?
— Per bacco! fino a Rennes.
— Ed hai avuto notizia del Re?
— Come no? egli sta ad Issondun col Sire di Giac e
con la corte.
— Ma i 100, 100 scudi promessi?
— Non ne ho inteso a parlare.

82
— In guisacchè quel danaro che rechi?..., disse Artù
volgendo noncurante lo sguardo all’elmo colmo di oro.
— Componesi del prezzo ricavato da’ gioielli che
m’avete incaricato di vendere, e di 200 scudi di oro la
metà de’ quali mi è stata data dall’illustrissimo signor
Gilles vostro fratello, e l’altra dalle signore d’Alançon e
di Lomaigne.
— Le mie buone sorelle! mormorò Arturo.
— In quanto al Duca Giovanni, egli sta in viaggio dal
lato di Morlaix e di Quimper, ma ancor che fosse stato a
Rennes, voi ben sapete che egli è più Borguignone che
Delfinese.
— Dimodocchè la nostra fortuna ascende?...
— A 480 scudi d’oro.
— Via dunque! vi sarà almeno di che pagare i mer-
canti che ne forniscono i viveri; in quando a’ soldati, es-
si si rassegneranno ad aspettare che il nostro re stia
comodo.
— Lo voglia Iddio! rispose Guglielmo con l’accento di
un che fa per ogni evento una preghiera senza però
avere speranza alcuna che venga esaudita.
— Sarebbe a dire? mormorò Arturo stringendo i
denti ed aggrottando il ciglio. E che cosa mai può farti
dubitare per un solo istante della pazienza dell’esercito
quando il comandante ne da l’esempio?
— Alcune parole che ho ascoltate ritirandomi dagli
alloggi, scambiate fra i soldati di guardia, ai quali sono
stato costretto farmi riconoscere onde passare.
— E queste parole?

83
— Promettevano una rivolta per domani se pel far
dell’alba le milizie non toccassero la paga che loro
s’aspetta da ben cinque mesi.
— Una rivolta? sclamò Artù balzando giù dal letto.
Una rivolta? Hai tu bene inteso o Guglielmo?
— Sì, Messere, son sicuro di quanto vi dico; sicchè,
ve ne scongiuro, prendete ogni precauzione.
— Una rivolta! continuò a dire Artù sdegnosamente,
sorridendo e misurando a gran passi la tenda, cosa ve-
ramente curiosa a vedersi. Circa poi le precauzioni che
userei, si ridurrebbero a non uscire da qui senza spada.
— Ma, Messere, non tornerebbe forse meglio far
aspettare i mercanti e dare invece un acconto ai solda-
ti?
— I mercanti hanno rilasciati i loro generi sulla mia
parola, ed io farò onore alla mia parola; in quanto poi a’
soldati, io debbo dar loro pane, acqua ed acciaio, e fin-
chè essi avranno di che mangiare, bevere e battersi,
non hanno più altro a ripetere.
— Ma intanto, Messere...
— Prendi quest’oro, va e regola i conti de’ mercanti,
e se te ne avanza fanne dono da parte mia alle famiglie
più povere, raccomandando loro di pregare Dio per la
gloria del Re Carlo VII e per la salvezza della Francia.
Guglielmo guardò un momento il suo signore, indi
uscì; imperocchè all’espressione di quel volto capì che
inutile sarebbe stato il replicare. Artù si sdraiò di bel
nuovo sul letto, e, sia la fatica di così lungo vegliare, o
che fosse fiducia di se stesso e forza di volontà, dopo

84
un quarto d’ora dormiva profondamente.
Al far dell’alba il suo sonno fu interrotto da un gran
rumore che facevasi nel campo. Artù destossi con un
soprassalto, gettossi giù dal letto e stava per slanciarsi
fuori dalla tenda quando le Gruel entrò.
— Che cosa è mai questo fracasso?
— Quel che io avea preveduto. Messere.
— Una rivolta? asclamò Artù, dando di piglio ad una
mazza d’arme sospesa al capezzale del letto.
— No Messere, non è tempo ancora.
— Ma finalmente di che cosa si tratta?
— La guardia delle porte non ha voluto lasciare usci-
re i mercanti di bestiame.
— E perchè?
— Perchè è stata prevenuta dal soldato che ora di
sentinella davanti alla vostra tenta, aver voi destinato
tutto il danaro ricevuto stanotte al pagamento de’ vive-
ri e niente per la paga dell’esercito.
— Dimodocchè?... gridò Artù impazientandosi.
— Dimodocchè le milizie vogliono ritorre il danaro
ai mercanti, i quali riguardandolo come legittimo sala-
rio non intendono restituirlo.
— In vero che essi han ragione! Ed io corro ad aiu-
tarli, come a della brava gente.
— Non prendete l’elmo, Messere?
— No, No; è d’uopo che quegli imbecilli mi ricono-
scano alla maggior distanza possibile, affinchè se alcu-
no vi sarà fra essi che esiti ad obbedirmi non abbia a
trovar poi scuse. Il mio cavallo, Giovanni, il mio cavallo?

85
Lo scudiere cui queste parole venivano indirizzate, il
quale dovea per ogni evento tener pronto un cavallo da
guerra e notte e giorno, rimise le redini nelle mani del
contestabile, e volle, secondo si costumava, presentare
il ginocchio al suo signore, ma Artù malgrado il peso
della sua armatura saltò in sella come se fosse stato in
abito da caccia, ed ascoltato da quale banda veniva il
rumore, verso quel punto si diresse mettendo al galop-
po il cavallo.
Sicccome Guglielmo avea detto, le guardie della por-
ta prevenute di essere i mercatanti stati pagati negava-
no loro l’uscita dal campo se pur non rilasciassero la
metà del danaro ricevuto. Può di leggieri indovinarsi
come una tale proposizione fosse all’unanimità respin-
ta, ma i soldati che prevedevano quella resistenza,
aveano anticipatamente deliberato di appropriarsi con
la forza ciò che non voleva loro cedersi bonariamente.
Allora i mercanti considerando che caduti che fosse-
ro una volta in balìa de’ soldati, la ripartizione del loro
danaro non verrebbe neppur fatta con grande esattez-
za, si erano riuniti sotto colore di volere deliberare, ma
in sostanza per prepararsi alla difesa. A tal fine aveano
riuniti nel mezzo e donne e ragazzi, s’erano fatto ba-
luardo de’ loro carri, ed armati di bastoni preparavansi
a disputare fino all’estremo quel che ogni degno com-
merciante ha imparato fin da fanciullo a riporre al di
sopra anche della esistenza istessa, voglio dire il dana-
ro.
Per l’opposto i soldati dal canto loro i quali una guer-

86
ra simigliante risguardavano come un sollazzo da fan-
ciullo, vi si approntavano con la feroce gioia che prova-
no egualmente l’uomo e la tigre quando anticipata-
mente sanno che la loro vittima sebbene troppo debole
a poter resistere pure si dispone a combattere fornen-
do con questa somiglianza di resistenza una plausibile
scusa alla loro crudeltà. Epperò erano essi accorsi da
ogni parte del campo, ignari la maggior parte di ciò per
cui andavano, ma disposti senza prendere ulteriore in-
formazione ad unirsi alla gente di guerra contro i bor-
ghesi gridando;. «a morte! a morte!» non sapendo di
qual delitto erano rei coloro i quali essi condannavano
anticipatamente a morire.
Immantinenti in mezzo a quel tafferuglio ed a quel
disordine s’intese un grido.
Il Contestabile! il contestabile?
E nello stesso tempo quella massa tanto compatta
che neppure una scagliata freccia sembrava poter pe-
netrare, allargossi per lasciar libera la strada al suo ca-
po, il quale traversandola al gran galoppo allora si fer-
mò quando il cavallo andò a dar col muso sulle barrica-
te, nel centro delle quali trincerati i mercanti, aspetta-
vano morti più che vivi che Iddio avesse deciso del loro
danaro e della loro persona.
Alla vista del Contestabile essi presero coraggio, sco-
starono un carro per aprirgli un passaggio e gettandosi
a piè del palafreno di Artù cominciarono a lamentarsi,
chi grazia chi giustizia implorando.
— Perchè non siete partiti al far dell’alba siccome io

87
vi ordinai? disse Artù con tale voce che su tutte le altre
risuonò e fu intesa fin dalle ultime file dell’esercito.
— Perchè la guardia non ha voluto aprirci la porta
del campo, rispose con voce più sommessa colui che
pareva essere il capo di quella carovana.
Artù fè segno che gli si sgombrasse la strada, ed
avanzandosi verso la porta del campo:
— Perchè mai, disse tonando alle sentinelle, non
avete lasciato andare questa gente?
— Perchè essi non aveano la parola di ordine.
— È giusto, disse Artù, e tosto rientrò nelle barricate
e curvandosi all’orecchio di colui che avea parlato
«Brettagna e Borgogna» gli disse, ora andate.
— Il mercante andò dov’erano le carrette, prese per
la briglia il cavallo e mosse alle trinciere seguito da’
suoi compagni.
— Brettagna e Borgagna, ripetè alle guardie.
— Passate, esse risposero.
E tutto il convoglio defilò senza ostacoli.
Quando l’ultimo carro ebbe oltrepassato la porta, Ar-
tù che con lo sguardo avea seguìto il convoglio si rivol-
se e vide a pochi passi da lui; alquanti cavalieri di Bret-
tagna che erano accorsi per secondarlo se ve ne fosse
stato mestieri.
— Signori, disse egli, quasi che obbliato avesse la ca-
gione che li avea colà spinti, mi torna grato assai il ve-
dervi qui riuniti imperciocchè tra poco saremo per da-
re l’assalto. Messer Alaino della Motta invitate i vostri
arcieri a visitare i loro archi ed a completare i loro tur-

88
cassi. Messer di Molac ordinate a que’ di Ploermel e di
Roc-S. André di preparare le fascine e le scale. Signor di
Coetivi, prendete con voi 200 cavalieri e fate una rico-
gnizione dalla parte di Avranches e di Pontorson, affin-
chè gli Inglesi non venghino a distrarne.
In quanto a voi, Guglielmo Eder, noi monteremo
all’assalto ciascuno dal canto suo. Ora, che ognuno rag-
giunga la sua bandiera, ed appena sarà tutto all’ordine
si dia nelle trombe.
A tali parole ogni capitano andò verso il proprio
quartiere seguito dagli uomini che marciavano sotto la
sua bandiera, inguisacchè quel sito in cui un quarto
d’ora prima si arrovellavano tre o quattro mila persone
trovossi in un batter d’occhio pressocchè deserto, av-
vegnacchè altri non vi rimase se non che gli uomini di
guardia e ’l Contestabile, il quale vedendo ognuno re-
carsi al posto suo incamminossi anche egli alla volta
della sua tenda per fare i suoi approcci pel combatti-
mento.

89
II.

Dopo un ora l’esercito usciva in bell’ordine dalle


trincee per dar l’assalto al castello di S. James-de-Beu-
vron.
Gli ordini del contestabile erano stati a puntino ese-
guiti. Il signor di Coetivi con 25 lance si era avanzato
verso Pontorson, Messer Alaino della Motta avea diviso
i suoi arcieri in due corpi, di uno ritenendo egli il co-
mando, l’altro affidando al figliuolo Guglielmo. Messer
di Molac avea riuniti i suoi scalieri, e Guglielmo Eder,
secondo gli ordini ricevuti, preparavasi a scalar la mu-
raglia dal lato occidentale, mentre Artù prendendo se-
co la metà dell’esercito girava il castello ed accingevasi
a darvi l’assalto dal lato meridionale. Gl’Inglesi segui-
vano i movimenti dell’esercito aggressore con una at-
tenzione che dava a divedere quanta inquietudine ca-
gionavano loro quelle svariate manovre, e que’ punti
de’ baluardi, che scorgevano più degli altri minacciati,
delle loro migliori soldatesche guarnivano.
Non appena l’esercito del Contestabile fu a portata
di freccia, gli assediati misero gran grida a cui successe
un acuto sibilar di dardi; e contemporaneamente tre o
quattro uomini caddero trafitti dalle lunghe frecce In-
glesi.
Artù ordinò si serrasse il fronte della battaglia co-
vrendosi con gli scudi e continuò ad avvanzarsi alle

90
mura. Neppur trent’altri passi aveano essi dati che
nuovi messaggieri di morte penetrarono nelle file,
s’intesero alcune bestemmie e poi tutto tacque; nè pe-
rò la soldatesca fece sosta che anzi sempre progrediva
lasciando dietro morti e feriti in una gora di sangue.
Arrivati che furono a un mezzo trarre di balestra da’
baluardi, Artù fece fare alto e dispose i suoi uomini a
scaloni su una triplice linea. Allora gli arcieri brettoni
piantarono a terra i loro scudi a punta ed inginocchian-
dosi dietro di essi, prepararonsi a rimandare agli Ingle-
si freccia per freccia, morte per morte.
Allorquando Artù vide attaccata la battaglia, ordinò
a coloro che recavano le fascine di avanzarsi alla fossa
facendosi scudo del loro fardello; a’ scalieri di seguirli.
Egli stesso poi togliendo un arco da mano ad un bretto-
ne che era caduto, protesse la loro impresa. Parecchi
cavalieri di Brettagna vennero a porsi a’ suoi fianchi
nella stessa guisa di alcuni impazienti uffiziali di oggi i
quali si uniscono a’ bersaglieri per molestare il nemico
in aspettativa di un azione, giuoco per altro tanto men
pericoloso da che le loro armature li preservavano dai
dardi i quali venivano a spuntarsi sulle corazze fiam-
minghe in cui le lance stesse duravano fatica a penetra-
re.
Infrattanto, in quella pioggia di freccie che percuote-
vano sulla sua armatura come gragnuola sul tetti, Artù
ne sentì una più fortemente colpirlo delle altre ed un
leggier dolore alla spalla sinistra lo fe certo che per
provata che fosse la sua corazza la punta dell’arme ne-

91
mica era penetrata fin nella carne. E’ sollecito la strap-
pò, ed esaminandola accuratamente riconobbe nella
impennatura la cifra di Mattia Duncaster artefice ingle-
se celebrato per la qualità del legname e del ferro che
impiegava nella costruzione de’ suoi archi e frecce. Ap-
pena avea Artù finito di esaminare il dardo, si sentì
nuovamente colpito alla coscia; ma neppur questa vol-
ta l’arme potuto avea penetrar l’acciaio.
— Siete forse ferito, Messere? sclamò con inquietu-
dine Guglielmo della Motta che gli stava d’accanto.
— No, la mercè della mia buona armatura di Gand ri-
prese Artù; ma è urgente che io riconosca il buffone
che ne invia simili doni, e ne faccia prontamente giusti-
zia, imperciocchè ognuna di codeste freccie scagliata
sulle genti delle comuni sarebbe la morte d’uomo; e voi
stesso, o Guglielmo, se colui vi scorgesse fra noi armato
così alla leggera come voi siete, il vostro giaco di ma-
glia non vi guarantirebbe più che se fosse una rete da
pescatore, e sareste in un baleno crivellato come un go-
mitolo da spille.
— Dio! Signore! abbiate pietà di me! mormorò Gu-
glielmo della Motta piegandosi sopra un ginocchio.
— Che cosa è, Guglielmo, mio povero ragazzo? disse
Artù.
— È che sono mortalmente ferito, Messere; ma,
guardate quel dannato di Gallese che si china sul ba-
luardo per mostrarmi a’ suoi compagni! eccolo esso è
quello che mi ha ucciso.
Artù gettò uno sguardo all’arciere poi guardò il ferito

92
e vide, che effettivamente una freccia Inglese lunga tre
piedi entratagli sotto la mammella destra gli usciva da
mezzo alle spalle. Artù capì a prima vista che il povero
Guglielmo non s’ingannava chiamando mortale la feri-
ta.
— Ebbene! che cosa brami o Guglielmo gli disse Ar-
tù. Se l’adempimento de’ tuoi desideri dipende dal po-
tere degli uomini, la tua volontà sarà fatta.
Guglielmo non poteva più parlare, e de’ fiotti di san-
gue gli uscivano dalla bocca; ma soltanto additava col
gesto l’arciere che l’avea trafitto, e che si rallegrava del-
la vittoria.
— Sì, sì, ti capisco; mormorò Artù aggiustando sulla
balestra la sua migliore freccia e sebbene il tuo ultimo
desiderio non sia, forse, da buon cristiano, cionnonper-
tanto sarà soddisfatto. Muori in pace, Guglielmo.
La freccia di Artù percorse lo spazio fischiando, ed
andò a colpire il bersaglio, ove il padrone l’avea indiriz-
zata: difatti essa traversò le tempia dell’arciere, non
ostante l’elmo di cuoio che gli proteggea il capo.
L’inglese stese le braccia lasciando andar giù l’arco e
cadde morto fra suoi compagni. Artù si rivolse a Gu-
glielmo e vide un raggio di crudele gioia sfolgorare sul
volto del morente, poscia questi mise un gemito, si
contorse e spirò.
— Alle mura! alle mura! sclamò Artù, profittando del
desiderio di vendetta che quella vista avea animato i
cavalieri; alle mura! Il fossato è colmo, e le scale sono
pronte. E dandone egli stesso l’esempio slanciossi ver-

93
so i baluardi seguito da’ capitani e dagli uomini di ar-
me. Gli arcieri restarono indietro per proteggere
l’assalto allontanando gl’inglesi dalla muraglia.
In un baleno 50 scale furono poggiate ed animato
dall’esempio del Contestabile ognuno vi s’avventò per
combattere corpo a corpo.
E già gli assaltanti erano pervenuti a mezza altezza
di mura quando il grido, «gli Inglesi! gli Inglesi» risuo-
nò dietro di essi. Tosto gli arcieri incaricati di protegge-
re l’attacco, credendosi presi alle spalle svelsero dal
suolo gli scudi, e gettandoli alle spalle cominciarono a
fuggire ripetendo anch’essi il grido di allarme. Allora
gli assediati vedendo altri non avere a combattere se
non che i Cavalieri e gli uomini d’arme, cominciarono a
far piovere dall’alto de’ baluardi sul capo a’ nemici, pie-
tre, travi legnami d’ogni maniera e finalmente tutti i
proiettili che la tattica degli assedi avea in que’ tempi
l’abitudine di ammassare sulle mura nel prepararsi un
assalto. Nel tempo stesso un corpo di cavalleria fattasi
aprire la più vicina porta venne a caricare alle spalle
l’esercito di Brettagna il quale in siffatto modo da assa-
litore che era veniva in tal condizione da potere a gran-
de fatica continuare a difendersi.
Artù a quell’allarme era un de’ primi saltato giù dalla
scala per far fronte al novello attacco, e tutti ricono-
scendolo al suo grido di guerra eranglisi raggruppati
d’intorno. S’era così reintegrata la pugna con grande
accanimento abbasso le mura; ma i Cavalieri di Bretta-
gna trovandosi a piedi sotto il peso delle loro armature

94
e pesti dalle moli che cadevano sulle loro persone da’
baluardi, trafitti sui fianchi da’ dardi degli arcieri ingle-
si ed attaccati di fronte dalla cavalleria, sperare non più
potevano di riacquistare il di sopra, epperò meglio per
morire pareva che pugnassero che per vincere, oppure
perchè vedendo il Contestabile con la sua propria per-
sona impegnato nell’azione avessero a vergogna di ab-
bandonarlo. Potevasi quindi di leggieri comprendere
che al suo cadere sarebbe finita la battaglia; epperò
tutti gli sforzi degl’inglesi contro di lui dirigevansi e
con tanta maggior facilità dacchè col suo noto grido di
guerra richiamava egli stesso i nemici appena si dirige-
vano altrove.
In un tratto il grido di Brettagna e Richemont dato
da voci amiche risuonò dall’altro lato di quella massa
che premeva i Brettoni contro la muraglia, poscia
s’intesero le grida di «i Brettoni i Brettoni». I soldati de’
baluardi le ripetettero con inquietudine, ed un visibile
disordine fu veduto nelle file Inglesi, uomini e cavalli si
appartavano, ovvero venivano rovesciati da una forza
ancora ignota ma che sempre più si avvicinava. Final-
mente siccome avviene di minatori che alla stessa ope-
ra lavorando s’avanzano s’avanzano finchè non rom-
pendo il debole masso che li separa s’incontrano, così il
debole baluardo Inglese che disgiungeva Artù dal soc-
corso che gli arrivava fu atterrato, e mutilato e gron-
dante sangue l’illustre signor di Coetivi venne spirando
a cadere a’ piedi del Contestabile.
Quella gente dunque che tanto allarme avea dato a’

95
Brettoni era il corpo destinato a battere la campagna, e
vedendo Messer di Coetivi che coloro nel loro panico
terrore aveano abbandonato il supremo duce, precipi-
tavasi al suo soccorso e lo salvava dando la sua propria
vita.
Artù slanciossi sul primo cavallo che gli venne fatto
di afferrare, ringuainò la spezzata sua spada di Conte-
stabile, e dando di piglio ad una scure d’arme che per
buona fortuna trovò attaccata agli arcioni della sella,
inseguì la cavalleria inglese fino alle porte della città
che si rinchiusero appena quella entrata. Poscia ritornò
dove si era dato l’assalto, ma gli assediati aveano spez-
zate le scale ed appiccato il fuoco alle fascine; la sua
gente poi spossata dalla fatica dava a divedere pel suo
contegno che l’obbedienza soltanto la traeva su’passi
del Contestabile. Artù capì esser perduta la giornata, e
piangendo di rabbia, dette il segnale, si suonò a raccol-
ta e l’esercitò operò la ritirata che gl’inglesi neppur
pensarono di sturbare.
Giungendo al campo seppe Artù che l’attacco coman-
dato da Guglielmo Eder non era riescito men disgrazia-
to del suo; fin dal primo assalto Guglielmo era stato
schiacciato da un masso di roccia che gli Inglesi aveano
lasciato precipitar sulle scale; Messer di Molac cadeva
trafitto da una freccia, e Messer Alaino della Motta
stretto sul bordo di uno stagno vi si era precipitato col
cavallo e non più si era visto ricomparire. Infine può
dirsi esser stata questa scaramuccia cotanto fatale alla
cavalleria di Brettagna quanto avrebbe potuto esserlo

96
una gran battaglia perduta.
Artù dette le parole d’ordine, e ritirandosi nella sua
tenda, vietò che alcuno venisse a sturbarlo.
Così rimase fino alle 10 ore della notte senza pren-
dere alcun cibo, ma poi più che il dolore potè il digiuno,
chè non potendone più dal bisogno chiamò la sentinel-
la che star dovea alla porta; la sentinella non rispose.
Maravigliato a quel silenzio avvanzossi fino alla porta,
la porta non avea più guardie. Chiamò allora il segreta-
rio, gli scudieri, i paggi; gl’interrogò, ma essi non potet-
tero dirgli altro se nonchè durante tutta la sera qualche
cosa di non usuale macchinato essersi nel campo, aver
vedute alcune, sinistre figure ed interrogatele senza ot-
tener risposta. Finalmente ritiratisi all’ora del coprifo-
co e da quel momento tenutisi cheti e ritirati esser ora
meno informati di lui.
In quel frattempo una sanguigna luce cominciò a
rosseggiare verso l’estremità orientale del campo, ed il
firmamento e le stelle divennero di porpora. Era un in-
cendio; e purnondimeno niun grido d’allarme era stato
dato.
Artù mirava stupefatto quelle fiamme silenziose e
rapide avvicinarsi senza che mano d’uomo si facesse a
mettervi riparo. Aspettavasi ad ogni istante ad udire
voci che gridavano al soccorso, a vedere soldati uscir
dalle fiamme. Ma tutto era per l’opposto silenzio ed or-
rore, e parevano esser secoli che quelli alloggiamenti
cessato avessero di albergare creature vive. Finalmente
non potendone più dalla sofferenza Artù mise egli stes-

97
so un gran grido d’allarme.
Un cavallo che mezzo bruciato saltò fuori da una
barracca crollante e passò rapidamente a lui vicino ni-
trendo dal dolore, fu la sola creatura vivente che gli ri-
spondesse.
Allora la verità apparve ad Artù come un fantasima
in tutto il suo orrore. Sentì tremargli sotto le ginocchia,
ed un freddo sudore andargli pel volto e per tutta la
persona. Era la rabbia di tanto disonore. L’intiero eser-
cito erasi disertato, appiccando il fuoco agli alloggia-
menti abbandonando vergognosamente il suo genera-
lissimo e contestabile.

98
III.

L’inaspettata defezione, la cui unica cagione si era il


difetto di paga a’ soldati, menava le cose di Re Carlo VII
in così miserevole condizione che giammai peggio era-
no state. A grande stento avea potuto il Conte di Riche-
mont levare 20,000 uomini nel Ducato di suo fratello, e
con essi era venuto a mettere l’assedio innanzi a S. Ja-
mes-di-Beuvron; egli, finchè il potette, sostenuta avea
quella gente con i suoi propri mezzi, contando sempre
su una somma di 100,000 scudi che il re proprio gli
avea promessi. La somma era stata levata con una ta-
glia straordinaria votata da’ tre stati riuniti a Meun-
sur-Yèvre; poi senza saperne la cagione i 100,000 scudi
erano improvvisamente mancati, ed ecco che anche
quest’altro sforzo d’uno de’ grandi vassalli della corona
avea dovuto soccombere innanzi all’apatia del re.
Gli Inglesi frattanto occupavano la Normandia, la
Champagne, l’isola di Francia e la Guienna, ed aveano
per alleata la Borgogna; possedevano tutti i porti di
Francia e ricevevano incessantemente soccorsi di uo-
mini e di danaro dalla madre patria, la quale lontana
com’era dal teatro della guerra, erasi serbata ricca e
popolosa. E recherebbe maraviglia che il Delfino ser-
basse ancora qualche provincia in Francia (le quali po-
teano più rifugio reputarsi che regno), se non si consi-
derasse che le guerre di quella epoca non aveano anco-

99
ra preso l’aspetto militare e regolare de’ tempi nostri.
Piano generale di campagna non v’era, ogni capitano
marciava a capriccio nella direzione che più acconcio
sembravagli, il suo esercito s’aumentava o diminuiva in
ragione de’ suoi mezzi onde pagarlo. La paga, verbigra-
zia, cessava, ed ecco i soldati a sbandarsi, e cercare al-
tro capo e spesso fra i nemici se costoro più ricca mer-
cede promettevamo. La campagna poi era devastata, le
città prese e riprese cangiavano padrone fin tre e quat-
tro volte l’anno; era finalmente una guerra da partigia-
ni la quale altro risultato non avea se non se la desola-
zione delle provincie, le quali vedeansi egualmente ma-
nomesse così da amici come da nemici, da difensori co-
me da conquistatori. Fra tutto ciò gli Inglesi progredi-
vano, e se lentamente, ciò addiveniva dal por mente i
loro capitani più alla particolare fortuna ed al privato
vantaggio loro che non al vantaggio ed all’onore della
causa che essi abbracciata aveano.
Carlo VII che nelle ultime nostre croniche di Francia
abbiamo rimasto adolescente, era, nel decorrere de’
quattro anni passati dalla morte del genitore fino
all’epoca di cui ora ripreso abbiamo a narrare le vicen-
de, addivenuto uomo men pel senno che per l’età. Pos-
sedeva egli le qualità che fanno amare un re da’ suoi
popoli, difettava di quelle che ’l fanno rispettato da’ vi-
cini.
Giammai essendosi elevato al di sopra degli avveni-
menti ne’ quali trovavasi interessato, non avea ancor
provato a lottare di sua propria persona, ma invece

100
sempre ricorso a nuovi alleati, e spesso questi sceglie-
va consigliato piuttosto dalla necessità che dalla sana
politica.
Epperò avveniva che la spada di Contestabile che ab-
biamo veduta pendere fin dal 1424 al fianco di Riche-
mont, e che portava sculti sulla guaina i gigli di Francia,
erasi smarrita un momento prima fra le mani di uno,
scozzese, il Conte di Douglas, quando costui fu nomina-
to luogotenente generale per le cose di guerra in tutto
il reame di Francia. Per ragioni presso a poco somi-
glianti lo Stuart che era stato battuto e fatto prigione a
Crévant venne ricambiato con un fratello del Conte Suf-
folk ricevendo pei suoi buoni servigî la Contea di
Dreux, mentre contemporaneamente il cognato di lui
entrava in possesso del Ducato di Turenna. E questa fi-
ducia di Carlo ne’ suoi alleati d’oltre mare tanto erasi
aumentata che ei formata avea di essi una compagnia
scelta alla quale affidata avea la guardia della sua augu-
sta persona. Da ciò poi la denominazione di Compagnia
Scozzese che fino al 1829 ancora avea la prima sezione
delle guardie del corpo de’ re di Francia.
Da ciò riesce facile vedere quanto sempre più preca-
ria la condizione delle cose di Francia per tanto cangiar
di politica addiventasse, avvegnacchè ogni nuovo pro-
tettore veniva con nuove pretese, ed odî ed amicizie
che era d’uopo soddisfare rispettivamente e dividere.
Epperò il conte di Richemont invece di ricevere la spa-
da di contestabile come un favore, avea egli stesso det-
tato le condizioni mercè le quali acconsentiva ad ab-

101
bracciar l’alto incarico. Ed erano queste le condizioni:
Licenziare i ministri che preso aveano parte nella in-
trapresa di Champtoneaux, esiliare quanti avessero
mai contribuito all’assassinio del Duca Giovanni. La ca-
gione di tali patti era che il Contestabile arrivando al
potere con più grandi idee e relazioni, più estese di
quanti l’aveano preceduto, sognava la riconciliazione
de’ duchi di Brettagna e di Borgogna col re di Francia, e
già una parte di tal sogno e’ realizzava, distaccando
dagl’inglesi il Duca Giovanni suo fratello, e da ciò preso
coraggio avea tosto intavolate trattative con Filippo il
Buono, adducendo a costui come pruove di pentimento
del re il rinvio di Tannegny Duchâtel nominato Sini-
scalco a Beaucaire, e l’esilio del presidente Louvet che
s’era ritirato ad Avignone. Quanto al Visconte di Nar-
bonne, era stato ucciso a Verneuil, e gl’inglesi fedeli alla
promessa fatta al Duca di Borgogna, aveano squartato
ed appeso ad una forca il cadavere rinvenuto sul cam-
po di battaglia. Altri non eravi rimasto a fianco al Re, e
che ne regolava a fantasia i consigli, se non se il Sire di
Giac i di cui passati delitti erano restati occulti, e veniva
egli reputato devoto alla casa di Borgogna.
Frattanto una segreta e malefica potenza neutraliz-
zava ogni cosa che Artù tentava, e ’l Re pieno di energia
e di buon valore finchè sostenuto dalla presenza del
Contestabile, appena questi il lasciava ricadeva nella
sua abituale apatia. Imperciocchè ritirato ad Issondun,
ed intitolato dagli Inglesi per dileggio Re di Bourges,
passava i giorni a cacciar la lepre e ’l cervo, o a far leva-

102
re il corvo o la pica; le sere a giocare a carte o a dadi, le
notti tra l’amore declinante per Maria d’Anjou e l’inci-
piente per Agnese Sorel.
In sul finire d’una di quelle giornate scioperate e fu-
tuli che fecero dire a la Hire che giammai erasi visto Re
perdere tanto allegramente il suo regno, Carlo che pri-
ma di meritare il nome di Vittorioso poteva in
quell’epoca a buon dritto chiamarsi l’Indolente, giuoca-
va a dadi col Sire di Giac suo favorito in una sala del Ca-
stello d’Issondun; giuoco che sebben fosse allora di
moda pure sembrava venire adottato dal Re piuttosto
come un rimedio contro la noia che come un piacere
reale, avvegnacchè di tempo in tempo con la mano
sporta pensolona dal bracciolo della sua seggiola acca-
rezzava il capo di un magnifico bianco levriere che se
ne stava accovacciato a suoi piedi, e che rispondeva al-
le carezze dell’augusto padrone rizzando il suo collo di
serpente e semiaprendo i suoi occhi espressivi quanto
occhi umani.
Finalmente il Re lasciò cadere sul tavolo il bossolo
d’avorio in cui agitava i dadi, fece girare il sediolone, e
chinandosi verso il favorito levriere mandò un lieve fi-
schio a cui l’animale era certamente abituato, imperoc-
chè tosto esso alzandosi sulle zampe posteriori poggiò
la patta di d’avanti sul ginocchio del re.
— Bene, Fido, bravo! disse Carlo, voi siete un
bell’animale, molto affezionato siccome il vostro nome
il dice, e sono molto più grato al Duca di Milano per
questo dono che pe’ 3000 Lombardi i quali hanno esor-

103
dito saccheggiando le mie provincie, ed han finito poi
col farmi perdere la battaglia di Verneuil, epperò finchè
avrò corona sul capo voi avrete sempre un bel cannale
di oro.
— Avete inteso, Fido, disse de Giac intromettendosi
in quel colloquio o per meglio dire soliloquio, ciò vuol
dire che voi morrete con le armi di Francia al collo.
Fido mandò un leggiero grugnito.
— Ciò non è sicuro, de Giac, riprese il Re con tuono
melanconico e continuando a lisciare il cane, imper-
ciocchè questa corona è avidamente da tutti bramata e
già le più belle gemme vi mancano. È forza che i nostri
peccati abbiano altamente crucciato contro noi l’illu-
strissimo signor S. Dionigi che è il patrono della Fran-
cia, oppure Iddio che è il giudice de’ re perchè ogni co-
sa vada da male in peggio nel regno.
E come finiva queste, parole il re mandò un sospiro a
cui Fido rispose con un gemito.
— Sentite, de Giac, continuò il re, dacchè sono stato
tanto spesso tradito da gl’uomini, più d’una volta mi è
venuta l’idea di eleggere il mio cane a Consigliere, e di
fidarmi al suo istinto ne’ miei odî ed amicizie.
— A quel che pare non rimarrò lunga pezza capo de’
consigli di Vostra Altezza, disse di Giac, avvegnacchè
non sono nelle buone grazie di Fido.
— Se ne son veduti di questi miracoli, continuò il re
rispondendo più ad un suo proprio pensiero che
all’osservazione del favorito, e spesso Iddio ha incari-
cato gli animali di servire da guida agli uomini. L’altro

104
giorno nella foresta di Dun-le-Roy non eravamo forse
smarriti e tutti a domandare quale strada abbisognava
prendere senza che uomo al mondo ne sapesse una ad-
ditare? Ebbene! io ebbi l’idea di sciogliere Fido e se-
guirlo. Dopo un quarto d’ora noi avevamo raggiunti i
cavalli ed i paggi che ne attendevano al confine del bo-
sco.
— Vostr’Altezza confonde l’istinto col pensiero, il
cuore dell’animale con l’anima umana.
— Sì, è vero! ma guardate intanto quali magnifici oc-
chi, Pietro. Non si crederebbe vedervi brillare un rag-
gio di umano intelletto? Esaminate quelle orecchie che
si rizzano per ascoltare quanto io dico, non si crede-
rebbe esse aprirsi per comprendere? D’altronde non
può negarsi che esse capiscono, imperciocchè basta
che io scacci Fido o che ’l richiami perchè esso sen va-
da, o ritorni; ch’io facci un cenno perch’ei si accovacci. I
miei cortigiani non sanno fare altro, eppure si dà loro il
titolo d’uomo. È vero però che v’ha una cosa che li se-
parerà sempre da questa bella razza canina, ed è che
essi nol sanno trovare il loro padrone quando si smar-
risce, ed il mordono quando ei cade.
ll silenzio che successe a quest’uscita misantropica
sarebbesi forse molto prolungato grazie alle riflessioni
ch’esso avea fatto nascere nell’animo dei due interlocu-
tori, se Fido con un movimento brusco ed inquieto non
avesse annunziato che qualche cosa straordinaria avea
luogo nella contigua camera. Il re seguì la direzione de-
gli occhi dell’intelligente animale e vide ch’erano fitti

105
verso la porta delle guardie.
— Sentite, Pietro, arriva una visita, vediamo come
sarà ricevuta da Fido, vo’ regolarmi su lui, e per questa
volta lo fo capo de’ miei consigli.
In quell’istante sollevossi la cortina ed un paggio an-
nunziò, «l’Illustrissimo Messere Artù conte di Riche-
mont Contestabile di Francia».
Il re sobbalsò. De Giac impallidì. Fido corse alla por-
ta. Tosto il Contestabile apparve, ed il levriere che per
la prima volta il vedea gli leccò la mano.
— Siete voi, cugino! disse il rè con voce lievemente
alterata. Mi reca grandissima maraviglia il vedervi qui
mentr’io vi credeva attualmente occupato a guerreg-
giare sulle coste della Normandia per utilità della coro-
na e per la maggior gloria della Francia.
— Così io faceva, o Sire, rispose Artù carezzando con
la punta delle dita il levriere del quale egli a prima vi-
sta avea già apprezzata la razza e la bellezza. E la colpa
non è mia se in questo momento mi trovo qui invece di
stare a piantare i tre gigli di Francia sulle mura di S. Ja-
mes di Beuvron.
— E qual cosa vi fa ritornare senza il nostro conge-
do?
— Molte domande che debbo indirizzare a Vostra Al-
tezza.
— Parlate, disse il re.
Artù si ravvicinò d’alcuni passi. Carlo gli offrì col
cenno di poter sedere, ma il contestabile fe segno che
volea rimanere all’impiedi.

106
— Sire, cominciò gravemente Artù non istarò a par-
larvi della casa di Brettagna; voi la conoscete, dappoi-
chè essa è di pari nobiltà della casa di Francia. Io son fi-
glio, voi lo sapete, del buono e prode Duca Giovanni
che riacquistò con la spada il suo paese di Brettagna
mentre che il Re perdeva il suo.
— Signor cugino! interruppe Carlo VII aggrottando il
ciglio.
Fido si coricò a’ piedi del Contestabile.
— Sire, continuò Artù, lasciate ch’io parli, e quando
avrò detto mi punirete, se ho torto. Allorchè il nobile
Duca padre mio morì, noi eravamo fanciulli; il Duca Fi-
lippo l’Ardito figlio di re come voi, o Sire, volle assume-
re la nostra tutela e ne menò nel paese di Piccardia, ma
presto anch’egli sen moriva ed io veniva affidato alle
cure dell’Illustrissimo Signor Duca di Berry altro figlio
del re, ed egli incaricò un bravo scudiere, ch’era del
paese di Navarra ed avea nome Peronit, di fare la mia
educazione militare alla quale il Duca vostro zio volle
egli stesso sorvegliare e con tanta cura quale se io fossi
stato suo proprio figliuolo. Siffattamente al tempo
dell’assassinio del Duca d’Orléans, nel 1407, io fui del
partito contrario al Duca di Borgogna. Era quello il mio
primo impegno, e da quell’epoca ho contratta l’abitudi-
ne di mantenere le promesse.
— Sì, io so che voi siete un leale servitore, o cugino.
Artù s’inchinò freddamente e continuò senza pur ri-
spondere all’elogio del Re.
— In guisacchè l’anno 1413 allorquando l’Illustrissi-

107
mo signor Duca di Borgogna e ’l re Carlo VI vostro ge-
nitore contro gl’interessi del regno posero l’assedio
avanti Bourges, io corsi in Brettagna a chieder soccor-
so, ed a prova di quanto dico, o Sire, aggiungo che io at-
taccai briga con Gilles mio minor fratello il quale era
Borghignone. Ciononpertanto io ottenni dal Duca Gio-
vanni mio primogenito 600 lance tra cavalieri e scudie-
ri. Eravi tra essi il visconte de La Bellière, Messere Ar-
me de Châteaugiron, e Messere Eustachio de la Mon-
naye: eletto e formidabile drappello, e capitani cotanti
prodi e gagliardi che sol passando, noi prendemmo
d’assalto Sillé-le-Guillaume, Beaumont, e Laigle.
— Mi rammento quelle gesta, o cugino, sebbene gio-
vanissimo io mi fossi allora, interruppe il re con visibi-
le movimento d’impazienza, ma Artù sembrò non farvi
attenzione, e continuò.
— L’anno 1415 alla prima richiesta del re Carlo VI e
non ostante ch’infossi stato occupato in assediare Par-
thenay, io tosto levai il campo da rimpetto la città per
andare ad affrontare il re d’Inghilterra il quale assedia-
va Hanfleur. L’Illustrissimo signore di Guienna mi diede
per tale impresa tutta la gente della sua casa ed i suoi
scudieri, ed io v’aggiunsi altri 500 tra cavalieri e scu-
dieri fra i quali vedevansi un Bertrand di Montauban, il
Sire di Cambour ed Eduardo di Rohan il quale portava
la mia bandiera. Sulle rive della Somma io raggiunsi
gl’Illustrissimi signori d’Orléans, di Borbone, d’Albret,
d’Alançon, de Brabant, de Névers e d’Eu. Il venerdì 26
ottobre 1415 i nostri battaglioni si riunirono ad Azin-

108
cours luogo troppo angusto per potervi combattere
tanti valorosi campioni e per tal cagione noi perdem-
mo quella giornata. Io fui fatto prigioniero dalla pro-
pria mano del re Errico, la corona del quale io infransi
con un colpo di accetta dopo avergli stramazzato a’ pie-
di suo fratello Clarence. Io gli giurai d’esser suo cattivo,
soccorso o nò ch’io fossi, finchè egli vivrebbe, e restai
cinque anni prigioniero in Inghilterra. Ritornai poscia
sulla parola di onore in Normandia ove amor mi prese
della signora di Guienna che io richiesi in isposa, ma la
quale mi fè rispondere che non avrebbe giammai im-
palmato un prigioniero. Io il soffrì pazientemente
quantunque immensamente l’amassi, ma non volli
romper la fede, e vi giuro, o Sire, ch’io mantenni la mia
parola finchè il re non morì, ciò che avvenne a’ 31 ago-
sto 1422 nel castello di Vincennes vicino Parigi. Da
quel giorno io divenni libero, chè, uomo vivente non
avea più nulla a ripetere da me. Allora io potetti ed im-
palmare madama di Guienna, ed offrire i miei servigi a
Vostra Altezza.
— Sì, cugino, noi ci vedemmo ad Angers, ed io vi offrì
la spada di Contestabile libera per la morte di Buchan.
— Il 7 marzo io la ricevetti dalla vostra mano, o Sire,
nelle praterie di Chinon, e ricevendola mi impegnai a
levare 20,000 uomini di guerra sulle mie terre a spese
mie, ed in ricambio. Sire, voi vi obbligaste a mandarmi
100,000 scudi per far fronte alle spese della campagna.
N’è vero?
— Sì, cugino.

109
— Io ho levato i 20,000 uomini a mie spese sulle
mie, terre, li ho menati in Normandia, ho preso Pontor-
sour, e ne ho passata a fil di spada la guarnigione, e di
là sono andato a mettere l’assedio d’avanti S. James-de-
Beuvron.
— So bene tutte queste cose, cugino, epperò maravi-
glio in vedervi quì.
— Mi vedete perchè vengo a rendervi la vostra spa-
da di Contestabile, e Sire, imperciocchè io ho mantenu-
to tutte le mie promesse, mentre voi avete mancato alle
vostre. Vi chieggo perdono di rendervela in sì cattivo
stato, continuò Artù, traendola dalla guaina ma essa si
è intaccata e spuntata a furia di dare sulle armature In-
glesi.
— Ho mancato alle mie promesse! disse il re guar-
dando la troncata spada che il Contestabile gli presen-
tava, ed a quali, o cugino?
De Giac fè un movimento per alzarsi ed uscire.
— Restate, disse il re, accennandogli di risedersi.
Non sentite che ne accusano? rimanete adunque per
difenderci.
Di Giac ricadde sul seggiolone.
— Non v’ha nessuna colpa in me, Sire, io ho fatto
quant’uomo mai poteva per sostentare la mia gente, ho
venduto a’ mercatanti di Rennes tutti i miei ori e tutta
la vassella d’argento. Ho fatto vendere fin la mia catena
ed i miei sproni che provavano esser io cavaliere, e fino
la corona del mio elmo la quale provava ch’io son con-
te, e le cui perle mi erano state donate da mia madre la

110
regina d’Inghilterra. Ma ciò non poteva bastare, nè ha
bastato, dappoicchè il mio esercito si è sbandato du-
rante la notte, per difetto di paga, appiccando il fuoco
agli alloggiamenti ed abbandonando bagagli, artiglierie
e macchine. Io mi sono slanciato appresso a que’ co-
dardi e felloni, mi son gettato alla testa de’ loro squa-
droni pregando e minacciando, ma essi non sentendo
nè preghi nè minacce mi hanno tirato giù da cavallo e
mi son passati sulla persona lasciandomi svenuto sulla
strada; e tanta vergogna o Sire non sarebbe venuta alla
casa di Brettagna, che vale quella di Francia, se Vostra
Altezza avesse serbata la sua parola.
— Ma in qual cosa ho mai mancato cugino? disse
Carlo VII alzandosi pallido dalla collera.
— Nel non mandarmi i 100,000 scudi che Vostra Al-
tezza m’avea promessi.
— Quanto mi dite mi sorprende e maraviglia; disse
Carlo rimettendosi a sedere e gettando uno sguardo su
Pietro di Giac; imperocchè, i 100,000 scudi sono stati
decretati a Meun-sur-Yévre da’ tre stati del regno, a tal
segno che un Vescovo chiamato Ugo Comberel ha so-
stenuto che questa tassa era una nuova angaria e che
passerebbe nelle mani dei miei favoriti invece di venire
impiegata alla gloria del reame. Que’ 100,000 scudi so-
no stati levati sopra le buone città e non sono certa-
mente rimasti nella nostra cassa, ove in questo mo-
mento, vi sono appena quattro scudi, e pruova ne sia
esser noi stati obbligati di far credenza per 40 lire col
cappellano che ha battezzato il Delfino Luigi.

111
— Ma che cosa dunque è addiventato quel danaro?
chiese Artù con maraviglia.
— Domandatene al cavalier di Giac, cugino, rispose
timidamente il re; egli deve saperlo, imperciocchè a lui
è stata la somma confidata.
— Ma, credo, disse spensieratamente il cavaliere,
scherzando con la sua catenella d’oro, e senza aspetta-
re la interrogazione di Richemont, credo che sia stato
impiegato una porzione nella compra de’ due magnifici
girifalchi che alcuni mercatanti di Ungheria ne hanno
recati; l’altra a rimontare a nuovo i nostri equipaggi da
caccia che erano ridotti in uno stato indegno d’un gran
Re, e ’l rimanente...
— Il rimanente, interruppe Artù tremando dalla col-
lera, a mettere a nuovo la casa della signora Caterina
dell’Ile Bouchard, la quale casa si trovava in uno stato
indegno della vedova del conte di Tunrenna e della
amante del Sire di Giac.
— Può darsi, rispose il cavaliere d’un tuono tra
l’imbarazzato e l’indolente.
Artù si inginocchiò a piedi del re vi depose il tronco
di spada che fino a quel momento avea stretto nelle
mani, e rialzandosi dignitosamente si mosse per uscire.
— Fermatevi, cugino, dissegli Carlo, trattenendolo,
noi non intendiamo di ritirar la nostra parola.
— Sire, riflettetevi bene; voi sapete quali sono le
prerogative del contestabile del Reame.
— Sì, cugino, noi sappiamo che esse sono quasi equi-
valenti a quelle del re.

112
— Voi sapete che fra i miei dritti v’ha quello di bassa
ed alta giustizia, e che i siniscalchi, ball, prevosti, scabi-
ni guardie e governatori di città, forti, castelli e fortez-
ze, ponti, porti e passaggi, ed infine tutti i vostri giusti-
ziri, mi debbono obbedienza come a voi stesso?
— Il so.
— E Vostra Altezza mi conferma in tali dritti che mi
ha conferiti con la sua lettera patente del 7 maggio
1424?
Il re raccolse la spada che era rimasta a suoi piedi e
porgendola a Richemont:
— Riponete questo acciaro nella sua guaina e noi ci
torremo soltanto l’incarico di farvi mettere un altra la-
ma che sia più di questa solida.
Richemont s’inchinò.
— Ora permettete, o Sire, che mi venghino date le
chiavi della città?
— E perchè mai?
— Poichè desidero d’andare a fare le mie devozioni a
nostra Donna du bourg di Deolz domani a punta di
giorno.
— Potete prenderle, disse il re.
— Ed ora che null’altro più ho a dirvi, o Sire, permet-
tete che io mi ritiri?
— Andate, o cugino, e che Dio vi guardi.
Il contestabile salutò profondamente il re e si ritras-
se accompagnato fino all’uscio da Fido che avealo pre-
so a ben volere.
L’indomani al far dell’alba stando già Artù di Riche-

113
mont nella chiesa di nostra signora del Borgo di Deolz,
e mentre il prete ascendeva l’altare uno Scudiero ven-
ne a dirgli che il Sire di Giac era stato arrestato a tenore
de’ suoi ordini, e che aspettavasi il suo beneplacito.
— Che Alaimo Giron e Roberto di Montauban lo
scortino con cento lance fino alle prigioni di Dunle-Roi;
appena che vi sarà giunto, il mio balio sa qual è il suo
ufficio. Andate. Quanto a voi Giovanni de la Boissière,
soggiunse il contestabile volgendosi ad un’altro scudie-
ro, partite per Bourges e prevenite il Boia che si porti
prontamente a Dun-le-Roi ove l’aspetta un incumbenza
che gli sarà ben pagato.
Dati questi ordini Artù si pose ginocchioni ad ascol-
tar devotamente la messa.

114
IV.

Presentemente è chiaro perchè Artù di Richemont


avea chiesto al Re le chiavi della città. Perchè temeva
che il Cavalier di Giac la notte sen fuggisse. Ma troppo il
capo de’ Consigli riposavasi sul favore di Carlo VII per
nutrir timore, e per conseguenza cercare a sottrarsi al
destino che l’aspettava. In guisacchè allorquando le
genti del contestabile penetrarono nella sua casa dopo
avere sfondata la porta a colpi d’accetta, lo trovarono
tranquillamente coricato e dormendo profondamente.
I soldati lo obbligarono a levarsi, e senza dargli altro
tempo che quanto ve ne volle per coprirsi d’una veste
da camera di velluto, il trascinarono fino alla porta del-
la corte ove trovossi un ronzino che a bella posta avean
coloro colà menato, e su cui il fecero cavalcare. Con-
temporaneamente arrivò lo scudiero recando gli ordini
del contestabile. La comitiva si mise in cammino verso
Dun-le-Roi, dopo tre ore il Sire di Giac era trasferito
nelle prigioni della città, e la sera istessa il Bailo legge-
vagli la sentenza di morte.
Di Giac l’ascoltò seduto in un angolo co’ piedi nudi
sulla pietra, i gomiti appoggiati sulle ginocchia e non so
se più nascondendo che sostenendo il capo fra le pal-
me.
Finita la trista lettura il Balio gli chiese se alcuna co-
sa desiderasse.

115
— Un prete, rispose cupamente di Giac.
E fu la sola parola che pronunziata avesse dal mo-
mento in cui venne arrestato, avendo ostinatamente ri-
cusato di rispondere agli interrogatori. Il Bailo uscì.
L’uomo di Dio entrando trovò il cavaliere nella stessa
postura e vedendo un abbondante sudore andargli per
la fronte prese ad esortarlo a sopportare con coraggio
la morte.
— Non è già che io temi la morte, disse di Giac; trop-
po spesso l’ho da vicino veduta perchè ora io ne abbia
paura. Anzi io la conosco, l’è una vecchia amica, e se ve-
nisse sola, pur la benedirei.
— La morte viene con la misericordia di Dio, figlio
mio, disse il prete.
— O con la sua vendetta, padre, rispose Giac.
— Abbiate fiducia in colui che è morto per disarmar-
la, continuò il monaco tirando da sotto lo scapolare un
crocifisso che presentò al cavaliere.
Quegli stese la destra per prenderlo ma non appena
l’ebbe toccato, mise un grido come se la croce fosse da-
ta di roventato ferro. Il crocifisso cadde per terra.
— Sacrilegio, esclamò il monaco.
— Non è sacrilegio, padre mio, ma obblio, rispose di
Giac. Avrei dovuto prendere questo crocifisso con la
mano sinistra, avvegnacchè la dritta è già dannata, e di
fatto vedete, aggiunse egli chinandosi e raccogliendo,
con l’altra mano la croce, e baciando la sacra imagine
con amore, vedete che non ho avuta intenzione d’insul-
tare al sacrosanto simbolo della nostra redenzione.

116
— Voi avrete dovuto essere un gran peccatore, figlio
mio, rispose il monaco.
— Tanto grande, che ho gran paura che non vi sia
perdono, per i miei delitti.
— Eppure voi siete giovane assai!
— Giovane di età, vecchio di cuore; gli anni fanno
camminare la vita, i dolori la fanno correre. Il tempo
non ha durata alcuna in se stesso considerato; ma la fe-
licità e l’infortunio lo dividono rispettivamente in mi-
nuti o in secoli E credetemi pure, o padre, sebbene io
non abbia neppure un cappello bianco sul capo, ben
pochi vegliardi hanno quanto me vissuto.
— I nostri dolori in questo mondo ci sono spesse
volte calcolati nell’altro, figlio mio; niente va perduto
per chi si pente, e l’aver voi domandato un prete è per
me una ragione da sperare che questo che vi umidisce
le gote che io ho dapprima reputato sudore del timore,
sia rugiada di rimorso e di pentimento.
— Io ho mandato per voi come l’ammalato pel medi-
co sebben sappia che la malattia sia mortale. Ho richie-
sto di voi perchè la speranza è tal cosa tanto tenace-
mente radicata nel cuor dell’uomo, che quando si estin-
gue per le cose di quaggiù si riaccende per l’avvenire
d’una nuova vita. Ho chiesto di voi finalmente poichè
sono 10 anni che racchiudo nel cuore così tremendi se-
creti, che è d’uopo che io m’avvezzi a dirli ad un morta-
le per poterli poi ripetere al cospetto di Dio.
Il monaco cercò collo, sguardo un poggio dove sede-
re.

117
— Sedete sopra questa pietra, dissegli di Giac, ce-
dendogli il posto e cadendo in ginocchio.
L’uomo di Dio s’assise.
— Un giorno, padre mio, io sono stato felice. I primi
cinque lustri di mia vita sono scorsi nella gioia e nel
piacere. Io era ricco., nobile e prode, ed era il favorito
del Duca Giovanni-senza-paura, il quale, voi il sapete
era il più potente Duca della cristianità.
— Sì, mormorò il frate, per disgrazia di questa pove-
ra terra di Francia.
— Ah! voi siete Delfinese?
— Sono stato allevato nell’amore a’ miei principi e
nell’odio agli Inglesi.
— Ed io non conosceva nè amore nè odio. Nò,
m’inganno, conosceva l’amore, ma non quello di cui mi
parlate, che, poco o niente mi premeva se uno o
un’altro tenesse il regno di Francia; che fossero i legitti-
mi signori o un re conquistatore, era tutt’uno per me,
basta però che il braccio di Caterina s’appoggiasse sul
mio, che i suoi occhi mi guardassero con tenera espres-
sione, che la sua bocca mi dicesse, io t’amo!... Io le addi-
venni sposo, tutta la mia vita si era trasfusa in questa
donna; tutta, tutta, padre mio, dalla gioia al dolore; dal
sorriso al singulto; e tutto avrei dato per essa non che
il mio grado, la mia fortuna, i miei tesori, la vita stessa,
la mia felicità, l’anima mia. Padre! quella donna
m’ingannava. Un giorno io sorpresi una lettera; la lette-
ra fissava un ritrovo. Io non volli prestar fede se non a
miei occhi stessi; io mi ascosi e vidi Caterina avanzarsi

118
appoggiata al braccio del suo amante con gli occhi per-
duti in quelli del mio rivale, io gl’intesi a scambiarsi la
parola, io t’amo, e l’amante, quel rivale, quel perfido
era colui ch’io rispettava come mio Signore, che amava
come padre. Era il Duca di Borgogna Giovanni senza
paura.
— Il suo più gran tradimento non è questo, figlio
mio.
— Grandi o piccoli li ha scontati tutt’insieme. Fui io
colui ch’il decise all’abboccamento di Montereau, io a
fare situare le tende in modo che non vi fosse barriera
tra le une e le altre, io a dare il segnale a Tanneguy Du-
châtel a Narbonne, ed a Roberto de Loire, e se dopo di
essi io nol ferii è perchè un ultimo colpo avrebbe posto
fine alla sua agonia, e mi avrebbe defraudato della vo-
luttà de’ suoi ultimi dolori.
— Il Duca meritava la morte; disse il frate aggrottan-
do le ciglia; l’assoluzione del Signore discenda sopra
coloro che ’l colpirono, imperciocchè in siffatto modo
essi han salvata la Francia!
— Ma non è tutto, padre mio; io avea punito un solo
de’ colpevoli, rimaneva ancora la sua complice; io dun-
que andai a trovarla. Ma è d’uopo ch’io tutto vi scopra!
Non sapete forse a quali eccessi di vendetta la gelosia
può spingere il cuor dell’uomo? Io versai con questa
mano un veleno nella coppa di quella donna per la qua-
le due anni prima io avrei data la vita mia; poscia quan-
do ella ebbe ingoiata la morte, la feci salire in groppa ai
mio cavallo legata strettamente alla mia cinta e così in-

119
catenatala slanciai il cavallo nella solitudine, nello spa-
zio, nella notte. Per due ore intere io sentî contorcersi
in orrendi spasmi quel corpo che aveva tante volte sol-
levato con delizia fra le mie braccia per risparmiargli la
menoma fatica. Durante due ore intesi a lamentarsi
quella voce il cui soave accento aveami tante volte fatto
balzar di gioia e di felicità. Finalmente dopo due ore io
più nulla intesi; tutto taceva intorno a me. Il cavallo
erasi fermato sulla riva della Senna, io smontai: Cateri-
na era spenta, io spinsi cavallo, e cadavere nel fiume e
tutto disparve.
— Per grande che fosse il suo delitto voi avete oltre-
passati i vostri dritti facendovi giustizia con le vostre
mani. Nello stato di vita ordinaria il vostro è un peccato
che il solo Santo Padre può rimettere, ma in punto di
morte, ogni ministro di Dio ha le stesse facoltà; sperate
adunque, figlio mio, che la misericordia di Dio è gran-
de.
— Allora, padre, io mi diedi a tutte quelle cose che il
mondo chiama gioia, piaceri, onori della vita. Dissolu-
tezze, gloria, ricchezze, tutto io esaurî. Gli uomini erano
stati sleali e senza onore per me, io fui senza fede e
senza onore verso di essi. Cosicchè io tradî chi m’ama-
va siccome era stato tradito da chi io amata avea. Ami-
ci, amante, patria, per me divennero vane parole che io
sacrificai al menomo capriccio. E questa vita, o padre,
durò dieci anni, dieci anni di dannazione che il volgo
credette di felicità, dieci anni durante i quali, non fuvvi
minuto che io non vedessi e di giorno e di notte il Duca

120
e Caterina, l’uno nelle braccia dell’altra; poco importa-
va che io dormissi o fossi desto, que’ due mi stavano
sempre davanti, tanto la loro rimembranza erosi radi-
cata nel mio cuore e faceva parte della mia stessa esi-
stenza. Eppure quando io passava sentiva a ripetere.
Ecco là il favorito, il potente, il fortunato!...
— E come mai que’ delitti rimasero celati agli occhi
del mondo?
— Perchè una potenza superiore a quella degli uo-
mini, aveami preso sotto la sua fatale protezione; giac-
che io tutto non vi dissi, o padre. In un momento di do-
lore, di disperazione, in un momento in cui io soffriva
tanto orribilmente che credeva doverne addirittura
morire, io promisi la mia mano destra a chi mi darebbe
i mezzi come vendicarmi.
— Ebbene? disse il frate.
— Il patto fu accettato, padre, mormorò di Giac dive-
nendo sempre più pallido. Ecco perchè mi sono io tan-
to ben vendicato, ecco perchè la mia vendetta è rimasta
occulta agli occhi degli uomini, ecco perchè allorquan-
do ho voluto prendere il crocifisso che voi mi offrivate,
la mia mano si è sentita abbrucciare come da fiamma
ardente.
— Indietro! sclamò l’uomo di Dio rabbrivedendo e
rizzandosi per terrore in un angolo della prigione, in-
dietro! tu hai fatto alleanza con Satana!
— Padre!
— Non t’avvicinare, o maledetto! Lo stesso Santo Pa-
dre non potrebbe assolverti ancorchè il volesse, impe-

121
rocchè laddove anche aprisse al tuo corpo la porta del
Cielo, sempre la tua destra arderebbe eternamente
nell’inferno. Lasciami andare, chè, non v’ha più mestie-
ri di me in questo luogo.
Di Giac lo fè passare, e ’l frate avanzossi verso la por-
ta...
— Ebbene! malgrado le mie preghiere, il mio penti-
mento; i miei rimorsi, tu neghi d’assolvermi, o prete,
disse di Giac.
— Nol posso, rispose il monaco, finchè la tua mano
diritta sarà aderente al tuo corpo.
— Ebbene! sclamò di Giac, prete, rendimi un ultimo
servizio.
— E quale? disse il monaco aprendo la porta:
— Mandami il boia, e quando il vedrai uscire, tu
rientra.
E di Giac si risedette tranquillamente sulla pietra ove
il monaco l’avea trovato.
— I vostri desiderî saranno soddisfatti.
E s’intese il rumore de’ sandali del frate perdersi
gradatamente nel corridoio.
Di Giac rimasto solo, tolse alla sinistra quante anella
vi erano e li passò alle dita della mano diritta. Come fi-
niva quell’operazione, entrò il boia, di Giac gli andò in-
contro.
— Ascolta! dissegli; eccoti intorno a queste dita me-
glio che 200 scudi tra oro e pietre preziose. Tal valore
io potrei darlo ad un prete perchè ne dica messe per la
salvezza dell’anima mia.

122
Di Giac fece una pausa e guardò gli occhi del carnefi-
ce che già scintillavano per cupidigia.
— Or bene! continuò lei rialzando la manica della
sua veste e situando il braccio sul tronco di una colon-
na che stava in mezzo al carcere; prendi la tua spada,
tronca questa mano, e le anella saranno tue.
Il Boia sguainò lo spadone senza dir mezza parola, lo
rotò due volte in aria per prendere il tempo ed alla ter-
za tagliò netta la mano del Sire di Giac; poscia racco-
gliendola da terra la ripose nella sua tasca di cuoio ed
uscì. Dopo un istante il frate entrò.
— Ora, o frate, dissegli di Giac andandogli incontro, e
mostrandogli il mutilato polso da cui sgorgava un rivo
di sangue, ora puoi darmi l’assoluzione, quella mano
non v’è più.
E il monaco l’assolvette.
L’indomani il Sire di Giac fu gettato nel fiume ed an-
negato.

FINE.

123
PRASSEDE
PER

ALESSANDRO DUMAS

1a VERSIONE ITALIANA

124
I.

LA CONSACRAZIONE.

Il giorno innanzi della Pasqua dell’anno 1099, era un


giorno di gran festa per la nobile città di Barcellona.
N’era causa che il giovine conte Raimondo Berénger
III che da un’anno avea ereditato il sovrano potere,
pensando che i suoi sudditi erano stati immersi in una
lunga e profonda tristezza per cagione della morte del
conte suo padre, egli dovea, venendo la Pasqua, sceglie-
re quel santo giorno per far rinascere nella persona di
lui la defunta sovranità. Epperò, avea, pel detto giorno,
convocato, mercè appositi inviti, nella sua buona città
di Barcellona, i prelati, i baroni, i cavalieri, gli amba-
sciatori delle corti straniere, annunciando loro che in
loro presenza egli si farebbe armare cavaliere, e terreb-
be sull’altare e poserebbe sul di lui capo la ghirlanda di
rose di oro, ch’era la corona de’ conti di Aragona.
Onde nel suddetto giorno, non solamente tutt’i pre-
lati, baroni e cavalieri di Spagna, ma altresì un conside-
revole numero di principi e di signori stranieri eransi
condotti a tale festa. Il giudice e l’arcivescovo di Arbo-
rea vi erano venuti da Sardegna; il re di Aragona da Sa-

125
ragozza; quello di Castiglia da Madrid. I re mori di Tle-
mecene e di Granata, non potendovi assistere di perso-
na, avevano mandato dei ricchi doni consistenti in pre-
ziosi monili, in gioie e vesti sorprendenti di broccato di
oro. Finalmente, l’assemblea era tanto numerosa, come
l’abbiam detto, il giorno innanzi di Pasqua, che conta-
vansi circa un trentamila cavalieri della prima aristo-
crazia del mondo, nella città di Barcellona e dei suoi
dintorni.
Fin dal mattino, il signor conte Raimondo Berénger
III avea fatto pubblicare a suon di tromba che all’ora di
mezzodì, ed al primo tocco di campana che annuncie-
rebbe il suo arrivo, tutti dovessero abbandonare le gra-
maglie, radersi la barba e disporsi alla festa. Onde ap-
pena che udissi lo scampanare di tutte le campane,
ognuno si dispose a seconda de’ regi ordini; in maniera
che le vie, le quali un’ora innanzi erano triste e silen-
ziose, si trovarono in un’istante, pien di gente e di ru-
mori; dappoichè eransi aperte a vicende le barriere e le
porte, ed i cavalieri forestieri erano entrati nella città,
ed i borghesi erano usciti dalle loro case.
E nullameno non vi era in Barcellona che solamente
quelli che non aveano potuto essere invitati al palagio
di Aljaferia; e, siccome abbiam detto, la loro affluenza
era tanto grande, che il conte era stato obbligato di de-
cidere ch’egli non riceverebbe alla di lui tavola e nel di
lui castello, che solamente i re o inviati di re, governa-
tori di provincia, arcivescovi, principi, duchi o conti; ed
oltre a questi ed al loro seguito, vi erano quattromila

126
persone che si erano trovate avere il diritto di essere
ospiti e convitati del signor conte di Barcellona.
Tutto il giorno questa moltitudine percorse la città,
visitando le chiese, fermandosi dinanzi ai ciarlatani;
ma quando giunse la sera, ciascuno s’incamminò verso
il palagio del conte, situato lungi due miglia dalla città,
giacchè, la stessa sera, il conte doveva fare la veglia del-
le armi. Lungo la via, de’ gran falò erano stati accesi per
illuminare il corteggio, e per timore che questi fuochi,
non fossero tolti, e non rimanesse qualche sito oscuro,
i loro posti erano stati stabiliti anticipatamente, ed era
severamente vietato, sotto alcun pretesto di toglierli.
Quando suonò l’ora di vespro, si accesero tutti que’
falò, come chè fosse tuttavia giorno, di guisa che in un
istante una lunga linea di fiamme si distese dal palagio
di Aljaferia fino alla chiesa di San Salvatore; poscia nel-
lo stesso momento degli araldi portando le bandiere
del conte, percorsero tutta quella via onde il popolo si
allogasse da’ due lati della strada, e non impedisse in-
verun modo il corteggio di potersi avanzare.
All’ultimo tocco della campana del vespro, la porta
del palagio si aprì in mezzo alle grida di allegrezza del-
la moltitudine, che aspettava da mezzodì.
I primi che comparvero furono i figli de’ più nobili
cavalieri della Catalogna, eglino erano a cavallo e por-
tavano le spade da’ loro padri, rese celebri e tutte in-
taccate ne’ tornei o nelle battaglie, ognuna delle quali
avea un nome, come la spada di Carlomagno, di Renato
e di Orlando.

127
Dietro di loro venivano gli scudieri de’ cavalieri che
dovevano essere armati nella giornata dell’indomani,
eglino portavano nude le spade de’ loro padroni: que-
ste al contrario delle prime erano vergini e brillanti;
ma sapevasi che nelle mani che dovevano riceverle,
perderebbero subito la loro verginità nel sangue ed il
loro lustro nella battaglia.
Di poi veniva la spada del signor conte, fatta a foggia
di croce per ricordargli continuamente di esser egli
stato soldato di Dio prima di essere principe della ter-
ra: questa era la più doviziosa e la meglio guarnita spa-
da che abbia forse giammai portata conte, re o impera-
tore; e questa aspettando di passare nelle mani del suo
padrone, era in quelle del vecchio D. Giovanni Ximénès
della Roca, uno de’ più valorosi cavalieri del mondo, il
quale marciava egli stesso tra due cavalieri ch’erano, il
barone Guglielmo di Cervallo, ed il signor Ottone di
Moncada.
Dopo la spada del signor conte, venivano due carri
delle sue scuderie, carichi di torce, e portando ognuno
oltre a dieci quintali di cera ch’egli offriva in dono alla
chiesa di San Salvatore, avendo fatto voto di un cero
che avesse fatto il giro della città di Barcellona; e ciò,
perchè essendo stato costretto di rimanere ne’ suoi
stati per causa della malattia di suo padre, non avea
potuto partire per la crociata; il che gli avea recato un
gran dolore come cavaliere, ed un gran rimorso come
cristiano. Queste torce erano accese, quantunque non
vi fosse stato punto bisogno, tanto i falò gettavano co-

128
piose fiamme.
Dopo questi due carri, veniva il signor conte in per-
sona, cavalcando un bel destriero coperto da una ma-
gnifica bardatura; il conte era un bel giovane di circa
diciannove anni, con de’ lunghi capelli che gli cadevano
da ambo le parti sulle spalle, e ritenuti sulla fronte da
un filo di oro. Egli indossava il suo giustacuore di guer-
ra, mentre durante la veglia dovea rivestirsi della co-
razza; ma questo giustacuore era nascosto da un gran
mantello di drappo di oro che cadevagli fin sulle staffe.
Dietro a lui venivano le sue armi portate da due nobili,
le quali consistevano in un elmo colla visiera abbassa-
ta, una sopravvesta di maglia di acciajo ed oro, ed uno
scudo sul quale era incisa la ghirlanda di rose, segno
del sovrano potere presso i conti di Barcellona. Colui
che portava queste armi era accompagnato da due altri
nobili che chiamavansi uno, Ruggiero conte di Pallars, e
l’altro Alfonso Ferdinando, signore d’Ixer; ed entrambi
tenevano la loro spada nuda, come per difendere quel-
le regie armi, come avrebbero fatto in un giorno di bat-
taglia, se esse avessero coperto il capo ed il petto del
loro nobile padrone e signore.
Dopo le armi del conte, venivano, a due a due, i nobi-
li che dovevano armarsi cavalieri; eglino erano in nu-
mero di dodici, e dovevano alla loro volta, subito che ne
avrebbero ricevuto l’ordine, armare ciascuno dieci ca-
valieri; e questi centoventi li seguivano cavalcando del
pari a due a due su’ loro belli cavalli coperti di drappi
di oro e di magnifiche bardature.

129
Di poi dietro ad essi, dappoichè eglino aveano la pre-
cedenza sopra tutti, quali eroi della festa, venivano, se-
guendo il lor grado ed a quattro a quattro, primiera-
mente i prelati, poscia i re ed inviati de’ re, poscia i du-
chi, poscia i conti, poscia i semplici cavalieri, divisi gli
uni dagli altri da musicanti che facevano risuonare
l’aria del suono delle loro trombe, de’ loro timpani e
de’ loro flauti. Quest’ultimo gruppo era seguito da una
moltitudine di giullari, vestiti da selvaggi, correndo a
piedi o cavalcando de’ cavallini senza sella e senza bri-
glia, di cui servivansi per i loro giuochi, e che facevano
manovrare al suon della voce: tutti facendo tale schia-
mazzo, che se qualcuno gli avesse uditi senza conoscer-
ne la causa, gli sarebbe paruto che il cielo e la terra si
abissassero.
Così e per la grazia di Dio, alla luce de’ falò che can-
giavano la notte in giorno, al rumore i più assordanti
de’ tamburi, de’ timballi, delle trombe ed altri istru-
menti, alle grida de’ giullari e degli araldi, che gridava-
no tutti: Barcellona! Barcellona! si giunse alla chiesa di
San Salvatore. Comechè non vi fosse stato, siccome ab-
biam detto, che sole due miglia, il corteggio avea mar-
ciato sì lentamente, affinchè ognuno avesse avuto l’agio
di poterlo vedere, che suonava mezzanotte quando il
conte poneva piede a terra sotto l’atrio ove lo aspettava
con tutto il suo clero l’arcivescovo di Barcellona, che
dovea consacrarlo l’indomani.
Allora tutt’i nobili che dovevano essere armati
l’indomani, col signor conte alla testa, entrarono in

130
chiesa e fecero insieme la veglia delle armi, recitando
le orazioni. Passarono in tal guisa tutta quella fortuna-
ta notte durante la quale eglino udirono divotamente il
mattutino, a cui assistettero gli arcivescovi e vescovi,
priori ed abati, che recitarono tutte le loro ore con tale
raccoglimento, che fu una edificazione per tutti gli
astanti.
Quando venne il dì, aprissi la chiesa ai fedeli, e tosto
si empì in modo ch’era davvero una maraviglia come
tante creature umane potessero stare senza soffocarsi
in un simile spazio. Allora l’arcivescovo si rivestì, per
dire la messa, ed il conte, alla sua volta, s’indossò una
cotta come s’egli si accingesse a servirla, di poi al di so-
pra della cotta si pose la più ricca tonicella, in seguito
passò al suo collo una stella tanto magnifica e tanto so-
praccaricata di perle e di pietre preziose, che sarebbe
impossibile di dire quello che valesse; finalmente, tolse
il manipolo, ch’era del pari splendidissimo e ad ogni,
vestito ch’egli indossava, l’arcivescovo ripeteva un’ora-
zione. Avendo compiuto tutto ciò, l’arcivescovo inco-
minciò la messa: e quando, l’epistola fu terminata, egli,
per un istante si fermò, in quella che al grave e sonoro
suono dell’organo, i due patrini del conte, ch’erano uno
D. Giovanni Ximénès de la Foca, e l’altro Alfonso Ferdi-
nando signor d’Iser, si avvicinarono a lui, ed il primo gli
calzò lo sprone destro, e l’altro il sinistro. Allora il con-
te si avvicinò all’altare, s’inginocchiò dinanzi al taber-
nacolo, e disse sommessamente un’ orazione, mentre
che l’arcivescovo, in piedi accanto a lui, pregava ad alta

131
voce. Finalmente compiuta questa preghiera egli riti-
rossi, tolse la spada sull’altare, baciò umilmente la cro-
ce che ne formava l’impugnatura, la cinse, attorno de’
di lui lombi, e quando una tal cosa fu compiuta, tiran-
dola dalla guaina, la brandì tre volte. Alla prima, sfidò
tutt’i nemici della santa fede cattolica; alla seconda,
giurò di soccorrere tutti gli orfani, i pupilli e le vedove;
alla terza, promise di rendere giustizia durante l’intera
sua vita, del pari ai grandi che ai piccioli, del pari agli
estranei che ai suoi propri sudditi.
A quest’ultimo giuramento una voce piena e sonora
rispose: Amen; ed ognuno si volse per vedere da donde
venisse, e questa voce era quella di un giullare proven-
zale che erasi introdotto in chiesa, e che volevano scac-
ciare per non essere degno di trovarsi in così buona
compagnia; ma il conte avendone chiesto la ragione, ed
avendola saputa, ordinò che lo lasciassero tranquilla-
mente al suo posto, dicendo che in un momento simile
egli non doveva respingere alcuna preghiera, di nobile
o di plebeo, di ricco o povero, di forte o debole, purchè
essa uscisse da un retto e ben intenzionato cuore. Il
giullare fu dunque lasciato in pace, ed il signor conte,
avendo riposto la spada nella guaina, offrì la sua perso-
na e la sua spada a Dio, pregandolo di tenerlo sempre
sotto la sua santa custodia, e di accordargli la vittoria
contro tutt’i suoi nemici. Allora l’arcivescovo l’unse del-
la santa cresima sulla spalla e sul braccio destro. Subito
egli prese la corona sull’altare, e la posò sul suo capo,
ove i suoi due patrini la fissarono. Nello stesso tempo

132
gli arcivescovi, i vescovi, gli abati, i principi ed i due pa-
trini del conte esclamarono ad alta voce: Te Deum lau-
damus, e mentre ch’eglino intonavano questo canto, il
signor conte prese lo scettro d’oro colla mano sinistra
ed il globo colla destra, e li portò così, fintanto che durò
il Te Deum e l’evangelio. Si ripose in seguito sull’altare
ed andò a sedersi sulla sedia contale, ove passarono a
sè dinanzi i dieci nobili ch’egli armò l’un dopo l’altro
cavalieri, e che si condussero tosto ciascuno in una del-
le dodici cappelle, ove armarono alla lor volta ciascuno
dieci cavalieri.
Terminata la cerimonia, il conte, colla corona sul ca-
po, riprese di bel nuovo il globo nella sua mano destra,
e lo scettro nella sinistra, ed in tal guisa coronato e
portando le insegne del potere, uscì dalla chiesa e ri-
montò sul suo cavallo, rivestito della tonicella, della
stella e del manipolo. Ma siccome non poteva guidare
da se stesso il cavallo, all’estremità del suo freno erano
legate due paja di redini; un pajo, e questo era quello
che stava dal lato sinistro, era tenuto da’ due patrini; le
altre redini ch’erano di seta bianca, e che avevano oltre
a quaranta piedi di lunghezza ognuna, erano tenute da’
baroni, da’ cavalieri e da’ più notevoli cittadini della Ca-
talogna; e dopo questi venivano i sei deputati di Valen-
za, i sei di Saragozza ed i quattro di Tortosa; tutti quelli
che tenevano le redini, sia a destra, che a sinistra mar-
ciavano a piedi in segno di rispetto e d’inferiorità. In tal
guisa, e seguendo lo stesso ordine e la stessa via, il si-
gnor conte, sempre accompagnato dallo stesso corteg-

133
gio, ed in mezzo alle grida ed alle trombe rientrò verso
le ore nove nel suo palagio d’Aljaferia dal quale egli
n’era uscito il giorno innanzi dopo il vespro. Giunto co-
là, smontò da cavallo, ed entrò nella sala del pranzo,
ove gli si era preparato un trono elevatissimo in mezzo
a due sedili di oro, su’ quali egli depose lo scettro e la
corona. Allora i suoi due patrini si sedettero poco di-
stante da lui, ed a canto a loro i re di Aragona e di Casti-
glia, l’arcivescovo di Barcellona, l’arcivespovo di Sara-
gozza e quello di Arboise; di poi ad un’altra tavola si se-
dettero alla loro volta, i vescovi, i duchi e tutt’i nobili
ch’erano stati fatti cavalieri quel giorno; finalmente
presero posto i baroni, gl’inviati delle varie province ed
i più notevoli cittadini di Barcellona, tutti in bell’ordi-
ne, dappoichè i loro posti gli erano stati assegnati a se-
conda de’ loro gradi, ed eglino avevano per servirli, de’
nobili servi e de’ figli di cavalieri.
In quanto al signor conte, egli era servito da dodici
nobili, ed il suo maggiordomo era il barone Guglielmo
di Cervallo, il quale venne, portando un piatto e can-
tando una canzoncina, accompagnato da dodici nobili
che ciascuno recava delle svariate piatanze e risponde-
vano tutti cantando. Finita la canzone, egli posò il piat-
to dinanzi al conte e ne tagliò un pezzo che gli porse; di
poi togliendosi il mantello e la cotta di drappo d’oro fo-
derata di ermellino ed ornata di perle, le donò ad un
giullare. Immantinenti, gli si portarono degli altri ricchi
vestiti ch’egli indossò, ed andò in compagnia de’ dodici
nobili a cercare la seconda portata. Un istante dopo

134
egli ritornò cantando una nuova canzone e portando
delle altre piatanze, e questa volta come l’altra, dopo
aver tagliato e servito, donò di bel nuovo gli abiti che
indossava, ad un’altro giullare; e vi furono dieci porta-
te, ad ognuna delle quali, egli fu così liberale; il che fu
sommamente approvato da tutta quella nobile assem-
blea.
Dopo essere rimasto quasi tre ore a tavola il conte si
alzò; riprese il globo e lo scettro, e passando nella con-
tigua camera, andò a sedersi su di un elevato trono. Ac-
canto a lui sedettero i due re, ed intorno, su gli scalini
del trono, i baroni, i cavalieri ed i notevoli cittadini. Al-
lora un giullare si appressò, e cantò una nuova serven-
tese da lui composta, intitolata: La corona, lo scettro ed
il Globo.
Questa serventese che il conte parve udire con pia-
cere, e da principe che, comprendendone bene il senso,
promettesi di porla in opera, fu seguita da una nuova
canzone, che cantò un’altro giullare, e da un poema che
recitò un terzo; dopo essersi finito il canto e la poesia,
il re riprese il globo e lo scettro, e salì nella di lui came-
ra per riposarsi, giacchè ne avea ben duopo; ma quan-
do stava per togliersi il regio manto, gli si venne ad an-
nunziare che un giullare voleva assolutamente parlar-
gli, dovendogli palesare una nuova del più grande inte-
resse, e che non soffriva il più che minimo indugio.
Il conte ordinò che fosse immantinenti introdotto.
Il giullare entrò, ed avendo fatto due passi nella ca-
mera, piegò un ginocchio.

135
— Parla, gli disse il conte.
— Piaccia dapprima a vostra signoria, rispose il giul-
lare, di ordinare che ne lasciassero soli. Raimondo Bé-
rengèr fece un segno e tutti partirono.
— Chi sei? chiese il conte quando la porta fu richiusa
dietro all’ultimo de’ suoi servi.
— Sono, rispose il giullare, colui che à risposto
Amen quando oggi, nella chiesa di San Salvatore, avete
con questa spada in mano, promesso di far giustizia
durante l’intera vostra vita, del pari ai più grandi che ai
più piccoli, del pari agli stranieri che ai vostri propri
sudditi.
— Ed in nome di chi mi chiedi giustizia?
— In nome dell’imperatrice Prassede ingiustamente
accusata di adulterio, da Guntramo di Falkembourg e
Gualtiero di Than, e condannata da suo marito l’impe-
ratore Errico IV a morire nel corso di un’anno ed un
giorno, se non si presenta un campione per difenderla.
— E come à ella scelto per una simile missione un
così strano messaggiere?
— Perchè nessuno eccetto che me forse povero giul-
lare, avrebbe osato esporsi all’ira di un così potente im-
peratore come lo è Errico IV, ed alla vendetta di due ca-
valieri tanto formidabili come sono Guntramo di Fal-
kembourg e Gualtiero di Than; e per fermo, se non
l’avessi fatto da me stesso, se non ne fossi stato ordina-
to dalla mia giovane signora, la marchesa Dolce di Pro-
venza, che è una dama tanto garbata e buona, in modo
che nessuno le si può negare, e che mi à ordinato di

136
pormi in cerca di un cavaliere valoroso e di tanta fama
per venire a difendere la sua sovrana, quella sventurata
non avrebbe avuto chi a lei avesse pensato. Allora io
son partito, andando da città in città, da castello in ca-
stello; ma adesso tutta la valorosa cavalleria è in terra
santa, di modo che ò invano percorso l’Italia e la Fran-
cia, sempre cercando un campione a quella sventurata
principessa e non trovandolo in alcuna parte. Ho udito
a parlar di voi, altezza, siccome di un valoroso ed av-
venturoso cavaliere, e mi son posto in viaggio per Bar-
cellona, ove son giunto oggi stesso. Ho chiesto dove
eravate, e mi si è risposto, in chiesa; vi sono entrato, al-
tezza, appunto quando voi tenevate questa nobile spa-
da in mano giurando di far ragione sì ai grandi che ai
piccoli, sì ai forti che ai deboli, sì agli stranieri che ai
vostri propri sudditi, è mi è paruto essere la mano di
Dio che mi conduceva a voi in un simile momento, ed ò
gridato: Così sia.
— Così sia dunque, soggiunse il conte, mentre per
l’onore del mio nome, e l’ingrandimento della mia fa-
ma, in nome d’Iddio, io intraprenderò questa avventu-
ra.
— Grazie vi siano rese, altezza, rispose il giullare, ma
salvo il vostro buon piacere, il tempo incalza, giacchè
già sono scorsi dieci mesi dopo il giudizio emanato
dall’imperatore, e non rimane più all’accusata che due
mesi ed un giorno, qual tempo è quello appena che ci
basta per condurci a Colonia.
— Ebbene, disse il conte, lasciamo terminare le feste

137
che dovranno finire giovedì sera; venerdì renderemo
grazia a Dio, e sabato ci porremo in viaggio.
— Che sia fatta la vostra volontà, o altezza, rispose il
giullare ritirandosi.
Ma innanzi di partire, il conte Raimondo staccò dalle
sue spalle e gli pose attorno al collo una magnifica ca-
tena di oro che valeva bene cinquecento lire, dappoichè
il signor conte era un principe tanto splendido quanto
valoroso, in maniera che i suoi contemporanei lo ànno
soprannominato Grande e che la posterità gli à lasciato
il nome che gli avevano dato i contemporanei.
Ed inoltre, costui era un uomo religioso, giacchè
quelle feste, di cui chiedeva al giullare di aspettare la fi-
ne, erano state date appunto ne’ giorni pasquali sì per
festeggiare la risurrezione di Nostro Signore, che per la
sua ascensione al seggio ducale; onde, dice il cronista
dal quale togliamo questi particolari, il venerdì mattina
sopavvenne, per la grazia d’Iddio, un’abbondante piog-
gia che circondò tutta la Catalogna, l’Aragona, il regno
di Valenza e di Marcia, e che durò fino alla fine del gior-
no. Così la terra che ne avea gran bisogno, ebbe del pari
il suo compimento di gioja, affinchè nulla non mancas-
se ai presagi di un regno che fu uno de’ più grandi, e de’
più felici de’ quali la nobile città in Barcellona abbia
conservato il ricordo.

138
II.

IL CAMPIONE

L’imperatore Errico IV di Alemagna, era a quell’epo-


ca uno de’ più sventurati principi che fosse sul trono.
L’anno 1056, in età di sei anni, egli era succeduto a suo
padre Errico il Nero, e la dieta avea dato ad Agnese
d’Aquitania l’amministrazione degli affari pubblici du-
rante la sua minorenne, ma i principi e baroni di Ale-
magna umiliati di obbedire ad una donna straniera,
eransi ribellati contro l’Impero, ed Ottone, margravio
di Sassonia, avea incominciato quella serie di guerre ci-
vili, in mezzo a cui Errico, sempre armato, sia contro i
suoi vassalli, sia contro i suoi zii, sia contro il proprio
figliuolo, doveva consumare l’intera vita, ora da impe-
ratore, ora da fuggitivo, oggi da proscrittore, domani da
proscritto. Dopo avere deposto papa Gregorio VII; do-
po avere, in espiazione di questo sacrilegio, attraversa-
to in pieno inverno, gli Appennini a piedi, con un basto-
ne in mano come un mendico; dopo avere aspettato tre
giorni nel cortile del castello di Canossa, senz’abiti,
senza fuoco, senza pane, che piacesse a Sua Santità di
aprirgliene la porte, era stato alla fine ammesso alla

139
sua presenza, gli avea baciato i piedi ed avea giurato
sulla croce di sottoporsi alla sua decisione. A questo
prezzo, il papa lo avea assoluto dal sacrilegio; ma allora
i baroni lombardi lo aveano accusato di viltà. Minaccia-
to da essi di essere deposto, se non avesse infranto
quel vergognoso trattato a cui allora avea acconsentito,
avea accettato la loro alleanza; ma mentre ch’egli con-
chiudeva un tal patto, i baroni di Alemagna aveano
eletto imperatore Rodolfo di Svevia. Errico ch’era venu-
to in Italia da supplicante, era ritornato in Alemagna da
soldato, e quantunque fosse scomunicato, e che Rodol-
fo suo rivale avesse ricevuto da Gregorio VII una coro-
na d’oro, in segno d’investitura temporale, ed una bolla
che invocava la maledizione del cielo sul suo nemico,
egli lo avea sconfitto ed ucciso alla battaglia di Wol-
skeim, presso di Gera. Allora, egli si volse vincitore e
furioso contro l’Italia, conducendo seco lui il vescovo
Guiberto che aveva fatto eleggere papa. Questa volta
gravi timori assalirono Gregorio, giacchè egli non dove-
va aspettarsi più misericordia di quello ch’egli non
avea occordato grazia, epperò al suo appressarsi, erasi
chiuso in Roma, e quando Errico giunse in vista delle
mura dell’eterna città, trovò un inviato di Gregorio, che
gli faceva proporre l’assoluzione e la corona. Errico ri-
spose impadronendosi di Roma. Allora il papa rifug-
giossi in castel Sant’Angelo. Errico lo perseguito fin co-
là, stabilì il blocco, e sicuro che il suo nemico non po-
tesse sfuggirgli, pose sul trono di san Pietro l’antipapa
Guiberto, e ricevè dalla sua mano la corona imperiale.

140
Fu allora ch’egli apprese la nuova che i Sassoni aveano
eletto imperatore Ermano, conte di Lussemburgo. Erri-
co ripassa gli Appennini, sconfigge i Sassoni, sottomet-
te la Turingia e s’impadronisce di Ermano, al quale
concede di vivere e di morire ignorato in un’angolo
dell’Impero. Ritorna subito in Italia, ove fa eliggere suo
figlio Corrado re dei Romani. Credendo la pace bene
assicurata da questa parte, ritorna a rivolgere le sue ar-
mi contro la Baviera ed una parte della Svevia, rimaste
ribelle e non domate. Suo figlio, ch’egli avea nominato
re, e che sogna l’impero, si ribella, arrolla delle milizie
e fa scomunicare una seconda volta suo padre da papa
Urbano II. Errico convoca una dieta ad Aix-la-Chapelle,
mostra a nudo il suo paterno cuore, tutto lacerato dalla
ribellione di Corrado, e chiede che Errico, suo secondo-
genito, sia eletto, al posto di suo fratello, re dei Romani.
In mezzo di una seduta, egli riceve un avviso misterio-
so. La sua presenza è necessaria a Colonia, ove avvi un
segreto di grandissimo rilievo da palesargli. Errico ab-
bandona la dieta. Due de’ più nobili baroni dell’Impero,
Guntramo di Falkembourg e Gualtiero di Than, lo
aspettano alla soglia del suo palagio. Errico gl’invita di
entrare seco lui, e conducendoli nella sua camera, e
scorgendo la loro fisonomia trista e severa, lor chiede
perchè siano sì tristi e diffidenti.
— Perchè la maestà del trono è in periglio, risponde
Guntramo.
— E chi ve l’à messa? chiede Errico.
— L’imperatrice Prassede, vostra sposa! risponde

141
Guntramo.
A tali detti, Errico impallidì e tremò, giacchè questa
imperatrice Prassede ch’ègli avea sposato da due anni
solamente, e per la quale avea a vicenda un amore di
sposo e di padre, era l’unica persona a cui era tenuto di
quelle poche ore di riposo e di felicità ch’egli avea gu-
state in mezzo di quella fatale e maledetta vita che noi
abbiamo raccontata; ragione per cui ebbe d’uopo di un
momento per richiamare le forze del di lui cuore e
chiedere ciò che ella avesse fatto.
— Ha fatto di tali cose che non possiamo soffrire per
l’onore del trono imperiale, rispose Guntramo, e che ci
meriterebbero il nome di traditori verso il nostro si-
gnore se esiteremmo a dirgliele.
— Ma alla fine che mai à ella fatto? chiese una secon-
da volta Errico.
— Ha, in vostra assenza, soggiunse Guntramo inco-
raggiato l’amore di un giovane cavaliere, e tal cosa tan-
to pubblicamente da destare i mormorî dell’universale.
Errico si appoggiò alla spalliera di una seggiola per
non cadere, dappoichè avea, un mese innanzi, ricevuto
una lettera dell’imperatrice in cui ella gli annunziava
con una gioia puerile di avere la speranza di essere ma-
dre, e tal nuova l’avea messo in un estremo contento.
— E dove mai si trova cotesto cavaliere? chiese Erri-
co.
— Egli à abbandonato Colonia nella stessa guisa co-
me vi era venuto, tutto ad un tratto e senza che si fosse
saputo dove fosse andato. In quanto al suo paese e suo

142
nome, egli non lo à detto a nessuno, ma voi potrete
chiederlo all’imperatrice, mentre suppongo che se
qualcuno può saperlo, questo per fermo sarà lei.
— Bene, disse Errico; entrate in questo gabinetto.
I due signori obbedirono. Allora l’Imperatore chiamò
un ciamberlano, e gli ordinò di far venire l’Imperatrice.
Di poi rimasto solo, questo eletto della sventura che
avea tanto sofferto, ed al quale rimaneva tanto tuttavia
a soffrire, mancò di forza e cadde su di una sedia. Egli
che aveva sopportato intrepidamente la guerra civile,
la guerra straniera la scomunica romana e la ribellione
filiale, sentivasi annichilire da un dubbio, il suo capo
che avea portato quarantacinque anni la corona, e che
non erasi piegato sotto tale peso, s’indebolì sotto quel-
lo di un sospetto, si curvò come se la mano di un gigan-
te avesse pesato su di esso. Per poco il vecchio dimenti-
cò tutto, impero, guerra, maledizione, rivoluzione, per
non pensare più che a questa donna, ch’era l’unico es-
sere umano in cui egli avea riposto la sua fiducia, e che
lo avea ingannato più indegnamente ancora che gli al-
tri, ed una lagrima scorse dal suo ciglio sulle di lui inca-
vate guance. La verga dell’infortunio avea colpito sì
profondamente la roccia, che, ne avea fatto sgorgare
una sorgente occculta ed ignota.
L’imperatrice entrò, ignorando qual causa avesse ri-
condotto Errico, e si appressò con un passo tanto leg-
giero ch’egli non l’udì venire. Questa era una bella don-
zella del Nord, dagli occhi turchini e dalla tinta di neve,
bionda e delicata come una vergine d’Holbein o di

143
Overbeek. Ella si fermò dinanzi al vecchio, sorrise con
un sorriso casto, e si abbassò per abbracciarlo con un
abbraccio metà filiale, metà di sposa; ma allora i suoi
capelli toccarono la fronte dell’Imperatore ed egli saltò
come se un serpente lo avesse morsicato.
— Che avete signor mio? disse Prassede.
— Donna, esclamò il vecchio alzando il capo e mo-
strandone i suoi occhi umidi, mi avete da quattro anni
visto sopportare le più gravi pene del mondo, e la mia
corona imperiale cangiarsi in corona di spine; avete vi-
sto scorrere il sudore sulle mie gote ed il sangue sulla
mia fronte, ma non avete scorto cadere da’ miei occhi
una lagrima. Ebbene! guardatemi, ecco che io piango
adesso.
— E perchè piangete, mio amatissimo signore? ri-
spose l’imperatrice?
— Perchè abbandonato da’ miei popoli, rinnegato
da’ miei vassalli, proscitto da mio figlio, maledetto da
Dio, io non avea più nel mondo intero che voi, e che voi
mi avete tradito.
Prassade si alzò pallida come una statua.
— Signore, esclamò ella, salvo la vostra grazia, ciò
che avete detto è una menzogna. Voi siete mio impera-
tore e mio signore, ed avete il diritto di dire quel che
più vi piace, ma se ogni altro uomo avesse ripetuto del-
le simili parole, io risponderei che costui mente per la
gola, o per invidia o per perverso animo.
— Entrate, disse Errico con voce forte, volgendosi
verso il gabinetto.

144
Subito la porta si aprì, e Guntramo di Falkembourg e
Gualtiero di Than comparvero. Alla loro vista l’impera-
trice sentì correrle un brivido per tutte le membra,
giacchè ella li avea sempre per istinto riguardati come
suoi nemici. Essi si avanzarono lentamente dall’altra
parte della seggiola dell’imperatore e distesero la ma-
no, esclamando:
— Quel che abbiamo detto è vero, e lo sosteniamo
col periglio del nostro corpo e della nostra anima, com-
battendo due contro due, tutti que’ cavalieri che osas-
sero smentirci.
— Udite bene ciò ch’essi dicono, o signora, rispose
l’imperatore, giacchè sarà fatto come àn chiesto; e sap-
piate che se da quì ad un’anno ed un giorno voi non
avete rinvenuto alcun cavaliere che voglia scolparvi
combattendo per voi, sarete abbruciata viva sulla gran
piazza di Colonia, al cospetto del popolo e dalla torcia
del carnefice.
— Signore, disse l’imperatrice, prego Iddio che mi
sia di ajuto, e spero che mercè la sua grazia, la verità e
l’innocenza mia siano palesi.
— Così sia! rispose Errico; e chiamando due guardie
fece condurre l’imperatrice in una sala sotterranea del
castello che rassomigliava molto ad una prigione.
Ed ella vi era rinchiusa da trecentosessantaquattro
giorni senza aver potuto ad onta delle promesse che
avea fatto e de’ doni che aveva votati, rinvenire un sol
cavaliere che volesse armarsi in sua difesa, tanto il ti-
more che inspirava la fama de’ suoi accusatori era

145
grande. In questo ritiro, Prassade la quale, com’ella lo
avea scritto all’Imperatore, si trovava incinta al tempo
dell’accusa portata contro di lei, erasi sgravata di un
maschio, ch’ella nutriva col proprio latte, come avrebbe
fatto una donna del popolo e riserbava quell’infelice
fanciullo condannato insiem con lei all’onta ed al rogo.
Sola tra tutte le sue donne, Dolce di Provenza, che da
tre anni avea abbandonato il suo bel paese, interamen-
te in preda alle guerre in quel momento, per venire a
cercare un asilo alla corte della sua sovrana, erale ri-
masta fedele nel più profondo della sua sventura. Ma
rimanevano soli tre altri giorni perchè la dilazione ac-
cordata dall’imperatore fosse scorsa, ed ella non vede-
va ritornare il suo inviato, e non udiva punto parlarne.
Ella stessa incominciava a disperarne, ella che avea fi-
no allora sostenuta l’imperatrice colla sua speranza.
Riguardo ad Errico nessun dolore poteva paragonar-
si al suo. Colpito a vicenda come imperatore, come pa-
dre e come sposo, avea fatto pubblico voto, per allonta-
nare l’ira celeste, di andare a raggiungere le crociate in
terra santa: e quel giorno ch’egli stesso avea stabilito
pel supplizio dell’imperatrice gli era di un’ambascia sì
crudele quanto alla stessa Prassade. Ragione per cui
avea tutto abbandonato alla custodia del Signore, poli-
tici, interessi, affari privati; e ritirato nella parte più in-
terna del suo palagio di Colonia, aspettava, non avendo
altra forza che quella di aspettare; giacchè, siccome ab-
biam detto, trecentosessantaquattro giorni erano già
scorsi, ed il sole si accingeva ad illuminare il trecento-

146
sessantesimoquinto.
Quel giorno, dopo le ore nove, e mentre che Errico
usciva dal di lui oratorio, gli si annunciò che un cavalie-
re straniero arrivando dal suo paese molto distante
dall’Alemagna, chiedeva di parlargli all’istante, medesi-
mo. Il vecchio saltò dal piacere, giacchè in fondo al cuo-
re egli non avea perduto ogni speranza, ed ordinò che
fosse immantinenti introdotto.
Errico lo ricevè nella stessa camera e seduto sulla
stessa sedia ove avea reso la sentenza contro l’impera-
trice. Il cavaliere entrò e piegò un ginocchio a terra.
L’Imperatore avendogli fatto segno di rialzarsi, gli chie-
se qual cagione lo conducesse colà.
— Signore, rispose il cavaliere incognito, io sono un
conte di Spagna; ho udito dire che l’imperatrice vostra
sposa era accusata da due cavalieri della vostra corte, e
che se nel periodo di un’anno ed un giorno ella non
avesse trovato un campione che la difendesse in singo-
lar tenzone, sarebbe stata abbruciata al cospetto del
popolo. Ora pel gran bene che ò udito di lei, e per la
santa fama di virtù che ella à nel mondo son venuto
dalla mia terra a chiedere il duello ai suoi accusatori.
— Conte, esclamò l’Imperatore, siate il benvenuto;
per fermo è un grande onore ed un grande amore che
voi le fate, è giungete in tempo, giacchè non rimangono
più che tre giorni per subire il suo castigo, secondo le
leggi dell’Impero.
— Signore, soggiunse il conte, adesso ò una grazia a
chiedervi, e questa è di permettermi di parlare

147
coll’imperatrice, dappoichè, in questo abboccamento
saprò se ella sia davvero innocente o colpevole; s’è col-
pevole non esporrò nè la mia vita nè la mia anima per
lei, siatene certo; ma s’è innocente, combatterò, non
contro uno, non contro due, ma, se fa mestieri, contro
tutt’i cavalieri dell’Alemagna.
— Sarà fatto come bramate, giacchè ciò è giusto, ri-
spose l’Imperatore.
L’incognito cavaliere salutò e fece qualche passo ver-
so la porta, ma Errico lo chiamò, e gli disse:
— Signor conte, avete fatto voto di rimanere col viso
coperto?.
— No, signore, rispose il cavaliere.
— Allora, proseguì l’Imperatore, fatemi la grazia di
togliervi l’elmo, e che io possa scolpire nella mia me-
moria i lineamenti di colui che si pone in un simile pe-
riglio per salvare il mio onore.
Il cavaliere sì slegò l’elmo, ed Errico vide comparire
un capo bruno, e fortemente accentuato, che pareva far
parte di un giovane di diciotto a venti anni. L’Imperato-
re lo guardò un istante in silenzio e con tristezza; di poi
sospirando suo malgrado pensando che Guntramo di
Falkembourg e Gualtiero di Than erano entrambi nella
forza dell’età, gli disse:
— Che Dio vi abbia sotto la sua santa protezione,
dappoichè mi parete molto giovane per recare a buon
termine l’avventura che avete intrapresa. Riflettete
dunque, giacchè è ancor tempo di ritirare la vostra pa-
rola.

148
— Fatemi condurre dall’imperatrice, rispose il cava-
liere.
— Andate dunque, disse l’Imperatore presentando-
gli un’anello; mentre ecco il mio suggello, ed innanzi ad
esso, ogni porta si aprirà.
Il cavaliere piegò un ginocchio, baciò la mano che gli
presentò l’anello, lo passò al suo dito, ed essendosi al-
zato salutò l’Imperatore ed uscì.
Come lo avea detto Errico, il suggello imperiale aprì
tutte le porte all’incognito cavaliere, in modo che dieci
minuti dopo aver abbandonato il giudice egli si trovò al
cospetto dell’accusata.
L’Imperatrice era seduta sul letto, allattando suo fi-
glio, e siccome da molto tempo non riceveva altre visite
che quelle de’ suoi carcerieri, mentre l’era vietato di
comunicare anche colle sue donne, non alzò nemmeno
il capo quanto la porta si aprì; solamente per un movi-
mento d’instintivo pudore si gettò un mantello sul pet-
to, cullò suo figlio con un movimento lento di spalle e
con un canto tristo e dolce. Il cavaliere contemplò in si-
lenzio quell’eloquente quadro delle regie miserie; di
poi vedendo che l’imperatrice non si era accorta di lui.
— Signora, le disse, non vi degnerete di alzare gli oc-
chi su di un uomo ch’è venuto da un paese ben lontano,
per l’amore della vostra fama? Voi siete accusata, ed io
mi offro di difendervi, ma prima rispondetemi come ri-
spondereste a Dio, e pensate che nell’avventura che ò
impreso, ò non solamente d’uopo della forza del mio
braccio, ma altresì del convincimento della mia co-

149
scienza. In nome del cielo, ditemi dunque tutta la veri-
tà, giacchè se mi è dimostrato, come spero, che voi sie-
te innocente, vi giuro da cavaliere di onore, che sarete
difesa da me e che la vittoria non potrà mancarvi.
— Primieramente debbo ringraziarvi, disse l’impe-
ratrice; indi mi sarà concesso di sapere a chi mi accin-
gerò a raccontare la mia storia, o avete fatto voto di oc-
cultare il vostro nome ed il vostro viso?
— Il mio viso, o signora, rispose il cavaliere toglien-
dosi l’elmo, può esser visto da tutti, giacchè è, credo,
molto incognito nell’Impero; in quanto al mio nome,
questo poi è tutt’altra cosa, giacche ò fatto sacramento
ch’esso non sarebbe conosciuto che da voi.
— Allora, ditemelo, soggiunse l’imperatrice.
— Signora, proseguì il cavaliere, io sono un principe
di Spagna chiamato Raimondo Bérengèr conte di Bar-
cellona.
A questo nome, sì celebre da padre in figlio, l’impe-
ratrice, che avea spesso udito a parlare della grande
nobiltà e del gran coraggio di questa famiglia, congiun-
se le mani, allegra e consolata; di poi guardando il con-
te a traverso le lagrime che velavano i suoi belli occhi:
— Signore, gli disse, giammai, in alcuna occasione,
non potrò restituirvi la centesima parte di ciò che avete
fatto ora per me: ma, come l’avete detto, io debbo dirvi
ogni cosa e tutto vi dirò.
— «Egli è vero che sia venuto, in assenza dell’impe-
ratore Errico, un giovane e bel cavaliere, in questa cor-
te di Colonia, ma, sia ch’egli avesse fatto un voto alla

150
sua dama o al suo re, non volle dire il suo nome, e ri-
mase per tutti ignoto; alcuni lo dicevano figlio di prin-
cipe, tanto era splendido e generoso; è anche vero che
io lo incontrava dappertutto sul mio passaggio, ma
sempre così rispettosamente situato, e tenendosi ad
una tale distanza, che non ne poteva nulla dire, senza
sembrare di esser io che facessi attenzione a lui. Una
tal cosa durò qualche tempo senza che il cavaliere dello
Smeraldo, giacchè così veniva chiamato, da un prezioso
anello che portava al dito, facesse null’altro che seguir-
mi o precedermi in tal guisa dappertutto ove io andava.
Un giorno che io uscii seguita dalle mie donne e da’ due
perversi cavalieri che mi ànno accusata, per cacciare
all’uccello lungo il Reno, giungemmo fino a Surdorf
senza incontrare veruna cacciagione, e solamente colà
si alzò un aghirone. Io, lanciai il mio falcone, che prese
il volo al di sopra. Siccome era un falcone di buonissi-
ma razza norvegiana, così raggiunse ben presto il fug-
gitivo, ed io posi la mia chinea al galoppo, per arrivare
innanzi che esso morisse. Era talmente trasportata
dall’ardore, che il mio cavallo saltò al di sopra di una
picciola riviera. Giunte alla sponda le mie donne non
osarono fare lo stesso salto che io aveva fatto; di guisa
che non vi fu che la sola Dolce che mi avesse seguìta, la
quale non mi abbandonava mai in qualunque luogo io
andassi. Le mie donne dunque fecero un lungo giro per
cercare un sito meno pericoloso, ed i due cavalieri le
seguirono; giacche essi montavano de’ cavalli pesanti
ed inabili affatto a far de’ salti di lungo spazio. Noi pro-

151
seguimmo dunque il nostro cammino senza inquietarci
di essi, e quando arrivammo al sito ove erano caduti i
combattenti, ci parve di vedere a traverso un bosco che
discendeva fino alla sponda del fiume, fuggire un cava-
liere su di un cavallo sì rapido che non ne fummo certi
se questo fosse una visione oppure una realtà;
d’altronde eravamo troppo occupate della caccia per
pensare a tutt’altra cosa. Andammo dritto al vinto che
vedemmo dibattersi tra gli artigli del vincitore, e men-
tre che questi già gli rosicchiava il cervello. Ma fummo
molto maravigliati quando scendendo da cavallo, ve-
demmo che si era passato attorno il lungo becco
dell’aghirone un magnifico smeraldo incastrato in un
anello di oro. Dolce ed io ci guardammo a vicenda, non
comprendendo nulla di quell’avvenimento, ma suppo-
nendo che quell’ombra che avevamo visto sparire fosse
stato l’incognito cavaliere; di poi, e questo fu un torto
dal canto mio, lo confesso, ma voi sapete la vanità di
noi altre donne, invece di gettare l’anello nel fiume, co-
me forse avrei dovuto fare, lo presi e lo posi al dito; e
siccome in quel momento il mio seguito giungeva, io
raccontai l’avvenimento e mostrai lo smeraldo. Ciascu-
no si maravigliò di tal fatto, giacchè nessuno eccetto i
cavalieri non suppose che io non dicessi la verità; ma
Guntramo e Gualtiero sorrisero con un’aria d’increduli-
tà. Dar loro delle spiegazioni sarebbe stato riconoscere
il dritto de’ loro sospetti. Posi il guanto, ripresi sul pu-
gno il mio Falcone, e proseguimmo la caccia senza che
ci accadesse null’altro di straordinario. La domane in-

152
contrai alla chiesa l’incognito cavaliere. I miei occhi si
condussero sulla di lui mano; egli non avea più l’anello.
Da quel momento non ebbi più dubbio che il mio sme-
raldo non fosse il suo, e risolvetti di restituircelo.
«Erano otto giorni dopo la festa di Colonia; voi ben
sapete quanto questa festa sia celebre in tutta l’Alema-
gna, i minestrelli, i ballerini ed i cerretani vi abbonda-
no. Tra quest’ultimi eravi un padrone di belve feroci
che, essendo stato in Barbaria ne avea condotto un lio-
ne ed una tigre; aveva costruito un grande circo sulla
pubblica piazza, dove potevansi vedere questi due ma-
gnifici animali da una galleria alta dodici o quindici
piedi al di sopra di essi. Io vi andai in compagnia di tut-
te le mie damigelle, e colà, come dappertutto, incontrai
il misterioso straniero del quale io portava l’anello al
dito. Quel momento mi parve favorevole per restituir-
glielo. Tolsi l’anello dal mio dito e mi accingeva a chia-
mare Dolce per farglielo rimettere, quando la tigre pro-
vocata dal giocolare che la pungeva con una lancia, fece
un salto così prodigioso e gettò un grido così terribile,
che lasciai cadere l’anello, che rotolò fino nella gabbia
del lione. Nello stesso momento, ed innanzi che io
avessi avuto il tempo di pronunziare una sol parola, il
cavaliere era nel circo, colla spada in mano. La tigre ri-
mase un attimo come maravigliata di una simile auda-
cia, poscia, con un solo slancio si avventò al cavaliere.
Allora videsi come una specie di baleno, e la testa del
mostro andò a rotolare da una parte, aprendo la sua in-
sanguinata bocca, mentre che il corpo cadde dall’altra,

153
attaccandosi orridamente colle sue quattro zampe sul-
la sabbia. Il cavaliere si tolse il berretto, ne staccò un
fibbiaglio di diamanti e lo gettò al giocolare, di poi, pas-
sando il braccio a traverso i cancelli della gabbia, prese,
tra gli artigli del lione, l’anello che io aveva lasciato ca-
dere e me lo portò in mezzo agli applausi della moltitu-
dine. Ma, siccome io aveva risoluto di restituircelo, ap-
profittai di questa occasione, e respingendo la sua ma-
no:
— No, gli dissi, signor cavaliere, questo anello vi è
costato troppo caro perchè io ve lo tolga; conservatelo
dunque per mio ricordo.
«Queste sono le sole parole che io gli abbia mai di-
rette, dappoichè la stessa sera, e siccome questa avven-
tura avea fatto del rumore, incaricai Dolce di andare a
trovare il cavaliere dello Smeralda e di pregarlo in mio
nome di abbandonare Colonia; il che egli fece la stessa
sera, senza che abbia giammai saputo ciò che ne sia di-
venuto dopo. Ecco tutto quello che si è passato tra di
noi, signor conte, e se sono stata imprudente, ò pagato
questa imprudenza con un’anno di prigione e con una
mortale accusa.»
Allora cavando la spada, e stendendola verso la regi-
na:
— Giuratemi, disse il conte, su questa spada che tut-
to quello che avete detto è vero, o signora.
— Lo giuro, rispose la regina.
— Ebbene! per questa spada, soggiunse il conte, voi
uscirete da questa prigione dove siete rimasta un’anno,

154
e sarete lavata dalla mortale accusa, che pesa su di voi.
— Vi ascolti Iddio! disse l’imperatrice.
— Ed ora, proseguì il conte, vi prego o signora, di
darmi uno de’ vostri gioielli, in segno che mi accettiate
per vostro cavaliere.
— Signor conte, ella disse, ecco una catena di oro, è
questo l’unico testimonio che mi rimane della mia anti-
ca potenza; prendetela siccome una prova che io ripon-
go la mia causa tra le vostre mani.
— Grazie, o signora, disse il conte. Ed a tali detti
avendo riposta nel fodero la spada, e l’elmo sul capo,
salutò la prigioniera e ritornò dall’imperatore che con
gran premura lo aspettava.
— Sire, gli disse, ò visto l’imperatrice. Fate sapere a
quelli che l’anno accusata che si tenessero pronti a
combattermi, sia insieme, sia separatamente.
— Signor conte, rispose l’imperatore, eglino vi com-
batteranno l’un dopo l’altro, dappoichè non sarà mai
detto che un cavaliere difendendo una così nobile cau-
sa, non abbia trovati de’ nobili nemici.

155
III.

IL GIUDIZIO DI DIO

Nel convenuto giorno, il conte di Barcellona che avea


passato il giorno innanzi in messe ed in preghiere si
presentò alla porta del campo, montato sul suo bello
cavallo di Siviglia, che pareva piuttosto, tanto le sue
gambe erano sottili ed il suo andamento leggiero, un
corsiero da festa e da caccia che da battaglia. Esso in-
dossava una sopravveste di maglie di oro e di acciajo,
lavorata da’ mori di Cordova, in mezzo a cui risplende-
va un sole di diamanti che gettava altrettanti raggi co-
me se fosse stato di fiamme, e portava al collo la catena
d’oro che gli avea donato l’imperatrice. Tre volte egli
bussò alla barriera, tre volte gli si domandò chi fosse,
ed ogni volta egli rispondeva segnandosi per indicare
essere egli il campione di Dio. Alla terza volta la porta
si aprì, ed il conte di Barcellona fu introdotto nella liz-
za.
Era questa una grande arena ovale, ad un di presso
modellata su gli antichi anfiteatri e circondata come
quelli da scalini, stivati adesso dappertutto da gente,
tanto la nobiltà delle rive del Reno erasi affrettata di

156
accorrere a questo spettacolo. Ad una delle sue estre-
mità, Errico, rivestito de’ suoi abiti imperiali, era assiso
su di un trono, mentre che all’altra in una loggia di le-
gname greggio e senz’alcun ornamento stava l’impera-
trice vestita di nero e portante suo figlio in braccio. Di
rincontro alla porta della lizza, s’innalzava un immenso
rogo sul quale ella doveva essere abbruciata, se il suo
cavaliere fosse stato vinto, e presso a quel rogo stava in
piedi il carnefice, vestito di una tunica rossa, colle gam-
be e le braccia nude, portando in mano una torcia, ed
avendo presso di sè un braciere di fuoco acceso. Verso
il mezzo della curva che formava la lizza, s’innalzava
un’altare sul quale erano i santi Evangeli su’ quali era
poggiato un crocifisso, dall’altro lato v’era un feretro
aperto.
Il conte di Barcellona entrò nella lizza, e ne fece il gi-
ro al suon delle trombe che annunciavano ai suoi av-
versari che il campion di Dio era al suo posto; di poi
fermandosi dinanzi all’Imperatore, lo salutò abbassan-
do fino a terra il ferro della di lui lancia. Allora costrin-
se il suo cavallo a rinculare sgambettando, il capo sem-
pre voltato verso di Errico, e giunto in mezzo gli fece
fare su suoi piedi di dietro solamente, un giro sì abile
che ognuno subito scorse essere egli un buono ed
esperto cavaliere. Indi si appressò a piccioli passi, sem-
pre ad onta dell’ardenza che mostrava il suo bel corsie-
ro, verso il palco dell’imperatrice. Giunto colà, egli saltò
giù dal suo cavallo che rimase tanto immobile nella liz-
za come se fosse stato di marmo, salì gli scalini che

157
conducevano dall’accusata; e per indicare che se vi fos-
se qualcuno che avesse ancora qualche dubbio, egli
nullameno era convinto della di lei innocenza, piegò un
ginocchio e le chiese se ella lo accettasse sempre per
suo cavaliere. Tanto era commossa l’imperatrice che
non potè altrimenti rispondergli che porgendogli la
mano. Tosto il conte di Barcellona si tolse l’elmo, e ba-
ciò rispettosamente la mano imperiale che gli era por-
ta; di poi rialzandosi cogli occhi pien di fiamme, attaccò
l’elmo all’arcione, e con un salto si ripose in sella, senza
più far uso delle staffe, come se fosse vestito di un sem-
plice giustacuore di seta. Riconoscendo di faccia
all’altare e dalla parte opposta della lizza quel giullare
che era venuto a cercarlo, seduto ai piedi di una bella e
nobile giovanetta, pensò che questa fosse l’ereditiera
del marchesato di Provenza. Si avanzò verso di lei in
mezzo agli applausi della moltitudine che sorpresa del-
la di lui giovanezza e maravigliata del di lui avvenente
aspetto, faceva nel suo cuore dei voti tanto più ardenti
in quanto ch’egli pareva molto giovane e molto debole
di corpo per imprendere un combattimento mortale
con due cotanto terribili avversarî.
Giunto, dinanzi alla galleria ov’era seduta la bella
Provenzale, egli s’inchinò fin sul collo del suo cavallo,
di modo che i suoi capelli gli coprirono il viso, poscia
rialzandosi crollando il capo per scostarli:
— Nobile damigella, esclamò in linguaggio proven-
zale, e con un sorriso pien di riconoscenza, mille rin-
graziamenti vi sieno renduti per la buona impresa a cui

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mi avete eletto; giacchè senza di voi e senza il vostro
messaggio, sarei ora nella mia terra e non avrei avuto
questa occasione di porre ad evidenza il mio amore per
le dame e la mia fiducia in Dio.
— Bel signore, rispose la giovanetta nello stesso lin-
guaggio, l’intera mia riconoscenza è vostra; dappoichè
sulla parola che vi si è data, in mio nome, da un povero
giullare, voi avete attraversato mari, fiumi e montagne,
e siete venuto, onde ignoro come mai potrò essere ri-
conoscente ad una così grande cortesia.
— Non avvi viaggio lungo che possa essere, nè im-
presa tanto perigliosa, o signora, soggiunse il conte,
che non possano essere pagati, e molto anche al di là
da un sorriso delle vostre labbra e da uno sguardo de’
vostri occhi. Epperò, se mai mi vedete indebolire, guar-
datemi, o signora, e sorridetemi, e mi restituirete forza
e coraggio.
Profferite tali parole, che fecero arrossire la bella
marchesa, il conte di Barcellona s’inchinò una seconda
volta; e siccome in questo momento le trombe annun-
ziavano che aprivasi la porta al suo avversario, egli si
ripose l’elmo, ed in tre slanci del di lui maraviglioso ca-
vallo, si trovò all’estremità opposta del campo, in faccia
dell’imperatrice, e del rogo: il campione di Dio rimane-
va sempre situato di questo modo, affinchè potesse es-
sere incoraggiato da’ gesti dell’imperatrice.
Guntramo di Falkembourg entrò allora alla sua volta.
Egli era vestito con un’armatura di colore oscuro, e
montato su di uno di quei pesanti cavalli alemanni che

159
paiono di razza omerica. Uno scudiere portava a sè di-
nanzi la lancia, l’azza e la spada di lui. Alla porta della
lizza egli scese da cavallo e si avanzò verso l’altare.
Giunto sugli scalini, alzò la visiera del suo elmo, stese la
mano nuda sul crocifisso, e giurò sulla di lui fede di
battesimo, di lui vita, di lui anima e di lui felicità ch’egli
credeva di avere buona e giusta causa, soggiungendo
con giuramento anche di non portare sul suo cavallo,
nè nelle sue armi, erbe, incanti, parole, preghiere, patti
o altra qualunque cosa di cui volesse servirsi. Di poi
avendo fatto il segno della croce, andò ad inginocchiar-
si presso al feretro dalla parte del capo onde farvi la
sua preghiera.
Il conte di Barcellona dal canto suo scese da cavallo,
si appressò all’altare, siccome avea fatto il suo avversa-
rio, profferì gli stessi giuramenti, e dopo aver anche fat-
to il segno della croce, andò ad inginocchiarsi all’altra
estremità della bara. In questo momento si udì la libe-
ra cantata da voci invisibili che parevano un appello
degli angeli. Gli assistenti s’inginocchiarono ciascuno al
suo posto, e ripeterono sommessamente le preghiere
degli agonizzanti. Non fuvvi che il solo carnefice che ri-
manesse in piedi, come se la sua voce non avesse il di-
ritto di unirsi a quelle degli uomini e non potesse giun-
gere ai piedi d’Iddio.
All’ultima nota del libera, le trombe suonarono di bel
nuovo, gli assistenti ripresero i loro posti, ed i due cam-
pioni si ritirarono, di poi ritornarono ai loro cavalli, si
rimisero in sella e parvero un istante due statue eque-

160
stre, tanto eglino rimasero immobili, colle lance in re-
sta e cogli scudi coprendo tutto il lor petto. Finalmente
le trombe cessarono, e l’Imperatore, alzandosi, stese lo
scettro, e disse con voce forte:
— S’incominci il combattimento.
I due avversari si slanciarono l’un contro l’altro collo
stesso coraggio, ma con una fortuna ben differente. Ap-
pena Guntramo di Falkembourg, portato sul di lui pe-
sante cavallo, percorse il tergo della lizza, che saltando
in tre slanci uno spazio doppio, il conte di Barcellona
gli fu sopra. Fuvvi un istante durante il quale altro non
videsi che un urto formidabile, tronchi di lance, miglia-
ia di scintille, ed una confusione di uomini e di cavalli,
ma quasi nello stesso istante il destriero di Guntramo
si rialzò senza cavaliere, mentre il cadavere del suo pa-
drone, passato da parte a parte dalla lancia del suo ne-
mico, giaceva sulla polvere tinta di sangue. Il conte di
Barcellona corse immantinenti al cavallo del di lui av-
versario, lo prese per le redini e lo costrinse di toccare,
rinculando, le barriere del campo colla groppa, ciò
ch’era segno che il suo padrone si rialzasse, — egli era
vinto; ma la precauzione fu inutile, Guntramo di Fal-
kembourg non doveva più rialzarsi che alla voce
d’iddio.
Tutta quella moltitudine gettò un gran grido di gioia,
giacche i più ardenti voti erano pel giovane e bel cava-
liere. L’Imperatore si alzò in piedi gridando: Ben colpi-
to. Dolce agitò la sua ciarpa; l’imperatrice cadde in gi-
nocchioni.

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Allora il carnefice discese lentamente dal suo palco,
sciolse l’elmo di Guntramo che gettò in mezzo all’are-
na, trascinò fin verso la bara il cadavere pei capelli, e
ritornando verso la estremità della lizza risalì sul rogo.
Subito il conte di Barcellona andò di nuovo a saluta-
re l’Imperatore, l’imperatrice e la marchesa di Proven-
za, poscia essendo ritornato al suo posto:
— Salvo il vostro piacere, o sire Imperatore, diss’egli
con voce forte, vogliate ordinare che Gualtiero di Than
sia introdotto alla sua volta. Ed egli uscì dalla lizza.
— Che Gualtiero di Than sia introdotto, gridò l’Impe-
ratore.
La barriera si aprì una seconda volta e Gualtiero di
Than fu introdotto; ma quando scorse Guntramo gia-
cendo presso della bara, quando seppe che un tal colpo
aveva bastato per gettarlo a terra ed ucciderlo, invece
di avanzarsi verso l’altare per prestare il giuramento,
andò dritto dall’Imperatore, e colà, discendendo da ca-
vallo ed inginocchiandosi dinanzi a lui, esclamò:
— Sire imperatore, inutile è stato il vostro comando
di ordinare che io fossi introdotto, giacche per nessuna
cosa al mondo, io non combatterò per la causa che avea
abbracciata: questa è una causa falsa e perversa, come
Iddio l’ha ben provata coi suo giudizio. Che piacciavi
dunque di concedermi la vostra misericordia, e di im-
plorare quella dell’imperatrice e quella dell’incognito
cavaliere, che dev’essere un nobile signore; giacchè io
proclamo innanzi tutta la corte, che quello che abbia-
mo detto dell’imperatrice è falso, e l’abbiam detto spin-

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ti da’ donativi e dalle promesse del principe Errico, vo-
stro figlio, che temeva che non lo privaste della sua ere-
dità pel fanciullo che l’imperatrice portava nel seno.
Ancora una volta, altezza, in grazia della mia confessio-
ne, vi chiedo perdono e clemenza.
— Voi non avrete altro perdono, rispose l’Imperato-
re, che quello che vorrà accordarvi l’imperatrice; anda-
te dunque a chiederglielo, dappoichè da lei sola d’or in-
nanzi dipendono la vostra vita e la vostra sorte.
Gualtiero di Than si rialzò, attraversò la lizza, in
mezzo ai mormori ed ai fischi della moltitudine, ed an-
dò ad inginocchiarsi dinanzi all’imperatrice, che tenen-
do teneramente il figlio nelle braccia, pareva una ma-
donna di Raffaello accarezzando il fanciullo Gesù.
— Signora, egli esclamò, vengo da voi per ordine
dell’Imperatore perchè abbiate compassione di me,
giacchè vi ò falsamente e dislealmente accusata; ordi-
nate dunque di me tutto quello che vi piacerà.
— Amico, disse l’imperatrice, andate sano e salvo; io
non prenderò, nè permetterò che alcuno prenda ven-
detta di voi, giacchè lascio a Dio la cura di punirvi a suo
beneplacito e secondo la sua santa giustizia. Partite
dunque e che io non vi rivegga più mai.
Il cavaliere si alzò ed usci. Dopo quel giorno non fu
mai più visto in Alemagna.
Allora l’Imperatore ordinò che la porta fosse riaper-
ta pel vincitore; e siccome vide che questi, dopo essere
entrato, cercava con maraviglia il suo avversario;
— Signor cavaliere, gli disse, Gualtiero di Than non

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vuole pugnar con voi; egli è venuto ad implorare il mio
perdono, ed io l’ho rimandato dall’imperatrice che glie-
lo ha accordato, contentissima come ella è dell’amore
che Iddio e voi le avete accordato.
— Dappoichè ella ha bramato così, rispose il conte di
Barcellona, sta bene, ed io non chiedo di vantaggio.
Allora l’imperatore, discese dal trono, e prendendo il
cavallo del vincitore pel freno, lo condusse al cospetto
dell’imperatrice, ed esclamò:
— Signora, ecco il cavaliere che vi ha tanto valorosa-
mente difeso; egli si appressa a darvi una mano ed io
l’altra, ed entrambi vi condurremo al mio trono ove ri-
marremo alla vista di tutti, fintanto che giustizia sia
fatta al cadavere di Guntramo di Falkembourg; di poi
voi lo condurrete al vostro palagio ove gli farete tutto
quell’accoglienza maggiore ed onore che potrete, affin-
chè egli rimanga più che sia possibile presso di noi.
L’imperatrice discese dal suo palco e voleva inginoc-
chiarsi dinanzi all’Imperatore; ma esso la rialzò tosto, e
l’abbracciò come una testimonianza che le restituiva
tutto il suo affetto, la prese indi per una mano ed il con-
te di Barcellona per l’altra, ed in tal guisa la condussero
verso il trono ov’ella si sedè alla di lui destra, in quella
che il vincitore si sedeva alla sua sinistra.
Quando essi furono seduti, il carnefice disceso una
seconda volta nella lizza, ed avanzandosi presso al ca-
davere di Guntramo, tagliò con un coltello tutt’i ferma-
gli della sua armatura che gli strappò a pezzo a pezzo, e
che gettò qua e là nel campo, dicendo a misura che li

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gettava. Questo è felino di un vile, questa è la corazza di
un vile, questo è lo scudo di un vile; finalmente quando
l’ebbe spogliato interamente, i due aiutanti del carnefi-
ce introdussero un cavallo trascinando un graticcio, di
poi il cadavere fu legato su quel graticcio e trascinato
per le strade di Colonia fino alla forca pubblica, ove fu
appiccato per i piedi, ed ove ognuno potè a suo
bell’agio vedere la spaventevole ferita per la quale la
sua maledetta anima era fuggita.
E tutti unanimamente dissero che questo era stato
davvero il giudizio di Dio, giacchè nessuno non poteva
comprendere come un così giovane e così gentile don-
zello avesse potuto uccidere un cavaliere cotanto terri-
bile.

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IV.

CONCLUSIONE

L’imperatore e l’imperatrice condussero il cavaliero


al loro palagio, e colà gli apprestarono una grande festa
e banchetto in suo onore, pregandolo a non volerli più
lasciare; ma la stessa sera egli uscì dal palagio senza
che alcuno il vedesse, e ritirandosi alla sua abitazione,
fece dare la biada al suo cavallo ed avendo ordinato al
suo scudiere di esser pronto, partì col più gran mistero
e camminò tutta la notte per ritornare alla sua terra di
Barcellona, ch’egli avea abbandonata con più cavalleria
che prudenza, e della quale non avea più ricevuto noti-
zia alcuna da due mesi.
Ma quando giunse il domani e che l’imperatore vide
che il cavaliere non andava al suo palagio, gli mandò un
cavaliere alla di lui dimora per fargli dire ch’egli lo
aspettava. Si rispose al messaggiero essere il cavaliere
partito nella notte, e che a quest’ora doveva essere al-
meno ad un dodici o quindici leghe lungi da Colonia.
Allora il messaggiero ritornò dall’Imperatore e gli dis-
se: — Signore, il cavaliere che ha combattuto per
l’imperatrice, è partito questa notte e non si sa punto
dove egli sia andato.

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A questa inattesa novella, Errico si volse all’impera-
trice, e con una voce alterata dalla collera, le disse:
— Signora, avete udito quello che mi ha detto costui,
cioè che il vostro cavaliere ha abbandonato Colonia
questa notte senza congedarsi da voi, ciò che grande-
mente mi dispiace.
— Oh! altezza, rispose l’imperatrice, sarete ben altri-
menti dispiaciuto, quando saprete chi era questo cava-
liere, giacchè presumo che non lo sappiate.
— No, soggiunse l’Imperatore; egli non mi ha detto
nulla, se non di essere un conte di Spagna.
— Signore, questo cavaliere che avete veduto e che si
è battuto per me, è il gentile conte di Barcellona, la cui
celebrità è già così estesa che non saprebbesi dire qual
sia più grande se la sua riputazione o la sua nobiltà.
— Come, esclamò l’Imperatore, sarebbe mai vero
che quel cavaliere fosse il signor conte Raimondo Bé-
rengèr. Allora Iddio mi sia di aiuto, o signora, giacchè la
corona dell’impero non ha mai ricevuto un così grande
onore come quello che le deve oggi; ma grazia a Dio,
egli me lo ha fatto pagare a caro prezzo per l’onta di cui
noi ha coperto la sua improvvisa partenza. Onde vi di-
co, o signora, che mai rientrerete nella mia grazia nè
nel mio amore se prima non l’abbiate cercato, e non
l’abbiate ricondotto seco voi. Spiegate le vele dunque il
più presto possibile, e che non vi rivegga o che vi riveg-
ga con lui.
— Sarà fatto come bramate, altezza, rispose l’impe-
ratrice ritirandosi.

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Siccome ella avea scorto che il gentile conte di Bar-
cellona non era stato punto insensibile alla beltà della
marchesa Dolce di Provenza, così condusse questa se-
co, pensando che sarebbe la catena che legherebbe più
per fermo il fuggitivo; ed essendosi fatta accompagnare
come conviene ad una regina, da cento cavalieri, da
cento dame e da cento damigelle, corse tanto il giorno
e la notte che giunse due mesi dopo la sua partenza
nella nobile città di Barcellona Quello che fu maravi-
gliatissimo quando seppe che l’imperatrice di Alema-
gna era giunta nella di lui città, fu il conte, ve lo assicu-
ro. Immantinenti che ebbe certezza che una tal nuova
era vera, montò a cavallo e si condusse al palagio
ov’ella era discesa. Colà egli non ebbe più alcun dub-
bio; giacchè appena l’ebbe scorta, che riconobbe per-
fettamente quella per la quale egli avea combattuto.
Entrambi furano contentissimi di rivedersi. Dopo
ch’egli si fu dinanzi a lei inginocchiato e l’ebbe baciato
rispettosamente la mano, il conte cortesamente le chie-
se quale felice avventura la conducesse nella sua terra.
— Signor conte, le rispose Prassede, mi è vietato di
ritornare dall’Imperatore mio sposo se non vi conduco
meco; dappoichè è la vostra sola vista, di cui egli è sta-
to privato sì presto, che può restituirmi il suo amore e
la sua grazia. Quando egli à saputo essere stato il genti-
le conte di Barcellona quello che gli avea fatto l’onore
di venire da un sì lontano paese per difendermi, e
ch’era partito la stessa sera, à detto che non vi sarebbe
stato più un istante di festa fino al giorno nel quale egli

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non l’avrebbe ringraziato del grande onore che da lui
avea ricevuto la corona dell’Impero. Ecco la ragione
per cui, signore, vengo quì, non più come imperatrice
di Alemagna, ma come vostra serva per supplicarvi
umilmente di accompagnarmi dinanzi all’Imperatore,
se volete che io sia chiamata tuttavia imperatrice.
— Signora, rispose il conte, a voi è dato di comanda-
re ad a me di obbedire; son pronto a seguirvi dapper-
tutto ove piaceravvi di condurmi: ordinate di me come
di un vinto e di un prigioniero.
A tali detti, il conte piegò un ginocchio e le presentò
le mani perchè le incatenasse, il che vedendo l’impera-
trice, staccò una magnifica catena di oro che faceva ot-
to volte il giro del suo collo, e legandone un estremità
al pugno del conte di Barcellona, ripose l’altra nelle
mani della marchesa di Provenza. Allora vedendosi in
potere di un sì gentile custode, il conte Raimondo giurò
di non rompere nè togliersi mai una tanto dolce catena
senza il consenso della marchesa, che gli concedè subi-
to di tutto preparare per la sua partenza.
Tre giorni dopo, l’imperatrice ripartì per alla volta di
Colonia, accompagnata da’ suoi cento cavalieri, cento
dame e cento damigelle, conducendo seco il conte inca-
tenato con una catena di oro che teneva la graziosa da-
migella di onore, ed in tal guisa attraversarono il Rossi-
glione, la Linguadoca, il Delfinato, la Svizzera ed il Lus-
semburgo. Il conte, secondo quello che avea giurato,
non snodò la catena che col congedo del suo custode.
Cinque leghe prima di Colonia, il corteggio incontrò

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l’Imperatore che, avendo saputo l’arrivo del conte, re-
cavasi al suo incontro. Scorgendo il valoroso cavaliere
che avea salvato l’onore della sua amatissima consorte,
Errico scese da cavallo, ciò vedendo Raimondo Béren-
gèr si affrettò di fare altrettanto; e sempre condotto
dalla marchesa di Provenza, si appressò all’Imperatore
che lo abbracciò teneramente, chiedendogli qual dono
potesse accordargli per ringraziarlo del grande ed ono-
revole servigio che gli avea reso.
— Signore, rispose il conte, chiedo che piacciavi di
ordinare, che come io non poteva rompere nè scioglie-
re la mia catena senza il permesso della marchesa, ella
nemmeno possa, d’ora innanzi, romperla nè scioglierla
senza il mio, ed in tal guisa, saremo incatenati per sem-
pre, e, se piace a Dio, non solamente in questo mondo,
ma altresì nell’altro.
Dolce di Provenza arrossì ed avrebbe voluto difen-
dersi, ma siccome ella doveva tutto all’Imperatore, così
le fu mestieri obbedire a tutto quello le piacque di ordi-
nare.
Ora l’imperatore ordinò che il matrimonio sarebbe
fatto tra lo spazio di otto giorni. Dolce di Provenza era
una vassalla sì fedele che non pensò nemmeno a chie-
dere un’ora d’indugio.
Ed in tal guisa fu che Raimondo Bérengèr III, già con-
te di Barcellona, divenisse marchese della terra di Pro-
venza.
FINE.

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