2.
3 Vangelo del regno e società del Nuovo Testamento
Per capire l'orientamento sociale di Gesù è importante capire il complesso quadro sociale della
Palestina del suo tempo. In un contesto di dominazione romana, tollerante sì, ma con situazione di
tensioni presenti, vi sono anche diverse forme di Giudaismo, ognuna delle quali è portatrice di una
posizione rilevante anche in ambito politico.
La posizione più radicale è incarnata dagli zeloti che esprimono un netto rifiuto della dominazione
romana, in quanto considerano la Legge di Israele norma anche politica. D'altra parte ci sono Farisei
e sadducei che, al tempo di Gesù, costituiscono la maggioranza del Sinedrio. I Farisei (= separati, pii)
sono il gruppo più numeroso e influente, diffuso tra le diverse classi sociali, godono della stima del
Popolo. I Sadducei sono invece la classe che ha maggiori interessi economici e politici da difendere,
sono più compromessi con il potere Romano e non riconoscono la contraddizione tra il potere
Romano e le istituzioni di Israele. Da ultimo di esseni, stanziati a Qumran, che propongono una
osservanza estrema della legge e teorizzano la più assoluta separazione dal mondo.
In questa complessa situazione sono rilevanti i comportamenti e gli atteggiamenti concretamente
vissuti da Gesù. Egli non assume una posizione di netto rifiuto, nè del Sinedrio, né del potere
Romano e non costituisce il suo gruppo di discepoli alla maniera degli esseni, distaccati dal mondo
e quasi spettatori disinteressati; nè si mescola con gruppi rivoluzionari come gli zeloti. Il suo
atteggiamento e quello dei suoi discepoli è di accettazione del quadro sociale esistente. Egli è
coinvolto nella realtà sociale, senza separazione da essa, ecco perché la sua è una presenza critica.
«Gesù, il Messia promesso, ha combattuto è sconfitto la tentazione di un meccanismo politico,
caratterizzato dal dominio sulle Nazioni» (DSCS 379). Rifiuta che la sua autorità spirituale sia intesa
anche come autorità politica e sociale. Un atteggiamento che appare inconsueto come nel Passo di
Lc 12, 13-14 («Uno della folla gli disse: "Maestro, di' a mio fratello che divida con me l'eredità". Ma
egli rispose: "O uomo, Chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?"») soprattutto alla luce
del fatto che i rabbini in Israele si prestavano volentieri come giudici per dirimere le controversie
all'interno del popolo. Guardando i suoi atteggiamenti e comportamenti sociali possiamo anche
comprendere il senso dei suoi insegnamenti.
2.3.1 L’insegnamento sulla Legge
Gesù viene ad annunziare la "Legge nuova" (Mt 5, 20-48) e ne parla usando le categorie di
superamento e compimento. Non vuole produrre un "aggiornamento" legislativo delle leggi di
Israele, il suo è un superamento che va inteso come pienezza, realizzazione di quanto espresso
nell'AT: «Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire,
ma a dare pieno compimento. In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non
passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto» (Mt 5, 17-18). Ciò
che dà compimento alla Legge e che non la abolisce è la Misericordia, il "di più" della Giustizia.
Bene esplicitano la novità di questa Legge nuova, che è Gesù stesso, le antitesi presenti nel discorso
della montagna. Nelle antitesi primarie (Mt 5,21-30.33-37) Gesù interpreta la legge
approfondendola, reinterpretandola, senza contraddirla. Nelle antitesi secondarie (Mt 5,31-32.38-
48) troviamo una maggiore discontinuità rispetto alla Legge.
La Legge nuova vuole superare sia la giustizia farisaica fatta di mera adesione esteriore, che
l'apocalittica estrema, tendente ad un'attesa disimpegnata del Regno di Dio; ma anche mostrare
come la realizzazione nell'uomo di quei cambiamenti prodotti in lui dalla Legge antica, passa solo da
un'accoglienza del Regno nella persona di Gesù, essere cioè suoi discepoli. Gesù non è venuto a
riformare le nostre leggi ma a suscitare la conversione personale al Regno: esige cuori rinnovati,
non leggi più estese e dettagliate.
2.3.2 L’insegnamento su povertà e ricchezza
Per comprenderlo guardiamo gli atteggiamenti di Gesù:
1) Rifiuto del potere: il suo stile di vita fu povero e nomade. Stile assunto per mostrare la sua
incondizionata fiducia nel Padre ma anche il desiderio di sperimentare la maggiore libertà
possibile per dedicarsi alla missione. Egli ha costantemente rifiutato le sollecitazioni a servirsi
del prestigio, della potenza, dei mezzi terreni: le tentazioni provenienti da Satana (Mt 4,1-
11), dalle folle (Gv 6,15), dagli scribi e dai farisei (Mc 8,11; 15,31-32) e persino dai discepoli
(Mc 8,32-33). Egli si oppone a queste tentazioni sia per la fiducia che ha nel Padre, sia perché
è consapevole dell’ambiguità dei mezzi umani che rischiano di diventare da meri strumenti
o padroni fino ad esigere l’adorazione.
2) Frequenta poveri e peccatori: Egli è dalla parte dei poveri e degli esclusi per difenderli e
privilegiarli nell’annuncio del Regno. Ma frequenta anche uomini ricchi di beni, di cultura e
autorità, ma appare chiaro che li incontra in quanto persone e, come tali, amate da Dio e
invitati alla salvezza. Ma non considera mai la loro ricchezza come una condizione privilegiata
da cui, una volta convertiti, possono annunciare meglio di quanto possa fare un povero o un
peccatore il Regno di Dio.
Il suo insegnamento fa riferimento anzitutto al rapporto tra ricchezza e salvezza eterna. Nei suoi
interventi ritroviamo due linee presenti nell'Antico Testamento:
- la linea sapienziale: egli riconosce la bontà delle cose create da Dio: usa i beni materiali, è amico
anche dei ricchi, proibisce il furto, apprezza il lavoro svolgendolo personalmente ed esortando a
farlo;
- la linea profetica: sottolinea la radicalità della scelta tra Dio e mammona perché l'attaccamento
alle cose materiali costituisce, di fatto, un ostacolo alla scelta del Regno come valore prioritario. È
necessaria allora una scelta di libertà nei confronti dei beni terreni che possono infondere false
sicurezze e quindi soffocare la parola di Dio.
L’insegnamento sulla povertà è legato a quello sull’uso dei beni. Gesù invita a guardarsi dalla
cupidigia per non fare la fine dell’uomo della parabola del cap.12 di Luca che ha passato un’intera
esistenza ad accumulare beni, nei quali riponeva tutta la sua fiducia, ma muore proprio la notte in
cui ha finito di lavorare. Gesù conclude lapidariamente: «così è di chiunque accumula tesori per sé,
e non arricchisce davanti a Dio» (Lc 12,21). La stoltezza sta nell’accumulare “per sé” che deve essere
sostituito da un altro orientamento: «arricchire davanti a Dio», cioè porre al primo posto il Regno,
vendere i propri beni e usare il ricavato per soccorrere i poveri. Se l’accumulo per sé stesso è
stoltezza, la condivisione dei beni è la vera sapienza.
2.3.3. Il giudizio sull’autorità civile
Anche in questo caso, prima di guardare l'insegnamento di Gesù sull'autorità, è doveroso guardare
ai suoi atteggiamenti. Il Compendio ci dice che egli «rifiuta il potere oppressivo e dispotico dei capi
sulle Nazioni e la loro pretesa di farsi chiamare benefattori, ma non contesta mai direttamente le
autorità del suo tempo» (CDSC 379). Questo atteggiamento di Gesù è così riportato da Luca: «I re
delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori.
Per voi però non sia così; ma chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come
colui che serve» (Lc 22, 25-26). Questo passo lucano mette in guardia da un uso ideologico del
potere: si fanno chiamare benefattori ma il loro è solo in apparenza un servizio, il potere assume
quasi contorni religiosi. Questa ambiguità del potere va combattuta con il servizio che è il carattere
proprio che ogni funzione di governo deve assumere. Il potere va esercitato sempre in funzione
della crescita dell'altro come suggerisce l'etimologia di "auctoritas" (da augeo, faccio crescere),
altrimenti rischia di diventare asservimento dell'altro.
Un illuminante insegnamento sull'autorità politica possiamo rintracciarlo nel processo di Gesù
davanti a Pilato (Gv 18,28 -19,16). Di questi versetti si sono imposte nel tempo due diverse
interpretazioni. La prima, la più radicale, mette in luce la differenza tra il mondo e tutto quanto lo
rappresenta ed il piano di Dio; la seconda invece tende a sminuire tale discontinuità.
La prima linea vede il confronto tra Gesù e Pilato come il dramma radicale che soggiace a tutta la
storia. Il versetto decisivo è Gv 18, 36: il Regno di Gesù non è "di" questo mondo. Secondo questa
linea la traduzione più giusta sarebbe "da" questo mondo. Si tratta dell'origine: il Regno di Gesù non
nasce dalla storia, non è circoscrivibile dalle realtà terrene, non si basa sul consenso sociale.
Piuttosto il suo Regno cerca di trasfigurare questo mondo salvandolo.
La seconda linea si sofferma sul fatto che ogni potere viene dall'alto. Il potere consesso dall'alto
sarebbe anche quello dato a Pilato ora su Gesù perché nel piano di Dio "tutto sia compiuto".
L'altro episodio significativo per comprendere l'insegnamento di Gesù sulle autorità sociali è la
vicenda del tributo a Cesare (Mt 25, 15-22). Importante è vedere il verbo che Gesù usa nel versetto
22: "Rendete": non è un semplice dare. Rendere indica che nei confronti di Cesare, e a maggior
ragione nei confronti di Dio, non siamo noi i primi ad aver dato, ma semmai i primi nell'aver ricevuto.
La consapevolezza che, anche nei confronti della società, siamo costituiti come debitori, potrebbe
portare ad un ripensamento anche radicale degli obblighi sociali. Si può anche dire che la fede
cristiana non può diventare scusante per evitare obblighi verso l'altro, e dunque verso lo Stato:
questi sono addirittura evidenti.
In definitiva, il senso del testo non va nella direzione di postulare l'esistenza di due regni
contrapposti, o semplicemente sovrapposti l'uno all'altro; l'obbedienza a Cesare - come ogni altra -
va pensata entro la più comprensiva obbedienza al piano di Dio, secondo i suoi criteri. Si tratterà
sempre di una obbedienza "critica" nei confronti di Cesare, né totale, né automatica, ma certamente
leale.
2.4 La predicazione apostolica
Nei confronti della realtà sociale, la primitiva comunità cristiana continua lo stesso atteggiamento
del Maestro: non si estrania, ma si inserisce nelle varie società, anche non giudaiche, portando
ovunque la propria originale proposta.
Gli interventi della prima comunità su temi sociali sono di carattere parenetico ed in rapporto a
questioni specifiche: non elabora specificatamente una dottrina sociale ma indica come
concretamente comportarsi, in rapporto ai problemi specifici che incontra.
Il NT vede il mondo e le situazioni dal punto di vista della tensione escatologica (l'essere tra il già e
il non ancora) che conduce non ad una fuga dal mondo, in quanto ne assumono gli usi e i costumi,
ma alla relativizzazione di questi. Questa posizione rende il loro insegnamento scandaloso per la
società del tempo, in quanto inizia ad evidenziarsi la differenza cristiana che possiamo rintracciare
1) nella consapevolezza di una uguaglianza radicale tra tutti gli uomini in virtù dell'unica
redenzione compiuta da Cristo, dalla quale scaturisce la dignità di ogni uomo e donna. Questo porta
a relativizzare fortemente le differenze sociali che in quel tempo erano fortemente marcate (es.
padrone/schiavo). Per rendersi conto di questo basterebbe rileggere le parole di Paolo nella lettera
ai Colossesi (Col 3, 11): «qui non c'è più greco o giudeo, circoncisione o non circoncisione, barbaro
o scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti».
2) Nella sacralizzazione dell'esperienza familiare dell'uomo e della donna. In Paolo (cf. Ef 5,22-
33) la famiglia trova nel rapporto Cristo-Chiesa il proprio volto autentico. È nella dedizione d'amore
di Gesù alla Chiesa che si svela pienamente il significato dell'amore coniugale e quest'ultimo diventa
espressione concreta del primo.
3) Il superamento della "sacralizzazione" della società, diffusa nell'antichità, nella quale ogni
istituzione sociale era anche istituzione religiosa. La comunità cristiana primitiva è cosciente di sé
come comunità escatologica, ma non si dà un'organizzazione sociale propria, invece vive all'interno
del quadro sociale imperiale nell'attesa dell'imminente compimento del Regno quindi non
sacralizzando in alcun modo le strutture sociali ed il potere politico, ma neppure rifiutando i rapporti
con queste realtà; non è l'autorità "sacra" del potere statale che fonda i doveri del cristiano nei
confronti della società, ma è la signoria di Dio che il cristiano riconosce operante nella società, ed in
generale nella storia, a prescindere dalla coscienza che gli uomini hanno di tale signoria .
2.4.1 Il lealismo verso l'istituzione sociale
Un primo grande orientamento caratteristico della predicazione apostolica è espresso dall'invito ad
assumere un atteggiamento di fondamentale lealtà e obbedienza nei confronti dell'istituzione
politica
L'orientamento generale:
Il testo classico del lealismo nei confronti dell'autorità è quello della lettera ai Romani:
«Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite. Infatti non c'è autorità se non da Dio: quelle che
esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all'autorità, si oppone all'ordine stabilito da Dio.
E quelli che si oppongono attireranno su di sé la condanna. I governanti infatti non sono da temere
quando si fa il bene, ma quando si fa il male. Vuoi non aver paura dell'autorità? Fa' il bene e ne avrai
lode, poiché essa è al servizio di Dio per il tuo bene. Ma se fai il male, allora devi temere, perché non
invano essa porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi fa il male. Perciò
è necessario stare sottomessi, non solo per timore della punizione, ma anche per ragioni di
coscienza. Per questo infatti voi pagate anche le tasse: quelli che svolgono questo compito sono a
servizio di Dio. Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi si devono le tasse, date le tasse; a chi
l'imposta, l'imposta; a chi il timore, il timore; a chi il rispetto, il rispetto» (Rm 13,1-7).
Paolo invita tutti i cristiani a sottomettersi alle autorità in carica perché esse vengono da Dio, quindi
resistervi e resistere a Dio e all'ordine da lui stabilito. In questi versetti si vede il radicamento
dell'autorità nella volontà generale del Creatore. L'operato dell'autorità è visto poi nella prospettiva
del bene comune ed è su questa che vanno valutate. Quindi si deve obbedire per motivo di
coscienza, non passivamente o per paura di essere puniti, appunto perché il potere sociale è al
servizio di Dio per il bene: il criterio di discernimento dell'opera dell'autorità è l'effettivo servizio al
bene comune.
Motivazioni e forme specifiche del lealismo:
Una particolare sottolineatura del lealismo ci viene dall'insegnamento Petrino (Pt 2, 13-17) che
invita alla sottomissione «ad ogni istituzione umana per amore del Signore», aggiungendovi la
motivazione apologetica: è «volontà di Dio: che, operando il bene, [obbedendo all'autorità] voi
chiudiate la bocca all'ignoranza degli stolti». L'autorità civile è ridimensionata: si obbedisce, ma nel
quadro della più ampia obbedienza a Dio; l'autorità non è più vista come voluta espressamente da
Dio. Il comportamento trasparente dei cristiani diventa un modo per testimoniare la propria fede
anche a chi non crede prendendo come terreno di intesa con i pagani il comune riconoscimento del
bene morale civile. Introduce poi una distinzione di atteggiamenti che ridimensiona
significativamente la sottomissione dovuta alla società: al re bisogna tributare onore ma è lo stesso
onore che deve essere riservato a tutti; ai fratelli va l'amore, mentre a Dio va il timore, ossia la fede.
L'appello rivolto a Timoteo da parte di Paolo di pregare per l'autorità (2Tm 2, 1-8)1 è importante
perché indica, in un tempo di persecuzioni, ciò che l'autorità civile deve garantire: una vita calma e
tranquilla trascorsa con tutta pietà e dignità.2 La finalità però non sono riconducibili solo al
raggiungimento di una pace sociale per sè stessa, ma investe la fede: «Dio vuole che tutti gli uomini
giungano alla conoscenza della verità», cioè della salvezza, per questo è necessario che siano
garantiti spazi attraverso i quali la comunità possa testimoniare e annunciare. È sempre la
motivazione di fede a connotare gli insegnamenti delle lettere pastorali.
Il lealismo che emerge come tratti significativo delle comunità cristiane: esse vogliono presentarsi
come comunità non rivoluzionarie, distinte dai movimenti rivoluzionari presenti nell'impero
romano, nonostante alcune espressioni esteriori e motivi interiori potevano collocare il
cristianesimo tra gli eversivi (si vedano ad esempio il superamento della rigida distinzione in classi
sociali, la partecipazione della donna alle assemblee, la coscienza di vivere negli ultimi tempi che
spinge alcuni a sovvertire la condizione sociale).
2.4.2 La distanza critica nei confronti della realtà sociale
1
Raccomando dunque, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e
ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo
condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio. Questa è cosa bella e gradita al
cospetto di Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla
conoscenza della verità. Uno solo, infatti, è Dio e uno solo anche il mediatore fra Dio e gli uomini,
l'uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti. Questa testimonianza egli l'ha data
nei tempi stabiliti, e di essa io sono stato fatto messaggero e apostolo - dico la verità, non
mentisco -, maestro dei pagani nella fede e nella verità. Voglio dunque che in ogni luogo gli uomini
preghino, alzando al cielo mani pure, senza collera e senza polemiche.
2
Cf. CDSC, 381.
Un altro indirizzo di pensiero presente nei testi apostolici esprime un atteggiamento critico verso la
società civile e le sue autorità. Nel NT la scelta radicale di seguire Cristo porta come conseguenza
una distinzione dal “mondo”:
- Nei sinottici i credenti sono invitati a guardarsi dagli uomini e la loro condizione è quella di
essere come «pecore in mezzo ai lupi» (Mt 10, 16-17);
- Giovanni sottolinea la contrapposizione tra il “mondo” e Gesù e la estende ai suoi discepoli
(Gv 17, 15-16);
- In Paolo questo contrasto è espresso dalla contrapposizione tra la vita secondo la carne e
quella secondo lo Spirito (Rm 8, 4-12).
Chiesa e autorità civili.
Negli Atti degli apostoli sono riportati poi esempi di conflitto tra gli apostoli e l’autorità. Alcune frasi
che sono pronunciate da Pietro e Giovanni, in certe interpretazioni attualizzanti, sembrano porre il
fondamento della disobbedienza civile e dell’obiezione di coscienza:
- «Ma Pietro e Giovanni replicarono: «Se sia giusto dinanzi a Dio obbedire a voi invece che a
Dio, giudicatelo voi. Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato» (At 4,
19-20);
- «Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini» (At 5,29).
In realtà gli apostoli, nelle due circostanze, richiedono anzitutto libertà di giudizio e di azione in
ambito religioso per salvaguardare la libertà di poter affermare la propria verità per quanto attiene
la sfera religiosa. Ancora più evidente è la richiesta di questa libertà quando l’autorità tende ad auto
divinizzarsi, sostituendosi a Dio stesso. L’Apocalisse è l’espressione più evidente di quest’ultima
critica verso l’autorità che, nel linguaggio tipico del genere letterario apocalittico, attraverso le
immagini forti che vengono utilizzate, viene accusata di non riconoscere la verità divina, di avere
pretese assolutistiche e di incarnare le potenze ostili a Dio. Sullo sfondo negativo di “Babilonia”
(simbolo dell’autorità ostile a Dio) s’intravede nel libro la missione del cristiano di costruire nella
storia, con forme storicamente possibili, la “Gerusalemme celeste”, attraverso un esplicito impegno
sociale: la veste di lino della sposa dell’Agnello «sono le opere giuste dei santi» (Ap 19, 8).
2. Le idee-chiave della DSC: principi e valori permanenti
2.1 Presentazione del tema: la DSC, un progetto unitario e articolato
Da un primo impatto con la DSC una delle cose che appaiono meno evidenti è il suo essere portatrice
di un progetto unitario circa la società. Esse ci appare ad un primo sguardo come una serie indefinita
di interventi o come un insieme di principi, orientamenti, nozioni cui attingere in occasionale in base
ad una particolare situazione da analizzare e illuminare. Ci sfugge invece la sia capacità di esprimere
le linee di fondo di un progetto unitario, la trama di un disegno di società. Per recuperare e rendere
più evidente questa dimensione di unitarietà, strumento importantissimo risulta essere il Compendo
della DSC. In esso è ampiamente illustrato come, a partire dal fondamento di tutta la vita sociale,
individuato nel principio personalista (CDSC 105-159), si irradiano e si sviluppano tutti gli altri grandi
principi della DSC (cf. Cap. IV, 160-208).
«I principi permanenti della dottrina sociale della Chiesa costituiscono i veri e propri cardini
dell'insegnamento sociale cattolico: si tratta del principio della dignità della persona umana (…) nel
quale ogni altro principio e contenuto della dottrina sociale trova fondamento, del bene comune,
della sussidiarietà e della solidarietà» (CDSC 160).
Il loro essere radicati nella dignità della persona umana fa si che essi debbano «essere apprezzati
nella loro unitarietà, connessione e articolazione» (DCSC 162); essi, infatti, «si richiamano e si
illuminano l’un l’altro in quanto esprimono l’antropologia cristiana» (CDSC 9). Quanto al loro
significato complessivo:
«Questi principi hanno un carattere generale e fondamentale, poiché riguardano la realtà sociale
nel suo complesso (…) Per la loro permanenza nel tempo ed universalità di significato, la Chiesa li
indica come il primo e fondamentale parametro di riferimento per l'interpretazione e la valutazione
dei fenomeni sociali, necessario perché vi si possono attingere i criteri di discernimento e di guida
dell'agire sociale, in ogni ambito» (CDSC 161).
Questi principi sono allora le grandi coordinate che permettono la realizzazione e l’armonizzazione
complessiva del disegno di società proposto dalla DSC.
Indichiamo anzitutto i 4 grandi pilastri attorno ai quali è venuta strutturandosi prima, e
consolidandosi poi, la DSC, nei quali si esprime in massimo grado la sua originalità. Nell’ordine, si
tratta del principio di solidarietà, della sussidiarietà, della solidarietà, del bene comune. Essi,
almeno fino al Concilio Vaticano II, delineano sinteticamente un’immagine di società al cui
fondamento sta la persona e al vertice l’autorità incaricata primariamente di realizzare il bene
comune, ed entro la quale i due grandi principi regolatori dei rapporti tra persona e società sono
rispettivamente la sussidiarietà ( a tutela del singolo e delle sue principali espressioni sociale e
relazionali) e la solidarietà (principio di coesione sociale a tutti i livelli). Queste ultime due direttrici
costituiscono l’asse verticale (sussidiarietà) e l’asse orizzontale (solidarietà) dell’intero sistema
sociale.
Questo impianto però ha avuto bisogno di essere integrato da altri principi regolatori della vita
sociale (partecipazione e destinazione universale dei beni).
Per completare il progetto occorre poi correlare ai principi, che soddisfano l’oggettività morale,
universalmente obbligante,
- i valori, che sottintendono il bene nella sua configurazione valoriale, in quanto apprezzabile,
riconoscibile da parte dell’uomo d’oggi (e a cui sia i principi che le virtù tendono);
- le virtù, in quanto appropriamento personale dei valori, «atteggiamenti morali
corrispondenti ai valori stessi» (CDSC 197).
Autentico punto di arrivo, culmine del progetto sociale della DSC è la Carità, in quanto «criterio
supremo e universale dell’intera etica sociale» (204) e «forma delle virtù» (207).
2.2 Il principio personalista: l’uomo “soggetto, fondamento e fine” della vita sociale
2.2.1 Da un’antropologia individualistica ad una relazionale
Il principio personalista è il più importante di tutta la DSC. Esso trae origine dallo stesso dogma
cristiano:
«La Chiesa vede nell'uomo, in ogni uomo, l'immagine vivente di Dio stesso; immagine che trova ed è
chiamata a ritrovare sempre più profondamente piena spiegazione di sé nel mistero di Cristo,
Immagine perfetta di Dio, Rivelatore di Dio all'uomo e dell'uomo a se stesso. (…) In Cristo Signore, la
Chiesa indica e intende per prima percorrere la via dell'uomo,198 e invita a riconoscere in chiunque,
prossimo o lontano, conosciuto o sconosciuto, e soprattutto nel povero e nel sofferente, un fratello
«per il quale Cristo è morto» (1 Cor 8,11; Rm 14,15) (CDSC 105).
Questo fondamento, profondamente radicato a livello biblico e teologico, è stata la base di
riflessione che ha portato, a partire dal XII-XIII secolo, a riconoscere l’intrinseca relazionalità
costitutiva della persona umana: san Tommaso collocò la socialità tra le inclinazioni naturali
dell’uomo, cioè tra le sue esigenze irrinunciabili perché costitutive del suo essere profondo e del suo
agire.
La modernità ha sottostimato questa dimensione enfatizzando l’individualità rispetto alla
relazionalità interpersonale e ha proposta il rapporto individuo-società su basi essenzialmente
alternative, concorrenziali.
Il pensiero contemporaneo se svilupperà ampiamente la riflessione sull’apertura dell’uomo alla
relazionalità, vedrà anche il sorgere di drastiche riduzioni di esse in una vasta gamma di posizioni,
dall’estremo del collettivismo marxista ai presupposti dell’individualismo liberista. Grazie agli
sviluppi del recente personalismo (M. Buber, F. Munier e molti altri) all’uomo è stata restituita la sia
indentità di persona in quanto singolarità cosciente costituita dalla propria relazionalità-socialità.
La recente riflessione circa l’alterità, la necessità cioè dell’altro per il costituirsi del sé (tra i molti, E.
Levinas e P. Ricoeur) e, più in generale, l’attuale proposta teologico-antropologica, ha ampiamente
recuperato l’esigenza di comprendere la singolarità dell’uomo a partire dall’intreccio delle sue
dimensioni essenziali, la storicità, la socialità, aperte alla trascendenza.
«L'uomo, colto nella sua concretezza storica, rappresenta il cuore e l'anima dell'insegnamento
sociale cattolico. Tutta la dottrina sociale si svolge, infatti, a partire dal principio che afferma
l'intangibile dignità della persona umana. Mediante le molteplici espressioni di questa
consapevolezza, la Chiesa ha inteso anzitutto tutelare la dignità umana di fronte ad ogni tentativo
di riproporne immagini riduttive e distorte; essa ne ha, inoltre, più volte denunciato le molte
violazioni. La storia attesta che dalla trama delle relazioni sociali emergono alcune tra le più ampie
possibilità di elevazione dell'uomo, ma vi si annidano anche i più esecrabili misconoscimenti della
sua dignità» (CDSC 107)
Nell’attuale contesto culturale il concetto di persona ha assunto una certa ambiguità a causa
dell’immagine di società post-moderna contrassegnata da tre drastiche separazioni avvenute in
occidente: quella tra individuo e società, tra etica e società, tra fede e società. La società è
considerata come un cerchio esterno alla vicenda personale nella quale si può decidere, di volta in
volta, se entrare o restare fuori.
La DSC intende offrire una immagine di persona e delle sue relazioni con la società non riduttiva; in
cui i reciproci rapporti passino dalla concorrenzialità all’integrazione, promuovendo cioè la
centralità della persona insieme al pieno valore della vita sociale.
L’uomo non dovrà mai divenire semplicemente cellula, ingranaggio del sistema sociale, o subire
riduzioni spersonalizzanti. Anche Giovanni XXIII nella Pacem in terris attesta l’irrinunciabile dignità
della persona umana: «in una convivenza ordinata e feconda va posto come fondamento il principio
che ogni essere umano è persona cioè una natura dotata di intelligenza e di volontà libera; e quindi
è soggetto di diritti e di doveri che scaturiscono immediatamente e simultaneamente dalla sua
stessa natura: diritti e doveri che sono perciò universali, inviolabili, inalienabili» (PT, 5). La DSC ha il
compito di vedere, alla luce dei suoi principi fondamentali, in quale misura i sistemi sociali esistenti
sono conformi o meno alle esigenze della dignità umana.
La persona è una irripetibile e inconfondibile singolarità (non si mescola con la società fondendosi
con essa) nella sua intrinseca relazionalità, dal momento che la società è già in molti modi presente
in essa. L’uomo infatti viene alla vita da altri; il suo sviluppo fisico, intellettuale, affettivo, morale
ecc., non è puro esercizio di autoedificazione individuale, ma è frutto dell’apporto di altri che,
interagendo con la sua libertà, me rendono possibile il costituirsi della sua personalità. Per questo,
«La persona non può mai essere pensata unicamente come assoluta individualità, edificata da se
stessa e su se stessa, quasi che le sue caratteristiche proprie non dipendessero da altri che da sé. Né
può essere pensata come pura cellula di un organismo disposto a riconoscerle, tutt'al più, un ruolo
funzionale all'interno di un sistema» (CDSC 125).
Quali sono allora i tratti irriducibili della persona umana?
La persona umana, nella sua «irripetibile e ineliminabile singolarità», va compresa come libertà,
mediata da una corporeità e per questo in relazione al mondo materiale, aperta alla comunione
come dice già, originariamente, il suo essere uomo e donna, come pure alle più alte forme di
socialità; aperta infine alla trascendenza e alla universale salvezza in Cristo, in quanto ultimamente
orientata alla comunione Trinitaria.
Tratto unificante della persona umana è la coscienza, voce di Dio che dà dignità alla persona umana,
proprio come afferma la Gaudium et spes al n°16:
«Nell'intimo della coscienza l'uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve
obbedire. Questa voce, che lo chiama sempre ad amare, a fare il bene e a fuggire il male, al momento
opportuno risuona nell'intimità del cuore: fa questo, evita quest'altro.
L'uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al cuore; obbedire è la dignità stessa dell'uomo,
e secondo questa egli sarà giudicato. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo, dove
egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell'intimità».
2.2.2 Principali attuazioni storiche: dignità, diritti, doveri dell’uomo
Vediamo ora alcune delle tantissime attualizzazioni del principio personalista.
1) La promozione della dignità dell’uomo: ogni persona umana è portatrice di una intangibile
e inalienabile dignità, la quale è una vocazione intima che non dipende dallo stato di vita
dell’uomo. Questo ci aiuta a uscire dall’empasse nella quale ci veniamo a trovare quando
consideriamo la dignità umana identificata con le possibilità: non è la soddisfazione delle
diverse possibilità che la vita offre a rendere degna di essere vissuta una vita ma, la dignità,
dipende solo e sempre dall’essere della persona.
2) Alla dignità umana sono connessi poi i diritti dell’uomo: «la fonte ultima dei diritti umani
non si situa nella mera volontà degli esseri umani, nella realtà dello Stato, nei poteri pubblici,
ma nell’uomo stesso e in Dio suo creatore. Tali diritti sono “universali, inviolabili,
inalienabili”» (CDSC 153)
Importante è considerare il carattere indivisibile di questi diritti: Essi vanno tutelati non
singolarmente ma nel loro complesso, «una loro protezione parziale si tradurrebbe in una
sorta di mancato riconoscimento» (CDSC, 154). Per quanto riguarda la loro individuazione
specifica, appurato che essi «implicano, in primo luogo, la soddisfazione dei bisogni essenziali
della persona, in campo materiale e spirituale» (CDSC, 154), il Compendio rinvia per questo
all’articolazione proposta dalla Centesimus annus:
« Tra i principali sono da ricordare: il diritto alla vita, di cui è parte integrante il diritto a
crescere sotto il cuore della madre dopo essere stati generati; il diritto a vivere in una
famiglia unita e in un ambiente morale, favorevole allo sviluppo della propria personalità; il
diritto a maturare la propria intelligenza e la propria libertà nella ricerca e nella conoscenza
della verità; il diritto a partecipare al lavoro per valorizzare i beni della terra ed a ricavare da
esso il sostentamento proprio e dei propri cari; il diritto a fondare liberamente una famiglia
ed a accogliere e educare i figli, esercitando responsabilmente la propria sessualità. Fonte e
sintesi di questi diritti è, in un certo senso, la libertà religiosa, intesa come diritto a vivere
nella verità della propria fede ed in conformità alla trascendente dignità della propria
persona» (CA, 47).
3) I doveri: Non va naturalmente dimenticato che ai diritti sono correlati i doveri. Senza il
recupero di un rapporto di complementarietà tra questi anche l’affermazione dei diritti
perderebbe ogni vera consistenza. Senza di essi promozione personale e sociale sarebbero
fortemente concorrenziali portandoci alla contrapposizione tra persona e istituzioni, mentre
rispettando la complementarietà diritti-doveri ecco che esse marciano sulla stessa strada:
solo così si potrà riconoscere che se la società tutta è al servizio della persona, per la crescita
integrale della persona è altrettanto necessario il suo contributo attivo alla società.
Con ciò si supera ogni progetto sociale massificante in cui la persona è subordinata allo
Stato e la propria singolarità è dissolta nel “tutto” sociale, come anche una prospettiva
nella quale all’individuo viene garantito il massimo grado di autonomia e libertà soggettiva
senza l’adeguata considerazione dell’intrinseca socialità dell’uomo e della comunanza
originaria che lo unisce irrevocabilmente ad ogni altro.