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STORIA DELLA FOTOGRAFIA

(BEAUMONT NEWHALL)
fotografia
Accademia di Belle Arti di Napoli
41 pag.

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STORIA DELLA FOTOGRAFIA
(BEAUMONT NEWHALL)

CAP. I⎮L’IMMAGINE ELUSIVA


Nel tardo rinascimento già si faceva uso della camera oscura, ma solo un secolo dopo, con il
trattato DE PICTURA di Leon Battista Alberti (leggi classiche della prospettiva), venne usata per
la produzione di immagini.
Solo nel XVII secolo, dopo varie modifiche, la camera oscura divenne portatile. In un primo
momento era una scatola di legno dove ad una estremità c’era una lente e all’estremità opposta
una lastra di vetro; poco più tardi venne modificata: la lastra di vetro era collocata nella parte
superiore della scatola; inserendo poi uno specchio ad un angolo di 45° all’interno di essa,
l’immagine che veniva proiettata sulla lastra risultava non capovolta. All’artista spettava solo il
compito di ricalcare l’immagine su un foglio.
Piccolissimo passo avanti lo ottenne Schultze nel 1727 sbagliando un esperimento del collega
Balduin.
BALDUIN: Carbonato di calcio + acido nitrico = nitrato di calcio. Il residuo post-distillazione, una
volta raffreddato, brillava al buio.
SCHULTZE: Carbonato di calcio + acido nitrico (+argento) = nitrato di calcio e carbonato
d’argento. La sua acqua regia era impura e conteneva argento. Il suo composto reagiva in
maniera diversa alla luce e al calore. Prima grande scoperta di una sostanza fotosensibile.
In quell’epoca si fece di tutto per poter ricreare fedelmente un ritratto: la litografia, tornò in voga
la xilografia; Chrétien inventò il physionotrace nel 1786; nel 1807 nasce la camera lucida.
Queste invenzioni avevano in comune una cosa: la matita e l’artista doveva bene o male saper un
minimo disegnare. Ma ciò che volevano veramente gli artisti era abbandonare la matita per poter
disegnare con la luce.

CAP. II⎮L’INVENZIONE
Thomas Wedgwood. Per primo fece esperimenti con la luce. Era a conoscenza della scoperta
di Schultze: la sensibilità alla luce dei sali d’argento, ma non ottenne un granché perché le sue
immagini solari erano labili, tanto da tenerle in un posto bui per non farle annerire. Quello che si
ricercava era una sostanza che permettesse di bloccare la reazione.
Nicèphore Niepce. Lui utilizzò in primo luogo il cloruro di argento. Voleva fissare i colori. In una
lettera al fratello Claude scrive che quello che ottenne era un immagine dove il fondo era nero e gli
oggetti bianchi: un vero e proprio negativo. Egli cercò una sostanza che scolorisse, anziché
diventare scura per azione della luce e la trovò: bitume di Giudea, sensibile alla luce e solubile in
olio di lavanda, è usata dagli incisori per ricoprirne la lastra di rame prima di tracciarvi il disegno.
Il procedimento di Niepce consisteva in sensibilizzare una lastra da incisore con del bitume di
giudea ed esporre tutto alla luce del sole; dopo un tempo relativamente lungo, le parti di bitume si
scolorivano e indurivano; la lastra veniva lavata e alla fine si otteneva l’immagine. Il metallo nudo
poteva essere intaccato con l’acquaforte e trasformato in una lastra pronta per la stampa. Questo
procedimento prendeva il nome di ELIOGRAFIA. Ma aveva dei difetti: tempi di posa fino a otto
ore e l’irriproducibilità dovuta alla poca definizione.
Louis Daguerre. Chimico e fisico, si era imposto come obiettivo principale quello di ridurre i
tempi di posa dell’esperimento portato avanti dal socio Niepce. I due si conobbero al teatro
Diorama di Parigi, quando Niepce lo andò a trovare prima di andare a Londra dal fratello Claude
malato. Niepce era a conoscenza che Daguerre stava anch’esso facendo ricerche volte al
medesimo obiettivo e nel 1829 firmarono un accordo societario per la durata di dieci anni. Niepce
morì prima e Daguerre continuò da solo, mettendo a punto una nuova tecnica proprio per ridurre i
tempi di esposizione. Lui usa una lastra di rame dove è stato applicato elettrolicamente uno strato
di argento e sensibilizzato alla luce con i vapori di iodio. A questo punto si esponeva il tutto alla
luce per un arco di tempo che andava dai dieci minuti ai quindici minuti. Fatto ciò, si riponeva la
lastra su una scatola contenente vapori di mercurio per rendere l’immagine visibile e
successivamente si immergeva in una forte soluzione di cloruro di sodio per rendere lo ioduro di
sodio insensibile alla luce. Infine la lastra veniva lavata in acqua e asciugata. Questo
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procedimento prenderà il nome di DAGHERROTIPO. L’immagine che veniva fuori era molto
fedele, precisa nei particolari e con una gamma di sfumature molto più ampia, presentava una
messa a fuoco impeccabile ed era molto nitida, ma aveva anch’essa dei piccoli difetti: queste
lastre erano delicatissime, al punto che Daguerre le proteggeva in delle lastre di vetro, e
sopratutto erano dei POSITIVI DIRETTI e quindi irriproducibili.
Questo procedimento venne presentato all’Académie des Scieances e l’Académie des Beaux
Arts nel 1839 da François Arago come un miracolo fra le mani di Daguerre, dando alla luce
“l’incarico che spettava al pittore disegnando propriamente dire se stessa”.
William Henry Talbot. Scienziato, matematico e uomo di grande cultura conosceva la tecnica di
Daguerre e si impegnò nel risolvere il problema fondamentale di quell’esperimento, ovvero
l’irriproducibilità dell’immagine. Lui ha intenzione di ottenere sulla carta delle immagini stampabili
e inventa quella che poi chiamerà SCIADOGRAFIA, tecnica che noi oggi chiamiamo negativo
fotografico. Immergendo un foglio di carta in una debole soluzione di cloruro di sodio e, una volta
asciugato, in una forte soluzione di nitrato di argento, si formava entro la struttura della carta,
grazie alle due reazioni chimiche, cloruro di argento, un sale fotosensibile e non solubile in acqua.
Mise a contatto con il foglio così preparato una foglia, una piuma e un pizzo e espose alla luce. A
poco a poco la carta si annerì là dove l’opacità dell’oggetto a contatto con la sua superficie non
proteggeva dalla luce. Ne risultò un contorno bianco contro il fondo scuro della carta annerita.
Talbot poi descrisse come, da questo negativo, stampare il positivo. Il procedimento era
abbastanza semplice e consisteva nel preparare nuovamente il foglio e porre su di esso, come
oggetto, il foglio precedentemente esposto, con il risultato che le luci e le ombre apparivano
rovesciate. Per ottenere tale risultato, il negativo deve essere fissato, cioè reso insensibile
all'ulteriore azione della luce. Talbot vi riuscì immergendo la carta in una forte soluzione di sale da
cucina o di ioduro di potassio, un trattamento che rendeva gli inalterati sali d’argento in parte, ma
non del tutto, insensibili alla luce. Questo cambiamento di proprietà è dovuto al fatto che i sali
d'argento, a seconda del modo come sono prodotti, differiscono grandemente nella loro
sensibilità alla luce. Se a una debole soluzione di nitrato d'argento si aggiunge una forte soluzione
di sale da cucina, il precipitato di cloruro d'argento e molto meno sensibile alla luce di quello
prodotto da una debole soluzione di sale, pur essendone uguale la struttura chimica. La tecnica
conservativa di Talbot era precaria, e molte delle sue prime immagini fissate con una forte
soluzione di sale si sono dissolte, ma almeno il suo procedimento diede a questi disegni
fotogenici la stabilità necessaria perché potessero essere venduti alla luce del giorno e stampati
come positivi.
Hippolyte Bayard. Il pioniere più sfortunato. Il suo metodo era originale: un foglio di carta al
cloruro d'argento era tenuto alla luce finché diventava scuro. Poi veniva immerso in una soluzione
di ioduro di potassio ed esposto nella camera oscura. La luce faceva scolorire la carta in misura
proporzionale alla propria intensità: si ottennero così i primi positivi diretti su carta; ciascuna
immagine era unica. Ma, in mezzo al grande scalpore suscitato dal dagherrotipo, l'opera di
Bayard fu completamente trascurata.

CAP. III⎮IL DAGHERROTIPO


L'apparecchio con tutta l’attrezzatura necessaria costava 400 franchi.
I primi dagherrotipi raffiguravano soprattutto monumenti architettonici. Pochi giorni dopo il 19
agosto la rivista “Le Lithographe” pubblico una litografia tratta da un dagherrotipo di Notre-Dame.
Pur nella sua rozzezza, la stampa mostra l'uso importante della nuova invenzione.
Le copie da dagherrotipi non tardano diventare popolari. Fra il 1840 e il 1844, furono pubblicate
a Parigi 114 vedute topografiche di una serie di Excursions daguerriennes. Dagherrotipi presi in
Europa, nel Medi Oriente e in America per l’editore N.-M.-P. Lerebours furono faticosamente
ricalcati e trasferiti sul lastre di rame con il procedimento dell’acquatinta.
Fra i primi a fare dagherrotipi per Lerebours fu il canadese Pierre-Gustave Joly de Lotbinière;
andò in Siria e in Egitto, e qui si incontrò con un altro fotografo al servizio di Lerebours: Frédéric
Goupil-Fesquet, un francese che viaggiava nel Medio Oriente insieme al pittore Horace Vernet.
Joly de Lotbinière si unì all'oro e insieme risalirono il Nilo in una dahabia per raccontare la prima
documentazione fotografica dell’Egitto. Oggi la maggior parte dei dagherrotipi originali sono
andati perduti e i nomi dei loro autori sono dimenticati.
Molti altri viaggiatori fissarono con il dagherrotipo quello che si offriva ai loro occhi. Anche se i
dagherrotipi di architetture e di imponenti paesaggi lontani erano assai ammirati, il pubblico era
deluso perché l'invenzione non manteneva le promesse implicite nel primo annuncio.
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Un motivo dell'indifferenza era che l'inventore chiese e ottenne un brevetto in Inghilterra. Un altro
motivo, più importante, fu che il procedimento, sulle prime, non soddisfò la richiesta del pubblico,
smanioso di fare ritratti. Lo stesso Daguerre disperava che con la sua invenzione si potesse mai
riuscire a fare ritratti, date le lunghe pose necessarie.
Samuel F. B. Morse, pittore e inventore americano, cercò, nell'autunno del 1839, di fare ritratti a
New York. Sua moglie e sua figlia, egli ricordava, “posavano fra i dieci e i venti minuti all'aperto,
sul tetto di un edificio, nella piena luce solare, con gli occhi chiusi”.
Alexander S. Wolcott e John Johnson hanno iniziato a fare dagherrotipi nell’ottobre,
servendosi di una macchina fotografica di loro invenzione e brevettata, nella quale uno specchio
concavo sostituiva l'obiettivo.
Alcuni mesi dopo aprirono uno studio che il “Sun” di New York, nel numero del 4 marzo del
1940, definì “la prima galleria di ritratti dagherrotipici”.
A Londra, Richard Beard importò dagli Stati Uniti la macchina fotografica di Wolcott e nel marzo
del 1841 aprì uno studio pubblico, il primo in Europa, che non tardò ad affollarsi di clienti.
Per aumentare la luminosità, in questi primi studi di ritrattistica i raggi del sole venivano riflessi
per mezzo di specchi. Le pose erano un supplizio: la luce era di uno splendore accecante.
Fintanto che al cliente si richiedeva un così grande eroismo, i ritrattisti non potevano sperare nel
favore popolare. Era necessario trovare miglioramenti tecnici radicali. Lo stesso Daguerre fece
poco per perfezionare la sua invenzione.
La fine del 1840 registrò tre sostanziali progressi tecnici.
In primo luogo, nel 1840 fu messo sul mercato dal viennese Peter Friedrich Voigtländer un
obiettivo perfezionato, che dava un'immagine 20 volte più brillante di quello di Daguerre.
Progettato da Joseph Max Petzval, il modello di obiettivo si diffuse subito in Europa e in
America.
In secondo luogo, si aumentò la sensibilità della luce delle lastre coprendo una seconda volta la
superficie iodata con alogeni diversi dallo iodio. Il primo a divulgare un metodo pratico fu John
Frederick Goddard. Egli sottometteva successivamente la lastra argentata ai vapori di iodio, poi
lavori di bromo, soli o in combinazione con quelli di cloro. Finalmente la combinazione di questo
acceleratore (o quichstuff) con l'obiettivo di Petzval permise di fare regolarmente dei ritratti in
meno di un minuto.
In terzo luogo, i toni del dagherrotipo furono arricchiti indorando la lastra: un'invenzione del
francese Hippolyte-Louis Fizeau. La lastra veniva prima immersa in un bagno di iposolfito; poi la
si scaldava ponendola orizzontalmente su una fiamma bassa; infine la si cospargeva di una
soluzione di cloruro d'oro “che dava alle parti luminose dell'immagine maggiore intensità”.
Quest'opera aveva anche un altro vantaggio: e cioè la delicata superficie del dagherrotipo era
resa meno deperibile. Non appena ottenuti questi miglioramenti tecnici, gli studi di ritrattistica
furono aperti quasi in ogni paese del mondo occidentale.
Persone di ogni ceto e categoria posavano davanti alla macchina fotografica, grazie sopratutto
ai prezzi relativamente bassi.
I migliori ritratti di dagherrotipo sono spontanei e penetranti, in parte per l'assoluta assenza di
ritocchi, ma motivo forse ancora più importante era l'evidente svantaggio del lungo tempo di
posa. Era una dura fatica riprendere in dagherrotipo. Il cliente doveva collaborare con l'operatore,
sforzarsi non soltanto di stare fermo per mezzo minuto, ma anche di assumere un'espressione
naturale. Se si muoveva, l'immagine era rovinata.
L'enorme richiesta di ritratti di famiglia era dovuta in gran parte alla preoccupazione della morte.
I dagherrotipi più raffinati erano protetti sotto vetro in astucci foderati di velluto. I primissimi erano
di semplice fattura. Gli astucci meno costosi erano in cartapesta, con decorazioni stampate. Verso
la metà degli anni ’50 furono messi sul mercato degli Stati Uniti astucci di materiale sintetico, detti
“Union Cases”, che si presentavano spesso come bassorilievi assai elaborati che si spirano a
soggetti di dipinti popolari. In Europa si usava anche incorniciare i dagherrotipi in passe-partout di
vetro dipinto. La maggior parte dei dagherrotipi rispecchiavano lo stile di un periodo, più che
quello di un individuo, e, mancando una documentazione, è impossibile un'attribuzione personale.
Molti dei più bei ritratti francesi furono opera di Jean-Baptiste Sabatier-Blot, un pittore
miniaturista allievo e amico di Daguerre. I dagherrotipi di tipi “Académies” - o modelli nudi -
utilizzati dagli artisti erano assai diffusi, e spesso di intrinseca bellezza. In Germania
dagherrotipisti furono assai attivi, soprattutto ad Amburgo: i migliori ritrattisti di questa città furono
Carl Ferdinand Stelzner e Hermann Biow. Anche in Italia l'attività dei dagherrotipisti fu intensa.
Nel novembre del 1839 l'ottico Alessandro Duroni fece diversi dagherrotipi di Milano con

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attrezzature e materiali importati dalla Francia; in Inghilterra i principali ritrattisti furono Antonie-
François Claudet e Richard Beard.
Fra tutti i paesi, gli Stati Uniti furono quelli che adottarono il dagherrotipo con maggior
entusiasmo e più eccelsero nell'usarlo. Nell'autunno del 1839 il francese François Gouraud si
recò negli Stati Uniti con dagherrotipi fatti da Daguerre e da lui stesso, che per qualità superavano
di gran lunga le opere di Morse e degli altri pionieri americani. L'inventiva americana non tardò a
introdurre notevoli miglioramenti tecnici.
John Adams Whipple installo nel suo studio di Boston una macchina a vapore che
contemporaneamente azionava i lucidatori, riscaldava il mercurio, faceva vento ai clienti in attesa
del proprio turno e faceva girare sulla porta d'ingresso un'insegna raffigurante un sole d'oro. Una
dose maggiore d'argento fu aggiunta alle lastre con il trattamento elettrolico.
I dagherrotipi americani non tardarono a raggiungere fama internazionale. Nel 1848 Charles R.
Meade andò a trovare Daguerre e fece sette ritratti dell’inventore. Alla Grande Esposizione delle
Opere dell'Industria, tenutasi al Crystal Palace di Londra nel 1851, gli americani si aggiudicarono
tre delle cinque medaglie messe in palio per i dagherrotipi.
Nel 1853 soltanto a New York vi erano 86 studi; i più importanti erano quelli di Mathew B.
Brady, Martin M. Lawrence e Jeremiah Gurney.
A Boston Albert Sands Southworth e Josiah Johnson Hawes, ambedue allievi di Gouraud,
fecero ritratti che assai si differenziavano dalle rigide pose convenzionali tanto care alla maggior
parte dei loro colleghi. Quando Lemuel Shaw, presidente della corte suprema del Massachusetts,
si recò nel loro studio, gli toccò di posare in piedi illuminato da un raggio di sole che metteva in
evidenza con forza straordinaria i suoi lineamenti vigorosi.
I loro prezzi variavano a seconda del formato: nel 1850 presentarono a un cliente una fattura di
33$ per un dagherrotipo “grande”, di 8$ dollari per “un formato di 1/4” e di a 2,50$ per ciascuno
dei tre dagherrotipi “piccoli”. La maggior parte degli studi facevano pagare due dollari per una
lastra del formato di un 1/6.
La concorrenza non tardò a far abbassare i prezzi sempre più: al pubblico furono offerti
dagherrotipi a 50 cents, a 25 cents e persino a 121/2 cents: erano dagherrotipi ottenuti col sistema
di “due con un solo scatto”.
La divisione del lavoro aveva accelerato i tempi portando la produzione giornaliera a 300 o 500 e
persino 1000 dagherrotipi. Il cliente acquistava un biglietto ed era messo in posa da un operatore
che non si allontanava mai dall'apparecchio. Qualcuno gli portava una lastra, già preparata dal
lucidatore e dal verniciatore; quindi egli, dopo averla esposta nel suo schermo protettivo, la
passava all'addetto al trattamento col mercurio e la sviluppava, all'indoratore che l'abbelliva,
all'artista che la tingeva: 15 minuti dopo il cliente riceve in cambio del suo biglietto il ritratto finito.
Era raro che ritratti ottenuti con tanta rapidità fossero soddisfacenti; infatti molti clienti delusi non
li ritiravano.
La maggior parte dei dagherrotipi sono ritratti; tuttavia la lastra d'argento riprendeva anche
architetture, panorami di città, persino avvenimenti di attualità.
Charles Fontayne e William Southgate Porter nel 1848 fotografarono il lungo fiume di
Cincinnati per la lunghezza di tre miglia, su otto lastre intere. I dagherrotipi furono poi incorniciati
l'uno accanto all'altro, così da costruire un panorama continuo e particolareggiato lungo più di un
metro e mezzo. San Francisco era uno dei soggetti preferiti: fra i numerosi panorami di quella città
il più spettacolare fu preso in cinque lastre da William Shew.
Fra le primissime fotografie di avvenimenti a noi rimaste ricordiamo una serie di dagherrotipi di
mulini in preda alle fiamme a Oswego, nello stato di New York, fatti da George Bernard nel 1853.
Per quanto popolare, il dagherrotipo era condannato. Non si prestava a rapide riproduzioni. Era
fragile e doveva essere conservato sotto vetro in un astuccio voluminoso o in cornice. E costava
caro. Ben presto scomparve dalle piazze mondiali. Negli Stati Uniti il procedimento ebbe vita più
lunga, ma a partire dal 1864 la professione di “dagherrotipista” non apparve più nella guida
commerciale di San Francisco.

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CAP. IV⎮IL CALOTIPO
Nel 1841 William Henry Fox Talbot annunciò di essere riuscito a perfezionare il procedimento
del disegno fotogenico: diede al nuovo metodo il nome di calotipo. Prima egli teneva la carta
sensibilizzata esposta alla luce finché l'immagine diventava visibile. Poi fece una notevole
scoperta: un'esposizione molto più breve cambiava talmente le caratteristiche dei sali d'argento
che questi potevano essere ridotti in argento con un ulteriore trattamento chimico.
Il principio dello sviluppo dell'immagine latente è fondamentale per la maggior parte dei
successivi procedimenti fotografici.
Per ottenere il negativo calotipico, Talbot immerse un foglio di carta in due soluzioni, una di
nitrato d'argento, l'altra di ioduro di potassio. Lo ioduro d'argento, relativamente sensibile, che si
era venuta a formare, diventò altamente sensibile alla luce quando egli lavò la carta con un
miscuglio di acido gallico e nitrato d'argento, che egli chiamò “gallo-nitrato d’argento”. Dopo
l'esposizione, immerse di nuovo la carta in un bagno della stessa soluzione, che agì come
rivelatore fisico e a poco a poco fece apparire l’immagine. Per fissare i negativi, Talbot
inizialmente usò bromuro di potassio e più tardi una soluzione calda d’iposolfito. Per la stampa
ricorse alla primitiva carta impressionata al cloruro d’argento.
In virtù della sua invenzione Talbot chiese di ottenere il brevetto in data 8 febbraio 1841. Ma, per
la sua opera, Talbot non aveva avuto alcuna ricompensa e ben scarso riconoscimento. Daguerre,
invece, ricevette una rendita annuale.
Talbot, vedendo che altri ottenevano successi commerciali con la fotografia, si sentì autorizzato
a esigere diritti da coloro che si servivano della sua tecnica perfezionata.
Nei frequenti viaggi nell'Europa continentale e in Inghilterra Talbot lavoro attivamente. Mandava i
negativi a Lacock Abbey, dove venivano stampati da sua moglie Constance e da Nicholas
Henneman. La produzione era voluminosa. Nell'autunno del 1843 Talbot organizzo a Reading un
laboratorio di stampa, il Talbotype Establishment, e ne affidò la direzione ad Henneman.
Ogni negativo, dopo essere stato messo a contatto con la carta da stampa sensibilizzata al
cloruro d'argento, veniva chiuso in un telaio ed esposto alla luce per un periodo di tempo variante
da alcuni minuti a un'ora e più, finché appariva un’immagine. Poi la carta veniva fissata, lavata e
asciugata.
I calotipi raffiguravano per lo più architetture, nature morte e opere d’arte. I calotipi più
interessanti sono vedute quasi banali di Lacock Abbey: il granaio, o un pagliaio, o La porta aperta,
che lascia intravedere un interno buio.
I primi a ottenere un successo artistico con il procedimento calotipico furono David Octavius
Hill e Robert Adamson.
Hill era un noto pittore di Edimburgo. Nel 1843 si prefisse un compito enorme: fare un ritratto di
gruppo di 457 uomini e donne presenti alla convenzione di Edimburgo nel momento in cui fu
fondata la Chiesa Libera di Scozia. Si affidò alla fotografia per garantirsi la somiglianza dei
numerosi delegati e trovo un valido aiuto in Robert Adamson, che aveva appena aperto uno
studio professionale a Edimburgo. I due soci collaborarono fino al 1848. Alcuni dei più bei calotipi
dei due amici sono ritratti alla buona di pescatori della vicina New Haven.
Hill e Adamson facevano posare il cliente all'aperto, per lo più da solo. Le ombre violente
proiettate dalla luce solare diretta erano attenuate per mezzo di uno specchio concavo che
rifletteva la luce; le pose spesso duravano alcuni minuti. I calotipi di Hill e Adamson meritano di
essere ricordati per la loro dignità, per la profondità di percezione e per l'espressione del carattere
di ogni singolo cliente.
Il calotipo, tuttavia, non fu impiegato principalmente nella ritrattistica, ma per tramandare
architetture e paesaggi.
Sembra che Talbot, pur avendo ottenuto un brevetto francese, non riuscisse a valersene, in
quanto non fu reso esecutivo, e il calotipo fu usato largamente in Francia, soprattutto per la
documentazione di monumenti architettonici.
I francesi apportarono due importanti miglioramenti tecnici al procedimento calotipico di Talbot.
Il primo consisteva nell'impregnare di cera la carta destinata ai negativi prima di applicarvi le
soluzioni sensibilizzanti. La tecnica fu descritta da Gustav Le Gray, un pittore che si dedicò alla
fotografia. Un sostegno teneva sollevata orizzontalmente sopra una lampada a spirito una lastra
di metallo un po' più larga del foglio di carta. Si passava sulla lastra riscaldata un grumo di cera
fino a coprirla in modo uniforme, poi si premeva fortemente la carta contro la lastra.
La si asciugava fra due fogli di carta assorbente e la si sensibilizzava immergendola
successivamente in bagno di ioduro di potassio e di nitrato d'argento.

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Dopo l'esposizione si procedeva lo sviluppo dell'immagine nell'acido gallico.
Le Gray osservò che gli eventuali errori di esposizione potevano essere corretti nello sviluppo;
un'esposizione di 20 secondi richiedeva “un'immersione di un giorno e una notte nell'acido
gallico”, mentre dopo un'esposizione di circa 15 minuti la stessa immagine “era completamente
visibile nello spazio di un’ora".
Il secondo perfezionamento del processo calotipico rese possibile la produzione in serie di
positivi destinati ad essere pubblicati in libri e album in misura assai superiore alla produzione del
Talbotype Establishment di Reading. Louis-Désiré Blanquart-Evrard di Lille progettò una carta
per lo sviluppo che riduceva i tempi di stampa a sei secondi per le fotografie prese alla luce del
sole e a trenta/quaranta secondi per quelle prese all'ombra. Ciò permetteva di tirare più di
quattromila positivi al giorno.
Il capolavoro di Blanquart-Evrard fu Egypte, Nubie, Palestine et Syrie, un album contenente 122
stampe tratte da negativi presi da un letterato, Maxime Du Camp, nel corso di un viaggio
compiuto nel Medio Oriente fra il 1849 il 1852 insieme al romanziere Gustavo Flaubert.
Autentico dilettante, Du Camp si fece dare qualche lezione di calotipia da Gustav Le Gray, che lo
rifornì di carta incerata, pronta per essere sensibilizzata. Quando Du Camp giunse in Egitto scoprì
con sgomento che i negativi erano irrimediabilmente rovinati. Per fortuna incontrò al Cairo un
certo Lagrange. Questi consigliò Du Camp di immergere la carta già preparata in un secondo
bagno di albume e ioduro di potassio e di usarla mentre era ancora umida della soluzione
sensibilizzante. La tecnica, si lamentò Du Camp, fu

“Lunga e tediosa, in quanto richiedeva grande abilità manuale e occorreva dedicare più di
40 minuti a un negativo per ottenere un'immagine completa”.

Fra le immagini più belle sono le prime fotografie che mai siano state prese del tempio di
Ramses II tagliato nella roccia a Abū Simbel.
Nel 1854 John B. Greene fece una serie di calotipi dei monumenti dell'antico Egitto sulle rive del
Nilo. Una scelta delle sue fotografie fu pubblicata nel 1854 da Blanquart-Evrard nell'album Le Nil:
Monuments, Paysages, Explorations photographiques. Blanquart-Evrard pubblicò anche calotipi
fatti sia da Henri Le Secq sia da Charles Marville: costoro avevano cominciato la loro attività
come pittore, quindi erano divenuti fotografi ufficiali della Commissione per i Monumenti Storici
presso il ministero degli Interni. Charles Nègre fotografò l'amico Le Secq in piedi su una delle
torri della cattedrale parigina accanto alla chimera. Nègre si servì di negativi insolitamente grandi,
che misuravano 73 × 53 cm. Fotografò anche i bei paesaggi nel sud della Francia, vicino a
Grasse, suo paese natale. Hippolyte Bayard, fallito il tentativo di diffondere a Parigi il suo metodo
del positivo diretto su carta, adottò il procedimento calotipico con notevole successo.
Il calotipo non fu mai popolare negli Stati Uniti. I lavori migliori su negativi di carta furono di
Victor Prévost e i fratelli Frederick e Williams Langenheim.
In Inghilterra, il rigore con cui Talbot esigeva che fosse rispettato il suo brevetto divenne un peso
quasi insopportabile per i fotografi. Egli difendeva con grande attenzione i suoi diritti e perseguiva
con accanimento chiunque facesse calotipi senza avergli pagato un canone che variava da 100 a
150 sterline l'anno. I fotografi, sia dilettanti e professionisti, si sentirono ostacolati; allora i
presidenti della Royal Academy e della Royal society rivolsero insieme un appello a Talbot perché
allentasse la sua morsa. In una lettera pubblicata sul “Times” di Londra, Talbot rinuncia a ogni
diritto sulla sua invenzione, salvo nel caso fosse utilizzata per fare ritratti a scopo di lucro.
Intanto era stato reso pubblico un nuovo procedimento per produrre negativi su vetro spalmato di
collodio sensibile alla luce.
Ma Talbot ritenne che il nuovo procedimento al collodio fosse di per sé una contraffazione,
giacché, a somiglianza del calotipo, era un sistema basato sul negativo-positivo, e l'immagine
veniva sviluppata nell'acido pirogallico che, a suo avviso, era identico alla sua soluzione di “acido
gallico e nitrato d’argento”. Talbot citò in giudizio William Henry Sylvester perché usava il nuovo
procedimento al colloquio senza avere la licenza per il calotipo, e nel 1854 lo trascinò in tribunale.
Dopo un'ora di dibattito i giurati emisero un duplice verdetto: Stabilirono che l'imputato non era
colpevole e stabilirono anche che Talbot era il primo e il vero inventore del procedimento
calotipico, era cioè la prima persona che lo aveva rivelato al pubblico.

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CAP. V⎮RITRATTI PER TUTTI
Nel 1851 una nuova era ebbe inizio nella tecnica fotografica con la scoperta, dovuta a Frederick
Scott Archer, di un metodo per sensibilizzare lastre di vetro con sali d'argento mescolati al
collodio. Nello spazio di un decennio il nuovo metodo sostituì completamente i due procedimenti
del dagherrotipo e del calotipo, fino al 1880.
Gli inconvenienti del negativo calo tipico avevano già suggerito l'uso del vetro come supporto
alternativo per il materiale fotosensibile. Per far aderire i sali d'argento al vetro erano state
sperimentate diverse sostanze fino ad ottenere un successo parziale con la chiara d’uovo. Queste
lastre all'albumina, inventate nel 1847 da Claude-Félix-Abel Niepce, diedero dei negativi
eccellenti, di una lucentezza e una finezza di particolari che si avvicinavano a quelle del
dagherrotipo. L'inconveniente più grave di queste lastre era la scarsa sensibilità. Motivo per il
quale non divennero mai popolari; tuttavia con esse furono prese eccellenti fotografie di
architetture.
Il collodio è una sostanza viscosa di nitrocellulosa in alcool ed etere. Si asciuga rapidamente e
forma una pellicola dura, impermeabile. Archer aggiunse al collodio ioduro di potassio e con la
soluzione ricoprì una lastra di vetro. Poi, a una luce attenuata, immerse la lastra in una soluzione
di nitrato d’argento. Gli ioni di argento si combinarono con gli ioni di iodio e formarono ioduro
d'argento sensibile alla luce all'interno del collodio. Espose la lastra, mentre era ancora umida,
nell'apparecchio fotografico. Poi lo sviluppo nell'acido pirogallico, la fissò con iposolfito di sodio,
la lavò, l’asciugò. Tutte queste operazioni dovevano essere compiute rapidamente, prima che il
collodio si asciugasse e divenisse impermeabile alle soluzioni richieste dal procedimento.
Contemporaneamente alla lastra al collodio si ebbero altre innovazioni tecniche nella
fabbricazione dell'obiettivo e nei procedimenti della stampa.
Il primo obiettivo progettato espressamente per la macchina fotografica fu l'obiettivo per ritratti
creato da Petzval nel 1840. Nel 1866 due ottici, Hugo Adolph Steinheil di Monaco e John Henry
Dallmeyer di Londra, per vie indipendenti e simultanee, progettarono obiettivi quasi identici
composti da due lenti simmetriche fisse, montate una di fronte all'altra con un diaframma in
mezzo: venivano così corretti l'aberrazione sferica in misura rilevante, e un poco anche
l'astigmatismo. Le lenti avevano ambedue un angolo di campo di circa 25°, e un'apertura di
diaframma variante da f/6 a f/8. Steinheil chiamò il suo obiettivo Aplanatico e Dallmeyer scelse il
nome di Rapido Rettilineo (o grandangolare).
La carta albuminata divenne il materiale più usato per la stampa. Fu inventata da Blanquart-
Evrard nel 1850. Egli ricoprì la carta con bianco d'uovo nel quale erano sciolti bromuro di
potassio e acido acetico. Una volta asciugata, la carta così trattata veniva agitata leggermente
sulla superficie di una soluzione di nitrato d'argento posta in una bacinella, poi di nuovo
asciugata. La carta sensibilizzata era messa a contatto con il negativo in un telaio di vetro, ed
esposta alla luce del sole per diversi minuti, finché apparirà un’immagine. Poi la stampa veniva
messa in una soluzione di cloruro d'oro che le dava una sfumatura di un marrone intenso, fissata
in iposolfito di sodio, lavata completamente e asciugata.
Un grave inconveniente delle stampe su carta trattate con sale e con l'albume era la labilità. Un
fissaggio in adatto, un eliminazione inadeguata dei residui chimici, la contaminazione di acidi e di
composti di zolfo quando i negativi venivano montati sui telai: tutti questi elementi spesso
cospiravano per far dissolvere l'immagine. Era necessario trovare il modo per garantire
l'inalterabilità del documento fotografico.
Nel 1856 l'archeologo e mecenate d'arti Honoré d’Albert mise a disposizione della Société
Française de Photographie la somma di 10.000 franchi per la costituzione di due premi: uno da
2000 franchi per un procedimento di stampa fotografico duraturo, e uno da 8000 franchi per una
tecnica fotomeccanica che permettesse la riproduzione delle fotografie con inchiostro tipografico.
Dopo molto tempo, ambedue i premi furono assegnati ad Alphonse-Louis Poitevin. Le sue
stampe au charbon soddisfacevano completamente le condizioni poste nel concorso bandito da
d’Albert.
Il secondo procedimento che fece vincere a Poitevin era la tecnica fotolitografica nota oggi
come collotipia. Ambedue i procedimenti si basavano sulla proprietà del bicromato di potassio di
alterare la solubilità nell'acqua di colloidi come la gomma arabica. Nel procedimento al carbone,
si mescolavano particelle di carbone con gelatina e bicromato di potassio. La carta era ricoperta
con questa emulsione e asciugata. Quando il foglio di carta veniva esposto per un certo tempo
alla luce del sole ponendovi sopra la lastra negativa, lo strato di gelatina e bicromato era reso
insolubile proporzionalmente alla luce ricevuta. Quindi l'emulsione che non era stata esposta
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veniva eliminata levandola nell'acqua: rimaneva soltanto il pigmento sospeso nella gelatina. Tutte
le sostanze chimiche si scioglievano nell'acqua; quindi era garantita la stabilità dell'immagine. I
mezzi toni, tuttavia, non erano resi in modo soddisfacente, e le immagini non erano ben nette e
precise. Tali difetti furono corretti da Sir Joseph Wilson Swan di Newcastle-upon-Tyne; egli
brevettò nel 1864 un procedimento di trasporto, transfert, su carta al carbone che diventò subito
popolare. Ora il fotografo poteva acquistare una carta al carbone.
Prima dell'uso il foglio veniva sensibilizzato immergendo una soluzione di bicromato di potassio.
Una volta asciugato, il fogli era esposto a contatto con un negativo, e quindi immerso nell'acqua
insieme un foglio di carta bianca. Quando i fogli erano ambedue umidi, venivano tolti e fatti
asciugare insieme, poi nuovamente immersi nell'acqua calda. La gelatina che non era stata
esposta si dissolveva, permettendo così al fotografo di togliere il supporto di carta e di conservare
invece la superficie esposta. Poiché l'immagine era rovesciata di lato, solitamente so faceva un
secondo transfer, quando non risultava accettabile immagine speculare.
Le fotografie del XIX secolo erano quasi tutte stampate per contatto, e quindi erano della stessa
misura dei negativi. Le macchine fotografiche solari, apparecchi per ingrandire, entrarono nell'uso
sul finire degli anni ’50. Il sistema ottico era analogo a quello di un proiettore di diapositive. Una
lente condensatrice, della stessa misura del negativo, era illuminata direttamente dalla luce solare;
l'immagine era proiettata da un secondo obiettivo su un telaio al quale era attaccato un foglio di
carta all'albumina. L'esposizione durava ore, talvolta anche giorni; toccava gli apprendisti di
tenere l'apparecchio sempre puntato verso il sole.
Un negativo debole, sul quale i sali d'argento lascino tonalità leggere e le ombre siano
trasparenti, risulterà come un positivo se lo si guarda contro un fondo nero.
I positivi diretti al collodio umido avevano una straordinaria somiglianza coi dagherrotipi. Essi
raggiunsero un enorme diffusione negli Stati Uniti; dimostrazioni pratiche furono date a
Philadelphia nel 1854, e un anno dopo M. A. Root coniava per essi la parola ambrotype.
James A. Cutting di Boston prese tre brevetti per i miglioramenti apportati: cioè per aver
aggiunto canfora e bromuro di potassio al collodio, e per avere usato la resina di abete per fissare
un vetro di copertura alla lastra. In generale, gli ambrotipi non hanno la brillantezza dei
dagherrotipi; ma era più facile produrli e per i professionisti la loro maggiore attrattiva consisteva
nel fatto che potevano essere finiti e consegnati nel momento stesso della posa.
Il procedimento ebbe vita breve e al suo posto ci fu un altro adattamento del procedimento della
lastra umida: il bel nodo tintype. Invece del vetro, si ricoprivano con un'emulsione sensibile alla
luce sottili fogli di ferro, laccati in nero. I tintypes, non avendo una superficie fragile potevano
essere spediti per posta, messi in tasca, montati in album. La lavorazione veniva eseguita sotto gli
occhi del cliente. Costavano poco, non soltanto perché i materiali erano a buon mercato, ma
anche perché, usando la macchina fotografica con molti obiettivi, si potevano ottenere con
un'operazione sola diverse immagini, che a procedimento ultimato venivano ritagliate con le
forbici. Frequenti sono le immagini di scampagnate e di incontri amichevoli; scarse, invece, sono
le vedute di paesaggi. I tintype godettero di una straordinaria popolarità.
Nonostante la concorrenza dell'imitazione diretta, né il tintype né ambrotype infersero un colpo
mortale al dagherrotipo. Il colpo di grazia gli fu invece assestato da una terza applicazione della
tecnica al collodio, la fotografia carte-de-visite, brevettato in Francia nel 1854 da André-Adolphe-
Eugène Desderi. Il nome allude alla somiglianza con un comune biglietto da visita.
Per ottenere questi piccoli ritratti Desderi prima faceva il negativo su una lastra umida con un
apparecchio speciale fornito di quattro obiettivi e di un porta lastre scorrevole. Su ciascuna metà
della lastra si facevano quattro esposizioni, perciò da ciascun negativo si potevano trarre otto
immagini in pose diverse. Quindi da una sola stampa del negativo si potevano ritagliare otto ritratti
distinti. Desderi rese famoso in tutto il mondo il suo sistema di ritrattistica in serie. Il suo studio
era, agli occhi di un venditore tedesco, “un vero Tempio della Fotografia; un luogo unico per lusso
ed eleganza”. Desderi morì senza un soldo perché il sistema che egli divulgo era così facile da
imitare che in tutto il mondo fotografi che erano poco più che tecnici si diedero a fabbricare
cartes-de-visite in modo meccanico, ripetitivo. La “cardomania” invase l'Inghilterra e l'America.
In principio i clienti venivano fotografati invariabilmente a figura intera e gli americani trovavano
ridicole le prime cartes-de-visite importate dalla Francia.
Come ritratti, la maggior parte delle cartes-de-visite hanno scarso valore estetico. Le immagini
erano così piccole che era difficile studiare le le espressioni del viso, e la posa era troppo rapida
perché si potesse prestare attenzione a ogni singolo individuo.
Per trovare i più bei ritratti della metà del secolo dobbiamo volgerci ai fotografi più seri, che
lavoravano sono formati più grandi.
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Nadar fu uno di quelli; egli si era rapidamente impadronito del procedimento al collodio e nel
1853 aveva cominciato a fissare le immagini dei personaggi famosi che correvano nel suo studio
destinato a diventare uno dei luoghi di incontro prediletti da intellettuali e politici liberali. Il suo stile
ritrattistico era semplice e chiaro: faceva posare i modelli in piedi contro sfondi lisci, sotto un alto
lucernario, e li ritraeva di tre quarti.
Sperimentatore appassionato, fu tra i primi a fotografare con la luce artificiale e presentò una
documentazione dei sotterranei, delle catacombe e delle fogne di Parigi. Fu il primo a fotografare
un pallone aerostatico, nel 1858.
Lo studio di Nadar era un esempio tipico dei laboratori fotografici sparsi nelle principali città del
mondo. La domanda e la concorrenza rendevano economicamente indispensabile la suddivisione
del lavoro. Il fotografo che firmava il prodotto finito per lo più si limitava a mettere in posa i clienti.
Era il capo dell'azienda e il direttore artistico di uno staff perfettamente addestrato. Spesso il
nome dello studio serviva a vendere il prodotto: diventava un marchio di fabbrica.
C'è un curioso parallelo fra la carriera di Nadar e quella del suo contemporaneo Etienne Carjat,
autore di molti fra i più bei ritratti di quel periodo. Meno in vista e meno spettacolare di Nadar,
Carjat, tuttavia, godette di grande popolarità: in un anno, il 1866, fece un migliaio di ritratti.
Raggiunse il vertice della dell'arte sua in quelli di Daumier, Courbet e Baudelaire.
Troviamo uno stile più ricercato nei ritratti del francese Antonie-Samuel Adam-Salomon.
Egli faceva posare i modelli sotto una luce che dall'alto scendeva di fianco, e che dopo di allora
fu detta “luce alla Rembrandt”. Li avvolgeva in drappi di velluto per ottenere effetti più pittorici.
Quando alcune fotografie di Adam-Salomon furono esposte alla Photographic Society di
Edimburgo, si accesero le discussioni: l'effetto era dovuto al ritocco? Il problema fu risolto
soltanto dopo un esame al microscopio: Adam-Salomon aveva realmente toccato i suoi ritratti.
Molti fotografi trovavano l'operazione “detestabile e costosa”, come ebbe a dire Nadar; tuttavia il
ritocco divenne un'abitudine, poiché i clienti ora esigevano che i tratti spesso duri della loro
fisionomia fossero ammorbiditi, le imperfezioni del viso rimosse e le rughe dell'età spianate.
Spesso si provvedeva a colorire o a dipingere con pigmenti opachi i positivi; ogni studio
importante disponeva solamente di artisti incaricati nell'opera di coloritura, i cosiddetti “coloristi”.
Intorno al 1860 i fotografi ritrattisti cominciarono ad usare elaborati sfondi dipinti al posto degli
schermi semplici e lisci. Comparvero sostegni di cartapesta, colonne scanalate, rustici seccati.
Il piccolo formato della carte-de-visite perdette favore di fronte ai formati più grandi.
La richiesta, da parte di attori attrici, di fotografie che facessero loro pubblicità portò a una
specializzazione in questo campo. L'effetto della maggior parte delle fotografie teatrali era dovuto
all'attore. Il successo alla fotografia dipendeva per lo più dalla capacità del modello di esprimere
la propria personalità. Uno dei fotografi di teatro più originali fu Napoleon Sarony.

CAP. VI⎮LA FOTOGRAFIA ARTISTICA


Nel 1861 critico inglese, in un articolo intitolato la fotografia artistica, scriveva: “Finora la
fotografia ha avuto come principale scopo di rappresentare la Verità. Non può allargare la sua
sfera? Non può aspirare a descrivere anche la bellezza?”
La fotografia aveva affrontato già da tempo il genere allegorico. Nel 1848 Mayall tradusse in sei
lastre la poesia di Thomas Campbell Il sogno del soldato.
Alla Grande Esposizione del 1851 altri dagherrotipisti americani esposero fotografie allegoriche.
Martin M. Lawrence, per esempio, in una lastra di 33 × 43 cm presentò tre donne di età diverse
sotto il titolo Passato, Presente e Futuro. Nella produzione di Hill e Adamson figurano molti
calotipi di amici, vestiti da armigeri o da frati, nell'atto di recitare brani di romanzi di Sir Walter
Scott. Con il perfezionamento del procedimento al collodio la fotografia attrasse un numero
sempre crescente di dilettanti che avevano una visione più ampia di quanto ne avesse la media
dei professionisti. Nel 1853 fu fondata la Photographic Society di Londra. Il suo primo presidente,
Sir Charles Eastlake, era anche egli un dilettante, e i dilettanti erano sempre più ascoltati.
Alla prima riunione, Sir William Newton, parlò ai soci su “La fotografia da un punto di vista
artistico”. Egli sollecitava i fotografi che facevano studi ad uso di pittori a prendere immagini
leggermente sfogate. Il suggerimento di William Newton suscitò discussioni così accese che egli
preciso ai soci di aver alluso soltanto alle fotografie prese ad uso degli artisti; per quello che
concerneva le fotografie documentarie, quanto più l'immagine era fuoco tanto era meglio. Le
emulsioni di ioduro di argento che si usavano allora erano sensibili soltanto ai raggi azzurri dello
spettro e a quelli che sono al di là. Era impossibile fotografare oggetti che riflettessero soltanto il
rosso o il verde. L'azzurro è presente nella maggior parte dei colori in quantità variabili. È
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predominante nel cielo; perciò con un'esposizione sufficiente per cogliere un paesaggio i cieli
risultavano sovresposti e senza nuvole. Se il negativo era troppo sovresposto si trasformava in
positivo. L'esposizione diretta al sole spesso produceva un disco trasparente nel negativo, che
nella stampa appariva minacciosamente nero. A questa inversione di toni si dà il nome di
solarizzazione. Per effetto di questo fenomeno, nei negativi ancora umidi raffiguranti paesaggi i
cieli non erano uniformemente neri, ma presentavano macchie leggere che facevano apparire le
fotografie come chiazzate. Di conseguenza, si usava ritoccarle nei contorni con una tinta opaca,
mentre la zona del cielo era protetta da una mascherina di carta.
Al fotografo si offriva l'alternativa di fare due negativi di un paesaggio: uno era esposto il tempo
sufficiente per cogliere i particolari della terra, l'altro era esposto per un tempo molto più breve
per registrare il cielo e le nuvole. Questa tecnica, alla quale fu dato il nome di stampa combinata,
fu usata da Gustav Le Gray di Parigi, per creare i suoi drammatici paesaggi marini.
La tecnica di trarre molteplici stampe da diversi negativi fu spinta all'estremo da Oscar G.
Rejlander in una grande opera allegorica del 1857: Le due strade della via.
Per riprendere questa grande scena con un unico negativo Rejlander avrebbe avuto bisogno di
un ampio studio e di molti modelli. Invece egli si assicurò i servizi di una compagnia di attori
ambulanti, e li fotografò a piccoli gruppi a distanze variabili adeguate alla prospettiva da cui
sarebbero stati visti dallo spettatore. Fece complessivamente 30 negativi, e li riunì in modo da
ottenere una sorta di collage di immagini. Poi li stampo uno dopo l'altro nelle posizioni desiderate.
Impiego sei settimane per giungere alla fotografia definitiva, che misurava 78 × 40 cm.
Rejlander fece numerosissimi studi di tipi umani diversi: monelli colti per le strade, gruppi di
genere, autoritratti in atteggiamenti teatrali: gli piaceva fissare con la macchina fotografica
espressioni diverse come paura e disgusto.
Si deve a Rejlander anche una delle primissime fotografie ottenute deliberatamente con la
sovrapposizione di due lastre: Tempi difficili.
Henry Peach Robinson divenne famoso nel 1858 con Fading Away, una fotografia composita
che mostra una fanciulla sul letto di morte assistita dai familiari affranti dal dolore. La fotografia fu
tratta da cinque negativi. Il pubblico fu turbato dal soggetto; ritenne di cattivo gusto raffigurare
una scena così penosa.
Oggi la critica non ci sembra più valida. A quei tempi si dipingevano soggetti assai più penosi.
Ma il fatto che si trattasse di una fotografia sottintendeva la veridicità della rappresentazione;
quindi la scena era vista alla lettera. Robinson fece numerosissime fotografie artistiche: ne
pubblicava uno all'anno. La sua influenza si fece sentire ancor più fortemente attraverso i copiosi
scritti. Il suo saggio Pictorial Effect in Photography fu ristampato diverse volte e tradotto in
francese in tedesco. Il libro si basava sulle regole accademiche di composizione.
Robinson, di solito, cominciava col disegnare un abbozzo della composizione definitiva. Per
molte fotografie di gruppo i modelli posarono nel suo studio. Proprio nel momento in cui pittori
portavano i loro cavalletti all'aperto, Robinson costruiva la natura sotto il lucernario: montava una
macchia di arbusti su una piattaforma mobile, faceva sgorgare un ruscello da un tubo della
camera oscura, dipingeva nubi sui tendaggi del fondo. Avvertì i principianti che

“stratagemmi, trucchi e magie d'ogni sorta sono leciti al fotografo, perché appartengono
alla sua arte, e non sono falsi rispetto alla natura”.

Fra gli iscritti e l'opera di questi fotografi-artisti c'era un evidente, curioso dualismo. Robinson, in
una pagina, scriveva che si potevano fare belle fotografie “mescolando la realtà e l’artificio", in
un'altra esaltava “quella verità perfetta, quella resa assoluta di luce, ombre e forme… che non può
essere raggiunta dal pittura e dallo scultore”.
L'ambivalenza è una caratteristica delle fotografie di Jiulia Margaret Cameron. I suoi ritratti
sono carichi di dinamismo e sono fra i più nobili e impressionanti che mai siano stati prodotti dalla
macchina fotografica; d'altro canto, i suoi ritratti in costume si attengono al linguaggio stilistico
dei pittori preraffaelliti.
Jiulia Cameron cominciò a dedicarsi alla fotografia in età matura. Sovvertiva le regole della
tecnica; ricorreva a qualsiasi mezzo per ottenere gli effetti desiderati. Le immagini evanescenti,
sfocate, deplorate da molti critici, erano intenzionali. Jiulia Cameron diede alle sue fotografie quel
respiro e quella semplicità che furono caratteristiche dei primi calotipi.
Le sue composizioni sono per lo più ritratti in costume.
Sempre più numerosi erano coloro che trovavano nella fotografia un'occupazione stimolante.

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Lady Carmelita Hawarden fece molte fotografie della sua famiglia; alcuni suoi ritratti a figura
intera hanno un fascino e una dolcezza di sentimenti che sono in stridente contrasto con la forza
dei ritratti di Jiulia Cameron. La sua opera destò l'ammirazione di Lewis Carroll, l'autore di Alice
nel paese delle meraviglie.
Appassionato dilettante, Carroll fece molte fotografie di bambine che gli erano amiche ed i
contemporanei famosi.
Quando nel 1853-54 Victor Hugo era in esilio nell'isola di Jersey, suo figlio Charles e l'amico di
lui fecero al poeta una serie di fotografie straordinari. Le immagini sono permeate di un misterioso
romanticismo.
Se i fotografi trassero ispirazione dalla natura, i pittori trovarono nella fotografia un’utile alleata.
Molti pittori famosi dell'Ottocento furono debitori alla fotografia: Eugène Delacroix fece posare
modelli nudi e dalle fotografie scattate dall'amico Eugène Durieu trasse numerosi schizzi.
Gustav Courbet si servì di una fotografia per il nudo del quadro Lo studio dell'artista del 1849.
Altri artisti si servirono della fotografia in modo più pedissequo, basarono cioè tutta la
composizione sull'immagine offerta dalla macchina fotografica. Molti pittori americani si
affidarono ai dagherrotipi per ritrarre la posa e le fattezze di uomini celebri. Per esempio, Charles
Loring Eliot, ritrattista americana assai noto, per il ritratto del romanziere James Fenimore
Cooper utilizzò un dagherrotipo attribuito a Mathew B. Brady.

CAP. VII⎮UNA NUOVA FORMA DI COMUNICAZIONE


Accanto a coloro che cercano di competere con il pittore servendosi della macchina fotografica
e dell’obiettivo, moltissimi altri usarono la fotografia semplicemente ed esclusivamente come
mezzo per fissare il mondo che li circondava. L’enorme capacità dello strumento mise a
disposizione del pubblico una quantità di documenti visivi che andava molto al di là di quanto si
fosse mai conosciuto prima. Fotografi disseminati per il mondo registravano la storia nel suo
divenire, luoghi lontani e finora inesplorati e la gente che vi viveva.
Il primo, ampio reportage fotografico di guerra porta la firma di Roger Fenton, un inglese che
lasciò la professione legale per la fotografia. La sua prima opera fu una serie di calotipi presi
durante un viaggio in Russia. Fenton fu il più autorevole fondatore della Photographic Society di
Londra, famoso per le sue vedute architettoniche assai curate nei particolari eppure piene di
forza. La regina Vittoria lo incaricò di fotografare la famiglia e le dimore di casa reale. Divenne poi
fotografo ufficiale del British Museum. Sollecitati dall'eccellenza del suo lavoro, i mercanti di
stampe Thomas Agnew e Figlio gli affidarono il compito di fotografare la guerra in Crimea.
Poiché utilizzava il procedimento del collodio umido, Fenton si procurò un carro coperto e lo
allestì come camera oscura. Il “carro fotografico” fu sbarcato a Balaklava nel marzo del 1855.
Dopo un mese Fenton era sul fronte insieme al suo assistente, Marcus Sparling.
I campi di battaglia della Crimea erano vaste, uniforme pianure; nelle fotografie di Fenton
appaiono piatti tristi, ed è difficile rendersi conto del grave rischio personale, sotto il fuoco dei
bombardamenti. La veduta di Balaklava, il porto ingorgato di navi, le banchine cariche di ogni
sorta di materiali mettono in evidenza la confusione che fu caratteristica di quella guerra così
disorganizzata. La maggior parte dei 300 negativi presi da Fenton sono ritratti di ufficiali in alta
tenuta ed i soldati.
Ritornò in Inghilterra in luglio: era un uomo malato, colpito dal colera. Si tennero mostre delle sue
fotografie a Londra e a Parigi; altre furono messe in vendita da Agnew.
A un pubblico avvezzo alle fantasie convenzionali dei pittori di battaglia romantici, queste
fotografie apparvero noiose, poco interessanti, anche se riconosceva il valore dell'apparecchio
fotografico come testimone fedele.
La caduta di Sebastopoli fu ripresa da James Robertson; nel 1857 egli fu il fotografo ufficiale
delle truppe britanniche mandate in India a dominare la rivolta del Bangla-Sepoy. Laggiù ebbe a
compagno Felice Beato; le loro fotografie prese dopo l'assedio di Luchnow, nel 1858, sono
vivide testimonianze della distruzione di edifici architettonicamente splendidi; fra le rovine
giacciono gli scheletri imbiancati dal sole degli infelici difensori caduti.
Beato proseguì per il Giappone e la Cina. Le sue fotografie illustranti la conquista di Tientsin da
parte delle truppe inglesi e francesi, alla fine della Guerra dell'oppio, sono anche più spaventose.
Brady, l'ex dagherrotipista, non tardò a scoprire quanto fossero stati sottovalutati i pericoli e le
difficoltà delle fotografie di battaglia. L'amore per la documentazione fotografica lo indusse a voler
registrare testimonianze della guerra civile; l'intima amicizia con influenti capi di governo gli

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assicurò i permessi necessari per entrare nelle zone dell'operazione; e aveva come collaboratori
fotografi assai abili.
Con i suoi operatori si precipitò al fronte. Occorrevano non poco zelo e coraggio per preparare
sviluppare lastre di vetro mentre il rimbombo della battaglia faceva tremare la terra. I fotografi
erano esposti ai pericoli della guerra. Rischiavano la vita per salvare le lastre. Poco mancò che
Brady fosse ucciso a Bull Run. Gli uomini di Brady fotografarono ogni fase della guerra; quando fu
conclusa la pace disponevano di più di 70.000 negativi. Brady fu probabilmente il primo ad avere
l'idea di raccogliere una documentazione fotografica della guerra civile.
Fra i collaboratori di Brady si distinsero soprattutto Alexander Gardner, che nel 1858 dirigeva la
sua galleria di Washington, Timothy H. O’Sullivan e George N. Bernard.
Nel 1863 Gardner litigò con Brady e creò un proprio corpo di fotografi, prendendo con sé
O’Sullivan e altri collaboratori.
Nel 1865-66 Gardner pubblicò, in due volumi, il Photographic Sketch Book of the War,
contenente 100 fotografie originali, ciascuna accompagnata da una pagina di testo, di cui alcune
sono fra le più belle immagini della guerra civile.
Nel 1866 George N. Bernard pubblicò una raccolta di fotografie raffiguranti i campi di battaglia,
fortificazioni rapidamente abbandonate, immensi pontili ferroviari costruiti dal Genio, la distruzione
di Atlanta. Nelle fotografie di Bernard si affiancarono stranamente l'immediatezza delle scene di
devastazione e il romanticismo dei paesaggi: questi, per lo più, furono ripresi molto tempo dopo la
cessazione delle ostilità.
Fra le immagini più efficaci della guerra civile dobbiamo ricordare i rigidi, raccapriccianti cadaveri
disseminati sul campo di battaglia, in attesa di una frettolosa sepoltura nelle brevi tregue che
seguivano ogni scontro.
I cadaveri abbondano nei quadri di battaglia fin dal Rinascimento. Ma il fuciliere di O’Sullivan,
irrigidito dalla morte, è un ritratto. Prima quest'uomo era vivo; questo è il luogo dov’è caduto;
queste erano le sue sembianze nel momento in cui spirò. In questo sta la grande diversità
psicologica fra la fotografia e le altre arti.
La macchina fotografica registra ciò che messo a fuoco sul vetro smerigliato. Se fossimo stati
presenti avremmo potuto toccare, contare i ciottoli. Tuttavia, ci è stato ripetutamente mostrato
che questa è pura illusione. I soggetti possono essere svisati, distorti, truccati. Ora lo sappiamo, e
talvolta possiamo anche provarne piacere; ma il fatto di sapere non può scuotere la nostra
indiscussa fiducia sulla veridicità di un'immagine fotografica.
La fondamentale fiducia nell'autenticità delle fotografie spiega perché siano così malinconiche le
immagini di persone non più vive o di architetture non più esistenti. Nei giorni critici che
seguiranno la cessazione delle ostilità in America, molti fotografi della guerra civile seguiranno la
costruzione della ferrovia transcontinentale. La fotografia sul campo di battaglia li aveva allenati a
servirsi della tormentosa tecnica del collodio umido in condizioni sfavorevoli.
Alexander Gardner segui passo passo la costruzione del settore orientale della Union Pacific
Railroad. Poi seguì il tracciato sud-occidentale. Un album di immagini ottenute con il
procedimento dell'albumina, intitolato Across the Continent of the Kansas Pacific Railroad, fu
pubblicato nel 1868, lo stesso anno in cui la ferrovia cambiò il nome. Queste fotografie non solo
documentano la costruzione della ferrovia, ma illustrano in modo assai efficace un viaggio di quei
tempi attraverso il paese su un convoglio ferroviario.
Il capitano Andrea Joseph Russell era presente nel momento storico nel quale i binari della
Union Pacific Railroad si incontrarono con quelli della Central Pacific a Promontory, dell'Utah, e fu
abitato l'ultimo bullone.
I fotografi accompagnarono le spedizioni organizzato dal governo per esplorare il territorio.
Timothy H. O’Sullivan, uno dei più arditi fotografi di guerra, nel 1867 si unì alla spedizione
geologica di Clarence King al 14º parallelo. 17 civili e 20 soldati di cavalleria lasciarono San
Francisco per raggiungere il grande Lago Salato. Nel 1870 O’Sullivan era Panama, e fotografava
per la Spedizione Darien del comandante Thomas Oliver Selfridge. L'anno successivo, si unì al
tenente George Montague Wheeler del Corpo dei generi-geografi incaricato delle esplorazioni
geologiche e geografiche a ovest del 100º meridiano.
In quel momento O’Sullivan era il più esperto fotografo di spedizioni degli Stati Uniti.
Alcune fra le fotografie più interessanti di O’Sullivan furono prese durante l'esplorazione
compiuta nel 1873 dalla Geological & Geographical Survey in Arizona. La maestosa imponenza
del Canyon è colta mirabilmente.
Una fotografia mette in evidenza tutte le stratificazioni della parete del Canyon.
Il 1870 William Henry Jackson si unì alla Geological & Geographical Survey del geologo Francis
Vandiveer Hayden per l'esplorazione dei territori. Da ragazzo aveva lavorato come “colorista” in
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alcuni studi fotografici. Jackson dal Missouri percorse il continente seguendo mandrie di bufali;
poi, nel 1867, si stabilì nel Nebraska dove aprì uno studio con il fratello. Ma Jackson trovava
noioso il lavoro fra quattro mura; perciò lasciò al fratello la routine delle lunghe pose di chi
chiedeva un ritratto, e si diede a percorrere la campagna, fotografando gli Indiani e il paesaggio.
Nel 1869 si incamminò con un suo apparecchio lungo la linea ferroviaria transcontinentale
completata di recente. Portò con sé 300 lastre di vetro, apparecchi fotografici, l'attrezzatura
necessaria per le diverse operazioni e due tende: una per la camera oscura, l'altra per dormirvi.
Percorse circa 190 km in tre mesi. Vedendo quei paesaggi, Hayden rimase talmente colpito che
invitò Jackson ad unirsi al suo gruppo. Nella spedizione del 1871 Jackson prese molte fotografie
delle montagne rocciose, soprattutto della zona dello Yellowstone.
Come la maggior parte dei fotografi, William Henry Jackson portò in quella campagna diversi
apparecchi, sia per garantirsi contro eventuali incidenti, sia per prendere negativi di formati
diversi. Nel 1875 Jackson stupì il mondo della fotografia portando sulle montagne rocciose un
apparecchio per lastre di 50 × 60 cm. Nel catalogo delle sue fotografie pubblicato dal governo,
Jackson segnalo 12 di questi grandi negativi, ricevendo le lodi del direttore dal “Philadelphia
Photographer”.
Anche se Jackson ne menava gran vanto, egli non fu il solo a servirsi di lastre di grande formato.
Il paesaggio spettacolare della Yosemite Valley nella California settentrionale era già stato
ampiamente fotografato da Eadweard Muybrige con apparecchi di un formato quasi uguale.
In quasi tutto il mondo si intrapresero spedizioni fotografiche. Samuel Bourne, nel 1863, si
arrampicò sull'Himalaya accompagnato da 30 coolies che portarono i bagagli e l'attrezzatura
fotografica a 4500 metri di altezza. Nel 1860 i fratelli Louis-Auguste e Auguste-Rosalie Bisson
andarono da Parigi in Svizzera al seguito di Napoleone III e dell'imperatrice Eugenia e presero una
serie di splendide fotografie delle Alpi.
I fotografi non trascurarono neppure l'Estremo Oriente. Il viaggiatore inglese John Thomson
trascorse diversi anni in Cambogia, in Malesia, in Cina. Lo interessavano non soltanto i paesaggi e
i monumenti di antiche civiltà, ma anche gli usi e costumi degli abitanti. Quando Thomson tornò in
Inghilterra, con lo stesso spirito puntò l'obiettivo sui poveri di Londra.
Nella seconda metà dell'Ottocento, con l'estendersi delle principali città europee, furono attuati
ampi piani di rinnovamento urbano. A Parigi, a Londra, a Glasgow furono fatte ampie rilevazioni
fotografiche per serbare memoria della patrimonio architettonico condannato alla distruzione.
La più completa di queste rilevazioni fu la documentazione di vaste arie del cuore della vecchia
Parigi che il barone George-Eugène Haussmann aveva ordinato fossero rase al suolo onde
permettere la costruzione di quegli edifici pubblici, parchi e “grands boulevards” che
caratterizzano la Parigi moderna. Charles Marville, che una decina di anni prima aveva usato il
calotipo per fotografare gli edifici medievali, nel 1864-75 si servì di lastre al colloquio. Le sue
fotografie sono di una meticolosa esattezza.
Milioni di fotografie di paesaggi familiari, metropoli, città, villaggi, monumenti storici, antiche
chiese, edifici pubblici nuovi furono scattate col solo scopo di venderle ai turisti. Prima
dell'avvento dell'istantanea e della cartolina illustrata, i viaggiatori raccoglievano fotografie
stampate col procedimento all'albumina di tutte le “vedute” che desideravano ricordare e le
incollavano su un album.
Gli specialisti di vedute erano spesso assillati da tante richieste, ragion per cui costituirono delle
società editoriali con squadre di operatori che lavoravano all'aperto e un folto gruppo di
stampatori che lavoravano in laboratorio. In Inghilterra, Francis Frith aprì la più grande di queste
fabbriche di immagini nel 1860. Nel suo stabilimento immagazzinò più di un milione di fotografie.
Analoga società industriali furono costituite in Scozia da George Washington Wilson e da James
Valentine.
Il modo di fotografare di Frith, Wilson, Valentine e di una folla di altri fotografi di tutto il mondo,
che predilige la rappresentazione fedele, schietta, letterale degli aspetti più caratteristici di cose e
luoghi, è stato definito “topografico”. Negli anni 1960-70 l'espressione “fotografia meccanica” fu
usata da Jabez Hughes per distinguere questo approccio a cose e luoghi da quello di altri
fotografi che erano invece mossi da finalità estetiche e che consideravano la fotografia come un
mezzo di espressione personale, ben diverso dalla fotografia per scopi commerciali.
Le vere e proprie topofotografie sono quasi sempre eccellenti dal punto di vista tecnico. La
maggior parte delle immagini uscite da questi laboratori fotografici sono monotone, opache,
banali, di uno stile che non permette di riconoscere l'autore. Ma di tanto in tanto emergono belle
scene colte per le strade. Quando vennero di moda le cartoline illustrate, Frith e Valentine ne

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stamparono a migliaia. Un'analoga produzione a fini commerciali fu avviata in America da William
Henry Jackson.
I fotografi portarono i loro parecchi nei cieli per riprendere la terra dall'alto fin dal 1858, quando
Nadar fece la prima fotografia da un pallone frenato sopra un villaggio alle porte di Parigi. James
Wallace Black di Boston, poco dopo Nadar, munito di un apparecchio con molti obiettivi, potè
alzarsi sopra Parigi in un pallone e prendere, con successo, le prime fotografie aeree della città.
Quasi tutti i fotografi dei quali si è parlato fecero sia stereografie sia singoli negativi di ampio
formato. Le immagini accoppiate ottenute con una macchina fotografica a due obiettivi creano
una straordinaria illusione tridimensionale quando sono viste attraverso uno stereoscopio.
La stenografia crea un particolare effetto drammatico perché riproduce la visione binoculare.
Normalmente noi vediamo il mondo con ambedue i nostri occhi. L'immagine che si forma sulla
retina di ciascuno occhio è leggermente diversa da quella dell'altro.
Sir Charles Wheatstone, in un saggio pubblicato nel 1838 dalla Royal Society di Londra,
descrisse chiaramente il fenomeno; illustrò i risultati dei suoi studi accompagnandoli con schizzi
di forme geometriche solide nella prospettiva della quale sarebbero viste da ciascun occhio.
Collocò i disegni in uno strumento che aveva egli stesso progettato lo chiamò stereoscopio.
Guardando gli specchi, Charles Wheatstone,

“anziché vedere un oggetto riprodotto su una superficie piana… vedeva un'immagine in


tre dimensioni, esatta corrispondenza dell'oggetto di cui erano stati fatti i disegni”.

La fotografia stereoscopica non entro nell'uso pratico fino a quando Sir David Brewster non
inventò, nel 1849, un apparecchio meno ingombrante per vedere le due immagini.
Sostanzialmente, il suo stetoscopio era una scatola a forma di piramide tronca. All'estremità più
corta mise due lenti, ciascuna di 15 cm di lunghezza focale. All'altra estremità un telaio conteneva
due fotografie, ciascuna approssimativamente di circa 7,50 × 7,50 cm, disposte fianco a fianco. Il
fondo della scatola era di vetro smerigliato, in modo che le diapositive potevano essere viste con
l'aiuto della luce riflessa. Per vedere i dagherrotipi e i positivi di carta era necessario immettere la
luce aprendo lo sportellino, la cui superficie interna era argentata.
Le lenti, a forma di cuneo, formavano prismi che divaricavano talmente la linea della visione che
ogni immagine era vista nella sua interezza.
Lo stereoscopio di Brewster fu prodotto in serie da una ditta parigina di strumenti ottici
scientifici, la Doboscq & Soleil. Fu esposto all'esposizione universale al Cristal Palace di Londra
del 1851.
La regina Vittoria ne fu entusiasta; subito la fotografia stereoscopica raggiunse immensa
popolarità. Le ditte si specializzarono nella produzione in serie e nella distribuzione di stenografie
in tutto il mondo. La prima di queste aziende fu la London Stereoscopic Company, fondata nel
1854 da George Swan Nottage.
Il pregio eccezionale dell'immagine stereoscopica sta nella sua riproduzione perfetta della realtà.
Dato il piccolo formato del negativo, le lenti di un apparecchio stereoscopico potevano avere una
lunghezza focale relativamente modesta. Questo permise di prendere storiografie di oggetti in
movimento. Le stereografie degli anni 1855-60 ci mostrarono, nelle cosiddette “vedute
istantanee”, alcune fasi di animali e di uomini in movimento prima di allora mai viste.
I fotografi stavano imparando il modo di fissare anche i movimenti più fuggevoli.

CAP. VIII⎮LA CONQUISTA DEL MOVIMENTO


Le primissime fotografie non erano in grado di registrare il movimento. Un critico affermò che ciò
che si muove “non può mai essere rappresentato senza l'aiuto della memoria”. Le prime fotografie
nelle quali il movimento fu fissato con maggiore o minore regolarità furono le vedute
stereoscopiche di strade cittadine, popolate di minuscole figure di passanti. Nel 1859 George
Washington Wilson fotografò la gente che camminava in Princes Street a Edimburgo, e nello
stesso anno Edward Anthony fece una bella serie di storiografia istantanee nel traffico di New
York. Claude-Marie Ferrier, A. Ferrier e Charles Soulier fecero a Parigi, nel 1860, diapositive
stereoscopiche su vetro straordinariamente particolareggiate. Quando furono esposte a Parigi,
“Photographic News” le saluto come “i risultati più perfetti che mai siano stati raggiunti in questo
campo”.
Per Oliver Wendell Holmes fotografie simili avevano un valore inestimabile per gli studi che stava
compiendo sulla deambulazione dell'uomo. Era medico e lo interessava vivamente il problema di

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riuscire a fabbricare arti artificiali per i soldati della guerra di secessione rimasti mutilati sui campi
di battaglia. Nell’"Atlantic Monthly” del maggio 1863 egli scrisse che la sua teoria si basa su

“una nuova fonte di osservazioni, accessibile soltanto da pochi anni, e mai usata prima,
per quanto ne sappiamo, cioè la fotografia istantanea”.

L'articolo era illustrato da xilografie che Felix O. C. Darley aveva tratto direttamente da fotografie.
Holmes trovò che gli atteggiamenti delle persone colte in quelle immagini erano stranamente
diversi dalle convenzioni alle quali ci si era attenuti per tanti secoli: richiamò l'attenzione sulla
lunghezza del passo e sulla posizione quasi verticale della pianta del piede in una delle figure. A
proposito di un'altra, con una gamba sospesa a mezz'aria, osservò: “Nessun artista avrebbe
osato disegnare una persona che cammina in atteggiamenti simili a questi”.
Forse non era tanto questione di osare quanto di possibilità di fare. Tale inadeguatezza della
visione umana fu messa in evidenza da Eadweard Muybrige, che, con le sue fotografie, mostrò
al mondo come galoppa un cavallo.
Muybrige si specializzò nella fotografia industriale. Nel 1869 inventò uno dei primi otturatori per la
macchina fotografica. L'esperienza gli sarebbe stata di grande aiuto.
Tornando alle fotografie riguardanti il cavallo, accanto alla pista Muybrige dispose 12 macchine
fotografiche, ciascuna munita di un otturatore che funzionava a una velocità, a sua detta,
“inferiore al duemillesimo di secondo”. Sulla pista furono tesi dei fili metallici collegati a interruttori
elettrici; il cavallo, nella sua corsa, andava contro i figli e li rompeva, uno dopo l'altro;
un’elettrocalamita faceva scattare gli otturatori, e così si otteneva una serie di negativi.
Le fotografie erano poco più che silhouettes, ma mostravano chiaramente che, in una fase del
galoppo, le zampe del cavallo erano tutte e quattro sollevate da terra. Le fotografie parvero
assurde. Furono ampiamente pubblicate su periodici americani ed europei. La rivista “Scientific
American” presentò in prima pagina 18 disegni tratti delle fotografie di Muybrige. I lettori erano
invitati a incollare le immagini su strisce e a guardarle nello zoetrope, precursore del
cinematografo. Era una specie di tamburo, con fessure regolari aperte sui fianchi, montato
orizzontalmente su un perno che lo faceva girare. I disegni delle fasi successive del movimento,
collocati all'interno del tamburo e guardarti attraverso le fessure, passavano davanti agli occhi
uno dopo l'altro, ma con tale rapidità che si fondevano nel cervello danno l'illusione del
movimento.
Il 1880, servendosi di una tecnica analoga con uno strumento che chiamò zoogyroscope,
Muybrige proiettò le sue immagini su uno schermo a San Francisco, presso la Scuola di Belle Arti
della California. Nasceva così il “cinematografo”.
Le fotografie del cavallo di Muybrige fecero una grande impressione sul pittore realista americano
Thomas Eakins. Da una serie di immagini pubblicate da Muybrige ricavò delle diapositive che
proiettò nel corso di alcune lezioni tenute all'Accademia delle Arti della Pennsylvania. Nel 1879
dipinse A May Morning in the Park, che raffigura il tiro a quattro del suo amico e mecenate
Fairman Rogers.
Rogers, che ne fu colpito, invitò Muybrige a tenere alcune conferenze dimostrative a Philadelphia.
L'accoglienza fu così entusiastica che il rettore dell'Università di Pennsylvania offrì a Muybrige un
contratto perché egli continuasse l'opera sua a Philadelphia sotto gli auspici dell'Università.
L'offerta fu accettata, fu costituita una commissione, Eakins fu nominato supervisore del progetto.
Con l'aiuto di Muybrige, Eakins ideò un apparecchio con un solo obiettivo e una lastra mobile:
poté così ottenere immagini successive di atleti movimento.
Tra la primavera del 1884 e il 1885 Muybrige con attrezzatura perfezionata prese circa 30.000
negativi. Gli otturatori funzionavano grazie un meccanismo d'orologeria che permetteva di
prendere le immagino all’intervallo desiderato. Tre macchine fotografiche, ciascuna munita di 13
obiettivi, permettevano di prendere l'immagine di fianco, di fronte e dietro. Infine la lastra asciutta
alla gelatina e bromuro, di recente perfezionata, gli diede la possibilità di ottenere i particolari più
precisi in tempi di esposizioni brevi.
I risultati del lavoro di Muybrige furono pubblicati nel 1887 in 781 tavole collotipiche. Muybrige
condusse i suoi studi, oltre che sui cavalli, su ogni sorta di animali presi dal giardino zoologico di
Philadelphia. Ma l'approccio più rilevante fu dato alla figura umana. Uomini e donne, nudi o avvolti
in drappeggi, furono fotografati in ogni sorta di movimenti.
Contemporaneamente, nella città di Lissa si dedicava alla fotografia in movimento anche Ottomar
Anchütz. Le sue primissime fotografie istantanee furono prese con un apparecchio ideato da lui
stesso, munito di un otturatore sul piano focale che permetteva esposizioni estremamente brevi.

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Nel 1884 le sue immagini di cicogna in volo stupirono il mondo della fotografia. Costruì una
macchina che consentiva di cogliere immagini in sequenza che mostrò, in movimento, con uno
strumento di proiezione al quale diede il nome di tachiscopio.
Le fotografie prese da Muybrige e dagli altri pionieri che a lui si spirarono scossero il mondo
artistico.
Le lastra alla gelatina che Muybrige usò negli ultimi esperimenti furono frutto della crescente
richiesta di lastre asciutte che eliminassero la necessità di procedere allo sviluppo subito dopo
l'esposizione.
La prima idea fu quella di aggiungere qualche sostanza igroscopica - come miele, zucchero,
glicerina - nel tentativo di ritardare l'essiccamento del collodio e quindi di procrastinare la
necessità dello sviluppo immediato. Poi, nel 1864, B. J. Sayce e W. B. Bolton mostrarono che si
poteva eliminare il bagno d'argento rivestendo la lastra di vetro con un'emulsione di collodio
mescolata prima con bromuro di ammonio e di cadmio, poi con nitrato d'argento. Queste lastre
potevano essere usate asciutte; potevano essere confezionate industrialmente e il fotografo non
doveva più preparare egli stesso la lastra.
La Dry Plate and Photographic Printing Company di Liverpool cominciò a mettere sul mercato
questa lastra asciutte al collodio e bromuro d'argento nel 1867.
Lo svantaggio era che queste lastre subirono una notevole riduzione di sensibilità.
Nel 1871 il “British Journal of Photography” pubblicava la lettera di un medico, Richard Leach
Maddox, nella quale era descritta un'emulsione fatta con la gelatina. Maddox scioglieva la
gelatina nell'acqua, aggiungeva la soluzione di bromuro di cadmio, quindi del nitrato d'argento.
Essi reagivano fino a formare cristalli di bromuro d'argento sospesi nella gelatina.
L'emulsione veniva stesa su una lastra di vetro e lasciata asciugare.
Maddox diceva di non avere il tempo di perfezionare il suo esperimento; quindi esortava i lettori a
continuare là dove egli si era fermato.
Passarono sette anni prima che il procedimento del dottor Maddox diventasse una tecnica
corrente. Il primo miglioramento, a opera di Richard Kennett, consistette nel lavare l'emulsione,
in modo da eliminare l'eccesso di sali solubili che non avevano reagito con gli ioni d’argento. Egli
faceva passare l'emulsione, mentre era ancora lo stato gelatinoso, attraverso una tela ruvida, la
rompeva in grossi fili, che poi immergeva nell'acqua per un'ora e infine filtrava.
Successivamente, nel 1878, Charles Harper Bennett lasciò maturare l'emulsione conservandola
per diversi giorni alla temperatura di 32 °C, prima di lavarla. Scoprì che l'emulsione era molto
sensibile alla luce: si potevano prendere regolarmente istantanee alla luce del sole in una frazione
di secondo. Si apriva una nuova era.
Ora i laboratori della Gran Bretagna, dell'Europa continentale e degli Stati Uniti cominciarono a
fornire lastre alla gelatina preparata industrialmente e pronte per l'uso. I problemi che avevano
affitto per lungo tempo il fotografo furono risolti di colpo. Ora si potevano sviluppare le fotografie
anche molto tempo dopo l’esposizione.
Il miglioramento dell'emulsione alla gelatina portò non soltanto alla conquista, all'analisi e alla
sintesi del movimento, ma favorì anche la standardizzazione degli accessori, lo studio scientifico
del procedimento fotografico, e un ampliamento della sensibilità alle varie fasce dello spettro.
Nel 1876 Vero Charles Driffield, scienziato e fotografo dilettante inglese, convinse l'amico e
collega Ferdinand Hunter a unirsi a lui nel suo passatempo preferito. I due amici cominciarono
una serie di ricerche sul rapporto fra la durata dell'esposizione e la densità.
Con un congegno ricavato da una vecchia macchina per cucire, e una candela come fonte di
illuminazione, esposero le lastre all'azione sempre più prolungata della luce. Il deposito d'argento,
o densità, prodotto dal successivo sviluppo fu misurato otticamente dai due amici con una
fotometro da loro stessi fabbricato. Con i dati raccolti furono in grado di calcolare la velocità di
un'emulsione (vale a dire, la sua sensibilità alla luce).
Hunter e Driffield dimostrarono che per ogni lastra o pellicola c'è un tempo di sviluppo ottimale,
che dipende dalla luminosità del soggetto, dalla composizione del liquidò rivelatore, e dalla
temperatura alla quale viene usato. I negativi potevano essere sviluppati al buio totale
immergendoli nella soluzione prescelta per un tempo prestabilito e non era più necessario
aspettare la graduale comparsa dell'immagine alla luce rossa. Quindi era possibile ricorrere a
emulsioni sensibili a tutti i colori, che prima invece sarebbero state velate dalla luce rossa della
camera oscura. Le lastre al collodio umido e le prime lastre alla gelatina-bromuro erano
estremamente sensibili alla luce azzurra e insensibile ai raggi verde, giallo, arancione e rosso dello
spettro.

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Nel 1873 Hermann Wilhelm Vogel scoprì che, aggiungendo una sostanza colorante l'emulsione
fotografica, questa diventava sensibile ai colori assorbiti dal colorante. Lastre colorate di azzurro
divennero sensibili al giallo; quelle colorate in verde assorbirono i raggi rossi, nonché tutti gli altri
raggi visibili dello spettro. Vogel descrisse la scoperta sensazionale, che chiamò sensibilizzatore
ottico. Lavorò con lastre al collodio; ma soltanto negli anni ’80 del secolo scorso il
sensibilizzatore ottico fu applicato alla fabbricazione delle lastre alla gelatina asciutte.
In principio la sensibilità delle lastre fu limitata ai raggi arancione, e le lastre furono dette
ortocromatiche. Più tardi si ottennero lastre sensibili al rosso, che furono dette pancromatiche.
Sul finire del secolo, i fotografi poterono disporre di un nuovo mezzo di creazione artistica.
Ponendo filtri colorati sugli obiettivi, erano in grado di accentuare o eliminare i colori. Quindi non
solo potevano fotografare le nuvole nel cielo, ma anche dare al cielo tutte le gradazioni di grigio
desiderate.
Quasi contemporaneamente all'introduzione delle lastre la gelatina asciutte ebbe inizio la
fabbricazione sul larga scala di due nuovi tipi di carte da stampa presensibilizzate: la carta da
stampa, P.O.P., che come la carta l'albumina presentava, appena esposta, un'immagine visibile, e
la carta da sviluppo, D.O.P., che doveva essere sviluppata perché emergesse l'immagine, ma che
offriva il vantaggio di una maggior sensibilità; perciò la stampa poteva essere fatta la luce
artificiale.
Contemporaneamente all'adozione generale dei nuovi materiali sensibilizzati, si ebbero altri
perfezionamenti tecnici negli obiettivi, negli otturatori, nella struttura della macchina fotografica.
I rapidi obiettivi rettilinei funzionavano bene quando l'obiettivo era diaframmato, ma avevano un
angolo di visuale relativamente piccolo di circa 25°. Se il diaframma era tenuto molto aperto, gli
obiettivi davano immagini imprecise, perché gli ideatori degli apparecchi non erano stati capaci di
eliminare tutte le aberrazioni, in particolare quella dell'astigmatismo. Il problema fu risolto soltanto
nel 1886 con l'introduzione di un vetro ottico al bario, ideato dalla fabbrica di vetri Schott di Jena,
in Germania. Questo vetro aveva un indice di rifrazione più alto di qualsiasi altro vetro prima in
commercio; quando entro in uso, molte aberrazioni poterono essere ridotte al minimo, soprattutto
quella dell'astigmatismo. I migliori obiettivi anastigmatici furono il Doppio anastigmatico di C. P.
Goerz, che copriva un angolo di visuale di 70° in f/7.7, e il Tessar f/4.5 di Zeiss di Jena, con un
angolo di visuale più piccolo, di 50°.
Per quanto riguarda gli otturatori, se ne fabbricarono una grande varietà molto ingegnosi, che di
solito erano inseriti fra le lenti dell'obiettivo fotografico ed erano perciò chiamati otturatori fra le
lenti. Altri si presentavano come una tendina dentro la macchina fotografica. Schiacciando un
bottone si apriva rapidamente una piccola fessura nella tendina, e così la lastra si trovava esposta
all’immagine. Data la sua collocazione, questo tipo di otturatore era detto otturatore sul piano
focale. Sul finire del secolo si potevano fare buone esposizioni di 1/5000 di secondo.
Il volume della macchina fotografica si era ormai talmente ridotto che era possibile tenerla in
mano. Il fotografo non era più costretto a trascinarsi dietro un treppiede ovunque andasse. Il
mercato offriva un numero strabiliante di macchine fotografiche portatili. Alcune erano fornite di
un caricatore contenente diverse lastre, che permetteva al fotografo di ottenere, in rapida
successione, 12 e anche più pose.
La macchina che acquistò maggior fama fu la Kodak, ideata e costruita da George Eastman e fu
messa sul mercato nel 1888.
La Kodak originale era un apparecchio a cassetta di 82 × 95 × 165 mm con l'obiettivo a fuoco
fisso di una lunghezza focale di 27 mm e un’apertura f/9, fornito di un ingegnoso otturatore
cilindrico. Differiva dalla maggior parte degli apparecchi concorrenti perché aveva, avvolta su
rullo, una pellicola di lunghezza sufficiente per cento pose. In principio questa “pellicola
americana” era di carta ricoperta di un substrato di gelatina comune, sopra il quale era stesa
un'emulsione di gelatina sensibile alla luce: dopo il trattamento, la gelatina solidificata su cui si era
impressa l'immagine veniva strappata dal supporto di carta.
Quest'operazione delicata cadde in disuso nel 1891 con l'introduzione della “pellicola
trasparente” su un supporto chiaro di celluloide.
Tuttavia, il contributo più importante di Eastman consistette nell'aver fornito ai clienti un servizio
completo di sviluppo e stampa. L'apparecchio era venduto già caricato; nel prezzo di 25 dollari
era compresa tutta la lavorazione. Al fotografo non restava altro che premere un bottone.
Lo slogan di Eastman: “Voi premete il bottone, noi faremo il resto”, era esatto, e si impose subito
al pubblico.
D'ora in poi la fotografia è alla portata di tutti, dilettanti compresi.
Tutti si diedero a fotografare ogni sorta di soggetti.
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Queste immagini furono chiamate snapshots. La prima Kodak non aveva il mirino; si puntava
semplicemente la macchina sul soggetto. I “brillanti mirini”, più tardi incorporati nelle macchine
fotografiche a casetta, davano immagini non più grandi di un francobollo. Con questi aggeggi non
era facile ottenere una composizione accurata.
Per i fotografi abituati a studiare l'immagine intera sul vetro smerigliato dei loro apparecchi, il
mirino della tipica macchina portatile era insoddisfacente. Volevano vedere l'immagine così come
la vedeva la macchina prima dell’esposizione.
Per soddisfare le esigenze di costoro, i fabbricanti introdussero fra il 1890 e il 1900 un nuovo tipo
di mirino: un secondo obiettivo montato sopra l'obiettivo che trasmetteva l'immagine alla lastra.
Sopra al mirino c'era un vetro smerigliato del formato del negativo. Dentro c'era uno specchio,
fissato a 45° rispetto all'asse della lente, che rifletteva l'immagine in alto. Un cappuccio
pieghevole ombreggiava il vetro smerigliato, in modo da permettere di vedere chiaramente
l’immagine. In realtà l'immagine non era un duplicato, giacché la lente del mirino non coincideva
perfettamente nello spazio con la lente dell'obiettivo: per il fenomeno della parallasse le immagini
erano leggermente diverse.
L'errore fu corretto con l'apparecchio reflex monobiettivo. Ora lo specchio era incamerato nella
macchina fotografica. Con un ingegnoso meccanismo a molla, quando si premeva lo scatto
dell'otturatore, lo specchio passava dalla posizione originaria di 45° a quella orizzontale. La
Graflex americana e la Soho Reflex inglese furono gli apparecchi portatili più usati dai fotografi
pittorici del primo ventennio del secolo.
Era logico che, una volta riusciti a fermare il movimento, si fosse indotti a ricreare il movimento
con le pellicole cinematografiche. Sir John F. W. Herschel previde chiaramente la nuova tecnica
nel 1860.
Nell'ultimo decennio del XIX secolo inventori di tutto il mondo occidentale elaborarono
simultaneamente e per vie indipendenti i congegni che permettessero di ricreare il movimento. La
soluzione arrivo con la pellicola rullo, che veniva inserita nella macchina fotografica e passava da
una bambina alimentatrice a una bobina di avvolgimento, in modo che si poteva sostituire la
prima pellicola con una nuova assai rapidamente.
Il primo sistema che incontrò il favore del pubblico e divenne mezzo di divertimento fui chi
Kinetoscope di Thomas Edison.
Edison affidò la realizzazione la produzione dei Kinetoscope a un suo esperto impiegato,
William Dixon.
Per quanto popolari, i Kinetoscope non soddisfacevano completamente le richieste del pubblico.
Le immagini erano troppo piccole, e potevano essere viste soltanto da una persona alla volta. Sia
in Europa sia in America gli inventori cominciarono a fabbricare proiettori con i quali le pellicole di
Edison potevano essere proiettate su uno schermo, come in una lanterna magica.
Il primo proiettore che godette di un immenso successo fu il Cinématographe di Louis e Auguste
Lumière. Il 28 dicembre del 1895 i due fratelli presentarono un programma di brevi film al Gran
Café di Parigi. Era nato il cinematografo, il grande mezzo di espressione del XX secolo, già
capace di volare con le proprie ali.
Il più cospicuo contributo tecnologico alla fotografia dell'ultimo secondo ventennio dell’Ottocento
fu il perfezionamento della lastra per la stampa a mezza tinta, che permise di stampare facsimili di
ogni sorta di immagine insieme ai caratteri tipografici.
Era nato il fotogiornalismo; i suoi effetti sui fotografi furono immediati, poiché in ogni paese
cominciarono a uscire riviste e annuali illustrati. Per migliaia di persone le riviste fotografiche
erano uno strumento per imparare e per trarre ispirazione.
Giornalisti, scrittori, artisti e altri che non volevano fare della fotografia una professione scoprirono
che la macchina fotografica era un utile complemento per il loro lavoro.
Quando Jacob A. Riis, giornalista di cronaca nera di New York, avviò la sua campagna personale
per additare al pubblico la miseria dei diseredati che vivevano nei quartieri malfamati del basso
East Side, non tardò a rendersi conto che la parola stampata non aveva sufficiente forza di
convinzione; chiese perciò aiuto alla fotografia al magnesio.
Riis fu tra i primi in America a usare il Blitzlichtpulver - o polvere di magnesio. Poiché bruciava
immediatamente - in un lampo - rappresentava un passo in avanti rispetto alla torcia al magnesio,
che durava alcuni secondi. Riis se ne servì con successo; la luce accecante rivelava con
impietosa minuzia i sordidi interni, ma illuminava quasi con tenerezza i visi delle persone
condannate a viverci dentro.
Guardò sempre con simpatia la gente, anche gli abitanti del vicolo noto come “Bandits’ Roost”
che fissavano con arroganza l'apparecchio dalle porte, dei balconi, delle finestre. Queste

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fotografie sono importanti non solo come fonte di informazione, ma anche per la loro forza
emotiva. Sono nello stesso tempo interpretazioni e testimonianze.
L'interesse a documentare usi e costumi, in particolare quelli che stavano cadendo in disuso,
cresceva continuamente.
Un libraio di Los Angeles, Adam Clark Vroman, fra il 1895 e il 1904 raccolse una
documentazione commovente, carica di simpatia, sugli Indiani dell'America Sud-occidentale.
Dobbiamo la documentazione fotografica più ambiziosa sugli Indiani a Edward A. Curtis,
ritrattista di professione di Seattle, che dedico la vita a raccogliere documenti sugli Indiani.
Fra il 1907 e il 1930, sotto il titolo di The North American Indian, pubblico 20 volumi con un testo
riccamente illustrato, e 20 volumi di fotoincisioni con una prefazione del presidente Roosevelt.
Se la sua opera manca della schietta obiettività di quella di Vroman, cioè dovuto, in parte, a un
atteggiamento diverso.
Per Vroman gli Indiani del Sud-ovest erano un popolo tuttora vivo di cui ammirava e considerava il
sistema di vita; per Curtis, invece, gli Indiani, in quanto nazione, erano “una razza che si stava
estinguendo”, di cui bisognava documentale le antiche usanze, i costumi, tradizioni, prima che
scomparissero.
Anche altri fotografi ebbero per il loro mezzo espressivo un'interesse che andava oltre la semplice
registrazione. Essi erano convinti che la fotografia fosse un'arte bella e meritasse di essere
riconosciuta come tale. Non soltanto esplorarono le potenzialità estetica dell'apparecchio
fotografico con energia e zelo, ma si batterono per la loro causa.
Erano liberi di fare esperimenti, e avevano immaginazione e volontà di rompere le convenzioni.
Il loro stile si diffuse in tutto il mondo. Per un quarto di secolo, dominarono la scena della
fotografia con il nome di “fotografi pittorici”.

CAP. IX⎮LA FOTOGRAFIA PITTORICA


La fotografia “artistica”, difesa da Rejlander e Robinson sul finire del decennio 1850-60 era in
ribasso in Inghilterra, quando ebbe luogo la rivoluzione della lastra asciutta. Le pareti della
maggior parte delle mostre erano coperte con le stesse scene di genere aneddotico, gli stessi
paesaggi romantici, gli stessi ritratti fiacchi.
Contro l'artificiosità di queste scene affettate, frutto di pose negli studi, Peter Henry Emerson
insorse con violenza e scosse il mondo della fotografia. Usò come armi le sue stesse fotografie,
conferenze, articoli, libri. Nel marzo del 1866 parlò al Camera Club di Londra su “La fotografia,
arte pittorica”. Emerson espose al pubblico una teoria dell'arte basata su principi scientifici.
Sostenne che il compito dell'artista era di imitare gli effetti della natura sull'occhio umano, e
additò la scultura greca, l'Ultima cena di Leonardo da Vinci, i dipinti di Constable, Corot, e del
gruppo di Barbizon come le vette della produzione artistica di ogni tempo.
Emerson, che aveva studiato medicina, era stato grandemente impressionato dal Manuale di
ottica fisiologica di Helmholtz, e lo citò come il testo più autorevole e definitivo nel campo della
percezione visiva.
Emerson giunse alla conclusione che la fotografia era “superiore all'acqua forte, alla xilografia e al
carboncino” per la sua precisione nel rendere la prospettiva; era seconda alla pittura soltanto
perché le mancava il colore e, secondo lui, la capacità di riprodurre gli esatti rapporti tonali.
Nello stesso anno pubblico in edizione limitata Vita e paesaggi del Norfolk.
Le fotografie erano state scattate nell'East Anglia e documentavano la strana vita anfibia degli
abitanti delle paludi. A quella pubblicazione seguirono volumi analoghi che comprendevano un
testo in cui erano descritti usi e costumi dei cittadini e fotoincisioni tratte direttamente dai suoi
negativi. I libri erano studi di folklore, e le fotografie erano parte integrante.
Prive di sentimentalismo e di artificiosità, erano l'esatto contrario delle fotografie artistiche di
Robinson e dei suoi seguaci.
Affermatosi come fotografo, Emerson continuò a spiegare le sue concezioni estetiche e tematiche
in un manuale, Fotografia naturalistica per gli studiosi d’arte. Il libro non era illustrato: i lettori
erano rimandati alle tavole di Immagini della vita dell'East Anglia.
A tutti i circoli fotografici dell'Inghilterra Emerson mandò copie di un'edizione speciale contenenti,
ciascuna, una tavola diversa e una pagina di note sulle fotografie. Fotografia naturalistica, definita
“una bomba lanciata in un salotto”, è un curioso miscuglio di verità e di errori.
Emerson di applicò la sua distorta storia dell'arte e propose nuovamente la teoria della percezione
ottica di Helmholtz.

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L'attrezzatura consigliata da Emerson era quanto mai semplice: una macchina fotografica, un
solido treppiede, e un obiettivo di lunghezza focale relativamente lunga; non ammetteva l'uso
della macchina fotografica portatile e condannava gli ingrandimenti; consigliava allo studente di
sviluppare il negativo nello stesso giorno in cui la fotografia era stata scattata e rifiutava il ritocco.
Per la stampa, suggeriva due procedimenti: la platinotipia e la fotoincisione.
La platinotipia si basa sulla proprietà dei sali di ferro di passare dallo stato ferrico allo stato
ferroso in virtù dell'esposizione alla luce. In presenza del sale ferroso che si sta formando, i sali di
platino, se sono sviluppati in ossalato di potassio, si trasformano in platino, che è un metallo più
stabile dell'argento. Perciò le stampe fatte con questo procedimento hanno maggior durabilità.
La tecnica fu scoperta dall'inglese William Willis nel 1873. Quando la sua Platinotype Company
mise sul mercato, nel 1880, la carta già sensibilizzata, il nuovo procedimento di stampa divenne
subito popolare. Secondo Emerson la durabilità aveva un valore secondario rispetto alla sua
qualità estetica. Di questo procedimento gli piacevano la delicatezza e morbidi grigi che se ne
potevano ottenere.
La fotoincisione è un mezzo per riprodurre l'immagine fotografica con inchiostro da stampa. Si
basa sull'invenzione di Fox Talbot del 1852. Emerson otteneva dal negativo una diapositiva di
vetro. La carta carbone - carta rivestita di gelatina e di una polvere colorante rossiccio - veniva
sensibilizzata in una soluzione di bicromato di potassio, compressa su una lastra ferrotipica, e
lasciata asciugare. Quindi veniva messa in un telaio da stampa insieme alla diapositiva ed esposta
alla luce. La gelatina diventava insolubile in proporzione all'intensità della luce che riceveva
attraverso la diapositiva.
Col nuovo metodo si preparava una lastra di rame ricoprendo un lato con polvere di bitume, poi
riscaldandola moderatamente, in modo che le particelle di polvere si fissassero sulla superficie.
Quindi si faceva aderire la carta sulla lastra rivestita di bitume e la si metteva in una bacinella
d'acqua calda; la base di carta si staccava, e rimaneva la gelatina indurita con le zone luminose
accentuate e le zone d'ombra attenuate. Successivamente, si incideva la lastra di rame con
cloruro di ferro, che mordeva il metallo attraverso la gelatina in misura proporzionale allo
spessore. La superficie della lastra era liscia, quindi poteva essere inchiostrata e stampata in un
tornio per incisioni.
Emerson considerava questo tipo di incisione come un procedimento diretto di stampa.
La sua battaglia a favore dei nuovi procedimenti di stampa trovò molti seguaci; ma la sua teoria
sulla messa fuoco suscitò molte discussioni.
Egli sosteneva che il nostro campo visivo non è completamente uniforme. L'aria centrale è
definita chiaramente mentre le aree marginali sono più o meno confuse. Per riprodurre la visione
dell'occhio umano con l'apparecchio fotografico, suggeriva di mettere l'obiettivo leggermente
fuori fuoco, ma avvertiva

“Che la cosiddetta “sfocatura” non doveva essere portata al punto di “distruggere la


struttura” dell'oggetto altrimenti risultava troppo visibile all'osservatore.

Le riviste fotografiche inglesi erano divise su questa teoria. Molti la condannavano affermando
che “la messa fuoco non voleva dire offuscamento, confusione, nebbia”. Uno tra tutti i fu
Robinson affermando: “occhi umani sani non videro mai una scena sfocata”.
Tutti si diedero a fare fotografie “con una morbida messa fuoco”, definite ironicamente da
qualcuno fotografie “sfocate”.
Nel gennaio del 1891 Emerson ripudiò coraggiosamente e drammaticamente ciò che aveva difeso
con tanta passione. Disse che è un “grande pittore” gli aveva mostrato quanto fosse sbagliato
confondere arte e natura, arte e scienza.
Emerson, disperato, concludeva che la fotografia non è un'arte. Affermò che

“I limiti della fotografia sono così grandi che questo mezzo deve essere sempre collocato
al gradino più basso della gerarchia delle arti… giacché la personalità dell'artista è
bloccata. L'immagine può essere controllata a un modesto grado: variando la messa
fuoco, variando l'esposizione, nell'operazione di sviluppo e infine, con una certa scelta nei
metodi di stampa”.

Emerson non rinunciò alla fotografia, anche se non potè ritrovare quello spirito rivoluzionario degli
inizi. Ma queste teorie di Emerson colpirono non pochi fotografi. Fra questi ricordiamo George
Davison, fondatore e direttore della Kodak. Nel suo entusiasmo di fare fotografie sfuocate,

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Davison andò oltre le teorie di Emerson, usando invece dell'obiettivo il foro stenopeico. Il suo
Campo di cipolle del 1889 fu vivacemente discusso.
Tanti fotografi continuarono a credere nelle possibilità estetiche del loro strumento e il desiderio
che la fotografia fosse riconosciuta come arte divenne un problema scottante. La battaglia fu
condotta in tutta Europa e, un po' più tardi, in America.
La prima schermaglia si ebbe a Vienna. A una delle prime riunioni del Klub der Amateur-
Photographen nel 1887, uno dei fondatori mostrò ai membri delle foto di Emerson e affermo che

“era la prima volta che agli amatori d'arte veniva offerta una serie di fotografie originali
interessanti non soltanto per i soggetti quanto per il modo di com'erano trattati e
interpretati”.

Nel 1891 il Klub organizzò una mostra di 600 fotografie scelte fra più di 4000 da una giuria di sei
pittori e scultori. Il mondo della fotografia rimase sbalordito.
Nel 1893 si tenne a Londra la prima di una serie di esposizioni, cui fu dato il nome di The
Photographic Salon. Queste mostre, di portata internazionale, erano organizzate presso la
Dudley Gallery dal Linked Ring. Era un gruppo di fotografi che si erano staccati dalla
Photographic Society, dispiaciuti per la scarsa attenzione prestata alla fotografia artistica -
o fotografia “pittorica”, come sarebbe stata poi chiamata.
I critici d'arte si trovarono divisi nei loro giudizi. “The Studio”, rivista d’avanguardia, dichiarò: “La
fotografia come mezzo di espressione artistica si è ormai affermata definitivamente”. Per il critico
di “The Star”, invece, il Photographic Salon era una follia.
Anche gli altri paesi circoli fotografici cominciarono a trasformarsi.
In Germania la fotografia artistica fu lanciata da Alfred Lichtwark. Nel 1893 egli si assicurò
l'appoggio sia di professionisti che di dilettanti e organizzò nel suo museo la “Prima Esposizione
Internazionale di fotografie di dilettanti”. Il pubblico rimase sbalordito nel vedere esposte 6000
fotografie sulle pareti di un museo d’arte.
Non vi figuravano i pomposi ritratti fatti in studio da professionisti. Lichtwark aveva capito che
soltanto fotografi dilettanti, che erano quindi liberi da oppressioni di obblighi lavorativi, potevano
fare buoni ritratti.
I Salons internazionali si ripeterono a ritmo annuale e molti contribuirono a diffondere il movimento
pittorico; stimolavano la produzione di lavori nuovi e davano loro la possibilità di farsi conoscere
ben oltre i confini nazionali. I Salons servivano a formare il gusto, e nello stesso tempo a lanciare
tecniche nuove.
Nel 1894 Robert Demachy e il suo amico inglese Alfred Maskell esposero fotografie ottenute
con il procedimento alla gomma bicromatata. Non era un procedimento nuovo, ma non era stato
usato con fini “pittorici”.
La tecnica si basava sulla proprietà della gomma arabica, alla quale si aggiungeva bicromato di
potassio, di modificare la sua solubilità nell'acqua quando veniva esposta per qualche tempo alla
luce. Quanto più forte è l'azione della luce sulla gomma bicromatata, tanto meno facilmente
questa si scioglie. Un pigmento viene mescolato con la gomma bicromatata e applicato sulla
superficie di un foglio di carta da disegno, che viene quindi lavato. Una volta asciugato, il foglio
viene messo sotto un negativo ed esposto alla luce. Poi lo si lavava con acqua calda e allora
appariva l’immagine.
Demachy imparò il procedimento di stampa la gomma bicromatata e subito si diede a diffonderlo
come mezzo artistico di grandi possibilità. Attivissimo, espose ovunque le sue fotografie.
A chi gli obiettava che il procedimento alla gomma non era soltanto fotografico, ma richiedeva
abilità manuale, rispose che l'opera sua era l'esatto contrario di quella del pittore, che egli toglieva
il pigmento anziché applicarlo. Nonostante le sue argomentazioni, i critici continuarono a
sottolineare la somiglianza delle sue fotografie con dipinti e disegni. Il direttore della rivista
“Photography” osservo che una serie di ballerine fotografate dietro le quinte “aveva una strana
somiglianza con l'opera del pittore francese Degas”.
Heinrich Kühn di Innsbruck e i suoi amici Hugo Hennegerg e Hans Watzek eccelsero nella
stampa su carta trattata con gomma bicromatata. Avevano uno stile che li distingueva: stampe
grandi, una composizione simile a quella dei manifesti, abbondante uso di pigmenti su una carta
da disegno ruvida.
Contrastavano con queste fotografie alla gomma bicromatata di carattere decisamente pittorico le
platinotipie di Frederick H. Evans, che si specializzò nel fotografare le cattedrali della Francia e
dell'Inghilterra. Egli rivelò il proprio valore per la prima volta nel 1900, quando la Royal
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Photographic Society organizzò un'esposizione delle sue opere, e fu quindi eletto membro del
Linked Ring. Evans diceva di essersi dato alla fotografia per amore della bellezza. Evans scrisse
“che ritoccare un negativo in qualsiasi modo, a meno che non si tratti di macchie dovute a
inevitabili difetti meccanici, non è arte, ma una triste confessione di incapacità a trattare la
fotografia come una vera arte”.
Evans fu fedele a questa teoria per tutta la vita. Le fotografie delle grandi cattedrali inglesi e
francesi sono splendide interpretazioni di interni pieni di luce, di proporzioni immense, ricche di
intagli e di cesellature. Evans fu uno scrittore fecondo e attivissimo membro del Linked Ring; per
diversi anni fece parte del comitato della Photographic Salon incaricato di selezionare i
concorrenti, e fu responsabile dell'allestimento delle esposizioni.
Alfred Stieglitz di New York fu uno dei partecipanti più validi e più apprezzati delle mostre del
Photographic Salon e delle altre esposizioni europee. Stieglitz cominciò a interessarsi di fotografia
in Germania, dove era andato diciassettenne nel 1881 per studiare ingegneria meccanica.
Acquistò una macchina fotografica che aveva visto in una vetrina di un negozio e si iscrisse al
corso di fotografia che Hermann Wilhelm Vogel teneva alla Hochschule.
Da Vogel Stieglitz non soltanto apprese una tecnica brillante, ma fu anche introdotto alla
fotografia pittorica, in particolare com'era praticata da Robinson, delle cui teorie Vogel era fedele
seguace.
Da studente Stieglitz non si stancava di fare esperimenti, e spesso ne riferiva nelle riviste
specializzate: tecniche per intensificare le lastre sottoesposte, per ridurre quelle sovraesposte,
suggerimenti sul modo di stampare con la carta al platino.
In Germania la fotografia pittorica non incontrava grande interesse.
I lavori migliori fatti da Stieglitz quando era studente risalgono al suo viaggio in Italia nel 1887.
Egli utilizzò 25 dozzine di lastre asciutte Vogel-Obernetter Silver-Rosin di 18 × 24 cm, che erano
fra le prime lastre ortocromatiche prodotte industrialmente. La loro caratteristica permise a
Stieglitz di fotografare i paesaggi alpini, spesso con addensamenti di splendide nuvole.
Nella fotografia intitolata ora Paula ora Raggi di sole a Berlino, Stieglitz fissa un'immagine nuova,
personale: in una stanza invasa dalla luce del sole, dove le liste di una veneziana creano un
alterno gioco di luce e d'ombra, la sua giovane amica è seduta a un tavolo e scrive. Fu una
dimostrazione di abilità non perdere i particolari nel contrasto di luce ed ombra.
Sulla parete Paula aveva fissato con uno spillo due fotografie di L'avvicinarsi del temporale, fatte
da Stieglitz sul Lago di Como nel 1887.
Nel 1890 Stieglitz era Vienna, con il programma di continuare gli studi presso la Scuola di Stato
per la stampa e la fotografia, quando fu richiamato negli Stati Uniti dalla morte della sorella.
Tornato a New York, Stieglitz trovò che i sodalizi e i circoli fotografici erano numerosi, ma nessuno
sembrava avere quella fede appassionata nella fotografia che si stava diffondendo in Europa.
Fu chiamato a dirigere la Society of Amateur Photographers di New York, divenne direttore di
“The American Amateur Photographer”, e con le fotografie e con gli scritti mostrò agli americani le
possibilità estetiche della fotografia di cui essi non si erano ancora resi conto.
Poi volle spingere la tecnica al di là dei limiti accettabili. La maggior parte dei fotografi pittorici
consideravano la macchina portatile come indegna di un “operatore serio”. Stieglitz vede in
questo una sfida. Scrisse che quando si usa un apparecchio portatile il successo dipende dalla
pazienza: bisogna saper aspettare non lasciarsi sfuggire “il momento in cui tutto è ben equilibrato,
cioè soddisfa il tuo occhio”.
Nel 1894 Stieglitz torno nuovamente in Europa. Fu un viaggio assai fecondo. La rammendatrice di
reti, la sua fotografia in quell'anno più esposta e due volte premiata, fu paragonata a un quadro
dello stesso soggetto di Max Liebermann.
Ormai Stieglitz godeva di fama internazionale, ma avrebbe voluto che i fotografi pittorici del suo
paese eguagliassero gli inglesi, i quali conquistavano premi a destra e a manca.
Nel 1896 Stieglitz si occupò attivamente della fusione della Society of Amateur Photographers
con il New York Camera Club in una nuova società, il Camera Club di New York, dotata di una
sede spaziosa. Fu eletto vicepresidente del circolo e ne divenne il dinamico capo. Come
presidente della commissione per le pubblicazioni, Stieglitz trasformò la rivista del club in un bel
trimestrale nazionale, “Camera Notes”, che conteneva splendide riproduzioni di fotografie
scattate da soci e non soci del circolo, articoli, e rassegne critiche di esposizioni.
Organizzò al Camera Club molte piccole mostre, ma ciò che più si avvicinò al suo ideale di un
Salon americano fu la mostra organizzata nel 1898 dalla Photographic Society di Philadelphia
presso l'Accademia d'arte della Pennsylvania. Stieglitz fu uno dei giudici ed è proprio in questa
mostra che tutti ebbero parole di lode per alcuni ritratti semplici, alla buona, di donne e dei
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bambini. Ne era autrice Geltrude Käsebier, che si era dedicata alla fotografia in età adulta e che
nel 1896 aveva aperto, come professionista, uno studio di ritrattistica New York.
Clarence H. White di Newark mandò ritratti eccellenti per il senso della luce; le sue platinotipie
raffiguranti gruppi di giovani donne, abbigliate in costumi da lui stesso disegnati e messe
accuratamente in posa nella luce morbida del primo mattino o del tardo crepuscolo, avevano un
carattere fortemente lirico.
Eduard Steichen di Milwaukee si fece conoscere per la prima volta con le fotografie inviate al
Salon di Philadelphia nel 1899, quando aveva soltanto vent'anni; i suoi paesaggi impressionistici,
sfocati, suscitarono subito discussioni.
Steichen, che più tardi si stabilì a Parigi, divideva il suo tempo fra la pittura e la fotografia.
Conquistò rapidamente fame internazionale. Tenne la prima mostra personale nel 1901 a Parigi,
approfondì il procedimento con la gomma bicromatata ed eccelse nella stampa multipla a diversi
colori. Divenne amico di Augusto Rodin e gli fece molti ritratti.
Steichen fece anche una serie di nudi che suscitarono lo scherno dei critici.
Il più curioso fra i fotografi che si identificarono con il nuovo movimento pittorico in America fu
Fred Holland Day, di Boston. I critici si sentirono insultati quando nell'estate del 1898 egli mise in
scena, per fotografarla, su una collina alle porte di Boston, la Passione del Signore, e vi sostenne
egli stesso la parte di Gesù Cristo. Fred Holland Day è ricordato per aver fatto conoscere
all'Europa “La nuova scuola della fotografia americana”.
Alvin Langdon Coburn, il più giovane dei fotografi americani presentati da Day nel 1900, fin da
ragazzo si era interessato alla fotografia. Le sue prime fotografie erano soprattutto paesaggi,
piuttosto indefiniti, ma con quelle luci scintillanti che sarebbero divenute un inconfondibile
caratteristica del suo stile maturo. Coburn fotografò anche città - come Edimburgo, Londra e
New York - con un'acuta sensibilità per il luogo e per l’atmosfera.
Il 17 febbraio del 1902 Stieglitz costituì una nuova società a New York al fine di promuovere il
riconoscimento della fotografia pittorica come arte. Le diede il nome di Photo-Secession, e
scelse il nome di Secession perché lo usavano i gruppi di artisti d'avanguardia in Germania e in
Austria per sottolineare la loro indipendenza dalle istituzioni accademiche.
Tre erano gli obiettivi che Photo-Secession si proponeva:

- Far progredire la fotografia come espressione pittorica;


- Promuovere incontri e associazioni fra gli americani che praticassero l'arte o vi fossero
comunque interessati;
- Organizzare esposizioni non necessariamente limitate alle produzioni della foto se sei Shaun
o delle opere americane.

Subito dopo la fondazione della società, Stieglitz fu invitato personalmente dal National Arts
Club a organizzare una mostra di fotografia pittorica americana nella sede del Club, a New York.
Fu una mostra scelta con cura, allestita con gusto e con un calore di intimità insolito
nell'esposizione fotografiche. I critici d'arte diedero giudizi assoluti e contrastanti sulla
manifestazione. Stieglitz pubblicò le diverse recensioni nel numero del luglio 1902 di “Camera
Notes”. Fu l'ultimo numero della rivista da lui diretto. La sua battaglia per il riconoscimento della
fotografia pittorica non era stata condivisa da tutti i membri del Camera Club. Secondo costoro
Stieglitz si comportava da dittatore nella scelta delle fotografie; alcuni misero persino in dubbio la
sua onestà nell'amministrazione dei fondi del Club.
Stieglitz si trovò costretto a dare le dimissioni da direttore, e subito fondò una nuova rivista
trimestrale, “Camera Work”, di cui assunse personalmente la direzione la pubblicazione.
Fra il 1903 e il 1917 uscirono 50 numeri di “Camera Work”.
I disegni per la copertina e la cura tipografica erano di competenza di Steichen.
Il primo numero fu dedicato a Geltrude Käsebier, il secondo a Steichen, e i numeri successivi
furono quasi sempre monografie dell'opera di altri membri della Photo-Secession o di eminenti
fotografi europei.
Non furono trascurati neppure i primordi della fotografia: un fascicolo conteneva calotipi di Hill e
Adamson, un altro ritratti di Jiulia Margaret Cameron.
Oltre a svolgere attività editoriale, Stieglitz organizzò mostre facendosi prestare le opere dai
Photo-Secessionisti e da altri fotografi. Provvedeva personalmente ad ogni compito: sceglieva,
catalogava, incorniciava, imballava, spediva ai diversi sodalizi in patria e all’estero.
Fra le esposizioni negli Stati Uniti, le più importanti furono quelle, su invito, alla Corcoran Art
Gallery di Washington e al Carnegie Institute di Pittsburgh, nel 1904.
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Ma fra le città dove furono esposte le opere dei Photo-Secessionisti non figurava New York,
perché Photo-Secession non aveva lì una sede ufficiale. Tutto il lavoro veniva svolto in casa di
Stieglitz. Nel 1905 Steichen propose ai soci di prendere in affitto uno studio al n.291 della Fifth
Avenue. La proposta fu accettata e il 5 novembre si aprirono al pubblico le “Little Galleries of the
Photo-Secession”, con un’esposizione di fotografie fatte dai soci.
Alla mostra inaugurale seguirono numerose altre in cui furono presentate le opere di eminenti
fotografi pittorici europei e americani.
Nel 1910 Photo-Secession fu invitata ad allestire una mostra internazionale di fotografia pittorica
all’Albright Art Gallery di Buffalo. Stieglitz chiese e ottenne assoluta libertà di azione. Fu un vero
e proprio trionfo per i Photo-Secessionisti poter esporre le loro fotografie con tanto decoro in un
museo d'arte. Trionfo ancor maggiore fu che il museo acquistasse dalla mostra 15 immagini per la
sua collezione e progettasse di riservare una sala per tenervele esposte permanentemente.
Era la vittoria della loro fede nel diritto della fotografia a essere riconosciuta come arte bella.

CAP. X⎮LA FOTOGRAFIA STRAIGHT (DIRETTA)


All'inizio del XX secolo, gli artisti d’avanguardia brancolavano alla ricerca di una nuova estetica
basata sulle proprietà e sulle caratteristiche tipiche e inconfondibili del mezzo scelto. “La forma si
adegua alla funzione” divenne il loro motto. Gli architetti progettavano grattacieli che, più che
imitare nel disegno e nell'ornamentazione le strutture classiche in muratura, esprimevano
l'essenza dello scheletro d'acciaio. Gli scultori consideravano la struttura del marmo per i suoi
valori intrinsechi; non si proponevano più di simulare soltanto la levigata morbidezza delle carni o
la trama dei tessuti. I pittori d'avanguardia vedevano nella fotografia una liberazione: non si
sentivano più costretti a rappresentare qualcosa con le loro immagini. Erano nati il Cubismo e
l'Arte astratta.
La nuova estetica funzionale influenzò anche la fotografia. I critici cominciarono a elogiare
“le fotografie che sembrano fotografie”, prive di quelle manipolazioni così prevalenti nelle opere di
fotografi pittorici che volevano costringere la fotografia a emulare le immagini prese con altri
mezzi. Comparvero sulle riviste specializzate i primi articoli in lode della “fotografia pura”.
Il critico d'arte Hartmann, in una recensione della mostra di Photo-Secession al Carnegie Institute
del 1904, condannava la stampa con la gomma bicromatata, il procedimento alla gelatina, la
manipolazione di negativi e di stampe. Invitava i fotografi pittorici a fare un lavoro diretto:

“Quella che io chiamo fotografia diretta come può essere definita? Affidatevi al vostro
apparecchio, al vostro occhio, al vostro buon gusto, alla vostra conoscenza della
composizione, considerate ogni variazione di colori, di luce e di ombra; componete
l'immagine in modo tale che il negativo sia assolutamente perfetto e non abbia bisogno di
alcuna manipolazione. Io non mi oppongo al ritocco fin quando non interferisce con le
qualità naturali della tecnica fotografica.
I segni e le linee del pennello non sono elementi naturali della fotografia, e io mi oppongo e
sempre mi opporrò a fare uso del pennello. Non voglio che l'operatore fotografico sia
meno artista di quanto sia oggi, anzi io voglio che sia artista. Voglio che la fotografia
pittorica sia riconosciuta come arte bella, ma sono altrettanto convinto che si può
raggiungere soltanto con la fotografia pura”.

La fotografia pura, diretta, naturalmente ha una tradizione altrettanto antica quanto lo strumento
che la produce. L'immagine dagherrotipica era così fragile che non poteva essere sottoposta a
ritocchi. Il ritocco dei ritratti fu una pratica normale al tempo del collodio, ma più per soddisfare
personali esigenze di bellezza che per finalità estetiche. La novità dei primi anni del XX secolo fu il
riconoscimento della fotografia pura, diretta, come mezzo artistico legittimo.
In un articolo successivo Hartmann osserva:

“Il modo di dipingere dei maestri del passato, al quale ci si è attenuti per tanti secoli ha
finito per cadere nel convenzionale. È divenuto sempre più stereotipato, fin quando la
pittura impressionistica gli ha dato un nuovo impulso. Nella fotografia, l'espressione
pittorica è divenuta infinitamente ampia e varia, popolare, volgare, ordinaria, e pure
imprevista; abbonda di illegalità, imperfezioni, errori, ma nello stesso tempo offre una
singolare ricchezza di sorprendenti osservazioni individuali e di sentimenti d'ogni genere…

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Il pittore compone con uno sforzo di immaginazione. Il fotografo interpreta con
spontaneità di giudizio. Egli compone con l’occhio”.

Alfred Stieglitz difese molti fotografi che manipolarono negativi e stampe; tuttavia negli anni della
maturità preferì attenersi rigidamente alle proprietà fondamentali dell'apparecchio, dell'obiettivo e
dell'emozione. Nel 1907 Stieglitz The Steerage (Il ponte di terza classe), un'opera che più tardi
giudico la sua fotografia più bella.
La fotografia fu il risultato di un'identificazione immediata di soggetto e forma. Egli non cerco più
le condizioni ambientali, non aspetto pazientemente che “tutto fosse in equilibrio”. Ma invece,
senza esitazione, persino senza un pensiero cosciente, inquadrò subito il soggetto.
Stieglitz fu felice che The Steerage piacesse a Pablo Picasso. Stieglitz, per esortazione di
Steichen e col sostegno del suo entusiasmo, cominciò a farsi promotore, oltre che della
fotografia, anche della pittura e della scultura d’avanguardia. Così nella “Little Galleries of the
Photo-Secession” Stieglitz, con l'aiuto entusiastico di Steichen, presentò i quadri e le sculture più
di avanguardia che l'America avesse mai visto: disegni di Auguste Rodin, acquerelli e litografie di
Paul Cézanne, disegni di Henri Matisse e i quadri cubisti di Pablo Picasso. I fotografi erano
sconcertati, e spesso irritati, che Photo-Secession desse tanto rilievo a opere d'arte non
fotografiche. Il direttore di “Camera Work” spiegò che “291”, come le Little Galleries venivano
familiarmente chiamate, era “un laboratorio, una stazione sperimentale, e non doveva essere
considerata come una galleria d'arte nel significato comune della parola”.
Nel 1917 Photo-Secession e “291”, in seguito all'abbattimento dell'edificio, chiusero i battenti.
Molti membri si erano già allontanati. Steichen si unì alle forze armate americane in Europa.
Clarence H. White aprì una scuola di fotografia destinata ad avere grande influenza, e insieme a
Geltrude Käsebier e ad Alvin Langdon Coburn fondò nel 1916 un nuovo sodalizio: The Pictorial
Photographers of America.
Negli anni dell'immediato dopo guerra Stieglitz diede alla sua fotografia un'intensità nuova. Ogni
fotografia aveva un'immediatezza straordinaria, e il pubblico ne fu elettrizzato. Coloro che
conoscevano Stieglitz sapevano quanto fosse forte la sua personalità e attribuivano i suoi
successi nella ritrattistica a una sorta di potere ipnotico. Per dimostrare che ciò non era vero,
Stieglitz scelse dei soggetti sui quali non poteva esercitare alcuna influenza: il cielo e le nuvole.
Fotografò centinaia di volte il sole e le nuvole. Usò procedimenti che erano alla portata di
qualsiasi dilettante, stampò le sue immagini per contatto sulla carta la gelatina e il bromuro
d’argento. Battezzò queste fotografie col nome di “Equivalents”, le pubblicò in serie insieme ad
altre fotografia assai espressive: un prato brillante di gocce di pioggia e le palme delle mani di una
donna strette l'una contro l'altra fra le ginocchia.
Le considerava “equivalenti” ai suoi pensieri, alle sue speranze e alle sue aspirazioni.
Questa è la forza della macchina fotografica: può cogliere immagini familiari e dotarle di nuovi
significati, con un'espressione particolare, con l'impronta di una personalità.
Negli ultimi due numeri di “Camera Work”, del 1916 e del 1917, Stieglitz pubblicò le fotografie di
una recluta: Paul Strand. Comprendevano una serie di ritratti possenti presi per la strada a
passanti ignari con un apparecchio Graflex, e immagini in cui forma e disegno erano messi in
grave rilievo. Stieglitz scrisse che le opere di Strand erano “di una sincerità brutale, dirette, pure,
prive di qualsiasi inganno”. Erano in stridente contrasto con buona parte delle opere create dei
membri di Photo-Secession: preannunciavano il nuovo orientamento dell'estetica fotografica e il
ritorno alle tradizioni della fotografia straight (diretta).
Strand fu uno dei primi a mettere in rilievo la bellezza fotografica degli strumenti e dei meccanismi
di precisione. Fece una serie di primi piani straordinari del suo apparecchio cinematografico
Akeley e di torni meccanici. Scoprì la bellezza di minutissimi particolari di tronchi d'alberi
trasportati dall'acqua, di ragnatele, di piante, e di altri oggetti naturali.
Nel 1923, nel corso di una conferenza tenuta agli studenti della scuola fotografica di Clarence H.
White, sostenne con forza il ritorno all'abilità artigianale, e sostenne la necessità di liberare la
fotografia dalla tutela della pittura, e di riconoscere alla macchina fotografica una sua propria
estetica.
Strand metteva nelle sue fotografie forza, intensità e sicurezza. I suoi lavori hanno una qualità che
si riscontra di rado nella fotografia. Di conseguenza fotografò genti e paesaggi, sempre cercando
di capire l'ambiente, il paese, gli abitanti.
Nel 1914 Charles Sheeler cominciò a scoprire con il suo apparecchio le bellezze dell'architettura
autoctona americana: fotografò con schietta immediatezza pannelli di legno dipinti di bianco e poi
scoloriti dal tempo, le armoniose forme rettangolari dei granai della Pennsylvania. Sheeler, che era
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innanzitutto un pittore, sostenne appassionatamente il valore intrinseco, autonomo della
fotografia.
Egli contribuì vivamente alla fotografia con la sua sensibile interpretazione della forma e della
struttura del lavoro umano nelle precise, nitide immagini delle maschere negre africane,
nell'architettura industriale degli stabilimenti Ford a River Rouge e nelle fotografie di sculture
antiche eseguite per il Metropolitan Museum of Art di New York.
Edward Steichen, incaricato di prendere fotografie aerea per l’Aviazione americana durante la
seconda battaglia della Marna, dovette affrontare il problema di assicurarsi la maggiore esattezza
possibile dei particolari, la maggior nettezza e precisione possibile dell'immagine. Scoprì tanta
bellezza in queste fotografie dirette che nel 1920 ripudiò le sue precedenti fotografie pittoriche su
carta bicromatata, abbandonò la pittura e si dedicò allo studio dei procedimenti della fotografia
pura come se fosse un principiante.
Conquistata un eccezionale abilità tecnica, e naturalmente dotato di un acuto senso della
composizione e della capacità di captare la personalità del modello, contribuì a innalzare la
stampa e illustrata a un livello creativo.
All'inizio degli anni ’20 del nostro secolo, giovani fotografi di New York, in particolare Paul
Outerbridge jr, Ralph Steiner e Walker Evans, furono pronti a riconoscere la nuova estetica
della fotografia pura. Le meticolose nature morte di Outerbridge e le forme contrastanti di
grattacieli di edifici rurali di Steiner conquistarono fame internazionale.
Evans si interessò soprattutto al mondo americano: fotografo monumenti architettonici, l'arte
popolare delle insegne e dei pannelli pubblicitari, e la gente per le strade con personale e
ineguagliabile sensibilità.
In California, Edward Weston cominciò ad avvicinarsi all'astratto: in R.S. - A Portrait con spirito
audace e anticonvenzionale colloca la metà superiore della testa del modello sotto una
composizione di triangoli e diagonali. Altrettanto astratto è il particolare di un nudo femminile: la
rotondità del petto tagliata dal braccio messo di traverso.
Dei due orientamenti che vedeva nelle sue opere più recenti - l'astrazione e il realismo - il secondo
era più deciso e quello che offriva maggiori possibilità all'espressione creatrice.
Per lui non vi fu più distinzione fra tecnica ed estetica: “Se non riesco a ottenere un negativo
tecnicamente perfetto, il valore emotivo o intellettuale della fotografia per me è quasi nullo”.
L'aspetto più importante della concezione di Edward Weston fu il suo continuo insistere che il
fotografo prima di far scattare l'obiettivo deve vedere dentro di sé quale sarà l'immagine finale.
Weston spinse la sua concezione fino al virtuosismo. Esigeva chiarezza di forme, voleva che ogni
zona dell'immagine fosse nettamente stagliata, che i materiali e le strutture delle cose avessero il
fascino dell'illusione. Il fatto che la macchina fotografica possa vedere più dell'occhio nudo
costituì per lui uno dei grandi miracoli della fotografia.
Nelle fotografie di Weston i particolari sono concentrati e ridotti da richiedere, per essere visti, uno
sforzo muscolare assai minore da parte dell'osservatore, il quale, senza rendersene conto, si
sente fisiologicamente sollevato.
Nel 1909, nel suo Estetica generale dell'arte fotografica, Willy Warstat analizzò successivamente
questo aspetto del meccanismo visivo. Trovò che il fotografo doveva evitare l'accumulo di
particolari variamente disseminati se voleva vincere “la battaglia contro il realismo”. Weston non
era affatto in lotta con il realismo. Il suo occhio lo portava ad un approccio diretto e immediato
che gli permetteva di servirsi di quello straordinario fenomeno visivo traendone effetti potenti.
Egli non si preoccupava soltanto di rendere i particolari; la sua concezione della fotografia era
governata dal suo gusto, dalla sua fantasia, dal suo senso della forma.
Brett Weston, il figlio, cominciò a fotografare nel 1925. Le sue prime fotografie rivelano già uno
stile personale, caratterizzato da un abile, studioso gioco di ombre e di strutture.
Nel 1932 un gruppo di giovani fotografi, profondamente colpiti da Edward Weston e dalla sua
opera, costituirono un sodalizio al quale dietro il nome di “Gruppo f/64”. Attinsero il nome
dall'ottica perché di solito usavano l'apertura minima del diaframma per assicurarsi il massimo
della nitidezza dell'immagine sia in primo piano sia in distanza.
I soci fondatori, tra cui Ansel Adams, formularono un'estetica che appare dogmatica nelle sue
rigide formulazioni: qualsiasi fotografia non perfettamente a fuoco in ogni particolare, non
stampata a contatto su carta brillante nei toni bianco e nero, non montata su un cartoncino
bianco era “impura”. Si trattava di una reazione violenta allo stile sdolcinato, sentimentale reso
allora popolare dei fotografi pittorici.
Per alcuni anni quel sodalizio non ufficiale fu il gruppo più all'avanguardia degli Stati Uniti. Anche
quando si sciolse, la sua influenza continuò: “f/64” diventò una comoda etichetta per la fotografia
pura, diretta.
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Ansel Adams ha dimostrato brillantemente quali siano le possibilità della fotografia come mezzo
d’espressione. Nel 1930 incontrò Paul Strand: i suoi lavori lo colpirono al tal punto che si rese
conto del valore della fotografia diretta, ed allora dedico tutto il suo tempo alla macchina
fotografica. Le sue opere nuove ottennero un riconoscimento internazionale nel 1935. Stieglitz
espose i lavori di Adams nel 1936; rivelavano una sensibilità, un rigore immediati, schietti,
piuttosto rari. Geloso difensore delle bellezze naturali, amante della montagna e della solitudine,
Adam dedicò tutto il tempo all'interpretazione della natura.
Adams si serve di apparecchi d’ogni tipo e sperimenta continuamente tecniche nuove. Con il suo
“sistema delle zone” ha elaborato un metodo assai ingegnoso e pratico per stabilire i tempi di
pose e di sviluppo, basati su principi sensitometrici, che assicurano al fotografo il controllo
assoluto dei suoi mezzi. Prima di tutto Adams gli insegna a conoscere a fondo le caratteristiche
dell'emulsione fotografica stabilendo i rapporti che intercorrono fra i quattro principali elementi
variabili:

- Sensibilità del negativo;


- Durata della posa;
- Luminosità del soggetto;
- Tempo di sviluppo.

Basandosi su questi dati, il fotografo potrà ottenere sul negativo qualsiasi sfumatura e stabilire
esattamente le tonalità che saranno date da altre parti luminose del soggetto. Adam divide in dieci
zone le infinite gradazioni di luce ed d’ombra che si trovano in natura. La Zona 0 è il nero, la
Zona IX è il bianco. Tra questi due estremi vi sono otto tonalità di grigio, la Zona V è un grigio
“di mezzo”; la Zona VI corrisponde alla sensazione che dà la tonalità di una pelle normale, ben
illuminata. Adams si serve di un esposimetro fotoelettrico per misurare la luminosità delle diverse
parti della scena che vuole fotografare. Non c'è più posto per il caso, e il fotografo può
concentrarsi sull'aspetto estetico del suo lavoro, con la sicurezza che i risultati non solo saranno
eccellenti sul piano tecnico, ma realizzeranno la sua interpretazione personale del soggetto.
In Europa un'attenzione quasi analoga per la fotografia pura, diretta, si nota nelle opere del
fotografo tedesco Albert Renger-Patzsch. Il suo libro Die Welt ist schön (il mondo è bello),
pubblicato nel 1928, fu salutato come il corrispondente fotografico del movimento pittorico Nuova
Oggettività. Le immagini erano forti e immediate: primi piani vicinissimi di piante e di animali,
strade cittadine solitarie, edifici industriali, particolari di macchine, nature morte di oggetti
fabbricati da quelle macchine. Renger-Patzsch disse:

“Lasciamo l'arte all'artista e noi - con il mezzo fotografico - cerchiamo di creare fotografie
che vivono di vita propria, in virtù del loro carattere fotografico, senza nulla chiedere in
prestito all’arte”.

Il crescente apprezzamento della fotografia straight, diretta, pura, sul finire degli anni ’20 risvegliò
l'attenzione per i fotografi della generazione precedente la cui opera era stata messa in ombra dai
fotografi pittoricisti. Jean-Eugène-Auguste Atget era quasi sconosciuto quando morì nel 1927.
Non aveva mai esposto in un Salon. Gran parte del suo lavoro consistette nel fotografare persino i
minimi particolari degli edifici storici di Parigi. Fece una serie di fotografie delle inferriate, un'altra
delle fontane della capitale francese. Fotografò il volto di Parigi in tutti i suoi aspetti: vetrine di
negozi e vetture d’ogni sorta, venditori di ombrelli, la gente minuta che si guadagna da vivere con
umili mestieri come consegnare il pane o tirare carretti. Fotografò interni di palazzi, alberi e fiori e
le foglie morte dell’autunno.
Usava il suo obiettivo, un “rapido rettilineo”, con una piccolissima apertura di diaframma. La
tecnica e i metodi adottati da Atget appartengono completamente all'Ottocento e, se si guardano
le sue fotografie, si stenta a credere che la maggior parte di esse siano state fatte dopo il 1900.
Ogni particolare di una fotografia di Atget risalta con chiarezza notevole.
Fra le migliaia di fotografie prese da Atget, molte vanno oltre la semplice testimonianza e si
avvicinano all'espressione lirica, poiché il suo modo di vedere le cose era tutto particolare.
Sapeva scoprire qualità umane dove nessun essere umano era presente. Le sue opere
appartengono soltanto al mondo della fotografia; non trovano confronti in altre opere prodotte da
altri mezzi grafici.

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CAP. XI⎮ALLA RICERCA DI FORME NUOVE
Nel 1913 Alvin Langdon Coburn, membro di Photo-Secession, presentò una serie di cinque
fotografie riunite sotto il titolo New York from its Pinnacles. Erano venute dall'alto, e la prospettiva
distorta mettevano in evidenza il disegno astratto di strade, piazze, edifici.
In The Thousand Windows l'asse dell'apparecchio fotografico è obliquo; il nostro senso
dell'equilibrio è messo a dura prova e le facciate delle case sembrano superfici trapezoidali
disposte come in una pittura astratta. L'effetto è accentuato da un angolo visuale estremamente
ampio; per ottenerlo Coburn usò un apparecchio che al posto dell'obiettivo aveva un foro
stenopeico.
Alcuni anni dopo Coburn fece fotografie decisamente astratte ricorrendo a uno stratagemma
ottico basato sul caleidoscopio. Fissò insieme tre specchi in modo da formare un prisma
triangolare concavo attraverso il quale l'obiettivo della macchina riceveva l'immagine di oggetti
diversi. Il suo amico Ezra Pound chiamò lo strumento vortoscopio e i risultati che se ne
ottenevano vortografi. Nel 1917 Coburn ne espose 18 insieme ai suoi ultimi dipinti figurativi.
Nel discorso inaugurale Pound respinse i dipinti, definendoli “post-impressionistici”, ma ebbe
parole di grande elogio per i vortografi. Tuttavia l'avventura di Coburn nel campo dell'arte astratta
fu di breve durata; mise da parte il vortoscopio e non se ne servì più.
Christian Schad, uno degli artisti del gruppo Dada di Zurigo, nel 1918 fece alcune fotografie
astratte senza servirsi dell'apparecchio fotografico. Rifacendosi alla tecnica risalente ai primi
esperimenti di Fox Talbot, Schad collocava pezzi di carta e oggetti piatti su una carta
fotosensibile che poi esponeva alla luce. L'immagine che si formava era assai simile ai collages
dei cubisti fatti con ritagli di giornale e di manifesti e oggetti vari incollati sulla tela.
Intorno al 1921 Man Ray e László Moholy-Nagy cominciarono a sperimentare tecniche nuove
che diedero luogo a opere abbastanza simili: le rayografie e i fotogrammi. Si spinsero più lontano
di Schad, poiché posero sulla carta sensibilizzata oggetti tridimensionali: si disegnavano così non
soltanto i contorni, ma anche le ombre e, se gli oggetti erano trasparenti, ne era ripresa anche la
struttura. L'evidente automatismo del procedimento piacque alla sensibilità dei surrealisti e
dadaisti: sia Mary sia Moholy-Nagy scelsero ingranaggi di ruote e piccoli pezzi di macchine per le
loro prime composizioni.
I successivi fotogrammi di Moholy-Nagy sono esercizi di luce e di forma, sono composizioni
architettoniche: per lui gli oggetti collocati sulla carta sensibilizzata non sono più oggetti
identificabili, ma “modulatori di luce”.
Man Ray scelse gli oggetti per il loro valore evocativo: i 12 rayogrammi che pubblicò nel 1922 con
il titolo Les champs délicieux raffigurano semplici oggetti come una chiave con il numero della
camera d'albergo, una pistola, un ventaglio, un giroscopio, una striscia di pellicola
cinematografica.
È risaputo che, se non si tiene l'apparecchio in posizione perfettamente orizzontale, sembra che
gli edifici caschino o stiano per crollare. La prospettiva che si insegna nelle scuole si basa sui
punti di fuga situati all'orizzonte, e l'orizzonte è sempre a livello dell'occhio. Molti apparecchi
portatili erano persino dotati di bolle perché l'operatore fosse sicuro di tenere la macchina in
posizione orizzontale.
Ma ora, negli anni ’20, i fotografi scoprirono la “nuova prospettiva”, ricca di possibilità
compositive. L'architetto Erich Mendelsohn, pioniere dello Stile Internazionale, fotografò i
grattacieli di New York e i silos del Middle West puntando l'apparecchio ora verso l'alto, ora verso
il basso. Le sue fotografie furono pubblicate nel 1926 in un album intitolato America: Album
fotografico di un architetto. Alcune sue arditissime fotografie erano vere proprie astrazioni, e
Mendelsohn senti il bisogno di definirle nelle didascalie come “istantanee oblique”.
Aleksander Rodčenko, che abbandonò la pittura costruttiva per seguire la professione di
fotografo, disdegnava le fotografie prese tenendo l'apparecchio all'altezza della cintola.
Nel 1928 le chiamò “riprese ombelicali”.
È evidente nelle opere della “nuova fotografia” l'influenza dei cineasti d’avanguardia, non soltanto
nelle riprese inclinate, ma anche nei primi piani più ravvicinati.
I fotografi artisti degli anni ’20 si cimentarono anche nella doppia posa. Uno dei risultati più felici è
il ritratto che Rodčenko fece al pittore Alexandr Ševčenko, prendendolo di prospetto e di profilo.
Il negativo fu assai apprezzato per i suoi valori intrinseci.
Il fenomeno dell'inversione di toni ai margini delle zone nere e bianche, noto agli scienziati come
Effetto Sabatier, fu usato per dare vigore plastico, soprattutto da Man Ray.

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Se un'emozione sensibilizzante - sviluppata, ma non fissata - viene esposta alla luce e quindi
nuovamente sviluppata, l'immagine appare con un'inversione di toni laddove la delimitazione fra
nero e bianco è molto netta. La stampa tratta da questo negativo ha i contorni marcati da linee
nere. Nei circoli artistici solitamente questo procedimento è noto col nome di solarizzazione,
anche se gli scienziati riservano tale parola a un fenomeno simile di inversione di toni ai margini
provocato da una forte superesposizione, caratteristico soprattutto di dagherrotipi e delle stampe
al platino.
Man Ray fece anche stampe in negativo, usando sia il procedimento normale, sia quello
dell'inversione di toni ai margini. Talvolta rendeva più sfumata l'immagine aumentando
deliberatamente la grossezza dei grani d’argento.
Per Moholy-Nagy l'apparecchio fotografico era uno strumento per allargare i limiti della visione. La
ricerca di forme nuove lo portava ad apprezzare le fotografie prese per scopi scientifici, o per altri
motivi di utilità pratica. Trovava in esse una “nuova visione” del mondo.
Molti artisti d’avanguardia furono profondamente influenzati dalle fotografie scientifiche. Marcel
Duchamp disse che nei circoli artistici di Parigi era vivissimo l'interesse per le fotografie prese
con esposizioni multiple, a fortissima velocità, da Jules Marey per i suoi studi di fisiologia.
Anche i pittori futuristi ne subirono profondamente l'influenza. Il dipinto di Giacomo Balla
Dadaismo di un cane al guinzaglio è veramente stroboscopico: il cane sembra avere un gran
numero di zampe e di code. Il fotografo e regista italiano Anton Giulio Bragaglia non concordava
con Marey e Balla. Riteneva che le pose intermittenti non dessero l'idea della continuità del
movimento. Per ottenere la registrazione dinamica della traiettoria del movimento, Bragaglia fece
muovere il soggetto ritraendolo in pose lunghe. Chiamò l'opera sua “fotodinamismo” e pubblicò
alcune sue immagini nel libro Fotodinamismo futurista.
Grande interesse suscitò anche la cosiddetta “fototipografia”, una parola cognata per definire
fotomontaggi, collages e la mescolanza di immagini topografiche e fotografiche.
Uno dei contributi più singolari degli artisti degli anni ’20 consistette nell'incollare insieme o nel
combinare con altri mezzi immagini distinte e disparate così da formare una nuova entità visiva;
mettevano insieme immagini assai diverse l'una dall'altra per soggetto, prospettiva, misura, valori
tonali. Ogni singola immagine stava con l'altra in un rapporto di affinità e di potenziamento, o
invece di contrasto stridente. Questo procedimento era suggerito dalla pratica della pittura
astratta di inserire e incollare sulla tela della carta stampata - di solito ritagli di giornale e piccoli
oggetti. Questi lavori venivano detti collages.
Le immagini popolari, specialmente alcune fantasiose cartoline, ebbero grande influenza sui
pionieri. George Grosz e John Heartfield fecero risalire l'origine dei montaggi dei dadaisti a
quegli anonimi messaggi che si inviavano agli amici sul fronte, durante la prima guerra mondiale.

“Tutto era tagliato in modo da esprimere, con le immagini, tutto quello che sarebbe stato
cancellato dalla censura se fosse stato detto in parole”.

I fotomontaggi Hannah Höch sono complessi, pieni di forza, spesso minacciosi. Nel Milionario
due magnati dell'industria tengono in mano pezzi di macchine. Delle loro teste vediamo soltanto
una parte: in mezzo ad esse si erge un gigantesco fucile. Sul fondo sono rappezzati insieme
vedute aerea di città, un ampio complesso industriale e un enorme pneumatico.
Nella Germania del Terzo Reich, Heartfield, per mezzo del fotomontaggio, fece la più feroce
satirica politica: Il significato di Ginevra, una colomba della pace infilzata in una baionetta.
Alexander Rodčenko creò molti fotomontaggi che ricordavano lo stile dei dadaisti, ma erano
pervasi di un dinamismo del tutto originale. Quelli destinati a illustrare Pro Eta, il libro di poesie di
Vladimir Majakovskij, costituiscono uno straordinario continuum: il viso e gli occhi ossessionati
della stessa donna, ripetuti in una grande varietà di soluzioni. El’ Lisickij sovrappose diverse sue
fotografie per l'autoritratto intitolato Il costruttore, che - come altri fotomontaggi - è costituito
esclusivamente da fotografie nella duplice posa del volto e della mano.
Paul Citroen, appartenente al gruppo del Bauhaus, accatastò un edificio sull'altro e creò un
fotomontaggio di 75 × 100 cm, che Moholy-Nagy definì “un immenso mare di mattoni e di
cemento”. I fotomontaggi dello stesso Moholy-Nagy sono ricchi di inventiva, spesso sfociano in
una satira bizzarra. In Gelosia l'artista esce da un negativo, lasciando un vuoto che viene riempito
da una donna accovacciata con un fucile puntato.
In Leda e il cigno gli elementi fotografici si equilibrano in una delicata trama lineare.

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CAP. XII⎮LA VISIONE ISTANTANEA
La comodità fu il primo motivo che indusse a usare apparecchi fotografici piccoli per fotografie
grandi. L'invenzione degli apparecchi portatili e delle lastre asciutte, nonché il perfezionamento
della tecnica di ingrandimento e l'uso di carte da stampa più rapide indussero ad un mutamento
nei modi di lavoro. La produzione dei fotografi aumentò: talvolta l'immagine registrata
dall'apparecchio era soltanto un punto di partenza per la composizione definitiva.
Sul finire del secolo alcune innovazioni tecniche allargarono ulteriormente il campo di operazione
dell'apparecchio fotografico. Furono fabbricati degli obiettivi che davano immagini molto più
luminose di un tempo; furono costruiti apparecchi precisi e di piccolo formato, forniti di rapidi
otturatori, adatti alla maggior potenza degli obiettivi. I negativi piccoli potevano essere ora
facilmente ingranditi.
Jules Carpentier, che costruì il Cinématographe di fratelli Lumière, fabbricò nel 1892 un
apparecchio fotografico di precisione che chiamò Photo-Jumelle. aveva due obiettivi identici.
Uno formava l'immagine sulla lastra asciutta di 4,5 × 6 cm; l'altro formava l'immagine su un vetro
smerigliato che il fotografo poteva tranquillamente controllare. Il Photo-Jumelle era costruito con
rara esattezza. La macchina aveva un caricatore con 12 lastre, che si cambiavano azionando una
levetta di rame. Una molla faceva scattare l'otturatore alla velocità di un 1/60 di secondo. La
messa a fuoco dell'obiettivo era fissa. Carpentier sosteneva che i fotografi non erano capaci di
mettere a fuoco con la precisione necessaria per fare ingrandimenti. Così un apparecchio per
l'ingrandimento era venduto come accessorio.
I Photo-Jumelles si diffusero largamente, furono assai limitati e divennero strumenti classici.
Il Block-Notes erano di formato più piccolo e pieghevoli. Per francese Jacques-Henri Lartigue il
Block-Notes era “una trappola per le immagini” magica. Aveva sei anni quando comincio a
fotografare con un apparecchio comune per paesaggi. Ma quell'apparecchio non gli permetteva
di fare fotografie in movimento quando giocava col fratello e con gli amici. L'apparecchio Block-
Notes permise a Lartigue di fotografare alianti che volavano sollevando un uomo, corse di
automobili e di motociclette costruite in casa. Quando, nel 1908, gli aeroplani apparvero
all'improvviso in una stupefacente varietà di modelli, Lartigue frequentava assiduamente il campo
di aviazione. Le fotografie del primo aereo prese da Lartigue sono la testimonianza più vivida e
precisa che ci sia rimasta della nascita del volo.
La fotografia era per lui qualcosa di personale, che faceva per sua soddisfazione e diletto.
Fin dal 1902 alcune emulsioni pancromatiche espressamente sensibilizzate permisero talvolta di
prendere istantanee alla luce elettrica, nell'interno dei teatri o per le strade: tuttavia le grandi
possibilità della fotografia si rivelarono soltanto nel 1924, quando furono messi in vendita due
apparecchi tedeschi, l’Ermanox della ditta Ernemann-Werke A. G., e il Lunar di Hugo Meyer.
Erano ambedue apparecchi per lastre di 4,5 × 6 cm contenute in singoli supporti di metallo, forniti
di un otturatore sul piano focale (o a tendina)n con una velocità di un 1/1000 di secondo e di
obiettivi estremamente rapidi, all'inizio con l'apertura di f/2, che presto fu portata a f/1.5. La loro
capacità di far passare molta luce permetteva di prendere istantanea anche con scarsa
illuminazione.
Nel 1928, appena seppe nell'esistenza di quel miracolo di macchina fotografica, il berlinese Erich
Salomon cominciò subito a servirsene per fotografare personaggi famosi per i giornali illustrati. In
principio, quando chiese di riprenderli nello svolgimento delle loro attività urtò contro un rifiuto,
poiché i funzionari erano convinti che un lampo accidentale avrebbe turbato il decoro del luogo.
Salomon riuscì a convincerli fotografandoli a loro insaputa e poi mostrando i risultati del suo
lavoro. Non tardò a conquistare la fiducia di eminenti uomini di Stato e poté così fotografarli nelle
sale delle loro riunioni. Il direttore di un giornale inglese, vedendo quelle immagini, così
profondamente diverse dai soliti ritratti presi studio, le battezzò “fotografie candide”,
un'espressione di cui il pubblico subito s’impossessò.
Felix H. Man fece anch’egli fotografie nello stesso stile e con lo stesso spirito, e le pubblicò su
importanti riviste illustrate tedesche, inglesi e americane fin dal 1929.
L'apparecchio Ermanox non tardò ad essere sostituito da un apparecchio più maneggevole che
offriva il vantaggio di essere più piccolo e di prendere, con un’unica pellicola cinematografica da
35 mm, 36 negativi in rapida successione. La prima macchina di questo tipo fu la Leica,
progettata alla vigilia della prima guerra mondiale da Oskar Barnack, un tecnico dello
stabilimento ottico di E. Lietz. Nel 1924 la società, rendendosi conto che la macchina aveva
buone possibilità di affermarsi, lanciò sul mercato la prima Leica. Era fornita di un obiettivo con
lunghezza focale di 50 mm e un'apertura di f/3.5. Il primo perfezionamento consistette nel far sì
che l'obiettivo potesse essere tolto e nell'offrire al fotografo la possibilità di scegliere fra obiettivi
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di lunghezza focale diverse e con aperture facilmente intercambiabili nel momento in cui si
fotografa. Nel 1932 la società Zeiss Ikon presentò una macchina fotografica simile, la Contax,
munita di un telemetro incorporato e collegato alla ghiera di messa a fuoco nell'obiettivo: in tal
modo, facendo semplicemente ruotare l'obiettivo fin quando le due immagini nel soggetto si
sovrapponevano e ne formavano una sola, il fotografo era sicuro che la messa fuoco era perfetta.
La Leica, la Contax e numerose altre macchine fotografiche con telemetro da 35 mm non
tardarono a offrire obiettivi con grande apertura, fino a f/1.5. Un ulteriore perfezionamento fu
l’apparecchio reflex monobiettivo con visione all'altezza dell'occhio e l'immagine che giunge
all'oculare su un vetro smerigliato attraverso un pentaprisma, come la popolarissima Nikon F.
Molti fotografi preferirono apparecchi più grandi come era Rolleiflex che riprendeva il modello
reflex binoculare del 1892, ma più concentrato. Sul rotolo di una pellicola si potevano prendere 12
negativi, ciascuno di 6 × 6 cm. I modelli successivi erano forniti di un congegno che faceva
scattare l'otturatore e girando la manovella caricava una pellicola nuova. Nel 1948 la ditta svedese
Hasselblad presentò apparecchi di grande formato dotati di reflex monobiettivo.
I fotoreporter furono i primi a usare gli apparecchi di piccolo formato. Sia Erich Salomon che Felix
H. Man preferirono la Leica alla Ermanox.
Gli apparecchi di piccolo formato non soltanto si rivelarono assai utili per il fotoreporter, ma
aprirono la strada a nuove possibilità estetiche. Potevano essere maneggiati con tanta facilità da
permettere al fotografo di cercare vedute insolite e di cogliere i particolari della vita nel suo
continuo fluire.

Sul finire del 1915 André Kertész fece fotografie belle e spontanee di gente comune, inserita nel
suo ambiente naturale. Quando nel 1926 si trasferì a Parigi, la sua visione divenne più costruttiva;
imparò a cogliere l'attimo fuggente, non più ripetibile. Da lui Brassaï apprese quella tecnica che
usò con tanta forza espressiva per fotografare la Parigi notturna. Brassaï fu tra i primi a scoprire
gli aspetti più insoliti della città: fotografò la gente con discrezione, seppure con franchezza, con
calore umano. Bill Brandt fotografò gli inglesi nelle loro case con spirito e fantasia, con una sottile
sfumatura surrealista.
Quando nel 1933 furono espose alla Julien Levy Gallery di New York le fotografie prese con un
apparecchio di piccolo formato dal francese Henri Cartier-Bresson, furono battezzate “fotografie
antigrafiche”. Diedero l'impressione di essere state fatte quasi automaticamente e che la loro
strana e provocante bellezza fosse soltanto frutto del caso. Questo perché Cartier-Bresson
mostrava l'irrealtà del reale; il ritmo dei bambini che giocano fra le rovine; un bambino estraniato
dal mondo, quasi in trance mentre afferra una palla. Era difficile pensare che quelle immagini
fossero state composte deliberatamente.
Eppure era proprio questo il modo di lavorare di Cartier-Bresson.
Lui ha l'abilità di cogliere quel frammento di secondo in cui il soggetto appare nel suo aspetto più
significativo e nella sua forma più evocatrice. Per lui la macchina fotografica piccola è l'ideale,
poiché può farla funzionare con estrema rapidità. Anziché affidarsi al caso, compone attraverso il
mirino usando sempre tutta la superficie del negativo. Cartier-Bresson ha la singolare abilità di
catturare questi istanti straordinari in cui l'immagine in movimento raggiunge nel suo obiettivo
un'armonia di forme, di espressione e di contenuto che al di là del tempo.
La disponibilità di fonti di luce portatili e molto intense permise al fotografo di creare in qualunque
ambiente i propri effetti luminosi e di registrare i movimenti più rapidi.
Nel 1925 Paul Vierkötter brevettò un nuovissimo sistema per riprodurre un lampo: fatto il vuoto in
un globo di vetro vi si immetteva la miscela infiammabile. Poi si faceva passare una debole
corrente elettrica: la miscela subito prendeva fuoco e, per una frazione di secondo, produceva
luce brillante. Questa lampadina che non produceva rumore né fumo su immediatamente adottata
le fotoreporter.
In principio fu usato il metodo dell'open flash: l'apparecchio era collocato su un treppiede, si
apriva l'otturatore, il lampo si accendeva, si chiudeva l’otturatore. Più tardi la scatto dell’otturatore
fu sincronizzato meccanicamente con la scarica della corrente elettrica, rendendo così possibile
l'uso dell'apparecchio portatile.
Con questa attrezzatura era ormai possibile fotografare in ogni luogo; ma si avevano risultati
grotteschi, perché la luce che colpiva i soggetti appiattiva i volti, sottolineava ombre sgradevoli ed
era così violenta che gli sfondi apparivano inevitabilmente neri. Tuttavia la luce irreale del flash
poteva dare risultati efficaci. Il fotoreporter newyorchese Weegee riuscì a introdurre elementi che
ne fanno una vera e propria caricatura sociale.

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Ulteriori perfezionamenti tecnici permisero di fare esplodere contemporaneamente diverse
lampadine, collocate in diversi punti lontani dall'apparecchio fotografico e adesso collegate con
prolungamenti elettrici. Grazie a questo “sincroflash multiplo” si può regolare l'illuminazione sia
per ottenere particolari effetti drammatici, sia per rafforzare fonti luminose già esistenti.
La luce artificiale, in modo particolare la tecnica del sincroflash, è usata brillantemente da
Barbara Morgan nelle fotografie dedicate alla danza. Ella illumina le danzatrici con precise finalità
fotografiche, ed esse danzano per l'obiettivo di Barbara che non si limita a registrare una
coreografia, ma ce ne offre una vera e propria interpretazione.
Nelle fotografie di Barbara Morgan ogni forma ha un significato. Talvolta è necessario irrigidire
l'azione; altre volte un'immagine leggermente confusa aiuta a dare il senso del movimento.
Le lampade al magnesio possono essere usate soltanto una volta. Oggi sono state
completamente soppiantate da tubi contenenti xeno che è acceso dall'energia elettrica
conservata in accumulatori. Queste lampadine velocissime, speedlamps o “stroboscopiche”
come furono chiamate inizialmente, permettevano di fare esposizioni di un millesimo di secondo,
o anche in un tempo più breve.
Il flash elettronico offre anche un'altra possibilità, ovvero quella di emettere lampi intermittenti.
Harold E. Edgerton inventò nel 1938 un nuovo flash costituito da un tubo contenente gas nobile.
Le fotografie prese con la luce stroboscopica fissano per sempre forme che non possono essere
mai percepite ad occhio nudo. Edgerton è riuscito a cogliere fantasiosissime immagini del fluire
del movimento nonché la traiettoria di oggetti in moto a una velocità che si avvicina a quella della
luce. La macchina fotografica è andata oltre la soglia della visione normale, e ora ci offre un
mondo di forme solitamente invisibile.

CAP. XIII⎮LA FOTOGRAFIA-DOCUMENTO


L'autenticità che caratterizza la fotografia le conferisce un valore particolare come testimonianza,
come prova. Perciò la fotografia diventa “documento”.
Qualsiasi fotografia può essere considerata un documento se contiene informazioni utili su un
particolare soggetto che ci interessa.
Negli Stati Uniti, il sociologo Lewis W. Hine faceva una serie di notevoli fotografie degli immigrati
che sbarcavano a New York. Aveva scoperto nella macchina fotografica uno strumento valido per
la ricerca e assai utile per comunicare i suoi risultati ad altri. Si interessava profondamente delle
condizioni dei diseredati.
Hine si rendeva conto, come Riis prima di lui, del valore soggettivo delle proprie fotografie e
capiva che, proprio per questo motivo, avevano una forza particolare e potevano far germinare
accuse e critiche verso un sistema economico basato sullo sfruttamento degli umili e dei non
privilegiati. Definì i suoi lavori “foto-interpretazioni”, e li pubblicò come “documenti umani”.
La sua preparazione culturale gli permetteva di capire immediatamente l'ambiente e le sue
implicazioni sociali. Senza preoccuparsi di particolari non necessari, concentrava tutta la sua
simpatia sulle persone che gli erano di fronte: un sentimento che ben cogliamo nelle sue
fotografie.
Quando con il suo apparecchio fotografava i bambini che lavoravano nelle fabbriche, li mostrava
davanti alle loro macchine sottolineando le proporzioni, in modo che l'osservatore si rendesse
conto della loro tenerissima età. Le sue fotografie furono ripetutamente pubblicate. L'opera sua fu
definita photo-story. Attirando l'attenzione sullo sfruttamento dei ragazzi, riuscì a far votare le
leggi sul lavoro minorile.
Hine non si limitò, nella sua fotografia, a critiche negative, ma quando ne aveva l'occasione
metteva in evidenza le qualità positive dell’uomo. Nel 1918 fotografò l'attività essenziale della
Croce Rossa americana nell'Europa centrale. Alcuni anni dopo fisso l'obiettivo sui lavoratori
americani e nel 1932 pubblicò una serie di immagini su questo soggetto con il titolo Men At Work.
Forse le fotografie migliori del libro furono quelle scelte fra le centinaia raffiguranti la costruzione
dell'Empire State Building di New York.
Hine non cercava il sensazionale, voleva soltanto documenti diretti, immediati di un lavoro che ad
ogni istante metteva gli uomini in pericolo.
Quando negli anni ’30 si abbatté sul mondo la Grande Depressione, si ebbero immediate reazioni
fra gli artisti. Mentre i cineasti cominciavano a parlare di “documentario”, taluni fotografi usavano i
loro apparecchi in modo analogo e con lo stesso spirito.
Nel 1935 il governo degli Stati Uniti chiese il loro aiuto per combattere la grande depressione. Uno
dei molti enti creati per volontà del presidente Roosevelt fu la Rural Resettlment Administration,

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nata col compito di dare aiuti finanziari alle migliaia di contadini che, a causa della
meccanizzazione degli strumenti agricoli, erano stati cacciati dalle loro terre. A capo del nuovo
ente fu posto Rexford G. Tugwell, il quale affidò a Roy E. Stryker l'incarico di organizzare un
ampio reportage fotografico che fornisse un’esauriente immagine della vita rurale americana.
Nel 1937 la Rural Resettlment Administration diventò parte del Dipartimento dell'Agricoltura col
nome di Far Security Administration.
Uno dei primi fotografi assunti per questo compito fu Walker Evans, che continuò ad interessarsi
sia la vita americana sia alla gente degli Stati Uniti. Viaggiò nel sud e raccolse documenti sulle
condizioni del paese, sulla situazione finanziaria degli affittuari, sulle loro case, sui loro beni, sui
loro sistemi di lavoro, sui raccolti, sulle scuole, sulle chiese, sui magazzini. Fotografò le strade
della piccole città, i cartelloni pubblicitari, l'automobile. La maggior parte di queste immagini
evocavano scene squallide, ma l'interpretazione di Evans dava sempre loro qualche nobiltà.
Dorothea Lange, che nel 1935 entrò a far parte della sezione fotografica della Resettlment
Administration, aveva uno studio di ritrattistica a San Francisco. Durante la Grande Depressione,
si commosse nel vedere le file di affamati, di senza tetto, di disoccupati e si propose di fotografarli
perché anche gli altri partecipassero alla pietà ch’ella sentiva così profondamente.
Tugwell e Stryker invitarono Dorothea Lange a collaborare con loro.
Le fotografie di lavoratori costretti a spostarsi da un paese all'altro con vecchia automobili
sovraccariche, a vivere nei dormitori pubblici della città o in accampamenti di fortuna, a lavorare
duramente la terra, solo una testimonianza fedele e un accorato commento, perché la Lange
nutriva per loro profondi sentimenti di pietà e di disprezzo. Una fotografia della Lange - una casa
abbandonata in mezzo ad acri di terra arata meccanicamente - rese in modo eloquente
l'espressione “cacciati dal trattore”. Un'altra sua fotografia - una madre migrante - fu tra tutte le
immagini della Farm Security Administration la più prodotta. Ella scrisse:

“Il mio particolare modo di fotografare si basa su tre regole. Primo: non toccare!
Qualunque cosa fotografi, non infastidisco, non altero, non accomodo. Secondo: il senso
del luogo. Qualunque cosa fotografi, cerco di farla apparire come parte del suo ambiente.
Terzo: il senso del tempo. Qualunque cosa fotografi, cerco di far vedere che è inserita nel
passato o nel presente”.

Il pittore è Ben Shahn fece centinaia di fotografie per Stryker con un apparecchio da 35 mm
fornito di un mirino ad angolo retto che gli permetteva di puntare l'obiettivo sui soggetti senza che
essi se ne accorgessero. Questi ritratti senza pretese, a uno sguardo superficiale, sembrano
istantanee: sono immagini fugaci, eppure molte di esse sono potenti, quasi scultoree,
strettamente affini alle opere di Henri Cartier-Bresson che Shahn tanto ammirava.
Sherwood Anderson trovò fra le migliaia di fotografie degli archivi della Far Security
Administration materiale sufficiente per comporre un libro illustrato, Home Town, dove è messo in
rilievo il lato positivo della vita di una tipica comunità americana.
Per sette anni, fino al momento in cui, durante la Seconda guerra mondiale, tutte le sue risorse
furono assorbite dall'Ufficio Informazioni Belliche, al programma della Fsa collaborarono tanti altri
fotografi oltre a Evans, Dorothea Lange e Shahn.
Le loro opere rivelano un'unità notevole, nonostante la forte personalità dei singoli autori. Ciascun
fotografo contribuì al programma comune; lavorando insieme si aiutavano vicendevolmente.
Stryker osservava:

“La fotografia documentaria è un modo di accostarsi alle cose, non è una tecnica; è
un'affermazione, non una negazione… Lo stile documentario non implica la negazione
degli elementi plastici che sono e restano il criterio essenziale di ogni lavoro. Si limita a
dare a questi elementi un quadro, una direzione. Hanno un preciso scopo: parlare nel
modo più eloquente possibile dei soggetti prescelti, usando il linguaggio delle immagini”.

Lo stile “documentario” non fu esclusivo del gruppo della Far Security Administration, ma trovò
molti adepti anche altrove.
Margaret Bourke-White intraprese insieme lo scrittore per Erskine Caldwell un'inchiesta
fotografica sugli Stati del Sud e con lui pubblicò il libro You Have Seen Their Faces. Il saggio
fotografico di Margaret Bourke-White fu presentato come “un importante documento americano”:
la città vi era vista sotto tutti gli aspetti, dalla terra e dal cielo, con le case dei ricchi e quelli poveri;
era un insolito documentario grafico di una comunità americana.
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New York ebbe la sua interprete in Berenice Abbott. Colpita dalla visione così varia e mutevole
della metropoli, si propose di fotografarne non soltanto l'aspetto esteriore, ma anche l'anima.
I suoi negativi sono documenti storici di grande valore perché molti dei monumenti fotografati non
esistono più.
È significativo che, col procedere del tempo, il fotografo con interessi documentari include nelle
sue immagini parole stampate e graffiti. Negli amari anni ’30 più di un fotografo sottolineò il
contrasto fra l'ottimismo degli slogan pubblicitari e la dura realtà rivelata dall'apparecchio
fotografico.
Per quanto bella o rivelatrice, una fotografia documentaria non ha valore soltanto per se stessa. È
un paradosso, ma, perché una fotografia possa essere accettata come documento, deve essere
essa stessa documentata, collocata nel tempo nello spazio.
Ciò può essere fatto nel contesto, unendo il familiare all'ignoto, in una sola immagine o in due
immagini accoppiate. Ecco perché una serie di fotografie, esposte in successione su una parete o
nelle pagine di un libro, è più efficace della somma di quelle stesse fotografie prese
individualmente.
Perciò Walker Evans in America Photographs in occasione di una sua esposizione, dispose le sue
fotografie in due serie distinte e si affidò alla sequenza delle immagini per mostrare nella prima
parte “la fisionomia di una nazione” nella seconda “i valori permanenti di un'autentica espressione
americana”.
Il termine “documentario” nel significato in cui l'abbiamo descritto fu adottato per definire uno
stile. Dopo la Seconda guerra mondiale, il movimento perdette vigore sul piano organizzativo.
I suoi principi sono stati assorbiti dal fotogiornalismo, che ne sono divenuti elementi essenziali, e
se n’è appropriata soprattutto la televisione nelle trasmissioni dell’attualità.

CAP. XIV⎮IL FOTOGIORNALISMO


Quasi contemporanei all'invenzione della fotografia furono la nascita e lo sviluppo prodigioso della
stampa illustrata. Le illustrazioni erano sempre xilografie ricavate da schizzi fatti direttamente o
tratte da disegni o dipinti o, raramente, da fotografie.
Il motivo per cui la fotografia ebbe un posto così modesto nella stampa illustrata fu per buona
parte di natura tecnica, ma anche stilistica. I lettori si erano familiarizzati con le xilografia, e i
direttori dei periodici non avevano motivo di cambiare un sistema che godeva del favore del
pubblico. Il testo era composto nel modo tradizionale in caratteri mobili e le xilografie venivano
fissate in un telaio insieme al testo. Fino agli anni ’80 del secolo scorso non esisteva un
procedimento fotomeccanico che permettesse di stampare contemporaneamente le incisioni e il
testo.
Negli esperimenti fatti nel 1826 Niepce cercò di elaborare una tecnica di riproduzione
fotomeccanica per fissare l'immagine della macchina fotografica su una lastra di peltro e quindi
stamparla come un'incisione su rame.
Poco dopo la comunicazione del procedimento dagherrotipico le lastre di rame argentate furono
trasformate in tavole per incisione dalle quali era possibile tirare stampe su carta.
La tecnica fu migliorata dal francese Hippolyte-Louis Fizeau, che portò due modifiche: rafforzò
le zone luminose della lastra dagherrotipica incisa con il procedimento elettrolitico di recente
scoperto, e adottò la tecnica dell’incisore di acquatinte, consistente nel creare una certa
granulosità sulla superficie della lastra, in modo che nelle zone incise potesse entrare l'inchiostro
in misura proporzionale alla densità delle mezzetinte. Spolverò la lastra con resina in polvere, la
scaldò in modo che i granelli di resina aderissero alla superficie, poi passo all’incisione.
Le tecniche di riproduzione fotomeccanica ebbero maggior fortuna con l'adattamento del
procedimento negativo-positivo.
Lo stesso Fox Talbot nel 1852 brevettò un metodo per incidere lastre di acciaio, dalle quali si
potevano tirare le stampe con inchiostro permanente. Gli oggetti grandi creavano un problema: le
zone incise erano troppo ampie per versarvi l'inchiostro. Per ovviare a questo inconveniente divise
l'immagine in innumerevoli puntini e interpose, durante l'esposizione, tra il negativo e la matrice
un velo di garza così sottile che, a una distanza pari a quella di quando si legge, appariva di tinta
uniforme. Nel 1858 Talbot migliorò il suo procedimento ricoprendo il rivestimento di gelatina e
bicromatato di potassio con polvere di resina. La tecnica, alla quale Talbot diede il nome di
photoglyphic engraving, divenne la base della photogravure o fotoincisione, il procedimento
grafico usato da Emerson e dei fotografi pittorici sul finire dell’Ottocento.

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Un terzo procedimento, la fotolitografia, fu perfezionato da Alphonse-Louis Poitevin nel 1855.
Egli ricoprì una pietra litografica granulosa con albumina bicromatata, l’espose sotto un negativo,
lavò via l'albumina che si era indurita, e la stampo in un torchio litografico normale.
Una variante del metodo, il collotype, permise di ottenere stampe di una straordinaria qualità
tonale e di grana finissima. Nel 1868 Josef Albert di Monaco lo perfezionò, studiando in
particolare la gelatina bicromatata. Il metodo di Albert, detto albertype, si diffuse in tutto il mondo
e fu usato soprattutto per la riproduzione di dipinti.
Un altro procedimento per riprodurre l'immagine fotografica in facsimile fu la woodburytype,
realizzata nel 1866 dal fotografo inglese Walter Bentley Woodbury.
Tutti questi procedimenti - fotoincisione, fotolitografia, collotipia, woodburytype, è una dozzina di
altre varianti - avevano in comune l'inconveniente di non poter essere stampati in un torchio
insieme al testo. Per tale motivo nessuno di questi procedimenti fu adottato da giornali e riviste,
che esigevano una stampa rapida con una rotativa capace di produrre migliaia di copie allora.
Ciò fu reso possibile dall'invenzione della lastra a mezzatinta negli anni ’80: invenzione che
rivoluzionò le riviste illustrate. Fondamentalmente, secondo questo procedimento, una fotografia
o qualsiasi altro tipo di immagine o diagramma viene trasformato in una serie di puntini costituiti
dagli interstizi delle linee che si incrociano sullo schermo. La grandezza dei puntini varia a
seconda dei toni delle fotografie originali.
L'importante invenzione fu perfezionata nello stesso momento in cui sia avverava nel campo della
fotografia la più grande rivoluzione tecnica dopo il 1839. Lastre asciutte, pellicole in bobina,
emulsioni sensibili a tutti i colori, lenti anastigmatiche, apparecchi portatili ora facevano sì che la
produzione fotografica fosse più rapida, più facile, più ricca di quanto fosse mai avvenuto prima.
Il procedimento a mezzatinta permise di riprodurre le fotografie a prezzi contenuti, e in numero
illimitato su libri, riviste, giornali. Con l'introduzione del nuovo procedimento mutò tutta l'economia
del giornalismo fotografico.
Tuttavia la mezzatinta fu lenta ad affermarsi, per motivi più stilistici che tecnici. I lettori preferivano
le xilografie, giudicandole più “artistiche”.
La prima rivista illustrata nata col deliberato programma di servirsi esclusivamente di fotografie fu
l’Illustrated American. Nel primo numero, datato 22 febbraio 1890, l'editore affermava:
“particolare proposito della rivista sarà di approfondire le possibilità, finora quasi inesplorate, della
macchina fotografica e diversi procedimenti di riproduzione”.
Ma l'Illustrated American non si rese conto che non poteva basarsi soltanto sulle fotografie. Col
passare dei mesi le pagine s’infittirono sempre più di parole, e la rivista finì per perdere il suo
carattere originale.
I quotidiani furono più lenti delle riviste a servirsi delle fotografie. Ovviamente non tutte le notizie si
prestano a essere fotografate. Il dramma immediato di un incidente o la frazione di secondo che
decide del risultato di una gara sportiva sono resi con estrema vivezza della macchina fotografica.
Al fotografo, più che l’abilità e il senso della composizione, sono necessari audacia, nervi
d'acciaio e assoluta padronanza dell'apparecchio, così da poter maneggiarlo per semplice riflesso
automatico.
La tecnica del fotoreporter non è molto diversa da quella di qualsiasi altro operatore fotografico;
ma quell'abilità, quella temerarietà, quella prontezza nel saper cogliere immagini insolite, quella
capacità di stampare nel più breve tempo possibile fanno del suo lavoro un ramo speciale.
Cogliere l'istante preciso in cui far scattare l'otturatore diventa istintivo. William Warnecke stava
svolgendo un lavoro di routine quando andò a fotografare il sindaco di New York, William J.
Gaynor, che, nel 1910, si imbarcava per una vacanza in Europa. Arrivo tardi; affannosamente
pregò al sindaco di posare ancora una volta. Proprio in quel momento un assassino scaricò due
colpi di rivoltella su Gaynor. Nella confusione generale, Warnecke conservò la calma e fotografò
l'attimo sconveniente in cui la vittima crollava fra le barche del suo accompagnatore.
La fortuna aiuta spesso i fotoreporter, ma le fotografie di attualità che fanno colpo non sono mai
accidentali.
Sul finire degli anni ’20 in Germania si pubblicavano più riviste illustrate che in qualsiasi altro
paese del mondo. Nel 1930 la tiratura complessiva era di 5 milioni di copie alla settimana: si
calcolava che i lettori fossero almeno 20 milioni. Ma assai più importante della diffusione delle
riviste fu l'aver scoperto il metodo di integrare fotografie e testo in una forma nuova di
comunicazione, alla quale si diede il nome di fotogiornalismo.
In testa al nuovo movimento figurarono la ben nota “Berliner Illustrirte Zeitung”, fondata nel
1890, la “Münchner Illustrirte Presse”, fondata nel 1923, e l’“Arbeiter Illustrirte Zeitung”,
“AIZ”, fondata nel 1921. Caratterizzava queste riviste uno nuovo stile: la stretta collaborazione fra
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direttore e fotografi. La disponibilità di minuscoli apparecchi e di veloci pellicole fu sfruttata per
portare, per così dire, il lettore direttamente sulla scena degli avvenimenti, anziché fornirgli
soltanto una documentazione visiva. Fu dato grande spazio alle fotografie straordinariamente
“candide” di diplomatici fatte da Erich Salomon. Felix H. Man fornì una serie di fotografie
intitolate Un giorno con Mussolini. André Kertész colse immagini di un monastero trappista.
Fra il fotografo e il direttore correvano rapporti amichevoli. L'idea proposta da uno veniva poi
discussa da tutti. Il fotografo non soltanto si sentiva libero di documentare i fatti nel modo che
riteneva più opportuno, ma era proprio questa libertà che si esigeva da lui. Il lavoro del direttore
cominciava nel momento in cui le fotografie arrivavano sul suo tavolo. Fatta la scelta, procedeva
all'impaginazione ben strutturata, organica, in modo da dare al lettore un'ampia veduta
panoramica. Le parole erano scelte per la spiegare o illustrare le fotografie, non per ripeterne il
contenuto.
Il primo grande periodo del fotogiornalismo europeo finì rovinosamente nel 1933 con l'avvento al
potere di Hitler. La rivista AIZ, apertamente comunista, pubblicò il suo ultimo fascicolo berlinese il
19 febbraio, poi si trasferì in Cecoslovacchia. La Münchner Illustrirte Presse era apolitica, tuttavia
Stefan Lorant, suo fondatore, fu arrestato; ma essendo cittadino ungherese fu rilasciato e potè
tornare a Budapest.
L'America non tardo ad adottare uno stile fotogiornalistico che si ispirava alla stampa illustrata
tedesca e alla vivace rivista illustrata francese “Vu”, diretta in modo assai brillante da Lucien
Vogel. Erich Solomon andò negli Stati Uniti nel 1929; la sua visita fu feconda, molte sue
fotografie uscirono sulle riviste di Henry Luce, “Time” e “Fortune”. Nel 1934 Luce progettò una
nuova rivista che doveva essere la “vetrina del mondo”.
Il primo numero, che s’intitolò “Life”, uscì il 23 novembre del 1936. La copertina riproduceva una
fotografia di Margaret Bourke-White - raffigurante la costruzione di una grande diga presso Fort
Peck, nel Montana - in quello stesso stile che l'aveva resa famosa come fotografa di “Fortune”.
Tuttavia, perno del racconto narrato dalle immagini non erano i lavori di costruzione della diga, ma
la vita degli operai e delle loro famiglie.
Altri tre fotografi facevano parte del primo gruppo: Alfred Eisenstaedt, proveniente dalla
Germania; Peter Stackpole, già membro del Gruppo f/64, e Thomas D. McAvoy.
“Life” pubblicò due tipi di fotografie: fotografie d'attualità prese sul luogo, fornite per lo più da
agenzie, e serie di fotografie corredate di testi, su soggetti stabiliti dalla redazione.
Negli stessi anni, e per via indipendenti, Gardner e John Cowles fondarono “Look”.
Il primo numero uscì nel gennaio del 1937. Gli articoli fotografico-letterari, le picture-stories, vi
avevano maggior rilievo dei servizi di attualità.
Ciò che differenzia “Life” e “Look” dalle precedenti riviste illustrate è la concezione di una “linea di
condotta più meditata”.
Gli articoli illustrati sono frutto del lavoro in comune di redattori e fotografi. Si stabilisce
l'argomento del "racconto fotografico”, si fanno le ricerche preliminari, si prepara un abbozzo
scritto per dare al fotografo l'idea più ampia possibile del tipo di immagini che occorrono, dello
spirito in cui dovranno essere prese, degli scopi che dovranno assolvere.
Questa concezione del giornalismo favorisce le analisi vigorose, l'esposizione chiara. Purtroppo,
porta anche a dare troppa importanza alle didascalie al punto tale che, se si mettevano insieme le
didascalie di un qualunque racconto fotografico, si arrivava ad un racconto autonomamente
valido, quasi telegrafico, ma coerente, di immediata comprensione, di cui le fotografie erano
soltanto un abbellimento.
Molte belle fotografie furono prese su commissione di riviste. W. Eugene Smith, quando lavorava
per “Life”, fece una serie di fotografie sulla vita di un villaggio spagnolo, di cui rimarrà il ricordo
anche quando il testo sarà dimenticato. Smith colse, nelle sue fotografie, l'atmosfera autentica del
villaggio, la personalità autentica della gente. Seppur limitate a un ristretto argomento, le sue
immagini sono universali, perché egli fotografò lo spirito della civiltà del Mediterraneo. Qualcuno
ha detto che The Thread Maker (la filatrice) è “nello stesso tempo una donna di villaggio che
lavora e un'immagine ossessionante ed eterna come una delle tre Parche di un disegno di
Michelangelo.
Alfred Eisenstaedt fece una serie di bei ritratti di personaggi inglesi che “Life” pubblicò nel numero
del 14 gennaio del 1952. Contrariamente ai fotografi che lavoravano in studio, Eisenstaedt non si
muniva di una attrezzatura imponente.
Le immagini più eloquenti e drammatiche della Seconda guerra mondiale furono prese da
fotografi di riviste o da altri che ne avevano subito l’influenza. “Life” organizzò una scuola di
fotoreporter di guerra e mandò i propri fotografi al fronte;
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Margaret Bourke-White fu in India e in Russia; Eugene Smith lavoro sul fronte del Pacifico e, a
prezzo di gravi ferite, prese alcune fra le migliori fotografie di guerra; Robert Capa (Approfondimento) - che
sarebbe morto in combattimento in Indocina - fece le prime fotografie dello sbarco in Normandia
e scese in Francia con i paracadutisti. Il capitano Edward Steichen diresse i servizi fotografici
della Marina americana.
L’amara, disastrosa guerra di Corea ebbe un valido testimone in David Douglas Duncan, che
puntò l'obiettivo soprattutto sui soldati; i suoi primi piani di una cruda intensità rivelano la dura
lotta non soltanto contro il nemico ma anche contro il freddo.
Nella guerra del Vietnam il pubblico fu coinvolto in misura assai maggiore che in qualsiasi altro
conflitto grazie all'opera di coraggiosi fotografi e operatori televisivi. Gli orrori della guerra non
erano mai stati raffigurati in modo più incisivo e con maggior senso di pietà.
Per dissesti finanziari “Look” cessò le pubblicazioni nel 1972; il motivo addotto fu la concorrenza
della televisione. Anche “Life” subì dei rovesci e sospese le pubblicazioni nello stesso anno.
Le riviste di moda furono fra le prime a servirsi regolarmente della fotografia. “Vogue” cominciò a
pubblicare nel 1913 fotografie scattate espressamente per la rivista del barone A. De Meyer.
Nel 1923 Edward Steichen entrò nella redazione di Condé Nast. Non si limitò a fotografare la
moda, fece anche numerosissimi ritratti di persone celebri, che apparvero regolarmente su
“Vogue” e su “Vanity Fair”. Le sue immagini, brillanti e vigorose, costituiscono una sorta di
biografia illustrata di letterari, attori, artisti, uomini di Stato degli anni 1920-40.
La fotografia di Steichen è sincera, immediata; la sua efficacia sta nel saper cogliere il momento in
cui la fisionomia rileva il carattere di una persona, nel saper usare nel modo migliore la luce
artificiale.
I ritratti più stimolanti degli ultimi decenni solitamente non furono fatti su commissione del
modello, ma per incarico di qualche rivista. Il fotografo che lavora in studio non è più dei nostri
tempi.
Yousuf Karsh ha percorso il mondo in lungo e in largo per fotografare uomini eminenti e
personalità. Un altro modo di fotografare e quello di Sir Cecil Beaton, che mette in particolare
rilievo il modello, studiando di volta in volta atteggiamenti elaborati con particolare cura.
Philippe Helsman, Irving Penn e Richard Avedon non soltanto si sforzarono di interpretare la
personalità del modello, ma estendono le loro ricerche a quelle possibilità visive capaci di
conferire alla fotografia quel fascino accattivante così essenziale per la riproduzione su pagina
stampata.

APPROFONDIMENTO⎮ROBERT CAPA
Biografia
Robert Capa nasce a Budapest nel 1913. Il suo vero nome era Endre Ernő Friedmann, che fu
costretto a cambiare durante un periodo di clandestinità in Francia. È considerato il primo e più
famoso fotografo di guerra, e documentò cinque diversi conflitti : la guerra civile spagnola
(1936-1939), la seconda guerra sino-giapponese (che seguì nel 1938), la seconda guerra
mondiale (1941-1945), la guerra arabo-israeliana (1948) e la prima guerra d'Indocina (1954).
Studiò Scienze all’Università di Berlino fra il 1931 ed il 1933, quando dovette lasciare la
Germania nazista a causa delle sue origini ebraiche. Autodidatta, iniziò come assistente di
laboratorio e iniziò a fare il fotografo freelance quando si trasferì a Parigi.
La sua fama è esplosa durante la guerra civile spagnola, grazie alla famosa foto “Il miliziano
colpito a morte”, di cui ancora oggi si discute l’autenticità.
Nel 1947 assieme a Henri Cartier-Bresson, David Seymour, Georges Rodger e William Vandivert
fonda l' agenzia fotografica "Magnum Photos".
Morì facendo il suo lavoro, saltando su una mina in Vietnam nel 1954.

Il Fotografo
Robert Capa è stato il prototipo del fotografo di guerra: la sua fu una vita spericolata, fatta
di donne, grandi bevute, ed attrazione fatale per il pericolo. Era consapevole del fascino del
proprio personaggio, che attraeva allo stesso tempo belle donne ed approfittatori.
Le sue foto erano però meno improntate al “glamour”: raccontavano di sofferenza, miseria e
caos. La sua carriera coincise con uno dei periodi più bellicosi della storia, e Capa non perse
mai l’occasione di essere al fronte, pronto ad affrontare la morte per raccontare la guerra.
Il suo sguardo è completamente immerso nella realtà che vuole rappresentare, cerca di limitare
al minimo i filtri e le barriere tra fotografo e soggetto. Si fa contaminare dalla vita e dall’uomo.
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"Se le tue foto non sono buone, vuol dire che non eri abbastanza vicino", recita la sua frase più
famosa. L’importante è stare dentro le cose.
Paradossalmente, la sua foto più famosa è anche la più controversa. “Il miliziano colpito a
morte” rappresenta una vera icona del secolo scorso, ma tutt’ora si dibatte sulla sua
autenticità. Secondo alcuni, la foto sarebbe infatti preparata ad arte da Robert Capa, e le
circostanze dello scatto riportate dal fotografo non sarebbero veritiere.
Robert Capa, in un’ intervista radiofonica datata 1947, racconta come riuscì a realizzare lo
scatto:

"Ho scattato la foto in Andalusia - racconta - mentre ero in trincea con 20 soldati
repubblicani, avevano in mano dei vecchi fucili e morivano ogni minuto. Ho messo la
macchina fotografica sopra la mia testa, e senza guardare ho fotografato un soldato
mentre si spostava sopra la trincea, questo è tutto. Non ho sviluppato subito le foto le
ho spedite assieme a tante altre. Sono stato in Spagna per tre mesi e al mio ritorno ero
un fotografo famoso, perché la macchina fotografica che avevo sopra la mia testa
aveva catturato un uomo nel momento in cui gli sparavano. Si diceva che fosse la
miglior foto che avessi mai scattato, ed io non l'avevo nemmeno inquadrata nel mirino
perché avevo la macchina fotografica sopra la testa”.

Documentò la anche la seconda guerra mondiale, lasciando immagini memorabili delle attività
militari degli americani in Sicilia e dello sbarco in Normandia.
Si distinse anche come fotografo in tempo di pace, ritraendo attori ed artisti, in particolare
Picasso, e documentando la vita decadente ed opulenta dei ricchi europei.
Rimarrà nella storia come il prototipo del fotografo di guerra e come fondatore dell’ agenzia
fotografica Magnum che con i suoi canoni etici ed estetici definisce ancora oggi il modo in cui il
fotogiornalismo racconta il mondo.

CAP. XV⎮LA FOTOGRAFIA A COLORI


Descrivendo i suoi esperimenti fotografici al fratello Claude, Niepce precisava: “Bisogna che io
riesca fissare i colori”. E quando nel 1827 si incontrò Daguerre, si interessò in modo particolare
alle sue ricerche in questo campo.
L'immediato favore di cui godettero i dagherrotipi monocromi accantono per il momento la
preoccupazione che i colori non venissero registrati. Il problema, tuttavia, non tardò a riaffiorare e i
dagherrotipisti si diedero a colorare a mano le loro lastre.
Il pubblico esigeva il colore. I primi tentativi di creare il colore automaticamente, per mezzo della
fotografia, portarono alla ricerca di una sostanza “camaleontica” capace di trattenere qualsiasi
colore la colpisse.
Nel 1850 Levi L. Hill, dagherrotipista per professione, annunciò alla stampa di essere riuscito a
fissare i colori della natura sul lastre dagherrotipiche.
I professionisti volevano conoscere il procedimento tecnico, ma Hill li raffreddò dicendo: “100.000
dollari non basterebbero a pagare la mia scoperta”, e dichiarò che avrebbe pubblicato i suoi
risultati “quando l'avesse ritenuto opportuno”.
I fotografi professionisti non celavano l'impazienza: il loro lavoro era stato danneggiato
dall'annuncio prematuro di Hill. Lo denunciarono sulla stampa come cialtrone e impostore.
Quando finalmente nel 1856 Hill pubblicò il “Trattato sull’eliocromia", anziché offrire precisi
suggerimenti pratici, conteneva un'autobiografia e la relazione di interminabili esperimenti.
Tuttavia non vi è dubbio che Hill ottenne qualche risultato; le testimonianze di alcuni
dagherrotipisti e in particolare di Samuel F. B. Morse sono così convincenti che non possono
essere trascurate. Più volte i dagherrotipisti avevano trovato, causalmente, dei colori sulle loro
lastre, ma i colori non avevano la proprietà di durare nel tempo.

“Hill ha sempre affermato di aver ottenuto immagini nei loro colori naturali, ma ciò avvenne
per una combinazione casuale di prodotti chimici che, per tutta la durata della sua vita,
egli non fu capace di riprodurre una seconda volta!”

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Continuarono le ricerche di una sostanza direttamente sensibile ai colori. Nel 1891 Gabriel
Lippmann perfezionò il suo procedimento Interferenziale basato sulla fenomeno che una sottile
pellicola, con un leggero strato d’olio sull'acqua, poteva riprodurre tutti i colori dell’arcobaleno.
Disgraziatamente il procedimento di Lippmann, inattuabile sul piano pratico, presto cadde in
disuso.
Nel 1861 Clerk Maxwell produsse colori ricostruendo il colore primitivo per addizione dei colori
fondamentali, il rosso, il verde e l'azzurro; perciò il suo procedimento fu detto additivo. L’addizione
in parti uguali dei tre colori forma il bianco; il rosso e il verde messi insieme formano il giallo; il
rosso e l'azzurro danno il color cremisi; il verde e l'azzurro danno quel colore azzurro-scuro che i
fotografi chiamano “cian”. È importante ricordare che questa teoria vale soltanto per la luce
colorata. Il miscuglio dei pigmenti o materie coloranti è un'altra cosa.
Una volta perfezionata l'emozione pancromatica, il procedimento di Clerk Maxwell fu messo in
pratica con successo.
Il 1892 Frederic E. Ives di Philadelphia progettò il Kromskop, un apparecchio stereoscopico
portatile, che permetteva di vedere insieme tre diapositive proiettate in sovrapposizione. Ogni
diapositiva era illuminata attraverso un filtro del colore fondamentale appropriato. Il risultato era
una brillante fotografia a colori in tre dimensioni, di un sorprendente realismo.
Il primo metodo pratico per ottenere, col procedimento additivo, una fotografia visibile senza
strumenti, fu ideato nel 1893 da John Joly di Dublino. Anziché prendere tre immagini distinte
attraverso tre filtri colorati, prendeva un solo negativo attraverso uno schermo quadrettato
suddiviso in zone microscopiche dei colori rosso, verde e azzurro. Lo schermo era dello stesso
preciso formato della lastra fotografica ed era messo a contatto con essa all'interno della
macchina fotografica. Una volta sviluppata la lastra, se ne faceva una diapositiva e la si fissava
definitivamente allo schermo colorato.
Le zone nera, grigia e bianca dell'immagine lasciavano passare più o meno luce attraverso i filtri;
visti a distanza normale di visione, i colori fondamentali così modulati si fondevano e formavano
combinazioni riproducenti i colori del soggetto originale.
Nel 1903 i fratelli Lumière sfruttarono lo stesso principio per le loro autochromes. La lastra
fotografica veniva ricoperta con migliaia di microscopici granelli di fecola, preventivamente
colorati, ed erano mescolati insieme in modo che i tre colori primari fossero distribuiti
uniformemente sulla superficie della lastra, che veniva poi ricoperta con l'emulsione.
L'esposizione avveniva sul retro della lastra. Una volta sviluppato, il negativo si trasformava in
positivo con il procedimento dell'inversione, e la diapositiva che ne risultava produceva i colori
originali.
Steichen potè avere un certo numero delle nuove lastre a colori Lumière prima che fossero messe
in vendita. Grazie a questo, la prima esposizione pubblica negli Stati Uniti di lastre autochromes di
Steichen, Frank Eugene e Stieglitz ebbe luogo alle Little Galleries si Photo-Secession a New
York nel novembre 1907.
La fabbricazione delle lastre fu sospesa nel 1932. Le lastre Dufaycolor, Agfacolor, nonché le
Filmcolor e le Alticolor dei fratelli Lumière erano fabbricate in base a una combinazione di queste
due tecniche: la pellicola era fatta in modo da servire come filtro multiplo, somiglianza dello
schermo di Joly, e l'immagine risultava rovesciata, come nel procedimento delle lastre
autochromes.
Questi metodi aprirono la strada a tecniche basate sulla teoria subtrattiva. Un oggetto nero
assorbe, o sottrae, tutta la luce che cade su di esso; nulla si riflette all'occhio, perciò appare nero.
Un oggetto bianco riflette tutti i raggi della luce che cadono su di esso. Se sull'oggetto brilla una
luce bianca, si riflette luce bianca; se brilla soltanto luce rossa, soltanto il rosso si riflette.
Il più importante processo della fotografia colori si ebbe quando si perfezionò la pellicola
ricoprendola di tre strati di emulsione. Leopold Mannes e Leopold Godowsky, facendo i loro
esperimenti in collaborazione con ricercatori della Eastman Kodak Company, nel 1935 misero in
commercio la pellicola Kodachrome, che poteva essere utilizzata da parecchi cinepresa da 16
millimetri, e nel 1937 la Kodachrome per apparecchi fotografici da 35 millimetri.
Per soddisfare il desiderio del fotografo di provvedere egli stesso al procedimento di sviluppo e
stampa, nel 1942 l’Ansco mise in commercio l’Ansco-Color, una pellicola alla quale seguì poco
dopo la Ektachrome della Kodak.
Il principio del negativo-positivo fu introdotto nella fotografia a colori con la pellicola Kodacolor,
che è simile alla pellicola Kodachrome, salvo che l'immagine non è trasferibile in positivo.

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La pellicola Ektakolor permise al fotografo di sviluppare gli stessi suoi negativi a colori. In questo
procedimento si è provveduto a un miglioramento importante: si è incorporata nella pellicola una
mascherina, che corregge automaticamente le inesattezze della resa colore.
Mai come nella fotografia a colori è così netta la linea di demarcazione fra il fotografo e il pittore.
L’imitazione è inevitabile.
Il fotografo non potrà mai competere con il pittore che può disporre sulla tela tutti i pigmenti che
vuole. Dal canto suo, il pittore non riuscirà mai a competere con l'esattezza, la minuzia di
particolari, e soprattutto l'autenticità della fotografia.

CAP. XVI⎮NUOVI INDIRIZZI


Dopo il 1945 la tecnologia fotografica ha fatto grandi progressi. È aumentata la sensibilità della
pellicola; i problemi dell’esposizione sono stati semplificati dall’introduzione di dispositivi
fotoelettrici che non soltanto misurano l’intensità della luce, ma quando sono incorporati negli
apparecchi fotografici possono determinare automaticamente i tempi di scatto dell’otturatore e
l’apertura del diaframma.
I metodi di lavoro del fotografo-artista non sono cambiati molto, vi è stato tuttavia un significativo
mutare di atteggiamento nei confronti della fotografia come forma d’arte. Abbiamo assistito a un
succedersi di stili: coraggiose sperimentazioni, culto per alcune tradizioni e insieme violente
posizioni iconoclaste, ricerca di significati in una nuova visione del mondo.
La tradizione della fotografia pura e diretta è chiaramente riscontrabile nell’opera minuziosa e
meticolosa di Minor White, che formò il suo stile fotografico nel lungo sodalizio con Stieglitz,
Weston e Adams. Fortemente influenzato dalle frequenti e lunghe conversazioni con Stieglitz,
White approfondì la teoria del maestro sugli “equivalents” come mezzo per esprimere o tradurre in
una forma visiva il mondo iperreale. Egli definì la fotografia come un miraggio e l’apparecchio
fotografico come una macchina capace di produrre metamorfosi.
La meta che White si prefisse fu di fare fotografie che andassero oltre il soggetto. Ciò che appare
in superficie, pur di importanza secondaria, è essenziale, ma l’immagine deve essere trasformata
in un evento nuovo, che deve essere scoperto da chi guarda. A proposito della sua fotografia The
Three Thirds, White scrisse:

“L’identificazione del soggetto può essere così casuale che occorre un titolo per far capire
che vale la pena di sforzarsi per avere un’ulteriore esperienza dell’immagine. La fotografia
esige questo titolo perché l’immagine, di per sé, non informa: ha un significato soltanto se
il soggetto è trattato come una sorta di piolo sul quale appendere, in questo caso, simboli
autonomi, indipendenti: guardando da sinistra a destra, le nuvole nella finestra intese
come la giovinezza; le sbavature di malta sotto le assicelle del rivestimento come gli anni
maturi; i vetri rotti come la vecchiaia. Quale capriccio del caso ha portato il fotografo a
questo risultato proprio nel momento in cui la continuità della nascita, della vita e della
morte era il suo pensiero predominante ed egli segretamente sperava di riuscire a
materializzare il suo concepire ciascuna delle tre condizioni come la terza parte
dell’esperienza? Fu questa sua necessità che diede luogo alla metamorfosi?”

Per Aaron Siskind la sfida della fotografia diretta, pura, sta nel trasformare in autonome
composizioni astratte soggetti della vita quotidiana. Egli si sofferma sulla bellezza della superficie
esteriore, quindi ovvia delle cose, e la isola per offrirla alla nostra contemplazione. Secondo
quanto egli stesso afferma, ciò che lo interessa è: “Concentrare il mondo nella cornice della
fotografia.” Ne risulta uno stile tutto particolare. Siskind mette in evidenza la linea, i bordi sono
taglienti, i contrasti violenti. Tutto sembra su un unico piano, scarsa è la profondità di campo.
Spesso l’immagine è ambigua, crea nell’osservatore una sorta di tensione fra ciò che è ovvio e ciò
che è nuova, fresca scoperta degli occhi.
L’opera di Harry Callahan è di una grande bellezza lirica e rivela la sua adesione al mondo
circostante. Callahan ha una visione precisa: può fare una fotografia con uno stelo d’erba o con il
filo di una linea elettrica. Ha ripreso alcune immagini con duplice esposizione particolarmente
efficaci sono le sue fotografie di gente che cammina sui marciapiedi sotto una luce cruda e
impietosa.
Frederick Sommer, dopo aver lavorato per un certo periodo come architetto, incontra Stieglitz e
fu astratto dalla fotografia come mezzo di espressione. Nel 1935, come ebbe a scrivere egli
stesso, Sommer incontrò Edward Weston, e il suo modo deciso di usare la scala tonale ha influito
molto sulle sue fotografie. Fece ritratti, puntò l’obiettivo su frammenti, scaglie, schegge, carcasse
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di animali. Duraturo e profondo fu il suo interesse per il surrealismo, soprattutto per l’arte del suo
amico Max Ernst.
Paul Caponigro scelse come soggetti il paesaggio e successivamente i monumenti megalitici
dell’Europa settentrionale.
Se l’opera di questi fotografi si attiene fondamentalmente ai principi estetici della fotografia pura,
altri reagirono alle regole classiche contrarie a qualsiasi manipolazione che dia un’immagine
negativa o positiva diversa da quella ottenuta al momento della posa. Combinare stampe da
diversi negativi è l’interesse di Jerry Uelsmann che perfeziona la sua tecnica fino al virtuosismo.
A differenza dei pionieri dell’Ottocento, Uelsmann mette insieme immagini disparate e ottiene
composizioni strane, spesso inquietanti e ambivalenti, come quel viso che si dissolve in un pugno
in Symbolic Mutation.
Robert Frank, d’origine svizzera, cominciò la carriera di fotoreporter con grande successo.
Chiese ed ottenne una borsa di ricerca che gli permise di compiere nel 1955 un viaggio negli Stati
Uniti. Servendosi di un apparecchio 35mm, colse la vita americana nei suoi aspetti più comuni:
scampagnate, cortei, automobili, stazioni di rifornimento, pannelli pubblicitari, posti di ristoro per
le strade, l’autostrada del deserto. Nelle sue opere un leitmotiv è la presenza della bandiera
americana. Le sue immagini sono inquiete, sono organizzate in una struttura libera, spesso
sembrano casuali. Contrastano con le armoniose fotografie di Cartier-Bresson, del quale avrebbe
detto: “Hai la sensazione che egli non sia mai turbato da nessun accadimento che non sia la sua
bellezza, o la composizione di un oggetto”. Frank invece, come è facilmente riscontrabile nella sua
opera, non aveva alcun interesse per la bellezza, ma piuttosto per la cruda realtà, per quanto
sgradevole o banale essa possa essere.
Le fotografie di Lee Friedlander di immagini della città e di monumenti civici e quelle di Garry
Winogrand, scene casuali colte per strada e istantanee di cerimonie pubbliche, rivelano che per
costoro l’immagine non ha limiti, non è contenuta nel rettangolo della cornice, ma si estende di
gran lunga oltre di essa. Winogrand è restio a parlare della propria opera, ma la sua dichiarazione,
tanto spesso citata, “Io fotografo per vedere cosa ne verrà fuori”, anche se sembra semplicistica,
denota disprezzo per il concetto di previsualizzazione. Per lui, e per molti altri, il fascino della
fotografia è quell’occhio-che-vede-tutto, capace di cogliere più di quanto possa vedere l’occhio
umano e di conseguenza il fotografo. In questo senza, la macchina fotografica non è più un
mezzo che il fotografo utilizza per documentare ma uno strumento per rendere più acuta la nostra
visione.
L’interesse per il soggetto portò Diane Arbus a fotografare, con sconvolgente crudezza, persone
ai margini della società e della normalità: giganti e nani, travestiti, nudisti. Servendosi della
macchina fotografica con immediatezza e schiettezza, additò pietosamente quanta normalità vi
sia in coloro che sono apparentemente anormali.
Seguendo poi la tradizione di Eliot Porter e di Edward Weston, alcuni contemporanei come
William Eggleston, Stephen Shore e Joel Meyerowitz, sfruttano con gioia i colori brillanti che si
possono ottenere con i coloranti oggi a disposizione, e offrono ai nostri occhi un mondo
trasformato.
Sempre aumenta il numero di coloro che si volgono alla fotografia come a un mezzo per
esprimersi e per comunicare. Sempre più lievita quell’approccio estetico del quale si è già parlato.
Sembra farsi strada un comune denominatore, ben radicato nella tradizione: l’uso diretto della
macchina fotografica per le funzioni che meglio sa assolvere, cioè: rivelare, interpretare, scoprire il
mondo dell’uomo e della natura. La sfida di fronte alla quale si trova oggi il fotografo è di
esprimere i significati più segreti attraverso la forma esteriore.

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